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Aldous Huxley.

GIALLO CROMO

Arnoldo Mondadori Editore 1972.

Traduzione di Cesare Giardini.

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Introduzione di Giuseppe Gadda Conti

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Cenni biografici.

Nessuno scrittore inglese, forse nessuno scrittore in generale, si trovò


sulle spalle il peso di una famiglia così eminente. Nacque a Godalming
(Surrey) il 26 luglio 1894. Suo nonno era il notissimo biologo Thomas
Henry Huxley, l’apostolo della teoria darwiniana in Inghilterra, suo padre,
Leonard, aveva diretto a lungo la «Cornhill Magazine» (la rivista fondata da
Thackeray nel 1860); suo fratello, Julian, di sette anni più vecchio, doveva a
sua volta diventare uno dei più noti scienziati inglesi e conquistare il premio
Nobel. Da parte di madre poteva contare sul poeta Matthew Arnold come
prozio e sulla romanziera Mistress Humphry Ward come zia. Seguì il
“curriculum” degli studi previsto: Eton e poi il Balliol College di Oxford,
dove si laureò nel 1915. A Eton contrasse una malattia alla cornea, la
cheratite, che lo doveva condurre a una quasi totale cecità. A Oxford
apparvero i suoi primi volumi, che, cosa non insolita per un narratore,
furono di versi e di racconti. Il primo romanzo, “Crome Yellow” (Giallo
cromo), è del 1921. Nel 1919 sposò la belga Maria Nys, dalla quale ebbe un
figlio. Lavorò poi a Londra, all’«Athaenaeum» e alla «Westminster Gazette»,
dove conobbe John Middleton Murry, Katherine Mansfield e D. H.
Lawrence. Con quest’ultimo condivise una schietta passione per il nostro
paese, dove risiedette a lungo tra il 1923 e il 1930. A differenza di molti
“viaggiatori” inglesi e americani, conobbe a fondo l’Italia, come
testimoniano per esempio la Firenze del racconto “Young Archimedes” (in
“Little Mexican”) e la Roma di “After the Fireworks” (in “Dopo i fuochi
d’artificio”). Poco prima di morire Lawrence fu ospite a Forte dei Marmi
degli Huxley che dovevano poco dopo assisterlo negli ultimi istanti di vita, a
Vence.
Aldous Huxley avrebbe poi curato la prima raccolta delle lettere di
Lawrence (1932).
Il suo romanzo più noto, “Point Counter Point” (Punto contro punto), è
del 1928, mentre del 1932 è “Brave New World” (Il mondo nuovo), prima

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testimonianza di quell’interesse per le sorti dell’umanità al quale lo scrittore
si dedicò poi totalmente.
Huxley viaggiò molto anche in Asia e in America. Nel 1937 andò a vivere
in California, per affidarsi alle cure di specialisti che migliorarono
notevolmente la condizione dei suoi occhi. Questo paese farà da sfondo a
“Ape and Essence” (La scimmia e l’essenza, 1949).
Curiosamente, negli stessi mesi Evelyn Waugh doveva pubblicare un
romanzo satirico pure ambientato in California: “Il caro estinto”.
Nel 1955 gli morì la moglie; un anno dopo si risposò con la torinese
Laura Archera, che ha pubblicato un libro di memorie (“A personal View of
A. H.”, New York, 1968). Aldous Huxley morì a Hollywood il 22 novembre
1963, lo stesso giorno dell’assassinio del presidente Kennedy. Da tre anni
soffriva di un cancro alla lingua, la cecità aveva fatto nuovi passi avanti. La
morte fisica ebbe come preludio una simbolica fine spirituale: il 12 maggio
1961, gli si era incendiata la casa con dentro tutti i suoi libri e le sue carte.
«Vedi un uomo senza passato» confidò, in tale occasione, a un amico.

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Cenni critici.

Quale germoglio alimentato da tradizioni familiari diverse ma tutte


fertilissime, Huxley appare come uno scrittore chiamato a realizzare in
anticipo l’esortazione di C. P. Snow: «be scientifically literate»; il più adatto
per colmare l’abisso (che Huxley, peraltro, nel saggio “Literature and
Science”, dedicato appunto alla polemica tra C. P. Snow e il Dottor Leavis -
il pontefice della critica letteraria inglese - giudica fittizio) esistente tra il
pensiero scientifico e quello umanistico. Già nel 1935, André Maurois
indicava in Huxley la raggiunta fusione tra scienza e poesia. Giudizio che si
può accettare con una sola importante precisazione: Huxley non si ritenne
mai uno scrittore “puro”: in lui la letteratura è sempre un veicolo per
trasmettere delle idee. La sua carriera si può quindi, anche dal punto di vista
dell’accoglienza da parte dei contemporanei, dividere in due stadi successivi:
fino a un certo punto egli fu un letterato; più avanti un profeta.
Nelle prime composizioni contempla con occhio disincantato il mondo
che lo circonda nell’Inghilterra dopo il primo conflitto mondiale, mettendo a
nudo la fragilità delle impalcature che lo sottendono. Tale atteggiamento lo si
ritrova fin nelle poesie e nei racconti d’esordio: un esempio tipico è fornito
dal poemetto in prosa “Merry-go-round” (La giostra) contenuto in “Leda”
(1920). Anche il primo romanzo, “Giallo cromo”, è appunto una lieve satira
di quella sezione della “uppermiddle class” che lo scrittore frequentava. Gli
stessi motivi satirici, in tono via via meno lieve, sono ripresi anche nei
romanzi successivi e nei racconti di quegli anni: “Antic Hay” (Passo di
danza) e “Those Barren Leaves” (Foglie secche), “Mortal Coils” e “Little
Mexican”. Il culmine di codesto primo periodo viene raggiunto in “Punto
contro punto”: romanzo quanto mai impegnativo nella struttura polifonica, e
in cui non mancano molti squarci autobiografici (tra l’altro si tratta di un
“romanzo sul romanzo”, alla maniera del Gide dei “Falsari”, 1925).
Da questo momento Huxley impresse una decisa sterzata alla propria
vocazione: lo si può facilmente controllare contrapponendo il protagonista di
“Punto contro punto”, Philip Quarles, ad Anthony Beavis, protagonista di

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“Eyeless” in “Gaza” (“La catena del passato”, un romanzo abilmente
costruito manipolando le sequenze temporali, come aveva fatto Faulkner in
“The Sound and the Fury” (L’urlo e il furore]). Il primo si preoccupa
soltanto del proprio “romanzo di idee”; il secondo, dopo un’esistenza
contraddittoria, approda alla fede del pacifismo gandhiano-tolstoiano.
Il punto di svolta, in questa evoluzione, può essere indicato nel “Mondo
nuovo”, del 1932. Il romanzo, che stabilì definitivamente la fama di Huxley,
non è un’opera utopistica (come notò H. G. Wells, adirandosene) - ché le
utopie mirano a indicare un futuro pieno di speranze - quanto quella che gli
anglosassoni chiamano una “distopia”, o meglio, un “pamphlet”
antieudemonistico. Satira di una società disumanata, pianificata nel nome del
razionalismo produttivistico (qui simboleggiato dal culto di Ford), tanto
riuscita che Huxley dovette successivamente confessare, in “Brave New
World Revisited” (Ritorno al mondo nuovo, 1958), come molte delle sue
previsioni più nere si fossero realizzate anzitempo. Si può dire che da quel
momento in avanti Huxley abbia tenacemente cercato, sia attraverso romanzi
utopistici (“La scimmia e l’essenza”; “Island” [L’isola]), sia attraverso la sua
personale dedizione a forme di misticismo mutuate dai culti orientali, di
fornire una risposta al problema di un amore reciproco tra gli esseri umani
che scaturisca da basi logiche. La sua attività di saggista, già notevole alla
fine degli anni venti, dilagò; quella di narratore scomparve quasi del tutto.
Non è questa la sede, ovviamente, per giudicare l’esito del cammino
intrapreso da Huxley. Si potrà notare, forse, come il rifiuto delle esperienze
umane alogiche, getti un’ombra di freddezza sopra un impegno che si
vorrebbe riscaldato dal fuoco dell’entusiasmo, e non solo illuminato dai
bagliori dell’intelletto. In lui il raziocinio funge sempre da freno e da
controllo; non si lascia andare mai con la cecità che può derivare solo da un
impulso fideistico; rifiuta una certa realtà, ma non cerca di riscattarla. Come
dice il critico Nazareno Fabbretti, Huxley «arriva alla metempsicosi, non al
purgatorio, al mistero, non alla luce».
Un senso di mancanza di calore umano lasciano spesso, d’altronde,
anche molte delle sue prove narrative. Viene spontaneo affermare che
Huxley sia più interessato alle idee di cui i suoi personaggi sono portavoce
che ai personaggi stessi. Si potrebbe, parzialmente, applicare a lui quanto
egli dice di un personaggio in “Giallo cromo”, al quale vien porto orecchio
«come a un nuovo virtuoso di quello strumento elegante e pieno di
possibilità che si chiama intelletto».

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Ma sono virtuosismi che conviene ascoltare sempre con estrema
attenzione, al di là del semplice diletto che se ne può trarre.

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L’opera.

Circostanze della composizione.

L’opera - “Giallo cromo”, del 1921 - è il primo romanzo di Huxley. Vi


sono descritti, durante una vacanza nutrita di ozi conversativi, certi artisti e
alcuni “borghesi” dalle pretese intellettuali radunati nel castello di Crome,
vicino a Londra. Questo descrivere le vacanze, o i week-ends trascorsi nei
manieri di campagna, costituisce un filone tradizionale della narrativa
inglese, da “Nightmare Abbey” (1818) di Thomas Love Peacock - al quale
“Giallo cromo” è stato spesso paragonato - a “Ritorno a Brideshead” (1945)
di Evelyn Waugh, scrittore che con Huxley ha in comune un’infinità di temi.
I ritratti furono ripresi dal vero, provocando un certo risentimento nei
modelli originali. «Mi dispiace per il giovane Huxley», pare abbia detto la
Lady sulla quale è modellato il personaggio della ricca ed eccentrica ospite:
«gli piaceva tanto venire quassù!».
Il titolo contiene parzialmente un gioco di parole. “Crome”, come detto, è
il nome del castello. Il “yellow” che l’accompagna, è una delle molte tinte
che si ritrovano nella vasta gamma coloristica del romanzo: così l’incredibile
pettinatura arancione, che sovrasta gli occhi verdastri e il vestito di seta viola
della padrona di casa; la stanza per il breakfast dalle pareti giallo limone
pallido e le sedie veneziane dipinte; una ragazza seduta nel prato: «la bella
tinta arancione del vestito, le sue braccia nude e bianche, una macchia d’erba
verde, e tutt’intorno un’oscurità che s’era fatta solida e cieca»; l’automobile
verniciata in giallo con le imbottiture di cuoio verde smeraldo. Un universo
cromatico che tocca l’apice nel giardino:
«le aiuole di luglio ardevano e fiammeggiavano al sole», e gli ospiti,
passeggiando, sfioravano i petali azzurri della lavanda.

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La vicenda.

Per quanto Huxley non possa considerarsi un innovatore dell’arte


narrativa, come la Woolf o Joyce, anch’egli si discosta dalla tradizione del
“romanzo ben fatto”. La trama è quasi inesistente: passeggiate al chiaro di
luna, tuffi in piscina, una fiera benefica, quattro salti al suono di un ballabile
servono solo da supporto per la passione dominante di tutti: conversare,
dissertare, scambiarsi lievi frecciate. Ci sono i padroni di casa -
l’inafferrabile Mistress Priscilla Wimbush, e il posato Henry suo marito, dalla
bombetta grigia, immerso nella storia dei propri antenati. E gli ospiti: la
nipote Anne, bella e civettuola; la ventitreenne Mary Bracegirdle, che
vorrebbe concedersi freddamente, per rimuovere le proprie inibizioni
freudiane, ma lesta ad abbandonarsi romanticamente tra le braccia del
dongiovanni “naturale” Ivor; Jenny Mullion, rinchiusa dalla propria sordità
in un mondo intimo dal quale osserva e giudica impietosamente gli altri, il
pittore cubista Gombauld, l’autore di successo Barbecue-Smith, che cade in
trance mentre compone libri “spiritualisti”; Mister Scogan, affetto da una
logorrea universalizzante; e infine Denis Stone, l’unico personaggio che
attraversi durante quei pochi giorni una crisi di maturazione, un giovane
poeta introverso sempre alla ricerca del momento opportuno per dichiarare il
proprio amore ad Anne.
Lo sfondo su cui tutti si muovono è volutamente tagliato fuori dal tempo
reale; pur in un’epoca che permette ancora ritmi pacati di vita.
Basterebbero a simboleggiarla quelle automobili che compaiono con
passo maestoso, contrapposte al frenetico veicolo che in “The Genius and
the Goddess” (Il genio e la dea) sarà la causa del conclusivo incidente
mortale.

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I temi.

Data l’inclinazione di tutti i personaggi, i temi trattati sono in numero tale


che qui se ne potrà dare solo qualche campione. Ciascuno, secondo una
tipica caratteristica di Huxley, viene affrontato con estrema competenza
specifica. Si parla delle varie arti: la musica (che sarà trattata più a fondo in
“Punto contro punto”), la pittura astratta di cui viene profetizzato l’esito
inevitabile nel giorno in cui gli artisti giungeranno a presentare solo una tela
bianca. Il maggior numero di pagine è dedicato all’arte narrativa: attraverso
Barbecue-Smith l’autore mette in berlina il feticismo dell’efficienza («quante
parole all’ora?») e la lettura intesa solo come evasione, attraverso Denis il
culto per il suono di determinate parole («carminativo») e l’insistenza nel
torturare certi vocaboli: torcendoli, plasmandoli a proprio piacimento.
Essendo questo il primo romanzo di Huxley, è quasi ovvio scoprirvi in
embrione temi che poi diventeranno preminenti nella sua opera: così le
critiche alla rigida età vittoriana, l’elogio del misticismo, persino, attraverso
la descrizione di un “Governo Razionale”, i prodromi dell’anti-utopismo del
Mondo nuovo.
Di particolare significato, poi, l’amaro accenno alle delusioni provocate
dalla Grande Guerra, un motivo presente non solo in molti altri scrittori
inglesi contemporanei, ma anche nei confratelli americani (si pensi ai libri
del Fitzgerald di questo periodo) primo sprazzo di quelli che saranno, negli
Stati Uniti, i “Ruggenti Anni Venti”.

Struttura e stile.

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Quasi tutte le caratteristiche di questo romanzo-saggio, anche quelle
negative (taluni errori veniali: metafore troppo insistite, particolari - come la
bicicletta di Denis - che si perdono lungo il cammino), si possono far risalire
ai ventisette anni dell’autore. Così anche la strabocchevole esuberanza
(rimproverata anche a Denis, nel testo) delle citazioni, non solo letterarie,
che spaziano da Socrate alla canzonetta napoletana. Si direbbe che ad ogni
capitolo l’autore intenda prender le mosse da un solido impianto realistico,
con un’accurata descrizione dei personaggi volta per volta presentati, e un
non meno pignolo indugiare sui particolari della scenografia, per poi
scordarsene e librarsi, invece, per tener dietro all’aereo volteggiare delle
discussioni. La trama - spesso spezzata, secondo la miglior tradizione
dickensiana, da autentici “fuori-opera” come i brani della storia degli
antenati di Henry Wimbush, o la predica dell’apocalittico pastore protestante
Bodiham, Savonarola in abiti moderni - sembra così irrimediabilmente
disperdersi in mille rivoli che s’insabbiano prima di giungere alla foce; ma
Huxley riesce a riafferrarla per la coda all’epilogo, chiudendo il romanzo in
un’intonata chiave grottescamente amarognola. L’umorismo dell’autore è
sempre onnipresente, sia nel costruire singoli episodi (la dissertazione sui
porci d’allevamento ricorda persino Wodehouse), sia nella scelta di nomi
roboanti e allusivi che ci riportano a un’altra tradizione inglese, quella del
teatro della Restaurazione.

Giudizi critici.

«“Giallo cromo” si potrebbe dire una galleria alla Thackeray di ritratti e


di figure di ricchi borghesi disseminata sopra lo sfondo di un intreccio vario

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e leggero, senza soluzione […] Ma i libri dell’Huxley perdono ad essere
riassunti, si riducono, in ultima analisi, a una lunga serie di capitoli messi in
coda l’uno all’altro, senza un nodo centrale né una fusione logica e in cui
tutto il divertimento del leggerli consiste nel lasciarsi prender per mano dal
loro autore e di farsi condurre dilettosamente ora attraverso una scena
d’amore, ora per una gaia brigata d’ironie e di paradossi, ora per qualche
ambigua pittura di moderna immoralità. La nostra guida è disinvolta e allegra
e le caricature gli scoppiano vive e pronte dal discorso.»
Carlo Linati.
«I personaggi di “Giallo cromo” […] sono figure schematiche, profili a
due dimensioni […] Ma tutti contano, più che altro per quello che dicono,
sono i portavoce ammaestrati delle brillanti e paradossali ideologie
dell’autore. Intellettualismo e grazia ironica sono i suoi numeri preferiti:
“Giallo cromo” è più leggero e sereno dei romanzi successivi. Il
protagonista, poetino timido, che non trova mai il momento di dichiararsi, è
una figura viva, resa con molta finezza e sorridente ironia, la più riuscita del
breve romanzo.»
Piero Gadda Conti.
«Come un decamerone, “Giallo cromo” può dividersi in giornate: solo
che, invece di novellare, qui i Pamfili e le Pampinee, in duetti o in cori,
combinano aeree e spiritose conversazioni, che nascono dal nulla e nel nulla
si risolvono, a un colpo di bacchetta magica, cicalecci di maschere. “Comme
des papillons errent en flamboyant…” Maschere, o, meglio, caricature,
caricature aggraziate come “bibelots”.»
Mario Praz.

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GIALLO CROMO.

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1.

Su quel tronco di linea non era mai passato nessun diretto. I treni - quei
pochi che vi passavano - si fermavano a tutte le stazioni. Denis sapeva a
memoria i nomi di quelle stazioni: Bole, Tritton, Spavin Delawarr,
Knipswich per Timpany, West Bowlby e, finalmente, Camlet a fiume. A
Camlet egli scendeva, lasciando che il treno continuasse a trascinarsi
indolente, Dio solo sa dove, verso il cuore verdeggiante dell’Inghilterra.
Ora il treno ripartiva, sbuffando, da West Bowlby. Alla prossima
stazione, grazie a Dio! Denis levò i bagagli dalla reticella e li ammucchiò con
cura nell’angolo in faccia al suo. Futile manovra. Ma bisogna pure avere
qualche cosa da fare. Quand’ebbe finito, si abbandonò di nuovo sul sedile e
chiuse gli occhi. Faceva caldissimo.
Che viaggio! Erano due ore nettamente recise dalla sua vita, due ore
durante le quali avrebbe potuto fare tante cose: scrivere il poema perfetto o
leggere l’unico libro rivelatore. E invece, il disgusto gli stringeva la gola
all’odore dei cuscini polverosi contro i quali stava appoggiato.
Due ore! Centoventi minuti! Tutto poteva esser compiuto in questo lasso
di tempo. Tutto. Niente. Oh! egli aveva avuto centinaia di ore, che cosa ne
aveva fatto? Scialacquate; egli aveva sparso quei preziosi minuti come se il
suo serbatoio dovesse essere inesauribile. Denis si torturò lo spirito, si
condannò senza appello; condannò sé e le sue opere. Che diritto aveva egli
di sedersi al sole, d’occupare un posto d’angolo in un vagone di terza classe,
di vivere, insomma? Nessuno, nessuno, nessuno.
Un tormento, una nostalgica angoscia senza nome s’impadronirono di
lui. Egli aveva ventitré anni, ed era cosciente di questo fatto in modo
veramente angoscioso, ahimè!
Con uno scossone, il treno si fermò. Finalmente, era Camlet. Denis
s’alzò in piedi, si calò il cappello sugli occhi, smosse il mucchio dei bagagli e
s’affacciò al finestrino per chiamare un facchino, poi prese due valigie, una
per mano, e dovette rimetterle a terra per aprire lo sportello. Finalmente,

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quando si trovò sano e salvo sulla banchina con le sue valigie, si mise a
correre lungo il treno verso il bagagliaio.
- Una bicicletta! una bicicletta! - disse ansimando all’impiegato. Si
sentiva uomo d’azione. L’impiegato non gli diede retta, ma continuò a
distribuire metodicamente, uno dopo l’altro, i colli con destinazione Camlet.
- Una bicicletta, - ripeteva Denis. - Una macchina verde dentro una gabbia in
croce, al nome di Stone… S-T-O-N-E.
- Ogni cosa a suo tempo, signore, - disse l’impiegato con tono benevolo.
Era un pezzo d’uomo d’aspetto imponente e con una barba da marinaio.
Veniva fatto di immaginarlo in casa sua, mentre prendeva il tè in mezzo a
una numerosa famiglia. Certo egli parlava con quel tono ai suoi figliuoli
quand’erano seccanti.
- Ogni cosa a suo tempo, signore.
L’uomo d’azione ch’era Denis s’afflosciò sgonfiato.
Lasciò i bagagli all’ufficio consegna e s’allontanò sulla bicicletta; quando
si recava in campagna la portava sempre con sé. Ciò faceva parte della sua
teoria sull’esercizio. Un giorno o l’altro, ci si sarebbe alzati alle sei per
pedalare verso Kenilworth o Stratford sull’Avon, o qualche altro paese. In
un raggio di venti miglia, era sempre possibile trovare qualche chiesa
normanna o qualche castello Tudor da visitare nel corso di una escursione
pomeridiana. Ma quelle visite, per una ragione o per l’altra, non avvenivano
mai; nondimeno era piacevole sentire che si aveva la propria bicicletta sotto
mano e che, una bella mattina, ci si sarebbe potuti alzar davvero alle sei.
Quand’ebbe raggiunto il vertice della lunga salita che cominciava alla
stazione di Camlet, sentì che il buon umore s’impadroniva di lui. «Il mondo,
- pensava, - è bello.» Le lontane colline azzurre, le messi biancheggianti sui
clivi della cresta lungo la quale si svolgeva la strada, l’orizzonte senz’alberi
che mutava a misura ch’egli avanzava, sì, tutto ciò era bello. Egli era
soggiogato dalla bellezza delle vallette profondamente incastrate, scavate nei
fianchi della collina, sotto di lui. Curve; egli ripeteva la parola lentamente e
tentava, ripetendola, di trovare un termine che valesse a esprimere il suo
sentimento. Curve, - no, era inadeguato. Fece un gesto con la mano, come
per scavare dall’aria l’espressione esatta, e per poco non cadde dalla
bicicletta. Con che parola si potevano descrivere le curve di quei valloncelli?
Esse erano belle come le linee d’un corpo umano, parevano ispirate dalla
raffinatezza dell’arte.

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“Galbe”. Era una buona parola, parola francese. “Le galbe évasé de ses
hanches”: si poteva forse leggere un romanzo francese senza incontrar
questa frase? Un giorno o l’altro egli avrebbe compilato un vocabolario ad
uso dei romanzieri: “Balbe, gonflé, goulu: parfum, peau, pervers, potelé,
pudeur: vertu, volupté”.
Ma bisognava, a qualunque costo, ch’egli trovasse quella parola.
Curve, curve… Quelle piccole valli avevano le linee d’una coppa
modellata su un seno di donna; esse parevano le impronte tornite d’un
gigantesco corpo divino che si fosse riposato sulle colline. Com’erano
pesanti queste frasi! Ma, per il loro tramite, gli pareva di accostarsi a quello
che desiderava. Incavato, arrotondato, tornito, polito - il suo spirito errava
attraverso i corridoi echeggianti di assonanze e allitterazioni, allontanandosi
sempre più dal punto di partenza. Egli era innamorato della bellezza delle
parole.
Ridiventato di subito cosciente del mondo esteriore, si trovò in cima a
una discesa. La strada sprofondava, diritta, a picco, in una larga valle.
Laggiù, sul declivio opposto, in un punto un po’ più elevato della valle, si
trovava Crome, ov’egli si recava.
Strinse i freni; di lassù la veduta di Crome meritava qualche istante di
contemplazione. La facciata, con le sue tre torri svettanti, s’alzava scoscesa
sugli alberi cupi del giardino. La casa era bagnata di sole; i vecchi mattoni si
coloravano di luci rosee. Come era maturo e ricco tutto ciò, e superbamente
morbido! E, nello stesso tempo, com’era austero! La discesa si faceva più
ripida; a dispetto dei freni, la velocità della corsa aumentava. Egli allentò la
presa e si abbandonò a capofitto. Cinque minuti dopo varcava il cancello
della corte d’onore. La porta d’ingresso era aperta ospitalmente. Appoggiò la
bicicletta al muro ed entrò. Li avrebbe colti di sorpresa.

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2.

Non colse di sorpresa nessuno; non c’era nessuno da sorprendere. Denis


errò per le camere vuote. Osservava con piacere i quadri e i mobili a lui ben
noti, così come tutti i piccoli segni di disordine che la vita aveva disseminati
qua e là. In fondo, era contento che tutti fossero usciti, era divertente errare
per la casa come chi esplori una Pompei morta e deserta. Che specie di vita
avrebbe ricostruito un archeologo basandosi su quei resti? Come avrebbe
popolato quegli appartamenti vuoti? Ecco la lunga galleria, con le file di
primitivi italiani, rispettabili, ma parecchio noiosi (questa era, naturalmente,
una cosa da non dirsi in pubblico), le sculture cinesi, i mobili discreti, senza
epoca. Ecco il salotto dei pannelli, nel quale si trovavano enormi poltrone,
foderate di chintz, oasi di comodità in mezzo alle austere anticaglie che
mortificano la carne. Ecco la stanza per il mattino, con le pareti giallo limone
pallido, le sedie veneziane dipinte e i tavoli rococò, gli specchi e i quadri
moderni. Ecco la biblioteca, fresca, spaziosa e oscura, tappezzata di libri dal
pavimento al soffitto, ricca di solenni “in folio”. Ecco la sala da pranzo,
solidamente inglese, con la sua grande tavola di mogano, le sedie e la
credenza ‘700, i quadri del ‘700, ritratti di famiglia o meticolosi dipinti
d’animali. Che cosa si sarebbe potuto ricostruire con questi elementi? La
personalità d’Henry Wimbush animava, in gran parte, la lunga galleria e la
biblioteca; una piccola parte d’Anne si ritrovava, forse, nel salotto limone.
Ed era tutto. Sopra l’apporto di dieci generazioni, i vivi non avevano lasciato
se non poche tracce.
Sul tavolo della camera per il mattino, vide la sua raccolta di poesie. Che
tatto! La prese e l’aprì. Era quel che i critici definiscono un «volumetto».
Lesse a caso.
Poi rimise il libro al suo posto, scosse il capo e sospirò. «Che genio
avevo allora!» si disse, ripetendo le parole del vecchio Swift. Il libro era
apparso circa sei mesi prima: egli era felice pensando che mai più avrebbe
scritto qualche cosa dello stesso genere. «Chi lo avrà letto?» si domandò.
Forse Anne; gli piaceva pensare che fosse Anne.

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Chi sa, finalmente ella s’era, forse, riconosciuta nella Amadriade i cui
movimenti erano simili a quelli d’un arbusto al vento. “La Donna ch’era un
Albero”, così aveva intitolato la poesia. Le aveva regalato il libro appena
questo era apparso, sperando che quella poesia le rivelasse ciò che egli non
aveva osato dirle. Ma essa non gliene aveva mai fatto parola.
Chiuse gli occhi e la rivide, avvolta nel suo mantello di velluto rosso,
avanzarsi con una leggera ondulazione del corpo nel piccolo ristorante dove,
qualche volta, pranzavano insieme a Londra: tre quarti d’ora di ritardo; ed
egli, già seduto a tavola, livido d’ansia, di irritazione, di fame. Oh! che
donna detestabile!
Pensò che forse la padrona di casa si trovava nel suo “boudoir”. Era
possibile; decise d’andare ad assicurarsene. Il “boudoir” della signora
Wimbush era nella torre centrale, dal lato del giardino. Vi si accedeva dal
vestibolo, per una scaletta a chiocciola. Denis si arrampicò, picchiò alla
porta:
- Avanti.
Ah! C’era; in cuor suo aveva sperato che non ci fosse. Aprì la porta.
Priscilla Wimbush era distesa sul divano. Aveva una cartella coperta di
foglietti sulle ginocchia e succhiava pensosa la punta d’una matita d’argento.
- Salve! - diss’ella alzando gli occhi. - Avevo dimenticato che lei doveva
arrivare.
- E invece eccomi qui, - disse Denis col tono di chi si scusa. - Le chiedo
mille volte perdono!
La signora Wimbush si mise a ridere. La sua voce, il suo riso, erano
profondi, maschili. Tutto in lei sembrava virile. Aveva una larga faccia
quadrata, né giovane né vecchia, un naso massiccio e sporgente e due piccoli
occhi verdastri, il tutto sormontato da una pettinatura altera e complicata del
più inverosimile colore arancione. Denis, guardandola, pensava sempre a
Chevalier.
“Ed ecco perché vado, in verità, a cantare, a cantare all’Operà a cantare
all’op-op, all’Operà”.
Essa indossava un abito di seta viola accollato; intorno al collo aveva una
collana di perle. Quel vestito, d’una ricchezza da regina madre, evocatore
della famiglia reale, le dava più che mai l’apparenza di un personaggio del
varietà.
- Che cosa ha fatto in tutto questo tempo? - domandò.

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- Dunque… - disse Denis, ed esitò con un senso di voluttà. Aveva pronto
il resoconto completo e spiritosissimo degli ultimi pettegolezzi londinesi, e
pregustava già il piacere di snocciolarli.
- Per cominciare… - disse.
Ma giunse troppo tardi. La domanda della signora Wimbush era di quelle
che i grammatici chiamano «figure rettoriche»; essa non esigeva risposta. Era
una fioritura della conversazione, la mossa d’apertura d’un gioco cortese.
- Lei mi sorprende mentre preparo i miei oroscopi, - disse, senza
dubitare menomamente d’averlo interrotto.
Alquanto addolorato, Denis stabilì di riservar la sua storia per orecchie
più compiacenti; ma per prendersi una piccola rivincita, s’accontentò di
esclamare «Oh?» in tono glaciale.
- Le ho mai raccontato come ho vinto quattrocento sterline al Gran
Premio Nazionale di quest’anno?
- Sì, - rispose lui, ancor gelido e monosillabico.
Essa doveva averglielo raccontato almeno sei volte.
- Stupendo, non le pare? Nelle stelle c’è tutto. Nei Tempi Lontani,
quando non avevo ancora le stelle per guidarmi, perdevo migliaia e migliaia
di sterline. Ora, - qui fece una breve pausa. - Ebbene, le quattrocento sterline
del Gran Premio Nazionale, per esempio… sono state le stelle…
Denis avrebbe voluto saperne di più sui Tempi Lontani, ma era troppo
educato e, d’altronde, troppo timido per far delle domande. C’era stata una
specie di scandalo, non sapeva altro. La vecchia Priscilla, un po’ meno
vecchia allora, s’intende, e più vivace, aveva perduto monti di denaro,
gettandolo a piene mani, a cappellate, in tutte le corse d’Inghilterra. Aveva
anche praticato i giochi d’azzardo. Il numero delle migliaia variava a seconda
delle diverse versioni, ma era, in tutte, molto elevato. Henry Wimbush aveva
dovuto vendere qualcuno dei suoi Primitivi - un Taddeo di Poggibonsi, un
Amico di Taddeo, insieme con quattro o cinque anonimi senesi - a degli
americani. C’era stata una crisi. Per la prima volta in vita sua, Henry aveva
fatto sentire il peso della propria autorità, il che, evidentemente, aveva dato
ottimi risultati.
L’esistenza spensierata che Priscilla conduceva aveva avuto una fine
improvvisa. Ora, essa trascorreva a Crome la maggior parte dei suoi giorni,
coltivando una malattia non ben definita, e per consolarsi passava il tempo
trastullandosi col nuovo Pensiero dell’Occultismo. La passione per le corse
non l’abbandonava, ed Henry, che, in fondo, era un bonaccione, le passava

21
quaranta sterline al mese per le sue scommesse. Impiegava la maggior parte
del suo tempo a trarre degli oroscopi sui cavalli, e puntava il suo denaro
scientificamente, seguendo i decreti delle stelle. Scommetteva anche al
football, e teneva al corrente un grande quaderno nel quale registrava gli
oroscopi di tutti i giocatori di tutte le squadre partecipanti al campionato. Era
davvero una delicata e difficile operazione quella di bilanciare gli oroscopi
di due “undici”. Un match tra gli “Spurs” e i “Villa” provocava un conflitto
celeste così vasto e complicato che non c’era da stupire se qualche volta
induceva in errore sul risultato finale.
- Che peccato che lei non creda a queste cose, Denis, che peccato! -
pronunciò la signora Wimbush con la sua voce chiara e profonda.
- Non posso dire che ciò mi affligga.
- Ah! E’ che lei non sa che cosa significhi aver fede! Lei non può
immaginare come la vita divenga divertente e appassionante quando si
crede. Tutto quello che accade ha un senso; nulla di quel che si fa è
insignificante. E ciò rende la vita allegra, sa? Per esempio, eccomi qui a
Crome… ad annoiarmi a morte, penserà lei. Ebbene, no, per me non è così.
Io non rimpiango punto i Tempi Lontani. Ho le stelle…
Prese il foglio di carta che si trovava sulla cartella.
- L’oroscopo d’Inman, - spiegò. - Ho pensato che non sarebbe male
tentare un piccolo colpo sul campionato di biliardo, in autunno. C’è tutto
l’infinito, di cui devo tener conto.
Fece un gesto circolare con la mano.
- E poi, c’è l’al di là, e tutti gli spiriti, e il nostro fluido, e la signora Eddy,
e il ripetersi continuamente che non si è malati e i misteri cristiani e la
signora Besant. Tutto ciò è splendido. Non ci si annoia nemmeno per un
istante. Davvero, non riesco a immaginare come riuscissi a vivere nei Tempi
Lontani. Il piacere? Correre in tutti i sensi, ecco di che si trattava; niente di
più, correre in tutti i sensi. Colazione, tè, pranzo, teatro, cena ogni giorno.
Certo, finché durò fu divertente. Ma poi non rimase gran che. A proposito,
c’è un bellissimo brano nel nuovo libro di Barbecue-Smith. Dov’è?
S’alzò a sedere e stese la mano verso un libro posato su un tavolinetto
ch’era a capo del divano.
- Lo conosce? - domandò.
- Chi?
- Barbecue-Smith.

22
Denis lo conosceva vagamente. Barbecue-Smith era un nome che
appariva sui giornali della domenica. Scriveva sul modo di condursi nella
vita.
Forse era addirittura l’autore di Quel che una giovinetta deve sapere”.
- No, non personalmente, - disse.
- L’ho invitato per questo week-end.
Sfogliò le pagine del libro.
- Ecco il brano al quale alludevo. Io segno sempre le cose che mi
piacciono.
Tenendo il libro col braccio teso, perché era molto presbite, e facendo
gesti adeguati con la mano rimasta libera, cominciò a leggere lentamente, con
enfasi.
«Che cosa sono le pellicce da mille sterline? Che cosa sono le rendite
d’un quarto di milione?»
Rialzò gli occhi dalla pagina con un movimento istrionico della testa; la
pettinatura arancione s’inclinò solennemente. Denis la guardava, affascinato.
Erano capelli veri corretti coll’henné o una di quelle Trasformazioni
Complete che si vedono nelle réclames?
«Che cosa sono i Troni e gli Scettri?»
La Trasformazione arancione - sì, doveva essere una Trasformazione - si
erse di nuovo.
«Che cosa sono i divertimenti dei ricchi, gli splendori dei potenti, che
cos’è l’orgoglio dei grandi, che cosa sono i piaceri d’orpello dell’Alta
Società?»
La voce che, di frase in frase, aveva elevato il tono sul modo
interrogativo, ricadde finalmente e fece rombar la risposta.
«Nulla. Vanità, leggera pelurie, semi di fiori al vento, sottili vapori di
febbre. Le cose che contano son quelle dell’anima. Le cose visibili sono
dolci, ma le cose invisibili son mille volte più significative. E’ l’invisibile che
conta nella vita.»
La signora Wimbush abbassò il libro.
- E’ bello, non le pare? - disse.
Denis preferiva non arrischiare un’opinione, ma fece udire un «Hum!»
che non impegnava a nulla.
- Ah! è un gran bel libro, questo, un libro magnifico! - disse Priscilla,
lasciando che le pagine sfuggissero una dopo l’altra di sotto il polpastrello

23
del suo pollice. - E c’è il brano sullo Stagno e sul Loto. Egli paragona
l’anima a uno Stagno di Fiori di Loto, sa?
Rialzò il libro e lesse:
«Uno dei miei amici ha uno Stagno di Fiori di Loto nel suo giardino.
Lo Stagno sonnecchia nel cavo d’una valle entro un boschetto di rose
selvatiche e di rose canine nel quale l’usignuolo modula tutt’estate il suo
canto amoroso. Sullo Stagno, i Fiori di Loto fioriscono, e gli uccelli dell’aria
vengono a bere e a bagnarsi nel cristallo delle sue acque…»
- Ah! questo mi ricorda, - esclamò Priscilla chiudendo il libro con un
colpo secco e ridendo del suo riso largo e profondo, - questo mi ricorda
quello ch’è accaduto nel nostro stagno, dopo la sua ultima visita. Avevamo
dato il permesso agli abitanti del villaggio di farci il bagno verso sera. Lei
non può immaginare che cosa è successo! - Si chinava e parlava con un
sussurrio confidenziale e, di tanto in tanto, si metteva a ridere sgranando i
suoi profondi gluglu.
- … bagni misti… li vedevo dalla mia finestra… mi son fatta portare un
cannocchiale per essere più sicura… nessun dubbio…
Gli scoppi di risa riprendevano. Anche Denis rideva. Barbecue-Smith
scivolò a terra.
- Bisogna andare a vedere se il tè è pronto, - disse Priscilla.
Si alzò dal divano e attraversò la stanza sfrusciando, a passi larghi, sotto
la seta del suo strascico.
Denis la seguiva, canterellando piano piano a se stesso:

“Ed ecco perché vado, in verità, a cantare, a cantare all’Operà a cantare


all’op-op, all’Operà.”

E poi il piccolo gorgheggio d’accompagnamento, alla fine: ra-ra.

24
3.

Dinanzi alla casa, la terrazza formava una striscia d’erba rasata, lunga e
stretta, limitata sul margine esterno da una graziosa balaustra di pietra. A
ogni estremità s’elevava un piccolo padiglione di mattoni. Dall’alto in basso,
la terra fuggiva in rapido declivio e la terrazza era notevolmente alta: dalla
balaustra sino al prato sottostante, c’era un salto di dieci metri. Visto dal
basso, il muro della terrazza, alto e uniforme, costruito in mattoni come la
casa, assumeva quasi l’aspetto minaccioso d’una fortezza, di un bastione, dal
parapetto del quale la vista si stendeva, attraverso le profondità dell’aria,
sino a orizzonti a livello dello sguardo. Sotto, in primo piano, circondato di
macchie folte di tassi scolpiti, entro le sue sponde di pietra, dormiva lo
stagno. Oltre quello si stendeva il parco, con gli olmi giganteschi, le vaste
distese di prati e, in fondo alla valle, lo stretto luccichio del fiume. Dall’altra
parte di questo, il terreno risaliva con dolce declivio, quadrettato dalle
colture. In fondo alla valle, a destra, l’occhio riposava su una linea di
lontane colline azzurre.
La tavola da tè era stata preparata all’ombra d’uno dei due padiglioni, e il
resto della compagnia vi si era già accomodato intorno allorché Denis e
Priscilla apparvero. Henry Wimbush aveva cominciato a servire il tè. Era
uno di quegli uomini senz’età e immutabili ad onta della cinquantina sonata,
ai quali sarebbe possibile dare trent’anni o un’altra età qualsiasi. Per quanto
lontano risalisse nei suoi ricordi, Denis aveva l’impressione d’averlo sempre
conosciuto. E nel corso degli anni, il suo volto pallido e molto bello non era
invecchiato; esso somigliava alla bombetta grigio chiaro ch’egli portava sia
in estate che in inverno - inalterabile, calmo, sereno, senza espressione.
Al suo fianco, ma separata da lui e dal mondo intero dalle barriere quasi
impenetrabili della sua sordità, era seduta Jenny Mullion. Ella poteva avere
trent’anni: aveva il naso voltato in su, il colorito bianco e rosa, portava i
capelli castani intrecciati e arrotolati sulle orecchie in due cuscinetti laterali.
Viveva ritirata nella torre segreta della sua sordità e guardava il mondo
attraverso due occhi vivi e penetranti. Che cosa pensava degli uomini, delle

25
donne, della vita? Denis non era mai riuscito a scoprirlo. Nel suo enigmatico
assolo, Jenny era leggermente inquietante. In quel preciso momento,
sembrava divertita da qualche scherzo segreto, poiché sorrideva a se stessa, e
i suoi occhi bruni erano come due bilie lucidissime.
Dall’altra parte del signor Wimbush, stava Mary Bracegirdle, col suo
volto serio, luna innocente, che splendeva roseo e infantile. Aveva quasi
ventitré anni, ma nessuno lo avrebbe detto. I suoi capelli corti, tagliati come
quelli d’un paggio, ricadevano intorno alle guance, simili a una campana
d’oro elastico. Aveva grandi occhi azzurri di porcellana, i quali esprimevano
una serietà ingenua e spesso stupita.
A lato di Mary, un omuncolo magro stava diritto e rigido sulla sua sedia.
Il signor Scogan aveva l’aria d’una di quelle lucertole volanti vissute
nell’epoca terziaria e oggi scomparse. Il suo naso somigliavaa un becco, i
suoi occhi cupi avevano la vivacità di quelli del pettirosso. Ma non v’era in
lui nulla di dolce, di tenero, di lanugginoso. La pelle della sua faccia piena di
rughe pareva secca e squamosa; le sue mani erano mani di coccodrillo. I
suoi movimenti, regolati da un meccanismo d’orologeria, avevano la rapidità
improvvisa e sconcertante di quelli delle lucertole; la sua voce era sottile,
flautata e secca. Compagno di scuola ed esatto coetaneo d’Henry Wimbush,
sembrava più vecchio di lui, ma, nello stesso tempo, appariva animato da
una vitalità assai più giovanile di quella ond’era mosso quel dolce
aristocratico dal volto di bombetta grigia.
Se il signor Scogan ricordava un sauriano d’una specie estinta, c’era, in
cambio, Gombauld che appariva profondamente ed essenzialmente umano.
Nelle vecchie storie naturali dell’inizio dell‘800, egli avrebbe potuto figurare,
in una incisione, come il tipo dell‘“homo sapiens”, - onore che in quei tempi
era, generalmente, attribuito a lord Byron. E veramente, con più capelli e
meno colletto, Gombauld avrebbe avuto un’aria affatto byroniana, e persino
più che byroniana, giacché quel giovane corsaro di trent’anni dai capelli
neri, dai denti abbaglianti e dai grandi occhi bruni pieni di luce, era di
origine provenzale. Denis lo guardava con invidia. Egli era geloso del suo
ingegno. Ah! se avesse potuto scrivere dei versi belli come i quadri che
dipingeva Gombauld! Inoltre, in quel momento, invidiava a Gombauld il
suo aspetto esteriore, la sua vitalità, le sue maniere piene d’una tranquilla
disinvoltura. C’era forse da stupirsi che Anne provasse una certa simpatia
per lui? Simpatia? Era, forse, qualche cosa di peggio, pensò amaramente
Denis, mentre percorreva, al fianco di Priscilla, la lunga terrazza erbosa.

26
Tra Gombauld e il signor Scogan, una sedia a sdraio abbassata al minimo
presentava la parte posteriore ai nuovi arrivanti, mentre questi s’avanzavano
verso la tavola.
Gombauld era chino su quella sedia. Il suo volto era mobile e vivo; egli
sorrideva, rideva e faceva gesti rapidi con le mani. Dalle profondità della
sedia, saliva un riso sommesso e pieno d’abbandono.
Udendolo, Denis ebbe un sussulto. Come gli era familiare quel riso!
Che emozioni provocava in lui! Affrettò il passo.
Nella sedia a sdraio, Anne stava, più che seduta, coricata. Il suo corpo
lungo e snello riposava in un atteggiamento di grazia indolente e distratta.
Nella cornice dei capelli castano chiari, il suo volto aveva una regolarità
graziosa, un po’ simile a quella d’una bambola.
E, in verità, v’erano momenti nei quali Anne non sembrava che una
bambola, quando il volto ovale, con gli occhi d’un pallido azzurro sotto le
lunghe ciglia, non esprimeva nulla e si tramutava in una pigra maschera di
cera. Anne era la nipote di Henry Wimbush.
Quell’aria di cappello duro era uno degli appannaggi dei Wimbush; era
un tratto di famiglia e si manifestava nelle donne con un volto di bambola
privo d’espressione. Ma, attraverso quella maschera, simile a una gioiosa
melodia danzante su un immutevole basso continuo, passava la seconda
eredità: riso pronto, gaiezza ironica e leggera, espressioni molteplici d’umori
diversi. Nel momento in cui Denis abbassò verso di lei il suo sguardo, ella
rideva: il suo riso di gatta, diceva egli, però senza grande esattezza. La bocca
era contratta e, ai due lati, nelle guance, si formavano due piccole rughe.
Un’infinita allegria un po’ maliziosa si annidava in quelle due pieghe leggere,
nelle fossette attorno agli occhi socchiusi, negli occhi stessi, ridenti e brillanti
tra le palpebre semiaperte.
Dopo i complimenti preliminari, Denis trovò una sedia libera tra
Gombauld e Jenny: sedette.
- Come sta, Jenny? - gridò alla sua vicina.
Jenny crollò il capo e sorrise in un silenzio misterioso come se quello
della sua salute fosse un segreto che non convenisse divulgare in pubblico.
- Che cosa c’è di nuovo a Londra da che sono partita? - domandò Anne,
dalle profondità della sua sedia.
Il momento era giunto; la storia, la sua divertentissima storia, attendeva
d’essere raccontata.
- Ebbene, - disse Denis, con un sorriso felice, - per cominciare…

27
- Priscilla le ha parlato della nostra grande scoperta archeologica?
Henry Wimbush si sporgeva in avanti; quel promettentissimo germoglio
era stroncato sul nascere.
- Per cominciare, - disse Denis perdutamente, - c’è stato il balletto…
- La settimana scorsa, - continuò il signor Wimbush, dolce e implacabile,
- i nostri scavi han riportato in luce cinquanta metri di tubi di quercia da
fognatura, vale a dire tre tronchi d’albero forati nel centro per lo scolo delle
acque. Molto interessanti. Che siano stati messi in opera dai frati del
quindicesimo secolo, oppure…
Denis ascoltava, lugubre.
- Straordinario! - disse quando il signor Wimbush ebbe finito, -
assolutamente straordinario!
Prese un’altra fetta di torta. Ormai non desiderava nemmeno più
raccontare la sua storia londinese; era gelato.
Da qualche momento gli occhi di Mary, azzurri e gravi, erano fissi su lui.
- Che cosa ha scritto negli ultimi tempi? - domandò.
Le pareva che sarebbe stato piacevole fare un po’ di conversazione
letteraria.
- Oh! Versi, prose, - disse Denis. - Versi e prosa, semplicemente.
- Prosa? - Il signor Scogan si gettò su questa parola in maniera
allarmante. - Lei ha scritto della prosa?
- Sì.
- Non un romanzo?
- Sì.
- Mio povero Denis! - esclamò il signor Scogan. - E su che argomento?
Denis era imbarazzato.
- Oh, sulle solite cose, sa bene com’è…
- Certo, - borbottò il signor Scogan. - Le racconterò l’argomento. Il
giovane Percy, eroe del romanzo, non ha amato mai lo sport, ma è sempre
stato un giovane intelligente. Secondo il solito, passa attraverso il collegio e
l’università e giunge a Londra, dove vive in un ambiente di artisti. Qui, egli
piega sotto i pensieri melanconici, porta sulle spalle il peso dell’intero
universo. Poi scrive un romanzo che fa sensazione, s’occupa delicatamente
d’amore e si avvia, alla fine del libro, verso un radioso avvenire.
Denis divenne rosso come il fuoco. Il signor Scogan aveva descritto il
suo romanzo con una precisione spaventevole.
Fece uno sforzo per ridere.

