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Pietro Oliva

Lezioni di Fisica II
Con richiami di meccanica e termodinamica.
Dagli appunti del corso di Fisica II
Aggiornato al 30/07/2015
Indice

Prefazione 7

Generalità sul linguaggio scientifico 13


Cenni sull’evoluzione del simbolismo matematico 13
Metodo Scientifico, notazione e ordini di grandezza 21
Sistema Internazionale e Unità di Misura 24

Concetti fondamentali di Fisica I:


Meccanica 29
Una base per lo spazio 30
Cinematica 34
Dinamica del punto materiale 39
Lavoro ed Energia 41
Momento angolare 43
Dinamica dei sitemi estesi rigidi 44
Fluidostatica 46
Fluidodinamica 47

Concetti fondamentali di Fisica I:


Termodinamica 49
Principio 0 della termodinamica 50
4 pietro oliva

Principio 1 della termodinamica 51


Principio 2 della termodinamica 55
Legge di stato dei gas ideali 56
Trasformazioni notevoli 60

Elettrostatica 63
Background matematico: nabla 65
Background matematico: teorema di Stokes 69
~ in casi particolari
Campo E 78
~ dovuto a cariche puntiformi
E 79
~ dovuto ad anello carico
E 81
~ dovuto a disco carico
E 83
~ dovuto a segmento carico
E 84
~ campo vicino ad un piano carico
Linee di flusso e Flusso di E: 86
~ dovuto a linea carica
E 89

Potenziale elettrico V ed energia potenziale U 89


Capacità elettrica 92

Magnetostatica 95
Potenziale vettore 98
Legge di Biot-Savart 101
Utilizzate le leggi di Maxwell! 102
Piccola digressione storica 104
~ dovuto ad un solenoide
B 104
~ per un toroide
B 105
Dipolo magnetico 106
lezioni di fisica ii 5

Elettrodinamica 111
Induzione 113
Legge di Ohm 116
Cenni di Circuiti elettrici in CC 119
Leggi di Kirchhoff 122
Induttanze in serie e parallelo 122
Condensatori in serie e parallelo 123
Circuito RL 124
Circuito RL 126
Cenni di Circuiti elettrici in CA 127
Condizioni di lavoro in CA 128
Trasformatori 129

Propagazione nel vuoto 131

Fisica Moderna: il Modello Standard 135


Fermioni e Bosoni 135
Adroni e materia 136
Forza gravitazionale ed elettromagnetica 137
Forza forte 138
Forza debole 139
Cosmologia Moderna 141
Prefazione

Allo stato attuale tutte le dispense di Fisica Generale II di cui sono


venuto in possesso seguono un percorso “classico” che, seppur validis-
simo per un apprendimento di base e forse anche nozionistico, tende
purtroppo a lasciare nello studente delle false convinzioni, difficili in
seguito da eradicare, quali l’idea che il campo elettrico in generale è
quello di Coulomb, che V = IR sia la legge di Ohm, che l’applicazione
della legge di Kirchhoff ad una maglia ove sia presente un induttore sia
lecita e che l’illustrazione di casi estremamente peculiari e singolari per
il calcolo dei campi elettromagnetici sia in realtà una trattazione esau-
stiva e generale di come si calcolino E ~ e B.
~ In particolare ci sono delle
incomprensioni o, a voler pensar male, dei deliberati tentativi da par-
te degli istruttori atti ad aggirare il punto fondamentale che distingue
l’elettromagnetismo, e cioè che questa è una branca della Fisica diffici-
le, che usa una matematica complicata. È veramente puerile e al limite
dell’ipocrisia tentare fino all’ultimo di nasconderlo. Perciò lo dichiarerò
qui, all’inizio: chi affronta lo studio dell’elettromagnetismo deve fare i
conti con un carico di lavoro pesante, costante e profondo. La ricom-
pensa sarà quella di avvicinarci alle risposte fondamentali sui quesiti
inerenti il funzionamento più intimo della natura. Se vi state chiedendo
se vi siete mai posti tali domande e se tutto sommato vi interessino le
risposte, considerate quel che il Sommo Poeta scrisse riguardo la vera
natura umana, e fatelo vostro:

“O frati,” dissi, “che per cento milia


perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

A queste domande, che sarebbe opportuno porsi ad un certo punto


della vita, ovviamente, si può solo tentare di rispondere attraverso l’os-
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servazione del cosmo, dalle più antiche note alle più recenti scoperte,
e cercando una comparazione di ciò che si vede con i modelli più evo-
luti che abbiamo oggi della realtà, che insieme costituiscono il Modello
Standard della Fisica.
Un altro, ma non meno importante, fine di questo breve trattato
è quello di suggerire il significato più opportuno per questo contesto tra
i vari possibili (e spesso vedremo che questo coincide col significato
etimologico originale) di molte parole che oscillando tra l’uso in ambito
familiare e in quello rigorosamente tecnico, perdono di potenza e sono
solitamente mal utilizzate anche nel linguaggio comune. Questo punto
che a prima vista può sembrare secondario, è al contrario d’importanza
centrale: mal parlare significa mal pensare, quindi mal agire. Chi è
circondato dalla confusione genera solitamente altrettanta confusione.
Individuerei, dunque, in questa sede come punti critici da ricordare

• la varianza denotativa dei lemmi nei microlinguaggi di settore: l’uso equi-


voco di termini che vengono utilizzati nei vari ambiti del sapere e
trasferiti da un contesto all’altro ignorando che il loro significato non
è sempre identificato univocamente.

• presupposti nella comparazione: il terreno di confronto possibile è spes-


so una piccola intersezione tra le dottrine e raramente si possono
individuare interi blocchi di sapere omogenei da poter comparare.

• valore filologico delle dottrine: può essere anche significativamente dif-


ferente (ad esempio passando da una teologia ad una teoria scienti-
fica).

Nel primo punto vengono incluse tutte le incomprensioni derivanti


dall’uso simultaneo dello stesso lemma cui vengono associati due (o
più) significati diversi, senza parlare dei paragoni che a volte vengono
posti in essere tra concetti totalmente incommensurabili tra loro (si pensi
al significato di “energia”, “creazione”, “legge”, “trasformazione”, etc.
nell’ambito della fisica, della religione, in ambito giornalistico e così via,
e s’avrà un piccolo scorcio dell’immensa barriera lessicale interdiscipli-
nare). È ovvio che i concetti di “vuoto” e di “illuminazione” saranno
criticamente differenti per un fisico e per un buddista, mentre essi po-
tranno forse facilmente concordare sui concetti di “meditazione” o di
“moltiplicazione”, perché questi appartengono marcatamente ad uno
o all’altro ambito, mentre i primi giacciono pienamente nell’ambiguità
contestuale.
Nel secondo punto viene evidenziata l’importanza d’individuare
esattamente a quali condizioni un confronto tra scienza e superstizione
lezioni di fisica ii 9

sia possibile e sensato; le due cose si posizionano nella qualità dello


scibile a differenti livelli, possedendo differenti statuti epistemologici.
Il terzo ed ultimo punto poi solleva una domanda di fondo sui meto-
di più o meno validi per raggiungere la conoscenza e sul tipo di percorso
usato nell’indagare la realtà; è necessario a questo punto ricordare che
nessun preconcetto, se non quello del buonsenso, deve trattenerci dal
validare o cassare una tesi, per quanto essa sia esotica, se questa discen-
de da un processo logico rigorosamente definito e dunque suscettibile
di analisi e critica. Al contrario tutte quelle verità dogmatiche non ar-
gomentabili sul piano del Logos, vanno messe tout court nel paniere
del mito, con buona pace degli integralisti. Similmente avverrà per
tutte quelle teorie a carattere ipotetico le quali non possono comun-
que mai divenire prove necessarie a favore o contro questa o quella
rappresentazione.
Voglio aggiungere che le opere cui sopra accennavo, in tutta la loro
parzialità e limitatezza, sono state luce e spunto per questa modesta fa-
tica, senza esse non avrei mai potuto combinare le conoscenze in modo
creativo. Noi tutti riposiamo sulle spalle di chi ci precede e che per noi
ha indicato la strada, segnalato i pericoli. Il mio apprezzamento più pro-
fondo va a tutte quelle persone che prima di me hanno tentato l’ardua
strada della ricerca in questo settore che può tranquillamente definirsi
nella storia della fisica. Consapevole dei limiti e conscio dell’assolu-
ta provvisorietà delle certezze, nonché dell’inevitabile incompletezza
di siffatta collezione d’idee, posso solo sperare di aprire una nuova
strada o rispolverarne una poco battuta, senza la presunzione d’essere
esaustivo e con la contezza di non poter essere giammai definitivo.
La convenzione che stabilirò col mio paziente lettore è la seguente:
ogni volta che incontrerò per la prima volta una parola della quale inten-
do sottolineare un preciso significato, ne presenterò l’etimologia a lato
di pagina sotto forma di nota. Il grado di regressione nella ricostruzione
della radice sarà tanto più alto quanto più vorrò far soffermare il lettore
sul lemma proposto per la riflessione. Spesso e volentieri proporrò con-
fronti e paragoni con altre parole che prendono dalla radice in esame e
questo per aprire nuove strade di investigazione che però lascerò solo
indicate, accennate, a causa della necessaria finitezza del mio tempo.
Di questi indizi di possibile approfondimento tenterò, ove possibile e
nella limitatezza delle mie conoscenze, di segnalarne l’esistenza. Se solo
una piccola parte, oppure solo uno, dei miei lettori trovasse spunto per
ulteriori considerazioni e ricerche a partire da una mia nota a margine,
riterrò d’aver avuto successo in quest’impresa.
In un testo che parla di raffigurazioni della realtà, le figure - inutile
dirlo - sono perlomeno essenziali. Questo è un punto dolente di moltis-
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sime opere molto più approfondite della presente che però per motivi
editoriali, stilistici, di reperibilità delle fonti (specialmente nel caso di
quei testi nati in un’era pre-internet) o di semplice pigrizia, non riporta-
no quasi mai in modo soddisfacente quelle stupende ancore d’appiglio
mentale che sono le rappresentazioni grafiche. Per quanto detto la for-
ma tipografica più adatta al mio scopo è quella che consenta un ampio
uso degli spazi a margine del testo, che avranno in questo libro ruolo
oserei dire cardine per una piena comprensione di quanto esposto.
Come tutti i testi infine, anche in questo vi saranno errori e refusi;
ne riconosco la paternità esclusiva e sarò grato a chi vorrà segnalarmeli
e sottopormi critiche e suggerimenti.
lezioni di fisica ii 11

Alfabeto greco I, i i
, i ucraina
Α, α àlfa Ï, ï ji
Β, β bèta ,  ì
Γ, γ gàmma K, k kà
Δ, δ dèlta L, l el
Ε, ε epsilòn Lj, lj ljè
Ζ, ζ zèta M, m em
Η, η èta N, n en
Θ, θ thèta Nj, nj njè
Ι, ι iòta O, o o
Κ, κ kàppa P, p pè
Λ, λ làmbda R, r er
Μ, μ my S, s es
Ν, ν ny T, t tè
Ξ, ξ xi ,  ćjè
Ο, ο omicròn U, u u
Π, π pi F, f ef
Ρ, ρ rho H, h cha gutturale aspirata
Σ, σ sìgma (finale: ς) C, c tzè
Τ, τ tàu Q, q čè
Υ, υ ypsilòn ,
dzè
Φ, φ phi X, x šà
Χ, χ khi W, w ščà
Ψ, ψ psi _,  tvjordyj znak
Ω, ω omèga Y, y i gutturale
^, ~ mjagkij znak
, e
Alfabeto cirillico
,  jù
A, a a ,  jà
B, b bè
V, v vè
Simboli fonetici usati
G, g ghè
D, d dè ð eth (th in them)
,  djè þ thorn (th in thick)
Ǵ, ǵ gjè R. approssimante retroflessa breve
E, e jè sillabica
,  jo S. sibilante retroflessa
, jest ucraina M . anusvāra, suono nasale
,  žè T. retroflessa occlusiva sorda non
Z, z zè aspirata
,  dzè
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Abbreviazioni

lat. = latino
gr. = greco
sscr. = sanscrito
ind.e. = indoeuropeo
cfr., v. = confronta con, vedi
Fig., Figg. = figura, figure
e. g. = exempli gratia, ad esempio
ibid. = ibìdem, stessa opera
sic = così è nell’opera originale
* = le parole che iniziano con aste-
risco sono da intendersi ricostruite
da analisi etimologiche e non si tro-
vano in nessuna fonte scritta origi-
nale.
d.d.p. = differenza di potenziale
f.e.m. = forza elettromotrice
SI = Sistema Internazionale
yr = year, anno in inglese.
Generalità sul linguaggio scientifico

Cenni sull’evoluzione del simbolismo matematico

È ormai un luogo comune (che noi troviamo essere al limite dell’ipo-


crisia) sostenere che in questo tipo di trattazioni vanno evitate il più
possibile le formule e le equazioni per non scoraggiare il lettore. Tro-
viamo tale scusa, come detto, insufficiente ed irrazionale tale qual è la
paura del buio. Le cose notoriamente s’imparano, e nulla che un uomo
ha creato e pensato non può essere afferrato almeno a livello generale
da un altro uomo. Così non ci spaventeremo né di dover affrontare temi
difficili né di esprimerli coll’unico mezzo oggettivamente adatto che è
la notazione matematica.
Per cominciare a comprendere come viene rappresentata la natura
da parte della Fisica, è necessario comprendere il simbolismo matema-
Figura 1: Sopra: manoscritto d’Oresme
tico moderno che ha avuto, come tutte le convenzioni umane, una sua (1360 circa) donde compare + come ab-
storia e, possibilmente, una storia evolutiva ancora in corso; miscono- breviazione di et (le prime due sono in-
dicate da frecce). Si legge: “Una media
scere la matematica e voler parlare di natura sarebbe come pretendere debet sic scribi 12 , una tertia sic 13 et due
di dipingere senza sapere nulla di colori e pennelli e senza approntare tertie sic 32 ; et sic de alijs”. Sotto: prima
stampa ove si ritrova l’uso dei segni + e
una tela. Nostra intenzione in questo paragrafo è quella di dare un
- (Johannes Widmann di Eger, Behende
assaggio, per quanto necessariamente incompleto e succinto, di come und hübsche Rechnung auff allen Kauff-
la notazione matematica ha avuto ed ha, come detto, una storia evolu- manschafft, Lipsia 1489). Notare la spie-
gazione: “was aus - ist / das ist minus”,
tiva simile a quella di tutti gli altri simboli, e come questo processo di e più avanti “+ das ist meer” dove meer
condensazione del significato abbrevi e focalizzi i concetti in stringate sta per il moderno mehr, più (e non per
“mare” come si leggerebbe in tedesco mo-
righe d’immediata lettura. Agli inizi degli anni quaranta, ad esempio,
derno, in quanto è discendente del proto
ancora non erano stati inventati i diagrammi di Feynman per le propa- germanico *maizô che in inglese diventa
gazioni e gli scattering delle particelle e si dovevano usare righe molto more, in svedese mera, in norvegese e da-
nese mere etc., ed è ovviamente parente
complicate di notazione matematica per significare magari una sempli- del gr. μέγας, sscr. MAHA, grande, forte,
ce interazione tra fotoni ed elettroni. Il vantaggio per la comprensione abbondante).
delle interazioni una volta introdotti i grafi fu monumentale e questo fu
dovuto solo ad un più efficace sistema simbolico.
Per capire di cosa stiamo parlando facciamo un esempio che vuole
essere solo grafico (non si preoccupi il lettore che non conosce i simboli
che seguono) anche se molto esemplificativo di che impatto può avere
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un simbolismo azzeccato: la propagazione ed interazione tra un fotone


ed un elettrone andrebbe scritta usando la lagrangiana (che è sem-
plicemente una particolare funzione caratterizzante un certo sistema
meccanico al fine di descriverne il moto):

1
L = − Fµν Fµν − ψ γµ ∂µ + m ψ + ieAµ ψγµ ψ

4
dove Fµν è il tensore rappresentante il campo elettromagnetico ed Aµ
il suo quadripotenziale (tale cioè che sia Fµν = ∂µ Aν − ∂ν Aµ ), ψ è la
funzione d’onda della particella, γµ le matrici gamma di Dirac (una
scelta opportuna di base in un certo spazio di matrici) ed infine la e
è la costante d’accoppiamento che in questo esempio coincide con la


carica in valore assoluto dell’elettrone. Abbastanza complicato da far
perdere di vista addirittura il fatto che stiamo cercando di descrivere le
Figura 2: Richard Phillips Feynman (1918 possibilità di propagazione di fotoni ed elettroni.
- 1988) fisico statunitense, nobel per la
fisica 1965.
Ebbene, dal punto di vista di uno dei fisici più geniali mai vissuti,


Richard Phillips Feynman, si troverebbero le semplificazioni grafiche
seguenti:

1
L = − Fµν Fµν − ψ γµ ∂µ + m ψ + ieAµ ψγµ ψ =

| 4 {z } | {z } | {z }
γ
− e −γ+e

Il primo termine descrive la propagazione libera del campo Aµ (quin-


di dei fotoni), il secondo termine la propagazione libera del campo ψ
(elettroni e positroni) ed infine viene aggiunto il terzo termine descri-
vente l’interazione fotone-elettrone. Naturalmente per poter passar
dalle equazioni ai diagrammi di Feynman bisogna seguire alcune rego-
le anche abbastanza complesse, però l’informazione è tradotta in modo
completo ed il suo trasferimento risulta più veloce in quanto i grafi sono
lezioni di fisica ii 15

intuitivi. Il terzo termine (quindi il terzo diagramma disegnato sopra)


in particolare assume un significato più generale: esso può infatti es-
sere usato per tenere conto del fatto che il fotone si accoppia a tutte le
particelle con carica elettrica, con la conseguenza che il vertice fotone-
elettrone presente nel punto d’intersezione del diagramma più in basso
si generalizza in realtà a tutti i fermioni del modello standard, facendo
solo attenzione ad aggiungere un’opportuna carica q del fermione in
esame.
Un altro esempio classico di come i diagrammi abbiano facilitato
la vita a molte generazioni di studiosi riguarda il concetto (sostanzial-
mente primitivo) d’insieme: è questo infatti un paniere di elementi, una
collezione di entità, un contenitore ideale dove mettere (in ordine se-
condo certe regole oppure in disordine) un determinato numero di cose.
Figura 3: Giuseppe Peano (1858 - 1932),
Per convenzione si nominano gli insiemi usando lettere latine maiuscole
matematico italiano.
(A, B, etc.) e gli elementi con lettere minuscole (a, b, etc.). Se un elemento
a appartiene all’insieme A si scriverà a ∈ A, usando la convenzione di
Peano che nella sua opera Arithmetices Principia Nova Methodo Exposita
del 1889 utilizza appunto una epsilon specificando che “Signum ∈ signi-
ficat est”. Quasi cinquant’anni più tardi si cominciò ad usare il simbolo
< per significare il contrario, cioè che a non appartiene ad A (a < A).
Peano scriverà (in latino sine flexione, una lingua artificiale inventata
da lui) nel suo Formulario Mathematico del 1895 che
“Omni progressu de Mathematica responde ad introductione de signos
ideographico vel symbolos. Symbolos plus antiquo, hodie adoptato, es
cifras Indo-Arabico, 0, 1, 2... 9, facto Europæo in anno 1200 circa. Utilitate
plus evidente de cifras es brevitate in scriptura. In secundo loco, cifras
reduce vocabulario.”

tradendo una vera e propria passione per le notazioni compatte.


T
Sempre di Peano sono le convenzioni “Signum legitur et” e “Si-
S
gnum legitur vel” quindi per riferirsi agli elementi comuni a due
T
insiemi, A e B, si usa riferirsi all’intersezione A B, mentre volendosi
riferire all’insieme unione dei due (cioè tutti gli elementi, presi una volta
S
sola nel caso di intersezioni, dei due insiemi) si scriverà A B. Useremo
anche altri simboli tra cui l’inclusione, A ⊂ B, che significa che tutti gli
elementi di A sono anche elementi di B (cioè A è un sottoinsieme di B)
ma ci sono alcuni elementi di B che non sono in A. Nel caso in cui A
potrebbe anche coincidere con B si scriverà A ⊆ B obbedendo alla con-
venzione stabilita nel 1816 dal matematico Gergonne nel suo Essais de
Dialectique Rationnelle. In matematica si fa uso estensivo d’altri simboli
quali i cosiddetti quantificatori ∀ e ∃ che si leggono rispettivamente “per
ogni ...” e “esiste almeno un ...” essendo il primo dovuto al matematico
tedesco Gentzen (1935) in analogia a ∃ dovuto ancora a Peano. Simil-
16 pietro oliva

T S
mente ai simboli e avremo i connettivi logici: la congiunzione “et”,
simboleggiato da ∧, la disgiunzione esclusiva “aut” simboleggiata da ∨˙
ed infine la disgiunzione inclusiva “vel” ∨.
L’utilizzo immediato di tale notazione è sulla cosa più preziosa che
l’uomo abbia per trasmettere informazioni: il linguaggio. Tramite il lin-
guaggio si organizzano gruppi di persone per portare a termine compiti
complessi assolutamente fuori portata del singolo. Risulta allora di ra-
dicale importanza trasmettere con efficacia informazioni complesse che
consentano di decidere il valore logico di enunciati composti.
Grazie ai connettori descritti sopra si possono collegare due (o più)
enunciati (veri=V o falsi=F che siano) per ottenerne un altro dal valore
logico determinato dalla tabella detta “di verità”. Ad esempio per
quanto riguarda il connettore et (∧, detto anche AND, usando il nome
inglese) la tabella di verità, se diciamo A e B due enunciati, risulta

A B A∧B
V V V
V F F
F V F
F F F

quindi per ottenere un enunciato vero a partire da due enunciati con-


nessi con AND, bisogna che questi siano entrambi veri. Ad esempio
connettendo la frase “Il Sole sorge ogni giorno”, la quale certamente è
vera, con la frase “L’acqua è alla base della vita sulla Terra”, altrettanto
vera, s’ottiene

Il Sole sorge ogni giorno e l’acqua è alla base della vita sulla Terra

che è una frase complessivamente vera. Sono tuttavia lasciate fuori da


queste regole gli enunciati autoreferenziali quali ad esempio “Questa
frase è costituita da otto elementi grammaticali”, che di per sé è vera
ma che connessa tramite AND logico a qualunque altra frase vera che
non parla di sé stessa, genera un enunciato falso:

Il Sole sorge ogni giorno e questa frase è costituita da otto elementi


grammaticali

la quale è palesemente falsa poiché consta di ben quattordici elementi e


non di otto. Naturalmente con l’autoreferenzialità è possibile costruire
tutta una serie di enunciati paradossali il più famoso dei quali è forse

Questo enunciato è falso.

del quale non è possibile decidere il valore logico senza conseguenze


assurde. A patto dunque di escludere frasi di “livello più alto” e di
lezioni di fisica ii 17

usare solo quelle che non siano auto-referenti, possiamo disporre per del
connettivo AND e di altri connettivi quali l’OR e lo XOR (corrispondenti
al vel ed all’aut latino):

A B A∨B A B ˙
A∨B
V V V V V F
V F V V F V
F V V F V V
F F F F F F

grazie ai quali si è in grado di costruire tutta la logica (ovviamente con


l’operatore NOT che cambia il valore di verità d’una stringa). Sì può
dimostrare di più: bastano AND, OR e NOT per costruire ogni altro
operatore.
I simboli usati naturalmente non sono solo un vezzo: ci consentono
di ridurre una frase che sarebbe lunga da scrivere, quale ad esempio

Se a è un elemento dell’insieme N e lo è anche b, allora è vero dire che


l’elemento ottenuto connettendo i due precedenti in uno solo detto “a e
b” appartiene anch’esso all’insieme N

con una semplice stringa “se a, b ∈ N, a ∧ b ∈ N”. In effetti la possibilità


di rendere compatta una notazione può dirsi elemento fondamentale
alla base del ragionamento logico moderno.
Tornando agli insiemi, il primo insieme di numeri che viene “natu-
rale” considerare sono gli interi positivi (o non negativi, cambia solo
che venga o meno incluso lo zero), esprimenti quantità intere di oggetti
considerati ai fini di un computo o per dare un ordine ad un elenco.
Discutere in questa sede i modi diversi di simboleggiare tali quantità
ci porterebbe fuori strada, pertanto useremo fin da subito, copiando
Peano, i noti simboli 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 ed useremo un siste-
ma posizionale in base 10, di modo che, ad esempio, 125 significhi
1 · 102 + 2 · 101 + 5 · 100 dove il simbolo “+” indica la somma e, come
visto, deriva da un’abbreviazione del latino “et”. Questa è ovviamente
una convenzione, e non deve sorprendere o mettere a disagio il sapere
che sia solo una tra le infinite possibili.
Le basi 2, 5, 10, 20 sono forse le prime che possono venire in mente
prendendo spunto dalla fisiologia umana. Due sono gli occhi, le braccia,
le gambe, le orecchie. I popoli più primitivi contano sicuramente in base
quattro o cinque; si pensi ai Boscimani africani o ai Bakairi brasiliani.
Purtroppo i calcoli sono certamente disagevoli in tale base “primitiva”.
Già oltre il sei o il sette, i nomi diventano lunghi e difficili da distinguere.
Gli aborigeni argentini Qom’lek sono costretti a dire (secondo i diari di
Francisco Gavino de Arias del 1780) “nivoca nalotapegat” per significare
18 pietro oliva

8 (due volte 4), “nivoca nalotapegat nathedac” per il 9 (due volte 4


più l’unità) e dieci ha lo scomodo nome “cacayni nivoca nalotapegat”,
proprio perchè quando la base è bassa si è costretti a usare molte parole
(2 volte 4, più 2). Anche basi superiori possono causare lunghi nomi:
si supponga di dover usare base venti e dover quindi dire “quattro
volte venti e cinque” per indicare 85. In effetti è quello che ancora oggi
succede in francese dove tale numero è quatre-vingt cinq.
Tra i primi ad usare simboli progressivi per i numeri naturali ed un
sistema posizionale (anche se in base sessanta) ricordiamo i babilone-
Figura 4: Una tavoletta babilonese (detta
di Yale) riporta il calcolo della diagonale si che mutuarono l’idea dai sumeri. Il loro sistema prevedeva anche
d’un quadrato di lato 30. Sulla diagonale un simbolo per lo zero (ma questo non veniva mai usato come ultimo
è riportato il numero
segno a destra di una quantità, essendo sostanzialmente un simbolo
24 51 10
1+ + + = 1, 414212962962963 indicante l’assenza di altri segni piuttosto che il concetto di nulla) an-
60 602 603
√ ticipando il moderno simbolo zero (0) di origine araba1 . I babilonesi
che approssima 2 = 1, 41421356...; la
diagonale sarà allora hanno lasciato molte tavolette dove ci sono collezioni di soluzioni par-
p √ ticolari di problemi risalenti all’equazione generica a2 + b2 = c2 (Fig. 4);
d= 302 + 302 = 2 · 30 = 42, 426406871...
in pratica si trattava di collezionare soluzioni per le terne pitagoriche e
Adesso 42 + 25 35
60 + 602 = 42, 42638̄, in
ottimo accordo col valore d. questo sicuramente a causa di necessità legate all’agrimensura. Dove-
va essere infatti un grande problema risalire ai confini delle proprietà
1
dal lat. zephirum, dall’arabo s.ifr che agricole dopo che i perimetri venivano cancellati da alluvioni o altri
significa “nulla”, “vuoto”; sscr. SŪNYA,
cifra, vuoto, assenza, non-essere.
eventi straordinari o ciclici quali le esondazioni dei fiumi. Ed è anche
per questo che le prime grandi scoperte matematiche sono fortemente
associate con la geometria. La base sessagesimale babilonese potrebbe
essere spiegata dal fatto che 60 ha molti divisori (1, 2, 3, 4, 5, 6, 10,
12, 15, 20, 30, 60) e ciò rende più agevole i calcoli di frazioni. Inoltre
1 · 2 · 3 · 4 · 5 = 120, che è il doppio di 60. Ancora oggi è rimasto l’uso di
contare il tempo in multipli di sessanta.
Il sistema babilonese è in realtà essenziale non tanto per la sua base
particolare (1/60) bensì per la sua caratteristica di essere fondamental-
mente un sistema posizionale. I babilonesi inoltre tendevano a risolvere
problemi a due variabili ponendoli sotto forma di sistema dove compa-
riva un’equazione del tipo xy = A ed una del tipo x + y = B dove A e B
erano valori noti. Lessicalmente parlando la quantità x o y era denomi-
nata genericamente “lunghezza” e il prodotto xy “area” a prescindere
2
Per la famosa scuola pitagorica il nume- dal fatto che tali quantità fossero o meno riferite ad un problema reale
ro 4 è associato al corpo più elementare;
di geometria; ma i babilonesi sapevano anche risolvere equazioni di
dato che le particelle più piccole sono per
i pitagorici di fuoco, essi vi associavano grado superiore quale x3 + x2 = C, con C valore noto, ed ancora altri
la figura solida detta piramide (dal greco
tipi. Le soluzioni numeriche erano collezionate in altrettante tavole che
πυρός, fuoco) o tetraedro. Purtroppo bi-
sogna riconoscere che ciò che era ben rappresentavano un vero e proprio tabellario di riferimento per risol-
noto più di 4000 anni fa, oggi sembra es- vere problemi pratici sui campi. Gli egiziani dal loro canto potevano
sere patrimonio di pochissimi. Quanti dei
lettori ricordano che il volume del tronco

facilmente calcolare il volume di un tronco di piramide2 o di una ram-
di piramide è pari a V = 3h (A + a + Aa), pa a sezione trapezoidale anche se la maggior parte dei calcoli a noi
dove h è l’altezza e A, a le aree delle
basi?
lezioni di fisica ii 19

pervenuti trattano di quantità di pane e birra ricavabili da certi volumi


di grano. Il sistema egizio era tuttavia incredibilmente legnoso quando
veniva ad occuparsi di frazioni dato che esse dovevano essere sempre
a numeratore unitario, fatta eccezione per 2/3.
Dovendo mettere un po’ d’ordine nelle definizioni dei numeri par-
tiamo con quelli che universalmente sono riconosciuti come intuitivi
nonché i primi ad essere formalizzati in molte civiltà che conoscevano
la scrittura: i numeri naturali. Tali numeri son quelli che servono per
una primitiva contabilità e possono essere formalizzati con la scrittura
N = {0, 1, 2, 3, 4, ...} dove N sta per naturali; questi numeri sono infatti
d’immediata applicazione nella vita quotidiana dove si ha a che fare
con il contare e l’ordinare oggetti: quattro mele, il corridore in terza po-
sizione, etc.; in più sommando (o moltiplicando, ma la moltiplicazione
è un modo più rapido per fare somme) qualunque numero naturale con
un altro si ottiene sempre un numero naturale (proprietà che dicesi chiu-
sura). Capita però di dover tener conto di quantità che mancano o che
vanno conteggiate a sfavore: c’è bisogno di fare sottrazioni. A tal fine 3
Zahl si traduce con “numero” ma in real-
tà ha un significato più profondo deri-
definiremo l’insieme dei numeri cosiddetti “relativi” o anche “interi”,
vando dal tedesco antico Zala che di-
formalizzandoli con la scrittura Z = {..., −4, −3, −2, −1, 0, 1, 2, 3, 4, ...} venne in sassone tala per poi trasfor-
marsi ad esempio nel moderno ingle-
dove la Z sta per il tedesco “Zahl” (tale simbolo fu introdotto dal ma-
se tale (racconto, nel senso etimologico
tematico tedesco Edmund Landau negli anni ’30)3 . Anche i numeri di rendere conto) ed anche ritrovasi in
interi possono venire sommati tra loro (e quindi anche moltiplicati) ot- to tell (dire), in quanto discendente del
proto germanico *taljanan, menzionare
tenendo ancora un numero intero. Ma non si può dividere senza uscire ordinatamente.
dall’insieme Z e come abbiamo visto le necessità pratiche matematiche
primordiali erano proprio inerenti i rapporti tra numeri interi; tali rap-
porti non sono quasi mai un numero intero. C’è evidentemente bisogno
di un altro insieme ancora più generale che inglobi Z il quale a sua volta
comprende N al suo interno.
Quando si vuole descrivere l’insieme di tutti i numeri la cui espres-
sione in forma di frazione a/b (dove sia a che b sono numeri interi) è
sufficiente per definirli, siamo innanzi all’insieme dei numeri razionali.
Questo insieme è denominato Q da “quoziente”. Tutto sembra adesso
andare per il verso giusto ma in realtà un grosso problema sorge in
merito ad una delle domande più banali ma anche tra le più importanti
per fini pratici che si possano fare: quant’è lunga la diagonale di un
quadrato di lato unitario? Tutti sanno (fin dai tempi dei babilonesi) che
√ √
la risposta dev’essere 12 + 12 = 2. Purtroppo questo numero non è
esprimibile come rapporto tra interi. In poche parole non è un numero

razionale, 2 < Q.
Come fu chiaro relativamente presto ai greci c’erano alcuni problemi
di geometria che non erano risolvibili con costruzioni che sfruttava-
no unicamente squadra e compasso. I tre più famosi problemi clas-
20 pietro oliva

sici di questo tipo erano infatti tutti legati a questi strani numeri non
4
Tutti i numeri che scaturiscono da co- esprimibili in rapporti d’interi: 4 .
struzioni con squadra e compasso danno
ovviamente numeri algebrici, numeri cioè
• Trisezione dell’angolo (dato un angolo qualunque costruire con squa-
che sono soluzione di un’equazione poli-
nomiale ak xk + ak−1 xk−1 + · · · + a0 = 0 do- dra e compasso la sua terza parte).
ve k > 0 e ak ∈ N ∀ k. Tali numeri anche
se comprendono gli irrazionali algebrici
• Quadratura del cerchio (dato un cerchio qualunque costruire con
escludono tutti gli irrazionali trascendenti
tra i quali e e π. squadra e compasso un quadrato di uguale area).

• Duplicazione del cubo (dato un cubo qualunque costruire con squa-


dra e compasso un cubo di volume doppio).

Se si chiede di trovare la terza parte di un angolo θ qualunque dato


risolvendo con squadra e compasso, infatti, si sta chiedendo prima di
tutto di costruire due segmenti il cui rapporto sia cos θ (e questo chiama
in causa una funzione trascendente), ed in secondo luogo di risolvere

3 θ θ
   
cos θ = 4 cos − 3 cos
3 3

oppure, equivalentemente, di risolvere la più “moderna” x3 = eiθ . In


ogni caso numeri trascendenti sono chiamati in causa e rendono impos-
sibile la costruzione con squadra (non graduata) e compasso. D’altro
canto chiedere di quadrare un cerchio di raggio R significa costruire un

quadrato di lato R π e π è un numero trascendente. Chiedere infine
di costruire un cubo di volume doppio ad uno dato richiede di poter

3
costruire un cubo di lato 2 volte il lato dato, numero non costruibile
con gli strumenti succitati.
Oggi sappiamo che l’insieme giusto da considerare per questi proble-
mi è l’insieme dei numeri reali R che è null’altro che il vecchio insieme
dei numeri razionali al quale s’aggiunge quello dei numeri irraziona-
li (che peraltro sono molti di più dei primi). Per quanto detto finora
N ⊂ Z ⊂ Q ⊂ R. Vedremo più avanti che si può considerare un insieme
ancora più ampio che contiene R: quello dei numeri complessi C.
All’interno di un insieme possono definirsi delle relazioni per ordi-
nare gli elementi e poter dire che, ad esempio, l’elemento a precede b
(che si scriverà a ≺ b) e l’elemento c segue b (c  b). Affinché ciò sia
possibile tale relazione R - definita nell’insieme, diciamo, A - che di-
remo “binaria”, perché coinvolge almeno due elementi alla volta (nel
nostro linguaggio simbolico R ⊆ A × A), deve godere delle tre seguenti
proprietà:

• riflessiva (la relazione R lo è se ∀a ∈ A, a R a è vera);

• antisimmetrica (la relazione R lo è se ∀a, b ∈ A, a R b ⇒ b R a è falsa);


lezioni di fisica ii 21

• transitiva (la relazione R lo è se ∀a, b, c ∈ A, a R b ∧ b R c ⇒ a R c è


vera).

Nel nostro caso l’insieme dei numeri relativi Z è ordinato nel senso
che 3 segue 2, che segue 1, che segue 0, che segue -1, etc.; stringatamente
scriveremo che ... ≺ −3 ≺ −2 ≺ −1 ≺ 0 ≺ 1 ≺ 2 ≺ 3 ≺ .... Ma si faccia
attenzione: queste relazioni non sono ancora uguali, sebbene simili, al
concetto di “maggiore di/minore di” come ad esempio nella notazione
“2 < 4” (due è minore di quattro) perché un conto è precedere o succedere
un elemento in una fila sempre definibile a prescindere dalla metrica,
un altro è essere maggiori o minori di un altro elemento secondo una
certa “lunghezza” o magnitudine che va definita sull’insieme.
Da quanto detto fino a questo punto si può intravedere il mondo
che si cela dietro al linguaggio simbolico matematico e alla sua storia:
non essendo questo un libro di analisi, ci prenderemo ora la licenza di
passare direttamente alle conoscenze di fisica classica, cercando di in-
tegrare ove necessario spiegando il significato dei simboli che vengono
Figura 5: Galileo Galilei (1564 - 1642)
introdotti per la prima volta. Ma prima di passare al prossimo argo-
fisico, filosofo, astronomo e matematico
mento introduciamo brevemente il pilastro sul quale riposa: il metodo italiano, padre della scienza moderna.
scientifico.

Metodo Scientifico, notazione e ordini di grandezza

Il metodo scientifico, fondato da Galilei, si basa sulle seguenti linee


guida:

• schematizzazione del fenomeno in studio (modello semplice + per-


turbazioni);

• osservazione sperimentale qualitativa e quantitativa di correlazioni


tra le grandezze fisiche in studio;

• misura delle grandezze fisiche definite con un metodo operativo;

• deduzione di leggi fisiche dai dati sperimentali;

• previsione di nuovi risultati usando le leggi trovate sopra;

• verifica sperimentale delle previsioni.

