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Capitolo 3

I principi variazionali

3.1 Introduzione
Lo scopo centrale di questo capitolo è di discutere il principio variazionale
di Hamilton per i movimenti di un sistema meccanico (Principio di minima
azione, o dell’azione stazionaria), e della sua variante che va sotto il nome
di Principio di Maupertuis–Jacobi, e riguarda solo le corrispondenti traiet-
torie.1 Risulterà che il principio di Hamilton è sostanzialmente un sostituto
del familiare principio della meccanica che caratterizza i movimenti “fisici”
come quelli soddisfacenti le equazioni di Newton o le equazioni di Lagrange
o di Hamilton. Ma, come sempre avviene quando si formula un principio
in una forma “sostanzialmente equivalente”, accade anche che il nuovo pun-
to di vista può essere più conveniente a scopi “euristici”, ovvero ai fini di
estendere le vecchie teorie a nuovi campi.
Questo fatto è descritto in maniera mirabile da Feynman, nella conferenza che egli
tenne in occasione del conferimento del premio Nobel, dove egli dice (pag. 177):
“ Theories of the known (cioè le teorie dei fatti conosciuti) which are described
by different physical ideas may be equivalent in all their predictions and are hence
scientifically indistinguishable. However, they are not psychologically identical when
trying to move from that base into the unknown. For different views suggest different
kinds of modifications which might be made and hence are not equivalent in the
hypotheses one generates from them in one’s attempt to understand what is not yet
understood.2
1
Ad esempio, per un punto nello spazio un movimento è definito dalla legge x = x(t),
cioè dalla funzione da R in R3 che ad ogni tempo t ∈ R associa il corrispondente punto
x = x(t) in R3 . La corrispondente traiettoria (o curva) è invece il sottoinsieme dei punti
di R3 ottenuti in tal modo, ovvero, come anche si dice in matematica, è l’immagine della
funzione definente il movimento.
2
In questa conferenza vi è (nella penultima pagina) una parte mirabile che dovrebbe
essere importante per chi intenda dedicarsi alla ricerca scientifica. Si tratta di quando egli
parla del sacrificio richiesto allo studioso che osi dedicarsi a punti di vista che non siano
fashionable (alla moda). Feynman comunque aggiunge poi che tale sacrificio potrebbe
anche rivelarsi remunerativo.

167
168 Andrea Carati e Luigi Galgani

È proprio per questo motivo che la forma del principio di Hamilton è quel-
la preferita nel determinare i movimenti ad esempio in relatività generale3 e
già anche in relatività speciale (metodo delle geodetiche); ne faremo uso noi
stessi per determinare la corretta forma della lagrangiana della particella
libera relativistica, giustificando in tal modo la celebre relazione E = mc2 .
Ma l’importanza del principio di Hamilton venne particolarmente esalta-
ta in epoca recente (poco dopo il 1945) dall’uso che ne fece Feynman per
riformulare la dinamica nell’ambito della meccanica quantistica in un mo-
do formalmente nuovo rispetto a quello tradizionale introdotto da Heisen-
berg, Schrödinger e Dirac attorno all’anno 1925. Si tratta del cosiddetto
metodo dei “cammini di Feynman” (“Feynman paths”), invero ispirato a un
precedente lavoro di Dirac.4
Storicamente,5 i principi variazionali divennero un argomento centrale
di ricerca nella comunità scientifica, con una considerevole attenzione anche
ai suoi risvolti filosofici,6 un secolo prima di Hamilton, e se si vuole se ne
potrebbe assegnare un anno ufficiale di nascita, il 1744. Qualche tempo pri-
ma, aveva suscitato grandi discussioni la formulazione che Maupertuis aveva
dato del principio di Fermat per i raggi dell’ottica geometrica, e la traspo-
sizione che egli ne aveva fatto in ambito puramente meccanico. Toccò al
grande Eulero di ricondurre il problema entro ambiti puramente matemati-
ci. Stimolato dalla discussione che Jean Bernoulli aveva dato del problema
della brachistocrona, Eulero aveva formulato il problema di caratterizzare
analiticamente le geodetiche, cioè le curve di lunghezza minima su una
assegnata superficie, e aveva risolto questo problema in un fondamentale
lavoro del 1744 dal titolo “Methodus inveniendi lineas curvas maximi min-
imive proprietates gaudentes”. Tale lavoro, in effetti, contiene la soluzione
di un problema alquanto più generale che costituisce il cuore del presente
capitolo, ovvero caratterizzare come soluzioni di equazioni differenziali le
funzioni che hanno la proprietà di essere punti stazionari per un assegnato
funzionale di tipo integrale (il significato di queste parole verrà spiegato più
avanti).

3
Ma anche nella “teoria dei campi”.
4
Si vedano gli articoli di Dirac e di Feynman riprodotti nel volume J. Schwinger. Quan-
tum electrodynamics, Dover (New York, 1958), pag. 312 e pag. 321. Si tratta di R.P.
Feynman, Space–time approach to nonrelativistic quantum mechanics, Rev. Mod. Physics
20, 267(1948); P.A.M. Dirac, The lagrangian in quantum mechanics, Phys. Zeits. Sovje-
tunion 3, 1 (1933). Vedi anche P.A.M. Dirac, Rev. Mod. Phys. 17, 195 (1945), e anche
il libro R.P.Feynman, A.R. Hibbs, Quantum mechanics and path integrals, Mc Graw–Hill
(New York, 1965).
5
Si veda U. Bottazzini, La meccanica razionale, in P. Rossi Storia della scienza, Unione
Tipografica Editrice Torinese (Torino 1988) e Gruppo Editoriale L’espresso (2006), Vol.
II.; R. Dugas, Histoire del la Mécanique, Éditions du Griffon (Neuchatel, 1950), Trad.
inglese Dover (New York).
6
Fece scalpore lo scritto di Voltaire dal titolo La diatribe du Dr. Akakia médecin du
Pape.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 169

Il metodo attualmente usato per discutere i principi variazionali, che


verrà illustrato in questo capitolo, è sostanzialmente quello introdotto da
Lagrange (1736–1813) nel suo primo lavoro, che lo rese celebre. Il contrib-
uto di Hamilton fu esposto in tre lavori (del 1833, 1834, 1835) dai titoli:
“On a general method of expressing the paths of light, and of the planets,7
by the coefficients of a characteristic function”;, “On a general method in
dynamics”; “Second essay on a general method in dynamics”.
Una trattazione compatta e forte dei principi variazionali rilevanti per
la meccanica si trova nella fondamentale opera di Poincaré “Les méthodes
nouvelles de la mecanique céleste”, riprodotta da A. Blanchard (Paris, 1987).
Si veda il capitolo 29, “Diverses formes du principe de moindre action”, in
Tomo III, pag. 249. e anche il capitolo 1 del Tomo I, “Généralités et methode
de Jacobi”.8 Si veda anche C. Carathéodory, “Calculus of variations and
partial differential equations of the first order”, Holden–Day (San Francisco,
1965). Si tratta di opere di tipo avanzato, anche se quella di Poincaré è
abbastanza ben leggibile. Per gli aspetti analitici del calcolo delle variazioni,
una bellissima introduzione, molto conveniente dal punto di vista didattico,
è invece quella di A. Kolmogorov, S. Fomin, “Elementi della teoria delle
funzioni e di analisi funzionale”. Si veda il Cap. 10: “Elementi di calcolo
differenziale in uno spazio vettoriale”. Infine, non possiamo non citare i
lavori di Vito Volterra.9
Molto bella è anche la trattazione data in appendice al classico libro di
M. Born e E. Wolf, “Principles of optics”, Pergamon (Londra, 1959). Inter-
essante è anche il libro J. Kijowski, V.M. Tulczyjew, A symplectiv framework
for field theories, Lecture Notes in Physics n. 107, Springer–Verlag (Nerli-
no, 1979). Infine, come per quasi tutti gli argomenti di meccanica, risulta
didatticamente molto efficace la trattazione data nel libro qui spesso citato
di Dubrovin, Novikov, Fomenko, Geometria contemporanea, in cui la trat-
tazione dei principi variazionali è svolta nel Volume I, capitolo 5, con una
estensione al caso della teoria dei campi nel capitolo 6.

3.2 Formulazione del problema


L’idea fondamentale che sta alla base dei principi variazionali consiste nel
cercare di caratterizzare un movimento o una traiettoria non attraverso un’e-
7
Si noti bene: luce e pianeti. Questa corrispondenza tra onde e corpuscoli, divenne
poi, nelle mani di De Broglie e di Schroedinger, il perno per il passaggio dalla meccanica
classica a quella quantistica (con il procedimento di Schroedinger). Si veda ad esempio E.
Fermi, Notes on quantum mechanics.
8
Si veda anche H. Poincaré, Lecons de Mécanique Céleste.
9
V. Volterra, Opere matematiche: memorie e note, Accademia Nazionale dei Lincei
(Roma, 1954); V. Volterra, J. Peres, Thórie générale des fonctionnelles. Gauthier-Villars
)Paris, 1936); V. Volterra, J. Peres, Lecons sur les fonctions de lignes. Gauthier-Villars
)Paris, 1913).
170 Andrea Carati e Luigi Galgani

Figura 3.1: La retta passante per due punti come curva di lunghezza minima

quazione differenziale, ma mediante una proprietà di minimo o di massimo


rispetto ad una famiglia di movimenti o traiettorie. L’esempio più ovvio,
riferendosi al caso delle traiettorie, è quello delle rette in un piano: da
una parte esse sono caratterizzate dall’avere una pendenza costante (ovvero
curvatura nulla), e dunque dal soddisfare l’equazione differenziale y 00 = 0
(l’apice denota derivazione rispetto all’argomento) se sono espresse nella
forma analitica y = y(x); d’altra parte esse sono caratterizzate dal fatto di
essere curve di lunghezza minima.
Per precisare quest’ultima proprietà è necessario mettere in luce un as-
petto caratteristico dei principi variazionali, cioè il loro carattere in un certo
modo finalistico, ovvero globale (in contrapposizione a locale). Infatti per
parlare di proprietà di minimo della lunghezza, si fissano due punti A e B
del piano e si considera l’insieme UAB di tutte le curve che “vanno” da A a
B; risulta allora che, tra gli elementi di questo insieme10 , il segmento AB
é caratterizzato come quello avente lunghezza minima11 (figura (3.1). In
10
Più precisamente, tra gli elementi del sottoinsieme di UAB costituito da curve
“rettificabili”, per le quali cioé è definita la lunghezza.
11
Sostanzialmente la dimostrazione di questo fatto riposa sulla diseguaglianza triango-
lare, per cui in un triangolo la lunghezza di un lato è minore della somma della lunghezza
degli altri due. In tal modo, per induzione, si può concludere che il segmento rettilineo con-
giungente due punti ha lunghezza minima rispetto alle curve congiungenti tali punti, che
siano unione di segmenti rettilinei. Se si volesse dedurre da questa proprietà anche la pro-
prietà di minimo nella classe di tutte le curve congiungenti i due punti si commetterebbe
un errore logico di “petitio principi”, ed occorrerebbe restringere opportunamente la classe
di curve considerate. Questo problema è discusso da Galileo nella seconga giornata dei
Dialoghi sopra i massimi sistemi, e l’argomento sopra ricordato, che vorrebbe dedurre la
proprietà di minimo rispetto a tutte le curve utilizzando la disuguaglianza triangolare,
viene messo in bocca a Simplicio. A questo argomento ribatte Salviati, che ricorda come
il grande Archimede, che ovviamente non metteva in dubbio la disuguaglianza triangolare
(in quanto dedotta dai postulati di Euclide), avessa ritenuto di non poterne fare uso, e
aveva addirittura introdotto questa proprietà di minimo come un postulato indipendente
(da aggiungersi, assieme ad altri quattro, ai postulati di Euclide). Ringraziamo Massimo
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 171

questo senso la caratterizzazione della retta come minimizzante la distanza


è di tipo globale, perché coinvolge una nozione come la lunghezza, che è
una proprietà che riguarda tutta una curva γ (si tratta di un certo integrale
definito, che dunque coinvolge tutta la curva – si veda più avanti). Invece,
è locale la proprietà che la derivata seconda y 00 (x) si annulli in un punto x,
o ivi abbia un valore determinato. Dunque la caratterizzazione mediante la
prorietà y 00 = 0 (ovvero y 00 (x) = 0 per ogni x) è una unione (su tutti gli
x) di proprietà locali, mentre la caratterizzazione mediante la proprietà di
minimo della lunghezza è globale.
Un altro aspetto molto rilevante di questa differenza tra le due carat-
terizzazioni riguarda una proprietà di invarianza. Infatti una curva γ può
essere descritta analiticamente in infiniti modi, a seconda delle coordinate
che si scelgono: si pensi alla retta descritta in coordinate cartesiane (espres-
sione banalissima) oppure in coordinate polari (espressione alquanto più
complicata). Dunque la caratterizzazione mediante proprietà locali (an-
nullarsi della curvatura, nel caso della retta) viene descritta analiticamente
in forma diversa al variare elle coordinate scelte. Invece le proprietà globali,
come la lunghezza, espresse tipicamente mediante degli integrali definiti,
sono indipendenti dalle coordinate scelte, e quindi le caratterizzazioni di
tipo globale sono le più significative.12 Corrispondentemente avviene che
i movimenti naturali, definiti come soluzioni delle equazioni di Newton (o
equivalentemente di Lagrange o di Hamilton), hanno forma analitica dipen-
dente dalle coordinate scelte, mentre la loro caratterizzazione globale che ne
daremo un questo capitolo mediante il principio variazionale di Hamilton,
di tipo globale, risulterà indipendente dalle coordinate. Si può dunque dire
che le equazioni di Newton o di Lagrange o di Hamilton costituiscono la
forma locale di un principio variazionale (di tipo globale), che è il principio
variazionale di Hamilton. È chiaro dunque che questo principio costituisce
la forma più profonda delle leggi naturali, e non meraviglia che esso venga
utilizzato sistematicamente a livello euristico, cioè quando si devono formu-
lare nuove teorie. Noi ne vedremo un esempio nella formulazione delle leggi
di moto nell’ambito della relatività speciale.
Esercizio: la legge della riflessione, con metodi variazionali. È un in-
teressante esercizio mostrare come la proprietà di minimo sopra ricordata per le
rette permetta di ottenere la legge della riflessione dell’ottica geometrica in ambito
variazionale (figura (3.3). Dati due punti A, B nel semipiano al di sopra della retta
r
r, si consideri l’insieme UAB delle curve che li giungono, aventi almeno un punto
C su r. In tale insieme, la curva di lunghezza minima, è quella per cui l’angolo di
riflessione è uguale all’angolo d’incidenza. É questo un caso felice, in cui “la di-
mostrazione viene ridotta al caso precedente”. Infatti, se B 0 è il punto simmetrico

Bertini per una discussione su questo argomento.


12
La lunghezza di una curva (un certo sottoinsieme del piano) è un numero, che viene
calcolato come un certo integrale, e il numero che si ottiene non dipende dalle coordinate
scelte per definire analiticamente la curva.
172 Andrea Carati e Luigi Galgani

B
C

Figura 3.2: La disuguaglianza triangolare

B B
A A

C r C r

B’

Figura 3.3: La legge della riflessione.

(o riflesso) rispetto alla retta r di B si ha che (lunghezza di ACB) = (lunghezza


di ACB 0 ), sicché la spezzata soddisfacente la legge della riflessione ha lunghezza
uguale a quella del segmento AB 0 .

Per inciso, l’esempio della legge della riflessione consente di mettere in


luce un altro aspetto caratteristico dei principi variazionali, cioè quello di
non presentare necessariamente unicità delle soluzioni (ammesso che ne es-
istano). Infatti, il raggio soddisfacente la legge della riflessione realizza un
minimo locale perché ha lunghezza minima nell’insieme UAB r delle curve che

incidono sulla retta r, ma non nell’insieme più ampio UAB di tutte le curve
che congiungono A e B; infatti il minimo “assoluto” (cioè in UAB ) è rag-
giunto dal segmento che unisce A e B direttamente senza toccare la retta
r. Ovviamente, questa è una situazione analoga a quella che si ha per una
funzione F : U → R (dove U è un insieme arbitrario) quando la funzione F
presenta più di un minimo, e si hanno dei minimi locali ed eventualmente
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 173

IR

Figura 3.4: Minimi locali e minimo globale.

un minimo globale (figura (3.4)).


Esercizio: distanza da un punto ad una retta. Un altro esercizio interessante
consiste nel trovare la distanza tra un punto P ed una retta r. Sappiamo dalla
geometria elementare che questo problema si risolve tracciando la perpendicolare
s ad r passante per P , e porre la distanza eguale alla lunghezza del segmento
P K, dove K è il punto di intersezione tra la perpendicolare ed r. Il medesimo
problema si può porre sotto forma variazionale, cercando la curva di lunghezza
minima nell’insieme UPr delle curve con un estremo in P e l’altro sulla retta r.
Il problema si risolve in due passi: prima si fissa un punto K su r, e si trova la
curva di minima lunghezza (ovvero il segmento P K); si cerca quindi il minimo
nella classe di curve cosı̀ determinate (cioè i segmenti con un estremo su r) facendo
variare l’estremo. Se sposto l’estremo K in K 0 , allora in prima approssimazione
−−→ −−−→
la lunghezza l del segmento varia della quantità δl = P K · KK 0 . Il minimo della
lunghezza si ottiene quando δl = 0, cioè P K è ortogonale a KK 0 e dunque alla
retta r.

L’ambiente matematico in cui ci si muove è dunque quello in cui è dato


un insieme U di curve (ciascuna rappresentata analiticamente in maniera
opportuna), e ad ogni elemento dell’insieme si associa un numero reale. Si
ha quindi una funzione a valori reali

F :U →R,

o, come spesso si dice, un funzionale13 (nel nostro caso la lunghezza della


curva considerata); poiché in R è definita una relazione d’ordine (sappiamo
13
Ricordiamo dunque che per funzionale si intende semplicemente “funzione a valori
reali”. Se in particolare U è uno spazio vettoriale, allora tra tutti i funzionali esiste il
sottoinsieme dei funzionali lineari, che vengono studiati nei corsi di geometria e di metodi
matematici della fisica. Nella seguente discussione, al fine di definire la derivata di un
funzionale avremo a che fare con funzionali lineari visti come linearizzazione di funzionali
174 Andrea Carati e Luigi Galgani

θ1
v1

r
v2
θ2
B

Figura 3.5: La legge della rifrazione.

cosa vuol dire che un numero reale è maggiore di un altro), possiamo con-
frontare i valori di F al variare dell’elemento in U, e stabilire l’eventuale
esistenza di minimi locali.

3.2.1 Excursus sul principio di Fermat dell’ottica geometri-


ca.

Prima di addentrarci in un approfondimento degli aspetti matematici rile-


vanti, vogliamo qui illustrare il principio di Fermat (1601–1655), che fu il
primo fondamentale principio variazionale dell’epoca moderna. Tra l’altro
esso fu il primo in cui si associò ad una curva un numero reale diverso dalla
familiare lunghezza euclidea. Il principio di Fermat è strettamente associ-
ato alla legge della rifrazione14 (la cui formulazione pare sia dovuta a

nonlineari. Questo in effetti è proprio l’analogo del procedimento che si tiene nel familiare
calcolo differenziale in Rn , quando si definisce il differenziale (un funzionale lineare!) come
approssimante lineare di una funzione in generale nonlineare. Facciamo osservare tuttavia
che il funzionale F di cui qui discutiamo è assolutamente generico, e non si richiede affatto
che sia lineare.
14
O legge del bagnino: un bagnino in A sulla spiaggia (regione 1 in cui può correre
con velocità v1 ) vuole salvare una bagnante in B nel mare (regione 2, dove può nuotare
con velocità v2 < v1 ). La curva di lunghezza minima è il segmento AB, ma la curva con
il tempo minimo di percorrenza (la più conveniente) è la spezzata soddisfacente la legge
della rifrazione. In questo esempio, come sottolineato anche da Feynman nel suo manuale,
l’aspetto finalistico dei principi variazionali è particolarmente evidente.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 175

Descartes)15 (figura (3.5)): sono dati due mezzi omogenei 1,2, separati dalla
retta r, nei quali la luce si propaga rispettivamente con velocità v1 , v2 , e ci si
domanda quale è la curva che congiunge A e B, per la quale il tempo di per-
correnza sia minimo; risulta che tale curva è la spezzata ACB soddisfacente
la legge della rifrazione, cioè tale che

sin θ1 v1
= . (3.2.1)
sin θ2 v2

Esempio: la legge della rifrazione (o del bagnino), con metodi vari-


azionali. La dimostrazione di questo fatto è particolarmente illuminante (figura
(3.6)). Anzitutto, già sappiamo che, in ciascuno dei due mezzi, le curve aventi tem-
po di percorrenza minimo sono le rette, perché hanno lunghezza minima. Dunque
r
cercheremo la curva di tempo minimo nell’insieme UAB delle spezzate che hanno
r
vertice C su r, sicché ogni elemento di UAB è individuato da un numero reale x,
ovvero l’ascissa di C: U = {x ∈ R : 0 ≤ x ≤ l}, dove l è la distanza tra le
proiezioni ortogonali di A e B sulla retta r. Il funzionale che consideriamo (tempo
di percorrenza della curva ACB) è dunque

l1 l2
+ ,
v1 v2

ovvero la funzione reale di variabile reale F : [0, l] → R con

l1 l2
F (x) = +
v1 v2
√ p (3.2.2)
a 2 + x2 b2 + (l − x)2
= + ,
v1 v2

e vogliamo determinare il punto x in cui F ha valore minimo. Ciò richiede anzitutto


che x sia un punto di stazionarietà (o estremale o critico), ovvero tale che sia
F 0 (x) = 0. D’altra parte si ha

1 x 1 l−x
F 0 (x) = − ,
v1 l1 v2 l2
ovvero
sin θ1 sin θ2
F 0 (x) = − , (3.2.3)
v1 v2
sicché si conclude che la legge di rifrazione (3.2.1) è equivalente al principio di
stazionarietà (o estremalità o criticità) F 0 (x) = 0; ovvero, il raggio soddisfacente la
legge della rifrazione è quello per cui il tempo di percorrenza è stazionario.