28
- Si sbaglia, dal principio alla fine, - disse. - Il mio romanzo non ha
niente di comune con quello che lei ha raccontato.
Era una menzogna eroica. «Per fortuna, - si disse, - non ne ho scritto che
due capitoli.» Quella sera stessa, aprendo la valigia, li avrebbe bruciati.
Il signor Scogan non badò a quel diniego, ma continuò:
- Perché voi, giovinotti, vi ostinate a trattare argomenti così privi
d’interesse come la mentalità degli adolescenti e degli artisti? Degli
antropologi di professione potrebbero trovare qualche interesse ad
allontanarsi talvolta dalle superstizioni della Papuasia per esaminare le
preoccupazioni filosofiche d’un laureando. Ma voi non potete pretendere da
un adulto comune come me, che sia molto commosso dal racconto delle
miserie spirituali di quel giovinotto. E, in fondo; sia in Inghilterra che in
Germania o in Russia, ci son più adulti che adolescenti. Quanto all’artista,
egli è preoccupato da problemi lontanissimi da quelli che preoccupano
l’adulto ordinario - problemi d’estetica pura che, agli uomini come me, non
si presentano neppure - così che la descrizione del suo processo mentale
appare noiosa al lettore quanto una lezione di matematica pura. Un libro
sugli artisti studiati in quanto artisti, è illeggibile; e un libro sugli artisti
considerati come innamorati mariti, dipsomani, eroi e altre simili cose, non
mette più conto di riscriverlo. Jean-Christophe è il tipo dell’artista nella
letteratura come il professor Radium di “Comic Cuts” è il tipo del sapiente.
- Sa che mi spiace pensare d’esser così poco interessante? - disse
Gombauld.
- Ma niente affatto, caro Gombauld, - s’affrettò a spiegare il signor
Scogan. - Come innamorato o dipsomane, non dubito che lei sia un tipo dei
più interessanti. Ma, come manipolatore di forme, deve ammettere
onestamente d’essere un seccatore.
- Io sono d’opinione affatto contraria, - esclamò Mary.
Era sempre un po’ ansimante quando parlava, e le sue frasi erano sempre
punteggiate di leggeri aneliti.
- Ho conosciuto molti artisti e li ho sempre trovati d’una mentalità
quanto mai interessante. Specialmente a Parigi. Ciuplizki, per esempio; ho
praticato molto Ciuplizki a Parigi, la primavera scorsa….
- Ah! Ma lei è un’eccezione, Mary, lei è un’eccezione, - disse il signor
Scogan. - Lei è una donna superiore.
Un lampo di piacere mutò il volto di Mary in una brillante luna piena.

29
30
4.

Denis svegliandosi al mattino, trovò il sole splendente, il cielo sereno.


Decise di indossare un paio di pantaloni di flanella bianca - un paio di
pantaloni di flanella bianca e una giacca nera, con una camicia di seta e la
nuova cravatta color pesca. E le scarpe? Scarpe bianche, era imprescindibile;
nondimeno, l’idea delle scarpe di vernice nera non era meno tentatrice. Si
trattenne in letto per qualche minuto, esaminando il problema.
Prima di scendere - la sua scelta s’era definitivamente fissata sulla
vernice nera - si guardò nello specchio con occhio critico. I suoi capelli,
pensò, avrebbero potuto essere più dorati. Così com’erano, la loro flavezza
aveva un sospetto di sfumatura verdastra. Ma la sua fronte compensava con
la sua altezza la poca prominenza del mento. Il naso avrebbe potuto essere
più lungo, tuttavia era passabile. Gli occhi, invece, avrebbero potuto essere
azzurri anziché verdi. Per fortuna la sua giacca era tagliata bene e imbottita
con discrezione, lo faceva sembrare più robusto di quanto non fosse in
realtà. Le sue gambe, nelle loro guaine bianche, erano lunghe ed eleganti.
Soddisfatto, scese la scala. Quasi tutta la compagnia aveva finito la prima
colazione. Si trovò solo con Jenny.
- Spero che avrà dormito bene, - diss’egli.
- Sì, il tempo è proprio bello, vero? - rispose Jenny con due piccoli,
rapidi sussulti. - Ma la settimana scorsa abbiamo avuto dei temporali
veramente spaventevoli.
Due linee diritte e parallele, rifletté Denis, non s’incontrano che
all’infinito. Egli avrebbe potuto parlare eternamente di sonni soavi ed essa di
meteorologia, sino alla fine dei tempi. Tra due persone si stabilisce mai un
vero contatto? Noi tutti siamo come linee diritte e parallele. Jenny non era
che un po’ più parallela della maggioranza.
- Sono spaventosi questi temporali, - diss’egli prendendo un po’ di
“porridge”. - Non le pare? Oppure lei è insensibile agli assalti della paura?
- No. Io, durante i temporali, me ne vado a letto. Quando si è coricati ci
si sente più al sicuro.

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- Perché?
- Perché, - disse Jenny, facendo un gesto descrittivo, - il fulmine cade
verticalmente e non orizzontalmente. Quando si è sdraiati si è fuori della
corrente.
- Molto ingegnoso.
- E’ vero?
Ci fu un silenzio. Denis finì il “porridge” e prese un po’ di “bacon”.
In mancanza di meglio e siccome la frase assurda del signor Scogan, per
una ragione o per l’altra, gli ronzava pel capo, si volse verso Jenny e le
chiese:
- Lei si crede una donna superiore?
Dovette ripetere la domanda più volte prima che Jenny ne afferrasse il
senso.
- No, - diss’ella con un tono abbastanza indignato, quando, finalmente,
ebbe capito le parole di Denis. - Nemmeno per sogno. Forse che qualcuno
ha detto questo di me?
- No, - disse Denis. - Il signor Scogan ha detto che Mary è una donna
superiore.
- Davvero? - Jenny abbassò la voce. - Vuole che le dica che cosa penso
di quell’uomo? Penso che è leggermente sinistro.
Dopo avere espresso questa opinione, essa rientrò nella torre d’avorio
della sua sordità e chiuse la porta. Denis non poté indurla a pronunciare una
parola di più e non poté nemmeno indurla a prestargli orecchio. Per tutta
risposta, ella gli sorrideva; sorrideva e, di tanto in tanto, scuoteva il capo.
Denis uscì sulla terrazza per fumare la pipa, com’era solito fare dopo
colazione, e per leggere il giornale del mattino. Un’ora più tardi, Anne
discese e lo trovò che leggeva. Ormai era arrivato alla rubrica Notizie di
Corte e ai Fidanzamenti. Mosse incontro alla ragazza, mentre quella,
Amadriade in mussola bianca, s’avvicinava sul prato.
- Ah! Denis! - esclamò essa. - Lei è proprio carino coi pantaloni bianchi!
Denis era smontato. Nessuna risposta possibile.
- Lei parla come se fossi un bambino che ha indossato il vestitino nuovo,
- disse con un po’ d’irritazione.
- Ma è appunto quello che io provo nei suoi riguardi, mio caro Denis!
- Ebbene, non è giusto…
- Ma non posso farci nulla. Sono talmente più vecchia di lei.
- Mi fa ridere, - diss’egli. - Quattro anni di più.

32
- E, d’altronde, se sta bene coi pantaloni bianchi, perché non dovrei
dirlo? E perché li avrebbe indossati se non fosse stato convinto d’essere
carino?
- Andiamo in giardino, - disse Denis.
Era sconcertato; la conversazione aveva preso un indirizzo così assurdo e
imprevisto… S’era ripromesso un esordio affatto diverso, nel quale egli
avrebbe cominciato dicendo: «Lei è adorabile, stamane», o qualche cosa di
simile; essa, naturalmente, avrebbe risposto:
«Davvero?»; dopo di che ci sarebbe stato un silenzio pieno di significato.
Ma Anne l’aveva preceduto con la battuta sui pantaloni.
Era irritante; il suo orgoglio n’era ferito.
La parte del giardino che scendeva dalla base della terrazza fino allo
stagno, possedeva una bellezza fatta meno di colori che di forme. Essa era
altrettanto bella al chiaro di luna che sotto i raggi del sole.
L’argento delle acque, le cupe forme dei tassi e dei lecci rimanevano,
attraverso le ore e le stagioni, la nota dominante del paesaggio. Era una scena
in bianco e nero.
Per il colore, c’erano le aiuole; queste si trovavano dall’altra parte dello
stagno, dal quale erano separate dai tassi, enorme muro babilonese. Si
passava sotto una galleria tagliata nella siepe, si apriva un cancello nel muro,
e ci si trovava, d’improvviso, stupefatti, in un mondo di colori. Le aiuole di
luglio ardevano e fiammeggiavano al sole. Chiuso nei suoi alti muri di
mattoni, il giardino pareva una gigantesca tinozza di calore e di profumo.
Denis tenne aperto il cancelletto di ferro per far passare la compagna.
- E’ come passare da un chiostro in un palazzo orientale, - diss’ella,
aspirando profondamente l’aria tepida e odorosa di fiori.
- Essi fanno delle scariche profumate… Come dice?
“Ben tirato, artiglieri! I vostri fuochi soavi s’accompagnano, continui ed
eguali, e le lor detonazioni, mute all’orecchio, scoppiano in profumi ed in
colori…”
- Lei ha la pessima abitudine delle citazioni, - disse Anne, - e siccome io
non conosco mai né il testo né l’autore, mi sento umiliata.
- E’ colpa dell’istruzione, - si scusò Denis. - Le cose ci sembrano più reali
e più chiare quando possiamo applicare a esse la frase già fatta di qualcuno.
Poi c’è un mucchio di nomi e di parole affascinanti: Monofisita, Giambico,
Pomponazzi; si buttan fuori trionfalmente e si ha il senso d’avere confermato

33
l’argomento con la pura magia del loro suono. Ecco il resultato
dell’istruzione superiore.
- Rimpianga pure la sua istruzione, se le piace, - disse Anne. - Io, invece,
mi vergogno di non averla ricevuta. Guardi quei girasoli; non sono
magnifici?
- Facce cupe e corone d’oro. Sono re d’Etiopia. Mi piace vedere le
cingallegre avvicinarsi ai fiori e beccarne i semi, mentre gli altri uccelli,
zoticoni, senza smettere di grattare sudiciamente la terra per cercare
nutrimento, guardano in su invidiosi. Guardano in su invidiosi? Ho paura
che questa sia letteratura. Ancora l’istruzione.
Si ricasca sempre lì.
Tacque.
Anne s’era assisa su una panchina all’ombra d’un vecchio melo.
- Ascolto, - disse.
Egli non sedette; camminava in lungo e in largo dinanzi alla panca e
gesticolava un poco parlando.
- Libri, - diceva, - libri! Se ne leggono tanti, e si vedono così poche
persone e una porzione tanto piccola del mondo… Libri, grandi e grossi libri
sull’universo, sull’anima, sull’etica: è inaudito pensare quanti ce ne sono.
Durante questi ultimi anni debbo averne letti almeno venti o trenta
tonnellate. Venti tonnellate di cogitazioni. Ed è con una simile zavorra che si
viene varati nel mondo.
Continuava il suo andirivieni. La sua voce s’alzò, ricadde, tacque un
momento, e riprese. Egli muoveva le mani e, a volte, agitava le braccia.
Anne guardava e ascoltava tranquillamente, come se assistesse a una
conferenza. Un ragazzo simpatico e quel giorno era carino, proprio carino.
- Si entra nel mondo, - continuava Denis, - pieni di idee preconcette su
tutto. Si ha una filosofia e si cerca di adattare a essa la vita.
Non sarebbe meglio vivere prima e adattare poi la vita alla filosofia?…
La vita, i fatti, le cose sono tremendamente complicati; le idee, anche le più
difficili, ingannevolmente semplici. Nel mondo delle idee, tutto è chiaro;
nella vita, tutto è oscuro, imbrogliato.
C’è dunque da meravigliarsi se una persona è poi infelice, orribilmente
triste?
Denis si fermò dinanzi alla panchina e, facendo questa domanda, stese le
braccia e rimase un momento nell’atteggiamento della crocifissione; poi le
lasciò ricadere lungo i fianchi.

34
- Mio povero Denis!
Anne era commossa. Egli era davvero troppo patetico, così in piedi,
dinanzi a lei, coi suoi pantaloni di flanella bianca.
- Ma è possibile che si possa soffrire per cose come queste? Mi pare
straordinario.
- Lei è come Scogan, - esclamò Denis amaramente. - Mi considera come
un caso per antropologo. Ebbene, vuol dire che lo sono.
- No, no, - protestò essa, e raccolse intorno a sé la sottana, per indicargli
ch’egli doveva sedere accanto a lei. Egli sedette.
- Perché non può prendere le cose con semplicità, come sono e come si
presentano? - domandò essa. - E’ molto più semplice.
- Naturalmente, è molto più semplice, - disse Denis. - Ma questa è una
lezione che va appresa gradualmente. Bisogna prima disfarsi delle venti
tonnellate di cogitazione.
- Io ho sempre preso le cose come venivano, - disse Anne. - Mi pare così
semplice. Si gode delle cose piacevoli, si evitano quelle spiacevoli. Non c’è
nient’altro da dire.
- Niente per lei. Perché lei è nata pagana; io, faccio grandi sforzi per
diventar pagano. Io non posso prendere nessuna cosa, sia pure la più
piccola, come viene; io non posso godere di nulla accettandolo com’è. La
bellezza, il piacere, l’arte, le donne; bisogna che io inventi una scusa per tutto
quello ch’è dilettevole. Diversamente, non posso goderne con la coscienza
tranquilla. Io costruisco una piccola teoria sulla bellezza, e faccio finta che
essa sia in rapporto con la verità e la bontà. Debbo dire a me stesso che l’arte
è il modo che serve a ricostruire, traendola dal caos, la divina realtà. Il
piacere è una delle mistiche vie che conducono all’unione con l’infinito: le
estasi dell’alcool, della danza, dell’amore. Quanto alle donne, io mi convinco
perpetuamente che esse sono la via gloriosa che porta alla Divinità. E
pensare che soltanto ora comincio a capire quanto tutto questo sistema sia
sciocco! Mi pare impossibile che qualcuno sia riuscito a sottrarsi a queste
orribili cose!
- Mi pare ancor più incredibile, - disse Anne, - che qualcuno ne abbia
potuto esser vittima. Ah! sarebbe carino se io mi convincessi che gli uomini
sono la via gloriosa che porta alla Divinità!
La malizia divertita del sorriso incise due leggere pieghe ai lati delle sue
labbra, e, attraverso le palpebre socchiuse, gli occhi brillanti ridevano.

35
- Quello di cui lei ha bisogno, Denis, è una bella mogliettina paffuta, una
rendita fissa e un lavoro leggero conforme ai suoi gusti, ma regolare.
«Quello di cui ho bisogno è lei.» Ecco quello che egli avrebbe dovuto
rispondere, quello che avrebbe voluto dire, appassionatamente. Ma non
poteva dirlo. Il suo desiderio e la sua timidezza lottavano.
«Quello di cui ho bisogno è lei.» Mentalmente, gridava queste parole, ma
nessun suono usciva dalle sue labbra. Egli la guardava disperatamente. Non
vedeva il suo turbamento? Non poteva dunque capire? «Quello di cui ho
bisogno è lei.» Oh! Egli stava per dirlo, per dirlo, per dirlo.
- Credo che andrò a fare un bagno, - disse Anne. - Fa un caldo.
L’occasione era fuggita.

36
5.

Il signor Wimbush faceva visitare ai suoi ospiti la fattoria del castello;


erano là tutti e sei, Henry Wimbush, il signor Scogan, Gombauld, Anne,
Mary e Denis - in piedi presso il muretto del porcile, a guardar nell’interno
di esso.
- Questa è una buona troia, - disse Henry Wimbush. - Ha fatto quattordici
piccoli.
- Quattordici? - ripeté Mary incredula. Volse gli occhi azzurri e stupiti al
signor Wimbush, poi li abbassò verso la massa brulicante di “élan vital” che
fermentava nel porcile. Una troia immensa riposava sul fianco in mezzo al
terreno. La sua pancia nera e rotonda, frangiata d’una doppia fila di
mammelle, si offriva all’assalto di un’armata di porcellini d’un color
nerastro, i quali succhiavano i fianchi della madre, con frenetica avidità. Di
tanto in tanto la vecchia troia si muoveva per il disagio della posizione o
emetteva un piccolo grugnito doloroso. Uno dei porcellini, l’aborto, il figlio
deforme, non era riuscito a procurarsi un posto al banchetto. Andava e
veniva, con piccoli gridi acuti, cercando di insinuarsi tra i suoi fratelli più
robusti e sinanche di arrampicarsi sui loro piccoli dorsi neri e serrati, verso il
serbatoio materno. >
- Ma sì, sono quattordici, - disse Mary. - Lei ha ragione. Li ho contati. E’
straordinario.
- L’altra troia, - continuò il signor Wimbush, - non è riuscita altrettanto
bene. Non ne ha fatti che cinque. Le darò ancora una possibilità; se la
prossima volta non riuscirà meglio di questa, l’ingrasserò e la farò sgozzare.
Ecco il verro - e designò un altro reparto. - Bella bestia. vero? Ma non è più
nella prima giovinezza.
Dovrà andarsene anche lui.
- Com’è crudele! - esclamò Anne.
- Ma com’è pratico, eminentemente realistico! - disse il signor Scogan. -
In questa fattoria voi vedete il modello d’un governo paternalistico

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intelligente. Fateli riprodurre, fateli lavorare e, quando siano impossibilitati a
lavorare e a generare, uccideteli!
- L’allevamento mi pare una cosa ben sudicia: indecenza e crudeltà, -
disse Anne.
Denis si mise a grattare con la punta del bastone il dorso setoloso del
verro. La bestia fece un piccolo movimento per mettersi meglio alla portata
dello strumento che destava in lei quelle deliziose sensazioni; poi
s’immobilizzò e grugnì di piacere.
Il fango degli anni si staccava dai suoi fianchi in croste grige e polverose.
- Che bella cosa, - disse Denis, - fare un piacere agli altri! Son certo di
provare tanto piacere nel grattare questo maiale, quanto egli ne prova a
essere grattato. Se si potesse far sempre il bene così a buon mercato!…
Un cancello si chiuse con fracasso, s’udì il suono di un passo pesante.
- Buongiorno, Rowley! - disse Henry Wimbush.
- Buongiorno, signore, - rispose il vecchio Rowley.
Era il più vecchio lavoratore della fattoria. Un uomo alto, solido, ancora
diritto, coi favoriti grigi e un profilo dignitoso e scosceso.
Grave, ponderato nei movimenti, magnificamente rispettabile, Rowley
aveva l’aria d’un grand’uomo di Stato inglese dell‘800. Si fermò presso il
gruppo e, per un momento, tutti contemplarono i maiali, immersi in un
silenzio turbato unicamente dai grugniti o dal battere di un piede puntuto nel
fango.
Finalmente Rowley si girò, lentamente, posatamente, nobilmente, come
faceva tutte le cose, e si rivolse a Henry Wimbush.
- Guardi, signore, - disse con un gesto della mano dalla parte dei maiali
che diguazzavano. - Essi si chiaman porci con pieno diritto.
- Con pieno diritto, infatti, - annuì il signor Wimbush.
- Quest’uomo mi confonde, - disse il signor Scogan, mentre il vecchio
Rowley se ne andava pesantemente, con lentezza e dignità. - Che saggezza!
Che giudizio! Che senso dei valori! Con pieno diritto essi si chiamano porci.
Sì. E io vorrei poter dire con altrettanta giustizia: è con pieno diritto che noi
ci chiamiamo uomini.
Continuarono la loro passeggiata verso le stalle e le scuderie dei cavalli
da tiro. Cinque oche bianche che in quel bel mattino prendevano l’aria, li
incontrarono sulla strada. Esitarono, schiamazzarono; poi, tramutando i loro
colli diritti in rigidi serpenti orizzontali, fuggirono in disordine emettendo
sibili spaventevoli. Qualche vitello rosso diguazzava nello sterco e nel fango

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del gran cortile. In un altro recinto, il toro, massiccio come una locomotiva.
Era un toro molto calmo e il suo muso era pieno d’una melanconica
stupidità. Contemplava i visitatori con occhi di un color bruno rossastro e
ruminava pensosamente i ricordi tangibili d’un pasto anteriore; inghiottiva,
rivomitava e ricominciava a masticare. La sua coda batteva selvaggiamente i
fianchi; pareva del tutto indipendente dalla sua massa impassibile. Tra due
corna brevi, aveva un triangolo di riccioli rossi, corti e fitti.
- Splendida bestia, - disse Henry Wimbush. - Razza selezionata. Ma
invecchia un poco, come il verro.
- Lo ingrassi e lo ammazzi, - pronunziò il signor Scogan, con la delicata e
precisa elocuzione d’una vecchia zitella.
- Non si potrebbe concedere alle bestie un po’ di riposo per quel che
riguarda la produzione dei figli? - domandò Anne. - Mi fanno pena,
poverette.
Il signor Wimbush crollò il capo.
- Per quel che mi riguarda, - disse, - mi piace vedere quattordici porci
dove prima ce n’era uno solo. Lo spettacolo di tanta vita allo stato brado mi
fa bene.
- Mi fa piacere sentirla parlare così, - interruppe calorosamente
Gombauld. - Molta vita: ecco quello di cui abbiamo bisogno. Io amo la
pullulazione: tutto dovrebbe crescere e moltiplicarsi più che sia possibile.
Gombauld divenne lirico. Tutti avrebbero dovuto avere dei bambini: -
Anne avrebbe dovuto averne, Mary avrebbe dovuto averne - a dozzine, a
dozzine. E rinforzava il suo punto di vista, percuotendo col bastone i fianchi
coriacei del toro. Il signor Scogan avrebbe dovuto trasmettere la sua
intelligenza a tanti piccoli Scogan, Denis a tanti piccoli Denis. Il toro voltò la
testa per vedere cosa succedesse, guardò per qualche momento quel bastone
tambureggiante, poi riprese la sua posizione, certo, ormai, che non
succedeva proprio nulla. La sterilità era odiosa, anormale, un peccato contro
la vita! I fianchi del placido toro risonavano.
Appoggiato alla pompa, nel cortile, un po’ in disparte, Denis esaminava il
gruppo. Gombauld vivo e appassionato ne era il centro.
Gli altri, intorno a lui, ascoltavano. Henry Wimbush, calmo ed educato,
sotto la bombetta grigia; Mary, con le labbra semiaperte e gli occhi brillanti
d’indignazione, come un convinto fautore del maltusianismo. Anne
guardava con gli occhi socchiusi, e al suo fianco stava il signor Scogan,
diritto come un I, in un atteggiamento d’una rigidezza metallica che

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contrastava stranamente con la grazia fluida della sua compagna, una grazia
che, anche nei momenti di riposo, evocava movimenti ondulanti.
Gombauld smise di parlare, e Mary, fuori di sé, rossa in volto, aprì la
bocca per confutarlo. Ma fu troppo lenta. Prima che ella potesse emettere
una parola, il falsetto del signor Scogan aveva pronunciato l’esordio d’un
discorso. Non c’era più speranza di introdurre una sillaba; Mary fu costretta
ad arrendersi.
- La sua stessa eloquenza, caro Gombauld, - diceva, - la sua stessa
eloquenza non basterà a riconvertire il mondo al credo delle delizie della
mera moltiplicazione. Col grammofono, il cinema e la pistola automatica, la
dea delle scienze applicate ha fatto un altro regalo al mondo: il modo di
dissociare l’amore dalla procreazione. Eros, per quelli che lo desiderano, è
ora un dio completamente libero; le sue deplorevoli relazioni con Lucina
possono essere rotte a volontà. Nel corso di qualche secolo avvenire - chi
sa? - può darsi che il mondo si trovi a essere testimonio d’una rottura ancor
più completa. E io me ne rallegro ottimisticamente. Là dove il grande
Erasmus Darwin e miss Anne Seward, il cigno di Lichfield, sperimentarono
e fallirono ad onta del loro ardore scientifico, i nostri posteri
sperimenteranno e riusciranno. Una generazione impersonale si sostituirà
all’orribile sistema della Natura. Entro vaste incubatrici di Stato, scaffali su
scaffali di bottiglie fecondate forniranno al mondo la popolazione di cui ha
bisogno. L’istituto familiare sparirà; la società, colpita alle radici, cercherà
nuove fondamenta, mentre Eros, bello, libero, irresponsabile, aleggerà, gaia
farfalla, di fiore in fiore, in un mondo luminoso.
- E’ bellissima, come prospettiva, - disse Anne.
- E’ sempre così, per le prospettive lontane.
Gli occhi di Mary, porcellana azzurra, più seri e stupiti che mai, erano
fissi sul signor Scogan.
- Delle bottiglie? - diss’ella. - Ma è davvero la sua opinione? Delle
bottiglie…

40
6.

Il signor Barbecue-Smith arrivò per il tè, nel pomeriggio di sabato.


Era un uomo bassotto e corpulento, con una testa molto grossa e
pochissimo collo. Quand’era ancora nel fiore degli anni, egli s’era
preoccupato di questa mancanza di collo; ma s’era poi consolato leggendo
nel “Louis Lambert” di Balzac che tutti i grandi uomini del mondo erano stati
segnati dalla stessa particolarità, e ciò per una ragione semplice e chiara. Che
cos’è il genio se non il funzionamento armonioso delle facoltà del cervello e
di quelle del cuore? Più corto è il collo, più questi due organi sono vicini…
Era convincente.
Il signor Barbecue-Smith apparteneva alla vecchia scuola giornalistica.
Esibiva una testa leonina dalla criniera biancogrigiastra stranamente
ripugnante e pettinata all’indietro, in modo da scoprire una fronte larga ma
bassa. A torto o a ragione, egli aveva sempre l’aria leggermente sudicia, oh!
molto leggermente! In gioventù s’era spavaldamente definito un bohémien,
ma oggi non lo faceva più. Ormai era un Maestro, una specie di profeta.
Qualcuno dei suoi libri di conforto e d’insegnamento spirituale era giunto a
centoventimila copie.
Priscilla lo accolse con tutti i segni della stima. Egli non era mai venuto a
Crome; gli fece visitare la casa. Il signor Barbecue-Smith fu assai elogiativo.
«Così originale! Così arcaico!» non cessava di ripetere, con la sua voce
sonora e abbastanza untuosa.
Priscilla lodò il suo ultimo libro.
- Splendido: questa è la mia opinione, - disse col suo tono largo e
gioviale.
- Sono lieto di pensare che le sia stato di conforto, - disse il signor
Barbecue-Smith.
- Oh! enormemente! E il brano su lo “Stagno dei Fiori di Loto”! Mi è
parso così bello!
- Sapevo che le sarebbe piaciuto. Sa, quel brano mi è giunto proprio
dall’al di là!

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Con un gesto della mano, indicò il mondo astrale. Uscirono nel giardino
per il tè. Il signor Barbecue-Smith fu regolarmente presentato.
- Il signor Stone è anch’egli scrittore, - disse Priscilla presentando Denis.
- Davvero!
Il signor Barbecue-Smith sorrise con una certa condiscendenza; poi,
osservando Denis con un’espressione di benignità olimpica:
- E che genere di cose scrive? - domandò.
Denis era furibondo e, quel ch’è peggio, si sentiva diventar rosso come
un papavero. Priscilla non aveva dunque il senso delle proporzioni? Essa li
metteva nella stessa categoria, Barbecue-Smith e lui. Erano entrambi scrittori;
entrambi si servivano della penna e dell’inchiostro. Alla domanda del signor
Barbecue-Smith rispose:
- Oh! quasi niente, niente! - e guardò nel vuoto.
- Il signor Stone è uno dei nostri più giovani poeti.
Era la voce d’Anne. Egli la guardò aggrottando la fronte ed essa gli
rispose con un sorriso esasperante.
- Benissimo! Benissimo! - disse il signor Barbecue-Smith e strinse il
braccio di Denis a mo’ d’incoraggiamento. - La vocazione del bardo è una
nobile vocazione!
Quando il tè fu terminato, il signor Barbecue-Smith si scusò: bisognava
che scrivesse un po’ prima di pranzo. Priscilla capiva benissimo. Il profeta si
ritirò nella sua stanza.
Il signor Barbecue-Smith discese in salotto alle otto meno dieci. Era di
buon umore e, scendendo le scale, sorrideva a se stesso e si stropicciava le
mani, che aveva forti e bianche. Nel salotto, qualcuno suonava il piano in
modo sommesso e incoerente. Egli si chiese chi potesse essere. Una delle
ragazze, senza dubbio. Ma no, non era che Denis, il quale s’alzò in fretta e
con un certo imbarazzo quand’egli entrò nel salotto.
- Continui, continui pure, - disse il signor Barbecue-Smith, - io adoro la
musica.
- In questo caso mi è impossibile continuare, - disse Denis. - Io non so
fare che un po’ di rumore.
Ci fu un silenzio. Il signor Barbecue-Smith, con la schiena volta al
camino, si scaldava al ricordo dei fuochi dell’ultimo inverno. Non poteva
frenare la sua intima soddisfazione e continuava a sorridere da solo. Poi,
finalmente, volgendosi a Denis, disse:
- Lei scrive? Lei scrive?

42
- Ebbene, sì, un poco, sa bene…
- Quante parole riesce a scrivere in un’ora?
- Non credo di averle mai contate.
- Oh! Dovrebbe farlo, dovrebbe farlo. E’ una cosa che ha un’enorme
importanza.
Denis fece appello alla sua memoria.
- Quando sono in forma, - disse, - mi sembra, scrivo un articolo di
milleduecento parole in quattro ore o presso a poco. Ma qualche volta ci
metto di più.
Il signor Barbecue-Smith crollò il capo.
- Sì, trecento parole all’ora, al massimo.
Camminò in su e in giù per la stanza, si fermò nel mezzo, girò sui tacchi
e si ritrovò faccia a faccia con Denis.
- Indovini quante parole ho scritto questa sera tra le cinque e le sette e
mezzo?
- Non saprei davvero.
- Provi a indovinare. Tra le cinque e le sette e mezzo, vale a dire in due
ore e mezzo.
- Milleduecento parole, - arrischiò Denis.
- No, no, no, - e il volto del signor Barbecue-Smith brillò di gioia.
- Tenti ancora.
- Millecinquecento.
- No.
- Ci rinunzio, - disse Denis che non provava nessun interesse per la
fecondità del signor Barbecue-Smith.
- Ebbene, glielo dirò io. Tremilaottocento!
Denis spalancò gli occhi.
- Ne deve scrivere in un giorno, - osservò.
Improvvisamente il signor Barbecue-Smith divenne molto confidenziale.
Tirò uno sgabello vicino alla poltrona di Denis, sedette e cominciò a
parlar basso e rapido:
- Mi stia a sentire, - disse posando la mano sul braccio di Denis. - Lei
vuol guadagnarsi la vita scrivendo; lei è giovane, lei è inesperto. Mi permetta
di darle un piccolo consiglio illuminato.
Che cosa stava per fare, il collega, si domandò Denis: gli avrebbe dato
un biglietto di presentazione per l’editore della «Domenica illustrata» o gli

43
avrebbe detto dove poteva collocare per sette ghinee un articolo di colore? Il
signor Barbecue-Smith gli diede qualche colpetto sul braccio e proseguì:
- Il segreto dello stile, - e soffiava le parole nell’orecchio del giovanotto,
- il segreto dello stile, è l’ispirazione.
Denis lo guardò con stupore.
- L’ispirazione… - ripeté il signor Barbecue-Smith.
- Il canto… gli accenti innati; è di queste diavolerie che vuol parlare?
Il signor Barbecue-Smith annuì.
- Oh! allora sono interamente d’accordo con lei, - disse Denis. - Ma se
l’ispirazione non c’è?
- Ecco precisamente la domanda che m’aspettavo, - disse il signor
Barbecue-Smith. - Lei mi chiede che cosa convenga fare se l’ispirazione non
c’è. E io rispondo che lei ce l’ha, l’ispirazione; tutti ce l’hanno, l’ispirazione.
La questione è di farla funzionare.
La pendola suonò le otto. Nessuno degli ospiti dava segno di vita; a
Crome tutti erano sempre in ritardo. Il signor Barbecue-Smith continuò:
- Questo è il mio segreto, - disse, - ma gliene faccio un regalo.
(Denis fece una smorfia ed emise un mormorio d’adeguata gratitudine.)
Voglio aiutarla a trovar l’ispirazione, perché mi dispiace vedere un
giovanotto simpatico e serio come lei dilapidare la propria vitalità e sciupare
gli anni migliori della propria vita in un duro e monotono lavoro intellettuale
che può essere completamente evitato grazie all’ispirazione. L’ho fatto
anch’io; so di che si tratta. Sino al mio trentottesimo anno, io sono stato uno
scrittore come lei, uno scrittore senza ispirazione. Tutto quel che scrivevo, lo
spremevo da me, a forza di lavoro. Ebbene, in quei tempi, io non riuscivo a
scrivere più di sessantacinque parole all’ora, e, ciò che è peggio, quello che
scrivevo allora non si vendeva -. Sospirò. - Noi artisti, - disse come se
facesse una parentesi, - noi intellettuali, non siamo molto apprezzati in
Inghilterra.
Denis si chiese se esistesse un metodo, compatibile con l’educazione,
bene inteso, che gli permettesse di dissociarsi da quel «noi». Non esisteva; e,
d’altronde, era ormai troppo tardi. Il signor Barbecue-Smith riprendeva il
filo del suo discorso.
- All’età di trentott’anni ero un povero giornalista, stentavo a sbarcare il
lunario, stanco, esaurito, sconosciuto. Ora, a cinquanta…
S’interruppe modestamente e fece un piccolo gesto allontanando l’una
dall’altra le mani grassocce, staccandone le dita come per una dimostrazione.

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Si metteva in mostra. Denis pensò al cartellone pubblicitario del Latte
Condensato Nestlé - i due gatti sul muro, al chiaro di luna; uno nero e
magro, l’altro bianco, grasso e lustro…
Prima dell’Ispirazione e dopo l’Ispirazione.
- E’ l’Ispirazione che ha prodotto questo cambiamento, - disse
solennemente il signor Barbecue-Smith. - Mi è venuta, improvvisamente,
come una rugiada del cielo. Alzò le mani, poi le lasciò ricadere sulle
ginocchia per indicare la discesa della rugiada.
- Fu una sera. Stavo scrivendo il mio primo libro sul modo di condursi
nella vita: “Umili eroismi”. Forse lo ha letto. Questo libro è stato di conforto
- almeno lo credo e lo spero - di conforto a migliaia e migliaia di anime. Ero
a metà del secondo capitolo, ed ero in panna.
Stanchezza, esaurimento: in un’ora avevo scritto cento parole al
massimo, e non andavo avanti. Seduto, mordicchiavo la cannuccia della
penna e guardavo la lampadina elettrica che pendeva sul mio tavolo, in
faccia a me -. Qui egli indicò la posizione della lampada con cura minuziosa.
- Lei ha mai fissato intensamente una fonte luminosa per qualche tempo? -
domandò poi, volgendosi verso Denis. Denis non credeva d’aver mai fatto
nulla di simile. - In questo modo ci si può ipnotizzare, - continuò il signor
Barbecue-Smith.
Il gong suonò nel vestibolo il suo terribile crescendo. Nessuno dava
segno di vita. Denis aveva una fame tremenda.
- E’ quel che successe a me, - disse il signor Barbecue-Smith. - Ero
ipnotizzato. Persi coscienza… così… (fece schioccare le dita).
Quando tornai in me, mi accorsi ch’era passata mezzanotte e che avevo
scritto quattromila parole. Quattromila, - ripeté scandendo ogni sillaba. -
L’ispirazione era venuta.
- E’ una cosa straordinaria! - disse Denis.
- Dapprima ne fui spaventato. La cosa non mi sembrava naturale. Avevo,
in certo modo, l’impressione che non fosse corretto, starei per dire onesto,
produrre un’opera letteraria incoscientemente. Senza contare che temevo di
avere scritto delle sciocchezze.
- E ne aveva scritte? - domandò Denis.
- No certo, - rispose il signor Barbecue-Smith, con una punta di
irritazione. - No certo. Era mirabile. C’era soltanto qualche errore
d’ortografia, un lapsus o due, come accade generalmente nella scrittura
mediana. Ma lo stile, il pensiero, tutto ciò che conta, era perfetto. Da quel

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giorno, l’ispirazione venne a me regolarmente. In questo modo scrissi
interamente “Umili eroismi”. Il libro ottenne un grande successo, come del
resto tutti quelli che seguirono.
Si piegò in avanti e toccò Denis con l’indice.
- Ecco il mio segreto, - disse. - Anche lei potrà, valendosene, scrivere
senza sforzo, correntemente, bene.
- Ma come? - domandò Denis, facendo uno sforzo per non mostrare
come fosse profondamente offeso da quel «bene» finale.
- Coltivando la sua ispirazione, mettendosi in rapporto col suo
subcosciente. Ha mai letto quel mio libretto che s’intitola: “Filo diretto con
l’Infinito”?
Denis dovette confessare che si trattava precisamente d’una delle rare
opere del signor Barbecue-Smith, forse della sola, ch’egli non conosceva.
- Non fa nulla, non fa nulla, - disse il signor Barbecue-Smith. - Non è
che un libretto sui rapporti del subcosciente con l’infinito. Si metta in
armonia col suo subcosciente, e sarà in armonia con l’universo. Insomma è
l’ispirazione. Mi segue?
- Perfettamente, perfettamente, - rispose Denis. - Ma l’universo qualche
volta non le manda dei messaggi incoerenti?
- Non glielo permetto, - rispose Barbecue-Smith. - Io lo incanalo. Lo
incanalo perché metta in moto le turbine della mia coscienza.
- Come il Niagara, - suggerì Denis.
C’erano alcune frasi del signor Barbecue-Smith che suonavano,
stranamente, come citazioni; citazioni d’opere proprie, senza dubbio.
- Precisamente, come il Niagara. E senta un po’ come faccio.
Si chinò in avanti e, con l’indice alzato, segnò ogni argomento a misura
che gli usciva dalle labbra, battendo, se così si può dire, la misura del suo
discorso.
- Prima d’entrare in trance, concentro il mio pensiero sull’argomento sul
quale desidero essere ispirato. Supponiamo che io scriva sugli umili eroismi:
nei dieci minuti che precedono lo stato di trance, non penso che a orfani che
aiutano i loro fratellini e le loro sorelline, a un lavoro monotono condotto
innanzi pazientemente; concentro la mente su grandi verità filosofiche, quali
la purificazione e l’elevazione dell’anima attraverso il dolore, o la
trasformazione alchemica del piombo, il male, in oro, il bene. (Denis
continuava ad appendere la sua ghirlanda di virgolette.) Poi,
improvvisamente, ci sono. Due o tre ore dopo, mi sveglio e l’ispirazione ha

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compiuto l’opera sua. Migliaia di parole, parole consolanti, esaltanti, sono lì,
dinanzi a me. Le ricopio accuratamente a macchina, ed eccole pronte per la
tipografia.
- Tutto ciò sembra d’una semplicità miracolosa, - disse Denis.
- Ed infatti lo è. Tutte le cose della vita che sono grandi e splendide e
divine sono d’una miracolosa semplicità. (Altre virgolette.) Quando debbo
scrivere i miei aforismi, - continuò il signor Barbecue-Smith, - preludo allo
stato di trance, sfogliando una raccolta qualsiasi di citazioni o un Calendario
di Shakespeare; il primo che mi trovo sotto mano. Questo, per così dire, dà
la chiave, e forza l’Universo a scorrere in me, non come un getto
ininterrotto, ma in gocciole aforistiche. Capisce?
Denis fece segno di sì. Il signor Barbecue-Smith mise la mano in tasca e
ne trasse un taccuino.
- Ne ho scritto qualcuno in treno, oggi, - disse volgendo le pagine. - Mi
sono abbandonato allo stato di trance nell’angolo dello scompartimento. Il
treno è un eccellente promotore d’opere eccelse.
Eccoli.
Si schiarì la voce e lesse:
“Il sentiero della Montagna qualche volta è erto; ma è sulla Vetta che
l’aria è pura e la vista bella.
“Le cose che veramente contano accadono nel Cuore”.»
- E’ strano, - pensò Denis, - come qualche volta l’Infinito si ripeta. -
“Vedere è Credere. Senza dubbio, ma Credere è anche Vedere. Se io credo in
Dio, vedo Dio, anche nelle cose che paiono essere il Male”.»
Il signor Barbecue-Smith alzò lo sguardo dal taccuino.
- Questo aforisma, - disse, - è particolarmente bello, vero? Non ci sarei
mai arrivato, senza l’ispirazione -. Rilesse l’apoftegma con maggior lentezza
e solennità. - Dall’infinito, in linea retta, - commentò pensieroso. Poi,
passando all’aforisma seguente:
“La Fiamma della candela dà la Luce, ma può anche Bruciare”.
Delle rughe di perplessità si formarono sulla fronte del signor Barbecue-
Smith.
- Non so esattamente che cosa voglia dire, - disse. - E’ eccessivamente
gnomico. Si potrebbe, naturalmente, applicarlo all’istruzione superiore, che
illumina, ma spinge le classi inferiori al malcontento e alla rivolta. Sì, deve
essere così. Ma è gnomico, sì, è gnomico.

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Si stropicciò pensosamente il mento. Il gong suonò daccapo, con clamori
che parevano implorazioni: il pranzo si freddava. Il signor Barbecue-Smith
fu strappato alla sua meditazione. Volgendosi a Denis:
- Ora lei mi capisce quando le dico di coltivare l’ispirazione, - disse. -
Faccia lavorare per lei il suo subcosciente; apra il Niagara dell’infinito.
S’udì un rumore di passi sulle scale; il signor Barbecue-Smith si alzò,
posò un momento la sua mano sulla spalla di Denis e disse:
- Per ora basta. Un’altra volta. E si ricordi che mi fido completamente
della sua discrezione sull’argomento. Ci sono certe cose, intime e sacre, che
non si desidera veder divulgate.
- Naturalmente, - disse Denis. - Capisco perfettamente.

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7.

A Crome, tutti i letti erano mobili antichi, ereditari.


Letti enormi, simili a quattro alberi che avessero spiegato le loro vele di
stoffe colorate e splendenti. Letti scolpiti e incrostati, letti dorati e dipinti.
Letti di castagno e di quercia e di legni esotici e preziosi. Letti di tutte le date
e di tutti gli stili, dall’epoca di sir Ferdinando, che aveva costruito la casa,
sino a quello del suo omonimo, l’ultimo della famiglia, alla fine del secolo
decimottavo. Tutti erano grandiosi e magnifici.
Il più bello di tutti era occupato da Anne. Sir Julius figlio di sir
Ferdinando, l’aveva fatto costruire a Venezia al primo parto della moglie. La
Venezia del principio del Seicento aveva esaurite, per questo lavoro, le
risorse della sua arte sfarzosa. L’armatura del letto somigliava a un grande
sarcofago di forma quadrata. Rose a mazzi erano scolpite in altorilievo sui
pannelli di legno, e putti succulenti danzavano tra quelle rose. I rilievi lucidi
e dorati spiccavano sul fondo nero dei pannelli. Le rose d’oro
s’arrampicavano a spirale lungo le quattro colonne, sui capitelli delle quali
stavano seduti dei cherubini che reggevano il baldacchino di legno ornato, in
rilievo, degli stessi fiori intagliati.
Anne era a letto e leggeva. Due candele erano accese sul comodino
presso il letto. Nella loro ricca luce, il suo volto, le sue braccia, le sue spalle
nude prendevano tinte calde e una qualità di superficie simile a quella della
pesca. Qua e là, nel baldacchino sopra di lei, rilievi di petali d’oro
rompevano col loro vivo splendore le ombre profonde. La morbida luce,
cadendo sui pannelli scolpiti, si spezzava tremando nelle rose allacciate,
s’attardava in lunghe carezze sulle guance gonfie, sulle pancine piene di
fossette, sui fermi e assurdi deretani dei putti folleggianti.
Un colpo discreto fu picchiato alla porta. Anne levò il capo.
- Avanti! Avanti!
Un volto, rotondo e infantile nella lucida campana dei capelli dorati,
apparve dietro la porta socchiusa. Ancor più infantile, un pigiama color
malva fece il suo ingresso. Era Mary.

49
- Ho avuto l’idea di venire un minutino per darle la buona notte, -
diss’ella e sedette sull’orlo del letto. Anne chiuse il libro.
- E’ un’idea molto carina.
- Che cosa legge? - Ella gettò un’occhiata sul libro. - Di second’ordine,
mi pare.
Il tono con cui Mary pronunciava le parole «second’ordine» lasciava
intendere una denigrazione quasi senza limiti. A Londra, ella aveva
l’abitudine di non frequentare se non persone di prim’ordine, che amassero
le cose di prim’ordine; e sapeva che non v’erano al mondo se non rarissime
cose di prim’ordine, e che queste, in genere, erano francesi.
- Ebbene, confesso che mi piace lo stesso, - disse Anne. Non c’era niente
da rispondere. Il silenzio che seguì fu pieno d’imbarazzo.
Mary, sconcertata, giocherellava con l’ultimo bottone del pigiama.
Anne, addossata a un monte di cuscini, aspettava chiedendosi che cosa
stesse per accadere.
- Ho una tale paura delle repressioni, - disse finalmente Mary, prendendo
la parola d’improvviso e in modo sconcertante. Ella pronunciava le parole
alla fine d’ogni espirazione ed era costretta a riprender fiato prima che la
frase fosse finita.
- Che ragione ha d’essere depressa?
- Ho detto repressioni, non depressioni.
- Ah! Repressioni; vedo, - disse Anne, - ma repressioni di che?
Mary fu costretta a spiegarsi.
- L’istinto naturale del sesso… - cominciò con tono didattico. Ma Anne le
chiuse la bocca.
- Ah, sì, perfettamente. Capisco. Repressioni, le vecchie zitelle… e il
resto. Ebbene, e poi?
- Ebbene, è tutto, - disse Mary. - Ne ho paura. E’ sempre pericoloso
reprimere i propri istinti. Sto cominciando a sorprendere in me stessa dei
sintomi simili a quelli che si leggono nei libri. Sogno continuamente di
cadere in un pozzo e anche, qualche volta, di salire per una scala a pioli. e’
molto inquietante. Questi sintomi sono fin troppo chiari.
- Davvero?
- A non badarci, si può diventare ninfomani. Lei non può immaginare
come queste repressioni siano gravi se non ci se ne libera rapidamente.
- E’ una cosa terribile, - disse Anne, - ma non capisco come potrei esserle
d’aiuto.

50
- Ho pensato che mi avrebbe fatto piacere discuterne un po’ con lei.
- Sì, naturalmente, anche a me fa piacere, cara Mary.
Mary tossì e aspirò profondamente.
- Presumo, - cominciò sentenziosamente, - che possiamo considerare
come acquisito che una ragazza intelligente di ventitré anni, che ha vissuto
nella società civile del ventesimo secolo, non debba avere pregiudizi.
- Purtroppo, debbo confessare di averne ancora qualcuno.
- Ma non per quanto riguarda le repressioni?
- No, per quanto riguarda le repressioni, non molti, è vero.
- O meglio, per quanto riguarda il modo di liberarsi delle repressioni.
- Esattamente.
- Ecco un punto acquisito per il nostro postulato fondamentale, - disse
Mary. La solennità si esprimeva in ogni lineamento del suo giovane e tondo
visetto e s’irradiava dai grandi occhi azzurri. - Veniamo, poi, alla necessità di
possedere esperienza. Spero che concorderà con me anche su questo: che la
conoscenza è desiderabile e l’ignoranza indesiderabile.
Obbediente, come quei compiacenti discepoli ai quali Socrate faceva
rispondere quel che voleva, Anne rispose affermativamente anche a questa
proposizione.
- E siamo anche d’accordo, spero, che il matrimonio è quello che è.
- Sì.
- Bene, - disse Mary. - E siccome le repressioni sono quello che sono…
- Perfettamente.
- Mi sembra, dunque, che non vi sia che una soluzione.
- Ma questo, - esclamò Anne, - lo sapevo prima che cominciasse.
- Sì, ma ora è dimostrato, - disse Mary. - Bisogna procedere logicamente.
La questione è dunque…
- Ma che questione ci può essere ancora? Lei è giunta alla sola
conclusione possibile logicamente, il che è più di quanto io avrei potuto fare.
Non rimane che informare di questa conclusione qualcuno che le piaccia,
qualcuno che le piaccia molto, di cui lei sia innamorata, se mi è lecito
esprimermi così imperfettamente.
- Ma ecco appunto la questione, - esclamò Mary. - Io non sono
innamorata di nessuno.
- Allora, al suo posto, aspetterei di essere innamorata.
- Ma io non posso continuare a vivere sognando ogni notte di cadere in
un pozzo. E’ troppo pericoloso.

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- Ebbene, se è veramente “troppo” pericoloso, bisogna rimediare.
Bisogna trovare qualcun altro.
- Ma chi? - Una piega pensierosa solcò la fronte di Mary. - Bisogna che
sia qualcuno intelligente, qualcuno di cui io possa dividere i gusti
intellettuali. E bisogna che sia qualcuno che ha veramente il rispetto della
donna, qualcuno che sia disposto a parlar seriamente del suo lavoro e delle
sue idee, del mio lavoro e delle mie idee. Vede bene che non è facile trovar
la persona adatta.
- Ebbene, - disse Anne, - ci sono ora in questa casa tre uomini intelligenti
e senza legami. C’è, prima di tutto, il signor Scogan; ma forse esala da lui un
profumo d’antichità troppo autentica. C’è Gombauld e c’è Denis. Diciamo,
dunque, che la scelta si limita a questi due.
Mary annuì.
- Proprio così, - disse, poi esitò con aria un po’ imbarazzata.
- Cosa c’è?
- Mi domando, - disse Mary un po’ ansimante, - se veramente non
abbiano legami. Pensavo che, forse, lei potrebbe… potrebbe…
- E’ carino che lei abbia pensato a me, Mary cara, - disse Anne,
sorridendo del suo ermetico sorriso di gatto. - Ma per quello che mi
concerne, essi sono entrambi senza legami.
- Ne sono molto contenta, - disse Mary con sollievo. - Ci troviamo,
dunque, in presenza di questo problema: quale dei due?
- Non posso darle consigli. Ciò dipende dal suo gusto.
- No, non dipende dal mio gusto, - disse Mary, - ma dai loro meriti. Noi
dobbiamo pesarli e studiarli accuratamente e imparzialmente.
- E’ un’operazione che deve far lei, - disse Anne. Una traccia di sorriso
persisteva agli angoli della sua bocca e intorno ai suoi occhi socchiusi. - Non
voglio correre il rischio di darle un cattivo consiglio.
- Gombauld ha più ingegno, - cominciò Mary, - ma è meno civilizzato di
Denis.
Il modo con cui ella pronunciava la parola «civilizzato» dava alla parola
stessa un significato speciale e più forte. Essa la staccava meticolosamente
con la punta delle labbra liquefacendo delicatamente la “c” iniziale. Le
persone civilizzate erano rarissime, e, come le opere d’arte di prim’ordine,
erano soprattutto francesi.
- Essere civilizzati ha una grande importanza, non le pare?
Anne alzò le mani.

