Sei sulla pagina 1di 479

UNIVERSITÀ DI CATANIA

FACOLTÀ DI INGEGNERIA

IMPIANTI TERMOTECNICI
VOLUME TERZO

RETI DI DISTRIBUZIONE DELL’ACQUA E L’ARIA


CIRCOLAZIONE DEI FLUIDI BIFASE
STABILITA’ DEI TUBI BOLLITORI
RETI DI DISTRIBUZIONE DEL VAPORE
RETI DI DISTRIBUZIONE DELL’ARIA COMPRESSA
COGENERAZIO E TRIGENERAZIONE
IMPIANTI ANTINCENDIO
DICHIARAZIONE ISPESL
RUMORE NEGLI IMPIANTI MECCANICI

PROF. ING. GIULIANO CAMMARATA


DIPARTIMENTO DI INGEGNERIA INDUSTRIALE E MECCANICA
SEZIONE DI ENERGETICA INDUSTRIALE ED AMBIENTALE

UNIVERSITÀ DI CATANIA
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL. 3° 1

AGGIORNAMENTO DEL 10/06/2007

FILE: IMPIANTI TERMOTECNICI - VOLUME 3.DOC


AUTORE: GIULIANO CAMMARATA
DATA: 10 GIUGNO 2007

www.gcammarata.net
cammaratagiuliano@tin.it
gcamma@diim.unict.it

La riproduzione a scopi didattici di quest’opera è libera da parte degli Studenti purché non siano
cancellati i riferimenti all’Autore sopra indicati. Non sono consentiti usi commerciali di alcun genere
senza il consenso dell’Autore
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 1

1. DIMENSIONAMENTO DELLE RETI PER L’ACQUA E L’ARIA


Il moto dei fluidi1 ha grande importanza non solamente nell’ambito degli Impianti Termotecnici.
I fluidi sono capaci di modificare la loro forma e sono suddivisi in liquidi e in aeriformi. Il moto
dei fluidi ed il loro comportamento sono soggetti a specifiche leggi fisiche. Si vuole qui approfondire
maggiormente la problematica relativa al moto dei fluidi e alle reti di condotti. Si generalizzerà la
trattazione al caso generico di fluidi perché è importante conoscere sia il comportamento dei liquidi
che quello degli aeriformi.
Ad esempio nell’ambito dell’impiantistica civile si hanno reti per il trasporto di acqua (calda e/o
fredda) per gli impianti idrotermici come anche reti per il trasporto di aria (vedansi gli impianti di
climatizzazione ad aria) che reti di gas tecnologici in genere (ad esempio di gas medicali per gli ospedali). Dopo
avere ripreso i concetti fondamentali di Fluidodinamica già visti, per altro, in Fisica Tecnica, si
approfondiranno gli aspetti progetti delle reti tecnologiche, cioè di quelle reti di distribuzione di fluidi
di lavoro (acqua, aria, vapore, aria compressa, gas medicali, …….) funzionali agli impianti ai quali sono
asservite.
Una rete di distribuzione di acqua sanitaria o non tecnologica in genere non produce
malfunzionamenti negli impianti nei quali sono inserite: in pratica se da un rubinetto sanitario esce una
portata di acqua fredda o calda maggiore o minore di quella nominale di progetto non succede nulla se
non un possibile disturbo dell’Utente. Se una rete tecnologica fallisce il suo obiettivo allora tutto
l’impianto ne risente. Ad esempio se ad un radiatore arriva una portata di acqua calda minore di quella
di progetto allora (ricordando la relazione Q = mc ɺ p ∆T ) esso cede all’ambiente una quantità di calore
minore e quindi in quest’ultimo non si raggiungeranno le condizioni termo-igrometriche di progetto.
1.1 CARATTERISTICHE TERMOFLUIDODINAMICHE
Un fluido è caratterizzato da alcune caratteristiche termofisiche e fluidodinamiche che qui
brevemente si cercherà di richiamare. Intanto alcuni di questi parametri sono già noti dallo studio della
Termodinamica.
1.1.1 CARATTERISTICHE ELASTO -TERMOMETRICHE
Fra le caratteristiche elastiche si ricorda:
⋅ v volume specifico, [m³/kg];
⋅ ρ massa specifica (detta anche densità) con ρ=1/v, [kg/m³];
Fra le caratteristiche termometriche:
⋅ cp calore specifico a pressione costante, [kJ/kg];
⋅ cv calore specifico a volume costante, [kJ/kg];
⋅ k rapporto di adiabacità k =cp/cv;
1  ∂v 
⋅ β coefficiente di dilatazione isobaro, β =  -1
 , [K ].
v  ∂T  p

1.1.2 CARATTERISTICHE FLUIDODINAMICHE


Fra le caratteristiche più importanti vi è la viscosità di un fluido che caratterizza l’attitudine che
esso ha a non cambiare il suo stato di quiete o di moto. Si consideri la situazione di Figura 1 ove una
superficie S è fatta scorrere con velocità w rispetto ad un piano fisso.
La distribuzione della velocità è triangolare, come indicato in Figura 1. Newton ha mostrato che
la forza da applicare per mantenere le condizioni di moto è:

1 Questo Capitolo è quasi del tutto ripreso dal corso di Fisica Tecnica ed è qui riportato per comodità degli Allievi.

Si sono integrati i paragrafi progettuali anche alla luce di quanto emerso sin qui dai capitoli precedenti. Anche le
conoscenza di Meccanica dei Fluidi possono risultare utili all’Allievo specialmente per gli aspetti matematici che in questa
sede sono necessariamente ridotti.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 2

dw
F =µ S [1]
dy
Il coefficiente µ è una proprietà del fluido e prende il nome di viscosità dinamica. Le sue unità di
misura sono [Ns/m²] o anche [Pa.s]. Osservando la distribuzione della velocità si può anche dire che
ogni strato del fluido agisce n modo da rallentare lo strato più veloce che lo sovrasta e da velocizzare
lo strato più lento sottostante. La relazione di Newton può anche scriversi in una forma opportuna:
F
τ = = µ ⋅ grad ( w )

[2]
S
e quindi lo sforzo tangenziale τ che ogni strato esercita è funzione del gradiente trasversale di
velocità e quindi è tanto maggiore quanto maggiore è la variazione di velocità imposta.

dw
y
F=µ S
Piano mobile dy
Distribuzione di velocità

w Forza da applicare

x
Piano Fisso

Figura 1: Moto di Couette fra due piani paralleli


Se µ si mantiene costante con il gradiente il fluido si dice newtoniano. Nella realtà si hanno quasi
sempre fluidi non newtoniani (fanghi, acque nere, acque reflue,…) il cui studio risulta molto
complesso e al di fuori dei limiti di questo corso.
τ

icie
ntifr
de
ste
Pa )
tico
p las
po ia n
i
co r ton
ia ni ( ew
t on n
τo on new Flu
idi
n
idi
Flu

dw/dy
Figura 2: Diagramma sforzo – scorrimento per i fluidi
In Figura 2 si ha l’andamento tipico di alcune varietà di fluidi reali. Il fluido newtoniano è
rappresentato da una retta con inclinazione costante.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 3

Gli altri fluidi hanno µ variabile con dw/dy = grad(w) e possono essere di diverso tipo (corpi
plastici, tipici delle acque nere). Si hanno anche fluidi con uno sforzo iniziale τ0 residuo, come avviene,
ad esempio per alcuni fluidi usati nell’industria o anche per le paste dentifrice per le quali occorre uno
sforzo iniziale prima che avvenga il moto.
Lo studio dei fluidi non newtoniani, invero assai complesso, esula dal presente corso. Gli allievi
possono trovare notizie utili nei testi di reologia. Viene spesso utilizzata un’altra grandezza
fluidodinamica importante detta viscosità cinematica (o anche diffusività meccanica) definita dal rapporto:
µ
ν= [3]
ρ
Le unità di misura di ν sono quelle di una velocità aereolare [m²/s]. Per l’acqua (fluido di lavoro
fra i più importanti nell’impiantistica, specialmente negli impianti di riscaldamento e di
condizionamento) si ha la seguente tabella di riferimento:
Temperatura (°C) Viscosità cinematica Viscosità cinematica Massa volumica (kg/m³)
(m²/s) (cSt)
0 1.79⋅10-6 1.79 999.8
5 1.52⋅10-6 1.52 999.7
10 1.31⋅10-6 1.31 999.6
15 1.14⋅10-6 1.14 999.4
20 1.01⋅10-6 1.01 998.2
30 0.80⋅10-6 0.806 995.4
40 0.65⋅10-6 0.65 992.0
50 0.56⋅10-6 0.56 987.7
60 0.48⋅10-6 0.48 983.0
70 0.42⋅10-6 0.42 977.2
80 0.37⋅10-6 0.37 972.0
90 0.33⋅10-6 0.33 964.6
100 0.30⋅10-6 0.30 958.0
Tabella 1: Valori termofisici per l’acqua
1.2 REGIMI DI MOTO
Il moto dei fluidi può avvenire in due regimi fondamentali2 detti:
⋅ Laminare: quando gli strati di fluido si muovono gli uni parallelamente agli altri. Il moto è
ordinato e non si hanno oscillazioni interne. Se iniettassimo getti di inchiostro colorato a varie
altezza questi scorrerebbero parallelamente senza mescolamenti.
⋅ Turbolento: quando le particelle di fluido sono dotate di moto casuale e pertanto si ha
mescolamento fra gli strati di fluido. I getti di inchiostro a varie altezze si mescolerebbero
rapidamente fra loro per la vorticosità del moto. Il moto turbolento è quindi un moto disordinato.

2 Questo è vero per fluidi monofase mentre per i fluidi bifase o multifase in genere si hanno molteplici regimi di

moto (a nebbia, a tappi, anulare, …). Si tralascia questa trattazione considerata la finalità del presente corso.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 4

Vi è anche un terzo regime di moto, detto di transizione e che corrisponde ad un regime non
definito che porta il fluido a passare, in modo alternato, dal regime laminare a quello turbolento e
viceversa.
Questo regime è fortemente dissipativo ed è opportuno evitarlo nelle applicazioni
impiantistiche. Un modo per caratterizzare il regime di moto è di verificare il Numero di Reynolds.
Questo, infatti, è definito, come più volte detto anche nei capitoli precedenti, dal rapporto:
ρ wd ρ w2 Forze di inerzia
Re = = ∩
µ µ
w Forze vis cos e
d
Pertanto se il Numero di Reynolds è elevato (rispetto ad un valore limite caratteristico del tipo
di moto, come si vedrà fra poco) allora prevalgono le forze di inerzia (proporzionali a ρw²) ed il moto
è turbolento. Se, invece, Re è piccolo (sempre rispetto al valore limite) allora prevalgono le forze
viscose (proporzionali al µw/d per la [1]) e il moto è laminare. Vedremo fra poco i valori limiti di
riferimento per i regimi di moto.
1.2.1 STRATI LIMITI DINAMICI
Il moto dei fluidi a contatto con le pareti generano un fenomeno molto interessante detto strato
limite dinamico. Se si osserva la seguente Figura 3 si ha alla sinistra una corrente di fluido indisturbata
con distribuzione costante della velocità.
Non appena il fluido tocca la parete fissa i primi strati molecolari del fluido aderiscono ad essa
fermandosi.

C o rr e n t e f lu id a in d is t r u b a t a
W w w w

o
en t
b ol
tur
it e
li m
a to
S tr

Z o n a d i e ffe tto
re d e ll a p a r e t e
it e l a m i n a
S t ra t o li m

P A R E T E F IS S A S u b s t r a to l a m i n a r e

Figura 3: Formazione dello strato limite dinamico


L’azione di aderenza viene esercitata, tramite la viscosità dinamica, anche agli strati soprastanti
che, pur non arrestandosi del tutto, vengono rallentati. La distribuzione di velocità cambia, come si
può osservare nella stessa Figura 3: solo al di sopra della zona tratteggiata il diagramma è ancora
invariato mentre al di sotto della zona tratteggiata la velocità varia da zero (alla parete) fino al 99%
della velocità indisturbata.
La zona ove il disturbo è manifesto e la velocità varia al di sotto del 99% del valore iniziale viene
detta strato limine dinamico. Essa caratterizza l’azione di attrito e quindi di modifica del profilo iniziale
della velocità del fluido.
Se le condizioni iniziali sono tipiche del regime laminare lo strato limite è detto laminare
altrimenti è detto turbolento. Si osserva, però, che anche se lo strato limite è turbolento si ha sempre,
nelle immediate vicinanze della parete, uno strato limite detto sublaminare nel quale è forte l’azione di
attrito della parete e in esso il regime di moto è tipicamente laminare. Lo spessore, δ, dello strato
limite dinamico per il caso dello strato piano si dimostra essere proporzionale alla distanza dal bordo
di attacco e inversamente proporzionale al numero di Reynolds secondo la relazione:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 5

x
δ = 4.92 [4]
Re
Il valore limite caratteristico per il passaggio dal regime laminare a quello turbolento è Re=5 .105,
pertanto per valori inferiori ad esso si ha il regime laminare mentre per valori superiori si ha il regime
turbolento. Un fenomeno analogo si ha nel moto all’interno dei condotti. In questo caso il moto è
confinato superiormente dalle pareti del condotto e quindi lo spessore δ non può crescere
indefinitamente perché si ha il congiungimento sull’asse degli strati limiti generati da pareti opposte.
In Figura 4 si ha una presentazione schematica del fenomeno. Come si vede a partire da un
certo punto lo strato limite dinamico raggiunge l’asse del condotto. A partire da questo punto il
profilo di velocità si stabilizza. In figura sono anche rappresentate le zone laminari e quelle turbolente.
La lunghezza di imbocco può essere stimata pari a 70 diametri. Per condotti inferiori o comparabili con
questa lunghezza (tubi corti) si hanno notevoli perdite per attrito (vedi §1.4.1) e quindi è opportuno
evitarli. Il regime di moto è laminare, nei condotti circolari o ad essi assimilabili, per Re<2300.

Z o n a la m in a r e Z o n a t u r b o le n t a

w w w

L u n g h e z z a d i im b o c c o

Figura 4: Lunghezza di imbocco nei condotti.


Diviene turbolento per Re>2900. Nell’intervallo 2300 < Re < 2900 il moto si dice di transizione
e, come già accennato, è opportuno evitarlo perché fortemente dissipativo.
1.3 LEGGI FONDAMENTALI DELLA FLUIDODINAMICA
Scriviamo subito alcune equazioni valide in generale per il moto di qualunque fluido. Si è già
parlato di questo argomento in Termodinamica Applicata ma si vuole qui presentare in forma organica
l’apparato matematico-fisico3 che interessa le applicazioni delle quali si parlerà in seguito.
1.3.1 EQUAZIONE DELL’ENERGIA PER I SISTEMI APERTI STAZIONARI
Abbiamo già scritto l’equazione dell’energia in regime stazionario per i sistemi aperti che qui si
ripete per comodità:
w22 − w12
+ g ( z2 − z1 ) + h2 − h1 = q − l [5]
2
Possiamo scrivere ancora la stessa equazione nella forma:
w2 w2
h2 + 2 + gz2 = h1 + 1 + gz1 + q − l [6]
2 2

3 In questa breve introduzione si tralasciano le equazioni costitutive di Navier Stokes alle quali si rimanda per uno

studio più approfondito dell’argomento.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 6

Pertanto la metalpia4 o entalpia totale nella sezione di uscita 2 è pari alla somma della metalpia nella
sezione di ingresso 1 più la somma algebrica (riferita alla convenzione dei segni per la Termodinamica)
della quantità di calore e di lavoro scambiati per kg di fluido fra le due sezioni. Ciò, evidentemente,
esprime in parole diverse il Primo Principio della Termodinamica o di Conservazione dell’energia.
Qualora si desideri riferire la [5] ad una portata mɺ si ha, per estensione diretta:
 w22 − w12 
mɺ  + g ( z2 − z1 ) + h2 − h1  = mɺ (q − l ) = Qɺ − Lɺ [7]
 2 
ove è:
⋅ ɺ = Qɺ
mq il flusso termico totale scambiato, [W];
⋅ ɺ = Lɺ
ml il lavoro totale effettuato, positivo se fatto dal fluido, [W].
L’equazione [7] è ancora il Primo Principio scritto in forma globale (regime stazionario).
1.3.2 EQUAZIONE DI BERNOULLI PER I SISTEMI APERTI STAZIONARI
L’equazione dell’energia [7] si può scrivere in una nuova forma che utilizza solamente termini
meccanici e detta equazione di Bernoulli.
Infatti se si ricorda che vale l’equazione:
2
q = ∆h − ∫ vdp [8]
1

allora la [7] diviene:


w22 − w12
+ g ( z2 − z1 ) + h2 − h1 = h2 − h1 − ∫ vdp − l
2

2 1

da cui: [9]
w −w
2 2
+ g ( z2 − z1 ) + ∫ vdp + l = 0
2
2 1

2 1

Il lavoro l può ancora essere espresso, per comodità di calcolo, come somma del lavoro motore e
del lavoro resistente:
l = lm + lr [10]
e pertanto si ha:
w22 − w12
+ g ( z2 − z1 ) + ∫ vdp + lm + lr = 0
2
[11]
2 1

In questa equazione il lavoro motore è quello effettuato nel tratti 1-2 del condotto considerato
ed analogamente lr è il lavoro resistivo (sempre presente) nello stesso tratto di condotto.
Per fluidi incompressibili (quali l’acqua o anche gli aeriformi a velocità piccole rispetto alla
celerità del suono5 e in gran parte delle applicazioni si è certamente in queste condizioni) la precedente
relazione si può scrivere in forma più diretta, risolvendo l’integrale che dipende dalla trasformazione
che qui si suppone a v = costante:

w2
4 Si definisce metalpia, o anche entalpia totale, la somma dei termini energetici h + + gz . Nel caso di condotto
2
isolato che non scambia lavoro e calore essa rimane costante.

5 Si dimostra (vedi Fluidi comprimibili) che la celerità del suono è data dalla relazione c= FH ∂p ∂ρIK = kRT
s
per i gas a comportamento ideale. Se un gas si muove a velocità elevate (>0.1c) gli effetti della variazione di pressione
comportano anche sensibili effetti nella variazione della densità ρ (o del volume specifico v) che non possono essere
trascurati. La Gasdinamica si occupa di questo tipo di fluidi detti compressibili e che trovano grande riscontro in Aeronautica ed
Astronautica.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 7

w22 − w12
+ g ( z2 − z1 ) + v( p2 − p1 ) + lm + lr = 0 [12]
2
L’equazione [12] diviene:
w22 w12
p2 v2 + + gz2 = p1v1 + + gz1 − lm − lr [13]
2 2
w2
In Idraulica si definisce piezometrica la somma pv + + gz ; quest’ultima, sempre a condotto
2
isolato, si mantiene invariata passando dalla sezione 1 alla sezione 2 per un fluido ideale (resistenze
interne nulle) mentre per un fluido reale viene diminuita del lavoro complessivamente svolto nel tratto
di condotto.
L’applicazione delle precedenti equazioni [12] e [13] richiede che ci si riferisca ad un tubo di flusso
di sezione molto piccola in modo che si possa parlare, senza commettere errore, di un’unica velocità,
un unico volume specifico, di una sola quota e proprietà termofisiche costanti nella sezione di
condotto considerata.
Se, invece, la sezione del condotto è molto grande allora le variazioni dei parametri sono
significative ed occorre riscrivere le precedenti equazioni in forma differenziale e poi integrate
all’intera sezione. In forma differenziale si ha, per l’equazione dell’energia:
wdw + gdz + dh = dq − dl [14]
e ancora:
wdw + gdz + vdp + dlm + dlr = 0 [15]
Si vuole qui osservare che le due equazioni [14] e [15] sono solo apparentemente diverse: in
realtà esse esprimono sempre il principio di Conservazione dell’energia già citato.
Nell’equazione dell’energia [14] si hanno forme energetiche anche termiche mentre
nell’equazione di Bernoulli [15] si hanno solo forme energetiche meccaniche. Ma l’equazione [8] lega
le due forme di energia e pertanto solo apparentemente nella [9] si hanno termini meccanici poiché nel
lavoro è anche presente il calore scambiato (anche per attrito visto che lr degrada in calore e si
trasforma internamente al fluido in energia interna). In alcuni casi può essere utile vedere l’equazione di
Bernoulli [12] in modo diverso per esaltarne alcune caratteristiche fisiche. Ad esempio se dividiamo
per l’accelerazione di gravità g tutti i termini dell’equazione [11] si ottiene:
w22 − w12 2 v l l
+ ( z2 − z1 ) + ∫ dp + m + r = 0 [16]
2g 1 g g g
Si osservi che ogni termine della [16] espresso nel S.I. è omogeneo a ad un’altezza e quindi si
esprime in metri . Si tenga ancora presente che nella [16] si ha:
v 1 1
= = [17]
g ρg γ
ove γ è il peso specifico del fluido (N/m³).
Per la loro caratteristica unità di misura la precedente equazione è detta equazione delle altezze e i
singoli termini sono detti:
⋅ z2-z1 altezza geometrica;
w22 − w12
⋅ altezza dinamica;
2g
2 v
⋅ ∫1 g dp altezza di pressione

lr
⋅ = ∆zr altezza di perdita di carico per attrito.
g
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 8

Qualche volta è anche comodo scrivere l’equazione di Bernoulli [12] in termini di pressione:
w2 w2
p2 + ρ 2 + g ρ z2 = p1 + ρ 1 + g ρ z1 − ρ lm − ρ lr [18]
2 2
In questo caso ogni termine della [18] è omogeneo ad una pressione e quindi si esprime in
termini di Pascal ([Pa]=[N/m²]). Dalla [18] si può ancora ricavare un’interessante espressione molto
utile nelle applicazioni future:
w12 − w22
p2 − p1 = ρ + g ρ ( z1 − z2 ) − ∆pm − ∆pr [19]
2
Quindi la differenza di pressione (primo membro) è dovuta alla somma di tre effetti: la caduta
cinetica più la caduta gravimetrica più la caduta per lavoro (motore e resistivo).
Data l’arbitrarietà nello scegliere le sezioni 1 e 2 si può fare in modo che il lavoro motore non
sia presente nel bilancio [18] e pertanto possiamo scrivere che la caduta di pressione in un tratto di
condotto è data dalla relazione:
w2 − w12
p1 − p2 = ρ 2 + g ρ ( z2 − z1 ) + ∆pr [20]
2
1.4 LE PERDITE DI PRESSIONE PER ATTRITO
Le perdite per attrito sono dovute essenzialmente a due cause: le perdite per attrito distribuito
(dovute all’interazione fra fluido e pareti) e perdite per attrito concentrato (dovute a bruschi cambiamenti di
direzione o per la presenza di ostruzioni lungo tratti molto piccoli di condotto).
1.4.1 PERDITE PER ATTRITO DISTRIBUITO
Per calcolare ∆pr per attrito distribuito occorre utilizzare la relazione di Weissbach -Darcy:
l w2
∆pa = ξ ρ [21]
d 2
ove ξ è detto fattore di attrito distribuito. La [21] ci dice che le perdite distribuite sono direttamente
proporzionali alla lunghezza del condotto e all’energia cinetica per unità di volume e sono
inversamente proporzionali al diametro del condotto. Il fattore di attrito è funzione dai seguenti
parametri:
ξ = ξ ( ρ , w, d , µ , e ) [22]
ove:
⋅ ρ è la densità del fluido, [kg/m³];
⋅ w è la velocità del fluido, [m/s];
⋅ d è il diametro del condotto, [m];
⋅ µ è la viscosità dinamica del fluido, [kg.s/m²];
⋅ e è la scabrezza assoluta, [m].
La scabrezza assoluta è l’altezza delle singole asperità superficiali presenti nel condotto.
Esse sono sempre presenti, qualunque sia il grado di finitura superficiale del condotto; in alcuni
casi, tubi per impiantistica in genere, si hanno valori assoluti molto piccoli tanto da far ritenere questi
condotti come lisci, cioè privi di asperità. E’ comunque una semplificazione di calcolo.
Applicando il Teorema di Buckingam6 alla [22], assumendo come unità fondamentali [M,L,T] e
ipotizzando una funzione monomia7 del tipo:

6 L’analisi adimensionale qui presentata è una semplificazione della trattazione generale tramite le equazioni di
Navier Stokes già vista nel corso di Trasmissione del Calore. Quanto qui presentato vuole essere un rapido richiamo ed una
presentazione di un nuovo punto di vista semplificato.
7 Si ricordi che la dipendenza di tipo monomiale non è necessaria ma viene qui ipotizzata per semplificare la

trattazione.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 9

ξ = C ⋅ ρ a wb d c µ f e g [23]
con le dimensioni:
[ρ]=[ML-3]
[w]=[LT-1];
[d]=[L];
[e]=[L]
[µ]=[ML-1T-1]
[ξ]=[1]
si perviene alla seguente equazione di omogeneità dimensionale
[1] = C  ML−3   LT −1  [ L ]  ML−1T −1  [ L]
a b c f g
[24]

da cui deriva il sistema:


0 = a + f Per M

0 = −3a + b + c − f + g Per L
0 = −b − f Per T

Si hanno 5 incognite e 3 equazioni indipendenti (minore caratteristico pari a 3) e quindi si
possono avere infinito elevato a 5-3=2 soluzioni.
Scelte due variabili indipendenti e risolvendo il sistema si trova che la [23] diviene:
m
 ρ wd   e 
n

ξ =C    [25]
 µ  d 
I gruppi dimensionali sono, quindi:
ρ wd wd
Re = = Numero di Reynolds;
µ ν
e
ε= scabrezza relativa.
d
Possiamo scrivere la [25] nella forma:
ξ = C ⋅ Re m ⋅ ε n [26]
Una relazione che rispetta il legame funzionale della [26] è la relazione esplicita di Haaland:
1  ε 1.11 6.9 
= −1.8log   +  [27]
ξ  3.7 d  Re 
Per tubi lisci si può utilizzare la relazione di Weissbach:
ξ = 0.184 ⋅ Re −0.2 [28]

valida per 2 ⋅104 < Re < 3 ⋅105 . Un’altra relazione valida per tubi lisci è quella di Blasius8:
ξ = 0.316 Re −0.25 [29]

valida per 104 < Re < 5 ⋅105 .