Dunque le curve significative per l’ottica geometrica sono sufficiente-


mente caratterizzate da una proprietà di stazionarietà del funzionale “tem-
po di percorrenza”. È questo pertanto il principio cui ci si attiene: si
15
Si veda U. Bottazzini, Curve ed equazioni, in P. Rossi, Storia delle scienze, Vol I.; R.
Dugas, Histoire de la mécanique.
176 Andrea Carati e Luigi Galgani

θ1
a
l1
l−x
O x l2
b
θ2 B

Figura 3.6: Dimostrazione della legge della rifrazione.

caratterizzano delle curve mediante la stazionarietà di un assegnato fun-


zionale, riservandosi poi di controllare se un certo punto di stazionarietà sia
eventualmente un minimo.16
Possiamo ora venire alla formulazione del Principio di Fermat dell’ot-
tica geometrica. Si considera un mezzo arbitrario,17 in ogni punto x del
quale è assegnata una velocità locale di propagazione v(x); equivantemente
è assegnato il cosidetto “indice di rifrazione”

c
n(x) = ,
v(x)

dove c è la velocità di propagazione della luce nel vuoto. Denotiamo con dl


il consueto “elemento di linea” ovvero la lunghezza “infinitesima” secondo
la metrica euclidea, dl2 = dx2 + dy 2 + dz 2 (dove dl2 ≡ (dl)2 e cosı̀ via)
se x, y, z sono le consuete coordinate cartesiane ortogonali.18 Pertanto un
16
Ad esempio, nel capitolo sulla relatività vedremo che i movimenti hanno pseudol-
unghezza massima (anziché lunghezza minima). Questo fatto costituisce in effetti la
controparte matematica del famoso paradosso dei gemelli.
17
In effetti, ci limitiamo qui al caso di mezzi isotropi, in cui cioè le proprietà di interesse
possono variare da punto a punto (mezzi disomogenei), ma in ogni punto non dipendono
dalla direzione.
18
Facciamo qui riferimento a una nozione intuitiva, nella quale la relazione sopra scritta
per dl2 è la “versione infinitesima” della relazione finita l2 = x2 + y 2 + z 2 per la lunghezza
di un vettore di componenti cartesiane ortogonali x, y, z. La nozione “rigorosa” verrà
ricordata più sotto.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 177

elemento di linea dl viene percorso in un tempo


dl
dt = ,
v(x)
ovvero si ha cdt =R n(x)dl,R e per una curva γ il tempo di percorrenza T (γ)
dl
è dato da T (γ) = γ dt = γ v(x) , ovvero da
Z
c T (γ) = n(x)dl . (3.2.4)
γ

É evidente che il funzionale T (γ) è, per curve generiche, l’analogo del tempo
di percorrenza F (x) definito dalla (3.2.2) nel caso di curve spezzate ACB
individuate dalla sola ascissa x del punto C sulla linea di separazione tra
i due mezzi. È spontaneo pertanto generalizzare le note leggi dell’ottica
geometrica (cammino rettilineo nei mezzi omogenei illimitati, legge della
riflessione, legge della rifrazione) compendiandole nel
Principio di Fermat: In un mezzo individuato otticamente da un in-
dice di rifrazione n = n(x), il raggio luminoso γ tra due punti A e B che
si realizza in natura è caratterizzato, fra tutte le curve γ congiungenti tali
punti, come la curva per cui è minimo (più precisamente, stazionario, o es-
tremale o critico) il tempo di percorrenza, o equivalentemente è minimo il
funzionale Z
F (γ) = n(x)dl , (3.2.5)
γ
(detto cammino ottico).
Evidentemente la precisazione di questo principio richiede che si definisca
cosa si intende per punto stazionario (o critico) nel caso di funzionali aventi
per dominio un insieme U di funzioni (cioè, come si dice, un sottoinsieme
di uno spazio funzionale) anziché un sottoinsieme di Rn . Si deve dunque
procedere a dare un cenno al calcolo differenziale in spazi di dimensione
infinita, cosa che faremo nella maniera più semplice possibile nel prossimo
paragrafo. Vedremo che, come nel caso dei funzionali (funzioni a valori reali)
F definiti in Rn i punti di stazionarietà sono caratterizzati dalla proprietà
dF = 0, cosı̀ anche per i funzionali F aventi dominio in uno spazio di
funzioni i punti di stazionarietà sono caratterizzati dalla proprietà δF = 0,
dove δF è l’analogo del differenziale in Rn . Dunque il principio di Fermat
viene compendiato nella formula
Z
δ n(x) dl = 0 . (3.2.6)
γ

3.2.2 Formulazione variazionale della meccanica lagrangiana.


Quanto detto finora riguarda l’ottica geometrica. Risulta tuttavia che si
ha una profonda analogia tra ottica geometrica e meccanica. Consideriamo
178 Andrea Carati e Luigi Galgani

infatti il caso più semplice possibile, del moto di un punto soggetto ad un


campo di forze F (x) derivanti da energia potenziale V (x), ovvero soddis-
facente la legge di Newton mẍ = −grad V (x). In tal caso, siamo interessati
sia al moto del punto, ovvero alla legge x = x(t), sia alla corrispondente
traiettoria (curva in R3 ), e allora risulta che la analogia più immediata si ha
fra curve dell’ottica geometrica e traiettorie del punto. Infatti si trova che
le traiettorie γ corrispondenti ai moti x = x(t) soddisfacenti l’equazione di
Newton soddisfano ad un principio variazionale profondamente analogo al
principio di Fermat: si tratta del
Principio di Maupertuis–Jacobi: Le traiettorie di un punto materiale
soggetto ad una energia potenziale V (x), ad una fissata energia E, sono
caratterizzate dalla proprietà di stazionarietà
Z p
δ E − V (x) dl = 0 . (3.2.7)
γ

In altri termini, la traiettoria di un punto materiale in un potenziale V ad


energia E coincide con il cammino di un raggio luminoso in un mezzo ottico
avente indice di rifrazione
p
n(x) = E − V (x) . (3.2.8)

Osservazione diversa dipendenza dalla velocità nel principio di Fermat


e in quello di Maupertuis–Jacobi. Si ricordi che per un punto si ha E =
(1/2)mv 2 + V (x), sicché si ha
q 
v = (2/m) E − V (x) .
Dunque il principio di Maupertuis–Jacobi si formula come
Z
δ v dl = 0 ,

mentre quello di Fermat si formula come


Z
dl
δ =0.
v
Questa differenza viene tuttavia eliminata se, per l’ottica geometrica, si viene a
distinguere tra velocità di fase e velocità di gruppo. Questo fatto venne particolar-
mente sottolineato da Schroedinger. Si veda E. Schroedinger, An undulatory theory
of the mechanics of atoms and molecules, Phys. Rev. 28, 1049–1070 (1926).

È questo un primo esempio di analogia tra ottica geometrica e meccanica


del punto. Tale analogia fu utilizzata nel 1925 da Schroedinger per inventare
la meccanica ondulatoria (o meccanica quantistica)19 . Ma essa era già sta-
ta messa in luce da Hamilton, che giunse, nel 1833, alla sua formulazione
(hamiltoniana) della meccanica proprio partendo dall’analogia con l’ottica.
19
Si veda ad esempio E. Fermi, Notes on quantum mechanics, The University of Chicago
Press (Chicago, 1961), pag. 1.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 179

Illustriamo ora, indipendentemente dall’analogia con l’ottica geometrica,


come viene data la formulazione variazionale della dinamica. Consideriamo
un sistema lagrangiano. Ciò significa che è assegnata una varietà C (spazio
delle configurazioni) di dimensione n ed una funzione lagrangiana. In una
carta locale, un punto su C è allora individuato da coordinate libere q =
(q1 , . . . , qn ) ∈ Rn , e la Lagrangiana è una funzione

L(q, q̇, t) . (3.2.9)

Si considerano allora tutti i movimenti q = q(t) che si svolgono in un fissato


intervallo di tempo [t0 , t1 ] e che soddisfano certe fissate condzioni al contorno
(cioè agli estremi dell’intervallo). Si considera dunque l’insieme U di funzioni
q = q(t) definito da

U = {q = q(t) : t0 ≤ t ≤ t1 ; cc} , (3.2.10)

dove la notazione cc indica che sono assegnate delle ben definite condizioni
al contorno (boundary conditions) ai tempi estremi t0 , t1 . Un esempio tipi-
co (figura (3.7) é quello di valori fissati agli estremi, ovvero le 2n condizioni
q(t0 ) = q(0) , q(t1 ) = q(1) , ma le 2n condizioni piú generali appariranno
piú sotto in maniera naturale. Un esempio significativo in una situazione
che riguarda le traiettorie (in cui la cosiddetta legge oraria – legge di per-
correnza temporale delle traiettorie – è irrilevante) è quello di determinare
la traiettotria più breve che congiunge un punto fissato da una retta. In
tal caso è fissato il punto iniziale, ma del punto finale si sa solo che giace
su una retta assegnata. Allora già sappimao che la traiettoria deve essere
una retta passante per il punto assegnato, e vedremo che la seconnda con-
dizione (il secondo punto deve giacere su una assegnata retta) si traduce
nella condizione che nel punto di arrivo il segmento uscente dal primo punto
deve cadere in maniera ortogonale alla assegnata retta (sicché il segmento
uscente dal primo punto deve essere ortogonale alla assegnata retta).
Si definisce poi il funzionale azione hamiltoniana S : U → R nel modo
seguente:
Z t1
S= L(q(t), q̇(t), t)dt , (3.2.11)
t0

e si formula il
Principio di Hamilton: Per un sistema lagrangiano con lagrangiana L(q, q̇, t),
i moti naturali sono i punti–funzione stazionari (o estremali, o critici) del-
l’azione hamiltoniana S, ovvero sono i movimenti q = q(t) per cui
Z
δ Ldt = 0 . (3.2.12)

La rilevanza di questo principio riposa sul fatto che si dimostra poi il


180 Andrea Carati e Luigi Galgani

q1

q0

t0 t1

Figura 3.7: Il dominio delle funzioni q = q(t) ammissibili.

Teorema 1 I movimenti q = q(t) nel dominio R t1 (3.2.10) che sono punti


stazionari dell’azione hamiltoniana S[q(·)] = t0 Ldt sono tutti e soli quelli
che soddisfano le equazioni di Lagrange
d ∂L ∂L
− =0 (3.2.13)
dt ∂ q̇ ∂q
e le assegnate condizioni al contorno.
In virtù di questo teorema si può prendere l’atteggiamento di assumere
il principio di Hamilton, e la sua naturale generalizzazione ai sistemi con-
tinui, come principio fondamentale della meccanica, ed è questo appunto
l’atteggiamento che si tiene di consueto.
Nei prossimi paragrafi verranno dati i necessari cenni di calcolo delle
variazioni e verrà dimostrato il teorema sopra enunciato. Verrà poi mostra-
to come segue il principio di Maupertuis–Jacobi. Verrà poi data la versione
del principio di Hamilton in relazione alle equazioni di Hamilton (anziché di
Lagrange). Poi verrà mostrato come tale formulazione permetta di dare una
caratterizzazione delle trasformazioni canoniche mediante una funzione gen-
eratrice (peocedimento che avevamo anticipato nel capitolo sulle equazioni
di Hamilton). Si mostrerà anche come il flusso generato dalle soluzioni delle
equazioni di Hamilton sia una famiglia di trasformazioni canoniche, e la fun-
zione generatrice sia la azione hamiltoniana stessa. Quest’ultimo argomento
è l’elemento centrale che fa da cardine per l’introduzione del metodo dei
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 181

0 π t

Figura 3.8: Nonunicità nei problemi variazionali.

cammini di Feynman, che non abbiamo qui il tempo di illustrare. Da ulti-


mo, verrà indicata l’estensione del principio di Hamilton a semplici esempi
di corpi continui, come la corda vibrante.
Concludiamo ora questa introduzione con una osservazione. È già sta-
to osservato che i principi variazionali vengono posti in un ambito globale
anziché locale, nel senso che si ricercano traiettorie o movimenti in cui ven-
gono assegnate delle “condizioni al contorno”: curve che vanno da A a B
o movimenti che, in un certo intervallo di tempo [t0 , t1 ], vanno da q(0) a
q(1) . Ora, tali problemi al contorno non sempre hanno soluzione, e inoltre
la soluzione può non essere unica. Esempi di questo tipo sono ben noti nella
meccanica del punto e in ottica (punti focali).
Esempio di nonesistenza e di nonunicità. Consideriamo un oscillatore armon-
ico. Allora sappiamo che secondo i principi della meccanica (equazione di Newton)
i corrispodenti movimenti x = x(t) sono quelli che soddisfano l‘equazione differen-
ziale ẍ+x = 0 (consideriamo, per semplicità di notazione, il caso in cui la pulsazione
è unitaria, ω = 1), ovvero sono le funzioni
x(t) = a cos t + b sin t
con parametri a, b reali arbitrari. Ma ricerchiamo ora se, tra tutti questi, esistano
dei movimenti definiti nell’intervallo chiuso [0, t1 ] che soddisfino le condizioni al
contorno (problema globale)
x(0) = 0 , x(t1 ) = x(1)
per un fissato x(1) ∈ R. Ora, la prima delle due condizioni, ovvero x(0) = 0, implica
a = 0 e dunque si resta con
x(t) = b sin t .
Allora, se t1 6= nπ (con n intero nonnullo), la seconda condizione determina uni-
x(1)
vocamente il moto, ovvero b = sin t1 , e si ha dunque esistenza e unicità. Ma se
182 Andrea Carati e Luigi Galgani

invece ad esempio si è nel caso in cui t1 = π (figura (3.8), allora si ha x(t1 ) = 0


qualunque sia b, e dunque si hanno infinite soluzioni (b arbitrario) se x(1) = 0, e
nessuna soluzione se x(1) 6= 0.

3.3 Cenni di calcolo delle variazioni: i punti stazio-


nari di un funzionale, e le equazioni di Eule-
ro–Lagrange.
Lo scopo principale della prima parte di questo paragrafo è di illustrare
come la nozione di differenziale o di derivata viene estesa al caso di fun-
zioni il cui dominio è esso stesso uno spazio di funzioni, anziché Rn . Si
tratta di uno degli argomenti classici dell‘Analisi funzionale 20 . Cercheremo
qui di darne una introduzione in una maniera allo stesso tempo semplice e
matematicamente coerente.
Preliminarmente, forniamo anzitutto un esempio concreto in cui si tocchi
con mano che, nel caso dell’azione hamiltoniana S introdotta sopra, abbi-
amo effettivamente a che fare con una funzione (a valori reali, e perciò detta
funzionale), definita su un dominio che è esso stesso uno spazio di funzioni
(come in figura (3.7). Da un punto di vista didattico, si verifica che questo è
un punto niente affatto banale, che molti studenti faticano a comprendere.
Vogliamo illustrare quanto segue: allo stesso modo in cui, se vogliamo sapere
quanto vale sin x, dobbiamo prima dichiarare quale valore di xR stiamo con-
siderando, analogamente qui, se vogliamo sapere quanto vale Ldt, dobbi-
amo prima dichiarare quale è il movimento q = q(t) R che stiamo consideran-
do. Per questo motivo introduciamo la notazione Ldt = S[q = q(t)] o più
semplicemente la notazione
Z
Ldt = S[q(t)] .

Ambiguità della notazione. Si spera che la notazione con la parentesi quadra


(invece della parentesi tonda) sia sufficiente per mettere in evidenza il fatto che
qui non stiamo considerando una funzione composta (o funzione di fun-
zione!). Ad esempio, per funzioni reali di variabile reale, se f (x) = x2 e x(t) = t3 ,
allora la funzione composta f˜(t) = f (x(t)) risulta essere la funzione f˜(t) = t6 . Nel
nostro caso, invece, l’azione S[q(t)] non dipende dal tempo, non è una funzione del
tempo !

L’azione è funzione del movimento: esempio. Consideriamo il caso della


particella libera (cioè in assenza di forze attive), vincolata a una retta (asse delle
20
Uno tra i più bei libri è: A. Kolmogorov, S. Fomin, Elementi della teoria delle funzioni
e di analisi funzionale. Si veda il Cap. 10: Elementi di calcolo differenziale in uno spazio
vettoriale.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 183

x). Allora la lagrangiana si riduce all’energia cinetica ed è quindi data, prendendo


la massa unitaria, da

1 2
L(x, ẋ, t) = ẋ , (con m = 1) .
2
Consideriamo ora i moti x = x(t) nell’intervallo temporale [t0 , t1 ] = [0, 1] con certe
condizioni al contorno, ad esempio x(0) = 0, x(1) = 1. In questo dominio di
funzioni x = x(t), diciamolo U, esiste anzitutto il moto x(t) = t, che è la soluzione
dell’equazione di Newton ẍ = 0 per la particella libera. Ma ne esistono infiniti altri,
n
come ad esempio R x(t) = t per n = 2 oppure per n = 3, 4, · · · . In connessione con il
funzionale S = Ldt avente dominio in U, fissare uno di questi moti è l’equivalente
di fissare il valore della variabile indipendente x quando si considera il funzionale
(con dominio in R) y(x) = sin x. Fissiamo dunque un “punto”, un elemento di U, ad
esempio la funzione x(t) = t2 . Poiché il funzionale azione hamiltoniana S : U → R
R1
è definito da S = Ldt = (1/2) 0 ẋ2 dt, allora avremo in questo caso (essendo
R

ẋ(t) = 2t)
1 1 2
Z
2
S[x(t) = t2 ] = 4t dt =
2 0 3
(leggi: il valore di S corrispondente al punto–funzione [x(t) = t2 ] è 2/3). Allo stesso
modo si calcola
1 n2
S[x(t) = tn ] = ,
2 2n − 1
e in particolare S[x(t) = t] = 1/2. Si verifica facilmente che tra tutti i punti–
funzione del tipo x(t) = tn , n = 1, 2, · · · , la funzione x(t) = t, che è proprio la
soluzione dell’equazione di Newton ẍ = 0 per la particella libera, è anche quella in
cui il funzionale S assume il valore minimo. Risulta in effetti che tale funzione è
quella per cui S assume il valore minimo rispetto a qualunque elemento (funzione
rappresentante un movimento) del dominio U.

3.3.1 Il differenziale (o la variazione) di un funzionale


Nel caso di funzionali F (funzioni a valori reali) con dominio in R, ovvero
F = F (x), x ∈ R, ben sappiamo21 che i punti di estremo, ovvero di minimo
o di massimo (se esistono, e se non sono situati sul bordo del dominio di
definizione di F ) devono essere anzitutto punti di stazionarietà (o estremali,
o critici), cioè sono punti x in cui si annulla la derivata prima, F 0 (x) =
0, o equivalentemente si annulla il differenziale dF = F 0 dx. Nel caso di
funzionali con dominio in Rn , F = F (x), x = (x1 , . . . , xn ) ∈ Rn , si ha ancora
che condizione necessaria per l’esistenza di un estremo (minimo o massimo)
è che si abbia stazionarietà, condizione che ora si esprime nell’annullarsi
del differenziale, dF = 0, a sua volta equivalente all’annullarsi di tutte le
∂F
derivate parziali, ∂x i
= 0, i = 1. · · · , n. Vogliamo ora estendere la nozione
di differenziale al caso di un funzionale avente per dominio uno spazio di
21
Qui e nel seguito non ci poniamo problemi di regolarità, e consideriamo di trattare
con funzioni lisce (smooth), ovvero infinitamente differenziabili.
184 Andrea Carati e Luigi Galgani

funzioni, e a tal fine cominciamo col richiamare nozioni note per funzioni di
una o più variabili.
Cominciamo con il caso di funzioni di una sola variabile reale F = F (x). Ricor-
diamo anzitutto come in tal caso l’esistenza del differenziale risulta essere equiv-
alente all’esistenza della derivata definita nel modo familiare, come limite di un
rapporto incrementale. Infatti si dice che (per un fissato x) esiste la derivata di F
se esiste il limite
F (x + h) − F (x)
a = lim .
h→0 h
In tal caso il numero a = a(x) viene detto derivata prima di F nel punto x e viene
denotato con F 0 (x):
a(x) ≡ F 0 (x) .
D’altra parte è evidente che l’esistenza di tale limite è equivalente al fatto che esista
un numero a = a(x) tale che si abbia

F (x + h) = F (x) + ah + R (3.3.1)

dove R è un “resto di ordine 2”, tale cioè che


R
lim =0
h→0 |h|

(in tal caso si scrive anche R = O(h2 ).) Allora la parte principale (cioè la parte lin-
eare rispetto all’incremento h)22 dell’incremento di F viene chiamata “differenziale
di F ” e denotata con dF :
dF = F 0 (x) h . (3.3.2)
Si noti che, prendendo come caso particolare la funzione F (x) = x si trova proprio
dx = h, e per questo motivo, coerentemente, la (3.3.2) si scrive anche

dF = F 0 (x) dx . (3.3.3)

La definizione di differenziale appena data si estende spontaneamente al caso di


funzioni (diremo anche funzionali, se vogliamo sottolineare che si tratta di funzioni a
valori reali) di n variabili, F = F (x) ≡ F (x1 , . . . , xn ), x ∈ Rn . Basta, nelle relazioni
(3.3.1), (3.3.3) sostituire al numero a = F 0 (x) un operatore lineare A = A(x). Si
ammetterà cioè che valga

F (x + h) = F (x) + A(x)h + R, (3.3.4)

dove A è un operatore lineare in Rn (una matrice, in una assegnata base),23 e


R un resto di ordine 2.24 Ribadiamo questo fatto. Nel caso in cui il dominio è
Rn , per definire il differenziale si considera l’incremento che il funzionale F subisce
quando ci si sposta da un punto x a un punto x + h, e si studia come l’incremento
di F dipende dallo spostamento h. Se si trova che tale l’incremento di F risulta
22
È ovvio che questa definizione è significativa. Infatti per incrementi h piccoli è evidente
che la parte lineare dell’incremento è la parte dominante.
23
Geometricamente questo significa che, nell’intorno di x, si approssima la funzione
F (x) mediante un iperpiano tangente alla superficie z = F (x).
24
Si intende, rispetto alla norma del vettore h.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 185

decomposto in una parte lineare nell’incremento h, più un resto di ordine superiore


al primo, allora si definisce il differenziale di F come la parte dell’incremento che è
lineare nello spostamento h.
Ora, questo procedimento è dal punto di vista formale facilmente estendibile al
caso in cui il dominio è uno spazio funzionale (cioè, i cui elementi sono funzioni). A
tal fine, basta avere presente l’idea–guida secondo la quale gli spazi funzionali pos-
sono essere pensati immediatamente come spazi vettoriali, solo che i vettori hanno
ora dimensione infinita. Infatti, ad esempio, una funzione y = y(x) è un “vettore
le cui componenti hanno un indice continuo” x. Come un vettore y = (y1 , · · · , yn )
di Rn è individuato dalle componenti yi , i = 1, · · · , n, e si parla di i–esima com-
ponente, cosı̀ nel caso della funzione y = f (x) si può pensare alla funzione stessa
come individuata da tutte le x–esime componenti f (x), dove l’indice di componente
x varia in un dominio continuo anziché in un dominio discreto (addirittura finito).
La somma di due vettori e il prodotto di un vettore per un numero sono poi definite
come in Rn , ovvero “per componenti” (componentwise): date due funzioni f , g, la
somma (f + g) è definita da (f + g)(x) = f (x) + g(x) per tutti gli x, e cosı̀ via. Si
noti come distinguiamo tra i simboli f ed f (x). Qui f denota la funzione (analoga
del vettore y), mentre f (x) denota il valore che la funzione f assume in x; si tratta
della x–esima componente di f , analoga della i–esima componente yi del vettore y.
Nel seguito, spesso denoteremmo la funzione f con f = f (x), oppure talvolta con
f (·), o anche, per abuso di notazione, addirittura con f (x).