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- Non voglio dar consigli. Deve prender da sola una decisione.
- La famiglia di Gombauld, - proseguì pensosamente Mary, - viene da
Marsiglia. Questa è un’eredità pericolosa, per chi pensi all’atteggiamento
della latinità verso le donne. Ma, d’altra parte, io mi chiedo qualche volta se
Denis sia serio, se non sia piuttosto un dilettante. E’ molto difficile. Che cosa
ne pensa lei?
- Non ascolto, - disse Anne. - Rifiuto di prendere delle responsabilità.
Mary sospirò.
- Ebbene, - disse, - penso che farei meglio ad andare a letto e a riflettere.
- Profondamente e imparzialmente, - disse Anne.
Presso la porta, Mary si volse. - Buonanotte! - e dicendolo, si chiese
perché Anne sorridesse in maniera così strana. «Per niente, senza dubbio»,
pensò. Anne sorrideva spesso senza ragione apparente.
Probabilmente non era che un’abitudine.
- Spero di non sognare anche questa notte di precipitare in un pozzo, -
aggiunse.
- Le scale è peggio! - disse Anne.
Mary annuì:
- Oh, sì, le scale è molto più grave.

53
8.

La domenica mattina la colazione era servita un’ora più tardi del solito, e
Priscilla che, abitualmente, non appariva in pubblico prima del “lunch”,
onorava la colazione della sua presenza. Vestita di seta nera, avendo al collo,
oltre la solita collana di perle, una croce di rubini, essa presiedeva.
Un’enorme «Domenica illustrata» nascondeva al mondo esterno tutta la sua
pettinatura, tranne l’estremo pinnacolo.
- Vedo che il Surrey ha vinto, - diss’ella con la bocca piena - Con un
vantaggio di quattro punti. Il sole è nel segno del Leone; questo spiega tutto.
- Un gioco splendido il cricket, - notò cordialmente il signor Barbecue-
Smith, senza rivolgersi a nessuno in particolare, - così profondamente
inglese.
Jenny, seduta vicino a lui, si svegliò di soprassalto.
- Che cosa? - diss’ella. - Che cosa?
- Così inglese, - ripeté il signor Barbecue-Smith.
Jenny lo guardò stupefatta.
- Inglese? Certo che sono inglese.
Egli si accingeva a chiarire l’equivoco, allorché la signora Wimbush
abbassò la «Domenica illustrata» e apparve, volto quadrato al quale la cipria
dava un colorito malva, in mezzo agli splendori arancione.
- Vedo che hanno cominciato a pubblicare una nuova serie di articoli
sull’al di là, - disse al signor Barbecue-Smith. - Questo è intitolato: “Paesi di
sole e Geenna”.
- “Paesi di sole”! - ripeté come un’eco il signor Barbecue-Smith,
chiudendo gli occhi. - Paesi di sole! Un bel nome, un bellissimo nome!
Mary s’era seduta a fianco di Denis. Dopo una notte di attente riflessioni,
s’era decisa per Denis. Forse aveva meno ingegno di Gombauld, poteva
mancare di serietà, ma pareva dare più affidamento.
- Scrive molte poesie qui in campagna? - domandò con gioiosa gravità.
- Nessuna, - rispose brevemente Denis. - Non ho portato la macchina da
scrivere.

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- Vuol forse farmi credere di non poter scrivere senza macchina?
Denis scoté il capo. Detestava parlare durante la colazione, e, oltre ciò,
desiderava ascoltare quello che il signor Scogan diceva all’altro capo della
tavola.
- … il mio progetto, per quel che riguarda la chiesa, - diceva il signor
Scogan, - è d’una estrema semplicità. Sino a oggi i membri del clero
anglicano hanno portato il colletto alla rovescia. Io vorrei obbligarli a
portare non solo il colletto, ma tutti i loro vestiti alla rovescia - redingotta,
panciotto, calzoni, scarpe - di modo che ogni prete presentasse al mondo una
facciata uniforme, non interrotta da bottoni, fessure o lacci. L’obbligo di
questa livrea servirebbe a spaventare tutti quelli che accarezzano l’idea di
entrare negli ordini. Nello stesso tempo, darebbe un enorme risalto, in quei
pochi che non se ne siano lasciati spaventare, a un fattore di cui
l’arcivescovo di Land ha così giustamente sottolineato l’importanza, ossia la
«bellezza della santità».
- All’inferno, a quanto pare, - disse Priscilla leggendo la sua
«Domenica illustrata», - all’inferno, i bambini si divertono a scorticar
vivi degli agnellini.
- Ah! Ma cara signora, non è che un simbolo, - esclamò il signor
Barbecue-Smith, - un simbolo tangibile di verità spirituale. Gli agnelli
significano…
- E poi, ci sono le uniformi militari, - continuava il signor Scogan.
- Quando il rosso e l’oro cedettero il posto al kaki, ci fu chi tremò per
l’avvenire della guerra. Ma quando si vide come fosse elegante la nuova
giubba, come serrasse strettamente la vita, come esagerasse voluttuosamente
le anche, coi due rilievi delle tasche, quando apparve chiaro quali fossero le
brillanti qualità potenziali dei pantaloni da cavallo e degli stivali, tutti si
tranquillizzarono. Abolite queste eleganze militari, standardizzate
un’uniforme di tela da sacco, e vedrete che ben presto…
- C’è qualcuno che mi accompagni in chiesa stamane? - domandò Henry
Wimbush.
Nessuno rispose. Allora egli aggiunse una piccola esca al suo invito.
- Leggo io la lezione, sapete. E c’è il signor Bodiham. I suoi sermoni
meritano d’essere uditi, qualche volta.
- Grazie, grazie, - disse il signor Barbecue-Smith. - Per quel che mi
riguarda, preferisco adorare nel tempio infinito della natura. Come dice il
nostro Shakespeare? «I sermoni nei libri, i ciottoli nel torrente…»

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Stese il braccio verso la finestra con un gesto di grande effetto, e, in quel
preciso momento, ebbe coscienza, in maniera confusa, ma nondimeno
insistentemente, pericolosamente, che nella sua citazione qualche cosa non
funzionava. Qualche cosa, ma che cosa? Sermoni?
Ciottoli? Torrente?

56
9.

Il signor Bodiham era seduto nel suo studio al presbiterio. Le finestre,


d’un gotico ottocentesco, strette e puntute, non lasciavano passare la luce
che con parsimonia; ad onta di quel limpido cielo di luglio, la camera era in
penombra. Le pareti erano tappezzate di scaffali verniciati di scuro, carichi di
molte file d’opere teologiche massicce e pesanti, del genere di quelle che i
robivecchi vendono di solito a peso. La mensola del camino e lo scaffale che
vi s’appoggiava, imponente struttura di colonnine affusolate delimitanti un
numero infinito di reparti, erano neri e lucenti. Anche lo scrittoio era scuro e
lucido e così dicasi delle sedie e della porta.
Un tappeto rosso cupo, a fiori, copriva il pavimento. Tutto era scuro
nella camera e vi regnava un curioso odore che si sarebbe detto scuro
anch’esso.
In mezzo a quella tetraggine, il signor Bodiham stava seduto allo
scrittoio. Egli era l’Uomo dalla maschera di Ferro. Faccia d’un grigio
metallico dagli zigomi di ferro, e dalla corta fronte d’acciaio; rughe di ferro,
dure e immutabili, tagliavano perpendicolarmente le guance; il naso pareva il
becco di qualche rapace gracile e delicato. Gli occhi, scuri, erano incassati
nelle orbite cerchiate di ferro, intorno la pelle era scura, come carbonizzata.
Una densa capigliatura di fili di ferro gli copriva il cranio; una volta era stata
nera, ma ora tendeva al grigio. Le orecchie erano minuscole e ben fatte. Le
guance, il mento, il labbro superiore, rasati, erano d’un grigio ferro cupo.
La sua voce, quando parlava e specialmente quando l’alzava per
predicare, era dura come lo stridore dei cardini di ferro d’una porta
arrugginita.
Era quasi mezzogiorno e mezzo. Egli era tornato allora dalla chiesa,
arrochito e stanco per il sermone pronunciato, perché predicava con furia,
con passione, un uomo d’acciaio che percoteva a colpi di mazza le anime del
suo gregge. Ma a Crome, le anime dei fedeli erano fatte di caucciù, di
caucciù pieno; la mazza rimbalzava. Ormai a Crome avevano fatto

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l’abitudine al signor Bodiham. La mazza percoteva duramente il caucciù, e,
assai spesso, il caucciù dormiva.
Quel giorno egli aveva predicato, come aveva già fatto spesso, sulla
natura di Dio. S’era sforzato di far comprendere Dio e che terribile destino
sia quello di cadere tra le Sue mani. Essi immaginavano che Dio fosse
qualche cosa di dolce e di misericordioso. Essi erano ciechi ai fatti e, quel
ch’è peggio, alla Bibbia. I passeggeri del “Titanic”, mentre la nave
sprofondava avevano cantato: «Più vicino a te, mio Dio». Ma sapevano essi
che cosa fosse quel Dio cui chiedevano di accostarsi? Una abbacinante
fiamma di giustizia, un fuoco corrucciato… Quando Savonarola predicava, i
fedeli singhiozzavano e mugolavano apertamente. Nulla veniva a
interrompere il cortese silenzio con cui Crome prestava ascolto al signor
Bodiham - soltanto qualche colpo di tosse e, talvolta, un respiro nasale. Nel
primo banco era seduto Henry Wimbush, calmo, educato, ben vestito.
C’erano dei momenti nei quali il signor Bodiham sentiva l’impulso di balzare
giù dal pulpito e di scuoterlo, momenti in cui egli avrebbe voluto flagellare
la sua congregazione tutta intera, e farne strage.
Ora stava seduto dinanzi allo scrittoio, in preda a un grande
abbattimento. Dall’altra parte delle finestre gotiche la terra era calda e
meravigliosamente calma. Tutto era com’era sempre stato.
Eppure, eppure… Erano circa quattro anni ch’egli aveva predicato il suo
sermone sull’Evangelo secondo San Matteo, 24, 7: «“Perciocché una gente si
leverà contro un’altra; e un regno contro all’altro; e vi saranno pestilenze, e
carestie, e terremoti in ogni luogo”». Erano circa quattro anni. Quel
sermone, egli lo aveva fatto stampare. Era d’una importanza così terribile,
così vitale, che il mondo intero sapesse quel che il signor Bodiham aveva da
dire… Un esemplare di quell’opuscolo era lì, sul suo scrittoio. Otto paginette
grigie, stampate con caratteri ormai smussati, come i denti dei vecchi cani,
per l’usura continua della stampa. L’aprì e cominciò a leggerlo ancora una
volta.
«“Perciocché una gente si leverà contro un’altra; e un regno contro
all’altro; e vi saranno pestilenze, e carestie, e terremoti in ogni luogo.”»
«Diciannove secoli sono passati da quando Nostro Signore ha
pronunciato queste parole, e nessun d’essi è andato immune da guerre, da
flagelli, da carestie e da terremoti. Potenti imperi sono crollati e i contagi
hanno spopolato la metà del globo; immensi cataclismi hanno fatto perire
migliaia di persone nelle inondazioni, negli incendi nei cicloni. A diverse

58
riprese, nel corso di questi diciannove secoli, tali avvenimenti si sono
ripetuti, ma non hanno ricondotto Cristo sulla terra. Essi erano “i segni dei
tempi”, in questo senso, ch’erano i segni della collera divina contro la
incurabile perversità degli uomini, ma non erano “i segni dei tempi” che
preannunciassero la seconda venuta di Cristo.
«Se i veri cristiani hanno considerato la presente guerra come il segno
vero del ritorno imminente del Signore, è non solo per il fatto che si tratta
d’una grande guerra che interessa la vita di milioni di persone, non solo per
il fatto che la carestia serra nella sua morsa tutti i paesi d’Europa, non solo
per il fatto che epidemie d’ogni specie dalla sifilide sino alla meningite
cerebro spinale, si moltiplicano in seno alle nazioni belligeranti; no, non è
per queste ragioni che noi consideriamo questa guerra come un vero segno
dei tempi, ma perché, nella sua origine come nei suoi progressi, essa è
segnata da certi caratteri che l’identificano quasi certamente con le predizioni
dell’Apocalisse sull’avvento del Signore.
«Lasciate che io enumeri i caratteri della guerra attuale che suggeriscono
più chiaramente essere essa un segno precursore della venuta imminente di
Cristo. Il Signore ha detto: “E questo evangelo del regno sarà predicato in
tutto il mondo, in testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine”. Certo,
vi sarebbe della presunzione da parte nostra a voler decidere che grado di
evangelizzazione sarà considerato come sufficiente da Dio, ma possiamo
tuttavia sperare, con piena fiducia, che un secolo intero di infaticabile attività
missionaria abbia presso a poco realizzato questa condizione. Senza dubbio,
una gran parte del mondo abitato è rimasta sorda alle predicazioni della vera
fede; ma ciò non impedisce che il Vangelo sia stato realmente predicato “in
testimonianza” presso tutti gli infedeli, dai papisti agli Zulù. Se le false
religioni regnano ancora, la colpa non è dei predicatori, sibbene di quelli che
hanno ricevuto la predicazione.
«D’altra parte, è universalmente riconosciuto che il prosciugarsi delle
acque del gran fiume Eufrate, menzionato al sedicesimo capitolo della
Rivelazione, si riferisce alla decadenza e alla estinzione della potenza turca,
ed è questo, come tutti sanno, un segno della fine imminente del mondo. La
presa di Gerusalemme e le vittorie in Mesopotamia son grandi passi innanzi
sulla via della distruzione dell’Impero Ottomano, benché sia necessario
riconoscere, dopo l’episodio di Gallipoli, che i Turchi posseggono ancora un
“importante corno” del potere. Dal punto di vista storico, noi possiamo
affermare che questo disseccamento del potere ottomano viene effettuandosi

59
da più d’un secolo a questa parte; esso s’è accelerato nel corso degli ultimi
due anni, e noi non dubitiamo che il completo disseccamento sia ormai
vicinissimo.
«Queste parole relative all’inaridirsi dell’Eufrate sono seguite da presso
dalla profezia dell’Armagheddon, quella guerra mondiale alla quale sarà
strettamente associata la venuta di Cristo. La guerra mondiale, una volta
scatenata, non può terminare che col ritorno del Signore, e la sua venuta sarà
improvvisa e inattesa come quella d’un ladro nella notte.
«Esaminiamo i fatti. Nella storia, come nell’Apocalissi di San Giovanni,
la guerra mondiale è immediatamente preceduta dal disseccamento
dell’Eufrate, vale a dire dalla decadenza dell’Impero Ottomano. Questo solo
fatto basterebbe per identificare l’attuale conflitto con l’Armagheddon delle
profezie e per provarci l’imminenza della seconda venuta. Ma altre prove noi
abbiamo, più solide e più convincenti.
«L’Armagheddon è scatenato dall’attività di tre spiriti impuri, simili a
rospi, che escono dalla bocca del Drago, della Bestia e del Falso Profeta. Se
noi riusciremo a identificare queste tre potenze del male, tutta la questione
sarà illuminata.
«Il Drago, la Bestia, il Falso Profeta possono essere storicamente
identificati. Satana, che non agisce se non per il tramite umano, ha impiegato
queste tre potenze nella sua lunga lotta contro Cristo, lotta che ha riempito i
diciannove secoli precedenti di guerre religiose. Il Drago, com’è stato
sufficientemente dimostrato, il Drago è la Roma pagana e lo spirito che gli
esce di bocca è lo spirito del paganesimo. La Bestia, simboleggiata qualche
volta anche dalla donna, è, senza alcun dubbio, il potere papale, e lo spirito
che essa sputa è il Papismo. Non esiste che una sola potenza che risponda
alla descrizione del Falso Profeta, il lupo sotto la lana dell’agnello, l’agente
del male che per compir l’opera sua si veste con le apparenze del bene; e
questa potenza è quella che porta il nome di “Compagnia di Gesù”. Lo
spirito che salta fuor di bocca al Falso Profeta, è lo spirito della Falsa
Morale.
«Possiamo dunque affermare che i tre spiriti malvagi sono l’Incredulità,
il Papismo e la Falsa Morale. Queste tre influenze furono o no la causa reale
del conflitto? La risposta è chiara.
«Lo spirito pagano è lo spirito stesso della critica tedesca. L’alta critica,
com’essa si chiama pomposamente, nega la possibilità del miracolo, della
profezia, della vera ispirazione, e tenta di spiegar la Bibbia come uno

60
sviluppo naturale. Lentamente, ma sicuramente, da ventiquattro anni a
questa parte, lo spirito pagano spoglia i Tedeschi della loro Bibbia e della
loro Fede, così che oggi la Germania è una nazione di non credenti. L’alta
critica ha dunque reso possibile la guerra: poiché una nazione cristiana non
potrebbe fare la guerra come la fa la Germania.
«Veniamo, poi, allo spirito del Papismo, l’influenza del quale,
considerata come causa della guerra, è stata grande quanto quella del
paganesimo, benché, forse, meno manifesta. Dopo la guerra franco-
prussiana, il potere papale non ha cessato di diminuire in Francia, mentre
aumentava in Germania. Oggi la Francia è una potenza antipapale, mentre la
Germania possiede una forte maggioranza cattolica. Due Stati in mano al
Papa, la Germania e l’Austria, combattono contro sei Stati antipapali:
l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, la Russia, la Serbia e il Portogallo. Il Belgio
è, bisogna riconoscerlo, un paese profondamente papista, e non si può
dubitare che la presenza a fianco degli Alleati d’un elemento così ostile non
abbia recato gran danno alla causa della giustizia e non sia responsabile del
nostro relativo insuccesso. Lo spirito papista si nasconde dietro la guerra,
ecco quel che appare chiaro dal modo in cui si trovano raggruppati i
belligeranti; d’altra parte, la ribellione dell’Irlanda cattolica non ha fatto che
confermare una conclusione già evidente per ogni spirito imparziale.
«Lo spirito della Falsa Morale ha svolto in questa guerra una parte che
non è inferiore a quella degli altri due spiriti del male.
L’incidente del “chiffon de papier” è l’ultima e più evidente prova
dell’aderenza germanica a questa morale essenzialmente anticristiana e
gesuitica. Il fine della Germania è la potenza mondiale della Germania stessa,
e il raggiungimento di questo fine giustifica tutti i mezzi.
Sono i principi stessi dei Gesuiti applicati alla politica internazionale.
«L’identificazione è dunque completa. Com’è predetto nel Libro della
Rivelazione, i tre spiriti del male si sono fatti avanti, a misura che l’Impero
Ottomano declinava, e si sono uniti per provocare la guerra mondiale. Le
parole ammonitrici: “Ecco, io vengo come un ladrone” si riferiscono dunque
al periodo presente, a voi, a me, al mondo intero.
La guerra attuale condurrà inevitabilmente alla guerra d’Armagheddon e
non conoscerà fine che col ritorno del Messia sulla terra.
«E quand’Egli tornerà, che cosa accadrà? Quelli che sono in Cristo, dice
san Giovanni, saranno chiamati al Banchetto dell’Agnello. Quelli che saran
sorpresi a combattere saranno chiamati al Banchetto di Dio Onnipotente,

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banchetto feroce ove non divoreranno, ma saranno divorati. Imperocché,
dice san Giovanni, “io vidi un angelo in piè nel sole, il qual gridò con gran
voce, dicendo a tutti gli uccelli che volavano in mezzo al cielo: Venite,
radunatevi al gran convito di Dio; per mangiar carni di re e carni di capitani,
e carni d’uomini prodi e carni di cavalli, e di coloro che li cavalcano; e carni
d’ogni sorte di genti, franchi e servi, piccoli e grandi”.
«Tutti i nemici di Cristo saranno colpiti dalla spada di colui che cavalca il
cavallo, e tutti gli uccelli si sazieranno delle loro carni. E tale sarà il
Banchetto di Dio Onnipotente.
«Ciò può accader presto o un po’ più tardi, secondo il modo con cui
l’uomo misura il tempo; ma, presto o tardi inevitabilmente, il Signore verrà e
libererà il mondo delle miserie che l’opprimono. E maledizione su quelli che
saranno chiamati al convito non dell’Agnello, ma a quello di Dio
Onnipotente. Essi capiranno allora, ma troppo tardi, che Dio è un Dio di
corruccio, come è un Dio di perdono. Il Dio che inviò gli orsi per divorar
quelli che si burlavano d’Eliseo, il Dio che colpì gli Egizi per la loro
temeraria perversità, li colpirà sicuramente, a meno che non si affrettino a
pentirsi. Ma forse è già troppo tardi. Chi sa che domani, chi sa che tra
qualche momento, Cristo non sia su di noi, inopinatamente, come un
ladrone? Tra un breve momento, chi sa? l’angelo in piedi nel sole chiamerà
forse i corvi e gli avvoltoi, perché escano dalle caverne delle rocce e
vengano ad abbattersi sulla carne putrefatta di milioni e milioni d’infedeli
che il corruccio di Dio avrà distrutti. Siate dunque pronti; la venuta del
Signore è prossima. Fate che per voi tutti possa essere oggetto di speranza e
non di terrore e di spavento.»
Il signor Bodiham, dopo aver chiuso il fascicoletto, s’appoggiò allo
schienale della sedia. L’argomentazione era chiara e perfettamente
convincente; e tuttavia erano quattro anni ch’egli aveva predicato quel
sermone; quattro anni, e l’Inghilterra aveva la pace, e il sole brillava, e la
gente di Crome era malvagia e indifferente come sempre - anche più
malvagia e indifferente, se possibile. Ah! Se gli fosse stato dato
comprendere, se il cielo gli avesse inviato un segno! Ma le sue domande
rimanevano senza risposta. Seduto nella sua seggiola di legno scuro, sotto la
finestra alla Ruskin, si sentiva vicino a urlare. Serrava i braccioli della
seggiola, serrava, serrava per dominarsi. Le articolazioni delle sue mani si
facevano bianche, egli si mordeva le labbra. Dopo qualche secondo riuscì ad
allentare la tensione; e allora si rimproverò la sua impazienza ribelle.

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«Quattro anni, - pensò, - dopo tutto che cosa sono quattro anni?»
Evidentemente era necessario un lasso di tempo molto lungo, perché
l’Armagheddon potesse maturare e fermentare. L’episodio del 1914 era una
scaramuccia preliminare. Quanto a credere che la guerra fosse terminata,
questa non era che una mera illusione. Essa continuava: covava in Slesia, in
Irlanda, in Anatolia. Il malcontento dell’Egitto, delle Indie, apriva forse la
via a una grande strage tra le popolazioni pagane. In Cina, il boicottaggio del
Giappone, come la rivalità di quest’ultimo paese nel Pacifico verso gli Stati
Uniti, potevano covare un conflitto gigantesco in Oriente. La prospettiva era
piena di speranze, e il signor Bodiham cercava di persuadersene il vero,
l’autentico Armagheddon sarebbe cominciato forse tra poco, e allora «!come
un ladrone”…»
Ma a dispetto di questi ragionamenti consolatori, il signor Bodiham
rimaneva infelice, malcontento. Quattro anni prima, s’era mostrato così
fiducioso! Allora le intenzioni di Iddio gli erano sembrate così limpide. E
ora, ora aveva ragione d’essere in collera e soffriva.
Silenziosa e improvvisa come un fantasma, apparve la signora Bodiham,
scivolando senza rumore attraverso la stanza. In cima al vestito nero, il suo
pallido viso era d’una bianchezza opaca; i suoi occhi pallidi erano come
acqua in un bicchiere, e i suoi capelli di paglia erano quasi incolori. Essa
teneva in mano una grande busta.
- Il postino ha portato questo per te, - disse con voce sommessa.
La busta non era chiusa. Il signor Bodiham la lacerò macchinalmente per
aprirla. Conteneva un fascicolo, più grande del suo e d’apparenza più ricca.
ABBIGLIAMENTI SHEENY, CONFEZIONI PER ECCLESIASTICI,
BIRMINGHAM. Ne sfogliò le pagine. Il catalogo era stampato con eleganza
ecclesiastica in caratteri antichi con le iniziali gotiche alluminate. Ogni pagina
era inquadrata da linee rosse, che s’incrociavano ai quattro angoli come nelle
cornici Oxford. Niente punti: piccole croci rosse ne tenevano le veci. Il
signor Bodiham continuò a sfogliare le pagine.
«“Sottane di merino qualità superiore. Confezionate, tutte le misure”.
«“Finanziere clericali. Da nove ghinee in più, modelli dei nostri tagliatori
ecclesiastici più accreditati”.
Illustrazioni a mezza tinta rappresentavano giovani vicari, taluni virili,
sportivi e muscolosi, altri con volti ascetici, con grandi occhi estatici, vestiti
tutti con giacche, finanziere, cotte, abiti clericali, in lana nera del Norfolk.
«“Grande assortimento di pianete”.

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«“Cinture di corda”.
«“Tonaca-sottana. Specialità della casa Sheeny. Si attacca alla vita con un
cordone… Portata sotto la cotta, essa presenta un’apparenza affatto simile a
quella della tonaca ordinaria… Raccomandata per l’estate e i climi
tropicali”.»
Con un gesto d’orrore e di disgusto il signor Bodiham gettò il catalogo
nel cestino della carta. La signora Bodiham lo guardava; i suoi occhi pallidi e
glauchi registrarono, senza commenti, il gesto del marito.
- Il villaggio, - diss’ella con la sua voce calma, - il villaggio diventa ogni
giorno peggiore.
- Cos’è successo, - domandò il signor Bodiham, sentendosi
improvvisamente molto stanco.
- Te lo dirò.
Prese una sedia di legno scuro e sedette. Nel villaggio di Crome, a
quanto pareva, Sodoma e Gomorra s’erano reincarnate.

64
10.

Denis non ballava. Ma, quando il “ragtime” sprizzava dalla pianola in


getti di sciroppo e caldi profumi, in lampi di fuochi di Bengala, allora tutto
in lui si metteva a ballare. Corpuscoli neri, piccoli negretti, danzavano la giga
e battevano il tamburo nelle sue arterie.
Egli diventava una gabbia di movimento, un “palais de danse”
ambulante. Era una cosa sgradevolissima, come i sintomi d’una malattia. Ed
egli, seduto nel vano d’una finestra, con aria corrucciata fingeva di leggere.
Dinanzi alla pianola, Henry Wimbush fumava un lungo sigaro attraverso
un tunnel d’ambra, premeva i pedali ed estraeva la musica snervante con
serena pazienza. Anne e Gombauld, avvinti, si muovevano con un’armonia
che faceva di loro un essere unico, un essere a quattro gambe e con due
teste. Il signor Scogan, solennemente comico, trascinava i piedi girando per
la stanza con Mary. Jenny, seduta all’ombra della pianola, a quanto pareva
scarabocchiava in un grosso quaderno rosso. In due poltrone presso il
camino Priscilla e il signor Barbecue-Smith discutevano degli argomenti più
sublimi, senza lasciarsi apparentemente distrarre dal baccano del Piano
Inferiore.
- L’ottimismo, - diceva il signor Barbecue-Smith con tono deciso e
parlando tra i brani della canzone: «“Oh! Donnine, donnine pazzerelle!”» - è
lo sbocciare dell’anima alla luce; è l’espansione verso Dio e in Dio, è una
spirituale unificazione dell’io con l’Infinito.
- Com’è vero! - sospirava Priscilla, scuotendo i funesti splendori della
sua pettinatura.
- Il pessimismo, invece, è la contrazione dell’anima verso le tenebre; è la
concentrazione dell’io su un punto del Piano Inferiore; è la schiavitù
spirituale ad avvenimenti volgari, a grossolani fenomeni fisici…
- Finiranno col farmi diventar pazzo -. Il ritornello ossessionava Denis. -
Sì, mi faranno diventar pazzo questi miserabili, pazzo scatenato! - Un uomo
scatenato ma non abbastanza, ecco il guaio.

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Scatenato di dentro, che muore di rabbia, si torce, sì, è la parola, si torce
di desiderio. Ma al di fuori era pietosamente addomesticato; al di fuori… bè,
bè, bè, bè.
Anne e Gombauld passavano, muovendosi insieme come se facessero
una creatura unica e flessibile, mentre egli se stava seduto nel suo angolo,
fingendo di leggere, fingendo di non voler danzare, fingendo di disprezzare
la danza. Perché? Ancora, senza dubbio, il bè, bè, bè.
Perché era venuto al mondo con un volto diverso? Sì, perché?
Gombauld aveva un viso di bronzo, il viso d’uno di quegli antichi arieti di
bronzo che picchiavano contro le mura della città sino a che rovinassero.
Egli, invece, era nato con un viso diverso, un viso lanoso.
La musica cessò. L’unica e armoniosa creatura si sdoppiò. Rossa, un po’
ansante, Anne attraversò la camera ondeggiando; s’avvicinò al piano e mise
una mano sulla spalla di Henry Wimbush.
- Adesso un valzer, se non ti dispiace, zio Henry, - disse.
- Un valzer, - rispose quello e aprì l’armadietto che conteneva i cilindri.
Arrotolò il rotolo precedente e preparò quello nuovo - schiavo alla macina -
sottomesso e bene educato.
“Rum-tumm; Rum-ti-ti; Tum-ti-ti…” La melodia ondeggiava, pigra,
naviglio portato da un’onda morbida e liscia. E la creatura a quattro gambe,
più graziosa, più armoniosa ancora nei suoi movimenti, scivolava sul
pavimento. Ah! Perché era nato con un volto diverso?
- Che cosa legge?
Egli alzò gli occhi, sgomento. Era Mary. Ella s’era staccata dal poco
confortevole abbraccio del signor Scogan che ora aveva scelto come vittima
Jenny.
- Che cosa legge?
- Non so, - disse Denis sincero. Guardò la copertina del libro: era il
“Vademecum dell’allevatore di bestiame”.
- Trovo che è così ragionevole lei che se ne sta qui a leggere
tranquillamente, - disse Mary, fissandolo con i suoi occhi di porcellana. -
Non so davvero perché la gente danzi; è così noioso!
Denis non le rispose; essa l’irritava. Udì la voce profonda di Priscilla
alzarsi dalla poltrona presso il camino.
- Ma, mi dica, io so che lei è al corrente di tutte le scoperte scientifiche…
- Un mormorio di protesta s’alzò dalla poltrona del signor Barbecue-Smith. -

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Questa teoria di Einstein… si direbbe che butti all’aria il Cosmo intero. E
questo mi dà molte inquietudini per i miei oroscopi. Vede..
Mary rinnovò il suo attacco.
- Qual è il nostro poeta contemporaneo che preferisce? - domandò.
Denis era fuori di sé. Questa seccatrice, non poteva lasciarlo tranquillo?
Egli voleva ascoltare l’orribile musica, guardarli danzare - ahimè! - con
quanta grazia! come se fossero fatti l’una per l’altro - e voleva assaporare il
suo tormento in pace. E invece bisognava che essa venisse a fargli recitare
questo assurdo catechismo! Essa gli ricordava le “Domande di Mangold”:
«Quali sono le tre malattie del grano?».
«Qual è il nostro poeta contemporaneo che preferisce?»
- Blight, Mildew e Smut 1, - rispose egli con la laconicità di chi è sicuro
del fatto suo.
Passarono parecchie ore prima che Denis riuscisse a dormire quella sera.
Un tormento vago, ma angoscioso, non dava tregua alla sua mente.
E non era soltanto Anne che lo torturava; egli disperava di se stesso,
dell’avvenire, della vita in generale e dell’Universo. «L’adolescenza è
terribilmente noiosa!» si diceva di tanto in tanto. Ma il fatto di conoscere il
proprio male, non ne affrettava la guarigione.
Gettò lontano tutte le coperte del letto, si alzò e cercò la calma nella
composizione. Voleva esprimere nelle parole il tormento senza nome di cui
soffriva. Un’ora dopo, nove versi più o meno definitivi emergevano in
mezzo alle macchie e alle cancellature:

“Qual sia l’oggetto del mio desiderio ignoro, nella notte calma e cupa,
quando la brezza dai cuori molteplici dorme sui rami addormentati. E io,
senza sapere a quale gioia, aspiro: e nessun suono di vita o di riso turba del
tempo il flutto nero e muto.
Qual sia l’oggetto del mio desiderio io non so, io non so che nome esso
abbia.”

Li lesse ad alta voce; poi gettò la pagina scarabocchiata nel cestino e si


coricò. Qualche minuto dopo dormiva.

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68
11.

Il signor Barbecue-Smith se n’era andato. L’automobile in un turbine


l’aveva portato verso la stazione, un debole profumo di benzina bruciata
commemorava la sua recente partenza. Un notevole distaccamento era sceso
nel cortile per augurargli il buon viaggio; ora se ne tornavano, costeggiando
l’ala della casa, verso la terrazza e il giardino. Camminavano in silenzio;
nessuno s’era ancora arrischiato a fare un commento sull’ospite scomparso.
- E così? - disse finalmente Anne volgendosi verso Denis, con le
sopracciglia alzate e scrutatrici. - E così? - Era tempo che qualcuno
cominciasse. Denis declinò l’invito; lo passò al signor Scogan. - E così? -
disse. Il signor Scogan non arrischiò nessuna risposta, si contentò di ripetere
la domanda: - E così? - La cura d’esprimere un’opinione fu lasciata a Henry
Wimbush.
- Un piacevolissimo condimento al “week-end”, - diss’egli. Il tono era
funebre.
Senza troppo badare ai loro passi, avevano imboccato il ripido vialetto
affiancato di tassi che, contornando la terrazza, scendeva verso lo stagno. Il
castello, immensamente alto, li dominava con tutto il peso della sua terrazza
aggiunta ai venti metri della sua facciata di mattoni. Le tre torri protendevano
verso l’alto le loro perpendicolari ininterrotte, accentuando il senso d’altezza
sino a renderlo schiacciante. Si fermarono sul margine dello stagno per
gettare un’occhiata indietro.
- L’uomo che ha costruito questa casa sapeva il suo mestiere, - disse
Denis. - Era un architetto.
- Lei crede? - disse Henry Wimbush con aria pensosa. - Ne dubito. Il
costruttore di questa casa fu sir Ferdinando Lapith, che fiorì durante il regno
d’Elisabetta. Egli ereditò questo dominio da suo padre al quale era stato
concesso al tempo dell’abolizione dei monasteri, perché Crome in origine fu
un convento di frati. Questo stagno era il loro vivaio. Sir Ferdinando non si
accontentò di adattare ai propri scopi le vecchie costruzioni monastiche; se
ne servì come di granai, di stalle e di fattorie, e costruì per suo uso una
grande casa nuova in mattoni: quella.

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Indicò il castello con un gesto, poi rimase silenzioso. Severo, imponente,
quasi minaccioso, Crome incombeva su di loro.
- La più notevole caratteristica di Crome, - disse il signor Scogan,
afferrando l’occasione di parlare, - è il fatto d’essere evidentemente e
aggressivamente un’opera d’arte. Crome non accetta nessun compromesso
con la natura; al contrario, l’affronta e si rivolta contro di lei. Nessuna
somiglianza con la torre di Shelley, nell‘“Epipsychidion”, che se i miei
ricordi sono esatti,
“Non sembra una ruina dell’arte umana, ma piuttosto un’alta opera di
titani, avendo preso la sua forma nel cuore della terra, essendo emersa dalle
montagne, dalla viva pietra, sollevata in alte grotte luminose.”

No, no, niente di tutto questo! Che le capanne abbiano l’aria d’essere
uscite dal suolo stesso cui sono incatenati i loro abitanti, questo è giusto e
conveniente. Ma la dimora d’un uomo intelligente, civilizzato, raffinato, non
deve mai aver l’aria d’uscire da una zolla di terra. Essa deve invece essere
l’espressione della sua immensa, nobile distanza dalla vita terranea. Questo è
un fatto che noi siamo incapaci di comprendere qui, in Inghilterra,
dall’epoca di William Morris. Gli uomini più raffinati e sofisticati si sono
sforzati solennemente di somigliare a dei contadini. Da ciò la passione per le
cose vecchiotte, per i prodotti dell’artigianato, l’architettura dei “cottages” e
il resto. Nei sobborghi delle nostre città, voi potete vedere in file
interminabili imitazioni e adattamenti volutamente rustici della capanna
contadinesca. La povertà, l’ignoranza e una quantità limitata di materiali
hanno prodotto la capanna, la quale possiede certamente, in un paesaggio
adatto, il suo fascino. Ed ecco che noi impieghiamo la nostra ricchezza, la
nostra abilità, la varietà opulenta dei nostri materiali, per costruire milioni di
imitazioni- “cottages” in ambienti affatto inadatti. Si può essere più
imbecilli?
Henry Wimbush riprese il filo del discorso interrotto:
- Tutto quel che lei dice, mio caro Scogan, è certamente molto giusto e
molto vero. Ma dubito che sir Ferdinando condividesse le sue opinioni
sull’architettura. Infatti, quando costruì questa casa, sir Ferdinando, non era
preoccupato che da una sola idea: la conveniente sistemazione dei luoghi
comodi. L’igiene era la sua fissazione. Arrivò a pubblicare, nel 1573, un
libretto su questo argomento che è diventato molto raro, intitolato: “Qualche
consiglio sui luoghi comodi, scritto da uno degli Onorevoli Membri del

70
Consiglio privato d i S. M., F. L., Cavaliere”. In questo libretto egli tratta il
problema nella sua totalità con eleganza ed erudizione. Il suo principio
direttivo, quando disponeva l’istallazione sanitaria di una casa, era di mettere
la più grande distanza tra i luoghi comodi e le fogne. Per conseguenza le
latrine dovevano essere collocate in cima alla casa, d’onde comunicavano
attraverso tubi verticali con pozzi o canali sotterranei. Non bisogna credere
però, che sir Ferdinando fosse mosso soltanto da considerazioni materiali e
puramente igieniche; per collocare i suoi luoghi comodi in posizioni così
altolocate, egli aveva anche delle eccellenti ragioni spirituali. Infatti,
dall’argomentazione del capitolo terzo dei suoi “Consigli sui luoghi comodi”,
risulta che le necessità della natura sono così basse e così brutali che,
nell’atto di soddisfarle, noi ci sentiamo portati a dimenticare d’essere le più
nobili creature dell’universo. Per bilanciare questa influenza degradante, egli
consiglia che i luoghi comodi siano posti nel punto della casa più vicino al
cielo e provvisti di finestre che consentano all’occhio di spaziare su
panorami vasti e nobili. Le pareti di questa camera saranno rivestite di
scaffali contenenti i frutti più maturi della saggezza umana, come i
“Proverbi” di Salomone, la “Consolazione della Filosofia” di Boezio, gli
“Apoftegmi” d’Epitteto e di Marco Aurelio, l‘“Enchiridion” d’Erasmo, in una
parola, tutte le opere, sia antiche sia moderne, che testimoniano della nobiltà
dell’animo umano. A Crome egli ebbe modo di mettere in pratica le sue
teorie. In cima a ciascuna delle tre torri collocò un luogo comodo. Di lassù,
un tubo scendeva lungo tutta l’altezza della casa, vale a dire per più di venti
metri, fino alle cantine, e si divideva in una serie di condotti provvisti
d’acqua corrente, nascosti nel terreno, al livello della base della terrazza.
Queste fogne sboccavano nel fiume molte centinaia di metri al di là del
vivaio. L’altezza totale dei tubi, dalla sommità delle torri ai condotti
sotterranei, era di trentacinque metri. Il secolo diciottesimo, con la sua mania
dei riammodernamenti, distrusse questo monumento d’ingegnosità sanitaria.
Se non fosse per la tradizione orale e per la descrizione particolareggiata che
ce ne ha lasciato sir Ferdinando, noi ignoreremmo totalmente l’esistenza di
questi nobili impianti. Forse giungeremmo persino a immaginare che sir
Ferdinando costruì questa casa così bizzarra e imponente per semplici
ragioni d’estetica.
La contemplazione delle glorie del passato suscitava sempre in Henry
Wimbush un certo entusiasmo. Nella foga del discorso, il suo viso, sotto la

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bombetta grigia, s’animava e si illuminava. Il pensiero di quei luoghi comodi
scomparsi lo riempiva di un’emozione profonda.
Smise di parlare, la luce si spense per gradi sul suo volto, che divenne
nuovamente l’immagine del cappello grave ed elegante da cui era
ombreggiato. Vi fu un lungo silenzio; tutti gli spiriti parevano pieni degli
stessi pensieri soavemente melanconici. Il permanente e l’effimero - sir
Ferdinando e i suoi luoghi comodi - erano scomparsi; Crome restava. Come
brillava il sole, ma come inevitabile era la morte! Le vie di Dio sono
singolari, e più singolari ancora sono le vie dell’uomo.
- Tutto ciò riscalda il cuore, - esclamò finalmente il signor Scogan.
- E’ bello ricordare questi fantastici aristocratici inglesi. Avere una teoria
sulle latrine, e costruire una casa immensa e splendida per metterla in
pratica! E’ magnifico, veramente! Io amo ricordarli tutti; milords eccentrici
in corsa attraverso l’Europa nelle loro carrozze imponenti, sempre in strada
verso mete straordinarie. Uno d’essi si reca a Venezia per acquistare la
laringe della Bianchi. Non potrà averla che quando ella sia morta,
naturalmente, ma non importa; saprà aspettare; egli possiede, conservata
entro boccali pieni d’alcool, una collezione di gole dei più celebri cantanti
d’opera. E anche gli strumenti dei virtuosi più noti lo interessano; tenterà di
persuadere Paganini a cedergli il suo piccolo Guarnieri, ma non ha che una
debole speranza di successo. No. Paganini non venderà il suo violino, ma
forse s’adatterà a sacrificare una delle sue chitarre. Altri partono per strane
crociate, uno per trovare una morte miserabile tra i Greci feroci, l’altro, in
cilindro bianco, per guidare gli Italiani contro i loro oppressori. Altri ancora
non hanno scopo alcuno. Essi dànno aria alla loro bizzarria sul Continente.
A casa propria, si coltivano comodamente e in modo più elaborato.
Beckford costruisce torri, Portland fa buchi nella terra, Cavendish, il
milionario, vive in una scuderia, mangia soltanto carne di montone, e si
diverte - oh! soltanto per sé - ad anticipare di mezzo secolo la scoperta
dell’elettricità. O gloriosi eccentrici! Ogni epoca è vivificata dalla loro
presenza. Un giorno, caro Denis, - disse il signor Scogan, volgendo in quella
direzione uno sguardo brillante come una perla, - un giorno lei dovrà
diventare il loro biografo: “La vita degli uomini singolari”. Che argomento!
Vorrei saperlo trattare io stesso.
Il signor Scogan fece una pausa, levò lo sguardo verso la casa che li
dominava e mormorò la parola «eccentricità» due o tre volte.
- L’eccentricità… è la giustificazione di tutte le aristocrazie.

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Essa giustifica le classi agiate, la ricchezza ereditata, i privilegi, le
donazioni e altre ingiustizie dello stesso genere. Perché sia possibile
compiere qualche cosa di ragionevole in questo mondo, ci vuole una classe
di persone che vivano in sicurezza, al riparo dell’opinione pubblica, al riparo
della povertà, agiate, non costrette a sciupare la propria vita in quelle
occupazioni stupide che portano il nome di Lavoro Onesto. Ci vuole una
classe i cui membri possano pensare e, nei limiti del possibile, fare quel che
piace loro. Ci vuole una classe nella quale l’eccentricità sia tollerata e
compresa.
Ecco il fattore importante della aristocrazia. Essa non solo è eccentrica, e
talvolta in modo grandioso, ma tollera e incoraggia l’eccentricità negli altri.
Le eccentricità dell’artista o dell’ardito pensatore non gli ispirano lo stesso
timore, la stessa esecrazione, la stessa ripugnanza che ispirano istintivamente
ai borghesi. E’ una specie di Riserva di Pellirosse, piantata in mezzo a una
vasta orda di Poveri Bianchi, coloniali, s’intende. Nei limiti di questa
Riserva, gli uomini selvaggi si divertono spesso, bisogna riconoscerlo, in
modo un po’ volgare, un po’ troppo vistoso; e se qualche anima gemella
nasce di là dal recinto, la Riserva è il suo naturale rifugio contro l’odio che i
Poveri Bianchi, da quei buoni borghesi che sono, spandono a profusione su
tutto ciò ch’è temerario o fuor del comune. Dopo la rivoluzione sociale, non
ci saranno più Riserve: i Pellirosse saranno sommersi dal gran flutto dei
Poveri Bianchi. E allora? Permetteranno che lei, mio povero Denis, continui
a scriver dei sonetti? E lei, mio disgraziato Henry, crede che le sarà permesso
di vivere in questa dimora di splendide latrine e di continuare i suoi scavi
tranquilli nelle miniere d’una erudizione superflua? E Anne…
- E a lei, - disse Anne, interrompendolo, - sarà permesso di continuare a
parlare?
- Può esser certa del contrario, - rispose il signor Scogan. - Dovrò
anch’io darmi a qualche Onesto Lavoro.

73
12.

