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CAPITOLO XXX

AZIONE E CONTEMPLAZIONE

1. PREMESSA

L’investimento della dimensione d’essere che è la storicità è lo spazio naturale


dell’azione, cioè del fare dell’uomo. Che non si rivela come un accidens del suo
essere, ma come una sua naturale espansione ed espressione.
Il dato fenomenologico costante è che c’è una tensione tra quello che io sono o
che sono riuscito ad essere e quello che potrei essere e dovrei essere. Questa tensione
è la sostanza dell’autotrascendimento ed è costitutiva. È, infatti, una tensione d’essere.
Lo spazio per questa polarità sempre in movimento è quello dell’azione.
L’essere è dinamico per se stesso. L’essere dell’uomo è dinamismo di crescita nei
suoi costitutivi corporei e spirituali: dalla sua struttura fisio-chimico-elettromagnetica
al pensiero, alla volontà, al sentimento, alla relazionalità, alla responsorialità, alle
sfide. Tutto questo plesso attitudinale costituisce la premessa del fare, inteso come
potenzialità indefinita di dinamismo. Da qui sgorga l’operare, circoscritto e finalizzato
ad un valore particolare.
In questo quadro, l’azione si rivela come il luogo privilegiato della manifestazione
del limite dell’essere. È il motivo per cui la trattazione viene collocata a questo punto
della nostra riflessione. L’azione è originata da un’intenzione a vastissimi orizzonti.
Essa si concretizza in forma circoscritta rispetto alla carica iniziale e inadempiente circa
la tensione di partenza.

2. I LIVELLI DEL FARE

2.1. Il trinomio di fondo. L’azione umana si colloca a gradazioni ascendenti. Gli


scalini si individuano secondo la struttura delle attitudini fondamentali dell’uomo, che
seguono le sue dimensioni costitutive di corporeità, di razionalità, di decisionalità, di
relazionalità fino all’agapicità.
Il nodo essenziale delle azioni specificanti l’azione globale è la volontà come
appetito-tensione e decisione, spesso implicita. Perciò l’azione si sintetizza nella
tensione che spinge al suo investimento. È il fare intenzionato.
Mette conto qui ampliare ciò che in altro contesto si è solo accennato. Mounier
indica, utilizzando le categorie della cultura classica, il fare anzitutto come poiéin o
lavorare. Che è trasformativo e organizzativo del materiale esterno. Il suo peso
specifico è la tecnicità, l’efficienza. C’è, poi, il fare práttein o lavorarsi, che è il
trasformarsi o il lavorare il proprio materiale interiore, in ordine a un equilibrio di
1
visione e di progetto, per costruire quella realtà dinamica che è l’unità della persona.
Il suo peso specifico è l’eticità, il vivere morale.1
Viene da ultimo il fare (theoréin) o farsi lavorare. È l’esercizio contemplativo del
«regno di valori che pervadano e sviluppino tutta l’attività umana».2 L’io si fa
plasmare (lavorare) dai valori e dal fondamento onnitrascendente dei valori. Si noti
che la contemplazione non è la semplice meditazione. Questa punta all’entrare in
medias res (medi-tatio: stare dentro). Quella mira ad entrare nel tempio (cum-
templatio) cioè nel santuario dei valori e nel sancta sanctorum del loro Fondamento
assoluto.
Non c’è fase più pratica dell’azione che quella che dà senso ad ogni forma di
azione. Ed è quella contemplativa, che ha il gratuito come immediato motivo e
ridonda ad utilità, a livello di essere, delle altre due forme. Infatti, all’inizio, la
contemplazione è stupore, che è la prima fase indispensabile dello sguardo
sapienziale. E poi è significazione, perché dà il senso ultimo ad ogni altro senso di
grado diverso di azione. Ed è premessa per la profezia, sia come familiarità e
irradiazione della Presenza che fonda ogni altra, sia come valutazione di ogni azione,
alla luce del Valore onnifondante.