Non tutte le branche della Fisica possono seguire esattamente i punti


succitati, ad esempio l’Astrofisica non potendo riprodurre in laborato-
rio l’oggetto d’interesse (magari una galassia) si deve accontentare di
usare gli esperimenti accessibili già in atto nell’universo. Per lo stesso
motivo e per l’assenza di esperimenti, l’Astronomia è spesso dichiarata
scienza osservativa e non sperimentale. Sarà proprio Galileo Galilei,
22 pietro oliva

nel 1610, a dire per primo che la Via Lattea è costituita da “innumere-
voli stelle deboli” ed a sostenere, a seguito dei dati osservativi, l’ipotesi
di Copernico; per averla sostenuta pubblicamente, anche Galileo ver-
rà perseguitato dalle autorità religiose dell’epoca venendo sottoposto a
carcere duro e forse a torture. Sul processo a Galilei ci sono molti testi
più approfonditi. Noi purtroppo non possiamo in questa sede soffer-
marci su tale punto e dobbiamo passare ad alcune definizioni basilari
per poter cominciare a capire il nuovo linguaggio col quale studieremo
5
Il valore vero di una grandezza è in prin- la natura.
cipio inconoscibile, qui si nomina sola-
Prima di parlare propriamente di Fisica, e di confrontare i risultati in
mente senza attribuirgli alcun valore pre-
ciso, sarà compito dello strumento di mi- modo quantitativo, è di fondamentale importanza accennare agli ordini
sura fornire una stima numerica di ta-
di grandezza, ovvero la potenza di dieci nella quale giace la dinamica
le valore, stima inscindibilmente legata
all’incertezza di misura tipica di quello della misura in studio. Se una grandezza fisica X in un dato momento
strumento. ha un certo valore vero5 , sia esso x, noi possiamo solo fornire la sua
misura attraverso una stima - che di solito è un indice centrale statistico
- di quello che teoricamente ci si attende, indicato con E[X] (dall’inglese
6
Si definisce media aritmetica del cam- expected, valore atteso della variabile X). Un esempio d’indice centrale
pione ottenuto dalla grandezza variabi-
d’una data distribuzione di valori da variabile aleatoria, è la famosa
le X estraendone N valori {x1 , x2 , . . . , xN }
tramite N misurazioni, la quantità ottenu- media aritmetica x̄ che fornisce una stima sperimentale del valore atteso
ta sommando tutti i valori misurati e divi-
E[X] proveniente dalla teoria6 .
dendo tale somma per il numero di ele-
N Lo scarto della misura dal valore vero, anche esso in linea di principio
menti del campione quindi x̄ = N1
P
xk .
k =1 impossibile da determinarsi a causa dell’inconoscibilità del valore vero,
Questo è un buon stimatore di E[X] per
conoscere il quale bisognerebbe esten- dicesi errore di misura; è questa dunque una quantità squisitamente
dere la somma a tutti gli elementi della teorica. La quantità che invece si usa operativamente è lo scarto dalla
popolazione.
stima del valore atteso, di cui possiamo definire procedure di calcolo,
detto incertezza di misura. Spesso si parla quindi di “errore di misura”
impropriamente: ripetiamo che l’errore di misura è la “distanza” della
misura (nota) dal valore vero (quantità teorica che nella maggior parte
dei casi non è possibile sapere), mentre la “distanza” della misura dal
suo valore atteso stimato, noto attraverso processi statistici che derivano
da ipotesi sulla distribuzione della variabile aleatoria, è detta incertezza
di misura, ed è dunque con tale terminologia che opportunamente ci si
7
La precisione in Fisica è il grado di “con- riferirà alla capacità dello strumento di essere preciso7 .
vergenza” dei dati strumentali rispetto al-
In mancanza di strumenti precisi e accurati, è importante saper forni-
l’indice centrale usato come estimatore
dell’E[X]. Si noti che uno strumento può re almeno l’ordine di grandezza del valore che ci si aspetta da una certa
essere molto preciso ma poco accura-
osservabile, ed ovviamente della sua incertezza. Spesso anzi il numero
to, dare cioè una dispersione piccola dei
dati attorno ad un valore che però è di- preciso della grandezza in esame non è neanche troppo interessante (si
stante da quello atteso, come ad esem- pensi al numero di gocce di pioggia che cadono in un anno a Roma)
pio succederebbe se si tarasse male una
bilancia di precisione. mentre lo è sicuramente l’ordine di grandezza. Un esempio pratico:
sapendo che in un anno su Roma è caduto 1 cm di pioggia, possia-
mo calcolare l’ordine di grandezza delle gocce d’acqua effettivamente
cadute a patto di conoscere o stimare la superficie dell’area della città
lezioni di fisica ii 23

(circa 1000 km2 = 109 m2 ) e un ragionevole valore per il raggio della


singola goccia (sia esso r ∼ 2 mm circa). Fatto ciò basta trovare il volume
della goccia d’acqua V g = 34 πr3 = 43 π(2 · 10−3 )3 ' 10−8 m3 ed il volume
d’acqua totale caduto su Roma, pari a Va = 109 m2 · 0, 01 m = 107 m3 e
calcolare
Va 107
n. di goccie ∼ = −8 = 1015
Vg 10
che è circa un milione di volte più grande della popolazione terrestre o,
equivalentemente, il numero di stelle contenute in centomila galassie.
Risulta comodo perciò il nominare alcune potenze di dieci con dei
prefissi che si usano accostati al nome dell’unità di misura della quale
vogliamo indicare multipli e sottomultipli; nello schema seguente i
prefissi meno frequentemente usati sono riportati in rosso:

yocto- y 0.000 000 000 000 000 000 000 001 10−24
zepto- z 0.000 000 000 000 000 000 001 10−21
atto- a 0.000 000 000 000 000 001 10−18
femto- f 0.000 000 000 000 001 10−15
pico- p 0.000 000 000 001 10−12
nano- n 0.000 000 001 10−9
micro- μ 0.000 001 10−6
milli- m 0.001 10−3
centi- c 0.01 10−2
deci- d 0.1 10−1
- - 1 100
deca- da 10 101
etto- h 100 102
kilo- k 1,000 103
mega- M 1,000,000 106
giga- G 1,000,000,000 109
tera- T 1,000,000,000,000 1012
peta- P 1,000,000,000,000,000 1015
exa- E 1,000,000,000,000,000,000 1018
zetta- Z 1,000,000,000,000,000,000,000 1021
yotta- Y 1,000,000,000,000,000,000,000,000 1024

quindi il numero di gocce d’acqua trovato sopra corrisponderebbe al


“peta” della nostra tabella.
Similmente si può scrivere, ad esempio, che l’universo nacque da
una singolarità (13, 75 ± 0, 17) · 109 anni fa, ovvero ∼ 14 Gyr, mentre il
sistema solare si formò ∼ 4, 6 · 109 anni or sono; la Terra, dal suo canto,
nasce (4, 540 ± 0, 045) · 109 anni fa, e così via.
24 pietro oliva

Definiamo adesso uno standard per esprimere i valori numerici: un


numero α scritto nel seguente modo:

α = k · 10n (1)

dove k ∈ R, ed inoltre 1 ≤ |k| < 10, e con n intero, si dice in notazione


scientifica. Quindi 2, 34 · 103 o 7, 3 · 10−2 sono quantità scritte in notazione
scientifica mentre 0, 43 · 102 , 1, 86 · 102,7 o 23, 02 · 10−7 sono scritte solo
in notazione esponenziale.
La notazione scientifica ha il grande vantaggio di informarci subito
del numero di cifre significative della nostra grandezza: prendiamo ad
esempio una misura fornitaci in notazione scientifica quale 2, 50 · 103 .
Questo numero ci dice che la misura (che sarebbe 2500) ha tre cifre
significative e che l’incertezza di misura, se non diversamente speci-
ficato, è di un digit sull’ultimo zero (le decine in questo caso), cioè le
cifre significative in 2500 sono solo tre e la precisione della misura è
(2, 50 ± 0, 01) · 103 ; se invece fosse stato 2, 5 · 103 (cioè sempre 2500) l’in-
certezza di misura sarebbe stata sulle centinaia e non più sulle decine,
di modo che la grandezza avrebbe stavolta solo due cifre significative
e dovrebbe esser intesa come (2, 5 ± 0, 1) · 103 . Questa informazione si
perderebbe totalmente se si fornisse il numero in altra notazione ed è
piuttosto chiaro che avere un’incertezza di ±10 su 2500 è ben diverso
dall’avere ±100 su 2500.
Le regole per fornire un corretto numero di cifre significative nel
risultato di operazioni con grandezze fisiche sono le seguenti:

• Il numero di cifre significative d’una grandezza risultato di molti-


plicazione (o divisione) tra altre grandezze, è uguale al numero di
cifre significative del fattore conosciuto con minor precisione che
interviene nella moltiplicazione (o nella divisione).

• Il numero di cifre significative d’una grandezza risultato di addizione


(o sottrazione) tra altre grandezze, è uguale al minor numero di
decimali che si trova tra gli addendi (o sottraendi).

Sistema Internazionale e Unità di Misura

L’esempio di prima era una misura adimensionale (un numero puro)


ma in Fisica ogni grandezza deve avere la sua unità di misura: tali
unità in Fisica possono essere moltissime e ognuna può essere adottata
come fondamentale; per ridurre l’arbitrarietà di scelta solo alcune so-
no oggi prese come unità di base da cui partire per costruire le unità
derivate. La scelta di quali grandezze scegliere è abbastanza intuitiva
mentre non è scontato scegliere quali unità di misura prendere come
lezioni di fisica ii 25

metro8 . Una convenzione internazionale universalmente accettata in 8


dal gr. μέτρον, misura, moderazione
Fisica è il cosiddetto Sistema Internazionale (SI), il quale prevede l’ado-
zione delle seguenti unità, dette fondamentali, che vengono riassunte
nel trittico “metro-kilo-secondo” o mks (anche se nei paesi anglosassoni
continuano ad essere usate unità non-mks quali la yarda e l’oncia):

• il secondo s per il tempo [t].


Definito come l’intervallo di tempo che contiene 9 192 631 770 perio-
di della radiazioni corrispondente alla transizione tra i due livelli
iperfini dello stato fondamentale dell’atomo di cesio-133 a riposo e a
temperatura di 0 K.

• Il metro m per la lunghezza [L].


Definito come la lunghezza del tragitto compiuto dalla luce nel vuoto
in un intervallo di tempo di 1/299 792 458 di secondo.

• Il chilogrammo kg per la massa [m].


Il chilogrammo è la massa del prototipo internazionale di platino-
iridio depositato presso l’Ufficio dei Pesi e delle Misure a Sèvres
(Francia).

• Il grado kelvin K per la temperatura [T].


definito come 1/273,16 della temperatura termodinamica del punto
triplo dell’acqua.

• La mole mol per la quantità di molecole [mol].


La mole è la quantità di sostanza d’un sistema contenente tante entità
interagenti quanti sono gli atomi presenti in 12 g di carbonio-12.

• L’ampere A per l’intensità di corrente elettrica [I].


Definita come quell’intensità di corrente che, mantenuta costante
in due conduttori paralleli, di lunghezza infinita, sezione circolare
trascurabile e posti alla distanza di un metro l’uno dall’altro nel
vuoto, produce tra questi la forza di 2 · 10−7 N/m.

• La candela cd per l’intensità luminosa [I].


Definita come quell’intensità luminosa, in una data direzione, d’u-
na sorgente che emette una radiazione monocromatica di frequenza
ν = 540 · 1012 Hz e la cui intensità radiante, sempre nella medesima
direzione, è 1/683 W/sr.

A queste sette bisogna aggiungere due unità riguardanti gli angoli:

• Il radiante rad per l’angolo [θ].


Un radiante è quell’angolo tale che l’arco di circonferenza spazzato
ha stessa lunghezza del raggio (1 rad∼ 57, 29578◦ ).
26 pietro oliva

• Lo steradiante srad per l’angolo solido [Θ].


Uno steradiante è quell’angolo solido che sottende una calotta sferica
di area pari al quadrato costruito sul raggio (1 srad∼ 3 828, 80635
gradi quadrati).

Come si può facilmente notare dalle definizioni ufficiali date sopra,


tempo e spazio sono intimamente ed intrinsecamente uniti dalla velocità
della luce, che è quindi la sola costante che conti, la definizione della
massa è molto poco elegante e certamente scomoda (riferendosi ad un
oggetto manufatto, unico e pressoché intoccabile, e non ad una legge
fisica) e, per finire, la definizione di ampere è del tutto irrealizzabile
nella pratica.
Una nota particolare va fatta ora sul segno “=” che simboleggia ugua-
glianza: sembra banale ricordarlo ma esso significa che il membro alla
sua destra è uguale a quello alla sua sinistra. Questo spesso è ciò che
si omette, sbadatamente, di controllare nei ragionamenti portando ad
errori dimensionali spesso catastrofici. Attraverso l’analisi dimensio-
nale si possono addirittura trovare i rapporti funzionali tra grandezze
implicate in un esperimento; per un pendolo ad esempio si trova che
le uniche grandezze che potrebbero intervenire nella formula del pe-
riodo (che è in secondi) sono la lunghezza del filo l (in metri m), la
massa M (in chili kg) e l’accelerazione di gravità g (in m/s2 ). Ponendo
[t] = [L]α [m]β [L/t2 ]γ è facile trovare che per avere secondi dal membro
destro dev’essere α + γ = 0, β = 0, −2γ = 1, dunque α = 1/2, β = 0,
γ = −1/2; perciò s
l
T∝
g
come infatti verificheremo in seguito il periodo d’un pendolo è
s
l
T = 2π (2)
g

Normalmente si preferisce definire un certo numero k di grandezze


fondamentali per rendere più agevole l’espressione delle grandezze deri-
vate. Fissate le grandezze fondamentali, siano esse Fk , ogni derivata D
può esprimersi come
[ F k ] λk
Y
[D] =
k

L’accelerazione ad esempio ha dimensioni [a] = [m][s]−2 , essendo metri


e secondi grandezze fondamentali. L’insieme delle grandezze fonda-
mentali con le loro unità di misura definisce un sistema di misura.
La scelta delle unità di misura e delle grandezze fisiche fondamenta-
li è arbitraria. Scelto il sistema Fk ogni altro nuovo sistema Fi (con
lezioni di fisica ii 27

i e k qualunque) è esprimibile nella vecchia base: [Fk ] = i [Fi ]αki .


Q

Conseguentemente ogni grandezza derivata sarà nella nuova base


" #λk " #
λk αki λk αki k λk αki
Y Y Y Y Y Y P
[D] = [Fk ] = [Fi ] = [Fi ] = [Fi ]
k k i i k i

ma k λk αki è il prodotto righe per colonne del vettore riga λk per la


P

matrice αki , di modo che gli elementi βi = k λk αki siano proprio i coef-
P

ficienti di D espresso nel nuovo sistema di grandezze [D] = i [Fi ]βi .


Q 

La Fisica classica intesa come l’insieme di conoscenze che abbiamo


delle leggi della natura fino agli inizi del XX secolo, si divide idealmen-
te in meccanica, termodinamica, elettromagnetismo e ottica. Non sempre
tale distinzione è opportuna e non sempre è chiaro in quale suddivi-
sione inserire ogni fenomeno, seguiremo tuttavia questa categorizza-
zione di massima della fisica classica per non andare troppo fuori tema
insabbiandoci in noiosi problemi epistemologici.
Nel prossimo capitolo ricorderemo alcuni importanti risultati appresi
in Fisica Generale I, risultati senza i quali è impossibile proseguire verso
lo studio dei fenomeni elettromagnetici. Tutto ciò che viene descritto
dovrebbe perciò già essere patrimonio dello studente. Esortiamo il
lettore che dovesse avere difficoltà a comprendere i seguenti argomenti
a ripassare sui testi di Fisica Generale I prima di procedere oltre.
Concetti fondamentali di Fisica I:
Meccanica

“Mechanicam vero duplicem Veteres constituerunt: Rationalem quæ per De-


monstrationes accurate procedit, et Practicam. Ad practicam spectat Artes om-
nes Manuales a quibus utiq; Mechanica nomen mutata est. Cum autem Artifices
parum accurate operari soleant, fit ut Mechanica omnis a Geometria ita distin-
guatur, ut quicquid accuratum sit ad Geometriam referatum, quicquid minus
accuratum ad Mechanicam. Attamen errores non sunt Artis sed artificum.”
“Gli antichi considerarono la Meccanica sotto due aspetti: la Raziona-
le, che procede accuratamente per dimostrazioni, e la Pratica. Tutte le
arti manuali appartengono alla Pratica; dalla quale la Meccanica mutua
il nome. Ma dato che gli artigiani non lavorano con perfetta accuratez-
za, è fatto che la Meccanica fosse distinta dalla Geometria, poiché quel
che è perfettamente accurato è detto Geometrico, quel che lo è meno,
Meccanico. Ma gli errori non sono nell’Arte, bensì negli artefici.”

Isaac Newton,
Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica (1687).

La Meccanica9 si divide solitamente in due parti: la cinematica e la 9


la parola viene dal lat. mechanica, che
a sua volta viene dalla parola greca che
dinamica. La cinematica studia il moto ed i suoi effetti senza indagare
sta per macchina e sottintende “la tec-
la causa che ha provocato tale moto, compito quest’ultimo tipico della nica delle macchine” ovvero tutta quel-
la serie di conoscenze che servivano ad
dinamica. Il termine “cinematica” infatti vien dal gr. κινημα, movimento
ottenere equilibrio o moto dai corpi og-
(es. il cinematografo è la scrittura del movimento). Lo studio e la getto di studio col fine ultimo di facilita-
descrizione dei movimenti sono argomenti che per primi in assoluto re il lavoro umano. La parola macchina
deriva infatti dalla già citata radice sscr.
hanno interessato gli studiosi ed i filosofi fors’anche perché tra le prime MAH- che sta per grande nel senso di far
necessità immediate della vita c’è il sapersi muovere. crescere e forte nel senso di aumenta-
re, infatti una macchina amplifica la forza
È certamente opportuno cominciare questo breve viaggio nella de- muscolare dell’uomo.
scrizione classica della natura dallo studio del moto di un punto ma-
teriale per poi passare ai sistemi spazialmente estesi. Per fare ciò biso-
gnerà mettersi d’accordo sui termini: diremo il nostro sistema essere un
punto materiale tutte le volte che siamo interessati solo al movimento
del suo baricentro e vogliamo trascurare ogni movimento interno del
sistema (rotazioni, deformazioni, etc.). Ciò avviene ad esempio se vo-
gliamo tracciare la rotta di una nave in mare aperto: è evidente che ci
30 pietro oliva

interesseremo solo della traiettoria del centro di massa in quanto sa-


rebbe inutile chiedere la posizione precisa della poppa e della prua,
conoscenze queste che sono di estremo interesse solo quando la nave,
ad esempio, manovra nel porto. Daremo per scontato in quanto segue
che il lettore sappia cos’è un insieme, un segmento, un angolo e cosa
s’intende quando si parla di spazio tridimensionale e di tempo. Tutti
enti che in realtà non è affatto banale definire, laddove possa esistere
una definizione.

Una base per lo spazio

Per comprendere quale sia lo scopo pratico della cinematica bisogna


necessariamente passare attraverso alcune nozioni elementari di Geo-
metria. Ribadiamo di nuovo, se ce ne fosse ancora bisogno, che non
essendo questo un testo di Fisica Generale I né d’Analisi non possia-
mo essere del tutto rigorosi in quanto seguirà. Lo scopo della parte
matematico-geometrica è solo quello di dare una rinfrescata al lettore al
fine di fornirgli una piattaforma avanzata sulla quale costruire la teoria
Figura 6: Se si vuole visualizzare il pal-
fisica.
coscenico naturale dove si verificano gli Per descrivere i fenomeni e in particolare le traiettorie dei punti ma-
eventi bisogna immaginare un reticolo di teriali ci serve un palcoscenico su cui far muovere il nostro sistema.
regoli di lunghezza unitaria che hanno
ad ogni intersezione un orologio per la Questo palcoscenico è quello di Fig. 6. Per velocità piccole rispetto
misura del tempo proprio di ogni punto. quella della luce e per campi gravitazionali sufficientemente deboli la
Su tale reticolo di volta in volta possiamo
scegliere un’origine delle coordinate e de-
trama spazio-temporale può essere semplificata dal modello classico
finire i versori di base î, ̂, k̂ a seconda della dove lo spazio ed il tempo sono entità separate, ed esiste un tempo
nostra convenienza: lo spazio è dunque universale che scorre per tutti uguale. Partiamo da questo caso più
affine perché tutte le leggi della Fisica so-
no descritte da equazioni che fornisco- facile e andiamo a definire lo spazio vettoriale: uno spazio vettoria-
no lo stesso risultato in qualsiasi siste- le è una struttura algebrica composta da un campo, un insieme i cui
ma di riferimento inerziale e quindi deve
esservi una covarianza per traslazioni.
elementi sono detti vettori e da due operazioni binarie, dette somma e
moltiplicazione per scalare, caratterizzate dalle proprietà (3) e (4) che
seguono.
Con “campo” nella definizione appena data s’intende un insieme
non vuoto A e due operazioni binarie interne, chiamate somma e pro-
dotto. La somma, il cui simbolo sarà “+”, rispetta le seguenti proprietà
(∀ a, b, c ∈ A):

(a + b) + c = a + (b + c)
a+b = b+a
(3)
0+a = a+0 = a
∀ a ∃ − a t/c a + (−a) = −a + a = 0

che prendono il nome di proprietà associativa della somma, proprietà


commutativa della somma, esistenza dell’elemento neutro per la som-
lezioni di fisica ii 31

ma, esistenza dell’elemento opposto per la somma. Il prodotto dal suo


canto, il cui simbolo sarà “·” (ed eviteremo accuratamente di usare ×
perché ci servirà per altri operatori e per non confonderci con x) rispetta
le seguenti proprietà:

(a · b) · c = a · (b · c)
a·b = b·a
(4)
1·a = a·1 = a
∀ a , 0 ∃ a−1 t/c a · a−1 = a−1 · a = 1

che prendono il nome di proprietà associativa del prodotto, proprietà


commutativa del prodotto, esistenza dell’elemento neutro per il prodot-
to, esistenza dell’elemento inverso per il prodotto. Il prodotto inoltre è
distributivo rispetto alla somma, vale cioè che

Figura 7: Il vettore è una classe d’equiva-


a · (b + c) = a · b + a · c
lenza (immaginate infinite repliche dello
stessa “freccia” che permea tutto lo spa-
Tutti i numeri reali ad esempio formano un campo, come i numeri zio). Fissato un punto qualunque dello
complessi e così via. Notate che non c’è mai bisogno di scrivere numeri spazio verrà individuato il rappresentan-
te del vettore in quel punto (vettore ap-
specifici quando si ragiona astrattamente. Si usano lettere dell’alfabeto plicato). Spesso nel linguaggio comune si
con la convenzione che le prime lettere (a, b, c, etc.) servono a sostituire confonde il vettore applicato con la clas-
se cui appartiene (il vettore). Noi ogni
numeri noti o qualunque, mentre le ultime lettere (x, y, z) solitamente
volta che diremo “vettore” intenderemo
indicano numeri ignoti, da trovare. Diamo inoltre per scontato che il la classe d’equivalenza di segmenti orien-
lettore conosca l’algebra elementare dei numeri reali. Bisogna estende- tati equipollenti, altrimenti parleremo di
“vettore applicato” specificando sempre
re le nostre possibilità di descrizione a più dimensioni. Ce ne servono il punto d’applicazione.
almeno tre solo per ambire a descrivere lo spazio e almeno quattro se
vogliamo includere il tempo. Ma vedremo che in molti casi ne servi-
ranno anche di più. Partiamo tuttavia dal piano, che è più facile. Una
volta capito come si gioca in due dimensioni, l’estendersi a tre o più è
quasi un processo privo di sforzi.
Una coppia di numeri reali (a, b) sarà un buon esempio di vettore
(dupla) d’uno spazio vettoriale a due dimensioni definito sul campo
dei numeri reali. Nessuno faticherà a rendersi conto che qualunque
operazione di moltiplicazione, divisione, somma o sottrazione di due
numeri reali darà sempre un numero reale e quindi, per giocare restando
nel medesimo numero di dimensioni, definiremo opportunamente delle
applicazioni che prendano due vettori (es. due duple (a, b) e (c, d)) e
restituiscano un terzo vettore sempre dello stesso spazio vettoriale (es.
(e, f ) dove a, b, c, d, e, f ∈ R).
Per fare un esempio pratico decidiamo di definire un’operazione
di somma che, prese due duple, restituisca una dupla somma i cui
elementi siano la somma algebrica degli elementi corrispondenti nelle
32 pietro oliva

duple addende:
(a, b) + (c, d) = (a + c, b + d)

Faremo fin d’ora una scelta “grafica” che però nasconde un preciso
significato geometrico che risulterà chiaro solo più avanti: decidiamo
che i nostri vettori debbano essere scritti in verticale, l’equazione appena
scritta quindi sarà
! ! !
a c a+c
+ = (5)
b d b+d

In maniera del tutto simile definiamo il prodotto di un vettore (per


noi sempre una dupla) per uno scalare, ad esempio un numero reale
qualunque λ, come
! !
a λa
λ· = (6)
b λb

Quindi adesso possiamo manipolare duple con somma e prodotto e


restare sempre nello spazio bidimensionale di R2 .
La convenzione che qui adottiamo sarà quella di scrivere un vettore
sempre in grassetto:
!
x
v= dove x, y ∈ R v ∈ R2 (7)
y

Solo nel caso speciale di vettori dello spazio affine (le famose “freccet-
te”), quando cioè descriveremo la fisica classica a partire da uno spazio
vettoriale privato però di qualsivoglia punto di riferimento privilegiato,
utilizzeremo per un vettore la notazione con la freccia sovrapposta ~ v.
In un caso del tutto particolare, ma che verrà praticamente sempre
adottato nel contesto della fisica, la “lunghezza” di un vettore quale
quello decritto nella (7) è definibile come
q
|v| = x2 + y2 ∈ R (8)

Tornando al caso delle duple, possiamo definire anche un altro tipo


di prodotto, non più tra un elemento del campo (es. λ ∈ R) ed un
vettore dello spazio vettoriale (es. v ∈ R2 ), cosa che come visto ci
renderebbe un vettore di diversa lunghezza λ|v|, bensì tra due vettori
in modo da definire un’applicazione R2 × R2 7→ R2 (un endomorfismo
di R2 ). Questo tipo di applicazioni si dicono prodotti vettoriali e sono
in genere indicati con una croce di sant’Andrea

a × b = |a||b| sin ab
c · n̂ (9)
lezioni di fisica ii 33

con n̂ perpendicolare alla giacitura individuata dai vettori a e b e tale


da formare con essi una terna levogira, e si distinguono da un terzo
tipo di prodotto, detto scalare, che invece è il responsabile dell’intro-
duzione della metrica nello spazio vettoriale e che è un’applicazione
R2 × R2 7→ R
a · b = |a||b| cos ab
c (10)

è infatti proprio il prodotto scalare nella sua versione euclidea standard


a fornirci la lunghezza di ogni dato vettore proprio come
√ p
a · a = |a||a| cos 0 = |a| (11)

Tutti possono infine immaginare intuitivamente un vettore dello


spazio affine, diciamo, V 3 : esso è infatti una classe d’equivalenza di
segmenti orientati equipollenti. Un esempio di vettore è disegnato in
Fig. 7.
È ovvio che una volta stabilita la base nello spazio vettoriale si pos-
sono confondere vettori e triplette di numeri reali che sono tra loro Figura 8: Un osservatore che sia identifi-
in isomorfismo. Un vettore qualunque applicato nell’origine che ter- cato con n̂, con la testa quindi dove punta
la freccia del versore, guardando ai suoi
mina nel punto P potrà quindi venire identificato con tre valori reali, piedi dovrà, per portare il primo vettore
coordinate del punto P: del prodotto a sovrapporsi col secondo
descrivendo un angolo minore di 180◦ ,
 
x
ruotare nel verso antiorario.
%!  y 
 

z
poiché si intenderà dire che
 
x
−−→  −−→
OP =  y  sta per OP = x ı̂ + y ̂ + z k̂

Facciamo notare esplicitamente che tale rappresentazione è unica, infatti


se per assurdo ne esistesse una seconda potremmo scrivere lo stesso
−−→ −−→
vettore in due modi: OP = x ı̂ + y ̂ + z k̂ e OP = x0 ı̂ + y0 ̂ + z0 k̂ e
dunque potremmo dire che la differenza è pari al vettor nullo:

~0 = (x − x0 ) ı̂ + ( y − y0 ) ̂ + (z − z0 ) k̂ (12)

con  
0
~0 = 
 0 

0
particolare vettore parallelo e perpendicolare allo stesso tempo ad ogni
altro vettore. Dato che i versori di base non sono nulli l’unico modo di
verificare la (12) è che x = x0 , y = y0 e z = z0 sicché è dimostrato per
34 pietro oliva

assurdo che i coefficienti devono essere unici. Con tale argomentazione


la “sicurezza” dell’isomorfismo tra vettori ed n-uple non sarà più messa
in discussione.
Resta inteso che due vettori possono essere tra loro moltiplicati sca-
larmente o vettorialmente essendo definito il prodotto scalare come


−u · →
−v = →
−u →
−v cos u
cv ∈R (13)

e quello vettoriale come


−u × →
−v = →
−u →
−v sin u
cv · n̂ ∈ V3 (14)

dove n̂ è perpendicolare alla giacitura del piano individuato da → −u e →


−v
→− →−
ed il verso è tale che u , v ed n̂ (in quest’ordine) individuino una terna
levogira.

Cinematica

Con la convenzione di sopra assunta ci preoccupiamo adesso di descri-


vere l’evoluzione del sistema sotto esame scrivendo le equazioni orarie
del moto come 
 x = x(t)

y = y(t) (15)

z = z(t)

Naturalmente attribuiremo al parametro t (che analiticamente parlando


può essere qualunque cosa) il significato fisico dello scorrere del tempo.
Altre quantità cui siamo interessati dal punto di vista cinematico sono
la rapidità di variazione della posizione nel tempo e della variazione
della variazione della posizione nel tempo che si dicono rispettivamente
10
Nella normale pratica ci si ferma pra-
ticamente sempre alla derivata seconda
velocità ed accelerazione:
della posizione che, come tutti sanno, è 
detta accelerazione. Le immediate de-  vx = vx (t)

rivate d’ordine maggiore hanno tuttavia v y = v y (t) (16)
anche loro dei nomi, legati però a con- 
vz = vz (t)

testi di nicchia: “strappo” (ma è più usa-
to il nome inglese jerk ) per la derivata
terza della posizione, “sbalzo” (jounce)

per la derivata quarta e “crepitio” (crac-  ax = ax (t)

kle) per la derivata quinta. Molto rara- a y = a y (t) (17)
mente registriamo infine l’uso del nome

az = az (t)

inglese “pop” per la derivata sesta della
posizione. Analiticamente tali quantità vengono ricavate derivando ed integran-
do10 :
dx(t) dv(t)
v(t) = dt a(t) = dt
(18)
R R
v(t) = a(t) dt x(t) = v(t) dt
lezioni di fisica ii 35

naturalmente ogni volta che si deriva si perde informazione mentre


ogni volta che si integra si ripristina informazione (se si può). Questo
rende la (15) l’informazione di maggior valore in cinematica, punto di
partenza dalla quale si ricaveranno le altre relazioni. Per chi non cono-
scesse il significato degli operatori derivata ed integrale in (18) basterà
dire che la derivata restituisce a livello analitico la misura di quanto il
valore d’una funzione cambi al variare del suo argomento in un dato
punto mentre a livello geometrico rappresenta la tangente trigonome-
trica dell’angolo tra la tangente geometrica nel punto di derivazione
alla funzione derivanda e l’asse delle ascisse. Per l’integrale invece è
l’opposto: tale operatore associa alla funzione integranda l’area sottesa
dal suo grafico entro un dato intervallo nel dominio mentre a livello
analitico restituisce la funzione primitiva della funzione integranda. La
derivata della funzione primitiva sarà pertanto di nuovo l’integranda.
Siano ad esempio A, B, n, m, h, k ∈ R ma k , −1: per una funzione del
tipo f (x) = Axn le regole sono
Z
1 k +1 d
Axk dx = A x + Cost. Axh = Ahxh−1
k+1 dx

i due operatori sono inoltre lineari:


Z Z Z
(Ax + Bx + · · · )dx = A x dx + B xn dx + · · ·
m n m

d d d
(Axm + Bxn + · · · ) = A xm + B xn + · · ·
dx dx dx
Facciamo l’esempio più facile immaginabile: un punto fermo nell’o-
rigine, per il quale scriveremo
  
 x=0
  vx = 0
  ax = 0

y=0 vy = 0 ay = 0
  
z=0 vz = 0 az = 0
  

Questo, va da sé, è piuttosto banale. Poniamo adesso il caso in cui il


nostro sistema sia fermo non più nell’origine bensì nel punto x0 dell’asse
delle ascisse. Le equazioni saranno identiche a quelle appena scritte con
l’unica differenza che stavolta x = x0 .
Facciamo adesso conto d’avere moto solo lungo l’asse x (dove al
tempo t = 0 ci si trova ad x0 ), lungo il quale il sistema ha una velocità
costante v0 (un numero qualunque di metri al secondo). Scriveremo le
36 pietro oliva

equazioni del moto


  
 x = x0 + v0 t
  vx = v0
  ax = 0

y=0 vy = 0 ay = 0
  
z=0 vz = 0 az = 0
  

dalle quali si vede immediatamente che la caratteristica generale di


qualunque tipo di moto rettilineo uniforme è di avere

 ax = 0

ay = 0 ⇒ ~a = ~0. (19)

az = 0

Limitiamoci dunque, in tali esempi, a scrivere solo le equazioni sul-


l’asse delle ascisse, dato che stiamo facendo esempi di moti unidimen-
sionali. Se adesso lo stesso sistema avesse un’accelerazione costante
a0 (un numero qualunque di metri al secondo quadro) lungo l’asse x,
scriveremo le equazioni del moto uniformemente accelerato

1
x = x0 + v0 t + a0 t2 vx = v0 + a0 t ax = a0
2
che ha per caratteristica generale ~a = costante.
Nello specifico caso di accelerazione costante c’è un’utilissima rela-
zione tra quest’ultima e lo spostamento: restringiamoci al moto uni-
dimensionale senza perdere di generalità; essendo per ogni istante a
costante, se il moto da studiare è compreso tra due istanti di tempo t1 e
t2 sarà sempre definibile una velocità media

v ( t1 ) + v ( t2 )
v̄ =
2
dal canto suo lo spostamento ∆x che il sistema effettua in tale intervallo
di tempo è
 
v ( t2 ) − v ( t1 )
x(t2 ) − x(t1 ) ≡ ∆x = v̄∆t = v̄
a
ovvero
  
v ( t1 ) + v ( t2 ) v ( t2 ) − v ( t1 )
x ( t2 ) − x ( t1 ) =
2 a

quindi
v(t2 )2 = v(t1 )2 + 2a∆x (20)

Non serve andare oltre per capire che, data una qualsiasi funzione
lezioni di fisica ii 37

f (t) della posizione, si avrà sempre

d f (t) d2 f (t)
x = f (t) vx = ax =
dt dt2
Sfruttiamo dunque questa conoscenza per descrivere un moto im-
portantissimo: il moto circolare uniforme. Nel parlare di moti circolari
bisogna fare uno sforzo in più e capire che l’equivalente di quello che
prima era la variabile della posizione (es. x(t)), che si misura in metri,
adesso diventa una misura goniometrica θ(t) di un angolo la cui unità
è il radiante. Se θ(t) è la nuova “posizione” angolare ci sarà anche una
velocità angolare ed un’accelerazione angolare date da
Figura 9: Un punto P a distanza fissa R
dθ(t) dω(t) d2 θ(t)
ω(t) = α(t) = = (21) dal centro O ruota con velocità angolare
dt dt dt2 costante ω di modo che, istante per istan-
te, l’angolo è θ(t) = ωt. La relazione tra
con la grande differenza che nel mondo delle rotazioni la velocità ango- “posizione” angolare e arco di circonfe-
lare ha unità di misura radianti su secondi (la velocità lineare è dimen- renza percorso è s = θR mentre la relazio-
ne tra modulo della velocità lineare v e ve-
sionata metri su secondi) mentre l’accelerazione angolare si misura in
locità angolare ω è v = ωR. Similmente si
radianti su secondi quadri (e quella lineare metri su secondi quadri). trova che accelerazione lineare e angolare
Come il moto rettilineo uniforme ha velocità lineare costante anche sono legate dalla relazione a = ω2 R.

quello circolare uniforme ha velocità angolare costante. Sia essa ω di


modo che θ(t) = ω t e α = 0.
Qual è la relazione tra quantità lineari e angolari? Naturalmen-
te basterà scrivere le leggi orarie nel piano11 e ricordarsi l’identità 11
Per procedere bisogna conoscere altre
regole di derivazione:
sin2 x + cos2 x = 1:
d d
( cos[x(t)] = (− sin x) x(t)
−−→ x = R cos(ωt) −−→ dt dt
q
OP(t) = ⇒ |OP(t)| = x2 + y2 = R (22) e
y = R sin(ωt) d d
sin[x(t)] = (cos x) x(t)
dt dt
L’opposto varrà per l’integrazione: l’inte-
( grale di sin è − cos, quello di cos, sin.
vx = −Rω sin(ωt) q
~
v(t) = ⇒ v(t)| =
|~ v2x + v2y = Rω (23)
v y = Rω cos(ωt)

(
ax = −Rω2 cos(ωt) q
~a(t) = ⇒ |~a(t)| = a2x + a2y = Rω2 (24)
a y = −Rω2 sin(ωt)

è evidente che esiste una relazione immediata tra velocità lineare ed


accelerazione centripeta che s’ottiene eliminando ω dalle (23)+(24):

v v2
ω= → a = Rω2 = (25)
R R
ma si faccia attenzione: a non è proporzionale all’inverso del raggio
perché in v2 è nascosta la dipendenza quadratica col medesimo. Il
modulo dell’accelerazione centripeta è infatti ∝ R.
38 pietro oliva

La velocità angolare ω può essere praticamente misurata come il


rapporto tra un certo “spazio” angolare percorso fratto il tempo neces-
sario a percorrerlo, cioè si può ad esempio misurare con un cronometro
quanto tempo T il sistema impiega per fare un giro completo e, dato che
l’angolo giro in radianti è 2π, trovare


ω= (26)
T
donde T chiamasi periodo ovvero quel lasso di tempo che, molti-
plicato per la velocità lineare v, fornisce la circonferenza del cerchio
(vT = 2πR). Ciò è anche visualizzabile in modo chiaro pensando di for-
Figura 10: L’arco di circonferenza L è mare un cerchio con uno spago e poi tagliarlo ed estendere tale spago a
lungo Rθ. formare un segmento. Percorrendo lo spago in linea retta con velocità v
si impiegherebbe il tempo T per giungere da un capo all’altro così come
ruotando lungo il cerchio, che prima lo spago realizzava, con velocità
angolare ω si impiega sempre un tempo T per compiere un giro (2π).
Da questo esempio banale è evidente che vi debba essere un legame
immediato tra la velocità v “lineare” e quella ω “angolare” così come
è evidente che debba sussistere lo stesso tipo di relazione tra angolo e
lunghezza. Infatti come tutti abbiamo imparato nelle scuole elementari
la lunghezza di una circonferenza è data da 2πR essendo R il raggio
del cerchio. Più in generale varrà sempre che L = θR per ogni arco
di circonferenza. Mentre la pulsazione è dimensionata come radianti
al secondo, è l’inverso del periodo che indica quanti giri avvengono
nell’unità di tempo ed è per questo che prende il nome di frequenza

1
ν= (2πν = ω) (27)
T
Solo quest’ultima ha diritto ad un diverso nome per l’unità di misura,
che si chiama hertz (1 Hz = 1/s) dal cognome del fisico Heinrich Rudolf
Hertz, anche se sovente - e inopportunamente aggiungiamo noi - è in
uso fra tecnici riferirsi anche alla pulsazione in termini di Hz.
Dalla (25) è ad esempio immediato trovare la terza legge di Keplero:
una generica forza F(r) di tipo gravitazionale produrrà l’accelerazione
a = rω2 su un pianeta orbitante. Se la forza viene scoperta essere del
tipo F(r) ∼ 1/r2 allora

r3
rω2 ∝ F(r) → ω2 ∝ r−3 → T2 ∝ r3 → = costante.
Figura 11: Heinrich Rudolf Hertz (1857 T2
- 1894) ha per primo provato l’esistenza
della radiazione elettromagnetica.
lezioni di fisica ii 39

Dinamica del punto materiale

Quando di un sistema fisico non interessino i gradi di libertà interni


(ad esempio per mappare la traiettoria di una nave in mare aperto) ci
si limita all’approssimazione del sistema a punto materiale. È questo
un modello dove tutta al massa del sistema reale è concentrata nel bari-
centro ma il sistema viene ridotto ad un punto geometrico d’estensione
spaziale nulla di modo da trascurare ogni rotazione o deformazione
dell’oggetto reale. Di un punto materiale interesseranno pertanto solo
le tre coordinate e la massa, ai fini della dinamica. La parola “dinamica”
viene dal gr. δὐναμις che significa “potenza”. È la branca della Mecca-
nica che si occupa d’investigare le cause che hanno provocato un certo
tipo di moto. Fino al contributo di Sir Isaac Newton si credeva che i
moti rettilinei uniformi (e a maggior ragione quelli circolari uniformi)
dovessero essere sostenuti da una forza esterna. Questa falsa convin-
zione dovuta ad Aristotele fu spazzata via con la pubblicazione dei Figura 12: Sir Isaac Newton (1642-1727),
matematico, fisico, filosofo, astronomo,
Philosophiæ Naturalis Principia Mathematica del 1687 dove sono elencati i
teologo e alchimista inglese. Presidente
tre principi fondamentali della dinamica classica: della Royal Society dal 1703 al 1727.

che suona più o meno così: “Ogni corpo persevera nello stato di quiete
o di moto rettilineo uniforme a meno che non sia costretto a mutare tale
stato a causa di forze su esso impresse”.

cioè “il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice im-


pressa e avviene secondo la linea retta lungo la quale la forza è stata
impressa”.
40 pietro oliva

che è la famosa “a ogni azione corrisponde una reazione uguale e con-


traria ossia, le azioni di due corpi sono sempre uguali fra loro e dirette
verso parti opposte”.
Facciamo notare che la seconda legge così come la enuncia Newton
~ = ∆(m~
è piuttosto F∆t ~ = m~a, riferendosi il fisico inglese a forze
v) che F
impulsive piuttosto che a generiche forze applicate nel tempo. Inoltre
Newton attribuisce le prime due leggi a Galileo, la terza è invece una
sua opera originale. Oggi usiamo scrivere questi tre principi con la
notazione matematica usuale
Figura 13: Robert Hooke (1635 - 1703),
~i = 0, allora d ~
P
fisico, biologo, geologo e architetto 1. se i F v = 0;
inglese. dt
~ = m~a
2. F
~AB = −F
3. F ~BA

la prima e la seconda non sono valide sempre: la prima vale solo per
sistemi inerziali mentre la seconda solo in contesto non relativistico. La
terza ha validità generale, anche in contesto relativistico.
Durante il corso di Fisica Generale I lo studente ha inoltre studiato
varie forme funzionali di forze. Ne ricordiamo solo alcune notevoli:

• Legge di Hooke:
~ = −k−
F

∆x

• Legge di Gravitazione Universale:

~12 = G m1 m2 r̂21
F
r221

• Attrito:
~ = −µs,d,v N
F ~ F̂

• Attrito viscoso:
~ = −β~
F v

Si era poi visto che nell’ambito degli urti (forze molto intense appli-
cate per pochissimo tempo) non era utile ragionare in termini di forza
bensì di impulso ovvero di ~I = F∆t.
~
Definendo infatti la quantità di moto come

~
p = m~
v (28)
lezioni di fisica ii 41

la seconda legge diventa

~ = d(m~v) p
d~ ~ dt = d~
F = → F p
dt dt
sicché vale il teorema dell’impulso:

Zt
~I = p
d~ (29)
t0

dato che, inoltre, durante un urto le forze esterne possono essere tran-
quillamente trascurate, il terzo principio della dinamica ci assicura che
∆~ptotale = 0 per tutti i tipi di urto. Facciamo notare che la quantità (28)
è l’unica che abbia senso considerare nell’ambito di scambi d’energia
cinetica, come vedremo nel prossimo paragrafo è infatti in modulo la
derivata rispetto la velocità di tale energia, e dunque in particolar modo
per gli urti.