Il calcolo del fattore di attrito ξ può agevolmente essere effettuato utilizzando l’abaco di Moody
riportato nella Figura 5. In esso abbiamo in ascissa il numero di Reynolds (Re), in coordinate
logaritmiche, e in ordinate il fattore di attrito ξ.
Nella zona relativa al regime laminare (Re<2300) si dimostra essere (regime di Poiselle):

8 Per acqua a 70 °C si ha la comoda relazione:


Re = 2385 w d
Con velocità espressa in m/s e il diametro interno del condotto in mm.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 10

64
ξ= [30]
Re
e pertanto il fattore d’attrito non dipende dalla scabrezza relativa ε. Nella zona relativa al regime
turbolento (Re>2900) è ben visibile la dipendenza, oltre da Re, da ε. Tuttavia osservando le curve al
variare di ε si può notare che ξ non varia più con Re a partire da una certa ascissa per ogni valore della
scabrezza relativa. In effetti una curva trasversale ben indicata nella Figura 5 individua due zone: nella
prima (a sinistra) ξ varia sia con Re che con ε mentre nella seconda (a destra, detta anche regione di
turbolenza completa) ξ varia solo con ε. Dalla [21] si può ancora ricavare il lavoro perduto per attrito
distribuito dato da:
l w2
lrd = ξ [31]
d 2
le cui unità sono [J/kg] essendo sempre omogeneo ad un lavoro specifico.

Figura 5: Abaco di Moody


La scabrezza relativa indicata in Figura 5 dipende dal tipo di tubazione.
Materiale costituente la tubazione ε
Vetro 0,001÷0,002
PVC, PEAD, PP 0,002÷0,004
Rame, Ottone 0,004÷0,01
Alluminio 0,015÷0,05
Acciaio zincato 0,02÷0,03
Acciaio saldato nuovo 0,04÷0,1
Acciaio trafilato nuovo 0,2÷0,5
Acciaio incrostato e corroso 0,2÷1,0
Acciaio trafilato in uso 0,6÷1,2
Ghisa nuova 0,6÷1,2
Ghisa in uso 2÷4
Ghisa centrifugata in uso 2÷4
Ghisa in uso da vari anni 3,5÷6
Ghisa incrostata 6÷10
Tabella 2: Valori medi del coefficiente di scabrezza relativa
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 11

Ai fini delle applicazioni impiantistiche si fa spesso l’ipotesi che i tubi in ferro mannesmann, i
tubi zincati o in rame siano lisci e che pertanto valgano le relazioni ridotte di Weissbach [28] e di Blasius
[29] sopra descritte per il calcolo del fattore di attrito in regime turbolento. Per gli altri casi si
utilizzano le relazioni più complete e complesse quali la [27] di Colebrook:
1  2.51 ε 
= −2 Log  +  [32]
ξ  Re ξ 3.71d 
Questa relazione è data in forma implicita (cioè ξ è funzione di sé stessa) e richiede una risoluzione
numerica iterativa, contrariamente a quella di Haaland che è esplicita ma che fornisce un errore
inferiore al 3% (accettabilissimo nelle applicazioni pratiche). La relazione di Colebrook può essere utilizzata
anche per tubi lisci (ε=0) per regimi turbolenti con Re oltre 105÷106 (relazioni di Weissbach e Blasius). In
questo caso la relazione, ancora implicita, diviene (Prandtl – Von Karmann – Nikuradze):
1  2.51 
= −2 Log   [33]
ξ  Re ξ 
Nella zona di regime di transizione (cioè fra 2300 < Re < 2900) si applica ancora la relazione
implicita di Colebrook:
1  2.51 ε 
= −2 Log  + 
ξ  Re ξ 3.71d 
Qualora il regime di moto sia turbolento, detto anche regime idraulico sviluppato, cioè quando risulta:
200
Re > ξ
ε
d
allora si può porre:
1 ε
= −2 Log [34]
ξ 3.71d

e pertanto il fattore di attrito dipende solo dalla scabrezza relativa ε e non da Re.
1.4.2 PERDITE PER ATTRITO CONCENTRATO
Le perdite per attrito concentrato (dette anche perdite localizzate) sono espresse dalla relazione di
Darcy per il lavoro resistivo:
w2
lrc = c [35]
2
e per le perdite di pressione:
w2
∆pc = c ρ [36]
2
Il fattore c è detto di Darcy e varia in funzione del tipo di perdita localizzata esaminata. Spesso si
utilizza un modo diverso per esprimere lc o ∆pc ricorrendo al concetto di lunghezza equivalente. Si
suppone, infatti, di avere un tratto di condotto lungo l’ in modo da avere perdite distribuite pari alla
perdita localizzata che si desidera eguagliare, cioè si pone:
l ' w2 w2
ξ =c
d 2 2
dalla quale deriva:
d
l'=c [37]
ξ
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 12

e quindi la lunghezza equivalente è funzione del fattore di Darcy, del diametro del condotto e del
fattore di attrito. Nei manuali si hanno tabelle o nomogrammi che consentono di avere sia il fattore di
Darcy che la lunghezza equivalente. Nella Figura 6 si hanno alcune perdite per il fitting (raccorderia) per
le tubazioni utilizzate negli impianti idro-termo-sanitari.
Nella Figura 7 si hanno i fattori di perdita per alcuni tipi di valvolame utilizzato nello stesso tipo
di Impianti Termotecnici. Nella Figura 11 si hanno i fattori di Darcy e le lunghezze equivalenti per alcuni
componenti di Impianti Termotecnici. Nelle seguenti tabelle si hanno i valori più ricorrenti per
l’impiantistica di riscaldamento e condizionamento.
DIRAMAZIONI
Lungo il tronco che si dirama a T 1.5
Idem ma con angolo a 90° 0.75
Lungo il tronco che confluisce a T 1.0
Idem ma con angolo a 90° 0.5
Lungo i due tronchi con una doppia diramazione a T 3.0
Idem ma con curve di raccordo 2.0
Lungo i due tronchi con una doppia confluenza a T 3.0
Idem ma con curve di raccordo 2.0
Lungo la linea principale che non cambia sezione 0.0
Lungo la linea principale che cambia sezione 0.5
VARIAZIONI DI DIAMETRO
Restringimento brusco 0.5
Restringimento raccordato (valore medio) 0.35
Allargamento brusco 1.0
Allargamento raccordato (valore medio) 0.75
COMPONENTI
Radiatore 3.0
Caldaia 3.0
Piastra 4.5
Tabella 3: Valori sperimentali del fattore di Darcy per alcune perdite localizzate

RACCORDERIA E VALVOLAME D D D
8÷16 mm 18÷28 mm > 28 mm
Gomito a 90° 2.0 1.5 1.0
Curva a 90° normale 1.5 1.0 0.5
Curva a 90 ° larga 1.0 0.5 0.3
Doppio gomito a 180 ° 3.0 2.0 1.5
Curva a 180° normale 2.0 1.5 1.0
Saracinesca a passaggio pieno 0.2 0.2 0.1
Saracinesca a passaggio ridotto 1.2 1.0 0.8
Valvola inclinata a Y 4.5 4.0 3.5
Valvola a sfera a passaggio pieno 0.2 0.2 0.1
Valvola sfera a passaggio ridotto 1.5 1.0 0.8
Valvola a d angolo 4.0 4.0 3.0
Valvola di ritegno a Clapet 3.0 2.0 1.0
Valvola a farfalla 3.0 2.0 1.5
Valvola a tre vie 10.0 10.0 8.0
Valvola a quattro vie 6.0 6.0 4.0
Tabella 4: Valori del fattore di Darcy per la raccorderia e Valvolame
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 13

Si osservi come tali fattori dipendono anche dal diametro della tubazioni in cui tale resistenze concentrate
sono inserite. Di questo fatto si dovrà tener conto allorquando parleremo dei criteri per il
dimensionamento delle reti idriche per l’impiantistica. Analoghe tabelle si hanno per il moto dell’aria
nei canali di distribuzione.
Nella Figura 12 si hanno le perdite localizzate per una curva di un canale d’aria a sezione
rettangolare. Analogamente nella Figura 13 si hanno le perdite localizzate per una curva in canali a
sezione circolare. Nella Figura 14 e nella Figura 15 si hanno i fattori di perdita localizzata per varie
tipologie (curve, raccordi, separazioni, unioni, ….) per canali d’aria.
Si osservi come in alcuni casi si ha solamente i fattore di Darcy e in altri la sola lunghezza
equivalente (magari espressa in numero di diametri o di altra grandezza geometrica caratteristica del
canale) o in altri ancora entrambi i parametri.
1.4.3 TEOREMA DI BORDA – CARNOT
Fra le perdite concentrate rivestono particolare importanza le perdite di imbocco nel condotto e di
sbocco dal condotto. Si dimostra per allargamenti o restringimenti bruschi (teorema di Borda – Carnot) la
perdita di pressione vale:
( w2 − w1 )
2

∆p = ρ [38]
2
e quindi la perdita è data dalla variazione cinetica corrispondente alla variazione di sezione
considerata. Se il fluido è fermo in un recipiente allora w1 =0 e quindi risulta:
w2
∆pimbocco = ρ [39]
2
Analogamente se il fluido sbocca in un grande recipiente nel quale la velocità finale è nulla.
1.4.4 DIAMETRO EQUIVALENTE AI FINI DELLA PORTATA
Le relazioni finora riportate utilizzano il diametro del condotto quale elemento geometrico di
riferimento. Spesso, però, occorre utilizzare sezioni aventi geometria diversa e/o più complessa di
quella circolare. Ad esempio sono molto utilizzate le sezioni rettangolari per i canali d’aria o si
possono configurare geometrie più complesse negli scambiatori di calore (ad esempio a sezione
esagonale per meglio riempire una sezione di passaggio). Ci chiediamo allora se è possibile definire
una grandezza di riferimento per qualsivoglia geometria in modo da potere continuare ad utilizzare le
relazioni precedenti senza dover ricorrere a nuove riscritture e parzializzazioni. In effetti se ricordiamo
l’equazione di continuità (o di Leonardo) a regime stazionario per fluidi non compressibili:
mɺ = ρ ⋅ w ⋅ S [40]
possiamo dire che una equivalenza fra geometrie si ha sulla base del valore dell’area della
superficie della sezione di passaggio S. Per la sezione circolare (supposta tutta bagnata dal fluido di
passaggio) è possibile scrivere:
πd P
S= d= d [41]
4 4
dalla quale si può ricavare:
4⋅S
d= [42]
P
La [42] consente, allora, di esprimere il diametro equivalente di una qualsivoglia sezione nella forma:
4 ⋅ Sezione _ Passaggio
d equivalente = [43]
Contorno _ Bagnato
E’ bene che l’Allievo ricordi questa definizione e si abitui ad usarla nel modo indicato. Facciamo
qualche esempio. Se utilizziamo una sezione rettangolare di dimensioni a e b tutta bagnata dal fluido
allora il diametro equivalente è dato dalla relazione:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 14

4 ⋅ ( a ⋅ b) (a ⋅ b)
de = =2 [44]
2 ⋅(a + b) (a + b)
Se l’altezza a è piccola rispetto a b allora la [44] diviene:

de = 2
(a ⋅ b) ≅ 2 ⋅ a [45]
(a + b)
Pertanto il diametro equivalente è dato dalla somma delle due lati di dimensioni minori e le
perdite di pressione, per la [45], sono tanto maggiori quanto minore è l’altezza a. Segue da quanto
detto che utilizzare i canali a sezione rettangolare9 non è sempre del tutto equivalente rispetto all’uso dei
canali circolari.
1.4.5 DIAMETRO EQUIVALENTE AI FINI DELLA PERDITA DI PRESSIONE
Un concetto diverso si ha quando ci pone il problema di determinare il diametro equivalente non
più solamente a pari portata di fluido bensì anche a pari perdita di pressione. Lo sviluppo analitico è più
complesso di quanto visto nel paragrafo precedente. Con riferimento alle geometrie circolari e
rettangolari si perviene alla seguente relazione analitica:
(a ⋅b)
0.625

d '
= 1.3 [46]
(a + b)
e 0.250

con dimensioni tute espresse, come si è soliti fare nelle applicazioni impiantistiche, in mm. Si fa
osservare che, a parità di portata e di perdita di pressione, anche in conseguenza della [21], la velocità
nel canale rettangolare è inferiore rispetto a quella che avrebbe nel canale a sezione circolare e quindi
la sezione del canale rettangolare equivalente deve essere maggiore di quella del canale circolare. Nei
manuali specializzati è possibile avere la [46] anche sotto forma tabellare, come riportato nella Tabella
9 e nella Figura 33.
1.5 DIMENSIONAMENTO DELLE RETI DI CONDOTTI
Quanto sin qui esaminato consente di affrontare il problema di progettare le reti di condotti. E’
questo un problema importante sia per l’impiantistica termotecnica (riscaldamento e
condizionamento) che per quella idrica (sia per acqua fredda che calda di consumo) e antincendio.
Progettare una rete vuol dire, sostanzialmente, determinare i diametri dei condotti che la
compongono visto che le loro lunghezze sono, quasi sempre, un problema geometrico imposto dalla
configurazione di impianto. Il problema presenta aspetti diversi a seconda che si abbiano circuiti aperti
o circuiti chiusi.
1.5.1 COLLEGAMENTO IN SERIE DEI CONDOTTI
Si ha un collegamento in serie quando la portata di fluido che attraversa i condotti è sempre la
stessa, come indicato in Figura 16.
Ciascuno dei condotti ha suoi parametri: diametro, velocità e fattori di attrito (distribuito e
localizzato). Se indichiamo con lt1 ed lt2 le lunghezze totali somma di quelle reali (responsabili delle
perdite per attrito distribuito) e quelle equivalenti di tutte le resistenze localizzate presenti in ciascun
condotto, allora possiamo applicare la [31] e scrivere10:

9 I canali circolari sono quelli che hanno perdite di pressione minore, a parità di portata, rispetto a qualsivoglia
altra geometria. Purtroppo non è agevole sistema questi canali all’interno delle abitazioni poiché si verrebbe ad abbassare
notevolmente l’altezza utile dei vani ove questi canali passano. Si utilizzano, quindi, le sezioni rettangolari che presentano il
grosso vantaggio di potere fissare liberamente l’altezza e quindi di ridurre l’inconveniente sopra indicato. Ad esempio una
sezione rettangolare di 300x1200 mm equivale ad una sezione circolare di 480 mm: si vede bene come l’abbassamento di
un eventuale controsoffitto ponga minori problemi con il canale rettangolare che non con quello circolare.
10 Si ricordi che l=∆p.v e pertanto risulta ∆p=l.ρ.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 15

 lt1 w12 lt 2 w2 
2

∆ptotale = ∆pt1 + ∆pt 2 =  ξ1 + ξ2 ρ [47]


 d1 2 d2 2 

Possiamo scrivere diversamente la [47] esprimendo la velocità in funzione della portata


mediante l’equazione di continuità [40]. Infatti si ha:
πd2
mɺ = ρ ⋅ w ⋅ S = ρ w [48]
4
da cui deriva:
4 mɺ
w= mɺ = k 2 [49]
πρ d 2
d

ove k indica un valore costante 4


πρ caratteristico del fluido che scorre nel condotto.

Figura 6: Perdite localizzate per la raccorderia delle tubazioni


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 16

Figura 7: Perdite localizzate per alcuni tipi di valvole per tubazioni

Figura 8: Lunghezze equivalenti di alcune resistenze localizzate


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 17

Figura 9: Lunghezze equivalenti di alcuni tipi di valvole

Figura 10: Lunghezze equivalenti per bruschi allargamenti o restringimenti


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 18

Figura 11: Perdite localizzate in alcuni componenti di impianto


Tenendo conto della [49] la [47] diviene:
 l 1 l 1 
∆ptotale = ∆pt1 + ∆pt 2 =  ξ1 t1 4
+ ξ2 t 2 4 
k ⋅ ρ ⋅ mɺ 2
 d1 2 d1 d 2 2 d 2 

che possiamo ancora ordinare nella forma:


∆ptotale = ( R1 + R2 )k ⋅ ρ ⋅ mɺ 2 [50]
avendo indicata con resistenza totale fluidodinamica di ciascun tratto l’espressione:
l
R = Kξ t5 [51]
d
dipendente solamente dai parametri fluidodinamici del tratto di condotto considerato. In K sono
inglobati tutti i valori costanti numerici. Si conclude che per condotti in serie di sommano le resistenze
fluidodinamiche di ciascun tratto.
1.5.2 COLLEGAMENTO IN PARALLELO DEI CONDOTTI
Si ha un collegamento in parallelo quando i vari rami partono e arrivano tutti negli stessi punti e
pertanto quando la caduta di pressione ai loro estremi è costante, come indicato in Figura 17.
Adesso la portata entrante in A si divide in due: mɺ 1 ed mɺ 2 . L’elemento comune ai due tronchi è
la differenza di pressione pA-pB .Sempre applicando la [40] e la [21] si può scrivere:
2
l  mɺ  l
∆p = ξ ⋅  k 2  ρ = K 5 mɺ 2 [52]
d  d  d
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 19

Tabella 5: Calcolo rapido delle resistenze localizzate


Allora la portata totale diviene:
 d5 d 25 
mɺ = mɺ 1 + mɺ 2 = ∆p  1
Y + Y2  = ∆p ( A1 + A2 ) [53]
 l1 1 l2 
 
ove nella [53] si sono indicate con A le aperture equivalenti dei singoli tronchi:
d5
A= Y [54]
l
Possiamo dire, per la [53], che per i circuiti in parallelo si sommano le aperture equivalenti di ogni
ramo collegato.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 20

Figura 12: Perdite localizzate per una curva a sezione rettangolare

1.5.3 DIAMETRI NOMINALI DELLE TUBAZIONI


Per le tubazioni in acciaio si hanno i dati riportati nella Tabella 6 per le tubazioni Gas e nella
Tabella 7 per le tubazioni DIN.

Tabella 6: Dati per tubazioni in acciaio Gas


Per le tubazione in rame si hanno i dati di Tabella 8.
1.6 DISPOSITIVI PER LA CIRCOLAZIONE DEI FLUIDI
Prima di procedere alle problematiche del dimensionamento delle reti occorre fare un breve
cenno alle macchine che consentono ai fluidi di circolare: le pompe per i liquidi e le soffianti per gli
aeriformi.
1.6.1 LE POMPE DI CIRCOLAZIONE
Le pompe di circolazione sono di vario tipo a seconda dell’esigenza impiantistica da soddisfare.
Non affronteremo in questa sede lo studio di questi componenti di impianti in senso
macchinistico ma vedremo solamente gli elementi necessari alla loro utilizzazione in sede progettuale e
impiantistica. Gli elementi che le caratterizzano sono:
⋅ La portata volumetrica qv [m³/s] o la portata massica mɺ [kg/s];
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 21

⋅ La prevalenza in termini di altezza di colonna di fluido, ∆z [m], (equazione [16]) o di pressione, ∆p


[Pa], (equazione [19]);
⋅ La potenza impressa al fluido, Pi [W];

Tabella 7: Dati per tubazioni in acciaio DIN

Tabella 8: Dati per tubazioni in rame


⋅ La potenza elettrica impegnata nel motore di alimentazione, [W];
⋅ Il rendimento espresso come rapporto fra la potenza ceduta al fluido e la potenza elettrica
P
impegnata nel motore di alimentazione: η = i ;
P
⋅ L’NPSH, altezza positiva netta di aspirazione, [m].
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 22

⋅ La velocità di rotazione n (giri al secondo, [s-1].

Figura 13: Perdite localizzate per una curva a sezione circolare

Figura 14: Perdite localizzate per i raccordi dei canali d’aria


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 23

In Figura 21 si ha una rappresentazione tipica delle caratteristiche di una pompa di circolazione


per una data velocità di rotazione (pompa centrifuga). In ascissa è indicata la portata volumetrica ma è
anche possibile avere la portata massica11. La potenza elettrica impegnata è data da:
P = mɺ ⋅ g ⋅ ∆z ⋅η = qv ⋅ ρ ⋅ g ⋅ ∆z ⋅η = mɺ ⋅ v ⋅ ∆p ⋅η = qv ⋅ ∆p ⋅η P [55]
Per pompe di tipo centrifugo (quali sono le pompe alle quali ci riferiremo nel prosieguo) al
variare del numero di giri della girante si hanno le seguenti relazioni:
qv1 n1
=
qv 2 n2
2 [56]
∆z1 ∆p1  n1 
= = 
∆z2 ∆p2  n2 

per le quali si può supporre, con buona approssimazione, η1=η2.

Figura 15: perdite localizzate per variazione di sezione dei canali d’aria

11 La portata volumetrica è qv = wS mentre la portata ponderale è ɺ = ρwS = ρqv .


m
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 24

d 1 , w 1 , ξ 1 d 2 , w 2 , ξ 2

l1 l2

Figura 16: Collegamento in serie di condotti


Queste relazioni risultano comode sia per costruire le curve caratteristiche al variare del numero
di giri della girante, come rappresentato in Figura 23 che per modificare i dati di impianto in sede di
bilanciamento12 della rete.

Tabella 9: Diametri equivalenti per sezioni rettangolari


I Costruttori di circolatori sono soliti presentare una famiglia di componenti con caratteristiche
tali da ricoprire aree di lavoro diverse. Le curve caratteristiche complessive formano una diagramma a
zone (o anche a conchiglia) come indicato in Figura 24.