2.2. Contemplazione e mediazione. Ogni azione va illuminata dalla luce


sapienziale della contemplazione, che fornisce la possibilità di raggiungere la verità.
Essa inoltre va esplorata con la mediazione della storicità che è intrinseca al soggetto,
sfociando poi nella storia concreta come spazio articolato di rapporti in divenire.
Sono queste le due condizioni che riferiscono ogni azione al segno dell’umano,
affinché il fare sia espressione ed espansione dell’autentico essere.3
In questo quadro, si evidenzia subito l’eticità costitutiva del fare dell’uomo. Il fare
che sgorga dall’essere e lo completa incarnandolo, per il fatto che ne procede, gli è
necessariamente coerente. Le azioni umane, con lo sfondo necessario dell’azione sono
deliberate dal libero arbitrio. E quindi, respons-abili, cioè capaci di rispondere
anzitutto alla coscienza del soggetto e, in una costitutiva intelaiatura di rapporti di
società, anche agli altri. E, nella dimensione verticale, al totalmente-Altro.
L’agire morale è dunque il fare di una persona che ritrascrive, in termini
deliberativi, il suo costitutivo di essere. L’etica è la ritrascrizione autodeterminata
dell’ontologia.
Se i valori non sono fondati sulla loro base naturale che è la trascendenza, c’è il
rischio che la loro interpretazione approdi ad un’etica fluttuante e relativistica.

1Cf. E. MOUNIER, Il personalismo, Op. cit., p. 124-126.


2Ivi, p. 127.
3Nota Mounier: «Un’azione è valida ed efficace solo se si è misurata prima con la verità, che le dà il
suo senso, e con la situazione storica che le assicura insieme la misura e le condizioni per la sua
realizzazione» (ID., Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Op. cit., p. 7).
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3. ESISTENZA, VOCAZIONE-AZIONE

3.1. La radice del fare. Connesso al tema dell’azione, c’è quello della vocazione.
È principio ispiratore e unificatore di ogni espressione operativa. È quello che
comunemente si chiama l’ideale, con al centro l’opzione fondamentale. Che agisce
come motivo totalizzante, all’interno della quale tutte le altre si muovono e da cui
promanano: si tratta della causa esistenziale o motivo di vita. È la causa per cui si
vive.
L’azione si specifica negli atti delle varie aree. E questi atti ripetuti si coagulano
attorno ai cosiddetti ruoli. Il soggetto dei ruoli è il personaggio. La persona si porta
dentro tanti personaggi, spesso scoordinati e contraddittori. Il potenziamento di un
personaggio o di un altro senza l’unità vitale può produrre la frantumazione interiore
della persona. Questa è chiamata a fare sintesi interiore dei ruoli, lottando contro il
proprio assorbimento nel personaggio pluriforme. La persona, come abbiamo già vi-
sto, non arriverebbe mai al livello di personalità senza l’unità. È necessaria, pertanto,
l’unificazione interiore sistematica, che faccia come da collante e principio vitale tra i
vari ruoli. Mounier parla di vocazione, vera chiamata della persona all’auto-
costruzione. Per individuarla, è necessario portarsi – egli dice – al «piano della
coscienza, al di sopra della dispersione della mia individualità».4
Ora, nella coscienza si avverte l’esigenza di un ordine interno coagulante ogni atto
attorno, appunto, all’asse vocazionale.

3.2. Lo sbocco del fare. Tutta la vita dell’uomo diventa unitaria perché ispirata
e stimolata da questo obiettivo onnicomprensivo, che è vera motiv-azione o motus ad
actionem totalizzante. Ogni vocazione è una chiamata da parte di uno che ha
l’autorità o l’autorevolezza di inviarla. Vocazione è funzionale alla missione. La
missione, prima ancora che questo o quel compito da svolgere, è presenza dell’uomo
al proprio presente storico. E qui riaffiora la centralità della dimensione della storicità,
intesa come struttura della coscienza dell’uomo atta ad elaborare progetti, a partire
dall’esperienza della memoria, nel presente carico di coscienza dell’impegno.
Vocazione è, dunque, chiamata ad un coinvolgimento di esistenza, rivolta ad una
persona e da essa percepita. Tale coinvolgimento è una sorta di prolungamento della
sua incarnazionalità. La storia è come il prosieguo dell’uomo, considerato in quanto
reticolato di rapporti. Come lo spirito non sussiste se non in quanto spirito incarnato,
così lo spirito incarnato non esiste di fatto che in quanto immagliato nel suo tessuto
naturale che è la storia.
È questo è lo sfondo teoretico della descrizione etica mounieriana, che arriva a
parlare della persona umana come «présence» e «engagement». Poiché, però, questa
presenza di coinvolgimento si trova davanti situazioni di ambiguità, allora diventa
affrontement.5 Che è dire di no, in termini di concretezza, all’intollerabile disumano.
È, questa, la premessa all’impegno, che è la discesa in campo per mettere in conto la

