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COMITATO SCIENTIFICO

Emilio Carpené (presidente)


Pier Augusto Scapolo
Fulvio Marsilio
Gloria Isani
Maurizio Manera

COMITATO ORGANIZZATORE
Pier Augusto Scapolo (presidente)
Fulvio Marsilio
Amedeo Cuomo
Giovanni Di Guardo
Maurizio Manera
Alessio Arbuatti
Angelo De Marcellis
Massimo Santini Calisti
Lorenzo Scaletta

2
RELAZIONI AD INVITO

Prima sessione : Aree protette viste e vissute


UTILITÀ ED ATTUALITÀ DELLE "AREE PROTETTE" TERRESTRI
K.G. Friedrich , L. Gentile pag. 6

UTILITÀ ED ATTUALITÀ DELLE “AREE PROTETTE” ACQUATICHE


A. Bortolotto pag. 7

PENSIERI BESTIALI: LE AREE PROTETTE VISTE E VISSUTE DAGLI ANIMALI


P. Zucca pag. 8

Seconda sessione : Tutela degli animali selvatici, domestici e salute pubblica nelle aree
antropizzate: azioni compatibili
SORVEGLIANZA E GESTIONE SANITARIA DELLA FAUNA SELVATICA NEI PARCHI :
RISORSE ED ELEMENTI APPLICATIVI
S. Angelucci pag.12

ANALISI E GESTIONE DEL CONFLITTO TRA MAMMIFERI CARNIVORI E


PRODUZIONI ZOOTECNICHE
U. Di Nicola pag.16

IL VETERINARIO A TUTELA DEI SELVATICI E DELLA SALUTE PUBBLICA


G. Poglayen pag.17

IL RUOLO DEGLI ANIMALI SELVATICI NEL RAPPORTO CON LE SPECIE


DOMESTICHE : L’ESPERIENZA DELL’INFLUENZA AVIARE
M. Delogu pag.19

LE ATTIVITÀ DEL CENTRO DI REFERENZA NAZIONALE PER LE MALATTIE


DEGLI ANIMALI SELVATICI NEL CONTESTO DELLA SANITÀ PUBBLICA
VETERINARIA
R. Orusa pag.22

I PRINCIPI ISPIRATORI DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA DI ANIMALI NON


CONVENZIONALI
L. Brugnola pag.23

Terza sessione: La gestione delle popolazioni selvatiche


IL PROGRAMMA DI RECUPERO DEL PAPPAGALLO PIÙ RARO DEL MONDO:
L’ARA DI SPIX
L. Crosta pag.25

LE BIOTECNOLOGIE A SALVAGUARDIA DELLE SPECIE IN VIA DI ESTINZIONE


L. Loi, G. Ptak pag.28

LE ATTIVITÀ DEL CORPO FORESTALE DELLO STATO SUL LUPO A POPOLI:


STORIA E RISULTATI
L. Mattei pag.31

DALLE NECROSOPIE ALLA CONSERVAZIONE: IL CASO DEL LUPO


R. Fico pag.32

3
STRESS DA CATTURA DEL CAMOSCIO
A. Cuomo pag.33

COMUNICAZIONI BREVI
Prima Sessione

ESAMI NECROSCOPICI DI CAMPO, ALCUNI CASI


U. Di Nicola pag.36

ELAPHOSTRONGYLUS CERVI IN UNA POPOLAZIONE DI CERVI (Cervus elaphus)


ITALIANA: CARATTERISTICHE ULTRASTUTTURALI DELLE LARVE DI PRIMO STADIO
(L1)
F. Morandi, S. Nicoloso, C. Benazzi, F. Ciuti, R. Galuppi, M. P. Tampieri, P. Simoni pag.37

INDAGINE PARASSITOLOGICA IN BOIDAE ALLEVATI IN CATTIVITÀ IN ITALIA


CENTRALE
M.Seghetti, D.Traversa pag.39

DINAMICA E ULTRASTRUTTURA DELLE RODLET CELLS IN BRANZINI


SPERIMENTALMENTE ESPOSTI AD UNA TRIAZINA
M. Manera, L. Giari, E. Simoni, B. S. Dezfuli pag.42

PRESENZA DI POLICLOROBIFENILI E DI PESTICIDI ORGANOCLORURATI IN TESSUTI


DI CARETTA CARETTA PROVENIENTI DAL MAR ADRIATICO
M. Perugini ,V. Olivieri, S. Gruccion, A. Giammarino, M. Manera, G. Crescenzo,
O.R Lai, M.Amorena pag.44

INDAGINE SULLA PRESENZA DI IDROCARBURI POLICICLICI AROMATICI AD ALTO


PESO MOLECOLARE IN SGOMBRI E NASELLI
P.Visciano, M. Perugini, M. Amorena, A.Vergara, A. Ianieri pag.46

Seconda Sessione

INSUFFICIENZA MITRALICA IN UN LUPO CECOSLOVACCO


C. Guglielmini, C. Civitella, F. Valerio, A. Luciani pag.48

VALUTAZIONE DELL’ESAME NEUROLOGICO NEI NUOVI PETS: DESCRIZIONE DI UN


CASO DI PARAPARESI IN UNA CAVIA E IN UN FURETTO
V.Papa , R. Catini, A. De Simone, M. Mariscoli pag.50

VALUTAZIONE COMPARATIVA DI DUE PROTOCOLLI FARMACOLOGICI PER


L’IMMOBILIZZAZIONE E L’ANESTESIA DEL LUPO GRIGIO (Canis lupus L. 1758)
A. Di Pietro, R. Catini, F. Valerio, L. Petrizzi, L. Prugnola pag.52

L’ISOPRINOSINA COME APPROCCIO TERAPEUTICO IN CANARINI AFFETTI DA


VAIOLO AVIARE DURANTE L’ATTIVITA’ RIPRODUTTIVA
G.Todisco, L. Campanelli, V. Natale, D. Robbe pag.54

PREDAZIONI DA LUPO SUL BESTIAME MONTICANTE: DINAMICHE E CONTESTI DI


ACCESSIBILITÀ OSSERVATI IN UN’AREA DI STUDIO DELL’APPENNINO CENTRALE

4
S. Angelucci pag.56

LA GESTIONE DEL CINGHIALE NEL PARCO NAZIONALE DEL GRAN SASSO E MONTI
DELLA LAGA
F. Striglioni, G. Morelli, O. Locasciulli, L. Festuccia, U. Di Nicola pag.57

Terza Sessione

GLI ANIMALI “NON CONVENZIONALI” NELL’INSEGNAMENTO DELLE FACOLTA’ DI


MEDICINA VETERINARIA
P. A. Scapolo pag.58

ADATTAMENTO IN CATTIVITÀ E GESTIONE DEL POECILIA RETICULATA


AUTOCTONO DI CUMANÀ A RISCHIO D’ESTINZIONE (Poecilia sp. “Endler”)
A. Arbuatti pag.60

RISPOSTE MOLECOLARI AI METALLI PESANTI: DAI PESCI AI MAMMIFERI, UN’UNICA


STRATEGIA CON TANTE DIFFERENZE
G. Andreani, E. Carpenè, E. Casadei, S. Cottignoli , G. Isani pag.62

VARIAZIONI INTERSPECIFICHE DEI LIVELLI DI ARSENICO TOTALE IN ORGANISMI


MARINI DEL MEDIO ADRIATICO
B. Giannella, M. Perugini, M. Manera, A. Giammarino, A. Zaccaroni, M. Zucchini,
W. Di Nardo,V. Olivieri, M. Amorena pag.63

LA RISPOSTA CONTRATTILE INTESTINALE ALL’ISTAMINA NELLA TROTA IRIDEA


(Oncorhynchus mykiss Walbaum, 1792)
M. Manera, A. Giammarino, M. Perugini, M. Amorena pag.65
.
APPLICAZIONE DELLA CIRCOLARITA’ EMOCITARIA COME PARAMETRO DI STRESS
IN MYTILUS GALLOPROVINCIALIS (Lmk, 1819)
F. Mosca, V. Narcisi, A. Calzetta, S. Marozzi, M. G. Finora, P.G. Tiscar pag.67

VALUTAZIONE DELLA PRODUZIONE DI ROS IN EMOCITI DI MYTILUS


GALLOPROVINCIALIS (LMK, 1819) E POTENZIALE IMPIEGO QUALE PARAMETRO DI
STRESS
F. Mosca, V. Narcisi, S. Marozzi, A. Calzetta, M.G. Finora, L. Gioia, P.G. Tiscar pag.69
.
AZIONI BIOLOGICHE DEI CAMPI ELETTROMAGNETICI A BASSA FREQUENZA
IN MYTILUS GALLOPROVINCIALIS (LMK, 1819)
V. Narcisi, S. Marozzi, A. Calzetta, F. Mosca, M. G. Finora, E. Tettamanti, P. G. Tiscar pag.70

CARATTERIZZAZIONE FUNZIONALE ED AZIONI BIOLOGICHE DEL SISTEMA


ENDOCANNABINOIDE IN EMOCITI DI MYTILUS GALLOPROVINCIALIS
P.G. Tiscar, A. Calzetta, V. Narcisi, F. Mosca, S. Marozzi, A. Paradisi, F. De Sanctis,
M. G. Finora, M. Maccarrone pag.71

5
RELAZIONI AD INVITO

UTILITÀ ED ATTUALITÀ DELLE "AREE PROTETTE" TERRESTRI

Klaus Gunther Friedrich 1, Leonardo Gentile 2


1
Fondazione Bioparco di Roma - 2Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise

In Italia esistono numerose strutture con finalità espositive ed educative sia di specie animali esotiche, sia di specie
appartenenti alla fauna Italiana, nonché numerose Aree Protette “Terrestri”, alcune delle quali notevolmente ricche di
biodiversità animale.
Negli anni più recenti si è assistito ad una progressiva professionalizzazione di questi Centri di detenzione di Fauna
esotica, ponendo innanzitutto la massima attenzione al benessere degli animali, al loro stato di salute e, attraverso
contatti con analoghe strutture all’estero, è stato individuato come obbiettivo fondamentale la conservazione delle
specie minacciate.
Le Aree protette terrestri sono invece concettualmente diverse e si prefiggono l’obbiettivo fondamentale della
conservazione delle specie animali, vegetali e dell’ambiente in genere “in situ”, cioè nei posti in cui ancora si trova la
biodiversità.
Il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, insieme al Parco Nazionale del Gran Paradiso, sono i primi due Parchi
Nazionali istituiti nel lontano 1923, a cui è seguita negli anni più recenti, l’istituzione di numerosi Parchi Nazionali,
praticamente su tutto il Territorio Nazionale.
Il motivo fondamentale per cui all’epoca si ritenne di dover istituire i due Parchi storici fu la protezione dello
Stambecco nel Gran Paradiso e la protezione del Camoscio appenninico e dell’Orso marsicano nel Parco Nazionale
d’Abruzzo, Lazio e Molise, grazie a menti illuminate quali Benedetto Croce e soprattutto il senatore Erminio Sipari.
Nel corso dei decenni i due Parchi hanno subito varie vicissitudini legate soprattutto al modo di vita della popolazione
Italiana, ma sostanzialmente hanno in gran parte assolto ai compiti originari, anche se con l’evoluzione legislativa, tutti
i Parchi sono stati caricati di ulteriori compiti, sempre legati alla protezione e gestione delle risorse ecocompatibili.
Ciò ha imposto anche qui una progressiva professionalizzazione e specializzazione dell’azione di protezione con
coinvolgimento di numerose figure professionali per far fronte a nuovi compiti derivati dalla Legge.
La figura del Medico Veterinario coinvolta stabilmente nei Parchi risale agli anni 70 ed ha contribuito in modo
fondamentale alla conservazione delle specie minacciate “IN SITU”. E’ intervenuto sostanzialmente in operazione che
prevedevano la manipolazione degli animali, negli aspetti medico legali (accertamento reati connessi alla caccia ed
uccisioni illegali di fauna selvatica), pianificando e realizzando importanti operazioni di reintroduzione di specie
minacciate, instaurando rapporti di collaborazione con le Autorità sanitarie, nella ricerca scientifica e nel monitoraggio
sanitario delle specie selvatiche nel loro ambiente, nella gestione del bestiame pascolante e nella gestione dei danni da
predatore sul bestiame domestico, in sintesi ha contribuito alla nascita di una nuova disciplina, la gestione sanitaria
della fauna selvatica.
Per quanto riguarda la gestione delle azioni “EX SITU”, cioè la gestione degli animali al di fuori del loro habitat
naturale, sono state intraprese, nell’ambito delle azioni fondamentali dei Giardini Zoologici moderni, l’educazione
mirata alla presa di coscienza e la diffusione di concetti ecologici e naturalistici della popolazione, la conservazione
tramite l’allevamento di animali a rischio di estinzione in cattività e non per l’ultimo la ricerca in modo particolare nel
settore veterinario, che affronta una serie di tematiche partendo dall’anatomia comparata, le malattie infettive e
l’anestesiologia, per menzionare solo alcune.
La stretta collaborazione tra specialisti nel settore dei Parchi Nazionali, Centri di recupero della Fauna Selvatica e nei
Giardini Zoologici e lo scambio continuo di dati, informazioni e procedure operative sia a livello nazionale che
internazionale hanno permesso negli ultimi anni uno sviluppo decisivo nella qualità di gestione degli animali ed il
progresso delle conoscenze medico scientifiche del settore.

Dr. Klaus Gunter Friedrich


Fondazione Bioparco di Roma
V.le del Giardino Zoologico, 20
00197 Roma
e-mail: klaus.friedrich@bioparco.it

Dr. Leonardo Gentile


Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise - Settore Sanità Fauna
Via S. Lucia – 67032 Pescasseroli (AQ)
Tel 08639113207 – 3460035992; e-mail: lgvet@interfree.it

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UTILITA' ED ATTUALITA' DELLE "AREE PROTETTE" ACQUATICHE
Alessandro Bortolotto1,2
1 2
Centro Studi Cetacei ONLUS; Zoomarine Italia SpA - Direzione Zoologica e Scientifica

Il mantenimento di mammiferi marini in ambiente controllato e l'intervento su esemplari spiaggiati lungo le coste di
tutto il mondo sono realtà profondamente interconnesse. Il numero di spiaggiamenti che avvengono nel mondo è
notevole e non sempre le circostanze in cui tali fenomeni avvengono sono favorevoli al recupero e alla successiva
riabilitazione degli esemplari coinvolti. I numeri, contrariamente a quanto si possa pensare, sono molto elevati anche in
territorio italiano dove nel periodo 1986-2004 gli esemplari spiaggiati sono stati ben 3177. Si deve inoltre tenere conto
che le conoscenze sulla biologia della maggior parte delle specie appartenenti all'Ordine Cetacea sono tuttora
frammentarie. Nel corso degli ultimi decenni il numero di cetacei mantenuti in ambiente controllato è andato via via
aumentando così come le conoscenze a nostra disposizione. La medicina veterinaria applicata ai mammiferi marini ha
fatto ernormi passi in avanti a partire dagli inizi del mantenimento di questi animali (prima nelle installazioni
statunitensi negli anni 40/50 e successivamente negli oceanari di tutto il mondo). Attualmente i parchi marini tematici
più avanzati, spesso membri di EAZA e American Alliance, rappresentano veri e propri centri pionieristici di
avanzamento sia scientifico che clinico. In questo modo si raccolgono informazioni fondamentali per l'intervento su
esemplari spiaggiati. Inoltre gli animali mantenuti in ambiente controllato sono spesso utili modelli in progetti di ricerca
non invasivi che spaziano dalla fisologia, al comportamento. Progetti che considerando la storia naturale delle specie in
questione nonché la loro elusività sono di difficile realizzazione in ambiente naturale. Monitoraggio ovarico, motilità
spermatica, citologia vaginale, inseminazione artificiale eco-guidata sono solo alcune delle procedure svolte presso
Zoomarine Italia, un Parco che per filosofia gestionale in tema di medicina preventiva è all'avanguardia in Europa in
campo di mammiferi marini. Queste conoscenze qualora applicate in caso di intervento su cetacei spiaggiati vivi oppure
in caso di specie a rischio di conservazione mostrano tutto il loro potenziale nonché l'utilità e attualità di strutture che
possiedono infine, se ben gestite, un enorme potenziale a livello educativo essendo veri e propri centri di conservazione
ex situ e spesso in grado di sponsorizzare progetti di conservazione in loco su specie presenti nelle collezioni (quindi
con una notevole valenza divulgativa). Da sottolineare infine il ruolo di tali strutture, e dei professionisti che ci
lavorano, nel processo formativo di figure professionali relativamente nuove in territorio italiano, in linea con i nuovi
CIP su animali selvatici e non convenzionali.

*Zoomarine Italia SpA, Direzione Zoologica e Scientifica - via Casablanca 61 - 00040 Torvajanica (RM)
Tel: +39 06 915331, Fax: +39 06 91531213, e-mail: centrostudicetacei@libero.it; abortolotto@zoomarine.it

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PENSIERI BESTIALI: LE AREE PROTETTE VISTE E VISSUTE DAGLI ANIMALI

Paolo Zucca*
Laboratorio di Cognizione Animale e Neuroscienze Comparative,
Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Trieste
e Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo

Aree protette e biodiversità


Le aree protette coprono attualmente l’11,5% della superficie terrestre, superando il valore soglia del 10% proposto
come obiettivo prioritario per la conservazione della biodiversità, nel corso della quarta conferenza mondiale sulle aree
protette di Caracas del 1993. L’obiettivo prioritario di una riserva naturale è la conservazione reale delle specie a
rischio. Tuttavia, si sa abbastanza poco sulla reale efficacia delle aree protette. Infatti, la semplice istituzione di un’area
protetta non garantisce la conservazione della biodiversità; questo accade per varie ragioni. Come evidenziato da
Rodrigues et al. (2004), molto spesso le mappe delle aree protette non collimano in maniera significativa con gli areali
delle specie a rischio. Dall’esame di circa 11.000 specie di vertebrati terrestri a rischio emerge che per circa 1.400 di
loro non esiste alcuna area protetta che li tuteli. Inoltre, il numero di specie protette è generalmente sovrastimato in
quanto la semplice presenza di una specie rara all’interno di una riserva naturale non è sufficiente ad assicurare una
protezione reale della specie stessa. Questo vale soprattutto per le specie che necessitano di habitat particolari, sia dal
punto della biodiversità sia dal punto di vista dell’estensione. Ad esempio le popolazioni di specie con home-range
grandi possono arrivare rapidamente all’estinzione se l’area protetta dove vivono è poco estesa. I confini e le aree
periferiche della riserva diventano in questo caso le zone di maggior interazione con l’uomo e la mortalità aumenta
notevolmente (Woodroffe and Ginsberg 1998). Emerge quindi il fatto che l’11,5% delle aree protette istituite sul
pianeta, pur rappresentando una fetta cospicua di superficie terrestre, non soddisfano l’obiettivo primario per il quale
sono state costituite, ovvero il mantenimento della biodiversità e la protezione delle specie a rischio, con particolare
riferimento agli endemismi (Rodrigues et al 2004).

Programmi di conservazione ed etologia


Molti programmi di conservazione falliscono perché le peculiarità comportamentali delle specie da proteggere non
vengono prese in considerazione (Knight 2001). Molto raramente gli etologi vengono coinvolti nei programmi di
conservazione, perlomeno nelle fasi iniziali di progettazione. Questo fenomeno crea inevitabilmente notevoli problemi
nella fase di attuazione dei progetti a causa della carenza di dati comportamentali. Esistono tuttavia esempi di
matrimoni felici tra biologi della conservazione ed etologi come ad esempio il progetto di conservazione dell’anatra
sposa (Aix sponsa). Fin dal 1930, negli Stati Uniti venivano posizionate cassette nido artificiali all’interno delle aree
protette, al fine di sostenere l’incremento demografico della popolazione di anatra sposa, portata fino a quasi
l’estinzione dalla caccia indiscriminata durante i decenni precedenti. Tuttavia capitava un fenomeno curioso: nonostante
l’abbondanza di cassette nido rispetto alla popolazione di anatra sposa, molte femmine deponevano le uova in poche
cassette nido, spesso sopra altre femmine già in cova. Questo fenomeno inspiegabile causava una bassissima
percentuale di schiusa e di successo riproduttivo. Paradossalmente il progetto di conservazione sembrava avere un
effetto opposto a quello sperato. Grazie al lavoro di un etologo della Cornell University, l’arcano venne svelato attorno
agli anni ’90: si trattava di un fenomeno naturale di parassitismo di covata intraspecifico. Talvolta le femmine di questa
specie di anatra depongono le loro uova nel nido di altre cospecifiche al fine di ridurre i costi dell’incubazione.
Solitamente le anatre più vecchie tendono a tornare sempre allo stesso nido ed a covare le proprie uova, mentre le
giovani inesperte spesso preferiscono deporre le uova dentro ai nidi frequentati dalle femmine più anziane. Nei siti di
nidificazione naturali, il nido è ben nascosto all’interno di una cavità negli alberi e la probabilità che una giovane veda
entrare nel nido una femmina adulta e di conseguenza la parassiti deponendo una o più uova è piuttosto bassa. La
conclusione fu che le cassette nido artificiali erano semplicemente troppo visibili e posizionate in luoghi troppo esposti.
Ogni giovane anatra nelle vicinanze riusciva ad individuare la cospecifica adulta mentre entrava nel suo nido e quindi
risultava molto semplice parassitarla (Knight 2001). Il progetto di conservazione venne rivisto alla luce dei dati
comportamentali ed i nidi artificiali vennero posizionati in luoghi più appartati nel fitto della boscaglia, facendo salire la
percentuale di schiusa fino al 70%, valore che superava quello in condizioni naturali.

Studio della mente animale


Anche lo sviluppo dell’etologia cognitiva e lo studio della vita mentale degli animali sta portando inevitabilmente ad
una revisione dei parametri classici utilizzati finora nei programmi di conservazione. Lo studio della cognizione
animale permette una migliore comprensione della mente umana, migliora il rapporto uomo-animale nell’accezione più
ampia del termine ed aumenta il benessere degli animali, domestici e selvatici. La vita mentale di un animale può essere
definita come l’insieme dei comportamenti e le attività che l’animale compie per dare origine a questi comportamenti.
La mente ed i processi mentali comprendono:
1. una fase di percezione sensoriale
2. un insieme di comportamenti semplici

8
3. delle capacità cognitive complesse.
Infatti il modo in cui il mondo appare agli animali non è legato solamente alle loro capacità sensoriali ovvero al punto 1.
C’è il problema di capire come questi “frammenti di esperienza sensoriale” vengono messi assieme per dare origine alle
relazioni tra la percezione sensoriale e la capacità di capire che cosa avviene nel mondo che ci circonda (Wynne 2001).
Questa dimensione più astratta della percezione sensoriale, la capacità di formare concetti da parte degli animali, è stata
studiata solamente di recente grazie all’utilizzo di paradigmi sperimentali presi in prestito dalla psicologia umana ed in
particolare dai psicologi dello sviluppo. Alcuni di questi test sperimentali si adattano perfettamente ad una
comparazione cross-specifica e pertanto sono stati usati per indagare le capacità cognitive di specie animali appartenenti
a gruppi e classi diverse (Pepperberg and Funk 1990; Pepperberg 2002; Chevalier-Skolnikoff 1989). Un esempio
classico è dato dallo studio della permanenza dell’oggetto, ovvero dall’abilità che ha un animale di capire che un
oggetto scomparso dalla vista continua ad esistere. Paradossalmente questa capacità, solo in apparenza semplice, risulta
distribuita in maniera non uniforme nel mondo animale: scimpanzé, gorilla, cani, corvidi (Wood et al. 1980, Natale et
al. 1986, Hauser 2001, Zucca et al. 2004a) sono in grado di superare in maniera egregia il test, mentre altre specie come
ad esempio gatti non raggiungono gli stessi risultati di accuratezza. Altri test di questo tipo prendono in esame la
capacità di rappresentare i numeri ed il tempo, di aggirare gli ostacoli (Zucca et al 2005; Zucca et al. 2004b) oppure la
comprensione del concetto di “stesso” e “diverso” e studiano la capacità di discriminare tra oggetti in base alle loro
relazioni di similitudine. Questa capacità concettuale può essere estesa allo stile pittorico; come dimostrato da
Watanabe e collaboratori (1995) i piccioni sono in grado di percepire gli indizi pittorici discriminando tra un quadro di
Monet ed uno di Picasso.
Anche l’uso di strumenti rientra all’interno dello studio delle capacità concettuali degli animali. Il paradigma mezzo-
fine, ovvero la comprensione delle caratteristiche funzionali di uno strumento, permette all’animale di raggiungere il
suo obiettivo attraverso l’uso di uno strumento. Il cibo legato ad un filo appeso ad un posatoio rappresenta uno
strumento che, se usato opportunamente, permette al corvo imperiale o alla ghiandaia di mangiare il pezzetto di carne
altrimenti irraggiungibile. Nella modalità di presentazione più semplice del task ci vogliono 23 azioni motorie
coordinate tra loro, tiro, piede sul filo, mollo, tiro e così avanti per raggiungere il cibo (Heinrich 1995 e 1999). La
manifestazione di questo comportamento complesso spesso avviene già la prima volta che il paradigma sperimentale
viene presentato all’animale. I corvidi infatti possiedono capacità cognitive estremamente complesse che spesso
travalicano quelle di altre specie di uccelli o mammiferi; studi comparativi sulla cognizione dei primati e dei corvidi
potrebbero gettare le basi per una migliore comprensione delle funzioni cerebrali e dell’evoluzione della mente (Jarvis
et al. 2005). Altri aspetti delle funzioni cerebrali che classicamente venivano relegati solamente all’uomo, sono invece
ampiamente distribuiti nel mondo animale. Il fenomeno della lateralizzazione cerebrale, oltre a fornire degli indubbi
vantaggi dal punto di vista evolutivo (Rogers et al 2004) è presente non solo nella classe dei mammiferi ma anche in
quella degli uccelli, dei rettili e degli anfibi (Valenti et al 2003; Vallortigara 2000 e 2000a, Zucca e Sovrano 2006).

Cervello e benessere animale: dolore e stress, veterinari ed animali non convenzionali


Una classificazione simbolica delle diverse specie di animali non convenzionali, basata su di una valutazione soggettiva
della sofferenza è legata più ad una visione antropocentrica e distorta del fenomeno che a dati sperimentali. Questa
valutazione non obiettiva della sofferenza animale rappresenta un notevole ostacolo al raggiungimento di un livello di
benessere accettabile anche per specie non domestiche. Nessun medico veterinario con un certo grado di esperienza in
medicina aviare ospedalizzerebbe un pappagallo in un ambiente povero di stimoli e magari in isolamento per un lungo
periodo. E’ ben noto che in questo gruppo di animali la “terapia comportamentale” ha la stessa valenza della terapia
farmacologica. Tuttavia molti rapaci feriti ospedalizzati nei centri di recupero vengono tenuti in ricoveri senza alcun
arricchimento ambientale e spesso senza una adeguata terapia del dolore (Zucca 2002). Pensiamo ad esempio ad un
animale ricoverato per elettrocuzione con ustioni su tutto il corpo. La spiegazione fornita più di frequente per
giustificare questo tipo di trattamento è che “riduce lo stress negli animali ricoverati”. Tuttavia i rapaci, pur non essendo
animali sociali, non hanno meno di bisogno di una terapia comportamentale rispetto a quanto ne abbiano i pappagalli. Il
livello di benessere minimo richiesto per le specie non convenzionali dovrebbe essere ponderato caso per caso, senza
lasciarsi ingannare da una maggiore o minore socialità o da altri parametri come la vocalizzazione che hanno scarso
significato nella valutazione della sofferenza e dello stress provato dall’animale (Zucca 2002).

Coscienza, diritti giuridici degli animali ed aree protette


Il termine coscienza, consapevolezza, riconoscimento di sé sono termini spesso ritenuti equivalenti ed indicano che un
animale è all’erta, autocosciente, ovvero capace di riflettere sulle proprie azioni e sui propri progetti, rendendosene
quindi responsabile (Wynne 2001). L’essere cosciente è il fondamento psicologico e giuridico della persona e risulta
essere una condizione essenziale per giuridico della persona? Alcuni docenti di diritto, come ad esempio Wise (2002),
sostengono che il problema è semplicemente “a quale livello disegnare la linea di separazione ed aprire le gabbie”, non
se farlo o meno. Risulta in ogni caso difficile fornire una risposta univoca a tal proposito. Tuttavia, il vecchio concetto
di fauna selvatica/esotica come “patrimonio indisponibile dello Stato o semplicemente come merce dotata di valore
commerciale” dovrebbe essere rivisto alla luce dei recenti sviluppi della psicologia animale. Citando Konrad Lorenz
possiamo affermare che “…l’uomo non è il solo ad avere una vita interiore soggettiva”. Il veterinario che si occupa di
specie non convenzionali, dovrebbe tenere presente anche questo aspetto ogni volta che interagisce con i suoi pazienti.

9
* Laboratorio di Cognizione Animale e Neuroscienze Comparative, Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi
di Trieste, Via S. Anastasio, 12 – 34100 Trieste
Tel: +39-339-6777224 Fax: +39-040-636479 E-mail: zucca@units.it
Web: http://www.psico.units.it/labs/acn-lab/eng_p/e042b1_stres.html

Bibliografia

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SORVEGLIANZA E GESTIONE SANITARIA DELLA FAUNA SELVATICA
NEI PARCHI: RISORSE ED ELEMENTI APPLICATIVI.
Simone Angelucci*
Medico Veterinario, Ente Parco Nazionale della Majella

Introduzione
La legge istitutiva dei Parchi Nazionali italiani n. 394 del 1991 prevede che i territori protetti, “specie se vulnerabili,
sono sottoposti ad uno speciale regime di tutela e di gestione, allo scopo di perseguire, in particolare, le seguenti
finalità: […] conservazione di specie animali […] applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a
realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, anche mediante la salvaguardia […] delle attività agro-silvo-
pastorali e tradizionali”.
Gli enti parco sono pertanto chiamati a predisporre ed attuare regimi gestionali particolari, volti a garantire la tutela
dell’ecosistema e delle zoocenosi presenti sul proprio territorio. Per far questo, è necessario che ogni Parco disponga di
risorse e mezzi necessari alla conoscenza dello stato di salute di quelle zoocenosi: avere contezza dello stato di salute
degli animali selvatici e domestici presenti sul territorio è condizione indispensabile per assicurare la tutela delle specie
protette e dell’ecosistema in cui esse vivono. In molti casi la riuscita di complessi e costosi interventi di tutela e gestione
faunistica sono stati gravemente compromessi dalla carenza di informazioni sanitarie e dalla mancanza di cognizioni
ecopatologiche e quindi dalla possibilità di prevedere il rischio sanitario e di attuare idonee misure preventive o di
controllo.
La sorveglianza epidemiologica applicata alla fauna selvatica si identifica nel sistema di raccolta organizzata di dati, e
nell’analisi di questi in relazione alle malattie che si verificano o si possono verificare all’interno di una popolazione
selvatica su un territorio; per l’applicazione di questo sistema è necessario che vengano svolte le attività di:
1. rilevamento della malattia o dell’agente eziologico che può provocare la malattia;
2. la diagnosi all’interno della popolazione di interesse o delle popolazioni recettive sintopiche;
3. la gestione delle informazioni attraverso la raccolta e l’analisi dei dati ottenuti nella fase di rilevamento e di
diagnosi;
4. l’utilizzo delle informazioni per definire processi decisionali ed indirizzi gestionali per la tutela della fauna
selvatica, della sanità degli animali domestici e della sanità pubblica.
Questo ultimo step presuppone la realizzazione quindi di un sistema di gestione sanitaria integrato fauna/animali
domestici.
Nonostante il nostro territorio nazionale sia fortemente caratterizzato non solo da una forte presenza di territori protetti,
ma anche di aree in cui sono compresenti animali selvatici e bestiame, ciò che si rileva in relazione all’organizzazione
di sistemi di sorveglianza sanitaria sulla fauna selvatica è, nella migliore delle situazioni, lo svolgimento, spesso
sporadico dal punto di vista temporale e territoriale, di attività di monitoraggio sanitario, cioè di sorveglianza passiva,
costituita dalla collezione di dati sanitari effettuata attraverso rilevamenti legati a procedure routinaria; il monitoraggio
sanitario non prevede quindi, a differenza di un sistema di sorveglianza epidemiologica, un’attività specificamente
organizzata finalizzata alla definizione degli aspetti epidemiologici di una o più malattie in una popolazione selvatica,
ma solo una raccolta “opportunistica” che consente di indagare lo stato di salute di una popolazione in modo alquanto
generico e grossolano.
Ritenendo indispensabile l’attuazione di un sistema organizzato di sorveglianza sanitaria nella pianificazione e
nell’applicazione di programmi di conservazione e di gestione della fauna selvatica, le aree protette possono essere
considerate un nuovo contesto applicativo in Italia in cui concretizzare l’implementazione delle attuali attività di
monitoraggio e definire la programmazione di sistemi di sorveglianza epidemiologica sulla fauna selvatica.

Obiettivi e metodi della sorveglianza epidemiologica nelle aree protette


Nella predisposizione di sistemi di sorveglianza sanitaria una delle oggettive priorità da considerare è quella della
pianificazione delle attività tale da perseguire obiettivi utili alla gestione: questa necessità, che può sembrare ovvia, è
tutt’altro che scontata nel contesto applicativo, e costituisce la garanzia della funzionalità del sistema, oltre che la sua
continuità nel tempo. Se, per esempio, gli obiettivi non vengono rapportati concretamente alle risorse umane,
strumentali ed economiche a disposizione dell’ente, o se non vengono definiti anche sulla base di specifiche esigenze di
carattere socio-economico, ma sono indirizzati solo su opportunità o interessi prettamente scientifici, sono in molti casi
destinati a produrre dati difficilmente trasferibili in ambito applicativo, o peggio a non rispondere alle necessità
gestionali del territorio. Non è infrequente il rilievo di progetti di ricerca che, per gli obiettivi che si prefiggono e le
difficoltà tecniche che incontrano, soprattutto perché rivolti ad animali di difficile raggiungibilità, non riescono a
produrre informazioni utili alla gestione della popolazione di interesse; questo, a lungo termine, può produrre, non solo
gravi ripercussioni sulla popolazione, soprattutto se a rischio, ma anche un crescente atteggiamento di sfiducia nel
confronti dell’opportunità di inserimento dei programmi sanitari nei progetti di gestione e conservazione della fauna.

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L’applicabilità del sistema di sorveglianza sanitaria va invece garantita attraverso l’individuazione di obiettivi
gradualmente raggiungibili nel breve, medio e lungo termine, in modo da generare un flusso informativo di costante
supporto al soggetto responsabile della gestione.
Dal punto di vista applicativo, gli elementi necessari alla definizione e all’attuazione di un sistema di sorveglianza
epidemiologica in un’area protetta sono:
1. Conoscenza dell’ospite:
a. Conoscere la popolazione di interesse: lavorare con una popolazione selvatica è cosa assai più complessa che
lavorare con popolazioni domestiche chiuse o almeno controllate. Nella fase di impostazione della
sorveglianza sanitaria spesso mancano informazioni basilari quali-quantitative sulla popolazione target, come
numero di individui, densità, sex ratio, distribuzione, tasso di natalità, tasso di mortalità ecc.
b. Conoscere le popolazioni domestiche sintopiche: è necessario procedere all’esecuzione del censimento del
bestiame monticante allevato nel Parco e delle aree di pascolo. Il censimento degli animali domestici prevede,
oltre che la richiesta di dati da enti competenti (AASSLL, Comuni ecc.), l’effettuazione di rilievi diretti sul
territorio, attraverso le visite in azienda, caratterizzate da una stretta interlocuzione con gli allevatori per
migliorare la conoscenza delle aree di pascolo effettivamente frequentate da ogni allevamento e le
caratteristiche particolari dell’azienda (rimonta, pregressi problemi sanitari o di gestione, alimentazione,
trattamenti farmacologici ecc.); dall’acquisizione di questi dati può essere creata una banca dati degli
allevamenti e dei pascoli, cui sarà correlata la georeferenziazione delle aree pascolo al fine di disporre, insieme
ai dati sulle popolazioni selvatiche (presenza/assenza, home range ecc.) di una base cartografica per la
successiva definizione delle aree di rischio per determinate specie e malattie.
c. Conoscenza del contesto normativo e socio-economico che influisce sulla presenza delle popolazioni
domestiche sintopiche: la permanenza di greggi e mandrie sui pascoli delle aree protette è determinata, oltre
che dalle vigenti normative di polizia veterinaria, da regolamenti locali, da usi e consuetudini, continuamente
in evoluzione sulla base delle condizioni sociali, culturali ed economiche degli allevatori (disponibilità di
stalle, ricoveri, manodopera, impianti di mungitura ecc.)
d. Conoscere le popolazioni selvatiche sintopiche: ungulati o carnivori selvatici possono stabilire interazioni
etologiche, competizioni di tipo spaziale o trofico, possono essere preda o predatore della specie oggetto di
indagine, e con essa possono stabilire interazioni anche di tipo sanitario: è necessario, pertanto, conoscere
l’entità numerica e la distribuzione degli animali selvatici sintopici, ma anche in che modo questi influiscano
sulla presenza, distribuzione, dinamica di popolazione della specie di interesse e quale ruolo epidemiologico
possano avere in caso di circolazione di determinati agenti eziologici.
2. Conoscenza gli agenti eziologici: prima di avviare la programmazione di un sistema di sorveglianza sanitaria in
un’area protetta è necessario delineare una storia epidemiologica del territorio, identificando le patologie di maggior
rilievo nel bestiame o, se segnalate, sulla fauna selvatica, e cercando di individuare i fattori socio-economici che ne
hanno comportato la permanenza sul territorio. Attraverso i database conservati presso gli Istituti Zooprofilattici
competenti, è dunque possibile ricavare una sorta di “inventario” degli agenti eziologici virali, batterici e parassitari
isolati da un determinato territorio e su questo elaborare una scala di priorità nelle indagini.
3. Conoscenza del contesto ecologico e dell’interfaccia sanitaria.
a. Analizzare le interazioni: quando si avviano delle valutazioni inerenti le interazioni sanitarie tra una
popolazione selvatica e una popolazione domestica si tengono in considerazione tutti gli aspetti che possono
determinare un passaggio interspecifico di un determinato patogeno. Va anzitutto presa in considerazione la
ricettività delle specie in questione per quel dato agente eziologico: se per la specie selvatica non esistono
segnalazioni in letteratura di infezione data da un dato agente, si possono fare delle valutazioni di carattere
filogenetico e biologico per avanzare il sospetto che l’animale possa essere interessato da quell’infezione.
Un’interazione sanitaria interspecifica si esplica in particolari condizioni geo-orografiche, ecologiche, bio-
etologiche (risorse trofiche, home range, territorio) e socio-economiche: l’insieme di queste condizioni
definisce l’interfaccia sanitaria.
b. Analizzare i fattori biologici, etologici, ambientali, culturali e socio-economici che determinano la
permanenza, la modificazione o l’estinzione di un’interfaccia sanitaria. La complessità degli elementi che
determinano un’interfaccia sanitaria evidenzia come il lavoro del veterinario in quest’ambito debba
necessariamente avvalersi di competenze interdisciplinari, di un ampio approccio investigativo e di una visione
gestionale olistica.
4. Programmazione ed effettuazione dei campionamenti
a. Valutazione dell’errore (Bias): i campionamenti effettuati per monitorare una malattia in una popolazione
selvatica sono, oltre che più difficili da attuare dal punto di vista operativo, spesso soggetti ad errori: un
campionamento in una popolazione o in un gruppo di animali dovrebbe essere rappresentativo di quella
popolazione, ma ciò avviene solo raramente perché i metodi di campionamento sono o intrinsecamente viziati
o soggetti ad alcune forme di errore. È ampiamente documentato come in molti casi campioni ottenuti da
animali attraverso catture, caccia o ritrovamenti di soggetti feriti, defedati o di carcasse possono non essere
rappresentativi della popolazione di cui quegli animali fanno parte.
b. Valutazione della grandezza del campione. Già solo per rispondere alla prima ed essenziale domanda, cioè se
una malattia è presente o meno all’interno di una popolazione, bisogna considerare che la possibilità di

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ottenere un dato certo in tal senso è legata alla grandezza del campione che sarà analizzato, e in un’indagine su
una popolazione selvatica tale esigenza risulta spesso difficile da soddisfare. Il campione dovrà essere tanto più
grande quanto più grande sarà la popolazione di riferimento e quanto più bassa sarà la prevalenza attesa di
malattia.
c. Validità dei test. Nelle indagini su animali selvatici molto spesso non si tiene conto di possibili errori derivanti
dall’ambito diagnostico propriamente detto: le prove di laboratorio routinariamente usate per i domestici sono
infatti da considerare scarsamente attendibili per i selvatici se non appositamente validate per la specie oggetto
di indagine. Diversità nelle reazioni, cross-reazioni, differente sensibilità e specificità del test possono
rappresentare distorsioni intrinseche del test che concorrono, insieme agli errori di valutazione
precedentemente descritti, a definire un dato poco attendibile.