Vediamo dunque in quale modo si estende formalmente la nozione di


differenziale al caso in cui il dominio è uno spazio
R di funzioni, prendendo
come esempio proprio l’azione hamiltoniana S = Ldt definita nello spazio
funzionale U (3.2.10), di moti che si svolgono in un fissato intervallo di tempo
e soddisfano certe assegnate condizioni al contorno. Valutiamo l’incremento
del funzionale S quando si passa da un punto–funzione q(t) a un altro punto–
funzione (q + h)(t) = q(t) + h(t). Ora, data la definizione del funzionale S,
l’incremento risulta essere dato da
Z t1 
 
S[(q+h)(t)]−S[q(t)] = L q(t)+h(t), q̇(t)+ḣ(t), t −L q(t), q̇(t), t dt .
t0
(3.3.5)
D’altra parte, per il noto sviluppo di Taylor al primo ordine di una funzione,
si ha
  ∂L ∂L
L q(t) + h(t), q̇(t) + ḣ(t), t − L q(t), q̇(t), t = ·h+ · ḣ + R , (3.3.6)
∂q ∂ q̇
con un resto R che è quadratico nella norma dei vettori h e ḣ.25 Inoltre,
usando la nota formula di Leibniz per la derivata di un prodotto (che conduce
alla nota formula di integrazione per parti), si ha
∂L ∂L d d ∂L  d ∂L 
· ḣ ≡ · h= ·h − ·h . (3.3.7)
∂ q̇ ∂ q̇ dt dt ∂ q̇ dt ∂ q̇
25
Questo significa che, se khk < , kḣk < , allora si ha |R| < C2 con una costante
C > 0. Qui, come di consueto, dato un vettore h ∈ Rn , con khk ne denotiamo la norma
(o lunghezza), ad esempio euclidea.
186 Andrea Carati e Luigi Galgani

Introduciamo ora le (3.3.6) e (3.3.7) nella (3.3.5). Ricordando che l’integrale


di una somma è uguale alla somma dei corrispondenti integrali, troviamo che
il valore del funzionale S nel punto–funzione spostato risulta essere

∂L t1
Z t1
∂L d ∂L 
S[(q+h)(t)]−S[q(t)] = − ·h(t) dt+ · h +R (3.3.8)
t0 ∂q dt ∂ q̇ ∂ q̇ t0

con un opportuno resto R, che è evidentemente di ordine superiore al pri-


mo.26 Vediamo cosı̀ che l’incremento del funzionale S nel passaggio dal
punto–funzione q(t) al punto–funzione (q + h)(t) risulta decomposto nella
somma di una parte lineare nell’incremento h(t) e di un resto R di ordine
superiore al primo. La parte lineare (in h) dell’incremento risulta essere la
somma di due pezzi: un termine integrale, ed una parte “di bordo”, cioè un
termine il cui valore dipende solo dai valori di h(t) al bordo dell’intervallo
di integrazione.
A questo punto ci comportiamo in perfetta analogia con il caso di un funzionale
F da Rn in R. In quel caso, se si trova che, passando da un punto x a un punto
spostato x + h, l’incremento di F si decompone nella somma

F (x + h) − F (x) = A · h + R(x, h) , (3.3.9)

dove, per ogni punto x fissato, A = A(x) agisce lineamente su h, ovvero è un certo
funzionale lineare da Rn in R, mentre il resto R è di ordine superiore al primo
nell’incremento h, allora il differenziale dF di F viene definito come la parte lineare
(nello spostamento h) dell’incremento di F , ovveroPdF := A · h, e si scrive anche,
∂F
coerentemente,27 dF = A · dx. Si trova poi dF = i ∂x i
dxi , sicché il funzionale
lineare dF viene espresso in termini delle derivate parziali del funzionale F .

Cosı̀ ora, analogamente, si definisce il differenziale di S come la parte


principale dell’incremento del funzionale S, cioè quella parte che è lineare
nell’incremento h(t). Tradizionalmente, quando il dominio è uno spazio di
funzioni, il differenziale di un funzionale viene denotato con il simbolo δ
anziché d, e chiamato variazione, e dunque parleremo di variazione δS
del funzionale S; coerentemente, anche l’incremento h = h(t) del punto–
funzione verrà denotato con il simbolo δq(t) e chiamato variazione di q(t).
26
Con questo si intende che, se
sup kh(t)k < , sup kḣ(t)k <  ,
t t

allora si ha
|R| < C2
con una costante C > 0. Nel nostro caso, questa proprietà del resto R segue dal fatto che:
i) per ogni t, il resto R (che figura nello sviluppo di Taylor della lagrangiana) è quadratico
in khk, kḣk, ii) la funzione h = h(t) è stata assunta liscia (sicché le sue derivate seconde
hanno modulo limitato in un compatto), e iii) t varia in un dominio compatto.
27
Cioè si ha h = dx. Infatti, prendiamo come funzionale F proprio la i–esima compo-
nente del vettore x, ovvero F (x) ≡ F (x1 , · · · , xn ) = xi . Allora si ha F (x + h) − F (x) =
(xi + hi ) − xi = hi , ovvero dF ≡ dxi = hi .
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 187

Dunque abbiamo dimostrato che il funzionale azione hamiltoniana S, definito da


Z t1
S= Ldt ,
t0

ammette differenziale (termine classico: variazione) δS, e abbiamo calcolato l’e-


spressione di tale variazione, che risulta essere data da28
Z t1
∂L d ∂L  t
δS = − · δq(t) dt + p(t) · δq(t)|t10 , (3.3.10)
t0 ∂q dt ∂ q̇

dove si é usato la definizione di momento p = ∂L ∂ q̇ . Si osservi che, poiché per ogni


valore di t le quantità q(t) e δq(t) sono dei vettori in Rn , ovviamente l’integrale
nelll’espressione (3.3.10) per δS deve essere inteso come
Z t1 Z t1 n
∂L d ∂L  X ∂L d ∂L 
− · δq(t) dt ≡ − δqi (t) dt . (3.3.11)
t0 ∂q dt ∂ q̇ t0 i=1
∂qi dt ∂ q˙i

Nota. Abbiamo qui considerato il caso di movimenti definiti in un fis-


sato intervallo di tempo. Vi sono situazioni (come nel caso del principio di
Maupertuis) in cui i moti variati si svolgono in un intervallo con estremi
variati anche essi. E’ questo il cosiddetto caso dei moti variati asincroni.

3.3.2 Stazionarietà di un funzionale; le equazioni di Eulero–


Lagrange
La nozione di stazionarietà viene ora introdotta in analogia con il caso finito–
dimensionale.
R
Definizione 1 . Si consideri il funzionale S = Ldt definito nel dominio
(3.2.10). Una funzione q = q(t) è un punto stazionario (o estremale, o
critico)29 del funzionale S se ivi si annulla il differenziale (la variazione) di
S, ovvero si ha δS = 0.

Si dimostra allora il seguente teorema, che è nient’altro che quello an-


nunciato nel precedente paragrafo:
28
Si osservi la analogia con il caso in cui il dominio è Rn . In quel caso si ha, per
il differenzialePdF , una formula che lo esprime in termini delle derivate parziali di F ,
∂F
ovvero dF = i ∂x i
dxi . Nel nostro caso, l’indice discreto i viene rimpiazzato dall’indice
continuo t. Corrispondentemente, la somma su i viene rimpiazzata da un integrale su t,
e possiamo dire di avere trovato l’analogo della derivata parziale rispetto a xi , in questo
caso la derivata parziale rispetto alla t–esima componennte q(t). Questo analogo della
derivata parziale viene tradizionalmente denotato con il simbolo δS δq
, e abbiamo dunque
trovato
δS ∂L d ∂L
= − .
δq ∂q dt ∂ q̇
29
Ad esempio, Arnol’d usa sempre il termine estremale.
188 Andrea Carati e Luigi Galgani

Teorema 2 I movimenti q(t) R t che sono punti stazionari (o estremali, o crit-


ici) del funzionale S[q(t)] = t01 Ldt nel dominio (3.2.10) sono caratterizzati
dalle proprietà indipendenti:
i) soddisfano l’equazione differenziale (detta di Eulero–Lagrange)

d ∂L ∂L
− =0; (3.3.12)
dt ∂ q̇ ∂q

ii) agli estremi t0 , t1 dell’intervallo considerato soddisfano le condizioni

p(t1 ) · δq(t1 ) = p(t0 ) · δq(t0 ) (3.3.13)

per tutte le variazioni δq(t0 ) , δq(t1 ) compatibili con le condizioni al con-


torno assegnate ai tempi estremi.

Dimostrazione. Ricordiamo che, nel caso finito–dimensionale, la condizione di


anullamento
P ∂F di un differenziale dF deve essere intesa nel senso che l’espressione
i ∂xi dx i deve annullarsi per ogni scelta dell’ “incremento” dx. Allo stesso modo,
nel presente caso in cui δS è dato dalla (3.3.11), l’annullarsi della variazione δS
deve essere intesa nel senso che il secondo membro della (3.3.10) deve annullarsi
per ogni scelta dell’ “incremento”, cioè della funzione δq(t).
Questo porta come immediata conseguenza che devono essere separatamente
nulli i due addendi che figurano nell’ espressione di δS , cioè deve essere contempo-
raneamente
Z t1
∂L d ∂L 
− · δq(t) dt = 0 ∀δq(t)
t0 ∂q dt ∂ q̇ (3.3.14)
t
p(t) · δq(t)|t10 = 0 ∀δq(t) .

Non può accadere infatti che i due termini abbiano un valore eguale ed opposto
in modo che la loro somma si annulli. Ammettiamo infatti per assurdo che per
t
un certo δq(t) sia p(t) · δq(t)|t10 6= 0. Allora deve essere pure differente da zero
l’integrale (per poterlo bilanciare), e di conseguenza non deve essere identicamente
nullo l’integrando. Ma ora possiamo scegliere una nuova funzione δq0 (t) che ha i
medesimi valori al bordo (cioè in t0 ed in t1 ) di δq(t) ma differisca in un sottoinsieme
interno all’intervallo. Dunque il valore dell’integrale cambia, mentre il termine di
bordo no, e dunque la variazione di S non è nulla per quella scelta di δq0 (t), che è
l’assurdo cercato.
Ora, dal fatto che deve essere
Z t1
∂L d ∂L 
− · δq(t) dt = 0 per ogni δq(t) (3.3.15)
t0 ∂q dt ∂ q̇

segue che deve essere

∂L d ∂L
− =0 per i = 1, . . . , n . (3.3.16)
∂qi dt ∂ q̇i
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 189

Questo si mostra in due passi. Il primo passo utilizza l’arbitrarietà di δq(t) per
dimostrare che allora deve annullarsi la analoga espressione per ogni i = 1, · · · , n,
ovvero deve essere
Z t1
∂L d ∂L 
− δqi (t) dt = 0 , i = 1, · · · , n . (3.3.17)
t0 ∂qi dt ∂ q˙i

Infatti, basta prendere inizialmente



δq(t) = δq1 (t), 0, · · · , 0 ,

sicché si resta con il solo primo termine della somma, e cosı̀ via. Il secondo passo,
fa uso poi di quello che talvolta viene chiamato il Lemma fondamentale del calcolo
delle variazioni (la dimostrazione è riportata qui sotto), che si applica al nostro
caso, e quindi il teorema è dimostrato. Q.E.D.

Lemma 1 (Lemma fondamentale del calcolo delle variazioni) Se una


funzione f : [t0 , t1 ] → R ha la proprietà che
Z t1
f (t)g(t) dt = 0 per ogni funzione g , (3.3.18)
t0

dove la funzione g può soddisfare arbitrarie condizioni agli estremi dell’in-


tervallo, allora si ha f = 0, ovvero

f (t) = 0 ∀ t.

Si noti che, come in tutte queste note, sottintendiamo che tutte le funzioni
considerate sono lisce, e quindi continue.
n
Osservazione. Si osservi la seguente analogia P con il caso di vettori in R : Se un
vettore x ha la proprietà x · y = 0 (ovvero i xi yi = 0) per ogni vettore y ∈ Rn
(cioè x è ortogonale a tutti i vettori dello spazio considerato), allora si ha x = 0.
La dimostrazione di questo fatto è banale e consiste nel prendere proprio y = x,
perché allora deve valere x · x = 0, ovvero x ha lunghezza nulla, e d’altra parte in
Rn l’unico vettore di lunghezza nulla è il vettore nullo.

Nel nostro caso la situazione è diversa, non soltanto perché ora siamo
in uno spazio di dimensione infinita anziché in Rn , ma soprattutto perché,
mentre di x sappiamo che è ortogonale a tutti gli y, ora invece della nostra
assegnata funzione f (analoga del vettore x) sappiamo soltanto che è ortog-
onale a un sottoinsieme di tutte le funzioni (cioè solo alle g con le assegnate
condizioni al contorno e non anche a tutte le funzioni g). In altri termini,
per concludere che f è nulla basta sapere che essa è ortogonale alle funzioni
g che soddisfano le assegnate condizioni agli estremi.30
30
Questo non è affatto ovvio. Ad esempio, nel caso di R3 con base i, j, k, se sappiamo
un vettore x ha la proprietà che x · y = 0 per tutti i vettori y nel piano individuato dai
vettori base i, j, possiamo solo concludere che x è proporzionale al vettore k, e non che è
nullo.
190 Andrea Carati e Luigi Galgani

Dimostrazione del Lemma. La più compatta dimostrazione del lemma si com-


pie per assurdo.31 Infatti, se per assurdo la funzione f non è identicamente nulla,
allora esiste almeno un valore di t interno all’intervallo [t0 , t1 ], diciamolo t∗ , in cui
la funzione ha valore nonnullo, ad esempio positivo: f (t∗ ) > 0. Ma allora, per la
continuità di f , esiste un intorno I di t∗ in cui f è positiva (teorema di permanenza
del segno). 32 Usiamo ora l’arbitrarietà di g, e facciamo un indentamento, cioè
prendiamo una funzione particolare g che sia nulla ovunque, salvo che in un intorno
I˜ ⊂ I di t∗ , dove sia ad esempio positiva. Dunque, per questa scelta di g l’integrale
(3.3.18) si riduce a un integrale sul dominio I˜ di una funzione positiva, e dunque è
positivo, contro l’ipotesi. Q.E.D.

Siamo pertanto pervenuti alla dimostrazione del teorema 2, la cui prima


parte costituisce il risultato principale di questo capitolo: gli estremali del-
l’azione devono soddisfare le equazioni di Lagrange. Ci si può chiedere ora
quale sia il ruolo dell’ulteriore condizione.

p(t) · δq(t)|tt10 = 0 per ogni δq(t) , (3.3.19)

che è indipendente dalla proprietà che gli estremali soddisfino le equazioni


di Lagrange. Generalmente questa ulteriore condizione viene usata per de-
terminare, tra tutte le soluzioni dell’equazione di Eulero–Lagrange, quella
che poi risulta effettivamente essere un estremante. Abbiamo già citato, nel
caso delle traiettorie (in cui la parametrizzazione temporale è irrilevante), il
problema di determinare la curva di minima distanza tra un punto ed una
retta. In tal caso l’annullarsi del termine di bordo è proprio la condizione che
dice che, tra tutti i segmenti rettilinei (che sappiamo essere soluzioni delle
equazioni di Lagrange) uscenti dal punto assegnato, devo scegliere proprio
quello ortogonale alla retta.
Nel caso del principio di Hamilton, la situazione più semplice che si pre-
senta è quella in cui le condizioni al contorno siano quelle di configurazioni
assegnate, q(t0 ) = q(0) q(t1 ) = q(1) . Infatti in tal caso le condizioni al
contorno sulla variazioni δq(t) diventano δq(t0 ) = δq(t1 ) = 0, sicché il
termine al bordo risulta automaticamente nullo. Ma vedremo esempi che
mostrano la rilevanza della ulteriore condizione al bordo. Ad esempio, nel
caso delle collisioni elastiche esse conducono a dimostrare che la quantità si
moto totale e l’energia totale si conservano nelle collisioni (cioè i loro valori
immediatamente dopo una collisione sono i medesimi che si avevano imm-
mediatamente prima). Questa proprietà viene postulata nelle trattazioni
elementari, mentre qui viene dimostrata, proprio in virtù della condizione
ausiliaria.
31
È possibile dare anche una dimostrazione di tipo diretto, anziché per assurdo. Ma
tale dimostrazione fa intervenire in qualche modo la cosiddetta “funzione delta di Dirac”,
che richiede una discussione accurata, per la quale si rimanda a una futura appendice.
32
Questo spiega perchè abbiamo considerato un punto interno all’intervallo. Se f è non
annulla sul bordo, per continuità risulta non nulla anche in un punto interno all’intervallo.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 191

In conclusione, i movimenti naturali di un sistema lagrangiano (in am-


bito globale, cioè nell’insieme U definito da (3.2.10) ), possono essere equiv-
alentemente caratterizzati dall’essere punti di stazionarietà dell’azione o dal
fatto di soddisfare (in una carta) le equazioni di Lagrange (e le assegnate
condizioni al contorno). La prima caratterizzazione è comunque più signi-
ficativa, perchè intrinseca, ovvero indipendente dalle coordinate. Infatti si
deve pensare a un sistema lagrangiano come definito da uno spazio delle
configurazioni C e da una certa funzione lagrangiana. Pertanto l’azione
ha ovviamente un carattere geometrico, indipendente dalle coordinate. In-
vece le equazioni di Lagrange, pur avendo una struttura universale, che è la
medesima in tutte le carte (cioè in tutti i sistemi di coordinate), hanno poi
concretamente forma diversa in ogni carta, quando esse vengano esplicitate
calcolando le derivate della lagrangiana rispetto alle q e alle q̇.
Si capisce pertanto come a livello di fondamenti si preferisca assumere
come assioma che i movimenti naturali di un sistema lagrangiano siano
caratterizzati dalla stazionarietà dell’azione. Si ha cosı̀ il seguente

Principio di Hamilton (dell’azione stazionaria): I moti naturali di un


sistema lagrangiano
R sono i punti stazionari (o estremali o critici) dell’azione
hamiltoniana S = Ldt, cioè quelli per cui vale δS = 0.

Si ha allora il teorema (2), secondo il quale gli estremali soddisfano le


equazioni di Lagrange e le condizioni al contorno

p(t1 ) · δq(t1 ) = p(t0 ) · δq(t0 ) .

Si noti che le condizioni al contorno sono in numero di 2n, cioè proprio


il numero di condizioni richieste per determinare una soluzione particolare
delle equazioni di Lagrange. Nel teorema di esistenza e unicità si considerano
di consueto condizioni iniziali che fissano le posizioni e le velocità. Qui
invece si hanno condizioni più generali, che potranno essere soddisfatte se
esse permettono di determinare corrispondentemente dei ben definiti dati
iniziali.

In realtà, il principio di Hamilton permette poi un’estensione della teo-


ria, rispetto alle equazioni di Lagrange, in quanto mentre per poter definire
le equazioni di Lagrange ho bisogno che le traiettorie q(t) siano di classe
C 2 , per poter calcolare il funzionale d’azione è sufficiente che le traiettorie
siano C 1 a tratti. Queste differenza non è puramente formale, in quanto con-
siderare traiettorie di classe C 1 a tratti permette di trattare nel formalismo
variazionale anche gli urti, in tutta generalità ed in modo del tutto naturale.
Invece, nel formalismo lagrangiano bisogna introdurre le cosidette forze im-
pulsive, che sono abbastanza problematiche dal punto di vista matematico,
e non molto intuitive dal punto di vista fisico.
192 Andrea Carati e Luigi Galgani

Un esempio è gia stato dato nel caso dell’ottica geometrica, ricavando la


legge della riflessione. In una successiva sezione tratteremo il caso meccanico,
ricavando la legge di conservazione dell’impulso e dell’energia.