Figura 14: Gaspard-Gustave de Coriolis


Lavoro ed Energia (1792 - 1843) fisico e ingegnere meccani-
co francese diede la definizione di lavo-
ro e contribuì ad importanti risultati in
Chiunque tenti di dare una definizione di “energia” in fisica è destinato matematica.
alla parzialità, alla tautologia ed in definitiva al fallimento. L’energia
è qualcosa di primordiale in natura, di arcaico. Tutto è energia. Co-
me definire dunque qualcosa che in realtà è tutto? non ci proveremo
neanche per un momento. Lasciamo che il lettore scopra cos’è l’ener-
gia non attraverso qualche definizione bensì attraverso quello che fa.
L’energia è quello che l’energia fa. Possiamo tuttavia investigare la pa-
rola “energia”: dal gr. εν-ἔργον, “che è in atto di operare, di compiere
lavoro”. Definire però l’energia con la possibilità d’estrarre lavoro è,
sfortunatamente, un errore grossolano: tutti sanno che su due sistemi a
temperature diverse può agire una macchina termica che sia posta nel
mezzo e che estragga quindi lavoro. Sia adesso lo stesso identico siste-
ma di prima, chiuso, con due sorgenti e la macchina termica in mezzo,
solo che stavolta entrambe le sorgenti hanno la stessa temperatura pari
alla massima tra le due temperature del primo esempio. È evidente
che il secondo sistema ha più energia del primo, ma, mentre dal primo
può essere estratto lavoro, dal secondo no. La nostra definizione è dun-
que fallace. L’energia in questo testo resterà indefinita e pur tuttavia
descritta ampiamente.
Riguardo l’energia, fino ad oggi, siamo sicuri di sapere solo una cosa:
essa si conserva e la conservazione è locale. Se in una determinata regio-
ne di spazio delimitata da confini fisici o immateriali c’è una variazione
d’energia, si può star sicuri che lo stesso quantitativo d’energia per-
42 pietro oliva

sa/acquisita nella regione in esame è andata/venuta nel/dall’ambiente


circostante. Non ci sono eccezioni a questa regola: l’energia si conserva
sempre e lo fa localmente (non scompare qui per riapparire sulla Luna).
Questo è comunemente detto “principio di conservazione d’energia”.
Un concetto fondamentale che è necessario adesso introdurre for-
malmente è quello del suddetto lavoro. Il lavoro è definito come

~ · d~s
dL = F (30)

perciò è evidente che se il prodotto scalare fornisce un numero positivo


(l’angolo tra forza e spostamento è inferiore in modulo a π radianti) vi
sarà un incremento del modulo della velocità, viceversa un decremento:

~ · d~s = m v
d~ d~s
dL = F · d~s = m d~
v· = m~v · d~v
dt dt
da cui
Zv
Figura 15: William John Macquorn Ran- 1 2 1 2
kine (1820 - 1872), ingegnere e fisico scoz- L= mv~0 · dv~0 = mv − mv0 (31)
2 2
zese. Coniò il termine “energia potenzia- v0
le” e, tra le altre scoperte, indicò il ciclo
alla base dei motori a vapore di qualsiasi perciò se L > 0 → v2 > v20 → |v| > |v0 | e viceversa. La quantità
tipo detto appunto Ciclo Rankine.
1 2
mv ≡ K (32)
2
è nota come energia cinetica di un corpo di massa m che possiede
velocità ~
v nel sistema di riferimento presso il quale descriviamo il moto
e la (31) è nota come “teorema dell’energia cinetica”. Va da sé che K
dipende dal sistema di riferimento. Anche il valore del lavoro di una
forza, come quello della velocità, è legato alla misura dello spostamento,
variabile quest’ultima che dipende dal sistema di riferimento scelto.
Tuttavia risulta che in tutti i sistemi di riferimento inerziali il lavoro della
risultante delle forze è sempre pari alla variazione dell’energia cinetica,
rendendo la (31) del tutto generale.
Caso particolare incontrato in seguito dagli studenti è quello in cui il
campo di forze sia rappresentato da un campo vettoriale conservativo
(o meglio irrotazionale in un semplicemente connesso). Ciò significa in
soldoni che il campo di forze è il gradiente di una qualche funzione U
il che rende particolarmente semplice il calcolo dell’integrale dato che

~ · d~s = ∂U dx + ∂U dy + ∂U dz = dU
∇U
∂x ∂y ∂z
lezioni di fisica ii 43

sicché, utilizzando il teorema di Stokes nel secondo passaggio:


Z Z Z
~ d~s =
F· ~ (U )· d~s = −
−∇ dU = − [U (P)]PP21 = U (P1 ) − U (P2 )
Γ[P1 ,P2 ] Γ[P1 ,P2 ] ∂Γ
(33)
che, dovendo valere contemporaneamente a (31), implica la costanza
della quantità U + K durante il moto in un campo conservativo:
Z
1 1 ~ d~s = U (1) − U (2) ⇒
K2 − K1 = mv22 − mv21 = L = F·
2 2
Γ[P1 ,P2 ]

⇒ U (1) + K1 = U (2) + K2 (34)

di modo che quella che viene chiamata generalmente col nome di


energia meccanica E = U + K risulta un integrale primo del moto.
Insistiamo ancora una volta sul fatto che l’energia potenziale si mi-
sura in joule. Questo aiuterà lo studente distratto a non avere più dubbi
nel distinguere l’energia potenziale con il potenziale di un campo di
forze conservative che si misurerà invece in joule per unità di carica
esploratrice (quindi in joule su coulomb per il campo elettrico, in joule
su kg per il campo gravitazionale, etc.).
Il segno meno in F ~ = −∇ ~ (U ) è dovuto al fatto che l’energia che
dobbiamo spendere per portare la carica esploratrice a distanza oppor-
tuna provenendo da infinito è lavoro fatto sul sistema, perciò viene
attribuito il segno negativo (se ad esempio in (34) la posizione 2 è in-
finitamente distante, la variazione di energia cinetica per portare una
carica esploratrice da infinito al punto 1 sarà ∆K = U (1) scegliendo
U (∞) = 0).

Momento angolare

C’è in fisica un concetto che risulta particolarmente ostico agli studenti:


quello di momento angolare. Il perché tale argomento venga ritenuto
legnoso e ostico non è poi così difficile da intuire: la definizione di
momento angolare è
~l = ~rΩ × ~
p (35)

quindi c’è una evidente dipendenza dal polo da parte di ~l. Lo stesso Figura 16: Il momento angolare, detto an-
che momento della quantità di moto, di-
identico punto materiale può nello stesso istante assumere momento pende dal punto Ω che si sceglie. Non
angolare elevato per una data scelta di polo (es. lontano dal punto e è dunque in generale una proprietà del
perpendicolare alla velocità) mentre per un’altra scelta di polo (es. uno sistema in studio. Il vettore ~l è perpendi-
colare al foglio ed uscente dal medesimo
sulla direzione della velocità del punto materiale in quell’istante) valere (per non appesantire la grafica è indica-
zero. Da qui la cattiva comprensione dell’utilità di definire un qualcosa to accanto al punto materiale m e non ad
esso sovrapposto).
44 pietro oliva

che non è una caratteristica intrinseca del moto di un sistema.


Vi sono tuttavia scelte intelligenti del polo tali da fornire sempre lo
stesso vettore momento angolare durante tutto il moto; si prenda il
caso di un moto circolare uniforme: scegliendo il polo nel centro della
circonferenza descrivente l’orbita ~ ~
p sarà sempre lo stesso valendo r2 mω.
In generale, scelto il polo Ω, risulta sempre che

d~l d~rΩ  d~
p
=  ×~
p + ~rΩ × →
dt dt dt

d~l ~
→ = ~rΩ × F (36)
dt
dove si è tenuto conto del fatto che d~dtrΩ
= ~v ∝ ~p e della seconda legge
della dinamica. La quantità a sinistra della (36) è detta momento mecca-
nico (torque in inglese). Fate attenzione a non dimensionare il momento
meccanico M ~ ≡ ~rΩ × F
~ come joule: anche se le dimensioni sono newton
per metri il momento meccanico è un vettore, il lavoro uno scalare. M ~
si misura dunque in N·m.
Ecco svelato dunque il mistero di come usare il momento angolare: il
vettore momento angolare si mantiene costante (ha derivata nulla) solo
se non c’è nessun momento meccanico che agisca sul sistema. Evidente-
mente nel caso del moto circolare uniforme scegliere il centro dell’orbita
è una scelta saggia poiché il raggio~rΩ è sempre parallelo alla forza centri-
peta sicché il momento della forza è sempre zero. Terminiamo il ripasso
sul momento angolare facendo notare che è profondamente sbagliato
associare il concetto di momento angolare solamente alle rotazioni: ba-
sta immaginare il caso di un moto rettilineo uniforme e scegliere un
polo che non giaccia sulla direzione di movimento. Il momento angola-
re sarà istante per istante non nullo eppure il nostro sistema non ruota
affatto! Quel che “ruota” è semmai il vettore posizione rispetto al polo
scelto.

Dinamica dei sitemi estesi rigidi

Passiamo adesso al mondo dei sistemi estesi, sistemi per i quali ci in-
teressano i gradi di libertà interni (le rotazioni, le deformazioni, etc.).
Normalmente il modello ideale è quello di corpo rigido, un corpo cioè
che mantiene le distanze fisse tra tutti i volumetti elementari di cui è
composto. Naturalmente non esiste in natura nessun corpo rigido, ogni
materiale ha una sua elasticità e viscosità. Però è un’ottima semplifi-
cazione. Diciamo adesso di avere un disco rigido che sta ruotando: è
evidente che un volumetto elementare scelto sul bordo avrà velocità
lezioni di fisica ii 45

lineare maggiore di quella di un volumetto preso vicino al centro del di-


sco. Ciò che però accomuna tutti i punti del disco è la velocità angolare
ω. Ogni punto del disco infatti, essendo esso rigido, ha per definizio-
ne la stessa ω, fa gli stessi giri al secondo. Calcoliamoci il momento
angolare per ogni volumetto elementare di massa dm a distanza rC dal
centro:
d~l = rC vω̂ dm = r2C ω
~ dm

integrando su tutto il disco


Z
~l = d~l = Iω
~ (37)
disco

dove si è chiamato Z
I= r2C dm (38)
disco
Siccome in un corpo rigido la forma e la massa sono costanti, I è
sempre lo stesso. Esiste inoltre un teorema che non dimostriamo e che
ci assicura che il momento d’inerzia I è una caratteristica intrinseca
di un sistema, non dipende cioè da che polo abbiamo scelto per far
l’integrale (38). Ogni altra scelta di un asse di rotazione parallelo ad uno
passante per il baricentro e distante da esso D, porta alla modifica del
momento d’inerzia di un corpo rigido di massa M della quantità D2 M
(I0 = I + D2 M). Questo risultato è noto come teorema di Huygens-
Steiner.
La (36) si scrive pertanto, parlando di corpi rigidi in rotazione rispetto
un proprio asse, che le variazioni del momento angolare sono legate
all’accelerazione angolare attraverso il momento d’inerzia

d~l
~˙ ≡ I~
= Iω α (39) Figura 17: Sopra: Christiaan Huygens
dt (1629 - 1695), matematico, astronomo e
fisico olandese. Sotto: Jakob Steiner (1796
quindi se non ci sono momenti torcenti esterni il momento angolare è - 1863), matematico svizzero.
conservato. Naturalmente il fatto di avere o non avere una certa rota-
zione è un’informazione che si ritrova nell’energia cinetica del sistema.
In effetti il contributo cinetico all’energia per una rotazione libera con
velocità angolare ω è

1 1 1
Er = m (~
v·~
v) = mr2 ω2 = Iω2 (40)
2 2 2
che si va a sommare all’eventuale energia dovuta al moto del baricentro.
Le equazioni che si devono quindi considerare per descrivere il moto
di un corpo rigido esteso sono le cosiddette equazioni cardinali

~ = d~p
(
F dt
(41)
~ = d~l
M dt
46 pietro oliva

che essendo sei equazioni scalari individuano le soluzioni del moto per
sistemi rigidi, a sei gradi di libertà.
Non ci resta che applicare la definizione di lavoro infinitesimo nel
caso di momenti torcenti: dL = M dθ e conseguentemente trovare
Z θ0
L= M dθ
0

Non serve inoltre ricordare che la potenza sarà


P=M = Mω.
dt

Fluidostatica

Adesso che abbiamo rivisto brevemente i solidi - ovvero quello sta-


to d’aggregazione della materia che presenta volume e forma propria -
Figura 18: Simon Stevin (1548 - modellizzandoli con corpi rigidi (ovviamente inesistenti in natura), pas-
1620) ingegnere, fisico e matematico
fiammingo. siamo al secondo stato di aggregazione della materia in natura: i liquidi,
che hanno un volume proprio ma non hanno forma propria assumendo
invece la forma del recipiente. Naturalmente anche qui per semplicità si
fanno assunzioni ideali attribuendo caratteristiche inesistenti in natura
che però semplificano di molto le equazioni. Un liquido è un particolare
fluido totalmente incomprimibile, le cui molecole scorrono le une sulle
altra senza attrito (viscosità nulla).
Facciamo subito notare che le distinzioni solido-liquido-aeriforme
è in realtà una distinzione che non può prescindere dalla identifica-
zione di una scala temporale cui ci si riferisce. Noi qui utilizziamo
implicitamente una scala naturale dell’ordine delle ore. Naturalmen-
te dobbiamo cominciare a isolare alcune grandezze d’interesse per la
nostra descrizione, e la prima che ci viene in mente è la densità:

dm
ρ= (42)
dV

È necessario imparare a memoria (è vergognoso non saperlo) la densità


dell’acqua e dell’aria: ρH2 O = 103 kg/m3 ; ρAria ' ρH2 O /1000 ∼ 1 kg/m3 .
Una seconda definizione essenziale è la pressione:

~ · n̂
F
P= (43)
A

dove della forza F~ conta solo la componente perpendicolare alla su-


perficie A, essendo n̂ il versore normale a tale superficie. L’unità di
misura della pressione è il pascal (Pa=N/m2 ). È necessario imparare
lezioni di fisica ii 47

a memoria (è vergognoso non saperlo) il valore della pressione atmo-


sferica: Patm. = 105 Pa=1 bar. Adesso, la domanda che ha più senso
ricordare in queste poche righe è: come aumenta la pressione quando
ci immergiamo? La risposta è semplice:

F m
F = mg → =P= gy = ρgy
A Ay

piccole variazioni di pressione saranno dunque date da dP = ρg dy.


Adesso basta integrare dalla superficie del liquido fino a quota d’im-
mersione y = h (abbiamo scelto di orientare l’asse delle y verso il
basso):
Z P Z h
0
dP = ρg dy → P − Patm. = ρgh
Patm. 0

da cui la famosa legge di Stevino che vale per un qualunque punto di


immersione 2 più profondo rispetto a quota 1 di h metri:

P2 = P1 + ρgh (44)
Figura 19: Evangelista Torricelli (1608
- 1647), matematico e fisico italiano fu
dalla (44) si trova immediatamente l’altezza di una colonnina di mercu- assistente di Galilei e suo successore.
rio (ρHg ' 1, 36 · 104 kg/m3 ) di un barometro: all’equilibrio infatti

Patm. 1, 01 · 105 Pa
Patm. = ρHg gh → h= = ' 760 mmHg
ρHg g 1, 36 · 104 kg/m3 9, 81 m/s2

Tale strumento, detto tubo di Torricelli, fu realizzato sul finire del


1644 e servì, tra l’altro, a dimostrare che può esistere in natura il vuoto
(concetto osteggiato dal millenario horror vacui aristotelico). In onore
del fisico italiano fu definita un’unità - non-SI - di misura della pressione:
1 Torr ' 1/760 atm.

Fluidodinamica

Nel caso un fluido di densità ρ1 si muovesse nel settore “1” d’un tubo di
sezione S1 , con velocità v1 , potremmo facilmente sapere quanta massa
transita in un intervallo di tempo ∆t essendo

∆m = ρ1 ∆V1 = ρ1 S1 ∆x(t) = ρ1 S1 v1 ∆t

Più in avanti e sempre allo stesso livello, nel settore 2, il tubo cambia
sezione (è importante che non vari la quota nel campo gravitazionale
per adesso). Ci si aspetta che nell’intervallo di tempo di prima, ∆t,
transiti la stessa quantità di materia (la massa deve conservarsi, non
48 pietro oliva

può svanire nel nulla). Sicché saremo portati a scrivere

∆m = ρ1 S1 v1 ∆t = ρ2 S2 v2 ∆t

Facendo adesso l’ipotesi di fluido incomprimibile ρ1 = ρ2 perciò ci resta


l’eguaglianza S1 v1 = S2 v2 → Sv = costante, che ci dice che la quantità
Sv, detta portata, è costante.
Considerazioni energetiche ci portano a scrivere per la situazione
vista il lavoro compiuto dalle pressioni nei due settori:

1
∆p∆V = ∆L = ∆(mv2 )
2
cioè
(p2 − p1 ) = 1 ρ
∆V (v2 − v2 )
∆V →
2 1
Figura 20: Jakob Bernoulli (1654 - 1705), 2
matematico e scienziato svizzero.
1
→ p + ρv2 = costante (45)
2
La (45) è detta equazione di Bernoulli. Se il tubo nel settore 2 cam-
biasse quota, diciamo portandosi ad altezza y rispetto al settore 1, allora
la (45) assumerebbe la forma più generale

1
p + ρgy + ρv2 = costante (46)
2
Grazie a tale legge di conservazione possiamo facilmente trovare la
velocità di fuoriuscita di un liquido da un recipiente, a patto che il foro
sia molto piccolo rispetto alla sezione del recipiente e che il recipiente
stesso sia a contatto con l’aria nella parte superiore (cioè la superficie
del liquido sia a pressione atmosferica): ρgh = 12 ρv2 quindi v = 2gh
p

dove con h abbiamo inteso la differenza di quota tra il foro e la superficie


del liquido nel suo contenitore.
Concetti fondamentali di Fisica I:
Termodinamica

“Non ci si può mai preparare abbastanza alla morte. Altre azioni possono
essere ripetute, si possono ritentare se non riescono la prima volta. Non è
così con la morte: essa avviene una volta sola e non c’è alcuna possibilità
di ripeterla perché riesca meglio.”

Robert Boyle,
The Christian Virtuoso (1690) .

La termodinamica è forse la branca della Fisica Classica meno elegante,


non perché sia di minore importanza ma perché è nata “male”, in un
periodo storico nel quale si misconosceva la struttura atomica della
materia e pertanto si ignorava il vero motivo per il quale un oggetto
caldo “scotta”. Inoltre non è veramente possibile comprendere appieno
Figura 21: Robert Boyle (1627 - 1691),
la termodinamica senza una base molto solida di calcolo differenziale chimico, fisico, inventore e filosofo
di alto livello e questa particolare richiesta, con gli studenti del primo naturalista irlandese.
anno di un corso di laurea, viene spesso disattesa.
Comunque sia, risulta banalmente scontato cominciare dall’osserva-
zione pratica che non tutte le cose sono eguali al tatto, in particolare ad
ogni oggetto che tocchiamo è associata una sensazione percettiva di for-
ma, durezza e stato termico. Tale ultimo modo di essere (temperamento)
di un oggetto ci informa se la sua “temperatura” è molto vicina o molto
lontana a quella del nostro dito. Nel secondo caso si percepisce dolore e
si dice che il tal oggetto “scotta”. La sensazione tattile e la temperatura
sono tuttavia due cose non banalmente collegate. Un altro problema
relativo all’insegnamento della termodinamica, infatti, è che le inven-
zioni in questo campo hanno spesso preceduto la comprensione della
Fisica che era dietro l’invenzione; un esempio su tutti il termometro,
che fu realizzato nei primi anni del XVIII secolo quando si era ben lungi
dall’aver capito cosa fosse la temperatura. Il concetto fondamentale che
è mal insegnato e mal compreso è tuttavia non quello di temperatura
bensì quello di calore.
50 pietro oliva

In definitiva il problema maggiore nell’insegnamento della termo-


dinamica è che le prime due leggi sono espresse in modo molto poco
saggio. Ci sono anche testi che riportano una fantomatica terza legge
della termodinamica. Su questo punto vogliamo essere molto chiari:
l’unica terza legge è che non esiste una terza legge. Adesso cerchiamo
di andare al nucleo del senso delle leggi prima ancora di enunciarle.

Principio 0 della termodinamica

Si parte naturalmente da un’osservazione detta “principio zero” della


termodinamica che ci informa del fatto che ha senso definire enti quali
“temperatura”, “equilibrio termico” e “macrostato”.
Poi ci sono le due leggi: la prima ci informa del fatto che l’ener-
gia osserva una legge di conservazione locale. La seconda che c’è una
funzione di stato detta entropia che risponde ad una legge di paracon-
servazione locale. Quest’ultima funzione non è veramente mai spiegata
12
Tipicamente l’entropia viene addirittu- in maniera esaustiva durante il corso di Fisica I12 . Il ruolo dell’entro-
ra definita come δQ/T lasciando ad in-
pia è in qualche modo analogo a quello dell’energia: quest’ultima è la
tendere che non può esistere un’entropia
in situazioni nelle quali non è definibile quantità regina della meccanica mentre la prima svolge un ruolo cen-
una temperatura come ad esempio una
trale nella teoria dell’informazione. La termodinamica le usa entrambe,
partita di carte (dove invece ovviamente
l’entropia è definibile). quindi il fulcro di questa materia è proprio la comprensione di energia
ed entropia insieme.
Facciamo subito chiarezza su un punto fondamentale: l’energia di
per sé non è un invariante relativistico (come non lo è il tempo) essendo
solo una componente del quadrimpulso
 
E/c !
µ
 px  E/c
p = =
 
 py  ~
p
pz

ciò significa che, mentre l’energia è invariante per rotazioni spaziali,


non lo è per boost di Lorentz (traslazioni temporali). Non possiamo,
per evidenti ragioni di contesto, entrare troppo dentro questo tipo di
spiegazioni.
Ma riprendiamo da quello che ci serve: abbiamo detto che è defi-
nibile una quantità detta temperatura che ci informa del fatto che un
oggetto sia “caldo” o “freddo”. Prima ancora di capire bene cosa sia
questa temperatura furono costruiti i primi termometri rispettivamente
da Galilei (1607), Fahrenheit (1709 - alcool, 1714 - mercurio), Réaumur
(1732) ed infine Celsius (1742). Facendo i primi esperimenti si venne
a conoscenza di quello che oggi passa sotto il nome di principio zero
della termodinamica che recita all’incirca così:
lezioni di fisica ii 51

“Se abbiamo tre corpi A, B e C ed i corpi A e B sono entrambi in equilibrio


termico col terzo, C, allora A sarà in equilibrio con B”.

In realtà ci sono varie versioni di questa legge; forse quella più chiara è
che se abbiamo due sistemi all’equilibrio termico tra loro, allora la loro
temperatura è la stessa. La condizione di equilibrio è inoltre transitiva.
Dobbiamo adesso introdurre una quantità fisica che crea sempre
molte incomprensioni: il calore. Generalmente il calore è definito come
quella quantità d’energia trasferita tra due sistemi a causa della diffe-
renza di temperatura esistente tra i due. Questa è uno possibile tra
alcuni modi di definire il calore, tuttavia non è un modo troppo preciso.

Principio 1 della termodinamica

Purtroppo non c’è una definizione di calore priva d’incongruenze nella


teoria classica della termodinamica; un trucco invero ci sarebbe: evitare
il più possibile di parlare di calore ed usare invece l’entalpia. Co-
munque sia, possiamo per adesso pensare al calore (a nostro rischio e
pericolo) come quella parte di energia totale scambiata che non è lavoro
o, meglio, pensarlo come T dS anche se ancora non conosciamo la de-
finizione di entropia S. Il punto fondamentale da capire qui è che “ d”
è un operatore. Purtroppo non esiste (quasi mai a meno di casi super-
semplificati e inventati ad hoc) un campo scalare Q tale che dQ = T dS.
Per questo è difficile capire cosa è il calore a livello matematico ed è per
questo che gli studenti hanno difficoltà serie a comprendere la scrittura
d̄Q = T dS. La verità è che dQ non esiste (quasi mai), mentre d̄Q sembra
un differenziale ma non lo è, mentre T dS è una 1-forma non-esatta (non
un differenziale inesatto, come erroneamente viene sempre raccontato
al povero studente: semplicemente T dS e quindi quello che si indica
coll’orribile simbolo d̄Q non è la derivata di nulla).
Avendo in mente questo sarà più facile accettare il fatto che la vera
definizione di “calore” dovrebbe essere
Z
QΓ = T dS (47)
Γ

cioè un oggetto che dipende dal particolare cammino Γ nello spazio


delle variabili termodinamiche.
Figura 22: Dall’alto in basso: Daniel Ga-
A questo punto dovrebbe essere chiaro almeno che due sistemi iso- briel Fahrenheit (1686 - 1736) fisico e in-
lati posti in contatto scambieranno energia sotto forma di calore fino gegnere tedesco. René-Antoine Ferchault
a raggiungere uno stato di equilibrio che è caratterizzato dal fatto che de Réaumur (1683 - 1757) scienziato e fisi-
co francese. Anders Celsius (1701 - 1744)
entrambe i sistemi hanno stessa temperatura T. Dobbiamo quindi pro- fisico e astronomo svedese.
cedere col metodo “sbagliato” perché questo deve essere solo un ripasso
52 pietro oliva

utile e non una “ristrutturazione” delle idee, seppur tale ristrutturazio-


ne sarebbe necessaria. Però il lettore sappia che tutto ciò che finora
ha imparato sulla termodinamica serve solo in casi particolarissimi e,
tutto sommato, inutili dal punto di vista della pratica dove si vogliono
costruire macchine termiche. Tutto ciò visto in Fisica I, in definitiva, è
solo approssimazione banale e spesso trascurabile della realtà, nonché
un orrore matematico.
Premesso ciò scordiamoci (ahinoi) del problema del percorso in (47)
e definiamo il calore scambiato a causa della differenza di temperatura
come un qualcosa di proporzionale a tale differenza. È infatti comune
esperienza che maggiore è la differenza di temperatura tra due oggetti,
maggiore sarà il loro scambio di calore:

Q ∝ TA − TB ≡ ∆T

essendo T una variabile di stato intensiva (non è additiva). Chiamiamo


la costante di proporzionalità “Capacità Termica” alla stregua della
capacità d’un secchio d’acqua: maggiore vale, tanta più acqua si può
versare cambiando poco la quota, similmente tanto più capacità termica
C un sistema possiede, tanto più calore può scambiare variando di poco
la temperatura:
Q
Q = C∆T → C = (48)
∆T
La (48) ha una dipendenza che non ci piace: dipende dalla massa del
sistema. Noi cerchiamo invece una definizione più generica, in parti-
colare indipendente dalla massa. Dividiamo perciò per la massa ambo
i membri di (48) per ottenere la quantità che va sotto l’assolutamente
13
A parte il fatto che già ci sembra infe- inopportuno nome di calore specifico13
lice usare una c minuscola al posto del-
la maiuscola rischiando di sbagliarsi nel- C Q
la scrittura corsiva, ma sarebbe stata an- ≡c= (49)
m m∆T
che di gran lunga una migliore soluzio-
ne quella di chiamare c capacità specifi- Mettiamo subito in chiaro una cosa: siccome il numeratore del mem-
ca - o qualche altro nome simile - anziché
usare impropriamente la parola “calore”. bro destro delle (48) e (49) dipende dal particolare percorso attraverso
Il calore specifico non è un tipo di calore. la (47), ci sono per lo stesso identico sistema più calori specifici: tipico
esempio quello che risulta da un percorso fatto a volume costante (cv ) e
quello a pressione costante (cp ). Per peggiorare la situazione spesso non
si divide per la massa la (48) bensì per il numero di moli n creando così
un calore specifico molare. Non possiamo biasimare il povero studente
che confessa di aver sì passato l’insegnamento della termodinamica, ma
di non averla capita. Dovremmo “salvare” l’unicità della definizione
(49) scrivendo

cΓ = (50)
m∆T
lezioni di fisica ii 53

Comunque, dobbiamo per forza proseguire, chiudendo gli occhi, nel


definire tale entità quale il calore specifico. Ricordiamoci anche del
celebre esperimento di Joule che dimostra il calore essere null’altro che
una delle tante forme d’energia. Q cioè si misura in joule.
Possiamo a questo punto tentare di aggiustare un po’ la situazione,
parlando dello stato del sistema. Un sistema termodinamico è solita-
mente composto di un così alto numero di elementi (siano molecole,
atomi o parti in genere) che sarebbe impossibile studiarne i dettagli.
Quel che si fa è riconoscere che a moltissime combinazioni possibili
degli elementi (tipicamente pari al numero d’Avogadro 6 · 1023 ) corri-
sponde magari uno stesso stato macroscopico. Detta Pi la probabilità
che si verifichi l’i-esimo tra i microstati, vogliamo definire l’entropia
come la quantità di informazione che ignoriamo del sistema:
 
X 1 Figura 23: Ludwig Eduard Boltzmann
S(P) = Pi log (51)
Pi (1844 - 1906) fisico e matematico austria-
i
co, è stato uno dei più importanti scien-
In Fisica tuttavia dobbiamo rispettare un sistema di misura ben preciso. ziati della storia ed i suoi contributi alla
fisica teorica sono di capitale importanza.
In particolare dalla (47) risulta chiaro che dobbiamo avere J/K. Que-
sto si ottiene riscrivendo la (51) con un logaritmo naturale e facendo
comparire una costante kB ' 1, 4 · 10−23 J/K
X
S = −kB Pi ln(Pi ) (52)
i

Possiamo fare un’ulteriore semplificazione: ammettiamo per un attimo


che tutti i microstati i siano equiprobabili e dunque Pi = 1/W dove la
costante 1/W verrà chiamata molteplicità. La (52) allora diventerà
X
S = kB ln W Pi = kB ln W
i
P
perché i Pi = 1 su tutti gli stati accessibili. La formula (ristretta al caso
d’equiprobabilità discusso) è quella incisa sulla tomba di Boltzmann
(dove però c’è una costante k e il logaritmo naturale):

S = k log W (53)

Ciò che è più importante capire è che la (53) o una qualunque delle sue
forme equivalenti non sono definite né attraverso il calore né tantomeno
attraverso la temperatura. Ed è questo l’errore enorme che si compie
quando al contrario ci si ostina a definire l’entropia come d̄Q/T. Più
in generale è un errore esecrabile definire l’entropia in termini d’ener-
gia e/o viceversa. Non bisogna assolutamente cadere in questo tranello:
l’entropia è quella che è a prescindere dall’energia. L’entropia è una fun-
54 pietro oliva

zione del macrostato e non fornisce alcuna informazione sui microstati.


Non bisogna neanche cadere nell’inganno di pensare che l’entropia sia
una misura del “disordine”: conoscendo esattamente il microstato in
cui il sistema si trova, l’entropia è zero a prescindere se tale microsta-
to risulta “ordinato” o no. Sbirciando il mazzo durante una partita di
poker e quindi conoscendo tutta la sequenza di carte (un particolare
microstato) l’entropia della partita dal punto di vista del baro è zero
anche se le carte sono mischiate e altamente disordinate per gli altri gio-
catori. Avendo definito S con (52) possiamo adesso procedere e capire
meglio chi è dS, ovvero la derivata esterna del campo scalare S. dS è
una 1-forma. In generale un sistema ha una ben determinata energia
E ed una ben determinata entropia S. È possibile dunque per ogni si-
stema scrivere la derivata esterna dell’energia come differenziale esatto
facendo le derivate parziali rispetto a tutte le variabili termodinamiche
in gioco (in modo del tutto analogo a quanto fatto in (33)):

estensiva
X ∂E z }| {
dE = dXk (54)
∂Xk tutte le var.,kcost.

k | {z }
intensiva

in particolare isolando il contributo dovuto all’entropia, che sappiamo


dover essere ben determinato,
X ∂E ∂E

dE = dXh + dS (55)
∂Xh S= cost. ∂S Xh = cost.
h

dalla (55) subito si vede per essere coerenti con quanto detto prima deve
essere
∂E

≡T (56)
∂S
Xh = cost.

ed è questa la definizione che preferiamo della temperatura. Riscrivia-


mo dunque la (55) tenendo conto della (56) e semplificando l’esempio
al caso in cui le Xh sia una sola, ad esempio il volume V:

∂E ∂E

dE = dV + dS =
∂V S= cost. ∂S V = cost.

∂E

= dV + T dS (57)
∂V S= cost.

∂E
Convenzionalmente risulta che la quantità ∂V viene definita
S= cost.
come −P cioè l’opposto della pressione di modo che

dE = T dS − P dV = q − ` (58)
lezioni di fisica ii 55

e da qui l’uso di porre tale equazione come


Z
dE ≡ ∆U = Q − L → dU = d̄Q − d̄L (59)

ovvero la variazione dell’energia interna di un sistema termodinamico


è pari al calore scambiato meno il lavoro estratto. Questo è possibile
perché mentre d̄Q e d̄L sono 1-forme non-esatte (e dQ, in particolare,
non esiste proprio) risulta che la particolare combinazione d̄Q − d̄L
(o per brevità q − ` 6 T dS − P dV) è un differenziale esatto e il suo
integrale non dipende più dal cammino, è cioè esprimibile come U. La
(59) prende il nome di primo principio della termodinamica.

