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Il nucleo del volume è il rapporto fra migrazione, patologia e humanitas. Dalla

Alexandra Vranceanu / Angelo Pagliardini (cur.) · Migrazione e patologie dell’humanitas


letteratura dell’esilio, segnata fortemente dalle patologie, deriva un rinnova-
mento del patrimonio dell’humanitas inteso come precursore della repubblica
delle lettere. Si possono seguire due percorsi geo-letterari di lettura, legati alle
aree italiana e rumena, dove l’esilio ha avuto un valore fondante o rifondante.
Nel volume si discutono i possibili apporti della letteratura migrante o dell’esi-
lio nella formazione di una letteratura transnazionale che ridefinisca il canone
europeo. Il volume si colloca inoltre fra le ricerche sugli aspetti culturali della
traduzione, in quanto il passaggio fra le lingue e le culture è un elemento
fondamentale delle opere dell’esilio.

Forum

Translationswissenschaft
Band 4

Migrazione e patologie
dell’humanitas nella letteratura
europea contemporanea
a cura di
Alexandra Vranceanu / Angelo Pagliardini
Alexandra Vranceanu (Letteratura comparata all’Università di Bucarest) ha
studiato la relazione letteraria fra testo e immagine e la formazione del canone
europeo con l’apporto della letteratura romena.
Angelo Pagliardini (Letteratura italiana all’Università di Innsbruck) si è occu-
pato di storia letteraria italiana interculturale.
LANG

www.peterlang.de ISBN 978-3-631-61907-0 Peter Lang


Internationaler Verlag der Wissenschaften
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Il nucleo del volume è il rapporto fra migrazione, patologia e humanitas. Dalla

Alexandra Vranceanu / Angelo Pagliardini (cur.) · Migrazione e patologie dell’humanitas


letteratura dell’esilio, segnata fortemente dalle patologie, deriva un rinnova-
mento del patrimonio dell’humanitas inteso come precursore della repubblica
delle lettere. Si possono seguire due percorsi geo-letterari di lettura, legati alle
aree italiana e rumena, dove l’esilio ha avuto un valore fondante o rifondante.
Nel volume si discutono i possibili apporti della letteratura migrante o dell’esi-
lio nella formazione di una letteratura transnazionale che ridefinisca il canone
europeo. Il volume si colloca inoltre fra le ricerche sugli aspetti culturali della
traduzione, in quanto il passaggio fra le lingue e le culture è un elemento
fondamentale delle opere dell’esilio.

Forum

Translationswissenschaft
Band 4

Migrazione e patologie
dell’humanitas nella letteratura
europea contemporanea
a cura di
Alexandra Vranceanu / Angelo Pagliardini
Alexandra Vranceanu (Letteratura comparata all’Università di Bucarest) ha
studiato la relazione letteraria fra testo e immagine e la formazione del canone
europeo con l’apporto della letteratura romena.
Angelo Pagliardini (Letteratura italiana all’Università di Innsbruck) si è occu-
pato di storia letteraria italiana interculturale.
LANG

www.peterlang.de ISBN 978-3-631-61907-0 Peter Lang


Internationaler Verlag der Wissenschaften
Migrazione e patologie dell’humanitas
nella letteratura europea contemporanea
Forum
Translationswissenschaft
Herausgegeben von Lew N. Zybatow

Band 14

PETER L ANG
Frankfurt am Main · Berlin · Bern · Bruxelles · New York · Oxford · Wien
a cura di
Alexandra Vranceanu
Facultatea de Litere, Universitatea Bucureşti
E
Angelo Pagliardini
Institut für Romanistik, Universität Innsbruck

Migrazione e patologie
dell’humanitas nella letteratura
europea contemporanea

PETER L ANG
Internationaler Verlag der Wissenschaften
Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek
Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation
in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische
Daten sind im Internet über http://dnb.d-nb.de abrufbar.

Abbildung auf dem Umschlag:


Tempel: Arbeit von Schüler/inne/n der 2.a des GRG
Ettenreichgasse, gemeinsam mit Mag. Franz Dvoracek.
Abdruck mit freundlicher Genehmigung des
Österreichischen Bundesministeriums für Unterricht und
kulturelle Angelegenheiten. Abt. 1/4 Alfred Fischl.

Gedruckt mit Unterstützung des Vizerektorats für Forschung


und des Italien-Zentrums der Universität Innsbruck.

Förderer und Partner:

Gedruckt auf alterungsbeständigem,


säurefreiem Papier.

ISSN 1610-286X
ISBN 978-3-631-61907-0
© Peter Lang GmbH
Internationaler Verlag der Wissenschaften
Frankfurt am Main 2012
Alle Rechte vorbehalten.
Das Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich
geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des
Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages
unzulässig und strafbar. Das gilt insbesondere für
Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die
Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen.
www.peterlang.de
Sommario

Geleitwort des Reihenherausgebers ................................................................. 7

Prefazione dell‘editore della collana, Lew Zybatow ........................................ 9

Introduzione, Alexandra Vranceanu e Angelo Pagliardini . ............................ 11

I. Letteratura europea e humanitas migrante ................................................... 25


Francis Claudon
Humanitas et migration: Dialogue des Anciens et des Modernes ................... 27
Monica Spiridon
Errances réelles, errances rêvées, errances mythiques . .................................. 39
Sebastiano Martelli
Emigrazione e immigrazione: mappe letterarie italiane a confronto .............. 51
Angelo Pagliardini
La tematica del ritorno del migrante in Abate, Pascoli, Pavese, Consolo ....... 83
Alexandra Vranceanu
Gli scrittori esiliati e le malattie del canone. Lo strano caso di
D. Tsepeneag e di Mister Pastenague . ............................................................. 101
Pietro Trifone
Lingua italiana e identità nazionale nella società della migrazione ................ 125

II. Esilio e patologie. Humanitas fragilis ......................................................... 135


Gisèle Vanhese
Coagula de Paul Celan Quand la poésie devient blessure ............................... 137
Sabine Schrader
La fine dei sogni bucolici ovvero «Dicono che vengono gli albanesi»:
Il vento fa il suo giro (2005) ............................................................................. 151
Giovanni Magliocco
Integrazione/Dis-integrazione. Il poeta «meteco» e le «malattie dell‘esilio» . ... 165
Danilo De Salazar
«L’estero è il cuore. E noi il sangue». Il nomadismo esistenziale di
Aglaja Veteranyi ............................................................................................... 177
Yannick Preumont
Panaït Istrati et la traduction du déclin physique ............................................. 185

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Alain Vuillemin
Deux témoins de l’inhumanité en Europe centrale:
Ana Novac et Élie Wiesel ................................................................................. 195
Ileana Alexandra Orlich
Exile as Political Discourse in the Novels of Herta Müller ............................. 209

III. Le terapie dell’esilio ................................................................................... 217


Dagmar Reichardt
Bonaviri terapeuta. Letteratura di migrazione e scrittura empatica ............... 219
Marta Niccolai
Le «patologie» dell’identità nazionale e il rimedio di Amedeo/Ahmed in
Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, di Amara Lakhous . .... 231
Maria Cristina Tumiati, Maria Concetta Segneri, Adela Gutierrez
Passaggi nei territori di Giano ......................................................................... 239
Paola Scardella, Aldo Morrone, Laura Piombo, Alessandra Sanella
Alimentazione transculturale: un nuovo luogo identitario .............................. 247

Profili degli autori . ........................................................................................... 255

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Geleitwort des Reihenherausgebers

Die Translation – als eine der komplexesten und faszinierenden geistigen Tätig-
keiten des Menschen – hat so viele Facetten, dass es nicht verwunderlich ist,
dass die heutige Translationswissenschaft sich immer mehr zu einer inter- und
transdisziplinären Wissenschaft entwickelt. Davon zeugt auch der vorliegende
Band, in dem sich internationale Autoren aus verschiedenen Ländern mit der Ent-
stehung und Translation literarischer Texte, der Exilliteratur, dem Migrationsdis-
kurs zwischen Vergangenheit und Moderne, Fragen der Identität, Integration und
Desintegration, der kulturellen Produktivität der Migration, der kulturellen Kon-
frontation, der Transkulturalität und anderen interessanten Problemen befassen.
Es freut mich, dass diese Beiträge in meiner Reihe „Forum Translationswis-
senschaft“ erscheinen und damit das translationswissenschaftliche Diskussions-
forum um kultur- und literaturwissenschaftliche Fragestellungen bereichern. Ich
wünsche den interessierten Lesern eine spannende Lektüre und viele neue und
interessante Informationen aus unterschiedlichen wissenschaftlichen Perspekti-
ven und Ländern, die die einzelnen Beiträge repräsentieren.

Barcelona, im September 2011 Lew Zybatow

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Presentazione del curatore della collana

La traduzione – una delle attività più complesse e affascinanti dello spirito uma-
no – presenta così tante sfaccettature, che non c‘è da meravigliarsi se la moderna
traduttologia si va sviluppando come scienza sempre più interdisciplinare e tran-
sdisciplinare. Ciò si mostra anche nel presente volume, in cui autori di respiro
internazionale, provenienti da paesi diversi, s‘interessano alla creazione e alla
traduzione di testi letterari, alla letteratura dell‘esilio, al discorso della migrazio-
ne fra passato e moderno, alle domande di identità, di integrazione e disintegra-
zione, alla produttività culturale della migrazione, al confronto fra le culture, alla
transculturalità e alle altre interessanti problematiche di questo campo.
Mi rallegro vivamente che questo contributo appaia nella collana da me diretta
«Forum Translationswissenschaft» (Forum di scienze della traduzione), in modo
che possa arricchirsene la discussione scientifica sulla traduzione, in relazione
alle questioni aperte nel campo delle ricerche sulla cultura e sulla letteratura.
Auguro ai lettori interessati una lettura appassionante e l‘acquisizione di tante
nuove e interessanti informazioni, provenienti da diverse prospettive scientifiche
e paesi, rappresentati nei singoli saggi del volume.

Barcellona, Settembre 2011 Lew Zybatow

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Introduzione
Alexandra Vranceanu, Università di Bucarest
Angelo Pagliardini, Università di Innsbruck

Il presente volume è il risultato della riflessione scientifica seguita al convegno


sul tema Le metamorfosi dell’humanitas nell’Europa della migrazione: tra lette-
ratura, medicina e società, per cui studiosi di varie discipline, che hanno lavorato
sul tema della migrazione e delle sue implicazioni culturali, si sono ritrovati a
Roma nella sede dell’INMP (Istituto Nazionale per la promozione della salute
delle popolazioni Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà), il 20
e 21 settembre 2010. Il carattere interdisciplinare del convegno si è manifestato
anche nella presenza di relatori esperti nel campo dell’intervento socio-culturale
concreto a favore di immigrati e rifugiati. Durante il convegno sono state poste
diverse domande sul rapporto fra migrazione e cultura europea, in un contesto
interdisciplinare. Nel volume vengono condensate e focalizzate le risposte alle
domande risultate più significative, come contributo al dibattito attuale sulla let-
teratura migrante e dell’esilio.
In questa introduzione non verrà fatta una presentazione dei saggi nell’ordine
in cui appaiono nel volume, e visto che ogni saggio è preceduto da un abstract, ci
asteniamo anche dal riportare in questa sede una sintesi del contenuto dei singoli
contributi. Abbiamo preferito qui suggerire percorsi tematici trasversali che mo-
strino diversi possibili percorsi di lettura, seguendo differenti prospettive e punti
di vista: secondo la metodologia di analisi, secondo i contenuti, secondo l’ap-
partenenza linguistica e nazionale degli autori studiati, secondo la problematica
teorica specifica per questo campo della letteratura dell’esilio.
Dalle relazioni e dalle discussioni che si sono tenute in quell’occasione, si è pro-
dotto un dialogo molto ricco e fecondo su vari autori migranti o esiliati di origine
diversa e che hanno scritto in lingue differenti. Nelle pagine di scrittori che vanno
da Amara Lakhous a Dumitru Tsepeneag, da Paul Celan e Elie Wiesel ad Aglaja
Veteranyi, pur appartenti a letterature e lingue nazionali diverse, si respira un’aria
di famiglia, cioè si ritrovano tematiche, poetiche e caratteristiche formali comu-
ni. Questa costellazione letteraria trova la sua identità al confine fra letteratura
dell’esilio e letteratura migrante (vedi Mardorossian 2002). I teorici degli ultimi
decenni hanno discusso molto queste categorie, soprattutto per distinguere fra le
diverse voci dell’esilio contemporaneo. In un numero della rivista Contemporary
fiction del 2006, dedicato a questi problemi, Rebecca Walcowitz, la curatrice del
numero, mette in relazione la figura dello scrittore migrante con il concetto della

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letteratura transnazionale1. Anche la curatrice del volume Exiles, Emigrés and In-
termediaries. Anglo-Italian Cultural Transactions (2010) comincia il suo articolo,
che introduce il volume, intitolato Introduction: Paradise of Exiles?, con la frase:
«Recent research in the humanities is coming increasingly to engage with transna-
tional perspectives that adress questions of cultural interaction, communication,
and exchange across national boundaries.» (Schaff 2010, 9)2.
Un altro concetto che mira a dilatare la geografia culturale e appare nel mon-
do francofono, la littérature monde en français, si trova alla radice del volume
collettivo curato da Ursula Moser e Birgit Mertz-Baumgartner, La littérature
«française» contemporaine. Contact de culture et créativité (2007). In genera-
le, il problema della geografia culturale che viene ridimensionata dalla presenza
degli scrittori migranti o esiliati si ritrova spesso tanto nella letteratura che que-
sti hanno prodotto che nei saggi che la trattano. Ma il problema centrale sem-
bra essere in questo contesto di «geografia labile» sembra essere soprattutto la
sofferenza prodotta dalle frontiere linguistiche. Il cambiamento delle lingue di
scrittura provoca negli scrittori migranti un trauma che viene poi tematizzato
con mezzi letterari. L’argomento si ritrova nei volumi di saggi (Mathis-Moser,
Mertz-Baumgartner 2006, pp. 235-261) e ispira anche il titolo del volume Ecri-
vains multilingues et ecritures métisses, curato da Axel Gasquet e Suarez Mo-
desta, volume che si trova nella stessa linea del nostro, in quanto si sofferma sul
problema seguente: «De Beckett à Gombrowics, d’Istrati à Kristoff, pour ne citer
que quelques exemples, le refus du confort linguistique constitue l’essence même
des ecrivains apatrides. La patrie n’est pas une endroit sur la carte – et à ce titre
ne peut s’incarner non plus dans telle ou telle langue.» (Gasquet 2007, 9). Il pas-
saggio fra le lingue3 costituisce uno dei punti chiave del nostro volume.
Questo tipo di letteratura pone problemi perché non si lascia inquadrare nelle
griglie tradizionali della storia letteraria, come epoche, correnti, letterature na-
zionali. In particolare, rispetto a queste ultime, la letteratura degli scrittori mi-
granti o esiliati mina alle fondamenta il canone della letteratura europea, definito
secondo il paradigma letterario del XIX secolo, che classificava gli scrittori se-
condo le identità nazionali. Vanno in questa direzione i saggi della prima sezione
del volume in quanto si tratta di contributi in cui si afferma la necessità di aprire
le frontiere letterarie nazionali per poter comprendere nel canone autori migranti
o esiliati.

1 La relazione fra scrittori migranti e letteratura transnazionale appare anche nella sezione inti-
tolata «Origines et perennité de la transculture», cap.2 del libro di Simon Harel, Les passages
obligés de la littérature migrante, (Harel 2005, 71-106).
2 Vedi anche Lindberg-Wada, 2006 e Mathis-Moser 2006
3 Vedi anche il volume collettivo di entretiens intitolato suggestivamente Passeurs culturels. Une
littérature en mutation, a cura di Suzanne Giguère, 2001.

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Secondo S. Martelli, «La nuova letteratura italiana dell’emigrazione si pone
come questione significativa su un duplice versante. Da un lato essa attiene alla
transizione sociale e culturale del nostro paese verso un modello di società multi-
culturale e interculturale; dall’altro sollecita l’apertura di un discorso sul canone
della letteratura italiana contemporanea, su una sua ridefinizione a confronto con
le nuove scritture italofone.»
A. Vranceanu discute il caso particolare dello scrittore rumeno-francese Tse-
peneag, in rapporto al canone letterario rumeno e a quello francese. Partendo
dalle identità multiple assunte dallo scrittore nelle sue opere scritte in rumeno
o in francese, A. Vranceanu mette in discussione il rapporto univoco fra canone
nazionale e lingua usata dallo scrittore.
Invece F. Claudon e M. Spiridon osservano che la migrazione è un elemento
fondante della letteratura europea. F. Claudon parte dal mito del rapimento e
dell’esilio della ninfa Europa e, passando per autori della classicità come Seno-
fonte e Sallustio, attraverso l’opposizione humanus/barbarus, arriva al concetto
di letteratura del sud, osservando che «toute l’identité européenne, depuis l’origi-
ne la plus lointaine a été agitée par cette question du mixage et de l’assimilation».
M. Spiridon prende in esame la questione spinosa delle determinazioni tran-
sterritoriali dell’identità. Esaminando i casi di Mircea Eliade, Thomas Mann e
Le Clézio, si propone di definire il territorio culturale europeo: «déconstruire
les idéologies spatiales et imaginaires reste d’ailleurs une des tâches delicates
de la geographie culturelle moderne». Peraltro anche S. Martelli utilizza questa
metafora gnoseologica delle mappe, un termine chiave nell’impresa della ridefini-
zione del canone culturale europeo. Anche nel saggio di P. Trifone la formazione
dell’identità nazionale italiana è seguita attraverso una molteplicità di mappe lin-
guistiche che si sovrappongono e si combinano, mostrando tutta la pluralità insita
nel concetto di identità nazionale. Nel saggio di G.Vanhese si fa uso della metafo-
ra della geografia («une géographie intérieure»), in questo caso riferita al modo in
cui il poeta rappresenta, nel suo universo fittizio, i diversi paesi con cui ha avuto
a che fare (a partire dalla patria rumena) e che sono reinventati e trasformati in
miti a traverso la poesia. A. Pagliardini nel suo saggio basato sul tema letterario
del ritorno del migrante, orienta l’analisi ridefinendo una mappa identitaria della
letteratura italiana che tenga conto, da un lato, delle differenziazioni regionali,
dall’altro, delle modalità di inclusione di autori migranti che sarebbero esclusi dal
canone nazionale tradizionale.
Il titolo del volume evidenzia che, secondo quanto è emerso dal convegno,
una delle caratteristiche essenziali della letteratura migrante è il ruolo assunto
dalle rappresentazioni della patologia, intesa anche nel suo senso di sofferenza
(si riconosce nell’etimologia del termine patologia l’antico pathos che significava
anche sofferenza). Fra queste, le patologie dell’anima ricorrono costantemente e

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lasciano tracce profonde anche nella struttura del testo. Tale costante consente di
individuare una categoria letteraria in cui sia possibile inserire testi molto diffe-
renti, scritti da autori di origine, destinazione e lingua diverse. Per questa ragione
troviamo nel volume un’intera sezione dedicata alle patologie dell’esilio e della
migrazione sotto l’etichetta humanitas fragilis. In questa sezione si analizzano
temi letterari generati dalla sofferenza degli esiliati. Ritroviamo qui varie malat-
tie dell’anima migrante, come il complesso di Giona, la disintegrazione dell’io,
il declino fisico, la ferita, analizzate dagli autori come metafore costitutive di
questo tipo di letteratura.
G. Vanhese cerca di portare alla luce, nella poesia di Paul Celan, «le binome
indissoluble entre poésie et blessure». Ad esempio nel caso del poema di Paul
Celan, Coagula, G.Vanhese conduce una lettura filologica seguendo un’interpre-
tazione metaforica, medica e alchemica. Arriva così alla conclusione che si possa
parlare, nel caso di Celan, di una poetica «du sang et de la plaie», in cui l’esilio ha
la funzione di produrre una coagulazione, che ha come prodotto il testo poetico
stesso. Anche A.Vranceanu discute nel suo saggio l’aspetto della personalità mul-
tipla, analizzato nel rapporto fra lo scrittore D.Tsepeneag e il suo eteronimo, Ed
Pastenague, «malattia» che traspone in narrazione l’angoscia dello scrittore esi-
liato quando si trova di fronte ad un nuovo pubblico. Nel saggio di G. Magliocco
sul poeta Dinu Flamând, la metafora dell‘esiliato visto come un antico «meteco»
rappresenta una sorta di appartenenza mutilata dell‘esule al paese di adozione.
«Nell‘opera di Dinu Flamând, l‘immagine del poeta ’meteco’, accanto alla figura
dell‘’emigrante Ulisse’, al quale il poeta ha dedicato molte poesie della maturità,
sembra incarnare il concetto stesso dell‘erranza».
La figura di Ulisse è un altro filo rosso che lega i saggi di questo volume, dato
che si ritrova per esempio nel contributo di M. Spiridon, dove si analizza all‘in-
terno dell‘opera di Mircea Eliade, mentre nel saggio di A. Pagliardini si parla
dell‘Ulisse dantesco prototipo dell‘eterno errante cui è precluso il ritorno. L‘im-
magine di Ulisse apre anche il saggio di Y. Preumont su Panait Istrati, autore che
è stato considerato «ulyssien» da G. Vanhese: « Chez cet auteur, dont l’éthique et
l’esthétique ont été qualifiées d’ulyssiennes, les mots voyagent et semblent pouvoir
connaître autant de métamorphoses que les corps». In questo saggio di traduttolo-
gia si mostra il modo in cui la descrizione del migrante e del suo declino fisico pro-
cedono nelle successive traduzioni e autotraduzioni dell‘opera di Istrati. Preumont
si sofferma sopprattutto sul romanzo La famille Perlmutter scritto a quattro mani
con l’autore ebreo Josué Jehouda. La descrizione delle soffrenze e delle migrazio-
ni e deportazioni degli ebrei negli anni Trenta e Quaranta, che ritroviamo nelle
figure di Jehouda, di Celan, di Novac e Wiesel, è un altro filo rosso che attraversa
i saggi del volume. Si tratta di un nucleo tematico che non può mancare in una
mappa letteraria europea del Novecento che riguarda l’esilio e la migrazione.

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La lettura dell’opera di Aglaja Veteranyi operata da D. De Salazar, mostra
come gli abissi della sofferenza biografica ed esistenziale dell’autrice siano alla
base della sua produzione letteraria. Se il mito di Ulisse può rappresentare il caso
di alcuni autori migranti, per quanto riguarda Veteranyi, D. De Salazar osserva:
«Sentirsi straniera ovunque, anche all’interno di sé; il nomadismo esistenziale
della Veteranyi non troverà soluzione, quindi, nemmeno con il ritorno alle radici
dell’essere, alla madre.»
Un certo tipo di nomadismo si ritrova nel film Il vento fa il suo giro (2005),
analizzato nel saggio di S. Schrader, dove si mostra la lettura cinematografica del
rapporto fra patria e migrazione. A proposito del protagonista del film si affer-
ma: «Come pastore egli sembra incarnare il movimento stesso, un migrante per
eccellenza, con il suo nomadismo continuo di pascolo in pascolo al seguito del
suo gregge. La Heimat è dunque per lui atto volitivo, un processo di assimilazione
esperito non passivamente attraverso la socializzazione e l’apprendimento, ma al
contrario formatosi attivamente e in sintonia con la natura». Da questa conce-
zione cosmopolita deriva il conflitto con la piccola comunità occitanica dove il
pastore cerca di inserirsi, e anche tutta la problematica dell’identità nazionale alle
prese con le culture di frontiera e le loro peculiarità.
Anche nel saggio di I. Orlich, che ha come oggetto alcuni romanzi di Herta
Müller (Premio Nobel per la letteratura), l’immagine dell’esilio e della depor-
tazione sono essenziali. In questo saggio l’accento cade sull’immagine del cor-
po femminile, che costiuisce il mezzo attraverso il quale si esprime l’identità
dell’esiliato. «Experienced as a foreign body in the psyche, exile and deportation
function as a traumatic experience. Deportation, a related sibling to exile and a
favorite practice of political tyrants, was a familiar ground to Müller’s own ex-
periences as her own grandparents were deported in the early days of the Soviet
colonization (1944-1958)». La stessa modalità di rappresentazione dell’esilio at-
traverso le sofferenze corporali e il tema della deportazione come forma di esilio
si ritrovano nel saggio di A. Vuillemin, che ha per oggetto due autori protagonisti
e sopravvissuti della Shoah. A. Vuillemin parla di Ana Novac e Elie Wiesel (Pre-
mio Nobel per la pace), di cui commenta diversi romanzi che hanno in comune il
contenuto, essendo riferiti all’esperienza di Auschwitz, e il fatto di essere basati
su appunti di diario e scritti a distanza di anni dagli eventi narrati. Nel suo sag-
gio A. Vuillemin mostra come da un’esperienza di esilio e deportazione come
l’olocausto, che ha interessato europei provenienti da paesi differenti, possa sor-
gere un nucleo letterario comune in cui non siano più rilevanti le distinzioni di
appartenenza nazionale. Nelle opere analizzate da I. Orlich e da A. Vuillemin si
va al nucleo centrale della sofferenza legata all’esilio, in questo caso alla deporta-
zione. Come osserva A. Vuillemin, «Ni Ana Novac ni Élie Wiesel ne savent très
bien pourquoi ils ont tenu un journal, pour la première à l’intérieur des camps,

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le second longtemps après son arrivée en France, ni pourquoi ils ont choisi, par
la suite, tous deux, d’écrire sur `une expérience où rien n’avait de sens´ (Wiesel
2007, 12-13)». Leggendo i saggi del volume appare chiaro che, anche se inconsa-
pevolmente, il motivo per cui hanno affidato alla letteratura le loro sofferenze sta
nel valore terapeutico dell’atto della scrittura.
Ciò trova conferma nel saggio sociologico firmato da M. C. Tumiati, M. C. Se-
gneri e A. Gutierrez, in cui, descrivendo il lavoro interdisciplinare di équipe che
segue i migranti in cerca di asilo politico, si parla in questi termini del racconto-
documento che viene redatto dai migranti, dotato di valore clinico e terapeutico:
«Il ‘testo’ prodotto è una ‘storia autobiografica’ che racconta la causa, o le con-
cause, che ha/hanno costretto la persona a fuggire dal proprio Paese, ancorandola
ad una cornice di senso più ampia, dove luoghi, tempi e situazioni riferite sono
costruite intorno alla condizione politica, economica, sociale e culturale del con-
testo di origine – macro e micro – in essere nel periodo storico nel quale si sono
verificati gli eventi traumatici riferiti.»
Questa concezione della scrittura come terapia si ritrova nel saggio di D. Rei-
chardt incentrato sullo scrittore Giuseppe Bonaviri. Lo scrittore, che mette a
frutto in letteratura le proprie competenze professionali di medico, da un lato si
identifica come migrante, per diagnosticare meglio questa figura, dall’altro indi-
vidua quelle che possono essere terapie culturali e letterarie per le malattie della
migrazione: «Le pretese di un’integrazione dell’io nella società, di una natura
rispettata, di una convivenza familiare e transculturale praticata, formano un ri-
zoma ovvero una larga base, sulla quale Bonaviri costruisce l’idea della transna-
zionalità come una riunione ideale delle culture, e del cosmo come una riunifica-
zione o un rappacificamento tra l’uomo e la natura.»
In direzione di questa via dell’integrazione nella società, va anche il saggio di
M. Niccolai, in cui si analizza il romanzo di Amara Lakhous Scontro di civiltà
per un’ascensore a Piazza Vittorio. Anche lei si sofferma sulle terapie che si ri-
trovano nell’opera citata per ovviare alle patologie della migrazione. Da un lato,
«Con il termine ‘patologie’ si intende una serie di condizioni anomale nel fun-
zionamento e manifestazione dell’ ideologia nazionalista che si rivela inadeguata
a definire i cittadini ‘glocali’, cioè globalizzati in un contesto locale». Dall’altro,
nel romanzo analizzato, «l’approccio di un immigrato, Amedeo/Ahmed, sorpassa
i limiti derivati dalla nazionalità».
Un altro tema che si ritrova come un filo rosso in molti di questi saggi è il rap-
porto fra finzione e autobiografia. Molti degli scrittori presi in esame utilizzano
nei loro testi materiali autobiografici come fonte diretta d’ispirazione. Peraltro è
stato osservato che l’autofinzione è un genere che appare frequentemente nella
letteratura migrante o dell’esilio, tanto più quando si tratta di ferite che trovano
il modo di sedimentarsi in testi letterari. S. Martelli, partendo da una rassegna di

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esempi di letteratura italofona, sottolinea l’importanza della scrittura autobiogra-
fica nella produzione della letteratura migrante in lingua italiana. L’argomento
del rapporto fra scrittura autobiografica e finzione viene analizzato inoltre nelle
opere degli scrittori Ana Novac, Elie Wiesel, Paul Celan, Dumitru Tsepeneag,
Dinu Flămând, Aglaja Veteranyi, rispettivamente all’interno dei saggi di I. Or-
lich, A. Vuillemin, G. Vanhese, A. Vranceanu, D. De Salazar, G. Magliocco.
Sul piano degli interventi terapeutici per ovviare alle sofferenze e alle situazio-
ni conflittuali generatesi nei contesti migratori, troviamo il laboratorio di alimen-
tazione transculturale descritto nell’intervento di P. Scardella, A. Morrone, L.
Piombo, A. Sannella. L’équipe interdisciplinare dell’INMP ha analizzato il fatto
che « Il cibo, intenso come linguaggio, rappresenta [...] uno strumento semplice,
ma efficace per esprimere e comunicare la propria cultura e la propria identità».
Nella programmazione di strategie per l’accoglienza e l’integrazione dei migran-
ti, va riservato uno spazio rilevante allo studio interculturale delle pratiche rituali
e sociali legate al cibo. La forte valenza del cibo nei testi letterari di scrittori
migranti (ad esempio Tahar Lamri e Amara Lakhous) viene discussa anche da S.
Martelli e M. Niccolai.
Il nucleo centrale del nostro volume è il rapporto fra migrazione, patologia e
humanitas. La migrazione comporta una serie di sofferenze e patologie che si
sono cristallizzate nella letteratura migrante. Da tale produzione letteraria si puo
ricavare un’estensione e un rinnovamento del patrimonio tradizionale dell’huma-
nitas. Intendiamo humanitas in tre sensi. Il primo è quello concreto, di umanità
migrante come particella dell’umanità, oggetto di una serie di processi di esclu-
sione e di inclusione. Il secondo è il concetto classico, in particolare riferito al
mito di Enea, profugo e padre di una nuova civiltà, mito fondante della classicità
e della cultura occidentale su di essa basata. Il terzo senso rimanda allo sviluppo
che humanitas ha avuto a partire dal Rinascimento, quando si è generato da esso
il concetto di repubblica delle lettere. In quest’ultimo senso possiamo studiare la
letteratura dell’esilio e migrante come via di accesso a una nuova repubblica del-
le lettere, che crea un mondo culturale transnazionale costruito sulle sofferenze
della migrazione filtrate in un percorso culturale e terapeutico.
In questo volume si possono seguire due percorsi geo-letterari di lettura, in
quanto molti degli autori studiati sono legati allo spazio linguistico-culturale ita-
liano o rumeno, dato che in queste due letterature l’esilio ha avuto un valore fon-
dante o ri-fondante. Il nostro volume si potrebbe leggere quindi anche seguendo le
trasformazioni di queste due letterature in relazione al tema dell’esilio. Un primo
gruppo è incentrato su autori in lingua italiana e ci mostra i punti di rottura e di
ri-fondazione del canone nazionale italiano in rapporto alla letteratura migrante.
Nel saggio di S. Martelli e in quello di P. Trifone, in una inquadratura d’insieme
a volo d’uccello, rispettivamente dal punto di vista letterario e dal punto di vista

17
storico-linguistico, appare chiaro il carattere inclusivo e multiculturale dello spa-
zio identitario italiano. Nei saggi di A. Pagliardini e D. Reichardt, emerge, più
in dettaglio, come nello specifico spazio nazionale italiano ci siano affinità fra
la condizione di esilio e di migranza vissuta da chi si muove fra paesi stranieri,
e quella di chi si è dovuto spostare da una regione all’altra dell’Italia, come nel
caso di scrittori come Giuseppe Bonaviri o Luigi Pirandello o Vincenzo Consolo.
I casi concreti di scrittori migranti da e verso l’Italia, sono discussi nei saggi di
A. Pagliardini e M. Niccolai. Non si può parlare di letteratura dell’immigrazione
senza nominare anche la produzione cinematografica. L’analisi di Il vento fa il
suo giro/E l’aura fai son vir, fatta da S. Schrader nel suo contributo, mostra che
questo film «riunisce due tendenze presenti nella cinematografia italiana contem-
poranea: l’una orientata a una “ricomposizione del cinema italiano per aree geo-
grafiche”, ossia un cinema attento alla complessità e alla ricchezza delle realtà re-
gionali; l’altra il cui punto focale è il fenomeno delle migrazioni, che ha dato vita
a un filone sviluppatosi soprattutto nell’ultimo ventennio». Nell’insieme abbiamo
un’immagine che mostra l’intersezione fra identità culturale italiana moderna e
spazio migrante. I contributi su scrittori di lingua italiana migranti (migrazione
interna o esterna) mirano ad una ridefinizione in senso transnazionale del canone
letterario tradizionale.
Troviamo poi un altro gruppo di saggi che mostrano l’area della diaspora
letteraria rumena, problematizzando il rapporte tra questa e il canone nazio-
nale. Una storia unitaria della diaspora rumena si potrebbe fare difficilmente,
perché ci sono esempi molto vari di autori esuli o migranti rumeni che hanno
scritto in altre lingue e si sono integrati perfettamente nelle relative letterature
nazionali. Fra gli autori descritti nel volume, il primo esempio in ordine crono-
logico è quello di Panait Istrati, di cui parla Y. Preumont. Abbiamo poi autori
di origine rumena, ma fortemente radicati nella loro appartenenza alla cultura
ebraica. Ana Novac e Elie Wiesel, studiati da A. Vuillemin, con il racconto
della loro esperienza diretta della Shoah, vanno ad integrare un nucleo della
letteratura europea fortemente individuato e definito. Fa parte di questo nucleo
anche Paul Celan, le cui poesie vengono analizzate da G. Vanhese, che ne evi-
denzia la coagulazione in poesia dei traumi dell’esilio parigino vissuto sia in
prima persona che nella persona di altri scrittori. Completano questo settore di
scrittori di origine rumena quattro saggi dedicati alla letteratura molto recente,
che mostrano come l’esilio e la migrazione degli scrittori dallo spazio rumeno
sia una costante che attraversa tutto il Novecento e va anche oltre. Due autrici
trattate, almeno in parte di origini rumene, hanno come spazio di espressione
linguistica quello di lingua tedesca, Herta Müller e Aglaja Veteranyi, mentre
Dinu Flamând e Dumitru Tsepeneag hanno trovato come spazio di accoglienza
quello francese.

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Anche se possiamo seguire questi due percorsi di lettura, che sembrano indivi-
duare due letterature nazionali particolari, dai saggi del volume appare chiaro che
le frontiere che delimitano le letterature nazionali vengono indebolite e ammorbi-
dite da questo tipo di letteratura. Il che viene esplicitamente dimostrato nei saggi
di F. Claudon e M. Spiridon, che individuano piuttosto, attraverso i testi letterari,
uno spazio culturale unico europeo. Nelle sue conclusioni, M. Spiridon afferma
il ruolo «auto-révélateur et formatif» dell’esilio. Parlando di Marthe Bibesco e di
Mircea Eliade M. Spiridon arriva ad una conclusione applicabile anche ad altri
scrittori dell’esilio: «Leur expérience particulière entraîne un changement radical
de signe culturel de l’exil roumain. Son système consacré de repères – bibliques,
nationalistes, messianiques, dont la teinte régressive et nostalgique est évidente
– est remplacé par des significations radicalement différentes, dont les valeurs
pertinentes sont la contemporanéité, le sens de l’appartenance à une patrie in-
tellectuelle cosmopolite et surtout l’absence de toute infériorité provinciale.»
Un’affermazione che potrebbe ben descrivere molti scrittori dell’esilio di diversi
paesi e lingue.
Il cosmopolitismo è considerato come una caratteristica definitoria dello scrit-
tore europeo anche da F. Claudon, che nel suo libro intitolato Les grands mou-
vements européens intitola un capitolo «Qu’est-ce que c’est qu’un ecrivain euro-
peen ?» Per dare la risposta Claudon si sofferma sui tre esempi molto rilevanti
di Vladimir Nabokov, Jossip Brodsky, Jorge Luis Borges, da cui trae un ritratto
dello scrittore europeo, che si definisce mediante le caratteristiche di multilingui-
smo e cosmopolitismo, e per la circolazione fra paesi diversi. Parlando di Vladi-
mir Nabokov, F. Claudon scrive: «Il y a une œuvre russe, allemande, américaine
de Nabokov (cf. Lolita, 1955), mais comment le classer, à quelle nationalité le
rattacher, sinon au cosmopolitisme européen dont il affirme l’existence préci-
sément en passant d’une culture à l’autre ? Et puis surtout, ces déménagements
perpétuels ne montrent-ils pas à l’envi une nostalgie d’un ‘territoire’ sentimental
qui n’est plus, ravagé par la guerre, relégué par l’histoire de cette chère Europe?»
(Claudon, 2008, 125). Nel saggio presente in questo volume, l’idea è ripresa e
argomentata con esempi di epoche e aree diverse cercando di mettere in dialogo
la «letteratura del sud» con un potenziale «centro» europeo.
Dai saggi di questo volume appare l’idea che gli scrittori dell’esilio possono
essere definiti attraverso queste tre caratteristiche: cosmopolitismo, plurilingui-
smo e circolazione. Non possiamo quindi, secondo un semplice sillogismo logico,
spingerci ad affermare che gli scrittori dell’esilio sono la quintessenza dello spiri-
to europeo? Comunque, questi tratti non possono essere studiati senza affrontare
il ruolo che gioca la traduzione interlinguistica e inteculturale nella definizio-
ne dello spazio identitario europeo. Un altro concetto che ispira il nostro volu-
me, la cui importanza è evidenziata nelle ricerche coordinate da Lew Zybatow,

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come appare negli atti del convegno Europa der Sprachen: Sprachkompetenz
– Mehrsprachigkeit – Translation. tenutosi a Innsbruck nel 2000, è l’interazione
all’interno dell’Europa del plurilinguismo e dei problemi di traduzione e comuni-
cazione interlinguistica e interculturale (Zybatow 2003).
Il nostro volume si colloca in questo contesto delle ricerche sugli aspetti cul-
turali della traduzione, in quanto il passaggio delle opere dell’esilio, in traduzio-
ne e autotraduzione, da un contesto linguistico-culturale all’altro è un elemento
fondamentale per analizzarne la funzione e fruizione. Questo è un altro percorso
tematico o un’altra chiave di lettura del nostro volume. In vari saggi si tratta espli-
citamente o implicitamente il problema della traduzione. Ad esempio il problema
della traduzione e dell’autotraduzione è centrale nei saggi di A. Vranceanu, G.
Vanhese, G. Magliocco, che si soffermano su scrittori che hanno scritto in più
lingue, mentre il saggio di Y. Preumont è specificamente incentrato su un tema
di traduttologia. Nelle opere di Dumitru Tsepeneag, Paul Celan, Dinu Flamând e
Panait Istrati, il passaggio da una lingua all’altra attraverso traduzione e/o auto-
traduzione è un punto centrale per l’analisi dell’opera. Il plurilinguismo dell’Eu-
ropa è caratterizzato anche dalla presenza di lingue minoritarie ma fortemente
radicate nel territorio e soprattutto in piccole comunità, come si mostra a propo-
sito della lingua occitana, che viene usata in alcune scene del film analizzato da
S. Schrader.
Un caso particolare di compresenza plurilinguistica nel testo si trova nel sag-
gio di A. Pagliardini allorché si analizza la mimesi fatta da Pascoli dell’italo-
americano degli emigranti italiani di ritorno dagli Stati Uniti. Tutto il saggio di
A. Vranceanu ruota attorno alla problematica della traduzione e dell’autotradu-
zione nell’opera dello scrittore Tsepeneag, che scrive in rumeno o in francese, o
addirittura passa nel testo dal rumeno al francese durante la stesura del romanzo
(Le mot sablier), secondo l’immagine della clessidra, dove l’aria si sostituisce pro-
gressivamente alla sabbia come nel romanzo una lingua lascia il posto all’altra.
La metodologia filologica costituisce un altro filo rosso del volume. In tutti
i saggi sono presenti riferimenti alla più recente bibliografia degli studi post-
coloniali e del campo della comparatistica, tuttavia i metodi filologici con cui
vengono analizzati i testi mirano a conciliare una visione non imperialistica in
senso saidiano (Said, 1994) della cultura con la tradizione umanistica di lettura
e interpretazione del testo. Per questa ragione troviamo tanti riferimenti alla cul-
tura umanistica europea (in F. Claudon, A. Pagliardini, G. Vanhese) analizzati in
primo luogo a livello tematico, per arrivare all’individuazione di miti e personag-
gi della letteratura europea e classica, che sono stati rielaborati nella letteratura
migrante.
F. Claudon ha organizzato il suo saggio intorno alla relazione dialettica fra
humanitas e barbaritas, partendo dalla tradizione ciceroniana dell’humanitas, at-

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traverso i testi di Ovidio e Senofonte, e arriva a mostrare come la storia letteraria
moderna si costruisca intorno ad un concetto di humanitas fortemente conta-
minato dalla presenza della migrazione. Si segue nel saggio una contraddizione
profonda, un conflitto interno sul quale si innesta tale concetto già dal XVIII
secolo, a partire dalle opere di Voltaire: «l’humanitas réfuse l’autre, l’immigré,
si elle ne peut pas l’assimiler». La costruzione del’identità basata sulla differen-
ziazione rispetto all’altro ha lasciato tracce profonde nella formazione del canone
europeo e trova la sua verifica nelle difficoltà di integrazione che incontrano gli
scrittori migranti.
Un’altra costante umanistico-filologica è legata ai miti eroici che sono alla base
della cultura europea, ad esempio Spiridon, parlando dell’opera di Le Clézio, no-
mina gli eroi e le figure della mitologia europea. A questo si aggiunge il già citato
mito di Ulisse, figura dell’esule in molti dei saggi del nostro volume. G. Maglioc-
co richiama la figura del meteco, soggetto intermedio fra il cives e il barbarus
nell’antica Grecia, per descrivere la particolare condizione di migrante del poeta
contemporaneo Dinu Flamând. G. Vanhese lavora su diversi miti che appaiono
nella poesia di Paul Celan, fra cui quello dell’urus (Büffel), un mito fondante nella
cultura moldava, e quello del fiore colchique, che si rifà alla regione mitica della
Colchide, nell’ambito di una lettura filologica e tematologica. Anche nel lavoro
antropologico di M. C. Tumiati, M. C. Segneri, A. Gutierrez appare il mito della
divinità di Giano per spiegare la duplicità identitaria del migrante cui deve cor-
rispondere la strategia del mediatore culturale. Nel saggio di P. Trifone abbiamo
una rivisitazione filologica della formazione della lingua e della cultura italiana,
che ne mostra l’aspetto multiculturale e composito. Inoltre, dal punto di vista fi-
lologica, in particolare i saggi di A. Pagliardini, A. Vranceanu, G. Magliocco, Y.
Preumont, D. De Salazar, G. Vanhese, F. Claudon sono costruiti su una ricca base
di esempi testuali e microtestuali concreti.
Uno dei punti di forza del volume è il fatto che in esso si cercano di estrarre
forme, temi e motivi della letteratura dell’esilio o migrante, partendo dalla tradi-
zionale explication de texte. Nella maggior parte di questi saggi vengono analiz-
zati e intertestualizzazi brani degli autori trattati. Da questa close reading, però,
si possono seguire e vedere le linee fondamentali della letteratura dell’esilio: la
ricerca dell’identità, i problemi legati al dépaisement, la costruzione dell’auto-
finzione, la riflessione sul cambiamento di lingue, il mito di Babele, il mito di
Babilonia e, sopratutto, il valore fondante della patologia. Il tutto concorre ad
inserire la letteratura migrante e di esilio nel sistema della letteratura e della
cultura europea.
Un ulteriore elemento che vorremmo evidenziare è il carattere intrinsecamen-
te interdisciplinare del volume, che si mostra a diversi livelli. Al volume hanno
contribuito specialisti in letteratura comparata, ma anche in varie letterature na-

21
zionali, francese, rumena, italiana, specialisti in traduttologia, storia della lingua,
filmologia, medicina, sociologia, antropologia. Abbiamo sottolineato fin qui i fili
rossi che uniscono i saggi del volume, ma dobbiamo anche sottolineare la pre-
senza di una polifonia di voci che trattano il tema dell’esilio e della migrazione
da punti di vista e con approcci molto differenti. Conferisce inoltre ricchezza e
varietà al volume il fatto che i contributori vengono da paesi differenti (Roma-
nia, Italia, Francia, Austria, Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi, Stati Uniti) e gli
autori studiati sono stati attivi in più lingue e si sono integrati in più tradizioni
nazionali differenti; due di loro hanno anche conseguito il Premio Nobel (Elie
Wiesel per la Pace e Herta Müller per la Letteratura). Attraverso l’emblema della
patologia, intesa come sofferenza e come malattia, la letteratura dell’esilio può
essere individuata nella sua specificità, in quanto in tutti i testi presi in esame
nel volume la patologia è un elemento fondante. Questa molteplicità di approcci,
metodi di analisi, soggetti di studio, contribuisce a conferire alla trattazione del
tema della letteratura dell’esilio e della migrazione quell’aspetto poliedrico che
la materia richiede.
Senza l’intervento congiunto di tante persone il progetto di questo volume,
dalla fase del convegno fino al completamento della stampa, non sarebbe sta-
to possibile. Un grande ringraziamento è dovuto innanzitutto alle autrici e agli
autori, che hanno accettato di collaborare al progetto e si sono avventurati con
entusiasmo e competenza sulle tematiche proposte.
Ma vorremmo ricordare anche le molte persone che sono state attive sullo sfondo
e ci hanno prestato ascolto e ci hanno sostenuto concretamente e fortemente, per il
che intendiamo ringraziarle di cuore: Ursula Moser, direttrice del centro di ricerca
KiK, e Christoph Ulf, direttore della piattaforma di ricerca CEnT che ci hanno so-
stenuto con l’incoraggiamento scientifico e con un generoso contributo finanziario,
Lew Zybatow dell’Istituto di traduttori e interpreti di Innsbruck, che ci ha invitato a
pubblicare il volume nella collana da lui diretta presso l’editore Peter Lang.
Un ringraziamento profondo intendiamo esprimere a Barbara Tasser, direttrice
dell’Italien-Zentrum di Innsbruck, che ha fin dall’inizio incoraggiato e sostenuto
in pieno, non solo dal punto di vista finanziario, il progetto del convegno, e che ha
reso possibile, attraverso i fondi per la collaborazione scientifica con l’Italia, la rea-
lizzazione del presente volume, sostenendoci inoltre in tutto il rapporto con la casa
editrice, sia direttamente che con i suoi preziosi consigli. Un profondo grazie inol-
tre a tutta l’équipe scientifica dell’INMP di Roma, e in particolare ad Aldo Morrone
e Paola Scardella, che hanno dato accoglienza e sostegno al convegno e che hanno
promosso e incoraggiato l’aspetto interdisciplinare del convegno e del volume.
La realizzazione dell’intero progetto non sarebbe stato possibile senza il so-
stegno finanziario dei nostri sponsor e partner, cui va il nostro ringraziamento:
il Ministero della Scienza e Ricerca (Bundesministerium für Wissenschaft und

22
Forschung), il Vicerettorato per la ricerca dell’Università di Innsbruck, il Land
Tirol, il Comune di Innsbruck (Stadt Innsbruck), la Camera di Commercio del Ti-
rolo (Wirtschaftskammer Tirol), la Hypo Tirol Bank, come partner per la ricerca
dell’Università di Innsbruck.
Il nostro grazie va anche, last but not least, ai collaboratori della casa editri-
ce Peter Lang GmbH, in particolare al Direttore della rappresentanza a Vienna,
Norbert Willenpart, che è stato un partner stimolante e affidabile in tutte le fasi di
realizzazione tipografica del libro.

Bibliografia

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23
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24
I. Letteratura europea
e humanitas migrante
Humanitas et migration: Dialogue des Anciens et des
Modernes
Francis Claudon
Université Paris-Est (Paris 12)

Résumé

Parler de Camus ne revient pas seulement à souligner d’une part son lyrisme, d’autre part ses racines
en terre d’Algérie. C’est aussi, et pour chacun de ces termes, une façon de définir une littérature
sudiste. C’est à dire une littérature migrante: les grands mots sont lâchés: où est le sud en littérature?
N’est-il pas l’apanage des migrants? Jusqu’à quel point les mots de «sud», de «migration» viennent-
ils bouleverser les cadres usuels, les canons de la littérature mondiale? Quelques coups d’oeil. Mme.
de Staël distinguait littératures du nord et littératures du sud. Cette distinction, certes, est consti-
tutive et classique. On la retrouve chez d’autres écrivains du temps (Goethe, Chateaubriand, Staël
elle-même, Leopardi, voire Baudelaire). Elle opère aussi comme critère classificateur des écoles et
des tempéraments littéraires chez les premiers comparatistes (Fauriel, Ampère, Ozanam). Le Nord
est romantique, mais en même temps il est nostalgique du Sud, suds italien, grec, algérien égyptien,
etc. Le Sud serait donc une sorte de refoulé ou de mauvaise conscience des modernes? Lorsque dis-
paraît le Romantisme européen, le Sud, le soleil du Sud reprennent vigueur et excitent directement
cette fois, Moréas, Mistral, Maurras (sans parler de la littérature américaine: Faulkner, Margaret
Mitchell). Ils sont les poètes du Sud, de son passé, de ses civilisations stratifiées, intriquées les unes
dans les autres. N’est-ce pas aussi ce qu’évoque Camus, et pas seulement dans «Noces»? Il y a mieux:
le soleil de Camus (algérien, poétique, minéral) me fait penser au soleil de Garcia Lorca («Noces
de sang»…), à celui de Valéry («le Cimetière marin»), à celui de Gide à Biskra. Cette thématique
qui renomme, ou réinvestit, à sa façon, le sud n’est-elle pas la marque d’une algérianité, voire d’une
littérature du Maghreb? On songera à M.P.Fouchet, poète et critique, à Amrouche, ou Kateb Yacine.
Peut-être même ajoutera-t-on que la littérature algérienne s’imbrique dans celle du Maghreb qui, à
son tour, s’insère dans celle du Sud? Comme dit T.Ben Jelloun, à propos de G.Grass pourtant: «(c’)est
un agitateur…qui ne se plie pas à la consigne générale. En ce sens c’est un écrivain du Tiers-Monde
…du Sud.» Qui suis-je? Que sommes-nous donc ? D’où sommes nous? où allons nous? comme se de-
mandait le nordique Van Gogh réfugié sous les soleil de Provence et les champs de tournesols. Ceci
prouve, en passant, que ce questionnement sur l’essentiel, sur moi (ce que je suis, qui je suis) n’est
pas limité à la littérature (cf. Respighi: les Pins de Rome vs. Strauss: Alpensymphonie). La nostalgie
identitaire? Elle est obsédante, définitoire, même chez les inventeurs de la «négritude» (Césaire,
Senghor), marquée par des mixages langagiers et une liberté explosive comme les «Illuminations»
de Rimbaud. Rimbaud «sudiste»? oui, «J’ai embrassé l’aube d’été». On voit bien que le soleil algérien
de «Noces» nous contraint de regarder aussi celui de Haïti (Césaire) ou de Corfou, ou de Chypre ou
d’Alexandrie (Durrel). J’oserai une comparaison surprenante. Il existe dans une certaine littérature
germanique une tentation du silence, une fascination pour le vide, un vertige de la non-existence. Je
pense à P.Celan, juif germanophone d’Ukraine occidentale, dont la famille a été anéantie; il doute
qu’après Auschwitz la poésie soit encore possible, et tous ses plus grands titres poétiques disent le
néant, l’obscurité, la mort, la non-identité: «die Niemandsrose», «die Todesfuge». Les ruines de
Tipaza ne disent pas la mort, au contraire. Foin de la nuit humide d’une route accidentée de l’Yonne!
Camus le sudiste? Oui! Littérature d’Algérie, algérianité littéraire et mixée? Oui! c’est le paradoxe
du sud non-américain, le sud de la littérature post-coloniale française, le sud synonyme d’humanitas.

27
L’actualité ne cesse de nous assommer avec la question de l’immigration et ses
diverses conséquences. Nous sommes partagés entre des pensées contradictoires.
L’Europe croit revivre une très vieille histoire, celle des grandes invasions et la
fin du monde antique. Ce ne sont pas ici les solutions qui importent. En revanche
notre hésitation peut sans doute être analysée de plus près. Ne tient-elle pas à
l’idée que nous nous faisons de la civilisation ? Nous sommes, en tant qu’Euro-
péens et surtout que peuples de langue romane, renvoyés à l’histoire du «pius
Eneas» virgilien, à la tradition cicéronienne de l’humanitas: «homines a fera
agrestique vita ad hunc humanum cultum civilemque deducere»: sortir les êtres
humains d’une vie de bête sauvage des plus rustiques pour les amener à l’état de
citoyen et d’homme éduqué.» (Ciceron, De Oratore, I, 33).
Aussi c’est à une sorte de dialogue des Anciens et des Modernes que je me li-
vrerai, sur tout le pourtour de la Méditerranée, qui est, en l’occurrence, vraiment
fort bien surnommée «mare nostrum»: la mer qui nous est commune.

1. L’Europe migrante: l’enlèvement d’Europè

Peut-être convient-il de souligner d’entrée de jeu que par son nom, par ses aven-
tures déjà, l’Europe a partie liée avec la migration (Cf. Ghervas, Rosset 2008).
Ovide (Publius Ovidius Naso) nous a raconté l’histoire de cette nymphe di-
vinisée par Zeus. Le poète écrit au livre II, vers 847 à 867, des Métamorphoses:

Lui, le père et le maître des dieux prend l’apparence d’un taureau; mêlé au jeune troupeau,
il mugit et de sa belle allure, il foule l’herbe tendre. C’est qu’en effet, sa couleur est celle de
la neige [...]
De son cou, les muscles sont saillants, [...] jusqu’à ses épaules pend son fanon; ses cornes
sont petites [...]
Sur son front, aucune menace et rien à redouter dans ses yeux; la paix resplendit sur sa
face. La fille d’Agénor s’étonne de voir un animal si beau et si peu enclin aux combats; mais
en dépit de sa douceur, elle craint d’abord de le toucher. Bientôt elle s’approche de l’animal et
offre des fleurs à sa bouche d’une blancheur éclatante.
Tantôt l’animal folâtre et bondit dans l’herbe verte, tantôt il pose son flanc de neige sur le
sable fauve; et quand il a peu à peu fait disparaître la peur de la jeune fille, il lui présente tantôt
son poitrail à flatter de la main, tantôt ses cornes à entourer de fraîches guirlandes. La jeune
princesse osa même, ignorant qui la poursuivait de ses assauts, s’asseoir sur le dos du taureau.
[…] Et il emporte sa proie en pleine mer. Europe enlevée tremble d’effroi et regarde en
arrière le rivage qu’elle a quitté; de sa main droite, elle tient une corne; sa main gauche, elle l’a
posée sur la croupe de l’animal; ses vêtements frissonnent et ondulent sous le souffle du vent.1

1 «Ille pater rectorque deum [...]/ Induitur faciem tauri mixtusque iuvencis / Mugit et in teneris
formosus obambulat herbis. / Quippe color nivis est […] / Colla toris exstant […] armis palearia
pendent; /Cornua parva quidem […] /Nullae in fronte minae nec formidabile lumen;/ Pacem

28
Europe est sémite, car Phénicienne («la fille d’Agénor»); mais par sa migration
elle cesse d’être étrangère et s’abandonne entière à sa nouvelle terre hellène; car
elle est sœur de Cadmos, fondateur de ville, comme Enée. Elle est mère de trois
fils qui entrent dans la légende grecque; ce sont les trois illustres Crétois: Minos,
Rhadamante et Sarpédon. Suivant l’avis général, son nom – Εὐρώπη – signifie:
«au large visage» ou «aux grands yeux», aux grands yeux accueillants: c’est pour-
quoi, je pense, Zeus la remarqua ! Ce regard n’est pas celui d’une séductrice, mais
d’une génitrice fertile (Cf. West 2007, 185).
Très intéressant, le fait que de ce mythe d’Europè procède une longue et riche
tradition artistique, littéraire, musicale2. En peinture Titien, Véronèse, Rem-
brandt, Boucher, Moreau, en littérature française, aussi bien Rimbaud («Soleil et
chair»), que Leconte de Lisle («l’Enlèvement d’Europeia»), à l’opéra, après tant
de ballets ou de melodramme baroques, Darius Milhaud (L’Enlèvement d’Europe,
opéra-minute en un acte, op.94, 1927); notre nymphe d’origine Phénicienne aux
larges yeux accueillants a suscité ce qu’il y a de plus typiquement européen, de
plus spécifique pour un non-européen, pour l’immigré de nos jours qui n’a cer-
tainement pas grand souci de ces productions des lettrés et artistes occidentaux.

2. Qui est le barbare, le migrant ? L’Anabase de Xénophon

J’opposerai maintenant à ce beau mythe une histoire vraie: celle de Xénophon et


de l’expédition des Dix-Mille parce qu’elle brouille des notions que nous croyons
claires, en particulier l’opposition humanitas/barbarie3. L’Anabase  (du grec
ανάβασις  / anábasis, «ascension, montée dans le Haut Pays») de l’Athénien Xé-
nophon raconte, en sept livres, le périple de Dix Mille, mercenaires grecs engagés
vultus habet. Miratur Agenore nata / Quod tam formosus , quod proelia nulla minetur; /Sed
quamvis mitem, metuit contingere primo. /Mox adit et flores ad candida porrigit ora.// Et nunc
alludit viridique exultat in herba / Nunc latus in fulvis niveum deponit harenis; /Paulatimque
metu dempto, modo pectora praebet / Virginea plaudenda manu , modo cornua sertis / Inpe-
dienda novis. Ausa est quoque regia virgo, / Nescia quem premeret, tergo considere tauri ...//
[…] mediique per aequora ponti /Fert praedam. Pavet haec litusque ablata relictum / Respicit et
dextra cornum tenet, altera dorso / Imposita est; tremulae sinuantur flamine vestes.»
2 Voir sur ce point http://www.musagora.education.fr/europe/europefr/mythe.htm et surtout
les deux premiers volumes d’actes des colloques: D’Europe à l’Europe, I. Le mythe d’Europe
dans l’art et la culture de l’antiquité au XVIIIe s. (Poignault, Wattel-de Croizant, éds. 1998)
et D’Europe à l’Europe, II. Mythe et identité du XIXe s. à nos jours (colloque de Caen, 30.09-
02.10.1999) (Poignault, Lecocq, Wattel, éds. 2000).
3 Il est intéressant de comparer les définitions Barbarus/humanus classiques avec celle que pro-
pose Marcel Détienne dans L’Identité nationale, une énigme: «une sorte de partage entre des so-
ciétés qui choisissent d’ignorer leur dimension historique [=barbarus] et d’autres ayant décidé
d’organiser leur devenir les yeux ouverts sur leur passé [le cives humanus]” (Détienne 2010, 83)

29
par le souverain perse Cyrus le Jeune dans sa lutte contre son frère Artaxerxès
II. En 401 avt. J.C., Cyrus le Jeune trouve la mort à Cunaxa, en Mésopotamie,
son corps d’armée est vaincu, mais ses mercenaires grecs – telles les armées pri-
vées, ou les forces spéciales des conflits actuels – sortent vainqueurs des troupes
locales qui leurs sont opposées. Désormais isolés dans des contrées dont ils ne
connaissent pas les moeurs, les Dix Mille agissaient comme les corps francs des
guerres du XXe siècle. Ce sont eux les exilés, les migrants  ! Conduits par Xé-
nophon, ils réussissent à percer et rejoignent l’Arménie puis les côtes méridio-
nales du Pont-Euxin notamment Trapézontè (aujourd’hui Trébizonde), remontant
jusqu’à la région des Détroits, où ils s’immiscent dans les rivalités ethniques de
la Thrace.
L’Anabase est riche de descriptions de populations locales, de contrées
exotiques, de civilisations absolument hermétiques mais sophistiquées, que ces
migrants grecs détruisent et pillent sans vergogne. Ces hoplites professionnels
sont de bons soldats, aguerris par des années de campagne mais prompts à dis-
cuter les ordres des chefs, voire à se mutiner4. Ils sont complètement insensibles
aux climats, à une faune, à une flore qui leur demeurent incommodes5. Les récits
concernant les démêlés avec les peuples de l’Arménie sont très explicites: il fallait
aux mercenaires des vivres; ils les achetaient dans des marchés ou se les pro-
curaient par le pillage. Ils faisaient halte dans des villages, dont ils traitaient les
habitants, quand ceux-ci étaient restés, sans ménagement. Xénophon ne cache pas
les exactions commises par les Grecs mais il le fait avec une bonne conscience
qui confond certains modernes6 et laisse sceptique sur les possibilités de mixité
culturelle dans l’Antiquité. L’arrivée à Chrysopolis, dont le nom pourrait se trans-
poser assez bien en «Eldorado» (livre 6), est tout à fait explicite. On est loin des
pieux mensonges homéro-virgiliens qui font des migrants de leurs épopées res-
pectives, de nobles re-fondateurs de villes, de cultes, de civilités. Les Dix-Mille
Héllènes, pour leur part, étaient des ruffians; ils sont partis poussés par l’appât
du gain; ils reviennent endurcis, avilis, abêtis en comparaison du raffinement de
l’Orient.
Or cette histoire n’a pas troublé la bonne conscience des modernes Eu-
ropéens, en particulier les Français des XVIIe et XVIIIe siècle. Voltaire en donne
une excellente illustration, par exemple, dans l’Avant-Propos du Siècle de Louis
XIV. Il est évident chez lui que le progrès des arts et des Lumières procède d’un
4 Cf. Xenofon, Anabase, livre 3: élection de nouveaux chefs et début de la retraite jusqu’aux mon-
tagnes des Cardouques.
5 Cf. Xenofon, Anabase, livre 4 (traversée du pays des Cardouques, puis de l’Arménie où l’hiver
survient, du pays des Taoques, des Colques et arrivée à Trapézontè au bord de la mer) et livre
5 (errance sur le bord de mer jusqu’à Cotyôra).
6 Voir l’intéressante présentation en ligne: http://www.antiquite.ac-versailles.fr/perses/perses08.
htm

30
repliement intégriste; l’humanitas refuse l’autre, l’immigré si elle ne peut l’assi-
miler:
Quiconque pense et, ce qui est encore plus rare, quiconque a du goût, ne compte que quatre
siècles dans l’histoire du monde. Ces quatre âges heureux sont ceux où les arts ont été per-
fectionnés et qui, servant d’époque à la grandeur de l’esprit humain, sont l’exemple de la
postérité.
Le premier de ces siècles à qui la véritable gloire est attachée, est celui de Phi-
lippe et d’Alexandre, ou celui des Périclès, des Démosthènes, des Aristote, des
Platon, des Apelle, des Phidias, des Praxitèle; et cet honneur a été renfermé dans
les limites de la Grèce, le reste de la terre alors connue était barbare.
Le second âge est celui de César et d’Auguste, désigné encore par les noms de
Lucrèce, de Cicéron, de Tite-Live, de Virgile, d’Horace, d’Ovide, de Varron, de
Vitruve.
Le troisième est celui qui suivit la prise de Constantinople par Mahomet II
[…] Les Médicis appelèrent à Florence les savants que les Turcs chassaient de la
Grèce. C’était le temps de la gloire de l’Italie. Les beaux-arts y avaient déjà repris
une vie nouvelle; les Italiens les honorèrent du nom de vertu, comme les premiers
Grecs les avaient caractérisés du nom de sagesse. Tout tendait à la perfection […]
La France, l’Angleterre, l’Allemagne, l’Espagne voulurent à leur tour avoir de
ces fruits… (Voltaire, Avant propos)

3. L’Europe et ses frontières: la menace d’Afrique du Nord

Sur cette opposition biaisée humanus/barbarus vient s’en greffer une autre: celle
du centre, de la civitas menacés à leurs bornes.
Salluste (Caïus Sallustius Crispus) écrit le Bellum Jugurthianum à la fin de la
République, vers l’an 40 avt. J.C., lorsque Rome entreprend de coloniser toujours
plus profondément le Sud, étrange, exotique, inquiétant. Pour Salluste Rome se
défend contre une immigration latente en colonisant les Numides; Jugurtha est
une menace pour les fondations gréco-latines des bords de la Méditerranée mé-
ridionale. Mais ce qui nous importe est la façon dont Salluste pense cette ‘étran-
geté’ numide: ce sang mêlé est tellement bien accordé au pays, à son climat, durs,
dangereux, contrastés.
XVII. Mon sujet semble exiger que je dise quelques mots sur la position de l’Afrique et sur
les nations avec lesquelles nous avons eu des guerres ou des alliances. Quant aux pays et aux
peuples que leur climat brûlant, leurs montagnes et leurs déserts rendent moins accessibles,
il me serait difficile d’en donner des notions certaines. […]
La mer y est orageuse, les côtes offrent peu de ports, le sol y est fertile en grains, abondant
en pâturages, dépouillé d’arbres: les pluies et les sources y sont rares. Les hommes y sont

31
robustes, légers à la course, durs au travail: à l’exception de ceux que moissonne le fer ou la
dent des bêtes féroces, la plupart meurent de vieillesse, car rien n’y est plus rare que d’être
emporté par la maladie. En revanche, il s’y trouve quantité d’animaux, d’espèce malfaisante.
Pour ce qui est des premiers habitants de l’Afrique, de ceux qui sont venus ensuite, et du
mélange de toutes ces races, je vais, au risque de contrarier les idées reçues, rapporter en peu
de mots les traditions que je me suis fait expliquer d’après les livres puniques, qui venaient,
dit-on, du roi Hiempsal; elles sont conformes à la croyance des habitants du pays. Au surplus,
je laisse aux auteurs de ces livres la garantie des faits.
XVIII. Les premiers habitants de l’Afrique furent les Gétules et les Libyens, nations fa-
rouches et grossières, qui se nourrissaient de la chair des animaux sauvages et broutaient
l’herbe comme des troupeaux. Ils ne connaissaient ni le frein des mœurs et des lois, ni l’au-
torité d’un maître. Sans demeures fixes, errant à l’aventure, leur seul gîte était là où la nuit
venait les surprendre.[…] Les Mèdes, les Perses et les Arméniens passèrent en Afrique sur
leurs navires, et occupèrent les contrées voisines de notre mer. […]. Insensiblement ces Perses
se mêlèrent aux Gétules par des mariages, et comme, dans leurs fréquentes excursions, ils
avaient changé souvent de demeures, ils se donnèrent eux-mêmes le nom de Numides. […]
Aux Mèdes et aux Arméniens se joignirent les Libyens, peuple plus voisin de la mer d’Afrique
que les Gétules, qui étaient plus sous le soleil, et tout près de la zone brûlante. Ils ne tardèrent
pas à bâtir des villes, car, n’étant séparés de l’Espagne que par un détroit, ils établirent avec
ce pays un commerce d’échange. Les Libyens altérèrent peu à peu le nom des Mèdes; et, dans
leur idiome barbare, les appelèrent Maures. Ce furent les Perses dont la puissance prit sur-
tout un accroissement rapide: et bientôt l’excès de leur population força les jeunes gens de se
séparer de leurs pères, et d’aller, sous le nom de Numides, occuper, près de Carthage, le pays
qui porte aujourd’hui leur nom. Les colons anciens et nouveaux, se prêtant un mutuel secours,
subjuguèrent ensemble, soit par la force, soit par la terreur de leurs armes, les nations voi-
sines, et étendirent au loin leur nom et leur gloire: particulièrement ceux qui, plus rapprochés
de notre mer, avaient trouvé dans les Libyens des ennemis moins redoutables que les Gétules.
Enfin, toute la partie inférieure de l’Afrique fut occupée par les Numides, et toutes les tribus
vaincues par les armes prirent le nom du peuple conquérant, et se confondirent avec lui.7

7 Saluste, Bellum Jugurthinum: «[17] Res postulare uidetur Africae situm paucis exponere et eas
gentis, quibuscum nobis ellum aut amicitia fuit, attingere. Sed quae loca et nationes ob calorem
aut asperitatem, item solitudines minus frequentata sunt, de iis haud facile compertum narraue-
rim […]. Mare saeuum, importuosum; ager frugum fertilis, bonus pecori, arboriinfecundus;
caelo erraque penuria aquarum; genus hominum salubri corpore, velox, patiens laborum; ac
leros-que senectus dissoluit, nisi qui ferro aut bestiis interiere, nam morbus haud saepe quem-
quam superat; ad hoc malefici generis plurima animalia. Sed qui mortales initiio Africam ha-
buerint quique postea accesserint aut quo modo inter se permixti sint, quamquamab ea fama,
quae plerosque obtinet, diuersum est, tamen, uti ex libris Punicis, qui regis Hiempsalis diceban-
tur, interpretatum nobis est utique rem sese habere cultores eius terrae putant, quam paucissimis
dicam. Ceterum fides eius rei penes auctores erit.
[18] Africam initio habuere Gaetuli et Libyes, asperi incultique, quis cibus erat caro ferina atque
humi pabulum uti pecoribus. Ii neque moribus neque lege aut imperio cuiusquam regebantur:
uagi palantes quas nox coegerat sedes habebant. […] Medi, Persaeet Armenii nauibus in Afri-
cam transuecti proximos nostro mari locos occupauere, sed Persaeintra Oceanum magis. Ii pau-
latim per conubia Gaetulos secum miscu-ere et, quia, saepe, temptantes agros alia, deinde alia
loca petiuerant, semet ipsi Numidas appellauere. […] Medis autem et Armenis accessere Libyes.
Nam ii propius mare Africum agitabant, Gaetuli sub sole magis, haud procul ab ardoribus, iique

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Salluste semble prendre plaisir à détailler ces étrangetés: les ethnies se mélan-
gent, d’une façon que les bêtes ne connaissent pas; les hommes broutent l’herbe,
et sont souples et forts comme des fauves; leur langue est incompréhensible, dé-
gradée. Le Sud incarne donc toute la barbarie; il symbolise l’horreur, le mystère,
le danger. Que peut-il offrir au cives Romanus sinon la régression culturelle et
matérielle8 ?

4. Littérature nationale, littérature mixée, littérature ‘sudiste’

La critique actuelle est mal à l’aise pour considérer la littérature d’Afrique du


Nord écrite en français. Et pire encore dans le cas de ce ‘pied-noir’ émigré à Paris
qui s’appelait Camus. Edward Saïd voyait dans l’œuvre de Camus l’expression
d’une mentalité coloniale (Cf Saïd 2000)!
Pour échapper à ce piège assez frustrant je serais tenté d’inventer une épi-
thète qualificative spéciale, plus suggestive peut-être. Je parlerais de littérature
‘sudiste’9. Car j’ai été frappé par la démarche du Marocain-francophone – Tahar
Ben Jelloun à propos de l’Allemand Günter Grass. Il écrivait dans le Magazine
littéraire n°381 – 01/11/1999:
Un écrivain du Sud
Günter Grass est un agitateur, pas forcément un provocateur, mais quelqu’un qui ne se plie
pas à la consigne générale, celle qui prédispose à l’anesthésie, locale ou totale. En ce sens,
c’est un écrivain du Tiers-Monde – on dit aujourd’hui du Sud.
De Günter Grass je n’ai lu que Le Tambour et Toute une histoire. Pour moi c’est un univers
étranger, voire exotique. Ce qui m’intéresse chez Günter Grass, comme chez tout écrivain,
c’est l’écriture. C’est quelqu’un qui raconte son pays. Comment ? Avec quelle technique ?

mature oppida habuere; nam freto diuisi ab Hispania mutare res inter se instituerant. Nomen
eorumpaulatim Libyes corrupere, barbara lingua Mauros pro Medis appellantes. Sed res Per-
sarum breui adoleuit, ac postea nomine Numidae, propter multitudinem a parentibus digressi,
possedere ea loca, quae proxima Carthaginem Numidia appellatur. Deinde utrique alteris freti
finitimos armis aut metu sub imperium suum coegere, nomen gloriamque sibi addidere, magis
ii, qui ad nostrum mare processerant, quia Libyes quam Gaetuli minus bellicose. Denique, Afri-
cae pars inferior pleraque ab Numidis possessa est, uicti omnes in gentem nomenque imperan-
tium concessere.»
8 Voir http://www.mondeberbere.com/civilisation/histoire/jugurtha.htm dans lequel Mounir
Bouchenaki, conservateur des Antiquités de Tipasa, résume le volumineux tome 4 Des Afri-
cains par Charles-André Julien et Magali Morsy, Catherine Coquery-Vidrovitch, Yves Person,
Éditions J.A, Paris, 1977.
9 Cet emploi d’une épithète géographique pour qualifier un phénomène idéologique et culturel
m’est inspiré par la remarque de Michel Espagne quand il écrit dans «Quelques aspects de la
recherche actuelle sur les transferts culturels»: «Les transferts culturels les plus complexes peu-
vent être abordés à travers la catégorie du lieu» (Espagne 2009, 181).

33
Quel genre de maçon, ou d’artisan est-il ? Quelles passerelles y a-t-il entre son univers et le
mien ? Loin d’être un de ces écrivains reclus et silencieux, il est vite devenu un personnage de
la vie culturelle et politique de son pays. Un symbole. Un porte-parole. Un homme contesté,
critiqué, honni par certains, porté aux nues ou célébré par d’autres. C’est un avocat de causes
importantes, graves. C’est un lecteur des manuels d’histoire. Il doit fréquenter les biblio-
thèques, les sous-sols où sont entreposées les archives de la mémoire. C’est un intellectuel
vigilant et qui dit souvent ce qu’il pense. Il ne pense pas toujours dans le sens de la correction.
On dirait un écrivain du Tiers-Monde (on dit aujourd’hui du Sud), en tout cas il en a toutes les
caractéristiques. Il ne répugne pas à être engagé, à être à l’écoute de son peuple et à travailler
sur l’histoire de sa société. Le public l’interpelle et lui réclame des comptes. Nous sommes
loin de la littérature intimiste et du snobisme petit-bourgeois.

Dire de Grass, né à Danzig, cette ville-symbole de la Germanité nordique, qu’il


devient «écrivain du Tiers-Monde; on dit aujourd’hui du Sud» n’est-ce pas déter-
miner péremptoirement ce qu’est un immigré, au moins dans le domaine cultu-
rel ? Mais j’insisterai plutôt sur l’autre partie de l’interview: «ce qui m’intéresse…
c’est l’écriture». Et ce n’est donc pas Camus que j’évoquerai mais un véritable
migrant, un inclassable: le poète et critique Jean Amrouche (1906-1962).
Ce n’est pas ici le moment d’écrire sa biographie sauf à souligner quelques points:
Amrouche est un Berbère mais parfaitement francisé et francophone, ancien élève
de l’ENS, ayant vécu une carrière française d’enseignant, de poète, de journaliste
mais exhibant une thématique, une symbolique biculturelles. Il a été l’ami et le com-
pagnon des plus grands écrivains métropolitains aussi bien que le porte-parole des
indépendantistes algériens. Trait remarquable: il est un des rares musulmans à avoir
embrassé le catholicisme et il a également écrit sur Jugurtha (Amrouche, 1946) !
L’humanisme d’Amrouche saute aux yeux: de février 1944 à février 1945, à
Alger, puis de 1945 à juin 1947, à Paris, il est directeur de la revue L’Arche, éditée
par Edmond Charlot. A ce titre il publie les grands noms de la littérature fran-
çaise (Antonin Artaud,  Maurice Blanchot,  Henri Bosco,  Joë Bousquet,  Roger
Caillois, Albert Camus, René Char, Jean Cocteau, André Gide, Julien Green, Pierre
Jean Jouve, Jean Lescure, Henri Michaux, Jean Paulhan, Francis Ponge …).
Jean Amrouche réalise simultanément de très nombreuses émissions litté-
raires, sur Tunis-R.T.T. (1938-1939), Radio France Alger (1943-1944), et surtout
Radio France Paris (1944-1958), dans lesquelles il invite des théoriciens (Gaston
Bachelard,  Roland Barthes,  Maurice Merleau-Ponty,  Edgar Morin,  Jean Staro-
binski, Jean Wahl), des poètes et des romanciers (Claude Aveline, Georges-Em-
manuel Clancier, Pierre Emmanuel, Max-Pol Fouchet, Jean Lescure, Kateb Ya-
cine) et des peintres (Charles Lapicque).
Il est l’inventeur d’un genre radiophonique nouveau dans la série de ses «en-
tretiens», notamment ses 34 Entretiens avec  André Gide  (1949), 42  Entretiens
avec Paul Claudel (1951), 40 Entretiens avec François Mauriac (1952-1953), 12
Entretiens avec Giuseppe Ungaretti (1955-1956).

34
En son privé Jean Amrouche a tenu de 1928 à 1961 un journal qui demeure
inédit. Et son œuvre poétique, qui s’arrête, à ce qu’il semble, juste avant la
guerre, ne se découvre encore aujourd’hui que progressivement10, révélant un
poète de portée universelle. En tout cas en exprimant en français les Chants ber-
bères de Kabylie, Amrouche a enrichi de façon très remarquable la littérature
mondiale11.
Pour juger cette poésie si fine, si sensible, tellement spiritualiste, le mieux
est de laisser parler les amis, les proches, qui ont vécu eux aussi le problème de
l’impossible migration et l’improbable assimilation. Par exemple Tahar Djaout:
L’œuvre poétique de Jean Amrouche ne vaut pas par son abondance 12 […] La majeure partie
de sa vie est consacrée au déchiffrement du monde et à la recherche du territoire natal, au
questionnement du travail intellectuel (ses entretiens avec J. Giono, F. Mauriac, P. Claudel,
A. Gide, G. Ungaretti) et au combat politique (ses interventions dans la presse écrite et à la
radio). […] La figure de l’Absent, au départ imprécise et mystérieuse, s’impose peu à peu et
resplendit dans sa pureté et sa grandeur. Elle devient présence obsessionnelle. Mais elle n’est
pas l’unique. […] Présence douloureuse de l’enfance et de l’espace natal doublement perdu
(par la distance et par la foi) – qu’on se rappelle dans Cendres ce poème sur la mort dédié
aux «tombes ancestrales qui ne m’abriteront pas», présence du corps jubilant et des fruits
terrestres apaisants. […] L’inspiration de Jean Amrouche est avant tout mystique, d’un mys-
ticisme qui transcende la religion pour créer ses religions propres: celle de l’amour éperdu,
celle de la contemplation cosmique, celle de l’harmonie des éléments. S’éloignant de l’ascé-
tisme religieux, le verbe de Jean Amrouche éclate en des poèmes opulents, gorgés de ciels, de
sèves, d’orages, de fruits et de femmes. (Djaout 1983, 21)

À propos des Entretiens l’analyse de Jean Lescure est juste, quand il dit:
Les enregistrements des entretiens de ce véritable créateur du genre qu’est Amrouche avec
Gide, puis avec Claudel, Mauriac, Ungaretti sont des œuvres dont l’histoire de la littérature
ne se passera qu’avec dommage, et dont la perte serait aussi grave que celle du manuscrit
des Caves du Vatican, de Protée, de Génitrix, ou de l’Allegria. […] Ce qui est bouleversant ici
et à jamais digne de l’attention des hommes, ce sont précisément les voix humaines, en leur
origine même, à ce point où elles ne sont pas encore distinctes des mots qu’elles prononcent.
Ce sont les soupirs traqués de Gide devant l’impitoyable question que lui inflige Amrouche,
ce sont les roulements massifs de Claudel, les essoufflements torturés d’Ungaretti, les mur-
mures difficiles de Mauriac. Et neuf fois sur dix Amrouche trouve la question qui contraint

10 Les poèmes Ébauche d’un chant de guerre (à la mémoire de Larbi Ben M’hidi, mort en prison le
4 mars 1957) et Le combat algérien (écrit en juin 1958), publiés en revues, ont été repris dans Es-
poir et Parole, 1963.
11 Jean Amrouche, Chants berbères de Kabylie, 1re édition, Tunis, Monomotapa, 1939. 2e édition,
Paris, collection «Poésie et théâtre», dirigée par Albert Camus, Editions Edmond Charlot, 1947.
3e édition, Paris, L’Harmattan, préface de Henry Bauchau, 1986. 4e édition (édition bilingue),
Paris, L’Harmattan, préface de Mouloud Mammeri, textes réunis, transcrits et annotés par Tas-
sadit Yacine, 1989.
12 Cendres, poèmes (1928-1934). 1re édition, Tunis, Mirages, 1934. 2e édition, Paris, L’Harmattan,
présentation de Ammar Hamdani, 1983, Étoile secrète. 1re édition, Tunis, «Cahiers de barbarie»,
1937. 2e édition, Paris, L’Harmatan, présentation de Ammar Hamdani, 1983.

35
son interlocuteur à faire aveu de lui-même, et à renoncer à se protéger du masque que l’exis-
tence mondaine a autorisé sa voix à se former. (Lescure 1963, 1711)

Pour conclure d’une phrase, Amrouche illustre à merveille toutes les virtualités
d’une littérature sudiste, c’est-à-dire une écriture de migrant; il le dit dans une
formule inversée qui a l’air de s’appliquer aux Européens, mais qui exprime en
fait le drame de tous les déplacés: «Être Français pour un Français d’Algérie n’a
pas le même sens que pour un Français de France. Le Français d’Algérie est un
déraciné». (Amrouche 1994, 304)
Il me paraissait impossible de laisser croire que le problème des immigrés
est à la fois et seulement actuel ainsi que politique. Toute l’identité européenne,
depuis l’origine la plus lointaine, a été agitée par cette question des mixages et de
l’assimilation. Tant il est vrai qu’Europè, la belle nymphe phénicienne aimée du
roi des dieux grecs, a vraiment été la première des migrantes.

Bibliographie

Amrouche, Jean (1946): «L’éternel Jugurtha», dans L’Arche, n°13, Paris.