«Blight, Mildew e Smut…»


Mary era perplessa e desolata. Forse che le sue orecchie l’avevano
ingannata? Non aveva forse detto, invece: «Squire, Binyon, e Shanks» o
«Childe, Blunden, ed Earp» o meglio «Abercrombie, Drinkwater, e
Rabindranath Tagore»? Forse. Senonché le sue orecchie non l’ingannavano
mai: «Blight, Mildew e Smut». L’impressione era netta e incancellabile.
«Blight, Mildew…», essa era costretta, ad onta di tutto, a concludere che
Denis aveva proprio pronunciato quelle parole improbabili. Egli aveva
deliberatamente respinto il suo tentativo di conversazione seria. Era orribile.
Un uomo che rifiuta di parlar seriamente con una donna, perché era una
donna. Oh! era intollerabile!
Egeria o niente. Forse Gombauld sarebbe stato più soddisfacente. E’ vero
che la sua origine meridionale era un po’ inquietante; ma almeno era un
lavoratore serio, al lavoro del quale essa avrebbe potuto partecipare. Denis?
Dopo tutto che cosa era Denis? Un dilettante…
Gombauld aveva attrezzato a studio una specie di granaio inutilizzato e
isolato in un recinto verde, dall’altra parte del cortile. Era una costruzione
quadrata di mattoni, con un tetto puntuto e certe finestrelle che s’aprivano in
alto nei muri. Si accedeva alla porta da una breve scala a pioli, perché il
granaio era appollaiato in alto, fuor di portata dei topi, su quattro piedestalli
massicci di pietra grigia. All’interno fluttuava nell’aria un sentore di polvere
e di ragnatele, e il sottile raggio di sole che, a tutte le ore del giorno, pioveva
obliquamente da una delle finestrelle era sempre animato di corpuscoli
d’argento. Qui, Gombauld lavorava sei o sette ore al giorno con una specie
di concentrata ferocia. Egli inseguiva qualche cosa di nuovo, qualche cosa
che, se fosse riuscito a raggiungerlo, si sarebbe rivelato formidabile.
Negli ultimi otto anni, metà dei quali erano stati impiegati a vincere la
guerra, egli s’era faticosamente aperto un cammino attraverso il cubismo.
Era uscito dall’altra parte. Aveva cominciato col dipingere una natura
codificata; poi, a poco a poco, s’era elevato dalla natura verso il mondo della

74
forma pura, sino a dipingere, a un determinato momento, soltanto i propri
pensieri, esteriorizzati in forme geometriche astratte, creazioni dello spirito.
Questa ricerca gli era sembrata ardua ed entusiasmante. Ma, d’improvviso,
s’era sentito malcontento, rattrappito e confinato entro limiti
intollerabilmente stretti. A considerare quanto scarse, volgari e banali fossero
le forme della sua creazione, paragonate alle innumerevoli invenzioni della
natura, sottili e complicate all’eccesso, provava una certa umiliazione. Del
cubismo ne aveva abbastanza. Ormai aveva raggiunto l’altra sponda. Ma la
disciplina cubista gli evitò di cadere negli eccessi del culto per la natura.
Prendendo a prestito dalla natura la ricchezza sottile e complicata delle
forme, il suo scopo rimaneva quello di costringere queste forme in un
insieme che avesse la elettrizzante semplicità e la precisione di un’idea, di
combinare un realismo prodigioso con una prodigiosa semplificazione. I
ricordi delle tele grandiose del Caravaggio lo ossessionavano. Forme d’una
realtà vivente, palpitante, emersa dalle tenebre, s’ammucchiavano in
composizioni tanto luminosamente semplici e integre quanto un’idea
matematica. Pensava alla “Vocazione di Matteo”, alla “Crocifissione di
Pietro”, ai “Suonatori di liuto”, alla “Maddalena”. Eh, lo conosceva il
segreto, quella stupefacente canaglia, lo conosceva! E, a sua volta,
Gombauld cercava quel segreto, lo inseguiva: corsa accanita.
Sì, sarebbe stata una cosa formidabile, se arrivava ad afferrarla.
Qualche tempo prima un’idea era germinata nel suo spirito, ed era
cresciuta come un fermento. Aveva empita una cartella di studi e aveva già
disegnato un cartone: ora l’idea prendeva corpo sulla tela. Un uomo caduto
da cavallo. L’enorme bestia da tiro, bianca e magra, empiva con la sua massa
la metà superiore del quadro. La sua testa, chinata verso il suolo, era
nell’ombra. Quel che arrestava l’occhio era l’immenso corpo ossuto, il corpo
e le gambe che ricadevano ai due lati del quadro come le due enormi
colonne d’un arco. Sul terreno, tra le zampe e il corpo della bestia, stava una
forma umana, di scorcio, la testa in primo piano, le braccia distese a destra e
a sinistra. Una luce bianca e implacabile sgorgava da un punto del primo
piano. La bestia e l’uomo caduto erano illuminati violentemente; intorno,
oltre e dietro essi, si stendeva la notte. Soli nelle tenebre, essi formavano un
universo. La massa del cavallo riempiva la parte superiore del quadro, le
zampe, gli zoccoli enormi sorpresi a mezz’aria, lo limitavano da ogni lato.
Sotto era l’uomo, la faccia in iscorcio nel punto illuminato del centro, le
braccia tese verso gli orli del quadro. Sotto l’arco che formava la pancia del

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cavallo, tra le zampe, l’occhio cercava di scrutare le tenebre fitte. In basso, lo
spazio era chiuso dalla forma dell’uomo prostrato. Abisso centrale d’oscurità
circondato di forme luminose…
Il quadro era più che per metà terminato. Gombauld aveva lavorato tutta
la mattina alla figura dell’uomo; stava riposandosi, il tempo di fumare una
sigaretta. Inclinando all’indietro lo schienale della sedia fino a toccare il
muro, guardava la tela, pensoso. Era soddisfatto e, nello stesso tempo,
desolato. Quel quadro, in sé, era buono: egli lo sapeva. Ma quel «qualche
cosa» ch’egli cercava, che, se fosse arrivato ad afferrarlo, avrebbe dovuto
essere formidabile, c’era? Lo avrebbe mai afferrato? Tre piccoli colpi: toc,
toc, toc! Gombauld, sorpreso, volse gli occhi verso la porta. Nessuno lo
disturbava mai durante il lavoro; era, questa, una delle leggi stabilite
dall’uso.
- Avanti! - gridò.
La porta, ch’era socchiusa, s’aprì, rivelando, dalla cintola in su, il busto
di Mary. Essa non aveva osato salire che i due primi pioli. Nel caso
Gombauld non avesse desiderato la sua visita, la ritirata sarebbe stata più
facile e più dignitosa che se fosse salita sino in cima.
- Posso entrare? - domandò.
- Certamente.
Ella salì gli altri due pioli e fu sulla soglia in un batter d’occhio.
- C’è una lettera per lei che il postino ha recata nel secondo giro.
Ho pensato che potesse essere urgente e gliel’ho portata.
I suoi occhi, la sua faccia infantile erano d’una ingenuità luminosa,
mentre gli tendeva la lettera. Ma ci poteva essere pretesto più futile?
Gombauld guardò la busta e, senza aprirla, mise la lettera in tasca.
- Per fortuna, - disse, - non è affatto importante. Grazie lo stesso!
Ci fu un silenzio. Mary si sentiva un po’ a disagio.
- Posso dare un’occhiata a quello che sta facendo? - disse finalmente
prendendo il coraggio a due mani.
Gombauld non aveva fumato che metà della sua sigaretta; in ogni modo
non avrebbe ricominciato prima di averla fumata tutta. Decise dunque di
accordare a Mary i cinque minuti che lo separavano dall’amara scadenza.
- Di qui si può vedere meglio, - disse.
Mary guardò il quadro per qualche tempo senza dir nulla. In realtà non
sapeva che cosa dire, era assolutamente sconcertata! S’era attesa di trovare
un capolavoro cubista, e aveva dinanzi agli occhi un quadro con un uomo e

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un cavallo, non solo riconoscibili per tali, ma disegnati con un segno
aggressivo. “Trompe-l’oeil”: non c’era nessun’altra maniera per definire il
modo con cui era delineata quella figura in iscorcio sotto i piedi del cavallo.
Che pensare, che dire?
Era disorientata. Certo, nei vecchi maestri si poteva ammirare anche il
realismo. Naturalmente. Ma in un’opera moderna?… A diciotto anni essa
avrebbe potuto ammirarlo. Ma ora, dopo aver vissuto cinque anni a contatto
coi migliori giudici, la sua istintiva reazione dinanzi a una tela moderna di
quel genere, era fatta di disprezzo: una risata di sufficienza. A quale meta
tendeva dunque Gombauld? Sino a quel momento essa ne aveva ammirato
l’opera con piena sicurezza. Ma ora non sapeva che cosa pensare. Era un
bell’imbarazzo!
- C’è troppo chiaroscuro, forse, - arrischiò finalmente, felicitandosi
nell’intimo d’avere trovata una formula critica moderata e penetrante
insieme.
- Forse, - annuì Gombauld.
Mary era contenta; egli accettava la sua critica: era una discussione seria.
Chinò il capo su una spalla e socchiuse gli occhi.
- E’ molto bello… almeno mi pare… - disse. - Ma, naturalmente, è un po’
troppo… troppo… realistico per i miei gusti.
Guardò Gombauld che senza rispondere continuava a fumare, fissando
sempre pensosamente il quadro. Mary continuò, ansimante:
- Quando la primavera scorsa sono stata a Parigi ho frequentato molto
Ciuplizki. Ho una grande ammirazione per l’opera di quel maestro.
Certo, adesso è terribilmente astratto e terribilmente intellettuale.
Si contenta di gettar sulla tela qualche rettangolo, senza volume, capisce,
e dipinto con tinte fondamentali. Ma il suo disegno è ammirevole. Diventa
ogni giorno più astratto. Quando io ero a Parigi, aveva interamente
abbandonato la terza dimensione e progettava già di abbandonare la
seconda. «Non è lontano il momento, - diceva, - in cui non ci sarà più che la
tela bianca.» E’ la conclusione logica.
Astrazione completa. La pittura non esiste più, egli sta sopprimendola.
Quando avrà raggiunta la pura astrazione, farà dell’architettura. Dice che
l’architettura è più intellettuale della pittura. Non è di questo parere, lei? -
domandò Mary, con un ultimo anelito.
Gombauld gettò via il mozzicone della sigaretta e lo schiacciò col piede.

77
- Il signor Ciuplizki ha finito di dipingere. Io ho finito la sigaretta. Ma
continuo a dipingere.
E, avvicinandosele, le passò un braccio intorno alle spalle e, facendola
girare, l’allontanò dal quadro. Mary alzò gli occhi verso di lui; i suoi capelli
erano gettati indietro, campana d’oro silenziosa.
I suoi occhi erano sereni; ella sorrideva. Ecco: era il momento atteso. Il
braccio di Gombauld la stringeva. Gombauld avanzava lentamente, quasi
impercettibilmente ed essa avanzava con lui. Era un abbraccio peripatetico.
- Non è il suo parere? - domandò ancora.
Anche se quello era il momento atteso, essa non voleva cessare di essere
intellettuale, seria.
- Non so. Bisognerà che ci pensi.
Gombauld allentò la stretta; la sua mano scivolò dalla spalla di Mary.
Stia attenta a scendere la scala, - disse con premura.
Mary si voltò, sorpresa. Erano dinanzi alla porta spalancata. Rimase per
un istante immobile con l’animo sconvolto. Quella mano che s’era fermata
sulla sua spalla, ella ora, la sentiva più giù, in fondo alla schiena; quella
mano le diede due o tre colpettini amichevoli.
Rispondendo automaticamente all’incitamento, ella si mosse in avanti.
- Stia attenta a scendere la scala! - disse ancora Gombauld.
Mary stette attenta. La porta si richiuse dietro di lei, ed essa si trovò sola
nel piccolo recinto verde e riprese il cammino lentamente verso il cortile. Era
pensierosa.

78
13.

Il signor Wimbush, scendendo per il pranzo, recava sotto il braccio un


fascio di fogli stampati tenuti insieme da una cartella di cartone.
- Oggi, - disse, mostrandolo con una certa solennità, - oggi ho terminato
la stampa della mia “Storia di Crome”. Ho aiutato a comporre l’ultima
pagina, nel pomeriggio.
- La famosa Storia? - esclamò Anne.
Per quanto lontano risalisse nel tempo, essa ricordava che la redazione e
la stampa di quel “Magnum Opus” erano in corso. Durante tutta la sua
infanzia, la Storia dello zio Henry era stata una di quelle cose vaghe e
favolose di cui si sente parlare spesso, ma che non si vedono mai.
- Ci ho messo quasi trent’anni, - disse il signor Wimbush. - Venticinque
anni per scriverla e quasi quattro per stamparla. E ora, è finita: la cronaca
intera, dalla nascita di sir Ferdinando Lapith alla morte di mio padre William
Wimbush, più di tre secoli e mezzo; una storia di Crome scritta a Crome e
stampata a Crome con le mie macchine e coi miei tipi.
- E potremo leggerla, ora ch’è finita? - domandò Denis.
Il signor Wimbush annuì.
- Certamente, - disse. - E spero che non la troverete priva d’interesse, -
aggiunse modestamente. - I nostri archivi sono notevolmente ricchi di
documenti antichi e io sono in condizioni di gettare una luce assolutamente
nuova sull’invenzione della forchetta a tre denti.
- E le persone? - domandò Gombauld. - Sir Ferdinando e gli altri, erano
tipi divertenti? Ci sono stati delitti tragedie nella famiglia?
- Vediamo, - disse Henry Wimbush stropicciandosi il mento pensieroso.
- Io non ricordo che un paio di suicidi, una morte violenta, quattro o
cinque cuori infranti e una mezza dozzina di sfregi al blasone sotto forma di
sposalizi con persone di bassa condizione, di seduzioni, di figli naturali e
cose del genere. No; in generale si tratta di annali placidi e monotoni.
- I Wimbush e i Lapith sono sempre stati un’accolta di persone prudenti
e rispettabili, - disse Priscilla, con una nota di disprezzo nella voce. - Se

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dovessi scrivere la storia della mia famiglia, oh! non sarebbe che uno sfregio
dal principio alla fine.
Rise giovialmente e si versò un secondo bicchiere di vino.
- Se dovessi scrivere quella della mia, - notò il signor Scogan, - essa non
esisterebbe. Dopo la seconda generazione, gli Scogan si perdono nelle
nebbie del passato.
- Dopo pranzo, - disse Henry Wimbush leggermente seccato per il
commento sprezzante di sua moglie sui signori di Crome, - dopo pranzo vi
leggerò un episodio della mia Storia, e voi tutti sarete costretti ad ammettere
che gli stessi Lapith, tuttoché rispettabilissimi, ebbero le loro tragedie e le
loro strane avventure.
- Son molto lieta di saperlo, - disse Priscilla.
- Lieta di che? - domandò Jenny, emergendo improvvisamente dal suo
universo intimo e privato, come un cucù esce da un orologio.
Ricevette una spiegazione, sorrise, annuì, fece cucù e rientrò nella sua
scatola, facendo sbattere lo sportello dietro di sé.
Il pranzo era terminato; la compagnia s’era trasferita in salotto.
- Ecco. - disse Henry Wimbush, trascinando una sedia sotto la lampada.
Mise sul naso gli occhiali di tartaruga e cominciò a volgere
prudentemente le pagine del suo libro frammentario, non ancor rilegato.
Finalmente trovò il punto cercato.
- Devo cominciare? - domandò alzando gli occhi.
- Sì, - disse Priscilla sbadigliando.
In mezzo a un silenzio pieno d’attenzione, il signor Wimbush tossì e si
mise a leggere:
«Il bimbo ch’era destinato a diventare il quarto baronetto del nome di
Lapith, nacque nell’anno 1740. Era un bel bambino che, alla nascita, non
pesava più di tre libbre; ma sin dai primi giorni si dimostrò robusto e
provvisto di un’ottima salute. In onore del suo nonno materno, sir Hercules
Occam, di Bishop’s Occam, egli fu battezzato col nome d’Hercules. Sua
madre, come molte altre madri, teneva un taccuino nel quale notava mese
per mese i progressi del figlio. Egli camminò a dieci mesi e, prima d’aver
compiuto il secondo anno, aveva imparato a dire un certo numero di parole.
A tre anni, non pesava che otto chili, e a sei, benché sapesse leggere e
scrivere perfettamente e mostrasse una notevole attitudine per la musica, non
era più grande e più pesante d’un bambino normale di due anni.

80
«Frattanto, sua madre aveva dato alla luce due altri bambini, un maschio
e una femmina; ma uno morì di difterite ancor piccolo, e l’altra di vaiolo
prima di aver raggiunto i cinque anni. Hercules rimase il solo rampollo
vivente.
«Al dodicesimo anniversario della sua nascita, misurava meno d’un
metro d’altezza. La sua testa nobile e bella, era troppo grossa per il suo
corpo, ma, a parte ciò, egli era di squisite proporzioni, e, per la sua età,
molto forte e agile. I suoi parenti, sperando di farlo crescere, consultarono i
medici più noti dell’epoca. Le loro diverse cure vennero eseguite alla lettera,
ma invano. Uno di essi prescrisse un copioso regime di carne; l’altro, molto
esercizio; un terzo costruì una piccola ruota, del genere di quelle messe in
uso dalla Santa Inquisizione, sulla quale, alla mattina e alla sera, il giovane
Hercules veniva disteso per mezz’ora, nei tormenti più atroci. Nel corso dei
tre anni che seguirono, Hercules non guadagnò che due pollici, dopo di che
la sua crescita s’arrestò completamente, ed egli rimase per il resto dei suoi
giorni un pigmeo di un metro. Suo padre, che aveva riposto in questo figlio
le speranze più folli, sognando per lui una carriera militare pari a quella di
Marlborough, ne fu grandemente amareggiato. “Ho messo al mondo un
aborto!” diceva; e fu preso da un così violento disgusto per il figlio che
questi osava appena comparire dinanzi a lui. Il suo carattere, sino a quel
giorno calmo e sereno, divenne per colpa di questa delusione, cupo e feroce.
Evitò ogni società, vergognoso com’era di mostrarsi, padre d’un “lusus
naturae”, in mezzo alle persone normali. Si diede di nascosto al bere e ciò lo
condusse prematuramente alla tomba. L’anno prima che Hercules diventasse
maggiorenne, suo padre fu rapito da un attacco di apoplessia. Sua madre, il
cui amore per lui era cresciuto a misura ch’era diminuito quello paterno, sua
madre non sopravvisse molto tempo; soccombette un po’ più d’un anno
dopo la morte di suo marito, vittima d’un attacco di febbre tifoidea, dopo
aver mangiato una dozzina d’ostriche.
«Hercules si trovò dunque solo, all’età di ventun’anni e in possesso
d’una fortuna considerevole, compresi la terra e il castello di Crome.
La bellezza e l’intelligenza dei suoi primi anni, si prolungarono nell’età
virile, e, se non fosse stato per la sua statura di nano, egli avrebbe potuto
essere annoverato tra i giovani più belli e perfetti dei suoi tempi. Conosceva
a fondo gli autori greci e latini e gli scrittori moderni di valore che avevano
scritto in francese, in inglese e in italiano. Aveva orecchio sensibile alla
musica e suonava il violino con notevole bravura, usando di questo

81
strumento come di un contrabbasso, stando, cioè, seduto su una sedia e
tenendolo tra le gambe. Aveva una spiccata preferenza per l’arpa e il
clavicembalo, ma la piccolezza delle sue mani gli rendeva impossibile l’uso
di questi due strumenti. Possedeva invece un piccolo flauto di avorio che
s’era fatto fare su misura, sul quale, nelle ore di malinconia, usava suonare
una semplice melodia pastorale o una giga; perché, diceva, queste arie
rustiche erano più adatte a purificare e risollevare lo spirito che non le opere
dei più grandi e rinomati maestri. Dalla più tenera età, s’esercitò a scrivere
poesie, ma, pur essendo cosciente del suo valore in quest’arte, non volle mai
pubblicare nessuna delle sue composizioni. “La mia statura, - diceva, - si
riflette nei miei versi; se il pubblico si decidesse a leggerli, non sarebbe
perché io sono un poeta, ma perché sono un nano.” Molti dei suoi
manoscritti ci sono stati conservati e provano le sue qualità di poeta.
«Entrato in possesso della sua eredità, sir Hercules si occupò a creare
intorno a sé un mondo adatto alla sua statura. Giacché, pur non avendo
nessuna vergogna della sua deformità (egli si considerava, anzi, per molti
versi superiore al resto della razza umana normale) trovava imbarazzante la
presenza d’uomini e di donne di statura normale. D’altronde, comprendendo
di dover abbandonare ogni ambizione nel mondo dei grandi, risolvette di
ritirarsi completamente da quello e di creare, per così dire, a Crome, un
mondo privato che fosse ben suo, nel quale tutto fosse proporzionato alla
sua statura. Congedò tutti i vecchi servitori del castello e li sostituì a misura
che trovava dei successori nani. In capo a qualche anno egli aveva radunato
intorno a sé una numerosa servitù, nessun membro della quale sorpassava il
metro e venti di altezza: il più piccolo arrivava appena a settanta centimetri. I
cani che avevano appartenuto a suo padre, “setters”, mastini, levrieri e una
muta di bracchi, vennero venduti o regalati, perché egli li trovava troppo
grandi e turbolenti per la causa, e sostituiti con piccoli danesi, con spaniel
“king-charles” e altre razze nane. Vendette anche la scuderia di suo padre.
Per il suo uso particolare, sella e tiro, possedeva sei “ponies” neri di
Shetland e quattro cavallini pomellati della razza New Forest.
«Avendo così accomodato la sua casa secondo i suoi desideri, non gli
rimaneva che da trovare una compagna adatta a lui per dividere con lei quel
paradiso. Sir Hercules aveva un cuore sensibile, e già, più d’una volta, tra il
suo sedicesimo e il suo ventesimo anno, aveva saputo che cosa volesse dire
amare. Ma in questo campo la sua deformità era stata la sorgente delle più
amare umiliazioni. Un giorno che aveva manifestato a una giovinetta i suoi

82
sentimenti, quella lo aveva sollevato da terra, lo aveva scosso come si fa
d’un bimbo importuno e gli aveva ordinato di filare e di non seccarla più. La
storia aveva fatto rumore; la ragazza stessa, ahimè! la raccontava come un
aneddoto pieno di un sale particolare. Le beffe e i sarcasmi che ne nacquero
furono per Hercules la sorgente dei più vivi dolori. Dai versi scritti a
quell’epoca, si può dedurre ch’egli giunse a pensare al suicidio.
Nondimeno, col tempo, superò questa umiliazione; ma benché gli
accadesse spesso di innamorarsi e anche appassionatamente, non osò più
fare alcuna proposta alle donne che lo interessavano.
«Dopo che fu entrato in possesso della sua eredità ed ebbe compreso che
esisteva una possibilità di crearsi un universo di suo gusto, vide che, se
avesse preso moglie - cosa che desiderava moltissimo, poiché era di un
temperamento affettuoso e sinanche ardente - avrebbe dovuto scegliersi la
sposa come s’era scelto i suoi domestici, tra le nane.
Ma trovare una donna conveniente presentava qualche difficoltà, perché
egli non voleva sposare che una giovinetta la quale si distinguesse per la
bellezza e la nobiltà della nascita. Rifiutò dunque la figlia nana di lord
Bemboro, pel fatto che era non solo pigmea, ma gobba.
Un’altra giovinetta perché il suo volto, come la maggior parte di quelli
dei nani, era rugoso e repugnante. Finalmente, quando già cominciava a
disperare, apprese da fonte sicura che il conte Titimalo, nobile veneziano,
possedeva una figlia perfetta e d’una squisita bellezza, che non superava i
novanta centimetri d’altezza.
Immediatamente si mise in strada per Venezia e, appena arrivato, si recò
a presentare i suoi omaggi al conte, che trovò circondato da sua moglie e dai
suoi cinque figli, in un appartamento molto meschino, in uno dei quartieri
più poveri della città. Il conte si trovava infatti in una situazione così critica
che stava proprio allora trattando (almeno queste erano le voci) la vendita di
sua figlia Filomena a una compagnia di “clowns” e d’acrobati che aveva
avuta la disgrazia di perdere il suo nano. Sir Hercules arrivò in tempo per
salvare la giovinetta da un così funesto destino. Infatti, egli fu talmente
incantato dalla grazia e dalla bellezza di Filomena che, dopo averle fatto per
tre giorni la corte, le rivolse una domanda formale di matrimonio, domanda
che fu accettata dalla giovinetta con una gioia pari a quella del padre, il quale
vedeva in un genero inglese una fonte perenne e inesauribile di rendite. Il
matrimonio fu celebrato nella più stretta intimità; l’ambasciatore d’Inghilterra
servì da testimonio, dopo di che sir Hercules e sua moglie, fecero vela verso

83
l’Inghilterra, dove si stabilirono per trascorrervi una vita di tranquilla
felicità.
«Crome e la sua famiglia di nani incantarono Filomena che, per la prima
volta in vita sua, si sentiva una donna libera, vivente in mezzo ai suoi simili
in un mondo benevolo. Essa aveva molti gusti comuni col marito,
specialmente quello della musica: aveva, infatti, una voce deliziosa, d’una
forza sorprendente per un essere così minuscolo, tanto che giungeva senza
sforzo al do maggiore. Suo marito l’accompagnava col suo bel violino di
Cremona di cui si serviva, come già dicemmo, a mo’ d’un contrabbasso; ed
essa cantava le arie più gaie e più tenere delle opere e delle cantate del suo
paese natale. Seduti insieme al clavicembalo, essi potevano suonare con le
quattro mani tutti i pezzi scritti per due mani di dimensioni ordinarie, e
questa circostanza procurò ad Hercules un piacere inesauribile. Quando non
erano occupati a suonare o a leggere insieme, come facevano spesso in
inglese o in italiano, essi passavano il tempo all’aria aperta e si davano agli
esercizi sportivi, a volte remando sul lago in un piccolo battello, ma più
spesso cavalcando o guidando una carrozzella. E queste occupazioni tanto
nuove per lei, incantavano specialmente Filomena.
«Quand’ella fu diventata una perfetta amazzone, si recò spesso a caccia
con suo marito nel parco che, a quell’epoca era molto più vasto che non sia
oggi. Non cacciavano né la volpe, né la lepre, ma il coniglio, con una muta
d’una trentina di piccoli danesi dal mantello nero e fulvo. Questi cani, se
non sono sovralimentati, valgono, nella caccia al coniglio, non meno delle
razze più veloci. Quattro “grooms” nani, in livrea rossa e montati su piccoli
“ponies” bianchi d’Exmoor, cacciavano, mentre i loro padroni, vestiti di
verde, li seguivano sui loro “shetlands” neri o i loro “ponies” pomellati.
William Stubbs dipinse in un quadro tutta la squadra di caccia - cani, cavalli,
battitori e signori. Sir Hercules ammirava tanto quell’artista che lo invitò, a
dispetto della sua statura normale, a soggiornare al castello per dipingere il
quadro. Stubbs fece altresì il ritratto di sir Hercules e della sua sposa, nella
loro carrozzella laccata di verde, tirata da quattro “shetlands” neri. Sir
Hercules porta un mantello di velluto color prugna e un paio di calzoni
bianchi; Filomena è vestita di mussola a fiori e porta un immenso cappello
con le piume rosa. I due sposi, nel loro sfarzoso equipaggio, spiccano
violentemente su un cupo sfondo di alberi; a destra gli alberi si fanno più
radi e spariscono, di modo che i quattro “ponies” appaiono contro un cielo

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pallido, stranamente livido, dai riflessi d’oro bruno: cielo di tempesta
illuminato dal sole.
«Così passarono quattro anni di felicità, alla fine dei quali Filomena
rimase incinta. Sir Hercules ne fu pieno di gioia.
«“Se Dio lo accorda nella sua bontà, - scrisse nel suo giornale, - il nome
dei Lapith sarà preservato, e la nostra razza, più rara e più delicata, si
trasmetterà di generazione in generazione, sino a che, nel corso dei secoli, il
mondo riconosca la superiorità di questi esseri di cui oggi si prende gioco”.
«Quando la moglie si sgravò d’un figlio, egli scrisse un poema dello
stesso tono. Il bimbo fu battezzato Ferdinando, in memoria del primo
signore di Crome.
«A misura che i mesi passavano, una certa inquietudine cominciò a
invadere l’animo di sir Hercules e di sua moglie. Quel bambino cresceva con
una rapidità straordinaria. A un anno pesava quanto aveva pesato sir
Hercules a tre. “Ferdinando si sviluppa in crescendo, - scrisse Filomena nelle
memorie. - La cosa non mi sembra normale.”
«All’età di diciotto mesi, il bebé era quasi grande come il più piccolo
jockey di suo padre, un uomo di trentasei anni. Era possibile che Ferdinando
fosse destinato a diventare un essere di proporzioni normali, gigantesche?
Era, questo, un pensiero che né l’uno né l’altro dei due genitori osava ancora
formulare; ma, nel segreto dei loro rispettivi diari, ritornavano
continuamente su questa idea con terrore e sgomento.
«Al suo terzo anniversario, Ferdinando era più alto di sua madre, e solo
due o tre pollici meno lo separavano dalla statura del padre.
“Oggi, per la prima volta, - scrisse sir Hercules, - abbiamo discusso la
situazione. La terribile verità non può restar celata più a lungo: Ferdinando
non è dei nostri. In questo terzo anniversario, giorno nel quale avremmo
dovuto rallegrarci della salute, della forza, della bellezza del nostro bambino,
noi abbiamo pianto insieme la rovina della nostra felicità. Dio ci dia la forza
di sopportare questa croce.”
«A otto anni, Ferdinando era così grande e d’una così esuberante
prestanza che i suoi genitori decisero, a malincuore, è vero, di metterlo in
collegio. Furono fatti i bagagli ed egli venne inviato a Eton al principio del
secondo semestre. Una pace profonda discese sulla casa. Ferdinando tornò
per le vacanze, più grande e più forte che mai. Un giorno rovesciò il
maggiordomo e gli ruppe un braccio.

85
“Egli è brutale e sconsiderato, refrattario alla persuasione, - scrisse il
padre. - La sola cosa che possa insegnargli le buone maniere è il castigo
corporale.” Ferdinando, che, a quell’epoca, sorpassava suo padre di
diciassette pollici, non ricevette nessun castigo corporale.
«Tre anni dopo, durante le vacanze, Ferdinando tornò a Crome
accompagnato da un enorme mastino. L’aveva acquistato a Windsor da un
vecchio che trovava troppo costoso nutrirlo. Era una bestia malfida e
selvaggia; appena entrata nella casa, aggredì uno dei piccoli danesi favoriti di
sir Hercules, afferrò la bestiola per la gola, la scosse e la lasciò morta. Molto
addolorato dell’avvenimento, sir Hercules ordinò che la bestia fosse
incatenata nel cortile delle scuderie.
Ferdinando rispose con tono burbero che il cane gli apparteneva e che
voleva tenerlo dove gli facesse comodo. Suo padre, che sentiva salire in sé
la collera, gli ingiunse di far uscire subito il cane dalla casa, se non voleva
incorrere nel suo giusto risentimento. Ferdinando rifiutò di fare un sol
passo, e come, in quel preciso momento, sua madre entrava nella camera, il
cane la assalì, la rovesciò in terra, e, in un batter d’occhio, la ferì
crudelmente al braccio e alla spalla. Stava senza dubbio per azzannarla alla
gola, quando sir Hercules trasse la spada e trapassò il cuore della bestia. Poi,
volgendosi al figlio, gli ordinò di uscire subito dalla camera, poiché non
aveva alcun diritto di trattenersi presso una madre che per poco non aveva
fatto assassinare. E la vista di sir Hercules, con un piede sulla carcassa del
gigantesco mastino ucciso, la spada insanguinata in pugno, era così terribile,
la sua voce era così autoritaria, i suoi gesti e l’espressione del suo viso così
imponenti, che Ferdinando, spaventatissimo, uscì dalla camera e si
condusse, per tutto il resto delle vacanze, in modo esemplare. Sua madre
guarì presto dai morsi del cane, ma le conseguenze che questo avvenimento
ebbero sul suo spirito furono incancellabili; da quel giorno ella visse in
mezzo a terrori immaginari.
«I due anni che Ferdinando trascorse sul Continente, compiendo il
Grande Viaggio, furono per i suoi genitori un periodo di quiete felice.
Nondimeno essi erano preoccupati dal pensiero dell’avvenire né, ormai,
potevano distrarsene dedicandosi ai divertimenti dei loro anni giovanili.
Lady Filomena aveva perduto la voce, e sir Hercules aveva troppi
reumatismi per poter suonare il violino. Andava ancora a caccia, è vero, con
la sua muta di piccoli danesi, ma sua moglie si sentiva troppo vecchia, e,
inoltre, dopo l’episodio del mastino, troppo nervosa per quello sport. Tutt’al

86
più, per far piacere al marito, seguiva la caccia di lontano, in un piccolo
“cabriolet” trascinato dai due più mansueti e più vecchi “shetlands” delle
scuderie di Crome.
«Il giorno fissato per il ritorno di Ferdinando giunse. Filomena, afflitta
da vaghi terrori e da presentimenti, si mise a letto. Sir Hercules solo ricevette
suo figlio. Un gigante in abito da viaggio marrone, entrò nella camera. “Siate
il benvenuto, figlio mio”, disse sir Hercules, con voce un poco tremante.
«“Spero di trovarvi in buona salute, signore!” Ferdinando si chinò per
dargli la mano e si rialzò. La sommità del capo di suo padre gli giungeva
all’anca.
«Ferdinando non era giunto solo. Due amici della sua età erano con lui,
ciascuno seguito da un servitore. Da trent’anni Crome non era stata
disonorata da tanti profani. Sir Hercules era pieno di spavento e
d’indignazione; ma dovette sottomettersi alle leggi dell’ospitalità.
Ricevette i due giovani gentiluomini con solenne cortesia ed inviò i
domestici in cucina, dando ordine che fossero ben trattati.
«L’antica tavola di famiglia fu rimessa in luce e spolverata. (Sir Hercules
e sua moglie, abitualmente, mangiavano a una piccola tavola alta venti
pollici.) Simon, il vecchio maggiordomo, che giungeva appena a vedere al di
sopra dell’orlo dell’immensa tavola, fu aiutato nel servizio dai tre domestici
di Ferdinando e dei suoi ospiti.
«Sir Hercules presiedeva. Con la sua grazia abituale, tenne viva una
conversazione sui piaceri dei viaggi, le bellezze dell’arte e della natura
all’estero, l’opera a Venezia, i canti degli orfanelli nelle chiese di quella stessa
città, e altri argomenti di questo genere. I giovinotti non prestavano orecchio
ai suoi discorsi; erano occupati a osservare gli sforzi che faceva il
maggiordomo per cambiare i piatti e riempire i bicchieri e coprivano le loro
risate con accessi violenti di tosse. Sir Hercules fingeva di non notare nulla,
ma cambiando conversazione, si mise a parlare di sport. Allora uno dei
giovinotti gli chiese se quello che aveva udito raccontare era vero, e cioè che
egli cacciava il coniglio con una muta di piccoli danesi. Sir Hercules rispose
di sì e cominciò a raccontare e a descrivere la caccia in ogni particolare. I
giovanotti si torcevano dalle risa.
«Terminato il pranzo, sir Hercules si lasciò scivolare giù dalla sedia, e col
pretesto di dovere prendere notizie della salute di sua moglie, augurò ai tre
ragazzi la buona notte. Gli scoppi di risa lo seguirono per le scale. Filomena
non dormiva. Coricata nel suo letto, aveva udito le risate enormi. Sir

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Hercules avvicinò una sedia al suo capezzale e sedette a lungo in silenzio,
tenendo tra le sue la mano della moglie e stringendola di tanto in tanto
dolcemente. Verso le dieci, un rumore violento li fece trasalire. Vi fu un
tintinnio di vetri infranti, uno scalpiccio, scoppi di risa e di voci. Come il
rumore si prolungava, sir Hercules si alzò e, ad onta delle implorazioni di
sua moglie, si preparò ad andare a vedere che cosa fosse accaduto. Nessuna
luce sulle scale. Sir Hercules, a tentoni, si lasciò calare di scalino in scalino,
fermandosi ogni tanto prima di avventurarsi più lontano. Il rumore cresceva,
le grida s’articolavano in parole e in frasi riconoscibili. Un raggio di luce era
visibile sotto la porta della sala da pranzo. Sir Hercules si avvicinò in punta
di piedi attraverso il vestibolo. Era ormai giunto alla porta quando udì un
terribile fragore di vetri rotti e un clangore di metalli. Che cosa facevano?
Rizzandosi sulla punta dei piedi, riuscì a guardare dal buco della serratura. In
mezzo alla tavola devastata, il vecchio Simon, il maggiordomo, talmente
ubriaco che riusciva a malapena a stare in equilibrio, danzava la giga. I suoi
piedi facevano stridere e tintinnare i frantumi di vetro e le sue scarpe erano
macchiate di vino. I tre giovanotti stavano seduti intorno alla tavola che
percotevano coi pugni e con le bottiglie vuote, incoraggiando Simon con le
loro risa e con i loro urli. I tre servitori ridevano appoggiati al muro.
Improvvisamente, Ferdinando lanciò un pugno di noci contro la testa del
ballerino; sorpreso e disorientato, l’omuncolo barcollò, poi cadde
all’indietro, trascinando nella caduta una caraffa e qualche bicchiere. I tre
giovanotti lo rimisero in piedi, gli fecero bere un po’ di brandy e gli diedero
qualche colpettino nella schiena. Il vecchio sorrise e ruttò. “Domani, - disse
Ferdinando, - organizzeremo un balletto con tutte le persone della casa.”
«“Con papà Hercules, la sua clava e la sua pelle di leone”, aggiunse uno
dei compagni di Ferdinando, e tutti e tre si misero a ridere.
«Sir Hercules non volle né vedere né udire nient’altro. Attraversò di
nuovo il vestibolo e risalì la scala, alzando penosamente le ginocchia a ogni
scalino. Era finita; non c’era più posto per lui in questo mondo; non c’era
più posto per lui e nello stesso tempo per Ferdinando.
«Sua moglie era ancora sveglia; alla domanda muta del suo sguardo,
rispose: “Han tramutato il vecchio Simon in un buffone; e domani toccherà a
noi”. Tacquero entrambi. Finalmente Filomena disse:
«“Non desidero vedere spuntare il sole di domani
«“Meglio di no”, disse sir Hercules.

88
«Chiusosi nel suo studio, egli scrisse un racconto completo e
particolareggiato degli avvenimenti di quella sera. Mentre era ancora
occupato in questo lavoro, chiamò un domestico al quale ordinò di preparar
l’acqua calda nel bagno per le undici di sera. Quand’ebbe finito di scrivere,
rientrò nella camera di sua moglie e preparò una dose d’oppio venti volte
più forte di quella che essa era abituata a prendere quando non riusciva a
dormire. Poi gliela tese dicendo: “Ecco il vostro sonnifero”.
«Filomena prese il bicchiere e si raccolse un momento. Non bevve
subito. Le lacrime le salivano agli occhi. “Vi ricordate i canti che cantavamo
insieme, seduti fuori ‘sulla terrazza’, d’estate?” E si mise a cantar
dolcemente, con la sua voce di fantasma arrochito, qualche nota di Stradella.
“‘Amor mio, amor mio non dormir più’.” “Allora voi suonavate il violino.
Questo tempo sembra così vicino ancora, e nondimeno è così lontano.”
“‘Addio amore. Arrivederci’” 2. Bevve la sua pozione, e stesasi sui cuscini,
chiuse gli occhi. Sir Hercules le baciò le mani e se ne andò sulla punta dei
piedi, come se temesse di svegliarla. Tornò nel suo studio, annotò le ultime
parole di sua moglie, poi si recò nel bagno.
«L’acqua era troppo calda per entrarvi subito. Egli prese nella sua
biblioteca l’esemplare di Svetonio che possedeva. Voleva leggere la morte di
Seneca. Aprì il libro a caso e lesse: “Quanto ai nani, egli li detestava,
considerandoli come dei ‘lusus naturae’ e dei cattivi presagi”. Ebbe un
sussulto come sotto un colpo. Quello stesso Augusto, se ne ricordava, aveva
costretto ad esibirsi in pieno anfiteatro un giovane a nome Lucio, di buona
famiglia, che misurava appena settanta centimetri di altezza, pesava otto chili
ma possedeva una voce stentorea. Continuò a sfogliare: Tiberio, Caligola,
Claudio, Nerone: era una storia piena d’un orrore sempre più grande.
“Quanto a Seneca, suo precettore, lo obbligò a uccidersi.” E Petronio che
aveva riunito intorno a sé gli amici nell’ultima ora… Egli li aveva pregati
d’intrattenerlo, non delle consolazioni della filosofia, ma d’amore e di cose
galanti, mentre la vita sfuggiva a fiotti dalle sue arterie recise. Sir Hercules
immerse ancora una volta la penna nel calamaio e scrisse sull’ultima pagina
del suo diario: “Morì da Romano”. Allora, immergendo la punta del piede
nell’acqua, la trovò più tiepida, per cui, levatasi la veste da camera, e,
munitosi d’un rasoio, entrò nel bagno. Con un taglio profondo, recise
l’arteria del polso sinistro; poi si coricò e compose il suo spirito per la
meditazione. Il sangue sfuggiva, fluttuando nell’acqua in spirali e in corone
subito dissolte. In breve tutta l’acqua del bagno fu tinta di rosa. Il colore

89
s’accentuò. Sir Hercules si sentì invadere da un invincibile torpore:
sprofondava, nell’incertezza dei sogni. Ben presto si addormentò
profondamente. Non c’era molto sangue nella sua minuscola persona.»

14.

Dopo la colazione, la compagnia prendeva generalmente il caffè nella


biblioteca. Le finestre s’aprivano a est, e quel luogo era in quell’ora il più
fresco della casa. Era una grande camera che, nel secolo diciottesimo, era
stata ammobiliata con scaffali dipinti in bianco, d’elegante disegno. In mezzo
la parete si trovava una porta ingegnosamente imbottita con parecchie file di
libri finti. Essa dava accesso a un vasto ripostiglio nel quale, in mezzo a pile
d’incartamenti e vecchi giornali, il sarcofago di una signora egiziana,
riportato da sir Ferdinando dopo il Grande Viaggio, si sgretolava lentamente
nelle tenebre. A una distanza di dieci metri e a prima vista, quella porta
segreta poteva quasi passare per una sezione della biblioteca piena di veri
libri. Il signor Scogan, con una chicchera di caffè in mano, stava in piedi
dinanzi al finto scaffale, e, tra un sorso e l’altro, discorreva.
- Il vano inferiore, - diceva, - è occupato da una Enciclopedia in
quattordici volumi. Utile, ma noiosa, come l’altronde, Caprimulgo:
“Dizionario della lingua finnica”. Il “Dizionario biografico” ha un’aria
molto più allettante; “Biografia degli uomini grandi per nascita, Biografia
degli uomini che compirono grandi cose, Biografia degli uomini cui la
grandezza fu imposta”, e “Biografia degli uomini che non furono grandi per
nulla”. Poi c’è un romanzo in dieci volumi:
“Viaggi e gesta di Thom”; altri sei volumi sono riempiti dalla “Caccia
all’oca selvatica” d’autore anonimo. Ma che diavolo è ciò?
Il signor Scogan si alzò sulla punta dei piedi e guardò attento.
- Sette volumi dei “Racconti di Knockespotch”. I “Racconti di
Knockespotch”, ripeté. - Ah! mio caro Henry, - disse volgendosi, - questi

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sono i suoi migliori libri. Per essi, io darei volentieri tutto il resto della sua
biblioteca.
Il signor Wimbush, possessore felice d’una quantità di edizioni originali,
poteva permettersi il lusso d’un sorriso indulgente.
- E’ possibile, - proseguì il signor Scogan, - che questi libri non
posseggano che il dorso e i titoli? - Aprì la porta del ripostiglio e guardò
dietro quella, come se sperasse trovar lì la parte mancante dei libri. - Peuh! -
disse, e richiuse la porta. - C’è puzzo di polvere e di muffa. Com’è
simbolico! Ci si avvicina alle grandi opere del passato con la speranza d’una
miracolosa illuminazione e, aprendole, non si trova che oscurità e polvere,
con un debole odore di putrefazione. In fondo che cos’è la lettura, se non un
vizio, come l’alcool e la lussuria, e tutte le altre forme di voluttà. Si legge per
stuzzicare e divertire il proprio cervello; si legge soprattutto per impedire a se
stessi di pensare. Tuttavia, i “Racconti di Knockespotch”…
Fece una pausa e, pensieroso, tambureggiò con le dita sul dorso di quei
libri inesistenti e inaccessibili.
- Ma io non sono della sua opinione, per quanto riguarda la lettura, -
disse Mary, - quando si tratti di letture serie, naturalmente.
- Certo, Mary, certo, - rispose il signor Scogan. - Avevo dimenticato che
c’erano qui delle persone serie.
- Io amo l’idea ispiratrice delle biografie, - disse Denis. - E’ un piano nel
quale ciascuno di noi troverebbe il suo posto; è d’una portata assai estesa. Sì,
le biografie sono buone, le biografie sono eccellenti, - acconsentì il signor
Scogan. - Me le immagino scritte in uno stile Reggenza molto elegante - i
padiglioni di Brighton messi in parole - forse dallo stesso grande dottor
Lemprière. Lei conosce il suo “Dizionario dei classici”? Ah! - il signor
Scogan alzò le mani, poi le lasciò ricadere con forza, con un gesto inteso a
significare che le parole gli mancavano. - Legga la sua biografia di Elena;
legga come Giove, tramutato in cigno, «poté approfittare della sua
situazione» nei confronti di Leda. E pensare ch’egli ha forse, ch’egli ha senza
dubbio scritto queste “Biografie di grandi uomini”! Che opera, Henry! E per
causa della stupida disposizione della sua biblioteca, non si può leggerla.
- Io preferisco “La caccia all’oca selvatica”, - disse Anne. - Un romanzo
in sei volumi; deve essere una lettura riposante.
- Riposante, - ripeté il signor Scogan. - Lei ha trovato la parola giusta.
“La caccia all’oca selvatica” è un buon libro, ma un po’ fuori moda. Si tratta
di scene di vita parrocchiale a metà del secolo scorso: i soliti esemplari della

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nobiltà campagnola; qualche contadino per il pathos e per l’elemento
comico; e, in secondo piano, sempre le pittoresche bellezze della natura,
descritte sobriamente. Tutto molto sano, molto solido, ma, come certi
budini, un tantino insipido.
Personalmente io preferisco assai l’idea dei “Viaggi e gesta di Thom”.
L’eccentrico signor Thom di Thom’s Hill. Il vecchio Tom Tom, come
avevano l’abitudine di chiamarlo i suoi intimi, trascorse dieci anni nel Tibet,
dove organizzò l’industria del burro centrifugato con i moderni metodi
europei, per cui poté, all’età di trentasei anni, ritirarsi con una discreta
fortuna. Egli dedicò il resto dei suoi anni a viaggi e meditazioni, di cui
questo è il risultato -. Il signor Scogan picchierellò con le dita sui libri. - Ed
ecco che giungiamo ai “Racconti di Knockespotch”. Che capolavoro e che
grande uomo!
Knockespotch sì che sapeva raccontare. Ah! Denis, se potesse leggere
Knockespotch, lei non scriverebbe più un romanzo sulla noiosa evoluzione
della personalità d’un giovanotto; lei non descriverebbe più, con infiniti e
fastidiosi particolari, la vita intellettuale di Chelsea, di Bloomsbury e di
Hampstead. Lei cercherebbe di scrivere un libro leggibile. Ma, ahimè! Per
causa dell’organizzazione speciale data alla biblioteca del nostro ospite, lei
non leggerà mai Knockespotch.
- Nessuno lo rimpiange più di me, - disse Denis.
- Fu il grande Knockespotch, - continuò il signor Scogan, - che ci liberò
dalla terribile tirannia del romanzo realista. «La mia vita, - diceva
Knockespotch, - non è abbastanza lunga perché io possa permettermi di
dissiparne le ore preziose a scrivere o a leggere descrizioni d’interni
borghesi.» Disse anche: «Sono stanco di vedere lo spirito umano
impantanato nel “plenum sociale”; preferisco dipingerlo svolazzante
giocondamente e liberamente nel “vacuum”».
- Dica, - arrischiò Gombauld, - Knockespotch qualche volta non era un
po’ oscuro?
- Sì, - rispose il signor Scogan, - e con intenzione. Questo lo faceva
apparire più profondo che non fosse in realtà. Ma fu soprattutto nei suoi
aforismi ch’egli fu oscuro e oracolare. Nei suoi racconti, fu sempre
luminoso. Oh, quei racconti, quei racconti! Come descriverli?
Personaggi favolosi volteggiano attraverso le sue pagine, come acrobati
vestiti di colori sgargianti, da un trapezio all’altro. Vi sono avventure
straordinarie e più straordinarie meditazioni.

92
Intelligenza ed emozione, libere da tutte le preoccupazioni stupide della
vita civilizzata, intrecciano danze di mirabile complessità, si incrociano,
s’avanzano, si ritirano, si scontrano. Una erudizione immensa e un’immensa
fantasia procedono la mano nella mano. Tutte le idee del presente e del
passato, su tutti gli argomenti possibili, emergono una dopo l’altra da questi
racconti, sorridono gravemente o fanno una smorfia di derisione, e
spariscono, cedendo il posto a qualcosa di nuovo. La superficie verbale dei
suoi scritti è ricca e prodigiosamente variata. Lo spirito è sempre presente…
Il…
- Ma non potrebbe darci un esempio, - interruppe Denis, - un esempio
concreto?
- Ahimè! - rispose il signor Scogan, - la grande opera di Knockespotch è
simile alla spada Excalibur. Rimane infitta in questa porta, in attesa d’uno
scrittore che abbia genio sufficiente per strapparla. Io non sono neanche uno
scrittore; non ho nessuna qualifica per tentare una simile impresa.
L’estrazione di Knockespotch dalla sua prigione di legno, la lascio a lei, a lei,
mio caro Denis.
- Grazie mille! - disse Denis.

93
15.

Ai tempi dell’amabile Brantôme, - diceva il signor Scogan, - ogni


fanciulla che venisse presentata alla corte di Francia, era invitata a pranzo
alla tavola del Re, ove le veniva versato da bere in una preziosa coppa
d’argento, lavoro d’oreficeria italiana. Ma questo bicchiere delle debuttanti,
non era una coppa ordinaria, perché nell’interno si trovavano incise molto
curiosamente e ingegnosamente varie scene di carattere erotico. A ogni sorso
della fanciulla, queste scene divenivano sempre più visibili, e tutta la Corte
guardava con interesse ogni volta che la giovane donna metteva il naso nella
coppa, per vedere se essa si turbasse davanti a ciò che il vino, calando,
rivelava. Se la giovinetta arrossiva, tutti ridevano della sua ingenuità; se non
arrossiva, tutti si burlavano della sua grande esperienza.
- Forse lei propone, - domandò Anne, - che questa usanza venga rimessa
in vigore a Buckingham Palace?
- No, - disse il signor Scogan. - Io mi limitavo a citare questo aneddoto
per illustrare i costumi del secolo sedicesimo, che furono d’una allegra
franchezza. Avrei potuto citare altri aneddoti e dimostrare che i costumi dei
secoli diciassettesimo e diciottesimo, dei secoli quindicesimo e
quattordicesimo e, in realtà, di tutti i secoli, dall’epoca d’Hammurabi in poi,
furono ugualmente allegri e ugualmente franchi. L’unico secolo nel quale i
costumi non furono caratterizzati da questa medesima gaia naturalezza, fu il
diciannovesimo, che Dio abbia in gloria! Fu una stupefacente eccezione. E
tuttavia questo secolo, con un disprezzo deliberato della storia, considerò i
suoi silenzi orribilmente significativi come una cosa naturale, normale e
giusta; la franchezza dei 1500 o 2000 anni precedenti venne considerata come
anormale e perversa. Fu un curioso fenomeno, questo.
- Sono assolutamente del suo parere.
Mary nello sforzo di esprimere la propria opinione, quasi soffocava per
l’eccitazione.
- Havelock Ellis dice che…

94
Il signor Scogan, come un vigile che arresti il flusso della circolazione,
alzò la mano.
- Lo dice; e questo mi porta al secondo punto: la natura della reazione.
- Havelock Ellis…
- La reazione, quando venne - e possiamo dire che all’incirca cominciò
qualche tempo prima dell’inizio del nostro secolo - la reazione tese verso la
franchezza, ma non la franchezza che aveva regnato nei periodi anteriori.
Noi giungemmo a una franchezza scientifica, e non più alla gioviale sincerità
del passato. Tutta la questione dell’amore divenne una questione
eccessivamente seria. Giovani zelanti scrissero sui pubblici fogli che ormai
sarebbe stato impossibile permettersi una battuta di spirito su un argomento
sessuale. Professori scrissero grossi libri nei quali il sesso era sterilizzato e
sezionato. E’ diventato ormai abituale, per le ragazze intellettuali come Mary,
discutere con calma filosofica di argomenti ai quali sarebbe bastato fare
allusione per gettare la gioventù del 1860 in un delirio d’eccitazione
amorosa. Tutto ciò è molto lodevole, senza dubbio.
- Nondimeno… - Il signor Scogan sospirò. - Per quel che mi riguarda,
amerei veder mischiato all’ardore scientifico, un po’ dello spirito gioviale di
Rabelais o del Chaucer.
- Io sono d’opinione nettamente opposta, - disse Mary. - Le relazioni
sessuali non sono cosa che si presti al riso, sono un problema serio.
- Forse, - rispose il signor Scogan, - può darsi che io sia un vecchio
osceno, ma, lo confesso, non considero sempre questo argomento come
qualche cosa di assolutamente serio.
- Ma le dico… - cominciò furibonda Mary.
Il suo volto era rosso d’emozione. Le sue guance erano le guance d’una
grossa pesca matura.
- In realtà, - continuò il signor Scogan, - io ritengo che questo sia uno
dei rari argomenti che restino divertenti in modo permanente ed eterno.
L’amore è la sola attività umana di qualche importanza nella quale il riso e il
piacere abbiano una preponderanza, per quanto piccola, sui tormenti e i
dolori.
- Io sono d’opinione nettamente opposta, - disse Mary.
Ci fu un silenzio.
Anne guardò il proprio orologio.
- Quasi le otto meno un quarto, - disse. - Vorrei sapere quando arriverà
Ivor.