Fonti della sorveglianza epidemiologica e organizzazione del sistema.


Nella pratica gestionale, un piano di sorveglianza dovrebbe essere programmato in modo tale da permettere la massima
utilizzabilità dei dati raccolti, anche in considerazione delle risorse economiche disponibili per la sua attuazione: ciò
vuol dire che nella realtà, le così esigenti condizioni per l’espletamento di un’indagine epidemiologica su una
popolazione selvatica, vanno inevitabilmente mediate con le disponibilità economiche dell’ente gestore e con le
capacità logistico-organizzative dell’apparato tecnico. In sintesi, mentre in alcuni casi possono essere erogati fondi
nell’ambito di particolari progetti di ricerca che dovrebbero essere sufficienti a garantire una sorveglianza attiva ed un
campionamento mirato ad una o più malattie all’interno di una popolazione, nella maggior parte delle realtà gestionali
la sorveglianza sanitaria deve, per carenza di risorse economiche ed umane, “agganciarsi” alle attività ordinarie di
sorveglianza e gestione faunistica che si svolgono in un Parco Nazionale. Sarà compito del veterinario, in quest’ambito,
stabilire delle priorità nell’indagine in relazione alle esigenze gestionali, individuare le circostanze più utili
all’acquisizione di dati sanitari, provvedere ad una pianificazione degli adeguamenti strumentali e strutturali necessari
per l’espletamento dei servizi, coordinare ed istruire il personale coinvolto, organizzare un sistema di raccolta ed
archiviazione leggibile ed efficace, in modo da ottimizzare e sostenere nel tempo l’acquisizione di dati sanitari. In
quest’ottica, le fonti che più di frequente sostengono l’attuazione di un sistema di sorveglianza sanitaria in un’area
protetta sono:
- Le operazioni previste dai piani di gestione faunistica per le diverse specie (popolazione selvatica target e
popolazioni sintopiche), come prelievi, abbattimenti, traslocazioni, reintroduzioni.
- Il recupero di animali defedati, feriti o imprintati
- Le necroscopie e le indagini collaterali sugli animali selvatici rinvenuti morti, che devono effettuarsi presso
l’Istituto Zooprofilattico competente per territorio (cfr. nota 600.7.6/24461/49 del 20 Giugno 2002 del
Ministero della Sanità, L. 23 Giugno 1970, n. 503, D.L.vo 30 Giugno 1993, n. 270, L.R. Abruzzo 10/2004).
- Campionamenti effettuati negli allevamenti che praticano la monticazione all’interno del territorio protetto: per
rendere operativa e costante tale opportunità, è auspicabile che l’ente gestore predisponga specifici programmi
di promozione e assistenza della zootecnia estensiva, ottenendo il consenso e la collaborazione degli allevatori.
- L’attività di campionamento coprologico periodico degli animali selvatici in natura e degli animali domestici
al pascolo.
La raccolta dei dati viene effettuata in banche dati attraverso sistemi operativi che rendano agevole il trattamento dei
dati in ambiente GIS: la georeferenziazione di informazioni sanitarie correttamente acquisite e opportunamente
interpretate ed elaborate è infatti uno strumento di grande efficacia gestionale, soprattutto se correlata ad altre
informazioni di tipo biologico ed ecologico (home range per diverse specie, aree di pascolo, carta della vegetazione,
aree di svernamento ed estivazione ecc.).
La strutturazione complessiva del sistema di sorveglianza, la programmazione di una rete informativa efficace e
l’individuazione delle conseguenti misure di gestione sanitaria deve, oltre che basarsi su competenze multidisciplinari,
vedere impiegati e coinvolti, a vari livelli, diversi soggetti quali:
- il veterinario del parco: la figura del veterinario del Parco dovrebbe assicurare, non solo una pronta
disponibilità in tutte le opportunità di rilevamento di dati sanitari sulla fauna, come sopra ricordati, ma
soprattutto la costante presenza delle problematiche epidemiologiche ed ecopatologiche in tutte le operazioni
di gestione faunistica;
- gli zoologi, gli agronomi, i dottori forestali e gli operatori GIS e gli altri tecnici del Parco, che devono
interfacciarsi continuamente con il veterinario per disporre di informazioni sanitarie che sarebbero limitanti o
condizionanti i piani di conservazione delle specie oggetto di tutela o dei loro habitat, e devono, d’altra parte,
assicurare al sistema di sorveglianza sanitario tutte le informazioni necessarie alla valutazione dei determinanti
epidemiologici e delle varianti ecologiche necessarie all’interpretazione gestionale delle informazioni sanitarie.
- gli agenti del Corpo Forestale dello Stato (organo di vigilanza nelle aree protette istituite con L. 394/91), con i
quali è indispensabile mantenere una efficace e costante comunicazione, per il reperimento di animali selvatici
feriti o morti, per la sorveglianza nelle aree critiche e delle zone pascolive, ma soprattutto per garantire un
contatto costante con il territorio e la capillarizzazione del sistema di sorveglianza.
- l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale cui compete l’area interessata, sia nel ruolo di consulenza che di
laboratorio riconosciuto ed accreditato per l’esecuzione delle prove diagnostiche.

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- i Veterinari pubblici delle AASSLL competenti: ai Servizi Veterinari ASL compete il ruolo di controllo
ufficiale per la sanità animale e l’igiene delle produzioni zootecniche su tutto il territorio nazionale: il
coordinamento e la predisposizione di intese sottoforma di veri e propri protocolli operativi tra Ente Parco e
Aziende Sanitarie Locali competenti assicura l’efficacia dei flussi informativi e l’ottimizzazione del lavoro sia
in ambito di sorveglianza che di gestione sanitaria.
In un Parco Nazionale sono diverse le competenze e le entità amministrative ad essere coinvolte più o meno
direttamente nella sorveglianza sanitaria: i Servizi Veterinari delle AASSLL in primo luogo, l’Ente Parco, le
Amministrazioni locali (i sindaci sono le Autorità Sanitarie), le Comunità Montane, le Province, i comandi stazione del
Coordinamento Territoriale per l’Ambiente del Corpo Forestale dello Stato, gli allevatori con le relative Associazioni di
categoria provinciali. E’ del tutto evidente, quindi, come una programmazione efficace di un sistema di sorveglianza
epidemiologica in un Parco Nazionale non possa trascurare il riconoscimento di questi ruoli e la definizione dei rapporti
tra l’Ente Parco e gli altri soggetti coinvolti; in altre parole, sarà necessario stabilire chi deve fare che cosa ed estendere
quanto stabilito a tutto il territorio, a prescindere dalle diversità amministrative.

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*Simone Angelucci
Med.Vet. n.159 albo PE
Via Cappuccini, s.n.civ.
65023 Caramanico Terme (Pe)
Tel. 085.9231020 – Mob. 340.2543119
simoneangelucci@katamail.com
simone.angelucci@parcomajella.it

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ANALISI E GESTIONE DEL CONFLITTO TRA MAMMIFERI CARNIVORI E
PRODUZIONI ZOOTECNICHE
Umberto Di Nicola*
Collaboratore Veterinario del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga

La predazione del bestiame è un fenomeno naturale nelle aree dove sono presenti sia i predatori che il bestiame.
Per i grandi predatori quali lupo ed orso, l’Abruzzo ha da sempre rappresentato una delle aree più importanti per la loro
sopravvivenza (per la presenza di grandi aree boscate di notevole estensione), inoltre la normativa Nazionale protegge
l’orso ed il lupo rispettivamente dal 1939 e dal 1976.
L’allevamento in Abruzzo ha radici profonde. Le pecore sono tenute al pascolo da giugno a ottobre, controllate da cani
e pastori ed i bovini e gli equini, allevati allo stato semibrado.
Nel valutare i danni al patrimonio zootecnico, è importante considerare anche il fenomeno del randagismo canino,
maggiormente riconducibile alla presenza di cani vaganti di proprietà.
L’accertamento dei danni al bestiame, se effettuato in maniera corretta, completa e sequenziale, permette di uniformare
la raccolta dei dati e di effettuare un’attendibile identificazione dei predatori.
L’accertamento di un caso di predazione è una perizia medico-legale, ed è infatti importante stabilire la causa di morte
degli animali per i quali si effettua il sopralluogo. Dato che anche malattie, traumi, avvelenamenti e cause accidentali
possono ferire o portare a morte il bestiame, l’unica figura idonea, è un veterinario che abbia seguito una giusta
formazione professionale.
In un sopralluogo, per l’identificazione del predatore, è necessario valutare molti elementi quali: localizzare il sito di
attacco e di uccisione della preda, esaminare con attenzione la carcassa, procedere allo scuoiamento della carcassa e ad
una valutazione del suo stato di salute generale e rilevare gli eventuali segni di presenza del predatore.
Ogni predatore si distingue nell’attacco: per la scelta della preda, per le modalità della predazione ed il tipo di ferite
causate.
Il lupo è un predatore che insegue e seleziona la preda, uccidendola con un unico morso alla gola. Il consumo inizia
dall’addome e dopo interessa le masse muscolari.
I cani invece non avendo esperienza nell’uccisione delle prede, aggrediscono senza criterio, in maniera ripetuta ad arti,
coda, testa e fianchi, inseguendo le prede sfinendole. Spesso i cani non consumano le loro prede.

*Umberto Di Nicola, Parco Nazionale Del Gran Sasso E Monti della Laga, Via del Convento 67010 Assergi –
L’Aquila; tel. 0862 60521, e-mail dinicoumbo@yahoo.it

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IL VETERINARIO A TUTELA DEI SELVATICI
&
DELLA SANITA’ PUBBLICA
Giovanni Poglayen
Dipartimento Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale
Alma Mater Studiorum
Bologna

L’aumento generalizzato delle attività umane ha generato una continuità spaziale, che si è tradotta in contiguità di
ambienti, fra animali selvatici, animali domestici ed insediamenti umani. Purtroppo questa stretta convivenza
(promiscuità?) è in grado di favorire malattie contagiose nelle tre comunità di selvatici, domestici ed umani. Inoltre la
riduzione dell’habitat silvestre, la sua frammentazione ed il disturbo antropico che si assommano all’eccessivo
sfruttamento di molte specie rappresentano un trend in ascesa che pone crescenti problemi di biologia della
conservazione. Questa erosione di habitat ha inoltre importanza come causa di patologie non infettive ma può anche
favorire la colonizzazione di agenti trasmissibili. La consapevolezza della necessità di tutelare l’ambiente è una priorità
epocale e la salute degli animali selvatici è uno dei punti chiave per la conservazione delle specie selvatiche. L’interesse
per la salute degli animali selvatici si interfaccia con barriere legislative fra stati nella movimentazione di animali e
prodotti di origine animale quando particolari malattie sono presenti nella fauna selvatica di una determinata area
geografica. Le più recenti tendenze nella gestione di importanti malattie degli animali domestici non sottovalutano
l’importanza degli animali selvatici come componenti della biocenosi (patocenosi) in cui dovrà realizzarsi
l’eradicazione. In accordo con queste regole internazionali di polizia veterinaria, i veterinari dovranno occuparsi di
malattie dei selvatici con lo scopo di migliorare la salute dell’ambiente e di evitare la diffusione di malattie dagli
animali domestici ai selvatici (e vice versa) dimostrando alla Comunità Europea l’efficacia delle misure di controllo
applicate.
Il coinvolgimento dei veterinari nella protezione dell’ambiente, in relazione alle loro competenze, dovrebbe essere
migliorato anche alla luce degli importanti risultati scientifici ottenuti da alcuni gruppi di ricerca negli ultimi decenni. Il
ruolo dei veterinari nella conservazione e nella salute degli animali selvatici non è una nuova moda; in particolare l’
affermazione che le malattie degli animali selvatici non rappresentano ancora uno sbocco professionale ma potrebbero
e dovrebbero divenirlo è tuttora valida. A tuttoggi, in un contesto di salute degli ecosistemi la medicina dei selvatici
non può essere considerata appannaggio di un ristretto gruppo di ricercatori o l’interesse “hobbystico” di alcuni colleghi
considerando che le malattie trasmissibili e quelle non infettive sono uno degli aspetti più rilevanti per assicurare il
successo in termini di conservazione ambientale.

CONSERVAZIONE E MEDICINA DEI SELVATICI

L’effetto delle malattie nel ridurre le popolazioni selvatiche è stato chiaramente dimostrato in molte situazioni così
come l’importanza dell’intervento di veterinari specialisti. Nondimeno le relazioni fra le malattie della fauna e la
conservazione frequentemente appaiono più una dichiarazione di intenti piuttosto che un reale vocazione e l’inclusione
degli aspetti sanitari nei programmi relativi a specie in via di estinzione o a rischio non è la regola. Generalmente
l’allarmante perdita di biodiversità necessita di efficaci strategie per una gestione sostenibile delle popolazioni, delle
specie e dell’intero ecosistema. Una necessità essenziale per questo scopo è un approccio analitico e realmente
multidisciplinare fra le diverse competenze scientifiche e gestionali coinvolte nella conservazione e gestione degli
animali selvatici. Ovviamente i veterinari devono essere coinvolti in questo approccio multidisciplinare ma anche le
differenti competenze all’interno della categoria devono avere, evenienza assai rara, un altrettanto multidiscipilinare
coinvolgimento. Ad ognuna di queste competenze scientifiche è richiesto il proprio supporto per indirizzare
correttamente la gestione dove la soluzione dei problemi rappresenta il risultato finale. Le competenze veterinarie sono
spesso richieste come supporto, come attività di servizio, in occasione di “incidenti traumatici” o della necessità di
immobilizzare gli animali. Se non vi è dubbio sulle competenze della categoria in questi frangenti è altrettanto ovvio
che essa dovrebbe partecipare a pieno titolo alla pianificazione ed alla realizzazione dei progetti. La legislazione sui
diritti degli animali generalmente tutela le specie domestiche o gli animali in cattività ma raramente prende in
considerazione il benessere di quelli a vita libera. La mancanza di adeguata fornitura di acqua, cibo, strutture, assistenza
veterinaria durante le operazioni di cattura, marcatura e rilascio degli animali selvatici può indurre loro inutili
sofferenze. Dovremmo essere moralmente impegnati, nella gestione dell’ambiente e degli animali selvatici a rispettare
anche i loro diritti. Anche in assenza di regole, leggi e principi dovremmo autonomamente sentirci impegnati a garantire
i più elevati standard qualitativi.
La cura degli animali selvatici, intesa in senso zoiatrico, è ritenuta da qualcuno il principale obiettivo della gestione
sanitaria dei selvatici ma la considerazione che anche i patogeni fanno parte dell’ecosistema e che da più parti agli stessi
vengono riconosciuti diritti in quanto parte integrante della biodiversità deve far riflettere. L’approccio accademico dei
veterinari è spesso acritico e teso alla eliminazione dei patogeni senza considerare che il mantenimento di un corretto
rapporto ospite/ parassita può essere importante per la salute e la sopravvivenza di specie a rischio di estinzione. E’

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ampiamente dimostrato che le infestioni parassitarie guidano le femmine nella scelta del partner, favorendo la nascita
di soggetti resistenti, mantenendo la variabilità genetica ed il fatto andrebbe considerato nella gestione delle popolazioni
selvatiche.
I problemi insorgono quando nuovi patogeni vengono introdotti in un’area andando a modificarne la patocenosi. Molti
degli agenti di malattia osservati negli animali selvatici originano direttamente da esseri umani o indirettamente
dall’introduzione di altri selvatici, animali domestici o da compagnia.
La possibilità che animali selvatici trasferiti possano introdurre nuovi patogeni nell’area con gravi effetti sui selvatici
indigeni o viceversa che i trasferiti soccombano per malattie presenti nella biocenosi ricevente sono problematiche poco
affrontate nella pianificazione di operazioni di trasferimento. Numerosi autori hanno preso in considerazione questi
aspetti.
La conservazione degli animali selvatici dovrebbe essere soprattutto indirizzata a studiare questo tipo di problemi
assicurando il mantenimento della diversità delle specie ed evitando l’introduzione di nuovi patogeni in un’area o in una
popolazione animale selvatica. Riconoscere le malattie (trasmissibili o meno) di una specie a rischio di estinzione è solo
uno degli scopi di un progetto di salvaguardia globale. La capacità e la competenza della medicina conservazionista dei
selvatici è quella di risolvere i problemi. Nelle specie in via di estinzione, anche di fronte a focolai di malattie
denunciabili, od a carattere zoonosico è necessario non farsi abbagliare da soluzioni “facili” come il depopolamento.
Metodi alternativi, in un’ottica conservazionista, devono essere presi in considerazione. Tale approccio deve essere teso
alla salute della popolazione e non a quella del singolo soggetto creando di fatto una specializzazione di competenze,
non una frattura, fra i veterinari che si interessano di zoo, di centri di recupero, di allevamento e quelli che invece si
dedicano alla cura di popolazioni viventi in libertà. Assicurare alla popolazione l’opportunità di mantenersi e, magari
lentamente, svilupparsi è molto meglio che dedicarsi al salvataggio dell’unico esemplare superstite e rappresenta lo
scopo della medicina conservazionista.
La tendenza generale per le specie selvatiche ci presenta due scenari potenzialmente professionalizzanti. Mentre le
specie ecologicamente più sensibili vanno scemando, si assiste ad una affermazione numerica e spaziale (a volte
preoccupante) di quelle più plastiche, adattabili. I veterinari devono confrontarsi con entrambe le situazioni anche se
con competenze differenti. Le priorità conservazioniste necessiteranno di interventi su specie a rischio di estinzione o su
malattie di forte impatto sulla sanità pubblica. Tali interventi saranno particolarmente accurati e pianificati e si
avvarranno di colleghi particolarmente esperti. D’altra parte, l’enorme aumento di qualche specie selvatica (fra le quali
comprendiamo i sinantropi, gli esotici e gli inselvatichiti) porterà ad una maggior frequenza di contatti con i domestici
da reddito, da compagnia e con l’uomo. Il rischio di conservare (creare) serbatoi di infezione selvatici e quindi la
possibile diffusione all’ambiente frequentato dall’uomo, aumenterà. Questa prospettiva implicherà un maggior
coinvolgimento dei veterinari qualsiasi sia il loro settore di attività. In tale contesto l’interazione con animali selvatici
dovrà necessariamente essere presa in considerazione non solo dagli specialisti, ma anche coloro che si interessano di
animali da compagnia o da reddito potranno dare un importante contributo alla sanità pubblica ed alla conservazione
dell’ambiente. Per la loro specifica preparazione, i veterinari si trovano in una posizione privilegiata nell’affrontare la
salute ed il benessere degli animali selvatici rispetto ad altre categorie di professionisti. Nonostante ciò, una cultura
veterinaria specifica stenta ad affermarsi. Il Complesso di conoscenze scientifiche e tecniche già presente nella
preparazione dei veterinari dovrebbe legarsi ad una più diffusa “attitudine culturale” per ora appannaggio di pochi.
Certamente il processo implicherà tempo e con altrettanta certezza possiamo affermare che in passato poco spazio è
stato riservato nei piani di studio pre e post laurea agli animali selvatici. Ora il punto critico è costruire programmi sulla
conservazione degli animali selvatici e sulla sanità pubblica evitando la tentazione di trasferire passivamente ai selvatici
le tecniche ed i metodi in uso per gli animali domestici. Sino ad ora le associazioni scientifiche hanno risposto bene alla
domanda di una specifica preparazione alla “cultura del selvatico” ma ora è tempo che questa entri a pieno titolo nei
curricula delle Facoltà di Medicina Veterinaria non solo per fronteggiare le malattie degli animali selvatici ma per
creare una solida, razionale sensibilità di rispetto dell’ambiente.

La bibliografia è disponibile presso l’autore.

18
IL RUOLO DEGLI ANIMALI SELVATICI NEL RAPPORTO CON LE SPECIE
DOMESTICHE : L’ESPERIENZA DELL’INFLUENZA AVIARIA
Mauro Delogu, Maria Alessandra De Marco, Andrea Marata, Martina Zengarini
Department of Veterinary Public Health and Animal Pathology, Faculty of Veterinary Medicine,
Bologna University

L’allarme elevato indotto in Europa dall’ipotesi che virus ad alta patogenicità quale l’H5N1 possa ricombinarsi con
virus influenzali umani non è solo allarmismo. Già a fine 2004 il virus aviare era entrato in Europa al seguito di un
contrabbandiere tailandese di Spizeti - Aquile da ciuffo tailandesi - ( Spizaetus nipalensis) e solo grazie al personale di
sorveglianza dell’aereoporto di Bruxelles aveva ultimato lì il suo viaggio. Oggi, i movimenti dell’H5N1 verso Ovest
che lo hanno portato in Kazakistan e sulle rive del mar Caspio portandolo a coinvolgere un numero progressivo di
nazioni con un movimento verso ovest che gli sta consentendo di colonizzare gran parte dell’Europa. Oggi ne è stata
riscontrata la presenza in cigni reali, germani reali, polli sultani, poiane, cormorani, svassi, smerghi ed in molte altre
specie. La diffusione verso occidente lo porta ad incontrare diversi elementi naturali che possono contribuire sia a
rallentare sia a facilitarne la diffusione. Al primo posto troviamo la presenza di anticorpi contro virus del sottotipo H5
nella popolazione delle anatre selvatiche del mediterraneo evidenziata durante gli studi nella Oasi WWF di Orbetello.
Gli anticorpi contro virus influenzali H5N2 e H5N3, H5N1 circolati negli ultimi anni tra le anatre selvatiche del nostro
paese sono probabilmente in grado di limitare l’infezione da virus H5N1 (Asiatico). L’ evidenza sierologia della
continua circolazione negli ultimi dieci anni tra le anatre di diversi virus influenzali AH5 non patogeni potrebbe
funzionare un po’ come una vaccinazione, creando una seppur parziale immunità di popolazione che ostacolerebbe la
diffusione dell’infezione da H5N1. Di contro la stessa presenza di anticorpi potrebbe consentire una maggior diffusione
del virus in virtù del fatto che i soggetti con anticorpi per il sottotipo H5 possono infettarsi e non ammalandosi
contribuire al trasporto del virus tra popolazioni recettive in diverse aree. Fondamentale è quanto già viene attuato con i
sistemi di sorveglianza veterinari degli allevamenti intensivi e con l’applicazione di tutte le norme possibili di
biosicurezza per gli allevamenti stessi. Qualsiasi intervento gestionale volto a eliminare l’infezione dalle popolazioni
selvatiche risulta inapplicabile e peraltro improponibile, così come sono da escludere azioni dirette a danno delle
specie selvatiche. Le ipotesi di abbattimenti indiscriminati che ogni tanto vengono paventate risultano molto pericolose
nel caso di circolazione del virus. L’abbattimento delle anatre provocherebbe inoltre, spaventandole, una elevata
dispersione delle stesse sul territorio con una conseguente maggior circolazione del virus (un analogo fattore di rischio
è rappresentato dall’effettuazione di censimenti aerei nelle aree di aggregazione). Nelle Anatre il virus circola con una
quasi totale attenuazione della patogenicità (Aggressività) ( dai nostri studi in dodici anni sono stati sempre isolati dalle
anatre selvatiche solo virus a bassa patogenicità tanto che in queste specie la replicazione dei virus avviene in
condizioni naturali in assenza di malattia. Rarissimamente i virus influenzali dimostrano patogenicità elevate negli
uccelli selvatici a vita libera, con un solo caso descritto non direttamente correlabile ad episodi nelle specie domestiche
(A/Tern/South Africa/1961, H5N3). Ulteriori frontiere si sono aperte per il virus con la possibilità di incontrare
popolazioni, per dimensioni e biologia, senza precedenti in natura quali quelle domestiche. Occasionalmente questi
virus possono infettare i volatili domestici nei quali con maggior frequenza i sottotipi virali H5 o H7 possono
incrementare la propria patogenicità attraverso l’infinito numero di replicazioni e mutazioni, fino alla comparsa di
ceppi in grado di indurre elevate mortalità negli animali colpiti. In epoca recente, si è potuto constatare come virus
aviari siano in grado di infettare e a volte ammalare l’uomo direttamente (H5N1, H9N2, H7N7). I recenti casi di
trasmissione diretta di virus influenzali dal pollame all’uomo, che hanno causato in Asia nel 2004/2005/2006 il decesso
di oltre 100 persone, ribadiscono la capacità di trasmissione all’uomo dei virus animali generando il rischio che tra la
popolazione umana diffonda una nuova devastante pandemia influenzale, analoga alla “Spagnola” del 1918-1920. Da
sempre le popolazioni di uccelli acquatici albergano virus a bassa patogenicità, di per se innocui se non entrano a
contatto con i sistemi dell’avicoltura intensiva e il costante aumento delle epidemie del pollame in Europa, Asia e
America coincide non a caso con l’elevato incremento delle produzioni avicole in tutti questi paesi. In questo contesto
si inseriscono le ricerche nel serbatoio naturale che permette di individuare precocemente i ceppi virali consentendo
l’adozione di idonee misure di profilassi. Con tali scopi il Centro di Referenza Nazionale per l’Influenza del WHO, con
sede presso l’Istituto Superiore di Sanità, ha intrapreso nel 1992, assieme ad altri Enti, una ricerca sull’ecologia di
questo virus negli uccelli selvatici. Gli studi svolti presso le Oasi WWF di Orbetello e Burano I virus influenzali poco
patogeni isolati dagli uccelli acquatici durante l’azione di sorveglianza nell’area di studio, vengono utilizzati
nell’ambito di un progetto comunitario, per allestire e mettere a punto vaccini, pronti per un eventuale impiego durante
la prossima pandemia di influenza umana.

Considerazioni sulla situazione attuale


Analizzando i fattori di rischio, se osserviamo il panorama europeo e quello nazionale dal punto di vista del virus,
vedremo come esistono specie potenziali serbatoi (sistemi di mantenimento del virus) ed epifenomeni ( specie che si
possono ammalare ma dove il virus non riesce a sopravvivere nel tempo) sia domestiche sia selvatiche e quali siano le
entità dei rapporti tra le stesse. In Europa la popolazione sensibile (infettabile) di individui giovani di specie serbatoio
(anatre selvatiche) a vita libera non supera i 7,5 milioni con 50/60.000 individui in Italia durante lo svernamento

19
mentre le specie potenzialmente serbatoio domestiche presentano popolazioni enormemente più grandi. Nella sola Italia
vengono allevate annualmente circa 7 milioni di anatre di cui il 90 % tra Lombardia e Veneto (dati UNA 2001) e tra
queste circa 600.000 all’anno vengono reinmesse in natura per attività venatorie. Questo dato deve far riflettere, in
quanto la popolazione domestica serbatoio potenzialmente recettiva è di circa 120 volte superiore a quella selvatica. Un
ulteriore elemento di considerazione è dato dai 600.000 individui immessi all’anno in natura; rappresentano 10/12 volte
la popolazione selvatica giovanile recettiva all’infezione e una volta rilasciati possono fornire al virus, infettandosi, un
volano di amplificazione potenziale in grado di aumentare enormemente la quantità e la differenziazione di virus
presenti virale in natura. Un ultimo spunto di riflessione lo si può avere osservando i circa 4 miliardi di polli allevati
all’anno in Europa , dei quali 560 milioni in Italia. Per un virus quale quello influenzale, essi costituiscono una
popolazione di dimensioni esorbitanti rispetto a quelle delle specie selvatiche e un substrato ideale, favorito dalla
densità (elevata frequenza di contatti tra infetti e recettivi) e dalla omogeneità genetica che risparmia all’agente
eziologico, una volta entrato, difficoltà di adattamento all’ospite. Ulteriore elemento a vantaggio dell’agente eziologico
è che questo interagisce per tutto l’anno con un substrato continuamente rinnovato dalla rapidità dei cicli di produzione.
Il virus incontra sempre un numero elevatissimo di individui recettivi, nel quale tende a percorrere tutte le strade
evolutive, inclusa quella verso l’alta patogenicità (Fig. 3), tale situazione si tradurrebbe per questo RNA virus in una
sorta di incubatore o acceleratore evolutivo. L’individuazione delle strategie ecologiche di questa malattia si dimostra
una pietra miliare nella comprensione della stessa e nella corretta gestione di quanto da essa determinato.

Bibliografia

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20
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• De Marco M.A., Foni E., Campitelli L., Delogu M., Raffini E., Chiapponi C., Barigazzi G., Cordioli P., Di Trani
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poultry epidemic periods (1998-2000). Avian Pathology.

Correspondence : mauro.delogu@unibo.it
Via Tolara di Sopra 50, 40064 Ozzano Emilia (BO), Italy

21
IL RUOLO DEL CENTRO DI REFERENZA NAZIONALE PER LE MALATTIE
DEGLI ANIMALI SELVATICI NEL CONTESTO DELLA SANITÀ PUBBLICA
VETERINARIA

Riccardo Orusa – CeRMAS - Aosta/Torino

Nell’ambito della Sanità Pubblica è stato istituito il Centro di Referenza per le Malattie degli Animali Selvatici
(Ce.R.M.A.S.) con Decreto del Ministero della Sanità del 4 ottobre 1999 che si pone come struttura in grado di
raccordare Sanità Pubblica e gestione sanitaria della fauna selvatica.
Tale centro è nato, in seno all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, quale unica
struttura diretta di supporto tecnico del Ministero della Salute.
Il Ce.R.M.A.S è attualmente impegnato in attività di diagnostica, di ricerca, pubblicazione e divulgazione di lavori
scientifici e all’organizzazione di incontri finalizzati allo sviluppo della collaborazione fra professionisti del settore e in
corsi di formazione e aggiornamento professionale.
Tra gli obiettivi del Centro primeggia la diagnosi delle malattie degli animali alpini:
9 malattie soggette a denuncia
9 patologie emergenti
9 patologie più frequentemente riscontrate
9 zoonosi dei selvatici, trasmissibili agli animali domestici e all’uomo
9 analisi su contaminanti ambientali sugli animali selvatici.
E’ quest’ultimo punto che più interessa il settore della Sanità Pubblica, soprattutto gli aspetti di gestione e controllo
delle zoonosi e di indagine epidemiologica, dopo che una malattia potenzialmente pericolosa per l’uomo venga
diagnosticata in una popolazione selvatica.
In considerazione del fatto che per gestire nella maniera più veloce possibile una patologia, è fondamentale conoscere
non solo la malattia in sé, ma anche quanto più possibile della popolazione colpita, il CeRMAS si avvale di una fitta
rete di Referenti per le Malattie degli Animali Selvatici, composta sia da Veterinari degli altri Istituti Zooprofilattici, sia
da dipendenti ASL. In questo modo, la conoscenza del territorio e delle popolazioni selvatiche in esso abitanti diventa
sempre più capillare, in quanto ognuno potrà fornire informazioni ed esperienze sulle aree sulle quali si possiedono
conoscenze.
Oltre a cooperare con il Centro di Referenza per le Malattie Esotiche (CESME) presso l’Istituto Zooprofilattico
Sperimentale di Teramo per la sorveglianza della malattia di West Nile, il CeRMAS attualmente collabora con il Centro
di Referenza per l’Influenza Aviare presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie. In questo campo si è
attivato nella progettazione dei piani di monitoraggio in varie regioni italiane, tra cui Valle d’Aosta, Piemonte, Toscana
e Puglia. In particolare in quest’ultima regione ha svolto un ruolo particolarmente utile, inviando personale esperto per i
campionamenti effettuati sui cigni selvatici a scopo di monitoraggio.
Il fatto di occuparsi di animali selvatici all’interno di un Istituto Zooprofilattico porta il CeRMAS a proporsi come
“ponte” fra i due ambiti, oltre a poter essere visto come figura di collegamento fra i vari Enti che si occupano di Sanità
Pubblica, enti protezionistici, associazioni venatorie e chiunque operi in ambito di “ambiente selvatico”, sia in ambito
nazionale che internazionale.
Il CeRMAS coopera inoltre strettamente con molti altri Centri di Referenza Nazionali che operano per malattie
specifiche per meglio implementare i livelli di interconoscenza sulla malattia stessa. Lo stesso Centro di Referenza ha
inoltre attivato dei livelli di rapporto operativo con ospedali italiani e stranieri e con Centri di Ricerca a stretta
pertinenza umana per meglio dettagliare, offrire e scambiare i livelli di conoscenza.

Per ulteriori informazioni contattare: cermas@izsto.it

22
I PRINCIPI ISPIRATORI DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA DI ANIMALI NON
CONVENZIONALI: SITUAZIONE ATTUALE E SVILUPPI POSSIBILI

Luca Brugnola
Corpo Forestale dello Stato - Servizio Certificazione CITES Periferico di Pescara

INTRODUZIONE
Unitamente alla distruzione degli habitat naturali, il costante aumento del commercio rappresenta la principale causa di
declino di molte popolazioni animali, alimentato anche dal progresso delle tecnologie dei trasporti mondiali e
dall’espansione delle economie dei paesi consumatori.
La consapevolezza che la fauna selvatica rappresenta un bene supremo da salvaguardare che possiede un valore in sé e
quindi non solo in quanto fonte di valide risorse economiche ma anche e soprattutto perché bene estetico, scientifico,
culturale e ricreativo da garantire alle future generazioni, ha spinto diversi governi a creare un sistema giuridico a tutela
di essa.
Uno dei principi ispiratori di queste norme è quello dell’uso sostenibile delle popolazioni animali e cioè di uno
sfruttamento razionale ed equilibrato che ne garantisca comunque la conservazione.
Appare quindi evidente che la ratio legis del quadro giuridico è improntata ad un atteggiamento di tipo conservazionista
anziché protezionista.
Già dal 1960 la settima assemblea dell’UICN sollecitava i Governi ad imporre restrizioni all’importazione di animali e
nel contempo a regolamentarne l’esportazione dai paesi d’origine nella consapevolezza che il controllo del commercio
di specie selvatiche potesse costituire uno strumento di conservazione delle stesse.
Venivano gettate così le basi per quello che oggi rappresenta il trattato internazionale con il più alto numero di nazioni
aderenti: la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione,
indicata più brevemente come Convenzione di Washington o con il suo acronimo CITES.
La CITES conferisce ai paesi “produttori” ed a quelli “consumatori” la responsabilità congiunta di conservare e gestire
le risorse naturali attraverso forme di cooperazione internazionale in materia di commercio, di legislazione e di
applicazione della stessa, di gestione delle risorse naturali e di scienze della conservazione, promuovendo la
partecipazione attiva dei Paesi parte in ogni settore d’intervento.