Amrouche, Jean (1994): Un Algérien s’adresse aux Français, Paris-Awal/ L’Har-
mattan.
Amrouche, Jean (1963): Espoir et Parole, poèmes algériens recueillis par Denise
Barrat, Paris, Pierre Seghers éditeur.
Amrouche, Jean (1939): Chants berbères de Kabylie, 1re  édition, Tunis, Mono-
motapa [2e édition, Paris, collection «Poésie et théâtre», dirigée par Albert Ca-
mus, Editions Edmond Charlot, 1947. 3e édition, Paris, L’Harmattan, préface
de Henry Bauchau, 1986. 4e  édition (édition bilingue), Paris, L’Harmattan,
préface de Mouloud Mammeri, textes réunis, transcrits et annotés par Tassadit
Yacine, 1989].
Amrouche, Jean (1934): Cendres, Tunis, Mirages. [2e édition, Paris, L’Harmattan,
présentation de Ammar Hamdani, 1983, Étoile secrète. 1re édition, Tunis, «Ca-
hiers de barbarie», 1937. 2e édition, Paris, L’Harmatan, présentation de Ammar
Hamdani, 1983].
Détienne, Marcel (2010): L’Identité nationale, une énigme, Paris, Folio Histoire.
Djaout,  Tahar (1983): «Amrouche,  Étoile secrète, L’enfance de l’homme et du
monde», Algérie Actualité n° 921, Alger, 9-15 juin, 21.
Espagne, Michel (2009): «Quelques aspects de la recherche actuelle sur les trans-
ferts culturels», in Questions de réception, textes recueillis par L.Arnoux-Far-
noux et A.R.Hermetet, Editions Lucie, Avignon.
Ghervas, S.; Rosset,  F. (dir.)  (2008): Lieux d’Europe. Mythes et limites, Paris,
Maison des sciences de l’homme.

36
Lescure,  Jean (1963): Radio et Littérature, dans  Histoire des littératures, tome
3, sous la direction de Raymond Queneau, Encyclopédie de la Pléiade, Paris,
Gallimard, 1963, 1711.
Poignault, R.; Wattel-de Croizant, O., (éds.) (1998): D’Europe à l’Europe, vol.I.
Le mythe d’Europe dans l’art et la culture de l’antiquité au XVIIIe s. (colloque
de Paris, ENS – Ulm, 24-26.04.1997), coll. Caesarodunum, n° XXXI bis.
Poignault, R.; Lecocq, F.; Wattel-de Croizant O. (éds.) (2000): D’Europe à l’Eu-
rope, vol.II. Mythe et identité du XIXe s. à nos jours (colloque de Caen, 30.09-
02.10.1999), coll. Caesarodunum, n° XXXIII bis.
Saïd, Edward (2000): Culture et impérialisme, trad. française, Paris, Fayard.
Voltaire, Œuvres historiques, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1958.
West, M. L. (2007): Indo-European poetry and myth, Oxford University Press.

Sources en ligne. URL de référence


http://www.musagora.education.fr/europe/europefr/mythe.htm
http://www.antiquite.ac-versailles.fr/perses/perses08.htm
http://www.mondeberbere.com/civilisation/histoire/jugurtha.htm

37
Errances réelles, errances rêvées, errances mythiques
Monica Spiridon
Université de Bucarest

Résumé

Nos propos portent sur une question fort débattue par les ainsi dites «géographies culturelles post-
modernes»: les déterminations transterritoriales de l’identité. On commence par passer en revue les
concepts exigés par l’approche de cette question épineuse, fournis par les études culturelles ac-
tuelles. Dans un plan différent, on insiste sur les bénéfices mais aussi sur le guet-apens de ces outils
conceptuels, tels qu’ils se laissent révéler par l’analyse de la production culturelle de trois écrivains
déterritorialisés si différents que Mircea Eliade, Thomas Mann ou Jean-Marie Gustave Le Clézio:
des migrants permanents ou bien occasionnels.

1. En guise d’introduction

Traditionnellement perçue comme une discipline empirique, descriptive, exacte,


la géographie contemporaine traverse un âge trépignant. Des provocations exté-
rieures constantes l’incitent à faire renouveler sa terminologie essentielle – soit
en attachant à ses catégories consacrées des dimensions supplémentaires, soit
en mettant au jour de nouveaux concepts. Elle commence à enchérir ses notions
fondamentales – comme «le territoire» et même «la terre» – dans une optique
particulière, qui leur confère des acceptions plus diverses, sinon surprenantes.
Elle s’approprie aussi un terme apparemment rébarbatif comme «la déterritoria-
lisation». Les changements d’échelle dans les rapports de l’être humain à l’espace
y jouent un rôle décisif. Un accent phénoménologique marqué transforme «le
territoire» dans un objet de représentation réelle ou imaginaire, mais également
significative. Déconstruire les idéologies spatiales et imaginaires reste d’ailleurs
une des tâches délicates de la géographie culturelle moderne.
Pour mieux saisir le poids acquis dans les géographies culturelles par tout ce qui
porte non pas sur la proximité d’un certain territoire mais, tout au contraire, sur les
distances significatives des individus par rapport à lui, il faut aussi introduire dans
cette équation la dynamique accélérée de l’existence contemporaine. Prisées aupa-
ravant surtout par la psychologie et par la littérature, des notions courantes comme
le «déracinement» ou le «dépaysement» trouvent leur équivalent contemporain dans
une catégorie – extensive, dit-on – comme la «déterritorialisation». Très contestée
au demeurant, cette notion peut dors et déjà être conçue suivant des dimensions
politiques, culturelles et sociales. «L’approche qui perçoit le territoire comme inséré

39
dans des rapports de pouvoir concrets ou symboliques donne à la déterritorialisation
un sens politique, culturel et/ou social plus large.» (Lévy, Lussault 2003, 244-245)
Ma contribution porte sur une série d’auteurs (un Français: Jean-Marie Gus-
tave Le Clézio; un Allemand: Thomas Mann et deux Roumains: Mircea Eliade et
Marthe Bibesco) dont les textes rendent ambiguës les frontières entre le récit de
voyage – réel ou imaginaire – et le récit d’exile, pour mettre en question les sens
couramment acceptés de l’appartenance territoriale. Le résultat en est un type
particulier d’écriture, à cheval sur plusieurs registres narratifs consacrés.
Tout le long de sa vie, Eliade n’a pas cessé de publier ses Fragments d’un
journal – un texte en plusieurs volumes imposants, entourés par d’écritures in-
timistes satellites, surtout par des Mémoires et par des récits de voyage. Marthe
Bibesco, elle, produit en français des mémoires – La Nymphe Europe – qu’elle ne
parvient pas à faire intégralement publier avant sa mort – ainsi qu’un livre consa-
cré à son territoire d’origine, mi-réel mi-inventé – Isvor, le pays des saules. La
fameuse Traversée avec Don Quichotte est le journal de voyage de l’exilé Thomas
Mann, en route vers les nouveaux territoires d’Amérique, d’où il pourra mieux
contempler sa propre identité européenne. Enfin, Jean-Marie Gustave Le Clézio
est l’auteur de toute une suite d’œuvres inclassables, oscillant entre le voyage réel,
le voyage fictif et l’autobiographie «générique». J’en ai retenu L’Inconnu sur la
terre, Le livre de fuites et Le Chercheur d’or.
Chez ces écrivains, si différents entre eux et pourtant si proches l’un de l’autre,
la notion de dépaysement devient une catégorie floue qui prête à la réinterpréta-
tion. J’ai donc insisté sur la fonction herméneutique de leurs repères mythiques et
imaginaires – Ulysse, Jason, Proserpine ou Quichotte – identifiés par les auteurs
eux-mêmes comme des modèles révélateurs de leurs expériences.

2. Les Roumains Errants

Mircea Eliade reste probablement le prototype moderne du Roumain errant. Il


a du constamment redéfinir son statut européen par rapport à ses origines rou-
maines, qui l’auraient identifié plutôt comme un Huron, hanté par la question
clef: «Comment peut-on être ce que l’on est ?» Tactiquement reformulée par Paul
Ambroise Valéry dans sa Préface aux Lettres Persanes, cette fameuse question
soulevée par Montaigne n’a jamais cessé de stimuler tel ou tel imaginaire collectif
à projeter des territoires originaires mémorables et des géographies symboliques
élaborées. Ne pas être perçus par les Européens comme de Bons Sauvages (Eliade
1955, 229-249) fut le rêve le plus précieux des Roumains, ravagés par un dilemme
dont la version tranchante lancée à Paris par Emile Cioran ne faisait que tirer au
clair: «Comment peut-on être Roumain ?»

40
C’est justement pourquoi au cours de leur histoire moderne – pour ou contre le
dépaysement, pour ou contre un européisme emphatiquement assumé – ils se sont
obstinés contre «… le ridicule de toute existence particulière», pour citer une fois
de plus Paul Valery (Valéry 1954, 514).
Eliade incite à l’insurgence contre un des cloisonnements spirituels les plus
redoutables: l’appartenance territoriale de quelqu’un. En supprimant à chaque
pas dans ses écrits la prégnance du lieu et oblitérant les distances, le Roumain
convertit le territoire dans une entité itinérante, inséparable de soi. Sous cet angle
de vue, il ferait sans doute un digne objet d’intérêt de la géographie culturelle la
plus récente.
Eliade conçoit sa propre existence suivant dans ses lignes générales un des
mythes européens exemplaires de l’errance. Je cite de son journal:
Chaque exilé est un Ulysse en route vers Ithaque. Toute existence réelle reproduit l’Odyssée,
le chemin vers Ithaque, vers le Centre. Ce que je découvre soudainement c’est que l’on offre
la chance de devenir un nouvel Ulysse à n’importe quel exilé. Mais pour s’en rendre compte,
l’exilé doit être capable de pénétrer le sens caché de ses errances: voir des signes et des sens
cachés, des symboles dans les souffrances, les dépressions, les dessèchements de tous les
jours. Les voir et les lire, même s’ils ne sont pas là. Si on les voit, on peut construire une
structure et lire un message dans l’écoulement amorphe des choses et le flux monotone des
faits historiques. (Eliade 1973, 317. Voir aussi Eliade 1998 et Eliade 1982)

La chance de chacun de se rendre intelligible à soi-même selon les termes d’une


herméneutique mythologique est la pierre de voûte de la pensée de Mircea Eliade.
Il semble donc confirmer l’hypothèse de C.G. Jung, qui tâche de nous convaincre
que le rationalisme moderne a mis le mythe à la porte de la raison, sans pour au-
tant le bannir totalement du règne de la conscience. Mais, avant qu’il ne l’adopte,
le Roumain interprète le mythe d’Ulysse d’une façon convenable. Car le regard
d’Eliade embrasse d’un seul coup le Centre et ses Périphéries. Et ce sont juste-
ment ces périphéries qui lui offrent le degré maximum d’ouverture.
C’est aussi la conclusion d’un essai qui a pour objet l’univers esthétique de
Brancusi, érigé par Eliade en paradigme de sa propre créativité paradoxale. Les
exégèses déjà consacrées à Brancusi – remarque Eliade – sont irréversiblement
divisées entre deux camps belligérants. L’un identifie l’artiste à l’univers formel
et axiologique de l’avant-garde parisienne de son temps. Tandis que l’autre s’ef-
force, tout au contraire, de cloîtrer la vision de l’artiste dans le monde archaïque
roumain d’où il descend:
Je relisais récemment le dossier de la passionnante controverse autour de Brancusi. Est-il
resté un paysan des Carpates, bien qu’ayant vécu un demi-siècle à Paris, au centre même de
toutes les innovations et révolutions artistiques modernes? Ou, au contraire comme le pense
par exemple le critique américain Sidney Geist, Brancusi est-il devenu ce qu’ il est, grâce aux
influences de l’Ecole de Paris et à la découverte des arts exotiques, surtout des sculptures et
des masques africains ? (Eliade 1986, 15)

41
Eliade ne fait preuve d’aucune sympathie pour les deux points de vue opposés.
D’après lui, l’évasion de Brancusi de son milieu originaire et son contact avec les
avant-gardes devraient être vus comme sa chance providentielle de descendre
dans son Moi profond, pour y récupérer ses racines.
Même si l’on accepte l’hypothèse de Sidney Geist sur le poids décisif de l’École
de Paris et, respectivement, sur le manque absolu d’influence de l’art populaire
roumain sur la formation de l’artiste, la solidarité des chefs-d’œuvre de Brancusi à
l’univers des formes plastiques et à la mythologie populaire roumaine reste pour-
tant évidente. Les pressions externes – conclut Eliade – auraient suscité une sorte
d’anamnèse de l’artiste, le conduisant implacablement vers une auto découverte.
Sa rencontre avec l’avant-garde parisienne aurait déclenché une catalyse et un
retour vers un monde secret, inoubliable: celui de son enfance et en même temps
celui de l’imaginaire profond.
Pour prouver ses allégations, Eliade nous propose de contempler la maison de
Brancusi. Ni avant-poste moderniste, ni habitation tout à fait paysanne, la fameuse
demeure de l’Impasse Ronsin lui semble avoir des fondations traditionnelles rou-
maines et en même temps le toit ouvert vers tous les horizons de l’esprit créateur.
Il serait difficile de ne pas y reconnaître le style d’une habitation paysanne et
pourtant il s’y agit de quelque chose de plus. Bâtie de ses propres mains, la de-
meure de Brancusi est l’emblème de son univers particulier et, en tant que telle,
on ne saurait la tenir ni pour réplique d’un modèle préexistent, ni pour la maison
typique d’un paysan roumain, ni pour l’atelier d’un artiste parisien d’avant-garde.
Son texte sur Brancusi reste un plaidoyer indirecte de l’auteur pro domo sua. En
étalant les paradoxes du sculpteur, Eliade nous parle de ses propres paradoxes et
incompatibilités, qu’il se donne grande peine à apprivoiser.
On admet couramment que nous n’habitons pas l’espace construit dans lequel
nous nous installons, car nous le transformons, en l’investissant de significations
et de souvenirs liés à d’autres lieux, dans lesquels nous avons vécu ou que nous
continuons à fréquenter, même de manière éphémère. Nous l’appréhendons éga-
lement à travers les significations sociales qui lui sont conférées par notre envi-
ronnement, même si nous n’y adhérons pas nécessairement. Nous reconstruisons
de fait sur un mode imaginaire l’espace dans lequel nous nous installons (Casto-
riadis 1975, 162). Isvor, le pays des saules, le livre préféré et à la fois le plus ac-
clamé de Marthe Bibesco, a comme scène ce que l’on appelle un espace construit:
une Roumanie profonde, censée illustrer un projet identitaire spécifique (Bibesco
1994. Voir aussi Stolojan 1993, 48-50).
La princesse Bibesco a été le rejeton d’une des familles aristocratiques rou-
maines transplantées en France grâce à une suite de mariages mixtes. Les Bran-
covan-Bibesco ont fait résonner leurs noms aux milieux culturels de Paris à
plus d’une occasion. La plus fascinante représentante en reste pourtant Marthe

42
Bibesco, descendante des princes byzantins – les Mavrocordat – mais en même
temps parente d’un général napoléonien, par sa belle-mère, la princesse de Ca-
raman-Chimay. Dans ses veines coulait le sang roumain, français, grec, italien
– et, par un long effort d’anamnèse, elle s’était remémorée l’histoire de toutes
les familles, de principautés et des peuples de l’Europe qui avaient partagé la
créativité de ses ancêtres – remarqua un de ses contemporains. Vue par Mircea
Eliade comme un témoin de l’avant-dernière Europe, elle avait fréquenté les sa-
lons parisiens, mais aussi les hommes politiques et les grands chefs militaires,
Ramsay Mac Donald, Neville Chamberlain et Winston Churchill (auquel elle
dédia une monographie). Partout en Europe et aux Etats-Unis, elle avait compté
parmi ses amis Marcel Proust, Paul Claudel, l’abbé Mugnier et maintes artistes,
savants, princes de l’Eglise. Apres la guerre, Charles de Gaulle lui remit la Légion
d’Honneur en guise d’appréciation pour sa création littéraire de langue française.
Jusqu’à la fin de sa vie, Marthe Bibesco avait publié plus de trente volumes, dont
quelque uns couronnés par l’Académie Française (parmi ceux ci: Au bal avec
Marcel Proust).
Isvor, le nom des terres roumaines de la narratrice, veut dire source. Il est
donc l’emblème d’un univers réfléchissant, tout comme la source révélatrice de
Narcisse. Marthe Bibesco, auteur et narrateur de ce texte, se lance en quête de son
riche identité de confluence où, croyait-elle, l’on aurait pu rejoindre les tréfonds
européens matriciels. Sa spiritualité amniotique – romaine, celte, slave, grecque,
etc. – ne la hante en France moins qu’en Roumanie. Et cette idée particulière
d’Europe Marthe Bibesco la voit s’incarner en elle-même, symbolisant la diffé-
rence, dans une unité absolue et indivisible.
Mis à part ses échos à Paris, le livre a joui d’une prompte et chaleureuse récep-
tion européenne: «Comment ne pas aimer la Roumanie, après Isvor ?», écrivait
Rainer Maria Rilke à son traducteur roumain. Certains de ses amis français on
cru découvrir dans Isvor le revers de l’existence cosmopolite de Marthe Bibesco
et de ses voyages assidus à travers l’Europe, en train, en voiture, en avion. Néan-
moins, pour le lecteur averti Isvor n’est pas l’antipode de l’Europe, mais un de ses
niveaux profonds de réalité, largement ignorés. Parmi les quelques Français qui
le comprennent bien, les deux écrivains Jérôme et Jean Tharaud, contemporains
de l’auteur: 
Les amis de la princesse Bibesco disent qu’elle vit à la façon de la déesse Proserpine, six mois
sur terre, six mois dessous. Ils veulent dire par là qu’elle mène six mois de vie parisienne et
que pendant six autres mois elle poursuit une existence mystérieuse, qu’ils n’imaginent pas
très bien, sur ses terres de Roumanie. Le livre qu’elle publie aujourd’hui, Isvor, le pays des
saules, va beaucoup les étonner, en leur faisant découvrir que ces longs mois où Proserpine
disparaît à leur regard, sont les plus brillants de sa vie, et que, dans sa retraite, elle fréquente
le plus beau monde: celui de la légende et de la rêverie populaire… (Eliade 1986, 72)

43
Ce n’est pas tellement le schéma mythique – celui de la déesse Proserpine – que
ses auteurs proposent à l’existence de Marthe Bibesco, qu’on doit retenir du pas-
sage précédent. Le personnage culturel dont il y est question se plie apparem-
ment à un scénario de l’ancienne mythologie européenne, mais uniquement pour
l’adapter à ses valeurs et à le déconstruire à sa propre façon. Pour l’auteur d’Isvor,
ses interludes biographiques fréquents ne sont ni des disparitions ni une mort,
mais des éloignements indispensables à toute prise de conscience définitoire. A
chaque pas, sur ses terres natales, la narratrice tombe sur des symptômes pré-
coces de l’européisme roumain.
C’est pourquoi le livre testamentaire de la princesse Bibesco (Bibesco 1960
et Bibesco 1976) jamais fini et partiellement publié à Paris, porte un titre symp-
tomatique, La Nymphe Europe. Mémoires. (Mes vies antérieures et Où tombe la
foudre). Cet ouvrage était censé prouver à Soi-même et à Autrui que rien n’aurait
pu faire d’elle une exilée en Europe. (On nous raconte qu’en sa jeunesse la prin-
cesse Bibesco avait rétorqué, indignée: «Rien ne pourra faire de moi une exilée
en France !»).

3. «L’Allemand ironique»

En ce qui le concerne, dans son journal de voyage (Mann 1960, 253-306), Thomas
Mann met systématiquement à nu les variables cachées du processus de construc-
tion de l’espace européen. Il est conscient, fort conscient de ce que les historiens
appellent les origines et le développement d’un espace, une entité culturelle que le
sens commun naturalise et prend pour une essence. Et il connaît aussi les enjeux
politiques de la construction d’une identité spatiale.
Aux fondements de la prétendue unité essentielle de l’espace européen, Mann
découvre une hostilité et une résistance tenace au «primitivisme» et a «la bar-
barie». Dans les commentaires de l’Allemand errant lecteur de Quichotte, des
épithètes comme civilisé et respectivement non-civilisé (en l’occurrence barbare)
abondent. Néanmoins, il admet et même il souligne qu’il s’y agit plutôt d’une
scission intérieure de l’européisme lui-même, que d’une polarité Européen versus
non-Européen. Quelquefois, Thomas Mann découvre cette fissure en lui-même
et dénonce cette véritable schizoïdie cachée dans sa «personnalité culturelle de
base» (pour recourir au jargon de la sociologie). Plus d’une fois il étale son désir
de se débarrasser de l’ainsi dite civilité européenne, au profit du primitivisme, de
l’irrationnel et de l’aventure:
S’exprime-t-il en moi aussi ce besoin «d’irrationnel» qui servit partout, ce culte dont mon
sens critique percevait pourtant si bien comme il est dangereux pour l’humanité, se prête à
tous les abus, contre lequel, par sympathie d’Européen pour la raison et l’ordre, je regimbais.

44
Non pas que je n’eusse, moi aussi, dans mon cœur le germe de ce que je combattais, mais bien
plutôt pour rétablir l’équilibre. (Mann 1960, 293)

Une fois éloigné d’une Europe en train de traverser un siècle de crises, l’écrivain
peut s’offrir le luxe de prendre ses distances par rapport à une polarité discutable.
Car pour lui civilisé et respectivement barbare ne sont que les deux moitiés dé-
chirées du même hybride culturel. L’écrivain est assez lucide pour comprendre
qu’au cœur même de la culture européenne est en train de survenir une tournure
barbare arrogante: la critique nietzschéenne des valeurs européennes canoniques
et par-dessus tout le nazisme.
La lecture appliquée et perspicace de Mann insiste sur les passages ou Cer-
vantès met en scène ses propres méditations sur des oppositions figées telles que
Européen / non-Européen. Il y souligne le fait que, par un habile tour de main, le
narrateur espagnol attribue le manuscrit de son livre à un auteur non européen,
le Maure Cid Hamet Ben Engeli. Ce qui revient à dire que Cervantès fait filtrer
les aventures de Quichotte par la grille d’un Etranger. La traduction de son texte
de l’Arabe en Espagnol est ainsi érigée en équivalant métaphorique d’un dialogue
entre l’identité autocratique et l’altérité non-Européenne. Grâce au fait que les
aventures de Quichotte sont contemplées et évaluées des points de vue opposés,
ce personnage est doué d’un symbolisme archi-culturel et même d’une identité
méta-européenne.
À un certain moment, Mann met aussi en vedette l’épisode du Maure Ricote,
l’ancien épicier du village de Sancho, lequel est captivant et important. En vertu
de l’édit de l’exil, le dit personnage a du quitter l’Espagne natale. L’objectivité et
la mesure que, d’après Mann, Cervantès prête aux pensées de cet homme si dure-
ment éprouvé, sont admirables: 
Hélas ! Où que nous soyons, nous pleurons l’Espagne, car enfin nous y sommes nées, c’est
notre terre naturelle. Nous espérions qu’en Barbarie et dans toutes les régions d’Afrique nous
serions accueillis et régalés; mais c’est là qu’on nous a fait le plus de mal et `maltraité le plus.”
Arrachés au sol de cette partie véritable et naturelle – poursuit Thomas Mann – ils seront
partout des étrangers, partout ils auront sur les lèvres les mots «chez nous», «chez nous, en
Espagne, c’était comme ceci et comme cela, et c’était mieux.» (Mann 1960, 294-295)

Perçu par les Européens comme le fils d’une terre barbare, le pauvre exilé souffre
d’une nostalgie symptomatique pour l’Espagne, une terre qui lui manque affreu-
sement et qu’il conçoit comme le vrai berceau de son identité. Une fois de plus,
des oppositions consacrées comme Soi-même/et Autrui, le même et le différent
sont mises en question et invalidées – par Cervantès ainsi que par Thomas Mann.
Ses propres errances en compagnie des fictions chevaleresques et d’un person-
nage imaginaire quasi-mythique permettent à Mann de parcourir des paliers tem-
porels successifs, car même si son exile volontaire a l’air d’un voyage en espace,
c’est d’une fuite dans le temps qu’il s’y agisse. Comme il l’a admis plus d’une fois

45
par la suite, son exile en Amérique a représenté un voyage dans le temps, vers
l’avenir encore imperceptible du vieux continent. Ce type de translation tem-
porelle remplace une distance usuellement perçue comme spatiale et identifiée
comme une «différence culturelle».
Pour l’écrivain allemand, la barbarie est plutôt une des dimensions profondes
de l’européisme, exorcisée et projetée à l’extérieur comme une Altérité. En s’exi-
lant il n’a pas l’air de s’éloigner de son Paradis perdu, dont il redoute le mal tumo-
ral. Il se met en route vers un Nouveau Monde, qu’au beau milieu de l’Atlantique,
il ne perçoit pas du tout comme la Terre promise, non plus. Le compte rendu de
Mann reste donc bien amer, car les réponses à ses questions troublantes ne sont
pas à trouver ni dans la proximité, ni dans l’éloignement d’un certain territoire.
C’est pourquoi il ne parvient guère à assumer sa propre «déterritorialisation» et,
de surcroît, ses options restent métonymiques pour toute une génération d’intel-
lectuels européens de son temps (Israeli 2000, 118-120).

4. La vie en Fuite.

Par rapport aux auteurs précédents, Le Clézio, lui, personnifie un âge culturel
postérieur, affrontant ses propres questions insolubles. Pour l’écrivain français
la terre veut bien dire La Terre. L’on pourrait même attribuer aux voyages de Le
Clézio et de ses personnages le nom générique de Fuites. C’est d’ailleurs le titre
d’un de ses romans, Le Livre des fuites, précédé par une épigraphe des Voyages
de Marco Polo. Son protagoniste, le jeune homme Hogan, est lui aussi un per-
sonnage générique: le «Huron» de l’Europe civilisée moderne. Il se met en route
dans une ville méditerranéenne anonyme et – du Cambodge au Japon, de New
York à Montréal et Toronto, en passant par la Californie et Mexico – il voyage, en
radiographiant l’univers et ses villes monstrueuses, ses autoroutes et ses déserts,
ses montagnes et ses ports, les grouillantes populations mourant de misère sur
des sols pourris.
Dans ses livres, Le Clézio s’adonne à une habile manipulation de très vieux
scénarios narratifs. Le livre des fuites reste particulièrement remarquable par la
densité parfois déroutante de ses schémas littéraires et mythiques, qui poussent
le récit en avant vers l’inconnu. Au-delà de cette trame compacte, le vrai noyau
épique reste la quête de la Toison d’or, qui implique maintes figures centrales de
la mythologie européenne: Orphée, Hercules, Jason, Médée, les Dioscures etc.
C’est surtout Le Chercheur d’or qui en tire le profit maximum. Ce roman au-
tobiographique sera doublé plus tard par un journal de voyage – Voyage à Ro-
drigues – ce qui ne fait qu’embrouiller les limites génériques de son écriture (Le
Clézio 1985 et 1986).

46
Avant sa mort, le père du narrateur, nommé Alexis, a rassemblé des documents
relatifs à l’or du Corsaire, à Rodrigues, une île volcanique perdue dans l’océan
Indien. Le protagoniste Alexis part pour Rodrigues y entreprendre une recherche
qui, au fil des jours, devient de plus en plus chimérique. À la fin de ses aventures,
Alexis comprend bien que «sa folle quête de l’or du Corsaire ne pouvait se ré-
soudre qu’au fond de lui».
Les personnages de l’écrivain français ne s’intéressent point aux dilemmes
identitaires ou à l’un des thèmes canoniques du voyage et de la quête territoriale:
Soi-même versus l’Autre (Brée, 1990). Ils ne sont que de simples êtres humains ou
bien, pour reprendre un des titres de l’écrivain, des Inconnus sur la Terre: «Ceci
est peut-être aussi, tout simplement l’histoire d’un petit garçon inconnu qui se
promène au hasard sur la Terre, pas loin de la mer, un peu perdu dans les nuages,
qui aime la lumière extrême du jour.» (Le Clézio 1978, 243)

Conclusions

Au fil du temps, une longue série de «déterritorialisations» par rapport à un lieu


matriciel a engendré une tradition culturelle vénérable, consacrée par des adages
comme celui des Psaumes, qui est devenu l’écho symbolique des communautés
diasporiques du monde entier: «Auprès des fleuves de Babylone,/ Là nous étions
assis et nous pleurions.»
Des Roumains comme Eliade ou Marthe Bibesco le défient, en lui proposant
de solutions alternatives. Décidés à faire voir qu’ils pouvaient vivre et créer en
Européens où que ce soit, ils se sont éloignés de leurs terres matricielles, vers
des horizons pus larges et plus provocants où ils ont mené une vraie vie d’er-
rance culturelle. Ils ont complètement renouvellé le répertoire traditionnel de la
diaspora roumaine, dominé par le cliché du Paradis perdu. Pour eux, l’exil n’est
plus une chute de l’Eden, mais plutôt un éloignement symbolique, ayant un rôle
auto révélateur et formatif. Chacun à sa propre manière, ils s’adonnent à des
analyses détaillées de leur appartenance simultanée à des systèmes culturaux
différents. Leur territoire d’origine reste une permanence axiomatique, jamais
périphérique ou marginale: un «axis mundi» (l’axe du monde), pour citer Mir-
cea Eliade.
Leur expérience particulière entraîne un changement radical de signe culturel
de l’exil roumain. Son système consacré de repères – bibliques, nationalistes,
messianiques, dont la teinte régressive et nostalgique est évidente – est remplacé
par des significations radicalement différentes, dont les valeurs pertinentes sont
la contemporanéité, le sens de l’appartenance à une patrie intellectuelle cosmopo-
lite et surtout l’absence de toute infériorité provinciale.

47
Traditionnellement, une communauté s’invente et se définit aussi bien de nou-
veaux modes de réponse à ses besoins que de nouveaux besoins. Cette invention
permanente est liée au fait que ses actes réels sont impossibles en dehors d’un
réseau symbolique. Dans une telle perspective, c’est avant tout le dialogue avec
Autrui qui met l’identité en vedette (Bonetti 1994, 16). Purement symbolique, la
citoyenneté européenne des deux Roumains rend irrelévants des détails topogra-
phiques comme l’éloignement permanent ou temporaire de leur territoire d’ori-
gine. Pour eux, l’Europe préserve une dimension mythologique et idéologique
essentielle.
Pour ce qui est de Thomas Mann, il dépose le bilan le plus précis de l’euro-
péisme moderne et il nous offre la plus lucide évaluation de l’éloignement territo-
rial. Car, d’un point de vue épistémologique, le «territoire» correspond à l’espace
socialisé, à la construction intellectuelle de «l’espace géographique». L’Allemand
exilé sait fort bien que le sens de ce terme est à la fois d’affirmer le caractère
social de l’objet et d’éviter de confondre le réel avec le discours qui tente d’en
construire l’intelligibilité. Sa lecture itinérante des aventures de Quichotte n’est
en fin de compte qu’une subtile exégèse de ce type de discours.
À propos de sa manière alambiquée de s’exprimer et d’inciter à une lecture
plurielle dans tous ses écrits, Marguerite Yourcenar remarque à juste titre:
La phrase de Mann, cette phrase un peu lente, parfois lourdement descriptive, traînant avec
elle dans le dialogue des précautions oratoires et des formules courtoises d’un monde révolu,
est moins hermétique qu’exégétique. Cette marche prudente, qui n’aborde un point que quand
le précédent a été correctement épuisé, cette thèse qui contient perpétuellement en soi sa
propre antithèse, rappelle à la fois les procédés scholastiques et ceux de la scholie humaniste.
L’explication discursive s’arrête là ou elle ne serrait plus que didactisme vulgaire; le mythe
la relaie. Enrobé dans la gangue épaisse de la vie journalière, fait pour être aperçu seulement
par un regard attentif, le mythe est chez lui une explication plus cachée. (Yourcenar 1973,
105-106)

Pour faire exprimer la tension appartenance versus altérité territoriale, suréva-


luée une bonne partie du vingtième siècle, le thème du dépaysement s’avère un
canevas généreux. Le Clézio et ses alter egos se mettent avec désinvolture en
mouvement pour transgresser – non sans une certaine mélancolie – les confins
méditerranéens du vieux continent. Jean-Marie Gustave Le Clézio se laisse atti-
rer exclusivement par le voyage dans un espace nommé La Terre tout court. «La
terre – on nous explique dans les bouquins des géographes – est un terme très
polysémique. Les différences de sens correspondent souvent à des changements
d’échelle dans les rapports de l’être humain à l’espace. À l’échelle des kilomètres,
la terre est une étendue, souvent possédée et identificatoire. À l’échelle de l’Uni-
vers, pour l’homme, en tant qu’homme, la Terre est sa planète.» (Lévy, Lussault
2003, 906. Voir aussi Soubryan 1997)

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Paradoxalement dans une telle perspective parcourir la Terre veut dire trans-
gresser toute différence entre Soi-même et Autrui. Car, à l’échelle de l’Univers, la
terre devient vraiment individuelle.
Bibliographie

Bibesco, Marthe (1994): Isvor, le pays des saules, Paris, Christian de Bartillat
éditeur.
Bibesco, Marthe (1960): La Nymphe Europe, I, Mes vies antérieures, Paris, Plon.
Bibesco, Marthe (1976): La Nymphe Europe, II, Où tombe la foudre, Paris, Gras-
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Bonetti, Michel (1994): Le bricolage imaginaire de l’espace, Paris, Desclée de
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Brée, Germaine (1990): Le monde fabuleux de Le Clézio, Amsterdam, Atlanta
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Castoriadis, Cornelius (1975): L’institution imaginaire de la société, Paris. Ed.
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Eliade, Mircea (1955): «Le mythe du Bon Sauvage», Nouvelle Revue Française,
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Eliade, Mircea (19860: «Marthe Bibesco et la Nymphe Europè», dans Briser le
toit de la maison. La créativité et ses symboles, Paris, Gallimard, 67-79.
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Israeli, Nico (2000): Outlandish. Writing Between Exile and Diaspora, Stanford,
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50
Emigrazione e immigrazione: mappe letterarie a confronto
Sebastiano Martelli
Università da Salerno

Abstract

La nuova letteratura italiana dell’immigrazione si pone come questione significativa su un duplice


versante. Da un lato essa attiene alla transizione sociale e culturale del nostro paese verso un model-
lo di società multiculturale e interculturale; dall’altro sollecita l’apertura di un discorso sul canone
della letteratura italiana contemporanea, su una sua ridefinizione a confronto con le nuove scritture
italofone. Il paradigma critico centrale della relazione è costituito da una progettualità comparatisti-
ca tra la letteratura dell’immigrazione e quella dell’emigrazione, tra le scritture prodotte nell’ultimo
ventennio dagli autori immigrati e quelle concernenti la grande emigrazione di massa, che ha segna-
to profondamente la società italiana a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento. In tale progettualità
oltre che rientrare un inevitabile confronto delle scritture migranti con la complessiva tradizione
letteraria italiana per rilevarne interferenze e contaminazioni si può realizzare uno specifico per-
corso critico comparatistico sulle tipologie letterarie e tematiche che la letteratura italiana dell’emi-
grazione ha in gran parte praticato per oltre un secolo. Se la letteratura dell’immigrazione pone
prioritariamente il problema di una rinegoziazione dell’identità, non si può negare che proprio l’emi-
grazione ha svolto un ruolo non secondario nella formazione dell’identità italiana post-unitaria e in
questo processo storico la letteratura – come è avvenuto fin dalle origini – è stata il vettore prima-
rio della fondazione e costruzione dell’identità nazionale. La letteratura dell’emigrazione aveva già
sperimentato tipologie linguistiche e letterarie alimentate da stratificazioni antropologico-culturali
e segnate da processi di contaminazione e ibridazione che attingono ad un vissuto dimidiato e pla-
smato dal viaggio, dall’erranza, dal dépaysement, dall’incontro/scontro tra culture e lingue diverse,
da un universo variegato di emittenti; testi segnati dal “contagio culturale” e dal “doppio sguardo”
propri delle scritture migranti. Il percorso comparatistico non riguarda solo le scritture prodotte dai
protagonisti del viaggio migratorio, ma anche la complessiva letteratura italiana dell’emigrazione,
come essa ha percepito e rappresentato il grande esodo migratorio e quale immaginario ha messo
in circolazione nella società e nella cultura italiana; senza trascurare la letteratura prodotta dagli
emigrati italiani di prima e seconda generazione nei paesi di approdo. Un tale percorso critico può
risultare un utile contributo a muoversi nello scenario contemporaneo che ibrida passato e presente,
centro e periferia, cultura nazionale, culture regionali e altre culture, lingua, dialetti e altre lin-
gue, letteratura nazionale e altre letterature; da esso possono venire indicazioni significative per la
costruzione di una identità plurima, inevitabile approdo di una cittadinanza moderna nella nuova
società europea multietnica e multiculturale.

In un quadro di lunga durata, che tuttora permane, identità e migrazione sono


stati in genere percepiti e vissuti come fattori di contraddizione, «quasi un ossi-
moro»: «l‘identità tradizionalmente concepita come definizione di caratteri che
concorrono a strutturare un‘unicità e ad escludere per differenza tutto ciò che
non si assimila a quel modello; la migrazione, intesa come abbandono di luoghi di
tradizione e occasione di contatto, confronto, scambio. Identità, insomma, come

51
affermazione di certezze e delimitazione di confini; migrazione, come supera-
mento di confini e ingresso in un terreno di relatività e di relazionalità» (Lom-
bardi 2010, 187).
Non è un caso che in epoca di nazionalismi in Europa tra Ottocento e Nove-
cento tale contraddizione abbia subìto una forte lievitazione tanto da diventare
incompatibilità totale; si pensi in Italia alle elaborazioni politico-ideologiche e
culturali (dalla letteratura al teatro al cinema) del nazionalismo corradiniano, tra-
ghettato poi nel Fascismo, in tema di emigrazione vista come rischio di perdita
dell‘identità nazionale fino al punto da prefigurare il necessario bagno di sangue
della grande guerra come purificatore dell‘identità italiana contaminata dall‘emi-
grazione: solo con il ritorno in patria e sottoponendosi a tale rito purificatore gli
emigrati avrebbero potuto riconquistare la purezza identitaria.
La storia dell‘emigrazione italiana, come sappiamo, ha dimostrato che le cose,
per fortuna, sono andate diversamente, che proprio l‘emigrazione ha rappresen-
tato uno «stigma significativo» dell‘identità italiana non solo fuori d‘Italia ma nel
nostro stesso paese andando a incidere nei suoi processi di trasformazione sociale
e culturale. Negli studi sull‘emigrazione occorre, dunque, uno sguardo bifocale
puntato da un lato sul mondo di arrivo e di insediamento: come l‘identità del
migrante sia stata percepita e codificata nella società che lo ha accolto; in termini
di contrapposizione fino al rifiuto del migrante come straniero, ma anche di rela-
zione e di integrazione; l‘altra lente focale deve essere puntata invece sulla società
di partenza su cui le indagini hanno spesso privilegiato esclusivamente i risvolti
economici e la tranche de vie della integrazione, trascurando quelli antropologici,
culturali, linguistici, simbolici, che anche nella patria d‘origine sono sottoposti
a trasformazioni a causa dell‘esodo. L‘emigrazione ha ricadute molteplici nella
società da cui si parte e lo stesso emigrato, anche se lontano, «determina in ogni
caso dei mutamenti nella società d‘origine, dalla quale si distacca senza interrom-
pere il flusso delle relazioni» (Lombardi 2010, 188-192).
La Grande Emigrazione italiana palesa «un complesso di dinamiche, di intrec-
ci e di vissuto che si muove lungo l‘intera parabola dell‘esperienza migratoria»:
«partenza e allontanamento, ma anche ricordo, relazione affettiva e di interessi,
ritorno e costanza di influssi e condizionamenti verso le situazioni di partenza»;
è stata transito di culture (nazionale, regionali, dialettali) verso i nuovi paesi di
immigrazione, nei quali si sono verificati originali processi di contaminazione e
di ibridazione. L‘emigrazione è stata tutto questo, e anche l‘immigrazione oggi
in Italia è tutto questo, ed entrambe significano «cambiamento delle condizioni
date, relazione, molteplicità [...] messa in discussione del particolare, dell‘angu-
sto, dell‘isolato [...] sfida, anche inconsapevole, alla pretesa di monumentalizzare i
valori intorno ai quali un gruppo si raccoglie e di trasmetterli in modo meccanico
alle generazioni successive» (ibidem).

52
L‘intreccio tra fatti socio-antropologici e linguistici dei processi migratori, ge-
nerando e modificando codici, simboli, sistemi valoriali ha segnato profondamen-
te lo Stato unitario; se nelle comunità di partenza l‘emigrazione ha determinato
dinamiche e nuovi assetti sociali e linguistici, parallelamente cambiamenti lin-
guistici profondi, a volte segnati da traumatici shock linguistico-culturali, hanno
segnato uomini, famiglie, comunità degli italiani nelle società di immigrazione.
I due processi non sono separabili poiché attraversati da flussi interattivi per cui
le comunità italiane all‘estero oltre che confrontarsi e scontrarsi con le lingue e
le culture dei paesi di accoglienza mantengono legami con la patria d‘origine e
contribuiscono a cambiare i suoi assetti sociali, linguistici, culturali.
L‘intersecarsi e contaminarsi di universi, codici e differenti sistemi simboli-
ci e valoriali generati dall‘emigrazione hanno avuto ricadute sulla costruzione
dell‘identità italiana postunitaria e nello stesso tempo sull‘immaginario che del
nostro paese si è andato diffondendo fuori d‘Italia. Ecco allora che «diventa im-
perativo cercare di tenere uniti in una stessa prospettiva i processi linguistici che
hanno riguardato l‘Italia entro i suoi confini nazionali e quelli che hanno coinvol-
to i milioni di italiani che hanno lasciato il paese»; insomma occorre analizzare
questi fenomeni con «una prospettiva unificante» (Vedovelli 2011, 23).
In questo quadro teorico e metodologico la letteratura dell‘emigrazione – sia
quella scritta dai migranti sia quella prodotta sui migranti – occupa un posto non
secondario, non solo perché «è il luogo dove si sono generati moduli specifici di
espressione, e dove hanno avuto la dignità di assunzione nel campo letterario
fenomeni linguistici che altrimenti sarebbero rimasti relegati nel folclore dei mi-
scugli linguistici» (Vedovelli 2011, 30), ma soprattutto perché essa è stata nell‘Ita-
lia postunitaria un grande ricettore e medium di realtà e di immaginario e le sue
rappresentazioni del fenomeno costituiscono un materiale di significativa valenza
per leggere i processi storico-politici, sociali e culturali che attraversano il nostro
paese a partire dagli anni ottanta dell‘Ottocento1.
Per questo la letteratura dell’emigrazione richiede un approccio critico che
metta in campo preliminarmente la storia ed insieme attraversamenti pluridisci-
plinari e comparatistici, i soli che consentano una lettura produttiva di scritture in
molti casi di scarso valore estetico e narrativo e comunque a forte contaminazio-
ne di generi, linguaggi, culture e immaginari diversi, soprattutto quelli che inglo-
bano le esperienze e il vissuto migratorio percepito e rappresentato dagli stessi
protagonisti. È il caso delle autobiografie che più di altre scritture consentono di
verificare quasi al vivo i percorsi identitari degli emigranti.

1 Cfr. Martelli (1994); Massara (1984); Franzina (1992); Franzina (1996); Marchand (1991);
Chiellino (1995); Martelli (1998); Martelli (2001); Martelli (2004a); Martelli (2002a); Martelli
(2002b); Martelli (2003); Martelli (2004b); Martelli (2004c); Martelli (2005); Martelli (2006);
Martelli (2007); Chiellino (2008); De Nicola (2008); Martelli (2008); Martelli (2009a); Martelli
(2009b); Martelli (2010b).

53
L’emigrante del grande esodo otto-novecentesco prima di altre figure spe-
rimenta la «configurazione culturale […] tipica della condizione postmoderna;
l’esperienza dei non luoghi, della perdita di senso e di funzione dell’appartenen-
za» (Signorelli 1994, 26-27), come emerge soprattutto dalle autobiografie e dalle
lettere;2 la letteratura dell’emigrazione italiana nel mondo «ha rappresentato, già
durante tutto il Novecento, una prima forma di Nuovo Planetario Italiano, una
illustrazione cioè della “creolizzazione” concettuale e formale della letteratura
italiana a contatto con le lingue e le culture di tutti i continenti, e, al di là della
letteratura, un confronto dei concetti tradizionali italiani con una visione molto
più aperta e variegata del mondo» (Marchand 2006, 466).
Alla letteratura italiana – diversamente da quanto è accaduto per le altre let-
terature europee – è mancato il grande romanzo dell’emigrazione, ciononostante
è possibile disegnare una mappa delle rappresentazioni letterarie di questo fe-
nomeno storico, in cui entrano tutti i generi della scrittura letteraria italiana a
cominciare da quella egemone, come dimostrano De Amicis, Capuana, Pascoli,
Pirandello e diversi scrittori del Novecento: da Bontempelli a Silone, da Alvaro
a Jovine a Carlo Levi, La Cava, Scotellaro, Rimanelli, Strati fino alla nuova
stagione dell’ultimo quindicennio ancora non esaurita (Martelli 2001, 433-487).
Insomma la semiosfera dell’emigrazione italiana è un capitolo utile da attraver-
sare per verificare quale ascolto il più grande fenomeno storico-sociale dell’Italia
moderna ha avuto nella nostra tradizione letteraria e il ruolo che la letteratura
prima da sola, poi insieme al cinema, ha avuto nella formazione dell’immaginario
migratorio e del collegato immaginario americano così pervasivo ed egemone
nell’ultimo cinquantennio3.
C’è poi il capitolo della letteratura dell’emigrazione prodotta in lingua italiana
o nelle lingue dei paesi di accoglienza: al primo posto ovviamente la letteratura
italo-americana che nell’ultimo quindicennio ha ricevuto un‘attenzione notevole
di critica4 e di pubblico; si pensi alla riscoperta di uno scrittore come John Fante.
Scrittori italoamericani, tra cui John Fante, Pietro Di Donato e quelli della gene-
razione successiva come Mangione, Puzo, Talese, Barolini pongono in discussio-
ne la reale incidenza dei modelli letterari italiani: si tratta di scrittori per i quali
più che la tradizione letteraria italiana egemone hanno contato il melodramma, il
teatro dialettale, la canzone e soprattutto il background familiare antropologico-
culturale e dialettale.
Oggi siamo davanti ad un nuovo capitolo delle scritture di emigrazione: la
letteratura italofona degli immigrati, scrittori di madre lingua non italiana che,
stabilitisi in Italia, hanno scelto l’italiano come «lingua espressiva della propria

2 Cfr. Franzina (1992, 113-241); Cattarulla (2003); Martelli (2010b).


3 Cfr. Martelli (2006, 163-189); Meda (2011), Marazzi (2011).
4 Cfr. Durante (2001-2005); Marazzi (2001); Marazzi (2011); Romeo (2006).

54
creatività» (Paccagnini 2002, 1045). Un fenomeno, quello della nuova letteratura
italofona della immigrazione che, iniziato a partire dal 1990 – è questa la data su
cui concordano gran parte dei critici riferendosi al libro di Salah Methnani e Ma-
rio Fortunato, Immigrato e a quello di Pap Khouma e Oreste Pivetta, Io venditore
di elefanti – va assumendo di anno in anno dimensioni sempre più consistenti:
la Banca Dati Basili (Banca Dati Scrittori Immigrati in Lingua Italiana) fondata
da Armando Gnisci registra oltre trecento scrittori; anche i cataloghi di grandi
editori ormai sono aperti agli scrittori immigrati, mentre piccoli e medi editori
hanno creato collane dedicate a scrittori italofoni5.
Un fenomeno che in un primo tempo ha avuto in Italia una attenzione critica
limitata se si escludono i numerosi interventi, a partire già dai primi anni novan-
ta, di Armando Gnisci6, mentre all’estero un più forte interesse si riscontra da
parte della critica accademica in particolare negli Stati Uniti dove, a partire dagli
anni novanta, sono apparsi studi pubblicati da alcune University Press7. Occorre
aggiungere però che si va dispiegando anche in Italia una diversa attenzione negli
ultimi tempi sia da parte della critica accademica che militante8. Come tutte le
scritture migranti, anche quelle della letteratura italiana dell’immigrazione sono
narrazioni «eccentriche» (Sabelli 2007, 171-178), deterritorializzate rispetto al
canone letterario, prodotte da migranti che si collocano «tra più territori, tra più
forme, tra più case, tra più lingue» (Said 1998, 364): una letteratura che in paesi
come l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti ha svolto e svolge un ruolo spesso
determinante di innovazione, sperimentazione e di messa in discussione del ca-
none, e che anche in Italia potrebbe avere un effetto destabilizzante sul nostro
canone letterario tanto più alla luce della progressiva emarginazione del nostro
patrimonio letterario, della sua «devalorization» e riduzione al «silenzio», per
dirla con Steiner, dell’impoverimento e della omologazione della nostra lingua,
sia letteraria che della comunicazione (Steiner 2006).
Le nuove scritture dell’immigrazione presentano tipologie linguistiche e let-
terarie alimentate da stratificazioni antropologico-culturali altre, segnate da pro-
cessi di contaminazione e ibridazione che attingono ad un vissuto dimidiato e
plasmato dal viaggio, dall’erranza, dalla scissione, dall’incontro/scontro tra cul-
ture e lingue diverse, da un universo caotico di emittenti.
5 Si può vedere ora l’utilissimo Montaldi, Romano (2010).
6 Cfr. Gnisci (1991); Gnisci (1992); Gnisci (1996); Gnisci (1998a); Gnisci (1998b); Gnisci (1998c);
Gnisci (1999); Gnisci (2001); Sangiorgi (2002); Gnisci, Moll (2002); Adamo (2007); Traversi,
Ognissanti (2008); Monti, Pelizzari (2007); Sinopoli (2008); Sinopoli (2004); Gnisci (2006b);
Taddeo (2006); Derobertis (2007).
7 Cfr. Vanvolsem, Musarra, Van Den Bossche (1995); Parati (1997b); Parati (1997c); Ruberto
(1997); Vanvolsem (1998); Galli Mastrodonato, Dionisi, Longo (1999); Matteo, Bellucci (1999);
Parati (1999); Burns (2001); Matteo (2001); Baraldi, Gnocchi (2001); Vitti, Morosini (2003);
Sangiorgi (2004); Burns, Polezzi (2003); Parati (2005); Matteo (2007); Burns (2002).
8 Per un primo panorama critico cfr. Sinopoli (2006); cfr. il già citato Montaldi, Romano (2010).

55
Si profilano nuovi scenari che potrebbero offrire alla nostra letteratura possi-
bilità di «riossigenare, rinvigorire la nostra odierna stanca e spesso sclerotizzata
espressività letteraria non solo o non tanto a livello tematico, quanto piuttosto di
immaginario narrativo, e anche di soluzioni stilistiche, tramite questi contributi
che possono concorrere a scomporre e forsanche a sgonfiare diversi stereotipi»
(Paccagnini 2002, 1062) sia letterari che umani e sociali. Si può, insomma,
prevedere e auspicare un tempo in cui la nostra tradizione letteraria entri in
un confronto vivificatore con lingue e universi antropologico-culturali altri: la
multiculturalità e l’interculturalità possono condurre «attraverso un percorso di
ibridazione, a un profitto espressivo: che mira non solo a una nuova espressione
linguistica in quanto meticciato lessicale, ma piuttosto alla produzione di una lin-
gua italiana che si piega, più che al lessico, soprattutto alle strutture sintattiche, e
in particolare alla sintassi mentale delle nuove provenienze culturali» (ibidem).9
Si pone allora una necessaria nuova progettualità: come mettere in comuni-
cazione questa letteratura delle migrazioni con il patrimonio della tradizione
letteraria del nostro paese, come farla interagire con essa e far sì che la nostra
tradizione possa ricavare nuovi usi, riusi, rivitalizzazioni dall’incontro con questa
letteratura migrante, così come è avvenuto per le letterature coloniali e postcolo-
niali di Inghilterra e Francia e per quella nordamericana.
Un panorama letterario che rompe i confini tradizionali, impone un allarga-
mento e una ridefinizione del canone sulla base di un criterio non esclusivamen-
te estetico e italocentrico: inevitabilmente nei prossimi anni saranno proprio le
scritture prodotte altrove – siano esse in lingua italiana o in altre lingue legate
all’emigrazione – insieme a quelle degli immigrati italofoni ad imporre una ride-
finizione del canone della letteratura italiana, non solo di quella contemporanea.
La perdita della centralità che la letteratura ha subìto nell’ambito delle scienze
umane e la collegata marginalità dell’uomo di lettere, il contrasto tra la cultura di
massa e la tradizione letteraria, l’avvento di una società multietnica a confronto
con l’identità nazionale, le rivendicazioni a favore delle letterature regionali e
dialettali impongono una revisione del canone, non sottovalutando i rischi di una
oscillazione tra dogmatismo e nichilismo (Battistini 2006).
Se è vero che nel canone letterario, oltre che essere definiti i diversi modi di
rappresentazione e le poetiche, stanno anche «i valori identitari che danno forma
alla comunità, e a ogni soggetto che ne fa parte. Non solo quelli estetici, ma anche
quelli etici […], il tragitto di formazione che definisce i tratti dell’appartenenza
alla comunità, il senso stesso dell’appartenenza […], l’ethos così come l’ethnos»
(Domenichelli 2010, 18); se la nostra identità culturale stessa, «quella autoctona
come quella acquisita, è nel canone, in quelle parole, in quei nomi, in quella idea
di bellezza, in quella nostalgia di memoria, nei suoni della lingua madre, cer-
9 Cfr. anche Prete, Barile, Feroldi (2009); Camillotti (2008).

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to, ma anche nella lingua d’esilio ed esiliante» (Domenichelli 2010, 38); e se è
vero che viviamo tempi di «diffuso e contradditorio sconfinamento materiale e
simbolico e di profonda ridefinizione delle mappe culturali» (Fasce 2004, 153),
allora il canone letterario è destinato a subire vere e proprie mutazioni. Nel nuovo
canone probabilmente entreranno nuove tipologie di testi che modificheranno il
concetto stesso di letterarietà e costringeranno la critica a inoltrarsi in territori
non garantiti; la comunicazione imporrà, come sta già imponendo, una dialogici-
tà interculturale e una dilatazione linguistica che si tradurranno necessariamente
in testi ibridi che entreranno nel canone allargando e modificando lo spazio del
letterario. In questo quadro anche i testi della letteratura dell’emigrazione otto-
novecentesca acquistano nuove valenze, poiché in essi già troviamo eterogeneità
e forte contaminazione di materiali, modelli e generi letterari che richiedono un
approccio euristico pluridisciplinare e un metodo critico che sappia muoversi nel
bosco di una letteratura creola, fortemente connotata in senso storico, sociologi-
co e antropologico e che realizzi delle mappe in cui sono segnati confini e spazi
propri.
Dunque nella produzione letteraria in lingua italiana del nostro paese si va
incuneando un «Nuovo Immaginario», alimentato dal fenomeno dell’immigra-
zione esploso in Italia e in Europa nell’ultimo ventennio e che trova espressione
già in centinaia di opere – narrativa, poesia, autobiografie – di scrittori migranti
italofoni. A queste scritture possiamo affiancare quelle degli scrittori italiani che
nelle loro opere rappresentano personaggi, vicende, condizioni di questa umanità
migrante approdata in Italia. Nel nuovo immaginario confluiscono le scritture di
entrambi – scrittori italiani e scrittori non di madre lingua italiana della migra-
zione – creando nuove contaminazioni e necessariamente ponendo il tema del
rinnovamento del canone e del riuso della nostra tradizione letteraria e culturale.
In questa prospettiva lasciano perplessi alcuni paradigmi critici come «decolo-
nizzazione», usata da Gnisci10 e da altri studiosi per indicare il ruolo che questa
nuova letteratura deve avere rispetto al patrimonio letterario e culturale del nostro
paese, una definizione caricata di devianti significati e usi politico-ideologici.
Nel nuovo scenario si pone il problema di come attivare un circuito tra il siste-
ma letterario italiano e la letteratura italiana della migrazione; sicuramente è da
privilegiare un metodo comparatistico svolto in «modo contrappuntistico» – per
usare il paradigma critico di Edward Said – avvicinando lingua, materiali e punti
di vista geneticamente diversi ma piegati ad una progettualità dell’incontro inevi-
tabile. Una dialettica centro/periferia diversa da quella dionisottiana di Geografia
e storia della letteratura italiana, poiché si tratta di storia e geografia composite:
«territori che si sovrappongono»11 tanto che per le scritture migranti si può par-

10 Gnisci (2003); Gnisci (2004a); Gnisci (2004b); Gnisci (2006a).


11 Said (1998, 29); cfr. Derobertis (2009, 87-120); Sinopoli (2009b, 215-236).

57
lare di un «terzo spazio»,12 segnato dalla perdita del centro, dalla «eterogeneità»,
dalla «transitorietà», dalla «ibridità», dal «continuo attraversamento», dall’«in-
terscambio» e dalle «frantumazioni identitarie».
Il limite di gran parte della critica sulle scritture migranti – che annovera
ormai performances spesso brillanti e accattivanti e, nel caso di Gnisci, un in-
discusso merito “storico” – è quello di ruotare continuamente, quasi un moto
perpetuo, intorno all’asse ideologico e politico culturale con un uso egemonico e
unidirezionale di Said e di certa critica nordamericana dei Cultural Studies. Tutto
ciò rischia di fuorviare la peculiarità e complessità delle scritture migranti e di
emarginarle dal quadro letterario nazionale che invece deve aprirsi ad inglobarle
mettendo in discussione il proprio canone. Ma questo si può ottenere attraverso
un approccio critico fondato su un equilibrato uso di paradigmi critici ad ampio
spettro disciplinare, in cui è inevitabile il rapporto con la tradizione letteraria e
linguistica nazionale e il confronto con le esperienze delle letterature coloniali
e postcoloniali ma anche con le letterature generate dalla grande emigrazione
italiana otto-novecentesca nelle Americhe e in Europa.
Lo stesso Gnisci in uno dei suoi primi lavori aveva indicato alcune linee di un
possibile profilo della letteratura italiana della migrazione collegando le scritture
degli emigrati italiani con quelle degli immigrati e sottolineando che la lette-
ratura italiana dell’emigrazione «inizia con le migrazioni di intere popolazioni
di italiani verso tutto il mondo alla ricerca di lavoro a partire dall’immediato
periodo post-unitario e trova il suo completamento nella letteratura scritta dagli
immigrati, venuti in Italia da tutto il mondo in cerca di lavoro, a partire dall’ulti-
mo decennio del XX secolo» (Gnisci 2003,79).
Un‘assai encomiabile prospettiva ma con il limite di escludere le rappresen-
tazioni che del fenomeno dell’emigrazione di massa sono state realizzate nella
letteratura italiana e in quella di approdo, in particolare di emigrati di prima e
seconda generazione. È venuta dunque a mancare un’analisi comparata dei due
«pannelli» del «dittico» – per usare l’espressione di Marchand – facendo venir
meno l’«insieme inscindibile fra letteratura dell’emigrazione italiana nel mondo
e di immigrazione in Italia dal mondo» (Marchand 2006, 469). C’è da dire però
che anche la posizione di Marchand ha lo stesso limite delle indicazioni di Gnisci,
quello di escludere la letteratura sul fenomeno dell’emigrazione prodotta in Italia
a partire dalla fine dell’Ottocento.
Ed invece un sostegno importante ad una prospettiva critica e metodologica
che metta in campo un‘analisi parallela ed incrociata della letteratura dell‘emi-
grazione e quella dell‘immigrazione viene dagli studi linguistici, che utilizzan-
do anche i modelli della Migrationslinguistick (cfr. Krefeld 2004) introducono
il concetto di «spazio linguistico italiano globale» al fine di ricostruire «una
12 Cfr. Bhabha (1990); Bhabha (2001).

58
visione unitaria» delle vicende linguistiche, quelle concernenti la società italiana
e le comunità italiane nei paesi dell‘emigrazione di massa otto-novecentesca, ma
anche «il nuovo polo delle lingue immigrate ormai stabilmente entrato nei nostri
panorami idiomatici» (Vedovelli 2003, 23-24).
Ma c‘è di più: come giustamente nota Vedovelli, il «ricomporre in un quadro
unitario i fatti linguistici» generati dall‘emigrazione otto-novecentesca, sia nella
società italiana che nelle comunità createsi nei paesi di destinazione, e confron-
tarlo con quelli originati dalla nuova immigrazione «permette di dare spiegazio-
ni» ai cambiamenti degli assetti linguistici e alle tensioni identitarie in corso nel
nostro paese, «la cui descrizione e interpretazione rischiano di rimanere parziali,
se non li si riconduce a processi, ragioni, contesti, cause collocati più addietro nel
tempo e forse potenzialmente presenti anche agli albori degli spostamenti migra-
tori italiani di fine Ottocento» (Vedovelli 2003, 25).
Tra i lavori più utili sulla letteratura dell’immigrazione certamente sono da
annoverare quelli che con metodo comparatistico realizzano analisi dei testi fina-
lizzate a rilevarne gli aspetti linguistici e letterari a confronto con quelli della let-
teratura nazionale (Perrone 2009, 463-504) e la loro contaminazione e ibridazione
alimentate dalle diverse lingue e culture di cui gli scrittori migranti sono portatori:
riscritture mediante diversificate strategie linguistiche e tematiche di opere della
tradizione italiana moderna – ad esempio Gadda nel romanzo Scontro di civiltà
per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous – o di altre letterature euro-
pee – Shakespeare in Rometta e Giulieo di Jadelin Gangbo – in entrambi i casi con
uso di molteplici procedimenti narrativi e mutanti registri linguistici dell’italiano
che traducono uno straniante meticciato di culture e di immaginario.13
È il caso di verificare come le scritture di viaggio dei migranti, countertravel
books («libri del contro viaggio») hanno rinnovato le convenzioni della letteratu-
ra odeporica (Marfè 2009, 176-181) in quanto odissee che si reinventano in chiave
letteraria una identità frantumata dal dépaysement, in «continua traslazione»14,
vissuta negli interstizi di geografie diverse sperimentandone sia la sua dispersio-
ne che la sua traduzione in altre forme15. Non più una cultura che si incontra con
l’altro, non più la dialettica nous et les autres (Todorov 1991), ma esperienza del
vissuto segnata dalla ibridazione continua e costretta dal ripensamento e dal riu-
so sia della cultura della comunità d’origine che da quella del paese di adozione.
A questo genere letterario si possono accostare già i primi testi della letteratura
dell’immigrazione, quelli di Salah Methnani e Pap Khouma e altri come Chiama-
temi Alì (1991) di Mohamed Bouchane, Lontano da Mogadiscio (1994) di Shirin
Ramzanali Fazel o i poemi di Gëzim Hajdari (Gazzoni 2010).

13 Cfr. Derobertis (2008); Benelli (2009, 172-194).


14 Pezzarossa (2009a, 26-30); Pezzarossa (2006, 1-15).
15 Cfr. Chambers (1995); Chambers (2003); Clifford (1999).

59
L’utilità di un confronto con la produzione letteraria dell’emigrazione emerge
anche quando si notomizzano alcuni nuclei tematici forti come se fossero pe-
culiari della nuova letteratura dell’immigrazione a cominciare da quelli centrali
dello sradicamento, dello spaesamento, della scissione permanente, della doppia
identità ma già presenti in tante scritture e rappresentazioni letterarie dell’emi-
grazione otto-novecentesca e, prima ancora, nella condizione e nel vissuto degli
emigranti; per l’aspetto sociologico, psicologico e antropologico, basti rinviare al
volume A mezza parete di Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso, frutto di
indagini sugli emigrati italiani in Germania e in Svizzera negli anni cinquanta-
settanta: «non si può sopravvivere senza mantenere vivo dentro di sé il proprio
passato e al tempo stesso senza valorizzare il proprio presente, che contiene an-
che il futuro. L’emigrato è preso in questa trappola, come un alpinista in pericolo
aggrappato alla parete nell’impossibilità di scendere e di salire. Il cambiamento
interculturale si risolve in questa impotenza, in questa ambivalenza, in questo
conflitto permanente» (Frigessi Castelnuovo, Risso 1982, 188-189).
Ed ecco come questa condizione è rappresentata narrativamente dalla scrittri-
ce immigrata Randa Ghazy: «Sono sempre lì, tesa verso l’integrazione perfetta,
l’assimilazione più totale. Senza rendermi conto che forse alla fine è un miraggio
lontano. Tu ti sforzi e fai di tutto per avvicinarti, ma più ti avvicini più perdi
qualcosa di te, e anche se sembra sempre più vicino, non ci arrivi mai. E l’unica
soluzione, alla fine, rimane tornare indietro. Quando ti rendi conto che non rag-
giungerai mai la meta, ti volti e torni indietro. Ma quando ti giri di nuovo a guar-
darla, non c’è più, perché in realtà forse non c’era mai stata» (Ghazy 2007, 177).
Rispetto alle scritture del Novecento degli emigranti di prima generazione
molte delle nuove scritture dell’immigrazione palesano una maggiore consapevo-
lezza culturale, critica e ideologica che consente agli autori di ribaltare lo sguardo
e trasformare la condizione migrante subalterna in occasione per entrare in spazi
nuovi di esperienza esistenziale, culturale, letteraria. Scrive la scrittrice slovacca
Jarmila Očkayová: «Per anni io pensavo che la doppia appartenenza fosse anzi-
tutto una ricchezza, un fascio di possibilità avuto in dono dal destino. E ne ero
convinta soprattutto per via della scrittura, che in questo caso offre un’ibrida-
zione feconda: si scrive in una sola lingua, ma nel testo agiscono tutte e due, la
madrelingua e la lingua adottata, con i loro variegati retroscena culturali, sociali
e storici, con le loro simbologie e abitudini cognitive, con i loro anfratti psicolo-
gici e retaggi dell’inconscio, con la loro realtà e il loro immaginario» (Očkayová
2005, 25).
Ed ecco quanto scrive Tahar Lamri autore de I sessanta nomi dell’amore: «per
me, scrivere in Italia, paese dove ho scelto di vivere e con-vivere, vivere nella lin-
gua italiana, convivere con essa e farla convivere con le altre mie lingue materne
(il dialetto algerino, l’arabo ed in un certo senso il francese) significa forse creare

60
l’illusione di avervi messo radici […] la scrittura non rappresenta per me un mero
nomadismo, in cerca di pascoli letterari, ma rappresenta un pellegrinaggio cir-
colare, dove non è assente lo smarrimento, il saccheggio, la meraviglia, il mito,
e, forse, il ritorno verso di sé, o in altri termini più precisi l’eterna perdita della
mia propria identità, coltivando in segreto, come i marrani nella Spagna della Ri-
conquista, l’identità primordiale, in un luogo al di là dell’errare. Forse si tratta di
una ricerca dell’“anima plurima” con le sue implicazioni pagane. Scrivere in una
lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua
straniera dissacra e libera» (Lamri 2006, 13).
Niente di nuovo anche per quanto riguarda le osservazioni e le riserve sul fatto
che molta critica guardi a queste scritture migranti non per lo specifico letterario
ma per gli aspetti sociali, culturali, economici, politici, sociologici e quanti altri:
basti pensare alla lunga durata delle riserve o dei silenzi della critica sulla produ-
zione letteraria degli emigrati italiani in versi e in prosa, ad esempio sulla lette-
ratura italoamericana, in particolare quella delle «fondamenta», cioè della prima
generazione sia in lingua italiana che in lingua inglese per decenni collocata nel
ghetto dalla critica letteraria italiana e nordamericana e che solo negli ultimi anni
sia sul versante italiano che su quello nordamericano hanno recuperato con un
lavoro di scavo e di sistemazione critica di grandissima valenza. Ma lo stesso è
accaduto per la letteratura italiana dell’emigrazione del secondo dopoguerra in
Germania, Francia, Svizzera.
Più che “irritarsi” rispetto a questi percorsi e «lasciarsi andare […] semplice-
mente al piacere del testo» (Cavatorta 2008, 65-71), occorre invece analizzare le
scritture migranti con una metodologia pluridisciplinare proprio per far emergere
quella letterarietà contaminata che non emergerebbe in tutta la sua complessità
se ci limitassimo alla sua «sperimentazione linguistica» (Cavatorta 2008, 70) e
al «piacere del testo» che eventualmente potrebbe generare nel lettore. Senza
una strumentazione critica aperta a paradigmi comparatistici, sociologici, an-
tropologici, oltre che linguistici gran parte delle scritture migranti perderebbero
significato e valore e alimenterebbero proprio quella «emarginazione» e «ghet-
tizzazione» da cui le si vuole trarre fuori. Le dichiarazioni di poetica di Jarmila
Očkayová e Tahar Lamri, sopra riportate, mi pare testimonino una sicura consa-
pevolezza critica dei due scrittori ma anche che il problema della lingua non può
essere separato dalle stratificazioni culturali, antropologiche, sociologiche oltre
che letterarie che alimentano le scritture migranti.
Il confronto tra la letteratura dell’immigrazione e quella dell’emigrazione può
risultare utile anche se opzioniamo alcuni nuclei tematici e identitari specifici
come la casa e il cibo. Il motivo della casa nella letteratura della migrazione in
italiano è «uno dei poli tematici significativi»16 per una umanità in fuga dislocata
16 Pezzarossa (2009b, 152); Pezzarossa (2010).

61
fra strade, parchi, baracche, vagoni, automobili, dormitori, mense; per una uma-
nità deterritorializzata, impossibilitata a realizzare una stabilità, un radicamento
fisico, sociale e psicologico la casa assume «la funzione protettiva di un perpetuo
grembo materno» (Rubino 2006, 131); la casa come alternativa alla valigia, al
sacco, simboli del «transito permanente» dei migranti. La «conquista» di una
casa propria è «un modo di affermare la propria esistenza nell’altrove» (Curti
2006, 211), segno di radicamento e speranza per il futuro (cfr. Corigliano 1991).
Circa la forte valenza simbolica del cibo, una conferma viene da uno dei ro-
manzi della letteratura dell’immigrazione in lingua italiana, cui è andato un no-
tevole consenso di critica e di pubblico, Scontro di civiltà per un ascensore a
Piazza Vittorio di Amara Lakhous: qui il cibo costituisce «il collante identitario
[…] attraverso il cibo e il ricordo delle proprie tradizioni culinarie è possibile
riannodare i fili della memoria tornando ai sapori e agli odori di un tempo quasi
mitico, collegato alle sensazioni dell’infanzia […]. Il cibo attiva il ricordo della
propria vita in un altrove spaziale e temporale ed è mezzo privilegiato per com-
battere la nostalgia della propria casa»17. Il cibo come il ricordo delle feste, dei riti
familiari può avere una «funzione terapeutica» per alcuni personaggi, per altri
invece può rappresentare un «doloroso legame» con la patria d’origine e causare
«un’ulcera non meno dolorosa di quella causata da altri ricordi della propria terra
di origine» (Rotolo 2009, 188).
Su questi aspetti oltre che rinviare ad alcune indagini sociologiche ed antro-
pologiche sulle comunità italiane nelle Americhe18 si può averne una verifica a
confronto anche sul versante letterario, perfino nei romanzi in lingua inglese del-
la seconda generazione come quelli di Di Donato e di Fante (cfr. Martelli 2010).
Un primo organico lavoro comparatistico tra la letteratura dell’immigrazione e
la letteratura italiana contemporanea è quello realizzato da due studiose, Cristina
Mauceri e Maria Grazia Negro, Nuovo Immaginario Italiano. Italiani e stranieri
a confronto nella letteratura italiana contemporanea, con una adesione, da un
punto di vista teorico, alle tesi fondative di Todorov e Said, di studiosi norda-
mericani dei cultural studies e, per il versante italiano, a quelle di Gnisci. Con
metodo comparatistico le due studiose mettono in campo una corposa analisi
della narrativa degli scrittori migranti italofoni prodotta nell’ultimo ventennio a
confronto con quella di scrittori italiani dello stesso periodo – con alcune anti-
cipazioni (Pasolini, Calvino, Parise) – che hanno rappresentato immigrati nelle
loro opere. Si parte dalle rappresentazioni dell’immigrato, dello straniero nella
letteratura italiana contemporanea: «come gli autoctoni vedano innanzitutto gli
stranieri e poi se stessi interagire con gli stranieri […] come gli stranieri per-
cepiscano se stessi, gli italiani e come si vedano interagire con questi ultimi.

17 Rotolo (2009, 187); cfr. anche Derobertis (2008).


18 Cinotto (2001); Cinotto (2009).

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Questo doppio “riguardo” nel caso dei migranti diventa triplo perché gli stranieri
hanno coscienza della loro e-stra-neità» (Mauceri, Negro 2009, 14). Come gli
scrittori italiani contemporanei «percepiscono, rielaborano e rendono coscienti
gli stereotipi sullo straniero nelle loro opere»; opere in cui necessariamente con-
verge anche un «immaginario deviato», infarcito di stereotipi sugli stranieri, in
particolare i neri, immagini di un’Africa «niente più che selvaggia, misteriosa,
sensuale» (Pallavicini 2004, 8) o i rumeni al centro di una forte attenzione media-
tica negli ultimi anni. Come nella narrativa degli scrittori migranti italofoni sono
rappresentate le esperienze laceranti degli immigrati: il trauma della separazione
e del viaggio, lo shock culturale e linguistico, l’angoscia e le ricadute psichiche:
«la minaccia di fallimento o il fallimento del progetto migratorio sono il princi-
pale fattore di rischio psicopatologico». Quasi tutti gli scrittori italiani ignorano
«le problematiche collegate alla salute psichica degli stranieri» diversamente da
quanto accade nei testi degli scrittori migranti; «tale disparità va spiegata col fat-
to che nella maggior parte dei casi, gli scrittori che rappresentano stranieri nelle
loro opere […] hanno una ben scarsa conoscenza del mondo della migrazione e
costruiscono i loro personaggi a tavolino e/o in base a fatti riportati dai media»
(Mauceri, Negro 2009, 273-295).
Un confronto con le percezioni e rappresentazioni degli emigranti nella lettera-
tura italiana otto-novecentesca darebbe a queste analisi uno spettro di motivazio-
ni storico-letterarie molto più circostanziate e ne rileverebbe il radicamento nella
lunga durata della separatezza della letteratura italiana anche rispetto a fenomeni
storico-sociali di eccezionali dimensioni e ricadute come l’emigrazione di massa
che investe il nostro paese a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento.
Gli scrittori migranti nel rappresentare patologie e sofferenze «ricorrono a
modalità narrative molto più realistiche e convincenti» (Mauceri, Negro 2009,
296): mentre l’immaginario italiano è dominato dalla figura del clandestino o del
deviante, quello degli scrittori migranti dalla figura dell’integrato «che si pro-
pone come nuovo cittadino italiano». Il più stentato aprirsi degli italiani, con il
superamento degli stereotipi sociali, palesa alcune riserve mentali: lo straniero
«sembra ricordarci un passato di povertà e di emigrazione che abbiamo rimosso»;
egli rappresenta «lo spettro di un declassamento economico e sociale in cui [gli
italiani] stessi sono caduti o potrebbero cadere». Nelle scritture degli immigrati
vi è una rappresentazione più «realistica», vista dall’interno della condizione mi-
grante che mette in campo anche processi di integrazione; non mancano neppure
squarci di umorismo in questi testi. Gli scrittori italiani del Sud attraverso la
rappresentazione dello straniero e degli immigrati possono «affrontare anche il
degrado della loro terra», ma in essi permane anche, attraverso il ricordo familia-
re e privato, «l’esperienza massiccia dell’emigrazione, rimossa invece a livello di
coscienza civile nazionale» (Mauceri, Negro 2009, 312-314).

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Nel volume Il sogno e l’approdo. Racconti di stranieri in Sicilia cinque scrit-
tori siciliani e una scrittrice tunisina immigrata e residente a Palermo sono stati
invitati a produrre un racconto incentrato sulla rappresentazione dello straniero.
Nei cinque scrittori italiani sono assenti i più tradizionali e prevedibili stereotipi
ma tutti «hanno respinto la chiave propriamente realistica: in qualche modo cia-
scuno di questi racconti ha qualcosa del sogno, dell’indeterminato, della sospen-
sione, dell’enigma», e lì dove lo scrittore assume il punto di vista di quelli che
arrivano «l’approdo è una specie di visione, di allucinazione disperata»; mentre la
scrittrice tunisina italofona «inscena una specie di commedia dell’orientalismo,
piena di umorismo e di sorriso verso il futuro»19. Le soluzioni narrative adottate
dagli scrittori italiani palesano incertezza, non conoscenza, «il volto dell’Altro è
ancora enigmatico e difficile da descrivere nei suoi precisi caratteri reali» 20, ma
forse anche paure che fanno parte dell’immaginario collettivo e che veicolano
nella scrittura l’abbrivio verso linee letterarie di fuga, le stesse che ritroviamo in
molta letteratura italiana che rappresenta l’emigrazione di massa otto-novecen-
tesca.
La centralità di temi quali le lacerazioni del vissuto, lo shock linguistico e
culturale, l’angoscia e le conseguenti ricadute psichiche in molti casi patologi-
che; l’opzione realistica degli scrittori migranti a fronte di quella generica, in-
certa, dovuta a una non conoscenza del mondo rappresentato sono tutti aspetti
già presenti e verificabili nella condizione migrante e nelle scritture relative sia
dell’emigrazione tra Otto e Novecento sia in quella del secondo dopoguerra. Ma
già per l’emigrazione otto-novecentesca è possibile verificare lo scarto tra le rap-
presentazioni letterarie che prediligono i temi delle lacerazioni, del disagio, della
sconfitta e quelli del vissuto e del raccontato nelle autobiografie che invece met-
tono in campo contestualmente gli aspetti positivi dell’incontro, dell’integrazione
e delle prospettive di vita.
Anche in queste nuove scritture migranti troviamo uno sguardo aperto verso
«orizzonti altrimenti sconosciuti» e verso una «doppia identità», che «può essere
vissuta e raccontata come una scissione, dolorosa, oppure come un entusiasmante
raddoppiamento di ogni cosa […] Una doppia apertura, nella vita; nella scrittu-
ra una duplice esplorazione della parola e di ciò di cui la parola è portatrice e
che il racconto evoca e svela».21 Come emerge anche dalla significativa antologia
Pecore nere22, che offre però un molto più variegato e complesso panorama di

19 AA. VV. (2009): Il sogno e l’approdo. Racconti di stranieri in Sicilia, Palemo, Sellerio, 9-11.
20 Ivi, 11.
21 Očkayová (2005, 25-26). Sulle diverse forme che assume il discorso autobiografico di scrittori
della diaspora con collegata riflessione sulla storia, cfr. Sinopoli (2009a); Gnisci (2006b); Sino-
poli (2001).
22 AA.VV. (2005): Pecore nere, Roma-Bari, Laterza.