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S’alzò dalla sedia a sdraio e, appoggiandosi alla balaustra della terrazza,
guardò oltre la valle, nella direzione delle colline lontane. Nell’uniforme
crepuscolo, l’architettura del paesaggio si rivelava. Le ombre cupe,
contrastanti con le zone ancora in piena luce, davano alle colline una nuova
solidità. I giochi d’ombra e di luce mettevano in evidenza certe irregolarità
della superficie, sino a quel momento insospettate. L’erba, il grano, le foglie
degli alberi erano punteggiati d’ombre confuse. La superficie delle cose,
s’era meravigliosamente arricchita.
- Guardate! - disse Anne improvvisamente, e tese l’indice. Sul fianco
opposto della valle, in cima alla cresta, una nuvola di polvere, illuminata di
rosa e d’oro dai raggi del sole, si muoveva rapidamente lungo l’orizzonte.
- E’ Ivor. Basta vedere la velocità.
La nuvola di polvere discese nella valle e scomparve. Una tromba dalla
voce di leone marino risuonò sempre più vicina. Un minuto dopo, Ivor
sbucò correndo dall’angolo della casa. I suoi capelli si agitavano nel turbine
della corsa; vedendo i suoi ospiti, rise.
- Anne cara, - gridò, e la baciò; baciò Mary e per poco non baciò il
signor Scogan. - Ah! eccomi! Sono venuto a una velocità incredula -.
Il vocabolario d’Ivor era ricco, ma un po’ impreciso.
- Sono in ritardo per il pranzo, vero?
S’alzò fin sulla balaustra e sedette, battendo i tacchi. Stringeva con un
braccio un gran vaso di pietra e piegava la testa contro i fianchi del vaso
stesso ch’erano duri e ricoperti di lichene, in un atteggiamento di sincero
affetto. Aveva i capelli castani e ondulati, i suoi occhi vivissimi erano d’un
azzurro pallido e inconsueto. La testa era piuttosto stretta, la faccia sottile e
molto lunga, il naso aquilino.
Da vecchio - ma è difficile immaginare Ivor vecchio - forse egli avrebbe
presa l’aria feroce del Duca di Ferro. Ma ora, all’età di ventisei anni, non era
la struttura della faccia che colpiva, bensì la sua espressione. Essa appariva
incantevole e vivace e il sorriso era uno splendore. Egli si muoveva
continuamente, nervoso e vivo, con una grazia affascinante. Il suo corpo,
fragile e sottile, pareva vivificato da una sorgente di energia inesauribile.
- No, non è in ritardo.
- Lei arriva in tempo per rispondere a una domanda, disse il signor
Scogan. - Noi discutevamo per sapere se l’amore sia o no una cosa seria.
Che cosa ne pensa lei? E’ serio?
- Serio? - rispose Ivor. - Ma certamente.

96
- Glielo avevo detto, - gridò Mary trionfalmente.
- Sì, ma serio in che senso? - domandò il signor Scogan.
- Voglio dire, come occupazione. Ci si può abbandonare all’amore senza
annoiarsi mai.
- Benissimo, - disse il signor Scogan.
- E’ una cosa con la quale si può esser sempre occupati - continuò Ivor. -
Le donne sono sempre meravigliosamente le stesse. Solo le forme variano
un poco, ecco tutto. In Spagna, - con la mano rimasta libera, egli tracciò
nell’aria una serie d’ampie curve, - non si può passare per le scale nello
stesso tempo che vi passa una donna. In Inghilterra, - unì la punta
dell’indice e la punta del pollice, e, abbassando la mano, disegnò un cilindro
immaginario, - in Inghilterra esse sono tubolari, ma i loro sentimenti son
sempre gli stessi.
Almeno, per quanto possa giudicarne dalla mia esperienza.
- Mi fa piacere sentirle dir ciò, - affermò il signor Scogan.

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16.

Le signore avevano lasciata la stanza e il porto circolava. Il signor


Scogan riempì il proprio bicchiere, fece passare la bottiglia e, rovesciandosi
nella sedia, guardò un momento intorno a sé, silenziosamente. La
conversazione faceva intorno a lui uno sciacquio indolente; egli la sdegnava
e sorrideva a qualche intimo scherzo.
Gombauld notò il suo sorriso.
- Cosa c’è che la diverte? - domandò.
- Stavo guardandovi tutti, seduti intorno a questa tavola, - disse il signor
Scogan.
- Siamo dunque tanto comici?
- Nemmeno per sogno, - rispose il signor Scogan con gentilezza. - Erano
semplicemente le mie speculazioni che mi divertivano.
- E si potrebbe conoscerle?
- Le più vane, le più accademiche di tutte le speculazioni. Vi guardavo,
l’uno dopo l’altro, e cercavo di immaginare a quale dei primi sei Cesari
ciascuno di voi somiglierebbe se gli fosse data l’opportunità di agire da
Cesare. I Cesari sono una delle mie pietre di paragone, - spiegò il signor
Scogan. - Sono individualità che, per così dire, funzionano nel vuoto. Sono
esseri umani sviluppati sino alle loro conclusioni logiche. Da ciò nasce il
loro ineguagliabile valore in quanto pietre di paragone. Quando io vedo
qualcuno per la prima volta, mi pongo la domanda: date delle possibilità
cesaree, un ambiente cesareo, a quale dei Cesari somiglierebbe questa
persona? Giulio, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone? Prendo ogni
elemento del carattere, ogni tendenza mentale ed emotiva, ogni piccola
stranezza e moltiplico tutto per mille. L’immagine che ne risulta mi dà la
formula cesarea dell’individuo.
- Ed a quale dei Cesari somiglia lei stesso? - domandò Gombauld.
- Potenzialmente, a ognuno di essi, - rispose il signor Scogan. - A
ognuno, fatta eccezione per Claudio, che era troppo stupido per
rappresentare lo sviluppo di qualsiasi aspetto del mio carattere. I germi del

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coraggio di Giulio e della sua indomabile energia, della prudenza di
Augusto, della lussuria e della crudeltà di Tiberio, della follia di Caligola, del
genio artistico di Nerone e della sua enorme vanità: tutto ciò è in me. Se ne
avessi avuta l’occasione, avrei potuto diventare qualche cosa di favoloso.
Ma ho avuto contro di me le circostanze. Sono nato e sono stato allevato in
un presbiterio di campagna; ho dedicato la mia giovinezza a un lavoro
durissimo privo di qualsiasi significato e che per giunta mi rendeva assai
poco. Il risultato è che, ora, nella mia età matura, sono la nullità che sono.
Ma, forse, è meglio che sia andata così. E forse, è meglio che non sia
stato concesso a Denis di diventare un piccolo Nerone, che Ivor non sia che
virtualmente un Caligola. Sì, è senza dubbio meglio così. Ma lo spettacolo
sarebbe stato più divertente se essi avessero avuto la possibilità di sviluppare
senza impacci tutto l’orrore delle loro qualità potenziali. Sarebbe stato
gradevole e interessante osservare i loro tic, le loro debolezze, i loro piccoli
vizi, vederli gonfiare, metter fuori i germogli e sbocciare in enormi e
fantastici fiori di crudeltà, d’orgoglio, di lussuria e d’avarizia. E’ l’ambiente
cesareo che ha fatto i Cesari, così come il nutrimento scelto e la cella reale
fanno la regina delle api. Noi differiamo dalle api in questo: che mentre esse,
quando abbiano il nutrimento adeguato, sono certe di produrre una regina
ogni volta che lo desiderino, noi non abbiamo tale certezza: su dieci uomini
posti in un ambiente cesareo, uno sarà fondamentalmente buono, o
intelligente, o grande. Gli altri diverranno dei Cesari; lui, no. Settanta od
ottant’anni fa, leggendo le gesta dei Borboni nel sud dell’Italia le persone
semplici esclamavano con stupore: «E pensare che cose di questo genere
possono succedere nel secolo diciannovesimo!». E anche noi, qualche anno
fa, fummo sorpresi di vedere che, nel nostro meraviglioso secolo ventesimo,
i poveri mori del Congo e delle Amazzoni potessero essere trattati come i
servi inglesi sotto il regno d’Etienne de Blois. Oggi queste cose non ci
stupiscono più. Una milizia di occupazione opprime l’Irlanda, i Polacchi
tartassano gli abitanti della Slesia; i fascisti massacrano i loro compatrioti più
poveri; tutto questo ci sembra normale. Noi abbiamo creato un ambiente
cesareo e un nugolo di piccoli Cesari s’è levato. Che cosa c’è di più
naturale?
Il signor Scogan bevette il resto del porto e si riempì di nuovo il
bicchiere.
- In questo medesimo istante, - continuò, - i più terribili orrori accadono
da un capo all’altro del mondo. Intere moltitudini sono schiacciate, tagliate,

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sventrate, mutilate; i loro cadaveri si decompongono e i loro occhi
imputridiscono insieme col resto. Grida di dolore e di spavento corrono per
l’aria alla velocità di quattrocento metri al secondo. Dopo aver viaggiato tre
secondi, diventano perfettamente impercettibili. Sono, questi, fatti
angosciosi; ma impediscono forse a qualcuno di goder della vita? No certo.
Noi tutti proviamo compassione, senza dubbio, ci rappresentiamo grazie alla
immaginazione le sofferenze dei popoli e degli individui, e le deploriamo.
Ma in fin dei conti, che cosa sono la compassione e l’immaginazione? Assai
poco; a meno che la persona per cui proviamo compassione non sia
intimamente legata a noi da vincoli d’affetto, e, anche in questo caso, quel
che proviamo non è gran che. D’altronde meglio così: perché, se noi
avessimo una immaginazione e una compassione abbastanza vive per
comprendere pienamente e provare le sofferenze degli altri, non avremmo
più un momento di pace. Una razza veramente pietosa, non conoscerebbe
nemmeno il senso della parola felicità. Ma, fortunatamente, come ho già
detto, noi non apparteniamo a una razza pietosa. Al principio della guerra,
mi pareva di soffrire nella mia immaginazione e nella mia sensibilità,
all’unisono con quelli che soffrivano nella loro carne. Ma dopo un mese o
due, dovetti ammettere onestamente che non era vero. E nondimeno, io
credo di avere un’immaginazione più viva di quella della maggior parte dei
miei simili. Noi siamo soli nella sofferenza; è un fatto deprimente se si è la
persona che soffre, ma che rende possibile la felicità del resto del mondo.
Ci fu una pausa. Henry Wimbush spinse indietro la propria sedia.
- Credo che converrebbe raggiungere le signore, - disse.
- Anch’io, - disse Ivor, balzando in piedi.
Poi si volse al signor Scogan.
- Per fortuna, - disse, - ci è possibile dividere i nostri piaceri. Non siamo
condannati a esser sempre felici da soli.

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17.

Con un «bum» sonoro, Ivor lasciò ricadere le mani sull’accordo finale


della sua rapsodia. C’era in quell’armonia trionfale, un sospetto di stonatura,
come se la settima e l’ottava fossero state toccate insieme dal pollice della
mano sinistra; ma l’effetto generale di quello splendido frastuono emergeva
ad onta di tutto. I piccoli particolari non contano, purché l’effetto generale
sia buono. E, d’altronde, quel sospetto di stonatura era assolutamente
moderno. Ivor girò sullo sgabello e rialzò di sugli occhi una ciocca di
capelli.
- Ecco! - disse. - E’ quanto di meglio posso fare per voi, ahimè!
Mormorii e applausi di gratitudine empirono la stanza, e Mary, fissando
sull’artista i suoi grandi occhi di porcellana, esclamò:
- Meraviglioso! - e cercò di riprendere fiato, come se soffocasse.
Natura e Fortuna avevano rivaleggiato in ardore nell’ammucchiare su
Ivor Lombard i loro doni più belli. Egli era ricco, per cui poteva dirsi
interamente indipendente. Era un bel ragazzo, aveva nei modi un irresistibile
fascino ed era l’eroe d’un tal numero di successi amorosi, che non poteva
ricordarli tutti. Le sue capacità erano straordinarie per il numero e la varietà.
Aveva una voce di tenore non coltivata ma bellissima; improvvisava al piano
rapidamente e rumorosamente con un brio stupefacente; era un buon
medium dilettante, praticava la telepatia e la sua conoscenza dell’al di là era
considerevole oltreché di prima mano; sapeva scrivere versi rimati con
mirabile prontezza; nel dipingere certi suoi quadri simbolici, aveva uno stile
ardito, e se qualche volta il disegno di quei quadri era debole, il colore ne
era sempre pirotecnico; come filodrammatico eccelleva e, quando se ne
offriva l’occasione, sapeva cucinare con estro. Somigliava a Shakespeare in
questo: che sapeva poco il latino e ignorava il greco. Per uno spirito come il
suo, l’istruzione sarebbe apparsa una superfettazione. L’insegnamento non
avrebbe potuto che distruggere le sue attitudini naturali.
- Andiamo in giardino, - suggerì Ivor. - La notte è meravigliosa.

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- Grazie mille, - disse il signor Scogan. - Io preferisco queste poltrone,
che son più meravigliose ancora.
La sua pipa, ogni volta che tirava una boccata, mandava un intimo
gorgoglio. Egli era perfettamente felice.
Anche Henry Wimbush era felice. Guardò un momento al di sopra degli
occhiali, nella direzione d’Ivor, poi, senza dire una parola, tornò ai libriccini
di conti del secolo sedicesimo, che da qualche tempo costituivano la sua
lettura favorita. Egli conosceva le spese di casa di sir Ferdinando meglio che
le sue proprie.
Il gruppo di peripatetici arruolato sotto la bandiera d’Ivor comprendeva
Anne, Mary, Denis e, strano a dirsi, Jenny. Fuori la notte era calda e oscura;
niente luna. Passeggiarono sulla terrazza, in lungo e in largo, e Ivor cantò
una canzone napoletana: «“Stretti, stretti”…» in cui figurava anche una
ragazza spagnola. L’atmosfera cominciava a palpitare. Ivor circondò col
braccio la vita di Anne, appoggiò la testa sulla sua spalla e in quella
posizione camminò e cantò camminando. Pareva che questa fosse la cosa
più facile, più naturale del mondo. Denis si chiese perché non l’avesse mai
fatta.
Odiava Ivor.
- Scendiamo fino allo stagno, - disse Ivor. Lasciò Anne e si volse per
guidare il piccolo stuolo. Camminarono lungo la casa fino all’ingresso del
viale di tassi che scendeva al giardino inferiore. Tra le mura compatte e
scoscese della casa e i tassi giganteschi, il sentiero era una breccia di tenebre
impermeabili. In qualche posto ci dovevano essere degli scalini che
scendevano a destra, un varco in una siepe di tasso. Denis, in testa al
gruppo, s’apriva prudentemente la strada a tentoni; in quell’oscurità si
provava una paura irragionevole di precipizi spalancati, di orribili ostacoli
spinati. Improvvisamente, dietro di sé, Denis sentì un «Oh!» stridulo e
spaventato, poi un colpo secco, che poteva essere anche il rumore d’uno
schiaffo. Dopo di che si sentì la voce di Jenny pronunciare queste parole:
«Io torno a casa». Il tono era deciso, e, mentre parlava, Jenny spariva già,
fondendosi con le tenebre. L’incidente, quale che fosse, era chiuso.
Denis ricominciò a camminare a tentoni. Dietro di lui Ivor si rimise a
cantare sottovoce:

“Phillis plus avare que tendre,


Ne gagnant rien à refuser,

102
Un jour exigea à Silvandre
Trente moutons pour un baiser.”

La melodia calava, poi risaliva con una specie di molle languore; le calde
tenebre avevano, intorno a loro, pulsazioni d’arterie.

“Le lendemain nouvelle affaire:


Pour le berger, le troc fut bon…”

- Ecco gli scalini, - gridò Denis. Guidò i suoi compagni sul terreno
pericoloso e, un attimo dopo, essi sentirono sotto i loro piedi l’erba del viale
di tassi. Qui era più chiaro, o, per lo meno, percettibilmente meno buio,
perché il viale era più largo del sentiero che li aveva guidati lungo i muri
della casa. Alzando il capo, potevano vedere tra le siepi alte e massicce una
striscia di cielo e qualche stella.

“Car il obtint de la bergère…”

continuò Ivor, che s’interruppe per gridare:


- Faccio una corsa fino in fondo.
Egli era già partito, a tutta velocità, lungo la discesa invisibile, sempre
cantando, a scatti:

“Trente baisers pour un mouton.”

Gli altri lo seguirono. Denis, indietro, titubava esortando inutilmente i


suoi compagni alla prudenza: la discesa era ripida, ci si poteva rompere
l’osso del collo. «Che cosa diavolo ha tutta questa gente?» si domandò.
Parevano tanti gattini dopo una dose di nepitella.
Egli stesso sentiva ridere in sé una certa malizia gattesca, ma anche
questa, come la maggior parte delle sue emozioni, era un sentimento
meramente teorico; egli non sentiva veramente l’impulso di esprimersi con
una dimostrazione pratica di malizia gattesca.
- State attenti! - gridò ancora una volta, e aveva appena emesso queste
parole che, «bum!» sentì dinanzi a sé il rumore d’una pesante caduta, seguita
da un lungo «f-ff-f-f», fiato trattenuto per soffocare il dolore, poi da un
sincero: «Ohi! Ohi!». Denis era quasi contento; li aveva pure avvertiti,

103
quegli stupidi, ed essi non gli avevano dato retta. Scese lungo il viale al
trotto, per raggiungere l’invisibile ferito. Mary scendeva dalla collina, come
una locomotiva in libertà.
Com’era divertente quella corsa cieca nelle tenebre; le pareva che non si
sarebbe mai fermata. Ma sotto i suoi piedi il suolo si andava appianando; la
sua velocità diminuiva insensibilmente e, d’improvviso, essa si sentì
afferrare da due braccia protese che l’obbligarono a fermarsi.
- Ebbene, - disse Ivor stringendo le braccia, - eccola presa, Anne.
Essa fece uno sforzo per liberarsi.
- Non sono Anne, sono Mary!
Ivor scoppiò a ridere divertito.
- E’ vero! - esclamò. - Si vede che questa sera sono destinato a far delle
gaffe. Ne ho già fatta una con Jenny.
Rise ancora, e il suo riso aveva qualche cosa di tanto gioioso, che Mary
non poté fare a meno di ridere anch’essa. Ivor non allentò la stretta, e questo
fatto aveva un’aria così divertente e naturale che Mary non tentò più di
sfuggire. Essi passeggiarono avvinti lungo lo stagno. Mary era troppo
piccola: egli non poteva appoggiare la testa sulla sua spalla comodamente,
ma strofinò la guancia, carezzevole, carezzato, contro la densa e morbida
massa di capelli della fanciulla.
Poi si mise a cantare; la notte fremeva amorosamente al suono della sua
voce. Quando ebbe finito, le diede un bacio. Anne o Mary, Mary o Anne.
Non c’era diversità. C’erano delle sfumature, naturalmente; ma l’effetto
generale era lo stesso, e, in fondo, quello che aveva importanza era l’effetto
generale.
Denis discese la collina.
- Ci sono dei guasti? - gridò.
- E’ lei, Denis? Mi son ferita la caviglia, molto forte, e il ginocchio, e la
mano. Sono in pezzi.
- Povera Anne! - diss’egli. E non poté esimersi dal farle osservare una
volta di più che era pazzesco mettersi a correre in quel modo nell’oscurità.
- Imbecille, - rispose lei, con un tono di lacrimevole irritazione, - si
capisce ch’era pazzesco.
Egli sedette sull’erba al suo fianco; aspirava l’atmosfera di profumo
leggero e squisito che la circondava sempre.
- Accenda un fiammifero, - ordinò essa. - Voglio guardare le mie ferite.

104
Egli mise la mano in tasca cercando i fiammiferi. La fiammella sfrigolò,
poi si fece costante. Come per opera di magia, un piccolo universo s’era
creato, un mondo di colori e di forme - il volto di Anne, la bella tinta
arancione del vestito, le sue braccia nude e bianche, una macchia d’erba
verde, e tutt’intorno un’oscurità che s’era fatta solida e cieca. Anne tese le
mani: erano verdi e terrose e la sinistra mostrava due o tre abrasioni rosse.
- Non è grave, - disse. Ma Denis era costernato e la sua emozione si fece
più intensa, quando, guardando il volto di Anne, vide qualche traccia di
lacrime, lacrime involontarie di dolore, che s’attardavano sulle ciglia. Levò
di tasca il fazzoletto e cominciò a pulire le mani ferite. Il fiammifero si
spense. Non metteva conto di accenderne un altro. Anne, docile e
riconoscente, permise ch’egli la medicasse.
- Grazie, - disse, quand’egli ebbe finito di nettarle e di bendarle le mani; e
qualche cosa nella sua voce gli rivelò che essa aveva perduto la sua
superiorità, ch’era diventata, improvvisamente, quasi una bambina. Denis si
sentì immensamente forte e protettore. Questo sentimento era così
prepotente che d’istinto circondò Anne col braccio. Ella s’avvicinò,
s’appoggiò a lui, e rimasero così in silenzio. Allora, dal basso, giunse loro il
canto d’Ivor, dolce e meravigliosamente limpido attraverso la muta oscurità:

“Le lendemain Phillis plus tendre,


Ne voulant déplaire au berger,
Fut trop heureuse de lui rendre
Trente moutons pour un baiser.”

Seguì un intervallo assai lungo, come se laggiù si dessero il tempo di


ricevere e di dare qualcuno di quei trenta baci. Poi la voce riprese:

“Le lendemain Phillis peu sage


Aurait donné moutons et chien
Pour un baiser que le volage
A Lisette donnait pour rien.”

L’ultima nota si spense in un silenzio ininterrotto.


- Si sente meglio? - mormorò Denis. - Va bene così?
Essa fece «sì» con la testa alle due domande.

105
«Trente moutons pour un baiser.» La pecora, il montone lanoso - bè, bè,
bè? Oppure il pastore? Sì, decisamente, ora egli sentiva d’essere il pastore.
Era il padrone, il protettore. Un’onda di coraggio si gonfiava in lui, calda
come il vino. Volse il capo e si mise a baciare il volto di Anne, da principio
un po’ a caso, poi con maggior precisione, sulla bocca. Anne volse il capo;
egli baciò l’orecchio, la nuca così dolce che quel movimento gli offriva.
- No, no, Denis.
- Perché no?
- Perché questo guasta la nostra amicizia, ed era così bella.
- Che sciocchezza! - disse Denis.
Ella tentò di spiegare:
- Non vede, - disse, - non vede che questo… questo non si adatta a noi
due?
Era vero. Per qualche ragione, non aveva mai pensato a Denis come a un
uomo capace di innamorarsi; meno che mai aveva concepito la possibilità di
una relazione amorosa con lui. Egli era così giovane! così… così… non
trovava l’aggettivo adatto, ma sapeva bene che cosa voleva dire.
- Perché non si adatta? - domandò Denis.
- Perché…
- E se io dicessi di sì?
- Questo non cambierebbe nulla. Io dico di no.
- Io la obbligherò a dire di sì.
- Bene, bene, Denis. Ma sarà per un’altra volta. Io devo tornare a casa
per immergere la caviglia nell’acqua calda. Sento che comincia a gonfiarsi.
Le ragioni di salute non si discutono. Denis si alzò di malavoglia e aiutò
la sua compagna a rialzarsi. Ella fece un passo prudentemente.
«Oh!» Si fermò e s’appoggiò pesantemente al braccio di Denis.
- La porterò, - offrì Denis.
Non aveva mai provato a portare una donna, ma, al cinematografo,
questo pareva sempre un eroismo facile.
- Non ci riuscirà, - disse Anne.
- Ma sì, posso benissimo.
Egli si sentiva più che mai grande e protettore.
- Metta il braccio intorno al mio collo, - ordinò.
Essa obbedì; egli si curvò, la prese sotto le ginocchia e la sollevò da terra.
Dio mio, che peso! Fece barcollando cinque passi lungo la salita, poi, per

106
poco, non perse l’equilibrio e fu obbligato a deporre il suo fardello
bruscamente, con un leggero urto.
Anne si torceva per le risa.
- Gliel’avevo detto che non ci sarebbe riuscito, mio povero Denis.
- Ci riuscirò, - disse Denis con convinzione. - Proverò ancora.
- E’ veramente molto gentile da parte sua, ma preferisco camminare,
grazie.
Appoggiò la mano sulla spalla di Denis e, così sorretta, risalì lentamente
la collina zoppicando.
- Mio povero Denis! - ripeté, e tornò a ridere. Umiliato, egli rimase in
silenzio. Tutto ciò pareva incredibile. Non più di due minuti prima egli
l’aveva tenuta tra le braccia, l’aveva baciata. Incredibile.
Allora essa era sembrata una bambina indifesa. Ora, essa aveva ritrovato
la sua superiorità; era di nuovo l’essere lontano, desiderato e inespugnabile.
Perché era stato così pazzo da suggerire l’idea di portarla? Egli arrivò alla
casa in uno stato di profonda depressione.
Aiutò Anne a salire le scale, la affidò alle mani della cameriera e scese in
salotto. Fu sorpreso di vederli tutti seduti dove li aveva lasciati. S’aspettava
che tutto fosse cambiato. Non era forse passato un tempo prodigiosamente
lungo da quando era uscito? Tutti silenziosi.
«Il diavolo se li porti tutti!» pensò guardandoli. La pipa del signor
Scogan faceva ancora udire il suo soffio asmatico; nessun altro rumore.
Henry Wimbush era ancora immerso nel suo libro di conti; aveva giusto
scoperto come sir Ferdinando avesse l’abitudine di mangiare ostriche tutto
l’anno, senza riguardo per l’assenza dell‘“r” giustificativa. Gombauld leggeva
attraverso occhiali cerchiati di tartaruga. Jenny scarabocchiava
misteriosamente nel suo quaderno rosso, mentre Priscilla, seduta in una delle
sue poltrone favorite, esaminava una cartella di disegni. Uno dopo l’altro, li
portava lontano dagli occhi quanto le concedeva la lunghezza del braccio e,
gettando indietro la sua montagnosa testa arancione, li guardava lungamente
e attentamente attraverso le palpebre chiuse. Indossava un vestito d’un verde
marino; diamanti splendevano sul declivio del suo seno incipriato di malva.
Un bocchino interminabile faceva un angolo retto con la sua faccia. Altri
diamanti erano incastrati nel monte arancione della sua chioma: a ogni
movimento, lanciavano lampi. Era un mucchio di disegni d’Ivor, - schizzi
dell’al di là, fatti durante le sue escursioni spiritiche attraverso l’altro mondo.
Dietro ogni disegno era scritto un titolo descrittivo: «Ritratto d’un angelo, 15

107
marzo 1920»; «Creature astrali che giocano, 3 dicembre 1919»; «Gruppo
d’anime avviate a una Sfera superiore, 21 maggio 1921».
Prima d’esaminare il disegno “al recto”, ella volgeva il foglio per leggere
il titolo. Ad onta di tutti i suoi sforzi, e ne aveva fatti di molto grandi,
Priscilla non era mai riuscita ad avere delle visioni e a stabilire la minima
comunicazione col mondo degli spiriti. Doveva contentarsi d’esaminare i
“reportages” degli altri.
- Dove sono gli altri? - domandò alzando il capo, quando Denis entrò
nella camera.
Egli spiegò. Anne era andata a letto. Ivor e Mary erano ancora in
giardino. Prese un libro e una poltrona comoda e tentò, per quanto glielo
permetteva il turbamento del suo spirito, di adattarsi a passare leggendo il
resto della sera. La luce della lampada era serena; nessun movimento,
eccezion fatta per quelli di Priscilla tra le sue carte. «Tutti silenziosi; che il
diavolo se li porti tutti…» si ripeteva Denis; «se li porti tutti.»
Non fu che un’ora dopo che Mary e Ivor comparvero.
- Abbiamo aspettato il sorgere della luna, - disse Ivor.
- Era gobba, sapete, - spiegò Mary, tecnica e scientifica.
- Com’è bello il giardino! Gli alberi, il profumo dei fiori, le stelle… - e
Ivor descrisse una curva. - Quando la luna è sorta, è stato troppo. Ho pianto.
Sedette al piano e l’aprì.
- C’erano una quantità di meteoriti, - disse Mary a chi voleva ascoltarla.
- La terra entra appunto nella loro pioggia estiva. In luglio e in agosto…
Ma Ivor toccava già i tasti. Suonava il giardino, le stelle, il profumo dei
fiori, la luna che sorge. Arrivò sino a ficcarci un usignolo che non c’era.
Mary guardava e ascoltava, con le labbra socchiuse. Gli altri proseguivano
nelle loro occupazioni senza aver l’aria d’essere molto disturbati. In quello
stesso giorno di luglio, esattamente trecentocinquant’anni prima, sir
Ferdinando aveva mangiato sette dozzine d’ostriche. Questa scoperta
procurava a Henry Wimbush un piacere particolare. Egli possedeva una
naturale devozione che lo spingeva a indulgere nella celebrazione di feste
commemorative. Il trecentocinquantesimo anniversario delle sette dozzine
d’ostriche…
Perché non lo aveva saputo prima di pranzo? Avrebbe fatto portare lo
“champagne”.
Prima d’andare a letto, Mary fece una visita. La camera era buia, ma
Anne non dormiva ancora.

108
- Perché non è scesa con noi in giardino? - domandò Mary.
- Sono cascata e ho preso una storta. Denis mi ha aiutato a rincasare.
Mary era piena di compassione. Nel suo intimo, essa provò un certo
sollievo apprendendo che l’assenza di Anne si poteva facilmente spiegare.
Laggiù, nel giardino, essa aveva avuto un vago sospetto; un sospetto, senza
saper bene di che; ma v’era stato qualcosa di losco nel modo con cui ella
s’era trovata sola, improvvisamente, con Ivor.
Non che ne fosse contrariata, anzi. Ma le era sgradevole pensare d’esser
forse rimasta vittima d’un tiro combinato.
- Spero che domani starà meglio! - disse, poi espresse la sua
commiserazione per Anne e per tutto quello che essa aveva perduto, - il
giardino, le stelle, il profumo dei fiori, i meteoriti e la loro pioggia estiva, la
luna e la sua gobba. E poi essa aveva avuto una conversazione molto
interessante. Su che argomento? Su quasi tutti gli argomenti: natura, arte,
scienza, poesia, le stelle, lo spiritismo, le relazioni dei sessi, la musica e la
religione. Ivor, a suo giudizio, aveva uno spirito interessante.
Le due ragazze si separarono con affetto.

109
18.

La chiesa cattolica più vicina era a oltre venti miglia di distanza: Ivor,
ch’era puntuale nelle sue devozioni, fece colazione presto; alle dieci meno un
quarto l’automobile l’attendeva dinanzi alla porta, pronta a partire. Era una
macchina lussuosa ed elegante, verniciata in giallo limone e con le
imbottiture in cuoio verde smeraldo. V’erano due posti - tre, stringendosi
molto - e i viaggiatori erano protetti dal vento, dalla polvere e dalle
intemperie da una capote incerata che s’alzava, elegante gobba settecentesca,
a metà della vettura.
Mary non aveva mai assistito a una funzione cattolica; pensò che sarebbe
stata un’esperienza interessante, e perciò quando l’automobile passò il largo
cancello del cortile, essa occupava il posto libero sotto la capote. La tromba
del leone marino ruggì, sempre più debolmente, ed essi sparirono.
Nella chiesa protestante parrocchiale di Crome, il signor Bodiham
predicava sul primo libro dei Re (6, 18): «E il legno di cedro, ch’era nella
Casa, era intagliato di coloquintide, e di fiori aperti; ogni cosa era di cedro,
né si vedeva alcuna pietra», - sermone d’un interesse locale immediato. Da
un paio d’anni il problema del monumento ai Caduti teneva desti gli spiriti
di quegli abitanti di Crome che avevano abbastanza tempo, o energia
mentale, o spirito di corpo, per pensare a cose di questo genere. Henry
Wimbush propendeva per una biblioteca, una biblioteca di letteratura locale,
fornita di storie della Contea, di antiche carte del distretto, di monografie
sulle antichità locali, di dizionari dialettali, di manuali di geologia locale e di
storia naturale.
L’idea dei villici che, ispirati da quelle letture, si sarebbero messi a fare
escursioni in massa nel pomeriggio della domenica in cerca di fossili e di
frecce di pietra, lo esaltava. Quanto a quegli stessi villici, essi si battevano
per un serbatoio commemorativo e delle condutture d’acqua. Ma il gruppo
più attivo ed eloquente era dell’opinione del signor Bodiham, e chiedeva
qualche cosa di carattere religioso, - un nuovo portale al cimitero, per

110
esempio, una vetrata, un monumento in marmo o, se era possibile, queste tre
cose riunite.
Nondimeno nulla era ancora stato eseguito, da un lato perché il Comitato
per il monumento ai Caduti non era riuscito a mettersi d’accordo, e,
dall’altro, ragione più importante questa, per il fatto che le sottoscrizioni
avevano portato troppo poco denaro per l’esecuzione di uno qualsiasi dei
progetti. Ogni tre o quattro mesi il signor Bodiham pronunciava un sermone
su tale argomento. L’ultimo era stato pronunciato in marzo; era tempo che la
congregazione ricevesse un nuovo appello.
«E il legno di cedro, ch’era nella Casa, era intagliato di coloquintide, e di
fiori aperti…»
Il signor Bodiham sfiorò appena l’argomento del tempio di Salomone. Di
qui, passò ai templi e alle chiese in genere. Qual era il carattere di questi
monumenti dedicati a Dio? Era manifestamente, dal punto di vista umano, la
loro assoluta inutilità. Erano dei monumenti senza utilità «intagliati di
coloquintide, e di fiori aperti». Salomone avrebbe potuto costruire una
biblioteca. C’era qualche cosa che meglio si confacesse al più sapiente degli
uomini? Avrebbe potuto scavare un serbatoio. C’era qualche cosa che
potesse dimostrarsi più utile in una città arida come Gerusalemme? Egli non
fece né l’una cosa né l’altra; egli costruì una casa tutta intagliata, inutile e
priva di scopi materiali. Perché? Perché egli dedicava l’opera sua a Dio.
S’era parlato assai in Crome del monumento ai Caduti. Un monumento ai
Caduti era, per la sua stessa natura, un monumento dedicato a Dio. Era una
prova di gratitudine perché questo primo stadio della futura guerra mondiale
era stato coronato dal trionfo della giustizia; e, nello stesso tempo, era
un’implorazione concreta, tangibile, affinché Dio non ritardasse la venuta di
Cristo, che solo poteva recare la pace finale. Una biblioteca, un serbatoio? Il
signor Bodiham condannò con disprezzo e indignazione queste idee. Erano,
quelle, opere dedicate agli uomini, non al Signore. Intese come monumenti
ai Caduti, esse erano assolutamente illogiche. Si era parlato anche d’un
nuovo portale al cimitero; questo era un oggetto che rispondeva
perfettamente alla definizione d’un monumento per i Caduti; un’opera
inutile, dedicata a Dio e intagliata. Per vero dire, ne esisteva già uno. Ma
nulla era più facile che aprire un secondo ingresso al cimitero. E un secondo
ingresso avrebbe richiesto un nuovo portale. S’erano fatte altre proposte.
Vetrate, un monumento di marmo. Queste due cose erano mirabili,
soprattutto l’ultima. Urgeva ormai che il monumento ai Caduti venisse

111
innalzato. Tra non molto, forse, sarebbe stato troppo tardi. A ogni istante,
come un ladrone nella notte, Dio poteva giungere. C’era tuttavia una
difficoltà. I fondi erano insufficienti.
Ognuno avrebbe dovuto sottoscrivere nella misura delle sue possibilità.
Era logico che chiunque aveva perduto un parente in guerra sottoscrivesse
una somma pari a quella che avrebbe speso per il funerale, se quel parente
fosse morto in casa. Una dilazione più lunga minacciava d’essere disastrosa.
Il monumento ai Caduti doveva essere elevato subito. Egli fece appello al
patriottismo e ai sentimenti cristiani di tutti i suoi ascoltatori.
Henry Wimbush rincasò a piedi pensando ai libri che avrebbe regalato
alla biblioteca commemorativa, se mai fosse stata fondata. Prese per un
sentiero che attraversava i campi; era più piacevole della strada.
Presso la prima barriera nella siepe, un gruppo di contadini era riunito;
giovani zotici, tutti vestiti di quel nero orribile che tramuta le domeniche e i
giorni festivi inglesi in giorni di lutto, i quali ridacchiavano senza allegria
fumando sigarette. Si scostarono per lasciar passare Henry Wimbush e
portarono la mano al berretto.
Egli rese loro il saluto; il suo volto e la sua bombetta grigia non facevano
che una cosa sola, nella loro impassibile gravità.
«Al tempo di sir Ferdinando, - egli pensò, - al tempo di suo figlio, sir
Julius, quei giovinotti avrebbero avuto i loro divertimenti domenicali, anche
a Crome, in questo Crome remoto e rustico.» Ci sarebbero stati un tiro
all’arco, un gioco di birilli, danze, divertimenti sociali ai quali essi avrebbero
preso parte come membri d’una comunità cosciente. Ora non rimaneva
niente per quella povera gente, niente all’infuori del circolo repellente creato
dal signor Bodiham, e i rari balli e concerti che egli stesso, Henry Wimbush,
organizzava. La noia, oppure i piaceri urbani della metropoli della contea;
queste erano le alternative offerte a quei poveri diavoli. I piaceri della
campagna non esistevano più; erano stati schiacciati dai Puritani.
Nel giornale di Manningham per l’anno 1600, c’era, ed egli se ne
ricordava, uno strano passo, uno stranissimo passo. Certi magistrati del
Berkshire, magistrati puritani, avevano avuto notizia d’uno scandalo.
Durante una notte d’estate, al chiaro di luna, erano partiti a cavallo in
compagnia della loro guardia civica, e sulle colline avevano sorpreso un
gruppo d’uomini e di donne che danzavano nudi tra gli ovili. I magistrati e le
guardie avevano scagliato i loro cavalli nella folla. Come dovevano essersi
vergognati, tutto a un tratto, quei poveri diavoli! E come dovevano essersi

112
sentiti inermi, così nudi, contro i cavalieri in armi e stivaloni! I ballerini
furono arrestati, fustigati ed esposti alla berlina. Le danze al chiaro di luna
erano finite. E con esse quale antico rito panico si spegneva? Questo si
chiedeva il signor Wimbush. Chi lo sa. I loro antenati avevano forse danzato
così al chiaro di luna, molto tempo prima della creazione d’Adamo e d’Eva.
Gli piaceva pensarlo. E ora era finito. Quei tristi giovinotti, se volevano
ballare, erano costretti a fare sei miglia in bicicletta per arrivare sino alla
città. La campagna era un deserto; essa mancava di vita propria e di piaceri
indigeni. I pii magistrati avevano spenta per sempre la gioiosa fiammella che
ardeva dall’inizio dei tempi.

“Sulla tomba di Tullia chiara bruciava una lampada;


immutabile da millecinquecento anni…”

Egli ripeteva entro di sé questi versi, e lo rattristava il pensiero di tutto il


passato ch’era stato ucciso.

113
19.

Il lungo sigaro d’Henry Wimbush bruciava aromaticamente. La “Storia di


Crome” giaceva sulle sue ginocchia ed egli ne volgeva le pagine.
- Non so decidermi sulla scelta dell’episodio che debbo leggervi questa
sera, - disse pensosamente. - I viaggi di sir Ferdinando non sono privi
d’interesse. Poi, naturalmente, c’è suo figlio, sir Julius.
Era lui che soffriva d’una mania per la quale era convinto che la sua
respirazione generasse delle mosche; questo finì con lo spingerlo al suicidio.
C’è anche sir Cyprian -. Volse le pagine più rapidamente. - O sir Henry. O sir
George… No, non credo che vi leggerò la loro storia.
- Ma lei deve leggerci qualche cosa, - insistette il signor Scogan, levando
la pipa di bocca.
- Credo che leggerò qualche cosa su mio nonno, - disse Henry Wimbush,
- e sugli avvenimenti che lo condussero a sposare la figlia primogenita di sir
Ferdinando.
- Bene, - disse il signor Scogan, - ascoltiamo.
- Prima di cominciare a leggere, - disse Henry Wimbush alzando la testa
di sul libro e togliendosi il “pince-nez” che aveva appena posato sul naso, -
prima di cominciare, debbo dire qualche parola preliminare intorno a sir
Ferdinando, l’ultimo dei Lapith. Alla morte del virtuoso e disgraziato sir
Hercules, Ferdinando si trovò possessore della fortuna di famiglia, molto
ingrandita grazie alla temperanza e all’economia di suo padre; quindi si
applicò al compito di dissiparla, il che fece con larghezza e giovialità. A
quarant’anni aveva mangiato e soprattutto dissipato nel bere e nell’amore
circa la metà del suo patrimonio e si sarebbe certamente sbarazzato del
rimanente nello stesso modo, se non avesse avuto la fortuna di innamorarsi
follemente della figlia del pastore, al punto di chiederne la mano. La
giovanetta accettò, e in meno di un anno divenne la padrona assoluta di
Crome e di suo marito. Una trasformazione straordinaria si verificò nel
carattere di sir Ferdinando; egli prese abitudini regolari ed econome; divenne
persino temperante, poiché non beveva che raramente più d’una bottiglia e

114
mezza di porto in un volta sola. La fortuna dei Lapith, che periclitava, prese
un nuovo vigore, e ciò a dispetto dei tempi difficili (giacché sir Ferdinando
si sposò nel 1809, nel momento più critico delle guerre napoleoniche). Una
vecchiaia prospera e dignitosa, rallegrata dallo spettacolo della crescita e
della felicità dei suoi figli - lady Lapith gli aveva già dato tre figlie, e non
v’era ragione perché non gliene desse ancora, e anche dei maschi - un
declino patriarcale verso la tomba di famiglia, sembrava ormai essere
l’invidiabile destino di sir Ferdinando. Ma la provvidenza decise
diversamente. A Napoleone, che fu causa di innumerevoli misfatti, egli
dovette, sia pure, forse, indirettamente, la morte prematura e violenta che
mise fine alla sua esistenza riformata.
«Sir Ferdinando, ch’era soprattutto un patriota, aveva adottato, dai primi
giorni del conflitto con i Francesi, un metodo affatto personale di celebrare
le nostre vittorie. Non appena la buona notizia giungeva a Londra, egli
soleva acquistare all’istante una grande quantità di liquori. Dopo di che,
saliva sulla prima diligenza che incontrasse e percorreva così l’intero paese,
proclamando il lieto messaggio a tutti quelli che incontrava per via,
raccontandolo a tutte le fermate e offrendo liquori a quanti erano disposti ad
ascoltare e a bere. Fu così che, dopo il Nilo, arrivò fino a Edimburgo. Più
tardi, quando le diligenze, coronate coi lauri del trionfo e col cipresso del
lutto, partirono con la notizia della vittoria e della morte di Nelson, egli
rimase seduto durante tutta una fredda notte d’ottobre, sul sedile della
Meteora di Norwich, con un barilotto di rhum sulle ginocchia e due casse di
vecchio brandy sotto il sedile. Questo costume gioviale fu uno di quelli
ch’egli abbandonò all’epoca del suo matrimonio. Le vittorie nella Penisola,
la ritirata di Mosca, Lipsia, l’abdicazione del tiranno, niente di tutto ciò fu
festeggiato. Accadde però che, nell’estate del 1815, sir Ferdinando
soggiornasse qualche settimana nella capitale. Giorni d’ansietà e di dubbio
s’erano alternati, quando finalmente giunse la notizia gloriosa di Waterloo.
Era troppo per sir Ferdinando; la sua gaia giovinezza si risvegliò in lui. Egli
si precipitò dal suo fornitore e acquistò una dozzina di bottiglie di brandy
1760. La diligenza di Bath stava per partire; egli riuscì a ottenere, grazie alla
sua generosità, un posto in serpa e, seduto in gloria accanto al conducente,
proclamò altissimamente la caduta del bandito corso, mentre dispensava la
calda gioia del liquido. Essi traversarono rumorosamente Uxbridge, Slough,
Maidenhead. La città di Reading, ch’era addormentata, fu risvegliata dalla
grande notizia. Nel villaggio di Didcot uno dei palafrenieri fu talmente

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commosso dalle emozioni patriottiche e dal brandy 1760 che gli fu
impossibile chiudere le fibbie dei tiranti. La notte divenne sempre più
fredda, e sir Ferdinando riconobbe che un sorso a ogni fermata non bastava
più: per conservare il suo calore vitale, fu obbligato a bere anche tra le
fermate. La diligenza si avvicinava a Swindon e correva a un’andatura
vertiginosa - sei miglia durante l’ultima mezz’ora - quando, senza avere
manifestato il minimo sintomo premonitore d’indisposizione, sir Ferdinando
rotolò giù dal sedile, a capofitto sulla strada. Un urto sgradevole risvegliò i
viaggiatori addormentati. La diligenza si fermò; la guardia corse lungo la
strada con una lanterna. Trovò sir Ferdinando ancora vivo, ma privo di
sensi; il sangue sgorgava dalla sua bocca. Le ruote posteriori gli erano
passate sul corpo, spezzandogli quasi tutte le costole e le braccia. Il cranio
era fratturato in due punti. Lo rialzarono ma egli spirò avanti che la diligenza
giungesse alla prima fermata.
«Così morì sir Ferdinando, vittima del suo patriottismo. Lady Lapith non
si rimaritò; decise di consacrare il resto della sua vita alla felicità delle sue tre
figlie: Georgiana, che aveva allora cinque anni ed Emmeline e Caroline,
gemelle di due anni.»
Henry Wimbush tacque e rimise sul naso gli occhiali.
- Questo, a mo’ d’introduzione, - disse. - Ora posso cominciare a leggere
quel che riguarda mio nonno.
- Un momento, - disse il signor Scogan, - mi lasci empire la pipa -.
Il signor Wimbush attese. Seduto in disparte, in un angolo della camera,
Ivor mostrava a Mary i suoi disegni medianici. Essi chiacchieravano sotto
voce. Il signor Scogan aveva riacceso la pipa.
- Cominci pure, - disse.
E il signor Wimbush cominciò:
«Nella primavera del 1833 mio nonno, George Wimbush, fece la
conoscenza delle “tre belle Lapith”, com’era d’uso chiamarle. Egli era a
quell’epoca un giovanotto di ventidue anni, coi capelli biondi e ricciuti e il
viso roseo e liscio, specchio d’uno spirito giovanile e ingenuo. Era stato
educato ad Harrow e a Christ Church; amava la caccia e gli altri sports
all’aria aperta, e, benché il suo patrimonio fosse notevole, tale da
permettergli di condurre una vita più che agiata, i suoi piaceri erano modesti
e innocenti. Suo padre, commerciante nelle Indie Orientali, lo aveva
destinato alla carriera politica e aveva fatto spese enormi per acquistare una
graziosa piccola circoscrizione elettorale in Cornovaglia, ripromettendosi di