4Ivi, p. 71.
5ID., L’affrontamento cristiano, Ecumenica, Bari 1984.

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donazione della propria vita al di là di ogni astrazione spiritualistica. 6 L’engagement è
dunque l’investimento delle ricchezze di tipo reattivo dell’affrontement in funzione
della progettualità. Insieme, costituiscono la presenza dell’uomo, considerato tra la
dimensione interiore della storicità e la costruzione impegnata della storia.

4. CONTEMPLAZIONE COME AZIONE

Il fare dell’uomo in quanto tale è l’espressione del suo essere come spirito
incarnato. Le due forme sono l’otium come il fare contemplativo, il negotium come
fare operativo.
Abbiamo già accennato alla contemplazione, parlando della scalarità del terzo
grado del fare come theoría o contemplazione. Si diceva, anche se in misura minima o
nel modo implicito, che essa è radice del senso del fare (poiéin) come lavorare, e del
fare come lavorarsi (práttein). La contemplazione non è un lusso riservato a particolari
soggetti. È, invece, una dimensione dell’essere-uomo. E pertanto, è esigenza di spazio
per la sua realizzazione. La sua atrofia a cui tende l’uomo contemporaneo, che si
stordisce nell’effimero, induce una lenta insensibilità all’aspetto contemplativo della
vita. Tuttavia, ciò non significa negazione della costituzione antropologica. Del resto,
anche il più deconcentrato in questa esperienza non può sfuggire, almeno per un
istante, di tanto in tanto, al fascino di un panorama o di un volto. E che cos’è questa
esperienza, se non un frammento di esercizio della contemplazione e,
conseguentemente, il segno della struttura estatico-estetica dell’uomo? La
contemplazione è atteggiamento di attenzione, di concentrazione, di partecipazione e
di assimilazione da parte di un soggetto rispetto ad un termine di conoscenza di tipo
a-teoretico. Essa, infatti, non va collocata sul piano razionale, ma su quello della
conoscenza esperienziale d’amore. Non si tratta di una conoscenza di ragione, ma
piuttosto di intuito. È visione e riposo nell’oggetto. Ed è altresì carica di stupore.7
Esso, è la reazione del soggetto contemplante all’armonia fascinosa del terminus
ad quem della contemplazione. E si realizza davanti all’«attrazione che il perfetto
esercita sull’imperfetto, alla quale diamo nome amore».8 La contemplazione non è
una forma di conoscenza indistinta.

5. CARATTERI DELLA CONTEMPLAZIONE

Se la contemplazione è una operazione d’amore, allora riprodurrà le dimensioni


di quel dinamismo fondamentale. Ne indichiamo alcune delle principali, applicate in
quest’area specifica.

6Cf. ID., Rivoluzione personalistica e comunitaria, Op. cit., p. 24-30.


7Cf. J. PIEPER, Felicità e contemplazione, Op. cit., p. 63.
8Paul CLAUDEL in una lettera a Jacques RIVIÈRE del 23.05.1907, citato da J. PIEPER, Ivi, p 64.