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tensione e rappresentazioni tematiche, ideologiche e letterarie. Particolarmente
interessanti risultano in questa prospettiva le scritture migranti di “seconda ge-
nerazione” – una definizione che riprende la categoria sociologica di William I.
Thomas e Florian Znaniecki, elaborata nel primo ventennio del Novecento per
la grande emigrazione europea negli Stati Uniti (The Polish Peasant in Euro-
pe and America) (cfr. Rauty 1997) – analizzate in alcuni recenti studi che però
sottolineano anche la distanza rispetto ai concetti di integrazione/assimilazione
elaborati dai due sociologi (Quaquarelli 2010). In particolare le voci femminili di
seconda generazione, a cominciare da quelle accolte nella citata antologia Pecore
nere (Igiaba Scego, Laila Wadia, Gabriella Kuruvilla) che nelle loro scritture pa-
lesano peculiari percorsi tra confini indentitari, culturali, linguistici in continua
«dispersione e rilocalizzazione», che implicano «un incessante lavorìo di media-
zione tra affiliazioni complesse e appartenenze multiple» (Pezzarossa 2010, 116).
A conferma che nelle scritture migranti la «pluralità di prospettive» origina una
«consapevolezza di dimensioni simultanee», «contrappuntistica», per dirla con
Edward Said (Said 2008, 230).
Alla letteratura femminile dell’immigrazione c’è chi assegna un compito che
va al di là della rappresentazione del «coefficiente femminile dell’immigrazione
e il coefficiente migrante del mondo femminile», poiché essa deve assumere «una
portata politica», disegnare «“altramente” luoghi e figure e tempi» in una «pro-
spettiva di riflessione di genere», tanto più valida quanto più realizza uno «scarto
dalla norma, creazione e irruzione di alterità» (Contarini 2010, 129-134).
Particolarmente funzionale a questa prospettiva è il romanzo autobiografico,
in cui spesso è incerto il confine tra autobiografia e fiction, e in alcuni casi con
una compresenza del romanzo storico, come in Regina di fiori e di perle (2007)
di Gabriella Ghermandi, Madre Piccola (2007) di Cristina Ali Farah, La luna
che mi seguiva (2006) di Aminata Fofana, Il paese dove non si muore mai (2005)
di Ornela Vorpsi. Ma una delle forme letterarie più peculiari della letteratura
femminile migrante è la pluralità delle voci narranti che consente di «sfaccet-
tare un’esperienza rendendola più complessa, rappresentare aspetti non univoci,
anzi contraddittori, e acuendone così le dialettiche» (Contarini 2010, 146), come
nei romanzi di Igiaba Scego, Rhoda (2004) e Oltre Babilonia (2008), nei quali,
attraverso un variegato spettro di esperienze migratorie, si suggerisce che «la re-
alizzazione di sé e l’appagamento si raggiungono nell’accettare la parte sana della
cultura occidentale e nel conservare usi e costumi della propria […] una filosofia
dell’ibridazione consensuale» (Contarini 2010, 149), similmente nel romanzo di
Laila Wadia, Amiche per la pelle (2007). Mentre, all’opposto, nel romanzo di
Gabriella Kuruvilla, È la vita, dolcezza (2008) la composizione è «irrealizzabile»
e vi si propongono «universi di rigetto, di contestazione, di rabbia senza nessu-
na mediazione possibile. Le scelte formali sono in sintonia: alla frammentarietà

65
della composizione si associa una scrittura nervosa e secca, fatta di frasi brevi,
dialoghi rapidi e libertà stilistiche, che poco si cura del rispetto di convenzioni,
e anzi può leggersi come un tentativo di rottura di canoni e valori». Un romanzo
che può essere considerato «la prova letteraria più convincente di tutta la produ-
zione femminile migrante, per la maturità, l’originalità, la padronanza stilistica e
la forza della rappresentazione» (Contarini 2010, 151-153).
Se il metro di giudizio si fonda su questi elementi può essere accettato, mentre
suscita non poche perplessità il sottolineare che la sua originalità e superiorità
possano dipendere dai suoi «segni dissonanti», dal «modo radicalmente diverso
di considerare la differenza di genere, di razza e di classe scavando nella con-
traddizione, svelando i termini del dissidio» (Contarini 2010, 156); a fronte di
molta altra narrativa di immigrate che rappresenta il confronto/scontro con la cul-
tura occidentale «capitalista e post-femminista, in modo positivo e propositivo,
privilegiando la prospettiva dell’integrazione e del meticciato» (Contarini 2010,
155). Una soluzione giudicata «ottimistica e volontaristica», se non «reticente»,
poiché non farebbe emergere le contraddizioni; ma soprattutto lo specifico di ge-
nere della condizione migratoria non dovrebbe consentire alle scrittrici migranti
l’«intento di ricondurre a unità» i loro personaggi di donne immigrate e di farsi
«accettare dal loro nuovo paese» (Contarini 2010, 156). Insomma, secondo Silvia
Contarini, nelle scritture femminili migranti non devono esserci «raffigurazio-
ni positive del femminile», né «prudenza» nello schierarsi contro la cultura, sia
quella d’origine che quella italiana; esse devono evitare «di privilegiare visioni
rassicuranti di integrazione riuscita»; devono essere «scevre da buoni propositi
o intenti ideologici, devono essere incisive, perché solo così potranno andare ad
alimentare nuove figurazioni del femminile, migrante o meno, nuovi canoni della
letteratura, migrante o meno» (Contarini 2010, 159).
Al fine di evitare programmatiche griglie ideologistiche è il caso invece di
analizzare i testi della migrazione su una filiera molto ampia per evidenziarne
senza pregiudizi le diverse tipologie, e sperimentazioni linguistiche e letterarie,
come pure il punto di vista narrativo. In alcuni romanzi come Regina di fiori e di
perle di Gabriella Ghermandi, Madre Piccola di Cristina Ali Farah e Amiche per
la pelle di Laila Wadia (Ghermandi 2007; Ali Farah 2007; Waida 2007) emergono
con chiarezza sia dalle tematiche che dalla costruzione formale dei testi una pro-
gettualità di composizione dei conflitti, della memoria individuale e collettiva,
una possibile realizzazione di una nuova identità fondata su «una multiapparte-
nenza storica, sociale, linguistica e culturale» (Quaquarelli 2010b, 50); a fronte
di altri testi come È la vita, dolcezza di Gabriella Kuruvilla e Oltre Babilonia di
Igiaba Scego (Kuruvilla 2008; Scego 2008) che invece propongono percorsi di
“resistenza” identitaria affidati alla scrittura, che deve esplicare «un esercizio di
tessitura discorsiva di continuità con il passato che permetta l’immaginazione e

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l’affermazione di una “sutura” identitaria in cui la differenza sia salvaguardata,
rivendicata, detta e messa in atto. Una sutura […] che non impone la composi-
zione delle contraddizioni» (Quaquarelli 2010b, 56). O scritture che danno voce
a queste contraddizioni come quella di Jadelin Mabiala Gangbo (Verso la notte
Bakonga, 1999) che vi riversa «ossessivamente l’immagine di persona sdoppiata,
lacerata, contraddittoria, che non trova un luogo in cui si senta a proprio agio» se
non nella invenzione letteraria, in cui si realizza una «lotta drammatica con la tra-
dizione dell’assetto testuale, con lo standard della narrativa e le consuetudini del
letterario, con le forme standardizzate del linguaggio» (Pezzarossa 2010, 95). O
invece la possibilità di comporre i conflitti identitari proprio attraverso il potere
dell’immaginario e della scrittura fino a «decostruire dall’interno, festosamente,
quella massa informe di identità artificiali che ritraggono ogni individuo secon-
do la lente appannata dello scontro di civiltà», come in Scontro di civiltà per un
ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous.23
Uno dei limiti delle analisi critiche della nuova letteratura dell’immigrazio-
ne – compreso il lavoro per altri versi utilissimo della Mauceri e della Negro
– è l’assenza di un discorso comparatistico con la letteratura dell’emigrazione
otto-novecentesca, sia quella prodotta in Italia che quella prodotta nei paesi dove
si sono costituite consistenti comunità italiane; un discorso comparatistico che
fornirebbe utili illuminazioni, tra l’altro, per analizzare e collocare questa nuova
letteratura provando anche a immaginare quale ruolo avrà nell’evoluzione della
letteratura italiana contemporanea, con un‘attenzione a quanto è già avvenuto nel
corso del Novecento per le letterature coloniali e per quella italoamericana.
Assai utile è anche uno sguardo comparatistico alla letteratura coloniale e
postcoloniale in lingua italiana, ma che è altra cosa rispetto alla letteratura italia-
na dell’emigrazione; e comunque, in ambito critico, vanno utilizzate «le distin-
zioni necessarie»24 tra le scritture dell’immigrazione e quelle postcoloniali.
Non può essere considerata una peculiarità delle nuove scritture migranti il
fatto che lo straniero è «soggetto attivo delle narrazioni: la sua presa di parola fa
irrompere nel presente una inestricabile trama di corporeità-soggettività-autono-
mia» (Derobertis 2007, 30); le autobiografie dell’emigrazione otto-novecentesca
presentavano già queste peculiarità, già proponevano un «soggetto attivo delle
narrazioni» e una «presa di parola» con i suoi scarti di soggettività e di autonomia
/ dipendenza dalla cultura egemone. Né può essere considerato un dato nuovo,
come vorrebbe Graziella Parati, l’«accento», come lei lo definisce, cioè il «segno
di una distanza spaziale e temporale del retroterra linguistico e culturale che a
sua volta resiste alla cancellazione».25 Se guardiamo ad esempio alla letteratura

23 Quaquarelli (2010b, 57-58); cfr. anche Meneghelli (2006).


24 Comberiati (2010, 165); Comberiati (2008).
25 Parati (1997, 280-286); Parati (1995).

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italo-americana – che a partire dagli anni trenta opziona la lingua inglese – emer-
ge che al di là della scelta linguistica ciò che permane e costituisce l’elemento
identitario è proprio il background antropologico-culturale che innesta «nuovi
temi», «altri luoghi e la scansione di altri tempi» (Derobertis 2007, 30) nella let-
teratura americana, così some accade per le scritture degli immigrati rispetto alla
letteratura italiana.
Per quanto concerne la lingua italiana usata sia nei testi italiani che in quelli dei
migranti, a confronto con quanto è avvenuto nel contatto della lingua e dei dialetti
italiani con le lingue dei paesi di approdo della grande emigrazione di massa otto-
novecentesca, vi sono aspetti simili ma anche diversi. Molti fenomeni studiati dai
linguisti a proposito degli immigrati sono gli stessi vissuti dai protagonisti della
grande emigrazione di massa dell’Otto-Novecento: il distacco dalla «comunità-
cultura-lingua» con i connessi problemi della costruzione di una nuova identità da
cui «derivano tensioni e lacerazioni che creano nuove, contraddittorie realtà indi-
viduali e collettive, di idee e preconcetti, di pratiche e saperi. I migranti si legano
a una visione mitica dell’identità linguistica originaria o vi si distaccano con acre-
dine; si annegano nella nuova lingua o vi resistono a costo del silenzio e dell’esclu-
sione; vi trovano nuove linfe espressive e le riportano nella comunità d’origine o se
ne appropriano dimenticando quest’ultima» (Vedovelli 2002a, 117 sgg.).
Di questi problemi vi è ampia traccia soprattutto nelle autobiografie della let-
teratura dell’emigrazione. E neppure diverso è l’aspetto della lingua del paese
ospitante come strumento di comunicazione con gli autoctoni e con gli altri im-
migrati. Del tutto nuovo è invece il fenomeno dell’italiano lingua di contatto per
gli stranieri al di fuori dei confini nazionali, ma anche dentro gli stessi confini;
emerge in questo modo che l’immigrato straniero non «è considerato solo come
soggetto impegnato in un processo di apprendimento dell’italiano, ma anche
come soggetto portatore di un’identità linguistica che per il suo tramite viene
immessa nel multidimensionale spazio linguistico italiano» (Vedovelli 2002b, 5).
Nel confronto fra i testi di scrittori italiani e quelli degli scrittori migranti
realizzato dalla Mauceri e dalla Negro il «dato macroscopico che balza imme-
diatamente agli occhi è il possesso di un italiano scorrevole e corretto da parte di
pressoché tutti i protagonisti stranieri dei testi migranti, con delle sparutissime
eccezioni, mentre la questione linguistica si pone solo nei testi degli autori italia-
ni, dove ben un quarto delle opere esaminate presenta protagonisti stranieri che
parlano un italiano stentato» (Mauceri, Negro 2009, 299).
Se per gli autori italiani si tratta di un deficit di conoscenza diretta degli stra-
nieri che li porta ad una «costruzione dei personaggi a tavolino», per gli scritto-
ri migranti va messo nel conto l’editing operato dalle case editrici.26 Ma questa

26 Sulle collaborazioni e revisioni di editors o altri scrittori alla stesura di alcuni testi, in partico-
lare quelli della prima ondata, cfr. Burns (2003, 203-212).

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nuova letteratura delle migrazioni sperimenta anche una «terza via», «un idioma
di mezzo», una commistione di lingua materna, italiano standard e italiano regio-
nale; un fenomeno di «translinguismo»27 che nel passaggio dalla lingua materna
alla lingua seconda via via si creolizza caricandosi di materiali espressivi derivati
da molteplici emittenti e declinati su una filiera aperta sempre a nuove inclusioni.
Nei testi dei nuovi scrittori migranti emerge un «movimento di creolizzazione
linguistica in atto»: in alcuni testi personaggi stranieri parlano con dialettismi
«volendo così, attraverso una poetica realistica espressiva, tradurre situazioni re-
ali nelle quali gli immigrati, in genere, non parlano l’italiano standard, ma quello
regionale della zona in cui abitano infarcito di espressioni dialettali. Il dialetto
diventa così un idioma intermedio, un ponte creolizzante tra la lingua madre e
la lingua d’arrivo, segnalando un possesso vivo, duttile e imprevisto dello stru-
mento linguistico» (Mauceri, Negro 2009, 302-304). Dunque questa letteratura
delle migrazioni risulta, anche sul versante linguistico, un materiale di grande
importanza, non solo perché le strategie linguistiche nascondono sempre «una
visione dei rapporti intercorrenti tra autoctoni e stranieri» e «senza la mediazio-
ne linguistica non si dà neppure la mediazione culturale», ma anche perché lo
scambio può arricchire «la lingua comune parlata dagli italiani e dagli stranieri,
l’italiano, in via di creolizzazione letteraria».28
Per quanto concerne il deficit di conoscenza e di «esperienza linguistica» del
mondo dell’immigrazione che emerge dalle rappresentazioni letterarie e lingui-
stiche nei testi di autori italiani, anche qui le scritture dell’emigrazione potrebbero
fornirci ampi e utili riscontri se pensiamo al ruolo dei dialetti nella pratica lingui-
stica e nelle scritture degli emigranti, alla estraneità e alla conquista dell’italiano
passando attraverso lo slang e la lingua del paese ospitante.
In conclusione la letteratura delle migrazioni ci consente una verifica di feno-
meni storico-sociali, di mutazioni culturali, mentali che attraversano la nostra
società oltre naturalmente il discorso più specificamente letterario e linguistico.
Il risultato sarà ancora più fruttuoso se attraverso un metodo storico-letterario
comparatistico mettiamo a confronto la letteratura italiana dell’emigrazione con
quella prodotta fuori d’Italia e con la nuova letteratura dell’immigrazione.
Ideologiche ed astratte applicazioni di griglie teoriche e critiche, comprese
quelle postmoderniste e dei Cultural Studies, spesso prive di un indispensabile
supporto storico-letterario – così frequenti negli studi sulla letteratura dell’im-
migrazione – contengono rischi notevoli in cui precipitano anche noti studiosi
attivi in questo settore da molto tempo come Graziella Parati, la quale volendo
assegnare alla narrativa delle migrazioni il ruolo di rottura dell’«esasperato solip-
sismo che ha dominato la letteratura italiana» vi aggiunge anche il merito di aver
27 Cfr. Kellman (2007); Kellman (2003).
28 Mauceri, Negro (2009, 310); cfr. Portelli (2010, 49-58).

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promosso la «traduzione di testi» della letteratura della/sulla emigrazione italia-
na, e cita Cristo fra i muratori di Pietro di Donato e Umbertina di Helen Barolini,
del «tutto sconosciuti in Italia» (Parati 2010, 35-36). In realtà le cose stanno molto
diversamente: la prima traduzione italiana di Cristo fra i muratori è del 194129
cioè di settanta anni fa e rappresenta uno dei molti capitoli della grande apertu-
ra verso la letteratura americana negli anni Trenta del Novecento promossa da
Pavese e Vittorini; non è un caso che la traduzione fosse pubblicata dallo stesso
editore di Americana 30, la famosa antologia della letteratura americana realizzata
da Vittorini e pubblicata nel 1941. Con un «encomiabile tempismo» (Marazzi
2001, 59) – altro che «esasperato solipsismo»! – Elio Vittorini recensisce sul set-
timanale «Oggi» (28 ottobre 1939) Christ in Concrete uscito in America pochi
mesi prima (aprile); e quasi certamente si deve allo stesso Vittorini l’iniziativa
della traduzione e pubblicazione italiana due anni dopo, accompagnata da una
Nota dell’editore attribuibile allo stesso Vittorini, «assolutamente “profilattica”»
(ibidem) per motivi politici, a ben ragione visto che negli stessi mesi la censura
fascista avrebbe bloccato l’uscita di Americana.
Per quanto riguarda Umbertina della Barolini,31 la traduzione fu da me con-
sigliata e sollecitata all’editore Avagliano, al quale prestai la copia dell’edizione
americana del romanzo regalatami dalla Barolini negli Stati Uniti durante uno
dei convegni sulla storia e la letteratura degli italo-americani tenutosi nei primi
anni Novanta. Mi paiono significativi episodi che confermano la necessità – per
evitare astratte griglie critiche ed una eccessiva enfasi sulle “novità” della nuova
letteratura italiana dell’emigrazione – di un metodo critico supportato da indi-
spensabili fondamenta storico-letterarie e filologico-testuali, che metta al centro
un percorso comparatistico tra la letteratura della/sulla emigrazione italiana otto-
novecentesca e quella delle nuove scritture dell’immigrazione.
Incrociare la letteratura italiana dell’emigrazione con la letteratura dell’immi-
grazione è un percorso che consente di accostare testi che, segnati dal «contagio
culturale» (Albertazzi 2000, 15), dal «doppio sguardo»,32 propri delle scritture di
migranti, possono contribuire a far luce su fondamentali processi storico-sociali,
a cominciare da quello della rinegoziazione dell’identità33, che in Italia è stata e

29 P. Di Donato (1941): Cristo fra i muratori, Milano, Bompiani. La traduzione considerata dalla
Parati la prima apparsa in Italia è quella pubblicata nel 2001 (S. Eustachio di Mercato S. Severi-
no, Il Grappolo).
30 E. Vittorini (a c. di) (1941): Americana, Milano, 1941, nuova ediz. ivi, 1984.
31 H. Barolini (2001): Umbertina, traduzione di S. Barolini e G. Maccari, Cava de’ Tirreni, Ava-
gliano Editore. Il romanzo apparve nella bella collana “Transatlantica” diretta da Francesco
Durante, purtroppo interrotta dopo il passaggio di proprietà della Casa Editrice.
32 Scego (2008); cfr. Coppola (2010).
33 Fiore (2006); Fiore (2004); cfr. anche: Verdicchio (1997); Parati (1999); Burns, Poletti (2003);
Matteo (2001); Matteo (2007); Bouchard (2006).

70
continua ad essere alla confluenza di una lunga durata delle identità regionali e
provinciali con i loro riflussi anche attuali, mentre il passaggio dall’emigrazio-
ne all’immigrazione, realizzatosi negli ultimi decenni, rappresenta un deterrente
non secondario nell’assetto sociale e nell’immaginario collettivo.
Se è vero che con l’immigrazione e le sue rappresentazioni letterarie l’Italia ha
iniziato un viaggio interculturale che avrà inevitabilmente ricadute sulla ridefini-
zione della sua identità, non si può trascurare il ruolo che l’emigrazione ha avuto
nella costruzione della nostra identità nazionale postunitaria, i cui percorsi vanno
meditati anche per affrontare i processi sociali e culturali che l’immigrazione ha
attivato.
Dal nuovo scenario che ibrida passato e presente, centro e periferie, cultura na-
zionale, culture regionali e altre culture, lingua, dialetti e altre lingue, letteratura
nazionale e altre letterature possono venire indicazioni decisive per la costru-
zione di una identità plurima – inevitabile approdo di una cittadinanza moderna
nella nuova società europea multietnica e multiculturale, in cui identità diaspo-
riche vivono accanto a quelle locali – e per la messa in campo della prospettiva
di una World Literature (Albertazzi 2000b), una letteratura come spazio-tempo
di sperimentazione e costruzione di una identità plurale, di una poetica della «to-
talità mondo» proposta da Edouard Glissant, per cui le letterature e le culture si
definiscono non per differenze ed esclusioni ma incontrando le altre e relazio-
nandosi con esse attraverso un «idioma multilingue»: «vivere la totalità-mondo
a partire dal luogo che ci è proprio significa stabilire una relazione, non con-
sacrare un’esclusione». Forse «la letteratura, intorno alla questione dell’identità,
[sta] entrando in un’epoca in cui produrrà epica, epica nuova e contemporanea»,
che racconta contestualmente radicamento ed erranza ed è scritta in un «idioma
multilingue anche se all’interno di una lingua specifica» 34. Il destino della lette-
ratura nel terzo millennio è forse proprio in questo «decentramento continuo del-
lo sguardo [...] nella oscillazione tra identità e alterità, radicamento ed erranza»
(Fabietti, Pellegrini 2002, XIV), una letteratura come spazio-tempo di sperimen-
tazione e costruzione di una identità plurale.
A questa identità plurale, «creola», per usare la definizione di Glissant, sem-
brano accostarsi diversi romanzi dell’immigrazione e in genere una parte consi-
stente della narrativa di seconda generazione, proponendo un modello identitario
che nell’immaginario prefigura quanto ancora deve realizzarsi nella realtà, una
letteratura come «luogo di mediazione e “sutura”»35 di identità diverse, di ����� lace-
razioni e di conflitti.

34 E. Glissant (1996): Introduction à une poétique du divers, Paris, Gallimard, 1996, trad. it. Poe-
tica del diverso, Roma, Meltemi, 1998; E. Glissant (1990): Poétique de la relation, Paris, Galli-
mard.
35 Quaquarelli (2010b, 50); Quaquarelli (2006); Quaquarelli (2008).

71
Così come è avvenuto per le scritture dell’emigrazione nelle Americhe – italia-
ne, irlandesi, ebree – e per quelle coloniali e postcoloniali in Europa, anche per la
letteratura italiana dell’immigrazione si può prevedere un tempo in cui occorrerà
superare la «categoria» geoculturale e sociologico-letteraria dei migrant writers;
un tempo in cui il “confine” – «scaturigine identitaria e matrice creativa» (Fra-
cassa 2010, 179) della più significativa produzione letteraria migrante – e la cate-
goria stessa di “migrante” da marchio identitario transitino verso la dimensione
letteraria e metaforica dell’immaginario: un «sentimento del confine» da verifi-
care «a prescindere dalla congruità della vicenda biografica, nel vivo dei testi»;
impiegare la nozione di confine come «reagente in grado di rivelare la sostanza
“migrante” di certe scritture letterarie» (Fracassa 2010, 188-189).
Secondo alcuni critici la qualità letteraria raggiunta da alcuni autori – Jarmila
Očkayová, Christiana de Caldas Brito, Gëzim Hjdari, Amara Lakhous, Igiaba
Scego – reclama di superare i recinti della letteratura migrante poiché sono ben
oltre le forme della testimonianza e della biografia romanzata e muovono verso
una confluenza senza distinzioni nel mainstream della letteratura nazionale. In
queste scritture vi è una pratica variegata di sperimentazioni letterarie e linguisti-
che attraverso le quali i migrant writers spingono sui recinti del canone nazionale:
il dialogismo intertestuale, l’uso del dialetto o della mimesi dialettale, l’adozione
di generi come il noir o la narrativa per ragazzi, la traduzione (Fracassa 2010,
179-183). Sono strategie di «affrancamento dalla separatezza», di «neutralizza-
zione del qualificativo (migrante) in favore dell’assolutezza del sostantivo (scrit-
tore)» (Fracassa 2010,183-184), che bisogna seguire e valutare inserendole in un
processo di sviluppo della letteratura dell’immigrazione in Italia che necessaria-
mente è un processo complesso, di lunga durata, con fasi diversificate – così come
dimostra, tra le altre, la letteratura italoamericana nei suoi svolgimenti nel corso
del Novecento – che non può essere affrontato con fughe in avanti, in certi casi
puramente ideologiche o appoggiandosi a categorie ermeneutiche e a referenti
culturali astrattamente curvati a suffragare l’interpretazione dei testi, che invece
richiedono una metodologia critica ad ampio spettro disciplinare, supportata da
indispensabili fondamenta storico-letterarie.

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La tematica del ritorno del migrante
in Abate, Pascoli, Pavese, Consolo
Angelo Pagliardini,
Università di Innsbruck

Abstract

Si indagheranno in questo contributo le rappresentazioni letterarie del ritorno dell’esule e del mi-
grante, desiderato o temuto, realizzato o irrealizzabile, per quanto riguarda la letteratura italiana del
Novecento. Il panorama che possiamo fornire risulta molto vario e articolato, tanto che il ritorno non
si costituisce sempre come elemento terapeutico, rispetto alla patologia dell’esilio, dati i traumi cui
va incontro spesso chi ritorna. Si prenderà in esame l’opera di Carmine Abate, uno scrittore italiano
migrante in cui la categoria del ritorno si complica per l’intersecarsi di numerosi assi migratori che
hanno caratterizzato la sua esperienza biografica e letteraria. Analizzeremo quindi la rappresenta-
zione poetica dell’emigrazione in un poeta come Giovanni Pascoli, dove occupa un posto di rilievo
il momento terapeutico/patologico del ritorno. Con le opere di Cesare Pavese, che si assimila da un
esule per ragioni esistenziali, ci accostiamo al tema del ritorno come movimento interiore e non di-
rettrice geografica inversa a quella dell’esilio. Un ruolo importante occupano nella letteratura italia-
na del Novecento quegli scrittori che interpretano in senso migrante la propria non appartenenza in
seguito alla dislocazione dall’una all’altra regione italiana, assimilandosi ai flussi dell’emigrazione
italiana interna, come il siciliano Vincenzo Consolo.

Premessa

Indagando sulle rappresentazioni letterarie del ritorno desiderato o temuto, rea-


lizzato o irrealizzabile dell’esule, assistiamo, per quanto riguarda la letteratura
italiana del Novecento, a un panorama molto vario e articolato, tanto da non poter
rappresentare necessariamente il ritorno come elemento terapeutico, rispetto alla
patologia dell’esilio, dati i traumi cui va incontro spesso chi ritorna. Inoltre se
prendiamo in esame il contesto contemporaneo assistiamo al passaggio dalla figu-
ra dell’esule alla figura del migrante, dal personaggio escluso dal proprio spazio di
appartenenza, uno spazio cui anela, al personaggio migrante, appartenente a quel-
la galassia indefinita che non possiede più le coordinate dell’identità di origine,
e non viene ascritto a quella di destinazione (uno spazio identificato come Third
Space)1. In questi scrittori la definizione del vettore ritorno è particolarmente dif-
ficile, in quanto le direzioni del moto migratorio si moltiplicano e si incrociano.

1 L‘espressione viene usata in Bhabha 2004, dove si mostra in particolare come nel contesto cul-
turale attuale sia opportuno individuare l‘esistenza di questo spazio di ibridazione e contamina-
zione per una ridefinizione della mappatura culturale e letteraria in particolare.

83
In ogni caso il ritorno costituisce un tema centrale per la definizione dell’iden-
tità e dello statuto del soggetto migrante, sia per quanto riguarda la letteratu-
ra migrante in senso stretto, intesa come emigrazione fra paesi differenti, sia
per quanto riguarda migrazioni di scrittori fra le varie regioni italiane, elemento
quest’ultimo caratteristico della geografia culturale italiana (Pagliardini 2010a),
sia per quanto riguarda l’adozione del paradigma migrante come rappresentazio-
ne di una situazione esistenziale di déraciné alla ricerca di radici e di identità. Il
caso del migrante viene qui affrontato in una sorta di forbice, di diagramma a due
vettori, che mette insieme la rappresentazione poetica del ritorno del migrante,
in un autori come Giovanni Pascoli o Cesare Pavese, e la produzione di un autore
effettivamente emigrato in paesi differenti, prendendo in esame il caso partico-
lare di Carmine Abate. Inoltre, per quanto riguarda il migrante o l’esule fra le
differenti regioni italiane, una tipologia fortemente presente nella letteratura ita-
liana, per le forti differenze geo-culturali fra le regioni italiana e per la presenza
di forte emigrazione interna, abbiamo esaminato la rappresentazione del ritorno
in Vincenzo Consolo. A proposito dei testi di Giovanni Pascoli e Cesare Pave-
se, occorrerà riflettere anche se e in che misura si possa considerare letteratura
migrante la letteratura prodotta da autori non migranti, ma che tematizzano il
personaggio del migrante.
A nostro avviso si tratta di un ordine di considerazioni che può rivelarsi molto
fertile nel contesto della tradizione letteraria italiana, in quanto, se è vero che solo
a cavallo della fine del secondo millennio assistiamo alla nascita di una lettera-
tura dell’immigrazione in lingua italiana, già nella seconda metà dell’Ottocento,
fin dai primi decenni dopo l’unificazione italiana, gli scrittori si sono confrontati,
da un lato con la neonata identità nazionale italiana, dall’altro con l’emigrazione
massiccia di italiani verso il Nuovo Mondo e verso altri Paesi europei, e con la
fitta rete dell’emigrazione interna, policentrica e polidirezionale, dalle campagne
alle città, dall’entroterra al mare e dal Sud al Nord. Se pensiamo in primo luogo ai
flussi migratori interni, si tratta di ridefinizioni della mappa culturale dell’Italia
che hanno avuto un valore fondante, come, per citare solo un esempio, nel caso
dei grandi scrittori siciliani che hanno trovato la loro patria di elezione chi a Mi-
lano e Firenze (Capuana, Verga), chi a Roma (Pirandello).

1. La categoria del ritorno nella letteratura dell’emigrazione: Carmine Abate

Un punto debole del canone tradizionale della storia letteraria italiana è stata
l’esclusione o l’elusione di quegli scrittori italiani emigrati all’estero, la cui produ-
zione letteraria non si è quindi svolta in Italia (Martelli 2009, 732-740; Pagliardini
2010a, 23-24). A questo proposito prenderemo ora in considerazione il caso, che

84
appare rilevante, dello scrittore Carmine Abate, situato al punto di partenza e al
punto di arrivo di più percorsi di migrazione, puntualmente tracciati all’interno
della sua opera.
La vicenda personale e letteraria dello scrittore si muove su quattro assi migra-
tori differenti. Il primo è costituito dalla storia della comunità etnica cui Abate
appartiene, quella degli arbëreshe, gli albanesi arrivati in Italia e in particolare,
nel caso degli antenati di Abate, in Calabria, nel XV secolo, in seguito alla pres-
sione dei Turchi. Si tratta di comunità che hanno conservato fino ad oggi la lingua
albanese originaria, in una versione più arcaica di quella attualmente usata in
Albania. In seguito a ciò per Abate l’italiano è la lingua della scolarizzazione, ma
non la lingua madre (cfr. Bovo Romœf 2008, 19-21; Bovo Romœf 2006). Il secon-
do asse migratorio è quello percorso dal padre, e vissuto dal figlio come ritorno
impossibile e sempre rimandato, in quanto il padre è dovuto emigrare in Francia e
poi in Germania, andando a far parte di quella frazione della comunità di origine,
chiamata “I Germanesi”, cioè gli emigrati in Germania che tornavano provvi-
soriamente o definitivamente, ma non facevano più parte a tutti gli effetti della
comunità stessa (Bovo Romœf 2008, 72). Il terzo asse è costituito dall’esperienza
di emigrazione dello stesso Carmine, partito dopo la laurea per trovare lavoro in
Germania (Abate 2005, 39-40). Completa il profilo migrante dello scrittore un
quarto asse, quello dell’emigrazione italiana interna, con direzione Sud-Nord, in
quanto lo scrittore, rientrato in Italia, ha avuto la necessità di emigrare nell’Italia
Settentrionale per poter trovare lavoro come insegnante, stabilendosi volta a volta
in luoghi differenti, a seconda degli incarichi scolastici ottenuti, luoghi in cui ha
puntualmente ritrovato una colonia di emigrati da città e regioni del Sud, sia in
ambito scolastico che in altri ambiti professionali (Abate 2010b, 43-54).
Prima di entrare nel dettaglio del tema del ritorno all’interno della sua opera,
vorremmo ricordare come sia stato molto precoce, da parte sua, il tentativo di
leggere la migranza come elemento di valore aggiunto per la cultura e per la lette-
ratura. Emigrante in Germania sulle orme del padre, ha partecipato, in Germania,
al PoliKunst, il cartello degli scrittori immigrati provenienti da paesi e culture
differenti (fino a 17 erano state le lingue di origine di essi), avente come finalità
la creazione di uno spazio letterario in tedesco dove tutti gli scrittori migran-
ti fossero visibili e leggibili (Chiellino 2005). Un’iniziativa in prima persona di
Abate è stata quella di raccogliere in un’antologia dal significativo titolo In questa
terra altrove, uscita nel 1987, testi di 15 scrittori italiani emigrati in Germania.
L’interesse del progetto sta nella scelta di dare visibilità anche in Italia a questi
scrittori, in nome di una sorta di ritorno letterario dei migranti. Sono illuminanti
le parole del saggio introduttivo scritto da Tullio De Mauro, che già a quella data
attribuisce un valore aggiunto alla letteratura e alla cultura dei migranti: «E an-
che in queste riflessioni poetiche, come si vede, si annunzia il tema che abbiamo

85
detto essere la mèta ideale del cammino letterario e umano di questi testi: gli ami-
ci turchi in Germania della signorina tedesca calabrese sembrano non potersi
non leggere se non come schegge e frammenti d’un’umanità nuova, che da radici
diverse, non più negate o schiantate, cerca la luce d’uno stesso, unico cielo.» (De
Mauro 1987, 6)
L’idea dell’antologia, sottolineata anche dall’autore della prefazione, è quella di
andare alla ricerca di un luogo ideale del ritorno, per i migranti che sono approdati
al continente letterario, un ritorno che non si collochi necessariamente nella terra
di origine, ma che risulti dalla costruzione di una nuova patria, umana universale
e globale. In questo senso ci accostiamo al tema del ritorno come movimento
interiore e non direttrice geografica inversa a quella dell’esilio. Abate introduce
come epigrafe alla sua antologia proprio questi versi di Giuseppe Giambusso:
Prima di partire
cominciai a tornare
e ogni volta che torno
mi preparo per la partenza. (cit. in Abate 1987b, 15)

Dalle opere di Abate che analizzeremo in seguito, emerge un concetto della ca-
tegoria dal ritorno che potremmo chiamare il ritorno senza ritorno a casa o il
ritorno senza casa. Esistono studi sul ritorno dei migranti in cui si cerca di cari-
care di significato la categoria di «luogo del ritorno» o «casa», e al tempo stesso
di decontestualizzare dallo spazio geografico tale categoria, attribuendo ad essa
altri significati. Ad esempio Armine Ishkanian nella sua recensione a Markowitz,
Stefansson (2004) mette in evidenza una prima definizione concettuale di ciò che
è «casa» da ciò che è «anti-casa»: «home is the “safe, divinely sanctioned, life
giving space” whereas the anti-home is the “alien, satanic, and life-threatening
space”» (Ishkanian 2004, 112).
Questa dimensione antropologica del luogo del ritorno, svincolata da coordi-
nate geografiche specifiche, si ritrova nell’opera di Carmine Abate, ad esempio
già nel racconto autobiografico L’idolo lontano lontano, inserito nella citata anto-
logia, dove Abate applica la categoria del ciclico non ritorno al padre: «Questo era
lui: un alone di occhiate taglienti sempre davanti a me. Presente sempre dentro di
me, un idolo; e come tutti gli idoli sempre così lontano, irraggiungibile.» (Abate
1987a, 61)
L’immagine del perpetuo moto di non-ritorno viene sviluppato e amplificato
nel romanzo La festa del ritorno, (Abate 2004). La struttura narrativa prevede
l’alternanza di un narratore principale, il figlio, che rappresenta l’autore stesso,
con dei racconti lunghi in cui il padre diventa narratore, rivolgendosi al figlio,
racconti che hanno sempre come cornice l’annuale falò che si accende la notte
di Natale davanti alla chiesa di Hora, trasfigurazione letteraria della Scarfizzi
in cui è nato Abate (cfr. Bovo Romœf 2008). La festa cui fa riferimento il titolo

86
è proprio l’annuale rito del falò natalizio, officiato, durante la festa religiosa più
intimamente domestica, dai «germanesi», dagli emigranti che festeggiano il loro
annuale ritorno, un ritorno annuale che è preludio di un’annuale ri-partenza. Il
rito si rinnova di anno in anno fino alla celebrazione finale, l’ultimo falò in cui il
padre sacrifica nel fuoco purificatore il segno e il mezzo di quella partenza che
annullava sempre il ritorno, la valigia. Si tratta dell’apoteosi della festa del ritorno
e per l’occasione il padre ha organizzato una vera e propria sacra rappresentazio-
ne del natale:
Mio padre si staccò da me quando gli zampognari cominciarono a suonare. «Ci vediamo
dopo, ora ho da fare» e si diresse verso il presepe vivente. Riuscivo a distinguerlo in mezzo
alla folla perché era l’unico che gesticolava e si spostava da una parte all’altra del sagrato con
la sua valigia marrone. (Abate 2004, 158)

La sacra rappresentazione natalizia celebra al sommo grado quel culto della casa,
di ciò che, dal punto di vista sacrale, è sentito come casa rispetto a ciò che è
l’altrove:
Maria era la più bella del paese, una giovane Madonna che sfoderava il sorriso buono da Na-
tale, con i capelli ondulati sciolti sulle spalle e una mantellina di seta azzurra dipinta di stelle.
Giuseppe invece era un barbuto pecoraio, troppo anziano e imbarazzato per rivestire quel
ruolo impegativo sotto centinaia di occhi ironici. L’unica figura immobile era il Bambinello
roseo e sorridente che luccicava nudo nella paglia.
Fuori, le sei ragazze in coha cominciarono a cantare la valja di Natale: Lojmë lojmë,
vasha, valle / Kristi u le te ato Natalle /e u le te një grut e re / pa shkutina e pa fashtè, e intanto
si muovevano in cerchio a passo di danza. (Abate 2004, 159)

Nella ritualità dell’azione s’inserisce anche l’elemento del folclore e della lingua
arbëreshe, per sottolineare il valore più intenso e più intimo del ritorno. A questo
punto si compie il rito sacrificale della valigia gettata dal padre nel fuoco del falò:
La vidi rotolare dentro le scintille, come un pallone calciato a effetto, e poi precipitare al
centro del fuoco. Le grosse braci si frantumarono di botto, liberando sciami di scintille in
tutte le direzioni. La valigia si squagliò lentamente e sparì risucchiata nelle viscere del fuoco.
(Abate 2004, 160)

Il rito del ritorno finale si caratterizza da un lato per elementi della sfera dell’in-
timità e della familiarità, dall’altro con l’immagine di dispersione degli «sciami
di scintille che si sprigionano in tutte le direzioni». Per quanto riguarda la sfera
dell’intimità, in primo luogo la valigia viene assimilata ad un «pallone calciato
a effetto», con un riferimento a quello che era stato il regalo preferito fatto dal
padre al figlio, appunto un pallone da calcio in cuoio (cfr. Abate 2004, 17-18); in
secondo luogo la valigia precipita «al centro del fuoco», cioè al centro dell’ele-
mento antropologico che indica la cellula famigliare, il focolare; in terzo luogo,
con un’accentuazione di questa prima indicazione, troviamo la parola «viscere»
il cui significato letterale fa riferimento anche al ventre materno. L’epilogo costi-

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tuisce in sé una conclusione del moto ciclico ritorno/partenza/ritorno che aveva
caratterizzato tutto il romanzo, in quanto questo si era aperto proprio sulla scena
del falò e con la stessa immagine: «Le scintille ci avvolgevano, sembravano scia-
mi d’api crepitanti» (Abate 2004, 11)
Noteremo per inciso che nell’immagine dello sciame d’api ritroviamo sia il
senso di aggregazione di forte appartenenza, sia il senso di migrazione e di par-
tenza (Baumann 2007, 27-28). Ma il ciclo rappresentato nel romanzo risulta alla
fine aperto per la profezia ex-post, sul modello delle profezie dantesche della
Commedia, fatta dal narratore-figlio nell’ultima pagina del romanzo, subito dopo
il rito della valigia bruciata:
Un giorno avrei comprato una valigia di finta pelle. A diciott’anni e sette mesi, per essere pre-
cisi. Lui mi chiede a cosa serve quella valigia, fingendo di non saperlo. Al posto delle parole
mi esce un sorriso d’imbarazzo. Avvicino il pugno alla tempia come se stringessi una pistola
e aspetto che parli. (Abate 2004, 161)

In questa profezia che costituisce in qualche modo il post-epilogo, troviamo un


altro elemento di ciclicità dell’impossibilità del ritorno, poiché il narratore ri-
prende la stessa immagine con cui il padre aveva giustificato, di fronte al figlio la
propria scelta di partire:
Lui mi prese la faccia tra le mani e mi guardò dritto negli occhi. Disse con una voce profonda,
quasi commossa: «Immagina che un uomo senza scrupoli, un bagasciaro nato, ti punta la
pistola alla tempia e ti dice: “O parti o premo il grilletto!” Tu che fai?».
Aspettò invano una risposta che non volevo, non potevo dargli. (Abate 2004, 32)

Il ritorno non viene soltanto messo in scena ritualmente, ma viene anche tema-
tizzato nei discorsi fra padre e figlio, come nel passo seguente: «Al paese non ci
tornavo più, se non ne avevo bisogno. Pensavo sbagliando. Mi stavo sbarrando la
strada da solo senza motivo» (Abate 2004, 40). La mancanza del vettore ritorno
costituisce una perdita totale di identità per il migrante, secondo quella dinamica
che vedremo descritta anche da Cesare Pavese in La luna e i falò, dove il protago-
nista, totalmente spaesato per non avere quello che chiama «il paese», vaga alla
ricerca di un appiglio per poter stabilire un luogo per il ritorno, oppure qualcuno
che gli indichi la strada.
La complessa mappa geo-identitaria del migrante Carmine Abate rende as-
sai difficile l’individuazione di una via del ritorno individuabile e percorribile.
Questa molteplicità dei percorsi migratori e delle ricerche del ritorno si ritrovano
tutte nel romanzo La moto di Scanderbeg (Abate 2001). Il romanzo è costruito su
una serie di cerchi non concentrici che rappresentano storie che ruotano attorno
ad uno dei protagonisti. Il primo cerchio ruota attorno al protagonista, Giovanni
Alessi, che racconta del suo difficile rapporto con Marta e della sua emigrazione
in Germania, e anche del rapporto con il padre, appena conosciuto perché morto

88
quando lui era in tenera età, di cui ricostruisce il ricordo nel corso del romanzo.
Marta a sua volta è al centro di un altro movimento migrante circolare, in quanto
il padre, arbëresch emigrato in Germania, ha portato la madre, tedesca, in Cala-
bria, ma i due non sono mai integrati in questo ritorno alle radici del marito, e così
sono «ritornati» in Germania. Un altro cerchio ruota attorno al padre di Giovan-
ni, soprannominato Scanderbeg, che oltre ad essere stato emigrante, aveva anche
partecipato alle lotte sindacali per l’occupazione delle terre e la riforma agraria.
Ma questo cerchio si allarga ulteriormente per il soprannome che hanno dato al
padre di Giovanni, che risale all’eroe della lotta di liberazione degli albanesi dai
Turchi nel XV secolo, la vicenda che è stata all’origine delle comunità arbëreshe
che si sono stabilite in Italia. Si tratta di un fine gioco d’intreccio narrativo, per
cui alla fine da un certo punto di vista il ritorno è in direzione della Germania, che
ad esempio per Marta è il luogo del ritorno. Questo non esaurisce tutte le possi-
bilità, dato che, da un altro punto di vista, il vero luogo del ritorno è l’Albania di
Scanderbeg, dell’eroe quattrocentesco.
Il legame forte fra la storia del padre di Giovanni Alessi e l’eroe antico Scan-
derbeg viene esplicitato quando un altro personaggio del romanzo, lo storico del-
le tradizioni di Hora che viene chiamato fin da piccolo «il ragazzo con gli occhi
di calamita», racconta che il principe Scanderbeg per incitare i suoi a resistere
aveva fatto ricorso allo stratagemma di raccontare un sogno, in cui gli era appar-
so San Giorgio: «[...] Poi San Giorgio, allungato il braccio, mi ha porto questa
spada splendente e mi ha detto: Prendi questa spada che Dio ti offre in dono e
con questa farai cadere ai tuoi piedi tutti i nemici che combattono l’Albania e il
cristianesimo». (Abate 2001, 153)
Parallelamente il padre di Giovanni, detto Scanderbeg, in un momento diffi-
cile e delicato della resistenza nell’occupazione delle terre da distribuire, aveva
radunato tutti i contadini e raccontato il suo sogno:
Ho incontrato un uomo con la barba che ha detto ch’era san Nicola, e io ci ho creduto subito,
anche se sapevo che stavo sognando e queste sono cose da non credere. [...] e allora san Nicola
mi ha detto: senti, figlio mio, sono venuto da te per dirti che voi dovete continuare con le
occupazioni, sennò i patimenti, i sacrifici, il sangue versato finora saranno stati inutili. Tanto
alla fine vincerete voi, è solo questione di tempo, perché così sta scritto. (Abate 2001, 158)

Il costante richiamo alla vicenda migrante di Scanderbeg, una sorta di Enea per
la comunità arbëreshe, conferisce aspetto, localizzazione e mappatura incerti al
luogo del ritorno dei personaggi di Abate.
Un ultimo cerchio tematico ruota attorno alla moto che usava il padre, il Guzzi
Dondolino, rimessa in circolazione dal protagonista. E Giovanni Alessi scompare
nell’ultima pagina del romanzo proprio con quella moto, dopo il funerale della
madre, in una sorta di riduzione del luogo del ritorno, dopo la morte del padre e
della madre, al solo spazio della moto:

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Non ha salutato nessuno. C’erano ancora i parenti in casa, e un gruppo di noi, i più intimi,
stavamo nello spiazzo davanti all’entrata. Ci è passato in mezzo, con gli occhi stanchi e arros-
sati, ed è andato dritto nel garage. La moto Guzzi Dondolino è partita al primo colpo. [...] Poi
l’abbiamo visto sparire dietro la curva, inseguito dall’ombra lunga della moto di Scanderbeg.
(Abate 2001, 197)

Si tratta di un finale che può ricordare per molti versi il mito omerico-dantesco di
Ulisse che dopo alterne vicende che hanno caratterizzato il suo ritorno a casa, sce-
glie di riprendere il largo con la sua nave e con i suoi compagni più fedeli, per andare
a sfidare l’ignoto, lo spazio aperto, con un’aspirazione che nel sistema geografico-
morale della Commedia dantesca non può che essere punito (cfr. Gibellini 2002).
In quasi tutti i romanzi di Abate assistiamo, quindi, alla messa in scena, più
o meno rituale, di una sorta di terapia del ritorno, in quanto molti personaggi, e
soprattutto quelli che vengono dipinti come alter ego dell’autore, praticano con
esiti vari tale terapie. A questo proposito vorremmo citare una delle ultime opere
di Carmine Abate, il romanzo Gli anni veloci, in cui il protagonista non è un
migrante, né figlio di emigranti. In questo caso siamo di fronte ad una sorta di
Bidungsroman del protagonista Nicola, e della sua amata/non amata Anna, le
cui biografie vengono seguite parallelamente alle vicende di due cantanti famosi,
rispettivamente Rino Gaetano e Lucio Battisti. In tutto il romanzo assistiamo al
«ritorno» verso luoghi da cui i due protagonisti non sono mai partiti, mentre si
incrociano tre piani della narrazione: il piano dell’infanzia e adolescenza di Ni-
cola, con la vicenda di Anna, studentessa di liceo fuori sede che risiede a casa di
Nicola; il piano della giovinezza di Nicola, caratterizzata dalla sua relazione con
Anna e dalla sua scalata del mondo sportivo della corsa, fino all’incidente che
gli distruggerà un ginocchio; il piano della ricerca di Anna da parte di Nicola,
quando lui ormai quarantenne, è diventato insegnante a scuola. Questi tre piani si
intersecano con la relazione fra Anna e Lucio Battisti, la storia di Anna e Nicola
e la biografia di Rino Gaetano. In particolare il cantautore calabrese emigrato da
Crotone a Roma, dove ha trovato fortuna, assume a poco a poco il ruolo di icona
migrante, di modello, e i testi delle sue canzoni costituiscono una sorta di terra
ideale per il ritorno. A esempio durante una gita in barca per andare a pesca, in
cui si immagina anche la presenza di Rino Gaetano, il giovane cantautore espri-
me tutto il suo desiderio di ritorno dall’esilio:
Poi Rino sussurrò un pensiero a bassa voce: «Che pace» disse. «Me l’ero dimenticata, questa
pace.» E aggiunse che da bambino, quando usciva in barca con i suoi due cugini falegnami,
provava lo stesso sentimento di pace interiore, un benessere che gli azzerava le paure e le
timidezze.[...]
«Rino è un vero poeta» intervenne Mario con una voce innamorata e per dimostrarlo si
mise a canticchiare una canzone del suo amico: «Ad esempio a me piace la strada, col verde
bruciato, magari sul tardi, macchie più scure senza rugiada, coi fichi d’India e le spine dei
cardi». (Abate 2010a, 119)

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Nelle parole delle canzoni di Rino Gaetano riprese nel testo ritroviamo spesso
immagini di strade associate a paesaggi famigliari della terra d’origine. Si tratta
di un’analogia sia con il ritorno desiderato del migrante, che con il destino biogra-
fico del cantautore, bruciato dal successo e morto in un incidente d’auto, con una
sequenza di fatti tragicamente profetizzata dallo stesso Rino Gaetano nella can-
zone La ballata di Renzo, citata anch’essa nel romanzo (Abate 2010a, 206-208).
Un altro elemento che ci conduce verso l’idea della necessità del ritorno è l’at-
tività sportiva del protagonista Nicola. Dedicandosi alla corsa, Nicola non fa che
aumentare la propria distanza da Anna, la propria condizione di autoesilio, men-
tre nella sua ricerca di ritrovare Anna, pur spostandosi dalla Calabria a Besenello,
vicino a Trento, Nicola trova la propria via del ritorno. Qui l’autore pratica un
gioco molto sottile di patchwork fra finzione e biografia, in quanto Anna, la don-
na che lui cerca, abita proprio a Besenello e fa l’insegnante di lettere in un liceo,
come nella realtà biografica accade allo stesso Carmine Abate.

2. Il ritorno nella rappresentazione letteraria dell’emigrazione italiana

Prima di affrontare questo tema, dovremmo porci la domanda se possono rientra-


re nella letteratura migrante le opere di autori che migranti non lo sono stati. Nel
nostro caso si tratta di Giovanni Pascoli e di Cesare Pavese, che hanno descritto
tematiche proprie della letteratura della migrazione, ma che in effetti non hanno
partecipato personalmente alle migrazioni da essi descritte. A questo proposito ab-
biamo trovato una interessante presa di posizione di Rebecca Walkowitz, secondo
cui: «nonimmigrant writers who are engaged intellectually with the movement of
people and objects across geographies and cultures, and who articulate in their work
a “cosmopolitan, transnational, and hybrid vision of social life”, could be producers
of immigrant fiction.» (Walkowitz 533). Tale presa di posizione, suffragata dalle
argomentazioni fornite anche da Carine Mardorossian e Leslie Adelson (Mardoros-
sian 2003; Adelson 2005), ci pare possa giustificare a pieno titolo l’inclusione dei te-
sti pascoliani e pavesiani di cui parleremo nella categoria della letteratura migrante.
Una delle prime e fra le più efficaci rappresentazioni dell’emigrazione italiana
e della terapia/patologia del ritorno, la troviamo in due poemetti di Giovanni Pa-
scoli, Pietole e Italy, rispettivamente del 1909 e del 1904, che hanno significativa-
mente la funzione di aprire e di chiudere la raccolta Nuovi poemetti, nell’edizione
del 1907 (Pagliardini 2010b). Il primo testo, vero e proprio poemetto dell’esilio,
rivela già nel titolo la forte impronta tematica virgiliana, richiamando proprio la
patria del poeta latino, riporta in epigrafe il testo: «Sacro all’Italia esule». Il pro-
tagonista di questo testo, che pronuncia in tre lingue straniere differenti il refrain
I’m Italian, I’m hungry, mentre saluta il proprio campo e la propria terra di appar-

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tenenza che dovrà lasciare, come il Melibeo della prima Ecloga delle Bucoliche
virgiliane, scandisce la forte distinzione fra il qui e l’altrove, fra le (future) terre
di esilio e la terra di appartenenza:
Quegli ripete aspre parole ai pioppi,
ai lunghi pioppi dondolanti in fila.
E dice:
- I am Italian
I am hungry... -
I pioppi a lui rispondono, col canto
d’un rusignolo ch’ha sui rami ognuno,
l’un dopo l’altro; e lontanando il canto
va sino al Mincio ed al ceruleo Po. (Pascoli 2006, 258)

Nel secondo testo, Italy, già l’epigrafe ci rimanda al contesto della migranza, in
quanto non si fa più un riferimento all’esilio, ma ad una situazione di dispersio-
ne nel mondo della popolazione italiana: «Sacro all’Italia raminga»2. In questo
testo si mette in scena proprio il ritorno del migrante, il ritorno di Beppe / Joe
da Cincinnati (Ohio) dove si è trasferito, a Caprona, in provincia di Lucca, il suo
paese natale. Nel testo abbiamo la rappresentazione patologica del ritorno, anche
perché il viaggio avviene per sottoporre a cure mediche la figlia di Beppe / Joe,
Molly, gravemente malata ai polmoni. Inoltre la forma patologica del ritorno è
affidata in primo luogo al gioco delle lingue, il piano su cui si mostra l’inguaribile
condizione di migrante di Beppe / Joe. Nel poemetto abbiamo due poli linguistici
opposti, e cioè la lingua in cui si esprime la mamma del protagonista, il dialetto
di Caprona, e la lingua di Molly, l’inglese:
Pane di casa e latte appena munto.
Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!
nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:
«Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!»

Oh! no: non c’era lì né pie né flavour


né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:
«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?» (Pascoli 2006, 173)

In questi versi si manifesta la totale impossibilità di comunicazione fra nonna e


nipote, fra il polo di partenza e il polo di arrivo dell’esistenza di Beppe / Joe, in
particolare per quanto riguarda la parola «nieva» della nonna, che nel dialetto
di Caprona significa `nevica´, ma che viene intesa dalla nipote come l’omofono
inglese «Never», e di conseguenza la bambina teme che sia un presagio di morte
e di «non ritorno» in quella che è la propria patria, Cincinnati. Se non c’è co-

2 Sul testo esistono studi che mettono a fuoco soprattutto l‘originale creazione stilistica di una
lingua presenta l‘originale sperimentazione di una lingua ibrida che imita l‘italo-americano
degli emigranti, ad esempio in Giachery (1989).

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municazione fra i poli estremi, per cui esilio e ritorno hanno un valore del tutto
speculare (Caprona è patria per la nonna, ma esilio per Molly, e viceversa Cin-
cinnati), il personaggio del tutto disperso dal punto di vista identitario è Beppe /
Joe, come manifesta il doppio nome, con cui lo chiamano rispettivamente madre
e figlia. La sua lingua non è più né l’italiano, o meglio il dialetto di Caprona, che
parla ancora la madre, né l’inglese parlato dalla figlia, ma quella lingua ibrida
degli italo-americani, in cui le parole inglesi «pie» e «flavour» sono diventate
«pai» e «fleva»3. Potremmo affermare che i due poemetti, se letti come la pagina
iniziale e la pagina conclusiva della vicenda dell’emigrazione italiana, sia per la
posizione che occupano nella raccolta, sia perché la prima fotografa il momento
doloroso della partenza e la seconda il momento parimenti traumatico del ritor-
no, potrebbero costituire due sequenze della stessa storia, e offrirci una rappre-
sentazione del fatto che, nel caso dell’emigrazione, da una situazione iniziale di
temuto esilio, si ha l’esito, qui rappresentato come catastrofico dal punto di vista
culturale, della situazione del migrante. Beppe /Joe non ritrova più il campo che
il protagonista di Pietole sentiva come suo e non voleva abbandonare, bensì si
ritrova in una situazione di totale sradicamento e non appartenenza. Se vogliamo
far riferimento ai miti letterari sottesi alla poesia pascoliana, potremmo dire che
al modello virgiliano dell’esule, che mantiene ben saldo il legame con la terra di
origine, con un destino identitario ben definito per il futuro, subentra il modello
di Ulisse, nella variante presentata da Dante nella Commedia, l’esule impaziente,
che diventa migrante in quanto non conosce più l’appagamento del ritorno, ma si
sposta in uno spazio non più orientato secondo gli assi di avvicinamento o rispet-
to alla patria (cfr. Gibellini 2002).
La rappresentazione patologica del ritorno può assumere un valore più vasto
e costituirsi in tematica esistenziale e identitaria, sia declinata in rapporto al fe-
nomeno dell’emigrazione esterna, sia in rapporto all’emigrazione interna, cui si
è accennato. A questo proposito è significativo il romanzo di Cesare Pavese La
luna e i falò, del 1950. L’autore è stato fortemente segnato dal distacco conflit-
tuale dalla campagna, sentita come sua patria elettiva, nei confronti della sua
città, Torino, una delle tante ferite che hanno caratterizzato non solo la vicenda
letteraria, ma anche l’esistenza umana dello scrittore. In molte opere lo scrittore si
rappresenta come esule da una terra non sua, la campagna delle Langhe, vicino a
Torino, presentata a sua volta come patria di un ritorno impossibile (Mondo 2006,
169-181). Il tema, ricorrente nelle opere di Pavese, si ritrova come nucleo centrale
del suo ultimo romanzo La luna e i falò. Non si dimentichi il valore di dramma-
tica testimonianza assunto da questo ultimo romanzo di Cesare Pavese, scritto
a pochi mesi dal suicidio dell’autore, come risulta anche dalla dedica scritta sul

3 A queste fini e sottili creazioni di ibridismo linguistico Pascoli dedica una nota in calce all‘edi-
zione della raccolta poetica, che si può leggere in Pascoli (2006, 183).

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libro all’amico Pino Scaglione, che lo aveva anche aiutato a ricostruire la vicenda
storica dei bambini affidati alle famiglie dall’ospedale di Alba: «A Pinolo questo
libro – forse l’ultimo che avrò mai scritto – dove si parla di lui – chiedendo scusa
delle “invenzioni”, da Cesare.» (cit. in Pavese 1976, XXII)
Il protagonista di questo romanzo, realizza il proprio ritorno, almeno apparen-
temente, da vincente, in quanto si presenta come l’emigrante che ha avuto fortuna
all’estero e ha realizzato quanto aveva desiderato, ma nel profondo non è così:
«C’è qualcosa che non mi capacita. Qui tutti hanno in mente che sono tornato per
comprarmi una casa, e mi chiamano l’Americano, mi fanno vedere le figlie. Per
uno che è partito senza nemmeno averci un nome, dovrebbe piacermi, e infatti
mi piace. Ma non basta» (Pavese 1976, 7). Egli esprime tutta la problematica del
ritorno non possibile, per la sua condizione di déraciné, come risulta dall’incipit
del romanzo:
C’è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco
o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove sono nato non lo so; non c’è da queste parti
una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere».
Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. [...] Ho girato
abbastanza in mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo
che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga
qualcosa e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione. (Pavese 1976, 3)

L’autore inventa questa identità migrante per esprimere la propria crisi identi-
taria: la condizione di migrante diventa così metafora per la propria condizio-
ne esistenziale. Per mostrare il proprio disperato bisogno di ritrovare le radici
attraverso il ritorno, si attribuisce un’identità di «bastardo», di bambino senza
genitori che l’ospedale di Alba aveva affidato a una famiglia povera in cambio
di un sussidio mensile. Un personaggio narratore che resta significativamen-
te anonimo in tutto il testo. Nel libro quella che potremmo definire la ferita
del ritorno si fa sempre più profonda: il protagonista, non potendo ritrovare le
proprie radici nel luogo scelto per il ritorno, cerca di ricostruire altri percorsi,
altre strade che si sono avviate per diffrazione da quel luogo, ma tutte portano
a percorsi di distruzione e di morte. Il protagonista incontra e descrive il perso-
naggio di Cinto, in cui vede un ulteriore alter ego, un ragazzo povero e zoppo,
che non ha i mezzi per allontanarsi dal paese e per migliorare la propria con-
dizione: da un lato un bastardo che non può tornare perché non ha un luogo in
cui tornare, dall’altra chi non potrà mai tornare perché non ha i mezzi neanche
per partire.
Un altro personaggio in cui si rispecchia la disperazione del protagonista è
Santa, la bambina bella e buona che sembrava avere davanti a sé il futuro più ro-
seo. Egli ne cerca notizie per poter ritrovare almeno una persona felice fra quelle
conosciute nella sua infanzia, una traccia di ritorno felice a casa.

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Ma anche questa strada conduce alla disperazione. Infatti sono due fuochi,
due dei «falò» cui fa riferimento il titolo del romanzo, che mettono fine, seppure
con modalità differenti, ad ogni possibile «terapia del ritorno» per i due perso-
naggi. A differenza di quanto si è visto a proposito di Carmine Abate, il fuoco
non ha nessun valore di redenzione positiva, ma rappresenta solo distruzione e
annientamento. Per quanto riguarda Cinto, è il padre che in un moto d’improvvisa
pazzia provoca l’incendio in cui muoiono entrambi i genitori e viene distrutta la
casa, che era stata anche la casa dove era stato allevato il protagonista-narratore.
Così il piccolo zoppo Cinto diventa un migrante déraciné e solo al mondo, per di
più fisicamente menomato proprio nelle gambe. Nel caso di Santa la parabola,
ricostruita a poco a poco con le testimonianze raccolte, è molto più drammatica.
La donna, con un’evoluzione che ricorda la Lia, personaggio del romanzo veri-
sta I Malavoglia di Giovanni Verga, si darà alla vita di prostituta, mantenuta da
fascisti e nazisti, per poi diventare partigiana e spia per conto dei partigiani. In
una spirale di autodistruzione, la donna arriva a fare il doppio o il triplo gioco,
fino al punto in cui sarà processata e giustiziata dagli stessi partigiani. La spirale
distruttiva non si ferma qui, e siamo all’epilogo del romanzo, di lei come racconta
Nuto, l’amico del protagonista, non si poteva lasciare il corpo con il rischio che
fosse ritrovato dai fascisti:
«No, Santa no» disse, «non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e
lasciarla così. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento
nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mez-
zogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò.» (Pavese
1976, 177)

Il fuoco distrugge in questo caso il corpo stesso di Santa, precludendole ogni ri-
torno, e facendo ulteriormente naufragare il percorso di ritorno del protagonista,
per cui la piccola Santa che lui aveva conosciuto rappresentava il segno della vita-
lità e dell’innocenza. E per suggellare ulteriormente questa rappresentazione del
ritorno dell’esule come patologia incurabile da parte di Pavese vorremmo citare
alcuni versi dalla poesia Il ritorno del 1929:
Ora strascino il passo
sotto le luci enormi, d’ogni parte,
che in gran silenzio hanno offuscato il cielo.
E ancora intorno ho il rombo
dell’immensa caduta nella morte.
(Pavese 1998, 266)

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3. Il ritorno nella letteratura italiana della migrazione interna: Vincenzo
Consolo

Data la forte presenza nella storia culturale e sociale dell’Italia contemporanea


delle migrazioni interne, potremmo considerare come migranti quegli scrittori
che hanno tematizzato la loro migrazione da una regione all’altra dell’Italia. Spes-
so questi scrittori hanno cristallizzato nelle loro opere questo esilio per esclu-
sione e sottrazione, oppure si sono rappresentati attraverso i propri personaggi
e le proprie opere come migranti, in quanto non più appartenenti ad uno spazio
geografico specifico. Fra questi autori potremmo certo annoverare i casi degli
scrittori siciliani, che hanno vissuto la propria «sicilianità» come scrittori solo
dopo esseri (auto-)esiliati a Milano, Firenze o Roma, o in altre città italiane, come
Giovanni Verga e Luigi Pirandello. Se guardiamo alla seconda metà del Nove-
cento, potremmo citare a questo proposito, accanto a Giuseppe Bonaviri, uno
scrittore come Vincenzo Consolo, che fa della categoria della migranza una delle
costanti nella propria poetica. Nelle sue opere troviamo sovente il tema della Si-
cilia come terra d’origine, come ricordo o anelito di ritorno, sia nei suoi romanzi
storici, come Il sorriso dell’ignoto marinaio (Consolo 2004) o Retablo (Consolo
1992), sia più specificamente in romanzi autobiografici come Lo spasimo di Pa-
lermo (Consolo 1998), L’olivo e l’olivastro (Consolo 1999b) e La ferita dell’aprile
(Consolo 2008).
Se prendiamo come primo esempio Lo spasimo di Palermo, la «terra promes-
sa» del ritorno assume i connotati di una vera e propria ferita:
Non riconosci la terra da cui eri partito. Chi sia, domandano, il reduce avvolto nella nebbia,
nascosto dietro la vizza maschera del viso, privo di doni, di bottino.
Inutili le astuzie, i racconti menzogneri. È vero che sulla punta del porto è scomparso
l’ulivo, la capanna, il mandriano fedele.
Solo procedi verso la curva che presto s’oscura, quando una luna finisce e l’altra comincia.
Pensa al ritorno da una Palermo argentina, da una Tauride, da una Brooklyn sospesa al
ricordo. (Consolo 1998, 101)

Come si può notare, il tempo ha reso l’esule/il migrante irriconoscibile («vizza


maschera») e la «nebbia» ricopre lo stesso ruolo dell’incomunicabilità linguistica
nel poemetto pascoliano. Inoltre i riferimenti geografici inscrivono nello stes-
so orizzonte i punti di riferimento della grande emigrazione italiana (Argentina,
Stati Uniti) e il mito greco classico, in questo caso declinato con la «Tauride»,
una delle terre toccate dalle vicende che hanno interessato la famiglia di Aga-
mennone, e in particolare la regione dove si recano i fratelli Oreste e Elettra,
dopo l’uccisione della madre Clitemnestra, alla ricerca di Ifigenia scampata per
intervento divino al sacrificio ordinato dal padre, secondo il racconto che tro-
viamo nella tragedia Ifigenia in Tauride di Euripide. Il richiamo alla Tauride,

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come regione mitica dell’esilio non è isolato nell’opera di Consolo in quanto si
ritrova nel romanzo autobiografico L’olivo e l’olivastro, dove ritornano la ferita
e il dolore abbinate alla categoria del ritorno, in quanto il luogo cui anela l’esule,
o per meglio dire in questo caso il migrante, non esiste più, precipita nel mito
diventando irraggiungibile:
Canto di nostalgia come quello delle compagne d’Ifigenia, schiave nella Tauride di pietre e
d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra, d’esiliati in una terra inospitale, cacciati
da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene
e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che
da essa muove, ad essa va, di poeti che si chiamano Pindaro Simonide Bacchilide Virgilio
Ovidio Ibn Hamdis esule a Majorca. (Consolo 1999b, 84)

Noteremo che il canone di poeti che viene proposto si caratterizza per una esi-
stenza migrante o di esiliati, nel caso di Ovidio e Ibn Hamdis4, cui si aggiunge
Virgilio che ha cantato l’esule per eccellenza, il pius Aeneas. Inoltre questo testo,
in cui Consolo si autorappresenta come esule in rapporto al proprio mitico (man-
cato) ritorno in patria, si apre con il riferimento all’omerico (e dantesco) Ulisse.
In particolare Consolo, che vuol raccontare la propria odissea di esule senza ri-
torno attraverso una poetica ricostruzione della meta del ritorno, la Sicilia, si
rappresenta attraverso la figura di Ulisse, a cui è precluso il ritorno, o reso vano
e inquieto:
Narra, narra fluente la sua odissea. come avesse varcato la soglia magica, la bocca dell’ipo-
geo dell’anima. [...] Narra del momento in cui lascia le macerie di Ilio, issa le vele e inizia il
viaggio di ritorno. Viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma una
volta immerso nella vastità del mare, è come se fosse il suo un viaggio in verticale, una di-
scesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo,
distruttivo. (Consolo 1999b, 19)

Il viaggio di ritorno del protagonista del romanzo arriva in una “terra promessa”
non più riconoscibile; il tempo, il progresso, la storia, ha del tutto distrutto quel
luogo, che viene assimilato alla fortezza di Masada, la roccaforte giudea dove gli
Ebrei, altra icona dell’erranza nella cultura europea, avevano trovato scampo con-
tro i Romani, ma dove tutti si sono uccisi per non cadere vivi in mano ai soldati
romani: «I romani, con tute di pelle, con caschi, irrompono sopra motociclette,
corrono rombando dentro le crepe del cretto, squarciano il buio con i fari. Trova-
no corpi, fiamme, silenzio.» (Consolo 1999b, 148)
Lo scrittore attualizza con mezzi e abbigliamento moderni la scena antica,
per rappresentare la ciclicità e la validità universale di quell’estrema e vana lotta
dell’uomo contro la propria diaspora, in questo caso rappresentata dalla diaspora
per eccellenza, quella ebraica.

4 Si tratta di un poeta arabo-siciliano, esule dopo la conquista della Sicilia da parte dei Normanni,
cfr. (Hamdis 1998).

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Considerazioni conclusive

Se assimiliamo l’esilio a una patologia, in quanto mancanza o perdita delle radici,


allora il ritorno dovrebbe costituirne la terapia. Al contrario, negli esempi mo-
strati, il ritorno del migrante, di cui si rappresenta la problematicità o addirittura
l’impossibilità, assume quasi sempre connotati patologici. La ricerca d’identità
assume così le forme del ritorno impossibile, una sorta di terapia in sé patologica.
Tuttavia l’esame delle opere di Abate ci ha mostrato una possibile direzione te-
rapeutica del vettore ritorno. Si muove ulteriormente in questa direzione l’ultima
opera dello scrittore arbëreshe-tedesco-italiano, la raccolta di saggi Vivere per
addizione, in cui, al valore patologico della sottrazione di ritorno subita dall’esu-
le, si sostituisce il valore terapeutico dell’aggiunta identitaria, dell’arricchimento
identitario ad ogni contatto con un nuovo contesto di migrazione. Possiamo ri-
prendere a questo proposito le parole dello scrittore sul punto d’arrivo del suo
multidirezionale percorso identitario, ma che in qualche misura possono costitu-
ire anche l’approdo della riflessione portata avanti nelle nostre pagine: «Ma ora
non posso e non voglio più tornare indietro. Voglio vivere per addizione, miei
cari, senza dover scegliere per forza tra Nord e Sud, tra lingua del cuore e lingua
del pane, tra me e me.» (Abate 2010b).
Partendo da queste parole di Abate vorremmo dare una chiave di lettura uni-
ficante alla categoria del ritorno, in quanto potrebbe costituire un primo asse per
inscrivere in uno stesso spazio letterario umanistico la produzione letteraria degli
autori del canone tradizionale e quella degli autori migranti.

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100
Gli scrittori esiliati e le malattie del canone.
Lo strano caso di D. Tsepeneag e di Mister Pastenague
Alexandra Vranceanu
Università di Bucarest

«As borders blur, nation-states


implode and the ’world’ both spe-
eds up and contracts, ‘migration’
has become the new buzz-word.»
(Prendergast 2008, 8)

Abstract

In questo saggio si prende in esame il rapporto complicato che gli scrittori migranti instaurano con
il canone letterario, con le lingue di scrittura e con la propria appartenenza culturale. Questi rapporti
ingenerano talora «disturbi della personalità letteraria», come accade nel caso dello scrittore rumeno
Dumitru Tsepeneag, emigrato a Parigi nel 1975. Mi occuperò in questa sede di due suoi romanzi, i
cui temi sono legati all’angoscia identitaria dello scrittore multilingue: Le mot sablier (1985), scritto
in parte in francese e in parte in rumeno, e Pigeon vole (1989), scritto in francese e pubblicato con
lo pseudonimo Ed Pastenague. Essendo convinto che non avrebbe mai potuto pubblicare i suoi libri
in Romania, a causa della censura comunista, e che il suo nome era impronunciabile per i francesi,
Tsepeneag cerca d’integrarsi nella cultura francese attraverso un cambiamento di nome letterario e
di lingua di scrittura. Ma lo pseudonimo «Ed Pastenague» non sarà destinato ad una lunga vita, dato
che, dopo la Rivoluzione del 1989, Tsepeneag ricomincia a scrivere in rumeno. Questo esempio di
«patologia letteraria», che si manifesta in forma di identità multipla, ci permetterà di esaminare le
malattie del canone letterario nazionale. Nell’ultima parte del saggio si prenderanno in considera-
zione anche alcune soluzioni per trattare sia le malattie del canone che i disturbi della personalità
letteraria degli scrittori migranti: si discuteranno concetti come quello della letteratura transnazio-
nale e dei suoi rapporti con le storie letterarie d’ispirazione herderiana.

Analizzerò qui un caso di disturbo della personalità letteraria, così come appare
in due romanzi scritti da Dumitru Tsepeneag, Le mot sablier (1985) e Pigeon vole
(1989). Scrittore rumeno emigrato a Parigi durante il regime comunista, Tsepe-
neag perde la speranza di vedere un giorno la fine della dittatura di Ceausescu e
comincia a scrivere in francese. Non solo cambia la propria lingua di scrittura,
ma, convinto di possedere un cognome impronunciabile, si sceglie uno pseudo-
nimo, Ed Pastenague. Ebbene mi accingo a studiare lo strano caso di Dumitru
Tsepeneag divenuto Ed Pastenague, facendo riferimento al romanzo siglato con
questo eteronimo, Pigeon vole. Pastenague, questo alter ego più giovane e fran-
cese, sparirà dopo il 1989, quando Tsepeneag ricomincerà a scrivere in rumeno
con il suo vero nome. Il suo doppio letterario francese apparirà ancora in seguito

101
nei suoi romanzi come personaggio che dà consigli al narratore. Questo caso di
doppia personalità letteraria può essere studiato non soltanto nei testi letterari,
ma anche mediante il paratesto, nelle interviste e negli articoli in cui Tsepeneag
esamina la problematica dell’esilio, della letteratura nazionale, della traduzione e
dell’autotraduzione.
Le analisi dei romanzi di Tsepeneag e Pastenague serviranno come punto di
partenza per discutere «le malattie del canone letterario». La seconda parte del
mio saggio è una riflessione teorica che si propone di contestualizzare la «malat-
tia» letteraria della personalità multipla, che si presenta come una costante nella
produzione degli scrittori migranti, obbligati all’appartenenza contemporanea a
più culture.

1. Un’identità letteraria multipla

Fra i temi e le tecniche letterarie che caratterizzano la scrittura dell’esilio e del-


la migrazione, troviamo la patologia, che si manifesta spesso sotto le forme di
angoscia, malinconia, depressione, o disturbi della personalità, come si può ve-
dere nella maggior parte delle ricerche presentate in questo volume. Ho scelto
un esempio di disturbo dell’identità letteraria che si integra nel paesaggio delle
malattie dell’anima migrante.
Nel caso di Tsepeneag la patologia dell’anima migrante assume la forma del-
la personalità multipla e si manifesta con l’alternanza delle lingue di creazione,
francese e rumeno, talora all’interno dello stesso testo. Queste titubanze identita-
rie lasciano traccia anche nella struttura del romanzo, in cui l’intreccio è accom-
pagnato da un ricco meta-testo che concerne i problemi identitari del narratore;
in ciò si può riconoscere una caratteristica della letteratura dell’esilio. Cercherò
di mettere in relazione il cambiamento linguistico, praticato da Tsepeneag in Le
mot sablier, con il cambiamento del nome dell’autore, che si trova in Pigeon vole.

1.1 Il francese sostituisce il rumeno come l’aria sostituisce la sabbia in una
clessidra: Le mot sablier (1985)

Dopo il debutto con le raccolte di racconti Exerciţii (1966) e Aşteptare (1972),


pubblicati in Romania, Dumitru Tsepeneag scrive in rumeno il suo primo roman-
zo, Zadarnică e arta fugii, ma lo pubblica in francese presso l’editore Flammarion
con il titolo Arpièges (1973), nella traduzione di Alain Paruit. Il secondo romanzo,
Les noces nécessaires (1977), che rielabora in stile «onirista» la ballata popolare
rumena Mioriţa, è anch’esso scritto in rumeno e pubblicato in traduzione fran-

102
cese. Fra il 1977 e il 1985 Tsepeneag rinuncia alla letteratura per consacrarsi al
gioco degli scacchi, su cui pubblica il libro La défense Alekhine (1983). Tsepeneag
ricomincia a pubblicare romanzi nel 1985, con il testo bilingue rumeno-francese
Le mot sablier. Seguono due altri romanzi scritti direttamente in francese, Ro-
man de gare (1986) e Pigeon vole (1989), il secondo uscito con lo pseudonimo Ed
Pastenague. L’evoluzione letteraria di Tsepeneag si svolge dunque fin dal debutto
sotto il segno della migrazione e del multilinguismo. La carriera di Pastenague
sarà troncata dalla Rivoluzione che segna la fine del comunismo nel 1989, quando
Tsepeneag torna allo stesso tempo alla lingua rumena e al proprio nome reale.
Dopo il 1989 ripubblica in rumeno tutti i romanzi usciti fino a quel momento solo
in traduzione francese, diversi libri d’interviste e, a partire dal 1996, una trilogia
molto apprezzata dalla critica (Hotel Europa, 1996, Pont des Arts, 1998, Au pays
du Maramuresh, 2001), seguita da La Belle Roumaine, nel 2004, e Camionul
bulgar. Șantier sub cerul liber, nel 2011. Gli ultimi cinque romanzi escono quasi
allo stesso tempo in Francia (tradotti da Alain Paruit) e in Romania.
In questo percorso letterario ci sono molti momenti interessanti per lo studio
dei disturbi della personalità cui si allude nel titolo di questo saggio.
Il primo momento importante è quello della rottura sul piano fisico: Dumitru
Tsepeneag emigra, suo malgrado, nel 1975 a Parigi, dove è obbligato a restare
dato che il presidente Ceausescu gli ritira all’improvviso la cittadinanza rumena,
precludendogli il ritorno in patria. Tsepeneag era stato bandito per aver fondato a
Parigi una rivista indipendente, Les Cahiers de l’Est, destinata ad accogliere testi
degli scrittori dei paesi comunisti, il che era stato percepito come una minaccia
da parte della nomenklatura comunista rumena. All’epoca Tsepeneag era uno
scrittore assai famoso in Romania, dove ricopriva il ruolo di teorico del gruppo
letterario denominato onirism estetic, che annoverava fra i suoi membri Leonid
Dimov e altri poeti e prosatori, e non aveva alcuna intenzione di emigrare. Lo
scrittore confesserà più tardi di aver cambiato il titolo del suo primo volume, che
in rumeno era Zadarnică e arta fugii (Inutile è l’arte della fuga), in Arpièges, per
evitare la parola fuga, in quanto l’idea di emigrare gli faceva orrore (Tsepeneag
2000, 90).
Il secondo momento che indica una frattura della personalità è la pubblicazio-
ne del romanzo Les Noces nécessaires. Tsepeneag illustra in un articolo il sog-
getto del suo secondo romanzo apparso in Francia, ispirato a una ballata popolare
rumena, Miorița, e introduce un’analogia fra la sua posizione e quella di un autore
anonimo di folclore, che rifiuta in parte la responsabilità autoriale: «Le livre n’est
pas tout à fait le mien. Comme tous les livres que j’ai publiés en France. Ils sont
les livres de mon traducteur. […]»1 (apud Manolescu, 711). Questa confessione
risulta essenziale per comprendere il destino dello scrittore multilingue e il suo
1 Il passaggio sarà ripreso e trasformato nel romanzo Le mot sablier (Tsepeneag 2005, 113).

103
cambiamento graduale d’identità. Il passaggio prosegue con un’idea che potrebbe
spiegare i disturbi della personalità che si sarebbero manifestati con il suo terzo
romanzo: «Maintenant je me sens parfaitement bien. Je ne suis auteur. Je n’ap-
partiens ni à la littérature roumaine ni à la littérature française, je suis libre. Le
texte qui porte mon nom a quelque chose d’un texte anonyme.» (apud Manolescu,
711) Tuttavia questa perdita di «presenza» produrrà una crisi identitaria profonda,
che sarà spiegata e analizzata da Tsepeneag, molti anni più tardi, nelle interviste
(Tsepeneag, 2000). Infatti, dopo Les noces nécessaires, aspetterà ancora degli
anni prima di riapparire sulla scena letteraria parigina, per poi farlo con un libro
enigmatico, che sottolinea la sua situazione di scrittore fra due lingue.
Il terzo momento essenziale della crisi d’identità, quello in cui appare per la pri-
ma volta il «lato di Mister Hyde», è la scrittura del romanzo Le mot sablier (1984).
Libro paradigmatico per il destino dello scrittore esiliato, Le mot sablier inizia in
rumeno, continua con dei passaggi bilingui in rumeno e in francese, e termina
con pagine scritte interamente in francese. Costruito sulla metafora della clessidra
(sablier), che rappresenta simbolicamente il passaggio da una lingua all’altra, il
romanzo non ha un intreccio lineare, ma si compone di più scene, ricorrenti alla
maniera di un refrain. Fra queste scene vogliamo citare qualche esempio: un diser-
tore che corre all’inizio su una spiaggia e in seguito sulla linea dei binari, un bar
parigino, chez George/Georges, dove si parla di letteratura, la scena in cui Alain il
traduttore e Domnica/Dominique si trovano nella cucina a bollire delle uova con
l’aiuto di una clessidra, ecc. Queste scene non sono legate in una storia coerente e
il romanzo è privo di punteggiatura. Il testo procede come una sonata musicale2,
si riprendono frasi, personaggi, scene simboliche, con leggere modifiche; i perso-
naggi che compaiono all’inizio del romanzo, nella parte in rumeno, riappariranno
nell’ultima parte, scritta in francese. A mano a mano che la lettura procede, il
francese sostituisce il rumeno proprio come in una clessidra l’aria sostituisce la
sabbia, ma la sostanza narrativa, o piuttosto lirica, resta prigioniera nel vetro della
clessidra. In una recensione apparsa alla pubblicazione del volume, J. Cl. Marre
osserva: «Cet équilibre d’un texte (entre deux pays et deux écritures) se joue aussi
du vertige puisque par une construction remarquable, l’auteur fait dialoguer les
deux langues de l’une à l’autre comme un jeu de miroirs sans fin qui renverrait à
l’infini l’image de l’écrivain écrivant.» (Marre, 1984)
Malauguratamente per la storia della letteratura meticcia, Le mot sablier è sta-
to pubblicato interamente in francese, con i passaggi in rumeno tradotti in fran-
cese da Alain Paruit. Il carattere unico e sperimentale del volume così si è perso
e il dialogo fra le lingue e la struttura musicale del racconto ne risultano molto

2 Per la struttura musicale del testo letterario si veda Claudon (1992), in particolare il passaggio in
cui si analizza la transposition d’art in Gautier (Claudon, 1992, 181-185), un procedimento che
assomiglia alla maniera di Tsepeneag di trasporre temi e tecniche musicali nel racconto.

