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Chi fu Socrate?

Sembra una domanda scontata: tutti hanno nella mente un’immagine del filosofo che
non lasciò nulla per iscritto, uno tra i più noti e affascinanti pensatori di ogni tempo. Ma proprio per
questo la risposta non è univoca: ciascuno si sente padrone della sua figura, e la modella secondo i
propri interessi, la propria mentalità, la propria fantasia. Così è successo fin dall’inizio: gli autori
che di Socrate ci hanno lasciato il profilo più completo – Aristofane, Platone, Senofonte – ne
tracciano ritratti talvolta addirittura in contraddizione tra loro. Come conciliare infatti l’immagine del
sofista approfittatore divulgata dalle Nuvole aristofanee con quella del filosofo tutto d’un pezzo
tratteggiata nell’Apologia platonica.
Questo volume raccoglie dunque i testi antichi più importanti per la comprensione del personaggio
Socrate e del suo pensiero e, grazie a un’approfondita e godibile introduzione, offre un percorso
critico che chiarisce al lettore quanto di ciò che si conosce del filosofo ateniese possa riferirsi al
Socrate storico, e quanto invece – e perché – la sua immagine sia stata modificata per renderla
portatrice di ideali di volta in volta diversi, ma altrettanto significativi.
SOCRATE TRA PERSONAGGIO E MITO
A cura di
FRANCO FERRARI

Traduzioni di
M. Casaglia, B. Centrone, M. L. Chiesara, P. Fabrini,
F. Ferrari, A. Grilli, A. Santoni, M. M. Sassi,
M. Vegetti, R. Velardi, G. Zanetto
Proprietà letteraria riservata

© 2007 RCS Libri S.p.A., Milano

eISBN 978-88-58-64538-3

Prima edizione digitale 2013 da prima edizione radiciBUR novembre 2007

Progetto grafico Mucca Design

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Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.


E vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Dedica
Per i settant’anni di Mario Vegetti
INTRODUZIONE
Ancora meno mi crederete se dico che il più grande bene dato all’uomo è proprio questa
possibilità di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi di cui mi avete sentito
discutere o esaminare me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere
vissuta dall’uomo.
Platone, Apologia di Socrate

Quale semidio è questi, a cui il coro degli spiriti più nobili dell’umanità deve gridare: «Ahi, ahi!
L’hai stritolato questo mondo bello, con un pugno potente! Crolla, precipita!». Il mirabile
fenomeno designato come «il demone socratico» ci dà la chiave della natura di Socrate. [...]
Laddove in tutti gli uomini produttivi proprio l’istinto è la forza creativo-affermativa e la
coscienza si rivela critica e dissuadente, in Socrate invece il critico è l’istinto e il creatore è la
coscienza: una vera mostruosità per defectum! E invero noi avvertiamo qui un mostruoso defectus
di ogni disposizione mistica, sicché Socrate sarebbe da definire come lo specifico non-mistico, nel
quale la natura logica è, per superfetazione, tanto eccessivamente sviluppata, quanto è nel mistico
la sapienza istintiva.
F. Nietzsche, La nascita della tragedia
SOCRATE E LA FILOSOFIA*
1. L’ENIGMA DI SOCRATE: IL FILOSOFO E LE SUE
IMMAGINI
Socrate rappresenta probabilmente la figura più popolare e insieme più misteriosa dell’intera storia
della filosofia: popolare Socrate lo è, perché al suo nome viene spesso associata la stessa pratica
filosofica ed egli è stato sovente considerato come una sorta di prototipo del filosofo (fino a farne un
vero e proprio martire della filosofia);1 ma Socrate è certamente anche misterioso, non solo perché,
come tutti sanno, non scrisse nulla (il che rende inevitabilmente difficile circoscriverne il pensiero),
ma soprattutto perché di lui sono state fornite immagini diverse e in larga misura addirittura
contrapposte.
La convergenza di questi due elementi, ossia la paradigmaticità del personaggio e l’impossibilità
di determinare in modo univoco la natura della sua riflessione, ha avuto come conseguenza che a
Socrate si rifecero pressoché tutte le tradizioni filosofiche antiche, con il risultato che le immagini di
Socrate si moltiplicarono ulteriormente. Abbiamo così un Socrate scettico, come quello
propagandato dalla Accademia ellenistica di Arcesilao e Carneade; un Socrate pitagorico e
tendenzialmente dogmatizzante (e interessato alla demonologia), come quello che circolava tra autori
medioplatonici quali Plutarco, Massimo di Tiro, Apuleio e Numenio; un Socrate cinicheggiante,
particolarmente diffuso tra i filosofi ellenistici e postellenistici che propugnavano l’ideale
dell’autarchia; un Socrate stoico, preso a modello del saggio imperturbabile e disposto a morire per i
suoi ideali filosofici; un Socrate cristiano, come quello di Giustino, e addirittura un Socrate
neoplatonico; per non parlare, poi, dei differenti Socrati emersi direttamente dal suo insegnamento:
quello edonista di Aristippo, quello autarchico e ascetico di Antistene e Diogene, quello razionalista
e monista di Euclide di Megara.2
Risulta dunque del tutto naturale (e perfino inevitabile) chiedersi come sia possibile che la stessa
figura abbia rappresentato il modello di riferimento per concezioni tra loro così differenti; e ancora
domandarsi come si possa spiegare il fatto, in se stesso davvero curioso, che la maggior parte delle
tradizioni filosofiche antiche si siano auto-rappresentate come differenti branche nate da un unico
tronco, costituito appunto dall’insegnamento di Socrate. 3 In realtà, una situazione come quella
appena descritta presenta un pendant proprio nella pluralità di immagini cui la figura di Socrate ha
dato luogo nelle quattro principali fonti dalle quali dipende la nostra conoscenza del suo pensiero: in
ordine cronologico, Aristofane, Platone, Senofonte e Aristotele. I Socrati che emergono dalla lettura
di queste testimonianze non sono solo diversi, ma per più di un aspetto inconciliabili. Questa
incommensurabilità, che può apparire davvero sconcertante, costituisce uno degli enigmi maggiori
dell’intera filosofia antica. Vale dunque la pena spendere qualche parola sulla natura di queste
quattro fonti e sulle diverse immagini di Socrate che da esse si ricavano.4
Aristofane, il grande commediografo del V secolo, conobbe Socrate e ne descrisse con sarcasmo
l’insegnamento nelle Nuvole (riferimenti a Socrate si trovano, come vedremo, anche in altre
commedie). Ai suoi occhi il filosofo rappresenta la figura prototipica della cultura iper-razionalistica
e tendenzialmente ateizzante espressa dalla sofistica e da certo naturalismo post-ionico (si pensi, per
esempio, ad Anassagora). Egli viene considerato il co-responsabile del processo di dissolvimento
che ha portato al naufragio del sistema di valori, sano e sostanzialmente irriflesso, della Atene
tradizionale. Anticipando (e probabilmente contribuendo, insieme a Diogene Laerzio, a determinare)
un accostamento destinato a conoscere una straordinaria fortuna in Friedrich Nietzsche, Aristofane
avvicina Socrate al tragediografo Euripide: Socrate ed Euripide sono ai suoi occhi i campioni di
quell’atteggiamento critico, razionalistico e ateo, al quale egli imputa la causa della crisi
sconvolgente che ha portato Atene sull’orlo della catastrofe. In un celebre passo delle Rane (vv.
1491-1500), commentando l’arte euripidea, il coro afferma: «è bello non fare chiacchiere / seduti
insieme a Socrate, / spregiando la poesia / e trascurando i sommi principi / dell’arte tragica. / Con
discorsi solenni / e insulse futilità / passare inerti il tempo / è da uomo dissennato».5
Il Socrate di Aristofane non è solo apparentato alla sofistica, fino a rappresentarne il prototipo,
colui in grado di trasformare il discorso debole in forte, di operare la persuasione, di trasmettere agli
allievi l’arte della parola ingannevole; egli è anche un pensatore naturalista alla maniera di
Anassagora, interessato a ta meteôra, ossia alle questioni fisico-cosmologiche, quel genere di
tematiche che, agli occhi di una certa cultura conservatrice, rischiavano quasi inevitabilmente di
sconfinare nell’ateismo (tanto da essere vietate dal decreto di Diopide, promulgato nel 432 e che
costò l’accusa di ateismo proprio ad Anassagora). Come vedremo, sia Senofonte che Platone
(quest’ultimo in maniera meno radicale) negano che Socrate si sia occupato di simili problemi,
attribuendogli invece, come unico interesse, l’indagine rivolta alle questioni etico-politiche (cfr. in
proposito anche Aristotele, Metafisica, I 6).
Come spiegare la presenza di una così clamorosa divergenza nelle nostre fonti? In realtà si può
assumere un criterio di natura evolutiva, osservando, anche sulla base di ciò che Platone fa dire a
Socrate nella celebre autobiografia contenuta nel Fedone, che l’iniziale interesse per l’indagine
naturalistica (peri physeôs historia ) fu poi soppiantato da un diverso approccio metodologico,
sostanzialmente orientato alla comprensione delle ragioni dell’agire umano, ossia a questioni di
carattere etico (Fedone, 96 A sgg.). Le Nuvole furono rappresentate nel 423 e potrebbero
effettivamente restituire, sia pure in un contesto sarcastico e polemico (cfr. T. 08), il tipo di attività
che Socrate svolgeva in un periodo molto anteriore all’incontro con Platone.6
Da Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, II 19) sappiamo che, secondo alcuni, Socrate fu discepolo
di Anassagora, divenne poi uditore di Archelao ed ebbe forse contatti con Diogene di Apollonia, dai
quali presumibilmente ereditò la passione per l’indagine peri physeôs. Non si può dunque escludere
che in una fase della sua vita, egli ebbe effettivamente interessi naturalistici; è difficile in ogni caso
sottrarsi all’impressione che l’enfasi con la quale Aristofane sottolinea l’impegno socratico verso
queste ricerche e la futilità delle stesse, sia motivata da intenti fortemente polemici e denigratori.7
Completamente diversa è l’immagine di Socrate che emerge dai dialoghi di Platone. Non è questa
la sede per affrontare la vexatissima (e forse insolubile) quaestio della natura della testimonianza
platonica su Socrate. Quest’ultimo è certamente un personaggio di Platone, il quale non si propone di
ricostruirne la figura storica, ma se ne serve per i propri obiettivi filosofici. Non è tuttavia insensato,
naturalmente con tutte le cautele del caso, considerare i primi dialoghi platonici, quelli solitamente
chiamati aporetici o anche socratici, come la messa in scena di un personaggio che doveva
presentare molti punti in comune con il Socrate storico, o che, comunque, poteva essere percepito da
un lettore dell’epoca in questi termini. Dunque, dialoghi come il Critone, l’Ippia maggiore e minore,
lo Ione, l’Alcibiade I, l’Eutifrone, il Protagora, il cosiddetto Trasimaco (ossia il I libro della
Repubblica), il Carmide, il Lachete, il Liside, l’Eutidemo, e per più di un aspetto il Gorgia (ma
anche il Menone, che condivide con quest’ultimo la qualifica di “dialogo di transizione”), oltre
naturalmente all’Apologia di Socrate, hanno qualche titolo per venire considerati, se non come
testimonianze su Socrate, almeno come espressioni di uno stile di pensiero e di modelli di
comportamento filosofico riconducibili in larga misura all’attività di Socrate.8
Se per Aristofane Socrate rappresenta in un certo senso il prototipo del sofista e dell’intellettuale
disgregatore, per Platone egli è il filosofo anti-sofista per eccellenza, colui che ha investito tutti i
suoi sforzi per dimostrare l’immoralità dello stile di vita (a differenza del Socrate aristofaneo, quello
platonico non percepisce alcun compenso)9 e l’inconsistenza del sapere di cui si dichiaravano in
possesso i sofisti e che ha tentato in ogni modo di ricostruire un spazio valoriale universale e
oggettivo che fungesse da pharmakon contro il soggettivismo, il convenzionalismo e il relativismo
espressi dal movimento sofistico. Per Platone Socrate è poi il migliore degli uomini del suo tempo, il
più giusto, colui che ha pagato con la morte il prezzo di un atteggiamento intellettuale improntato alla
massima coerenza e al rifiuto di ogni compromesso (cfr. T. 02). Ma egli è anche, e soprattutto,
l’individuo la cui esistenza ha incarnato il modello di vita filosofica, dunque, il filosofo per
eccellenza. Non è sbagliato vedere nei dialoghi socratici di Platone non tanto (o non solo) il tentativo
di comunicare concezioni o punti di vista teorici determinati, quanto la messa in scena della vita
filosofica, o meglio ancora, lo sforzo di sostenere la superiorità della vita filosofica (bios
philosophikos) nei confronti di altri modelli di vita, come quello politico o quello edonistico.10
Il Socrate di Platone è certamente anche il filosofo del sapere di non sapere, della confutazione,
dell’aporia, della maieutica, dell’ironia, dei paradossi etici; questi elementi, però, prima ancora che
nuclei teorici definiti, sembrano rappresentare nei dialoghi platonici espressioni di uno stile di
pensiero o meglio ancora di un’attitudine critica, di una forma di vita.11
Ancora diverso il Socrate ricavabile dagli scritti di Senofonte, ossia l’Apologia, il Simposio,
l’Economico e soprattutto i Memorabili . Senofonte, che scrive a qualche decennio di distanza dalla
morte di Socrate, lo descrive come il prototipo del cittadino perbene, perfettamente integrato nei
valori e nelle pratiche della città; Socrate arriva a rappresentare, agli occhi di Senofonte, il
paradigma del kalos kai agathos, ossia dell’individuo bello e buono che incorpora i principi etici e i
valori morali tradizionali, oltre ad attuare diligentemente le pratiche politico-religiose della polis. È
probabile, come recenti studi hanno dimostrato, che la figura di Socrate, proprio per la sua valenza
paradigmatica, costituisse per Senofonte uno strumento fondamentale nell’ambito di un ben preciso
progetto politico-culturale, volto a propagandare una certa forma di moderatismo, distante sia dagli
eccessi oligarchici della tirannia dei Trenta (404-403) sia dall’estremismo della democrazia
restaurata.12
L’immagine di Socrate costruita da Senofonte sembra opporsi in modo speculare a quella
ricavabile dalle Nuvole di Aristofane; per Senofonte le convinzioni religiose di Socrate non solo non
sconfinano affatto nell’ateismo, ma risultano del tutto congrue alle tradizioni cultuali della città; la
stessa figura del demone, per la cui introduzione il filosofo venne accusato e poi condannato, si
inserisce per Senofonte nell’orizzonte della pratica mantica più tradizionale e non ha nulla di
trasgressivo (cfr. Memorabili, I 1 = T. 01); inoltre, gli interessi di Socrate sono limitati alla sfera
etico-morale e non attengono all’ambito naturalistico, potenzialmente dotato di un’ineliminabile
carica razionalistica, demolitrice e addirittura ateistica (Memorabili, IV 7 = T. 05). Insomma, per
Senofonte Socrate fu un cittadino perbene, integrato, poco incline ai paradossi e a certe forme
estreme di razionalismo.13
Aristotele, la nostra quarta fonte, non conobbe personalmente Socrate; egli sembra servirsi in larga
misura dei dialoghi di Platone, sebbene non si possa escludere l’utilizzo di altre fonti. Secondo
Aristotele, Socrate ebbe unicamente interessi in campo etico-morale e rinunciò programmaticamente
a investigare la totalità della natura (Metafisica, I 6, 987b1 sgg.); nell’indagare la sfera delle virtù
egli cercò di determinare l’universale (katholou), ossia ciò che è comune (koinon), servendosi
prevalentemente della definizione (diorismos) e del metodo induttivo, vale a dire partendo dai casi
particolari per risalire a una nozione universale, e così facendo mise le basi del sillogismo e della
scienza. Inoltre, sempre secondo Aristotele, Socrate formulò alcune tesi ben definite, spesso
presentandole nella forma di veri e propri paradossi; la celebre concezione secondo cui la virtù è
conoscenza (cfr. sotto § 6), contro la quale Aristotele muove il rimprovero di non avere tenuto conto
del fenomeno della debolezza di carattere e della mancanza di volontà (akrasia), costituisce
probabilmente uno di questi filosofemi prossimi alla paradossalità.14 Il Socrate di Aristotele è
dunque un filosofo morale incline al radicalismo e al paradosso, proprio all’opposto di quello di
Senofonte.
Quale è dunque il vero Socrate? Il sofista disgregatore di Aristofane, o l’antisofista fondatore
della filosofia come disciplina autonoma di Platone? Il cittadino perbene (quasi per nulla filosofo) di
Senofonte o il filosofo dei paradossi etici di cui parla Aristotele? E poi ancora l’edonista di
Aristippo o il moralista virtuoso di Antistene? Egli è un mistico o un razionalista, religioso o ateo, lo
scopritore del concetto o il filosofo dell’ironia e del non sapere? Il precursore della logica o il
maestro dell’arte dell’inganno?15 Forse Socrate fu in realtà tutte queste cose, per la semplice ragione
che la sua attività diede effettivamente luogo a tutte queste interpretazioni. Del resto, se la grandezza
di un pensatore viene anche misurata dalla ricchezza e dalla complessità delle interpretazioni cui ha
dato origine, Socrate è stato un pensatore straordinario. Per questa ragione non vale la pena
pretendere di ricostruire l’immagine (forse inattingibile) del Socrate storico; è invece preferibile
accettare la complessità e l’irriducibilità degli effetti della sua attività, comportandosi come invitava
a fare Nietzsche nell’aforisma 12 della Genealogia della morale a proposito della verità: intorno ad
essa, come intorno a Socrate, esiste solo un vedere prospettico, che invita a lasciare parlare quanti
più occhi differenti è possibile, senza pretendere di attingere a un’entità irraggiungibile.
Certo, il Socrate di cui si parlerà in queste pagine (e poi nei testi raccolti nell’antologia) sarà
prevalentemente il Socrate di Platone. Non si tratta tuttavia di una scelta motivata da ragioni
storiografiche o filologiche; il Socrate di Platone è semplicemente quello più interessante dal punto
di vista filosofico, quello più ricco, e soprattutto quello che consente la ricostruzione di percorsi
filosofici più stimolanti.16
2. L’EVENTO DIROMPENTE: PROCESSO E MORTE DI UN
FILOSOFO
Il processo a Socrate si celebrò nel 399 e può venire considerato uno degli eventi più traumatici
della storia ateniese. Il capo di accusa, come è noto, fu duplice: corruzione dei giovani e introduzione
di nuove divinità (con contestuale rifiuto di quelle tradizionali). L’evento va situato nei primi anni
della restaurazione democratica, successiva alla fine del sanguinario governo filo-oligarchico dei
Trenta Tiranni (404-403). Alla decisione di muovere a Socrate le imputazioni non furono
probabilmente estranee ragioni politiche, legate in particolare a una certa vicinanza dell’accusato, se
non alla fazione aristocratica, quantomeno ad alcune figure che di essa facevano parte (si pensi a
Crizia e a Carmide).17 In realtà, Socrate non entrò mai direttamente nell’agone politico – come del
resto lui stesso dichiara nell’Apologia (31 C-D = T. 11) – ma è indubbio che le sue frequentazioni
abituali potevano risultare più vicine alla parte aristocratica che a quella democratica, se non altro
perché i ricchi avevano maggiori possibilità di dedicare il proprio tempo alle discussioni
filosofiche. In ogni caso, tanto Platone nell’Apologia che Senofonte nei Memorabili mirano a
sottolineare la fedeltà di Socrate alla città e alle sue leggi (cfr. T. 01 e 02), ponendo l’accento sul suo
comportamento civico, e in particolare sulla partecipazione alle campagne militari e
sull’espletamento delle magistrature alle quali era stato chiamato. Del resto, è Socrate stesso a
ricordare come il suo comportamento non si sia mai appiattito su una delle due fazioni, essendosi
opposto tanto alla democrazia che all’oligarchia, quando queste pretesero da lui comportamenti
contrari ai suoi principi.18
Non c’è dubbio che il processo e la condanna di Socrate rappresentarono eventi importanti per la
storia ateniese a cavallo tra il V e il IV secolo; gli effetti sono evidenti nei decenni successivi, che
videro la proliferazione di una vera e propria letteratura incentrata intorno alla figura di Socrate.
All’Apologia di Platone, composta presumibilmente intorno al 395, dovette rispondere la Kategoria
di Policrate (393), un atto di accusa filo-democratico che riprendeva e approfondiva gli argomenti
utilizzati contro il filosofo nel corso del processo; i primi due libri dei Memorabili di Senofonte
costituiscono, a loro volta, una risposta allo scritto di Policrate e una difesa della fedeltà di Socrate
ai valori della polis.19
Le dimensioni del fenomeno culturale, letterario e politico legato alla vicenda di Socrate furono
addirittura sbalorditive, se si pensa che nei primi tre decenni del IV secolo vennero composti circa
250 libri contenenti più di 300 unità dialogiche socratiche, ossia logoi sôkratikoi, ad opera di
almeno 14 autori (oltre a Platone e Senofonte, si possono menzionare Aristippo, Critone, Cebete,
Eschine di Sfetto, Glaucone, Fedone, Alessameno di Teo, Antistene e Simia di Tebe).20 I socratici si
impegnarono in una battaglia volta a imporre una sorta di egemonia culturale che doveva poi avere,
almeno nelle loro intenzioni, significative ricadute in campo politico. È naturale che in un simile
contesto il processo assurse inevitabilmente al ruolo di evento centrale e quasi fondativo. Divenne il
campo di battaglia di accese dispute intorno al rapporto tra il cittadino e la polis (e le sue leggi), alla
questione del significato della religione tradizionale, al tema della competenza richiesta per
governare la città.
Ben quattro scritti di Platone ruotano intorno al processo: l’Eutifrone, dove Socrate riceve l’atto
di accusa di empietà (graphê peri asebeias) relativa al mancato riconoscimento da parte sua delle
divinità tradizionali e discute del significato della nozione di pietà; l’Apologia, in cui egli fornisce
una sorta di giustificazione complessiva della propria attività (richiamandosi in particolare alla
affermazione dell’oracolo delfico che lo definiva il più sapiente degli uomini), e cerca di difendersi,
sia pure in maniera poco puntigliosa, dalle accuse di empietà e corruzione della gioventù che gli
erano state mosse da Anito e Meleto; il Critone, dove rifiuta il pressante invito dell’amico Critone a
fuggire dal carcere, spiegando che la fuga equivarrebbe a un vero e proprio atto di ingiustizia nei
confronti delle leggi della città, dalle quali egli dipende in quanto individuo inserito in un contesto
comunitario e relazionale;21 e, infine, il Fedone, in cui si narra delle ultime ore di Socrate, trascorse
ad argomentare in favore dell’immortalità dell’anima e a persuadere gli amici che la morte (ossia il
distacco, lysis, dell’anima dal corpo) non rappresenta un male.
Comprendere le ragioni profonde che portarono al processo e alla condanna, e poi il
comportamento che nel corso del processo tenne l’accusato, costituisce un problema forse insolubile,
e che comunque esula dai compiti di questa introduzione.22 Le due accuse mosse a Socrate potevano
avere un qualche fondamento nell’attività del filosofo; del resto, lo stesso Aristofane, più di due
decenni prima, descrivendo Socrate come il prototipo del sofista ateo e disgregatore di valori, non
fece che anticipare le accuse del tribunale. Socrate forse non corrompeva i giovani, ma certamente
metteva in discussione ogni forma di acquiescenza e in generale l’accettazione acritica di valori e di
pratiche consolidate; probabilmente egli non era un pensatore ateo alla maniera di Anassagora, ma,
come emerge ad esempio dall’Eutifrone (cfr. T. 12), il suo atteggiamento nei confronti della religione
tradizionale (quella del Pantheon) risultava quantomeno scettico. La stessa introduzione del demone,
un’entità appartenente alla sfera divina (viene infatti definito phonê, voce, e sêmeion, segno, theion
kai daimonion, ossia divino e demoniaco), ma certamente estranea alla religione tradizionale,
dovette apparire in qualche misura pericolosa agli occhi dei sostenitori di quest’utima.23 Tutto ciò,
unito a un’attitudine fortemente critica nei confronti della prassi democratica, colpevole ai suoi occhi
di avere rinunciato al principio di competenza, contribuì a fare di Socrate una figura sospetta alla
restaurata democrazia, senza che in realtà egli potesse venire considerato un sostenitore della parte
oligarchica.
Del resto, l’onda lunga del processo a Socrate segnò la vita politica ateniese almeno per tre
decenni, a testimonianza del fatto che l’evento fu letto essenzialmente all’interno di una prospettiva
politica. I due maggiori autori che scrissero di Socrate, Platone e Senofonte, ne fecero una figura
paradigmatica, servendosene allo scopo di nobilitare il progetto politico nel quale erano impegnati:
la legittimazione del potere filosofico come scienza regia nel caso di Platone, la valorizzazione della
kalokagathia e del moderatismo in quello di Senofonte.
3. LO SPAZIO “POLITICO”: CRITICA SOFISTICA E META-
CRITICA SOCRATICA
Il rapporto di Socrate con il movimento sofistico è problematico e non privo di aspetti paradossali. Il
semplice fatto che Aristofane e Platone lo presentino in maniera del tutto opposta costituisce un
indizio significativo di questa problematicità. Nelle pagine che seguono ci si dovrà limitare ad
alcune considerazioni di ordine generale, utili al fine di comprendere meglio la personalità di
Socrate. Dunque: in che senso egli fu un sofista? Che cosa condivise con i maggiori rappresentanti di
questo movimento? E in che misura se ne distanziò in maniera significativa?24
Un giudizio storiografico vecchio ma non privo di elementi ancora accettabili attribuiva ai sofisti
l’inaugurazione di uno spazio di riflessione nuovo, rappresentato dall’uomo e in particolare dalla sua
collocazione all’interno della città. Il consolidarsi nel corso del V secolo della democrazia
assembleare contribuì in maniera decisiva allo sviluppo di una riflessione critica intorno ad alcune
nozioni connesse in qualche misura alla pratica politica. In tale contesto si produsse una radicale
messa in discussione di concetti quali virtù (aretê), giustizia (dikaiosynê), potere (archê),
persuasione (peithô), discorso (logos), utilità (ôpheleia), felicità (eudaimonia ), legge (nomos),
natura (physis), che finirono, sotto l’analisi spregiudicata dei sofisti, per smarrire il loro carattere in
qualche misura irriflesso (frutto appunto di un’accettazione acritica), per trasformarsi in una sorta di
campo di battaglia in cui si scontravano le opzioni più diverse.
Quello rappresentato dalla sofistica non fu un movimento unitario e omogeneo che produsse una
teorizzazione compatta. Tuttavia, alcune linee di tendenza si imposero in maniera abbastanza evidente
fino a delineare un quadro culturale (se non propriamente teorico) tutto sommato definito, sebbene
indubbiamente articolato. Ai sofisti, o almeno ad alcuni di essi, si deve la radicale messa in
discussione della natura oggettiva e stabile della realtà; un autore come Gorgia, ad esempio, arrivò a
negare che qualcosa fosse determinabile qualitativamente, che fosse conoscibile e che fosse poi
comunicabile. L’insieme di queste tre tesi (a: nulla esiste; b: se anche esistesse non sarebbe
conoscibile; c: se anche esistesse e fosse conoscibile non sarebbe comunicabile) aprì in Gorgia lo
spazio per il dominio incontrastato della parola (logos) e del discorso persuasivo, che assurse in lui
al ruolo di «grande tiranno (megas dynastês) che compie le imprese più divine con un corpo
piccolissimo e totalmente invisibile, perché può fare cessare il timore, eliminare il dolore, produrre
gioia e suscitare pietà» (DK 82 B 11, 8).25 In modo analogo un pensatore come Protagora mise in
discussione la nozione di verità, negando l’esistenza di una misura oggettiva e universale, e
sostenendo che l’unico metron delle cose, ossia dei valori e dei comportamenti, è l’uomo (da
intendersi sia come individuo sia soprattutto come comunità politica); in un simile quadro teorico la
nozione di utilità (ôpheleia) acquisì una rilevanza centrale e finì per identificarsi con quella di bene
(agathon).
La riflessione sofistica, soprattutto con la seconda e terza generazione di pensatori (figure come
Prodico, Ippia, Antifonte, Crizia, Trasimaco, e poi l’autore dei celebri Dissoi logoi) assume le vesti
di un vero e proprio movimento illuministico, capace di mettere in discussione, attraverso il vaglio
spregiudicato dell’analisi razionale, ogni certezza consolidata, di scuotere dalle fondamenta gli
elementi costitutivi della eticità naturale. L’esito quasi inevitabile di un simile processo culturale
consiste nell’affacciarsi di un vero e proprio relativismo valoriale: il giusto, il buono, il pio cessano
di costituire datità assolute, irriflesse, dotate di una sorta di oggettività intrinseca; il misterioso
autore dei Dissoi logoi, discorsi doppi, forse lo stesso Protagora, arriva a sostenere che

se si ordinasse a tutti gli uomini di radunare in uno stesso luogo tutte le cose che essi ritengono
vergognose, e una volta fatto ciò si ordinasse poi a ciascuno di prendere dal mucchio ciò che
ritiene bello, non ne resterebbe neppure una, ma tutti si dividerebbero tutto (DK 90 B 2,18).

Non è probabilmente azzardato vedere in una simile affermazione una professione ante litteram del
cosiddetto relativismo culturale , oggi tanto spesso (non di rado del tutto a sproposito) evocato. In
effetti, l’autore di questo scritto sembra sostituire l’oggettivismo etico di matrice arcaica con una
sorta di relativismo descrittivo che investe tutti gli aspetti (bene-male, giusto-ingiusto, vero-falso,
bello-brutto).
Un motivo intorno al quale si concentrò in forma sistematica la riflessione dei sofisti di seconda e
terza generazione fu quello relativo al rapporto tra nomos e physis, ossia tra legge e natura.26 In tale
ambito viene messa radicalmente in discussione la convinzione, che percorre implicitamente la
riflessione arcaica, che le due nozioni siano in larga misura sovrapponibili e che la legge acquisti
legittimità in virtù di una derivazione, più o meno diretta, dalla natura.
In un autore come Antifonte, ad esempio, l’irriducibilità della norma alla natura si profila in modo
molto netto; i sistemi normativi prescrivono una serie di comportamenti che sono sostanzialmente
contrari alla tendenza naturale degli uomini, i quali sarebbero portati per natura ad acquisire il
massimo di soddisfazione e di benessere personale, anche a scapito degli altri individui, ma risultano
frenati in questa loro tendenza dalle leggi. La condizione naturale è rappresentata da una sorta di
conflitto permanente, di bellum omnium contra omnes, in cui gli individui cercano di imporsi,
danneggiando gli altri e dando libero sfogo all’istinto pleonectico che ne rappresenta il principio
dinamico costitutivo. L’accettazione delle leggi e la rinuncia a mettere in atto la pleonexia, ossia
l’istinto di sopraffazione, vengono vissute in certe frange radicali della riflessione sofistica come dei
mali minori, ai quali si finisce con il pervenire (stipulando una sorta di patto di non aggressione di
cui le leggi costituiscono la sanzione formale) non per intima convinzione, ma per scongiurare i rischi
impliciti nel comportamento pleonectico degli altri individui. In un simile quadro teorico la giustizia
cessa di costituire un principio di valore naturale e si trasforma in una scelta utilitaristica (assunta
per evitare di finire vittime della pleonexia altrui), alla quale ci si sottrarrebbe se si avesse la
certezza di non doverne pagare le conseguenze (ad esempio rendendosi invisibili).27
La tesi di Antifonte contiene alcuni presupposti che, se sviluppati in modo conseguente, finiscono
con l’aprire le porte a una concezione che considera il “patto sociale”, di cui le leggi costituiscono la
sanzione formale, come un’autentica violenza imposta alla natura. È probabile che alcuni sofisti
arrivarono addirittura a sostenere che le leggi non sono solamente una dolorosa necessità alla quale
gli uomini ricorrono per scongiurare i rischi di un perenne conflitto generalizzato, ma che esse
rappresentano una vera e propria perversione della natura, dal momento che consentono a coloro che
sono naturalmente più deboli di imporsi sugli individui più forti e capaci. Una tesi di questo genere
viene attribuita da Platone al misterioso Callicle (cfr. Gorgia, 482 E-486 D; vedi anche T. 15), la cui
esistenza storica non è sicura, ma che dovette costituire, agli occhi del grande filosofo, il prototipo
del radicalismo sofistico. Secondo Callicle (o chi per lui) le leggi non sono altro che ipocriti
stratagemmi orchestrati dai più deboli allo scopo di sottomettere i più forti, impedendo loro di dare
libero sfogo alla superiorità naturale di cui sono dotati. La norma naturale, che le leggi ipocritamente
riescono a pervertire, prevede invece il dominio dei più forti, ossia di coloro che sono in grado di
imporre il loro istinto di sopraffazione. In un tale quadro teorico la felicità non è altro che la capacità
di soddisfare tutti i desideri che di volta in volta si presentano a un’anima ormai insaziabile.
Sulla linea teorica cui fanno riferimento le posizioni appena menzionate, ma operando un’ulteriore
radicalizzazione, si mosse Trasimaco di Calcedonia, il grande avversario di Socrate nel I libro della
Repubblica (cfr. T. 20). Secondo Trasimaco la giustizia consiste effettivamente nell’osservanza delle
leggi (Rechtspositivismus); tuttavia, tale identificazione è solo il primo passo verso la comprensione
del fenomeno. Nella presentazione che ne fa Platone, il positivismo giuridico si fonda, per
Trasimaco, in un vero e proprio positivismo della forza (Machtspositivismus), dal momento che
coloro che stabiliscono le norme giuridiche sono i più forti (i più ricchi, i più potenti, o
semplicemente la maggioranza). Dunque, chi detiene il potere (in quanto è il più forte) decide che
cosa è giusto e lo fa nel proprio esclusivo interesse. Si comprende così la celebre tesi, sostenuta da
Trasimaco nel I libro della Repubblica, secondo la quale la giustizia non è altro che «l’utile del più
forte».
Il carattere dirompente delle tesi di Trasimaco risiede nella radicale de-naturalizzazione e de-
oggettivazione della nozione di giustizia, che finisce per risultare il prodotto di rapporti di forza che
si collocano a monte di essa; se in una determinata città i più forti sono gli aristocratici, costoro
stabiliranno leggi di carattere aristocratico, finalizzate alla conservazione e al rafforzamento del loro
potere; ma la medesima situazione si produce in un regime democratico, dove la maggioranza, la
quale detiene il potere, emanerà normative di stampo democratico. Come si vede, il diritto si fonda
in realtà sulla forza, ossia sul potere. Sostenere che le leggi possiedono un carattere neutrale rispetto
ai conflitti reali costituisce, per Trasimaco, un’ingenuità intollerabile, oltre che una profonda falsità:
la legge non regola i conflitti, bensì dipende da questi ultimi (e si limita a codificare il risultato di
rapporti di forza reali).28
Nel contesto di radicalismo teorico e politico di cui stiamo ragionando si inserisce anche la
riflessione di Crizia, zio di Platone, frequentatore di Socrate e membro influente del partito
oligarchico (fu, tra l’altro, uno dei Trenta Tiranni che insanguinarono Atene tra il 404 e il 403).
Secondo Crizia, la stessa religione, ossia la credenza nell’esistenza degli dèi e nelle punizioni che
attendono i malvagi dopo la morte, non è altro che uno strumento di cui il potere si dota allo scopo di
preservarsi. Chi governa si serve della paura che la religione trasmette agli uomini per indurre i
governati al rispetto delle leggi (stipulate forse nel solo interesse dei governanti medesimi). Ecco
come Crizia argomentava la sua tesi nel dramma Sisifo:

Dal momento che le leggi non bastavano a tenere gli uomini lontani dal commettere violenze [...]
ma essi continuavano a commetterne di nascosto, ritengo che allora per la prima volta un uomo
astuto e saggio nella mente inventò per i mortali il timore degli dèi, così da ingenerare timore
nei cattivi anche se facessero o dicessero o semplicemente pensassero qualcosa di nascosto
[...]. Così credo che all’origine qualcuno persuadesse gli uomini a credere che esista il divino
(DK 88 B 25).

Anche la religione smarrisce, agli occhi della spregiudicata riflessione sofistica, ogni pretesa di
oggettività e naturalità, trasformandosi in una sorta di instrumentum regni, finalizzato a estendere il
potere coercitivo delle leggi anche dove esse rischiano di risultare impotenti (ossia nelle coscienze e
nell’oscurità dei comportamenti sottratti alla visibilità pubblica).
L’atteggiamento critico nei confronti della tradizione che ha animato il movimento sofistico ha
indotto taluni studiosi a parlare di illuminismo greco. In effetti, molti sofisti misero in discussione
convinzioni radicate, nel campo della realtà (soprattutto Gorgia), della conoscenza (ancora Gorgia e
Protagora), della politica e in particolare della natura del potere (Antifonte, Callicle, Trasimaco),
della religione (Protagora e Crizia), imponendo in tutti questi ambiti i diritti della ragione. Si
trattava, molto spesso, di una ragione spregiudicata, che finì per mettere in discussione (e addirittura
per sconvolgere) schemi teorici e comportamentali profondamente radicati nella tradizione.
Che cosa c’entra Socrate con tutto ciò? Forse meno di quanto faccia intravedere nella sua feroce
polemica Aristofane; ma certamente più di quanto si sia disposti solitamente ad ammettere sulla base
della testimonianza platonica. Socrate, se non altro quello platonico e aristofaneo, condivide con i
sofisti almeno un elemento significativo: l’attitudine critica; si tratta, in sostanza, del rifiuto di
accettare consuetudini, pratiche, valori tradizionali, come se fossero di per sé portatori di una
dimensione veritativa ed etica. Per Socrate, come per molti sofisti, non esiste un’eticità naturale
incorporata nella tradizione; ogni scelta, ogni opzione va sottoposta al vaglio della critica razionale;
nel campo della politica, della morale, della religione, non può darsi un sapere irriflesso;
l’oggettivismo a-critico rappresenta un atteggiamento mentale che rischia di avvicinare
pericolosamente la riflessione etico-politica a certe forme di naturalismo, che tanto Platone che
Senofonte considerano lontanissime dalla prospettiva socratica (e in realtà anche Aristofane, il quale,
semmai, avvicina Socrate al naturalismo critico e iper-razionalista di Anassagora).
Tuttavia la riflessione socratica non sembra del tutto riducibile allo spirito illuministico della
sofistica, o almeno di alcune frange di essa. Se l’esito teorico cui perviene questo pensiero non è
distante da un orizzonte dominato dal relativismo, dal convenzionalismo e dall’utilitarismo (o
pragmatismo), Socrate si propone invece di ricostruire uno spazio teorico di tipo universalistico, in
cui però l’oggettività non costituisca più un dato irriflesso (ossia garantito dal radicamento nella
tradizione), bensì il prodotto della razionalità intersoggettiva, la quale trova l’espressione più
pregnante nel dialogo. Vedremo come per Socrate la reciproca comprensione e l’accordo
(homologia), raggiunti all’interno del dialogo, costituiscono, almeno a livello programmatico, una
buona garanzia di universalità, sebbene permanga in lui un certo scetticismo circa la possibilità da
parte dell’uomo di pervenire a una conoscenza definitiva e non più confutabile dell’ordine oggettivo
del mondo (cfr. sotto § 9).
La presenza di un’esigenza universalistica (se non altro nella forma del desideratum) – con il
contestuale rifiuto del relativismo, del convenzionalismo e del pragmatismo – segna uno scarto
significativo con la sofistica. A ciò si deve aggiungere lo scetticismo (che sconfina spesso nell’aperta
condanna) nei confronti della convinzione, presente in alcuni settori “progressisti” del movimento
sofistico (si pensi, per esempio, a Protagora), secondo la quale tutti gli uomini sono, almeno
potenzialmente, in possesso di un sapere che consente loro di accedere alle cariche pubbliche e di
esercitare il governo della città.29 A una simile tesi Socrate ha sempre opposto il principio di
competenza, il quale stabilisce l’esigenza che anche la pratica politica, esattamente come quella
tecnica, si fondi su un sapere oggettivo e riproducibile (la cui determinazione, come vedremo,
costituisce però uno dei nodi irrisolti del socratismo).30
Dal punto di vista teorico l’irriducibilità della posizione socratica a quella sofistica sembra avere
a che fare con l’esigenza di superare lo spirito critico attraverso l’acquisizione di una dimensione
meta-critica, in cui venga comunque conservato l’atteggiamento razionalistico e spregiudicato di
molti sofisti (l’uso sistematico della confutazione appartiene senza dubbio a questo tipo di forma
mentis), ma innestato in un orizzonte di riferimento sostanzialmente propositivo (e possibilmente
universalistico), quantomeno a livello programmatico.
In verità lo scarto più significativo tra Socrate e i sofisti non attiene tanto alla dimensione
propriamente teorica della riflessione filosofica, quanto alla forma di vita, al bios. Socrate non
trasmette un sapere consolidato (come pretendevano di fare molti sofisti), ma esorta i suoi ascoltatori
ad assumere un certo tipo di atteggiamento, critico, riflessivo, indagatore; inoltre egli non percepisce
alcuna ricompensa per la propria attività (come fecero i sofisti, alcuni dei quali divennero molto
ricchi), non è un insegnante, ma un ricercatore; i dialoghi giovanili di Platone non si propongono di
trasmettere (se non in forma indiretta) teoremi definiti, ma mirano a mettere in scena una forma di
vita, quella filosofica, cercando di fare sì che il lettore sia attratto da essa e la preferisca ad altre
forme di vita (apparentemente in grado di garantire più riconoscimenti e successo).31 Questo non
significa che a Socrate non siano ascrivibili posizioni filosofiche definite; significa, però, che la sua
attività è prima di tutto indirizzata a modificare il tipo di vita e di valori dei suoi interlocutori, i quali
vengono costantemente messi in guardia sia dall’accettazione acritica di convinzioni consolidate, sia
dagli esiti soggettivistici, relativistici e utilitaristici cui il pensiero sofistico è, quasi inevitabilmente,
pervenuto.
4. LA COMUNICAZIONE FILOSOFICA
Uno degli aspetti in cui maggiormente si misura lo scarto di Socrate nei confronti dei sofisti è senza
dubbio costituito dalla modalità di comunicazione del sapere. Come è noto, egli non scrisse nulla, a
differenza dei sofisti, che composero opere destinate a consolidare il loro successo. Naturalmente,
alle spalle della scelta socratica di non scrivere agiscono ragioni ben precise, legate alla
convinzione che il particolare statuto del sapere filosofico mal si adatti al tipo di trasmissione
sostanzialmente asettico e decontestualizzante proprio della scrittura.
Già Senofonte accenna alla perplessità di Socrate nei confronti delle potenzialità educative della
scrittura; al sofista Eutidemo, il quale aveva raccolto una notevole quantità di opere, convinto di
potere acquisire per mezzo di esse una grande sapienza (in grado di garantirgli successo nel campo
dell’oratoria e della politica), Socrate faceva presente quanto ingenuo fosse pretendere di diventare
sapienti nelle cose importanti solo attraverso i libri, senza entrare direttamente in contatto con un
maestro (Memorabili, IV 2, 1). In generale Socrate rimprovera ai sofisti di comporre manuali
attraverso i quali essi pretendono di trasmettere un sapere che, in realtà, proprio in virtù di questa
modalità comunicativa, si rivela estrinseco all’anima e sostanzialmente superficiale. Ai suoi occhi il
tratto peculiare della comunicazione sofistica è rappresentato dalla makrologia, ossia dalla
composizione di lunghi discorsi (sia scritti che destinati a venire pronunciati). Ciò comporta una
totale mancanza di considerazione per la natura del destinatario; i lunghi discorsi (logoi makroi) dei
sofisti non si propongono lo scopo di adattarsi alle capacità ricettive del lettore, ma mirano solo a
dimostrare le qualità compositive e oratorie (ossia il presunto sapere) del locutore; in questo senso,
assumono le vesti di vere e proprie performances, vale a dire dimostrazioni di capacità (epideixeis),
di fatto disinteressate a generare nel destinatario l’acquisizione di un sapere effettivo, ossia meditato
e profondo. In termini di moderna teoria della comunicazione, si potrebbe dire che per Socrate nella
comunicazione sofistica l’accento cade sul mittente e non sul destinatario.
Nei dialoghi platonici si trovano numerosi passi nei quali Socrate si scaglia contro la pratica
sofistica della macrologia. Il più celebre è contenuto nella prima parte del Protagora, dove Socrate
discute con il grande sofista la questione dell’insegnabilità della virtù. Afferma dunque Socrate:

Se, difatti, qualcuno discorresse di questi stessi argomenti con qualcuno degli oratori che
parlano in pubblico, forse potrebbe udire discorsi come questo o da un Pericle o da qualche
altro abile oratore; se invece l’interrogassimo su qualche altro punto particolare, costoro, come
libri, non saprebbero né rispondere né a loro volta porre domande, ma interrogati su qualche
passo, anche piccolo, da loro pronunciato, come bronzi percossi risuonerebbero a lungo e
vibrerebbero finché venissero toccati; così i retori, a chiedere loro una pur piccola spiegazione,
fanno un interminabile discorso (Protagora, 328 C-329 B).32

Chi compone lunghi discorsi si sottrae al dovere di verificare la comprensione del destinatario; si
comporta come se in gioco ci fosse primariamente la sua dimostrazione e non la ricezione. Si
potrebbe affermare che la macrologia si configura come una sorta di atto di sopraffazione
(pleonexia), omogeneo per certi aspetti alle teorie sullo stato di natura sostenute in ambienti sofistici.
33

Alla composizione di testi scritti, finalizzati al successo del loro autore, Socrate contrappone
programmaticamente il rapporto diretto tra interlocutori, di cui il dialogo costituisce l’espressione
più compiuta. Esso consente di stabilire un piano di interazione adeguato, di controllare gli effetti del
discorso, di calibrare di volta in volta le modalità comunicative, di verificare la reciproca
comprensione. La celebre domanda ti legeis (che cosa intendi dire?), che percorre tutti i dialoghi
definitori o socratici di Platone, intende, prima ancora che definire un oggetto, stabilire un accordo
intorno a ciò di cui si parla.34 Per Socrate nelle performances (oratorie e compositive) dei grandi
sofisti è assente proprio questa esigenza comunicazionale, che costituisce prima di tutto un’esigenza
educativa; da questo punto di vista la scrittura è essenzialmente macrologica, mentre il dialogo vivo
con un interlocutore possiede una natura costitutivamente brachilogica.
Le celebri affermazioni di Socrate contenute nella parte conclusiva del Fedro, dedicate alla
scrittura e ai suoi limiti, esprimono il punto di vista di Platone; tuttavia esse non devono essere
estranee alla sensibilità di Socrate nei confronti della pratica della scrittura. In effetti, molte delle
riserve circa le capacità comunicative e pedagogiche di questo mezzo sembrano riflettere un punto di
vista abbastanza vicino a quello socratico: anche per Socrate un testo scritto può venire frainteso;
inoltre esso ripete sempre la stessa cosa, non è cioè in grado di commisurare la modalità
comunicativa al livello del destinatario; il suo maggiore limite consiste infatti nella sostanziale
estrinsecità del mezzo (la scrittura) in rapporto al destinatario (l’anima). A questo genere di
comunicazione, il Socrate platonico del Fedro contrappone il discorso vivente e animato (zôos kai
empsychos), ossia il dialogo tra interlocutori presenti, nel quale risulta possibile controllare di volta
in volta l’effetto delle parole e calibrare le modalità comunicative al tipo di anima che si ha di fronte
(Fedro, 274 C-278 E).35
In realtà, sullo sfondo di questa concezione della comunicazione filosofica agisce la convinzione
che l’oggetto stesso della filosofia non si presti a una trasmissione equiparabile a quella delle altre
discipline. Nel Simposio Socrate rimprovera Agatone perché ritiene che il sapere sia trasmissibile in
modo meccanico, come accade a un liquido che viene travasato da un vaso pieno a uno vuoto:
«Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza (sophia) fosse qualcosa che può scorrere, al semplice
contatto, dal più pieno al più vuoto di noi, come attraverso un filo di lana l’acqua scorre dalla tazza
più colma a quella più vuota» (Simposio, 175 D). E anche nel VII libro della Repubblica Socrate
spiega, in polemica con i sofisti, che l’educazione (paideia) non può venire impiantata in qualcuno
come la vista in un cieco, ma richiede un complesso processo di conversione dell’anima (epistrophê
tês psychês), ossia un vero e proprio rivolgimento (periagôgê), un mutamento di direzione dello
sguardo. che comporta una significativa componente di interiorizzazione (Repubblica, VII 518 B-D).
In verità, tutta la concezione platonica dell’educazione sembra opporsi al punto di vista dei sofisti.
Lo scarto emerge in tutta evidenza già sul piano terminologico. Socrate rifiuta di considerarsi un
didaskalos, ossia un insegnante alla maniera dei sofisti; nell’Apologia afferma perentoriamente di
non essere didaskalos oudenos , cioè maestro di nessuno; se non è maestro, non ha neppure allievi
(mathêtai) nel senso tecnico del termine (33 A). Senza maestro e senza allievi, vengono meno le
condizioni della trasmissione disciplinare del sapere; in questo senso Socrate intende anche
distinguersi dagli esperti delle varie technai, ai quali pure riconosce una qualche forma di
competenza oggettiva (cfr. sotto § 7 e T. 06). La conoscenza autentica, ossia il sapere filosofico (il
quale, come vedremo in § 5, si riferisce e appartiene all’anima) non è trasmissibile in modo passivo
da un maestro a un discepolo, alla maniera del passaggio di un liquido da un contenitore pieno a uno
vuoto. Esso richiede una sorta di compartecipazione nella quale lo stesso discente sia indotto a
trovare da sé la conoscenza. Socrate (e con lui Platone) distingue la trasmissione di informazioni
(paradounai) che passano dal didaskalos al mathêtês dal processo di interiorizzazione del sapere,
che assume piuttosto le caratteristiche di una ricerca in comune tra hetairoi (sia pure non collocati
sullo stesso piano).36
Quanto detto dovrebbe aiutare a comprendere la natura fortemente contestuale dell’insegnamento
socratico, ossia il fatto che esso non presuppone un sapere già dato, esterno alla comunicazione;
Socrate concepisce la dinamica educativa in termini di rapporto tra anime, che cooperano
nell’ambito del dialogo al conseguimento di un accordo (homologia), il quale costituisce una prima
garanzia della verità dei risultati ottenuti. A differenza della dialettica platonica, la quale, come
vedremo, presenta una significativa componente oggettiva e universale (cfr. § 9), la dialettica
socratica si caratterizza fondamentalmente per la sua natura contestuale, per certi versi ad hominem.
Questo non significa che i risultati ai quali essa di volta in volta perviene siano soggettivi e dunque
privi di una validità universale; significa però che la componente contestuale, connessa alla presenza
di individui determinati, non può mai venire del tutto soppressa. Ogni anima richiede per Socrate un
percorso educativo peculiare che non si presta a generalizzazioni simili a quelle nelle quali erano
maestri i sofisti.
Uno degli aspetti filosoficamente più interessanti, e per certi aspetti attuali, dell’approccio
dialogico-educativo di Socrate consiste nel richiamo alla presenza di una dimensione di senso già
data, di un livello di pre-comprensione nella quale i suoi interlocutori si trovano ancora prima di
iniziare una discussione. Da questo punto di vista, si deve osservare come l’interrogazione socratica
non si collochi mai in uno spazio vuoto, ma in contesti densi di significato; i suoi interlocutori
presumono di sapere che cosa è l’oggetto intorno al quale parlano; e anche se non ne sono
consapevoli (e non lo dichiarano esplicitamente), si muovono da sempre all’interno di un orizzonte di
pre-comprensione. Il compito che Socrate si propone è esattamente quello di portare a
consapevolezza queste presupposizioni e naturalmente di vagliarne la consistenza; il personaggio di
Eutifrone, nel dialogo omonimo, si muove, per esempio, all’interno di un orizzonte di pre-
comprensione relativo alla natura della nozione di hosion (santo, pio); Socrate fa emergere questo
orizzonte e ne mostra l’inconsistenza teorica (cfr. T. 12). Ma di casi simili a questo i dialoghi
socratici di Platone sono pieni.
Quanto detto a proposito della concezione socratica della comunicazione filosofica ha posto in
primo piano il tema dell’anima, intorno al quale ruota l’intera riflessione di Socrate e dal quale
dipende la natura contestuale del dialogo, della ricerca e del processo educativo che dovrebbe
condurre all’acquisizione del sapere più alto (che è insieme un sapere intorno all’anima e utile
all’anima).
5. IL SOGGETTO DEL DISCORSO FILOSOFICO: L’ANIMA
La centralità che l’anima occupa nell’ambito della teoria socratica della comunicazione filosofica
costituisce in realtà una conseguenza della rilevanza che questa entità riveste nella riflessione del
nostro pensatore. Per Socrate la stessa pratica filosofica si configura come cura dell’anima
(epimeleia tês psychês), terapia dell’anima e, primariamente, conoscenza di se stessi, ossia
conoscenza di ciò che è proprio dell’uomo, la sua anima (e per ciò stesso conoscenza dell’anima). A
Socrate si deve infatti una mossa filosofica originale, e per molti aspetti marginale nell’ambito della
speculazione greca, consistente appunto nell’identificazione del vero io con l’anima.37 Ma che cosa è
quest’anima con la quale l’io si identifica e che Socrate colloca al centro della propria riflessione?
In verità l’anima di cui parla Socrate è erede diretta, senza per questo esserne la copia, della
misteriosa entità di cui da circa un secolo andavano discutendo alcune correnti marginali (ma non per
questo poco significative) del pensiero greco, prima fra tutte la setta pitagorica, che raccolse e
condensò i rami dispersi di queste tradizioni (si pensi soprattutto all’orfismo e al culto dionisiaco).38
Per i pitagorici l’anima (psychê) costituisce una entità indipendente dal corpo, che preesiste ad
esso ed è destinata a sopravvivergli; l’idea dell’indipendenza (e della superiorità) dell’anima nei
confronti del corpo trova espressione nel primo pitagorismo anche nella celebre concezione della
trasmigrazione delle anime, la metempsicosi (o meglio metensomatosi), ossia il passaggio delle
anime in corpi sempre diversi (compresi quelli di esseri viventi diversi dall’uomo). L’opposizione
anima-corpo assume poi una chiara connotazione valoriale, essendo l’anima il luogo della purezza e
della perfezione morale, e il corpo quello dell’impurità e del vizio (al pitagorismo si deve la celebre
concezione, ripresa poi da Socrate, del corpo, sôma, come tomba, sêma, dell’anima). L’esperienza
pitagorica, cui non fu estraneo un pensatore come Empedocle (il quale, anziché di anima, parla di
daimôn, demone, anticipando una contiguità, quella tra anima e demone, che ritroveremo proprio in
Socrate), presenta caratteristiche che la rendono del tutto irriducibile (e perfino alternativa) alle
dinamiche politiche della città; il pitagorismo, con le tradizioni che esso incorpora, risulta
sostanzialmente estraneo all’orizzonte degli uomini comuni, che vivono l’esperienza della polis (in
realtà, non mancheranno centri pitagorici di chiara impronta anti-democratica e filo-aristocratica).
La riflessione di Socrate eredita alcune di queste tematiche. L’idea, prima di tutto, di un’alterità
costitutiva tra anima e corpo e la convinzione che ciò che è proprio dell’uomo è la sua anima (cfr.
Alcibiade I, 128 A-134 E = T. 10), alla cui salute (e perfezione) egli deve dedicare ogni sforzo;
l’assegnazione all’opposizione tra anima e corpo di un valore assiologico, in cui il polo positivo è
naturalmente rappresentato dall’anima; la presenza nella concezione dell’anima di una componente in
qualche misura religiosa, che si esprime nella convinzione che l’anima sia in relazione con l’ambito
divino (Socrate riprende la concezione del demone, come elemento divino presente nell’individuo);
un certo scetticismo nei confronti delle modalità associative della politica democratica, sebbene in
Socrate questo aspetto presenti caratteri molto più articolati e complessi rispetto al pitagorismo.39
Non c’è dubbio, però, che la ripresa di questi aspetti avvenga in Socrate attraverso il filtro di una
sensibilità molto diversa, la quale finisce con l’operare trasformazioni anche significative. In
generale, sembra di potere osservare che la riflessione intorno all’anima, che nel pitagorismo (e
nell’orfismo) presentava caratteri marcatamente iniziatico-religiosi, con Socrate assume i contorni di
una concezione filosofica, o almeno fruibile da un punto di vista filosofico. Si pensi, per esempio,
alla questione dell’anima come vero io. Si tratta di un tema presente probabilmente nella tradizione
pitagorica; solo con Socrate, tuttavia, essa acquisisce una rilevanza veramente filosofica. Come è
noto, Socrate, dopo avere individuato nella cura di sé (epimeleia heautou) il compito della filosofia,
stabilisce un collegamento tra il tema dell’anima come vero io – espresso dalla celebre formula per
cui l’uomo è essenzialmente la sua anima (hê psychê estin anthrôpos: cfr. T. 10)40 – e l’ingiunzione
delfica che invita a conoscere se stessi; in questo modo, il motto delfico, reinterpretato alla luce
dell’identità tra il sé dell’individuo e l’anima, comporta in realtà l’invito a conoscere la propria
anima (determinando in questo modo un significativo approfondimento sia della tesi dell’identità tra
io e anima sia dell’ingiunzione religiosa).
Ancora più interessante dal punto di vista filosofico risulta poi lo sviluppo della concezione che
stabilisce la necessità per l’anima di conoscere se stessa; nell’Alcibiade I (un dialogo la cui
autenticità resta incerta) Socrate affronta il problema di come l’anima possa conoscere se stessa,
ossia di come possa darsi una conoscenza in qualche modo riflessiva. Egli osserva che una
conoscenza di questo tipo è possibile solo guardando se stessi come in uno specchio attraverso un
altro sé, ossia un’altra anima: come l’occhio vede riflesso se stesso nella pupilla di un altro occhio
(cioè nella parte più nobile dell’occhio), così l’anima può contemplare se stessa rivolgendo
l’attenzione alla parte più nobile di un’altra anima, vale a dire alla divinità (theos) e al pensiero
(phronêsis) che si trovano in essa (Alcibiade I, 133 A-C = T. 10).
Queste affermazioni, le quali naturalmente non possono venire ricondotte direttamente al Socrate
storico ma che dovrebbero comunque esprimere una sensibilità a lui non estranea, si prestano a
interpretazioni molto diverse. La più interessante delle quali mi pare quella dialettico-
antropocentrica, secondo cui l’autoconoscenza si genera nell’ambito della relazione dialogica, ossia
attraverso la conoscenza di un’altra anima operata per mezzo del dialogo; ciò significa che l’uomo
può conoscere se stesso non in modo introspettivo, chiudendosi in sé, ma aprendosi all’altro nella
forma del dialogo; il divino (to theion) e il dio (theos) cui allude Socrate non sarebbero altro che il
pensiero intellettivo, che infatti rappresenta ciò che di divino l’uomo possiede.41 Un’interpretazione
di questo tipo ha anche il merito di recuperare il valore universale della dialettica intesa come
dialogo tra individui razionali, i quali si assimilano al divino nel momento in cui agiscono (e
pensano) razionalmente.
Per Socrate, dunque, la filosofia è essenzialmente cura dell’anima; ma quale è il significato di una
simile tesi? Per comprenderlo, occorre accennare brevemente alla nozione greca di virtù (aretê).
Essa incorpora, accanto a un senso morale (comunque presente), anche un’accezione prestazionale,
connessa alla capacità (dynamis) di assolvere a un determinato compito: la virtù di un coltello, ad
esempio, consiste nel possesso da parte del coltello di una disposizione tale da permettergli di
assolvere nel migliore dei modi al compito che gli è proprio, ossia quello di tagliare bene. Da questo
punto di vista, la nozione di virtù sembra collegarsi a quella di ordine (taxis), ossia di corretta
disposizione; nel caso di Socrate, poi, questo aspetto emerge in maniera evidente, laddove egli
assimila la virtù dell’anima a quella di un artefatto, il quale, per assolvere bene il proprio compito,
cioè il proprio ergon , deve risultare ben composto, ossia ordinato (cfr. T. 07 e 16). Anche l’anima
ha un ergon, quello di garantire il bene dell’individuo che la possiede; dunque, per poter adempiere
compiutamente a questo compito, essa deve essere ordinata, sana, priva di disordine e di malattia;
dal momento, poi, che il vizio dell’anima è rappresentato dall’ingiustizia (la quale esprime una
condizione di disordine interno), un’anima virtuosa è per Socrate un’anima ordinata e giusta; solo
un’anima di questo genere si trova nelle condizioni di garantire all’individuo che la possiede felicità
e benessere. 42
Nel Gorgia (e poi nella Repubblica), come è noto, Platone attribuisce a Socrate una celebre
analogia, in base alla quale la giustizia equivale per l’anima alla salute per il corpo (cfr. 503 C sgg.
= T. 16); ciò comporta inevitabilmente la preferibilità della giustizia nei confronti dell’ingiustizia,
non essendo concepibile preferire una condizione di malattia a uno stato di benessere. Il quadro
teorico entro il quale sembra circoscrivibile la posizione socratica dovrebbe risultare dunque il
seguente: la filosofia è primariamente cura dell’anima; un’attività del genere consiste nel tentare di
rendere l’anima virtuosa, ossia capace di svolgere bene il proprio ergon; tale compito si identifica
sostanzialmente nel permettere all’individuo di raggiungere il bene; quest’ultimo risulta di fatto
assimilabile al benessere e alla felicità (eudaimonia), il che significa che solo un’anima virtuosa può
essere veramente felice.
Il primo passo del percorso di cura e terapia dell’anima consiste nel riconoscimento della
differenza radicale tra i beni dell’anima e quelli del corpo (o connessi al successo sociale e
politico). Nell’Apologia Socrate, rivolto a un ipotetico cittadino di Atene, dichiara in modo risoluto:

Ehi tu, eccellentissimo fra gli uomini e cittadino di Atene, che è la città più grande e gloriosa
per sapienza e potenza, non ti vergogni di rivolgere le tue cure (epimeloumenos) alle ricchezze,
per accumularne il più possibile, e alla fama e al prestigio, anziché curarti e darti pensiero di
saggezza e verità (phronêsis kai alêtheia) e della perfezione dell’anima? (Apologia, 29 D-E =
T. 11)

Il fine della terapia filosofica intrapresa da Socrate è individuato nella condizione di perfezione
dell’anima, che, come si è osservato sopra, equivale allo stato di benessere e di ordine. In questa
direzione il primo passo, recita il testo dell’Apologia sopra riportato, consiste nel distinguere i beni
dell’anima (saggezza, conoscenza, verità e ordine) da altri beni, o, meglio, presunti tali (dalla
maggioranza che è incline a considerare beni la ricchezza e il riconoscimento sociale). Si tratta, però,
solo del primo passo; non basta, infatti, riconoscere nella perfezione dell’anima il bene da ricercare;
occorre essere disposti a mettere in discussione il proprio sapere, anche quello apparentemente più
solido e fondato. Prosegue infatti Socrate:

E se qualcuno di voi ribatterà che invece se ne cura [del bene dell’anima], non lo congederò
subito né me ne andrò io, ma lo interrogherò (erêsomai), lo esaminerò (exetasô), lo confuterò
(elenxô); e se lo troverò privo di virtù, e se ne dichiarasse tuttavia dotato, gli rinfaccerò il poco
conto in cui tiene le cose di maggior valore (ta pleistou axia), privilegiando invece quelle vili.
Farò lo stesso con chiunque, giovane o vecchio, forestiero o cittadino; ma soprattutto con voi,
cittadini, che più vicini mi siete per nascita. Non faccio che seguire un comando divino,
sappiatelo: sono convinto, anzi, che la missione che svolgo per il dio sia il bene massimo
(meizon agathon) che vi è toccato in questa città. Il mio girovagare ha la sola funzione di
persuadere, giovani e vecchi, di non curarvi del corpo né delle ricchezze più o altrettanto che
della perfezione dell’anima, raccomandandovi che non dalle ricchezze viene la virtù, ma dalla
virtù le ricchezze e tutto ciò che fa bene all’uomo, sia nella sfera privata che in quella pubblica
(Apologia, 29 E-30 B = T. 11).

Si tratta dell’esposizione del programma filosofico di Socrate: al riconoscimento della superiorità


dei beni dell’anima sugli altri beni, deve seguire la disponibilità alla messa in discussione, operata
attraverso il dialogo, delle proprie convinzioni, del proprio presunto sapere. Le nozioni chiave sono
in questo passo tre: interrogazione, esame, confutazione. Socrate collega direttamente la propria
attività alla sentenza delfica, che lo dichiarava il più sapiente degli uomini; la sapienza umana
(sophia anthrôpinê) che il dio assegna a Socrate non è, come vedremo, una sapienza oggettivamente
determinabile, almeno non lo è in forma immediata; non esiste un sapere chiaramente circoscrivibile,
di cui Socrate si sente in possesso; il suo sapere è, prima di tutto, il sapere di non sapere, ossia la
consapevolezza della condizione in cui lui e i suoi interlocutori si trovano rispetto alla conoscenza
delle cose più degne, quelle che concernono l’anima; in secondo luogo, questo sapere, di cui il dio
dichiarava che Socrate fosse in possesso, ha a che fare con le tre nozioni sopra richiamate:
interrogazione, esame, confutazione. Socrate conosce l’arte di condurre un dialogo, sa interrogare,
esaminare e confutare, e per ciò stesso si trova in una condizione superiore ai suoi interlocutori (i
quali sono pieni di un sapere presunto e non reale).43
Si è visto che per Socrate il possesso della virtù dell’anima sembra in qualche misura costituire
garanzia del raggiungimento della felicità. È questo un punto problematico e in larga misura
controverso.44 Si può attribuire a Socrate la convinzione che la virtù dell’anima, ossia la giustizia,
equivalga alla condizione di eudaimonia? Chi è virtuoso, essendo in possesso di un’anima ordinata,
risulta anche automaticamente felice? Non ha alcun bisogno di beni esterni?
Bisogna riconoscere che una simile tesi, la quale avrà numerosi sostenitori tra i filosofi antichi (si
pensi agli esiti cinico-antistenici del socratismo o allo stesso stoicismo), trova più di un appiglio
nelle affermazioni socratiche dei dialoghi platonici. Molto spesso Socrate sembra sostenere che
l’individuo virtuoso non subisce alcun danno dalle situazioni esterne e semmai ad essere veramente
danneggiato è colui che gli reca ingiustizia. Nell’Apologia , ad esempio, dichiara che i suoi due
accusatori, Anito e Meleto, non hanno il potere di recargli danno, perché «non è lecito che a un uomo
migliore rechi danno uno di lui peggiore» (30 C-D). Una simile posizione dovrebbe implicare che
un’anima sana non viene in alcun modo turbata, e resa dunque instabile e disordinata, dall’ingiustizia
di cui è vittima, e per ciò stesso permane in una condizione di felicità.45
Tutto ciò – sarebbe sciocco negarlo – suona indubbiamente socratico. E tuttavia è difficile sottrarsi
all’impressione che una simile forma di radicalismo morale, pur rispecchiando l’atteggiamento
assunto sovente da Socrate, sia più adatta a rappresentare la posizione di coloro che, come Antistene
e gli stoici, hanno identificato in modo non problematico la virtù e la felicità, intendendo la prima
come costitutiva in toto della seconda. Socrate, come ha mostrato Gregory Vlastos, sembra piuttosto
ritenere che la felicità rappresenti l’unico bene (ossia l’unico fine) che l’uomo persegue di per sé,
vale a dire non per i vantaggi che può arrecare, ma perché costituisce un bene assoluto in se stesso; la
virtù, invece, viene perseguita, sia pure non strumentalmente, in quanto garantisce l’acquisizione di
una condizione di assoluto benessere.46 In altre parole, Socrate sosterrebbe che l’individuo si
comporta secondo virtù perché tale comportamento gli consente di raggiungere la felicità, senza però
che la virtù sia vista come un semplice strumento per raggiungere uno scopo del tutto estrinseco ad
essa.
Credo che la distinzione proposta da Vlastos abbia un qualche fondamento, se non altro perché
tenta di distinguere la posizione di Socrate dalle forme di autarchia radicale sopra menzionate. Resta
il fatto che i beni esterni (ricchezza, salute, successo) non dovrebbero contribuire ad accrescere lo
stato di benessere (è questa la traduzione che meglio restituisce il significato della parola greca
eudaimonia) generato dalla virtù, per la semplice ragione che sono beni che non appartengono
costitutivamente all’anima. Ed è appunto il riferimento all’anima a stabilire il significato che il
cosiddetto assioma eudemonistico assume agli occhi di Socrate. Si tratta, come è noto, del principio
al quale sembra conformarsi tutta l’etica antica, almeno quella di derivazione socratica; esso
stabilisce che ogni comportamento razionale tende alla felicità o al benessere dell’agente (cfr. ad
esempio T. 17). Nel caso di Socrate, l’esigenza di riferire all’anima tale principio induce a
concludere che ogni comportamento razionale tende alla vera eudaimonia, che è sempre e solo
l’eudaimonia dell’anima.
6. VIRTÙ E SAPERE: L’INTELLETTUALISMO SOCRATICO
È opinione diffusa, come detto, che l’etica antica sia di natura eudemonistica e che in questo essa si
differenzi dall’etica moderna, almeno da quella deontologica di matrice kantiana. Altrettanto diffusa
è poi l’idea che il filosofo antico al quale si deve la prima efficace formulazione del principio
eudemonistico sia proprio Socrate. Bisogna riconoscere che entrambe queste convinzioni hanno un
fondo di verità. Ma che cosa significa che, per gli antichi, il fine di ogni comportamento razionale è
la felicità dell’agente? E in che senso questa tesi venne sostenuta anche da Socrate?
In generale occorre prima di tutto osservare che la principale differenza tra un’etica eudemonistica
e un’etica deontologica risiede nel fatto che la prima pone nel benessere dell’agente il fine (telos)
dell’azione; alla domanda «perché devo comportarmi in modo virtuoso?» un filosofo antico, e
Socrate tra questi, avrebbe quasi inevitabilmente risposto «perché solo comportandoti così sarai
felice!». Una risposta di questo tipo apparirebbe invece a un filosofo moderno (soprattutto se
kantiano) macchiata da un insopportabile spirito utilitaristico, quando non addirittura schiettamente
egoistico. Il benessere, la felicità e il piacere rappresentano elementi estranei alla dimensione morale
e per questo dovrebbero venire banditi dalla riflessione etica, la quale si fonda sulla totale
irriducibilità tra l’orizzonte naturale delle inclinazioni (al quale attengono appunto la felicità e il
piacere) e quello morale dei doveri (come è noto alla domanda sopra formulata circa le motivazioni
che dovrebbero spingere all’assunzione di un comportamento virtuoso, un kantiano risponderebbe
con l’implacabile formula: perché du sollst, perché tu devi).47
Occorre però fare una seconda osservazione di ordine generale, che non potrà che attenuare la
coloritura soggettivistica dell’eudemonismo antico. Infatti il termine italiano felicità, con il quale
spesso si traduce la parola greca eudaimonia, comporta una significativa componente soggettiva
(legata agli impulsi e alle inclinazioni personali) che invece è assente dal vocabolo greco (almeno
nella sua accezione filosofica). L’eudaimonia di cui parlano Socrate, Platone, Aristotele, gli stoici e
pressoché tutti i filosofi antichi (anche Epicuro e i suoi seguaci, che pure sostengono un eudemonismo
di stampo edonistico) non equivale tanto alla felicità (soggettiva), quanto a uno stato di benessere
oggettivo, nel quale l’uomo vede realizzarsi tutte le proprie potenzialità. La condizione di benessere
alla quale essi pensano consiste in uno stato nel quale l’individuo realizza se stesso, non però in
modo soggettivo (ossia seguendo le proprie inclinazioni e passioni), bensì oggettivo (cioè attuando
compiutamente le sue capacità e potenzialità in quanto essere umano). In questo senso la migliore
traduzione di eudaimonia è forse quella contenuta nella formula inglese flourishing life, vita
fiorente, oppure nel sostantivo fulfillment , piena realizzazione.
Dunque, con le precisazioni appena fatte, si può ancora sostenere che l’etica socratica e quella
antica in generale sono etiche eudemonistiche. Ovviamente la discussione si sposta inevitabilmente
intorno a che cosa sia poi questo stato di benessere e di pienezza verso il quale tutti gli agenti
razionali dovrebbero tendere. Le risposte fornite dai filosofi sono diverse, come spiega molto bene
Aristotele all’inizio dell’Etica nicomachea:
Per quanto riguarda il nome [del bene pratico più alto] vi è un accordo quasi completo nella
maggioranza; sia la massa che le persone raffinate dicono che si chiama eudaimonia, e credono
che vivere bene e avere successo sia la stessa cosa che essere felici (eudaimonein). Ma su che
cosa sia l’eudaimonia, vi è disaccordo, e la massa non intende nello stesso modo dei sapienti,
dato che i primi credono che sia qualcosa di tangibile ed evidente, come piacere, ricchezza o
onore, e altri altro (Aristotele, Etica nicomachea, I 2, 1095a17-23).