3.3.3 Aspetto generale delle equazioni di Eulero–Lagrange:


esempio della lunghezza di una curva.
Nella trattazione svolta sopra, abbiamo fatto riferimento al problema fisi-
co concreto dei movimenti di un sistema lagrangiano, mostrando come le
equazioni differenziali di Lagrange (cioè essenzialmente le equazioni di New-
ton) siano nella sostanza (c’è solo in più il problema di soddisfare le con-
dizioni al contorno)R equivalenti alla stazionarietà di un funzionale (l’azione
hamiltoniana S = Ldt). Ma è evidente che nella dimostrazione del teore-
ma rilevante non abbiamo mai fatto riferimento alla circostanza che L sia
proprio la funzione lagrangiana di un sistema meccanico, differenza di ener-
gia cinetica ed energia potenziale. Ci troviamo infatti di fronte ad una certa
proprietà puramente matematica. Abbiamo a che fare con uno spazio U di
funzioni q = q(t) da R in Rn . È poi data una funzione L = L(q, q̇, t), e si
costruisceR il corrispondente funzionale S : U → R avente la forma partico-
lare S = Ldt. Si dimostra allora che i punti stazionari di S sono funzioni
che soddisfano una certa equazione differenziale coinvolgente la funzione L.
Questa equazione differenziale è Rdetta equazione di Eulero–Lagrange
corrispondente al funzionale S = Ldt.
Vediamo un esempio concreto, quello della caratterizzazione delle rette
nel piano come curve di lunghezza minima.
Come si definisce la lunghezza di una curva. Ricordiamo anzitutto come
si definisce la lunghezza di una curva. La prima cosa che bisogna avere presente è
che una curva è una classe di equivalenza di curve parametrizzate. Si pensi ad un
movimento x = x(t), con x ∈ R2 ; questa è una curva parametrizzata, perchè è una
funzione, una legge, che ad ogni valore del parametro “indipendente” t associa un
unico punto x nel piano. Ora, per curva (o traiettoria) intendiamo il sottoinsieme
del piano, unione di tutti i punti x che si ottengono in tal modo, ovvero, come si
dice in matematica, intendiamo l’immagine della funzione x = x(t). Ma ovviamente
tale sottoinsieme del piano non dipende dalla particolare parametrizzazione scelta,
ovvero, come si dice nella meccanica tradizionale, “la traiettoria non dipende dalla
legge oraria”. La traiettoria è definita indipendentemente dalla velocità con cui la
percorro; essa non cambia se passo dal movimento x(t) al movimento x̃(t) = x(τ (t))
dove τ = τ (t) è una qualunque funzione monotòna (che conviene restringere ad
essere crescente, e anche derivabile).33
Denotiamo con γ (lettera greca gamma minuscola) una curva, e prendiamone
una particolare parametrizzazione (cioè consideriamo un movimento) x = x(t) con
t in un intervallo chiuso t0 ≤ t ≤ t1 ). È molto spontaneo prendere come definizione
di lunghezza (euclidea) l di una curva γ (rappresentata parametricamente da una
33
L’autostrada Milano–Torino è una ben definita curva sulla superficie terrestre,
indipendetemente dalla velocità con cui la si percorre.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 193

funzione x = x(t)) la quantità


Z t1 Z t1
l(γ) = v(t)dt ≡ kẋ(t)kdt . (3.3.20)
t0 t0

Qui denotiamo con v(t) = ẋ(t) la velocità del movimento considerato x = x(t)
e con v := kvk è il modulo (euclideo) del vettore v. Se x = (x, y), dove x e y
sono coordinate cartesiane ortogonali, allora si ha v 2 = ẋ2 + ẏ 2 . La definizione
(3.3.20) è del tutto spontanea, perchè è per tutti ovvio che nel caso di moto retti-
lineo uniforme la lunghezza percorsa sia il prodotto della velocità (costante) per il
tempo impiegato a percorrere la traiettoria. Quindi, assegnato un certo movimento
generico, è spontaneo approssimarlo con una successione di moti rettilinei uniformi
a tratti, definendo la lunghezza dell’approssimante come somma delle lunghezze
dei vari tratti rettilinei uniformi, e passare poi al limite come nel caso delle somme
di Riemann approssimanti un integrale. In conclusione, per una curva γ descrit-
ta parametricamente nella forma x = x(t), y = y(t), dove x e y sono coordinate
cartesiane ortogonali nel piano, e t sta nell’intervallo t0 ≤ t ≤ t1 , la lunghezza della
curva è definita da Z t1 p
l(γ) = ẋ2 + ẏ 2 dt . (3.3.21)
t0

È poi un interessante (molto semplice) esercizio dimostrare che la lunghezza cosı̀


definita non dipende dalla particolare parametrizzazione scelta, cioè è una proprietà
della classe di equivalenza (ovvero della traiettoria).

Per il seguito è interessante tenere presente la seguente


Osservazione : parametro naturale di una curva. Avendo fissato
una curva γ ed il suo punto iniziale x(t0 ), la lunghezza l è una funzione (cres-
cente) del punto finale, ovvero di t1 . Denotando ora t1 con t, resta pertanto
definita una funzione l = l(t) (la lunghezza calcolata lungo la curva),34 e la
formula (3.3.20) mostra immediatamente (teorema fondamentale del calcolo
integrale) che si ha la relazione

dl p 2
= ẋ + ẏ 2 , (3.3.22)
dt
ovvero
dl
= v(t) (3.3.23)
dt
(che doveva essere ovvia a priori). Ma allora, poiché l è una funzione cres-
cente di t, è chiaro che per la rappresentazione parametrica dell’assegnata
curva γ si può scegliere proprio la lunghezza l stessa: si dice che in tal caso si
compie la scelta del parametro naturale. In vista della relazione (3.3.23) si
ha dunque che, quando viene parametrizzata con il parametro naturale (cioè
la lunghezza calcolata lungo la curva), la curva viene percorsa con velocità
34
Si noti che l è funzione di t, l = l(t), solo se è assegnata una curva γ. Dunque l non
è una funzione del posto. Non stiamo parlando del differenziale di una funzione F (x),
F : R3 → R.
194 Andrea Carati e Luigi Galgani

v = 1. In relatività, dovremo considerare delle curve nello spaziotempo che


rappresentano un movimento x = x(t), e allora il parametro naturale sarà
definito in maniera del tutto analoga (con riferimento alla metrica pseu-
doeucllidea dello spaziotempo e alla corrispondente nozione di lunghezza),
e la curva sarà ancora percorsa con (quadri)–velocità unitaria. Il parametro
naturale avrà il significato di tempo proprio.

Osservazione notazione “classica” per l’elemento di linea dl. La relazione


(3.3.22), ovvero r
p
2 2
dx 2 dy 2
dl = ẋ + ẏ dt ≡ + dt
dt dt
dx
veniva scritta dai classici nella forma (si quadri, e si usi dt dt = dx)

(dl)2 = (dx)2 + (dy)2 ,

o equivalentemente p
dl = (dx)2 + (dy)2 .
Questa scrittura (e la sua analoga in relatività e in relatività generale) viene usata
ancor oggi da tutti, addirittura nella forma più sintetica

dl2 = dx2 + dy 2 . (3.3.24)

Questa è la forma cui faremo riferimento nel capitolo sulla relatività. Naturalmente,
si deve stare attenti a non fare confusione, credendo ad esempio di stare parlando
del differenziale di l2 , o di x2 o di y 2 !
Per quanto riguarda l’uso di scrivere ad esempio dx2 invece di (dx)2 , osserviamo
che non si tratta affatto di una novità, ma di un fatto del tutto tradizionale, cui
siamo abituati fin da quando abbiamo appreso le prime nozioni di calcolo differen-
ziale. Infatti, per la derivata seconda di f (x) rispetto ad x, oltre alla notazione
d df d2 f
f 00 (x), usiamo anche la notazione dx dx , che abbreviamo con dx2 invece che con la
2
d f
notazione (dx) 2 , che sarebbe quella immediatamente suggerita dalla scrittura del

corrispondente rapporto incrementale, di cui si deve poi prendere il limite.

Consideriamo ora il caso significativo il cui la curva si presenta come il


grafico di una funzione y = y(x) (cioè la curva ha una sola intersezione con
ogni retta verticale). Ciò vuol dire che come parametro per parametrizzare
la curva si può scegliere la coordinata x stessa, ovvero si pensa a un movi-
mento in cui x(t) = t, cioè l’ascissa viene percorsa con velocità unitaria.
Analiticamente, ciò vuol dire che si ha allora ẋ = 1, ẏ = y 0 (denotiamo con
y 0 la derivata della funzione y = y(x), e la formula (3.3.21) assume la forma
Z x1 p
l(γ) = 1 + y 02 dx . (3.3.25)
x0

Consideriamo ora l’insieme U delle curve parametrizzate nella forma y =


y(x), con x0 ≤ x ≤ x1 , soddisfacenti le condizioni al contorno y(x0 ) = y0 ,
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 195

y(x1 ) = y1 . Allora la lunghezza (3.3.25) è un funzionale avente per dominio


lo spazio di funzioni U, e i punti–funzione che sono estremi (massimi o
minimi) della lunghezza sono necessariamente dei punti stazionari (o critici),
cioè devono soddisfare la condizione δl = 0. Ma il funzionale l = l(γ) ha la
forma Z x1 p
l[y(x)] = Ldx , con L(y, y 0 , x) = 1 + y 02 .
x0
Siamo dunque esattamente come nel caso meccanico, con la sola differenza
dei nomi e del significato delle variabili: la variabile indipendente x ha preso
il posto della variabile indipendente t, e la variabile dipendente è ora y invece
di q. Dunque i punti–funzione di stazionarietà della lunghhezza sono ora le
funzioni y = y(x) che soddisfano la corrispondente equazione differenziale di
Eulero–Lagrange. Poiché la “lagrangiana” ora non dipende da y, l’equazione
di Lagrange è ora l’analogo della legge di conservazione del momento, e
∂L
assume la forma ∂y 0 = c dove c è una costante. Esplicitamente,

y0
p =c (3.3.26)
1 + y 02
ovvero (si quadri, e si raccolga y 02 ) y 0 = costante (o equivalentemente y 00 =
0). La curva che è un punto di stazionarietà della lunghezza ha dunque pen-
denza costante (o curvatura nulla), cioè è una retta. Per stabilire la propri-
età di minimo, occorrerebbe passare a valutare, per i funzionali con domini
infinito–dimensionali, l’analogo della derivata seconda, Per una discussione
rimandiamo ai manuali sul calcolo delle variazioni.35
Nell’esempio appena discusso delle curve di lunghezza minima, si osserva
che la “lagrangiana non dipende dalla variabile indipendente” x (analogo del
tempo). e si ha pertanto l’analogo della legge di conservazione dell’energia.
Esercizio 1. Si mostri che anche usando l’analogo del teorema dell’energia
si perviene alla equazione y 0 = costante.

Osservazione Confronto fra il funzionale “azione hamiltoniana” e il fun-


zionale “lunghezza della traiettoria” nel caso della particella libera. Nel
caso della particella libera, le traiettorie sono rette e i movimenti sono rettilinei uni-
formi (cioè, rette percorse con velocità costante). Le funzioni x = x(t) descriventi
i movimenti sono estremali dell’azione:
Z
δS = 0 con S[x(t)] = T dt ,

dove T è l’energia cinetica (ci mettiamo nel piano, e prendiamo m = 1),


1 2
ẋ + ẏ 2 .

T =
2
35
Oppure, si veda il citato libro: A. Kolmogorov, S. Fomin, Elementi della teoria delle
funzini e di analisi funzionale, Cap. 10: Elementi di calcolo differenziale in uno spazio
vettoriale.
196 Andrea Carati e Luigi Galgani

Invece, le traiettorie (che possono ancora essere descritte in forma parametrica da


funzioni x = x(t)) sono estremali della lunghezza
√ Z √
δl = 0 con l[x(t)] = 2 T dt .

Quindi i due funzionali rilevanti sono rispettivamente l’integrale dell’energia cinetica


e (a meno di una costante) l’integrale della radice dell’energia cinetica. Il principio
di Maupertuis fornisce una generalizzazione di questa relazione.

3.3.4 Le leggi degli urti elastici


Questa paragrafo è in forma alquanto provvisoria.
Come accennato in precedenza, l’uso del principio di Hamilton permette una trat-
tazione semplice, dal punto di vista matematico, degli urti. Per urto si intende
un’interazione tra due (o più particelle) che, dal punto di vista fisico, accade prati-
camente “istantaneamente” e che ha raggio d’azione praticamente nullo. In par-
ticolare, le velocità delle particelle cambiano in maniera talmente veloce che le
traiettorie appaiono non differenziabili nel punto in cui avviene l’urto.
Dal punto di visto lagrangiano si deve ammettere che esiste un potenziale a
brevissimo raggio d’azione, ma capace comunque di imprimere forze enormi, forze
che vengono di solito chiamate forze impulsive. L’introduzione di tali forze complica
di molto il problema, perché di solito non sono quelle forze l’elemento su cui si
vuole focalizzare l’attenzione, ma piuttosto il cambiamento delle traiettirie prodotto
dall’urto, anziché l’andamento della traiettoria durante l’urto.36 Introdurre le forze
impulsive in modo corretto dal punto di vista matematico risulta niente affatto
banale; d’altra parte questo sforzo risulta sterile, in quanto si vogliono ottenere
delle leggi che prescindano dalla concreta forma delle forze impulsive, che dunque
non dovrebbero giocare alcun ruolo rilevante.
Questi problemi vengono completamente superati nella formulazione variaziona-
le, la quale, ignorandoli, permette di ottenere le leggi dell’urto in modo rigoroso dal
punto di vista matematico, senza la necessità di introdurre alcuna forza impulsiva.
Infatti il funzionale d’azione risulta definito anche su un dominio più ampio di quello
introdotto nelle pagine precedenti, e cioè sul dominio U 0 delle funzioni continue
e con derivata continua a tratti, aventi come al solito valori al bordo fissati.37
Evidentemente questo è il dominio naturale in cui ambientare il problema dell’urto
(vedi la Figura 3.9)
Resta da stabilire se l’azione sia differenziabile anche su questo dominio più
esteso. Mostreremo non solo che ciò è vero, non solo, ma anche che la condizione
di stazionarietà implica il seguente

Teorema 3 (Leggi degli urti elastici) In un urto si conservano il momento to-


tale e l’energia.
36
Una notevole eccezione si ha invece nella Fisica delle alte energie, in cui si vogliono
indagare proprio le forze responsabili dell’urto. Un esempio di tale problematica è data
nel Capitolo 7, in cui viene trattato il cosidetto “scattering di Rutherford”.
37
Infatti se la lagrangiana è una funzione C 1 allora l’integrando risulta continuo a tratti
e dunque integrabile secondo Riemann.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 197

q2(0) q+ δ q2 q2(1)
2

q2
q+
1
δ q1
q1 q1(1)

q1(0)

Figura 3.9: Urto tra due particelle.

Per dimostrare che l’azione è differenziabile,consideriamo il caso più semplice,


ovvero quello dell’urto fra due particelle. Denotiamo i movimnti delle due particelle
con q1 (t), q2 (t), e sia t∗ l’istante in cui avviene l’urto, di modo che le funzioni qi (t)
abbiano una discontinuità nella derivata nell’unico punto t∗ interno all’intervallo
[t0 , t1 ]. Il caso generale, in cui si usano arbitrarie coordinate lagrangiane, si ottiene
seguendo la falsariga di quanto diremo, a prezzo di alcune complicazioni analitiche.
Per cominciare bisogna notare che vi è la complicazione che i movimenti variati
qi (t) + δqi (t) avranno una singolarità in generale ad un diverso istante, diciamo
t∗ + δt, perché l’urto avverrà, in linea di principio, in un punto leggermente diverso
dal precedente. Comunque, δt non può essere completamente arbitrario, in quanto
devono valere le relazioni seguenti

q1 (t∗ ) = q2 (t∗ )
(q1 + δq1 )(t∗ + δt) = (q2 + δq2 )(t∗ + δt) ;

che esprimono le condizioni di urto, e che permettono di trovare una relazione tra
δt e δqi . Infatti, almeno formalmente, se si sviluppa in serie di Taylor qi nella
seconda riga, ed si usa la prima si trova, a meno di termini del secondo ordine, le
le sequenti relazioni

q̇1 δt + δq1 = q̇2 δt + δq2

t∗ ∗
t (3.3.27)
q̇1 δt + δq1 ∗ = q̇2 δt + δq2 ∗ ,

t +δt t +δt

che mostrano come δt sia una quantità “piccola” con δqi .


198 Andrea Carati e Luigi Galgani

Naturalmente bisogna fare attenzione, perché qi non è differenziabile per t = t∗ ,


per cui la prima relazione appare dubbia. Per ottenere la prima, bisogna dunque
sviluppare in serie di Taylor la funzione qi +δqi che è invece differenziabile, ed usare
il fatto che la sua derivata coincide con la derivata (destra o sinistro a seconda che
sia δt positivo o negativo) di qi , a meno naturalmente di termini di ordine superiore.

A questo punto l’incremento dell’azione si può calcolare spezzando l’integrale


in tre parti al modo seguente
Z t∗ Z t∗ +δt Z t1
S[qi + δqi ] − S[qi ] = δLdt + δLdt + δLdt ,
t0 t∗ t∗ +δt

in cui δL indica la differenza tra la lagrangiana calcolata sul movimento variato e sul
movimento scelto qi . Per semplicità abbiamo qui supposto che δt sia positivo. Nel
primo e nel terzo integrale le funzioni sono regolari, per cui si puó procedere come
fatto nei paragrafi precedenti ottenendo, a meno di un resto di ordine superiore,
Z t∗ Z t∗ 
∂L d ∂L  X
δLdt = − δqi dt + pi δqi t∗
t0 t0 ∂qi dt ∂ q̇i i
Z t1 Z t1 
∂L d ∂L  X
δLdt = − δqi dt − pi δqi t∗ +δt .
t∗ +δt t∗ +δt ∂qi dt ∂ q̇i i

Il secondo integrale invece lo si può calcolare usando il teorema della media, e si


ottiene, sempre a meno di resti di ordine superiore,
Z t∗ +δt

δLdt = L t∗ δt − L t∗ +δt δt .
t∗
Per ottenere questo risultato bisogna operare giudiziosamente, ricordando che la
lagrangiana calcolata sul movimento variato è continua in t∗ , la langrangiana cal-
colata sul movimento non variato è continua in t∗ + δt. Otteniano in definitiva che,
a meno di termini di ordine superiore, vale
Z t∗ Z t1 !  !
∂L d ∂L  X t∗ +δt
S[qi +δqi ]−S[qi ] = + − δqi dt− pi δqi − Lδt t∗ ,
t0 t∗ +δt ∂qi dt ∂ q̇i i

che mostra come l’azione sia differenziabile anche nel dominio esteso. Ora, quando
vado a cercare i punti stazionari dell’azione, dovrò imporre che siano nulli sepa-
ratamente l’integrale ed il contributo di bordo: l’annullarsi dell’integrale mi impone
come prima che i movimenti devono essere soluzioni delle equazioni di Lagrange a
tutti i tempi tranne che per t = t∗ (ricordiamo che δt può essere reso arbitrari-
amente piccolo); l’annullarsi della parte di bordo dà le leggi dell’urto come ora
vedremo subito.
Infatti riscriviamo il termine di bordo al modo seguente
!
X t∗ +δt X X t∗ +δt
pi δqi + Lδt ∗
t
= pi (q̇i δt + δqi ) − ( pi q̇i − L)δt ∗
t
i i i
P
dove a secondo membro si è aggiunto e tolto il termine i pi q̇i δt. Ricordando ora
le relazioni (3.3.27) abbiamo infine
!
X t∗ +δt X t∗ +δt X t∗ +δt
pi δqi + Lδt ∗
t
=( pi ) ∗ (q̇1 δt + δq1 ) − (
t
pi q̇i − L) ∗ δt .
t
i i
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 199

Il movimento sarà stazionario se il termine di bordo si annulla qualunque siano


δq1 e δt: ne segue che deve essere
X t∗ +δt
( pi ) t∗ =0
X t∗ +δt
( pi q̇i − L) t∗ =0,
i

cioè la legge di conservazione del momento e dell’energia.

3.3.5 L’azione ridotta e il principio di Maupertuis–Jacobi


Veniamo ora al principio di Maupertuis (o di Maupertuis–Jacobi), che, come
ricordato nell’introduzione, ha svolto un ruolo fondamentale nel promuovere
i principi variazionali. Esso verrà qui dedotto, in maniera abbatanza sem-
plice, come corollario del principio di Hamilton, ma presenta tuttavia alcuni
aspetti alquanto sottili. Non meravigli dunque la seguente citazione da Ja-
cobi, che riportiamo dal manuale di Arnol’d38 : “In tutti i manuali, anche
nei migliori, il principio di Maupertuis è presentato in una forma tale che è
impossibile comprenderlo.” (C. Jacobi, Corso di dinamica, 1842–1843).” E
Arnol’d aggiunge: “Non mi azzardo a violare la tradizione.”
Il punto di partenza consiste nell’osservazione fatta alla fine del paragrafo
(3.3.3) dove, nel caso della particella libera, si confrontavano i funzionali i cui
minimi danno rispettivamente i movimenti oppure le traiettorie. Nel primo
caso
R (azione hamiltoniana) si ha l’integrale temporale dell’energia cinetica,
T dt, nel Rsecondo caso (lunghezza) si ha l’integrale dell’elemento di linea
(euclideo) dl. Si ricordi però che
√ si può parametrizzare una traiettoria p con
il tempo, essendo dl = vdt = C T dt dove la costante è data da C = 2/m.
La relazione tra i due principi si ottiene scrivendo
Z Z √ √
T dt = T T dt ,

e osservando che, da una parte si ha T dt = m
p
dl, sicché si resta con
pm √ √ 2
T dt = 2 T dl, e d’altra parte che il fattore T è una costante del moto
(stiamo considerando la particella libera) e dunque è ininfluente nel calco-
lo Rdella variazione. In tal modo il principio variazionale per la traiettoria
(δ dl = 0) segue dal principio variazionale per il movimento (δS = 0).
È chiaro pertanto che si troverà una relazione tra il principio variazionale
relativo al movimento e quello relativo alla traiettoria se si potrà esprimere
l’azione S attraverso un integrale dell’energia cinetica T , facendo anche uso
del teorema di conservazoine dell’energia. Il procedimento da seguirsi viene
suggerito dalla nota relazione tra lagrangiana ed hamiltoniana, ovvero
∂L
L = p · q̇ − H , p≡ ,
∂ q̇
38
Metodi matematici della meccanica classica, paragrafo 451 D.
200 Andrea Carati e Luigi Galgani

se ci si restringe al caso in cui si ha conservazione dell’energia H = E, e


inoltre l’energia cinetica è quadratica nelle q̇. sicché si ha

p · q̇ = 2T .

