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DEPARTAMENTO DE LENGUAS MODERNAS

ITALIANO
Prof. Claudia Fernández Speier

Año académico 2020

LIVELLO ELEMENTARE

LA SCUOLA NORMALE DI PISA [tratto da https://www.sns.it/it/storia/]


La Scuola Normale Superiore è un istituto pubblico di istruzione universitaria
dalle caratteristiche uniche. Selezione degli allievi esclusivamente in base al
merito, lezioni in forma seminariale, profondo intreccio didattica/ricerca, vita
collegiale integrata, grande apertura agli scambi internazionali secondo il
5 miglior modello delle Scuole Superiori universitarie europee.

La fondazione - Il periodo Napoleonico

Il decreto napoleonico del 18 ottobre 1810, relativo agli “stabilimenti di istruzione pubblica” in
10 Toscana - provincia dell’impero francese a partire dal 1807 - stabilisce l’istituzione a Pisa di un
“Pensionato accademico” per gli studenti universitari. Venticinque posti del pensionato
vengono messi a concorso per studenti delle facoltà di Lettere e Scienze, per creare una
succursale dell’École Normale Supérieure di Parigi.

Nasce così, per volontà di Napoleone, la Scuola Normale Superiore di Pisa. Il termine
15 “Normale” si riferisce alla sua missione didattica primaria, formare insegnanti di scuola media
superiore che trasmettessero le “norme”, cioè che educassero i cittadini all’obbedienza alle
leggi e all’Imperatore.
Il 22 febbraio 1811 viene emanato il primo bando di concorso, ma la Normale pisana inizia la
sua attività solo nel 1813, quando i primi studenti di Lettere e Scienze si stabiliscono alla
20 Scuola.
La prima sede è presso il convento di San Silvestro: un pensionato a metà tra un ordine militare
e un convento, in cui la vita degli studenti è segnata da un rigido Regolamento di disciplina.
Seguendo il modello francese, la Scuola viene affidata a un “Direttore”, coadiuvato dal “Sotto-
direttore” e dall'“Economo”, addetti all’amministrazione, alla vigilanza degli studi e alla tutela
25 dell’ordine.

La Normale era riservata a quel tempo ai migliori alunni selezionati alla fine dei corsi liceali,
di età compresa fra i 17 e i 24 anni, che durante i due anni di studi conseguivano anche i gradi
nelle facoltà di Lettere e Scienze dell’Università imperiale. Gli studenti avevano impegni
particolari ed erano obbligati a seguire corsi aggiuntivi: venivano seguiti da quattro
30 “Ripetitori”, scelti dal Direttore tra gli allievi stessi della Normale, che quotidianamente
“ripetevano” le lezioni universitarie e coordinavano le “conferenze”, una sorta di seminari. Con
questo tirocinio qualificato alle spalle, dopo il diploma, i giovani si impegnavano ad insegnare
nelle scuole secondarie per almeno dieci anni.

La Scuola Normale napoleonica ha una vita breve: il solo anno accademico 1813/14, durante il
35 quale è Direttore il fisico Ranieri Gerbi. Il 6 aprile 1814 Napoleone firma l’atto di abdicazione:
il rientro del granduca Ferdinando III sul trono di Toscana coincide con la chiusura della
Scuola, nonostante i vari tentativi per salvarla in nome della sua funzione.

[…]

Dal dopoguerra ad oggi

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La Normale è oggi una scuola di élite a base ugualitaria, che premia il talento, il merito
e le potenzialità dei propri allievi a prescindere dalla loro provenienza sociale e dal loro
curriculum di studi precedente. Il suo scopo è formare studiosi, professionisti e
cittadini dalla formazione culturale ampia e dal forte spirito critico.

45 Fondamentali sono anche le relazioni e le collaborazioni che la Scuola ha saputo


stabilire in questi anni con le principali istituzioni universitarie e di ricerca nazionali
ed internazionali, favorendo la mobilità di studenti e docenti e la partecipazione a corsi
integrati e programmi di ricerca.

La Scuola fornisce inoltre ai propri allievi ed ex allievi un servizio di placement per


50 promuovere i rapporti e i collegamenti con importanti realtà professionali e favorire
un inserimento qualificato dei propri laureati nel mondo del lavoro.

Questi percorso ha preso il via con la legge del 7 marzo 1967, che dà vita alla Scuola
Normale Superiore di studi universitari e di perfezionamento, inizialmente dipendente
dall’ateneo pisano ma ben presto autonoma.
55 Lo Statuto del 1969 definisce il nuovo quadro formativo della Scuola e il profilo di
Istituto di alta formazione scientifica: in particolare vengono stabiliti un forte
allargamento del corpo docente interno, la fondazione ed il potenziamento delle
strutture di ricerca e l’ampliamento del numero di allievi dei Corsi ordinari e di
Perfezionamento. La legge del 18 giugno 1989 riconoscerà infine l’equipollenza del
60 diploma di perfezionamento della Scuola al titolo di dottore di ricerca rilasciato dagli
atenei italiani.

Proprio per il corso di Perfezionamento, dall’anno accademico 2014/2015 l’offerta


didattica è stata ampliata grazie alla fusione con l’Istituto Italiano di Scienze Umane
(SUM) di Firenze, ora Dipartimento di Scienze politico sociali della Normale, e
65 successivamente, dall’anno accademico 2018/2019, con la nascita dell’Istituto di Studi
Avanzati Carlo Azeglio Ciampi.

Nel 2018 la Normale si è federata con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e con lo
Iuss – Scuola Universitaria Superiore di Pavia, per offrire nuove opportunità formative
che integrino le competenze delle tre istituzioni in determinati ambiti quali le
70 discipline economico-politiche e lo studio delle dinamiche chimico-fisiche che
influenzano i cambiamenti climatici con le relative ripercussioni nell’agroalimentare.

ATTIVITÀ
1. Dopo aver letto il testo sulla Scuola Normale di Pisa, rispondi alle domande:
a. Quali sono i periodi della storia della Scuola Normale di Pisa compresi dal
testo? Perché credi che siano stati scelti? Che periodi immagini che ci siano
nel testo originale, segnati qua con [...]?
b. Come e quando nasce la Scuola Normale di Pisa?
c. Che vuol dire, in questo contesto, il termine normale?
d. Perché si può affermare che è un’istituzione di élite?
e. Che dovevano fare gli studenti dopo essersi laureati?
f. Quando e perché si chiude questa prima Scuola?
g. A che si riferisce il termine (non italiano) placement (r. 49)?
h. Che stabiliscono i provvedimenti del 1967-1969 e del 1989?
i. Quali sono i cambiamenti degli ultimi anni?
2. Cerca nel testo le espressioni analoghe a intercambios, independientemente de, se ha
asociado, investigación, equivalencia, otorgado.
3. Sottolinea nel testo e trascrivi i verbi al presente terminati in -isce / iscono; cerca
quindi i loro infiniti.
4. Confronta in uno schema la storia della Scuola Normale di Pisa con quella della
Escuela Normal argentina.
Chi sono le sardine. Storia di un movimento e del
suo nome
Dai social alla piazza, la rapida parabola del nuovo
movimento anti-lega con molti dubbi e i soliti slogan anti-
Salvini
Prima Bologna, poi Modena. E' la breve ma già rumorosa storia delle "sardine", il
5 movimento di protesta anti Salvini che sta cercando di porsi come argine al
centrodestra nelle prossime elezioni regionali in programma in Emilia fine
gennaio. "Nessun insulto, nessun simbolo, nessun partito". Parola di Mattia
Santoni, 32 anni, laureato in scienze politiche collaboratore per una rivista legata
Romano Prodi, uno degli ideatori del cosiddetto movimento delle sardine.

10 Da dove nasce il movimento delle sardine.

Un'idea, come ha spiegato il giovane al «Resto del Carlino», nata nel corso di una
notte insonne insieme tre amici: Roberto Morotti, 31 anni, ingegnere, Giulia
Trappoloni, 30 anni, fisioterapista, Andrea Garreffa, 30 anni, guida turística.
Santoni non poteva accettare che nella rossa Bologna la Lega di Matteo Salvini
15 facesse campagna elettorale sostegno della candidatura di Lucia Borgonzoni alla
poltrona di presidente della regione Emilia Romagna in opposizione al presidente
uscente, il piddino Stefano Bonaccini.

Da qui l'idea che all'appuntamento leghista per il 14 novembre al Paladozza


venisse contrapposta una sorta di manifestazione flash mob di piazza in funzione
20 anti-Lega. Volevamo essere almeno uno in più di loro, la mattina dopo ci siamo
sentiti abbiamo organizzato tutto velocemente" ha ricordato ancora Santoni.

Perché "sardine”

Il nome “sardine" nasce dall'idea di stare tutti stretti stretti come sardine in una
scatola dimostrazione che la piazza antileghista forte numerosa. Vicini silenziosi
25 come pesci per abbassare toni da quella che via Facebook stata definita "retorica
populista". L'invito - definitivo - recitava: "Nessuna bandiera, nessun partito,
nessun insulto. Crea la tua sardina, partecipa alla prima rivoluzione ittica della
storia". Dato che il Paladozza, dove era in programma la manifestazione della
Bergonzoni di Salvini può contenere 5.570 persone ai 4 amici sarebbe bastato
30 metterne insieme 6.000 per superare il rivale.

Il tam tam non poteva che partire da Facebook con la creazione dell'evento
"Seimila sardine contro Salvini" dove si invitavano bolognesi ad accorrere
numerosi in piazza spiegando: "Il Paladozza ha una capienza massima di 5.570
persone. Non puoi andare oltre, per problemi di sicurezza soprattutto di spazio.
35 Ecco allora che vogliamo lanciare un flash-mob: abbiamo misurato che sul
crescentone di Piazza Maggiore ci stanno fino 6.000 persone".