Ora, non c’è dubbio che Socrate appartiene ai sapienti (sophoi) che rifiutano di identificare
l’eudaimonia con la ricchezza o l’onore, ossia il riconoscimento sociale, come dimostrano molto
bene le affermazioni dell’Apologia sopra riportate. È anche chiaro che per lui il benessere è dato
dalla condizione dell’anima, e in particolare dallo stato virtuoso in cui essa si trova o dovrebbe
trovarsi. Si è visto poi, in conclusione del paragrafo precedente, che la virtù è condizione necessaria
e sufficiente per l’acquisizione della felicità, ma che tuttavia non esiste una completa identità tra i
due termini, quantomeno perché l’eudaimonia costituisce un fine incondizionato, mentre l’aretê
dovrebbe essere finalizzata, sia pure non strumentalmente, all’eudaimonia.
Stabilito dunque che solo l’uomo virtuoso è anche felice, occorre determinare con precisione che
cosa sia per Socrate la virtù. In realtà la soluzione a questo problema è insieme facile e difficile:
facile, perché Socrate (non solo quello platonico) sembra dire con una certa perentorietà che cosa è
la virtù; difficile, perché tale affermazione suona alle nostre orecchie (ma, come vedremo, anche a
quelle di Aristotele) bizzarra, se non addirittura paradossale. Nei dialoghi platonici, infatti, emerge
con nettezza la tesi secondo la quale la virtù è sapere, l’aretê è epistêmê o sophia.48 Che cosa
significa?
Su un piano immediato, questa tesi significa che per essere virtuoso (e dunque godere di un
benessere pieno e oggettivo) occorre possedere la conoscenza; ma conoscenza di che cosa? Della
virtù e del bene, sembra rispondere Socrate. Ai suoi occhi, infatti, la forza di attrazione del bene è
tale, che, chi lo conosce, non può non perseguirlo e impegnarsi ad attuarlo. Questa tesi generale
dovrebbe potersi declinare a proposito di tutte le singole virtù (ammesso che esse siano tra loro
effettivamente separabili):49 se io conosco il coraggio, non posso che comportarmi coraggiosamente;
se so che cosa è la giustizia, non è pensabile che decida di agire ingiustamente; se conosco la
definizione della saggezza o moderazione (sôphrosynê), sarò così attratto da essa da non potermi
comportare che saggiamente o con moderazione, e così via per tutte le altre virtù. Chi commette
ingiustizia o si comporta senza moderazione, lo fa a causa di un deficit epistemico, vale a dire perché
non sa che cosa sia la virtù. In altre parole, nessuno sbaglia volontariamente, ma lo fa solo in
quanto non conosce il bene, e persegue il male confondendolo con il bene.
Questa posizione, solitamente attribuita al nostro filosofo, viene delineata con la massima
chiarezza da Gabriele Giannantoni, il massimo studioso italiano di Socrate del secolo scorso:

Nessuno fa il male deliberatamente – argomenta Socrate – perché il bene, una volta conosciuto,
attrae irresistibilmente il desiderio e la volontà, e non può quindi non essere perseguito e
attuato; e se qualcuno, nel suo comportamento, non attua il bene, è perché non lo conosce come
tale, e attua così quel che crede essere bene per lui e che invece può essere male: ché, se
conosce il bene, non potrebbe non perseguirne l’attuazione, dato che esso gli si presenterebbe
senz’altro come l’oggetto massimamente preferibile e vantaggioso per lui.

E ancora:

Nel caso del comportamento morale [...] la conoscenza del bene è condizione necessaria e
sufficiente: sapere che cosa è il bene significa essere capaci di raggiungerlo e volerlo
raggiungere. Se qualcuno agisce male la sua azione è contraria a ciò che è realmente il bene, e
questo senso “oggettivo” è ciò che caratterizza l’interpretazione platonica della tesi socratica.
Ne risulta che la tesi dell’involontarietà del male è ristretta a quei casi in cui l’agente conosce il
“vero scopo” e il “bene reale” è l’oggetto del suo desiderio.50

Se nessuno erra volontariamente (oudeis hekôn examartanei o nemo sua sponte peccat secondo il
motto latino), come Socrate sostiene a più riprese (Protagora, 345 D; Repubblica, II 382 S; III 413
A; IX 589 E; Menone, 78 A-B), il fenomeno della debolezza di carattere o della mancanza di
volontà, ossia dell’incontinenza (akrasia), rappresenta in realtà una sorta di miraggio dell’agente e
rischia di trasformarsi in una vera e propria assurdità logica. Ciò emerge in modo esplicito nel
Protagora, laddove Socrate fa propria, per esigenze argomentative, la tesi edonistica, la quale
equipara il bene al piacere. Se si concede che il bene si identifichi con il piacere, allora il
perseguimento di quest’ultimo corrisponderà al tentativo di attuare il bene; ma se un agente, per
conseguire un certo piacere, finisce con il danneggiarsi, procurandosi del male (ad esempio si
ingozza di cibo e si ammala),51 occorre inevitabilmente concludere che costui, vinto dal bene (ossia
dal piacere), si è indirizzato verso il male (cioè verso il dolore). L’assurdità di un simile
ragionamento emerge dalle parole che Platone mette in bocca a Socrate:

Stando così le cose, vi dico che ne scaturisce un ragionamento ridicolo (geloios logos), quando
affermate che l’uomo, pur conoscendo che il male è male, ugualmente lo fa, anche se poteva non
farlo, trascinato e sopraffatto dai piaceri [cioè dai beni]; non solo, ma, per altro verso, dite poi
che l’uomo, pur conoscendo il bene, si rifiuta di farlo, vinto dai piaceri [cioè dai beni] del
momento (Protagora, 355 A = T. 14).

Socrate sembra effettivamente avere sostenuto qualcosa di simile all’idea che l’agente razionale non
si orienta consapevolmente al male, ma sempre e solo al bene, il quale esercita una forza di
attrazione cui non è possibile sottrarsi. Il vizio dipende dunque da un deficit epistemico, ossia dalla
mancata conoscenza del bene; un agente A compie l’azione x convinto che essa sia per lui un bene (e
che gli garantisca direttamente o indirettamente il benessere); se x si rivela un male, A non è vittima
di un vizio morale, ma di un deficit conoscitivo, che lo ha portato a confondere il male con il bene
(magari per mancanza di consapevolezza della profondità temporale).
Non c’è dubbio che una simile posizione, oltre a negare consistenza a fenomeni apparentemente
diffusi, come la mancanza di volontà, tende a opporsi all’esperienza culturale più importante del V
secolo, la tragedia. L’eroe tragico è costantemente preda di un conflitto insanabile che lo induce a
dirigersi verso il male, pur sapendo che di male si tratta. Il personaggio di Medea nella tragedia
omonima esprime in modo paradigmatico questo stato di conflitto: «Conosco il misfatto che sto per
compiere, / ma il furore dell’animo (thymos) che spinge i mortali alle più grandi colpe / è più forte
di me in ogni altro volere» (Euripide, Medea, 1078-80); anche nell’Ippolito , ancora Euripide
scrive: «Ma è così, che noi il bene / lo sappiamo qual è, e lo vediamo, / ma non facciamo nulla: o è
l’inerzia, / o perché c’è un piacere, e il nostro cuore / è lì» (Ippolito, 380-84).52
Del resto anche un celebre motto latino, ripreso da Ovidio nelle Metamorfosi, richiama
l’attenzione sul fenomeno della debolezza di carattere, di cui Socrate non sembra tenere conto: video
meliora, proboque, deteriora sequor (Metamorfosi, VII 20-1). Ma non c’è dubbio che la più
significativa e consistente critica all’intellettualismo socratico sia stata formulata da Aristotele, il
quale, nel VII libro dell’Etica nicomachea, osserva:

Come riteneva Socrate, sarebbe strano che, pur essendovi scienza (epistêmê), qualcos’altro
comandi e la trascini qua e là, come uno schiavo. Infatti Socrate combatteva nel modo più
assoluto contro questa dottrina, convinto che non esiste l’intemperanza (akrasia). Per lui infatti
nessuno agisce in contrasto con ciò che è il meglio, giudicando di agire in questo modo, ma per
ignoranza (Etica nicomachea, VII 3, 1145b23-26; cfr. anche Etica eudemia, I 7, 1216b3-26).

Per Aristotele, invece, si può esser sapienti e contemporaneamente intemperanti; inoltre, la


conoscenza di una virtù non rappresenta affatto garanzia del conseguimento della medesima virtù:

Certamente è bello anche conoscere ciascuna delle cose belle: ma almeno quanto alla virtù la
cosa più preziosa non è sapere che cosa sia, ma conoscere da quali fattori provenga. Non
vogliamo infatti sapere che cosa è il coraggio, ma essere coraggiosi; e neppure sapere che cosa
è la giustizia, ma essere giusti (Etica eudemia , I 7 1216b19-23).53

Non c’è dubbio, invece, che per Socrate l’assunzione di un comportamento virtuoso (sia esso
coraggioso o giusto) transiti in maniera inevitabile per la conoscenza di che cosa è il coraggio e la
giustizia. Del resto, i dialoghi giovanili di Platone sono percorsi da incessanti tentativi di definire le
virtù: il coraggio (Lachete), la giustizia (Trasimaco), la pietà (Eutifrone), la moderazione (Carmide
), l’amicizia (Liside).54 Molto spesso Socrate sostiene poi che la virtù è scienza e talora arriva ad
affermare che il sapere rappresenta l’unico vero bene; nel Menone, ad esempio, egli dichiara non
solo che la virtù è intelligenza (phronêsis), ma anche che la presenza o l’assenza dell’intelligenza è
ciò che rende utili, cioè buone, o dannose, cioè cattive, le cose relative all’anima, ossia gli stati che
la riguardano (Menone, 88 C-D; cfr. anche Eutidemo, 281 E). Ora, dal momento che, come si è visto
(§ 5), il bene è per Socrate una proprietà che, per essere veramente tale, deve concernere l’anima, è
chiaro che questo bene finisce con l’identificarsi con l’intelligenza e il sapere, o comunque con
l’avvicinarsi molto ad essi. È vero che il Menone costituisce un dialogo di passaggio, in cui il punto
di vista platonico sembra prendere il sopravvento su quello genuinamente socratico, ma è altresì vero
che una simile tesi non fa che sviluppare spunti largamente presenti nei dialoghi cosiddetti socratici.
Occorre tuttavia osservare che non sono mancati negli ultimi anni tentativi volti a attenuare il
carattere radicale dell’intellettualismo socratico, mettendo in luce, ad esempio, come la conoscenza
sia certamente una condizione necessaria, ma non del tutto sufficiente per l’assunzione di un
comportamento virtuoso. C’è poi chi è arrivato a sostenere che per Socrate l’attuazione della virtù
richiede l’intervento di una componente in qualche misura connessa con l’abitudine.55 In realtà, è
difficile non riconoscere all’etica socratica la presenza di una significativa matrice intellettualistica,
del resto connaturata all’esigenza, costantemente richiamata da Socrate, di fornire la definizione
delle virtù. Se non conosco il coraggio, non posso essere coraggioso; o meglio, se anche assumessi
un comportamento esteriormente coraggioso, si tratterebbe di un atteggiamento estrinseco, non
interiorizzato dalla mia anima, e dunque, di fatto, non morale. Probabilmente la questione
dell’intellettualismo socratico si colloca a questo livello, ossia sul piano dell’interiorizzazione: non
esiste un comportamento oggettivamente virtuoso, perché la virtù è un affare dell’anima e non può
prescindere dalla conoscenza del bene e della virtù, dal momento che solo la conoscenza genera
consapevolezza e la virtù non può essere disgiunta dalla consapevolezza.56
Del resto il tema dell’autoconoscenza, sviluppato in modo sistematico nell’Alcibiade I (ma
presente, in varia forma, in altri dialoghi, soprattutto nel Carmide),57 dovrebbe appartenere proprio a
questo contesto teorico. Solo la consapevolezza, generata dalla autoconoscenza, consente di
trasformare un atteggiamento estrinseco nell’attuazione della virtù, ossia del bene: sapere
definizionale, conoscenza di sé, perseguimento del bene (conosciuto intellettualmente), costituiscono,
dunque, i confini entro i quali si dovrebbe definire la virtù socratica.
7. I SAPERI (TECNICI) E IL SAPERE (ETICO): VALORE E
LIMITE DEL PARADIGMA TECNICO
Per Socrate, dunque, la virtù e la vita buona risultano indissociabili dal sapere intorno ad esse. Ma di
che tipo di sapere si tratta? In altre parole: quale è la natura del sapere etico? Esso, come abbiamo
visto, incorpora in qualche misura una componente definizionale, ha cioè a che fare con la capacità di
fornire la definizione di una certa virtù. In questo senso presenta un elemento oggettivo e universale,
dal momento che questa definizione dovrebbe riferirsi a uno stato di cose oggettivo, ossia reale.
Accanto a questa dimensione conoscitiva il sapere etico presenta un elemento di natura pratica,
connesso alla capacità di fare, al saper fare. Entrambi questi motivi conoscono ai tempi di Socrate
una significativa applicazione contestuale in un settore ben preciso del sapere, quello tecnico. E in
effetti, il paradigma tecnico, ossia l’uso delle tecniche come modelli di riferimento per la costruzione
del sapere relativo alla virtù, risulta presente in maniera tanto massiccia nei dialoghi socratici di
Platone da apparire addirittura pervasivo. 58
Secondo Socrate le tecniche rappresentano un tipo di sapere oggettivo e contemporaneamente
fattivo, ossia orientato alla produzione. Questi due aspetti le rendono incomparabilmente superiori a
quelle forme di conoscenza, come la politica e la retorica (ma anche la presunta ispirazione poetica),
che si proponevano come modelli di virtù, arrogandosi il diritto di gestire il comando nella città. Gli
artigiani (fabbri, calzolai, carpentieri, falegnami, ma anche architetti, medici, pittori) potevano
vantare il possesso di un sapere oggettivo e utile (cioè produttivo), del quale retori e politici
risultano del tutto privi.
Questo motivo emerge nel modo più evidente nel discorso riportato da Platone nell’Apologia; qui
Socrate si indirizza verso le varie figure professionali che potevano vantare il possesso di un sapere,
allo scopo di confutare il verdetto del dio delfico, che lo dichiarava il più sapiente degli uomini. Il
tentativo di falsificazione si rivela in realtà una conferma della verità dell’indicazione delfica,
perché i presunti sapienti interrogati da Socrate si dimostrano completamente privi di un sapere
autentico. Ma, se i politici e i poeti, sia pure in misura diversa (i primi non hanno un sapere
oggettivo, mentre i secondi non sono in grado di fornire nessuna giustificazione di ciò che sanno), non
possono vantare conoscenze autentiche e affidabili, gli esperti nelle varie tecniche esibiscono
effettivamente un sapere che è insieme oggettivo, controllabile, riproducibile e utile; tuttavia essi, nel
momento in cui pretendono di travalicare i limiti oggettivi imposti dal campo di questo sapere e di
estendere la validità e l’applicazione delle loro procedure anche oltre questi limiti, perdono ogni
legittimità e non fanno che generare conoscenze apparenti, del tutto inadatte al campo etico e morale
(Apologia, 20 C-24 B = T. 06).59
Per Socrate, dunque, le tecniche presentano una natura in un certo senso bi-fronte: da un lato, esse
esibiscono alcune caratteristiche che le rendono adatte a rappresentare un modello per il sapere;
dall’altro, risultano in difetto rispetto a questo sapere, dal momento che non colgono le cose più
importanti (ta megista), ossia il complesso delle conoscenze relative alla virtù, al bene e all’anima.
Si è visto che ciò che rende interessante il modello tecnico di sapere è la sua oggettività, vale a dire
la limitazione di ogni technê a un settore circoscritto della realtà, e l’utilità della sua azione, cioè il
fatto che le tecniche producono qualcosa (la medicina ristabilisce la salute, la tecnica della calzatura
produce dei beni, ecc.).60
Questi due aspetti rendono le tecniche superiori alla retorica, che vantava invece nell’Atene del V
secolo pretese scientifiche e ambizioni politiche. Nel Gorgia, come è noto, Socrate colloca la
retorica nel campo delle pseudo-tecniche, ossia di quelle discipline che non hanno di mira il
benessere della realtà di cui si occupano (in questo caso l’anima), ma si propongono solo di
compiacerla, ossia di procurarle piacere. Con una celebre analogia, egli paragona la retorica alla
culinaria, osservando che la sua azione nei confronti dell’anima è simile a quella esercitata dalla
culinaria nei confronti del corpo; non essendo poi in grado di fornire la ragione (aitia) per cui una
certa cosa si comporta in un determinato modo, la retorica assume i contorni di un sapere pratico, una
forma di abilità fondata sull’esperienza (empeiria), ma non può avanzare alcuna pretesa di venire
considerata una technê, cioè una forma di conoscenza oggettiva, controllabile e riproducibile
(Gorgia, 461 C-466 A = T. 07).
Se il modello tecnico presenta degli indubbi vantaggi rispetto alle altre forme di sapere, esso non
può venire esteso anche alle cose più importanti, ossia al campo etico e morale. In realtà, la ragione
dell’esito aporetico in cui terminano praticamente tutti i dialoghi socratici di Platone sembra
esattamente consistere nella problematicità, se non proprio nell’impossibilità, di applicare in modo
meccanico il paradigma tecnico al campo etico-morale (e politico). Scrive in proposito il grande
platonista tedesco Konrad Gaiser:

Per quanto riguarda i discorsi di Socrate a proposito delle technai tradizionali, bisogna
ricordare che nei primi dialoghi platonici la scienza del Bene di cui si è alla ricerca viene
spiegata sul modello del sapere tecnico. I dialoghi finiscono ogni volta con un’aporia proprio
perché non si chiarisce espressamente la differenza sussistente tra le arti artigianali tradizionali
e la conoscenza dell’aretê dell’anima.61

Vediamo allora quali difficoltà incontra l’estensione del modello epistemologico della tecnica alla
conoscenza e all’attuazione del bene e della virtù.62 Il primo problema concerne senz’altro
l’individuazione di un ambito oggettuale ben determinato. Socrate è senza dubbio convinto della
necessità che anche il sapere morale sia in grado di esibire una qualche forma di referente ontico;
tuttavia, sembra anche rendersi conto di quanto sia difficile individuarlo con precisione. Nel
Carmide egli esclude che la sôphrosynê , ossia la saggezza pratica, possa essere priva di un oggetto
proprio; l’idea che essa si identifichi con una scienza regolativa che ha per oggetto le altre scienze
gli sembra problematica (anche se forse non del tutto impossibile). Per questo prende in
considerazione l’ipotesi che il referente oggettivo di questa disciplina sia costituito dal bene e dal
male, vale a dire che essa sia conoscenza peri to agathon kai kakon (Carmide, 174 C sgg. = T. 18).
Ma anche così, la saggezza pratica non cessa di conservare una natura in larga parte ancora
indefinita, dal momento che manca nel dialogo una definizione inequivoca di che cosa siano il bene e
il male.
La ragione principale per la quale il paradigma artigianale non è applicabile meccanicamente al
sapere etico è tuttavia un’altra. Essa consiste nel fatto che le tecniche risultano sostanzialmente
neutrali dal punto di vista della loro ricaduta etica, ossia del loro utilizzo. Un buon stratega, ossia
uno stratega in possesso della tecnica militare, può servirsi di essa per fini eticamente deplorevoli;
egli può addirittura compiere errori sul piano tecnico, pur sapendo che di errori si tratta. Viceversa,
chi è in possesso della scienza del bene e del male, non si comporterà mai male, perché, come
abbiamo ampiamente visto, la forza di attrazione del bene è tale da indurre l’agente a perseguirlo. In
altre parole, il possesso del sapere pratico implica automaticamente l’assunzione di un
comportamento virtuoso. La presenza di una dimensione assiologica nel cuore del sapere costituisce
un motivo estraneo alle tecniche. Scrive in proposito Ursula Wolf:

La capacità tecnica è aperta a esiti opposti; che essa venga impiegata o meno, che essa venga
utilizzata per scopi buoni o cattivi in senso etico dipende dalla volontà della persona che agisce.
Ma questo è il punto in cui si trova anche uno dei limiti del sapere della technê: i criteri con cui
decidiamo per quale scopo utilizzare una technê non si possono desumere dalla technê stessa.
La technê dipende da un altro sapere, il sapere che ci dice quali scopi dobbiamo perseguire,
come e perché dobbiamo impiegare le nostre capacità; dipende cioè dal sapere relativo a come
è giusto comportarsi e vivere.63

Il sapere che dovrebbe superare l’indifferenza valoriale della tecnica è esattamente il sapere etico-
morale relativo all’anima, alla cui delineazione Socrate sembra avere dedicato i suoi sforzi teorici
maggiori.
Sulla base di quanto appena detto, si può già indicare la principale caratteristica che, sul piano
metodologico, dovrà definire questo sapere. Si tratta della sua natura di sapere d’uso, ossia del fatto
che esso non avrà il compito di produrre o conservare beni (come le tecniche), ma dovrà stabilire
come utilizzare i risultati conseguiti dalle altre discipline. Colui che è in possesso del sapere pratico
intorno al bene e al male dell’anima potrà legittimamente ambire alla qualifica di vero politico,
perché sarà in grado di indicare l’utilizzo migliore, ossia orientato in senso valoriale, della capacità
militare o di quella di cui è in possesso il fabbro. La più esplicita formulazione della distinzione tra
tecniche acquisitive e sapere d’uso si trova nell’Eutidemo, dove Socrate afferma:

Nessuna forma dell’arte della caccia si spinge più in là del cacciare e del catturare; dopo che
abbiano catturato ciò di cui vanno a caccia, non sono capaci di servirsene: i cacciatori e i
pescatori lo consegnano ai cuochi, gli studiosi di geometria, di astronomia e del calcolo (sono
infatti anche costoro dei cacciatori; ognuno di loro non produce le figure, ma scopre quelle
esistenti) in quanto non sanno servirsene essi stessi, ma solo andarne a caccia, li consegnano,
quelli di loro che non siano del tutto privi di giudizio, ai dialettici perché si servano delle loro
scoperte. [...] E gli strateghi procedono allo stesso modo; dopo avere dato la caccia a una città o
a un esercito, li consegnano agli uomini politici , perché da sé non sanno servirsi delle cose che
hanno cacciato, così come, penso, i cacciatori di quaglie le consegnano agli allevatori. Se
dunque abbiamo bisogno di quella tecnica che sappia anche servirsi di ciò che acquisisce o per
averlo prodotto o per averlo cacciato, e una tale tecnica ci renderà felici, bisogna proprio
cercarne un’altra al posto dell’arte strategica (Eutidemo , 290 B-D: trad. Decleva Caizzi).

Platone chiama qui dialettica questa disciplina, capace di assegnare valore d’uso alle cose di cui si
occupa; essa non le produce né le conosce in senso disciplinare, ma è l’unica forma di sapere che, in
virtù della conoscenza del bene e del male, è in grado di trasformare ogni acquisizione in qualcosa di
utile all’uomo e alla città.64 È difficile stabilire se anche Socrate si riferisse a una simile disciplina
con questo nome, sebbene non ci sarebbe da meravigliarsi se le cose stessero così; quello che
sembra certo è che una simile descrizione della dialettica corrisponde a ciò che Socrate aveva in
mente quando parlava della saggezza pratica e del sapere che l’uomo dovrebbe perseguire perché si
riferisce alle cose più importanti (ta megista).
8. IL METODO DELLA FILOSOFIA: IRONIA, IGNORANZA,
CONFUTAZIONE, MAIEUTICA
Se la virtù comporta il sapere e se quest’ultimo non è disgiunto dalla conoscenza definizionale della
virtù, non può sorprendere che una larga parte dell’impegno filosofico di Socrate sia dedicata alla
ricerca del sapere intorno alla virtù. L’importanza di questa ricerca e dei metodi di cui Socrate si
serve per condurla è tale che si è finito da più parti per identificare la ricerca e la tensione verso il
bene e la virtù con la loro acquisizione. È giunto dunque il momento di esporre, sia pure in forma
cursoria, i principali motivi teorici nei quali si articola la ricerca socratica del bene.
Un aspetto in qualche misura pervasivo dell’intera attività di Socrate, probabilmente della sua
stessa personalità umana, è costituito dalla celebre ironia (eirôneia). Si tratta, come è noto, di un
atteggiamento per mezzo del quale Socrate dissimula in qualche modo la sua opinione, intendendo
qualcosa di diverso rispetto a ciò che afferma esplicitamente. Ecco come due testimonianze opposte
per finalità, l’una amichevole, quella di Alcibiade nel Simposio, l’altra apertamente malevola, quella
di Trasimaco nel I libro della Repubblica, descrivono questo atteggiamento di Socrate:

E lui, dopo avermi ascoltato, mi rispose con molta ironia (mala eirônikôs), secondo il suo
carattere e il suo modo di fare: «Mio caro Alcibiade, vuol dire che non sei uno sciocco, se è
vero quel che dici di me, e se realmente esiste in me un potere in virtù del quale puoi diventare
migliore: tu vedresti in me una bellezza irresistibile, infinitamente superiore al fascino che tu
possiedi. Se dunque, mirando ad essa, cerchi di concludere un affare con me barattando bellezza
con bellezza, ingente è il profitto che intendi lucrare a danno mio, anzi in luogo dell’apparenza
tu cerchi di acquistare la realtà del bello e veramente mediti di scambiare oro con bronzo»
(Platone, Simposio, 218 D-E = T. 13).

Alcibiade, il bellissimo, bizzarro e seducente allievo e ammiratore di Socrate, considera ironica


l’intera attività del maestro (in Simposio, 216 E dichiara che «passa tutta la vita ironizzando e
prendendosi gioco della gente»). In questo passo l’ironia socratica dovrebbe consistere nel reputare
non sciocco un atteggiamento come quello di Alcibiade, che in realtà sciocco lo è davvero, dal
momento che pretende di poter acquisire la vera bellezza, quella corrispondente alla virtù
dell’anima, cedendo in cambio la bellezza esteriore, quella del corpo.65
Sul versante opposto troviamo il sofista Trasimaco, acerrimo nemico di Socrate nel I libro della
Repubblica:

E quello, sentitomi parlare, scoppiò in una gran risata sardonica e disse: «O Eracle! Ecco qui
quella solita ironia di Socrate. Io lo sapevo, tanto che avevo predetto a questi amici che tu non
avresti voluto rispondere, e avresti invece ironizzato e fatto di tutto pur di non rispondere se ti si
fossero poste delle domande» (Repubblica , I 337 A).

Abbiamo due punti di vista opposti relativi allo stesso atteggiamento. Che cosa si può ricavare da
queste e da numerose altre descrizioni relative all’ironia socratica? Su questo tema sono state scritte
migliaia di pagine, alcune delle quali di grande rilevanza filosofica (si pensi a quelle dovute al
filosofo danese Søren Kierkegaard);66 e, come del resto è inevitabile in simili casi, le opinioni degli
studiosi e in genere dei filosofi divergono anche in misura considerevole. Credo, prima di tutto, che
si debba dire che l’ironia ha a che fare con la dissimulazione e la trasversalità; chi si comporta in
modo ironico, dice qualcosa per significare qualcosa di diverso rispetto alla lettera della sua
affermazione o comunque per indicare qualcosa che non è del tutto riducibile al significato
immediato di ciò che ha detto. La presenza di uno scarto tra il significato letterale di un’affermazione
e il suo contenuto ironico non comporta che il senso ironico sia esattamente l’opposto di quello
letterale, come pure reputava Quintiliano, per il quale l’ironia è quella figura del linguaggio in cui
contrarium ei quod dicitur intelligendum est (Istituzione oratoria, IX 22,44; cfr. anche VI 2,15 e
VIII 6,54).
L’ironia socratica dovrebbe essere l’elemento costitutivo di una strategia di smarcamento,
attraverso la quale Socrate si colloca in una posizione di vantaggio nei confronti dei suoi
interlocutori. Questo non significa che il senso ironico di un’affermazione sia esattamente il contrario
di quello letterale; significa però che un’affermazione ironica è un’affermazione che presenta una
certa qual profondità, che, sostenendo x, in qualche misura nega anche x. Gregory Vlastos ha parlato
a tal proposito di ironia complessa , per indicare che «ciò che viene detto a un tempo è e non è ciò
che si intende; il suo contenuto superficiale è inteso come vero in un senso, falso in un altro».67
Per comprendere il senso di questa profondità, si può forse prendere in considerazione l’ambito in
cui l’ironia si esercita in maniera più sistematica; si tratta della celebre dichiarazione di ignoranza,
ossia il sapere di non sapere. Socrate afferma di non avere conoscenze e dunque si dichiara
disponibile a farsi allievo di coloro che invece sostengono di poter insegnare la virtù e le altre
conoscenze. Così facendo, egli si colloca in una posizione di vantaggio nei confronti dei suoi
interlocutori, perché, costringendoli a esplicitare il loro presunto sapere, si trova nelle condizioni di
poterli confutare. Sostenendo di non avere conoscenze, egli fa un’affermazione ironica, che è vera in
un senso, ma falsa in un altro: è vera, perché in effetti Socrate non possiede conoscenze definite e
immediatamente insegnabili; tuttavia essa è anche falsa, perché egli è comunque in possesso di una
qualche competenza, costituita, se non altro, dalla capacità di confutare i suoi interlocutori. Inoltre,
una qualche conoscenza Socrate dimostra comunque di averla: sa, per esempio, che è meglio subire
che commettere ingiustizia; sa poi che non è possibile errare volontariamente; ed esempi simili sono
più numerosi di quanto si creda; certo, si tratta di conoscenze che fanno parte di quella anthrôpinê
sophia alla quale egli allude nell’Apologia ; conoscenze, dunque, umane, costantemente soggette a
venire messe in discussione ed eventualmente confutate; ma elementi, comunque, di un sapere, che
merita di venire definito filosofico.
Siamo così giunti al secondo motivo metodologico solitamente attribuito a Socrate: il sapere di
non sapere, la dichiarazione di ignoranza.68 Dobbiamo credere a Socrate quando dichiara di non
sapere nulla? In parte sì e in parte no! Dobbiamo credergli, se per conoscenza intendiamo un sapere
definitivo e fondato; un sapere certo e inconfutabile, perché ancorato su qualcosa di simile a un
principio non ipotetico (la celebre archê anypothetos di cui si parla nei libri VI e VII della
Repubblica). Ma dobbiamo anche dubitare della sua professione di ignoranza, se con il termine
sapere ci riferiamo a conoscenze provvisorie, ipotetiche, soggette a venire nuovamente messe in
discussione, ma comunque fondate sull’accordo di volta in volta raggiunto nell’ambito del dialogo.69
Tutto ciò rientra, come sembra evidente, nel campo di quella sapienza umana, che costituisce per
Socrate l’unica forma di conoscenza da lui (e dagli uomini) veramente raggiungibile; una sapienza,
che proprio perché umana, è anche automaticamente dialogica , ossia raggiungibile attraverso il
dialogo (e i suoi strumenti) e ancora nel dialogo soggetta a venire messa in discussione ed
eventualmente sostituita da un’altra conoscenza, dotata delle sue stesse caratteristiche di
provvisorietà e confutabilità.
Dalla natura stessa del sapere dipende l’importanza, davvero straordinaria, che assume per
Socrate la procedura della confutazione (elenchos), presente in tutti i dialoghi giovanili di Platone.
Secondo alcuni studiosi, anzi, la confutazione costituisce il tratto più caratteristico della filosofia di
Socrate, una sorta di marchio di fabbrica che distinguerebbe i dialoghi socratici da quelli più
genuinamente platonici, nei quali la presenza della confutazione sarebbe molto attenuata fino a
scomparire quasi del tutto. Anche sull’elenchos esiste una letteratura assai cospicua, che ha finito
con il produrre, come del resto era inevitabile, significativi dissensi tra gli studiosi, sia intorno alla
struttura della confutazione sia intorno alla sua finalità.70
Per gli scopi di questa introduzione si può tranquillamente fare a meno di dare conto del dibattito
critico. Vale invece la pena enucleare alcuni aspetti dell’elenchos sui quali l’accordo tra gli studiosi
sembra più consistente. Innanzitutto si deve dire che l’elenchos rappresenta una procedura
confutatoria, per mezzo della quale Socrate mette in crisi le opinioni consolidate dei suoi
interlocutori. La natura dialettica di questa procedura emerge laddove Socrate assume per vera
l’opinione dell’interlocutore (pur reputandola falsa) e cerca di dimostrare che da essa derivano
conseguenze o contraddittorie con la premessa iniziale oppure inaccettabili per lo stesso
interlocutore. Non mancano poi casi in cui l’elenchos si risolve nel richiamo alla natura parziale e
non universalizzabile della risposta suggerita dall’interlocutore, il quale, invece di fornire la
definizione universale di x, si limita a presentare un caso di x (cfr. per esempio Eutifrone, 5 D sgg. =
T. 12).
Solitamente Socrate procede in questa maniera: assume per vera la tesi p del suo interlocutore;
quindi induce l’interlocutore ad accettare due premesse q ed r che si riferiscono all’oggetto di p;
infine, egli dimostra che q e r implicano non-p, il che dovrebbe comportare la falsità della tesi p
sostenuta dall’interlocutore e assunta in via ipotetica anche da Socrate. Bisogna però osservare che
non sempre Socrate segue la medesima procedura, anche a conferma del fatto che l’elenchos
possiede una natura fortemente contestuale, legata alle condizioni effettive del colloquio.
Quest’ultimo motivo dovrebbe spiegare la presenza nell’elenchos socratico di fallacie logiche e di
imprecisioni argomentative: esse dipendono molto spesso dall’esigenza di confutare l’interlocutore
sul suo piano, ossia restando su un livello che non corrisponde a quello di Socrate.71
La natura contestuale dell’elenchos emerge del resto in maniera evidente laddove si consideri che
esso muove sempre da un’opinione particolare e dall’individuo che la sostiene. Socrate chiede al suo
interlocutore ti legeis, ossia che cosa intendi dire quando parli di x? Egli è infatti convinto che
l’interlocutore abbia una precisa opinione intorno all’oggetto del dialogo, anche se non ne è del tutto
consapevole. La domanda espressa dalla formula ti legeis ha il preciso scopo di portare, per mezzo
del procedimento maieutico, a consapevolezza e a esplicita formulazione queste convinzioni.72
La presenza nell’elenchos di una forte componente contestuale e ad hominem ha indotto taluni
studiosi a ritenere che esso svolga solo una funzione negativa e confutatoria, e che non ambisca al
raggiungimento della verità. A questa posizione si può rispondere con le parole di Gabriele
Giannantoni, il quale sostiene che

lo scopo primario di Socrate è quello di esaminare ciò che il suo interlocutore vuole dire e
quindi la sua argomentazione è necessariamente ad hominem; nello stesso tempo, però, è
evidente che la stessa ricerca socratica diventerebbe del tutto incomprensibile se la si ritenesse
completamente sganciata da un interesse effettivo per la verità. Una verità per Socrate [...]
intrinseca al tipo di homologia raggiunta con l’interlocutore con cui si trova a discutere. 73

L’homologia cui si fa qui riferimento non è altro che l’accordo di volta in volta raggiunto; si tratta
indubbiamente di un accordo parziale e in larga misura dipendente dalla natura degli interlocutori;
tuttavia, almeno a livello programmatico, Socrate si impegna a che tutti i soggetti in campo
rispondano facendo appello alla razionalità, il che evidentemente dovrebbe garantire un buon livello
di universalità ai risultati di volta in volta acquisiti.
Non c’è dubbio, in ogni modo, che il principale scopo dell’elenchos socratico sia terapeutico, e
consista nel liberare gli interlocutori dalle false opinioni di cui sono imbevuti (spesso
inconsapevolmente). Ma la terapia è comunque finalizzata alla costruzione di un sapere positivo e di
un comportamento virtuoso; non si tratterà della dialettica vagheggiata dal suo grande allievo, bensì
di una sapienza umana, soggetta a venire costantemente messa in discussione, ma comunque dotata di
una certa forma di universalità e oggettività.
9. SOCRATE E PLATONE: OVVERO L’APORIA E
L’EUPORIA?
Il Socrate di Platone, lo si è detto, non è il Socrate storico; ma questo vale anche per il Socrate di
Aristofane, per quello di Senofonte e per quello di cui parla Aristotele. Il Socrate platonico è senza
dubbio quello più interessante dal punto di vista filosofico, ma questo non significa che sia il meno
affidabile storicamente. Platone scrive di Socrate a pochi anni dalla morte del maestro; i lettori dei
dialoghi avevano conosciuto Socrate e non sarebbe stato possibile presentare un’immagine del tutto
distorta della sua personalità. Questo vale in misura minore per Aristofane (che è mosso da intenti
unicamente polemici) e per Senofonte (che scrisse qualche decennio dopo la morte di Socrate). Ma
anche i due autori appena menzionati restituiscono un’immagine del filosofo che coglie senza dubbio
alcuni aspetti della sua attività, come si è cercato di dimostrare all’inizio di questa introduzione (§
1).
Ciò che si è detto in queste pagine a proposito della filosofia socratica è in larga parte, sebbene
non esclusivamente, ricavato dalla testimonianza contenuta nei primi dialoghi di Platone, quei
dialoghi che solitamente gli studiosi chiamano socratici. Qui è senz’altro contenuto qualcosa di
Socrate; non tutto, certo: Socrate è un personaggio di Platone, come Edipo e Antigone lo sono di
Sofocle. E tuttavia sarebbe sbagliato – e francamente insensato – equiparare il grado di adesione di
Platone alle parole che egli attribuisce a Socrate al grado di adesione che Sofocle poteva nutrire nei
confronti delle parole che ascrive ai suoi personaggi.74 Per Platone Socrate è la figura che
impersonifica la pratica filosofica; la descrizione del suo bios deve anche costituire una sorta di
manifesto propagandistico della filosofia. Ma ovviamente Platone non è Socrate; non ne condivide in
tutto e per tutto la prospettiva filosofica ed esistenziale; adotta tesi e soluzioni filosofiche che
probabilmente il suo maestro non avrebbe condiviso, almeno non del tutto. Le considerazioni che
seguono intendono appunto focalizzare l’attenzione su alcuni elementi di scarto tra la prospettiva
socratica e quella assunta dal grande allievo.75
Per iniziare una riflessione di questo tipo si può partire dalla valutazione che Platone sembra dare
dell’esito fallimentare del progetto esistenziale e politico di Socrate. La condanna a morte da parte di
un tribunale cittadino rappresenta senza dubbio la manifestazione più evidente di questo fallimento:
Socrate non ha persuaso i suoi concittadini della validità del progetto nel quale ha impegnato tutta
l’esistenza; si tratta del fallimento di un’idea di saggezza tipicamente socratica, come patrimonio del
singolo che si oppone alla brutalità della massa. È esattamente a questa idea che il Socrate ormai
platonizzato della Repubblica allude polemicamente:

Per quanto riguarda poi il mio segno demonico (daimonion sêmeion ) non vale la pena di
parlarne: a pochi o a nessuno è capitato prima di me. Chi comunque è entrato in questa piccola
schiera e ha gustato quanto dolce e beato sia questo possesso, osservata poi bene la folla dei
più, e che non v’è nessuno che dia per così dire un sano apporto agli affari della città, né vi
sono alleati con i quali accorrere in difesa della giustizia e con il cui appoggio salvarsi, bensì –
come un uomo imbattutosi in un branco di fiere che non vuole condividerne l’ingiustizia né può
da solo resistere a tutte le belve – c’è il rischio di perire, risultando inutile a sé e agli altri,
prima ancora di avere giovato in qualcosa alla città e agli amici: avendo riflettuto su tutto
questo, egli resta inattivo e attende alle proprie cose, come se in una bufera si riparasse dietro
un muretto dalla polvere e dalla pioggia portate dal vento, e vedendo gli altri traboccare di
illegalità, si ritiene contento di poter vivere almeno la propria vita quaggiù puro d’ingiustizia e
di azioni empie (Repubblica, VI 496 C-D).

L’uomo imbattutosi nel branco di fiere altri non è che Socrate, il cui destino umano segna il
fallimento dell’idea del saggio isolato. Agli occhi di Platone il progetto di rifondazione
antropologica vagheggiato da Socrate può realizzarsi solo a livello comunitario, ossia passando
attraverso una radicale riforma sociale e politica della città. Ma un simile programma non può fare a
meno della coercizione e della forza, senza le quali la ragione finisce con il trasformarsi in una sorta
di anima bella.
Nella kallipolis immaginata da Platone nella Repubblica l’elemento coercitivo è garantito dal ceto
militare, che agisce seguendo le indicazioni provenienti dal gruppo dei filosofi, i quali governano
applicando i dettami normativi della razionalità universale e oggettiva incorporata dal mondo delle
idee. Tutto ciò, inutile sottolinearlo, sembra abbastanza lontano dalla sensibilità socratica.
Ma l’esigenza di un surplus energetico, fornito sul piano sociale dalla forza militare, non è
estranea neppure alla sfera psichica individuale. Platone infatti riconosce l’esistenza di istanze
psichiche non riconducibili alla ragione; una delle quali è appunto rappresentata dalla pulsionalità
emotiva e dalla istintualità collerica, il celebre thymos di ascendenza omerica. La dinamica
psicologica dell’individuo dovrebbe essere scandita, secondo Platone, dagli sforzi del logos di
asservire ai propri fini questa pulsionalità, grazie alla quale il centro psichico più piccolo, la ragione
appunto, può dominare la grande massa dei desideri (epithymiai), che esprimono le istanze della
parte inferiore (ma più grande) dell’anima, l’epithymetikon.
Si viene dunque a determinare una sorta di gioco di alleanze, sia a livello politico vero e proprio,
sia a livello psichico: in entrambi i casi la ragione, rappresentata sul piano sociale dal ceto dei
filosofi, deve allearsi con la pulsionalità istintuale, fornita nella città dal gruppo militare, per
dominare le istanze psichiche desideranti, le quali nella polis vengono espresse dal ceto produttivo
(portato a perseguire unicamente il proprio interesse e a soddisfare i desideri corporei).76
Per Platone, dunque, l’ipoteca politica appare del tutto imprescindibile; la soluzione individuale
adottata dal suo maestro (il quale dichiara di rinunciare alla politica in Apologia, 31 C-D = T. 11)
non poteva che apparirgli troppo debole e destinata a un inevitabile naufragio. Tutto ciò viene
spiegato nel migliore dei modi da Mario Vegetti:

Il socratismo dovette apparirgli come una fase minorenne della filosofia, che bisognava far
crescere, uscire dalla minorità, avviare all’età adulta. Sono facilmente avvertibili nei dialoghi i
segni di un distacco critico del discepolo verso il maestro, di un suo atteggiamento ironico, a
volte persino di una crescente irritazione – segni attribuiti agli interlocutori di Socrate, che
senza dubbio parlano a nome dell’autore, oppure alle frequenti “autocritiche” fatte pronunciare
dallo stesso personaggio “Socrate”. Accanto ad essi, vi sono poi le critiche esplicite, sul cui
bersaglio i fruitori dei dialoghi non potevano certamente equivocare: esse colpiscono
l’inconcludenza e persino la pericolosità di una pratica della confutazione senza sbocchi
positivi, insomma l’incompiutezza di un’esperienza tanto cruciale quanto immatura.77

L’accusa di inconclusività, che Platone rivolge a Socrate sul piano dell’esperienza umana e politica,
dovrebbe venire estesa anche alla riflessione epistemologica. Socrate, lo si è visto, stabilisce una
netta distinzione fra la sapienza umana, non solo permeata di provvisorietà ma anche caratterizzata da
una vera e propria consapevolezza dei propri limiti (la celebre dichiarazione di sapere di non
sapere), e quella divina (ossia un ambito al quale l’uomo non può veramente accedere); anche
Platone è consapevole della differenza tra la sapienza umana e quella divina; anch’egli si dimostra
cosciente della natura spesso parziale e provvisoria del sapere prodotto dall’uomo, che non a caso
viene solitamente considerato di natura doxastica; tuttavia, per Platone le difficoltà e la
provvisorietà delle conoscenze umane non dipendono da una sorta di scarto ontologico, che rende
impossibile l’accesso alla conoscenza perfetta e compiuta della realtà.
Si potrebbero citare numerosi passi dai quali emerge con una certa nettezza l’idea che il filosofo
dialettico risulta davvero in grado di conseguire il sapere supremo, ossia di conoscere il mondo
delle idee; per esigenze di spazio ci si dovrà limitare a menzionare un solo esempio, che però è
piuttosto significativo. Nel Timeo , dopo avere indicato le tappe di un percorso conoscitivo che
consente di ricondurre i corpi fisici alle entità matematiche di cui essi sono costituiti (si tratta, come
noto, di due tipi di triangoli rettangoli), Timeo dichiara che «i principi superiori a questi (toutôn
archai anôthen) li conosce il dio e tra gli uomini colui che al dio è amico (philos)» (Timeo, 53 D).
Ciò significa che, come altrove si dice, il dio è sapiente, perché conosce i principi della realtà; ma
chi è amico del dio, ossia amico del sapiente? Nient’altri che il philo-sophos, ossia il dialettico, che
per Platone è in grado di raggiungere la verità, sia pure a fatica e al termine di un lungo e complesso
percorso epistemico (scandito proprio da quelle discipline matematiche nei cui confronti Socrate non
nutre una particolare simpatia). Non è un caso che a fare una simile affermazione non sia Socrate, ma
un altro personaggio, il misterioso Timeo, presentato come astronomikôtatos (Timeo, 27 A), ossia
esperto in massimo grado in astronomia (ancora una volta una disciplina non amata dal Socrate
platonico e senofonteo).
In verità la questione del significato dell’aporia nella filosofia di Socrate e in quella di Platone è
complessa e meriterebbe una trattazione ampia e approfondita. Sarebbe comunque sbagliato, almeno
a mio parere, ritenere che per Socrate l’aporia costituisca un momento fine a se stesso, una sorta di
parola conclusiva nel cammino della ricerca.78 Non c’è dubbio che in lui il momento aporetico-
confutatorio svolge una funzione fondamentale; si tratta, però, di una funzione purificatrice (delle
false opinioni) che va messa al servizio della ricerca della verità, dalla cui acquisizione (sia pure
parziale e costantemente soggetta a venire nuovamente messa in discussione) dipende la possibilità
della vita buona, cioè del raggiungimento della vera eudaimonia.
Resta comunque il fatto che la stessa natura della dialettica socratica, ossia il suo carattere
costitutivamente situazionale e ad hominem, rende di per sé parziale, se non proprio soggettiva, ogni
acquisizione. Viceversa, la dialettica platonica, così come viene teorizzata nel Fedro e soprattutto nei
libri centrali della Repubblica e nel Sofista, presenta un andamento fortemente oggettivo, in larga
misura sganciato dal contesto situazionale del dialogo; il processo di rendicontazione delle ipotesi
(logon didonai) assume in Platone una dimensione oggettiva, che rende i risultati raggiunti validi in
termini assoluti, cioè indipendentemente dalla variabilità del contesto.
Un dialogo come il Menone sembra mettere in scena il passaggio dalla prospettiva socratica a
quella propriamente platonica: vi viene infatti implicitamente teorizzata la transizione tra l’opinione
vera (doxa alêthês) e la conoscenza vera e propria (epistêmê); quest’ultima consiste nella capacità
di saldare con un legame (desmos ) le opinioni, facendo così in modo che esse non possano più
sfuggire dall’anima, ossia venire confutate (Menone, 97 D-98 A). Questa operazione di saldatura
viene resa possibile dalla capacità di ricondurre le opinioni vere alla causa della loro verità, ossia
alle idee: solo conoscendo l’idea di x, io sono in grado di ricondurre ogni caratteristica di x al suo
fondamento ontologico; in questo modo, un’opinione relativa a x si trasforma in un’asserzione
scientifica, non più soggetta a confutazione.79 Siamo, come si vede, ancora una volta al di là dei
confini epistemici tracciati da Socrate.
Gabriele Giannantoni ha espresso in modo estremamente chiaro la natura del passaggio dalla
dialettica ad hominem di Socrate a quella rendicontazionale e oggettiva di Platone; secondo lo
studioso, tale passaggio si definisce sostanzialmente attraverso

l’identificazione del dialegesthai, della dialektikê, con il logon didonai, e [attraverso]


l’interpretazione di quest’ultima espressione come “dare conto” delle ipotesi assunte. In questo
senso si spiega come la dialektikê sia una poreia che giunge a un termine, a un risultato
conclusivo (al contrario dell’exetazein socratico!). 80

Tutto ciò, ossia il differente atteggiamento di Socrate e Platone nei confronti della verità, ha
probabilmente un fondamento oggettivo nella diversa ontologia che sta alla base della loro filosofia.
Mentre Platone ipotizza l’esistenza di entità eccezionali, le idee, dotate di caratteristiche metafisiche
peculiari, che le situano al di fuori dello spazio e del tempo, assegnando ad esse una collocazione
ontologica e una consistenza logica peculiari, Socrate sembra limitarsi a concepire l’ambito degli
universali come occupato da proprietà comuni (ta koina), di cui il filosofo dovrebbe essere in grado
di fornire la definizione, rispondendo alla celebre domanda ti esti, che cosa è?
Un’ontologia degli universali e delle proprietà è pur sempre un’ontologia; così come
un’epistemologia della definizione degli universali è un’epistemologia con caratteristiche precise e
definite. 81 Si tratta di un’ontologia senza idee separate e di un’epistemologia senza reminiscenza
(anamnêsis); proprio in virtù di queste assenze la filosofia di Socrate suscitò l’ammirazione di
Aristotele, il quale vide in lui il precursore della scienza. Leggiamo infatti nel XIII libro della
Metafisica:

Socrate si occupò delle virtù etiche (peri tas êthikas aretas) e per primo cercò di dare di esse
definizioni universali [...]. Cercava l’essenza (to ti estin) delle cose e a buona ragione: infatti
egli cercava di seguire il procedimento sillogistico, e il principio dei sillogismi è appunto
l’essenza. [...] In effetti due sono le scoperte che si possono attribuire a giusta ragione a Socrate:
i ragionamenti induttivi e la definizione universale; si tratta di scoperte che costituiscono la base
della scienza. Ma Socrate non pose le definizioni e gli universali come separati dalle cose;
invece gli altri pensatori [cioè Platone e gli Accademici] li posero, e a siffatte realtà diedero il
nome di idee (Aristotele, Metafisica, XIII 4, 1078b17-32; cfr. anche I 6, 987b1-9).

La ricerca socratica del ti esti, ossia dell’essenza universale di ciascuna virtù, costituisce, secondo
Aristotele, uno dei presupposti della scienza; in effetti, tanto l’obiettivo di una simile ricerca, ossia
la determinazione dell’universale (to katholou), quanto la procedura adottata, vale a dire il metodo
deduttivo consistente nel ricavare da una certa asserzione tutte le conseguenze in essa implicite (un
metodo che anticipa il sillogismo aristotelico), rappresentano elementi destinati a venire incorporati
nella teoria della scienza formulata da Aristotele, il quale non poteva non apprezzare la presenza di
questi motivi depurati dall’ingombrante opzione metafisica costituita dalle idee separate di Platone.
L’universale, l’essenza, la definizione, l’induzione, il sillogismo; certo, si tratta di nozioni
aristoteliche; ma non c’è ragione per dubitare che esse rispecchino motivi teorici in qualche misura
presenti nella riflessione socratica. In questo come in altri casi la testimonianza di Aristotele opera
delle modifiche terminologiche, dei trasferimenti concettuali, per lo più finalizzati a rendere la
filosofia di Socrate omogenea al corso del pensiero che Aristotele sta ricostruendo. E tuttavia
l’orizzonte teorico al quale queste nozioni appartengono non è estraneo alla filosofia di Socrate: esse
tracciano i contorni di una riflessione fondata sull’indagine razionale e intersoggettiva, il cui fine è il
conseguimento di un risultato universale, sebbene non assoluto. Si tratta di una universalità
dialogico-contestuale, dunque umana, ma pur sempre di un’universalità fondata sulla ragione (logos).
Dunque, Socrate non è solo il coraggioso testimone della libertà di pensiero e di una radicale
coerenza tra vita e filosofia; a lui si deve una riflessione che appare assumere, forse per la prima
volta nel corso della storia del pensiero occidentale, la cadenza tipica del fare filosofico: si tratta di
una riflessione che prima di tutto mette in discussione se stessa, le proprie modalità di costruzione
del sapere e dell’oggetto intorno a cui il sapere verte; che non assume nulla per dato, che cerca di
ricostruire sempre i presupposti non indagati di ogni opinione, di ogni presunta certezza; ma che
accompagna lo spirito critico e tendenzialmente demolitore del razionalismo illuminista con
l’ambizione di ricostruire un orizzonte normativo universalizzante, al quale l’uomo possa appoggiarsi
per realizzare pienamente il proprio essere e, in questo modo, acquisire la vera felicità.

FRANCO FERRARI
CRONOLOGIA DELLA VITA
470 Socrate nasce ad Atene. Il padre Sofronisco era uno scultore, mentre la madre Fenarete,
probabilmente proveniente da una buona famiglia, svolgeva, non è chiaro se professionalmente o
meno, l’attività di levatrice. La discreta condizione economica della famiglia (dalla quale ereditò
forse una piccola rendita) consentì a Socrate di gestire un esiguo patrimonio che gli permise di
prestare il servizio militare in qualità di oplita (acquistando dunque l’armatura completa).

455-40 Sappiamo molto poco della sua formazione culturale. Essa dovette, almeno inizialmente,
assomigliare a quella di un normale cittadino ateniese modestamente abbiente; dunque ginnastica,
grammatica e i classici della letteratura, ossia Omero ed Esiodo. È probabile che l’eventuale
interesse per l’indagine naturalistica gli venne dall’incontro con Archelao e con Diogene di
Apollonia, anche se le notizie in proposito non sono del tutto attendibili.

432-29 Prende parte alla campagna militare di Potidea, in Tracia, dove si comporta valorosamente,
mettendo in salvo Alcibiade, che era stato ferito.

424 Combatte a Delio, in Beozia, mostrando anche in questo caso coraggio e accortezza (mise in
salvo Lachete).

423 Vengono rappresentate le Nuvole di Aristofane, nelle quali Socrate appare nelle vesti di un
sofista avido e ciarlatano. Altre commedie rappresentate in questi anni si occupano per lo più in
modo polemico di lui.

422 Partecipa anche alla campagna di Anfipoli.

420-15 Sposa, probabilmente già piuttosto anziano (tra il 419 e il 415), Santippe, da cui ha uno o due
figli. Alcune fonti (cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II 26) accennano a una seconda moglie,
Mirto, da cui avrebbe avuto un altro figlio. La questione non è tuttavia chiara.

410-05 Verso la fine del secolo, in una data imprecisata, rifiuta l’invito del re macedone Archelao a
recarsi a Pella.

406-05 Viene sorteggiato membro del Consiglio dei 500 (boulê) e viene poi chiamato a fare parte del
Comitato dei Pritani, incaricato di giudicare i generali vittoriosi alla battaglia navale delle
Arginuse, colpevoli di non avere tentato di salvare i marinai dispersi. Si oppone alla richiesta di
giudicare in blocco gli strateghi.

404 Durante il regime oligarchico dei Trenta Tiranni si sottrae all’ordine emanato da Crizia di
arrestare il democratico Leonzio di Salamina, dimostrando coraggio e rigore morale.
399 Restaurata la democrazia, viene accusato di empietà (in quanto non riconosce le divinità
tradizionali e ne introduce altre) e di corruzione dei giovani. Condannato a morte da una
maggioranza di 30 voti (280 a 220), rifiuta ogni ipotesi di accomodamento, che pure la prassi
consentiva (l’esilio o il pagamento di una pena pecuniaria), e muore bevendo la cicuta.
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NOTA AI TESTI
La presenta antologia di testi socratici non ha né intende avere pretese di esaustività. Si rimanda chi
fosse interessato a una raccolta completa delle testimonianze antiche relative a Socrate (ad eccezione
di quella platonica) al volume Socrate, Tutte le testimonianze: da Aristofane e Senofonte ai Padri
cristiani, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1986. Fondamentale è poi l’edizione delle
testimonianze relative a Socrate e ai socratici curata da G. Giannantoni: Socratis et Socraticorum
reliquiae, collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, vol. I-IV,
Bibliopolis, Napoli 1991.
I testi qui raccolti sono rubricati in quattro sezioni; si tratta, naturalmente, di una disposizione in
larga misura arbitraria e che non ha alcun valore filosofico-sistematico. Essa si propone solo di
facilitare la lettura dei testi, fornendo una serie di percorsi possibili. Le sezioni introduttive ai
singoli testi si limitano a inquadrare il documento all’interno dell’opera dalla quale è tratto e
forniscono alcuni suggerimenti interpretativi, che hanno per lo più la funzione di indicare possibili
percorsi ermeneutici. Naturalmente, laddove è parso opportuno, si è anche cercato di suggerire
l’esegesi che a chi scrive appare quella corretta.
Anche le indicazioni bibliografiche poste in conclusione di ogni introduzione costituiscono dei
semplici suggerimenti, che si propongono di fornire spunti per ulteriori approfondimenti.

F.F.
A. L’UOMO E LA CITTÀ
T. 01 UN CITTADINO PERBENE
(Senofonte, Memorabili, I, 1)

L’immagine di Socrate che emerge dal complesso della testimonianza di Senofonte è quella del
cittadino esemplare, perfettamente integrato nell’ambito dei valori e delle pratiche della polis.
L’esigenza di costruire una simile immagine comporta come inevitabile conseguenza la
marginalizzazione degli aspetti filosoficamente più stimolanti (spesso proprio in virtù della loro
paradossalità) del socratismo. Ma il Socrate di Senofonte deve prima di tutto risultare spendibile
all’interno di un ben preciso disegno ideologico, che richiede l’integrazione del personaggio nel
cuore dei valori della Atene dei primi decenni del IV secolo, impegnata in un faticoso lavoro di
ricostruzione dopo la catastrofe successiva alla fine della guerra con Sparta.
Rispetto a un progetto simile, occorreva prima di tutto neutralizzare l’accusa di non credere negli
dèi e di rifiutare la religione tradizionale. Non credere agli dèi, «o meglio, non rispettare le pratiche
e le usanze, i nomoi appunto fissati dalla città per i sacrifici e per le feste, ha molti punti di contatto
con kataluein tas thysias , l’abolire i sacrifici: entrambe le espressioni tradiscono un atteggiamento
di rifiuto nei confronti dei riti imposti dalla comunità; [...] Si colgono così forse meglio nei loro
dovuti risvolti gli scopi apologetici di Senofonte che in apertura dei Memorabili rivendica subito,
dopo avere riportato la graphê, come Socrate agisse apertamente e si facesse vedere da tutti presso
gli altari comuni della città, quasi a voler con forza sostenere il rispetto di quei nomoi che per
l’accusa egli avrebbe concorso a scardinare» (Roscalla, p. 87).
Fiducia nella mantica, fedeltà al sistema rituale della religione cittadina, sostanziale integrabilità
dello stesso demone all’interno di questa religione: ecco gli elementi che definiscono l’immagine di
Socrate ricostruita da Senofonte. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente; occorre anche sottrarre
Socrate a ogni contiguità con il naturalismo potenzialmente ateistico di certa filosofia del V secolo.
Si comprende così l’attribuzione a Socrate di interessi solo in campo antropologico ed etico-politico
(con l’indagine intorno a nozioni quali pio, empio, giusto, ingiusto, e a virtù come la moderazione, il
coraggio, ecc.), e l’esclusione di ogni interesse per la struttura del cosmo. Vale la pena osservare che
Senofonte condivide un simile giudizio con Aristotele, per il quale Socrate si sarebbe concentrato
solo su questioni etiche, tralasciando del tutto l’indagine intorno alla natura (Metafisica, I 6, 987 b1-
2; ma cfr. anche ciò che Platone stesso fa dire a Socrate in Fedone, 96 A sgg. e poi la celebre
affermazione di Cicerone, nelle Tusculane, V 4, 10-11, secondo il quale Socrates autem primus
philosophiam devocavit e caelo et in urbibus conlocavit et in domus etiam introduxit et coegit de
vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere). È probabile che questa immagine fotografi la
seconda fase dell’impegno filosofico di Socrate, il quale, a partire da un certo punto, dovette
effettivamente accantonare la riflessione naturalistica a vantaggio di quella eticoantropologica.
Non c’è dubbio, ad ogni modo, che il Socrate di Senofonte costituisca l’antitesi speculare di
quello di Aristofane (cfr. T. 08). In effetti, per costruire un’immagine di Socrate integrabile
all’interno del panorama ideologico, politico e religioso dell’Atene dei primi decenni del IV secolo,
Senofonte doveva smontare l’immagine naturalistica, iper-razionalista, tendenzialmente sofistica e
sostanzialmente atea veicolata nelle commedie di Aristofane. Dunque, il Socrate di Senofonte si
profila come una figura molto vicina al cittadino perbene della polis del IV secolo e abissalmente
lontana da personaggi della portata di Anassagora.

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- J.-B. Gourinat (éd.), Socrate et les socratiques, Vrin, Paris 2001, pp. 97-119.
da Memorabili, I, 1*
Mi sono domandato tante volte con stupore con quali argomenti mai gli accusatori di Socrate seppero
convincere gli Ateniesi che egli meritava la pena di morte per le sue colpe verso lo stato. Questa era
infatti l’accusa contro di lui: Socrate è colpevole di non credere agli dei riconosciuti dallo stato e di
introdurre altre, nuove divinità; è colpevole anche di corrompere i giovani.
Anzitutto dunque, quanto all’accusa che non credesse agli dei riconosciuti dallo stato, di che prove
mai si servirono? Giacché era risaputo che faceva spesso sacrifici in privato e presso gli altari
comuni della città, né costituiva mistero il fatto che ricorresse alla divinazione. In effetti si era sparsa
la voce che Socrate sosteneva di ricevere indicazioni dal demone; certo fu soprattutto sulla base di
questo che lo accusarono di introdurre nuove divinità. Ma egli non introdusse niente di più insolito di
quanto non facciano quelli che credono nella divinazione e interrogano il volo degli uccelli, gli
oracoli, i presagi, i sacrifici. Essi presumono infatti non che gli uccelli o le persone incontrate per
caso siano a conoscenza di quel che giova a chi li interroga, ma che essi siano lo strumento attraverso
cui gli dei rendono manifesto ciò, ed anch’egli credeva questo. Mentre però la maggioranza di
costoro sostiene di essere distolta o incoraggiata all’azione dal volo degli uccelli e dalle persone che
incontra, Socrate invece parlava sulla base di ciò che lui stesso aveva compreso: sosteneva appunto
che era il demone a dargli indicazioni. E a molti di coloro che lo frequentavano sapeva predire ciò
che dovevano fare e ciò che non dovevano, secondo l’avvertimento del demone; e quelli che gli
obbedivano ne traevano vantaggio, mentre quelli che non gli obbedivano avevano motivo di
pentirsene. Eppure chi non riconoscerebbe che egli non voleva sembrare ai suoi seguaci né uno stolto
né un impostore? E sarebbe sembrato entrambe le cose, se facendo previsioni come ispirato dal dio,
si fosse nello stesso tempo rivelato bugiardo; è dunque evidente che non avrebbe fatto predizioni se
non avesse creduto di dire la verità. Ma per cose di questo genere, chi confiderebbe in qualcun altro
se non in dio? E se Socrate confidava negli dei, come poteva pensare che non esistono? Inoltre
faceva anche questo con gli amici: per le cose che era necessario fare consigliava di agire pure come
a loro pareva meglio; ma riguardo a quelle di cui era incerto come sarebbero andate a finire, li
mandava a interrogare l’oracolo per sapere se si dovevano intraprendere. E sosteneva che anche
coloro che intendono governare bene sia una casa che una città, hanno bisogno della divinazione.
Considerava infatti il diventare costruttore o fabbro o contadino o governante di uomini o
esaminatore di questi mestieri, o ragioniere o amministratore o stratega, tutte attività oggetto di
apprendimento e suscettibili di essere scelte dall’uomo sulla base della sua intelligenza. Diceva però
che quello che in esse è decisivo gli dei l’hanno riservato per sé e di ciò niente è chiaro agli uomini.
Né infatti chi ha ben coltivato un campo sa con certezza chi coglierà i frutti, né chi ha ben costruito
una casa sa chi la abiterà, né il generale sa se porterà benefici il suo comando, né il politico sa se
porterà benefici la sua guida dello stato, né chi si sposa con una bella donna per godere con lei sa se
avrà da lei dolore, né chi acquista legami potenti in città sa se per causa loro ne sarà esiliato. E
coloro che credono che in tutto questo non ci sia niente di divino, ma che tutto dipenda
dall’intelligenza umana, diceva che son presi da pazzia. Ma diceva che sono fuori di senno anche
coloro che interrogano gli dei per quelle cose in cui essi hanno dato agli uomini la capacità di
discernere da soli attraverso l’apprendimento, come se uno li interrogasse per sapere se è meglio
prendere a guida del carro uno che sa guidare o uno che non sa, o se è meglio mettere al comando
della nave uno che sa fare il timoniere o uno che non sa, o come se uno li interrogasse su quelle cose
che è possibile conoscere contando, misurando, pesando; riteneva che coloro che chiedono agli dei
informazioni di questo genere, compiano atti contrari alla legge divina. Affermava che dobbiamo
apprendere quelle cose che gli dei ci hanno concesso di poter fare attraverso l’apprendimento,
mentre quelle che restano oscure agli uomini, dobbiamo cercare di conoscerle dagli dei attraverso la
divinazione; essi infatti le rendono manifeste a coloro verso i quali sono ben disposti.
Inoltre viveva sempre sotto gli occhi di tutti. Al mattino infatti si recava nei portici e nei ginnasi e
quando l’agorà era piena di gente, si poteva vederlo là, e per tutto il resto della giornata si trovava
dove avrebbe incontrato più gente possibile. Per la maggior parte del tempo parlava e a chi lo
desiderava, era possibile ascoltarlo. Eppure nessuno mai vide o sentì Socrate fare o dire niente di
irreligioso o empio. E infatti non trattava della natura di tutte le cose alla maniera della maggior parte
degli altri pensatori, indagando com’è fatto quello che i sapienti chiamano «kosmos» (universo
ordinato) e per quali leggi necessarie avvenga ciascuno dei fenomeni celesti, ma indicava come matti
anche coloro che si occupavano di tali questioni. E di costoro si chiedeva prima di tutto se mai
impegnassero la loro mente in tali argomenti perché credevano di saperne già abbastanza delle cose
umane, oppure se pensavano di fare la cosa giusta, trascurando le questioni umane per le divine. E si
stupiva che non fosse evidente per loro come non sia possibile agli uomini svelare questi misteri dal
momento che anche quelli che andavano assai fieri di occuparsi di tali cose non avevano le stesse
opinioni, ma si comportavano l’un verso l’altro come gente fuori di senno. E tra i pazzi ce ne sono di
quelli che non temono neanche le cose da temere, altri che hanno paura anche di ciò che non è
temibile e agli uni non pare vergognoso, neanche davanti alla folla, dire o fare qualunque cosa, gli
altri credono che non si debba neanche uscire in mezzo alla gente, e i primi non onorano né un
santuario, né un altare, né alcun altro oggetto sacro, i secondi venerano perfino pietre e pezzi di legno
come capitano, e animali. E fra quelli che si arrovellano sulla natura di tutte le cose, alcuni credono
che uno solo è l’essere, altri che è di numero infinito e alcuni che tutto è sempre in movimento e altri
che niente è mai in movimento e alcuni che tutto si genera e tutto perisce, altri che niente mai nasce né
perirà. Riguardo a tali pensatori si i chiedeva anche questo: forse come coloro che hanno appreso le
cose umane pensano di poter fare ciò che hanno imparato per sé e per chiunque altro vogliano così
anche quelli che indagano le cose divine credono, dopo aver scoperto per quali leggi necessarie si
verifica ciascun fenomeno, di poterlo riprodurre quando vogliano, ad esempio venti, piogge, stagioni
e qualunque altra cosa siffatta di cui abbiano bisogno oppure non si aspettano neppure niente del
genere, ma basta loro soltanto conoscere per quali cause avviene ciascuna di queste cose? Questo
egli sosteneva dunque riguardo a coloro che sono impegnati in argomenti di questo tipo. Lui invece,
per parte sua, trattava sempre questioni inerenti agli uomini, indagando su che cosa fosse pio, che
cosa empio, che cosa bello, che cosa turpe, che cosa giusto, che cosa ingiusto, che cosa la saggezza,
che cosa la pazzia, che cosa il coraggio, che cosa la viltà, che cosa lo stato, che cosa l’uomo politico,
che cosa il governo degli uomini e che cosa l’uomo adatto a governare gli uomini e circa le altre cose
indagava quelle conoscendo le quali si era a suo giudizio dei veri gentiluomini e ignorandole si
poteva a ragione essere chiamati schiavi.
Riguardo alle cose dunque su cui non era evidente come la pensasse, non c’è da stupirsi che i
giudici si siano sbagliati su di lui; ma quello che era a conoscenza di tutti, non è strano che non
l’abbiano considerato? Una volta, appunto, quando era stato buleuta, e aveva pronunciato il
giuramento buleutico, in cui era previsto di «consigliare secondo le leggi», fu scelto per presiedere
l’assemblea come epistates, e poiché il popolo desiderava mandare a morte tutti con un sol voto, in
modo contrario alla legge, Trasillo, Erasinide e quelli insieme a loro, non volle mettere ai voti la
proposta, nonostante l’ira del popolo e le minacce di molti personaggi potenti. Ma considerò più
importante mantenere il giuramento fatto che essere gradito al popolo e difendersi da chi lo
minacciava, violando la giustizia. Credeva infatti che gli dei prestino attenzione agli uomini, ma non
nel modo in cui si pensa comunemente: si ritiene che essi sappiano alcune cose ed altre no. Invece
Socrate era del parere che gli dei conoscano ogni cosa, parole e azioni e pensieri non espressi a
parole, e che essi siano presenti in ogni luogo e diano indicazioni agli uomini su tutte le questioni
umane.
Mi domando dunque con stupore come mai gli Ateniesi si fecero convincere che Socrate non aveva
opinioni corrette nei riguardi degli dei, lui che non aveva detto né fatto mai niente di irrispettoso
verso la divinità, ma anzi diceva e faceva proprio quelle cose facendo e dicendo le quali una persona
sarebbe in realtà e verrebbe considerata estremamente pia.
T. 02 L’OBBEDIENZA ALLE LEGGI
(Platone, Critone, 46 B-54 E)

Il Critone occupa il terzo posto nella sequenza fittizia dei quattro scritti dedicati al processo e alla
condanna a morte di Socrate (Eutifrone, Apologia, Critone e Fedone). Il contenuto del dialogo è
noto: vi si narra del tentativo di Critone di convincere Socrate a fuggire dal carcere sottraendosi così
alla sentenza capitale. Socrate, come è altrettanto noto, respinge l’offerta dell’amico, spiegando che
un simile comportamento risulterebbe ingiusto, dal momento che romperebbe il patto con le Leggi
della città al quale egli, come tutti i cittadini, è vincolato.
Dal momento che, secondo Socrate, l’ingiustizia rappresenta il peggiore dei mali, comportarsi
ingiustamente nei confronti delle Leggi (anche nel caso in cui esse condannino ingiustamente) non
sarebbe moralmente accettabile, perché – sembra sostenere Socrate – l’essere dell’individuo risulta
intimamente connesso a quello della polis, essendo inserito in una trama civile di relazioni che le
Leggi istituiscono e governano: la disubbidienza alle Leggi costituisce l’annullamento dell’individuo
stesso, che cessa di essere ciò che è. Del resto, anche secondo Senofonte Socrate aveva stabilito una
sorta di equivalenza tra legge e giustizia: «Vuoi forse dire, Socrate, che sono la stessa cosa ciò che è
secondo la legge e ciò che è giusto? Sì» (Memorabili, IV 4, 12).
La tesi della riconducibilità della giustizia al rispetto delle leggi viene argomentata nel Critone
attraverso la celebre prosopografia delle Leggi che prendono direttamente la parola, allo scopo di
dissuadere Socrate (e attraverso di lui Critone) dalla fuga. L’obbedienza di Socrate alle decisioni
delle Leggi appare incondizionata e, proprio per questo, non ha mancato di suscitare rilevanti
problemi interpretativi. Altrove, per esempio nell’Apologia, egli assume un atteggiamento più critico
e distaccato. Nel complesso la morale che percorre i dialoghi giovanili di Platone non sembra
riducibile all’accettazione del dato normativo, ossia a una sorta di Rechtspositivismus. Ma è
probabile che in questo contesto a Platone premesse innanzitutto sottolineare il legame costitutivo che
unisce l’individuo alla polis (un legame che appare per certi aspetti più platonico che autenticamente
socratico). È corretto dunque osservare che «le Leggi sottolineano come il rapporto che lega il
cittadino allo stato sia un rapporto di subordinazione regolato dal principio di autorità, in cui la
ritorsione non è permessa» (Ioppolo, p. 104). La scelta di Socrate acquista dunque significato
nell’ambito di un’ottica comunitaria (certamente antiliberale), che subordina l’individuo allo stato.
«Per comprendere perché le cose stiano così, non si devono pensare le Leggi come regole fisse o
riconosciute valide per abitudine. Ancor meno esse sono, come pensavano i sofisti, soltanto una
convenzione di cui si può scorgere la relatività e della cui validità si può quindi anche dubitare. Ma
altrettanto poco si dovrebbe pensare alle eterne leggi degli dèi a cui si richiama Antigone. Quel che
si ha in mente è piuttosto la forma in cui la polis può essere ciò che abbraccia ed unisce gli individui.
Le Leggi sono il comune della polis (to koinon tês poleôs); la comunione che fa della polis una
polis» (Figal, p.110).
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Barker, A., Why did Socrates Refuse to Escape?, «Phronesis» 22 (1977), pp. 13-28.