È allora spontaneo restringere l’attenzione allo spazio UE dei movimenti q(t)


che corrispondono ad un valore E fissato dell’energia. Inoltre ci limiteremo al
caso delle condizioni al contono con fissati valori delle posizioni agli estremi.
Procedendo temporaneamente in maniera euristica (metteremo poi subito a
posto le cose), si ha allora che nello spazio UE l’azione hamiltoniana prende
la forma
Z t1 Z t1
S[q(t), E] = p · q̇ dt − E · (t1 − t0 ) = 2T dt − E · (t1 − t0 ) .
t0 t0

È dunque spontaneo introdurre l’ azione ridotta A definita da


Z t1 Z t1 Z
A= 2T dt = p · q̇ dt = p · dq ,
t0 t0 γ

perché allora si ha
S = A − E · (t1 − t0 ) ,
e sembrerebbe che gli estremali di S coincidano con quelli di A. Questo è
vero, se si aggiunge qualche precisazione, come ora mostriamo. Si noti che
l’azione ridotta A, come integrale di una forma differenziale nello spazio delle
configurazioni, non dipende dalla parametrizzione q(t) del nostro moto, ma
solo dalla corrispondente della traiettoria γ. Mostreremo tuttavia che esiste
un procedimento generale (che fa uso della conservazione dell’energia) per
assegnare a ogni traiettoria un unico ben definito movimento, sicché potremo
fare sempre riferimento a movimenti.
Per semplicità di notazione consideriamo il caso di una sola particella
nello spazio. La trattazione del caso generale si otterrà poi banalmente per
analogia. Nel caso di un punto nello spazio, il fatto significativo da met-
tere in luce è che il movimento q(t) nel dominio UE è individuato comple-
tamente dalla corrispondente traiettoria (orientata) γ (leggi gamma) nello
spazio delle configurazioni C = R3 . Infatti, in ogni punto q della traiettoria
γ, il corrispondente vettore velocità q̇, dovendo essere tangente a γ, è indi-
viduato in direzione e verso, e resta indeterminata soltanto la sua lunghezza
(o modulo) v ≡ ||q̇||. Ma questa è determinata dall’assegnato valore E
dell’energia, perché si ha
1
mv 2 + V (q) = E ,
2
e dunque
2√
r r
2p
v= T = E − V (q) .
m m
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 201

Anzi, in tal modo, essendo determinata la velocità in ogni punto di γ, risulta


determinata una ben definita parametrizzazione x = x(t) della curva γ. In
conclusione, nello spazio dei movimenti UE , ad ogni movimento corrisponde
una unica traiettoria γ e, viceversa, ad ogni traiettoria γ l’assegnazione
dell’energia E associa un unico movimento q = q(t). Il punto sottile è ora
che ad ogni traiettoria γ viene a corrispondere in tal modo anche un ben
definito tempo totale di percorrenza, in generale diverso per ogni traiettoria.
Se anche fissiamo il medesimo tempo di partenza t0 uguale per tutte le
traiettorie, ogni traiettoria γ avrà un diverso tempo finale t1 :

t1 = t1 (γ) .

Consideriamo dunque lo spazio UE dei movimenti che si svolgono (tra


due posizioni fissate) ad una fissata energia E, e individuiamo nel modo
detto ognuno di tali movimenti mediante la corrispondente traiettoria
R γ.
Allora la relazione tra azione hamiltonaiana S ed azione ridotta A = 2T dt

S(γ, E) = A(γ, E) − E(t1 − t0 ) ,

dove
Z t1 Z t1 Z
∂L
A(γ, E) = 2T dt = p · q̇ dt = p · dq , p= . (3.3.28)
t0 t0 γ ∂ q̇

Queste sono le precisazioni che dovevano essere fatte. Si ha ora la propri-


età che nel dominio UE gli estremali dei due funzionali, azione hamiltoniana
S ed azione ridotta A, coincidono (ovviamente questo ha senso solo se si
pensano le traiettorie paremetrizzate nel modo detto, sicché ogni traietto-
ria corrisponde a un unico ben definito movimento, e dunque ci riferiamo
in ogni caso a movimenti). Il fatto che gli estremali di S e di A coincidano
(quando per A si parametrizzino le traiettorie nel modo detto usando al con-
servazione dell’energia) può essere visto nel seguente modo. Da una parte si
usa la relazione
A = S + E(t1 − t0 ) ,

da cui segue
δA = δS + Eδt1 .

D’altra parte si può mostrare che il termine Eδt1 é un termine di “bor-


do” (infatti vale δt1 = −|δq1 |/|q(t1 )|) per cui il termine integrale in δA è
il medesimo del termine integrale in δS. Dunque le equazioni di Eulero–
Lagrange per i funzionali A ed S coincidono. In realtà un calcolo più sottile
mostra che i termini di bordo sono nulli.

Abbiamo dunque dimostrato il


202 Andrea Carati e Luigi Galgani

Lemma 2 (dell’azione ridotta.) Per una particella nello spazio, si con-


sideri il sottoinsieme dei movimenti q(t) di UE (ovvero dei movimenti che
rispettano l’energia, H(q, p) = E e hanno traiettorie con estremi fissati) .
AlloraR le traiettorie γ corrispondenti agli estremali dell’azione hamiltoniana
S = L dt sono estremali dell’azione ridotta A(γ, E) (3.3.28). Viceversa,
i movimenti che si ottengono dalle traiettorie γ estremali dell’azione ridot-
ta, parametrizzandoli mediante la conservazione dell’energia, sono estremali
dell’azione hamiltoniana.

Possiamo ora venire al principio di Maupertuis–Jacobi. Si tratta sem-


plicemente di esprimere l’azione ridotta A(γ, E) in termini di quantità che
coinvolgano soltanto lo spazio delle configurazioni. R Sappiamo già che le trai-
ettorie sono estremali dell’azione ridotta A = 2 T dt, e basta allora utiliz-
zare il teorema di conservazione dell’energia, nella forma T = E − V (q), ed
eliminare il tempo mediante la relazione
√ p
v dt = dl , ovvero T dt = m/2 dl
√ √
dove dl è l’ordinario elemento euclideo di linea, sicché, usando T dt = T T dt
si ha
√ Z p
A(γ, E) = 2m E − V (q) dl ,
γ

Abbiamo pertanto dimostrato il

Teorema 4 (Principio di Maupertuis–Jacobi) . Consideriamo una par-


ticella nello spazio euclideo R3 soggetta a un campo di forze con energia
potenziale V = V (q). Allora le traiettorie γ corrispondenti a movimenti
a una fissata energia E sono i punti stazionari (o estremali, o critici) del
funzionale
√ Z p
A(γ, E) = 2m E − V (q) dl ,
γ

dove dl è l’ordinario elemento euclideo di linea.

In altri termini, le traiettorie di una particella in un campo di forze con


energia potenziale V (q) ad una fissata energia E coincidono con le traiettorie
dei raggi luminosi in un mezzo con indice di rifrazione
p
n(q) = E − V (q) .

A questo punto può essere interessante confrontare la dimostrazione ap-


pena data, con quella riportata da Fermi nella prima pagina delle sue Notes
on quantum mechanics, dimostrazione che è eseguita in una nota a pié di
pagina.
Intermezzo: la geometrizzazione della dinamica. Abbiamo visto come le
traiettorie di una particella in un campo di forze con energia potenziale V (q) si
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 203

ottengono attraverso il principio di Maupertuis con lo stesso procedimento con cui


si ottengono quelle per la particella libera, pur di rimpiazzare l’elemento di linea
p
dl con E − V (q) dl .

Quindi l’effetto della forza si manifesta solamente attraverso un elemento geomet-


rico. Si rimpiazza l’elemento di linea dl (caratteristico della particella libera) con
un altro ad esso proporzionale, tramite un fattore dipendente dal posto attraverso
l’energia potenziale. Dunque le forze sono riassunte in un elemento geometrico.
Cosi avverrà anche in relatività generale, in cui la gravità viene ad essere descritta
come avente l’effetto geometrico di “incurvare lo spazio”.

3.4 Il principio variazionale per le equazioni di


Hamilton
Nella discussione del principio
R t1 di Hamilton si è fatto riferimento all’azione
hamiltoniana S[q(t)] = t0 Ldt come funzionale definito sullo spazio U dei
movimenti q = q(t) di un sistema lagrangiano ad n gradi di libertà (con
certe condizioni al contorno), e si è mostrato come la condizione di staziona-
rietà δS = 0 sia equivalente alle equazioni differenziali di Lagrange. Ma si è
anche osservato che il procedimento è di carattere alquanto generale, ed ha
la caratteristica di associare, ad un funzionale esprimibile come un integrale
di una certa “densità”, un sistema di equazioni differenziali, dette appunto
“equazioni di Eulero–Lagrange”, caratterizzanti i punti stazionari del fun-
zionale considerato. In tale ordine di idee è stato considerato l’esempio del
funzionale che fornisce la lunghezza euclidea di una curva nel piano.
Vogliamo qui illustrare tale proprietà su un esempio molto significati-
vo per la meccanica: vogliamo mostrare che non solo le equazioni di La-
grange, ma anche le equazioni di Hamilton possono essere riguardate come
equazioni di Eulero–Lagrange per un opportuno funzionale.39 Risulta poi
che il funzionale formalmente è ancora l’azione hamiltoniana, riguardata
però ora come avente dominio in un diverso spazio di funzioni. Si tratta
dello spazio delle funzioni x = x(t) con x = (q, p) anziché lo spazio delle
funzioni q = q(t) (con t ∈ [t0 , t1 ]).
Il punto da tenere presente è che
 è ovviamente vero che, quando è assegnata la
funzione x = x(t) = q(t), p(t) , resta corrispondentemente assegnata anche la
funzione ẋ = ẋ(t) e quindi in particolare è anche assegnata la funzione q̇ = q̇(t)
Ma mentre in ambito lagrangiano il valore di q̇ determina il valore di p e viceversa,
si deve ricordare che invece in ambito hamiltoniano le funzioni q̇(t) e p(t) sono a
priori assolutamente indipendenti. Infatti, in ambito lagrangiano la relazione
∂L
p= , (3.4.1)
∂ q̇
39
Nota per gli autori. Cercare di capire la stranissima affermazione che fa Dirac a
questo proposito nell’articolo sul principio di Hamilton riprodotto nel libro Quantum
electrodynamics di J. Schwinger: sembra dire che ciò non è possibile.
204 Andrea Carati e Luigi Galgani

appare come una definizione di p in termini di q̇ e quindi pone un legame tra p


e q̇ (in tal senso, essa viene impiegata per definire la hamiltoniana a partire dalla
lagrangiana). Invece in ambito hamiltoniano i vettori p e q̇ sono del tutto indipen-
denti, e la hamiltoniana è una certa funzione di q, p assegnata a priori (ad esempio,
H = (p2 /2m) + V (q) per una particella sulla retta). In ambito hamiltoniano risulta
poi che la la relazione (3.4.1) costituisce essa stessa una delle due equazioni di moto,
precisamente
∂H
q̇ = ,
∂p
perché ben sappiamo dalle proprietà della trasformata di Legendre che essa è equiva-
lente alla (3.4.1). In altri termini, la relazione lagrangiana tra p e q̇ vale nello spazio
delle fasi soltanto “lungo le soluzioni delle equazioni di Hamilton”. È quindi evi-
dente che se ora intendiamo dedurre le equazioni di Hamilton come caratterizzanti
i punti stazionari di un certo funzionale, dovremo pensare che questo funzionale sia
funzione del movimento x = x(t), con p(t) completamente indipendente da q̇(t).

Mostreremo che le equazioni di Hamilton son le equazioni di Eulero–


Lagrange per il funzionale
Z t1

S̃[x(t)] = L̃ x(t), ẋ(t), t dt ,
t0

dove 
L̃ x, ẋ, t = p · q̇ − H(p, q, t) .
Si ha il
Teorema 5 Si denoti x ≡ (q, p) ∈ R2n . Sia assegnata una funzione H =
H(x, t) = H(q, p, t) (hamiltoniana), e si consideri il funzionale (azione
hamiltoniana generalizzata) S̃, definito da
Z t1

S̃[x(t)] = L̃ x(t), ẋ(t), t dt , (3.4.2)
t0

dove 
L̃ x, ẋ, t = p · q̇ − H(q, p, t) . (3.4.3)
Allora le corrispondenti equazioni di Eulero–Lagrange sono proprio le equazioni
di Hamilton
∂H ∂H
q̇ = , ṗ = − . (3.4.4)
∂p ∂q

Dimostrazione. La dimostrazione è un banale esercizio, che è utile svolgere sec-


ondo lo schema illustratoRnel paragrafo precedente. Infatti abbiamo ancora unR fun-
zionale della forma S̃ = L̃dt, del tipo considerato precedentemente (S = Ldt),
solo che ora si ha S̃ = S̃[(x(t)], con x = (q, p) ∈ R2n ed L̃ data dalla (3.4.3). Le
equazioni di Eulero–Lagrange prendono la consueta forma

∂ L̃ d ∂ L̃
− =0, con x = (q, p) .
∂x dt ∂ ẋ
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 205

Si scrivono dunque le corrispondenti equazioni per le componenti q e p di x, ovvero

∂ L̃ d ∂ L̃ ∂ L̃ d ∂ L̃
− =0, − =0.
∂q dt ∂ q̇ ∂p dt ∂ ṗ

Infine, tenendo presente la forma (3.4.3) di L̃, tali equazioni risultano essere

∂H d ∂H
− − p=0, q̇ − =0,
∂q dt ∂p

ovvero le equazioni di Hamilton. Q.E.D.

Osservazione sulle condizioni al bordo. Se si ripercorre il procedimento


con cui si ottengono le equazioni di Eulero–Lagrange a partire da una assegnata
lagrangiana, e ci si sofferma sul passaggio in cui si compie una integrazione per parti,
si troverà che nel nostro caso, in cui la lagrangiana è la funzione L̃, essendo ∂∂L̃
ṗ = 0, i
termini finiti dovuti all’integrazione per parti sono solo quelli relativi a p·δq. Segue
pertanto che per il minimo dell’azione basta richiedere le condizioni di annullamento
al bordo per p · δq e non è necessario richiedere alcuna condizione che coinvolga
δp. Si noti ora che, se in certe variabili canoniche si è assunta la condizione al
bordo ad esempio δq(t1 ) = 0, eseguendo una generica trasformazione canonica (che
non sia della sottoclasse puntuale estesa) la condizione non si esprimerà in generale
nella forma δQ(t1 ) = 0 (perché le q dipendono anche da P). Tuttavia, come
ripetutamente osservato, questo fatto è irrilevante al fine di dedurre dal principio
di minima azione le equazionni di Hamilton.

3.5 La caratterizzazione delle trasformazioni canon-


iche, e la forma di Poincaré–Cartan nello spazio
delle fasi esteso.
Ricordiamo che nel capitolo sulle equazioni di Hamilton abbiamo preso in
considerazione delle trasformazioni di variabili che coinvolgono non solo le
variabili “di posizione” q, ma anche i momenti p, oltre che eventualmente
il tempo. Tra tutte queste trasformazioni, sono state chiamate trasfor-
mazioni canoniche quelle aventi la proprietà di conservare la struttura
delle equazioni di Hamilton. In altri termini, se in una carta con coor-
dinate q, p è assegnata una hamiltoniana H(q, p, t) sicché gli stati (punti
x = (q, p)) evolvono come soluzioni delle equazioni di Hamilton

∂H ∂H
q̇ = , ṗ = − , (3.5.1)
∂p ∂q

allora si considera una famiglia di trasformazioni dipendente parametrica-


mente dal tempo

Q = Q(p, p, t) , P = P(q, p, t) , (3.5.2)


206 Andrea Carati e Luigi Galgani

e si dice che tale famiglia di trasformazioni è canonica se, comunque sia


assegnata la hamiltoniana originale H, nelle nuove variabili gli stati (punti
X = (Q, P)) evolvono come soluzioni delle equazioni di Hamilton con una
opportuna hamiltoniana K(Q, P, t), ovvero si abbia
∂K ∂K
Q̇ = , Ṗ = − . (3.5.3)
∂P ∂Q
Il principio di azione stazionaria, nella forma adatta alle equazioni di
Hamilton, ci fornisce allora una caratterizzazione delle trasformazioni canon-
iche, che risulta particolarmente utile essendo di tipo costruttivo, nel senso
che permette di produrre delle trasformazioni canoniche attraverso un pro-
cedimento concreto (metodo della funzione generatrice). Vogliamo qui
illustrare questa caratterizzazione nella maniera più semplice possibile.
L’osservazione di base è che l’azione S̃ nella forma
R adatta per
 le equazioni
di Hamilton, che è stata scritta sopra come S̃ = pq̇ − H dt, può essere
evidentemente scritta anche come
Z

S̃ = p · dq − H dt , (3.5.4)

in cui figura, come integrando, la quantità

p · dq − H dt . (3.5.5)

Questa è una forma differenziale di primo ordine (o. come si usa dire, una
1–forma differenziale), allo stesso modo in cui, in R3 , è una 1–forma dif-
ferenziale il lavoro (anzi il lavoro “infinitesimo o elementare”) F · dx ≡
F1 dx + F2 dy + F3 dz dove Fi = Fi (x), i = 1, 2, 3, sono le componenti carte-
siane di un assegnato campo di forze. Nel nostro caso, abbiamo a che fare
con una 1–forma in uno spazio che viene chiamato spazio nello spazio delle
fasi “esteso”, di dimensione 2n + 1, nel quale anche il tempo figura come
coordinata, e dunque le coordinate sono q, p, t.
Intermezzo: Lo spazio delle fasi esteso: analogia con lo spaziotempo.
L’energia come momento associato al tempo. Nella teoria della relatività
(sia in quella speciale, sia in quella generale) svolge un ruolo essenziale la nozione
di spaziotempo. In relatività speciale si tratta semplicemente dello spazio quadridi-
mensionale con coordinate (t, x) dove x = (x, y, z) sono le consuete coordinate
cartesiane ortogonali nello spazio ordinario. Un movimento x = x(t) (legge che ad
ogni tempo t associa una posizione x(t)) appare allora nello spaziotempo come un
ente geometrico, un particolare sottoinsieme dello spaziotempo che è monodimen-
sionale, cioè, come si dice, una curva.40 Come fa osservare ripetutamente Einstein
stesso, per quanto riguarda questo fatto la relatività non aggiunge nulla di nuovo (la
novità consisterà invece nel fatto che nello spaziotempo essa introduce un prodotto
40
Si veda il bellissimo slogan di Einstein riportato nel capitolo di relatività, secondo cui
il divenire nello spazio si manifesta come un essere nello spaziotempo: vengono riconciliati
Talete ed Eraclito.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 207

scalare – o, come si dice, una metrica – come traduzione geometrica del principio
di costanza della velocità della luce).
Qui, passando dallo spazio delle fasi F allo spazio delle fasi esteso F̃ = F × R,
stiamo facendo una cosa del tutto analoga. Un movimento nello spazio delle fasi
è una funzione x = x(t) che ad ogni tempo (numero reale) t associa un punto
x = x(t) dello spazio delle fasi (naturalmente, le coordinate sono ora x = (q, p)).
e un movimento appare come un ente geometrico in F̃, che è un sottoinsieme
monodimensionale, cioè una curva.
La considerazione dello spazio delle fasi esteso F̃ con coordinate (q, p, t) e della
corrispondente 1–forma di Poincaré–Cartan ω = pdq−Hdt induce spontaneamente
ad una ulteriore interessantissima osservazione. Come nello spazio delle fasi F
il momento p è associato a q, allo stesso modo nello spazio delle fasi esteso F̃
l’hamiltoniana H (o piuttosto −H) appare com il momento associato al tempo.
Questo fatto può essere messo in luce in una maniera ancora più stringente, che
non abbiamo qui il tempo di illustrare.

Si noti bene che una generica 1–forma nello spazio delle fasi esteso si
esprime come

a(q, p, t) · dq + b(q, p, t) · dp + c(q, p, t) dt (3.5.6)

con dei coefficienti a, b, c del tutto generici. La nostra 1–forma (3.5.5) è


dunque specialissima, perché è caratterizzata da coefficienti specialissimi,
precisamente

a(q, p, t) = p , b(q, p, t) = 0 , c(q, p, t) = −H(q, p, t) . (3.5.7)

Questa 1–forma specialissima viene chiamata forma di Poincaré–Cartan e


denotata tradizionalmente con il simbolo ω:

ω := p · dq − Hdt .