Principio 2 della termodinamica


Figura 24: Lord William Thomson, primo
Se per caso ci si sta adesso chiedendo perché qui sopra abbiamo scritto barone Kelvin (1824 - 1907), fisico e inge-
d̄L mentre nella (30) dL ricordiamo al lettore che la (30) è stata definita gnere britannico. I suoi molteplici contri-
attraverso un campo di forze che, scalando come 1/r2 , è conservativo. buti hanno portato tra l’altro, alla formu-
lazione moderna del secondo principio
Poniamo adesso di avere solo due sistemi isolati, A e B e null’altro. della termodinamica.
Ci sarà in genere sempre una certa funzione Wk (Ek ) con k = 1, 2 che,
data una certa energia Ek , fornisce il numero massimo di microstati
corrispondenti a tale contenuto energetico. Il sistema totale composto
dai due sottosistemi avrà pertanto una funzione totale data dal prodotto
diretto delle due funzioni

W (E) = W1 (E1 ) ⊗ W2 (E2 )

dove E1 è l’energia del primo sistema, E2 quella del secondo. Se adesso


realizziamo un qualche tipo di connessione tra i due sistemi, tale da
permettere tra i due sistemi uno scambio, ad esempio, solo di calore,
la natura imporrà di raggiungere l’equilibrio annullando la derivata di
W (E), ad esempio rispetto al primo dei due sistemi:

∂W (E) ∂ ∂W1 ∂W2


= W1 (E1 ) ⊗ W2 (E2 ) = W2 + W1 =0
∂E1 ∂E1 ∂E1 ∂E1

Ricordando che l’energia totale E è costante, è ovvio che E1 + E2 = E →


dE1 + dE2 = 0 allora dE1 = − dE2

∂W1 ∂W2 ∂W2


W2 = −W1 = W1
∂E1 ∂E1 ∂E2

raggruppando gli indici

1 ∂W1 1 ∂W2
=
W1 ∂E1 W2 ∂E2
56 pietro oliva

che si riscrive facilmente come


∂ ln W1 ∂ ln W2 ∂ ln W 1 ∂S
= ⇒ =
∂E1 ∂E2 ∂E kB ∂E

dove abbiamo tenuto conto della definizione d’entropia di Boltzmann e


anche del fatto che il parametro che gestisce l’equilibrio, la temperatura,
l’abbiamo appunto definita come (56). Siamo dunque giunti a scrivere
una relazione che, importata (a volte senza troppi scrupoli) nel mondo
macroscopico diventa:

∆kB ln W ∆S 1 ∆E
= = → ∆S =
∆E ∆E T T
e se l’energia, come posto all’inizio del ragionamento, viene scambiata
solo attraverso il calore ∆E = ∆Q e

∆Q
∆S = (60)
T
Figura 25: Rudolf Julius Emanuel Clau-
sius (1822 - 1888), fisico e matema- ma questa definizione vale solo in questo mondo ideale e ristretto del-
tico tedesco, ha introdotto il concetto l’esempio fatto. Perciò deploriamo il modo d’introdurre l’entropia di-
d’entropia.
rettamente attraverso la (60) e anzi in maniera ancora più problematica
attraverso la definizione - formalmente errata -
dQ
dS = (61)
T
per poi dover subito avvertire lo spaesato lettore che il numeratore del-
la (61) non è in realtà un differenziale esatto (frase piuttosto equivoca
poiché tende a far passare il messaggio che trattasi d’un differenziale
non esatto, mentre il numeratore dell’integranda non è affatto un diffe-
renziale). Comunque sia la distinzione tra trasformazioni reversibili ed
irreversibili sta nel tipo di relazione da usare in
Z
d̄Q
∆S > (62)
T

valendo l’eguaglianza solo nel caso reversibile. Quando un sistema


evolve perciò non si può avere, complessivamente, che un aumento
dell’entropia, quindi possiamo dire che in un sistema isolato l’entropia
è una funzione non decrescente nel tempo. Questo prende solitamente il
nome di secondo principio della termodinamica.

Legge di stato dei gas ideali

Abbiamo visto che tutta la termodinamica classica si avvale sostanzial-


mente di alcune variabili notevoli che descrivono lo stato termodinami-
co di un materiale. Solitamente per quel che viene raccontato durante
lezioni di fisica ii 57

i normali corsi universitari le variabili d’interesse termodinamico si


restringono a

• volume V,

• pressione P,

• temperatura T,

• massa m,

• numero di moli n,

• entropia S.

Tra queste vi sono variabili estensive (che scalano come le dimensioni


del sistema), V, S, m ed n, mentre le altre sono variabili intensive (T, P)
non cambiano cioè al variare delle dimensioni del sistema. C’è tuttavia
un modo molto facile per creare una variabile intensiva da una estensiva Figura 26: Benoît Paul Émile Clapeyron
(1799 - 1864), ingegnere e fisico francese,
tra queste citate: basta dividere per il numero di moli. Ad esempio pioniere della ferrovia.
V/n = v prende il nome di volume molare ed è proprietà intensiva del
sistema.
I primi esperimenti sistematici per trovare leggi descriventi un gas
sono dovute a Boyle che misurò pressioni e volumi molari di alcuni gas
ottenendo la legge lim Pv = costante indipendentemente dal tipo di gas.
P→0
La costante di Boyle è in realtà una funzione solo della temperatura, di
modo che la costante in realtà sia una f (T ). Possiamo dunque misurare
dei punti notevoli sul piano T e f (T ) e tentare di trovare una legge di
regressione per scrivere f . Solitamente si sceglie la regressione lineare
a meno che non ci siano particolari motivi per non farlo:

Pv = f (T ) ∝ T → Pv = RT

dove la condizione che f (T ) sia proporzionale a T attraverso una cer-


ta costante R, f (T ) = RT, è dovuta ad una nostra scelta riguardante
l’interpolazione lineare che abbiamo fatto a partire da punti notevoli
(quali ad esempio il punto d’ebollizione dell’acqua o di congelamento);
ricordandoci adesso che v = V/n e riscriviamo
V
P = RT → PV = nRT (63)
n
La (63) è detta Legge dei gas ideali ed è stata così enunciata dal francese
Clapeyron nel 1834. La costante R risulta essere la costante dei gas

J
R ' 8, 31
mol K
58 pietro oliva

Intuitivamente possiamo anche capire che il prodotto PV è legato


all’energia interna del gas. Oggi sappiamo collegare tale energia alla
temperatura: prendiamo un cilindro pieno di gas con una parete mobile
(si quella in direzione delle x, ma la scelta è arbitraria). Il gas ci assicura
una certa pressione sulla parete dato che le sue molecole sbattono su essa
in continuazione). Sia allora necessaria una certa forza F sulla parete
mobile al fine di farla stare ferma. Ovviamente la pressione associata
sarà P = F/A con A area del setto mobile.
Una molecola che scontra col setto e viene “rimbalzata” all’indietro
cambia momento della quantità di moto di 2mvx . Ma nel pistone non
c’è solo una molecola pronta ad impattare il pistone: nel tempo ∆t ci
saranno nA∆tvx molecole a distanza utile da poter colpire il setto. Nel-
l’unità di tempo perciò avremo nAvx molecole che vanno a contribuire
alla forza:
F = nAvx · 2mvx → P = 2nmv2x

adesso 2v2x = hv2x i perciò P = nmhv2x i ed inoltre hv2x i = 31 hv2 i, sicché

mv2
 
1 2 2
P= nmhv2 i = n = nhKi
3 3 2 3

dove K è l’energia cinetica; ma cosa rappresenta il numero di moli?


null’altro che il numero di atomi N diviso il volume V che occupano.
Perciò in definitiva
2
PV = NhKi (64)
3
Se adesso identifichiamo con NhKi come il solo termine responsabile
dell’energia interna (stiamo cioè trascurando tutti gli eventuali stati
eccitati delle singole molecole - o atomi nel caso di gas monoatomici)
possiamo scrivere la (64) come

2
PV = U (65)
3
Più in generale si usa porre

PV
PV = (γ − 1)U → U= (66)
γ−1

che, nella fattispecie discussa di gas monoatomici, assume un valore di


γ pari a 5/3 dovendo essere γ − 1 = 2/3. In effetti se ci si muovesse
lungo una trasformazione adiabatica, dove cioè non viene scambiato
calore, la dU, secondo la (59) darebbe

dU = −d̄L = −P dV
lezioni di fisica ii 59

D’altro canto bisogna calcolare il differenziale per la funzione U definita


in (66) che fornisce la relazione

(V dP + P dV )
dU =
γ−1

quindi unendo i risultati sopra trovati

(V dP + P dV )  − γP dV
= −P dV → V dP +  =
P dV P dV

γ−1
ovvero
dP dV
+γ =0 → ln P + γ ln V = cost. → PV γ = cost. (67)
P V
Non solo abbiamo imparato a trovare le condizioni di comprimibilità
per un gas qualunque14 , ma abbiamo anche capito che quello che noi 14
anche di fotoni: nel caso di luce in una
scatola ad esempio possiamo scrivere
chiamiamo “temperatura” è null’altro che un’indicatore dell’energia ci-
l’equivalente di P = 2nmv2x che nel ca-
netica media delle componenti elementari del gas stesso. Perché allora so più generale si scriverà P = 2nmpx vx .
Passando alle medie questo si scrive
non abbiamo chiamato “temperatura” l’energia cinetica stessa rispar-
P = nmh~ p·~vi/3 quindi
miandoci un sacco di problemi? abbiamo visto che la risposta sta solo
p·~
PV = Nh~ vi/3
in motivi storici e di ignoranza riguardo la struttura atomica della ma-
ma si dà il caso che h~ p·~
vi sia nel ca-
teria. Purtroppo abbiamo scelto ormai una scala (kelvin) che è lineare so dei fotoni proprio l’energia di singola
in energia attraverso una costante kB ' 1, 38 · 10−23 J/K: risulta infatti particella E = pc, allora
essere PV = U/3 → γ = 4/3
3
hKi = kB T e possiamo quindi scrivere che PV 4/3 =
2 costante.
dove il fattore 3/2 è messo per comodità per semplificare la (65) ed è
interpretabile come un fattore kB T/2 preso per ognuno dei tre gradi di
libertà. Pertanto riscriviamo la (63) come

PV = NkB T (68)

e notiamo la notevolissima proprietà della natura secondo la quale qual-


siasi tipo di gas che abbia eguale pressione, volume e temperatura de-
ve necessariamente essere composto dello stesso numero di atomi o
molecole.
Ci rimane da ricordare il caso particolare di cambiamento di stato:
quando un materiale si trova nelle condizioni termiche di passaggio
di stato, come ad esempio l’acqua a 0 ◦ C, risulterà che ulteriori scam-
bi di calore non varieranno la temperatura. Nell’esempio dell’acqua
al congelamento, sottraendo ulteriormente calore non provocheremmo
più un abbassamento della temperatura: al contrario essa si manterrà
costate finché tutta l’acqua si sia convertita in ghiaccio. Similmente,
conferire calore ad un pezzo di ghiaccio non ne aumenterà la tempera-
tura poiché tutto il calore servirà per scioglierlo in acqua. Ogni sostanza
60 pietro oliva

ha un “calore latente” λ e durante il passaggio di stato l’equazione da


utilizzare è
Q = λm (69)

dove m è la massa di sostanza al passaggio di stato. λ si misura in J/kg.

Trasformazioni notevoli

Tra tutte le possibili, solitamente si rammentano i risultati da utiliz-


zare nelle trasformazioni notevoli, tipicamente quelle che avvengono
rispettivamente a P, V, Q e T costanti.
Una trasformazione che avvenga a volume costante dicesi isocora.
Essendo il lavoro L = −P∆V è immediato trovare che il lavoro di un’iso-
cora è nullo (L = 0). Secondo il primo principio questo deve risultare nel
fatto che la variazione di energia interna è tutta a scapito dello scambio
di calore (∆U = Q). Dato che vale anche ∆U = 32 nR∆T = Q risulta che
Q
cv = n∆T = 32 R. D’altro canto, se usiamo il calore specifico e non quello
molare, questo calore sarà Q = mcv ∆T = mcv (T f − Ti ), direttamente ri-
cavato dalla (49). Utilizzando dunque la definizione (62) si troverà che
la variazione d’entropia in un’isocora reversibile è ∆S = mcv ln(T f /Ti ).
Dato che in un’isocora il rapporto P/T = cost. risulterà anche che
∆S = mcv ln(Pi /P f ). Cambiate m con n se state lavorando coi calori
specifici molari. Riassumendo, per un’isocora

L=0 Q = ncv ∆T ∆U = Q = 32 nR∆T ∆S = mcv ln(T f /Ti )

Una trasformazione che avvenga a pressione costante dicesi isobara.


È immediato trovare che la variazione d’energia interna di un’isoco-
ra è ∆U = Q + P∆V = Q + nR∆T. Anche in questo caso dato che
∆U = 32 nR∆T si trova che Q = 32 nR∆T + nR∆T = 25 nR∆T sicché sta-
volta cp = 52 R. D’altro canto, tornando al calore specifico di massa, que-
sto calore sarà Q = mcp ∆T = mcp (T f − Ti ), direttamente ricavato dalla
(49). Utilizzando dunque la definizione (62) si troverà che la variazione
d’entropia in un’isobara è ∆S = mcp ln(T f /Ti ). Dato che in un’isocora
il rapporto V/T = cost. risulterà anche che ∆S = mcp ln(Vi /V f ). Cam-
biate m con n se state lavorando coi calori specifici molari. Riassumendo,
per un’isobara

L = −P∆V Q = ncp ∆T ∆U = 32 nR∆T ∆S = ncp ln(Vi /V f )

Una trasformazione che avvenga a temperatura costante dicesi iso-


terma. È immediato trovare che la variazione d’energia interna di un’i-
soterma è nulla (∆U = 0). Per il primo principio dunque L = Q. Trovia-
mo facilmente che deve valere dL = −nRT dV V → L = −nRT ln V f /Vi
lezioni di fisica ii 61

e conseguentemente la variazione d’entropia sarà, banalmente, otte-


nibile dividendo il calore per la temperatura: ∆S = nR ln(V f /Vi ).
Dato che in un’isoterma il prodotto PV = cost. risulterà anche che
∆S = nR ln(P f /Pi ). Riassumendo, per un’isoterma

L = Q = nRT ln(V f /Vi ) ∆U = 0 ∆S = nR ln(V f /Vi )

Resta il caso dell’assenza di scambio di calore: la trasformazione


adiabatica. Se Q = 0 è ovvio che ∆U = P∆V = ncv ∆T. Il lavoro può
essere calcolato direttamente considerando che l’equazione di stato per
un’adiabatica è PV γ = cost. (ovviamente γ = cp /cv ): il generico punto
della trasformazione dunque è P f = Pi (Vi /V f )γ . Conseguentemente
l’integrale del lavoro diventa L = P(V/V f )γ dV che ha soluzione
R
γ 1−γ 1−γ
L = Pi Vi (V f − Vi )(1 − γ)−1 . La variazione d’entropia è infine
trivialmente nulla. Riassumendo, per un’adiabatica

L = −P∆V Q=0 ∆U = ncv ∆T ∆S = 0


Elettrostatica

“[...] l’armonia divina viene rappresentata nei movimenti mortali. Si spie-


gano così lo scorrere delle acque, la caduta dei fulmini, e la meravigliosa
forza d’attrazione dell’ambra e della calamita: in nessuno di tutti questi
oggetti vi è la forza attraente, ma poiché il vuoto non c’è, questi corpi
si respingono in giro l’uno con l’altro, e separandosi e congiungendosi,
cambiano di posto, e vanno ciascuno nella propria sede. Dall’intrecciarsi
di queste influenze reciproche si sono operati tutti quei prodigi, come
sembrerà a chi sappia indagare bene.”

Platone,
Timeo (c. 360 a.C.).

Una particolare resina fossile, l’ambra, è utilizzata dall’uomo da al-


meno 22000 anni. Non ci si deve stupire che ad un certo punto della
storia qualcheduno s’accorse che strofinando un pezzo d’ambra su una
pelliccia animale si riuscivano ad attrarre peli e foglie secche ed anche, se
lo strofinio era vigoroso, scintille. I greci chiamavano l’ambra ἤλεκτρον Figura 27: Benjamin Franklin (1706 -
1790), scienziato e politico statuniten-
da cui il nome “elettricità”. Bisognerà tuttavia aspettare il settecento se. Una delle massime espressioni
per avere un formale riconoscimento del fatto che esistono due tipi di dell’illuminismo.
carica e che la forza elettrica è attrattiva o repulsiva. La carica opposta a
quella indotta dallo strofinio di un pezzo d’ambra è data dallo strofinio
di una bacchetta di vetro. La convenzione su come chiamare queste due
cariche è del tutto arbitraria. Tradizione vuole che Benjamin Franklin
attribuì carica positiva alla resina e negativa al vetro.
Anche del magnetismo si venne a conoscenza più di cinquemila anni
fa. Nell’antica Cina ed in europa si conosceva l’esistenza dei magneti
permanenti utilizzati per lo più come curiosità o per orientarsi attra-
verso l’uso di bussole primordiali. La parola magnete viene dall’antica
città di Magnesia ad Sipylum, in Lidia (Anatolia occidentale), da dove
si diceva provenissero la maggior parte dei magneti. Il magnetismo e
l’elettricità sono intimamente connessi, così connessi che scopriremo es-
sere la stessa forza che si manifesta in modi differenti. Essendo in realtà
il magnetismo un effetto relativistico del campo elettrico in stato di mo-
to, non deve stupire che fino alla fine dell’800 elettricità e magnetismo
64 pietro oliva

Figura 28: Un campo scalare con ripor-


tato il gradiente. Notare che il gradien-
te punta nel verso crescente del campo
scalare.

furono di fatto considerati fenomeni separati. Vedremo che tale sepa-


razione è invece solamente caratteristica di una particolare situazione
dove i campi sono costanti e non c’è movimento di cariche. La diffi-
coltà intrinseca di tali argomenti ci impone adesso di dover affrontare
un “corso di sopravvivenza” di matematica. Solo attraversando questo
ostacolo iniziale il resto del discorso sarà relativamente facile, quindi il
lettore è pregato di non omettere la lettura dei seguenti paragrafi poiché
se è innegabile che per un po’ ci distaccheremo dal problema che ci inte-
ressa per andare a studiare nozioni e concetti che sono propri dell’analisi
e della geometria, è altrettanto vero che una volta impadronitici di tali
strumenti, tutto ciò che c’è da sapere sul campo elettromagnetico è solo
questione di applicazione di conoscenze teoriche a casi particolarmente
facili.
Lo scopo finale di tutto questo lavoro sarà la comprensione delle
equazioni di Maxwell in forma differenziale, che è l’unica forma che ci
interessa ai fini della descrizione puntuale del campo elettromagnetico.
lezioni di fisica ii 65

Background matematico: nabla

Per tutto ciò che seguirà in questo capitolo, se non altrimenti specificato,
sceglieremo sempre un sistema di riferimento ortonormale per lo
spazio vettoriale che ci farà da palcoscenico.
 
ax
a ∈ V3 ∼
 a y  ∈ R3
 

az
Con questa intesa riguardo l’isomorfismo di cui abbiamo accennato
prima, definiamo tutta una serie di oggetti senza i quali l’elettromagne- Figura 29: Daremo per scontato l’isomor-
tismo non potrebbe essere spiegato. Nello specifico diamo per scontato fismo tra vettori e terne di numeri data
una base ortonormale fissata.
che il lettore conosca, dati ad esempio
  
Ax Bx
~=
A  Ay 

e ~=
B  By 

Az Bz

il significato delle scritture

~·B
A ~ = Ax Bx + A y B y + Az Bz
 
A y Bz − Az B y
~×B
A ~=
 Az Bx − Ax Bz 

Ax B y − A y Bx
Considerando che l’elettromagnetismo parla di campi, va da sé che
per prima cosa dobbiamo capire come caratterizzare un campo vetto-
riale. Sono due le informazioni principali che caratterizzano un campo
vettoriale: la circuitazione ed il flusso. Per capire questi due concetti bi-
sogna prima passare per le proprietà locali dei campi per poi integrare
e passare a proprietà macroscopiche di un certo volume di spazio.
Uno strumento indispensabile risulta essere l’operatore nabla. Par-
tiamo con l’applicazione più facile di tale operatore: definiamo a tal fine
il gradiente di un campo scalare f (x, y, z) : R3 7→ R come

∂f
 
 ∂x 
 
∂ f
 
~f =

 
(70)
 ∂y 

 
 ∂f 
∂z
dove la scrittura utilizzata serve appunto per poter vedere l’operatore
~
 
∂ ∂ ∂
differenziale ∇ ≡ ∂x , ∂y , ∂z agire su un campo scalare f , per generare
66 pietro oliva

Figura 30: La divergenza (lo sfondo colo-


rato principalmente di verde) del campo
vettoriale (le frecce nere) evidenzia pozzi
(aree blu) e sorgenti (aree rosse).
una funzione vettoriale. A cosa serve principalmente il gradiente? Per
~ d’un campo scalare ψ
quanto ci serve, basti sapere che il gradiente ∇ψ
qualsiasi ha le seguenti proprietà

• misura in ogni punto, col suo modulo, la velocità di cambiamento


del campo scalare ψ;

• col suo versore indica in ogni dato punto il verso di massima varia-
zione del campo scalare ψ;

~ è un campo vettoriale.
• ψ è un campo scalare, ∇ψ

~ si può anche calcolare la


Possiamo fare di più: una volta definito ∇
divergenza d’un vettore

∂A y
∇ ~ = ∂Ax +
~ ·A +
∂Az
(71)
∂x ∂y ∂z

~ che, agendo
in modo di poterlo vedere come l’operatore differenziale ∇
~
su un vettore A a mo’ di prodotto scalare, genera uno scalare. È in
qualche modo un maniera d’usare il nabla “opposto” alla generazione
di un gradiente. A cosa ci servirà questa informazione? cosa indica la
divergenza di un vettore?
lezioni di fisica ii 67

Basta guardare Fig. (30) per capire il senso di fare questa operazione
su un campo vettoriale; in generale la divergenza ∇ ~ ·A~ d’un vettore A
~

• rileva la presenza di “pozzi” e “sorgenti” del campo, misura cioè la


tendenza d’un campo vettoriale a convergere o divergere localmente,
nel punto dov’è calcolata;

• se nulla ovunque le linee di flusso non si intersecano mai (non


possono mai scaturire da - o convergere in - un punto);

• la divergenza di un campo vettoriale è un campo scalare.

Le possibilità non sono finite: c’è un terzo modo di applicare il nabla


ad un campo vettoriale, stavolta per generare un vettore. Si dice in tale
caso che si trova il rotore di un vettore:

∂Az ∂A y
 

 ∂y ∂z 
 

~ =  ∂Ax − ∂Az 
 
~ ×A
 
∇  ∂z (72)
 ∂x 
 ∂A y ∂Ax 
 

∂x ∂y

in modo di poterlo vedere come l’operatore differenziale ∇~ che, agendo


~ a mo’ di prodotto vettoriale, genera un vettore. Il rotore
su un vettore A
~ ~ ~
∇ × A d’un vettore A

• misura la tendenza d’un campo vettoriale a ruotare intorno al punto


dov’è calcolato, ovvero il rotore è, punto per punto, multiplo del
vettore velocità angolare;

• se nullo ovunque c’è assenza di vorticosità;

• il rotore di un campo vettoriale è un campo vettoriale.

~
Per quanto detto è banale verificare che, così definito, per l’operatore ∇
~ f:
varranno le seguenti relazioni ∀A,

~× ∇ ~f =0
 

(73)
~· ∇ ~ ×A ~ =0
 

che quindi ci devono far ricordare che, se un dato X~ ha rotore sempre


~ f = X;
nullo, allora esisterà un certo campo scalare f tale ∇ ~ inoltre se
un certo X ~ ha sempre divergenza nulla allora X~ è il rotore di qualche
vettore A:~ X~ =∇ ~ Queste osservazioni ci torneranno molto, molto
~ × A.
utili nel seguito.
68 pietro oliva

Figura 31: Il campo vettoriale a sinistra,


il suo rotore a destra.

In realtà ci rimane un ultimo operatore da definire per comodità: la


divergenza del gradiente di una funzione, detto laplaciano

~ ( f ) ≡ ∇2 f = ∂ f + ∂ f + ∂ f
2 2 2
~ ·∇
∇ (74)
∂x2 ∂y2 ∂z2

Dato che il laplaciano è pur sempre un operatore possiamo applicarlo


15
In realtà ci sono anche due regole anche ad un vettore intendendo che
generali legate al rotore: se f è una
funzione, ~a e ~b due vettori, allora
 
∂ 2 Ax
~ × ( f~a) = (∇
∇ ~ f ) × ~a  ∂x2 
 
 
~ =  ∂ Ay 
e  2
∇2 A

(75)
~ × (~a × ~b) = ~a(∇
~ · ~b) − ~b(∇ ~ )~b − (~b · ∇
~ · ~a) + (~a · ∇ ~ )~a  ∂y2 
 

 
La (76) è un caso particolare della
 ∂ 2 Az 
seconda regola. ∂z2
Possiamo continuare a giocare coll’operatore nabla ancora in seguito.
Per adesso terminiamo qui la disanima sulle magnifiche possibilità d’ot-
tenere informazioni dal nabla aggiungendo solo una formula di comodo
che potrebbe tornare molto utile nei calcoli: trattasi dell’unica combina-
zione che ancora non abbiamo visto15 , il rotore di un rotore che risulta
essere pari al gradiente della divergenza meno il laplaciano

~× ∇ ~ ×A~ =∇ ~ ∇ ~ − ∇2 A
~ ·A ~
   
∇ (76)
lezioni di fisica ii 69

Background matematico: teorema di Stokes

Ci sono due teoremi (che provengono da uno solo più generale) che
vengono usati in continuazione in elettromagnetismo. Non daremo
qui nessuna dimostrazione limitandoci ad enunciarli. Prima però una
piccola nota: ricordiamo a scanso d’equivoci che, data una qualunque
~ come quel
superficie Σ, in ogni punto possiamo definire il vettore dS
vettore che ha direzione ortogonale al piano tangente della superficie
in quel punto e modulo l’area della porzione elementare di superficie
dS, come esemplificato in Fig. (32). I due teoremi che incontreremo in
continuo da ora in poi sono

1. Il teorema della divergenza, detto anche di Ostrogradskij (impropria-


mente noto come “di Gauß”). Dice che ∀ campo vettoriale P ~ ∈ C1
definito in un intorno di V risulta che
Figura 32: Il vettore dS, ~ normale alla
Z I
~ ~ ~
~ · dS superficie Σ nel punto P.
∇ · P dV = P (77)
V ∂V

2. Il teorema del rotore, detto anche di Kelvin-Stokes. Per qualsivoglia


campo vettoriale P ~ ∈ R3 risulta essere
I "
~ · d~l =
P (∇~ ×P ~
~ ) · dS (78)
Γ Σ(Γ)

dove Γ è una funzione C∞ di una curva di Jordan in R2 e Σ(Γ) una


qualunque superficie aperta avente frontiera Γ.

Si noti in particolare che in (77) V è un sottoinsieme qualunque compatto


di Rn e ∂V la sua frontiera C∞ . Per le nostre applicazioni la dimensione
sarà sempre n = 3, perciò useremo
$
~ ·P
∇ ~ dV = ~
~ · dS
P
V Σ (V )

Facciamo per inciso notare che entrambe i teoremi (77) e (78) sono in
realtà casi particolari del teorema di Stokes, il cui enunciato riportiamo
per completezza:

“Se Ω è una varietà differenziabile orientata di dimensione n e ∂Ω la sua


frontiera, ∀ (n-1)-forma ω a supporto compatto su Ω varrà che
Z I
dω = ω
Ω ∂Ω

dove dω è una n-forma, essendo la derivata esterna della (n-1)-forma ω.”

Per capirci: se ω è una 0-forma (un campo scalare φ) il teorema di stokes


diventa il teorema del gradiente anche detto (teorema fondamentale del
70 pietro oliva

calcolo per integrali di linea) :


Z I
dφ = φ
Ω ∂Ω

Questo risultato è importantissimo in Fisica e ci assicura che l’integrale


di linea di un campo vettoriale conservativo è calcolabile valutando
il campo scalare il cui gradiente risulta il campo vettoriale dato (che
noi chiamiamo “potenziale”) agli estremi della curva su cui è svolta
l’integrazione: Z
~ · d~l = φ(B) − φ(A)
∇φ
γA−B

esattamente quanto è successo in (30).


Salendo di una dimensione, se ω è una 1-forma (tipo un campo
~ il teorema di stokes diventa il teorema del rotore già visto:
vettoriale P)
Z I
~ ~ ~
( ∇ × P ) · dS = P ~ · d~l
Σ Γ

dove la derivata esterna stavolta coincide con il prodotto vettoriale che è


Figura 33: George Gabriel Stokes (1819 - una 2-forma. E così via: se ω è una 2-forma (tipo un campo tensoriale di
1903), matematico e fisico irlandese. secondo ordine Pij ) il teorema di stokes diventa il teorema della divergenza
già visto:
$
∂Pij 3
d x= Pij ni d2 x ⇒
V ∂xi Σ (V )
$
⇒ ~ ·P
∇ ~ dV = ~ · n̂ dS
P
V Σ (V )

dove la derivata esterna stavolta coincide con la divergenza per i tre


differenziali, che è una 3-forma (identificata con una funzione reale
“divergenza”).
Riepilogando: finora in Analisi I e II avete usato teorie d’integrazione
16
la famosa varietà generica che poi di Riemann e di Lebesgue dove il fatto che lo spazio di base16 su cui
è quasi sempre Rn con n tipicamente
si integra una funzione reale è o meno orientato non ha alcun effetto
preso nei casi pratici massimo pari a 3.
sul risultato. Per affrontare Fisica II al meglio, dove si trattano cam-
pi vettoriali, bisognerebbe invece possedere una teoria d’integrazione
sensibile all’orientazione dello spazio base, dove gli integrandi non sono
più funzioni bensì forme differenziali. Inutile nascondere infine che la
scrittura stessa Z
f (x) dx
R
simboleggia una somma ( ) sull’oggetto f (x) dx ed è abbastanza inutile
nascondersi dietro la convinzione che è invece l’operatore stravagante
R
· · · dx ad agire su f (x).
lezioni di fisica ii 71

Il teorema fondamentale del calcolo integrale ad esempio dice che se


F(x) è la primitiva di f (x) allora

Zb
f (x) dx = F(b) − F(a)
a

Non vedete che interpretando f (x) dx come una 1-forma, derivata della
0-forma F(x), tutto si spiega molto più facilmente? La varietà è sempli-
cemente il segmento [a, b] ed ovviamente la frontiera di tale segmento
sono gli estremi a e b. Possiamo pensare quindi di riscrivere tutto come
Z Z
f (x) dx = F(x)
Ω ∂Ω

dove Ω ≡ [a, b] e ∂Ω ≡ a, b.
Le forme differenziali sono l’aspetto duale dei campi vettoriali e delle
loro costruzioni tensoriali. Si continua tuttavia ad insegnare Fisica II
in termini di campi vettoriali poiché un vettore è molto più facile da
visualizzare da parte degli studenti. In definitiva, la visione della Fisica
classica è ad esempio quello di descrivere il moto di un corpo che si
muove nello spazio tridimensionale da un punto A ad un punto B in
presenza, per dire, di un campo di forze con determinate proprietà. Se
il campo è conservativo il lavoro in questione dipende solo dai punti A
e B e non dal percorso intermedio, proprio come avviene per l’integrale
della 0-forma F(x).
In Fisica quello che però conta di più è la funzione V = −F(x) che
chiamiamo potenziale di f (x) di modo che f = −∇V. La ricerca della
primitiva F nel nuovo linguaggio delle forme differenziali equivale a
chiedere di trovare la 1-forma

ω f = fx (x, y, z, · · · ) dx + f y (x, y, z, · · · ) dy + fz (x, y, z, · · · ) dz + · · ·

In particolare nello spazio R3 ha interesse considerare sostanzialmente


quattro tipi di forme differenziali:

• 0-forme (funzioni ω = f (x, y, z));

• 1-forme ( dω = d f = fx (x, y, z) dx + f y (x, y, z) dy + fz (x, y, z) dz);

• 2-forme ( d dω = d2 f = hx (x, y, z) dy dz + h y (x, y, z) dz dx + fz (x, y, z) dx dy);

• 3-forme ( d d dω = d3 f = g(x, y, z) dx dy dz).

Andiamo adesso ad elencare le quattro leggi di Maxwell che illumi-


neranno tutto l’argomento che stiamo trattando. Il lettore abbia cono-
72 pietro oliva

scenza del fatto che, così come verranno adesso presentate, le seguenti
equazioni si dicono leggi di Maxwell in forma integrale:
1.) Legge di Gauß per il campo elettrico: Il flusso del campo elettrico
attraverso qualsiasi superficie chiusa è proporzionale al valore della
carica elettrica netta interna17 alla superficie stessa.

E ~ = Qint
~ · dS (79)
Σ ε0

2.) Legge di Faraday-Neumann-Lenz: La circuitazione del campo elet-


trico lungo qualsiasi linea chiusa è pari all’opposto del valore della
derivata nel tempo del flusso del campo magnetico attraverso qualsia-
si superficie aperta con frontiera la curva lungo la quale si è fatta la
Figura 34: James Clerk Maxwell (1831 -
1879) matematico e fisico scozzese. circuitazione. I "
~ ~ d ~
~ · dS
E · dl = − B (80)
∂Σ dt Σ
# 3.) Legge di Gauß per il campo magnetico: Il flusso del campo
17
chiameremo Qint ≡ V (Σ)
ρ dV.
magnetico attraverso qualsiasi superficie chiusa è sempre zero.

B ~=0
~ · dS (81)
Σ

4.) Legge di Ampère-Maxwell: La circuitazione del campo magnetico


lungo qualsiasi linea chiusa è proporzionale alla derivata del flusso del
campo elettrico attraverso qualsiasi superficie con frontiera la curva di
!
18
chiamando iint ≡ ~j · dS
~ circuitazione, più un addendo proporzionale alla corrente netta18 che
Σ
attraversa tale superficie.
I "
~ ~ d ~ + µ0 iint
~ · dS
B · dl = µ0 ε0 E (82)
∂Σ dt Σ

Come si può apprezzare, la (79) e la (81) sono flussi, la (80) e la


(82) sono circuitazioni. Le leggi di maxwell sono così importanti che
nessuno studente di qualsivoglia facoltà scientifica può permettersi di
non conoscerle a memoria. La teoria di Maxwell è probabilmente il
secondo più grande lavoro sulla comprensione della natura dopo quello
di Newton.
Solitamente si usano per semplicità indicare più brevemente i flussi
~
! !
attraverso i simboli ΦBΣ ≡ B ~ e ΦE~ ≡
~ · dS ~ in modo da poter
~ · dS
E
Σ
Σ Σ
lezioni di fisica ii 73

scrivere le equazioni di Maxwell in forma più compatta


 
~ = Qint
~ · dS
E


 Σ ε0
~

B
~ · d~l = − dΦΣ

 H
 ∂Σ E


dt
 (83)

 B ~=0
~ · dS
Σ Figura 35: Naturalmente per il terzo prin-



~


 H ~ ~
 dΦEΣ cipio della dinamica la massa m agirà su
∂Σ B · dl = µ0 ε0 dt + µ0 iint M con forza F~M−m = −F ~m−M .

Ci interessa adesso capire quale forma assume il campo elettrico nel


caso più semplice immaginabile: una singola carica puntiforme ferma
nel nostro sistema di riferimento. Per fare questo ragionamento ricor-
diamoci quanto imparato nel valutare la forma funzionale del campo
gravitazionale: avevamo imparato che una massa M libera nello spazio
agisce su un’altra massa m attraendola con forza Figura 36: Questo disegno vale solo se Q e
q hanno segni opposti (mentre le “cariche
gravitazionali” M ed m hanno sempre lo
~m−M = −G Mm r̂M−m
F (84) stesso segno e s’attraggono per via del se-
r2 gno negativo in (84), le cariche elettriche
si respingono se sono dello stesso segno
Notiamo con attenzione la scelta di notazione qui usata: se il versore
ed al contrario, se sono di segno discor-
è r̂ che va da M verso m (quindi scriviamo r̂M−m ) allora la forza su m de, si attraggono). Se Q e q hanno segno
esercitata da M (F ~m−M ) si scrive col segno meno in quanto attrattiva. uguale la forza sarà diretta al contrario
di quanto disegnato, concordemente al
Molti testi non usano il segno meno in (84) perché sottointendono di versore r̂Q−q .
usare il versore r̂m−M = −r̂M−m . È ovviamente una mera convenzione.
Ebbene risulta dall’esperimento di Coulomb con la bilancia di torsio-
ne che anche per la forza elettrica generata da cariche ferme la relazione
è uguale alla (84), essendo

~q−Q = k Qq r̂Q−q
F (85)
r2

La dipendenza da 1/r2 di una forza è oggi espressa col modo di dire


“forza coulombiana”, dal nome del fisico-ingegnere Charles Augustin
de Coulomb (1736-1806) che espresse tale dipendenza nell’ambito delle
sue ricerche su attriti e torsioni ed introdusse il celebre esperimento della
bilancia di torsione attraverso la quale studiò la relazione funzionale
della forza elettrica. In maniera del tutto analoga a quanto fatto per la Figura 37: Charles Augustin de Coulomb
forza gravitazionale, per la quale avevamo assunto il punto di vista (1736 - 1806), ingegnere e fisico francese.
 