De Filippo, J.G., Justice and Obedience in the ‘Crito’, «Ancient Philosophy» 11 (1991), pp. 249-
63.

Figal, G., Socrate, trad. it., Il Mulino, Bologna 2000, pp. 99-113.

Ioppolo, A.M., Persuasione e obbedienza alle leggi nel ‘Critone’, in M. Migliori (a cura), Il
dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo, La città del sole, Napoli 2000, pp. 97-
120.

Montuori, M., Per una nuova interpretazione del ‘Critone’ di Platone , Vita e Pensiero, Milano
1998.

Morrison, D., Justice et légalité selon le Socrate de Xénophon, in G. Romeyer Dherbey - J.-B.
Gourinat (éd.), Socrate et les socratiques , Vrin, Paris 2001, pp. 45-70.

Reale, G., Il messaggio rivoluzionario della non-violenza nel ‘Critone’di Platone, in M. Migliori
(a cura), Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo, La città del sole, Napoli
2000, pp.121-35.

Santas, G.X., Socrate. La filosofia dei dialoghi giovanili di Platone , trad. it., Vita e Pensiero,
Milano 2003, pp.17-67.
da Critone, 46 B-54 E*
SOCRATE Unito a una corretta visione delle cose, Critone mio, il tuo zelo sarebbe anche
apprezzabile: ma in caso contrario, quanto più è vivace tanto più si fa fastidioso. È perciò
opportuno esaminare se dobbiamo o no imbarcarci in questa impresa: del resto non è questa la
prima volta, io ho fatto sempre in modo di seguire solo quel ragionamento che, fra i vari che
rimugino dentro di me, dopo ponderata riflessione risultasse il migliore. E i ragionamenti che
sostenevo prima non posso buttarli adesso a mare solo perché mi è toccata questa sorte: al
contrario, mi appaiono più o meno sotto la stessa luce e continuo a tenerli nel massimo conto,
esattamente come prima. Se non riusciremo ora a trovarne di meglio, sappilo, non ti darò retta
neanche se il potere della gente viene ad agitarci davanti, come a dei bambini, spauracchi anche
peggiori di questi, scagliandoci addosso ceppi, condanne a morte o confische di beni. Come fare, a
valutare la situazione nel modo più equilibrato? Direi di prendere, per cominciare, il tuo
argomento dell’opinione della gente. Avevamo o no ragione ad affermare ripetutamente che di
alcune opinioni bisogna tener conto, di altre no? Forse che l’affermazione era ragionevole prima
della mia condanna a morte, mentre ora risulta evidente che si diceva così, tanto per dire, ed era in
realtà tutto un gioco, uno stare a chiacchiera? Voglio proprio vedere insieme a te, Critone, se
quell’argomento mi apparirà sotto una luce uguale o diversa, ora che mi trovo così: e se lo
manderemo a farsi benedire o vi aderiremo. Secondo me si è sempre inteso, da parte di quelli che
ritengono di aver qualcosa da dire, più o meno quel che ho sostenuto io poco fa: delle opinioni
umane alcune vanno tenute in considerazione, altre no. Per gli dèi, Critone, non ti par corretto
questo? Per quanto è umanamente verosimile tu non corri il rischio di morire domani, e la presente
congiuntura non dovrebbe obnubilare il tuo giudizio... Ti soddisfa quest’affermazione che non tutte
le opinioni umane sono apprezzabili, ma alcune sì e altre no, e non quelle di tutti ma di alcuni sì e
di altri no? Che mi dici? Non è corretto?

CRITONE Lo è.

SOCRATE Si tratta dunque di apprezzare le opinioni buone, ma non quelle cattive?

CRITONE Sì.

SOCRATE E buone non sono forse quelle degli uomini saggi, cattive quelle degli stolti?

CRITONE E come no?...

SOCRATE Ora dimmi come la mettevamo su quest’altro punto... Uno che si dedica specificamente
alla ginnastica fa attenzione all’elogio, al biasimo e all’opinione di chiunque o solamente di un
medico o un istruttore?

CRITONE Solamente di costui.


SOCRATE Dunque è il caso di temere i rimproveri o gradire gli elogi di quello solo, non della gente
in genere.

CRITONE Chiaro.

SOCRATE Dovrà allora comportarsi, e far ginnastica, e mangiare e bere, seguendo le direttive di
quell’unico che è esperto e ci capisce, piuttosto che di tutti gli altri.

CRITONE Proprio così.

SOCRATE Bene... E se d’altro canto a quell’unico vorrà disubbidire, disprezzandone opinioni ed


elogi e privilegiando quelli della gente, che pur non ne capisce niente, non ne risentirà alcun
danno?

CRITONE E come no?...

SOCRATE E che tipo di danno? Dove tende, a quale parte della persona del disubbidiente?

CRITONE Ma è chiaro, al corpo: è questo, che rovina.

SOCRATE Giusto. E – senza addentrarci in ogni minuzia – non è lo stesso anche per il resto,
Critone? Riguardo cioè al giusto e all’ingiusto, al brutto e al bello, al buono e al cattivo, su cui ora
dobbiamo decidere, dobbiamo seguire e temere l’opinione della gente o di quell’unico – se c’è –
che se ne intende, che bisogna riverire e temere più che tutti quanti gli altri? E se non daremo retta
a lui, finiremo per corrompere e guastare quella parte di noi che per opera di ciò che è giusto
diventa migliore, e con l’ingiusto si deteriora. È una sciocchezza, questa?

CRITONE Ti do ragione, Socrate.

SOCRATE Proseguiamo: se tralasciando di seguire il parere di chi se ne intende roviniamo quella


parte di noi che con ciò che è salutare migliora e con ciò che è malsano si corrompe, una volta che
sia corrotta ci resta possibile vivere? E si tratta del corpo, no?...

CRITONE Sì.

SOCRATE Ora, ci è mai possibile vivere con un corpo malandato e corrotto?

CRITONE Assolutamente no.

SOCRATE E ci sarebbe invece possibile vivere se fosse corrotta quella parte di noi che viene
guastata dall’ingiusto, mentre dal giusto riceve giovamento? O giudichiamo inferiore al corpo
quella parte di noi, qualunque essa sia, che è di pertinenza della giustizia e dell’ingiustizia?

CRITONE Niente affatto.

SOCRATE La giudichiamo, allora, superiore?


CRITONE E di molto.

SOCRATE Allora, carissimo, dovremo curarci di cosa dirà di noi non la gente, ma colui che di
giusto e ingiusto se ne intende, lui solo e la verità stessa. Quindi non è corretta, in primo luogo,
questa tua proposta di curarci dell’opinione della gente sul giusto, il bello, il buono e i loro
contrari. «Ma intanto» si potrebbe dire «la gente è in grado di darci la morte».

CRITONE Chiaro anche questo: si potrebbe effettivamente dire, Socrate, è vero.

SOCRATE Ma, mio meraviglioso amico, il ragionamento che abbiamo fatto sin qui mi pare
assomigliare ancora al precedente. Rifletti, adesso, se resta vero o meno che estremamente
importante è non tanto vivere quanto vivere bene.

CRITONE Certo che resta vero.

SOCRATE E resta vero o no, che vivere bene e con onestà e giustizia è la stessa cosa?

CRITONE Resta vero.

SOCRATE Sulla base di quanto abbiamo ammesso, esaminiamo ora se sia giusto o ingiusto che io
cerchi di evadere senza il consenso degli Ateniesi: e se ci sembra giusto proviamoci, altrimenti
lasciamo perdere. Quanto alle tue considerazioni su spesa, reputazione e crescita dei figli, c’è il
serio pericolo, Critone, che siano speculazioni da gente che, come facilmente uccide, altrettanto
facilmente riporterebbe anche in vita, se solo ne fosse capace: gente cioè, come sono i più, senza
giudizio. Ma noi atteniamoci al nostro ragionamento e chiediamoci solo se, come abbiamo appena
detto, spendendo denaro e riconoscenza con questi che mi porteranno fuori di qui faremo cosa
giusta, fra te che vuoi tirarmi fuori e me che acconsento: o se in realtà, con tutto ciò, commetteremo
un’ingiustizia. E se ci apparirà chiaro che di un’azione ingiusta si tratta, cerchiamo di non
preoccuparci di dover morire o di subire qualsiasi altra pena (e restiamo con tranquillità al nostro
posto), dandoci pensiero, piuttosto, di non commettere un’ingiustizia.

CRITONE Trovo che hai ragione, Socrate; pensa ora al da farsi.

SOCRATE Riflettiamoci assieme, carissimo... E se hai qualche argomento da opporre ai miei, fai
pure e ti ascolterò: altrimenti, benedett’uomo, smetti di ripetere sempre la stessa solfa, che bisogna
che me ne vada di qui anche contro il volere degli Ateniesi. Certo, ci tengo a muovermi in questa
faccenda dopo averti convinto, non contro la tua approvazione. Vedi ora se ti pare soddisfacente il
punto di partenza, e cerca poi di dare alle domande le risposte più meditate.

CRITONE Ebbene, ci proverò.

SOCRATE Diciamo che non bisogna commettere volontariamente ingiustizia in nessun caso, o per
certi versi sì, e per certi altri no? O diciamo – e su questo punto ci siamo già trovati d’accordo,
più d’una volta – che il commettere ingiustizia non è affatto cosa buona, né bella? Che tutte le
conclusioni una volta raggiunte si siano in questi pochi giorni rimescolate, e tanto abbiamo
indugiato nelle nostre appassionate discussioni, Critone, da non renderci conto che nulla ci
distingueva, alla nostra età, da dei bambini? O piuttosto le cose stanno come si diceva allora: sia
che la gente lo ammetta o no, sia che siamo costretti a sopportare sofferenze peggiori o più lievi di
queste, in ogni caso commettere ingiustizia è, per chi lo fa, cosa brutta e turpe? Sì o no?

CRITONE Sì.

SOCRATE Dunque in nessun caso va commessa ingiustizia.

CRITONE Assolutamente no.

SOCRATE E dal momento che in nessun caso va commessa ingiustizia, neanche chi la subisca dovrà
ricambiarla, come pensa la gente.

CRITONE Sembra proprio di no.

SOCRATE E ora, Critone, dimmi se il male bisogna farlo o no.

CRITONE Certo che no, Socrate.

SOCRATE E ora, dimmi se è giusto o no che uno contraccambi un male subìto, come la gente pensa.

CRITONE In nessun caso.

SOCRATE In effetti, far del male a qualcuno è lo stesso che commettere ingiustizia.

CRITONE Hai ragione.

SOCRATE Dunque non dobbiamo ricambiare le ingiustizie, né far del male a nessuno, qualsiasi cosa
gli altri facciano a noi. E bada, Critone, di non concordare con me su questo punto se non sei
veramente di questo parere: a condividere queste opinioni, lo so bene, sono e sempre saranno in
pochi. E fra chi la pensa così e chi no non è possibile comunità d’intenti, è anzi inevitabile che
quando confrontano le rispettive scelte provino disprezzo l’uno per l’altro. Perciò, rifletti bene
anche tu se condividi la mia opinione, se davvero sei d’accordo (e le nostre considerazioni
muovano allora dal principio che non è mai corretto commettere ingiustizia e neppure ricambiarla,
né reagire ai maltrattamenti facendo del male a propria volta); o se ti distacchi, e questo principio
non lo condividi. Io la penso così da tempo e continuo tuttora, ma se tu la pensi diversamente dillo,
e istruiscimi. Se invece resti fedele alle nostre premesse, ascolta il seguito.

CRITONE Resto fedele sì, sono d’accordo: parla, suvvia.

SOCRATE Ecco quel che ho da dire. O meglio, una domanda: se si concorda con qualcuno sulla
giustezza di qualcosa, la si dovrà fare o evitare?

CRITONE La si dovrà fare.


SOCRATE Stai bene attento, allora, a quel che ne consegue. Allontanandoci da qui senza previo
consenso della città facciamo del male a qualcuno, e proprio a chi meno dovremmo, oppure no? E
rimaniamo fedeli ai princìpi che avevamo riconosciuto giusti, oppure no?

CRITONE Alla tua domanda, Socrate, non so rispondere: non capisco.

SOCRATE Prova, allora, a metterla così. Poniamo che mentre siamo lì lì per fuggire di qui (o
comunque vogliamo chiamare questa cosa) venissero le leggi e la città tutta, si piazzassero davanti
a noi e ci chiedessero: «Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Quale può essere il tuo
intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città
intera?... O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze
pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?...».
Cosa rispondere, Critone, a queste o simili domande? Certo, ci sarebbe molto da dire (più di tutti
ci riuscirebbe un retore) in difesa della legge che violerei, che impone che le sentenze pronunciate
abbiano vigore. Preferiremo forse dare loro una risposta del tipo «la città ci ha fatto un’ingiustizia,
emettendo una sentenza scorretta»? Diremo questo, o che altro?

CRITONE Ma questo, Socrate, per Zeus!

SOCRATE Ma supponiamo che le leggi dicessero: «Ma Socrate, è questo che rientrava nei nostri
accordi, o non piuttosto l’impegno di rispettare i giudizi della città?». Se a queste parole
facessimo mostra di meravigliarci, potrebbero aggiungere: «Invece di meravigliarti di quello che
diciamo, Socrate, rispondi (sei ben abituato, a far uso di domanda e risposta). Su, hai qualcosa da
rimproverarci, a noi e alla città, che ti dai da fare per la nostra rovina? Non ti abbiamo dato noi la
vita, tanto per cominciare, non è grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre, e ti ha
generato? Di’ un po’, a quelle leggi fra noi che governano i matrimoni, hai da fare qualche
rimprovero?». «Nessuno» direi io. «Ce l’hai allora con quelle che regolano la crescita e
l’educazione dei figli, in cui sei stato cresciuto anche tu? Non erano giuste le direttive che la
legislazione in materia dava a tuo padre, prescrivendogli di educarti nella musica e nella
ginnastica? » «Ma sì» direi ancora. «E allora, dopo essere stato generato, allevato ed educato,
avresti il coraggio di negare – tanto per cominciare – di essere creatura e schiavo nostro, tu come
pure i tuoi antenati? Se è così, poi, credi che tu e noi abbiamo eguali diritti, e che se noi ti
facciamo qualcosa hai il diritto di fare altrettanto? Non eri su un piano di parità rispetto a tuo
padre, o a un padrone se ne avevi uno, sì da poter ricambiare qualsiasi trattamento, rispondendo
alle offese con le offese, alle percosse con le percosse e così via... E te lo permetteresti ora
rispetto alla patria e alle leggi, al punto che se riteniamo giusto cercare di ucciderti ti metterai a
fare altrettanto con noi, per quanto ti riesce, e sosterrai di agire con ciò giustamente... e saresti uno
che genuinamente si cura della virtù? O con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è
più preziosa sia della madre che del padre e di tutti i tuoi antenati, e più sacra, più venerabile, più
degna di considerazione da parte degli dèi e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e
servirla anche nelle sue ire, più che un padre? E che l’alternativa è fra persuaderla o eseguire i
suoi ordini, soffrendo in silenzio se ci impone di soffrire, si tratti di essere battuti o imprigionati, o
anche di essere feriti o uccisi se ci manda in guerra; e bisogna farlo – ed è giusto così – senza
arrendersi né ritirarsi né lasciare la propria posizione, perché sia in guerra che in tribunale,
dappertutto va fatto ciò che la città, la patria comanda... a meno di non riuscire a persuaderla di
dove sta la giustizia?... Se è un’empietà usar violenza contro il padre e la madre, tanto più lo sarà
contro la patria.» Cosa potremo replicare a questo discorso, Critone? Che le leggi dicono la
verità, o no?

CRITONE Mi pare di sì.

SOCRATE «Ora, Socrate,» potrebbero soggiungere le leggi «giudica se è davvero ingiusto, come
andiamo affermando, il trattamento che ci riservi in questo momento. Noi infatti ti abbiamo messo
al mondo, e allevato, ed educato, e abbiamo distribuito fra te e i tuoi concittadini tutti i beni di cui
disponevamo: e purtuttavia dichiariamo subito, col darne il permesso a ogni ateniese che lo
desideri, che se, raggiunta la condizione di cittadino e osservando come vanno le cose nella città e
noi, le leggi, non ci trova di suo gradimento, può benissimo prendere le sue cose e andare dove
preferisce. E nessuna di noi leggi pone ostacoli o vieta di andare con le proprie cose, dove gli
pare, a chi di voi non gradisca noi e la città e desideri trasferirsi in una nostra colonia, o in altra
località a suo piacimento. Se uno di voi rimane, vedendo come amministriamo la giustizia e tutta la
cosa pubblica, possiamo ormai dire che di fatto ha acconsentito a eseguire i nostri ordini; e se
costui disobbedisce diciamo che commette ingiustizia in tre sensi: in quanto non obbedisce a noi
che lo abbiamo messo al mondo, e poi a noi che lo abbiamo allevato, e in quanto non lo fa dopo
aver accettato di obbedirci, né d’altronde cerca di persuaderci se stiamo commettendo un errore.
Lungi dall’imporre con asprezza di fare ciò che ordiniamo noi non facciamo che proporre,
lasciando possibilità di scelta fra persuaderci ed eseguire: eppure costui non fa l’una cosa né
l’altra. Ora noi sosteniamo, Socrate, che a siffatte accuse ti presterai anche tu se farai quello che
hai in mente: e non meno degli altri Ateniesi, ma più di tutti.» E se chiedessi perché mai, forse a
ragione mi assalirebbero rimarcando che proprio io, più di tutti gli Ateniesi, sono stretto a loro da
questo patto. Ecco quel che direbbero: «Abbiamo buone prove che ti piacevamo, Socrate, noi e la
città. In questa città non avresti soggiornato enormemente più a lungo degli altri Ateniesi, se non ti
fosse enormemente piaciuta: non ne sei mai uscito per una celebrazione sacra, tranne una volta per
andare all’Istmo, né sei mai andato altrove, se non per spedizioni militari, né hai mai viaggiato
come amano fare gli altri, né ti è mai venuta voglia di vedere un’altra città e conoscere altre leggi.
Ti bastavamo, invece, noi e la nostra città: tanto intensamente ci prediligevi, accettando di vivere
sotto il nostro governo (in questa città fra l’altro, dando l’impressione che ti piacesse, hai fatto i
tuoi figli)! Inoltre, durante il processo avresti ancora avuto la possibilità di chiedere la pena
dell’esilio, se lo avessi voluto: di fare cioè allora, col consenso della città, ciò che cerchi di fare
adesso senza. E ti vantavi, allora, di non rammaricarti al pensiero di dover morire, dichiarando
anzi di preferire all’esilio la morte! E ora non ti vergogni al ricordo di quei discorsi, e senza alcun
riguardo per noi leggi cerchi di distruggerci, e ti comporti come il più vile schiavo tentando di
fuggire contro i patti e gli accordi in base ai quali avevi convenuto con noi di regolare la tua vita
di cittadino... Anzitutto, dunque, rispondici su questo punto: diciamo o no il vero, quando
affermiamo che avevi accettato, e non a parole ma di fatto, di vivere sotto il nostro governo?».
Come reagire a questo discorso, Critone? Possiamo far altro che dichiararci d’accordo?

CRITONE Dobbiamo, Socrate.


SOCRATE E soggiungerebbero: «Così tu non fai che violare i patti, gli accordi fatti con noi: non vi
avevi consentito perché costretto, o ingannato, e un bel po’ di tempo hai avuto, per pensarci su: in
settant’anni avresti ben avuto modo di partirtene se non ti andavamo bene, o se non trovavi giusti i
nostri accordi... Tu invece non optavi per Sparta o Creta, di cui stai sempre a lodare il buon
governo, né per nessun’altra città greca o barbara: di qui, anzi, sei partito più raramente di quanto
non facciano storpi, ciechi o altri invalidi. A tal punto dunque ti andava bene, enormemente più che
agli altri Ateniesi, la nostra città... ed evidentemente (a chi andrebbe bene una città senza leggi?)
anche noi leggi. E adesso non vuoi stare ai patti? Ma sì se ci ascolti, Socrate: così non ti renderai
ridicolo abbandonando la città. «Pensa poi che piacere faresti, a te stesso oltre che ai tuoi amici,
cadendo in un errore come quello di trasgredire i patti. Che i tuoi amici correranno anche loro il
pericolo di andare in esilio ed essere privati dei diritti civili, o di perdere i propri beni, è
abbastanza chiaro. Quanto a te, se ti recherai in qualcuna delle città più vicine, come Tebe e
Megara (entrambe vantano una buona legislazione), vi giungerai, Socrate, come un nemico del loro
ordinamento civico: tutti quelli che si preoccupano della propria città ti guarderanno con sospetto,
considerandoti un guastatore di leggi, e rispetto ai giudici contribuirai a consolidare l’opinione che
abbiano emesso una sentenza giusta, in quanto uno che corrompe le leggi può apparire, a maggior
ragione, come un corruttore di giovani o di uomini stolti. E allora cosa farai, eviterai le città rette
da buone leggi e gli uomini più onesti? E così facendo, varrà la pena di vivere? Oppure li
avvicinerai, senza pudore, per parlare con loro... ma di cosa, Socrate? Argomenterai, come facevi
qui, che le cose più preziose per l’uomo sono la virtù e la giustizia, e le leggi e tutto ciò che vi si
connette? Non credi che il fare di Socrate apparirà sconveniente? È inevitabile. E se tenendoti alla
larga da questi luoghi te ne andassi in Tessaglia, dagli amici di Critone? Certo che lì regnano il più
gran disordine e lassismo, e non è escluso che starebbero ad ascoltare volentieri come sei
ridicolmente evaso dal carcere mettendoti addosso qualche travestimento (una pelle d’animale, o
altre cose che usano per travestirsi i fuggiaschi) per rendere la tua sagoma irriconoscibile. Non vi
sarà nessuno a rilevare che vecchio come sei, verosimilmente con poco tempo ancora da vivere,
hai spinto il tuo tenace attaccamento alla vita al punto di trasgredire le leggi più importanti? Forse
no, se non infastidirai nessuno: altrimenti, Socrate, ne avrai da sentire di commenti sul tuo conto, e
ben umilianti! Potresti vivere ingraziandoti questo e quello, servilmente... e occupandoti di cosa, in
Tessaglia, se non di spassartela?... quasi tu ci fossi andato per banchettare! E quelle nostre
conversazioni sulla giustizia e le altre virtù, dove saranno andate a finire? Ma già, vuoi vivere per
i tuoi figli, per allevarli ed educarli... Davvero? Li alleverai ed educherai portandoteli in
Tessaglia, facendone degli stranieri per sovrappiù? O in alternativa li farai allevare qui, e con te
vivo saranno allevati ed educati meglio, anche se non sei vicino a loro? Certo, se ne prenderanno
cura i tuoi amici. Ma lo faranno se partirai per la Tessaglia, e non invece se partirai per l’Ade? Se
quelli che si professano tuoi amici vogliono essere di qualche aiuto, lo faranno comunque.

«Ma da’ ascolto, Socrate, a noi che ti abbiamo allevato: non dare ai figli, alla vita, a null’altro
più valore che a ciò che è giusto, affinché al tuo arrivo nell’Ade tu possa richiamare tutto ciò in
tua difesa, presso coloro che lì comandano. Il comportamento che non sembra qui a te (né ad
alcuno dei tuoi amici) preferibile, né più giusto né più pio, certo non ti apparirà preferibile
quando tu sia giunto lì. È vero che andandovi – se poi lo fai – patisci un’ingiustizia, ma non da
parte di noi leggi bensì degli uomini. Se invece evadi così ignominiosamente, ricambiando
offesa con offesa e male con male, trasgredendo i patti e gli accordi stretti con noi e facendo del
male a chi meno dovresti (a te stesso, agli amici, alla patria, a noi), non solo ti attirerai finché
vivi la nostra ostilità, ma anche le nostre sorelle laggiù, le leggi dell’Ade, non ti accoglieranno
con benevolenza, sapendo che hai cercato, per quanto sta in te, di distruggerci. Insomma, non
lasciarti persuadere dai consigli di Critone più che dai nostri».

Questo è ciò che mi sembra di sentire – sappilo, mio buon amico Critone – come ai celebranti di
riti coribantici sembra di udire i flauti: e risuonando dentro di me, l’eco di queste parole mi
impedisce di udire altro. Per quanto mi pare ora, ti assicuro, ogni tua obiezione a esse sarebbe
vana. Se speri di ottenere qualcosa di più, comunque, parla pure.

CRITONE Sono senza parole, Socrate.

SOCRATE Allora lasciamo perdere, Critone: e scegliamo questa via, visto che ce la addita la
divinità.
T. 03 IL MISTERO DELLA MORTE
(Platone, Apologia di Socrate, 38 C-42 A)

Socrate è stato condannato a morte dalla giuria popolare e ha rifiutato la pena alternativa (l’esilio),
cui, in base alla normativa vigente, aveva pure diritto (cfr. T. 19). Decide dunque di affrontare il tema
della morte, rivolgendosi in particolare a coloro (probabilmente 220 su 500) che avevano votato a
suo favore. L’andamento dell’argomentazione appare improntato a uno schietto laicismo e assume a
tratti i caratteri della dimostrazione logica. La morte – sostiene Socrate – è una di queste due cose: o
l’annullamento totale dell’individuo e dunque il nulla, oppure una sorta di mutamento (metabolê)
dell’anima e un trasferimento (metoikêsis) in un altro luogo. In entrambi i casi essa non rappresenta
un male, perché, se equivale al totale annullamento, comporta automaticamente la cessazione di ogni
sofferenza (connessa al corpo e alla sensazione) e può venire paragonata a un sonno senza sogni,
mentre se significa un trasferimento in un altro luogo, ossia una forma di sopravvivenza dell’anima,
essa è desiderabile, dal momento che consentirebbe di incontrare personaggi straordinari e
soprattutto di discutere con loro.
In effetti Socrate sembra concepire l’eventuale esistenza postmondana come un proseguimento di
quella terrena, dal momento che anche nell’aldilà l’uomo dovrebbe comportarsi secondo i parametri
etico-morali validi per la vita mondana. Il che significa che anche nell’Ade il bene supremo si
configurerà nella forma dell’esame (exetazein) spregiudicato delle opinioni dei presunti sapienti,
ossia come ricerca del bene (cfr. T. 19). Per Socrate la vita ultramondana non si presenta
qualitativamente diversa da quella terrena; come quest’ultima, essa deve sottostare al principio etico
della ricerca priva di presupposti infondati, dell’esame delle opinioni, della valutazione di tutte le
presunzioni di sapere. Se pur esiste, l’aldilà non orienta la natura della vita terrena (per mezzo della
promessa dei premi o della minaccia dei castighi), ma risulta in qualche misura determinato da
quest’ultima. Si assiste così a una sorta di rovesciamento del rapporto tra la vita terrena e l’aldilà:
«Lungi dal condizionare il nostro comportamento nella vita terrena, la vita oltremondana, se c’è, è
invece anch’essa condizionata, come quella terrena, dal nostro dovere di attuare il sommo bene»
(Giannantoni 1997, p. 120).
L’indagine razionale attuata per mezzo del dialogo si costituisce dunque come il sommo bene al
quale l’uomo deve tendere qui e in un ipotetico altro mondo; viene dunque sancito «il valore assoluto
del dialegesthai come sommo bene: in qualunque situazione noi possiamo trovarci, in questo mondo
o in un altro, il nostro dovere è di attuare questo sommo bene» (Giannantoni 2005, p.218).
Nel Fedone (cfr. T. 04), come è noto, Platone descrive le ultime ore di Socrate come spese nel
tentativo di persuadere i suoi interlocutori della sopravvivenza dell’anima alla morte del corpo. Nel
grande mito finale Socrate, accennando ai premi e alle punizioni post-mondani, sembra poi
riconoscere validità a un’etica della ricompensa, che vincola il comportamento sulla terra al destino
che attende l’anima nell’aldilà. Si tratta tuttavia di una sorta di supplemento argomentativo (o meglio
persuasivo) rispetto alla direttrice principale dell’etica socratica, che resta in larga parte
immanentistica e sostanzialmente laica.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Adorno, F., Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 138-51.

Giannantoni, G., La religiosità di Socrate secondo Platone, in G. Giannantoni - M. Narcy (a cura),


Lezioni socratiche, Bibliopolis, Napoli 1997, pp. 97-120.

Giannantoni, G., Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Edizione
postuma a cura di B. Centrone, Bibliopolis, Napoli 2005, pp. 216-22.
da Apologia di Socrate, 38 C-42 A*
Per guadagnare mica tanto tempo, Ateniesi, vi farete fra i detrattori della città la fama di esser stati
responsabili della morte di Socrate, uomo sapiente (giacché quelli intenzionati a darvi addosso
diranno certo che sono sapiente, anche se non lo sono). Eppure, se aveste pazientato un poco, tutto
ciò sarebbe venuto da sé: potete pur constatare come la mia età è ormai avanzata lungo l’arco della
vita, ormai presso alla morte. Qui non mi rivolgo a tutti, ma a quelli che hanno votato per la mia
morte. E per gli stessi, aggiungo quel che segue. Voi forse credete, Ateniesi, che sia stato condannato
per mancanza di argomenti abbastanza efficaci da persuadervi, convinto di dover fare e dire di tutto
pur di sfuggire alla punizione. Macché! Oh sì, sono stato condannato per una mancanza, ma non tanto
di argomenti quanto di sfrontatezza e impudenza: per non essermi spinto cioè a pronunciare le parole
che più piacevolmente vi avrebbero solleticato l’orecchio, con lacrime e lamenti e vari altri atti e
discorsi che pur siete avvezzi a sentire da altri, ma sono – lo ripeto – indegni di me. Ma se già prima
ritenevo doveroso non prestarmi, in vista del pericolo, ad azioni ignobili, tanto meno ora mi pento
per essermi difeso così: anzi, mi confermo nell’idea che sia meglio morire con la linea di difesa che
ho scelto piuttosto che vivere grazie a quell’altra. Non solo io, ma nessun altro, né in tribunale né in
guerra, dovrebbe ricorrere a espedienti del genere, per evitare la morte a ogni costo. In realtà nelle
battaglie si può non di rado constatare che la morte è evitabile, abbandonando le armi o voltandosi a
supplicare gli inseguitori. Anzi i modi per scampare alla morte abbondano, in ogni tipo di pericolo,
basta che uno se la senta di fare e dire qualsiasi cosa. Ma badate, cittadini, che non è sfuggire alla
morte che è difficile: molto più difficile è scampare alla malvagità, che corre più veloce della morte
stessa. Ora io, che sono vecchio e lento, sono stato preso dalla più lenta, ma i miei accusatori, abili e
pronti come sono, lo sono stati dalla più veloce, l’iniquità. E ora io prendo congedo condannato a
morte da voi, ma costoro sono stati inchiodati dalla verità alla propria malvagità e ingiustizia. E sia
io che loro accettiamo la nostra pena. D’altronde era inevitabile, forse, che andasse così: e non trovo
che sia un male.
E ora desidero fare una predizione, a voi che mi avete condannato. È vero, mi trovo ormai nel
punto in cui gli uomini più facilmente fanno predizioni: allorché sono prossimi a morire. E affermo,
cittadini che mi avete ucciso, che subito dopo la mia morte vi colpirà una punizione assai più dura,
per Zeus!, di quella inflitta a me con la condanna a morte. Avete appena fatto questo nella speranza di
scampare a una resa dei conti della vostra vita, eppure vi accadrà – ve lo assicuro – tutto il contrario.
A mettervi alla prova saranno in molti, che finora avevo trattenuto senza che voi ve ne accorgeste: e
saranno tanto più impietosi in quanto sono più giovani, e ne sarete vieppiù infastiditi. Fate proprio un
bello sbaglio, se credete con l’omicidio di impedire che vi si venga a rimproverare la vostra vita non
retta. Non è così che ve la caverete, non è possibile e neanche bello: il modo più bello e semplice
non sta nell’eliminare il prossimo, ma nel provvedere da sé alla propria perfezione. Questa profezia
sia il mio congedo da voi, che mi avete votato contro.
Con quelli che hanno dato un voto di assoluzione, commenterei volentieri l’accaduto fintantoché le
autorità hanno da fare qui, e non devo già avviarmi verso il luogo dove, una volta arrivato, dovrò
morire. Fino a quel momento trattenetevi, cittadini, visto che nulla ci impedisce di chiacchierare fra
noi per quanto è possibile: poiché mi siete amici, vorrei chiarirvi il senso di quanto mi è appena
accaduto. Certo, cittadini giudici (chiamarvi giudici dovrebbe essere corretto), qualcosa di strano mi
è accaduto... Fino a ora infatti l’usuale avvertimento profetico, quello del segno divino, era stato
sempre assiduo, contrastando vigorosamente la mia volontà anche in questioni di poco conto, se
stavo per fare qualcosa di sbagliato. Ma ora mi è capitato, come vedete anche voi, qualcosa che si
potrebbe giudicare (nell’opinione dei più lo è senz’altro) il peggior male possibile... E tuttavia il
segno del dio non si è opposto quando sono uscito stamane da casa, né quando mi sono presentato qui
in tribunale, né mai, qualsiasi cosa stessi per dire, durante il mio discorso. Eppure in altre occasioni
mi aveva frenato anche più d’una volta nel bel mezzo di un discorso: mentre ora, in questa faccenda,
non mi ha contrastato da nessun punto di vista, qualsiasi cosa dicessi o facessi. Come me lo spiego?
Vi dirò, può darsi che quanto mi è capitato si rivelerà un bene, e sicuramente si sbagliano quanti di
noi immaginano che morire sia un male. Ne ho avuto una chiara indicazione: il solito segno non
avrebbe mancato di intervenire, se non stavo per fare qualcosa di buono.
Consideriamo che, anche per altro verso, c’è ragione di sperare che tutto ciò sia un bene. Morire,
infatti, può essere solo una di queste due cose: o uno stato per cui il morto non è più nulla e non
possiede percezione di nulla, o magari – secondo quanto si racconta – una sorta di mutamento
dell’anima, un suo passaggio da questo a un altro luogo. Ora se la morte fosse assenza di percezioni e
simile semmai a un sonno, quando si dorma senza sogni, sarebbe un mirabile guadagno. Penso infatti
che se uno, scelta la notte in cui aveva dormito così profondamente da non fare neanche un sogno, e
accostata tale notte al resto delle notti e dei giorni della propria vita, dovesse rifletterci e dire per
quanti giorni e notti ha vissuto, nella propria vita, meglio e più piacevolmente di quella notte...
ebbene, penso che non solo un privato qualsiasi, ma lo stesso Gran Re scoprirebbe che tali giorni e
notti sono troppo facili da contare, rispetto agli altri... Ripeto, se la morte è qualcosa del genere, la
dichiaro un guadagno, perché in tal caso la totalità del tempo appare non più lunga di quest’unica
notte. Se, d’altronde, essa è come una migrazione da qui a un altro luogo (ed è allora veridica la
tradizione che ivi si trovano tutti quanti i defunti), quale bene potrebbe esservi, o giudici, maggiore di
questo? Se cioè uno giunge nell’Ade, libero da costoro che si dichiarano giudici, e vi trova quelli che
lo sono realmente, e si dice rendano giustizia in quel luogo, cioè Minosse e Radamanto, ed Eaco, e
Trittolemo, e tutti quei semidèi che sono stati giusti in vita... il viaggio, in questo caso, potrebbe mai
dirsi futile? E poi: cosa non darebbe chiunque di voi, per incontrare Orfeo, o Museo, o Esiodo, od
Omero? A me va bene morire anche più di una volta, se tutto ciò è vero! Sarebbe un meraviglioso
passatempo, per me in particolar modo, incontrare Palamede e Aiace figlio di Telamone, o chi altri
fra gli antichi è morto a causa di un giudizio ingiusto, e mettermi a confrontare le mie sofferenze con
le loro. No, non sarebbe spiacevole... ma il massimo sarebbe intrattenersi a esaminare quelli là come
ho fatto con questi qui, indagando chi di loro sia sapiente e chi invece, pur presumendo di esserlo,
non lo sia. Cosa non si darebbe, o giudici, per poter esaminare colui che ha condotto contro Troia
quell’immenso esercito, oppure Odisseo, o Sisifo, o tantissimi altri che si potrebbero nominare,
uomini e donne... che irresistibile beatitudine sarebbe potersene stare là a conversare con costoro,
stare in loro compagnia, facendo domande. A ogni modo è sicuro che non mettono a morte per questo,
quelli di là: i quali sono più felici che quelli di qua, fra l’altro essendo ormai per il tempo a venire –
se è vero quanto si racconta – immortali.
Ebbene dovete anche voi, giudici, munirvi di buone speranze rispetto alla morte; e riflettere su
quest’unica verità, che a un uomo buono non può capitare alcun male né in vita né quando muore, e
nessuna sua vicenda viene trascurata dagli dèi. Anche questa mia di ora non è casuale: anzi, mi è
chiaro che ormai era meglio per me morire e liberarmi dai fastidi. Ecco perché il segno non mi si è
mai opposto, e io stesso non me la prendo con coloro che hanno votato contro di me, né coi miei
accusatori. Vero è che non mi hanno votato contro o accusato con questo intendimento, ma mirando a
nuocermi, e per questo meritano riprovazione. Tuttavia ho una supplica da rivolgere loro... quando
siano cresciuti vendicatevi sui miei figli, cittadini, dando loro lo stesso fastidio che davo io a voi, se
vi sembrerà che si curino della ricchezza o di qualsiasi altra cosa più che della virtù; e se avranno
l’aria di essere qualcosa senza essere nulla, rimproverateli – come io facevo con voi – perché non si
curano di ciò che dovrebbero, e presumono di essere qualcosa mentre in realtà non valgono nulla. Se
così farete avrò avuto da voi – io con i miei figli – quel che è giusto. Ma è ormai tempo di andar via,
io per morire, voi per continuare a vivere: chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti
tranne che al dio.
T. 04 MORTE DI UN FILOSOFO
(Platone, Fedone, 114 D-118 A)

Le ultime pagine del Fedone, dedicate alla morte di Socrate, costituiscono uno dei testi più
coinvolgenti e contemporaneamente rasserenanti (soprattutto se confrontati con le drammatiche
descrizioni di altre morti celebri) della nostra tradizione culturale. Il Fedone è un dialogo dedicato in
larga parte al tema della morte, e in particolare al rapporto tra filosofia e morte (philosophia -
thanatos ), al punto che la pratica filosofica viene assimilata da Socrate alla meletê thanatou, ossia
alla cura della morte (80 E-81 A).
In apertura dello scritto Socrate aveva infatti dichiarato che «tutti quelli che si occupano
correttamente di filosofia (orthôs haptomenoi philosophias), corrono il rischio che rimanga celato
agli altri il fatto che, essi, di nient’altro si prendono cura se non di morire e di essere morti» (64 A-
B). Il tema della morte, del significato del distacco (lysis) dell’anima dal corpo, del rifiuto del
suicidio, percorre l’intero scritto; i principali interlocutori di Socrate, Simmia e Cebete, sono, non a
caso, due pitagorici, rappresentanti di quella setta che aveva per prima tematizzato in modo
sistematico l’alterità dell’anima nei confronti del corpo e la sua sopravvivenza alla morte di esso. È
noto che Socrate espone una serie di argomenti o prove in favore della preesistenza dell’anima e
della sua sopravvivenza; si tratta, come è stato spesso osservato, di argomenti il cui scopo non è
probabilmente quello di persuadere la ragione, bensì di indirizzare l’anima verso l’assunzione di
comportamenti virtuosi. È difficile stabilire se e in che misura Socrate credesse effettivamente
all’immortalità dell’anima; certo, per lui il punto veramente cruciale consisteva nella convinzione
che l’anima fosse qualcosa di irriducibile al corpo e che rappresentasse il vero io dell’individuo
(cfr. anche T. 10). Per questa ragione la filosofia non poteva configurarsi, ai suoi occhi, che come
cura dell’anima (epimeleia tês psychês), ossia incessante ricerca del bello e del bene per l’anima.
In un simile contesto anche la credenza nell’immortalità può rappresentare un ulteriore elemento di
persuasione e di indirizzo verso la virtù. Secondo alcuni, poi, l’atteggiamento imperturbabile di
Socrate di fronte alla morte costituisce una risposta alle accuse di anandria, di mancanza di
coraggio, che potevano venirgli mosse dai suoi avversari. Si è infatti osservato, forse con una certa
esagerazione, ma non senza ragione, che il coraggio che Socrate dimostra di fronte alla morte collega
il suo atteggiamento al modello arcaico di virtù come coraggio che il combattente dimostra di fronte
alla morte. «La radice originaria, aristocratica e omerica, della virtù greca, è l’eccellenza militare,
che si dimostra in primo luogo davanti alla morte. In questo senso, l’interpretazione di Socrate
permette a Platone di ricollegare la tracotanza del compagno al vertice dell’aretê che secoli prima il
poeta Tirteo aveva cantato agli opliti spartani» (Di Giuseppe, p. 94-5).
Resta senza dubbio enigmatico, ma anche molto affascinante, il richiamo contenuto nelle ultime
parole del filosofo, il quale invita l’amico Critone a non dimenticare il debito da loro contratto con
Asclepio, e dunque a dare al dio un gallo (alektruôn). Di questa misteriosa affermazione sono state
fornite numerose e differenti interpretazioni. La più nota è certamente quella allegorica e mistica,
sviluppata dai commentatori neoplatonici, ma poi fatta propria dai platonisti rinascimentali e dallo
stesso Nietzsche (sia pure con un forte accento polemico, collegato all’accusa rivolta a Socrate di
rappresentare una sorta di filosofo della morte); in base a questa esegesi, Socrate si sente in debito
nei confronti di Asclepio, dio della medicina, perché sta per essere guarito dalla malattia della vita
corporea (essendo appunto il corpo una tomba dell’anima, la quale torna ad essere pienamente se
stessa solo quando si scioglie dal legame con il corpo).
Esiste poi un’interpretazione letterale delle parole di Socrate, secondo la quale l’affermazione non
va presa in senso allegorico, ma appunto letterale, e si riferisce a una reale malattia da cui qualcuno
degli appartenenti al gruppo di Socrate sarebbe stato guarito. Dal momento che l’unica malattia reale
evocata nel dialogo è quella di Platone (il quale non fu presente alle ultime ore di Socrate perché
«era malato», secondo quanto si legge in 59 B), è esattamente a Platone che vanno riferite le ultime
parole di Socrate, il quale passerebbe al suo più grande allievo, finalmente guarito (forse anche
metaforicamente), il testimone filosofico.
Vi è infine un’altra interpretazione di natura allegorica, la quale non fa però riferimento alla
concezione della liberazione dell’anima dai vincoli del corpo. Secondo Crook, che l’ha recentemente
proposta, l’accenno al gallo sarebbe da leggere in funzione anti-orfica e anti-pitagorica; in effetti
l’orfismo vietava di sacrificare questo animale, e dunque l’invito di Socrate costituisce l’espressione
condensata del significato dell’intero dialogo, il quale andrebbe appunto ricercato in una chiara
presa di distanza critica dalla visione del mondo orfico-pitagorica, di cui vengono messe in luce le
insufficienze nel campo della teoria dell’anima e della metafisica.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Crook, J., Socrates’ last Words: another Look at an ancient Riddle, «Classical Quarterly» 48
(1998), pp. 117-25.

Di Giuseppe, R., La teoria della morte nel ‘Fedone’ platonico, Il Mulino, Bologna 1993.

Figal, G., Socrate, trad. it., Il Mulino, Bologna 2000, pp. 115-22.

Gill, C., The Death of Socrates, «Classical Quarterly» 23 (1973), pp. 25-28.

Lavecchia, S., Una via che conduce al divino. La homoiosis theo nella filosofia di Platone, Vita e
Pensiero, Milano 2006, pp. 41-52.
McPherran, M.L., Socrates, Crito, and their debt to Asclepius, «Ancient Philosophy» 23 (2003), pp.
71-92.
da Fedone, 114 D-118 A*
Certo insistere a sostenere che le cose stiano proprio così come io le ho esposte non si addice a
persona che abbia senno; ma che sia così o qualcosa del genere riguardo alle anime nostre e alle loro
dimore, dopo che è evidente che l’anima è immortale, questo mi pare si addica e anche che, per chi
crede che stiano così, valga la pena di correre il rischio – giacché questo rischio è bello – ; ed è
indispensabile, con cose di questo tipo, quasi farsi l’incantesimo, ed è proprio per questo, del resto,
che già da un pezzo mi dilungo in questo racconto. Ma proprio per questo deve per forza essere
fiducioso riguardo alla propria anima chi nella vita abbia lasciato perdere i piaceri e gli ornamenti
del corpo, convinto che sono cose estranee, e ritenendo che possono procurare ad essa più male che
bene, e si è preso cura invece dei piaceri dell’apprendere e quindi, adornando l’anima non di
ornamenti ad essa estranei ma di quelli suoi propri, temperanza, giustizia, valore, libertà, verità,
attende, così preparato, il suo viaggio per l’Ade, pronto a mettersi in cammino appena il destino lo
chiami. Voi dunque, Simmia e Cebete e tutti gli altri, disse, per quel che vi riguarda farete questo
viaggio più tardi, in un momento che non conosciamo. Quanto a me, ormai ora, direbbe un eroe
tragico, il destino mi chiama, ed è per me quasi l’ora di avviarsi per il bagno; giacché senza dubbio
mi pare meglio che io prima mi lavi, e poi beva la pozione, e non dia alle donne questo fastidio di
lavare un cadavere.

Come Socrate ebbe detto così, Critone gli domandò: «Ebbene, Socrate, quali ordini ci dai, a questi
tuoi amici o a me, riguardo ai tuoi figli o a qualche altra cosa? Che cosa possiamo fare per te che ti
riesca particolarmente gradito?».
«Quello che dico sempre, Critone,» disse «niente di nuovo. Ecco, se vi prenderete cura di voi
stessi farete cosa gradita a me e ai miei e a voi stessi qualunque cosa facciate, anche se ora non
prendete nessun impegno; se invece non vi prenderete cura di voi stessi e non vorrete vivere
seguendo come le tracce di quello che si è detto ora e in passato, nemmeno se in questo momento vi
impegnaste con tante promesse e con forza, non farete niente di meglio.»
«Ebbene,» disse Critone «quanto a questo procureremo di fare come tu dici. Ma in che modo
dobbiamo seppellirti?»
«Come volete», rispose «a condizione che riusciate a prendermi e che io non vi sfugga dalle
mani.» Allora sorrise tranquillamente e vòlto lo sguardo verso di noi aggiunse: «Non riesco a
persuadere Critone, cari amici, che sono io, Socrate, quello che ora sta ragionando con voi e che
cerca di mettere in ordine ciascuna delle cose che vengono dette; egli crede che Socrate sia quello
che di qui a poco vedrà cadavere, e naturalmente mi domanda come mi debba seppellire. E ciò che
da un pezzo ho discusso a lungo con voi, che, dopo aver bevuto la pozione, io non sarò più con voi,
ma me ne andrò via recandomi naturalmente tra le beatitudini dei beati, queste cose, mi pare, per lui
le dico inutilmente, intese solo a consolare voi e allo stesso tempo anche me. Siatemi dunque garanti
presso Critone,» disse «ma di una garanzia contraria a quella che egli mi diede davanti ai giudici.
Egli garantì in fede sua che io sarei rimasto; voi garantitegli in fede vostra che io non rimarrò qui
dopo morto, e me ne andrò via lontano, perché Critone possa sopportare più facilmente la cosa, e per
evitare che, vedendo bruciare o sotterrare il mio corpo, possa rammaricarsi per me come se stessi
soffrendo pene terribili, ed evitare anche che durante il funerale possa dire che è Socrate quello che
egli espone o che porta via per la sepoltura o che sotterra. Perché sappi, ottimo Critone, che parlare
in modo non corretto non solo è brutto per se stesso, ma reca anche danno all’anima. Bisogna dunque
essere fiduciosi e dire che è mio il corpo che bisogna seppellire, e il mio corpo puoi seppellirlo
come ti piaccia e come ritieni sia più conforme agli usi.»

Così detto Socrate si alzò per andare in una stanza a lavarsi; e Critone lo seguiva, e a noi disse di
rimanere. E noi rimanemmo in attesa ragionando tra noi delle cose dette e riconsiderandole, e talora
anche considerando la nostra sventura, quanto era grande, ritenendo che il resto della nostra vita
come privati del padre l’avremmo trascorso davvero da orfani. E quando si fu lavato e gli ebbero
portati i suoi figli – ne aveva due piccoli, ed uno già grande – ed erano giunte anche le sue donne di
casa, dopo aver parlato con loro alla presenza di Critone e aver fatto le raccomandazioni che
desiderava fare, disse alle donne e ai figli di andarsene, e ritornò fra noi. E ormai eravamo vicini al
tramonto del sole; giacché si era trattenuto dentro parecchio tempo. Tornato dal bagno si mise a
sedere e dopo di allora non si disse più molto; e venne l’inviato degli Undici e fermatosi davanti a
lui: «Caro Socrate, » disse «non avrò certo a muovere a te i rimproveri che muovo agli altri, che se
la prendono con me e mi maledicono, quando vengo ad annunciare loro, per ordine degli arconti, che
devono bere la pozione. Ma te, in tutto questo tempo, ho avuto molte occasioni per conoscere che sei
il più gentile e il più mite e il migliore di quanti siano mai capitati qui, e ora specialmente so bene
che tu non con me sei irritato, perché li conosci i responsabili, ma con loro. Ora dunque, giacché tu
sai quello che sono venuto ad annunciarti, addio, e cerca di sopportare meglio che puoi ciò che è
inevitabile». E così dicendo scoppiò a piangere, voltò le spalle e se ne andò.
E Socrate levò lo sguardo verso di lui: «E anche a te,» disse «addio, e noi faremo come tu dici». E
poi rivolto a noi: «Che persona gentile» disse. «Per tutto questo tempo era solito venire a trovarmi e
talvolta si tratteneva a conversare con me, ed era il migliore degli uomini; e anche ora con quanta
sincerità mi piange. Ma via, Critone, obbediamogli, e qualcuno mi porti la pozione, se la pestatura è
stata fatta; se no, l’uomo proceda a pestare.»
E Critone: «Ma il sole» disse «è ancora sui monti, credo, e non è ancora tramontato. Ed io so
anche che altri bevono assai più tardi, dopo che è stato dato loro l’annuncio, e dopo aver ben
mangiato e ben bevuto, e alcuni perfino dopo essere stati insieme con chi desideravano. Tu, almeno,
non aver fretta, perché c’è ancora tempo».
E Socrate: «È naturale senza dubbio, Critone,» disse «che facciano così quelli di cui tu parli –
giacché pensano di avere qualcosa da guadagnare facendo così – ed è anche naturale che io non
faccia così. Perché penso di non guadagnare altro, bevendo un po’ più tardi, se non di rendermi
ridicolo ai miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e cercando di farne risparmio quando non c’è più
niente. Su via,» disse «dammi retta e non fare altrimenti».

E Critone, udite queste parole, fece cenno a un suo servo in piedi vicino a lui. E il servo uscì e
rimase fuori un po’ di tempo; e tornò conducendo con sé l’uomo che doveva dare la pozione, che
portava dopo la pestatura in una coppa. Socrate, vedutolo: «Bene,» disse «brav’uomo, tu che te ne
intendi, che cosa si deve fare?».
«Nient’altro» rispose «che, dopo aver bevuto, camminare per la stanza, finché tu non senta
pesantezza alle gambe; dopo rimanere sdraiato; così farà effetto da sé». E così dicendo porse la
coppa a Socrate.
Ed egli la prese con vera letizia, Echecrate, senza un tremito, senza la minima alterazione né del
colore né del volto, ma guardando in su verso l’uomo con quei suoi occhi da toro, come era solito:
«Che dici,» disse «di questa bevanda, se ne può fare una libagione a qualche divinità oppure no?».
«Noi, Socrate, ne pestiamo» disse «giusto quanto crediamo sia sufficiente a bere.»
«Capisco» disse Socrate. «Ma almeno è permesso, credo, ed anzi è un dovere, pregare gli dèi che
questo trasferirmi da qui a là avvenga felicemente; ed è questa appunto la mia preghiera; e così possa
avvenire.» E detto ciò, levò la coppa alle labbra e, senza segno di disgusto, bevve di buon grado tutto
d’un fiato. E la maggior parte di noi fino a quel momento erano riusciti alla meglio a trattenere le
lacrime; ma appena vedemmo che beveva, e che aveva bevuto, non fu più possibile; ed anche a me,
malgrado ogni mio sforzo, le lacrime scesero a fiotti, dimodoché mi nascosi il volto e piansi me
stesso – giacché certamente non lui piangevo, ma la mia sventura, di tale amico restavo privato. E
Critone, ancor prima di me, incapace di trattenere le lacrime, si era alzato per uscire. E Apollodoro,
che anche prima non aveva mai smesso di piangere, allora poi scoppiò in grida, gemendo e
rammaricandosi, al punto che non ci fu tra noi lì presenti chi non si sentì spezzare il cuore; ad
eccezione di lui, Socrate.
Ed anzi egli: «Strano modo di comportarvi questo, cari amici» disse. «È soprattutto per questa
ragione che ho mandato via le donne, perché non facessero simili stonature. E poi ho anche sentito
che bisogna morire con parole di buon augurio. State dunque calmi e siate forti».
E noi a sentirlo, provammo vergogna e ci trattenemmo dal piangere. Socrate camminava per la
stanza; e quando disse che le gambe gli si appesantivano, si mise a giacere supino – giacché così gli
raccomandava l’uomo – ; e intanto costui, l’uomo che gli aveva dato la pozione, lo andava toccando e
a intervalli gli esaminava i piedi e le gambe; e poi, premendogli forte un piede, gli domandò se
sentiva; ed egli rispose di no. E poi ancora gli premette le gambe; e così risalendo via via ci
mostrava che si raffreddava e si irrigidiva. E continuava a toccarlo, e ci disse che quando si fosse
giunti alla regione del cuore, allora se ne sarebbe andato. E ormai le parti intorno al basso ventre si
erano quasi raffreddate; ed egli si scoprì – giacché si era coperto – e parlò – e furono le ultime
parole che pronunciò: «Mio caro Critone,» disse «siamo in debito di un gallo ad Asclepio; dateglielo
e non ve ne dimenticate».
«Sì,» disse Critone «sarà fatto. Ma guarda se hai altro da dire.»
A questa domanda Socrate non rispose più; passato poco tempo ebbe un movimento e l’uomo lo
scoprì, ed egli restò con gli occhi fissi. E Critone, vedutolo, gli chiuse le labbra e gli occhi.

Questa, mio caro Echecrate, fu la fine dell’amico nostro, un uomo, possiamo ben dirlo, tra quelli che
allora conoscemmo il migliore, e inoltre il più saggio e il più giusto.
B. I SAPERI E IL SAPERE
T. 05 I LIMITI DELLE CONOSCENZE
NATURALISTICHE E MATEMATICHE
(Senofonte, Memorabili, IV, 7)

I Memorabili si propongono l’obiettivo di difendere Socrate dall’accusa di empietà per la quale fu


condannato a morte (cfr. anche T. 01). Rispetto a questo tema un ruolo decisivo venne giocato dalle
ricerche naturalistiche che dovettero essere avvertite come portatrici di una carica razionalistica e
ateistica. Il ricordo di Anassagora, condannato per empietà in quanto sostenitore della natura fisica e
non divina degli astri, era certamente ancora vivo tra gli Ateniesi dei primi decenni del IV secolo.
Per questa ragione Senofonte si impegna a dimostrare la sostanziale estraneità di Socrate alle
indagini naturalistiche, ossia all’ambito delle ricerche cosiddette metereologiche.
In verità, Senofonte non sostiene che Socrate si sia completamente disinteressato di questo tipo di
indagine, ma che il suo atteggiamento verso di essa non fu mai di tipo strettamente teoreticistico,
bensì eminentemente pratico. Egli avrebbe stabilito nell’utilità pratica (ôpheleia) una sorta di limite
invalicabile per le ricerche nel campo della matematica e della filosofia della natura. La geometria
va praticata se si rivela utile alle misurazioni, ma le indagini approfondite sulla struttura delle figure
geometriche risultano inutili e vanno dunque evitate; discorso analogo vale per le ricerche
metereologiche, le quali, tra l’altro, si presentano problematiche quanto al loro contenuto di verità. A
questo proposito Senofonte attribuisce a Socrate alcuni argomenti che sembrano esprimere lo
scetticismo del senso comune nei confronti delle tesi astronomiche e cosmologiche della ricerca
naturalistica; contro l’identificazione di Anassagora del sole con il fuoco, Socrate obbietta, secondo
Senofonte, che mentre sul fuoco si può fissare lo sguardo ciò non è possibile per il sole; o che
l’esposizione al sole ma non al fuoco abbronza e che il sole rende maturi i frutti mentre il fuoco li
brucia. Si potrebbe dunque convenire con chi ha affermato che «la ragione principale dell’esclusione
di una filosofia naturale puramente teoretica è, se si tiene conto del contesto apologetico dei
Memorabili, che la conoscenza delle cause dei fenomeni celesti appare come una sorta di hybris nei
confronti degli dèi» (Viano, p.108).
In realtà, alle spalle di queste osservazioni (epistemologicamente molto deboli), agisce un
problema di fondo: quello di difendere Socrate dall’accusa di ateismo in qualche modo implicita
nella speculazione metereologica. Va ricordato infatti che a partire dal 432, con il decreto di Diopite,
ad Atene la nozione di empietà (asebeia) comprendeva le ricerche intorno a ta meteôra, ossia le
cose celesti e in generale i fenomeni cosmologici e astronomici; il decreto recitava, secondo la
testimonianza di Plutarco (Vita di Pericle, 169 E), che «vengono perseguitati per crimini contro lo
stato coloro che non credono agli dèi o che insegnano dottrine relative ai corpi celesti». In base a
questo decreto fu condannato Anassagora; l’intera strategia di Senofonte è finalizzata a sottrarre
Socrate a questo genere di accusa per trasformarlo nel cittadino perbene, nel gentleman colto ma non
spregiudicato, in grado di costituire il prototipo per la costruzione politico-ideologica di stampo
moderato nella quale egli era impegnato.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Viano, C., La cosmologie de Socrate dans les ‘Mémorables’ de Xénophon , in G. Romeyer Dherbey
- J.-B. Gourinat (éd.), Socrate et les socratiques, Vrin, Paris 2001, pp. 97-119.
da Memorabili, IV, 7*
Da ciò che ho raccontato mi sembra che risulti evidente che Socrate esponeva con semplicità il
proprio pensiero a coloro che si intrattenevano con lui. Ora dirò questo, che si preoccupava che essi
fossero anche in grado di bastare a se stessi nel compiere i propri doveri. Di tutte le persone che
conosco, infatti, egli più di ogni altro si curava di sapere in che cosa fosse esperto ciascuno dei suoi
amici. E delle cose che un uomo virtuoso deve sapere, quello che egli stesso conosceva, lo insegnava
con più passione di chiunque altro. Per quello invece in cui non era istruito, li guidava dagli esperti.
Insegnava anche fino a che punto deve essere esperto in ciascuna disciplina chi ha ricevuto
un’educazione corretta. Per fare un esempio, della geometria sosteneva che è necessario impararla
fino al punto da essere capaci, se mai se ne presentasse il bisogno, di misurare correttamente un
terreno per prenderlo, cederlo, spartirlo o indicarne la rendita. E diceva che imparare questo è così
facile che chi si applichi a studiare la misurazione saprà quanto misura un certo territorio e nello
stesso tempo ne riporterà la conoscenza dei principi della misurazione. Respingeva però
l’apprendimento della geometria che giungesse fino a figure geometriche troppo difficili da intendere.
Confessava di non vederne l’utilità (e tuttavia non ne era inesperto) e d’altro lato sosteneva che esse
erano sufficienti al tenere impegnata la vita di un uomo e a impedirgli molti altri apprendimenti utili.
Consigliava di essere esperti anche di astrologia, e di tale disciplina tuttavia fino a saper conoscere
le fasi della notte, del mese e dell’anno, per viaggiare, navigare, fare la sentinella e per quante altre
attività si fanno di notte, durante il mese o l’anno, al fine di sapersi servire per esse di buone
indicazioni, conoscendo bene le fasi suddette. Ed era facile imparare questi insegnamenti dai
cacciatori notturni, dai piloti delle navi, da molti altri che si preoccupano di sapere queste cose. Ma
di studiare l’astronomia fino alla conoscenza dei corpi celesti che non stanno nella medesima orbita,
i pianeti, e le stelle non fisse, e sciupare il tempo per cercare le loro distanze dalla terra e i loro
percorsi e le cause di queste cose, lo sconsigliava con energia. Confessava infatti di non riconoscere
neanche in questo una qualche utilità (e tuttavia neppure di questo era del tutto ignaro); d’altra parte
diceva che erano soggetti di studio sufficienti per consumare la vita di un uomo e impedirgli molte
conoscenze utili. Nel complesso distoglieva dal diventare studiosi intenti alle cose celesti e a come
ciascuna il dio l’ha organizzata. Credeva che gli uomini non potessero scoprire questo e non riteneva
fosse gradito agli dei colui che indagava su cose che essi non vollero farci conoscere. Diceva che chi
si impegna in tali ricerche rischia anche di uscire di senno non meno di Anassagora, inorgoglito
smisuratamente per il fatto di saper spiegare le abili opere degli dei. Sostenendo infatti che fuoco e
sole sono la stessa cosa, egli non considerava che gli uomini possono fissare lo sguardo senza
difficoltà sul fuoco, ma non sono capaci di guardare in fronte il sole, e che gli uomini illuminati dal
sole hanno la pelle più scura, ma dal fuoco no. Non teneva conto anche del fatto che dei prodotti
della terra nessuno può maturare bene senza i raggi del sole, mentre scaldati dal fuoco muoiono tutti.
Affermando poi che il sole è una pietra incandescente, non teneva conto anche di questo, che una
pietra messa nel fuoco non splende e non dura per molto tempo, mentre il sole resiste perennemente
splendendo più di ogni altra cosa. Consigliava di imparare anche i calcoli aritmetici. Anche per
questi, come per le altre discipline, esortava a evitarne l’applicazione senza utilità, ma li indagava
egli stesso e ne percorreva con gli amici ogni ambito fin dove ne vedeva il vantaggio. Esortava
coloro che lo frequentavano a preoccuparsi anche della salute, apprendendo da quelli che ne erano
esperti quanto era possibile e facendo attenzione ognuno a se stesso per tutta la vita, che cibo, che
bevanda, che tipo di sforzo gli giova e come servendosene potrebbe vivere nelle migliori condizioni
di salute. Diceva infatti che se uno presta attenzione a sé in questa maniera, è difficile che trovi un
medico che sappia diagnosticare meglio di lui quello che serve alla sua salute.
Se qualcuno poi desiderava essere aiutato in misura superiore alle possibilità della sapienza
umana, gli suggeriva di rivolgersi alla divinazione. «Chi sa infatti in che modo gli dei danno agli
uomini suggerimenti sulle faccende umane» diceva «non sarà mai privo del loro consiglio.»
T. 06 PRESUNZIONE DI SAPERE E SAPERE DI
NON SAPERE
(Platone, Apologia di Socrate, 20 C-24 B)

In questa celebre sezione dell’Apologia Socrate delinea il programma filosofico della sua stessa
esistenza. Egli descrive la propria attività come il tentativo di falsificare l’oracolo del dio delfico,
che, attraverso la Pizia, dichiarò a Cherefonte, amico di Socrate, che non esisteva uomo più sapiente
di lui. Dal momento che faceva esplicita professione di ignoranza, Socrate si propose di dimostrare
l’infondatezza del responso oracolare dirigendosi verso coloro che riteneva senz’altro in possesso di
un sapere, e, per ciò stesso, più sapienti di lui. In realtà, Socrate ammette che il dio non può
sbagliarsi, e dunque il compito che egli si prefigge è, a bene vedere, quello di comprendere il
significato profondo della dichiarazione dell’oracolo (21 B).
L’indagine socratica si rivolge alle tre figure professionali che potevano vantare una qualche
pretesa di sapere: gli uomini politici, i poeti e i possessori di una tecnica. Il presunto sapere di cui
essi dichiarano di essere in possesso viene sottoposto a uno spregiudicato esame, il celebre
exetazein socratico, il quale conduce a smascherare il carattere illusorio o parziale di queste
conoscenze. Se, come si dirà tra breve, Socrate sembra disposto a riconoscere il possesso di una
qualche forma di sapere ai poeti e soprattutto agli esperti di una tecnica, nel caso dei politici la sua
condanna appare senza appello. Costoro non sanno nulla di bello e di buono (ouden kalon
kagathon), ossia non hanno quelle conoscenze etico-politiche che, sole, li legittimerebbero al
governo della città. Agli occhi di Socrate essi si collocano anzi all’ultimo posto di un’ipotetica
gerarchia conoscitiva, come del resto dimostra la crisi morale e politica che Atene attraversa.
I poeti, da parte loro, sono in grado di accedere alla verità, ma lo fanno in modo inconsapevole,
grazie a una sorta di possessione divina (il celebre enthysiasmos), senza essere in grado di
giustificare in alcun modo le loro conoscenze. Insomma, agiscono non in virtù della sapienza
(sophia), bensì di una qualche capacità naturale (physis), di cui non sono in grado di dare conto
(logon didonai ), vale a dire di giustificare razionalmente. La poesia «non può essere detta sophia,
giacché corrisponde a una sollecitazione irrazionale e dà vita tutt’al più a un legein (dire) ma non a
un eidenai (sapere)» (Brancacci, p. 323). Gli esperti delle tecniche risultano invece in grado di
spiegare ciò che fanno; essi, appunto perché in possesso di un sapere delimitato e riproducibile,
possono vantare una forma autentica di conoscenza. Tuttavia, nel momento in cui pretendono di
oltrepassare i limiti oggettivi stabiliti dalle loro competenze tecniche, perdono ogni legittimità.
L’oltrepassamento al quale allude Socrate si verifica nel momento in cui i tecnici intendono
occuparsi anche delle cose più importanti (ta megista), ossia del campo etico e morale. Il modello
tecnico-artigianale, tante volte invocato da Socrate come esempio di un sapere oggettivo e
epistemologicamente ben fondato, mostra in realtà tutti i suoi limiti, nell’atto stesso in cui si estende
al campo morale.
Socrate sembra dunque manifestare tutte le sue riserve circa l’estensibilità del paradigma tecnico
(di matrice anassagorea) all’ambito etico. Le realtà morali non si presentano immediatamente
circoscrivibili e oggettivabili; questo comporta in maniera inevitabile l’esigenza di un approccio
metodologico sostanzialmente diverso, che, qui come altrove, assume per Socrate le vesti
dell’indagine spregiudicata di tutte le condizioni e di tutti i presupposti in campo: l’exetazein si
identifica con il dialegesthai.
La sapienza umana (sophia anthrôpinê) di cui Socrate si dichiara in possesso non ha nulla a che
fare neppure con la sapienza naturalistica dei presocratici; è una sapienza umana sia perché si
riferisce all’uomo, al suo essere nel mondo, al suo rapportarsi con gli altri uomini, sia perché si
serve del metodo tutto umano della ricerca e dell’indagine dialettica, ossia del dialogo.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Adorno, F., Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 65-75.