Da Bologna a Modena

E così in 15mila sono arrivati giovedì 14 novembre a Piazza Maggiore, armati di


sardine di cartone per quella che non avrebbe dovuto essere una manifestazione
40 politica ma un flash mob della società civile. In realtà in molti ci vedono dietro
burattinai della sinistra che, da dietro le quinte, tessono le file di un potenziale
movimento nato dal basso. I ragazzi, inoltre, non si sono fatti trovare impreparati
al successo della loro "rivoluzione ittica" prontamente si sono fatti "ponte" - come
detto al «Resto del Carlino» - per organizzare analoghi eventi altrove. Dopo
45 Bologna, infatti, è stata la volta di Modena, dove gli anti Salvini sono stati 7.000
stretti come sardine in Piazza Grande. Anche in questo caso l'antileghismo era
tutto indirizzato boicottare la candidatura della Borgonzoni alla guida della
regione. Via Facebook digitando "6.000 sardine" compaiono eventi in fieri in
mezza Italia: da Firenze a Torino o Rimini. se il segretario Pd Nicola Zingaretti
50 plaude l'iniziativa indirizzando la paternità del movimentismo ittico sotto l'ala
partitica, Matteo Salvini ricorda che tra gli organizzatori c'è anche chi, senza
andare troppo sul sottile, in passato gli ha augurato la morte. Alla faccia del clima
d'odio di violenza.

[Tratto da https://www.panorama.it/news/sardine-storia-movimento-nome-lega-salvini]

ATTIVITÀ
1. Dopo aver letto l’articolo, rispondi:
a. Chi sono stati gli ideatori del movimento delle sardine?
b. Che cosa vuol dire “Nessuna bandiera, nessun insulto, nessun
simbolo, nessun partito”? Spiegate il concetto.
c. Quante persone volevano riunire e quante ce ne sono state quel
14 novembre a Piazza maggiore?

2. Cerca di spiegare che cosa vogliono dire le seguenti espressioni:


Ci la rossa Bologna (r. 13)
Ci vedono dietro burattini della sinistra (r. 39)

dietro le quinte (r. 40)


tessono le file (r. 40)
3. Trova nel testo le preposizioni articolate dal, alla e nelle, e traduci le frasi che le
includono.
4. Osserva queste forme verbali: facesse - venisse. Qual è il loro infinito?
5. Trova nel testo falso/i amico/i, e trascrivilo/li
6. Rintraccia nel testo le forme verbali ha spiegato - ci siamo sentiti - abbiamo organizzato
- ha ricordato; traduci le frasi che le contengono e cerca di dedurre il loro infinito.
7. Leggi queste espressioni nei loro contesti: antileghista (r. 23) /antileghismo (r.45)-
stretti stretti (r. 23). Spiega il loro significato.
LA QUESTIONE MERIDIONALE
1. Leggi il testo, e poi risolvi le attività.
La questione meridionale, di di Guido Pescosolido - Dizionario di Storia (2010) [Testo
5 adattato da www.treccani.it/enciclopedia/la-questione-meridionale_%28Dizionario-di-
Storia%29/]
L’espressione «questione meridionale» indica l’insieme dei problemi posti dall’esistenza
nel Mezzogiorno d’Italia dal 1861 sino a oggi di un più basso livello di sviluppo
economico, di un diverso e più arretrato sistema di relazioni sociali, di un più debole
10 svolgimento di molti e importanti aspetti della vita civile rispetto alle regioni
centrosettentrionali.
Il grave degrado della vita amministrativa e dei sistemi di potere locali e l’indigenza in
cui versavano nel Mezzogiorno le masse popolari furono portati per la prima volta
all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e delle classi dirigenti nei primi anni
15 Settanta dell’Ottocento dagli studi di P. Villari e dalle inchieste di L. Franchetti e S.
Sonnino, che denunciarono l’insufficienza dell’azione dello Stato nel Mezzogiorno, [...]
riponendo nello Stato unitario stesso qualunque speranza di soluzione dei problemi
meridionali. La proposta di rimedio dei mali descritti fu, infatti, una serie di riforme
promosse dal governo in materia economica, sociale e amministrativa (alleggerimento
20 del carico fiscale, facilitazioni creditizie, riforma dei contratti agrari).
A partire dalla metà degli anni Ottanta si ebbe una differenziazione strutturale degli
apparati produttivi della penisola molto più accentuata di quella esistente nel 1861,
quando Nord e Sud avevano entrambi un’economia largamente agricolo-commerciale e
un apparato industriale minimo. Dagli anni Ottanta a un Mezzogiorno persistentemente
25 agricolo-commerciale si contrappose un’Italia settentrionale sensibilmente
industrializzata. La differenza di reddito pro capite tra le due macroaree cominciò allora
a crescere sensibilmente. Le plebi meridionali diedero luogo tra la metà degli anni
Ottanta e lo scoppio della Prima guerra mondiale alla più grande emigrazione di massa
all’estero della storia del Mezzogiorno.
30 Nell’ambito del pensiero meridionalista comparvero nomi nuovi. G. Fortunato, F.S. Nitti,
A. De Viti De Marco, G. Salvemini, L. Einaudi sostennero che tra Ottocento e Novecento
esistevano due Italie, geografiche, economiche, sociali, che procedevano a velocità
diverse. Il protezionismo introdotto nel 1887, mentre favoriva la cerealicoltura estensiva
del latifondo, esponeva le esportazioni di prodotti dell’agricoltura specializzata del
35 Mezzogiorno alle ritorsioni commerciali francesi. Il Sud era ridotto a mercato coloniale
delle industrie settentrionali, nell’interesse degli industriali del Nord e dei latifondisti del
Sud, alleati in un blocco politico-sociale conservatore e protezionista.
Per Salvemini questo stato di cose poteva essere scardinato solo mediante un’azione
politica dal basso tendente al cambiamento radicale della forma dello Stato in senso
40 federalista. Operai del Nord e contadini del Sud avrebbero dovuto lottare per
l’introduzione del suffragio universale e, attraverso i mutati equilibri politici che ne
sarebbero conseguiti, spezzare il blocco protezionista tra industriali e latifondisti che
danneggiava non solo il Mezzogiorno ma l’intera economia nazionale.
Al contrario di Salvemini, Nitti, dopo una prima fase liberista e dopo avere messo in luce
45 come lo Stato italiano avesse drenato risorse dal Sud al Nord attraverso le leve della
politica fiscale e della spesa pubblica, si convinse della giustezza della scelta
protezionista. In un contesto internazionale di altissima competitività essa soltanto
poteva garantire al Paese un avvenire industriale, senza il quale l’Italia intera sarebbe
stata condannata all’arretratezza permanente. Alla luce di tale superiore interesse
50 nazionale si poteva anche giustificare il sacrificio del Sud, a patto però che lo Stato si
facesse carico di una politica correttiva dello squilibrio promuovendo anche nel
Mezzogiorno, con interventi legislativi specifici, un processo di industrializzazione,
collegato a un razionale riordino delle risorse idrogeologiche indispensabili allo sviluppo
della produzione di energia elettrica. La legislazione speciale a favore delle regioni
55 meridionali varata dal governo Giolitti all’inizio del sec. 20° derivò soprattutto da questa
sua analisi.
Per quanto apprezzabili, i risultati della legislazione speciale, fra cui la costruzione
dell’impianto siderurgico di Bagnoli a Napoli, l’acquedotto pugliese, la direttissima
Roma-Napoli, non ridussero però, né tanto meno annullarono il divario Nord-Sud. Le
60 necessità belliche della Prima guerra mondiale, le successive politiche di restringimento
degli scambi di merci e risorse umane affermatesi a livello mondiale tra gli anni Venti e
Trenta, le scelte di politica demografica del fascismo e infine la Seconda guerra mondiale
e la ricostruzione agirono tutte in modo che alla fine degli anni Quaranta del Novecento
il dislivello economico Nord-Sud raggiungesse i suoi massimi storici.
65 All’indomani del secondo conflitto mondiale si ebbe una vigorosa ripresa dell’azione di
denuncia e proposta dei maggiori meridionalisti, nonché dei partiti che si riaffacciavano
ufficialmente alla vita politica. Di fronte alla gravità del divario apparvero subito fuori
tempo le posizioni della destra liberista, favorevole all’attesa dei tempi lunghi della
crescita spontanea dell’economia meridionale. Tutte le altre forze intellettuali e
70 politiche ritenevano indispensabile e urgente un intervento straordinario dello Stato
sugli assetti socioeconomici del Mezzogiorno. Le differenze strategiche tra forze di
ispirazione comunista, socialista, liberal-democratica e cattolica erano tuttavia marcate.
Il PCI riproponeva sostanzialmente immutata la strategia di alleanza tra operai del Nord
e contadini del Sud che Gramsci all’indomani del primo conflitto mondiale aveva ripreso
75 da Salvemini, inserendola nel disegno rivoluzionario marxista del suo partito. La riforma
agraria fu concepita come strumento di avvio di un processo rivoluzionario degli assetti
sociali e politici dell’intera società meridionale e nazionale. Fu in questa prospettiva che
il Partito comunista, fiancheggiato dalla rivista Cronache meridionali, assunse una
posizione avversa a quasi tutti i provvedimenti specifici varati a favore del Sud negli anni
80 Cinquanta, inclusa l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno e, più tardi, la stessa
adesione al MEC. Alla riforma agraria guardavano con favore anche esponenti
importanti del mondo cattolico. Riprendendo la linea di L. Sturzo, essi vedevano nella
formazione di una piccola proprietà coltivatrice lo strumento principe per il rilancio del
processo di modernizzazione di una società rurale meridionale elettoralmente
85 controllata dalla DC [Democrazia Cristiana]. La riforma agraria era al centro anche del
«grande disegno» di M. Rossi Doria e del meridionalismo socialista non inserito
nell’orbita comunista. Nella riforma Rossi Doria vedeva un fondamentale strumento
modernizzatore sul modello delle esperienze delle aree arretrate degli Stati Uniti. Le
soluzioni prospettate puntavano a duraturi e significativi miglioramenti produttivistici,
90 anche se insufficienti a riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse nel
Mezzogiorno, un rapporto irrimediabilmente compromesso dalla politica demografica
fascista. Rossi Doria vedeva pertanto inevitabile una nuova ondata migratoria dal Sud,
come unica condizione per la creazione in tempi brevi di un’agricoltura competitiva e
l’avvio di uno sviluppo economico autopropulsivo, che avrebbe potuto in un secondo
95 tempo estendersi anche ad attività industriali.
La riforma agraria, che pure attraverso la «legge Sila» e la «legge stralcio» assestò un
duro colpo alla proprietà terriera assenteista, non rispose comunque alle aspettative di
Rossi Doria. A trainare la modernizzazione dell’agricoltura meridionale non furono mai
le aree interne investite dalla riforma, ma quelle costiere dell’agricoltura specializzata.
100 Tanto meno la riforma agraria fu il volano del processo di radicale sovvertimento
economico e sociale preconizzato dalla sinistra comunista. Il più grande processo di
trasformazione della società meridionale della nostra storia, anche se non si è concluso
con la rimozione del divario, è avvenuto solo grazie alla destinazione di una mole senza
precedenti di risorse oltre che al settore agricolo anche e soprattutto al secondario e
105 terziario, come aveva intuito a suo tempo Nitti e come sostennero a partire dal 1946 i
fondatori della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), e
poi i meridionalisti liberaldemocratici [...]. Costoro negli anni Cinquanta ritenevano
ormai improrogabile l’equiparazione del Mezzogiorno al benessere e alla civiltà delle
democrazie industriali dell’Occidente, mediante uno sviluppo che rendesse quella
110 meridionale una società pienamente e organicamente sviluppata in tutte le sue
componenti, rurali e urbane. E ciò attraverso un intervento straordinario che doveva
avvenire non solo attraverso leggi speciali come quelle dell’inizio del sec. 20°, ma anche
attraverso istituzioni finalizzate alla loro applicazione: soprattutto la Cassa per il
Mezzogiorno.
115 La politica di intervento straordinario si concluse senza annullare il divario Nord-Sud e la
sua liquidazione sancì una crisi gravissima del meridionalismo e per alcuni anni una
scomparsa della questione meridionale dall’agenda politica del Paese. Ciò avvenne per
una serie di cause: crisi petrolifera, assenza di un’efficace programmazione delle forze
politiche e sindacali che non volevano attuare una rigida politica dei redditi e di
120 contenimento dei consumi, uniformità dei livelli salariali tra Nord e Sud che scoraggiava
gli investimenti, insufficienza delle classi dirigenti regionali di fronte alla prova
dell’autonomia, crescita della malavita organizzata, uso clientelare di parte cospicua
delle risorse destinate al Mezzogiorno. Tuttavia, va anche detto che l’intervento
straordinario resta a tutt’oggi l’unica strategia che si sia rivelata capace, al saldo di tutti
125 i suoi risvolti negativi, di fare del Mezzogiorno una delle aree più progredite del
Mediterraneo, radicalmente diversa per struttura produttiva e configurazione sociale da
quella di sessant’anni addietro.
Il persistere del divario, e soprattutto l’assenza nel Mezzogiorno di una condizione
strutturale per cui la sua economia sia in grado di mantenere, senza il sostegno di aiuti
130 esterni, uno sviluppo autopropulsivo superiore a quello del Centro-Nord è peraltro un
problema che non è possibile in alcun modo ignorare. Sembra ancora attuale quanto
scrisse nel 1959 R. Romeo a proposito del ruolo del Mezzogiorno nella storia dello
sviluppo economico italiano. Romeo sostenne che il sacrificio del Mezzogiorno,
ancorché obbligato, era stato altamente funzionale, se non addirittura essenziale, allo
135 sviluppo dell’industria settentrionale e dell’intera economia nazionale fino alla Seconda
guerra mondiale. Tuttavia l’arretratezza accumulata dal Sud a causa dello sviluppo
capitalistico nazionale protetto rischiava di trasformarsi ormai in un fattore di grave
rallentamento della stessa economia settentrionale. Ed è quest’ultimo concetto che ci
ricorda che è nell’interesse dell’intera comunità nazionale, e non solo del Mezzogiorno,
140 interrogarsi sulla natura odierna della questione meridionale e sui suoi possibili rimedi.