12 Si vedrà in seguito cosa si intende per bilanciamento di una rete. Adesso basti sapere che è un’operazione

complessa con la quale si cerca di equilibrare le portate nei vari rami di un circuito.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 25

Come si può osservare, al variare della portata volumetrica e della differenza di pressione
generata si hanno famiglie, indicate con numeri, di curve in gradi di soddisfare le varie esigenze di
impianto.
All’interno di ogni zona numerata si hanno più curve caratteristiche del tipo indicate in Figura
23 al variare del numero di giri: questi vengono variati mediante un reostato elettrico con tre o quattro
posizioni (numeri di giri) possibili.
In Figura 25 si hanno le curve caratteristiche reali dei circolatori di Figura 18 sia installati
singolarmente che in parallelo.

l1,d1,w1, ξ1

A B

l2,d2,w12 ξ2

Figura 17: Collegamento in parallelo dei circuiti

Figura 18: Esempio di circolatori per acqua fredda e/o calda in versione singola o gemellata

Figura 19: Schema di una elettropompa centrifuga


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 26

Figura 20: Sezione di una elettropompa centrifuga

Figura 21: Curve caratteristiche di una pompa di circolazione

Figura 22: Zona di funzionamento ottimale di una pompa


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 27

Figura 23: Curve caratteristiche al variare del numero di giri

Figura 24: Diagramma a zone per le pompe di circolazione

1.6.2 LE SOFFIANTI
Per muovere i fluidi aeriformi si utilizzano le soffianti (dette anche ventilatori). Esse sono macchine
dotate di palette in grado di imprimere all’aria (o al gas in generale) che l’attraversa energia cinetica
sufficiente a vincere le perdite di pressione della rete (o canalizzazione) seguente. In conseguenza
dell’incremento della velocità si ha un incremento della pressione dinamica ( ρ w 2 ) che si aggiunge alla
2

pressione statica prodotta. La somma della pressione statica e della pressione dinamica è detta pressione
totale della soffiante. Le curve caratteristiche di queste macchine sono del tipo indicato in Figura 26.
Vi sono due tipologie di soffianti: a pale in avanti e a pale indietro.
Esse si diversificano per la pressione totale che riescono a creare sul fluido. Le soffianti a pale in
avanti sono utilizzate quando si richiedono elevate prevalenze. In Figura 27 si ha una fotografia di un
ventilatore reale inserito all’interno di un contenitore insonorizzato per ridurre la rumorosità trasmessa
nei canali d’aria che da esso si dipartono.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 28

Figura 25: Curve caratteristiche reali di circolatori singoli e in parallelo


Ventilatori centrifughi con pale in avanti
Questo tipo di ventilatore trova applicazione nelle Unità di Trattamento Aria costruite in serie e
nelle quali la pressione statica prodotta non supera 1200 Pa (120 mm. c.a.).
Questi ventilatori hanno una curva caratteristica piatta e quindi con ridotto incremento di
pressione con portate d’aria inferiori. Hanno anche un ingombro ridotto e costo inferiore alle altre
tipologie.
Per contro questi ventilatori presentano un rendimento inferiore rispetto agli altri tipi, la
potenza assorbita dal motore aumenta proporzionalmente alla portata d’aria trattata e pertanto il
motore deve essere necessariamente dimensionato per la portata massima e protetto dai sovraccarichi.
Inoltre questi ventilatori non sono in genere adatti in impianti con elevate perdite di carico e
quando si richiede una forte regolazione della portata d’aria trattata.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 29

Figura 26: Curve caratteristiche di una soffiante del tipo a pale in avanti

Figura 27: Ventilatore nel suo contenitore insonorizzato


Ventilatori centrifughi con pale rovesce
Questo tipo di ventilatore viene impiegato nel caso si richiedano grandi portate e con pressioni
statiche superiori a 1200 Pa. In alcuni casi (con portate elevate e quindi con grandi dimensioni frontali)
le pale rovesce sono sostituite da pale con profilo alare.
Questi ventilatori hanno buoni rendimenti ed una curva caratteristica non soggetta a
sovraccarichi: la potenza elettrica assorbita dal motore raggiunge un valore massimo per poi diminuire.
Inoltre presentano buone capacità di adattamento alle condizioni di carico desiderate.
Per contro la curva caratteristica presenta una notevole pendenza e quindi generano un aumento
rilevante della pressione quando la portata d’aria varia.
In genere la configurazione a pale rovesce necessita di un maggiore ingombro ed ha un maggior
costo rispetto alle altre tipologie.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 30

Ventilatori assiali
Questi ventilatori hanno pale a passo variabile e vengono impiegati negli impianti con portate
d’aria molto elevate con pressioni statiche fini a 2000 Pa. Presentano un buon rendimento ed una
buona capacità di adattamento ai carichi grazie all’orientabilità delle pale.
Per contro la loro curva caratteristica presenta una pendenza notevole. La loro convenienza si
ha nei modelli che consentono la variazione del passo con giranti in moto. Hanno un costo elevato e
pertanto non sono convenienti per unità di trattamento aria di tipo standard.

Figura 28: Curve caratteristiche di un ventilatore a pale in avanti


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 31

Figura 29: Curve caratteristiche di un ventilatore a pale rovesce

1.6.3 COLLEGAMENTI DI POMPE IN PARALLELO E IN SERIE


Spesso occorre collegare fra loro due o più pompe per modificare in modo opportuno le
caratteristiche complessive. Se colleghiamo in parallelo due pompe della stessa famiglia si ottiene un
gruppo che, operando a pari ∆p perché in parallelo, consentono di avere portate doppie, come
indicato in Figura 31. Se si collegano due pompe in serie (stessa portata di fluido) le curve
caratteristiche si modificano come indicato in Figura 32: a pari portata si ha un raddoppio della
differenza di pressione ∆p generata.
Pertanto il collegamento in serie o in parallelo può fornire curve caratteristiche complessive che
meglio si adattano alle esigenze impiantistiche nei casi in cui non siano disponibili a listino circolatori
che rispondono direttamente a queste esigenze perché si hanno portate volumetriche troppo grandi o
differenze di pressioni troppo elevate. Quanto detto per le pompe di circolazione si può applicare
anche al collegamento in serie e in parallelo delle soffianti. Naturalmente sono da considerare con
attenzione le problematiche sui collegamenti delle soffianti.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 32

Figura 30: Curve caratteristiche di un ventilatore a pale rovesce a profilo alare

Figura 31: Collegamento di pompe in parallelo


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 33

Figura 32: Collegamento di pompe in serie


1.7 DIMENSIONAMENTO DEI CIRCUITI APERTI
In questo caso il fluido è spostato da punto ad un altro del circuito, come rappresentato in
Figura 34: esso si porta dalla sezione 1 alla sezione 2 che può anche essere a quota diversa. Per il
dimensionamento del condotto occorre utilizzare la [12] con la quale è possibile risolvere rispetto ad
una incognita. Naturalmente per questo condotto vale l’equazione di continuità [40]. I parametri in
gioco sono:
⋅ La portata di massa del fluido, mɺ , [kg/s];
⋅ La sezione di passaggio, S [m²], ovvero anche il diametro, d [m], essendo S=0.25πd2;
⋅ La caduta di pressione, p1-p2, [Pa];
⋅ La velocità, w, del fluido [m/s].
Si suppongono note le quote, z1e z2, delle due sezioni 1 e 2. In base alla [12] occorre conoscere
le perdite per attrito (distribuito più localizzato) che a loro volta dipendono dal diametro (vedi [21] e
[36]), ancora incognito, del condotto.
Avendo due equazioni (la [12] e la [40]) si possono risolvere solo due incognite e pertanto le
altre grandezze presente nelle due relazioni debbono essere note a priori o anche imposte mediante
opportuni criteri progettuali. Di solito, se è nota la portata di massa, si fissa la velocità massima che il
fluido può avere nel condotto. Ciò per diverse ragioni fra le quali si ricorda la necessità di ridurre il
lavoro di pompaggio (che dipende dal quadrato della velocità del fluido) e il rumore prodotto dal
passaggio.
I valori massimi consigliati sono di 1 m/s nel caso di condotti inseriti in ambienti sensibili nei
quali non si desidera immettere rumorosità generata dal fluido, di 2÷4 m/s nel caso di condotte
principali lontane da luoghi sensibili. Naturalmente fissare la velocità massima non significa avere
esattamente questa velocità per il fluido: del resto l’equazione di continuità risolve completamente il
problema del dimensionamento poiché si ha:
4 ⋅ mɺ
d= [57]
ρ ⋅ wmax ⋅ π
In realtà così facendo dalla [12] si può trovare p2 se si conosce p1.
Se invece la caduta di pressione ∆p è imposta allora la [12] consente di calcolare, unitamente
all’equazione d continuità, il diametro e la velocità congruenti con i dati imposti.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 34

Il problema risolutivo si ha nella [12] poiché le perdite di pressione per attrito, ∆pa, dipendono
esse stesse dal diametro del condotto e quindi non essendo esplicitabili direttamente rappresentano
esse stesse un’altra incognita del problema o quanto meno si ha un’equazione implicita che richiede
più iterazioni di calcolo.
Per facilitare il calcolo si suole scrivere la [12] in una forma più comoda per gli sviluppi futuri.
Infatti si ha:
∆p w2 w2
ψ= =ξ ρ=H [58]
l 2d d
ove ψ è detta perdita specifica di pressione ([Pa/m] nel SI e [mm.ca/m] nel ST). Per la [40] si ha anche:
∆p w2 mɺ 2 mɺ 2
ψ= =ξ ρ = ξk 5 = N 5 [59]
l 2d d d
ed N indica un fattore ingloba i valori costanti della [59]. Se si prendono i logaritmi di ambo i
membri della [59] e della [58] si hanno le equazioni:
logψ = 2 log w − log d + log H
[60]
logψ = 2 log mɺ − 5log d + log N
Queste due relazioni risultano comode per costruire un abaco del tipo riportato in Figura 35.
Di questi abachi se ne hanno diversi a seconda del tipo di tubazioni o di fluido considerato.
In Figura 36 si hanno le perdite specifiche di pressione per aria in canali circolari. In ciascuno di
questi abachi si hanno portate, perdite specifiche ψ, velocità e diametri dei condotti.
Fissati due qualunque di questi parametri si possono determinare gli altri due.
Il problema del dimensionamento del circuito aperto si risolve se, scelta la velocità massima e
imposta la caduta di pressione per perdite distribuite13, si trova, nota la lunghezza geometrica reale l
del ramo, la perdita specifica ψ = ∆pd/l.
Dall’abaco corrispondente al caso in esame si determina il diametro (commerciale o equivalente)
corrispondente.
Poiché quasi mai il punto di selezione nell’abaco corrisponde ad un diametro commerciale allora
occorre scegliere o il diametro inferiore o quello superiore.
Nel primo caso si avranno velocità e perdite specifiche maggiori di quella inizialmente imposta e
nel secondo caso si ha l’opposto.
Fissato il diametro commerciale desiderato si può adesso calcolare la caduta di pressione per le
resistenze concentrate e verificare che sia:
∆p = ∆pd + ∆pc [61]
Qualora questa condizione non sia rispettata occorre ripetere il calcolo con nuovi valori di
tentativo per ∆pc fino a quando la [61] è verificata.
Spesso i circuiti aperti collegano ambienti a quote diverse, come riportato in Figura 37, allora si
può riportare in diagramma (vedi grafico in basso di Figura 37) in funzione della portata sia la caduta
di pressione (espressa in metri come nell’equazione [16]) che la variazione di quota.
Poiché le perdite di pressione sono proporzionali (vedi [21]) al quadrato della portata ne segue
che tale curva è una parabola che parte dalla quota gravimetrica z0 iniziale (vedi ancora Figura 37).

13 Poiché sussiste il problema implicito delle perdite localizzate funzioni del diametro, si può in una prima fase

assegnare un’aliquota della caduta di pressione alle perdite distribuite che sappiamo dipendono dalla lunghezza reale del
circuito. Ad esempio si può, inizialmente, assegnare il 40% della ∆p alle sole perdite distribuite e quindi la ψ diviene
immediatamente nota.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 35

Figura 33: Abaco per la selezione dei diametri equivalenti dei canali rettangolari

Figura 34: Circuito aperto


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 36

Figura 35: Perdite specifiche in tubi in acciaio con acqua a 80 °C


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 37

Figura 36: Perdite di pressione in canali d’aria


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 38

Figura 37: Circuiti aperti fra ambienti a diversa quota


1.8 TIPOLOGIA DI CIRCUITI CHIUSI
Si possono avere due tipologie di circuiti chiusi:
⋅ Reti semplici, con mandata e ritorno separati (dette a ritorno diretto, come in Figura 38):

Figura 38: Esempio di reti a ritorno diretto per estate e inverno


⋅ Reti a ritorno inverso (dette anche ad anello di Tickelmann), vedi Figura 39, nelle quali il ritorno
dai terminali avviene attraverso una tubazione inversa che rende quasi eguali le lunghezze totali
dei vari circuiti. In pratica l’anello inverso (detto anche a tre tubi) bilancia automaticamente le reti
di distribuzione equalizzando le perdite distribuite.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 39

Figura 39: Reti a ritorno inverso


1.9 DIMENSIONAMENTO DEI CIRCUITI CHIUSI
Un circuito si dice chiuso quando i punti iniziali e finali coincidono, come rappresentato in
Figura 40. In essa con P si indica la pompa e V la valvola di intercettazione.
L

H
2
P
1

Figura 40: Circuito chiuso


L’equazione di Bernoulli [12] porta ad avere (essendo 1 e 2 coincidenti):
lm + lr = 0 [62]
e quindi il lavoro motore (effettuato dalla pompa) deve bilanciare il lavoro resistente (generato dagli
attriti e dalle perdite localizzate). Le variazioni di quote e di velocità all’interno dl circuito non
influenzano questo bilancio. Per la valutazione del lavoro resistivo occorre utilizzare le relazioni di
Weissbach e Darcy. Vale ancora quanto detto a proposito dei circuiti aperti e sulle problematiche che si
hanno nel dimensionamento dei circuiti. Anche in questo caso occorre rispettare diversi vincoli quali,
la velocità massima, il lavoro fatto dalla pompa e, negli impianti termici, i bilanci energetici14 relativi
agli impianti, ….
1.10 DIMENSIONAMENTO DI RETI PER ACQUA
Spesso occorre progettare non un solo circuiti ma una rete complessa composta di più circuiti
chiusi, caso tipico negli impianti di riscaldamento o di raffrescamento ad acqua. In Figura 41 si ha un
semplice esempio schematico15 di rete di distruzione composta da due circuiti, ciascuno che alimenta
di due radiatori.

14 Negli impianti termici per il riscaldamento per l’edilizia si hanno tre distinte fasi da realizzare: generare il calore

necessario a riscaldare gli ambienti, trasportarlo in modo che ogni ambiente abbia la quantità necessaria e infine cederlo
agli ambienti. Ogni fase, apparentemente distinta dalle altre, condiziona il corretto funzionamento degli impianti. E’
perfettamente inutile generare più calore se non si è in grado di trasportarlo agli ambienti perché la rete di distribuzione è
sottodimensionata. Così pure è inutile trasportare più energia di quanto i terminali (ad esempio i radiatori) non riescono a
cedere agli ambienti. Nei circuiti idrici questi problemi non si hanno perché le reti di distribuzione debbono solamente
trasportare quanto necessario per i fabbisogni nei singoli ambienti.
15 L’Allievo tenga presente che nella figura mancano molti componenti circuitali che per semplicità non sono stati

aggiunti, quali, ad esempio, il vaso di espansione, le valvole di regolazione e di intercettazione, …..


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 40

Q1 Q3
B D R3
R1

Circuito 1 Circuito 2
E Q4
C Q2 R4
R2 G
F

C 1 2

H
P
Figura 41: Rete di distribuzione
La pompa di circolazione, P, è unica e pertanto la differenza di pressione che essa può
generare è unica. Ne deriva che entrambi i circuiti debbono avere la stessa caduta di pressione, cioè il
fluido partendo dalla bocca premente, 1, e ritornando nella bocca aspirante, 2, deve subire sempre la
stessa caduta di pressione. I percorsi qui possibili sono ben quattro:
⋅ Circuito 1: 1-A-B-R1-F-H-2- P
⋅ Circuito 1: 1-A-C-R2-F-H-2- P
⋅ Circuito 2: 1-A-D-R3-G-H-2- P
⋅ Circuito 2: 1-A-E-R4-G-H-2- P
A differenza di quanto avviene perle reti idriche nelle quali la portata è imposta dai fabbisogni
richiesti nei punti di utenza, le reti tecnologiche debbono trasportare energia mediante il fluido di
lavoro. Se, seguendo l’esempio di una rete per riscaldamento domestico di Figura 41, si utilizza acqua
calda, allora l’energia che essa trasporta è data dalla relazione:
Q = c p mɺ ∆T [63]

ove vale il solito simbolismo e con ∆T si indica la differenza di temperatura del fluido fra la
mandata e il ritorno. La [63] ci dice che se vogliamo fornire ad ogni radiatore la potenza richiesta (Q1,
Q2,Q3,Q4) occorre che la portata d’acqua, per determinato ∆T che qui supponiamo costante16 per
semplicità, sia quello che l’applicazione della [63] comporta.
Si deve, in definitiva, fornire a ciascun radiatore la portata necessaria:
Q
mɺ = [64]
c p ∆T

e quindi avremo le portate termodinamiche mɺ 1 , mɺ 2 , mɺ 3 , mɺ 4 . Sei radiatori ricevono portate


diverse essi non potranno fornire ali ambienti le quantità di calore richieste e quindi non si
raggiungeranno le condizioni di comfort desiderate. In pratica se si dimensiona male la rete si avrà
anche un impianto di riscaldamento non funzionante secondo le specifiche di progetto.
Calcolate le portate necessarie nei rami finali (cioè quelli che alimentano i radiatori) si possono
determinare, applicando semplicissime regole di congruenza, le portate nei singoli rami dei due circuiti:
ad esempio per il caso esaminato si hanno le portate riportate nella seguente Tabella 10.
16Nella realtà occorre tenere conto del raffreddamento per dispersioni termiche del fluido nel passaggio dalla
caldaia al radiatore considerato. Se le tubazioni sono ben coibentate allora in una prima fase di calcolo si può trascurare
questo disperdimento e considerare che la temperatura di ingresso in ogni radiatore sia costante e pari a quella di uscita
dalla caldaia. La Legge 10/91 e il DPR 412/93 impongono le modalità di isolamento e tengono conto dei disperdimenti
mediante un rendimento di distribuzione (si rimanda allo studio della L. 10/91 per l’approfondimento di questo argomento).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 41

RAMO PORTATA
1-A m’’1+m’’2+m’’3+m’’4
A-D m’’3+m’’4
D-R3 m’’3
R3-G m’’3
G-H m’’3+m’’4
H-2 m’’1+m’’2+m’’3+m’’4
2-P m’’1+m’’2+m’’3+m’’4
D-E m’’4
E-R4 m’’4
R4-G m’’4
A-B m’’1+m’’2
B-R1 m’’1
R1-F m’’1
F-H m’’1+m’’2
B-C m’’2
C-R2 m’’2
R2-F m’’2
Tabella 10: Calcolo delle portate nei singoli rami
Adesso il problema del progetto della rete è quello di determinare i diametri dei singoli condotti
in modo che si abbiano le portate desiderate nei singoli rami. Si hanno due criteri principali che
possono essere adottati e che qui brevemente si illustrano.
Metodo del ramo Principale
Il criterio qui seguito per il dimensionamento della rete è noto come metodo del ramo
principale e consiste nel ritenere ogni circuito indipendente dagli altri, salvo le congruenze di portate e
pressioni, e di calcolare i circuiti partendo da quello più sfavorito. Il circuito più sfavorito è di solito
quello di maggiore sviluppo in lunghezza ma questa regola non è sempre verificata poiché si possono
avere circuiti di minore lunghezza ma con resistenze localizzate di maggior peso. Più correttamente si
può dire che il circuito più sfavorito è quello che ha la maggiore lunghezza equivalente.
Sfortunatamente la lunghezza equivalente non è calcolabile a priori poiché non sono noti i
diametri dei condotti e quindi il criterio guida per la scelta rimane quello della maggiore lunghezza
geometrica, salvo poi a verificare l’ipotesi fatta calcolando le lunghezze equivalenti. Il circuito più
sfavorito viene dimensionato con uno dei criteri che si illustreranno nel prosieguo (a velocità costante o
a perdita specifica di pressione costante). Dopo il dimensionamento di questo circuito molti rami
della rete sono già dimensionati e sono note le pressioni in corrispondenza dei nodi comuni al circuito
più sfavorito e pertanto si possono dimensionare gli altri circuiti (in genere la parte restante dei rami
non comuni dei vari circuiti) con gli stessi criteri di progettazione.
Criterio a velocità costante
In questo caso si fissa la velocità massima che si desidera avere in ogni ramo, così come indicato
nel §1.7, e allora si può utilizzare l’abaco delle perdite specifiche di Figura 35: la portata è nota e
pertanto imponendo la velocità si determina il punto interno all’abaco cui corrisponde un diametro
(non è detto che sia quello commerciale!) e la perdita specifica di pressione corrispondente.
In Figura 42 si ha un esempio di applicazione del metodo esposto: si può osservare come,
scegliendo un diametro commerciale minore di quello teorico si ha una perdita specifica maggiore e
viceversa con la scelta del diametro commerciale maggiore.
Anche la velocità nel condotto varia con la scelta del diametro commerciale in modo concorde
alla perdita specifica. Di solito è opportuno scegliere i diametri maggiori per i tratti di circuito che
portano maggiori portate (ad esempio nei rami 1A, A-D, G-H, H-2) mentre è conveniente scegliere i
diametri minori nei rami terminali (compatibilmente con le esigenze di rumorosità ambientale).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 42

Ripetendo lo stesso procedimento per tutti i rami dei due circuiti si ottiene una nuova tabella
contenente i diametri selezionati, le velocità e le perdite specifiche effettive. Adesso è possibile
valutare le perdite localizzate di ciascun ramo (curve, gomiti, derivazioni, valvole, radiatori, caldaie,
…..) secondo quanto indicato nella Figura 11. Alla fine siamo in grado di conoscere le perdite totali
(distribuite più localizzate) di ciascun ramo:
(
∆pramo = ψ L + ∑ ramo ∆pdistr . = ψ L + ∑ i del ramo l 'i ) [65]

Sommando le perdite totali di ogni ramo di ciascun percorso dei due circuiti si ottengono le
perdite di pressione calcolate secondo lo schema seguente:
⋅ Circuito 1: 1-A-B-R1-F-H-2- P: ∆p1 = ∑ circuito −1− percorso −1 ∆pti
⋅ Circuito 1: 1-A-C-R2-F-H-2- P ∆p2 = ∑ circuito −1− percorso − 2 ∆pti
⋅ Circuito 2: 1-A-D-R3-G-H-2- P ∆p3 = ∑ circuito − 2− percorso −1 ∆pti
⋅ Circuito 2: 1-A-E-R4-G-H-2- P ∆p4 = ∑ circuito − 2 − percorso − 2 ∆pti
Ben difficilmente si ottengono ∆p eguali (come richiesto dall’unicità della pompa).
Di solito i circuiti più corti hanno perdite distribuite minori per la [65] e quindi (assumendo che
ogni ramo terminale serva un radiatore e quindi il numero e tipologie d resistenze localizzate sia
sostanzialmente equivalente) le perdite di pressione totali dei percorsi più brevi sono inevitabilmente
minori di quelle relative ai circuiti di maggior lunghezza.
Il risultato di questa incongruenza è facilmente prevedibile: si tratta, come si può osservare nella
Figura 41, di circuiti in parallelo ai capi della pompa (che è quella che crea la differenza di pressione
positiva) e quindi se ∆p è unica il circuito che offre minore resistenza totale avrà una portata maggiore
degli altri circuiti (in generale si hanno più circuiti) secondo quanto visto nel §1.5.2.
Di conseguenza la distribuzione delle portate non è più quella di progetto indicata nella Tabella
10 ma una nuova (e soprattutto diversa) che comporta uno squilibro nel funzionamento dei radiatori
(per quanto detto in precedenza).
Nasce quindi la necessità di equilibrare la rete di distribuzione cioè di fare in modo che le
cadute totali di pressione in tutti i percorsi dei vari circuiti siano eguali e pari a quelle di progetto. Per
fare ciò si utilizzano opportune valvole dette di taratura che provocano perdite di pressione localizzate
note in funzione di una ghiera tarata (vedi §1.16).
Pertanto è bene inserire (anche in fase di progetto) questo tipo di valvole nei vari rami dei circuiti in
modo da potere poi effettuare correttamente l’equilibratura della rete.
Si badi bene che non è necessario misurare le portate per effettuare l’equilibratura della rete.
Se si fa in modo che negli ambienti si abbia la temperatura desiderata (di progetto) allora vuol dire
che i radiatori stanno fornendo il calore necessario per soddisfare il carico termico e quindi, poiché
deve essere Q = mc ɺ p ∆t , che la portata di acqua calda ricevuta è quella giusta. Dall’abaco
corrispondente al caso in esame si determina il diametro (commerciale o equivalente) corrispondente.
Poiché quasi mai il punto di selezione nell’abaco corrisponde ad un diametro commerciale allora
occorre scegliere o il diametro inferiore o quello superiore.
Nel primo caso si avranno velocità e perdite specifiche maggiori di quella inizialmente imposta e
nel secondo caso si ha l’opposto.
Fissato il diametro commerciale desiderato si può adesso calcolare la caduta di pressione per le
resistenze concentrate e verificare che sia:
∆p = ∆pd + ∆pc [66]
In genere è meglio scegliere prima il circolatore e poi fare in modo che la rete sia soddisfatta dal
∆p generato, come vedremo con il metodo a perdita specifica costante.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 43

Figura 42: Esempio d’uso dell’abaco delle perdite specifiche con velocità costante imposta
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 44