Brancacci, A., Il sapere di Socrate nell’‘Apologia’, in G. Giannantoni - M. Narcy (a cura), Lezioni


socratiche, Bibliopolis, Napoli 1997, pp. 303-27.

Doyle, J., Socrates and the Oracle, «Ancient Philosophy» 24 (2004), pp.19-36.

Giannantoni, G., Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Edizione
postuma a cura di B. Centrone, Bibliopolis, Napoli 2005, pp.188-95.

Maym, H.E., Socratic Ignorance and the Therapeutic Aim of the Elenchos, in M.L. McPherran (ed.),
Wisdom Ignorance and Virtue. New Essays in Socratic Studies, Academic Printing & Publishing,
Edmonton 1997 (numero monografico di «Apeiron» 30.4), pp.37-50.

Reale, G., Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000, pp.134-38.
da Apologia di Socrate, 20 C-24 B *
A questo punto qualcuno di voi potrebbe ribattere: «Ma insomma, Socrate, di cosa ti vai occupando?
Da dove son venute fuori queste calunnie? Evidentemente, qualcosa di stravagante facevi se sono
fiorite tutte queste voci e dicerie: non ci sarebbero state, se il tuo comportamento non fosse stato
quanto meno insolito. Dicci perciò di che si tratta, così potremo capirti meglio». Trovo che chi
parlasse così avrebbe ragione, e cercherò di mostrarvi cosa mai ha prodotto fama e calunnie.
Ascoltate. Ad alcuni di voi potrà sembrare che scherzi, ma sappiate che vi dirò tutta la verità. In
realtà, Ateniesi, se mi sono guadagnato questa fama è stato solo per una certa mia sapienza. Che sorta
di sapienza? È forse una sapienza umana: quanto a questa, non è escluso che sia sapiente davvero.
Invece quelli di cui dicevo poco fa saranno dotati, se ho capito bene, di una sapienza più elevata di
quella umana: comunque io non ne so nulla, e chi dice di sì mente calunniandomi consapevolmente.
Ora non interrompetemi col vostro chiasso, cittadini ateniesi, anche se le mie parole vi appaiono
presuntuose: infatti il discorso che mi appresto a fare non è mio, lo riferirò da una fonte ben
autorevole presso di voi. Quale testimone della mia sapienza, se ve n’è davvero una e di che natura
sia, chiamerò davanti a voi il dio di Delfi. Avete conosciuto, credo, Cherefonte... È stato mio amico
fin dalla giovinezza e amico pure del vostro partito democratico, ha patito il recente esilio e ne è
tornato insieme con voi. E sapete che tipo era Cherefonte, quanto pronto a entusiasmarsi per qualsiasi
cosa. Ebbene, recatosi una volta a Delfi osò chiedere all’oracolo – vi ripeto, cittadini, non fate
chiasso – chiese se vi fosse qualcuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che non c’era nessuno.
Lui è morto, ma l’episodio potrà confermarvelo suo fratello che è qui.
Badate che vi racconto queste cose per spiegarvi finalmente donde è sorta la calunnia contro di
me. Allorché ho saputo di quel responso, naturalmente mi è venuto di riflettere: «Che mai vuol dire il
dio, a cosa alluderà? Io per me sono consapevole di non essere sapiente affatto, per cui mi domando
cosa mai intende quando dichiara che sono il più sapiente di tutti: perché senza dubbio non sta
mentendo, non gli è lecito». E dopo esser stato a lungo incerto sul significato del responso, alla fine,
per quanto malvolentieri, mi decisi all’indagine di cui ora vi dirò. Andai da uno di coloro che hanno
fama di essere sapienti, convinto che lì meglio che altrove, con la forza dell’evidenza, avrei potuto
smentire l’oracolo: «Vedi, questo qui è più sapiente di me mentre tu avevi detto che lo ero io».
Esaminando dunque costui (non occorre che ne faccia il nome, era a ogni modo uno dei nostri
politici, cittadini ateniesi, che osservandolo e parlandoci insieme mi ha fatto quest’impressione), mi
parve che quest’individuo apparisse, sì, sapiente a molti e soprattutto a se stesso, ma non lo fosse
realmente. Allora cercai appunto di fargli notare che si credeva sapiente senza esserlo, attirandomi
così l’ostilità non solo sua ma di gran parte dell’uditorio. Nel tornarmene via mi resi conto che sì,
più sapiente di quell’uomo lo ero: forse nessuno di noi due sapeva alcunché di bello e di buono, ma
almeno, mentre lui riteneva di sapere e non sapeva, io non sapevo ma neanche presumevo di sapere:
mi sembrava perciò di essere, come minimo, più sapiente di lui per il semplice fatto che, quel che
non so, neanche m’illudo di saperlo. Recatomi poi da un altro, scelto fra quelli con fama di essere
più sapienti del precedente, ne ricavai la stessa impressione e anche lì mi attirai l’ostilità sua e di
parecchi altri.
Dopodiché, già che c’ero, continuai il mio giro. Mi accorgevo sì, con tristezza e preoccupazione,
che mi stavo rendendo antipatico, purtuttavia mi sembrava necessario tenere nella massima
considerazione la parola del dio: ben occorreva andare da tutti quelli che avessero fama di sapere,
tentando di capire il significato dell’oracolo. Per il cane, Ateniesi!, vi devo pur dire la verità: mi è
capitato che coloro che godevano della più alta stima risultavano a me, guidato dal dio nella mia
ricerca, quasi i più inadeguati, là dove altri ritenuti mediocri erano di fatto più dotati
intellettualmente. Bisogna davvero che vi descriva tutto il mio vagabondare, le fatiche enormi
affrontate per convincermi dell’irrefutabilità dell’oracolo. Dopo i politici, infatti, sono andato dai
tragici, dai compositori di ditirambi e dagli altri poeti, aspettandomi di cogliere in flagrante me
stesso, lì, come più ignorante di loro. E prendendo in mano, fra i loro poemi, quelli che mi parevano
più elaborati, chiedevo loro di spiegarmeli, contando fra l’altro di imparare qualcosa. Ho qualche
ritegno a confessarvi la verità, cittadini, ma devo farlo: quasi tutti i presenti, si può dire,
commentavano meglio di loro le cose che essi stessi avevano scritto! Non mi ci volle molto per
capire che anche i poeti facevano quel che facevano non per sapienza, ma per un qualche talento
naturale e trascinati dall’entusiasmo, come gli indovini e vaticinatori: i quali dicono appunto molte
belle cose, senza saperne nulla. Più o meno lo stesso, mi parve, accadeva anche ai poeti, che per di
più si reputavano i più sapienti, grazie alla loro poesia, anche in cose in cui non lo erano affatto.
Anche di lì, quindi, mi allontanai convinto di esser loro superiore, per la stessa ragione per cui lo ero
rispetto ai politici.
Alla fine andai dai lavoratori manuali: mentre per conto mio ero consapevole di non conoscere
praticamente nulla, costoro prevedevo di trovarli in possesso di parecchie preziose conoscenze. E
qui non mi sbagliavo, nel senso che possedevano nozioni a me ignote e in ciò erano più sapienti di
me. Ma, Ateniesi, scoprii che anche i buoni artigiani incorrevano nello stesso errore dei poeti (per il
fatto di saper esercitare bene la propria arte, ognuno si credeva bravissimo anche in materie di
massima importanza), con una presunzione che finiva per offuscare il loro effettivo sapere: cosicché
mi chiesi, per salvare il senso dell’oracolo, se preferivo rimanere così com’ero, senza essere
sapiente di quel loro tipo di sapienza ma neanche ignorante della loro ignoranza, o condividerle con
loro entrambe. A me stesso e all’oracolo, risposi che mi conveniva rimanere com’ero.
È con questa indagine, cittadini ateniesi, che mi sono attirato l’ostilità più aspra e profonda di
parecchia gente: donde sono poi nate le varie calunnie, fra cui quest’etichetta di sapiente che mi
porto addosso. Ogni volta, infatti, gli ascoltatori concludono che sia io il sapiente nel campo in cui
confuto altri. Ma probabilmente, cittadini, davvero sapiente è il dio, e con quel suo oracolo intende
dire che la sapienza umana vale poco o niente. Solo in apparenza si riferisce a questo Socrate qui: al
mio nome ricorre perché mi usa come un esempio, come per dire: «Il più sapiente fra voi, uomini, è
colui che come Socrate si sia reso conto che quanto a sapienza non val nulla». Ecco perché continuo
le mie peregrinazioni cercando e ricercando, secondo l’indicazione del dio, chi fra cittadini o
forestieri possa giudicare sapiente: e quando mi sembra che non lo sia, reco aiuto al dio mettendone
in piazza l’insipienza. Così indaffarato, non ho avuto tempo da dedicare a faccende pubbliche né
private, per importanti che siano, e insomma rendere questo servizio al dio mi ha gettato nella più
grande miseria.
Si aggiunga che i giovani (quelli delle famiglie più ricche, che hanno più tempo libero) vengono
volentieri con me divertendosi a sentire come esamino questo e quello, e non di rado gli va di
imitarmi. Si mettono quindi a esaminare altra gente, e ne trovano naturalmente un bel po’ che
presumono di saper qualcosa, ma sanno poco o nulla. Finisce insomma che quelli che vengono
esaminati da loro si adirano con me, anziché con se stessi, e raccontano che Socrate è un essere
diabolico e corrompe i giovani. Se gli si chiede di chiarire la natura delle mie imprese e dei miei
insegnamenti, non possono dire nulla (del resto nulla sanno), ma per non dare l’impressione di essere
in difficoltà tirano fuori le prime accuse che gli vengono in mente (sono quelle usate contro tutti i
filosofi), a proposito di «cose nel cielo e sotterra», «non riconoscere gli dèi» o «rendere più forte il
ragionamento più debole». In effetti costoro non saranno mai capaci di ammettere la semplice verità
che – come è ormai chiaro – fingono di sapere senza sapere nulla: e perciò – mi pare – preoccupati
come sono del proprio prestigio, sparlando di me senza ritegno (e sono tanti) con foga persuasiva, vi
hanno da un bel pezzo riempito le orecchie con le loro insistenti calunnie. Di qui son partiti per
attaccarmi Meleto, Anito e Licone: Meleto facendosi portavoce dell’ostilità dei poeti, Anito degli
artigiani e dei politici, Licone dei retori. Cosicché, come ho detto all’inizio, mi stupirei molto se
riuscissi a estirpare da voi, in così breve tempo, una calunnia divenuta così pesante. Ecco la verità,
Ateniesi, ve la espongo senza celare od omettere alcunché. Proprio per questo, lo so, mi detestano: il
che prova che dico la verità, e la calunnia contro di me si spiega con le ragioni che ho descritto. Lo
scoprirete anche voi, se prima o poi vi porrete il problema.
T. 07 IL FALSO SAPERE DELLA RETORICA
(Platone, Gorgia, 461 C-466 A)

In questa sezione del Gorgia sono condensati molti motivi della riflessione filosofica di Socrate
(sebbene il dialogo presenti spunti forse non più del tutto riconducibili al Socrate storico). In primo
luogo viene espressa la preferenza per la brachilogia nei confronti della makrologia, ossia per gli
scambi di rapide battute (che consentono un continuo controllo della reciproca comprensione dei
dialoganti) nei confronti dei lunghi discorsi di stampo sofistico, i quali assumono spesso agli occhi di
Socrate l’andamento di vere e propre performances in cui si fa sfoggio di un sapere solo apparente
(per la superiorità della brachilogia nei confronti della macrologia cfr. anche Protagora, 329 A-B).
In secondo luogo si trovano numerose allusioni alla necessità di procedere in modo
metodologicamente corretto, determinando prima di tutto che cosa sia un certo oggetto, per indicarne
in un secondo tempo le proprietà, ossia le qualità (poion), a partire dalla essenza (ti esti, ousia); per
questa ragione, prima di stabilire se la retorica è buona o cattiva, occorre individuarne l’essenza,
cioè essere in grado di dire che cosa è. Quindi viene riproposta la classica distinzione socratica tra
anima e corpo e, sulla base di essa, viene costruita la relazione analogica tra retorica e culinaria e tra
politica e medicina. Infine, sulla base della distinzione epistemologica tra technê ed empeiria, viene
circoscritto lo statuto della retorica in rapporto alla conoscenza vera e propria, ossia alla filosofia.
I due interlocutori di Socrate in questa sezione sono autorevoli rappresentanti della sofistica: il
grande Gorgia, cui si devono sia importanti scritti teorici sullo statuto ontologico del linguaggio e
sulla sua funzione persuasiva (Sul non essere ovvero sulla natura ), sia vere e proprie dimostrazioni
in atto della potenza della parola (Encomio di Elena e Encomio di Palamede), e il suo allievo Polo,
che nel dialogo riprende e radicalizza le tesi del maestro.
Il dialogo verte intorno allo statuto e alla funzione della retorica, la quale in certa sofistica, e in
particolare proprio nella riflessione di Gorgia, aveva assunto un’importanza eccezionale. Nello
scritto Sul non essere Gorgia aveva in un certo senso affrancato il logos dalla necessità di riferirsi
all’essere; come noto le tre tesi di quest’opera recitavano, rispettivamente, che nulla è (ossia nulla
risulta qualificabile in un modo anziché in un altro); se anche fosse, non sarebbe conoscibile; se
anche fosse e risultasse conoscibile, non sarebbe però comunicabile, dal momento che il logos
costituisce qualcosa di eterogeneo rispetto alla realtà e non riducibile ad essa. Una simile posizione,
anziché indebolire, rafforza la potenza della parola, che, ormai affrancata dalla realtà, può costruire
veri e propri universi paralleli. Nell’Encomio di Elena il logos assume le vesti del «grande tiranno
(megas dynastês) che compie le imprese più divine con un corpo piccolissimo e totalmente
invisibile, perché può fare cessare il timore, eliminare il dolore, produrre gioia e suscitare pietà»
(DK 82 B 11, 8). Nel Gorgia Platone mette in scena il tentativo di Socrate di disinnescare le
potenzialità quasi illimitate della retorica, riconducendola entro confini ben precisi, anzi mettendone
in discussione la stessa legittimità epistemologica.
L’intera argomentazione socratica ruota intorno all’analogia tra corpo e anima. Un corpo è buono
nella misura in cui è sano e risulta dunque in grado di svolgere al meglio le proprie funzioni;
discorso analogo vale per l’anima, che è buona, ossia virtuosa, se è sana, vale a dire ordinata (cfr. T.
16). Dal momento che, come aveva già sostenuto Gorgia, la retorica si rivolge all’anima, occorre
stabilire con precisione che cosa essa sia (e che cosa faccia) in rapporto all’anima. Secondo Socrate
le due discipline che si occupano scientificamente del corpo sono la ginnastica (che stabilisce una
serie di norme per mantenere la salute) e la medicina (che fornisce delle prescrizioni atte a ristabilire
una condizione di salute); a queste due discipline corrispondono nel caso dell’anima la legislazione e
la giustizia, il cui compito dovrebbe essere, in base all’analogia stabilita da Socrate, quello di
normare il comportamento dell’anima (la legislazione) e di correggere gli errori ristabilendo la
condizione di partenza (la giustizia). In effetti, «la ginnastica può essere concepita come
essenzialmente normativa, mentre la medicina come essenzialmente correttiva; in breve, la ginnastica
viene concepita come un insieme di principi, regole ed esercizi pratici in grado di consentire
all’uomo che li segue lo sviluppo e il mantenimento del suo benessere fisico; invece la medicina
viene intesa come un insieme di principi, regole e terapie pratiche tali da consentire all’uomo che li
segue di recuperare la salute. [...] Parallele alla ginnastica e alla medicina, troviamo l’arte della
legislazione e la giustizia» (Santas, p. 318).
Secondo Socrate, però, accanto alle tecniche vere e proprie esistono delle pseudotecniche, le quali
avanzano pretese simili a quelle delle tecniche, senza però averne alcuna legittimità. In particolare,
nel caso del corpo, alla tecnica della ginnastica corrisponde la pseudotecnica della cosmesi, cioè
dell’arte dell’abbellimento, e alla medicina corrisponde la pseudotecnica della culinaria o
gastronomia; nel caso dell’anima, invece, alla legislazione corrisponde la sofistica, e alla giustizia
appunto la retorica, la quale si configura dunque come una pseudotecnica, che svolge per l’anima una
funzione analoga a quella svolta nel caso del corpo dalla culinaria. Le pseudotecniche si distinguono
dalle tecniche perché sono costitutivamente orientate al piacere: i retori, esattamente come i cuochi,
non si preoccupano del benessere della entità alla quale si rivolgono, rispettivamente l’anima e il
corpo, ma di procurare piacere (anche a costo di un peggioramento effettivo della salute di questa
entità). Si comprende così la celebre definizione della retorica come adulazione (kolakeia): con un
atteggiamento adulatorio la retorica «ottiene sempre un completo successo, perché evita
accuratamente di entrare in conflitto con le emozioni dell’uditorio» (Cambiano, p. 123), ma si limita
ad assecondarle.
Dal punto di vista epistemologico la retorica non è dunque una technê, bensì un sapere pratico, una
forma di abilità fondata sull’esperienza, dunque un’empeiria. A differenza della tecnica, che qui può
sostanzialmente venire assimilata alla scienza vera e propria (epistêmê), l’empeiria non è in grado di
fornire la ragione per cui una certa cosa si comporta in un determinato modo, è cioè priva della
capacità di individuare la causa (aitia) di ciascuna cosa. La retorica non soddisfa dunque i parametri
che per Socrate definiscono il sapere; quest’ultimo, per essere autenticamente tale, deve risultare
riproducibile, controllabile e soprattutto fondato.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Cambiano, G., Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 121-25.


Fussi, A., Retorica e potere. Una lettura del ‘Gorgia’ di Platone, ETS, Pisa 2006, pp. 54-73.

Santas, G.X., Socrate. La filosofia dei dialoghi giovanili di Platone , trad. it., Vita e Pensiero,
Milano 2003, pp. 316-35.
da Gorgia, 461 C-466 A*
POLO Ma tu chi credi che negherebbe di conoscere la giustizia e di saperla insegnare agli altri?
Portare il discorso su questi binari è solo segno di cattiva educazione!

SOCRATE Ma, mio carissimo Polo, a che altro servono gli amici e i figli? Quando noi diventiamo
vecchi e cominciamo a perdere colpi, voialtri giovani siete qui per rimettere a posto la nostra vita,
nelle parole e nei fatti. Se adesso io e Gorgia parlando perdiamo qualche colpo, tu intervieni e
rimetti le cose a posto, com’è tuo dovere; se poi ti sembra che abbiamo tirato male certe
conclusioni, sono prontissimo a ritirare tutto quello che vuoi, a patto che tu mi garantisca una cosa.

POLO E sarebbe?

SOCRATE Che ti tenga lontano da quei lunghi discorsi che cercavi di infilare all’inizio, Polo.

POLO Ma come? Vuoi impedirmi di parlare come voglio? SOCRATE Ci mancherebbe altro,
carissimo! Arrivi ad Atene, dove c’è libertà di parola più che in tutto il resto della Grecia, e viene
negata soltanto a te! Ma guarda anche l’altra faccia della moneta: se tu continui a parlare e non
vuoi rispondere alle domande, e a me non è consentito andarmene e piantarti in asso, non sarebbe
un bel guaio per me? Ma se il discorso che è stato fatto ti sta a cuore e ti interessa raddrizzarlo,
rimetti pure in discussione tutto quel che ti pare, come dicevo adesso; fa’ tu qualche domanda e
rispondi alle mie domande, come prima io e Gorgia, obietta e lascia obiettare me. Certamente tu
sostieni di saperne quanto Gorgia; o no?

POLO Sicuro.

SOCRATE E anche tu sfidi la gente a farti qualsiasi domanda, sentendoti certo di saper rispondere?

POLO Proprio così.

SOCRATE E allora scegli tu quel che preferisci fare: fa’ domande o rispondi.

POLO D’accordo. Rispondimi un po’, Socrate; poiché ti sembra che Gorgia non abbia le idee chiare
sulla retorica, dimmi tu: che cosa pensi che sia?

SOCRATE Intendi che tipo d’arte ritengo che sia?

POLO Esattamente.

SOCRATE Se devo dirti la verità, Polo, secondo me non è un’arte.

POLO E allora che cos’è, secondo te?


SOCRATE Qualcosa che tu sostieni di aver trasformato in arte con quel trattato che ho letto
recentemente.

POLO Ma che cosa sarebbe?

SOCRATE Una forma di abilità.

POLO Cioè tu pensi che la retorica sia una forma di abilità?

SOCRATE Sì, se tu non la pensi diversamente.

POLO Abilità in che cosa?

SOCRATE Nel produrre un certo piacere e un certo diletto.

POLO E non ti pare che sia una bella cosa la retorica, se è capace di dilettare la gente?

SOCRATE Ma come, Polo! Non hai ancora saputo che cos’è secondo me, e già passi a chiedermi se
non mi pare che sia una bella cosa?

POLO Ma non mi hai detto che secondo te è una forma di abilità?

SOCRATE Senti: visto che ti piace quel che produce piacere, vorresti farmi un piccolo piacere?

POLO Certo.

SOCRATE Chiedimi che tipo d’arte ritengo che sia la gastronomia.

POLO Va bene, te lo chiedo: che arte è la gastronomia?

SOCRATE Non è un’arte, Polo. Adesso chiedimi che cos’è.

POLO Te lo chiedo.

SOCRATE È una forma di abilità. Chiedimi in che cosa.

POLO Te lo chiedo.

SOCRATE Nel produrre un certo piacere e un certo diletto.

POLO Allora la retorica è la stessa cosa della gastronomia?

SOCRATE Certo che no. Ma è parte della stessa professione.

POLO E quale sarebbe?

SOCRATE Temo di fare la figura del maleducato, se dico la verità. E mi vergogno un po’ a parlare,
perché non vorrei che Gorgia pensasse che prendo in giro la sua professione. D’altra parte non so
neanche se la retorica che intendo io sia quella che Gorgia professa, perché dal nostro discorso
non è venuto fuori che cosa ne pensa veramente. Comunque, quella che io chiamo retorica fa parte
di una cosa non molto bella.

GORGIA E di che cosa, Socrate? Parla, e non farti imbarazzare dalla mia presenza.

SOCRATE Secondo me, Gorgia, è una professione che non ha niente a che fare con nessun’arte,
anche se richiede uno spirito pronto, coraggioso e abile nei rapporti con la gente. Nella sostanza,
la chiamerei adulazione. È una professione, mi sembra, che ha anche molte altre parti, e una di
queste è la gastronomia. Sembra essere un’arte, ma a parer mio non è un’arte, bensì un’abilità
basata sulla pratica. Anche la retorica e la cosmesi e la sofistica sono parti di quella che io chiamo
adulazione: quattro parti con quattro oggetti diversi. Se adesso Polo vuole chiedere spiegazioni, le
chieda pure, visto che non sa ancora quale parte dell’adulazione è la retorica, secondo me. Solo
che lui non se ne rende conto, e preferisce chiedermi se non mi pare che la retorica sia una bella
cosa. Ma io non gli dirò se penso che la retorica sia una cosa bella o una cosa brutta finché non gli
avrò detto che cos’è: non sarebbe giusto, Polo! Se vuoi farmi delle domande, chiedimi quale parte
dell’adulazione io dico che è la retorica.

POLO Certo che te lo chiedo: dimmi che parte è.

SOCRATE Sì, ma capirai la mia risposta? Secondo me la retorica è l’imitazione di una parte della
politica.

POLO Con questo vuoi dire che è bella o che è brutta?

SOCRATE Brutta, se le cose cattive bisogna chiamarle brutte. Niente da fare: devo risponderti come
se già sapessi quel che dico.

GORGIA Per Zeus, Socrate, ma neanch’io riesco a capire quel che vuoi dire!

SOCRATE È naturale, Gorgia: non mi sono ancora spiegato con chiarezza, e il nostro Polo, qui, è
giovane e impetuoso.

GORGIA E tu lascialo perdere, e spiega a me che cosa vuol dire che la retorica è l’imitazione di una
parte della politica.

SOCRATE Va bene, cercherò di dirti che cosa mi sembra che sia la retorica; se dico cose sbagliate,
Polo protesterà. Ci sono due cose che chiami corpo e anima?

GORGIA Come no?

SOCRATE E pensi che si possa parlare, sia per il corpo sia per l’anima, di buona salute?

GORGIA Sì.
SOCRATE E c’è anche una buona salute apparente, ma che in realtà non è tale? Tanto per essere più
chiaro: ci sono molti che sembrano in buona salute fisica, e solo un medico o un istruttore sportivo
si accorgerebbe che non stanno bene.

GORGIA È vero.

SOCRATE E questo vale sia per il corpo sia per l’anima: è una situazione per cui il corpo e l’anima
sembrano in buone condizioni, ma non lo sono.

GORGIA Proprio così.

SOCRATE Cercherò di spiegarti più chiaramente il mio pensiero, se posso. A questi due oggetti
corrispondono due arti: quella che riguarda l’anima la chiamo politica, mentre non mi viene in
mente un nome preciso per quella che riguarda il corpo. Comunque, quest’arte singola che si
occupa del corpo si divide in due parti, che chiamo ginnastica e medicina; all’interno della
politica, alla ginnastica corrisponde la legislazione e alla medicina corrisponde la giustizia. Dato
che si applicano allo stesso oggetto, gli elementi di queste coppie hanno qualcosa in comune: la
medicina con la ginnastica, e la giustizia con la legislazione; ma ci sono anche molte differenze.
L’adulazione si accorse – non nel senso che si rese conto, ma nel senso che indovinò – che c’erano
queste quattro arti, tese a curare nel modo migliore il corpo e l’anima; e così si divise a sua volta
in quattro. Si insinua in ciascuna delle quattro arti e fa finta di essere quella in cui si è insinuata; si
disinteressa del bene del corpo o dell’anima, ma con varie seduzioni e adescamenti cerca di
abbindolare la nostra ignoranza, per far credere di essere molto importante. Nella medicina si è
insinuata la gastronomia, e pretende di sapere quali siano i cibi migliori per il corpo; e infatti se un
cuoco e un medico dovessero competere davanti a una giuria di bambini – o anche di uomini
dissennati come bambini – per stabilire chi dei due s’intende di più di cibi buoni e cattivi, fra il
cuoco e il medico sarebbe il medico a morire di fame. È questo che intendo quando parlo di
adulazione; e dico che è una cosa brutta – qui mi rivolgo a te, Polo – perché mira al piacere
disinteressandosi del bene. E sostengo che non è un’arte, ma una forma di abilità, perché non sa
spiegare razionalmente la natura del suo oggetto né dei suoi strumenti, e non sa indicare la causa di
nulla: io non posso chiamare arte quella che è un’attività irrazionale. Se non sei d’accordo con
queste conclusioni, sono pronto a discutere.

Come dicevo, la gastronomia è un’adulazione travestita da medicina. Con lo stesso meccanismo,


alla ginnastica si sostituisce la cosmesi: un’attività dannosa, truffaldina, volgare e ignobile, che
inganna con trucchi, colori, creme, stoffe; per colpa sua la gente corre dietro a una bellezza
artificiale e trascura la vera bellezza, che si raggiunge con la ginnastica. Per non farla troppo
lunga, userò una terminologia matematica (anche perché ormai non dovrebbe esserti difficile
seguirmi): la cosmesi sta alla ginnastica come la gastronomia alla medicina; e si potrebbe anche
dire che la cosmesi sta alla ginnastica come la sofistica sta alla legislazione, o che la
gastronomia sta alla medicina come la retorica sta alla giustizia. Come ho detto, queste parti
sono diverse per natura, ma sono così vicine che sofisti e retori si confondono insieme, per
campo d’azione e per oggetto: e così non sanno più neppure loro che cosa devono fare, e la
gente non sa più che cosa deve aspettarsi da loro. Certo, se non fosse l’anima a governare il
corpo, ma il corpo si governasse da sé, e se non fosse l’anima a tenere distinte la gastronomia e
la medicina, ma il corpo dovesse giudicare in base ai piaceri che prova, allora avrebbe proprio
ragione Anassagora (come tu ben sai, mio caro Polo): ogni cosa si confonderebbe insieme, nello
stesso calderone, senza più possibilità di distinguere salute, medicina e gastronomia.

Questa è la mia definizione di retorica: l’equivalente nell’anima di ciò che è la gastronomia per
il corpo. Ho fatto un lungo discorso, e questo forse può sembrarti strano, visto che proprio io ti
impedivo di parlare a lungo. Ma certo mi scuserai: quando parlavo poco, non capivi e non eri in
grado di sfruttare le risposte che ti davo, ma avevi bisogno di una spiegazione. Adesso, se
neanch’io so sfruttare le tue risposte, hai il diritto anche tu di dilungarti; se no, lasciami fare. Ma
comincia tu ad approfittare della risposta che t’ho dato, se sei capace.
T. 08 IL SARCASMO DEL COMMEDIOGRAFO
(Aristofane, Nuvole, vv. 215-509)

Le Nuvole di Aristofane furono rappresentate al concorso delle Dionisie del 423, senza riscuotere
tuttavia un grande successo (la commedia si classificò al terzo posto, alle spalle del Conno, un’opera
di Amipsia il cui protagonista, Conno, era stato maestro di Socrate, che figurava dunque come
personaggio della commedia, e della Pytine di Cratino che vinse il concorso). La versione delle
Nuvole a noi disponibile costituisce un rifacimento successivo dell’opera rappresentata nel 423, e in
questa forma non fu mai messa in scena.
L’importanza di questa commedia e dell’immagine di Socrate che da essa emerge dovettero essere
straordinarie, se lo stesso Socrate, almeno nella ricostruzione platonica dell’Apologia, a più di venti
anni di distanza accennò alla «commedia di Aristofane, dove un tal Socrate si dondolava e diceva di
vagare per l’aria e cianciava di tante altre schiocchezze di cui io mi intendo poco o nulla» (Apologia,
19 C). E del resto, non sembra fuori luogo sostenere che gli sforzi, pur tra loro così diversi, di
Platone e Senofonte sono in larga parte indirizzati a sfocare l’immagine di Socrate costruita da
Aristofane.
In effetti, il Socrate delle Nuvole (e più in generale di Aristofane) costituisce un problema
storiografico rilevante. Si tratta di un Socrate non solo diverso, ma per molti aspetti addirittura
opposto tanto al filosofo radicale e antisofista di Platone quanto al cittadino conformista di
Senofonte. Agli occhi del grande commediografo Socrate è un sofista a tutti gli effetti; della sofistica
condivide il metodo, l’atteggiamento culturale, e la stessa ideologia iper-razionalista e demolitrice.
Egli incarna in un certo senso tutti i protagonisti della rivoluzione culturale che ha percorso Atene
nella seconda parte del V secolo: personaggi come Protagora, Anassagora, Prodico e in generale i
fautori del cosiddetto illuminismo greco. A loro si deve, per Aristofane, la profonda crisi che ha
attraversato la polis e di cui la guerra del Peloponneso costituisce una delle manifestazioni più
evidenti.
La trama delle Nuvole è nota. Il contadino Strepsiade crede di poter risolvere i problemi
economici e le difficoltà nelle quali si trova invischiato affidandosi ai campioni della nuova cultura;
cerca dunque di convincere il figlio Fidippide a frequentare il pensatoio (phrontistêrion) di Socrate,
dove potrebbe imparare l’arte della parola e soprattutto la capacità di ingannare gli altri. In un primo
tempo Fidippide si rifiuta di seguire il suggerimento del padre, il quale decide allora di andare lui
stesso da Socrate. Solo in un secondo tempo Fidippide accetta il consiglio del padre, ma ciò che
impara, ossia l’arte di argomentare in favore del discorso ingiusto, si rivolge contro il genitore, che
viene bastonato dal figlio e in più deve ascoltare i tentativi sofistici di giustificare un tale gesto. Le
Nuvole, alle quali nella commedia dà voce il coro, spiegano a Strepsiade, che le rimprovera per
averlo spinto a una condotta fallimentare, che proprio in questo modo esse si propongono di
insegnargli a temere gli dèi.
Il Socrate di Aristofane si presenta non solo come un sofista, capace di rendere forte il discorso
debole, ma anche come un filosofo interessato alle questioni metereologiche (astronomia, fisica,
cosmologia), ossia proprio a quelle tematiche che Senofonte considerava estranee alla sua riflessione
(T. 01 e 05). Socrate stesso accenna a questo tipo di accusa nell’Apologia, quando si scaglia contro
coloro che «vi hanno persuaso rivolgendo contro di me accuse per niente vere: che c’è un certo
Socrate sapiente il quale indaga le cose celesti (ta meteôra) e fa ricerche su tutte le cose che stanno
sotto terra (ta hypo gês panta), e rende più forte il discorso più debole» (Apologia, 18 B-C). È
probabile che l’immagine aristofanea, depurata dagli aspetti polemici, rispecchi una fase del
pensiero di Socrate nella quale in effetti egli nutrì interessi naturalistici. Sappiamo che fu allievo di
Archelao (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II 19), da cui ereditò un certo interesse per la filosofia
della natura. Del resto, Platone stesso attribuisce a Socrate un’iniziale passione per questo genere di
ricerche, poi abbandonate a vantaggio dell’indagine etico-politica. Ma non è questo il punto. Che
Socrate avesse o meno prodotto riflessioni di stampo metereologico (alla maniera di Anassagora e di
certo naturalismo post-ionico) è tutto sommato poco significativo. Il dato veramente importante è che
egli poteva apparire, agli occhi di un campione della cultura tradizionale, come un rappresentante di
quel movimento innovativo e profondamente critico che questa cultura stava scuotendo dalle
fondamenta. E non si può dire che manchino nella riflessione socratica elementi che possono
effettivamente venire avvicinati all’atteggiamento razionalistico della sofistica: si pensi in generale
all’attitudine alla critica, all’esigenza, costantemente richiamata da Socrate, di mettere in discussione
ogni acquisizione, fosse anche quella più consolidata e radicata nella tradizione; del resto, lo stesso
metodo confutatorio, ampiamente attestato nei dialoghi «socratici» di Platone, poté venire avvertito
da un laudator temporis acti alla maniera di Aristofane come l’espressione di un atteggiamento
culturale molto vicino a quello della sofistica. Insomma, a un cittadino ateniese degli ultimi decenni
del V secolo l’immagine di Socrate presentata da Aristofane dovette apparire meno bizzarra di
quanto noi, influenzati da Platone e da Senofonte, siamo generalmente disposti a riconoscere.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Adorno, F., Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 27-55.

Bowie, E.L., Le portrait de Socrate dans les ‘Nuées’ d’Aristophane , in M. Trédé - Ph. Hoffmann
(eds.), Le rire des anciens, Actes du Colloque International, Pens, Paris 1998, pp. 53-66.

Havelock, E.A., The Socratic Self as It Is Parodied in Aristophanes’‘Clouds’, «Yale Classical


Studies» 22 (1972), pp. 1-18.

Reale, G., Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000, pp. 218-22 e 226-28.
da Nuvole, vv. 215-509*
STREPSIADE [...] E quello chi è, quello che sta appeso per aria?

DISCEPOLO È lui.

STREPSIADE Lui chi?

DISCEPOLO Socrate.

STREPSIADE Socrate!? Me lo potresti chiamare tu a voce alta, per favore?

DISCEPOLO Chiamatelo da solo; io non ho tempo. (il discepolo rientra nel pensatoio)

STREPSIADE Socrate! Socrate, amico mio!

SOCRATE Perché mi chiami, creatura di un giorno?

STREPSIADE Prima di tutto, per favore, dimmi cosa stai facendo.

SOCRATE Aerostatizzo, e me ne sto qui a scrutare il sole.

STREPSIADE E tu gli dèi li squadri dall’alto d’un corbello, invece che coi piedi per terra, casomai?

SOCRATE Senza sospendere la mente e il pensiero in modo da mescolarli all’aria, che è della stessa
leggerezza, non avrei mai potuto fare scoperte esatte sui fenomeni celesti. Se me ne fossi stato a
terra a osservare da laggiù le cose di lassù, non ci sarei mai arrivato. Devi sapere che la terra
attrae a sé con forza l’umore del pensiero, proprio come succede col crescione.

STREPSIADE Come dici? Il pensiero che attira l’umido nel crescione? Ma adesso scendi, caro
Socrate, ti prego, vieni a insegnarmi quello per cui sono venuto.

SOCRATE Cioè?

STREPSIADE Voglio imparare a parlare. È una cosa incontrollabile: interessi, creditori – e mi


spingono, mi tirano, mi sequestrano la roba.

SOCRATE Come hai potuto fare tanti debiti senza rendertene conto?

STREPSIADE Mi ha distrutto una febbre da cavalli, un male divorante. Ma tu insegnami uno dei tuoi
discorsi, quello che non paga i debiti. Fammi il prezzo che ti pare e io te lo do, lo giuro sugli dèi.

SOCRATE Ma che dèi vai giurando!? Tanto per cominciare, qui da noi gli dèi sono moneta fuori
corso.

STREPSIADE E chi è che vale, per i giuramenti? Magari le monete di ferro, come a Bisanzio?

SOCRATE Vuoi sapere come stanno davvero le cose, a proposito degli dèi?

STREPSIADE Certo che sì, sempre se è possibile.

SOCRATE E vuoi pure un abboccamento con le Nuvole, le nostre divinità?

STREPSIADE Mi piacerebbe tantissimo!

SOCRATE Allora siedi sulla sacra branda.

STREPSIADE Ecco fatto.

SOCRATE Adesso la corona. Tieni.

STREPSIADE A che serve la corona? Per favore, Socrate, non mi sacrificherete mica come
Atamante?

SOCRATE No, no: sono tutte cose che facciamo agli iniziandi.

STREPSIADE E io che ci guadagno?

SOCRATE Diventerai un fior di parlatore, una mitraglia scoppiettante. (lo cosparge di farina) Ma
sta’ fermo!

STREPSIADE Certo tu non conti balle: spolverato così, fior di farina lo divento di sicuro!

SOCRATE È necessario, a questo punto, che il vecchio osservi un religioso silenzio e ascolti la
preghiera.

O potente signore, Aere immenso, che tieni sospesa la Terra, Etere splendido, e voi dee
venerande, Nuvole fulmitonanti, sorgete, mostratevi al pensatore, su nel cielo.

STREPSIADE Aspetta, aspetta! Mi tiro su il mantello, così non mi bagno. Povero me, sono uscito di
casa senza manco un berretto.

SOCRATE Venite, dee venerate, mostratevi a costui; se vi posate sulle sacre cime innevate
dell’Olimpo, o danzate con le Ninfe nei giardini di Oceano, vostro padre, o se attingete in conche
d’oro l’acqua delle foci del Nilo; se siete sulla palude Meotide, o sul monte nevoso di Mimante,
ascoltate la mia supplica: accettate questo sacrificio, e compiacetevi del rito.
CORO Nuvole eterne, forme visibili splendide di rugiada, leviamoci dall’Oceano mugghiante, nostro
padre, alle cime boscose di monti inaccessibili; di là scorgeremo cime lontane, e la sacra terra
irrigata, ricca di messi, e fiumi scroscianti, divini, e il mare dal cupo rimbombo.

Senza posa la luce dell’aria risplende di raggi abbaglianti. Deponiamo la nube di pioggia che
vela il nostro volto immortale, e di lontano volgiamo lo sguardo alla terra.

SOCRATE O Nuvole venerande, allora avete udito la mia invocazione! (a Strepsiade) E tu, hai
sentito la loro voce e il tuono mugghiante, che riempie di venerazione?

STREPSIADE Per carità, e io lo venero, eccome, illustrissime dee, e voglio rispondere alla scarica
di tuoni con una scarica di scorregge: (a Socrate) tanta è la paura e il tremito che mi danno. Anzi,
se è permesso, eccone una; e se non è permesso, mi tengo la voglia di cacare.

SOCRATE Vedi di risparmiarci le spiritosaggini e non fare come certi comicastri calamitosi.
Silenzio, piuttosto: avanza tra i canti un grande sciame di dee.

CORO Vergini della pioggia, veniamo alla splendida terra di Atena, ad ammirare l’amabile città di
Cecrope, patria di eroi, dove è il culto di riti ineffabili e il tempio accoglie gli iniziati durante i
sacri misteri; lì gli dèi ricevono offerte, lì sono templi immensi e statue, processioni solenni,
vittime coronate per i sacrifici e feste in ogni stagione; lì, all’inizio della primavera, c’è la festa di
Bromio, le armoniose gare dei cori, la cupa bellezza dell’aulo.

STREPSIADE In nome di Dio, Socrate, ti prego, dimmi chi sono queste qui, che hanno cantato una
roba così solenne. Saranno mica delle eroine?

SOCRATE Niente affatto: sono Nuvole del cielo, divinità potenti per chi non ha voglia di far niente:
sono loro che ci rendono capaci di pensare, di parlare, di riflettere – e di incantare, e di raggirare,
e di muovere all’attacco e al contrattacco.

STREPSIADE Ecco perché solo a sentirne la voce l’anima mia si è alzata in volo, e già va cercando
quisquilie e sottigliezze fumose: ha una voglia di pigliare un’ideuzza, sbatterla contro un’idea e
imbastirci su tutto un discorso d’opposizione. Insomma, se è possibile, ho proprio voglia di
vederle di persona.
SOCRATE Allora guarda là verso il Parnete; io già le vedo che vengono giù con tutta calma.

STREPSIADE Dove, dove? Fammi vedere!

SOCRATE Eccole che arrivano – sono tantissime! – passando per valli e per boschi; eccole lì di
lato.

STREPSIADE Ma com’è possibile? Non riesco a vederle!...

SOCRATE Vicino all’entrata.

STREPSIADE Ah, sì, solo adesso, ma appena appena.

SOCRATE Dovresti vederle bene, adesso, a meno che tu non abbia cispe grosse come zucche.

STREPSIADE Certo, certo! Oh illustrissime dee! Ormai sono dappertutto.

SOCRATE Non sapevi che loro sono dee? Non ci credevi nemmeno, eh?

STREPSIADE No. Pensavo che fossero nebbia, rugiada, fumo. SOCRATE Ma non lo sai che sono
loro a dar da mangiare a intellettuali d’ogni tipo? Indovini di Turi, praticoni, capelloni perdigiorno
che usano l’unghia per sigillo; e poi ci sono i cantori di cori ciclici con la loro musica contorta, i
cialtroni spaziali, tutti scansafatiche buoni a nulla, queste li foraggiano perché scrivono bene di
loro.

STREPSIADE Allora si spiegano cose tipo «l’impeto attorto delle acquose Nubi», «i ricci di Tifone
cento teste», «le tempeste turbinose», e poi «madida l’etra», «dell’aere, augelli, adunchi natatori»
e «pluvia e rore, di nubi licore»: loro fornivano questo e in cambio spolveravano «tranci di
sgombro di grande ingombro» e «polpa di tordi senza colpa».

SOCRATE Già, grazie a loro. Non è giusto?

STREPSIADE Ma dimmi, come si spiega, se sono nuvole davvero, che sembrano donne? Quelle che
conosco io non sono mica così.

SOCRATE E come, allora?

STREPSIADE Non ti so dire di preciso; sembrano bioccoli di lana cardata, tutto tranne che donne,
insomma. Queste qui, per dire, hanno il naso.

SOCRATE Rispondi alle mie domande, allora.

STREPSIADE Dimmi pure.

SOCRATE Guardando in alto, hai mai visto una nuvola che somigliava a un centauro, o a un
leopardo, a un lupo, a un toro?
STREPSIADE Certo che sì, e con questo?

SOCRATE Diventano tutto ciò che vogliono. Se ad esempio vedono un capellone arrapato, uno
peloso tipo il figlio di Senofanto, per prendere in giro la sua fissa si trasformano in centauri.

STREPSIADE E se vedono Simone, che ruba i fondi pubblici, cosa fanno?

SOCRATE Rivelano la sua vera natura trasformandosi in lupi.

STREPSIADE Ecco perché ieri sono diventate cervi! Hanno visto Cleonimo, quel gran vigliacco che
ha abbandonato lo scudo.

SOCRATE E adesso, vedi, sono diventate donne perché hanno visto Clistene.

STREPSIADE Salute a voi, o mie signore! E ora, vi prego, se già ad altri l’avete concesso – voi che
siete onnipotenti – levate anche per me la vostra voce fino al cielo.

CORO Salute a te, vecchio di altri tempi alla ricerca dell’arte. E tu, sacerdote di quisquilie e ciarle,
dicci di cosa hai bisogno. Non daremmo ascolto a nessun altro specialista dello spazio – tranne
che a Prodico. A lui perché è dotto e geniale, a te invece perché cammini altero per strada
guardandoti attorno in tralice e sopporti scalzo tanti fastidi, e ti dai tante arie per noi.

STREPSIADE Per la Terra madre, che voce! Santa, solenne, prodigiosa!

SOCRATE Lo credo bene: queste soltanto sono divinità, tutto il resto è una balla.

STREPSIADE Per la Terra madre! Vuoi dire che per voi Zeus, Zeus Olimpio non è un dio?

SOCRATE Quale Zeus? Non dire sciocchezze! Zeus nemmeno esiste.

STREPSIADE Ma che dici? E allora chi fa piovere? Comincia a spiegarmi questo punto.

SOCRATE Loro, naturalmente. Te lo dimostrerò con prove schiaccianti. Di’ un po’, dove mai hai
visto piovere senza nuvole? Fosse Zeus, dovrebbe far piovere anche a ciel sereno, mentre loro non
ci sono.

STREPSIADE Per Apollo, sei riuscito a sviluppare proprio bene il discorso con questo
ragionamento: e pensare che prima io credevo davvero che fosse Zeus a pisciare in un setaccio!
Ma dimmi: chi è che tuona, che mi dà la tremarella?

SOCRATE Sono loro che tuonano, rotolando.

STREPSIADE Ma come? Tu hai davvero il coraggio di pensarle tutte!


SOCRATE Quando si sono riempite di grosse quantità d’acqua, e sono costrette a muoversi, il peso
dell’acqua le fa pendere per forza verso il basso; allora cozzano con tutto il peso una contro
l’altra, scoppiano e fanno un gran fracasso.

STREPSIADE Ma chi è che le costringe a muoversi? Non è Zeus? SOCRATE Niente affatto, è un
vortice d’aria.

STREPSIADE Vortice? Questa m’era sfuggita: Zeus non esiste e al suo posto ormai il re è Vortice.
Ma non mi hai ancora spiegato niente sul fracasso dei tuoni.

SOCRATE Non sei stato attento! Ti ho già detto che le nuvole, quando sono piene d’acqua, si
scontrano e scoppiano perché sono troppo gonfie.

STREPSIADE E io in base a cosa mi dovrei convincere?

SOCRATE Te lo dimostrerò per analogia con te stesso: ti è mai capitato di riempirti di brodo alle
Panatenee e poi di avere mal di pancia e di sentirla all’improvviso agitata da mille brontolii?

STREPSIADE Perdio, altro che se è agitata! Mi fa subito un male cane, e la zuppettina fa un fracasso
enorme, come un tuono, un rumore formidabile, prima piano, pra pra! poi di più, parapra! e come
caco vengono fuori certi tuoni, altro che quelle! Praprapraprapra!

SOCRATE Renditi conto di che razza di scorregge tiri fuori da una pancia piccola così. A maggior
ragione l’aria, che non ha confini, tuona così con impeto.

STREPSIADE Ecco perché anche i nomi «impeto» e «peto» sono simili! Adesso però spiegami da
dove vengono i fulmini coi loro lampi di fuoco, che ti arrostiscono quando vieni colpito, o si
limitano a bruciacchiarti senza farti morire. E chiaro che è Zeus a scagliarli contro chi spergiura.

SOCRATE Che cretino! Che rimbambito! Ma dove vivi, sulla luna? Come mai, se davvero colpisce
gli spergiuri, non ha mai incenerito Simone, Cleonimo o Teoro? Che siano spergiuri non c’è
dubbio. In compenso colpisce i templi suoi e il Sunio, «punta d’Atene», e le vecchie querce. Come
mai? La quercia non spergiura certo.

STREPSIADE Non so, mi sembra tu dica bene; ma il fulmine cos’è?

SOCRATE Se si leva un vento secco fino a loro e ci rimane chiuso dentro, le gonfia come una
vescica; dopodiché le fa esplodere con forza, data la pressione, e viene fuori con grande impeto:
ecco quindi che si incendia da solo con schianti violentissimi.

STREPSIADE Perdio, anche a me è successo proprio così una volta, alle Diasie! Stavo facendo
della trippa arrosto per la mia famiglia e m’ero dimenticato di bucarla, e così quella si gonfiava
tutta; a un certo punto, all’improvviso, è scoppiata, e mi ha smerdato gli occhi e bruciacchiato la
faccia.
CORO O tu che hai desiderato avere da noi la grande sapienza, quali successi avrai ad Atene e in
tutta la Grecia! Se solo hai buona memoria e sei per indole capace di sopportazione e incline ad
avere pensieri: non dovrai stancarti di restare in piedi né di camminare, non dovrai soffrire troppo
il freddo né aver desiderio di cibo; niente vino, niente palestre, al bando tutte queste sciocchezze:
visto che sei un uomo capace, per te la massima felicità dev’essere vincere con l’azione e col
consiglio – battagliando con la lingua.

STREPSIADE Nessun problema: forza d’animo, pensiero insonne, stomaco parco, frugale, che tira
avanti con due foglie d’erba: se è solo per questo, resisterei a un maglio.

SOCRATE E non avrai altro dio all’infuori dei nostri, il Caos che si vede intorno, le Nuvole e la
Lingua, questi tre soltanto?

STREPSIADE Con gli altri non ci scambio più una parola neanche se li incontro per strada: niente
sacrifici, né libagioni, né offerte d’incenso.

CORO Dicci pure cosa possiamo fare per te; non resterai deluso, visto che ci onori, ci veneri e ti
sforzi di essere bravo.

STREPSIADE Mie Signore, avrei solo questa modestissima richiesta: parlare diecimila volte meglio
di tutti i Greci.

CORO Sarai esaudito: d’ora in poi nessuno in assemblea farà passare più proposte di te.

STREPSIADE No, no, niente proposte in assemblea: nessuna faccenda impegnativa. Non è questo
che desidero; a me basta stravolgere il diritto a mio vantaggio e così sfuggire ai creditori.

CORO Otterrai ciò che brami: non desideri poi grandi cose. Affidati pure ai nostri ministri.

STREPSIADE Vi voglio dare retta: farò così. Il fatto è che sono nei guai per colpa dei cavalli
purosangue e di un matrimonio che m’ha rovinato. Ecco il mio corpo, lo affido a loro; possono
farne quello che vogliono: batterlo, fargli soffrire fame e sete, arsura e gelo, scuoiarlo come pelle
da borse. Purché io riesca a sfuggire ai miei debiti e a dare a tutti l’idea del tipo grintoso loquace
audace ardimentoso spudorato contaballe pronto a rispondere rotto ai processi azzeccagarbugli
mitraglia volpe trivella chiacchierone ipocrita viscido sbruffone delinquente mascalzone
banderuola rompipalle e opportunista. Se riuscirò davvero a dare quest’impressione, possono fare
di me tutto quello che gli pare, per Demetra. Se proprio vogliono, anche salsicce per i pensatori!

CORO Che volontà pronta! E che coraggio! Renditi conto che, se impari questo da me, la tua gloria
fra gli uomini si estenderà fino al cielo.
STREPSIADE Cosa mi succederà?

CORO Vivrai con me per sempre, la vita più invidiabile fra tutte.

STREPSIADE Riuscirò mai a vedere tutto questo?

CORO Altro che! Davanti a casa tua ci sarà sempre una folla di gente che vorrà parlarti e consultarti,
per avere da te consiglio su cause e denunce milionarie. Una vera manna, per il tuo cervello. (a
Socrate)

E tu comincia a esporre al vecchio i preliminari del programma, scuoti la sua mente e metti alla
prova la sua intelligenza.

SOCRATE Avanti, dimmi che tipo sei; conoscendoti potrò accerchiarti con trovate sempre nuove.

STREPSIADE In nome degli dèi, che intenzioni hai? Non mi vorrai mica cingere d’assedio?

SOCRATE No, voglio solo sapere qualcosa su di te: hai buona memoria?

STREPSIADE Sì e no: se uno ha un debito con me, me ne ricordo bene; se ce l’ho io, ahimè, sono
smemoratissimo.

SOCRATE Sei portato per parlare?

STREPSIADE Parlare no, predare sì!

SOCRATE Ma allora come farai a imparare?

STREPSIADE Nessun problema, andrà benone.

SOCRATE D’accordo, allora: come ti butto là un problema di astronomia, vedi di afferrarlo al volo.

STREPSIADE E che, la cultura me la devo mangiare come un cane?

SOCRATE Che ignorante! Che barbaro! Vecchio, temo che per te ci vorrà il bastone. A proposito: se
te le danno, tu che fai?

STREPSIADE Me le prendo; poi aspetto un po’ e chiamo testimoni; poi un altro po’ e sporgo
denuncia.

SOCRATE Su, togliti il mantello.

STREPSIADE Ma che ho fatto di male?


SOCRATE Niente, da noi si usa entrare senza mantello.

STREPSIADE Guarda che non vengo mica a fare un’ispezione!

SOCRATE Poche chiacchiere; toglitelo.

STREPSIADE Dimmi almeno questo: se sarò bravo e diligente nello studio, a quale discepolo
somiglierò di più?

SOCRATE Sarai spiccicato a Cherefonte.

STREPSIADE Povero me, avrò una faccia da cadavere!

SOCRATE Poche chiacchiere; vieni qui, presto!

STREPSIADE Mettimi prima in mano una focaccina di miele: ho paura a entrare, è come l’antro di
Trofonio.

SOCRATE Insomma, ti vuoi muovere? Perché continui a cincischiare sulla porta? (entrano nel
pensatoio)
C. LA FILOSOFIA E I SUOI PERCORSI
T. 09 L’ATOPIA DI SOCRATE E LA NATURA
UMANA DELLA FILOSOFIA
(Platone, Fedro, 227 A-230 E)

Il Fedro costituisce uno dei grandi dialoghi del periodo della maturità di Platone; in quanto tale, esso
non può venire considerato, alla stregua dei cosiddetti dialoghi giovanili, come una testimonianza
significativa per la ricostruzione del pensiero di Socrate. Tuttavia, l’apertura del dialogo presenta
alcuni motivi genuinamente socratici (e del resto la stessa tematica dello scritto, l’amore, non può
considerarsi estranea alla riflessione di Socrate).
Socrate incontra per caso Fedro, il quale ha da poco assistito a una performance del grande
oratore Lisia, che ha tenuto un discorso sull’amore, sostenendo la tesi che è preferibile cedere alle
lusinghe di chi non è innamorato piuttosto che a quelle di chi è innamorato. L’incontro tra Socrate e
Fedro avviene fuori dalla città e il Fedro rappresenta l’unico dialogo ambientato in un contesto
naturale e extra-urbano. Socrate vorrebbe conoscere da Fedro il contenuto del discorso di Lisia, e
dopo qualche scambio di battute egli smaschera il suo interlocutore, il quale ha con sé il testo del
discorso, anche se vorrebbe fare mostra di capacità mnemoniche recitandolo senza l’ausilio dello
scritto (non si dimentichi che uno dei temi del dialogo è esattamente quello dell’opportunità della
scrittura).
I due uomini passeggiano lungo le sponde del fiume Ilisso alla ricerca di un posto dove potere
discutere con comodità. Questa passeggiata offre il pretesto per un rapido scambio di battute sul
significato del mito (nello specifico il racconto del rapimento di Orizia, figlia del re di Atene
Eretteo, ad opera di Borea, re dei venti), di cui Socrate respinge le interpretazioni fisico-allegoriche
tanto di moda all’epoca. Ciò che più conta è tuttavia il rifiuto da parte di Socrate di occuparsi di temi
astrusi (come l’esegesi in chiave fisico-naturalistica del mito), senza affrontare il problema
veramente importante della natura dell’uomo (espresso emblematicamente dal motto delfico che
invita a conoscere se stessi). Per Socrate la conoscenza di sé equivale alla determinazione della
propria natura (cfr. T. 10), se cioè essa sia semplice o complessa e in che misura partecipi di una
componente divina (theia moira). È chiaro, come il seguito del dialogo si incaricherà di dimostrare,
che la questione alla quale qui si allude è quella relativa alla natura dell’anima, che in effetti è
composta (di una parte razionale e di due irrazionali) e possiede una componente divina (la parte
razionale, ossia l’intelletto, che viene chiamato «pilota dell’anima»: 247 C).
La questione della centralità dell’uomo viene poi ribadita da Socrate a proposito della sua
appartenenza alla città e agli uomini e della sua scarsa fiducia nel sapere naturalistico. Si tratta di un
tema già largamente presente nell’Apologia e poi in altri documenti, platonici e no, riconducibili al
pensiero socratico. Il sapere che Socrate persegue e pratica è l’anthrôpinê sophia, una sapienza che
riguarda gli uomini e richiede un incessante confronto dialogante tra di loro. Da segnalare infine
l’accenno all’atopia di Socrate (cfr. anche T. 13), alla sua stranezza, che lo rende difficilmente
collocabile all’interno dell’orizzonte culturale dell’epoca: egli è atopos rispetto alla cultura
naturalistica del V secolo, ma in larga misura è atopos anche rispetto alle dinamiche della polis
(come dimostrano il processo e la condanna).

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Eide, T., On Socrates’ atopia, «Symbolae Osloenses» 71 (1996), pp. 59-67.

Ferrari, G.R.F., Listening to the Cycadas. A Study of Plato’s ‘Phaedrus’ , Cambridge University
Press, Cambridge 1987, pp. 1-36.
da Fedro, 227A-230 E*
SOCRATE Caro Fedro, dove te ne vai? E da dove vieni?

FEDRO Vengo da Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo; e vado a fare una passeggiata fuori le mura,
perché ho trascorso molto tempo lì seduto, fin dall’alba. Passeggio per strada secondo i consigli
del nostro comune amico Acumeno: dice che rinvigorisce più delle camminate su e giù sotto i
portici.

SOCRATE E dice bene, amico mio. Dunque, a quanto pare, Lisia era in città?

FEDRO Sì, da Epicrate, nella casa di Morico, quella lì, vicino al tempio di Zeus Olimpio.

SOCRATE E allora, di che cosa avete parlato? È chiaro che Lisia vi ha dato in pasto dei discorsi.

FEDRO Lo saprai se hai tempo per venire con me e ascoltarmi.

SOCRATE Perché, non credi che per me sentire su che cosa avete conversato tu e Lisia sia
«preferibile a ogni occupazione», come dice Pindaro?

FEDRO Allora andiamo!

SOCRATE E tu parla!

FEDRO Ti conviene sicuramente ascoltare, Socrate, perché il discorso sul quale ci siamo intrattenuti
era, a suo modo, un discorso sull’amore. Lisia infatti ha scritto di un bel ragazzo corteggiato da
uno che però non è innamorato; proprio in questo è stato brillante; nel sostenere che bisogna
concedersi a chi non ama invece che a chi ama.

SOCRATE Nobile uomo! Avesse scritto che bisogna concedersi al povero invece che al ricco, al
vecchio invece che al giovane e a quant’altro tocca a me e alla maggior parte degli uomini! Questi
sì che sarebbero discorsi urbani e utili alla gente! Quanto a me, è così forte il desiderio di
ascoltare, che se tu prolungassi la tua passeggiata fino a Megara e, giunto alle mura della città, te
ne ritornassi, come prescrive Erodico, non rimarrei indietro.

FEDRO Che dici, ottimo Socrate? Credi che io, inesperto come sono, sarei in grado di ripetere a
memoria, e in modo degno di lui, ciò che Lisia, il più bravo scrittore d’oggi, ha composto in tanto
tempo e con tanto agio? Non ne sono assolutamente capace. Eppure vorrei esserlo più di quanto
vorrei possedere molto oro.

SOCRATE Ah Fedro! Se non conosco Fedro mi sono dimenticato anche di me stesso. Ma non è vera
nessuna di queste due cose. So bene che lui, sentendo un discorso di Lisia, non l’ha mica ascoltato
una volta sola, ma ha ripetutamente preteso che glielo rileggesse, e Lisia, da parte sua, ha
acconsentito volentieri. Ma nemmeno così era soddisfatto e alla fine, ottenuto il libro, ha
riesaminato le parti che lo appassionavano di più, finché, stanco di starsene seduto a fare questo
fin dal mattino, non se n’è andato a passeggiare, ma solo – io credo, per il cane! – dopo aver
imparato a memoria il discorso, se non era troppo lungo. Se n’è andato fuori le mura per
esercitarsi. Poi ha incontrato uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, ha esultato appena lo ha
visto, perché avrebbe avuto con chi condividere la sua eccitazione coribantica, e gli ha imposto di
seguirlo. Quando poi l’amante dei discorsi gli ha chiesto di parlare, si è fatto pregare come se non
ne avesse voglia. Ma alla fine, se uno non fosse stato disposto a sentirlo, si sarebbe messo a
parlare per forza! Allora, Fedro, pregalo tu di fare subito quello che in ogni caso farà presto.

FEDRO Sicuramente è molto meglio che te lo riferisca come mi riesce, perché ho l’impressione che
non mi lascerai andare finché, in un modo o nell’altro, non avrò parlato.

SOCRATE L’impressione è esatta.

FEDRO E allora farò così. In verità, Socrate, non ho imparato tutto a memoria parola per parola;
esporrò ordinatamente, ma per sommi capi, il senso generale di quasi tutto ciò che distingue,
secondo Lisia, il comportamento di chi ama da quello di chi non ama, a cominciare dal primo
punto.

SOCRATE Ma prima, carissimo, fammi vedere che cosa hai nella mano sinistra, sotto il mantello.
Secondo me hai proprio il discorso. Se è così sappi che, per quanto mi riguarda, dal momento che
qui c’è Lisia in persona, con tutto il bene che ti voglio, non mi sembra affatto il caso di prestarmi
ai tuoi esercizi. Su, fa’ vedere!

FEDRO Sta’ fermo. Mi hai fatto crollare la speranza di allenarmi con te, Socrate. Piuttosto, dove
vuoi che ci sediamo a leggere?

SOCRATE Giriamo di qua e incamminiamoci lungo l’Ilisso. Poi ci fermeremo in pace dove ci
piacerà di più.

FEDRO Capita a proposito, a quanto pare, di trovarmi scalzo. Tu invece lo sei sempre. Così sarà
facilissimo camminare bagnandoci i piedi in questo po’ d’acqua, e non spiacevole, soprattutto
tenendo conto della stagione e dell’ora del giorno.

SOCRATE Allora procedi, e cerca anche un posto dove fermarci.

FEDRO Lo vedi quel platano altissimo?

SOCRATE Perché no?

FEDRO Lì c’è ombra, un leggero venticello ed erba per sederci o per sdraiarci, se ne abbiamo
voglia.
SOCRATE Su, va’ avanti!

FEDRO Dimmi, Socrate, non è proprio da qui, dall’Ilisso, che Borea, come si racconta, rapì Orizia?

SOCRATE Così si dice.

FEDRO Da qui dunque? Certo le acque appaiono piacevoli, pure e trasparenti, e le rive adatte al
gioco delle fanciulle.

SOCRATE Non qui, ma circa due o tre stadi più giù, dove attraversiamo il fiume per andare al
santuario di Agra; lì ci deve essere anche un altare di Borea.

FEDRO Non me ne sono mai accorto. Ma dimmi Socrate, per Zeus, tu pensi che questo racconto sia
vero?

SOCRATE Ma se non ci credessi, come i sapienti, non sarei certo un tipo strano. Poi, atteggiandomi
anch’io a sapiente, potrei dire che a spingerla giù dalle rupi che sono lì vicino, mentre giocava con
Farmacia, fu un soffio del vento borea e che, dopo la sua morte, avvenuta in questo modo, si disse
che era stata rapita dal dio Borea – o dall’Areopago, perché si tramanda anche questa versione,
che il rapimento avvenne là e non qui. Per conto mio, Fedro, la penso diversamente. Questi
esercizi sono sì, divertenti, ma adatti a chi è assai bravo e gran lavoratore, e anche non molto
fortunato, se non altro perché non può esimersi dal dare, oltre a questa, l’interpretazione corretta
della specie degli Ippocentauri, e poi di quella della Chimera, e poi gli si rovescia addosso una
folla di simili Gorgoni e Pegasi e immani quantità di altri prodigi e nature strane e mostruose di
questo tipo. E se uno non crede a queste cose e vuole ricondurle tutte a qualcosa di verosimile,
ricorrendo a questa forma grossolana di sapienza, dovrà profondervi notevole impegno. Io invece
non ho tempo per questi esercizi e il motivo, mio caro, è che non sono ancora in grado di
conoscere me stesso, come dice l’iscrizione delfica, e mi sembra veramente ridicolo che, non
conoscendo me stesso, mi metta a indagare su cose che mi sono estranee. Perciò vadano a quel
paese, mentre io mi attengo a quanto comunemente si crede al riguardo e, come ho detto, non faccio
ricerche su questi esseri, ma su me stesso, per sapere se per caso non sia io una belva che ha più
volute o spira più fumo di Tifone o invece un essere vivente più mansueto e più semplice, che
condivide in qualche modo una natura divina e priva di fumi d’orgoglio. Ma, a proposito, amico
mio, non era questo l’albero verso il quale stavamo andando?

FEDRO Proprio questo.

SOCRATE Per Era, che bel posto! Il platano è alto e ha la chioma molto ampia, alto e ombroso anche
il bellissimo agnocasto: è al culmine della fioritura e rende profumato tutto il luogo. La sorgente è
molto gradevole e scorre sotto il platano con acqua freschissima, come si può sentire con il piede.
Dalle figurine votive e dalle statue sembra un luogo sacro alle Ninfe e ad Acheloo. E poi, com’è
piacevole e dolce la brezza di questo posto: una melodia estiva che fa da eco al coro delle cicale.
Più elegante di tutto è l’erba, in dolce pendio, che si presta ad accogliere morbidamente il capo di
chi vi si stenda. Sei stato una guida eccellente, caro Fedro.
FEDRO Sei davvero, incredibile amico, un tipo assai strano. Sembri proprio uno straniero che si fa
portare in giro, e non uno del posto. Non lasci mai la città per andare non solo all’estero, ma, a
quanto pare, nemmeno fuori le mura.

SOCRATE Perdonami, mio ottimo amico. Amo imparare, ma i campi e gli alberi non vogliono
insegnarmi niente, al contrario degli uomini che vivono in città. Mi pare che tu invece abbia
trovato il farmaco per farmi uscire. Come quelli che guidano le bestie affamate scuotendo innanzi a
loro un ramoscello o un frutto, così tu, srotolandomi davanti agli occhi discorsi scritti sui libri, ho
l’impressione che mi porterai in giro per tutta l’Attica e dovunque vorrai. Ma per il momento, ora
che sono arrivato qua, credo che mi metterò sdraiato. Tu scegliti la posizione più comoda per
leggere e leggi.

FEDRO Allora ascolta.


T. 10 L’ANIMA E LA CONOSCENZA DI SÉ
(Platone, Alcibiade I, 128 A-134 E)

L’autenticità dell’Alcibiade I, sebbene non messa in discussione nell’antichità, appare oggi tutt’altro
che certa (chi scrive propende piuttosto per l’atetesi). Anche se non fosse platonico, il dialogo
contiene comunque numerosi spunti riconducibili alla riflessione socratica e merita dunque di venire
inserito in questa raccolta. In verità, come gli studiosi non hanno mancato di osservare, buona parte
delle difficoltà esegetiche di questo dialogo dipendono dalla compresenza in esso di motivi
certamente socratici e di elementi che si sarebbe orientati a considerare piuttosto genuinamente
platonici.
Il tema generale del dialogo è rappresentato dal tentativo di Socrate di convincere Alcibiade
(uomo di straordinario successo) ad abbandonare la politica per dedicarsi alla filosofia. La sezione
qui riportata è senza dubbio la più celebre ed è destinata a conoscere un successo straordinario tra i
platonici antichi, in particolare tra i neoplatonici (sappiamo che il dialogo fu commentato da Proclo,
Damascio e Olimpiodoro). L’argomentazione di Socrate in questa sezione ruota intorno all’esegesi
del significato del motto delfico conosci te stesso (gnôthi seauton). Che cosa ha voluto dire il dio
con questa ingiunzione? Che cosa è e che cosa comporta la conoscenza di sé?
Per rispondere a questi interrogativi Socrate ripropone la distinzione tra anima e corpo; solo la
prima rappresenta il vero sé dell’individuo, mentre il corpo appartiene all’uomo (ossia alla sua
anima) che se ne serve come di uno strumento (organon), ma non si identifica con esso. Dunque, se
l’uomo è essenzialmente la sua anima (hê psychê estin anthrôpos) e nient’altro che essa, conoscere
se stessi significa sostanzialmente conoscere la propria anima e prendersi cura di essa. «Cura-
consapevolezza di sé; destinazione pratica; contestualizzazione relazionale, cioè dialogica: sono,
queste, acquisizioni base dell’Alcibiade I, forse già del Socrate storico, che Platone accoglie
definitivamente come proprie» (Napolitano Valditara, p. 171). Se, dunque, la filosofia è epimeleia
tês psychês, ossia cura dell’anima, e se tale cura presuppone la conoscenza di ciò di cui ci si deve
prendere cura, come si realizza concretamente questo processo di autoconoscenza? La risposta
socratica è celebre quanto di enigmatica interpretazione. Egli si serve del modello della visione allo
specchio per sostenere che l’anima può conoscere se stessa solo guardandosi allo specchio, ossia
rivolgendo lo sguardo verso un’altra anima. Come l’occhio si vede rispecchiato in un altro occhio,
così l’anima può conoscere se stessa solo guardando un’altra anima, e per la precisione la parte
divina e intelligente di quell’anima, dal momento che la parte superiore dell’anima è dio e
intelligenza (theos kai phronêsis).
Si tratta di una tesi profonda e misteriosa che ha dato adito a interpretazioni molto diverse. Per
alcuni Socrate allude qui direttamente alla divinità (theos), e sostiene che la conoscenza dell’anima
risulta direttamente collegata a dio. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’idea di un dio situato all’interno
dell’uomo e in grado di illuminarlo suona molto più neoplatonica che genuinamente socratico-
platonica. Più plausibile (e forse filosoficamente anche più attraente) mi sembra l’interpretazione
dialettico-antropocentrica, secondo la quale «l’analogia dell’occhio e dello specchio ha come
conseguenza l’impossibilità della conoscenza di un sé solitario, quindi la necessità del dialogo con
gli altri; l’introspezione diretta, la coscienza immediata di se stesso, vi sarebbe dichiarata
impossibile [...]. La conoscenza di sé non è immediata, ma opera per via indiretta tramite un oggetto
che svolge il ruolo dello specchio, e questo oggetto, questo altro, è un’anima simile alla nostra. La
conoscenza di sé dipenderebbe, dunque, dalla conoscenza di un altro e quest’ultima conduce alla
contemplazione del divino in noi (e del dio)» (Renaud, p. 232). L’uomo conosce se stesso solo
conoscendo un altro uomo, o meglio rivolgendo lo sguardo verso ciò che c’è di divino e intelligente
nell’altro uomo, ossia verso la parte razionale e intellettiva della sua anima. Ma se le cose stanno
effettivamente così, bisogna concludere che l’altro che il sé conosce non è un individuo particolare,
ma appunto ciò che accomuna tutti gli uomini, vale a dire la ragione e l’intelligenza.
Un’interpretazione di questo tipo ha anche il merito di recuperare il valore universale della
dialettica intesa come dialogo tra individui razionali. Infine, essa colloca nella giusta prospettiva la
stretegia complessiva di Socrate, il quale invita Alcibiade a ricercare se stesso nell’anima razionale
e divina del suo interlocutore, cioè Socrate medesimo.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Napolitano Valditara, L.M., Il sapere dell’anima. Platone e il problema della consapevolezza di sé,
in M. Migliori - L.M. Napolitano Valditara - A. Fermani (a cura), Interiorità e anima. La psychè
in Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp.165-200.