104
meno evidenti.3 Tuttavia anche in questa edizione restano tracce del bilinguismo
rumeno-francese. La prima è tipografica, in quanto i passaggi tradotti in francese
sono stati stampati nel testo in corsivo. La seconda traccia è narrativa, perché la
traduzione diventa un tema discusso fra i personaggi: il traduttore Alain, il nar-
ratore, il libraio Anne, e l’editore Paul. Il personaggio del traduttore è un doppio
diegetico di Alain Paruit, amico di Tsepeneag e traduttore francese di tutti i suoi
romanzi.
Una «frase» ricorrente della «sonata» costituita da Le mot sablier ha come
personaggio un soldato disertore che corre, all’inizio su una spiaggia, poi lungo
i binari del treno, dopo aver gettato una parte della propria uniforme, che poteva
tradire la sua appartenenza. Il soldato arriverà alla fine del romanzo al caffè di
Georges, dove si trovano Alain il traduttore, Domnica e altri clienti. Il disertore
bussa alla porta, ma Georges, il proprietario del bar, gli chiude la porta in faccia.
Sarà Alain il traduttore che gli aprirà a sua volta la porta. Cito il brano nella va-
riante bilingue:
care ești acolo se răstește el și deschide ușa. mai precis o întredeschide: în lumina din ce în ce
mai puțină a amurgului abia ținându-se pe picioare ditamai găliganul îmbrăcat pe jumătate în
soldat pe jumătate în vagabond. figura asta topită de oboseală și cotropită de peri roșcați nu-i
spune nimic cârciumarului.
pe cine cauți dumneata
dezertorul însă nu răspunde. face doi pași împleticiți
și dă să intre în casă. George trage de clanță și-i închide ușa în nas.
qui était-ce demande Robert
un vagabond
și ce vroia întreabă Valentin
habar n-am
Alain ne se contente pas de cette réponse. il va lui-même vers la porte tourne la poignée et
tire: un corps s’affaisse sur lui. heureusement il est costaud Alain rugbyman dans sa jeunesse:
il soutient le corps à la manière d’un vrai pilier (Tsepeneag, 2005, 92)4

3 Il testo è stato pubblicato nella variante franco-rumena nel 1994 e in seguito nel 2005 in Roma-
nia.
4 «chi c‘è là, grida lui, e apre la porta. più esattamente la socchiude: nella luce sempre più fioca
del crepuscolo, tenendosi appena in piedi un marcantonio vestito a metà da soldato e a metà da
vagabondo. questa faccia disfatta dalla stanchezza e invasa da peli rossicci non gli dice niente
all‘oste. lei chi sta cercando? ma il disertore non risponde. fa due passi traballanti e cerca di
entrare in casa.
George tira la maniglia e gli sbatte la porta in faccia.
chi era chiede Robert
un vagabondo
e cosa voleva chiede Valentin
non ho idea
Alain non si accontenta della risposta. va lui stesso verso la porta gira la maniglia e apre: un
corpo si abbatte su di lui. per fortuna è robusto Alain giocatore di rugby in gioventù: sostiene il
corpo come un vero pilastro.» [trad.mia]

105
Iniziato nel 1979 e terminato nel 1984, Le mot sablier ha come tema l’emigrazio-
ne e la morte. Tsepeneag confessa di aver voluto riunire i suoi due temi preferiti,
fuga e morte, in uno solo che diventa la fuga verso la morte (Tsepeneag 2000,
170). L’immagine del traduttore che apre la porta al disertore stanco, rappresen-
tazione simbolica dello scrittore esiliato, e lo sostiene «à la manière d’un vrai
pilier» mostra l’importanza assunta dalla lingua della scrittura per Tsepeneag.
E infatti, in questa prosa poetica costruita tutta sul gioco del cambiamento di
lingua, l’intreccio è totalmente sostituito da un successione di scene metaforiche
sull’atto della scrittura.
Il destino del romanzo Le mot sablier, testo d’avanguardia nelle pubblicazioni
bilingui, ma pubblicato in un primo momento solo in francese, è paradigmatico
per le difficili scelte che sono tenuti a compiere gli scrittori migranti5; allo stesso
tempo, il destino ambiguo di Le mot sablier mostra che questo tipo di letteratura
deve superare grandi difficoltà editoriali prima che si trovi un lettore che conosca
tutte e due le lingue (cfr. Grutman 2007). Se a livello dei temi e del soggetto nulla
impedisce allo scrittore migrante di integrarsi in più culture, a livello di lingua
la situazione è ben differente. Come scrivere in più lingue contemporaneamente
e soprattutto come fare con le lingue conosciute da un numero limitato di lettori,
come il rumeno, il serbo o l’armeno? La riflessione attorno alla scelta dolorosa
fra le lingue di scrittura appare spesso, non solo nei romanzi, ma anche negli altri
scritti di Tsepeneag, ed esprime l’angoscia dello scrittore migrante fermato alla
porta della repubblica delle lettere.
Lui stesso confessa di aver cominciato a scrivere in francese per evitare al suo
editore i costi della traduzione, ma si può riconoscere nella superficialità di que-
sta spiegazione un sintomo del disturbo della personalità letteraria6. Tsepeneag,
che è stato anche traduttore dal francese al rumeno (Tsepeneag 2000,199), inor-
ridisce all’idea che, nei suoi romanzi scritti in rumeno e pubblicati unicamente
in traduzione francese, le sue parole vengano sostituite: «L’acte d’écrire devenait
une mise à mort. Ils devaient mourir, mes mots, pour que je survive, moi, le scrip-
teur, en tant qu’auteur. La traduction tue matériellement le texte et proclame, sur
la couverture, une imposture: l’Auteur. Un fantôme qu’on a beau à attendre dans

5 Nel suo articolo dal titolo suggestivo «L’écrivain bilingue et ses publics: une perspective compa-
ratiste» Rainier Grutman osserva: «Tout à l’heure, j’ai qualifié d’exogène le bilinguisme pratiqué
par ces passeurs de langue. Je voulais souligner par là son statut excentrique (au sens propre et
figuré). Comment ne pas voir en effet que leurs œuvres ne remettent pas vraiment en question la
logique foncièrement unilingue de la littérature comme institution. Dans les médias parisiens,
on aime bien les écrivains venus d’ailleurs mais qui se sont convertis au français, illustrant du
même coup l’universalité de cette langue, un peu comme au bon vieux temps de Rivarol.» (Grut-
man 2007, 38)
6 Si veda un parallelo fra più scrittori dell‘esilio e l‘analisi delle loro relazioni problematiche con
le lingue di scrittura in Farkas 2005, 35-77.

106
les pages ré-écrites par quelqu’un d’autre.» (Tsepeneag 2005, 113-114) Forse per
una sorta di vendetta contro la traduzione dei propri libri, Tsepeneag concepirà
questo romanzo intraducibile in un’altra lingua o in un’altra coppia di lingue.
Soffermiamoci a riflettere su questo rapporto fra l’atto di tradurre un testo e
la decisione di cambiare identità culturale e linguistica, perché questa situazione
richiama un déjà-vu. Anche Cioran aveva deciso un giorno di cambiare lingua e
identità, e l’idea gli era venuta mentre traduceva la poesia di Mallarmé in rumeno.
Nel destino culturale di entrambi gli scrittori, la traduzione gioca il ruolo di rive-
latore di personalità, che segna la comparsa di una nuova identità. Ma se per Cio-
ran il passaggio dal rumeno al francese appare come «une libération du passé»
(Cioran 1995, 143), per Tsepeneag il passaggio da un’identità all’altra assomiglia
piuttosto al rapporto problematico fra un Dr. Jekyll e un Mr. Hyde. Pierre-Yves
Boissau ritiene che, nel caso di Cioran, il cambiamento dal rumeno al francese
sia una scelta identitaria determinante, che corrisponde a una riflessione profonda
(Boissau 2007, 306): «Dans son œuvre comme dans ses rares commentaires, la
mutation linguistique est réfléchie. Or, il est troublant de voir à quel point Cioran
la lie à une fracture identitaire.» (Boissau 2007, 314). Tsepeneag, che pone in epi-
grafe al romanzo Le mot sablier una frase di Cioran7, cercherà di intraprendere a
sua volta lo stesso percorso, ma con un esito del tutto differente, poiché, mentre
Cioran scriverà in francese per tutto il resto della vita, Tsepeneag lascerà il fran-
cese e tornerà al rumeno dopo il 1989.
Cioran affermava anche che l’esiliato può conservare solo il proprio nome: «Il
consent à tout abandonner, sauf son nom. Mais son nom, comment l’imposera-t-il,
alors qu’il écrit dans une langue que les civilisés méprisent?» (Cioran 1986, 63).
Prima della rivoluzione del 1989, che ha messo fine al suo esilio, Tsepeneag si era
spinto oltre nella propria ricerca di un’identità «francese», poiché aveva rinuncia-
to anche al proprio nome rumeno, considerato impronunciabile. Così era nato Ed
Pastenague, in un momento essenziale di rottura identitaria, dopo anni in cui Tse-
peneag era diventato un giocatore di scacchi e aveva abbandonato la letteratura.

1.2 Disturbi d’identità autoriale in Pigeon vole (1989) di Ed Pastenague

Il romanzo Pigeon vole, firmato Ed Pastenague, ha come soggetto la scrittura


stessa del romanzo da parte di un narratore che impiega al suo servizio degli aiu-
tanti («des nègres»). Il narratore fa appello ai suoi amici Edouard, Edmond e Ed-
gar, che lo aiutavano scrivendogli lettere. Le lettere sono riportate nel romanzo,
talvolta integralmente, talvolta con commenti e correzioni fatte dal narratore, che
si dichiara non sempre soddisfatto del lavoro dei suoi aiutanti. A sua volta, l’au-

7 «Que la littérature soit appelée à périr, c’est possible et même souhaitable».

107
tore stesso è bersaglio delle critiche dei suoi amici, che non lo credono capace di
scrivere un romanzo; ad esempio, nel brano seguente, il narratore cita una lettera
di Edgar, in cui questo lo critica senza pietà: «Je ne respectais aucune des règles
de la rédaction, aucune chronologie dans mes récits de vacances; mes phrases
pendouillaient ainsi que mes cahiers de texte mal entretenus. […] C’est pourquoi
mon projet d’écrire un roman l’amuse énormément» (Pastenague 1989, 69). Verso
la fine del romanzo, il narratore fa partecipi i lettori delle sue angosce di fronte
alla materia del testo che non si lascia organizzare, di fronte a personaggi che gli
sfuggono di mano:
Maintenant je me sens submergé. Et responsable de mes personnages qui ne tiennent pas
toujours compte de ma volonté, de mes goûts, de mes intérêts… Les lettres (ou les coups de
fil) de mes amis me tombent sur la tête comme des briques d’autres murs qui semblent en train
de s’écrouler autour de moi et menacent de m’enterrer vivant. Matériaux de construction, très
bien, c’est cela que je souhaitais, mais leurs pans de narration ont plutôt l’air de panneaux
préfabriqués ou de décors de théâtre; ils m’isolent comme sur une scène et je m’y perds…
Suis-je le metteur en scène ? […] Suis-je un simple acteur ? Une marionnette dans les mains
de quelqu’un qui m’a inventé de toutes pièces  ? La créature d’un projet qui me dépasse  ?
(Pastenague 1989, 158)8

Questi disturbi d’identità troveranno una risposta inattesa nel finale del romanzo,
che, come vedremo, riserverà una sorpresa al lettore.
I personaggi del romanzo Pigeon vole possono essere inquadrati in due cate-
gorie. La prima è costituita dai diversi narratori, che discutono sulla creazione
del romanzo, come in Cervantes o in Fielding, ma che raccontano anche gli av-
venimenti più disparati della loro vita privata in una maniera del tutto casuale e
caotica. Gli aiutanti del narratore sono multiculturali, dato che Edmond è «nero»,
Edgar per metà vietnamita (cioè «giallo»), mentre Edouard è francese (ma, in
quanto comunista, «rosso»). I temi postcoloniali sono trattati così in chiave ironi-
ca. La seconda categoria di personaggi appare nelle storie raccontate da Edmond,
Edouard e Edgar, e non prende mai contorni troppo precisi: restano una sorta di
creature di carta la cui identità narrativa assume un rilievo solo nei singoli rac-
conti dei tre alter ego del narratore.
Si ritrova in Pigeon vole la struttura a specchio del romanzo Le mot sablier,
ma qui sono i giochi effettuati attraverso i personaggi autoriali che producono

8 «Adesso mi sento sommerso [dal lavoro]. E responsabile dei miei personaggi che non tengono
sempre conto della mia volontà, dei miei gusti, dei miei interessi... Le lettere (o le telefonate)
dei miei amici mi cadono in testa come mattoni di altri muri che sembrano sul punto di crollare
attorno a me e minacciano di seppellirmi da vivo. Materiali di costruzione, benissimo, è questo
che mi auguravo, ma i loro pezzi di narrazione hanno l’aria piuttosto di pannelli prefabbricati o
scenografie teatrali; mi isolano come su una scena e io mi ci perdo... Sarò il regista? [...] Sarò un
semplice attore? Una marionetta nelle mani di qualcuno che mi ha inventato di sana pianta? La
creatura di un progetto più grande di me?» [traduzione mia]

108
l’effetto speculare. Si potrebbe leggere Pigeon vole come una sorta di mise en ab-
yme che mostra l’immagine del narratore riflessa in più specchi di colore diverso.
Il narratore ha l’impressione di essere sorvegliato, mentre, in effetti, non è altro,
anche lui, che una ulteriore maschera dell’autore:
J’ai une drôle de sensation, comme si ce n’était pas moi qui, non… enfin… J’ai l’impression
qu’on regarde par-dessus mon épaule. Pire, je me sens épié, surveillé comme un petit écolier
(par son père). Je subis la volonté de quelqu’un d’autre. Et je me laisse faire, chevaucher… Je
ne puis pas m’opposer. (Pastenague 1989, 115)9

Il romanzo di Pastenague si costruisce attorno alle maschere dell’autore esiliato e


delle sue identità multiple, che si nascondono come scatole cinesi, l’una all’interno
dell’altra. Gli ammiccamenti intertestuali sono numerosi nella scrittura sapiente
di Tsepeneag: accanto alla possibile associazione con i quattro moschettieri, os-
servata da Cristian Moraru (Moraru 2009, 18), si potrebbe ricordare il racconto
William Wilson di Edgar Allan Poe. Il tema del doppio che si riconosce con orrore
spossessato della propria identità sembra la fonte d’ispirazione per l’ultima scena
di Pigeon vole, che dà un senso a tutto il romanzo10.
Questa angoscia che ricorda William Wilson si costruisce, come nel racconto di
Poe, lungo tutto l’intreccio e si risolve nell’ultima scena del romanzo. Noi lettori
sospettiamo che ci sia una relazione problematica fra il narratore e il vecchio gio-
catore di scacchi, in cui certi lettori hanno riconosciuto lo stesso Tsepeneag. Ma
la confusione fra gli alter ego del narratore è mantenuta fino alla fine del testo,
esattamente come in William Wilson di Poe, dove ci si rende conto del fatto che il
narratore e il personaggio che lo pedina sono la stessa persona.
In Poe il finale tragico ed enigmatico del racconto mostra gradualmente che il
narratore assassino non ha ucciso il suo doppio, come aveva creduto di fare, ma
se stesso. Cito le ultime frasi di William Wilson¸ in cui il narratore, che credeva
di aver ucciso il suo nemico, si rende conto che sotto la maschera di Wilson si
nascondeva il proprio volto:
It was Wilson; but he spoke no longer in a whisper, and I could have fancied that I myself
was speaking while he said: “You have conquered, and I yield. Yet henceforward art thou
also dead – dead to the World, to Heaven and to Hope ! In me didst thou exist – and in my
death, see by this image, which is thine own, how utterly thou hast murdered thyself “ (Poe
1966, 578)

9 Ho una sensazione strana, come se non fossi io che, no... finalmente... Ho l’impressione che
uno mi stia guardando da dietro le spalle. Peggio, mi sento spiato, sorvegliato come un piccolo
scolaro (da suo padre). Subisco la volontà di qualcun altro. E lascio fare, mi faccio scavalcare...
Non posso oppormi. [traduzione mia]
10 Un‘ulteriore spia intertestuale che potrebbe segnalare la presenza della lettura del racconto di
Poe è l‘adozione per uno degli alter ego di Tsepeneag dello stesso nome di battesimo (Edgar)
dello scrittore americano.

109
I romanzi di Tsepeneag sono spesso costruiti attorno a certe costanti tematiche
che si riprendono, si completano, variano impercettibilmente e interagiscono con
gli altri temi di ciascun romanzo, sempre mantenendo una loro riconoscibilità.
Una struttura musicale, sul modello della sonata in cui si riconosce una certa
«frase», che torna e dona unità all’insieme. In Pigeon vole la «frase» che dà sen-
so al romanzo è costituita dalla relazione enigmatica tessuta a poco a poco fra
il narratore e il vecchio giocatore di scacchi. Il narratore segue il giocatore di
scacchi nel caffè parigino «Chez les Belges», dove gioca in cambio di denaro, e
cerca di conoscerlo meglio. Il narratore finge di non conoscere il nome di questo
personaggio che parla francese con un leggero accento straniero e che ha scritto
un libro sui problemi degli scacchi. Chi è costui? Solo nelle ultime pagine del
romanzo sarà rivelata l’identità di questo personaggio misterioso che i lettori di
Tsepeneag dovrebbero essere in grado di riconoscere. Leggiamo le parole del
narratore che segue il vecchio giocatore di scacchi:
Dans la rue. Je crois avoir vu le joueur d’échecs, l’avoir reconnu de dos. Cette fois, j’en suis
sûr. Je presse le pas. Je le poursuis, tout en gardant une bonne distance entre nous. J’ai envie
de voir où il va à cette heure de l’après-midi. […] Je le perds, je ne le vois plus. Je cours […] Il
s’arrête devant la Vie Claire. Ses lèvres remuent, comme chaque fois qu’il se retrouve devant
toutes ces formules miracle pour chasser l’insomnie, l’angoisse… Mais il n’y reste pas plus
d’une minute et ne tourne pas son regard vers moi qui me suis pourtant rapproché à quelques
mètres seulement. Comme si je n’existais pas…Il reprend son chemin et, sans aucune hésita-
tion, entre dans la cour de mon immeuble. Moi, je rase le mur, mon cœur bat à tout rompre. Il
pénètre dans l’immeuble par l’escalier de service, commence à monter. Je devrais le rattraper,
lui toucher l’épaule avant qu’il ne regarde en arrière.
– Vous montiez chez moi ? (Pastenague 1989, 184)11

Il narratore non rivolge la parola al giocatore di scacchi, ma continua a seguirlo e


lo vede salire nel proprio palazzo al quinto piano. Il personaggio misterioso entra
poi in una stanza che non può essere che quella del narratore stesso e il narratore
sente quindi il ticchettio di una macchina da scrivere:
Un sentiment de honte qui tourne à l’humilité: je me sens rayé, gommé. Complètement ef-
facé… Plus, non, moins qu’un blanc… Anéanti. Car comment le dire, après tant d’atermoie-

11 «Nella strada, credo di aver visto il giocatore di scacchi, averlo riconosciuto di spalle. Questa
volta, ne sono sicuro. Accelero il passo. Lo inseguo, sempre mantenendo una buona distanza fra
noi. Ho voglia di vedere dove andrà a quest‘ora del pomeriggio. [...] Lo perdo, non lo vedo più.
Corro [...]. Si ferma davanti alla Vie Claire. Le sue labbra si muovono, come ogni volta che si
ritrova davanti a tutte queste formule miracolose per scacciare l’insonnia, l’angoscia... Ma non
ci resta più di un minuto e non rivolge il suo sguardo verso di me che intanto mi sono avvicinato
a soli pochi metri. Come se non esistessi... Riprende il cammino e, senz’alcuna esitazione, entra
nel cortile del mio palazzo. Io, costeggio il muro, il mio cuore batte forsennato. Lui entra nello
stabile attraverso la scala di servizio, comincia a salire. Dovrei trattenerlo, toccargli la spalla
prima che si giri indietro.
– Lei sale a casa mia? [traduzione mia]

110
ments, faute de l’avoir reconnu d’emblée, en toute simplicité, comment éviter que cela prenne
maintenant la forme d’un aveu: le bruit de la machine à écrire vient de ma chambre… (Pa-
stenague 1989, 185)12

Il lettore che conosce la biografia dello scrittore capisce a questo punto che il gio-
vane narratore francese non era altri che un’identità assunta dal vecchio giocatore
di scacchi, che a sua volta è lo stesso Tsepeneag. Il gioco degli specchi si compli-
ca. La lettura doveva portare al piacere di riconoscere, grazie alle informazioni
biografiche che codificano Tsepeneag come Pastenague, l’immagine dell’autore
che non firma il romanzo, ma è comunque presente al suo interno nelle vesti di
giocatore di scacchi.
La messa in scena romanzesca del processo di scrittura del romanzo e i giochi
con le maschere dell’autore appaiono spesso nei romanzi di Tsepeneag – essi sono
già presenti nei primi racconti «testualisti» e «oniristi» pubblicati in rumeno pri-
ma del 1975, ma si caricano di nuovi significati dopo il cambiamento d’identità in
Francia. D’altronde la ricerca dell’identità è un tema ricorrente nella letteratura
degli scrittori multilingui. È essenziale che Pigeon vole sia un romanzo che mette
in scena non soltanto le quattro identità del narratore, ma anche una quinta, visto
che nella scena finale si aggiunge anche «l’Autore» Tsepeneag. Lo scrittore, rite-
nendo che il proprio nome fosse impronunciabile, aveva nel frattempo smesso di
scrivere romanzi per dedicarsi al gioco degli scacchi e aveva lasciato il posto al
giovane Pastenague, suo alter ego francese. Notiamo anche, nel passaggio prece-
dente, il gioco con i colori. Dopo aver ridotto i suoi aiutanti a colori («Edmond le
noir», «Edgar le jaune», «Edouard le «rouge»), il narratore si vede a sua volta ri-
dotto ad uno spazio bianco (in senso tipografico), o peggio, come dice lui, «moins
qu’un blanc» (Pastenague 1989, 185).
Sarà questa scena finale che permetterà la lettura in chiave autobiografica
dell’intero romanzo13. Il lato autofinzionale è legato, nell’opera di Tsepeneag, al
processo di produzione del testo: non soltanto il narratore ci prende a testimoni
delle difficoltà della scrittura, ma il libraio, l’editore e diversi lettori appaiono
nel testo per dare consigli, per partecipare alla scrittura del romanzo, in cui sono
presenti come personaggi. In Le mot sablier uno dei personaggi si chiama Robert
e simboleggia, attraverso il riferimento al celebre dizionario, la lingua francese;
l’editore è Paul, che richiama P.O.L., l’editore di Tsepeneag. Questi giochi, che

12 «Una sensazione di vergogna che tende all‘umiliazione: mi sento depennato, cassato. Comple-
tamente cancellato... di più... no... meno di uno spazio bianco... Annientato. Poiché, come dire?
dopo tante esitazioni, perché non l‘ho riconosciuto fin dall‘inizio, semplicemente, come evitare
che ciò prenda ora la forma di una confessione: il ticchettio della macchina da scrivere viene
dalla mia camera... » [traduzione mia]
13 Vedi anche Simion (1994), dove si parla della relazione fra biografia e finzione nella prosa di
Tsepeneag.

111
fanno pensare al romanzo di Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiato-
re... (1979), sono orientati qui in un’altra direzione: mettono in scena le prove che
deve subire lo scrittore straniero per trovare la chiave del regno dei lettori.

2. Le malattie del canone

2.1 Dr. Jeckill riprende il controllo: Tsepeneag ricomincia a scrivere in rumeno

Nella prima parte di questo saggio abbiamo brevemente analizzato due roman-
zi che mostrano il rapporto problematico degli scrittori migranti con il proprio
nome e con la lingua materna, il che conduce, in certi casi, a «disturbi» della per-
sonalità letteraria. Le mot sablier e Pigeon vole mettono in discussione i segnali
identitari più intimi di uno scrittore, nome e lingua, senza i quali egli è un déra-
ciné. Come abbiamo già detto, Cioran credeva che l’esiliato non può conservare
che il proprio nome, dopo aver abbandonato la lingua per poter essere capito da
«les civilisés» (Cioran 1986, 63), ma nel caso di Tsepeneag, assistiamo all’abban-
dono di entrambe le etichette di identità. Le mot sablier mostra il cambiamento
graduale del testo attraverso il passaggio da una lingua all’altra, mentre in Pige-
on vole assistiamo al progressivo disvelamento dell’identità autoriale, che lascia
vedere, dietro le identità multiple dei narratori multiculturali, «noir», «jaune»,
«blanc» e «rouge», il giocatore di scacchi, vale a dire lo stesso Tsepeneag. Qual è
la ragione che spiegherebbe questi cambiamenti, il cui scopo sembra essere quel-
lo di nascondere progressivamente la rumenità di Tsepeneag?
Non si può fare a meno di richiamarsi a La république mondiale des lettres di
Pascale Casanova, e in particolare ad un passaggio in cui la studiosa esamina le
angosce degli autori provenienti da «petites littératures»: «La petitesse, la pau-
vreté, le ‘retard’, la marginalité de ces univers littéraires rendent les écrivains qui
en sont membres proprement invisibles, imperceptibles au sens propre, pour les
instances littéraires internationales; invisibilité et éloignement qui n’apparaissent
jamais aussi bien qu’aux écrivains de ces pays qui, occupant des positions inter-
nationaux, peuvent évaluer précisément la place de leur espace dans la hiérarchie
tacite et implacable de la littérature mondiale.» (Casanova, 2008, 262-263). Ana-
lizziamo un brano tratto dalla prima pagina del romanzo Le mot sablier, in cui il
narratore spiega il proprio, contorto, percorso letterario e linguistico:
aussi devrai-je avant toute chose expliquer au lecteur français (hypocrite révérence) pourquoi
je le prive encore du plaisir du texte direct: le texte authentique et concret qui il est vrai ne me
ménagerait plus l’excuse d’une imperfection de la traduction ni voyez-vous donc le prétexte
selon lequel la littérature française se trouvant à un autre stade d’évolution que la littérature
roumaine (la pauvre n’oublions pas qu’elle avait attrapé le réalisme socialiste) […]

112
Ainsi à cheval sur deux langues je m’étais résolu à écrire en français. Mais j’ai du consta-
ter non sans irritation ni dépit que je ne pourrai pas le faire aussi longtemps que je n’aurai pas
échappé aux fantasmes emmagasinés au long de tant d’années d’attente dans l’antichambre de
la langue française. (Tsepeneag 1984, 11-12)14

Nei brani citati di Casanova e Tsepeneag si può identificare quella che abbiamo
chiamato «la malattia del canone». Esistono, da una parte, i canoni delle lettera-
ture nazionali, che operano tagli netti fra lingue e culture diverse. Dall’altra parte
c’è quello che potremmo chiamare il canone della «letteratura universale», che
gerarchizza le letterature in maggiori e minori. Non è il caso in questa sede di
esprimere un giudizio e di affermare se tale gerarchia sia corretta o meno: lo ha
già fatto Edward Said15 e i suoi studi hanno generato un mare di reazioni che si
sono organizzate in un nuovo campo di studi (postcolonial studies).
Cominciamo invece con l’identificazione della fonte dei disturbi identitari che
si manifestano in Le mot sablier e in Pigeon vole. Il vero esilio, confessa Tsepene-
ag, è stato per lui quello di vedersi bandito, a partire dal 1975, dalla storia lettera-
ria rumena. Ceausescu non gli ha sottratto solo la cittadinanza rumena, ma gli ha
anche precluso la possibilità di entrare nella storia letteraria nazionale. Durante
il regima comunista, che praticava una censura totale, i romanzi di Tsepeneag
non hanno circolato affatto in Romania, il che è stato considerato dallo scrittore
una forma d’esilio ancora più forte dell’esilio fisico (Tsepeneag 2000, 95). Non gli
restava che «la repubblica delle lettere», in cui Tsepeneag cerca di entrare prima

14 «Dovrei anche prima di tutto spiegare al lettore francese (con ipocrita riverenza) perché lo privo
ancora del piacere del testo diretto: il testo autentico e concreto che è vero non mi concederebbe
più le scuse di una traduzione né vedete quindi il pretesto secondo cui la letteratura francese,
trovandosi a un altro stadio evolutivo rispetto alla letteratura rumena (la povera, non dimenti-
chiamo, aveva contratto il realismo socialista) [...]
Così a cavallo fra due lingue avevo deciso di scrivere in francese. Ma ho dovuto costatare non
senza irritazione e fastidio che non l’avrei potuto fare fin quando non sarei riuscito a sfuggire
ai fantasmi accumulati nel corso di tanti anni d’attesa nell’anticamera della lingua francese.»
[traduzione mia]
15 Lingue e culture minori? Edward Said, che ha tante volte sottolineato i pericoli dell‘imperia-
lismo culturale, afferma in un sottocapitolo dedicato alla migrazione: «No one can deny the
persisting continuities of long traditions, sustained habitations, national languages, and cul-
tural geographies, but there seems no reason except fear and prejudice to keep insisting on
their separation and distinctiveness, as if that was all human life was about. Survival in fact is
about the connections between things; in Eliot’s phrase, reality cannot be deprived of the ‘other
echoes [that] inhabit the garden’. It is more rewarding – and more difficult – to think concretely
and sympathetically, contrapuntally, about others than only about ‘us’. But this also means not
trying to rule others, not trying to classify them or put them in hierarchies, above all, not con-
stantly reiterating how ‘our’ culture or country is number one (or not number one, for that mat-
ter). For the intellectual there is quite enough of value to do without that.» (Said 1994: 408) Vedi
anche l’articolo di Emily Apter intitolato «Said’s Humanism» dove si analizza il suo contributo
nella ridefinizione del termine nel contesto del comparatismo (Apter 2004, 35).

113
attraverso le traduzioni, quindi con un libro bilingue, e infine abbandonando an-
che il nome rumeno. L’abbandono della lingua e dell’identità rumena è motivato
con il fatto che, negli anni ottanta, il regime di Ceausescu sembrava destinato a
durare a lungo, e Tsepeneag aveva ormai perso ogni speranza di vedere i propri
libri pubblicati in Romania.16
Lo scrittore separa l’esilio del cittadino che non ha lasciato tracce in lui,
dall’esilio dello scrittore, che ha generato i disturbi della personalità che stiamo
analizzando. In un’intervista del 1990, egli afferma di non aver sentito alcuna no-
stalgia per i luoghi della sua giovinezza, visto che abita ora nalla città più bella del
mondo, Parigi. Al contrario egli ha sofferto terribilmente per la separazione dalla
lingua rumena: «la patria è per me la lingua rumena» (Tsepeneag 2000, 20, trad.
mia). La traduzione in francese dei suoi romanzi è sentita da Tsepeneag come un
trauma identitario: «Le mie parole erano destinate a scomparire, inghiottite dai
vocaboli del mio traduttore. Mentre scrivevo in rumeno, ho sofferto pensando
che, in realtà, non esistevo più che nella forma di un nome (difficile da pronun-
ciare!) scritto sulla copertina del libro. Come una testa senza corpo. Questo era
sparito dentro un vestito che non era il suo. Se nel corso di molti lunghi anni ho
smesso di pubblicare e ho preferito giocare a scacchi e scrivere (in francese) arti-
coli e libri su questo gioco, è anche per questa ragione: non sopportavo più che si
uccidessero le mie parole. Negli anni ’80 ho iniziato a scrivere in francese.» (Tse-
peneag 2000, 20, trad. mia). Occorrerebbe sottolineare che fra il 1975 e il 1989
i romanzi di Tsepeneag non potevano essere pubblicati in rumeno, a causa della
censura istituita da Ceausescu, quindi venivano pubblicati solamente in francese.
Nel passaggio citato troviamo la ragione della «nascita» del suo eteronimo fran-
cese Ed Pastenague, che pubblica il suo libro, Pigeon vole, quando Tsepeneag abi-
ta in Francia ormai da 18 anni17. Nelle sue interviste, Tsepeneag mette soprattutto
in discussione il rapporto fra lingua e canone letterario.

2.2 Il desiderio di appartenere allo spazio protetto e sicuro di una letteratura
nazionale è la vera causa dei disturbi di personalità

Lo spazio della letteratura nazionale è uno spazio protetto perché conferisce


un’identità chiara e definita: «A function of many literary histories has been to
support feelings of community and identity» (Perkins, 1992, 180). Tsepeneag
16 Tuttavia il destinatario delle sue opere restava il lettore rumeno, il solo in grado di comprendere
tutte le allusioni alla letteratura e alla cultura rumena presenti nei testi.
17 Per il rapporto fra scrittori migranti o esiliati e lingua di espressione, si veda il sottocapitolo
intitolato «Les blessures de l’être» nel saggio di Lagarde (Lagarde 2007, 20-23). Si veda anche
il saggio di Anne Weber, dal suggestivo titolo «Trouver sa langue, trouver sa place», (Weber
2009).

114
spiegherà il proprio ritorno alla lingua rumena con l’influsso di un suo amico, il
critico letterario rumeno Ion Negoițescu. Quanto Tsepeneag invia a Negoițescu
i propri romanzi scritti in francese, questi, che stava scrivendo una storia della
letteratura rumena, glieli rimanda senza neppure leggerli. Tsepeneag sottolinea il
ruolo essenziale svolto dalla lettera scritta in questa occasione dal critico rumeno,
in cui Negoițescu gli spiega che i romanzi in questione non potevano far parte di
una storia della letteratura rumena per il semplice fatto che la lingua di scrittura
era il solo elemento discriminante per collocare uno scrittore (Tsepeneag, 2000,
218).
Tsepeneag non solo accetta questo giudizio così netto, ma lo fa proprio e dopo
il 1989 torna alla lingua e alla letteratura rumena. Lo scrittore cercherà anche
di far dimenticare il suo status di scrittore esiliato prima del 1989, e quello di
scrittore migrante dopo quella data. Nelle sue interviste, Tsepeneag afferma che
l’esilio non è destinato a sopravvivere come identità culturale e sceglie come col-
locazione culturale la letteratura rumena (Tsepeneag, 2000, 163).
Che dire di una letteratura che non sarebbe (ri-)tagliata così esplicitamente se-
condo le frontiere linguistiche? L’idea di una letteratura cosmopolita gli procura
angoscia e Tsepeneag sembra pronto ad accettare i limiti imposti dalla storia della
letteratura nazionale di matrice herderiana. In un’intervista ricorda che il più im-
portante critico letterario rumeno, G. Călinescu, aveva escluso Panait Istrati dalla
propria storia letteraria, con il pretesto che lo scrittore non aveva scritto le sue
opere in rumeno18. Di contro lo scrittore non sembra pronto ad accettare l’idea di
una letteratura che si definisca al di fuori delle frontiere ristrette delle letterature
nazionali, anche se la sua opera costituirebbe un esempio perfetto di questo tipo
di letteratura.
L’evoluzione letteraria di Tsepeneag è molto interessante soprattutto perché,
se nel 1975 diventa senza volerlo uno scrittore dell’esilio, dopo il 1990 fa di tutto
per ridiventare uno scrittore rumeno, pur continuando a vivere a Parigi. Pertanto
Tsepeneag è un esempio eccellente di scrittore che riesce a imporsi contempora-
neamente su mercati letterari differenti: le sue opere sono apprezzate dalla critica
di paesi diversi soprattutto per la forza poetica con cui trasformano in racconto

18 «Refuzul lui Nego de a scrie despre romanele mele franțuzești mi-a adus aminte de cruzimea
cu care G.Călinescu îl îmbrâncește pe Panait Istrati în afara literaturii române. E, desigur, o
atitudine discutabilă și, în plus, mai ales la Călinescu, circumstanțiată istoric. Are însă meritul
de a fi limpede. Altfel, se poate argumenta împotriva ei, mai ales de când conceptul de literatură
s-a cosmopolitizat, iar recepția e pe cale să devină mondializantă. Dar nu știu dacă această mon-
dializare este chiar un progres… Care e ținta ? Desființarea literaturilor naționale? Toată lumea
va scrie în engleză ? Pentru mine, această mondializare a artelor, precum și a artei literare, e
un semn de criză, cel puțin conceptuală: noțiunea de artă (dar și de literatură) s-a lărgit și se va
lărgi într-atât încât minții noastre îi vine din ce în ce mai greu să o conceapă, s-o realizeze.»
(Tsepeneag 2000, 219)

115
la problematica dell’esilio. Pubblicati simultaneamente in Romania e in Francia,
e in seguito anche in traduzioni in inglese e in italiano, i romanzi di Tsepeneag
sono esplicitamente cosmopoliti e, attraverso la loro circolazione,19 integrati nella
letteratura mondiale contemporanea20.
Ma Tsepeneag vuole essere uno scrittore rumeno. Come si spiega questa an-
goscia di fronte ad un’identità letteraria meticcia, ibrida, ambigua, che sarebbe
nel suo caso uno dei tratti distintivi? I suoi «disturbi della personalità» lettera-
ria assumono una nuova forma allorché Tsepeneag cerca di tornare alla propria
identità iniziale, e a questo punto si manifesta la paura di essere catalogato dai
critici rumeni come uno scrittore dell’esilio. Lui stesso afferma la superiorità
della letteratura in rumeno scritta in Romania e cerca di cancellare il suo passa-
to letterario «impuro», segnato dai cambiamenti d’identità: «Non pretendo che
l’esilio non abbia influenzato la letteratura da me prodotta durante tutti questi
anni. Come, evidentemente, la lingua francese, il fatto di averla frequentata tutti
i giorni scrivendo o parlando, ha lasciato tracce nella mia scrittura. Ma l’esilio
è un accidente biografico e non una ‘matrice stilistica’ (Blaga).»21 (Tsepeneag
2000, 197, trad. mia). Questo brano esprime perfettamente l’angoscia dello scrit-
tore migrante che non appartiene più ad alcuno spazio letterario, essendo stretto
fra due lingue diverse, ma che cerca rifugio nello spazio sicuro e ben delimitato
della cultura nazionale.
Lo spirito nazionale in letteratura, che Goethe considerava ormai datato già
all’inizio del XIX secolo, quando chiedeva agli scrittori di sforzarsi di conoscere
la Weltliteratur, è ancor oggi fonte di problemi. Soprattutto per gli scrittori esi-
liati o migranti, che trovano più facilmente accesso alla repubblica delle lettere
che allo spazio ristretto e restrittivo della letteratura nazionale. Pur se ricevono
numerosi premi letterari e anche l’attenzione di un pubblico trasversale di paesi
differenti, gli esiliati hanno una certa difficoltà a trovarsi un posto nella storia
letteraria e nel canone nazionale, se non nella famiglia dei marginali, che diffi-
cilmente entrano nei manuali. La ragione per la posizione marginale che viene
riservata ad essi proviene dal fatto che il canone letterario è ancora percepito
come espressione di uno spirito nazionale e più ancora come espressione di una
lingua nazionale. Questa visione ispirata dall’idea di nazione del XIX secolo è
ancora ben radicata nella letteratura rumena, pur avendo questa prodotto un gran
numero di scrittori che hanno trovato una collocazione all’interno di altre storie
19 Damrosch (2003) definisce la world literature in ragione della circolazione, legando questa alla
traduzione: «World literature is writing that gains in translation» (Damrosch 2003, 288).
20 D.Tsepeneag ha ricevuto il premio dell’Unione Latina di Letterature Romanze nel 2008.
21 «Nu pretind că exilul n-a influențat literatura pe care am făcut-o în toți acești ani. Așa cum
bineînțeles, și limba franceză, frecventarea ei zilnică prin vorbă sau prin scris a lăsat urme în
scriitura mea. Dar exilul e un accident biografic, nu o «matcă stilistică» (Blaga).» (Tsepeneag
2000, 197)

116
letterarie nazionali. Ciononostante l’esclusione dal canone basata sul criterio del-
la lingua usata è praticato costantemente nelle storie della letteratura rumena.
La fede nello spirito nazionale è forte soprattutto nelle istituzioni pubbliche,
malgrado gli effetti della globalizzazione. Quindi gli scrittori migranti, data la
loro appartenenza a più spazi culturali e a più lingue di espressione, pongono
problemi agli storici della letteratura, che li collocano alle frontiere del canone
e oltre, invece di percepirli come umanisti erranti, come tanti «Enea» che por-
tano sulle spalle l’eredità culturale dei loro padri, in grado di creare, con il loro
multiculturalismo, legami profondi fra le diverse culture. Nel sotto-capitolo inti-
tolato «Exile vs. Nationalism», che fa parte del saggio «The national longing for
form», Timothy Brennan sostiene che, nella storia della cultura, il nazionalismo
e l’esilio sono due poli in opposizione e che corrispondono a due visioni esteti-
che antitetiche: «Exile and nationalism are conflicting poles that correspond to
more traditional aesthetic conflicts: artistic iconoclasm and communal assent, the
unique vision and the collective truth. In fact, many words in the exile family di-
vide themselves between an archaic or literary sense and a modern, political one:
for example, banishment vs. deportation; émigré vs. immigrant; wanderer vs.
refugee; exodus vs. flight. The division between exile and nationalism, therefore,
presents itself as one not only between individual and group, but between loser
and winner, between a mood of rejection and a mood of celebration.» (Brennan
1990, 60-61)
È d’altronde nel corso dell’Ottocento che la storia letteraria diventa incarna-
zione dello spirito nazionale nei paesi usciti da poco dalla dominazione straniera,
come nei paesi dell’Europa centrale e orientale (vedi i saggi citati di Cornis-Pope,
Neubauer, Bhabha), e in Italia. Questi paesi hanno sentito il bisogno di rafforzare
la coesione dello spirito nazionale utilizzando i miti, la poesia, e anche le storie
letterarie nazionali. Ma, forse, nell’epoca della globalizzazione, sarebbe ormai
tempo di definire la letteratura in modo differente, come attestano del resto le
numerose pubblicazioni in questo campo.22
In effetti, il conflitto fra la visione cosmopolita degli scrittori migranti e la
visione herderiana del canone letterario, visto come espressione dello spirito na-
zionale, genera i disturbi d’identità che abbiamo analizzato nella prima parte di
questo saggio.

22 Per non citare che qualche nome fra quelli che ricorrono spesso nelle bibliografie su questo
campo: Saussy, Damroch, Moretti, Neubauer, Cornis-Pope.

117
3. Le terapie dell’anima migrante

Il canone letterario ha generato ultimamente numerosi dibattiti nel campo degli


specialisti della letteratura (Papadima, Damrosch, D’haen, 2011). Ci sono più ra-
gioni extra-letterarie alla base di queste discussioni: la creazione di leggi giuri-
diche ed economiche che unificano l’Europa spinge a riflettere sulla possibilità
di una visione culturale comune, unitaria e condivisa. Un’altra ragione trova fon-
damento nei cambiamenti metodologici nel campo della storia letteraria e della
littérature générale in area statunitense e canadese. L’apertura del canone verso
scrittori marginali, migranti ed esiliati ha generato un gran numero di studi sulla
letteratura «meticcia» (cfr. Evans Braziel; Manur 2003, Gasquet, Suarez, 2007),
che sottolineano la necessità di rivisitare ciò che siamo soliti chiamare «lettera-
tura europea». Theo D’haen ritiene che sarebbe bene trarre profitto da queste di-
scussioni per ripensare profondamente l’organizzazione e la presentazione della
letteratura europea23.
Ho scelto la metafora del canone letterario malato per sottolineare i limiti della
visione herderiana, che non rappresenta più il mondo attuale. In effetti, il canone
letterario malato è il canone costruito in funzione di categorie letterarie delimi-
tate in funzione dello spirito nazionale, che escludono, in ragione di una tassono-
mia restrittiva, ciò che è ibrido, plurilingue o meticcio. Lo studio della contempo-
raneità estrema, come si è visto, comporta scelte più aperte e coraggiose da parte
di critici e storici della letteratura. Occorrerebbe trovare un posto adeguato per le
numerose opere letterarie che non si lasciano inquadrare nelle categorie storico-
letterarie rigide forgiate nel XIX secolo. La patologia del canone letterario è dun-
que legata a questa mancanza metodologica che colloca la letteratura migrante
in una posizione inferiore rispetto al canone delle letterature nazionali. Accade
inoltre che uno scrittore migrante non possa essere integrato né nella letteratura
di origine, ne in quella di destinazione, e che i suoi attraversamenti di più lingue
e culture siano codificati come un limite.
Se abbiamo scelto il termine humanitas come parola-chiave del nostro col-
loquio24 era per onorare il mitico eroe fondatore della civiltà di Roma, Enea, e

23 «As such, the lessons learned from ‘reconstructing’ the unified American canon may come in
handy when Europe too, after the successive enlargements of first the European Communities
and later the European Union, may well enter a search for a European canon to fit the continent.
This might become increasingly relevant as our ‘European’ classrooms become more and more
mixed in terms not just of gender but also of ethnicity with the opening up of the European
Union’s internal borders [...]» (D’haen 2011, 31)
24 Il colloquio che ha ispirato questo volume ha avuto luogo a Roma, nella sede dell‘INMP, e ha
beneficiato della presenza di un pubblico molto vario (multiculturale, ma proveniente anche da
differenti ambiti disciplinari: specialisti di letteratura, sociologi, medici, mediatori culturali),
che ha partecipato al dibattito ponendo molte domande pertinenti e stimolanti.

118
la sua forza di trasformare l’eredità di un popolo vinto e disperso in una grande
cultura. La statua dei Bernini, padre e figlio, che riproduce Enea in fuga da Troia,
tenendo per mano il figlio Ascanio e sulle spalle il padre Anchise, che a sua volta
sostiene i lari e i penati, rappresenta visualmente l’idea di humanitas migrante,
perché il migrante porta con sé sia il suo passato che il suo futuro. L’eredità sim-
bolica del termine classico humanitas si ritrova nel concetto di repubblica mon-
diale delle lettere25, inventato nel Rinascimento per descrivere il mondo ideale in
cui gli umanisti di lingue e origini differenti si incontrano e comunicano grazie
alla loro base culturale e intellettuale comune, la classicità greco-latina. L’utopia
dell’humanitas, che univa gli intellettuali europei per mezzo della lingua latina,
ma anche grazie a una visione comune del mondo, era costruita su questa idea.
Numerosi di questi umanisti erano migranti o esiliati, come lo era, per non cita-
re che un solo esempio, Dimitrie Cantemir, educato a Costantinopoli/Istambul,
diventato per un breve periodo voïevode della Moldavia ed emigrato quindi alla
corte dello Zar Pietro il Grande, a Mosca. Talvolta gli scrittori migranti contem-
poranei sono anch’essi umanisti erranti, dei traduttori o filologi che hanno scelto
i mezzi letterari per esprimere la loro angoscia di fronte alla globalizzazione,
all’emigrazione e alla conseguente perdita d’identità.
Un’altra ragione per mettere in relazione humanitas e migrazione è legata
all’ipotesi che proprio la migrazione degli umanisti attraverso le frontiere na-
zionali abbia giocato un ruolo fondamentale nella genesi della repubblica delle
lettere. Questa si trasforma oggi nella cultura del mondo globalizzato, che eredita
alcuni dei tratti dell’humanitas, e gli scrittori migranti sono al cuore di questa
nuova identità nascente. L’eredità dell’umanesimo si ritrova soprattutto nelle di-
scussioni degli specialisti in letteratura comparata sullo sviluppo della cultura
nel mondo globalizzato e anche nell’invenzione del concetto di letteratura tran-
sculturale. È in questo tipo di visione che noi troveremo le terapie per le malattie
delle anime migranti.
La letteratura migrante è diventata un tema centrale nel dibattito degli spe-
cialisti, come osserva Christofer Prendergast nel saggio intitolato «Negotiating
World Literature»: «Space inflected by time, moreover, yields a geography that is
fluid rather than fixed. As borders blur, nation-states implode and the ‘world’ both
speeds up and contracts, ‘migration’ has become the new buzz-word.» (Prender-
gast 2001, 8) Egli riprenderà questi concetti in un altro saggio, dal titolo «The

25 Il concetto ha dato il titolo ad un celebre libro sui rapporti fra letteratura e politica La répu-
blique mondiale des lettres, pubblicato da Pascale Casanova nel 1999. Il volume ha suscitato
molti commenti nel campo della letteratura comparata, ed è stato preso come punto di partenza
per discutere gli influssi della globalizzazione sulla letteratura, lo sviluppo della letteratura
universale e i metodi della comparatistica (cfr. Saussy 2006). Si veda in proposito il ruolo che
Casanova dà all’emigrazione nel suo libro (Casanova 1999).

119
World Republic of Letters», pubblicato in un volume collettivo da lui diretto,
Debating World Literature (2004). Il volume comprende più articoli teorici che
esaminano i cambiamenti subiti dalla letteratura all’epoca della globalizzazione.
Nell’introduzione, Prendergast afferma che il volume è stato ispirato dal libro di
Casanova (1999), e che tutti i contributori sottolineano l’importanza del concetto
di repubblica mondiale delle lettere nel contesto della globalizzazione della lette-
ratura. Il rapporto fra letteratura nazionale e letteratura universale o generale fa
spesso la sua comparsa in questo dibattito.
Per proseguire l’eredità degli umanisti, sarebbe opportuno che gli «abitanti»
contemporanei della republica mondiale delle lettere si preparassero a produrre
storie letterarie transculturali, che per collocare uno scrittore non si basassero più
sulle frontiere geografiche fra le nazioni, talvolta del tutto arbitrarie. Occorre-
rebbe concepire anche una nuova categoria concettuale, che accogliesse scrittori
appartenenti a più spazi geografici e linguistici.
Le imprese di questo tipo non mancano, soprattutto negli spazi multiculturali
come Canada e Stati Uniti (si vedano Chartier 2002 e Walkowitz 2006). Nell’arti-
colo introduttivo di un numero della rivista Contemporary literature del 2006, sul
tema Immigrant Fictions, articolo intitolato «The transnational book and the mi-
grant writer», Rebecca Walkowitz parte dall’idea che il posto in cui la letteratura
è scritta e pubblicata non è più sufficiente a definirla (Walcowitz 2006, 527)26. Le
sue ricerche sono ispirate dalla teoria presentata da Homi Bhabha in The Loca-
tion of Culture, in cui si propone la ridefinizione dei concetti di cultura nazionale
omogenea e di comunità etnica organica (Bhabha 1994, 5). L’idea appare an-
che presso David Damrosch in What is World Literature? (2003), o presso Haun
Saussy in Comparative Literature in an Age of Globalization27. In prima appros-
simazione, le storie letterarie transculturali28 muovono dall’idea che gli scrittori
migranti, sempre più numerosi, destabilizzano le storie letterarie nazionali e ci
obbligano a inventare nuove categorie che siano al di là di culture e lingue na-

26 In proposito, afferma Bhabha: «The very concepts of homogenous national cultures, the con-
sensual or contiguous transmission of historical traditions, or ‘organic’ ethnic communities –
as the grounds of cultural comparativism – are in a profound process of redefinition.» (Bhabha,
1994, 5)
27 Saussy (ed.), 2006 e specialemente Saussy, 2006, 3-42.
28 Si veda anche il volume teorico e metodologico collettivo Studying Transcultural Literary The-
ory, 2006, diretto da G.Lindberg-Wada.

120
zionali29. Il legame che si crea fra scrittori migranti e letteratura transnazionale30
è profondo, come si può vedere nei testi concepiti per essere pubblicati e letti in
più spazi letterari. I romanzi di Tsepeneag/Pastenague esemplificano bene questa
categoria.
Concluderò con una menzione ad un saggio recente che s’inscrive in questa
direzione di ricerca e che ha il merito ulteriore di utilizzare l’explication de tex-
te come metodo d’analisi. In «Radiating Nests: Metalingual tropes in Poetry of
Exile» Vladimir Zorič parte dal’idea che esiste una categoria letteraria che merita
di essere studiata con mezzi particolari: «There is in modern poetry a distinct
class of poems characterized by the presence of lexical units from more than
one language.» (Zorič 2010, 201). L’autore discute alcuni esempi di testi poetici
bilingui di Tsvetaeva, Brodsky o Milosz e poi fa un’analisi filologica del poema
Lament over Belgrade di Crnjanski, cercando di identificare le figure retoriche
che caratterizzano tali testi. Il poema di Crnjanski è stato scritto e pubblicato in
due lingue, l’inglese e il serbo, e viene analizzato da Zorič in modo da conside-
rare la diglossia come nucleo fondamentale dell’opera. Leggendo questo saggio
non ho potuto non pensare alla diglossia celata e rimossa nella prima edizione
del romanzo Le mot sablier, nel 1985, in cui il traduttore ha del tutto cancellato
il rumeno a vantaggio del francese. Si può riflettere così su quanta strada è stata
fatta dal 1985, sia dal punto di vista editoriale che dal punto di vista metodolo-
gico: è in questo genere di studi che identifico una possibile terapia del canone
delle letteratura.
A questo punto sono in grado anche di spiegare la scelta del titolo del mio sag-
gio. Se ho fatto riferimento al romanzo di R.L. Stevenson, The Stange Case of Dr.
Jeckyll et Mr. Hyde, era per sottolineare il carattere traumatico e incontrollabile del
cambiamento d’identità che si ha quando gli scrittori sono lacerati fra due culture
e lingue. E perché parlo di malattie del canone? Il canone letterario dovrebbe rap-
presentare il mondo in cui viviamo. La resistenza che il canone presenta di fronte
agli scrittori multiculturali e migranti è generata dalla consuetudine di pensare la
29 Cfr. Walcowitz, 2006, 533. Si veda anche il capitolo 2, intitolato «Origines et pérennité de la
transculture» in Harel 2005, 71- 106. Ricordiamo qui un brano rivelatore di Homi Bhabha: «The
study of world literature might be the study of the way in which cultures recognize themselves
through their projections of „otherness.“ Where the transmission of „national“ traditions was
once the major theme of a world literature, perhaps we can now suggest that transnational hi-
stories of migrants, the colonized, or political refugees – these border and frontier conditions
– may be the terrains of World Literature. The center of such a study would neither be the „so-
vereignty“ of national cultures, nor the „universalism“ of human culture, but a focus on those
„freak displacements“ – such as Morrison and Gordimer display – that have been caused within
cultural lives of postcolonial societies.» (Bhabha, 1992, 145-146)
30 Cfr. la sezione di saggi sul tema «Literature in Circulation» nel volume Studying Transcultural
Literary History e in particolare il saggio di M.Rosenthal Thomsen intitolato «Migrant Writers
and Cosmopolitan Readers», (Thomsen 2006, 244-250).

121
cultura all’interno delle frontiere che siamo abituati a chiamare, a partire dal XIX
secolo, lo «spirito nazionale». Questa utopia, che metteva al centro del suo interes-
se la fiducia incrollabile nello spirito nazionale, tale quale si manifestava nell’opera
di uno o più scrittori ritenuti emblematici, si oppone ad un’altra utopia, quella della
repubblica delle lettere, che annullerebbe le frontiere fra le nazioni a vantaggio del
mondo dell’humanitas. Ebbene, a mio avviso, fra queste due maniere di concepire
la letteratura e la sua missione, la seconda utopia, quella che si rifà agli umanisti, si
adatta meglio alle esigenze del XXI secolo. E sono gli scrittori migranti che, venuti
al mondo per distruggere l’ordine costituito delle letterature nazionali, ci ricordano
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124
Lingua italiana e identità nazionale nella società della
migrazione*
Pietro Trifone
Università di Roma «Tor Vergata»

Abstract

Nell’era della globalizzazione ha senso continuare a parlare di «identità nazionale»? Si tratta forse di
una nozione obsoleta o, peggio ancora, di un mero residuo della retorica nazionalistica romantico-
risorgimentale e delle sue nefaste filiazioni novecentesche? Che non sia così, risulta immediatamen-
te chiaro quando si rifletta che l’identità italiana si è rivelata ricca e feconda in quanto frutto di una
millenaria ibridazione di genti, di lingue e di culture: si tratta in altri termini di un’identità dinamica
e plurale. Per riconoscere le linee dell’identità linguistica e culturale italiana non serve marcare
confini, ma occorre invece prendere coscienza del ricco tessuto di relazioni intercorse tra le diverse
regioni d’Italia e con altri paesi, testimoniate del resto da una fitta rete di apporti lessicali.

Nell’Italia di oggi la questione dell’identità nazionale si colloca al punto di in-


contro (e di scontro) tra due grandi processi politici e culturali: da un lato il peso
crescente attribuito dalla stessa legislazione alle autonomie regionali e locali,
dall’altro lo sviluppo dell’Unione Europea in uno scenario di internazionalizza-
zione della società e dell’economia. Ma se lo Stato sacrifica una parte rilevante
dei propri poteri, immolandoli ora sull’altare del decentramento amministrativo,
al fine di valorizzare le peculiarità autoctone, ora sull’altare contrapposto di ideali
e interessi di portata più vasta, per tenere il passo con le dinamiche evolutive del
mondo contemporaneo, che senso ha continuare a parlare di «identità nazionale»?
Si tratta forse di una nozione obsoleta o, peggio ancora, di un mero residuo del-
la retorica nazionalistica romantico-risorgimentale e delle sue nefaste filiazioni
novecentesche?
Che non sia così, risulta immediatamente chiaro quando si rifletta che l’iden-
tità italiana si è rivelata ricca e feconda in quanto frutto di una millenaria ibri-
dazione di genti, di lingue e di culture: si tratta in altri termini di un’identità
dinamica e plurale. Su tale linea, fondamentali fattori predisponenti sono stati più
volte indicati sia nella collocazione dello Stivale, proiettato dall’arco alpino verso
il centro del Mediterraneo, in un crocevia strategico tra Oriente e Occidente, tra
Settentrione e Meridione del vecchio mondo, sia nella particolare conformazione
del suolo, con la dorsale appenninica a marcarne lo sviluppo longitudinale e a
separarne le estesissime coste, con la straordinaria varietà morfologica, climatica

* Questo intervento riprende una parte della mia «Introduzione» al volume Lingua e identità. Una
storia sociale dell’italiano (2009).

125
e ambientale che caratterizza il territorio della penisola e delle isole. Senza con-
cedere troppo a un facile determinismo, si può affermare che i caratteri della ge-
ografia hanno assecondato gli eventi della storia nel provocare invasioni, conflitti
e tensioni, ma anche nel promuovere contatti, relazioni e scambi.
La dialettica tra unità e varietà caratterizza la storia più antica della peniso-
la nella fase dell’espansione di Roma. All’epoca della fondazione, tradizional-
mente fissata al 753 a.C., Roma è una piccola comunità agricolo-pastorale e la
sua lingua deve confrontarsi con altre varietà indoeuropee più diffuse nell’Italia
centro-meridionale: le lingue del gruppo osco-umbro, parlate dalle antiche stirpi
italiche. Sul confine settentrionale i Romani subiscono la concorrenza di vicini
evoluti come gli Etruschi, una popolazione di lingua non indoeuropea che svilup-
pa una precoce cultura dai tratti originali. Su un piano di civiltà ancora più alto
si pongono le colonie greche dell’Italia meridionale: le fiorenti città della Magna
Grecia svolgono un ruolo fondamentale nel processo di ellenizzazione di Roma
e dell’Italia antica, a cominciare dal trapianto dei caratteri dell’alfabeto.1 Il com-
plesso panorama etnico-linguistico dell’Italia pre-romana comprende numerosi
altri popoli parlanti idiomi di varia ascendenza e fisionomia, come Celti al nord,
Messapi al sud, Fenici in Sardegna e in Sicilia. In questo multiforme teatro di
popoli e di linguaggi Roma esordisce in sordina e si afferma con fatica. Nel se-
colo III a.C. viene acquisito il controllo della penisola e delle isole maggiori, ma
ancora senza il Nord padano. A questo punto, però, l’espansione romana si tra-
sforma in un crescendo inarrestabile, che si apre con la conquista della Spagna da
parte di Scipione Africano (209-206 a.C.) e s’impenna vertiginosamente nell’età
di Cesare e Augusto, con incrementi fino al principato di Traiano (la Dacia fu
annessa nel 107 d.C.).
Il latino diviene la lingua di un impero che estende la sua influenza su tutto il
bacino del Mediterraneo, riducendo entro una sola grande orbita politica e cul-
turale l’Europa, l’Africa settentrionale e il vicino Oriente asiatico: in sostanza,
l’intero universo a quei tempi conosciuto. La lingua dei dominatori è adottata
gradualmente dai popoli sottomessi, non per effetto di disposizioni di legge o
di provvedimenti coercitivi, ma come conseguenza naturale di un complesso di
fattori riconducibili all’egemonia di Roma: dalla stessa penetrazione militare alla
presenza di un unico forte centro amministrativo; dall’insediamento di numerose
colonie agricole allo sviluppo degli scambi e dei commerci attraverso l’imponen-
te rete viaria; dal prestigio sociale della classe dirigente romana alla diffusione
della civiltà latina operata per mezzo del sistema scolastico.
In seguito alla crisi militare, politica, sociale dei secoli III-IV e quindi al crollo
dell’Impero Romano d’Occidente (che si suole datare al 476 d.C.), il tessuto orga-
nizzativo e comunicativo che Roma aveva stabilito, non senza ostacoli e frizioni,
1 Sul tema controverso della formazione dell’alfabeto latino cfr. Poccetti, Poli; Santini 1999, 95.

126
tra i diversi popoli dell’Italia antica e delle province subisce un generale proces-
so di logoramento e di lacerazione, che si aggrava sotto l’urto delle successive
ondate di invasori. Se con i Goti e poi con i Bizantini si era conservata, almeno
sotto il profilo strettamente istituzionale, l’unità della penisola, con l’irruzione
longobarda della seconda metà del secolo VI si delinea per la prima volta il tema
storico delle «due Italie»: un’Italia longobarda, nell’area centro-settentrionale e
nei ducati di Spoleto e di Benevento, contrapposta a un’Italia bizantina, com-
prendente il litorale veneto, la Liguria, il «corridoio» da Ravenna a Roma (in cui
hanno sede i territori controllati dalla Chiesa, il Patrimonium Petri), Napoli, la
Puglia, la Calabria e le isole.
Dal disfacimento dell’Impero e dalla formazione dei regni barbarici, con le
loro gravi conseguenze sul piano sociale, economico e culturale, discende al tem-
po stesso una frattura nella continuità e nella relativa unità della la tradizione lati-
na. All’indebolimento della norma linguistica promossa e mantenuta dalla classe
dirigente romana si accompagna l’emersione incontrollata dei fattori di disomo-
geneità: elementi propri delle varietà locali, popolari, informali si presentano con
frequenza sempre maggiore nei testi scritti in latino, denunciando vistosamente
l’accentuata instabilità della situazione linguistica (Zamboni 2000). Il latino man-
tiene tuttavia il suo status di lingua ufficiale, in quanto strumento di quella civiltà
romano-cristiana che continua a innervare i gangli amministrativi dei regni bar-
barici. In virtù dell’osmosi tra le culture in contatto, persino i Longobardi, perce-
piti dagli osservatori del tempo come i più barbari tra i barbari, tendono a ridurre
gradualmente la distanza dai popoli assoggettati, stabilendo rapporti sempre più
stretti con uomini e donne che del resto li sovrastano per numero, e giungendo
infine a una generale conversione religiosa e linguistica.
La discesa dei Franchi, al seguito di Carlo Magno, segna nell’ultima parte
del secolo VIII una svolta significativa. A contendersi il potere in Italia sono
ora quattro-cinque forze politiche: mentre i Franchi consolidano la supremazia
acquisita nel Centro-Nord, il Centro-Sud rimane diviso in entità territoriali di
minore estensione, controllate dalla Chiesa, dai Longobardi e dai Bizantini. L’in-
coronazione di Carlo Magno da parte del papa Leone III e la conseguente nascita
del Sacro Romano Impero ripropongono, allo scadere dell’anno 800, una nuova
unità per il mondo cristiano occidentale, che si accompagna a una riorganizza-
zione della società e a una ripresa della cultura, note come «rinascita carolingia».
Nel secolo IX, poi, la conquista araba della Sicilia dà avvio a un dominio stabile
e a una civiltà fiorente, che favoriscono il processo di islamizzazione dell’isola.
Palermo diviene una delle più importanti e fastose città del mondo musulmano,
al centro di intensi scambi con l’Africa e la Spagna.
Le crescenti tensioni tra il latino e le varietà inferiori evolvono ora verso un
progressivo bilinguismo, passando per una situazione più sfumata di diglossia.

127
Con questo termine si designa il fenomeno per il quale una comunità attribuisce
a due varietà linguistiche funzioni comunicative e ruoli sociali differenti: nel no-
stro caso, il latino è la lingua riservata alla scrittura e all’uso elevato, mondi per
ora preclusi al volgare, che conquista invece gli àmbiti del parlato familiare e quo-
tidiano (Sabatini 1996, 219-65). La piena emersione del nuovo sistema linguisti-
co, certificata dalle prime coerenti testimonianze di scrittura volgare, non si spie-
ga solo con una «presa di coscienza» determinata dalla rinascita carolingia della
cultura e dalla connessa restaurazione scolastica del latino, che peraltro favorì
la percezione del distacco non più colmabile tra la norma grammaticale e l’uso
spontaneo. L’affermazione dell’autonomia del volgare riflette piuttosto la «presa
d’atto» di tutto un complesso di fattori politici, sociali e culturali che imponeva-
no l’adozione, in concorrenza con il latino, di un ulteriore adeguato strumento
linguistico. Fra tali fattori, un posto di rilievo spetta all’ideologia del Cristiane-
simo, che modificò la gerarchia delle varietà anteponendo alla lingua dei classici
modelli più vicini al parlato, secondo la massima rivoluzionaria di sant’Agostino
melius est reprehendant nos grammatici, quam non intelligat populus.
L’unificazione normanno-sveva del Mezzogiorno e l’esperienza ben diversa
dei Comuni nel Settentrione improntano in modo contraddittorio una nuova fase,
tra i secoli XI e XIII. La conquista normanna raccoglie i territori a Sud di Roma in
un ampio organismo geopolitico, che elimina in un solo colpo le dominazioni lon-
gobarde, bizantine, arabe. Il nuovo ordinamento territoriale si imporrà nell’Italia
frammentata come il «Regno» per antonomasia, conservando integra la propria
fisionomia unitaria fino al 1860, sia pure con vari rivolgimenti dell’assetto inter-
no – per l’avvicendarsi delle dominazioni germaniche, francesi, spagnole – e con
un intervallo durante la duplice sovranità angioina (su Napoli) e aragonese (sulla
Sicilia). Nel Settentrione, invece, l’inquadramento feudale dei domini franchi,
di per sé incline alla polverizzazione dei poteri, perde ogni residua coerenza e
stabilità ad opera delle varie oligarchie cittadine. La convergenza tra forze locali
sospinte da interessi affini promuove, con il contributo determinante dei dinamici
ceti emergenti di estrazione borghese, la grande stagione della civiltà comunale.
Si precisa così nei suoi contorni definitivi quella discrasia strutturale tra le «due
Italie» che per la rilevanza delle sue implicazioni – tra cui un diverso modo di
concepire il rapporto del cittadino con il potere – avrebbe segnato in modo per-
manente lo sviluppo storico del paese.
La crescita demografica ed economica, con lo sviluppo dei centri urbani, l’in-
tensificazione dei commerci, il generale fervore della vita religiosa e civile, si
accompagna a una più diffusa circolazione della cultura. Questi progressi interes-
sano specialmente le regioni centro-settentrionali, e in primo luogo la Toscana. I
grandi banchieri fiorentini coprivano i mercati finanziari italiani e stranieri con
una fitta rete di agenzie; il mitico fiorino d’oro godeva di un indiscusso prestigio

128
internazionale. Nell’età di Dante, Firenze era non solo la più ricca, ma anche la
più istruita città europea: secondo la Cronica di Giovanni Villani, il tasso di
scolarizzazione era altissimo, con oltre 10.000 studenti su una popolazione vicina
ai 100.000 abitanti (Villani 1990-1991, 198-99). I nuovi adepti della scrittura –
soprattutto commercianti e artigiani – rivelano scarsa dimestichezza con il latino
e appaiono più a proprio agio con il volgare, che amplia le sue sfere d’uso dalla
semplice comunicazione quotidiana a varie tipologie testuali. In un primo tempo
si affermano molteplici filoni di scrittura pratica (amministrativa, commerciale,
epistolare), che rispondono alle esigenze più immediate dei gruppi socioprofes-
sionali in ascesa. Seguono composizioni poetiche di argomento religioso, ad uso
del popolo dei credenti, e testi lirici di stile raffinato, rivolti a un pubblico più
ristretto ed elitario, il quale, superate iniziali diffidenze, si accosta con crescen-
te interesse al volgare. Si aggiungono poi traduzioni (dal latino, dal francese) e
prose originali di diverso genere, ulteriori banchi di prova del nuovo strumento
espressivo.
Questa varia produzione in volgare rispecchia con puntualità il frazionamento
linguistico dell’Italia medievale. Nella prima metà del Duecento le condizioni
più favorevoli al sorgere di una scrittura sovradialettale si manifestano nel regno
ampio e insieme accentrato di Federico II, su impulso dell’imperatore stesso e con
la partecipazione dei funzionari della colta e cosmopolita magna curia sveva, la
quale, pur avendo stanza per ampi periodi in Sicilia, fu a tutti gli effetti una corte
itinerante, e quindi esposta a influssi di varia provenienza. Nell’àmbito di un più
vasto disegno politico-culturale perseguito da Federico II (si pensi alla creazione
dell’Università di Napoli), fiorisce la «Scuola» dei poeti detti appunto Siciliani,
che traducono un’esigenza di sofisticata evasione intellettuale in componimenti
amorosi di elegante fattura, imitando i modelli dei trovatori provenzali. La lingua
di questi lirici è in origine una varietà «illustre» del dialetto siciliano, ma i loro
testi vengono diffusi in versioni fortemente toscanizzate dai copisti continentali,
e proprio nella nuova veste depurata del soggiacente fondo idiomatico danno av-
vio alla tradizione poetica italiana: una tradizione che, dai Siciliani a Dante e a
Petrarca, ha costituito un’esperienza fondamentale nella formazione della cultura
italiana ed europea.
Il magistero letterario dei Siciliani è riconosciuto dallo stesso Dante, che nel
De vulgari eloquentia è il primo autorevole esploratore delle effettive possibilità
di elaborazione teorica e pratica di un volgare illustre italiano, ma proprio in
quanto tale è anche il primo testimone della frammentata realtà linguistica della
penisola. La circostanziata analisi dantesca distingue almeno quattordici regioni
con i relativi volgari, essi stessi soggetti a variabilità interna, persino nei diversi
quartieri di una medesima città (come Borgo San Felice e Strada Maggiore a

129
Bologna2. In una situazione attraversata da discontinuità idiomatiche tanto nume-
rose e marcate, il successo del volgare della Toscana, avviato dalla fine del secolo
xiii all’insegna del duplice primato nella letteratura e negli affari, era destinato
a scontrarsi con la persistente vitalità della cultura latina e con l’orgoglioso au-
tonomismo dei vari centri cittadini, oltre che – soprattutto nell’area meridionale
– con l’immobilismo di vasti settori della società organizzati ancora su basi feu-
dali. L’universo polifonico dell’Italia medievale era arricchito dal largo impiego
di altri volgari romanzi dotati già di prestigio letterario, come il francese e il
provenzale: basti ricordare che la redazione originale del libro più universalmente
noto della letteratura italiana del Duecento, il Milione di Marco Polo, fu eseguita
appunto in francese da Rustichello da Pisa; solo in seguito l’opera fu tradotta in
toscano.3
Patria del grande viaggiatore era non a caso Venezia, città cosmopolita, prota-
gonista europea degli scambi con il mondo bizantino e islamico, potenza mediter-
ranea dotata di un proprio impero coloniale esteso dall’Istria alla Dalmazia alle
isole di Corfù, Creta e Negroponte (Eubea), con basi in Albania, nel Peloponneso
e in tutto l’Egeo. Le necessità della comunicazione interlinguistica determinaro-
no la formazione di un tipo di veneziano chiamato «de là da mar» o «coloniale»,
una sorta di pidgin o lingua mista, in cui il fondo veneziano è continuamente
screziato da tratti regionali italiani (compaiono spesso anche meridionalismi) e
da elementi slavi, arabi, francesi, bizantini, in proporzioni diverse a seconda delle
zone e degli interlocutori. Questa ibrida e mutevole lingua franca del Mediterra-
neo, documentata in carte di commercianti attivi sulle piazze adriatiche e orienta-
li, avrà a Venezia suggestivi riflssi nella commedia plurilingue del Cinquecento:
La Spagnolas di Andrea Calmo, per esempio, alterna veneziano, pavano, berga-
masco, grechesco, dalmatico, italiano, oltre al tedesco e allo spagnolo cui allude
il titolo; nella Zìngana di Gigio Artemio Giancarli compaiono battute in pidgin
arabo di tipo mercantile (Trifone 2009, 53-68).
Nel periodo che va dagli inizi del Trecento alla metà del Quattrocento si svol-
ge il riassestamento della società italiana post-comunale, con l’aggregazione dei
vari centri in distretti organizzati intorno alle città più importanti o ai prìncipi
più autorevoli. La pace di Lodi (1454) sancisce la costituzione o il consolida-
mento di una pluralità di «Stati regionali», facenti capo a Milano, a Venezia, a
Firenze, a Roma, a Napoli, che formeranno l’ossatura dell’accidentata geogra-
fia politica italiana fino all’età napoleonica. La mancanza di uno Stato in grado
di affermare la propria supremazia su tutti gli altri ostacolerà l’unificazione del

2 Si veda l’approfondita «voce» che Mengaldo ha dedicato al De volgari eloquentia nell’Enciclo-


pedia dantesca (Mengaldo 1970-1978, 401-15)
3 Entrambe le redazioni, francese e toscana, possono leggersi in Marco Polo, Milione. Le divisa-
ment dou monde. Il Milione nelle redazioni toscana e franco-italiana (1982).

130
paese, suscitando nel contempo gli appetiti espansionistici delle grandi potenze
europee. Il lungo dominio spagnolo degli Aragonesi, degli Asburgo di Spagna e
dei Borboni sull’Italia meridionale, quello degli Asburgo di Spagna e poi degli
Asburgo d’Austria su Milano, quello francese di Napoleone sull’Italia centro-
settentrionale, quello degli Asburgo d’Austria sul Lombardo-Veneto ecc. non var-
ranno comunque a sanare, dal Cinquecento all’Ottocento, il cronico problema del
frazionamento: a questo proposito un critico autorevole ha potuto affermare, con
un paradosso, che l’Italia non ha mai avuto la «fortuna» di essere occupata tutta
quanta da un unico invasore (Galli della Loggia 1998, 18).
Per quanto riguarda la diffusione di una lingua unitaria, occorre distingue-
re tra la fase quattrocentesca (pregutemberghiana, o del manoscritto) e quella
post-cinquecentesca (gutemberghiana, o della stampa). La prima è caratterizzata
dalla formazione, nel parlato civile delle corti o nei documenti delle cancellerie,
di lingue di conguaglio sovralocale, koinài cortigiane o cancelleresche in cui le
punte idiomatiche sono mitigate attraverso il riferimento al latino e al toscano.
Nella seconda fase il toscano letterario diviene, con il contributo fondamentale
dell’editoria, la lingua comune dell’uso scritto, dotata di un’eccellente codifica-
zione e capace di conquistarsi un posto di rilievo tra le grandi lingue di cultura
europee. L’interesse mercantile per la definizione di un modello linguistico stan-
dardizzato, in grado di raggiungere un ampio pubblico di lettori italiani, fa sì che
l’industria del libro – con capitale a Venezia – accolga e promuova il più collau-
dato canone disponibile. La letteratura toscana del Trecento offriva in tal senso
campioni insuperabili: Petrarca per la lirica e Boccaccio per la prosa; Dante, il
grande sperimentatore, senza confini di genere né limiti d’uso. Un protagonista
esemplare della fase gutemberghiana fu il padano Ariosto, il primo grande po-
eta che capì l’importanza della stampa e ne sfruttò al meglio le potenzialità, cu-
rando personalmente tre edizioni (1516, 1521, 1532) dell’Orlando Furioso. Nella
ricerca di un’ideale omogeneità linguistica, egli abbandonò l’anarchia medievale
degli esiti dialettali e latini, sfrondando anche i doppioni formali del toscano let-
terario (Boco, 1997-2005).
Emerge con evidenza, anche da una mappa storica tanto sommaria, che per
riconoscere le linee dell’identità linguistica e culturale italiana non serve mar-
care confini, ma occorre invece prendere coscienza di un ricco tessuto di rela-
zioni intercorse tra le diverse regioni d’Italia e con altri paesi, testimoniate del
resto da una fitta rete di apporti lessicali. Tracce consistenti e suggestive di questo
complesso DNA storico rimangono impresse nelle nostre stesse carte di identità
personali, laddove viene indicato il nome, il cognome, il luogo di nascita e di
residenza di ogni italiano: Laura e Paolo appartengono al grande nucleo di nomi
latini; Alessandro e Caterina sono di matrice greca; Anna e Giovanni sono nomi
di base ebraica giunti attraverso il greco delle prime comunità cristiane; Alberto

131
e Adelaide hanno origine germanica; Orlando e Ruggero, anch’essi germanici,
diventano popolari grazie ai romanzi cavallereschi francesi; sempre dalla Francia
si diffondono Luigi e Luisa; i personaggi di celebri opere di Verdi e Bizet alimen-
tano la fortuna degli spagnoli Alvaro e Carmen; cognomi spagnoli in -es o -ez
(Gonzales, Martinez) si ritrovano nelle regioni meridionali; ad essi corrispondono
quelli slavi in -ic o -ich, -cic o -cich del Friuli-Venezia Giulia (Blasic, Toncich);
specialmente in Sicilia abbondano i cognomi greci (Craxi, Laganà) e arabi (Ba-
dalà, Morabito); la Lombardia è per antonomasia la terra dei Longobardi; Milano
è un nome celtico; per Roma è stata ipotizzata una radice etrusca; Napoli è la
Neápolis o ‘città nuova’ dei Greci; Caltanissetta ha ascendenze arabe, e così via.
Nell’esperienza linguistica passata e presente si riflette nel modo più esempla-
re un aspetto centrale della civiltà italiana, vale a dire l’intreccio tra la costitutiva
pluralità di tradizioni culturali e l’incessante ricerca di un’identità comune.

Bibliografia

Boco M. A. (1997-2005): Varianti fonomorfologiche del «Furioso», 3 voll., Pe-


rugia, Guerra.
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toscana e franco-italiana, a cura di G. Ronchi, Introduzione di C. Segre, Mi-
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voll., Torino, Einaudi, (vol. III, Le altre lingue).
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132
Zamboni, A. (2000): Alle origini dell’italiano. Dinamiche e tipologie della trans-
izione dal latino, Roma, Carocci.

133
II. Esilio e patologie. Humanitas fragilis
Coagula de Paul Celan. Quand la poésie devient blessure
Gisèle Vanhese
Université de Calabre

Lorsque Jacques Derrida parle, dans Schibboleth pour Paul Celan, de l’«incision que le poème porte
dans son corps, telle une mémoire, parfois plusieurs mémoires en une, la marque d’une provenance,
d’un lieu et d’un temps», il se réfère à ces blessures, cicatrices, plaies que les épreuves imposent aux
migrants et dont la poésie porte l’empreinte. À la fois de la patrie perdue («provenance»), du lieu
d’arrivée et d’une date. Nous montrerons comment l’œuvre de Paul Celan, un poète roumain qui a
connu les vicissitudes de l’exil, coïncide avec un labyrinthe douloureux où se recoupent toutes les
routes que le voyageur a suivies dans sa traversée de l’existence. Et nous mettrons en évidence quels
mythes, symboles et archétypes constituent la structure profonde de cette thématique tragique.

Lorsque Jacques Derrida parle, dans Schibboleth pour Paul Celan, de l’«incision
que le poème porte dans son corps, telle une mémoire, parfois plusieurs mémoires
en une, la marque d’une provenance, d’un lieu et d’un temps» (Derrida 1986,
36) il se réfère à ces blessures, cicatrices, plaies dont la poésie célanienne porte
profondément l’empreinte. À la fois de la patrie perdue, du lieu d’arrivée et d’une
date. Nous montrerons comment les œuvres de Paul Celan, un poète roumain
qui a connu les vicissitudes de l’exil, coïncident avec un labyrinthe douloureux
où se recoupent toutes les routes que le voyageur a suivies dans sa traversée de
l’existence.

1. Coagula de Paul Celan

Juif roumain de langue allemande né à Czernowitz, Paul Celan est parti en 1947
– après une période intense passée à Bucarest – pour Vienne puis pour Paris.
Malgré la tragédie de la Shoah, où sa famille a été déportée et anéantie en Trans-
nistrie, il se souviendra toujours avec passion de son lieu natal, «une contrée où
vivaient des hommes et des livres» (Celan 1972, 83), comme il le dira dans le
Discours de Brême. Dans l’exil, cette contrée va se confondre pour lui avec la
Colchide mythique, espace de sortilèges et de hantises, en une transfiguration de
la Roumanie perdue.
Alors qu’il est désormais établi à Paris, il demande à Petre Solomon de dire
à leur ami commun Sperber «que je me trouve, avec mon méridien – parent du
tien, Petrică – exactement là d’où je suis parti» (Lettre en roumain du 8 mars 1962
publiée in Solomon 1987, 218). Mais c’est surtout dans son important discours Le
Méridien que Celan éclaire le sens profond et subjectif de ce terme. Comme dans

137
le Discours de Brême, il revient sur l’«endroit natal» qu’il associe explicitement
à l’enfance bucovinienne: «Je recherche également, puisque, à nouveau, j’en suis
au début, le lieu de ma provenance. Je les recherche d’un doigt mal assuré, parce
qu’anxieux, sur la carte – carte d’enfant, à dire vrai, la seule que je possède».
L’écrivain se penche ainsi sur une carte géographique imaginaire à la recherche
d’une topographie secrète et révèle, en conclusion de son Discours, ce qui relie
le poème à son substrat originaire. Chez Celan, le Méridien – ici roumain – est
bien ce lieu fantasmatique dont les textes gardent les vestiges comme en un pa-
limpseste:
Je découvre ce qui lie, et finalement amène, le poème à la Rencontre. Je découvre quelque
chose – à l’instar de la parole – immatériel, mais terrestre, de ce sol, chose ayant forme de
cercle, et qui, passant de pôle à pôle, fait sur soi retour et intersecte – posément – tous les
tropes –: je découvre... un Méridien (Celan 1971, 196-197).

Nous voudrions partir de la lecture d’un poème d’Atemwende (Renverse du


souffle) pour dévoiler, chez Celan, le binôme indissoluble entre poésie et blessure.
Coagula est éclairé par une lettre, écrite par Celan en français le 23 novembre
1967 et donc moins de trois ans seulement avant sa mort. Elle est adressée à Petre
Solomon resté à Bucarest. Remarquons que Celan date sa lettre du jour même de
son anniversaire (il a alors 47 ans) pour tracer une sorte de bilan. Le titre même
Coagula donne lieu à plusieurs parcours du sens que nous tenterons d’éclairer.
D’abord, un sens alchimique, le poème étant immédiatement précédé d’un autre
intitulé Solve. Mais sous le terme latin, on peut distinguer – comme en un pa-
limpseste secret – un sens médical, physiologique, celui du sang et de la plaie qui
traverse toute son œuvre.
Chez Celan, chaque mot a une histoire spécifique et rassemble plusieurs va-
leurs, comme le montre – dans la lettre citée – son commentaire du recueil Atem-
wende, où il se réfère d’abord au poème Aschenglorie (Gloire de cendres) et en-
suite à Coagula:
Page 68 de Atemwende, c’est quelque chose comme l’anamnèse de Mangalia; page 79, les
bisons roumains aperçus par Rosa Luxembourg à travers les barreaux de sa prison convergent
avec les trois mots du Médecin de campagne de Kafka – et avec ce nom: Rosa. Je coagule,
j’essaie de faire coaguler – Paris, où estce? (Solomon 1987, 238).