ANALISI DELLA NORMATIVA


Firmata il 3 marzo 1973 a Washington in un meeting al quale parteciparono i rappresentanti di 88 paesi, divenne
operativa il 1° luglio 1975 con l’adesione al Trattato delle prime 10 nazioni. Ad oggi hanno aderito ben 169 Stati Parte.
Lo strumento di ratifica della Convenzione in Italia è stata la legge 19 dicembre 1975 n. 874, mentre per lo strumento
di attuazione per l’applicazione del Trattato si è dovuto attendere sino al 31 dicembre 1979 data in cui, con il relativo
Decreto Ministeriale, si riuscirono a disciplinare le attività di importazione ed esportazione così come stabilito nel
Trattato stesso.
Nel corso dei successivi tre anni le norme relative al commercio di specie di fauna selvatiche cessarono di costituire un
argomento puramente nazionale e rientrarono, con l’emanazione di due Regolamenti (Reg. CEE n. 3626/82 del
Consiglio e n. 3418/83 della Commissione), nelle competenze comunitarie.
La Comunità Europea infatti, non ancora parte della Cites, sentì comunque la necessità di uniformare le procedure di
attuazione della Convenzione a livello comunitario.
Sempre nel 1983 fu approvato l’emendamento “Gaborone” che consente tuttora l’adesione della Comunità Europea al
Trattato previo il deposito degli strumenti di ratifica da parte di almeno 56 Stati. Attualmente solo 51 Stati hanno
depositato tali strumenti.
Successivamente a decorrere dal 1 gennaio 1993, data del completamento del mercato unico, la quasi totale scomparsa
dei controlli sugli scambi interni di merci, capitali, persone e servizi rese necessaria una rivisitazione dei regolamenti
comunitari del 1982 e del 1983.
Allo scopo il Consiglio dell’Unione Europea adottò nel 1997 due nuovi regolamenti che a tutt’oggi, con le relative
modifiche ed integrazioni, danno piena attuazione alla Cites nei 25 paesi comunitari. (Reg. CEE n. 338/97 e n. 939/97).
Partendo dal presupposto che la cooperazione internazionale è essenziale per la protezione della fauna, la CITES
collabora direttamente anche all’applicazione di altre Convenzioni tra cui: la Convenzione sulla diversità biologica, la
Convenzione di Basilea, la Convenzione di Ramsar, la Convenzione di Berna, la Convenzione sulle specie migratrici e
la Convenzione internazionale sulla regolamentazione della caccia alle balene.
Nel febbraio 1992 con l’emanazione della legge 150/92 viene disciplinato in Italia il sistema sanzionatorio dei reati
relativi all’applicazione della Convenzione di Washington ed inoltre viene imposto l’obbligo del monitoraggio, da parte
del C.F.S. in collaborazione con gli Uffici Veterinari di confine, della mortalità degli animali durante i trasporti
internazionali. Ciò al fine di disporre eventuali misure più restrittive fino all’interdizione dell’importazione per le specie
maggiormente soggette a mortalità durante il trasporto (D.M. 18.02.1994).
Altre misure giuridiche a tutela indiretta di alcune specie, correlate con la già citata legge 150/92 ma non
necessariamente con la CITES, sono quelle relative al divieto di detenzione e commercio di specie che possono

23
costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica (D.M. 19.04.1996 e D.L. 03.07.2003 n.159); tali misure hanno
determinato il netto declino delle importazioni di rettili, di mammiferi ed aracnidi, selvatici o riprodotti in cattività,
elencati nelle norme in questione.

COME FUNZIONA LA CITES


La realizzazione a livello nazionale di quanto dettato dal Trattato e dalle norme comunitarie è stata resa possibile dalla
partecipazione congiunta di più amministrazioni dello Stato: il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali che con il
C.F.S. assicura la corretta applicazione delle norme sul territorio nazionale e gestisce unitamente al Ministero delle
Attività Produttive il rilascio dei necessari documenti Cites, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio a
cui è affidato il coordinamento tecnico e scientifico delle attività connesse all’applicazione del Trattato.
Tali organismi collaborano a loro volta nei diversi settori di intervento, per il tramite del Segretariato CITES a Ginevra,
con altre associazioni quali l’Organizzazione Mondiale delle Dogane, l’Interpol, l’UNEP-WCMC, l’Ufficio Traffic e
l’UICN-SSC.
Il sistema di tutela della Convenzione di Washington si basa sull’accertamento della situazione biologica delle
popolazioni selvatiche animali e vegetali, suddividendole in base al grado di pericolo di estinzione in tre elenchi
chiamati Appendici: nell’Appendice I sono state inserite quelle specie considerate in pericolo di estinzione e per le quali
ulteriori prelievi delle popolazioni selvatiche potrebbero causare grave nocumento (circa 600 specie), l’Appendice II
comprende quelle specie che sono suscettibili di estinzione e per il cui sfruttamento sostenibile è necessario controllarne
il commercio (circa 4000 specie), nell’Appendice III sono elencate quelle specie tutelate da singoli Stati in virtù dello
status delle popolazioni selvatiche locali (circa 250 specie).
Tali elenchi risultano in continua evoluzione potendo una specie transitare per esempio dall’Appendice I alla Appendice
II o viceversa in funzione delle costanti acquisizioni scientifiche sullo stato delle popolazioni selvatiche di quella stessa
specie.
I Regolamenti comunitari emanati negli anni ’80 contenevano già numerose misure di tutela più severe rispetto a quelle
della CITES. Tali misure con i successivi regolamenti del 1997 sono state conservate ed ulteriormente estese: ad
esempio negli elenchi delle specie, definiti allegati A, B, C e D, sono state incluse specie non inserite nelle Appendici
della Cites (dalle circa 4850 specie tutelate si è passati alle circa 5300 specie), sono state specificate le condizioni
relative al trasporto ed alla sistemazione degli animali vivi, sono state applicate condizioni più severe per
l’importazione, etc.
Il sistema dei controlli si basa invece sul rilascio di documenti CITES (licenze e certificati) con lo scopo di
regolamentare le importazioni, le esportazioni, le riesportazioni e l’introduzione dal mare delle specie incluse nelle
Appendici e negli Allegati e sul concentramento di tali operazioni di import/export solo presso alcuni varchi doganali
abilitati.

SVILUPPI FUTURI
Nonostante siano trascorsi 33 anni dall’inizio delle attività di tutela a favore delle specie di fauna selvatica attraverso il
controllo del loro commercio, il contrabbando continua ad essere estremamente attivo.
Le organizzazioni criminali che sono alla base di tali attività illecite sfruttano tutti i punti deboli presenti nelle nazioni
che operano il commercio.
Tuttavia il crescente livello di cooperazione internazionale ha come risultato una migliore conoscenza di come il
mercato legale ed illegale possa influire sulle popolazioni di specie selvatiche con la conseguente possibilità di
intensificare i controlli laddove risultino necessari e prima che i danni siano irreparabili.
Anche il crescente coinvolgimento delle industrie nei progetti di conservazione delle specie con un valore commerciale
ha reso quest’ultime consapevoli che un commercio equilibrato e controllato può assicurare un vantaggio a lungo
termine sia per le specie stesse sia per il commercio legale.
La sopravvivenza di molte specie dipenderà quindi dall’abilità congiunta di Paesi produttori e consumatori nel porre in
essere su più fronti misure di gestione razionale delle risorse naturali disponibili.

Corpo Forestale dello Stato – Servizio Certificazione CITES Periferico di Pescara. Viale della Riviera, 299 – 65123
Pescara. Italy.
Tel: +39 085 72303, Fax: +39 085 75484, e-mail: l.brugnola@corpoforestale.it

24
IL PROGRAMMA DI RECUPERO DEL PAPPAGALLO PIÙ RARO DEL MONDO:
L'ARA DI SPIX (Cyanopsitta spixii)

Lorenzo Crosta, Med. Vet.


Presidente SIVAE
Consulenze Veterinarie Aviari, per Animali Esotici e da Zoo
Veterinario Ufficiale dei progetti di recupero Ara di Spix e Ara di Lear

Biologia e Sistematica

L’Ara di Spix, (Cyanopsitta spixii), è uno degli uccelli maggiormente minacciati; infatti è estinto in natura e sopravvive
esclusivamente in cattività.
Originario del Brasile, è un pappagallo di media taglia, la cui lunghezza totale non supera i 60 cm. Il colore azzurro, è più tenue sulla testa, dove
diviene quasi grigio, mentre si fa più scuro sulle ali. Le aree di cute nuda sulla faccia, tipica prerogativa degli ara, sono grigio chiaro nei giovani e
grigio scuro negli adulti. Inoltre i giovani presentano sul dorso del becco superiore una striscia longitudinale color corno, che manca nel becco nero
degli adulti. Non esiste un chiaro dimorfismo sessuale.

Il nome Cyanopsitta significa “pappagallo blu”, mentre spixii deriva da Johann Baptist von Spix, naturalista e medico
tedesco che, inviato in Brasile per descrivere la fauna locale e collezionarne esemplari, ne catturò un esemplare nel
1819 e lo riportò in Germania imbalsamato.

L’Ara di Spix fa parte delle cosiddette Are blu, che includono 4 specie divise in due generi:
• Anodorhynchus, che comprende
- Ara giacinto (A. hyacinthinus),
- Ara di Lear (A. leari),
- Ara glauca (A. glaucus),
• Cyanopsitta
- con la sola specie C. spixii.

In realtà, le Are del genere Anodorhynchus, sono molto più strettamente imparentate con il Conuro dorato (Guaruba
guarouba), altro pappagallo sudamericano che si potrebbe quindi definire la 4ª ara blu.
Anche se il colore azzurro avvicina l’Ara di Spix alle altre are blu, secondo gli studi più recenti, le relazioni
tassonomiche più prossime sono con
• le Are di media taglia dei generi
- Primolius (Propyrrhura)
ƒ P. maracana (Ara di Illiger)
ƒ P. couloni (Ara testa blu, o di Coulon)
ƒ P. auricollis (Ara dal collare)
- Orthopsittaca
ƒ O. manilata (Ara manilata o ventre rosso)
• i Conuri del genere Aratinga

Lo status dell’Ara di Spix in natura ed i tentativi di recupero della specie

L’ultima zona di distribuzione selvatica dell’Ara di Spix comprendeva la Caatinga, una piccola zona nel Brasile nord-
orientale, ricoperta da vegetazione di bassi arbusti, evolutasi per resistere alle temperature estremamente alte ed alla
piovosità scarsa ed irregolare. Si suppone che l’areale di distribuzione originale di C. spixii, comprendesse buona parte
del territorio della Gerais.
Come premesso, l’Ara di Spix è estinta in natura: l’ultimo esemplare libero, un maschio che faceva coppia con una
femmina di Ara di Illiger [Primolius (Propyrrhura) maracana], scomparve durante l’ottobre dell’anno 2000, gettando
nella disperazione i membri del Comitato Permanente per il Recupero dell’Ara di Spix (CPRAA), che durante gli ultimi
10 anni si erano sforzati per mettere in atto un piano di recupero e possibilmente, di reintroduzione.
Il piano di recupero prevedeva l’introduzione di una femmina di Ara di Spix affinché si accoppiasse con l’ultimo
maschio libero. In effetti così fu fatto e la femmina nº 7 fu portata nella regione della Caatinga nell’Agosto 1994.
Questa femmina era stata catturata nel 1987 e successivamente confiscata e c’erano ottime probabilità che fosse la
compagnia originale dell’ultimo maschio libero.
Dopo quasi un anno di acclimatazione e di lavoro preparativo, la femmina di Spix fu rilasciata nel marzo del 1995.
Già in luglio dello stesso anno faceva coppia con il maschio, anche se spesso la femmina di Ara di Illiger si univa alla
coppia, a formare un trio.
Purtroppo, verso la fine di luglio dello stesso anno si persero le tracce della femmina rilasciata e si suppose che fosse
morta.

25
A questo punto si decise di provare un’altra strada: il rilascio in natura di pulcini provenienti dalla cattività.
Sinteticamente, il piano prevedeva tre fasi:
1. trasferire delle coppie fertili e produttive di Ara di Illiger (Primolius maracana) nella zona della Caatinga, dove
l’ultima Spix volava ancora libera;
2. sperimentare la introduzione di uova fertili di Ara di Illiger nel nido della coppia mista (C. spixii – P. maracana), che
nel frattempo si era riunita, col fine di verificare se la coppia mista Spix-Maracana, fosse in grado di covare e poi
allevare con successo una nidiata di pulcini della stessa specie di uno dei soggetti delle coppia mista;
3. se tale esperimento avesse avuto successo, tentare un procedimento analogo, ma con uova fertili di Ara di Spix.

Benché il piano fosse ben avviato, tutto ebbe una brusca interruzione quando l’ultimo maschio libero scomparve,
nell’ottobre del 2000.
Ciò, assieme ad altre poco confortanti notizie sia tecniche, sia politiche, si tradusse, nel corso dell’anno 2002,
nello scioglimento del CPRAA.

Venne quindi costituito un nuovo Working Group di cui fanno parte:


• Conservation International do Brasil,
• Cemave,
• Fundaçao Parque Zoológico de São Paulo
• Loro Parque Fundación.

Inoltre, come consulenti per le varie discipline:


• Roberto Aceredo,
• Carlos Bianchi,
• Lorenzo Crosta,
• Yara de Melo Barros,
• Cristina Yumi Miyaki.

Il tutto sotto la supervisione di IBAMA (Istituto Brasiliano per l’Ambiente e per le Risorse Naturali Rinnovabili).
Attualmente, il nuovo progetto prevede varie azioni, che possiamo sintetizzare come segue:
• costituzione di due o più centri di riproduzione delle Are di Spix in Brasile;
• costituzione di uno o più centri di riproduzione delle Are di Spix in altri Paesi;
• addestramento ed educazione specifica del personale addetto ai centri di recupero.

La situazione attuale

Nel 1991, al momento del riconoscimento ufficiale dell’International Studbook (ISB), le notizie sul vero numero di Are
di Spix in cattività, erano piuttosto nebulose (ma esistevano relazioni circa un numero di soggetti variabile fra 11 e 17).
Comunque fosse, all’istituzione dell’ISB (‘91) furono riconosciute 15 Are di Spix in cattività nel mondo.
Di queste, 11 erano considerate “fondatrici”, cioè uccelli non imparentati e pertanto importantissimi del punto di vista
genetico, mentre 4 soggetti erano nati in cattività.
Dopo che il Governo Brasiliano emise un’amnistia internazionale per questa specie, dichiarando che gli animali in
possesso dei membri del CPRAA (Comitato Permanente per il Recupero dell’Ara di Spix) non sarebbero stati
confiscati, un proprietario privato svizzero, Joseph Hämmerli, si aggiunse al CPRAA, aumentando così il numero
ufficiale dei soggetti a 18, di cui 12 fondatori.
Al momento, in seguito a vari successi riproduttivi, esistono in cattività circa 65 soggetti. Il numero esatto non si
conosce, dal momento che:
• alcuni proprietari non facevano parte del CPRAA e non erano pertanto obbligati a dichiarare il numero esatto di
animali in proprio possesso, anche perché, vivendo in paesi non aderenti alla CITES, non erano soggetti ad alcun
obbligo internazionale.
• di alcuni soggetti si sospetta l’esistenza, ma dati certi non sono disponibili.
Di tali +/- 65 uccelli, solo 11 fanno parte al momento del piano di recupero internazionale, ma gli altri sono comunque
controllati da IBAMA.
Fortunatamente 7 di queste 11 Are sono fondatrici, quindi più del 50% del patrimonio genetico originale è al momento
disponibile per il progetto.
Inoltre ci sono forti probabilità che altri proprietari di Spix entrino a far parte del nuovo working group, aumentando
così il numero di riproduttori ufficiali.

Dove sono le Ara di Spix?

Al momento i soggetti sotto il controllo diretto del Working Group sono così distribuiti:
• Zoológico de São Paulo (Brasile), 2.3 soggetti

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• Fondazione Lymington (Brasile), 1.1 soggetti
• Loro Parque Fundación (Spagna), 2.3 soggetti
• Allevatore privato, in Germania, 1.1 soggetti
Inoltre, vari soggetti, sempre sotto il controllo di IBAMA, ma non nelle mani del Working Group, sono distribuiti in:
• AWWP (Qatar), 19.22 soggetti

Le Ara di Spix si stanno riproducendo?

Per ora si sono avute riproduzioni in cattività:


• nelle Filippine (BII, dal 1999, uccelli ora in Qatar);
• in Svizzera (uccelli ora anche in Germania e Qatar);
• in Spagna (Loro Parque, 1992, 2004 e 2006);
• in Qatar (Al Wabra, 2004 e 2005, riproduttori dalle Filippine).
• gli uccelli in Brasile non si sono ancora riprodotti, (alcuni sono troppo vecchi ed altri troppo giovani), ma si hanno
ottime speranze per la prossima stagione riproduttiva.

Bibliografia:
• Bampi MI & Da-ré M: Recovery Programme for the Spix’s Macaw /Cyanopsitta spixii). Conservation in the wild
and Reintroduction Programme. Proc. IIIº International Parrot Convention – Loro Parque – Tenerife, 1994, pp.
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• De Soye Y and de Melo Barros Y: Saving the Spix’s Macaw Cyanopsitta spixii — a Captive Management and
Species Recovery Handbook. Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis/Loro
Parque Fundación, Brasilia. (in preparazione).
• Juniper T & Parr M: Parrots. A Guide to Parrots of the World. Pica Press, England, 1998, pp. 142-143, 419-420.
ISBN 0300074530.
• Juniper T: The Spix’s Macaw recovery program – A review. Proc. Vº International Parrot Convention – Loro
Parque – Tenerife, 2002, pp. 101-118.
• Juniper T: Spix’s Macaw. The Race to save the World’s Rarest Bird. Four Estate publisher, London, England,
2002. ISBN 1841156507.
• Joshua S: Cyanopsitta spixii: DNA and Fingerprinting. Proc. IIIº International Parrot Convention – Loro Parque –
Tenerife, 1994, pp. 79-84.
• Tavare ES, Yamashita C and Miyaki CY: Phylogenetic relationships among some neotropical parrot genera
(Psittacidae) based on mitochondrial sequences. The Auk 121(1):230–242, 2004

Via Borsieri, 32 – 22100 Como; Via Garibaldi, 255 – 20033 Desio (Mi)
lorenzo_birdvet@yahoo.com

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LE BIOTECNOLOGIE A SALVAGUARDIA DELLE SPECIE IN VIA DI ESTINZIONE
Lino Loi; Grazyna Ptak
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria, Teramo

Introduzione. Una delle principali conseguenze della crescente antropizzazione del pianeta è la continua scomparsa di
numerose specie animali. Ben 103 specie di mammiferi sono andate estinte negli ultimi cento anni, e molte ancora
potrebbero andare irrimediabilmente perdute nei prossimi decenni. A momento, circa 5435 specie animali, praticamente
un quarto di quelle conosciute, sono minacciate di estinzione (IUCN report). Il problema non riguarda solamente le
specie selvatiche, ma anche quelle domestiche. Secondo una stima globale promossa dalla FAO nel 1998 infatti, oltre
3500 razze di animali domestici, prevalentemente sottorazze e popolazioni adattate a particolari condizioni pedo-
climatiche, potrebbero scomparire anch’esse sostituite da un piccolo numero di razze specializzate ad altissima
produzione.
La comunità scientifica costituisce un imprescindibile supporto per l’elaborazione di idonee strategie di
intervento. L’obbiettivo principale di una efficace strategia di recupero rimane ovviamente la salvaguardia
dell’ambiente nella sua totalità; esistono tuttavia situazioni di una certa gravità che richiedono interventi mirati per il
recupero di una determinata specie. Per questo motivo, biologi e zoologi hanno iniziato a considerare le biotecnologie
riproduttive per espandere popolazioni animali scese al di sotto di quel numero critico di individui oltre il quale il
processo di estinzione diventa irreversibile (Lasley BL, et al., 1994).
2) La nostra esperienza
Il nostro gruppo di ricerca è stato il primo a trasferire con successo una buona proporzione delle tecnologie riproduttive
disponibili al muflone Sardo Corso (Ptak G et al., 2002). In primo luogo, si è proceduto alla stimolazione ormonale di
femmine di muflone con ormoni ad azione follicolo-stimolante e successivamente al prelievo, per via chirurgica, di
oociti immaturi. Poiché si volevano testare tutte le possibili condizioni operative che si potrebbero incontrare sul
campo, si è provveduto alla raccolta di gameti femminili non solo da femmine sessualmente mature, ma anche da
animali prepuberi, con o senza previa stimolazione ormonale gonadotropa, nonché da animali rinvenuti deceduti di
recente sul campo. Le metodiche impiegate per la maturazione e fertilizzazione degli oociti, e del mantenimento dei
risultanti embrioni in coltura erano identiche a quelle previamente testate su agnelle prepuberi e pecore (Ptak G, 1999a,
1999b). Il materiale seminale impiegato derivava da uno stock di seme prelevato da Lino Loi nel 1990 da quattro
mufloni di cattura tenuti presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Sassari, e stoccato presso la Facoltà di Veterinaria
di Sassari (cortesia del Professor Salvatore Naitana). Anche il materiale seminale era stato congelato utilizzando un
protocollo per il congelamento del seme di ariete solitamente impiegato presso l’Istituto Zootecnico e Caseario
(Laboratorio dr. Pietro Cappai).
La percentuale di oociti fertilizzati che ha raggiunto lo stadio di blastocisti (range 33%- 37%) è stata comparabile a
quanto normalmente ottenuto nell’ovino domestico; alcune di queste blastocisti sono state trasferite su pecore riceventi,
il cui ciclo ovarico era stato previamente controllato con progestinici, per verificarne la capacità di svilupparsi a
termine. Altre sono state invece congelate e tenute in azoto liquido (-196 °C); anche per il congelamento embrionale si è
utilizzato un protocollo ampiamente collaudato nell’ovino domestico (Dattena M, 1999). Nelle diverse prove sono stati
impiegati quindici femmine, due delle quali decedute di recente, dalle quale sono stati prodotti complessivamente
quarantatre embrioni allo stadio di blastocisti; la cosa interessante è che quattro di queste derivavano dalle femmine
decedute. Dalle dieci blastocisti che sono state trasferite sulle pecore riceventi sono derivati 4 piccoli di muflone, uno
maschio, una femmina e due gemelli maschi, tutti perfettamente normali (Ptak G, 2002).
Questo lavoro ha dimostrato per la prima volta come sia possibile spostare con successo le tecniche di fertilizzazione
assistita da un animale domestico alla sua controparte selvatica; inoltre, si è proceduto ad allestire una banca genetica,
che seppure di dimensioni ancora ridotte, rappresenta indubbiamente uno stimolo per impiantarne altre più ampie
comprendenti gameti, embrioni e cellule somatiche di altre specie selvatiche. Sempre nell’ambito di questo progetto di
ricerca infatti, si è effettuata un’altra importante verifica, testare la fattibilità del trapianto nucleare di cellule somatiche
di muflone su oociti di pecora enucleati. Bisogna dire che questa ricerca non era prevista, il fato volle che una delle
femmine donatrici di oociti, anzi quella che forniva gli oociti dotati di una migliore competenza di sviluppo, venne
rinvenuta morta sul campo. Si tentò, come era negli intendimenti del progetto, di recuperare le ovaie al fine di
fertilizzarne almeno gli oociti. Purtroppo, nessuno degli oociti, come anche le cellule del cumulo, erano vitali per cui
non fu possibile fertilizzarli. Si pensò allora, visto che nostri lavori sulla clonazione somatica parallelamente condotti
nel laboratorio avevano indicato che anche cellule non vitali, anzi denaturate ad arte prima del trapianto (Loi P et al.,
2002), davano embrioni normali, di trasferire le cellule somatiche di muflone su un gruppo di oociti, 23 per l’esattezza,
originariamente destinati ad altri esperimenti. Sorprendentemente, sette di questi raggiunsero lo stadio di blastocisti e
vennero trasferiti su quattro pecore riceventi; due di queste rimasero gravide e una partorì un piccolo di muflone (Loi P
et al., 2001, Loi P et al., 2002) ovviamente femmina come la madre genetica, la mufla deceduta. Purtroppo, come la
grande maggioranza dei cloni prodotti con cellule somatiche anche il muflone morì per ragioni che non fu possibile
chiarire all’autopsia. Solo un embrione clonato su cento dà infatti origine ad un individuo, inoltre, un gran numero di
cloni muore a tempi diversi dopo la nascita senza che presentino cause di morte evidenti. Non conosciamo le ragioni di
questi insuccessi, molto probabilmente, sono da attribuire alla incompleta riprogrammazione della cellula somatica da
parte della cellula uovo nella quale viene trasferito (Renard JP, et al., 2002). Affinché il nucleo della cellula somatica

28
possa riacquisire la capacità di generare tutti i diversi tipi di cellule, deve essere riprogrammato, deve perdere cioè la
“memoria” genetica che ne mantiene lo stato differenziato, solo così può comportarsi come il nucleo di uno zigote, cioè
della prima cellula embrionale dalla quale deriva l’intero individuo (Kikyo N, Wolffe AP, 2000). Studi recenti effettuati
un po’ in tutti i mammiferi clonati sinora, ma soprattutto nel topo, hanno evidenziato anomalie dell’espressione genica
nei cloni, soprattutto nei tessuti placentari (Rideout WM 3rd, et al., 2001; Inoue K et al., 2002). Questa osservazione è
in linea con le nostre esperienze con cloni di ovino dove capita di osservare in quasi la metà delle riceventi la comparsa
di un accumulo patologico dei liquidi fetali a fine gravidanza. Tale anomalia, nota come “idroallandoide”, è ovviamente
conseguente ad una anomala funzione della placenta. Inoltre, un nostro recente studio ha evidenziato come anche nei
cloni che giungono a fine gravidanza la placenta presenta gravi alterazioni funzionali (in particolare ridotta
vascolarizzazione), che riteniamo siano responsabile della elevata mortalità post- natale dei cloni (Loi et al., 2005a;
2005b).
Sono pertanto in corso presso il nostro Dipartimento studi finanziati dalla European Science foundation finalizzati alla
conoscenza dei meccanismi che indicono la riprogrammazione nucleare al fine di fare della clonazione una tecnologia
affidabile. L’esperienza insegna che le metodologie scientifiche progrediscono rapidamente, anzi, non sono mai state
così dinamiche, per cui è auspicabile che la clonazione con cellule somatiche raggiungerà nell’arco di un decennio, e
forse meno, l’efficienza che le consentirà di essere applicata con successo alle problematiche descritte.
In aggiunta alla inefficiente riprogrammazione nucleare, inconveniente responsabile della elevata percentuale
di insuccessi che si registra nella clonazione somatica, due ulteriori complicazioni si presentano nello spostare questa
tecnica alle specie in via di estinzione. Il primo è la disponibilità di oociti in grado di riprogrammare e di dirigere lo
sviluppo embrionale e fetale del nucleo prelevato dall’animale selvatico; il secondo è la disponibilità di riceventi, o di
madri “surrogate”, come si suole dire. Idealmente, la cellula uovo dovrebbe essere prelevata da una femmina della
stessa specie: ora però, è verosimile che il ridotto numero di animali della specie oggetto dell’intervento non consenta
questo approccio. La soluzione ideale sarebbe l’impiego di oociti “donati” da una specie filogeneticamente vicina a
quella minacciata, ma numericamente ben rappresentata. Nel nostro caso la cosa è stata molto semplice, essendo ovino
domestico e muflone filogeneticamente molto vicini. E’ possibile che oociti di bovino sostengano lo sviluppo di cellule
di daino, cervo e camoscio, fatto che stiamo verificando al momento nel nostro laboratorio. Anche nel caso che l’oocita
domestico preso “in prestito” dal nucleo della controparte selvatica sia capace di originare un individuo clonato, tale
individuo avrà ovviamente il genoma della specie selvatica, ma il suo DNA mitocondriale (i mitocondri sono piccoli
organuli intracitoplasmatici, verosimilmente batteri simbionti dotati di un loro DNA, che sono praticamente le centrali
energetiche delle cellule) sarà quello della specie domestica che ha “prestato” l’oocita. Le analisi effettuate da altri
gruppi sui cloni hanno dimostrato che il DNA mitocondriale dei cloni deriva interamente dall’oocita (Evans MJ et al.,
1999) anche le analisi da noi effettuate sul muflone e su cloni ovini hanno confermato queste osservazioni (Loi P et al.,
2001). Ora, non si sa quali potrebbero essere le complicazioni derivanti da questa situazione di ibridi DNA genomico-
DNA mitocondriale; né noi né altri abbiamo comunque osservato delle variazioni fenotipiche e numerosi cloni viventi,
soprattutto bovini non presentano problemi di alcun genere. E’ comunque probabile che la produzione di questi tipi di
animali possa non incontrare il favore degli “ortodossi” di genetica delle popolazioni; siamo però fermamente convinti
che questo sia un male minore rispetto all’estinzione di alcune specie. Numerosi laboratori stanno affrontando il
problema cercando di testare cellule uovo ottenute da diversi animali al fine di produrre un oocita “universale”, magari
un pool di estratti di cellula uovo in grado di riprogrammare tutti i tipi di cellule somatiche. Questo potrebbe
rappresentare una elegante soluzione al problema, ma siamo ancora lontani dal raggiungere questo obbiettivo.
L’altro problema che si incontra nell’applicare le tecnologie riproduttive ai selvatici, è la disponibilità di
femmine riceventi, che fungano da incubatrici per gli embrioni, sia prodotti mediante fertilizzazione in vitro che
eventualmente clonati. La letteratura scientifica riporta davvero pochi lavori di trasferimento di embrioni tra specie
diverse, e i pochi lavori esistenti fanno riferimento esclusivamente agli equidi. Sarebbe davvero interessante, sia da un
punto di vista scientifico che applicativo, verificare per esempio se una bovina sia in grado di accogliere un embrione di
un cervide e di portare regolarmente a termine la gravidanza. Eventualmente si potrebbe per così dire “dare una mano”
alla Natura, prestando all’embrione di cervide una placenta di bovino. Come si sa, l’embrione allo stadio di blastocisti
presenta due distinti tipi cellulari, il bottone embrionario, dal quale originerà il feto, e il trofoblasto, dal quale
deriveranno invece quasi tutti gli annessi embrionali, in altri termini, la placenta. Studi in corso presso i nostri
laboratori, in collaborazione con il Dr. Cesare Galli, i cui risultati preliminari saranno presentanti nel corso del
convegno, sono volti a verificare questo tipo di possibilità.
3) Conclusioni e prospettive per il futuro
Per concludere, abbiamo dimostrato come sia possibile applicare con successo le principali biotecnologie
riproduttive ad una specie selvatica, il muflone; abbiamo inoltre verificato che anche la clonazione può rappresentare un
mezzo di amplificazione di specie gravemente minacciate di estinzione. Sono comunque indispensabili, come anticipato
nella parte introduttiva, ricerche di base, a tutti i livelli, per formulare strategie idonee per la salvaguardia di specie
minacciate di estinzione.
Nel frattempo, sarebbe auspicabile l’allestimento di banche di materiale genetico da queste specie, e
ovviamente, iniziare ad trasferire su quelli più seriamente minacciati le biotecnologie riproduttive: una efficiente
clonazione, associata ad altre biotecnologie riproduttive, quali la crio-conservazione di gameti ed embrioni,
rappresenterebbe uno dei mezzi per la preservazione di questi animali.

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Ringraziamenti. La ricerca che portiamo avanti sulla riprogrammazione nucleare è finanziata dal sostegno alla ricerca
di base del MIUR (progetto FIRB, RBNE01HPMX), e dalla European Science Foundation. http://www.esf.org ,
progetto “STELLAR”, 2005-2008, EUROCORES Programme supported by funds from the European Commission
Sixth Framework Programme under contract no. ERAS-CT-2003-980409".

Bibliografia
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http://www.iucn.org/redlist/2000/news.html

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Francis Group, Boca Raton, NW, USA.
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transfer-derived cloned sheep. Nat Genet 1999; 23: 90-93

Lino Loi Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria, Teramo, tel: 0861
266856; fax0861 411285; email: ploi@unite.it

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LE ATTIVITA’ DEL CORPO FORESTALE DELLO STATO SUL LUPO A POPOLI:
STORIA E RISULTATI
Livia Mattei
Corpo Forestale dello Stato – Comando Regionale di L’Aquila

Premessa
Il Corpo Forestale dello Stato lavora per la salvaguardia del lupo da quasi un ventennio; risale alla fine degli anni ’80
infatti il primo progetto (Banca Genetica del Lupo) realizzato a Popoli, in Abruzzo, in stretta collaborazione con
l’Università di Roma – Dipartimento di Biologia Animale e dell’Uomo. Allora, la situazione della specie sul territorio
era ancora fortemente a rischio, tanto da giustificare la creazione ed il mantenimento di un gruppo di individui a
garanzia della sua persistenza in caso di crolli drastici in natura. Nel tempo il lupo è gradatamente uscito dalla stretta
emergenza per ragioni di diverso ordine, tra cui: le mutate politiche di gestione del territorio, una aumentata sensibilità
ecologica e leggi a favore della sua tutela. Di conseguenza sono cambiate le iniziative del Corpo Forestale e gli obiettivi
di lavoro, comunque finalizzati alla conservazione della specie che, seppur uscita dalla emergenza, è ancora minacciata.
Obiettivi e Risultati
Recuperare animali feriti e, ove possibile, restituirli alla vita selvatica; la presenza del CFS sul territorio, il ruolo
istituzionale svolto e l’esistenza di un attivo Centro di Recupero dei Selvatici fanno sì che Popoli costituisca un
importante riferimento per animali con ferite e traumi di diversa natura (incidente stradale o atto di bracconaggio –
veleni, lacci, fucile). Dal 2000 ad oggi sono transitati attraverso il Centro Recupero 10 esemplari, di cui 3 sono stati
rilasciati in libertà, 3 sono morti per la gravità dei traumi riportati e 4 sono stati trattenuti (poiché non più abili alla vita
selvatica) nelle strutture di cattività sulla specie.
Gestire la colonia in cattività in rete con le altre strutture presenti sul territorio italiano e grazie a questo garantirne il
mantenimento della necessaria variabilità genetica; è stato istituto nel 2005 lo Studbook del lupo italiano di cui sono
attualmente membri il CFS (con le strutture dell’Abruzzo e della Calabria), il Parco Nazionale d’Abruzzo, il Parco
Faunistico dell’Amiata, il WWF ed il Bioparco di Roma. L’obiettivo è quello di gestire i nuclei in cattività come
popolazione unica regolando gli scambi di individui, le riproduzioni e la collocazione ottimale degli animali provenienti
dalla natura. E’ stato ricostruito l’albero genealogico degli animali attualmente parte della popolazione in cattività e
sono state elaborate linee guida per la sua gestione.
Collaborare in attività di ricerca finalizzate all’approfondimento di alcuni aspetti poco noti a causa dell’elusività della
specie; si propongono di seguito i titoli dei lavori svolti presso il Centro di Popoli da Università ed Enti di ricerca, come
sintesi del contributo reso su questo tema:
¾ Università di Roma “La Sapienza” e C.N.R. – L’uso di “fladry” come potenziali barriere per la predazione;
¾ Università di Roma “La Sapienza” – Stima della biomassa di preda ingerita a partire dal numero di feci
ritrovate;
¾ Università di Teramo – Protocollo d’indagine eco-cardiografica su soggetti appartenenti alla specie Canis
lupus
¾ Università di Torino – Analisi dei parametri acustici (temporali e spettrali) di vocalizzazioni di lunga distanza
(ululati) del lupo Canis lupus
¾ Università di Roma “La Sapienza” – Analisi delle urine depositate su neve.
Lavorare in programmi di comunicazione ed educazione sulla specie, come contributo alla sua conservazione. A Popoli
è stato aperto nel 2003 un Centro Visita che offre la opportunità di avvicinare il pubblico al lupo attraverso l’uso delle
emozioni e la sua conoscenza. E’ stato inoltre condotto un progetto sperimentale, Lupo Ambasciatore, che grazie ad uno
specifico programma di crescita ed “addestramento” di un cucciolo ha consentito che questo divenisse “ambasciatore”
della specie veicolando così l’importanza del messaggio sulla sua conservazione.

Corpo Forestale dello Stato – Comando Regionale di L’Aquila. Viale della Polveriera s.n.c. 67100 L’Aquila. Italy.
Tel +39 0862 428946, Fax +39 0862 420879, e-mail: l.mattei@corpoforestale.it

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DALLE NECROSCOPIE ALLA CONSERVAZIONE: IL CASO DEL LUPO.
Rosario Fico
Responsabile Commissione Fauna Selvatica SIVAR
L’esame necroscopico standardizzato delle carcasse di animali selvatici rinvenuti sul territorio consente, oltre ad
ottenere informazioni sulla causa di morte e sulla presenza di particolari agenti patogeni nell’area di ritrovamento,
anche la raccolta di informazioni importantissime per la conservazione e la gestione delle popolazioni selvatiche a cui
l’esemplare morto apparteneva. Quando il ritrovamento riguarda specie selvatiche protette, rare o minacciate come il
lupo, l’orso o il camoscio appenninico, diviene essenziale raccogliere da ogni campione più informazioni possibili,
effettuando un esame necroscopico standardizzato che includa anche la raccolta dei dati biologici di base (peso, classe
d’età, stato riproduttivo, misure biometriche ed altro). Inoltre, quando le condizioni di ritrovamento lo consentono, è
possibile effettuare ulteriori esami di laboratorio che aggiungono informazioni a quanto già osservato
macroscopicamente in sede di necroscopia.
Nel caso di specie rare o presenti sul territorio a basse densità (orso), la frequenza di ritrovamento delle carcasse può
essere così bassa che la raccolta di dati rappresentativi e utilizzabili a fini scientifici può durare molti anni. Per questo
motivo, diviene essenziale che i campioni siano esaminati, anche durante un arco di tempo molto lungo, sempre
secondo uno stesso protocollo. Infatti solo la raccolta di dati qualitativamente omogenei consente di aggregare i risultati
delle necroscopie in modo da individuare con sufficiente chiarezza un determinato problema sanitario o una causa di
morte che ricorre con particolare frequenza.
Da necroscopie effettuate secondo una procedura standardizzata è possibile non solo:
¾ Determinare la causa della morte dell’animale o diagnosticare la patologia di cui è affetto;
ma anche:
¾ Ottenere informazioni sullo stato sanitario della popolazione di origine;
¾ Prelevare organi e tessuti per indagini sanitarie, biologiche o per altre ricerche scientifiche anche a carattere
retrospettivo;
¾ Effettuare misurazioni biometriche o valutazioni sullo stato riproduttivo da correlare sia alla causa di morte che
allo stato sanitario dell’esemplare esaminato.