M
Fg = G 2 · m ≡ g · m
r
con
M
g≡G
r2
detta accelerazione del campo gravitazionale di M, cerchiamo di discu-
tere il campo elettrico.
74 pietro oliva

Data la nostra posizione solita, sulla Terra, è naturale prendere il


punto di vista M = M⊕ ed r = r⊕ in (84), per la forza gravitazionale,
sicché per noi
M⊕
g = G 2 ' 9, 81 m · s−2
r⊕
con g detta accelerazione gravitazionale terrestre. Ricordiamo che G '
6, 67 · 10−11 N·m2 ·kg−2 . Ogni oggetto di massa m sulla Terra ha dunque
una forza peso pari a F~ = −m~g. Possiamo dunque fare la stessa cosa:
porci solidali con la carica Q e scrivere
 
~ Q ~·q
F = k 2 r̂ · q ≡ E
r

dove la carica q prende il ruolo di “carica esploratrice” che investiga il


campo E~ in cui entra.
Notate che in questo primo esempio triviale di carica puntiforme
ferma (o che si muove lentamente) conosciamo empiricamente la forma
del campo elettrico generato dalla sorgente:

~ = k Q r̂ N · m2
E k ' 9 · 109 (86)
r2 C2
Non sempre saremo così fortunati.
Un piccolo cenno riguardante la costante di Coulomb: il valore in
(86) viene dall’esperimento della bilancia di torsione però può essere
ricavata da argomenti teorici e in effetti il modo con cui usiamo scriverla
oggi deriva da quest’ultimo approccio. Prendiamo la prima legge di
Maxwell in (83) e usiamo come superficie chiusa una che sappiamo
facilmente integrare: una sfera di raggio r. eseguiamo l’integrale

1
E4πr2 = Q/ε0 → k=
4πε0

sicché è possibile distinguere, diciamo, il contributo a k proveniente


dalla geometria (4π) da quello della fisica vera e propria (la costante
dielettrica del vuoto ε0 ' 8, 85 · 10−12 F/m). Non è quasi mai importante
ricordarsi il valore di ε0 mentre non è perdonabile scordare che k ' 9 · 109
Nm2 /C2 .
Bisogna ripetere ancora una volta e chiaramente che la forma (85) è
relativa solo a cariche ferme (o che si muovono molto lentamente). Se
le cariche infatti si muovono solitamente le loro velocità sono prossime
a quelle della luce; la descrizione del campo elettrico diventa così più
complicata e chiama in gioco anche il magnetismo che vedremo più
avanti. Per dare un’idea scriviamo l’equazione, solamente per com-
pletezza, del campo per una carica puntiforme Q generica in moto:
lezioni di fisica ii 75

1 d2 r̂τ
   
~=− Q
E
r̂τ
+
rτ d r̂τ
+ (87)
4π0 r2τ c dt r2τ c2 dt2
dove le rτ si riferiscono alla distanza del punto nel quale calcoliamo il
campo dalla posizione che aveva la carica Q nel passato, quando l’infor-
mazione del campo che adesso arriva nel punto dove stiamo calcolando
~ è partita. Naturalmente questo tempo nel passato dista da “adesso”
E
un tempo τ = rτ /c. Come il lettore potrà apprezzare quando le cariche
si muovono la semplicità della (85) è persa e l’interpretazione del valore
del campo elettrico in un punto coinvolge interessanti speculazioni filo-
sofiche sullo spazio-tempo. Ma in tale sede non volgiamo addentrarci
in difficili, seppur stimolanti, discorsi su cosa sembra essere veramente
il tempo e lo spazio.
Il tutto si complica ulteriormente per banali motivi storici: la defini-
zione di carica è infatti derivata (in maniera contro-intuitiva) da quella
di corrente elettrica che altro non è se non il movimento di una carica.
Ma tant’è, e dobbiamo purtroppo tenerci il fastidioso e ingombrante
valore del coulomb, che risulta essere pari in assoluto alla carica che
hanno poco più di 6 · 1018 elettroni, che sono tanti. Basti pensare che
tutti gli oggetti della vita quotidiana, che possono acquisire carica per
strofinamento, tipicamente non superano come ordine di grandezza i
µC.
È altresì evidente dall’equazione F ~ = E ~ · q che le dimensioni di E
~
sono N/C. Ciò che invece non è evidente è che la forma più semplice per
descrivere gli effetti del campo elettrico su una carica elettrica non si
ottiene passando attraverso la scrittura della forma del campo. Simile
discorso per il “campo magnetico” che, vedremo, essere un tutt’uno
con quello elettrico. Rimandiamo il discorso sul campo magnetico a
dopo, anticipando tuttavia che se E ~ ha forma complicata anche solo per
una carica puntiforme, non sarà certo meglio per B, ~ che in generale si
scriverà
~ = −r̂τ × E/c
B ~ (88)

Ma torniamo alle cose semplici: le rilevanze sperimentali hanno fino


ad oggi dimostrato che una legge fondamentale della natura riguarda
la conservazione della carica elettrica. In nessun caso infatti, fin oggi,
si è mai verificato un evento nel quale non fosse conservato il numero
totale di cariche elettriche coinvolte. Per noi questa sarà una legge
cardine insieme con un’altra sempre risultante dall’esperienza: il campo
elettrico dovuto a più cariche è la somma vettoriale dei singoli campi.
Questo va sotto il nome di principio di sovrapposizione ed è una verità
sperimentale.
76 pietro oliva

Ci teniamo a far notare che il concetto stesso di trovare la forma


dei campi dalle (83) è un modo di ragionare molto periglioso poiché
ci si deve affidare alle abilità di calcolo degli integrali di superficie e
di linea. Quei rari casi in cui la simmetria particolare ci assicura che
il campo in alcune regioni è costante e ci consente di estrarre E o B
fuori dall’integrale sono i casi che vengono venduti agli studenti come
modi più o meno generali di procedere. Noi non saremo così ipocriti e
dichiareremo fin dall’inizio che nei casi reali pratici spesso non si sanno
risolvere analiticamente alcuni degli integrali delle (83). Le (83) in effetti
dovrebbero essere usate per capire delle proprietà del campo in studio
in una certa regione spaziale, ma per ottenere il valore del campo in un
dato punto bisogna ridurre le (83) in forma differenziale. Ed è quello che
adesso faremo. Naturalmente il primo passo è ridurci al caso statico,
dove nessun campo varia col tempo. Le (83) in tale caso si semplificano
notevolmente:  
 ΣE ~ = Qint
~ · dS
ε0


 H ~ ~


 ∂Σ E · dl = 0

 (89)

 B ~=0
~ · dS
Σ



~ · d~l = µ i

 H B

∂Σ 0 int

Quello che subito si dovrebbe notare è che i campi elettrico e ma-


gnetico sono adesso completamente disaccoppiati e che le proprietà
analitiche dei campi stessi sono in qualche modo speculari: il campo
elettrico ha flusso attraverso la superficie scelta proporzionale alla cari-
ca totale interna e circuitazione nulla. Il campo magnetico al contrario
ha flusso nullo attraverso qualsiasi superficie chiusa mentre la sua cir-
cuitazione è proporzionale alle correnti che la curva di circuitazione
scelta circonda. Vedremo che ciò si traduce dicendo che il campo elet-
trico in statica è l’esempio tipico di un campo vettoriale conservativo,
quello magnetico in statica è l’esempio perfetto di campo sinusoidale.
Ma questo lo capiremo meglio dopo.
Per adesso concentriamoci sul campo elettrico in statica ed in parti-
colare, adesso, sulla prima delle (89):

~ = Qint
~ · dS
E
Σ ε0

dove con Qint qui si indica la carica netta totale dentro la superficie
chiusa Σ. Ovviamente nel caso più generale dentro tale superficie ci
sarà una qualsivoglia distribuzione di densità di carica ρ = ρ(x, y, z).
lezioni di fisica ii 77

L’integrale pertanto può essere riscritto come


$
E ~= 1
~ · dS ρ(x, y, z) dx dy dz (90)
Σ ε0 V (Σ) | {z }
dV

con l’ovvia notazione indicante V (Σ) per il volume racchiuso dalla


superficie Σ.
Noi vogliamo però eguagliare gli integrandi e non dipendere affatto
dalla scelta - arbitraria per altro - della superficie Σ. Chiamiamo in
causa il teorema di Stokes che ci assicura di poter sostituire il flusso del
campo vettoriale E ~ attraverso la superficie Σ coll’integrale di volume
della divergenza del campo stesso (sul volume racchiuso da Σ). Proprio
quello che volevamo:
$
E ~=
~ · dS ~ ·E
∇ ~ dx dy dz
Σ V (Σ) | {z }
dV

sicché $ $
∇ ~ dV = 1
~ ·E ρ dV
V (Σ) ε0 V (Σ)

e adesso siamo autorizzati a togliere di mezzo gli integrali perché


avvengono sulla stessa varietà. Vale cioè

∇ ~ (x, y, z) = ρ(x, y, z)
~ ·E (91)
ε0

Questa equazione è, in forma differenziale (cioè parla del campo elettri-


co in un dato punto geometrico individuato dalla terna di coordinate x,
y e z) equivalente alla prima delle (89). L’altra equazione per il campo
elettrico in statica è la I
~ · d~l = 0
E
∂Σ
dove col senno di poi abbiamo già provveduto a chiamare la curva
di circuitazione Γ scelta arbitrariamente, con Γ ≡ ∂Σ poiché sostituire-
mo l’integrale passando dalla circuitazione ad un flusso attraverso una
qualsiasi superficie aperta Σ che abbia come frontiera Γ; quindi proce-
diamo come prima e utilizziamo il teorema di Stokes aumentando la
dimensione del dominio d’integrazione e passiamo dalla circuitazione
al flusso del rotore (in statica non si capisce subito il perché scegliere
questa trasformazione ma se guardiamo le (83) è tutto chiaro: vogliamo
eguagliare l’integrale di destra con quello di sinistra che risulta essere
la derivata d’un flusso):
I "
~ · d~l =
E ~ ×E
∇ ~
~ · dS
∂Σ Σ
78 pietro oliva

data l’arbitrarietà della superficie d’integrazione e dovendo essere tale


19
È un uso ormai diffusissimo scrivere integrale nullo, questa equazione si riduce a19
che il rotore di un campo conservativo
è zero mentre a rigor di formalismo do- ~ ×E
∇ ~=0 (92)
vremmo scrivere ~0 dato che il vettor nul-
lo non è uno scalare. Però lo studente
ci perdoni se facciamo uno strappo alla Ecco che abbiamo trovato tutte le informazioni necessarie a caratteriz-
regola e seguiamo l’uso comune di scri-
~ è “pari
vere che un vettore (il rotore di E)
zare un campo elettrico in statica. Basta risolvere il sistema d’equazioni
a 0”, sottointendendo che ognuna delle
~ ·E
~= ρ

sue componenti è nulla.  ∇
ε0
(93)
~ ×E
 ∇ ~=0

e si individua in mono univoco il campo di cui stiamo trattando.


Naturalmente il sistema (93) rappresenta quattro equazioni scalari

∂Ex (x,y,z) ∂E (x,y,z) ∂Ez (x,y,z)



ε0 ρ(x, y, z)
1


 ∂x + y ∂y + ∂z =

∂E
 ∂Ez − y = 0

  

∂y ∂z
 (94)
∂E ∂E

x z



 ∂z − ∂x =0

 ∂Ey − ∂Ex = 0

  
∂x ∂y

~ in casi particolari
Campo E

Riassumendo: abbiamo discusso le generalità della materia che stia-


mo trattando, focalizziamo la nostra attenzione sull’elettrostatica. Spe-
rimentalmente sappiamo esserci due tipi di carica elettrica, nominati
carica “positiva” e “negativa” e risulta che

• cariche dello stesso tipo si respingono;

• cariche di tipo opposto si attraggono.

Il campo elettrico risulta altresì obbedire al principio di sovrapposizione


per cui risulta che in un punto P il campo sarà dato dalla somma dei
campi in quel punto dovuti alle singole cariche q j presenti nello spazio:

~P =
X
~ jP = 1 X qj
E E r̂ jP (95)
j
4πε0
j
r2j

Sperimentalmente poi risulta che la carica elettrica non può variare


con continuità poiché risulta essere in natura quantizzata: è infatti pre-
sente solo in multipli del valore assoluto della carica fondamentale che
risulta essere quella dell’elettrone e− ' −1.60 · 10−19 C.
Per risolvere problemi di elettrostatica bisogna quindi conoscere la
posizione delle cariche fisse ed applicare la legge di Coulomb (85) per
poi sommare i campi secondo (95). Tutti gli esercizi di elettrostatica
lezioni di fisica ii 79

con sole cariche puntiformi sono dunque non solo triviali ma a nostro
avviso anche tediosi al limite del sopportabile. È solo questione di saper
usare i vettori, quindi sono null’altro che esercizi di geometria.
Purtroppo normalmente la posizione delle cariche nello spazio non è
nota bensì dipenderà dal particolare materiale, in particolare da com’è
~ internamente al materiale e/o nello spazio. Il
fatto il campo elettrico E
~
campo E tuttavia dipende da dove sono le cariche e il problema sembra
essere un circolo vizioso. La realtà è che dobbiamo essere onesti con lo
studente e dire la verità: l’approccio classico all’insegnamento di Fisica
II prevederebbe adesso di spiegarvi come calcolare il campo elettrico
nei:

• casi in cui c’è una carica puntiforme o più cariche puntiformi fisse in
posizioni note nel piano e nello spazio.

• casi in cui c’è un dipolo fisso in posizione nota nello spazio (tipica-
mente solo lungo l’asse del dipolo e lungo l’asse ortogonale passante
per il baricentro del dipolo stesso).

• casi in cui c’è una distribuzione di cariche in geometrie simmetriche


facili da integrare e fisse in posizioni note nello spazio. In particolare:

– campo lungo l’asse di un anello carico.

– campo ad una certa distanza da un piano carico o una linea carica


infinita.

– campo nel centro di curvatura di un arco carico.

– campo ad una certa distanza da un segmento carico.

– campo lungo l’asse di un disco carico.

– casi misti di quelli visti sopra come esercizi.

ma questi sono solo casi particolari d’interesse meramente didattico e


studiati principalmente per prendere confidenza con le (89). Comunque
sia procederemo sulla via classica affrontando il calcolo di molti dei
succitati casi accademici.

~ dovuto a cariche puntiformi


E

Prendiamo il caso più semplice. Diciamo di avere due protoni q1 e q2


sono a distanza R = 100 nm l’uno dall’altro. Ad un certo punto si pone Figura 38: Quanto vale la forza risultante
su q1 ?
un elettrone q3 a 3/4 di distanza da q1 lungo la direzione congiungente
i due protoni.
80 pietro oliva

Ci si chiede di trovare la forza agente su q1 . Come detto basta


considerare i due contributi rispetto q1 distintamente e poi sommarli:

e2 1 42 2.6 · 10−38 1
   
7
Fq1 = 1− ' − ' −2.25 · 10−16 N
4πε0 R2 32 9 · 10−9 10−14 9

come si può apprezzare il segno è negativo perché la forza complessiva


che sente q1 è attrattiva (e quindi il versore della forza applicata in q1
punta in verso opposto a quelli centrati su q3 e q2 che puntano da destra
Figura 39: Momento di dipolo elettrico. verso sinistra, verso q1 ). Tutti gli altri esercizi sono varianti di questo
dove entrano in gioco le gestioni delle componenti dei vettori quand’essi
non sono tra loro, come in questo caso, paralleli. C’è tuttavia un solo
altro caso che vale la pena discutere: la configurazione particolare che
prevede due cariche in modulo uguali (sia q) ma di segno opposto e
fisse tra loro ad una distanza reciproca d. Tale configurazione dicesi
dipolo elettrico. La quantità vettoriale ~ p = qd,~ dove d~ è il vettore che
va dalla carica negativa a quella positiva, prende il nome di momento
di dipolo.
Naturalmente, per quanto detto prima, il campo in un punto generico
P è facile da trovare utilizzando il principio di sovrapposizione dei
campi  +
|q− | −

Figura 40: Il campo in un punto generi-
~ 1 |q | +
co P è calcolabile con la sovrapposizio- EP = r̂ − − 2 r̂
4πε0 (r+ )2 (r )
ne degli effetti dovuti alle due cariche
separatamente. Però il caso accademico è quello di un punto P giacente sull’asse del
dipolo:  +
|q− | −

~P = 1 |q | +
E r̂ − r̂ =
4πε0 (r+ )2 (r− )2
 
q 1 1
= − r̂
4πε0 (r − d/2)2 (r + d/2)2
Quando siamo in un punto lungo l’asse del dipolo infatti la direzione
del campo è sempre la stessa perciò possiamo scordarci della parte
Figura 41: Il capo in un punto P dell’asse vettoriale e scrivere semplicemente:
del dipolo si trova facilmente riferendosi
!
al centro del dipolo.
q 1 1
EP = − (96)
4πε0 r2 (1 − 2r
d 2
) d 2
(1 + 2r )

lavorando la (96) troviamo che


!
q 1 1
EP = − =
4πε0 r2 d 2
(1 − 2r ) d 2
(1 + 2r )
 
!
d 2 d 2 d 2 d 2
q (1 + 2r ) − (1 − 2r ) q  (1 + 2r ) − (1 − 2r ) 
= = i2  =
4πε0 r2 d 2 d 2 4πε0 r2
h
(1 + 2r ) (1 − 2r ) (1 + d d
2r )(1 − 2r )
lezioni di fisica ii 81

 
d d2 d d2 d d2 2
1 + dr − 4r
d
!
q 1+ r + 4r2
−1+ r − 4r2 q 1+ r + 4r 2 − 2
= =    =
4πε0 r2 d2 4πε0 r2 d2
1− 4r2
1 − 4r 2

! ! !
q 2 dr qd 1 p 1 rd p
= d2
= d2
= d2
−−−→
4πε0 r2 1− 2πε0 r3 1− 2πε0 r3 1 − 4r2 2πε0r
3
4r2 4r2
ovvero se ci allontaniamo abbastanza dal baricentro del dipolo lungo
l’asse, dunque, siamo autorizzati a scrivere
p
EP = (97)
2πε0 r3

quello che però ci preme sottolineare è che facendo i calcoli risulta per
qualsiasi punto abbastanza distante dal centro del dipolo, un campo
elettrico
EP ∝ 1/r3

ed è questo che bisogna ricordare. Faremo meglio i conti quando


parleremo del potenziale elettrico.

~ dovuto ad anello carico


E

Entriamo adesso in un modo di ragionare un po’ diverso: nel macrosco-


pico non conviene pensare alle singole cariche bensì a pezzetti piccoli
Figura 42: Anche se la carica elettrica è
per noi, ma abbastanza grandi da contenere tantissime cariche elemen-
quantizzata, per molti problemi ci con-
tari. Prendiamo una geometria facile: un anello carico. Prendiamo un viene considerarla come un qualcosa di
punto facile: lungo l’asse dell’anello. Essendo questo un oggetto 1D continuo di cui possiamo considerare la
dq densità per unità di lunghezza, area o vo-
(che vive in 3D) ci conviene definire una densità lineare λ = ds di mo- lume. Possiamo fare questa assunzione
do che possiamo valutare il contributo al campo elettrico in un punto fintanto che non ci si interessi degli ef-
fetti su scale troppo piccole (comparabili
P dato dalla “carica elementare” dq = λ ds. Risulta facile scrivere il
con gli spazi tra le singole cariche della
contributo dE coulombiano della carica dq: “distribuzione”).

dq
dE =
4πε0 r2

Ma guardiamo la geometria del problema: certamente la componente


~ sin θ è destinata sempre ad annullarsi a causa del contributo sim-
dE
metrico dell’altra carica dq0 speculare, situata cioè a π rispetto a dq.
L’unica cosa che abbia senso è dunque integrare non tutto il contributo
dE bensì solo la sua proiezione dE cos θ:

dq
dE cos θ = cos θ
4πε0 r2

la variabile che viene naturale usare per l’integrazione è l’angolo φ che


serve per far ruotare il pezzo dq sull’anello: faremo variare dunque
φ tra −π e π oppure tra 0 e 2π -indifferentemente - per ruotare R. Ma
82 pietro oliva

prima dobbiamo massaggiare l’equazione per il differenziale del campo


poiché dentro dq c’è una dipendenza nascosta da φ.
Dato che dq = λ ds = λR dφ sostituiamo

λR dφ
dE cos θ = cos θ
4πε0 r2

solitamente il valore del campo che si misura per il punto P lo si vuole


in termini di z e non di r. Quindi conviene esprimere tutto in funzione
di soli due (R e z) dei tre parametri R, z ed r:

λR dφ
dE cos θ = cos θ
4πε0 (R2 + z2 )

Adesso possiamo facilmente cadere in un tranello: in questo problema


cos θ non varia bensì è costantemente pari a z/r. Non bisogna confon-
dersi con gli angoli. In realtà qui dobbiamo semplicemente sostituire la
pericolosa scrittura “cos θ” con

λR dφ z
dE cos θ = =
4πε0 (R2 + z2 ) (R2 + z2 )1/2

λRz
= dφ
Figura 43: Capire quali sono le simme- 4πε0 (R2 + z2 )3/2
trie di ogni problema non solo aiuta ma a Adesso sì che siamo autorizzati a procedere con l’integrazione in dφ su
volte è essenziale per la riuscita dei conti.
tutto l’angolo giro:

λRz
Z Z
Ez, anello = ( dE cos θ) dφ = dφ =
2π 0 4πε0 (R2 + z2 )3/2

2πλRz q z
= =
4πε0 (R2 + z2 )3/2 4πε0 (R2 + z2 )3/2
donde nell’ultimo passaggio s’è tenuto conto della definizione di densità
lineare di carica.
Naturalmente, come da prassi, bisogna sempre controllare i casi limite.
Ci si deve chiedere: cosa ci si aspetta al centro dell’anello? Ovviamente
la risposta è un campo nullo. Infatti sostituendo nell’equazione
q z
Ez, anello = (98)
4πε0 (R2 + z2 )3/2

il valore z = 0 s’otterrà il modulo nullo per E. E cosa ci si aspetta molto


lontani dell’anello? Ovviamente la risposta è un campo coulombiano.
Infatti sostituendo in (98) z  R si trova

q z 1 q
Ez, anello → =
4πε0 z3 4πε0 z2
lezioni di fisica ii 83

~ dalla forma radiale di un campo dovuto a


cioè gli scostamenti di E
carica puntiforme sono locali ovvero “scompaiono” se ci si allontana
molto dalla distribuzione di carica, come ci si deve attendere.

~ dovuto a disco carico


E

Vediamo adesso la stessa procedura per un’altra configurazione parti-


colarmente facile: un disco carico di densità superficiale σ = q/πR2 .
Calcoliamo come prima il campo lungo l’asse semplicemente ricordan-
doci che per l’anello infinitesimo (in giallo in Fig.44). varrà il campo
(98):
dq z
Ez, anello infinitesimo =
4πε0 (r2 + z2 )3/2
Notate che l’unica cosa che è cambiata è che q → dq = σ dA = σ2π r dr.
Non ci resta che sostituire

σz
2π r dr
Ez, anello infinitesimo = =
 0 (r + z2 )3/2
4πε

2

σz r dr
= = dEz,disco Figura 44: Il caso del disco si affron-
2ε0 (r2 + z2 )3/2 ta sempre dopo quella dell’anello perché
Adesso dobbiamo integrare l’ultimo si risolve integrando i contributi
infinitesimi al campo dovuti alla prima
R distribuzione.
σz
Z Z
r
E= dEz,disco = dr
sul disco 2ε0 0 (r2 + z2 )3/2

ricordando i preziosi insegnamenti di analisi sostituiamo y = (r2 + z2 )


quindi dy = 2r dr:

(R2 +z2 )
σz
Z
1/2
E= (2r dr) =
2ε0 z2 y3/2 | {z }
dy

(R2 +z2 )
σz
Z
= y−3/2 dy
4ε0 z2
e quest’ultimo integrale risulta triviale:

σ z h −1/2 i(R2 +z2 )


E= −y =
2ε0 z2

σ z h −1 σ
 
i z
= z − (R2 + z2 )−1/2 = 1− √
2ε0 2ε0 R2 + z2
Come al solito adesso bisogna controllare che alle condizioni limite tale
soluzione abbia senso: cosa succede alla soluzione trovata per il campo
84 pietro oliva

in un punto dell’asse d’un disco carico se z tende a infinito?

σ
 
z
Ez,disco = 1− √ (99)
2ε0 R2 + z2
ovviamente
zR σ
Ez,disco lontano −−−→ (1 − 1) = 0
2ε0
come si vede la (99) tende naturalmente a zero. Cosa succede invece alla
soluzione trovata per il campo in un punto dell’asse d’un disco carico
se z tende a zero (cioè ci si mette molto vicino al disco)?
zR σ
Ez,disco vicino −−−→ (100)
2ε0

come si vede dalla (100) il campo nel limite per R → ∞ tende ad un


valore costate. Ricordiamoci questo risultato perché lo incontreremo
nuovamente molto presto ogni volta che ci si troverà molto vicino ad
una superficie carica.

~ dovuto a segmento carico


E

Calcoliamo adesso il campo elettrico dovuto ad un segmento lungo L di


densità lineare di carica λ: Come già fatto prima calcoliamo i contributi
Figura 45: Similmente a quanto visto
per l’anello calcoliamo il contributo del dei singoli pezzi infinitesimi, di carica dq = λ dx e poi sommiamo. Sce-
generico tratto dx per poi integrare. gliamo come da figura il sistema di riferimento e valutiamo il campo
nel punto P. Naturalmente possiamo scrivere per ogni dx:

~= 1 dq 1 λ dx
dE r̂ = r̂
4πε0 r2 4πε0 r2

Il campo infinitesimo può essere scomposto nelle due dimensioni:

1 λdx

 dEx = − 4πε
0 r2
cos θ
1 λdx
 dE =
y 4πε0 r2 sin θ

Naturalmente vogliamo eliminare θ che è scomodo: ricordiamo che


r cos θ = x e r sin θ = y sicché

1 λdx x λ

 dEx = − 4πε xdx
0 r2 r
= − 4πε 0 (x2 + y2 )3/2

 dE y = 1 λdx y λ ydx
4πε0 r2 r = 4πε0 (x2 + y2 )3/2

Il campo infinitesimo va adesso integrato. Calcoliamo il contributo


lungo x:
Z b Z b
λ xdx
Ex = dEx = − 2 + y2 )3/2
a 4πε0 a ( x
lezioni di fisica ii 85

La difficoltà è adesso ridotta alla conoscenza dell’analisi: risolviamo


l’integrale sostituendo ξ = x2 + y2 , dξ = 2xdx
Z b Z b  b
xdx 1 dξ 1 1 1
= =− √ = p − p
a (x2 + y2 )3/2 2 a ξ3/2 ξ a 2
a −y2 b − y2
2

e finalmente scriviamo il contributo del campo elettrico lungo x come


!
λ 1 1
Ex = p − p
4πε0 b2 − y2 a2 − y2

Il contributo lungo le y è di gran lunga più difficile. Noi affrontiamo il


calcolo solo per far vedere come le cose si semplifichino con l’uso delle
leggi di Maxwell. Prendete il conto che segue come un esempio delle
tipiche difficoltà di calcolo che s’incontrano in questa materia.
Calcoliamo
Z b Z b
λy dx
Ey = dE y =
a 4πε0 a (x2 + y2 )3/2

Stavolta non abbiamo il differenziale “servito” a numeratore perciò


dobbiamo inventarci qualcosa che ci liberi del quadrato. Ci viene
in mente di aggrapparci a funzioni trigonometriche perché vorrem-
mo sfruttare il fatto che cos2 α + sin2 α = 1 (che descrivono la circon-
ferenza x2 + y2 = 1), solo che al denominatore abbiamo x2 + k con
k > 0 da sostituire con un y2 perciò ci serve un tipo di funzioni tali
che f12 (α) − f22 (α) = 1 e ciò dovrebbe subito illuminarci perché l’e-
quazione dell’iperbole equilatera è appunto x2 − y2 = 1 e viene de-
scritta dalle parametriche (cosh t, sinh t) che hanno la proprietà di fare
cosh2 t − sinh2 t = 1. Adesso ci siamo: abbiamo trovato la sostituzione
furba: x = y sinh ξ, quindi dx = y cosh ξdξ. Risolviamo l’indefinito:

λy λy y cosh ξdξ
Z Z
dx
Ey = = =
4πε0 2
(x + y )2 3/2 4πε0 y (sinh2 ξ + 1)3/2
3

λ cosh ξdξ λ
Z Z

2
=
4πε0 y (cosh ξ) 3/2 4πε0 y cosh2 ξ
R dξ
L’ultimo è un integrale notevole di soluzione
cosh2 ξ
= tanh ξ + co-
stante. Basta adesso scrivere
λ λ sinh ξ λ sinh ξ
   
Ey = [tanh ξ] = = √ =
4πε0 y 4πε0 y cosh ξ 4πε0 y sinh ξ2 + 1
  " #b !
λ  x/y  λ x λ b a
= q 2 = p = p − p
4πε0 y x 4πε0 y x2 + y2 a 4πε0 y b2 + y2 a2 + y2
2 +1
y
86 pietro oliva

Il campo elettrico totale nel punto P sarà ovviamente dato dal vettore
che ha le due componenti trovate E ~ P = (Ex , E y )
 
√ 1 1
− √
~P = λ  b2 −y2 a2 −y2
E (101)

 b/y a/y
4πε0

√ − √2
b 2 + y2 a + y2

Ricordiamoci a che cosa serve trovare queste espressioni per il campo:


il senso è che mettendo una carica q nel punto P su tale carica ci sarà
la forza F~ = qE~ P = mq~a. Conoscendo il campo elettrico conosciamo
il moto della carica (ovviamente restando sempre in un contesto non
relativistico).

~ campo vicino ad un piano carico


Linee di flusso e Flusso di E:

Dev’essere a questo punto chiaro l’effetto che ha un campo elettrico su


una carica in esso immersa: il campo accelera la carica tramite una forza
~ = qE.
F ~ Se la forma di E ~ fosse facile avremmo già finito di parlarne.
Purtroppo abbiamo visto che le forme dei campi in genere sono molto
Figura 46: Come in tutte le cose la nostra complicate che a causa di ciò dobbiamo affrontare l’elettromagnetismo
mente abbisogna di appigli grafici per vi-
da un altro punto di vista e specificatamente dal punto di vista delle
sualizzare il campo. Meglio sarebbe riu-
scire a capire il suo comportamento usan- proprietà geometrico-gruppali dei campi vettoriali. Il trucco che stiamo
do solo le formule, però la maggior parte usando per gestire la difficoltà intrinseca dell’uso di forme funzionali
di noi vuole disegnare per capire. Si può
quindi scegliere più o meno a caso dei complicate del campo è accorgerci che anche se il campo è difficile da
punti circa equidistanti e disegnare per usare, la relazione che lega il valore che assumerà in un punto molto
ogni punto il vettore applicato del campo
vicino ad un altro dato, è molto facile da scrivere. Inoltre attraver-
come da figura, ed in seguito connette-
re con linee ogni vettore, nel punto ove so queste proprietà differenziali, caratterizzeremo in maniera completa il
è applicato, così da disegnare le linee di campo. Possiamo fare di più: disegnamo curve che in ogni punto hanno
flusso.
come tangente le direzioni dei vettori applicati. In tale modo avremo
le linee di flusso ma perdiamo l’informazione sull’intensità del campo
(data prima dalla lunghezza delle frecce). Possiamo recuperare l’infor-
mazione semplicemente colorando in scala di colore le linee di flusso
oppure decidere che il loro numero per unità di area è proporzionale
all’intensità del campo. Con la possibilità di rappresentare il campo
attraverso linee di flusso andremo adesso a visualizzare un modello per
il comportamento di un dipolo elettrico immerso in un campo esterno.
Sia il campo uniforme (possiamo sempre scegliere una regione che
approssimi un campo uniforme se il dipolo è abbastanza piccolo). Ve-
Figura 47: Il dipolo tenderà a ruotare e ad dremo che le uniche cose che ci servono sono E ~ e~
p. Non è difficile
allinearsi al campo in cui è immerso (nella
vedere come la presenza del braccio lungo d/2 provochi un momento
figura in verso orario, quindi il momento
torcente è entrante nel foglio). di torsione ~τ = ~ ~
p × E:

d p
τ = 2 F sin θ → Fd sin θ = Eq sin θ = Ep sin θ
2 q
lezioni di fisica ii 87

Questa è una di quelle formule che spesso compaiono negli esercizi ed


è dunque molto utile appuntarsela.
Come già accennato, ci sono due fondamentali proprietà per ogni
dato campo vettoriale:

1. il suo flusso.

2. la sua circuitazione.

Parleremo adesso ancora un po’ della prima di queste proprietà. Im-


maginate una qualunque superficie immaginaria chiusa (una sfera va
benissimo). Immaginatela all’interno di un recipiente pieno d’acqua.
Se adesso la stessa sfera la immaginiamo in un fiume il risultato non
cambierà poiché per quanto fluido entrerà da una direzione, tanto ne
uscirà nella direzione opposta. Come possiamo tradurre in matematica
questa informazione? Innanzitutto stabiliamo di chiamare con dA l’e-
lemento superficiale infinitesimo. A noi però serve un vettore e allora
definiremo dA ~ come il vettore di modulo pari all’area infinitesima e
Figura 48: Non serve molto per render-
direzione quella del versore uscente (perpendicolare al piano tangente
si conto che il flusso netto di fluido che
in quel punto e fuori dalla superficie). Risulta evidente che il flusso esce o che entra in entrambe i casi qui
netto è dato dalla somma aritmetica delle componenti normali entranti raffigurati è nullo.

e uscenti del campo secondo la regola


Z
dΦ = E ~ · dA~ → Φ= ~
~ · dA
E
Σ

Se quello che entra è maggiore di ciò che esce diremo che il flusso è
negativo, viceversa il flusso sarà positivo (questa convenzione viene
dall’aver scelto la normale uscente).
Calcoliamo adesso il flusso attraverso una qualunque superficie chiu-
sa (per adesso scegliamo una sfera) con all’interno una singola carica
puntiforme - sia essa positiva, senza perdita di generalità - posta nel cen-
tro. Ovviamente in questo caso ogni singolo elemento dA ~ sarà parallelo Figura 49: Immaginando di dividere la
ad E~ che sarà costante su tutta la superficie della sfera. Conseguen- nostra superficie in tasselli elementari
(potete pensare di ricoprirla di matto-
temente il flusso risulta essere Φ = 4πR2 · E. Esplicitando il campo nelle) ogni elemento avrà il suo vettore
elettrico infine troviamo: dA~ ed il campo entrante o uscente avrà
un rappresentante applicato nello stesso
Q Q ~ In figura nel caso
Φ = 4πR2 · E =  2 punto del vettore dA.

4πR
 = (102)
 0 R2
4πε ε0 3) il contributo al flusso sarà negativo per-
~ entra, in 2) il contributo sarà nullo

ché E
Il risultato (102) è importantissimo: innanzitutto ci dice che il flusso perché E ~ ⊥ dA, ~ infine in 1) il contributo
sarà positivo perché il campo è uscente.
non dipende dal raggio. Avremmo potuto mettere la carica ovunque
all’interno della sfera ottenendo lo stesso risultato. In secondo luogo
avremmo anche potuto scegliere una qualunque superficie chiusa; in
effetti qui ci aiuta vedere la cosa coll’analogo del flusso di fluido: quan-
to fluido uscirà dipende solo dalla sorgente indipendentemente da che
88 pietro oliva

tipo di superficie mettiamo intorno. Non basta: possiamo dire di più.


Cioè che, dato il principio di sovrapposizione, se ho più cariche interne
alla superficie il flusso sarà semplicemente pari alla carica netta risul-
tante diviso ε0 . Non importa quanto strana sia la superficie né quanto
bizzarra sia la distribuzione di carica interna. Questo è il teorema di
Gauß per il campo elettrico
I P
~) =
Φ Σ (E E ~ = i Qi
~ · dA (103)
Σ ε0

Naturalmente l’uso principale che si fa di tale legge è quello di trovare


il campo E~ una volta calcolato il flusso. questa strada è però percorribile
solo se vi sono determinate forme di simmetria tali da farci risolvere
facilmente l’integrale e permetterci di scrivere il campo in funzione del
resto. Tipicamente le simmetrie che si usano quasi sempre sono

• sferica;

• cilindrica;

• cubica.

In effetti avremmo già potuto ritrovare la legge di Coulomb semplice-


Figura 50: Quello che finora abbiamo im-
mente da quanto visto nella (102), usando simmetria sferica, dove era
maginato come lo scorrere di un fluido è
in realtà un flusso di velocità. Col campo 4π r2 E = q/ε0 da cui E = q/4πε0 r2 .
elettrico è possibile mantenere tutti que- Prendiamo adesso un piano “infinito” con densità superficiale di
sti risultati a patto che ci si ricordi che
non sta scorrendo in effetti nessuno tipo carica σ. Vogliamo trovare il valore del campo elettrico a distanza z dal
di fluido perché il campo elettrico non è piano. Scegliamo un’opportuna simmetria per la nostra superficie. È
la velocità di nulla. Tutto sommato però
evidente che l’unico contributo sarà quello delle basi del cilindro di area
l’analogia è un buon appiglio mentale se
bisogna ricordarsi le convenzioni. In casi 2πR2 :
di simmetrie notevoli il campo si calcola 2 · 2EπR2 = 2πR2 σ/ε0 →
con una facilità disarmante.

σ
→ E= (104)
2ε0
Il risultato (104) è proprio il limite per z molto piccolo del campo trovato
per il disco carico (v. (100)), e uguale risultato avremo per qualsivoglia
forma intagliata in un piano carico a patto di porsi abbastanza vicini
da non sentire gli effetti di bordo. Allontanandosi da la generica distri-
buzione superficiale (necessariamente finita se reale) alla fine vedremo
il campo andare giù come 1/r2 , come fosse solo una carica puntifor-
me. Questi due comportamenti devono sempre essere verificati quan-
do trovate una forma per il campo elettrico vicino e lontano da una
qualsivoglia distribuzione bidimensionale di carica.

r→0 σ r→∞
Emolto vicino −−−→ Emolto lontano −−−−→ 0
2ε0
lezioni di fisica ii 89

~ dovuto a linea carica


E

Forti di aver già trovato il campo elettrico per segmento carico, vediamo
adesso una linea carica infinita di densità lineare λ: Anche qui il cilindro
ci aiuta; l’unico contributo sarà, stavolta, quello attraverso la superficie Figura 51: Un altro tipico caso in cui il
laterale: campo elettrico si trova banalmente.
E2πrL = λL/ε0

Anche questo risultato è il limite per b → ∞ e a → −∞ della (101) dove


r era stato chiamato però y.

