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SU GIOVANNI PAPINI

di Giulio Andreetta

Giovanni Papini appare un intellettuale, scrittore, e poeta di primo piano del Novecento. È
immeritatamente dimenticato, anche forse per una certa sua vicinanza a Mussolini e al fascismo,
sebbene mai ostentata. Fu infatti fortemente criticato da Antonio Gramsci ne I quaderni dal carcere, per
una certa sua incoerenza, e contraddittorietà. In effetti questo autore durante la sua lunga carriera
letteraria e intellettuale ha vissuto momenti alterni di infatuazione e di successiva disillusione, che gli
hanno fatto cambiare più volte idea su temi importanti quali la guerra e la fede religiosa, ad esempio.
Da fervente irredentista e filo-interventista diventerà poi, a seguito della Prima Guerra Mondiale, un
feroce oppositore dei conflitti armati, dichiarandosi pacifista ad oltranza, e assolutamente pentito di
aver contribuito, con la sua penna di giornalista, al clima guerrafondaio che precedette il conflitto. Un
altro esempio della sua contraddittorietà è la sua virata a centottanta gradi da ateo integralista a
convinto cattolico. La sua conversione è datata 1921, e proprio in quell’anno dette alle stampe il libro
che gli donò maggiore successo e popolarità: La storia di Cristo.
In ogni caso a me pare si possa affermare che Papini sia a buon diritto uno dei più grandi intellettuali di
inizio Novecento, anche solo considerando il suo stile di scrittura così essenziale, e cristallino, mai
piatto, mai banale e sempre chiaro e sintetico. E in ogni caso basterebbe una poesia per metterlo
accanto a nomi quali Luigi Pirandello, Italo Svevo, e Gabriele D’Annunzio. In questa lirica è presente
tutto il genio di quest’uomo inquieto, che in realtà sotto la facciata provocatoria del polemista sempre
arrabbiato e anticonformista, nascondeva un cuore tenero, e molto sensibile. Al di là di alcuni
atteggiamenti superomistici - del resto comuni a molti intellettuali in quell’epoca (basti pensare proprio
al D’Annunzio) - che qua e là campeggiano nella sua produzione letteraria e giornalistica ante-guerra,
e che sono da intendersi non certamente come manifestazione di superbia intellettuale, ma come
tentativo di smuovere le coscienze italiane un po’ assonnate e provinciali del periodo, ciò che emerge è
uno scrittore che invece vive nel dubbio e nella continua messa in discussione di se stesso e delle
proprie idee. Ma ci sono vari motivi per cui la lettura di questo autore è da porsi, come esperienza
estetica, a livello di quella dei più grandi scrittori, ed è proprio questa inesauribile sensazione di
trovarsi di fronte ad un uomo, in tutte le sue sfumature, consapevole di tutti i suoi errori, di tutti i suoi
passi falsi. È in realtà un uomo baciato da quella cristiana umiltà, che gli consente di interrogarsi sul
suo passato ed eventualmente di prendere le distanze da prese di posizione che non condivideva più.
Ciò che mi attrae in lui è questa consapevolezza del limite, e proprio questa sua contraddittorietà che
però non cancella la consapevolezza del genio, quale indubbiamente fu. Ed egli ne fu certamente
consapevole, perché dalle prese di posizione enfatiche e retoriche proprie degli atteggiamenti
provocatori dell’avanguardia futurista, egli arrivò a scrivere questa poesia, in tutto e per tutto il suo
capolavoro poetico, a mio avviso. Si tratta di una lirica in cui la visione dell’amore appare in tutta la
sua grandezza, proprio come negazione di se medesima. Una visione dell’amore non edulcorata da falsi
sentimentalisti, ma che in modo duro mette in luce tutte le misere illusioni che nutrono il cosiddetto
amore di facciata, tiepido, ‘che riscalda’, ma che in fin dei conti non è tale. A questa visione dell’amore
il poeta oppone la sua ‘visione’, dura, senza sconti, consapevole del pericolo insito nella
manifestazione troppo intensa di un sentimento. In questo caso appare dunque un uomo profondamente
innamorato della vita e delle emozioni, ma impaurito dalla sua stessa eccessiva sensibilità. Ci troviamo
di fronte, dunque, ad una delle tante meravigliose contraddizioni di questo autore, che in gioventù era
soprannominato ‘la belva di Firenze’, per il suo atteggiamento polemico e sarcastico nei confronti dei
più. In modo assolutamente geniale e sincero egli non manca di sottolineare questa paradossale
contraddittorietà anche nei versi stessi della poesia.
C'È UN CANTO DENTRO DI ME
di Giovanni Papini
C'è un canto dentro di me che non potrà mai uscire dalla mia bocca - che la mia mano non saprà
scrivere sopra nessun pezzo di carta.
C'è un canto dentro di me che devo ascoltare io solo - che devo soffrire e sopportare soltanto io.
C'è un canto chiuso nelle mie vene come gli adagi celestiali nelle canne argentate degli organi - c'è un
canto che non fiorirà come la radice del giaggiolo sepolta sotto la frana.
C'è un canto dentro di me che che resterà sempre dentro di me.
Se questo canto uscisse dal mio cuore romperebbe il mio cuore.
Se questo canto fosse scritto dalla mia mano nessun'altra parola più potrebbe scrivere la mia mano.
Questo canto non sarà detto che nell'ultima ora della mia vita; questo canto sarà il principio d'una felice
agonia.
C'è un canto dentro di me che non può uscire fuori di me perché non furono ancor create le parole
necessarie.
Un canto senza misura e senza tempo; senza ritmo e senza leggi.
Un canto che non può adagiarsi in nessuna forma e che spezzerebbe qualunque linguaggio.
Un canto che nessuno potrebbe ascoltare senza che la sua anima fosse sgomenta dalla sorpresa e
ricolorata da un altro sole.
Un canto più respirato che detto, più presentito che manifestato: suono di luci, raggio d'accordi.
Un canto che non desidera nessuna musica perché sarebbe più melodioso d'ogni strumento conosciuto.
Dentro il mio cuore così grande che a giorni contiene l'universo questo canto è così grande che ci sta a
gran fatica. Nei minuti più angosciosi della vita questo canto vorrebbe traboccare dal mio cuore troppo
stretto come il pianto dagli occhi di chi piange se stesso. Ma lo respingo e lo ringhiotto perché insieme
a lui anche il sangue del mio cuore traboccherebbe con la stessa furia voluttuosa. Lo rinchiudo in me
stesso perché non voglio ancora morire.
Son la vittima docile di questo canto divino e omicida. Debbo serrare il cuore come la porta di una
carcere e soffocare i suoi battiti soprumani come tanti rimorsi. Ed essere, con tutta la mia tenerezza, il
feroce a cui non s' accostano i deboli.
Perché il mio canto sarebbe uno spaventoso canto d'amore e quest'amore brucerebbe tutto quello che
tocca.
L'amore che riscalda soltanto è appena tiepido ma il vero amore nel medesimo soffio bacia e distrugge.
Quest'amore sarebbe così splendente d'infocata bramosia che in quel giorno la terra illuminerebbe il
sole e la mezzanotte sarebbe più ardente del più bruciato meriggio.
Ma io non canterò mai questo terribile canto che mi consuma senza che nessuno abbia compassione del
mio tormento.
Non canterò questo canto meraviglioso che la mia paura rinnega e che fa tremare la mia debolezza.
Non canterò questo canto perché nessuno potrebbe sostenerne l'infinita, la straziante, la dolorosa
dolcezza.

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