Indirizzo per la corrispondenza


Rosario Fico
Responsabile Commissione Fauna Selvatica SIVAR
+39-3483976850 1 e-mail: rosariofico@tele2.it

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LO STRESS DA CATTURA NEGLI UNGULATI
SELVATICI

Amedeo Cuomo*
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie – Università degli Studi di Teramo
Introduzione
Lo stress è una reazione comportamentale ed endocrino-metabolica stereotipata, comune a tutti i vertebrati, e finalizzata
alla sopravvivenza dell’individuo. La risposta da stress è innescata da stimoli ambientali identificati dall’individuo
come pericolosi. Se lo stimolo permane oltre il limite temporale o supera l’intensità, cui è adattata la specie o
l’individuo, la reazione da protettiva, classicamente descritta come lotta o fuga, porta all’esaurimento delle riserve
energetiche dell’organismo, sino alla areattività omeostatica. Tale condizione clinica definita come ‘’Distress’’ (1), può
condurre a morte acuta o molto più frequentemente, quando cronica, determina quadri patologici variabili; tipo e gravità
di quadri patologici variano in relazione alla reattività di specie od individuo, come descritto nell’uomo, in cui sono
identificabili soggetti ad alta ed a bassa reattività, nei confronti dello stesso stimolo (2). Tale variabilità individuale è
ipotizzabile, ma più difficilmente dimostrabile, in altre classi animali. Dalla prima descrizione, fatta da Seyle nel 1937,
il termine stress è stato sempre più frequentemente aggettivato e messo in relazione a varie condizioni ambientali,
capaci di indurre malattia, tanto da assumere una connotazione negativa rispetto a quanto originariamente descritto ed
essere impropriamente assimilato al significato di induttore di patologia. In medicina umana sono descritte forme di
stress conseguenti a stimoli ambientali cronici, emotivamente destabilizzanti per l’individuo o la comunità, come lo
stress da surmenage, da mobbing, da dolore cronico, da guerra, da carcerazione etc., capaci di indurre uno stato
catabolico ed immunosoppressivo ed all’origine di svariate manifestazioni cliniche. Molto meno frequenti invece sono
le forme di tipo acuto come la ‘’stress surgical response’’ presente in soggetti sottoposti a chirurgia in assenza di un
adeguato grado di analgesia o durante cataclismi, tortura etc., capaci di indurre morte improvvisa. Nei nostri animali
domestici gli stimoli stressogeni più frequenti sono legati alle modalità di allevamento, alla manipolazione, al trasporto
o macellazione, tutte forme che clinicamente presentano analogie con quanto descritto nei selvatici. Nel suino, ad
esempio, lo stress acuto da trasporto, è responsabile dello scadimento della qualità del muscolo, con produzione di carni
PSE. Il quadro clinico di questa miopatia, non sempre associabile ad intensa attività muscolare, è sovrapponibile a
quanto descritto nei pesci o nei mammiferi selvatici sottoposti a stress acuto. Nei mammiferi selvatici lo stress assume,
nelle sue forme da ‘’cattura’’, ‘’confinamento’’ e ‘’manipolazione’’, la massima incidenza negli ungulati selvatici ed è
responsabile di percentuali di mortalità oscillanti tra il 3 e l’85%.
La mortalità da cattura
La mortalità da cattura è legata alla tecnica utilizzata, alla specie, alle condizioni ambientali in cui si realizza ed alla
durata del contatto cosciente con l’uomo. L’incidenza varia ampiamente con il concorso di altri agenti, oltre allo stress
in senso stretto, come la miopatia, i traumi, l’ipertermia ed il trasporto.
1.Stress da cattura
L’attivazione del Sistema nervoso simpatico e dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene., innesca, nell’animale sottoposto a
manovre di cattura, una rapida liberazione di catecolamine, cortisolo, GH, TSH, glucagone e glucosio nel circolo
ematico, preparando l’animale ad uno stato potenziale di reattività, con larga disponibilità energetica. Tale effetto è
potenziato dal blocco di ormoni anabolizzanti come l’insulina, il testosterone e l’eritropoietina, mentre aumenta la
produzione di ADH. Grazie all’inotropismo cardiaco, alla riduzione dei flussi nei distretti periferici ed alla contrazione
splenica, indotti dall’attivazione del sistema simpatico, il flusso ematico muscolare aumenta drasticamente, fornendo O2
per assicurare il metabolismo aerobio. Tale stato, definito auto-cannibalismo energetico, associato all’aumento del
flusso ematico muscolare, è finalizzato a supportare un’intensa attività muscolare, programmata, però, a permanere solo
per periodi limitati di tempo. Se, infatti, l’animale non riesce a sottrarsi rapidamente allo stimolo lesivo, lo stato
catabolico esaurisce rapidamente le riserve dell’animale e/o si assiste ad un progressivo passaggio verso un’attività
anaerobiotica, con areattività omeostatica.
2.Miopatia da cattura
Si realizza frequentemente in soggetti sottoposti ad attività motoria intensa, prima dell’induzione dell’anestesia o per il
prolungarsi del contatto con l’uomo in animali coscienti. E’ descritta solo nei mammiferi e negli uccelli, analogamente
all’ipertermia. Il profilo enzimatico muscolare ( ALT, AST,CK e LDH) risente variabilmente a seconda dell’attività
anaerobia, funzione della richieste metaboliche muscolari e dei flussi ematici presenti. Riguardo a quest’ultimo aspetto,
nell’animale libero ed in attività, il flusso muscolare è intermittente, con aumento nella fase di rilassamento e riduzione
durante la contrazione, secondo un meccanismo definito pompa muscolare, responsabile della corretta ossigenazione del
muscolo e della termodissipazione. Un animale sveglio e contenuto presenterà invece una contrazione muscolare
pressoché continua nel tentativo di liberarsi, con riduzione della perfusione ed innesco di acidosi da iperproduzione di
acido lattico ed insufficiente catabolismo da parte del ciclo di Cori. La rabdomiolisi a questo punto si instaura
rapidamente, sino al quadri clinici di miopatia da cattura, descritti più avanti (3). Gli animali dal punto di vista clinico

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presentano ipertermia, disidratazione, eccitazione nelle fasi iniziali cui segue atassia, paralisi e depressione (4,5). La
rabdomiolisi, se non interviene la morte improvvisa per le profonde alterazioni dell’omeostasi, può portare a morte
l’animale, per insufficienza renale mioglobinurica, analogamente a quanto riportato nel cavallo dopo attività sportiva e
nell’uomo secondariamente ad ipertermia maligna. Le lesioni anatomo-patologiche a carico dei muscoli sono analoghe
a quanto riportato in altri ordini di animali superiori, sottoposti a stress acuto. Clinicamente riconosciamo quattro forme
cliniche mortali di miopatia, classificate in base al decorso e responsabili della gran parte della mortalità da cattura.
Forma iperacuta con morte nel corso della cattura
La morte avviene per acidosi lattica non compensata, iperpotassiemia ed arresto cardiaco.
Forma acuta con morte in 24-48 ore dalla cattura
Il quadro clinico è caratterizzato da atassia, miosite ed ipertermia. In questa forma molti animali presentano shock per
esaurimento del corticosurrene, anuria, iperpotassemia e bradicardia, associati a tentativi di compenso nei confronti
dell’acidosi come l’iperventilazione.
Forma subacuta
Definita anche sindrome atassica mioglobinurica, caratterizzata da acidosi cronica, insufficienza renale da
mioglobinuria ed iperfosfatemia. La morte sopravviene in tempi variabili, senza che l’animale abbia ripreso un
comportamento normale.
Forma cronica
La morte sopravviene in modo improvviso a distanza di mesi. Al tavolo autoptico si rilevano danni miocarditici.
3.Ipertermia
L’ipertermia sembra poter essere innescata oltre che dall’attività muscolare e della temperatura ambientale, anche dallo
stress acuto, come dimostrato in vari mammiferi. Da alcuni autori è stata correlata ad una malregolazione termica
dell’ipotalamo, conseguente a stress acuto ed attivazione del sistema microendocrino (prostaglandine ed alcune
interleuchine) e definito stress-induced hyperthermia o SIH (6). A differenza dell’ipertermia indotta da condizioni
ambientali o da ipeattività muscolare, questa forma non è prevenibile con la somministrazione di acepromazina od altre
fenotiazine, mentre è soppressa dall’uso preventivo di benzodiazepine e farmaci serotoninergici (7).
4.Traumi
I metodi di cattura farmacologia, se utilizzati in modo razionale, presentano evidenti vantaggi nel ridurre l’incidenza
dei traumi. La scelta del farmaco o dei farmaci è essenziale perché la rapidità di induzione IM rappresenta un fattore
critico nel limitare gli autotraumatismi e l’attività muscolare nella fase d’induzione. I metodi di cattura meccanici ( reti,
trappole, casse etc.), mostrano la massima incidenza di lesioni traumatiche. I metodi farmacologici ( anestesia o
sedazione), se utilizzati dopo appostamento, e ottenendo una induzione rapida, riducono di molto i traumatismi. In
alcuni casi si preferisce, in alcuni ungulati analogamente all’orso, la combinazione di entrambi i metodi, catturando
meccanicamente l’animale e ponendolo rapidamente in anestesia (8,9). Non sempre, però, risulta possibile scegliere
liberamente il metodo di cattura, considerando i costi della cattura, sotto forma di tempo impiegato, numero di animali
da catturare, tipo di territorio e condizioni ambientali.
5.Stress da reinserimento in aree differenti da dove l’animale è stato catturato.
Cromwell et al. (10) riportano nel cervo, una mortalità del 48% in soggetti catturati con mezzi meccanici e trasportati
in altre aree, mentre se liberati sul posto la mortalità scende al 25%. In tutti i soggetti è evidente una miopatia da stress e
la mortalità può verificarsi anche a distanza di 26 giorni dalla liberazione (3). E’ difficile dire in questi casi quanto
l’influenza delle nuove condizioni ambientali possa incrementare la situazione di stress da cattura e trasporto, mentre
sembra evidente che la mortalità è maggiore in animali confinati in aree di riproduzione rispetto a quelli catturati in
libertà (10).
Indicatori di stress acuto e loro valutazione
E’ facile immaginare che conoscere i parametri fisiologici basali nel selvatico è possibile solo in condizioni artificiose,
realizzabili solo dopo cattura e assuefazione alle manipolazioni. Per questo motivo le valutazioni statistiche degli studi
reperibili in letteratura sono ottenute su campioni significativi ed accettando valutazioni comparative tra i soli metodi di
cattura. Nel lavoro in campo e sul singolo soggetto, in pratica, possono essere utilizzate metodiche analoghe al
monitoraggio anestetico dei domestici, valutando le variazioni dei parametri vitali dal momento della cattura in poi,
clinicamente o con strumenti portatili. I parametri maggiormente utilizzati per la facilità di rilievo clinico sono la
frequenza cardiaca, la pressione sistemica e la temperatura corporea, indici di attivazione catecolaminica od intensa
attività muscolare (11). Le valutazioni di laboratorio mirano ad escludere aumento degli enzimi muscolari in corso di
miopatia ed aumento dell’RBC e dell’ematocrito per contrazione splenica, mediata dai recettori alfa-adrenergici
presenti sulla capsula. Frequente è il riscontro di leucocitosi neutrofila e linfopenia secondaria all’aumento dei
corticosteroidi e catecolamine o leucogramma da stress (12). Alterazioni dello stato elettrolitico ed acido-basico
variano dalla disidratazione, all’iperpotassiemia, all’acidosi metabolica, sino all’iperlattacidemia (13). Variamente
descritte sono le già citate profonde modifiche neuroormonali, che in ogni caso possono essere valutate solo in
condizioni sperimentali e non sono di alcun ausilio nell’immediato, richiedendo tempi tecnici. La valutazione delle

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catecolamine, scarsamente riportate per le difficoltà tecniche a realizzarsi, sarebbero di grande ausilio per approfondire
il comportamento nelle singole specie (14).
Conclusioni
La riduzione della mortalità da cattura negli ungulati selvatici può realizzarsi attraverso differenti strategie, miranti tutte
a ridurre il contatto cosciente con l’uomo, attraverso l’anestesia, a minimizzare i tempi di fuga ed a ridurre la reattività
vegetativa e la rabdomiolisi, mediante l’uso di fenotiazine. Tale ultima strategia risulta inattuabile nei casi in cui è
necessario un rapido risveglio, perché tali farmaci non sono antagonizzabili. L’appostamento dell’operatore munito di
fucile, piuttosto che l’inseguimento è obiettivo raggiungibile solo in aree confinate ed in presenza di mangiatoie dove
gli animali sono abituati a foraggiarsi. Tali metodi non sempre applicabili per motivi economici, sono utilizzati in
situazioni in cui la popolazione o l’individuo da catturare riveste particolare pregio. La cattura farmacologia non risulta
essere in senso assoluto più sicura di quella meccanica, se disgiunta dalla brevità dei tempi di fuga. Lunghi inseguimenti
per colpire col dardo l’animale o lunghi tempi d’induzione anestetica, aumentano l’incidenza di miopatia molto più che
una rapida cattura meccanica, seguita da sedazione-anestesia, capace di bloccare la reazione da stress. L’osservazione
che le componenti maggiori della mortalità da cattura, lo stress e la miopatia, possano in parte svilupparsi
indipendentemente e quindi essere trattate separatamente, è confermata da nostre esperienze nel camoscio abruzzese,
dove gli animali catturati, dopo appostamento, utilizzando due protocolli farmacologici differenti per rapidità
d’induzione e permanenza dell’effetto, mostrano una prevalenza degli effetti muscolari col protocollo a più lenta
induzione (romifidina-acepromazina-ketamina), mentre col secondo (medetomidina-ketamina) prevalgono gli effetti
stressogeni in senso stretto, con un maggiore aumento delle catecolamine, causa l’assenza d’acepromazina. (14).

Bibliografia

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2. Petrides, J.S., et al., 1997. Marked differences in functioning of the hypothalamic-pituitaryadrenal axis between groups
of men. Journal of Applied Physiology 82:1979-1988.
3. Beringer, J., et al. 1996. Factors affecting capture myopathy in white-tailed deer. Journal of Wildlife Management 60:
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4. Spraker, T. R. 1993. Stress and capture myopathy in artiodactyls. In Zoo and wild animal medicine.Current therapy 3,
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5. Williams, E. S., E. T. Thorne. 1996. Exertional myopathy. In Noninfectious diseases of wildlife. 2nd Edition. A.
Fairbrother, L. L. Locke, and G. L. Hoff (eds.). 2nd Edition. Manson Publishing, London, UK, pp. 181–193).
6. Kent, S., K. W. Kelley, And R. Dantzer. 1993. Stress-induced hyperthermia is partially mediated by interleukin 1 (IL-
1). Society for Neurosciences Abstract 19: 226
7. Olivier, B., AND K. A. Miczeck. 1998. Fear and anxiety: Mechanisms, models and molecules. In Psychopharmacology
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8. M. R. L. Cattet et a., Physiologic responses of grizzly bears to different methods of capture. Journal of Wildlife
Diseases, 39(3), 2003, pp. 649–654
9. J. M. Arnemo et al., 2005, Use of Medetomidine-Ketamine and Atipamezole for Reversible Immobilization of Free-
ranging Hog Deer ( Axis porcinus) Captured in Drive Nets. Journal of Wildlife Diseases, 41(2), pp. 467–470
10. Managing white-tailed deer in michigan: capture and translocation as a means of population control. Michigan
Department of natural resources. Wildlife Issue Review paper 9 december 11, 2000 on line
11. Broom, D. M. et al., 1993. Assessing welfare: Short-term responses. In Stress and animal welfare, D. M. Broom and K.
G. Johnson (eds.). Chapman & Hall, London, UK, pp 87–114.
12. Taylor, J. A. 2000. Leukocyte responses in ruminants. In Schalm’s veterinary hematology, 5th Edition, B. F. Feldman, J.
G. Zinkl and N. C. Jain (eds.). Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia, Pennsylvania, pp. 391–404
13. Michael D. K. et al 1987, Effects of capture on biological parameters in free-ranging bighorn sheep (ows canadensis):
evaluation of drop-net, drive-net, chemical immobilization and the net-gun. Journal of Wildlife Diseases, 23(4), , pp.
641-651
14. A. Cuomo et al 2003, Romifidine-Acepromazine-Ketamine vs Medetomidine-Ketamine in Rupicapra pirenaica ornate
capture. III° International Symposium on Wild Fauna, 267-270

* Viale F. Crispi, 212. I-64100 Teramo. Italy cuomo@unite.it

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COMUNICAZIONI BREVI

ESAMI NECROSCOPICI DI CAMPO, ALCUNI CASI


Umberto Di Nicola*
Collaboratore Veterinario del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga

In ogni contesto, ma in special modo nell’ambito di un Parco Nazionale, il ritrovamento di una carcassa di un animale
selvatico, può rappresentare un particolare “punto di contatto” con la specie, è può fornire un importante tassello
nell’ambito di un programma di sorveglianza epidemiologica.
La L.R. della Regione Abruzzo, n. 10 del 2004 (Normativa organica per l’esercizio dell’attività venatoria, la protezione
della fauna selvatica omeoterma e la tutela dell’ambiente), prevede, all’art. 6, che la fauna selvatica rinvenuta morta, da
Province, agenti di vigilanza, associazioni, organismi e altri soggetti operanti in materia, venga conferita all'Istituto
Zooprofilattico per l'Abruzzo ed il Molise.
All’interno del Parco, il ritrovamento di una carcassa di un selvatico, viene normalmente denunciato presso i comandi
stazione del Corpo Forestale dello Stato, che provvede a comunicare il ritrovamento all’area di Igiene degli allevamenti
e delle produzioni zootecniche dei Servizi Veterinari della A.U.S.L. competente per territorio ed all’Ente Parco, nella
figura del veterinario. Di concerto si procede al sopralluogo ed al recupero della carcassa.
Possono però presentarsi situazioni in cui, a causa di situazioni ambientali sfavorevoli, quali una forte pendenza del
terreno, un notevole innevamento o un’eccessiva distanza da strade percorribili con automezzi, il recupero della
carcassa venga praticamente impedito.
In questi casi, allo scopo di non perdere importanti informazioni, si può procedere ad effettuare un esame necroscopico
di campo per cercare di risalire alla causa di morte, facendo particolare attenzione alla presenza di segni riconducibili a
zoonosi o malattie infettive ed anche in riferimento al Reg. (CE) n. 1774/2002, (Regolamento del Parlamento europeo e
del Consiglio recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano), che
esclude (art. 1) dal suo campo di applicazione, i corpi interi o le parti di animali selvatici non sospettati di essere affetti
da malattie trasmissibili all’uomo.
Nell’ottica di quanto esposto, vengono presentate e descritte, alcune situazioni in cui sono stati effettuati esami
necroscopici di campo.

*Umberto Di Nicola, Parco Nazionale Del Gran Sasso E Monti della Laga, Via del Convento 67010 Assergi –
L’Aquila; tel. 0862 60521, e-mail dinicoumbo@yahoo.it

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ELAPHOSTRONGYLUS CERVI IN UNA POPOLAZIONE DI CERVI (CERVUS ELAPHUS)
ITALIANA: CARATTERISTICHE ULTRASTRUTTURALI DELLE LARVE DI PRIMO
STADIO (L1).

*Federico Morandi1, Sandro Nicoloso2, Cinzia Benazzi1, Francesca Ciuti2, Roberta Galuppi1, Maria Paola Tampieri1,
and Paolo Simoni1.
1
Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale, Università Degli Studi di Bologna; 2D.R.E.Am.
Italia, www.dream-italia.it.

Introduzione
I nematodi del genere Elaphostrongylus sono responsabili di parassitosi in molti cervidi. Insieme al genere
Parelaphostrongylus, sono definiti dagli Autori anglosassoni “extrapulmonary lung-worms” (parassiti polmonari a
localizzazione aggiuntiva extrapolmonare), in quanto gli adulti sono associati ai vasi sanguigni e linfatici del perimisio e
dell’epimisio di diversi muscoli e del connettivo subdurale e subaracnoideo. Tale parassita è stato segnalato in cervidi di
allevamento e selvatici, in molti paesi europei e non, ma mai in Italia. Il nostro studio è stato svolto, parallelamente ad
indagini anatomo-istopatologiche, su una popolazione di cervo (Cervus elaphus) dell’Appennino tosco-emiliano. La
popolazione è il risultato di reintroduzioni operate dall’uomo in tempi relativamente recenti dopo l’estinzione della
specie avvenuta tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, infatti, negli anni 1958 e 1965 sono stati liberati nella Foresta
Demaniale dell’Acquerino (Pistoia) rispettivamente 4 e 3 esemplari di cervo provenienti dal Parco Nazionale del
Tarvisio (popolazione originata a sua volta da una ricolonizzazione spontanea dalla vicina Austria). Negli anni ’80,
invece, si hanno notizie ufficiose della fuga di alcuni esemplari di provenienza scozzese da recinti presenti nell’area di
studio. Ad oggi la popolazione consta di circa 2500 esemplari, ed occupa un areale di oltre 800 km quadrati che
interessa le Regioni Toscana ed Emilia Romagna.
Materiali e metodi
Lo studio si è svolto su 68 cervi (Cervus elaphus) appartenenti ad una popolazione dell’Appennino Tosco-emiliano
delle province di Bologna e Pistoia. Durante la stagione venatoria 2001-2002, sono stati raccolti sul campo campioni di
tessuti vari poi fissati in formalina secondo Carson e processati secondo le metodiche di routine per l'osservazione sia al
microscopio ottico che elettronico a trasmissione (TEM).
Risultati e conclusioni
Istologicamente, nei polmoni di 28 animali si sono riscontrate uova e larve di primo stadio (L1) di nematode alcune
delle quali circondate da una modesta reazione infiammatoria granulomatosa. Strutture parassitarie con caratteristiche
simili sono state osservate anche nei linfonodi inguinali di due animali. Le indagini parassitologiche, a loro volta, hanno
evidenziato la presenza di larve di nematode di primo stadio (L1) in lavaggi tracheali ed in campioni di feci. Le larve,
una volta isolate, misuravano 390-430 micron di lunghezza e 18-20 micron di larghezza mostrando, costantemente,
un’evidente spinula caudale dorsale. La ricerca di adulti e di larve nell’aracnoide e nel midollo spinale e le osservazioni
fatte sui pochi muscoli hanno prodotto risultato negativo.
Il TEM ha confermato che tali strutture larvali, nel polmone, erano localizzate all’interno di capillari sanguigni. In
questa sede, la larva appariva ripiegata su se stessa e completamente circondata da una sottile membrana monolaminare
che la avvolgeva a mo’ di lenzuolo. Tale membrana, a forte ingrandimento, appariva costituita da un fitto reticolo
filamentoso, debolmente elettrondenso, in cui spiccavano strutture stellate di maggiore elettrondensità ed in reciproco
rapporto mediante sottili prolungamenti che, nell’insieme, andavano a costituire il fitto reticolo di cui sopra. In sezioni
trasversali, la larva (di circa 17x13 micron di diametro) era a sua volta rivestita da una cuticola esterna, subito al di sotto
della quale si evidenziavano l’ipoderma ed uno strato muscolare. La cuticola presentava, non sempre distintamente, più
strati a diversa elettrondensità e, quasi per la sua totalità, mostrava delle pieghe costituite da introflessioni superficiali
(interessanti solo lo strato più esterno e lo strato corticale) presentanti una periodicità costante di circa 0,9-1 micron. Lo
strato più esterno della cuticola (epicuticola) appariva molto sottile e fortemente elettrondenso. Al di sotto di questo, era
presente uno strato più spesso ma a elettrondensità minore (strato corticale). Più in profondità, uno strato fibroso (zona
basale) ad elettrondensità leggermente maggiore separava la cuticola dall’ipoderma. In quest’ultimo, si poteva osservare
una striatura trasversale costituita da bande elettrondense fra di loro parallele e intercalate da spazi elettrontrasparenti
con una periodicità di circa 14 nm.
In sezioni trasversali si osservava che, nelle porzioni laterali, alcuni strati della cuticola si sollevavano formando due
pieghe simmetriche, lateralmente al corpo della larva, di circa 3-3,5 micron di altezza (ali laterali).
Il ritrovamento delle uova e/o delle larve nei capillari sanguigni polmonari, nei linfonodi inguinali e nelle feci, ma mai
di adulti nell’albero respiratorio, la misura delle larve insieme alla loro caratteristica spinula caudale dorsale erano, nel
complesso, indicativi del genere Elaphostrongylus (Nematoda, Protostrongylidae). Di supporto all’ipotesi di una
diagnosi di Elaphostrongylus cervi erano anche le osservazioni epidemiologiche che riconoscevano l’origine austriaca e
scozzese della popolazione in esame. In entrambi questi paesi era stata riportata la presenza di tale parassita.
Inoltre, il genere Elaphostrongylus include tre specie: E cervi, E. alces, ed E. rangiferi ognuno dei quali riconosce come
ospite definitivo i ruminanti selvatici. E. rangiferi è parassita naturale della renna, caribù ed alce, ma non del cervo. E.

37
alces è parassita naturale solo di renna ed alce, per cui E. rangiferi ed E. alces riconoscono una specificità nei confronti
di animali diversi dal cervo non presenti in Italia, avvalorando così l’inclusione del parassita nella specie E. cervi.
Per quanto riguarda la microscopia elettronica, mancano studi ultrastrutturali su questo parassita, come pure pochi
risultano essere quelli sulla fine struttura del primo stadio larvale dei nematodi, che possano esserci di aiuto
nell’interpretazione delle nostre osservazioni. In accordo con queste, alcuni Autori hanno descritto, in uno studio
ultrastrutturale su un altro nematode, Toxocara canis, una membrana avvolgente la larva di primo stadio, del tutto
simile a quella da noi osservata ed a cui attribuivano una probabile origine da residui dell’involucro dell’uovo.
Interessante è il nostro dato riguardante la cuticola, costituente non cellulare del rivestimento della larva, che non
mostrava una separazione netta dei suoi strati in tutta la sua lunghezza. A tal riguardo, alcuni ricercatori inglesi, nei loro
studi, suggeriscono di parlare, per i nematodi, di “zone” della cuticola piuttosto che di “strati”.
Le caratteristiche “ali laterali” sono descritte in numerosi generi di nematodi Cystocaulus, Muellerius,
Parelaphostrongylus, Varestrongylus compreso Elaphostrongylus oltre che Ascaris suum e Toxocara canis, ma
purtroppo anche in questi casi non ne viene mai data una descrizione ultrastrutturale.
Si deve concludere affermando che il nostro studio, oltre a segnalare la presenza del nematode Elaphostrongylus cervi
in Italia, ne riporta per la prima volta una descrizione ultrastrutturale delle larve di primo stadio.

I riferimenti bibliografici sono disponibili presso gli Autori.

*Dipartimento di Sanità Pubblica Veterinaria e Patologia Animale, Università Degli Studi di Bologna. Via Tolara di
sopra, 50 – 40064 Ozzano dell’Emilia, Bologna (Italy).
Tel: +39 051 2097954, Fax: +39 051 2097039, e-mail: fmorandi@vet.unibo.it, federicomorandi@yahoo.it.

38
INDAGINE PARASSITOLOGICA IN BOIDAE ALLEVATI IN CATTIVITA’ IN ITALIA
CENTRALE

Matteo Seghetti1*, Donato Traversa2


1
Libero Professionista, Grottammare, Ascoli Piceno
2
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate, Facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo, Piazza Aldo Moro
45, Teramo

Introduzione. L’aumento di interesse nei confronti degli animali cosiddetti “non convenzionali” e in particolare dei
rettili, ha determinato negli ultimi anni un notevole incremento della ricerca veterinaria e, inoltre, competenze sempre
più adeguate e specifiche sono oggi richieste ai liberi professionisti e ai tecnici del settore. Una nicchia non irrilevante,
anche di mercato, tra i rettili, è occupata dai serpenti della Famiglia Boidae, comunemente indicati come boidi; per
questo gruppo di animali non convenzionali, le ricerche sui parassiti vedono impegnate soprattutto le scuole
anglosassoni e nuove e interessanti conoscenze sono disponibili relativamente alla parassitologia di base
(classificazione, morfologia, diffusione ed epidemiologia dei parassiti) e agli aspetti applicativi (e.g. risvolti patogenetici e
clinici, modalità per il conseguimento di una diagnosi corretta, definizione di protocolli terapeutici adeguati). In Italia, dove
sono presenti alcune decine di migliaia di esemplari allevati in cattività, le conoscenze dei medici veterinari relative alle
parassitosi diffuse in questi animali non rispondono ancora in maniera adeguata alle consulenze parassitologiche richieste,
soprattutto a causa sia di una carenza di dati sia alle difficoltà che il libero professionista incontra nel consultare la letteratura
scientifica in medicina erpetologica, Infatti la bibliografia può risultare ingannevole in quanto reperti pseudoparassitari
vengono talvolta riportati come parassiti propri dei serpenti (e.g. Frye, 1991; Klingemberg, 1993). Il presente lavoro ha quindi
l’obiettivo di fornire un contributo alla conoscenza della popolazione parassitaria che nel nostro Paese infesta alcune specie di
Boidi allevati in cattività e, contestualmente, attraverso lo studio dei parassiti presenti nelle colonie di roditori utilizzati per
l’alimentazione degli stessi serpenti, di differenziare tali infestazioni da quelle dovute ai fenomeni di pseudoparassitismo.
Materiali e Metodi. Da settembre 2003 a marzo 2005, 30 esemplari di Boidae, i.e. 10 Boa costrittore (Boa constrictor), 6 di
Pitone reale (Python regius), 6 di Pitone verde (Morelia viridis), n. 5 di Pitone moluro (Python molurus), n. 1 Boa
arcobaleno (Epicrates cenchria), n.1 di Pitone di Seba (Python sebae) e n. 1 Anaconda gialla (Eunectes notaeus), originari
di allevamenti ubicati in Italia, Francia, Germania, Olanda, Polonia e Sud-Est Asiatico e mantenuti in cattività in
Abruzzo e Marche presso negozi o allevamenti (n. 20) o da privati (n. 10) sono stati sottoposti ad esame parassitologico per
la ricerca di endo ed ectoparassiti. Per la ricerca degli endoparassiti campioni individuali di feci sono stati prelevati all’interno
dei terrari mentre per la ricerca degli ectoparassiti ciascun soggetto è stato scrupolosamente ispezionato, e gli esemplari
ritrovati sono stati immersi in etanolo assoluto e trasportati in laboratorio. I campioni fecali, suddivisi in 3 aliquote, sono stati
sottoposti ad esame macroscopico ed ai seguenti esami microscopici: a) esame mediante striscio a fresco con e senza
l’aggiunta di soluzione di Lugol; b) esame per flottazione con soluzione di solfato di zinco (peso specifico 1.200); c) per i
campioni risultati positivi a coccidi, prova di sporulazione con soluzione di dicromato di potassio 2%. Tutti i reperti ritrovati
all’esame coprologico sono stati osservati al microscopio ottico (Zeiss “Axioskop 40”) e identificati seguendo le descrizioni di
Cooper e Jackson (1981), Sprent (1984), Frye (1991), Klingenberg (1993) e Barnard e Upton (1994); gli ectoparassiti sono
stati osservati allo steromicroscopio (Zeiss Stemi SV 6) e identificati seguendo le descrizioni di Frye (1991), Klingenberg
(1993), Jordan (2001) e Rossi (2001). Tutti gli esemplari repertati sono stati fotografati utilizzando un sistema di acquisizione
di immagini Zeiss “Axiocam MrC”. Contestualmente al prelievo di feci del serpente, da n. 60 roditori (Mus musculus- n. 30 e
Rattus norvegicus- n. 30) allevati in colonie e utilizzati per l’alimentazione dei rettili inclusi nell’indagine, sono state prelevate
le feci e campioni di peli e cute. Le feci sono state sottoposte ad esame coprologico utilizzando le stesse metodiche descritte
per i campioni dei serpenti, mentre i campioni di pelo e cute sottoposti ad esame allo stereomicroscopico. I reperti ritrovati
sono stati identificati utilizzando le fonti iconografiche del Research Animal Diagnostic Laboratory - University of Missouri
(http://www.radil.missouri.edu/) e le descrizioni morfologiche di Sloss et al. (1994).
Risultati. L’osservazione macroscopica dei 30 campioni di feci dei serpenti non ha rivelato la presenza di alcun parassita,
mentre 20 dei 30 animali sottoposti ad indagine (66.6%) sono risultati positivi all’esame microscopico qualitativo. In
particolare, diciotto dei 20 serpenti positivi all’esame copromicroscopico (7 esemplari di Boa costrittore, 5 di Pitone moluro, 3
di Pitone reale e 3 di Pitone verde), albergavano uova di Myocoptes musculinus; questi animali sono risultati positivi anche ad
altri parassiti, i.e. 2 Pitoni verdi e 1 Pitone moluro a uova e/o larve appartenenti ai generi Strongyloides spp. e Rhabdias spp., 1
Pitone reale ad uova di Aspiculuris tetraptera, 1 Boa costrittore ad uova di ascaridi del genere Ophidascaris spp.. Inoltre in 1
esemplare di Anaconda gialla sono state ritrovate uova di Syphacia obvelata e di Poliplax spinulosa e in 1 Boa arcobaleno
uova di trematodi non identificabili a livello di specie. Nelle feci di tre serpenti (i.e. Pitone reale, Boa costrittore, Anaconda
gialla) sono state ritrovate anche oocisti di coccidi che, sottoposte alla prova di sporulazione, sono state identificate come
appartenenti al genere Caryospora spp. Per quanto riguarda gli ectoparassiti, l’esame obiettivo particolare della cute dei
serpenti ha rilevato la presenza di ectoparassiti in 11 animali (36.6%), i.e. 7 Boa costrittori, 2 Pitoni reali, 1 Pitone moluro e 1
Pitone verde. Tutti gli ectoparassiti sono stati identificati come acari della specie Ophionyssus natricis. Nei serpenti parassitati
gli acari sono stati ritrovati su tutto il corpo degli animali, con maggior frequenza a livello della testa, sotto le squame dei
fianchi e nella zona del terzo posteriore dell’animale. Per quanto riguarda i roditori, tutti i soggetti sono risultati positivi sia ad

39
endo che ad ectoparassiti. In particolare, nelle feci sono state identificate uova di ossiuridi appartenenti a A. tetraptera e S.
obvelata, mentre sulla cute sono state identificate sia uova di pidocchi (P. spinulosa) sia di acari della specie M. musculinus.
Conclusioni. La presente indagine costituisce il primo contributo alla conoscenza della fauna parassitaria dei serpenti allevati
in cattività in Italia. Dall’analisi dei risultati ottenuti nei boidi e nelle loro prede si può osservare che mentre alcuni parassiti
sono organismi parassitari esclusivamente dei rettili altri sono dovuti esclusivamente a fenomeni di pseudoparassitismo, e.g.
M. musculinus, A. tetraptera e S. obvelata. Tra i reperti parassitari, Strongyloides spp. e Rhabdias spp., risultati i più frequenti,
sono parassiti noti in letteratura, caratterizzati da ciclo biologico diretto, in grado di esercitare una notevole azione patogena
a livello enterico e polmonare, e talvolta la morte del serpente. Ophidascaris, rilevato nella presente indagine, è un ascaride
molto diffuso, responsabile di lesioni gastriche, che compromettono la funzionalità e la motilità dell’intestino medio. Non
è ancora chiaro a tutto’oggi il ciclo biologico di questo parassita, né sono disponibili informazioni dettagliate sui possibili
ospiti intermedi e/o paratenici. Tuttavia, è ipotizzabile che diverse specie di roditori possano albergare stadi immaturi di tali
parassiti, che pertanto possono infestare i serpenti quando essi si nutrono con prede parassitate. Il ritrovamento di uova di
trematodi, dei quali è documentata la loro presenza come gruppo parassitario, sulla base della letteratura disponibile, pone non
pochi problemi di identificazione; la specie di serpente risultata infestata (Boa arcobaleno) si nutre anche di pesci, i quali
possono fungere da ospiti intermedi di questi parassiti. Il rilievo di protozoi appartenenti al genere Caryospora costituisce un
reperto comune nei serpenti mantenuti in cattività, nei quali causano dimagrimento, inappetenza e diarrea spesso
emorragica (Frye, 1991). Per quanto riguarda gli ectoparassiti il rilievo in elevata percentuale (36,6%) di O. natricis,
conferma che questi parassiti sono molto frequenti nei Boidae allevati in cattività nel nostro territorio. Questo dato è di
notevole importanza in quanto questi acari ematofagi sono in grado di causare gravi anemie, reazioni di ipersensibilità e
fenomeni flogistici a carico della cute, come dermatite ad estensione progressiva, cheratiti e panoftalmiti. Gli animali
parassitati possono presentare anche disidratazione, anoressia, letargia e anemia e possono andare incontro a morte
(Gabrisch e Zwart, 1998; Jordan, 2001). Tutti gli animali risultati positivi alle suddette specie di endoparassiti non
presentavano sintomi, presumibilmente a causa della carica parassitaria ridotta, mentre tutti i soggetti con infestazione
da O. natricis mostravano irrequietezza, eccessivo strofinamento su superfici ruvide e aumento del tempo trascorso
nell’acqua, per alleviare il fastidio causato dalla puntura dell’ectoparassita. La gravità dell’infestazione è stata
dimostrata anche dal rilievo degli acari nei terrari, in particolare tra i substrati lignei, sugli arredamenti e sul fondo del
contenitore dell’acqua. L’identificazione sulla cute dei roditori di M. musculinus, acaro responsabile di un’infestazione molto
frequente in questa specie, risulta molto interessante poiché il loro contestuale rilievo nei rettili esaminati conferma che tali
infestazioni nei serpenti esaminati sono non soltanto di derivazione della preda e quindi il risultato di un fenomeno di
pseudoparassitismo ma soprattutto, che non si tratta di ossiuridi parassiti dei rettili, come talvolta erroneamente riportato in
letteratura (Frye, 1991; Klingenberg, 1993). Analogo discorso vale per il rilievo contestuale nelle feci dei roditori, di una
Anaconda gialla e di un Pitone reale, di A. tetraptera e S. obvelata. Si tratta di ossiuridi che infestano esclusivamente i roditori;
i primi, sono spesso riportatI in letteratura come uova di Ophiostrongylus spp. parassita dei serpenti (Frye, 1991) mentre i
secondi, sono spesso confusi con uova di ossiuridi dei rettili appartenenti alla famiglia Pharyngodonidae (Cooper e Jackson
1981). La presenza dei parassiti in serpenti allevati in cattività è attribuibile alla pratica frequente di introdurre, nelle
collezioni e nei negozi, numerosi esemplari di cattura non sottoposti preventivamente a controllo, di porre i soggetti a stretto
contatto tra loro se non addirittura all’interno delle stesse teche quindi a contatto continuativo sia con le proprie feci sia con le
feci degli altri esemplari, di cambiarli continuamente di terrario e non rispettare le norme igieniche, ma soprattutto di non
sottoporre i soggetti di nuovo arrivo al periodo di quarantena. Tali situazioni possono risultare determinanti per la diffusione
dei parassiti se si aggiunge il fatto che spesso gli animali risultano stressati ed indeboliti. Il presente lavoro, oltre a fornire un
primo contributo alla conoscenza dei parassiti che nel nostro Paese infestano i boidi in cattività, dimostra quanto complesso
(difficoltà di arrivare ala diagnosi di specie parassitaria in particolare per gli endoparassiti) e variabile (coesistenza di specie
parassitarie diverse anche eteroxene) sia il quadro parassitologico con cui il libero professionista si confronta quando opera in
campo erpetologico. E’ auspicabile che in questo ambito della parassitologia vengano effettuate ulteriori indagini e un
costante monitoraggio finalizzato ad informare e/o aggiornare il libero professionista sulla popolazione parassitaria che nel
nostro territorio circola tra i rettili in cattività, soprattutto per evitare errori diagnostici e trattamenti farmacologici inutili, quali
quelli effettuati a causa del fenomeno di pseudoparassitismo, che, come dimostra questa indagine, può facilmente fuorviare
l’operatore sanitario.