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farne un presente a suo figlio quando compisse i ventun’anni. Si capisce
agevolmente come egli provasse una giusta ira quando, proprio alla vigilia
della maggior età di George, il “Reform Bill” del 1832 pose fine all’esistenza
delle circoscrizioni elettorali.
L’inaugurazione della carriera politica di George dovette essere rimandata
a una data da destinarsi. Quando fece la conoscenza delle belle Lapith, egli
era in attesa; ma non si mostrava per nulla impaziente.
«“Le belle Lapith” non mancarono di far colpo su di lui. Georgiana, la
maggiore, coi suoi lunghi ricci neri, gli occhi pieni di fiamme, il nobile
profilo aquilino, il collo di cigno e le spalle spioventi, aveva uno splendore
orientale; e le gemelle, col nasino all’in su, gli occhi azzurri e i capelli
castani, formavano un paio d’identiche e affascinanti incantatrici inglesi.
Nondimeno, durante il primo incontro, la loro conversazione fu così
scoraggiante che, se non fosse stato per l’attrazione invincibile emanante
dalla loro bellezza, George non avrebbe mai avuto il coraggio di continuare
la relazione.
Le gemelle, col nasino voltato in su, guardandolo con un’aria di languida
superiorità, gli avevano domandato che cosa pensasse della poesia francese
d’avanguardia e se gli piacesse “Indiana” di George Sand. Ma assai peggiore
fu la domanda con cui iniziò la conversazione Georgiana.
«“In musica, - aveva domandato, chinandosi verso di lui e fissandolo coi
suoi grandi occhi cupi, - in musica lei è classicista o trascendentalista?”
George non aveva perso la sua presenza di spirito.
La sua conoscenza della musica era sufficiente per fargli odiare tutto
quello che veniva definito classico, così che la risposta era venuta con una
prontezza che gli aveva fatto onore:
«“Sono trascendentalista.” Georgiana aveva sorriso in modo incantevole.
«“Ne sono contenta, - aveva detto. - Anch’io sono trascendentalista. Sarà
andato a sentir Paganini la settimana scorsa, naturalmente? “La Preghiera del
Mosè”. Ah! - essa aveva chiuso gli occhi. - Conosce nulla di più
trascendente?” “No, - aveva detto George, - niente.” Era stato alquanto
esitante, sul punto di parlare, poi aveva pensato che, in fondo, fosse più
saggio tacere una cosa che, dopo tutto, era vera, e cioè che egli aveva sovra
ogni altra cosa ammirato le “Imitazioni della Fattoria”. L’artista aveva fatto
ragliare il suo violino come un asino, chiocciare come una gallina, grugnire,
urlare, abbaiare, nitrire, schiamazzare, muggire e ringhiare; e George aveva
pensato che quest’ultimo numero aveva quasi compensato la noia del resto

117
del concerto. Ricordandosene, aveva sorriso con piacere. No, decisamente
non amava il classico in musica, era un trascendentalista convinto.
«George diede un seguito a questo primo incontro, facendo visita alle
giovanette e alla loro madre, che, durante la stagione elegante, occupavano
una casa piccola ma graziosa nei dintorni di Berkeley-Square. Lady Lapith
fece qualche piccola, discreta indagine; quando si fu accertata che la
posizione finanziaria di George era, come il suo carattere e la sua famiglia,
passabilmente buona, lo invitò a pranzo.
Essa sperava che ciascuna delle sue tre figliole avrebbe sposato un pari;
ci contava: ma, da donna prudente qual era, sapeva che era bene prepararsi a
tutte le eventualità. George Wimbush, pensava, sarebbe stata un’ottima
seconda corda all’arco d’una delle due gemelle.
«Durante quel primo pranzo, Emmeline sedette accanto a George. Essi
parlarono della Natura. Emmeline giurò che le alte montagne erano per lei
oggetto d’emozione e il rumore delle città umane, una tortura.
George ammise che la campagna era assai gradevole, ma insistette sul
fatto che anche Londra aveva un suo particolare fascino durante la stagione
elegante. Egli notò con sorpresa e con un certo dispiacere misto di
sollecitudine che l’appetito della signorina Emmeline era scarso; anzi, che
non esisteva nemmeno. Due cucchiaiate di minestra, un boccone di pesce,
niente pollo, niente arrosto, ma tre acini d’uva, furono tutto il suo pranzo. Di
tanto in tanto egli guardava le due sorelle; Georgiana e Caroline sembravano
altrettanto parche. Con un gesto della mano allontanavano quel che veniva
loro offerto e avevano sul volto un’espressione di delicato disgusto;
chiudevano gli occhi e distoglievano il viso dai cibi ch’erano pregate
d’accettare, come se la sogliola al limone, l’anitra, il filetto di vitello e le
paste alla crema fossero oggetti tali da offendere la vista e l’odorato. George,
che trovava il pranzo eccellente, s’arrischiò a commentare la mancanza di
appetito delle tre sorelle.
«“Di grazia, non mi parli di mangiare, - disse Emmeline languida come
una pianticella sensitiva. - Noi tutte troviamo che è cosa tanto grossolana,
così poco spirituale! Non si può certo pensare alla propria anima mentre si
sta mangiando”.
«George annuì; non avrebbe potuto fare diversamente.
«“Ma bisogna pur vivere”, disse.
«“Ahimè! - sospirò Emmeline. - Bisogna vivere. La morte è molto bella,
non le pare?” Poi spezzò un cantuccio di pane abbrustolito e si mise a

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rosicchiarlo languidamente.
«“Ma poiché, come lei dice, bisogna vivere… - e fece un piccolo gesto di
rassegnazione. - Per fortuna basta ben poco per serbarci in vita”. Posò il
cantuccio di pane rosicchiato a metà. George la guardava con una certa
sorpresa. Era pallida, ma tuttavia egli pensò che aveva l’aria di godere d’una
eccellente salute; e così le sue sorelle. Certo a essere veramente spirituali, si
aveva bisogno di meno cibo. Per conto suo, egli non era punto spirituale;
questo era evidente.
«In seguito, le rivide con frequenza. Piaceva a tutte quante, lady Lapith
compresa. In verità, egli non era né molto romantico, né molto poetico; ma
era un giovanotto simpatico, così semplice e buono che non si poteva fare a
meno di volergli bene. Quanto a lui, le trovava meravigliose, meravigliose
tutte, ma, soprattutto, Georgiana. Egli le circondava tutte quante d’una
affezione calda e protettrice. Poiché avevano bisogno di protezione; erano
troppo deboli, troppo eteree per questo mondo. Non mangiavano mai, erano
sempre pallide, si lamentavano spesso di avere la febbre, parlavano molto e
con diletto della morte; di sovente svenivano. Georgiana era la più eterea di
tutte; era quella che mangiava meno, parlava più spesso della morte e più
spesso sveniva; era anche la più pallida - d’un così stupefacente pallore che
lo si sarebbe detto artificiale. In ogni istante essa poteva sciogliere i legami
precari che la legavano a questo mondo materiale e diventar tutta spirito.
Questo pensiero era per George una continua agonia. Se essa fosse morta…
«Ella fece in modo di vivere tutta la stagione, e ciò a dispetto dei
numerosi balli, delle riunioni brillanti e delle altre partite di piacere alle quali
non trascurava mai d’assistere in compagnia degli altri membri
dell’affascinante terzetto. Verso la metà di luglio, tutta la famiglia si recò in
campagna. George fu invitato a passare il mese d’agosto a Crome.
«La società era distinta; sulla lista degli invitati figuravano i nomi di due
giovanotti titolati, maritabili. George aveva sperato che l’aria della
campagna, il riposo, la natura circostante valessero a rendere alle tre sorelle
l’appetito e le rose del volto. S’ingannava.
La prima sera, a pranzo, Georgiana non mangiò che un’oliva, due o tre
mandorle salate e mezza pesca. Era più pallida del solito. Durante il pranzo,
parlò d’amore.
«“L’amore vero, - disse, - essendo infinito ed eterno, non può essere
consumato che nell’eternità. Indiana e sir Rodolphe celebrarono le nozze
mistiche delle loro anime lanciandosi nel Niagara. L’amore è incompatibile

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con la vita. Il desiderio di due cuori che si amino veramente, non è vivere
insieme, ma morire insieme.”
«“Suvvia, suvvia, cara, - disse lady Lapith robusta e pratica. - Che cosa
avverrebbe della generazione successiva, se tutti seguissero i vostri
principi?”
«“Mammà!…” protestò Georgiana, e abbassò gli occhi.
«“Nella mia giovinezza, - continuò lady Lapith, - se avessi detto una cosa
simile mi sarei fatta ridere dietro. Ma, quand’ero giovane io, l’anima non era
di moda, come ora, e noi non pensavamo menomamente che la morte fosse
poetica! Era semplicemente sgradevole.”
«“Mammà!” implorarono all’unisono Emmeline e Caroline.
«“Quand’ero giovane io, se non si mangiava, ci si sentiva dire che si
aveva bisogno d’una dose di rabarbaro. Oggi…” S’udì un grido: Georgiana
era svenuta sulla spalla di lord Timpany. Era un espediente disperato, ma
riuscì: lady Lapith tacque.
«I giorni passavano in una monotona ghirlanda di piaceri. Solo George,
in mezzo a quella gaia compagnia, era triste. Lord Timpany faceva la corte a
Georgiana, ed era chiaro che non era sgradito. George guardava e la sua
anima era un inferno di gelosia e di disperazione. La turbolenta compagnia
dei giovani gli divenne intollerabile; egli la fuggì, cercando le tenebre e la
solitudine. Una mattina in cui, con un pretesto qualsiasi, aveva piantato i
suoi coetanei, tornò solo a casa.
I giovanotti stavano facendo il bagno nel laghetto del parco; i loro gridi e
le loro risa salivano verso di lui, rendendo la casa più solitaria e silenziosa.
Le graziose sorelle e la loro madre erano ancora nei propri appartamenti;
generalmente non si facevano vedere prima del “lunch”, di modo che gli
uomini potevano disporre della mattinata. George sedette nel vestibolo e si
abbandonò ai suoi pensieri. Da un momento all’altro ella poteva morire; da
un momento all’altro ella poteva diventare lady Timpany. Era terribile,
terribile. Se fosse morta, sarebbe morto anche lui e sarebbe andato a cercarla
oltre la tomba. Se fosse divenuta lady Timpany… Ah! Allora!
La soluzione del problema non sarebbe più stata tanto semplice. Se fosse
diventata lady Timpany… era un pensiero orribile. Ma, infine, supponendo
che amasse Timpany - benché fosse incredibile che qualcuno potesse amare
Timpany - supponendo che la sua vita dipendesse da Timpany, che ella non
potesse vivere senza Timpany… Egli camminava tentoni in quel labirinto di
supposizioni senza uscita, quando l’orologio suonò dodici colpi. All’ultimo

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colpo, simile a un automa mosso da un meccanismo d’orologeria, una
piccola cameriera, recando un largo vassoio coperto, uscì bruscamente dalla
porta che conduceva dalle regioni della cucina nel vestibolo. Dalla sua
profonda poltrona, George l’osservava (quanto a lui, era evidente, rimaneva
invisibile) con un’oziosa curiosità. La ragazza attraversò la sala trotterellando
e si fermò di fronte a quella che pareva una serie ininterrotta di pannelli.
Stese la mano e, con grande stupore di George, una piccola porta si aprì,
lasciando scorgere i primi gradini d’una scala a chiocciola. Volgendosi da un
lato per far passare il vassoio nella stretta apertura, la piccola cameriera vi si
infilò col movimento rapido d’un granchio. La porta si richiuse dietro di lei
con uno scatto. Di lì a un minuto, essa si riaprì, e la cameriera, senza il
vassoio, attraversò rapidamente il vestibolo e scomparve in direzione della
cucina. George tentò di riannodare i capi del suo pensiero, ma una
invincibile curiosità attirava il suo spirito verso la porta segreta, la scala, la
cameriera.
«Invano cercò di persuadersi che la cosa non lo riguardava e che
esplorare i segreti di quella porta sorprendente e della scala misteriosa
sarebbe stato un atto d’imperdonabile volgarità e d’indiscrezione.
«Tutto invano. Per cinque minuti lottò eroicamente con la sua curiosità,
ma, alla fine, si trovò ritto dinanzi alla superficie innocente dei pannelli
attraverso la quale era sparita la piccola cameriera. Una sola occhiata bastò
per rivelargli la posizione della porta segreta, segreta solo per chi la
guardasse con occhio distratto.
Era una porta ordinaria, tagliata nel pannello. Né una serratura né una
maniglia ne rivelavano l’esistenza, ma un saliscendi discreto, incassato nel
legno, invitava ad aprire. George stupì di non averlo notato prima; ora che
l’aveva veduta, la porta gli appariva evidentissima, come la porta del
ripostiglio nella biblioteca, con le sue file di libri finti. Aprì e gettò
un’occhiata dentro. La scala, i cui gradini erano fatti non di pietra, ma di
blocchi di vecchia quercia, si perdeva, girando a chiocciola, verso l’alto. Un
finestrino a feritoia vi dava luce; egli si trovava ai piedi della torre centrale, e
il finestrino dava sulla terrazza; laggiù, i giovanotti gridavano ancora e
facevano dei tuffi nello stagno.
«George chiuse la porta e tornò alla propria poltrona. Ma la sua curiosità
non era soddisfatta. Al contrario, quella soddisfazione parziale non aveva
fatto altro che stuzzicare il suo appetito. Dove conduceva la scala? Che
commissione eseguiva la piccola cameriera?

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Questo non lo riguardava, si ripeté, non erano affari suoi. Cercò di
leggere, ma non riusciva a concentrarsi. Mezzogiorno e un quarto suonò
all’armonioso orologio. George, prendendo una improvvisa risoluzione, si
alzò, attraversò la camera, aprì la porta nascosta e si mise a salire la scala.
Passò dinanzi al primo finestrino, continuò a salire e giunse dinanzi al
secondo. Si fermò un momento per guardare; il suo cuore batteva in modo
sgradevole, come se egli stesse affrontando un pericolo sconosciuto. Si
diceva che quel che stava facendo non era degno d’un gentiluomo, che stava
dando prova d’una pessima educazione.
Ma continuava a salire in punta di piedi. Ancora un giro, mezzo giro e
una porta gli si parò dinanzi. Si fermò, ascoltò; non udì alcun rumore.
Accostò l’occhio alla serratura e non vide niente, se non un pezzo di parete
bianca soleggiata. Reso ardito, girò la maniglia e varcò la soglia. E, allora, si
fermò, pietrificato da quel che vedeva, muto, con la bocca spalancata.
«In mezzo a una graziosa stanza piena di sole (- Oggi è il “boudoir” di
Priscilla, - notò il signor Wimbush tra parentesi), c’era una tavola rotonda di
mogano. Nelle sue lucide profondità si rispecchiavano il cristallo, la
porcellana, l’argenteria, tutto il brillante apparato d’un pranzo elegante. La
carcassa di un pollo, una coppa di frutta, un grosso prosciutto, fortemente
intaccato nel suo cuore roseo e bianco, la palla da cannone scura d’un
“plum-pudding” freddo, una svelta bottiglia di Mosella e una boccia piena di
claretto facevano ai gomiti per trovare posto su quella festosa tavola, intorno
alla quale, le tre sorelle, le tre graziose Lapith mangiavano!…
«All’arrivo improvviso di George, esse avevano voltato tutte la testa
verso la porta; e adesso erano pietrificate dallo stesso stupore che teneva
George inchiodato al pavimento, con lo sguardo fisso.
Georgiana, seduta proprio di faccia alla porta, fissava su di lui due occhi
cupi ed enormi. Essa teneva tra il pollice e l’indice della mano destra un’ala
di pollo; il mignolo, elegantemente curvato, rimaneva separato dal resto della
mano. La bocca era aperta, ma l’ala di pollo non aveva avuto tempo di
raggiungere la sua destinazione; essa rimaneva sospesa, gelata, nell’aria. Le
due altre sorelle s’erano voltate per guardare l’intruso. Caroline aveva
ancora in mano il coltello e la forchetta; le dita d’Emmeline stringevano lo
stelo d’un calice pieno di vino. Durante un certo tempo che parve assai
lungo, George e le tre sorelle si guardarono fissamente in silenzio. Era un
gruppo di statue. Poi, improvvisamente, qualcosa si mosse. Georgiana lasciò
cadere l’ala di pollo; il coltello e la forchetta di Caroline tintinnarono sul

122
piatto. Il movimento si propagò, si fece più decisivo; Emmeline balzò in
piedi di scatto cacciando un grido.
L’ondata di panico raggiunse George; egli girò sui tacchi e, mormorando
parole inintelligibili, si slanciò fuori della stanza e si precipitò giù per la scala
a chiocciola. Si fermò nel vestibolo, e là, solo solo nella casa silenziosa, si
mise a ridere.
«A colazione fu notato che le tre sorelle mangiavano un po’ più del
solito. Georgiana assaggiò qualche fagiolino alla francese e inghiottì un
cucchiaio di gelatina di piede di vitello. “Oggi, mi sento un po’ più forte, -
disse a lord Timpany, che si congratulava con lei per l’accresciuto appetito; -
un po’ più materiale”, aggiunse, con una risatina nervosa. Levando il capo,
incontrò lo sguardo di George; il rossore coprì le sue guance, ed essa girò
vivamente gli occhi da un’altra parte.
«Nel pomeriggio, in giardino, essi si trovarono soli per un momento.
«“Lei non lo dirà a nessuno, George? Mi prometta che non lo dirà a
nessuno! - implorò essa. - Ci renderebbe così ridicole. E, d’altronde,
mangiare è così poco spirituale, non è vero? Mi dica che non lo racconterà a
nessuno!”
«“Sì, - rispose George brutalmente, - lo dirò a tutti, a meno che…”
«“E’ un ricatto!”
«“Non me ne importa nulla, - disse George. - Le do ventiquattr’ore per
decidersi”.
«Lady Lapith fu delusa, naturalmente; aveva sperato di meglio - Timpany
e una corona. Ma, in fondo, George non era da buttar via. Le nozze si fecero
coll’anno nuovo.»
- Il mio povero nonno! - aggiunse il signor Wimbush chiudendo il libro
e levandosi gli occhiali. - Ogni volta che, nei giornali, leggo qualche cosa
sulle nazionalità oppresse, penso a lui.
Riaccese il sigaro.
- Fu un governo matriarcale fortemente centralizzato e privo di organi
rappresentativi.
Henry Wimbush smise di parlare. Nel silenzio che seguì il commento
mormorato da Ivor sui disegni medianici si rifece percettibile.
Priscilla, che s’era assopita, si risvegliò di soprassalto.
- Che cosa? - domandò con l’aria spaventata d’una persona che
riacquista gli spiriti. - Che cosa?

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Jenny afferrò le sue parole. Alzò la testa, sorrise, fece un segno
rassicurante.
- Si tratta di un prosciutto, - disse.
- Che cosa c’entra il prosciutto?
- C’entra in quello che Henry ha letto.
Chiuse il quaderno rosso che aveva sulle ginocchia e lo legò con un
elastico.
- Vado a dormire, - annunciò; e si alzò.
- Anch’io, - disse Anne sbadigliando. Ma non aveva energia sufficiente
per alzarsi dalla poltrona.
La notte era calda e soffocante. Le tende pendevano lungo le finestre,
inerti. Ivor facendosi vento col ritratto d’una creatura astrale guardò fuori,
nelle tenebre, e respirò forte.
- L’aria è come di lana, - dichiarò.
- Dopo mezzanotte farà più fresco, - disse Henry Wimbush; e,
prudentemente, aggiunse: - Forse.
- E’ certo che non dormirò.
Priscilla girò la testa nella sua direzione; la monumentale pettinatura
oscillava in modo esagerato al più piccolo movimento.
- Bisogna sforzarsi, - diss’ella. - Quando non posso dormire, concentro
la mia volontà; dico: «Voglio dormire, dormo!» e, puff, sono addormentata.
E’ la forza del pensiero.
- E le riesce anche nelle notti afose? - domandò Ivor. - Nelle notti afose
io non posso dormire.
- Neanche io, - disse Mary, - tranne che all’aperto.
- All’aperto! Che idea meravigliosa.
Alla fine, decisero di dormire sulle torri: Mary sulla torre ovest, Ivor
sulla torre est. Su ciascuna torre c’era una piattaforma; non sarebbe stato
impossibile far passare un materasso attraverso le botole che davano accesso
a quelle piattaforme. Certo, sotto le stelle, sotto la luna gibbosa, avrebbero
dormito. I materassi furono portati lassù, le lenzuola e le coperte furono
stese, e, in capo a un’ora, quei due esseri nervosi, ciascuno sulla propria
torre, si gridavano la buona notte attraverso l’abisso che li separava.
La magia narcotica dell’aria aperta, non agì nel modo sperato su Mary.
Ad onta del materasso, non si poteva fare a meno di accorgersi che la
piattaforma era dura. Poi s’udirono dei rumori: i gufi ululavano senza posa,
e, improvvisamente, risvegliate da un misterioso terrore, tutte le oche della

124
fattoria furono prese da una subitanea frenesia e si misero a gridare. Le stelle
e la luna gibbosa volevano esser guardate, e quando un meteorita aveva
tracciato il suo solco nel cielo, non si poteva fare a meno di attendere il
seguente, all’agguato, con gli occhi spalancati. Il tempo passò; la luna salì
sempre più alta nel cielo. Mary aveva meno sonno di quando si era istallata
in cima alla torre. Si levò a sedere e guardò di sopra al parapetto. «Sarà
riuscito a addormentarsi, Ivor?» si chiese. E, come in risposta, da dietro i
comignoli, all’estremità del tetto, emerse silenziosamente una forma bianca;
una forma che, al chiaro di luna, era riconoscibile per quella di Ivor. Simile
a un equilibrista sulla corda, le braccia aperte e tese, egli cominciò a
camminare sulla cresta dei tetti. Avanzava oscillando spaventosamente. Mary
guardava, muta: forse Ivor camminava nel sonno? Supponiamo che egli si
svegli all’improvviso! Se essa avesse parlato, se avesse fatto un gesto, forse
avrebbe causato la morte del giovanotto. Non osò più guardare e si lasciò
andare sui cuscini. Ma ascoltava intensamente. Per un tempo che parve
interminabile non vi fu il più piccolo rumore. Poi, uno scricchiolio di piedi
sulle tegole, seguito da un fruscio e da un «Acc…!» mormorato. E,
improvvisamente, la testa e le spalle di Ivor apparvero al disopra del
parapetto. Seguì una gamba, poi un’altra. Egli era sulla piattaforma. Mary
fece finta di svegliarsi di soprassalto.
- Oh! - disse. - Cosa fa qui?
- Non potevo dormire, - egli spiegò, - allora ho pensato di venire a
vedere se lei dormiva. Ci si annoia a star soli in cima a una torre, non trova?
Il giorno spuntò verso le cinque. Nuvole lunghe e strette sbarravano
l’oriente; i loro contorni brillavano d’uno strano fuoco arancione. Il cielo era
pallido e acquoso. Cacciando il grido funereo d’un’anima in pena, un
pavone mostruoso si alzò pesantemente nell’aria, atterrò sul parapetto della
torre. Ivor e Mary si svegliarono completamente.
- Afferralo! - gridò Ivor, saltando. - Avremo una piuma -. Il pavone,
terrorizzato, andava e veniva sul parapetto in preda a una angoscia assurda,
facendo inchini, oscillando e chiocciando. La sua lunga coda ondeggiava
pesantemente, mentre egli si girava a destra e a manca.
Poi, con un battito d’ali e un frufrù di piume, si slanciò nell’aria e
discese con le ali aperte, magnifico nella sua riacquistata dignità.
Ma egli aveva lasciato un trofeo. Ivor aveva la sua piuma, un occhio
dalle lunghe ciglia, verde violetto azzurro e oro. La tese alla sua compagna.
- Una piuma d’angelo! - disse.

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Mary la osservò un istante, gravemente, intensamente. Il suo pigiama
viola la vestiva con un’ampiezza che nascondeva le linee del corpo; le dava
l’aria d’un grosso giocattolo, morbido, senza giunture, una specie di
fantoccio - ma un fantoccio con una testa d’angelo, guance rosa e, per
chioma, una campana d’oro. Un volto d’angelo, la piuma di un’ala
d’angelo… L’atmosfera di quell’aurora aveva qualcosa di angelico.
- E’ una cosa straordinaria pensare alla selezione sessuale, - disse
finalmente, smettendo di guardar la piuma miracolosa.
- Straordinario! - ripeté Ivor. - Io scelgo te, tu scegli me. Che fortuna!
Circondò con le braccia le spalle di Mary; immobili, contemplarono
l’oriente. Il primo raggio di sole aveva cominciato a scaldare e a colorare la
pallida luce dell’alba. Pigiama bianco, pigiama viola, erano coppia giovane e
graziosa. Il sole levante toccava i loro volti.
Tutto ciò era estremamente simbolico; ma in fondo, se ci pensate bene,
non c’è niente al mondo che non sia simbolico. Oh, bella e profonda verità!
- Debbo tornare nella mia torre, - disse finalmente Ivor.
- Diggià?
- Disgraziatamente. Il servidorame tra poco sarà alzato.
- Ivor! …
Vi fu un addio prolungato, silenzioso.
- E ora, - disse Ivor, - ricomincia il numero dell’equilibrista sulla corda.
Mary gli circondò il collo con le braccia.
- Non devi, Ivor. E’ pericoloso. Ti prego.
Egli dovette finire col cedere alle sue preghiere.
- Bene, - disse, - scenderò in casa e risalirò dall’altra parte.
Attraverso la botola disparve nelle tenebre che ancora regnavano nella
casa con tutte le persiane chiuse. Un minuto dopo, riapparve sull’altra torre.
Fece un segno con la mano, sprofondò dietro il parapetto e scomparve.
Dalle profondità della casa salì l’esile tintinnio d’una sveglia, simile al ronzio
d’una vespa. Ivor se ne era andato appena in tempo.

126
20.

Ivor era partito. Coricato indolentemente dietro il parabrezza della sua


vettura gialla, stava attraversando come un turbine l’Inghilterra rurale.
Appuntamenti sociali e amorosi del carattere più urgente lo sospingevano di
salotto in salotto, di castello in castello, da un maniero elisabettiano a una
casa georgiana, per tutto il territorio del regno. Oggi nel Somerset, domani
nel Warwickshire, sabato a West-Riding, martedì mattina ad Argyll: Ivor non
si riposava mai. Durante tutta l’estate, dall’inizio del luglio alla fine di
settembre, si consacrava ai suoi impegni mondani; ne era il martire. In
autunno tornava a Londra e si permetteva un po’ di vacanza. Crome era stato
un piccolo episodio, bolla di sapone evanescente sul fiume della sua vita, era
già il passato. Per il tè contava di essere a Gobley, dove avrebbe trovato il
sorriso di benvenuto di Zenobia. E giovedì mattina… Ma quello era un
futuro molto lontano. Egli avrebbe pensato a giovedì mattina quando
giovedì mattina fosse arrivato. Frattanto, c’erano Gobley e Zenobia.
Nel libro dei visitatori, a Crome, Ivor aveva lasciato secondo un suo
costume invariabile in quelle occasioni, una poesia. L’aveva magistralmente
improvvisata nei dieci minuti che avevano preceduta la partenza. Denis e il
signor Scogan tornavano insieme, lemme lemme, dal cancello del cortile,
dove gli avevano dato gli ultimi saluti; sul tavolo del vestibolo trovarono il
libro aperto e la composizione d’Ivor appena asciutta. Il signor Scogan lesse
ad alta voce:

“E la magia dei re nei tempi immemorabili


Avvolgendo di fascini la coppa della notte
Sonnecchia ancor nel seno delle cose incorrotte:
Sui monti Acrocerauni, sovra il pallido mare, Del folgorante insetto
sull’ala auricolare, Nelle visioni orgiastiche d’un triste anacoreta, In tutto ciò
che cantando vola e volando canta, Nel pianto, nella pioggia e in delicato
piacere.
Ma qui di mille streghe la tregenda s’inizia

127
Che tessono sull’anima mia triste una magia
Più possente.
Campane, in dolce litania
Mi richiamano a Crome, che, fulgida necropoli, Popolata di spettri
d’assai remoti popoli, M’ossessiona.
Il destino m’è crudele, ché lunge
Da Crome, ahimè! di Crome strano desio mi punge.”

- Molto grazioso, di molto buon gusto, molto delicato, - disse il signor


Scogan quand’ebbe finito. - Le sole cose che mi preoccupino sono le ali
auricolari dell’insetto. Lei ha un’intima conoscenza del modo con cui lavora
il cervello d’un poeta, Denis; forse lei può spiegarmi…
- Che cosa c’è di più semplice? - disse Denis. - E’ una bella parola, e Ivor
desiderava esprimere che le ali della farfalla sono dorate.
- Lei rende questo passaggio luminosamente chiaro.
- E’ una tal sofferenza, - continuò Denis, - il fatto che le parole non
significhino sempre quello che dovrebbero significare. Non è molto, per
esempio, che io ebbi tutta una poesia rovinata dal fatto che «carminativo»
non significa quello che dovrebbe significare. Carminativo, è una parola
adorabile, non è vero?
- Magnifica, - acconsentì il signor Scogan. - E che cosa significa?
- E’ una parola che tenevo in serbo gelosamente dalla mia più tenera
infanzia, - disse Denis. - Tesoreggiata e amata. Quando avevo un raffreddore
mi davano dell’olio di cannella - una cosa affatto inutile, ma non sgradevole.
Era versato a gocce da certe piccole bottigliette, liquore d’oro, aspro e
ardente. Sull’etichetta erano enumerate le sue virtù, tra cui quella d’essere
carminativo al massimo grado. Quella parola mi piaceva. «Com’è
carminativo», dicevo tutte le volte che ne prendevo. Quella parola pareva
esprimere così bene quel senso di calore interno, quel fuoco, quella - come
dire? - soddisfazione fisica che seguiva l’ingerimento d’una pozione di
cannella. Più tardi, quando scoprii l’alcool, la parola «carminativo» mi servì
a descrivere quell’ardore simile, ma più nobile, più spirituale, ch’evoca il
vino, non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Le virtù carminative del
borgogna, del rhum, del vecchio brandy, del lachryma-christi, del marsala,
dell’aleatico, dello stout del gin, dello champagne, del bordeaux, del vino
nuovo delle vendemmie toscane, io le paragonavo, le classificavo. Il marsala
è d’un carminativo rosa e soffice, il gin punge e rinfresca riscaldando.

128
Avevo tutta una tabella dei valori carminativi. E ora… - Denis distese le
mani, con le palme aperte, avvilito. - Ora so che cosa carminativo significhi
realmente.
- Ebbene, che cosa significa? - domandò il signor Scogan, un po’
spazientito.
- Carminativo, - disse Denis attardandosi amorosamente sulle sillabe, -
carminativo. Io pensavo vagamente che ciò avesse qualche relazione con
“carmen-carminis”, o, più vagamente ancora, con “caro-carnis” e i suoi
derivati, come carnevale e carnagione. Carminativo… idea di canto, idea di
carne, rosa e calda, evocazione di gioie della mezza quaresima e delle feste
mascherate di Venezia. Carminativo… calore, ardore, intima fioritura, tutto
era in questa parola. Invece…
- Torniamo a bomba, mio caro Denis, - protestò il signor Scogan. -
Torniamo a bomba.
- Ebbene, l’altro giorno stavo scrivendo una poesia, - disse Denis, - una
poesia sugli effetti dell’amore.
- L’hanno fatto anche altri prima di lei, - disse il signor Scogan. - Non c’è
da vergognarsene.
- Io volevo esprimere l’idea, - continuò Denis, - che gli effetti dell’amore
sono sovente simili a quelli del vino, e che Eros ci ubriaca quanto Bacco.
L’amore, per esempio, è essenzialmente carminativo. Ci dà un senso di
calore, di scottatura.

“E’ la passione come vino carminativo”…

- Ecco quello che avevo scritto. Non solo il verso era elegantemente
sonoro, mi lusingavo anche che fosse abile succinto e espressivo. Tutto era
nella parola “carminativo”, primo piano esatto, particolareggiato, e uno
sfondo immenso, indefinito, pieno di suggestione.

“E’ la passione come vino carminativo”…

- Ero piuttosto contento di me stesso. E poi, d’un tratto, mi venne in


mente che non avevo mai controllato quella parola su un dizionario.
«Carminativo» era cresciuto con me dai tempi della bottiglietta d’olio di
cannella. L’avevo sempre data per scontata. Carminativo, per me era una

129
parola così ricca di contenuto quanto una qualche formidabile, elaborata
opera d’arte; un paesaggio completo con figure.

“E’ la passione come vino carminativo”…

- Per la prima volta affidavo questa parola alla scrittura, e,


improvvisamente, sentii la necessità d’un’autorità lessicologica. Non avevo
sottomano che un piccolo dizionario francese-italiano. Lo sfogliai: “C, ca,
car, carm”. Ecco: “Carminatif: lassativo. Lassativo”! - ripeté.
Il signor Scogan rideva. Denis scosse il capo.
- Ah! - disse. - Per me non c’era da ridere. Per me, questo segnava la
fine d’un capitolo, la morte d’una cosa giovane e preziosa. Tutti gli anni
d’infanzia e di innocenza, durante i quali avevo creduto che carminativo
significasse… significasse carminativo. E ora, dinanzi a me si stende il resto
della vita - un giorno, forse, dieci anni, mezzo secolo - durante il quale saprò
che carminativo significa lassativo.

“Plus ne suis ce que j’ai été


Et ne le saurai jamais être.”

- E’ una verità che ci rende piuttosto melanconici.


- Carminativo, - disse il signor Scogan pensoso.
- Carminativo, - ripeté Denis; e tacquero un momento.
- Le parole, - disse finalmente Denis, - le parole… Io mi chiedo se lei
possa capire come io le ami. Lei è troppo preoccupato delle cose e delle idee
e della gente per capire tutta la bellezza delle parole. Il suo spirito non è uno
spirito letterario. Lo spettacolo del signor Gladstone che trova trentaquattro
rime al nome di Margot, le sembra soprattutto patetico. Le buste di Mallarmé
e i loro indirizzi in versi la lasciano freddo, seppure non le fanno pietà; lei
non può capire come questo, per esempio, sia un piccolo miracolo:

“Apte à ne point te cabrer, hue!


Poste, et j’ajouterai, dia!
Si tu ne fuis onze-bis Rue
Balzac, chez cet Hérédia.”

- Ha ragione, - disse il signor Scogan. - Non posso.

130
- Non sente ch’è magico?
- No!
- E’ la pietra di paragone del temperamento letterario, - disse Denis: - il
senso della magia; il senso che le parole hanno un potere. La parte tecnica e
verbale della letteratura è semplicemente lo sviluppo d’una magia. Il verbo è
la prima e più grandiosa invenzione dell’uomo.
Col linguaggio egli creò tutto un universo nuovo: niente di strano ch’egli
amasse le parole e attribuisse loro un potere. Con parole armoniose e
appropriate, i maghi facevano uscire conigli da cappelli vuoti e spiriti dagli
elementi. I loro discendenti, che sono i letterati, continuano il procedimento
mescolando le loro formule verbali e tremando di gioia e di timore dinanzi al
potere dell’incanto trovato. Conigli fuor dai cappelli vuoti? No, i loro
incantamenti son più sottili più possenti, perché evocano emozioni in
cervelli vuoti.
Formulate dalla loro arte, le più insipide verità prendono un significato
enorme. Per esempio, entrando in una camera buia, io esprimo la
constatazione: «e vengo in parte ove non è che luca». Un truismo, una verità
sulla quale sarebbe inutile insistere, se dovessi formularla con parole come:
«entro in una camera senza luce». Ma poiché io l’esprimo così: «e vengo in
parte ove non è che luca», questa verità, a dispetto del suo carattere
lapalissiano, diviene significativa, indimenticabile, commovente. La
creazione, attraverso la potenza del Verbo, di qualche cosa fuor dal nulla -
che altro è la magia? E, aggiungiamo, che altro è la letteratura? La metà della
più sublime poesia del mondo è: «entro in una camera senza luce»,
trasformato in significato magico dicendo: «e vengo in parte ove non è che
luca». E lei non può apprezzar le parole? Mi dispiace per lei.
- Un carminativo mentale, - disse il signor Scogan pensieroso. - Ecco di
che cosa ha bisogno lei.

131
21.

Sollevato sui suoi quattro funghi di pietra, il piccolo granaio sovrastava


di circa un metro il recinto verdeggiante. Sotto di esso regnava un’ombra
perpetua e una mèsse d’erbe lunghe e lussureggianti.
Una famiglia di anitre bianche aveva cercato, nell’ombra e nella verde
frescura, un rifugio contro il sole del pomeriggio. Qualcuna, in piedi, si
spollinava; altre riposavano, col ventre appoggiato, premuto contro il
terreno, come se l’erba verde fosse acqua. Piccole chiacchiere sociali
scoppiavano di tanto in tanto; qualche volta una piccola coda puntuta
eseguiva un tremolo alla Liszt. Improvvisamente il loro riposo gioviale fu
interrotto. Un colpo prodigioso scosse il pavimento sopra le loro teste; tutto
il granaio tremò; piccoli frammenti di sudiciume e di legno putrido caddero
come una pioggia intorno alle anitre. Con dei quà, quà, quà lunghi e
continui, esse si precipitarono fuori da quella minaccia senza nome e non
rallentarono la loro corsa se non quando furono al sicuro nel cortile.
- Non si arrabbi, - diceva Anne. - Senta! Ha fatto paura alle anitre.
Povere bestiole! Lo credo bene.
Era seduta di traverso su una bassa sedia di legno. Il gomito destro era
appoggiato sullo schienale, e la mano sopportava il peso della guancia. Il
lungo corpo flessuoso s’abbandonava in curve d’una grazia indolente.
Sorrideva e fissava Gombauld con gli occhi socchiusi.
- Vada all’inferno! - ripeté Gombauld, pestando il piede una seconda
volta. Le gettò un’occhiata furibonda al di là del ritratto incompiuto sul
cavalletto.
- Povere anitre! - ripeté Anne.
Il rumore dei loro quà, quà, quà s’udiva debolmente in lontananza;
diventava impercettibile.
- Non vede che mi fa perdere il tempo? - disse lui. - Non posso lavorare
con lei d’attorno.
- Perderebbe meno tempo se smettesse di parlarmi e di pestare i piedi, e
se, per cambiare, si mettesse a dipingere un poco. Dopo tutto, perché crede

132
che le stia d’attorno se non perché lei mi faccia il ritratto?
Gombauld fece udire un rumore che somigliava a un grugnito.
- Lei è detestabile, - disse con convinzione. - Perché mi invita a venir
qui? Perché mi dice che le piacerebbe che le facessi il ritratto?
- Per la semplicissima ragione che lei mi è simpatico, almeno quando è di
buon umore, e che la ritengo un buon pittore.
- Per la semplicissima ragione, - Gombauld imitava la sua voce, - che lei
desidera ch’io le faccia la corte per avere, quando mi decida a fargliela, il
piacere di respingermi.
Anne gettò indietro la testa e rise.
- Allora lei crede che io mi diverta a respingere le sue profferte! Ecco
l’uomo! Se sapesse come sono grossolani gli uomini, come sono sgradevoli,
noiosi quando cercano di farci la corte e noi non ne abbiamo voglia! Se vi
poteste vedere coi nostri occhi!
Gombauld raccolse la tavolozza, i pennelli e si rimise al lavoro con
l’ardore dell’irritazione.
- Suppongo che tra poco lei dirà di non essere stata la prima a
cominciare questo piccolo gioco, che sono stato io a fare i primi passi e che
lei è la vittima innocente, che se ne stava quieta e non faceva nulla per
invitarmi o attirarmi.
- Ecco ancora l’uomo! - disse Anne. - Sempre la solita storia della donna
che tenta l’uomo. La donna attira, affascina, invita, e l’uomo, nobile e
innocente, è la sua vittima. Mio povero Gombauld! Vuol proprio cantare
questo vecchio ritornello? E’ così poco intelligente, e io credevo davvero che
lei fosse un uomo di buon senso.
- Grazie, - disse Gombauld.
- Sia un po’ obiettivo, - continuò Anne. - Non vede che non fa altro che
esteriorizzare le sue emozioni? Ed è quello che voi uomini fate sempre; è
d’una ingenuità così barbara. Voi sentite uno dei vostri pazzi desideri per una
donna, e poiché la desiderate avidamente, l’accusate subito di tendervi
l’esca, di provocare e di accendere deliberatamente il vostro desiderio. Voi
avete la mentalità dei selvaggi. Sarebbe lo stesso che dire che un piatto di
fragole alla panna eccita deliberatamente la vostra ghiottoneria. In
novantanove casi su cento, le donne sono altrettanto passive e innocenti
delle fragole alla panna.
- Tutto quel che posso dire, allora, è che lei è il centesimo caso, - disse
Gombauld senza guardarla.

133
Anne alzò le spalle ed emise un sospiro.
- Io mi chiedo se lei sia più sciocco o più maleducato.
Dopo aver dipinto qualche tempo in silenzio, Gombauld ricominciò a
parlare:
- E Denis? - disse riannodando la conversazione come se fosse stata
interrotta allora allora. - Anche con lui lei gioca lo stesso gioco. Perché non
lo lascia in pace, quel povero ragazzo?
Anne si accese d’un’improvvisa, incontrollabile ira.
- Non è vero per quel che riguarda Denis, - disse indignata. - Non m’è
passato mai per la testa di giocare con lui quello che lei graziosamente
chiama lo stesso gioco.
Poi, riacquistando la propria calma, aggiunse con la sua voce da tortora
che tuba e con un sorriso esasperante:
- Lei si mette dunque improvvisamente a proteggere il povero Denis.
- Sì, - rispose Gombauld con una gravità un po troppo solenne. - Non
posso vedere un ragazzo…
- … trascinato alla rovina, - disse Anne, continuando la frase. - Ammiro
i suoi sentimenti e, mi creda, li condivido.
Era singolarmente irritata per quel che Gombauld aveva detto di Denis…
Era così ingiusto. Gombauld poteva avere qualche piccola ragione di
rimproverarla. Ma Denis no, essa non aveva mai civettato con Denis. Povero
ragazzo! Era così carino. Ella si fece pensierosa.
Gombauld continuava a dipingere con furia. Il nervosismo d’un
desiderio insoddisfatto che poco prima aveva sconvolto il suo spirito
rendendogli impossibile il lavoro, pareva essersi convertito in una specie
d’energia febbrile. Diceva a se stesso che, una volta finito, quel ritratto
sarebbe stato una cosa diabolica. Egli la ritraeva nella posa che essa aveva
assunto naturalmente alla prima seduta. Seduta di profilo, il gomito sullo
schienale della sedia, la testa e le spalle rivolte a lui, che facevano un angolo
col resto del corpo, ella s’era lasciata andare in un atteggiamento d’indolente
abbandono. Egli aveva accentuato le curve pigre del suo corpo; le linee
s’ammollivano sulla tela, la grazia del ritratto si fondeva in una specie di
dolce decomposizione. La mano sul ginocchio era molle come un guanto.
Ora egli lavorava al volto. Questo cominciava a emergere dalla tela, volto di
bambola regolare e distratto. Era proprio il volto d’Anne, ma affatto
sprovvisto della luce interiore del pensiero e del sentimento.

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Era la maschera pigra e senza espressione, in cui talvolta si mutava il suo
volto. Era un ritratto terribilmente somigliante, e, nello stesso tempo, era la
più crudele delle menzogne. «Sì, quando sarà finito, sarà una cosa
diabolica», si disse Gombauld. E si chiese che cosa ne avrebbe pensato lei.

135
22.

Per godere un po’ di tranquillità e di pace, quel pomeriggio, Denis, s’era


ritirato più presto del solito nella sua camera. Voleva lavorare, ma l’ora era
letargica, e la colazione, consumata poco prima, pesava gravemente sul
corpo e sullo spirito. Il demone meridiano era su di lui; egli era in preda a
quella melanconia postprandiale, annoiata e priva di speranza, che i cenobiti
d’altri tempi conoscevano e temevano col nome di “accidia”. Egli si sentiva,
come Ernest Dowson, «un po’ stanco». Era in vena di scrivere qualche cosa
di squisito, di dolce e pacificatore, qualche cosa che fosse a un tempo un po’
abbandonato e, come dire?, un po’ infinito. Pensava ad Anne, all’amore
senza speranza, inaccessibile. Forse era questo il genere dell’amore ideale, il
genere senza speranza, il genere tranquillo e teorico dell’amore. In quel triste
umore proveniente dalla pienezza del corpo, egli poteva crederlo. Si mise a
scrivere.
Una quartina elegante era già uscita dalla sua penna:

“Amor secreto, dentro il cuor ascoso,


Raggio di luna rapido, furtivo,
Fantasma esangue, troppo misterioso,
Sovra un corpo a metà soltanto vivo,”

quando la sua attenzione fu attratta da un rumore che veniva di fuori.


Guardò dalla finestra. Erano loro, Anne e Gombauld, che parlavano e
ridevano insieme. Attraversarono il cortile e sparirono oltre il cancello di
destra. Era la strada del recinto verde e del granaio; essa andava ancora a
posare per lui. La sua malinconia, così soavemente triste, si dissipò in un
soffio d’emozione violenta; furioso, gettò la quartina nel cestino e scese gli
scalini a quattro a quattro.
- Raggio di luna furtivo, veramente!
Nel vestibolo vide il signor Scogan; il brav’uomo pareva in agguato.

136
Denis cercò di sfuggirgli, ma invano. L’occhio del signor Scogan brillava
come l’occhio del Vecchio Marinaio.
- Non corra, - disse stendendo una piccola mano di sauriano dalle unghie
puntute, - non corra. Io me ne vado proprio in giardino a prendere un po’ di
sole. Andremo insieme.
Denis si abbandonò; il signor Scogan mise in testa il cappello e insieme
uscirono a braccetto. Sull’erba rasata della terrazza, Henry Wimbush e Mary
facevano una solenne partita di croquet. Camminarono lungo il viale dei
tassi. Qui, pensava Denis, qui Anne era caduta, qui egli l’aveva baciata, qui -
e arrossì di una vergogna retrospettiva ricordandoselo - qui egli aveva
tentato di portarla, e non c’era riuscito. Oh! la vita era spaventosa.
- La ragione! - disse il signor Scogan, rompendo improvvisamente un
lungo silenzio. - La ragione, ecco di che soffro io, ed ecco di cosa soffrirà
anche lei, caro Denis, quando sarà abbastanza vecchio per essere saggio o
pazzo. In un mondo ragionevole io sarei un grand’uomo; ma, così come
stanno le cose, in questa curiosa organizzazione, non sono niente del tutto; io
non esisto addirittura. Non sono che “vox et praeterea nihil”.
Denis non rispose; pensava ad altre cose. «Dopo tutto, - si diceva, - dopo
tutto, Gombauld è più bello di me, più divertente, più disinvolto; inoltre, è
già qualcuno e io invece sono ancora allo stato potenziale…»
- Tutto quel che si fa a questo mondo è fatto dai pazzi, - continuò il
signor Scogan.
Denis si sforzava di non ascoltare, ma l’insistenza infaticabile del signor
Scogan vinse per gradi la sua attenzione.
- Uomini come me, e come lei può diventare, non hanno mai fatto nulla.
Noi abbiamo la capacità di giudicare troppo sanamente; noi non siamo
che ragionevoli. Noi manchiamo di quel non so che d’umano, della mania
entusiasta che forza ad agire. Le folle consentono ad ascoltare il filosofo per
divertirsi, nello stesso modo che ascolterebbero un suonatore di cornamusa
o un ciarlatano. Ma quanto ad agire seguendo i consigli degli uomini
ragionevoli, questo mai. Ogni volta che ha dovuto scegliere tra l’uomo
ragionevole e il pazzo, il mondo ha sempre seguito il pazzo senza esitare.
Perché il pazzo lusinga quello che è fondamentale nell’uomo, le passioni e
gli istinti; la filosofia non si rivolge che a ciò ch’è superficiale e superfluo: la
ragione.
Entrarono nel giardino; all’angolo d’uno dei viali c’era una panca di
legno verde, incastrata come una baia in un fragrante continente di cespugli

137
di lavanda. Qui benché il luogo fosse privo d’ombra e vi si respirassero
caldi e secchi profumi invece d’aria, qui il signor Scogan scelse il suo
seggio. Egli prosperava in pieno sole.
- Consideri, per esempio, il caso di Lutero e di Erasmo -. Prese la pipa e
cominciò a colmarla parlando. - Erasmo, uomo ragionevole se mai ve ne
furono. Da principio venne ascoltato come un nuovo virtuoso di quello
strumento elegante e pieno di possibilità che si chiama intelletto; si arrivò ad
ammirarlo e a venerarlo. Ma riuscì egli a far agire la gente come pensava che
dovesse agire, e cioè ragionevolmente, decentemente, o, nel peggiore dei
casi, un po’ meno villanamente del solito? No. Poi appare Lutero, violento,
appassionato, un pazzo, follemente convinto di cose per le quali non vi può
essere convinzione. Urlò, e la gente si precipitò in folla dietro di lui.
Erasmo non fu più ascoltato; fu maledetto perché era ragionevole.
Lutero era serio; Lutero, era la realtà, come la Grande Guerra. Erasmo
non era che ragione e decenza; siccome era un saggio, gli mancava il potere
di spingere gli uomini all’azione. L’Europa seguì Lutero, e s’imbarcò in un
secolo e mezzo di guerre e di persecuzioni sanguinose.
E’ una storia melanconica.
Il signor Scogan accese un fiammifero. Nella luce intensa, la fiamma era
quasi invisibile. L’odore del tabacco bruciato si mischiò alle fragranze
agrodolci della lavanda.
- Se lei vuole che gli uomini agiscano ragionevolmente, bisogna che li
persuada in modo demente. I più saggi precetti dei fondatori di religione non
si propagano che attraverso entusiasmi che appaiono deplorevoli per un
uomo di spirito sano. E’ veramente umiliante pensare come sia impotente la
ragion pura. La ragione, per esempio, ci dice come il solo mezzo che noi
abbiamo di conservare la civiltà sia quello d’agire decentemente e
intelligentemente. La ragione dialoga e argomenta; i nostri governanti
perseverano nella loro abituale balordaggine e noi approviamo e obbediamo.
La sola speranza è in una crociata di pazzia; io sono pronto, per il giorno in
cui avrà luogo, a battere il tamburo con quelli che faranno più rumore; ma,
facendolo, avrò un po’ di vergogna per me stesso. Nondimeno… - Il signor
Scogan alzò le spalle, e, con la pipa in mano, fece un gesto di rassegnazione,
- … è vano lamentarsi delle cose perché esse sono quello che sono. Non è
meno vero che la ragione, abbandonata a se stessa, è inefficace. Quello di
cui abbiamo bisogno è dunque uno sfruttamento sano e ragionevole delle

138
forze della follia. Pure, saremo noi, noi che sappiamo giudicare sanamente,
ad avere un giorno il potere.
Gli occhi del signor Scogan brillarono d’insolita luce ed egli, levandosi la
pipa di bocca, scoppiò nella sua forte, secca e quasi diabolica risata.
- Ma io non desidero il potere, - disse Denis.
Seduto scomodamente sull’orlo della panca, cercava di proteggersi gli
occhi contro l’intollerabile luce. Il signor Scogan, seduto rigidamente
all’altro capo, si rimise a ridere.
- Tutti desiderano il potere, - disse. - Il potere, sotto una forma o sotto
un’altra. Il potere cui aspira lei è il potere letterario.
Certuni desiderano il potere per tormentare altri esseri umani; lei sfoga la
sua concupiscenza di potere torturando le parole, torcendole, plasmandole,
sino a che le obbediscano. Ma io divago…
- Davvero? - domandò debolmente Denis.
- Sì, - continuò il signor Scogan, distratto. - Il momento verrà. Noi,
uomini intelligenti, impareremo a imbrigliare la follia per metterla al servizio
della ragione. Noi non possiamo più lasciare per molto tempo il mondo sotto
la direzione del caso. Noi non possiamo permettere che pazzi pericolosi
come Lutero, pazzo di dogmi, come Napoleone, pazzo di se stesso,
continuino ad apparire di tanto in tanto per mettere tutto a soqquadro. Nel
passato tutto ciò non aveva grande importanza; ma la nostra macchina
moderna è troppo delicata.
Ancora qualche colpo come la Grande Guerra, ancora uno o due Luteri,
e tutta la sua economia sarà distrutta. Nell’avvenire gli uomini ragionevoli
devono fare in modo che la follia dei maniaci mondiali sia incanalata in tubi
adatti, affinché sia utile, come il torrente della montagna che mette in azione
la dinamo…
- … la quale fa l’elettricità che illumina un hotel svizzero, - disse Denis. -
Dovrebbe completare la metafora.
Con un gesto della mano il signor Scogan allontanò l’interruzione.
- Non v’è che una sola cosa da fare, - disse. - Gli uomini intelligenti
devono unirsi, debbono cospirare per strappare il potere agli imbecilli e ai
pazzi che ci governano. Essi debbono fondare il Governo Razionale.
Il calore che paralizzava lentamente tutte le facoltà mentali e fisiche di
Denis, sembrava recare al signor Scogan una vitalità addizionale. Egli
parlava con energia sempre maggiore; le sue mani si movevano con gesti
secchi, vivi e precisi; i suoi occhi ardevano.

