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Le parabole di Gesù

Secondo incontro: Il servo spietato.

Elemento di non ovvietà


Prima di esaminare la parabola del servo spietato, cerchiamo di soffermarci su
ulteriori elementi ricorrenti nella struttura letteraria delle parabole stesse.
Il primo è un elemento di non ovvietà costantemente presente in tutte le
parabole. Come abbiamo già visto la parabola è l’accostamento di due realtà, una
del mondo e l’altra del Regno di Dio. Accostando queste due realtà, si accostano
in particolare due modi di pensare che presentano delle ovvietà diverse: il
tentativo della parabola è quello di farci convertire alla ovvietà del Regno di Dio,
che ai nostri occhi appare in un primo momento come non ovvietà.
Come scrive San Paolo nella lettera ai Romani: “non conformatevi a questo
mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare”; ciò che
all’inizio ci sembra poco ovvio, alla fine della nostra trasformazione diventerà il
nostro modo di vedere le cose.

Interrogativi
Molto spesso le parabole si aprono o si chiudono con una domanda esplicita
che fa parte integrante della struttura della parabola stessa. Non si tratta di un
espediente per attirare l’attenzione, bensì è un elemento che chiama in causa
direttamente l’ascoltatore e lo costringe ad entrare nella dinamica del racconto, a
prendere posizione.
A volte tali domande non sono espresse chiaramente ma sono implicite: in
questo caso sono ancora più importanti perchè sta a noi trovarle e possono essere
leggermente diverse a seconda dell’ascoltatore.

Apertura
Le parabole ci interrogano e chiedono sempre la nostra risposta o decisione. In
questo senso si dice che “restano aperte”, non si concludono, e la conclusione
stessa è lasciata all’ ascoltatore: la sua decisione è il suggello finale della
parabola.

Azione
Il linguaggio usato nelle parabole è un linguaggio che descrive un agire, non si
ferma ai concetti e alle teorie. Esso descrive l’essere attraverso il suo agire. Sono
le azioni che l’uomo fa a definirlo. Se il modo di agire dell’ascoltatore cambia,
allora è cambiato il suo essere, si è convertito.
E’ un linguaggio simile a quello che usano i bambini. Quando devono
descrivere un oggetto essi non stanno a definirlo in base a come è fatto, ma ne
descrivono l’azione. Per esempio, se chiedete loro che cosa è un penna,
risponderanno “è per scrivere”; se chiedete cos’è l’acqua diranno “è per bere, o
per lavare” ecc.
La parabola del servo spietato

Questa parabola si trova nel Vangelo di Matteo. Questo Vangelo fu diviso dal
suo autore in cinque grandi discorsi: il discorso della montagna, apostolico, in
parabole, ecclesistico o comunitario, escatologico. La parabola in questione si
trova nel discorso ecclesiastico o comunitario, dove sono descritti i principi a cui
la comunità si deve ispirare per vivere secondo gli insegnamenti di Gesù.
Il tema centrale è il perdono, essenziale nella dinamica della vita comune
ispirata a Cristo. Tante domande sorgono quando si pensa al perdono: come
perdonare? Perdonare fino a quanto e fino a quando? Come perdona Dio?
L’importanza del perdono non è solo comportamentale ma anche teologica, cioè
rispecchia anche l’essere stesso di Dio svelandone uno dei suoi tratti più
caratteristici.
La struttura del testo è molto semplice e si può schematizzare come segue:
 Preambolo
 Parabola
 I scena
 II scena
 III scena
 Conclusione

Preambolo
Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare
al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose:
«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Prima scena
A questo proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i
suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di
diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone
ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e
saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore,
abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone
lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Seconda scena
Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento
denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva:
“Paga quel che devi!” Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo:
“Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito”. Ma egli non volle esaudirlo,
andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
Terza scena
Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al
loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli
disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato.
Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto
pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli
avesse restituito tutto il dovuto.

Conclusione
Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di
cuore al vostro fratello.