Il calcolo eseguito nel paragrafo precedente per il differenziale (variazione) di


S̃ ci ha mostrato il seguente fatto, con riferimento alle variabili originarie x =
(q, p): la proprietà che il movimento x = x(t) sia soluzione delle equazioni
di Hamilton con hamiltoniana H è equivalente alla proprietà che l’azione
S̃[x(t)] sia espressa in una maniera specialissima, cioè Rproprio come integrale
della 1–forma di Poincaré–Cartan, ovvero come S̃ = (p · dq − H dt).
Eseguiamo ora il cambiamento di variabili (3.5.2), o equivalentemente il
cambiamento inverso

q = q(Q, P, t) . p = (Q, P, t) . (3.5.8)

È evidente che la nostra 1–forma prenderà nelle nuove variabili un altro as-
petto, che si otterrà semplicemente per sostituzione di variabili, esprimendo
208 Andrea Carati e Luigi Galgani

inoltre il differenziale dq in termini di dQ, dP e dt.41 Si avrà dunque, per


una trasformazione generica,

p · dq − H(q, p, t) dt = A(Q, P, t) · dQ + B(Q, P, t) · dP + C(Q, P, t) dt .


(3.5.9)
con certi coefficienti A, B, C. Corrispondentemente, le equazioni di moto,
che nelle vecchie variabili avevano la forma speciale (o canonica) di Hamil-
ton, avranno nelle nuove variabili un aspetto generico, che si potrebbe deter-
minare esplicitamente scrivendo le equazioni di Eulero–Lagrange nelle nuove
variabili (cioè calcolando la variazione δ S̃ nelle nuove variabili).
Intermezzo: Aspetto delle equazioni di Hamilton in coordinate gener-
iche. Ci si potrebbe attendere che in coordinate generiche le equazioni che si otten-
gono dalle originarie equazioni di Hamilton abbiano un aspetto del tutto generico,
Si mostra invece che anche in coordinate generiche rimane una traccia del fatto
che le equazioni avevano l’aspetto di equazioni di Hamilton nelle variabili (q, p)
originarie. Questo fatto è illustrato nella prima appendice di questo capitolo, dove
vengono introdotti, nella maniera più elementare possibile, anche altre interessanti
nozioni di calcolo tensoriale.

Se però le trasformazioni di variabili (3.5.2) avranno la proprietà spe-


cialissima che valga
A=P, B=0,
allora è ovvio che anche nelle nuove variabili le equazioni avranno la speciale
forma di Hamilton (3.5.3). In effetti, la condizione perché le equazioni nelle
nuove variabili abbiano ancora forma di Hamilton con hamiltoniana K è
molto più debole, perché basta che si abbia

p · dq − H dt = P · dQ − K dt + dF (3.5.10)

dove F = F (q, p, t) è una arbitraria funzione (a valori reali) nello spazio


delle fasi esteso. Ciò è dovuto al fatto che il termine dF non modifica le
equazioni di Eulero–Lagrange. Infatti, esso contribuisce all’azione S̃ soltanto
41
Si ha qui una profonda analogia con il problema delle “trasformazioni naturali” in uno
spazio, ad esempio R3 , munito di prodotto scalare (e dunque delle nozione di lunghezza
l di un vettore). In presenza di un prodotto scalare, definito per ogni coppia di vettori
in maniera intrinseca (cioè indipendente dalla base – ovvero dalle coordinate scelte per
rappresentare i vettori), esistono delle basi “naturali” (quelle ortonormali), e corrispon-
dentemente delle coordinate naturali, in cui il prodotto scalare ha forma pitagorica, cioè il
quadrato l2 della lunghezza di un vettore x = (x1 , x2 , x3 ) si esprime come l2 = x21 +x22 +x23 .
Sono allora definite le trasformazioni ortogonali (o i corrispondenti cambiamenti di vari-
abile), come quelle che conservano tale struttura pitagorica per l2 , ed esse sono l’analogo
delle trasformazioni canoniche. Nel caso di uno spazio con prodotto scalare, l2 mantiene
la forma pitagorica sotto trasformazioni ortogonali, mentre assume forma generica (entro
certi limiti) per trasformazioni generiche. Nello spazio delle fasi, le trasformazioni canon-
iche conservano la struttura “canonica” p · dq − Hdt della 1–forma ω di Poincaré–Cartan,
mentre questa assume forma generica sotto una trasformazione generica.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 209

attraverso Z t1
dF = F (x(1) ) − F (x(0) ) ,
t0

e dunque contribuisce a δ S̃ soltanto attraverso termini al contorno che, come


avevamo osservato, sono irrilevanti per le equazioni di Eulero–Lagrange.
La (3.5.10) è la caratterizzazione cercata per le traformazioni canon-
iche, cioè per le trasformazioni che conservano la struttura delle equazioni
di Hamilton o equivalentemente della 1–forma di Poincaré–Cartan. Essa
richiede che, per ogni H, esista una funzione K tale che la forma differen-
ziale p · dq − P · dQ − (H − K) dt sia un differerenziale esatto. Deve cioè
esistere una funzione dello spazio delle fasi (dipendente parametricamente
da t), detta funzione generatrice della trasformazione canonica,

F = F (q, p, t) ,

tale che, per ogni H, si abbia

p · dq − P · dQ − (H − K) dt = dF , (3.5.11)

con una opportuna K.


In effetti, questa caratterizzazione risulta essere di tipo costruttivo, e for-
nisce ad un tempo, quando si assegni la funzione generatrice F , sia la trasfor-
mazione canonica sia la nuova hamiltoniana K. Per mostrare come questo
avvenga, cominciamo con il restringerci al caso particolare delle trasfor-
mazioni del tipo (3.5.2), per cui le variabili q, Q possano essere assunte come
coordinate nello spazio delle fasi.42 Allora, pensando a q, Q come coordi-
nate indipendenti ed esprimendo in maniera corrispondente il differenziale
dF come
∂F ∂F ∂F
dF = · dq + · dQ + dt ,
∂q ∂Q ∂t
per confronto con la (3.5.11) si trova

∂F ∂F ∂F
p= , P=− , K=H+ . (3.5.12)
∂q ∂Q ∂t

Naturalmente, occorrerà poi operare una inversione. Si rimanda alla discus-


sione fatta nel capitolo sulle equazioni di Hamilton.
Abbiamo già osservato che il passaggio dallo spazio delle fasi F allo spazio delle fasi
esteso è del tutto simile al passaggio dallo spazio allo spaziotempo che si compie in
42
Il significato di questa restrizione è stato illustrato nel capitolo sulle equazioni di
Hamilton. Sappiamo che per tali trasformazioni si deve avere
∂Q
det 6= 0 .
∂p
210 Andrea Carati e Luigi Galgani

relatività. Si capisce cosı̀ come la classe di trasformazioni canoniche si possa spon-


tanemente estendere a comprendere anche trasformazioni che coinvolgano davvero
il tempo, cioè del tipo (q, P, t) → (Q, P, T ). La condizione di canonicità diviene
allora
p · dq − H dt − P · dQ + K dT = dF . (3.5.13)

In altri termini, la condizione (3.5.13) garantisce che le equazioni di Hamilton (3.5.1)


assumono nelle nuove variabili P.Q, T la forma

d ∂K d ∂K
Q= , P=− .
dT ∂P dT ∂Q

Trasformazioni generali di questo tipo sono spesso impiegate ad esempio in mecca-


nica celeste.

3.6 Il flusso hamiltoniano come famiglia di trasfor-


mazioni canoniche. L’azione come corrispon-
dente funzione generatrice. Equazione di Ham-
ilton–Jacobi
Vogliamo qui dimostrare una proprietà che era stata anticipata (ma non di-
mostrata) sia discutendo le trasformazioni canoniche prossime all’identità,
sia discutendo le simmetrie dei sistemi hamiltoniani. Si tratta del fatto che il
flusso43 ΦtH indotto nello spazio delle fasi F da una generica hamiltoniana H
è una famiglia (dipendente parametricamente dal tempo) di trasformazioni
canoniche. In effetti, si mostra anche che la corrispondente funzione gener-
atrice (dipendente dal tempo) risulta essere determinata attraverso l’azione
hamiltoniana, nel modo che ora illustriamo.
Consideriamo un sistema lagrangiano in uno spazio delle configurazioni
C, e una fissata lagrangiana R L(q, q̇, t). Consideriamo poi il funzionale di
azione hamiltoniana S = Ldt nel consueto spazio funzionale U individuato
da parametri q0 , t0 , q1 , t1 . Si assuma infine che in opportuno dominio di tali
parametri il funzionale azione hamiltoniana ammetta un unico minimo. Ciò
comporta in particolare (è questa una osservazione che ci servirà ripetuta-
mente) che l’assegnazione dei dati (q0 , t0 ) e (q1 , t1 ) determina univocamente
i vettori p0 e p1 . Infatti per ipotesi tali due coppie di dati individuano un
unico estremale q = q(t) e quindi anche la velocità q̇(t) e il corrispondente
momento p(t) secondo la consueta definizione. Avremo dunque

∂L ∂L
p0 = (q0 , q̇0 , t0 ) , p1 = (q1 , q̇1 , t1 ) , (3.6.1)
∂ q̇ ∂ q̇
43
Ricordiamo che ΦtH denota la trasformazione che invia ogni punto (q0 , p0 ) dello spazio
delle fasi nel suo evoluto (q(t), p(t) lungo la corrispondente soluzione, al tempo t, delle
equazioni di Hamilton con hamiltoniana H e dati iniziali q0 , p0 .
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 211

ed useremo anche la notazione

H0 = H(p0 , q0 , t0 ) , H1 = H(p1 , q1 , t1 ) . (3.6.2)

Denotiamo con
S ∗ (q0 , t0 , q1 , t1 )

il valore che il funzionale di azione hamiltoniana assume in corrispondenza dl


minimo individuato dalle coppie (q0 , t0 ), (q1 , t1 ). Si tenga ben presente che,
come esplicitamente indicato dalla notazione usata, S ∗ è ora una funzione
dei “valori al contorno” q0 , t0 , q1 , t1 , a differenza dell’originario funzionale
S che ha come dominio lo spazio di funzioni U.
Notazione: S ∗ ≡ S. Abbiamo qui introdotto due simboli distinti, da una parte
per l’azione S definita nello spazio funzionale U, e dall’altra per il suo minimo S ∗ ,
funzione dei parametri q0 , t0 , q1 , t1 . È uso comune (ad esempio nel manuale di
Landau, ma anche negli articoli di Dirac e di Feynman in cui l’azione hamiltoniana
venne utilizzata per una “diversa” formulazione della meccanica quantistica) deno-
tare S ∗ semplicemente con S, quando dal contesto sia evidente che essa è pensata
come funzione dei “parametri al bordo” q0 , t0 , q1 , t1 . Cosı̀ faremo anche noi nel
seguito.

Esercizio 2. Scrivere la funzione S(q0 , t0 , q1 , t1 ) per la particella libera


e per l’oscillatore armonico. Si veda R.P. Feynman, A.R. Hibbs, Quantum
mechanics and path integrals, Mc Graw–Hill (New York, 1965).

Intermezzo: La funzione principale di Hamilton. La funzione S(q0 , t0 , q1 , t1 )


viene spesso chiamata funzione principale (o caratteristica) di Hamilton. Nel caso
dell’ottica geometrica, Hamilton si rese conto che l’analogo della funzione S(q0 , t0 , q1 , t1 )
contiene tutta la conoscenza che è sufficiente per descrivere gli strumenti ottici. Di
qui passò poi alla meccanica.

Denotiamo con ΦtH0 ,t1 : F → F la trasformazione che manda (q0 , p0 )


in (q1 , p1 ). Si mostra che la trasformazione ΦtH0 ,t1 è canonica, e che la
corrispondente funzione generatrice è proprio la funzione

−S(q0 , t0 , q1 , t1 )

(evidentemente, stiamo qui usando la notazione q = q0 , p = p0 , Q = q1 ),


P = p1 ). A tal fine, basta dimostrare che si ha

∂(−S) ∂(−S)
p0 = , p1 = − . (3.6.3)
∂q0 ∂q1

Questo risultato è una immediata conseguenza di una formula generale che


va sotto il nome di formula di Hamilton per la variazione dell’azione.
212 Andrea Carati e Luigi Galgani

Lemma 3 (Formula di Hamilton per la variazione dell’azione) Per


la funzione S(q0 , t0 , q1 , t1 ) (funzione principale di Hamilton) si ha

dS = p1 · dq1 − H1 dt1 − p0 · dq0 + H0 dt0 . (3.6.4)

Dimostrazione. Il contributo p1 · dq1 − p0 · dq0 al differenziale dS è un ovvio


corollario del calcolo che avevamo eseguito (confronta la sezione 3.3.1 ed in parti-
colare l’equazione (3.3.10)) per valutare δS quando si passa da un moto q(t) ad un
moto variato q(t) + δq(t) (in cui ricordo abbiamo δq1 = dq1 e δq0 = dq0 ).
Infatti il calcolo produceva per δS anzitutto il termine integrale, che si annulla
per moti soddisfacenti le equazioni di Lagrange, che quindi si annulla nel nostro
caso. Si aveva poi il termine p · δq calcolato al tempo finale meno il corrispondente
termine al tempo iniziale.
In particolare la (3.6.4) mostra che

∂(−S) ∂(−S)
p0 = , p1 = − .
∂q0 ∂q1

Dobbiamo ora valutare l’incremento di S quando tengo fissi i punti q1 , q0 iniziali


∂S ∂S
e finali, mentre faccio variare i tempi, cioè dobbiamo valutare ∂t 1
, ∂t 0
. A tal fine
consideriamo cosa avviene quando ci muoviamo tra il tempo t1 e il tempo t1 + dt1
lungo la soluzione che passa per il punto q1 al tempo t1 (nel caso in cui muovessimo
t0 si opera analogamente). Per la definizione stessa di S si ha evidentemente

dS = Ldt1 .

Questo però non determina il valore di ∂S dS


∂t , ma piuttosto il valore di dt , in quanto,
lungo il movimento considerato, in quell’intervallo di tempo il punto si è spostato
da q1 a q1 + δq1 con δq1 = q̇dt1 . D’altra parte, per il teorema di derivazione della
funzione composta applicato alla funzione S(t) = S(q(t), t), si ha

dS ∂S ∂S ∂S
= + · q̇ = + p · q̇ ,
dt ∂t ∂q ∂t

dove nell’ultima eguaglianza si é usato il fatto che i momenti coincidono con le


derivate parziali di S. Ora, ricordando che dS
dt = L si ottiene

∂S
= L − p · q̇ = −H .
∂t
Q.E.D.

Disponendo della formula di Hamilton per la variazione dell’azione, Lem-


ma 3, possiamo ora ritornare al problema che ci eravamo proposti, ovvero
mostrare che la trasformazione dello spazio delle fasi ΦtH0 ,t1 indotta dalle
soluzioni delle equazioni di Hamilton tra i tempi t0 e t1 è canonica, e che
la corrispondente funzione generatrice è proprio −S(q0 , t0 , q1 , t1 ). A tal
fine ricordiamo che, poiché abbiamo assunto che i valori al contorno (q0 t0 )
e (q1 , t1 ) determinino un unico minimo S dell’azione, e dunque una unica
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 213

soluzione delle equazioni di Lagrange, si ha anche che tali parametri deter-


minano univocamente le corrispondenti velocità q̇0 , q̇1 , e dunque anche i
relativi momenti p0 , p1 . In altri termini, la coppia (q1 , p1 ) risulta essere
l’evoluta al tempo t1 della coppia (q0 , p0 ), pensata come dato iniziale al
tempo t0 . Inoltre, possiamo cofnrontare le (3.6.3) con le note formule per la
trasformazione canonica generata da una funzione F (q, Q, t), ovvero
∂F ∂F
p= , P=−
∂q ∂Q
(evidentemente, stiamo qui usando la notazione q = q0 , p = p0 , Q = q1 ,
P = p1 ). Per confronto abbiamo pertanto il

Teorema 6 La famiglia di trasformazioni

ΦtH0 ,t1 : F → F ,

definita dalle soluzioni delle equazioni di Hamilton tra i tempi t0 e t1 per


una fissata Hamiltoniana H, è una famiglia di trasformazioni canoniche con
funzione generatrice F = −S, ovvero si ha
Z t0
F (q0 , t0 , q1 , t1 ) = −S(q0 , t0 , q1 , t1 ) = − L dt .
t1

La funzione generatrice S è stata sopra definita come il valore dell’azione


hamiltoniana in corrispondenza del suo punto di minimo. Risulta tuttavia
che essa può anche essere determinata come soluzione di una certa equazione
alle derivata parziali, che viene detta equazione di Hamilton–Jacobi, la
quale svolge un ruolo molto importante in diversi contesti che non abbiamo
qui il tempo di illustrare. Si ha la

Proposizione 1 (Equazione di Hamilton–Jacobi.) Per fissati t0 , q0 , l’a-


zione S(q0 , t0 , q, t) soddisfa l’equazione
∂S ∂S
+ H(q, , t) = 0 , (3.6.5)
∂t ∂q
(che viene detta equazione di Hamilton–Jacobi).

Dimostrazione. Basta confrontare la (3.6.4), quando si ponga t1 ≡ t,


q1 ≡ q (e si pensino fissati t0 e q0 ) , con l’espressione
∂S ∂S
dS = · dq + dt ,
∂q ∂t
sicché segue
∂S ∂S
=p, = −H .
∂q ∂t
214 Andrea Carati e Luigi Galgani

La seconda di queste si scrive dunque ∂S


∂t + H = 0, e dentro H si sostituisce
∂S
poi p con ∂p , come dato dalla prima relazione. Q.E.D.

Ad esenpio, nel caso della particella nello spazio, in cui si ha


p2
H= + V (q) ,
2m
e l’equazione di Hamilton–Jacobi assume la forma
"   2  2 #
∂S 1 ∂S 2 ∂S ∂S
+ + + + V (q) = 0 .
∂t 2m ∂x ∂y ∂z
Ricordiamo che la equazione di Hamilton–Jacobi fu per Schroedinger il
punto di partenza euristico dal punto di vista matematico per ottenere la
sua celebre equazione nel gennaio del 1926. Si veda la bellissima esposizione
datane dallo stesso autore in E. Schroedinger, An undulatory theory of the
mechanics of atoms and molecules, Phys. Rev. 28, 1049–1070 (1926). Per
le applicazioni alla meccanica si veda per esempio H. Poincaré, Méthodes
nouvelles .., Tomo I, Capitolo I: Généralités et méthode de Jacobi, mentre
per l’ottica si puó consultare il libro di M. Born e E. Wolf, Principles of
optics.

3.7 Il principio di Hamilton per l’ equazione di


d’Alembert, come tipico esempio di una teoria
di campo.
Veniamo ora al caso in cui l’equazione di Eulero–Lagrange è un’equazione
alle derivate parziali, anziché alle derivate ordinarie. Ciò richiede anzitutto
che la funzione incognita sia una funzione di più variabili, e consideriamo
come caso prototipo quello della corda vibrante (si pensi alle oscillazioni
trasversali), in cui l’incognita è la forma della corda per ogni valore del
tempo (pensato come parametro), ovvero una funzione u = u(x, t). Questo
problema verrà trattato nel prossimo capitolo, e quindi il presente para-
grafo dovrebbe essere letto in una seconda fase dello studio. Vedremo che
nell’approssimazione di linearizzazione (piccole oscillazioni, o meglio piccole
inclinazioni della corda, ovvero u2x  1), la funzione u soddisfa l’equazione di
d’Alembert utt − c2 uxx = 0, con c2 = τρ = costante, dove le due costanti τ e
ρ sono rispettivamente la densità lineare di massa e la tensione. Ricordiamo
che denotiamo

ux ≡ ∂x ≡ ,
∂x
e cosı̀ via. Vedremo anche che l’energia E e la lagrangiana L saranno definite
come integrali44 in termini di una densità di energiae di una densità di
44
Si osservi come le quantità E ed L sono funzionali di u(·, t) e funzioni del tempo
t. Infatti, per definire ciascuna di tali quantità occorre pensare assegnata la funzione
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 215

lagrangiana L come
Z l Z l
E=  dx , L = L dx (3.7.1)
0 0

dove
1 1
 = ρ(u2t + c2 u2x ) , L = ρ(u2t − c2 u2x ) . (3.7.2)
2 2
Per analogia con la meccanica dei punti è spontaneo definire l’azione
hamiltoniana S mediante un’ulteriore integrazione temporale su L, ovvero
Z Z Z
S= Ldt = L dxdt . (3.7.3)

Per la corda vibrante, la densità di L è data dalla (3.7.2), ma più in generale


si può pensare a una densità di lagrangiana L dipendente anche da u, da x
e da t, e dunque L funzione di cinque variabili reali.
Per fissare le idee, consideriamo il caso significativo in cui siano fissati
gli estremi della corda, ad esempio u(0, t) = u(l, t) = 0 ∀t; inoltre, come
consueto nei principi variazionali, dovranno pensarsi assegnate le “configu-
razioni” ai tempi estremi t0 , t1 , ovvero u(x, t0 ) = u0 (x), u(x, t1 ) = u1 (x).
Siamo dunque condotti a considerare il dominio D ⊂ R2 ,

D = {(x, t); 0 ≤ x ≤ l, t0 ≤ t ≤ t1 } ,

e a fare riferimento allo spazio funzionale

U = {u : D → R ; u(0, t) = u(l, t) = 0 , u(x, t0 ) = uo (x) , u(x, t1 ) = u1 (x)} .