λ
E= (105)
2πε0 r

Potenziale elettrico V ed energia potenziale U

Abbiamo visto come il fatto che un campo vettoriale sia irrotazionale


su un semplicemente connesso (cioè un campo conservativo) debba
necessariamente essere il gradiente di un certo campo scalare. Tenendo
Figura 52: Per portare una carica prove-
bene in mente questo risultato - che è puramente geometrico - andiamo niente da infinito ad una certa distanza d
ad introdurre il potenziale elettrico che, dichiariamo fin d’ora, sarà in da una seconda, compiremo lavoro.

questo corso chiamato con la lettera V maiuscola. Immaginiamo due


cariche q positive a distanza d una dall’altra. È evidente che per portare
le due cariche in questa configurazione, provenendo da infinito, si debba
compiere un certo lavoro. Dato che le due cariche hanno stesso segno
tendono a respingersi. Portare la prima carica in un punto qualunque
non richiede alcun lavoro. La seconda però deve muoversi nel campo
della prima e compiremo lavoro per porla nel punto distante d dalla
prima. Tale lavoro può facilmente essere calcolato:
d ∞
q2 q2 q2 1
Z Z
dr
L=− dr = =
∞ 4πε0 r2 4πε0 d r2 4πε0 d

Più in generale, qualunque siano le cariche, avremo con lo stesso ragio-


namento che per portare da infinito una delle due cariche a distanza
generica r dall’altra compiremo lavoro (positivo o negativo)

q1 q2 1
L=
4πε0 r

Questo risultato non dipende dal particolare cammino che compiremo


in quanto il campo è conservativo. Basta infatti notare che ∀ curva
~ · d~s = 0.
H
chiusa S valga S E
Adesso bisogna fare attenzione perché c’è un’altra quantità dal nome
simile ma concettualmente molto, molto diversa. La quantità appena
trovata viene chiamata energia potenziale elettrostatica ed indicata con
90 pietro oliva

la lettera U:
q1 q2 1
L≡U= (106)
4πε0 r
U è null’altro che il lavoro che devo compiere per portare una delle due cariche
a distanza r dall’altra. Nient’altro. Inoltre, ovviamente, U si misura in
joule.
Possiamo pensare di scrivere invece il potenziale elettrico dovuto a
q1 , ad esempio, come l’energia potenziale elettrostatica per una unità di
carica che bisogna avvicinare da infinito a r: in pratica dividiamo U per
q2 ed otteniamo il potenziale elettrico

U q 1
V= = 1 [V ] = J/C = V
q2 4πε0 r

V è null’altro che il campo scalare il cui gradiente è l’opposto del campo elet-
trico e si misura in volt. Osservando la (106) si capisce immediatamente
che il lavoro svolto per portare la generica carica q a distanza r dalla
carica che genera il potenziale è L = qV.
Se muoviamo una carica q dal punto a al punto b all’interno di una re-
gione dove c’è potenziale elettrico la variazione del lavoro sarà dunque

∆La,b = q∆Va,b = q(Vb − Va ) (107)

e quindi in maniera del tutto analoga per quanto visto in Fisica Generale
I, si può scrivere la conservazione dell’energia meccanica come

Ki + qVi = K f + qV f → Ki − K f = q(V f − Vi ) q∆V = −∆K



(108)
Figura 53: Uno dei modi possibili di rap- A questo punto ci si potrà chiedere il perché sia necessario infasti-
presentare su un piano le quote dei rilievi dirci da soli inventandoci un nuovo oggetto da ricordare, il potenziale
montuosi. Si procede in modo del tutto
analogo per i potenziali elettrici (figura
elettrico? Ci sono molti buoni motivi:
sotto) dove nella figura di sinistra sono
indicate solo le linee di livello equipoten- ~ è un vettore quindi ha tre componenti su cui lavorare, V uno scalare
• E
ziali, a destra anche le linee di flusso che cioè una sola equazione;
risulteranno sempre perpendicolari alle
prime, indicando queste l’inviluppo delle
direzioni di massima pendenza. • è generalmente più facile integrare funzioni che hanno 1/r che 1/r2
nella loro espressione;

~
~ = −∇V
• spesso è più rapido trovare V e successivamente E

• capendo che esiste V facilmente ottengo la prima equazione di Max-


~ ×E
well in elettrostatica ∇ ~ = 0.

Per completare la nostra descrizione del campo elettrico a livello geo-


metrico ci resta da considerare la regione spaziale dove il potenziale è
costante. Questo darà una visione simile a quella che abbiamo quando,
lezioni di fisica ii 91

guardando una mappa geografica fisica, notiamo le linee di stesso livel-


lo d’altitudine (le isoipse) e quindi capiamo facilmente dove son i rilievi.
Segue direttamente dalla (107) che muovendoci lungo una superficie
equipotenziale non compiremo lavoro, conseguentemente la velocità
della carica che si sta muovendo non subirà variazioni, non venendo
accelerata (108). Le superfici equipotenziali devono per quanto detto
essere necessariamente sempre ortogonali alle linee di campo indicando
queste l’inviluppo delle direzioni di massima pendenza.
Naturalmente tutto quello che avete studiato in Fisica Generale I
continua ad essere vero e deve tornare con quel che abbiamo detto: il
~ · d~s ma per quanto ci riguarda qui F
~ = qE
~
R
lavoro di una forza è L = F
perciò
Z f Z f
∆L = ~ · d~s = q
F ~ · d~s →
E
i i
Z f
→ V f − Vi = − ~ · d~s
E
i
dove il segno meno s’ottiene ricordandoci che ∆L = −q∆V. Il potenziale
elettrico è sempre definibile come differenza tra i valori che assume tra
due punti, per convenzione si prende il riferimento all’infinito (punto
iniziale) tale che, ad esempio risulti Vi = 0. Fatto ciò possiamo usare la
seguente equazione
Z P
VP = − ~ · d~s
E (109)

per trovare di volta in volta il potenziale in un punto P dal campo
elettrico. La (109) si semplifica notevolmente in un campo uniforme
dove la direzione di E ~ è sempre parallela allo spostamento d~s di modo
da consentirci la scrittura
Z b Z b
Va − Vb = − ~
E · d~s = −E dx = −E(b − a) ≡ −E∆x (110)
a a

avendo chiamato (b − a) = ∆x. Quindi in un campo uniforme

∆V = −E∆x

Troviamo per esercizio il potenziale di un dipolo in un punto P


Figura 54: Quando il punto nel quale vo-
abbastanza distante rispetto le dimensioni del dipolo stesso: gliamo calcolare il potenziale (ed il campo
elettrico) è molto lontano rispetto le di-
q d cos θ
 
1 q q q r(−) − r(+) mensioni di d, i due raggi posizione sono
VP = − = '
4πε0 r(+) r(−) 4πε0 r(−)r(+) 4πε0 r2 approssimabili come paralleli.

Quindi per un dipolo, il potenziale in un punto sufficientemente distan-


te ha un andamento come 1/r2 conformemente a quanto trovato nella
92 pietro oliva

(97) dove infatti il campo scala come 1/r3 .

1 p cos θ
V= (111)
4πε0 r2

Dato che E = −∇V tutto torna: la derivata di 1/r2 va infatti come 1/r3 .

Figura 55: La capacità elettrica è definita


Capacità elettrica
esattamente come quella termica: tanto
più è alta quanto più si riesce a porta- Abbiamo già visto com’è il campo elettrico per un piano infinito carico.
re cariche nel condensatore senza variare
Il campo sarà ortogonale al piano e di valore costante E = σ/2ε0 entrante
di troppo il potenziale. Affacciando due
armature ad esempio il campo al di fuo- o uscente dal piano a seconda del segno della densità di carica σ. Cosa
ri risulterà nullo e resterà non nullo solo succede se adesso affacciamo due piani infiniti uno davanti l’altro aventi
all’interno delle armature.
uno σ l’altro −σ? l’interessante risultato è che il campo all’esterno è nullo
mentre tra le armature vale
σ
EC = (112)
ε0

Vedremo tra un secondo che tale situazione si trova nei condensatori


che altro non sono che due piastre conduttrici affacciate. Prima però
dobbiamo dare una definizione per conduttori, isolanti e semicondutto-
ri. Si dicono conduttori quei materiali nei quali gli elettroni sono liberi
di muoversi se sottoposti a differenza di potenziale (d’ora in avanti
d.d.p.). Essi sono caratterizzati pertanto dalla presenza degli elettroni
liberi nella banda di valenza degli atomi del reticolo cristallino. È ovvio
che all’equilibrio tutte le cariche in eccesso su un conduttore saranno in
superficie (massima distanza) e si disporranno in modo da annullare il
campo elettrico interno. Cose essenziali da sapere dei conduttori:

• In essi gli elettroni possono essere considerati liberi di muoversi.

• La superficie di un conduttore è equipotenziale.

• Il campo elettrico è sempre perpendicolare alla superficie di un


conduttore.

• Il campo interno ad un conduttore all’equilibrio è sempre nullo.

Comprenderemo ora che se dispongo di due conduttori e ne carico


uno, solamente ponendo questo vicino all’altro sarà in grado d’indurre
una carica opposta sulla faccia più vicina. In particolare se affacciamo
due piastre di area A ognuna delle quali capace di ospitare una carica
Q, avremo realizzato un condensatore. La capacità di un condensatore,
al pari di quella d’un secchio d’acqua (che accoglie una certa quantità
d’acqua variando di un certo valore il livello), è quella proprietà che il
lezioni di fisica ii 93

condensatore ha di accogliere la carica Q variando la d.d.p. ai sui capi


del valore V:
∆Q
C= (113)
∆V
Se le piastre hanno area A e sono a distanza d troviamo facilmente
dalla (108) il valore del potenziale

σd Qd
V = Ed = =
ε0 Aε0

guardando la (113) immediatamente capiamo che per tale geometria Figura 56: Un condensatore sferico.

(due piastre affacciate, il cosiddetto condensatore piano) vale la relazione

Aε0
C= (114)
d
L’unità per la capacità è il farad F (non dite faraday perché è un’altra
cosa) pari ad un coulomb su un volt.

[C]
[F] =
[V]

Purtroppo per motivi storici si usa il coulomb che è molto grande (per-
ché è definito come un ampère per secondo, e l’ampère è una corrente
molto alta), il che fa del farad una quantità poco utile per le normali
applicazioni. In effetti è molto più utile usare i microfarad, i nanofarad
o addirittura i picofarad. Giustifichiamo la nostra asserzione: calcolia-
moci la capacità di un condensatore sferico e poi di una singola sfera
scrivendo che è Q e chi V (dipende dalla geometria).

Q
Q = ε0 E(4πr2 ) → E=
4πε0 r2

quindi

dove sono
Z le q ZR2  
Q Q 1 1
V= E dr = dr = −
4πε0 r2 4πε0 R1 R2
dove sono le q+ R1

Q R R
Csferico = = 4πε0 1 2
V R2 − R1
quindi se mandiamo R2 → ∞

Csfera = 4πε0 R1 (115)

Prendendo come esempio il raggio medio della Terra (6400 km circa) e


trattando questa come un conduttore

C⊕ = 4π · 8.8 · 10−12 6.4 · 106 ' 708 · 10−6 F


94 pietro oliva

in effetti dalla (115) si capisce che i conduttori da soli hanno sempre una
capacità molto piccola rispetto all’unità di misura.
La forma funzionale della capacità dipende dalla geometria. Può
anche essere molto complesso calcolarla. Prendiamo un condensatore
cilindrico alto L: Sia la superficie di Gauß quella indicata dalla freccia.
Il campo sarà dunque

Q Q
Figura 57: Un condensatore cilindrico. E(2πrL) = → E=
ε0 2πε0 Lr

Adesso bisogna integrare per trovare


Z b Z b  
Q dr Q dr Q b
V= = = ln
a 2πε0 Lr 2πε0 L a r 2πε0 L a

dato che C=Q/V ne risulta che per un condensatore cilindrico

L
C = 2πε0   (116)
b
ln a

Ma quanta energia serve per caricare un condensatore? Il lavoro è


L=qV perciò trasferendo una carica infinitesima dQ faremo il lavoro
infinitesimo dL=VdQ=QdQ/C. Integrando
Z q
1 1 2 1
L= QdQ = E = q = CV 2 (117)
C 0 2C 2

Quest’ultima relazione si noti essere evidentemente indipendente dalla


geometria del condensatore. Terminiamo il breve discorso sul con-
densatore notando che, ad esempio, nel caso di condensatore piano, il
campo tra le armature è sempre costante e perciò possiamo ben scrivere
che la densità d’energia per volume è

CV 2
E/Ad ≡ u =
2Ad
ma C = ε0 A/d sicché la densità d’energia per unità di volume sarà

1
u= ε0 E 2 (118)
2
La (118) è stata ricavata sfruttando le relazioni del condensatore piano
ma si può dimostrare essere del tutto generale.
Magnetostatica

Abbiamo visto che una carica ferma subisce eventualmente una forza
dovuta al campo elettrico in cui è immersa (dovuto ad altre cariche).
Abbiamo visto altresì che tale forza dipende dalla posizione della ca-
rica. Una carica in movimento però subisce un’altro tipo di forza che
chiameremo magnetica. Questa forza dipende non più dalla posizione
ma dalla velocità con cui una carica si muove. Sperimentalmente risul-
ta che la forza magnetica agente su una carica elettrica in movimento è
sempre perpendicolare alla velocità ed al vettore del campo magnetico
in quel punto. In particolare risulta che

~m = q~
F ~
v×B (119)

La (119) ci informa sulle dimensioni del campo magnetico:

[N] [N]
[B] = [m]
= =T
[ C ] [s] [A][m]

È bene sapere che è molto usata un’unità non-SI che è il gauß di simbolo
G: per definizione 1 T=104 G. Possiamo quindi scrivere in generale che
la forza totale che subisce una carica elettrica in movimento in un campo
elettromagnetico è
~ = q(E
F ~+~ v×B ~) (120)

Notiamo subito che l’assenza di “carica magnetica”, il famoso mai osser-


vato monopolo magnetico, rende asimmetrica questa equazione. Se in-
fatti vi fosse una carica magnetica “qm ” avremmo avuto probabilmente
qualcosa di simile a

~ = q(E
F ~+~ ~ ) + qm ( B
v×B ~ +~ ~)
vm × E

ma questo non è mai stato osservato e quindi ad oggi possiamo solo


parlare della forza (120) detta di Lorentz.
Ma come si genera un campo magnetico? Abbiamo già detto che una
carica elettrica in movimento crea un campo magnetico ma ciò implica
che vi sia una corrente elettrica. Per poter solo introdurre la magneto-
96 pietro oliva

statica dobbiamo quindi ammettere movimento di cariche elettriche.


Naturalmente il caso più semplice è che le correnti siano stazionarie
e tutte le distribuizioni di carica siano fisse, ovvero che ci si trovi in
regime stazionario con i campi non dipendenti dal tempo. In tale caso
abbiamo già scritto le equazioni di Maxwell in forma integrale per il
campo magnetico:  
~=0
~ · dS
B
Σ

(121)
 H B ~ · d~l = µ0 iint
∂Σ

ed abbiamo la stessa necessità di prima di trovare l’equivalente diffe-


renziale. La prima delle (121) ci informa subito che ∇ ~ ·B
~ = 0 dove
come al solito ci permettiamo di omettere il segno di vettore sul vettor
nullo a destra dell’uguale. In modo analogo troviamo la seconda dover
~ ×B
essere ∇ ~ = µ0~ dove semplicemente bisogna far attenzione alla so-
stituzione della corrente i in (121) con la sua densità ~ (di cui parleremo
adesso meglio) per poter applicare il teorema di Stokes. Le equazioni
di Maxwell differenziali per il campo magnetico in statica sono dunque

~ ·B
~=0

 ∇
(122)
~ ×B
 ∇ ~ = µ0~

Essendo dunque la magnetostatica una situazione fisica esistente solo


in ambito di movimento di cariche elettriche, sarebbe più giusto parlare
di approssimazione statica del fenomeno del magnetismo (o ancora
meglio di ciò che accade in presenza di sole correnti stazionarie). La
~ ×B
~ di ∇ ~ = µ0~ non l’abbiamo ancora descritta in modo esauriente:
diciamo di avere tantissime cariche elementari e che si muovono tutte
con deriva comune ~ vd in un certo verso. La densità di tali cariche è n
3
(tot cariche per m ). Con tali convenzioni

~ = ne~
vd (123)

dicesi densità di corrente elettrica. Ad una prima occhiata la densi-


tà di corrente elettrica (123) subito deve avere un’importante proprie-
tà in magnetostatica: dato che la divergenza di un qualunque rotore
dev’essere zero, dalla seconda di (73) applicata alla (122), c’informa
immediatamente che dev’essere

~ · ~ = 0
∇ (124)

che è come dire ∇ ~ ·~


vd = 0 perciò la velocità di deriva dev’essere un
campo vettoriale sinusoidale (le correnti devono fare dei giri e tornare
su loro stesse in un circuito). La (124) non esprime altro che la con-
servazione della carica. La corrente elettrica che scorre attraverso una
lezioni di fisica ii 97

qualunque superficie Σ sarà allora definibile come


"
I= ~
~ · dA (125)
Σ

dove con dA ~ s’intende naturalmente il vettore normale alla superficie


di lunghezza pari all’area elementare centrata nel punto dove di volta
in volta il vettore densità di corrente buca la superficie. Dato che la
carica elettrica non può mai essere creata o distrutta (una delle leggi
empiriche più importanti della fisica) se la superficie che utilizziamo ai
fini dell’integrazione risulta chiusa, una qualunque superficie chiusa,
deve essere che
I= ~ = − dQinterna
~ · dA (126)
Σ dt
ma $
Qinterna = ρ dV
V (Σ)

sicché $
~=
~ · dA ρ dV (127)
Σ V (Σ)

Per eguagliare gli integrandi dobbiamo avere lo stesso tipo d’integrale


a destra e sinistra. Ci viene in ausilio il teorema della divergenza che
asserisce essere l’integrale d’un vettore attraverso una superficie chiusa,
eguale all’integrale sul volume racchiuso dalla stessa superficie della
divergenza del vettore stesso:
$
~
~ · dA = ~ · ~ dV
∇ (128)
Σ V (Σ)

Applicando (128) in (126), e tenendo conto di (127), otteniamo (a patto


che la superficie scelta non cambi forma nel tempo)
$ $ $
~ d ∂ρ
∇ · ~ dV = − ρ dV = − dV
V (Σ) dt V (Σ) V (Σ) ∂t

e questo è vero se e solo se

~ · ~ = − ∂ρ
∇ (129)
∂t
La (129) l’avete già vista: è l’equazione di continuità di Fisica Generale
I riguardante la conservazione della massa per i fluidi; la forma che
in quell’ambito ottenevate era, imponendo che ṁ = 0 dentro un dato
volume,
∂ρ ~
+ ∇ · (ρ~v) = 0
∂t
Anche nel nostro caso abbiamo infatti che ~ = ρcarica ~
vd .
98 pietro oliva

Adesso ragioniamo più in grande. Se è vero che la forza che agisce


su una carica singola q che attraversa con velocità ~
v una regione dove
è presente un campo magnetico B ~ è la (119), sarà anche vero che se
abbiamo n∆V cariche nel pezzo di cavo sarà

~ = n∆Ve(~
∆F ~ ) = ∆V (~ × B
v×B ~) (130)

Il pezzetto infinitesimo di cavo immaginiamolo cilindrico (cioè ∆V =


∆L · A con A = πR2 ). Possiamo manipolare la (130) così:

~ = ∆L[(A~) × B
∆F ~ ] = ∆L (~I × B
~) (131)

La forza per unità di lunghezza del cavo è dunque

~
∆F
= ~I × B
~ (132)
∆L
Facciamo notare per completezza che molti testi preferiscono accorpare
la (130) scrivendo
~ = I~L × B
F ~

ovviamente non cambia nulla è solo una scrittura diversa.

Potenziale vettore

Riprendiamo le equazioni che descrivono la fisica in magnetostatica:


le (122). Notiamo ancora una volta che sono lineari e che quindi ci
informano che anche per il campo magnetico varrà il principio di so-
vrapposizione. Notiamo adesso che in elettrostatica avevamo trovato il
modo di calcolare tutti i possibili campi elettrici semplicemente notan-
do l’irrotazionalità del campo E~ e quindi il fatto che tale campo doveva
essere per forza il gradiente di un campo scalare V che abbiamo oppor-
tunamente chiamato potenziale elettrico. Per trovare il campo elettrico
basta fare il gradiente del potenziale elettrico. Intuiamo che le cose non
andranno così semplicemente per il campo magnetico perché ciò che è
sempre nullo non è il rotore stavolta, è la divergenza, perciò il campo
magnetico è il rotore di qualche campo vettoriale. E quindi l’eventuale
“potenziale” che definiremo sarà stavolta un vettore, non uno scalare.

~ ·B
∇ ~=0 sempre ⇒ ~=∇
B ~
~ ×A

Poco male. Facciamo gli stessi ragionamenti anche se saranno un po’


meno facili. Innanzitutto ci ricordiamo che nel caso del potenziale
elettrico avevamo un’ambiguità di definizione: V è definito a meno
di una costante V 0 . Ciò significa che per ogni campo ci sono infiniti
lezioni di fisica ii 99

potenziali V + V 0 , V + V 00 , V + V 000 , etc. il cui gradiente è il medesimo


campo elettrico.
Una possibile scelta, molto conveniente, era quella di assegnare il
valore di zero a V 0 per grandissime distanze rispetto dove volevamo
calcolare il campo elettrico (V 0 = V∞ = 0). Similmente, dobbiamo
aspettarci che il potenziale vettore A ~ sarà definito a meno di un certo
altro vettore, ovvero ci saranno infiniti vettori potenziali A, ~ A~0 , A
~00 , A
~000 ,
etc. il cui rotore è sempre il medesimo campo magnetico. Vediamo
meglio che significa e troviamo la forma matematica che contraddistin-
gue in che cosa differiscono due vettori potenziali il cui rotore dia il
medesimo campo magnetico. Se è vero che

~=∇ ~ ×A ~
(
B
~=∇
B ~ ×A ~0

dev’essere anche che ∇ ~−A


~ × (A ~0 ) = 0 cioè che il vettore risultante A
~−A
~0
è in realtà un gradiente di un campo scalare:

~−A
A ~0 = ∇ψ
~ ⇒ ~=A
A ~0 + ∇ψ
~ (133)

dunque due vettori potenziali il cui rotore dia lo stesso campo magnetico
posso differire tra loro solo di un campo vettoriale che è il gradiente di
un certo campo scalare. Stavolta però non è lampante il come scegliere
ψ tale da renderci la vita più facile. In realtà non c’è un’unica scelta
bensì la forma che prenderemo per il potenziale vettore dipenderà dal
nostro particolare problema.
In magnetostatica tuttavia è sempre una buona idea, a livello di sem-
plificazione matematica, scegliere un potenziale vettore la cui divergen-
za sia nulla. La nostra scelta quindi sarà in questa parte del programma

∇ ~=0
~ ·A (134)

di modo che caratterizzeremo completamente il potenziale vettore con


la scrittura
~ ×A~=B~
(

~=0
~ ·A

Notiamo esplicitamente che possiamo capire meglio il senso di tale
scelta osservando che in elettrostatica abbiamo trovato essere

E ~
~ = −∇V → ~ ·E
∇ ~ = −∇2 V = ρ/ε0

perciò è evidente che se

∇ ~ + ∇ψ
~ · (A ~ )=∇ ~ + ∇2 ψ
~ ·A
100 pietro oliva

~ ·A
allora la scelta ∇2 ψ ≡ −∇ ~ sia la migliore semplificazione: infatti ne
segue che ∇ ~ + ∇ψ
~ · (A ~ ) = 0 e che quindi

~ ×B
∇ ~ = µ0~
~ = −∇2 A

scrittura che assume un chiaro significato. Matematicamente parlando

−∇2 V = ρ/ε0 e ~ = µ0~


− ∇2 A

hanno lo stesso procedimento per la soluzione. Natura scalare o vetto-


riale a parte, sono di fatto le stesse equazioni.
Dato che conosciamo la soluzione della prima:
$
1 ρ
Vin P distante r da ρ = dVvolume che racchiude ρ
4πε0 r

ci viene naturale scrivere la soluzione della seconda come


$
~ µ0 ~
Ain P distante r da ~ = dVvolume che interessa ~ (135)
4π r

20
Nella realtà operativa di solito si trova ~ che
Sia come esercizio sui generis20 un campo magnetico uniforme B
il campo a partire dal potenziale e non
ha valore costante B0 solo lungo la direzione z di un sistema di rife-
viceversa.
rimento ortonormale. Troviamo una possibile scrittura del potenziale
vettore. Basta innanzitutto scrivere
∂A y ∂A y

∂Az ∂Az
 
 ∂y
− ∂z  ∂y − ∂z = 0
  
0



  ∂Ax ∂Az 

~= ∂Ax ∂Az
B  0 =  ∂z − ∂x  ⇒  ∂z − ∂x = 0

B0 ∂A y  ∂A y − ∂Ax = B
  
− ∂Ax


∂x ∂y ∂x ∂y 0

Poniamo ad esempio Ax = costante:

∂A y

∂g( y,z) ∂ f ( y,z)
 ∂A


z
∂y − ∂z = 0 ⇒ 3.) ∂y = ∂z


0 − ∂A z
∂x = 0 ⇒ 1.) Az = g( y, z)


 ∂A y

∂x − 0 = B0 ⇒ 2.) A y = xB0 + f ( y, z)

perciò possiamo scegliere, tra le tante, la soluzione semplice Ax = 0 e


f = g = 0:
 
0
A~=  xB0 

0
Naturalmente avremmo potuto scegliere molto diversamente: per fare
lezioni di fisica ii 101

un veloce esempio
   
−yB0 −yB0
~=
A  0 

oppure ~= 1
A  xB0 

2
0 0

e infinite altre soluzioni. Ma questo è solo per dare un’idea del tipo di
difficoltà che s’incontrano lavorando a ritroso dal campo al potenziale.

Figura 58: Provare il campo magnetico


nel punto P dovuto ad un filo percorso
da corrente bisogna innanzitutto calcola-
Legge di Biot-Savart re il contributo per il tratto infinitesimo di
filo, poi integrare sulla geometria. Que-
sto può diventare molto difficile da fare
Abbiamo già detto che non sono mai state osservate cariche magnetiche analiticamente.
libere e che quindi le linee di campo di B ~ non “emergono” da alcuna
sorgente né “entrano” in alcun pozzo. Da dove vengono? Il campo
magnetico si palesa in presenza di cariche elettriche in movimento tant’è
vero che il rotore del campo è proporzionale alla densità di carica.
Quindi ha senso chiedersi quale campo magnetico si genera dove scorre
corrente? Finora abbiamo trovato solo le leggi della forza che agisce su
una carica elettrica in moto in un campo magnetico e quella che agisce
su un filo dritto percorso da corrente e immerso in un campo uniforme.
Possiamo generalizzare ad un filo di forma qualunque scrivendo di
volta in volta il campo in un punto esterno al filo dovuto dall’elemento
infinitesimo di quest’ultimo. Se il pezzetto di filo d~l rappresentasse una
distribuzione di carica ρ, noi sapremmo scrivere il campo elettrico nel
punto 2 dovuto alla carica che c’è nel punto 1 (v. Fig. 59):
$
~ 1 ρ1
E2 = r̂ dV1
4πε0 r2

In modo del tutto analogo anche se matematicamente più impegna-


tivo, risulta che il campo magnetico nel punto 2 dovuto alla carica in
movimento che c’è nel punto 1 è:
Figura 59: Il conto è quasi sempre più
~2 = ∇
B ~2
~ ·A facile passando attraverso il potenziale.

Il potenziale vettore nel punto 2 si trova così: diciamo che solitamente


la sezione S è molto piccola rispetto le dimensioni lineari. L’elemento
di volume elementare è sempre dV = S dl e noi possiamo ricordarci
per dopo che j dV = jS dl = I dl. Però adesso scriviamo la (135) per il
nostro caso $
~2 = µ0 ~1
A dV1
4π r
e troviamo il contributo al campo magnetico nel punto 2 dovuto al tratto
102 pietro oliva

elementare di filo in 1 calcolando la divergenza del potenziale:


$
~ · µ0 ~1
 
~2 = ∇
B ~2 = ∇
~ ·A dV1
4π r
h #
~ · µ0 ~1
i
Calcolare ∇ 4π r dV1 non è semplice: innanzitutto l’operatore
nabla agisce sulle coordinate del punto dove si vuole calcolare il campo
magnetico (nel nostro caso indicato dal pedice “2”) quindi potere l’o-
peratore nabla all’interno dell’integrale implica ricordarsi di farlo agire
21
ad es. in r che è solo sulle variabili a pedice 221 . Scriviamo solo la componente lungo x
q
r= (x2 − x1 )2 + ( y2 − y1 )2 + (z2 − z1 )2 del campo:
$ h
∂Az ∂A y µ0 y2 − y1 z2 − z1 i
Bx = − =− jz − j y dV1
∂y ∂z 4π r3 r3

Con un po’ di immaginazione vedete le altre due componenti (o cal-


colatele come esercizio) ed unitele in forma vettoriale e vedrete che il
risultato sarà $
~ 2 = µ0 ~1 × ~r
B dV1 (136)
4π r3
ma, come detto sopra, potremo anche scrivere
$
~ 2 = µ0 d~l1 × r̂
B I (137)
4π r2

Il campo magnetico infinitesimo prodotto in un certo punto “2” dal


passaggio di una corrente I in un pezzo infinitesimo di filo situato nel
punto “1” è dato dunque dalla:

~2 = µ0 Id~l1 × r̂
dB (138)
4π r2

Figura 60: Nel disegno in esame il pro-


dotto vettoriale tra il tratto infinitesimo
di filo ed il raggio posizione dal pezzo di
filo fino al punto nello spazio dove si vuo-
le il campo, fornisce un versore entrante Utilizzate le leggi di Maxwell!
nel foglio per il campo magnetico.

Usiamo dunque la (138) per trovare il campo magnetico a distanza R


da un filo retto e infinito: scriviamo il contributo al campo del pezzetto
infinitesimo ds a distanza s dalla perpendicolare tirata da P sul filo

~P = µ0 Id~s × r̂ µ0 Ids sin θ


dB = ê
4π r2 4π r2
dove ê è il versore entrante il foglio. Il modulo totale quindi sarà:

µ0 I ∞ sin θ ds
Z ∞ Z ∞ Z
BP = dBP = 2 dBP =
−∞ 0 2π 0 r2
lezioni di fisica ii 103

Adesso scriviamo in modo più opportuno l’integrando dato che r, s e θ


sono dipendenti, e in particolare risulta che r sin θ = R sicché

R R
sin θ = = √
r R + s2
2

dunque

µ0 I ∞
sin θ ds µ0 I ∞
Z Z
R
BP = 2
= √ ds =
2π 0 r 2π 0 (R2 + s2 ) R2 + s2

µ0 I ∞
Z
R
= ds
0 + s2 )3/2
2π (R2
√ √
Dato che s2 + R2 cos θ = R → s2 + R2 = cosR θ provvediamo
alla sostituzione e cerchiamo una relazione che ci faccia scomparire
la somma sotto radice: prendiamo la prima relazione somma di due
Figura 61: Adesso bisogna ricordarsi
quadrati che ci viene in mente in trigonometria, sin2 θ + cos2 θ = 1, e quant’è importante aver studiato Anali-
2
moltiplichiamola per cosR2 θ . si I. Ogni volta che c’è un fattore del tipo
(x2 ± a2 )k nell’integrando ci deve subito
venire in mente il teorema di Pitagora e
R2 R2
(sin2 θ + cos2 θ) = → con esso le possibili sostituzioni trigono-
cos θ
2 cos2 θ metriche. Nel√ nostro caso vogliamo far
scomparire x2 + a2 che è un’ipotenusa!.
R2
→ R2 tan2 θ + R2 =
cos2 θ
è evidente che la sostituzione che andavamo cercando è
R
s = R tan θ ; ds = dθ
cos2 θ
i limiti d’integrazione diventano 0 e π/2.
π/2
µ0 I ∞
µ0 I
Z Z
R R R
BP = ds = dθ =
2π 0 (R2 + s2 )3/2 2π 0 (R2 + R2 tan2 θ)3/2 cos2 θ
π/2
µ0 I
Z
1 1 Figura 62: Jean-Baptiste Biot (1774 - 1862)
= dθ
2πR 0 (1 + tan2 θ)3/2 cos2 θ fisico e matematico francese e Félix Savart
(1791 - 1841) fisico e medico francese.
Tutti adesso ricorderanno che 1 + tan2 θ = 1/ cos2 θ sicché
π/2 π/2
µ0 I µ0 I
Z Z
1 1
BP = dθ = cos θ dθ
2πR 0 ( cos12 θ )3/2 cos2 θ 2πR 0

e quest’integrale lo sappiamo risolvere con facilità:

µ0 I µ0 I
BP = [sin θ]π/2
0 =
2πR 2πR
Adesso dopo tutta questa fatica prendiamo la quarta legge di Max-
104 pietro oliva

well nel caso stazionario (Legge di Ampère):


I
~ · d~l = µ0 iint → 2πRB = µ0 I
B
∂Σ

Speriamo, con questo esempio, di aver dato chiara dimostrazione dei


vantaggi delle leggi di Maxwell al posto di dover procedere attraverso
la (138).

Figura 63: Non c’è quasi mai alcun dub-


bio sul fatto che nella pratica è meglio
usare le leggi di Maxwell. Queste evita-
no spesso di fare noiosi integrali. Bisogna
Piccola digressione storica
però saper intuire la simmetria giusta da
usare, in questo caso la simmetria è cilin- Storicamente la scoperta (tra le più importanti mai fatte di tutta la
drica: in punti equidistanti dal filo (lun-
go una circonferenza centrata nel filo) il fisica nella storia dell’umanità) che vi fosse un collegamento tra elet-
campo magnetico è costante. tricità e magnetismo fu fatta casualmente, durante i preparativi di una
dimostrazione, nel 1820 dal danese Hans Christian Ørsted22 :

“Le correnti che scorrono in un filo conduttore, se sufficientemente intense,


22
allineano gli aghi delle bussole poste vicino ad esso, in direzione perpendicolare
anche se per onor del vero il fenome-
no era probabilmente stato osservato 18 al filo stesso distogliendole dalla usuale direzione nord-sud”
anni prima dal noto giurista e filosofo ita-
liano Gian Domenico Romagnosi che pe-
rò non fu preso in considerazione dalla
Neanche una settimana dopo aver sentito l’esperienza di Ørsted, An-
comunità scientifica. dré Marie Ampère dimostra che tra due conduttori percorsi da corrente
viene esercitata una forza e mette tutto sotto forma matematica. Nello
stesso anno i francesi Jean-Baptiste Biot e Félix Savart scoprono l’an-
damento della forza esercitata su di un magnete da un filo conduttore
nel quale scorre corrente e scrivono la forma per il campo magnetico in
statica dovuto ad una corrente elettrica.

~ dovuto ad un solenoide
B

C’è una configurazione particolarmente utile per un filo percorso da


corrente: un avvolgimento del filo stesso intorno ad un cilindro (che
sia o meno ideale). Tale configurazione prende il nome di solenoide.
Per capire il campo come si comporta però partiamo da quello dovuto
Figura 64: Hans Christian Ørsted (1777
alla singola spira (che verrà confusa col singolo avvolgimento). Natu-
- 1851) fisico e chimico danese, autore di
una delle scoperte più importanti nella
~
ralmente ci sono punti nel caso della spira dov’è immediato calcolare B
storia dell’umanità. e punti dove non è semplice affatto. Al centro della spira di raggio r è
evidentemente semplice usare la (138): per ogni pezzo infinitesimo di
spira il campo, diretto lungo l’asse, sarà

µ0 Idl
dB =
4π r2
lezioni di fisica ii 105

Basterà dunque integrare lungo la circonferenza, forti del fatto che il


campo al centro sarà costante per ogni tratto infinitesimo di filo:

Z2πr
µ0 I µ0 2πrI µ0 I
Z
B= dB = dl = =
2πr 4π r2 4π r2 2r
0

Questo risultato è importante e lo useremo a breve di nuovo.


Un solenoide come detto è di fatto un avvolgimento di spire. Pos-
Figura 65: Il campo magnetico non ha
siamo trattarlo matematicamente come N spire affiancate (v. Fig. 66). quasi mai forma banale. analiticamente
Nell’approssimazione di solenoide infinito dimostriamo che il campo è sempre molto complesso descriverlo se
non in alcuni punti dotati di particolare
magnetico esterno dev’essere nullo. Per ragioni di simmetria se un cam-
simmetria.
po c’è dev’essere parallelo all’asse. Sia come da Fig. 67. Calcolare allora
la circuitazione lungo il percorso quadrato si riduce al solo calcolo dei
lati AB e CD poiché lungo il lati DA e BC il campo è perpendicolare al
~ · d~l = 0.
R
percorso e B

I ZB ZD
~ · d~l =
B ~ · d~l +
B ~ · d~l
B
A C

~ · d~l = l[B(r1 ) + B(r2 )]. La


H
ma lungo tali lati il campo è costante sicché B
legge di Ampère però ci assicura che se non ci sono correnti concatenate Figura 66: Il modello matematico di un
solenoide reale.
la circuitazione è nulla.
Allora deve sempre essere vero che B(r1 ) + B(r2 ) = 0 però basta
portare ad esempio r2 → ∞ per dover ammettere che altro non può
essere se non B(r2 → ∞) = 0 sicchè anche B(r1 ) = 0 sempre. Allora il
campo esterno è nullo sempre.
In maniera del tutto simile troviamo il campo sull’asse del solenoide
(Fig. 68): contribuendo solo il tratto AB è facile scrivere, se n è il numero
di spire per unità di lunghezza,
I
~ · d~l = Bl = µ0 nlI
B
Figura 67: Dimostrazione che il campo
esterno è nullo se il solenoide è infinito.

B = µ0 nI (139)

~ per un toroide
B

In maniera analoga troviamo il campo interno ad un toroide: stavolta Figura 68: Dimostrazione che il cam-
po interno è costante se il solenoide è
però I infinito.
~ · d~l = 2πrB = µ0 NI
B
106 pietro oliva

µ0 NI
B= (140)
2πr
Quindi il campo interno scala come 1/r.

Figura 69: Mentre il campo magnetico


interno ad un solenoide infinito è co-
stante, quello del toroide dipende dalla Dipolo magnetico
posizione interna dove si circuita.