ATTIVITÀ

2. Rispondi alle domande:


a. Perché alla riga + si parla dell’anno 1861? Che significa questa data?
b. Quali furono le misure statali di appoggio alle regioni del Sud?
c. Quali furono le cause della piú grande emigrazione meridionale?
d. Quale fenomeno politico-economico osservarono i pensatori meridionalisti?
e. Che differenza c’è tra la proposta di Salvemini e quella di Nitti?
f. Quali risultati ottennero gli interventi statali del primo Novecento in favore
del Sud?
g. Dopo la seconda guerra mondiale, quali forze politiche appoggiavano l’aiuto
statale al Sud e quali no? Perché?
h. Qual era la posizione di Rossi Doria?
i. Che conseguenze ebbe la politica di interventi straordinari del secondo
Novecento? Perché?
j. Qual è l’idea di R. Romeo che condivide Guido Pescosolido?
k. A quale conclusione arriva l’articolo? Che ideologia pensate che manifesti
questa conclusione?

3. Cerca l’infinito delle seguenti forme verbali(le trovi sottolineate ed in grassetto)


a. comparvero
b. ebbe

4. Traduci la seguente frase:


Tuttavia, va anche detto che l’intervento straordinario resta a tutt’oggi l’unica strategia che si sia
rivelata capace, al saldo di tutti i suoi risvolti negativi, di fare del Mezzogiorno una delle aree più
progredite del Mediterraneo, radicalmente diversa per struttura produttiva e configurazione sociale
da quella di sessant’anni addietro. (r. ++)
5. Elementi linguistici (nel testo in grassetto):
a. il verbo scoraggiare: da quale radice deriva?
b. i connettori nonché, tuttavia; anche se; oltre a, comunque, ancorché,
addirittura. Cercane 3 nel testo e traduci le frasi dove si trovano.
LIVELLO MEDIO

SOCIETÀ

Dalla peste de I promessi sposi al Coronavirus è


cambiato tutto, tranne una cosa: noi. Manzoni
racconta come eravamo (e come siamo ancora)
5 La peste arriva in Italia con le truppe alemanne. Inizialmente nessuno la
prende sul serio. C'è chi minimizza, chi deride le preoccupazioni dei pochi
che si accorgono che il problema è più serio di quel che si crede. Vengono
adottate misure, che però sono insufficienti e arrivano troppo tardi. Il
contagio dilaga, dapprima in Lombardia e poi in tutta la penisola. C'è
10 anche un dottor Burioni ante litteram, che cerca di mettere in guardia le
istituzioni, ma invano.

Di Arianna Viesi - 16 marzo 2020

MILANO. La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar
con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto; ed è
15 noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò buona parte d'Italia.

Inizia così il trentunesimo capitolo de I promessi sposi, forse uno dei


capitoli più noti dell'intero romanzo. In queste settimane se ne è sentito parlare
molto (spesso anche a sproposito). Le epidemie hanno segnato la storia, anche
letteraria, del nostro Paese. Basti pensare, appunto, a I promessi sposi e al
20 Decameron.

La peste che colpì soprattutto l'Italia settentrionale nel XVII secolo e


l'emergenza sanitaria che, oggi, ci troviamo ad affrontare non possono essere
comparate. E non possono essere comparate per una serie di ragioni, forse
banali ma che è bene ricordare: è diversa la situazione socio-economica, diverso
25 il contesto storico-culturale, diversa la mobilità, diverse le conoscenze in
ambito medico-scientifico. Insomma, stiamo parlando di due mondi lontani, per
certi versi contrapposti. A ben guardare, però, una cosa - un'unica cosa - che
non cambia c'è: siamo noi.

Scorrendo le pagine del capitolo (che può essere, anche, un buon


30 esercizio in queste settimane di isolamento), ci si imbatte infatti in un copione
che conosciamo. Dalle parole di chi minimizza l'epidemia alla noncuranza della
popolazione, dai provvedimenti che arrivano troppo tardi alla nobile missione
di chi presta aiuto agli ammalati, dall'egoismo dei tanti (troppi) che fanno i
propri comodi all'opera di sensibilizzazione portata avanti da istituzioni e
35 chiesa. Insomma, le parole del Manzoni sono uno specchio: lì dentro ci siamo
anche noi.

La peste, come riferisce lo stesso autore, arriva in Italia probabilmente


con le truppe alemanne e, in poco tempo, inizia ad espandersi a macchia d'olio.
Dapprima nei territori dell'odierna Lombardia, quindi in tutta la penisola.

40 Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a


morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più
parte de' viventi.

Inizialmente il morbo viene sottovalutato: c'è chi pensa sia un banale


male di stagione e chi deride le preoccupazioni dei pochi che prendono
45 l'epidemia seriamente. Tra questi c'è tale Lodovico Settala, ex professore di
medicina dell'università di Pavia e poi di filosofia morale a Milano, autore di
celebri opere e stimato esperto in materia. Potremmo quasi considerarlo un
Roberto Burioni ante litteram. Proprio il dottor Burioni, qualche tempo fa, disse
che era meglio sopravvalutare un problema che sottovalutarlo (come, di fatto, è
50 stato fatto con il Covid-19). E lo stesso fa il professor Settala.

Il protofisico Lodovico Settala (...) che ora, in gran sospetto di questa,


stava all'erta e sull'informazioni, riferì il 20 d'ottobre, nel tribunale della sanità,
come, nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di Lecco, e confinante col
bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo
55 presa veruna risoluzione.

Insomma, il povero professor Settala prova a gridare al lupo, ma nessuno


l'ascolta. Non viene presa nessuna misura per limitare i contagi (veruna
risoluzione, dice il Manzoni). E i contagi, infatti, aumentano. Tanto che, alla
fine, il "tribunale di sanità" (organo preposto alla salute pubblica) manda dei
60 commissari nelle zone più colpite. Oggi, quelle stesse zone, le chiameremmo
"rosse" (si pensi a Codogno o a Vo' Euganeo di qualche settimana fa). Si dice,
però, che l'uomo sia portato a cercare conferme delle proprie convinzioni, anche
se errate. E così fanno anche i commissari mandati dal tribunale.

Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario


65 che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare
i luoghi indicati. Tutt'e due, "o per ignoranza o per altro si lasciorno persuadere
da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de' mali non era
Peste"; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell'emanazioni autunnali delle
paludi, e negli altri, effetto de' disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio
70 degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che
ne mettesse il cuore in pace.
Gli esperti inviati sul luogo del contagio si lasciano, quindi, persuadere
da un barbiere "vecchio e ignorante" e si convincono che, quel morbo, non sia
peste ma un generico malanno. Il tribunale, rassicurato dalle loro parole (perché
75 era quello che voleva, essere rassicurato), si mette il cuore in pace (con buona
pace della peste, aggiungerei).

Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti,


furono spediti due delegati a vedere e provvedere. Quando questi giunsero, il
male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse
80 andarne in cerca.

La peste continua la sua corsa e il tribunale invia, allora, altri due delegati
nelle terre colpite. Troppo tardi, però. Quando arrivano il contagio è ormai
dilagato e i delegati non possono far altro che raccoglierne le prove. I paesi
iniziano a trincerarsi per evitare che "stranieri" infetti possano portarvi il
85 contagio, le persone cercano riparo in campagna, i malati e i morti aumentano
giorno dopo giorno.

(...) E per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all'entrature, altri quasi
deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi (...)
S'informarono del numero de' morti: era spaventevole; visitarono infermi e
90 cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza.

Quando il tribunale della sanità riceve le terribili notizie (sinistre nuove,


con le quali anche noi, oggi, dobbiamo fare i conti), inizia finalmente a prendere
provvedimenti seri e vieta a tutti gli abitanti delle "zone rosse" di entrare a
Milano. Inizia così la quarantena, ai tempi di Renzo e Lucia.

95 Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità,
il quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, si dispose (...) a prescriver le bullette,
per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da' paesi dove il contagio
s'era manifestato.

Nonostante la situazione vada peggiorando di giorno in giorno, pare però


100 che le autorità non si rendano conto dell'effettiva gravità della pestilenza.
Qualche giorno più tardi infatti, noncurante del rischio a cui avrebbe esposto la
popolazione, il governatore di stanza a Milano organizza pubblici
festeggiamenti (in piazza e per le strade) per la nascita del principino Carlo,
primogenito del re Filippo IV senza sospettare o senza curare il pericolo d'un
105 gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli
fosse stato parlato di nulla.

Ma, quello che Manzoni annota con più stupore, è il comportamento


della gente che, soprattutto nei luoghi dove il contagio deve ancora giungere,
pare non essere minimamente spaventata (nonostante abbia buone ragioni per
110 esserlo). Sembra quasi di leggere il monito (ripetuto all'infinito) di Burioni: le
restrizioni approvate dal governo sono fondamentali per fermare il contagio e
lo sono, soprattutto, nelle zone dove il contagio non è ancora arrivato.

(...) Ma ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è la condotta


della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal
115 contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All'arrivo di quelle nuove de' paesi che
n'erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi
un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia;
chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di
precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine?

120 È un atteggiamento comune, in fondo. Finché le cose non ci toccano, non


ce ne curiamo. Così, anche i Milanesi, nonostante arrivassero in città terribili
notizie dai paesi vicini, pare non si preoccupassero della situazione. Egoismo
italico, forse. Le cose devono arrivare a noi, altrimenti non le vediamo.

Sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del
125 pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo
iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e
fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de' decurioni, in ogni magistrato.

Miscredenza, dice Manzoni. Menefreghismo, potremmo dir noi. La


gente e le istituzioni non si rendono ancora conto della gravità dell'epidemia
130 (epidemia che, si ricordi bene, e come dice lo stesso Manzoni, spopolò mezza
Italia).

[Tratto da https://www.ildolomiti.it]

ATTIVITÀ
Dopo aver letto il testo, risolvi gli esercizi.
1. Indica se le affermazioni sono vere o false:

a. Il contagio della peste inizò in Lombardia e si espase nel resto


d’Italia.
b. La peste e l’emergenza sanitaria d’oggi hanno molti punti di
contatto.
c. La popolazione capisce sin dall’inizio il pericolo della peste.
d. Il governo prese delle misure a partire dall’opinione del professor
Settala.
e. Gli esperti mandati nei luoghi dal tribunale si resero conto della
situazione.
f. I delegati mandati - in un secondo momento - dal tribunale
trovarono i segni della peste.
g. Manzoni si sorpresa del compartamento della popolazione.

2. Rispondi alle domande:

a. Che tipo di testo è? C’è qualche intertestualità?


b. Qual è il rapporto tra il contesto della peste e l’emergenza sanitaria
dei nostri giorni?
c. Quali sono le prime reazioni di fronte alla peste?
d. Il professor Settala e il dottor Burioni hanno qualcosa in comune?
e. Elenca le azioni portate avanti dal tribunale.
f. Cosa succede a Milano dopo il 30 ottobre?
g. Che intende l’autore per “atteggiamento comune”?

3. Cerchia tutti i verbi al condizionale e al congiuntivo che


riconosci.

4. Traduci le seguenti frasi:

Vengono adottate misure, che però sono insufficienti e arrivano troppo tardi. (r. 9
– 10)

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le
bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, com'è noto; (r. 14 – 15)

Scorrendo le pagine del capitolo (che può essere, anche, un buon esercizio in queste
settimane di isolamento), ci si imbatte infatti in un copione che conosciamo. (r. 31 –
33)

Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza
che bisognasse andarne in cerca. (r. 82 – 84)

Finché le cose non ci toccano, non ce ne curiamo. (r. 125 – 126)


Marco Lodoli, I miei ragazzi assediati dalla Facilità
Cosa sta accadendo nelle menti degli italiani, come mai ho l’impressione che lo
stordimento, se non addirittura una leggera forma di demenza, stiano soffiando
come scirocco in troppi cervelli, giovani e meno giovani? Quali sono le cause,
5 se ce ne sono, di questo torpore?
Avevo raccontato, un mese fa su “Repubblica”, la mia crescente ansia di fronte
al silenzio dei miei studenti che sembrano non saper più ragionare. In tanti
hanno risposto, mi sono arrivate molte lettere, anche dai ragazzi delle scuole.
Capisco che è difficile indicare un unico responsabile, un sicuro colpevole, ma
10 una piccola idea del perché accada tutto questo io me la sono fatta e ve la
propongo.
A mio avviso da troppo tempo viviamo sotto l’influsso di una divinità tanto
ammaliante quanto crudele, un uccelletto che canta soave, ma che ha un becco
così sottile e feroce da mangiarci il cervello. La Facilità è la dea che divora i
15 nostri pensieri, e di conseguenza l’intera nostra vita. La Facilità non va certo
confusa con la Semplicità che, come ben sintetizzava il grande scultore
Brancusi, “è una complessità risolta”. La Semplicità è l’obiettivo finale di ogni
nostro sforzo: noi dovremmo sempre impegnarci affinché pensieri e gesti siano
semplici, e dunque armoniosi e giusti. La Semplicità è il miele prodotto dal
20 lavoro complicato dell’alveare, è il vino squisito che dietro di sé ha la fatica della
vigna. La Faciltà, invece, è una truffa che rischia di impoverire tragicamente i
nostri giorni. A farne le spese sono soprattutto i ragazzi più poveri e
sprovveduti, ma anche noi adulti furbi e smaliziati stiamo concedendo vasti
territori a questa acquerugiola che somiglia a un concime ed è un veleno.
25 La nostra cultura ormai scansa ogni sentore di fatica, ogni peso, ogni difficoltà:
abbiamo esaltato il trash, abbiamo accettato che le televisioni venissero invase
da gente che imbarcava applausi senza essere capace a fare nulla; abbiamo
accolto con entusiasmo ogni sbraitante analfabeta, ogni ridicolo chiacchierone,
ogni comico da quattro soldi, ogni patetica “Bonazza”. Così un poco ogni
30 giorno il piano si è inclinato verso il basso e noi ci siamo rotolati sopra
velocemente, allegramente, fino a non capire più nulla, fino all’infelicità. Tutto
è stato facile, e tutto continua a voler essere ancora più facile. Impara l’inglese
giocando, laureati in due anni senza sforzo, diventa anche tu ridendo e
scherzando un uomo ricco e famoso.
35 Spesso i miei alunni, ragazzi di quindici o sedici anni, mi dicono: “Io voglio fare
i soldi in fretta per comprarmi tante cose”, e io rispondo che non c’è niente di
male a voler diventare ricchi, ma che bisognerà pure guadagnarseli in qualche
modo questi soldi, se non si ha alle spalle una famiglia facoltosa: bisognerà
studiare, imparare un buon mestiere, darsi da fare. A questo punto loro mi
40 guardano stupiti, quasi addolorati, come se avessi detto la cosa più bizzarra del
mondo. Non considerano affatto inevitabile il rapporto tra denaro e fatica,
credono che il benessere possa arrivare da solo, come arriva la pioggia o la
domenica. Sembra che nessuno mai li abbia avvertiti delle difficoltà
dell’esistenza. Sembra che ignorino completamente quanto la vita è dura, che
45 tutto costa fatica, e che per ottenere un risultato anche minimo bisogna
impegnarsi a fondo. E per quanto io mi prodighi per spiegare loro che anche
per estrarre il succo dall’arancia bisogna spremerla forte, mi pare di non riuscire
a convincerli. Il mondo intero afferma il contrario, in televisione e sui manifesti
pubblicitari tutti ridono felici e abbronzati e nessuno è mai sudato.
50 Così si diventa idioti. E’ un processo inesorabile, matematico, terribile, ed è un
processo che coinvolge anche gli adulti, sia chiaro. La Facilità promette mari e
monti, e il livello mentale si abbassa ogni giorno di più, fino al balbettio e
all’impotenza. “Le cose non sono difficili a farsi, ma noi, mettere noi nello stato
di farle, questo sì è difficile”, scriveva ancora Brancusi. Mettere noi stessi nello
55 stato di poter affrontare la vita meglio che si può, di fare un mestiere per bene,
di costruire un tavolo o di scrivere un articolo senza compiere gravi errori,
questo è proprio difficile, ed è necessario prepararsi per anni, prepararsi sempre.
E se addirittura volessimo avanzare di un palmo nella conoscenza di noi stessi
e del mondo, trasformarci in esseri appena appena migliori, più consapevoli e
60 sereni, dovremmo ricordarci la fatica e la pena che ogni metamorfosi pretende,
come insegnano i miti classici, le vite degli uomini grandi, le parole e le posizioni
dei monaci orientali. Ma la Facilità ormai ha dissolto tante capacità intellettuali
e manuali, e si parla a vanvera perché così abbiamo sentito fare ogni sera, si
pensa e si vive a casaccio perché così fanno tutti.
65 Ben presto per i lavori più complessi dovremo affidarci alla gente venuta da
fuori, da lontano, alle persone che hanno conosciuto la sofferenza e hanno
coltivato una volontà di riscatto. Loro sanno che la Facilità è un imbroglio, lo
hanno imparato sulla loro pelle. Noi continueremo a sperare di diventare
calciatori e vallette, miliardari e attrici, indossatori e stilisti, e diventeremo solo
70 dei mentecatti.
ATTIVITÀ
1. Dopo aver letto l'articolo, abbinare ognuna delle seguenti frasi alla
sequenza significato equivalente:
a. Nella cultura italiana attuale c'è un modello che invita a evitare lo
sforzo.
b. La Facilità fa diventare stupidi.
c. Ho già scritto che i miei studenti non ragionano piú.
d. Solo io dico ai miei studenti che l'esistenza è difficile.
e. Perché gli italiani danno l'impressione di essere storditi,
intellettualmente pigri?
f. In futuro, noi italiani dipenderemo dagli immigranti.
g. La Facilità è opposta alla Semplicità.