(3.7.4)
Vale il seguente

Teorema 7 Si consideri il funzionale S : U → R definito da


Z

S= L x, t, u(x, t), ux (x, t), ut (x, t) dxdt ,
D

dove L : R5 → R. Allora i punti critici di S, ovvero le funzioni u = u(x, t) ∈


U soddisfacenti δS = 0, sono tutte e sole le soluzioni (∈ U) dell’equazione
alle derivate parziali (detta di Eulero–Lagrange)

∂L ∂L ∂L
− ∂x − ∂t =0. (3.7.5)
∂u ∂ux ∂ut

u = u(x, t), perché solo allora si può eseguire la richiesta integrazione spaziale, e si resta
con una funzione del solo tempo t.
216 Andrea Carati e Luigi Galgani

Corollario Per la corda vibrante, in cui la densità di lagrangiana L è da-


ta dalla (3.7.2), l’equazione di Eulero–Lagrange è proprio l’equazione di
d’Alembert
utt − c2 uxx = 0 . (3.7.6)

Dimostrazione. Si tratta ancora di un banale esercizio. Si tenga presente che


δu(x, t) è una funzione arbitraria annullantesi
sul bordo del rettangolo D = (0 ≤
x ≤ l, t0 ≤ t ≤ t1 ), per cui cioè si ha δu ∂D = 0, e si osservi anche che ∂x (u + δu) =
RR
ux + ∂x δu, ∂t (u + δu) = ut + ∂t δu. Dunque, da S = Ldxdt si ha subito
Z Z  
∂L ∂L ∂L
δS = δu + ∂x δu + ∂t δu dxdt .
∂u ∂ux ∂ut
Eseguendo due integrazioni per parti e utilizzando le condizioni al contorno δu = 0
su ∂D per eliminare i termini finiti, si ha poi
Z  
∂L ∂L ∂L
δS = − ∂x − ∂t δu dxdt .
D ∂u ∂ux ∂ut
Si applica infine il lemma fondamentale del calcolo delle variazioni. Q.E.D.

Dovrebbe essere chiaro come si possa generalizzare questo risultato al


caso di n+1 dimensioni. Tipicamente interessa il caso n = 3, che si presenta
per funzioni definite nello spaziotempo; per questo motivo usiamo qui le
notazioni tipiche dei testi di relatività, in cui le componenti dei vettori hanno
indici in alto anziché in basso, e gli indici sono greci anziché latini. Un punto
x dello spaziotempo ha allora coordinate {xµ }, µ = 0, 1, 2, 3), con x0 = ct,
(x1 , x2 , x3 ) = (x, y, z). Si considera dunque lo spazio funzionale U delle
funzioni u = u(x) definite in un dominio45 D ⊂ Rn
U = {u : D → R } , (3.7.7)
aventi valori fissati sul bordo ∂D di D. Si assume poi che sia dato un
funzionale F : U → R che ammette densità L dipendente da x, da u e dalle
sue derivate prime,
Z
L x, u(x), ux0 (x), · · · , uxn (x) dx0 · · · dxn .

S[u(·)] = (3.7.8)
D
Si ha allora il
Teorema 8 L’equazione di Eulero–Lagrange per il funzionale S definito da
(3.7.8) nello spazio funzionale (3.7.7) è
n
∂L X ∂L
− ∂µ =0. (3.7.9)
∂u ∂uxµ
µ=0
45
Ad esempio, un dominio D di tipo rettangolare: x = {xµ } ≡ (x0 , · · · , xn ), aµ ≤ xµ ≤
µ
b .
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 217

Più in generale si può avere a che fare con funzioni u definite in D


ma a valori vettoriali o tensoriali, anziché scalari. In tal caso si ha un
sistema di equazioni di Eulero–Lagrange, della forma (3.7.9) per ciascuna
delle componenti del vettore o del tensore.
218 Andrea Carati e Luigi Galgani
Appendici

A.1 Complementi geometrici: il sistema di equazioni


differenziali associato ad una generica 1–forma;
la derivata esterna (o rotore) di una 1–forma;
covarianza e contravarianza
Nel paragrafo (3.5) abbiamo considerato le curve nello spazio delle fasi
esteso F̃ = F × R che sono estremali della 1–forma di Poincaré–Cartan
ω = p·dq−Hdt, mostrando che esse sono soluzioni delle equazioni di Hamil-
ton con Hamiltoniana H. Abbiamo anche osservato che, se si compie una
trasformazione generica di coordinate, la 1–forma prenderà un aspetto di-
verso e dunque avranno un aspetto diverso anche le corrispondenti equazioni
di Eulero–Lagrange. In questa appendice vogliamo mostrare quale aspetto
assumono tali equazioni. Nel far ciò avremo occasione di illustrare diverse
nozioni di calcolo tensoriale, che sono interessanti di per sé.

A.1.1 Le equazioni di Hamilton in cordinate generiche


Più in generale, consideriamo, come analogo dello spazio delle fasi F, un
aperto U ⊂ Rm con coordinate x = (x1 , . . . , xm ) (per noi è m = 2n dove n è
il numero dei gradi di libertà – dimensione dello spazio delle configurazioni);
seguiamo qui la consuetudine moderna del calcolo tensoriale di denotare
con un indice in alto le coordinate. Ci interessano i movimenti x = x(t)
con t in un aperto di R (possiamo pensare addirittura t ∈ R). Abbiamo già
osservato come in questo contesto sia molto comodo procedere come si fa
in relatività quando si introduce lo spaziotempo R3 × R. Dunque conside-
riamo come spazio ambiente lo spazio delle fasi esteso F̃ = F × R, sicché i
movimenti x = x(t) appaiono come curve nello spazio delle fasi esteso. Nat-
uralmente, si tratta di curve particolari, ovvero di curve parametrizzabili
mediante la coordinata temporale. Seguendo l’uso relativistico, denotiamo
cun un indice greco le coordinate nello spazio delle fasi esteso; più precisa-
mente, denoteremo xo ≡ t, e allora un punto dello spazio delle fasi esteso
avrà coordinate xµ , µ = 0, 1, . . . , m, mentre riserveremo una lettera latina
per le coordinate relative allo spazio delle fasi: xi , i = 1, . . . , m.

219
220 Andrea Carati e Luigi Galgani

Una generica 1–forma è allora una espressione del tipo


m
X m
X
ω= aµ dxµ ≡ ai dxi + a0 dt . (A.1.1)
µ=0 i=1

Abbiamo qui seguito l’uso comune di denotare con un indice in basso


le componenti di una forma differenziale. La ragione, legata al modo
covariante di trasformarsi delle componenti, verrà spiegata più sotto.
Il problema che ci poniamo ora è di mostrare quale aspetto assumono le
equazioni per gli estremali del funzionale S associato alla 1–forma ω, ovvero
per il funzionale
Z m
X Z m
X
µ
ai dxi + a0 dt .
 
S= aµ dx ≡ (A.1.2)
µ=0 i=1

Si ha il seguente

Teorema 9 Data la 1–forma ω (A.1.1), si considerino le quantità


aµν = ∂µ aν − ∂ν aµ , µ, ν = 0, 1, . . . , m (∂µ ≡ ). (A.1.3)
∂xµ
Allora gli estremali per l’azione S definita da (A.1.2) sono le soluzioni del
sistema di equazioni differenziali (analoghe delle equazioni di Hamilton)46
X
aik ẋk + ai0 = 0 , i = 1, . . . , m . (A.1.4)
k

Da tali equazioni segue anche l’equazione (analoga del teorema dell’energia)


X
ai0 ẋi = 0 . (A.1.5)
i

Il sistema di equazioni (A.1.4) ed (A.1.5) (di cui l’ultima conseguenza delle


prime) può essere compendiato nell’unico sistema
X
aµν dxν = 0 , µ = 0, 1, . . . , m . (A.1.6)
ν

Dimostrazione. La dimostrazione delle (A.1.4) è un esercizio che costituisce una


banale generalizzazione del procedimento seguito per dimostrare che il funzionale
46
In forma esplicita,
X
(∂i ak − ∂k ai )ẋk + ∂1 a0 − ∂0 ai = 0 .
k
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 221

R 
S = p · dq − Hdt ha per estremali le soluzioni delle equazioni di Hamilton.
Basta osservare che si ha ora S = L̃dt, dove47
R

X
L̃ = ak ẋk + a0 ,
k

e si procede esattamente come per la forma di Poincaré–Cartan.48 L’analogo del


teorema dell’energia si ottiene ancora per analogia, cioè moltiplicando ciascuna
delle equazioni (A.1.4) per ẋi e sommando su i (usando anche la antisimmetria
della matrice aik ), sicché X
aik ẋi ẋk = 0 .
ik

Infine, la (A.1.6) è una espressione del fatto che una relazione del tipo αdx+βdt = 0
è equivalente alla relazione αẋ + β = 0. Q.E.D.

Esercizio. Dedurre direttamente le equazioni (A.1.6).


Si pensi a una curva nello spazio delle fasi esteso come rappresentata in forma
parametrica, ovvero come una funzione xµ = xµ (λ) dove R λ è un parametro reale.
Si osserva allora che l’azione ha ancora la forma S = L̃dλ. dove però ora
X dxµ
L̃ = aµ ,
µ

e si procede poi come di consueto.

In questo contesto, il caso della forma di Poincaré–Cartan risulta essere


il caso particolare in cui m = 2n e le coordinate sono

(x1 , . . . , x2n ) = (q1 , . . . , qn , p1 , . . . , pn ) ,

mentre i coeffcienti della 1–forma sono

(a1 , . . . , a2n ) = (p1 , . . . , pn , 0, . . . , 0) , a0 = −H .


47
Poiché nella (A.1.4) l’indice libero è i mentre l’indice muto (cioè sul quale si somma,
ingl. dummy) è k, conviene prendere anche qui k come indice muto.
48
Le equazioni di Eulero–Lagrange sono

d ∂ L̃ ∂ ∂
− ∂i L̃ = 0 (∂i ≡ , ∂t ≡ ∂0 ≡ ).
dt ∂ ẋi ∂xi ∂t
D’altra parte si ha
X ∂ L̃
∂i L̃ = (∂i ak )ẋk + ∂i a0 , = ai ,
∂ ẋi
k

e anche, essendo ai = ai (t, x),


d X
ai = (∂k ai )ẋk + ∂0 ai .
dt
k
222 Andrea Carati e Luigi Galgani

Risulta allora che in tali coordinate la matrice dei coefficienti aµν è data,
per la parte non temporale, da
aik = Eik , (A.1.7)
dove E è la matrice simplettica introdotta nel capitolo sulle equazioni di
Hamilton. Invece, gli altri coefficienti non nulli sono dati da
∂H
ak0 = ,
∂xk
e, corrispondentemente, le equazioni associate sono le equazioni di Hamilton.

A.1.2 La matrice aµν come “covariante bilineare”. Covarian-


za e contravarianza.
Abbiamo dunque mostrato come i coefficienti aµ definenti la la 1–forma ω
attraverso la (A.1.1) determinino in maniera naturale la matrice aµν . Ques-
ta, a sua volta, definisce il sistema
R di equazioni differenziali che determina
gli estremali della azione S = ω definita attraverso ω. Vedremo più sotto
come la matrice aµν descriva un ente geometrico di notevole interesse, che
Levi Civita chiema il rotore della 1–forma ω, e che modernamente viene
piuttosto chiamato la derivata esterna di ω e denotato con dω. Nella
prima metà del secolo scorso, la matrice aµν veniva invece chiamata (ad es-
empio da Levi Civita e da Whittaker) il covariante bilineare associato
al covariante lineare aµ . Spieghiamo ora la ragione di tale terminologia.
Cominciamo con il termine “covariante”. Si tratta del problema gen-
erale di comprendere in quale modo si trasformano i coefficienti delle forme
differenziali o le componenti dei vettori (o di altri enti geometrici) quando
si cambiano le coordinate. Non vi è qui alcuna necessità di considerare il
ruolo speciale del tempo. e consideriamo dunque un aperto (una carta) U di
Rn con assegnate coordinate x1 , . . . , xn . Una 1–forma ha dunque l’aspetto
generale X
ω= ai dxi ≡ ai dxi (A.1.8)
i
con coefficienti ai (detti anche componenti della 1–forma).
La cosiddetta convenzione di Einstein. Cominciamo da qui a usare la cosid-
detta convenzione di Einstein: la sommatoria su due indici ripetuti, uno in alto e
l’altro in basso, viene sottintesa. Si tratta si una cosa assolutamente irrilevante,
che può essere utile per semplificare la scrittura delle formule. Per un certo numero
di volte, useremo congiuntamente le due notazioni (con e senza la sommatoria
esplicitamente indicata).

Ci chiediamo ora come cambiano i coefficienti quando si esegue un cam-


biamento (invertibile) di coordinate, passando a nuove coordinate x0i . Se
dunque
xi = xi (x01 , . . . , x0n ) , i = 1, . . . , n (A.1.9)
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 223

è la trasformazione di coordinate, si avrà


X
ω= a0i dx0 i
i

con opportune nuove componenti a0i , e ci chiediamo come esse sono connesse
alle componenti originali ai .
Un analogo problema si pone per le componenti dei vettori. Ricordiamo
che un vettore è definito, in una maniera tra le più profonde, attraverso la
velocità di un movimento. Sia dunque un movimento xi = xi (t) e

dxi
v i (t) = ẋi =
dt
la corrispondente velocità. Si ha il

Lemma 4 Siano ai (i = 1, . . . , n) le componenti di una 1–forma ω =


i i
P
i ai dx e v (i = 1, . . . , n) le componenti di un vettore, relativamente a
una carta con coordinate (x1 , . . . , xn ), e si consideri un cambiamento di co-
ordinate (A.1.9). Allora la 1–forma e il vettore hanno nuove componenti a0i ,
v 0 i legate alle vecchie dalle relazioni
X ∂xk
a0i = ak . (A.1.10)
∂x0i
k

X ∂x0 i
v0 i = vk . (A.1.11)
∂xk
k

Infine, la quantità ai v i ≡ i ai v i è un invariante, ovvero il suo valore non


P
dipende dallle coordinate scelte, ovvero si ha
X X
a0i v 0 i = ai v i a0i v 0 i = ai v i .

(A.1.12)
i i

Dimostrazione. Le leggi di trasformazine delle componenti dei covettori e dei


vettori sono una assolutamente banale applicazione della formula di derivata di
funzione composta. Per Pquanto riguarda le componenti della 1–forma, sii prende la
definizione (A.1.8) ω = i ai dxi e si usa
X ∂xi
dxi = dx0 k .
∂x0 k
k

In tal modo si ottiene X


ω= a0k dx0 k
k

con opportuni a0k .


La formula (A.1.10) si ottiene scambiando i nomi degli indici i,
k su cui si somma (indici muti), che sono irrilevanti.
224 Andrea Carati e Luigi Galgani

Analogamente si procede per ottenere la formula per le componenti del vettore,


si ha (ricordando la chain rule)

dx0 i X ∂x0 i dxk X ∂x0 i


v0 i = = = vk .
dt ∂xk dt ∂xk
k k

Per quanto riguarda l’ultima relazione (A.1.12), essa è un immediato corollario


di una relazione generale che svolge un ruolo fondamentale nel calcolo tensoriale,
ovvero la identità
X ∂xk ∂x0 i
0 i ∂xl
= δlk , (A.1.13)
i
∂x

dove δlk è il simbolo di Kronecker, uguale ad 1 se k = l e altrimenti uguale a 0.


Questa si ottiene nel modo seguente. Nel cambiamento di variabili (A.1.9), che
esprime le variabili xk in funzione delle x0 j , si pensano a loro volta le x0 j espresse
in funzione delle xl , e si usa la chain rule congiunta con la

∂xk
= δlk .
∂xl

La (A.1.12) si ottiene allora dalle (A.1.10) e (A.1.11) sostituendo nella seconda


la variabile muta k con l.
Q.E.D.

Si noti che la legge di trasformazione delle componenti ai della 1–forma


è ben diversa da quella che regge la trasformazione delle componenti v i dei
vettori, Si usa dire che le componenti delle velocità (o più in generale dei
vettori) cambiano in maniera contravariante, mentre i coefficienti delle
1–forme (dette anche componenti dei covettori) cambiano in maniera co-
variante. Il fatto che le due n–uple di componenti si trasformano nei due
modi diversi sopra indicati ha una fondamentale conseguenza:
i i
P
Esercizio. Si consideri la 1–forma ω = i ai dx (≡ ai dx ) e la corrispondente
matrice
aik = ∂i ak − ∂k ai .

Siano a0i i coefficienti della forma ω nelle coordinate x0 i e


a0ik = ∂i0 a0k − ∂k0 a0i (∂i0 ≡ ).
∂x0 i
Allora si ha
X ∂xl ∂xm
a0ik = alm
∂x0 i ∂x0 k
lm

Questa proprietà spiega il fatto che la matrice aik viene detta “co-
variante”: gli elementi della matrice si trasformano come il prodotto ai ak
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 225

di componenti di una 1–forma (che, come sappiamo, si trasformano per


covarianza).49

A.2 Il teorema di Stokes, la circuitazione della


forma di Poincaré–Cartan e la dimostrazione
del Lemma di Hamilton sulla variazione del-
l’azione
In questa appendice vogliamo dare una dimostrazione piú geometrica del
Lemma 3 di variazione dell’azione, che metta in luce alcuni aspetti geo-
metrici interessanti, che meritano di essere conosciuti. Essa ha anche il
merito di farsi praticamente senza calcoli, una volta capiti i presupposti
geometrici. Essa si basa sul fatto che che la circuitazione della forma di
Poincaré–Cartan ω = p · dq − Hdt, su un opportuno circuito Γ è nulla.
Questa dimostrazione si potrebbe effettuare con un calcolo diretto, che risul-
terebbe però poco espressivo. Non si capirebbe infatti la ragione per cui la
circuitazione è nulla, e il risultato apparirebbe una mera coincidenza. Ri-
cordiamo infatti che la circuitazione di un campo vettoriale è nulla su un
arbitrario circuito (curva chiusa) se il rotore del campo risulta nullo; ma il
rotore della forma di Poincaré–Cartan non è affatto nullo, come spiegato
nell’Appendice precedente, per cui sembra una fortuita coincidenza l’aver
trovato un circuito lungo cui la circuitazione si annulli. Invece non è cosı̀,
ed esiste una ragione profonda per cui la circuitazione si annulla. Per com-
prenderla bisogna però preliminarmente introdurre in modo piú geometrico
il concetto di derivata esterna di una forma differenziale (cioè la generaliz-
zazione di quello che è il concetto di rotore nel caso ordinario) e fornire la
corrispondente generalizzazione del Teorema di Stokes.

A.2.1 La dimostrazione del Lemma di Hamilton per via ge-


ometrica
Vogliamo dunque mostrare la formula

dS = p1 · dq1 − H1 dt1 − p0 · dq0 + H0 dt0 .

Si parte dalla osservazione fatta nel testo che l’assegnazione delle coppie
(q0 , t0 ) e (q1 , t1 ) determina un unico movimento q = q(t) e quindi anche
p = p(t). Pertanto resta determinato il movimento x = x(t) ≡ (q(t), p(t))
nello spazio delle fasi F, e anche la corrispondente traiettoria nello spazio
delle fasi esteso F̃, che denoteremo con γ. Siano A0 = (q0 , p0 , t0 ) e A1 =
49
NOTA PER GLI AUTORI. Da aggiungere quanto segue. Forme bilineari. Rego-
la mnemonica per il i cambiamenti. Dare la forma standard aik = Eik per i sistemi
hamiltoniani, e la corrispondente forma orlata.
226 Andrea Carati e Luigi Galgani

(q + δq1,p1 +δp1 ,t1+δt1)


∆1
(q1 ,p1 ,t1 )
γ’

(q0 ,p+
0
δp0 ,t 0 )
∆ 0 (q0 ,p0 ,t0 )
p

Figura A.10: Il circuito nello spazio delle fasi estese per il calcolo del
differenziale dell’azione.

(q1 , p1 , t1 ) i corrispondenti punti iniziale e finale nello spazio delle fasi esteso
F̃. Poiché lungo le soluzioni si ha

L dt = p · dq − Hdt ,

si ha anche
Z t1 Z  
S(q0 , t0 , q1 , t1 ) = L dt = p · dq − H dt .
t0 γ

Se ora, tenendo fissa la coppia iniziale (q0 , t0 ), spostiamo la coppia finale


mediante incrementi (dq1 , dt1 ), si dovrà considerare una soluzione differente,
diciamo q(t)+dq(t), delle equazioni di Lagrange. In particolare, pur essendo
q0 0 = q0 , t0 0 = t0 si avrà un ben definito momento iniziale p0 0 6= p0 (e
ovviamente un altro ben definito momento finale p1 0 ). Denotiamo con γ 0
la corrispondente curva variata nello spazio delle fasi esteso (con estremi
A0 0 = (q0 , p0 0 , t0 ), A1 0 = (q1 + dq1 , p1 + dp1 , t1 + dt1 )) (vedi figura A.10).
L’incremento dell’azione sarà quindi dato da
Z   Z  
dS = p · dq − Hdt − p · dq − Hdt .
γ0 γ

Indichiamo con ∆1 il segmento che unisce il punto finale originario A1 =


(q1 , p1 , t1 ) con il punto finale variato A1 0 = (q1 + dq1 , p1 + dp1 , t1 + dt1 ).
Indichiamo anche con ∆0 il segmento che unisce il punto iniziale originario
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 227

A0 = (q0 , p0 , t0 ) con il punto iniziale variato A0 0 = (q0 , p0 0 , t0 ). Infine,


denotiamo con Γ il corrispondente circuito (cammino chiuso) orientato come
γ 0 , ovvero
Γ = γ 0 ∪ (−∆1 ) ∪ (−γ) ∪ ∆0
(si intende che −γ è il cammino coincidente con γ, ma orientato in senso
opposto, e analogamente per −∆1 ). Si osservi che il cammino Γ è il contorno
di un dominio bidimensionale che è l’unione di curve (monodimensionali)
soluzioni delle equazioni di Hamilton.50 Infatti, ogni punto della curva dei
dati inziali ∆0 dà luogo a una curva–soluzione che termina in un punto della
curva finale ∆1 .
Si ha ora la proprietà (vedi il Lemma seguente) che per domini di tale
tipo la circuitazione della forma di Poincaré–Cartan lungo il circuito Γ risulta
nulla, Z

p · dq − H dt = 0 .
Γ
Osservando anche che il tratto dovuto al segmento ∆0 non contribuisce
all’integrale, Z  
p · dq − Hdt = 0 ,
∆0

(perché su ∆0 si ha dq = 0, dt = 0), segue pertanto immediatamente


Z  
dS = p · dq − Hdt .
∆1

Infine, applicando il Teorema della Media, e limitandosi alla parte principale


del’incremento (cioè al differenziale). si trova

dS = p1 · dq1 − H1 dt1 ,

cioè la tesi, per quanto riguarda la variazione della coppia finale (q1 , t1 ). Per
quanto riguarda la variazione della coppia iniziale, la dimostrazione procede
in maniera del tutto analoga, scegliendo adeguatamente i cammini.
Dunque la dimostrazione di tipo geometrico appena data riposa sul fat-
to che la circuitazione della forma di Poincaré–Cartan p · dq − Hdt sul
circuito Γ scelto risulta nulla. Notiamo che invece la circuitazione lungo un
circuito generico nello spazio delle fasi esteso non è nulla, perché la forma
di Poincaré–Cartan non ammette potenziale (non è il differenziale di nes-
suna funzione). Questa è la differenza che sussiste tra il caso che qui stiamo
trattando e il caso ad esempio delle forze conservative.
50
Nello spazio delle fasi esteso, le analoghe delle equazioni di Hamilton sono le equazioni
∂H ∂H
q̇ = , ṗ = − , ṫ = 1 .
∂p ∂q
228 Andrea Carati e Luigi Galgani

3
RRicordiamo che un campo di forze F(x)in R si dice conservativo se il lavoro
Γ
F(x) · dx lungo un qualunque circuito (cammino chiuso) Γ è nullo. In tal caso
l’energia potenziale V (x) viene definita come il lavoro (cambiato di segno) compiuto
lungo un qualunque cammino che porta da un punto fissato ad x. La relazione
F = −grad V viene poi dimostrata proprio con un procedimento analogo a quello
seguito sopra. La differenza sta nel fatto che, nel caso delle forze conservative,
sono arbitrari i due cammini scelti per andare dal punto iniziale fissato A0 al punto
finale A1 . Nel caso presente, (oltre alla complicazione di dovere considerare due
diversi punti iniziali A0 ed A0 0 ) la differenza sostanziale consiste nel fatto di dovere
considerano cammini non generici, bensı̀ aventi la speciale proprietà di minimizzare
l’azione.

