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Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai 18/03/20 20:15

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gennaio
2004
archivio
GRANDANGOLO:
da Art of Living, novembre 2003

CRESCITA SENZA FINE


di Suzanne Pritchard

Qual è il rapporto tra il rispetto degli altri e rispetto di sé? Perché all’inizio della pratica la nostra
vita sembra magicamente rifiorire e poi, dopo qualche tempo abbiamo la sensazione di aver
sbagliato tutto?

La “dottrina corretta” cui si riferisce Nichiren Daishonin nel Rissho ankoku ron è il «vero veicolo, l’unica
buona dottrina» (SND, 1, 45), cioè l’insegnamento del Sutra del Loto che dà a tutte le persone la
capacità di schiudere il potere della natura di Budda contenuto nelle loro vite e ottenere la Buddità. A
livello individuale “adottare la dottrina corretta” significa costruire una forte fede nel Sutra del Loto.
Significa far sì che ogni persona aspiri a realizzare la propria felicità e quella degli altri (MDG, 1, 87-88).
Una delle primissime esperienze all’inizio della pratica buddista mi fece capire questo legame
indissolubile fra felicità propria e felicità degli altri, rispetto degli altri e rispetto di sé.
Come per molti, il mio modello di relazione con l’altro sesso seguiva il seguente schema: 1) incontrare
qualcuno; 2) dare inizio a una relazione; 3) essere felice per un po’; 4) cominciare a diventare infelice e
porre fine alla relazione; 5) ricominciare dal punto 1).
Era un classico processo di “tentativo-errore” con un particolare accento sull’“errore”!
Dopo qualche anno di pratica incontrai un uomo meraviglioso che adesso è mio marito. Dopo aver
recitato molto Daimoku decidemmo di sposarci e chiedemmo un consiglio nella fede. Ci spiegarono che
anche se l’amore è un’emozione meravigliosa, proprio perché è un’emozione tende a essere
estremamente mutevole. Come le onde sulla superficie dell’oceano: a volte sono enormi e travolgenti,
a volte il mare sembra quasi completamente calmo. Per questo il Buddismo sottolinea l’importanza del
rispetto. Il rispetto è come la corrente che scorre incessante nelle profondità dell’oceano,
indipendentemente da quello che accade sulla superficie.
Quando ho cominciato a recitare Daimoku per rispettare la vita di mio marito, la prima cosa che ho
capito è stata che ciò che nella nostra società abitualmente etichettiamo come rispetto in realtà si basa
su quello che il Buddismo chiama stato vitale di Animalità. Di solito si accorda rispetto a chi ha potere,
posizione sociale, autorità, fama o ricchezza mentre, per contro, il Buddismo rispetta tutti gli esseri
viventi perché intrinsecamente possiedono il grande potenziale della Buddità. Ognuno è unico, nessun
altro può offrire al mondo lo stesso contributo che ognuno di noi può dare. Questo, di per sè,
indipendentemente da casa, automobile o lavoro ecc. rende una persona degna di rispetto.
La seconda cosa che capii è che si può veramente rispettare la vita di un altro solo nella misura in cui si
comprende cosa sia il rispetto di sé. Dovevo comprendere cosa significava rispettare le qualità della
Buddità in me stessa per riuscire a capire che il Gohonzon è una realtà che esiste nella vita di ognuno,
me compresa.
È un’esperienza comune, all’inizio della pratica buddista, provare una sensazione di essere entrati in
contatto con una sorgente di energia interiore e, anche se razionalmente si capisce ancora ben poco
della teoria, intuitivamente si percepisce che questa è una cosa buona.
Un modo per spiegare questo consiste nell’immaginare la nostra vita come un puntino all’interno di un
cerchio che rappresenta la consapevolezza della nostra capacità vitale (fig. 1). Via via che si continua a
recitare, a partecipare alle varie attività buddiste, a studiare e a insegnare agli altri, si sviluppa una