La tension entre le lieu natal (la Roumanie présente métonymiquement dans le


toponyme Mangalia, une ville sur la Mer noire où il avait séjourné durant l’été
de 1947) et le lieu d’exil (Paris), entre le passé de la jeunesse et le présent de la
maturité, est médiatisée par un verbe utilisé à la première personne du singulier
(«je coagule») et à l’infinitif («faire coaguler») pour indiquer un processus à la
fois psychique et poétique. Coagulation personnelle, plaie intérieure où le sang se
fige, et coagulation poétique, où l’auteur tente de faire transmigrer – dans l’écri-

138
ture – son Moi le plus profond et ses expériences les plus douloureuses, ce qu’il
évoque aussi dans Helligkeitshunger (Faim de luminosité): «la voie d’images, la
voie de sang, / parcourue de parole nageuse» («der wortdurchschwommenen /
Bildbahn, Blutbahn») (Celan 2003, 38).
Interprétant l’expression Sprachgitter (Grille de paroles), titre de l’un des re-
cueils célaniens précédents, Petre Solomon met en lumière «l’appel du poète pour
lire les mots à travers une “grille” existentielle, où chaque terme se charge de sens
profond et devient une blessure, une blessure ouverte, avec le sang en train de se
coaguler» (Solomon 1987, 170). Le thème de la «plaie» a été étudié par Dietlind
Meinecke dans ses relations avec le langage chez Celan. À partir de cette analyse,
écrit Michael Speier, «on peut considérer comme acquise l’idée que chez Celan, la
“plaie”, image du monde incorporé par le poème, désigne l’origine et le but de la
créativité littéraire [...]. La “plaie causée par l’existence” devient chez lui la source
du langage» (Speier 1986, 137; voir aussi Meinecke 1970).
Coagula

Auch deine
Wunde, Rosa.

Und das Hörnerlicht deiner


rumänischen Büffel
an Sternes Statt überm
Sandbett, im
redenden, rot-
aschengewaltigen
Kolben.
Ta blessure
aussi, Rosa.

Et la lumière des cornes de tes


buffles roumains
au lieu d’étoile au-dessus
du lit de sable,
dans la cornue
qui parle, rouge-
cendre puissante (Celan 2003, 93).

La première isotopie du poème est historique et se réfère à Rosa Luxemburg dont


Celan reprend un épisode de sa vie tragique: «le poème évoque – écrit Jean-
Pierre Lefebvre – un passage des lettres de Rosa Luxemburg (mi-décembre 1917)
où celle-ci manifeste sa compassion pour des bêtes maltraitées, en l’espèce, des
buffles de Roumanie (Döblin reprend cette histoire dans le roman Novembre
1918)» (Lefebvre 2003, 168). Par ailleurs, ce prénom féminin est chargé pour lui
de résonnances affectives car il évoque des jeunes femmes connues durant sa

139
jeunesse à Czernowitz (en particulier Rose Ausländer). Le critique et traducteur
ajoute que «la coagulation appelée par le titre semble s’appliquer aussi, dans un
premier temps, à la blessure de Rosa Luxemburg, assassinée en janvier 1919 et
jetée dans le Landwehr-Kanal à Berlin» (Lefebvre 2003, 168), assassinat dont
Celan se souviendra encore dans Du liegst (Tu es couché) de Schneepart (Partie
de neige).
La deuxième isotopie est géographique et concerne la Roumanie natale (en op-
position, comme il le souligne dans la lettre, à Paris), qui est doublement présente
dans ces vers. Explicitement avec l’adjectif «rumänischen» et implicitement avec
l’évocation d’une constellation thématique associant les buffles, la Roumanie et
l’étoile. Que peuvent avoir de spécifique ces «buffles roumains»? Il s’agit pour
nous d’une référence cryptique à l’urus (zimbru, bour), descendant de l’auroch
qui a vécu dans les forêts roumaines jusqu’au XIXe siècle. Quand il porte une
étoile sur le front, il est considéré comme un animal mythique. Il joue un rôle
important dans les légendes liées à la fondation de la Moldavie, dont le blason
reprend son effigie. Il apparaît par ailleurs dans plusieurs poèmes d’Eminescu,
en particulier dans Povestea codrului (La Légende de la forêt): «Bouri nalţi cu
steme-n frunte» («De grands aurochs avec une étoile sur le front») (Eminescu
1975, 85)1.
La preuve que, dans Coagula, Celan se réfère à l’urus, nous est offerte par le
terme qu’il utilise en français pour traduire, dans sa lettre à Solomon, Büffel: non
le normal «buffle» mais bien le terme «bison». Un tel choix indique clairement
qu’il ne pensait pas à l’animal commun mais bien à l’animal mythique. Aucun
critique n’a encore jusqu’à présent relevé (et restitué en traduction) ce sens de
«Büffel», absence qui amoindrit ainsi fortement toute la tension contenue dans
la coagulation célanienne, coagulation qui porte aussi sur la lumière entre les
cornes qui se transmute en étoile2.
En fait, le motif de l’urus est relié, chez Celan, à la thématique bucovinienne et
fonctionne en quelque sorte comme une synecdoque, la pars pro toto, le tout étant
ici l’enfance, la mère, le pays natal. Par la présence de l’étoile, il s’inscrit aussi
dans la grande constellation thématique des morts de la Shoah qui fonde toute
la poésie célanienne. L’urus nous a permis, dans un essai précédent, d’éclairer
d’autres poèmes qui, sans lui, resteraient incompréhensibles, comme Entwurf ei-
ner Landschaft (Esquisse d’un paysage) du recueil Sprachgitter (Grille de parole)
ou le poème Le Périgord composé en 1964, durant un séjour en Dordogne. Par le
même mouvement d’anamnèse, l’évocation de l’animal légendaire ranime, dans

1 Citons la traduction italienne de Rosa Del Conte: «uri snelli, la stella in fronte» (Eminescu 1989,
31)
2 «L’impératif “coagule” porte également sur Hönerlicht (“lumière des cornes”)» (Lefebvre
2003,168).

140
l’exil, le souvenir de la famille et de l’enfance en Bucovine. Le titre du poème –
Le Périgord – ne renvoie-t-il pas, par une figure étymologique, à «cœur» toujours
uni, chez Celan, à la mémoire? Constellation sémantique qui passe d’un texte à
l’autre, «cercle» qui s’identifiera au Méridien.
Enfin la troisième isotopie est alchimique comme l’indique le titre Coagula
et la référence à la «cornue». La célèbre expression Solve et coagula marquait
les phases du Grand Œuvre. L’œuvre au noir ou régression à la materia prima
correspond à la Nuit primordiale du Chaos, les ténèbres de la nigredo, accompa-
gnée de la putrefactio et de la dissolutio, indiquant un retour au stade germinal
de l’existence. On sait que l’Opus magnum était en fait un processus de trans-
formation spirituelle de l’adepte en chemin vers le Centre de son être intérieur.
Durant la nigredo, «l’âme se trouve aux affres de la mélancolie, elle lutte avec
l’“Ombre”» remarque Mircea Eliade (Eliade 1990, 48)3. Mélancolie qui traverse
toute l’œuvre célanienne depuis les premiers poèmes de jeunesse. Dans Solve,
Celan emprunte la voie descendante vers les régions nocturnes de l’Ombre. Cette
catabase coïncide avec la nigredo où le Noir évoque «le chaos, le néant, le ciel
nocturne, les ténèbres terrestres de la nuit, le mal, l’angoisse, la tristesse, l’in-
conscience et la mort» (Chevalier et Gheerbrant 1987, 673). L’isotopie historique
indique, elle, les morts de la Shoah dont les noms doivent être sauvés par la mé-
moire et l’écriture. Cendre qui deviendra rougeoyante dans le poème successif
Coagula.
Avec Solve et Coagula, Celan dévoile – sur la quatrième isotopie existen-
tielle – le double mouvement de dissolution de l’identité et de recentrement autour
d’un noyau existentiel irréductible qui coïncide, d’une part, avec le monde des
disparus dont la mémoire doit conserver les «noms» et, de l’autre, avec la Rou-
manie inoubliée. La dissolution et le recentrement peuvent, par ailleurs, indiquer
parallèlement – sur une cinquième isotopie poétologique – la destruction et la
recréation de la langue allemande dans son œuvre. La remémoration/coagulation
a donc lieu et à travers le souvenir et à travers l’écriture poétique. N’évoque-t-il
pas dans Schwarz (Noir) d’Atemwende, «la blessure du souvenir», («die Erinne-
rungswunde») (Celan 2003, 59)?
Dans Coagula, la cendre (de la poésie précédente Solve) devient rougeoyante.
Un espoir semble poindre ici: la rubedo pourra être accomplie, la pierre philoso-
phale pourra être obtenue et parallèlement la coagulation deviendra cicatrisation
et peut-être guérison. Mais si le Rouge indique ici historiquement le Drapeau ré-

3 Peut-être même l’expression célanienne du superlatif «röter als rot» («plus rouge que rouge»)
dans Dunstbänder-, Spruchbänder-Aufstand (Révolte de banderoles de brume, de banderoles
de sentence) (Celan 2003, 119) provient-elle du langage alchimique. Ainsi, remarque Gaston Ba-
chelard, «le poète moderne retrouve l’ancienne rêverie du noir des alchimistes qui cherchaient le
noir plus noir que le noir: “Nigrum nigrius nigro”» (Bachelard 1948, 27).

141
volutionnaire et alchimiquement la rubedo, il se réfère – pour l’isotopie existen-
tielle – au Sang. Or le Sang est symboliquement ambivalent. Homologue au Rouge
avec lequel il partage les mêmes connotations, le sang diurne est celui de la vie:
«tonique, incitant à l’action, jetant comme un soleil son éclat sur toute chose avec
une immense et irréductible puissance» (Chevalier et Gheerbrant 1987, 831). Le
sang nocturne, lui, est celui de la plaie, de la mort. Son aura maléfique proviendrait
selon Gilbert Durand de son assimilation originaire au sang menstruel: «C’est cet
isomorphisme terrifiant, à dominante féminoïde, qui définit la poétique du sang,
poétique du drame et des maléfices ténébreux, car, comme le note Bachelard, “le
sang n’est jamais heureux”» (Durand 1969, 120). Le sang va alors s’obscurcir et
devenir une véritable eau stymphalisée, nyctomorphe. C’est celle qui coulera des
yeux des vendangeurs à la place des larmes dans Die Winzer (Les Vignerons).

Une poétique du sang et de la plaie

Comme Celan le souligne dans sa lettre à Petre Solomon, l’exilé coagule inté-
rieurement et fait coaguler sa souffrance dans le poème. C’est même la présence
souterraine du Sang qui distingue ces deux processus de concentration que sont,
d’un côté, la «coagulation» et, de l’autre, la cristallisation au centre du cycle
Atemkristall (Cristal du souffle) d’Atemwende. Certainement, le deuil de l’exil
s’est sommé chez lui à d’autres deuils encore plus fondamentaux: celui de ses
parents assassinés dans un lager en Transnistrie et celui des Juifs de la Shoah. De
nombreux textes célaniens tracent un parcours dont la plaie, le sang, la blessure
sont les emblèmes les plus tragiques comme ces vers de Abend der Worte (Soir
des mots) du recueil Von Schwelle zu Schwelle (De seuil en seuil):
die Narbe der Zeit
tut sich auf
und setzt das Land unter Blut [...].

la cicatrice du temps
s’ouvre
et couvre le pays de sang [...] (Celan 1991, 74-75).

Ou bien encore ce poème de Atemwende, où Celan compare ses quarante ans à


quarante troncs d’arbres décortiqués qui flottent devant un miroir luisant de plaies
(Die Schwermutsschnellen hindurch, Par les rapides de la mélancolie):
Die Schwermutsschnellen hindurch,
am blanken
Wundenspiegel vorbei:
da werden die vierzig
entrindeten Lebensbaüme geflößt.

142
Par les rapides de la mélancolie,
défilant sous la luisance
du miroir de plaies:
là sont flottés les quarante
arbre de vie écorcés (Celan 2003, 14).

La géographie intérieure de l’auteur apparaît comme irrémédiablement partagée


entre le pays natal et l’Occident (Vienne puis Paris) où Celan s’est établi définiti-
vement. Dédié à Gisèle de Lestrange, le recueil Von Schwelle zu Schwelle éclaire
exemplairement l’oscillation significative du poète entre deux seuils, synec-
doques de ses deux patries: d’un côté, le seuil français où, avec sa jeune femme,
il va édifier une nouvelle famille et, de l’autre, le seuil roumain, qu’il ne reverra
plus mais qui ressurgira – sur le mode fantasmatique et spectral – dans toute son
œuvre. Dans Mit wechselndem Schlüssel (D’une clé qui change), le Tu – double
du poète – possède une clé changeante qui lui permet d’ouvrir l’ancienne demeure
en Roumanie et la nouvelle qu’il veut bâtir en France:
Mit wechselndem Schlüssel
schließt du das Haus auf, darin
der Schnee des Verschwiegenen treibt.
Je nach dem Blut, das dir quillt
aus Aug oder Mund oder Ohr,
wechselt dein Schlüssel.
Wechselt dein Schlüssel, wechselt das Wort,
das treiben darf mit den Flocken.
Je nach dem Wind, der dich fortstößt,
ballt um das Wort sich der Schnee.
D’une clé qui change,
tu ouvres la maison où
tournoie la neige des choses tues.
Au gré du sang qui sourd
de ton oreille ou ton œil ou ta bouche,
ta clé change.
Ta clé change, le mot change,
qui peut partager la course des flocons.
Au gré du vent qui te repousse
la neige se roule autour du mot (Celan 1991, 64-65).

Le témoin reste sur le seuil de la maison roumaine. Construite sur les cavernes du
Moi, que John E. Jackson assimile à la «mémoire des morts» (Jackson 1978, 163),
cette demeure natale contient une neige silencieuse. Neige qui reste toujours, pour
Celan, associée à la disparition maternelle et qui devient, pour lui, comme le
chiffre absolu du deuil et de la mort. Neige de la mémoire que l’œuvre doit en-
clore dans l’espace du texte non sans douleur pour le poète, comme le souligne la
présence du sang.

143
Souvenons-nous aussi que dans sa lettre à Petre Solomon, Celan écrivait à
propos de Aschenglorie (Gloire de cendres) «c’est quelque chose comme l’anam-
nèse de Mangalia». Le nom de cette ville balnéaire roumaine ouvrait les grandes
écluses mémorielles des étés de sa jeunesse. Avec le terme «cendre» inclus dans
le titre, c’est aussi la mémoire du génocide des Juifs qui se trouve convoquée, le
souvenir des années roumaines s’unissant alors, pour le poète, à celui des morts.
L’anagramme de Mangalia, reviendra bien plus tard à la fin de Warum aus dem
Ungeschöpften (Pourquoi depuis l’incréé) dans l’avant-dernier recueil Sch-
neepart (Partie de neige) publié posthume:
Metallwuchs, Seelenwuchs, Nichtwuchs.
Merkurius als Christ,
ein Weissensteinchen, flußaufwärts,
die Zeichen zuschanden-
gedeutet,

verkohlt, gefault, gewässert,

unoffenbarte, gewisse
Magnalia.

Crû de métal, crû d’âme, crû de néant,


Mercure en guise de Christ,
infime caillou philosophal, en remontant le fleuve,
les signes interprétés
à mort et néant,

calcinés, putréfiés, liquéfiés,

magnalia
non révélés, certains (Celan 2007, 43).

Dans une note sur ce poème, Giuseppe Bevilacqua observe que «Magnalia è
termine latino che designa “grandi cose”, prodigi pieni di significati da divinare.
Ricorre nel linguaggio alchemico, come pure Merkurius, per dire “elemento vo-
latile”, “sostanza che si dissolve”». Il ajoute: «Non escluderei tuttavia che questo
testo possa rientrare tra quelli che agitano ambiguamente fantasie necrofile»
(Bevilacqua 1998, 1389). Certes, le poème possède explicitement une isotopie
alchimique, ce qui le relie à Solve et à Coagula. Mais nous pensons aussi, à la
différence de Bevilacqua, que Magnalia peut se lire – à côté de l’isotopie alchi-
mique – sur l’isotopie mémorielle où il devient l’anagramme de Mangalia. De son
côté, Jean-Pierre Lefebvre propose une interprétation poétologique de Magnalia
sans toutefois relever que le terme révèle l’anagramme d’une ville roumaine chère
à Celan. Dans le même commentaire, il observe de même, dans le poème suivant,
«la présence (ludique?)» (Lefebvre 2007, 123) du mot magnolia. Selon nous, il ne
s’agit pas du tout – dans ces deux poèmes – d’un trait ludique mais bien du rappel

144
(uni en particulier à un terme comme «calcinés») du passé inoublié. Nous croyons
que le terme magnolia est associé souterrainement à la même ville et à la Rou-
manie dans Mapesbury road qui suit Warum aus dem Ungeschöpften: alors qu’il
est en Angleterre (14-15 avril 1968), Paul Celan y parle d’«heures magnoliennes»
(«die magnolienstündige»)4.
Dans la perspective célanienne, Magnalia / Mangalia coïncide avec un signe
qu’il faut interpréter. L’herméneutique est ici convoquée par la présence de
«Merkurius» qui renvoie aussi bien au mercure alchimique qu’à la divinité psy-
chopompe Mercure/Hermès. Comme maître du langage ésotérique, il sous-en-
tend une isotopie poétologique relative à l’hermétisme. Mais la pierre philoso-
phale n’est plus chez Celan qu’un petit caillou et Mercure qu’une excroissance.
Les signes sont désormais «carbonisés, moisis, délavés». On sait que la nigredo
séparait jusqu’à leur totale dissolution les éléments calcinés, calcination qui,
dans le langage alchimique, «correspond à la couleur noire, à la destruction des
différences, à l’extinction des désirs, à la réduction à l’état premier de la ma-
tière» (Chevalier et Gheerbrant 1987, 22). Elle apparaît ici comme une nigredo
irrémédiable que ne suivra plus aucune renaissance, Celan détournant l’expres-
sion alchimique de calcinatio pour l’inscrire dans la constellation tragique de
la Shoah. Si le rouge de Coagula ranimait encore la cendre et si la coagulation
elle-même pouvait laisser croire qu’une guérison était possible, ici tout espoir
est anéanti.

Colchide mythique vs Paris la grotte

On sait que Paul Celan s’est suicidé dans la nuit du 19 au 20 avril 1970 en se jetant
dans la Seine du Pont Mirabeau5, un lieu hautement symbolique pour lui. Traduc-
teur d’Apollinaire, il a été fasciné par Le Pont Mirabeau et Les Colchiques, deux
poèmes qui se sont fondus dans sa mythologie personnelle. Fleur célanienne par
excellence, le colchique rayonne au centre d’une constellation thématique spéci-
fique. Dès Mohn und Gedächtnis (Pavot et mémoire), Erinnerung aus Frankreich
(Souvenir de France) propose un vers «Le ciel de Paris, le grand Colchique d’au-
tomne» («der Himmel von Paris, die grosse Herbstzeitlose») (Celan 1987, 56-57)
où il fait allusion à la fleur vénéneuse, qu’il évoquait déjà dans un poème de
jeunesse (Ich weiß vom Fels, in den ich mich nicht traue) (Celan 1986, 73) et qui

4 Dans une lettre à sa femme, datée du 10 avril 1968, Paul Celan associait les magnolias à la
Bucovine: «Ici les magnolias sont en fleur – j’aimerais pouvoir le ressentir comme jadis, à Czer-
nowitz» (Celan et Celan-Lestrange 2001, 626).
5 Toutes les informations biographiques proviennent de «Chronologie» (Celan et Celan-Lestrange
2001).

145
reparaîtra encore dans un poème du recueil posthume Schneepart: Largo. Fidélité
extrême à quelques mots – et à quelques thèmes – essentiels.
Pour Celan, le colchique emblématise la lutte contre l’oubli symbolisé, lui,
par le coquelicot ou le pavot. C’est la Fleur «hors du temps» («Zeitlose»). Sous
l’influence du poème d’Apollinaire, et en particulier des vers «Ils cueillent les
colchiques qui sont comme des mères / Filles de leurs filles et sont couleur de tes
paupières» (Apollinaire 1988, 33) elle actualise une véritable inversion du passé
et se charge de connotations maternelles. Valeurs symboliques que condense Die
Silbe Schmerz (Les Syllabes douleur) dans Die Niemandsrose (La Rose de per-
sonne):
die Zeit-
lose im Aug, die Mutter-
Blume [...].

le colchique
dans l’œil, horstemps, la fleur
mère [...] (Celan 1979, 132-133).

Surtout le terme «colchique» renvoie à une région mythique pour l’imaginaire


célanien: la Colchide, liée à la mère comme dans Im Schlangenwagen (Dans le
chariot à serpents) d’Atemwende, poème centré sur la mémoire où le train de la
déportation maternelle se transforme dans le char tiré par des dragons emportant
Médée. Il termine le poème Und mit dem Buch aus Tarussa (Et avec le livre
de Tarussa) par «Kolchis» («Colchide»). «Crimée de Mandelstam, lieu de l’exil
d’Ovide (tous deux écrivirent des Tristia)» remarque Martine Broda (Broda 1986,
49). La Colchide englobait, pour Celan, non seulement la patrie de Mandelstam,
son double fraternel, mais aussi la Roumanie perdue. Et le fait d’avoir choisi,
pour son suicide, justement le pont lié à Apollinaire, auteur des Colchiques, nous
semble hautement significatif pour exprimer sa souffrance et sa solitude d’exilé
dans un Paris qui était désormais très loin de la Ville-Lumière de ses débuts. Ne
la qualifiait-il pas de «grotte» pleine d’épines dans Eingejännert (Enjanvié), de
Schneepart? Dans son commentaire du poème, Jean-Pierre Lefebvre note que
«la forme composée [Eingejännert] suggère une sorte d’enfermement, voire d’in-
carcération». En ce qui concerne le mot Balme (grotte), «associé à bedornt, l’en-
semble évoque une cage de torture» (Lefebvre 2007, 116):
Eingejännert
in der bedornten
Balme. (Betrink dich
und nenn sie
Paris).

Enjanvié
dans la balme

146
ornée d’épines. (Saoule-toi
et appelle-la
Paris) (Celan, 2007, 29).

Soulignons que, dans Und mit dem Buch aus Tarussa, Celan avait déjà associé au
suicide le Pont Mirabeau huit ans avant son geste fatal, ce qui prouve de manière
évidente l’importance destinale qu’il attribuait non seulement à ce lieu parisien,
mais aussi à la constellation symbolique personnelle unissant Pont Mirabeau –
Apollinaire – Colchique – Colchide – Roumanie – Mère:
Von der Brücken-
quader, von der
er ins Leben hinüber-
prallte, flügge
von Wunden, – vom
Pont Mirabeau.

De la dalle
du pont, d’où
il a rebondi
trépassé dans la vie, volant
de ses propres blessures, – du
Pont Mirabeau (Celan 1979, 148-149).

Bachelard a montré comment l’attirance fatale pour l’eau est provoquée par une
rêverie de dissolution, de réintégration dans l’ordre cosmique qui cache sans
doute aussi un désir de renaissance. C’est pourquoi la mort par l’eau est à la fois
«redoutée, en tant qu’elle crée un maléfice spécifique, et désirée, en tant qu’elle
implique une persistance paradoxale» (Libis 1993, 224). Elle est, comme il l’écrit,
la «plus maternelle des morts» (Bachelard 1979, 100). En se jetant du Pont Mira-
beau, associé chez lui à Apollinaire et donc aux Colchiques, Paul Celan entrepre-
nait la traversée vers l’au-delà. Il indiquait aussi que ce voyage pour lui était en
fait un retour, un retour vers son Méridien6.
À travers les années d’exil, à travers l’enfer de la folie, persistera au cœur de
l’œuvre célanienne cet «unique cercle» qui désigne à la fois le Méridien originaire
qui «intersecte tous les tropes» et aussi la patrie inoubliée qu’il avait tenté de
reconstruire avec la parole de poésie. Les vers situés à la fin du poème Es wird
etwas sein, später (Il y aura quelque chose, plus tard) du dernier recueil pos-
thume Zeitgehöft (Enclos du temps) condensent à jamais cette hantise:

6 Ajoutons que le 19 avril 1970 était la veille de Pessah, une fête dédiée à la famille, au souvenir
des parents et grand-parents. Comme il l’écrit dans Le Méridien, «le poème parle! De la date qui
est la sienne, il préserve mémoire» (Celan 1971, 190). En choisissant cette date et ce lieu, Celan
a voulu faire parler non plus cette fois le poème mais sa propre mort.

147
Aus dem zerscherbten
Wahn
steh ich auf
und seh meiner Hand zu,
wie sie den einen
einzigen
Kreis zieht.

du verre brisé
de la folie
je surgis
et regarde ma main,
tracer l’un,
l’unique
cercle (Celan 1985).

Bibliographie

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Bachelard, Gaston (1948): La Terre et les rêveries du repos, Paris, José Corti.
Bachelard, Gaston (1979): L’Eau et les rêves, Paris, Corti.
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Briet, Paris, Christian Bourgois Éditeur.
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rie Briet, Paris, Christian Bourgois Éditeur.
Celan, Paul et Celan-Lestrange, Gisèle (2001): Correspondance, Éditée et com-
mentée par Bertrand Badiou avec le concours d’Éric Celan, Paris, Éditions du
Seuil.

148
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Pierre Lefebvre, Paris, Éditions du Seuil.
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Lefebvre, Jean-Pierre (2007): Notes, in Celan, Paul: Partie de neige.
Libis, Jean (1993): L’Eau et la mort, Figures Libres, Dijon, EUD.
Meinecke, Dietlind (1970): Wort und Name bei Paul Celan. Zur Widerruflichkeit
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Solomon, Petre (1987): Paul Celan. Dimensiunea românească, Bucureşti, Ed.
Kriterion, 1987.
Speier, Hans-Michael (1986): «Paul Celan, poète d’une nouvelle réalité (Inter-
prétation de Part de neige)», in Broda, Martine (ed.): Contre-jour. Paul Celan,
Paris, Édition du Cerf.

149
La fine dei sogni bucolici ovvero
“Dicono che vengono gli albanesi”:
Il vento fa il suo giro (2005, R.: G. Diritti)
Sabine Schrader
Università di Innsbruck

Abstract

A partire dagli anni ‘90 l’Italia vive la svolta verso una società multietnica già realizzatasi in altri
stati europei. Il tradizionale paese dell’emigrazione si è trasformato in un paese dell’immigrazio-
ne – e spesso xenofobo. Negli ultimi anni il cinema italiano ha cominciato a testimoniare questa
trasformazione, sviluppando così un nuovo modello narrativo: ai racconti della migrazione inter-
na e dell’emigrazione vengono accostate le immagine degli extracomunitari provenienti dai paesi
africani e dall’Europa orientale, ma spesso senza con questo mettere in crisi le categorie percettive
assimilabili alla giustapposizione di soggetto e alterità. L’eccezione in quest’ambito è rappresentata
dal film E l’aura fai son vir (Il vento fa il suo giro), diretto da Giorgio Diritti (2005). Tanto la pro-
duzione in cooperativa quanto la distribuzione escono in questo caso dagli schemi convenzionali
dell’industria cinematografica. Con un budget ridottissimo e con la partecipazione di numerosi attori
non professionisti di area linguistica occitana (per questo la pellicola risulta recitata in più lingue e
sottotitolata), il film ha riportato ampi successi nei festival internazionali, diventando poi grazie ad
un favorevole passaparola un vero e proprio cult movie nei cinema d’essai italiani. La regione delle
Alpi occitane (peraltro magnificamente fotografata), nella quale un pastore ed ex-insegnante fran-
cese si trasferisce con la sua giovane famiglia, è tutt’altro che un paradiso bucolico. L’emigrazione
massiccia ha decimato gli abitanti del villaggio ed i pochi anziani rimasti sono l’ultimo baluardo del-
la lingua e della cultura occitane in Italia. Per alcuni il pastore viene visto come il precursore degli
albanesi, per altri diventa la promessa di un’altra vita possibile. I conflitti abitualmente affrontati dal
cinema transnazionale, sintetizzabili nei binomi identità/diversità, modernità/tradizione, cultura/
natura, massa/individuo, sono trattati qui con originalità e senza il ricorso consolatorio ad abusati
stereotipi. Il tipico „sense of loss“ (Ezra/Rowden 2006) del cinema transnazionale si esplicita in
questo caso per esempio nella descrizione di un luogo piuttosto che di un personaggio.

Introduzione

Chersogno, al primo sguardo, è borgo d’idillio immerso nell’aspro paesaggio del-


le Alpi occidentali italiane. I suoi abitanti, in gran parte anziani, parlano ancora
l’occitano e vivono soprattutto del turismo estivo che ancora riesce a sottrarre
il paese all’abbandono. Philippe è un ex-insegnante francese che ha smesso la
professione per dedicarsi alla pastorizia, un modo per iniziare una vita in ar-
monia con la natura; con i familiari e il suo gregge di capre decide di stabilir-
si a Chersogno. Nonostante l’iniziale diffidenza i nuovi arrivati vengono accolti

151
calorosamente, certo anche per la qualità eccellente del formaggio che l’ospite
produce, ma presto l’umore del piccolo villaggio ricade nel sospetto, nell’invidia
e nell’intolleranza. Il paesaggio, magnifico e quieto nella messa in scena, diviene
contrappunto all’impossibilità di una convivenza pacifica: Philippe e la sua fami-
glia, al termine della vicenda, si risolvono a lasciare il paese.
E l‘aura fai son vir/Il vento fa il suo giro (2005) di Giorgio Diritti è sotto molti
aspetti un film degno di nota: racconta di terre e luoghi raramente frequentati
dal cinema italiano recuperandone l’idioma, la lingua d‘oc, una scelta che fa del
lavoro di Diritti, per quanto ci è dato sapere, il primo lungometraggio occitano
in assoluto. La trama permette poi al regista di indagare i limiti e le potenzialità
della convivenza transculturale non solo facendo uso dei codici dissimili di im-
magine, suono e narrazione, ma anche mettendo in campo incroci e contrasti tra
le ineluttabili antinomie di identità e alterità, natura e cultura, movimento e stasi.
In una topografia concentrata, in un campione di dimensioni assai limitate, si
offrono i grandi temi della contemporaneità: globalizzazione, migrazione, ricerca
e cura della Heimat.
E l‘aura fai son vir/Il vento fa il suo giro riunisce due tendenze presenti nella
cinematografia italiana contemporanea: l’una orientata a una “ricomposizione del
cinema italiano per aree geografiche”,1 ossia un cinema attento alla complessità e
alla ricchezza delle realtà regionali; l’altra il cui punto focale è il fenomeno delle
migrazioni, che ha dato vita a un filone sviluppatosi soprattutto nell’ultimo ven-
tennio (Schrader, Winkler in preparazione).
In questo saggio valuteremo le condizioni che hanno inciso sulla produzione e
la distribuzione del film, per poi porre l’attenzione su temi ed argomenti interpre-
tando gli accenti nostalgici che danno il timbro a Il vento fa il suo giro.

Produzione e distribuzione

Il vento fa il suo giro viene realizzato nel 2005 e segna l’esordio di Giorgio
Diritti (Bologna *1959) nel lungometraggio; in precedenza l’autore bolognese
– formatosi in Ipotesi Cinema, la scuola-laboratorio fondata da Ermanno Olmi
– aveva al suo attivo soltanto tre cortometraggi. L’opera prima è presentata in
oltre 60 festival nazionali e internazionali riscuotendo numerosi riconoscimen-
ti, ma questo non impedisce che il film debba attendere più di due anni per
ottenere una distribuzione in Italia. È L’uomo che verrà (2009), seconda prova
di Diritti, a segnare il successo definitivo dell’autore: la pellicola, candidata
al David di Donatello come miglior film, si aggiudica il premio vincendo la

1 Cfr. Zagarrio, Vito (2000, 14); cfr. Martini, Morelli (1998).

152
concorrenza di film come Vincere (2010) di Marco Bellocchio e Mine Vaganti
(2010) di Ferzan Ozpetek.
Il vento fa il suo giro è una produzione a basso costo, non avendo potuto usu-
fruire di finanziamenti né dallo stato né dai network televisivi. I resoconti dei
comunicati stampa e delle recensioni riferiscono che i collaboratori si sono auto-
finanziati, fondando una cooperativa che a sua volta ha ricevuto il sostegno eco-
nomico della popolazione occitana. La troupe stessa si è occupata delle locations,
dell’ambientazione e dell’alloggio, provvedendo tra l’altro a reperire le capre per
il gregge.2 Alcuni dei suoi membri sono stati reclutati anche come attori, fatto
reso necessario non solo dalle ristrettezze economiche ma anche dalla necessi-
tà di disporre di interpreti capaci di esprimersi correttamente in occitano. Que-
sta riuscita messa in scena paratestuale dell’azione collettiva e della solidarietà
si riflette nella finzione stessa, seppure la trama degli accadimenti si incarichi
piuttosto di mostrare la crisi di antichi modelli di comportamento quali quelli
del rueido, ossia di quel principio che comporta l’impegno individuale e solidale
per il bene comune, usanza che nel film si rivela essere nient’altro che un mito
del passato.3 Nonostante ciò è indubitabile che le condizioni produttive abbiano
felicemente contribuito a rafforzare la stessa autenticità narrativa del film, che
coerentemente si propone come un progetto di risoluta vocazione culturale non
preoccupato da logiche commerciali.
Il vento fa il suo giro viene portato a termine nel 2005, ma il tono riflessivo del
racconto e l’opzione per il multilinguismo (dialoghi in occitano, italiano, fran-
cese) rendono ardua la ricerca dei possibili distributori. Diversamente il film è
accolto con ammirazione nei festival internazionali e la piccola sala d’essai mila-
nese Cinema Mexico lo programma ininterrottamente per oltre un anno a partire
dal 6 giugno 2007. La sua popolarità cresce prima sottotono attraverso il passa-
parola, per poi giungere all’attenzione della stampa solo in un secondo momento.
Il successo si propaga in altre città finché nel 2008, tre anni dopo la produzione, il
film è proposto per cinque Donatello (Miglior Film, Migliore Regista Esordiente,
Migliore Sceneggiatura, Migliore Produttore e Migliore Montatore) e battezzato
come «sorpresa delle sorprese».4 In seguito il film ottiene finalmente una distri-
buzione nazionale e internazionale e nel 2009 entra a far parte di Cinema Italia!,
una programmazione di scadenza annuale finanziata dal governo e rivolta ai pa-
esi di lingua tedesca.

2 Cfr. le recensioni sul film: URL.: www.ilventofailsuogiro.com.


3 Cfr. Bernard (1996, 361ss).
4 Zonta, Dario (2008): «Ragazzi, quanto è piaciuto ‚Caos calmo‘ ai David di Donatello», in L‘Uni-
tà, 21.3., p. 19.

153
Emigranti e immigrati

Con il termine migrazione s’intende lo spostamento di un uomo o di un gruppo


sociale. Anche se Il vento fa il suo giro fa di questa il suo argomento cardine,
nelle due accezioni di immigrazione ed emigrazione, nel film quest’ultima viene
soltanto sporadicamente suggerita, ed è presente piuttosto come iato narrativo, la
cui precisazione è affidata all’immaginazione dello spettatore; è il caso, ad esem-
pio, dei figli degli abitanti del paese che apprendiamo essersi trasferiti a Torino, in
Svizzera o in Francia per trovare un lavoro che la povera agricoltura locale non è
in grado di offrir loro e tornano soltanto d’estate come turisti con le loro grosse au-
tomobili. Le persone di maggiore spicco della comunità, un musicista e il sindaco,
stabiliscono legami differenti con i luoghi: per il primo il paese rappresenta poco
più che un rifugio dove ritirarsi tra un concerto e l’altro, per il secondo, che “vive
in città” (5° min.) come detto, non senza sarcasmo, da un compaesano, nient’altro
che la sede del lavoro. Chersogno è destinato a svuotarsi sempre di più, e non è
un caso che proprio il sindaco e il musicista, ossia coloro che si trovano di fatto
sospesi tra mondi apparentemente inconciliabili, figurino come i più attivi sosteni-
tori della causa di Philippe e quindi dell’accoglienza della sua famiglia, aiutandolo
nella ristrutturazione della casa e appellandosi a ciò che ritengono l’elemento fon-
damentale e distintivo della cultura occitana, il già menzionato rueido.
Non solo per il paese, ma anche per i suoi costumi e le sue tradizioni è forte
il rischio di una progressiva dissoluzione, al pari della lingua. L’occitano oggi è
una lingua minoritaria, parlata solo in poche aree del sud della Francia, nella Val
d’Àran in Catalogna e in alcune valli delle Alpi Piemontesi. Si stima che in Italia
sopravviva una popolazione di circa 50.000 persone, distribuite in 14 valli, anco-
ra in grado di parlare questo idioma che, pur essendo riconosciuto e protetto dallo
stato italiano, ha pressoché cessato di rappresentare un mezzo di comunicazione
riferibile a un territorio unitario (Brauns 1989, 57-66).
È indicativo come il film si apra, ancor prima della comparsa del titolo, con
un breve dialogo in occitano che subentra al rumore iniziale di un’auto in movi-
mento. Immersi nell’oscurità di una galleria, allo scorgersi della luce che invade
il paesaggio lontano prende avvio il dialogo dei due passeggeri sul rueido, del
quale sta riferendo una trasmissione alla radio. Un avvio di tale forza, tanto nel
commento parlato quanto nelle immagini, allude da un lato alla potenza origina-
ria della parola, che accompagna l’uscita dal buio della galleria ancor prima che
appaia il personaggio parlante, dall’altro lascia intuire la nostalgia del passeggero
più anziano, il cui struggimento si rivolge ad una consuetudine che è oramai solo
pretesto, spunto per inchieste radiofoniche.
Nelle reazioni degli abitanti all’arrivo di Philippe si può misurare il loro diso-
rientamento: “Una volta erano i nostri che andavano in Francia” (15° min.). Il film

154
fa un uso molto parco dei dialoghi, che tuttavia proprio per questo consentono di
trasmettere le argomentazioni in modo secco e conciso. “No, bisogna conoscere
la gente che viene” (14° min.), afferma un’anziana signora: la sobrietà di questa e
tante altre esternazioni è sufficiente a rendere esplicita l’estensione in negativo del
campo semantico del termine ‘straniero’, ovvero il non familiare, lo sconosciuto
(cfr. Jostes 1997). Philippe rappresenta, per lei e per gli altri, l’estraneo per eccel-
lenza giacché ‘non facente parte’. È come l’annuncio o il segnale dell’invasione,
dell’occupazione del diverso, secondo la profezia dall’accento criminalizzante del
“Poi verranno gli albanesi” (14° min.) mediato e ripetuto dalla televisione. Ma in
fondo il sospetto non riesce a sopire completamente l’istinto collettivo e la casa in
cui Philippe e i suoi familiari si trasferiscono verrà poi ristrutturata dalla comunità.
Dalle conversazioni gli abitanti del paese, e con loro gli spettatori in sala, ap-
prendono la storia di Philippe; una storia segnata dalla volontà di sfuggire ad una
vita e ad un ruolo, quello dell’insegnante, avvertiti con crescente disagio e insod-
disfazione, e dalla risoluzione quindi di porre in atto un nuovo inizio, una nuova
vita. Tuttavia il suo primo tentativo sui Pirenei delude le sue aspettative: l’immi-
nente costruzione di una centrale nucleare nei dintorni lo persuaderà all’ennesi-
ma fuga, a continuare la ricerca, fino ad approdare a Chersogno. L’identità del
personaggio di Philippe è stata costruita come quella di chi, al fine di perseguire
una maggiore armonia con la natura, allenta i suoi vincoli e i suoi legami con la
civilizzazione (rappresentata nel film dalla condivisione della cultura occitana,
del sapere umanistico e dell’industrializzazione), vale a dire un anticonformista.
Una tipologia di migrante, dunque, assai distante da quella che domina gli spazi
dei media: non già la persona forzata all’esilio dal bisogno economico o dalla vio-
lenza della guerra, ma piuttosto chi si mette in cammino in seguito a una libera
scelta, qui speranza di una ‘vita autentica’.
Volendo distinguere tra migrazione sub-nazionale (ovvero di coloro che chie-
dono asilo) e sopra-nazionale (cosmopolita) – una differenziazione proposta da
Thomas Elsaesser (cfr. Elsaesser 2005) – Philippe e la sua famiglia possono esse-
re considerati come appartenenti al secondo gruppo, ossia come coloro che deci-
dono di valicare i confini nazionali recando con sé il proprio bagaglio culturale e
formativo. Con ciò la figura di Philippe partecipa della crisi delle identità collet-
tive tradizionali, nonostante egli paradossalmente recuperi un lavoro antico – il
governo degli animali – rifiutato dalle generazioni più giovani del borgo montano
oramai sedotte da modelli comportamentali diversi.
Cultura, per Philippe, è fatto sincronico e di tutti; essa trova radice non nel
ricordo ma nella frequentazione reciproca, nello scambio e nell’incontro quoti-
diano. Attraverso Philippe e la popolazione del paese, della quale più volte il
musicista e il sindaco si fanno portavoce, sono messe a confronto anche due de-
clinazioni dell’identità collettiva: mentre per i paesani è soprattutto la lingua il

155
primo degli orizzonti comuni, per Philippe le tracce della memoria non sono altro
che appigli per una nostalgia di nessun valore per la comunità.
M.: Il popolo per essere se stesso deve continuare a salvaguardare la propria cultura, parlare
la propria lingua. È la lingua che dice che delle persone hanno vissuto assieme per migliaia
di anni. // P.: No. La cultura nasce dalla convivenza. Vivere assieme. Jour après jour. // […] E
cos’è rimasto dalla cultura occitana? La nostalgia è rimasta. (38° min. – 39° min.)

Nostalgia

La critica di Philippe nei confronti della nostalgia è assoluta: a suo sentire essa
è indice di una cultura inerte, resa inattuale dal referente unico della tradizione,
e quindi irrevocabilmente destinata a soccombere. Ma Philippe stesso non ne è
immune e proprio da questo tratto di ambiguità Diritti e il suo operatore fanno
sorgere il tema centrale del film.
Il termine composito nostalgia salda il nostos, il ritorno a casa ovvero la casa
stessa, ad algia, l’aspirazione dolorosa. Il termine fu creato da Johannes Hofer,
che nella sua dissertazione De Nostalgia oder Heimwehe (Basilea, 1688) ne indi-
viduava i sintomi sulla base del disagio osservato nei mercenari svizzeri, costretti
a soggiornare a lungo lontano da casa, in paesi stranieri. Questo carattere pato-
logico è decaduto nel lessico contemporaneo, così come non è più presupposta
una distanza oggettivabile tra la terra natia e l’estero. In un mondo globalizzato e
quindi nell’epoca dell’annullamento delle discontinuità spaziali e temporali essa
testimonia piuttosto l’anelito verso i tempi trascorsi, i luoghi e le persone del
passato capaci di assumere il ruolo di punti stabili di riferimento, ed è diventata,
sotto alcuni aspetti, un fenomeno quanto mai diffuso:
There is a no less global epidemic of nostalgia, an affective yearning for a community with
a collective memory, a longing for continuity in a fragmented world. Nostalgia inevitably
reappears as a defense mechanism in a time of accelerated rhythms of life and historical
upheavals. (Boym 2001, XIV)

Nei paesi di lingua tedesca esiste un termine molto efficace che, come già Hofer
aveva fatto notare, risulta legato strettamente alla nostalgia: Heimat, un’espres-
sione che sta per l’oggetto inseguito dalla nostalgia stessa. Anche Heimat è parola
divenuta attuale nel recente passato (cfr. Schlink 2000; Türcke 2006; Schmitt-
Roschmann 2010). Si potrebbe dire, in analogia all’interazione tra globalizzazio-
ne e nostalgia, che quanto più i meccanismi del capitalismo globale provocano
sradicamento, tanto più tende ad affiorare con maggior forza il sentimento della
Heimat ed il richiamo verso di essa.
Heimat è nozione compromessa dagli abusi dell’ideologia nazionalsocialista e
discreditata dalle semplificazioni e dalle volgarità di un certo folklore, tanto da

156
apparirne necessaria una ridefinizione nell’ambito della contemporaneità. Soven-
te il termine Heimat compare anche in testi non di lingua tedesca, e anche in ita-
liano non è facile trovarne un parallelo. Nella parola “patria” risuona comunque
il termine latino pater, allusione alla presenza di una autorità dominante che ne fa
una traduzione insoddisfacente. ‘Le mie radici’ potrebbe forse essere locuzione
più corretta, seppure priva di quella tensione, di quella brama sottesa, ossia di
quella nostalgia che è inerente al concetto stesso di Heimat; essa sembra oltre a
ciò riferirsi alla sola dimensione geografica e storica, a quel radicarsi in un sito
e in un tempo specifici, ed è in questi termini limitati che essa incontra l’animo
degli abitanti di Chersogno. Viceversa Heimat possiede una dimensione sociale
non necessariamente ancorata al luogo di nascita, designando piuttosto un luogo
metaforico in grado di garantire autenticità, intimità e sicurezza – ed è proprio la
ricerca di questa Heimat ad animare l’avventura di Philippe.
Per gli abitanti del paese, come in precedenza sottolineato, la Heimat coincide
con la lingua e la cultura millenaria ad essa ancorata, un patrimonio messo in
pericolo dall’emigrazione dei giovani. Si applica qui un’interessante traslazione,
se consideriamo che il “sense of loss” nel cinema transnazionale della migrazione
e della diaspora usualmente è proprio dei migranti e non della popolazione seden-
taria (Ezra, Rowden 2006, 7). Agli antipodi della perdita si pongono la preserva-
zione e la cura di ciò che è dato, vale a dire dello stato di fatto; un riguardo che la
convivenza con Philippe rende sempre più difficile, vista la scarsa considerazione
di quest’ultimo delle usanze ereditate, pari soltanto alla mancanza di riguardo
delle sue capre per i confini di proprietà dei campi. È reso chiaro nel film che
la pratica del rueido non ha futuro, poiché il vivere comune è come irrigidito,
congelato. Svetlana Boym contrassegna questo fenomeno come restorative no-
stalgia, una nostalgia che attribuisce un significato assoluto alla prima parte del-
la parola e tenta, indipendentemente dalle circostanze storiche, di conservare il
domestico, il consuetudinario (Boym 2001, 41). È una nostalgia che, nel riempire
la storia di musei e monumenti, si chiude alla condizione presente e nella quale,
come l’autrice giustamente fa notare, trova origine il nazionalismo.
Jean Améry, consapevole di come allo sradicamento si associno sempre anche
il disordine etico e il perturbamento, mette in guardia dalla possibile deriva rea-
zionaria della nostalgia:
Vivere nella Heimat significa che il già noto si manifesta ripetutamente davanti a noi in tenui
variazioni. Questo può portare a un impoverimento morale e allo scadimento nel provinciali-
smo se nient’altro si conosce se non la propria Heimat. (Améry 1980, 83)

In questo senso appare appropriata la critica di Philippe alla gente di Chersogno,


che a suo parere confonde la cultura con la nostalgia.
Ma anche nell’aspirazione di Philippe verso un mondo non più alienato è ine-
vitabile scorgere un’impronta nostalgica. Come pastore egli sembra incarnare il

157
movimento stesso, un migrante per eccellenza, con il suo nomadismo continuo
di pascolo in pascolo al seguito del suo gregge. La Heimat è dunque per lui atto
volitivo, un processo di assimilazione esperito non passivamente attraverso la
socializzazione e l’apprendimento, ma al contrario formatosi attivamente e in
sintonia con la natura. In senso positivo si potrebbe parlare, riprendendo con que-
sto la terminologia di Vilem Flusser, di una freedom of migrant, nel senso di una
libertà che per i migranti sopra-nazionali consiste quantomeno nella possibilità di
scelta: «for me heimat consists of people I choose to be responsible for» (Flusser
2003, 11).
Il mestiere di pastore rimanda però anche ad una tradizione di tutt’altro ge-
nere, ossia a quella della lirica bucolica, che confluisce poi nel romanzo e nella
poesia pastorali. Il centro dell’idillio agreste è occupato dalla natura innocente e
idealizzata dell’Arcadia, che rappresenta, al pari dell’età dell’oro, un luogo della
nostalgia e del desiderio nell’arte e nella letteratura fino al XVIII secolo inoltra-
to: arte e letteratura che, in quanto scaturite sempre e comunque dall’occasione
contingente, non possono che essere partecipi di quella reflective nostalgia che
implica il sogno e l’immaginazione di un luogo altro (Boym 2001, 50).
Ne Il vento fa il suo giro questo desiderio viene descritto attraverso Philippe, il
quale lascia dietro di sé i saperi e le conquiste della civilizzazione. Come ha fatto
notare in modo piuttosto lapidario ma efficace uno studente tedesco in un saggio
sul fenomeno omonimo, la Heimat diventa per Philippe “il momento nel quale si
cessa di correre, e ciò può accadere ovunque”.5
Così la macchina da presa si sofferma più volte sulle occupazioni di una fa-
miglia felice e sul gioco dei bambini; una famiglia che per breve tempo si fa essa
stessa Heimat per coloro che sono condannati ai margini della comunità e non
ne condividono per questo i pregiudizi – nel concreto un disabile mentale e un
giovane in perpetuo conflitto con il padre. Su Philippe e la sua famiglia si proiet-
tano inoltre le inquietudini dell’unico abitante del paese obbligato ad assentarsi
periodicamente da esso, il musicista. Per lui la famiglia francese, libera com’è
dai vincoli del business culturale a cui egli è sottoposto, è lo spazio del desiderio
nostalgico, un’ansia che trova modo di placarsi nella fugace relazione con la bella
moglie di Philippe.
La nostalgia di Philippe si orienta anche verso un modo di essere autentico, una
condizione esistenziale che il XX secolo carica di attributi quali originale, vero,
genuino, schietto, e che si nutre in fin dei conti del sogno di una vita totalmente
coerente e in equilibrio con la natura. Qui la nostalgia assume a mio avviso tratti
reazionari, esprimendo però al contempo la sana e imprescindibile aspirazione
verso una condizione dell’essere che trascenda le attribuzioni culturali (cfr. Knal-
ler 2005, 41ss.). Di conseguenza Philippe nega la valenza della cultura autoctona
5 URL: http://www.kwerhoch2.de/frisches_grun/Diplomarbeit_Heimat/diplomarbeit_heimat.html.

158
nel sottrarsi ai suoi riti, come nell’episodio della benedizione pasquale della casa
alla quale preferisce non assistere. È un comportamento destinato a suscitare la
diffidenza della maggior parte dei paesani con tale veemenza da portarla infine a
precipitare in una decisa ostilità.
La tolleranza, afferma Philippe in un colloquio con il musicista, è una parola
che non ama, poiché, a suo parere, se si deve tollerare qualcuno significa che non
c’è uguaglianza (43° min.). Il principio di uguaglianza di Philippe è universalista,
è un principio che nega le differenze. Egli riporta qui espressamente un classi-
co principio francese: La République est une et indivisibile, recita una massima
fissata nella Convention del 25 settembre del 1792 e quindi portante per lo stato
francese. È intesa qui l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini, dei citoyens, in-
dipendentemente dalle differenze individuali, il cui risvolto è un universalismo in-
differenziato, tendenzialmente egemonico ed incline a disconoscere le differenze.
Una volta che il conflitto è degenerato Philippe diserta l’incontro riconcilia-
torio organizzato dal sindaco e abbandona definitivamente il paese assieme alla
famiglia. Un gesto drammatico chiude il film, quasi a voler pronunciare un ver-
detto negativo sulla presupposta consistenza del principio della Heimat. Dopo
l’allontanamento della famiglia francese il disabile mentale sceglie il suicidio, il
giovane ribelle si trasferisce nella casa di Philippe e alla radio continuano i lavori
di produzione della trasmissione sulla cultura occitana.
La sintassi del film, nel suono e nell’immagine, è essa stessa reflective nostal-
gia, rimanendo sino al termine fedele all’aspirazione ad una vita transculturale
che risarcisca della generale e pervasiva perdita del senso, spaziale quanto tem-
porale. Diversamente dagli antagonismi tra Philippe e gli abitanti di Chersogno,
il film accoglie la diversità culturale attraverso la scelta stessa di un’edizione
plurilingue. Anche se l’italiano rappresenta la lingua della comunicazione, sono
presenti l’occitano delle conversazioni degli abitanti del paese e il francese nelle
scene familiari. L’occitano e il francese sono sottotitolati, evitando così di livel-
lare i salti linguistici attraverso una italianizzazione dei dialoghi o un eventuale
doppiaggio.
Il vento fa il suo giro evoca però la reflective nostalgia soprattutto per mezzo
delle immagini. La macchina da presa indugia sovente sullo stupefacente paesag-
gio alpino attraverso inquadrature prolungate, registra l’alternarsi delle stagioni,
il disegno delle nuvole e il bagliore della luna di notte con istinto, soprattutto in
quest’ultimo caso, quasi romantico. Alla vista di una natura di siffatta bellez-
za, imponente ed eterna, la macchina da presa sembra volerci persuadere che i
conflitti, anche interculturali, non possono che avere un’importanza modesta. Le
inquadrature, a campo lungo o campo medio, sono impostate da una prospettiva
leggermente ribassata, e aprono figurativamente così uno spazio del possibile in
contrappunto con la narrazione.

159
Accanto a questo tipo di riprese del paesaggio orientate al monumentale e
vicine all’estetica di stampo critico-sociale dei nuovi Heimatfilm, il regista Diritti
applica anche gli accorgimenti del procedimento filmico autentificante, senza con
questo perder d’occhio il carattere inevitabilmente artificiale della rappresenta-
zione cinematografica del vero. Il vento fa il suo giro è una finzione che grazie
alla presenza di attori dilettanti occitani si mostra prossima talvolta alle movenze
del documentario, ma è soprattutto l’estetica cinematografica del regista stesso
a rivelarsi funzionale alla messa in scena dell’autentico, ottenuto questo grazie
all’applicazione di strategie filmiche specifiche volte a stimolare il coinvolgimen-
to affettivo dello spettatore e che, come bene descrive lo studioso di cinemato-
grafia Matías Martínez, sono in grado di destare in lui l’impressione del genuino:
“Autenticità in questo secondo senso [è, n.d.a.] sempre un effetto di forme ben
precise di artificiosità, è il risultato di messinscena estetica, convenzione arti-
stica e strategia del controllo affettivo, tanto che si può parlare qui di ‘finzioni
autentiche’.ˮ (Martínez 2004, 41)
Appartengono alla categoria delle strategie di autentificazione, accanto alle
prolungate inquadrature panoramiche, anche i riferimenti cronologici, che, oltre
a fornire agli spettatori le coordinate temporali della vicenda, contribuiscono al
riconoscimento dell’autentico, garantendo quella che Barthes definisce “l’esat-
tezza del referente” (Barthes 1968). Anche nella scelta calcolata delle riprese, nel
loro alternarsi in registri quando apparentemente obiettivi e distaccati, quando
schiettamente soggettivi, trova espressione la ricerca della veridicità filmica. Ne
fanno parte ad esempio i già citati movimenti di macchina attraverso le gallerie
alpine: l‘oscurità, che avvolge gli spettatori non diversamente dagli automobilisti,
e il suono in presa diretta sono qui gli elementi destinati ad evocare l’esperienza
concreta e dichiarare al contempo in modo efficace la sincerità del racconto.
Particolarmente riuscita nella ricerca visuale della reflective nostalgia risulta
la spettacolare scena di benvenuto della comunità paesana, costruita con l’uso
esclusivo di immagini e musica, nella quale Philippe e i suoi familiari vengono
accolti con una fiaccolata e un rustico buffet. Di proposito il buio della notte
non viene rischiarato dall’illuminazione elettrica – le uniche fonti di luce sono
offerte dalle torce – rivelando al pubblico in sala uno scenario apparentemente
senza tempo, arcaico, nel quale una vita in comune sembra progetto attuabile.
La presentazione della comunità alpina trova la sua sintesi nell’immagine di una
Urlandschaft, un paesaggio primigenio, puro, non violato dalla civilizzazione. La
presenza immutabile della natura è messa in risalto dalla musica, modulata solo
su poche tonalità. Con la stessa rassicurante circolarità cui allude anche il titolo
del lungometraggio essa compare nella melodia iniziale, per poi svilupparsi attra-
verso sottili variazioni e delinearsi infine come il tema principale ricorrente. In
chiusura la macchina da presa torna sulla grandiosità del paesaggio come visione,

160
ma stavolta, diversamente da altre scene precedenti, in ripresa a volo d’uccello.
Questa prospettiva, usata non di rado quale commento visuale ad uno spirito
audace e disinvolto, intende qui certo incoraggiare alla sospensione del giudizio
suggerendo l’espandersi non solo materiale dello spazio del possibile.

Nostalgia e migrazione

Il vento fa il suo giro presenta l’incrocio di comportamenti marginali radicalmen-


te critici nei confronti dei processi di globalizzazione. Si tratta di un antagonismo
declinato secondo accenti distinti: da una parte la tradizione minacciata dell’occi-
tano e dall’altra la figura di un anticonformista, che coltiva il desiderio di una vita
affrancata dai modelli della formazione umanistica e del capitalismo. Entrambe,
tuttavia, nell‘aspirazione ad un mondo diverso, si paralizzano in una forma di
nostalgia che Boym definirebbe come restorative nostalgia, poiché si ostinano a
separare il proprio dall’altro e non sono in grado di concepire il presente come un
patteggiamento con la storia. Le osservazioni degli studi postcoloniali sull‘idea
stessa di cultura autentica ne hanno ripetutamente rimproverato l‘implicita im-
postazione egemonica, destinata ad indurre il depauperarsi delle differenze.� Il
film rende propria una tale argomentazione, tralasciando però quella che in senso
intersezionale rappresenta un’ulteriore marginalità del mondo globalizzato, vale
a dire quella del mondo femminile. La costruzione dei generi de Il vento fa il suo
giro presenta indubitabilmente toni di stampo borghese: la moglie di Philippe,
la cui autonomia è impedita sia dalla mancata padronanza linguistica sia dalla
dipendenza economica dal marito, assume un ruolo limitato esclusivamente alla
sfera del privato. Dea del focolare, musa e amante del musicista in una notte
d’estate: un’immagine della donna anacronistica persino per i vagheggiamenti
dell’arcadia.
Pur con queste limitazioni il messaggio implicito del film rimane di fondo,
nonostante l‘esito della vicenda, paradossalmente ottimista. Non pochi elementi
della trama lasciano infatti intravedere le possibili strade da percorrere, certo
ardue ma pur sempre presenti, in grado di conciliare Heimat e migrazione, stasi
e movimento, strade che vengono però presto abbandonate o ignorate per intran-
sigenza, cocciutaggine, incomprensione, ma anche per puro caso, trasformando
l‘occasione in occasione mancata. E, se vogliamo, è alla fotografia del paesaggio
che il regista affida il compito di rivelare l‘energia latente degli spazi e dei tempi
del racconto, che rendono di per sé disponibile quel third space nel quale l‘inter-
ferenza tra soggetti e culture diverse potrebbe aver luogo.
In conclusione si può affermare che Il vento fa il suo giro si mostra opera
interessante particolarmente nel suo riunire con intelligenza non comune, come

161
accennato in apertura, due tendenze presenti nella cinematografia italiana con-
temporanea: una prima costituita dal cinema regionale, che mette in scena lo
specifico locale disdegnando l’immaginario patinato corrente della televisione
nell’epoca berlusconiana ed evitando di conformarsi ai canoni della produzione
internazionale di cassetta; una seconda rappresentata dal cinema della migrazio-
ne, che tenta di affrontare, anche attraverso un procedimento autentificante, le
dinamiche multiformi della transculturalità.

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Da Internet
www.ilventofailsuogiro.com.
http://www.kwerhoch2.de/frisches_grun/Diplomarbeit_Heimat/diplomarbeit_
heimat.html

163
Integrazione/Dis-integrazione, il poeta «meteco» e le
«malattie dell‘esilio»
Giovanni Magliocco
Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Abstract

Il nostro intervento si propone di analizzare le «malattie dell›esilio» e l›immagine del «poeta meteco»
all›interno dell›opera di Dinu Flămând, uno degli esponenti più importanti della letteratura rumena
dell›esilio. Lo scrittore rumeno emigra nel corso degli anni ‹80 a Parigi. La capitale francese fu già in
passato la meta prescelta per molti autori rumeni, come Tristan Tzara, Gherasim Luca e Paul Celan,
poeti rievocati dallo stesso Dinu Flămând in un testo particolarmente suggestivo dal titolo Oraşul
poeţilor meteci / La città dei poeti meteci, nucleo irradiante delle nostre analisi tematiche. Per Dinu
Flămând, nella Romania degli anni ‹80, diventa impossibile anche la semplice «sopravvivenza», il
poeta sceglie, dunque, la via dolorosa dell›esilio. Come afferma Dumitru Tsepeneag, altro illustre
autore rumeno esiliato in Francia, «per qualsiasi scrittore, l’esilio è una specie di castrazione, di grave
mutilazione, alla quale alcuni nemmeno sopravvivono». Anche la voce poetica di Dinu Flămând è
mutilata, spegnendosi per lungo tempo, finchè finalmente non risorge nel 1998, quasi a voler procla-
mare che si può soppravvivere attraverso la poesia. Nelle raccolte pubblicate da quel momento in
poi, in particolare in Viaţă de probă (Vita in prova, 1998), Tags (Tags, 2002) e Frigul intermediar (Il
freddo intermediario, 2006) si possono rintracciare i segni indelebili di un esilio quasi auto-imposto,
apparentemente accettato dall›autore, ma mai definitivamente metabolizzato, una vera e propria «pa-
tologia», come attesta, ad esempio, la poesia Xanax, alla quale ci riferiremo nel corso delle nostre
analisi. Il poeta si proietta nell›immagine del «meteco universale» che attraversa, insonne e con
sguardo estraniato, lo spazio «matrice» ultimo e definitivo, incarnato non già dalla patria rumena, ma
dalla capitale francese, rappresentata, di volta in volta, sotto diverse ipostasi: «bordello di suicidi»,
«Parigi-ospedale», «Parigi-liceo», metropoli «deturpata» ineluttabilmente dalla solitudine.

1. La frattura tra il qui e l‘altrove

All‘interno della cultura romena, si possono distinguere almeno due diverse ti-
pologie di letteratura «migrante»: una letteratura dell‘emigrazione propriamente
detta ed una letteratura dell‘esilio. Della seconda tipologia fanno parte tutti que-
gli scrittori che durante gli anni della dittatura comunista, e in particolare nel
periodo del regime ceauşista, hanno sentito l‘urgenza di un doloroso allontana-
mento dallo spazio matrice originario, percepito come fortemente ostile e poco
proficuo alla creazione artistica e letteraria, pesantemente piegata all‘ideologia e
ingabbiata costantemente dalle leggi ferree della censura. Gli autori del periodo
postbellico emigrano per motivazioni ben diverse rispetto a quelle che spinsero
le generazioni precedenti verso l‘Occidente. Se autori come Anna de Noailles,

165
Martha Bibesco, Panaït Istati o Tristan Tzara, hanno abbandonato la Romania per
motivi personali o culturali, quelli del periodo postbellico sono stati condizionati
soprattutto dall‘ideologia politica.
In un articolo pubblicato in România literară nel 2008, il critico Ion Simuţ,
proponendo una cronologia dell‘esilio romeno postbellico, ha precisato che «nel
caso degli scrittori romeni di lingua tedesca partiti in Germania e degli scrittori
ebrei partiti in Israele, è corretto parlare di emigrazione e non di esilio» (Simuţ
2008, 13)1. Il critico opera, dunque, anche all‘interno della «diaspora» postbelli-
ca, una distinzione essenziale tra una letteratura dell‘emigrazione e una letteratu-
ra dell‘esilio. La differenza tra queste due tipologie si fonderebbe primariamente
sul coefficiente di integrazione nello spazio «secondo» che deriva in particolare
dalla lingua madre dello scrittore – o comunque da un suo perfetto bilinguismo –
e dalla sua appartenenza etnica.
Il caso di Dinu Flămând 2, la cui opera è al centro delle nostre analisi, è ascri-
vibile piuttosto alla tipologia della letteratura dell‘esilio. Emigrato in Francia nel

1 Tutte le traduzioni dal romeno all‘italiano presenti all‘interno di questo studio sono nostre.
2 Dinu Flămând (24 giugno 1947, Susenii Bârgăului) debutta nel 1966 nella rivista Tribuna,
successivamente segue i corsi della Facoltà di Filologia dell’Università Babeş-Bolyai di Cluj-
Napoca, dove si laurea nel 1970. Negli anni universitari partecipa alla fondazione della rivista
Echinox, intorno alla quale per molti decenni si raggrupperà uno dei più importanti movimen-
ti letterari della Romania, segnato sin dall‘inizio da uno spirito fortemente antidogmatico e
dall‘apertura verso valori culturali universali. Negli anni ‚70 lavora per diverse case editrici e
importanti riviste del paese (Amfiteatru, Secolul 20, Luceafărul, Contemporanul, Argeş, Con-
vorbiri literare, Ramuri, Ateneu, Steaua), pubblicando poesie, saggi, articoli di critica letteraria
e cronache. Poiché il clima politico e sociale di quegli anni diventa sempre più soffocante e il
controllo della censura tende ad annientare ogni manifestazione di originalità e di indipenden-
za, il poeta si indirizza sempre di più verso la traduzione, lavorando su autori come: Pablo Ne-
ruda, Martin Booth, Herberto Helder, Miguel Torga, Sophia de Mello, Michel Deguy. Nel 1971
debutta con il volume di versi Apeiron, seguito da Poezii (1974) e da Altoiuri (1976). Con Stare
de asediu (1983), il tono della sua poesia diventa più polemico e la critica al regime oppressivo
sempre più trasparente, da questo deriva la deformazione e, in alcuni casi, la soppressione di
molti testi da parte della censura. Negli anni ‚80 si mantiene all‘interno del circuito lettera-
rio attraverso alcuni volumi di critica letteraria: Introducere în opera lui G. Bacovia (1981),
e Intimitatea textului (1985). Nel 1985 ottiene una borsa Gulbenkian e comincia la traduzione
sistematica dell‘opera di Fernando Pessoa, che sarà pubblicata solo dopo la caduta del regime
comunista in Romania. Un secondo invito in Portogallo gli offre la possibilità, durante il viag-
gio di ritorno, di fermarsi a Parigi, dove nel marzo del 1989 ottiene l‘asilo politico e denuncia
attraverso la stampa francese il regime oppressivo di Ceauşescu. Dopo aver collaborato alla ra-
dio Free Europe e alla BBC, diventa giornalista presso Radio France Internationale. La raccolta
Viaţă de probă (1998), costituita da poesie inedite e testi censurati di Stare de asediu, restituiti
alla loro forma originale, segna la sua reintegrazione nello spazio letterario romeno. Seguono in
rapida successione il volume Dincolo (2000), l‘antologia Migraţia pietrelor (2001), le raccolte
Tags (2002), Grădini (2005), Frigul intermediar (2006), e Umbre şi faleze (2009). Per ulteriori
approfondimenti biobibliografici cfr. Manolescu 2003, 313 e Sicoe-Tirea 2008, 2-11.

166
corso degli anni ‚80, il poeta echinoxista non ha mai adottato, a differenza di altri
(pensiamo in particolare a Dumitru Ţepeneag o ad Ilie Constantin), il francese
come lingua di creazione, non integrandosi mai in modo definitivo, almeno da un
punto di vista linguistico, nella terra «seconda». Nella cronologia stabilita da Ion
Simuţ, la posizione di Dinu Flămând appare piuttosto «eccentrica», poiché egli è,
insieme a Mircea Iorgulescu, l‘ultimo autore sotto il regime comunista ad aver in-
trapreso la via dolorosa dell‘esilio: nel marzo del 1989, qualche mese prima della
caduta di Ceauşescu. Per Dinu Flămând, nella Romania claustrofobica degli anni
‚80, non solo non sembra più possibile fare poesia, ma sembra impossibile anche
la semplice sopravvivenza. Nel periodo dell‘esilio francese, la sua voce poetica si
spegne per lungo tempo, finché nel 1998 non pubblica la raccolta Viaţă de probă
(Vita in prova).
In un‘intervista rilasciata nel 2007 alla scrittrice Dora Pavel, l‘autore stesso ha
chiarito la natura di questo silenzio durato quindici anni. Flămând ha rivelato di
aver rinunciato alla scrittura proprio dopo essere giunto a Parigi. È stato soprat-
tutto l›impatto alienante e spersonalizzante con la grande metropoli occidentale,
a causare questa paralisi del linguaggio poetico; primo evidente segnale non già
di una felice integrazione nello spazio «secondo», ma piuttosto di un›inquietante
disintegrazione dell›identità di un poeta che si sarebbe presto proiettato, a livello
mitico-simbolico, nella figura del «meteco universale». Nell‘intervista a Dora Pa-
vel, Dinu Flămând confessa di aver provato, nello spazio parigino, il sentimento
della propria inutilità, della difficoltà di un nuovo inizio in una letteratura ormai
satura di ogni esperienza, anche di quelle più estreme e rivoluzionarie, come
è stata quella di Gherasim Luca, poeta dell›Avanguardia romena, emigrato in
Francia negli anni ‹40, la cui opera, secondo Dinu Flămând, rappresenta il caso
più flagrante e sconcertante di rivoluzione estetica all›interno della letteratura
francese (cfr. Pavel 2007, 21).
Il poeta sembra essere perennemente sospeso in una condizione «limbale», tra
un qui, rappresentato dalla Francia, in cui prova il senso dell‘inutilità, dell‘esclu-
sione, del disadattamento, e un altrove, incarnato dalla Romania, terra di un ritor-
no impossibile. Flămând supera, solo in un secondo momento, questa condizione,
sicuro che la rinuncia alla poesia rappresenti un ineluttabile inaridimento e che
«nel momento in cui riesci ad eliminare la vanità di poeta puoi esistere anche
nella scrittura» (Pavel 2007, 21). Tuttavia, la poesia che è da ascrivere a questa
seconda fase della sua produzione letteraria è profondamente segnata dalle «ma-
lattie dell‘esilio», che derivano tutte da un‘integrazione imperfetta e incompiuta
nello spazio parigino, se non addirittura da una dis-integrazione, che conduce
anche ad una «parcellizzazione» dell‘Io dai risvolti angoscianti.

167
2. Le «malattie dell‘esilio» come apocalisse esistenziale

Le tre raccolte della maturità, Viaţă de probă (Vita in prova, 1998), Tags (Tags,
2002) e Frigul intermediar (Il freddo intermedio, 2005) sono costruite sulle os-
sessioni del poeta, declinate con un tono straniante, che si colloca ambiguamente
tra l‘ironico e l‘apocalittico. Alienazione, solitudine, fallimento, assenza, ango-
scia sono i sentimenti che polarizzano la maggior parte dei versi. Il poeta, colto
temporalmente tra due millenni, tra il Sì e il No, «între cele ce se întâmplă şi nu
se întâmplă» («tra le cose che accadono e quelle che non accadono», Flămând
2009, 50-51), osserva il mondo contemporaneo con uno sguardo lucido e ironico.
Tuttavia in altri momenti abbandona questo registro, optando per un tono decisa-
mente drammatico e quasi apocalittico. Alcune poesie fotografano un’apocalisse
più personale ed esistenziale, riflesso perturbante di quelle «malattie dell’esilio»
cui ci siamo riferiti in precedenza; apocalisse alla quale il poeta non sembra af-
fatto sottrarsi, rivelando un latente istinto suicida ed una segreta attrazione per un
universo pervaso da torbide linfe tanatiche. Per l’inviduazione e la comprensione
di questa vera e propria patologia «dell’anima migrante», ci sembra fondamentale
un testo che porta un titolo emblematico, Xanax:
Xanax – medicament al exilului; păsări necunoscute
planează pe cerul dimineţii de insomnie.
Le numeri pe degete în gînd, în limba maternă:
unu, doi, trei... paşii morţii pe cerul Parisului...

Patrie – clipa cînd vîntul prinde rădăcină


la colţul zîmbetului înţepenit în uitare...
Xanax – medicina dell‘esilio; uccelli ignoti
planano sul cielo di un mattino d‘insonnia.
Li conti sulle dita nel pensiero, nella lingua materna:
uno, due, tre... i passi della morte sul cielo di Parigi...

Patria – momento in cui il vento mette radici


all‘angolo del sorriso irrigidito nell‘oblio...

(Flămând 1998, 11)

Nell‘immaginario del poeta, il noto farmaco psicotropo diventa, attraverso una


metafora in praesentia, «la medicina dell‘esilio»; esilio che assume, sempre più
l‘aspetto di un‘angoscia interiore, di un‘ansia che si installa nei meandri abissali
dell‘Io, addirittura di una vera e propria «insonnia» da curare con uno psicotropo.
Il riferimento all‘insonnia ritornerà anche nell‘altra poesia che prenderemo in
considerazione: Oraşul poeţilor meteci (La citta dei poeti metechi) e sarà fonda-
mentale per la configurazione della figura del «poeta meteco», la cui caratteristi-
ca primaria sembra essere proprio il fatto di essere malato d‘insonnia. Anche il

168
riferimento agli psicofarmaci si ripresenta in altri momenti della sua poesia, un
caso rilevante e particolarmente significativo è rappresentato dai primi versi di
Peisajul vertical (Paesaggio verticale):
Încerc să fiu fericit
ţâşnesc din nou sevele
tineri mesteceni îşi clatină în vânt testiculele subţiri
filamente lor perechi tremură în aerul dimineţii
coaja alburie tresare
sub buzele infinitului.

Pastila de Prozac întârzie uitată sub limbă


cuvintele au o elasticitate firavă
ca lăstarii sălciilor
când îi frângi

(dau la lumină seva tulbure suptă din adânc


ce se oxidează repede)

Tento di essere felice


sgorgano di nuovo le linfe
giovani betulle scuotono nel vento i testicoli sottili
i loro duplici filamenti tremano nell’aria del mattino
trasale la scorza biancastra
sotto le labbra dell’infinito.

La pastiglia di Prozac indugia dimenticata sotto la lingua


le parole hanno un’esile elasticità
come quando spezzi
i ramoscelli dei salici
(danno alla luce la linfa torbida succhiata dal profondo
che rapidamente si ossida).

(Flămând 2009, 56-57)

Nella poesia Xanax, un altro segnale di alienazione dalla realtà dello spazio «se-
condo» e di imperfetta integrazione in esso, è rappresentato anche dall‘uso del-
la «lingua materna» per contare nel pensiero «gli uccelli ignoti» che planano
sul cielo della metropoli francese, uccelli che, tramite un‘ulteriore metafora in
praesentia, si tramutano nei passi stessi della morte. Come osservava Laurenţiu
Ulici, nonostante Parigi rappresenti per Dinu Flămând un luogo della libertà,
diametralmente opposto alla Romania-lager degli anni‘ 80, le poesie composte
nell‘esilio parigino non sono più rassicuranti rispetto a quelle scritte in Romania
nel corso dei primi anni ‚80. Esse sono continuamente devastate dalla delusione e
dalla disillusione, anche se, secondo Ulici, adesso la motivazione lirica è piutto-
sto un‘altra: «al posto del disagio generato dalla terribile pressione della censura
ideologica sulla libertà di pensiero e, soprattutto, di espressione, appare nei testi

169
dell‘esilio il disagio del meteco, dell‘assenza di ogni certezza in relazione alla
capacità di adattamento all‘interno di un nuovo contesto – pieno anch‘esso di
vecchie ferite più o meno cicatrizzate» (Ulici 1998, in Flămând 2003, 204).

3. L‘erranza del «poeta meteco» nella Parigi-labirinto

Nell‘opera di Dinu Flămând, l‘immagine del «poeta meteco», accanto alla figura
dell‘«emigrante Ulisse» al quale il poeta ha dedicato molte poesie della maturità 3,
sembra incarnare il concetto stesso dell’erranza. Il «poeta meteco» compare in
almeno due testi rappresentativi della raccolta Viaţă de probă: Vin vărsat (Vino
rovesciato) e Oraşul poeţilor meteci (La città dei poeti metechi). Che in Dinu
Flămând l‘integrazione nello spazio francese sia imperfetta e vissuta in modo
conflittuale, è testimoniato anche da questa convergenza della figura del meteco
in quella del poeta. Julia Kristeva nel saggio Étrangers à nous même ha delineato
quello che fu il ruolo del meteco nell‘Antica Grecia: “Le Métèque des Grecs entre
en rapport contractuel avec la cité. […] Marie-Françoise Baslez l‘appelle à juste
titre l‘homo economicus de la Cité grecque. Par opposition à l’homme politique
et guerrier qu’est le citoyen, et sans être ce que nous appelons aujourd’hui un
travailleur immigré, le Métèque est «celui qui habite avec», «celui qui a changé
de domicile». […] Inférieur au citoyen, il n’est cependant pas esclave, comme le
laissent entendre des esprits aristocratiques tels que Platon ou Pseudo-Xénophon,
[..] en cas d’usurpation de citoyenneté, le Métèque est dégradé au rang d’esclave.
[…] Sans être des adeptes liberaux de la démocratie athénienne, comme on put le
penser à partir d’autres exemples, les Métèques s’infiltraient – sans s’intégrer –
dans toutes les cités qui avait besoin de leur appui économique.» (Kristeva 1988,
78-89)
Il destino dei poeti «metechi» di Parigi, rievocati da Dinu Flămând e sentiti
come spiriti fratelli, è simile a quello dei metechi dell’Antica Grecia su cui si è
soffermata la riflessione di Julia Kristeva. Si sono «infiltrati» nello spazio parigi-
no, vi vivono, ma non si sono mai totalmente integrati in esso, al punto da esserne

3 Nel periodo della maturità, l‘immaginario del poeta è stato particolarmente catalizzato dal
mito ulissico, probabilmente poiché in esso l‘autore ha riconosciuto la parabola dell‘erranza
per antonomasia. Nella raccolta del 2005, Grădini, il poeta pubblica una lunga poesia dal titolo
Emigrantul Ulise (Flămând 2005, 47-53), che sembra quasi porsi, da un punto di vista tematico
e stilistico, nella medesima linea di discendenza dell‘Ulysse di Benjamin Fondane; mentre la
raccolta più recente, Umbre şi faleze (Ombre e falesie), comprende un‘intera sezione focalizzata
sul mito di Ulisse, Poeme pentru Ulysse (Poesie per Ulisse, Flămând 2010, 50-67). Flămând si
inserisce, dunque, in una ricca tradizione della poesia romena moderna (Lucian Blaga, Ilarie
Voronca, Benjamin Fondane, etc.) particolarmente ricettiva nei confronti del mito di Ulisse.

170
«espulsi» in modo violento; alcuni poeti cui si riferisce Flămând (Sà-Carneiro,
Paul Celan, Gherasim Luca) hanno scelto, infatti, la via del suicidio:
Parisul lui Milosz, pe vremea cînd centrul lumii era Parisul
spre care migrau din Carpaţi, de la Baltică şi din pustă
toţi insomniacii,
Paris al lui Sà-Carneiro, bordel de sinucigaşi,
Paris-spital pentru metisul Vallejo cel care
îşi încheia definitiv săptămânile joia,
Paris-liceu al lui Pillat, cu gîndul departe, la Pometeşti
şi la Adâncată,
al lui Tristan cel fără de ţară, Paris, şi al şiretului grec Elytis
aflat în drum spre sentimentul cristalului,
Paris primind pe obrazul stîng palma cehului Holan
cu reproşuri de laşitate ce aveau să se mai repete.
Parisul exilului pentru exilatul la cub Paul Celan,
cavalerul de niemandrose,
dat dispărut pe Rue Longchamp într-o după-amiază
cu vin vărsat pe tăblia mesei de unde curge
un fir subţire spre Sena, ca sîngele...
Parisul cu capul în jos, pe sub poduri, privind cum pluteşte
trupul de Ofelie gîrbovită al lui Gherasim Luca,
şi el sfîrsind „en beauté”, perfect sinucis
semn că veacul îşi scuipă poeţii în fluvii...
Paris
schimonosit de singurătate,
început al cloşardizării universului,
hotel terminus, ultima mea matrice...

La Parigi di Milosz, al tempo in cui il centro del mondo era Parigi


verso cui migravano dai Carpazi, dal Baltico e dalla puszta
tutti gli insonni,
la Parigi di Sà-Carneiro, bordello di suicidi,
la Parigi-ospedale per il meticcio Vallejo colui che
concluse definitivamente le sue settimane di giovedì,
la Parigi-liceo di Ion Pillat, con il pensiero lontano, a Pometeşti
e ad Adâncată
quella di Tristan senza terra e quella del furbo greco Elytis
sorpreso in viaggio verso il sentimento del cristallo,
Parigi che riceve sulla guancia sinistra lo schiaffo del ceco Holan
con rimproveri di viltà che si sarebbero ripetuti.
La Parigi dell’esilio per Paul Celan, l’esiliato al cubo,
il cavaliere della niemandrose,
dato per disperso un pomeriggio in Rue Longchamp
con il vino versato sul tavolo da dove scorre
un filo sottile verso la Senna, come il sangue...
Parigi a testa in giù, sotto i ponti, che guarda galleggiare
il corpo da Ofelia ricurva di Gherasim Luca,
anch‘egli finendo «en beauté», perfettamente suicidato

171
segno che il secolo sputa i suoi poeti nei fiumi...
Parigi
deturpata dalla solitudine,
inizio della clochardizzazione dell‘universo,
hotel terminus, ultima mia matrice...

(Flămând 1998, 37-38)

Il tragitto che conduce dalla «Parigi-ospedale» alla «Parigi bordello di suicidi»


è breve, il poeta dedica una parte sostanziale dei versi ai due poeti Paul Celan e
Gherasim Luca, «perfetti suicidi»; del resto anche in altri momenti della sua ope-
ra ritorna, in modo ossessivo, il tema del suicidio come frutto del disadattamento
e del disagio esistenziale, sentimenti radicati nell‘Io stesso del poeta, come testi-
moniano questi versi tratti da Coline la Sancerre (Colline a Sancerre):
A găsi în tăcerea şisturilor
motive cât să rezişti să rămâi în tine
sfărâmicios şi unic
enigmă a posibilităţii...

Vântul hughenot împinge fumurile podgoriilor


spre cetate

sinuciderea ar fi
doar excesul de optimism.

Trovare nel silenzio degli schisti


motivi per resistere e rimanere dentro di te
friabile e unico
enigma della possibilità...

Il vento ugonotto spinge i fumi dei vigneti


verso la città

il suicidio sarebbe
solo un eccesso di ottimismo.