Figura 43: Esempio d’uso dell’abaco con il metodo della perdita specifica costante
Metodo a perdita specifica di pressione costante
Questo metodo è certamente più equilibrato del precedente anche se leggermente più laborioso.
Se scegliamo prima il circolatore, in base all’esperienza di progettazione e alla tipologia di
impianto, allora si deve ottenere l’eguaglianza:
∆p = ∆pd + ∆pc [67]

In questa equazione non è possibile conoscere le perdite concentrate ∆pc perché esse
dipendono dal diametro delle tubazioni (vedi §1.4.2) mentre le perdite distribuite, ∆pd, possono essere
calcolate mediante la relazione:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 45

Rami Circuito
∆pd = ∑
i =1
ψ i Li [68]

Si osserva immediatamente che, se conoscessimo a priori ∆pd potremmo scrivere, per ogni
circuito:
∆pd
ψ media = Rami Circuito [69]
∑ Li i =1

La sommatoria a denominatore è la lunghezza geometrica complessiva del circuito esaminato e


quindi un dato di progetto poiché la dimensione della rete dipende dall’architettura dell’edificio che è
nota a priori. La perdita distribuita totale possiamo stimarla, inizialmente, supponendo che essa sia
un’aliquota della perdita di pressione totale ∆p, ad esempio si può supporre che sia il 50% della perdita
totale. Allora, essendo ∆pd noto17, avendo scelto già la pompa (e quindi le sue curve caratteristiche
sono note), ne segue che la [69] definisce univocamente la ψmedia del circuito.
L’abaco delle perdite specifiche di pressione di Figura 35 consente di calcolare, note le portate e
la ψmedia, sia il diametro teorico che la velocità del fluido. In realtà si ha sempre la necessità di dovere
scegliere un diametro commerciale che solo poche volte coincide con quello teorico. Pertanto si
procede come già detto con il precedente metodo: si sceglie il diametro maggiore nei tratti che hanno
maggiore portata e il diametro minore per quelli terminali.
In Figura 43 si ha la schematizzazione esemplificativa del metodo. Si è tracciata una linea
verticale corrispondente alla ψmedia calcolata con la [69]. Per varie portate si sono individuati i punti di
intersezione con questa retta: ogni punto individua un diametro teorico e per uno di essi si sono
indicate le possibili scelte di diametri maggiore e minore con l’evidenziazione delle perdite specifiche e
delle velocità reali corrispondenti.
Eseguite queste operazioni per tutti i rami dei circuiti si possono calcolare le perdite concentrati
reali e quindi le perdite di pressione totali sia dei rami che dei circuiti mediante le equazioni del tipo
[69] e quindi si avranno i ∆pi di tutti i percorsi della rete.
Anche in questo caso, a seguito della discretizzazione dei diametri commerciali, si hanno in
genere valori non coincidenti con il ∆p scelto della pompa ma gli scostamenti sono di gran lunga
inferiori rispetto al metodo a velocità costante per effetto della scelta della ψmedia iniziale che porta ad avere
valori sensibilmente vicini a quanto indicato dalla [69]. I vantaggi del metodo sono evidenti nel
momento in cui lo si applica veramente e i risultati ottenuti portano quasi sempre ad un minor lavoro
di equilibratura della rete di distribuzione. La scelta iniziale della pompa, inoltre, garantisce da
eventuali eccessi di potenza di pompaggio richiesta.
I collettori complanari
Da qualche decennio si è imposta una tecnica impiantistica per la distribuzione dell’acqua calda
e fredda negli impianti sia termici che sanitari che utilizza i collettori complanari, vedi Figura 44. Questi
sono grossi tratti di condotti di diametro grande dai quali si dipartono (o arrivano, nel caso del ritorno
dell’acqua in circuiti chiusi) i condotti che alimentano i radiatori, fan coils, …, vedi in Figura 45.
La rete di distribuzione risulta maggiormente semplificata e più razionalmente disposta risposta
ad altri tipi. Il primo vantaggio è che un collettore complanare può avere da 2 a 8 uscite e pertanto si
può centralizzare la distribuzione di un appartamento, vedi Figura 48.
La rete di distribuzione principale, pertanto, si occupa di alimentare i collettori complanari (uno
o più) dei singoli appartamenti e da questi, solitamente con tubazioni in rame (facilmente flessibile e
quindi comodo per la posa in opera) o in plastica opportunamente irrigidita (Wirsboflex o similare), si
alimentano i terminali.

17Si ricordi che noto il ∆p della pompa e fissata la percentuale presunta per le perdite distribuite, ad esempio il
40%, si determina univocamente ∆pd disponibile.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 46

Figura 44: Tipologia di collettori complanari

Figura 45: Distributore a collettore complanare


I collettori complanari rappresentano praticamente un nodo da cui si dipartono i vari circuiti. E’
allora importante che le perdite nel collettore complanare siano piccole rispetto a quella dei singoli
circuiti (che sono praticamente in parallelo rispetto ad esso). Per questo motivo il numero di attacchi
varia a seconda del diametro degli attacchi stessi. I collettori complanari hanno solitamente una
valvola di chiusura a monte che consente la manutenzione dell’impianto in modo agevole.
Nel caso di impianti di riscaldamento si hanno coppie di collettori, uno per la mandata ed uno
per il ritorno dell’acqua calda, come indicato in Figura 46. Per gli impianti idrici e sanitari (acqua di
consumo) si hanno collettori singoli per l’acqua fredda e per l’acqua calda, a meno che non si preveda il
sistema di distribuzione ad anello e quindi con doppio collettore.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 47

Figura 46: Esempio di inserimento di collettori complanari in una rete di distribuzione

Figura 47: Esempio di collettori complanari per usi sanitari


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 48

Figura 48: Esempio di distribuzione dell’acqua calda con collettore complanare in un appartamento

Figura 49: Esempio di distribuzione mediante collettori complanari in due appartamenti


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 49

Figura 50: Distribuzione in edificio a due piani : piano terra

Figura 51: : Distribuzione in edificio a due piani : piano Primo


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 50

Figura 52: Esempio di impianti a collettori complanari su più appartamenti

Figura 53: Vista assonometrica del piping per una centrale termica
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 51

Figura 54: Vista assonometrica di una centrale termica con piping interno
1.11 COMPONENTI DI UNA RETE DI DISTRIBUZIONE AD ACQUA
La realizzazione di una rete di distribuzione ad acqua è ben diversa dalla progettazione teorica,
come descritto nei precedenti paragrafi. Quando si costruisce una rete di distribuzione tecnologica
occorre fare i conti con effetti particolari dovuti al bilanciamento non perfetto, all’accoppiamento fra
circuiti, alla regolazione della rete (spesso molto vasta e complessa con migliaia di rami).
Per ottenere gli effetti teorici desiderati (cioè che ad ogni terminale arrivi la portata teorica di
acqua calda o fredda alla temperatura desiderata) occorre inserire alcuni componenti fondamentali e
assolutamente necessari che verranno descritti nei prossimi paragrafi.
Si tratta di componenti di reti (fitting) di tipo commerciale per la cui presentazione si è
ampiamente e volutamente fatto ricorso a dati tecnici reperibili nei manuali tecnici pubblicati dai vari
Costruttori e ai quali si rimanda per altri approfondimenti.
1.11.1 COLPI DI ARIETE NELLE RETI DI DISTRIBUZIONE
Sono colpi forti e in rapida successione che si generano nelle condotte chiuse quando il fluido è
frenato o accelerato in tempi molto brevi: ad esempio quando si chiude rapidamente un rubinetto, oppure
quando si avvia o si arresta una pompa. Sono colpi provocati dall’energia, ceduta o sottratta al fluido,
quando si varia la sua velocità.
L’intensità dei colpi d’ariete idraulici dipende da fattori complessi da determinare e da collegare
fra loro. Tuttavia (considerando l’ordine delle grandezze in gioco) possiamo ritenere che la sovrappressione
massima indotta da un colpo d’ariete sia data da:
2vl
∆p =
g ∆t
ove si ha:
⋅ ∆P = sovrappressione del colpo d’ariete, (m c.a)
⋅ v = velocità dell’acqua, m/s
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 52

⋅ l = lunghezza del tubo, m


⋅ g = accelerazione di gravità (9,81 m/s2)
⋅ ∆t = tempo di chiusura della valvola, s.
Tanto più rapido è il tempo di interruzione del flusso, tanto più elevata è la sovrapressione
generata dal colpo di ariete. Ad esempio per v = 2 m/s, l = 500 m, ∆t=0,5 s si ha ∆P = 407 m. ca, cioè
411 MPa circa. Negli impianti di climatizzazione, questi effetti sono, in genere, assai limitati e quindi
trascurabili. Al contrario, negli impianti idrosanitari possono essere di notevole rilievo e provocare:
⋅ rotture o forti deformazioni dei materiali a minor resistenza meccanica (bollitori, tubi in plastica,
riduttori di pressione, valvole ecc …);
⋅ usura delle giunzioni e delle saldature;
⋅ forti rumori e vibrazioni;
⋅ deterioramento dei rubinetti di erogazione.
La formula precedente evidenzia che per eliminare o almeno mitigare sensibilmente i colpi
d’ariete, bisogna diminuire le velocità del fluido e aumentare i tempi di chiusura dei rubinetti.
È però difficile intervenire su questi tempi, in quanto si usano ormai generalmente rubinetti e a
chiusura rapida. Pertanto, per poter tenere con certezza sotto controllo i colpi d’ariete è consigliabile
adottare appositi apparecchi ammortizzatori che possono essere del tipo:
- acqua-aria,
- a stantuffo,
- a membrana,
- a molla.

Figura 55: tipologia di ammortizzatore di colpi di ariete


Quelli acqua-aria sono, in genere, da evitare perché richiedono il costante rinnovo del cuscino
d’aria che tende a sciogliersi nell’acqua. Sono utilizzati ammortizzatori di colpi di ariete sopra le
colonne, come indicati in Figura 56. È la soluzione tradizionale adottata per impianti grandi e medio-
grandi con sviluppo a colonne. Gli ammortizzatori sono posti (in cassette o cavedi ispezionabili) sopra
le colonne di acqua fredda e calda. Le colonne di ricircolo sono collegate direttamente a quelle
dell’acqua calda. È una soluzione che consente di ottenere risultati validi per quanto riguarda
l’attenuamento dei colpi d’ariete. Gli ammortizzatori, infatti, non sono troppo lontani dai rubinetti:
cioè dalle sorgenti dei colpi d’ariete. È, però, una soluzione che presenta anche controindicazioni per
quanto riguarda la sicurezza antilegionella. Controindicazioni legate al fatto che in alcune zone
dell’impianto l’acqua calda non può circolare. Pertanto, in queste zone (dette zone morte) non può
essere attuata la disinfezione termica. Nel caso specifico le zone morte sono di due tipi:
⋅ le prime sono costituite dai tratti di tubo che (sopra gli attacchi al ricircolo) collegano le colonne
⋅ d’acqua calda agli ammortizzatori;
⋅ le seconde corrispondono alle zone degli ammortizzatori che contengono acqua.
Un’altra soluzione adottabile è quella di disporre gli ammortizzatori a molla (vedi Figura 57) sui
collettori di distribuzione, vedi Figura 58.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 53

È una soluzione che prevede la messa in opera sui collettori di piccoli ammortizzatori a molla.
Con simile soluzione si sposta l’azione di smorzamento dei colpi d’ariete dalla sommità delle colonne
all’interno delle cassette di distribuzione.

Figura 56: Ammortizzatori di colpi di ariete sopra le colonne

Figura 57: Ammortizzatore di colpo di ariete a molla

Figura 58: Ammortizzatori a molle sui collettori di distribuzione


In pratica, si passa da un’azione smorzante di tipo semicentralizzato ad una di tipo periferico,
con vantaggi legati al fatto che gli ammortizzatori operano nelle immediate vicinanze dei rubinetti:
cioè dei punti in cui hanno principalmente luogo i colpi di ariete. I miscelatori antiscottatura servono a
rendere possibili e sicuri i trattamenti termici antilegionella, sia quelli continui che quelli periodici.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 54

I collettori di distribuzione sono, inoltre, dotati di valvole in grado di intercettare le singole


derivazioni. E questa è una funzione di rilievo, perché, in caso di perdite, consente di escludere solo il
rubinetto responsabile.
1.11.2 REGOLAZIONE DI PORTATA NELLE RETI AD ACQUA
Si possono avere due casi:
Circuiti senza valvola di regolazione
In questo caso la pompa di circolazione, vedi Figura 59, può essere attivata o disattivata da un
termostato, oppure può funzionare in continuo negli impianti con regolazioni periferiche, cioè negli
impianti con:
⋅ valvole di zona;
⋅ valvole termostatiche;
⋅ ventilconvettori ed aerotermi;
⋅ macchine di trattamento aria con regolazione sulle macchine stesse.
La valvola di ritegno serve (a pompa ferma) per impedire circolazioni indesiderate: circolazioni che
possono essere naturali (l’acqua calda tende ad andare in alto e quella fredda in basso) oppure indotte dalle
altre pompe, come vedremo meglio in seguito.

Figura 59: Circuiti senza valvola di regolazione


Circuiti con valvola di regolazione
In questo caso si inserisce una valvola di regolazione come indicato in Figura 60.

Figura 60: Circuiti con valvola di regolazione


Miscelando opportunamente il ritorno con l’andata, la valvola di regolazione consente di
ottenere fluido alla temperatura richiesta per alimentare i terminali.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 55

Per evitare pencolamenti della valvola e rese inadeguate dei terminali, questi circuiti devono
poter funzionare a portata costante (quella di progetto). È però questa una prestazione che un
normale circuito di regolazione non può dare, perchè la sua valvola, agendo come uno spartitraffico
mobile, modifica continuamente i flussi del fluido e quindi le portate dei vari tratti di circuito.
Ad esempio (con riferimento allo schema della Figura 60) la portata nel circuito terminali sarà:
⋅ minima con valvola aperta: la pompa deve vincere le resistenze sia del circuito terminali, sia del
circuito caldaia;
⋅ massima con valvola chiusa: la pompa infatti deve praticamente vincere solo le resistenze del
circuito terminali;
⋅ intermedia con valvola modulante.
Pertanto tutti i terminali si trovano ad una pressione esterna praticamente identica.
Bilanciamento con valvole di taratura
Nel caso di bilanciamento con valvola di taratura questo si ottiene ponendo una valvola di
taratura sul by-pass di regolazione, regolandola in modo che essa contrasti il passaggio del fluido con
resistenze pari a quelle del circuito caldaia. Il circuito presenta così le stesse resistenze sia con valvola
aperta, che con valvola chiusa. Pertanto, sia con valvola aperta che con valvola chiusa, funziona a
portata costante. Si può ritenere che funzioni a portata costante anche con valvola modulante, pur
essendo questa deduzione un po’ arbitraria e non del tutto vera. Dal punto di vista pratico, il sistema
di bilanciamento con valvola di taratura presenta due inconvenienti:
⋅ 1. esige una corretta taratura della valvola (cosa non sempre agevole);
⋅ 2. può essere facilmente starato.

Figura 61: Inserimento della valvola di taratura


Bilanciamento con valvole Autoflow
Il bilanciamento con valvole dinamiche si può ottenere ponendo un Autoflow sul by-pass (come
la valvola di taratura), oppure ponendo un Autoflow sul ritorno del circuito, come illustrato nello
schema di Figura 62.

Figura 62: Inserimento della valvola di Autoflow


Posto sul ritorno l’Autoflow assicura non solo una portata costante del circuito, ma garantisce
anche una portata rigorosamente uguale a quella stabilita progettualmente. Infatti, in tale posizione,
l’Autoflow esercita la sua azione autoregolante non solo a valvola chiusa, ma anche a valvola aperta e
modulante.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 56

Effetti della regolazione sui terminali


Nei circuiti di regolazione, va pure considerato che può manifestarsi un fenomeno alquanto
strano: i terminali continuano a restare caldi (cioè continuano a cedere calore) anche a valvola chiusa.
Per cercare di capire la causa di tale fenomeno, esamineremo dapprima il flusso dell’acqua che in
teoria siamo indotti a ritenere più logico, e poi il flusso che in realtà si instaura nel circuito. A valvola
chiusa, nel circuito che serve i corpi scaldanti dovrebbe circolare solo acqua fredda, in quanto il
circuito non riceve (o meglio non dovrebbe ricevere) alcun apporto di calore.
Caldi invece dovrebbero rimanere i tratti di circuito (di andata e di ritorno) posti a monte del by-
pass, in quanto collegati (direttamente o attraverso i collettori) alla caldaia.
Schematicamente la situazione potrebbe essere rappresentata come in Figura 63. In realtà però
le cose vanno in modo un pò diverso. Nella zona d’innesto tra il by-pass e il tubo di ritorno, l’acqua
non scorre in modo continuo. Scorre bensì in modo turbolento, con vene di acqua fredda che entrano
nella zona dell’acqua calda.
Si creano così dei vortici che risucchiano acqua calda dal tubo di ritorno e la portano in
circolazione. Ed è questa acqua calda risucchiata ad impedire il raffreddamento del circuito che
alimenta i terminali.
A valvola chiusa i corpi scaldanti possono restare caldi anche quando la valvola fila. Un mezzo
efficace per capire cosa in realtà sta avvenendo è quello di sentire con mano (non c’è pericolo di
scottature) la temperatura superficiale del tubo di by-pass.
Se la temperatura del tubo è omogenea si tratta di trafilamento, se invece la temperatura è
eterogenea (cioè se ci sono zone più calde che si alternano a zone più fredde) si tratta di una
circolazione per risucchio.

Figura 63: Effetti di risucchio nella zona di chiusura della valvola


Il manifestarsi o meno di questo fenomeno, dipende da molti fattori difficili da definire e da
collegare fra loro. Può comunque essere praticamente evitato adottando una delle seguenti misure:
⋅ mantenere una distanza (D) fra il by-pass e il collettore non inferiore a 8 diametri del by-pass
stesso (tale distanza non dovrebbe mai essere inferiore a 50 cm);
⋅ realizzare un’ansa di protezione fra il by-pass e il collettore, in modo che la controtendenza
introdotta ostacoli la risalita dell’acqua calda fra il collettore e la zona di risucchio;
⋅ installare, fra il by-pass e il collettore, una valvola di ritegno;
⋅ installare, fra il by-pass e il collettore, una Ballstop invece della semplice valvola di intercettazione
normalmente prevista.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 57

Figura 64: Accorgimenti per evitare il fenomeno del risucchio


Separatori idraulici
I separatori idraulici sono prodotti destinati ad assumere un ruolo sempre più importante nel
modo di concepire e realizzare i circuiti idraulici in generale, e le centrali termiche in particolare.
La loro funzione è essenzialmente quella di rendere indipendenti (cioè di separare) i vari circuiti
di un impianto. Ed è una funzione che serve ad evitare, nei circuiti stessi, l'insorgere di interferenze e
disturbi reciproci. Quando nello stesso impianto si hanno sia un circuito primario di produzione
dotato della propria pompa che un circuito secondario di utenza con una o più pompe di
distribuzione, ci possono essere delle condizioni di funzionamento dell’impianto per cui le pompe
interagiscono, creando variazioni anomale delle portate e delle prevalenze ai circuiti (vedi nel prosieguo).
Il separatore idraulico crea una zona a ridotta perdita di carico, che permette di rendere
idraulicamente indipendenti i circuiti primario e secondario ad esso collegati; il flusso in un circuito
non crea flusso nell’altro se la perdita di carico nel tratto comune è trascurabile. In questo caso la
portata che passa attraverso i rispettivi circuiti dipende esclusivamente dalle caratteristiche di portata
delle pompe, evitando la reciproca influenza dovuta al loro accoppiamento in serie.

Figura 65: Schema di funzionamento di un separatore idraulico


Utilizzando, quindi, un dispositivo con queste caratteristiche, la portata nel circuito secondario
viene messa in circolazione solo quando la relativa pompa è accesa, permettendo all’impianto di
soddisfare le specifiche esigenze di carico del momento.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 58

Figura 66: Schemi di intervento del separatore idraulico


Quando la pompa del secondario è spenta, non c’è circolazione nel corrispondente circuito;
tutta la portata spinta dalla pompa del primario viene by-passata attraverso il separatore. Con il
separatore idraulico si può così avere un circuito di produzione a portata costante ed un circuito di
distribuzione a portata variabile, condizioni di funzionamento tipicamente caratteristiche dei moderni
impianti di climatizzazione.
Di seguito, al fine di presentare in modo adeguato utilità e prestazioni di questi nuovi prodotti
dovremo:
⋅ analizzare come interferiscono fra loro i circuiti negli impianti tradizionali;
⋅ definire un indice per misurare tali interferenze;
⋅ esaminare le anomalie di funzionamento che le interferenze possono causare;
⋅ vedere, infine, come i separatori idraulici impediscono il nascere di qualsiasi interferenza fra i
circuiti ad essi collegati.

Figura 67: Separatore idraulico


Per evidenziare interferenze fra i vari circuiti, prenderemo in esame l’impianto sotto riportato e
cercheremo di vedere cosa succede man mano che si avviano le pompe. Per ragioni che possiamo già
intuire, ma che vedremo meglio in seguito, presteremo la nostra attenzione soprattutto a come varia la
pressione fra i due collettori al netto del loro dislivello: differenza che, per brevità, chiameremo ∆P. Il
variare di tale pressione sarà previsto per via teorica, cercando in ogni caso di evitare considerazioni
troppo astratte e complesse.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 59

Figura 68: Situazione dei circuiti a pompa ferma


È comunque possibile verificare in pratica le conclusioni a cui ci porterà l’analisi teorica.
A tal fine, basta infatti: poter disporre di una centrale a più circuiti, installare (se non ci sono già)
due manometri sui collettori, attivare una pompa per volta e, dopo ogni attivazione, leggere i relativi
∆P sui manometri. Esaminiamo cosa succede attivando le pompe del circuito di Figura 68.
Pompe Ferme
Se non consideriamo il fenomeno della circolazione naturale, in questa situazione il fluido
dell’impianto resta fermo e il ∆P è nullo.
Pompa del circuito 1 attivata
Mette in movimento il fluido del suo circuito e fa crescere il ∆P fra i collettori. Tale crescita è
uguale alla pressione che la pompa deve spendere per far passare il fluido dal collettore di ritorno a
quello di andata: vale a dire attraverso il circuito caldaia.
Lo stesso ∆P sussiste logicamente anche agli attacchi dei circuiti 2 e 3 con pompa ferma, e può
pertanto attivare in essi circolazioni parassite: circolazioni peraltro di senso contrario a quello
normalmente previsto, dato che la pompa attiva lavora in aspirazione sul collettore di mandata.
Pompa del circuito 2 attivata
Per mettere in movimento, nel giusto senso, il fluido del suo circuito, questa pompa deve
inizialmente vincere il ∆P contrario indotto dalla pompa 1 (∆P esistente tra i due collettori).
La sua attivazione comporta poi un’ulteriore aumento del ∆P fra i collettori, in quanto aumenta
la portata del circuito caldaia, e quindi la pressione che deve essere spesa per far passare il fluido
attraverso tale circuito.
Pompa del circuito 3 attivata
Per mettere in movimento, nel giusto senso, il fluido del suo circuito, la pompa deve vincere il
∆P contrario indotto dalle pompe 1 e 2. Lo sforzo richiesto potrebbe essere così impegnativo da
rendere la pompa incapace di servire adeguatamente il suo circuito.
L’attivazione della pompa comporta comunque un ulteriore incremento del ∆P per i motivi
sopra specificati.
Indice di interferenza fra i vari circuiti
Come abbiamo visto, in un impianto tradizionale, man mano che si attivano le pompe cresce sia
il ∆P fra i collettori, sia il reciproco disturbo (cioè il livello d’interferenza) fra le pompe dei vari circuiti.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 60