139
Dura, secca, continua, la sua voce risonava incessantemente all’orecchio
di Denis con l’insistenza d’un rumore meccanico.
- Nel Governo Razionale, - diceva il signor Scogan, - gli esseri umani
saranno divisi in specie distinte, non secondo il colore dei loro occhi e la
forma del loro cranio, ma secondo le qualità del loro spirito e del loro
temperamento. Esperti psicologi, dotati d’una penetrazione che oggi
parrebbe sovrumana, esamineranno ogni bambino all’atto della nascita e gli
assegneranno la specie cui dovrà appartenere. Debitamente munito di una
etichetta e d’un foglio di riconoscimento, il bimbo riceverà l’educazione
propria agli individui della sua specie, e, una volta che sia diventato adulto,
gli verranno affidate le funzioni cui saranno adibiti gli uomini della sua
varietà.
- Quante specie vi saranno? - domandò Denis.
- Molte, senza dubbio, - rispose il signor Scogan. - La classificazione sarà
sottile e complicata. Ma i profeti non debbono entrare in particolari; questo
non li riguarda. Io non farò che indicare le tre specie generali tra le quali
saranno divisi i soggetti del Governo Razionale.
S’interruppe, si schiarì la voce, tossì una volta o due, evocando nello
spirito di Denis la visione d’una tavola con un bicchiere e una caraffa
d’acqua, e, in un angolo, il lungo indicatore bianco per le proiezioni.
- Le tre specie principali, - proseguì il signor Scogan, - saranno le
seguenti: le Intelligenze dirigenti, gli Uomini di Fede e il Gregge.
Tra le Intelligenze figureranno tutti quelli che sono capaci di pensare,
quelli che sanno come si raggiunga un certo grado di libertà - è, ahimè,
quanto sia limitata anche tra i più intelligenti, questa libertà! - in mezzo alla
schiavitù mentale della propria epoca. Un corpo scelto tratto dalle
Intelligenze che si saranno consacrate ai problemi della vita pratica sarà alla
testa dello Stato Razionale.
Esso impiegherà come istrumenti di potere la seconda grande specie
d’umanità, gli Uomini di Fede, i Pazzi, come li ho chiamati, i quali credono
alle cose irragionevolmente, con passione, e son pronti a morire per la loro
fede e per i loro desideri. Questi pazzi, col loro terribile potenziale sia di
bene che di male, non potranno più reagire a caso su un ambiente formato a
caso. Non ci saranno più dei Cesari Borgia, dei Luteri, dei Maometti, né delle
Giovanne d’Arco, o dei Tolstòj; il vecchio Uomo di Fede e d’Impulso,
creatura del caso nata dalle sole circostanze, che potrebbe spingere gli
uomini alle lacrime e al pentimento come a tagliarsi scambievolmente la

140
gola, sarà sostituito da una nuova specie di pazzo, esteriormente simile a
quelli, traboccante dello stesso entusiasmo spontaneo, ma quanto diverso dal
Pazzo dei tempi antichi! Perché il nuovo Uomo di Fede impiegherà la sua
passione, il suo desiderio, il suo entusiasmo alla propagazione di un’idea
ragionevole. A sua insaputa egli sarà lo strumento d’una volontà superiore.
Il signor Scogan rideva sotto i baffi; pareva prendesse, in nome della
ragione, la sua rivincita sugli entusiasti.
- Sin dalla loro più tenera età, non appena il giurì di psicologi avrà loro
assegnato il posto adatto nello schema delle classificazioni, gli Uomini di
Fede saranno sottoposti a una educazione speciale sotto gli occhi delle
Intelligenze. Formati con un lungo processo di suggestioni, essi andranno
per il mondo predicando e praticando con una generosa follia i progetti
freddamente ragionevoli degli alti Dirigenti. Quando questi progetti saranno
attuati o quando le idee, utili nel decennio precedente avranno cessato
d’esser tali, le Intelligenze ispireranno a una nuova generazione di pazzi una
nuova Verità eterna. La funzione principale degli Uomini di Fede, sarà quella
di commuovere e di dirigere la moltitudine, questa terza grande specie, la
quale comprenderà gli innumerevoli milioni di quelli che mancano
d’intelligenza e del prezioso entusiasmo. Quando si vorrà ottenere dal
Gregge uno sforzo particolare, quando si giudicherà necessario, con uno
scopo di solidarietà, infiammare e unire l’umanità nell’ardore d’un desiderio
o di una idea unica, in quel determinato momento gli Uomini di Fede,
preparati, muniti d’un credo semplice e soddisfacente, saranno inviati in
missione; essi diffonderanno il nuovo vangelo. In tempi ordinari, allorché
l’alta temperatura spirituale d’una crociata sarà giudicata malsana, gli Uomini
di Fede saranno occupati, in calma e serietà, alla grande opera
dell’insegnamento. Nell’educazione del Gregge verrà sfruttata
scientificamente la suggestionabilità quasi illimitata dell’umanità.
Sistematicamente, dalla loro più tenera infanzia, ai membri del Gregge
verrà insegnato che non può esservi felicità se non nel lavoro e
nell’obbedienza. Si farà creder loro che sono felici, che sono creature di
un’enorme importanza, e che tutto quello ch’essi fanno è nobile e
significativo. Per uso delle specie inferiori, la Terra verrà ristabilita nel
centro dell’universo, e all’uomo verrà reso il primo posto sulla Terra. Oh!
Come invidio la sorte degli uomini comuni nello Stato Razionale!
Lavorando otto ore al giorno, obbedendo ai loro superiori, convinti della
propria grandezza, della propria importanza e della propria immortalità, essi

141
saranno meravigliosamente felici, più felici di quanto sia stata qualsiasi altra
razza umana. Essi traverseranno la vita in un gioioso stato d’ebbrezza, dal
quale non si sveglieranno mai. Gli Uomini di Fede reciteranno la parte di
coppieri in questo perpetuo baccanale; empiranno continuamente le coppe di
quel caldo liquore che le Intelligenze, nel loro triste e sobrio ritiro dietro le
scene, distilleranno per l’ebbrezza dei loro soggetti.
- E quale sarà il mio posto nello Stato Razionale? - chiese languidamente
Denis dietro le mani con cui si faceva ombra agli occhi.
Il signor Scogan l’osservò un momento in silenzio.
- E’ difficile vedere a che cosa lei possa essere adatto, - disse alla fine. -
Lei è incapace d’un lavoro manuale; lei è troppo indipendente e refrattario
alla suggestione per far parte del Grande Gregge; lei non ha nessuna delle
caratteristiche richieste per far l’Uomo di Fede.
Quanto alle Intelligenze dirigenti, esse dovranno essere
meravigliosamente chiare, spietate e penetranti.
S’interruppe e scosse il capo.
- No, non vedo nessun posto che le si addica; per lei non vedo che la
morte, procurata senza dolore.
Profondamente offeso, Denis fece udire l’imitazione d’una larga risata
omerica.
- Sto per prendere un colpo di sole, - disse; e si alzò.
Il signor Scogan seguì il suo esempio, ed essi camminarono lentamente
per lo stretto sentiero, sfiorando, nel loro passaggio, i fiori azzurri della
lavanda. Denis ne colse un ramo e lo odorò; e raccolse anche qualche cupa
foglia di rosmarino che spandeva lo stesso odore dell’incenso in una chiesa
cavernosa. Passarono presso una aiuola di papaveri oppiacei, ormai privi di
petali; le teste rotonde, mature, piene di semi, erano brune e secche «come
trofei polinesiani», pensò Denis. Questa immagine gli piacque al punto che
la comunicò al signor Scogan. «Come trofei polinesiani.» Espressa ad alta
voce, questa fantasia pareva meno bella e meno significativa che nel
momento in cui gli era venuta in mente.
Ci fu un silenzio, poi, in un’onda sonora dilatantesi, il canto delle
mietitrici s’alzò dai campi vicini, per tornare ad affievolirsi in un lontano
murmure.
- E’ una soddisfazione pensare, - disse il signor Scogan mentre
camminavano pian piano tutti e due, - che una quantità di gente lavora alla
mietitura affinché noi si possa parlare della Polinesia. Come ogni altra cosa

142
buona al mondo, i comodi e la cultura si pagano. Per fortuna quelli che
devono pagare non sono gli oziosi e i colti.
Conviene esserne profondamente riconoscenti, mio caro Denis!
Profondamente riconoscenti! - ripeté scotendo la cenere della pipa.
Denis non ascoltava. Improvvisamente s’era ricordato di Anne. Essa era
con Gombauld, sola con lui nello studio. Era un pensiero intollerabile.
- Vogliamo fare una visita a Gombauld? - suggerì con aria indifferente. -
Sarebbe divertente vedere che cosa fa.
E rise dentro di sé pensando che Gombauld, vedendoli arrivare, sarebbe
stato furibondo.

143
23.

Gombauld non fu tanto furibondo al loro apparire, come Denis aveva


sperato in anticipo. Al contrario, quando le due facce, una bruna e aguzza,
rotonda e pallida l’altra, apparvero nell’apertura della porta, fu più contento
che seccato. L’energia nata dalla sua irritazione nervosa s’andava calmando,
ritornando ai suoi elementi emotivi. Ancora un momento, ed egli si sarebbe
di nuovo arrabbiato mentre Anne sarebbe rimasta nella sua calma
esasperante. Sì, era veramente contento di vederli.
- Entrate, entrate, - disse ospitale.
Seguito dal signor Scogan, Denis s’arrampicò per la piccola scala e varcò
la soglia. Guardò con sospetto Gombauld e la sua modella e non riuscì ad
apprendere niente dall’espressione dei loro volti, se non che entrambi erano
contenti della visita. Erano veramente contenti, oppure, con astuzia,
simulavano la gioia? Denis se lo chiese.
Frattanto il signor Scogan guardava il ritratto.
- Eccellente, - disse approvando, - eccellente. Sinanche troppo fedele al
carattere, se è possibile. Sì, positivamente troppo fedele. Ma sono stupito di
vederla mettere tanta psicologia in un ritratto.
Indicò il volto e col dito seguì le curve stanche del dipinto.
- Io pensavo che lei fosse uno di quei pittori che non s’occupano che
dell’equilibrio delle masse e dei piani.
Gombauld si mise a ridere.
- E’ una piccola infedeltà, - disse.
- Lo rimpiango, - disse il signor Scogan. - Io, benché non abbia mai
avuta la minima idea in fatto di pittura, ho sempre preso un piacere
particolare al cubismo. Mi piace vedere quadri dai quali la natura è stata
bandita completamente, quadri che sono esclusivamente il prodotto dello
spirito umano. Essi mi dànno lo stesso piacere d’un bel ragionamento o d’un
problema di matematica o d’un bel lavoro di meccanica. La natura, e tutto
quello che mi richiama a essa, mi turba; è troppo grande, troppo complicata,
e, soprattutto, troppo vana e incomprensibile. Colle opere degli uomini, mi

144
sento più a mio agio; se mi ci voglio applicare, io posso capire tutto quello
che l’uomo ha fatto o pensato. Per questo, se è possibile, viaggio sempre in
metropolitana e mai in autobus. Perché viaggiando in autobus non si può
fare a meno di vedere, anche a Londra, qualche opera di Dio sparsa qua e là:
il cielo, per esempio, un albero qualche volta, dei fiori alle finestre. Ma
viaggiando in metropolitana non si veggono che le opere dell’uomo - ferri
congiunti in forme geometriche, linee diritte di cemento armato, distese di
tegole a mosaico. Tutto ciò è umano; è il prodotto di spiriti amici e
comprensibili. Tutte le filosofie e tutte le religioni, che altro sono se non
delle metropolitane spirituali scavate attraverso l’universo? In quelle gallerie
strette, dove tutto è manifestamente umano, si viaggia comodamente e
sicuramente, e si fa in modo di dimenticare che intorno, al di sopra e al di
sotto, si stende la massa cieca della terra, infinita e inesplorata. Sì, a me la
metropolitana e il cubismo, a me le idee chiare, lineari, semplici e ben fatte.
E dispensatemi dalla natura, dispensatemi da tutto quello ch’è
disumanamente grande, complicato e oscuro. Io non ho il coraggio, e
soprattutto, non ho il tempo di mettermi a passeggiare in quel labirinto.
Mentre il signor Scogan discorreva, Denis era andato all’altro capo della
piccola stanza quadrata, là dove Anne era seduta, ancora in quel suo pigro e
aggraziato atteggiamento, sulla sedia bassa.
- Ebbene? - le domandò, guardandola quasi ferocemente.
Di che le serbava rancore? Lo sapeva appena egli stesso. Anne alzò gli
occhi verso di lui e, per tutta risposta, gli disse:
- Ebbene? - con un tono diverso, un tono ridente. Ora Denis non aveva
più niente da dire. Due o tre tele erano in un angolo, dietro la sedia di Anne,
voltate contro il muro. Egli le prese e cominciò a guardare i quadri.
- Posso vedere anch’io? - domandò Anne.
Egli mise le tele in fila contro il muro. Anne dovette voltarsi sulla sedia
per guardare. C’era il grande quadro dell’uomo caduto da cavallo, poi un
piccolo paesaggio. Denis, con le mani sullo schienale della sedia, era chino
su Anne. Dietro il cavalletto, dall’altra parte della stanza, il signor Scogan
parlava sempre. Per qualche tempo, guardarono i quadri in silenzio; o,
meglio, Anne guardò le tele, mentre Denis guardava lei.
- Mi piace l’uomo e il cavallo; e a lei? - diss’ella finalmente, alzando il
capo con un sorriso interrogativo.
Denis annuì; poi con una voce strana, soffocata, come se pronunciare
quelle parole gli costasse una grande fatica, disse:

145
- Io l’amo, Anne.
Era una frase che Anne aveva sentito parecchie volte in passato e, quasi
sempre, con serenità. Ma in quell’occasione, forse perché giungeva
imprevista o per un’altra ragione qualsiasi, queste parole provocarono in lei
una certa sorpresa e una certa commozione.
- Mio povero Denis! - riuscì a dire ridendo; ma, pronunciando queste
parole, arrossì.

146
24.

Era mezzogiorno. Denis, scendendo dalla sua camera, dove s’era


inutilmente sforzato di scrivere qualche cosa su un argomento qualsiasi,
trovò la sala da pranzo deserta. Stava per dirigersi verso il giardino, quando
il suo occhio scorse un oggetto familiare benché misterioso, il grosso
quaderno rosso nel quale aveva spesso veduto Jenny scarabocchiare in fretta
e in silenzio. Essa l’aveva lasciato sul banco della finestra. La tentazione era
grande. Lo prese e fece scivolare l’elastico che lo teneva discretamente
chiuso.
«RISERVATO. NON APRIRE.» Queste parole, in lettere maiuscole,
erano scritte sulla copertina. Egli alzò le sopracciglia. Era una frase del
genere di quelle che si scrivono sulla propria grammatica latina, quando si è
ancora al ginnasio:

“La cornacchia è nera, anche il corvo è nero


Ma più nero è questo ladro del mistero.”

«Curiosamente infantile», pensò, e sorrise tra sé. Poi aprì il quaderno.


Quello che vide gli fece fare un salto, come se avesse ricevuto un colpo.
Denis era il più severo giudice di se stesso; per lo meno aveva sempre
pensato così. Amava credersi un vivisezionatore inesorabile, attento a
sondare spietatamente le profondità palpitanti della propria anima: vittima e
carnefice a un tempo. Nessuno meglio di lui conosceva le sue debolezze, le
sue assurdità, e in fondo, immaginava vagamente, che nessuno oltre lui se ne
accorgesse. Gli pareva inconcepibile, per così dire, di dover apparire agli
altri come gli altri apparivano a lui; inconcepibile che essi parlassero qualche
volta tra loro di lui con la stessa libertà critica e, confessiamolo pure, con la
stessa dolce malignità ch’egli era abituato a usare parlando di loro. Ai suoi
occhi, egli aveva dei difetti; ma quello di vederli, era un privilegio riservato a
lui solo. Per tutto il resto dell’umanità egli era senza dubbio un’immagine di
cristallo senza difetti. Questo era quasi un assioma.

147
Quando aprì il quaderno rosso, questa immagine di cristallo ch’egli s’era
fatto di se stesso cadde a terra e si infranse irreparabilmente.
Dopo tutto, non era lui, il suo giudice più severo. Questa scoperta era
penosa.
Il frutto di quelle discrete scritturazioni cui Jenny si dedicava di tanto in
tanto, era dinanzi a lui. Una caricatura di lui stesso che leggeva (il libro era
alla rovescia). In secondo piano una coppia danzava, riconoscibilissima:
Gombauld e Anne. E, sotto, come leggenda:
«Favola della volpe e dell’uva». Affascinato e inorridito, Denis esaminò
il disegno. Era tracciato con mano maestra. Un grande artista ignorato
traspariva da ciascuna di quelle linee d’una cruda esattezza.
L’espressione del volto, una superiorità voluta e distante, temperata da
una leggera invidia; l’atteggiamento del corpo e delle membra, atteggiamento
fatto di dignità studiata e accademica smentita dalla posa nervosa dei piedi
volti in dentro, tutto ciò era terribile. E ancor più terribile era la somiglianza,
la sicurezza magistrale con la quale tutte quelle particolarità fisiche erano
registrate e sottilmente esagerate.
Denis esaminò il resto del libro. V’erano caricature di altre persone: di
Priscilla e del signor Barbecue-Smith, di Henry Wimbush, di Anne e di
Gombauld, del signor Scogan, che Jenny aveva presentato sotto una luce più
che leggermente sinistra, francamente diabolica; di Mary e di Ivor. Le guardò
appena. Era preso da un terribile desiderio di vedere che cosa ci fosse di
peggio sul suo conto. Voltò le pagine, non attardandosi su nient’altro che
non fosse la sua immagine. Sette pagine intere gli erano consacrate.
«RISERVATO. NON APRIRE.» Egli aveva disobbedito a questa ingiunzione;
non aveva se non quel che si meritava. Pensosamente, chiuse il libro e
rimise l’elastico a posto.
Uscì sulla terrazza, più triste e più consapevole. «Ecco dunque, -
pensava, - come Jenny impiegava le ore nella sua torre d’avorio solitaria.»
Ed egli l’aveva creduta semplice, sprovvista d’istinto critico. L’idiota era
piuttosto lui. Egli non provava nessun risentimento contro Jenny. No, la cosa
affliggente non era Jenny, era ciò che lei col suo quaderno rosso
rappresentavano, ciò che simboleggiavano concretamente Essi
rappresentavano il vasto mondo cosciente degli uomini che lo circondavano;
simboleggiavano una cosa cui era poco incline a credere, nella sua studiata
solitudine. Egli poteva fermarsi in Piccadilly Circus, vedere la folla che si
pigia e immaginarsi, nondimeno, d’essere, tra quelle migliaia di persone, la

148
sola creatura pienamente cosciente e intelligente. Gli pareva, in qualche
modo, impossibile che gli altri fossero, a modo loro, così complicati e
completi com’egli era a modo suo. Impossibile, e, tuttavia, periodicamente
qualche penosa scoperta a proposito del mondo esterno e dell’orribile realtà
della coscienza e dell’intelligenza di quel mondo esterno. Il quaderno rosso
era una di tali scoperte, l’impronta di un piede sulla sabbia. Esso non
permetteva più di dubitare che il mondo esterno esistesse realmente.
Seduto sulla balaustra della terrazza, Denis ruminò per qualche tempo
questa sgradevole verità. Rimuginandola ancora, s’avviò pensoso verso lo
stagno. Un pavone e la sua femmina trascinavano i loro cenci multicolori sul
prato. Odiosi uccelli! I loro colli, grossi e golosamente carnosi alla base,
s’andavano assottigliando verso la crudele inanità delle loro teste senza
cervello, dei loro occhi piatti e dei loro becchi acuminati. I favolisti, pensò,
avevano ragione di prendere gli animali per illustrare i loro trattati di morale
umana.
Gli animali somigliano agli uomini, con tutta la verità d’una caricatura.
(Oh! il quaderno rosso!) Gettò un piccolo ramo ai pavoni indolenti: subito
questi si precipitarono, pensando che si trattasse di cosa commestibile.
Denis continuò la passeggiata. L’ombra profonda d’un leccio gigante
l’inghiottì. Immenso polipo di legno, l’albero stendeva i suoi tentacoli.

“Sotto i lecci protesi…”

Cercò di ricordarsi di chi fosse questa poesia, ma non ci riuscì.

Il fabbro adusto, le braccia simili a pneumatici…”

Come le sue; doveva tentare di fare più regolarmente un po’ di ginnastica


svedese.
Emerse di nuovo nel sole. Dinanzi a lui lo stagno brillava, riflettendo nel
suo specchio di bronzo l’azzurro e il verde d’un cangiante giorno d’estate.
Guardandolo, egli pensava ad Anne, alle sue braccia nude, al suo costume
da bagno lucido come una pelle di foca, ai movimenti delle sue ginocchia e
dei suoi piedi.

“Piccola Lucia dai bianchi polpacci, e saltellante Barbara…”

149
Oh! questi ritornelli che altri hanno composto! Avrebbe mai potuto dire
che il suo cervello fosse proprio suo? Conteneva qualche cosa di veramente
individuale o non era che il resultato dell’istruzione?
Camminò lentamente intorno al bacino. In una nicchia nascosta tra i
tassi, vide Mary seduta in atteggiamento pensoso, con la schiena appoggiata
al piedestallo d’una versione graziosamente comica della Venere dei Medici,
eseguita da un anonimo artigiano del seicento.
«Salve!» disse Denis, perché passava così vicino a lei che doveva dirle
qualche cosa. Mary alzò gli occhi.
«Salve!» ripeté ella con tono melanconico e indifferente.
In quell’alcova scavata tra i cupi alberi, l’atmosfera pareva a Denis
gradevolmente elegiaca. Sedette al fianco di Mary, all’ombra della dea
pudica. Vi fu un lungo silenzio.
Quella mattina, a colazione, Mary aveva trovato sul suo piatto una
cartolina illustrata con una veduta del castello di Gobley: imponente massa
in stile georgiano, file di sedici finestre sulla facciata, belle aiuole in primo
piano, prati enormi e lisci stendentisi a destra e a sinistra del quadro. Ancora
dieci anni di crisi, e Gobley, con i suoi simili, sarà deserto e cadrà in rovina.
Cinquant’anni, e la campagna ignorerà i vecchi parchi cintati. Essi
scompariranno, come prima di loro, erano spariti i monasteri. Nondimeno,
in quel momento lo spirito di Mary non era turbato da queste considerazioni.
Dietro la cartolina, a fianco dell’indirizzo, una sola quartina, scritta con la
calligrafia larga e ardita d’Ivor.

“Oh, vergine del Chiaro di Luna, salve!


Dormono ricordi dell’aurora, ricordi della notte, come piume brillanti
strappate a un volo d’angeli, del mio cuore fedele nelle mistiche grotte.”

Seguiva un postscritto di tre righe:


«Vorrebbe avere la bontà di pregare una delle cameriere di mandarmi il
pacchetto di lame per barba che ho lasciato in un cassetto della mia tavola da
toletta. Grazie, Ivor.»
Seduta sotto il gesto immemorabile di Venere, Mary rifletteva sulla vita e
sull’amore. L’abolizione delle sue repressioni, anziché portarle la pace dello
spirito tanto desiderata, non le aveva recato che inquietudine: era una pena
nuova, sino a quel giorno ignota.

150
Ivor!… Ivor!… Ora, ella non poteva più fare a meno di lui. D’altra parte
era evidente, a giudicare dal poema scritto sulla cartolina illustrata, che Ivor
poteva fare assai bene a meno di lei. Egli era a Gobley, ora; e anche Zenobia.
Mary conosceva Zenobia. Essa pensò all’ultima strofa della canzone che egli,
quella sera, aveva cantato in giardino:

“Le lendemain, Phillis peu sage


Aurait donné moutons et chien
Pour un baiser que le volage
A Lisette donnait pour rien.”

Mary versò qualche lacrima, ricordandosela; mai era stata così infelice..
Denis ruppe per primo il silenzio.
- L’individuo, - cominciò in tono sommesso e tristemente filosofico, -
l’individuo non è un universo indipendente. Vi sono momenti in cui entra in
contatto con altri individui, in cui è costretto a constatare l’esistenza di altri
universi oltre il suo.
Aveva elaborato questa generalizzazione eminentemente astratta, come
preliminare a una confidenza personale. Era l’avvio a conversazione che
avrebbe dovuto condurre alle caricature di Jenny.
- E’ vero, - rispose Mary; e, generalizzando per conto suo, aggiunse:
- Quando un individuo viene in contatto intimo con un altro, egli, - o
essa, naturalmente, secondo i casi - deve inevitabilmente infliggere o
ricevere una certa quantità di sofferenza.
- Si è talmente portati, - continuò Denis, - a essere affascinati dalla
propria personalità che si dimentica come questo spettacolo si presenti ad
altre persone oltre che a noi.
Mary non ascoltava.
- La difficoltà, - disse, - si fa sentire particolarmente nella questione
sessuale. Se una persona cerca un contatto intimo con un’altra persona in
modo naturale, è certa di ricevere o di dare una certa dose di sofferenza. Se,
al contrario, evita i contatti, corre il pericolo di soffrire delle gravi sofferenze
che sono la conseguenza delle repressioni anormali. Come vede, è un
dilemma.
- Quando penso al mio caso, - disse Denis, continuando nella direzione
prefissa, - sono stupefatto della mia ignoranza per quanto riguarda la
mentalità degli altri in generale e, soprattutto, le opinioni che questi altri

151
hanno su di me. I nostri spiriti sono come libri sigillati che s’aprono solo
assai raramente al mondo esterno.
Fece un gesto che, debolmente, suggeriva l’idea d’un elastico levato.
- E’ un problema terribile, - disse pensierosa Mary. - E’ necessario averne
un’esperienza personale per capire bene come sia terribile.
- Esattamente, - approvò Denis. - Bisogna averne un’esperienza diretta.
Si curvò verso di lei e abbassò leggermente la voce:
- Stamane, per esempio… - cominciò; ma le sue confidenze vennero
interrotte bruscamente. La voce profonda del gong, attutita dalla distanza e
mutata in un ronzio gradevole, aleggiò verso di loro dalla casa. Era l’ora del
“lunch”. Meccanicamente Mary si alzò, e Denis la seguì, un po’ offeso che
essa mostrasse un così smodato desiderio di nutrimento e un così debole
interesse per le sue esperienze spirituali. Essi s’incamminarono verso la casa,
senza parlare.

152
25.

- Spero vi renderete conto, - disse Henry Wimbush a pranzo, - che lunedì


prossimo è giorno festivo e che voi tutti siete tenuti a dare il vostro
contributo ai preparativi per la fiera.
- Mio Dio! - esclamò Anne. - La fiera, l’avevo completamente
dimenticata. Che incubo! Non potresti abolirla, zio Henry?
Il signor Wimbush sospirò e scosse il capo.
- Ahimè! - disse, - non credo. Mi sarebbe piaciuto abolirla da molti anni,
ma le pretese della carità sono forti.
- Quello che noi vogliamo, non è la carità, - disse Anne con tono di
ribellione, - è la giustizia.
- D’altra parte, - continuò il signor Wimbush, - la fiera è diventata
un’istituzione. Vediamo: sono almeno ventidue anni che esiste. Da principio
era una cosa modesta. Adesso…
Fece con le mani un ampio movimento circolare e tacque.
Il fatto che il signor Wimbush continuasse a tollerare la fiera faceva
onore al suo amore per il bene pubblico. La fiera annuale di Crome aveva
cominciato coll’essere una specie di bazar di carità parrocchiale, che s’era
poi venuto magnificando sino a diventare un rumoroso assieme di giostre, di
tiri a segno e di baracconi d’ogni genere - autentica fiera organizzata su larga
scala. Era il San Bartolomeo locale, e gli abitanti di tutti i villaggi vicini, e
perfino un contingente del capoluogo, affluivano verso il parco per trovarvi
i divertimenti della loro festa legale. L’ospedale del luogo ne approfittava in
larga misura, e questo fatto bastava a impedire al signor Wimbush, per il
quale la fiera era una specie di tortura periodica, di metter fine a un orrore
che, ogni anno, profanava il suo parco e il suo giardino.
- Ho già disposto tutto, - continuò Henry Wimbush. - Domani verrà
elevata qualcuna delle tende più grandi. Le altalene e le giostre arrivano
domenica.
- Allora non c’è modo di sfuggire, - disse Anne volgendosi alla
compagnia. - Bisognerà che facciate qualche cosa. Per uno speciale favore

153
sarà permesso a ciascuno di scegliere la propria schiavitù. Io mi incarico del
padiglione del tè, come al solito. Zia Priscilla…
- Mia cara, - interruppe la signora Wimbush, - ho cose più importanti cui
pensare che non sia la fiera. Ma non dubitare, lunedì farò del mio meglio per
incoraggiare i contadini.
- Splendido, - disse Anne. - Zia Priscilla incoraggerà i contadini. E lei
che cosa farà, Mary?
- Io non voglio far nulla che mi obblighi a star vicino a gente che mangia
e a guardarla.
- Allora lei potrà occuparsi dei giuochi dei bambini.
- Bene, - accondiscese Mary. - Mi occuperò dei giuochi dei bambini.
- E il signor Scogan?
- Mi volete permettere di dire la buona ventura? - domandò il signor
Scogan, dopo averci pensato. - Mi sembra che questo sia il mio forte.
- Ma lei non può dire la buona ventura vestito com’è.
- No?
Il signor Scogan gettò un’occhiata sulla sua persona.
- Bisognerà che lei si travesta. Persiste ugualmente?
- Sono pronto a soffrire qualsiasi indegnità.
- Bene, - disse Anne; e volgendosi a Gombauld: - Lei sarà il nostro
pittore-lampo, - disse. - Signori, il vostro ritratto in cinque minuti per uno
scellino.
- E’ un peccato che io non sia Ivor, - disse Gombauld ridendo. - Avrei
potuto proiettare un ritratto del fluido del mio soggetto per sei pence in più.
Mary arrossì.
- Non sta bene, - disse severa, - parlare di argomenti seri così
leggermente. Dopo tutto, quali che siano le sue opinioni personali, le
ricerche psichiche sono un argomento serio.
- E Denis?
Denis fece un gesto di scusa.
- Io non ho nessuna abilità, - disse. - Sarò solamente uno di quelli che
portano qualche cosa all’occhiello e circolano indicando alla gente la strada
per recarsi al padiglione del tè e dicendo di non camminare sull’erba.
- No, no, - disse Anne. - Così non va. Lei deve fare qualche cosa di più.
- Ma che cosa? Tutti i posti buoni sono presi, e io non posso che
chiacchierare con la folla.

154
- Ebbene, allora dovrà chiacchierare, - concluse Anne. - Bisogna che lei
scriva un‘“Ode al dì della fiera”. La stamperemo con le macchine di zio
Henry e la venderemo a due pence la copia.
- Sei pence, - protestò Denis. - La mia ode varrà bene sei pence.
Anne scosse il capo.
- Due pence, - ripeté con fermezza. - Nessuno darà più di due pence.
- E poi c’è Jenny, - disse il signor Wimbush. - Jenny, - disse alzando la
voce, - lei cosa farà?
Denis fu sul punto di suggerire che essa avrebbe potuto fare delle
caricature a sei pence l’una, ma giudicò ch’era più saggio fingere d’ignorare
quel suo talento. Ripensò al quaderno rosso. Era dunque possibile che lui,
Denis, avesse quell’aria?
- Che cosa farò? - ripeté Jenny. - Che cosa farò?
Aggrottò le sopracciglia pensierosa; poi il suo volto si illuminò.
Sorrise.
- Quand’ero giovane, - disse, - ho imparato a suonare il tamburo.
- Il tamburo?
Jenny fece segno di sì e, come prova della sua asserzione, agitò il coltello
e la forchetta sul piatto, come se fossero due bacchette.
- Se c’è occasione di suonare il tamburo… - disse.
- Ma naturalmente, - disse Anne. - Non sono le occasioni che mancano.
La iscriviamo definitivamente per il tamburo. Ed ecco tutta la compagnia a
posto, - concluse.
- E' una buona compagnia, - disse Gombauld. - Non vedo l’ora d’essere
alla fiera. Dovrebbe riuscire divertente.
- Infatti, dovrebbe, - disse il signor Scogan. - Ma può star certo che non
lo sarà. Le vacanze sono sempre una delusione.
- Via, - protestò Gombauld. - Le mie vacanze a Crome non sono state
una delusione davvero.
- Proprio? - Anne volse verso di lui una maschera ingenua.
- Proprio, - rispose Gombauld.
- Mi fa piacere sentirglielo dire.
- E’ nella natura stessa delle cose, - continuò il signor Scogan. - Le nostre
vacanze non possono essere che una delusione. Riflettete un momento. Che
cosa sono le vacanze? Le vacanze ideali, il platonico congedo dei congedi,
sono sicuramente un cambiamento assoluto e completo. Siete d’accordo con
me sulla definizione?

155
Il signor Scogan fece circolare lo sguardo, di volto in volto, attorno alla
tavola; il suo naso affilato eseguì una serie rapida di salti, in tutte le direzioni
della bussola. Non vi fu segno alcuno di contraddizione; egli continuò:
- Un cambiamento completo e assoluto. Benissimo. Ma non è appunto il
cambiamento completo e assoluto quello che noi non possiamo mai
realizzare? Mai, per la natura stessa delle cose?
Il signor Scogan gettò ancora una rapida occhiata intorno a sé.
- Proprio così. In quanto noi siamo noi, in quanto noi siamo esemplari
dell‘“Homo sapiens”, in quanto siamo membri di una società, come
potremmo sperare in qualche cosa che somigli, sia pure lontanamente, a un
cambiamento assoluto? Noi siamo incatenati dai limiti paurosi delle nostre
facoltà umane, incatenati dalle idee che la società ci impone mediante la
nostra funesta suggestionabilità, incatenati dalla nostra propria personalità.
Per noi non si può mai parlare d’un congedo totale. Qualcuno di noi fa
sforzi virili per prendere questo congedo, ma non riesce mai, se posso
esprimermi metaforicamente, ad andare più in là di una stazione balneare.
- Lei è deprimente, - disse Anne.
- Lo sono di proposito, - rispose il signor Scogan, e, stendendo le dita
della mano destra, continuò: - Guardate me, per esempio. Che genere di
vacanze posso prendere? Nel dotarmi di passioni e di facoltà, la natura si
mostrò orribilmente spilorcia. La gamma completa delle possibilità umane, è,
a ogni modo, penosamente limitata; la mia propria gamma è ancor più
limitata. Delle dieci ottave che formano lo strumento umano, non ne posso
raggiungere che due. Cosicché, pure avendo una certa intelligenza, manco di
senso estetico; benché possieda qualche facoltà matematica, sono
interamente sprovvisto di emozioni religiose; pure essendo naturalmente
incline alla lussuria, ho poca ambizione e non sono menomamente avaro. Si
aggiunga che l’educazione limita ancor più il mio campo d’azione. Sono
stato allevato nella società, per cui sono impregnato delle sue leggi; non solo
temerei di prendere congedo da esse, ma il tentativo di farlo mi sarebbe assai
penoso. In una parola, io ho coscienza della prigione e nello stesso tempo la
temo. Sì, lo so per esperienza; quante volte ho tentato di prendere delle
vacanze, di fuggire me stesso, di fuggire la mia stessa natura così noiosa, il
mio intollerabile ambiente mentale -. Il signor Scogan sospirò. - Ma sempre
invano, - aggiunse, - sempre invano. Nella mia giovinezza mi sforzavo
sempre, e quanto!, di sentire religiosamente ed esteticamente. «Ecco, - mi
dicevo, - due emozioni tremendamente importanti ed eccitanti. La vita, se

156
potessi provarle, sarebbe più ricca, più calda, più gaia, più divertente,
insomma.»
Tentai di provarle. Lessi i libri dei mistici. Mi parve non fossero altro che
deplorevoli divagazioni; e tali, necessariamente, appaiono a chi non provi le
emozioni che l’autore provò scrivendole. Perché quella che conta, è
l’emozione. L’opera scritta non è che uno sforzo per esprimere l’emozione,
che, in se stessa, è inesprimibile in termini intellettuali e logici. La mistica
rende concreto un senso di calore alla bocca dello stomaco e ne fa una
cosmogonia. Per altri mistici, questa cosmogonia è un simbolo di quella
complessa sensazione. Per l’uomo irreligioso, non è un simbolo di nulla e
appare, quindi, puramente grottesco. E’ un fatto molto malinconico. Ma sto
divagando.
Il signor Scogan si riprese.
- Tanto basti per quel che riguarda l’emozione religiosa. Quanto
all’emozione estetica, cercai di coltivarla coi più grandi sforzi. Ho guardato
tutti i veri oggetti d’arte in tutte le parti d’Europa. Ci fu un tempo nel quale,
oso affermarlo, ne sapevo più io su Taddeo di Poggibonsi e sull’ermetico
Amico di Taddeo di quanto ne sappia lo stesso Henry. Oggi, sono felice di
dirlo, ho dimenticato la maggior parte di quel sapere tanto laboriosamente
acquisito; ma, senza vanità, posso affermare che quel sapere era prodigioso.
Non pretendo, naturalmente, di conoscere nulla che riguardi la scultura
negra o il seicento italiano; ma su tutti i periodi che furono alla moda prima
del 1900, sono o ero onnisciente. Sì, lo ripeto, onnisciente. Ma questo fatto
aumentava forse la mia comprensione e il mio amore dell’arte in genere?
No! Di fronte a un quadro, del quale avrei potuto dirvi tutta la storia vera o
presunta, la data in cui era stato dipinto, il carattere del pittore, le influenze
che avevano contribuito a farlo qual era, non sentivo affatto quel misterioso
entusiasmo, quel senso di esaltazione che, a quanto dicono coloro che lo
provano, costituisce la vera emozione estetica. Io non provavo niente, tranne
un certo interesse per il soggetto del quadro; e se il soggetto era religioso e
banale, non provavo che una grande stanchezza spirituale. Nondimeno, ho
dovuto continuare a guardar quadri per una decina d’anni prima
d’ammettere onestamente che mi annoiavano. Da allora, ho rinunciato a ogni
sforzo per andare in vacanza. Continuo a coltivare il mio vecchio «io»
muffito e quotidiano con la rassegnazione dell’impiegato di banca che
adempie il suo compito di tutti i giorni dalle dieci del mattino alle sei del

157
pomeriggio. La vacanza! Davvero! Mi spiace per lei, Gombauld, che s’illude
di andare in vacanza.
Gombauld alzò le spalle.
- Forse, - disse, - le mie esigenze non sono elevate come le sue. Ma,
personalmente, trovavo che la guerra era una vacanza per quanto possibile
completa, lontano dalle convenzioni e dalle norme abituali, lontano dalle
preoccupazioni e dalle emozioni comuni.
- Sì, - annuì pensoso il signor Scogan. - Sì, la guerra fu certamente una
specie di congedo.

158
26.

Un piccolo villaggio di tela, tende e baracche, era spuntato dietro il


recinto del giardino, nella verde distesa del parco. La folla si pigiava nelle
strade, gli uomini vestiti soprattutto di nero - a festa, a lutto - le donne di
mussole chiare. Qua e là pendeva inerte la bandiera nazionale. In mezzo alla
città di tela, la giostra, colori, oro e cristallo, brillava al sole. Il venditore di
palloncini passeggiava tra la gente, e, al di sopra della sua testa, i palloncini,
enorme grappolo rovesciato d’uva multicolore, si tendevano verso il cielo.
Col movimento d’una falce, le altalene mietevano l’aria e, dalla macchina
che faceva girare la giostra, s’elevava, appena esitante, una sottile colonna di
fumo nero.
Denis s’era arrampicato in cima a una delle torri di sir Ferdinando e
lassù, in piedi sulla lamiera rovente, coi gomiti appoggiati al parapetto,
osservava la scena. L’organo a vapore lanciava una musica prodigiosa. Il
crepitio dei tamburelli automatici batteva con inesorabile precisione il ritmo
delle stridenti melodie. Le armonie parevano nascere dall’ottone e dal
cristallo. Nelle profondità del basso, la tromba del giudizio strepitava, e con
una tale persistenza, una tale risonanza, che la sua tonica e la sua dominante
alternate si staccavano dal resto della musica e suonavano un’aria propria,
un ritmo rumoroso e monotono.
Denis si curvò sull’abisso di rumore turbinoso. Certo, se si fosse gettato
dal parapetto, il rumore gli avrebbe servito da salvagente, lo avrebbe tenuto
sospeso, sballottandolo, come una fontanella tiene sospeso il guscio d’un
uovo sulla cresta schiumeggiante. Un’altra fantasia gli venne allo spirito,
sotto una forma metrica, questa volta:

“L’anima mia, sottile foglia di pergamena stesa sopra un’ardente caldaia.”

Pessimo. Ma l’idea di qualche cosa di sottile steso e gonfiato dal di sotto


gli piaceva:

159
“L’anima mia, vescica…

o meglio:

“L’anima mia è una pallida tenue membrana…”

Era piacevole; una membrana pallida e tenue. C’erano le giuste qualità


anatomiche. Ben tesa, e vibrante al soffio della vita sonora. Ma era tempo
per lui di scendere dall’empireo sereno delle parole, nel tangibile turbine.
Discese lentamente: «L’anima mia è una pallida tenue membrana…».
Sulla terrazza era riunito un circolo di visitatori distinti. C’era il vecchio
lord Moleyn, simile a una caricatura di milord inglese in un giornale
umoristico francese: un uomo lungo con un naso lungo, lunghi baffi
ricadenti e lunghi denti di vecchio avorio, e più giù, assurdo, un corto
soprabito, e sotto quello due lunghe gambe, infilate in un paio di pantaloni
grigio perla, gambe tremanti, malsicure, che contribuivano a dare al loro
proprietario, quando camminava, una specie di ondulazione laterale. Vicino
a lui, piccolo e atticciato, il signor Callamay, il venerando statista
conservatore: faccia da busto romano, corti capelli bianchi. Le ragazze non
amavano molto andar sole in automobile col signor Callamay; quanto al
vecchio lord Moleyn, ci si chiedeva perché non vivesse in un dorato esilio
nell’isola di Capri, con le altre persone distinte che, per una ragione o per
un’altra, trovano la vita impossibile in Inghilterra. I due stavano parlando
con Anne, ridendo, l’uno cavernosamente, l’altro con uno squillo.
Un pallone di seta nera che si trascinava dietro un paracadute zebrato di
bianco e nero, risultò essere la signora Budge della grande casa al di là della
valle. Essa aveva le gambe corte, e le stecche del suo ombrello minacciavano
gli occhi di Priscilla Wimbush che la dominava, massiccia figura vestita di
viola e coronata d’un berretto reale le cui lunghe piume ondeggianti e nere
ricordavano il fasto d’un funerale parigino di prima classe.
Denis osservò discretamente il gruppo dalla finestra della camera color
limone. I suoi occhi erano diventati improvvisamente innocenti, infantili,
senza pregiudizi. Quella gente gli pareva inimmaginabilmente fantastica.
Nondimeno essa esisteva; essi funzionavano per conto proprio, erano
coscienti, avevano dei cervelli.
D’altra parte, egli somigliava loro. Era mai possibile? Ma la prova del
quaderno rosso era definitiva.

160
Sarebbe stato corretto avvicinarsi e dire: «Buongiorno, signore!
Buongiorno, signora!». Ma in quel momento Denis non desiderava parlare,
non avrebbe saputo parlare. La sua anima era una membrana pallida, tenue e
vibrante. Egli voleva tenere la sua sensibilità intatta e vergine più che gli
fosse possibile. Prudentemente, sgusciò per una porta laterale e s’allontanò
verso il parco. E come s’avvicinava al rumore e al movimento della fiera, la
sua anima palpitava. Si fermò un momento ai margini, poi avanzò un piede e
si lasciò inghiottire.
Centinaia di persone, ciascuna col proprio volto privato e tutte reali,
separate, vive: questo pensiero era inquietante. Pagò due pence e vide la
donna tatuata; altri due pence, il più gran topo del mondo.
Emerse appena in tempo dalla casa del topo, per vedere un palloncino
gonfio d’idrogeno, liberarsi dai suoi lacci e andarsene. Un bambino lo
guardava urlando; ma calmo, sfera perfetta d’opalescente rosa, il pallone
salì, salì. Denis lo seguì con gli occhi, fin che si perse nell’accecante luce del
sole. Ah! se avesse potuto inviare la sua anima a inseguirlo!
Sospirò, fissò all’occhiello la sua rosetta di guida e si aprì una strada
senza meta, ma ufficiale, tra la folla.

161
27.

Il signor Scogan era stato installato in un piccolo chiosco di tela.


Vestito con una sottana nera e un corpetto rosso, con un fazzoletto giallo
e rosso annodato intorno alla parrucca nera, faceva pensare a una strega
zingara dal naso puntuto e dalla pelle bruna e rugosa. Un cartello attaccato
all’ingresso della tenda, annunciava la presenza nella capanna di «Sesostris,
la strega d’Ecbatano». Il signor Scogan, seduto a un tavolo, riceveva i clienti
in un misterioso silenzio, indicava loro con un dito di sedersi in faccia a lui e
di stendere la mano per la necessaria ispezione. Allora, esaminava la mano
che gli veniva tesa, servendosi d’una lente d’ingrandimento e d’un paio
d’occhiali cerchiati di corno. Egli aveva un modo orribile di scuotere il capo,
d’aggrottare le sopracciglia e di fare schioccare la lingua mentre considerava
le linee della mano aperta dinanzi a lui. A volte, come se parlasse a se stesso,
mormorava: «Terribile! Terribile!»; oppure: «Dio ci preservi!», e accennava
vagamente il segno della croce. I clienti che entravano ridendo, si facevano
subitamente gravi; essi cominciavano a prendere sul serio la strega. Era una
donna di aspetto formidabile; ma poteva darsi, era possibile che, dopo tutto,
ci fosse un fondo di vero in tutte quelle cose? «Dopo tutto…» pensavano,
mentre la strega scuoteva il capo sulle loro mani: «Dopo tutto…» E
attendevano, col cuore palpitante, che l’oracolo parlasse.
Dopo una lunga e silenziosa ispezione, improvvisamente, il signor
Scogan levava gli occhi e faceva, con un rauco mormorio, qualche
spaventosa domanda, come: «Lei è mai stato colpito sulla testa con un
martello da un giovanotto coi capelli rossi?». Se la risposta era negativa, e
non poteva essere diversamente, il signor Scogan scuoteva il capo a varie
riprese, dicendo: «Lo temevo. Tutto deve, dunque, accadere ancora, e ormai
non può più essere lontano». A volte, dopo un lungo esame, s’accontentava
di mormorare: «Se l’ignoranza è felicità, è follia voler sapere», e si rifiutava
di divulgare i particolari d’un avvenire troppo spaventoso per essere
esaminato senza disperazione.