Nella parte di elettrostatica avevamo visto che esistono i dipoli elettrici,


per i quali avevamo definito il momento di dipolo ~ p = qd~ (dove d~ è il
vettore che congiunge la carica negativa con quella positiva). Avevamo
anche visto che un dipolo elettrico produceva in un punto P abbastanza
distante rispetto le dimensioni del dipolo stesso un campo elettrico con
andamento ∝ 1/r3 e potenziale (111):

1 p cos θ
V=
4πε0 r2

Dimostreremo adesso che la stessa forma s’ottiene per il campo magne-


tico in un punto P distante R da una spira (sia nella nostra dimostrazione
rettangolare di lati a e b entrambe molto più piccoli di R): Il campo ma-
gnetico in un punto P distante R si scriverà infatti facilmente valutando
il vettore potenziale A,~ cominciando subito col dire che non essendoci
correnti lungo l’asse z dovrà essere Az = 0. Dato poi che lungo x ci
sono due tratti lunghi a percorsi da corrente stazionaria I, il potenziale
vettore sarà lo stesso di quello elettrostatico per il termine di dipolo
per una distribuzione fatta da due segmenti carichi (con carica uguale
e opposta) distanti b (ciò naturalmente vale se R  a, b).
Per trovarlo dobbiamo fare un piccolo sforzo: trovare la forma ge-
nerica del potenziale elettrostatico in un punto P dovuto ad una di-
stribuzione qualunque e poi adattare la formula al nostro caso. Sia ad
esempio una certa distribuzione rigida di cariche elettriche puntiformi
~
qk distanti ognuna ~rk dall’origine. Se il punto P è descritto dal vettore R
Figura 70: Anche in questo caso è molto allora tutto sta nello scrivere
meglio trovare il potenziale che il campo.
1 X qk 1 X
V= ∼ qk
4πε0 rk 4πε0 R
k k
P
ma se, come nel nostro caso, la qk = 0 l’approssimazione di conside-
k
rare ogni rk ∼ R non basta. Bisogna essere più precisi. In particolare
dobbiamo sviluppare 1/|rk − R| in serie di Taylor:

1 ~
1 ~r · R ~ )2 − r2 R2
3(~rk · R
' + k 3 + k
+···
|R − r| R R 2R5
lezioni di fisica ii 107

1
moltiplicando per ogni termine 4πε0 qk s’otterrà
 
~ ~ )2 − r2 R2 )
k qk~ k qk ((~
P P P
1 
k qk rk ·R 3 rk ·R k

V' + + +···
 
4πε0 R } R3 2R 5

 | {z | {z } | {z } 
m. di monopolo momento di dipolo momento di ottupolo

Per noi il momento di monopolo è nullo perciò prendiamo solo il


momento di dipolo:

~ ~
"P # "P #
1 k qk~
rk · R 1 k~
pk · R
V' = (141)
4πε0 R3 4πε0 R3

λa b. E ovviamente
Non ci resta che adattarci al nostro caso dove p = |{z}
carica
il coseno tra ~ ~ è −y/R. Il nostro potenziale vettore lungo x è dunque
p ed R

µ0 yIab
   
1 yλab
Ax = − =− (142)
4πε0 R3 4π R3
ma per la simmetria del sistema allora anche

µ0 xIab
 
Ay = (143)
4π R3

Il nostro potenziale vettore è in definitiva


 
−y
µ0 Iab 
 
~

A= 3
 x  (144)
4π R   

0

dove posiamo chiamare Iab ≡ µ, momento di dipolo magnetico della


spira. Anzi questo risultato è più generale ancora:

µ ~
~ = IS (145)

~ è il vettore normale alla superficie di modulo l’area della spire,


dove S
qualunque sia la curva che la realizza (non solo per un rettangolo).
Per una spira quindi il campo è

~ × R̂
~ = µ0 µ ~
~ ×A
~=∇
A e B (146)
4π R3
Sappiamo adesso tutto. Ovviamente il nome “dipolo magnetico” è
alquanto inappropriato perché non c’è nessuno monopolo magnetico.
Però serve per ricordare che la forma funzionale del campo è identica
sia per il campo elettrico creato da un dipolo elettrico sia per il campo
108 pietro oliva

magnetico creato da un semplice filo chiuso percorso da corrente a patto


di stare sufficientemente distanti rispetto le dimensioni lineari della
spira. Per esercizio calcolate il campo magnetico attraverso il rotore
del potenziale. Riportiamo per controllo la soluzione dell’esercizio con
riferimento per la notazione a Fig. 71:

3xz
 
R5
µ0 µ 
 
~ 3yz 
B= 
R5
 (147)
4π  


3z2 1
r5
− r3

Figura 71: Il campo prodotto da una spira


percorsa da corrente ha la stessa forma di
quello prodotto da un dipolo elettrico.
Lo studente curioso si potrebbe a questo punto chiedere come mai
sia possibile ottenere matematicamente le stesse equazioni per E ~ e per
~
B nei casi di dipolo elettrico e spira percorsa da corrente stazionaria,
sistemi che sono indiscutibilmente diversi e campi che in partenza sono
certamente differenti essendo caratterizzati da proprietà differenziali
praticamente opposte:

∇ ~= ρ
~ ·E ~ ·B
∇ ~=0
ε0

~ ×E
∇ ~=0 ~ ×B
∇ ~ = µ0~

La risposta a tale enigma è che tali soluzioni sono state trovate in luoghi
lezioni di fisica ii 109

fisici lontani da cariche o correnti dove si apprezza solo il momento di


dipolo e dove le equazioni dei campi sono identiche e tutte nulle:

~ ·E
∇ ~=0 ~ ·B
∇ ~=0

~ ×E
∇ ~=0 ~ ×B
∇ ~=0

e quindi è ovvio che le soluzioni devono matematicamente essere uguali


per buona parte dello spazio esterno alle configurazioni di cui parlia-
mo. Naturalmente dato che una spira percorsa da corrente genera un
campo magnetico se inseriamo una spira siffatta dentro un campo ma-
gnetico generato da altre correnti, la spira sperimenterà delle forze che
tenderanno ad accelerarla.
In particolare vediamo il caso più semplice: spira immersa in campo
uniforme (sia nel verso dell’asse z).
Le forze F1 ed F2 sono uguali e contrarie pari a BIb con braccio
a cos(π/2 − θ) = a sin θ. Perciò il momento torcente è τ = IBab sin θ; il Figura 72: In realtà il lavoro in (150) non
momento torcente perciò può essere scritto come rappresenta energia reale semplicemen-
te perché non si è all’inizio tenuto conto
dell’energia incamerata nelle correnti che
~τ = µ ~
~ ×B (148) fin dal principio del discorso producono
il campo magnetico iniziale. Non pos-
in modo del tutto simile a quanto trovammo per il dipolo elettrico siamo per motivi di spazio entrare trop-
po nel dettaglio però grazie al principio
~τ = ~ ~
p×E (149)
dei lavori virtuali possiamo usare lo stes-
so l’equazione per il calcolo delle forze,
espira, virt. = µ
inoltre Etot = −E ~
~ · B.
Facciamo notare tra l’altro che, data la definizione di energia meccanica
legata al momento torcente dE = τ dθ, i casi (148) e (149) hanno energia
Z
espira, virt. =
E τ dθ = −µB cos θ = −~ ~
µ·B (150)

per il dipolo magnetico e


Z
Edipolo = τ dθ = −pE cos θ = −~ ~
p·E (151)

per il dipolo elettrico.


Elettrodinamica

Bisogna adesso affrontare l’argomento più difficile di tutti: la dinami-


ca dell’elettromagnetismo. Abbiamo affrontato finora le conseguenze
matematiche delle equazioni di Maxwell nel caso statico che ci hanno
dato risultati validi solo in casi particolarissimi. È ovvio che conviene
sempre cominciare col facile per poi aggiungere complessità, però se
da una parte tale processo ci aiuta facendoci da palestra per i casi più
ardui, dall’altra ci lascia a volte convinti di possedere nozioni sempre
valide quando valide sempre non sono. Ci sembra opportuno quindi
riportare in un piccolo schema sinottico quelle che sono verità assolu-
te distinguendole da quelle che sono solo soluzioni di casi particolari
della natura. Facendo ciò tra l’altro anticiperemo alcuni risultati a cui Figura 73: Franz Ernst Neumann (1798 -
1895), fisico e matematico tedesco.
arriveremo solo tra un po’ di lavoro ed altri cui non potremo giungere
affatto per le necessarie scelte fatte su questo programma. Manterremo
quindi anche in questa parte l’abitudine di mostrarvi subito le soluzioni
per poi ritrovarle poiché se è importante conoscere una cosa, ancor più
importante è il riconoscerla.

Legge valida solo nel caso statico Legge valida sempre

~=
F
Qq r̂ ~ = q(E
F ~+~ v×B~)
4π0 r2
~ ·E
dove ∇ ~ = ρ/ε0

~ ×E
∇ ~=0 ∇ ~ = − ∂B~
~ ×E
∂t

~
~ = −∇V ~ +
~ = − ∇V ~
 
∂A
E E ∂t

in un conduttore E = 0 sempre in un conduttore può esserci E ,


0 che genera correnti
112 pietro oliva

Legge valida solo nel caso statico Legge valida sempre

~ ·B
∇ ~=0
~=∇
dove B ~
~ ×A

∇ ~ = µ0 ~j
~ ×B ~ = µ0 ~j + µ0 ε0 ∂E~
~ ×B
∇ ∂t

# ε0
#
Ee = 1
ρ(x, y, z)V (x, y, z) dxdydz Ee = ~·E
E ~ dxdydz
2 2

# #
Em = 1 ~j · A
~ dxdydz Em = 1 ~ ·B
B ~ dxdydz
2 2µ0

Cominciamo col commentare la cosa più importante che c’è da capire


in queste tabelle. In particolare gli accoppiamenti dei campi elettrici
con i magnetici descritti dalla seconda e quarta legge di Maxwell, (80) e
(82), specialmente nella loro forma differenziale (invitiamo lo studente
a riguardare tali leggi in (83)). La quarta legge di Maxwell, (82), ci
dice che il campo magnetico non viene creato solo da cariche elettriche
in movimento bensì anche dall’eventuale variazione del flusso d’un
campo elettrico. Resta però sempre vero che B ~ è sinusoidale perciò
sarà comunque il rotore di un vettore potenziale A.~ Questo ci fa capire
che ci serve una nuova equazione per A ~ che deve sostituire ∇ ~ = 0.
~ ·A
In particolare dato che A ~ dipenderà anche dal potenziale elettrico V,
possiamo col senno di poi fare buon uso della libertà di scelta sulla
divergenza di A~ e disporre che essa sia proporzionale a qualche funzione
di V che si raccordi alla soluzione del caso statico se V è costante nel
tempo. Ovviamente la prima cosa che ci viene in mente è porre

∇ ~ ∝ ∂V
~ ·A (152)
∂t
e quindi arrangiare le cose di modo da riavere zero sommando i due
~ ·A
pezzi ∇ ~ e ∂V . Naturalmente i due oggetti non sono omogenei ( ∂V ha
∂t ∂t
le dimensioni di [V][s]−1 mentre ∇ ~ è ovviamente dimensionato come
~ ·A
[T]) perciò dobbiamo scrivere

~+
~ ·A ∂V
k∇ =0
∂t

con k dimensionato come [V][s]−1 [T]−1 =[V][s]−1 ([V][s]/[m]2 )−1 =[m]2 [s]−2 .
Quindi k ha le dimensioni di una velocità al quadrato. Questa velocità
è naturalmente quella cui il campo si propaga (tra poco mostreremo
essere quella della luce). Il fatto che cariche elettriche in movimento
generino un capo magnetico è una scoperta epocale fatta come detto
lezioni di fisica ii 113

da Ørsted nel 1821. Ancora, forse, di maggiore impatto tecnologico


fu quella che il movimento d’un magnete generi una corrente elettrica.
Faraday scoprì nel 1831 che avvolgendo un filo intorno ad un pezzo
di ferro sul quale è arrotolato un secondo filo, se viene fatta passare
corrente nel primo, si può apprezzare nel secondo una corrente indotta.
In particolare l’esperimento è quello di Fig. 74.

Induzione Figura 74: Esperimento di Faraday.

Faraday fu in grado di comprendere che la variazione della corrente nel


primo avvolgimento genera un campo magnetico che penetrando nel se-
condo solenoide induce una corrente che tenta di opporsi alla variazione
del flusso. Un secondo esperimento confermò che si poteva quindi ave-
re l’effetto opposto a quello di Ørsted (cariche in movimento→campo
magnetico indotto) semplicemente muovendo un magnete dentro una
spira (magnete in movimento→campo elettrico indotto). Faraday in
particolare ebbe l’intuizione che ciò che conta è il tasso di variazione
delle linee di campo attraverso la spira. Definiamo dunque il flusso del
campo magnetico attraverso una qualsiasi superficie Σ come avevamo
già fatto nelle (83) "
~ ~
~ · dS
ΦBΣ ≡ B (153)
Σ
~
Ebbene Faraday trovò che ad una variazione di ΦBΣ corrispondeva una
“forza elettro motrice” indotta (d’ora in poi f.e.m., indicato col simbolo
E) nome ormai antiquato e potenzialmente pericoloso (trattasi di un
potenziale non di una forza). Figura 75: Michael Faraday (1791 - 1867),
Faraday era un eccezionale ricercatore, un genio del laboratorio, ma fisico e chimico britannico.

sapeva pochissimo di matematica essendosi praticamente fermato alle


scuole medie. La forma matematica della legge è dovuta al fisico tedesco
Franz Ernst Neumann che pubblicò le leggi che Faraday aveva descritto
a parole circa quindici anni prima.

dΦB~

Σ
|Ef.e.m. | = (154)

dt

Fu però solo grazie al contributo finale di un fisico russo, Heinrich


Friedrich Emil Lenz, che richiese nel 1833 alla (154) di obbedire alla
terza legge della dinamica, che la legge prese forma definitiva:

~
dΦB
Ef.e.m. =− Σ (155)
dt
In suo onore la lettera che useremo per indicare l’induttanza sarà L.
Figura 76: mili Hristianoviq
Lenc (1804 - 1865), fisico russo.
114 pietro oliva

Praticamente la corrente indotta circola nella spira nel verso tale da


generare un campo magnetico indotto che s’oppone alla variazione di
~ attraverso la spira stessa. Dato che Ef.e.m. è un voltaggio ci
flusso di B
sarà una corrente che circola nella spira

Ef.e.m.
I= (156)
R
dove R è la resistenza totale del circuito. Vedremo tra un attimo che
questa è la legge di Ohm, per adesso prendiamola per buona.
Il caso più banale: campo uniforme (sia entrante) e spira rettango-
lare che estraiamo dalla regione immersa in B.~ Le due forze F2 ed F3
hanno entrambe lo stesso modulo, ixB ma sono dirette in versi opposti
e s’annullano. Resta solo la forza

F1 = iLB

che si vuole opporre all’estrazione della spira dal campo per conservare
il flusso originale. Quanto vale F1 ?
Il flusso sta cambiando: diminuisce. ΦB = BLx ma x cambia, infatti

dΦB d
= BL x = BLv
dt dt
Figura 77: Tipico esercizio di elettrodina-
mica è la forza sulla spira in movimento sicché la corrente sarà
in un campo magnetico. BLv
i=
R
e ruoterà in senso orario per generare un campo magnetico indotto a
supporto del B~ entrante che vede l’area della spira diminuire. Possiamo
quindi trovare il modulo della forza F1 :

(BL)2 v
F1 =
R
e possiamo anche dire la potenza dissipata essendo questa

(BLv)2 E2
W = F1 v = = f.e.m.
R R
Maxwell aveva già scritto in realtà la legge di Faraday in forma dif-
ferenziale. Riscriviamo quel che abbiamo capito in seria matematica:
la variazione del flusso di B attraverso una superficie Σ cambiata di
segno è pari alla circuitazione del campo elettrico sulla frontiera di Σ
(generando una corrente elettrica se ∂Σ è in realtà un filo fisico).
I "
Ef.e.m. = ~ · d~l = − d
E B ~
~ · dS
∂Σ dt Σ

Adesso per passare all’equazione differenziale bisogna avere gli integra-


lezioni di fisica ii 115

li che agiscono sullo stesso dominio per poter eguagliare gli integrandi.
Ci viene in ausilio il teorema del rotore (78):
I " "
~ ~ ~ ~ ~ d ~
~ · dS
E · dl = (∇ × E) · dS = − B
∂Σ Σ dt Σ

~
~ ×E
∇ ~ = − ∂B
∂t
a patto di tenere fissa la superficie Σ. Ecco ricavata la seconda eq. di
Maxwell. In generale possiamo dire che il sistema d’equazioni

~ = q(E
~+~ ~)
(
F v×B
~ ×E
~=− ∂ ~
B
∇ ∂t

descrive sempre la fisica giusta per l’induzione magnetica. Attenzione


però: E ~ indotto non è conservativo! Notiamo inoltre che la scrittura
~
H
~ ~ dΦBΣ
∂Σ E · dl = − dt , 0 implica che per tali campi elettrici indotti il concetto
Figura 78: Un caso di corrente indotta
di potenziale del punto qualunque A definito come che interessa gli ingegneri sono le cor-
renti parassite. Sostituiamo ad esempio
ZA la spira del discorso di prima con una
VA ≡ ~ · d~l
E piastra conduttrice. Nell’estrazione della
piastra dalla regione immersa nel campo

magnetico vi sarà una corrente parassita
non è ben definito in quanto il campo non è conservativo. Riprendiamo nella regione di transizione come si vede
in figura. Le correnti indotte si dissipano
il caso di un solenoide. Abbiamo visto che il flusso del campo magnetico poi sotto forma di calore a seconda del-
attraverso una spira è semplicemente (139) moltiplicato per l’area delle la resistività del materiale. Ciò implica
che in tutte le parti metalliche di moto-
spire
ri, freni, trasformatori, etc. c’è un sur-
ΦB = Aµ0 nI riscaldamento dovuto dalla dissipazione
delle correnti parassite. Il fenomeno si
Ma prendendo una lunghezza L del solenoide infinito, possiamo dire può limitare tramite laminazione (b), da-
che dentro tale lunghezza troveremo Ln spire. sicché to che la perdita per correnti parassite va
come radice quadrata dello spessore del
materiale o aumentando la resistività (es.
nLΦB = n2 LAµ0 I scegliendo ferro silicio invece che dolce).

Definiamo allora
nLΦB
=L (157)
I
“induttanza”. Nel nostro caso l’induttanza di un pezzo di solenoide
lungo L risulta essere
L = n2 LAµ0

e, come già visto per la capacità, dipende dalla geometria dell’oggetto


in esame. Se una certa corrente sta variando in un induttore, lo stesso
induttore (oltre che a generare correnti indotte in altri eventuali solenoi-
di lì vicino) si auto-induce una certa corrente derivante dall’apparizione
116 pietro oliva

di una f.e.m. auto-indotta.


Per quanto espresso in (157), un induttore con N spire ha flusso
NΦB = LI. Perciò la legge di Faraday ci dice che

d dI
Ef.e.m. = − (LI ) = −L (158)
dt dt
dove l’ultimo passaggio tiene se non varia la geometria.

Legge di Ohm

Abbiamo ormai tutti gli strumenti per parlare di correnti e circuiti resisti-
vi. Abbiamo già visto che per definizione chiamiamo corrente elettrica

dQ
I= [Q] = A · s = C (159)
dt
Quindi la corrente elettrica consta di cariche in movimento. Non è
tuttavia necessariamente vero il contrario: non tutte le cariche in
movimento costituiscono correnti elettriche. Per esempio:

• se sto annaffiando il prato nel mio tubo stanno scorrendo parecchi


milioni di coulomb al secondo sotto forma di flusso di protoni delle
molecole d’acqua. Ma non ho corrente elettrica perché nel medesimo
istante scorre una carica uguale e contraria sotto forma di elettroni.

• In ogni conduttore elettrico gli elettroni, liberi di muoversi sono ter-


micamente agitati e si muovono casualmente ad altissima velocità.
Ma non ho corrente poiché la media tra tutte le velocità è nulla e non
c’è un drift d’insieme delle cariche.

Diciamo adesso di avere effettivamente corrente elettrica I dentro un


conduttore. Quanta carica passa attraverso una qualunque sezione del
conduttore?
Zt
dato che dQ = I dt ⇒ Q(t) = I (t0 ) dt0
0

inoltre dato che la carica si conserva se un filo si sdoppia in due la


somma delle correnti nei due fili sarà pari alla corrente entrante in-
dipendentemente dalle varie geometrie. Vedremo dopo come questa
semplice osservazione ci aiuterà a risolvere molti problemi. Abbiamo
infine già incontrato altre quantità utili nel contesto delle correnti.
Il potenziale elettrico, che dal punto di vista del lavoro si scrive

L J
L = QV ⇒ V= [V] = =V (160)
Q A·s
lezioni di fisica ii 117

Grazie a questa facile relazione è immediato scrivere cos’è la potenza:

dL dQ
W= =V = V·I [W] = V · A = W
dt dt
ed infine abbiamo incontrato una proprietà dei materiali detta

Q C
C= [C] = =F
V V
Abbiamo già incontrato la densità di corrente (123). Dovrebbe ormai
essere ovvio per quanto imparato che il campo elettrico in un puno di
un materiale in cui scorre corrente elettrica è proporzionale alla densità
di corrente in quel punto:
~ ∝ ~
E

in particolare risulta che per un certo materiale il rapporto E/ j è un


numero dipendente solo dalla temperatura. Tenendo il materiale a
temperatura costante risulta infatti che E/ j è costante e viene nominata
“resistività” del materiale in questione alla temperatura data.

ρ = E/ j (161)

La resistività è in genere un tensore, se tuttavia il materiale è isotropo ρ


è uno scalare e si può scrivere

~ = ρ~
E ~
~ = σE (162)

dove σ = 1/ρ è detta “conduttività”. Risulta inoltre che [ρ] = Ω·m e


[σ] =S/m.
La resistività per i metalli aumenta linearmente con la temperatura:

ρ ' ρ0 [1 − α(T − T0 )] (163)

dove σ = 1/ρ è detta “conduttività”. C’è tuttavia una lega particola-


re di rame (60%) e zinco (40%) che ha resistività pressoché costante al
variare della temperatura ed è per tale motivo che prende il nome di
“costantana”. Tale lega ha ρ = 4.9 · 10−7 Ω·m ed è ovviamente usatis-
sima in elettronica, specialmente nella realizzazione dei resistori. La
resistività per i semiconduttori si comporta all’opposto dei metalli: di-
minuisce con la temperatura secondo delle relazioni empiriche (legge
di Steinhart-Hart) che qui non ci interessano. Ci sono infine alcuni
materiali che, se portati sotto una certa temperatura critica, presentano
resistività nulla. Vengono per questo chiamati superconduttori , ma
qui noi non ci interesseremo di essi. La resistività è una proprietà dei
materiali. La resistenza, dell’oggetto concreto che abbiamo e dipende
dunque dalla geometria. Sia, ad esempio, un cavo elettrico schematiz-
118 pietro oliva

zabile come un cilindro di lunghezza L, area A ed isotropo (quindi di


resistività scalare ρ costante su tutto il cavo).
Applicando una d.d.p. V ai capi del cavo scorrerà una certa corrente
I. Ma il campo elettrico con la densità di corrente sono in tale caso due
costanti: E = V/L e j = I/A, perciò
 
E V/L L
ρ= = ⇒ V = I· ρ ≡ IR (164)
j I/A A

Nella (164) dove abbiamo nominato “resistenza” R del cavo cilindrico di


sezione A e lunghezza L, la quantità R = ρ AL ; ebbene si dimostra (ma noi
non lo faremo) che tale relazione vale per ogni conduttore omogeneo ed
isotropo di sezione costante di forma qualunque (non solo cilindrico).
Figura 79: George Simon Alfred Ohm Esiste tutta una classe di materiali che si comportano secondo la (164) e
(1789 - 1854), fisico e matematico tede-
sco. Ohm apprese praticamente tutto ciò vengono detti “materiali ohmici” per i quali quindi vale la
che poi gli servì nei suoi studi dal padre
a sua volta superbo autodidatta e padre V = I·R (165)
modello di educazione in famiglia.
indipendentemente dalla polarizzazione e dal potenziale applicato (o
almeno per una certa regione di valori di potenziale). La (165) è det-
ta legge di Ohm in onore al fisico tedesco Ohm quale la pubblico nel
suo “Die galvanische Kette mathematisch bearbeitet”. Dalla (164) imme-
diatamente si trova la potenza dissipata in funzione della resistenza:

dE dqV V2
P= = = IV = I2 R = (166)
dt dt R
Siamo adesso pronti a parlare di circuiti e dell’analisi di questi. Introdu-
ciamo gli elementi che ci servono. Riportiamo fin d’ora le caratteristiche
V − I di resistore, induttore e condensatore, rispettivamente (164), (158)
e (113).

• Resistore
V
V = IR I=
R

• Induttore
Zt
dI 1
V=L I= V (t0 ) dt0
dt L
t0

• Condensatore
Zt
1 dV
V= I (t0 ) dt0 I=C
C dt
t0

che ci serviranno per affrontare gli esercizi nella pratica.


lezioni di fisica ii 119

Cenni di Circuiti elettrici in CC

Con circuito elettrico s’intende un insieme d’elementi collegati fra loro in


modo da trasferire e/o convertire energia elettrica. Gli elementi ideali
fondamentali sono distinguibili in attivi e passivi: i primi son quelli che
forniscono energia, i secondi quelli che la dissipano o immagazzinano.
Vediamo gli elementi passivi che useremo maggiormente:

Gli elementi passivi ideali di grandezza variabile invece si indicano


con una freccia sovrapposta:

La corrente scorre convenzionalmente dal polo positivo a quello


negativo, cioè da dove c’è maggiore potenziale (rispetto a terra) a do-
ve ce n’è meno. In realtà sono gli elettroni che migrano quindi sono
cariche negative che girano dal polo negativo verso il positivo, ma la
convenzione vuole che si veda il fenomeno come cariche positive che si
spostano in verso opposto.
120 pietro oliva

Un generatore ideale di tensione è in grado di mantenere una d.d.p.


costante indipendentemente dalla corrente erogata (dal carico connes-
so). Un generatore ideale di corrente è in grado di erogare una certa cor-
rente indipendentemente dal carico connesso. I simboli per i generatori
ideali sono

Altri elementi circuitali prendono il nome di

• Filo: il filo ideale non oppone alcuna resistenza al passaggio di


corrente; può, nei disegni, essere allungato e deformato a piacere.

• Nodo: un nodo è un punto del circuito dove convergono tre o


più conduttori. Il nodo non può assolutamente accumulare carica
Figura 80: In questo disegno ci sono solo elettrica.
3 nodi, 5 rami e 6 maglie delle quali solo
5 sono indipendenti. • Ramo: un ramo è l’insieme ordinato di tutti gli elementi di un circuito
compresi tra due nodi successivi.

• Maglia: una maglia è l’insieme ordinato di elementi che s’incontrano


lungo un circuito partendo e tornando allo stesso nodo lungo un
cammino tale che ogni ramo venga percorso una sola volta.

Si dicono inoltre rami scheletro quelli essenziali per connettere i nodi


mentre si dicono rami anello quelli essenziali per formare le maglie.
In genere c’è una certa arbitrarietà nello scegliere i rami scheletro ma
in presenza di n nodi si potranno sempre e solo avere rs = n − 1 rami
scheletro e se il numero totale dei rami è r c’è una relazione con il
numero di maglie indipendenti: m = r − rs = r − n + 1; tale numero
è anche uguale ai rami anello (m ≡ ra ). Solitamente per risolvere un
circuito conviene prima semplificarlo: se tra due (o più) nodi non ci
sono elementi bipolari, ma solo filo ideale, è bene sopprimere il filo
nel disegno poiché altrimenti si rischia un conteggio errato di nodi. Si
prosegue poi con un’ispezione del circuito. A tal fine si usino queste
poche regole preziose:
lezioni di fisica ii 121

• due o più elementi passivi qualunque si dicono in serie se in essi


scorre la stessa corrente (s’accumula la stessa carica nel caso dei
condensatori in CC).

• Due o più generatori di tensione in serie sommano le loro tensioni.

• Due o più generatori di corrente in serie o hanno la stessa corrente o


non si possono MAI collegare!!

• Due o più elementi passivi qualunque si dicono in parallelo se ai loro


capi c’è la stessa tensione.

• Due o più generatori di corrente in parallelo sommano le correnti.

• Due o più generatori di tensione in parallelo o hanno lo stesso


voltaggio o non si possono MAI collegare!!

Si terrà in seguito conto degli eventuali elementi in serie e in parallelo


per poterli sostituire con gli opportuni elementi equivalenti. In partico-
lare varranno le seguenti considerazioni per dei resistori in serie ed in
parallelo:

• se due (o più) resistenze sono in serie e collegate ad un generatore


di tensione V significa che possiamo scrivere V1 = I1 R1 e V2 = I2 R2
quali leggi di ohm applicate ai capi dei resistori. Ma per definizione
i due sono percorsi da stessa corrente: V1 = IR1 e V2 = IR2 e inoltre
sommando le due equazioni V1 + V2 = V. Perciò necessariamen-
te V = I (R1 + R2 ) sicché la resistenza equivalente di una serie di
resistenze è la somma di esse:
X
Rs = Rk (167)
k

• se due (o più) resistenze sono in parallelo e collegate ad un generatore


di tensione V significa che possiamo scrivere V1 = I1 R1 e V2 = I2 R2
quali leggi di ohm applicate ai capi dei resistori. Ma per definizione
ai loro capi c’è la stessa tensione:

1 1
V = I1 R1 → V = I1 V = I2 R2 → V = I2
R1 R2

e inoltre sommando le due correnti uscenti I1+ I2 = I con I corrente


entrante nel nodo. Perciò necessariamente V R11 + R12 = I, dunque
l’inverso della resistenza equivalente di un parallelo di resistenze è
la somma degli inversi:

1 X 1
= (168)
Rp Rk
k
122 pietro oliva

Leggi di Kirchhoff

Nel caso dei circuiti di soli resistori e condensatori si possono efficace-


mente usare due leggi che altro non sono se non leggi di conservazione
di carica ed energia. L’importante è che non vi siano correnti indotte
(ad esempio perché presente un induttore). Se sono presenti correnti
indotte o comunque variazioni di campo magnetico attraverso spire del
circuito la seconda legge di Kirchhoff non si può applicare!

1. Prima legge di Kirchhoff - ai nodi (conservazione della carica): La


somma delle correnti che interessano un nodo dev’essere nulla.
X
Ik = 0 (169)
Figura 81: Gustav Robert Georg Kirch- k
hoff (1824 - 1887), fisico e matematico
tedesco.
2. Seconda legge di Kirchhoff - alle maglie (conservazione dell’e-
nergia): Percorrendo interamente una maglia con verso arbitrario
la somma delle cadute di potenziale e delle d.d.p. dei generatori
eventuali devono compensarsi.
X X
Vi = Ik Rk (170)
i k

Vediamo adesso alcuni esempi fondamentali: il partitore di tensione


X
Rs = Rk = R1 + R2 V = I (R1 + R2 )
k

tale circuito è detto partitore di tensione perché ai capi di ogni Ri in serie


si può ottenere una d.d.p. di valore voluto purché inferiore alla V del
generatore, essendovi ai capi della generica Ri la Vi = V PRiR < V.
k k
Il partitore di corrente:

1 X 1 1 1 R1 R2
= = + V=I
Rp Rk R1 R2 R1 + R2
k

tale circuito è detto partitore di corrente perché attraverso la Ri del ramo


i-esimo si può ottenere una corrente di valore voluto purché inferiore
alla I entrante nel nodo, scorrendo in Ri la corrente Ii = I P1/R1/R < I.
i
k k

Induttanze in serie e parallelo

Dato che ponendo due induttori in parallelo deve sempre valere che
ai loro capi vi sia istante per istante stessa d.d.p. e che sia comunque
lezioni di fisica ii 123

soddisfatto Kirchhoff ai nodi (i = i1 + i2 ), deve essere che

di d
= (i1 + i2 ) = V/L1 + V/L2 →
dt dt

1 1 1
→ = + (171)
Ltot L1 L2
come avviene per i resistori in parallelo.
D’altronde anche in serie le induttanze si comportano come i resistori
perché vi scorre la stessa corrente quindi

di di
V = (L1 + L2 ) = Ltot →
dt dt

→ Ltot = L1 + L2 (172)

In definitiva gli induttori si comportano come i resistori.

Condensatori in serie e parallelo


Figura 82: Schema tipico di un partitore
di tensione (sopra) e di corrente (sotto).
Portiamo la carica totale Q = I∆t verso un parallelo di due capacità
C1 e C2 . Al nodo del parallelo le cariche si partiranno di modo che
Q
Q = Q1 + Q2 . Direttamente dalla definizione C = |∆V| si può capire
qual è la capacità equivalente di due in parallelo. Esse infatti avranno,
per definizione di parallelo, ai loro capi la stessa ∆V di modo che

Q1 Q2
C1 = C2 = → Q = Q1 + Q2 = (C1 + C2 )|∆V|
|∆V| |∆V|

perciò due o più capacità in parallelo sono equivalenti ad una capacità


somma delle singole capacità del parallelo
X
Cp = Ck (173)
k

Portiamo la carica totale Q = I∆t verso una serie di due capacità C1


e C2 . Le cariche che s’accumulano sulla prima faccia di C1 e sull’ultima
di C2 si caricano tutte di carica uguale e contraria ±Q. Direttamente
Q Figura 83: Un solenoide si caratteriz-
dalla definizione C = |∆V| si può capire qual è la capacità equivalente za dal numero di spire, dal raggio delle
di due in serie. Essi infatti avranno una caduta totale di potenziale |∆V| medesime e dalla lunghezza totale.

di modo che
Q Q
|∆V| = |∆V1 | + |∆V2 | = +
C1 C2
perciò due o più capacità in serie sono equivalenti ad una capacità il cui
124 pietro oliva

inverso è la somma degli inversi delle singole capacità della serie


!−1
X 1
Cs = (174)
Ck
k

I condensatori hanno quindi leggi opposte rispetto resistori e induttori.

Circuito RL

Studiamo il comportamento di induttori e condensatori in transizione.


Studiamo cioè quel che succede quando si accende una corrente conti-
Figura 84: Un circuito RL in corrente con- nua in un circuito dove c’è una capacità o un’induttanza. Prima di tutto
tinua. Sono disegnati i versi del campo cominciamo con il ripassare il concetto di auto-induzione: ricordiamoci
elettrico degli elementi.
che il flusso magnetico è proporzionale alla corrente φB ∝ I quindi scri-
viamo φB = LI e la f.e.m. indotta dalla presenza di un flusso variabile
sarà
dφB dI
f.e.m. = − = −L
dt dt
dove L tiene conto della geometria, non dipende dalla corrente. Ad
esempio un solenoide, cioè un filo con N avvolgimenti a spira di raggio
r lungo d, ha al suo interno un campo

NI
B = µ0
d
quindi un flusso
N2 πr2 µ0
φB = Nπr2 B = I
d
N2 πr2 µ0
In tale caso allora L = d . Tale induttanza può essere molto piccola
e spesso nei circuiti reali viene ignorata, però è sempre presente poiché
anche solo un filo reale chiuso in cui scorre corrente ha sempre un campo
magnetico associato e dunque un flusso.
Prendendo ad esempio il circuito RL di Fig. 84, vediamo cosa succede
in transitorio alla chiusura dello switch: a t = 0 quando I = 0. La cor-
rente comincia a scorrere ma l’induttanza combatte contro la variazione
di flusso facendo crescere I da zero a V/R con una legge esponenziale.
Risulta evidente che non ha senso parlare qui di Kirchhoff alla ma-
− →
H→ −
glia poiché stavolta E · dl , 0. Piuttosto bisognerà usare la legge di

Faraday per la quale tale circuitazione vale − dtB = −L dI dt . Ma allora
evidenziamo i versi del campo elettrico e circuitiamo nel verso della
corrente. Partiamo dall’induttore: ovviamente essendo E = 0 lungo
esso, la parte di circuitazione relativa dà contributo nullo. Nella resi-
stenza l’integrale fornisce, come sappiamo, RI. Passando infine dentro
il generatore dove il campo ha verso opposto a quello di circuitazione
lezioni di fisica ii 125

troviamo −V; la somma dei tre, 0 + RI − V, dev’essere −L dI


dt , sicché

dI dI
V−L = RI → RI + L −V = 0
dt dt

La soluzione di RI + L dI
dt − V = 0 è
 R

I = Imax 1 − e− L t dove Imax = V/R (175)

Sostituendo adesso istantaneamente al generatore un corto circuito la


corrente vuole andare a zero ma l’impedenza si oppone imponendo
l’equazione RI + L dI
dt = 0 di soluzione

R
I = Imax e− L t dove Imax = V/R (176)

I comportamenti esponenziali appena studiati sono mostrati nella


figura a tutta pagina qui sopra riportata (tranne l’ultimo caso, quello
di “scarica” della (176) che non è disegnato), prodotta attraverso un
simulatore. Essa mostra il circuito RL a regime; l’induttore è evidenziato
in azzurro. Si vedono le curve di corrente (giallo) e tensione (verde) per
ogni elemento. Sottolineamo, se ve ne fosse il bisogno, che essendo tutti
elementi in serie il comportamento della corrente nel circuito è lo stesso
per ogni elemento. Il lettore noti inoltre che non è corretto in tale caso
applicare la legge di Kirchhoff alle maglie in quanto l’elemento induttore
genera un campo che non è conservativo. Il corretto computo bisognerà
farlo tenendo conto della legge (80) che è l’unica sempre valida.
126 pietro oliva

Circuito RL

Facendo riferimento al circuito di Fig. 85: quando l’interruttore è aperto


il condensatore è scarico (Q=0) e non c’è alcuna corrente che scorre nel
circuito. Al tempo t = 0 chiudiamo il circuito e le cariche cominciano
a depositarsi sulla placca destra del condensatore attirando una carica
opposta che fa scorrere in tutto il circuito una corrente I = V/R. Sia
la quantità variabile nel tempo q(t) la carica che col passare del tempo
passa da 0 a Q sulla placca di C. Istante per istante deve sempre valere
che:
dq(t) q(t)
Figura 85: Un circuito CR in corrente con- V− R− =0
dt C
tinua con uno switch per lo studio del
transiente. Adesso a condensatore carico sostituiamo il generatore con un cor-
tocircuito: la carica sulle armature del condensatore cominceranno a
circolare in senso inverso scaricandolo, e l’equazione sarà

dq(t) q(t) dq(t) 1


− R− =0 → =− dt
dt C q(t) RC

integriamo

Zq Zt
dq0 (t) 1
0
=− dt0 → q(t) = Qe−t/τ
q (t) RC
Q 0

derivando abbiamo di nuovo la corrente i(t) = −I0 e−t/τ com’era preve-


dibile. In pratica stiamo scrivendo che
 
dq(t) 1 q(t)
= V−
dt R C

che risolviamo separando le variabili

dq(t) 1 dq(t) 1
  = dt → = dt
q(t) R (CV − q(t)) RC
V− C

siamo pronti per integrare

ZQ Zt
dq(t) 1 0
= dt
(CV − q(t)) RC
0 0

Troviamo che
 
q(t) − CV t  t

ln =− → q(t) = CV 1 − e− RC
−CV RC
lezioni di fisica ii 127

la cui derivata ci informa dell’andamento della corrente:

i(t) = I0 e−t/τ con I0 = V/R

Adesso a condensatore carico sostituiamo il generatore con un cor-


tocircuito: la carica sulle armature del condensatore cominceranno a
circolare in senso inverso scaricandolo, e l’equazione sarà

dq(t) q(t) dq(t) 1


− R− =0 → =− dt
dt C q(t) RC

integriamo

Zq Zt
dq0 (t) 1
0
=− dt0 → q(t) = Qe−t/τ
q (t) RC
Q 0

derivando abbiamo di nuovo la corrente i(t) = −I0 e−t/τ com’era preve-


Figura 86: Un semplice generatore di cor-
dibile. rente alternata (sopra). Nella figura sotto
I processi di carica e scarica sono evidentemente simmetrici nel caso schematizziamo il generatore con il suo
simbolo e connettiamo ad esso un carico
del CR. resistivo R.