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5.1. Semplicità. La contemplazione è uno sguardo di sintesi, d’intensità profonda.
È il raccogliere in un solo colpo tutto l’essere che è davanti e, in esso, contemplare
l’immensità dell’essere. È la reductio ad unum, proprio perché è andare al cuore del
reale, visto in comunione con il suo fondamento e con tutto l’essere.
Il terminus ad quem della contemplazione è colto nella globalità e nella
simultaneità della visione, a partire dal suo centro radiale, così come appare al
soggetto contemplante. E c’è in questa operazione gratuita, una tensione alla durata.
Non è un’operazione che può riuscire nella frettolosità o prescindere dall’avvertire il
bisogno della sosta. Tale sosta non è mai staticità e immobilismo, bensì stabilità e
dinamismo. Lo spirito che contempla è sommamente dinamico nell’azione ovvero
teso alla penetrazione, quanto più possibile profonda, della realtà che ha davanti, per
poter raggiungere il centro intimo della sua esperienza.

5.2. Gioiosità. La contemplazione, come esperienza di stupore davanti alla


intravista bellezza della pienezza d’essere, induce una forma di gaudium essendi, che
investe tutta la persona. Il gaudium, come abbiamo visto nel discorso dell’amore,9 è
la vibrazione dell’essere spirituale che si espande a tutte le dimensioni radicali, ivi
compresa quella della corporeità. E così, il diletto è completo.

5.3. Profeticità. Nell’istante della contemplazione, si sperimenta la durata


pura,10 come l’eterno essere presente in una esperienza di dinamismo instancabile e
ininterrotto.

5.4. Instancabilità. Viene escluso qui il rischio della noia e della stanchezza. La
noia esistenziale si presenta come sazietà, che è una sorta di pienezza di essere al
negativo. Dà sensazione di pesantezza. Consiste nel sentirsi riempito di zavorra. E
appunto quando questa sazietà tocca traguardi soffocanti, si ha l’esperienza della
noia.11
Qui, invece, è dirigersi e far centro proprio sul centro dell’essere collegato al
Fondamento dell’essere. In ogni esperienza di contemplazione c’è un virtuale
dispiegamento su tutti gli indefiniti esseri e sull’infinito Essere che li fonda, per cui la
novità è assicurata costantemente durante l’esperienza. E la novità è il segreto
dell’instancabilità.

5.5. Recettività. La contemplazione è lo sguardo per godere del bene


conosciuto. È un concentrarsi in esso, scavando nella sua profondità e nelle sue pieghe

9S. PALUMBIERI, L’uomo questa meraviglia, Op. cit., pp. 380-383.


10Cf. H. BERGSON, L’évolution créatrice, in ID., Oeuvres, Op. cit., pp. 495-500. La concezione di durata,
secondo l’Autore, si riferisce essenzialmente alla coscienza, come quella di spazio al mondo fisico. In
questo quadro, la coscienza non ha bisogno di alcuna mediazione per intuire la durata. Ha una
immediata percezione della vita, in cui tutto viene condensato.
11Cf. J.-P SARTRE, La nausea, Einaudi, Torino 1955.

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d’ essere. E l’essere-altro si disvela non a chi ha l’atteggiamento dominativo, ma
attentivo.
Questo incentrarsi nel termine contemplato ha un certo grado di recettività. Va
tuttavia esclusa la sua identificazione con la passività. La recettività è la libertà
accogliente, che si consegna gratuitamente. Ora, la decisione di ricevere l’altro in sé è
quanto di più attivo si possa immaginare: tutto l’essere è coinvolto nella decisione di
farsi grembo nell’esperienza contemplativa. Notiamo, poi, che la gratuità è il
disinteresse pratico derivante dalla decisione di farsi assimilare dall’amato contempla-
to. E assimilare non significa farsi annullare, ma decidere di essere simile (ad-similarsi).

5.6. Tranquillità. Proprio per il diletto e l’attrazione che l’esperienza


contemplativa, nella misura in cui è tale, esercita sul soggetto, essa immette in lui un
grande senso di pace. E così si rivela come la risposta esistenziale alla struttura
costitutiva dell’in-quietum cor.
Nella nostra trattazione, abbiamo sempre sottolineato la prospettiva centrale
dell’antropologia dell’inquietum cor. Ricordiamo solo l’autotrascendimento, che è
rivelazione di questo uomo capace di amore, alla ricerca costante di superare
l’acquisito, per penetrare ancora di più nel mistero che gli sta davanti. La risposta alla
inquietudo del cuore è la quies del cuore. Nella contemplazione anche delle realtà
limitate c’è come la pregustazione della eterna quies, che si gode soltanto quando si
raggiunge la fonte e l’approdo dell’essere.
C’è la «liberazione dalle catene della servile attività quotidiana».12 L’esistenza è un
motus continuo. La tendenza ultima di questo motus non è il motus stesso, bensì la
quies, come fruizione gioiosa e dinamica dell’approdo raggiunto. Questo è lo spazio
della contemplazione, che viene dato almeno nel frammento.13