(Flămând 2009, 59)

Profondamente radicata nell’anima di Dinu Flămând è anche la nostalgia per la


patria originaria, condivisa con Ion Pillat e Tristan Tzara. Parigi, lungi dall’essere
il centro del mondo come ai tempi di Milosz, sembra tramutarsi anch’essa in un
luogo in cui trionfa il sentimento della marginalità. Anche il critico Ion Pop, che
ha dedicato diversi studi a Dinu Flămând, a proposito delle opere dell’esilio, ha
parlato di poesie il cui «pathos contenuto» inscrive il sentimento dello sradica-
mento nelle «linee di un paesaggio parigino periferico»; paesaggio che per il poe-
ta diviene il centro di un nuovo «margine», traducendo perfettamente «lo statuto
stesso dell’esule» (Pop 2003, 195). Flămând è il «meteco universale» che insonne
e con sguardo estraniato erra percorrendo le zone periferiche di una metropo-

172
li «sfigurata dalla solitudine», spazio matrice ultimo e definitivo. È una Parigi-
labirinto, caotica e metropolitana, una Parigi sul finire del millennio pervasa da
un grigiore purgatoriale e che porta scolpiti nel suo cielo i «passi della morte». La
definiamo Parigi-labirinto poiché, dal nostro punto di vista, è il mito del labirinto
che fonda, in modo inconscio, la poetica spaziale di Flămând.
Quel filo rosso come il sangue, che scorre dal tavolo su cui è stato versato il
vino, non ricorda forse il mitico filo di Arianna? Questo filo conduce direttamente
al centro del labirinto parigino, rappresentato da una Senna colta nella sua iposta-
si violenta e minacciosa: acqua oscura, limacciosa e gorgogliante dei cadaveri di
poeti suicidi, mostro acquatico che divora. E mentre nel mito greco del labirinto,
il filo di Arianna concedeva all’eroe il ritorno alla luce (cfr. Chevalier, Gheerbrant
1982, 441), qui il filo rosso sangue può solo condurre ineluttabilmente il poeta
«meteco» verso il centro divorante della metropoli-labirinto, quell’acqua densa e
nera in cui il secolo sputa i suoi poeti ripudiati. In questa costellazione simbolica
di matrice acquatica c’è anche un riferimento esplicito al suicidio di Ofelia. Il cor-
po di Gherasim Luca è accostato metaforicamente e in modo scioccante a quello
dell’eroina shakespeariana, ma questa nuova Ofelia non è sfiorata dalle ninfee,
come nella poesia di Arthur Rimbaud, nè circondata da ghirlande di fiori, come
nel celebre dipinto del preraffaellita Millais, ma è curvata nell’acqua più sordida,
è un’Ofelia oscura.
A proposito del suicidio in letteratura, l’epistemologo francese Gaston Bache-
lard nel suo volume fondamentale, L‘Eau et les rêves, ha parlato di quattro patrie
della morte legate ai quattro elementi naturali. A quel «lungo destino intimo» che
è il suicidio, Bachelard ha dedicato pagine memorabili, postulando l‘esistenza di
un vero e proprio complesso di Ofelia, in relazione al suicidio acquatico: «L‘eau
qui est la patrie des nymphes vivantes est aussi la patrie des nymphes mortes. Elle
est la vraie matière de la mort bien féminine» (Bachelard 1942, 96). Che cosa lega
i poeti «metechi» di Flămând alla morte più femminile, alla morte senza orgoglio
nè vendetta, al suicidio masochista per antonomasia? La malattia «dell’esilio» che
accomuna Flămând a Paul Celan e a Gherasim Luca, deriva non solo da un disadat-
tamento e da un’integrazione incompleta nella terra «seconda», ma anche da una
deprivazione della terra «prima», che si confonde con la figura materna. Infatti,
Flămând stesso conia, in una poesia di Viaţă de probă, il sostantivo «matrie», so-
stituendolo a «patrie». Il suicidio acquatico si configura psicoanaliticamente come
ritorno alla madre e, quindi, alla stessa «matrie», «le acque nere della morte sono
acque di vita, la morte con il suo freddo amplesso è il grembo materno, come il
mare che pur inghiottendo il sole, lo ridà alla luce traendolo dal suo grembo mater-
no», scriveva Carl Gustav Jung in Simboli della trasformazione (Jung 1992, 219).
Le acque della Senna rivestono, però, solo una funzione «sostitutiva», sono
soltanto un‘immagine degradata di quella «matrie» originaria che è la Romania.

173
Parigi e le sue acque non potranno mai essere la «matrie» desiderata, verso cui
compiere il nostos ultimo e definitivo, anche se Flămând stesso definisce questa
città «la sua ultima matrice». Le acque della Senna materializzando dramma-
ticamente il centro del labirinto parigino, non possono rappresentare, dunque,
fino in fondo la metafora intima e catartica di un ritorno al grembo materno, ma
piuttosto incarnano il nucleo divorante che si installa nel cuore stesso di quella
«matrie» seconda che è la Francia; «matrie» crudele nella quale i poeti «metechi»
non si sono mai totalmente integrati. Per questa ragione la Parigi di Flămând, as-
sume non solo l‘aspetto di una metropoli alienante, demitizzata e desacralizzata,
ma delineandosi come uno spazio sfigurato, in cui prende avvio «la clochardiz-
zazione» dell‘universo, è anche un luogo demitizzante e desacralizzante, a diffe-
renza della terra «originaria», la «matrie» prima, quella Romania 4 costantemente
aperta alle irradiazioni del mito e del sacro.

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4 In relazione a questa trasfigurazione mitica della terra natale, si vedano in particolare i primi tre
volumi Apeiron (1971), Poezii (1974), Altoiuri (1976).

174
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175
«L’estero è il cuore. E noi il sangue». Il nomadismo
esistenziale di Aglaja Veteranyi1
Danilo De Salazar
Università della Calabria

Nell’opera di Aglaja Veteranyi, scrittrice romena di lingua tedesca, prende forma il concetto di «no-
madismo esistenziale», espressione del mancato riconoscimento di qualsivoglia tipologia di confine,
sia esso geografico, sociale, intimo o, persino, narrativo. Basandoci su una metodologia d’analisi che
prende le mosse dagli studi di Gaston Bachelard sugli elementi, tracceremo un percorso antropolo-
gico che ci porterà a costruire una coerente rete di simboli connessi alla condizione di nomade, per
scoprire le più intime ripercussioni che tale condizione provoca nell’animo e nell’opera dell’autrice.
L’attenzione si focalizzerà, in maniera particolare, su quello che Jung ha chiamato «Complesso di
Giona», magistralmente ripreso dallo stesso Bachelard nell’opera La terra e il riposo. Seguendo
questa prospettiva d’analisi, non mancheremo di esaminare il ruolo giocato dal fattore linguistico in
quanto intimo elemento nel quale si riflette la percezione di sé nel contesto sociale.

«La casa, […] se mancasse, l’uomo sarebbe un essere disperso» afferma Gaston
Bachelard (Bachelard 2006a, 35). Sull’archetipo della casa si innestano tutte
quelle immagini che rimandano ai valori di un’intimità protetta, ed è sempre
in essa che riconosciamo «il nostro angolo di mondo, il nostro primo universo»
(Bachelard 2006a, 32). È già nella precarietà di questo elemento, di quel luogo
assunto a centro di fissazione del proprio io, che si delinea il dramma vissuto
dalla protagonista2 di Perché il bambino cuoce nella polenta, romanzo d’esordio
della scrittrice di origine romena Aglaja Veteranyi: «Apro la porta della roulotte
il meno possibile, perché casa mia non evapori» (Veteranyi 2005, 12). A questo
senso di volatilità della casa corrisponde un vero e proprio rischio di dispersione
dell’essere, «Dentro di me tutto si scioglie, e il vento mi attraversa soffiando»

1 Aglaja Veteranyi, scrittrice e attrice teatrale di origine romena, nasce il 17 maggio del 1962 a
Bucarest, in una famiglia di artisti circensi. Nel 1977 la famiglia si trasferisce in Svizzera, luogo
in cui Aglaja, rimasta analfabeta fino all’età di quindici anni, impara a leggere e a scrivere. Nel
1999 viene pubblicato il romanzo di maggior successo Warum das Kind in der Polenta kocht
(Perché il bambino cuoce nella polenta), nel quale si trovano già le prime tracce di quel profon-
do male interiore che porterà l’autrice a togliersi la vita il 3 febbraio del 2002, a Zurigo.
2 Sebbene il racconto non venga esplicitamente presentato come autobiografico e nonostante nel
tessuto narrativo si inseriscano immagini non immediatamente riconducibili ad esperienze rea-
li, il lettore riconoscerà nella storia narrata il riflesso della stessa vita dell’autrice, figlia ¬– come
la protagonista – di una coppia di artisti circensi, e perciò costretta a continui e spesso trau-
matici spostamenti. Essendo il materiale immaginativo, e non il dettaglio biografico, l’oggetto
della nostra analisi, non esiteremo qui ad assimilare la bambina del racconto alla piccola Aglaja
Veteranyi (tesi suffragata, peraltro, dalle numerose corrispondenze, riscontrabili nel testo, tra
romanzo e vita vissuta).

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(Veteranyi 2005, 34). Un sentimento di morte intima attraversa l’intero roman-
zo e si rinnova simbolicamente nello «smontaggio del tendone» che «è uguale
dappertutto, come un grande funerale, sempre di notte, dopo l’ultimo spettacolo
in una città» (Veteranyi 2005, 34), processo al quale partecipa la stessa roulotte,
assimilata, per l’occasione, al carro funebre: «Come ad un corteo funebre, rou-
lotte e gabbie vengono trainate a luci intermittenti verso la stazione e caricate sul
treno» (Veteranyi 2005, 34). La protagonista soffre la mancanza di una casa dalle
solide basi, capace di offrire riparo alle proprie rêveries, di un rifugio che possa
garantire la giusta «osmosi tra lo spazio intimo e lo spazio indeterminato» (Ba-
chelard 2006a, 266), di ciò che, secondo Bachelard, «sostiene l’uomo che passa
attraverso le bufere del cielo e le bufere della vita, è corpo e anima, è il primo
mondo dell’essere umano» (Bachelard 2006a, 35).
La provvisorietà della dimora è solo il primo elemento di quello che, per la
protagonista, si configura come una sorta di nomadismo esistenziale: una sen-
sazione di smarrimento che va ad investire l’intera esistenza, la cui essenza è da
ricercare nella transitorietà del tutto, in cui alla mancanza di fissazione geografi-
camente intesa si associa la precarietà, la negazione oppure la perdita di punti di
riferimento in tutti gli altri ambiti di una vita caratterizzata dall’impossibilità di
trovare un’eventuale soluzione di stabilità interiore. L’esistenza stessa si trasfor-
ma così in un’affannosa ricerca di senso che, nel caso della Veteranyi, si risolverà
in modo drammatico con il suicidio. È espressione di questo disorientamento
l’indeterminatezza spazio-temporale in cui si sviluppa la storia3, all’interno del-
la quale coglieremo tutti gli sforzi compiuti dalla piccola Aglaja per stimolare
un processo di identificazione personale e per sensibilizzare i limiti del proprio
universo, sia a livello intimo che a livello cosmico. Entrambi tentativi falliti: sul
piano intimo e personale – lo vedremo più avanti – il riconoscimento di sé si risol-
verà in un drammatico regressus ad uterum, innescando quello che Jung identifi-
cava come Complesso di Giona; in una dimensione più ampia, nel rapporto con il
mondo esterno, la soluzione viene cercata e, solo in parte trovata, in una costante
rielaborazione del concetto di straniero e di estero, una riflessione al cui centro
si colloca il fattore linguistico e che grazie alla prospettiva, insieme ingenua e
potente, di una bambina, riesce a mettere in discussione quelle che spesso non
vengono riconosciute come mere costruzioni sociali.

3 Fatto salvo qualche riferimento più esplicito – per esempio alla Romania –, qualche dettaglio
che, una volta di più, ci permette di contestualizzare la storia stessa e riconoscerne il forte ca-
rattere autobiografico.

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Il nomadismo di Dio: «Anche lui è uno straniero»

«Il dentro e il fuori […] sono sempre pronti a capovolgersi, a scambiare la loro
ostilità» (Bachelard 2006a, 253). Quando la prigione si trova all’esterno, quando è
l’agorafobia a determinare la vertigine, ecco che l’essere ha interiorizzato un’im-
mensità in cui rischia di disperdersi: «Troppo spazio ci soffoca molto di più di
quanto ci accadrebbe se non ne avessimo abbastanza» (Supervielle 1949, 19). At-
traverso l’immaginazione, dunque, l’io opera un processo di riduzione4 dei propri
spazi, ne sensibilizza i limiti, per ritrovare le sponde, ovvero le certezze necessa-
rie per riorientarsi. Il romanzo si apre con queste parole: «Mi immagino il cielo. È
così grande che, per calmarmi, mi addormento subito. Quando mi sveglio, so che
Dio è un po’ più piccolo del cielo. Altrimenti pregando ci addormenteremmo con-
tinuamente per la paura» (Veteranyi 2005, 11). Riconoscere e accettare l’enormità
di Dio implicherebbe infatti l’attivazione di un processo di auto-gulliverizzazione
che parte sempre dalla fantasia, in questo caso terribile, dell’inghiottimento (Du-
rand 1996, 213). Una fantasia più volte evocata, all’interno del testo, attraverso
l’immagine di un dio antropofago: «Dopo che il bambino è morto, Dio lo ha cotto
nella polenta. Dio è un cuoco, abita sottoterra e mangia i morti» (Veteranyi 2005,
72); «A volte vorrei seppellirmi tutta per andare da Lui, anche se ho paura che
mi morda. DIO È SEMPRE MOLTO AFFAMATO5» (Veteranyi 2005, 73). La
piccola Aglaja non ha nessuna possibilità di trovare conforto e sicurezza in un dio
la cui esistenza sembra essere garantita soltanto da qualche gesto convenzionale,
«NON C’È DUBBIO, DIO ESISTE, PERCHÉ QUASI TUTTI GLI ARTISTI,
SIA DEL NOSTRO PAESE CHE STRANIERI, SI FANNO IL SEGNO DELLA
CROCE […]. CHE SENSO AVREBBE SENZA DIO?» (Veteranyi 2005, 67). Un
dio che ha perso la sua caratteristica onniscienza e con il quale la protagonista
non riesce tantomeno a comunicare, «Dio parla le lingue straniere? Capisce anche
gli stranieri? O forse gli angeli stanno in piccole cabine di vetro e traducono?»
(Veteranyi 2005, 11). Un dio, infine, spogliato di qualsivoglia attributo celeste
e assimilato al padre della bambina – in questo modo l’immaginazione ha esa-
sperato il processo di riduzione del simbolo, arrivando fino alla sua negazione e
fallendo così nel proprio scopo di riconoscimento dello stesso in quanto punto
di riferimento –, un dio triste che suona il violino (Vetranyi 2005, 177) e che
partecipa – anzi ne diventa massima espressione – al nomadismo esistenziale

4 «[…] raffigurare un male, rappresentare un pericolo, simboleggiare un’angoscia, significa già,


attraverso il dominio del cogito, dominare tutto ciò. Ogni epifania di un pericolo alla rappresen-
tazione lo minimizza. A più forte ragione ogni epifania simbolica» (Durand 1996, 119).
5 Nel romanzo alcune frasi sono scritte interamente in maiuscolo, forse per conferire alle stesse
un valore assiomatico o, più semplicemente, per richiamare un carattere tipico della scrittura
infantile.

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della protagonista: «[…], Dio mangia polenta. Anche lui è uno straniero, che va
di paese in paese. È triste perché ha di nuovo un lungo viaggio davanti a sé» (Ve-
teranyi 2005, 178).
Un dio che è straniero, dunque, nel mondo che egli stesso avrebbe creato, così
come la Veteranyi lo è in sé stessa, all’interno di quel mondo intimo in continua
ricostruzione, «Non mi ricordo dove sono le case e come si chiamano le stra-
de, ho la sensazione che vengano continuamente abbattute e ricostruite. HO LA
SENSAZIONE DI CADERE IN ROVINA» (Veteranyi 2005, 130-131). Un sen-
timento di panico che viene acuito dal proprio analfabetismo, fonte di vergogna
e di auto-esclusione: «Gli altri bambini non hanno paura, parlano tutti la stessa
lingua» (Veteranyi 2005, 97). Per la protagonista, infatti, la lingua rappresenta il
principale fattore di straniamento e, al contempo, sembra poter diventare il punto
di partenza per procedere al riconoscimento di sé e dell’altro. È forse l’unico
elemento in grado di farle recuperare un senso di appartenenza attraverso quel
processo di familiarizzazione e di esclusione che la lingua stessa naturalmente
evoca. Proprio durante una riflessione sulla lingua materna del padre, la bambi-
na scoprirà tutto il relativismo del concetto stesso di straniero: «Mio padre ha
una lingua materna diversa dalla nostra, lui era uno straniero anche nel nostro
paese. Lui è uno degli altri, dice mia madre. All’estero però non siamo stranieri
tra di noi» (Veteranyi 2005, 50). L’estero, paradossalmente, produce un senso di
appartenenza e familiarizzazione sul piano interrelazionale; più avanti, vedre-
mo l’estero partecipare direttamente al processo intimo di auto-identificazione
della protagonista. Ma cos’è l’estero per un nomade? Il dubbio attanaglia la stes-
sa Aglaja, che si chiede: «I nostri genitori non vengono. Sono all’estero, dice la
signora Hitz. Ma anche qui siamo all’estero, diciamo noi. QUANTI ESTERI CI
SONO?» (Veteranyi 2005, 89).
All’opposto, c’è un solo luogo che, in più di un’occasione viene indicato come
casa, la Romania, «A casa le persone non possono pensare liberamente neanche
in sogno. Se parlano e le spie le sentono, vengono deportate in Siberia» (Veteranyi
2005, 29) e ancora, «a casa i bambini non possono né pregare né disegnare Dio. Nei
disegni deve esserci sempre il Dittatore e la sua famiglia» (Veteranyi 2005, 38).
La Romania – in quanto ricordo – intimamente evocata attraverso gli odori della
cucina materna6 («Conosco il mio paese solo dall’odore. Profuma come la cucina
di mia madre»; Veteranyi 2005, 12), non può assolvere alle principali funzioni di
fissazione e protezione proprie della casa in quanto tale, e di cui avverte il bisogno
la piccola Aglaja. Ci accompagna però su un altro percorso, nel quale convergono,
assimilandosi, le immagini della casa e della madre: «il ritorno al paese natale, il

6 Ne risulta una conferma di ciò che ci viene suggerito da Gilbert Durand: «Sono gli odori della
casa che costituiscono la cinestesia dell’intimità: aromi di cucina, profumi d’alcova, […]» (Du-
rand 1996, 244).

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rientro alla casa natia, con tutto l’onirismo che lo dinamizza, è stato definito dalla
psicanalisi classica come un ritorno alla madre7» (Bachelard 2007, 101).

La spirale dell’essere

Si tratta, più precisamente, di un ritorno all’interno del grembo materno – vera


e propria casa onirica8 – nel quale la Veteranyi ha la possibilità di ritrovare sé
stessa9 («IO SONO STATA QUALCUNO SOLO PRIMA DI NASCERE»; Vete-
ranyi 2005, 25) ed il riparo dal mondo esterno che le è sempre mancato. In esso
la protagonista riconosce quello che Bachelard indica come «contro-universo o
universo del contro» (Bachelard 2007, 95), un rifugio che permette di fuggire
le proprie paure: «[…] nella pancia non c’è nessun uomo da sposare» (Veteranyi
2005, 30), sentimento comprensibile soltanto se lo si pone in relazione con le
molestie sessuali subite dalla protagonista e con l’atteggiamento spesso violento
del padre10. Un regressus ad uterum, però, determinato dall’esasperazione di una
crisi identitaria che comporterà la totale proiezione di sé nella figura della madre:
«Mia madre entra ed esce da me. Sembro la foto di mia madre. Sembro senza di
me» (Veteranyi 2005, 163). Jung ricorre all’immagine biblica di Giona e la balena
per spiegare questo complesso che nasce dal desiderio di essere riassorbiti dalla
madre archetipica, con il rischio di venire divorati da essa. Bachelard spiega che,
seppure a volte in maniera implicita11, il Complesso di Giona si ritrova in tutte le

7 Questa spiegazione, offerta appunto dalla psicanalisi classica, seppur «troppo grossolana […]
cancella troppe sfumature che devono chiarire nel dettaglio una psicologia dell’inconscio» (Ba-
chelard 2007, 101), è tuttavia riconosciuta come legittima da Bachelard, il quale, più avanti nel
testo, dichiara: «Madre e Casa, ecco due archetipi nello stesso verso. Basta seguire la direzione
dei sogni suggeriti dal poeta [Milosz, n.d.a.] per vivere, nei due movimenti, la sostituzione delle
due immagini» (Bachelard 2007, 102).
8 «La casa onirica è un’immagine che diviene una forza di protezione nel ricordo e nei sogni. Non
si tratta di una semplice cornice nella quale la memoria ritrova le proprie immagini […] in essa
possiamo rivivere, spesso senza rendercene conto, una dinamica di conforto: essa ci ha protetto
un tempo, quindi ci consola ancora» (Bachelard 2007, 100).
9 A tale proposito, Bachelard ci segnala che «Jung, dovendo fissare una di quelle persone apolidi
che sono sempre in esilio sulla terra, le consigliava a fine psicanalitico di acquistare un pezzetto
di terreno […], una casetta circondata da un giardino. […] Questo consiglio tende a sfruttare
uno strato profondo dell’inconscio, più esattamente l’archetipo della casa onirica» (G. Bachelard
2007, 100).
10 La ragazzina rimarrà dolorosamente segnata dagli abusi subiti, non solo in famiglia. In un pass-
aggio del romanzo, arriverà a ripetere ossessivamente, per la lunghezza di quasi due pagine: «E
non voglio figli» (Veteranyi 2005, 112).
11 Bachelard sostiene che l’immaginazione materiale è chiamata a scoprire «delle istanze inconsce
profonde», rintracciando dietro alle immagini manifeste, tutte quelle immagini dissimulate che

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figure del rifugio, contraddistinte da un senso di benessere dolce e primitivo: «Si
tratta di un vero assoluto di intimità, un assoluto dell’inconscio felice» (Bachelard
2007, 124), iperdeterminato, nel nostro caso, dal ritorno nel grembo materno. Si
caricano di significazioni profonde i ricordi della giovane protagonista, «Dentro
la pancia è come in una casa, con un letto o una vasca piena di acqua calda» (Ve-
teranyi 2005, 30): rêverie di sistemazione domestica12 che va ad avvalorare le tesi
di Durand il quale spiega che «la casa costituisce dunque, tra il microcosmo del
corpo umano e il cosmo, un microcosmo secondario» (Durand 1996, 244), la cui
intimità «si raddoppierà e si iperdeterminerà come a piacere. Doppione del corpo,
essa si troverà isomorfa della nicchia, del guscio, del vello, e infine del grembo
materno» (Durand 1996, 244).
Mentre, studiando le immagini del riposo, scopriamo che «Per dormire in
modo confortevole, ben riparati, ben protetti, al caldo, non esiste rifugio migliore
del seno materno. […] La casa piccola è migliore di quella grande per dormire
bene, ma la cavità perfetta del ventre materno lo è ancora di più» (Bachelard
2007, 134), all’opposto, non tarderemo ad accorgerci che, nel grembo descritto
nelle rêveries della protagonista, un forte senso di precarietà – riflesso dell’in-
stabilità psicologica materna – prevale sul sentimento di pace appena evocato:
«Prima della mia nascita camminavo già da otto mesi sulla fune a testa in giù. Io
ero dentro mia madre, lei faceva la spaccata in alto sulla fune, e io guardavo giù
o mi schiacciavo contro la corda» (Veteranyi 2005, 25); un ritorno ad una condi-
zione prenatale, dunque, che servirà soltanto da preparazione prima di trovarsi
ri-gettati nel mondo, «Una volta lei non riusciva più a risollevarsi dalla spaccata
e io sono quasi caduta fuori. Poco dopo sono venuta al mondo» (Veteranyi 2005,
25). «Molto spesso» – scrive Bachelard – «[…] si dimentica che Giona viene resti-
tuito alla luce. […] L’uscita dal ventre costituisce automaticamente un ritorno alla
vita conscia» (Bachelard 2007, 126), il che significa, per la Veteranyi, ritrovarsi
smarrita: lo riscontriamo in uno dei passaggi più noti del testo (Veteranyi 2005,
55) dove il complesso appena descritto si raddoppierà13 attraverso l’immagine
della casa che, dopo l’immersione nell’acqua di un fiume, riemergerà cambiata, in
un altrove sconosciuto, perdendo la porta14. All’interno di quella casa, uno stra-
niero aveva dimenticato le scarpe, che adesso, nella nuova casa non si ritrovano

segnalano la presenza di «Giona nascosti» (Bachelard 2007, 133). Egli stesso, individuando un
«Giona nascosto» nel racconto di J. E. Rivera, Perdus dans l’Enfer des Forêts, dichiara: «L’ar-
chetipo di Giona è tanto essenziale da legarsi alle immagini più disparate» (Bachelard 2007,
138).
12 Bachelard parla di «rêveries di sistemazione domestica» nel capitolo dedicato allo studio delle
immagini d’intimità della grotta (Bachelard 2007, 151 e sgg.)
13 È quello che Bachelard chiamerà «Giona alla seconda» (Bachelard 2007, 114).
14 La casa che perde la porta è simbolo di un’intimità negata, di un’intimità suscettibile di qualsiasi
violazione.

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più15. Le scarpe, appunto, simbolo per eccellenza del viaggio, della stessa vita
della protagonista: un ciclo di morti e rinascite in luoghi sempre differenti, una
morte quotidiana, appunto la «morte in acqua» analizzata da Bachelard (Bache-
lard 2006b, 13).
Sentirsi straniera ovunque, anche dentro di sé; il nomadismo esistenziale del-
la Veteranyi non troverà soluzione, dunque, nemmeno con il ritorno alle radici
dell’essere, alla madre: «Quale spirale è l’essere dell’uomo! […] Se è l’essere di
un uomo che si vuole poi determinare, non si è mai certi di essere più vicini al
sé “rientrando” in sé stessi, procedendo verso il centro della spirale; spesso è nel
cuore dell’essere che l’essere è l’errare» (Bachelard 2006a, 249-250). Ce lo aveva
già spiegato la piccola Aglaja: «La gente cerca la felicità come il nostro sangue
cerca il cuore. Se il sangue non va più al cuore, l’uomo si secca, dice mio padre.
L’estero è il cuore. E noi il sangue» (Veteranyi 2005, 39).

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15 Chevalier e Gheerbrant, citano un’interpretazione proposta dagli esegeti della Bibbia di Geru-
salemme, secondo cui «Mettere i piedi su un campo o gettarvi il proprio sandalo, è prenderne
possesso. La scarpa è così il simbolo del diritto di proprietà» (Chevalier e Gheerbrant 2006, I,
337), analisi che trova riscontro anche in altre tradizioni. Assumendo la casa a simbolo dell’inti-
mità, il fatto di non ritrovarvi le scarpe all’interno rappresenta la perdita di possesso del proprio
io.

183
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Panaït Istrati et la traduction du déclin physique
Yannick Preumont
Università degli Studi della Calabria

Résumé

En ce qui concerne l’art du traducteur, Panaït Istrati prône la «courageuse violation de l’original» et
veut que le texte obtenu après avoir surmonté bien des difficultés ne soit pas une simple traduction.
Tous les personnages migrants souffrent et déclinent physiquement, comme lui que Romain Rolland
décrit ainsi dans sa préface à Kyra Kyralina: «Vingt ans de vie errante, d’extraordinaires aventures,
de travaux exténuants, de flâneries et de peine, brûlé par le soleil, trempé par la pluie, sans gîte et tra-
qué par les gardes de nuit, affamé, malade, possédé de passions et crevant de misère». La traduction
qui enrichit la poétique de l’ironie, en faisant du «blagueur» Stavro, le migrant par excellence, un
«burlone», un «spaccone» ou un «fanfarone», enrichit tout autant la poétique de la décadence, com-
me nous allons le voir dans cette étude qui offre une nouvelle réflexion sur la construction textuelle
du point de vue et sur le conflit des énonciations.

Panaït Istrati et la traduction constitue un sujet qui passionne aujourd’hui encore.


L’auteur de Brăila, peu satisfait de la première traduction de Kyra Kyralina, a
très vite décidé de traduire lui-même son chef-d’œuvre ainsi que la plupart de
ses autres écrits (dont La Maison Thüringer qui nous intéressera également ici)
et, en Italie, huit de ses livres ont été traduits: Kyra Kyralina (trad. G. F. Cecchi-
ni, 1925 – trad. Gino Lupi, 1947 – trad. Gino Lupi con revisione di Pino Fiori,
1996), Codine (Il bruto, trad. Goffredo Fofi, 1998), Nerrantsoula (Il ritornello
della fossa (Nerrantsoula), trad. Aldo Parini, 1928), Les Chardons du Baragan
(I cardi del Bărăgan, trad. Paolo Casciola, 2000 – I cardi del Baragan, trad.
Gianni Schilardi, 2004), Vers l’autre flamme (Verso l’altra fiamma, trad. Mih-
nea Popescu, 1994), Le Pêcheur d’éponges (Il pescatore di spugne, trad. F. e I.
Latini, 1931), Méditerranée – lever du soleil (Mediterraneo (al levar del sole),
trad. Fernando Cezzi, 1993) et Méditerranée – coucher du soleil (Mediterraneo
(al calar del sole), trad. Pamela Serafino, 2006). Chez cet auteur, dont l’éthique
et l’esthétique ont été qualifiées d’ulyssiennes1, les mots voyagent et semblent
pouvoir connaître autant de métamorphoses que les corps. Bien maltraités d’une
façon générale par la littérature – pensons, entre autres textes illustres, au succès
1 «Éthique et esthétique que nous pourrions qualifier d’ulyssiennes, s’il est vrai qu’à la différence
de l’Iliade, dominée tout entière par le régime diurne de l’imaginaire, le mythe d’Ulysse – appar-
tenant au régime nocturne – est un mythe connecteur, qui relie les pays, les époques, les êtres,
les règnes du visibile et de l’invisible. L’écriture istratienne renvoie elle aussi à une communica-
tion entre des lieux différents, des langues différentes, des cultures différentes. Elle vise à “en
relier par mille détours les éléments, à restaurer une unité de type dialogique”» (cf. Vanhese
2008, 307).

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d’un roman tel que L’Assommoir – ces derniers bénéficient dans de nombreuses
œuvres roumaines d’un traitement digne des meilleurs romans naturalistes. Dans
La famille Perlmutter, par exemple, Istrati et Jehouda présentent la tribu migrante
de Rivke, «vieillie et courbée» et Avroum, «pauvre vieillard ratatiné, tout blanc»
(Istrati-Jehouda 1998, 251). Dès le début du récit, l’accent est mis, même si le ton
est aussi comique que tragique, sur la déchéance du clan: «notre bien malheureux
Isaac, qui dépérit, loin de nous, là-bas en Egypte» (Istrati-Jehouda 1998, 252);
«c’est l’orgueil qui fait dévier les enfants de la trace de leurs parents»; «l’enfance
foule aux pieds le passé !»; «Ni Avroum, ni moi ne serions encore en vie sans
notre meilleur ami et confident»; «maison triste» (Istrati-Jehouda 1998, 253); «Sa
raison me semble bien troublée»; «pauvres vieillards»; «nous n’existons plus pour
eux»; «Nous n’existons plus. Nos enfants sont comme morts pour nous. Et nous
sommes comme morts pour eux. Tous se sont éparpillés au gré du vent» (Istrati-
Jehouda 1998, 255); «Le pauvre Isaac doit bien être tombé dans les griffes de
l’alcoolisme  ! Je crains beaucoup qu’on ne le revoie plus  !»; «Puisses-tu avoir
pitié […] de tous les enfants qui souffrent et parmi eux du malheureux Isaac fils
d’Avroum»; «Les malheureux parents seraient foudroyés s’ils savaient dans quel
état d’ivrognerie se trouve leur garçon le plus aimé. Après Jossel, après Esther,
après Aïm après Schiméon, voici Isaac, leur dernier espoir qui sombre» (Istrati-
Jehouda 1998, 257-258); «Comme il a souffert» (Istrati-Jehouda 1998, 260); «nos
plaies saignantes» (Istrati-Jehouda 1998, 268). Ces exemples, tirés d’une histoire
de parents que les enfants, véritables fugitifs, font vieillir avant l’âge, se retrou-
vent chez Marin Preda:
Vers midi les nuages se dissipèrent et le soleil commença à sécher la terre. La mère et les
enfants prirent seuls le déjeuner, seuls ce jour-là. Moromete revint très tard, à minuit. De
cet endroit où il était allé se vanter il revenait tout barbouillé de boue sur les genoux, sur les
coudes; ses paumes étaient, elles aussi, barbouillées; il était tombé et s’était appuyé dessus.
Aux yeux il avait quelque chose; il portait le poing aux yeux et se frottait, en gémissant, les
paupières. Tout en se frottant de la sorte, les orbites s’étaient remplies de sable et de terre et il
essayait vainement de les nettoyer. Il était assis sur le lit et gémissait, la mère essayait de lui
torcher les yeux avec une serviette propre, mais il l’arrachait, froissait dans sa paume la toile
en la souillant de boue pour qu’il la porte ensuite aux yeux et se mettait de nouveau à enlever
le sable de ses paupières. Niculae lui tira des pieds les godillots, les filles lui donnèrent de
l’eau chaude pour se laver et l’homme dormit comme une souche jusqu’au lendemain, à midi.
Quand il se réveilla, il apprit que Paraschiv et Nilă s’étaient enfuis dès la veille, ils avaient
cassé le coffre, pendant son absence avaient pris tout l’argent qu’ils y avaient trouvé, avaient
couvert les dos des chevaux avec les meilleures couvertures et ils étaient partis en menaçant
que c’était pas encore tout. (Preda 1986, 476-477)

Les auteurs roumains connaissent à la perfection la poétique du déclin, comme


le prouve encore Felicia Mihali qui termine par ces mots son roman Le pays du
fromage: «Finalement, j’avais compris que toute tentative contre la décrépitude
est vaine. Je n’étais pas plus douée que la moyenne pour apprendre. Toute ex-

186
périence me laissait indifférente et de plus les autres allaient m’obliger à devenir
vraiment stupide. Dès maintenant, rien ne pourrait arrêter ma chute» (Mihali
2002, 217).
La traduction peut contribuer de façon considérable, comme dans le cas frap-
pant que nous verrons plus loin de «Lunga suferinţă îi transforma complet»
(Istrati 1998, 141), à transformer cette poétique de la déchéance. «[…] sa vie avec
ma mère était un vrai calvaire» (Mihali 2002, 65) pour «o ducea rău cu mama»
(Mihali 1999, 59); «Isaac paraissait crever de faim» (Istrati-Jehouda 1998, 313)
traduit par «Isaac părea că moare de foame» (Istrati-Jehouda 1974, 363) et «Inu-
tile de raviver nos plaies saignantes» (Istrati-Jehouda 1998, 268) qui devient
«N-are rost să mai zgîndărim răni nevindecate» (Istrati-Jehouda 1974, 275) sont
des exemples que nos études sur le déclin familial nous ont habitué à retrouver
fréquemment. Mais chez Istrati, outre les familles, outre les «Sa mère, une ou-
vrière juive, ne l’habillait que de haillons, ne lui donnait pas à manger et la battait
sans cesse, l’appelant “plaie” et “fléau”» (Oprea 1973, 158), ce sont d’une façon
générale tous ses compagnons fictionnels d’errance qui connaissent un traitement
semblable, avec mille variantes. De Mikhaïl, décrit «en mots choisis et d’une
véracité absolue» (Oprea 1973, 249), l’ami qui «ressemble à un arbre à moitié sec,
que l’orage fait craquer de toutes ses jointures» et qui «n’est plus le jeune chê-
ne dont les élans généreux brisaient le lierre étouffant de sa famille aristocrate,
s’évadant, le front haut, vers la beauté menaçante du ciel» (Oprea 1973, 249), à
Sarah, la «momie fraîchement tirée de son sarcophage», la femme qui «de petite
et fine comme une miniature d’art» (seulement «miniatura» en italien) «était de-
venue une espèce de chatte desséchée et sale, les yeux enfoncés dans les orbites,
les cheveux en l’air et la bouche, surtout sa bouche, serrée, cousue, soudée pour
toujours» (Istrati 2006b, 566) («come saldata per sempre» (Istrati 1993, 120) en
italien), en passant par toute «la fine fleur de l’aventure levantine», transformée
autant par la traduction que par le sort: «La plupart de ces rêveurs cupides vieillis-
saient à côté de leur voiturette de citrons et d’oranges» (Istrati 1998, 138) devient
«Cea mai mare parte dintre aceşti visători cupizi, îmbătrâneau lângă bătrânul lor
cărucior cu lămâi şi portocale» (Istrati 1998, 139) et «Alors, à force de souffrir,
ils se résignaient, s’humanisaient» (Istrati 1998, 140) s’allonge, comme l’a relevé
Zamfir Bălan, en «Atunci, aceşti foşti ambiţioşi se dădeau bătuţi, se resemna, se
umanizau. Lunga suferinţă îi transforma complet» (Istrati 1998, 141).
Panaït Istrati, non seulement avec La famille Perlmutter, mais également avec
le reste de son œuvre, représente à la perfection, avec le ton tragique et ironique
cher aux grandes sagas familiales européennes (Romain Rolland (Rolland 2006,
46) parle de «gaieté tragique»), ce processus de vie «ballottée, cahotée» (Istrati
2006a, 51) de la vie nomade. Dans Kyra Kyralina, «uno degli infortunati» (Istrati
1925, 68) ou «uno degli storpiati» (Istrati 1947, 21), suivant les traductions ita-

187
liennes, de cette vie «perverse»2, Stavro, qui est revenu «disfatto» ou «abbattuto»
par la perte romantique de sa sœur aînée, et vicié par la vie aventureuse menée
en la cherchant pendant douze ans à travers l’Anatolie, l’Arménie et la Turquie
d’Europe, raconte son histoire et le «picaro balcanic»3 est ainsi présenté au début
du roman:
De taille un peu au-dessus de la moyenne, d’un blond fade, incolore, très maigre et très ridé;
ses yeux bleus et grands, tantôt francs et sincères, tantôt fripons et furtifs, selon la circonstan-
ce, exprimaient toute la vie de Stavro. Vie ballottée, cahotée par sa nature nomade et bizarre;
vie happée depuis l’âge de vingt-cinq ans par le triste engrenage de la société (mariage avec
une fille riche, jolie et sentimentale) d’où il était sorti, une année plus tard, couvert de honte,
le cœur massacré, le caractère faussé. (Istrati 2006a, 51)
Di statura alquanto superiore alla media, di un biondo scialbo, incolore, molto magro
e pieno di rughe, aveva occhi azzurri e grandi, ora franchi e sinceri, ora scaltri e sfuggenti
secondo le circostanze, occhi che esprimevano tutta la vita di Stavro. Vita agitata, tormen-
tata, per la sua natura nomade e bizzarra, vita afferrata, dopo i venticinque anni, dal triste
ingranaggio della società (matrimonio con una ragazza ricca, graziosa e sentimentale) da cui
era uscito, un anno più tardi, coperto di vergogna, col cuore massacrato e il carattere guasto.
(Istrati 1947, 7)
Di statura di poco superiore alla media, di un biondo scialbo, incolore, magrissimo e pieno
di rughe, aveva occhi azzurri e grandi, ora franchi e sinceri, ora scaltri e sfuggenti secondo
le circostanze, occhi che esprimevano tutta la sua vita. Vita agitata, tormentata, per la sua
natura nomade e bizzarra, vita afferrata, dopo i venticinque anni, dal triste ingranaggio della
società (matrimonio con una ragazza ricca, graziosa e sentimentale) da cui era uscito, un anno
più tardi, coperto di vergogna, col cuore massacrato e il carattere guasto. (Istrati 1996, 15)
Di corporatura un po’ al di sopra della media, di un biondo sporco, incolore, magrissimo
e pieno di rughe; i suoi occhi azzurri e grandi, ora franchi e sinceri, ora bricconi e subdoli,
secondo le circostanze, esprimevano tutta la vita di Stavro. Vita sballottata, sbalestrata dalla
sua natura nomade e bizzarra; vita acciuffata dall’età di vent’anni dal triste ingranaggio della
società [matrimonio con una ragazza ricca, bella e sentimentale] da cui egli era uscito, un
anno dopo, coperto di vergogna, col cuore tribolato, col carattere falsato. (Istrati 1925, 4-5)

«Molto magro» ou «magrissimo», mais surtout, avec ce jeu si frappant sur la con-
struction textuelle du point de vue, des yeux «ora scaltri e sfuggenti», «ora bric-
coni e subdoli» pour un nomade dont la vie est «agitata, tormentata» ou «sballot-
tata, sbalestrata» et qui connaît très vite un déclin qui, selon les traducteurs, se
présente sous la forme d’un cœur «massacrato» ou «tribolato» et d’un caractère
«guasto» ou «falsato».
De «Vie ballottée, cahotée par sa nature nomade et bizarre» à «Existenţa de
burlac hoinar, zvârlit de ici-colo de natura lui nomadă şi ciudată» (Istrati 2003,
665), il n’y a là aussi qu’un pas que le Panaït Istrati traducteur franchit aisément
et, devant cet «allongement» du texte aux mille autres exemples, comment ne pas

2 «un des estropiés de cette vie perverse» (Istrati, 2006a, 64).


3 «Istrati a impus, apoi, un personaj pe care nu-l mai întâlnim în proza românească, nici în cea
franceză: tipul de picaro balcanic» (cf. Simion 2003, LXXVII).

188
dire avec Genette que le «bricolage» de l’hypertextualité offre des résultats bien
intéressants et que l’art de «faire du neuf avec du vieux» a l’avantage de produire
des objets plus complexes et plus savoureux (Genette 1982, 556) ? Et traduire ain-
si l’errance et la transformation du corps n’étonne pas chez celui qui a parcouru
«l’Égypte, la Syrie, Jaffa, Beyrouth, Damas et le Liban, l’Orient, la Grèce, l’Italie,
fréquemment sans un sou» (Rolland 2006, 46) et qui n’hésite pas à ajouter des
passages entiers déjà d’une version française à l’autre:
«Ces valeurs pouvaient-elles être surpassées ? Et par quoi ? Bien manger ? Bien boire ? Se
vêtir selon la mode ? Fonder une famille et s’y atteler comme un bœuf ? – Non, mille fois non !
Plutôt passer pour un vaurien. Plutôt vivre comme un vagabond. Des hardes, un morceau de
pain noir et la liberté de mouvements !
Regarder ce magnifique travail que le port de Braïla offre à tout vagabond; vous prenez
sur l’épaule un sac de blé, vous parcourez cinquante pas, et vous le videz dans la cale d’un
navire. Jusqu’à midi, cela vous fait cinq francs. Autant de jours de liberté ! Car un kilo de
pain c’est quatre sous. Et un plat de viande garnie de légumes, vous l’avez pour le même prix.
N’est-ce pas suffisant pour votre estomac  ?» Fragmentul lipseşte din versiunea Revue de
Paris. (Istrati 1998, Note, 357)

Plutôt vivre comme un vagabond, mais le prix à payer, Istrati le connaît bien,
lui qui a perdu quelques kilos à Naples, pour prendre le cas de sa brève et bien
éprouvante escale en Italie, et ses personnages le connaissent eux aussi, tel Isaac
dans La famille Perlmutter qui «faisait un mendiant des pieds à la tête» (Istrati-
Jehouda 1998, 319) et dont il est dit qu’«il est pire que mort»4. Stavro vieillit bien
mal lui aussi et les traductions italiennes proposent le même air fatigué, mais un
visage «stirato», «tirato» ou «disfatto», et présentent le cousin au second degré
de la mère d’Adrien comme étant «molto malvestito», «assai malvestito» ou sim-
plement «malvestito», ce qui ne change pas grand-chose à la tristesse de son état
(«miseria della mia condizione» chez Lupi et Lupi-Fiori:
Fort mal mis, avec une barbe d’un mois, avancé en âge, […]. Et, l’air fatigué, il passa sa main
sur son visage tiraillé. […] – Maintenant que je t’ai mis au courant de mon ultime et grotesque
avatar de fabrique-de-pipes-crève-la-faim, je sais, mon bon Adrien, que seule la tristesse de
mon état t’empêche de me demander la suite de Kyra […]. (Istrati 2006a, 121-122)
Molto malvestito, con la barba di un mese, avanzato in età, […]. E, con aria stanca, si pas-
sò la mano sul viso stirato. […] – Ora che ti ho messo al corrente della mia ultima e grottesca
trasformazione in «fabbricante di pipe morto di fame», comprendo bene, mio buon Adrian,
che soltanto la miseria della mia condizione ti impedisce di chiedermi la continuazione di
Kyra […]. (Istrati 1947, 84-85)
Malvestito, la barba di un mese, avanti negli anni, […]. E, con aria stanca, si passò la mano
sul viso tirato. […]. «Ora che ti ho messo al corrente della mia ultima grottesca trasformazio-
ne in fabbricante di pipe morto di fame, comprendo bene, mio buon Adrian, che soltanto la

4 «Je ne sais plus que dire aux parents! se lamentait-il. Depuis trois mois, ils ne reçoivent plus rien
d’Isaac et me pressent de leur “avouer” que leur fils est mort. Comment leur dire qu’il est pire
que mort?» (Istrati-Jehouda 1998, 317).

189
miseria della mia condizione ti impedisce di chiedermi la continuazione della storia di Kyra
[…]. (Istrati 1996, 82-83)
Assai mal vestito, con la barba d’un mese, invecchiato, […]. E, con aria stanca, si passò la
mano sul volto disfatto. […]. «Ora che t’ho messo al corrente del mio ultimo e grottesco guaio
di “fabbricante di pipe fa la fame”, so, mio buon Adriano, che solo la tristezza del mio stato ti
impedisce di domandarmi il seguito di Kyra […]. (Istrati 1925, 121 et 124)

La poétique de l’ironie et du déclin est renforcée par les pouvoirs étonnants de


la traduction aux dépens du pauvre Stavro qui peut se transformer («grottesco
guaio», mais aussi «grottesca trasformazione») en «fabbricante di pipe morto di
fame» ou en «fabbricante di pipe fa la fame» en Italie et parle d’«ultima şi bizara
mea incarnaţie de negustor de piei de cloşcă» (Istrati 2003, 739) dans la traduc-
tion roumaine de son créateur Istrati. Un Istrati capable d’étudier avec autant
d’attention que Giovanni Verga la «vaga bramosia dell’ignoto» (Verga 1983, In-
troduzione, 1) et de compenser par quelques savantes et parfois bien sensuelles
adjonctions5, la dureté de métamorphoses «à la Moromete»6. Même les plus dé-
munies des ces «épaves, venues de toutes les mers et battues par toutes les tem-
pêtes» (Istrati 1998, 146) ont droit à la douceur, à un peu de chaleur:
«… Qui sait le mieux la répandre, sinon la femme ? Elle est créatrice de vie. Elle a ce ventre,
où l’homme a cherché et trouvé sa première chaleur, alors qu’il n’était qu’une étincelle. Il s’y
est collé plus fortement que la gale. Il s’est nourri d’elle. Et il ne peut échapper au nostalgique
souvenir qu’il en a, car, sorti de là, mis au monde, il s’est aperçu très tôt que ce monde man-
quait totalement de chaleur. Il connut le froid, la faim et les coups, dès qu’il vint demander
sa place au soleil. Le soleil fut glacial pour sa chair qui s’était trouvée si bien dans le ventre
de la femme ! Comment ne regarderait-il pas celle-ci avec avidité quand il la voit jeune et
belle, quand il la sent chaude et bonne, lorsqu’elle s’approche, lui prend les mains et lui dit,
dans le visage, avec sa douce haleine” Fragmentul subliniat lipseşte din versiunea Revue de
Paris. (Istrati 1998, Note, 363)

La traduction «nourrit» elle aussi le texte, comme ces changements d’une ver-
sion française à l’autre et, répétons-le, renforce ultérieurement l’expressivité du
discours tragique et du discours ironique avec des ajouts qui vont jusqu’à la tran-
sformation en «Atunci, aceşti foşti ambiţioşi se dădeau bătuţi, se resemnau, se
umanizau. Lunga suferinţă îi transforma complet» à partir de «Alors, à force de
souffrir, ils se résignaient, s’humanisaient».
5 «“…dans le goût d’Adrien. Elle adopta les corsages les plus vaporeux et surtout elle ne manqua
pas de s’attarder près de lui le matin, au sortir du lit, quand l’odeur de son corps et la vue à demi
dissimulée de ses nudités tournaient la tête de son adorateur.” Fragmentul subliniat lipseşte din
versiunea Revue de Paris» (cf. Istrati 1998, Note, 374).
6 «En dépit de son apparente indifférence, Moromete ne fut plus vu pendant de longues heures
sur la prispa, dans la rue, sur la rambarde. On ne l’entendit non plus répondre au salut avec cette
richesse de mots qui lui était propre. On ne l’entendit pas non plus raconter des histoires. De ce
Moromete connu par les autres il n’était resté que la tête de terre cuite, faite une fois par Din
Vasilescu et qui maintenant regardait l’air distant, du rayon de la forge de Iocan, les assemblées
qui se déroulaient encore dans le pré» (Preda 1986, 478).

190
Istrati lui-même, en ce qui concerne l’art du traducteur, prône, comme nous
l’avons vu, la «courageuse violation de l’original»7 et veut que le texte obtenu
après avoir surmonté bien des difficultés, lui dont la conscience linguistique est
marquée à la fois par le roumain et par le français8, ne soit pas une simple traduc-
tion. Tous les personnages migrants souffrent et déclinent physiquement, comme
lui que Romain Rolland décrit ainsi dans sa préface à Kyra Kyralina: «Vingt ans
de vie errante, d’extraordinaires aventures, de travaux exténuants, de flâneries
et de peine, brûlé par le soleil, trempé par la pluie, sans gîte et traqué par les
gardes de nuit, affamé, malade, possédé de passions et crevant de misère» (Rol-
land 2006, 45). La traduction qui enrichit la poétique de l’ironie, en faisant du
«blagueur» Stavro, le migrant par excellence, un «burlone», un «spaccone» ou un
«fanfarone», enrichit tout autant la poétique de la décadence, comme le démontre
encore le costume de celui-ci qui même neuf peut être aussi bien «sciupato, ca-
dente» que «stracciato e afflosciato»:
Stavro était un «blagueur» pour tout le monde, et il l’était en effet, il voulait l’être. Dans son
costume délabré et ramolli, même lorsqu’il était neuf; avec son apparence de villageois cita-
din, la chemise non repassée, sans faux col; avec son air de maquignon voleur, il se livrait à
des parades de langage et de gestes qui amusaient les gens mais qui l’humiliaient et le décon-
sidéraient. (Istrati 2006a, 51-52)
Stavro era uno «spaccone» per tutti, e lo era veramente, anzi voleva esserlo. Nel suo abito
sciupato e cadente anche quando era nuovo, con quella sua apparenza di contadino urbaniz-
zato, la camicia non stirata e senza colletto, con quella sua aria di mediatore ladro, si abban-
donava ad una esibizione di parole e di gesti che divertivano le persone, ma l’umiliavano, gli
toglievano ogni considerazione. (Istrati 1947, 8)
Stavro era per tutti un «burlone,» e lo era veramente, anzi voleva esserlo. Nel suo abito
sciupato, cadente anche quando era nuovo, con quel suo aspetto di contadino urbanizzato, la
camicia non stirata e senza colletto, con quella sua aria di sensale o di ladro, si abbandonava
ad una esibizione di parole e di gesti che divertivano le persone, ma che finivano per umiliarlo
e togliergli ogni considerazione. (Istrati 1996, 15-16)
Stavro era per tutti un fanfarone ed egli lo era in realtà, voleva esserlo. Nel suo vestito strac-
ciato e afflosciato, anche quando era nuovo; col suo aspetto di contadino inurbato, la camicia non
stirata, senza colletto; con la sua aria di cavallaro ladro, si abbandonava a esibizioni di parole
e di atti, che divertivano le persone ma che l’umiliavano e lo screditavano. (Istrati 1925, 5-6)

7 «Je crois que personne, quel que soit son effort, ne pourrait me traduire mieux que moi. En tout
cas, s’il est écrit que je ne disposerai pas du temps nécessaire pour retrouver ma langue roumai-
ne, ce serait bien que cette adaptation en roumain soit prise comme modèle: je prouve ici qu’une
bonne traduction ne peut être obtenue qu’au prix d’une courageuse violation de l’original» (Is-
trati 1998, Introduction, 33).
8 «La conscience linguistique istratienne est donc marquée à la fois par le roumain, la langue
mère, et le français, la langue du savoir qu’Elisabeth S. Geblesco qualifie même de langue sub-
stitutive paternelle (le grec aurait été substitué par le français, comme le père par Romain Rol-
land qui a veillé sur son apprentissage littéraire). Oscillation féconde et déchirante tout à la fois
entre exil et retour, oubli et mémoire, déracinement et enracinement» (cf. Vanhese 2008, 290-
291).

191
La description du migrant et du déclin n’est jamais triste, et traduire une histoi-
re aussi terrible que celle de Stavro, «di un biondo scialbo» ou «di un biondo
sporco» suivant les traductions, peut signifier aussi bien raconter l’histoire d’un
homme à l’«aria di mediatore ladro», que celle d’un homme à l’«aria di sensale o
di ladro», que celle, enfin, d’un homme à l’«aria di cavallaro ladro», et peut offrir
une intéressante réflexion sur la construction textuelle du point de vue et sur le
conflit des énonciations.

Bibliographie

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tions du Seuil.
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Istrati, Panaït (1996 – Prima edizione 1978): Kyra Kyralina, trad. di Gino Lupi,
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307.
Verga, Giovanni (1983): I Malavoglia, Milano, Garzanti.

193
Deux témoins de l’inhumanité en Europe centrale:
Ana Novac et Élie Wiesel
Alain Vuillemin
Professeur Émérite de l’Université d’Artois Laboratoire «Lettres,
Idées, Savoirs» de l’Université Paris-Est

Résumé

Ana Novac et Élie Wiesel ont en commun d’être nés roumains, la première en 1929 et le second en
1928, d’être devenus des “citoyens hongrois” en 1940 lors de l’annexion de la Transylvanie par la
Hongrie, d’avoir été déportés tous les deux en 1943 au camp de concentration d’Auschwitz-Birkenau,
et d’avoir survécu à la Shoah, à l’extermination des populations juives d’Europe centrale et orientale
pendant la seconde guerre mondiale. En 1945, Élie Wiesel s’est réfugié en France. Il a été ensuite
naturalisé américain en 1963. Il est aussi devenu citoyen israélien. Il s’est exprimé en plusieurs lan-
gues, en yiddish, en hébreu, en anglais, en français. Il a décrit son expérience concentrationnaire, en
français, à travers La Nuit (1958), L’Aube (1960), Le Jour (1961) et d’autres récits. En 1945, Ana No-
vac, redevenue roumaine, est revenue en Roumanie d’où elle a été contrainte de s’exiler en 1965, en
raison d’autres persécutions, pour s’installer en Hongrie d’abord, puis en France en 1968. C’est aussi
en France, à Paris, et en français qu’elle fait paraître J’avais quatorze ans à Auschwitz, un journal
tenu au jour le jour au temps de sa déportation, puis en 1982, une reprise de ce récit pathétique, sous
un autre titre, Les Beaux jours de ma jeunesse. Ana Novac et Élie Wiesel ont été ainsi deux témoins
privilégiés de ce que furent l’inhumanité de cette époque, entre 1943 et 1945, en Europe centrale. Ce
sont leurs témoignages respectifs qui seront analysés à propos de ce qu’ils rapportent tous deux sur
les persécutions subie, la déportation et l’extermination.

La seconde guerre mondiale a été l’une des périodes les plus sombres de l’his-
toire de l’Europe. Entre 1939 et 1945, ce sont près d’une dizaine de millions de
personnes, dont les deux tiers de la population juive européenne, qui ont dis-
paru dans des camps de concentration et d’extermination dont le plus grand – et
le plus terrifiant – fut celui d’Auschwitz-Birkenau en Silésie. Ce fut une gigan-
tesque migration forcée. L’horreur de cette expérience a été décrite depuis par
une immense littérature. Les témoignages les plus pathétiques sont peut-être les
chroniques ou les journaux intimes qui ont pu être tenus par des adolescents au
moment de ces événements. On songe au Journal (1947)1 rédigé en hollandais
par Anne Frank, une Allemande dont la famille s’était réfugiée aux Pays-Bas,
au Journal de Masha: de Vilnius à Stuttof. 1941-19452 écrit en yiddish par Masha

1 Frank, Anne (Frank, Annelies – 1929-1945): Journal („Het Achterhuis: Dagboekbrieven van
12 Juni 1942 – 1 Augustus 1944 / L‘Annexe: notes de journal du 12 juin 1942 – 1er août 1944“,
Amsterdam, Contact Publishing, 1947), Paris, Calmann-Lévy, 1950.
2 Rolnikas, Masha (ou Rolnikaitë, Maria ou Rol’nikajte, Mariâ Grigor’evna, née en 1927): Jour-
nal de Masha: de Vilnius à Stuttof. 1941-1945 (Ich muss erzählen: mein Tagebuch, 1941-1945,
Berlin, Union Verlag, 1972), Paris, Liana Lévy, 2003. Voir aussi Rolnikas, Masha, Je devais

195
Rolnikas, une Lituanienne, au Journal de Rutka, janvier-avril 19433 tenu par
Rutka Laskier, une Polonaise, au Journal: 1942-19444 d’Hélène Berr, une Fran-
çaise, ou aux Cahiers d’Abram Cytryn: récits du ghetto de Lódź (1994)5 d’Abram
Cytryn, un Polonais. En Europe centrale et orientale, deux voix tranchent, celles
d’Ana Novac et d’Élie Wiesel. Tous deux sont originaires de Transylvanie, une
région qui se trouve à la frontière entre la Roumanie et la Hongrie. Tous deux sont
nés roumains et tous deux de confession juive, Ana Novac (née Zimra Horsányi)
en 1929 et Élie Wiesel en 1928. Tous deux devinrent des “citoyens” hongrois le
30 août 1940, quand le nord de la Transylvanie fut rétrocédé à la Hongrie par la
Roumanie, sous la pression de l’Allemagne. Tous deux furent déportés au prin-
temps 1944, à peu près en même temps, vers l’Allemagne et la Pologne, comme
toutes les communautés juives de cette région. Tous deux furent internés pendant
un temps, alors qu’ils n’étaient que des adolescents, dans le plus grand des camps
de concentration et d’extermination, Auschwitz-Birkenau. Tous deux ont survécu
à la Shoah, à la “catastrophe”6, à l’entreprise d’extermination systématique des
juifs européens par les nazis. Tous deux ont raconté leur histoire, Élie Wiesel
dès 1956, en yiddish, dans Un di Velt Hot Geshvign (“Et le monde se taisait”)7 et
Ana Novac en 1966, en hongrois, en Hongrie, dans A Téboly Hétköznajai (“La
Folie au jour le jour”)8. Leurs tribulations ne se sont pas achevées avec la fin de
la guerre. Le 6 mai 1945, l’armée russe libère Ana Novac, alors internée au camp
de Kratzau (Chrastava) en Bohème. Elle passera ensuite près de deux années en
divers hôpitaux avant de pouvoir revenir en Roumanie et de retrouver la nationa-
lité roumaine. Elle y devient alors une auteure dramatique de renom, en langue
roumaine, jusqu’à ce qu’elle soit exclue de l’Union des Écrivains de la République
Socialiste de Roumanie en 1965, puis contrainte en 1966 de s’exiler en Hongrie
avant de s’installer en 1968 en France. Elle y publié plusieurs romans et pièces
de théâtre, en français, jusqu’à sa disparition en 2010. Pour sa part, c’est dès le
11 avril 1945 qu’Élie Wiesel avait été libéré par l’armée américaine, au camp de
Buchenwald, en Thuringe. Il est alors pris en charge avec 427 autres orphelins,

le raconter (ce qu‘Anne Frank n‘a pas pu dire)... [Traduit du yiddish par l‘auteur et Gaston La-
roche]. Paris, les Éditeurs français réunis, 1966.
3 Laskier, Rutka (1929 ?-1943), Journal de Rutka, janvier-avril 1943 (2006), Paris, Robert Laf-
font, 2008.
4 Berr, Hélène (1921-1945), Journal: 1942-1944, Paris, Tallandier, 2007
5 Cytryn, Abram (1927-1944), Cahiers d’Abram Cytryn: récits du ghetto de Lódź, Paris, Albin
Michel, 1994.
6 Le mot “Shoah” signifie “catastrophe” en hébreu.
7 Wiesel, Élie (né en 1928), Un di Velt Hot Geshvign (“Et le monde se taisait”), Buenos-Aires,
Union Central Israelita Polaca en la Argentina, 1956.
8 Horsányi, Zimra (i.e. Ana Novac, 1929-2010), A Téboly Hétköznajai (“La Folie au jour le jour”),
Budapest, Kozmosz Könyvek, 1966.

196
rescapés de ce camp de Buchenwald, par l’”Œuvre de secours aux enfants”, une
association juive d’assistance et de solidarité crée en Russie en 1912, qui s’était
établie à Berlin en 1923 et qui s’était installée à Paris en 1933. C’est la raison pour
laquelle Élie Wiesel fut accueilli en France, en qualité d’apatride. Il y apprendra
le français. Il s’orientera vers des études de philosophie et vers une carrière de
journaliste pour le compte de divers journaux israéliens et français. En 1955, il
s’installe aux États-Unis, à New-York, et il obtiendra la nationalité américaine
en 1963. Il deviendra aussi citoyen israélien. Dès 1954, il commence à écrire et à
s’exprimer en yiddish, en hébreu, en anglais et en français. En 1986, il recevra le
Prix Nobel de la Paix pour son engagement au service de la mémoire de la Shoah.
En 1958, avec le concours de Jérôme Lindon, Élie Wiesel reprend, traduit et récrit
en français son récit autobiographique publié à l’origine en yiddish, en 1954 et
publié en 1956 à Buenos Aires, en Argentine: Un di Velt Hot Geshvign. Il le publie
aux éditions de Minuit sous le titre de La Nuit (Wiesel 2007). C’est le récit de sa
propre déportation à Auschwitz et à Buchenwald. Ana Novac procèdera presque
de même avec l’aide de Jean Parvulesco, en traduisant et en récrivant en français
son livre publié en 1966, en hongrois, A Téboly Hétköznajai, et en lui donnant un
premier titre, J’avais quatorze ans à Auschwitz en 1982, puis un second en 1966,
Les Beaux jours de ma jeunesse, par antiphrase, avec un certain nombre de modi-
fications, de suppressions, d’additions et de remaniements. Un dernier trait relie
ces deux écrivains: c’est en français, en une langue qui leur était seconde, qu’ils
ont choisi l’un et l’autre de faire connaître au monde l’horreur de ce qu’ils avaient
vécu et subi. Ils le précisent et ils s’en justifient dans chacun de leurs écrits. La
Nuit d’Élie Wiesel, J’avais quatorze ans à Auschwitz et Les beaux jours de ma
jeunesse d’Ana Novac tentent de rendre compte de cette expérience extrême de
la cruauté et de l’inhumanité absolue. Ce sont aussi deux cris de douleur. Que
révèlent ces témoignages sur ce voyage terrifiant vers la souffrance et la mort, sur
les persécutions qui l’annoncèrent, sur la déportation qui en suivit, et enfin, sur
son terme, l’extermination ?

1. Les persécutions

L’évocation des persécutions qui précédèrent les événements tels qu’ils sont rap-
portés dans ces récits est une première manifestation de la cruauté dont ces com-
munautés d’Europe centrale furent les victimes dés avant le déclenchement de la
seconde guerre mondiale. Ana Novac n’en dit rien. Son témoignage recouvre les
cinq premiers mois de sa détention à Auschwitz, de juin à septembre 1944, alors
qu’elle était déjà arrivée au camp. À l’inverse, Élie Wiesel les retrace à grands
traits dans La Nuit, telles qu’il en aurait été témoin, à Sighet, entre 1940 et 1944.

197
C’est ce qui conférerait à son livre une très grande originalité par rapport aux
autres écrits qui ont pu être consacrés à la Shoah. Il décrit ce qu’il en aurait été de
la cécité et de la surdité collective des habitants de Sighet en dépit des menaces
et des mesures de discrimination et de ségrégation qui furent progressivement
prises.
Les menaces étaient réelles. Dès 1937, de premières mesures d’exclusion
avaient été prises en Roumanie contre les juifs. En Hongrie, les persécutions
avaient commencé dès 1938 avec le vote de plusieurs lois raciales. Le 30 août
1940, le nord de la Transylvanie roumaine est cédé à la Hongrie par le diktat
de Vienne9. 150  000 juifs originaires de cette région changent de nationalité.
120 000 d’entre eux, soient 80 %, seront déportés entre 1941 et 1944. Les 27 et
28 août 1941, 15 000 juifs hongrois, considérés comme “apatrides”, sont expulsés
de Hongrie, déportés vers l’Ukraine et exécutés à Kamianets-Podilsky, au nord
de la Roumanie et de la Moldavie, sur les arrières des troupes allemandes qui
étaient entrées sur le territoire de la Russie depuis le 22 juin 1941. En janvier-fé-
vrier 1944, l’Ukraine est reconquise par l’armée russe. Pour parer à un risque de
défection de la part de la Hongrie dont les autorités avaient amorcé des négocia-
tions avec les Alliés, les troupes allemandes envahissent le territoire hongrois le
19 mars 1944. Les événements se précipitent dès lors. Entre le 15 mai 1944 et le
08 juillet 1944, 435 000 juifs hongrois sont déportés hors de la Hongrie, en 151
trains, vers le camp d’Auschwitz-Birkenau, et exterminés aussitôt, dès leur arri-
vée, en une proportion de 90 %. Seuls 10 % d’entre eux furent affectés au travail
forcé, dont Ana Novac, Élie Wiesel et le père de ce dernier, Shlomo Wiesel.
Les victimes n’avaient guère conscience de ce qui se tramait. Dans La Nuit
d’Élie Wiesel, lors de sa première parution en France en 1958, François Mauriac
observe dans l’avant-propos qu’il a écrit pour cet ouvrage, que “ce témoignage qui
vient après tant d’autres […] est cependant différent, singulier, unique” (Wiesel
2007, 27). Le livre décrit en sa première partie ce qu’il en aurait été de la nature
des illusions et de l’état de sidération qui auraient prévalu en ces régions, en Eu-
rope centrale, en Transylvanie, à cette époque. “Ce qu’il advient des juifs de la pe-
tite ville de Transylvanie appelée Sighet” (Wiesel 2007, 27), commente François
Mauriac, “leur aveuglement devant un destin qu’ils auraient eu le temps de fuir, et
auquel avec une inconcevable passivité ils se livrent eux-mêmes, sourds aux aver-
tissements, aux supplications d’un témoin échappé du massacre, et qui leur rap-
pelle ce qu’il a vu lui-même de ses yeux; mais ils refusent de le croire et le pren-
nent pour un dément – ces données eussent suffi à inspirer une œuvre à laquelle
aucune, il me semble, ne saurait être comparée” (Wiesel 2007, 27). Ce témoin,

9 Ce «Diktat de Vienne», selon les Alliés, ou cet «Arbitrage de Vienne» en Autriche, selon les pu-
issances de l’Axe, désigne l’accord qui fut imposé à la Roumanie par l’Allemagne et par l’Italie
le 30 août 1940, et par lequel la moitié nord de la Transylvanie fut rétrocédée à la Hongrie.

198
c’est Moshé-le-bedeau, un employé de la synagogue de Sighet qui avait entrepris
d’initier le tout jeune Élie Wiesel aux mystères de la Kabbale. “Un jour”, raconte
Élie Wiesel, “on expulsa de Sighet les juifs étrangers. Et Moshé-le-bedeau était
étranger. Entassés dans des wagons à bestiaux […], ils pleuraient sourdement.
Sur le quai du départ, nous pleurions aussi. Le train disparut à l’horizon” (Wiesel
2007, 35). Ce premier convoi de déportés fut vite oublié. C’était à l’été 1941 ou
au début de l’année 1942. La vie redevint normale. Un jour, dans la synagogue
de Sighet, Élie Wiesel revoit Moshé-le-bedeau. Celui-ci lui raconte son histoire.
Aussitôt sorti du territoire hongrois, le train qui emmenait les déportés s’était
arrêté en Galicie, au sud de la Pologne. Des camions avaient alors transporté les
malheureux vers une forêt. Là, ils durent descendre puis creuser de vastes fosses
et attendre, devant, d’être abattus un par un d’une balle dans la nuque. Un détail,
rapporté par Élie Wiesel, insiste sur la cruauté de ce massacre: “des bébés”, note-
t-il, “étaient jetés en l’air et les mitraillettes les prenaient pour cibles” (Wiesel
2007, 36). Seulement blessé, Moshé-le-bedeau fut cru mort. Revenu à Sighet, il
tente de convaincre les autres juifs de la véracité de son histoire. En vain. Nul ne
le croit. Personne ne l’écoute. Tous le pensent devenu dément. Un premier trait de
la cruauté et de la barbarie extrême apparaît. Ce témoin, ce rescapé, n’est pas en-
tendu. Il n’est pas écouté. Ce qu’il dit dépasse l’entendement. Lorsque les troupes
allemandes parviennent à Sighet, le 22 ou le 23 mars 1944, Moshé-le-bedeau crie
un ultime avertissement au père d’Élie Wiesel, puis s’enfuit.
L’étau se refermera en quelques semaines. Le premier chapitre de La Nuit en
détaille les étapes. Le 18 mars 1944, les habitants de Sighet apprennent par la
radio “la prise de pouvoir par le parti fasciste” (Wiesel 2007, 40). Le lendemain,
le 19 mars 1944, les troupes allemandes pénètrent sur le territoire hongrois. Trois
jours plus tard, les soldats allemands parviennent à Sighet. Au “septième jour de
Pâques, le rideau se leva” (Wiesel 2007, 42). Les responsables de la communauté
juive sont arrêtés. “Le verdict était déjà prononcé […]. La course à la mort avait
commencé” (Wiesel 2007, 42). Une première mesure consiste à consigner les juifs
à domicile, sous peine de mort. Trois jours plus tard, le port de l’étoile jaune est
institué. Un grand et un petit ghettos sont constitués, le premier au centre de la
ville et le second dans un faubourg. Un “Conseil juif, une police juive au bureau
d’aide social, un comité de travail […] tout un appareil gouvernemental” (Wiesel
2007, 45) sont créés. La vie semblait redevenir normale. Au début du mois de mai
1944, de nouveaux visages allemands surgissent, la Gestapo10. La décision de li-
quider les ghettos est annoncée. Les Wiesel apprennent qu’ils feront partie du tout
“dernier convoi” (Wiesel 2007, 52). La famille est transférée dans le petit ghetto.
Ils y restèrent environ une semaine, jusqu’au samedi de la Pentecôte.

10 Gestapo: “Geheime Staatspolizei” pour “Police secrète d’État”, nom de la police politique all-
emande sous le III° Reich entre 1933 et 1945.

199
Les signes annonciateurs n’avaient pourtant pas manqué. Le récit d’Élie Wie-
sel le rappelle. Ainsi qu’il l’expliquera une dizaine d’années plus tard, en 1954
dans Un di Velt Hot Geshvien et en 1958 dans La Nuit, il aurait été encore possible
vers la fin de l’année 1942, “d’acheter des certificats d’émigration pour la Pales-
tine” (Wiesel 2007, 39). Le père d’Élie Wiesel aurait refusé. Les gens de Sighet
restèrent insensibles aux menaces. Ils demeurèrent indifférents aux objurgations
de Moshé-le-bedeau. Ils ne pouvaient concevoir l’”abomination”11 de ce qui se
tramait. Ils ne pouvaient comprendre que “la course vers la mort avait commen-
cé” (Wiesel 2007, 42) et que la déportation n’en serait qu’une étape.

2. La déportation.

La déportation proprement dite, plus exactement l’expulsion ou “les trans-


ports” (Wiesel 2007, 47) pour reprendre le terme qui est utilisé en français par
Élie Wiesel dans La Nuit, commença à Sighet le 14 mai 1944. La veille, “deux
samedis avant la Pentecôte” (Wiesel 2007, 45), les gens avaient appris la nouvelle.
À partir du lendemain, les ghettos devaient être entièrement liquidés, rue après
rue. La famille Wiesel fit partie de l’ultime convoi. Tous partaient pour un “der-
nier voyage […] vers l’inconnu” (Wiesel 2007, 12). Le départ en fut une prémice,
le trajet une lente agonie et l’arrivée, une épouvante.
Les brutalités commencèrent dès le 14 mai 1944, à huit heures du matin, quand
des gendarmes hongrois firent irruption dans le ghetto, hurlants, frappant “n’im-
porte qui, sans raison, à droite et à gauche, vieillards et femmes, enfants et in-
firmes” (Wiesel 2007, 51), à coup de crosses ou de matraques. À dix heures, “les
gendarmes faisaient l’appel une fois, deux fois, vingt fois”  (Wiesel 2007, 52),
dans la rue, sous une chaleur intense. Des enfants pleuraient pour avoir de l’eau
“mais il était interdit de quitter les rangs” (Wiesel 2007, 52). Le signal du départ
du premier convoi fut donné à une heure de l’après-midi. “Ce fut de la joie, oui,
de la joie. Ils pensaient sans doute qu’il n’y avait pas de souffrance plus grande
[…] que d’être assis là, parmi les paquets, sous un soleil incandescent, que tout
valait mieux que cela”  (Wiesel 2007, 52), explique Élie Wiesel. “Dans les yeux de
chacun” (Wiesel 2007, 53), ajoute-t-il aussitôt, “une souffrance, noyée de larmes
[…]. La procession disparut au coin de la rue” (Wiesel 2007, 53). Lorsque ce fut
le tour des Wiesel, les mêmes scènes recommencèrent. Les gendarmes hurlaient:
“Tous les juifs, dehors !” (Wiesel 2007, 55). Ils restèrent assis, au milieu de la rue,
sous le même soleil d’enfer, avec la même soif, exactement comme tous ceux qui
les avaient précédés. Ils furent transférés au petit ghetto, dans les faubourgs de
Sighet puis, quelques jours plus tard, le dimanche 28 mai 1944, semble-t-il, diri-
11 François, Mauriac, “Avant-propos”, in Wiesel 2007, 27.

200
gés vers la gare. Un train, un “convoi de wagons à bestiaux” (Wiesel 2007, 61), les
attendait. Les gendarmes hongrois les firent monter, à raison de quatre-vingt per-
sonnes par wagon. Les wagons furent alors scellés. Sur le quai, retient Élie Wie-
sel, “deux officiers de la Gestapo, tout souriants” (Wiesel 2007, 61). L’expulsion,
somme toute, s’était bien passée. Le train démarra. Les déportés étaient en route.
Le trajet fut long. Il dura cinq jours, du 28 mai 1944 au matin, au départ de
Sighet, jusqu’à l’arrivée à Birkenau, le 01 juin 1944, aux alentours de minuit. Il
fut une première épreuve de déshumanisation. Le voyage, très éprouvant, se dé-
roula en trois étapes. Un premier arrêt eut lieu au bout de deux jours, le 30 mai
1944, à Kashau12, lors de la traversée de la frontière entre la Hongrie et la Slo-
vaquie. Les déportés apprirent alors qu’ils étaient désormais passés sous l’autorité
de l’armée allemande. Ils comprirent qu’ils étaient pris au piège. Le second arrêt
fut en gare d’Auschwitz, le 01 juin 1944, en fin de matinée. Des déportés furent
autorisés à aller chercher de l’eau. Le troisième arrêt eut lieu le soir, un peu avant
onze heures, à Birkenau, trois kilomètres plus loin, après un ultime déplacement
du train. “C’était le terminus”, relate Élie Wiesel. Les gens étaient dans un état
d’épuisement total. Durant ces cinq jours, il n’avait pas été “question de s’allonger
ni même de s’asseoir tous” (Wiesel 2007, 62), précise toujours Élie Wiesel. Les
uns et les autres s’étaient assis à tour de rôle, somnolant ou sommeillant, souffrant
de la soif, de la fatigue, et aussi d’un air trop rare. La promiscuité avait été totale.
Les odeurs étaient pestilentielles. On devine la saleté, l’anxiété, l’exténuation, et
aussi l’angoisse. Dans La Nuit, les notations d’Élie Wiesel demeurent très rete-
nues. Son témoignage n’en gagne pas moins en intensité.
Un événement dramatique, lors de la troisième nuit de ce voyage, aurait accru
l’horreur de ce voyage. Élie Wiesel le relate en le transformant en une sorte de
parabole ou d’apologue prémonitoire. Alors que “nous dormions assis, l’un contre
l’autre, et quelques-uns debout”, rapporte-t-il, “un cri aigu perça le silence: – Un
feu ! Je vois un feu ! Je vois un feu ! Ce fut un instant de panique” (Wiesel 2007,
64). Au milieu du wagon, ajoute-t-il, une femme, Madame Schächter, “désignait la
fenêtre de son bras, hurlant: “– Regardez ! Oh, regardez ! Ce feu ! Un feu terrible !
Ayez pitié de moi, ce feu !”. Des hommes se collèrent aux barreaux. Il n’y avait
rien, sauf la nuit” (Wiesel 2007, 64-65). Toute la nuit, ainsi que la nuit suivante,
la malheureuse démente n’aurait cessé de hurler “comme si une âme maudite
était entrée en elle et parlait du fond de son être” (Wiesel 2007, 65). Excédés, ses
voisins la frappèrent, la lièrent, la bâillonnèrent. Le 01 juin 1944, au soir, quand
le train s’ébranla de la gare d’Auschwitz pour s’arrêter un quart d’heure plus tard
à Birkenau, madame Schächter recommença à hurler, d’une manière “terrible: “
Juifs, regardez ! Regardez le feu ! Les flammes, regardez !” [l’on vit] cette fois
des flammes d’une haute cheminée, dans le ciel noir [… et] une odeur abominable
12 Kashau ou Košice ou Košicky en Slovaquie.

201
flottait dans l’air [… une] odeur de chair brûlée” (Wiesel 2007, 70). Les détenus
étaient arrivés. L’anecdote, introduite comme un apologue mystérieux, peut se
déchiffrer de plusieurs manières. Madame Schächter n’est plus tout-à-fait une dé-
mente. C’est une voyante, animée par une espèce de puissance de divination ou de
prémonition impressionnante. C’est une sorte de prophétesse dérisoire. En elle,
à travers sa personne et à travers ses cris, le surnaturel se serait manifesté. Un
avertissement aurait été donné. Nul, toutefois, ne l’avait compris à l’intérieur de
ce wagon plombé. Ce feu qu’elle voyait dans son délire, c’était l’annonce du destin
imminent de chacun et le signe de la présence en ces lieux maudits, en ce camp
d’Auschwitz-Birkenau, d’une puissance de destruction épouvantable, terrifiante.
Le récit de cette déportation entre Sighet et Auschwitz serait un témoignage
unique dans la littérature de la Shoah, telle qu’elle existait en 1958 lors de la pa-
rution de La Nuit en France, cette année-là. En 1982, dans J’avais quatorze ans à
Auschwitz puis en 1996 dans Les beaux jours de ma jeunesse, Ana Novac ne dit
rien des conditions de sa propre déportation, à peu près à la même date, depuis
la Transylvanie. Il est certain qu’elle a connu les mêmes épreuves. Les brutalités
qui auraient commencé à Sighet du moins dès le 14 mai 1944, le trajet effectué en
train entre le 28 mai 1944 et le 01 juin 1944, par les Wiesel, avec le tout dernier
convoi parti de Sighet, l’arrivée enfin, de nuit, le 01 juin 1944, devant les hautes
flammes du four crématoire du camp de Birkenau, sont autant d’étapes de cette
longue course, de ce “dernier voyage […] vers l’inconnu”  (Wiesel 2007, 12) et
vers la mort, imposé à tous ces malheureux qui ne pouvaient avoir le moindre
soupçon sur la nature de ce qu’ils allaient subir.

3. L’extermination

Le terme de ce voyage, c’était la mort. La Nuit d’Élie Wiesel, J’avais quatorze ans
à Auschwitz et Les beaux jours de ma jeunesse d’Ana Novac se complètent pour
décrire une expérience effroyable, indicible, indescriptible et vécue, explique Élie
Wiesel, en “un univers dément et froid où c’était humain d’être inhumain” (Wie-
sel 2007, 12). Son récit raconte sa “première nuit là-bas. La découverte de la
réalité à l’intérieur des barbelés” (Wiesel 2007, 20). Ana Novac ne dit rien des
circonstances, certainement très proches, de sa propre arrivée au camp. On sait
par d’autres témoignages que ce rituel de mise à mort était identique pour chacun
des convois qui arrivaient à Auschwitz-Birkenau. La sélection initiale, opérée à la
descente même des trains, était la plus meurtrière. Ceux qui avaient eu la chance,
très relative, d’être condamnés au travail forcé étaient seulement affrontés à une
mort lente. La survie quotidienne des rares rescapés qui ont pu en porter témoi-
gnage relève d’une sorte de miracle.

202
La découverte était un choc. “Seuls ceux qui ont connu Auschwitz savent ce
que c’était. Les autres ne le sauront jamais” (Wiesel 2007, 13), explique Élie Wie-
sel. Cette première nuit du 01 au 02 juin 1944 l’a marqué à jamais. Il en raconte
l’horreur, et la violence inouïe. Sur les onze heures du soir, le train qui ame-
nait ces derniers déportés de Sighet s’était ébranlé. Après quelques minutes, il
s’était arrêté. Ils étaient parvenus à Birkenau. Il était presque minuit. Ils voient
des flammes sortir d’une haute cheminée. Une odeur épouvantable flotte partout.
“De curieux personnages, vêtus de vestes rayées, de pantalons noirs, sautèrent
dans le wagon” (Wiesel 2007, 69), munis de lampes électriques et de bâtons. Ils
se mirent à frapper avant de crier: “– Tout le monde descend ! Laissez tout dans le
wagon ! Vite !” (Wiesel 2007, 70), raconte Élie Wiesel. Ils étaient arrivés. “Tous
les deux mètres, un S.S., la mitraillette braquée sur nous […]. Un gradé S.S. vint
à notre rencontre. Il ordonna: “– Hommes à gauche, femmes à droite  ! Quatre
mots dits tranquillement, indifféremment, sans émotion […]. Je ne savais point
qu’en ce lieu, en cet instant, je quittai ma mère et Tzipora13 pour toujours” (Wiesel
2007, 72). Ainsi s’opérait cette sélection initiale. Un peu plus loin, continue Élie
Wiesel, se tient le fameux docteur Mengele14, une “baguette de chef d’orchestre à
la main” (Wiesel 2007, 74). Il trie les prisonniers. À droite, ceux qui seront exter-
minés immédiatement en raison de leur âge ou de leur état physique. À gauche,
ceux qui sont désignés pour le travail forcé. Élie Wiesel, puis son père, Shlomo
Wiesel, vont sur la gauche. La colonne de détenus repart alors et longe une fosse
d’où montaient des flammes gigantesques. Un camion s’en approche. Il y déverse
sa charge “c’était des petits enfants. Des bébés ! Oui, je l’ai vu, de mes yeux vus…
Des enfants dans les flammes” (Wiesel 2007, 75-76). À deux pas de la fosse, on
fait entrer les déportés dans une baraque, très longue, une “antichambre de l’en-
fer” (Wiesel 2007, 79). Des dizaines de détenus les attendent, les frappent à nou-
veau, leur ordonnent de se déshabiller complètement, les rasent, les tondent. Sur
les cinq heures du matin, des Kapo15 les font sortir, nus, par une brise glacée. Ils
courent jusqu’à une autre baraque. C’est la désinfection, dans un baril de pétrole
d’abord, sous une douche chaude ensuite, puis ils sont encore entraînés, toujours
nus, toujours au pas de course, vers une autre baraque. Ils y perçoivent des tenues

13 Tzipora Wiesel, la plus jeune sœur d’Élie Wiesel, âgée de sept ans.
14 Josef Mengele (1911-1979), médecin-chef du camp d’Auschwitz-Birkenau, chargé de la sélection
des déportés qui arrivaient au camp et auteur de très nombreuses expériences médicales sur des
cobayes humains choisis parmi ces déportés. Réfugié après la guerre en Amérique latine, au
Paraguay et au Brésil, où il vécut sous divers pseudonymes, dont celui de Wolfgang Gerhard
sous lequel il fut inhumé à Embu, dans l’État de São Paulo au Brésil, en 1979, sans avoir été
jamais capturé.
15 Kapo: abréviation de Kameradenpolizei (“camarade policier” en allemand), terme qui désignait
les prisonniers déportés qui étaient chargés d’encadrer les autres détenus à l’intérieur des camps
de concentration.