Possiamo quindi, in base ad una simile correlazione, assumere il ∆P come indice atto a valutare
l’interferenza fra i circuiti. Ed è questo un indice di grande utilità pratica, perchè ci consente di
valutare (numericamente e in modo molto semplice) l’intensità di un fenomeno altrimenti molto
difficile e complesso da rappresentare quantitativamente.
Non è possibile stabilire con precisione valori al di sotto dei quali si può ritenere accettabile il
∆P: cioè valori, al di sotto dei quali l’interferenza fra i circuiti non causa evidenti irregolarità di
funzionamento. Tali valori dipendono infatti da troppe variabili, e sono legati anche al tipo di pompe
utilizzate. Si possono tuttavia ritenere generalmente accettabili ∆P inferiori a 0,4÷0,5 m c.a.
Valori più elevati (e non è raro trovare centrali con ∆P di 1,5÷2,0 m c.a.) possono invece
provocare gravi inconvenienti. Gli inconvenienti di maggior rilievo possono essere così riassunti:
Pompe che non riescono a dare la portata richiesta
È una grave disfunzione che succede soprattutto negli impianti in cui ci sono sia pompe grandi,
sia pompe piccole. In questi impianti, infatti, spesso le pompe piccole non riescono a “farcela” perchè
(come visto in precedenza) devono spendere troppe energie per vincere l’azione contraria delle pompe
più grandi. Ce la possono fare solo se viene disattivata una o più pompe degli altri circuiti, cioè solo se
diminuisce il ∆P contrario indotto dalle altre pompe. Ma di certo questa non è una soluzione
generalmente perseguibile.
Pompe che si bruciano facilmente
È una disfunzione legata al fatto che le interferenze fra i circuiti possono portare le pompe a
lavorare fuori campo, vale a dire in condizioni che portano le pompe stesse a bruciarsi facilmente.
Radiatori caldi anche a pompa ferma
Come l’anomalia è dovuta alle correnti parassite inverse generate dalle pompe attive. Va
considerato che fenomeni simili possono succedere anche per circolazione naturale o per circolazione
nei by-pass con valvole di regolazione chiuse.
Quando è dovuta ad un elevato ∆P fra i collettori, questa anomalia presenta però caratteristiche
specifiche che la fanno riconoscere facilmente: i radiatori hanno superfici calde in modo irregolare e i
loro attacchi di ritorno sono più caldi di quelli di mandata: logica conseguenza del fatto che i radiatori
sono riscaldati con correnti di senso inverso a quello previsto.
Altre anomalie
Accanto alle anomalie segnalate, ce ne sono altre, magari meno visibili, ma non per questo meno
importanti. Anomalie che possiamo riassumere con una semplice constatazione: ben difficilmente gli
impianti tradizionali con elevato ∆P tra i collettori (cosa che succede quasi sempre negli impianti
medio-grandi) possono lavorare nelle condizioni di progetto previste: cioè nelle condizioni ottimali.
Uso del separatore idraulico per azzerare le interferenze fra i circuiti
Per giustificare la fondatezza di questa tesi, possiamo considerare l’impianto sotto riportato e
dimostrare che il suo ∆P fra i collettori è praticamente sempre uguale a zero.
In vero si tratta di una dimostrazione abbastanza facile. Infatti, come visto in precedenza, a
pompe attive il ∆P fra i collettori è uguale alla pressione che le pompe devono spendere per far
passare il fluido dal collettore di ritorno a quello di andata: pressione che, nel caso in esame, è
praticamente nulla perchè il fluido, per passare da un collettore all’altro, deve vincere solo le resistenze
del separatore, vale a dire resistenze sostanzialmente nulle, dato che il separatore altro non è che un
largo by-pass fra i collettori.
Dunque, con questa specie di uovo di Colombo, si può evitare, in modo molto semplice, il
nascere di qualsiasi interferenza fra i circuiti e pertanto si possono evitare tutti i problemi connessi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 61

Aspetti da considerare quando si usa un separatore idraulico


Sono aspetti che riguardano essenzialmente il dimensionamento delle pompe e il bilanciamento
dei circuiti di regolazione.
Pompe a monte del separatore
La portata di queste pompe va determinata in base al calore che esse devono trasportare e al
salto termico ipotizzato per tale “trasporto”, normalmente variabile da 10 a 20°C.
Pompe dei circuiti derivati dai collettori
La loro prevalenza va determinata considerando che, a differenza di quanto avviene negli
impianti tradizionali, non devono essere messe in bilancio le perdite di carico del circuito caldaia.
Bilanciamento dei circuiti di regolazione
Non è necessario bilanciare il by-pass con valvola di taratura o con Autoflow (vedi quanto detto
in precedenza). Infatti, a differenza di quanto avviene negli impianti tradizionali, il circuito da cui
deriva calore e il circuito di by-pass hanno, in qualsiasi posizione della valvola, perdite di carico
sostanzialmente uguali in quanto sostanzialmente nulle.
Separatori idraulici lungo le linee di distribuzione
Oltre che per evitare interferenze fra i circuiti, i separatori possono essere vantaggiosamente
utilizzati anche per servire sottostazioni di impianti a sviluppo esteso.
In questi casi, servono ad evitare l’inserimento di scambiatori nelle sottocentrali, oppure ad
impedire che le pompe della distribuzione principale disturbino troppo quelle che lavorano nelle
sottostazioni.
Lo schema, riportato in Figura 70, illustra in merito la soluzione adottata per riscaldare una
scuola con un’unica centrale termica e quattro sottostazioni, poste a servizio di edifici fra loro
indipendenti.
Gli Autoflow sono utilizzati per dare ad ogni separatore, e quindi ad ogni sottostazione, la giusta
quantità di fluido.

Figura 69: Uso del separatore idraulico fra i circuiti


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 62

Figura 70: Inserimento dei separatori idraulici lungo le linee di distribuzione


Osservazioni conclusive sui separatori idraulici
Prima di chiudere questo lungo discorso é opportuno soffermare la nostra attenzione su alcuni
aspetti, organizzativi e operativi, che riguardano più da vicino la realizzazione della Centrale termica.
Va subito ben sottolineato che è decisamente sconsigliabile iniziare i lavori senza un piano
preciso, sperando che, strada facendo, tubo dopo tubo, l’insieme della Centrale si definisca da solo:
anzi questa è la via più sicura per ottenere pessimi risultati.
È necessario invece, ancor prima di iniziare i lavori, aver ben chiaro dove installare la caldaia,
che tipo di collettori utilizzare, dove far passare i tubi, dove installare i vasi di espansione, le pompe, le
apparecchiature di regolazione e tutti i componenti principali: cioè è necessario aver ben chiaro lo
sviluppo esecutivo della Centrale.
Per definire tale sviluppo, in genere non servono dettagliati disegni in bella copia: possono
bastare semplici abbozzi o schizzi. Risultano molto utili i moderni CAD termotecnici che consentono
di definire con molta precisione il layout sia della Centrale termica che dell’intera rete.
In Figura 71 e in Figura 72 si hanno due esempi di layout ottenuto con un CAD termotecnico di
nuova generazione.
È importante, inoltre, che le Centrali siano pensate e realizzate in modo semplice e razionale: la
loro “trama” deve essere facilmente “leggibile”. Centrali troppo complicate costano di più non solo in
fase di realizzazione, ma anche (rendendo tutto più difficile) in fase di gestione e di manutenzione.
Va infine considerato che la Centrale è, quasi sempre, la zona dell’impianto che esige più
esperienza ed impegno.
D’altra parte è anche la zona dell’impianto che meglio può ripagare il lavoro svolto, perchè
meglio può far risultare le scelte, la serietà e la professionalità di chi l’ha realizzata, oltre che essere
motivo di giusto orgoglio per chi “ci tiene” al proprio lavoro.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 63

Figura 71: Esempio di piping di una centrale termica con un moderno CAD termotecnico

Figura 72: Esempio di dettagli costruttivi per il piping di centrale con un moderno CAD

1.11.3 IL DISPOSITIVO AUTOFLOW


Il dispositivo Autoflow è uno stabilizzatore automatico di portata la cui funzione è quella di
mantenere costante la portata al variare della pressione differenziale tra monte e valle.
L'elemento regolatore dell'Autoflow è costituito di due parti essenziali (Figura 73):
⋅ 1. un pistone che presenta, quali sezioni di passaggio per il fluido, un foro di testa e aperture
laterali a geometria variabile;
⋅ 2. una molla a spirale che contrasta la spinta del fluido sul pistone.
L'equilibrio si realizza tra la forza della molla e la forza creata dalla pressione differenziale tra
monte e valle sulla superficie della testa del pistone.

Figura 73: Sezione di un dispositivo di autoflow


Le leggi dell’equilibrio dell’autoflow sono le seguenti:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 64

G = KA∆p 0.5
F = ∆p A0

F = Ks X
ove si ha il seguente simbolismo:
⋅ G portata del fluido;
⋅ K coefficiente di equilibrio;
⋅ A Sezione di passaggio del fluido;
⋅ F Forza;
⋅ ∆p Pressione differenziale;
⋅ A0 Superficie della testa del pistone;
⋅ Ks Costante caratteristica della molla;
⋅ X spostamento del pistone.
Elaborando opportunamente le relazioni precedenti si arriva a definire la geometria che deve
avere la sezione di passaggio del fluido affinché la portata rimanga costante al variare della pressione
differenziale., come si può osservare in Figura 73. A seconda della portata nominale e del campo di
pressione differenziale di lavoro, cambiano le forme e le dimensioni delle sezioni di passaggio. Queste
sono legate naturalmente alle dimensioni di ingombro complessive del regolatore stesso. Per questo
motivo i regolatori Autoflow vengono costruiti con forme e grandezze differenti. Il funzionamento
del dispositivo Autoflow può essere meglio compreso facendo riferimento alla curva ∆p-G e ad uno
schema di base che evidenzino l'andamento delle grandezze in gioco. Si hanno tre casi possibili.
Flusso sotto il campo di lavoro
In questo caso il pistone di regolazione resta in equilibrio senza comprimere la molla e offre al
fluido la massima sezione libera di passaggio. In pratica il pistone agisce come un regolatore fisso
e,quindi,la portata che attraversa l'Autoflow dipende solo dalla pressione differenziale.

Figura 74: Curva ∆p-G per un autoflow sotto il campo di lavoro


Flusso entro il campo di lavoro

Figura 75; Curva ∆p-G per un autoflow entro il campo di lavoro


Se la pressione differenziale è compresa nel campo di lavoro, il pistone comprime la molla e
offre al fluido una sezione di libero passaggio tale da consentire il regolare flusso della portata per cui
è abilitato. La portata nominale viene mantenuta con una tolleranza del 5%.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 65

Flusso fuori dal campo di lavoro

Figura 76: ∆p-G per un autoflow fuori dal campo di lavoro


In questo campo di lavoro il pistone comprime completamente la molla e lascia solo il foro di
testa come via di passaggio per il fluido. Come nel primo caso il pistone agisce da regolatore fisso.
La portata che attraversa l'Autoflow dipende, quindi, solo dalla pressione differenziale.
Applicazione dell’autoflow nei circuiti
Seguono alcuni esempi di applicazione dell’autoflow nei vari tipi di circuiti.
I dispositivi Autoflow vanno installati sulla tubazione di ritorno del circuito. Servono a far fluire,
attraverso le colonne, le quantità di fluido richieste.
Squilibri nella ripartizione delle portate possono, comunque, determinarsi lungo le colonne per i
motivi evidenziati nell’esame dei circuiti semplici. Per tale ragione, questi circuiti sono normalmente
utilizzati in edifici che non superano i 5 o 6 piani.
I dispositivi Autoflow vanno installati sulla tubazione di ritorno del circuito. Sono in grado di
far fluire, attraverso ogni terminale, le quantità di fluido richieste.
Si fa notare come in questo caso non sia necessario bilanciare tra di loro le colonne, dato
l’ampio campo di lavoro dell’Autoflow.
Nel caso di valvole manuali invece, si sarebbero dovute bilanciare anche queste ultime tra di
loro inserendo in più una valvola di bilanciamento per ogni colonna stessa.

Figura 77: Bilanciamento con autoflow ai piedi delle colonne


Gli Autoflow posti sul ritorno delle derivazioni di zona consentono di mantenere costante la
portata di ogni derivazione sia a valvole aperte, sia a valvole chiuse.
In questo caso non è necessario bilanciare le vie di by-pass delle valvole a tre vie, in quanto
l’Autoflow assorbe automaticamente le eventuali variazioni di perdite di carico tra la via aperta verso
l’utenza o aperta verso il by-pass.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 66

Figura 78: Bilanciamento con autoflow in ogni terminale

Figura 79: Bilanciamento con autoflow in impianti con valvole a tre vie

Figura 80: Regolazione con autoflow delle batterie con valvole a tre vie
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 67

Inoltre, nel caso di valvole a tre vie modulanti, esso mantiene costante la portata complessiva
anche nelle posizioni intermedie dell’otturatore della valvola.
I dispositivi Autoflow vanno installati sulla tubazione di ritorno del circuito. Gli Autoflow
consentono di mantenere costanti le portate dei circuiti di distribuzione sia a valvole aperte, sia a
valvole chiuse.
Inoltre, nel caso di valvole a tre vie modulanti, esso mantiene costante la portata complessiva
anche nelle posizioni intermedie dell’otturatore della valvola.

Figura 81: Regolazione con valvole a due vie e pompa a velocità variabile

Figura 82: Bilanciamento di gruppi di refrigerazione acqua con autoflow


I dispositivi Autoflow vanno installati sulla tubazione di ritorno del circuito. Questa soluzione è
utilizzata soprattutto in impianti con ventilconvettori e valvole di regolazione modulanti. Gli Autoflow
servono a stabilizzare la quantità di fluido che passa attraverso i terminali.
In un impianto con valvole a due vie e pompa a velocità variabile, senza una riequilibratura
automatica dell’impianto a carico ridotto (cioè senza Autoflow) si possono avere terminali con flusso
insufficiente. Tale situazione riduce, per esempio, in modo considerevole le capacità dei terminali di
deumidificazione.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 68

Figura 83: Bilanciamento delle torri di raffreddamento con autoflow

Figura 84: Bilanciamento di impianti di teleriscaldamento con autoflow


Per bilanciare i circuiti che servono gli evaporatori o i condensatori dei gruppi refrigeranti; sugli
scambiatori la portata è sempre costante anche nel caso di parzializzazione dei gruppi, con
conseguente ottimizzazione delle prestazioni. Negli impianti di teleriscaldamento, per bilanciare le
varie sottocentrali e limitarne la potenza termica al valore nominale; si assicurano così le condizioni
ottimali di funzionamento degli scambiatori di calore.
1.11.4 RIDUTTORI DI PRESSIONE
Sono dispositivi, vedi Figura 85, che servono a ridurre la pressione disponibile ad un valore
predefinito e costante. Sono essenzialmente costituiti da:
⋅ – un disco di regolazione,
⋅ – una molla di contrasto,
⋅ – una membrana elastica,
⋅ – uno stelo con otturatore collegato alla membrana.
Funzionano nel seguente modo:
⋅ 1. quando la pressione a valle supera quella di taratura del riduttore, il fluido comprime la
membrana e manda in parziale chiusura il dispositivo stelo-otturatore. In tal modo si determina
un incremento della resistenza al passaggio del fluido e di conseguenza una diminuzione della
pressione a valle.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 69

⋅ 2. quando la pressione a valle è inferiore a quella di taratura del riduttore, il fluido fa


decomprimere la membrana e manda in parziale apertura il dispositivo stelo-otturatore. In tal
modo si determina una diminuzione della resistenza al passaggio del fluido e di conseguenza un
incremento della pressione a valle, il cui valore in ogni caso non può superare quello della
pressione disponibile a monte.

Figura 85: sezione di un riduttore di pressione


I riduttori di pressione possono essere a sede normale e a sede compensata. Quelli a sede
compensata consentono prestazioni migliori soprattutto per quanto riguarda la precisione e la stabilità
di funzionamento
1.11.5 I DISCONNETTORI
Sono dispositivi antinquinamento che servono a garantire il “non ritorno” dell'acqua. Si usano
per proteggere le reti di acqua potabile da possibili contaminazioni di natura chimica o batteriologica.

Figura 86: Sezione di un disconnettore


Sono essenzialmente costituiti da tre zone fra loro indipendenti:
⋅ zona a monte: è separata dalla zona intermedia mediante una valvola di ritegno a molla.
⋅ zona intermedia: è dotata di un meccanismo che scarica l'acqua all'esterno quando la sua
pressione supera quella della zona a monte: cioè quando sussistono le condizioni per
un'inversione di flusso del fluido.
⋅ zona a valle: è separata dalla zona intermedia mediante una valvola di ritegno
a molla.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 70

I disconnettori possono essere con o senza prese di pressione. Quelli con prese di pressione
consentono di verificare il funzionamento o meno delle valvole di ritegno e del meccanismo di
scarico.
1.11.6 VALVOLE DI RITEGNO
Sono valvole che servono a consentire il passaggio del fluido in un solo senso. Possono essere
così classificate:
⋅ Valvole a battente o a clapet,
⋅ Valvole a disco o a tappo,
⋅ Valvole a sfera,
⋅ Valvole a fuso.
Le loro caratteristiche principali sono descritte nei manuali tecnici dei vari Costruttori.
Valvole a clapet
Sono caratterizzate dall’avere un otturatore a battente (o a clapet) incernierato al corpo valvola.
Il flusso normale mantiene aperto il battente, mentre il suo peso e il contro-flusso lo mandano
in chiusura. Sono utilizzate dove si richiedono basse perdite di carico.
Le normali valvole a battente provocano vibrazioni e farfallamenti nei regimi idraulici variabili.
In tali regimi è bene installare valvole speciali con battente equilibrato a contrappeso.
Nota: La messa in opera di queste valvole deve essere fatta in modo che l’otturatore resti chiuso
in assenza di flusso.

Figura 87: Sezioni di alcuni tipi di valvole di ritegno


Valvole a tappo o a disco
Aprono e chiudono mediante un otturatore (a tappo o a disco) che scorre come un pistone in
una apposita guida.
Il flusso normale solleva il pistone, mentre il suo peso, il contro-flusso e l’eventuale azione di
molle lo mandano in chiusura. Possono essere utilizzate anche in regimi idraulici pulsanti. Limiti
d’uso: depositi e incrostazioni possono compromettere la tenuta della chiusura.
Valvole a sfera
La loro azione di apertura-chiusura è affidata ad un otturatore a sfera. Il flusso normale solleva
la sfera, mentre il suo peso e il contro-flusso la mandano in chiusura. Sono utilizzate con fluidi viscosi
e con liquidi sporchi. E’ sconsigliabile il loro uso in regimi idraulici pulsanti.
Valvole a fuso
Aprono e chiudono mediante un otturatore a forma di fuso e con richiamo a molla. Il flusso
normale solleva il fuso, mentre il peso del fuso stesso, l’azione di una o più molle e il contro-flusso lo
mandano in chiusura. Sono utilizzate per limitare gli effetti dei colpi d’ariete. Limiti d’uso: depositi e
incrostazioni possono compromettere la tenuta della chiusura.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 71

1.11.7 VINCOLI DELLE TUBAZIONI


Vi sono dispositivi meccanici che servono ad equilibrare le forze, statiche e dinamiche, che
normalmente agiscono sulle reti di distribuzione. Forze di natura statica sono il peso proprio dei tubi,
il peso del fluido in essi contenuto e il peso di eventuali apparecchiature e accessori (raccordi,
valvolame, pompe, rivestimenti, ecc...). Forze di natura dinamica sono, invece, quelle che derivano
dalle dilatazioni termiche dei tubi.I vincoli delle tubazioni devono essere disposti in modo da evitare:
⋅ • sollecitazioni troppo elevate, specie in prossimità di attacchi flangiati e di saldature;
⋅ • percorsi a onda, che possono causare sacche d’aria (negli impianti di riscaldamento) e depositi
di acqua condensata (negli impianti a vapore).
In base al tipo di azione esercitata, i vincoli si possono così classificare:
⋅ punti fissi, servono a “bloccare” le tubazioni nei punti voluti;
⋅ guide, permettono lo spostamento dei tubi in una sola direzione;
⋅ appoggi o sostegni, hanno esclusivamente il compito di sostenere il peso delle tubazioni.
Punti fissi
Sono vincoli che bloccano le tubazioni in modo da impedire qualsiasi movimento. Si possono
classificare in punti fissi principali e punti fissi secondari.
Punti fissi principali
Si trovano all’inizio e alla fine dell’impianto, vedi Figura 88, come pure nei tratti con curve.
Devono essere dimensionati in modo da poter resistere all’azione delle seguenti forze:
⋅ • spinte conseguenti alla deformazione dei dilatatori (per i dilatatori artificiali, il valore di tale
spinta è in genere fornito dal costruttore);
⋅ • resistenza dovuta agli di attriti delle guide che sono comprese fra il compensatore e il punto
fisso;
⋅ • spinta dovuta alla pressione del fluido (praticamente da considerarsi solo in impianti a vapore
o ad acqua surriscaldata);
⋅ • forza centrifuga indotta dalla velocità del fluido (generalmente questa spinta si considera solo
per tubazioni che hanno diametro superiore a 300 mm).

Figura 88: Schematizzazione dei punti fissi principali


Punti fissi secondari o intermedi
Sono posti su tubazioni rettilinee con lo scopo di suddividere queste in tratti di minor
lunghezza, aventi ciascuno una dilatazione propria.
Se si utilizzano compensatori artificiali, la lunghezza dei tratti compresi fra due punti fissi è
generalmente scelta in base alla corsa massima dei compensatori stessi. I punti fissi secondari devono
resistere alle spinte conseguenti alla deformazione dei dilatatori e alla resistenza dovuta agli attriti delle
guide.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 72

Figura 89; Schematizzazione dei punti fissi secondari


Guide
Sono vincoli che consentono alle tubazioni di muoversi solamente lungo una direzione
prefissata. In base al tipo di scorrimento, si possono classificare in guide ad attrito radente e in guide
ad attrito volvente. Le guide ad attrito radente scorrono per strisciamento sulle superfici di appoggio.
Le guide ad attrito volvente si muovono, invece, su appositi rulli e consentono spostamenti più
uniformi. Sono da preferirsi per i tubi di grande diametro.

Figura 90: Esempi di guide


Appoggi e sostegni
Sono vincoli che lasciano alle tubazioni la possibilità di muoversi assialmente e lateralmente. Gli
appoggi lavorano in compressione e scaricano il peso dei tubi su travi o mensole di supporto.
I sostegni sono vincoli che lavorano in trazione e tengono sospesi i tubi mediante collari pensili..

Figura 91: Esempi di sostegni a mensole


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 73

Figura 92: Esempi di sostegni a collare

1.11.8 CIRCUITI INVERSI


Questo circuito - definito anche “compensato” o “bilanciato” - consente di garantire ai suoi
terminali (corpi scaldanti, colonne o derivazioni di zona) valori di prevalenza pressoché uguali fra loro.
Simile prestazione si ottiene sviluppando il circuito in modo tale che:
⋅ il primo terminale dell’andata sia l’ultimo del ritorno;
⋅ il secondo terminale dell’andata sia il penultimo del ritorno;
⋅ il terzo terminale dell’andata sia il terzultimo del ritorno, e così via fino a che
⋅ l’ultimo terminale dell’andata sia il primo del ritorno.

Figura 93: Esempi di reti a circuito inverso


Il circuito inverso può essere del tipo a sviluppo lineare (comunemente detto a tre tubi o anello di
Tikelmann) oppure a sviluppo anulare (falso tre tubi).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 74

Le applicazioni di questo circuito (specie nel tipo a sviluppo lineare) sono limitate soprattutto
dai suoi costi relativamente elevati. In molti casi, il bilanciamento delle derivazioni di rete può essere
ottenuto più convenientemente con valvole di taratura o con limitatori di portata.

1.11.9 DILATAZIONI LINEARI DELLE TUBAZIONI


Per effetto della temperatura del fluido di lavoro le tubazioni sono soggette a dilatazione termica
della quale si deve tenere conto in sede progettuale.
Le dilatazioni termiche lineari possono essere calcolate con la formula:
∆L = α— ∆L ∆T
dove:
∆L = dilatazione termica lineare, mm
α = coefficiente di dilatazione termica lineare, mm/m°C
∆L = lunghezza della tubazione, m
∆T = differenza di temperatura, °C
Nella seguente Tabella 11sono riportati i valori di 〈 per i tubi normalmente utilizzati negli
impianti idro-termosanitari.

Tabella 11: Coefficienti di dilatazione per alcuni materiali


In alternativa alla tabella si può utilizzare l’abaco di Figura 94 che fornisce i coefficienti di
dilatazione per i vari materiali d’uso in funzione della temperatura.