5.7. Estaticità. La contemplazione non è un punto fisso, ma è un cammino.


Come tale, culmina nell’estasi, ove le due disponibilità – quella del soggetto a farsi
pervadere, e quella dell’essere contemplato che, rispettato nei suoi ritmi e nella sua
configurazione di mistero, si dischiude – costituiscono quella che la tradizione classica
chiamava la epékstasis, cioè reciprocità di estasi. Qui, la visione tende a farsi
compenetrazione, esperienza di unione. Anche qui si rivela il duplice volto della con-
templazione, che è distacco dal sé (ek-stasis), per approdare in definitiva al proprio sé
integrato con l’altro, non perché lo ha dominato e posseduto, ma perché lo ha
accolto e si è fatto accogliere. E poi, si evidenzia la fecondità. Che è l’attivare
dinamiche di essere, potenziandole in ordine allo sviluppo in alto e in avanti.
L’estasi è presente in tutte le fasi della contemplazione, come la luce albare che,
lentamente ma decisamente, punta a quella meridiana. Il culmine di essa è appunto
l’esperienza estatica vera e propria.

5.8. Esteticità. L’abbiamo già incontrato lungo l’analisi, questo carattere.


L’estaticità è apertura all’esteticità.

12J. PIEPER, Felicità e contemplazione, Op. cit., p. 88.


13Ivi, p. 81.

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Il soggetto contemplante viene, per dir così, rapito dal termine della
contemplazione, se questi si presenta con una particolare forma di armonia, se la
bellezza lo caratterizza. E la bellezza è il fulgore dell’essere. Ogni essere molteplice
mostra una convergenza della pluralità verso l’unità.
Ora, ciò che è bello si ama.14 L’amore, come abbiamo detto, ha come suoi
caratteri costitutivi l’esteticità e l’estaticità.15 Qui aggiungiamo lo specifico nei termini,
cioè, del rapporto di stimolo e risultato. La contemplazione è, dunque, l’espressione
dell’essere in dinamismo verso la bellezza dell’essere contemplato.

6. CONTEMPLAZIONE E TRASCENDENZA

La contemplazione di per sé è possibile al completo solo per il Bene assoluto, per


la bellezza divina. Solo in essa, infatti, l’inquietum cor trova la sua quies. E questa
quies è lo spazio ed è la sostanza della contemplazione.
E a questo punto tutte le sue forme – dalla poesia all’arte, dalla musica alla visione
dei panorami, dalla filosofia all’esperienza dell’amicizia e dell’amore – sono vere
esperienze di contemplazione nella misura in cui sono pace nel frammento per il
cuore inquieto, grazie alla fruizione gaudiosa di quella Bellezza assoluta, che si riflette
nella poesia, nell’arte, nella natura, nel pensiero, nell’amore. Anzi, l’area della
contemplazione si inscrive anche nel quotidiano, quando siamo colti dallo stupore
davanti a qualche meraviglia.
In un mondo di efficientismo e di utilitarismo, la contemplazione può essere
letta anche come momento di evasione dal male che impasta il mondo. Oppressioni e
alienazioni sono il tessuto della storia dell’uomo. Che però non è univoca. È ancipite.
L’essere è sotto il segno dell’ambiguità.16
Chi giudica il mondo irrimediabilmente insensato, perché impastato di assurdo, si
preclude ogni spazio di possibilità per la contemplazione. Per chi, invece, valuta il
mondo e la storia come mistero e contenitore di misteri, quali gli uomini si
presentano, allora la possibilità della contemplazione resta. E questo, grazie a quello
spazio di essere in cui esso si rivela partecipe dell’Essere, i cui attributi sono il vero, il
buono, il bello. La contemplazione, dunque, segue il tipo di percezione che si ha
dell’essere. E siccome ogni essere non è mai tutto negativo, almeno perché è – ed
essendo si disvela nella sua armonia e dà campo alla proiezionalità dell’essere, che
non è solo quello che appare, ma anche quello che ancora non si è manifestato –
allora la contemplazione è possibile. Lo è poi nella forma dell’ottimismo,
caratterizzante la posizione di fronte all’Essere. E, data la drammaticità della storia,
esso si rivela come «ottimismo tragico».17