203
de bagnards. Désormais, ils ont complètement “cessé d’être des hommes” (Wie-
sel 2007, 82). Ils sont parvenus au terme du processus de déshumanisation.
Pour les quelques dix pour cent de rescapés qui avaient survécu à ce tri initial et
à cette nuit de cauchemar, le travail forcé n’était qu’une condamnation à une mort
lente. Pour les détenus, l’espérance de vie était de trois à quatre mois. Ana Novac
et Élie Wiesel survécurent près de onze mois. Au petit matin de cette première
nuit, ce 02 juin 1944, Élie Wiesel et les survivants de son convoi vont, en colonne
par cinq, à pied, du camp de Birkenau au camp d’Auschwitz, entre des rangées de
barbelés électrifiés. “– À chaque pas”, relève Élie Wiesel, “une pancarte blanche
avec un crâne de mort noir qui nous regardait. Une inscription: “Attention ! Dan-
ger de mort”. Dérision: y avait-il ici un seul endroit où l’on ne fût pas en danger
de mort  ?” (Wiesel 2007, 87). Dans J’avais quatorze ans à Auschwitz et dans
Les beaux jours de ma jeunesse, Ana Novac en rapporte maints exemples. Dans
les deux cas, son témoignage s’ouvre, in medias res, par les mêmes mots: “Vous
crèverez”, siffle la Slovaque [une des gardiennes, surnommée “Tête de Poupée”,]
en ricanant” (Novac 1982, 13 et Novac 1999, 13), face à une masse de détenues,
debout, en loques, en rang de cinq, sur la place d’appel du camp d’Auschwitz.
Quelques jours plus tard, en le même lieu, la scène se reproduit. Cette fois-là,
note Ana Novac, “on cherchait encore des moins de seize ans. Tête de Poupée en a
épinglé une dans les rangs” (Novac 1982, 23, voir Novac 1999, 26). L’enfant, âgée
d’une douzaine d’années, se presse contre sa mère. Le dénouement est tragique.
La mère et l’enfant sont abattus. La fatigue, la faim, la malnutrition, les coups, les
brimades, tout contribue à briser la résistance morale et physique des déportés.
Dans La Nuit, au camp de Buchenwald, le père d’Élie Wiesel, le vieux Shlomo
Wiesel meurt d’épuisement, le 28 janvier 1945, après avoir été roué de coups.
Les exécutions sommaires, les pendaisons publiques, les sélections, inopinées
ou camouflées en appel ou en visites médicales, étaient extrêmement fréquentes.
Ana Novac et Élie Wiesel en décrivent les rituels et le cérémonial, très variables
d’un camp à un autre. Ces rescapés n’étaient que des condamnés à mort en sursis.
Le sursis accordé n’était qu’une longue agonie. Les déportés n’étaient plus des
êtres humains, non plus. Dans La Nuit, le lendemain de son arrivée au camp
d’Auschwitz, raconte Élie Wiesel, des numéros avaient été tatoués sur le bras
gauche des nouveaux arrivants. Élie Wiesel devint ainsi “A-7713. Je n’eus plus
désormais d’autre nom” (Wiesel 2007, 91), commente-t-il. Désormais, il n’avait
plus d’identité. Transféré au camp de Buna, avec son père, il est témoin, une pre-
mière fois de la manière dont le vieux Shlomo Wiesel fut frappé, à coups de barre
de fer, par un Kapo, Idek, pris d’une crise de fureur. Quelques jours plus tard,
c’est un autre kapo, un contremaître, Franck, qui s’acharne de même sur Shlomo
Wiesel. La scène se répétera, chaque jour, deux semaines durant. Peu après, ce
sera au tour d’Élie Wiesel – le matricule A-7713 – de recevoir vingt-cinq coups

204
de fouet. Dans J’avais quatorze ans à Auschwitz comme dans Les beaux jours de
ma jeunesse, Ana Novac, dont le numéro matricule était 17587, rapporte comment
“l’esthétisme du commandant [du camp de Plassov allait] si loin qu’un jour il fit
sauter la cervelle d’une jeune fille parce que ses lacets étaient mal noués” (Novac
1982, 46, voir Novac 1999, 58). On pouvait mourir aussi pour d’autres raisons.
Ana Novac en rapporte un témoignage vécu. Il concerne le même “esthète canni-
bale” (Novac 1982,  81, voir Novac 1999, 102), à cheval, accompagné d’un boule-
dogue. Il n’est que de suivre la narration: “il s’élance soudain. Un tour au galop.
Il abat sa cravache sur un dos, [appelle] sa bête, lui désignant la fille. Et la chasse
commence. La jeune fille saute par-dessus le fossé, se réfugie d’abord derrière le
bunker, puis se jette vers la vallée. Elle trébuche […]. Enfin, le bouledogue appa-
raît: seul […]. Il rote. Les cavaliers se sont remis en route […]. Johnny [un kapo]
rapporte le corps (ou ce qu’il en reste) dans ses bras” (Novac 1982, 81-82, voir
Novac 1999, 104). De retour à la baraque, la couchette à la gauche d’Ana Novac
restera vide. La jeune fille s’appelait Illus, de Miskolcz, une petite ville au nord-
est de la Hongrie.
Il existait bien d’autres manières de mourir, alors même que les détenus enten-
daient le bruit des canons russes au loin. À partir du mois d’août 1944, le front
n’était qu’à deux cents kilomètres d’Auschwitz. L’armée russe ne parviendra que
le 27 janvier 1945 jusqu’au camp, évacué entretemps par la plupart des survivants.
Au camp de Monovitz-Buna-Auschwitz III, de nombreux déportés travaillaient
à l’intérieur des usines de la société allemande I.G. Farben. Ces usines étaient
bombardées par l’aviation alliée. Ces bombardements tuaient ou blessaient in-
distinctement ceux qui se trouvaient sous les bombes. Ana Novac et Élie Wiesel
en font état, partagés entre l’enthousiasme et la détresse. La Nuit d’Élie Wiesel
décrit aussi ce que fut l’évacuation de ce camp de Buna à partir du 17 janvier
1945. Ce jour-là, au soir, les déportés quittèrent le camp, à pied, en procession, et
en courant, baraque par baraque. Il neigeait. De temps en temps, des détonations
éclataient. Les gardiens avaient ordre d’abattre ceux qui ne pouvait pas suivre
la course. “Je n’étais plus qu’un somnambule [sur une] route sans fin [… pous-
sé] par la cohue [entraîné] par le destin aveugle, […]. Condamnés et vagabonds,
simples numéros, nous étions les seuls hommes sur terre»  (Wiesel 2007,  158).
Les marches se faisaient de nuit. Après une halte à Gleiwitz16, le voyage reprit,
en train, en des wagons à bestiaux sans toit, à raison d’une centaine par wagon.
Du wagon où Élie Wiesel et son père étaient montés, il descendit seulement une
douzaine de survivants. Tous les autres étaient morts de froid. Arrivés au camp
de Buchenwald, Shlomo Wiesel y mourra le 28 janvier 1945. Élie Wiesel y res-
tera jusqu’au 11 avril 1945, jour de l’arrivée des troupes américaines. Parmi ces
malheureux déportés enfin libérés, que ce fût sur le front oriental ou sur le front
16 Gleiwitz ou Gliwice en Silésie, aujourd’hui en Pologne.

205
occidental, le “zèle fatal” (Novac 1999, 320) des libérateurs provoqua encore d’in-
nombrables décès, par indigestion.
Dans Les beaux jours de ma jeunesse, en une addition par rapport au texte de
J’avais quatorze ans à Auschwitz, Ana Novac est catégorique sur la réalité de
l’extermination: “dans un camp de la mort”, écrit-elle, “il n’y a qu’une seule chose
faire: sauver sa peau” (Novac 1999, 264). Dans La Nuit, au camp de Buchenwald,
un kapo, le responsable du block, la baraque où Shlomo Wiesel agonise, explique
au jeune Élie: “– Écoute-moi bien, petit. N’oublie pas que tu es dans un camp
de concentration. Ici, chacun doit lutter pour lui-même […] Ici […] chacun vit et
meurt pour soi, seul” (Wiesel 2007, 192). Telle était la morale que les survivants
avaient été contraints de se forger en découvrant la violence impitoyable de l’uni-
vers concentrationnaire.

Conclusion

Les témoignages d’Ana Novac dans J’avais quatorze ans à Auschwitz et dans
Les beaux jours de ma jeunesse et d’Élie Wiesel dans La Nuit se complètent pour
évoquer à travers leur expérience commune l’horreur de la Shoah, de la “catas-
trophe”, le massacre systématique des populations juives, en Europe centrale.
IL en fut de même aussi un peu partout en Europe occupée, entre 1939 et 1945,
en dehors de deux seuls pays, la Bulgarie et le Danemark17, dont les populations
furent les seules à avoir eu le courage de s’opposer aux déportations. Tous deux
emploient d’ailleurs le terme d’”holocauste” (Novac1999, 324 et Wiesel 2007, 22)
ou de “sacrifice” (Wiesel 2007, 21), pour désigner ce que fut la “solution finale”,
ou encore ce qu’ils appellent, avec beaucoup de retenue, “la découverte de la
réalité à l’intérieur des barbelés” (Novac 1999, 9). Tous deux ont été projetés avec
une brutalité inouïe, sans l’avoir voulu, en des “situations” (Novac 1982, 8), pour
reprendre un autre euphémisme, qu’ils n’auraient jamais imaginées. Tous deux,
enfin, ont peut-être eu “le tort de survivre car, ainsi, qu’on le dit dans mon pays
[la Roumanie], explique Ana Novac, “plus un témoin est mort, plus son témoi-
gnage est sacré” (Novac 1999, 8). Leur histoire a été commune. Ana Novac et Élie
Wiesel ont eu le malheur d’être nés en une région de la Transylvanie, au nord de
la Roumanie, qui fut rétrocédée à la Hongrie en 1940, et partagèrent dès lors le
sort des communautés juives de cette partie de l’Europe centrale. En raison de la
menace d’une défection hongroise dont le premier ministre de l’époque, Miklos
Kallay, cherchait à négocier une paix séparée avec les puissances Alliées, les

17 La Bulgarie et le Danemark furent les deux seuls pays qui s’opposèrent à la déportation de leurs
concitoyens juifs pendant la seconde guerre mondiale.

206
troupes allemandes envahirent la Hongrie le 19 mars 1944. Les déportations com-
mencèrent à partir du 15 mai 1944. Ana Novac et sa mère, Élie Wiesel et sa fa-
mille partagèrent le destin commun. Ana Novac ne rapportera son expérience que
vingt ans plus tard, en 1966 d’abord, en Hongrie et en hongrois, puis, en 1968, en
France et en français. Élie Wiesel a attendu dix ans avant de publier le texte de La
Nuit, en yiddish et en Argentine, en 1954, puis en français, en France, en 1958. Ce
recul leur a été nécessaire pour surmonter l’épreuve subie et pour trouver les mots
les plus appropriés afin de raconter, le moins mal possible, ce “dernier voyage
dans des wagons plombés vers l’inconnu […,] la découverte d’un univers dément
et froid […]. Et la séparation […], la rupture de tous les liens, l’éclatement de toute
une famille, de toute une communauté […] en sachant que son témoignage ne sera
pas reçu” (Wiesel 2007, 12-13). Ce que ces deux adolescents, Ana Novac et Élie
Wiesel, racontent sur leur traversée de l’univers concentrationnaire nazi, sur les
brimades et sur les persécutions qui précédèrent la déportation proprement dite,
sur le départ, le trajet et la brutalité de l’arrivée, sur les sélections, le travail forcé,
l’agonie quotidienne, tout cela passe l’entendement. Ni Ana Novac ni Élie Wiesel
ne savent très bien pourquoi ils ont tenu un journal, pour la première à l’intérieur
des camps, le second longtemps après son arrivée en France, ni non plus pour-
quoi ils ont choisi, par la suite, tous les deux, d’écrire sur “une expérience où rien
n’avait de sens” (Wiesel 2007, 10). Ils ne savent pas non plus à quelles successions
de hasards ils durent la chance de survivre. La foi de chacun, de l’une et de l’autre,
en fut très fortement ébranlée. Ils en font également l’aveu, tous les deux, dans
leurs récits respectifs. La rédaction de La Nuit en yiddish d’abord en 1954 puis
en français en 1958, a néanmoins cristallisé la vocation d’écrivain d’Élie Wiesel,
celle de survivant de la Shoah et de témoin de la mémoire juive. Ana Novac n’a
écrit pour sa part qu’un seul livre sur ce sujet, mais en trois variantes, une en hon-
grois, A Téboly Hétköznajai, en 1966, et deux en français, J’avais quatorze ans à
Auschwitz en 1982 et Les beaux jours de ma jeunesse en 1996. Ces récits restent
des témoignages uniques sur l’horreur de la Shoah.

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en 1999. Traduction roumaine par Anca-Domnica Ilea: Cele mai frumoase zile
ale tinereții mele, Cluj-Napoca, Editura Dacia, 2004.

208
Exile as Political Discourse in the Novels of Herta Müller
Ileana Alexandra Orlich
Arizona State University

Abstract

In Herta Müller’s celebrated novels The Passport, The Appointment and The Land of Green Plums,
the human trauma of enforced displacement, which sums up Müller’s and the Swabs’ exile to West
Germany in 1987, is complicated by Julia Kristeva’s praise of the emancipating value of exile in “A
New Type of Intellectual: The Dissident.” “How can one avoid sinking into the mire of common
sense,” writes Kristeva, “if not by becoming a stranger to one’s own country, language, sex and iden-
tity? Writing is impossible without some kind of exile.” Beyond the metaphor of ethnic outsideness
underlining Müller’s writing, Kristeva’s exuberant quote also legitimizes Müller’s dissident voice
which narrates the experiences of a young woman from an unnamed land (clearly identifiable as
Romania) at the time of Ceauşescu’s draconic dictatorship. What distinguishes Müller’s novels is the
emphasis on her exilic identity which becomes the cohesive force of her narratives and thus brings
to a complete circle Stephen Daedalus’s claim in Joyce’s Portrait of the Artist as a Young Man, that
he will try to “fly by” the nest of nationality, language and religion and express himself by means of
silence, exile and cunning. Like Joyce, Müller conceives of exile in the archetypal Modernist way –
as a prerequisite of what is of value in human, literary and artistic creativity.

Like the fall of a cultural Berlin Wall, the 2010 Nobel Prize in literature awarded
to Herta Müller, a Romanian-born, ethnic German living in Germany since 1987,
opened the floodgates to an endless series of questions and hypotheses, beginning
with the claim that German publishing houses selected someone whose books
they have been marketing and ending with the very question of Müller’s roots—
an issue that leaves Germans and Romanians engaged in territorial appropriation.
The proponents of the first claim point to the strong economic position of Ger-
many in today’s European Union as solid proof that Germany finally succeeded
in conquering Central and Eastern Europe without firing a single shot – an incre-
dible feat by all standards given the situation of a defeated Germany at the end of
WWII and the subsequent colonization by the Soviet Union of half of Germany
and of most Central and Eastern European countries. This fourteen-year coloni-
zation of the region, which was followed by the rise of Ceauşescu in Romania, a
period between 1965-1989 when the country was known as Ceaushima and when
Romanians accepted an aberrant dictatorship simply because they feared a Soviet
invasion even more, ended when the Fall of the Berlin Wall in 1989 set off the
domino effect that liberated Central Europe and reached Romania in December
of that same year. The Nobel Prize Academy may have had that political trajec-
tory in mind since it serves as a dramatic geographic raccourci of Müller’s life
and work. Having lived more than three decades of her life, from 1953 to 1987,

209
in communist Romania, which is also the space of most of her fiction, Müller
is a writer whose life and work are firmly rooted in Romanian culture and in
the country’s politically oppressive communist regime which she fled reluctantly
in 1987 to relocate in what was then West Germany. (According to TG Ash in
his book In Europe’s Name, under an agreement reached between Chancellor
Schmidt of Germany and President Ceauşescu of Romania in 1978, the Romanian
dictator agreed to allow at least 12,000 ethnic Germans per year to immigrate
to Germany for the next 5 years. The Bonn government agreed to pay a well-
rounded per capita sum for these emigrants, a sum increased when the agreement
was renewed for another 5 years in 1983 to nearly DM 8,000, approx. $3,000,
per head. Arguably even more oppressed than the twenty million Romanians,
Romanian Germans also known as Swabs, like Müller, thus had the opportunity
to escape what was then the bloodiest dictatorship of Eastern Europe.)
Exposed to Romania’s cultural specificity, Müller formalized her fiction in the
fashion of Tristan Tzara, the well known Dadaist and exiled artist, who urged
writers in his 1916 “Manifesto” to turn their work into “a private affair the artist
produces for himself,” making it “a monstrosity that frightens servile minds, and
not sweetening to decorate the refectories of animals in human costumes, illus-
trating the sad fable of mankind.” Like Tzara, whose folk-inspired art resonates
throughout his work and for whom the Romanian space was part of his artistic
identity, Müller was also aware of the genius of Romanian folklore in her works
that call into question the canon of European literature which classified writers
based on their national identities. Her novels include frequent nursery rhymes and
folk songs of the village space where she grew up, near the town of Timişoara,
in a German enclave, a sort of Brigadoon that followed German customs, mostly
unchanged from the days when the Austro-Hungarian Empire had brought the
Swabs to the southwestern Romanian province of Banat. They were late arrivals
to this space and distinguishable from the other German community of southern
Transylvania, Romania’s central and northwestern region, known as Saşi (the
Romanian word for Saxons), who had settled here in the 13th century.
Although Müller’s novel Niederungen was translated and published in English
in 1999 by the University of Nebraska Press as Nadirs, English-language media
largely ignored the text and its author. Any search for receptions of this work will
provide limited results, and thus indirectly explain the stir caused by her selection
as Nobel Prize laureate. The earliest mention of Müller in the English-language
media was merely in a footnote of an article on the German minority in Romania
dating from 1991 (Dowling 1991, 341-355), which states that Herta Müller and
her ex-husband Richard Wagner were members of the “Aktionsgruppe Banat”
and were persecuted for their writings by the Ceauşescu regime. While the article
mentions that Wagner is the author of Ausreiseantrag (1989), “a chilling portrayal

210
of life in the ethnic German community in the latter years of the Ceausescu re-
gime,” nothing is said about Müller’s works. Later, in a report of a 1993 confer-
ence on women in Mediterranean, Central and Eastern European countries held
in Barcelona, Spain, Herta Müller is acknowledged as “the exiled Romanian/
German writer … who raised the active role of women in dictatorships” (Gru-
enell, van der Steen 1994, 118).
Müller’s sensitivity as an exiled writer translates into seeing the world as an
alien space. Her narratives allude to and mimic the atrocities of the Romanian
police state and its prison-like landscape that punishes creation and imagination
fostering violent displacement. Her fiction, from the early Nadirs to Passport,
The Appointment, and The Land of Green Plums, is not only the putative terra
incognita of the narrator’s imagination; it is also the all-too-real site where emi-
gration, enforced exile and deportation are used as a powerful political weapon
by an oppressive regime. Conjuring up frequent images of personal insecurity
in Communist Romania, Müller’s narrative space foregrounds the unanchored
narrator who negotiates her personal safety staving off the alarmingly increasing
terror of imprisonment and beatings while clutching to survival. In Appointment,
she details her life before emigrating from Romania on a day when she is sum-
moned once again to the frequent interviews with the Securitate officers. Ac-
cused of invented illegal activities, such as living off private lessons and common
prostitution, she is forced to emigrate to West Germany where, in the words of
BBC correspondent Razia Iqbal, “she remains interested in the issues of oppres-
sion and exile.”
As they detail the horrors of Communism, Müller’s complex novels conduct
above all a search for her feminine persona by combining a narrative adaptation
of the Romanian mystifying surrealism shaped within a space of many compet-
ing perspectives that are in turn defined by the country’s fragmented cultural
complexity and her exilic self. The combination of Romance, Slavic, German-
ic, Roma, and Turkish language elements which marks the movements of these
peoples and empires over Romania’s geography, and the linguistic heritage met-
onymic of the country’s historical and cultural complexity, make Romania an
attractive space to a writer like Müller as a rich source of cultural borrowing
which she maps out at a time of well-known political oppression at the height
of Ceauşescu’s aberrant regime in the 1980s. A closer examination of her work
reveals interesting insights into the complicated ways Müller engages contempo-
rary politics and history while miraculously incorporating narrative techniques
as inventive strategies to circumvent the censorship imposed by Ceauşescu’s dra-
conic politics and by the Communist Party-mandated socialist realism.
In all her fictional works Herta Müller narrates the experiences of a young
woman from an unnamed land (clearly identifiable as Romania), in the years be-

211
fore and immediately after she emigrates to West Germany. Conceived fictionally
as a sort of rewrite of Romania’s history in the 1980s, Müller’s books examine
ethnic and socio-political aspects of Ceauşescu’s Romania through the tropes of
trauma and the grotesque transposed on an exilic sensibility, which becomes the
pivotal concept connecting the narrative fragments and operating at different lev-
els. Hysteria is a reaction to trauma and the grotesque a form of resistance to its
effects. By portraying the effects of trauma, directly or as refracted in hysteria
and the grotesque, Müller’s work testifies to the lasting effects of the experi-
ence of the Eastern Bloc and of the othering of the German minority forced to
live within the space of a surreal exile. Thus her writings bring together a series
of apparently unrelated pictures, dramatically and lyrically presented, giving an
impression of an intensely modern literary consciousness which awards cultural
legitimacy and prominence to a forgotten region in the context of Ceauşescu’s
dictatorship and its panopticon-like system of state surveillance by the feared
Secret Police known as Securitate.
Privileging literary devices that convey remembered experiences – from her
father, a former SS who came from the war and until his death sang songs to
the Führer, to her own student days and subsequent employment as a translator
of manual instructions for hydraulic machinery until emigrating to Germany –
Müller’s approach is not intended to depoliticize or dehistoricize the reality of
communist Romania; rather, it focuses on the specificity of the experience of Ce-
auşescu’s repressive regime filtered through the dark lenses of exilic perspective.
In this respect, Müller’s experiences are akin to those found in similarly enga-
ging works of exiled writers like the Romanian playwright Matei Vişniec, who
left Romania for Paris in 1987 but continues to focus his plays on the country’s
communist past.
One of the pertinent approaches Müller proposes as a narrative framework for
her novel is women’s traumatic experiences and the situation of women’s other-
ness in Romania’s patriarchal society, an aspect that is complicated by the writer’s
own ethnic othering as a German trapped in the proclamations of Ceauşescu’s
strident nationalism. Thus the unnamed narrator in all her works, which are
auto-fictional texts with the narrative persona and the other protagonists closely
resembling Müller’s own and her immediate family’s and friends’ experiences,
positions herself in a category of women writers that exists at the intersection of
gender politics with issues surrounding ethnicity and constructions of othering
and offers a site of contested and conflicted identities projected against a disjunc-
tive narrative that acknowledges and establishes its political, social and cultural
specificity in 1980s Romania.
Although women form a cubistic portrait comprehending various faces of fe-
minine characters in most of Müller’s novels, in The Passport (1986) she captures

212
life in a German village whose trapped inhabitants include mostly men, from the
village miller Windisch, whose predicaments stem from his attempts to secure a
passport to emigrate to West Germany, to his friends – the skinner, the barber, the
joiner, and the night watchman. Their interwoven stories of dreams, superstitions,
conflicts and endless suffering at the hands of the authorities, represented by the
mayor and the village priest, culminate in the haunting image of Windisch and his
family, near their suitcases, ready to take the path of exile once again, toward an
unknown destination. Their impending emigration identifies them as dislocated
elements and victims to both the trauma of political repression and the trauma of
leaving their homes. Their drama is succinctly suggested in Windisch’s words:
“‘It’s like in the war again,’ he says. ‘We go and we don’t know, if and how and
when we’ll come back’” (Müller 1986, 86). More circumspect than Windisch, his
wife adds with a sigh, “Who knows what will become of us?” (Müller 1986, 87)
Her worries are understandable. Even in her own community, the consensus
among all men is that women, in the words of the village barber, “are no better
than spittle.” Her own husband calls her “a whore” based on the harsh experiences
and suffering during the war, when she was deported to Russia for five years. As
Müller details her mother’s nightmarish ordeal, “she had slept in a hut with iron
beds with lice crackling in their edge. She was shaved. Her face was grey. Her
scalp was red-raw” (Müller 1986, 75). She also found a way to survive by sleeping
with a cook, a doctor, and a grave digger before her fingers became sticky with
grass soup, the only thing she had left to eat, and she could climb into a train that
finally took her home, back to her village in Romania.
In a bleak display of abuse heaped on women, The Passport focuses on the
female body seen as a scriptorial entity, as a script and representation. This re-
presentation of sexuality as a mode of embodiment bears the imprint of aggres-
sion and intimidation. From an early age, women are traumatized and left unable
to think outside of patriarchal discourse and misogynist practices. Windisch’s
daughter Amalie is abused at the tender age of seven by the skinner’s son. After
putting dry burs on her hair and then declaring that he loves her and therefore
she must suffer, he makes her sit down on shards of colored glass and sucks her
nipples raw in an abandoned barn.
Beyond the familial sufferings and bitterness of life within the Swabs’ homes
and community, the Romanian police-state exercises its own criminal activities.
As Nietzsche and, after him, Foucault have suggested in a different context, mo-
ral codes of behavior are imposed on individuals through intimidation and vio-
lence, the two forms of oppression practiced not only by village men but also by
the local state and church representatives. Collectively portrayed as grotesque
individuals, the village men reminisce about the times when they were German
soldiers in Russia, “holding the Russian women at the hips and helping them

213
turn” (Müller, 1986, 44) while they were raping them. And the village priest turns
his sandals filled with sand on Amalie’s stomach as he rapes her, taking his turn
with her after the militia man, in the necessary cycle of abuse to which one must
submit at the local level before obtaining the coveted signatures on the passport
papers. As Müller knew well, in Ceauşescu’s Romania, as in times of war, wo-
men’s bodies function as a metonymic representation of the Communist state the
Swabs are attempting to escape. On a symbolic level, women’s physical and se-
xual exploitation illustrate their particular objectification, their being turned into
raw materials for practices that the narrator’s traumatized recollections project
onto the outside world in the fictional form of a shocking reality.
Experienced as a foreign body in the psyche, exile and deportation function
as a traumatic experience. Deportation, a related sibling to exile and a favorite
practice of political tyrants, was a familiar ground to Müller’s own experiences as
her own grandparents were deported in the early days of the Soviet colonization
(1944-1958). In Müller’s account, as told by her grandfather in The Appointment,
such locations of the extended Romanian Gulag where entire families of depor-
tees lived in holes they had to dig up themselves in the ground offer testimonies
of the people’s suffering and degradation:
Families [were] dumped out in front of a wooden marker set in the middle of nowhere. Rows
of stakes in dead straight lines, sky above, clay below, with nothing between but the damned
crazy thistles and us. The sun scorched everything in sight. For several days your grandmot-
her and I did nothing but dig ourselves a hole in the ground in front of our stake and cover
it with thistles. The wind from the west was searing, and then the thirst, no water for three
kilometers….Many of us lost our wits, one at a time or in couples, it didn’t matter any more.
(Müller 1997, 175)

In the case of enforced exile, traumas haunt the young protagonists emigrating
from Romania to West Germany in the form of flashbacks or hallucinations. In
The Land of Green Plums, the narrator’s friends, Georg and Edgar, who were
fired from their jobs so that they could be accused of bourgeois parasitism and
who were then forced to emigrate through tactics of intimidation exerted by the
Securitate officers, seek a new home in the West. But even here they experience
continually and painfully the traumatic moments of life in Romania, since the Se-
curitate forces habitually cross borders to target the émigrés and stage their mur-
ders as suicides. Further, Securitate agents, like the cancer-stricken Tereza, the
narrator’s visiting friend in The Land of Green Plums, spy on the narrator with
the intention of intimidating and frightening her in a calculated attempt aimed at
the slow destruction of her resistance and self-assertion in the new country.
In stories that depict the grim realities of Communist Romania carried abroad
through a vast and all-pervasive system of spies and informers, Müller builds a
transnational world that projects the sufferance of exile as political discourse.

214
Simultaneously, her writings forge a new strategy of cultural survival for women,
the most oppressed victims, through the art of fiction. In this context, Müller’s
work allows for movement outside a confining space (be that Romania or an un-
friendly Germany) and uses competing cultural and ethnic perspectives to grasp
for life in a unifying and convincing picture of political exile and totalitarian
politics.

Bibliography
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racy: Women in Mediterranean, Central and Eastern Europe”, in European
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versity Press.
Müller, Herta (1997): The Appointment, New York, Metropolitan Books.
Müller, Herta (1999): Nadirs, Lincoln, University of Nebraska Press.

215
III. Le terapie dell’esilio
Bonaviri terapeuta.
Letteratura di migrazione e scrittura empatica
Dagmar Reichardt
Rijksuniversiteit Groningen

Abstract

Partendo dal paradigma della modernità liquida (Zygmunt Bauman) in questo contributo si intende
tracciare un primo quadro orientativo della nuova letteratura italofona e delle problematiche inerenti
al settore d’analisi illustrandole dal punto di vista letterario. Cercando di sintetizzare in un secondo
passo alcune caratteristiche comuni degli scrittori di migrazione, si passerà poi alla scrittura em-
patica di Giuseppe Bonaviri (1924-2009), autore d’esilio interno (ciociarese) di origine siciliana e
medico di professione. Mettendo a confronto la sua opera con quella del conterraneo Luigi Pirandel-
lo, anch’egli migrante continentale che lasciò l’Agrigento nativa da giovane studioso e scrittore, si
evidenzia l’effetto terapeutico dei testi bonaviriani con l’intento ultimo di sottolineare il significato
della letteratura e il valore della scrittura per il superamento di conflitti migratori.

1. Le origini ibride in Italia: premesse teoriche

Lo scrittore marocchino e autoproclamato intellettuale panarabista Mohammed


Lamsuni, noto per il suo libro Porta Palazzo mon amour apparso nel 2006, ha
colto nel suo testo autobiografico non solo l’aspetto traumatico dei primi inizi di
un immigrato clandestino in Italia: «Sono cittadino senza patria. Un professore
senza allievi. Un padre senza figli e marito senza moglie» (Lamsuni 2006, 135).
Questo «cittadino senza patria» verso la fine del libro di Lamsuni, nell’esilio ri-
troverà se stesso affinché potrà dire: «Che bella l’Italia […] quando mi dice: “Non
fa niente! Sei orfano e io ti ho addottato”» (Lamsuni 2006, 138; corsivo di M.L.).
Ma la vera salvezza – così sottolinea l’io narrante, esprimendo in sintesi
un’idea assolutamente centrale della letteratura di migrazione – proviene dall’at-
to dello scrivere di per sé, al quale attribuisce una funzione catartica, salvifica,
terapeutica:
La mia agonia è durata sei anni. Nel buco a raggi infrarossi di una vita che mi abbatte per
rialzarmi, ho vinto. Ho vinto grazie al verbo e alla pagina bianca. Mi sono liberato dell’alie-
nazione con l’arma invincibile: la penna, la mia anima gemella. (Lamsuni 2006, 137)

In seguito vorrei approfondire ed allargare, su un piano teorico, questa tesi che


lo scrittore Lamsuni ha così poeticamente formulato nelle sue poesie e nei suoi
racconti che narrano l’esilio in maniera compatta, ben organizzata, con tono non
sentimentale, ma accanito, e quindi stilisticamente adeguato alle circostanze so-

219
ciali, politiche ed economiche scandalose dei migranti. Come ho proposto in altra
sede (cfr. Reichardt [in corso di stampa] a), la nuova letteratura italofona potrebbe
essere classificata sistematicamente secondo i tre casi tipici di:
1. Salah Methnani, autore tunisino del romanzo Immigrato (1990), che descrive
la problematicità classica dell’immigrato clandestino maghrebino in Italia con
tutte le sue difficoltà di integrazione;
2. di Magdi Allam (Io amo l’Italia, ma gli italiani la amano?, 2007) che in modo
contrastivo si autopresenta al lettore come il tipico migrante che si è inserito
bene nella società italiana, al prezzo però di aver rinunciato in modo estremo
alla propria identità culturale di origine (in questo caso: egiziana); e
3. della scrittrice italo-somala Cristina Ali Farah (Madre piccola, 2007) che è
una rappresentante femminile della seconda generazione degli autori di mi-
grazione in Italia, appartenente «a pieno titolo alla letteratura postcoloniale
italiana» (Combriati 2010, 257).
Come molto bene illustra la monografia di Daniele Combriati sulla produzione
letteraria a firma di migranti che si esprimono in lingua italiana, è solo negli ulti-
mi vent’anni che «l’Italia è diventata transito o meta di flussi migratori sempre più
intensi […] fino a superare oggi […] la cifra considerevole di tre milioni» di stra-
nieri (Combriati 2010, 9). Nel 1990 – «anno a cui generalmente si fa risalire l’ini-
zio della letteratura italiana della migrazione» (Combriati 2010, 15) – vengono
pubblicati i primi due romanzi iniziatici di Pap Khouma (Io, venditore di elefanti,
1990) e Salah Methnani (Immigrato, 1990), ambedue scritti in lingua italiana e a
quattro mani, ovvero con l’aiuto di un co-autore di madrelingua italiana.1 E la fine
di questa rivoluzione silenziosa che si sta svolgendo all’interno della scena cultu-
rale italiana, che è la letteratura di migrazione in ambito italofono, non è in vista.2
Astraendo comunque dall‘attuale corrente letteraria della nuova letteratura
italofona, e anche dalla letteratura postcoloniale italiana in senso tradizionale,
constatiamo che in verità la storia italiana già da sempre è caratterizzata da in-
flussi stranieri e dall’ibridità culturale. Basti pensare per esempio ai vari contatti
interculturali dovuti agli invasori francesi o spagnoli nell’Italia prerisorgimenta-
le, ai fenomeni culturali legati al regionalismo italiano, alla letteratura dialettale
che ne è risultata, o al malfamato contrasto tra il nord e il sud che caratterizza

1 Il co-autore di Pap Khouma fu il giornalista Oreste Pivetta, quello di Salah Methnani è lo scrit-
tore e giornalista Mario Fortunato.
2 Come mette in evidenza Sebastiano Martelli, la critica italiana solo lentamente inizia a dedicar-
si alla letteratura italofona dell’immigrazione «se si escludono i numerosi interventi, a partire
già dai primi anni novanta, di Gnisci» (Martelli 2009, 740). L’approccio critico alla tematica
della letteratura dell’immigrazione in Italia è infatti segnato dall’ottica dell’emigrazione italiana
che è molto meglio studiata (cfr. Martelli 2009, 725-740) e resa accessibile ad un grande pubbli-
co in Italia attraverso il lavoro letterario e teatrale di Gian Antonio Stella (Stella 2002).

220
l’Italia anche in termini letterari. Il problema della scissione dell’Italia in una
zona culturale settentrionale e in una zona culturale meridionale e il desiderio di
rendere compatibili queste due zone caratterizzano proprio le opere dello scrit-
tore Giuseppe Bonaviri (1924-2009), autore siciliano d’esilio ciociarese e rappre-
sentante paradigmatico della generazione emigrante in Italia, che ha preceduto e
preparato il terreno letterario per l’accoglienza della letteratura d’immigrazione
italiana studiata dal Combriati. Come in seguito si vorrà dimostrare, questo gran-
de autore italiano, medico di professione, fu un visionario delle tematiche relative
alla natura ibrida dell’uomo, al suo stato d’animo nomade e alle problematiche
psicologiche che ne derivano.
Bonaviri, che nel 1958 traslocò da «emigrante dello stetoscopio anziché della
zappa» (Costantino 1979) dall’amata Sicilia in Ciociaria dove si è spento a Fro-
sinone nel 2009 dopo ben cinquanta anni d’esilio cosiddetto «volontario»,3 vide
la propria migrazione come conditio humana generalizzata, e ci può servire da
esempio per quel fenomeno che Pasquale Verdicchio, sempre seguendo l’interpre-
tazione del Combriati, descrive come «colonizzazione interna» (Combriati 2010,
20).4 Verdicchio definisce infatti con questo termine «l’emigrazione storica, per
gran parte proveniente dall’Italia meridionale» ricordando che «la discrepanza
socio-economica fra nord e sud costituisce una delle ragioni della subalternità
meridionale analizzata anche da Antonio Gramsci [nella sua famosa Questione
meridionale del 1957; D.R.], e una delle cause dell’emigrazione interna» (Com-
briati 2010, 19/20).
Il caso Bonaviri, in questo senso «emigrato interno», è paradigmatico per l’in-
dividuo moderno che vive in un precariato sociale che condiziona la vita di tutti
i migranti nel mondo, e che sul piano culturale è stato rimesso in evidenza con
il termine della modernità liquida da Remo Ceserani. Citando Zygmunt Bau-
man, Ceserani ripropone questa metafora della modernità liquida basandosi su
una rilettura di Marx e sulla sua contrapposizione tra stato solido e stato liquido.
Quest’antitesi, secondo Ceserani, acquista «un carattere esistenziale, mettendo a
confronto due tipi diversi di concezioni della vita, di comportamenti umani, di
condizioni del mondo» (Ceserani 2010, 23). Partendo da questa premessa cultura-
le che principalmente si riflette in tutti i testi degli scrittori migranti, cercheremo
di identificare alcune tecniche narrative con l’aiuto delle quali Giuseppe Bonavi-

3 Per ulteriori dettagli autobiografici sul trauma della migrazione che per Bonaviri iniziò già
all’età tenera di due anni quando fu separato dalla madre per andare a vivere dalla sorella più
agiata cfr. Reichardt 2000, 12/13. Mi pare rivelatorio nel contesto di sintomi traumatici anche il
commento di Dante Marianacci sui «momenti di tristezza e di spleen» del «Bonaviri viaggiato-
re» (Marianacci 2009, 15).
4 Combriati si rifà a Pasquale Verdicchio, «The Preclusion of Postcolonial Discourse in Southern
Italy», in Revisioning Italy. National Identity and Global Culture, a cura di B. Allen e M. Russo,
Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997, 191-212.

221
ri intende propagare un umanismo polifono transculturale per affrontare le sue
esperienze migratorie, prima di metterle in relazione al procedimento del com-
paesano siciliano Luigi Pirandello per meglio far trasparire il significato della
letteratura nel contesto migratorio in generale e il valore specifico della scrittura
bonaviriana per il superamento di conflitti migratori.

2. Il significato del rizoma: l’humanitas transculturale di Bonaviri

Bonaviri propone come protagonista di molti suoi romanzi un soggetto migrante


prototipo, che spesso raffigura un essere sciolto nell’emozionalità, nella fantasia e
nel mistero, un io irrequieto che viaggia, che si muove attraverso lo spazio, che è
in perenne ricerca della propria identità, che si vede confrontato con altre culture
a loro volta sfumate, e che desidera il contatto con la natura e con il lettore. Esso
rappresenta in nuce l’incarnazione letteraria di un essere umano ibrido per eccel-
lenza. Pensiamo per esempio all’io narrante dei romanzi Notti sull’altura (1971),
Dolcissimo (1978), Il dormiveglia. Sicilia – Luna – New York (1988) o Silvinia
(1997). Lo scrittore di Mineo si ispira per questo suo personaggio-modello non
solo alla propria biografia, ma anche a una complessa concezione di vita ovvero
un way of live propagato negli anni 1970 dai teorici francesi Gilles Deleuze e
Félix Guattari: per un loro progetto sul legame tra capitalismo e schizofrenia,
i due autori avevano metaforizzato il modo di vita nella modernità del secondo
Novecento, cercando di illustrarlo in Mille plateaux (1980) ricorrendo all’imma-
gine del rizoma.
L’idea rizomatica da allora si è affermata negli studi culturali come simbolo
per le vite e le biografie sempre più complesse, differenziate e ramificate, special-
mente in età globalizzata. Le opere bonaviriane ritraggono queste esistenze fini,
fragili, e allo stesso tempo terrestri, autoctone, con speciale sensibilità ed empatia
ontologica.5 L’effetto empatico viene sottolineato scegliendo il point of view di un
io narrante che rende facile l’identificazione del lettore con il personaggio fittizio,
utilizzando la focalizzazione interna, e l’integrazione di elementi autobiografici
nel testo.
Soprattutto, però, Bonaviri si serve di un continuo glissare dalla narrazione in
prima persona singolare, alla prima persona plurale,6 come se volesse, attraverso
la scrittura, abbracciare non solo il lettore come interlocutore implicito dell’io
narrante, ma integrare nel discorso narrativo una fittizia comunità di lettori, un
5 Ho cercato di sottolineare il significato del collegamento tra empatia e letteratura per la prima
volta occupandomi delle traduzioni del Foscolo (cfr. Reichardt 2007).
6 Per l’illustrazione esemplare di questa tecnica nei romanzi Il fiume di pietra e La divina foresta
cfr. Reichardt 2000, 83 ss.

222
gruppo immaginato che rappresenta non pubblico, ma inclusione del soggetto in
una comunità sovrastante, allargando lo spettro della narrazione e quindi anche
la filosofia bonaviriana su di un noi reinventato e ricostruito in ogni singola ope-
ra: questo senso di appartenere a una comunità include l’immaginazione di un
noi lettori, di un noi esseri umani, di un noi pensatori e portatori di certe idee,
ovvero di un noi che capiamo, ovvero un noi che capiamo l’intenzione del mes-
saggio bonaviriano ovviamente, cioè quello di solidarietà, pacifismo, pensiero
ecologico, convivenza transculturale e tradizione familiare. Questa in effetti è
l’essenza dell’approccio terapeutico del Bonaviri, con il quale i suoi personag-
gi, in fedele tradizione verghiana del romanzo corale, continuamente cercano di
affrontare, vincere e risolvere le loro paure, ossessioni, ricerche, disperazioni e
nostalgie. Sono questi gli aspetti della scrittura bonaviriana che superano infatti
ogni concezione ermeneutica, rendendola empatica, percorrendo cioè un proces-
so di maturazione da mera testimonianza (autobiografica) all’effetto propriamen-
te terapeutico.
Un fattore terapeutico centrale per Bonaviri, siciliano di formazione ed esiliato
di propria volontà, è la famiglia percepita come valore tradizionale italiano nella
sua più genuina composizione, esente da qualunque anacronismo ed accentuato
volutamente proprio anche nell’ultimo Bonaviri, in era postmoderna. Ne danno
prova i romanzi composti attorno alla saga familiare bonaviriana, specie il tritti-
co formato da Il sarto della stradalunga (1954), Ghigò (1990) e Silvinia (1997). Il
significato della cura e protezione del micro-cosmo familiare come fattore bene-
volo per l’individuo moderno, al di là delle barriere di tempo e spazio, ha carattere
archetipico, memorialistico e terapeutico, ed è strettamente collegato al ricordo
del paese nativo di Mineo (uno dei 55 comuni della provincia di Catania), e narra-
tologicamente parlando alla categoria testuale dello spazio. Mineo infatti diventa
una sigla fantasiosa nel testo che ben si presta per una progettazione individuale.
Le descrizioni del paese, spesso trasmesse al lettore attraverso la tecnica discor-
siva del viaggio (cfr. Reichardt 2000, 149-171), fungono da schermo bianco che il
lettore è libero di riempire soggettivamente, con le sue immagini, con i colori che
egli vi associa, con i propri ricordi. Su questo piano di lettura Mineo diventa un
terzo spazio simbolico (third space) nel senso del teorema propostoci da Homi K.
Bhabha, un posto ibrido creativo (in-between-space), un rifugio immaginario, e
quindi anche una possibile patria per il lettore.
Le pretese di un’integrazione dell’io nella società, di una natura rispettata, di
una convivenza familiare e transculturale praticata, formano un rizoma ovvero
una larga base, sulla quale Bonaviri costruisce 1) l’idea della transnazionalità
come una riunione ideale delle culture, e 2) del cosmo come una riunificazione
o un rappacificamento tra l’uomo e la natura. L’humanitas così trasfigurata rap-
presenta il valore più significativo e forse anche più affascinante dell’opera bo-

223
naviriana, perché Bonaviri riesce a rianimarne una concezione attualizzata nella
mente del lettore, ricorrendo ad immagini primordiali e connotazioni empedo-
clee. Non si tratta per Bonaviri però di un ritorno alle radici (back to the roots) in
senso regressivo, bensì di un processo progressista in senso sorprendentemente
scientifico. Egli vede l’umanesimo, che emana dalle sue opere, posizionato nel
filone filosofico tradizionale presocratico, ma riesce a dargli una svolta verso la
medicina che è, oltre alla letteratura, il suo campo d’azione professionale e quin-
di costitutivo anche in termini di identità. L’umanesimo tardo-novecentesco dal
punto di vista filosofico-scientifico per Bonaviri equivale al concetto di una Men-
schlichkeit descritta dal psiconeuroimmunologo tedesco Joachim Bauer.
Bauer definisce l’umano, il comportamento umano ovvero l’umanità come
comportamento individuale e sociale tramite la capacità di risonanza (cfr. Bauer
2007, 151). Come specifica Bauer nel suo saggio Prinzip Menschlichkeit del 2006,
l’espressione americana (e specificamente newyorchese) di essere un «mensch»
(ovvero un essere «umano») – «He (she) is a mensch» (Bauer 2008a, 9) – deriva
dall’yiddish ovvero dalla sfera culturale ebrea. Bauer si allaccia alla scoperta dei
cosiddetti neuroni specchio, individuati dal neurofisiologo Giacomo Rizzolatti
dell’Università di Parma,7 e resa accessibile ad un pubblico più ampio tramite la
pubblicazione del libro di Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia che porta il
titolo So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio (Rizzolatti/Sini-
gaglia, 2006). Il libro è uscito in una collana interdisciplinare («Scienze e Idee»)
e riassume le scoperte e gli studi condotti a partire dall’inizio dagli anni ‚90 dal
gruppo di ricercatori attorno a Rizzolatti.
Secondo questa sensazionale scoperta scientifica del Rizzolatti, che ha aperto
una nuova dimensione anche al settore della genetica,8 l’empatia ovvero la facoltà
di sapersi immedesimare con l’altro, mette in moto un processo sociale che tiene
unite le società e che implica narrazioni complesse e un’idea di comunità e di
solidarietà, la quale non è spiegabile con mezzi meramente tecnico-scientifici.9

7 Bauer cita Rizzolatti come padre dei neuroni specchio (cfr. Bauer 2007, 21).
8 Mi riferisco alla rivalutazione critica delle teorie sull’evoluzione e sull’origine delle specie di
Charles Darwin, e la loro ricezione nella teoria del darwinismo sociale pronunciata dal filosofo
britannico Herbert Spencer: mentre il filone dogmatico della genetica darwinista culmina nella
pubblicazione di Richard Dawkins The Selfish Gene (1990), negli anni 2000 si afferma un ri-
pensamento sui sistemi viventi. Sia Rizzolatti che Bauer infatti sostengono che l’uomo, e ogni
essere vivente, vuole realizzare due scopi – assicurarsi la propria sopravvivenza e ricercare
continuamente di aggiustarsi e di specchiarsi nell’altro ovvero di cooperare (cfr. Bauer 2007,
170). Bauer ha riassunto queste posizioni nella sua più recente pubblicazione (Bauer 2008b),
confermando che la scoperta dei neuroni specchio e la loro funzione cooperativa da parte di
Rizzolatti equivale ad un basilare cambiamento di paradigma scientifico.
9 Non a caso per quasi tutte le religioni, specialmente il buddismo se di religione qui vogliamo
parlare, la capacità di avere empatia è una virtù salvifica ovvero prassi elementare. Se la no-
stra società moderna in modo dispregiativo e discriminatorio viene dichiarata autista, allora

224
L’importanza della forza empatica come mezzo civilizzante per raggiungere una
coscienza globale, dal punto di vista sociologico è stata confermata solo recen-
temente dallo studio di Jeremy Rifkin su La civiltà dell’empatia. La corsa verso
la coscienza globale nel mondo in crisi (Rifkin 2009).10 È proprio l’aspetto delle
relazioni cooperative, della partecipazione dell’uomo alle azioni fisiche e condi-
zioni psichiche dei suoi prossimi, come principi fondamentali della biologia che
intendeva enfatizzare Bonaviri nelle sue opere, contribuendo così fra l’altro a
preparare il terreno per una ricezione costruttiva della letteratura di migrazione
all’interno della critica italiana.

3. Il valore delle radici culturali: Bonaviri versus Pirandello

Per meglio evidenziare il ruolo di Bonaviri da pioniere, precursore o da «padre»


della letteratura di migrazione, in conclusione mettiamo brevemente alla prova
ex negativo l’effetto empatico e terapeutico dei testi bonaviriani, paragonandoli
alle posizioni del suo conterraneo Luigi Pirandello, anch’egli migrante «volonta-
rio» che lasciò l’Agrigento nativa da giovane studioso e scrittore.11 Analizzando
l’autobiografismo in Bonaviri12 rispetto alla voce narrante possiamo verificare un
tipico movimento oscillatorio tra attitudine da scienziato, distaccato e sovrano da
una parte, e da individuo irrequieto, ansioso e permaloso dall’altra parte. Dante
Marianacci ha osservato nel contatto personale con lo scrittore mineolo come
egli proprio «sapeva trasformarsi da medico cardiologo, prodigo di consigli, a
paziente, desideroso di attenzioni» (Marianacci 2009). In tutti e due i ruoli, sia
da autore biograficamente reale sia da personaggio fittizio che narra una storia,
la voce bonaviriana è vistosamente preoccupata della normalità quotidiana e dei
rapporti familiari, e in generale delle dimensioni della guarnigione, della cura e
della terapia.
Nel suo saggio L’eterno dubbio ha il volto di donna del 1987 (Bonaviri 1987),
partendo dalle proprie «letture», Bonaviri con un suo tipico tono bonario, impre-
gnato dalla forte nostalgia di pacificazione collettiva, si riallaccia a Pirandello ed
espone la sua tesi dell’«assillo etico» che motiverebbe la letteratura siciliana (Bo-

si intende non solo criticare l’egocentrismo collettivo, ma anche sottolineare in chiave positiva
l’importanza fondamentale dell’empatia per una convivenza genuina e pacifica dei popoli e delle
etnie.
10 La traduzione in italiano segue esattamente il titolo originale del Rifkin che è The Empathic Ci-
vilization. The Race to Global Consciousness in a World in Crisis (Penguin Group/USA, 2009).
11 Per un’esposizione dettagliata di questo raffronto tra Bonaviri e Pirandello cfr. Reichardt [in
corso di stampa] b.
12 Per l’aspetto autobiografico dell’opera bonaviriana cfr. Musarra 1999, 96-124.

225
naviri 1987, 47). Dopo aver toccato l’argomento del «religioso panico» (Bonaviri
1987, 47), si interroga sulla tecnica umoristica del rovesciamento in Pirandello,
giungendo alla conclusione che il tema chiave di Pirandello sia «l’illimite solitu-
dine dell’uomo» (Bonaviri 1987, 48; il corsivo è di G.B.). Il trauma pirandelliano,
così si conclude, consisterebbe nella «caduta dei miti ottocenteschi», cioè nella
svalutazione della nozione manzoniana della provvidenza, e di quella verghiana
della roba. Bonaviri individua in questo «nucleo filosofico» (Bonaviri 1987, 48)
il potenziale modernistico e visionario del Pirandello. Il «conflitto uomo-donna»
in Pirandello esprimerebbe secondo Bonaviri tutta l’«angoscia dell’uomo», ren-
dendo l’angoscia europea, e smascherando l’«idea del maschio» come «sofisma»,
auto-illusione, disperazione traumatica (Bonaviri 1987, 49). La donna a questo
punto non è altro che l’alter ego dell’uomo, che viceversa è «un se stesso femmini-
lizzato […], chiuso in se stesso come chiocciola attorcigliata»; l’uomo pirandellia-
no è, nella lettura del Bonaviri, «un inferno di se stesso, […] un dramma interiore,
[…] una società in crisi» (Bonaviri 1987, 49). L’autoimmagine buia dell’«uomo
della crisi» rispecchierebbe nei testi del Pirandello «la borghesia rurale isolana, o
meridionale in genere», una società contorta, solipsistica, diventata «un summum
malum, una logorante e continua dubitazione […]» (Bonaviri 1987, 50).
In contrasto con Pirandello, l’opera di Bonaviri è molto interessata e attaccata
alla sfera domestica, ai personaggi infantili, sempre autobiografici, alla tradizione
e solidarietà familiare. La sua visione della donna non è assolutamente conflittua-
le o misogina, ma sempre desiderabile, stabilizzante, positiva.13 Il Mattia Pascal
alias Adriano Meis invece fugge dalla moglie e dall’ordine sociale prestabilito e
vive la sua midlife crisis attraverso un’autodistruzione simbolica, cercando in-
vano di rifarsi una vita più libera e autentica. Secondo Adorno, e continuando
anzi il suo discorso che definisce il modernismo come una categoria qualitativa
e non cronologica,14 il confronto tra Pirandello e Bonaviri dimostra quanto il
modernismo sia una tematica complessa e ancora oggi – dopo un’ulteriore svolta
secolare – attuale.
Il fantastico di Bonaviri15 generalmente è meno chiaro-scuro della scrittura pi-
randelliana, ma più conciliante, empatico,16 proteso verso il «femminile» nel sen-
so di un fantastico femminile che intende Monica Farnetti.17 Il mineolo progettò

13 Anche in questo suo saggio Bonaviri conferma infatti di sentire la mancanza degli aspetti «del-
la donna-madre, della donna-firmamento, della donna-terra-frugifera» in Pirandello (Bonaviri
1987, 49).
14 «Modernität ist eine qualitative Kategorie, keine chronologische» (Adorno 2004, 141).
15 Per la scrittura fantastica nell’opera bonaviriana cfr. Reichardt 2000.
16 In quanto la scrittura bonaviriana sia empatica rinvio alle mie analisi in: Reichardt 2009, 46-47.
17 L’autrice propone di differenziare tra un fantastico maschile e un fantastico femminile, nel qua-
le l’altro non s’imporrebbe «in modo aggressivo ai rispettivi personaggi perché sarebbe riconci-
liato con loro tramite il filtro positivo dell’amore» (cfr. l’introduzione di: Farnetti 2003, 14-15).

226
una visione filosofica pacifica, positivamente femminile e cautamente ecologica,
quasi confessandosi spiritualmente nella La divina foresta un «verde» ante lit-
teram, mentre Pirandello fu intento a realizzare con Bertolt Brecht una nuova
concezione del teatro come dibattito, anticipando il teatro dell’incomunicabilità
di un Ionesco o un Beckett, l’idea esistenzialista della solitudine ed impossibile
comunanza. In senso opposto Bonaviri, elaborando il proprio dolore ovvero oc-
cupandosi del suo trauma personale, è riuscito a fondare una cultura solidale e
partecipativa che supera il giallo senza consolazione di Leonardo Sciascia, cer-
cando e trovando una via che attraverso il registro identitario e memorialistico
porti in direzione positiva alla catarsi, e quindi il più lontano possibile dal trauma.
Ecco perché Bonaviri si esprime in tono critico e pessimista su Pirandello ne
L’eterno dubbio ha il volto di donna. La visione di ambedue gli scrittori combacia
nell’intendere che il Novecento soffre dell’assenza di trascendentalità e di ideolo-
gie vivibili per le quali varrebbe la pena di morire. Proviene da questa riflessione
anche la loro identificazione (ancora tradizionalmente verghiana) con i poveri:
Pirandello, stilizzando la sua confessione leggendaria postuma di essere «un po-
vero» e progettando la messinscena del suo funerale stabilita nelle clausole del
suo testamento,18 scopre così la sua simpatia per la classe media, comprendendo
forse già in anticipo quale ruolo verrà assegnato alla cultura di massa nel Nove-
cento letterario. Bonaviri vi intuisce l’insieme delle tragedie umane future, che
bisogna affrontare con tutta la speranza, fantasia e empatia possibili. Nel neo- o
transmodernismo sulla soglia del Duemila non conta dunque più la «caduta dei
miti ottocenteschi» che Bonaviri constatava in Pirandello, bensí la caduta delle
ideologie nel Novecento.

4. Il futuro delle mangrovie: la scrittura come terapia

Il trauma dell’esperienza migratoria, tanto diffusa nel sud, che accomuna non
solo Bonaviri e Pirandello, ma che implica l’autocoscienza collettiva di un popolo
per secoli oppresso da governi ed invasori stranieri – come tutta l’Italia, fra l’altro
–, e un’identità culturale che si definisce tramite una classe subalterna, quella dei
contadini, semplici artigiani e braccianti stremati.
L’emigrazione otto- e novecentesca degli scrittori siciliani equivale a una fuga
da queste circostanze difficoltose e allo stesso tempo a una soluzione di esse.
Urgenza e speranza (economiche e morali) saranno anche le motivazioni degli
scrittori immigranti in Italia nel terzo millennio. Da quest’angolazione pare che

18 Pirandello richiese notoriamente nelle clausole del suo testamento di essere avvolto nudo in un
lenzuolo e messo in una cassa su un carro dei poveri senza fiori, discorsi, accompagnamenti o
familiari alcuni.

227
nella letteratura di migrazione si manifesti tutta la necessità terapeutica: solo
scrivendo, solo dialogando, e solo tematizzando le loro esperienze esistenziali
e costitutive per la loro identità propria, i soggetti migranti riescono a rendersi
visibili, percepibili e comprensibili. In quest’ottica metodologica possiamo dire
che per tutti loro, ma specialmente per gli scrittori di migrazione interna in Italia
appartenenti alla generazione antecedente, quali Bonaviri e Pirandello, la scrit-
tura ha acquistato nel corso del loro sviluppo biografico e professionale, ovvero
psichico e sociale, il significato di una terapia. Attraverso il monologo (dello scrit-
tore) concepito come potenziale dialogo (col lettore), gli autori si rendono conto
del loro divenire e del loro essere ibridi.
La metafora del rizoma, che i teorici francesi Deleuze e Guattari avevano tro-
vato per descrivere la condizione di vita ibrida, più tardi è stata ripresa e ulte-
riormente elaborata dal poeta francofono e teorico della creolizzazione Edou-
ard Glissant utilzzando l’immagine delle mangrovie (Glissant 1997).19 L’opera
dell’autore delle Antille, tradotto e recepito anche in Italia, avrà ispirato la casa
editrice romana Mangrovie Edizioni, nella quale è stato pubblicato fra l’altro il
romanzo premiato I sessanta nomi dell’amore (2007) dell’autore algerino Tahar
Lamri. Nella presentazione programmatica dell‘editore, il legame tra questi al-
beri con le radici in aria e il mondo della migrazione, ovvero la situazione dei
migranti, viene così spiegato:
Le mangrovie sono piante lacustri dalle radici in apparenza delicate, quasi radici non radici,
perché sono in superficie, attraversano il confine tra terra e acqua, facendo da ponte tra questi
due elementi.
Così, anche per lo straniero, la lingua dell’ospite è radice esile, perché non propria, non
intima, eppure sopravvivenziale perché consente di con-vivere con l‘altro. (Lamri 2009, 234;
corsico di Mangrovie Edizioni)

Gli scrittori stranieri, che scelgono per le loro opere letterarie la lingua italia-
na per esprimersi, ci ricordano che l’Italia non è mai stata monoculturale, come
provano i casi di Bonaviri e Pirandello in maniera esemplare, e come sostiene
anche l’io narrante nel romanzo dello scrittore di migrazione Lamri: «Monocul-
tura. Quando mai l’Italia è stata monoculturale» (Lamri 2007, 183). In più questi
scrittori, migrando tra le lingue e tra i mondi, rendono manifeste non solo le loro
microstorie, ma soprattutto anche una scrittura dinamica, che è in movimento,
che cerca, trova e cambia, il che è una caratteristica non solo della letteratura di
migrazione, ma di ogni scrittura e letteratura innovatrice.

19 Il critico Alexandre Leupin ha colto l’idea del Glissant nella nozione di opera mangroviale (ov-
vero «œuvre mangrove» nell’originale francese, cfr. Leupin 2000) che mi pare ben applicabile
nell’ambito critico letterario.

228
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230
Le “patologie” dell’identità nazionale e il rimedio di
Amedeo/Ahmed in Scontro di civiltà per un ascensore a
Piazza Vittorio, di Amara Lakhous
Marta Niccolai
University of London (UCL)

Abstract

Uno degli effetti della migrazione in Europa è di aver reso ancora più complessa l’identità individua-
le e sociale. A causa del rimescolamento di culture e della concentrazione di diversità in uno stesso
luogo, i parametri nazionali indicati da una sola cultura dominante non sono più sufficienti. Questo
anche perché tendono a dividere ed escludere mentre la ricerca di parametri per un nuovo concetto
di umanesimo in questo momento storico deve mirare all’unità nella diversità. Con questo in mente,
propongo l’analisi del romanzo Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (2006) dello
scrittore migrante Amara Lakhous, nato in Algeria e residente in Italia dal 1995. In questo testo
l’autore rappresenta un microcosmo culturale (italiani inclusi) dove tanti punti di vista incrociati
frammentano l’identità tradizionalmente concepita come unidimensionale e fissa. Il testo è una sfida
perché pone domande su che cosa c’è di oggettivo e di vero nell’identità, chi veramente è straniero,
su quali stereotipi e malintesi culturali si forma un’immagine identitaria, e soprattutto evidenzia
quali similitudini ci accomunano nella differenza.

L’identità è un concetto chiave nell’era contemporanea. La caduta del comunismo


nell’Unione Sovietica, i processi di globalizzazione e l’espansione dei paesi ap-
partenenti all’Unione Europea, rendono più instabile il senso di identità collettiva
e di appartenenza su cui hanno fatto affidamento le istituzioni politiche e i movi-
menti nazionalisti. All’arrivo di immigrati da diverse provenienze geografiche si
risponde con la chiusura dei confini nazionali, ma con le comunità locali sempre
più multiculturali e complesse, cade il modello basato su similitudini interne in
rapporto alle differenze trovate nell’altro, locato all’esterno. Gli immigrati sono
gli «altri» all’interno dei confini che mettono in discussione qualsiasi tradiziona-
le rappresentazione di identità omogenea e fissa, così come modalità dominanti
di rappresentazione del sé. Nelle parole di Gabler & Smith: «If the basis of natio-
nal identity is linked to common descent and culture, then the introduction of lar-
ge numbers of immigrants into the imagined community threatens to destabilize
national identity by disrupting cultural homogeneity» (Gabler, Smith 1997, 9).
La letteratura della migrazione, che comprende i testi scritti in italiano da au-
tori con origini in altre culture, può avere una funzione counter-nationalist per-
ché complica il binomio identità/cultura alla base dell’idea nazionalista, ma non
si pone in antitesi al canone. Si tratta piuttosto di un genere letterario, un termine
che senza più i connotati limitanti di un tempo diventa un luogo di relazioni dove

231
emergono le tematiche e, in parte, i modelli interpretativi dei testi che ne fanno
parte. Basta ovviamente che questo termine non diventi ghettizzante né limiti
la ricchezza delle complesse questioni che lo attraversano. È nell’incontro tra la
tradizione identitaria nazionalista e la multicultura contemporanea che emergono
le patologie dell’identità nazionale in Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza
Vittorio (e/o, 2006) di Amara Lakhous, un autore originario dell’Algeria che
vive a Roma dal 1995. Il romanzo era già uscito in arabo nel 2003 con il titolo
Come farsi allattare dalla lupa senza che ti morda (edizioni Al-ikhtilaf, Algeri).
Il passaggio dall’arabo all’italiano non è stato una traduzione ma una riscrittura
curata nelle sfumature culturali in modo da parlare diversamente a due tipologie
di lettori, quello algerino e quello italiano. Questo prova quanto siano importanti
questi scrittori che riescono a muoversi tra più culture, lingue e linguaggi, di cui
senz’altro Lakhous è uno degli esponenti maggiori in Italia.1
In un contesto in cui le patologie dell’umanità migrante indicano soprattutto
i dolori legati alla nostalgia delle origini, o all’adattamento e inserimento nella
seconda cultura, parlare di identità nazionale può apparire più periferico al tema.
Tuttavia, se si pensa che i progetti educativi sono stati programmati per formare
i cittadini dello stato nazionale, si vede l’importanza di esporre quei meccanismi
che non sono più adatti a un paese come l’Italia che sta rapidamente diventando
multietnico. Con il termine “patologie” si intende una serie di condizioni anoma-
le nel funzionamento e manifestazione dell’ideologia nazionalista che si rivela
inadeguata a definire i cittadini “glocali”, cioè globalizzati in un contesto locale.
Nel romanzo, la nazionalità è usata a priori come mezzo conoscitivo dell’altro,
e questo può essere fonte di pregiudizi e fraintendimenti tra le parti, se non di
dolore. Da un lato, questo saggio esplora gli effetti di ideologie nazionaliste sui
rapporti tra individui in un contesto multiculturale. Dall’altro lato, intende esa-
minare come l’approccio di un immigrato, Amedeo/Ahmed, sorpassa i limiti de-
rivati dalla nazionalità.
Il testo di Lakhous ha tutti gli ingredienti per essere un giallo. Lorenzo Man-
fredini detto “Il gladiatore” viene trovato morto nell’ascensore di un palazzo di
Piazza Vittorio. La polizia interroga tutti gli inquilini chiedendo informazioni
su Amedeo, un residente che è scomparso dal giorno dell’omicidio destando so-
spetti. Ben presto, quella dell’omicidio si rivela una strategia narrativa per dare
voce a un numero di punti di vista sul Gladiatore, su Amedeo, sugli altri residenti
e su problemi di condivisione dello spazio comune, quale l’ascensore. I punti di
vista sono soggettivi e multiculturali, nel senso che a ogni persona corrisponde
una cultura diversa, come per esempio un negoziante bengalese, una badante
peruviana e un aspirante regista olandese; Lakhous include anche alcuni romani,
un professore milanese e una portinaina napoletana per fare riferimento alla mul-
1 A questo proposito si veda Negro (2006).

232
ticultura tra gli italiani stessi. Il romanzo quindi, si rivela un’investigazione della
convivenza multiculturale.
Piazza Vittorio, che già dagli anni settanta vede convivere gente di culture
diverse, è un luogo geografico e al contempo simbolico della Roma e dell’Italia
multiculturale, tanto da ispirare la ricerca di una lingua condivisa tra tanti, non
solo come lingua parlata ma anche come modo di esprimersi per capirsi e relazio-
narsi.2 Per Lakhous, la piazza rappresenta uno spazio multiculturale dove punti di
vista diversi si mettono a confronto: «La piazza è un grande specchio di diversità
per guardare meglio noi stessi e mettere in discussione le nostre certezze.»3 Ogni
capitolo è un punto di vista chiamato “verità”, quindi moltiplicandone il numero
l’autore frammenta ogni visione unitaria e omogenea. In questo modo, il testo è
un monologo a più voci che essendo inviduale e collettivo rispecchia la piazza.
L’ironia che caratterizza lo stile di Lakhous stende un velo di comicità sul tema
della convivenza con “altri” che potrebbe invece avere note tragiche. Per esempio
sono in molti a credere che Ahmed, un immigrato di origini algerine, sia italiano.
Ironicamente, sono soprattutto gli italiani a sostenerne l’italianità. Per Benedetta
Esposito, napoletana, Amedeo è italiano perché parla molto bene l’italiano; per
Sandro Dandini, romano, Amedeo è italiano perché: «conosce la storia di Roma
e le sue strade meglio di me, anzi meglio di Riccardo Nardi, fierissimo delle sue
origini che risalgono agli antichi romani» (Lakhous, 2006, 134). Inoltre, lo iden-
tifica con un italiano perché legge Il Corriere, mentre gli immigrati non leggono
i giornali nazionali, e prende cappuccino e cornetto al bar, come fa un vero italia-
no. Lakhous quindi ironizza sulla formula lingua-cultura-storia che definisce il
cittadino nazionale, perché è in base a questi parametri che Amedeo viene consi-
derato italiano. L’ironia è anche nella forza del sentimento di verità con cui viene
difeso Amedeo. Dice Benedetta: «Che dite? Il signor Amedeo è forestiero? Non
ci credo che non è italiano! [...] Se il signor Amedeo è forestiero come dite voi, chi
sarebbe l’italiano vero? [...] Amedeo parla l’italiano meglio di mio figlio Gennaro
[...] È l’albanese il vero assassino, sono pronta a mettere le mani sul fuoco. E’ giu-
sto che il signor Amedeo paghi al posto di alcuni immigrati? È giusto accusare un
buon cittadino italiano di un crimine che non ha commesso? (Lakhous 2006, 43,
44, 53)». È ironico perché Amedeo e lo straniero sono la stessa persona; Lakhous
ha creato questo personaggio dall’identità ibrida proprio per rendere difficile la
distinzione binaria tra il cattivo immigrato e il buon italiano, o tra noi tutti uguali,
e gli altri così diversi, come dice Benedetta:

2 A questo proposito si ricorda anche L’orchestra di Piazza Vittorio, un’orchestra multietnica


creata nel 2002, da cui nel 2006 è nato un film-documentario omonimo di Agostino Ferrente in
cui se ne narra la storia.
3 Melchionda (2008). Segnalo inoltre Graziella Parati che analizza i vari aspetti del rapporto tra
lo spazio e il corpo dell’immigrato nel suo saggio Parati (2010).

233
Un altro poco e ci cacciano dal nostro paese. Basta che fai un giro di pomeriggio nei giardini
di piazza Vittorio per vedere che la maggioranza sono forestieri. Tengono religioni, abitudini
e tradizioni diverse dalle nostre. Nei loro paesi vivono all’aperto o dentro le tende, mangiano
con le mani, si spostano con i ciucci e i cammelli e trattano le donne come schiave. Io non
sono razzista ma questa è la verità. Lo dice pure Bruno Vespa (Lakhous 2006, 50).

Non appena si diffonde la notizia che Amedeo è un immigrato, i giornali lo accu-


sano dell’omicidio. Per la gente invece la sua identità rimane ambigua come quel-
la di un personaggio pirandelliano, mentre viene da chiedersi che cosa succederà
a tutti i pregi attribuitigli in virtù del suo essere “italiano”.
La tendenza dei mass media a rappresentare negativamente gli immigrati con-
tribuisce a formare immagini rigide e parziali attraverso cui il potere politico
esercita il suo controllo, ma è proprio da questo potere che può nascere la resi-
stenza, un esempio del quale è il testo di Lakhous. Nella percezione degli italiani,
l’immigrato viene rappresentato come il selvaggio che a paragone dell’occiden-
tale non si è evoluto. C’è quindi un’opposizione binaria tipica del colonialismo
che ancora viene usata per mantenere la divisione tra “noi” e “loro”. È per pau-
ra dell’altro che ci si guarda attraverso una selva di stereotipi e pregiudizi che
potrebbero condurre allo scontro. Secondo Mazzara: «la tendenza a pensare in
modo sfavorevole nei confronti di un gruppo [...] poggia sulla convinzione che
quel gruppo o categoria possieda in maniera abbastanza omogenea tratti che si
giudicano negativi» (Mazzara 1997, 19).
A livello personale, l’identità passa attraverso l’identificazione del soggetto
in una provenienza e appartenenza nazionale in cui l’interlocutore si identifica
o meno, e che può includere o escludere. L’individuo viene tradotto scomparen-
do sotto l’etichetta che indica il gruppo. Attraverso giudizi sommari alcuni im-
migrati vengono identificati con nazionalità che non solo non sono le loro, ma
che nell’immaginario degli italiani sono sempre derogatorie, associate a spaccio,
prostituzione, terrorismo, violenza e furto.4 Parviz, iraniano, diventa «lo zin-
garo [...] che spaccia la droga a Piazza Santa Maria Maggiore fingendo di dare
da mangiare ai piccioni» o «l’albanese [visto] ubriacarsi e ridere sano sano fino
a piangere davanti ai turisti di piazza Santa Maria Maggiore”. Iqbal, bengalese,
diventa «pakistano [...] accattone [...] oppure uno che spaccia droga» (Lakhous
2006, 49). Mentre Maria Cristina, una badante peruviana, diventa: «filippina [...]
chiatta chiatta per quanto mangia e dorme assai [...] ha tutto gratis e si com-
porta come se fosse la padrona di casa [...] Si mangia quello che vuole e dorme
quanto vuole» (Lakhous 2006, 49-50). Da questa selezione di esempi emerge che
l’immigrato non è una persona bensì un contenitore di affermazioni generiche

4 Segnalo Mauceri; Negro (2009), in cui la rappresentazione delle figure di stranieri viene ana-
lizzata sia in opere scritte da autoctoni che in opere scritte da stranieri. Nella percezione degli
scrittori italiani, l’immigrato è ancora associato a categorie negative avvolte in stereotipi sociali.

234
e impulsive, in sostanza non vere; questo è il linguaggio discriminante che la
società usa per rappresentarli. L’essere “zingaro, albanese, pakistano e filippino”
vuol dire rientrare in categorie generiche associate a caratteristiche negative quali
lo sfruttamento e la tendenza al crimine. Questo linguaggio dell’esclusione che
incoraggia diffidenza e divisione non tiene conto del migrante come una persona
con dei sentimenti, la necessità di lavorare e il bisogno di comunicare; questi
aspetti potrebbero avvicinare italiani e immigrati e annullare la differenza etno-
culturale perché ci si riconoscerebbe in sentimenti condivisi. Nonostante il punto
di vista soggettivo, ciascuno si esprime convinto di essere “oggettivo” e di dire la
verità, ed è solo grazie alla strategia del monologo a più voci che la verità viene
decostruita e relativizzata. La convinzione di dire la verità impedisce l’ascolto
dell’altro e spiega l’assenza di dialoghi. Le conseguenze si vedono su Parviz e
Maria Cristina; Parviz arriva al punto di cucirsi la bocca quando la polizia non
crede che lui è un rifugiato politico e vuole espellerlo dal paese, e Maria Cristi-
na, senza nessuno con cui comunicare, si ubriaca per non sentirsi sola, si lascia
abusare dagli uomini e parla con la televisione. Di fronte all’indifferenza e alla
negazione della propria cultura, l’immigrato finisce per essere “fuori luogo”, cioè
assente nel paese d’origine e assente nel paese dove è immigrato.
L’intervento di Amedeo fa da contrappunto a ogni testimonianza, ma rifiu-
tando di identificarsi in un nome e di attribuirsi una certezza, ulula. L’ululato si
riallaccia al simbolo della lupa romana che rappresenta sia un simbolo nazionale,
che il diritto di ogni immigrato di sentirsi “a casa” perché nella leggenda Romolo
e Remo discendono da Enea che non era di Roma. Oltre a un simbolo transcultu-
rale, la lupa è anche una madre adottiva che nutre chi succhia il suo latte dandogli
un’identità.
Italiani si diventa. Amedeo cita un aforisma di Cioran «non abitiamo un paese
ma una lingua» (Lakhous 2006, 157), quindi è il vivere dentro una lingua che ne
fa l’appartenenza, come il vivere dentro un corpo. Per Amedeo, l’appartenenza a
un luogo non è una questione solo di radici ma di un processo di acculturazione
che avviene attraverso il nutrirsi della cultura; la cultura italiana viene parago-
nata al latte materno, così come il cuscus “è come il latte della madre”, questo
perché la cultura è cibo e nutrimento, come un grembo materno che accoglie tutti.
In ultima analisi, il latte materno può essere visto come una metafora della lingua
madre, che non è più tale perché ci ha fornito le radici, ma perché nutre chiunque
sia disposto a “cibarsene”.
Allora, scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio? Lo “scontro di
civiltà” era stato ipotizzato da Samuel P. Huntington nel saggio del 1993 «The
Clash of Civilisation?». Nella sua concezione, l’arrivo di immigrati in Occidente
era una minaccia all’identità nazionale perché il rapporto binario tra similitudini
interne e differenze esterne non avrebbe più avuto nessun significato. Lakhous,

235
ironizzando sullo scontro attribuendolo all’ascensore, forse crede nell’incontro.
L’ascensore è simbolico di una possibilità, è sia un luogo di collegamento e tran-
sito tra i diversi residenti del condominio di Piazza Vittorio, che uno spazio di
interazione simbolica e di movimento tra estremi, impedendone il fissarsi in
poli primordiali. Ed ecco come Amedeo agisce in modo interculturale, e quindi
interstiziale, oltre la barriera nazionale ma pur sempre tra nazioni. Quando Ikbal,
bengalese, scopre che sui certificati il suo nome e cognome sono stati scambiati
va in crisi profonda perché può essere preso per qualcun altro, ma la polizia si
infastidisce perché in Italia questo problema non sussiste. Con la sua capacità di
ascoltare, Amedeo assume un ruolo di mediatore culturale perché capisce che
i valori cambiano con le culture, e sarà lui a spiegarlo al commissario affinché
cambi i documenti di Ikbal.
La chiave di questo è nel relazionarsi all’altro prima di tutto con l’ascolto e
la parola, poi empaticamente, attraverso un’intelligenza emotiva. Mentre Parviz
viene preso dagli altri per un ubriacone, Amedeo capisce che beve perché lontano
dalla famiglia si sente solo. Capisce anche che l’odio di Parviz per la pizza non è
un disprezzo della cultura italiana ma il rifiuto di abbracciare un’altra cultura per
paura di dimenticare la sua, a cui ha bisogno di rimanere attaccato anche attra-
verso gli odori e i sapori della sua cucina. Elisabetta Fabiani, che manifesta un
attaccamento smodato per il suo cane, è cinofila al punto di giudicare gli altri per
l’amore o meno che hanno per i cani. Amedeo capisce che questo è dovuto alla so-
litudine che prova per aver perso il marito e ogni contatto con il figlio. Allo stesso
modo, Maria Cristina, la badante peruviana, soffre di solitudine perché ha solo
poche ore di libertà per incontrare altri peruviani, quindi il cibo e la televisione ri-
empiono i vuoti interni. Questo lo capisce Amedeo che riesce ad empatizzare con
lei; come dice Maria Cristina: «è l’unico che mi tratta con affetto e rimane al mio
fianco nei momenti difficili» (Lakhous 2006, 89). Pensando alle sue esigenze di
trovarsi con i connazionali, Amedeo ricorda il film di Luigi Zampa, Bello, onesto,
emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1973), in cui un emigrato
italiano cerca la sposa tre le donne del suo pease, e aggiunge: «la vita degli im-
migrati italiani del passato somiglia molto alla vita di quelli che arrivano in Italia
oggi. L’immigrato è sempre lo stesso nel corso della storia. Cambia solo la lingua,
la religione e il colore della pelle» (Lakhous 2006, 100). Guardando le persone
nei loro moti interiori si scoprono similitudini, come il sentimento di solitudine
provato da Parviz, Elisabetta e Maria Cristina. Incoraggiare il percorso interiore
ed emotivo come chiave di lettura conciliante tra popoli è molto importante per il
dialogo interculturale. È parte integrante del percorso promosso dalla pedagogia
interculturale in Italia, che esplora quello che è condiviso dai popoli nonostante
le differenze, e uno di questi aspetti è proprio quello interiore, emotivo e psico-

236
logico.5 Secondo de Caldas Brito, le emozioni sono alla base di tutte le relazioni:
«Il codice basico per l’integrazione è affettivo: riuscire a comunicare i sentimenti
è fondamentale in ogni relazione umana» (Fara 1997, 14). Avere una mente in-
terculturale vuol dire vedere i nessi anche in ciò che appare diverso per epoca o
per tipo di movimento. Così, Amedeo trae spunto dallo stereotipo dell’immigrato
come criminale divulgato dai mass media per fare un’analogia con gli emigrati
italiani negli Stati Uniti che hanno subito le stesse discriminazioni. Una coscien-
za sociale non nazionalista riesce a fare questi paralleli transculturali in cui i
comportamenti sono relativi all’uomo, non esclusivi all’italiano, al marocchino,
all’albanese e così via.
Concludendo, lo scrittore migrante che vive più culture usa l’esperienza come
materia prima di riflessione ed elaborazione delle conoscenze tradizionali, rimo-
dellandole in un processo letterario ed esistenziale. Lakhous denuncia un’ideo-
logia nazionale binaria oramai obsoleta ma ancora influente nei rapporti umani,
soprattutto al cospetto dell’altro. Per evitare sofferenze, esclusioni ed isolamenti
tra gente culturalmente diversa che condivide lo stesso spazio, bisogna mostrare
l’uomo attraverso un’identità umana, cioè un’identità formata da aspetti emotivi
e psicologici interni in cui riconoscersi reciprocamente.