Il preambolo si apre con la domanda di Pietro: «Signore, quante volte dovrò


perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». In realtà
questa è la domanda di tutta la comunità dei discepoli che seguivano Gesù;
Pietro, come molto spesso accade, è colui che si espone e parla direttamente col
Maestro. Egli sente che questo del perdono è un nodo importante da sciogliere
per riuscire a vivere insieme seguendo la volontà di Gesù; sente, infatti, che il
Maestro è più esigente di quanto non lo fosse la scrittura su questo punto. Pietro,
nella sua domanda, propone infatti di perdonare fino a sette volte, laddove i
rabbini invitavano a perdonare solo tre volte: egli aumenta la dose per cercare di
accontentare Gesù ed ottenere una regola pratica che avrebbe alleviato il disagio
della comunità. In realtà non fa altro che spostare il limite del perdono: non
riesce a concepire, infatti, un perdono senza limiti.
Se analizziamo le scene vediamo che sono molto semplici e apparentemente
chiare e ovvie. La prima scena è abbastanza esplicita: i personaggi sono due, un
re ed un servo che gli deve una cifra astronomica, 10000 talenti. Questa è una
cifra che può essere paragonata al debito di uno stato: una cifra spropositata
anche per il re stesso. Il re esige la restituzione del debito, ma di fronte alla
supplica del suo servo, che si appella alla sua magnanimità e alla sua grandezza
d’animo, si impietosisce e condona ogni cosa.
Si nota subito un elemento di non ovvietà: il re non concede solo un po’ di
tempo per pagare il debito, nè tantomento concede uno sconto all’ammontare del
debito stesso; egli condona tutto il debito. Dall’esigere il suo pagamento si passa
alla cancellazione totale e perpetua del debito. Questa è la non ovvietà che si
scontra con l’ovvietà del nostro mondo.
Nella seconda scena il re non c’è più, sparisce. C’è solo lo stesso servo con un
altro servo suo debitore. Quest’ultimo gli deve una cifra irrisoria, 100 denari,
pari a un salario medio di tre mesi. Il servo però, non si lascia commuovere dalle
richieste del suo debitore e lo fa gettare in carcere.
Nella terza scena ricompare il re. Questi venuto a sapere dell’accaduto esige la
restituzione del debito e fa gettare a sua volta in carcere il servo malvagio.
Tutto sembra chiaro ed evidente: per essere perdonati bisogna perdonare.
Ma il senso della parabola è ancora più profondo di ciò che sembra.
Eliminazione della prima scena
Facciamo finta di non conoscere la parabola, dimentichiamo di averla già letta
ed ascoltata un’infinità di volte. Tagliamo via completamente la prima scena e
immaginiamo che la storia inizi con la seconda scena. Come ci sembra il
comportamento del primo servo nei riguardi dell’altro servo suo debitore? Tutto
sommato ci sembra ovvio che egli esiga il pagamento del debito; il suo
atteggiamento risulta almeno giustificabile e comprensibile. Tuttalpiù ci può
sembrare esagerato il fatto di farlo mettere in carcere, ma quelli erano i mezzi
contemplati dalla legge di allora. Questo quadro rappresenta l’ovvietà della
logica del mondo: è diritto del creditore esigere la restituzione della somma
prestata e ricorrere ai mezzi che la legge mette a disposizione per far restituire il
debito.
Cosa succede invece alla luce della pèrima scena? Tutto cambia! Il condono
generoso da parte del Re, un condono che rappresenta l’elemento di non ovvietà,
fa cambiare radicalmente il sapore che avvertiamo nei confronti della seconda
scena: il comportamento del servo malvagio appare adesso assurdo,
inammissibile ed odioso.
Ecco allora la domanda del re: “non dovevi anche tu aver pietà del tuo
compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
Il fine del comportamento del re, del suo condono sproporzionato, della non
ovvietà della sua decisione, era quello di trasformare il servo dal di dentro, farlo
convertire a un nuovo modo di essere, trasportarlo nell’altrove di un orizzonte
del tutto nuovo.
Ma il servo, con il suo agire, ha dimostrato di essersi chiuso a tutto questo e,
così, di aver rifiutato anche il perdono del suo re.
Il vero intento della parabola è, dunque, spiegare il rapporto tra le sue scene.
Ciò che accade nella prima avrebbe dovuto ribaltare ciò che accade nella
seconda. Il fatto, invece, che nella seconda scena non ci sia un cambiamento fa si
che nella terza scena ciò che era avvenuto nella prima venga annullato,
vanificato. Il nesso nelle scene non è cronologico ma molto più profondo.
La prima scena, infatti, rappresenta il Regno di Dio che si approssima, si fa
vicino, entra nelle nostre vite con un forte elemento di novità e di non ovvietà
che vuole convertirci, trasformarci. La seconda scena mostra come il
comportamento dell’uomo, se pur sensato secondo la “ovvietà” del mondo, alla
luce del comportamento di Dio diventa inconcepibile. La terza scena ci mostra
come il non lasciarsi trasformare dal comportamento di Dio vanifica il dono
ricevuto: non è che Dio si riprende ciò che ha gratuitamente donato, ma è l’uomo
che si dimostra incapace di gustarne il frutto e, con il suo comportamento, lo
disperde, lo vanifica, lo annulla. Solo chi si lascia trasformare dal
comportamento di Dio riesce a comprendere Dio; chi si chiude e “resta fuori”,
non comprenderà il vero Dio e verrà giudicato da quel dio che egli si è creato e
che non è in grado di perdonare.
Importanza del perdono
Il perdono corrisponde ad una radicale conversione e di essa ne è il segno più
evidente. Nel cambiamento del perdono io cambio la mia visione della vita e
assumo la visione stessa di Dio. Nel perdono Dio esercita la sua immensa libertà,
la sua giustizia, perchè egli ama i peccatori. Da ciò risulta che la giustizia stessa
di Dio è il suo perdono, ed è una giustizia che non condanna il colpevole, ma lo
rende giusto, riportandolo alla vita.
A livello pratico perdonare definisce il nostro grado di identificazione con
Gesù, il grado della nostra cristificazione. Proprio per questo perdonare non è
affatto facile. Purtuttavia affermare frasi come “Dio perdona, io no!” vuol dire
chiudersi e non voler cambiare, rifiutando così il perdono stesso di Dio.