Bibliografia

Barnard S.M., Upton S.J. 1994. A Veterinary Guide to the Parasites of Reptiles. Volume 1 -Protozoa, Krieger
Publishing, Malabar, Florida, USA.

Cooper J.E., Jackson O.F. 1981. Diseases of Reptilia. Volume 1, Academic Press Inc., London Ltd., UK.

Frye F.L. 1991. Biomedical and surgical aspect of captive reptile husbandry. 1st Edition, Veterinary Medicine
Publishing Co. Inc. Edwardsville, KS, USA.

40
Gabrisch K., Zwart P. 1998. Medicina e Chirurgia dei nuovi animali da compagnia. Volume 3- Anfibi, Rettili e Pesci.
Quarta edizione, UTET pubblicazioni, Torino, Italia.

Jordan C. 2001. Snake Mites. The life cycle of the snake mite, identification and methods of treatment. Published by
www.CJreptiles.com.

Klingenberg R.J. 1993. Understanding Reptile Parasites. A Basic Manual for Herpetocolturist & Veterinarians.
Advanced Vivarium System publishing, Lakeside, CA, USA.

Rossi M. 2001. L’acaro dei serpenti. Rivista pubblica on line, Numero 2, www.serpenti.it.

Sloss M.W., Kemp R.L., Zajac A.M. 1994. Veterinary Clinical Parasitology. 6th Edition, Iowa State University Press,
Ames, Iowa.

Sprent J.F.A. 1984. Ascaridoid Nematodes. In: Diseases of Amphibians and Reptiles. Hoff G.L., Frye F.L., Jacobson
E.R. (Eds). New York, NY, USA.

Indirizzo per la corrispondenza:


Donato Traversa – Facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo – Piazza Aldo Moro 45 – 64100 Teramo. Tel: 0861/266870
Email: dtraversa@unite.it

*Matteo Seghetti Autore presentatore

41
DINAMICA ED ULTRASTRUTURA DI RODLET CELLS IN BRANZINI (Dicentrarchus
labrax L, 1758) SPERIMENTALMENTE ESPOSTI AD UNA TRIAZINA
Maurizio Manera1,*; Luisa Giari2; Edi Simoni2; Bahram S. Dezfuli2
1
Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Unità di Ricerca di Farmacologia e Tossicologia Veterinaria – Università
degli Studi di Teramo; 2Dipartimento di Biologia, Sezione di Anatomia Comparata – Università degli Studi di Ferrara

Introduzione. Le rodlet cells (RCs) sono cellule esclusive dei pesci ossei, ancora non completamente conosciute,
verosimilmente coinvolte nei meccanismi di difesa aspecifici dell’organismo. Sono state rinvenute in diversi organi di
specie marine e d’acqua dolce, prevalentemente negli epiteli. Come già suggerito da ricercatori israeliani, la loro
presenza sembra essere correlata a vari tipi di eventi stressanti (ferite, variazioni osmotiche, infestazione da parassiti,
esposizione a sostanze di varia natura). Il presente studio rientra in una serie di sperimentazioni volte a documentare la
risposta delle RCs in pesci sottoposti ad insulti chimici, basandosi, per la prima volta, su indagini ultrastrutturali e
biometriche. Il branzino (Dicentrarchus labrax L, 1758) è stato scelto come specie modello in quanto autoctona,
largamente allevata, di notevole interesse economico e di riferimento per test di ittiotossicità, come indicato dall’ARPA
Emilia-Romagna e dall’ICRAM. Lo xenobiotico selezionato è la terbutilazina (C9H16ClN5), un composto organico di
sintesi appartenente alla famiglia delle triazine, con potere battericida, alghicida, fungicida ed erbicida, ampiamente
utilizzato nel mondo e rinvenuto frequentemente nelle acque dei canali della Provincia di Ferrara. In letteratura sono
disponibili alcuni studi riguardanti i suoi effetti sui mammiferi e sulla fauna terrestre; per contro limitatissime sono le
informazioni relativamente ai pesci.
Materiali e metodi. Ventinove branzini (media ± e.s.: LS 11.5 ± 0.2 cm; massa 24.2 ± 0.8 g) d’allevamento sono stati
stabulati per due settimane in un acquario della capacità di 200 l, dotato di una pompa della portata di 1000 l h-1,
contenente acqua di mare sintetica a salinità 22. Il fotoperiodo è stato mantenuto in regime naturale e la temperatura
media sui 20 ± 1°C. I pesci sono stati alimentati quotidianamente con mangime artificiale fino al giorno prima
dell’inizio dell’esperimento, che è consistito in un test di tossicità acuta di tipo statico con il fitofarmaco TERB SC
(Terranalisi s. r. l., Cento, FE), a base di Terbutilazina (43.5%). Sono state allestite tre vasche (di polietilene e della
capienza di 20 l ciascuna) con concentrazioni nominali dell'erbicida pari a 3.55 mg l-1 (vasca 1), 5.01 mg l-1 (vasca 2),
7.08 mg l-1 (vasca 3) ed in ciascuna sono stati messi otto branzini. Metà dei pesci sono stati prelevati per la dissezione
dopo 24 ore di esposizione al tossico e la restante metà dopo 48 ore. Dei 24 branzini trattati e di cinque branzini di
controllo (t0), rimasti nell'acquario di stabulazione, sono stati fissati frammenti di branchie, cuore, rene, intestino e
fegato. I campioni istologici destinati all'osservazione al microscopio ottico sono stati fissati in liquido di Bouin per 10
ore circa, disidratati nella serie degli alcoli etilici crescenti ed inclusi in paraffina. Sezioni dello spessore di 5 µm, sono
state tagliate al microtomo rotativo, colorate con Ematossilina-Eosina ed osservate, con l’ausilio di un analizzatore
dell’immagine Nikon Eclipse 80i e di un apposito software (LUCIA G 4.8), per contare il numero delle RCs. Ogni
sezione di branchie, rene e intestino da tre branzini per ciascuna vasca e tempo di campionamento è stata sottoposta al
conteggio in 20 campi di tessuto effettivo scelti in modo random e con un’estensione compresa fra 18000 e 33000 µm2.
I numeri delle RCs sono stati "standardizzati" su un'area media di 25000 µm2 e sottoposti a trasformazione quadratica.
Si è poi preceduto all’elaborazione statistica di tali dati con SPSS (vers. 13.01). L’analisi della varianza (Anova) e test
post hoc (Bonferroni) sono stati applicati per individuare eventuali differenze significative nel numero delle RCs fra i
differenti gruppi sperimentali e tempi di campionamento (α = 0.05). I risultati circa le differenze significative sono stati
confermati applicando l'analisi della covarianza (Ancova), covariando il numero delle cellule contate con l'effettiva area
sottoposta a misura. I campioni per l’indagine ultrastrutturale sono stati fissati in glutaraldeide (2%) per due – tre ore,
lavati in tampone cacodilato (0.1 M, pH 7.2), post-fissati in tetrossido di osmio (1%), lavati nello stesso tampone,
disidratati in soluzioni alcoliche crescenti e quindi inclusi in una miscela di resine Epon-Araldite. Sezioni semifini dei
vari organi inclusi in resina sono state tagliate utilizzando un ultramicrotomo Reichert OmU3 a lame di vetro e colorate
con blu di toluidina (1%). Sezioni ultrafini sono state tagliate con un ultramicrotomo Reichert Ultracut, colorate con
acetato di uranile e citrato di piombo e osservate con un microscopio elettronico a trasmissione, Hitachi H-800.
Risultati e conclusioni. Dinamica. Le RCs sono state osservate solo in tre dei cinque organi prelevati. Esse erano
presenti in branchie, rene (a livello dei tubuli) ed intestino, assenti in cuore e fegato. Il trattamento ha determinato un
incremento progressivo e significativo del numero globale delle RCs al trascorrere del tempo (t0 vs t24; Anova, p< 0.01 –
t24 vs t48; Anova, p< 0.05) (Fig. 1). La concentrazione crescente del tossico ha indotto un aumento delle RCs passando
dal controllo alla vasca 1 (Anova, p< 0.01), dalla vasca 1 alla vasca 2 (Anova, p< 0.01) ma non dalla vasca 2 alla vasca
3 (Anova, p> 0.05) (Fig. 2). Ciascun organo esaminato ha contribuito a questo andamento con una propria specifica
dinamica. Nelle branchie, l’organo che ha mostrato il numero di RCs più basso (a t0 branchie vs intestino; Anova, p<
0.05 – branchie vs rene; Anova, p< 0.01), tali cellule aumentavano numericamente in modo significativo dopo 48 ore di
esposizione (t0-24 vs t48; Anova, p< 0.01); le risposte alle tre diverse concentrazioni dell'erbicida erano contraddittorie,
con il numero di RCs significativamente maggiore nei pesci della vasca intermedia. Nel rene il numero di RCs tendeva
ad aumentare a seguito del trattamento sebbene non tutti i campionamenti e non tutte le vasche abbiano reagito in modo
univoco. Infatti, il numero delle RCs era significativamente maggiore solo nei branzini prelevati a 24 ore (t0 vs t24;
Anova, p< 0.01 – t0 vs t48; Anova, p> 0.05) ed esposti alla concentrazione più bassa (Anova, p< 0.05) e più alta (Anova,

42
p< 0.01). Anche nell'intestino dei branzini trattati si è registrato un aumento delle RCs, con incrementi più drastici e più
lineari rispetto agli altri due organi; si è notato un aumento significativo a seguito dell'esposizione all'erbicida (ctr vs
trattati; Anova, p< 0.01) ed al crescere del tempo di trattamento (t0 vs t24; Anova, p< 0.01 – t24 vs t48; Anova, p< 0.01)
ma non tra le diverse concentrazioni saggiate (vasca 1 vs vasche 2-3 – vasca 2 vs vasca 3; Anova, p> 0.05). L’analisi
della covarianza ha evidenziato che l'area di conteggio delle cellule non ha costituito una sorgente di variabilità
significativa, a supporto della validità dei risultati ottenuti (Ancova, p> 0.05).
1,8 2,0

1,8
1,6

1,6
1,4

1,4

1,2
1,2

1,0
1,0

0,8 0,8

t_0 t_24 t_48 ctr conc_1 conc_2 conc_3

Fig. 1, 2. Medie e 95% C.I. del numero globale (trasformazione quadratica) di RCs in funzione, rispettivamente, del
tempo di esposizione (t0, t24, t48) e della concentrazione dell’erbicida (conc1, conc2, conc3).

Ultrastruttura. Le RCs osservate nei diversi tessuti dei controlli mostravano piccole differenze fra loro, in termini di
forma e dimensioni, in relazione all’organo in cui si trovavano. Tutte, comunque, presentavano la capsula fibrillare
subplasmalemmare, il nucleo basale, alcuni mitocondri con creste intatte e ben definite. La maggior parte del citoplasma
risultava occupato dalle tipiche inclusioni, i rodlets, più o meno allungati, con il core centrale elettron-denso, avvolti da
una membrana dal contorno regolare, strettamente adesa ad essi. In rari casi sono stati visti pochi vacuoli e corpi
mielinoidi nel citoplasma. Nelle branchie dei branzini trattati con la triazina, le RCs presentavano vari fenomeni
degenerativi fra cui un’elevata vacuolizzazione sia delle strutture vescicolari citoplasmatiche sia delle caratteristiche
inclusioni. I rodlets presentavano, inoltre, deformazione della membrana che li avvolge (rodlet sac) e coartazione, con
riduzione e scomparsa della differenziazione tra il core centrale elettron-denso e la restante porzione dell’inclusione. A
dosaggi particolarmente elevati e trascorse 48 ore si manifestava dissoluzione della matrice del rodlet con rottura del
rodlet sac. Un altro frequente quadro patologico rilevato ha interessato i mitocondri spesso assenti o, quando presenti,
variamente degenerati e poveri di creste (cristolisi); al contrario, in cellule a cloruri adiacenti, tali organuli apparivano
del tutto normali. A livello intestinale le RCs si localizzavano preferenzialmente nelle aree di tessuto maggiormente
degenerate ed esibivano vacuolizzazione citoplasmatica, sofferenza dei rodlets ed un’elevata frequenza di corpi
mielinoidi. In quest'organo, e solo nei trattati, tutte le RCs apparivano in attiva fase di espulsione delle loro inclusioni.
Nei tubuli renali le RCs mostravano le medesime lesioni descritte nelle branchie e nell’intestino. Spesso, inoltre, erano
orientate in modo anomalo, essendo disposte perpendicolarmente alle cellule epiteliali del tubulo invece che
parallelamente ad esse. In conclusione, nei branzini le RCs hanno risposto al trattamento con la terbutilazina sia
quantitativamente (con variazioni numeriche nei vari organi) che qualitativamente (con cambiamenti ultrastrutturali).
Sulla base di questa sperimentazione e di alcune segnalazioni in letteratura dette cellule si candidano come potenziali
nuovi biomarcatori, aspecifici ma sensibili, dell’esposizione a stressori e/o xenobiotici. Modificazioni del numero e
della morfologia di queste cellule potrebbero essere usate in associazione ad altri biomarcatori (es: aggregati di
macrofagi, lesioni istopatologiche) per monitorare lo stato di salute dei pesci in rapporto all’ambiente in cui vivono.

*Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Unità di Ricerca di Farmacologia e Tossicologia Veterinaria. Facoltà di
Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Teramo. Viale F. Crispi, 212. I-64100 Teramo. Italy.
Tel: +39 0861 266964, Fax: +39 0861 266987, e-mail: mmanera@unite.it

43
PRESENZA DI POLICLOROBIFENILI (PCBS) E DI PESTICIDI ORGANOCLORURATI
(DDTS) IN TESSUTI DI CARETTA CARETTA (LINNAEUS, 1758) PROVENIENTI DAL
MAR ADRIATICO

Monia Perugini1*; V. Olivieri2; S. Guccione3; A. Giammarino1; M. Manera1; G. Crescenzo4; O.R Lai4; M.Amorena1
1
Dipartimento di Scienze degli Alimenti – Università degli Studi di Teramo; 2D.R Struttura Semplice Igiene e Controllo
Veterinario Prodotti della pesca ASL Pescara; 3Biologo l.p. Pescara; 4Dipartimento di Sanità e benessere degli
Animali-Università degli Studi di Bari.
Introduzione. Caretta caretta (Linnaeus, 1758) o tartaruga comune è la tartaruga marina più comune del Mar
Mediterraneo. Sono animali perfettamente adattati alla vita acquatica grazie alla forma allungata del corpo ricoperto da
un robusto carapace ed alla presenza di arti molto sviluppati, specie gli anteriori, muniti di due unghie che negli
individui adulti si riducono ad una. La testa è grande, con il rostro molto incurvato. Come tutti i rettili, hanno sangue
freddo e prediligono le acque temperate della Grecia, della Turchia e quelle delle coste dell’Africa del Nord,
spingendosi anche in Adriatico. Trascorrono la maggior parte della loro vita in mare profondo, tornando di tanto in
tanto in superficie per respirare aria, essendo dotate di polmoni. Sono animali molto longevi ed onnivori: si nutrono di
molluschi, crostacei, gasteropodi, echinodermi, pesci e meduse. Sono specie sensibili alle alterazioni ambientali
soprattutto perché, per le loro caratteristiche ecologiche si collocano all’apice della catena trofica. Sono considerate una
specie in estinzione: protette in Italia dalla Legge 156 del 9 giugno 1980, presenti in Appendice I CITES (Convention
on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora), in Appendice I e II del CMS (Convention on
the Conservation of the Migrator Species of Wild Animals), nella lista delle specie protette della convenzione di
Barcellona (Convention on the Protection of the Mediterraneum Sea from Pollution), in Appendice II Convenzione di
Berna e sono considerate ‘threatened’ secondo l’U.S.A. Endangered Species Act. Il pericolo di estinzione di queste
specie è legato non solo a fattori di minaccia naturale ma anche a fattori di minaccia antropici. Le informazioni sugli
effetti tossicologici degli inquinanti, ed in particolare dei policlorobifenili (PCBs) e degli organoclorurati (OCs), sulle
tartarughe marine sono scarse, anche se, dal punto di vista scientifico, non bisogna dimenticare che inquinamento e
patologie ad esso correlate sono riconosciute come concause di molti spiaggiamenti. Inoltre, anche se Caretta, per le
sue abitudini migratorie non può essere utilizzata come valido un bioindicatore, sicuramente rimane una specie
interessante per studiare il bioaccumulo di queste classi di inquinanti nell’ecosistema acquatico. Con il seguente studio è
stata valutata la presenza di sette PCBs (IUPAC n. 28, 52, 101, 118, 138, 153, 180) e DDTs (p,p’-DDE, p,p’-DDD,
p,p’-DDT e o,p’-DDT) ampiamente utilizzati negli anni passati ed ancora presenti in ambiente acquatico in campioni di
fegato, muscolo e tessuto adiposo provenienti da 11 esemplari di tartaruga comune (Caretta caretta) spiaggiati lungo le
coste dell’Adriatico centro meridionale.
Materiali e metodi. I campioni di tartaruga sono stati forniti dal Centro Studi Cetacei, fatta eccezione per i primi 4
esemplari provenienti dalla Facoltà di Bari. Le analisi sono state condotte su fegato, muscolo pettorale e tessuto adiposo
per un totale di 11 tartarughe analizzate. La maggior parte di queste sono state ritrovate morte in seguito ad incidenti di
pesca o spiaggiamenti durante il biennio 2003-2004. Per 2 esemplari non è stato possibile procedere al prelievo del
tessuto adiposo, in quanto gli esemplari erano particolarmente defedati. L’estrazione dei composti clorurati è stata
effettuata in ASE e la purificazione tramite aggiunta di acido solforico concentrato. Le determinazioni analitiche sono
state effettuate in GC-MS ad IE (Shimadzu GC-MS QP 5000 con autoiniettore Shimadzu AOC-20i) con colonna
capillare Zebron ZB-5 30m, 0.25mm ID, film 0.25µm. La lettura è stata condotta in SIM impostando uno ione
diagnostico ed uno di conferma. La valutazione quantitativa è stata effettuata con il metodo dello standard interno (PCB
180 marcato). I dati ottenuti sono stati sottoposti ad analisi statistica con SPSS 13.0.1 (SPSS Inc., Chicago, IL, USA).
La normalità dei dati è stata valutata con il test di Kolmogorov-Smirnov. Non essendo i dati normalmente distribuiti è
stato utilizzato il test di H. Kruskal-Wallis. Inoltre, considerando la natura dipendente dei campioni è stato utilizzato
anche il test di Friedman. Le correlazioni sono state valutate con il test di Spearman.
Risultati e conclusioni. Nella figura 1 vengono riportati i risultati ottenuti. Il p,p’-DDE ha riportato le concentrazioni
più alte in tutti i tessuti analizzati. Le concentrazioni più elevate sono state rinvenute nel grasso (p < 0,01), fegato e
muscolo (ng/g fresco). Nonostante Caretta, sia conosciuta per le sue abitudini migratorie e quindi non risulta idonea
come indicatore di inquinamento di una determinata area geografica sono state trovate differenze statisticamente
significative tra le concentrazioni di DDTs nei campioni provenienti dal basso e dal medio Adriatico (p < 0,01). In
particolare, i soggetti provenienti dal Sud Adriatico hanno riportato concentrazioni più elevate di DDE e DDT, rispetto
a quelli provenienti dall’Adriatico centrale, e, sono stati gli unici soggetti in cui è stata accertata la presenza di p,p’-
DDT e o,p’-DDT. Mentre è giustificabile una presenza di metaboliti, quali p,p’-DDE e p,p’-DDD, si potrebbe
presumere che la presenza dei DDTs sia invece legata alle abitudini migratorie delle tartarughe e magari alla presenza di
aree di foraggiamento dislocate nelle vicinanze di paesi in via di sviluppo in cui l’utilizzo di questi insetticidi è ancora
consentito. Non è stata rinvenuta alcuna correlazione significativa tra le concentrazioni di p,p’-DDE e p,p’-DDT e la
lunghezza del carapace delle tartarughe (p>0,05).

44
2500 300

grasso

2000
* fresco 250

200
1500
ng/g

ng/g
150

1000
100

500
50

0 0
DDE Sud DDE centro DDTs Sud DDTs centro PCBs Sud PCBs centro

Figura 1. Concentrazioni di OCs e PCBs riscontrate negli esemplari provenienti dal Sud Adriatico e medio Adriatico (*
p< 0,01).

Dei 7 congeneri di PCBs ricercati il PCB 118, diossino-simile è stato rinvenuto in tutti i campioni mentre i congeneri
meno clorurati, il PCB 28, il PCB 52 ed il PCB 101 sono risultati sempre al di sotto del limite di sensibilità analitica.
Per i PCBs non è stata trovata alcuna differenza statisticamente significativa tra i campioni del medio e quelli del sud
Adriatico (p > 0,05). Il grasso ha riportato le concentrazioni più elevate, seguito dal fegato e dal muscolo, anche se
differenze statisticamente significative sono state riscontrate solo per i valori espressi sul fresco (p < 0,05). Non è stata
rinvenuta alcuna correlazione significativa né tra il totale dei PCBs e la lunghezza del carapace delle tartarughe, né tra
le concentrazioni totali dei DDTs e quelle dei PCBs (p>0,05). La presenza di PCBs e di p,p’-DDE negli esemplari
analizzati sottolinea una distribuzione ubiquitaria di questa categoria di inquinanti nel mar Adriatico ma purtroppo,
anche se PCBs e OCs sono classificati come degli “endocrine disrupters” non sono ancora ben noti gli effetti nelle
tartarughe, che sembrerebbero essere particolarmente resistenti, soprattutto nei periodi di abbondanza di cibo in cui
questi inquinanti vengono “sequestrati” a livello adiposo rimanendo inerti.

*Dipartimento di Scienze degli Alimenti. Facoltà di Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Teramo. Viale F.
Crispi, 212. I-64100 Teramo. Italy.
Tel: +39 0861 266964, Fax: +39 0861 266987, e-mail: mperugini@unite.it

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INDAGINE SULLA PRESENZA DI IDROCARBURI POLICICLICI AROMATICI AD
ALTO PESO MOLECOLARE IN SGOMBRI (SCOMBER SCOMBRUS L, 1758) E NASELLI
(MERLUCCIUS MERLUCCIUS L, 1758) PROVENIENTI DAL MEDIO ADRIATICO

Pierina Visciano1*; Monia Perugini1; Michele Amorena1; Alberto Vergara1; Adriana Ianieri2
1
Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università degli Studi di Teramo; 2Dipartimento di Produzioni Animali,
Biotecnologie Veterinarie, Qualità e Sicurezza degli Alimenti, Università degli Studi di Parma

Introduzione. La consapevolezza che la contaminazione delle coste e dei mari può avere effetti negativi sulle risorse
naturali, sulla salute umana e sugli interessi legati allo sfruttamento di queste aree giustifica le ricerche sulla presenza
degli Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) nell’ambiente marino in quanto questi composti rappresentano i maggiori
contaminanti degli oceani. La loro immissione nell’ambiente acquatico può avvenire attraverso diverse fonti: la capacità
di alcuni organismi marini di biosintetizzarli, il rilascio attraverso infiltrazioni geologiche sottomarine e costiere, la
ricaduta atmosferica in conseguenza di incendi di foreste ed altri processi geochimici, anche se la fonte di immissione
più rappresentativa è legata alla combustione incompleta di materiale organico durante le attività industriali quali la
raffinazione del petrolio, la produzione dell’alluminio, dell’acciaio o la conservazione del legno con creosoto.
Le proprietà mutagene e cancerogene attribuite a molecole quali l’antracene, il benzo(a)pirene e il
dibenzo(a,h)antracene rendono il loro studio di particolare interesse scientifico. In particolare, le reazioni metaboliche
di biotrasformazione determinano l’attivazione delle molecole di IPA, con conseguente sintesi di composti dioici ed
epossidici. Questi composti, altamente reattivi, sono in grado di legarsi a proteine, DNA ed altre molecole endogene,
causando diversi effetti tossici, tra i quali la genotossicità. Non meno importante è l’azione distruttiva svolta dagli IPA
sul sistema endocrino che si espleta mediante l’interazione con il recettore aril-idrocarburo (AhR). Il loro carattere
idrofobico, l’elevata affinità per il carbonio organico presente nei sedimenti e la scarsa biodegradabilità ne determinano
l’accumulo negli organismi marini.
Gli idrocarburi accumulati dai pesci sono assorbiti con i lipidi della dieta a livello intestinale o assunti direttamente
dall’acqua attraverso le branchie. Il loro grado di concentrazione nei tessuti varia in funzione della percentuale lipidica e
del metabolismo delle diverse specie. Considerato che nei pesci gli IPA vengono assorbiti con intensità crescente
all’aumentare del numero di anelli aromatici condensati e dei gruppi alchilici sostituiti, lo scopo del lavoro, che si
inserisce in un progetto cofinanziato PRIN 2002 sulla contaminazione da xenobiotici in specie ittiche del mar
Mediterraneo, è stato quello di valutare la distribuzione di benzo(b)fluorantene (BbF), benzo(k)fluorantene (BkF),
benzo(ghi)perilene (BghiP), benzo(a)pirene (BaP), fluorantene (F) and indeno(1,2,3-cd)pirene (IP) in due specie ittiche
(sgombro e nasello) a diverso contenuto lipidico.
Materiali e metodi. Campioni di sgombro (Scomber scombrus, n = 14) e campioni di nasello (Merluccius merluccius, n
= 14) provenienti dal mar Adriatico, pescati a 40 miglia dalla costa di Pescara (42°-40'-67'' Nord e 14°-38'-05'' Est),
sono stati prelevati nel giugno del 2004. Il contenuto lipidico di ciascuna specie è stato determinato mediante ASE
(Accelerated Solvent Extraction). La determinazione degli IPA è stata effettuata sul muscolo (2 g) mediante
saponificazione dei grassi con soluzione etanolica di KOH 1M, estrazione con cicloesano (x 2) e la purificazione è stata
condotta su cartucce ODS per SPE (Solid Phase Extraction). L’analisi quantitativa è stata effettuata in HPLC mediante
detector fluorimetrico (Varian) su colonna C18 (Envirosep-pp, Phenomenex), con le seguenti condizioni
cromatografiche: eluizione a gradiente (A: acetonitrile, B: acqua; 0 min: 65 % A, 35 % B; 9 min: 100 % A; 25 min: 65
% A, 35 % B), volume di iniezione 20 µl e flusso 1ml/min. Per la determinazione quantitativa dei singoli composti è
stato utilizzato il metodo dello standard esterno (PAH mix 38, Dr. Ehrenstorfer Laboratories). I recuperi sono stati del
70-110 % con relativa deviazione standard del 5-15 %. I limiti di determinazione del metodo oscillavano da 0,05 a 0,25
µg kg-1.
L’elaborazione statistica è stata effettuata con SPSS 13.0.1 (SPSS Inc., Chicago, IL, USA). La normalità dei dati è stata
valutata con il test di Kolmogorov-Smirnov. Non essendo i dati distribuiti normalmente, è stato utilizzato il test di H
Kruskal-Wallis.
Risultati e conclusioni. I risultati sono riportati nella Figura 1. I composti BaP, BghiP e IP sono risultati sempre al di
sotto dei limiti di determinazione del metodo. I valori medi di BbF, BkF e F sono stati rispettivamente di 0,24 – 0,31 e
7,46 µg kg-1 nel nasello e inferiori al limite di determinazione – 0,05 e 1,37 µg kg-1 nello sgombro. Per tutti e tre i
composti l’elaborazione statistica dei dati ha mostrato una differenza statisticamente significativa (p < 0,01) tra le due
specie esaminate. Questa differenza potrebbe trovare una giustificazione nel fatto che le specie con un alto contenuto
lipidico nel fegato accumulano gli IPA in quantità maggiori in questo organo rispetto al muscolo. Si può pertanto
ipotizzare che i livelli inferiori di IPA riscontrati nel muscolo dello sgombro siano legati al loro maggiore accumulo a
livello epatico. Nella presente indagine non è stato possibile tuttavia valutare le concentrazioni di IPA nel fegato, in
quanto i campioni erano stati già eviscerati a bordo dei pescherecci.
Da quanto detto si evince che la diversa distribuzione degli IPA nei tessuti dei pesci rappresenti un elemento in grado di
influenzare l’intake giornaliero di questi composti. Da sottolineare che secondo la normativa vigente la presenza di IPA
nei prodotti della pesca risulta regolamentata esclusivamente per il BaP, per il quale è stato fissato un limite massimo
consentito di 2 µg/kg nel prodotto fresco (Regolamento 208/2005/CE). Tale composto è risultato sempre al di sotto del
limite di determinazione del metodo.

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BbF
BkF
F
8 PAHs Sum

0
Merluccius merluccius Scomber scombrus

Figura 1. Concentrazioni (µg kg-1) di BbF, BkF, F e IPA totali espresse sul tal quale nello sgombro e nel nasello (media
± errore standard).

*Dipartimento di Scienze degli Alimenti. Facoltà di Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Teramo. Piazza
Aldo Moro, 45. I-64100 Teramo. Italy.
Tel: +39 0861 266886, Fax: +39 0861 266887, e-mail: pvisciano@unite.it

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INSUFFICIENZA MITRALICA IN UN LUPO CECOSLOVACCO
Carlo Guglielmini*, Carla Civitella, Flavio Valerio, Alessia Luciani.
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo

Introduzione. Nella categoria dei cosiddetti nuovi animali da compagnia si considerano sia animali francamente
selvatici, sia soggetti derivanti dall’incrocio tra selvatici e domestici. Tra questi ultimi, possiamo comprendere il lupo
cecoslovacco, una relativamente nuova razza di canide derivante dall’incrocio tra il lupo dei Carpazi (Canis lupus) e il
cane domestico (Canis lupus familiaris), in particolare soggetti di razza pastore tedesco. Scarse sono, al momento
attuale, le conoscenze circa le malattie cui questi animali possono andare incontro. Questo deriva in parte dalla loro
ancora limitata diffusione, ma soprattutto dalla difficoltà a eseguire in maniera accurata indagini diagnostiche
approfondite, stante la natura selvatica dei soggetti, che spesso impone l’uso di sedazione o anestesia generale per poter
compiere anche le più semplici manualità cliniche.
Nella presente nota abbiamo voluto descrivere l’applicazione di un protocollo diagnostico cardiologico approfondito per
la diagnosi d’insufficienza mitralica in un lupo cecoslovacco recentemente occorso alla nostra attenzione.
Materiali e Metodi. E’ stato sottoposto a visita di consulenza cardiologica un lupo cecoslovacco femmina di 4 anni di
età e peso corporeo pari a 29 kg sulla base del rilievo, da parte del veterinario curante, di un soffio cardiaco
apparentemente insorto da qualche mese. All’esame fisico il soggetto si presentava in buone condizioni generali e
l’unico rilievo era costituito dalla presenza di un soffio sistolico di II-III/VI grado e massima intensità alla punta del
cuore sinistra. La frequenza cardiaca a riposo era pari a 98 battiti al minuto con marcata aritmia respiratoria. I successivi
approfondimenti diagnostici, esame elettrocardiografico (ECG), esame radiografico del torace secondo due proiezioni
ortogonali (latero-laterale sinistra-destra e sagittale ventro-dorsale), esame ecocardiografico completo (2D e M-mode)
ed eco-Doppler (spettrale e a codice di colore), sono stati condotti nell’animale in stato di sedazione, data la scarsa
tolleranza del soggetto alle manualità necessarie per eseguire tali esami. Allo scopo di produrre una condizione di
immobilità e indifferenza agli stimoli è stato utilizzato un protocollo farmacologico a base di acepromazina maleato (10
µg/kg), butorfanolo tartrato (0,2 mg/kg), ketamina cloridrato (2 mg/kg) e medetomidina cloridrato (3 µg/kg)
somministrati per via intramuscolare. Una volta stabilito l’accesso venoso è stata avviata un’infusione continua a base
di propofol alla velocità di 0,025-0,05 mg/kg/min. Nel corso della procedura è stato somministrato ossigeno mediante
maschera facciale alla velocità di 5 l/min ed è stata infusa una soluzione di Ringer lattato alla velocità di 5 ml/kg/h. Il
monitoraggio strumentale del paziente ha previsto il rilievo continuo del tracciato elettrocardiografico, della pressione
arteriosa con metodo oscillometrico e della temperatura corporea mediante sonda rettale. Durante anestesia, è stata
rilevata una frequenza cardiaca di 35-45 bpm con valori più bassi all’inizio della procedura; la pressione arteriosa è
rimasta costante con valori medi di circa 125/50/70 mm Hg (sistolica/diastolica/media). A fine procedura la temperatura
corporea ha raggiunto i 37°C.
Risultati e Conclusioni. Aritmia sinusale con frequenza cardiaca pari a 40 bpm associata a frequenti blocchi atrio-
ventricolari (AV) di II grado e intervallo P-Q variabile da 190 a 210 msec (blocco A-V di I grado) è stata osservata
all’esame ECG. Tali disturbi di formazione e di conduzione dello stimolo sono verosimilmente imputabili all’effetto
dromotropo e cronotropo negativo dell’insieme di farmaci impiegati per l’immobilizzazione dell’animale. La
morfologia e la durata dei complessi P-QRS-T non hanno mostrato differenze rispetto a quelle osservate nel cane
domestico. La radiografia del torace ha evidenziato un ingrandimento atriale sinistro di grado lieve. La misurazione
delle dimensioni complessive dell’ombra cardiaca secondo la scala vertebrale (Vertebral Scale System, VHS) ha fornito
un valore di VHS pari a 10, considerato normale nel cane.
All’esame ecocardiografico 2D è stata evidenziata la presenza di ipertrofia concentrica ventricolare sinistra associata
dilatazione atriale sinistra di grado lieve (rapporto atrio sinistro:aorta = 1,9). Non sono risultate apprezzabili alterazioni
morfologiche a carico delle valvole cardiache. Le misurazioni M-mode delle pareti e della cavità del ventricolo sinistro
hanno evidenziato spessori parietali superiori e diametri cavitari inferiori, tanto in sistole che in diastole, rispetto ai
valori riportati in letteratura sia in cani di pari peso e somatotipo simile7 sia in esemplari di lupo grigio.4 La contrattilità
ventricolare sinistra è risultata apparentemente nella norma (frazione d’accorciamento = 43%). L’esame Doppler ha
rivelato flussi laminari bifasici in fase diastolica attraverso le valve atrio-ventricolari e flussi laminari sistolici attraverso
le valvole semilunari, con velocità paragonabili a quelle riportate in letteratura in cani sani.6 E’ stato osservato reflusso
trans-mitralico sia in fase telediastolica (lieve reflusso a bassa velocità conseguente alla contrazione atriale con
ventricolo sinistro massimamente riempito) sia in fase sistolica (reflusso moderato-grave ad elevata velocità secondario
a insufficienza mitralica primitiva).
La diagnosi definitiva è stata quindi insufficienza mitralica primitiva associata a lieve dilatazione atriale sinistra.
L’insufficienza mitralica rappresenta la turba emodinamica di più frequente riscontro nei carnivori domestici. Tale
alterazione può derivare da malattie congenite o acquisite che colpiscono il complesso della valva mitralica costituito
da: lembi valvolari, anulus valvolare d’impianto degli stessi, corde tendinee e muscoli papillari. La malattia
degenerativa cronica della valva mitralica è la cardiopatia di più frequente riscontro nella specie canina e colpisce
prevalentemente soggetti di media-tarda età appartenenti a razze di taglia medio-piccola.5 In questi soggetti la malattia
ha decorso generalmente lento con possibile comparsa di segni d’insufficienza cardiaca anche a distanza di anni dalla
prima comparsa del soffio sistolico indicativo di rigurgito mitralico. In tempi recenti attenzione crescente è stata rivolta
alla caratterizzazione di forme d’insufficienza mitralica che colpiscono soggetti appartenenti a razze di taglia grande e,

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tra queste, il pastore tedesco.1,2 In questi animali, l’insufficienza mitralica si presenta con peculiari caratteristiche
sintomatologiche e rilievi diagnostici collaterali rispetto a quanto osservato nei cani di piccola taglia. In particolare, nei
pastori tedeschi non si osservano, all’esame ecocardiografico marcate alterazioni morfologiche (ispessimento e
iperecogenicità) e funzionali (prolasso sistolico) dei lembi valvolari mitralici nonostante la presenza di rigurgito
mitralico significativo.2 Tali aspetti inducono a ritenere che l’eziologia dell’insufficienza mitralica dei cani di grossa
taglia possa essere diversa dalla forma di degenerazione valvolare mixomatosa, tipica dei cani di piccola taglia. Nel
lupo cecoslovacco qui descritto il quadro ecocardiografico osservato ha presentato diverse analogie con quanto descritto
nell’insufficienza mitralica del pastore tedesco (rigurgito mitralico significativo in assenza di evidenti alterazioni a
carico del complesso valvolare mitralico). Rilievi simili erano stati da noi precedentemente documentati anche in un
lupo artico con insufficienza mitralica.3 Nel soggetto qui descritto si è osservata dilatazione atriale sinistra di grado lieve
in conseguenza del sovraccarico volumetrico indotto dal rigurgito mitralico, mentre le misurazioni ecocardiografiche
della cavità ventricolare sinistra hanno presentato valori inferiori a quanto riportato in cani di pari peso o ancora in
esemplari di lupo grigio. Di converso, gli spessori parietali hanno mostrato valori superiori a quelli riportati nei
sopraccitati canidi, con contrattilità ventricolare sinistra apparentemente normale pur in soggetto sottoposto a sedazione
profonda.
In conclusione l’insufficienza mitralica si conferma alterazione assai frequente nei canidi, tanto domestici che selvatici.
La forma osservata nel lupo cecoslovacco qui descritto presenta alcune analogie con quanto riportato nei cani di razza
pastore tedesco.