Enunciamo ora il Lemma richiesto per la dimostrazione del teorema


precedente.

Lemma 5 Nello spazio delle fasi esteso F̃, sia Γ un circuito (curva chiusa)
che è bordo di una superficie bidimensionale avente la speciale proprietà di
essere unione di curve soluzioni delle equazioni di Hamilton. Allora è nulla
la circuitazione lungo Γ della forma di Poincaré–Cartan:
Z

p · dq − H dt = 0 .
Γ

La dimostrazione è rimandata piú avanti, perché essa si basa sul teorema


di Stokes (la circuitazione è eguale al flusso del rotore) in Rn , e richiede
dunque l’introduzione di un concetto nuovo, ovvero il differenziale di una
1–forma, detto anche rotore di una forma differenziale, in Rn . Come
vedremo esso coincide con il covariante bilineare, introdotto nell’Appendice
precedente.

A.2.2 Derivata ( o rotore) di una forma differenziale e Teo-


rema di Stokes
Cominciamo con un esempio semplice. Data una qualunque funzione F a
valori reali con dominio su una certa varietà (ad esempio, lo spazio delle fasi
esteso), l’incremento F (P ) − F (Q) può essere calcolato nel modo seguente.
Si prende una curva QP d qualunque che congiunge i due punti P e Q, e
P
allora si ha F (P ) − F (Q) = j F (xj+1 ) − F (xj ), dove gli xj sono una
successione di punti sulla curva, con x0 = Q e xn = P . Infatti la sommatoria
è quella che si chiama una sommatoria telescopica, e tutti i termini si elidono
tranne il primo e l’ultimo. Se prendiamo i punti sufficientemente fitti, allora
l’incremento F (xj+1 ) − F (xj ) è ben approssimato dal suo sviluppo di Taylor
al primo ordine grad F · dxj (con dxj ≡ xj+1 − xj ), per cui ha
X Z
F (P ) − F (Q) ' grad F · dxj → dF .
j QP
d
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 229

Figura A.11: La circuitazione lungo γ come somma di circuitazioni


elementari.

Mediante questa formula la differenza dei valori di F agli estremi (o bordi)


della curva viene espressa attraverso i valori cha la sua ”derivata” dF assume
nei punti all’interno della curva stessa.
Ora, se abbiamo la circuitazione di una forma differenziale51 ω = Fi dxi
P
lungo una linea chiusa (circuito) γ di una data varietà, ci si domanda se non
si può in modo analogo esprimerla attraverso i valori che una sua derivata
(da definirsi) assume nei punti “all’interno” del circuito (cioè nei punti di
una superficie bidimensionale Σ di cui il circuito γ sia il bordo – ciò che si
denota con γ = ∂Σ). Il teorema di Stokes fornisce una risposta a questa
domanda. L’idea base nasce dall’osservazione che, analogamente al fatto
che due punti costituiscono il “bordo” di una curva, cosı̀ una linea chiusa γ
costituisce il “bordo” di una superficie, diciamo Σ, ovvero, come si scrive, si

51
Per consistenza con le notazioni tensoriali (che noi useremo ad esempio nel secondo
capitolo di relatività), denoremo qui con xi anziché con xi le componenti dei vettori; le
componenti di una forma, come le quantità Fi , hanno invece, coerentemente indici in
basso.
230 Andrea Carati e Luigi Galgani

ha γ ≡ ∂Σ.52 Se ora dividiamo la superficie Σ in tante areole Σi , si ottiene


I XI
ω= ω,
∂Σ i ∂Σi

perché la somma a secondo membro è una sorta di somma telescopica (vedi


la figura A.11). Infatti il contributo che viene da un lato comune a due
areole si annulla, perché esso viene percorso due volte in versi opposti; nella
sommatoria rimangono dunque solo i contributi dei lati che che giacciono
sul bordo γ ≡ ∂Σ, e da questo segue la formula.
Per procedere oltre bisogna ora capire come esprimere analiticamente
il bordo di ogni areola elementare ∂Σi . Per far ciò, consideriamo una
parametrizzazione qualunque di Σ, di modo che questa risulti l’immagine
di una funzione x = x(t, s) con un dominio D ∈ R2 e valori nello spazio
da noi considerato (è questa la formula di immersione discussa nel capitolo
sulle equazioni di Lagrange: prime nozioni della teoria locale delle super-
fici). La divisione di Σ in areole, può essere allora ottenuta mediante la
corrispondente divisione di D in rettangolini di lati ∆t, ∆s; anzi, tali lati
li prendiamo cosı̀ piccoli che l’areola si possa considerare ben approssimata
dal parallelogramma di lati u∆t, v∆s. Qui abbiamo denotato con u = ∂t x

e v = ∂s x i corrispondenti “vettori coordinati” (con ∂t ≡ ∂t e analogo per
∂s ), esattamente come essi erano stati definiti nei richiami di geometria nel
capitolo sulle equazioni di Lagrange). Se denotiamo con M1 , M2 , M3 , M4
i punti medi dei quattro lati, disposti in modo tale che (si veda la figura
A.12)
M3 − M1 = v ∆s , M2 − M4 = u ∆t , (A.2.1)
avremo in prima approssimazione (per le notazioni, si veda la spiegazione
qui sotto)
I
ω ' (ω(u)|M1 − ω(u)|M3 )∆t + (ω(v)|M2 − ω(v)|M4 )∆s + o(∆t∆s) .
∂Σi
(A.2.2)
Spiegazione della notazione. Ricordiamo che, per definizione, una 1–forma dif-
ferenziale ω non è altro che una espressione del tipo
ω ≡ F(x) · dx ≡ F1 dx1 + . . . + Fn dxn
R
e che l’integrale γ ω della forma ω lungo un cammino γ è definito nel modo seguente.
Anzitutto si parametrizza il cammino γ con una funzione (formula di immersione)
x = x(t) (con t0 ≤ t ≤ t1 ), sicché ad ogni tempo t è nota anche la velocità
v(t) = ẋ(t). Allora si definisce semplicemente
Z Z t1

ω= F x(t) · v(t)dt ,
γ t0
52
Questo però non è sempre vero: esistono esempi di curve chiuse che non sono il bordo
di alcuna superficie. Ciò dipende dalla natura topologica dello spazio ambiente che si
considera. Un esempio è riportato alla fine di questa appendice.
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 231


dove Fi ≡ Fi x è la i–esima componente di F valutata nel punto x = x(t). Questa
espressione viene anche riscritta nella forma
Z Z t1

ω= ω(v(t) x(t) dt .
γ t0

In altri termini, X
Fi x v i .

ω(v) x = F x · v =
i

In tal modo si mette in luce che ω dipende dal posto (cioè da x) e poi che essa
viene applicata a un vettore (nel nostro caso, il vettore velocità v)), che è un vet-
tore tangente al cammino γ proprio nel punto x occupato al tempo t. Nella formula
(A.2.2), si ha appunto una scrittura di questo tipo, relativa a una approssimazone
dell’integrale mediante una somma di Riemann, e alla considerazione di un solo
termine della somma di Riemann (relativo a ciascuno dei quattro lati del rettan-
golino considerato). Più precisamente, si deve pensare che la forma ω nel punto x
sia applicata al vettore v∆t. Ma, poiché la forma è lineare, per definizione si ha
ω(v∆t) = ∆t ω(v).

In virtù delle relazioni (A.2.1), sviluppando in serie di Taylor al prim’or-


dine i termini al membro di destra si otterrà:53
I
ω ' (u · ∇ω(v) − v · ∇ω(u))∆t∆s + O(∆t∆s) . (A.2.3)
∂Σi

In quest’ultima formula, il primo termine del membro di destra è il termine


con la “derivata” che andavamo cercando. Sommando i termini relativi a
tutte le areole otteniamo
I X
ω= (ui · ∇ω(vi ) − vi · ∇ω(ui ))∆t∆s + O(∆t∆s)
∂Σ i

e passando al limite per ∆t, ∆s → 0 si trova il teorema di Stokes nella forma


I ZZ
ω= dt ds (u · ∇ω(v) − v · ∇ω(u)) , (A.2.4)
∂Σ D

e si è quindi espresso il valore della circuitazione come l’integrale su di una


superficie di una certa quantità.
Resta da capire in concreto a quale oggetto geometrico corrisponda l’e-
spressione dω ≡ u · ∇ω(v) − v · ∇ω(u), e quale espressione essa assuma
quando si fissi una carta nella nostra varietà. Si vede subito che dω agisce
su di una coppia di vettori tangenti u, v, a produrre un numero reale, e che
il risultato dipende in modo lineare da ciascuno di essi (perché la 1–forma
ω è per definizione lineare). Abbiamo quindi a che fare con un funzionale
53
Denotiamo
∂ ∂
u · ∇ ≡ u · grad≡u1 ∂1 + . . . un ∂n ≡ u1 . . . + un n .
∂x1 ∂x
232 Andrea Carati e Luigi Galgani

M3
v∆ s

M2

M4

M1
u∆t

Figura A.12: Contributo alla circuitazione totale dovuta all’areola Σi .

bilineare definito sullo spazio tangente, in un certo modo simile alla met-
rica, la quale anche agisce su ogni coppia di vettori, associando ad essa il
corrispondente prodotto scalare. Ma mentre il prodotto scalare è simmetri-
co, abbiamo ora a che fare con un funzionale lineare antisimmetrico, il cui
valore cioè cambia di segno scambiando u con v. Si dice in tal caso che si
è in presenza di una forma bilineare. La forma dω, viene detta derivata
esterna della forma ω o anche rotore di ω.
Per calcolare l’espressione concreta che dω assume in un fissato sistema
di coordinate, procediamo nel Pmodoi seguente: jsiano Fi le componenti della
forma ω, nel senso che ω = Fi dx , e siano u le componenti di u, e v i le
componenti di v. Allora si ha

X X ∂Fi X X ∂Fi
u · ∇ω(v) = ( uj j )v i , v · ∇ω(u) = ( v j j )ui ,
∂x ∂x
i j i j

da cui segue
X X ∂Fi
dω = (uj v i − v j ui ) . (A.2.5)
∂xj
i j

Questa formula fornisce l‘espressione che stavamo cercando.


Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 233

Questa formula viene solitamente riscritta in una forma più espressiva


introducendo le 2–forme dxj ∧ dxi definite mediante la relazione
dxj ∧ dxi (u, v) = uj v i − v j ui . (A.2.6)
Si può mostrare che queste forme sono una base nello spazio delle forme
bilineari. Dunque la relazione (A.2.5) si scrive anche come
X X ∂Fi
dω = dxj ∧ dxi , (A.2.7)
∂xj
i j

che è l’espressione standard che si trova nei libri di geometria. Un altro


modo in cui la relazione (A.2.5) si può scrivere, è il seguente:
X X  ∂Fi ∂Fj 
dω = − uj v i , (A.2.8)
∂xj ∂xi
i j

che si ottiene scambiando l’indice i con j nella somma contenente i termini


−v j ui (si ricordi che gli indici su cui si somma sono “muti” – o dummy).
Questa è la forma del rotore piùPfamiliare ai fisici, e mostra in maniera
del tutto evidente che, se ω = i
i Fi dx , per aversi dω = 0 deve essere
∂Fi ∂F
∂xj
− ∂xji = 0.
Fi dxi , è la
P
L’espressione (A.2.7) mostra che la regola per calcolare dω, se ω = i
seguente:
• 1) Si usa il differenziale con le consuete regole (linearità, regola di Leibniz
per il prodotto); pertanto si ha anzitutto
X X 
Fi dxi = dFi dxj + Fi ddxj ,

d
i i

e poi il calcolo del differenziale di una funzione viene eseguito nel modo
consueto, sicché
X ∂Fi
dFi = j
dxj .
j
∂x

Si ha però l’avvertenza di scrivere, per due generiche funzioni f e g,


df dg ≡ df ∧ dg ,

• 2) Si usa poi la regola fondamentale per l’applicazione successiva di due


operatori d
dd = 0 (ad esempio ddxi = 0) .
• 3) Infine si usa la proprietà di antisimmetria .
dxj ∧ dxi = − dxi ∧ dxj
insieme con la proprietà definitoria (A.2.6)
dxj ∧ dxi (u, v) = uj v i − v j ui .
se uj e v i sono le componenti dei vettori u e v.
234 Andrea Carati e Luigi Galgani

Ora, quando abbiamo una 1–forma ω e vogliamo R definirne l’integrale lungo


una curva γ (integrale che viene denotato con γ ω), abbiamo già ricorda-
to che dobbiamo anzitutto scegliere una parametrizzazione x(t) della cur-
va, e allora l’integrale viene definito mediante l’integrale (inteso nel senso
consueto)
Z Z t1

ω= ω(ẋ(t)) x(t) dt .
γ t0
Si dimostra poi che il valore dell’integrale non dipende dalla parametriz-
zazione scelta. Analogamente, quando si ha una 2-forma ω, se ne definisce
l’integrale su di una superficie Σ scegliendo anzitutto per Σ una parametriz-
zazione x = x(t, s), con (t, s) ∈ D ⊂ R2 , e definendo
Z Z

ω := ω(∂t x, ∂s x) x(t,s) dt ds . (A.2.9)
Σ D
Un calcolo non particolarmente istruttivo mostra che anche questa definizione
non dipende dalla parametrizzazione scelta.
Il teorema di Stokes, che ora enunciamo, mostra che questa definizione
è molto significativa, perchè è la generalizzazione del concetto di flusso at-
traverso una superfice di cui si ha una nozione intuitiva nel caso di R3 .
Usando la terminologia introdotta, la formula (A.2.4) dedotta più sopra,
può essere riformulata nel modo seguente:
Teorema 10 (di Stokes) Sia Σ una superficie regolare con bordo ∂Σ re-
golare a tratti. Se ω è una 1–forma regolare vale
Z I
dω = ω. (A.2.10)
Σ ∂Σ

Osservazione. I lettori più attenti avranno notato che la (A.2.4) era stata scrit-
ta con i termini scambiati (cioè la circuitazione di ω eguale al flusso del rotore).
Avevamo supposto cioè che dato γ esistesse sempre una superficie Σ di cui questa
fosse il bordo: γ = ∂Σ. Questo non è sempre vero. Un esempio viene fornito (vedi
figura A.13) dai meridiani del toro. Può dunque capitare che il rotore di una forma
sia nulla ma la sua circuitazione no. La forma costante sul toro ω = dϕ + dϑ (ϕ, ϑ
sono le coordinate introdotte nell’esercizio 3 del capitolo 1), ha ovviamente rotore
nullo, ma sua la circuitazione lungo una curva chiusa γ vale 2(m + n)π, dove m è il
numero di giri lungo i meridiani ed n è il numero di giri lungo i paralleli compiuti nel
percorrere γ. La formulazione da noi data del teorema di Stokes, sebbene corretta,
nasconde un po’ questa interessantissima problematica di topologia delle varietà.
Il lettore interessato è rimandato al testo Dubrovin, Novikov, Fomenko, Geometria
contemporanea.

A.2.3 Linee di rotore, equazioni di Hamilton e teorema di


Helmholtz
Vogliamo ora dimostrare il lemma 5 dato nel testo, cioè che è nulla la cir-
cuitazione della forma di Poincaré–Cartan ω è sul circuito particolare Γ
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 235

Figura A.13: Esempio di curva chiusa che non sottende un’area.

considerato nel testo. Il calcolo del rotore di ω, usando la formula (A.2.7),


fornisce
X ∂H ∂H
dω = dpi ∧ dqi − dqi ∧ dt − dpi ∧ dt , (A.2.11)
∂qi ∂pi
i

che mostra come il rotore di ω non sia affatto nullo. L’annullarsi della
circuitazione non proviene dunque dall’annullarsi del rotore ma da un’altra
proprietà, che è l’analogo di un noto teorema di Helmholtz dell’idrodinamica.
Per spiegare questa proprietà cominciamo col definire il campo nullo per
il rotore dω come quel campo v = v(x) tale che in ogni punto x vale
dω(v, u) x = 0 per ogni vettore u dello spazio tangente in x. Diciamo anche
che una superficie Σ è una superficie nulla per ω se essa ammette un
campo di vettori tangenti nullo per dω.
L’interesse di queste nozioni sta nel fatto che si ha il

Lemma 6 Se Σ è una superficie nulla per ω (cioè ha la proprietà che, in


ogni suo punto, il piano tangente contiene un vettore nullo per dω), allora
si ha Z
dω = 0 .
Σ

Siamo dunque riusciti a caratterizzare le superfici sulle quali il flusso di


rot ω è nullo. Corrispondentemente, la circuitazione di ω si annullerà per
tutte le curve che sono il bordo di almeno una superfice nulla. Quello che
dimostreremo sarà che le curve considerate nel Lemma 5 sono appunto di
questo tipo.
236 Andrea Carati e Luigi Galgani

Dimostrazione. [del Lemma 6] La dimostrazione si ottiene osservando che, per


ogni coppia di vettori u1 , u2 del piano tangente a Σ in un suo generico punto x,
si ha dω(u1 , u2 ) = 0. Infatti, sia v il vettore nullo, e sia w un secondo vettore
indipendente, di modo che (v, w) formino una base. Allora si ha u1 = av + bw e
u2 = cv + dw, con opportuni coefficienti a, b, c, d, e dunque

dω(u1 , u2 ) = ac dω(v, v) + (ad − bc) dω(v, w) + bd dω(w, w) = 0 .

Infatti, il primo e l’ultimo termine sono nulli perchè dω è antisimmetrico, mentre


il secondo è nullo perché v è un vettore nullo (per dω). Dalla definizione (A.2.9) di
integrale segue la tesi. Q.E.D.

Quindi una forma differenziale ω, determina in maniera intrinseca un


campo vettoriale v, cioé il campo nullo del suo rotore, e dunque un sistema
di equazioni differenziali ẋ = v(x) che coincidono con le equazioni (A.1.4).
L’osservazione chiave che permette di utilizzare le considerazioni fin qui fatte
consiste nel rendersi conto che è lo stesso campo vettoriale generato dalle
equazioni di Hamilton ad essere un campo nullo per il rotore della forma di
Poincaré–Cartan ω. Infatti il campo vettoriale associato nello spazio delle
fasi esteso alle equazioni di Hamilton,54 è il campo
 ∂H ∂H 
X= ,− ,1 .
∂pi ∂qi
Allora per ogni altro campo u = (uq , up , ut ), usando l’espressione (A.2.11)
per dω, si avrà
X h ∂H i ∂H i
dω(X, u) = (− u − u )
∂qi q ∂pi p
i
∂H ∂H
(− i ut − uip )

∂pi ∂q (A.2.12)
∂H ∂H i
− i ( i ut − uiq )
∂q ∂p
=0,

dove si è fatto uso della definizione (A.2.6) per il calcolo del valore delle varie
forme dpi ∧ dq i , dq i ∧ dt, dpi ∧ dt sui vettori X, u. Ne segue l’importantissi-
mo fatto che le superfici interamente solcate da soluzioni delle equazioni di
Hamilton sono superfici nulle. Si capisce dunque come debba effettuarsi la
dimostrazione.

54
Nello spazio delle fasi esteso le equazioni di Hamilton si scrivono
∂H ∂H
q̇ = , ṗ = − , ṫ = 1 .
∂p ∂q
Meccanica Razionale 1: I principi variazionali 237

Dimostrazione. [del Lemma 5.] Per ogni punto P := (q, p, t) sull’arco ∆γ,
consideriamo una curva minimizzante l’azione che abbia punto iniziale (q0 , p0 , t0 )
e punto finale P . Costruirò in questo modo una superficie Σ che ha come bordo il
circuito γ ∪ (−dγ) ∪ (−γ),Red è interamente solcata da soluzioni delle equazioni di
Hamilton. Si ha pertanto R Σ dω = 0, ed applicando il Teorema di Stokes segue che
la circuitazione è nulla, ∂Σ ω = 0. Q.E.D.
238 Andrea Carati e Luigi Galgani

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