2. Spiegare (in spagnolo) in due frasi quali sono le differenze, secondo il


testo, tra facilità e semplicità.

3. Scegliere due metafore del testo, e spiegare il loro senso letterale.

4. Completare il seguente quadro sulla struttura logica dell'articolo:

TEMA:

IPOTESI:
premessa:
argomenti:

CONCLUSIONE:
5. Cerca nel testo i referenti dei seguenti pronomi.
a. ne (r. 5)
b. la (r. 10)
c. mangiarci (r. 14)
d. li (r. 43)
e. questo (r. 57)
f. loro (r. 67)

6. Tradurre in spagnolo le seguenti espressioni:


a. a mio avviso (r. 12)
b. non va certo confusa (r. 15-16)
c. a farne le spese sono soprattutto i ragazzi (r. 22)
d. si parla a vanvera (r. 63)
LA COMMEDIA DELL'ARTE [Tratto da http://www.treccani.it/]

Origine - Nata circa a metà del sec. XVI, e durata fino all'inizio del XIX, la
commedia dell'arte si chiamò commedia buffonesca, istrionica, di maschere,
all'improvviso, a soggetto; e, in molti paesi stranieri dal sec. XVII in poi,
5 italiana. Ma su tutte queste denominazioni quella di commedia dell'arte
prevalse, perché definiva con precisione il suo carattere essenziale; ch'era di
essere recitata, per la prima volta in Europa, da compagnie di comici
regolarmente costituite, con artisti che vivevano dell'arte loro; in altri termini,
da comici di mestiere. Durante il Medioevo, se se ne esclude qualche infima
10 categoria d'istrioni, gl'interpreti del teatro religioso e di quello erudito non erano
attori di professione. Con la commedia dell'arte appare un'organizzazione
nuova, di attori specializzati, attraverso un addestramento tecnico, mimico,
vocale, perfino acrobatico, e alle volte con una preparazione culturale. Questi
attori rappresentavano anche opere più o meno regolari, ossia scritte; e
15 continuarono ad avere nel loro repertorio tragedie, drammi pastorali, e le
cosiddette opere regie, ridotte dallo spagnolo. Ma il loro campo vero, per cui
divennero in pochi anni famosi in tutta Europa, fu la commedia a soggetto, ossia
la commedia di cui non si scriveva se non lo scenario, la trama, lasciandone lo
sviluppo dialogico e mimico all'improvvisazione dei comici.

20 La commedia dell'arte si è voluta far derivare, secondo alcuni studiosi, dalle


farse laziali e campane, che nella letteratura latina precedono la commedia di
Plauto. […] Ma l'ipotesi d'una derivazione diretta della commedia dell'arte e dei
suoi tipi, attraverso quasi due millennî, dall'antichità latina al Rinascimento,
oggi è generalmente abbandonata. Tipi fissi ce ne sono stati in tutti i generi, di
25 farse e di commedie; appunto per quella esigenza di stilizzazione e di artificio
meccanico che è una caratteristica del comico. […]

Argomenti della commedia dell'arte - Quali furono gli argomenti della


commedia dell'arte? I suoi scenarî sono attinti un po' dovunque; e, spessissimo,
proprio dalla commedia "sostenuta", erudita, classicista, se non addirittura da
30 Plauto e da Terenzio. Si conoscono, oggi, molti di cotesti scenarî (più di mille).
[…]

La scenografia di queste trame ci riporta sovente dinnanzi alla vecchia scena


della commedia classica: la solita via, o piazza, con le due case a fronte. Le
scene di "interni" sono, specie nei primi anni, meno frequenti. Solo col tempo,
35 e con l'arricchirsi della tecnica pittoresca e delle belle prospettive, secondo il
gusto barocco e magnifico dei secoli XVII e XVIII, avremo visioni nuove, più
o meno fantasiose e fastose. Anche i personaggi, nel loro carattere essenziale,
spesso non sono che la trasformazione di quelli della commedia classica: i
vecchi, i giovani innamorati o scapestrati, i servi lestofanti che tengono loro
40 mano, i parassiti, gli smargiassi, e via dicendo. E alla commedia classica si
ritorna, abbastanza spesso, con gl'intrighi: solo che qui non si hanno più gli
scrupoli accademici circa la cosiddetta "favola doppia" (la quale, mescolando
due intrecci d'amore, pareva ribelle al principio aristotelico dell'unità d'azione):
gl'intrecci d'amore nella commedia dell'arte sono due, tre, quattro, cinque. […]
45 Si può quindi concludere che nella commedia dell'arte ritroviamo i più stanchi
ed esauriti elementi di quel teatro erudito il quale annoiava il gran pubblico,
talora rimescolati con un vigore nuovo, altre volte appoggiati alle meno nobili
risorse delle rappresentazioni popolaresche.

Le maschere - La commedia dell'arte doveva avere dunque in sé altre ragioni


50 di successo. Una fu l'apparizione delle maschere. Quest'apparizione era una
trasformazione. Anche la commedia erudita presentava di solito un certo
numero di personaggi i quali si rassomigliavano incredibilmente fra loro e, pure
assumendo spesso nomi differenti e dandosi l'aria di collocarsi in paesi e climi
diversi, si ripetevano da un'opera all'altra. La commedia dell'arte ebbe il
55 coraggio di dichiarare apertamente che i suoi personaggi erano sempre gli
stessi: coraggio che le venne dal fatto di essere opera non di autori ma di attori.
[…] Per tutta la vita e in tutte le commedie che reciterà, il comico dell'arte (salvo
rare eccezioni) sarà un solo personaggio: sarà unicamente Pantalone o
Arlecchino, Rosaura o Colombina. Perfino il suo nome si confonderà con quello
60 della sua maschera, sicché a un certo punto non si saprà più quale sia il vero e
quale il fittizio. […]

Tecnica della commedia dell'arte - S'è ripetuto per secoli che la suprema
attrattiva della commedia dell'arte consisté nel fatto che i suoi attori recitavano
abbandonandosi all'estro del momento e cioè improvvisando. Ma questa
65 improvvisazione va intesa con cautela. I comici dell'arte non soltanto
concertavano - sotto la guida di quel direttore che il Perrucci chiama corago, e
con regole e procedimenti che hanno avuto i loro trattatisti - l'insieme dello
spettacolo; ma ognuno d'essi aveva un suo formulario, che mandava
coscienziosamente a memoria. Esistevano raccolte scritte, e anche stampate, di
70 "concetti", di soliloquî, di tirate, a uso di ciascun carattere. C'erano le "prime
uscite" i "saluti", le "chiusette", ecc., in prosa e anche in versi, che ogni comico
si teneva pronti per adattarli qua e là, in non importa quale commedia. La loro
principale abilità su questo punto consisteva dunque nel sapere inserire i loro
brani a tempo e a luogo, cucendoli col resto della parte propria o altrui, in
75 seguito a prove accuratissime. Oltre ai repertorî di queste formule, diciamo così,
letterarie, i comici dell'arte consultavano, o ricordavano, quelle dei lazzi (gli
acti, l'atti), o giuochi scenici, di cui pure esistono raccolte copiose, paragonabili
agli scherzi dei nostri pagliacci nei circhi. E dizione e azione e mimica si davan
la mano a galvanizzare, volta per volta, questa materia, che riusciva a
80 entusiasmare il pubblico.

La mimica dell'attore italiano si esprimeva, per lo più, non col giuoco della
fisionomia, quasi sempre ricoperta dalla maschera, ma, come del resto era
avvenuto anche nell'antichità, e avviene tuttora in Oriente, con l'atteggiamento
dell'intera figura. L'uso della maschera non fu sempre assoluto, né adottato da
85 tutti i personaggi: innamorati e innamorate, per es., hanno recitato a viso
scoperto. Ma di regola i comici usavano la maschera […]

All'elemento mimico si aggiungeva poi, importante specie nei riguardi della


comicità, l'elemento acrobatico. La commedia dell'arte, spettacolo in buona
parte visivo, addestrava i suoi artisti non solo nella ginnastica, per uno scopo
90 evidente di scioltezza e di prestanza fisica, ma addirittura nell'acrobazia.
Contorsioni e piroette, capitomboli e salti mortali erano il loro forte; e non dei
soli uomini. […]

Inoltre, alle virtù acrobatiche i comici italiani univano quelle di ballerini e di


musicisti: la commedia dell'arte è fiorita spesso di danze e di canzoni. In ogni
95 compagnia c'era qualcuno e qualcuna che sapesse cantare. […]

Quando, infine, alle virtù di tutta questa tecnica si aggiunsero, specie nel
Seicento, i trucchi meccanici e le meraviglie della nuova scenografia; quando
ai vecchi intrecci si mescolarono le favole e le evocazioni mitologiche; quando
ai soliti lazzi, alle solite bastonature, ai soliti spaventi e fuggi-fuggi si
100 frammischiarono le sorprese spettacolose; […] allora l'entusiasmo del pubblico,
colto e incolto, giunse ai fastigi: e il successo della commedia dell'arte per più
di due secoli fu tale da non aver possibili riscontri nella storia del teatro.