Perdonare e dimenticare
Questi due verbi indicano la stessa cosa? Quale dei due viene prima nel
processo del perdono?
Se io dimenticassi i torti subiti prima di perdonarli in cosa consisterebbe il mio
perdono? Come farei a perdonare qualcosa che non ricordo? O qualcosa che
decido di cancellare dalla mia memoria proprio perchè mi fa ancora male?
Se invece io riesco ad affrontare le situazioni difficili e a perdonare coloro che
mi hanno offeso, allora dimenticare assumerà un senso diverso: indicherà la
guarigione della ferita interiore causata dal torto subito.
A questo proposito è utile leggere questa versione di un ipotetico incontro tra
Abele e Caino dopo che entrambi sono morti:

Abele e Caino si incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel


deserto e si riconobbero da lontano. Sedettero in terra, accesero il fuoco e
mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Alla
luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e,
lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse
perdonato il suo delitto.
Abele rispose: “Sei tu che mi hai ucciso o io ho ucciso te? Non ricordo più.
Stiamo qui, insieme, come prima”. Disse allora Caino: “Ora so che mi hai
perdonato davvero, perchè dimenticare è perdonare”.

Il perdono di Dio mi cambia e mi fa come lui; il mio perdonare cambia i miei


sentimenti, i miei rancori, i miei stessi ricordi e li tinge di nuovi colori. In
questo senso Abele aveva dimenticato l’omicidio di Caino; in questo senso il
servo malvagio avrebbe dovuto dire al secondo: “Quale debito? Io non ricordo”.
Perdono e non vendetta
La risposta di Gesù alla domanda di Pietro nel prologo è una risposta
“numerica” che vuol dire: sempre. Questo è evidente dalla sproporzione tra il
numero proposto da Pietro, sette, e quello contenuto nella risposta di Gesù, 490.
Il particolare numero però non è casuale; esso richiama ad un passo dell’antico
testamento dove Lamech, discendente di Caino, intona il suo famoso “canto
della spada”:

« Lamech disse alle mogli: "Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;


mogli di Lamech, porgete l'orecchio al mio dire.
Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura
e un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino,
ma Lamech settantasette!" »

Lamech inaugura la legge della vendetta smisurata, della violenza senza limiti
e sproporzionata: uccidere un ragazzo per un livido o uccidere un uomo per una
scalfittura. Usando gli stessi numeri nella sua risposta, Gesù contrappone a tale
legge quella del perdono senza confini: una regola paradossale che non misura
né i meriti né le colpe; una legge ancora più facile da seguire di quella proposta
da Pietro, che non aveva eliminato i confini del perdono ma li aveva solo
spostati un po’ più in la.