Ranasinghe, N., The Soul of Socrates, Cornell University Press, Ithaca 2000.

Reale, G., Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000, pp. 222-26.

Renaud, F., La conoscenza di sé nell’‘Alcibiade I’ e nel commento di Olimpiodoro, in M. Migliori -


L.M. Napolitano Valditara - A. Fermani (a cura), Interiorità e anima. La psychè in Platone, Vita e
Pensiero, Milano 2007, pp. 224-44.

Tsouna, V., Socrate et la connaissance de soi: quelques interpretations , «Ancient Philosophy» 21


(2001), pp. 37-64.
da Alcibiade primo, 128 A-134 E*
SOCRATE Allora che cosa vuol dire «prendersi cura di se stessi»? Perché c’è rischio che a volte,
senza accorgercene, non ci prendiamo cura di noi stessi, pur credendo di farlo. E quand’è che
l’uomo lo fa? Quando si preoccupa delle proprie cose, è allora che si prende cura di se stesso?

ALCIBIADE Mi sembra di sì.

SOCRATE Come? Quand’è che un uomo si prende cura dei suoi piedi? Quando si cura anche di tutto
quello che attiene ai piedi?

ALCIBIADE Non capisco.

SOCRATE C’è qualcosa che tu definisci come appartenente alla mano? Per esempio, un anello: si
può dire che riguardi qualche altra parte del corpo umano che non sia il dito?

ALCIBIADE Proprio no.

SOCRATE Allora, allo stesso modo, anche la calzatura appartiene al piede, o no?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE [E analogamente anche le vesti e le coperte appartengono al resto del corpo?

ALCIBIADE Sì.]

SOCRATE Allora, è quando ci preoccupiamo delle calzature che ci prendiamo cura dei piedi?

ALCIBIADE Non ci capisco niente, Socrate.

SOCRATE Ma come, Alcibiade? Tu definisci in qualche modo il «prendersi giusta cura» di una
qualsiasi cosa?

ALCIBIADE Io sì.

SOCRATE Allora, quando si migliora qualcosa, quello tu lo chiami «prendersene la giusta cura»?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Allora, con quale arte si migliorano le calzature?

ALCIBIADE Con l’arte del calzolaio.


SOCRATE È con l’arte del calzolaio che ci prendiamo cura delle calzature?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE E con quest’arte ci prendiamo cura anche del piede? O con quella grazie alla quale
miglioriamo i nostri piedi?

ALCIBIADE Con questa, certo.

SOCRATE Ma per rendere migliori i piedi non ricorriamo a quell’arte con la quale miglioriamo
anche il resto del corpo?

ALCIBIADE Penso di sì.

SOCRATE E non è la ginnastica?

ALCIBIADE Senz’altro.

SOCRATE Allora: con la ginnastica ci prendiamo cura del piede, e con l’arte del calzolaio di ciò
che attiene al piede?

ALCIBIADE Certo.

SOCRATE E con la ginnastica ci prendiamo cura delle mani, mentre con l’arte dell’oreficeria ci
prendiamo cura dei gioielli che si portano alle mani?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE E con la ginnastica ci prendiamo cura del corpo, mentre con l’arte della tessitura e con le
altre arti del genere ci prendiamo cura degli abiti che riguardano il corpo?

ALCIBIADE Precisamente.

SOCRATE Quindi: una è l’arte con la quale ci prendiamo cura di ogni singola cosa, un’altra è quella
con la quale ci curiamo di quanto attiene a quella cosa.

ALCIBIADE Chiaramente.

SOCRATE Non è detto allora che quando ti curi delle cose che ti appartengono ti prenda cura di te
stesso.

ALCIBIADE Affatto.

SOCRATE Perché, a quanto pare, l’arte con cui ci si prende cura di se stessi e quella con cui ci si
cura delle proprie cose non coincidono.
ALCIBIADE È chiaro che no.

SOCRATE Forza, allora! Con quale arte potremo prenderci cura di noi stessi?

ALCIBIADE Non te lo so dire.

SOCRATE Non certo, però, con quella con la quale potremmo migliorare qualsiasi cosa che ci
riguardi, ma con quella con la quale potremmo migliorare noi stessi: su questo punto, almeno,
siamo d’accordo?

ALCIBIADE È vero quello che dici.

SOCRATE Ora: senza conoscere le calzature, avremmo mai potuto conoscere qual è l’arte che le
rende migliori?

ALCIBIADE Sarebbe stato impossibile.

SOCRATE E se fossimo stati all’oscuro in materia di anelli, non avremmo potuto sapere qual è l’arte
che rende migliori gli anelli.

ALCIBIADE Vero anche questo.

SOCRATE E allora? Senza sapere chi siamo noi stessi, potremmo forse conoscere l’arte che ci rende
migliori?

ALCIBIADE Impossibile.

SOCRATE Ed è facile conoscere se stessi, e quindi era uno stupido chi ha inciso questo motto sul
tempio di Delfi, oppure è difficile e non è da tutti?

ALCIBIADE Molte volte, Socrate, mi è sembrata cosa da tutti, molte altre volte qualcosa di
tremendamente difficile.

SOCRATE Alcibiade, facile o difficile che sia, per noi la questione è in questi termini: se
conosciamo noi stessi, potremmo anche conoscere la cura di noi stessi; ma se non ci conosciamo,
non conosceremo neppure quella.

ALCIBIADE È così.

SOCRATE Su, allora: come si potrebbe arrivare a scoprire questo se stesso? Perché così potremmo
anche trovare cosa siamo noi; invece se ancora siamo ignoranti su quello, ci sarebbe impossibile
anche questa seconda scoperta.

ALCIBIADE Hai ragione.

SOCRATE Fermati un attimo, per Zeus! Con chi stai parlando? Non forse con me?
ALCIBIADE Sì.

SOCRATE E io non sto parlando con te?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE E allora, è Socrate che parla?

ALCIBIADE Senz’altro.

SOCRATE E Alcibiade che ascolta?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE E Socrate non parla usando delle parole? ALCIBIADE E come no!

SOCRATE Ma tu stai sostenendo che parlare e usare delle parole sono la stessa cosa.

ALCIBIADE Senz’altro.

SOCRATE Ma non è che chi si serve di qualcosa è diverso da ciò di cui si serve?

ALCIBIADE Come vuoi dire?

SOCRATE Ad esempio, il calzolaio taglia con la lesina, il trincetto e altri arnesi.

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Quindi un conto è la persona che taglia e che si serve degli strumenti, un altro conto sono
gli strumenti che utilizza per tagliare?

ALCIBIADE E come no?

SOCRATE Analogamente, saranno due realtà ben distinte anche gli strumenti di cui si serve un
suonatore di cetra e il suonatore come persona?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Era questo che ti stavo chiedendo poco fa, se secondo te c’è sempre differenza tra colui
che si serve di qualcosa e lo strumento di cui si serve.

ALCIBIADE Mi sembra di sì.

SOCRATE Che dire, allora, del calzolaio? Taglia solo con gli arnesi o anche con le mani?

ALCIBIADE Anche con le mani.


SOCRATE Allora è anche delle mani che si serve.

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE E per tagliare il cuoio non usa anche gli occhi?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Siamo d’accordo che chi usa è diverso da ciò che usa?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Allora il calzolaio e il suonatore di cetra sono altra cosa rispetto alle mani e agli occhi
grazie ai quali quelli svolgono la loro attività?

ALCIBIADE Evidentemente.

SOCRATE E l’uomo non si serve di tutto il corpo?

ALCIBIADE Senz’altro.

SOCRATE Avevamo detto che altro è chi si serve, altro ciò di cui si serve?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Quindi un conto è l’uomo, un conto è il suo corpo? ALCIBIADE Naturalmente.

SOCRATE Che cosa mai è l’uomo?

ALCIBIADE Non te lo so dire.

SOCRATE Sai però che è colui che si serve del proprio corpo.

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Esiste qualcos’altro che si serve del corpo, se non l’anima?

ALCIBIADE Nient’altro.

SOCRATE E non se ne serve comandandolo?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Su questo punto ritengo che nessuno possa pensarla in modo diverso.

ALCIBIADE Su quale?
SOCRATE Che l’uomo sia almeno una di queste tre cose. ALCIBIADE Quali cose?

SOCRATE Anima, corpo, o entrambe le cose insieme, in una inscindibile unità.

ALCIBIADE Esattamente.

SOCRATE Ma non abbiamo già concordemente ammesso che l’uomo è quell’entità che comanda il
corpo?

ALCIBIADE Sì che l’abbiamo ammesso.

SOCRATE Forse il corpo può comandare se stesso?

ALCIBIADE Assolutamente no.

SOCRATE Abbiamo detto che è lui ad essere comandato.

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Non può essere proprio questo quello che cerchiamo. ALCIBIADE No, è chiaro.

SOCRATE Ma forse è quella inscindibile unità a governare il corpo, ed è proprio in questo che
consiste l’uomo?

ALCIBIADE Può darsi.

SOCRATE Ma questa è la cosa in assoluto più improbabile! Se una delle due parti non partecipa al
governo del corpo, non ha assolutamente modo di governare su quella unità.

ALCIBIADE Giusto.

SOCRATE Dal momento che l’uomo non si identifica né con il corpo né con quella unità di anima e
corpo, penso che restino due possibilità: o l’uomo non è nulla, oppure, se è qualcosa, non è altro
che l’anima.

ALCIBIADE Esattamente.

SOCRATE Hai bisogno che ti si dimostri ulteriormente, e in modo più chiaro, che l’anima è l’uomo?

ALCIBIADE Per Zeus, mi pare che sia stato dimostrato abbastanza!

SOCRATE Se lo abbiamo comprovato in modo sufficiente, anche se non proprio rigoroso, possiamo
ritenerci momentaneamente soddisfatti; arriveremo ad una conoscenza precisa, quando la nostra
ricerca approderà a ciò che per il momento abbiamo tralasciato, visto che comportava un’indagine
molto complessa.
ALCIBIADE Di che si tratta?

SOCRATE Di quello che si diceva poco fa: che la prima ricerca da fare è quella del se stesso. Per
ora, al posto di questo se stesso abbiamo esaminato cos’è in sé ogni singolo individuo. E può darsi
che basterà: non potremmo mai dire che dentro di noi ci sia qualcosa di più determinante
dell’anima.

ALCIBIADE Certo che no.

SOCRATE Va benissimo pensare, allora, che quando io e te discutiamo insieme, servendoci della
parola, sono le nostre anime che si confrontano?

ALCIBIADE Perfettamente.

SOCRATE Ed è proprio quello che si diceva poco fa: Socrate parla con Alcibiade e si serve di un
insieme di parole, ma questo discorso è rivolto non al tuo viso, come può sembrare a prima vista,
ma proprio ad Alcibiade: questo è l’anima.

ALCIBIADE Anch’io la vedo così.

SOCRATE Colui che ci prescrive il «conosci te stesso» ci ordina di conoscere la nostra anima.

ALCIBIADE Pare proprio così.

SOCRATE Allora chi conosce una delle parti del corpo, conosce le cose che gli appartengono, ma
non conosce se stesso.

ALCIBIADE È così.

SOCRATE Allora nessun medico conosce se stesso in quanto medico, e neppure nessun maestro di
ginnastica in quanto tale.

ALCIBIADE Pare di no.

SOCRATE Anche i contadini e le altre persone che praticano attività manuali sono ben lontani dal
conoscere se stessi. Non conoscono, a quanto pare, nemmeno le realtà che li riguardano, ma, a
seconda dei mestieri che praticano, conoscono cose ancor più lontane da sé di quanto non siano le
proprie: conoscono le realtà relative al corpo, dalle quali il corpo riceve cura.

ALCIBIADE Questo che dici è vero.

SOCRATE Se la saggezza consiste nella conoscenza di se stessi, nessuno di questi uomini è saggio,
per quanto dipende dalla sua arte.

ALCIBIADE Ho l’impressione di no.


SOCRATE Per questo motivo tali arti hanno fama di essere volgari, e sono cognizioni che non si
addicono ad un uomo nobile.

ALCIBIADE Senz’altro.

SOCRATE Di nuovo, allora, chi ha cura del proprio corpo ha cura delle cose che riguardano se
stesso, ma non di se stesso?

ALCIBIADE Probabilmente.

SOCRATE Allora chi si cura dei soldi non si cura né di se stesso, né di ciò che riguarda se stesso,
ma di qualcosa che è ancor più lontano da ciò che lo riguarda?

ALCIBIADE Lo penso anch’io.

SOCRATE Allora chi ama il denaro non fa i propri interessi! ALCIBIADE Hai ragione!

SOCRATE Allora, se uno è innamorato del corpo di Alcibiade, non è che ami Alcibiade, ma
qualcosa che ad Alcibiade appartiene.

ALCIBIADE Vero.

SOCRATE Ti ama, invece, chi è innamorato della tua anima?

ALCIBIADE Per forza, è evidente da quanto si è detto.

SOCRATE Non è vero che chi ama il tuo corpo, quando il suo fiorire svanisce se ne va via?

ALCIBIADE Chiaramente.

SOCRATE Chi non se ne andrà è chi ama la tua anima, finché essa procede per la via migliore?

ALCIBIADE Naturalmente.

SOCRATE Ecco: quello che non se ne va, ma rimane anche quando il tuo corpo sfiorisce, dopo che
tutti gli altri se ne sono andati, sono io.

ALCIBIADE Fai bene, Socrate. Non te ne andare!

SOCRATE Allora, cerca di essere bello il più possibile! ALCIBIADE Sì, cercherò.

SOCRATE La tua situazione, allora, è questa: a quanto pare, non c’è stato e non c’è un amante di
Alcibiade figlio di Clinia se non uno solo, che merita di essere amato, cioè Socrate, figlio di
Sofronisco e Fenarete.

ALCIBIADE È vero.
SOCRATE Ma non mi hai detto che venendo da te ti precedevo di poco, perché volevi essere tu ad
avvicinarmi per primo, nel desiderio di conoscere il motivo per cui io sono l’unico a non
andarmene?

ALCIBIADE Sì, era così.

SOCRATE Il motivo è questo, che io ero l’unico veramente innamorato di te, mentre gli altri erano
innamorati di quanto ti appartiene; ma le cose che ti appartengono passano di stagione, mentre tu
proprio ora cominci a fiorire. E adesso, se non ti fai rovinare dal popolo di Atene e se non
peggiorerai, io non ti lascerò. La cosa che più mi spaventa è che tu diventi amante del popolo e
che ti faccia rovinare. Già molti Ateniesi, uomini di valore, hanno subìto questa sorte. «Il popolo
del magnanimo Eretteo» ha un bell’aspetto, infatti; però va visto quando è senza maschera. Usa
dunque le precauzioni che io ti raccomando.

ALCIBIADE Quali?

SOCRATE Per prima cosa, caro mio, allenati a fare tuo quel patrimonio che si deve acquisire per
fare l’ingresso nella vita politica – non entrarvi prima di aver fatto ciò: devi possedere almeno un
antidoto per potervi entrare, per evitare di soffrire poi terribilmente.

ALCIBIADE Ho l’impressione che tu mi stia consigliando bene, Socrate. Ma vedi di spiegarmi


com’è che, secondo te, possiamo prenderci cura di noi stessi.

SOCRATE Già un passo avanti l’abbiamo fatto: ci siamo trovati perfettamente d’accordo su quello
che siamo; invece avevamo paura di ingannarci su questo punto e di prenderci cura,
involontariamente, non di noi stessi, ma di qualcos’altro.

ALCIBIADE È proprio così.

SOCRATE E come secondo punto, abbiamo convenuto sul fatto che è dell’anima che bisogna
prendersi cura, e a questo si deve puntare lo sguardo.

ALCIBIADE Chiaro.

SOCRATE E che la preoccupazione per il corpo e per i soldi va lasciata ad altri.

ALCIBIADE Senza dubbio.

SOCRATE Com’è che potremo giungere ad una conoscenza davvero chiara della nostra anima?
Perché, a quanto pare, se conosceremo questo, conosceremo anche noi stessi. Ma per gli dèi, la
capiamo o no quella giusta esortazione che ci rivolge l’iscrizione di Delfi, quella che abbiamo
ricordato poco fa?

ALCIBIADE Cosa intendi con queste parole, Socrate?


SOCRATE Sospetto cosa significhi e che cosa ci voglia effettivamente consigliare quella iscrizione,
e te lo dirò. Probabilmente non si può trovare da nessuna parte un modello di ciò, tranne che,
unicamente, nella vita.

ALCIBIADE Cosa vuoi dire, Socrate?

SOCRATE Pensaci bene anche tu. Se quell’iscrizione consigliasse il nostro occhio come se fosse
l’uomo, dicendogli «guarda te stesso», a cosa dovremmo pensare che ci esorti, e in che senso
dovremmo intendere tale invito? Non forse a guardare verso la cosa guardando alla quale l’occhio
può vedere se stesso?

ALCIBIADE È chiaro.

SOCRATE Ecco: qual è la cosa guardando alla quale possiamo vedere contemporaneamente essa e
noi stessi?

ALCIBIADE Chiaramente, Socrate, dovremmo guardare agli specchi e ad altri oggetti del genere.

SOCRATE Hai ragione. Ma anche nell’occhio con cui guardiamo non c’è qualcosa di analogo?

ALCIBIADE Senz’altro.

SOCRATE Hai osservato certamente che l’immagine di una persona che guarda un’altra negli occhi
si riflette nello sguardo di chi le sta davanti, proprio come in uno specchio; e questo si chiama
pupilla, in quanto è come l’immagine di chi la guarda, vero?

ALCIBIADE Sì, vero.

SOCRATE Perciò un occhio che guarda un altro occhio e si fissa in quella parte che è la migliore e
che gli permette di vedere, può vedere anche se stesso.

ALCIBIADE È evidente.

SOCRATE Ma se l’occhio si volge a guardare un’altra parte del corpo, o un altro oggetto, non
riuscirà a vedere se stesso, a meno che non guardi a qualcosa che, casualmente, possa
assomigliargli.

ALCIBIADE È vero.

SOCRATE Allora, se un occhio vuole vedere se stesso, deve guardare ad un altro occhio, e
precisamente a quella parte di esso in cui risiede la funzione primaria dell’occhio: e questa non è
la vista?

ALCIBIADE Certo.

SOCRATE Ora, mio caro Alcibiade, anche l’anima, se vuole arrivare a conoscere se stessa, deve
guardare fisso in un’altra anima, e in particolare a quella parte di essa nella quale dimora la virtù
dell’anima, cioè la saggezza, oppure deve guardare a qualcos’altro al quale questa parte
dell’anima possa per caso assomigliare, no?

ALCIBIADE Mi pare di sì, Socrate.

SOCRATE Possiamo dire che c’è una parte dell’anima più divina di quella nella quale dimorano le
funzioni della conoscenza e del pensiero?

ALCIBIADE Impossibile.

SOCRATE Questa parte dell’anima ha somiglianza col divino; chi fissa lo sguardo su di essa ha
piena conoscenza del divino, intelletto e pensiero, e così potrà avere anche completa conoscenza
di se stesso.

ALCIBIADE È evidente.

SOCRATE [Ma come lo specchio è senz’altro più chiaro, più puro e più luminoso dello specchio
dell’occhio, anche il dio non è mica, per caso, più puro e più luminoso della parte pur migliore
della nostra anima?

ALCIBIADE Mi pare di sì, Socrate.

SOCRATE Allora, con lo sguardo fisso in dio, avremo in lui lo specchio più bello in cui si riflettono
le cose umane che mirano alla virtù dell’anima, e così nel modo migliore potremo vedere e
conoscere anche noi stessi.

ALCIBIADE Sì.]

SOCRATE Abbiamo convenuto sul fatto che conoscere se stessi è saggezza?

ALCIBIADE Certamente.

SOCRATE Allora senza conoscere noi stessi e quindi senza possedere la saggezza potremmo mai
conoscere le cose che ci appartengono, buone e cattive?

ALCIBIADE Come sarebbe possibile, Socrate?

SOCRATE Perché forse ti pare impossibile che, senza conoscere Alcibiade, si possano conoscere le
cose di Alcibiade come effettivamente appartenenti ad Alcibiade.

ALCIBIADE È impossibile sì, per Zeus!

SOCRATE Allora non potremmo riconoscere le cose nostre come appartenenti a noi, se non
conosciamo noi stessi?
ALCIBIADE E come?

SOCRATE E se non conosciamo le cose nostre, non conosciamo neanche quelle che ad esse
appartengono?

ALCIBIADE Evidentemente no.

SOCRATE Allora eravamo proprio fuori strada quando poco fa abbiamo ammesso, ed eravamo
d’accordo, che esistono persone che, pur senza conoscere se stesse, conoscono però le loro cose, e
altre che conoscono ciò che appartiene alle loro cose. Pare infatti che sia unica e sola l’arte che è
in grado di discernere queste tre realtà: se stessi, le proprie cose e le cose che a queste ultime
appartengono.

ALCIBIADE Sì, probabilmente.

SOCRATE E proprio su questa base, chi non conosce le cose proprie, non può conoscere nemmeno
quelle altrui.

ALCIBIADE E certo!

SOCRATE Ma se è ignorante sulle cose altrui, lo sarà anche su quelle che riguardano lo Stato.

ALCIBIADE Per forza.

SOCRATE Uno così non potrebbe diventare un uomo politico. ALCIBIADE Proprio no.

SOCRATE Nemmeno potrebbe amministrare una casa. ALCIBIADE Niente affatto.

SOCRATE Anzi, non si renderà neppure conto delle proprie azioni!

ALCIBIADE No di certo!

SOCRATE E uno che non sa, non commetterà degli errori?

ALCIBIADE Senz’altro.

SOCRATE E questi errori non gli rovineranno la vita, sia pubblica che privata?

ALCIBIADE Come no!

SOCRATE E uno che vive male non è un infelice?

ALCIBIADE Non c’è dubbio.

SOCRATE E quelli verso i quali agisce?


ALCIBIADE Anche loro lo sono.

SOCRATE Allora non esiste felicità per chi non è saggio e buono.

ALCIBIADE No, è impossibile.

SOCRATE I cattivi sono anche infelici, allora.

ALCIBIADE Indubbiamente.

SOCRATE Allora non è chi acquista ricchezza che si libera dall’infelicità, ma chi acquista saggezza.

ALCIBIADE Evidentemente.

SOCRATE Non è di mura, né di triremi né di arsenali che hanno bisogno gli Stati se vogliono
raggiungere la felicità, Alcibiade, e nemmeno di folle e di grandezza, se non hanno la virtù.

ALCIBIADE Proprio no.

SOCRATE Allora se hai intenzione di occuparti della vita politica in modo corretto e onesto, devi
mettere in comune con i cittadini questa tua virtù.

ALCIBIADE Come potrei non farlo?

SOCRATE Ma si potrebbe mai mettere in comune quello che non si possiede?

ALCIBIADE E come?

SOCRATE Per prima cosa devi essere tu, per te, a conquistarti la virtù, tu e chiunque altro ha
intenzione di governare e di curarsi non solo di se stesso, della sua vita privata e di quanto lo
riguarda, ma dello Stato e degli affari pubblici.

ALCIBIADE È vero.

SOCRATE Allora, non si tratta di dover procurare alla tua persona e allo Stato una libertà totale o il
potere di comportarti come ti pare e piace: devi procurare giustizia e saggezza.

ALCIBIADE È chiaro.

SOCRATE Comportandovi secondo giustizia e saggezza, sia tu che lo Stato agirete in modo gradito al
dio.

ALCIBIADE Naturale.

SOCRATE E agirete fissando lo sguardo alla luce divina, proprio come prima abbiamo detto.
ALCIBIADE È evidente.

SOCRATE Ma proprio guardando fisso a questa realtà divina, potrete avere visione e conoscenza di
voi stessi e di quanto è bene per voi.

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Così vivrete in modo corretto e buono?

ALCIBIADE Sì.

SOCRATE Ecco, voglio offrirvi questa garanzia: se questo sarà il vostro agire, sarete felici.

ALCIBIADE Come garante, infatti, dai sicurezza.

SOCRATE Se invece agirete in modo ingiusto, puntando lo sguardo su una realtà che non conosce
dio, immersa nella tenebra, renderete le vostre azioni conformi ad essa, è naturale, senza poter
conoscere voi stessi.

ALCIBIADE Naturalmente.
T. 11 IL TAFANO DIVINO E IL DEMONE
(Platone, Apologia di Socrate, 28 D-32 E)

Stabilita la veridicità dell’oracolo, che lo dichiara il più sapiente degli uomini, Socrate delinea
davanti al tribunale la natura della sua attività, che egli presenta come la realizzazione del compito
assegnatogli dal dio. A tale scopo introduce due figure in qualche misura immaginifiche: quella del
tafano e quella del demone.
Il tafano esprime la necessità (addirittura l’improrogabilità) della filosofia come interrogazione,
confutazione, messa in discussione, critica di ogni presupposizione. Di fronte a qualunque pretesa di
sapere (e per ciò stesso di possesso della virtù), Socrate si sente in dovere di interrogare, indagare
(exetazein) e confutare (elenchein), per valutare la legittimità di una simile assunzione. Così facendo
egli dichiara di assolvere in qualche misura a una funzione «politica», pur avendo rinunciato a
entrare direttamente nell’agone politico. Ai suoi occhi infatti il servizio che può rendere alla città
consiste esattamente nel mettere in dubbio ogni certezza non problematizzata, nell’indurre i suoi
concittadini a non accontentarsi di verità stabilizzate e nell’incitarli alla ricerca dell’unica cosa
veramente importante e degna di considerazione, ossia la virtù dell’anima. Da questo punto di vista,
l’immagine del tafano allude alla natura della vita filosofica, che rinuncia ai beni ritenuti tali
dall’opinione della maggioranza, cioè la ricchezza e il prestigio sociale, per incitare i cittadini ad
andare in cerca della virtù, la quale, sola, secondo Socrate, garantisce il raggiungimento della
felicità, vale a dire la piena realizzazione dell’uomo.
L’altra figura alla quale Socrate affida il compito di esprimere il proprio rapporto con la sfera
divina è quella, celeberrima, del demone (daimonion), al quale, tra l’altro, egli riconduce la
decisione di non prendere parte alla vita politica (31 D). Sul significato di questa misteriosa entità
non esiste accordo tra gli studiosi, e le interpretazioni proposte divergono in misura anche
considerevole. Secondo alcuni essa esprime la religiosità delfica di Socrate; altri ritengono che il
demone alluda al rifiuto della religione cittadina tradizionale (come sembra recitare lo stesso atto di
accusa); altri ancora vedono in questa figura la prima traccia di qualcosa di simile alla coscienza
individuale; per altri essa esprime piuttosto un principio di razionalità super-individuale. In realtà, se
è vero che il rapporto con il demone rappresenta uno dei dati certi della biografia intellettuale di
Socrate, è altrettanto vero che il suo significato sembra destinato a rimanere confinato nel campo
delle ipotesi, anche in considerazione dell’assenza di indicazioni precise da parte dello stesso
Socrate. Gli elementi certi sono pochi, ma vale comunque la pena menzionarli. Innanzitutto
nell’Apologia, che tra i testi platonici è senza dubbio quello che dovrebbe avvicinarsi in misura
maggiore al pensiero effettivamente espresso da Socrate, troviamo la formula neutra e aggettivale
daimonion (demonico) e non quella maschile daimôn, il che dovrebbe rendere quantomeno
problematica l’ipotesi che si tratti di una divinità personale. Socrate considera questo demone come
una voce (phonê) e un segno (sêmeion) che si manifesta in lui, ossia nell’orizzonte della sua anima,
proveniendo dalla sfera del divino (presumibilmente dalla divinità delfica, ossia da Apollo).
L’attività di questo segno consiste nel mettere in guardia Socrate dal compiere determinate azioni,
mentre nei testi platonici (per es. Fedro, 242 B-C) – ma non in quelli di Senofonte – si esclude che
esso svolga una funzione protrettica, ossia di incitamento a un determinato comportamento. Questi
sembrano i confini entro i quali si esercita l’attività demonica tanto spesso evocata da Socrate. Quali
le considerazioni che si possono trarre?
Il rapporto tra Socrate e il suo demone attiene senza dubbio alla sfera religiosa (ma non cultuale);
esso ha a che fare con un’esperienza di natura sovra-razionale, o almeno non riducibile ai
meccanismi dell’argomentatività filosofica; si tratta di una dimensione sostanzialmente individuale e
personale, dal momento che il contenuto dei divieti del demone attiene alla vita di Socrate (e si
riferisce a singoli comportamenti e azioni); infine, va constatato, proprio a conferma della natura
personale e quasi biografica del demone socratico, che la fede in tale entità, sebbene costituisca «uno
dei fatti più certi della biografia di Socrate, tuttavia non ha avuto nessun sviluppo filosofico nelle
scuole socratiche e che perciò essa è ricordata proprio come singolarità biografica dell’uomo
Socrate» (Giannantoni, p.117).

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Adorno, F., Introduzione a Socrate, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 112-25.

Brickhouse, T.C. - Smith, N.C., Socrates’ Daimonion and Rationality , in P. Destrée - N.C. Smith
(eds.), Socrates’ Divine Sign: Religion, Practice, and Value in Socratic Philosophy, Academic
Printing & Publishing, Edmonton 2005 (numero monografico di «Apeiron» 38.2), pp. 43-62.

Brisson, L., Socrates and the Divine Signal according to Plato’s Testimony: Philosophical Practice
as Rooted in Religious Tradition , in P. Destrée - N.C. Smith (eds.), Socrates’ Divine Sign:
Religion, Practice, and Value in Socratic Philosophy, Academic Printing & Publishing, Edmonton
2005 (numero monografico di «Apeiron» 38.2), pp. 1-12.

Giannantoni, G., La religiosità di Socrate secondo Platone, in G. Giannantoni - M. Narcy (a cura),


Lezioni socratiche, Bibliopolis, Napoli 1997, pp. 97-120.

Long, A.A., How Does Socrates’ Divine Sign Communicate with Him?, in S. Ahbel Rappe - R.
Kamtekar (eds.), A Companion to Socrates, Blackwell Publishing, Oxford 2006, pp. 63-74.
McPherran, M.L., Introducing a New God: Socrates and His Daimonion, in P. Destrée - N.C. Smith
(eds.), Socrates’ Divine Sign: Religion, Practice, and Value in Socratic Philosophy, Academic
Printing & Publishing, Edmonton 2005 (numero monografico di «Apeiron» 38.2), pp. 13-30.

Reale, G., Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000, pp. 181-83 e 283-87.
da Apologia di Socrate, 28 D-32 E*
Questa è la verità, Ateniesi: dove uno si piazza ritenendo che sia il posto migliore, o viene messo da
un suo superiore, lì deve rimanere – mi pare – a ogni costo, senza dare alla morte e ad alcuna altra
cosa più peso che non al disonore. Sarebbe ben strano il mio comportamento, concittadini, se quando
mi hanno assegnato il posto i comandanti da voi scelti per comandare, a Potidea Anfipoli e Delio,
dove mi hanno messo sono rimasto, come del resto avrebbe fatto chiunque altro, correndo pericolo di
morire; mentre quando il dio stabilisce (così ho creduto di intendere) che debba vivere filosofando e
interrogando me stesso e il prossimo, allora invece abbandonassi il mio posto per timore della morte
o di qualsiasi altra eventualità. Sarebbe strano, indubbiamente, e in questo caso sì sarebbe giusto
trascinarmi in tribunale, in quanto disobbedendo all’oracolo, temendo la morte e credendo di essere
sapiente senza esserlo mostrerei di non credere negli dei. Infatti temere la morte, cittadini, altro non è
che credere di essere sapiente senza esserlo, ovvero credere di sapere quel che non si sa. Della
morte, in realtà, nessuno può sapere con sicurezza neanche se sia il supremo bene toccato all’uomo, e
tuttavia vien temuta nella certezza che sia il supremo male. E non è la più riprovevole forma di
ignoranza, questo presumere di sapere ciò che non si sa? Ma forse io, cittadini, proprio su questo
punto mi distinguo dai più: se mai affermassi di essere più sapiente di qualcuno in qualcosa sarebbe
nel senso che, non avendo conoscenza sufficiente della realtà dell’Ade, sono però consapevole di
non averla. Ma che sia male e cosa vergognosa commettere ingiustizia e disobbedire a un’autorità
superiore, dio o uomo che sia, questo lo so. Mai insomma rifuggirò impaurito da qualcosa che per
quanto ne so potrebbe anche essere un bene, piuttosto che da un male certo. Perciò anche se ora mi
lasciate andare senza prestare ascolto ad Anito, secondo il quale o non bisognava fin dall’inizio
farmi arrivare sin qui oppure, una volta che vi sono giunto, non è possibile non condannarmi a morte,
in quanto – osservava – se me la cavassi i vostri figli, continuando a praticare gli insegnamenti di
Socrate, finirebbero per corrompersi del tutto... se influenzati da tali considerazioni mi diceste:
«Socrate, ora ti lasciamo andare senza dar retta ad Anito, ma a condizione che tu non passi più il
tempo nelle tue ricerche e smetta di filosofare: e se sarai trovato recidivo, morirai»... se insomma mi
lasciaste andare alle condizioni che ho detto, vi ribatterei che, pur nutrendo per voi amicizia e affetto,
concittadini, preferisco obbedire al dio piuttosto che a voi, e finché avrò vita e forze non cesserò di
far filosofia e di esortarvi, rivolgendomi a chi di voi incappi sul mio cammino col mio solito
predicozzo dimostrativo: «Ehi tu, eccellentissimo fra gli uomini e cittadino di Atene, che è la città
più grande e gloriosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di rivolgere le tue cure alle ricchezze,
per accumularne il più possibile, e alla fama e al prestigio, anziché curarti e darti pensiero di
saggezza e verità e della perfezione dell’anima?». E se qualcuno di voi ribatterà che invece se ne
cura, non lo congederò subito né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo esaminerò, lo confuterò; e se
lo troverò privo di virtù, e se ne dichiarasse tuttavia dotato, gli rinfaccerò il poco conto in cui tiene
le cose di maggior valore, privilegiando invece quelle vili. Farò lo stesso con chiunque incontrerò,
giovane o vecchio, forestiero o cittadino: ma soprattutto con voi, cittadini, che più vicini mi siete per
nascita. Non faccio che seguire un comando divino, sappiatelo: sono convinto, anzi, che la missione
che svolgo per il dio sia il bene massimo che vi è toccato in questa città. Il mio girovagare ha la sola
funzione di persuadervi, giovani e vecchi, di non curarvi del corpo né delle ricchezze più o
altrettanto che della perfezione dell’anima, rammentandovi che non dalle ricchezze viene la virtù, ma
dalla virtù le ricchezze e tutto ciò che fa bene all’uomo, sia nella sfera privata che in quella pubblica.
Se con siffatti discorsi corrompo i giovani, vorrà dire che sono dannosi; ma affermare che son
diversi da questi sarebbe una falsità. «Perciò, Ateniesi,» vi direi «fidatevi di Anito o no, lasciandomi
andare o no: io comunque non muterò la mia condotta, neanche dovessi morire più d’una volta.»
Non schiamazzate, Ateniesi, rammentando la mia preghiera di ascoltare le mie parole senza
interrompermi: forse vi gioverà. Qualcos’altro che ora vi dirò vi farà probabilmente levare grida di
protesta: be’, fatene a meno. Dovete sapere che uccidendo me – e vi ho detto che persona sono – non
farete più danno a me che a voi stessi: a me non ne faranno né Meleto né Anito, né ne avrebbero il
potere, poiché non credo lecito che a un uomo migliore rechi danno uno di lui peggiore. Questi
potrebbe forse uccidermi, o mandarmi in esilio, o privarmi dei diritti civili... Ma se lui o altri pensa
che siano, questi, gravi mali, io sono di diversa opinione: per me è molto peggio l’uccidere un uomo
ingiustamente, come sta cercando di fare questo qui. A questo punto, Ateniesi, non parlo tanto per me,
come si potrebbe pensare, quanto per voi, che votando contro di me non commettiate un errore
rispetto al dono del dio. Perché nel caso che mi uccidiate non troverete facilmente un altro come me,
davvero appiccicato dal dio alla città (per usare un’immagine un po’ buffa) come a un imponente
cavallo di razza, che è però per la sua mole un po’ pigro e bisognoso di essere stuzzicato da un
qualche tafano: così, mi pare, il dio mi ha attaccato alla città con la funzione di svegliarvi,
persuadervi e rimbrottarvi uno per uno, intrufolandomi dovunque incessantemente per tutto il giorno.
Un altro così non vi ricapiterà facilmente, cittadini, e se mi date retta mi risparmierete: forse invece,
infastiditi come chi viene svegliato dal torpore, con una bella botta mi farete tranquillamente fuori,
dando retta ad Anito, e riprenderete poi a dormire per tutto il resto della vita, a meno che il dio
preoccupato per voi non vi mandi qualcun altro. Che io possa essere visto come un dono del dio alla
città, potrete dedurre anche dal fatto – quasi sembra inumano – che ho trascurato tutti i miei interessi
e ormai da tanti anni lascio che vengano trascurati gli affari di casa mia, mentre da sempre mi occupo
dei vostri, avvicinandovi singolarmente per indurvi, come un padre o un fratello maggiore, a
coltivare la virtù. Se ci guadagnassi qualcosa, elargendo i miei consigli dietro ricompensa, sarebbe
comprensibile: ma potete constatare voi stessi che i miei accusatori, in generale così spudorati nelle
loro accuse, non hanno potuto permettersi l’impudenza di produrre un solo testimone del fatto che
abbia mai ricevuto o preteso compensi. Bastevole testimone della verità delle mie asserzioni, io
credo di poter portare la mia povertà.
Potrà sembrare forse strano, che io vada in giro e mi impicci degli affari altrui dando i miei
consigli in privato, mentre in pubblico non oso farmi avanti, al cospetto della vostra assemblea, per
consigliare la città. Il motivo di questo comportamento, cui mi avete sentito accennare spesso e in più
luoghi, è che c’è in me qualcosa di divino e demonico (a questo certo si sarà riferito Meleto,
prendendosi gioco di me, nel testo dell’accusa). Mi capita fin da quando ero ragazzo, sotto forma di
una specie di voce che, quando si fa sentire, è sempre per distogliermi dal fare quel che sto per fare,
mai per incitarmi. È questo che si oppone a che mi impegni nell’attività politica, e ben a ragione mi
pare: vi sarà ormai evidente, Ateniesi, che se da tempo mi fossi dato da fare in politica da tempo
sarei perito, senza essermi reso minimamente utile né a voi né a me stesso. E non vi irritate se dico la
verità: non c’è uomo che possa salvarsi qualora si opponga francamente a voi o a qualsiasi altra
massa popolare, e cerchi di impedire che si verifichino nella città tante ingiustizie e illegalità: è
bensì necessario che chi intende realmente lottare per la giustizia, se vuole sopravvivere anche solo
per poco, viva come uomo privato e non pubblico.
Vi fornirò solide prove di quanto ho detto: non parole bensì – quel che per voi più conta – fatti.
State a sentire quel che mi è accaduto, e capirete che sono capace di non cedere ad alcuno, contro
giustizia, per timore della morte, e per non cedere sono anche pronto a morire. Non andrò troppo per
il sottile, come si fa in tribunale, però sarò sincero. È vero, Ateniesi, che non ho mai rivestito alcuna
carica nella città, ma una volta ho fatto parte del Consiglio; e il turno della pritania è toccato alla
tribù Antiochide, che è la mia, proprio nel momento in cui avete deciso di giudicare in blocco
(illegalmente, come fu in seguito vostro comune parere) i dieci strateghi che non avevano raccolto i
superstiti della battaglia navale. In quel frangente io solo fra i pritani ho cercato di impedirvi di
violare la legge, e ho votato contro. E con i retori lì pronti a farmi sospendere e arrestare, incitati
dalle vostre grida, ho reputato più doveroso affrontare il pericolo dalla parte della legge e della
giustizia che condividere, per paura della prigionia o della morte, l’ingiustizia della vostra
decisione. Questi fatti avevano luogo quando c’era ancora la democrazia... Peraltro, sopravvenuta
l’oligarchia, i Trenta mi convocarono con altri quattro nella Rotonda, ingiungendoci di condurre qui
da Salamina, per mandarlo a morte, Leone di Salamina. Di ordini simili quelli là ne davano un bel
po’ a parecchia gente, con l’intenzione di coinvolgerne il più possibile nella responsabilità dei loro
crimini. Tuttavia anche allora, non a parole, ma coi fatti, ho dimostrato che della morte non mi
importa – non vorrei essere troppo rude – proprio un bel niente: sopra ogni altra cosa, invece,
m’importa di non compiere azioni ingiuste o empie. Quel governo perciò, potente com’era, non mi ha
spaventato al punto da farmi commettere un’ingiustizia; e usciti dalla Rotonda, mentre gli altri quattro
se ne andavano a Salamina a prendere Leone, io me ne sono tornato a casa. Ne sarei forse morto, se
il governo non fosse stato rovesciato di lì a poco. E l’episodio vi potrà essere confermato da più
d’un testimone.
T.12 LA CONFUTAZIONE
(Platone, Eutifrone, 2 A-11 E)

L’Eutrifone (il primo scritto nella sequenza fittizia relativa al processo e alla condanna a morte di
Socrate) presenta la classica struttura che caratterizza quasi tutti i dialoghi aporetici o socratici:
Socrate si rivolge a un presunto esperto in una determinata topica (in questo caso l’ambito delle
questioni religiose connesse al tema della pietà o santità) per esserne ammaestrato; ma il sapere di
costui si dimostra generico, inconsistente e contraddittorio, e viene dunque sottoposto a confutazione
(elenchos) da Socrate; l’esito del confronto risulta formalmente negativo, perché dal colloquio tra i
due personaggi non emerge un sapere definitivo intorno all’oggetto in esame (anche se in questo,
come in altri dialoghi, non mancano allusioni al percorso teorico che dovrebbe portare dall’aporia
all’euporia).
La trama è nota: Socrate incontra per caso Eutifrone davanti al portico del re, ossia davanti alla
sede dell’arconte-re, al quale era demandata la gestione dell’attività giuridica della città; Socrate è lì
per ricevere l’atto di accusa (graphê) mossagli da Meleto (corruzione dei giovani) e dalla quale avrà
inizio il celebre processo, mentre Eutifrone si appresta ad accusare suo padre di omicidio, per avere
lasciato morire un dipendente, colpevole, a sua volta, di avere assassinato uno schiavo. Esistono,
come si vede, tutti gli elementi per affrontare una discussione intorno al significato di alcune nozioni
chiave dell’etica e della morale: il giusto, il santo e l’empio, la divinità, ecc.
Due sono le tesi relative alla santità (to hosion) esposte da Eutifrone e confutate da Socrate. La
prima non costituisce neppure una vera e propria definizione, ma la presentazione di un presunto caso
di comportamento pio: santo, afferma Eutifrone, è «ciò che faccio io adesso» (5 D-E). L’errore di
Eutifrone è di natura logica, dal momento che egli, alla domanda «che cosa è x?», risponde
menzionando un presunto caso di x; egli confonde il particolare con l’universale e non è in grado di
determinare ciò che è comune (to koinon) nelle differenti manifestazioni di una certa proprietà; in
altre parole, non sa determinare la proprietà in quanto tale, ossia la forma (eidos); Socrate ha dunque
buon gioco a osservare che «non questo ti chiedevo di indicarmi, cioè una o due delle molte azioni
sante, ma proprio quella forma (auto to eidos ) per la quale tutte le azioni sante sono sante» (6 D-E).
La seconda tesi di Eutifrone (santo è ciò che è caro agli dei) appare formalmente corretta, dal
momento che presenta i caratteri di una vera e propria definizione universale. Può dunque venire
esaminata più da vicino per stabilire se, oltre ad essere una definizione (perciò formalmente
rispettosa dei vincoli stabiliti da Socrate), essa è anche accettabile dal punto di vista del contenuto.
La confutazione socratica si articola in due momenti; nel primo viene stabilita la natura
costitutivamente contraddittoria della definizione di Eutifrone; nel secondo, si mette in luce la
presenza in essa di una confusione logica tra causa ed effetto, ossia tra ousia e pathos.
Socrate osserva prima di tutto che, come lo stesso Eutifrone riconosce, gli dèi non sono in
possesso di opinioni condivise; ciò che è caro a una divinità può risultare detestabile a un’altra;
l’intera tradizione mitologica greca è ricca di esempi di dispute tra gli dèi, i quali non sembrano
dunque rappresentare una sfera unitaria che possa costituire il paradigma definizionale della nozione
di santo. Tuttavia, Socrate è anche disposto a concedere, mettendo in atto una tipica mossa della sua
dialettica confutatoria, che la definizione di Eutifrone, opportunamente riformulata («ciò che tutti gli
dèi odiano non è santo, ciò che essi amano è santo; ciò che alcuni amano e altri odiano non è né santo
né non santo»: 9 D), possa venire esaminata in modo più approfondito. Chiedendosi se il santo è tale
perché è amato dagli dèi oppure se è amato dagli dèi perché è santo, egli apre le porte
all’introduzione di una distinzione fondamentale, quella tra l’essenza di qualcosa, ossia la sua ousia,
e il possesso di una proprietà accidentale, cioè il pathos. Osserva infatti che il rapporto causale va
rovesciato rispetto alla formulazione che ne aveva dato Eutifrone: ciò che è santo non è tale perché è
amato dagli dèi, ma, esattamente all’inverso, è amato dagli dèi perché è santo. Ciò significa che
l’essere amato dagli dèi costituisce una proprietà accidentale che appartiene a qualcosa in virtù del
fatto che esso è santo. Rovesciando la relazione causale, Eutifrone ha trasformato illegittimamente un
accidente (pathos) nell’essenza (ousia), che resta invece ancora sconosciuta.
Il dialogo si conclude nel momento in cui Eutifrone, ormai del tutto frastornato, rinuncia a
proseguire la ricerca, e così facendo suscita l’ironica reazione di Socrate, il quale lamenta che,
andandosene, Eutifrone lo priva della possibilità di imparare quali siano le azioni sante e non sante
(15 E-16 A). Anche in questo caso la confutazione socratica, pur non approdando direttamente a un
risultato positivo, svolge una funzione terapeutica fondamentale, consentendo ai partecipanti al
dialogo (e ai lettori) di purificarsi delle false opinioni.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Cohen, S.M., Socrates on the Definition of Piety, ‘Euthyphro’ 10A-11B , «Journal of the History of
Philosophy» 9 (1971), pp. 1-13.

Giannantoni, G., La religiosità di Socrate secondo Platone, in G. Giannantoni - M. Narcy (a cura),


Lezioni socratiche, Bibliopolis, Napoli 1997, pp. 97-120.

McPherran, M.L., Socratic Piety in the ‘Euthyphro’, ora in H.H. Benson (ed.), Essays on the
Philosophy of Socrates, Oxford University Press, New York-Oxford 1992, pp. 220-41.

Wolfsdorf, D., Socrates’ Pursuit of Definitions, «Phronesis» 48 (2003), pp. 271-312.

Wolz, H.G., The Paradox of Piety in Plato’s ‘Euthyphro’ in the Light of Heidegger’s Conception of
Authenticity, «The Southern Journal of Philosophy» 12 (1974), pp. 493-511.
da Eutifrone, 2 A-11 E*
EUTIFRONE Cosa c’è di nuovo, Socrate, che hai abbandonato le tue occupazioni nel Liceo e te ne
stai ora a perder tempo qui, intorno al portico del re? Perché non credo che anche a te capiti di
avere una causa davanti al re, come ho io.

SOCRATE In verità, Eutifrone, gli Ateniesi non la chiamano causai questa, ma accusa.

EUTIFRONE Cosa dici? Qualcuno, a quanto pare, ha intentato un’accusa contro di te; perché non
riesco a pensare questo: che proprio tu accusi un altro.

SOCRATE No di certo.

EUTIFRONE Ma allora è un altro che accusa te?

SOCRATE Appunto.

EUTIFRONE E chi è costui?

SOCRATE Neppure io conosco bene questa persona, Eutifrone. Mi pare però che sia un giovane, e
non molto conosciuto; lo chiamano Meleto. È del demo di Pitto. Forse hai in mente un certo
Meleto, di Pitto: capellone, sbarbatello, naso aquilino.

EUTIFRONE Non l’ho in mente, Socrate. Ma dunque, quale accusa ti ha intentato?

SOCRATE Quale? Un’accusa certo non ignobile, mi sembra; perché il fatto che un giovane come lui
abbia conoscenza di questioni di tanta importanza, non è cosa da poco. Costui infatti, a quanto
dice, sa come i giovani si corrompono e sa chi sono quelli che li corrompono. Può darsi che sia un
sapiente! E accortosi della mia ignoranza e di come io corrompo i suoi coetanei, viene ad
accusarmi dinanzi alla città come dinanzi a una madre. E mi pare che tra gli uomini politici sia il
solo ad iniziare bene il suo tirocinio. Difatti è bene prendersi cura innanzitutto dei giovani, perché
crescano nel modo migliore possibile, come un buon agricoltore è naturale che dapprima si prenda
cura delle piante giovani, poi anche delle altre. Meleto, così, vuol forse togliere di mezzo in primo
luogo noi, che corrompiamo, come dice lui, i giovani germogli. Dopo, è chiaro, si prenderà cura
anche dei più anziani e procurerà moltissimi e grandissimi benefici alla città. Ed è naturale che
questo gli riesca, visto che ha cominciato da un tale inizio.

EUTIFRONE Vorrei che fosse così, Socrate! Ma temo che avvenga il contrario. Poiché mi sembra
che egli, cercando di farti un’ingiustizia, incominci a rovinare la città proprio dal suo focolare. E
dimmi, cosa dice che fai, tu, per corrompere i giovani?

SOCRATE Delle assurdità, mio ammirevole amico, almeno per quel che sento. Dice che sono un
creatore di nuovi dèi, vale a dire che creo nuovi dèi e non credo più ai vecchi; per questo, dice, mi
ha intentato l’accusa.

EUTIFRONE Capisco, Socrate. Certo perché tu dici di avvertire, di quando in quando, quel segno
demonico dentro di te. Perciò ti ha intentato questo processo, perché convinto che tu voglia
introdurre delle novità in fatto di religione; e sicuramente viene in tribunale allo scopo di
calunniarti, ben sapendo che questi argomenti esposti dinanzi alla gente si prestano facilmente alle
calunnie. Anche a me infatti, quando nell’assemblea parlo di questioni religiose predicendo ad
essi il futuro, mi deridono, loro, come fossi un pazzo; eppure delle cose che ho predette nessuna si
è rivelata non vera. Ma costoro provano invidia di tutti quelli che sono come noi due. Non bisogna
preoccuparsene. Vanno affrontati a viso aperto!

SOCRATE Mio caro Eutifrone, ma se solo si trattasse di essere derisi sarebbe forse una questione di
poco conto. Agli Ateniesi, mi sembra, non importa nulla se credono che qualcuno valga davvero
per la sua sapienza, a patto che egli non intenda far da maestro del suo sapere; ma se credono che
uno, che sia sapiente, voglia rendere sapienti anche gli altri, ebbene allora si adirano, o per
invidia, come dici tu, o per qualche altra ragione.

EUTIFRONE Quanto a questo non desidero affatto sperimentare qual è il loro stato d’animo nei miei
confronti.

SOCRATE Forse perché tu sembri uno che raramente si espone e non è disposto ad insegnare agli
altri il proprio sapere; io, invece, temo di apparir loro, per via del mio amore per gli altri, come
uno che prodiga a chiunque quanto ha da dire, e non solo senza esigere alcun compenso, ma anzi
offrendo volentieri del mio, qualora vi sia qualcuno che desidera ascoltarmi. Se dunque, come
dicevo poco fa, gli Ateniesi volessero deridermi, come tu dici che fanno con te, non sarà affatto
spiacevole passare un po’ di tempo in tribunale scherzando e ridendo. Ma se faranno sul serio,
come allora la cosa andrà a finire non è chiaro a nessuno, tranne che a voi indovini.

EUTIFRONE Ma non succederà nulla, Socrate, vedrai; tu sosterrai la causa in modo soddisfacente, e
anch’io, spero, la mia.

SOCRATE Allora, Eutifrone, anche tu hai una causa? Sei tu l’accusato o sei tu che accusi?

EUTIFRONE Sono io che accuso.

SOCRATE E chi?

EUTIFRONE Uno che ad accusarlo, credo, mi faranno passar per matto.

SOCRATE O com’è? Accusi uno che vola?

EUTIFRONE Ce ne vuole assai perché voli! È un uomo anziano. SOCRATE E chi è?

EUTIFRONE Mio padre.


SOCRATE Tuo padre? Oh, amico mio!

EUTIFRONE È così.

SOCRATE Ma qual è la sua colpa e di che cosa lo accusi? EUTIFRONE Di omicidio, Socrate.

SOCRATE Per Eracle! Certo, Eutifrone, i più ignorano come questa possa essere un’azione giusta;
poiché non credo proprio che sia una cosa da uomo qualunque intentare una causa del genere, ma
da uno che si sia spinto ormai molto avanti sulla via del sapere.

EUTIFRONE Sicuro, Socrate, molto avanti, per Zeus!

SOCRATE Ed è uno dei tuoi familiari che è stato ucciso da tuo padre? È evidente, vero? Che per un
estraneo, io credo, non accuseresti di omicidio tuo padre.

EUTIFRONE È ridicolo, Socrate, che tu creda che vi sia una qualche differenza se l’ucciso è un
estraneo o un familiare, e che invece non si debba guardare soltanto a questo: se chi ha ucciso era
in diritto di uccidere oppure no; e se era in diritto di uccidere, lasciarlo pure andare; se non lo era
intentargli un’accusa, anche se l’uccisore abiti sotto il tuo tetto e mangi alla tua mensa. Perché la
contaminazione avviene egualmente, qualora tu conviva con un omicida sapendolo tale, e non
purifichi te stesso e lui intentandogli un’azione giudiziaria. Ora appunto, il morto era un mio
dipendente che lavorava stipendiato da noi quando coltivavamo la terra a Nasso. Un giorno, ebbro
com’era di vino, incolleritosi contro uno dei nostri schiavi, lo uccise. Mio padre, allora, fattolo
legare mani e piedi, lo gettò in una fossa, e mandò qui uno per sapere dall’esègeta che cosa si
dovesse fare. Per tutto questo tempo non si prese cura di quell’uomo in catene, anzi lo trascurò
completamente: quasi che non importasse nulla se anche moriva, visto che era un omicida. E
questo infatti accadde; perché per la fame, il freddo e le catene, quello morì prima che il messo
fosse ritornato dall’esègeta. E ora, dunque, mio padre e gli altri familiari sono indignati per
questo, che per un omicida io accusi di assassinio mio padre, il quale, come essi sostengono,
neppure ha ucciso; e se anche nel peggiore dei casi avesse ucciso, dato che l’ucciso era un
omicida, non bisognava preoccuparsi affatto di costui. E dicono che è una cosa empia che un figlio
accusi il padre di omicidio. Non sanno proprio nulla, Socrate, in materia di religione su quanto
riguarda il santo e il non santo!

SOCRATE Ma tu, per Zeus, Eutifrone, credi dunque di sapere così esattamente in quale modo siano
ordinate le leggi divine per quanto riguarda le cose sante e non sante che, svoltisi i fatti così come
tu li racconti, non temi, intentando un processo contro tuo padre, di commettere per caso anche tu, a
tua volta, un’azione empia?

EUTIFRONE Niente affatto: sarei proprio un buono a nulla, Socrate; né Eutifrone sarebbe davvero
diverso dal volgo, se non conoscesse precisamente tutte queste cose.

SOCRATE O ammirevole Eutifrone! Per me allora la cosa migliore è diventare tuo discepolo, e che
prima che si apra il processo che ho con Meleto io lo inviti a questo compromesso, dicendogli che
in passato io tenevo in gran pregio la conoscenza delle cose divine, e che adesso, poiché egli
sostiene che mi sono reso responsabile di introdurre delle novità nelle cose divine trattandole per
giunta con leggerezza, mi sono fatto tuo discepolo. E gli direi: «Se anche tu, Meleto, sei d’accordo
nel ritenere Eutifrone sapiente in queste cose, devi riconoscere che anch’io penso in modo giusto e
non mi devi intentare il processo; altrimenti devi intentare la causa, prima che a me, a lui che è mio
maestro, come a colui che corrompe i vecchi: me, appunto, e il padre suo; me in quanto mi
istruisce, suo padre in quanto intende ammonirlo e farlo punire». E qualora egli non mi dia retta e
non lasci cadere la sua imputazione o non accusi te al posto mio, la cosa migliore sarà ripetergli in
tribunale queste stesse ragioni per le quali prima lo avevo invitato a un compromesso.

EUTIFRONE Sicuro, Socrate, per Zeus! E se veramente provasse ad accusarmi saprei ben io, ne son
certo, trovare dov’è il suo punto vulnerabile, e in tribunale si parlerebbe assai prima di lui che di
me.

SOCRATE Lo credo anch’io, mio caro amico, ed è proprio perché conosco queste cose che desidero
diventare tuo discepolo, vedendo che né questo Meleto né un altro qualsiasi sembrano accorgersi
di te; quanto a me invece, egli mi ha osservato con tanto acume e tanta facilità da accusarmi di
empietà. Ordunque, dimmi, per Zeus, cos’è quello che poco fa asserivi di sapere così bene: cosa
dici che sia il pio e cosa l’empio, e in relazione all’omicidio, e in relazione alle altre cose? Non è
forse il santo sempre identico a se stesso in tutte le azioni? E il non santo, a sua volta, non è il
contrario di tutto ciò che è santo? E non è sempre identico a se stesso tutto ciò che, appunto, è per
essere non santo, e non possiede un’unica idea relativamente alla sua non santità?

EUTIFRONE Senza dubbio, Socrate.

SOCRATE E allora dimmi: cosa dici che sono il santo e il non santo?

EUTIFRONE Dico che il santo è ciò che faccio io adesso: intentare accusa contro chi commette
ingiustizia rendendosi colpevole o di omicidio o di furti sacrileghi o di qualche altra azione del
genere, anche se si dia il caso che si tratti di tuo padre o di tua madre o di chiunque altro. Non
intentargli accusa, invece, non è santo. Perché guarda, Socrate, quale importante prova ti darò che
la legge è proprio così: che non si deve perdonare chi commette ingiustizia, chiunque egli sia;
prova questa che già diedi ad altri per dimostrare che solo agendo così si agisce rettamente.
Quegli stessi uomini infatti che ritengono Zeus il migliore e il più giusto tra gli dèi, sono d’accordo
nell’ammettere che egli abbia incatenato il proprio padre perché ingiustamente divorava i figli, e
che quello, a sua volta, abbia mutilato suo padre per altre simili colpe. Ma costoro adesso si
adirano contro di me, perché porto in giudizio mio padre che ha commesso ingiustizia, e così si
trovano in contraddizione con se stessi nel giudicare gli dèi e me.

SOCRATE Che sia proprio questo, Eutifrone, il motivo per cui sono accusato, perché quando uno mi
racconta simili storie sugli dèi, le accolgo con un certo fastidio? Evidentemente è appunto per
questo che c’è chi dirà che io sono colpevole. Ora dunque, se anche a te che sei così sapiente nelle
questioni religiose queste storie sembrano vere, è necessario, a quanto pare, che anche noi le
ammettiamo come vere. E cosa infatti potremo dire noi, che per parte nostra confessiamo
apertamente di non sapere niente di tali cose? Ma dimmi, in nome di Zeus, Dio dell’amicizia, credi
davvero che queste vicende si siano svolte così?

EUTIFRONE Sì, e ve ne sono di più sorprendenti di queste, Socrate, che la gente neppure conosce.

SOCRATE E dunque credi tu che tra gli dèi vi sia realmente guerra degli uni contro gli altri, e
inimicizie terribili e lotte e molte altre storie del genere, quali sono raccontate dai poeti, e con cui
dai nostri abili pittori sono stati raffigurati i più diversi soggetti sacri, e delle quali, in particolare,
è tutto ricamato quel peplo che nel tempo delle grandi Panatenèe viene portato in processione
sull’Acropoli? Dobbiamo dire che queste cose sono proprio vere, Eutifrone?

EUTIFRONE E non solo queste, Socrate, ma come ti dicevo poco fa, anche molte altre; e se vuoi ti
racconterò cose sugli dèi che a sentirle, lo so bene, ne rimarrai sbalordito.

SOCRATE Non mi stupirei. Ma queste cose me le racconterai con calma un’altra volta. Ora prova a
rispondere più chiaramente a ciò che ti chiesi poco fa; perché con la tua precedente risposta, mio
caro, non mi hai istruito a sufficienza quando ti ho domandato cos’è mai il santo, ma mi hai detto
che santo è solo ciò che stai facendo tu adesso, accusando di omicidio tuo padre.

EUTIFRONE E dissi proprio la verità, Socrate.

SOCRATE È probabile. Ma senza dubbio, Eutifrone, tu dici che sono sante anche molte altre azioni.

EUTIFRONE Sì, certamente.

SOCRATE Ebbene, ricordi che non questo ti chiedevo di indicarmi, cioè una o due delle molte azioni
sante, ma proprio quella forma per la quale tutte le azioni sante sono sante. Dicevi, mi pare, che
per un’unica idea le azioni non sante sono non sante e quelle sante sono sante. O non te lo ricordi?

EUTIFRONE Sì, me lo ricordo.

SOCRATE Allora insegnami quale sia mai questa idea in sé, affinché guardando ad essa e
servendomi di essa come un modello, io possa dire santa quell’azione, tra quante tu o un altro
facciate, che le somigli; non santa invece quella che non le somigli.

EUTIFRONE Se così vuoi, Socrate, persino così ti risponderò. SOCRATE Ma sicuro che lo voglio.

EUTIFRONE Dunque: ciò che è caro agli dèi è santo, mentre ciò che non è caro agli dèi non è santo.

SOCRATE Benissimo, Eutifrone, così adesso hai risposto proprio come io desideravo che tu
rispondessi. Se però tu abbia risposto secondo verità, questo ancora non lo so. Ma, evidentemente,
tu saprai ben dimostrarmi che quello che dici è vero.

EUTIFRONE Senza dubbio.

SOCRATE Suvvia dunque, esaminiamo cosa andiamo dicendo. È santo ciò che è caro agli dèi e
l’uomo caro agli dèi; mentre non è santo ciò che è inviso agli dèi e l’uomo inviso agli dèi. Non
sono la stessa cosa il santo rispetto al non santo, ma sono addirittura opposti l’uno all’altro; non è
così?

EUTIFRONE È così, certo.

SOCRATE E ti pare proprio che sia stato detto bene? EUTIFRONE Mi pare, Socrate.

SOCRATE E non è stato detto anche questo, Eutifrone, che gli dèi sono in lotta e in disaccordo gli uni
con gli altri, e che tra loro vi è inimicizia reciproca?

EUTIFRONE Sì, è stato detto.

SOCRATE Ma su quali cose, mio ottimo amico, il disaccordo causa inimicizia ed ira? Esaminiamo
dunque questo aspetto. Se io e te fossimo in disaccordo su una questione di numero, quale sia,
poniamo, la più numerosa di due serie di oggetti; ebbene, il disaccordo su tali cose ci renderebbe
forse nemici e ci farebbe adirare l’uno con l’altro? Oppure, una volta eseguito il calcolo, non ci
metteremmo subito d’accordo, almeno su simili questioni?

EUTIFRONE Certamente.

SOCRATE E se fossimo in disaccordo su una grandezza, se sia maggiore o minore, non faremmo
cessare subito il disaccordo dopo aver provveduto a misurare?

EUTIFRONE Sì, è così.

SOCRATE E una volta provveduto a pesarli, potremmo decidere, credo, su quale di due oggetti sia
più pesante o più leggero?

EUTIFRONE E come no?

SOCRATE Ma su quali argomenti allora, trovandoci in disaccordo e non potendo giungere ad una
decisione, saremmo nemici e ci adireremmo l’uno con l’altro? Forse non hai una risposta pronta;
ma guarda se non siano quelli che ti dico io: il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il
cattivo. Non sono forse questi gli argomenti per i quali, quando siamo in disaccordo e non siamo in
grado di giungere ad un giudizio soddisfacente, diventiamo, in quell’occasione, tra noi nemici, ed
io e tu e tutti gli altri uomini?

EUTIFRONE Ecco, è appunto questo, Socrate, il disaccordo, e proprio su tali argomenti.

SOCRATE E gli dèi, Eutifrone? Se è vero che sono in disaccordo su qualcosa, non lo saranno forse
per queste medesime ragioni?

EUTIFRONE Sì, necessariamente.

SOCRATE E dunque, mio bravo Eutifrone, secondo il tuo ragionamento anche tra gli dèi alcuni
ritengono giusta una cosa, altri invece un’altra; e così per le cose belle e brutte, buone e cattive.
Infatti non sarebbero certo in lotta tra di loro, se non fossero in disaccordo su tali questioni. Non è
vero?

EUTIFRONE Dici bene.

SOCRATE E non è forse vero che le cose che taluni tra gli dèi ritengono belle e buone e giuste, sono
anche quelle che amano, mentre odiano quelle contrarie?

EUTIFRONE Certamente.

SOCRATE Ma le medesime cose, come tu dici, alcuni le ritengono giuste, altri invece ingiuste; e
proprio perché si trovano in contrasto su tali questioni, sono in lotta e in guerra tra di loro. Non è
così?

EUTIFRONE È così.

SOCRATE Perciò, evidentemente, le medesime cose sono odiate ed amate dagli dèi; vale a dire le
stesse cose sarebbero odiose e care agli dèi.

EUTIFRONE Sembra.

SOCRATE E dunque, secondo questo tuo ragionamento, Eutifrone, le medesime cose sarebbero
insieme sante e non sante.

EUTIFRONE Così pare.

SOCRATE Ma allora tu non hai risposto, mio ammirevole amico, a ciò che ti ho domandato. Infatti
non ti ho domandato cosa può essere nello stesso tempo santo e non santo; mentre, a quanto pare,
ciò che è caro agli dèi può anche essere odioso agli dèi. Cosicché, Eutifrone, non c’è per nulla da
stupirsi se ciò che stai facendo ora, cercando di far punire tuo padre, fosse caro a Zeus, ma odioso
a Crono e ad Urano, caro a Efesto, ma odioso ad Era. E se fra gli dèi ve ne sono altri che sono in
disaccordo su questa tua azione, anche per essi varrà lo stesso discorso.

EUTIFRONE Ma io penso, Socrate, che nessuno degli dèi sia in disaccordo con l’altro almeno su un
punto: che non debba esser punito chi abbia ucciso qualcuno ingiustamente.

SOCRATE E come, Eutifrone? Hai mai sentito qualcuno, tra gli uomini, mettere in dubbio che chi ha
ucciso ingiustamente o abbia commesso qualsiasi altra azione ingiusta, non debba essere punito?

EUTIFRONE In verità non la smettono mai di contendere su queste cose, sia in luoghi qualunque, sia
nei tribunali. E coloro che hanno commesso ogni sorta di ingiustizie, fanno e dicono di tutto per
sfuggire alla pena.

SOCRATE Ma forse che costoro, Eutifrone, confessano anche di essere colpevoli e, pur
confessandolo, sostengono che essi non devono essere puniti?
EUTIFRONE Questo no davvero.

SOCRATE Dunque, per essere esatti, non fanno e dicono di tutto. Infatti, io credo, non hanno il
coraggio di sostenere né di mettere in dubbio questo: che non debbano essere puniti, se veramente
hanno commesso ingiustizia. Ma penso che non ammetteranno di aver commesso ingiustizia. Non è
così?

EUTIFRONE È vero.

SOCRATE Quindi non mettono in dubbio questo punto, che cioè chi ha commesso ingiustizia debba
essere punito, ma forse quest’altro: chi ha commesso ingiustizia, quale reato ha compiuto e quando.

EUTIFRONE È vero.

SOCRATE E dunque non avviene proprio lo stesso anche tra gli dèi, se è vero, secondo il tuo
ragionamento, che sono in contrasto sul giusto e sull’ingiusto, e gli uni accusano gli altri di aver
commesso ingiustizia, mentre gli altri lo negano? Perché, mio ammirevole amico, questo davvero
nessuno, né tra gli dèi né tra gli uomini, avrebbe il coraggio di sostenere: che chi ha commesso
ingiustizia non debba essere punito.

EUTIFRONE Sì, quello che dici, Socrate, è vero, almeno in generale.

SOCRATE Ma io penso, Eutifrone, che quelli che contendono, contendono su ciascuna singola
azione, siano essi uomini o dèi, ammesso pure che gli dèi contendano. E quando sono in
disaccordo su una certa azione, gli uni affermano che è stata compiuta giustamente, gli altri invece
ingiustamente. Non è forse così?

EUTIFRONE Certamente.

SOCRATE Suvvia, mio caro Eutifrone, istruisci anche me, affinché io diventi più sapiente: quale
prova hai tu che tutti gli dèi ritengono che sia morto ingiustamente quell’uomo che mentre lavorava
stipendiato, una volta divenuto omicida e messo in catene dal padrone dell’ucciso, morì
improvvisamente per via delle catene, prima che chi lo aveva incatenato venisse a sapere dagli
esègeti cosa si dovesse fare di lui? E che per difendere un tale uomo sia giusto che il figlio intenti
un’azione giudiziaria al proprio padre e lo accusi di omicidio? Via, su questo punto cerca di
mostrarmi chiaramente che tutti gli dèi ritengono senz’ombra di dubbio che questa azione sia
giusta; e se me lo dimostrerai in modo esauriente, non smetterò mai di lodarti per la tua sapienza.