Figura 94: Abaco per il calcolo dei coefficienti di dilatazione lineare


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 75

Controllo delle dilatazioni termiche


Negli impianti con reti di distribuzione a sviluppo limitato, le dilatazioni termiche dei tubi sono
in genere assorbite dalla elasticità “naturale” delle reti stesse. Tale elasticità dipende soprattutto dal
numero e dal tipo di curve inserite nella rete.
Le curve, infatti, si deformano facilmente e possono così assorbire in modo “naturale”
l’allungamento e l’accorciamento dei tubi. Le curve che meglio assorbono le dilatazioni termiche dei
tubi sono quelle che hanno diametri piccoli ed elevati raggi di curvatura.
Al contrario, negli impianti a grande sviluppo, l’elasticità propria delle reti non è in genere
sufficiente a garantire l’assorbimento delle dilatazioni termiche. In questi casi si deve provvedere alla
messa in opera di appositi compensatori che possono essere di tipo naturale o artificiale.
Compensatori naturali
Sono così definiti i compensatori ottenuti con tratti rettilinei e con curve degli stessi tubi che
costituiscono le reti di distribuzione. Questi dispositivi di dilatazione sono facili da realizzare, sono
poco costosi e hanno un elevato grado di sicurezza.
Possono però presentare l’inconveniente di richiedere molto spazio e, quindi, non sempre sono
realizzabili, specie quando i tubi sono posti in cunicoli o in cavedi.
Per limitare le loro dimensioni, questi compensatori possono essere messi in opera con una
pretensione, cioè con uno stato di tensione di segno contrario a quello indotto dalla dilatazione
termica dei tubi. Simile tecnica di montaggio consente di ridurre l’entità della dilatazione effettiva da
assorbire.

Figura 95: Abaco per i dilatatori ad U


Solitamente conviene che l’allungamento di pretensione sia uguale a metà della dilatazione
termica prevista. I compensatori naturali più comunemente usati sono quelli che hanno forma
geometrica a U, L e Z.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 76

In genere i compensatori a U devono essere realizzati appositamente, mentre i compensatori a


L, oppure a Z, possono essere ricavati anche dal normale percorso delle tubazioni, posizionando
opportunamente i punti fissi e le guide di scorrimento.
I diagrammi di Figura 95, Figura 96 e Figura 97 consentono di dimensionare i compensatori del
tipo a U, L e Z in relazione al loro diametro e al valore della dilatazione da compensare.
Compensatori artificiali
Sono dispositivi meccanici, deformabili con facilità, appositamente costruiti per poter assorbire
le dilatazioni termiche dei tubi.
Commercialmente sono disponibili nei tipi: a soffietto metallico, in gomma, a telescopio e a
tubo flessibile.
Compensatori a soffietto metallico
Sono tratti di condotto costituiti principalmente da una parete metallica ondulata e deformabile,
simile ad un soffietto.
Assicurano una buona tenuta (anche con forti pressioni e con temperature elevate), non sono
ingombranti e hanno la possibilità di compiere un’ampia gamma di movimenti.
Per queste loro caratteristiche, i compensatori a soffietto metallico sono molto utilizzati negli
impianti sanitari e di riscaldamento nonché negli impianti industriali. Secondo il tipo di movimento si
classificano in: assiali, laterali e angolari.
E’ importante ricordare che questi compensatori per poter lavorare correttamente debbono
avere le omega non in tensione inizialmente. Essi vengono montati con una compressione iniziale in
modo che la successiva dilatazione termica venga assorbita dalla dilatazione delle omega.
Se montati non correttamente questi dilatatori possono provocare incidenti anche gravi
(specialmente nelle tubazioni ad acqua surriscaldata) per rottura a fatica delle omega.
Compensatori in gomma
Sono dispositivi di compensazione costituiti essenzialmente da un tratto di condotto in gomma
con superficie a “onda” semplice o multipla. Sono in grado di assicurare compensazioni assiali, laterali
e angolari.
Sono, inoltre, particolarmente utili per assorbire le vibrazioni e per interrompere la continuità
metallica.
Questi compensatori non sono utilizzabili né con alte temperature (temperatura massima
100÷105°C), né con elevate pressioni (pressione massima 8÷10 atm) e neppure con quei fluidi che, per
le loro caratteristiche fisico-chimiche, non possono essere convogliati in condotti di gomma.
Compensatori telescopici
Sono realizzati con due tubi coassiali liberi di scorrere fra loro come gli elementi del tubo di un
telescopio. La tenuta idraulica è ottenuta con una o più guarnizioni in materiale elastico.
I compensatori telescopici possono essere utilizzati solo con pressioni limitate e con movimenti
delle tubazioni rigorosamente assiali.
Se i movimenti delle tubazioni non sono assiali, i tubi interni dei compensatori tendono ad
“impuntarsi”, compromettendo così l’efficienza della tenuta idraulica.
Compensatori a tubo flessibile
Sono dei semplici tubi flessibili. Devono essere installati perpendicolarmente alla direzione in
cui avviene la dilatazione termica.
I compensatori a tubo flessibile sono utilizzati soprattutto per assorbire le dilatazioni dei tubi
piccoli e medi. Con i tubi di elevato diametro, questi compensatori risultano troppo ingombranti.
Si tenga presente quanto detto per i compensatori a soffietto: anche questi compensatori
debbono lavorare correttamente evitando che la dilatazione termica produca tensioni superiori a quella
di rottura.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 77

Figura 96: Abaco per dilatatori ad L

Figura 97: Abaco per dilatatori a Z


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 78

Figura 98: Schema di funzionamento dei compensatori a soffietto


1.12 DIMENSIONAMENTO DELLE RETI DI DISTRIBUZIONE DELL’ARIA
Le reti di distribuzione per l’aria, possono essere classificate in:
⋅ • condotte di mandata;
⋅ • condotte di ripresa;
⋅ • condotte di aspirazione;
⋅ • condotte di espulsione.
Questa classificazione è sostanzialmente ininfluente sulla tecnologia costruttiva delle condotte,
poiché la tecnica della loro realizzazione non varia, nella maggior parte dei casi, con la variazione di
direzione del flusso d’aria.
La distinzione può diventare invece importante nel momento in cui intervengono fattori o
vincoli che determinano un diverso dimensionamento delle condotte, oppure esigenze che obbligano
al conseguimento di una determinata tenuta alle fughe d’aria, oppure ancora le problematiche
connesse alla coibentazione termica.
1.12.1 CLASSIFICAZIONE DELLE CONDOTTE PER L’ARIA
Negli impianti di condizionamento esistono due metodi per convogliare l’aria verso i locali
condizionati, chiamati “a bassa” e “ad alta” velocità. La linea di separazione tra i due sistemi non è ben
definita, tuttavia, come valori di riferimento per le velocità iniziali, il progettista può assumere i
seguenti:
⋅ 1. Impianti commerciali e residenziali:
⋅ a) Bassa velocità: fino a 13 m/s. Normalmente compresa fra i 6 e gli 11 m/s;
⋅ b) Alta velocità: sopra i 13 m/s.
⋅ 2. Impianti industriali:
⋅ a) Bassa velocità: fino a 13 m/s. Normalmente compresa tra gli 11 ed i 13 m/s;
⋅ b) Alta velocità: da 13 a 25 m/s.
I canali di ripresa negli impianti a bassa o ad alta velocità vengono normalmente dimensionati a
bassa velocità. Per i canali di ripresa le velocità raccomandate sono:
⋅ 1. Impianti commerciali e residenziali:
⋅ Bassa velocità: fino a 10 m/s. Normalmente compresa tra 7.5 e 9 m/s.
⋅ 2. Impianti industriali:
⋅ Bassa velocità: fino a 13 m/s. Normalmente compresa tra 9 e 11 m/s.
In base alle pressioni, i canali per la distribuzione dell’aria vengono divisi in tre categorie.
Queste, che corrispondono alle classi I, II e III dei ventilatori, vengono definite nel modo
seguente:
⋅ 1. Bassa pressione: fino a 900 Pa, ventilatore della classe I.
⋅ 2. Media pressione: da 900 a 1700 Pa, ventilatore della classe II.
⋅ 3. Alta pressione: da 1700 a 3000 Pa, ventilatore della classe III.
Questi valori si riferiscono alla pressione totale e comprendono le perdite di carico che si
verificano nella centrale di trattamento dell’aria, nei canali di distribuzione e nei diffusori.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 79

La funzione di una rete di canali è di convogliare l’aria dalla centrale di trattamento ai vari locali
da condizionare. Per assolvere questa funzione nel migliore dei modi, la rete di distribuzione deve
essere progettata avendo presente diversi fattori, quali: lo spazio a disposizione, le perdite di carico, la
velocità dell’aria, il livello di rumorosità, le rientrate e le dispersioni di calore, le fughe per la non
perfetta tenuta.
Per i canali di mandata e di ripresa, lo spazio disponibile per la loro sistemazione e l’aspetto
estetico determinano, molto spesso, il progetto ed impongono, a volte, un tipo di impianto.
Negli alberghi e negli uffici, con una disponibilità di spazio limitata, l’impiego di terminali ad
induzione con canali d’aria circolari ad alta velocità può risultare spesso, a parte ogni altra
considerazione, la soluzione migliore.
Nei grandi magazzini o nei grossi centri commerciali già esistenti, l’impianto può richiedere dei
canali in vista appesi al soffitto. In questo caso sono particolarmente consigliati dei canali a sezione
rettangolare costante che assumono l’aspetto di travi.
Per ottenere questo risultato, i canali dovranno essere esternamente lisci e ridotti al massimo i
cambiamenti di sezione.
Negli impianti industriali, l’ingombro e l’aspetto estetico dei canali assumono un’importanza
secondaria. Anche per questi impianti, comunque, spesso il canale a forma rettangolare rappresenta la
soluzione migliore e più economica.
Le canalizzazioni, possono essere dimensionati, analogamente a quanto visto per le reti ad
acqua, con i metodi a velocità costante , perdita specifica di pressione costante e con un nuovo
metodo, valido solo per i canali d’aria, detto a recupero di pressione (vedi nel prosieguo).
In questo caso, però, occorre tenere conto che la distribuzione dell’aria trova i terminali alla
stessa pressione, quella ambientale.
Metodo a velocità costante per i canali d’aria
Nel primo caso si procede sostanzialmente come già indicato per le tubazione dell’acqua. La
portata da immettere in ogni ambiente tramite i terminali (bocchette di mandata o diffusori) è
calcolata in proporzione al carico termico dell’ambiente rispetto a quello totale.
Q
mɺ i = mɺ 0 i [70]
Q0
con Qi carico totale dell’ambiente i.esimo, Q0 carico totale dell’edificio, mɺ 0 portata massica totale
dell’edificio dell’aria, mɺ i portata massica dell’aria nell’ambiente i.esimo.
Note le portate nei tronchi terminali18 si calcolano le portate nei tronchi principali. Si impone la
velocità in ogni tronco avendo cura di scegliere il valore più opportuno contemperando le esigenze di
economicità della rete con quelle dell’efficienza e della silenziosità. I valori consigliati, per edifici civili,
sono i seguenti:
Velocità minima (m/s) Velocità massima (m/s)
Tronchi principali 4 8
Tronchi secondari e terminali 2 4
Tronco in partenza dalla soffiante 4 16
Tabella 12: Valori consigliati delle velocità dell’aria nei canali
Utilizzando l’abaco di Figura 36 per l’aria si determina, note le coppie ( mɺ i , wi) il diametro
equivalente, Deq, e la perdita specifica di pressione ψi di ogni ramo.
Noto il diametro equivalente si determinano le dimensioni a e b della sezione rettangolare
equivalente (a parità delle perdite di pressione) mediante la relazione:
( a ⋅ b)
0,625

Deq = 1.3 [71]


( a + b)
0,25

18 Cioè quelli che portano l’aria ai diffusori negli ambienti.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 80

ove una delle dimensioni deve essere fissata a priori. Di solito si impone l’altezza a del canale
per motivi di ingombro (controsoffitto) e quindi la precedente relazione consente di calcolare b. I Valori
usuali delle dimensioni dei canali variano a modulo di 50 mm. Pertanto determinata la sezione
rettangolare finale occorre ricalcolare il Deq mediante la [71] e poi, tramite l’abaco per l’aria, riottenere i
valori finali della velocità e della perdita specifica di pressione.
Fatti i calcoli per ogni circuito occorre poi calcolare le effettive pressioni a monte delle
bocchette di mandata ed inserire delle serrande di regolazione in modo che ogni bocchetta (o
anemostato) abbia la differenza di pressione necessaria per il lancio e la velocità di uscita desiderati. La
soffiante dovrà fornire, per la portata totale, un ∆p capace di far fronte alle perdite nei canali di
distribuzione e nelle apparecchiature interne alla centrale di trattamento aria.
Queste cadute di pressione (per le batterie calde e/o fredde, per l’umidificatore, il separatore di
gocce, filtri, …) sono fornite dai costruttori delle stesso apparecchiature e sono riportate in abachi
specialistici nei manuali tecnici.

Tabella 13: Pesi dei canali d’aria


Metodo a perdita specifica costante per i canali d’aria
Anche in questo caso occorre tenere presente la formazione della rete dei canali. Il metodo a
ψ=costante si applica con qualche leggera variazione rispetto ai condotti d’acqua.
Di solito la velocità di uscita dalla soffiante viene imposta sia per ottenere dimensioni minime
dei canali d’aria, proprio per il tronco principale che convoglia l’intera portata massica della rete, sia
per motivi tecnici relativi alla selezione della soffiante.
Pertanto si fissa la velocità del primo tronco secondo quanto indicato nella Tabella 12 e si
procede a w =costante come indicato nel precedente paragrafo e si impone la perdita specifica di
pressione, ψ0, così ottenuta a tutti gli altri tronchi a valle. A partire dal secondo tronco, quindi, si opera
utilizzando l’abaco di Figura 36 con le coppie iniziali di dati (ψ0, mɺ i ).
Si rilevano dall’abaco i valori della velocità e del diametro equivalente. Adesso per calcolare le
dimensioni della sezione rettangolare equivalente occorre utilizzare la [46].
Come al solito si fissa l’altezza della sezione, a, e si calcola la larghezza b mediante la suddetta
relazione o mediante la Tabella 9. Fissate le dimensioni reali commerciali si ricalcola il Deq e tramite
l’abaco si ottengono le effettive velocità e perdite specifiche di pressione.
Completati i calcoli per tutti i rami si procede al bilanciamento della rete.
In questo caso, però, si potrebbe utilizzare il metodo a perdita specifica costante calcolando la
pressione effettiva al nodo di attacco di ogni tronco terminale e, note le dimensioni geometriche e le
tipologie delle perdite localizzate, calcolare la ψ da imporre per avere la stessa pressione finale.
In questo modo si ha una rete certamente più bilanciata rispetto al metodo a velocità costante.
In Figura 99 si ha un esempio di rete di canali: è possibile osservare la particolare disposizione
dei canali che consente un eventuale mascheramento con finte travi e/o finti pilastri.
Si osservi l’ingombro della rete ad aria rispetto a quella ad acqua (vedi Figura 48).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 81

Figura 99: Esempio di installazione di canali d’aria


Metodo a recupero di pressione
Si definisce pressione statica quella esercitata dall’aria perpendicolarmente alle pareti del condotto
mentre si definisce pressione dinamica quella esercitata su una superficie perpendicolare alla direzione del
moto. In corrispondenza di un allargamento brusco di sezione, vedi Figura 105, l’aria nel canale
subisce una espansione dando luogo ad una produzione di lavoro. Infatti dalla equazione dell’energia:
dq − dl = dh + gdz + wdw
assumendo che la trasformazione sia adiabatica ed isoterma si ha, dh = c p dT + vdp = vdp :

=0
vdp + wdw = 0
La somma della pressione statica e quella dinamica è la pressione totale del fluido. Quindi ad un
decremento del termine cinetico (wdw) corrisponde un pari incremento del termine del termine
dipendente dalla pressione vdp. Se il volume specifico dell’aria si mantiene costante (ipotesi
ragionevole nel campo delle velocità usuali nell’impiantistica) si ha un lavoro:
∆l = v ( p2 − p1 )
Se la velocità a valle dell’allargamento è minore di quella a monte allora il lavoro viene fatto dalle
pressioni statiche. Si può pensare di utilizzare questo lavoro per vincere (in parte o tutto) le perdite di
pressione per attrito nel tratto a valle della diramazione.
Poiché la pressione dinamica vale:
w2
pd = ρ
2
la perdita di pressione dinamica fra monte e valle dell’allargamento vale:
w − w2
2 2
pd1 − pd2 = ρ 1
2
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 82

La variazione delle pressioni statiche può allora compensare la diminuzione delle pressioni
dinamiche. Il recupero di pressione statica vale allora:
w − w2
2 2
∆precuperata = ρ 1
2
Nella pratica non tutta la variazione di pressione statica viene recuperata anche per effetto delle
perdite di pressione nella variazione di sezione (Borda Carnot) e della variazione di direzione dei filetti
fluidi. E’ uso comune assumere che solo il 75% della pressione venga recuperata.
Il metodo detto a recupero di pressione si applica solo ai canali per l’aria negli impianti di
climatizzazione.
In corrispondenza degli allargamenti bruschi il recupero di pressione statica è determinato,
come si è detto, dal rallentamento del fluido a valle, tuttavia in corrispondenza di diramazioni dei
canali (ove si ha una variazione della portata che si distribuisce fra i rami) si può fare in modo di avere
un recupero di pressione statica anche se a valle della diramazione si ha un restringimento della
sezione.
La velocità dell’aria nel canale viene ridotta in corrispondenza ad ogni diramazione (dove si ha
una variazione di portata di massa o volumetrica) in modo che la caduta di pressione nel tratto
susseguente alla diramazione sia bilanciata dalla conversione di pressione dinamica in pressione statica.
I rami a valle del primo (di solito quello susseguente alla soffiante) sono dimensionati, quindi,
facendo recuperare pressione statica (che diminuisce con le perdite di pressione) mediante la
conversione di pressione dinamica consente alla variazione della sezione del canale a valle.
In questo modo la pressione statica dei canali rimane costante e la rete è bilanciata. Si supponga
di avere una semplice rete di canali come illustrato in Figura 107.
Pertanto dal punto di intersezione si determinano la velocità a valle, w2, e la variazione della
pressione statica che dovrà bilanciare le perdite totali del ramo. Il primo tratto (L1) viene dimensionato
con uno dei due precedenti criteri (ad esempio a w = costante, cioè alla velocità imposta dal
ventilatore).
Il tratto a valle (L2) si dimensiona in modo che la sua velocità, w2, produca una variazione di
pressione dinamica recuperata per il 75% (ipotesi di partenza) e data dalla relazione:
 w2 − w22 
∆pdinamica = 0.75  1 ρ [72]
 2 
con velocità w espresse in [m/s].
Deve essere verificata l’eguaglianza:
 w2 − w22 
0.75  1  ρ = ( L + Leq )ψ ( w2 , Q )
 2 

con Q portata volumetrica dell’aria a valle della diramazione e ψ(w2,Q) funzione perdita di
pressione distribuita.
La metodologia di calcolo CARRIER (che qui non si dimostra) prevede il calcolo del parametro:
L
j = 0.61 [73]
Q

ove Q indica la portata volumetrica (m³/h) del tratto a valle ( Q = mɺ ( ρ ) ⋅ 3600 ). Noto il
parametri j si utilizza l’abaco della Figura 107 nel quale sono noti: la velocità del tratto a monte, w1
(m/s) e il parametro j. Assumendo l’ipotesi data dalla [72] sul recupero della pressione si può
utilizzare anche un metodo iterativo che può facilmente essere implementato su computer o su CAD
matematici19.

19 Ad esempio Mathematica®, Maple®, MathCad®, Matlab®, Derive®.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 83

Figura 100: Vista assonometrica di un impianto a tutt’aria


Infatti l’ipotesi del recupero del 75% di pressione dinamica per vincere le perdite statiche porta a
risolvere la seguente equazione:
w2 − w22 w2.49
0.75 ρ 1 = 0.175 ⋅ ( LRamo + Lequivalente ) ⋅ 20.64 [74]
2 Q2
ove vale il seguente simbolismo:
⋅ w1 velocità a monte del tratto, m/s;
⋅ w2 velocità a valle del tratto, m/s, (incognita del problema);
⋅ LRamo lunghezza geometrica del ramo a vallo, m;
⋅ Lequivalente lunghezza equivalente delle resistenze localizzate del tratto in progetto, m;
⋅ Q2 portata d’aria nel tratto a valle, m³/h.
L’equazione precedente deve essere risolta iterativamente, essendo w2 in entrambi i membri.
Determinata a velocità a valle si calcola l’area della sezione di passaggio mediante la relazione:
Q2
A= [75]
3600 ⋅ w2
e poi si calcola il diametro del canale:
4A
d=
π
Si dimensiona il canale scegliendo b e a in modo che abbiano la stessa perdita specifica di
pressione mediante la [46].
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 84

Figura 101: Particolare dei canali d’aria in una zona critica


Poiché la scelta delle due dimensioni reali comporta sempre uno scostamento rispetto al
diametro ideale occorre ricalcolare la velocità reale a valle. Infatti note le dimensioni b ed a si ha anche
la velocità reale a valle:
Q2
w2 reale =
3600 ⋅ ( b ⋅ a )

Figura 102: Particolare di attraversamento dei canali fra piani


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 85

p
statica

Figura 103: Misura della pressione statica in un canale

p
dinamica

Figura 104: Misura della pressione dinamica in un canale

p
to ta le
1

p 2
d ina m ica

p
sta tica

Figura 105: Andamento delle pressioni in un cambiamento di sezione


e pertanto la [74], questa volta con w2reale nota, fornisce la nuova percentuale del recupero20:
w22.49
0.175 ⋅ ( LRamo + Lequivalente ) ⋅ 0.64
reale

Q2
Precupero = ⋅100 [76]
w1 − w2reale
2 2

ρ
2

20 Questa equazione è stata derivata da interpolazioni dell’abaco Carrier sul metodo a recupero di pressione.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 86

Figura 106: Abaco per il calcolo del recupero della pressione statica
Esempio di calcolo di progettazione a recupero di pressione
In Figura 107 si ha una rete di distribuzione d’aria per un impianto di condizionamento.
Applicando il criterio a recupero di pressione e a perdita specifica costante si hanno le seguenti
tabelle comparative.
Dati di rete Calcolo a ψ costante (ψ=2 Pa/m) Calcolo a recupero di pressione statica
Tratto Q w S=Q/3600/w w S=Q/3600/w
3 2
m /h (m/s) (m ) (m/s) (m2)
0-1 5500 10 0.15 10.0 0.15
1-2 5000 9 0.15 9.0 0.15
2-3 3000 8 0.10 6.6 .12
3-4 1000 6 0.04 4.1 0.07
Tabella 14: Esempio di calcolo di una rete di canali
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 87

Dati di rete Calcolo a ψ costante (ψ=2 Pa/m) Calcolo a recupero di pressione


Tratto L+Leq ψ ∆p=ψ(L+Leq) ∆p
(m) (Pa)
(Pa/m) (Pa)
0-1 3 2 6 6
1-2 10 2 20
2-3 7 2 14
3-4 15 2 30
Totale 70 6
Tabella 15: Confronto fra le cadute di pressione

3m 10m 7m 15m

5500 mc/h
5000 mc/h 1000 mc/h
10 m/s

500 mc/h 2000 mc/h 2000 mc/h

Figura 107: Canali d’aria per il recupero di pressione


L’esame di queste tabella mostra come con il metodo a recupero di pressione statica porti ad
avere sezioni di canale maggiori rispetto al metodo a ψ costante ma, in compenso, la rete a valle del
primo tratto ha ∆p=0 e le cadute di pressione totali sono sensibilmente minori.
In definitiva con il metodo a recupero di pressione si hanno costi di installazione più elevati per
via delle maggior dimensioni dei canali e costi di gestione inferiori, sempre rispetto a qualunque altro
metodo di progetto, poiché le perdite di pressione totali sono notevolmente inferiori.