Bibliografia
1. Borgarelli M., Zini E. Insufficienza mitralica primaria in 2 cani di razza pastore tedesco. Veterinaria 2002, 16
(3):95-100.
2. Borgarelli M., Zini E., D’Agnolo G., et al. Comparison of primary mitral valve disease in German Shepherd
dogs and in small breeds. J. Vet. Cardiol. 2004, 6: 25-32.
3. Guglielmini C., Rocconi F., Brugnola L., et al. Mitral insufficiency in an arctic wolf. Vet. Res. Commun. 2004,
28 (Suppl 1):347-349.
4. Guglielmini C., Rocconi F., Brugnola L., et al. Echocardiographic and Doppler echocardiographic findings in
11 wolves (Canis lupus). Vet. Rec. 2006, 158: 125-129.
5. Häggström J., Kvart C., Pedersen H.D. Acquired valvular heart disease. In: Textbook of Veterinary Internal
Medicine, sixth ed. (2005), pp. 1022-1039.
6. Kirberger R. M., Bland-Van Den Berg, P. & Darazs, B. Doppler echocardiography in the normal dog: Part I.
Velocity findings and flow patterns. Vet. Radiol. Ultrasound 1992, 33, 370-379.
7. Morrison S. A., Moïse N. S., Scarlett, J., et al. Effect of breed and body weight on echocardiographic values in
four breeds of dogs of differing somatotype. J. Vet. Intern. Med. 1992, 6: 220-224.

*Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo. Viale Crispi 212, 64100 Teramo.
Italy. Tel.: +39 0861 266976, Fax: +39 0861 266962, e-mail: cguglielmini@unite.it.

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VALUTAZIONE DELL’ESAME NEUROLOGICO NEI NUOVI PETS: DESCRIZIONE DI
UN CASO DI PARAPARESI IN UNA CAVIA E IN UN FURETTO
Valentina Papa*, Roberta Catini, Antonio De Simone, Massimo Mariscoli
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie- Università degli Studi di Teramo

Introduzione
La neurologia applicata alla clinica dei piccoli animali ha assunto, soprattutto negli ultimi anni, un ruolo sempre più
rilevante. Ciononostante l’approccio clinico agli animali non convenzionali con patologie neurologiche risulta alquanto
limitato. Esistono, infatti, scarse segnalazioni inerenti specifiche patologie del sistema nervoso, mentre in bibliografia
mancano pubblicazioni che possano indicare al clinico, che non sempre si occupa in maniera specialistica di neurologia,
come effettuare ed interpretare l’esame neurologico nei cosiddetti nuovi pets. Prendendo spunto dall’esame clinico di
una cavia e di un furetto condotti a visita per difficoltà nella deambulazione a carico degli arti posteriori viene discussa
l’esecuzione e l’interpretazione della visita neurologica nelle specie non convenzionali.
Materiali e metodi
Caso 1
Una cavia femmina, di circa 10 mesi e di peso corporeo pari a 550 grammi è stata esaminata per disturbi della
deambulazione ad insorgenza acuta e decorso non progressivo. Il soggetto viveva prevalentemente in gabbia, sebbene
talvolta venisse lasciato libero ed incustodito. All’esame clinico non si riscontravano alterazioni degne di nota. L’esame
neurologico evidenziava paraparesi di grado elevato, atassia spinale e marcata cifosi toraco-lombare. Si osservava un
ritardo nel riposizionamento propriocettivo negli arti posteriori rispetto agli anteriori e la spinta posturale estensoria
risultava anormale in entrambi gli arti. L’animale non mostrava esitazioni nell’esecuzione della carriola con visione,
mentre quella effettuata con la testa estesa risultava di difficile interpretazione. Il riflesso flessorio, evocato attraverso
applicazione di uno stimolo a livello dei cuscinetti palmari e plantari, determinava la completa flessione nei rispettivi
arti anteriori e posteriori, risultando quindi nella norma. I riflessi patellare, tibiale craniale ed estensore radiale del carpo
erano evocabili, sebbene risultassero di difficile interpretazione. Il riflesso pannicolare era assente in tutto il tratto
toraco-lombare. Non si osservavano alterazione dello stato del sensorio e deficit dei nervi cranici. I riscontri clinici
erano compatibili con una localizzazione neuroanatomica riferibile a lesione toraco-lombare (segmenti spinali T3-L3).
Le possibili diagnosi differenziali di paraparesi ad insorgenza acuta includono patologie vascolari, infiammatorie–
infettive, traumatiche e neoplastiche (1). Il nostro protocollo diagnostico prevedeva esami ematobiochimici, esame
radiografico diretto del rachide toraco-lombare ed eventuale mielografia. L’esame emocromocitometrico non mostrava
alterazioni significative. Il limitato quantitativo di sangue che è possibile prelevare in questa specie non è stato
sufficiente per effettuare un esame biochimico completo. Per tale motivo è stato valutata esclusivamente la glicemia 98
mg/dl, tramite microematocrito, il PCV (packed cell volume) (40%) e le proteine sieriche totali (5.1 gr/dl) che
risultavano nella norma.
L’esame radiografico del rachide, effettuato in proiezione latero-laterale e sagittale, ha evidenziato la presenza di
fratture vertebrali multiple a livello di corpi vertebrali di T9 e L1 e lussazione T8-T9.
È stato proposto ai proprietari di effettuare una mielografia con inoculo di mezzo di contrasto iodato a livello lombare
per valutare il grado di compressione midollare e per valutare la possibilità di una eventuale stabilizzazione chirurgica
del sito di lussazione. I proprietari hanno deciso di non proseguire nell’iter diagnostico. È stato intrapresa una terapia
conservativa che includeva la somministrazione di un farmaco antinfiammatorio (carprofen 2 mg/Kg SID SC per 3
giorni) e riposo in gabbia per 3 settimane. Il follow-up eseguito a 6 settimane ha evidenziato un miglioramento clinico
del soggetto seppure permanesse lieve paraparesi e cifosi.

Caso 2
Un furetto maschio albino di 5 anni di età e di peso pari a 1.100 Kg è stato condotto a visita presso la nostra struttura
poiché, da circa 3 settimane, presentava difficoltà nella deambulazione ad insorgenza acuta e decorso progressivo. Il
soggetto, regolarmente vaccinato, viveva prevalentemente libero in appartamento. All’esame clinico non si
riscontravano alterazioni significative. L’esame neurologico evidenziava grave paraparesi, ipotrofia della muscolatura
degli arti posteriori e cifosi toraco-lombare. Il riposizionamento propriocettivo, effettuato ponendo l’estremità distale
degli arti sul dorso, risultava assente in entrambi gli arti posteriori.
La spinta posturale estensoria viene effettuata sollevando il paziente per il torace in maniera che gli arti non tocchino il
suolo. Durante la fase del sollevamento si osserva la lieve estensione degli arti posteriori che tende ad aumentare
progressivamente avvicinando l’animale al suolo, nella successiva fase di appoggio il soggetto effettua alcuni passi
all’indietro. Questa risposta alla reazione risultava alterata nel soggetto in esame, soprattutto a carico dell’arto sinistro.
Il riflesso patellare, tibiale craniale e il flessore degli arti posteriori, così come l’estensore radiale del carpo e il flessore
per gli anteriori risultavano normali. La carriola con visione risultava nella norma, mentre effettuando la stessa reazione
mantenendo il collo dell’animale esteso si osservava marcata riluttanza al movimento. Il saltellamento negli arti
anteriori risultava normale.
Il riflesso pannicolare era assente caudalmente a L1-L2 e la sensibilità dolorifica, superficiale e profonda, risultava nella
norma. Non si osservavano alterazioni dei nervi cranici. La sintomatologia clinica era quindi riferibile ad una
localizzazione toraco-lombare e la diagnosi differenziale comprendeva patologie di natura traumatica, degenerativa e

50
neoplastica(2-4).L’esame radiografico del rachide ha evidenziato una marcata diminuzione dello spazio intervertebrale di
L1-L2. Il quadro radiologico era riferibile ad ernia discale L1–L2. Il soggetto è stato sottoposto ad anestesia generale
utilizzando un’associazione di butorfanolo 0.1 mg/Kg e midazolam 0.1 mg/Kg per via intramuscolare. Una volta
stabilito l’accesso venoso, l’anestesia è stata indotta con propofol 4 mg/Kg e mantenuta con isofluorano in miscela di
ossigeno puro. Si è quindi proceduto all’inoculo di mezzo di contrasto iodato (Iopamiro 300 2 ml/kg) a livello lombare
(L5-L6). L’esame mielografico ha evidenziato una compressione midollare extradurale con marcata lateralizzazione a
sinistra in corrispondenza dello spazio intervertebrale L1-L2.
La risoluzione chirurgica della compressione midollare è stata ottenuta mediante emilaminectomia sinistra. All’esame
visivo il midollo spinale appariva di forma, colore e dimensioni normali. Nel periodo postoperatorio il soggetto è stato
trattato con prednisolone 2 mg/Kg BID per via sottocutanea, ranitidina 1 mg/Kg BID per via orale e amoxicillina e
acido clavulanico 10 mg/Kg BID per via orale. E’ stato inoltre intrapreso un programma di fisioterapia intensiva che
includeva la flesso-estensione passiva degli arti, massaggi alla muscolatura assiale e degli arti, esercizi di riabilitazione
propriocettiva e nuoto. Durante i primi 5 giorni post-operatori il soggetto ha manifestato un marcato miglioramento
della funzione motoria e al follow-up eseguito a distanza di 6 mesi presentava un lieve deficit propriocettivo a destra e
una modica paraparesi.
Risultati e conclusioni
L’esame neurologico, a prescindere dalla specie esaminata, si basa inizialmente sull’attenta osservazione del paziente.
La conoscenza del normale comportamento delle singole specie risulta di fondamentale importanza. Infatti, mentre il
furetto mostra uno spiccato interesse per l’esplorazione dell’ambiente esterno, la cavia, molto sensibile allo stress, in
condizioni di pericolo tende a rimanere immobile ed è per questo che è preferibile osservarla inizialmente in gabbia. La
valutazione dello stato del sensorio, della postura e dell’andatura permettono di evidenziare, con il solo esame ispettivo,
alterazioni riferibili ad una patologia del sistema nervoso.
La propriocezione e le reazioni posturali permettono di discernere un problema neurologico da altri tipi di patologie (es.
ortopediche). Nella cavia e nel furetto le reazioni posturali di più facile esecuzione ed interpretazione comprendono la
spinta posturale estensoria per gli arti posteriori e il saltellamento per quelli anteriori. La carriola in queste specie risulta
di facile interpretazione se effettuata con visione, mentre quando viene estesa la testa, molti animali non effettuano il
corretto movimento con gli arti anteriori.
Il riposizionamento propriocettivo, effettuato posizionando sul dorso l’estremità distale degli arti, nei pets di ridotte
dimensioni risulta piuttosto difficile da valutare. Inoltre per effettuare correttamente questa reazione è indispensabile
stimolare il meno possibile la cute degli arti, mantenere lievemente sollevato il paziente e, onde evitare l’adattamento
cosciente allo stimolo, è importante non ripetere più volte questo test. Alcuni riflessi spinali quali il riflesso patellare, il
tibiale craniale e l’estensore radiale del carpo sono di difficile interpretazione negli animali di piccola taglia. Al
contrario i riflessi flessori risultano di facile esecuzione ed interpretazione a prescindere dalla taglia dell’animale
esaminato.
La valutazione dell’esame neurologico, oltre che da precise conoscenze neuroanatomiche e neurofisiologiche, deve
tener conto delle differenti peculiarità di specie.

Bibliografia
1. Witt WM, Hubbard GB, Fanton JW 1988 Streptococcus pneumoniae arthritis and osteomyelitis with vitamin C
deficiency in guinea pigs. Lab Anim Sci 38:192-194. Croce A “Mustelidi” In: Animali esotici da compagnia.
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*Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie. Facoltà di Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Teramo.
Viale F. Crispi 212. I_64100 Teramo. Italy
Tel: +39 0861 266977, Fax +39 0861 211407

51
VALUTAZIONE COMPARATIVA DI DUE PROTOCOLLI
FARMACOLOGICI PER L’IMMOBILIZZAZIONE E L’ANESTESIA DEL LUPO
GRIGIO (Canis lupus L. 1758)

Annalia Di Pietro1, Roberta Catini1, Flavio Valerio1, Lucio Petrizzi1, Luca Brugnola2
1
Dip. di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo; 2Corpo Forestale dello Stato

INTRODUZIONE - La gestione di specie non domestiche rende necessario il ricorso all’immobilizzazione


farmacologica e all’anestesia generale. Molti protocolli descritti nel lupo prevedono l’utilizzo di elevati dosaggi di
farmaci α2-agonisti (xilazina e medetomidina) e cicloesamine (ketamina e tiletamina). Il loro impiego è però associato
ad effetti indesiderati quali l’ipertensione arteriosa o la persistenza indesiderata dell’azione farmacologica(1). Scopo del
presente studio è stato quello di valutare e comparare gli effetti cardiovascolari di due protocolli anestesiologici non
utilizzati in precedenza nel lupo grigio. L’associazione farmacologica testata nel secondo gruppo è stata formulata sulla
base dell’esperienza acquisita con il primo protocollo. La riduzione del dosaggio di alcuni farmaci e l’introduzione di
altre molecole ha avuto la finalità di ridurre ulteriormente l’impatto sulla funzionalità cardiovascolare.

MATERIALI E METODI - Sono stati studiati dieci lupi grigi, 6 femmine e 4 maschi, di età compresa tra 1 e 11 anni,
media ± DS (6,2 ± 4) e peso corporeo variabile da 20,7 a 36,3 Kg (25,2 ± 4,7) mantenuti in stato di semicattività nella
riserva faunistica di Monte Corvo (PE). Nel primo gruppo, costituito da nove soggetti, gli animali sono stati
immobilizzati mediante inoculazione intramuscolare di una miscela di acepromazina 20 µg*Kg-1, butorfanolo 0,2
mg*Kg-1, ketamina 2 mg*Kg-1 e medetomidina 30 µg*Kg-1. Il secondo protocollo è stato utilizzato in un solo animale,
immobilizzato sempre mediante inoculazione intramuscolare con acepromazina 20 µg*Kg-1, butorfanolo 0,2 mg*Kg-1,
ketamina 2 mg*Kg-1, medetomidina 15 µg*Kg-1, e midazolam 0,2 mg*Kg-1. Il dosaggio è stato calcolato sulla base del
peso misurato in precedenti occasioni di cattura o, qualora non disponibile, sulla base della stima visiva. Dopo
traslocazione dei soggetti e intubazione orotracheale, l’anestesia è stata mantenuta con isofluorano in ossigeno puro e, al
termine della procedura, si è proceduto alla somministrazione intramuscolare dell’antagonista atipamezolo. Il
monitoraggio strumentale del paziente ha previsto il rilievo continuo della frequenza cardiaca (HR) mediante tracciato
elettrocardiografico, dell’ossimetria pulsatile (SpO2) e della frequenza respiratoria (RR). La pressione arteriosa, sistolica
(SAP), diastolica (DAP) e media (MAP) è stata misurata con metodo oscillometrico ed è stata calcolata la pressione del
polso (PP). La temperatura corporea (T) è stata rilevata mediante sonda esofagea. Nel soggetto del secondo gruppo sono
stati analizzati i gas respiratori. I rilievi sono stati effettuati a partire da t15 (immobilità) fino a t140 (in funzione della
durata della procedura).

RISULTATI – Nei soggetti del primo gruppo, i farmaci sono stati inoculati mediante telenarcosi in 5 casi,
inoculazione diretta dopo cattura con rete in 3 casi e con cerbottana dopo cattura con gabbia in 1 caso, mentre il
soggetto del secondo gruppo è stato immobilizzato con la telenarcosi. I risultati nel primo gruppo, media ± DS (range),
sono stati: onset (immobilità) 8,4 ± 3,6 (3-12) minuti, offset (sollevamento testa) 10 ± 2,1 (7-13) minuti. La durata
dell’anestesia dall’inoculo alla somministrazione dell’atipamezolo è stata pari a 108,1 ± 15,8 (88-129) minuti. I risultati
nel soggetto del secondo gruppo sono stati: onset 15 minuti, offset 12 minuti, e la durata dell’anestesia dall’inoculo alla
somministrazione dell’atipamezolo è stata pari a 148 minuti. La frequenza cardiaca, le pressioni arteriose e la
temperatura corporea sono progressivamente diminuite in entrambi i gruppi dal momento dell’intubazione fino al
termine dell’anestesia, mentre la saturazione dell’ossigeno e la frequenza respiratoria sono rimaste relativamente
costanti (Tabella I e II). Nel primo gruppo blocchi A-V di I e II grado sono stati rilevati in 5 soggetti, 3 dei quali hanno
presentato anche aritmia sinusale. Anche nel soggetto del secondo gruppo sono stati evidenziati blocchi A-V di I e II
grado e aritmia sinusale.

CONCLUSIONI – L’associazione di farmaci utilizzata ha prodotto in tutti i soggetti un’immobilità completa e una
rapidità di insorgenza, tipica dei farmaci α2-agonisti e delle loro associazioni(2). L’utilizzo di un agente inalatorio come
l’isofluorano supportato dal monitoraggio clinico e strumentale ha consentito di prolungare l’anestesia e di modulare il
piano anestesiologico in funzione della procedura da espletare. Il recupero è stato rapido e privo di effetti eccitatori e
atassia in tutti gli animali. La frequenza cardiaca è risultata variabile da 69 a 99 bpm nel primo gruppo e tra 52 e 79 nel
secondo. Nel periodo di osservazione in entrambi i gruppi non è stata rilevata significativa bradicardia, riscontrabile
invece con l’uso di medetomidina quale unico agente nel cane(3). Entrambe le associazioni hanno provocato, in alcuni
casi, lievi alterazioni nella conduzione A-V come descritto sia nel lupo che nel cane(1,3,4). Nel primo gruppo le pressioni
arteriose sono risultate elevate solo nella prima parte della procedura, ma comprese negli intervalli di normalità
riconosciuti per il cane in stato di veglia(5). Nel secondo gruppo i valori pressori registrati sono risultati costantemente
più bassi rispetto al primo gruppo. La medetomidina è un farmaco che produce sedazione e analgesia dose dipendenti.
Esso causa bradicardia, vasodilatazione e riduzione della portata cardiaca per blocco dell’efferenza simpatica, mentre

52
l’azione diretta a livello dei vasi porta a vasocostrizione e ipertensione(3). La ketamina induce ipnosi e analgesia e viene
utilizzata per produrre immobilità. La stimolazione simpatica della ketamina causa tachicardia e aumento della portata
cardiaca e contribuisce allo sviluppo di ipertensione(3). Il butorfanolo è un oppioide agonista-antagonista. La parziale
attività agonista limita gli effetti collaterali rispetto agli agonisti puri (depressione respiratoria, bradicardia dose-
dipendente, vomito, disforia) ma anche la sua attività analgesica. Il farmaco potenzia l’azione di sedativi e tranquillanti
in modo significativo, permettendo di ridurne i dosaggi ma non è un buon sedativo se somministrato da solo.
L’acepromazina ha azione sedativa, determina vasodilatazione e diminuzione della pressione arteriosa per blocco dei
recettori α1-adrenergici a livello delle muscolatura liscia vasale. L’isofluorano è un anestetico alogenato ampiamente
utilizzato nella pratica clinica veterinaria per l’induzione e/o il mantenimento dell’anestesia generale. Sull’apparato
cardiocircolatorio determina diminuzione delle resistenze periferiche e vasodilatazione, è un ottimo miorilassante e
deprime l’attività respiratoria.
L’associazione di medetomidina, ketamina, acepromazina, butorfanolo e isofluorano utilizzata nel primo gruppo è stata
formulata allo scopo di diminuire i dosaggi e gli effetti negativi sul tono vasomotore e su quello simpatico e per
produrre uno stato d’immobilità più sicuro e prolungato. Lo studio ecocardiografico, condotto nei soggetti del primo
gruppo ha evidenziato una riduzione della contrattilità miocardica e della performance sistolica rispetto al cane. I
risultati ottenuti possono essere riconducibili a una differenza di specie tra cane e lupo, ma molto probabilmente sono
dovuti all’effetto negativo che alcune molecole e in particolare gli α2-agonisti, hanno sulla funzionalità ventricolare(6).
Studi sulla titolazione del dosaggio della medetomidina hanno messo in evidenza una correlazione tra dose e effetti
emodinamici. Con dosaggi inferiori ai 5 µg*Kg-1, l’azione sedativa è conservata mentre gli effetti sull’apparato
cardiocircolatorio sono ridotti(7). Anche nell’associazione da noi studiata è possibile ipotizzare che alla riduzione del
dosaggio di questa molecola possa corrispondere una riduzione degli effetti negativi sull’apparato cardiocircolatorio pur
conservando l’efficacia sedativa.
Il soggetto del secondo gruppo è stato immobilizzato nell’ambito di una campagna di cattura successiva rispetto a quella
del primo gruppo. Allo scopo di ridurre ulteriormente l’impatto sull’apparato cardiocircolatorio e aumentare la
sicurezza della procedura, il dosaggio della medetomidina è stato ridotto della metà ed è stata introdotta una
benzodiazepina idrosolubile, il midazolam. Questo farmaco viene utilizzato per indurre ansiolisi, sedazione e
miorilassamento. L’associazione α2-agonisti, oppioidi e midazolam è documentata nel cane(8) ma non nel lupo. Questo
secondo protocollo è risultato ugualmente efficace nel garantire l’immobilizzazione e l’anestesia del soggetto.
In entrambi i casi, durante le procedure i soggetti sono stati sottoposti a monitoraggio clinico e strumentale. Entrambi i
protocolli si sono dimostrati efficaci nel garantire l’immobilità e permettere le procedure selezionate. Il secondo
protocollo sebbene applicato in un unico soggetto ha evidenziato un onset più lento. Nel secondo gruppo i valori
pressori rilevati nella prima parte della procedura sono risultati più bassi rispetto al primo. La frequenza cardiaca e il
ritmo non sono stati influenzati dalla dose di medetomidina utilizzata. La valutazione effettuata attraverso il
monitoraggio di base clinico e strumentale dei soggetti ha consentito di affermare che entrambi i protocolli hanno
dimostrato lo stesso grado di sicurezza. In questo secondo caso i rilievi non sono stati supportati dal punto di vista
ecocardiografico.
Riconosciuta l’importanza sedativa della medetomidina, sulla base degli studi di titolazione della molecola, è possibile
ipotizzare, in studi futuri, un utilizzo di dosaggi più prossimi a quelli impiegati in specie domestiche come il cane e/o
l’introduzione di nuove molecole.

BIBLIOGRAFIA – 1)KREEGER T.J. In Fowler M.E., Miller R.E. “Zoo and wild animal medicine: current therapy”.
ed. WB Saunders - Philadelphia (1999), 429-435. 2)SLADKY K.K. et al. J. Am. Vet. Med. Assoc. (2000) 217, 1366-
1371. 3)THURMON J.C., TRANQUILLI W.J., BENSON G.J. In “Lumb & Jones’ Veterinary Anesthesia” ed. Williams
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J.Vet. Res. (1999), 1148-1154.

Indirizzo per la corrispondenza


Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università degli Studi di Teramo, Viale
F. Crispi 212, 64100 Teramo. Italia

53
L’ISOPRINOSINA COME APPROCCIO TERAPEUTICO IN CANARINI AFFETTI DA
VAIOLO AVIARE DURANTE L’ATTIVITA’ RIPRODUTTIVA

Gianluca Todisco1*, Luca Campanelli2, Valentina Natale3, Domenico Robbe3


1
Libero Professionista, Medico Veterinario Fiduciario della Federazione Ornicoltori Italiani (FOI)
2
Libero Professionista, Mottola (TA)
3
Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo

Introduzione - Il vaiolo aviare è una malattia infettiva e contagiosa ad eziologia virale descritta in più di 60 specie di
uccelli selvatici e domestici. Colpisce indifferentemente maschi e femmine di qualunque età ed è cosmopolita1. Nel
canarino è grave e rappresenta un pericolo sempre incombente in tutti gli allevamenti2. L’agente eziologico appartiene
al genere Avipoxvirus, famiglia Poxviridae e viene identificato come Avipox serinae3. Il contagio può avvenire per
contatto diretto con animali ammalati o portatori sani, può essere veicolato da acari, zanzare, oppure, indirettamente,
attraverso la contaminazione di cibo e bevanda4. I mammiferi non sono in grado di veicolare il virus del vaiolo aviare4.
Il virus vaioloso penetra facilmente attraverso microferite della cute o delle mucose, per via orale o aerogena2. Le
mucose orale e delle prime vie aeree sono più sensibili all’infezione, anche in assenza di apparenti soluzioni di
continuo1. Dopo un’incubazione variabile da 4 a 30 giorni, il vaiolo può manifestarsi in quattro diverse forme cliniche:
iperacuta, respiratoria, difteroide e cutanea3; quest’ultima è considerata rara3. La scarsa efficacia di protocolli terapeutici
attuati di routine in allevamento e l’insensibilità del virus agli antibiotici, ha reso interessante indagare sull’efficacia
dell’isoprinosina nel trattamento farmacologico di questa patologia del canarino. L’isoprinosina è una molecola
idrosolubile, priva di tossicità e con proprietà antivirali e immunomodulanti. Questo farmaco, attivo sia nei confronti di
DNA virus che RNA virus, esplica una discreta attività terapeutica, ma non è in grado di prevenire l’infezione; in
particolare, inibisce la replicazione virale e stimola le risposte immunitarie dell’ospite. In vitro è stata evidenziata
un’azione dose dipendente, con aumentata produzione di immunoglobuline5. Negli uccelli l’attività antivirale
dell’isoprinosina è dovuta principalmente alla stimolazione della produzione di interferone e ad una interazione
sinergica tra il farmaco e l’interferone stesso6. Inoltre, è stato evidenziato un effetto positivo dell’isoprinosina sulla
reattività dei linfociti, sullo sviluppo degli organi immunocompetenti e sull’attività della ceruloplasmina nel liquido
allantoideo in embrioni di pollo7. Nei canarini, l’isoprinosina migliora le performances riproduttive aumentando la
percentuale di schiusa e la resistenza dei pulli alle infezioni pediatriche da germi opportunisti, spesso causa di mortalità
neonatale8.

Materiali e metodi - Nel mese di gennaio 2006, in un allevamento di canarini da esposizione di razza Fife e Gloster,
costituito da 20 coppie totali, di età compresa tra gli 8 e i 18 mesi, non vaccinati contro il vaiolo e già uniti per la
riproduzione, tre soggetti, alloggiati in due gabbie diverse, presentavano congiuntivite monolaterale e lieve depressione
del sensorio. Dopo tre giorni, in due di questi canarini, la congiuntivite esitò in ascesso peribulbare e sinusite. Nel
volgere di pochi giorni gli stessi soggetti presentavano lesioni nodulari giallastre sulla cute alla base inferiore del becco,
sulle dita, mentre lesioni analoghe, ma più piccole, erano presenti intorno all’occhio già coinvolto. Dopo circa una
settimana, altri quattro canarini presentavano depressione del sensorio, iporessia, dispnea e congiuntivite. Quattro
canarini con sintomatologia più grave presentavano croste giallastre, congiuntivite e dispnea. Due di questi soggetti,
sono stati allontanati dal gruppo; gli altri, già in riproduzione, sono stati sottoposti a vaccinazione d’emergenza e trattati
quotidianamente con disinfezioni locali delle lesioni. Gli uccelli allontanati e non vaccinati sono stati sottoposti ad
accertamenti diagnostici per confermare il sospetto di vaiolo. Da questi soggetti sono state prelevate le croste e inviate
all’Istituto Zooprofilattico di Teramo. Dal materiale sospetto è stato ottenuto un omogenato che di seguito è stato
inoculato in uova embrionate di pollo a 10 giorni di incubazione. In ottava giornata sono stati osservati numerosi pox
sulle CAM in forma disseminata, metastatica e focale; il virus è stato infine isolato ed osservato al microscopio
elettronico. Dopo pochi giorni uno dei due canarini precedentemente allontanati morì. All’esame autoptico del soggetto
venuto a morte sono state riscontrate lesioni a carico dell’apparato respiratorio con emorragia alle commessure del
becco, infiammazione della mucosa tracheale, congestione ed edema polmonare.
Tutti i soggetti, compresi gli asintomatici, sono stati suddivisi in due gruppi: il gruppo A composto da 10 coppie trattate
con isoprinosina (Viruxan® sciroppo Sigma tau, 6g/120 ml) e il gruppo B, composto da 9 coppie non trattate e
costituente il gruppo controllo. Al gruppo A è stata somministrata isoprinosina omogeneizzata in uovo di gallina cotto
in acqua bollente per 20 minuti. Il Viruxan® è stato impiegato alla dose di 9 ml (pari a 450 mg di isoprinosina) per 180 g
di uovo cotto, precedentemente ridotto in poltiglia per facilitarne l’omogeneizzazione con il farmaco e il consumo da
parte dei volatili. L’alimento medicato è stato somministrato ai 20 canarini tutti i giorni nei mesi di gennaio e febbraio
durante la nascita dei pulli della prima covata. Questa quantità di alimento medicato viene mediamente consumata in 24
ore e, pertanto, rinnovata quotidianamente. Pur considerando la variabilità della quantità di cibo assunta da ciascun
canarino in un giorno, si può considerare una dose media di 22,5 mg di isoprinosina cadauno al giorno. Il cibo fornito
agli uccelli era anche addizionato di vit. A.
Per ogni coppia di canarini di entrambi i gruppi, sono stati considerati, in prima (dicembre-gennaio) e seconda
(febbraio-marzo) covata, il numero di uova deposte, il numero di uova fecondate, il numero di pulcini nati e il numero

54
di pulcini svezzati. I dati relativi al numero di uova deposte e feconde, al numero di nati e svezzati in due covate
successive, nei due gruppi, sono stati sottoposti a test t di Student eteroschedastico.

Risultati - I risultati della sperimentazione sono riportati nella Tabella I. Nessun canarino ha presentato effetti
collaterali negativi in seguito a somministrazione del farmaco. Dalla nostra ricerca è emerso che l’isoprinosina non
influenza il numero delle uova deposte nè il numero dei nati. Si è registrato, invece, un incremento, in seconda covata
rispetto alla prima, del numero delle uova fecondate (64,8% vs 59,4%) anche se in modo non significativo e,
soprattutto, dei pulli svezzati (88,2% vs 12,5%) con risultati altamente significativi (p≤0,01).
I risultati ottenuti nel gruppo controllo non si discostano da quelli ottenuti nel gruppo A per quanto riguarda le uova
deposte, feconde e dei nati. Si è registrato un miglioramento dei pulli svezzati rispetto alla prima covata, con una
differenza statisticamente significativa (p≤0,01) ma con una percentuale nettamente inferiore rispetto alla seconda
covata del gruppo A con una differenza statistica altamente significativa (p≤0,01).

1° COVATA 2° COVATA
GRUPPI n. uova n. uova n. nati n. n. uova n. uova n. nati n.
deposte fecondate svezzati deposte fecondate svezzati
A 37 (3,7) 22 (2,2) 16 (1,6) 2 (0,2) 37 (3,7) 24 (2,4) 17(1,7) 15 (1,5)
(isoprinosina) 59,4% 72,7% 12,5% 64,8% 70,8% 88,2%
B 36 (4) 21 (2,3) 15 (1,7) 0 (0,0) 35 (3,9) 21 (2,3) 15(1,7) 5 (0,6)
(controllo) 58,3% 71,4% 0% 60% 71,4% 33,3%
Tab. Ι: valore numerico, valore medio per coppia (tra parentesi) e valore percentuale dei parametri considerati in prima
e seconda covata nel gruppo trattato con isoprinosina e nel gruppo controllo.

Conclusioni - Il trattamento con isoprinosina ha aumentato notevolmente i risultati riproduttivi in termini di pulli
svezzati e, in misura minore, di uova fecondate. Non ci sono state variazioni nel numero di uova deposte e nel numero
di nati. I nostri risultati riflettono, nei canarini, i risultati già ottenuti nei polli da Malavzewska et al.7, spiegati con il
potenziamento dei meccanismi di difesa immunitari locali e sistemici della madre e con una maggiore efficienza degli
organi immunocompetenti del pulcino. L’aumento dei pulcini svezzati potrebbe derivare dall’attività dell’isoprinosina
sulla risposta anticorpale materna e sullo sviluppo degli organi immunocompetenti dei piccoli canarini. La maggiore
attività del sistema immunitario materno avrebbe incrementato la quantità di anticorpi trasferiti all’embrione, con
migliore attività dei meccanismi di difesa passiva. Durante lo sviluppo dell’ovocellula e dell’embrione, infatti, in
condizioni fisiologiche, si realizza un trasferimento attivo di anticorpi materni nell’uovo con accumulo nel sacco
vitellino9. Questi anticorpi, trasferiti all’embrione durante il suo sviluppo, conferiscono una protezione passiva che
aumenta la resistenza dei pulcini e potrebbe giustificare il maggior numero di soggetti svezzati riscontrati nelle coppie
di canarini trattate con isoprinosina10. In conclusione, l’isoprinosina ha dimostrato di essere una molecola efficace
nell’aumentare le performances riproduttive dei canarini per l’aumentata efficienza del sistema immunitario materno e
degli organi immunocompetenti dei pulcini, come evidenziato anche in ricerche condotte sugli embrioni di pollo7.

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and KLP-602 on the development of immunocompetent organs and selected biochemical indices of the allantoic fluid of
chickens embyos”. Polish Journal of Veterinary Sciences, 6 (3): 21-24, (2003). 8. Campanelli L., Manca R., Robbe D.,
Sciorsci R.L.: “Impiego dell’ Isoprinosina per il miglioramento dell’attività riproduttiva in Serinus canaria. Atti del 3°
Conv. Naz. della Società Italiana di Riproduzione Animale, Roma, 123-126, (2005). 9. Li X., Nakano T., Sunwoo
H.H.M., Paek B.H., Chae H.S., Sim J.S.: “Effect of egg and yolk weights on yolk antibody (IgY) production in laying
chickens”. Poultry Science, 77, 266-270, (1998). 10. Rehmani S.F., Firdous S.: “Passivity immunity in chicks from
laying flock vaccinated with the mukteswar strain of Newcastle disease virus”. Preventive veterinary medicine, 23, 111-
118, (1995).

* Tel. +39 349 6604808, e-mail: todvet@yahoo.it

55
PREDAZIONI DA LUPO SUL BESTIAME MONTICANTE: DINAMICHE E CONTESTI
DI ACCESSIBILITÀ OSSERVATI IN UN’AREA DI STUDIO DELL’APPENNINO
CENTRALE.

Simone Angelucci
Med. Vet. Parco Nazionale della Majella

Il Parco Nazionale della Majella ha affrontato il problema delle predazioni sul bestiame monticante attraverso
l’adozione di un disciplinare per gli indennizzi dei danni recati al bestiame da parte di predatori. A partire da maggio
2002, l’accertamento del caso di predazione viene condotto attraverso l’utilizzo di una procedura di accertamento
standardizzata, codificata in un apposito modulo.
I rilevamenti previsti dalla procedura ed effettuati dal Veterinario del Parco hanno permesso di ottenere informazioni
relative non solo di carattere necroscopico, sulle lesioni riportate sui capi predati, ma anche numerose acquisizioni utili
dal punto di vista gestionale quali le località maggiormente interessate, i periodi, le fasi della giornata e i contesti di
massima accessibilità per il predatore alle greggi/mandrie, le tecniche predatorie maggiormente efficaci per il lupo. Tali
informazioni possono essere messe in relazione alle caratteristiche biologiche ed etologiche del predatore ed essere
utilizzate in ambito gestionale per favorire strategie di prevenzione del fenomeno e di attenuazione dei conflitti, sulla
base della conoscenza degli aspetti socio-economici delle locali realtà zootecniche.

Simone Angelucci
Med.Vet. n.159 albo PE
Via Cappuccini, s.n.civ.
65023 Caramanico Terme (Pe)
Tel. 085.9231020 – Mob. 340.2543119
simoneangelucci@katamail.com

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LA GESTIONE DEL CINGHIALE NEL PARCO NAZIONALE DEL GRAN SASSO E
MONTI DELLA LAGA
Federico Striglioni1*, Giorgio Morelli 2, Osvaldo Locasciulli1, Luca Festuccia2, Umberto Di Nicola1
1
Servizio Ricerca Scientifica – Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga;
2
Coordinamento Territoriale per L’Ambiente per il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.

Dieci anni di attività per la gestione della popolazione di Cinghiale (Sus scrofa) nel territorio del Parco Nazionale del
Gran Sasso e Monti della Laga hanno consentito la creazione di una banca dati e la valutazione dell’efficacia di una
serie di azioni messe in atto per il monitoraggio e il controllo di questa specie.
La metodica operativa adottata in questi anni ha previsto l’applicazione di una serie di indagini e di procedure
d’intervento sul territorio e sulla popolazione di Cinghiale fra loro coordinate e sequenziali, tramite:
1. indennizzo dei danni al patrimonio agricolo;
2. mappatura della distribuzione e dell’entità dei danni al patrimonio agricolo;
3. azioni di prevenzione tramite l’impiego di recinzioni elettrificate a protezione delle colture;
4. azione diretta di controllo sulla consistenza numerica della popolazione di Cinghiale tramite l’applicazione
combinata di diverse metodiche previste dalle “Linee guida per la gestione del Cinghiale all’interno delle aree
protette” elaborate dall’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica ed inviate agli Enti Parco dal Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio.
L’esperienza acquisita ha consentito l’elaborazione di un “Piano di gestione del Cinghiale” , documento organico che,
in base alla consistenza della popolazione, all’entità ed alla distribuzione dei danni, al valore conservazionistico delle
diverse zone del Parco definisce, all’interno dell’area protetta, le singole aree di intervento per la messa in atto delle
azioni di prevenzione e di contenimento della popolazione.
Il Piano di Gestione, approvato dal Ministero dell’Ambiente è stato sottoposto a valutazione di incidenza.
Come parte integrante del piano sono stati, inoltre, predisposti e approvati dal Consiglio Direttivo dell’Ente Parco un
“Regolamento e un Protocollo sanitario per gli abbattimenti e le catture”.
Il Piano di Gestione, così elaborato, diventa operativo tramite Singoli protocolli attuativi concordati con tutte le
province del Parco.
L’applicazione e l’effettivo funzionamento di un Piano di Gestione all’interno di un Parco Nazionale comporta la
necessità di affrontare una serie di problematiche ecologiche, sociali ed economiche complesse e spesso di difficile
soluzione.

*Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, via del Convento, 67010, Assergi – L’Aquila.
Tel + 39 086260521; fax + 39 08620606675; e-mail fedestriglioni@hotmail.com.

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GLI ANIMALI “NON CONVENZIONALI” NELL’INSEGNAMENTO DELLE FACOLTA’
DI MEDICINA VETERINARIA
Pier Augusto Scapolo*
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate – Università degli Studi di Teramo

In un convegno scientifico di Medicina veterinaria, come quello che si sta svolgendo, non poteva mancare, a titolo di
semplice notizia di cronaca, un appunto sulla formazione del veterinario di fronte al mondo economico di oggi, mondo
così profondamente diverso da quello della società (rurale) di un tempo, che caratterizzò in modo preponderante la sua
attività. In epoca altomedievale (sec.
VI – XI), in Italia vi erano zone di massiccia presenza di selve, in cui il terreno coltivato era assai meno esteso di quello
incolto, dove scarne colture erano presenti ai margini di sterminate boscaglie. Qui gli animali selvatici erano senza
confronto più numerosi di quelli domestici: e perciò nei documenti dell’epoca appare spesso la citazione di cervi,
cinghiali, caprioli, daini, lupi. Oppure nei casi di malattie infettive che colpivano gli animali, spesso, parlandone, non si
precisa affatto che riguardavano i soli animali domestici, ma ci si riferiva a tutto il bestiame in genere. Che gli animali
domestici e selvatici fossero curati, quando si riscontrasse in loro malattia, è fuori di dubbio e se ne parla
frequentemente nelle cronache di quel tempo. Purtroppo, e questo vale anche per le specie allevate, non si è appurato
nulla di preciso su come venisse fatto e sulla reale pratica veterinaria. .
Nei secoli successivi, con il restringersi delle terre incolte, diminuiva via via l’interesse (economico in primis) per gli
animali selvatici; nel contempo, allargandosi i campi coltivati e i poderi contadini, cresceva l’importanza delle specie
domestiche, che ora l’uomo tende ad allevare presso i luoghi in cui abita, a rendere, come lui del resto, più “sedentari”.
Al bosco si va lentamente sostituendo la stalla, al pascolo naturale il pascolo artificiale, ai frutti di alberi selvatici,
cereali e legumi. In una società che andava, col passare del tempo, configurandosi come una società condizionata dalla
movimentazione di uomini e cose, sia che si puntasse sull’efficienza degli eserciti sia che venisse usato per il trasporto,
o per ambedue questi scopi, al cavallo venivano prestate le maggiori attenzioni, in una specie di scala gerarchica.
Contemporaneamente però, l’esigenza di rendere più efficienti le pratiche agricole fa assumere sempre più importanza
al bovino in quanto impiegato nel lavoro della terra per fornire aiuto alla fatica dell’uomo, mentre l’esigenza
fondamentale di una economia cittadina e rurale di avere la disponibilità di animali da macello, fa aumentare l’interesse
attorno agli ovi-caprini, al maiale, ai volatili da cortile. Un altro mammifero che assume un ruolo importante nel
rapporto uomo/animale è il cane: forse perché, in una società ancora a stretto contatto con la natura, esso rappresentava
l’espressione più genuina e vigorosa di questa, una specie di anello di congiunzione tra uomo e natura, o forse perché
simbolo di coraggio e di fedeltà, dando l’idea materializzata di tali virtù. Basti pensare che i nomi dei potenti Scaligeri
di Verona erano nomi di cani: Cangrande, Cansignorio, Mastino). L’uomo è così indotto non solo a sfruttare l’animale
ma anche ad averne cura, innestando sul movente utilitaristico anche la dimensione affettiva.
Di pari passo le pubbliche autorità presero sempre più coscienza dell’importanza sociale che rivestiva la pratica
veterinaria e di precluderla ai rozzi empirici che l’avevano da sempre esercitata. Però solo alcuni secoli più tardi,
intorno alla metà del Settecento, si arrivò alla fondazione delle Scuole di veterinaria in Europa (la prima in assoluto fu
quella di Lione, nel 1762, mentre la prima in Italia ad aprire fu quella di Torino nel 1769). Diverse furono le
motivazioni contingenti che portarono i vari Stati ad attivarle. Alcune Scuole sorsero con finalità prettamente militari,
con l’insegnamento rivolto in modo particolare al cavallo, anche al fine di migliorare l’efficienza degli eserciti; altre
con finalità preminentemente civili, per lo sviluppo dell’agricoltura e il miglioramento del patrimonio zootecnico, anche
se non mancavano elementi unificanti. Dunque da più di due secoli tradizionalmente la preparazione del veterinario si è
basata in particolar modo sul cavallo prima, sugli animali allevati poi, a cui si sono aggiunti infine gli animali da
compagnia (soprattutto carnivori domestici).
E’ ancora questo il panorama (animale) con cui il veterinario si deve confrontare? Le sue competenze, e quindi la sua
formazione, possono ancora essere rivolte esclusivamente a specie domestiche con un indirizzo tipicamente zooiatrico?
Negli anni recenti sono accaduti significativi cambiamenti nelle necessità educative per la Medicina veterinaria, per
cui molte Facoltà in Italia hanno ritenuto necessario modificare e soprattutto integrare i piani di studio. Uno stimolo per
questi cambiamenti deriva sicuramente dal fatto che sono aumentate in modo sensibile le conoscenze correlate alla
pratica della medicina veterinaria. Un altro stimolo alla integrazione dei curricula tradizionali nelle discipline mediche
deriva dal fatto che le aspettative sociali nei riguardi della qualità ed efficacia delle prestazioni veterinarie hanno avuto
una significativa crescita, con un aumento generalizzato nella richiesta di servizi veterinari. Tenendo conto che negli
ultimi 30 anni con crescente frequenza sono state intraprese azioni sugli animali selvatici a vita libera, per ragioni
sanitarie, di benessere e di conservazione, di pari passo si è fatta forte l’esigenza di un veterinario specialista che
potesse verificare e controllare i rischi legati all’interazione selvatico/domestico (uomo compreso). D’altra parte
un’ampia varietà di selvatici sono ad oggi tenuti in cattività come animali da compagnia, nei giardini zoologici e nei
laboratori.
Da questa lunga premessa, che vuole mettere in risalto come l’evoluzione della sensibilità della società civile verso gli
animali con cui essa intergiva avesse portato nel tempo ad un mutamento degli interessi e degli approfondimenti della
medicina veterinaria, nasce l’idea di una breve ricerca sulle proposte didattiche delle Facoltà di Medicina veterinaria
italiane relativamente alla fauna non convenzionale.

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L’indagine, effettuata attraverso i siti web delle rispettive Università, ha tenuto conto delle iniziative promosse dalle
Facoltà di Medicina Veterinaria italiane nell’anno accademico 2005-06, sia nell’ambito dell’offerta di titoli di primo
livello (Corsi di Laurea) e di secondo livello (Corsi di Laurea Specialistica), come anche delle iniziative post-laurea
rivolte a Medici Veterinari.
Dalla ricerca è emerso che delle 15 Facoltà di Medicina veterinaria italiane, 7 hanno corsi di laurea (CL) o di laurea
specialistica (CLS) dedicati a tematiche riconducibili ad animali “non convenzionali”(nelle sedi di UD, PD, TO,
BO,BA, ME, SS) e tra queste ben 5 sono le iniziative relative alle tecnologie e alle scienze dell’acquacoltura e
dell’ittiopatologia .
Pure la offerta relativa a corsi post laurea è diversificata, ma anche qui prevalgono le iniziative riconducibili
all’ambiente acquatico: sette sono i corsi di studio, tra Master di primo e secondo livello (M I-II), Scuole di
specializzazione (SP) e Corsi di perfezionamento (CP), distribuiti in 6 sedi, che fanno riferimento diretto o indiretto alla
fauna acquicola. Tra questi è ricompresa un’iniziativa (CP) diretta in modo particolare alle tartarughe marine. Nelle sedi
di Torino, di Milano e di Sassari sono stati attivati Master che trattano in maniera specifica della gestione e della
conservazione della fauna selvatica. Tematiche relative ad animali selvatici (anche se inserite in un contesto più ampio,
di “specie minori”quali quelle avicole e il coniglio), sono affrontate pure nelle sedi di MI, BA, NA e ME, nell’ambito di
Scuole di specializzazione. Relativa ad animali non convenzionali è pure la particolare SP della sede di MI rivolta agli
animali da laboratorio.
In dettaglio l’elenco delle iniziative formative promosse dalle Facoltà di Medicina Veterinaria con riferimento alla
fauna selvatica.
Sede di Torino: Produzioni animali, gestione e conservazione della fauna (CL); Produzioni animali, gestione e
conservazione della fauna (M-I).
Sede di Milano: Ecopatologia della fauna selvatica a vita libera (M-I); Allevamento, igiene, patologia della specie
acquatiche e controllo dei prodotti derivati (SP); Scienza e medicina degli animali da laboratorio (SP); Tecnologia e
patologia delle specie avicole, del coniglio e della selvaggina (SP).
Sede di Padova: Acquacoltura (CLS).
Sede di Udine: Gestione delle risorse animali negli spazi rurali e naturali (CL); Acquacoltura (CLS).
Sede di Bologna: Acquacoltura e ittiopatologia (CL); Valorizzazione e sicurezza alimentare dei prodotti della pesca e
dell’acquacoltura (M-II).
Sede di Teramo: Tutela e benessere animale(CL); Gestione, trasformazione e ispezione delle risorse ittiche(M-I).
Sede di Napoli: Tecnologia e patologia delle specie avicole, del coniglio e della selvaggina (SP); Controllo della filiera
dei prodotti della pesca (CP).
Sede di Bari: Scienze della maricoltura, acquacoltura e igiene dei prodotti ittici (CL); Tecnologia e patologia delle
specie avicole, del coniglio e della selvaggina (SP); Biochimica marina e biotecnologie applicate alla pesca e
all’acquacoltura (SP); Le tartarughe marine: ecologia e gestione sanitaria (CP).
Sede di Messina: Biotecnologie applicate alla maricoltura, all’acquacoltura nelle aree interne ed alla trasformazione dei
prodotti ittici (CLS); Tecnologia e patologia delle specie avicole, del coniglio e della selvaggina (SP).
Sede di Sassari: Gestione e protezione della fauna selvatica (CL); Conservazione e gestione della
fauna (M-I).
Conclusioni
Abbiamo dimostrato come nei secoli passati, l’insegnamento della Medicina veterinaria sia stato condizionato dalla
considerazione e dall’affermazione sulla scena sociale ed economica di questo o quell’altro animale, in uno stretto
connubio di interdipendenza. Oggi, nell’era della globalizzazione, in una società con una coscienza ecologica elevata, vi
sono nuove e modificate richieste di prestazioni veterinarie. Se da una parte i corsi di studio attivati dalle Facoltà di
Medicina veterinaria italiane hanno mantenuto forte l’impronta data dalle esigenze della vecchia società rurale, vi sono
alcune iniziative formative promosse da alcune di queste Facoltà, supportate da consistenti attività di ricerca, che sono
un importante, anche se ancora timido segnale, di una maggior coscienza verso programmi di studio, di cura, di gestione
e di conservazione degli animali non convenzionali.

*Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate - Facoltà di Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Teramo.
P.zza A. Moro. I-64100 Teramo. Italy.
Tel: +39 0861 266850, Fax: +39 0861 266860, e-mail: pascapolo@unite.it

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ADATTAMENTO IN CATTIVITÀ E GESTIONE DEL POECILIA RETICULATA
AUTOCTONO DI CUMANÀ A RISCHIO D’ESTINZIONE (Poecilia Sp. “Endler”)

Alessio Arbuatti
Studente Facoltà di Medicina Veterinaria - Università degli Studi di Teramo

Introduzione - Il morfotipo di Poecilia reticulata (Peters 1859) che vive nelle lagune costiere di Los Patos e La
Malagueña, nei pressi della città di Cumanà (Venezuela Nord orientale), rappresenta ancora un enigma zoologico che
rischia di non essere mai svelato a causa del pericolo di estinzione della popolazione ittica in questione la quale non ha,
ancora, una propria collocazione zoologica/scientifica idonea. I primi esemplari del morfotipo Cumanà vennero pescati
nel 1936, diversi soggetti furono inviati all’Università del Michigan ma non vennero mai classificati. In seguito, nel
1975, il Prof. J. Endler (S. Barbara University, California) li ripescò nella stessa zona di cattura e inviò alcuni esemplari
al Museo Americano di Storia Naturale e, successivamente, all’Acquario di New York. Da qui, prima ancora di essere
classificati, finirono nei circuiti acquariofili tedeschi da dove si diffusero con il nome volgare di Poecilia sp. “Endler”
in gran parte dell’ Europa. Al giorno d’oggi evidenze di tipo morfologico, genetico e comportamentale suggeriscono
che il Poecilia reticulata di Cumanà abbia subito una differenziazione dalle altre popolazioni di guppy a causa di una
selezione di tipo sessuale divergente, tale da farlo considerare popolazione in speciazione (Alexander e Breden, 2004).
Purtroppo nelle regioni di provenienza, la presenza di baraccopoli, discariche, scarichi fognari con acque nere che si
riversano nelle lagune e soprattutto l’introduzione di specie ittiche alloctone per la produzione di proteine a basso costo
(Oreochromis mossambicus) hanno ridotto ai minimi termini numerici la popolazione ittica ivi residente (Perez et al.,
2004). La possibilità di perdere questa peculiare popolazione di pecilidi a causa di gravi attacchi all’ecosistema delle
due lagune, pone il problema della sua salvaguardia in tempi brevi, attivabile attraverso lo studio puntuale di tutte le sue
necessità.

Materiale e metodi - Il progetto, totalmente autofinanziato, è iniziato nel 2001 culminando, nella primavera del 2005,
con l’importazione degli ultimi soggetti provenienti da una cattura attuata a Los Patos. Lo studio delle condizioni
favorevoli per l’allevamento amatoriale del morfotipo Cumanà ha previsto un acquario da 200 litri, una schiera da 150
litri e, alla necessità, alcune vasche di dimensioni inferiori. Nella vasca di 200 litri è stato utilizzato un filtro
meccanico/biologico interno composto da lana di perlon, spugna dura e cannolicchi in ceramica fortemente porati, con
pulizia mensile dello strato di perlon e bimestrale della spugna dura, seguiti dal reintegro della popolazione batterica
(Prodibio-Biodigest). La vegetazione è formata da una ricca presenza di diverse specie vegetali, tra le quali: Vallisneria
gigantea, Bacopa caroliana, Trichocoronis rivulatus, Anubias sp., Vesicularia dubiana, Elodea densa, Microsorum
pteropus, Lemna minor, Ceratophyllum demersum, Hygrophila polisperma. Per la messa in posa delle piante è stato
utilizzato fondo minerale policromo inerte a finissima granulometria, preventivamente fertilizzato (Azienda Anubias-
Fondo Attivo), per il mantenimento, fertilizzazioni giornaliere, settimanali e mensili (Dennerle A1/V30/E15). I
parametri delle acque sono stati monitorati settimanalmente (HANNA pH, Tetratest) prima e dopo ricambio del 25%
del volume della vasca con acqua d’osmosi ricostituita (Kent R/O right) ed aggiunta di biocondizionatore (Sera
Aqutan).

Risultati - È noto che i maschi del genere Poecilia possono andare incontro a notevoli variazioni di alcuni caratteri
sessuali secondari, in particolare la colorazione, in risposta a pressioni da parte di predatori o fattori ambientali. Questo
fenomeno, così come la preferenza della femmina per il partner appartenente ad un particolare fenotipo, è ereditario ed
ha contribuito a determinare l’ipotesi della “speciazione” del morfotipo (Alexander e Breden, 2004). Risulta pertanto
evidente come qualsiasi tentativo di protezione della biodiversità che non tenga conto dell’importanza dell’impatto
ambientale sulla conservazione delle caratteristiche peculiari di una determinata popolazione è destinato a fallire o,
peggio, a dare luogo a morfotipi lontani da quelli indigeni per caratteristiche fisiche e/o comportamentali. Gli unici
tentativi di ricreare un ambiente quanto più simile all’originale per la conservazione in cattività del Poecilia reticulata
morfotipo Cumanà sono stati effettuati in ambito hobbistico e sono miseramente falliti a causa della difficoltà di
stabilizzare le troppo numerose variabili; quello che si ottiene infatti è una “laguna” che attira insetti potenziali vettori
di malattia e soprattutto improponibile al pubblico amatoriale a causa del forte odore marcescente che si sprigiona dalle
acque (Armando Pou, comunicazione personale). Nella nostra esperienza si è cercato di ricreare condizioni favorevoli
che si avvicinassero quanto più a quelle del biotopo di origine, modulando nel contempo i parametri ambientali in modo
da poter ottenere un allevamento indoor. Non essendo nota la portata della falda acquifera della laguna, che ha ampie
variazioni stagionali anche in base alle precipitazioni, si è posta in funzione una pompa a gittata regolabile fino 400 L/h,
tale da permettere un movimento dell’acqua non troppo imponente ma garantire comunque un buono scambio di gas. I
parametri medi finali dell’acqua in vasca erano: pH 7,9; Gh 10; Kh 6; PO4-3 0,3 mg/L; O2 7mg/L; CO2 10mg/L; Fe
0,07 mg/L; NO2-1 0 mg/L; NO3-1 7,5 mg/L. Per quanto riguarda il fattore luminosità, poiché l’acqua della laguna non
permette una buona penetrazione della luce essendo la superficie ricoperta da ricche quantità di alghe in fioritura
(Endler, Pou, Breden, comunicazioni personali), si è scelta un’illuminazione attenuata tale da ricreare un rapporto di
0,13 watt/L (ritenuto normalmente insufficiente per un acquario d’acqua dolce tropicale), con una durata del

60
fotoperiodo di 10 ore luce/gg e una temperatura di 27°C. Il regime alimentare ha previsto diversi aggiustamenti prima
della definizione finale: l’iniziale scelta di un cibo secco in scaglie è stata scartata a causa della difficile gestibilità del
prodotto, sia nella fase di somministrazione, che in quella di consumo (frazionamento della scaglia), preferendo quindi
un mangime granulare taglia small che avesse un buon galleggiamento ed un tempo di caduta verso il fondo lungo
(Duplarin s); sporadicamente è stato somministrato granulare arricchito di carnitina e beta glucano (Dupla). Per
l’alimento congelato si è utilizzato Artemia salina, Daphnia magna, Chironomus, larve nere di zanzara, uova di
crostacei, Brachionus cayciflorus (rotiferi) e Mysys (Ruto Holland). Gli avannotti hanno invece ricevuto naupli vivi di
Artemia salina schiusi mediante uno schiuditoio interno ad una vasca d’accrescimento, mangime micronizzato di alta
qualità (Superhigroup) ed alga spirulina. L’alimento è stato somministrato due volte al giorno agli adulti, 3 volte al
giorno agli avannotti in quantità tali da poter essere consumato in pochi minuti senza inutili sprechi; periodicamente
nella vasca venivano aggiunti infusori. In queste condizioni, nell’ambito dei quattro anni di allevamento, i tassi di
natalità si sono attestati intorno alla media di 87 C 15 nati/femmina/anno (4-5/30 piccoli/femmina/parto a seconda
dell’età; 5-6 parti annui); la gestazione dura 26-30 giorni: come negli altri pecilidi, non esistono cure parentali e i
piccoli, che alla nascita misurano circa 3,5-4 mm, vanno ad occupare sia gli strati più profondi che quelli più
superficiali della vasca, più ricchi di vegetazione, evitando le zone d’acqua libera. Il rapporto di animali vivi/nati totali è
migliorato sensibilmente nel tempo, arrivando -con l’ultima colonia proveniente da Los Patos- al 93% di sopravvivenza
a 2 mesi (vs 35% circa nella prima colonia, 2001); da sottolineare che la mortalità così indicata è sempre più
concentrata nei mesi estivi. Il raggiungimento di una situazione stabilizzata nella colonia ha permesso anche degli
approfondimenti sulle caratteristiche morfologiche e comportamentali dei soggetti a tutti gli stadi di sviluppo: ad
esempio sono stati registrati i tempi necessari per un corretto sessaggio, quelli di comparsa degli spots e i bars colorati e
al contrario, la progressiva perdita di brillantezza del pigmento nei soggetti anziani (1 /1,5 anni in media) in prossimità
della morte; sempre riguardo questi soggetti, è interessante considerare anche una trasformazione morfologica che
prevede la perdita di motilità e l’accorciamento del gonopodio. Si è anche registrato il completo processo di
corteggiamento maschile nelle diverse fasi che lo compongono. Dal punto di vista comportamentale, non sono stati visti
fenomeni di cannibalismo intraspecifici, ben conosciuti nell’allevamento di pesci del genere Poecilia; non sono stati
rilevati casi di aggressività intraspecifica ad eccezione di un caso, incruento, tra due femmine adulte.

Conclusioni - L’importanza scientifica del Poecilia reticulata morfotipo Cumanà è data da caratteristiche che lo
differenziano dalle altre popolazioni selvatiche di guppy, anche grazie all’isolamento delle due lagune di origine, che
non hanno comunicazioni con corsi d’acqua ma rappresentano un ecosistema unico, isolato, anche nella stessa regione
di Sucrè. La presenza da tempo di questo pecilide nell’ambito dell’acquariofilia mondiale (dal 1975 in poi, come
“Endler’s livebearer”), seppur spesso con linee d’allevamento selezionate o ibride, mostra come alcune popolazioni
ittiche possano essere conosciute prima in ambienti hobbistici e poi in quelli scientifici e pone il problema del perché
non venga dato loro, velocemente, un inquadramento zoologico a se stante, nonostante l’importanza che rivestono dal
punto di vista della biodiversità. Nel Marzo 2005 è partito il progetto ufficiale di mantenimento in cattività della
popolazione di Sucrè, che coinvolge negli U.S.A. appassionati hobbysti e docenti universitari e che mi vede come primo
ed unico italiano coinvolto. In futuro, il lavoro da me iniziato sulla popolazione, continuerà anche con rinsanguamenti
dalle colonie di mantenimento statunitensi per creare la prima colonia Italiana stabile. Nell’ambito dell’esperienza da
me attuata, penso sia corretto ritenere ottime le potenzialità di mantenimento e di riproduzione della popolazione in
cattività, purché vengano rispettati i fabbisogni non solo primari del pesce e che si attuino due diverse condizioni: 1)
evitare il mescolamento della popolazione con altri pecilidi, in primo luogo con altre popolazioni selvatiche o
selezionate di Poecilia reticulata al fine di evitare potenziali ibridazioni; 2) attuare un periodico rinsanguamento delle
colonie per non incorrere nei bottleneck genetici, utilizzando soggetti, magari fenotipicamente diversi, ma
assolutamente provenienti dalle stesse lagune di cattura.

Bibliografia - Perez JE, Muñoz C, Huaquin L, Nirchio M. 2004. Rev Chil Hist Nat, 77:195-199. Alexander HJ, Breden
F. 2004. J Evol Biol, 17: 1238-1254.

Via Marrocco 46, 66030, Mozzagrogna, Chieti


328/8442811

Tilacino2003@hotmail.com

61
RISPOSTE MOLECOLARI AI METALLI PESANTI: DAI PESCI AI MAMMIFERI
UN’UNICA STRATEGIA CON TANTE DIFFERENZE
Giulia Andreani, Emilio Carpenè, Elisa Casadei, Stefano Cottignoli e Gloria Isani
Dipartimento di Biochimica”G.Moruzzi”, Sezione di Biochimica Veterinaria , Facoltà di Medicina Veterinaria,
Alma Mater Studiorum-Università degli Studi di Bologna

Introduzione Le continue ed estese ricerche riguardanti il metabolismo dei metalli pesanti portano alla scoperta di
meccanismi molecolari sempre più sofisticati rivolti ad un preciso controllo della loro omeostasi nei vari compartimenti
cellulari. In generale si osservano delle differenze caratteristiche del metallo, della specie animale e del tessuto. In
particolare i dati sperimentali riguardano soprattutto i metalli pesanti essenziali quali Fe, Cu e Zn che data la loro
ampia distribuzione nei sistemi metallo-proteici svolgono un ruolo molto importante nella dieta dell’uomo, degli
animali domestici e degli animali “non convenzionali”. Diversamente Pb, Hg e Cd sono studiati soprattutto per la
loro tossicità.
Le concentrazioni tessutali e intracellulari dei metalli pesanti dipendono dalla presenza a livello del plasma, delle
membrane e dei diversi compartimenti cellulari di sistemi, generalmente proteici, che trasportano (ATPasi, chaperonine,
ceruloplasmina, albumina, transferrina), immobilizzano (metallotioneina, ferritina) utilizzano (metalloenzimi,
cromoproteine respiratorie) questi elementi. Poiché la concentrazione delle singole specie proteiche coinvolte nel
metabolismo dei metalli pesanti possono venir controllate a livello di trascrizione, traduzione e post-traduzione ne
consegue che i livelli tessutali dei metalli pesanti sono a loro volta dipendenti da molte variabili biologiche e
ambientali.
Una lenta evoluzione molecolare porta a modificazioni delle sequenze aminoacidiche permettono alle diverse specie
animali e a volte al singolo individuo di adattarsi in modo ottimale a un particolare ambiente.
Alcuni elementi come Cu e Fe condividono attività redox e possono provocare stress ossidativo che implica una
variazione dei sistemi antiossiidanti atti a bloccare il danno da radicali liberi, alcuni degli enzimi coinvolti in questi
sistemi (SOD, catalasi) sono metallo-dipendenti.
Le nostre ricerche, a partire dal 1976, sono state rivolte a studiare questi sistemi metallo-proteici in “animali non
convenzionali” che hanno compreso soprattutto molluschi, pesci, rettili, uccelli e mammiferi. In particolare è stata
studiata la struttura e la funzione della metallotioneina (MT).
Materiali e metodi La metallotioneina è stata analizzata con tecniche cromatografiche (gelfiltrazione e scambio
ionico), elettroforetiche (SDS-PAGE, Western Blotting, Northern Blotting), spettroscopiche (Assorbimento atomico in
fiamma e fornetto di grafite; UV-visibile; CD) e di biologia molecolare (PCR, RT-PCR, QPCR, sequenziamento); è
stato possibile evidenziare che questa proteina è presente in diverse isoforme in tutte le specie da noi indagate.
Risultati e conclusioni In orate (Sparus aurata) esposte a Cu (0,5 ppm) in acqua abbiamo potuto evidenziare nel fegato
un significativo accumulo del metallo con induzione della MT ed aumento sia della concentrazione della proteina che
del suo RNAm, dimostrando che la sintesi di MT rappresenta una rapida risposta cellulare contro gli effetti tossici del
Cu (Isani et al., 2003). In tartarughe verdi (Chelonia mydas) provenienti dal Costa Rica il Cu è presente nel fegato in
concentrazioni significativamente più elevate (100,5±11,5 µg/g t.s.) di quelle riscontrate nello stesso organo di specie
differenti di tartarughe marine o in organi diversi dei medesimi esemplari, quali il rene dove i valori riscontrati sono
risultati pari a 6,97±0,27 µg/g t.s.; parallelamente la MT in Chelonia mydas è espressa prevalentemente nel fegato con
una isoforma principale, che lega soprattutto Cu, mentre nel rene è stato possibile isolare la proteina legata a Cd e Zn.
Diversamente la beccaccia (Scolopax rusticola) presenta elevati livelli di Cd nel fegato e nel rene con concentrazioni
pari a 2,4±0,2 µg/g t.f. e 12,1±0,9 µg/g t.f. rispettivamente; in entrambi i tessuti è stato possibile isolare la MT legata
principalmente a Cd in un’unica isoforma con accumulo della proteina particolarmente nel rene; riteniamo che ciò sia
dovuto alla dieta particolare di questa specie aviare selvatica basata principalmente su anellidi (Carpenè et al., 2006).
Analogamente alla beccaccia, anche il tasso (Meles meles) pur essendo onnivoro si ciba soprattutto di insetti, lumache e
lombrichi e in un esemplare da noi esaminato abbiamo riscontrato concentrazioni di Cd pari a 3,93 µg/g t.f. nel rene e a
0,59 µg/g t.f. nel fegato risultate più elevate rispetto ai livelli di Cd in fegato e rene di volpe (Vulpes vulpes),
mammifero prettamente carnivoro; il Cd è sempre immobilizzato dalla metallotioneina. I dati riscontrati in tutte le
diverse specie da noi esaminate sono indicativi di un limitato inquinamento ambientale.

Bibliografia Carpenè E., Andreani G., Monari M., Castellani G. and Isani G. (2006) Sci Total Environ, in press.
Isani G., Andreani G., Monari M. and Carpenè E. (2003) J. Trace Elem. Med. Biol., 17, 17-23.

62
VARIAZIONI INTERSPECIFICHE DEI LIVELLI DI ARSENICO TOTALE IN
ORGANISMI MARINI DEL MEDIO ADRIATICO
Benedetta Giannella1; M. Perugini1*; M. Manera1; A. Giammarino1; A. Zaccaroni2; M. Zucchini2; W. Di Nardo 3;
V. Olivieri3; M. Amorena1
1
Dipartimento di Scienze degli Alimenti – Università degli Studi di Teramo 2Dipartimento di Sanità Pubblica
Veterinaria e Patologia Animale – Università degli Studi di Bologna – 3D .R Struttura Semplice Igiene e Controllo
Veterinario Prodotti della pesca ASL Pescara

Introduzione. L’arsenico (As), sebbene sia di fatto un non metallo, viene normalmente elencato, in molti studi, insieme
ai metalli pesanti. La sua tossicità è elevata ma strettamente legata alla forma chimica. Numerosi studi epidemiologici
hanno riportato una forte correlazione tra l’esposizione cronica all’As e la comparsa di effetti tossici nell’uomo quali
melanosi, ipercheratosi e differenti forme neoplastiche. L’As è abbondantemente distribuito nella crosta terrestre: si
trova nei suoli, nelle acque ed in quasi tutti i tessuti animali e vegetali. In ambiente marino i composti dell’As subiscono
processi di ossidazione, riduzione, metilazione e demetilazione, questi ultimi risultano essere particolarmente
influenzati dalle caratteristiche chimico-fisiche delle acque quali pH, temperatura, ossigenazione e composizione dei
sedimenti. Il risultato è la formazione di composti metilati, con diverso potenziale di tossicità, che possono essere
assunti dalle specie marine e, attraverso la dieta, giungere ai consumatori. L’As, come tutti i metalli (fatta eccezione per
la forma organica del mercurio) non biomagnifica. Negli animali marini l’As è presente in percentuali variabili tra il 90-
99% sottoforma di composti organici, principalmente arsenobetaina nei pesci e crostacei ed arsenozuccheri nei
molluschi. Tali composti, essendo scarsamente assorbiti dal tratto gastrointestinale ed essendo prontamente eliminati
con le urine dall’uomo, sono da considerare di scarso interesse tossicologico. Contrariamente, l’As inorganico, sia
trivalente (As+3) che pentavalente (As+5), viene assorbito velocemente e trasportato nei diversi tessuti ed organi. Qui, la
maggior parte, viene convertito nei corrispondenti prodotti metilati escreti con le urine, mentre una piccola quota si
accumula nei tessuti ricchi di cheratina come capelli e unghie. Questo accumulo dipende dall’elevata affinità dell’As
per i gruppi sulfidrilici. Negli ultimi decenni l'As ha assunto importanza come contaminante ambientale, e la sua
presenza negli alimenti o nelle bevande suscita un certo interesse per la tutela della salute dei consumatori. Le
informazioni sui tenori di arsenico negli alimenti in generale sono piuttosto scarse anche se, essendo i prodotti ittici
quelli in assoluto più contaminati, questi potrebbero contribuire ampiamente all’apporto di As sopratutto nei forti
consumatori di pesce. Questo lavoro, che si inserisce in un progetto cofinanziato col PRIN 2002, volto a valutare la
contaminazione da xenobiotici in specie ittiche del mar Mediterraneo, ha come scopo, la determinazione della
contaminazione da As in alcune specie ittiche di largo consumo provenienti dal medio Adriatico. Le quantità di As
rilevate nei capelli di pescatori, forti consumatori di pesce, residenti nella zona di Pescara sono state, inoltre messe in
correlazione con le quantità medie di prodotti ittici da loro ingerite mensilmente, per poter così valutare lo scenario di
esposizione.
Materiali e metodi. In totale sono stati analizzati 84 campioni tra pesci, crostacei e molluschi, tutti pescati nel medio
Adriatico a 40 miglia dalla costa di Pescara (42°-40'-67'' Nord e 14°-38'-05'' Est). In particolare le analisi sono state
condotte su scampi (Nephrops norvegicus), triglie (Mullus barbatus), totani (Todarodes sagittatus), sgombri (Scomber
scombrus), melù (Micromesistius poutassou) e naselli (Merluccius merluccius). Il campionamento è stato effettuato in
due diversi periodi, giugno e dicembre 2004. Per la determinazione dei metalli si è provveduto quindi alla
mineralizzazione della matrice organica, utilizzando aliquote dei tessuti liofilizzati (0,080-0,200 g). A ciascuna aliquota
sono stati addizionati 2 ml di acido nitrico e 0,5 ml di acqua ossigenata, prima di procedere all’estrazione con fornetto a
microonde modello MLS 1200 (Milestone). Al termine del protocollo di mineralizzazione le soluzioni acide sono state
travasate in provette di plastica (preventivamente lavate con acqua e acido nitrico 9:1) e portate al volume di 10 ml con
acqua bidistillata. Per quantificare l’As presente nei campioni è stato utilizzato uno spettrometro di massa con sorgente
al plasma (ICP-MS; modello 7500 a, Agilent HP), interfacciato ad autocampionatore (modello ASX-500, CETAC). La
curva di calibrazione è stata realizzata alle concentrazioni di 0-1-5-10 ng/g, utilizzando come standard interni germanio
(72-Ge) e rodio (103-Rh) e Lutezio (175 – Lu). In contemporanea oltre alle analisi sugli organismi marini sono stati
raccolti ed analizzati campioni di capelli provenienti da 20 pescatori residenti nella zona di Pescara. Queste analisi sono
state condotte su circa 0.204 g di capelli dal laboratorio DOCTOR’S DATA INC (Charles, IL, USA), sempre mediante
ICP-MS. L’elaborazione statistica è stata effettuata con SPSS 13.0.1 (SPSS Inc., Chicago, IL, USA). La normalità dei
dati è stata valutata con il test di Kolmogorov-Smirnov. Non essendo i dati normalmente distribuiti, si è proceduto alla
trasformazione logaritmica degli stessi. E’ stato utilizzato il test ANOVA (modello generale-lineare). E’ stata inoltre
valutata la correlazione tra i livelli di As nei capelli con le quantità medie di prodotti ittici ingerite mensilmente dai
pescatori (correlazione parziale).
Risultati e conclusioni. I contenuti medi di As totale riscontrati nel tessuto muscolare di molluschi e crostacei
analizzati (scampi, totani) sono risultati più elevati (66,04 ± 8,26 mg kg-1 fresco) rispetto a quelli osservati nei pesci
(34,82 ± 2,58 mg kg-1 fresco) (p< 0,01). Inoltre, gli organismi bentonici (scampi e triglie) hanno presentato
concentrazioni più elevate di As (57,45 ± 5,51 mg kg-1 fresco) rispetto ai pesci pelagici, quali sgombri, melù e naselli
(34,28 ± 3,09 mg kg-1 fresco) (p< 0,01). Le concentrazioni di questo elemento sono risultate essere particolarmente
elevate nel tessuto muscolare di totani (67,38 ± 12,07 mg kg-1 fresco), con valori medi simili a quelli riscontrati negli

63
scampi (64,72 ± 11,76 mg kg-1 fresco). Gli sgombri (estate: 4,23 ± 1,03 mg kg-1 fresco; inverno: 36,02 ± 8,23 mg kg-1
fresco) ed i naselli (estate: 17,69 ± 2,46 mg kg-1 fresco; inverno: 44,76 ± 6,33 mg kg-1 fresco) hanno anche riportato
delle variazioni stagionali statisticamente significative (p<0,01), mostrando valori più elevati durante l’inverno. Il
tessuto muscolare dei pesci, che rappresenta la porzione edibile, ha riportato concentrazioni di As di circa il doppio
rispetto a quelle riscontrate nella lisca con valori, rispettivamente, di 42,45 ± 4,35 mg kg-1 fresco e di 27,34 ± 2,44 mg
kg-1 fresco (p< 0,01). Le alte concentrazioni di As totale riscontrate nei nostri campioni sono in accordo con i dati
riportati da altri Autori che hanno evidenziato come l'accumulo possa essere particolarmente elevato nei molluschi e nei
crostacei, specialmente se questi organismi vivono in acque contaminate, raggiungendo anche concentrazioni intorno a
100 mg/kg; i pesci generalmente presentano livelli inferiori.

80.000

60.000
Media +- 1 ES As

40.000

20.000

Nephrops Mullus Merluccius Micromesistius Scomber Totarodes Homo sapiens


norvegicus barbatus merluccius poutassou scombrus sagittatus

species

Figura 1. Confronto tra le concentrazioni di As (ng/g fresco) presenti nelle specie ittiche e nei capelli dei pescatori

Il quantitativo di As contenuto nei capelli dei pescatori è risultato essere estremamente basso (0,075 ± 0,012 mg kg-1
fresco; p<0,01). Queste basse concentrazioni potrebbero essere giustificate dal fatto che nell’uomo più del 98% dell’As
totale presente nei capelli è nella forma inorganica, mentre negli organismi marini l’As è presente prevalentemente nella
forma organica. Inoltre i dati relativi all’As, ritrovato nei capelli dei pescatori, sono stati messi in correlazione con il
quantitativo di pesce consumato dagli stessi, ed, escludendo alcune fonti di interferenza come amalgama dentale,
quantità di sigarette fumate e caffé bevuti è risultata una correlazione positiva, statisticamente significativa,
(coefficiente di correlazione parziale, 0,70; p< 0,01) che sta sottolineare come il consumo di prodotti ittici possa influire
sull’accumulo di As nei capelli. Quindi, anche se l'arsenico nei prodotti ittici è presente in gran parte come composti
organici, il contributo all'assunzione con la dieta fornito da questi alimenti potrebbe essere piuttosto elevato. Il rischio è
maggiore nel caso di particolari categorie di persone, come i pescatori, che ingeriscono quantità di pesce superiori
rispetto alla media. I dati relativi agli alimenti nel nostro paese confermano gli elevati tenori di arsenico nei prodotti
ittici, ma non è possibile stimare con certezza la percentuale di As inorganico in essi presenti e di conseguenza valutare
il rischio cui il consumatore è esposto.