Il successo dei comici dell'arte in Europa - Questo successo, subito


affermatosi tra le corti d'Italia, valicò immediatamente i confini delle Alpi. […]

105 Per quasi un secolo i comici italiani, che avevano di regola recitato nella loro
lingua - allora assai diffusa, ma certo non compresa da tutti: altra riprova delle
loro preponderanti bravure mimiche - ormai avevano anche adottato, in Francia,
il francese. Il che aveva dato origine, per ragioni di concorrenza, a lamentele da
parte degli attori parigini; ma la vittoria fu degl'italiani, e nel loro repertorio
110 figurarono sempre più spesso lavori anche regolari, scritti da autori francesi.
[…]

Forse per arrivare a renderci piena ragione del fenomeno, conviene persuadersi
che il concetto del comico sembrava, allora, inseparabile da quello di
sconcezza; che la commedia era di fatto considerata, non come lo specchio della
115 vita, ma come una costruzione di vivace artificio, assolutamente estranea ad
essa, e fuori delle sue leggi anche morali. A ogni modo è anche questo che
spiega come, in tempo di Riforma protestante e di Controriforma cattolica, i
comici italiani furono aspramente combattuti dai maestri di vita religiosa e dalle
autorità ecclesiastiche, le quali cercarono di tirar dalla loro, qualche volta
120 riuscendovi, anche le civili. E spiega il bollo d'infamia idealmente ricollocato
sulla fronte dell'attore.
Ci furono, è vero, i transigenti e i concilianti - e nella schiera si conta San Carlo
Borromeo, che ammise la commedia dell'arte, previa censura. Ci furono, fra i
trattatisti e gli stessi comici, molti dei quali erano sinceramente devoti, autori
125 di difese del mestiere infamato: difese consistenti nel ripudiare gli eccessi, nel
raccomandare ai fratelli la moderazione, e nell'affermare ancora una volta
gl'intenti morali del teatro comico. […]

Giudizio sulla commedia dell'arte - Perciò la commedia dell'arte, che si è


voluta considerare soprattutto come spettacolo popolare, ci dà anche uno dei
130 documenti più insigni di quella che fra il sec. XVI e il XVIII fu, nonostante gli
sforzi di cattolici e di protestanti, di gesuiti e di giansenisti, la decadenza
spirituale delle alte classi sociali: delle classi, cioè, le quali le fornivano i
migliori spettatori. E se chi protestava per ragioni morali era in minoranza, chi
rifiutava quegli spettacoli dal punto di vista estetico si può dire che non
135 esistesse: in Francia il caso di Malherbe, a cui la commedia dell'arte non
piaceva, fu più unico che raro. […]

Quindi la commedia dell'arte appartiene, oltre che naturalmente alla storia del
costume, alla storia non tanto del dramma quanto del teatro, come scena e
organizzazione tecnica. Espressione dei gusti d'una parte della società di quei
140 secoli, la più frivola, la più vuota, già dannata al crollo, essa fu il brillantissimo
e arido tentativo di sostituire al dramma lo spettacolo; fu la portentosa
esecuzione di opere inesistenti; fu la sbalorditiva cornice d'un quadro che non
c'era. E chi s'accosti, oggi, direttamente alle tracce ch'essa ha lasciato sulla
carta, troppo spesso ne avverte il gelo e la morte; peggio, avverte che tutto ciò
145 non era mai stato vivo in sé; aveva preso a prestito la sua vita da altri, cioè dagli
attori.

Sono dunque gli attori che contano nella commedia dell'arte. I comici dell'arte
dettero all'Europa, come fu bene accennato dal Croce, l'organizzazione del
teatro moderno. Nel quale le maschere sono sparite; ma al loro posto sono
150 rimasti, per secoli, i ruoli, ossia la definizione di quei limiti fisici e spirituali
oltre i quali ogni attore, appunto perché uomo e cioè limitato, non può andare;
quei ruoli che il trasformatore della commedia dell'arte, Carlo Goldoni, rispettò
e portò a compimento estetico. E se oggi in Francia, in Germania e in Russia,
non solo i dotti, ma gli artisti e i loro maestri tornano alla commedia dell'arte,
155 vi tornano non perché celebratori d'un contenuto poetico ch'essa non ebbe, ma
come a un modello dell'arte dell'attore.
ATTIVITÀ

1. Indicare se le seguenti affermazioni sono vere o false. Se sono false,


giustificare:
a. La Commedia dell’arte nacque nel Medioevo.
b. Gli attori della Commedia dell’arte erano professionisti.
c. Gli attori della Commedia dell’arte dovevano memorizzare i
testi.
d. Nella Commedia dell’arte si mescolano le tradizioni erudita e
popolare.
e. Qual era il concetto di comico?
f. La Commedia popolare ebbe una grande accettazione da parte
del pubblico.
g. Oggi la Commedia dell’arte è dimenticata dagli attori di teatro.

2. Rispondere alle domande:


a. Qual è la grande rivoluzione della Commedia dell’arte?
b. Quali sono le sue caratteristiche principali?
c. Che tipo di lavoro era richiesto agli attori?
d. Che sono le maschere?
e. Qual è il rapporto tra il cattolicesimo e la Commedia dell’arte?
f. A quale rischio di valutazione alludono le righe 142-146?

3. Tradurre le seguenti frasi:


a. Ma su tutte queste denominazioni quella di commedia dell'arte
prevalse, perché definiva con precisione il suo carattere essenziale;
ch'era di essere recitata, per la prima volta in Europa, da
compagnie di comici regolarmente costituite, con artisti che
vivevano dell'arte loro. (r. 5-8)
b. Questo successo, subito affermatosi tra le corti d'Italia, valicò
immediatamente i confini delle Alpi. Per quasi un secolo i comici
italiani, che avevano di regola recitato nella loro lingua - allora assai
diffusa, ma certo non compresa da tutti: altra riprova delle loro
preponderanti bravure mimiche - ormai avevano anche adottato,
in Francia, il francese. (r. 104-108)
c. Quindi la commedia dell'arte appartiene, oltre che naturalmente
alla storia del costume, alla storia non tanto del dramma quanto
del teatro, come scena e organizzazione técnica. (r. 137-139)
d. fu la sbalorditiva cornice d'un quadro che non c'era. (r. 142-143)
4. Identificare il referente dei seguenti pronomi:
a. loro (r. 8)
b. quelli (r. 38)
c. ci (r. 129)
d. essa (r. 143)
e. ciò (r. 144)
f. loro (r. 149)

5. Sottolineare tutti i verbi coniugati del paragrafo che va dalla riga 128
alla riga 136, e indicare in quale tempo e modo si trovano.
LIVELLO SUPERIORE

«LE PAROLE DELL’ITALIANO»

Una storia d’Italia attraverso l’italiano


(orale e scritto): la nuova collana
Lunedì 30 dicembre con il quotidiano il primo volume della serie dedicata al
nostro lessico. L’introduzione del linguista Giuseppe Antonelli, curatore della
5 collana
di GIUSEPPE ANTONELLI

Le parole sono importanti. E l’unico modo per usarle bene è conoscerle a fondo. Capirne
i significati in tutte le loro sfumature, apprezzarne i diversi usi: formali, familiari, tecnici,
10 ironici. Essere in grado di scegliere ogni volta le parole giuste per quella situazione, quel
discorso, quell’interlocutore.
La nuova collana Le parole dell’italiano, da oggi in edicola ogni lunedì con il «Corriere
della Sera», intende illustrare l’inesauribile ricchezza del nostro lessico, approfondendo
in ogni volume un aspetto specifico. La diversa provenienza delle parole, la loro storia e
15 struttura, il loro àmbito d’uso, il modo in cui hanno segnato un’epoca o un aspetto della
nostra società. Volumi agili, scritti con passione e competenza, che disegneranno nel loro
insieme un mosaico vivace e variegato. Un percorso pieno di sorprese e curiosità, di
consigli utili, di spiegazioni chiare ed efficaci. Un nuovo viaggio alla scoperta della lingua
italiana.
20
Le parole e il tempo
La prima sezione, di cinque volumi, è dedicata soprattutto agli aspetti storici. Il viaggio
parte dall’italiano di oggi, inteso nella sua soggettività (Una vita tra le parole) e nella sua
oggettività (Il lessico), per poi risalire — attraverso i vari tipi di vocabolario (Dizionari)
25 — a parole ormai uscite dall’uso (Parole antiche) e ad altre che nell’uso non sono ancora
entrate stabilmente (Parole nuove).
Se prendiamo per buona la rappresentazione tradizionale delle parole come
organismi viventi, allora possiamo tranquillamente affermare che — nel corso degli anni,
dei decenni, dei secoli — molte parole invecchiano fino a «morire ». Questo ciclo vitale,
30 però, non è sempre assimilabile a un processo lineare. Nato da un’operazione
deliberatamente arcaizzante — quella che, nel Cinquecento, indicava come modelli i
capolavori letterari del Trecento fiorentino – l’italiano mostra, più di altre grandi lingue
di cultura, una notevole «costanza dell’antico».

35 Le parole e l’etimo
Per ricostruire le reazioni provocate nei parlanti da certe parole, bisognerà sempre tener
conto della loro origine e della loro storia (Etimologie). L’atteggiamento sarà molto
diverso a seconda che si tratti di parole provenienti dalle lingue classiche
(Latinismi e Grecismi) o da lingue moderne. L’insofferenza ha riguardato soprattutto,
40 nelle varie epoche, l’abbondanza di parole ed espressioni alla moda provenienti di volta
in volta dalla penisola iberica (Spagnolismi), d’Oltralpe (Francesismi) o — più di recente
— da Inghilterra e Stati Uniti d’America (Anglicismi). Un’attenzione specifica meritano
a questo proposito anche i vocaboli arrivati all’italiano dalle lingue germaniche
(Germanismi) e — numerosi, soprattutto nel Medioevo — quelli venuti dall’arabo, dal
45 persiano, dal turco (Orientalismi). Bisogna sempre ricordare che questo tipo di scambio
ha rappresentato uno strumento decisivo per l’arricchimento del nostro patrimonio
lessicale. Come notava già Niccolò Machiavelli, «non si può trovare una lingua che parli
ogni cosa per sé senza haverne accattato da altri: perché, nel conversare gl’huomini di
varie provincie insieme, prendono de’ motti l’uno dall’altro».
50
Le parole e il significato
Lo strutturarsi e l’arricchirsi del lessico è legato anche ad altri meccanismi, grazie ai quali
molte parole nascono da parole preesistenti (La formazione delle parole). In alcuni casi il
processo non riguarda la forma, ma il significato. Così accade per il meccanismo
55 dell’antonomasia (Dal nome proprio al nome comune) o per tutte quelle formule in cui le
parole assumono un significato diverso da quello di partenza (Modi di dire). Questo
dinamismo dei significati rende quasi impossibile stabilire rapporti di perfetta
equivalenza tra diversi vocaboli (Sinonimi e non) e fa sì che anche le parole comuni
possano assumere, in determinati settori, la funzione di termini specializzati (Lessico
60 specialistico). Un esempio classico è quello di Galilei, che — abbandonato il latino con
cui fino a quel momento si parlava di scienza — scelse di usare nelle sue opere parole
quotidiane, attribuendo a ciascuna un preciso significato
tecnico: candore, momento, pendolo.