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maggiore conoscenza teorica dell’immenso potenziale che possediamo. E però può darsi che in pratica
non riusciamo a sentirlo. Quella che all’inizio ci sembrava essere una vita grande non si rivela grande
abbastanza; si giunge a un punto in cui non si avverte più lo stesso senso di libertà ma al contrario di
ristrettezza, in altre parole ci si sente incagliati e incapaci di andare oltre (fig. 2).
A questo punto è possibile giungere a una o più di queste quattro conclusioni:
1) Il Gohonzon non funziona. Sto praticando con intensità ma sembra che nulla funzioni.
2) Sto sbagliando. Apparentemente pratico come gli altri ma loro prendono benefici e io no.
3) Sto regredendo. Ero abituato a sentire la mia vita che funzionava a pieno ritmo, con i motori al
massimo, ma ora ho perso quella sensazione. Invece di progredire nella fede mi sembra di tornare
indietro.
4) Mi sono sbagliato. Pensavo di aver davvero cambiato o capito qualcosa ma ora non sono più tanto
sicuro che fosse vero. Di fatto non sono sicuro di aver capito proprio un bel niente riguardo alla fede.
(Di solito questa considerazione è seguita da una profonda e spiacevole sensazione di ipocrisia o
disonestà al pensiero di tutte le persone che abbiamo incoraggiato a praticare).
In realtà nessuna di queste cose è vera.
La sola cosa vera è che la conoscenza che abbiamo della nostra Buddità che magari andava bene fino a
un anno, un mese, una settimana o un minuto fa non è più sufficiente per ciò che vogliamo fare con la
nostra vita. Perciò possiamo onestamente concludere che è tempo di crescere.
È buffo che spesso quando incontriamo altri che stanno affrontando difficoltà siamo immancabilmente
incoraggianti e bravissimi a sostenerli. Abbiamo piena fiducia nella loro capacità di approfondire la fede
e risolvere le loro difficoltà. Usiamo un linguaggio positivo e pieno di convinzione e affettuosa premura.
Ma quando siamo noi stessi a incontrare difficoltà il nostro dialogo interno spesso è molto, molto
diverso. Poiché il Buddismo insegna il principio di unicità della vita e del suo ambiente se vogliamo
davvero accrescere la nostra capacità di sostenere gli altri è indispensabile che ci sforziamo di
sviluppare nei confronti della nostra vita, un grado di compassione pari a quello che cerchiamo di
riservare alle persone che ci circondano.
Un aspetto del vedere la propria Buddità è il desiderio di prendere coscienza delle proprie potenzialità,
delle grandi capacità che esistono nella nostra vita. È lo stabilire una relazione con se stessi basata
veramente sull’apprezzamento, e sull’occuparsi di sé e del proprio miglioramento personale. Insomma
diventare i propri migliori amici. Inevitabilmente quando si recita per costruire questo nucleo interiore
di compassione e rispetto di sé, si diventa subito esperti nell’individuare le situazioni e i comportamenti
in cui non ci stiamo basando sul rispetto. Può essere una rivelazione sconcertante ma solo quando si
riconosce che non stiamo rispettando noi stessi, possiamo impegnarci sul serio in un processo di
trasformazione.
Per tornare al nostro diagramma (fig. 2) ci sono alcuni tratti caratteristici che si manifestano quando
abbiamo raggiunto il limite di quanto siamo consapevoli della nostra Buddità. Incapaci di vedere le
potenzialità della nostra vita, in quel momento, abbiamo l’impressione di non averne mai avuto alcuna
vera conoscenza. Mi viene di immaginare questa specifica tappa della crescita personale come una sorta
di “terra di nessuno”. Non si può fare affidamento sul livello di conoscenza che avevamo in precedenza
perché non basta più ma non abbiamo ancora raggiunto il livello di consapevolezza di cui la nostra vita
ha bisogno adesso.
Però per fortuna in questi momenti abbiamo l’opportunità di offrire sincere, oneste e di solito urgenti
preghiere con lo spirito di «con unica mente desiderano vedere il Budda e non risparmiano la propria
vita» (SND, 5, 4). Questa frase che recitiamo ogni giorno in Gongyo significa che dovremmo desiderare
ardentemente di vedere la nostra Buddità, sforzandoci con tutto il cuore di aprire un nuovo livello di
consapevolezza del nostro potere interiore, un livello al quale in precedenza non avevamo accesso. Io
me lo figuro come una sorta di estrazione mineraria davanti al Gohonzon. Gradualmente si diventa
capaci di aprirsi un nuovo spazio e sperimentare nuovamente la libertà di vivere basandosi sulla
condizione vitale di Buddità (fig. 3).
L’errore che si può commettere in questo processo è pensare che basti farlo una volta per tutte! In
realtà si giunge spesso a questo punto anche se, grazie a una forte pratica e a una costante attività
buddista possiamo ispirarci a oltrepassare ogni volta il più rapidamente possibile il limite in modo da
continuare a crescere costantemente. Allora diventano un po’ come gli anelli di crescita di un albero.
Più se ne accumulano più si diventa forti, e più lussureggianti sono i rami più sono le persone che