Cenni di Circuiti elettrici in CA

Dopo tutto quello che abbiamo visto è evidente che produrre un segnale
di tipo sinusoidale è facilissimo: basta far ruotare una spira ove scor-
re una corrente continua all’interno di un campo magnetico uniforme
come in Fig.86. Generiamo così nella spira una f.e.m. indotta di tipo si-
nusoidale v(t) = V0 sin(ωt). È perciò sempre facile ottenere un segnale
elettrico del tipo
i(t) = I0 sin(ωt − φ) (177)
Figura 87: Il generatore di corrente
dove il segno convenzionale negativo per la fase ha motivi solo storici.
alternata con un carico capacitivo C.
Basta connettere un carico ai capi del generatore. Sia la configurazione
più semplice possibile (a parte il corto circuito), quella ottenuta con-
nettendo un resistore solo, ai suoi capi cadrà tutta la d.d.p. come da
Fig.86:
vR = v(t) = V0 sin(ωt)

vR V
iR = = I0 sin(ωt − φ) → I0 = 0 e φ = 0 (178)
R R
Vediamo cosa succede per gli altri elementi circuitali passivi: connet-
tiamo ad esempio un condensatore solo come in Fig. 87. Con gli stessi
128 pietro oliva

ragionamenti

vC = v(t) = V0 sin(ωt) e Q = CvC = CV0 sin(ωt) (179)

La corrente che scorrerà nel circuito sarà dunque la derivata della carica:

d
iC = Q = CV0 ω cos(ωt)
dt
volendo unificare la notazione al caso resistivo riscriviamo la corrente
come
V0  π 1 π
iC = sin ωt + → XC = e φ=− (180)
XC 2 ωC 2

Ci rimane l’ultimo caso: l’induttore. Procediamo esattamente nello


stesso modo di prima scrivendo

d
Figura 88: Il generatore di corrente vL = L iL = V0 sin(ωt)
dt
alternata con un carico induttivo L.
quindi troviamo la corrente facendo l’integrale
Z
V0 V0
iL = sin(ωt) dt = − cos(ωt)
L Lω

Anche qui uniformiamoci e scriviamo come

V0 V0  π π
iL = − cos(ωt) = sin ωt − → XL = ωL e φ = (181)
Lω XL 2 2

Condizioni di lavoro in CA

Discuteremo adesso alcune condizioni e definizioni per lavorare meglio


in corrente alternata. In particolare diremo che

• Una rete è lineare se dà luogo a equazioni o sistemi d’equazioni


lineari, intendendo linearità sia algebrica, sia analitica.

• Useremo la convenzione di indicare, da adesso in poi, le grandezze


indipendenti dal tempo con lettere maiuscole come in V = I · R,
quelle dipendenti dal tempo con minuscole, come in v(t) = i(t) · R.

• Estenderemo le leggi viste in CC (le leggi di Ohm e di Kirchhoff) al


caso di CA nella stessa forma che avevano in CC a patto di descrivere
una rete in regime stazionario. Inoltre considereremo solo casi in cui
tutti i generatori presenti abbiano ugual frequenza.

• Diremo di una grandezza essere periodica se

a(t) = a (t + nT ) n∈N
lezioni di fisica ii 129

dove T dicasi periodo indicante il tempo necessario affinché la gran-


dezza compia un’oscillazione completa e ritorni alle condizioni ini-
ziali. [T ] = s.

• ν dicasi frequenza, con ν = 1/T ovvero il numero di volte che eventi


identici si ripetono nell’unità di tempo. [ν] = [s]−1 =Hz.

• ω dicasi pulsazione: ω = 2πν = 2π/T essendo il numero di gi-


ri nell’unità di tempo. Può essere interpretata come la correzione
trigonometrica della frequenza: [ω] = [rad][s]−1 .

Con queste convenzioni e accorgimenti proseguiremo a descrivere la


legge di Ohm generalizzata (solo come superficiale approfondimento):
se i segnali sono sinusoidali si possono scrivere direttamente le seguenti
relazioni
ZR = R ZL = ωL ZC = 1/ωC

φR = 0 φL = π/2 φC = −π/2

quindi usando il metodo simbolico descritto dall’equazione Z = Ze jφ ,


possiamo scrivere che in regime sinusoidale stazionario vale

V = I·Z (182)

dove nel più generico dei casi possiamo scrivere l’impedenza

Z = R + jX

dove R è detta resistenza e X reattanza.


L’operatore inverso è

Z̄−1 { Y = G + jS

con G conduttanza e S suscettanza:


R X
G= S=−
R2 + X2 R2 + X2

Figura 89: Il trasformatore solitamen-


Trasformatori te serve per trasformare l’ingresso V1
adattandolo per il carico connesso a V2 .

Terminiamo questo capitolo con un brevissimo cenno sui trasformatori:


abbiamo visto che è facile generare corrente alternata. Nessuno però
è normalmente interessato ad avere grandissime d.d.p. né chi vende,
né tantomeno l’utente finale. Purtroppo però la trasmissione su lunghe
distanze dell’energia elettrica deve avvenire ad altissimi potenziali per
minimizzare la perdita I2 R dovuta all’effetto Joule23 . La regola della 23
Solitamente la resistenza dei cavi è ∼
0, 2 Ω/km.
trasmissione è sempre quella di trasmettere al massimo voltaggio e alla
130 pietro oliva

minima corrente possibili. L’oggetto che ci permette di passare da alti


potenziali/basse correnti (trasferimento) a bassi potenziali/alte correnti
(consumo) e viceversa mantenendo il rapporto V · I circa costante è il
trasformatore. Vediamo come sono collegati V1 e V2 di figura: per la
legge d’induzione ogni volta che varia uno dei due potenziali si deve
avere un’unica reazione, la f.e.m. indotta, che è pari a

V1 V N2
f.e.m. = = 2 ⇒ V2 = V1 (183)
N1 N2 N1

ovviamente in un trasformatore ideale l’energia è conservata e dunque

N1
V1 I 1 = V2 I 2 ⇒ I2 = I1 (184)
N2

Naturalmente la corrente I2 scorre perché il consumatore finale mette


un certo carico R, conseguentemente avremo una
 2
N2 N 2 V2 N2 V1
I1 = I2 = = (185)
N1 N1 R N1 R

Confrontando la (185) con la (165) ci accorgiamo che il generatore (del


circuito primario che è attaccato con le N1 spire all’anello di ferro) che
sta generando V1 sente una resistenza equivalente
 2
N1
Req = R (186)
N2

come carico nel quale scorre la corrente I1 .


Propagazione nel vuoto

Nel vuoto non ci sono cariche né correnti. Le (83) ovviamente vanno


scritte in accordo con tali richieste:
 
~=0
~ · dS
E
Σ



~

B
~ · d~l = − dΦΣ

 H
 ∂Σ E


dt
 (187)

 B ~=0
~ · dS
Σ



~

E

~ · d~l = µ0 ε0 dΦΣ
 H
B

∂Σ dt

Come abbiamo visto giova ancora di più riscrivere le (187) in forma


differenziale:
~ ·E
~=0


 ∇

~

~ = − ∂B

~ ×E


 ∇

∂t

(188)


 ~ ·B
∇ ~=0


~

~ = µ0 ε0 ∂E

~ ×B


 ∇
∂t
dove la seconda e la quarta si scrivono sotto l’ipotesi che la superficie Σ
scelta non vari nel tempo per poter portare dentro l’integrale l’operatore
di derivazione.
Le (188) costituiscono un sistema di equazioni differenziali alle deri-
vate parziali. Per poter risolvere tale sistema bisogna ridurre il numero
d’equazioni ad esempio sostituendo le divergenze nei rotori. Facciamo
il calcolo per il campo elettrico ad esempio: sfruttando la nota proprietà
(76) scriviamo il rotore del rotore del campo elettrico

~
!
~

~ ~

~

~ ~

2~ ~ ∂B ∂ ~ ~ 
∇× ∇×E = ∇ ∇·E −∇ E = ∇× − =− ∇×B
∂t ∂t

~ è nulla in assenza di sorgenti, sicché


ma la divergenza di E

~= ∂ ~ ~ 
∇2 E ∇×B (189)
∂t
132 pietro oliva

Sfruttiamo adesso la quarta delle (187) e riscriviamo la (189) come

~ ~
!
2~ ∂ ∂E ∂2 E
∇ E= µ0 ε0 = µ0 ε0 2 (190)
∂t ∂t ∂t

Quindi per il campo elettrico nel vuoto varrà l’equazione

~
∂2 E
~ − µ0 ε0
∇2 E =0 (191)
∂t 2

Gli stessi identici ragionamenti potevano essere fatti per il campo ma-
gnetico che quindi soddisferà anch’esso un’equazione identica:

~
∂2 B
~ − µ0 ε0
∇2 B =0 (192)
∂t2
Per puro spirito di eleganza solitamente si usa riscrivere le (191)+(192)
come un certo operatore che agisca sui due campi, elettrico e magnetico:
 
2−µ ε ∂
2


 ∇ 0 0
~=0
E
∂t2

Figura 90: Jean Le Rond d’Alembert (1717 

- 1783), enciclopedista, matematico, fisi- (193)
∂2 ~
 
co, filosofo ed astronomo francese, tra le 
 ∇ − µ0 ε0 2 B = 0
2


più influenti figure dell’Illuminismo.
∂t

∂2
L’operatore ∇2 − µ0 ε0 2 è detto operatore di d’Alembert o più strin-
∂t
gatamente dalembertiano, ed è indicato con un simbolo speciale, un
quadrato , di modo da poter scrivere compatte le equazioni trovate:

~=0

 E

(194)
~=0

B

Le (194) sono identiche all’equazione delle onde che deriva dall’analisi


e nota come equazione differenziale alle derivate parziali iperbolica, de-
scrivente la propagazione di un’onda nelle variabili spaziali e temporali
cui giunse d’Alembert nell’ambito dello studio delle corde di strumenti
musicali. In generale, infatti, un’onda trasversale che si propaga con
velocità v soddisfa l’equazione

1 ∂2
 
∇ − 2 2 f (~
2
x, t ) = 0 (195)
v ∂t

conseguentemente le (194) rappresentano sei equazioni scalari. Faccia-


mo notare che dalle (194) si pone immediatamente che la velocità delle
onde elettromagnetiche deve essere

1
v= √
µ0 ε0
lezioni di fisica ii 133

e dato che numericamente tale valore è praticamente quello della ve-


locità della luce24 Maxwell stesso fu portato a commentare la cosa 24
ε0 µ0 ' 8, 85 · 10−12 · 4π · 10−7 quindi
√ 9
scrivendo 1/ ε0 µ0 ' √10
11,12
' 3 · 108 m/s.

“Questa velocità è così vicina a quella della luce che ho ragione di supporre
che la luce stessa sia un’onda elettromagnetica”

divinando un risultato che avrebbe fatto storia. Facciamo infine notare


che dalla forza di Lorentz si può subito trovare la relazione geometrica
che deve esserci tra i due campi in assenza di forze:

~ = q(E
se F ~+~ ~) = 0
v×B allora

~+~
E ~=0
v×B ⇒ ~=B
E ~ ×~
v

che ci informa dell’ortogonalità tra la giacitura individuata dal campo


~ con il versore della direzione di propagazione (che è proporzionale a
B
~
v) e il campo elettrico. Ma l’informazione che deve rimanere in mente
di questo ragionamento è che campo elettrico e magnetico sono tra
loro ortogonali (ed a loro volta sono perpendicolari alla direzione di
propagazione anche se qui non daremo dimostrazione rigorosa).
La soluzione della (195), se ci limitiamo per semplicità ad un moto
esclusivamente lungo la direzione dell’asse x, è della forma

f = f (x ∓ vt) in generale F = f (x − ct) + g(x + ct)

dove nel secondo passaggio ormai abbiamo sostituito alla velocità ge-
nerica v con quella della luce c ed abbiamo ammesso una combinazione
lineare di un termine che descrive la propagazione dell’onda nel verso
delle x crescenti ed il termine che include la possibilità di movimento
dell’onda nel verso negativo delle x (il pezzo g(x + ct)).
Fisica Moderna: il Modello Standard

Le interazioni fondamentali note in Fisica sono tre: quella gravitazio-


nale, quella elettrodebole (elettromagnetica + nucleare debole), e quella
nucleare forte. La gravitazione e l’elettromagnetismo sono fenomeni
più noti al pubblico poiché i loro effetti sono sperimentabili nella vita
quotidiana, mentre la forza forte e quella debole, responsabili della com-
posizione della materia e delle sue trasmutazioni, sono meno conosciute
perché il loro raggio d’azione si esaurisce a scale subatomiche.
Il Modello Standard della Fisica moderna organizza le particelle che
compongono il nostro universo in due statistiche fondamentali, che
indicano come si distribuiscono stocasticamente negli stati d’energia
talune particelle appartenenti ad un dato sistema in equilibrio termico:
questi due modi di disporsi determinano le due famiglie dei fermioni e Figura 91: Il Modello Standard delle
particelle elementari.
dei bosoni.

Fermioni e Bosoni

I fermioni sono così detti perchè seguono la statistica di Fermi-Dirac,


ovvero obbediscono al principio d’esclusione di Pauli che vieta a due
o più siffatte particelle di coesistere nello stesso stato fisico ed avere
perciò tutti i numeri quantici eguali. Ciò si traduce nel fatto che i
fermioni costituiscono la materia ordinaria. Caratteristiche comuni a
tutti i fermioni sono:

• d’avere spin semintero;

• di formare stati quantici antisimmetrici (scambiando due fermioni


cambia segno la funzione d’onda totale);

• d’avere tutti massa a riposo non nulla.

I bosoni seguono invece la statistica di Bose-Einstein che non osserva


il principio d’esclusioni di Pauli e quindi consente a due o più particelle
di tal genere di coesistere nello stesso stato fisico ed avere perciò tutti i
numeri quantici eguali. Caratteristiche comuni a tutti i bosoni sono:
136 pietro oliva

• d’avere spin intero;

• di formare stati quantici simmetrici (scambiano due bosoni la fun-


zione d’onda totale non cambia segno);
I fermioni, come detto, costituiscono la materia ordinaria e vengono
classificati con i seguenti nomi:
Quark Sono fermioni elementari, nominati seguendo criteri di massa
up, down, charm, strange, top, bottom, (detti “sapori” anche se non
c’entrano nulla con il senso del gusto, naturalmente!) che non si
trovano mai isolati in natura; essi sono infatti i costituenti elemen-
tari di particelle più pesanti, e non più elementari, quali il protone
ed il neutrone che vedremo tra poco. Tutti i quark portano frazio-
25
tale carica elementare è pari a quella ni di carica elementare25 e sono mischiati in modo tale da formare
dell’elettrone e− = −1, 60217653 · 10−19 C.
particelle di carica e± o suoi multipli. I quark portano sia carica elet-
trica sia carica di colore, che è una proprietà di quark e gluoni (che
vedremo più avanti) nel contesto della cromodinamica quantistica;
una spiegazione più approfondita andrebbe ben oltre i nostri scopi,
diremo qui solo che tale carica di colore è analoga alla nozione di
carica elettrica e viene introdotta per spiegare come i quark, che sono
fermioni, possano coabitare negli adroni senza contraddire il princi-
pio di esclusione di Pauli succitato. Il “colore” di quark e gluoni non
ha ovviamente nulla a che vedere con i colori percepiti dall’occhio
umano. Per causa di questa carica si dice che i quark sono confinati,
che esistono cioè solo sotto forma d’aggregati (es. tre quark u-d-u
formano il protone, u-d-d il neutrone e così via). Il nome quark fu
dato dal fisico Gell-Mann a tali entità e si ritrova in un romanzo di
Joyce che lo scienziato stava leggendo al tempo della scoperta.
Leptoni Sono le altre particelle delle quali a tutt’oggi non s’è rivelata
alcuna struttura interna e per ciò vengono definite elementari. Esse
26
nome poco usato, al suo posto sono di tre famiglie: gli elettroni, i muoni ed i tauoni26 . Le tre par-
normalmente viene usato solo tau.
ticelle e le rispettive antiparticelle portano tutte una carica elettrica
elementare. Il nome leptone viene dal greco λεπτόν, neutro di λεπτός
che significa leggero, delicato, fine, snello; infatti per ragioni stori-
che, alla loro scoperta venne dato risalto alla notevole qualità d’avere
dimensioni praticamente puntiformi.

Adroni e materia

I quark, tenuti insieme dalla forza forte, compongono particelle che ven-
27
dal gr. ἀδρός, corpulento, spesso. In gono dette adroni27 . Gli adroni sono dunque quelle particelle non ele-
opposizione ai leptoni.
mentari soggette alla forza forte ed aventi una certa estensione spaziale
rilevabile. Esse si dividono ulteriormente in due tipologie:
lezioni di fisica ii 137

Barioni Sono gli adroni composti da tre quark e sono fermioni. Per
motivi storici sono considerate “pesanti”, da cui il nome che viene
dal greco βαρύς, pesante. Alcuni tra i barioni, i protoni ed i neutroni,
sono i componenti dei nuclei atomici e per tale motivo vengono detti
nucleoni.

Mesoni Sono gli adroni composti da una coppia quark-antiquark, quin-


di bosoni, che per motivi storici legati al momento della loro scoper-
ta furono chiamati “coloro che stanno nel mezzo”, μέσος, poiché di
massa intermedia fra quella del protone e quella dell’elettrone.

Passiamo adesso alle particelle che rappresentano le interazioni tra


i corpi dovute alle forze fondamentali: senza entrare troppo nel det-
taglio diremo che ogni interazione avviene attraverso lo scambio di
“mediatori”; per il campo elettromagnetico c’è il fotone γ, per quello
gravitazionale il gravitone G, per quello della forza debole il bosone W ±
e la versione neutra Z0 , per la forza forte, infine, il gluone g. Il senso
di definire tali particelle è un po’ come sostenere che se due bambini
giocano a palla scambiandosela in continuazione, un modello possibile
per descrivere la situazione è dire che essi stanno interagendo essendo
legati da una forza “gioco” mediata dalla palla28 . 28
in realtà dovremmo pensare in gene-
rale a due casi per descrivere attrazio-
Riassumendo tutto quanto detto in un diagramma otteniamo lo stato
ne/repulsione: se un amico vi passas-
attuale dell’arte (dove i passaggi per la quantizzazione della gravità e se un palloncino pieno d’acqua, voi ri-
lanciandolo, per paura che esso esploda,
successivamente quella dell’unificazione di tutte le teorie sono ancora,
vi avvicinereste e il vostro amico fareb-
ovviamente, un più o meno lontano obiettivo della ricerca) mostrato in be altrettanto man mano che continuino
Fig.92. i passaggi. Questo può essere un toy-
model mentale di una forza attrattiva me-
diata dal palloncino d’acqua. Al contrario
se cominciaste a calciare pallonate con-
Forza gravitazionale ed elettromagnetica tro il vostro amico e lui altrettanto con voi,
vi allontanereste per diminuire il dolore
della pallonata sul corpo, e questo può
Qualunque cosa abbia massa M produce un campo detto gravitazionale
essere un’immagine mentale molto sem-
pari a ~g = G M
r2
r̂, dove G = 6.67398 · 10−11 m3 kg−1 s−1 è una costante, di plice di quel che avviene per una forza
repulsiva.
modo d’attrarre ogni altra massa m con la forza

~ g = −G Mm r̂
F (196)
r2
che come appare evidente è sempre attrattiva poiché al numeratore le
“cariche” che la generano (le masse) possono solo avere segno positivo.
In modo del tutto simile una carica elettrica Q genera un campo
~
E = 4π1 Q
r̂, dove la costante29 per motivi storici è espressa in termini 29
ai fini del calcolo basta ricordare che
0 r2 1
∼ 1010 m F−1 .
della costante dielettrica del vuoto 0 ' 8, 85 · 10−12 F m−1 , tale da attrarre 4π0

o respingere un’altra carica q con la forza

~C = 1 Qq
F r̂ (197)
4π0 r2
138 pietro oliva

la quale è attrattiva se le due cariche hanno segno opposto, repulsiva


altrimenti. Non è invece possibile scrivere un’equazione simile per le
cariche magnetiche poiché allo stato attuale delle nostre conoscenze non
è mai stato visto un mono-polo magnetico isolato, pertanto è possibile
solo scrivere l’equazione della forza magnetica prodotta da un dipolo
magnetico che agisce su una carica elettrica q in movimento con velocità
~
v dentro un campo magnetico B: ~

~L = q~
F ~
v×B (198)

dove per adesso non ci occupiamo della forma funzionale di B.~ Unendo
gli effetti del campo elettrico e magnetico su una carica esploratrice q
s’ottiene la forza del campo elettromagnetico

~e.m. = q(E
F ~+~ ~)
v×B (199)

Queste sono le forze di cui abbiamo esperienza quotidiana e che


sappiamo più o meno quantificare ed immaginare su scala umana. Ma
occupiamoci delle due restanti interazioni meno note ai non addetti.

Forza forte

Detta anche forza di colore, è la responsabile della coesione nel nucleo


dei nucleoni che altrimenti si respingerebbero per causa della forza
elettromagnetica. La forza forte in pratica tiene incollati tra loro i quark
e gli adroni in generale. Questa è di gran lunga la forza più intensa di
tutte le altre: prendendola come riferimento, la forza elettromagnetica
risulta mille volte più debole, la forza debole centinaia di migliaia di
volte meno intensa e la gravità 1038 volte più debole.
Anche in questo caso l’interazione è mediata da un bosone detto gluo-
ne ma andiamo per gradi. All’inizio, prima degli anni ’30, la semplice
osservazione che i protoni nel nucleo si sarebbero respinti elettricamen-
te e che quindi non c’era un modello per spiegare la stabilità dei nuclei,
non trovava soluzioni valide; in seguito il fisico Yukawa ipotizzò che
i nucleoni dovessero portare qualche tipo di ulteriore carica che gene-
rava un’interazione che avrebbe dovuto avere necessariamente certe
caratteristiche provenienti dalle osservazioni, in particolare:

• l’interazione è a piccolo raggio;

• è indipendente dalla carica elettrica;

• il potenziale ha simmetria sferica;

• il campo deve dipendere dallo spin dei nucleoni;


lezioni di fisica ii 139

Comunque sia, se un nucleone interagisce con un altro attraverso


lo scambio di una particella x, questo nucleone, all’emissione, deve per
forza violare la conservazione dell’energia e questo ci costringe a restare
entro un massimo tempo di coerenza dato dal principio d’indetermi-
nazione ∆E∆t ∼ h̄ cioè mx c2 ∆t ∼ h̄ ⇒ ∆t ∼ h̄/mx c2 ; dovendo dunque
vivere solo per questo tempo limitato, la particella x può percorrere solo
distanze c∆t ∼ h̄/mx c. Adesso dato che le dimensioni tipiche dell’inte-
razione nucleare sono dell’ordine del femtometro e mezzo, otterremmo
h̄/mx c ≈ 1.5 fm da cui immediatamente mx c2 ≈ h̄c/1.5 fm ma h̄c ' 200
MeV·fm, dunque la particella attesa avrà circa 200/1.5 MeV ∼ 130 MeV
di “massa”.

Forza debole

È responsabile del decadimento radioattivo delle particelle subatomi-


che e dunque determina in che modo gli elementi trasmutano lungo la
tavola periodica. È anche la forza responsabile del processo di fusione
dell’idrogeno nelle stelle e perciò è la forza che rende indirettamente
possibile l’esistenza di tutti gli elementi che oggi vediamo in natura:
mentre infatti si possono generare fotoni e gluoni da pura energia (es.
quando accendiamo la luce in casa), ogni volta che noi creiamo una
particella diversa a partire da energia pura, creiamo anche l’antiparti-
cella di modo che il bilancio netto sia costante. Questa osservazione
sola fa capire quanto sia importante la forza debole ai fini dell’esistenza
dell’universo osservabile.
La forza debole agisce su tutti i fermioni (sia leptoni che quark) con
proprietà sostanzialmente identiche. Dobbiamo quindi desumere che
tutti i leptoni abbiano tra le altre caratteristiche fondamentali, quella di
possedere una “carica debole” in maniera del tutto analoga alla conside-
razione che tutte le particelle che risentono del campo elettrico debbono
avere come caratteristica intrinseca una certa “carica elettrica”.
Questa è un’idea del tutto generale: ogni ente fisico come le parti-
celle in discussione, hanno delle caratteristiche intrinseche, peculiari.
Nel linguaggio in uso del modello standard di cui stiamo parlando,
il possesso di una “carica interna” determina l’accoppiamento con il
campo mediatore il quale è un operatore matematico definito in ogni
punto dello spazio-tempo. Il possesso di certe quantità, che prima ab-
biamo definito, parlando del principio d’esclusione di Pauli, “numeri
quantici”, determina in che modo la particella è vincolata nei proces-
si possibili, mentre il possesso di cariche determina che tipo di forze
entreranno in gioco durante tali processi. Ricordiamo inoltre che nel
linguaggio della fisica quantistica il concetto di particella e quello di
140 pietro oliva

campo sono totalmente intercambiabili: ad ogni campo corrisponde un


tipo di particelle (tra loro assolutamente identiche) e ad ogni tipo di par-
ticelle tra loro identiche corrisponde un campo. Sotto questo punto di
vista, che ripetiamo è un modello, una forza non è altro che quello che si
sperimenta quando ci si scambia un bosone mediatore. Risulta quindi
che i campi di materia hanno spin semintero e sono quindi fermioni, i
campi d’interazione invece hanno spin intero e sono bosoni.
Volendo sottolineare ancora una volta la caratteristica più notevole
dell’interazione debole, diremo ancora più chiaramente che essa modifica
la natura della particella. Un elettrone, ad esempio, che emetta un quanto
d’interazione debole, diventa un neutrino.
Siccome i leptoni possono dividersi in due diverse categorie: carichi
± (e, µ, τ) e neutri (νe , νµ , ντ ), viene facile accettare che questi possano
rispondere ad un certo tipo di modello algebrico (che non andremo a ve-
30
l’interazione elettromagnetica, che non dere nel dettaglio per ovvie ragioni di spazio) detto SU(2) che prevede30
cambia il valore della carica interna del-
l’esistenza di tre mediatori, detti W + , W − , Z0 .
la particella, risponde invece alla strut-
tura algebrica detta U(1) che a priori è Il leptone ed il suo neutrino sono dunque due stati della stessa
del tutto indipendente da SU(2). Il pre-
“particella” e generalmente si possono indicare con una dupla (vettore
mio nobel Abdus Salam ha scoperto, con
Glashow e Weinberg, che SU(2) e U(1) colonna a due componenti):
sono coincidenti e formano un gruppo ! ! !
SU(2)×U(1), e dunque unificato le due e µ τ
forze nella teoria elettrodebole.
νe νµ ντ

Similmente, dato che a causa dell’interazione debole può cambiarsi


un quark in un altro, scriveremo
! ! !
u c t
d s b

ottenendo le tre “generazioni” di leptoni e quark di Fig.91. Purtroppo


la natura è più complessa di quanto noi abbiamo provato ad esporre e
prevede anche le trasformazioni oblique tra quark di modo che un up
può divenire uno strange od un bottom, etc. e questo per motivi che sa-
ranno chiariti tra breve. Per dare però un’idea immediata bisognerebbe
attribuire tre diversi “colori” ad ogni quark di modo d’avere
! ! !
uuu ccc ttt
ddd sss bbb

La complessità del modello è dunque chiara. Riassumiamo lo stato


della nostra comprensione attuale della materia e delle interazioni in
questo grafico:
lezioni di fisica ii 141

Figura 92: Lo stato attuale delle nostre


conoscenze riguardo la materia.

Cosmologia Moderna

Ma quali sono le conoscenze riguardo il cosmo che possiamo dare per


assodate allo stato attuale delle nostre conoscenze? Ebbene, sperimen-
talmente (e non più speculativamente) possiamo oggi affermare con
relativa sicurezza che:

• l’universo è omogeneo su scale maggiori di 100 Mpc;

• è permeato da una radiazione di fondo di microonde con temperatura


di T ' 2.73 K;

• la composizione dell’universo visibile consta di materia e radiazione:


c’è circa un barione per ogni miliardo di fotoni, ma non ci sono tracce
rilevanti di antimateria;

• la materia barionica è composta al ∼ 75% di idrogeno e il restante


25% è elio con tracce d’elementi più pesanti;

• l’universo si espande seguendo la legge di Hubble.

L’esperimento WMAP ha inoltre definitivamente stabilito che la densità


media dell’universo è di circa 9.9 · 10−24 g/m3 . Dato che la massa di un
142 pietro oliva

protone è di circa 1, 67 · 10−24 g, dovremmo vedere circa 9.9/1.67 ' 5.9,


quindi sei protoni per metro cubo circa; si osserva invece non più un
protone ogni 4 m3 : meno del 5% della densità è dovuta alla materia
ordinaria, il resto (il 95% circa!) è sotto forma di qualcosa che non
è mai stata misurata direttamente dai nostri strumenti e che dunque
chiamiamo materia oscura, nome che certamente instilla un certo senso
di mistero alla cosa.
Ma procediamo con ordine: il punto fondamentale da cui partire è
che l’universo, all’osservazione, appare isotropo. Ciò significa che in
ogni direzione noi guardiamo, è sostanzialmente uguale. Con questo
Figura 93: L’universo a larga scala ci ap-
non intendiamo dire che guardando il cielo a occhio nudo esso ci sem-
pare isotropo. Se non fosse anche omo-
geneo la disomogeneità dovrebbe gioco bra tutto uguale, è ovvio che guardare diretti verso le pleiadi e poi in un
forza essere a simmetria sferica (tipo il punto accanto che sembra vuoto non dà certo l’impressione di osservare
cerchio nero disegnato) e ciò implichereb-
be che la Terra si trova nel centro perché una volta celeste isotropa. Nel cielo riconosciamo costellazioni, il brac-
vede in ogni direzione le stesse caratte- cio della nostra Galassia, i pianeti e tante altre cose che usiamo come
ristiche. Con tale semplice motivazio-
punti di riferimento. L’isotropia deve pertanto intendersi a scale molto
ne possiamo tranquillamente assumere
l’omogeneità dell’Universo. più grandi, superiori alle dimensioni di una galassia (∼ 30 ÷ 40 kpc),
come detto sopra, intorno ai 100 Mpc. Non solo: il fatto che sembri iso-
tropo ha delle implicazioni riguardanti l’omogeneità, la proprietà cioè
dell’Universo di essere sempre uguale in ogni punto (anche qui su scale
molto grandi); se l’Universo fosse infatti isotropo (come di fatto appare
osservandolo) ma non omogeneo non resterebbe che la configurazione
di Fig. 93 dove si vede chiaramente che la disomogeneità è espressa sot-
to forma di gusci sferici concentrici alla Terra. Questo ci porrebbe in un
punto privilegiato d’osservazione, al centro dell’Universo (o al centro
di una delle “bolle” se l’universo fosse a schiuma e/o frattale). Questo,
con buona pace degli integralisti religiosi, è semplicemente inaccettabile
31
“Pluralitas non est ponenda sine ne- per uno scienziato che è tenuto sempre ad usare il rasoio di Occam31 .
cessitate”.
Non ci resta dunque che prendere per valida l’ipotesi di omogeneità
dell’Universo.
Se l’Universo è omogeneo allora possiamo immaginare di sovrap-
porre una “griglia di riferimento” per stabilire un sistema di coordinate.
Dato che risulta all’osservazione un moto coerente di allontanamento
tra tutte le galassie sembrerebbe più opportuno che la griglia non fosse
statica ma si deformasse per tenere conto di tale moto d’insieme. Una
griglia i cui punti di riferimento giacciano nel nulla con galassie che si
muovo rispetto ad essa sarebbe non solo una scelta inutile ma anche
insensata. È lecito dunque pensare che in ogni intersezione di tale gri-
glia vi sia una galassia, ad esempio, e che la distanza unitaria tra due
intersezioni, sia essa ∆x, possa variare attraverso un fattore di scala pur
restando l’unità di riferimento della griglia. Non intendiamo dire che
∆x sia espressa in metri, intendiamo dire che ∆x è l’unità, costantemente
lezioni di fisica ii 143

pari ad una divisione elementare della griglia, che descrive la distanza


in unità di griglia adimensionale tra due galassie prime vicine. Il fattore
metrico, se volete, verrà scritto a parte e darà la vera distanza, stavolta
in metri, tale che Dα−β = a∆x. Consideriamo dunque il più generico dei
casi, ovvero quello in cui a = a(t) sia dipendente dal tempo.
La velocità tra due galassie si scriverà pertanto (scegliendo la nota-
d
zione [ g(t)] ≡ ġ(t) molto più snella):
dt
Vα−β = ȧ(t)∆x (200)

Pertanto risulterà
Vα−β ȧ(t)
= ≡ H (t) (201)
Dα−β a(t)
dove la dipendenza dalle particolari galassie α e β è sparita. Il parametro
H (t) è detta pertanto costante di Hubble anche se con il termine “co-
stante” ci si riferisce all’indipendenza dal particolare riferimento sulla
griglia e non alla costanza nel tempo che invece evidentemente non c’è.
Allo stato attuale H0 ∼ 68 km·s−1 ·Mpc−1 . Esiste dunque una legge che
lega velocità d’allontanamento di una galassia rispetto qualunque altra
Figura 94: Le intersezioni tra due punti
in proporzione con la distanza relativa tra le due, detta legge di Hubble: adiacenti della griglia distano sempre
∆x ma la distanza in metri tra due
galassie α e β adiacenti sulla griglia di
Vα−β = H0 Dα−β (202) riferimento è Dα−β = a(t)∆x e varia in
funzione del tempo. Tra due galassie
che ci conferma che più una galassia è distante più si allontana da noi generiche ν p e µ vi sarà invece distanza
con velocità elevata. Dν−µ = a(t) ∆x2 + ∆y2 + ∆z2 ≡ a(t)R.
Si può fare di più: possiamo dimostrare che l’universo così come lo Sopra: la griglia al tempo t0 dove il
fattore di scala vale a(0). Sotto: la griglia
osserviamo non può essere fermo almeno che non sia vuoto. A tal fine a t > t0 dove il fattore di scala vale
valutiamo la forza d’attrazione gravitazionale tra due galassie centran- a(t) > a(0) e quindi Dα−β (t) > Dα−β (0)
seppur per definizione ∆x rimane
do il nostro sistema di riferimento in una delle due come da Fig. 95. costantemente l’unità di griglia.
Per il noto teorema di Gauss l’unico contributo sulla galassia β per una
forza con dipendenza ∝ 1/D2 proviene da tutta la materia all’interno
della sfera di raggio D e ha risultante nulla ogni altra interazione con
masse al di fuori. La forza che attrae la galassia β di massa m verso il
centro del sistema di riferimento sarà dipendente da tutta la massa M
interna alla sfera come se essa fosse concentrata nell’origine; si scriverà
pertanto la seconda legge della dinamica come

Mm
−G = mD̈α−β
D2α−β

esplicitando la dipendenza dal fattore di scala e semplificando


Figura 95: Scrivere la forza con cui la ga-
lassia β è attratta verso il centro di riferi-
M M ä(t)
−G = ä(t)Rα−β → −G = mento implica porre tutta la massa dentro
a(t)2 R2α−β a(t)3 R3α−β a(t) la sfera di raggio D al centro del sistema
di riferimento.
144 pietro oliva

Se adesso notiamo che il volume della sfera in discussione è V = 43 πa(t)3 R3


possiamo scrivere
4 M ä(t)
− πG =
3 V a(t)
ma M
V = ρ è la densità di materia perciò scriveremo

ä(t) 4
= − πGρ (203)
a(t) 3

ovvero l’universo come noi lo osserviamo (isotropo e dotato di un moto


visibile abbastanza coerente di espansione) non può restare fermo, avere
cioè ä(t) = 0, a meno che non si abbia anche ρ = 0, cioè che sia vuoto.
Ad un risultato simile saremmo giunti attraverso considerazioni
energetiche scrivendo la condizione d’energia minima per la velocità
di fuga (omettiamo i pedici riguardanti i nomi delle particolari galassie
interessate poiché vedremo che alla fine tale dipendenza uscirà dalle
equazioni in modo del tutto simile a quanto visto per la (203) dove la
dipendenza da α e β scompare nell’ultimo passaggio):

1 Mm 1 M
mV 2 − G =0 → ȧ(t)2 R2 − G =0
2 D 2 a(t)R

da cui
 2
2 M ȧ(t) M 8π
ȧ(t) = 2G → = 2G = Gρ
a(t)R3 a(t) a(t)3 R3 3

che è un caso particolare dell’equazione di Friedmann (per un universo


piatto) la cui forma più generale vedremo tra un attimo. Prima di
procedere facciamo però notare che, nonostante tali relazioni siano state
trovate storicamente all’interno della teoria della relatività generale, noi
le abbiamo qui ricavate attraverso considerazioni meramente classiche
di triviale dinamica newtoniana. Se adesso ci soffermiamo a pensare
che ρ ∝ a(t)−3 ci renderemo subito conto del fatto che l’equazione da
risolvere per studiare l’andamento del fattore di scale col tempo è, a
meno di costanti che possiamo sempre ridefinire, pari a
 2
ȧ(t) 1

a(t) a(t)3

quindi ci basterà risolvere


Z q
1
ȧ(t) = p → t= a(t) da ∝ a3/2
a(t)

per vedere l’andamento qualitativo di a(t) ∝ t2/3 . Più in generale pos-


siamo pensare di avere più energia a disposizione per poter raggiungere
lezioni di fisica ii 145

e superare la velocità di fuga:

1 Mm M 2E
mV 2 − G =E → ȧ(t)2 R2 − 2G =
2 D a(t)R m

Senza perdere nulla in generalità, possiamo adesso limitarci per pura


semplicità a trattare il caso R = 1 (sempre possibile ridefinendo la griglia
opportunamente), ottenendo una scrittura semplificata del tipo
2 Figura 96: Il destino dell’universo nel
α β

ȧ(t) semplice caso di universo dominato da
= 3 + (204) materia con parametro β positivo e
a(t) a (t) a(t)2
negativo.
dove α = 8πGr/3 e β = 2E/m sono costanti (essendo r la massa presente
per unità di volume della griglia costante per definizione). Non ci vuole
molto a vedere che tale relazione è un caso più generale della (203)
dove avevamo solo il contributo dovuto alla materia ρ ≡ r/a(t)3 ∆R3 a
membro destro. La (203) in effetti può essere vista come il limite della
(204) per t → 0 ovvero per a(t) molto piccolo. Se nei primi momenti
di vita l’universo si sviluppa, come visto, attraverso l’andamento del
fattore di scala proporzionalmente a t2/3 , è quindi evidente dalla (204)
che per t → ∞ tale andamento si trasformerà in a(t) ∝ t, a patto che
β > 0, che è la soluzione dell’equazione ȧ(t) = costante. Bisogna però
valutare anche il caso β < 0 che farebbe comparire la possibilità di far
cessare l’espansione, caso nel quale la derivata prima del fattore di scala
si annullerebbe per poi crescere col segno negativo facendo implodere
l’universo in in un singolo punto.
Cosa sarebbe successo se avessimo ipotizzato un universo di soli
fotoni invece che di materia? guardando la (203) ci accorgiamo subito
che gli stessi ragionamenti ci avrebbero portato alla stessa scrittura con
la differenza che nel nostro caso di universo dominato da radiazione il
membro destro avrebbe avuto una diversa densità
ä(t) 4
= − πGρr (205)
a(t) 3

la differenza in questo caso è che, mentre la materia ordinaria non de-


grada la sua massa-energia al variare del fattore di scala, non è lo stesso
per i fotoni: questi infatti “aggiusteranno” la loro lunghezza d’onda al
volume della “scatola” che li contiene proprio come farebbe una cor-
da vibrante al variare della sua lunghezza. Sicché i fotoni varieranno
la loro energia proporzionalmente a (1 + z)−1 il che si traduce in un
andamento del tipo ρr ∝ a(t)−4 .

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