EUTIFRONE Ma forse non è una questione da poco, Socrate; sebbene io sia perfettamente in grado
di dimostrartelo con chiarezza.

SOCRATE Capisco. Io devo sembrarti più lento ad imparare dei tuoi giudici, perché a quelli almeno
saprai chiaramente dimostrare che azioni come quelle di tuo padre sono ingiuste e che tutti gli dèi
le odiano.
EUTIFRONE Con la massima chiarezza, Socrate; purché vogliano starmi ad ascoltare.

SOCRATE Ma ti ascolteranno, sì, se si accorgeranno che tu parli bene. D’altra parte, mentre parlavi,
mi è venuto in mente questo pensiero, ed ho considerato fra me: «Se anche Eutifrone mi potesse
insegnare, e nella maniera più evidente, che tutti quanti gli dèi ritengono ingiusta quella tal morte,
in che modo io avrò imparato meglio da Eutifrone cos’è il santo e il non santo? Infatti questa
particolare azione potrà essere, a quanto pare, invisa agli dèi; ma non per questo, lo abbiamo visto
poco fa, si è definito ciò che è santo e ciò che non lo è, perché quello che è inviso agli dèi ci è
apparso anche caro agli dèi». Sicché, Eutifrone, io ti dispenso da questa dimostrazione; e, se vuoi,
ritengano pure ingiusta tutti gli dèi l’azione di tuo padre, e la trovino anche tutti odiosa. Ma allora
dobbiamo adesso correggere la nostra definizione dicendo così: ciò che tutti gli dèi odiano non è
santo, ciò che essi amano è santo; ciò che alcuni amano ed altri odiano non è né santo né non santo,
oppure santo e non santo nello stesso tempo. Vuoi dunque che si ponga ora in questi termini la
definizione del santo e del non santo?

EUTIFRONE E cosa ce lo impedisce, Socrate?

SOCRATE A me veramente nulla lo impedisce, Eutifrone; ma guarda tu se il discorso ti torna, e se


muovendo da questo presupposto ti riuscirà più facilmente di insegnarmi ciò che mi promettesti.

EUTIFRONE Ebbene, io direi che il santo è questo: ciò che tutti gli dèi amano, e il contrario, ciò che
tutti gli dèi odiano, è non santo.

SOCRATE Dobbiamo allora riesaminare ancora una volta questa definizione, Eutifrone, per sapere
se è formulata correttamente? Oppure dobbiamo lasciar correre, e dar retta senza discutere a noi
stessi e agli altri, e solo che qualcuno ci dica che una cosa sta in un certo modo, ammettere che stia
proprio così? O dobbiamo esaminare cosa vuol dire chi parla in questo modo?

EUTIFRONE Dobbiamo esaminare, certo. Ma io ritengo che ora la definizione sia stata formulata
correttamente.

SOCRATE Lo vedremo meglio subito, mio buon amico. Rifletti un po’ su questo: il santo viene amato
dagli dèi perché è santo, oppure è santo perché viene amato dagli dèi?

EUTIFRONE Non capisco cosa dici, Socrate.

SOCRATE Allora cercherò di esprimermi più chiaramente. Noi diciamo, di una cosa, che è portata e
che porta, che è condotta e che conduce, che è veduta e che vede. E tutte le espressioni di questo
genere capisci che sono tra loro diverse, e in quale maniera sono diverse?

EUTIFRONE Sì, mi sembra di capire.

SOCRATE E non diciamo che vi è anche una cosa che è amata, e che diversa da questa è la cosa che
ama?
EUTIFRONE E come no?

SOCRATE Ora dimmi: ciò che è portato, è portato perché viene portato, o per qualche altra ragione?

EUTIFRONE No, proprio per questa.

SOCRATE E similmente, ciò che è condotto non lo è perché viene condotto, e ciò che è veduto
perché viene veduto?

EUTIFRONE Certamente.

SOCRATE Dunque non perché una cosa è veduta, per questo viene veduta, ma al contrario, perché
viene veduta è veduta; e così, non perché è condotta viene condotta, ma perché viene condotta è
condotta; né perché è portata viene portata, ma perché viene portata è portata. Non è chiaro,
Eutifrone, cosa voglio dire? Voglio dire questo: che se qualcosa viene generata o patisce alcunché,
non perché è generata viene generata, ma perché viene generata è generata; né perché è paziente
patisce, ma perché patisce è paziente. O non sei d’accordo che sia così?

EUTIFRONE Sì, lo sono.

SOCRATE E anche ciò che è amato, non è dunque qualcosa che è generato o che patisce alcunché da
un’altra cosa?

EUTIFRONE Certamente.

SOCRATE Quindi anche per ciò che è amato il discorso è lo stesso che per i casi precedenti; e allora
non perché una cosa è amata, essa viene amata da coloro che l’amano, ma perché viene amata è
amata?

EUTIFRONE Necessariamente.

SOCRATE E che diciamo allora del santo, Eutifrone? Non viene forse amato da tutti gli dèi, secondo
il tuo ragionamento?

EUTIFRONE Sì.

SOCRATE E viene amato per questo, perché è santo, oppure per qualche altra ragione?

EUTIFRONE No, ma appunto per questo.

SOCRATE Dunque perché è santo, viene amato, ma non perché viene amato, per questo è santo.

EUTIFRONE Sembra.

SOCRATE Ma allora proprio perché viene amato dagli dèi, è amato e caro agli dèi.
EUTIFRONE E come no?

SOCRATE Quindi, Eutifrone, quello che è caro agli dèi non è santo, né il santo è caro agli dèi, come
dici tu; ma l’una cosa è diversa dall’altra.

EUTIFRONE E come mai, Socrate?

SOCRATE Perché abbiamo convenuto che il santo viene amato perché è santo, ma non che è santo
perché viene amato. Non è così?

EUTIFRONE Sì.

SOCRATE Ed abbiamo anche convenuto che ciò che è caro agli dèi perché viene amato dagli dèi,
appunto per questo suo venir amato, è caro agli dèi: ma non perché è caro agli dèi, per questo
viene amato da loro.

EUTIFRONE È vero.

SOCRATE Ma se ciò che è caro agli dèi e ciò che è santo fossero davvero identici, mio caro
Eutifrone, ne seguirebbe che, da un lato, se il santo veniva amato per il suo essere santo, anche ciò
che è caro agli dèi verrebbe amato per il suo essere caro agli dèi; dall’altro, se ciò che è caro agli
dèi era caro agli dèi per il suo venir amato dagli dèi, anche il santo sarebbe santo per il suo venir
amato. Ora invece, vedi che le due cose sono in opposizione, in quanto completamente diverse
l’una dall’altra. Infatti l’una, poiché viene amata, è tale da essere amata; l’altra, poiché è tale da
essere amata, per questo motivo viene amata. E può ben darsi che tu, Eutifrone, interrogato su che
cosa sia il santo, non voglia chiarirmi la sua essenza, ma dirmi, invece, una sua proprietà
accidentale: qualcosa cioè che al santo è accaduta, come il venir amato da tutti gli dèi. Ma cosa
realmente esso sia, non me l’hai ancora detto. Se dunque ti fa piacere, non tenermelo nascosto, ma,
di nuovo, dimmi dal principio cos’è realmente il santo, sia che venga amato dagli dèi, sia che gli
accada qualunque altra cosa; poiché su questo punto non saremo certo in disaccordo. Suvvia,
dimmi di buon animo: cos’è il santo e il non santo?

EUTIFRONE Ma, Socrate, io non so proprio come esprimerti quel che penso; infatti qualunque
definizione noi proponiamo, ci gira sempre intorno in un certo modo, e non vuole starsene ferma
dovunque la mettiamo.

SOCRATE Le cose che tu dici, Eutifrone, sembrano somigliare alle opere del mio antenato Dedalo. E
se queste definizioni le formulassi e le proponessi io, probabilmente tu mi canzoneresti, quasi che
anche a me, per la mia parentela con quello, le mie statue fatte di parole scappassero via e non
volessero star ferme là dove uno le metta. Ma ora, poiché quelle definizioni sono tue, c’è bisogno
di qualche altra arguzia: infatti non ti vogliono star ferme, come riconosci tu stesso.

EUTIFRONE Al contrario, Socrate: a me pare che queste definizioni abbiano bisogno, quasi quasi,
della medesima arguzia; perché non sono io quello che le fa girare intorno e non le fa star ferme
nello stesso posto; e via, il Dedalo mi pare che sia proprio tu! Perché, almeno per conto mio, se ne
starebbero ferme, così.

SOCRATE Allora, amico mio, c’è pericolo che io sia diventato assai più esperto nell’arte di quel
famoso uomo, in quanto egli faceva in modo che soltanto le sue statue non stessero ferme, mentre
io, oltre alle mie, a quanto pare non faccio star ferme neppure quelle degli altri. E certamente
questo è l’aspetto più ingegnoso della mia arte: che sono abile pur senza volerlo. Perché io
preferirei che i miei discorsi stessero fermi e rimanessero ben saldi, piuttosto che possedere le
ricchezze di Tantalo oltre all’abilità di Dedalo. E di questo però basti. Ma poiché mi sembra che tu
faccia il difficile, io stesso m’impegnerò a mostrarti come tu possa istruirmi su cosa sia il santo. E
non stancarti troppo presto. Su, vedi un po’ se non ti sembra necessario che tutto ciò che è santo sia
giusto.
T.13 L’IRONIA DI SOCRATE E
L’INTERIORITA’ DEI SUOI LOGOI
(Platone, Simposio, 214 E-222 B)

L’intervento di Alcibiade, che chiude la sequenza dei discorsi su Eros contenuti nel Simposio,
costituisce una delle descrizioni più vivide e coinvolgenti della personalità di Socrate a noi
pervenute. La figura stessa del locutore rende unico questo discorso; Alcibiade rappresenta infatti
uno dei personaggi più eccentrici (e interessanti) del panorama politico-culturale dell’Atene di fine
secolo (la sua importanza nell’ambito della cerchia socratica viene del resto confermata dal fatto
che, oltre a Platone, anche Antistene, Eschine, Euclide e Fedone scrissero dialoghi a lui dedicati):
bello, ricco, sfrontato, destinato a una carriera di successo, egli rappresenta, in un certo senso, la
falsificazione vivente della tesi socratica secondo la quale la conoscenza del bene è di per sé
garanzia dell’attuazione dello stesso, ossia della scelta di una vita buona. Alcibiade riconosce la
superiorità della vita filosofica – e dunque dimostra di avere compreso il senso dell’insegnamento
socratico – e tuttavia dichiara di non essere in grado di metterla in pratica, perché i richiami del
successo e del riconoscimento sociale (ossia i richiami della vita politica) sono per lui troppo forti.
Più di chiunque altro, Alcibiade comprende intellettualmente il senso del socratismo, senza però
dimostrarsi capace di metterlo in pratica. «Nei dialoghi giovanili e in quelli di mezzo c’è un unico
personaggio che mostra un reale apprezzamento nei confronti di ciò che è Socrate: si tratta di
Alcibiade nel Simposio. Il discorso di Alcibiade illustra in modo vivido la tensione che investe un
individuo attratto dalla forma di vita filosofica propagandata da Socrate ma incapace di resistere al
fascino del potere politico» (Prior, p.118).
Alcibiade è l’ultimo a prendere la parola e ad affrontare il tema dell’amore; mentre coloro che lo
hanno preceduto hanno tenuto discorsi in elogio di Eros, da un punto di vista doxastico (Fedro,
Pausania, Erissimaco, Aristofane e Agatone) e da un punto di vista autenticamente epistemico
(Socrate che ha riportato il discorso della sacerdotessa Diotima), Alcibiade parla non di Eros bensì
di Socrate, il quale assume in tale contesto le vesti di una personificazione vivente del demone. In
questo modo Alcibiade «rende visibile l’essenza dell’Eros sull’esempio di Socrate» (Gaiser, p. 56).
Il tratto peculiare della personalità di Socrate consiste, secondo Alcibiade, nella compresenza di
un aspetto esteriore e di uno interiore. Ciò lo rende simile alle statue dei Satiri e dei Sileni, le quali
esteriormente hanno la forma di un capro, ma al loro interno nascondono simulacri (agalmata)
preziosi (nelle botteghe degli scultori le statuette di sileni vengono utilizzate come cofanetti dove
deporre figure di divinità). Anche le melodie del flautista Marsia presentano questo doppio motivo:
da un lato commuovono e incantano, dall’altro esortano alla virtù. I discorsi di Socrate agiscono
dunque su un duplice registro: essi, pur trattando di argomenti apparentemente futili, mettono in
discussione i presunti saperi dei suoi interlocutori (e dei lettori dei dialoghi); se compresi nella loro
profondità, essi invitano poi ad abbracciare una vita finalizzata alla virtù dell’anima. «Una tensione
tra esteriorità e interiorità deve essere sicuramente stata caratteristica del Socrate storico. Socrate
poteva apparire come un illuminista, alla stessa stregua di tanti altri sofisti [...]. Eppure non gli
mancava un punto di riferimento interiore, una certezza morale» (Gaiser, pp. 60-1).
La profondità dei logoi di Socrate, ossia la presenza di differenti livelli di lettura, si esprime
anche nella sua celebre ironia (eirôneia ). Si tratta di un atteggiamento dissimulatore in virtù del
quale Socrate cela la propria opinione o assume un punto di vista che non corrisponde del tutto a ciò
che egli sa. «L’ironia è un atteggiamento psicologico secondo cui l’individuo cerca di parere
inferiore a quello che è: si svaluta da solo. Nell’uso e nell’arte del discorso, questa disposizione si
manifesta con una tendenza a fingere di dare ragione all’interlocutore, a fingere di adottare il punto di
vista dell’avversario» (Hadot, pp. 93-4). L’espressione paradigmatica dell’ironia socratica è
probabilmente rappresentata dalla celebre professione di ignoranza e dalla conseguente richiesta di
farsi discepolo dei propri interlocutori; con ciò il filosofo si colloca nella posizione ideale per
operare la confutazione del falso sapere di cui costoro sono presuntuosamente in possesso. In realtà
l’ironia – tema al quale sono state dedicate migliaia di pagine – costituisce la nozione che meglio
esprime la profondità e la trasversalità del discorso di Socrate: esso non significa mai
semplicemente la lettera di ciò che dice; la sua verità si trova celata alla superficie e ha a che fare
non solo (e non tanto) con la trasmissione di contenuti dottrinali, ma soprattutto con la capacità di
indirizzare l’anima (attraverso la seduzione e l’incantamento) all’assunzione di comportamenti
virtuosi. Infine, essa esprime la natura stessa della filosofia, che è essenzialmente un bios, una forma
di vita. «L’ironia socratica non è l’unica nell’accettare l’onere di libertà che è inerente a ogni
comunicazione significativa. È l’unica nel suo porre in quel gioco la scommessa più alta che nessun
altro abbia mai fatto nella filosofia occidentale. Socrate non dice che la conoscenza in base alla
quale lui e noi dobbiamo vivere è radicalmente diversa da ciò che chiunque ha mai inteso o perfino
immaginato come conoscenza morale. Dice solo che non ha conoscenza, anche se senza di questa è
dannato, e ci lascia a risolvere da soli l’enigma di cosa abbia voluto dire» (Vlastos, p.58).

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Belfiore, E., Elenchus, Epode, and Magic: Socrates as Silenus, «Phoenix» 34 (1980), pp. 128-37.

Gaiser, K., Platone come scrittore filosofico. Saggi sull’ermeneutica dei dialoghi platonici,
Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 55-76.

Hadot, P., Esercizi spirituali e filosofia antica, nuova edizione, trad. it., Einaudi, Torino 2005 (orig.
Paris 2002).

Ioppolo, A.M., Socrate e la conoscenza delle cose d’amore, «Elenchos» 20 (1999), pp. 53-74.
Prior, W.J., Why Did Plato Write Socratic Dialogues?, in M.L. McPherran (ed.), Wisdom Ignorance
and Virtue. New Essays in Socratic Studies, Academic Printing & Publishing, Edmonton 1997
(numero monografico di «Apeiron» 30.4), pp. 109-23.

Reale, G., Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano 2000, pp. 7-15.

Riedweg, Ch., Verführung zum Denken. Sokrates als Erotiker, in B. Neumann (Hrgb.), Verführung /
Seduction, Böhlau Verlag, Köln-Weimar-Wien, pp.13-23.

Vlastos, G., Socrate. Il filosofo dell’ironia complessa, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1998, pp.
27-58.
da Simposio, 214 E-222 B *
Comincerò subito E tu fa’ così. Se io dico qualcosa di non vero, interrompimi a metà, se credi, e di’
che quella è una menzogna: benché di proposito non mentirò. Se però io richiamerò i fatti alla
rinfusa... tu non ti meravigliare: non è per nulla facile, per chi sta nella mia condizione, illustrare per
filo e per segno la tua originalità.

Socrate, amici miei, mi sforzerò di lodarlo così, per via d’immagini. E forse lui crederà che io lo
canzoni, ma l’immagine tenderà al vero, non allo scherzo. Dunque io affermo che Socrate è in tutto
simile a quei sileni che sono esposti nelle botteghe degli scultori e che gli artisti scolpiscono con
zampogne o flauti in mano: sileni che, aperti in due, mostrano di contenere al loro interno simulacri
di divinità. E aggiungo che per un altro verso assomiglia al satiro Marsia. In fondo neppure tu, o
Socrate, potresti contestare di avere un aspetto simile a quelli; ma ora ascolta in che senso assomigli
ad essi anche per il resto. Non sei forse un prepotente? Se non lo ammetti, produrrò dei testimoni. E
non sei un flautista? Anzi, molto più meraviglioso di Marsia. Quello incantava gli uomini con la
potenza della sua bocca ma in virtù di strumenti, come fa anche oggi chi suona le sue melodie –
quelle che suonava Olimpo, io le attribuisco a Marsia, che gliele insegnò – orbene le melodie di
Marsia, che le suoni un artista valente o una mediocre flautista, inducono di per sé uno stato di
possessione e in quanto divine denunciano chi ha bisogno degli dei e delle iniziazioni. Tu invece lo
superi di gran lunga già per il fatto che ottieni lo stesso risultato senza strumenti ma con la nuda
parola. In effetti, quando ci accade di ascoltare qualcuno che fa un discorso o un bravissimo dicitore
che riferisce le parole altrui, francamente la cosa non interessa nessuno; ma quando uno ascolta te o
anche chi riferisce i tuoi discorsi, per quanto sia mediocre nel dire, e che li ascolti una donna o un
uomo o un ragazzo, ne restiamo sbigottiti e come posseduti. Io stesso, amici miei, se non rischiassi di
passare per completamente ubriaco, vi racconterei sotto giuramento le impressioni che ho ricevuto e
ricevo tuttora dai suoi discorsi. Quando ascolto, il cuore mi balza in petto più che ai coribanti e per
le sue parole le lacrime mi colano giù, e vedo che moltissimi altri subiscono i medesimi effetti.
Udendo Pericle e altri valenti oratori, io credevo che parlassero bene, ma non ricevevo nessuna
impressione del genere, e l’anima non mi tumultuava né soffriva di sentirsi in uno stato di schiavitù,
ma più volte questo Marsia mi ha messo in una condizione tale da credere che la vita non fosse più
degna per me di essere vissuta nello stato in cui mi trovo ora. Questo, o Socrate, non potrai dire che
non è vero. E sono tuttora consapevole che, se solo volessi porgere l’orecchio, non resisterei ma
subirei i medesimi effetti. In realtà mi costringe a riconoscere che, pur con tutte le manchevolezze che
mi affliggono, continuo a trascurare me stesso per occuparmi degli affari degli Ateniesi. Perciò io mi
costringo a turarmi le orecchie e fuggo via come dalle Sirene, per non restare seduto qui e
invecchiare accanto a lui. Soltanto al cospetto di quest’uomo ho sperimentato una sensazione che
nessuno crederebbe che io possa provare: vergognarmi di fronte a qualcuno; e io provo vergogna
solo di fronte a lui, appunto. Sono consapevole di non poter contestare il dovere di fare ciò che lui
mi raccomanda, e d’altra parte di essere sopraffatto dagli onori che mi vengono dalle masse, non
appena mi allontano da lui. Così lo sfuggo, lo scanso, e quando lo vedo mi vergogno per ciò su cui ci
eravamo accordati. E non di rado sarei contento di vederlo scomparire dalla terra; ma se questo
accadesse, so che ne soffrirei molto di più. Così non so proprio che fare di quest’uomo.
Dunque dalle sonate di questo satiro abbiamo subìto simili effetti, io e molti altri; quanto al resto,
ascoltate quanto è simile a coloro a cui l’ho paragonato e quanto prodigioso è il suo potere. State pur
certi che nessuno di voi lo conosce; ma visto che ho cominciato, vi rivelerò io la sua natura. Voi
vedete che Socrate si innamora dei belli e gira sempre intorno ad essi e ne resta sconvolto, e d’altra
parte ignora tutto e non sa nulla. E quanto alla sua figura, non è da sileno? Eccome! Questa figura lui
se l’è avvolta all’intorno esternamente, come il sileno scolpito; ma all’interno, una volta aperto,
riuscite a immaginare, o miei compagni di bevute, di quanta temperanza è ricolmo? Dovete sapere
che a lui non importa nulla se uno è bello, ma lo disprezza oltre ogni dire, né gli importa se uno è
ricco né se possiede qualunque altro dei pregi che la gente esalta: tutti questi possessi li considera
privi di qualsiasi valore e noi stessi ci valuta delle nullità – ve lo garantisco io – e passa tutta la vita
fingendo ignoranza e burlandosi di tutto e di tutti. Ma quando è serio e apre il suo intimo, non so se
qualcuno ha visto i simulacri che sono dentro di lui; ma io una volta li ho visti, e mi sono sembrati
così divini ed aurei e bellissimi e meravigliosi da spingere a fare, in breve, tutto ciò che Socrate
comanda. E ritenendo che si fosse infatuato della mia bellezza, credetti in un colpo di fortuna, in un
meraviglioso successo per me, in quanto mi sarebbe stato possibile, compiacendo Socrate, udire tutto
ciò che lui sapeva; del resto, andavo molto fiero della mia bellezza. Con queste intenzioni, mentre in
precedenza non ero solito incontrarmi da solo a solo con lui, presi a congedare l’accompagnatore per
stargli vicino da solo – perché bisogna che vi confessi tutta la verità; ma voi state attenti, e se mento
tu, o Socrate, smaschera la mia menzogna – dunque, amici miei, lo incontravo da solo a solo, e
credevo che lui avrebbe attaccato subito coi discorsi che gli innamorati sono soliti fare agli amati
quando si trovano a tu per tu con loro, e ne gioivo. Però non accadde nulla di tutto questo, ma dopo
aver conversato come al solito con me per tutta la giornata, se ne andò. Dopo un po’ lo invitai a fare
ginnastica insieme; e feci appunto ginnastica insieme a lui, sperando di raggiungere per questa via
qualche risultato. E lui si esercitò con me e lottò più volte senza che nessuno fosse presente; ma che
vi devo dire? Non facevo nessun progresso. Allora, dato che di questo passo non approdavo a nulla,
credetti di capire che l’uomo bisognava aggredirlo con la forza, senza mollare la presa, pur di sapere
come stavano le cose. Dunque lo invito a cena, per tendergli un agguato proprio come fanno gli
innamorati con gli amati. E neppure in questo caso mi diede retta sul momento; però dopo un po’ si
lasciò convincere. Ma la prima volta che si presentò, dopo aver cenato volle andar via subito. E per
quella volta, avendo ritegno a insistere, lo lasciai andare; ma la volta dopo, teso il mio agguato, dopo
cena conversai ininterrottamente con lui fino a notte inoltrata, e quando cercò di andar via, col
pretesto che era tardi, lo costrinsi a rimanere. Allora si riposò nel letto che stava accanto al mio e sul
quale aveva cenato; e pensare che nella stanza non c’era nessun altro a dormire, all’infuori di noi! E
fin qui tutto bene: è un racconto che si potrebbe fare a chiunque; ma d’ora in poi non mi ascoltereste
parlare, se non fosse perché, come dice il proverbio, in vino veritas, coi fanciulli e senza i fanciulli;
e poi non mi sembra giusto, ora che mi sono accinto a lodare Socrate, passare sotto silenzio un suo
atto di superbia. E il dolore per il morso del serpente mi fa ancora soffrire. A quanto si dice, chi lo
ha sperimentato non vuol confessare quel che ha patito se non a quelli che abbiano sofferto lo stesso
morso, poiché soltanto costoro capiranno e lo compatiranno se per il dolore ha osato e tutto fare e
tutto dire. Orbene io, morso da puntura più dolorosa e nella parte più sensibile in cui si può essere
morsi – ero stato colpito e morso nel cuore o nell’anima o comunque si voglia chiamare questa parte,
e morso da discorsi di filosofia, i quali si attaccano più fieramente di una vipera, quando afferrano
un’anima giovane e bennata, e spingono a fare e a dire qualsiasi cosa – e d’altra parte vedendomi
davanti gente come Fedro e Agatone ed Erissimaco e Pausania e Aristodemo e Aristofane; Socrate
stesso, e tutti gli altri, che bisogno c’è di nominarli? Siete tutti partecipi della follia, del delirio
bacchico della filosofia – perciò ascolterete tutti, in quanto voi tutti vorrete compatire quel che allora
feci e dissi. Quanto a voi, servi, o se qui c’è qualche altro individuo profano e indotto, sbarratevi gli
orecchi con porte massicce.
Ebbene, amici, quando la lucerna fu spenta e i servi furono usciti, mi sembrò arrivato il momento
di non ricorrere più a sotterfugi con lui, ma di confessargli apertamente i miei sentimenti. E
scuotendolo gli dissi: «Stai dormendo, Socrate?».
«Niente affatto» rispose.
«Sai che cosa ho deciso?»
«Che cosa?»
«Io ti considero» dissi «il solo amante degno di me, e mi sembra che tu esiti a dichiararti. Io per
me sono arrivato alla conclusione che non considero irragionevole compiacerti in questo o qualsiasi
altro bene, mio o dei miei amici. Per me nulla è più onorevole che diventare quanto migliore mi
riesce, e credo che a questo fine nessuno può aiutarmi più validamente di te. Non compiacendo un
uomo quale tu sei, ne proverei vergogna davanti alle persone intelligenti più di quanta ne proverei,
compiacendoti, di fronte alla massa degli ignoranti.»
E lui, dopo avermi ascoltato, mi rispose con molta ironia, secondo il suo carattere e il suo modo di
fare: «Mio caro Alcibiade, vuol dire che non sei uno sciocco, se è vero quel che dici di me, e se
realmente esiste in me un potere in virtù del quale puoi diventare migliore: tu vedresti in me una
bellezza irresistibile, infinitamente superiore al fascino che tu possiedi. Se dunque, mirando ad essa,
cerchi di concludere un affare con me barattando bellezza con bellezza, ingente è il profitto che
intendi lucrare a danno mio, anzi in luogo dell’apparenza tu cerchi di acquistare la realtà del bello e
veramente mediti di scambiare oro con bronzo. Tuttavia, mio carissimo, sta’ attento e controlla se io,
essendo di fatto una nullità, non ti metto di mezzo. La vista del pensiero incomincia a vedere acuto
quando prende a scemare la vista degli occhi; ma tu sei ancora ben lontano da questo punto».
E io, di rimando: «Per me le cose stanno così, e non ho detto nulla di diverso da quel che penso; e
dunque decidi tu quel che consideri meglio per te e per me».
«Sì,» disse «su questo hai ragione. Vuol dire che per il futuro ci consulteremo e faremo quel che ci
sembrerà meglio sia in questo che in qualsiasi altra cosa.»
Orbene io, dopo questo colloquio, e avendo scagliato come dei dardi, credevo che lui ne fosse
rimasto ferito; e alzatomi, e senza lasciargli più aprire bocca, lo avvolsi nel mio manto, proprio
questo – era inverno – e mi infilai sotto il suo mantellaccio, e gettate le braccia attorno a questo
essere veramente demonico e meraviglioso, rimasi sdraiato così tutta la notte. E nemmeno su questo,
o Socrate, puoi dire che mento. Ma essendomi comportato in questa maniera, lui si mostrò così
superiore e disprezzò la mia bellezza e se ne fece beffe e la umiliò – e pensare che per bellezza
credevo di valere qualcosa, signori giudici: siete appunto giudici della superbia di Socrate – e
sappiate bene, per tutti gli dei e per tutte le dee, che mi levai dal letto dopo aver dormito con Socrate
proprio come se avessi dormito con mio padre o con un fratello maggiore.
Dopo questo episodio quale immaginate che fosse il mio stato d’animo, ora che da una parte mi
sentivo umiliato, in parte ammiravo l’indole e la temperanza e il coraggio di lui, con la certezza di
aver incontrato un uomo quale mai avrei creduto di poter incontrare, quanto a intelligenza e coraggio?
Perciò non potevo adirarmi, col rischio di privarmi della sua compagnia, e d’altra parte non avevo
modo di riconciliarmi con lui. Sapevo bene che era più invulnerabile al denaro di quanto Aiace lo
fosse al ferro, e l’unico mezzo con cui credevo che potesse essere conquistato, mi era sfuggito di
mano. Così mi sentivo perduto, reso ormai schiavo da quest’uomo come mai nessuno da nessun altro.
Comunque sia, tutto questo avvenne prima che partecipassimo entrambi alla campagna di Potidea,
dove fummo commilitoni. In quell’occasione lui mi superò non solo nel sopportare le fatiche, ma in
qualsiasi altra cosa – per esempio, se restavamo tagliati fuori ed eravamo costretti a digiunare, come
capita in guerra, nessuno all’infuori di lui era capace di resistere alla fame – e d’altra parte nei
banchetti era il solo a godersela e proprio lui, a cui non piace bere, li vinceva tutti, se vi era
costretto; ma il fatto più singolare è che nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che ne avremo
ben presto la prova. Quanto poi alla capacità di resistere al freddo – e là gli inverni sono terribili –
diede esempi straordinari di sopportazione, e una volta che c’era un gelo spaventoso, e tutti gli altri o
non uscivano dalla tenda o vi uscivano tutti imbacuccati e calzati e coi piedi fasciati di lana e di pelli
di pecora, ecco che lui, con quel freddo, uscì col suo solito mantello, e camminava scalzo sul
ghiaccio meglio che gli altri calzati, e i soldati lo guardavano storto, come se li volesse umiliare. E
questo è quanto.
E or che mai fece e patì il forte eroe
là un giorno in quella campagna, mette conto di ascoltarlo. Una volta che gli venne un certo
pensiero, restò in piedi a partire dall’alba nello stesso posto speculando, e poiché l’idea non faceva
progressi, non si arrese ma continuò a stare in piedi meditando. Ed era già mezzogiorno, e tutti se ne
erano accorti, e pieni di stupore si dicevano l’un l’altro che Socrate stava in piedi dall’alba
rimuginando qualcosa. Alla fine alcuni Ioni, dato che era venuta sera, dopo cena – si era d’estate –
portarono fuori dei giacigli, sia per dormire al fresco sia per controllare se sarebbe rimasto in piedi
anche la notte. E lui stette ritto finché si levò il sole: poi, dopo aver rivolto una preghiera all’astro,
se ne andò. E ora, se non vi dispiace, veniamo alle battaglie – perché è doveroso rendergli questo
riconoscimento; quando appunto ci fu lo scontro in occasione del quale i generali mi conferirono un
attestato al valore, fu proprio lui che mi salvò, non accettando di abbandonarmi ferito, e con me salvò
anche le mie armi. E io, o Socrate, proposi subito ai generali che si tributasse a te la palma del
migliore, e di questo non mi potrai rimproverare né potrai dire che mento; senonché, dato che i
generali avevano riguardo al mio rango sociale e desideravano assegnare a me il riconoscimento,
proprio tu ti mostrasti più zelante dei generali perché lo ricevessi io e non tu. E ancora, amici miei,
fu proprio una fortuna aver visto Socrate in azione allorché il nostro esercito si ritirò in fuga da Delio
(c’eravamo entrambi, io come cavaliere e lui da fante). Orbene, lui e Lachete procedevano insieme,
dopo la rotta; ed io li incontro, e riconosciutili subito li esorto a non disperare, e prometto loro che
non li avrei abbandonati. Ebbene, in questa occasione ebbi modo di ammirare Socrate ancor più che
a Potidea – io, essendo a cavallo, ero meno esposto ai pericoli – in primo luogo nel vedere quanto
fosse superiore a Lachete per presenza di spirito; e poi mi pareva, o Aristofane, per usare la tua
espressione, che anche lì camminasse come qui, a testa alta e storcendo gli occhi, sbirciando in tutta
calma amici e nemici e lasciando intendere a tutti che se qualcuno lo avesse appena sfiorato, non gli
sarebbe certo mancata la forza di reagire. Così ne vennero fuori senza rischi, lui e il suo compagno.
Infatti in guerra chi adotta questo tipo di comportamento non viene neanche sfiorato, ma finiscono per
essere inseguiti proprio quelli che fuggono a rotta di collo.
E in molti altri e singolari aspetti si può lodare Socrate, ma per molte sue peculiarità si potrebbe
forse dire lo stesso anche di altri: ciò che invece merita di suscitare la più profonda meraviglia è il
suo essere diverso da qualsiasi altro uomo, del passato come del presente. Brasida e altri come lui li
potremmo immaginare simili ad Achille, e potremmo mettere a confronto Pericle con Nestore o
Antenore o con altri ancora, e potremmo continuare con raffronti analoghi; ma un uomo come Socrate,
quanto a originalità, lui come i suoi discorsi, per quanto si cerchi non lo si può trovare, e neppure chi
gli si avvicini, né fra i vivi né fra gli antichi, a meno che lo si paragoni a quelli che ho indicato io,
non dunque a uomini, ma a sileni e satiri, e lui e i suoi discorsi.
In verità ho tralasciato finora questo aspetto, e cioè che anche i suoi discorsi sono in tutto simili ai
sileni che si aprono. Se infatti uno si mette ad ascoltare i discorsi di Socrate, a tutta prima gli
appariranno ridicoli, date le parole e le frasi di cui si avvolgono, come della pelle di un satiro
insolente. Tira in ballo asini e fabbri e calzolai e pellai, e sembra che ripeta sempre la stessa solfa
con le stesse parole, al punto che ogni persona inesperta e superficiale scoppierebbe a ridere. Ma se
uno li vede aperti e vi penetra dentro, dapprima scopre che sono gli unici discorsi che abbiano una
mente al loro interno, e poi che sono divini e contengono in sé molteplici simulacri di virtù e tendono
al fine più alto, anzi a tutto ciò che dovrebbe investigare chi vuol diventare un uomo compiutamente
realizzato.
Queste, amici miei, sono le cose di cui rendo lode a Socrate; e d’altronde, mescolandovi le cose
per cui lo biasimo, vi ho spiegato in che cosa mi ha offeso. Comunque sia, non ha fatto così solo con
me, ma anche con Carmide di Glaucone e con Eutidemo di Diocle e con tanti altri: dando loro ad
intendere di voler esserne l’amante, ne è diventato lui l’amato. E proprio questo raccomando anche a
te, Agatone: non lasciarti ingannare da lui, ma sta’ in guardia, ammaestrato dalle nostre esperienze, e
non voler imparare a tue spese, come lo sciocco del proverbio.
D. LA VIRTÙ, IL BENE, LA FELICITÀ
T.14 L’EDONISMO RAZIONALE OVVERO
L’ARTE DELLA MISURA
(Platone, Protagora, 351 B-359 A)

Questa sezione del Protagora rappresenta da sempre uno dei testi platonici relativi al pensiero di
Socrate più enigmatici. In effetti, Socrate sembra sostenere un punto di vista edonistico relativamente
alla natura del bene e della felicità, mentre altrove, ad esempio nel Gorgia (cfr. T.15 e 16), egli
critica apertamente la prospettiva edonistica, mettendone in luce l’inconsistenza teorica e la
sostanziale contraddittorietà. Come interpretare allora la tesi apparentemente edonistica che Socrate
sostiene in questa sezione del Protagora? Secondo alcuni essa rispecchia effettivamente il punto di
vista socratico, mentre altri studiosi sono decisamente inclini a considerare l’edonismo qui
presentato come estraneo alla posizione socratico-platonica (Socrate se ne farebbe portavoce solo
per esigenze collegate alla dinamica dialogica di questo scritto).
Prima di tentare di fornire una risposta al problema dell’adesione di Socrate alla tesi edonistica, è
il caso di chiarire la natura di questa posizione filosofica. Si tratta di una concezione che equipara il
bene (agathon), e dunque la felicità connessa al suo possesso, al piacere (hêdonê); essa stabilisce
dunque una sostanziale identificazione tra le cose buone e quelle piacevoli, e tra quelle cattive e le
dolorose. Il fatto che Socrate sembri aderire a una posizione di questo tipo non significa però che
essa rispecchi effettivamente il suo punto di vista. La disponibilità a concedere all’interlocutore
alcuni assunti, per poi esaminarne la consistenza interna, costituisce uno dei tratti più tipici del
metodo socratico; è dunque verosimile che anche a proposito della tesi edonistica, egli ne assuma il
contenuto a mo’ di concessione (fatta a Protagora e più in generale allo spirito del tempo), per
svolgere poi un’analisi dettagliata di un simile assunto. Se l’assunzione dell’edonismo sembra
rappresentare una concessione, il metodo con cui Socrate esamina questa tesi è tipicamente socratico,
come dimostra il fatto che tale analisi conduce all’esposizione di alcuni teoremi filosofici certamente
di matrice socratica (come, ad esempio, quello che afferma che il vizio è frutto di ignoranza e che
nessuno erra volontariamente).
Da un punto di vista generale, l’edonismo esposto (e apparentemente accettato) in questa sezione è
diverso da quello sostenuto da Callicle nel Gorgia; là si trattava di un edonismo radicale, fondato
sull’immediatezza, mentre qui Socrate si propone di incorporare una componente conoscitiva e
riflessiva all’interno della prospettiva edonistica, arrivando addirittura a delineare i contorni di una
vera e propria arte metretica (technê metrêtikê), ossia di una tecnica del calcolo razionale dei
piaceri. Del resto, l’idea che la prospettiva edonistica, se sviluppata in modo consequenziale,
comporti l’assunzione di un elemento conoscitivo e razionale, verrà ripresa ampiamente da Platone,
ancora per bocca di Socrate, in un dialogo tardo come il Filebo.
Socrate osserva che l’edonismo irriflesso e radicale comporta una serie di vere e proprie
assurdità logiche, come quella implicita nell’affermazione che qualcuno non sceglie il bene perché
sopraffatto dal bene (ossia dal piacere). In verità, l’errore dell’edonista radicale è di natura
conoscitiva e dipende da un deficit di sapere: egli sceglie x, ossia una cosa piacevole, credendo che
x sia per lui un bene; tuttavia ignora che x si rivelerà un male per lui; in altri termini, egli non è in
grado di dare profondità temporale alle sue decisioni. «L’edonista non si sbaglia riguardo a ciò che è
piacevole (e pertanto per lui un bene) e riguardo a ciò che è doloroso (e pertanto per lui un male), ma
si sbaglia nel non porre il presente in rapporto al futuro (egli non si sbaglia nel ritenere che mangiare
cibi piccanti è piacevole, ma si sbaglia nel non preoccuparsi del mal di pancia che ne seguirà)»
(Leszl, p. 609). Proprio al fine di evitare questi errori prospettici legati alla dimensione temporale,
Socrate suggerisce di assumere un’arte della misurazione, tramite la quale risulti possibile calcolare
la quantità di piacere e di dolore – dunque, nella prospettiva edonistica, di bene e di male – che
consegue a un determinato comportamento. Ma è chiaro che la concessione iniziale, ossia
l’equivalenza tra bene e piacere, non può esprimere compiutamente il punto di vista di Socrate.
Resta il fatto che anche all’interno di una prospettiva squisitamente edonistica la fonte dell’errore
risiede in una mancanza di sapere, dal momento che nessuno persegue volontariamente il male (ossia,
per un edonista, il dolore). Socrate sembra volere fare i conti con un punto di vista diffuso nella
cultura ateniese dell’epoca, per dimostrare che anche se ci si muove all’interno di una simile
dimensione (che egli non condivide), rimangono fermi alcuni assunti fondamentali relativi alla natura
della virtù e del vizio, primo fra tutti quello che individua in un deficit epistemico la fonte
dell’errore morale.
Va infine osservato che il richiamo alla tecnica metretica potrebbe rappresentare una concessione,
non aliena da elementi polemici, alla nota concezione protagorea dell’uomo come misura (metron) di
tutte le cose.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Bontempi, M., L’agire umano e le arti della misurazione in Platone , Editoriale Scientifica, Napoli
2004, pp. 27-102.

Leszl, W., La funzione della tesi edonistica nel ‘Protagora’ e oltre, in G. Casertano (a cura), Il
‘Protagora’ di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2004, pp. 574-638.

Migliori, M., Socrate è forse un edonista?, in G. Casertano (a cura), Il ‘Protagora’ di Platone:


struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2004, pp. 528-73.

Wesoly, M., La salvezza della vita: un’arte e una scienza del misurare (‘Protagora’, 356c-357a),
in G. Casertano (a cura), Il ‘Protagora’di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli
2004, pp. 513-27.
Zeyl, D.J., Socrates and Hedonism: ‘Protagoras’ 351b-358d, «Phronesis» 25 (1980), pp. 250-69.
da Protagora, 351 B-359 A*
«Ma diresti,» ripresi io, «che alcuni uomini vivono bene e altri male, Protagora?» «Sì.» «E ti sembra
che un uomo potrebbe vivere bene tra dolori e tormenti?» «No.» «Se invece giungesse alla fine della
sua esistenza dopo una vita piacevole, non ti pare che così avrebbe vissuto bene?» «A me sì.»
«Allora è bene vivere in modo piacevole, male vivere spiacevolmente?» «Sempre che si viva
godendo delle cose belle» rispose. «Ma come, Protagora? Anche tu, come i più, chiami cattive
alcune cose piacevoli e buone altre spiacevoli? Voglio dire, in quanto le cose sono piacevoli, non
sono anche buone, indipendentemente da qualunque altra cosa ne derivi? E ancora, le cose
spiacevoli, in quanto spiacevoli, non sono cattive?» «Non so, Socrate,» disse «se ti devo rispondere
con la stessa semplicità con cui tu mi interroghi che tutte le cose piacevoli sono buone e le spiacevoli
cattive; mi sembra più prudente risponderti, non solo rispetto a questa discussione, ma anche a tutta
la mia vita, che tra le cose piacevoli ve ne sono alcune non buone, che tra quelle spiacevoli alcune
non sono cattive e altre invece lo sono, e che in terzo luogo ve ne sono alcune che non sono né l’uno
né l’altro, né cattive né buone.» «Ma non chiami piacevoli» insistei «le cose che contengono o
producono un qualche piacere?» «Certo» rispose. «Questo appunto intendo, chiedendo se, in quanto
sono piacevoli, non siano anche buone, cioè se il piacere in sé non sia buono.» «Come tu dici
sempre, Socrate,» disse «esaminiamo la questione, e se l’esame apparirà conforme a quanto si è
detto, e il piacevole e il buono risulteranno essere la stessa cosa, ci troveremo d’accordo; se no,
discuteremo.» «Vuoi essere tu» chiesi «a condurre l’indagine, o devo farlo io?» «È giusto» rispose
«che la conduca tu; perché sei tu che hai posto il problema.» «Forse» domandai «le cose ci
diventeranno chiare in questo modo? È come se qualcuno, per esaminare dall’aspetto di un uomo il
suo stato di salute o qualche altra efficienza fisica, dopo aver visto il viso e le mani, dicesse:
“Suvvia, scopriti e mostrami il petto e la schiena affinché possa esaminarti meglio”; così anch’io per
la nostra indagine desidero qualcosa di simile. Avendo visto che la pensi così come dici sul buono e
sul piacevole, devo chiederti questo: “Coraggio, Protagora, scoprimi anche questo aspetto del tuo
pensiero: che cosa ne pensi della conoscenza? Anche su questo hai la stessa opinione dei più, o
diversa? La maggioranza della gente pensa questo della conoscenza, che non è autorevole, né può
governare o guidare; e non credono solo questo, ma anche che nell’uomo che la possiede non sia essa
a governare, bensì qualcos’altro, ora la passione ora il piacere, talvolta il dolore e altre l’amore, ma
spesso la paura, perché pensano alla conoscenza semplicemente come ad una serva, trascinata qui e
là da tutte le altre cose. Anche tu credi qualcosa del genere, o ritieni che la conoscenza sia una cosa
bella e capace di governare l’uomo, e che se uno sapesse che cosa è bene e che cosa è male non si
lascerebbe dominare da nulla, ché non agirebbe se non come gli ordina la conoscenza, e che la
saggezza sia un aiuto sufficiente per l’uomo?”.»
«Non solo la penso come te, Socrate,» disse «ma per me più che per un altro sarebbe vergognoso
affermare che sapienza e conoscenza non siano le qualità migliori dell’uomo.» «Dici bene» dissi io
«e dici il vero. Ma sai che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te, ma dice che i
molti, se anche conoscono le cose migliori, pur potendo non vogliono farle e agiscono diversamente;
e tutti coloro a cui ho chiesto quale sia mai il motivo di ciò mi hanno risposto che lo fanno perché
vinti dal piacere o dal dolore, o perché sopraffatti da una di quelle passioni che dicevo poco fa?» «In
effetti, Socrate,» rispose «credo che gli uomini dicano anche molte altre cose sbagliate.» «Suvvia,
cerca con me di convincere la gente e di insegnar loro cos’è questo loro patire che chiamano essere
vinti dai piaceri, a causa del quale non agiscono per il meglio pur conoscendolo. Perché forse se noi
dicessimo: “Non è giusto quel che dite, signori, vi sbagliate”, ci domanderebbero: “Protagora e
Socrate, se questo patire non è esser vinti dal piacere, allora cos’è, che cosa dite che sia?
Rispondeteci!”.» «Ma, Socrate, che bisogno abbiamo di indagare l’opinione della maggioranza degli
uomini, che dice ciò che capita?» «Credo» risposi «che per noi questo sia importante per scoprire, a
proposito del coraggio, in che rapporto stia con le altre parti della virtù. Se dunque ti sembra giusto
restare alle cose che abbiamo convenuto prima, che io devo condurre l’indagine per quella che credo
sia la strada migliore, seguimi; se invece non vuoi, se preferisci, lascerò perdere.» «Ma no,» disse
«parli bene; continua come hai cominciato. »
«Da capo, allora,» ripresi «se ci chiedessero: “Che cosa dite che sia, ciò che noi definivamo
essere sopraffatti dai piaceri?” io per me risponderei loro così: “Ascoltate, ché io e Protagora
cercheremo di spiegarvelo. Signori, è forse qualcosa di diverso, quel che voi dite vi accade in questi
casi, dal fatto che spesso, trascinati dai piaceri del cibo, del bere e della carne, pur sapendo che sono
cose cattive, tuttavia vi ci abbandonate lo stesso?”. Direbbero di sì. E allora io e te chiederemmo
ancora: “Ma in che senso dite che sono cattive? Forse perché procurano questo piacere al momento e
ognuna di esse è piacevole, o perché in un secondo momento portano malattie e povertà e procurano
molti altri simili mali? E se non provocassero alcuna di queste cose in futuro, ma dessero soltanto
piacere, sarebbero ugualmente cattive per qualunque motivo e in qualsiasi modo producano tale
piacere?”. Che cosa pensiamo che risponderebbero, Protagora, se non che sono cattive non perché
offrono un piacere momentaneo in se stesso ma per ciò che accade dopo, malattie e via dicendo?»
«Io credo» affermò Protagora «che i più risponderebbero così.» «E sarebbero anche d’accordo,
credo, sul fatto che producono dolore perché causano malattie e portano povertà.» Protagora ne
convenì. «“Perciò, signori,” potremmo concludere così: “sembra che per voi, come diciamo sia io
sia Protagora, questi siano mali per nessun altro motivo se non perché finiscono in dolori e privano
di altri piaceri.” Lo ammetterebbero?» Fummo entrambi d’accordo.
«Ma se ponessimo la domanda contraria: “Gente, quando dite che vi sono beni dolorosi, intendete
cose come la ginnastica, le azioni militari e le cure mediche come le cauterizzazioni, le amputazioni,
le medicine e i digiuni, che sono buone, ma dolorose?”. Direbbero di sì?» Così gli sembrò. «“Allora
forse per questo le chiamate buone, perché al momento procurano sofferenze estreme e dolori, ma in
un secondo momento da esse derivano salute, benessere fisico, salvezza per le città, potere sugli altri
e ricchezze?” Credo che sarebbero d’accordo.» Ne convenne. «“Ma queste non sono buone se non
perché si risolvono in piaceri ed eliminando i dolori ce ne liberano? O avete da indicare qualche
altro fine rispetto al quale le chiamate beni, oltre ai piaceri e ai dolori?” Direbbero di no, credo.»
«Credo anch’io» disse Protagora. «“Allora inseguite il piacere in quanto bene e fuggite il dolore in
quanto male?”» Protagora assentiva. «“E questo considerate male, il dolore, e bene il piacere, poiché
anche il provare piacere dite che è male qualora privi di piaceri più grandi di quanti ne offre, o
procuri dolori maggiori dei piaceri che ha in sé; perché se diceste che è male il provare piacere in
quanto tale per qualche altra ragione e per qualche altro fine, potete dirlo anche a noi; ma non
potrete.”» «Non penso neanch’io» disse Protagora. «Ora, daccapo: “Anche riguardo al soffrire in
quanto tale, non è lo stesso? Non lo definite un bene quando allontana più dolori di quanti ne
comporti, o procuri più piaceri che dolori? Perché se avete in mente un altro motivo, quando
chiamate il soffrire un bene, diverso da quello di cui parlo, potete dircelo; ma non potrete”.» «È
vero» confermò Protagora. «E ancora, signori,» continuai «se mi chiedeste: “Per quale motivo insisti
tanto e così a lungo su questo?”, “Scusatemi” risponderei. “Innanzitutto non è facile dimostrare che
cosa sia mai questa cosa che voi chiamate essere vinti dai piaceri; inoltre è su questo che si fondano
tutte le altre dimostrazioni. Ma potete ancora tornare indietro, se potete sostenere che il bene sia altro
dal piacere o che il male sia qualcosa di diverso dal dolore; o vi basta trascorrere piacevolmente la
vita senza dolori? Se vi accontentate, e non riuscite a sostenere che il bene e il male siano qualcosa
di diverso dal piacere e dal bene, ascoltate quel che ne consegue. Vi dico infatti che, stando così le
cose, il vostro discorso è ridicolo, quando dite che spesso un uomo che conosce i mali e sa che sono
mali li fa lo stesso, pur potendo non farli, perché è spinto e turbato dai piaceri; non solo, ma dite
anche che l’uomo, pur sapendo ciò che è bene, non vuole farlo a causa dei piaceri del momento da
cui è sopraffatto. Che ciò sia ridicolo risulterà evidente se non useremo tanti nomi insieme, cioè
piacere, dolore, bene e male, ma, poiché è chiaro che due sono le cose, le indicheremo anche con due
nomi, prima con bene e male, poi con piacere e dolore. Stabilito questo, diciamo che l’uomo, pur
sapendo che i mali sono mali, li fa ugualmente. E se qualcuno ci chiedesse “Perché?”,
risponderemmo: “Perché è vinto”. “Da che cosa?” ci domanderà quello; e noi non potremo più dire:
“Dal piacere” perché il piacere ha assunto un altro nome, invece di “piacere”, “bene”; e gli
risponderemmo dicendo che è vinto, “Da che cosa?” chiede lui, “Dal bene, per Zeus!”. Se poi chi ci
interroga fosse un tipo insolente, riderà e dirà: “È ridicolo quel che dite, che uno fa del male pur
sapendo che è male e che non deve farlo, perché è vinto dal bene. Forse” dirà “in voi il bene non
merita di vincere il male, o sì?” Risponderemo certamente che non lo merita, altrimenti chi abbiamo
detto che è sopraffatto dai piaceri non farebbe niente di male. “E in che cosa” potrebbe continuare lui
“i beni sono meno degni dei mali o i mali dei beni? Forse solo in questo, che gli uni sono più grandi
e gli altri più piccoli? O che gli uni sono di più e gli altri di meno?” Non potremmo rispondere
altrimenti. “È chiaro, allora,” dirà “che ciò che voi chiamate essere vinto è scegliere un male
maggiore invece di un bene minore”. Ed è proprio così.
«Mettiamo ora al posto di questi nomi piacere e dolore, e diciamo che l’uomo compie, allora
dicevamo cose cattive, ora diciamo cose dolorose, sapendo che sono dolorose, perché vinto dai
piaceri, che evidentemente non meritano di vincere. E quale altro demerito ha il piacere rispetto al
dolore, se non quello di essere un difetto o un superamento di uno sull’altro? Il che significa che uno
è più grande o più piccolo dell’altro, più o meno numeroso, più o meno intenso. E se qualcuno
dicesse: “Ma, Socrate, il piacere del momento è molto diverso dal piacere e dal dolore futuri”, io
risponderei: “In qualche altra cosa che non siano il piacere e il dolore?”. Non può essere che così.
Ma tu, poiché sei un uomo capace di pesare, poni da una parte i piaceri e dall’altra i dolori, e
aggiungi alla bilancia anche il fatto di essere vicini e lontani, e poi di’ quali pesano di più. Se infatti
pesi cose piacevoli con cose piacevoli, prenderai le più grandi e le più numerose; se invece le
dolorose con le dolorose, le più piccole e meno numerose. Ma se pesi le cose piacevoli con le
dolorose, e se i piaceri sono superati dai dolori – dolori vicini da piaceri lontani o mali lontani da
piaceri vicini – si devono scegliere questi; se invece i piaceri sono soverchiati dai dolori, non si
devono scegliere; “Non è così, signori?” chiederei. So bene che non si può sostenere niente di
diverso.» Sembrava così anche a lui.
«“Se le cose stanno in questo modo,” proseguirei “ditemi se ai vostri occhi la stessa grandezza
appare maggiore da vicino e minore da lontano, oppure no.” Risponderanno di sì. “E non è così
anche per la consistenza e il numero? Voci uguali non sembrano più forti da vicino e più deboli da
lontano?” Lo ammetterebbero. “Se allora la nostra felicità stesse in questo, nell’usare e prendere le
dimensioni grandi e sfuggire e non utilizzare quelle piccole, in che cosa finirebbe per consistere la
conservazione della vita? Nell’arte della misurazione, oppure nella forza delle apparenze? Queste
non ci farebbero forse sbagliare e cambiare continuamente opinione sulle stesse cose, nelle azioni e
nella scelta del grande e del piccolo, mentre la misurazione non renderebbe forse vana questa
apparenza, e rivelando la verità non farebbe sì che l’anima, poggiando su di essa, fosse tranquilla,
conservandoci così la vita?” Sarebbe quella gente d’accordo con noi che è l’arte della misurazione a
conservarci, o no?» «La misurazione» ammise. «E se la conservazione della nostra vita stesse nello
scegliere il pari e il dispari, e nel decidere quando è giusto scegliere il più e quando il meno,
considerato in se stesso o in relazione ad altro, vicino o lontano che sia, che cosa sarebbe a
conservarci la vita? Non una forma di conoscenza? Non una qualche misurazione, visto che è l’arte
dell’eccesso e del difetto? E trattandosi del meno e del più, quale se non l’aritmetica? Questa gente
ci darebbe ragione, o no?» Anche a Protagora sembrava che sarebbero stati d’accordo. «“Bene,
signori, poiché è risultato che la conservazione della nostra vita consiste nella scelta corretta del
piacere e del dolore, del più e del meno, del maggiore e del minore, del più lontano e del più vicino,
non vi sembra che si tratti innanzitutto di una misurazione, essendo la ricerca dell’eccesso, del difetto
e dell’equilibrio di piaceri e dolori?”» «Ma certo.» «“E dato che è una misurazione, certo è
necessariamente un’arte e una scienza.”» «Lo ammetteranno. » «“Di quale arte e quale scienza si
tratti, lo vedremo poi; che sia una scienza, questo è sufficiente per la dimostrazione che io e
Protagora dobbiamo darvi intorno alle cose di cui ci chiedevate.
«“Ci poneste questa domanda, se vi ricordate, dopo che ci mettemmo d’accordo sul fatto che nulla
è superiore alla conoscenza, ma che, in qualunque caso, questa abbia sempre il predominio sia sul
piacere sia su ogni altra cosa; voi invece dicevate che il piacere spesso domina anche l’uomo che sa,
ma poiché noi non eravamo d’accordo con voi, dopo di questo ci domandaste: ‘Protagora e Socrate,
se questo stato d’animo non è essere sopraffatti dal piacere, allora che cosa è mai, e che cosa dite
che sia? Rispondete.’ Se allora subito vi avessimo risposto che è ignoranza, voi avreste riso di noi;
ma ridete di noi ora e riderete di voi stessi. Anche voi infatti avete ammesso che coloro che
sbagliano nella scelta dei piaceri e dei dolori, cioè dei beni e dei mali, sbagliano per mancanza di
conoscenza, e non solo di conoscenza, ma di quella particolare scienza che avete riconosciuto prima,
la scienza della misurazione. Ora, sapete anche voi che una condotta sbagliata per mancanza di
conoscenza è dovuta a ignoranza, sicché essere vinti dai piaceri è questo: ignoranza suprema, quella
della quale il nostro Protagora dice di essere medico e così anche Prodico e Ippia. Ma poiché voi
credete che sia qualcosa di diverso, non andate dai maestri di queste cose, i sofisti, né ci mandate i
vostri figli, come se esse non si potessero insegnare. D’altra parte, poiché vi preoccupate del vostro
denaro e non volete darlo a loro, le cose vi vanno male, sia quelle private sia quelle pubbliche.”
«Questo avremmo risposto alla maggioranza della gente; e ora, Ippia e Prodico, poiché il
ragionamento deve essere comune, insieme a Protagora vi chiedo se vi sembra che io dica il vero o
sbagli. » Stranamente a tutti sembrava che quel che si era detto fosse vero. «Dunque,» ripresi
«ammettete che il piacere è bene e il dolore male. Io però respingo la distinzione dei nomi di
Prodico; infatti che tu dica piacevole, dilettevole o godibile, o qualunque nome ti piaccia dare a
questa cosa, ottimo Prodico, rispondi a quel che ti chiedo.» Ridendo, Prodico si disse d’accordo, e
così gli altri. «Che cosa pensate di questo?» ripresi. «Tutte le azioni volte a una vita senza dolori e
piacevole, forse non sono belle? E l’opera bella non è buona e utile?» Così sembrava. «Se allora»
continuai «il piacere è un bene, nessuno, sapendo o credendo che altre cose siano migliori di quelle
che fa e possibili a realizzarsi, continua a fare queste, potendo far di meglio; quindi essere vinti da se
stessi non è altro che ignoranza, né il vincere su se stessi altro che sapienza.» Erano tutti d’accordo.
«E quindi? Definite ignoranza l’avere una falsa opinione e sbagliarsi sulle cose di grande valore?»
Anche su questo erano d’accordo. «Allora,» dissi «nessuno va volontariamente verso il male né
verso ciò che ritiene tale, e non sembra essere nella natura dell’uomo il desiderio di rivolgersi a ciò
che si ritiene male invece di andare verso il bene; del resto, quando si è costretti a scegliere tra due
mali, nessuno sceglie il maggiore, potendo optare per il minore.» Tutte queste cose sembravano
giuste a tutti. «E poi» chiesi «c’è qualcosa che chiamate timore e paura? Ed è ciò che dico io? Dico a
te, Prodico. Io penso che sia una specie di previsione di un male, che voi la chiamiate paura o
timore.» Protagora e Ippia erano d’accordo che questo fossero il timore e la paura, mentre per
Prodico era timore, ma non paura. «Però non è questo che importa, Prodico,» dissi «bensì ciò che
dirò ora. Se quel che abbiamo affermato è vero, quale uomo vorrà andare verso le cose che teme,
potendo dirigersi verso ciò che non teme? Non è impossibile in base a ciò che abbiamo convenuto?
Infatti si è concordato che si considerano cattive le cose che si temono, e che nessuno va incontro né
sceglie volontariamente ciò che ritiene cattivo.» Anche su questo erano tutti d’accordo.
T.15 FELICITÀ E AUTARCHIA
(Platone, Gorgia, 491 E-497 D)

Nel corso del dialogo, Gorgia e Polo cedono il ruolo di interlocutore di Socrate a Callicle, una delle
figure più controverse e misteriose presenti nel corpus platonico, la cui stessa esistenza storica viene
messa in dubbio (soprattutto in considerazione della totale assenza di riscontri letterari al di fuori di
questo dialogo). Callicle si fa portavoce di una forma radicale di edonismo, la quale identifica il
bene con il piacere. In tale ottica la virtù (nel significato prestazionale del termine) consisterà nella
capacità di soddisfare tutti i desideri (epithymiai) che di volta in volta si presentano all’individuo.
La temperanza, ossia la capacità di porre un freno a questi desideri, viene intesa da Callicle come
una forma di schiavitù, dal momento che il soggetto risulta frenato da un sistema di norme a lui
esterno (sostanzialmente rappresentato dalla legge). Callicle arriva a contrapporre la condizione
naturale, che consiste nel continuo soddisfacimento dei propri desideri, ai sistemi normativi, i quali
impongono il dominio dei più deboli (incapaci di soddisfare questi desideri) sui più forti. Egli
auspica quindi un ripristino dei diritti della natura (physis) a danno di quelli della legge (nomos) e
dunque una piena legittimazione del dominio del più forte (l’uomo tirannico) sui più deboli.
La risposta di Socrate è complessa, articolata e non sempre del tutto soddisfacente sul piano
argomentativo. In realtà, egli sembra contrapporre a quello di Callicle un diverso stile di vita, senza
però operare una confutazione radicale del punto di vista del suo interlocutore. Sul piano della
confutazione, Socrate osserva che la felicità dell’individuo callicleo rischia di non essere di fatto
raggiungibile, in quanto i desideri, per loro stessa natura, una volta soddisfatti si riproducono
indefinitivamente. Le immagini della botte forata e del setaccio vorrebbero appunto esprimere in
modo plastico la condizione di perenne insoddisfazione che caratterizza l’etica edonistica prefigurata
da Callicle: «Chi non domina i propri desideri e lascia che si ingrandiscano è come un orcio bucato
oppure come qualcuno che vuole riempire un tale orcio. I desideri non hanno limiti e, se li si vuole
soddisfare, non c’è più fine alla fatica poiché, non appena si riesce a placarne uno, subito ne nasce un
altro, e così via» (Wolf, p.199).
A una concezione della felicità come dipendente dall’incessante soddisfacimento (in realtà mai
compiuto) dei desideri, Socrate contrappone un’idea sostanzialmente autarchica, in base alla quale è
felice chi non sente il bisogno di nulla (492 E); si tratta di un punto di vista attestato anche altrove
(Senofonte in Memorabili , I 6, 10 fa dire a Socrate, a proposito della felicità, «io credo che non
avere bisogno di niente sia proprio degli dèi e l’avere bisogno del meno possibile sia la condizione
più vicina al divino, e siccome il divino è il migliore, ciò che è più vicino a lui è più vicino al
migliore»), ma che non è esente da problemi e difficoltà, come testimonia la stessa reazione di
Callicle, per il quale la felicità vagheggiata da Socrate è propria delle pietre e dei morti. Del resto,
come dimostrano altri documenti di matrice platonica (cfr. ad esempio T. 17), anche Socrate sembra
concepire la felicità come uno stato parzialmente dinamico, in cui l’elemento tensionale (connesso a
una condizione di deficit) gioca un ruolo fondamentale.
In realtà la risposta di Socrate alla tesi edonistica di Callicle non si fonda tanto sulla proposizione
di una radicale autarchia, quanto su un’articolata teoria dell’anima, e in particolare della virtù come
perfezione, salute e ordine dell’anima (cfr. T.16).

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Fussi, A., Retorica e potere. Una lettura del ‘Gorgia’ platonico, ETS, Pisa 2006, pp. 203-20.

Lavecchia, S., Una via che conduce al divino. La homoiosis theo nella filosofia di Platone, Vita e
Pensiero, Milano 2006, pp. 55-57.

Santas, G.X., Socrate. La filosofia dei dialoghi giovanili di Platone , trad. it., Vita e Pensiero,
Milano 2003, pp. 294-98.

Wolf, U., La filosofia come ricerca della felicità. I dialoghi giovanili di Platone, trad. it. Cortina,
Milano 2001, pp.196-202.
da Gorgia, 491 E - 497 D*
CALLICLE Ma sentilo, lui! Quelli che chiami temperanti sarebbero poi gli scemi!

SOCRATE Perché? Non ho detto così, e chiunque lo capirebbe.

CALLICLE Sì invece, Socrate! Come può essere felice un uomo che è schiavo di qualcuno? In tutta
franchezza, il comportamento giusto e bello per natura si riduce a questo: chi vuol vivere bene
deve lasciare che i suoi desideri crescano a dismisura, senza frenarli, e poi deve essere
abbastanza coraggioso e intelligente da realizzarli, per grandi che siano; deve soddisfare
qualunque capriccio gli salti in testa. È chiaro che la massa non è capace di agire così: e allora
criticano quelli che ci riescono, e dicono che l’intemperanza è una cosa riprovevole; ma la verità è
che si vergognano, che cercano di nascondere la loro incapacità. Te lo dicevo anche poco fa: la
gente vorrebbe domare quegli uomini che hanno doti naturali superiori; siccome loro non sono
capaci di soddisfare i loro piaceri, predicano la temperanza e la giustizia. Tutto perché sono dei
mezzi uomini. Ma prendi quelli che fin dall’inizio hanno avuto la fortuna di essere figli di re, o
quelli che con le loro doti si sono costruiti una posizione di potere e sono diventati re o tiranni:
per questi uomini, in realtà, che cosa potrebbe essere più brutto e più vergognoso della temperanza
e della giustizia? Ma come? Possono avere tutto quello che vogliono, senza che nessuno glielo
impedisca, e dovrebbero loro stessi imporsi un padrone e accettare le leggi della gente comune, le
loro chiacchiere e le loro critiche? Non sarebbe una gran scalogna per loro vivere secondo
giustizia e temperanza, che a te sembrano così belle? Non potrebbero in nessun modo favorire gli
amici rispetto ai nemici, pur detenendo il potere nella loro città! Visto che dici di amare la verità,
Socrate, diciamola, la verità: la virtù e la felicità consistono nel lusso, nella sfrenatezza e nella
libertà, a patto beninteso di poterla realizzare; tutto il resto, le belle chiacchiere e le convenzioni
umane contro natura, non sono che buffonate senza valore.

SOCRATE Quando parli non ti mancano certo il coraggio e la franchezza, Callicle. Dici chiaro e
tondo quello che anche gli altri pensano, ma si vergognano di dire. Perciò ti prego: continua così,
in modo che alla fine risulti chiaro qual è il giusto modo di vivere. Vediamo un po’: tu sostieni che
uno non deve tenere a freno i desideri, se vuole realizzarsi pienamente, ma deve lasciarli crescere
il più possibile e poi riuscire a realizzarli, in un modo o nell’altro; la virtù non sarebbe altro che
questo. È così che la pensi?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Allora sbagliano quelli che dicono che è felice chi non sente il bisogno di nulla?

CALLICLE A questa stregua, sarebbero felici anche i sassi e i morti.

SOCRATE Ma è ben dura anche la vita di quelli che dici tu; non mi stupirei che avesse ragione
Euripide, quando si chiede:
chi sa se vivere è morire
e morire vivere?

E noi stessi forse siamo morti, in realtà! Una volta ho sentito dire da un sapiente che qui noi
siamo morti e che il corpo è la nostra tomba, e che c’è una parte della nostra anima, quella in
cui nascono i desideri, che si lascia facilmente persuadere e trascinare in su e in giù. Anzi, c’è
stato un uomo di spirito – un siciliano o un italiano, credo – che ci ha ricamato sopra un mito:
giocando con le parole, ha chiamato «vaso» questa parte dell’anima che è facile da
impressionare e da convincere, e gli sciocchi li ha chiamati «non iniziati»; e vedendo che negli
sciocchi la parte passionale dell’anima è dissoluta e incontentabile, per significare la sua
insaziabilità ha usato l’immagine del vaso forato. E al contrario di quel che pensi tu, Callicle,
lui dice che nell’Ade – Ade per lui è «l’invisibile» – i non iniziati sono i più sventurati, e
devono versare acqua in un vaso forato con un setaccio pieno di fori. Questo setaccio secondo
lui sarebbe l’anima, a detta di quello che mi raccontava il mito: e con l’immagine del setaccio
ha voluto far capire che l’anima degli sciocchi è forata, dato che non riesce a trattenere in sé
niente, per colpa della sua instabilità e della sua smemoratezza. Sono allegorie un po’ strane,
non c’è dubbio: ma chiariscono quello che vorrei dimostrarti, ammesso che ne sia capace, in
modo da persuaderti a cambiare idea, a rinunciare a una vita dissoluta e insaziabile e a preferire
una vita ordinata, che sa apprezzare quel che ha e se ne accontenta. Ma mi chiedo se riuscirò a
farti cambiare opinione, a convincerti che le persone regolate sono più felici di quelle
intemperanti; o è inutile stare a raccontarti altre storie, perché tanto non ti lascerai persuadere?

CALLICLE È più probabile questa seconda possibilità, Socrate.

SOCRATE Senti, ti propongo un altro apologo, preso dalla stessa scuola. Se sei d’accordo, la vita di
un uomo temperante e di un uomo dissoluto possono essere paragonate alla situazione di due
uomini che possiedono molti vasi pieni: un vaso di vino, un altro di miele, uno di latte, e molti altri
pieni di molti altri liquidi. In entrambi i casi, si tratta di sostanze rare, difficili da trovare e
reperibili solo a grandissima fatica. Supponi adesso che uno dei due abbia vasi sani, e dopo averli
riempiti non debba più pensare a rifornirli, e quindi possa stare tranquillo; l’altro ha anche lui
liquidi preziosi, che si possono sì trovare, ma a gran fatica; solo che ha vasi guasti e pieni di
buchi, ed è costretto a rabboccarli continuamente, giorno e notte, se vuole evitare guai grossissimi.
In queste condizioni, ti pare che la vita dell’uomo dissoluto sia più felice di quella dell’uomo
temperante? Servono a qualcosa questi argomenti? Sei d’accordo con me che una vita disciplinata
è migliore di una vita dissoluta? O non ti persuado?

CALLICLE Non mi persuadi, Socrate. Quel tale che ha riempito i vasi una volta per tutte, poi non
prova più nessun piacere. È come ti dicevo prima: una volta che li hai riempiti, poi vivi come un
sasso, senza godere e senza soffrire. E invece il piacere della vita consiste in questo, in un flusso
continuo di beni.

SOCRATE Ma se affluiscono continuamente dei beni, è inevitabile che molti anche si perdano; ci
saranno dei buchi di scarico enormi, non credi?

CALLICLE Sì, senza dubbio.