65 Le parole e la società
Un aspetto determinante per comprendere a pieno il funzionamento del lessico è la sua
dimensione sociale: i diversi contesti, àmbiti, livelli d’uso delle parole. C’è il livello più
intimo, legato alla sfera degli affetti (Lessico famigliare); ci sono gli usi condivisi con il
gruppo di appartenenza (Gergalismi) e quelli censurati dalla sensibilità collettiva (Male
70 parole). Una prima impronta può venire già dall’occasione in cui qualcuno crea
consapevolmente un nuovo vocabolo (Parole d’autore). In altri casi, a segnare il destino
di una parola o di un’espressione è la sua eccessiva fortuna: tale da trasformarla in una
sorta di fastidioso tic (Tormentoni). Un aspetto molto rilevante per la specifica storia
dell’italiano, rimasto a lungo la lingua scritta contrapposta ai dialetti del parlato, è quello
75 della dimensione geografica. Anche oggi la lingua che parliamo più spesso nella vita di
tutti i giorni è un italiano venato di elementi locali (Regionalismi). Tutti i volumi della
collana sono inediti: scritti pensando proprio ai lettori e alle lettrici del «Corriere».
L’unica eccezione è il volume con cui la collana si chiude: la Guida all’uso delle parole di
Tullio De Mauro, pubblicata per la prima volta nel 1980. Un modo per ricordare chi ci ha
80 insegnato che la linguistica può essere non solo una scienza sociale, ma anche una
passione civile.

La serie - viaggio (in 25 titoli attraverso i vocaboli)


È in edicola da lunedì 30 dicembre, con il «Corriere della Sera», la prima uscita della
85 nuova collana Le parole dell’italiano, curata dal linguista Giuseppe Antonelli. I volumi
saranno in vendita a cadenza settimanale al prezzo di e 7,90, in aggiunta al costo del
quotidiano. La serie è composta da 25 libri, scritti appositamente per il «Corriere» da
studiosi e docenti universitari. Soltanto l’ultimo della serie, Guida all’uso delle parole,
del celebre linguista Tullio De Mauro (1932-2017), è già stato pubblicato. Una parte del
90 ricavato proveniente dalla vendita dei libri sarà devoluto all’Associazione per la Storia
della lingua italiana, a sostegno del progetto per un Museo nazionale della lingua
italiana. Il primo titolo è Una vita tra le parole di Giuseppe Antonelli, professore
ordinario di Storia della lingua italiana all’Università di Pavia e collaboratore del
«Corriere» e del supplemento culturale «la Lettura».
95 [Corriere della sera, 29 dicembre 2019]

ATTIVITÀ

1. Dopo aver letto il testo, rispondere alle seguenti domande:


a. In quale occasione fu scritto il testo? A quale genere appartiene?
b. Che differenza c’è tra l’evoluzione del lessico italiano e quella delle altre
lingue?
c. Qual è la reazione dei parlanti nei confronti dei termini di origine straniera?
d. Che funzione ideologica svolge nel testo la citazione di Machiavelli delle righe
47-49?
e. Perché la collana include un testo di De Mauro?

2. Identificare nel testo le espressioni italiane equivalente a quelle che seguono:


a. matices
b. en este sentido
b. plenamente
d. conscientemente
e. compartidos con el propio grupo
f. teñido de
g. donado a
3. Identificare il referente dei seguenti pronomi:
a. ne (r. 8-9)
b. loro (r. 17)
c. quella (r. 31)
d. loro (r. 37)
e. quelli (r. 44)
f. cui (r. 55)
g. quelli (r. 67)

4. Tradurre in spagnolo le seguenti espressioni:


a. Questo dinamismo dei significati rende quasi impossibile stabilire rapporti di perfetta
equivalenza tra diversi vocaboli (Sinonimi e non) e fa sì che anche le parole comuni possano
assumere, in determinati settori, la funzione di termini specializzati (Lessico specialistico). (r. 56-
60)

b. scelse di usare nelle sue opere parole quotidiane, attribuendo a ciascuna un preciso significato
tecnico (r. 61-62)
c. a segnare il destino di una parola o di un’espressione è la sua eccessiva fortuna (r. 71-72)
IL V VOLUME DELLA NUOVA EDIZIONE DELLE OPERE PUBBLICATO DA SALERNO EDITRICE
PER IL CENTRO PIO RAJNA

La rivoluzione del Dante minore


Gli esperimenti letterari in latino
Le nuove prove dell’autenticità nelle due parti dell’Epistola a Cangrande

di PAOLO DI STEFANO
Ritratto di sei poeti toscani, Giorgio Vasari (1544)
Parlare di un Dante minore è un paradosso, perché anche il Dante delle epistole
occasionali o delle egloghe è pur sempre uno scrittore maggiore, fuori dall’ordinario.
Anche fuori dal suo capolavoro, l’Alighieri, fino alla fine, non si stanca mai di
sperimentare, di provare nuove strade letterarie, di forzare le convenzioni. Fa un certo
5 effetto, per esempio, immaginarlo in piena attività, negli ultimi suoi anni di vita, nel
tranquillo soggiorno ravennate, circondato dai figli e ormai ammirato e gratificato da un
crescente circolo di adepti: ancora febbrilmente intento alla conclusione del Paradiso,
respinge — per raccoglierla a suo modo — la proposta di dedicarsi a un componimento
in latino di argomento politico. L’invito (o la sfida) gli era arrivata da un prestigioso retore
10 e grammatico bolognese convinto della superiorità del latino sul volgare, l’interlocutore
privilegiato Giovanni del Virgilio, il quale gli aveva promesso una corona poetica a
Bologna capace di garantirgli un trasferimento e magari qualche aggancio nell’ambiente
universitario. Il risultato, in forma di corrispondenza poetica con il magister preumanista
Giovanni, è l’unica opera dantesca in versi latini che ci sia giunta: quattro carmi con cui,
15 rivendicando tra l’altro la qualità e l’altezza del suo poema in volgare, l’Alighieri approda,
poco prima di morire, a traguardi ancora una volta innovativi, per non dire sconvolgenti,
rispetto ai modelli contemporanei.
Ora questa incredibile padronanza dantesca della poesia latina viene valorizzata e
commentata da Marco Petoletti nel volume V della Nuova edizione commentata delle
20 Opere di Dante (Necod) pubblicata da Salerno per il Centro Pio Rajna. È Enrico Malato,
nella Premessa, a parlarci della complessa iniziativa nelle sue linee programmatiche che
si riassumono in alcuni principi generali: attenzione rigorosa, partendo dai testi accertati,
alla ricostruzione letterale dei testi e impegno critico-esegetico che tenga conto dello
sviluppo più recente degli studi danteschi senza cadere in eccessi iperspecialistici. Questo
25 nuovo volume, che fa seguito ai commenti di Vita Nuova e Rime, Convivio, De vulgari
eloquentia e Monarchia, contiene, oltre alle Epistole e alle Egloge, la Quaestio de aqua
et terra, il trattato cosmologico di cui non esistono testimoni manoscritti, ma solo una
stampa del 1508. Le singole opere vengono affidate a curatori diversi, con relative
introduzioni e note al testo, precedute da una utile Introduzione complessiva di Andrea
30 Mazzucchi, che mette in luce le più significative acquisizioni dei vari commenti, offrendo
quindi al lettore diverse opzioni di lettura, dal più piano al più articolato.