14 «Noi non posiamo amare nient’altro che ciò che è bello» (AGOSTINO, Confessioni, 4,13,20; PL
32,701).
15Cf. S. PALUMBIERI, Amo, dunque sono, Op. cit., pp. 129-133.
16Cf. P. PRINI, L’ambiguità dell’essere. Op. cit.
17E. MOUNIER, Il personalismo, Op. cit., pp. 41-42.

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7. VITA PRATICA E VITA CONTEMPLATIVA

La vita che abitualmente si chiama pratica, caratterizzata dal lavoro (poiéin) e


dalla quotidianità, nulla sarebbe se non fosse carica di significato. Tutto ciò che si
compie si percepisce svuotato di consistenza, allorché risulta non vissuto con il timbro
del significato. Tutto ciò che si opera, se si sa che non serve a nulla, si vanifica, fosse
anche l’opus più alto e desiderato. Il puro pratico, privato del suo significato, porta il
vuoto percepito come senso di noia.
Ora, il laboratorio del significato dell’uomo, come «animal symbolicum»,18 è la
dimensione contemplativa.
L’attività pratica – come l’economia, la produzione, la comunicazione, la
professione, il progresso della tecnica, l’intelaiatura stessa dei rapporti quotidiani –
riempie per lo più la durata dell’esistenza dell’uomo, ma, di per sé, non dà il senso
della pienezza. Si pone in ragione di mezzo per vivere, ma non come scopo della vita.
Il motus non è mai lo scopo di se stesso. Solo il traguardo dà valore al movimento.
Lo stesso impegno politico globale serve per preparare una società caratterizzata
dalla giustizia e dalla solidarietà. E tutto questo, in funzione della tendenza
onnicomprensiva e fondamentale dell’uomo-cuore, che è la felicità. E la pace del
possesso dei beni è la loro fruizione gaudiosa. Che non è attività pratica, ma gratuita,
ricercata per se stessa. Non funzionale, ma essenziale: è la contemplazione. Essa è il
télos di tutte le attività. Tutti i movimenti cercano l’approdo nella pace dei livelli
profondi dello spirito.
Tale armonia, dunque, non è una realtà statica. Tende ad essere stabile. La visione
dinamica, come sostanza vivace e permanente, è la contemplazione. Nel pensiero sia
occidentale che orientale, l’esperienza della contemplazione è quella forma di vita
superiore che dà senso a tutto ciò che si fa e si produce.19 Che fa vedere tutto nella
chiave sapienziale. Che, poi, dà l’accesso al mistero esistenziale.
La mancanza dell’esercizio della contemplazione è mutilazione dell’essere e perciò
dà senso di frustrazione. L’esperienza della contemplazione è radice di significato di
ogni azione. Che altrimenti, fatalmente, apre la strada all’agitazione. La storia di oggi
offre questo magistero: o cura della contemplazione o senso di agitazione.

18E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, Op. cit., p. 81.


19«Ad Anassagora fu chiesto: “Perché sei al mondo?”. [...] La risposta fu: “Eis theorían”, per vedere – il
sole, la luna, il cielo. È difficile supporre che in questa risposta siano intesi i corpi fisici celesti, e non
piuttosto la totalità del mondo e dell’essere. L’antica saggezza greca e la dottrina della felicità del
Nuovo Testamento, Platone, Aristotile, S. Agostino e S. Tommaso sono dunque concordi nel ritenere
che il compimento in funzione del quale viviamo, si renda per noi accessibile attraverso il vedere» (J.
PIEPER, Felicità e contemplazione, Op. cit., p. 85).
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