Figura 108: Esmpio di rete di canali d’aria di media estensione

1.12.2 CANALI AD ALTA VELOCITÀ


La distribuzione dell’aria condizionata ad alta velocità è essenzialmente legata alla necessità di
limitare l’ingombro delle canalizzazioni, e ciò a spese di una più elevata potenza richiesta per i
ventilatori.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 88

Per i sistemi di distribuzione dell’aria ad alta velocità valgono le regole generali viste fino ad ora;
in più, occorre tener conto di alcune importanti considerazioni:
⋅ Il livello sonoro dell’impianto deve essere accuratamente controllato. Qualora i terminali non
siano muniti di dispositivi afonici, è necessario installare a valle degli eventuali dispositivi di
miscelazione dell’aria canali rivestiti all’interno di materiale fonoassorbente.
⋅ Negli impianti ad alta velocità si ricorre frequentemente all’uso di canali a sezione circolare
(realizzati mediante nastro metallico avvolto a spirale) per la facilità di assicurarne la tenuta e per
la loro rigidità.
⋅ Devono impiegarsi curve e raccordi a bassa perdita di carico, per evitare cadute di pressione
eccessive ed eventuale rumorosità.
⋅ Le modalità di dimensionamento e di costruzione dei canali ad alta velocità sono oggetto di
manuali specializzati, che il progettista dovrà tenere opportunamente presenti.
1.12.3 ISOLAMENTO DEI CANALI D’ARIA
Le rientrate e le dispersioni di calore attraverso i canali di mandata e di ripresa possono risultare
rilevanti. Queste si verificano non solo quando i canali attraversano ambienti non condizionati (estate)
o non riscaldati (inverno), ma anche nei tratti molto lunghi installati in ambienti climatizzati.
Il trasferimento di calore avviene in estate dall’ambiente esterno all’aria che circola nel canale ed
in inverno in senso inverso. Per semplicità faremo riferimento al funzionamento estivo, ma con ovvia
estensione a quello invernale.
Nel calcolo del bilancio termico estivo, occorre tener conto delle rientrate di calore che si
verificano nel tratto di canale che attraversa un locale non condizionato.
Esse comportano una maggiore potenza frigorifera dell’impianto e, molto spesso, richiedono
una maggiore quantità di aria da inviare all’ambiente.
Frequentemente, oltre al maggior quantitativo, viene richiesta una temperatura più bassa dell’aria
di mandata.
Per ridurre le rientrate di calore, a volte può essere necessario modificare l’iniziale ripartizione
del quantitativo d’aria ai terminali. Inoltre, si è verificato che:
⋅ 1. le rientrate di calore maggiori si verificano nei canali che presentano il coefficiente di forma
più alto;
⋅ 2. canali con piccole portate, a bassa velocità, presentano le più elevate rientrate di calore;
⋅ 3. l’isolamento del canale riduce le rientrate: ad esempio, un rivestimento isolante con
coefficiente di trasmissione k = 0.7, ridurrà del 90% circa le rientrate di calore.
Se ne deduce facilmente che progettare i canali con il più basso coefficiente di forma e con una
velocità relativamente elevata serve a diminuire le rientrate di calore, così come si rivela molto utile
l’utilizzo di un isolante.
Con particolare cura si deve ovviamente evitare il fenomeno della condensazione sulla superficie
fredda dei canali, che si verifica quando la loro temperatura superficiale scende sotto la temperatura di
rugiada dell’aria dell’ambiente considerato: a questo punto si vede come un opportuno isolamento
delle condotte sia praticamente indispensabile.
La coibentazione delle condotte si realizza generalmente con feltri di fibra di vetro dello
spessore di 30 mm, avvolti all’esterno e finiti superficialmente con un foglio di plastica o di alluminio.
Non sono più accettabili gli isolamenti interni alle condotte, realizzati con fibre di vetro e film di
protezione, perché, nell’ipotesi di sfaldamento della protezione, le fibre vengono messe in circolo
nell’ambiente.
1.13 USO DI PROGRAMMI DI CALCOLO
Oggi non è difficile utilizzare programmi di calcolo che facilitano il progetto delle reti di
distribuzione secondo uno dei due metodi di calcolo anzidetti. Si possono anche utilizzare semplici
fogli elettronici nei quali si impostano le fasi di calcolo prima descritte.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 89

1.13.1 PROGRAMMI PER RETI DI DISTRIBUZIONE DELL’ACQUA CALDO E/O FREDDA


Reti di distribuzione in acciaio
Per le reti ad acqua calda con tubazioni in acciaio si può immaginare un algoritmo di progettazione
a ψ=costante schematizzato nelle seguenti fasi (che riepilogano quanto sopra fatto).
⋅ Numerare i nodi della rete in modo da individuare, per ciascun circuito, i singoli tratti;
⋅ Calcolare la portata di acqua calda per ciascun tratto terminale di circuito mediante la [64];
⋅ Calcolare la portata totale dei vari rami applicando il criterio di congruenza;
⋅ Scegliere da catalogo una pompa di circolazione con prevalenza giudicata sufficiente per il tipo
di impianto e per la portata totale sopra calcolata;
⋅ Fissare la percentuale di perdite distribuite da utilizzare per il calcolo della ψmedia di ogni circuito
mediante la [69] nella quale la lunghezza totale è nota;
⋅ Calcolare per ciascun tratto il diametro teorico mediante abachi o utilizzando la relazione21:
mɺ 0.36
d = 3.84 0.2
ψ
ove le unità di misura sono: d [mm], mɺ [kg/h], ψ [mm. c.a.];
⋅ Scegliere il diametro commerciale più vicino (in difetto o in eccesso) a quello teorico sopra
calcolato;
⋅ Calcolare la perdita specifica di pressione reale conseguente al diametro commerciale selezionato
mediante abaco o con la relazione:
mɺ 1.8
ψ reale = 8183 5
d
con d [mm], mɺ [kg/h], ψ [mm. c.a.];
⋅ Calcolare la velocità effettiva del fluido corrispondente al diametro commerciale selezionato
mediante abaco o mediante la relazione:
w = 0.00858 ⋅ψ 0.556 ⋅ d 0.778
con d [mm], w [m/s], ψ [mm. c.a.];
⋅ calcolare le perdite distribuite del ramo, ∆pdi = ψ i Li , e le perdite concentrate e quindi le perdite
totale del ramo;
⋅ ripetere le fasi precedenti per tutti i rami e quindi calcolare le perdite totali di ogni circuito
mediante la relazione ∆pcircuito = ∑ Rami ∆pi ;
⋅ ripetere il calcolo per tutti circuiti tenendo conto che i tratti comuni sono già dimensionati
(partendo dai circuiti più lunghi) e che di questi si conoscono le perdite specifiche vere e quindi
nel calcolo della ψmedia si deve tenere conto solamente dei rami ancora da dimensionare e della ∆p
che hanno disponibile;
⋅ Confrontare le cadute di pressione di tutti i circuiti e provvedere al calcolo delle resistenze di
compensazione (rispetto alla caduta di pressione maggiore) de circuiti più favoriti;
⋅ Verificare la scelta della pompa di circolazione.
Reti di distribuzione in Rame
Per tubi a bassa rugosità, quali sono le tubazioni in rame, si deve tenere conto delle minori
perdite per attrito. Usando ancora la relazione di Blasius, [29], si può calcolare:
mɺ 1.75
ψ = 0.214ν 0.25 ρ 4.75 ( Pa / m) [77]
d

21 Queste relazioni sono desunte direttamente dagli abachi visti in precedenza.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 90

ovvero:
mɺ 1.75
ψ = 14.68ν 0.25 ρ (mm c.a. / m) [78]
d 4.75
con d in (mm), ν in (m2/s), ρ in (kg/m3) e portata in (kg/s) per il S.I. e (litri/ora) nel S.T.
Si ricordi che per l’acqua sia ρ che ν variano con la temperatura. Ad esempio si hanno:
Temperatura (°C) Viscosità cinematica ν (m2/s) Densità ρ (kg/m3)
10 1.30 10-6 999.6
80 0.39 10-6 971.1
Tabella 16: Parametri termofisici per l’acqua
Relazione di Hazen Williams
Per calcolare la perdita di pressione specifica si può usare la relazione di Hazen Williams
seguente:
6.05 mɺ 1.85 109
ψ=
C 1.85 d 4.87
Con:
⋅ mɺ portata del fluido, [l/m];
⋅ ψ Perdita specifica di pressione, [mm.ca/m];
⋅ d diametro della tubazione, [mm];
⋅ C costante funzione del tipo di tubazione:
⋅ C=100 tubi in ghisa
⋅ C=120 tubi in acciaio
⋅ C=140 tubi in rame
⋅ C=150 tubi in plastica.
Dalla stessa relazione, nota ψ, si può calcolare il diametro della tubazione con la relazione:
0.205
 6.05 mɺ 1.85 109 
d = 
 C ψ
1.85

Queste due relazioni possono essere utilizzate in sostituzione delle precedenti.
Verifiche di funzionalità
Quanto sopra esposto si riferisce al puro calcolo delle reti di distribuzioni dell’acqua calda e/o
fredda. Nulla si è detto circa la verifica di funzionalità dell’impianto di distribuzione.
Il calcolo della portata di fluido è effettuata con la relazione
Q
mɺ =
c p ∆T

ove ∆T è la differenza di temperatura del fluido fra l’andata e il ritorno:


∆T = Tm − Tr
Ricordando che il terminale cede calore all’ambiente mediante la relazione:
Q = K ⋅ S ⋅ ∆Tml ⋅ F
con:
θ1 − θ 2
∆Tml = con: θ =t f1 − t f2
θ
ln 1
θ2
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 91

Figura 109: Schema di collegamento di un terminale


ed F opportuno fattore geometrico di scambio si ha che la trasmissione di calore all’ambiente
dipende dalla differenza di temperatura media logaritmica e dalla forma del corpo scaldante. Di solito
si pone lo scambio termico nella forma:
QCS = C ∆T n cs −amb
ove si ha:
- ∆Tcs −amb differenza di temperatura fra la Tmedia del corpo scaldante e l’aria ambiente;
-C coefficiente di scambio termico;
-n esponente che dipende dal corpo scaldante.
Si è visto nel Volume 2° di questo corso che n è fornito dai Costruttori dei corpi scaldanti con
riferimento ad uno scambio nominale (EN 442) di 50 °C fra corpo scaldante ed ambiente.

Tabella 17: Dati di libreria di radiatori commerciali


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 92

Tabella 18: Dati di libreria di fan coil commerciali


Nella Tabella 17 e nella Tabella 18 si hanno i dati funzionali di radiatori e fan coil commerciali
con l’indicazione dell’esponente n dianzi accennato.
Se, ad esempio, si ha una temperatura di mandata di 80 °C e di ritorno di 60 °C si ha una
temperatura media del corpo scaldante di Tmedia= (80+60)/2= 70 °C. Pertanto la differenza di
temperatura fra il corpo riscaldante e l’ambiente (supposto a 20 °C) è pari a ∆T=70 – 20 = 50 °C.

Modello Resa ∆T=50 n


Cont. acqua
Prof. Alt. Inter. Lungh. Φ attacco
Massa
EN442 [W] [L] [pollici] [kg]

TEMA 2-558 55 1,288 0,53 60 558 500 60 1 3,40


TEMA 2-681 69 1,287 0,60 60 681 623 60 1 3,90
TEMA 2-871 82 1,3 0,77 60 871 813 60 1 5,00
TEMA 3-400 55 1,295 0,51 94 400 342 60 1 3,70
TEMA 3-558 13 1,295 0,73 94 558 500 60 1 4,80
TEMA 3-640 84 1,3 0,75 94 640 581 60 1 5,30
TEMA 3-681 88 1,3 0,85 94 681 623 60 1 5,8
TEMA 3-790 102 1,305 0,9 94 790 731 60 1 6,5
TEMA 3-871 109 1,315 1 94 871 813 60 1 6,80
TEMA 4-558 93 1,299 0,84 128 558 500 60 1 5,80
TEMA 4-681 111 1,276 1,07 128 681 623 60 1 7,90
TEMA 4-871 137 1,331 1,34 128 871 813 60 1 8,60
TEMA 5-558 114 1,312 1,01 162 558 500 60 1 7,30
TEMA 5-681 136 1,322 1,23 162 681 623 60 1 9,00
TEMA 5-871 166 1,324 1,7 162 871 813 60 1 11,00
TEMA 8-300 103 1,326 1,18 267 300 242 60 1 6,70
NEOCLASSIC 4-571 80 1,295 0,68 141 576 500 55 1 4,65
NEOCLASSIC 4-665 92 1,309 0,74 141 669 595 55 1 5,25
NEOCLASSIC 4-871 112 1,345 0,86 141 871 800 55 1 6,89
NEOCLASSIC 6-665 134 1,3 0,96 222 665 595 55 1 1/4 8,30
NEOCLASSIC 6-871 169 1,32 1,5 222 871 800 55 1 1/4 10,80
Tabella 19: Esempio di dati per radiatori commerciali
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 93

In queste condizioni la potenza ceduto dal corpo scaldante è quella nominale (vedi Tabella 17).
Nel caso in cui si abbia un ∆T fra corpo scaldante ed ambiente diversa da 50 °C (valore nominale) allora
occorre apportare la correzione seguente:
n
 50 
QNom = QEff  
 ∆Treale 
per calcolare l’effettiva potenza ceduta dal corpo scaldante. Così, ad esempio, se si alimenta un
radiatore a 70 °C e la temperatura di ritorno è 60 °C risulta la ∆Tmedia= 65 °C e quindi la ∆TCS-amb=
65-20 = 45 °C. In base al dati, ad esempio, della Tabella 19, si avrebbe per il TEMA 2-558 (prima riga)
n= 1.288 ed una variazione di potenza ceduta pari a:
1.288
QNom  50 
=  = 1.145
QEff  45 

E quindi QEff=QNom/1.145. In definitiva l’avere ridotto il ∆T fra radiatore e ambiente comporta


una perdita del 14,5% di potenza termica ceduta. Ciò significa anche che occorre selezionare un corpo
scaldante di maggiori dimensioni per ottenere la potenza nominale di 55 W/elemento (con riferimento
all’esempio relativo al primo rigo della Tabella 19).
Oltre al comportamento del corpo scaldante occorre anche verificare che la portata che ad esso
perviene sia quella di progetto e cioè che sia verificata la relazione:
T + Tr
Q = mc ɺ p ( Tm − Tr ) = C ∆Tcs −amb = C  m 
− Tamb 
 2 
Ne consegue che non basta indicare, nel calcolo della rete di distribuzione, la sola ∆T fra
mandata e ritorno del fluido per avere la suddetta congruenza ma occorre anche verificare che ∆Tcs-amb
sia quello desiderato (50 °C nel caso di valore nominale) o che si sia scelto il corpo scaldante con superfice
corretta per i valori effettivi di scambio.
1.13.2 PROGRAMMI DI CALCOLO PER LE RETI DI DISTRIBUZIONE DELL’ARIA
Canali per la distribuzione dell’aria
Relazioni analoghe possono essere trovate per i canali d’aria. I passi di calcolo sono in tutto
simili a quanto detto in precedenza per le reti per l’acqua.
Occorre tenere presenti che tutti i terminali (diffusori e bocchette per l’aria) sono alla stessa
pressione atmosferica e quindi una rete di distribuzione per l’aria è fatta di circuiti aperti.
⋅ Il primo tratto, quello principale uscente dalla soffiante di mandata, si dimensiona fissando la
velocità di uscita variabile fra 4 ÷ 8 m/s. Si calcolano le grandezze relative, ψ, w, Deq. La perdita
specifica di pressione così ottenuta si attribuisce, costante, agli altri tronchi del circuito mediante
la procedura iterativa seguente.
⋅ Il diametro equivalente è legato alla perdita specifica dalla relazione:
mɺ 0.36
Deq = 15 0.2 [79]
ψ
ove le unità di misura sono: Deq [mm], mɺ [m³/h], ψ [mm. c.a.];
⋅ Dato il diametro equivalente occorre scegliere una dimensione (nel caso di canali rettangolari) e
calcolare la seconda mediante la relazione:
(a ⋅ b)
0.625

Deq = 1.3 [80]


(a + b)
0.25
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 94

ove, si ricordi, si suppone che si mantengano costanti le perdite di pressione. Di solito le


dimensioni pratiche di a e di b variano a passi di 50 mm e pertanto scelte le dimensioni effettive
si ricalcala, tramite la stessa [80] il Deq.
⋅ Calcolare la perdita specifica di pressione reale conseguente al diametro equivalente reale
calcolato mediante abaco o con la relazione:
mɺ 1.8
ψ reale = 787500 5
Deq

con d [mm], mɺ [m³/h], ψ [mm. c.a.];


⋅ Calcolare la velocità effettiva del fluido corrispondente al diametro equivalente selezionato
mediante abaco o mediante la relazione:
w = 0.21 ⋅ψ 0.556 ⋅ d 0.778
con d [mm], w [m/s], ψ [mm. c.a.];
⋅ calcolare le perdite distribuite del ramo, ∆pdi = ψ i Li , e le perdite concentrate e quindi le perdite
totale del ramo;
⋅ ripetere le fasi precedenti per tutti i rami e quindi calcolare le perdite totali di ogni circuito
mediante la relazione ∆pcircuito = ∑ Rami ∆pi ;
⋅ ripetere il calcolo per tutti circuiti tenendo conto che i tratti comuni sono già dimensionati
(partendo dai circuiti più lunghi) e che di questi si conoscono le perdite specifiche vere e quindi
nel calcolo della ψmedia si deve tenere conto solamente dei rami ancora da dimensionare e della ∆p
che hanno disponibile;
⋅ Confrontare le cadute di pressione di tutti i circuiti e provvedere al calcolo delle resistenze di
compensazione (rispetto alla caduta di pressione maggiore) de circuiti più favoriti;
⋅ Verificare la scelta della soffiante di mandata ed, eventualmente, dell’aria di ripresa.
Per la distribuzione dell’aria occorre sempre prevedere le serrande di regolazione sia nei canali
principali che a monte dei diffusori e delle bocchette di immissione per ottenere le effettive condizioni
di lavoro di ciascun componente.
Verifiche di funzionalità
Anche per le reti di distribuzione dell’aria occorre verificare che i terminali (bocchette, diffusori, …)
lavorino effettivamente secondo le loro caratteristiche funzionali.
Così come i radiatori forniscono potenza diversa quando sono alimentati con ∆T=CS-amb <>
50 °C (valore nominale) anche i diffusori hanno bisogno di avere la giusta differenza di pressione fra
monte e valle per fornire il corretto valore di portata.
Ne segue che, effettuato il calcolo della rete di canali, occorre verificare che il ∆p per ciascun
diffusore sia quello di progetto e, nel caso risulti maggiore, inserire la coretta serranda di regolazione.
1.14 FOGLIO DI CALCOLO RETI DI DISTRIBUZIONE
Gli Allievi possono utilizzare un foglio di calcolo opportunamente predisposto per il
dimensionamento delle reti di distribuzione dell’acqua e dell’aria. Detto foglio elettronico, in formato
excel, viene distribuito con il manuale durante le lezioni.
Vale comunque quanto sopra detto per le verifiche di funzionalità sia delle reti dell’acqua che
delle reti dei canali.
1.15 PROGETTO DI RETI COMPLESSE DI FLUIDI
Le reti complesse sono costituite da un numero considerevoli remi fra loro collegati in modo
non regolare e in ogni caso tale da formare circuiti aperti, Figura 110, o chiusa, Figura 111.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 95

Figura 110: Rete complessa aperta


Un modo alternativo di distinguere le reti è ad albero e a maglie, come indicato negli stessi
esempi.

Figura 111: Rete complessa chiusa


Reti ad albero
Queste reti si possono immaginare che si sviluppino secondo lo schema di un albero nel quale si
immagina di seguire il percorso linfatico dal tronco ai vari rami.
Queste reti sono, solitamente, aperte, si sviluppano in lunghezza ed hanno una direzione di
moto facilmente prevedibile (da sinistra a destra, dal basso in alto, ….).
Reti a maglia
Queste reti sono costituite da un insieme di circuiti chiusi, variamente collegati in modo da
formare anelli o comunque in generale maglie chiuse.
La complessità delle maglie non consente di prevedere la direzione del flusso potendosi avere
alimentazione alle utenze da varie direzioni. Queste reti sono tipiche per grandi densità di utenza con
elevate portate.
Criteri di progetto delle reti complesse
Per la progettazione delle reti complesse occorre sempre tenere presenti alcune regole che qui si
elencano:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 96

⋅ Vale il principio di conservazione della massa in corrispondenza dei nodi e pertanto la somma delle
portate entranti deve eguagliare le portate uscenti. Ogni equazione scritta per nodi diversi
consente di calcolare una portata incognita fra quelle indicate in bilancio. Per n nodi si hanno n
equazioni di bilancio indipendenti che consentono di risolvere n incognite:
u i

∑ mɺ j =∑ mɺ j
j =1 j =1
[81]

⋅ ove con u si è indicata l’uscita e con i l’ingresso. Per la rete di Figura 112 si possono scrivere, per
i tre nodi che la compongono, le seguenti equazioni di bilancio:
mɺ 12 + mɺ 13 = mɺ 1
mɺ 2 + mɺ 23 = mɺ 12
mɺ 3 + mɺ 13 = mɺ 23
e quindi si possono calcolare tre portate incognite delle sei indicate.
⋅ La pressione è univocamente determinata qualunque sia il percorso seguito per arrivare ad un nodo.
Per ogni tratto a portata uniforme si può scrivere l’equazione di Bernoulli e pertanto per
l’esempio di Figura 112 si hanno le equazioni:
w22 − w12
Tratto 1 − 2 0 = v ( p2 − p1 ) + g ( z2 − z1 ) + + R12
2
w2 − w12
Tratto 1 − 3 0 = v ( p3 − p1 ) + g ( z3 − z1 ) + 3 + R13
2
w2 − w32
Tratto 3 − 2 0 = v ( p2 − p3 ) + g ( z2 − z3 ) + 2 + R23
2
ove con Rij si indica la generica resistenza al moto totale (concentrata più distribuita) del tratto i-j.
⋅ Le resistenze al moto possono essere vinte fornendo una adeguata potenza meccanica tramite
pompe di circolazione e/o ventilatori per le quali vale l’equazione:
1 w2 − w12 
−l = v ( p2 − p1 ) + 2
η 2 

⋅ ove η è il rendimento idraulico (cioè per v uniforme) tra 1 e 2 con il quale si tiene conto delle
resistenze R12 nella macchina. Si determina il valore della potenza di pompaggio tramite la
relazione
P = mɺ ( −l )

⋅ note che siano la portata totale mɺ e le pressioni di aspirazione pi=p1 e di mandata pu=p2. Ciò
richiede di conoscere la distribuzione delle pressioni nella rete. In genere si ritiene che la
pressione sia nota a priori almeno in un punto.
Il calcolo delle reti si effettua utilizzando le proprietà anzidette tenendo conto che, di solito, in
fase di progetto si conoscono le portate presso gli utilizzatori e si debbono determinare i diametri dei
condotti mentre in fase di verifica si conoscono i diametri e si verificano che le portate agli
utilizzatori siano quelle desiderate.
In genere le grandezze sopra indicate sono insufficienti a risolvere il problema per cui occorre
tenere conto anche delle pressioni e della potenza della macchina operatrice (pompa o ventilatore).
Occorre inoltre fare delle ipotesi per calcolare le perdite di pressione Rji e in particolare occorre
ipotizzare la densità del fluido per potere calcolare i fattori di attrito e di Darcy.
Questi problemi sono stati ampiamente discussi nei vari metodi progetto illustrati nei paragrafi
precedenti.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 97

m2

m23
m12

1
m13 3 m3

m1

Figura 112: Esempio di rete triangolare

1.15.1 CAD PER LA PROGETTAZIONE DELLE RETI COMPLESSE


Esistono numerosi CAD dedicati alla progettazione delle reti complesse. Alcuni di essi sono
reperibili in Internet e sono totalmente free e di buona qualità, come, a esempio, EPANET per
Windows. In figura seguente si ha un esempio di una rete complessa. Mediante la selezione delle
ipotesi di calcolo, vedi figura, si può avviare la simulazione in transitorio della rete ed ottenere risultati
sia in forma tabellare, per varie variabili selezionate come mostrato nelle figure seguenti, che in forma
grafica. Questo CAD è anche fornito con i sorgenti e quindi risulta modificabile dagli utenti per
eventuali personalizzazioni.

Figura 113: Esempio di rete complessa con EPANET


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 98

Figura 114: Parametri di calcolo e risultati per la rete complessa


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 99

Figura 115: Altro esempio di stampa tabellare


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 100

Figura 116: Andamento orario della pressione in alcuni nodi selezionati

Figura 117: Mappa dei risultati


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 101

1.15.2 PUNTO DI LAVORO DI UNA POMPA DI CIRCOLAZIONE


Il punto di lavoro di una pompa è dato dall’intersezione fra la sua curva caratteristica e la curva
di carico della rete alimentata.
In pratica se teniamo conto del fatto che le perdite di pressione (sia distribuite che localizzate, come
già visto in precedenza) sono proporzionali al quadrato della velocità e quindi anche della portata allora si
può riportare sopra il diagramma della curva caratteristica della pompa la parabola relativa alla curva di
carico come indicato nella Figura 118.
Al variare della portata cambia il punto di lavoro della pompa. E’ sempre bene fare in modo che
il punto di lavoro della pompa corrisponda sempre al maggior rendimento, secondo quanto indicato in
Figura 118. Se, ad esempio, la portata è grande il punto di lavoro si sposta verso l’asse delle ascisse con
valori del rendimento troppo bassi. In questi casi occorre cambiare modello di circolatore tramite il
diagramma a zone (vedi Figura 24) ovvero costruire accoppiamenti in parallelo di pompe.
Per i circuiti aperti si ha una situazione analoga rappresentata in Figura 119 e nella quale si
osserva che la curva di carico non parte dall’origine, così come si è osservato nel §1.7.