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trovano rifugio sotto la loro ombra. La cosa bella è che non occorre aspettare che siano le altre persone
oppure le situazioni a cambiare. La nostra felicità non deve attendere. Siamo noi che cambiamo, noi
che diventiamo i Budda di assoluta libertà, capaci di accedere sempre di più all’autentico potere di cui
l’essere umano è dotato (fig. 4).
Sono sempre più convinta che il processo di costruzione di un nucleo interiore di compassione e rispetto
di sé non sia altro che lo spirito di shakubuku rivolto verso l’interno. Il vero spirito di shakubuku si basa
su una grande generosità. È la volontà di vedere le grandi potenzialità degli altri e di intavolare con loro
un dialogo costruttivo che li aiuti a prenderne coscienza. Nel Buddismo si dice che l’Illuminazione è
completa soltanto quando diventa una base per l’azione. Quello che Nichiren Daishonin chiama
“adottare la dottrina corretta” (Rissho), per ognuno di noi consiste nello sforzo costante di apprezzare
se stessi e gli altri, di approfondire costantemente la nostra comprensione individuale della Legge,
mentre cerchiamo di far sì che anche gli altri creino una relazione con essa.
Più il nostro desiderio di basarci sulla Legge si approfondisce, o in altri termini, più il desiderio di usare
la nostra energia vitale per proteggere la Legge e l’umanità si approfondisce, più saremo in grado di
trasformare le condizioni vitali dei nove mondi da Inferno a Bodhisattva in modo che rivelino il loro
aspetto illuminato, la Buddità.
Ciò che ci permette di realizzare concretamente questa grande trasformazione interiore è la promessa
solenne di usare la nostra vita per kosen-rufu. Il voto di proteggere la Legge e tutta l’umanità è la
causa per l’Illuminazione di tutti i Budda.
È l’opposto del nostro consueto modo di pensare. Di solito pensiamo: «Quando avrò capito questo
punto, quando avrò realizzato questa prova concreta potrò insegnare agli altri». Al contrario è lo sforzo
di dedicare la nostra vita alla felicità degli altri che ci spinge oltre il nostro piccolo io, oltre quella
parte di noi che desidera usare la propria energia vitale solo per proteggere se stessa. Quando siamo
concentrati solo sul proteggere i nostri interessi alle spese degli altri, i nove mondi nella nostra vita
sono incapaci di mostrare il loro lato creativo basato sull’Illuminazione fondamentale e invece rivelano
l’aspetto negativo e distruttivo dell’oscurità fondamentale.
Pensare che tutta la nostra energia vitale, e l’energia vitale di tutto l’universo hanno la possibilità di
essere sia positive che negative è molto differente dalla visione del mondo della cultura occidentale
nella quale esiste una separazione rigida di origine religiosa fra il bene e il male. Ci può capitare di
recitare per liberarci dalla collera o dalla paura ma questo non è possibile. Quello che è possibile è
trasformarle. Se la nostra energia viene indirizzata alla protezione della Legge e di tutta l’umanità
scorrerà in direzione della Buddità e dell’Illuminazione. Se d’altro canto, la usiamo solo per proteggere
noi stessi aumenterà la tendenza a sminuire o disprezzare gli altri considerandoli solo mezzi per la
nostra felicità individuale.
Viene la tentazione di pensare che possa esistere una posizione neutrale: «Non faccio voto di usare la
mia energia vitale per proteggere la Legge e tutta l’umanità ma nemmeno rimango attaccato al
desiderio di usarla unicamente per proteggere me stesso». Ma non c’è neutralità nel Buddismo. Nel
preciso istante in cui si smette di desiderare di usare la propria forza vitale per proteggere la Legge e
l’umanità, la nostra vita ritorna gradualmente a chiudersi in un atteggiamento conservatore di
autoprotezione.
Perciò la chiave per una completa felicità si trova soltanto in una pratica abbastanza forte da
trasformare l’oscurità fondamentale o illusione in Illuminazione fondamentale o Buddità.
Come spiega Ikeda: «I numerosi problemi dell’epoca attuale possono essere realmente risolti solo se
affrontati con una profonda comprensione della natura della vita umana. Il Buddismo del Daishonin
tratta approfonditamente della lotta fra la natura del demone e la natura di Budda all’interno della vita
umana […] Solo attraverso questa battaglia fondamentale a livello della vita potrà esserci un
cambiamento nel destino dell’umanità» (MDG, di prossima pubblicazione).

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