SOCRATE Ma allora altro che la vita di un sasso o di un morto! È la vita di un piccione, quella che
descrivi! Di’ un po’: la vita che ti piace consiste nell’aver fame e nel mangiare per soddisfare la
fame?

CALLICLE Sì.

SOCRATE E bere per soddisfare la sete?

CALLICLE Certo, e così anche per tutti gli altri desideri: vivere felici vuol dire aver la possibilità di
soddisfarli e provarne piacere.

SOCRATE Benissimo, amico mio: continua come hai cominciato, senza farti prendere dalla
vergogna. Ma anch’io, a quanto pare, non devo esser troppo pudibondo. E allora comincia a dirmi
questo: metti che uno ha la scabbia e ha voglia di grattarsi, e avendo la possibilità di grattarsi a
suo piacimento passa tutto il tempo a grattarsi; anche la sua è una vita felice?

CALLICLE Che assurdità, Socrate! Sei un vero oratore da piazza. SOCRATE È per questo che ho
messo in difficoltà Polo e Gorgia e li ho fatti vergognare. Ma sono sicuro che tu non andrai in
confusione e non ti farai prendere dalla vergogna, perché sei coraggioso. Perciò rispondimi, e
basta.

CALLICLE E allora ti dico che si può avere una vita piacevole anche grattandosi.

SOCRATE Piacevole e dunque anche felice?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Vuoi dire uno che si gratta solo la testa, o anche... devo continuare? Pensa a che risposte
ti toccherebbe dare, Callicle, se uno ti facesse una dopo l’altra tutte le domande che conseguono a
ciò che hai detto! Ma visto che parliamo di comportamenti strani, prendiamo il più estremo di tutti,
quello degli invertiti. Non ti pare che la loro vita sia terribile, vergognosa e miserabile? O avrai il
coraggio di dire che anche loro sono felici, se trovano in abbondanza quel che cercano?

CALLICLE Non ti vergogni di tirare il discorso su argomenti simili, Socrate?

SOCRATE Ma non è colpa mia, amico caro! La colpa è di quello che sostiene, con la massima
tranquillità, che chi gode è felice, per qualunque cosa goda, senza distinguere fra piaceri buoni e
piaceri cattivi. Adesso però chiariscimi questo punto: secondo te il piacere e il bene sono la stessa
cosa, o fra i piaceri ce ne sono alcuni che non sono buoni?

CALLICLE Va be’, diciamo che sono la stessa cosa. Se no, corro il rischio di contraddirmi, se dico
che c’è una differenza.

SOCRATE Ma così distruggi tutto il buono che hai costruito prima, Callicle! Non val più neanche la
pena che continuiamo insieme a cercare la verità, se affermi cose che non corrispondono al tuo
pensiero.

CALLICLE Anche tu fai così, Socrate.

SOCRATE Se faccio così, vuol dire che non mi comporto bene neanche io, non solo tu. Ma tu,
carissimo, davvero pensi che il bene consiste nel piacere, a qualsiasi costo? Se fosse così, ne
verrebbero tutte quelle conseguenze imbarazzanti a cui accennavamo prima, e molte altre ancora.

CALLICLE Questa è solo la tua opinione, Socrate.

SOCRATE Ma tu davvero confermi la tua risposta?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Allora dobbiamo discuterla, come se tu parlassi sul serio?

CALLICLE Certamente.

SOCRATE Bene, visto che la pensi così, rispondi con precisione: c’è una cosa che chiami
conoscenza?

CALLICLE Sì.

SOCRATE E non affermavi un momento fa che c’è anche il coraggio, oltre alla conoscenza?

CALLICLE È vero.

SOCRATE E quando parlavi di queste due cose, intendevi che sono diverse l’una dall’altra, no?

CALLICLE Certo.

SOCRATE E il piacere e la conoscenza sono la stessa cosa o sono cose diverse?

CALLICLE Diverse, mio dottissimo amico.

SOCRATE E anche il coraggio è diverso dal piacere?


CALLICLE Come no?

SOCRATE Bene: ricordiamoci tutti che Callicle, del demo di Acarne, ha detto che il piacere e il
bene sono la stessa cosa, e che la conoscenza e il coraggio sono diversi fra loro e diversi dal bene.

CALLICLE E Socrate, del demo di Alopece, non è d’accordo con me; o sì, invece?

SOCRATE No, non è d’accordo. E neanche Callicle, credo; almeno, dopo che ci avrà riflettuto sopra
un po’ meglio. Di’ un po’: chi sta bene si trova nella condizione opposta di chi sta male, non ti
pare?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Perciò, se sono due condizioni opposte, deve valere per esse ciò che vale per la salute e
la malattia: ossia, un uomo non può essere sano e malato contemporaneamente, e neppure può
ammalarsi e guarire contemporaneamente.

CALLICLE In che senso?

SOCRATE Considera, per esempio, una qualsiasi parte del corpo, e rispondimi: capita che uno si
ammali agli occhi, che abbia un’oftalmia?

CALLICLE Come no?

SOCRATE E se è in questo stato, si può dire che ha anche gli occhi sani?

CALLICLE No, è ovvio.

SOCRATE E quando guarisce dall’oftalmia, perde anche la salute degli occhi? Va a finire che perde
sia la salute che la malattia?

CALLICLE Certamente no.

SOCRATE Sarebbe una cosa ben strana e incredibile, non ti pare? CALLICLE Senza dubbio.

SOCRATE In realtà uno o perde l’una o perde l’altra, alternativamente; no?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Questo vale anche per la forza e la debolezza?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Anche per la velocità e la lentezza?

CALLICLE Certo.
SOCRATE Prendi adesso i beni e la felicità, e i loro contrari, ossia i mali e l’infelicità: anche qui,
uno li riceve o li perde alternativamente, no?

CALLICLE Senz’altro.

SOCRATE Perciò, se troviamo cose che un uomo può ricevere e perdere contemporaneamente, è
chiaro che non possono essere il bene e il male. Siamo d’accordo su questo punto? Rifletti bene
prima di rispondere!

CALLICLE Sono d’accordo al cento per cento!

SOCRATE Torniamo a dove eravamo rimasti. Avevi detto che la fame è piacevole o penosa? La fame
in quanto fame, voglio dire.

CALLICLE Penosa! Però mangiare quando si ha fame è piacevole. SOCRATE Sì, certo; capisco
bene. Ma comunque la fame in sé e per sé è penosa, non è vero?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Anche la sete?

CALLICLE Molto.

SOCRATE Devo continuare a farti domande, o ammetti che ogni bisogno e ogni desiderio sono
penosi?

CALLICLE Basta con questo tipo di domande: lo ammetto. SOCRATE D’accordo. Ma tu non sostieni
che bere quando si ha sete è piacevole?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Ma dicendo «quando si ha sete», è come se tu dicessi «quando si soffre», non ti pare?

CALLICLE Sì.

SOCRATE E bere è la soddisfazione di un bisogno, quindi un piacere?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Perciò affermi che nell’atto di bere si prova piacere? CALLICLE Moltissimo.

SOCRATE Almeno se uno ha sete.

CALLICLE Esatto.

SOCRATE Ossia, se soffre?


CALLICLE Sì.

SOCRATE Ma vedi allora quel che succede? Quando dici che uno ha sete e beve, è come se dicessi
che prova contemporaneamente dolore e piacere. Perché sono due sensazioni che si producono
insieme nello stesso punto del corpo, ovvero dell’anima (in questo caso, non c’è nessuna
differenza). Sei d’accordo? È così o no?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Ma tu dicevi che, se uno sta bene, non può anche star male contemporaneamente.

CALLICLE È vero.

SOCRATE E adesso invece ammetti che si può provare piacere mentre si soffre.

CALLICLE Così sembra.

SOCRATE Allora star bene non consiste nel provare piacere, e star male non si identifica col
soffrire; quindi, il piacere è qualcosa di diverso dal bene.

CALLICLE Non so dove vuoi arrivare con queste sottigliezze da sofista, Socrate.

SOCRATE Sì che lo sai, Callicle! Solo che fai finta di non capire. Ma avanti con la nostra
discussione!

CALLICLE Perché vuoi continuare con queste chiacchiere?

SOCRATE Perché così puoi capire quanto hai ragione a criticarmi! Chiunque di noi, bevendo, smette
di aver sete e contemporaneamente di provare piacere, no?

CALLICLE Non capisco che cosa stai dicendo.

GORGIA Non dire così, Callicle: rispondi! Fallo per noi, almeno, in modo che la discussione vada
avanti.

CALLICLE Ma vedi che Socrate è proprio incorreggibile, Gorgia! Cerca sempre di confutarti con
queste domandine sciocche e irrilevanti.

GORGIA E a te che importa? Non sta a te giudicarle, Callicle: tu lascialo discutere come vuole.

CALLICLE Va bene: avanti con queste domandine minute e pignole, visto che Gorgia vuole così.

SOCRATE Beato te, Callicle: sei stato iniziato ai Grandi Misteri prima che ai Piccoli; non credevo
che fosse permesso. Devi ancora rispondere alla domanda di prima, ossia se noi bevendo
smettiamo di aver sete e contemporaneamente smettiamo di provare piacere.
CALLICLE La risposta è sì.

SOCRATE La stessa cosa non vale anche per la fame, e per tutte le altre voglie e gli altri piaceri?
Non cessano contemporaneamente?

CALLICLE È così.

SOCRATE Quindi smettiamo nello stesso tempo sia di soffrire sia di godere?
T.16 L’ORDINE DELL’ANIMA E LA VIRTÙ
(Platone, Gorgia, 503 C-509 C)

La confutazione del punto di vista edonistico sostenuto da Callicle si presenta, come abbiamo visto
(T. 15), problematica e non può dirsi veramente compiuta. In realtà Callicle non si lascia persuadere
da Socrate e il confronto tra le forme di vita di cui i due personaggi si fanno portavoce appare per
molti aspetti un dialogo tra sordi (essendo tali modelli esistenziali tra loro incommensurabili). Il
fallimento del tentativo di persuasione operato da Socrate trova espressione nel rifiuto di Callicle di
proseguire il dialogo. D’altra parte, sebbene non esente da difficoltà e forse da vere e proprie
fallacie, l’argomentazione di Socrate ha ottenuto qualche risultato; essa è riuscita, ad esempio, a
mettere in evidenza la natura sostanzialmente inconcludente (ossia votata a una insoddisfazione
perenne) dell’edonismo radicale professato da Callicle. Ma se il bene, e la felicità ad esso connessa,
non sono il piacere, con che cosa si possono identificare? La risposta di Socrate viene esposta in
questa sezione del Gorgia ancora una volta per mezzo dell’analogia tra anima e corpo.
Come il benessere di un corpo, ossia il suo stato di salute, corrisponde a una condizione armonica
tra tutte le sue parti, così il benessere dell’anima, ossia la virtù, equivale a un corretto e armonico
rapporto tra gli elementi (forze, motivazioni, desideri) che la costituiscono. Se solo un corpo sano
può adempiere con successo alle proprie funzioni, allo stesso modo solo un’anima virtuosa può
realizzare pienamente le proprie potenzialità, consentendo a chi la possiede di essere felice. «La
concordanza consiste in un’armonia delle forze che compongono l’anima; da parte sua, tale armonia
si produce nel corso di un continuo esame di se stessi compiuto all’insegna della saggezza. Poiché
l’armonia interiore comporta l’approvazione di se stessi e la soddisfazione per la propria bontà, la
vita imperniata sul continuo esame di se stessi potrebbe contenere un momento costitutivo della
felicità soggettiva» (Wolf, p.206).
La tesi secondo cui la bontà dell’anima equivale all’ordine armonico delle sue parti viene
argomentata da Socrate per mezzo di un’altra celebre analogia, quella con l’attività artigianale. Egli
osserva infatti che la condizione virtuosa dell’anima può essere equiparata a quella di un prodotto
artigianale, il quale è buono (ossia prestazionalmente efficiente) nella misura in cui è dotato di ordine
(taxis), vale a dire nella misura in cui le sue parti sono disposte secondo il corretto schema
prestabilito; nel caso dell’anima, ancora una volta, la sua virtù (ossia la capacità di assolvere
compiutamente ai suoi compiti) si ha quando essa è ordinata, ossia risponde a uno schema d’ordine
prestabilito.
Platone non fa dire al Socrate del Gorgia quale sia questo ordine. Per saperlo, ossia per sapere
quale sia la posizione di Platone (è difficile dire se anche di Socrate), occorre attendere la
Repubblica , dove il Socrate ormai platonizzato che guida il dialogo espone una complessa teoria
delle parti o piuttosto dei centri motivazionali dell’anima (quello razionale, quello impulsivo e
collerico, e quello desiderante) e indica nell’asservimento gerarchico delle parti irrazionali
(l’impulsiva e la desiderante) a quella razionale (la calcolativa) l’ordine che consente l’ingenerarsi
della giustizia nell’anima. Anticipazioni di un simile esito si trovano nel nostro passo laddove
Socrate accenna alle virtù che sorgono in un’anima ordinata; si tratta della temperanza (sôphrosynê),
del coraggio (andreia) e della giustizia (dikaiosynê), ossia di tre delle quattro virtù cardinali di cui
si parlerà nella Repubblica.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Cambiano, G., Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 21-25.

Wolf, U., La filosofia come ricerca della felicità. I dialoghi giovanili di Platone, trad. it., Cortina,
Milano 2001, pp. 202-06.

Woolf, R., Callicles and Socrates: Psychic (Dis)harmony in the ‘Gorgias’, «Oxford Studies in
Ancient Philosophy» 18 (2000), pp. 1-40.
da Gorgia, 503 C - 509 C*
CALLICLE Come no? Temistocle, Cimone, Milziade: tutti dicono che erano brave persone. E poi
Pericle: è morto da poco, e tu hai fatto in tempo a sentirlo parlare.

SOCRATE Sì sì, ammesso che la vera virtù sia quella che dicevi tu prima: soddisfare i desideri
propri e degli altri. Ma se non consiste in questo, se la vera virtù è un’altra cosa, come gli sviluppi
del discorso poi ci hanno costretto a riconoscere: abbiamo detto che bisogna soddisfare quei
desideri che, una volta appagati, rendono un uomo migliore, non quelli che lo rendono peggiore, e
che c’è un’arte per far questo; sei in grado allora di dire se è mai esistito un uomo così?

CALLICLE Non so che cosa risponderti.

SOCRATE Se cerchi bene, troverai la risposta. Ma noi riflettiamo con calma, e vediamo se qualcuno
di quelli che hai citato ha avuto questa virtù. Un buon politico, che parla per il bene generale,
quando prende la parola non parla certo a caso, ma tenendo di mira qualcosa di preciso, no? Fa
come fanno tutti gli altri artigiani: con l’occhio fisso sul proprio lavoro, ciascuno aggiunge i pezzi
non a caso, ma scegliendoli in modo che l’oggetto a cui sta lavorando acquisti una forma
particolare. Guarda per esempio i pittori o, se preferisci, i costruttori di case o di navi; prendi un
artigiano qualunque, a tua scelta: ognuno aggiunge ciascun pezzo in un ordine ben preciso, in modo
che le varie parti combacino e si adattino perfettamente l’una all’altra, fino a quando viene fuori il
lavoro finito, ordinato e armonioso. Prima parlavamo degli esperti che si occupano del corpo, i
maestri di ginnastica e i medici; anche loro fanno come gli altri: cercano di dare ordine al corpo,
di metterlo in forma. Siamo d’accordo su questo punto, o no?

CALLICLE Diciamo di sì.

SOCRATE Perciò, una casa costruita con ordine e funzionalità sarà una buona casa, se no sarà una
casa pessima, non ti pare?

CALLICLE Sì.

SOCRATE E questo varrà anche per una nave?

CALLICLE Sì.

SOCRATE E anche per il nostro corpo?

CALLICLE Certo.

SOCRATE E per l’anima? Sarà il disordine a rendere buona un’anima oppure un certo ordine e una
certa funzionalità?
CALLICLE Dopo quel che s’è detto, non si può che essere d’accordo anche su questo punto.

SOCRATE Ora, se si parla di corpi, che cos’è il risultato dell’ordine e della funzionalità? Come lo
si può chiamare?

CALLICLE Vuoi alludere alla salute e alla forza, credo.

SOCRATE Esatto. E nell’anima qual è il risultato dell’ordine e della funzionalità? Cerca di trovare
anche in questo caso la definizione giusta, e dimmela.

CALLICLE Perché non lo dici tu stesso, Socrate?

SOCRATE Allora lo dico io, se preferisci: tu sta’ attento se ti sembra che dico cose giuste, se no
intervieni e non lasciar correre. A me pare che la buona forma del corpo sia connessa con la sfera
sanitaria: la conseguenza è la salute e ogni manifestazione di eccellenza fisica. È così o no?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Per l’anima, invece, la buona forma e la funzionalità sono legate alla legge e alla legalità.
Le loro manifestazioni sono la giustizia e la temperanza; è così che si formano gli uomini ripettosi
delle leggi e disciplinati. Sei d’accordo?

CALLICLE Diciamo di sì.

SOCRATE Allora quel retore di cui si parlava – quello che è paragonabile a un bravo artigiano –
terrà conto di tutto ciò nei discorsi che rivolgerà alle anime dei suoi ascoltatori; qualunque azione
intraprenda e qualunque concessione faccia e qualunque cosa tolga – nel caso in cui conceda o
tolga qualcosa – avrà sempre in mente lo stesso scopo, ossia promuovere nei suoi concittadini la
giustizia ed estirpare l’ingiustizia, promuovere la temperanza ed eliminare la sfrenatezza, far
nascere ogni forma di virtù e togliere il vizio. Sei d’accordo o no?

CALLICLE Sì.

SOCRATE E infatti, Callicle, che vantaggio c’è a somministare a un corpo malato e mal ridotto molte
cose da mangiare o da bere, anche le più squisite, o chissà che cos’altro? Non gli farebbero certo
bene, anzi in ultima analisi finirebbero per danneggiarlo ancor di più; non ti pare?

CALLICLE Diciamo di sì.

SOCRATE Non credo infatti che per un uomo sia un vantaggio vivere con un corpo mal ridotto: la
sua non può essere che una brutta vita; non è così?

CALLICLE Sì.

SOCRATE E anche i medici, se uno è sano, di solito gli permettono di soddisfare i propri desideri,
di mangiare a sazietà quando ha fame e di bere quando ha sete; ma se è malato, praticamente non
gli permettono mai di rimpinzarsi con quello che desidera; sei d’accordo anche tu?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Lo stesso vale per l’anima: non ti pare, amico mio? Finché è piena di vizi, ossia è
sciocca o intemperante o ingiusta o empia, bisogna impedirle di fare ciò che desidera e non
consentirle nient’altro se non ciò che può renderla migliore. Non trovi?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Perché così è nell’interesse stesso dell’anima, no? CALLICLE Certo.

SOCRATE Ma impedirle di fare ciò che desidera non è una sorta di correzione?

CALLICLE Sì.

SOCRATE Allora, per l’anima la correzione è meglio dell’intemperanza; proprio il contrario di


quello che dicevi pochi minuti fa.

CALLICLE Non capisco quel che stai dicendo, Socrate. Cercati qualcun altro per fargli le domande!

SOCRATE Quest’uomo non sopporta di essere aiutato. Neanche a farlo apposta, si sta parlando di
correzione: lui non accetta di lasciarsi correggere!

CALLICLE Fin qui ho risposto per far piacere a Gorgia, perché non m’importa niente di quel che stai
dicendo.

SOCRATE Va bene. Che facciamo, allora? Lasciamo il discorso a metà?

CALLICLE Fa’ un po’ come vuoi.

SOCRATE Be’, anche le storie non bisogna lasciarle a metà, dicono: bisogna finirle, perché se no
vanno in giro senza capo né coda. Rispondi ancora un po’ alle mie domande, in modo che la nostra
discussione non resti decapitata.

CALLICLE Ma sai che sei insistente, Socrate? Da’ retta a me: tronca la discussione o cercati un altro
interlocutore.

SOCRATE Chi ha voglia di continuare? Perché il discorso non mi va di lasciarlo a metà.

CALLICLE E non potresti finirlo da solo? Puoi parlare sempre tu, o rispondere tu stesso alle
domande.

SOCRATE Sì, così mi tocca fare da solo il canto e il controcanto, come dice Epicarmo. Eppure, pare
proprio che non ci sia altra soluzione. Sentite allora, facciamo così: dobbiamo tutti stare molto
attenti a vedere dov’è la verità e dov’è la falsità in quello che stiamo dicendo; è nell’interesse
comune che ci sia la massima chiarezza su questo punto. Io andrò avanti col mio discorso ed
esporrò il mio punto di vista; ma se a qualcuno di voi sembrerà che sto facendo a me stesso
concessioni indebite, sarà suo dovere ribattere e contestare. Vedete, neppure io conosco con
certezza le cose che sto dicendo, ma è una ricerca collettiva quella che tentiamo di fare. Perciò se
qualcuno mi contesterà con argomenti interessanti, sarò il primo a dargli ragione. Certo, tutto
questo ha senso se siete del parere che si debba portare a termine la discussione; se invece non ne
avete voglia, lasciamo perdere e andiamocene via.

GORGIA A me sembra che non sia ancora il momento di andare via. Anche gli altri vogliono che tu
vada avanti con la discussione, Socrate; e io personalmente non vedo l’ora di sentire il resto del
tuo ragionamento.

SOCRATE D’accordo, Gorgia; anche se mi sarebbe piaciuto continuare il dialogo con Callicle, in
modo da recitargli il discorso di Anfione in cambio di quello di Zeto. Ma visto che non hai voglia
di completare la nostra discussione, Callicle, stammi almeno a sentire, e interrompimi se ti sembra
che dico qualcosa di sbagliato. Se mi contesterai, non mi arrabbierò con te – come fai tu con me –
ma scriverò il tuo nome fra quelli dei miei massimi benefattori.

CALLICLE Va’ avanti tu, amico mio, e concludi!

SOCRATE E tu sta’ a sentire, mentre ricapitolo la discussione dall’inizio. Il piacere e il bene sono la
stessa cosa? – No, come Callicle e io abbiamo concluso. – E bisogna fare ciò che è piacevole in
vista del bene, o bisogna fare il bene in vista del piacere? – Ciò che è piacevole in vista del bene.
– Il piacere non è ciò la cui presenza ci fa godere, e il bene non è ciò la cui presenza ci rende
buoni? – Esattamente. – Ma noi siamo buoni se è presente una virtù, e questo vale anche per tutte
le altre cose buone, no? – Mi sembra inconfutabile, Callicle! – Ma la virtù di qualsiasi cosa
esistente, che si tratti di un arnese o di un corpo o di un’anima o di qualunque essere vivente, non
si forma così, a casaccio: ci vuole un ordine, una correttezza, un’arte, che sono diversi e
particolari per ciascuna cosa; non è così? – Mi sembra di sì. – Allora la virtù in ciascuna cosa
consiste in una struttura ordinata e armoniosa? – Direi di sì. – Ma allora quel che rende una cosa
buona è un ordine che si viene a creare in essa e che le è proprio, no? – Così pare anche a me. –
Perciò un’anima che abbia un suo proprio ordine è migliore di un’anima disordinata? –
Inevitabilmente. – E un’anima che ha un ordine è ordinata? – Come no? – E un’anima ordinata è
temperante? – Senza il minimo dubbio. – Dunque un’anima temperante è buona. Io, caro Callicle,
non riesco a trovare nulla da obiettare a questo ragionamento: se tu hai qualcosa da dire, forza!

CALLICLE Va’ avanti, amico mio.

SOCRATE Allora dico che, se l’anima temperante è buona, quella che è nella condizione opposta è
cattiva: alludo all’anima dissennata e sfrenata. – D’accordo. – Non solo, ma un uomo temperante si
comporterà verso gli dèi e verso gli uomini nel modo dovuto; perché, se non si comportasse nel
modo dovuto, non sarebbe temperante. – Non può che essere così. – Comportarsi nel modo dovuto
significa tenere un comportamento giusto con gli uomini e pio con gli dèi: e chi tiene un
comportamento giusto e pio non può che essere lui stesso giusto e pio. – È così. – E inoltre deve
essere necessariamente anche coraggioso: infatti non sarebbe da uomo temperante inseguire o
evitare ciò che non si deve inseguire o evitare. Che si tratti di azioni o di uomini o di piaceri o di
dolori, inseguirà o eviterà ciò che è bene inseguire o evitare, e sarà capace di resistere al suo
posto, in caso di necessità. Perciò, Callicle, da quel che abbiamo detto si deve concludere che
l’uomo temperante è giusto, coraggioso e pio e quindi perfettamente buono; e un uomo buono,
qualunque cosa faccia, la fa nel modo migliore; e chi fa le cose bene è fortunato e felice, mentre un
uomo malvagio che fa le cose male è infelice. E costui altri non è se non chi fa il contrario
dell’uomo temperante, ossia l’intemperante: altro che lodarlo, come facevi tu!

Questa è la mia posizione. E se sono vere le cose che dico, allora chiunque vuole essere felice
deve evidentemente inseguire ed esercitare la temperanza, mentre ciascuno di noi deve rifuggire
con tutte le forze dall’intemperanza. E la cosa migliore è di non avere mai bisogno di essere
punito, ma se uno dovesse averne bisogno – o lui o uno che gli sia caro, un privato cittadino o
un’intera comunità – allora bisogna imporgli una pena e castigarlo, se si vuole che sia felice.
Questo, secondo me, è l’obiettivo al quale bisogna guardare nella vita; bisogna spendere tutte le
proprie energie, e anche quelle della città, per raggiungere la giustizia e la temperanza e poi
comportarsi di conseguenza, se uno vuole essere felice. E non lasciare che i desideri si
scatenino, e cercare di soddisfarli sempre, vivendo come un farabutto: sarebbe un male senza
fine. Un uomo così non potrebbe mai essere caro a un altro uomo o a un dio: infatti è incapace di
essere in comunione con gli altri, e non si può essere amici di qualcuno se non si è in comunione
con lui. Dicono i saggi, Callicle, che il cielo e la terra, gli dèi e gli uomini sono legati fra loro
da comunione, amicizia, ordine, temperanza e giustizia; e questo è il motivo per cui parlano di
«ordine universale» e non di «disordine universale» o di «caos», amico mio. Ma mi sembra che
tu non sia molto sensibile ai loro argomenti, pur essendo saggio: non ti rendi conto che la
proporzione geometrica ha un ruolo essenziale, sia fra gli dèi che fra gli uomini, e pensi invece
che l’unico comportamento praticabile sia la prepotenza; non dai alla geometria la giusta
importanza.

Comunque, le possibilità sono solo due: o si confuta il nostro ragionamento, e si dimostra che
non è vero che la felicità è un effetto della giustizia e della temperanza e l’infelicità un effetto
della malvagità; oppure, se questo ragionamento è vero, bisogna considerare quali sono le
conseguenze. E le conseguenze sono tutte quelle cose che dicevo prima e a proposito delle quali
tu mi chiedevi, Callicle, se stavo parlando sul serio, cioè che uno deve essere pronto ad
accusare se stesso o suo figlio o un amico, se ha commesso un reato, e deve servirsi della
retorica per questo scopo. E poi erano verissime anche quelle cose che, secondo te, Polo
riconosceva solo perché si vergognava di rifiutarle: che commettere un reato non è solo più
brutto, ma è anche peggio che subirlo. Ed è vero anche che chi vuol essere un bravo retore deve
conoscere la giustizia ed essere un uomo giusto: qui Gorgia, secondo Polo, si era dichiarato
d’accordo solo per vergogna.

E visto che le cose stanno così, vediamo adesso i rimproveri che mi rivolgi, vediamo se hai
ragione o no, quando dici che io non sono capace di aiutare me stesso o i miei amici o i miei
familiari, che non sono in grado di proteggermi dai rischi più gravi. Secondo te, io sarei come
uno che è privo dei diritti civili, alla mercé del primo venuto, che potrebbe farmi tutto quel che
vuole: prendermi a sberle in faccia – per usare questa tua espressione colorita – o portarmi via i
soldi o cacciarmi dalla città o perfino uccidermi; trovarsi in questa situazione, secondo il tuo
modo di ragionare, è la peggior cosa che può capitare. Il ragionamento che faccio io è ben
diverso: l’ho già esposto più volte, ma nulla vieta di ripeterlo ancora. Secondo me, Callicle, la
cosa peggiore non è essere presi a schiaffi ingiustamente, e neppure essere feriti o vedersi
tagliare la borsa; è una cosa ben più brutta e vergognosa prendermi a schiaffi ingiustamente o
ferirmi o derubarmi o ridurmi in schiavitù o rapinarmi. Insomma, se uno fa una qualsiasi
ingiustizia a me o ai miei beni, è una cosa molto più brutta e vergognosa per lui che non per me,
che sono la vittima. Queste sono conclusioni a cui siamo arrivati prima nel nostro discorso, e
direi che sono ormai qualcosa di acquisito, fissato con argomenti ferrei e cristallini, se mi
perdoni l’immagine un po’ pretenziosa; o almeno così sembra finora. Se tu, o un altro ancor più
intraprendente di te, non riuscirai a confutarli, nessuno potrà sostenere cose diverse da quelle
che dico io adesso e pretendere di avere ragione. Lo ripeto ancora una volta: io non so come
stiano esattamente le cose, ma so che, tutte le volte che ho parlato con qualcuno, come adesso
con voi, nessuno è stato capace di sostenere tesi diverse senza rendersi ridicolo. Dunque,
secondo me le cose stanno in questi termini; e se quel che dico è vero, e l’ingiustizia è il male
peggiore per chi la commette, e se un male ancor più grande – ammesso che fosse possibile! – è
commettere un’ingiustizia e non esserne punito, allora qual è l’aiuto che un uomo deve saper
portare a se stesso per non rendersi ridicolo? Non è forse quell’aiuto che ci libera dal peggiore
dei mali? E ovviamente la cosa più vergognosa è non essere capaci di portare questo aiuto a se
stessi, ai propri amici e ai propri familiari. E poi, in ordine di vergogna, viene l’incapacità di
liberarci dal secondo male, e poi ancora l’incapacità di liberarci dal terzo male, e così via di
seguito. A seconda della gravità del male, è tanto più bello essere capaci di tirarsene fuori, e
tanto più vergognoso non esserne capaci. È così che stanno le cose, Callicle, o no?
T.17 LA TENSIONE VERSO IL (PRIMO) BENE
(Platone, Liside, 213 D-223 A)

Il Liside non è un dialogo definitorio in senso stretto, dal momento che non si propone di fornire la
definizione formale (il che cosa è) di una certa virtù, in questo caso l’amicizia (philia); il colloquio
messo in scena da Platone mira piuttosto a stabilire quali siano le condizioni generali dell’instaurarsi
della relazione di philia , ossia a indagare come e perché si diventa amici di qualcosa, o perché
qualcosa (o qualcuno) diventa caro a un soggetto, sebbene naturalmente la questione del significato di
termini quali philia e to philon non sia affatto assente dalla discussione tra Socrate e i suoi
interlocutori. Anche nel Liside la discussione non perviene a una soluzione formalmente positiva,
sebbene non manchino, come del resto non mancano negli altri dialoghi aporetici, allusioni a percorsi
teorici in grado di trasformare l’aporia in euporia.
La tesi intorno alla quale Socrate propone ai suoi interlocutori di ragionare afferma che «ciò che
non è né buono né cattivo, in virtù della presenza del male (dia kakou parousian) e in vista
dell’acquisizione del bene (heneka tou agathou) diventa amico del bene (tou agathou philon)». Lo
schema è abbastanza simile a quello implicito nel Simposio, dove Eros, il demone che presiede alle
attività connesse all’amore, viene appunto descritto come un’entità intermedia, che muove da una
condizione di mancanza, non essendo in possesso della perfezione, cioè del bene (altrimenti non
sarebbe motivato a tendere ad esso e a ricercarlo). Nel Simposio la figura di Eros rappresentava la
stessa attività filosofica impersonificata da Socrate, ossia la ricerca incessante di qualcosa, la
sapienza, di cui si è privi: il sapere socratico, proprio in quanto sapienza umana (anthrôpinê
sophia), è essenzialmente amore della sapienza (philo-sophia), ricerca di essa, piuttosto che
possesso definitivo. L’esame condotto da Socrate nel Liside si propone di mettere in luce le
condizioni generali che attivano un processo tensionale, ossia ogni forma di ricerca, desiderio e
amore; ai suoi occhi la prima condizione è quella della mancanza, o meglio della consapevolezza di
uno stato di mancanza; infatti il paziente si orienta verso il medico (diventandone amico) se è malato,
ossia se si trova in una condizione di mancanza di salute. Questo vale per ogni evento di carattere
tensionale: «Del resto, se l’amicizia è una specie di moto, per forza di cose deve essere generata da
una certa forma di instabilità, cioè dalla compresenza di opposti contradditori che tendono a un
cambiamento, a una modifica della situazione presente: ove non c’è contrasto, come insegna Hegel,
non c’è dialettica né movimento, ma la stabilità della quiete» (Trabattoni, p. 123). La seconda
condizione fondamentale è rappresentata dalla percezione del fine come un bene; ogni azione è
orientata all’acquisizione di qualcosa che l’agente reputa essere un bene. Dunque le due componenti
fondamentali di ogni relazione di philia, vale a dire di ogni forma di attrazione, sono 1) un soggetto
agente caratterizzato dalla consapevolezza del proprio stato di deficit e 2) un termine intenzionale del
processo, concepito come causa finale e identificato esplicitamente con il bene. Infine, Socrate
sembra sostenere che il fine, cioè il bene, non sia affatto estraneo al soggetto agente, ma costituisca
qualcosa di proprio (oikeion), vale a dire qualcosa che gli appartiene costitutivamente.
Una delle ragioni per cui gli argomenti di Socrate si presentano abbastanza problematici risiede,
come gli studiosi non hanno mancato di osservare, nell’uso ambiguo del termine philos, che ricorre
indistintamente sia nel significato attivo (come amico di qualcosa o di qualcuno) sia in quello
passivo (come caro, cioè termine intenzionale di un desiderio). Lo schema generale che presiede a
ogni relazione di attrazione e di tensione può dunque venire presentato nella forma seguente: un
soggetto è amico (philos in senso attivo) di qualcosa (philos in senso passivo), ossia tende verso di
esso, perché è consapevole di trovarsi in uno stato di deficit (ossia in virtù della consapevolezza
della presenza del male, qui inteso come mancanza) e mira a entrare in possesso del bene, che
costituisce il termine intenzionale dell’intero processo. È probabile, sebbene le opinioni degli
studiosi non siano in proposito convergenti, che il termine ultimo di ogni movimento di tensione,
ossia di ogni desiderio, sia la condizione di felicità (eudaimonia). Se ogni azione ha un fine, il quale
può costituire a sua volta la condizione di partenza per un altro processo tensionale, è verosimile
arrivare a postulare un fine non più ulteriormente soggetto a rappresentare la condizione per
l’acquisizione di un altro fine: tale fine ultimo, o primo amico (prôton philon) non è un bene relativo
e apparente, ma assoluto, e dovrebbe, agli occhi di Socrate, identificarsi con la felicità.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Kahn, C.H., Plato and the Socratic Dialogue. The Philosophical Use of a Literary Form,
Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 281-291.

Reshotko, N., Plato’s ‘Lysis’. A socratic Treatise on Desire and Attraction , «Apeiron» 30 (1997),
pp. 1-17.

Szaif, J., Strebensnatur und Interpersonalität in Platons Konzeption von philia (‘Lysis’ 213D-
222D), in M. Dreyer - K. Fleischhauer (Hrgb.), Natur und Person im ethischen Disput, Karl
Alber Verlag, Friburg-München 1998, pp. 25-60.

Trabattoni, F., Il ‘Liside’: un’introduzione all’etica platonica, in F. Trabattoni (a cura), Platone,


‘Liside’, vol. II, Led, Milano 2004, pp. 47-171.
da Liside, 213 D-223 A*
Io dunque, volendo far riposare Menesseno e compiaciuto per il desiderio di sapere di Liside,
continuai il discorso rivolgendomi a lui, e dissi: «Liside, mi sembra che tu dica il vero: se avessimo
esaminato correttamente la cosa non saremmo andati fuori strada in questo modo. E allora non
andiamo più per questa via; quest’esame, infatti, mi sembra una strada alquanto difficile; credo
piuttosto sia necessario percorrere la strada che avevamo intrapreso, e condurre l’esame andando
dietro ai poeti; costoro, infatti, sono per noi come dei padri della sapienza e delle guide. Certamente
non è da poco ciò che dicono quando manifestano il loro pensiero su chi siano gli amici; anzi,
affermano che il dio stesso li rende amici, conducendoli gli uni verso gli altri. E dicono queste cose,
mi pare, all’incirca così:

sempre un dio conduce il simile al simile

e glielo rende noto; o non ti sei mai imbattuto in questo verso?». «Io sì» rispose. «E non ti sei forse
imbattuto anche negli scritti dei sommi sapienti, che dicono queste stesse cose, cioè che
necessariamente il simile è sempre amico del simile? Costoro sono, come credo, quelli che discutono
e scrivono intorno alla natura e al tutto.» «Dici il vero» fece. «E non è vero» dissi io «che dicono
bene? » «Forse» disse. «Forse» dissi io «per metà del detto, forse anche per intero, ma noi non
capiamo. Ci sembra infatti che perlomeno il malvagio, quanto più si avvicina al malvagio e quanto
più tratta con lui, tanto più gli diviene nemico. Commette infatti ingiustizia; ed è impossibile che
coloro che commettono ingiustizia e coloro che subiscono ingiustizia siano in qualche maniera amici.
Non è così?» «Sì» disse lui. «Sotto questo aspetto non sarebbe dunque vera la metà del detto, se è
vero che i malvagi sono simili fra loro.» «Dici il vero.» «Ma mi sembra dicano che i buoni sono
simili e amici fra loro, i cattivi, invece, il che è appunto ciò che si dice di loro, non sono mai simili
né uguali neppure a se stessi, ma sono volubili e instabili; e ciò che per se stesso è dissimile e
discorde con se stesso difficilmente potrebbe diventare simile a un altro o suo amico; o non sembra
così anche a te?» «Mi sembra di sì» disse. «Questo, dunque, amico mio, intendono in forma
enigmatica, a quel che a me sembra, coloro che dicono il simile amico del simile, e cioè che solo il
buono è amico del solo buono, mentre il cattivo non arriva mai a una vera amicizia né con il buono né
con il cattivo. Sembra anche a te?» Assentì. «Ormai dunque afferriamo chi sono gli amici; il
ragionamento infatti ci indica che costoro sono i buoni.» «Sembra davvero così» disse.
«Anche a me» dissi io. «Eppure in questo ho qualche difficoltà; su, dunque, per Zeus, vediamo
quel che appunto sospetto. Il simile è amico del simile in quanto simile, e come tale è utile all’altro
che è tale? Meglio ancora: qualunque simile quale vantaggio o quale danno potrebbe arrecare a un
qualunque altro simile, che questi non potrebbe arrecare esso stesso a se stesso? O che cosa subire,
che non potrebbe subire da se stesso? Tali cose, dunque, come potrebbero essere oggetto di affetto le
une da parte delle altre, se non si danno nessun aiuto reciproco? C’è modo?» «Non c’è.» «E ciò che
non è oggetto di affetto, come sarà amico?» «In nessun modo.» «Ma allora il simile non sarebbe
amico del simile; e il buono sarebbe amico del buono in quanto buono, non in quanto simile?»
«Forse.» «E che? Non è forse vero che il buono, in quanto buono, sarà in quanto tale sufficiente a se
stesso?» «Sì.» «E chi è sufficiente a se stesso non avrà bisogno di nulla, in base appunto a tale
autosufficienza.» «E come potrebbe non esser così? » «E chi non ha bisogno di alcuna cosa, neppure
potrebbe provare affetto per qualcosa.» «Certo che no.» «E chi non prova affetto neppure potrebbe
amare.» «No di certo.» «E chi non ama non è amico.» «Sembra di no.» «Come potranno dunque per
noi i buoni essere in principio amici dei buoni, loro che né sono bramosi gli uni degli altri quando
sono lontani (sono infatti sufficienti a se stessi anche se sono separati), né quando sono vicini hanno
reciproco bisogno? In che modo tali persone potrebbero tenersi reciprocamente in gran conto?» «In
nessun modo» disse. «Ma non potrebbero essere amici non tenendosi in gran conto reciproco. » «È
vero.»
«Considera allora, Liside, dove è che stiamo andando fuori strada. Ci stiamo dunque ingannando,
in un certo senso, del tutto? » «E come?» disse. «Ho già sentito dire una volta da qualcuno, e ora mi
ritorna alla mente, che il simile sarebbe ostile in sommo grado al simile, e i buoni ai buoni; e portava
poi anche Esiodo a testimone, dicendo che

e il vasaio ha risentimento verso il vasaio, l’aedo verso l’aedo, il mendicante verso il


mendicante

e in tutti gli altri casi disse essere necessario che soprattutto le cose più simili siano piene di invidia,
di rivalità e di ostilità reciproche, le più dissimili, invece, di amicizia. Il povero infatti sarebbe
costretto a essere amico del ricco e il debole del forte in vista di un aiuto, e così il malato nei
confronti del medico; e chiunque non sa prova affetto per chi sa e lo ama. E inoltre procedeva nel suo
discorso in maniera ancor più magniloquente, dicendo cioè che, lungi dall’essere il simile amico del
simile, si verificherebbe piuttosto il contrario di questo; ciò che è contrario al massimo grado, infatti,
sarebbe sommamente amico di ciò che è contrario al massimo grado. Ciascuno, infatti, desidererebbe
tale cosa, e non già il simile: il secco, infatti, desidererebbe l’umido, il freddo il caldo, l’amaro il
dolce, l’acuto l’ottuso; il vuoto il riempimento e il pieno lo svuotamento; e lo stesso tutte le altre cose
secondo lo stesso principio. Il contrario sarebbe infatti nutrimento per il contrario; il simile, infatti,
non trarrebbe alcun giovamento dal simile. E certamente, amico mio, dicendo questo sembrava anche
essere raffinato; parlava bene, infatti. E a voi» dissi io «come sembra che parlasse? » «Bene
davvero,» disse Menesseno «almeno a sentire così. » «Vogliamo dunque dire che il contrario è amico
in sommo grado del contrario?» «Certamente.» «Sia» dissi io. «Non è portentoso, Menesseno? E non
ci salteranno subito addosso tutti contenti questi uomini sommamente sapienti, gli antilogici, e non
chiederanno se l’ostilità non è contraria in sommo grado all’amicizia? E a loro che risponderemo? O
non è forse necessario convenire che dicono il vero?» «È necessario.» «Allora, diranno, ciò che è
nemico è amico all’amico, o ciò che è amico al nemico?» «Nessuna delle due» disse. «Ma ciò che è
giusto a ciò che è ingiusto, o ciò che è temperante a ciò che è intemperante, o ciò che è buono a ciò
che è cattivo?» «Non mi sembra che sia così.» «Ma tuttavia» dissi io «se almeno qualcosa è amico di
qualcosa a causa della contrarietà, è necessario che anche questi siano amici.» «È necessario.» «Né
dunque il simile sarà amico del simile, né il contrario del contrario.» «Sembra di no.»
«Esaminiamo inoltre anche questa possibilità, che non ci sfugga ancor più di prima che l’amico in
realtà non è nessuno di questi, ma che invece ciò che non è né buono né cattivo divenga talvolta
amico del buono.» «Che vuoi dire?» disse lui. «Per Zeus,» dissi io «non lo so, ma per davvero ho le
vertigini io stesso per la difficoltà del ragionamento; va a finire che, secondo l’antico detto, amico è
il bello. Somiglia dunque a qualcosa di molle, di liscio e di unto. Per questo, forse, facilmente
scivola via e ci sfugge, visto che è tale. Dico infatti che ciò che è bene è bello: tu non lo credi? » «Io
sì.» «Dico dunque, come per un presagio, che amico del bello e del bene è ciò che non è né buono né
cattivo. Ma senti a che cosa mi riferisco con questo presagio. Mi sembra che vi siano come tre
generi, ciò che è buono, ciò che è cattivo, ciò che non è né buono né cattivo. E a te che sembra?»
«Anche a me» disse. «E né ciò che è buono è amico di ciò che è buono, né ciò che è cattivo di ciò
che è cattivo, né ciò che è buono di ciò che è cattivo, come neppure consente il precedente
ragionamento. Resta allora, se qualcosa è amico di qualcos’altro, che ciò che non è né buono né
cattivo sia amico o di ciò che è buono o di qualcosa che è tale quale esso è. Non c’è infatti qualcosa
che potrebbe in qualche modo diventare amico di ciò che è cattivo.» «È vero.» «E neanche,
dicevamo poco fa, ciò che è simile di ciò che è simile; o no?» «Sì.» «Di ciò che non è né buono né
cattivo, dunque, non sarà amico ciò che è tale quale esso è.» «Sembra di no.» «Ne consegue dunque
che solo di ciò che è buono diventa amico ciò che non è né buono né cattivo.» «È necessario, a
quanto pare.»
«Allora, ragazzi,» dissi io «quello che ora è stato detto ci porta anche nella giusta direzione? Se
per esempio volessimo considerare il corpo sano, questo non ha per nulla bisogno della medicina né
di qualcosa che gli giovi, perché si trova in una condizione di autosufficienza, sicché nessuno che sia
in salute è amico del medico per via della salute. O no?» «Nessuno.» «Ma lo è piuttosto chi è malato,
credo, per via della malattia.» «Come no?» «E la malattia è certamente un male, la medicina invece
una cosa giovevole e buona.» «Sì.» «E il corpo, almeno in quanto corpo, non è né bene né male.» «È
così.» «Ma il corpo è costretto a causa della malattia a desiderare ardentemente e ad amare la
medicina.» «Mi sembra. » «Dunque ciò che non è né male né bene diventa amico del bene per via
della presenza di un male.» «È verosimile.» «E chiaramente prima che esso diventi cattivo per il
male che possiede. Infatti, divenuto cattivo, non desidererebbe ancora il bene e non gli sarebbe
amico; abbiamo detto infatti che è impossibile che il cattivo sia amico del buono.» «È impossibile,
infatti.» «Allora esaminate quel che dico. Dico infatti che alcune cose sono esse stesse tali qual è ciò
che è in esse presente, altre no. Ad esempio, se qualcuno spalma una qualunque cosa di un colore, il
colore spalmato sopra è in qualche modo presente sulla cosa che è stata spalmata. » «Certamente.»
«Ma in questo caso anche la cosa che è stata spalmata è forse di colore tale quale ciò che è su di
essa?» «Non capisco» disse lui. «È così» dissi io. «Se qualcuno ti spalmasse i capelli, che sono
biondi, con della biacca, sarebbero allora bianchi, o lo sembrerebbero?» «Lo sembrerebbero» disse
lui. «E però in essi sarebbe presente, a quanto pare, la bianchezza.» «Sì.» «Ma ciononostante non
sarebbero niente affatto bianchi; invece, pur essendo presente la bianchezza, in certo modo non sono
né bianchi né neri.» «È vero.» «Ma qualora, mio caro, la vecchiaia apportasse loro questo stesso
colore, allora diventerebbero tali quale è ciò che è presente in essi, cioè bianchi per la presenza del
bianco.» «Come no.» «Questo dunque chiedo ora, se, nel caso in cui qualcosa sia presente in altro,
ciò che lo possiede sarà tale quale è ciò che è presente; o se sarà tale qualora questo qualcosa sia
presente in un determinato modo, altrimenti no.» «È piuttosto così» disse. «E dunque ciò che non è né
cattivo né buono, talvolta, pur essendo presente il male, non è ancora cattivo, mentre vi sono dei casi
in cui è ormai divenuto tale.» «Certamente.» «Quando dunque, pur essendo presente il male, non è
ancora cattivo, questa presenza gli fa desiderare il bene; quella invece che lo rende cattivo lo priva
del desiderio e al tempo stesso dell’amicizia del bene. E infatti non è più né cattivo né buono, ma
senz’altro cattivo; mentre ciò che è cattivo non era amico del bene.» «No, infatti.» «Per questo
potremmo senz’altro dire anche che coloro i quali sono già sapienti non desiderano più sapere, siano
costoro dei o uomini; né d’altra parte desiderano sapere quelli che si trovano in una condizione di
ignoranza tale da essere cattivi: nessuno infatti che sia cattivo e insipiente desidera sapere. Restano
dunque coloro che hanno questo male, l’ignoranza, e tuttavia non sono ancora resi da esso stolti né
stupidi, ma ancora ritengono di non sapere ciò che non sanno. Perciò sicuramente desiderano sapere
coloro che non sono ancora né buoni né cattivi; quanti invece sono cattivi non desiderano sapere, e
neppure i buoni; nei precedenti ragionamenti, infatti, ci si mostrò che né il contrario è amico del
contrario né il simile del simile. O non vi ricordate?» «Certamente» risposero. «Ora dunque,» dissi
io «Liside e Menesseno, abbiamo trovato con assoluta sicurezza che cosa è l’amico e di che cosa è
amico. Diciamo infatti questo, sia riguardo all’anima che riguardo al corpo e dappertutto, che ciò che
non è né cattivo né buono è amico del bene per la presenza di un male.» Assentirono pienamente e
convennero che le cose stavano così.
E anch’io da parte mia ero tutto contento, come un cacciatore, soddisfatto del possesso di ciò che
avevo cacciato. Ma poi, non so da dove, subentrò in me un sospetto molto strano: che non fosse vero
ciò su cui ci eravamo accordati; e subito dissi, crucciato: «Ahimè, Liside e Menesseno, mi sa che
siamo diventati ricchi solo in sogno».
«Che vuoi dire, precisamente?» chiese Menesseno.
«Temo» dissi io «che riguardo all’amico ci siamo imbattuti in certi discorsi che sono tali quali
uomini impostori.»
«Come?» disse.
«Esaminiamo così» dissi io. «Chi è amico, è amico di qualcuno, o no?» «Necessariamente» disse.
«E in vista di nulla, e a causa di nulla, o in vista di qualcosa e a causa di qualcosa?» «In vista di
qualcosa e a causa di qualcosa.» «E gli è amica quella cosa in vista della quale l’amico è amico
dell’amico, o non gli è né amica né nemica? » «Non ti seguo proprio» disse. «C’era da aspettarselo»
dissi io. «Ma forse in questo modo mi seguirai, e credo che anch’io saprò meglio quello che dico. Il
malato, dicevamo poco fa, è amico del medico; non è così?» «Sì.» «E non è forse amico del medico
a causa della malattia e in vista della salute?» «Sì.» «E la malattia non è senz’altro un male?» «Come
no?» «E la salute?» dissi io. «È un bene o un male, o nessuno dei due?» «Un bene» rispose.
«Dicevamo dunque, a quanto pare, che il corpo, che non è né bene né male, a causa della malattia,
cioè a causa del male, è amico della medicina; e la medicina è un bene; e in vista della salute la
medicina ottiene l’amicizia, e la salute è un bene. O no?» «Sì.» «E la salute è un amico o un non-
amico?» «Un amico.» «Mentre la malattia è un nemico.» «Certamente.» «Ciò che non è né male né
bene, dunque, è amico del bene a causa del male e del nemico, in vista del bene e dell’amico.»
«Sembra.» «Dunque in vista dell’amico l’amico è amico a causa del nemico.» «Così pare.»
«E sia» dissi io. «Visto che siamo arrivati a questo punto, ragazzi, stiamo attenti a non essere
fuorviati. Che infatti l’amico risulti amico dell’amico, lo lascio perdere, e così che il simile divenga
amico del simile, cosa che dicemmo essere impossibile. Ma ciononostante esaminiamo questo,
perché non ci fuorvii ciò che ora stiamo dicendo. La medicina, affermiamo, è amica in vista della
salute.» «Sì.» «E non è amica anche la salute?» «Certamente.» «Se è dunque amica, lo è in vista di
qualcosa.» «Sì.» «E certo di qualcosa che è amico, se si seguirà il precedente accordo.»
«Certamente. » «E non sarà anche quello, allora, amico in vista di un amico?» «Sì.» «Non è allora
necessario che rinunciamo a procedere in questo modo e che giungiamo a un qualche principio, che
non ricondurrà più verso un’altra cosa amica, [ma sarà arrivato a] quella che è <la> prima cosa
amica, in vista della quale diciamo che anche le altre cose sono tutte amiche?» «È necessario.» «E
questo è appunto quel che intendo dire, che tutte le altre cose che dicemmo essere amiche in vista di
quella, e che sono una sorta di sue immagini, non ci ingannino, e che sia invece quella prima cosa ciò
che è veramente amico. Ragioniamo infatti così: qualora uno tenga qualcosa in gran conto, come
talvolta un padre stima il figlio più di tutti gli altri beni, non terrà forse proprio costui anche
qualcos’altro in gran conto, in vista del fatto che ritiene il figlio più importante di tutto? Se ad
esempio si accorgesse che ha bevuto la cicuta, non terrebbe allora in gran conto il vino, se pensasse
che questo salverà il figlio?» «Certamente» disse. «E dunque anche il recipiente in cui si trova il
vino?» «Di certo.» «Forse che allora, tra un bicchiere di argilla e suo figlio (o tra il figlio e tre cotile
di vino), non terrà in maggior conto nessuno dei due? O è piuttosto così: ogni cura del genere non è
diretta a quelle cose che si procurano in vista di qualcosa, ma a quella in vista di cui si procurano
tutte le cose di quel tipo. Anche se noi diciamo assai spesso che teniamo in gran conto l’oro e
l’argento, tuttavia la verità non è questa, ma ciò che stimiamo più di tutto è quella cosa che ci sembra
essere ciò in vista di cui ci si procura sia l’oro che tutto il resto. Diremo dunque così?» «Certo.» «E
dunque non vale lo stesso discorso per l’amico? Infatti, per tutte le cose che dicemmo esserci amiche
in vista di un’altra cosa amica, è manifesto che ciò lo diciamo a parole; ma in realtà amico sembra
essere proprio quel qualcosa in cui terminano tutte le cosiddette amicizie.» «Sembra che sia così»
disse. «Ciò che è realmente amico, dunque, non è amico in vista di un qualche amico. Non è così?»
«È vero.»
«Questo dunque è stato messo da parte, che l’amico sia amico in vista di un qualche amico. Ma
allora, il bene è amico?» «Mi sembra di sì.» «E dunque il bene è amato a causa del male, ed è così:
se delle tre cose che dicevamo or ora, il bene, il male, ciò che non è né bene né male, due
rimanessero, mentre il male si togliesse di mezzo e non toccasse nessuna cosa, né il corpo né l’anima,
né le altre, che dicemmo in sé e per sé essere né buone né cattive, non è forse vero che allora il bene
non ci sarebbe utile a nulla, ma ci sarebbe divenuto inutile? Se infatti niente più ci fosse di danno,
non avremmo alcun bisogno di nessun beneficio, e così senz’altro diverrebbe allora manifesto che
amavamo ed eravamo amici del bene a causa del male, in quanto il bene è una medicina per il male, e
il male è una malattia; ma quando non c’è la malattia non c’è nessun bisogno della medicina. Così
dunque è per natura il bene ed è amato a causa del male da noi, che siamo a metà tra il bene e il male,
mentre esso in sé e per sé non ha nessuna utilità; è così?» «Sembra che sia così» disse lui. «Dunque
quella che è per noi la cosa amica, in cui terminavano tutte le altre cose <che> dicevamo essere
amiche in vista di un altro amico, non somiglia davvero in nulla a queste. Queste infatti si chiamano
amiche in vista di un amico, mentre quello che è realmente amico è manifestamente per sua natura
tutto il contrario di questo; ci si mostrò infatti amico in vista di un nemico; ma se il nemico se ne
andasse, non sarebbe più per noi amico, a quanto pare.» «Mi pare di no» disse «almeno secondo
quanto si dice ora.» «E forse che, per Zeus,» dissi io «se il male scompare, non vi saranno più né
l’aver fame, né l’aver sete, né nessun’altra di tali cose? O vi sarà la fame, se vi saranno gli uomini e
gli altri viventi, ma non sarà dannosa? E vi saranno sì la sete e gli altri desideri, ma non saranno un
male, dal momento che il male è scomparso? O forse è ridicola la domanda, cosa mai vi sarà allora e
cosa no? Chi lo sa, infatti? Ma comunque sappiamo almeno questo, che anche ora è possibile che chi
ha fame ne sia danneggiato, come è possibile anche che ne riceva un beneficio. Non è così?»
«Certamente.» «E non è forse vero che anche chi ha sete e desidera tutte le altre cose del genere è
possibile che desideri talvolta ottenendo un beneficio, talvolta un danno, talvolta nessuna delle due
cose?» «Assolutamente. » «Se dunque i mali dovessero scomparire, che motivo c’è per cui quelle
cose che non si trovano a essere mali dovrebbero scomparire insieme ai mali?» «Nessuno.» «Vi
saranno dunque i desideri né buoni né cattivi anche qualora i mali scompaiano.» «Sembra di sì.»
«Ma è allora possibile che chi desidera e ama non sia amico di ciò che desidera e ama?» «Non mi
sembra davvero.» «Vi saranno dunque, a quanto pare, certe cose amiche, anche una volta che siano
scomparsi i mali.» «Sì.» «Ma se veramente il male fosse causa del fatto che qualcosa è amico, una
volta che questo sia scomparso non sarà possibile che qualcosa sia amico di qualcos’altro.
Scomparsa la causa, infatti, è impossibile, credo, che vi sia ancora quella cosa di cui questa era la
causa.» «Dici bene.» «Ci siamo dunque accordati sul fatto che l’amico ama qualcosa e a causa di
qualcosa; e allora credevamo che a causa del male ciò che non è né bene né male amasse il bene.»
«È vero.» «Ora però, a quanto sembra, ci si rivela ben diversa la causa dell’amare e dell’essere
amato.» «Così sembra.» «Davvero dunque, come dicevamo poco fa, il desiderio è causa
dell’amicizia, e ciò che desidera è amico di ciò di cui ha desiderio e lo è in quel momento in cui
desidera, mentre ciò che prima dicevamo essere amico, erano chiacchiere, come un poema tirato per
le lunghe?» «Ha l’aria d’essere così» rispose. «Ma ad ogni modo» dissi io «ciò che desidera,
desidera ciò di cui è carente. O no?» «Sì.» «E ciò che è carente, allora, è amico di ciò di cui è
carente?» «Mi sembra.» «Ma carente diviene ciò che è privato di qualcosa.» «Come no?» «Dunque
di ciò che è proprio e affine, a quanto pare, risultano essere l’amore e l’amicizia e il desiderio, così
sembra, Liside e Menesseno.» Assentirono. «Voi, dunque, se siete amici l’uno dell’altro, siete in
qualche modo tra voi per natura affini.» «Senza dubbio» dissero. «E se dunque qualcun altro desidera
un altro,» dissi io «ragazzi, o lo ama, non desidererebbe né amerebbe né proverebbe amicizia se non
si trovasse a essere affine all’amato o rispetto all’anima, o rispetto a qualche sua caratteristica o ai
modi di essere o all’aspetto. » «Certo» disse Menesseno. Liside invece se ne stette zitto. «E sia»
dissi io. «Così ci si è rivelato necessario amare ciò che è per natura affine.» «Sembra così» disse.
«È dunque necessario per l’amante autentico, e non per quello che si pretende tale, essere amato dai
suoi diletti!» Liside e Menesseno, allora, a fatica accennarono in qualche modo un «sì»; Ippotale,
invece, si fece di tutti i colori dal piacere.
E io, volendo esaminare ancora la tesi in questione, dissi: «Se ciò che è affine differisce in
qualcosa dal simile, potremmo dire qualcosa, come a me sembra, Liside e Menesseno, su cosa sia
l’amico; se invece risultano essere la stessa cosa il simile e l’affine, non è facile disfarsi della
precedente tesi, che afferma il simile essere inutile al simile data la somiglianza; ma convenire che
sia amico ciò che è inutile sarebbe assurdo. Volete dunque,» dissi io «dato che siamo come ubriacati
dal ragionamento, che conveniamo nel dire che l’affine è qualcosa di diverso dal simile?» «Va bene.
» «Stabiliremo dunque anche che il bene è in ogni caso affine, mentre il male è estraneo? O piuttosto
che il male è affine al cattivo, il bene al buono, e ciò che non è né bene né male a ciò che non è né
buono né cattivo?» Dissero entrambi questo, che a loro sembrava che ciascuna di queste cose fosse
affine all’altra. «Allora ragazzi» dissi io «siamo di nuovo ricaduti in quelle tesi che prima avevamo
rifiutato riguardo all’amicizia; l’ingiusto, infatti, sarà amico dell’ingiusto e il cattivo del cattivo non
meno che il buono del buono.» «Sembra» disse. «E allora? Se diciamo che sono la stessa cosa il
bene e l’affine, diremo forse qualcos’altro se non che solo il buono è amico del buono?» «Affatto.»
«Ma peraltro anche in questo ritenevamo di esserci confutati; o non ricordate? » «Ricordiamo.»
«E dunque che cosa potremmo ancora dire? Chiaramente nulla, no? Ho bisogno allora, come fanno
i sapienti nei tribunali, di ritornare su tutto quanto è stato detto. Se infatti né coloro che sono amati né
coloro che amano, né i simili né i dissimili, né i buoni né gli affini, né tutte le altre cose che abbiamo
passato in rassegna – e non me le ricordo neppure io, vista la gran quantità – ; se dunque nessuno di
questi è amico, io non so più che dire.»
Nel dire queste cose avevo in mente di smuovere qualcun altro dei più anziani; ma poi piombarono
come demoni i pedagoghi, quelli di Menesseno e di Liside, insieme con i loro fratelli, li chiamarono
e ordinarono loro di tornare a casa, perché era ormai tardi. Dapprima sia noi che quelli che stavano
intorno provammo a rimandarli via; ma visto che di noi non si curavano per niente, ma si stavano
arrabbiando e continuavano a chiamarli parlando in un cattivo greco, e ci sembrava che alle Ermee
avessero bevuto, tanto che non c’era modo di ragionarci, da loro sconfitti, sciogliemmo la riunione. E
tuttavia io dissi ancora, mentre se ne andavano: «Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli,
io, che sono un vecchio, e voi. Costoro infatti diranno, andandosene, che noi crediamo di essere
amici l’uno dell’altro, e mi metto anch’io tra voi, ma che cosa sia l’amico non siamo stati ancora
capaci di scoprirlo».
T.18 LA SCIENZA DEL BENE
(Platone, Carmide, 172 E-176 A)

Il Carmide rappresenta forse il dialogo «socratico» più denso dal punto di vista teorico; in esso
viene ricercata la definizione di una delle virtù centrali della tradizione arcaica, la saggezza o
temperanza (sôphrosynê). Almeno tre delle definizioni proposte da Crizia e discusse da Socrate, pur
se confutate nel corso del dialogo, verranno riprese e accettate in altri scritti platonici (analogo
discorso va fatto per la definizione fornita da Carmide, che identifica la saggezza con il fare le
proprie cose); questa circostanza induce a ritenere che la confutazione attuata in quest’opera si
svolga più sul piano dialogico (riguardi cioè i partecipanti al dialogo) che su quello propriamente
contenutistico.
Crizia aveva proposto di intendere la saggezza come conoscenza di sé; quindi, incalzato da
Socrate, aveva calibrato diversamente tale definizione, avanzando l’ipotesi che questa virtù fosse da
identificarsi con una scienza in grado di conoscere se stessa e le altre scienze (epistêmê heautês kai
tôn allôn epistêmôn ). Anche questa proposta viene tuttavia sottoposta a una rigorosa critica da
Socrate, il quale sottolinea in particolare l’inconsistenza di un sapere che non abbia un referente
oggettivo circoscritto, vale a dire che non sia in grado di esibire un ambito oggettuale. Inoltre,
prosegue Socrate, un sapere di questo tipo rischierebbe di rivelarsi inutile: in effetti, ogni sapere
produce conoscenze che non vengono modificate da una presunta superscienza che si applicherebbe
ad esse; una eventuale scienza di se stessa e di un’altra scienza – poniamo la medicina – non avrebbe
infatti alcuna influenza sulla capacità del medico di guarire il malato. Ciò induce Crizia e Socrate a
dotare di un contenuto oggettivo questa scienza trasversale, indicandone il referente ontico nel bene e
nel male, ossia definendola come scienza del bene e del male. In effetti, il riferimento all’ambito
assiologico dovrebbe permettere alla saggezza pratica di svolgere un ruolo fondamentale, consistente
appunto nel trasformare conoscenze valorialmente neutrali in acquisizioni utili all’uomo. La
saggezza, in quanto conoscenza del bene e del male, consentirebbe a un artigiano in possesso di un
sapere tecnico di utilizzare in vista del bene le sue conoscenze (senza influire in alcun modo sul
contenuto di tali conoscenze).
Non c’è dubbio che le tre definizioni di saggezza sopra menzionate presentino aspetti di evidente
matrice socratica: l’invito alla conoscenza di sé costituisce la ripresa di un motivo delfico
particolarmente caro a Socrate; l’idea che la suprema conoscenza pratica debba possedere una
qualche funzione regolativa nei confronti delle altre scienze percorre numerosi argomenti socratici
contenuti nei dialoghi; l’esigenza, infine, che tale sapere pratico si relazioni a un contenuto oggettivo
di natura assiologica costituisce un tema di indubbia impronta socratica.
Resta il fatto che le tre definizioni presentate da Crizia vengono confutate da Socrate, per essere
poi riprese, in varia forma (e calibrate in modo più accurato) dal Socrate ormai platonizzato dei
dialoghi della maturità, e in particolare della Repubblica. Qui Platone afferma esplicitamente che
solo la conoscenza del bene (ossia la sôphrosynê evocata nel Carmide) rende utili tutte le altre
conoscenze e fornisce il criterio d’uso supremo per l’individuo e per la polis.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Cambiano, G., Platone e le tecniche, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 158-61.

Erler, M., Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone; Esercizi di avviamento al pensiero
filosofico, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1991, pp. 281-340.

Giannantoni, G., Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Edizione
postuma a cura di B. Centrone, Bibliopolis, Napoli 2005, pp. 375-79.

Solére-Queval, S., Lecture du ‘Charmide’, «Revue de Philosophie Ancienne» 11 (1993), pp. 3-65.