162
Sesostris ebbe un successo d’orrore. Le persone facevano la coda alla
porta della sua baracca, attendendo il privilegio d’udire pronunciare una
condanna su di loro.
Passeggiando, Denis osservò con curiosità la folla dei supplici dinanzi
all’altare dell’oracolo. Aveva una gran voglia di vedere come il signor
Scogan recitasse la sua parte. La baracca di tela era d’una costruzione
imperfetta e malsicura. Tra le pareti e il tetto cascante, si vedevano lunghe
fessure e crepacci spalancati. Denis andò sino al padiglione del tè e prese in
prestito un panchettino e una bandiera.
Munito di questi oggetti, tornò verso la baracca di Sesostris. Posò il
panchettino dietro la tenda, vi salì sopra, e, con aria di competenza
indaffarata, si mise a legare la bandiera a una delle pertiche che sostenevano
la baracca. Gli riusciva facile, attraverso le aperture della tela, vedere quasi
tutto l’interno della tenda. La testa del signor Scogan, col suo fazzoletto di
tela colorata, era proprio sotto di lui; i suoi terribili mormorii gli giungevano
distintamente. Denis guardava e ascoltava, mentre la strega profetizzava
perdite finanziarie, morte per apoplessia, distruzione mediante aeroplani
nella prossima guerra.
- Ci sarà un’altra guerra? - domandò una vecchia signora alla quale
aveva predetto questa fine.
- Presto! - rispose il signor Scogan con un’aria di tranquilla fiducia.
Alla vecchia signora si sostituì una ragazza, vestita di mussola bianca
ornata di nastri rosa. Portava un largo cappello, di modo che Denis non
poteva vederne il viso; ma, giudicando dalla statura e dalla morbidezza
rotonda del braccio nudo, pensò che dovesse essere graziosa. Il signor
Scogan esaminò la sua mano, poi mormorò:
- Lei è ancora virtuosa.
La ragazza ebbe un riso nervoso ed esclamò:
- Oh! mio Dio!
- Ma non rimarrà tale per molto tempo, - aggiunse il signor Scogan con
voce sepolcrale.
La ragazza si rimise a ridere.
- Il destino, che s’occupa delle piccole cose come delle grandi, ha scritto
questo fatto nella sua mano.
Il signor Scogan prese la lente e si rimise a esaminare la palma bianca.
- Molto interessante, - disse come se parlasse a se stesso. - Molto
interessante. E’ chiaro come la luce.

163
Tacque.
- Che cosa è chiaro? - domandò la ragazza.
- Non credo di poterglielo dire.
Il signor Scogan scoté il capo; gli orecchini di ottone che si era avvitato
alle orecchie come due pendoli tintinnarono.
- La prego, la prego! - implorò la ragazza.
La strega non parve prestare attenzione a questa frase.
- Dopo, non si capisce più bene. I destini non dicono se lei si sposerà e
avrà quattro figli oppure cercherà di diventare una stella di cinematografo.
Essi non sono espliciti che su questo incidente piuttosto decisivo.
- Quale? Quale? Me lo dica.
Mussola bianca si chinava in avanti, avida.
Il signor Scogan sospirò.
- Ebbene, - disse, - poiché vuol saperlo, lo saprà. Ma se poi le accadrà
qualche disgrazia, se la prenda con la sua curiosità. Senta! Senta! - Egli alzò
il suo dito puntuto, ornato d’un artiglio. - Domenica prossima, alle sei del
pomeriggio, lei sarà seduta sulla seconda barriera nel sentiero che va dalla
chiesa alla strada di sotto. In quel momento, venendo per il sentiero, un
uomo apparirà.
Il signor Scogan guardò ancora la mano come per rinfrescare nella sua
memoria i particolari della scena.
- Un uomo, - ripeté, - un uomo piccolo, col naso puntuto, né molto
bello, né molto giovane. Ma affascinante -. Egli pesava sulle parole, con una
specie di sibilo. - Egli le chiederà: «Può insegnarmi la via del paradiso?». Lei
risponderà: «Sì, gliela indicherò», e andrà con lui sino al boschetto di
noccioli. Non posso leggere quello che accadrà poi.
Ci fu un silenzio.
- E’ proprio vero? - domandò Mussola bianca.
La strega alzò le spalle.
- Io le dico semplicemente quel che leggo nella sua mano. Arrivederci.
Sono sei pence. Ho il resto. Grazie. Arrivederci.
Denis scese dal panchetto: la bandiera, attaccata in modo malsicuro alla
pertica, pendeva molle nell’aria immobile. «Se sapessi fare anch’io delle
cose di questo genere!» pensò riportando il panchetto al padiglione del tè.
Anne era seduta dietro una lunga tavola e riempiva a un samovar due
grosse tazze bianche. Una pila di fogli stampati stava in bell’ordine sulla
tavola dinanzi a lei. Denis ne prese uno e lo guardò affettuosamente. Era il

164
suo inno. Ne avevano stampate cinquecento copie, e i grandi fogli in quarto
facevano un gran bel vedere.
- Ne ha venduti molti? - domandò con aria distratta.
Anne piegò la testa da un lato, in un gesto di scusa.
- Ahimè! Soltanto tre fino a ora. Ma ne do una copia gratuita a chi
spende più d’uno scellino per il tè. In questo modo la sua poesia circola.
Denis non rispose nulla, ma s’allontanò lentamente. Guardò il grande
foglio che aveva in mano e camminando piano, rilesse con delizia i suoi
versi.

“Questo giorno di giostre e d’altalene, di tiri a segno,


d’anelli e di pesi,
di asini sapienti e d’altre folli
attrazioni, festivo osate dirlo?
Un dì festivo? Nasi di cartone
annusavano rose artificiali
delle rotonde guance veneziane,
ogni anno a carnevale;
le maschere potevano
rider di certe cose che farebbero
arrossire la faccia ignuda, ridere
senza pensar nulla di male.
Un giorno di festa!
Ma Galba presentava gli elefanti
sull’aereo cammino;
Jumbo danzava sulla corda tesa
e nel circo
uomini armati, a colpi di pugnale
s’uccidevano solo per spezzare
i tristi imperativi
che fanno d’ogni giorno non festivo
una prigione ove ciascuno soffre.
Cantar la festa? Voi la libertà
non conoscete e non sapete come
possa servire.
La neve russa
fioriva tutta di sangue vermiglio,

165
rose d’un rosso digradante in rosa
che si fondevan nella neve pura.
Ed eran gli uomini
liberati così d’ogni catena,
vecchie catene, vecchie leggi, vecchie
usanze e vecchi credi;
ed i vecchi rancori
morivan dissanguati e l’aria gelida
ne raccoglieva l’ultimo respiro,
diafano vapore evaporante;
e dove essi giacevano
la neve bianca era tutta fiorita
di rose rosse e il sangue
era un allegro fiore di bellezza.
Cantare il dì di festa! Sotto l’albero
dell’Innocenza e della Libertà;
naso di cartapesta,
rossa coccarda
danzan nell’ombra magica
che li fa ebbri, allegri e forti,
per ridere e cantare il loro canto
di festa:
«Liberi! Liberi!»
Ma l’eco risponde
«Liberi!» debolmente ai ballerini
che ridono; e, ancor, «Liberi!» risuona
debolmente nel cavo delle valli:
riso e murmure
d’una voce che muore
d’un riso che si spegne.
Cantare il dì di festa!”

Piegò con cura il foglio e lo mise in tasca. Quell’ode aveva delle qualità.
Oh! decisamente, ne aveva! Ma come puzzava la folla! Accese una sigaretta.
L’odore del bestiame era preferibile. Entrò nel giardino, attraverso il cancello
del parco. Lo stagno era un centro di rumore e d’attività.

166
- Seconda batteria per il campionato delle signorine -. Era la voce
educata di Henry Wimbush. Egli era circondato da una folla di corpi che, nei
loro costumi da bagno neri, somigliavano a foche. La sua bombetta grigia,
liscia, rotonda e immobile in mezzo a quel mare tempestoso, era un’isola di
aristocratica calma.
Tenendo a qualche centimetro dal naso il suo “pince-nez” cerchiato di
tartaruga, leggeva i nomi su una lista.
- Signorina Dolly Miles, signorina Rebecca Balister, signorina Doris
Gabel…
Cinque ragazze si misero in fila sull’orlo del bacino. Dall’altra parte dello
stagno, sui loro scanni d’onore, il vecchio lord Moleyn e il signor Callamay
guardavano con vivo interesse.
Henry Wimbush alzò la mano. Ci fu un silenzio pieno di tensione.
- Quando dirò: via, partite. Via! - disse. Un tuffo simultaneo. Denis s’aprì
un passaggio tra gli spettatori. Qualcuno l’afferrò per un braccio. Egli
guardò. Era la vecchia signora Budge.
- Sono felice di rivederla, signor Stone! - disse con la sua voce ricca e
arrochita. Parlando, ansimava sempre un poco, come un cane asmatico. Era
la signora Budge che, avendo letto nel “Daily Mirror” come il governo
avesse bisogno di noccioli di pesche (a quale scopo, essa lo ignorò sempre)
considerò la raccolta dei noccioli di pesca come la sua missione speciale
durante la grande guerra.
Essa aveva trentasei peschi nel suo frutteto e quattro serre per affrettare
la maturazione delle pesche, di modo che le era stato possibile mangiar
pesche durante tutto l’anno. Nel 1916, aveva mangiato 4200 pesche e aveva
inviato i noccioli al governo. Nel 1917, le autorità militari avevano
mobilitato tre dei suoi giardinieri, e questo fatto, unito all’altro che l’anno
era stato pessimo per i frutici, aveva fatto sì ch’essa non riuscisse a mangiare
che 2900 pesche durante questo periodo decisivo per i destini nazionali.
Nel 1918 le cose erano andate meglio, poiché, dal primo di gennaio fino
all’armistizio, essa aveva mangiato 3300 pesche. Dopo l’armistizio aveva
rallentato i suoi sforzi; ormai non mangiava che due o tre pesche al giorno.
Si lamentava che la sua salute avesse sofferto di quella sovralimentazione a
base di pesche; ma era stato per la buona causa.
Denis rispose al suo saluto con un rumore vago ed educato.
- E’ così bello vedere i giovani divertirsi! - continuò la signora Budge. -
E anche i vecchi, d’altronde. Guardi un po’ quel vecchio lord Moleyn e quel

167
caro signor Callamay. Non è delizioso vedere come si divertono?
Denis guardò; in fondo non gli pareva che fosse proprio delizioso.
Perché non andavano a veder la corsa nei sacchi? I due gentiluomini
erano occupati in quel momento a congratularsi con la ragazza che aveva
vinto la gara; era un gesto di benevolenza un po’ eccessivo, dato che, in fin
dei conti, la ragazza aveva vinto soltanto la sua batteria.
- E’ graziosa, vero? - disse la signora Budge, e ansimò una o due volte.
- Sì -. Denis annuì con un cenno. «Sedici anni, fragile ma nubile», disse
a se stesso, e affidò alla memoria questa frase che giudicò felice. Il vecchio
signor Callamay aveva messo gli occhiali per felicitare la vincitrice, e lord
Moleyn, chino sulla sua canna da passeggio, mostrava i lunghi denti
d’avorio, sorridendo avidamente.
- Magnifica vittoria, magnifica! - diceva il signor Callamay con la sua
voce profonda.
La vincitrice si contorceva imbarazzata. Stava lì, con le mani dietro la
schiena, sfregando nervosamente un piede contro l’altro. Il suo costume da
bagno luccicava, torso di marmo nero, polito.
- Molto bene, davvero! - disse lord Moleyn. Pareva che la sua voce
venisse immediatamente di dietro i suoi denti, una voce dentale. Era come se
un cane si fosse messo improvvisamente a parlare. Sorrise ancora. Il signor
Callamay si aggiustò gli occhiali.
- Quando dico: via, partite. Via!
Tuffo! La terza batteria era cominciata.
- Sa che non sono mai riuscita a imparare a nuotare? - disse la signora
Budge.
- Davvero?
- Però una volta sapevo stare a galla.
Denis se l’immaginava galleggiante, sballottata sopra un’ampia onda
verde. Una grossa vescica nera, rigonfia. Un’altra vincitrice veniva
complimentata. Era atrocemente piccola e grossa. L’ultima, lunga e
armoniosa, fatta di curve continue dalle ginocchia al seno, si era presentata
come un’Eva di Cranach; ma questa era un pessimo Rubens.
- … via, partite. Via!
La voce uniforme ed educata di Henry Wimbush pronunciò ancora una
volta la formula. Un’altra squadra di giovanette si tuffò.
Denis, che si sentiva un po’ stanco di sostenere una conversazione con la
signora Budge, si ricordò in buon punto che i suoi doveri di guida lo

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chiamavano altrove. S’insinuò attraverso le file degli spettatori e s’aprì la
strada lungo il sentiero che questi lasciavano libero dietro a loro. Ripensava
alla sua anima, membrana pallida e tenue, quando trasalì udendo una voce
esile e sibilante, che veniva apparentemente da un luogo posto al di sopra
della sua testa, pronunciare questa semplice parola: - Disgustoso!
Si volse di scatto a guardare. Il sentiero lungo il quale camminava era al
riparo d’un muro di tassi tagliati. Dietro la siepe, il terreno saliva
rapidamente verso il piede della terrazza e la casa; per qualcuno che si
trovasse nel punto culminante del terreno, sarebbe stato facile guardare al di
sopra della cupa barriera. Denis, alzando gli occhi, vide due teste che
dominavano la siepe immediatamente al di sopra di lui. Egli riconobbe la
maschera di ferro del signor Bodiham e la faccia pallida ed esangue di sua
moglie. Essi guardavano, al di là della sua testa, al di là delle teste degli
spettatori, le nuotatrici nella piscina.
- Disgustoso! - ripeté la signora Bodiham sibilando sommessamente.
Il rettore volse la sua maschera di ferro verso il puro cobalto del cielo.
«Quanto tempo? - disse come se parlasse a se stesso: - Quanto tempo?»
Abbassò di nuovo gli occhi e il suo sguardo cadde sul volto curioso di
Denis. Vi fu un movimento rapido, e il signore e la signora Bodiham
scomparvero dietro la siepe.
Denis continuò la passeggiata. Errò intorno alla giostra, attraversò le vie
affollate del villaggio di tela; la membrana della sua anima palpitava
tumultuosamente tra il frastuono e le risa.
Più in là, dentro un recinto di corde, Mary dirigeva i giuochi dei bimbi.
Piccole creature si stringevano intorno a lei, con un clamore gracile e
stridente; altre si raggruppavano in grappoli intorno ai calzoni o alle sottane
dei loro familiari. Il volto di Mary splendeva nella calura; con un dispendio
enorme di energia essa riuscì ad avviare una corsa a tre gambe. Denis
contemplava ammirato.
- Lei è magnifica, - disse accostandosele e toccandole una spalla. - Mai
ho veduto una tale energia.
Essa volse verso di lui il suo volto rotondo, rosso e onesto, simile al sole
al tramonto; la campana d’oro dei suoi capelli dondolava silenziosamente
quand’ella muoveva la testa, poi ricadeva fremendo nell’immobilità.
- Sa, Denis, - diss’ella con una voce grave e seria, ansimando un poco, -
sa che c’è qui una donna che ha avuto tre bambini in trentun mesi?
- Davvero? - disse Denis facendo un rapido calcolo mentale.

169
- E’ terribile. Le ho parlato della Lega Maltusiana. Veramente si
dovrebbe…
Ma uno scoppio improvviso e violento di grida metalliche annunciò che
qualcuno aveva vinto la corsa. Mary tornò a essere il centro d’un pericoloso
turbine. Era tempo d’allontanarsi, pensò Denis; se si fosse trattenuto, forse
gli avrebbero chiesto di fare qualche cosa.
Si rimise in cammino verso le baracche di tela. Il pensiero del tè
diventava insistente nel suo cervello. Tè, tè, tè. Ma il padiglione del tè era
paurosamente gremito. Anne, con un’inusitata espressione di ferocia nel
viso, manovrava il manico del samovar. Il liquido dorato sgorgava senza
interruzione nelle tazze tese. In un angolo lontano della tenda, Priscilla,
solenne sotto la sua berretta reale, incoraggiava i contadini. In un momento
di calma, Denis poté distinguere il suo riso profondo e gioviale e la sua voce
maschile.
«E’ chiaro, - si disse, - che questo non è il posto più adatto per chi abbia
sete di tè.» Si fermò irresoluto, all’ingresso del padiglione.
E, improvvisamente, un’idea, un’idea meravigliosa, gli si presentò alla
mente: se fosse rientrato zitto zitto in casa, se fosse andato in punta di piedi
fino in sala da pranzo, e, silenziosamente, avesse aperto gli sportelli della
credenza! Ah! Allora! In un angolo fresco di quel mobile, avrebbe trovato
bottiglie e sifoni; una bottiglia di gin cristallino e un quarto di acqua di seltz,
ed ecco la coppa, che inebria e consola… Un minuto dopo camminava
spedito nel viale di tassi ombroso. La casa era deliziosamente tranquilla e
fresca. Recando con precauzione il suo bicchiere colmo, entrò nella
biblioteca. E lì, col bicchiere su un angolo del tavolo, sedette in una poltrona
con un volume di Sainte-Beuve tra le mani. Nulla valeva, secondo lui,
quanto una “Causerie du Lundi” per calmare e tranquillare gli spiriti stanchi.
Quella membrana tenue, la sua anima, era stata maltrattata troppo rudemente
dalle emozioni del pomeriggio; ora aveva bisogno di riposo.

170
28.

Al tramonto del sole, anche la fiera si quietò. Era il momento in cui


stavano per cominciare le danze. A un lato del villaggio di tende, uno spazio
era stato circondato di corde. Lampade ad acetilene, sospese intorno,
proiettavano una luce bianca e abbagliante. In un angolo era seduta
l’orchestra, e, obbedienti agli strumenti a corda e a fiato, due o trecento
ballerini pestavano il terreno arido, strappando l’erba con i loro piedi
pesantemente calzati. Intorno a quella macchia di luce artificiale, vibrante di
rumore e di movimento, la notte pareva d’una oscurità sovrannaturale.
Qualche raggio di luce, stirandosi, la raggiungeva e, di tempo in tempo, una
sagoma solitaria o una coppia d’innamorati abbracciati attraversava quel
dardo luminoso, splendendo per un momento nel mondo visibile, per
svanire subito dopo in modo rapido e miracoloso, così com’era venuta.
Denis si trovava all’ingresso del recinto, osservando quella folla che
ondeggiava e trascinava i piedi. Il lento turbine riconduceva l’una dopo
l’altra le coppie dinanzi a lui, come se egli le passasse in rivista. C’era
Priscilla, sempre con la sua berretta reale, la quale incoraggiava ancora i
contadini, danzando, questa volta, con uno dei suoi fattori. C’era lord
Moleyn, che s’era trattenuto per il pasto disorganizzato che teneva luogo di
pranzo in quel giorno di festa; egli ballava pesantemente un “one-step” con
una bellezza contadina terrorizzata; le sue ginocchia storte tremavano più che
mai. Il signor Scogan girava intorno con un’altra bellezza. Mary era stretta da
un giovane fattore dalle proporzioni eroiche; essa, per quanto potesse
giudicarne Denis, alzava gli occhi verso di lui parlandogli con grande serietà.
Di che? si domandò Denis. Forse della Lega Maltusiana. Seduta in un
angolo, insieme all’orchestra Jenny eseguiva prodigi di virtuosismo sul
tamburo. I suoi occhi brillavano, ella sorrideva tra sé. Tutta una vita
sotterranea pareva esprimersi in quei rumorosi rataplan, in quei lunghi rulli e
in quelle fioriture del tamburo.
Denis guardandola si ricordò melanconicamente il quaderno rosso; e si
chiese di che cosa egli potesse avere l’aria in quel momento. Ma lo

171
spettacolo di Anne e di Gombauld che passavano girando, Anne con gli
occhi quasi chiusi e, per così dire, addormentata sotto le ali distese del
movimento e della musica, dissipò le sue preoccupazioni. “E li creò maschio
e femmina”… Erano lì, Anne e Gombauld, e un centinaio d’altre coppie che
segnavano il ritmo della vecchia aria: “E li creò maschio e femmina”. Ma
Denis stava in disparte; a lui solo mancava l’essere complementare. Tutti a
due a due, fatta eccezione per lui…
Qualcuno lo toccò a una spalla. Egli alzò il capo. Era Henry Wimbush.
- Non le ho mai fatto vedere la nostra canalizzazione di quercia, - disse. -
Qualcuno dei tubi che abbiamo portato in luce è qui vicino… Vuol venire a
vederlo?
Denis si alzò e s’allontanarono insieme, nell’oscurità. La musica
s’attutiva, svanendo, dietro di loro. Qualche nota, le più alte, si cancellava
completamente. Il tamburo di Jenny e il ritmo sostenuto del basso
continuavano a rimbombare nelle loro orecchie, privi di melodia e di
coerenza. Henry Wimbush si fermò.
- Siamo arrivati, - disse, e levando di tasca una lampadina elettrica,
proiettò un debole raggio di luce su due o tre sezioni annerite di tronchi
d’albero, tagliati come tubi, che giacevano abbandonate in una piccola
depressione del terreno.
- Molto interessante, - disse Denis con un entusiasmo piuttosto tepido.
Sedettero sull’erba. Una pallida luce bianca s’alzava dietro la cinta degli
alberi, indicando il luogo ove si ballava. La musica non era più che una
pulsazione ritmica ovattata.
- Sarò contento, - disse Henry Wimbush, - quando questa festa
finalmente avrà fine.
- Lo credo.
- Non so come avvenga, - continuò il signor Wimbush, - ma lo
spettacolo d’un gran numero di miei simili in istato d’agitazione risveglia in
me una specie di stanchezza, piuttosto che un senso di eccitazione e di
allegria. Il fatto è che non mi interessano molto.
Non entrano nei miei gusti. Mi segue? Non ho potuto mai interessarmi,
per esempio, a una collezione di francobolli. Ai primitivi, ai libri del secolo
diciassettesimo, sì. Questi entrano nei miei gusti. Ma i francobolli, no. Non
ci capisco nulla, non rientrano nei miei gusti.
Non mi interessano e non mi dànno alcuna emozione. Temo che mi
accada lo stesso con la gente. Mi sento più a mio agio con questi tubi.

172
Fece un movimento secco del capo verso i tronchi scavati.
- L’aspetto più seccante delle persone e degli avvenimenti della nostra
epoca, è che non si riesce mai a conoscerli. Che cosa so della politica
contemporanea? Nulla. Che cosa so delle persone che mi circondano? Nulla.
Quel che pensano di me e del resto del mondo, quello che faranno tra
cinque minuti, son cose che io non posso indovinare. Per quel che ne so, lei
potrebbe improvvisamente saltarmi addosso e assassinarmi.
- Andiamo, via, - disse Denis.
- Senza dubbio, - continuò il signor Wimbush, - il poco che so del suo
passato è rassicurante. Ma io non so nulla del suo presente, e né io né lei
sappiamo nulla del suo avvenire. E’ spaventoso; con i vivi, ci si trova a
dover trattare con quantità inconoscibili e sconosciute. E non si può sperare
di conoscerle un poco, se non attraverso una lunga serie di contatti umani tra
i più sgradevoli e noiosi, che comportano un enorme sciupio di tempo. E
altrettanto accade per gli avvenimenti in corso. Come potrei conoscerne
qualche cosa, se non consacrando anni e anni a uno studio estenuante, di
prima mano, che a sua volta implica un numero infinito di contatti
spiacevoli? No, per conto mio preferisco il passato. Non cambia; è tutto
intero dinanzi a noi, in bianco e nero, e si può imparare a conoscerlo
comodamente e decorosamente e, soprattutto, privatamente, attraverso la
lettura.
Grazie alla lettura io so molte cose su Cesare Borgia, san Francesco, il
dottor Johnson; qualche settimana è stata sufficiente per darmi una profonda
conoscenza di questi interessanti personaggi, e mi è stato risparmiato il
noioso e rivoltante metodo di conoscerli attraverso i contatti personali,
metodo che avrei dovuto subire se fossero stati vivi. Come sarebbe gaia e
piacevole la vita se ci si potesse liberare da tutti i contatti umani! Forse in
avvenire, quando le macchine avranno raggiunto uno stato di perfezione -
perché debbo confessarle che io sono, come Godwin e Shelley, un discepolo
della perfettibilità, dalla perfettibilità delle macchine - allora sarà forse
possibile a chi, come me, lo desideri, vivere in una dignitosa reclusione,
circondato dalle delicate attenzioni di macchine silenziose e garbate,
completamente libero dai contatti umani. E’ una bella prospettiva, questa.
- Molto bella, - approvò Denis. - Ma che cosa dice dei contatti umani
desiderabili, come l’amore e l’amicizia?
La sagoma scura che spiccava nel buio, scosse il capo.

173
- Anche i piaceri di questi contatti sono stati molto esagerati, - disse la
voce educata e monotona. - Mi pare dubbio che possano essere paragonati ai
piaceri della lettura e della contemplazione. Se i contatti umani furono
altamente apprezzati in passato, è per il fatto che la lettura non era una cosa
molto diffusa e che i libri erano rari e difficili a riprodurre. Si ricordi che il
mondo comincia appena ora a uscire dall’analfabetismo. A misura che la
lettura diverrà abituale e più diffusa, un numero sempre maggiore di persone
scoprirà che i libri dànno tutti i piaceri della vita sociale e nessuna delle sue
intollerabili noie. Attualmente, le persone che ricercano il piacere tendono a
riunirsi in greggi e a far rumore; in futuro la loro tendenza naturale sarà di
cercare la solitudine e la tranquillità. Il vero studio all’umanità si fa
attraverso i libri.
- A volte penso che sia proprio così, - disse Denis.
Stava chiedendosi se Anne e Gombauld stessero ancora danzando
insieme.
- E invece bisogna che vada a vedere se tutto procede bene al dancing, -
disse il signor Wimbush.
Si alzarono e presero a camminare lentamente verso il bianco splendore.
- Se tutta quella gente fosse morta, - continuò Henry Wimbush, - questa
festa sarebbe estremamente gradevole. Nulla sarebbe più all’aperto che fosse
avvenuto un secolo fa. Com’è grazioso, diremmo; com’è fine e divertente.
Ma quando il ballo si svolge nel presente, quando ci si trova obbligati a
occuparsene, allora si vedono le cose nella loro vera luce. La realtà, eccola!
E fece un gesto in direzione dei bagliori dell’acetilene.
- Nella mia giovinezza, - proseguì dopo una pausa, - mi trovai, in modo
affatto casuale, implicato in una serie di intrighi amorosi tra i più
fantasmagorici. Un romanziere ne avrebbe fatto la propria fortuna e se io
stesso le raccontassi nel mio stile scialbo i particolari di quelle avventure, lei
rimarrebbe stupito d’un racconto tanto romantico. Ma le assicuro che
quando ebbero luogo, queste avventure non mi parvero né più né meno
interessanti di qualsiasi altro incidente della vita ordinaria. Scalare di notte,
con una scala di corda, una finestra al secondo piano di una vecchia casa di
Toledo, mi parve, nel momento in cui eseguivo questo esercizio piuttosto
pericoloso, una azione tanto semplice, tanto evidente, tanto - come dire? -
tanto quotidiana quanto quella di prendere a Surbiton il treno delle 8 e 52
per recarmi a trattare gli affari del lunedì mattina. Le avventure non
acquistano il loro carattere romantico che più tardi. Si vivono, e non sono

174
che una fetta di vita come tutto il resto. In letteratura esse divengono
affascinanti come potrebbe esserlo questo triste ballo, se stessimo
festeggiandone il tricentenario.
Erano giunti all’ingresso del recinto, e, fermatisi lì, battevano le palpebre
nella luce abbagliante.
- Ah! se fosse davvero così! - aggiunse Henry Wimbush.
Anne e Gombauld danzavano ancora insieme.

175
29.

Erano passate le dieci. I ballerini s’erano già dispersi e le ultime luci si


spegnevano. Domani, le tende sarebbero state abbattute, le giostre
smantellate, tutto sarebbe stato caricato sui furgoni e portato via. Una
superficie d’erba calpestata, una macchia scura e sordida nella verde distesa
del parco, non sarebbe rimasto altro. La fiera di Crome era finita.
Due sagome s’attardavano sulla riva dello stagno.
- No, no, - diceva Anne con un mormorio interrotto, cercando di
scostarsi, girando la testa a destra e a sinistra nello sforzo di sfuggire ai baci
di Gombauld. - No, la prego, no!
La sua voce s’alzava, diventava imperiosa.
Gombauld disserrò un poco la stretta.
- Perché no? - disse. - Voglio!
Con uno sforzo improvviso, Anne si liberò.
- Ah! no! - disse ancora. - Lei ha cercato di approfittare slealmente.
- Slealmente? - ripeté Gombauld, sinceramente stupito.
- Sì. Slealmente. Lei mi assale dopo che ho danzato due ore, nell’attimo
in cui sono ebbra di movimento, quando ho perso la testa, quando non ho
più cervello, e non mi rimane che un corpo ritmico! E’ grave quanto
aggredire una donna dopo averla narcotizzata.
Gombauld ebbe un riso collerico.
- Dica che io faccio la tratta delle bianche e non parliamone più.
- Per fortuna, - disse Anne, - adesso mi sono completamente ripresa, e se
lei tenterà di baciarmi, le tirerò le orecchie. Vuole che facciamo un paio di
giri intorno allo stagno? - aggiunse. - La notte è deliziosa.
Per tutta risposta, Gombauld emise un suono irritato. Si avviarono
lentamente, a fianco l’uno dell’altro.
- Quel che mi piace nei quadri di Degas… - cominciò Anne col tono
d’una conversazione indifferente.
- Oh! che il diavolo si porti Degas! - Gombauld gridò quasi queste
parole.

176
Dal punto in cui si trovava appoggiato, in un atteggiamento di
disperazione, al parapetto della terrazza, Denis li aveva visti; le due pallide
sagome spiccavano nel chiaro di luna, in riva allo stagno.
Egli aveva visto l’inizio di quello che prometteva di diventare un
abbraccio di passione infinita, e, a quella vista, era fuggito. Era troppo; non
poteva sopportar tanto. Ancora un istante e sarebbe scoppiato in lacrime
irrefrenabili.
Rientrando come un bolide nella casa, per poco non cascò addosso al
signor Scogan, che passeggiava nel vestibolo fumando la sua ultima pipa.
- Salve! - disse il signor Scogan, afferrandolo per un braccio.
Smarrito e appena cosciente di quel che faceva e del luogo in cui si
trovava, Denis s’arrestò un momento, simile a un sonnambulo.
- Che cosa c’è? - continuò il signor Scogan. - Lei ha l’aria sconvolta,
afflitta, depressa.
Denis scoté il capo senza rispondere.
- Tormentato per causa del cosmo, vero?
Il signor Scogan gli batté sul braccio.
- Conosco questa sensazione, - disse. - E’ uno dei sintomi più dolorosi.
Qual è il fine di tutto? Tutto è vanità. A che serve continuare ad agire, se si è
condannati a essere spenti come candele, alla fine, insieme a tutto il resto?
Sì, sì, io so esattamente quel che lei prova. E’ una cosa dolorosissima se ci si
lascia addolorare.
Ma perché lasciarsi addolorare? Dopo tutto, noi sappiamo che non c’è
nessuno scopo finale. Ma che cosa importa?
In quel momento il sonnambulo si svegliò d’improvviso.
- Come? - domandò battendo le palpebre e aggrottando le sopracciglia
dinanzi al suo interlocutore. - Come? - Poi, sfuggendogli, si slanciò su per le
scale, facendo gli scalini a due per volta.
Il signor Scogan corse ai piedi della scala e gli gridò:
- Non importa niente, niente. La vita è gaia ugualmente e sempre, in
qualsiasi circostanza, in qualsiasi circostanza, - aggiunse alzando la voce e
gridando.
Ma Denis era già fuori della portata della sua voce, e anche se non lo
fosse stato, quel giorno il suo spirito era impermeabile alle consolazioni della
filosofia. Il signor Scogan strinse la pipa tra i denti e continuò il suo
andirivieni meditativo.
- In qualsiasi circostanza, - ripeteva tra sé.

177
Era vero? La vita è realmente ricompensa a se stessa? Se lo chiedeva.
Quando la pipa si fu consumata sino alla sua puzzolente conclusione,
bevette un sorso di gin e se ne andò a letto. Due minuti più tardi, dormiva
profondamente e beatamente.
Denis s’era macchinalmente spogliato e, indossato il pigiama a fiori di
cui andava giustamente fiero, s’era gettato bocconi sul letto. Il tempo passò.
Quando, finalmente, Denis alzò la testa, la candela che aveva lasciata accesa
sul tavolino da notte s’era consumata fino al candeliere. Guardò l’orologio;
erano quasi la una e mezzo. La testa gli doleva; gli pareva che i suoi occhi
aridi, pieni d’insonnia, fossero stati contusi al di dentro e il sangue batteva
nelle sue orecchie un rumoroso tamburo arterioso. Si alzò, aprì la porta,
camminò silenziosamente pel corridoio, in punta di piedi, e cominciò a salire
la scala verso i piani superiori. Arrivato negli appartamenti dei domestici,
sotto i tetti, esitò, poi, volgendo a destra, aprì una porticina in fondo al
corridoio. Lì si trovava un ripostiglio per i bagagli, stretto come un armadio
e buio come un forno, puzzolente di polvere e di vecchio cuoio. Avanzò
prudentemente, nelle tenebre, a tentoni. Da questo ripostiglio partiva la scala
a pioli che conduceva sulla piattaforma della torre occidentale. Trovò la
scala e mise il piede sui pioli; silenziosamente, alzò la botola sulla sua testa; il
chiaro di luna era sopra di lui; aspirò l’aria fresca e viva della notte. In un
attimo si trovò sulla lamiera; il suo sguardo si perdeva sul paesaggio pallido
e sbiadito o scendeva perpendicolarmente sulla terrazza venti metri sotto.
Perché era salito in quel luogo desolato? Per guardare la luna? Per
uccidersi? Sino a quel momento non se lo era chiesto. La morte; a questo
pensiero le lacrime salirono ai suoi occhi. Il suo dolore aveva una certa
solennità; egli volava sulle ali d’una specie d’esaltazione.
Era in uno stato d’animo nel quale avrebbe potuto fare le cose più folli.
Avanzò verso il parapetto esterno; l’abisso s’apriva a picco, ininterrotto. Un
salto; forse si poteva anche saltare di là dalla terrazza, dieci metri più in
basso, sul terreno indurito dal sole. Si fermò all’angolo della torre,
guardando ora l’abisso di tenebre sotto di lui, ora le rare stelle e la luna che
calava. Fece un gesto con la mano, mormorò parole di cui in seguito non si
ricordò più; ma il fatto che egli le avesse pronunziate ad alta voce, diede loro
un senso particolarmente terribile. Poi sprofondò un’ultima volta lo sguardo
nell’abisso.
- Ma che diavolo fa, Denis? - domandò una voce vicinissima a lui.

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Denis emise un grido di sorpresa spaventata e per poco non scavalcò il
parapetto davvero. Il suo cuore batteva violentemente, e quando, tornato in
sé, si volse nella direzione da cui era venuta la voce, era pallido.
- Si sente male?
Nell’ombra profonda che dormiva sul parapetto est della torre, vide
qualche cosa che da principio non aveva visto, una forma oblunga. Era un
materasso su cui qualcuno stava coricato. Dopo quella prima e memorabile
notte sulla torre, Mary aveva dormito tutte le notti all’aria aperta, era una
manifestazione di fedeltà.
- Ho avuto paura, - continuò essa, - svegliandomi, nel vederla stendere le
braccia e parlare da solo. Che diavolo fa qui?
Denis si mise a ridere in modo melodrammatico.
- Che cosa, infatti? - disse.
Se ella non si fosse svegliata, egli sarebbe ormai stato in pezzi ai piedi
della torre; ora ne era certo.
- Non avrà mica qualche cattiva intenzione a mio riguardo? - domandò
Mary, ch’era sempre troppo rapida nelle sue conclusioni.
- Non sapevo che lei fosse qui, - disse Denis, ridendo d’un sorriso ancor
più amaro e artificiale.
- Che cosa c’è, dunque, Denis?
Egli sedette sull’orlo del materasso, e, per tutta risposta continuò a ridere
dello stesso riso spaventevole e falso.
Un’ora dopo, egli riposava con la testa sul grembo di Mary, mentre ella
gli passava le dita nei capelli arruffati, con una sollecitudine affettuosa,
rigorosamente materna. Egli le aveva detto tutto: il suo amore senza
speranza, la sua gelosia, la sua disperazione, il suo suicidio - e come questo
suicidio fosse stato provvidenzialmente impedito dal suo intervento. Egli le
aveva solennemente promesso di non pensar più a porre fine ai suoi giorni.
E, ora, la sua anima fluttuava in una triste serenità accarezzata dalla
compassione che, generosamente, le elargiva Mary. E non era soltanto
ricevendo la compassione che Denis aveva trovato la serenità e una specie di
felicità, ma anche dandola. Perché, se egli aveva confidato a Mary tutta la
sua disperazione, Mary, reagendo a queste confidenze, gli aveva confidato
tutto, o quasi tutto, quello che riguardava la disperazione sua.
- Povera Mary! - Era desolato per lei. Nondimeno ella avrebbe dovuto
indovinare che Ivor non poteva essere precisamente un monumento di
costanza.

179
- Ebbene, - concluse essa, - bisogna far buon viso a cattiva fortuna.
Aveva voglia di piangere; ma non si abbandonava alla debolezza. Ci fu
un silenzio.
- Crede, - domandò Denis esitando, - crede che veramente essa… e
Gombauld?…
- Ne sono certa, - disse Mary in modo decisivo.
Ci fu un’altra pausa egualmente lunga.
- Sarebbe meglio partire, - consigliò Mary. - E’ il metodo più sicuro e
ragionevole.
- Ma ho annunciato che sarei rimasto tre settimane.
- Dovrà inventare una scusa.
- Credo che lei abbia ragione.
- Ne sono certa, - disse Mary, riprendendo fermamente il possesso di sé.
- Non può continuare così, vero?
- No, così non potrei continuare, - ripeté lui. Immensamente pratica,
Mary escogitò un piano d’azione. Improvvisamente, nelle tenebre, l’orologio
della chiesa suonò le tre.
- Lei deve andar subito a letto, - diss’ella. - Non credevo che fosse così
tardi.
Denis scese la scala a tentoni; la sua camera era buia. Da tempo la
candela s’era consumata fino in fondo. S’infilò sotto le coperte e, quasi
istantaneamente, s’addormentò.

180
30.

Denis era stato svegliato, ma, a dispetto delle tende scostate, era ricaduto
nello stato d’intorpidimento e di sonnolenza nel quale il sonno diventa un
piacere sensuale, assaporato quasi coscientemente.
Avrebbe potuto rimanere così ancora un’ora, se non fosse stato
disturbato da qualcuno che picchiava violentemente alla porta.
- Avanti, - balbettò senza aprir gli occhi. La maniglia girò, una mano
afferrò Denis per le spalle e lo scosse rudemente.
- Si alzi! si alzi!
Egli aprì penosamente le palpebre e vide presso il suo letto Mary, seria.
- Si alzi! - ripeteva. - Deve andare a spedire il telegramma. Non si
ricorda?
- Oh! Dio mio!
Allontanò le coperte. Il suo carnefice si ritirò.
Denis si vestì più presto che poté e corse lungo la strada verso l’ufficio
postale del villaggio.
E mentre tornava si sentiva sollevato e contento. Aveva inviato un lungo
telegramma il quale, tra qualche ora, ne avrebbe evocato un altro che gli
avrebbe ingiunto di tornare subito in città per un affare urgente. Era un atto
compiuto, un passo decisivo fatto; si sentì contento di sé. E sedette a
colazione con l’appetito aguzzato.
- Buongiorno, - disse il signor Scogan. - Spero che stia meglio.
- Meglio?
- Ieri sera aveva qualche inquietudine relativa al cosmo.
Denis tentò di allontanare l’accusa ridendo.
- Davvero? - domandò con tono leggero.
- Io vorrei non aver altri motivi d’inquietudine, - disse il signor Scogan.
- Sarei un uomo felice.
- Non si è felici che nell’azione, - enunciò Denis, pensando al
telegramma.

181
Guardò fuori della finestra. Grandi nuvole di stile fiorito e barocco
ondeggiavano alte nel cielo azzurro. Il vento faceva stormire le piante e il
loro fogliame agitato brillava come metallo al sole. Tutto pareva
meravigliosamente bello; al pensiero di abbandonar ben presto tutta quella
bellezza, sentì un momentaneo spasimo; ma si consolò ricordando come la
sua azione fosse decisiva.
- L’azione, - ripeté ad alta voce; poi s’avvicinò alla credenza e si servì
una gradevole composizione di pancetta affumicata e di pesce.
Finita la colazione, Denis tornò sulla terrazza e, sedendosi, elevò
l’enorme baluardo del «Times» contro i possibili assalti del signor Scogan il
quale mostrava un insaziato desiderio di continuare la sua conversazione
sull’universo. Sicuro dietro le pagine fruscianti, egli meditava. Nella luce di
quel radioso mattino, le emozioni della vigilia sembravano assai lontane. Egli
li aveva visti baciarsi al chiaro di luna. E poi? Forse questo non provava
gran che. E anche se ciò provava qualche cosa, perché lui avrebbe dovuto
andarsene? Si sentiva abbastanza forte per rimanere, abbastanza forte per
stare in disparte, disinteressato, come una semplice conoscenza. E anche se
non era abbastanza forte…
- A che ora crede che arriverà il telegramma? - gli domandò
improvvisamente Mary, imponendo la sua presenza al di sopra del giornale.
Denis ebbe un sussulto colpevole.
- Non lo so davvero, - rispose.
- Glielo chiedevo perché c’è un ottimo treno alle tre e ventisette, e
sarebbe comodo che lei lo potesse prendere; non le pare?
- Molto comodo, - annuì egli debolmente. Gli pareva di stare facendo i
preparativi per i suoi funerali. Il treno lascia la stazione di Waterloo alle tre e
ventisette. Né fiori né corone… Mary se n’era andata. No, che diamine! Egli
non si sarebbe lasciato spedire così verso la necropoli. Il diavolo se la porti!
La vista del signor Scogan che dalla finestra della sala da pranzo lo fissava
con uno sguardo avido, gli fece issare di nuovo il «Times» precipitosamente.
Lo tenne alzato a lungo. Poi, abbassandolo per spiare prudentemente intorno
a sé, si trovò, con stupore, di fronte al sorriso di Anne, sorriso leggero,
divertente, pieno di malizia. Essa stava in piedi dinanzi a lui - la donna che
era un albero - la grazia ondulante dei suoi movimenti fissata in una posa
ch’era anch’essa un movimento.
- Da quanto tempo è lì? - domandò dopo averla guardata con la bocca
aperta.

182
- Oh! almeno mezz’ora, credo, - diss’ella con tono indifferente. - Era
così sprofondato nel giornale, sprofondato fino al collo, che non desideravo
disturbarla.
- Lei è deliziosa stamane, - esclamò Denis. Era la prima volta che osava
pronunciare un’osservazione personale di questo genere.
Anne alzò la mano, come per evitare un colpo.
- Non mi schiacci, per favore.
Sedette sulla panca al suo fianco. Era un simpatico ragazzo, pensava,
assolutamente delizioso, e le violente insistenze di Gombauld cominciavano
a stancarla.
- Perché non s’è messo i pantaloni bianchi? - domandò. - Mi piace tanto
coi pantaloni bianchi.
- Li ho mandati a lavare, - rispose Denis abbastanza seccamente.
Quell’allusione ai pantaloni bianchi, era il contrario di quel che ci
sarebbe voluto. Egli stava preparando un piano per ricondurre la
conversazione sulla buona strada, quando il signor Scogan uscì come una
freccia dalla casa, attraversò la terrazza con la rapidità d’un movimento
d’orologeria e si fermò dinanzi alla panca su cui essi erano seduti.
- Per continuare la nostra interessante conversazione sul cosmo, -
cominciò, - le dirò che sono sempre più convinto che le varie parti di questa
macchina siano come compartimenti stagni… Vuole avere la bontà, caro
Denis, di spostarsi d’un filo verso destra? - Egli s’incuneò tra loro due sul
banco. - E se lei volesse spostarsi di qualche centimetro verso sinistra, mia
cara Anne… Grazie. Compartimenti stagni, stavo dicendo, non è vero?
- Sì, - disse Anne. Denis aveva perso la parola.
Stavano prendendo il caffè dopo colazione, nella biblioteca, quando il
telegramma arrivò. Denis arrossì prendendo dal vassoio la busta arancione;
la aprì: «Torna subito. Affari urgenti di famiglia».
Era troppo ridicolo; come se egli avesse degli affari di famiglia! Non era
meglio fare una pallottola di quella carta e cacciarsela in saccoccia? Alzò il
capo: i grandi occhi di Mary, porcellana azzurra, erano fissi su di lui, seri e
penetranti. Egli arrossì ancora di più, esitò, afferrato da una terribile
incertezza.
- Che cos’è quel telegramma? - domandò Mary in modo significativo.
Egli perse la testa.
- Temo, - balbettò. - Temo che dovrò tornar subito in città.
E guardò il telegramma con un feroce aggrottare di sopracciglia.

183
- Ma è assurdo, impossibile, - esclamò Anne. Essa era in piedi presso la
finestra e parlava con Gombauld; ma, alle parole di Denis, attraversò la
camera ondeggiando, e venne verso di lui.
- E’ urgente, - ripeté lui con disperazione.
- Ma è così poco tempo che lei è qui! - protestò Anne.
- Lo so! - diss’egli profondamente infelice.
Oh! se essa avesse potuto capire! Si dice che le donne abbiano molto
intuito.
- Se deve partire, non c’è niente da fare, - intercalò con fermezza Mary.
- Sì, debbo partire.
Guardò ancora il telegramma per trovarvi ispirazione.
- Il fatto è che sono affari di famiglia urgenti, - spiegò.
Priscilla s’alzò dalla sua sedia con un certo nervosismo.
- Ne ho avuto il presentimento esatto ieri sera, - disse. - Un
presentimento esatto.
- Una semplice coincidenza, senza dubbio, - disse Mary, allontanando la
signora Wimbush dalla conversazione. - C’è un treno comodissimo alle tre e
ventisette -. Guardò la pendola sulla mensola del camino. - Lei ha tutto il
tempo di far la valigia.
- Ordinerò di preparare subito l’automobile - Henry Wimbush suonò. I
funerali erano bene avviati. Era terribile, terribile.
- Sono desolata che lei parta! - disse Anne.
Denis si volse verso di lei; essa aveva veramente l’aria desolata.
Egli si abbandonò al proprio destino, irrimediabilmente, fatalisticamente.
Ecco il resultato dell’azione, del voler fare qualche cosa di decisivo. Ah! Se
egli avesse lasciato andar le cose per la loro china! Se avesse…
- Sentirò molto la mancanza della sua conversazione - disse il signor
Scogan.
Mary gettò un’altra occhiata all’orologio.
- Credo che le convenga andare a fare la valigia, - disse.
Obbediente, Denis uscì dalla camera. Mai più, si diceva, mai più avrebbe
fatto qualche cosa di decisivo. Camlet, West Bowlby, Knipswich per
Timpany, Spavin Delawarr e poi tutte le altre stazioni, e poi, finalmente,
Londra. Il pensiero del viaggio lo spaventava. E che diamine avrebbe fatto a
Londra, quando ci fosse stato? Salì la scala con stanchezza. Era tempo che si
stendesse nella bara.

184
L’automobile era alla porta: il carro funebre. Tutta la compagnia s’era
riunita per vederlo partire. Arrivederci! Arrivederci!
Macchinalmente egli diede un colpettino al barometro che pendeva nel
peristilio; l’ago girò percettibilmente verso sinistra. Un improvviso sorriso
rischiarò la sua faccia lugubre.
- “Egli sprofonda e io sto per partire”, - disse, citando con squisita
opportunità il poeta Landor. Girò su tutti i volti una rapida occhiata.
Nessuno aveva raccolto la battuta. E allora salì sul carro funebre.

185
1)
Sono i nomi di tre malattie delle piante. [N. d.
T.] ↵

186
2)
Le parole tra virgolette doppie (”’…’”) sono
in italiano nel testo. ↵

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by Luca Calcinai

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