*Dipartimento di Scienze degli Alimenti. Facoltà di Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Teramo. Viale F.
Crispi, 212. I-64100 Teramo. Italy.
Tel: +39 0861 266964, Fax: +39 0861 266987, e-mail: mperugini@unite.it

64
LA RISPOSTA CONTRATTILE INTESTINALE ALL’ISTAMINA NELLA TROTA
IRIDEA (Oncorhynchus mykiss Walbaum, 1792)

M. Manera*; A. Giammarino; M. Perugini; M. Amorena


Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Unità di Ricerca di Farmacologia e Tossicologia Veterinaria – Università degli
Studi di Teramo

Introduzione. Il contenuto in istamina nei tessuti dei vertebrati manifesta una cospicua variabilità con contenuti più alti
negli uccelli e nei mammiferi e più bassi nei pesci. Ciononostante lo stomaco dei pesci, ove presente, manifesta livelli
di istamina comparabili con quelli dello stomaco dei vertebrati “superiori”. Le cellule endocrine
“enterocromaffinosimili” sono considerate la sede di stoccaggio dell’istamina a livello gastrico; i livelli elevati di tale
ammina sono stati messi in relazione con la secrezione acida gastrica per il tramite della stimolazione di recettori H2. In
riferimento all’azione dell’istamina sulla contrattilità intestinale, i dati non sono aggiornati o sono frammentari. Lo
scopo della presente ricerca è stato quello di acquisire dati aggiornati circa la risposta contrattile dell’intestino di trota
all’istamina e di compararli con quelli di un agonista pieno noto, la serotonina, precedentemente saggiata da altri autori.
Materiali e metodi. Sono state campionate 16 trote iridee (Oncorhynchus mykiss Walbaum, 1792) clinicamente sane
previo digiuno di 24 h. Per ogni pesce si è proceduto a misurare o calcolare i seguenti dati biometrici (media ± e.s.):
lunghezza standard (26.6 ± 1.0 cm), massa corporea (266.2 ± 30.1 g), condition factor (1.3 ± 0.0), massa epatica (3.1 ±
0.3 g), indice epatosomatico (1.2 ± 0.1), massa splenica (0.6 ± 0.1 g), indice splenosomatico (0.2 ± 0.0). Si è inoltre
proceduto al prelievo ematico caudale in tutti i pesci campionati, prima della dissezione. I parametri ematici (siero)
rientravano nei range conosciuti per la specie. Successivamente si è proceduto all’esecuzione di una necroscopia
completa per escludere patologie macroscopicamente evidenti, con particolare riguardo all’intestino che è stato
completamente dissezionato dopo la rimozione dei campioni intestinali. I campioni, di 1.5 – 2.0 cm di lunghezza, sono
stati prelevati dall’intestino craniale, caudalmente all’ultimo cieco pilorico. Gli strip intestinali sono stati
immediatamente montati in un bagno per organi isolati contenente 10 ml di soluzione Ringer per trota (NaCl, 110 mM;
KCl, 2 mM; CaCl2, 1.5 mM; NaHCO3, 1mM; NaH2PO4, 0.4 mM; MgSO4, 0.5mM; pH 7.4) a 20 °C, areata con una
miscela di O2 e CO2 (95:5). La tensione basale è stata mantenuta a 2 g in condizioni isometriche. La forza sviluppata dai
campioni di intestino è stata misurata tramite un trasduttore di forza isometrico Fort WPI 10 (WPI Inc., Sarasota, FL,
USA), registrata ed elaborata con un registratore computerizzato (PowerLab™, ADInstruments Pty Ltd, Castle Hill,
Australia). Le variazioni di tensione sviluppata dalle ammine saggiate sono state normalizzate dividendo il valore di
tensione espresso in grammi per un fattore tessutale ottenuto dividendo il peso (g) con la lunghezza (cm) del campione
intestinale. Il valore ottenuto è stato considerato equivalente alla tensione sviluppata per area di sezione trasversale (g
cm-2)
I campioni di intestino sono stati lasciati ad equilibrarsi per la durata di 1 h, cambiando la soluzione del bagno ogni 20’.
Gli agonisti sono stati messi a contatto con i campioni in successione, partendo con la serotonina in una metà dei
campioni e con l’istamina nella restante metà, per evitare che l’ordine di partenza potesse influenzare i risultati finali.
Dopo ripetuti cambi della soluzione del bagno si è proceduto all’aggiunta dell’agonista successivo. Gli agonisti sono
stati aggiunti con una progressione di 0.5 M a partire da 10-9 M fino a 10-3 M e la contrazione è stata registrata fino al
raggiungimento del plateau. Per escludere l’evenienza di contrazioni eventualmente indotte dal rilascio di altri agonisti
in situ, a seguito della somministrazione di istamina, è stato valutato l’effetto dell’antagonista H1 pyrilamina. A tal fine,
dopo ulteriori cambi di soluzione del bagno, i campioni sono stati incubati con concentrazioni progressive di
pyrilamina, da 10-10 M fino a 10-3 M per 15’ e testate nuovamente con istamina alla concentrazione più elevata (10-3 M),
previo cambio della soluzione del bagno ad ogni concentrazione di pyrilamina subentrante. Al termine di ciascuna
prova i campioni di tessuto sono stati rimossi dal bagno, asciugati, misurati (cm) e pesati (g). Per ogni agonista è stata
calcolata la curva concentrazione-risposta con GraphPad Prism® 4 (GraphPad Software Inc., San Diego, CA, Usa)
utilizzando un modello dose-risposta sigmoidale a pendenza variabile. Le differenze tra i parametri caratteristici delle
curve dei due agonisti sono stati valutati con F test (α= 0.05).
Risultati e conclusioni. La serotonina ha indotto una contrazione concentrazione-dipendente in tutti i campioni
esaminati, mentre solo 14 di questi (87.5%) hanno riposto all’istamina. Sette di questi 14 hanno mostrato una
contrazione concentrazione-dipendente. I rimanenti sette hanno manifestato contrattilità alle dosi relativamente più
basse di istamina (10-8 – 10-7 M), con una riposta bifasica (contrazione seguita immediatamente da rilassamento) alle
concentrazioni più alte. Le curve concentrazione-risposta illustranti la potenza (risposta %) e l’efficacia (risposta in g)
dei due agonisti sono riportate rispettivamente in fig. 1 a e b.

65
140 70
5-HT 5-HT
120 60
Istamina Istamina
100 50
Risposta %

Risposta [g]
80 40
60
30
40
20
20
10
0
0

Controllo 10 -9 10 -8 10 -7 10 -6 10 -5 10 -4 10 -3
Controllo 10 -9 10 -8 10 -7 10 -6 10 -5 10 -4 10 -3

Agonista [M] Agonista [M]

Fig. 1 a, b. Curve concentrazione-risposta riferite alla potenza (pD2) ed all’efficacia (Emax).

Per quanto riguarda la bontà dell’adattamento, l’R2 delle curve della serotonina e dell’istamina era pari a 0.70 e 0.55
rispettivamente. Il test delle successioni (runs test) ha evidenziato una buona concordanza col modello (p> 0.50). La
serotonina si differenziava significativamente (Anova, p< 0.01) dall’istamina per i valori del logaritmo negativo della
EC50 (pD2) (rispettivamente 6.82 ± 0.09 vs 5.65 ± 0.20), ma non per quelli di efficacia (Emax) (rispettivamente 58.69 ±
2.77 vs 39.17 ± 10.43) (Anova, p> 0.05). La pyrilamina inibiva completamente la contrattilità indotta dall’istamina a
concentrazioni 10-4 M.
La fisiologia comparata dell’istamina è stata presa in rassegna più di 30 anni fa da Reite, il quale, in riferimento ai
pesci, stigmatizzò la frammentarietà dei dati disponibili, focalizzando la sua attenzione sulla presenza/assenza di
istamina negli organi dei pesci, piuttosto che sulla assenza/inconsistenza della sua azione. Più recentemente, ed in
riferimento alla trota, altri autori hanno sottolineato l’assenza di contrattilità evidente in campioni intestinali trattati con
basse dosi istamina, ma contrattilità evidente alle dosi più alte. Per quanto riguarda i recettori per l’istamina,
attualmente sono stati descritti i recettori H1 e H3, anche se la presenza di recettori H1 ed H2 è stata, comunque,
suggerita per via di evidenza indirette. Nel porcellino d’India sono stati descritti tutti e tre i tipi di recettore a livello di
intestino tenue. Tali recettori sono stati considerati responsabili della contrazione e del rilassamento intestinale dose-
dipendente. In altre parole l’istamina svolgerebbe azioni contrapposte secondo il recettore stimolato. La possibile
coesistenza di diversi tipi recettoriali a livello di intestino anteriore nella trota iridea potrebbe spiegare la risposta
bifasica osservata in parte delle trote oggetto della sperimentazione. Inoltre l’effetto dell’antagonista H1, pyrilamina,
escluderebbe l’aspecificità dell’azione contrattile indotta dall’istamina con uno specifico coinvolgimento dei predetti
recettori nella riposta contrattile osservata. Per quanto riguarda l’origine dell’istamina nell’intestino, sono state descritte
delle cellule endocrine immunoreattive all’istamina nel duodeno dello spinarello (Gasterosteus aculeatus aculeatus
Linneus, 1758) anche se altri autori non le hanno trovate a livello immunocitochimico in due pesci cartilaginei ed in 4
pesci ossei, spinarello compreso (sic). Tuttavia mancano dati specifici riferiti alla trota iridea ed, inoltre, restano da
valutare le possibili fonti “esogene” di istamina (ad esempio di origine batterica). In riferimento alla variabilità della
risposta contrattile all’istamina (concentrazione-dipendente vs non concentrazione-dipendente) non è possibile
escludere il coinvolgimento di fattori non monitorati nel corso della presente sperimentazione (ad esempio l’effetto
dello stress da cattura) ed è necessario procedere ad ulteriori osservazioni prima di poter speculare in merito. In ogni
modo, è interessante notare come sia stata descritta nella trota iridea una alterazione della funzionalità intestinale a
seguito di stress acuto. In conclusione, l’istamina è risultata in grado di modificare la contrattilità intestinale nella trota
iridea con una risposta comparabile, in termini di efficacia contrattile, a quella indotta dalla serotonina, sebbene la
potenza differisca di un ordine di grandezza rispetto a quest’ultima.

*Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Unità di Ricerca di Farmacologia e Tossicologia Veterinaria. Facoltà di
Medicina Veterinaria – Università degli Studi di Teramo. Viale F. Crispi, 212. I-64100 Teramo. Italy.
Tel: +39 0861 266964, Fax: +39 0861 266987, e-mail: mmanera@unite.it

66
APPLICAZIONE DELLA CIRCOLARITA’ EMOCITARIA COME PARAMETRO DI
STRESS IN MYTILUS GALLOPROVINCIALIS (Lmk, 1819)
Francesco Mosca; Valeria Narcisi; Angela Calzetta; Selene Marozzi; Maria Grazia Finoia1;
Pietro-Giorgio Tiscar*
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate - Università degli Studi di Teramo
1
Istituto Centrale per la Ricerca scientifica Applicata al Mare - Roma

Introduzione
Lo stress costituisce una risposta aspecifica degli organismi nei confronti delle stimolazioni capaci di modificare la
normale condizione omeostatica. In tal senso, il sistema immunitario rappresenta un target molto sensibile a fattori
fisici, chimici e biologici, la cui alterazione può comportare ripercussioni negative nella risposta a noxae patogene. Nei
molluschi bivalvi marini la fagocitosi riveste un ruolo primario nei meccanismi di risposta immunitaria e, in particolare,
gli emociti circolanti nell’emolinfa svolgono la funzione di inglobamento e degradazione degli elementi estranei. In
condizioni di normalità gli emociti si presentano come cellule tendenzialmente rotondeggianti che, in presenza di
adeguati stimoli chemiotattici ed a seguito del riarrangiamento citoscheletrico legato a dinamiche di rilascio dello ione
calcio, emettono pseudopodi, acquisendo una capacità locomotoria indispensabile nelle fasi riconoscimento, adesione
ed inglobamento. La possibilità di valutare il processo di attivazione ameboide mediante parametri (circolarità
emocitaria) e metodiche (Analisi di Vitalità Cellulare) innovative, in grado di misurare qualitativamente e soprattutto
quantitativamente la condizione omeostatica di cellule immunitarie, consentirebbe di monitorare lo stato di salute di
mitili e molluschi bivalvi in genere, evidenziando in maniera precoce i potenziali effetti degli stressori non solo a carico
dei banchi naturali e degli allevamenti, ma anche nell’ambito di processi di filiera.

Materiali e metodi
I mitili venivano campionati stagionalmente presso allevamento e l’emolinfa prelevata dal muscolo adduttore posteriore
mediante siringa ipodermica contenente soluzione antiaggregante di Alsever. L’analizzatore di vitalità cellulare (CVA)
(Vi-Cell, Beckman Coulter) costituisce uno strumento in grado di misurare svariati parametri di una sospensione
cellulare, quali la concentrazione, la percentuale di vitalità, la distribuzione dei diametri e la circolarità (C). In
particolare, la C viene calcolata come rapporto tra i diametri trasversali di una cellula, fornendo un valore numerico
compreso tra 0 ed 1. Il campionamento stagionale ha fornito quindi un livello basale di distribuzione del parametro C.
Di seguito, la valutazione di C è stata effettuata mediante prove di fagocitosi in vitro, incubando gli emociti con ceppi
batterici di Vibrio alginolyticus. Il medesimo approccio sperimentale è stato condotto in citometria a flusso,
evidenziando non solo il ruolo della fagocitosi nella modulazione di un parametro morfologico, quale la complessità
strutturale, ma anche il ruolo del calcio nei processi di attivazione ameboide, impiegando a tal fine uno specifico
tracciante fluorescente (Fluo3/AM). Successivamente i mitili venivano sottoposti a stress termico subletale per tempi
diversi ed i parametri emocitari valutati mediante CVA al termine del trattamento e nelle successive 2, 6, 12 e 24 ore di
recupero alle condizioni di controllo. Inoltre, al termine dello stress, l’emolinfa veniva incubata con V. alginolyticus al
fine di evidenziare il potenziale impatto negativo dello stress sulla capacità ameboide. Infine, i mitili sono stati esposti a
tipologie di stress, quali l’ipossia, meno intensi rispetto al trattamento termico, ma di maggiore riscontro sia
nell’ambiente naturale che nell’ambito di filiere commerciali. A tal fine, l’emolinfa veniva prelevata a 2, 6, 12 e 24 ore
da soggetti mantenuti in ipossia a 4 °C.
I valori di C, espressi come medie e deviazioni standard, sono stati elaborati statisticamente mediante analisi della
varianza a una o due vie e del confronto multiplo post hoc T3 di Dunnett.

Risultati e conclusioni
Nell’ambito dei campionamenti stagionali il parametro C ha mostrato oscillazioni statisticamente significative (Dunnett
T3 test, p<0.001) tra i mesi estivi, nei quali sono stati evidenziati i valori massimi (0.76), ed i mesi invernali,
caratterizzati dai valori minimi (0.70). Tale variabilità sembrerebbe essere legata alle fluttuazioni stagionali dei
parametri fisico-chimici delle acque, in particolare del fattore temperatura che gioca un ruolo molto importante in
organismi eterotermi quali i molluschi bivalvi marini. Le prove di fagocitosi condotte in vitro hanno evidenziato un
significativo decremento di C (0.65) rispetto al controllo (0.75) (Dunnett T3 test, p<0.001), quale segno tangibile
dell’aumento di irregolarità morfologica e quindi dell’attivazione ameboide connessa all’emissione pseudopodica. La
citometria a flusso ha evidenziato un aumento della complessità strutturale degli emociti durante la stimolazione
fagocitaria in vitro, così come l’impiego del tracciante Fluo3-AM ha rilevato il rilascio intracitoplasmatico del calcio, in
particolare nella popolazione emocitaria rispondente per caratteristiche morfologiche a cellule granulocitarie. Nelle
prove di stress termico condotte per tempi minori, il valore di C mostrava incrementi significativi rispetto al controllo
(0.72), sia al termine dello stress (0.84) che durante il recupero a 2 ore (0.80) (Dunnett T3 test p<0.001), mentre a
distanza di 6 ore si assisteva ad un ritorno ai valori di controllo (0.72) (Dunnett T3 test n.s.). L’applicazione dello stress
termico per tempi maggiori determinava un aumento significativo di C al termine dello stesso (0.82) e durante il
recupero a 2 e 6 ore (0.80, 0.80, Dunnett T3 test p<0.001) con valori che tornavano ai livelli del controllo dopo 12 ore
(0.73) (Dunnett T3 test n.s.). Le prove di stress termico hanno quindi evidenziato una cinetica di risposta in relazione

67
alla durata del trattamento. Infatti, l’aumento di C nei due gruppi è similare al termine dello stress (Dunnett T3 test n.s.),
mentre la capacità di recupero risulta differente, più lenta nei soggetti stressati per tempi maggiori. Negli esperimenti
condotti applicando condizioni ipossiche, il valore di C è aumentato significativamente rispetto al controllo (0.72) a
partire dalle 3 ore di esposizione (0.77) (Dunnett T3 test p=0.001) fino a raggiungere il culmine dopo 24 ore (0.83)
(Dunnett T3 test p<0.001). L’ipossia ha evidenziato un incremento più lento di C, con valori massimi che tuttavia
eguagliano quanto evidenziato al termine dei trattamenti con alte temperature. La stimolazione batterica condotta su
emociti prelevati da mitili stressati non ha sortito alcun effetto in termini di attivazione ameboide, visto che i valori di C
sono rimasti elevati (0.80). Lo stress quindi determina un aumento di C, probabilmente imputabile ad una inibizione del
citoscheletro ancora da comprendere nei suoi meccanismi, mentre la stimolazione con batteri riduce i valori di questo
parametro. In altri termini, il fattore stressogeno risulta in grado di inattivare gli emociti conferendo una maggiore
rotondità mentre lo stimolo fagocitario attiva le cellule inducendone una conformazione ameboide. A testimonianza del
duplice significato del parametro circolarità, in termini di attivazione ed inattivazione immunologica, gli emociti
appartenenti ad organismi stressati ed, in quanto tali, caratterizzati da una conformazione rotondeggiante, mantenevano
la loro rotondità anche a seguito della stimolazione batterica, confermando così gli effetti inibitori dello stress sulla
fagocitosi emocitaria o, più esattamente, sull’attività pseudopodica e locomotoria.
In considerazione del ruolo predominante dell’immunità cellulare nei molluschi e della suscettibilità ai diversi fattori
ambientali ed antropici che ne influenzano l’efficienza, l’utilizzo di parametri morfologici precoci, quali la circolarità, e
l’impiego di metodiche automatizzate, quali il CVA, possono costituire nuovi strumenti sia in ricerche di base volte alla
conoscenza intrinseca dei processi, sia in studi applicati inerenti la valutazione della salute ambientale, della qualità
alimentare e, in termini più generali, del benessere animale.

*Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate.


Facoltà di Medicina Veterinaria - Università degli Studi di Teramo.
P.zza Aldo Moro, 45 - 64100 Teramo. Italy.
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VALUTAZIONE DELLA PRODUZIONE DI ROS IN EMOCITI DI MYTILUS
GALLOPROVINCIALIS (Lmk, 1819) E POTENZIALE IMPIEGO QUALE PARAMETRO
DI STRESS

Francesco Mosca; Valeria Narcisi; Selene Marozzi; Angela Calzetta; Maria Grazia Finoia1; Luisa Gioia;
Pietro-Giorgio Tiscar*
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate - Università degli Studi di Teramo
1
Istituto Centrale per la Ricerca scientifica Applicata al Mare - Roma

Introduzione

Le specie reattive dell’ossigeno (ROS) costituiscono molecole altamente ossidanti che traggono origine dal
metabolismo intracellulare dell’ossigeno molecolare. In tal senso la produzione di ROS rappresenta un evento cruciale
del processo fagocitario, in quanto permette ai fagociti di distruggere, in associazione alla componente enzimatica
lisosomiale, il materiale ingerito. Nei molluschi bivalvi marini, la fagocitosi svolge un ruolo predominante nell’ambito
del sistema immunitario e gli emociti circolanti nell’emolinfa presiedono ai processi di degradazione del materiale
inglobato. Il burst respiratorio evidenziato negli emociti presenta notevoli analogie con quanto descritto nei fagociti dei
mammiferi, sia in termini di vie metaboliche che di siti di produzione dei ROS. I fattori di stress possono modulare la
sintesi di ROS e quindi incidere sulla capacità difensiva dei molluschi bivalvi. Pertanto, la messa a punto di metodiche
in grado di fornire valutazioni qualitative e quantitative della produzione di ROS, così come la scelta degli opportuni
traccianti idonei a misurare in maniera specifica le diverse tipologie di metaboliti, ed infine l’impiego di validi stimoli
fagocitari negli studi in vitro, costituiscono prerogative essenziali sia in ricerche di base che applicate.

Materiali e metodi

I mitili venivano campionati presso allevamento e l’emolinfa prelevata dal muscolo adduttore posteriore mediante
siringa ipodermica. Negli studi condotti in micrometodo, volti a descrivere la sintesi di ROS in termini quantitativi,
oltre a fornire andamenti temporali del processo, l’emolinfa veniva posta in piastre da microtitolazione ed incubata con
luminolo, 1,2,3-DHR e DAF2-DA, specifici rispettivamente nei confronti dell’anione superossido, dei perossidi e
dell’ossido nitrico. In tal senso, venivano anche allestiti pozzetti contenenti superossido dismutasi (SOD), al fine di
evidenziare la specificità del segnale fornito dal luminolo e dalla 1,2,3-DHR. La specificità della DAF2-DA, al
contrario, è stata valutata mediante inibitore dell’ossido nitrico sintasi (L-NMMA). Successivamente venivano aggiunti
gli stimoli fagocitari costituiti da molecole solubili (LPS, PMA, fMLP) o da elementi corpuscolati quali lieviti
(Saccharomyces cerevisiae) e batteri (Vibrio alginolyticus). La lettura veniva effettuata mediante luminometro e
fluorimetro. Il medesimo protocollo sperimentale è stato applicato sia in citometria a flusso, al fine di evidenziare una
possibile rispondenza tra le caratteristiche morfologiche delle popolazioni emocitarie individuate e la produzione di
ROS, sia in microscopia confocale, permettendo la visualizzazione diretta delle strutture intracellulari coinvolte nel
processo di sintesi dei ROS. Infine, la misurazione di ROS è stata effettuata su emolinfa di mitili stressati termicamente,
immediatamente al termine del trattamento, mediante citometria a flusso, luminometria e fluorimetria in micrometodo,
impiegando lieviti quale stimolo fagocitario e luminolo oppure 1,2,3-DHR come traccianti.

Risultati e conclusioni

Negli esperimenti condotti in micrometodo, gli elementi corpuscolati, in particolare i lieviti, determinavano gli
incrementi maggiori di segnale sia in luminescenza nelle prove effettuate con luminolo che in fluorescenza impiegando
la 1,2,3-DHR e la DAF2-DA. Inoltre, l’utilizzo della SOD confermava la specificità della reazione del luminolo e della
1,2,3-DHR nei confronti dell’anione superossido e dei perossidi, rispettivamente, mentre l’impiego dell’L-NMMA
evidenziava la specificità della DAF2-DA nei confronti dell’ossido nitrico. Lo scarso ruolo immunostimolante
evidenziato dalle molecole solubili, normalmente impiegate come induttori del burst respiratorio nei fagociti dei
mammiferi, è stato inteso come assenza di sistemi recettoriali negli emociti di mitili ovvero assenza di un sistema di
mediatori idonei ad attivare la produzione di ROS in mancanza di strutture fagosomiali, connesse all’inglobamento di
elementi corpuscolati. Il modello di studio ideale, costituito quindi dall’impiego di stimoli fagocitari corpuscolati, in
particolare lieviti, è stato applicato successivamente in citometria a flusso ed in microscopia confocale. Le metodiche in
micrometodo, infatti, hanno permesso di effettuare una valutazione quantitativa della produzione di ROS, evidenziando
anche un andamento temporale del processo, fornendo tuttavia alcun dato morfologico. Al contrario, la citometria a
flusso ha consentito di distinguere morfologicamente due popolazioni emocitarie, evidenziando inoltre una maggiore
capacità ossidativa nella popolazione più grande e strutturalmente più complessa, riconducibile microscopicamente a
cellule granulocitarie. La microscopia confocale ha confermato a livello citologico il burst respiratorio, individuando la
sintesi di ROS a livello dei granuli lisosomiali, i quali tendevano progressivamente a formare grandi vacuoli in grado di
fondersi con i fagosomi contenenti il materiale inglobato, in maniera del tutto similare a quanto ampiamente descritto

69
nei mammiferi. La messa a punto e l’utilizzo integrato di tali metodiche costituiscono elementi fortemente innovativi
per il settore, da utilizzare non solo in ricerche di base ma anche nel monitoraggio ambientale, nella gestione della
risorsa e nella valutazione della qualità alimentare. Risulta ben noto, infatti, come le differenti tipologie di stress
possano modulare negativamente la risposta immunitaria, in termini di ridotte capacità ameboidi ed ossidative. I primi
studi condotti in tal senso mediante le metodiche descritte hanno infatti evidenziato il notevole impatto negativo dello
stress termico nella produzione di ROS.

*Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate.


Facoltà di Medicina Veterinaria - Università degli Studi di Teramo.
P.zza Aldo Moro, 45 - 64100 Teramo. Italy.
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AZIONI BIOLOGICHE DEI CAMPI ELETTROMAGNETICI A BASSA FREQUENZA IN
MYTILUS GALLOPROVINCIALIS (Lmk, 1819)
Valeria Narcisi; Selene Marozzi; Angela Calzetta; Francesco Mosca; Maria Grazia Finoia1; Enzo Tettamanti; Pietro
Giorgio Tiscar*
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate - Università degli Studi di Teramo
1
Istituto Centrale per la Ricerca scientifica Applicata al Mare - Roma

Introduzione
I campi magnetici a bassa frequenza (EMF-ELF, 30-300Hz) rientrano nella gamma delle radiazioni non ionizzanti,
caratterizzate cioè da una lunghezza d’onda maggiore di 10-7 m ed un’energia associata inferiore a 12eV. Tale energia è
di intensità insufficiente per produrre ionizzazione molecolare o indurre la rottura di legami chimici anche molto
deboli, per questi motivi fino a qualche decennio fa le radiazioni non ionizzanti non erano considerate in grado di
interagire con i sistemi biologici e, di conseguenza, anche i relativi studi erano poco numerosi e le informazioni
sull’argomento risultavano molto scarse. Solo recentemente, a causa dell’utilizzo sempre più frequente di campi
elettromagnetici a diverse frequenze ed intensità, è stata avviata una vasta attività di ricerca volta alla definizione dei
principali effetti biologici e sanitari.
L’influenza degli ELF-EMF sul sistema immunitario è stata investigata con studi in vivo ed in vitro e, sebbene i
meccanismi biologici alla base delle alterazioni da essi provocati non siano ancora stati delucidati, è comunque
generalmente accettato che campi elettromagnetici di 50-60 Hz (ELF-EMF) determinino delle modificazioni nella
risposta fagocitaria delle cellule.
Scopo del presente lavoro è stato quello di analizzare le differenze nella risposta biologica in vitro ed in vivo in emociti
di Mytilus galloprovincialis (Lmk, 1819) sottoposti a campi elettromagnetici a bassa frequenza (50 Hz), valutando il
rilascio di specie reattive dell’ossigeno (ROS), le variazioni del Calcio intracellulare e le modificazioni della circolarità
emocitaria.

Materiali e metodi
Le prove in vivo sono state effettuate con mitili mantenuti sia all’interno di un sistema a ricircolo di acqua di mare che
in assenza di acqua di mare, sottoposti all’azione di ELF-EMF (1mT, 50 Hz) con differenti tempi di esposizione.
L’azione dell’ELF-EMF è stata inoltre saggiata con prove in vitro direttamente su emociti. La capacità degli emociti di
rilasciare specie reattive dell’ossigeno è stata valutata in micrometodo mediante chemiluminescenza luminolo-
dipendente (Fusion Packard), con e senza aggiunta di particelle di lievito Saccharomices cerevisiae (Zymosan A).
Eventuali modificazioni della circolarità emocitaria, dopo contatto con batteri Gram negativi (Vibrio algynoliticus),
sono state valutate impiegando un analizzatore di vitalità cellulare (Vi-cell, Beckman Coulter). Inoltre è stata
determinata in micrometodo, nel modello in vivo, la quantità di Ca++ intracellulare con e senza stimolazione fagocitaria
(Zymosan A), utilizzando una sonda fluorescente specifica (FLUO3/AM).

Risultati e conclusioni
Gli esperimenti in vivo ed in vitro hanno mostrato una differenza nella produzione cellulare di ROS ma non una
modificazione della circolarità rispetto ai controlli.
In vitro infatti, i radicali reattivi dell’ossigeno dopo stimolazione con lieviti, sono aumentati rispetto al controllo. I
nostri risultati sembrano avvalorare l’ipotesi secondo la quale gli ELF-EFM possono aumentare la durata della vita
media dei radicali liberi dell’ossigeno agendo sulla capacità degli intermedi reattivi di combinarsi con altre molecole o
sui processi catalizzati da alcuni enzimi. Un’alterazione del bilancio fra formazione ed eliminazione dei ROS potrebbe a
sua volta causare danni potenziali agli acidi nucleici, alle proteine, ai lipidi ed ai polisaccaridi della cellula.
Nelle prove in vivo, con e senza acqua di mare, gli emociti sottoposti ad ELF-EMF hanno invece mostrato una risposta
inferiore allo stimolo fagocitario mentre, la quantità di Ca++ intracellulare, non sembra aver subito modificazioni di
rilievo. Tali risultati testimoniano probabilmente la capacità di un organismo intero di modulare l’azione dei ELF-EMF.
In questo senso quindi, giocherebbe un ruolo cruciale in vivo, il tempo d’esposizione dell’animale agli ELF-EMF.
Concludendo, il presente lavoro ha lo scopo di proporre i mitili come modello di studio dell’influenza dei ELF-EMF sui
sistemi biologici considerando in aggiunta che i dati ottenuti forniscono informazioni anche su un organismo acquatico
che in parallelo costituisce un importante prodotto dell’economia ittica nazionale.

* Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate.


Facoltà di Medicina Veterinaria - Università degli Studi di Teramo.
P.zza Aldo Moro, 45 - 64100 Teramo. Italy.
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CARATTERIZZAZIONE FUNZIONALE ED AZIONI BIOLOGICHE DEL SISTEMA
ENDOCANNABINOIDE IN EMOCITI DI MYTILUS GALLOPROVINCIALIS
(Lmk, 1819)
Pietro Giorgio Tiscar*; Angela Calzetta; Valeria Narcisi; Francesco Mosca; Selene Marozzi; Andrea Paradisi;
Francesco De Sanctis; Maria Grazia Finoia1; Mauro Maccarrone
Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate - Università degli Studi di Teramo
1
Istituto Centrale per la Ricerca Scientifica Applicata al Mare - Roma

Introduzione
Gli endocannabinoidi sono una classe di mediatori lipidici, riscontrabili dagli invertebrati all’uomo, aventi il ruolo di
immuno-neuro-modulatori; tra questi l’anandamide (N-arachidonylethanolamide, AEA) e il 2-arachidonil-glicerolo (2-
arachidonylglglicerolo, 2-AG) sono le molecole più rappresentative. In particolare l’AEA, prodotta soprattutto a livello
delle cellule del sistema immunitario e del sistema nervoso centrale, deriva dall’idrolisi del N-arachidonil
fosfatidiletanolamina (NAPE), fosfolipide normale costituente le membrane cellulari. Una volta prodotta, l’AEA viene
rilasciata nello spazio extracellulare per il successivo legame recettoriale ai Cannabinoid receptor (CBR), quali CB1 e
CB2, rispettivamente espressi sopratutto dalle cellule del sistema nervoso centrale e dalle cellule del sistema
immunitario. Numerosi sono gli effetti biologici prodotti dal legame AEA-CBR e dalla consecutiva produzione di
ossido nitrico (NO), derivante da tale legame. Nei mammiferi infatti, gli endocannabinoidi esercitano attività
immunosoppressiva, antiossidante, antinfiammatoria, antidolorifica, ipotensiva, bradicardizzante, interferenza con la
regolazione dell’impianto embrionale e induzione all’apoptosi in cellule neuronali e cerebrali. Nei mitili l’AEA induce
inibizione della chemiotassi, diminuita produzione di IL1 e TNF, che si traducono in una inibizione del sistema
immunitario. Per essere degradata tale molecola è portata nello spazio intracellulare da una proteina carrier
l’Anandamide Membrane Transporter (AMT) e solo successivamente è convertita dalla FAAH (Fatty Acid
Amidohydrolase) in etanolammina e acido arachidonico.
Il presente lavoro ha come obiettivo quello di fornire le prime indicazioni circa la possibile presenza di un sistema
endocannabinoide funzionale in emociti di Mytilus galloprovincialis e di chiarire l’azione biologica di regolazione del
sistema immunitario che l’AEA svolge su tale tipologia cellulare.

Materiali e metodi
Lo studio della presenza di un sistema endocannabinoide funzionale in emociti di mitili è stato valutato mediante:
riconoscimento sierologico di CB2 con tecnica di Western Blotting; prova di legame recettoriale con il cannabinoide
sintetico [3H]CP55.940; trasporto intracellulare di [3H]AEA; attività idrolasica attraverso la misurazione dei prodotti di
degradazione di [14C]AEA.
In merito all’attività fagocitaria, è stata valutata la produzione di radicali dell’ossigeno (ROS) da parte di emociti
stimolati alla fagocitosi di lieviti (Saccaromices cerevisiae), in presenza di AEA e dell’antagonista selettivo per CB2
(SR144528), mediante tecnica di chemiluminescenza luminolo dipendente (LuCL) che misura in modo preferenziale
l’Anione Superossido (O2-). Inoltre, mediante un analizzatore di vitalità cellulare (Vi-Cell, Beckman Coulter), è stato
studiato l’effetto dell’AEA sulla capacità locomotoria degli emociti successivamente alla fagocitosi di batteri (Vibrio
alginolyticus).
Al fine di rilevare nelle cellule emocitarie la produzione intracellulare di calcio in seguito al legame AEA-CB2, si
allestivano prove in fluorimetria utilizzando il Fluo3/AM (sonda intracellulare fluorescente per il Ca2+) in presenza e
assenza dell’SR144528.
Sempre in fluorimetria è stata valutata la produzione di NO in emociti incubati con l’AEA e messi a contatto
successivamente con la DAF-2 DA, tracciante specifico per l’NO.

Risultati e conclusioni
Nelle prove di Western Blotting si assisteva al riconoscimento sierologico di CB2 evidenziando negli estratti di
membrana di emociti una banda di peso molecolare attorno ai 50 kD: tali risultati erano analoghi a quelli evidenziabili
in estratti di membrana di cellule spleniche di topo utilizzati come controllo positivo.
Il saggio di affinità recettoriale confermava l’avvenuto legame tra CB2 e il [3H]CP55.940.
Le prove di internalizzazione evidenziavano una attività enzimatica in grado di regolare il transito dell’AEA negli
emociti, descrivibile con una curva tendente alla saturazione in funzione di concentrazioni crescenti di AEA e quindi
associabile all’esistenza di un sistema carrier attivo AMT-simile.
Per quanto riguarda infine l’attività idrolasica, i risultati sperimentali hanno dimostrato che la produzione di
[14C]etanolammina era dipendente alla concentrazione di AEA fino ad un punto di saturazione.
Nelle prove condotte mediante tecnica di LuCL si registrava, in modo dose dipendente, una minore emissione di ROS
quando gli emociti stimolati alla fagocitosi venivano messi a contatto con diverse concentrazioni di AEA; l’aggiunta
dell’SR144528, inoltre, deprimeva con andamento dose dipendente l’azione dell’AEA su tali cellule. La minore
produzione di ROS indotta dall’AEA, così come l’inibizione di tale effetto da parte dell’SR144528 potrebbero essere
quindi, una prova indiretta su come l’AEA possa interferire con il processo di fagocitosi.

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Un ulteriore contributo è stato dato dalle prove condotte mediante l’analizzatore di vitalità cellulare: la valutazione della
capacità locomotoria, infatti, evidenziava un aumento della circolarità emocitaria in presenza dell’AEA che corrisponde
ad una minore irregolarità cellulare derivante dalla diminuzione dell’emissione pseudopodica svolta durante l’attività
fagocitaria.
Nelle prove condotte in fluorimetria si assisteva ad un aumento intracellulare del calcio, inibito dall’SR144528, subito
dopo la stimolazione degli emociti con l’AEA; l’aumento del calcio intracellulare non era però evidenziabile se il
tracciante era aggiunto 3 minuti dopo la stimolazione. Infine, la produzione di NO era maggiormente rilevabile negli
emociti incubati precedentemente con l’AEA.
Molti tipi di segnali molecolari si sono mantenuti nel corso dell’evoluzione e alcuni di questi possono riscontrarsi dagli
invertebrati all’uomo. A tale proposito le prove effettuate hanno fornito complessivamente le prime indicazioni circa la
possibile presenza di un sistema endocannabinoide funzionale in emociti di Mytilus galloprovincialis e chiariscono
l’effetto immunosoppressivo che l’AEA svolge in questa tipologia cellulare.
L’attivazione di CB2, infatti, comporta un immediato aumento del Ca2+ libero intracellulare che, attivando la cNOS,
stimola la produzione di NO.
L’NO, oltre ad essere implicato in numerosi meccanismi intracellulari, determina a sua volta la diminuzione del Ca2+
libero intracellulare facendo così risultare un’alterazione della funzione fagocitaria; inoltre, la formazione di
perossinitrito (ONOO-), conseguente alla reazione tra NO e O2-, consente l’ingresso nella cellula dell’AEA per la sua
successiva degradazione.
Tali risultati ottenuti nei mitili acquistano un’importanza rilevante in quanto forniscono informazioni sulla
fisiopatologia di un organismo acquatico, sia a livello conoscitivo di base, sia per quanto riguarda l’interazione mitilo-
ambiente. Rimane infine da sottolineare l’eventuale proposizione di un modello biologico semplificato orientato alla
migliore compressione di sistemi organici più complessi.

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