Bibliografia

Brinkler-Gabler e Sidonie Smith, (eds.) (1997): Writing New Identities, Minnea-


polis, University of Minnesota Press.
de Caldas Brito, Christina (1997): «Lo zaino della saudade», in Memorie in vali-
gia, di Alessandro Ramberti e Roberta Sangiorgi, (ed.), Rimini, Fara Editore,
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Demetrio, Duccio e Favaro, Graziella, (2004), Didattica interculturale, Franco-
Angeli, Milano.
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vol. 72, n. 3, summer, 22-49.
Lakhous, Amara, (2006): Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio,
Roma, e-o.
Mazzara, Bruno M., (1997): Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino.
Mauceri M. Cristina, Negro M. Grazia, (2009): Nuovo Immaginario Italiano. Ita-
liani e stranieri a confronto nella letteratura italiana contemporanea, Roma,
Sinnos.

5 Ci sono numerosi testi che trattano l’educazione interculturale; fra questi rimando a Silva (2005)
e Demetrio; Favaro (2004).

237
Melchionda, Marina (2008): «Scontro (incontro?) di civiltà nella piazza di Amara
Lakhous», in i-italy, www.i-italy.org/4878, 18 ottobre.
Negro, M. Grazia, (2006): «L’upupa o l’Algeria perduta: i nuclei tematici, il pro-
cesso di riscrittura e la ricezione nel mondo arabo di Amara Lakhous», in
www.disp.let.uniroma1.it/Kúmá, n. 12, ottobre.
Parati, Graziella, (2010): «Where do migrants live? Amara Lakhous’s Clash of
Civilizations over an Elevator in Piazza Vittorio», in Annali d’Italianistica,
Capital city: Rome 1870-2010, vol. 28, 431- 446.
Silva, Clara, (2005): L’educazione interculturale: modelli e percorsi, edizioni Del
Cerro, Pisa.

Film
Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, di Zampa Lui-
gi, 1973.
L’orchestra di Piazza Vittorio, di Ferrente Agostino, 2006.

238
Passaggi nei territori di Giano
Maria Cristina Tumiati
Maria Concetta Segneri
Adela Gutierrez
Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni
Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP), Roma

Abstract

Sono tante le persone che cercano riparo e protezione dalle feroci azioni di violenza che solo l’essere
umano sa infliggere ai propri simili. Uomini, donne e bambini costretti a lasciare i propri mondi e
abbandonare le proprie appartenenze per sperimentarsi in una emigrazione senza progetto né baga-
glio, alla ricerca di alcunché per continuare a vivere. L’accoglienza di queste genti, portatrici di un
tragico bagaglio di traumi migranti, è un impegno importante. L’intervento proposto introduce un
percorso di analisi e di riflessione intorno al dispositivo di presa in carico costruito presso l’INMP
per rispondere alle domande di aiuto presentate dalle persone che, in fuga da persecuzioni e guerre,
cercano protezione internazionale. Presenta l’esperienza empirica decennale di un gruppo di lavoro
transdisciplinare e interculturale all’interno del quale inevitabilmente si determinano poliedriche
questioni relative all’incontro-confronto tra diversità professionali e culturali. Le considerazioni
principali esposte, utili per l’esercizio di riflessione epistemologica intorno ai classici modelli di
accoglienza, diagnosi e terapia, ruotano intorno al tema della gestione di un dispositivo socio-sani-
tario complesso, dei differenti codici di comunicazione interagenti all’interno della sua eterogenea
équipe, alle sue dinamiche di “potere”, alle problematiche scaturite dall’ingente quantità di istanze,
sovente irresolubili, perpetuate dalle persone che accedono al Sevizio come: la richiesta di casa,
di lavoro, di denaro, di guarigione dai disturbi psico-fisici, la risoluzione del riconoscimento dello
status di rifugiato, l’urgenza di redigere certificazioni determinanti per il loro futuro.

Mondi in cerca di protezione e luoghi d’accoglienza: il progetto INMP

Sono tante le persone che cercano riparo e protezione dalle feroci azioni di vio-
lenza che gli uomini sanno infliggere ai propri simili. Genti che hanno subito
atroci sevizie e visto cose che nessun essere vorrebbe mai vedere. Una humanitas
costretta a lasciare i propri mondi e abbandonare le proprie appartenenze per spe-
rimentarsi in una migrazione senza progetto, né bagaglio, alla ricerca di alcunché
per continuare a vivere.
L’UNHCR ha dichiarato che alla fine del 2009 le persone costrette ad una
migrazione forzata nel mondo sono state circa 43.3 milioni (SPRAR 2010). L’ac-
coglienza di queste persone, portatrici di tragici bagagli di traumi migranti, com-
porta un’azione, un modello di intervento “complesso”. Negli ultimi 3 anni, dal
settembre 2007 al dicembre 2010 l’INMP (Istituto Nazionale per la promozione

239
della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà)
ha accolto un totale di 3.818 persone richiedenti/titolari di protezione internazio-
nale (82% uomini, 18% donne) con una provenienza distribuita principalmente
su 5 paesi (71% del totale): Afghanistan (21,6%), Nigeria (15,5%), Eritrea (10,9%),
Somalia (7,2%) e Ghana (6,2%). 3 le Aree geografiche di provenienza: Africa sub-
sahariana (64,9%), Asia centrale (24,4%), Paesi arabi (9,1%). Le persone richie-
denti/titolari di protezione internazionale sono sospese in una peculiare dimen-
sione di “passaggio”: dallo status di richiedente a quello di rifugiato, da un Paese
ad un altro, da un sistema socio-culurale ad un altro, dalla malattia alla cura,
dalla costrizione a errare alla stanzialità, dal conosciuto all’ignoto, ecc. Quando
arrivano all’INMP portando le loro complesse domande di aiuto, la molteplicità
delle dimensioni di “passaggio” che le caratterizzano emergono con una forza
imponente. Il Servizio che si cura di queste persone è stato nominato “Passaggi
nei territori di Giano” poiché l’INMP è situato nel rione di Trastevere, quartiere
che sta ai piedi del Gianicolo, collina della città di Roma dove Giano bifronte, la
più antica divinità degli dèi del panteon romano, fissò la propria dimora. Definito
anche Janus Pater, padre di tutti gli uomini, della Natura e dell‘Universo, Giano
presiede a tutti gli inizi e i passaggi, materiali e immateriali, come le soglie delle
case, le porte, ma anche l‘inizio di una nuova impresa, dell’esistenza, della vita
economica, del tempo storico e di quello mitico, della religione, degli dèi stessi,
del mondo, della civiltà, delle istituzioni. Una leggenda narra che le due facce di
Giano, ricevute dal dio Saturno, gli conferivano il dono di vedere sia il passato
che il futuro. Giano è una delle immagini arcaiche proprie del luogo, rievocate in
alcuni dei “passaggi” con cui i pazienti e gli operatori si confrontano all’interno
del dispositivo transdisciplinare e multiculturale che li ospita.
Antropologi, mediatori culturali, medici, psicologi e psicoterapeuti si speri-
mentano nell’accoglienza, nella clinica e nella presa in cura psicologica e socio-
sanitaria delle persone richiedenti/titolari di protezione internazionale e delle vit-
time di tortura all’interno di un multiarticolato e complesso incontro/confronto
tra gli operatori e queste persone. Una siffatta articolazione dell’équipe di inter-
vento non rende meno complessa l’azione clinica, anzi l’amplifica, poiché i “sa-
peri” hanno grande difficoltà a dialogare tra loro in maniera dialettica, tuttavia è
l’eterogeneità professionale che arricchisce esponenzialmente il processo di presa
in cura di ogni singola persona, sviluppando inedite formule di intervento socio-
sanitario.

240
Declinazioni della transdisciplinarietà

Nell’attività socio-sanitaria con persone portatrici di traumi migranti ad eziologia


antropogena è imprescindibile considerare la persona nella sua interezza, vale a
dire, quale soggetto biologico, psicologico, storico, politico, sociale, culturale ed
economico. L’approccio transdisciplinare implica l’utilizzo di differenti “cono-
scenze” provenienti da discipline distinte, con lo scopo di costruire nuove pratiche
di intervento il cui significato è collocato ai margini di tutti i “saperi” coinvolti,
in uno spazio nel quale l’eterogeneità lascia il fianco alla co-costruzione scaturita
dalla compenetrazione. Questo approccio è orientato allo sviluppo di scambi tra
saperi, all’alleanza tra più figure che incarnano differenti discipline; alla crea-
zione di una comune strategia volta a definire atti interpretativi e, in seguito,
interventi terapeutici efficaci per saper rispondere a quelle richieste di salute che
provengono da persone originarie di differenti contesti socio-culturali. Nel suo
articolato cammino il Servizio “Passaggi nei territori di Giano” ha adottato pro-
cedure e metodologie scaturite dal tenace confronto inter-multi-transgruppale.

I mediatori culturali

Quando nel 2001 è stato costituito il Servizio, la prima accoglienza delle persone
che si rivolgevano ad esso è stata affidata ad un mediatore culturale rifugiato poli-
tico. Le varie trasformazioni a cui nel corso del tempo il Servizio è stato sottopo-
sto non hanno modificato questa peculiarità, perché essere accolti da una persona
che ha ottenuto l’asilo significa entrare in contatto con chi è fornito di quelle
conoscenze corporee e, al contempo, impalpabili sullo stato di coscienza (come
l’esperienza della tortura, del trauma, della paura, ecc.) in cui versano coloro che
sono stati costretti, da guerre e persecuzioni, all’esilio e che si devono orienta-
re sui percorsi da effettuare per vedersi riconosciuta una forma di protezione.
Inoltre, il mediatore culturale rifugiato incarna colui che, sebbene portatore di
amari sospesi con orribili e indelebili esperienze traumatiche, rappresenta le po-
polazioni violate con tutto il loro bagaglio di incognite implicazioni; personalità
forti, che hanno lottato per i diritti della loro gente e che, offrendosi nel lavoro di
équipe, condividono le loro conoscenze. Tuttavia, sarebbe improprio disconosce-
re le conseguenze di tale scelta. Alcune di queste, di carattere relazionale, sono
connesse agli effetti psicologici relativi ai traumi vissuti che, in parte, si riversa-
no nelle dinamiche di gruppo. In particolare, in questi ultimi anni il gruppo sta
riflettendo intorno al tema del potere, soprattutto quello che vìola, annichilisce,
fa sentire impotenti e inermi creando implicazioni che si possono declinare in
varie forme, a volte difficili da gestire. Per tale ragione appare fondamentale che

241
chi, avendo subito il potere del torturatore o quant’altro, decide di lavorare con
le persone richiedenti/titolari di protezione internazionale, effettui un percorso
psicoterapeutico che operi all’elaborazione di quegli incogniti sviluppi relativi
ai rapporti di potere. Altresì questi aspetti, tra tantissimi altri, rientrano nella
complessità di un dispositivo che a volte si posiziona a margine del caos, in di-
mensioni intricate, che richiedono flessibilità, creatività, resilienza.
Il mediatore culturale accoglie la persona fornendogli le informazioni neces-
sarie ai vari percorsi che dovrà compiere, raccoglie le prime informazioni ana-
grafiche, una sinossi della storia traumatica, delinea la sua situazione legale. Gli
consegna una guida al Servizio, un libricino tradotto in dieci lingue, che riporta
informazioni relative alle normative e alle procedute vigenti in materia d’asilo e
gli prospetta tutti i passaggi che effettuerà all’interno del Servizio, presentando
tutti gli operatori con le loro fotografie e le loro attività. La guida al servizio è uno
strumento che orienta la persona nel suo incontro con professionalità a volte a lei
aliene, è un oggetto che in alcuni momenti di estrema solitudine, anche attraverso
le immagini delle persone che si prendono cura di lui, le tiene compagnia, la so-
stiene. Oltre all’accoglienza la professionalità del mediatore culturale è coinvolta
in tutte le attività cliniche (mediche e psicologiche) contemplate nel Servizio, po-
tendo contare su 30 mediatori con differenti provenienze, specializzati in ambito
socio-sanitario operanti all’interno dell’INMP. A differenza di un interprete, que-
sta figura professionale, condividendo la lingua madre della persona, utilizza lo
“spazio” linguistico, come “luogo” in grado di veicolare elementi socio-culturali
incarnati dall’idioma. Difatti, la lingua ha il potere di evocare l’universo fisico,
affettivo, conoscitivo, simbolico ed esperienziale della persona. Intorno ad essa
si costruisce spontaneamente il pensiero della persona, si determina il suo senso
di appartenenza e si configurano le sue possibilità di scambio sociale all’inter-
no del rispettivo gruppo (Inglese in Nathan 1996, 13; Nathan 1996, 49). Inoltre,
nel dispositivo clinico la lingua assegna alla persona una posizione differenziata
rispetto a coloro che non appartengono allo stesso campo linguistico. La tradu-
zione e la circolazione delle diverse lingue parlate da ciascun partecipante nell’in-
terazione gruppale stabiliscono, implicitamente, una relazione di comunicazione
e di scambio con l’alterità socio-culturale e psicologica. Diventa un’induzione de-
putata ad aprire la prospettiva del legame e della mediazione tra mondi culturali
diversi e tra dimensioni diverse di uno stesso mondo culturale. Infine, attraverso
la lingua vengono veicolate le eziologie tradizionali interpretate dai mediatori,
ma anche dagli antropologi, presenti nel setting, così come le conoscenze con-
cernenti i contesti socio-culturali di provenienza della persona che si rivolge al
Servizio (Tumiati 2008, 246-247).

242
I medici

Successiva all’accoglienza è la presa in carico della salute bio-fisiologica del-


la persona che si rivolge al Servizio. Quindi, il secondo passaggio nel percorso
adottato è lo screening medico. Il mediatore culturale accompagna la persona
dal medico internista che realizza una visita di medicina generale per monitorare
lo stato di salute fisica della persona, disponendo approfondimenti diagnostici
tramite esami ematochimici e strumentali (questi ultimi se necessari). È visita-
ta anche da altri specialisti medici (dermatologo, ginecologo, gastroenterologo,
infettivologo, odontoiatra, oculista, chirurgo plastico) e, dove risulta necessario,
inviata ad altri specialisti di cui l’Istituto non dispone.

Gli psicologi

Nella presa in carico psicologica della persona richiedente/titolare di protezione si


procede all’analisi dei suoi bisogni, si programmano gli interventi da effettuare,
si costruisce un dossier, si effettuano percorsi psicoterapeutici. Il dossier è com-
posto dalla memoria traumatica della persona e da una certificazione che riunisce
i risultati delle perizie e delle indagini dei clinici che si sono presi cura della sua
salute. La raccolta della memoria traumatica avviene in un setting transdiscipli-
nare composto generalmente da uno psicologo, un mediatore culturale e un antro-
pologo. In tale dispositivo ogni professionalità ha un ruolo specifico. Lo psicologo
conduce il colloquio parlando in italiano, utilizza metodi per facilitare il dialogo,
sostiene e contiene la persona nei differenti momenti del colloquio applicando, la
dove è necessario, tecniche di rilassamento. La raccolta della storia traumatica ha
diverse finalità: rappresenta una riorganizzazione degli eventi che hanno costret-
to la persona a fuggire dal proprio Paese, resoconto necessario ai fini della gravo-
sa prova del colloquio che egli effettuerà con l’Organo che valuterà la sua istanza,
e, al contempo, traccia un sentiero che può essere la premessa per l’elaborazione
degli eventi traumatici vissuti in un percorso psicoterapeutico. I colloqui psicolo-
gici si declinano anche nell’attività psicodiagnostica finalizzata alla certificazione
dello stato psichico del richiedente. Tale certificazione rappresenta un importante
oggetto terapeutico per il paziente. Per la persona che non ha ancora ottenuto una
forma di protezione lo stato di sospensione determinato dall’attesa del colloquio
con l’Organo valutatore rappresenta un molesto ostacolo per la progettazione e la
riorganizzazione della sua vita. Il pensiero di ricevere un rifiuto all’istanza costi-
tuisce un fattore di aggravamento della dimensione psicologica della persona che
ha subito traumi estremi, dimensione orientata solitamente verso l›indisposizione
nei confronti delle prospettive future. La certificazione simboleggia una prima

243
attestazione istituzionale dei segni del trauma riscontrati nel suo corpo e nella sua
anima. Essendo una certificazione il suo linguaggio diagnostico è legittimato in
quanto considerato essenziale ai fini della valutazione. La valutazione psicodia-
gnostica è inglobata all’interno del certificato definitivo che tutta l’équipe del Ser-
vizio, nelle sue diverse specialità, realizza a seguito dell’incontro con la persona.
L’elenco dei segni sulla pelle, nel corpo e nella psiche, rinarra ciò che è avvenuto,
adunando le dolorose ferite della vittima. Tuttavia, l’aliena costellazione di segni
e disturbi rilevati dagli esperti, forse, per il fatto di contenere una valenza proce-
durale che mira ad una legalizzazione che sottende un importante “passaggio”,
pare restituire alla persona che l’ascolta una anomala levità. In relazione alle ri-
chieste di aiuto psicologico delle persone, le risposte dello psicologo si declinano,
a seconda dei casi, in attività di sostegno e di orientamento, in colloqui finalizzati
all’apprendimento di tecniche di rilassamento, in percorsi psicoterapeutici effet-
tuati in collaborazione con il Servizio “Geografie del corpo”, dove si dispiega la
clinica transdisciplinare ad orientamento etnopsichiatrico.

Gli antropologi

La posizione che l’antropologo assume nel Servizio ha carattere trasversale, poi-


ché per specificità disciplinare può avere accesso a tutti i setting che prendono
forma durante il percorso di presa in cura della persona accolta. La disciplina,
però, prende corpo principalmente durante la fase dei colloqui psicologici che in-
cludono la raccolta della memoria traumatica, in cui, la ricostruzione delle ragio-
ni che hanno forzato la persona a migrare diventano strumento di legittimazione
per la richiesta di asilo al cospetto degli Organi competenti.
Prestare consulenza antropologica in un simile contesto, dove la popolazione
assistita proviene da svariate realtà nazionali significa possedere una conoscenza
a tal punto vasta da essere umanamente impossibile. L’esercizio della disciplina
antropologica si esprime in questi ambiti mettendo in pratica quella sensibilità
alla complessità delle esperienze di vita e alla costruzione della relazione con la
“diversità” culturale, derivante dai metodi e dagli strumenti della pratica etno-
grafica.
Il Servizio in tutte le sue sfaccettature (operatori, attività, setting di lavoro,
dinamiche relazionali, “produzioni”, ecc.) sono il microcontesto, il “campo” et-
nografico all’interno del quale l’antropologo si posiziona, una “realtà” di ricerca
dove ogni fase della presa in carico, ogni setting finalizzato alla loro realizza-
zione si apre al suo sguardo in tutta la sua corposità; un “campo” di osservazio-
ne ed analisi che si sviluppa all’interno di altri “campi”, come l’obiettivo di una
macchina fotografica, che posiziona il suo campo visivo prima concentrandosi

244
su un oggetto specifico, allontanando successivamente lo zoom per restituire al
medesimo una collocazione spazio-temporale, per rivestirlo della sua dimensione
storica (Geertz 1988).
Un’antropologia applicata che restituisce una “conoscenza” nell’immediato,
che aspira ad una “oggettività” relativa (perché derivante da una negoziazione di
significati, vissuti e proiezioni), rispondente ad una “domanda” etnografica che
si identifica nelle motivazioni alla base della migrazione forzata, redatta per uno
scopo specifico (il riconoscimento di una forma di protezione) e per un soggetto
individuato (l’Organo valutatore).
Individuare i rapporti di forza/potere e le loro configurazioni all’interno del
“campo” di ricerca (Foucault 1969, 1976; Gramsci 1975), il Servizio appunto,
rappresenta il primo obiettivo dell’antropologo, poiché per poter restituire una
“conoscenza” è impossibile ignorare il come, il quando, il dove ed il perché essa
è prodotta; mancherebbe di metodo, di scientificità; un puro esercizio di scrittura
(Clifford 2004; Clifford, Marcus 2005). Le specialità coinvolte nel Servizio sono
molteplici, donne e uomini con età e status civile differenti, come anche prove-
nienze socio-culturali, vissuti, percorsi di studio, bagagli conoscitivi, legittima-
zione scientifica, ecc. differenti. Nella relazione con la persona che si rivolge al
Servizio gli operatori mettono in pratica un “esercizio del potere” in una varietà
di situazioni, poiché lo esprimono a diversi livelli a seconda sia dell’agente che
lo esercita (il professionista), che della fase del percorso di presa in carico nella
quale è esercitato. L’asimmetria di “potere” dei ruoli riscontrabile nelle relazioni
mediatore culturale-persona, quella tra quest’ultima e il medico, lo psicologo,
l’antropologo, ecc. sono il frutto dell’autorevolezza che ogni specialità riveste so-
prattutto nella produzione finale della documentazione che verrà consegnata alla
persona.
Segue al riconoscimento delle “forze” in campo la presenza dell’antropologo
nel setting clinico; egli diventa parte di un percorso nel quale mette in comu-
nione i suoi metodi/strumenti di indagine con i clinici, sviluppando un processo
terapeutico pensato come primo passo verso l’accettazione, la rielaborazione e la
convivenza con vissuti traumatici inenarrabili. In quanto etnografo, osserva, an-
nota, domanda, interpreta, analizza, compara e rielabora i dati/informazioni rac-
colti. In quanto specialista di un dispositivo che mira alla transdisciplinarietà si
confronta con le altre figure professionali coinvolte, travalica confini disciplinari,
mette in comunione conoscenze, metodi e strumenti, e, infine, produce, insieme
alle altre specialità, un “testo” che funge da “testimonianza” del vissuto trauma-
tico narrato. Gli aspetti culturali espressi nella narrazione degli eventi rappresen-
tano il fulcro intorno al quale le specialità coinvolte esercitano la transdisciplina-
rietà e praticano la clinica. La negoziazione della conoscenza acquisita in merito
ed il processo di sintesi al quale le discipline giungono al termine del confronto,

245
restituiscono gli aspetti culturali del “narrato” all’orizzonte di significazione di
riferimento della persona (ideologie, cosmologie, ontologie, norme sociali, ecc.),
rendendoli oggetto di ricerca ai fini dell’obiettivo psicoterapeutico “agito” attra-
verso la tecnica della rinarrazione. Il “testo” prodotto è una “storia autobiogra-
fica” che racconta la causa, o le concause, che ha/hanno costretto la persona a
fuggire dal proprio Paese, ancorandola ad una cornice di senso più ampia, dove
luoghi, tempi e situazioni riferite sono costruite intorno alla condizione politica,
economica, sociale e culturale del contesto di origine – macro e micro – in essere
nel periodo storico nel quale si sono verificati gli eventi traumatici riferiti.

Bibliografia
A. Gramsci (1975): Quaderni del carcere, Einaudi, Torino.
A. Morrone (2007): Oltre la tortura, percorsi di accoglienza con rifugiati e vitti-
me di tortura, Edizioni Magi, Roma.
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J. Clifford (2004): I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel
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zione delle scienze umane, Einaudi, Torino.
M. Foucault (1976): Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Einaudi, Torino.
SPRAR (2010): Rapporto annuale 2010, Ministero dell’Interno, ANCI, Roma.
T. Nathan (1996): Principi di etnopsicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino.

246
Alimentazione transculturale: un nuovo luogo identitario
Paola Scardella, Aldo Morrone, Laura Piombo, Alessandra Sannella
Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni
Migranti e per il contrasto delle malattie della Povertà (INMP)

Il gusto è un senso tinto di emo-


zione
(Fischler 1992, 70)

Abstract

Nell’atto alimentare sono strettamente uniti l’uomo biologico e l’uomo culturale. Per ogni essere
umano mangiare significa non solo nutrirsi, ma evocare un rapporto, espressione della tradizione
culturale del territorio. Il confronto tra l’uomo e l’ambiente alimentare da cui prendono origine le
diverse tipologie alimentari si attua, infatti, attraverso un sistema complesso di relazioni fra i biso-
gni dell’uomo in energia e nutrienti, il bioma cioè l’ambiente circostante e la cultura, intesa come
l’insieme delle azioni svolte per adattare ai bisogni quello che la natura mette a disposizione. Il cibo
da elemento della natura diventa, dunque, elemento della cultura, diventando un frutto della nostra
identità. Il valore simbolico e il significato culturale del cibo sono ancora più evidenti e determinanti
nei processi migratori. Nel nuovo contesto sociale e culturale, regolato da uno schema di norme
e valori talvolta difficili da comprendere, colui che migra deve imparare a orientarsi, iniziando a
conoscere nuovi codici. Tra tutte le componenti che accrescono le difficoltà di adattamento, una po-
sizione fondamentale è occupata proprio dalle differenze nei regimi alimentari tra il paese d’origine
e il paese ospite, tanto maggiori quanto maggiore è la distanza “culturale” tra le realtà coinvolte. Nel
lento e complesso processo di scambio interculturale che la migrazione comporta, sono fondamen-
tali gli elementi che permettono di mantenere la propria identità e il cibo si comporta proprio come
strumento di riappropriazione di identità, nel momento in cui questa venga a mancare. Il cibo è il
ponte verso la propria terra, i propri affetti, i propri luoghi. Attraverso il cibo viene mantenuto un
rapporto di continuità culturale con il paese d’origine: i riti collettivi come pranzi festivi o i rituali
legati all’ospitalità sono, infatti, costituiti quasi esclusivamente – quando possibile – da prodotti ca-
ratterizzanti l’alimentazione del paese di provenienza. La persona migrante può conservare, dunque,
la propria eredità culturale (anche alimentare), ma insieme trasmetterla al nuovo contesto di acco-
glienza. Il sincretismo alimentare, la fusione tra culture diverse attraverso le preparazioni alimentari
tipiche, dovrebbe essere l’espressione di una nuova cultura dell’«e» e non dell’«o». Dello scambio,
quindi, e non dell’esclusione. Il cibo, intenso come linguaggio, rappresenta dunque uno strumento
semplice, ma efficace per esprimere e comunicare la propria cultura e la propria identità. La tavola
può quindi rappresentare un luogo di scambio culturale privilegiato, frutto dell’incontro tra persone
che esprimono la propria identità e che trovano in un’alimentazione transculturale un nuovo terreno
comune di dialogo e reciproca conoscenza.

Nell’atto alimentare sono strettamente uniti l’uomo biologico e l’uomo culturale.


Per ogni essere umano mangiare significa non solo nutrirsi, ma evocare un rap-
porto, espressione della tradizione culturale del territorio.

247
Il confronto tra l’uomo e l’ambiente alimentare si attua, infatti, attraverso un si-
stema complesso di relazioni fra i bisogni dell’uomo in energia e nutrienti, il bioma
cioè l’ambiente circostante e la cultura, intesa come l’insieme delle azioni svolte
per adattare ai bisogni quello che la natura mette a disposizione. A partire da questi
elementi si delineano le tipologie alimentari, cioè regimi alimentari tipo, in rela-
zione agli alimenti di base comuni a grandi gruppi di popolazioni (Cresta 1998).
Le tipologie alimentari, dipendenti da fattori ambientali, sociali ed econo-
mici, determinano il livello di soddisfazione dei bisogni in energia e nutrienti
degli individui e le eventuali condizioni di stress nutrizionale. Tuttavia, mentre
sono conosciuti i valori nutrizionali di un alimento o gli effetti della carenza e
dell’eccesso di nutrienti sul nostro organismo, poco si sa sulle vere motivazioni
che spingono l’essere umano verso l’una o l’altra fonte alimentare, prediligendo
alcuni cibi e rifiutandone altri. Gli studi sull’alimentazione umana e sui mecca-
nismi che si trovano alla base del comportamento alimentare hanno lo scopo di
comprendere non solo cosa mangiamo, ma anche perché lo mangiamo. Il cibo
non viene meccanicamente introdotto per essere consumato, ma deve essere pri-
ma cercato, valutato, scelto e solo alla fine consumato. Per meglio comprendere
cosa e come mangiamo, perché e quando consumiamo un determinato alimento
è necessario, quindi, esaminare a fondo tematiche legate anche all’antropologia,
alla geografia, alla storia, alla medicina, alla psicologia, alla sociologia, senza
dimenticare l’economia e, non ultima, l’influenza del mercato (Rozin 1982).
Numerose ricerche, orientate ad identificare e spiegare i numerosi fattori che
ruotano intorno alla scelta alimentare, evidenziano come esista una grande va-
riabilità, ma non una casualità: tali scelte si basano principalmente sulla reale di-
sponibilità di cibo, sul contesto culturale e sulle condizioni di acquisto. All’inter-
no di questi pochi parametri vincolanti esistono, però, moltissime combinazioni
possibili con cui le scelte alimentari si manifestano. Il concetto che sta alla base
della scelta alimentare è, infatti, il termine “scelta”: si sceglie quando si hanno più
opzioni da valutare e su cui è possibile orientare il proprio interesse.
La reale disponibilità di cibo indica a quanti e quali alimenti è possibile ac-
cedere (bioma) e in quale ambiente (alimentare) l’individuo si trova a sceglie-
re. Esistono ambienti con ristrettezze estreme che si basano esclusivamente su
economie di autosussistenza in cui si mangia solo quello che si produce e “se si
produce poco, si mangia poco”, fino ad arrivare all’alimentazione ricca (ed ecces-
siva) dell’occidente industrializzato che si basa una cultura non materiale di tipo
commerciale (tecnologia, marketing, mode), in cui la scelta è fin troppo ampia.
Il contesto culturale incide con un’ampia serie di elementi. È possibile indivi-
duare, ad esempio, variabili demografiche (età, sesso, etnia, stato civile) e socio-
economiche (tipologia di lavoro, livello di istruzione, gruppo di appartenenza) o
altre come lo stile di vita (sedentario, attivo), il credo religioso (divieti o precetti

248
caratterisitici), le pressioni sociali (moda, festività, mass media), riti e usanze
particolari legate all’alimentazione e così via. Rilevante è anche l’apporto dato
dall’interazione tra individui della stessa età, i quali modificano i loro comporta-
menti attraverso l’osservazione e l’imitazione dei coetanei.
Le condizioni di acquisto rispecchiano non solo la disponibilità economica
dell’individuo (reddito procapite, costo della vita, composizione della famiglia),
ma anche quella del Paese (PIL, inflazione, potere di acquisto) e del commercio
internazionale (import-export, politiche agricole, barriere doganali).
In base al contesto ambientale e culturale, quindi, si sceglie e si consuma un
determinato alimento seguendo le proprie usanze e tradizioni. Infine si consu-
ma un cibo anche secondo il proprio stato psicologico (emozioni, stato d’animo,
stress), l’influenza di informazioni di carattere educativo (corrette o scorrette) o
pressioni di tipo pubblicitario. Ovviamente in un Paese in Via di Sviluppo dove
esiste un’economia di sussistenza il fattore emozionale diventa marginale; di con-
tro, nei Paesi Tecnologicamente Avanzati, dove è molto sviluppata una cultura
non materiale, la varietà di scelta è fin troppo elevata e il fattore emozionale può
incidere fortemente.
L’esperienza individuale darà come risultato un particolare set di scelte che
sarà unico per ogni persona. Queste scelte sono il riflesso di una risposta affettiva
legata al cibo attraverso l’azione fisiologica del controllo dell’umore, in quanto
una risposta di tipo comportamentale (gradimento o avversione dell’alimento)
viene ritenuta precorritrice del giudizio morale. La variabilità delle scelte alimen-
tari umane dipende in gran parte dalla variabilità dei sistemi culturali: se non si
consuma tutto ciò che è biologicamente commestibile, è perché non tutto ciò che
si può biologicamente consumare è culturalmente commestibile. Alcuni cibi sono
buoni da pensare, mentre altri sono cattivi da pensare: «Il cibo […] deve nutrire
la mentalità collettiva prima di poter entrare in uno stomaco vuoto. Se si voglio-
no spiegare le preferenze e le avversioni relative al cibo, la spiegazione non deve
essere risolta nella qualità delle derrate alimentari, ma nelle strutture mentali di
un popolo». (Harris M. 1985, 5).
Ogni cultura possiede le proprie tradizioni alimentari che implicano classifi-
cazioni e tassonomie particolari, ma anche un complesso di regole che va dalla
raccolta, alla preparazione, alla combinazione degli alimenti, fino all’organiz-
zazione di una giornata alimentare o alla scelta di cibi simbolici legati al credo
religioso ed a festività.
Un alimento è consumato perché considerato commestibile, digeribile e non
è dannoso per la salute. Tuttavia, questo concetto va ampliato alla luce di quan-
to esposto e soprattutto considerando non solo l’aspetto biologico e nutrizionale
dell’alimentazione, ma anche la sfera dell’immaginario e il valore culturale del
cibo stesso.

249
Perché “piace” oppure “non piace” un certo alimento? Come sappiamo ciò che
è benefico o ciò che non lo è? L’uomo è onnivoro, si potrebbe nutrire di tutto. Tutti
i prodotti di origine animale e vegetale offerti dall’ambiente potrebbero essere
consumati; in realtà, l’uomo è solo potenzialmente onnivoro, essendo molto lon-
tano dal mangiare tutto ciò che si trova in natura di «commestibile». La questio-
ne, forse, dovrebbe essere posta indagando sul cosa «non» è consumato e perché.
Spesso gli alimenti che si preferiscono sono quelli più familiari, quelli a cui
la nostra cultura ci ha abituati. Esistono cibi consumati da popolazioni che non
entrano a far parte di tradizioni alimentari di altre popolazioni, semplicemente
perché queste ultime non sono abituate a quel tipo di cibo. In Francia, ad esempio,
non è consuetudine consumare insetti, roditori, volpi o tassi, tuttavia si consu-
mano carne di cavallo, lumache, rane, ostriche, interiora o parti di vari animali
che in altre culture provocano disgusto. Gli anglosassoni, di contro, hanno un‘av-
versione per il coniglio e gli asiatici per i formaggi, mentre api e vespe sono
considerate prelibatezze in Cina, Birmania, Sri Lanka e molte varietà di farfalle
e di tarme sono consumate da popolazioni eschimesi oltre che in Indonesia e
Zimbabwe (Fischler 1992).
Secondo molti Autori, infine, il cibo può essere paragonato ad una vera e pro-
pria forma di comunicazione. Montanari, ad esempio, ha messo in relazione il
linguaggio e le regole grammaticali con le “norme gastronomiche”, rapportando
i Vocaboli agli ingredienti, l’Organizzazione grammaticale alle ricette, le Regole
di sintassi alla presentazione delle vivande e l’ordine con cui vengono servite, la
Retorica a comportamenti conviviali (Montanari 2002).
L’antropologa Douglas evidenzia come il cibo rappresenti un importante mez-
zo di comunicazione attraverso il quale l’uomo si esprime e si differenzia, una
frontiera culturale simbolica che delimita i confini tra noi e «il diverso da noi»
(Douglas M. 1985, 220-229).
Il valore simbolico dell’alimentazione è molto evidente anche nei rituali legati
all’ospitalità. Condividere un pasto è un atto di comunione che serve a rafforza-
re i rapporti tra le persone; il termine “compagno”, ad esempio, riscontrabile in
diverse lingue, deriva dal latino: cum-panis, “dividere il pane con”, atto pratico e
simbolico che veicola amicizia, intimità, condivisione. A tal riguardo, basti ricor-
dare quanto, soprattutto nei tempi antichi, condividere il pasto con un ospite era
considerato un gesto sacro Nell’antichità, infatti, l’ospitalità era considerata un
obbligo, non solo una scelta dovuta alla buona educazione, in quanto il viandante
era posto sotto la protezione di Zeus al momento del pasto e i sacrifici agli dèi
venivano effettuati in onore dell’ospite. La condivisione di cibo, quindi, svolge
le funzioni proprie di un rito, manifesta l’identità culturale della persona che ac-
coglie, rafforza la convivenza civile, creando un legame duraturo di solidarietà,
dato dalla necessità di ricambiare l’ospitalità ricevuta (Antonaci 2006).

250
Il valore simbolico e il significato culturale del cibo sono ancora più evidenti e
determinanti nei processi migratori. Nel nuovo contesto sociale e culturale, rego-
lato da uno schema di norme e valori talvolta difficili da comprendere, colui che
migra deve imparare a orientarsi, iniziando a conoscere nuovi codici. Tra tutte
le componenti che accrescono le difficoltà di adattamento, una posizione fon-
damentale è occupata proprio dalle differenze nei regimi alimentari tra il paese
d’origine e il paese ospite, tanto maggiori quanto maggiore è la distanza culturale
tra le realtà coinvolte.
Nel lento e complesso processo di scambio interculturale che la migrazione
comporta, sono fondamentali gli elementi che permettono di mantenere la pro-
pria identità e il cibo si comporta proprio come strumento di riappropriazione
di identità, nel momento in cui questa venga a mancare. Il cibo è il ponte verso
la propria terra, i propri affetti, i propri luoghi e i “sapori di casa” costituiscono
un’eredità culturale pregnante che contribuisce a livello personale, intimo, ad
alimentare il ricordo e ad attutire l’inesorabile cambiamento dell’esistenza in
atto.
L’antropologo Vito Teti nel suo libro Il colore del cielo parla di nostalgia dei
sapori perduti: «[…] il cambiamento d’aria ed il diverso tipo di cibo contribui-
vano non poco al desiderio perpetuo e inesauribile di tornare al luogo natio […]
mangiare come nel luogo d’origine in qualche modo, contribuiva a placare la no-
stalgia, come se insieme al cibo e alle abitudini alimentari si fossero portati con
sé nel nuovo mondo anche la casa, l’orto, i familiari, gli amici.» (Teti 1999, 90).
Oltre a possedere un valore nutrizionale, quindi, il cibo svolge una funzione
“curativa” per l’animo e il pasto può rappresentare una sorta di rimedio psico-
logico che prevede l’assunzione di alimenti a forte “sapore culturale”. Basta ri-
cordare quella straordinaria letteratura colta e “incolta” che racconta degli esodi
di massa dall’Europa verso l’America: tra il 1876 ed il 1915, circa 14 milioni di
italiani lasciarono il loro paese diretti verso altri paesi dell’Europa, in particolare
Francia, ma soprattutto verso le Americhe. I piroscafi diretti nel Nuovo Mondo
– espressione geografica efficacissima per definire, nell’immaginario degli emi-
granti dell’epoca, il loro Paese di arrivo – insieme a uomini, donne e bambini
trasportavano centinaia di migliaia di lettere, cartoline, fotografie e generi ali-
mentari. Il bagaglio culturale dell’emigrante era, ed è, costituito da abitudini,
rappresentazioni mentali e pratiche linguistiche, ma anche da un carico tangibile,
pesante, spesso ingombrante di “oggetti sociali”: i “cibi di casa” non riempiono
solo le valigie dei passeggeri di terza classe, ma occupano intere stive di navi.
Catene di sapori contribuiscono a legare e fondere Vecchio e Nuovo Mondo:
«Vendi qualcosa, vendi tutto, magari fai debiti, ma fatti il viaggio e lascia il paese.
Porta con te quello che puoi, ma non dimenticare il peperoncino!» (da una lettera
di Frank Costello alla madre).

251
Da una lettera di un emigrato veneto in Australia si legge: «[...] stiamo colti-
vando il granoturco e i fagioli, abbiamo galline, per cui possiamo continuare a
mangiare come se non fossimo mai partiti».
Mentre un altro emigrato – questa volta dalla Liguria verso San Francisco
– scrive: «[...] nel pacco che mi spedirai adesso, fammi il favore di mandarmi di-
versi generi alimentari, come pure se puoi una scatola di latta piccola con dentro
un poco di pesto già preparato di basilico per condire la pastasciutta [...] intanto
che io scrivo, Catainin fa la polenta coi funghi che abbiamo cercato insieme in S.
Raffaele». (dall’Archivio Ligure della Scrittura Popolare di Genova)
E oggi Felix, studente del Benin in viaggio in Italia, afferma: «Posso dimen-
ticare tutto quando lascio il mio paese, ma non posso dimenticare di portare con
me il mio garì di manioca».
Aima, una giovane ragazza etiope confida: «Quando sto male o sono triste,
mangio l’ingera… e mi sento subito meglio! Mi ricorda i momenti di festa con la
mia gente: sento la mia terra, il volto dei miei parenti, il suono della mia lingua».
Domnica, una giovane donna della Romania spiega: «Quando viene mio figlio
la domenica gli preparo la mamaliga (polenta), la ciorba (zuppa) e le sarmale
(involtini)… perché così si sente di nuovo a casa».
Le testimonianze presentate costituiscono dei momenti di vita, delle istantanee
che ci permettono di indagare il paradigma emigrazione/ricerca di mantenimento
della cultura d’origine. I migranti, visti da vicino, mantengono interessi emotivi
localizzati tra terra di partenza e terra di arrivo: se la risposta alla destabilizzazio-
ne indotta dall’esperienza migratoria è la difesa delle tradizioni intime, familiari,
nel lungo periodo il migrante tende a costruirsi una identità nuova, di cui anche
l’alimentazione è un efficace rilevatore.
Attraverso il cibo viene mantenuto un rapporto di continuità culturale con il
paese d’origine: i riti collettivi come pranzi festivi o i rituali legati all’ospitali-
tà sono, infatti, costituiti quasi esclusivamente – quando possibile – da prodotti
caratterizzanti l’alimentazione del paese di provenienza (Scardella et al. 2003).
Rimane intenso il desiderio di far conoscere le proprie tradizioni alimentari, tro-
vando momenti e spazi di espressione e valorizzazione pubblica della propria
cultura, rendendola in qualche modo rilevante per il contesto ospitante.
La persona migrante può conservare, dunque, la propria eredità culturale (an-
che alimentare), ma insieme trasmetterla al nuovo contesto di accoglienza. Ma
come è cambiato il volto dell’Europa riguardo alle nuove tradizioni alimentari e
ai prodotti alimentari cosiddetti etnici? Le definizioni di alimento “etnico” cam-
biano nel tempo e naturalmente nello spazio. La più diffusa è quella che definisce
alimento etnico un alimento originario di paesi diversi dall’home market, che
contribuisce ad una cultura alimentare diversa dalla tradizione del paese ospi-
tante (Klont & Mannion 1996). La preparazione alimentare “etnica” può essere

252
adattata combinando ingredienti locali e importati e preparata anche in modo ca-
salingo. Si definisce, invece, alimento “etnico modificato” una versione commer-
cialmente modificata dell’alimento rispetto a come è preparato nel paese d’origi-
ne, per seguire il gusto e le preferenze del paese ospitante.
Da recenti indagini di mercato è risultato che la vendita di prodotti “etnici”
(riso, salse, cibi messicani, tè verde) ha evidenziato la crescita più significativa:
oltre il 36% tra il 2003 e il 2006.
Di contro si assiste, da parte degli italiani, ad un’assunzione di stili e abitudini
alimentari alternative, grazie all’affermarsi della ristorazione “etnica”. I ristoranti
che offrono cucina “etnica” sono aumentati in Italia, rispetto al 2009, dell’8,2%
(circa 48.000). Un terzo degli italiani acquista prodotti “etnici” presenti nei super-
mercati per uso domestico e sono i giovani ad essere più attratti da una tradizione
alimentare diversa da quella italiana. Secondo queste indagini, mentre nel Nord
Italia aumenta l’affluenza nei ristoranti “etnici” da parte della popolazione italia-
na, al Centro aumenta l’acquisto di prodotti provenienti da paesi esteri e consuma-
ti a casa e circa il 50% degli italiani ha dichiarato di aver consumato almeno un
pasto presso un ristorante “etnico”. Interessante il dato che evidenzia anche come,
in Italia, su 100 imprenditori impiegati nella ristorazione, circa 9 sono stranieri.
Le attività gestite da stranieri in questo settore sono più presenti a Milano (17,5%),
Prato (15,8%) e Trieste (15,1%) (Fondazione Leone Moressa, su elaborazione dati
Infocamere, 2010). A “tavola”, dunque, le distanze tra immigrati e italiani si ri-
ducono, come confermato da un’indagine svolta da TomorrowSwg, secondo cui il
62% delle persone migranti intervistate affermava di mangiare nei fast food e il
76% dichiarava di recarsi in pizzeria o al ristorante. Tuttavia più che di “italianiz-
zazione” si può parlare di omologazione nei confronti della società occidentale.
Per «sincretismo alimentare» si intende proprio la fusione tra culture diverse
attraverso le preparazioni alimentari tipiche (Romeo 2006; Tentori 1997). Alcu-
ni sociologi, attenti al legame esistente tra cultura e consumo, hanno parlato di
“ibridazione dell’offerta alimentare”, altri ancora della “mixitè alimentare”, ma
comunque tutti convergono sulle opportunità offerte da un’alimentazione tran-
sculturale. Un’alimentazione transculturale è l’espressione di una nuova cultura
dell’«e» e non dell’«o», dello scambio, quindi, e non dell’esclusione e il sincreti-
smo alimentare significa affiancare i sapori locali a quelli di altri territori, utiliz-
zando i principali nutrienti in un arcobaleno di aromi, colori e profumi.
Il cibo, intenso come linguaggio, rappresenta dunque uno strumento semplice,
ma efficace per esprimere e comunicare la propria cultura e la propria identità.
La tavola può quindi rappresentare un luogo di scambio culturale privilegiato,
frutto dell’incontro tra persone che esprimono la propria identità e che trovano in
un’alimentazione transculturale un nuovo terreno comune di dialogo e reciproca
conoscenza.

253
Bibliografia
Antonaci, Piero (2006): «L’ospite si racconta, Considerazioni sull’ospitalità e il
racconto nell’Odissea», in Amaltea Trimestrale di cultura, vol 1, 44-49.
Cresta, Massimo (1998): Lineamenti di Ecologia Umana, Roma, Ed. CESI
Douglas, Mary (1985): Antropologia e Simbolismo. Religione, cibo e denaro nel-
la vita sociale, Il Mulino, Bologna, 220-29.
Fischler, Claude (1992): L’Onnivoro, tr. it. Mondadori.
Harris, Marvin (1985): Good to eat. Riddles of food and culture, Simon & Scu-
ster, New York.
Klont & Mannion (1996): Ethnic Foods make a savoury tale. in The world of
Ingredients, 12-13.
Montanari, Massimo (2002): Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, Later-
za, Roma-Bari.
Montanari Massimo (2006): Il cibo come cultura, Editori Laterza, Roma-Bari.
Romeo, Francesco Paolo (2006): «Il mercato globale: per una sociologia del gela-
to», in Amaltea Trimestrale di cultura, Anno I, vol 4, 6-8.
Rozin, Paul (1982): «Human food selection: the interaction of Biology, Culture
and Individual Experience», in Barker LW (ed.): The psychobiology of human
food selection,. Westport, CT:AVI Publishing Company, 225-254.
Scardella P., Spada R., Piombo L., Carico R., Bracco D., Morrone A. (2003):
«Abitudini alimentari e aspetti antropologico-culturali dell’alimentazione in
un gruppo di immigrati a Roma», in La rivista di Scienza dell’Alimentazione,
anno 32 n°2, 127-138.
Tentori, Tullio (1997): «Un caso di sincretismo gastronomico: la cucina italiana
negli Stati Uniti», in Sociologia Urbana e Rurale, n. 24, 9; 206-208.
Teti, Vito (1999): Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione
mediterranea, Meltemi, Roma.

254
Profili degli autori

Francis Claudon (1944) études supérieures à la Sorbonne (lettres classiques, hi-


stoire, musicologie, allemand), agrégation de lettres classiques (1969), doctorat
d’Etat (1977) Professeur des Universités à Paris XII. Professeur invité à: Carleton
(Ottawa /1977), McGill (Montréal /1980), Köln (1982), Catane (1986 et 1995),
Padoue (1991), Turin (1997), Lausanne (2007), Wien (depuis 2004), Bucarest
(2009). Publications: Encyclopédie du Romantisme, Somogy, 1980, L’opéra en
France, Nathan, 1984, Le Voyage romantique, Ph.Lebaud; 1986; Balzac, Gamba-
ra & Massimilla Doni, édition et présentation par F.C., Slatkine, 1988; Itinéraires
mozartiens en Bourgogne, textes recueillis par F.C., Klincksieck, 1991; Les Dia-
bleries de la nuit: hommage à A.Bertrand, textes recueillis par F.Claudon, EUD,
Dijon, 1993; La Musique des Romantiques, PUF, 1992; Dictionnaire de l’opéra-
comique français, (sous la direction de F.C.) , P.Lang, Bern, 1995; Stendhal: la
Bourgogne, les musées, le patrimoine, textes recueillis par F.C.,CIRVI, Monca-
lieri, 1997; Vivant Denon, actes des colloques de 1997, 1999, 2001, trois volumes,
textes recueillis par F.C. et B.Bailly, UTB, Chalon sur Saône; Victor Hugo: Voya-
ge vers les Pyrénées, édition et présentation par F.C.,Ph.Lebaud, 2002; Fromental
Halévy, actes du colloque F.H., textes recueillis par F.C., G. de Van & K.Leich-
Galland, Weinsberg, Musik Edition, 2003; Le Rayonnement de l’opéra-comique
français en Europe, textes recueillis par M.Pospisil, F.Claudon & A.Jacobshagen,
Praha, K.P.L., 2004; Henri Beyle, un écrivain méconnu:1797-1814, textes recueil-
lis par M.Arrous, F.Claudon & M.Crouzet, Kimè, 2007; L’Egypte au temps de
V.Denon, textes recueillis par B.Bailly et F.Claudon, UTB, Chalon, 2007; L’Histo-
riographie romantique, textes recueillis par F.Claudon, A.Encrevé & L.Richer,
Bière, 2007; Constitution du champ littéraire (limites,intersections,déplacemen
ts), textes recueillis par P.Chiron & F.Claudon,L’Harmattan, 2008; Transfigurer
le réel: Aloysius Bertrand et la fantasmagorie, textes recueillis par F.Claudon et
M.Perrot, Centre Georges Chevrier, Dijon, 2008. Email: claudon.francis@wana-
doo.fr

Danilo De Salazar si è laureato in Lingue e Culture straniere moderne presso


l’Università degli Studi della Calabria, con una tesi in Letterature Comparate dal
titolo Il Vento nella poesia. Lance Henson e Lucian Blaga. Nell’a.a. 2008/2009,
beneficiando di una borsa di studio, ha frequentato corsi di linguistica, lingua e
letteratura romena presso l’Università di Bucarest. Nel periodo maggio – giugno

255
2009 ha vinto una borsa di studio in Traduttologia offerta dall’ Istituto Culturale
Romeno di Bucarest. Dal 2009 collabora, in qualità di traduttore, con l’ICR di
Bucarest e l’IRCCU di Venezia. Nel mese di maggio del 2010 ha partecipato al
Salone Internazionale del Libro di Torino, con la proposta di traduzione e la pre-
sentazione dell’ultima raccolta di poesie dello scrittore Nichita Danilov, Centura
de castitate (Bucureşti, ed. Cartea Românească, 2007) e del suo ultimo romanzo,
Ambasadorul invizibil (Iaşi, POLIROM, 2010), durante l’incontro La Romania
di oggi nelle parole dei suoi scrittori – Incontro con Nichita Danilov, Nora Iuga
e Dan Lungu, a cura dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di
Venezia. Sempre nel 2010, ha partecipato con una comunicazione alle Giornate
Internazionali di Studio sulla Letteratura romena migrante, coordinate dalla Prof.
ssa G. Vanhese, nel quadro del Progetto E-migranz@ – Stranieri e migranti nelle
arti e nella società, promosso dal Dipartimento di Linguistica dell’Università
della Calabria. Durante il mese di luglio 2010 ha ottenuto l’incarico di docenza
di Lingua Romena nel quadro del Progetto VATRA: Scuole estive Internaziona-
li di Albanistica, Balcanistica e Italianistica, organizzato dal Dipartimento di
Linguistica dell’Università della Calabria. Nel periodo compreso tra il 5 ed il 9
luglio 2010 è stato invitato, in qualità di traduttore, al seminario di traduttologia,
Letterodromo Babele – Workshop con traduttori di letteratura romena a Vene-
zia, organizzato dall’Istituto Culturale Romeno, tramite il Centro Nazionale del
Libro e l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia. È, ad oggi,
titolare di un contratto di collaborazione linguistica presso il C.d.L. in Lingua e
Letteratura Romena dell’Università degli Studi della Calabria. Le sue ricerche
vertono soprattutto sulla poesia romena moderna e contemporanea e sulla let-
teratura di migrazione. Attualmente, l’attenzione dei suoi studi è focalizzata sui
poeti Nichita Danilov e Ana Blandiana, nell’ambito della letteratura romena con-
temporanea, e sulla scrittrice Aglaja Veteranyi per ciò che concerne la letteratura
nomade. Email: danilo.desalazar@gmail.com.

Adela Ida Gutierrez, opera dal 1998 presso l’INMP come mediatrice culturale
e da novembre 2009 come psicologa presso il Servizio per le persone richiedenti
protezione internazionale, rifugiati e vittime di tortura. Dal 2000 al 2002 ha par-
tecipato al Corso di Etnopsichiatria “Per la Salute Mentale in una Società Multi-
culturale”, a partire del quale si è interessata in particolare della mediazione cul-
turale in etnopsichiatria e nei dispositivi multidisciplinari. Arrivata in Italia come
esiliata politica dalla dittatura militare Argentina, ha partecipato a riflessioni di
gruppo su tale esperienza e ha curato (insieme ad altre connazionali) la versione
italiana di “Memorie del Buio – Lettere e diari delle donne argentine imprigiona-
te durante la dittatura. Una testimonianza di resistenza collettiva”.

256
Giovanni Magliocco si è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Uni-
versità degli Studi della Calabria, successivamente ha conseguito il dottora-
to di ricerca in Romenistica presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere
dell’Università degli Studi di Torino discutendo una tesi dal titolo Manierismo e
poetica del mito nel Circolo Letterario di Sibiu. L’esempio di Radu Stanca. Ha
frequentato corsi di lingua e civiltà romena presso l’Università Babeş-Bolyiai di
Cluj-Napoca. Nell’anno accademico 2005/2006 è stato lettore presso la cattedra
di Lingua e Letteratura italiana della Facoltà di Lettere dell’Università di Ora-
dea. Dall’anno accademico 2006/2007 è stato cultore della materia per Lingua e
Letteratura romena e Letterature comparate presso la Facoltà di Lettere e Filo-
sofia dell’Università degli Studi della Calabria. Nella stessa Università, a partire
dall’anno accademico 2008/2009, è stato professore a contratto di Lingua e Let-
teratura romena. Dal 2004 ha partecipato, come componente, ai gruppi di ricerca
coordinati dalla Prof.ssa Gisèle Vanhese presso l’Università degli studi della Ca-
labria, le ricerche si sono dirette verso tre direzioni: Mitocritica e strutture antro-
pologiche dell›immaginario, Retorica del fantastico, Multiculturalismo e Scrit-
tura nomade. Dal 2006 è membro ordinario dell›A.I.R. (Associazione Italiana
di Romenistica). Dal 2010 è membro associato del C.C.L.E. (Centrul de cercetări
ştiinţifice şi enciclopedice) dell›Università Babeş-Bolyiai di Cluj-Napoca. Dal 1
dicembre 2009 è ricercatore presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere
dell›Università degli studi di Bari per il settore scientifico-disciplinare L-LIN/17
– Lingua e letteratura rumena. Le sue ricerche sono incentrate soprattutto sulla
poesia rumena moderna e contemporanea e sulla letteratura fantastica. Ha pub-
blicato numerosi saggi sull’opera di Mihai Eminescu, Mateiu I. Caragiale, Panait
Istrati, Lucian Blaga, Radu Stanca, Ana Blandiana e Ruxandra Cesereanu. Email:
g.magliocco@lingue.uniba.it.

Sebastiano Martelli è professore ordinario di Letteratura italiana presso l’Uni-


versità di Salerno e direttore del Dipartimento di Studi Umanistici presso la stes-
sa Università; è stato visiting professor presso le università di Rennes (Francia),
Johannesburg (Sud Africa), Albany(Stati Uniti). Ha pubblicato volumi sul Cin-
quecento (Dal progetto al rifiuto, 1979), sul Settecento (La floridezza di un rea-
me, 1996), sull’Ottocento (Lingua e cultura nell’Ottocento meridionale, 1978),
sul Novecento(Sulla soglia della memoria, 1986; Il crepuscolo dell’identità. Let-
teratura e dibattito culturale degli anni Cinquanta, 1988). Un suo particolare
settore di studi è quello sulla letteratura dell’emigrazione italiana dall’ultimo
ventennio dell’Ottocento a tutto il Novecento, tema sul quale ha pubblicato due
volumi: Letteratura contaminata. Storie parole immagini tra Ottocento e Nove-
cento (1994); Il sogno italo-americano (1998) e numerosi saggi in volumi col-
lettanei o in  riviste nazionali o internazionali, tra i quali: Dal vecchio mondo

257
al sogno americano. Realtà e immaginario dell’emigrazione nella letteratura
italiana (2001); Oltre il silenzio oltre l’attesa: figure femminili nella letteratura
italiana dell’emigrazione (2002); America ed emigrazione nella narrativa italia-
na dell’ultimo ventennio (2004); Dispatrio e identità nella letteratura italiana
dell’emigrazione transoceanica, in AA. VV., I confini della scrittura. Il dispatrio
nei testi letterari, a cura di F. Sinopoli e S. Tatti, Isernia, Cosmo Iannone Editore,
2005, pp. 139-158; American and Emigration in the Italian Fiction of the Past
Twenty Years, in ‘Merica. A Conference on the Culture and Litearture of Italians
in North America, Edited by Aldo Bove and Giuseppe Massara, Stony Brook,
NY, Forum Italicum Publishing, 2006, pp. 163-189; Rappresentazioni letterarie
dell’emigrazione transoceanica tra Ottocento e Novecento, in AA. VV., Appunti
di viaggio. L’emigrazione italiana tra attualità e memoria, a cura di Ornella De
Rosa e Donato Verrastro, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 217-254; Compagni di
viaggio sull’oceano: le traversate dell’emigrazione, in AA. VV., Compagni di
viaggio, a cura di Vincenzo De Caprio, Viterbo, Sette Città, 2008, pp. 391-426;
Letteratura delle migrazioni, in Storia d’Italia, Annali 24, Migrazioni, a cura di
P. Corti e M. Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 725-742; Representaciones
literarias sobre la inmigración italiana en California en los siglos XIX y XX,
in AA. VV., California: Raices Presencia y Futuro de la Latinidad, Coloquio
Internacional, Madrid, Unión Latina, 2009, pp. 87-116; L’Italia ricordata. Me-
moria e immaginario dell’emigrazione, in L’Italia ricordata. Storia, formazione,
immagini di una mutevole identità nazionale, a cura di Roberto Fedi e Giovanni
Capecchi, Perugia, Guerra Edizioni, 2010, pp. 193-232. Ha anche curato edizioni
di alcuni testi settecenteschi( di Giuseppe Maria Galanti) e otto-novecenteschi tra
i quali:Tiro al piccione di Rimanelli (Editore Einaudi); Noi gli Aria di Bontem-
pelli (Editore Sellerio), Ricordi briganteschi di Olivieri (Editore Avagliano); per
l’Editore Avagliano ha curato anche l’edizione di La stanza grande di Rimanelli.
Per Forum Italicum Publishing (New York-Stony Brook) ha curato il volume
Rimanelliana. Fa parte del Comitato Direttivo della rivista “Misure critiche”; è
Associated Editor per l’Italia della rivista “Forum Italicum” (USA). Email: seba-
stiano.martelli@tin.it

Aldo Morrone, dermatologist, is the Director General of San Camillo Forlanini


Hospital. In the last 25 years has developed the so called “transcultural medici-
ne”, with special focus on the health, social inclusion and integration of migrants
and other groups at risk of marginalization, (poor people, Italian and foreigners,
nomads, drug-addicts, homeless, victims of torture and prostitution trade). Co-
operates with EU member States on various projects of prevention and informa-
tion campaigns, in particular on HIV/AIDS infections, FGM, social anthropolo-
gy, intercultural mediation. Founder of the International Journal of Migration

258
and Transcultural Medicine. Coordinator and head responsible of several medical
and scientific missions in Africa, India, Latin America and South-Eastern Asia.
Author of over 500 publications in national and international scientific journals,
original articles, scientific research studies, epidemiological reports and abstracts
presented at national and international congresses. Scientific Director of the an-
nual International Workshop “Culture, Health and Migration” in Rome, Italy.
Email: amorrone@scamilloforlanini.rm.it

Marta Niccolai. Teaching fellow. UCL Italian Department. I have been teaching
Italian language, written skills and translation courses in the Italian department
of University College, University of London (UCL). I also teach a module on
Political Cinema for the School of European Language, Culture and Society at
UCL. This is where I recently completed a Doctorate on “Italian Intercultural
Literature. Exploring Identities”. This focused on the dialogic nature of intercul-
tural identity in texts written by migrant writers in Italy. I have several publica-
tions concerning various aspects of intercultural dialogue expressed by migrant
writers such as Younis Tawfik and Tahar Lamri; for instance ‘Le lingue e i luoghi
nella scrittura di Tahar Lamri’ in A. Ledgeway, L.Lepschy (eds.), In and out of
Italy. The Language and Culture of Migration, Guerra Edizioni: Perugia, 2010,
pp. 81-85. My research area continues to be Intercultural Dialogue. In particular,
I am interested on the intercultural dialogue in the context of second language
acquisition. Email: martaniccolai@hotmail.com

Ileana Alexandra Orlich is Professor of Comparative Literature and Director


of Romanian Studies, as well as Head of German, Romanian and Slavic Faculty
in the School of International Letters and Cultures at Arizona State University.
She is also a well known speaker on cultural, political and gender relations at
international conferences and symposia in China, South Korea, the Czech Repu-
blic, Hungary, Canada, Italy, France, Spain, the UK and Romania. Her scholarly
books include Silent Bodies: (Re)Discovering the Women of Romanian Short Fic-
tion (2002); Articulating Gender, Narrating the Nation: Allegorical Femininity in
Romanian Fiction (2005); Myth and Modernity in the Twentieth-Century Roma-
nian Novel (2009); and Avantgardism, Politics, and the Limits of Interpretation:
Reading Gellu Naum’s Zenobia (2010). Her scholarly articles have appeared in
numerous international journals and edited volumes, and she is a well-known
translator of Romanian and English literature. She also wrote stage adaptations in
English and French of the Romanian avant-garde for performances in Romania,
France and the United States and is a frequent theatre critic and commentator for
Romanian literary journals. Email: orlich@asu.edu

259
Angelo Pagliardini è ricercatore di letteratura e cultura italiana all’Istituto di
Romanistica dell’Università di Innsbruck (Austria). I suoi campi di ricerca vanno
dalla letteratura italiana, con particolare riferimento agli aspetti socio-culturali
ed interculturali, dal XV al XIX secolo, alla didattica della cultura italiana (Gli
ebrei di Roma nei Sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli, in L’ Italia terra di rifu-
gio, a c. di Emanuele Kanceff, Torino, CIRVI 2009, vol. 3. Il viaggio oltre confine
nella poesia di Pascoli, in Studi linguistici per Luca Serianni, a c. di Trifone, Pie-
tro – Della Valle, Valeria Roma, Salerno Editrice, 2007). Ha studiato inoltre in-
sieme a Gerhild Fuchs il tema degli aspetti interculturali dell’epica rinascimenta-
le italiana (La rappresentazione del pagano/musulmano nell’epica cavalleresca
rinascimentale, in Italia e Europa: dalla cultura nazionale all’interculturalismo,
a c. di Bart Van den Bossche, Michael Bastiaensen, Corinna Salvadori Lonergan,
Stanislaw Widlak, Franco Cesati Editore, Roma, 2006). Negli ultimi anni si è
occupato del rapporto fra testo letterario e opera d’arte, delle modalità retoriche
con cui il testo iconico viene rappresentato nella pagina scritta, in collaborazione
con una rete internazionale di studiosi (Ecfrasis e narrazione in Paolo Ucello di
Giovanni Pascoli, in Text(e)/Image. Interferences. Etudes critiques. Critical Stu-
dies, a c. di A. Vranceanu). Recentemente sono usciti presso l’editore Peter Lang
i volumi: Italia/Italie: identità di un paese al plurale, di cui è curatore insieme a
Lew Zybatow, Barbara Tasser e Saverio Carpentieri; Ridere in pianura. Le specie
del comico nella letteratura padano-emiliana, di cui è curatore insieme a Gerhild
Fuchs. Email: angelo.pagliardini@uibk.ac.at

Laura Piombo, Dirigente Biologo e ricercatrice presso l’INMP di Roma. Spe-


cialista in Scienza dell’Alimentazione, da anni svolge attività di ricerca relativa
all’alimentazione transculturale. Già assegnista di ricerca presso il Dipartimento
di Biologia Animale e dell’Uomo, Sapienza Università di Roma, ha collaborato a
numerosi progetti di ricerca relativi alle relazioni bio-culturali dell’alimentazio-
ne. Docente presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, Sapienza Università di
Roma, collabora con la Facoltà di Scienze della Formazione, Università RomaTre.
È autrice di numerose pubblicazioni, articoli scientifici su riviste nazionali e in-
ternazionali e volumi collettanei, tra cui Manuale di Alimentazione Transcultura-
le (Morrone, Scardella, Piombo, 2010; Editeam, Cento). Email: piombo@inmp.it

Yannick Preumont est professore associato de Lingua e Traduzione francese


auprès de la Faculté de Philosophie et Lettres de l’Université de la Calabre, où
il enseigne également l’histoire de la langue française. Il s’est spécialisé dans
l’analyse des structures de l’énoncé. Parmi ses ouvrages: Énoncé et énonciation
chez Romain Gary et Émile Ajar (2002); Lexique familial et énonciation (2004);
La langue française et les itinéraires du discours contrastif (2005); Dire la fa-

260
mille. Discours tragique et discours ironique (2005); Les traductions de l’italien
en français au XVIIIe siècle et la construction textuelle du point de vue (2005);
Traduire le discours sur la famille (2009). Email: ypreumont@libero.it,

Dagmar Reichardt insegna Letteratura e Cultura Italiana Moderna presso l’Uni-


versità di Groninga, Paesi Bassi. Membro di 12 associazioni culturali ed accade-
miche in Germania, Italia, Austria, negli Stati Uniti e Stati del Benelux. Ha pub-
blicato oltre 50 libri nell’editoria tedesca ed è autrice di un’ulteriore sessantina
di saggi accademici su temi dell’italianistica e della letteratura. Dopo lo studio a
New York City, Francoforte/Meno e Urbino ha conseguito il dottorato di ricerca
sull’autore Giuseppe Bonaviri all’Università di Amburgo, prima di avere una cat-
tedra alle Università di Brema e Innsbruck. Premio Internazionale dell’Italiani-
stica Flaiano nel 2007. Si è specializzata sulla letteratura siciliana, sul Novecento
italiano e su argomenti inerenti agli Studi Culturali e alla Letteratura Comparata.
Email: dagmarreichardt@hotmail.com

Alessandra Sannella. Ricercatrice in Sociologia presso l‘Università degli Studi


di Cassino da anni collabora in progetti nazionali e internazionali sui temi legati
alla salute, le migrazioni e alle questioni di bioetica. Ha diretto molteplici ricer-
che sul campo in tema sociologia della salute. Tra le sue più recenti pubblicazioni:
Sannella A. (2010), Salute transculturale. Percorsi socio-sanitari, Franco Angeli,
Milano; Morrone A., Sannella A. (a cura di), (2010), Sessualità e culture. Mutila-
zioni genitali femminili: risultati della ricerca in contesto socio-sanitario, Franco
Angeli, Milano. Email: alessandra.sannella@unicas.it

Paola Scardella, Laureata in Scienze Biologiche, Dirige l’Unità Operativa Com-


plessa (UOC) di Promozione della Salute Nutrizionale presso l’INMP di Roma.
Dal 1977 al 1992 Primo Ricercatore del Ministero delle Politiche Agricole e Fore-
stali; dal 1992 comandata presso il Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uo-
mo – Università Sapienza di Roma, ha svolto ricerche sugli aspetti biologici e
culturali dell’alimentazione. È responsabile e coordinatrice di numerosi progetti
di ricerca. Titolare di corsi universitari, svolge attività didattica e formativa. Au-
trice di oltre cinquanta pubblicazioni e volumi collettanei, tra cui Manuale di Ali-
mentazione Transculturale (Morrone, Scardella, Piombo; Cento, Editeam, 2010).
Email: p.scardella@hotmail.it

Sabine Schrader, studi universitari di Filologia romanza e Storia presso le Uni-


versità di Göttingen, Venezia e Colonia. Ricercatrice presso le Università di Lip-
sia e Dresda; dal marzo 2009 professore ordinario di letteratura e cultura italiana
presso l’Università di Innsbruck. I suoi campi di ricerca mirano all’Ottocento e

261
al Novecento. Dottorato a Colonia con una tesi “Mon cas n’est pas unique. Der
homosexuelle Diskurs in französischen Autobiographien des 20. Jahrhunderts
(Stuttgart/Weimar: J.B.Metzler 1999). La sua ultima monografia è intitolata Si
gira. Literatur und Film in der Stummfilmzeit Italiens, pubblicata nel Winter Ver-
lag 2007. La monografia su Scapigliatura – Schreiben gegen den Kanon. Italiens
Weg in die Moderne è in fase di preparazione. È inoltre autrice di numerose pub-
blicazioni sulla letteratura italiana e francese moderna, sulle avanguardie, gender
e queer studies, l’intermedialità e sulla storia del film italiano (su Cristo proibito
di Malaparte, sul cinema e migrazione, sul film contemporaneo p.e. di Roberta
Torre e Marco Tullio Giordana). Email: Sabine.Schrader@uibk.ac.at.

Maria Concetta Segneri. Antropologa. Laureata presso l’Università “La Sa-


pienza” di Roma con tesi sperimentale sulle Modificazioni Genitali Femminili
(MoGF) e possibili proposte alternative finalizzate alla loro eradicazione. Con-
seguito Master in Cooperazione e Progettazione per lo Sviluppo organizzato dal
CIRPS di Roma, con relativa attività di ricerca etnografica svolta presso la onlus
Istituto Internazionale di Scienze Mediche Antropologiche e Sociali (IISMAS)
nella sede di Mekele (Tigray, Etiopia), finalizzata alla conoscenza della recezione
da parte della popolazione locale del servizio sanitario erogato nella regione del
Tigray (Etiopia). Conseguito Corso di perfezionamento in Antropologia delle mi-
grazioni. Culture, partecipazione e istituzioni presso l’Università Milano-Bicoc-
ca. Dal 2005 svolge attività di ricerca etnografica presso l’INMP. Recenti campi
di studio: collaborazione con i setting clinici dei servizi Passaggi nei territori
di Giano per richiedenti protezione internazionale, rifugiati e vittime di tortu-
ra e Geografie del corpo di psicologia clinica ad orientamento etnopsichiatrico,
forniti dall’Istituto nella sede di Roma; partecipazione all’equipe di specialisti
inviati dall’Istituto nella cittadina calabra di Rosarno; partecipazione all’equipe
di specialisti inviati dall’Istituto presso il Centro Soccorso e Prima Accoglienza
(CSPA) sito in Lampedusa.

Monica Spiridon, professor at the Faculty of Letters, University of Bucharest,


Romania, specializes in comparative literature, cultural and media studies. Au-
thor of 16 books of comparative literature and East-Central European intellectual
history of the twentieth century, published inside and outside Romania, of ap-
proximately 100 academic studies published in scholarly periodicals and of two
dozen chapters in books published in Europe, Canada and the U.S. Vice-president
of the International Comparative Literature Association (2010-); president of the
ICLA Research Committee on Eastern and South-Eastern Europe (2000-2010);
founder of the European Network of Comparative Literary Studies (ENCLS )
and member of the Executive Bureau (2003-2007); chair to the Experts panel

262
for Literature of the European Science Foundation (ESF); member of Academia
Europea (The Academy of Europe).

Nato a Roma, Pietro Trifone ha iniziato la sua carriera accademica nelle Univer-
sità di Roma “La Sapienza” e di Chieti; dal 1996 al 2004 è stato rettore dell’Uni-
versità per stranieri di Siena; attualmente è professore ordinario di Storia della
lingua italiana nell’Università di Roma “Tor Vergata”. Trifone ha svolto ricerche
sui rapporti tra la comunicazione linguistica e gli altri aspetti della realtà sociale
italiana, con particolare interesse per espressioni significative della cultura popo-
lare e per filoni eccentrici e alternativi della cultura elevata. Tra i principali temi
delle sue indagini vi sono varie figure della lingua letteraria, da Dante a Verga.
Si è occupato anche dei rapporti tra lingua e stampa, dell’istruzione e della diffu-
sione della cultura, del vocabolario politico, dell’italiano teatrale, del linguaggio
giovanile. Ha scritto un’opera monografica sulla storia linguistica di Roma e del
Lazio. È autore con Maurizio Dardano di una grammatica molto diffusa anche
all’estero. Ha curato, insieme con Luca Serianni, i tre volumi della Storia della
lingua italiana pubblicata da dall’editore Einaudi. Negli ultimi dieci anni ha dato
alle stampe fra l’altro i seguenti libri: L’italiano a teatro. Dalla commedia rina-
scimentale a Dario Fo (Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali,
2000); Rinascimento dal basso. Il nuovo spazio del volgare tra Quattro e Cinque-
cento (Roma, Bulzoni, 2006); Malalingua. L’italiano scorretto da Dante a oggi
(Bologna, Il Mulino, 2007); Storia linguistica di Roma (Roma, Carocci, 2008);
Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano (II edizione, Roma, Carocci,
2009); Storia linguistica dell’Italia disunita (Bologna, Il Mulino, 2010). Email:
pietro.trifone@libero.it

Maria Cristina Tumiati, psicologa e psicoterapeuta opera dal 2000 presso


l’INMP dove ha costruito, ed è responsabile di vari dispositivi transdisciplina-
ri e interculturali di presa in carico della salute di persone migranti e non tra i
quali Geografie del corpo, servizio di psicologia e di clinica transdisciplinare a
orientamento etnopsichiatrico e Passaggi nei territori di Giano, servizio per le
persone richiedenti protezione internazionale, rifugiate e vittime di tortura. Le
sue attività presso l’INMP sono orientate soprattutto verso la realizzazione di
nuovi modelli d’intervento che favoriscano l’emersione, attraverso l’incontro tra
diversità professionali e culturali, della complessità dei fattori che determinano
le differenti configurazioni della sofferenza umana e promuovano un intervento
clinico più pertinente e puntuale. Dalla seconda metà degli anni Ottanta porta
avanti una ricerca psico-antropologica sui fenomeni fisici del misticismo cattolico
in Calabria con un focus particolare sulla stigmatizzazione figurativa e l’estasi.

263
Gisèle Vanhese est professeur de Littérature roumaine à la Faculté de Lettres
et Philosophie de l’Université de la Calabre, où elle enseigne aussi la Littérature
comparée. Elle a été chercheur en Philologie romane à la Scuola Normale Supe-
riore de Pise, puis titulaire d’une chaire de professeur associé à l’Université de
Cassino et ensuite d’une chaire de professeur ordinaire à l’Université de Trieste,
avant de demander sa mutation à l’Université de la Calabre en 1997. Ses recher-
ches se sont orientées essentiellement dans deux directions: la poésie romantique
et contemporaine en Roumanie et en France; l’analyse des structures anthropo-
logiques de l’imaginaire, des mythes et de leur rhétorique profonde. Elle est l’au-
teur de livres et d’essais sur Mihai Eminescu, Lucian Blaga, Paul Celan, Mircea
Eliade, Benjamin Fondane, Dimitrie Bolintineanu, Panaït Istrati, Yves Bonnefoy,
Gérard de Nerval, Aloysius Bertrand, Marcel Schwob, Gaston Bachelard, Geor-
ges Schehadé, Nadia Tuéni, Jad Hatem et a publié en particulier La neige écarlate
dans la poésie d’Yves Bonnefoy, Paul Celan, Alain Tasso, Salvatore Quasimodo
et Lance Henson (Beyrouth, Éd. Dar An Nahar, 2003); Par le brasier des mots.
Sur la poésie de Jad Hatem (Paris, L’Harmattan, 2009) et Le Méridien balkani-
que (Arcavacata di Rende, Università della Calabria, Collection “Albanologia”,
2010). Elle a édité, avec Monique Jutrin, Une poétique du gouffre. Sur “Baude-
laire et l’expérience du gouffre” de Benjamin Fondane (Soveria Mannelli, Ed.
Rubbettino, 2003). Email: gvanhese@linguistica.unical.it.

Alexandra Vranceanu insegna Letteratura comparata all’Università di Bucarest


dall’1993, ha insegnato come ATER a l’Universita Jean Monnet di Saint Etienne
fra il 2001 e il 2005 e adesso insegna a l’Università di Padova attraverso uno
scambio interuniversitario. Ha pubblicato quattro libri e diversi articoli sulla let-
teratura contemporanea usando diversi metodi di ricerca: la relazione fra testo e
immagine (Modele literare în narațiunea vizuală, 2002 e Interferențe, hibridări,
tehnici mixte, 2007); la retorica (Tabloul din cuvinte, 2010 e Quelques aventures
de l’«ekphrasis» dans la littérature contemporaine, 2011), ha co-curato un volu-
me (insieme con acad. Dan Grigorescu), Metamorfoze Imagine şi Text, Studii de
iconologie, 2002, e ha curato il volume miscellaneo Text(e)/Image. Interferen-
ces. Etudes critiques. Critical Studies (2009). Ha co-organizzato diverse giornate
di studio e convegni e ha pubblicato saggi sulla letteratura rumena e francese
contemporanea in riviste e volumi collettivi di diversi paesi (Francia, Romania,
Italia, U.S.A., Paesi Bassi). S’interessa soprattutto alla letteratura europea, da
due punti di vista: la formazione del canone («National versus World Literature
Seen as a Confrontation between Modernism and Balkanism» in The Canonical
Debate Today, Papadima, L.; D.Damrosch, T.D’haen (a c di), Rodopi, Amster-
dam/New York, NY, 2011, 263-280; «La letteratura rumena e la cultura europea:
il comparatismo come metodo di integrazione», in Romania orientale, a c. di

264
N.Nesu, L. Valmarin, Roma, Bagatto Libri, 2008, 141-153; «La topologia di Cur-
tius come metodo di strutturazione della letteratura europea» in Ernst Curtius:
L’identità culturale dell’Europa, a c. di I.Paccagnella, E.Gregori, Padova, Esedra,
collezione “Quaderni del Circolo Filologico Linguistico Padovano”, 2010, 235-
252) e alla letteratura rumena francofona contemporanea di esilio e migrazione
(«Letteratura transnazionale e romanzi di scrittori rumeni migranti» in Il roman-
zo rumeno contemporaneo (1989-2010), a c di Nicoleta Neșu, Quaderni di Roma-
nia Orientale, Roma, Bagatto Libri, 2008, 83-102 e «Teme specifice literaturii
migrante în proza lui Dumitru Țepeneag», in Caiete critice, Bucuresti, 3-4/2011,
34-45). Email: alexandra.vranceanu@g.unibuc.ro

Alain Vuillemin. Fonction: professeur émérite de l’université d’Artois en littéra-


ture comparée, rattaché au laboratoire «Lettres, Idées, Savoirs» de l’université
«Paris Est», membre de l’Association des écrivains de langue française, est l’au-
teur de plus de trois cents publications dont, en collaboration, Interférences hi-
storiques, culturelles et littéraires entre la France, l’Europe et les pays d’Europe
centrale et orientale (XIX° et XX° siècles), 2000, La France, l’Europe et les Bal-
kans. Crises historiques et témoignages, 2002, L’Europe, la France, les Balkans.
Littératures balkaniques et littératures comparées, 2004, Traditionnel, Identité,
Modernité dans les cultures du sud-est européen: la littérature, les arts et la vie
intellectuelle au XX° siècle, 2006, L’Oublié et l’Interdit. Littérature, résistance,
dissidence et résilience en Europe Centrale et Orientale – 1947-1989, 2008, et
Identité et révolte dans l’art, la littérature, le droit et l’histoire en Europe Cen-
trale et Orientale entre 1947 et 1989, 2008, derniers titres parus. Email: alain.
vuillemin@refer.org.

265
Forum Translationswissenschaft

Herausgegeben von Lew N. Zybatow

Band 1 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Translation zwischen Theorie und Praxis. Innsbrucker Ringvorle-
sungen zur Translationswissenschaft I. 2002.
Band 2 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Translation in der globalen Welt und neue Wege in der Sprach-
und Übersetzerausbildung. Innsbrucker Ringvorlesungen zur Translationswissenschaft II.
2004.
Band 3 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Translationswissenschaft im interdisziplinären Dialog. Innsbrucker
Ringvorlesungen zur Translationswissenschaft III. 2005.
Band 4 Peter Sandrini (Hrsg.): Fluctuat nec mergitur. Translation und Gesellschaft. Festschrift für
Annemarie Schmid zum 75. Geburtstag. 2005.
Band 5 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Translatologie – neue Ideen und Ansätze. Innsbrucker Ringvorle-
sungen zur Translationswissenschaft IV. 2005.
Band 6 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Kulturelle Vorstellungswelten in Metaphern. Metaphorische Ste-
reotypen der deutschen und russichen Medien als Hypertext. 2006.
Band 7 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Sprach(en)kontakt – Mehrsprachigkeit – Translation. Innsbrucker
Ringvorlesungen zur Translationswissenschaft V. 60 Jahre Innsbrucker Institut für Transla-
tionswissenschaft. 2007.
Band 8 Wolfgang Pöckl (Hrsg.): Im Brennpunkt: Literaturübersetzung. 2008.
Band 9 Assumpta Camps / Lew N. Zybatow (eds.): Traducción e interculturalidad. Actas de la
Conferencia Internacional „Traducción e Intercambio Cultural en la Época de la Globaliza-
ción“, mayo de 2006, Universidad de Barcelona. 2008.
Band 10 Assumpta Camps / Lew N. Zybatow (eds.): La traducción literaria en la época contem-
poránea. Actas de la Conferencia Internacional „Traducción e Intercambio Cultural en la
Época de la Globalización“, mayo de 2006, Universidad de Barcelona. 2008.
Band 11 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Translation: Neue Entwicklungen in Theorie und Praxis. Summer-
Trans-Lektionen zur Translationswissenschaft. IATI-Beiträge I. 2009.
Band 12 Lew N. Zybatow (Hrsg.): Translationswissenschaft – Stand und Perspektiven. Innsbrucker
Ringvorlesungen zur Translationswissenschaft VI. 2010.
Band 13 A cura di Saverio Carpentieri / Angelo Pagliardini / Barbara Tasser / Lew Zybatow: Italia e
“Italie“. Identità di un paese al plurale. 2010.
Band 14 A cura di Alexandra Vranceanu / Angelo Pagliardini: Migrazione e patologie dell’humanitas
nella letteratura europea contemporanea. 2012.

www.peterlang.de

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