Enrico Malato di Salerno Editrice è il coordinatore della


commissione scientifica dei maggiori specialisti di Dante
Tornando alla Quaestio, l’operetta scientifica latina che tratta la distribuzione delle
35 acque e delle terre sul globo, va detto che la sua attribuzione a Dante è da sempre stata
oggetto di discussione: considerata certa da Michele Barbi nella fondamentale edizione
delle Opere del 1921, è stata autorevolmente esclusa da Bruno Nardi e rimessa in dubbio
di recente da Marco Santagata in virtù delle incongruenze rispetto alla caduta di Lucifero
sulla terra, descritta nell’Inferno. Ora Michele Rinaldi si schiera per la paternità dantesca
40 sulla base di un numero notevole di coincidenze con i testi danteschi e di fonti comuni
utilizzate secondo letture singolari. Ma viene richiamato come elemento decisivo il fatto,
anch’esso imperituro oggetto di confronto critico, che il figlio di Dante, Pietro Alighieri,
commentando i versi della caduta di Lucifero, ricordi una disputa sullo stesso argomento
(acqua e terra) sostenuta dal padre a Verona all’inizio del 1320. Se è vero che la
45 testimonianza filiale non si sottrae a fondati sospetti di autenticità, Rinaldi offre inedite
pezze d’appoggio alla sua tesi richiamando alcuni passaggi delle postille
alla Commedia contenute nelle cosiddette «Chiose Cassinesi» (conservate in un
manoscritto trecentesco dell’Abbazia di Montecassino).
A proposito di attribuzione e di autenticità torna ovviamente la questione (anch’essa
50 ancora aperta) della Lettera a Cangrande della Scala, che ha trovato eserciti di
detrattori radicali, di mezzi fautori e di fautori convinti. L’Epistola XIII viene collocata
in un capitolo a sé rispetto alle precedenti: del resto, è noto che le lettere latine di Dante,
come le Rime, non si compongono in un corpus organico e omogeneo strutturato
dall’autore. Per le prime dodici, Marco Baglio, motivata la disomogeneità della raccolta,
55 illustra di ciascuna le ragioni politiche, personali e ideali all’interno della tormentata
biografia dantesca (in particolare il vagabondaggio e le instabilità anche intellettuali
dell’esule), ma individuando anche nodi tematici e tessere lessicali riconducibili
alla Commedia e non solo.
Alla faccenda più spinosa si dedica Luca Azzetta, anche con argomenti stilistici e
60 strutturali che conducono a confermare l’autenticità della lettera nelle sue due parti (la
seconda in particolare è quella che suscita da sempre maggiori perplessità). L’Epistola a
Cangrande si presenta, nella breve sezione iniziale, come la manifestazione di amicizia al
signore di Verona presso cui Dante ebbe ospitalità in un periodo situabile tra il 1316 e la
fine del 1319, prima di abbandonare la corte scaligera per ragioni che rimangono oscure.
65 Allo scopo di conservare l’amicizia, Dante offrirebbe in dono a Cangrande la dedica
del Paradiso. La seconda parte, più lunga, è una sorta di trattato esegetico dell’intero
poema, cui fa seguito un’analisi del proemio del Paradiso. La ricca e tarda tradizione
manoscritta che tramanda la lettera (a partire dalla metà del Cinquecento); le tante
testimonianze indirette che ne accertano la precoce circolazione e diffusione; l’incertezza
70 sulla localizzazione (tra Verona e Ravenna) e sulla datazione (che oscilla tra il 1315 e il
settembre 1321); i dubbi sulla qualità della lettera: ogni aspetto ha contribuito a far
scorrere fiumi di inchiostro, anche perché l’autenticità o meno della lettera comporta
argomenti cruciali come quello della titolazione del poema (proprio nell’epistola vengono
illustrate le ragioni del presunto titolo, Commedia).
75 Allo stesso Azzetta si deve, di recente, la scoperta della precoce testimonianza
contenuta nelle Chiose alla Commedia, collocabili tra il 1341 e il 1343, di Andrea Lancia,
dove il celebre notaio fiorentino mostra di conoscere la Lettera a Cangrande e di
attribuirla in toto a Dante. L’integrale paternità dantesca della lettera trova conferma,
secondo Azzetta, in una fitta serie di elementi che capovolgerebbero la diffusa
80 convinzione che considera la seconda parte un commento del poema limitativo,
semplicistico e «conservatore», dunque difficilmente attribuibile a Dante: viene
rivendicata, al contrario, l’efficacia illuminante e l’originalità esegetica su alcuni snodi
della Commedia. Azzetta replica ai singoli detrattori, cercando di valorizzare il carattere
non convenzionale e anzi l’eversività (antitomistica) degli argomenti e, simmetricamente,
85 la novità strutturale di una lettera che dunque andrebbe intesa non solo come unitaria ma,
ancora una volta, come un unicum. Molto affascinante: seguiranno fiumi di inchiostro.

ATTIVITÀ

1. Mettere un titolo marginale a ogni parágrafo, conenente opera di cui si parla


e relativi dibattiti.

2. Rispondere alle domande:


a. Per quale occasione è stato scritto il testo?
b. Che proposta ricevette Dante a Ravenna qualche tempo prima di morire?
c. Che particolarità ha la corrispondenza di Dante con Giovanni del Virgilio?
d. In che cosa consiste l’edizione cui si riferisce il testo?
e. Quali sono le posizioni in favore o contro la paternità di Dante della
Quaestio…?
f. Che dati ci sono sull’Epistola a Cangrande?
g. Qual’è l’opinione di Luca Azzetta su quell’epistola?

3. Tradurre in spagnolo le seguenti frasi:


a. anche perché l’autenticità o meno della lettera comporta argomenti cruciali come
quello della titolazione del poema (proprio nell’epistola vengono illustrate le ragioni del
presunto titolo, Commedia). (r. 72-74)
b. Azzetta replica ai singoli detrattori, cercando di valorizzare il carattere non
convenzionale e anzi l’eversività (antitomistica) degli argomenti e, simmetricamente, la
novità strutturale di una lettera che dunque andrebbe intesa non solo come unitaria ma,
ancora una volta, come un unicum. (r. 83-86)
Umberto Eco

“11/9: La cospirazione impossibile”


[28 ottobre 2007, La Bustina di Minerva, l’Espresso]
Com’è noto sull’11 settembre circolano molte teorie del complotto. Ci sono quelle estreme (che
si trovano in siti fondamentalisti arabi o neonazisti), per cui il complotto sarebbe stato
organizzato dagli ebrei, e tutti gli ebrei che lavoravano alle due torri sarebbero stati avvisati il
giorno prima di non presentarsi al lavoro – mentre è noto che circa 400 cittadini israeliani o ebrei
americani erano tra le vittime; ci sono le teorie anti-Bush, per cui l’attentato sarebbe stato
organizzato per potere poi invadere Afghanistan e Iraq; ci sono quelle che attribuiscono il fatto
a diversi servizi segreti americani più o meno deviati; c’è la teoria che il complotto era arabo
fondamentalista, ma il governo americano ne conosceva in anticipo i particolari, salvo che ha
lasciato che le cose andassero per il loro verso per avere poi il pretesto per attaccare Afghanistan
e Iraq (un poco come è stato detto di Roosevelt, che fosse a conoscenza dell’attacco imminente
a Pearl Harbor ma non avesse fatto nulla per mettere in salvo la sua flotta perché aveva bisogno
di un pretesto per iniziare la guerra contro il Giappone); e c’è infine la teoria per cui l’attacco è
stato dovuto certo ai fondamentalisti di Bin Laden, ma le varie autorità preposte alla difesa del
territorio statunitense hanno reagito male e in ritardo dando prova di spaventosa incompetenza.
In tutti questi casi i sostenitori di almeno uno tra questi complotti ritengono che la ricostruzione
ufficiale dei fatti sia falsa, truffaldina e puerile.

Chi voglia avere una idea circa queste varie teorie del complotto può leggere il libro a cura di
Giulietto Chiesa e Roberto Vignoli, Zero. Perché la versione ufficiale sull’11/9 è un falso, edizioni
Piemme, dove appaiono alcuni nomi di collaboratori di tutto rispetto come Franco Cardini,
Gianni Vattimo, Gore Vidal, Lidia Ravera, più numerosi stranieri.

Ma chi volesse ascoltare la campana contraria ringrazi le edizioni Piemme perché, con mirabile
equanimità (e dando prova di saper conquistare due settori opposti di mercato) hanno
pubblicato un libro contro le teorie del complotto, 11/9. La cospirazione impossibile, a cura di
Massimo Polidoro, con collaboratori di altrettanto rispetto come Piergiorgio Odifreddi o James
Randi. Il fatto che ci appaia anch’io non va né a mia infamia né a mia lode perché il curatore mi
ha semplicemente chiesto di ripubblicare in quella sede una mia Bustina che non era tanto
sull’11 settembre quanto sull’eterna sindrome del complotto. Tuttavia, siccome ritengo che il
nostro mondo sia nato per caso, non ho difficoltà a ritenere che per caso o per concorso di varie
stupidità vi avvengano la maggior parte degli avvenimenti che l’hanno tormentato nel corso dei
millenni, dalla guerra di Troia ai giorni nostri, e quindi sono per natura, per scetticismo, per
prudenza, sempre incline a dubitare di qualsiasi complotto, perché ritengo che i miei simili siano
troppo stupidi per concepirne uno alla perfezione. Questo anche se – per ragioni certamente
umorali, ma per impulso incoercibile – sarei propenso a ritenere Bush e la sua amministrazione
capaci di tutto.

Non entro (anche per ragioni di spazio) nei particolari degli argomenti usati dai sostenitori di
entrambe le tesi, che possono parere tutti persuasivi, ma mi appello soltanto a quella che io
definirei la ‘prova del silenzio’. Un esempio di prova del silenzio va usato per esempio contro
coloro che insinuano che lo sbarco americano sulla Luna sia stato un falso televisivo. Se la
navicella americana non fosse arrivata sulla Luna c’era qualcuno che era in grado di controllarlo
e aveva interesse a dirlo, ed erano i sovietici; se pertanto i sovietici sono rimasti zitti, ecco la
prova che sulla Luna gli americani ci sono andati davvero. Punto e basta.

Per quanto riguarda complotti e segreti l’esperienza (anche storica) ci dice che: 1. Se c’è un
segreto, anche se fosse noto a una sola persona, questa persona, magari a letto con l’amante,
prima o poi lo rivelerà (solo i massoni ingenui e gli adepti di qualche rito templare fasullo
credono che ci sia un segreto che rimane inviolato); 2. Se c’è un segreto ci sarà sempre una
somma adeguata ricevendo la quale qualcuno sarà pronto a svelarlo (sono bastati qualche
centinaio di migliaia di sterline in diritti d’autore per convincere un ufficiale dell’esercito inglese
a raccontare tutto quello che aveva fatto a letto con la principessa Diana, e se lo avesse fatto
con sua suocera sarebbe bastato raddoppiare la somma e un gentiluomo del genere l’avrebbe
ugualmente raccontato). Ora per organizzare un falso attentato alle due torri (per minarle, per
avvisare forze aeree di non intervenire, per nascondere prove imbarazzanti e così via) sarebbe
occorsa la collaborazione se non di migliaia almeno di centinaia di persone. Le persone utilizzate
per queste imprese non sono mai di solito dei gentiluomini, ed è impossibile che almeno uno di
questi non abbia parlato per una somma adeguata. Insomma, in questa storia manca la Gola
Profonda.

ATTIVITÀ
1. Indicare l’opzione coerente con il testo:
a. Secondo Eco, le teorie del complotto sono 1. possibili.
2. puerili.
3. assurde.
b. Umberto Eco 1. dirige la casa editrice Piemme.
2. ha scritto un articolo del libro 11/9. La cospirazione impossibile.
3. ha scritto un articolo del libro Perché la versione ufficiale sull’11/9 è un
falso.

c. Secondo Eco, l’attentato dell’11 settembre è stato organizzato 1. da Bush.


2. dagli arabi.
3. da migliaia di
persone.

2. Sintetizzare le teorie del complotto elencate da Umberto Eco, e spiegare che


cosa hanno in comune.

3. Spiegare in spagnolo il significato di quello che Eco chiama “la prova del
silenzio”.

4. Scegliere una frase del testo dove si veda chiaramente la posizione di Eco
sull’attentato delle torri gemelle.

5. Rispondere alle domande:

a. Quale modo verbale prevale nel primo parágrafo (r. 1-6)? Che funzione
svolge?
b. Oltre all’11 settembre, di quale altro evento della storia parla Eco nell’articolo
accennato? Perché?

c. Che significa “la Gola profonda”?

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