Perdono come respiro


Il prologo che abbiamo visto ha un parallelo nel vangelo di Luca (Lc 17, 3-4):
“E se il tuo fratello ha peccato contro di te sette volte al giorno, e sette volte
torna a te e ti dice: “mi pento”, perdonagli.”
Si parla quindi di perdono quotidiano. Se uniamo le settanta volte sette alle
ore di un giorno, facendo un po’ di conti risulterebbe che si dovrebbe perdonare
ogni tre minuti: il perdono appartiene allo stesso ritmo vitale dell’uomo;
inspirare ed espirare non devono avvenire senza che noi non abbiamo
perdonato. Questo è l’equilibrio, il ritmo della vita spirituale. E questo non ci
deve spaventare ma ci deve stimolare a fare attenzione al nostro agire
quotidiano verso il prossimo: si traduce in una vigilanza continua alla ricerca di
occasioni per perdonare.

Perdonare “di cuore”


Nella conclusione Matteo aggiunge: “Così anche il mio Padre celeste farà a
ciascuno di voi se non perdonerete “di cuore” al vostro fratello”.
Di cuore vuol dire che il perdono deve partire da una convinzione e decisione
interne, deve essere la conseguenza di un cuore che ama di un amore simile a
quello di Gesù, deve nascere dalla consapevolezza della propria piccolezza
dinanzi a Dio e deve puntare a farmi prossimo del fratello che, avendo
sbagliato, ha bisogno della mia prossimità.
Ma quale potrebbe essere allora il perdono “non di cuore?”
Si può perdonare “per forza”, costretti cioè da quella che noi consideriamo
un’ulteriore legge di comportamento: “purtroppo Gesù ci ha detto di
perdonare altrimenti...”;
Oppure si può perdonare per non avere problemi, quello che si chiama il
perdonismo: perdonare per quieto vivere.
Oppure ancora si può perdonare per esercitare o accumulare potere, come
accade quando i politici concedono la grazia per ottenere consensi, o come nel
caso del comandante del campo di concentramento in Schindler’s list, il quale
iniziò a perdonare qualche detenuto per mostrare il suo immenso potere: “va’,
io ti perdono (perchè sono talmente potente da poter fare addirittura questo)”.

Conclusione

Per riuscire ad introdurci in questo mistero del perdono predicato e


testimoniato da Gesù, la parabola che abbiamo visto oggi ci invita a ricordare
che abbiamo alle spalle un dono infinito. Infatti la vita stessa è dono di Dio; la
nostra stessa esistenza, il fatto di poter dire “io”, è una conseguenza dell’attività
instancabile di un Dio che dona sempre. Ogni respiro è dono di Dio e non è
scontato; ringraziare Dio per tutto ciò è il modo più efficace di ricordarlo. Se a
tutto questo aggiungiamo ciò che San Paolo afferma nella lettera ai Romani:
“tutti sono stati giustificati gratuitamente in virtù della redenzione realizzata
da Gesù Cristo” (Rm 3,23-24), ci rendiamo conto che, non potendo mai riuscire
a meritare una tale redenzione, il condono che abbiamo ricevuto è
spropositamente più grande di qualsiasi cosa ci dovessimo trovare a perdonare.
Ancora una volta, la libertà che Dio ci ha concesso in virtù del suo immenso
amore, fa sì che tale condono può essere reso inefficace se noi non ci lasciamo
cambiare, non ci convertiamo e non impariamo a perdonare a nostra volta.

Domande
 Hai mai considerato tutto ciò che gratuitamente Dio ti ha donato?

 Quante volte hai avuto la sensazione di aver tagliato via la prima scena?

 Hai mai sentito forte la difficoltà di perdonare?

 Hai mai sentito forte la necessità di perdonare?

 Cosa hai provato quando sei riuscito a perdonare veramente?

 Prova a identificarti col primo servo: ti riconosci almeo un po’?

 Ti piacerebbe riuscire a perdonare anche ciò che ancora non riesci a

perdonare?

Ciao a tutti; vi ricordo che il prossimo incontro si terrà mercoledì 13


dicembre..... pace e bene.

Fra Lorenzo

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