Szlezák, T.A., Platone e la scrittura della filosofia, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1988, pp. 190-
216.
da Carmide, 172 E-176 A*
«Per il cane» dissi «anche a me pare così, e proprio mirando a questo poco fa dicevo che mi si
affacciavano alla mente certe assurdità, e che temevo che non stessimo esaminando correttamente.
Davvero, infatti, per quanto possa essere tale la saggezza, non mi sembra essere per niente chiaro
quale bene produca per noi.»
«Come?» disse lui. «Parla, in modo che sappiamo anche noi cosa vuoi dire!»
«Credo» dissi io «di star dicendo cose folli; è comunque necessario esaminare quello che si è
affacciato alla mente e non passar oltre senza riflettere, se uno vuole aver cura sia pur minimamente
di sé.»
«Dici bene» disse.
«Ascolta allora» dissi «il mio sogno, che sia entrato per una porta di corno o per una d’avorio. Se
infatti la saggezza, quale ora l’abbiamo definita, ci governasse in sommo grado, si farebbe tutto – non
è vero? – secondo le varie scienze; e uno che dice di essere un timoniere, ma non lo è, non ci
ingannerebbe, né un medico, o uno stratego o chiunque altro, che simuli di sapere qualcosa che non
sa, potrebbe allora sfuggirci. Da una simile situazione pensi che ci verrebbe qualcos’altro se non
l’essere sani nel corpo più di quanto non siamo ora? E quelli che corrono pericoli in mare e in guerra
verrebbero salvati, e gli utensili, i vestiti, ogni tipo di calzature e tutti gli oggetti verrebbero
realizzati per noi secondo i dettami tecnici, e molte altre cose, per il fatto di poterci servire di veri
artigiani. Qualora poi tu lo voglia, possiamo anche concedere che esista la mantica, come scienza di
ciò che avverrà in futuro, e che la saggezza, che ad essa presiede, allontani gli impostori, e invece
designi per noi gli autentici indovini, quali profeti delle cose future. Che il genere umano, così
organizzato, agirebbe e vivrebbe secondo scienza, riesco a capirlo: la saggezza, infatti, facendo
opera di sorveglianza, non permetterebbe che la non-scienza, insinuandosi, cooperasse con noi. Ma
che, agendo secondo scienza, prospereremmo e saremmo felici, questo non siamo ancora in grado di
saperlo, caro Crizia.»
«Ma sicuramente» disse lui «non troverai con facilità in quale altro modo possa giungere a
compimento l’essere felici, se non onori l’agire secondo scienza.»
«Allora spiegami ancora in aggiunta una piccola cosa: quando dici “secondo scienza”, intendi la
scienza di che cosa? Forse del fare le scarpe?»
«No di certo, per Zeus!»
«Allora del lavorare i metalli?»
«In nessun modo.»
«Allora la lana, il legno o altre cose simili?»
«Certo che no.»
«Dunque» dissi io «non restiamo più ancorati alla tesi per cui chi vive secondo scienza è felice.
Costoro, infatti, che pure vivono secondo scienza, tu non ammetti che siano felici; ma mi sembra che
tu definisca felice colui che vive secondo la scienza di certe cose. E forse parli di quello stesso di
cui parlavo or ora, colui che sa tutto ciò che avverrà in futuro, l’indovino. Parli di questo o di
qualcun altro?»
«Anche di questo, senza dubbio,» disse «ma anche di qualcun altro.»
«E di chi?» dissi io. «Forse di uno che sappia, oltre alle cose future e a tutte quelle passate, anche
quelle presenti, e che non ignori alcuna cosa? Diciamo pure che esista un uomo del genere; non credo
infatti che potresti dire che ci sia qualcuno che viva secondo scienza più di quest’uomo.»
«Certo no.»
«Questo ancora desidero sapere, quale delle scienze lo rende felice. O forse tutte allo stesso
modo?»
«Assolutamente no, non tutte allo stesso modo» rispose.
«Ma quale soprattutto? Quella con cui conosce quale delle cose che sono, che sono state, che
saranno in futuro? Forse quella con cui conosce il gioco del tavoliere?»
«Ma quale gioco del tavoliere!» esclamò.
«Allora quella con cui conosce l’arte del calcolo!»
«In nessun modo.»
«Allora quella con cui conosce l’arte della salute?»
«Se mai questa» rispose.
«Ma la scienza di cui parlo,» dissi io «che soprattutto lo rende felice, è quella con cui conosce che
cosa?»
«Con cui conosce il bene e il male» rispose.
«Disgraziato!» dissi io «da un pezzo mi porti in giro, tenendomi nascosto che non il vivere
secondo scienza era ciò che fa prosperare ed essere felici, neppure qualora questo “secondo scienza”
comprenda tutte le altre scienze, ma solo il vivere secondo questa scienza, che è unica e concerne il
bene e il male. Perché, Crizia, se vorrai togliere questa scienza alle altre scienze, forse che la
medicina farà guarire un po’ meno, la tecnica di produzione delle calzature sarà inferiore nel fare
scarpe e l’arte del tessere nel vestire, o l’arte della navigazione sarà meno capace di evitare che si
muoia in mare e così la strategia in guerra?»
«Per nulla meno.»
«Ma, caro Crizia, se essa sarà assente, resterà a noi precluso che ciascuna di tali scienze si
realizzi bene e vantaggiosamente.»
«Dici il vero.»
«Questa scienza allora, a quanto pare, non è la saggezza, ma una scienza la cui opera consiste nel
recarci vantaggio. È infatti la scienza, non delle scienze e delle non-scienze, ma del bene e del male.
Cosicché, se quest’ultima è vantaggiosa, la saggezza sarà per noi qualcos’altro.»
«Ma perché» disse lui «questa non dovrebbe apportare vantaggio? Se infatti la saggezza è, per
l’appunto, scienza delle scienze e presiede anche alle altre scienze, essa, governando senza dubbio
anche quella scienza che concerne il bene, sarà per noi vantaggiosa.»
«Ma forse che farà anche guarire» dissi io «questa scienza, e non la medicina? E questa stessa
produrrà gli effetti delle altre arti, e non ciascuna delle altre arti la propria opera? O non abbiamo
piuttosto in precedenza dichiarato solennemente che è scienza solo della scienza e della non-scienza,
e di nessun’altra cosa? Non è così?»
«Sembra, almeno.»
«Non sarà dunque artefice di salute?»
«No di certo.»
«La salute era infatti il prodotto di un’altra arte; o no?»
«Di un’altra.»
«Neppure dunque sarà artefice di vantaggio, amico mio. A un’altra arte, infatti, abbiamo assegnato
quest’opera proprio ora. O no?»
«Certamente.»
«Come sarà dunque vantaggiosa, la saggezza, se non è artefice di nessun vantaggio?»
«In alcun modo, Socrate, o almeno così sembra.»
«Vedi dunque, Crizia, che ragionevolmente io temevo da tempo e giustamente mi imputavo di non
esaminare nulla di utile riguardo alla saggezza. Non ci sarebbe infatti apparsa come priva di
vantaggi, credo, questa cosa, che tutti concordano essere la più bella di tutte, se io fossi stato di
qualche giovamento per un corretto indagare. Ora invece siamo di fatto sconfitti su tutti i fronti e non
siamo in grado di scoprire a quale mai, tra le cose che sono, il legislatore dei nomi dette questo
nome, “saggezza”. Eppure abbiamo concesso nella nostra argomentazione molte cose che non
conseguivano. Abbiamo infatti concesso che vi fosse una scienza della scienza, mentre
l’argomentazione non lo permetteva né lo asseriva. E abbiamo poi concesso a questa scienza di
conoscere le opere delle altre scienze (mentre l’argomentazione non permetteva neppure questo),
perché il saggio ci diventasse colui che ha scienza, delle cose che sa, che le sa, di quelle che non sa,
che non le sa. Questo abbiamo convenuto, certamente con molta generosità, senza neanche esaminare
l’impossibilità che, le cose che uno non sa in nessun modo, queste le sappia in qualche modo. Ciò
che infatti uno non sa, sa: questo dice il nostro accordo, anche se, come credo, ciò potrebbe sembrare
più irragionevole di qualsiasi altra cosa. Eppure l’indagine, pur avendoci trovati così faciloni e non
rigidi, non per questo è più in grado di scoprire la verità; anzi, se ne è a tal punto presa gioco, che
ciò che noi dapprima ponevamo essere la saggezza, insieme concordando e fingendo una definizione,
ci si è rivelato essere, assai insolentemente, qualcosa che non reca vantaggio. Ora, per quanto
riguarda me, mi dolgo di meno; ma per te,» dissi «Carmide, mi dolgo molto, se tu, che sei quello che
sei per l’aspetto, e sei inoltre estremamente saggio nell’anima, non trarrai nessun vantaggio da questa
saggezza, né essa con la sua presenza ti sarà di qualche utilità nella vita. Ma ancor più mi dolgo per
l’incantesimo che imparai dal Trace, se questa cosa che ho imparato con molto sforzo concerne una
realtà priva di qualsiasi valore. Non credo comunque che le cose stiano sicuramente così; penso
piuttosto di essere io un cattivo ricercatore; ritengo infatti che la saggezza sia in ogni caso un grande
bene e che, almeno se è vero che la possiedi, tu sia beato. Vedi dunque se la possiedi e non hai alcun
bisogno dell’incantesimo; se infatti la possiedi, ancor più vorrei consigliarti di considerare me come
uno che dice follie ed è incapace di indagare qualunque cosa con il ragionamento, te stesso invece,
quanto più saggio, anche tanto più felice.»
T. 19 IL BENE SUPREMO
(Platone, Apologia di Socrate, 36 A-38 B)

Il verdetto del tribunale ateniese è stato (con una leggera maggioranza di 280 voti contro 220) di
condanna a morte. Socrate ha però il diritto di chiedere una sorta di pena alternativa (solitamente
l’esilio o il pagamento di una cospicua somma). Egli propone invece, in modo provocatorio, di
venire mantenuto a pubbliche spese nel Pritaneo, il massimo onore cui potesse aspirare un cittadino
ateniese. In realtà Socrate rifiuta ogni soluzione che comporti la rinuncia all’indagine, al dialogo, alla
confutazione, in una parola alla filosofia.
Arriva a dire, in un passo giustamente celebre, che una vita privata della «possibilità di ragionare
quotidianamente sulla virtù [...] o di esaminare (exetazontos) me stesso e gli altri, una vita senza
ricerca (ho de anaxetastos bios) non è neppure degna di essere vissuta» (38 A). Si tratta di una sorta
di testamento spirituale, nel quale Socrate delinea gli elementi costitutivi della propria attività, il
senso stesso della pratica filosofica come da lui viene intesa. Emerge così una autorappresentazione
del proprio impegno come attuazione dell’indicazione divina: ricerca, indagine, messa in discussione
di ogni presunta verità, critica dei saperi depositati; tutto ciò attuato per mezzo del dialegesthai, il
confronto incessante con tutti gli interlocutori e con le verità di cui essi si fanno portavoce. In questo
senso il dialogo – da intendersi sia come disponibilità verso l’oggetto di cui si discorre, sia come
apertura verso il proprio interlocutore – costituisce per Socrate qualcosa di assoluto, forse
identificabile con il bene. «Il valore assoluto del dialegesthai dipende dal fatto che nessuna pretesa
verità lo precede e lo può impedire: ogni verità e perfino la verità non possono pretendere di venire
riconosciute come tali se non sono sottoposte all’esame e alla discussione. In altri termini, non è la
verità che fonda il dialegesthai, bensì è al contrario il dialegesthai che fonda la verità. In quanto
tale, il dialegesthai non costituisce il percorso o lo stumento per pervenire al bene, ma è, esso
stesso, il bene» (Giannantoni 2001, p.16).
Naturalmente l’identificazione del bene assoluto (megiston mathêma) con il dialogo, con la
ricerca, con l’indagine, non è priva di aspetti problematici. Se il bene corrisponde alla ricerca stessa
del bene (attuata attraverso il dialogo), si profila il rischio di concepire la filosofia stessa come una
ricerca votata in qualche misura all’inconclusività. Si tratta di un rischio che per più di un aspetto la
riflessione di Socrate sembra correre effettivamente. Del resto, il compito di dotare tale ricerca di un
contenuto oggettivo fondante (costituito ad esempio dalla teoria delle idee o da una articolata
concezione dell’anima, oltre che da una progettualità politica e sociale ben definita) sarà assunto da
Platone. Bisogna comunque riconoscere che la dialettica socratica, pur votata in qualche misura a una
certa forma di indefinitezza, conserva una forte componente oggettiva, data dalla natura universale
della ragione, ossia dal fatto che il dialogo non viene inteso solo come il luogo in cui si scontrano le
opinioni personali, ma anche come la dimensione nella quale si può raggiungere un accordo
(homologia ) universale, cioè oggettivo.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Giannantoni, G., Les perspectives de la recherche sur Socrate, in G. Romeyer Dherbey - J.-B.
Gourinat (éd.), Socrate et les socratiques , Vrin, Paris 2001, pp. 1-19.

Giannantoni, G., Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Edizione
postuma a cura di B. Centrone, Bibliopolis, Napoli 2005, pp. 198 sgg.
da Apologia di Socrate, 36 A-38 B *
Se non me la prendo per questo vostro verdetto di condanna, Ateniesi, è fra l’altro perché tale esito
mi è giunto tutt’altro che imprevisto: mi ha colpito molto, anzi, il numero dei voti uscito dall’una e
dall’altra parte. Mi immaginavo un margine ampio, tutt’altro che esiguo: e invece, a quanto pare, se
solo trenta voti fossero caduti altrove sarei stato assolto. Relativamente a Meleto ho pure
l’impressione di essere stato assolto, ora, e non solo: è a ognuno evidente che se non si facevano
avanti ad accusarmi Anito e Licone avrebbe dovuto pagare lui, per non aver raccolto un quinto dei
voti, una multa di mille dracme.
Ordunque, quest’uomo propone per me la pena di morte. Bene, e io che pena controproporrò,
Ateniesi? Certo quella che merito, no? E quale, allora? Che pena o multa mi merito, per non essere
stato a godermi tranquillamente la vita, trascurando quel che costituisce la preoccupazione dei più
(guadagni e amministrazione dei beni, o comandi militari e discorsi pubblici, e le varie magistrature,
e le fazioni e le congiure proprie della vita cittadina), in quanto mi ritenevo in realtà troppo onesto
per impegnarmici rimanendo incolume? Così per l’appunto non mi sono messo in una direzione da
cui, prevedibilmente, non avrei potuto cavare alcun vantaggio né per voi né per me, e sono andato
invece a elargire in privato, di individuo in individuo, quello che ritengo il massimo beneficio: ho
cercato di persuadere ognuno di voi di non curarsi di alcuna delle proprie cose prima che della
propria persona, del modo di diventare il più possibile buono e saggio, né delle cose della città più
che della città stessa, adottando questo stesso atteggiamento in qualsiasi frangente... Orsù, dite, che
pena mi merito per questa scelta di vita? Se devo fare una proposta davvero congrua, Ateniesi, direi
che mi merito qualche premio: e più precisamente, un premio a me appropriato. E cosa si addice a un
uomo povero vostro benefattore, che abbisogna di un po’ d’agio per potervi stimolare? Prendere i
pasti nel Pritaneo, Ateniesi, sarà la cosa per lui più appropriata: e per lui più che per chi di voi ha
ottenuto la vittoria nei giochi Olimpici, nella corsa dei cavalli, o delle bighe, o delle quadrighe.
Costui infatti vi fa felici solo in apparenza, mentre io lo faccio davvero: e lui di sostentamento non ha
bisogno, mentre io sì. Ecco insomma quanto chiedo, se devo dire quel che merito secondo giustizia:
di essere mantenuto a spese del Pritaneo.
Con queste parole vi do forse, più o meno, la stessa impressione di ostinato orgoglio di quando
prima parlavo di suppliche e lamentazioni. Ma non è così, Ateniesi: il fatto è, piuttosto, che io sono
persuaso di non aver mai fatto del male intenzionalmente a chicchessia, ma non riesco a persuaderne
voi. Ne abbiamo discorso, del resto, per poco tempo: e sono sicuro che invece vi lascereste
persuadere se la legge consentisse a voi, come ad altre popolazioni, di decidere su sentenze capitali
non durante un giorno solo, ma di più. E non è facile ora, in breve tempo, liberarsi da imputazioni di
tale gravità. In ogni caso, persuaso come sono di non aver mai fatto del male a nessuno, sono ben
lungi dal volerlo fare a me stesso, dichiarando contro la mia convenienza che me lo merito, e
reclamando una pena conseguente. Cosa dovrei temere, del resto? Forse la punizione per me invocata
da Meleto, che – ripeto – neanche so se sia un bene o un male? E dovendo preferire pene che so per
certo essere dei mali, quale proporre? Forse la prigionia? Perché mai dovrei vivere in carcere,
schiavo dell’autorità continuamente rinnovata degli Undici? Oppure una multa, e la carcerazione
finché non riesca a pagarla? Per me sarebbe la stessa cosa che dicevo or ora, perché denaro da
pagare non ne ho. Oppure, ancora, dovrei proporre l’esilio? Voi mi ci mandereste pure... Ma sarebbe
ben forte il mio attaccamento alla vita, se fossi così insensato da non considerare che voi, miei
concittadini, non ce l’avete fatta a reggere tutto il mio discorrere e chiacchierare, e avete finito per
trovarlo così pesante e odioso che state cercando ora di liberarvene... e altri dovrebbero sopportarlo
tranquillamente? Ci corre, Ateniesi! Bella vita sarebbe, la mia, se me ne andassi alla mia età e
vagabondassi di città in città, da ognuna respinto! So per certo che, dovunque vada, i giovani
verranno ad ascoltare i miei discorsi come qui: e che se li allontano mi faranno scacciare, premendo
sui più anziani, loro stessi; ma se non li allontano, lo faranno per causa loro i loro padri e parenti.
Ora mi si potrebbe dire: «Ma una volta via di qui, Socrate, non potresti startene zitto e quieto?».
Ecco precisamente il punto su cui è più difficile persuadere alcuni di voi... Perché se affermo che ciò
significherebbe disubbidire al dio, per cui di stare quieto non mi riuscirebbe, non mi crederete e
penserete che sto scherzando. Ancor meno mi crederete se dico che il più grande bene dato all’uomo
è proprio questa possibilità di ragionare quotidianamente sulla virtù e sui vari temi su cui mi avete
sentito discutere o esaminare me stesso e altri, e che una vita senza ricerca non vale la pena di essere
vissuta dall’uomo. Ma le cose stanno così, concittadini, e ve lo ripeto anche se non è facile
persuadervene. D’altronde, per quanto mi riguarda, non mi sono assuefatto all’idea di meritarmi
alcun male. Se avessi denaro avrei proposto una somma che contavo di poter pagare, senza risentirne
alcun danno; ma non ne ho, a meno che non siate disposti a stabilire una somma che io sia in grado di
pagare. Potrei forse arrivare a una mina d’argento: che è dunque quanto propongo.
Peraltro il qui presente Platone, Ateniesi, e Critone e Critobulo e Apollodoro, mi esortano a
chiedere una multa di trenta mine, di cui si farebbero garanti. Ed è quel che, infine, chiedo: e garanti
del denaro vi saranno costoro, che sono persone fidate.
T. 20 LA CRISI DEL SOCRATISMO
(Platone, Repubblica, I 348 B-354 C)

Il primo libro della Repubblica fu probabilmente composto, almeno in prima stesura, negli anni 90
del IV secolo nella forma tipica del dialogo socratico (e così dovette circolare con il titolo di
Trasimaco); i rimanenti nove libri, composti negli anni 80, contemporaneamente alla fondazione
dell’Accademia, rappresentano la risposta platonica ai problemi sollevati nel primo libro e in esso
lasciati sostanzialmente irrisolti.
Il Trasimaco mette in scena il formidabile attacco che il sofista muove all’etica socratica, al suo
individualismo e al moralismo inconcludente che la anima. «Trasimaco rappresenta il vero
antagonista: capace di mettere in difficoltà Socrate, di costringerlo ad andare oltre i suoi limiti»
(Vegetti, p. 237). Come è noto, la discussione contenuta in questo libro (e poi nella Repubblica) ruota
intorno al tema della giustizia; di fronte alle definizioni deboli proposte dai primi interlocutori di
Socrate (Cefalo e Polemarco, secondo i quali la giustizia consiste, in una prospettiva economicista,
nella capacità di conservare le proprie ricchezze e nel restituire i debiti, o, in una prospettiva
politica, nel beneficiare gli amici e danneggiare i nemici), e ai tentativi di confutazione attuati da
Socrate, Trasimaco manifesta tutto il suo disgusto. Egli contrappone a questi primi tentativi una
definizione forte di giustizia, in base alla quale essa consiste nell’utile del più forte. L’andamento
dell’argomentazione di Trasimaco si presenta rigoroso e incalzante: partendo dall’equivalenza tra
giustizia e legalità, ossia rispetto delle leggi vigenti all’interno di una data comunità – equivalenza in
qualche modo accettata dallo stesso Socrate nel Critone (cfr. T. 02) – il sofista constata che le leggi
sono emanate da chi detiene il potere, al solo scopo di conservare e accrescere questo potere; se il
comando, derivato dalla forza, è detenuto dagli oligarchi si avrà un sistema normativo filo-
oligarchico, così come, nel caso di un potere democratico, le leggi saranno filo-democratiche; agli
occhi di Trasimaco il positivismo giuridico (Rechtspositivismus) si fonda sul positivismo della forza
(Machtspositivismus). Tutto ciò comporta un vero e proprio smascheramento della pretesa
oggettività e neutralità della legge, che non si rivela altro che l’espressione di rapporti di forza reali
situati al di fuori (e a monte) di ogni decisione legislativa. Chiarezza, correttezza e rigore,
costituiscono gli assi portanti del ragionamento di Trasimaco: «saphes, orthos, akribes sono nel V
secolo altrettante parole d’ordine di una metodologia d’avanguardia, che privilegia l’accertamento
rigoroso dei fatti, il ragionamento stringente, la certezza e la chiarezza dei risultati, rispetto alle
vecchie forme di accesso alla verità tramite la rivelazione e l’autorità della tradizione» (Vegetti,
p.238).
In un secondo tempo Trasimaco modifica la sua tesi, sostenendo che la giustizia è un bene altrui,
ossia di coloro che sono sottoposti alla legge, mentre l’ingiustizia è un bene proprio, che appartiene a
coloro che detengono il potere. L’ingiusto, il quale è forte e detiene il potere, esercita la
sopraffazione (pleonexia) nei confronti del giusto, e in questo modo può conseguire la felicità, che,
per Trasimaco, esattamente come per Callicle (cfr. T.15), equivale al pieno soddisfacimento dei
propri desideri. In realtà, sostituendo la tesi secondo la quale la giustizia rappresenta l’utile del più
forte con questa seconda posizione, in base a cui essa costituisce un bene altrui, cioè dei sottoposti,
Trasimaco indebolisce il rigore logico della sua argomentazione, anche se, probabilmente, fornisce
una descrizione più pregnante (almeno sul piano retorico) della situazione politica concreta.
La confutazione di Socrate delle tesi di Trasimaco appare poco convincente e comunque bisognosa
di un approfondimento, come del resto lo stesso filosofo riconosce alla fine del suo lungo intervento.
Egli tenta di discreditare la tesi di Trasimaco circa l’equivalenza tra bontà (in senso performativo) e
ingiustizia, osservando che la bontà non può non risultare collegata a una competenza; in questo modo
egli gioca sull’ambiguità del significato di termini quali sapiente (sophos) e buono (agathos), che
presentano tanto un’accezione morale che una prestazionale; così facendo Socrate fa dipendere la
bontà dal possesso di una capacità e di un sapere, per poi collegare questa condizione alla sfera
morale, ossia alla giustizia. Ma è evidente che un’argomentazione di questo tipo non è priva di
risvolti problematici, quando non di vere e proprie fallacie logiche. Più consistente appare invece la
seconda parte della confutazione socratica, in cui viene posto l’accento sul fatto che ogni genere di
associazione (e dunque anche quella a cui danno luogo i componenti di una banda criminale) richiede
una qualche forma di collaborazione e riconoscimento, ossia di giustizia; in questo senso Socrate
anticipa una tesi destinata a essere sviluppata nel corso del dialogo (specialmente nel II libro), dove
emerge la natura primordiale dell’accordo (cioè della giustizia) sul disaccordo (ossia
sull’ingiustizia), vale a dire il fatto che l’uomo è costitutivamente portato a collaborare piuttosto che
a vivere isolatamente.
Dall’esame del rapporto tra il I libro della Repubblica (fortemente socratico) e gli altri nove
(tendenzialmente platonici) emerge comunque la consapevolezza da parte di Platone che la
formidabile offensiva di Trasimaco possa venire respinta con successo solo superando
l’atteggiamento individualista e moralisteggiante di Socrate in favore di una costruzione teorica di
natura politica, fondata su teoremi metafisici ed epistemologici solidi e fondanti.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Chappel, T.D.J., The Virtues of Thrasymachus, «Phronesis» 38 (1993), pp. 1-17.

Giannantoni, G., Il libro I della ‘Repubblica’ di Platone, «Rivista critica di storia della filosofia» 12
(1957), pp. 123-45.

Vegetti, M., Trasimaco, in M. Vegetti (a cura), Platone, Repubblica , vol. I, Bibliopolis, Napoli
1998, pp. 233-56.
da Repubblica, I 348 B-354 C*
«Se però» dissi «noi esponessimo, contrapponendogli punto a punto argomento ad argomento, quante
cose buone possiede l’esser giusto, e lui replicasse a sua volta e noi aggiungessimo dell’altro,
occorrerebbe enumerare i beni e misurarne la quantità addotta in entrambe le argomentazioni, e allora
avremmo bisogno di giudici che decidano il giudizio. Se invece, come si è fatto finora, noi
conduciamo l’indagine raggiungendo un accordo reciproco, saremo insieme giudici e avvocati.»
«Certo» disse.
«Quale dei due modi scegli?» chiesi.
«Quest’ultimo» disse.
«Via dunque» dissi, «Trasimaco, rispondici dal principio. Tu dici che la perfetta ingiustizia è più
profittevole di una giustizia che sia perfetta?»
«Assolutamente lo dico» disse, «e ho anche esposto perché.»
«Vediamo allora in che senso usi a proposito di esse questi termini: chiami una delle due virtù,
l’altra vizio?»
«E come no?»
«E non chiami la giustizia virtù, l’ingiustizia vizio?»
«Sarà proprio facile, o uomo dolcissimo» disse, «visto poi che affermo che l’ingiustizia è
profittevole e la giustizia no.»
«E allora?»
«Al contrario» disse.
«Cioè chiami la giustizia vizio?»
«No, ma una nobile dabbenaggine.»
«Chiami dunque l’ingiustizia malvagità?»
«No, piuttosto sagace giudizio.»
«Anche intelligenti e buoni, Trasimaco, ti sembrano essere gli ingiusti?»
«Certo» disse, «almeno quelli che sono capaci di recare compiutamente ingiustizia e sono in grado
di assoggettarsi città e popoli. Tu credi forse che io parli di tagliaborse: anche queste cose sono
profittevoli» disse, «se non vengono scoperte, ma non vale la pena di parlarne, al contrario delle
azioni che ho detto ora.»
«Su questo» dissi «non mi sfugge quel che intendi dire, mentre trovavo sorprendente che tu ponessi
l’ingiustizia dalla parte della virtù e della sapienza, la giustizia invece dalla parte opposta.»
«È proprio così che le colloco.»
«Questa tesi, compagno mio, è già più solida, e non è ormai facile trovare qualcosa da dire. Se
infatti tu asserissi che l’ingiustizia è profittevole, e però convenissi, come qualcun altro, che essa è
un vizio, cioè cosa brutta, avremmo qualcosa da dire parlando secondo le opinioni condivise.26 Ora
però hai chiaramente intenzione di affermare che è cosa bella e forte e vi aggiungerai tutti gli altri
attributi che noi riferiamo al giusto, visto che hai già osato porla nel campo della virtù e della
sapienza.»
«La tua supposizione è verissima» disse.
«Comunque» dissi io, «non bisogna desistere dal proseguire l’indagine secondo l’ordine
dell’argomentazione, finché io assuma che tu dici quello che pensi. Perché mi sembra che ora tu,
Trasimaco, non stia semplicemente scherzando, ma dica le tue opinioni intorno alla verità.»
«Ma che differenza fa per te» disse «se questa è o no la mia opinione, e perché non ti limiti a
confutare il discorso?»
«Nessuna» dissi io. «Ma cerca di rispondermi ancora su questo: ti sembra che il giusto voglia
prevaricare sul giusto?»
«Certo che no» disse. «Non sarebbe infatti urbano, come in effetti è, e dabbene.»
«E vorrebbe sopraffare la giusta condotta?»
«Neppure questa» disse.
«Ma riterrebbe opportuno prevaricare sull’ingiusto e penserebbe o no che questo sia giusto?»
«Lo penserebbe e lo riterrebbe» disse, «ma non potrebbe.»
«Ma non è questo che ti chiedo» dissi io, «bensì se il giusto non ritiene opportuno e non vuole
prevaricare sul giusto, ma piuttosto sull’ingiusto?»
«Così stanno le cose» disse.
«E quanto all’ingiusto? Non riterrà opportuno prevaricare tanto sul giusto quanto sulla condotta
giusta?»
«Come no» disse, «lui che ritiene di prevaricare su tutti?»
«Non cercherà allora l’ingiusto di prevaricare anche sull’uomo ingiusto e sulla sua condotta, e si
sforzerà di prendere lui stesso la parte più grande possibile di tutto?»
«È così.»
«Così dunque concludiamo» dissi: «il giusto non cerca di prevaricare sul suo simile ma sul
diverso, mentre l’ingiusto sia sul simile sia sul diverso.»
«Ti sei espresso benissimo» disse.
«Ma l’ingiusto» dissi «è intelligente e buono, il giusto né l’uno né l’altro?»
«Va bene anche questo» disse.
«Non ne viene dunque» dissi io «che l’ingiusto assomiglia all’intelligente e al buono, mentre il
giusto non somiglia loro?»
«E come potrebbe» disse «il primo, che è tale, non somigliare al suo simile, a differenza
dell’altro?»
«Bene. Dunque ognuno dei due è tale quali sono quelli cui somiglia? »
«Ma cos’altro sarebbe?»
«Sia, Trasimaco. Dici che qualcuno è esperto di musica, qualcun altro inesperto?»
«Io sì.»
«Quale dei due è intelligente, e quale no?»
«L’esperto di musica, certo, è intelligente, l’inesperto non è intelligente. »
«E nelle cose in cui si è intelligente, non si sarà buono, in quelle in cui non lo si è, cattivo?»
«Sì.»
«E per il medico non è così?»
«Così.»
«Ti sembra allora, ottimo uomo, che un musicista accordando la lira voglia prevaricare su un altro
musicista nella tensione o nell’allentamento delle corde, o ritenga opportuno sopraffarlo?»
«No certo.»
«E sull’inesperto di musica?»
«È necessario» disse.
«E per il medico? Nella prescrizione di cibi o bevande vorrà in qualcosa prevaricare su un
medico o su una questione di medicina? »
«Certo no.»
«Ma su un non medico?»
«Sì.»
«Vedi tu se in ogni forma di scienza e di mancanza di scienza un qualunque scienziato sceglierebbe
di sopraffare nelle azioni e nei discorsi un altro scienziato, e non si comporterebbe invece nello
stesso modo del suo simile nella medesima azione.»
«Forse» disse «è necessario che almeno in questo caso le cose stiano così.»
«Ma chi non ha scienza? Non vorrà prevaricare tanto su chi è scienziato quanto su chi non lo è?»
«Forse.»
«Lo scienziato è sapiente?»
«Dico di sì.»
«E il sapiente è buono?»
«Dico di sì.»
«Dunque il buono e il sapiente non vorrà prevaricare sul suo simile, ma su chi è diverso e
contrario.»
«Sembra» disse.
«Ma il cattivo e l’ignorante lo vorrà, sia sul simile sia sul contrario. »
«Pare.»
«Ma allora, Trasimaco» dissi io, «il nostro ingiusto non prevarica tanto sul diverso quanto sul
simile? Non dicevi proprio questo? »
«Io sì» disse.
«Mentre il giusto non vorrà prevaricare sul simile, bensì sul diverso? »
«Sì.»
«Il giusto dunque somiglia» dissi «al sapiente e al buono, l’ingiusto al cattivo e all’ignorante.» 27
«Può darsi.»
«Ma abbiamo convenuto che sono tali qual è quello cui rispettivamente somigliano.»
«L’abbiamo infatti convenuto.»
«Dunque il giusto ci è risultato essere sia buono sia sapiente, l’ingiusto ignorante e cattivo.»
Trasimaco convenne su tutto questo, ma non così facilmente come io ora racconto, bensì
trascinatovi a fatica, sudando in quantità straordinaria (c’era anche un gran caldo). E vidi allora quel
che mai prima avevo visto: Trasimaco che arrossiva. Quando infine fu convenuto che la giustizia è
virtù e sapienza, l’ingiustizia vizio e ignoranza, dissi: «Sia, poniamo questo per acquisito. Ma
dicevamo anche che l’ingiustizia è forte. Te ne ricordi, Trasimaco?».
«Mi ricordo» disse. «Ma a me non sta bene quello che ora dicevi, e ho qualcosa da dire in
proposito. Se però lo dicessi, so bene che mi accuseresti di tenere un comizio. Lasciami dunque
parlare quanto voglio, oppure, se preferisci interrogare, interroga. Io, come si fa con le vecchiette
che raccontano le favole, ti dirò: “certo” e farò segno di sì o di no con la testa.»
«Non farlo comunque» dissi io «contro le tue opinioni.»
«Risponderò come preferisci» disse, «dal momento che non mi lasci parlare. Dunque che altro
vuoi?»
«Niente, per Zeus» dissi. «Ma se vuoi fare così, fallo pure. Io interrogherò. »
«Su, interroga.»
«E ti ripeto dunque la domanda di poco fa, per continuare a indagare secondo l’ordine
dell’argomentazione, su quale sia il rapporto della giustizia con l’ingiustizia. Si è infatti a un certo
punto argomentato che l’ingiustizia sarebbe più potente e più forte della giustizia. Ora però» dissi,
«se davvero la giustizia è virtù e sapienza, risulterà facilmente, penso, che sia anche più forte
dell’ingiustizia, poiché in effetti l’ingiustizia è ignoranza: nessuno potrebbe più misconoscerlo. Ma io
non desidero, Trasimaco, indagare la cosa in modo così semplice, ma più o meno così: diresti che
esiste una città ingiusta la quale cerchi di assoggettarsi ingiustamente altre città e in effetti le abbia
assoggettate, e che ne abbia anche ridotte molte in schiavitù sotto di sé?»
«Come no?» disse. «E proprio questo farà soprattutto la città migliore e che abbia raggiunto il più
compiuto livello di ingiustizia. »
«Capisco» dissi «che questa era la tua tesi. Ma in proposito io considero questo: la città che ha
raggiunto la supremazia su un’altra città, manterrà questo potere senza giustizia, o le sarà necessario
accompagnarlo con la giustizia?»
«Se» disse, «come tu dicevi poco fa, la giustizia è sapienza, con la giustizia; se è però come
dicevo io, con l’ingiustizia.»
«Sono molto felice» dissi, «Trasimaco, che non ti limiti a far cenno di sì o di no, ma che rispondi
assai bene.»
«Ti faccio un favore» disse.
«E fai bene così. Ma fammi anche quest’altro favore e dimmi: pensi che una città, o un esercito, o
una banda di briganti o di ladri o qualsiasi altra aggregazione di uomini che si rivolga verso una
comune impresa nell’ingiustizia, potrebbero ottenere qualche risultato, se si recassero
reciprocamente ingiustizia?»
«Certo no» disse.
«E se non lo facessero, non ne otterrebbero di migliori?»
«Certo.»
«Guerre civili, allora, Trasimaco, produce l’ingiustizia, e odii e conflitti reciproci, mentre la
giustizia offre concordia e amicizia. Non è forse così?»
«Sia» disse, «per non dissentire da te.»
«E tu fai bene, ottimo amico. Ma dimmi ancora: se dunque questa è la funzione dell’ingiustizia, di
introdurre odio ovunque essa si trovi, se si generasse tanto fra i liberi quanto fra gli schiavi non
farebbe sì che essi si odiino a vicenda ed entrino in conflitto tra loro diventando così incapaci di
concordare qualsiasi azione in comune?»
«Certo.»
«E che accadrà se essa si genera fra due persone? Non si separeranno e si odieranno e
diventeranno nemiche fra loro tanto quanto lo sono dei giusti?»
«Saranno così» disse.
«Ma se, mirabile uomo, l’ingiustizia si generasse in un solo individuo, perderebbe la propria
facoltà, o la manterrebbe intatta?»
«La manterrebbe comunque intatta» disse.
«Dunque essa appare possedere una facoltà siffatta, che, in qualsiasi aggregazione si generi – sia
in una città sia in una stirpe sia in un esercito o dovunque altrove – in primo luogo la rende incapace
di agire concordemente a causa dei conflitti interni e dei dissensi, poi perché la rende nemica tanto di
se stessa quanto di chiunque le si opponga, cioè dei giusti. Non è così?»28
«Certo.»
«E se fosse presente in un solo individuo, penso, produrrà quegli stessi effetti che appartengono
alla sua naturale funzione: in primo luogo lo renderà incapace di agire perché entrerà in conflitto e in
discordia con se stesso,29 poi lo renderà nemico sia a se stesso sia agli uomini giusti. È così?»
«Sì.»
«Ma almeno gli dèi, amico, sono giusti?»
«Siano» disse.
«E dunque agli dèi sarà nemico l’ingiusto, Trasimaco, e amico il giusto.»
«Gustati pure il tuo discorso» disse «e non avere paura: quanto a me io non ti contraddirò, per non
dispiacere a questi qui.»
«Vai allora» dissi io, «e servimi il resto del banchetto rispondendo come hai fatto finora. Che
dunque i giusti appaiono essere più sapienti e migliori e più capaci di azione, e che gli ingiusti non
sono in grado di far nulla in unione tra loro (e in effetti quando sosteniamo che alcuni, pur essendo
ingiusti, hanno efficacemente compiuto qualche impresa comune, non diciamo affatto una cosa vera,
perché non si sarebbero trattenuti dall’aggredirsi a vicenda se fossero stati davvero ingiusti: ma è
chiaro che c’era in loro un certo grado di giustizia che impediva loro di recare ingiustizia insieme ai
propri compagni e ai comuni avversari, ed è grazie a questa giustizia che hanno compiuto quel che
hanno compiuto; intraprendevano dunque le loro ingiuste azioni essendo solo a metà incattiviti
dall’ingiustizia, perché coloro che sono del tutto cattivi e perfettamente ingiusti sono anche
perfettamente incapaci di agire): capisco dunque che le cose stanno così, e non come tu ponevi al
principio. Se poi i giusti vivano anche meglio degli ingiusti e siano più felici, come in seguito ci
eravamo proposti di indagare, è da vedere. A me già da ora sembra che sia così, sulla base di ciò che
abbiamo detto. Tuttavia bisogna condurre l’indagine ancor meglio: il discorso non verte su di un
argomento qualsiasi, bensì sul modo in cui bisogna vivere.»
«E allora indaga» disse.
«Indagherò» risposi. «E dimmi: ti sembra che vi sia una funzione del cavallo?»
«A me sì.»
«E porresti dunque che la funzione del cavallo o di qualsiasi altra cosa consista in quello che si
può fare soltanto, oppure nel modo migliore, mediante loro?»30
«Non capisco» disse.
«Ma è così: c’è qualcosa con cui potresti vedere se non con gli occhi?»
«No di sicuro.»
«E allora, potresti udire se non con gli orecchi?»
«No.»
«Non diciamo dunque giustamente che queste sono le funzioni di questi organi?»
«Certo.»
«E allora: non potresti recidere un tralcio di vite con un coltello o con un trincetto o con molti altri
strumenti?»
«Come no?»
«Ma con nessuno, credo, così bene come con una roncola che è stata fabbricata apposta per
questo.»
«Vero.»
«Non porremo dunque che questa è la sua funzione?»
«Lo porremo senz’altro.»
«Ora dunque, penso, potrai capire meglio quello che prima chiedevo, domandando se la funzione
di ogni cosa non consistesse in ciò che essa soltanto può compiere, o che compie meglio di tutte le
altre.»
«Bene» disse «capisco, e mi pare che questa sia la funzione di ogni cosa.»
«Sia» dissi io. «Non ti sembra allora che vi sia anche una virtù per ciascuna cosa alla quale sia
stata attribuita una funzione? Torniamo alle stesse cose: c’è, diciamo, una funzione degli occhi?»
«C’è.»
«E c’è dunque anche una virtù degli occhi?»
«Anche una virtù.»
«E allora, c’era una funzione degli orecchi?»
«Sì».
«Quindi anche una virtù.»
«Anche una virtù.»
«E non è così anche per tutte le altre cose?»
«Così.»
«Allora attento: potrebbero mai gli occhi svolgere bene la loro funzione se non possedessero la
virtù che è loro propria, ma invece della virtù un vizio?»
«E come potrebbero?» disse. «Perché tu parli certo della cecità invece della vista.»
«Qualunque sia» dissi «la loro virtù; perché non è questo propriamente che chiedo, bensì se è
mediante la virtù propria che ciò che deve svolgere una funzione svolge bene la sua funzione, e male
mediante il vizio.»
«Questo che dici è vero» disse.
«E gli orecchi, privati della loro virtù, non svolgeranno male la loro funzione?»
«Certo.»
«Stabiliamo dunque lo stesso discorso per tutte le altre cose?»
«A me pare.»
«Allora, dopo tutto ciò, vieni a esaminare questo. Vi è una funzione dell’anima che non si potrebbe
svolgere proprio con nessun’altra cosa, come ad esempio sorvegliare, comandare, decidere e tutte le
azioni di tal genere: c’è qualcos’altro se non all’anima cui potremmo giustamente attribuire queste
funzioni e asserire che sono sue proprie?»
«Nient’altro.»
«E allora il vivere? Diremo che è funzione dell’anima?»
«Soprattutto questo» disse.
«Non diciamo quindi che vi è anche una virtù dell’anima?»
«Diciamolo.»
«Ma dunque, Trasimaco, l’anima potrà mai svolgere bene le sue funzioni se è privata della virtù
che le è propria, o questo è impossibile? »
«Impossibile.»
«È necessario perciò che un’anima cattiva governi e sorvegli male, mentre quella buona faccia
bene in tutto questo.»
«Necessario.»
«Ma non abbiamo convenuto che la giustizia è la virtù dell’anima, l’ingiustizia il suo vizio?»
«Infatti, ne abbiamo convenuto.»
«Quindi l’anima giusta e l’uomo giusto vivranno bene, quello ingiusto invece male».
«Pare» disse, «secondo la tua argomentazione.»
«Ma certo colui che vive bene è beato e felice, chi no il contrario.»
«Come no?»
«Il giusto è dunque felice, l’ingiusto sventurato.»
«Siano» disse.
«Ma l’essere sventurato non giova, l’essere felice sì.»
«Come no?»
«Perciò, beato Trasimaco, in nessun caso l’ingiustizia è più giovevole della giustizia.»
«E questo sia, Socrate» disse, «il tuo banchetto per le Bendidie.»
«Servito da te» dissi, «Trasimaco, da quando sei diventato mite con me e hai smesso di essere
violento. Però non ho mangiato gran che bene, ma a causa mia, non tua. Come gli ingordi che si
precipitano ad assaggiare i nuovi piatti man mano che vengono serviti prima di aver gustato nella
giusta misura il precedente, così mi sembra di aver fatto anch’io: prima di aver trovato ciò che
abbiamo ricercato all’inizio – che cosa mai sia il giusto –, l’ho abbandonato e mi sono lanciato nella
ricerca se esso sia vizio e ignoranza oppure sapienza e virtù; infine, sopravvenuto un altro discorso
ancora, secondo cui l’ingiustizia è più vantaggiosa della giustizia, non ho potuto trattenermi dal
gettarmi su questo argomento abbandonando l’altro, sicché mi accade a questo punto della
discussione di non sapere nulla. Finché infatti non so che cosa è il giusto, tanto meno potrò sapere se
si trova a essere una virtù oppure no, e se chi lo possiede è infelice o felice.»
*
La letteratura secondaria viene qui citata in forma abbreviata; l’indicazione completa dei singoli
contributi si trova nella bibliografia collocata al termine dell’introduzione.
1
Cfr. A. Gottlieb, Socrates. Philosophy’s Martyr, passim.
2
Sulla funzione esemplare della figura di Socrate nella riflessione antica è fondamentale F. De Luise -
G. Farinetti, Felicità socratica, passim; cfr. anche F. Alesse, Un contributo allo studio
dell’exemplum Socratis. Sulle differenti immagini di Socrate menzionate cfr. A.M. Ioppolo, Socrate
nelle tradizioni accademico-scettica e pirroniana; R. Bett, Socrates and Skepticism; P.L. Donini,
Socrate “pitagorico” e medioplatonico; E. Brown, Socrates in the Stoa; T. Brennan, Socrates and
Epictetus. Sulle scuole socratiche resta fondamentale lo studio di K. Döring, Sokrates, die
Sokratiker, p. 179 sgg. Con la fine del mondo antico Socrate non ha cessato di esercitare un influsso
straordinario sul pensiero filosofico e in generale sulla cultura occidentale; basti pensare, per fare un
solo esempio, a Erasmo da Rotterdam, il quale, nel Convivium religiosum, dichiarava: Sancte
Socrates, ora pro nobis. Una rapida rassegna del Nachleben socratico viene fornita da K. Döring
alle pp. 166-78 del contributo citato sopra.
3
Da questo interrogativo prende le mosse il bel saggio di F. Wolff, Etre disciple de Socrate.
4
Interessanti considerazioni sulle diverse immagini di Socrate ricavabili dalle nostre quattro fonti si
trovano in A. Nehamas, Voices of Silence, pp. 85-95.
5
Sull’accostamento tra Socrate e Euripide in Nietzsche e in Aristofane cfr. G. Ugolini, Guida alla
lettura della ‘Nascita della tragedia’ di Nietzsche, pp. 119-28. Sul Socrate di Nietzsche cfr. J.I.
Porter, Nietzsche and “The Problem of Socrates”; sul rifiuto da parte di Socrate dell’esperienza
dell’arte tragica, con la conflittualità intrapsichica che essa comporta, cfr. M. Vegetti, L’etica degli
antichi, p. 95 sgg.
6
Sull’immagine di Socrate che emerge dalle Nuvole cfr. E.L. Bowie, Le portrait de Socrate dans les
‘Nuées’ d’Aristophane, passim; si veda anche F. Adorno, Introduzione a Socrate, pp. 35-55.
7
Sulla compatibilità tra la testimonianza aristofanea e quella contenuta nella cosiddetta autobiografia
del Fedone cfr. G. Cerri, La pagina autobiografica del ‘Fedone’, per il quale i due testi si
confermano a vicenda.
8
Sono questi i dialoghi di cui solitamente ci si serve per ricostruire la personalità filosofica di
Socrate. Ad essi fanno riferimento, ad esempio, due importanti studiosi di Socrate, pur tra loro così
diversi, come G. Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa e G. Giannantoni, Dialogo socratico e
nascita della dialettica. Per Vlastos, nei dialoghi platonici ci sono due Socrati: quello socratico
degli scritti giovanili e quello ormai platonizzato delle opere del periodo di mezzo e della maturità.
Più o meno nella medesima linea si muove G.X. Santas, Socrate, passim.
9
Cfr. su questo aspetto D. Blank, Socrates vs. Sophists on Payment for Teaching e D.E. Griffin,
Socrates’ Poverty.
10
Questa è, ad esempio, la tesi di W.J. Prior, Why Did Plato Write Socratic Dialogues?
11
Che la riflessione di Socrate sia riconducibile a un’attitudine di pensiero piuttosto che a un insieme
di filosofemi definiti è stato sostenuto a più riprese da L. Rossetti: cfr., per esempio, Il dialogo
socratico come unità comunicazionale “aperta” e L’etica socratica è espressa da un (piccolo)
insieme di enunciati?
12
Sulla natura di questo progetto, incentrato intorno alla riabilitazione di un personaggio come
Teramene (oligarca moderato, entrato in rotta di collisione con il radicalismo di Crizia e per questo
mandato a morte), si veda il bel libro di F. Roscalla, Biaios didaskalos, passim.
13
Sul Socrate di Senofonte si veda anche L.-A. Dorion, Xenophon’s Socrates e V.J. Gray, Xenophon’s
Image of Socrates; sull’atteggiamento nei confronti del sapere naturalistico cfr. C. Viano, La
cosmologie de Socrate, passim.
14
Sulla testimonianza aristotelica cfr. G. Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa , pp. 120-40 e M.-
C. Bataillard, Le Socrate d’Aristote, passim.
15
Un quadro di tutte queste alternative è offerto da G. Giannantoni, Les perspectives de la recherche
sur Socrate, p. 4 sgg.
16
Che una trattazione filosofica di Socrate debba servirsi essenzialmente della testimonianza di Platone
viene osservato, tra gli altri, da G. Figal, Socrate , pp. 16-21.
17
Che Socrate venisse avvertito come misodêmos, ossia come antipopulista e sostanzialmente ostile
alla democrazia, senza tuttavia esserlo veramente, viene sostenuto da G. Vlastos, Studi socratici, pp.
101-24.
18
Durante il regime dei Trenta ebbe il coraggio di opporsi all’ordine di arrestare un loro avversario
politico (cfr. Platone, Apologia, 32 C e Senofonte, Memorabili, IV 4, 3-4); precedentemente, in pieno
potere democratico, membro del Consiglio dei 500, si rifiutò di giudicare in blocco gli strateghi, rei
di non avere raccolto i superstiti della battaglia navale delle Arginuse (Platone, Apologia, 32 B).
19
Cfr. G. Giannantoni, Les perspectives de la recherche sur Socrate, p. 9 sgg. e M. Montuori, Se
questo è Socrate, pp. 249-51.
20
Cfr. M. Vegetti, La letteratura socratica e L. Rossetti, Il dialogo socratico come unità
comunicazionale “aperta”.
21
Al rapporto tra legge e moralità nel Critone e in generale alle ragioni che inducono Socrate ad
accettare la condanna a morte (rifiutando ogni soluzione alternativa) sono consacrate migliaia di
pagine; per un primo approccio alla questione si vedano: R.E. Allen, Socrates and Legal Obligation;
A. Barker, Why did Socrates Refuse to Escape?; R. Bentley, Responding to Crito; D. Bostock, The
Interpretation of Plato’s ‘Crito’; J.G. De Filippo, Justice and Obedience in the ‘Crito’; G.F. Foulk,
Socrates’ Argument for Not Escaping; C.D. Herrera, Civil Disobedience and Plato’s ‘Crito’; A.M.
Ioppolo, Persuasione e obbedienza alle leggi nel ‘Critone’.
22
Sul processo e la condanna di Socrate la letteratura critica è praticamente sterminata. Si segnalano
qui solo alcuni titoli: T.C. Brickhouse - N.C. Smith, Socrates on Trial; L. Brisson, Les accusations
portées contre Socrate; G. Danzig, Apologizing for Socrates; G. Luri Medrano, El proceso de
Sócrates; D. Nails, The Trial and the Death of Socrates; G.X. Santas, Socrate, pp. 17-67.
23
Il significato dell’introduzione del demone costituisce uno dei problemi sui quali più si è esercitata
l’esegesi socratica (cfr. T. 11). Socrate parla del demone come di qualcosa di personale, quasi di
biografico; molti vi hanno voluto vedere una sorta di anticipazione della moderna coscienza; per altri
è l’espressione del collegamento tra la sfera divina e la razionalità umana; per altri ancora una
sostanziale concessione alla dimensione irrazionale. In Platone il demone ha una funzione di natura
unicamente apotrettica, ossia mette in guardia dal compiere determinate azioni; in Senofonte e nello
pseudo-platonico Teage esso appare collegato alla pratica mantico-oracolare. La letteratura
consacrata al demone socratico risulta, come è facile immaginarsi, sterminata; tra i titoli più
interessanti si segnalano: T.C. Brickhouse - N.C. Smith, Socrates’ Daimonion and Rationality; L.
Brisson, Socrates and the Divine Signal ; J. Bussanich, Socrates and Religious Experience; B.
Centrone, Il daimonion di Socrate nello pseudoplatonico ‘Teage’; A.A. Long, How Does Socrates
Divine Sign Communicate with Him?; M.L. McPherran, Introducing a New God; C.D.C. Reeve,
Socrates the Apollonian?; G. Reale, Socrate, pp. 283-86.
24
Un primo approccio alla questione si trova in S. Broadie, The Sophists and Socrates e P. Woodruff,
Socrates among the Sophists.
25
Sul potere del logos in Gorgia cfr. E. Berti, In principio era la meraviglia, pp. 176-80.
26
Una buona ricostruzione del dibattito intorno alle nozioni di physis e nomos viene fornita da L.M.
Napolitano Valditara, Il contrasto fra nomos e physis, passim.
27
Come dimostra l’esperimento mentale esposto nel II libro della Repubblica , dove la preferibilità
dell’ingiustizia sulla giustizia (che viene praticata solo per timore delle conseguenze che
deriverebbero dalla trasgressione delle leggi) emerge dal mito dell’anello di Gige, il pastore che
compie ogni tipo di efferatezza, certo di non pagarne le conseguenze in virtù del possesso di un
anello che lo rende invisibile (II 359 D-360 D): cfr. F. Ferrari, I miti di Platone, pp. 83-90.
28
Sulla consistenza teorica delle tesi di Trasimaco è fondamentale M. Vegetti, Trasimaco, passim.
29
L’idea che la virtù politica (aretê politikê), di cui sono elementi costitutivi aidôs (rispetto reciproco,
pudore) e dikê (senso della giustizia), sia posseduta distributivamente da tutti i cittadini viene
sostenuta da Protagora nel grande mito contenuto nel dialogo che porta il suo nome (Protagora, 320
B-323 A). Sul significato del mito cfr. G. Cambiano, Platone e le tecniche, pp. 1-13 e F. Ferrari, I
miti di Platone, p. 141 sgg.
30
Tracce di critica al principio sul quale si basa la pratica democratica si trovano anche in Senofonte,
il quale attribuisce a Socrate l’idea che «chi non ha le conoscenze necessarie, non è né generale né
medico, neanche se tutti gli uomini gli dessero il voto» (Memorabili, III 1, 4).
31
Su questo aspetto si vedano i contributi di L. Rossetti citati alla nota 11; cfr. anche il bel saggio di
W.J. Prior, Why Did Plato Write Socratic Dialogues?
32
Sulla superiorità della brachilogia sulla macrologia cfr. G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita
della dialettica, pp. 48-69; si veda anche D. Samb, Brachylogie et macrologie.
33
Sulla sfiducia socratico-platonica nei confronti dei metodi di trasmissione del sapere propri della
sofistica e della retorica cfr. F. Trabattoni, La verità nascosta, passim.
34
Sulla natura contestualistica (quasi ad hominem) dell’interrogativo socratico ti legeis cfr. G.
Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica , p. 172 sgg. e 323.
35
Sulla critica alla scrittura contenuta nella parte conclusiva del Fedro è fondamentale lo studio di T.A.
Szlezák, Platone e la scrittura della filosofia, pp. 53-72; altrettanto condivisibili le considerazioni
di M. Erler, Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone, pp. 69-91.
36
Queste considerazioni devono molto allo splendido libro di M. Erler, Il senso delle aporie nei
dialoghi di Platone, pp. 123-49.
37
Sulla natura eccentrica, rispetto al nucleo del pensiero filosofico greco, della posizione di Socrate
sull’anima cfr. M. Vegetti, L’io, l’anima, il soggetto, pp. 54-57.
38
Sulle tradizioni del pensiero dell’anima è fondamentale M. Vegetti, L’etica degli antichi, pp. 73-108.
Si veda anche E. Berti, In principio era la meraviglia , pp. 313-15.
39
Naturalmente il ricorso al dialogo come strumento di ricerca della verità (che Socrate tematizza
anche se forse non pratica fino in fondo) non può davvero presentare paralleli nell’ambito del
pitagorismo. Va tuttavia osservato che i luoghi cittadini in cui Socrate si incontra e dialoga con i suoi
interlocutori non sono luoghi politici (assemblee o tribunali), bensì privati, cioè case, palestre e
piazze. Su questo aspetto cfr. G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica, p. 44, il
quale osserva che un simile atteggiamento sancisce «che la libertà di pensiero richiede di tenersi alla
larga dalle istituzioni della polis democratica».
40
Sull’identificazione, operata nell’Alcibiade I, tra anima e io cfr. E. Berti, In principio era la
meraviglia, pp. 138-41.
41
Sulle differenti interpretazioni del motivo dell’auto-conoscenza nell’Alcibiade I si veda F. Renaud,
La conoscenza di sé nell’ ‘Alcibiade I’, pp. 230-34.
42
Sul tema della felicità come ordine dell’anima (con particolare riguardo al Gorgia) cfr. U. Wolf, La
filosofia come ricerca della felicità, pp. 187-212; si veda anche G.X. Santas, Socrate, pp. 243-335.
43
Che la professione socratica di ignoranza sia perfettamente compatibile con la dichiarazione di
possedere una sapienza umana, connessa ad esempio alla conoscenza delle cose d’amore, è stato
dimostrato nel migliore dei modi da A.M. Ioppolo, Socrate e la conoscenza delle cose d’amore, la
quale osserva che tale sapere di Socrate ha appunto a che fare con il «metodo capace di suscitare
negli altri la forza trainante dell’amore verso la virtù» (p. 71). Tale metodo è costituito proprio
dall’interrogazione, dall’esame e dalla confutazione.
44
Tra gli studi più recenti dedicati al tema del rapporto tra virtù e felicità si possono menzionare: T.H.
Irwin, Plato’s Moral Theory; G. Klosko, Socrates on Goods and Happiness; D.J. Zeyl, Socratic
Virtue and Happiness, oltre al celebre libro di G. Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa, pp.
269-310.
45
Ha attribuito recentemente a Socrate questa forma di radicalismo etico S.J. Senn, Virtue as the sole
intrinsic Good, passim.
46
G. Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa, p. 269 sgg.; si veda anche la discussione di G.
Giannantoni, Il Socrate di Vlastos, pp. 61-63.
47
Per un primo, illuminante approccio a questi problemi si rimanda a E. Berti, In principio era la
meraviglia, pp. 241-45.
48
Sull’identificazione socratica tra virtù e sapere la letteratura critica è sterminata. Ecco alcuni dei
contributi che meritano di essere consultati: R. Ferber, Sokrates: Tugend ist Wissen; C.S. Gould,
Socratic Intellectualism; A. Nehamas, Socratic Intellectualism; H. Segvic, No One Errs Willingly;
G. Watson, Skepticism about Weakness of Will; R. Weiss, Courage, Confidence, and Wisdom; G.X.
Santas, Socrate, pp. 203-42.
49
Si può qui solo accennare a una questione di sicura matrice socratica, che negli ultimi decenni ha
suscitato un vivace dibattito tra gli studiosi. Si tratta del tema dell’unità o molteplicità della virtù, al
quale si accenna in quasi tutti i dialoghi socratici di Platone, ma che solo nel Protagora viene
affrontato direttamente. Il problema concerne in sostanza il modo in cui la virtù può dirsi unica: se
come una totalità di cui sono parti indipendenti (alla maniera in cui naso, bocca, orecchie sono parti
di un viso) le singole virtù (coraggio, giustizia, temperanza, santità), oppure in un’accezione più
forte, ossia nel senso che coraggio, giustizia, temperanza, ecc. sono solo nomi diversi che indicano la
medesima realtà. La prima posizione viene sostenuta da Protagora, mentre a Socrate sembra
ascrivibile una posizione più unitarista, sebbene non sia chiaro come quest’ultima debba poi venire
intesa. Gli studiosi si dividono sostanzialmente in due linee esegetiche: a) chi ritiene che la tesi
socratica vada intesa in senso referenziale forte, ossia nel senso che le singole virtù non sono che
nomi diversi di una stessa realtà (T. Penner, The Unity of Virtue ), e b) chi reputa, invece, che le virtù
siano definizionalmente diverse l’una dall’altra, ma che, dal punto di vista estensionale, ossia dal
punto di vista dei possessori, siano sempre e comunque compresenti, perché chi possiede una virtù,
possiede inevitabilmente anche le altre: chi è coraggioso è anche giusto, pio, ecc. (G. Vlastos, The
Unity of Virtues in the ‘Protagoras’). L’interpretazione di Penner non comporta che i singoli nomi
delle virtù siano sinonimi (come lo sono, ad esempio, le parole cappa e mantello), ma significa che
essi si riferiscano alla stessa cosa, mettendone in luce caratteristiche differenti. L’esegesi di Vlastos
si fonda, invece, su una celebre ipotesi, volta a spiegare frasi come «la giustizia è santa», che si
trovano effettivamente nel Protagora; secondo Vlastos, per comprendere il significato di simili
asserzioni, occorre ipotizzare l’uso da parte di Socrate (e ovviamente di Platone) della cosiddetta
predicazione paolina, ossia di quel tipo di predicazione di cui l’apostolo Paolo avrebbe fatto uso in
frasi come «la carità è magnanima, la carità è pia, servizievole, non è invidiosa ...»; dal momento che
le proprietà assegnate a una nozione astratta come quella di carità non le possono appartenere in
modo diretto (trattandosi di proprietà che si riferiscono agli individui), viene avanzata l’ipotesi che
esse non appartengono alla nozione di carità, bensì alla sua estensione, ossia agli individui
caritatevoli; il senso della affermazione di Paolo sarebbe dunque che le persone caritatevoli sono
anche magnanime, pie, servizievoli e prive di invidia. Analogamente, le tesi socratiche secondo cui
la virtù è unica e la giustizia è santa, vanno interpretate in senso estensionale, dal momento che
intendono sostenere che l’individuo che possiede una virtù, possiede anche le altre. Sulla questione
si rinvia anche a: D.T. Devereux, The Unity of Virtues; M.T. Ferejohn, Socratic Thought-
Experiment; C. Natali, Socrate, Aristotele e l’unità della virtù; G. Giannantoni, Dialogo socratico e
nascita della dialettica, pp. 304-07; mi sono occupato io stesso della questione in F. Ferrari, I
pragmata e il problema dell’unità della virtù.
50
Le due citazioni sono tratte da G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica, p. 257 e
p. 288.
51
Cfr. in proposito W. Leszl, La funzione della tesi edonistica, p. 609. Si veda anche M. Migliori,
Socrate è forse un edonista?
52
Che l’etica socratica presenti un andamento fortemente anti-tragico è stato sostenuto, come detto, da
M. Vegetti, L’etica degli antichi, p. 95 sgg.; cfr. anche G. Giannantoni, Dialogo socratico e nascita
della dialettica, p. 273 sgg. e R. Ferber, Sokrates: Tugend ist Wissen, pp. 42-44.
53
Sulla critica aristotelica al presunto intellettualismo socratico cfr. B. Bossi, On Aristotle’s Charge of
Socratic Intellectualism e M. Stocker, Some Structures of akrasia. In generale sulla negazione
socratica dell’akrasia cfr. R.E. Hughen, Some Arguments in Support of the Socratic Thesis That
There is No Such Thing as Weakness.
54
Sulla priorità epistemologica della definizione, cioè del sapere, per l’acquisizione della virtù cfr.
H.H. Benson, The Priority of Definition e D. Wolfsdorf, Socrates’ Pursuit of Definitions.
55
Cfr., ad esempio, P. Yong, Intellectualism and Moral Habituation.
56
Sul tema della consapevolezza e dell’autoconoscenza cfr. L.M. Napolitano Valditara, Il sapere
dell’anima, pp. 173-78.
57
Almeno due delle definizioni di saggezza (sôphrosynê) presentate, discusse e poi confutate nel corso
del Carmide comportano un riferimento alla dimensione della riflessività. Per Crizia, infatti, la
saggezza si identifica con il conoscere se stesso (gignôskein heauton), secondo l’indicazione del
motto delfico (164 D sgg.); ma essa può anche presentare i caratteri di una scienza che conosce se
stessa e le altre scienze (165 D sgg.). Sul tema della riflessività nel Carmide cfr. R. McKim,
Socratic Self-Knowledge; si veda anche S. Rappe, Socrates and Self-Knowledge.
58
Sulla presenza del modello tecnico nei dialoghi platonici cfr. il classico studio di G. Cambiano,
Platone e le tecniche, passim; si veda anche D. Thomsen, Techne als Metapher und als Begriff der
sittlichen Einsicht; G. Lesses, Virtue as Techne; J.E. Tiles, Techne and Moral Expertise e
soprattutto D.L. Roochnik, Socrates’ Use of the Techne-Analogy (il quale si dimostra giustamente
scettico circa l’estensibilità del paradigma tecnico al campo etico-politico).
59
Sulla analisi socratica dei presunti saperi circolanti nella città cfr. S. LaBarge, Socrates and the
Recognition of Experts.
60
Sulle caratteristiche epistemologiche del modello tecnico cfr. M. Vegetti, Techne, passim.
61
K. Gaiser, Platone come scrittore filosofico, p. 70. Sia pure in un contesto ermeneutico molto
differente, anche U. Wolf, La filosofia come ricerca della felicità, individua nell’inapplicabilità del
modello tecnico al sapere etico la ragione del fallimento del progetto socratico.
62
Sul significato del modello tecnico (Craft-Analogy) per il sapere etico ha richiamato l’attenzione
T.H. Irwin, Plato’s Moral Theory.
63
La filosofia come ricerca della felicità, p. 80.
64
Sulla supremazia delle tecniche d’uso resta insuperato lo studio di G. Cambiano, Platone e le
tecniche, pp. 158-61; su questo passo dell’Eutidemo si veda anche M. Vegetti, Techne, p. 206 sgg.
Sull’incapacità dell’esperto di una tecnica di controllare il risultato della sua produzione cfr. G.
Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica, p. 182 sgg.
65
Su questo passo e in generale sul tema dell’ironia socratica il contributo fondamentale è quello di G.
Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa, pp. 27-58.
66
Cfr. il suo celebre scritto Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate; sul tema
dell’ironia in Kierkegaard cfr. P. Muench, Kierkegaard’s Socratic Point of View; si veda anche
l’interessante contributo di C.A. Scheier, Klassische und existenzielle Ironie.
67
G. Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa, p. 40. Ma si veda anche la irritata critica di M.
Montuori, Se questo è Socrate, pp. 257-58. Sul tema dell’ironia cfr. poi E.L. Burge, The Irony of
Socrates; L. Bergson, Eiron und Eironeia e J.-B. Gourinat, Socrate était-il un ironiste?
68
Su questo motivo si veda A.R. Drengson, The Virtue of Socratic Ignorance ; J.C. Evans, Socratic
Ignorance - Socratic Wisdom; H.E. Maym, Socratic Ignorance and the Therapeutic Aim of
Elenchos e soprattutto M. McAvoy, The Profession of Ignorance, passim.
69
Un’interpretazione del genere è stata avanzata da G. Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa, il
quale a p. 41 sgg. scrive: «Quando Socrate professa di non avere conoscenza intende e al tempo
stesso non intende quello che dice. Vuole che questo rassicuri i suoi interlocutori sul fatto che nel
campo della morale non vi è una singola proposizione che egli affermi di conoscere con certezza. Ma
in un altro senso di conoscenza, dove il termine si riferisce a una vera opinione giustificata –
giustificabile attraverso il metodo peculiarmente socratico del ragionamento elenctico – vi sono
molte proposizioni che afferma di conoscere». Sulla stessa linea di Vlastos si muove anche K.
Döring, Sokrates, die Sokratiker, pp. 159-60.
70
Un’eccellente messa a punto di alcuni dei problemi esegetici collegati all’elenchos socratico viene
fornita da A.M. Ioppolo, Vlastos e l’elenchos socratico , passim; si veda poi: G. Giannantoni,
Dialogo socratico e nascita della dialettica , pp. 141-95; J.-F. Balaudé, La finalité de l’elenchos;
T.C. Brickhouse - M. C. Smith, Socrates’ Elenctic Mission; R.M. Polansky, Professor Vlastos’
Analysis of Socratic Elenchus, oltre, naturalmente, ai saggi di G. Vlastos, contenuti in Studi
socratici, pp. 7-48 e in Il filosofo dell’ironia complessa, pp. 141-74. Si veda anche R. Bolton,
Aristotle’s Account of the Socratic Elenchus.
71
In generale sul principio della commisurazione degli argomenti al livello intellettuale degli
interlocutori si veda T.A. Szlezák, Platone e la scrittura della filosofia, passim.
72
A proposito della natura contestuale della dialettica socratica vale la pena accennare a un altro
importante motivo, che dovrebbe appartenere a questo ambito. Si tratta del tema della maieutica,
ossia dell’arte di estrapolare dall’interlocutore concezioni che egli in qualche misura possiede nella
sua anima, ma di cui non ha consapevolezza. Socrate, figlio di una levatrice, si dichiara egli stesso
esperto nell’arte di fare nascere, non figli, ma verità. Si tratta di un aspetto del metodo socratico
collegato alla natura attiva dell’apprendimento, che richiede una costante compartecipazione da parte
del discente. Sulla maieutica cfr. M.F. Burnyeat, Socratic Midwifery e R.G. Wengert, The Paradox of
the Midwife.
73
Dialogo socratico e nascita della dialettica, p. 162.
74
Il problema del rapporto tra Platone e i suoi personaggi e in generale la questione dell’autorialità
sono affrontati nel migliore dei modi da M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, pp. 53-85. Sulla
funzione di Socrate cfr. C. Rowe, Socrates in Plato’s Dialogues.
75
Si deve a A. Capizzi, Socrate e i personaggi filosofi di Platone, il più serio tentativo finora
intrapreso di individuare criteri formali atti a distinguere i passi dei dialoghi in cui vengono attribuite
a Socrate tesi che per l’autore rinviano direttamente al Socrate storico. L’elenco delle testimonianze
così ricavate comprende: Apologia, 19 B-D; 21 B-23 B; 29 B; 30 A-B; 31 C-D; 33 A-B; 36 B-D;
Lachete, 187 E-188 A; Ippia minore, 372 A-C; Fedro, 229 E-230 A; 230 D; Teeteto, 150 B-151 B;
169 B; Menone, 79 E-80 A; 80 C; Critone, 46 B; 49 A; Protagora, 334 C; Gorgia, 458 A; 474 A;
481 D; 506 A; Simposio, 212 B; 216 D-E; 221 D-222 A; Fedone, 72 E; 73 A-B; 100 B.
76
Su questo doppio gioco di alleanze è fondamentale M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, pp. 132-
46.
77
Quindici lezioni su Platone, p. 36 sgg.
78
Un’interpretazione di questo genere viene avanzata da P. Aubenque, Sens et fonction de l’aporie
socratique, passim; anche per J.-F. Balaudé, La finalité de l’elenchos, la confutazione non
rappresenta il punto di partenza della ricerca della verità, bensì ciò che di meglio il filosofo può
fare.
79
Sulla natura della trasformazione dell’opinione vera in sapere nel Menone cfr. F. Ferrari, La
transizione epistemica, passim; in generale sul carattere definitivo (almeno in linea di principio)
della conoscenza dialettica in Platone cfr. F. Ferrari, L’infallibilità del logos, passim.
80
Dialogo socratico e nascita della dialettica, p. 412.
81
Come sostiene, in buona parte a ragione, W.J. Prior, Socrates Metaphysician , passim; si veda anche
P. Woodruff, Socrates and Ontology, passim.
*
Traduzione di Anna Santoni.
*
Traduzione di Maria Michela Sassi.
*
Traduzione di Maria Michela Sassi.
*
Traduzione di Pierangiolo Fabrini.
*
Traduzione di Anna Santoni.
*
Traduzione di Maria Michela Sassi.
*
Traduzione di Giuseppe Zanetto.
*
Traduzione di Alessandro Grilli.
*
Traduzione di Roberto Velardi.
*
Traduzione di Mario Casaglia.
*
Traduzione di Maria Michela Sassi.
*
Traduzione di Mario Casaglia.
*
Traduzione di Franco Ferrari.
*
Traduzione di Maria Lorenza Chiesara.
*
Traduzione di Giuseppe Zanetto.
*
Traduzione di Giuseppe Zanetto.
*
Traduzione di Bruno Centrone.
*
Traduzione di Bruno Centrone.
*
Traduzione di Maria Michela Sassi.
*
Traduzione di Mario Vegetti.
Indice
Copertina
Trama
Frontespizio
Socrate tra personaggio e mito
Copyright
Dedica
INTRODUZIONE
SOCRATE E LA FILOSOFIA
1. L’ENIGMA DI SOCRATE: IL FILOSOFO E LE SUE IMMAGINI
2. L’EVENTO DIROMPENTE: PROCESSO E MORTE DI UN FILOSOFO
3. LO SPAZIO “POLITICO”: CRITICA SOFISTICA E META-CRITICA SOCRATICA
4. LA COMUNICAZIONE FILOSOFICA
5. IL SOGGETTO DEL DISCORSO FILOSOFICO: L’ANIMA
6. VIRTÙ E SAPERE: L’INTELLETTUALISMO SOCRATICO
7. I SAPERI (TECNICI) E IL SAPERE (ETICO): VALORE E LIMITE DEL PARADIGMA
TECNICO
8. IL METODO DELLA FILOSOFIA: IRONIA, IGNORANZA, CONFUTAZIONE,
MAIEUTICA
9. SOCRATE E PLATONE: OVVERO L’APORIA E L’EUPORIA?
CRONOLOGIA DELLA VITA
BIBLIOGRAFIA
NOTA AI TESTI
A. L’UOMO E LA CITTÀ
T. 01 UN CITTADINO PERBENE
da Memorabili, I, 1
T. 02 L’OBBEDIENZA ALLE LEGGI
da Critone, 46 B-54 E
T. 03 IL MISTERO DELLA MORTE
da Apologia di Socrate, 38 C-42 A
T. 04 MORTE DI UN FILOSOFO
da Fedone, 114 D-118 A
B. I SAPERI E IL SAPERE
T. 05 I LIMITI DELLE CONOSCENZE NATURALISTICHE E MATEMATICHE
da Memorabili, IV, 7
T. 06 PRESUNZIONE DI SAPERE E SAPERE DI NON SAPERE
da Apologia di Socrate, 20 C-24 B
T. 07 IL FALSO SAPERE DELLA RETORICA
da Gorgia, 461 C-466 A
T. 08 IL SARCASMO DEL COMMEDIOGRAFO
da Nuvole, vv. 215-509
C. LA FILOSOFIA E I SUOI PERCORSI
T. 09 L’ATOPIA DI SOCRATE E LA NATURA UMANA DELLA FILOSOFIA
da Fedro, 227A-230 E
T. 10 L’ANIMA E LA CONOSCENZA DI SÉ
da Alcibiade primo, 128 A-134 E
T. 11 IL TAFANO DIVINO E IL DEMONE
da Apologia di Socrate, 28 D-32 E
T.12 LA CONFUTAZIONE
da Eutifrone, 2 A-11 E
T.13 L’IRONIA DI SOCRATE E L’INTERIORITA’ DEI SUOI LOGOI
da Simposio, 214 E-222 B
D. LA VIRTÙ, IL BENE, LA FELICITÀ
T.14 L’EDONISMO RAZIONALE OVVERO L’ARTE DELLA MISURA
da Protagora, 351 B-359 A
T.15 FELICITÀ E AUTARCHIA
da Gorgia, 491 E - 497 D
T.16 L’ORDINE DELL’ANIMA E LA VIRTÙ
da Gorgia, 503 C - 509 C
T.17 LA TENSIONE VERSO IL (PRIMO) BENE
da Liside, 213 D-223 A
T.18 LA SCIENZA DEL BENE
da Carmide, 172 E-176 A
T. 19 IL BENE SUPREMO
da Apologia di Socrate, 36 A-38 B
T. 20 LA CRISI DEL SOCRATISMO
da Repubblica, I 348 B-354 C

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