Figura 118: Punto di lavoro per circuiti chiusi

1.15.3 PUNTO DI LAVORO DI UNA SOFFIANTE


Quanto detto per i circuiti ad acqua vale anche per i canali ad aria. Il punto di lavoro di una
soffiante è il punto di intersezione della curva caratteristica con la curva di carico della rete, come
indicato nella Figura 120. In essa si ha anche l’indicazione della variazione del punto di lavoro della
soffiante al variare della curva di carico.

Figura 119: Punto di lavoro per circuiti aperti


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 102

La determinazione del punto di lavoro di una soffiante è di grande importanza nella


progettazione impiantistica ed occorre sempre fare in modo che questa lavori a rendimento massimo.
A tale scopo le soffianti sono di rado (tranne per piccoli impianti) accoppiate direttamente ai motori
che li alimentano. In genere si ha un accoppiamento mediante pulegge e il rapporto fra numero di giri
del motore e numero di giri della soffiante viene scelto in modo da far lavorare sempre il motore in
piene efficienza ed assicurare, al tempo stesso, la necessaria prevalenza della soffiante.
Al variare della portata nella centrale di trattamento aria in varia la distanza e il rapporto del
numero di giri in modo da ottimizzare i risultati finali.

Figura 120: Punto di lavoro di una soffiante


E’ quindi opportuno tenere presente che valgono i seguenti rapporti fra le grandezze:
Q1 n1
= [82]
Q2 n2

∆p1 n1
2

= [83]
∆p2 n2 2
3
Pa1 n1
= [84]
Pa 2 n23

ove con Q, ∆p, Pa ed n si intendono le portate volumetriche (m3/h), la prevalenza (Pa), la


potenza elettrica assorbita (kW) e il numero di giri (gpm).
Si osservi che un ventilatore è di norma caratterizzato, fissato il numero di giri, da un valore
della portata e da un valore della prevalenza. A questi corrisponde un valore della potenza assorbita e
un rendimento. Se la prevalenza che il ventilatore è chiamato a realizzare cambia allora anche la
portata varia e, per conseguenza delle suddette relazioni, anche le altre grandezze variano.
In genere è difficile prevedere la contemporanea variazione di tutte le grandezze anche perché
questa è legata alle caratteristiche costruttive del ventilatore. Le curve caratteristiche fornite dai
costruttori risultano, pertanto, molto utili perché legano, in un unico abaco, tutte le grandezze
interessate. In genere per ventilatori del tipo elicoidale la potenza assorbita cresce al crescere della
prevalenza fornita e raggiunge un massimo a circuito completamente chiuso (portata nulla e pressione
massima). Questa osservazione è utile nel caso in cui il ventilatore sia chiamato a funzionare in un
circuito nel quale si richiedano portate variabili per effetto dell’azione di serrande di regolazione.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 103

Per ventilatori centrifughi la potenza assorbita è minima quando funzionano a circuito


completamente chiuso (quindi a portata nulla). Per questo tipo di ventilatori si hanno due tipologie
costruttive: a pale in avanti e a pale rovesce. Nel caso di pale in avanti la potenza assorbita è sempre
crescente al crescere della portata.
Ciò significa che se questo ventilatore è inserito in un circuito nel quale si prevedono forti
riduzioni delle perdite di carico e quindi aumento della portata allora occorre sovradimensionare il
motore per evitare che venga sovraccaricato. In genere per ventilatori a pale in avanti si ha un
funzionamento a rendimento massimo in corrispondenza di una portata pari al 40% di quella
corrispondente alla portata massima senza carico.
A piccole variazioni di pressioni, inoltre, corrispondono grandi variazioni di portate e quindi
anche di potenze assorbite.
Questo genere di ventilatori può dar luogo a fluttuazioni rumorose se sono presenti nel circuiti
forti variazioni di cadute di pressione (ad esempio per effetto di by pass nelle batterie). I ventilatori a
pale in avanti sono comunque preferiti, specialmente per i fan coil, perché garantiscono il minimo
ingombro rispetto alle altre tipologie.
Per i ventilatori a pale rovesce in genere si ha un rendimento massimo per una portata pari al
60% della portata a vuoto. La potenza assorbita non cresce continuamente, come nel caso dei
ventilatori a pale in avanti, al diminuire del carico e pertanto il motore elettrico è meno soggetto a
surriscaldamenti. Si osserva, ancora, che per i ventilatori a pale rovesce variazioni anche considerevoli
della pressione producono piccole variazioni delle portate e ciò contribuisce a rendere questo tipo di
ventilatori stabile in circuiti con forti variazioni di resistenza. Come conseguenza anche la rumorosità
si stabilizza ed è meno soggetta a fluttuazioni.
Negli impianti con elevate portate e campi di pressione fino a 2000 Pa si utilizzano i ventilatori
assiali con pale a passo variabile. Questi ventilatori presentano un buon rendimento e buone
possibilità di adattamento grazie all’orientabilità delle pale.
La curva caratteristica presenta, però, una pendenza notevole e se la portata deve variare in
modo sensibile occorre utilizzare i modelli con pale a passo variabile anche durante il movimento.
Questi ventilatori hanno costi elevati e non sono convenienti per unità di trattamento aria costruite in
serie.
Leggi di controllo dei ventilatori
La teoria delle macchine operatrici ci fornisce utili relazioni per il controllo dei parametri di
funzionamento dei ventilatori. Queste permettono di prevedere le prestazioni dei ventilatori nelle
ipotesi che:
⋅ siano geometricamente simili, per date condizioni di funzionamento, due ventilatori da
confrontare;
⋅ si voglia, per uno stesso ventilatore, esaminare una condizione di funzionamento diversa da
quella nominale.
La portata volumetrica, V, è data da:
d2 d π
V = S ⋅v = π ⋅ w = wd 3
4 2 8
con v velocità del fluido, w velocità periferica massima delle pale, d diametro della girante. Se n è
il numero di giri del ventilatore allora si ha:
π π2
V= ⋅ 2π n ⋅ d 3 = nd 3
8 4
Pertanto, dati due ventilatori, 1 e 2, possiamo scrivere:
3
V1 n1  d 2 
=   [85]
V2 n2  d1 
La prevalenza fornita dal ventilatore è correlata alla velocità del fluido dalla relazione:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 104

v2 − v2
2 2
V  V  V2
∆p ≈ ρ u i ≈ ρ   ≈ ρ  2  = ρ 4
2 S d  d
pertanto per due ventilatori, 1 e 2, si ha:
2 4
∆p2  p2   V2   d1 
=      [86]
∆p1  p1   V1   d 2 
La potenza assorbita dal ventilatore vale:
W = ∆p ⋅ V
allora per due ventilatori, 1 e 2, si ha:
3 4
W2 ∆p2 V2  V2   d1 
= ⋅ =    [87]
W1 ∆p1 V1  V1   d 2 
Le precedenti relazioni consentono di calcolare i parametri di funzionamento di un ventilatore
note le condizioni operative di un secondo ventilatore equivalente.
1.15.4 SISTEMI A PORTATA D’ARIA VARIABILE (VAV)
Negli ultimi anni si sono imposti impianti di climatizzazione che si adattano alle variazioni del
carico ambiente mediante una variazione della portata d’aria inviata. Questi sistemi presentano un
minor consumo di energia rispetto agli impianti tradizionali anche se hanno alcuni inconvenienti che li
rendono non sempre utilizzabili, soprattutto in presenza di forti affollamenti o con grandi carichi
latenti.
Si osserva, infatti, che la portata effettiva durante la maggior parte dell’anno varia fra il 60% e
l’80% di quella massima e quindi i sistemi VAV consentono di ottenere risparmi significativi di
energia. I sistemi a portata d’aria variabile (VAV) fanno variare la portata immessa dai diffusori22 nei
singoli ambienti e pertanto questa azione si riflette sulla portata totale.
A seconda del tipo di ventilatore utilizzato si ha una corrispondente variazione di pressione (più
o meno rilevante) nella rete di distribuzione a monte dei diffusori.
Se si fa variare la portata dell’aria dal punto V1 al punto V2 (vedi Figura 121) il punto di
funzionamento del ventilatore si sposta dal punto A al punto B lungo la curva caratteristica
corrispondente alla velocità di rotazione n1. Quindi il punto di lavoro si trova nel punto di intersezione
di una nuova caratteristica del sistema corrispondente alla portata V2 con la curva caratteristica del
ventilatore n1, supponendo che non ci siano state variazioni della velocità di rotazione del ventilatore.
Si genera un eccesso di pressione statica, causato dalle diminuzioni delle perdite di carico del
sistema in seguito alla riduzione della portata d’aria, dato da:
∆psDA = ps 2 − ps 3
che dovrà essere assorbito, in genere, attraverso i diffusori. Ciò provoca due serie di
inconvenienti:
⋅ si generano problemi acustici nella diffusione;
⋅ si hanno sprechi energetici dovuti allo strozzamento.
Serranda di strozzamento sul premente
Per evitare questi inconvenienti si utilizzano serrande con strozzamento sul premente che ha lo
scopo di far variare la curva caratteristica del sistema creando perdite di carico supplementari.
L’eccesso di pressione statica anzidetto viene assorbito attraverso serrande all’uscita del
ventilatore: il punto di regolazione D viene determinato per una pressione statica superiore a quella
corrispondente alla pressione teorica del punto C.

22 Si tratta di particolari diffusori che consentono variazioni ampie di portata senza apprezzabili perdite di
funzionalità (lancio, ∆p, distribuzione,….)
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 105

Con questo margine di sicurezza si ha la certezza che la pressione a monte di tutti i diffusori, in
qualsiasi condizione di esercizio, sarà uguale (o superiore) al valore nominale.

Dp

Numero di giri

Potenza assorbita

Punto B Punto A

Curva caratteristica

Figura 121: Curve caratteristiche del ventilatore a pale in avanti e della rete
La riduzione della portata attraverso l’aumento delle perdite di carico del sistema porta
all’aumento della potenza assorbita dal ventilatore e ciò limita il risparmio energetico che deriverebbe
dal metodo VAV, indipendentemente dal fatto che la serranda di strozzamento sia montata sul
diffusore o sull’uscita del ventilatore.
Il metodo della serranda di strozzamento è indicato solo per ventilatori a pale in avanti ed è
assolutamente escluso per i ventilatori assiali. Le serrande di strozzamento sono montate sull’uscita del
ventilatore, verticalmente rispetto all’albero del ventilatore in modo da evitare il fenomeno della
stratificazione dell’aria. Il sistema della serranda di regolazione sul premente presenta un vantaggio
sostanziale nel fatto che è a basso costo.
Alette direttrici di prerotazione
Come metodo di regolazione dei sistemi VAV si può pensare di far variare la curva caratteristica
del ventilatore mediante alette direttrici montate sulla virola a monte del ventilatore. In questo modo si
modifica l’angolo di incidenza dell’aria sulla pala, spostando la curva caratteristica del ventilatore come
indicato in Figura 122.
I punti di intersezione della curva caratteristica del sistema con le nuove curve caratteristiche del
ventilatore, B e C, determinano i nuovi punti di funzionamento B’ e C’.
E’ opportuno determinare la curva di regolazione con un margine di sicurezza di circa 200 Pa
(punti B’’ e C’’): questo criterio è sempre valido con qualunque metodo di regolazione si desideri
effettuare.
La regolazione della portata d’aria immessa mediante la modifica della curva caratteristica del
ventilatore comporta la diminuzione della potenza specifica assorbita dal ventilatore proprio nella
fascia di funzionamento più interessante per un impianto a portata d’aria variabile.
Questo metodo è utilizzato soprattutto con ventilatori a pale rovesce e in ogni caso in cui si
hanno curve caratteristiche con notevoli pendenze.
Questo metodo di regolazione della portate in funzione dei fabbisogni offre il vantaggio di un
costo d’investimento relativamente contenuto pur con un buon rendimento nell’intero campo di
funzionamento del ventilatore.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 106

Dp

Curve caratteristiche del ventilatore


A

B
C A''
ps1
B'' A'

ps2
Curva del punto di regolazione C'' B'
ps3
p1 C'
p2
p3
Curva caratteristica della rete

V3 V2 V1 V

Figura 122: Regolazione con alette direttrici di prerotazione


%

10 0

S e rra nd a d is tr o z z a m e n to
Potenza assorbita

50

A le tta m o b ile d i V e lo c ita ' d i ro ta z io ne va ria b ile


p ro te z io ne

%
50 P o rta ta A ria 10 0

Figura 123: Potenza assorbita dal ventilatore con i vari metodi di regolazione
Variazione della velocità di rotazione del ventilatore
Anche questo metodo tende a far variare la curva caratteristica del ventilatore facendo variare la
velocità di rotazione del motore (vedi Figura 124). Il punto A-C di funzionamento del ventilatore si
trova sul punto d’intersezione della curva caratteristica della rete con la curva caratteristica del
ventilatore corrispondente alla velocità di rotazione scelta.
La variazione della velocità di rotazione si ottiene sia mediante un motore a velocità variabile
oppure con un motore a velocità costante ma con un sistema di trasmissione a rapporto variabile
(trasmissione idraulica).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 107

Dp
Curve caratteristiche del ventilatore
n1

n2

ps1
n3
ps2

ps3
Curva del punto di
regolazione
p1

p2
p3
Curva caratteristica della rete

V
V3 V2 V1

Figura 124: Funzionamento di un ventilatore con velocità di rotazione variabile


In questo secondo caso si ha un funzionamento sempre ottimale della velocità di rotazione del
motore e quindi anche del suo rendimento ottimale.
La trasmissione idraulica, tuttavia, non sempre rendimenti costanti e ciò provoca delle perdite
energetiche che debbono essere prese in considerazione.
Il metodo della modifica della curva caratteristica abbassa drasticamente la potenza assorbita in
condizioni di carico parziale (vedi Figura 123). I
l metodo si applica bene nel caso di sistemi con grandi fluttuazioni di carico. Esso richiede
notevoli investimenti ma consente di ottenere consistenti risparmi di energia.
Ventilatore assiale con pale a passo variabile
Se si fa variare l’angolo di incidenza (passo) delle pale di un ventilatore assiale si modifica la sua
curva caratteristica, come indicato in Figura 125. La variazione del passo si effettua con ventilatore in
marcia. Questo metodo mantiene un elevato rendimento in un campo vasto di funzionamento e in
condizioni di carico ridotto la potenza specifica assorbita dal ventilatore ha un andamento favorevole.
Dimensionamento di un ventilatore per sistemi VAV
Il ventilatore deve essere dimensionato sempre per la massima portata contemporanea e per la
corrispondenza pressione statica necessaria. Il punto di funzionamento viene di solito scelto a destra
del vertice della curva rappresentativa del rendimento in modo che, con carichi parziali, si abbia un
rendimento migliore in funzionamento VAV.
Occorre anche tenere conto dei fattori di contemporaneità del carico ambientale in modo da
evitare inutili sovradimensionamenti. In fase di avviamento occorre controllare che l’aumento della
pressione nella rete sia progressivo per non esporre i dispositivi di regolazione e i diffusori a pressioni
intermittenti.
Anche per i ventilatori di ripresa occorre rispettare le regole generali sopra esposte per i
ventilatori di mandata. E’ sempre bene che il ventilatori di ripresa abbiano una curva caratteristica il
più possibile vicina a quelli di mandata in modo da poterli controllare in parallelo ed evitare inutili e
dannose disfunzioni ed intermittenze di portate.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 108

Dp

Curve caratteristiche del ventilatore

Ps1
P1 Curva del punto A
Ps2 di regolazione
P2 B
PS3
Ps4 C
P4
D
Curva Caratteristica della rete

V
V4 V3 V2 V1

Figura 125: Variazione del punto di lavoro con ventilatore a passo variabile
1.16 BILANCIAMENTO DELLE PORTATE
Metodo delle portate nominali
Quando si bilancia una rete di distribuzione variando le portate occorre variare la prevalenza
23
applicata mediante la relazione:
0.525
 ∆p 
mɺ 1 = mɺ  1  [88]
 ∆p 
ove si ha:
⋅ mɺ 1 portata di bilanciamento (nuovo valore da assegnare), (kg/s) o (L/h);
⋅ mɺ portata del circuito da bilanciare, (kg/s) o (L/h);
⋅ ∆p1 nuova prevalenza, (Pa) o (mm c.a)
⋅ ∆p prevalenza del circuito da bilanciare, (Pa) o (mm c.a)
La [88] si basa sull’ipotesi che le perdite di carico totali risultano dipendenti dalla portata di
fluido con potenza di valore 1.9. Questa relazione vale abbastanza bene per tubazioni (in acciaio o in
rame) per acqua. Il rapporto fra le portate:

k= 1 [89]

determina anche la variazione da applicare, per ogni derivazione o corpo scaldante della rete di
distribuzione, dopo il bilanciamento.

23 Con questo termine si indica anche la ∆p creata dalla pompa. Nel S.T. si suole indicarla in (mm. c.a) mentre nel

S.I. è espressa in (Pa).


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 109

1.16.1 MODALITÀ OPERATIVE DEL BILANCIAMENTO DELLE RETI


Se due circuiti aventi portate e prevalenze assegnate debbono confluire in un nodo essi debbono
presentare la stessa caduta di pressione al nodo. Allora se si conoscono le portate di ciascun circuito e
le loro cadute di pressione si possono bilanciare secondo tre criteri:
⋅ Bilanciamento alla prevalenza maggiore: in questo caso si varia la portata dell’altro circuito
mediante la [88] e poi si determinano le portate nei radiatori secondo il fattore [89]. Questo
metodo garantisce una buona resa dei corpi scaldanti in quanto accresce la portata del circuito a
prevalenza minore; in compenso crescono anche le velocità e quindi si può avere maggior
rumorosità
⋅ Bilanciamento alla prevalenza minore: in questo caso si applicano le due relazioni precedenti al
circuito che ha maggiore caduta di pressione. In questo caso decresce la portata nei corpi
scaldanti del circuito che prima aveva prevalenza maggiore. In compenso non crescono le
velocità e quindi si riducono i rischi di rumorosità.
⋅ Bilanciamento alla prevalenza media: si calcola il valore medio delle due cadute di pressione e si
applicano la [88] e la [89] ad entrambi i circuiti. Questo metodo raggiunge un compromesso fra i
due precedenti.
1.16.2 BILANCIAMENTO CON VALVOLE DI TARATURA
Oltre che agendo sulle portate si può agire sulle perdite di pressione provocate da opportune
valvole tarate.

Figura 126: Sezione e caratteristica di una valvola di bilanciamento


In questo modo si fa in modo da avere la stessa ∆p per tutti i circuiti. Occorre avere l’avvertenza
di inserire in ogni circuito e nei rami principali queste valvole che sono caratterizzate dall’avere un
collare graduato in modo che ad ogni giro o anche parte di esso si abbia una caduta di pressione
calibrata e prevedibile, vedi Figura 126.
I Costruttori ne forniscono diversi modelli (valvole diritte, a squadra, …) e per ciascun modello,
in funzione anche del diametro nominale, forniscono le curve di taratura del tipo di quelle riportate in
Figura 127.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 110

Figura 127: Esempio di utilizzo dell’abaco di calcolo delle valvole di bilanciamento

Figura 128: Tipi di gradazione delle regolazioni

Figura 129: Tipo di bloccaggio delle ghiere


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 111

Figura 130: Esempi di valvole di bilanciamento filettate e flangiate

Figura 131: Esempio di installazione di una valvola di bilanciamento


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 112

Figura 132: Esempi di installazione delle valvole di bilanciamento


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 113

Esempio di equilibratura delle reti


Le reti a ritorno diretto presentano l’inconveniente di avere lunghezze dei percorsi dei vari
circuiti diverse a seconda della distanza dalla pompa di circolazione.

Figura 133: Esempio di rete a ritorno diretto con equilibratura dei circuiti
In Figura 134 si ha un esempio di calcolo delle cadute di pressione per i vari circuiti della rete di
distribuzione di acqua da un refrigeratori a 6 fan coil: si può osservare come il circuito relativo al fan
coil più lontano abbia una caduta di pressione di 20 lPa mentre quello più vicino ha una caduta di 10
kPa. Pertanto una rete a ritorno inverso può spesso essere squilibrata.

Figura 134: Cadute di pressione nei vari circuiti della rete a ritorno diretto
Nella stessa Figura 134 si ha l’indicazione di una valvola di taratura che deve provocare una
caduta di pressione pari alla differenza fra la caduta massima e quella del circuito in elaborazione.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 114

1.17 IDRONICA DELLE RETI DI DISTRIBUZIONE


Inserendo le valvole di regolazione nei circuiti si hanno vari effetti dei quali occorre tenere
conto nella progettazione e nell’esercizio.
Inserimento di una valvola di regolazione a due vie
La situazione è quella indicata in Figura 135: la valvola a due vie è modulata dal servomotore
variando la posizione dell’otturatore. La conseguenza è che la portata di fluido al carico varia con la
posizione dell’otturatore mentre la temperatura del fluido resto costante.

Figura 135: Circuito con valvola di regolazione a due vie


In pratica si realizza un circuito a portata variabile. La caratteristica della valvola deve essere
scelta in modo che la pressione totale ai capi del circuito si mantenga costante. In pratica le perdite di
pressione nelle tubazioni cresce quasi quadraticamente con il crescere della portata mentre la
prevalenza della pompa decresce con la portata. Pertanto la valvola deve compensare queste variazioni
con un ∆p variabile in funzione della differenza delle suddette cadute di pressione.
Inserimento di una valvola a tre vie miscelatrice
L’inserimento di una valvola atre vie miscelatrice, vedi Figura 136, divide il circuito in due
circuiti: quello che contiene la pompa è a portata costante mentre quello che contiene il carico è a
portata variabile. La valvola miscelatrice, infatti, suddivide la portata totale in due rami, quello che
confluisce verso la valvola a tre vie e quello che contiene il carico.
La temperatura nel ramo del carico è, tuttavia, costante e questo fatto può risultare comodo, ad
esempio, per le batterie di raffreddamento con deumidificazione per le quali si desidera una
temperatura superficiale costante.

Figura 136: Circuito con valvola di regolazione a tre vie miscelatrice


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 115

Inserimento di una valvola a tre vie miscelatrice con portata costante sul carico
L’inserimento di una valvola a tre vie miscelatrice può fornire una portata variabile sul carico
qualora la si monti come indicato in Figura 137. In questo caso la pompa è montata a valle della
valvola miscelatrice, nel ramo contenente il carico. In questo modo anche la pompa è attraversata da
una portata costante.

Figura 137: Circuito con valvola di regolazione a tre vie miscelatrice con portata costante sul carico
1.18 IMPIANTI A PORTATA VARIABILE CON REFRIGERATORI D’ACQUA
Gli impianti a portata variabile hanno il grande pregio di ridurre sensibilmente le spese di
pompaggio, specialmente in circuiti di grandi dimensioni nei quali le potenze in gioco non sono
trascurabili. In genere ancora oggi si tende a mantenere costante la portata nei refrigeratori d’acqua
facendo variare la portata nei circuiti secondari (che vedono i carichi). Una tale situazione è data in
Figura 138 ove si può osservare come i refrigeratori abbiano ciascuno la propria pompa di alimento
che assicura una portata costante e pari al valore nominale di ciascun refrigeratore. Il circuito
secondario, regolato con valvole a due o a tre vie, risulta a portata variabile.

Figura 138: Circuito primaria a portata costante e secondario a portata variabile


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 116

Questa circostante è del tutto compatibile con il funzionamento del circuito primario
contenente i refrigeratori poiché i due circuiti sono disaccoppiati mediante l’inserimento di un bypass
a monte delle pompe del circuito secondario.
Il bypass deve evitare il mescolamento fra l’acqua fredda del primario e quella più calda del
secondario. Pertanto occorre inserire un dispositivo che impedisca l’inversione di flusso rispetto a
quello indicato in figura.
Si osservi che il ∆T dell’acqua del circuito secondario deve essere quello di progetto in modo
che i refrigeratori funzionino correttamente con la portata nominale. Per raggiungere questo scopo
occorre inserire opportuni sistemi di bilanciamento (e quindi di regolazione) dei terminali del
secondario. Qualora questa condizione non venisse rispettata si avrebbe una temperatura di ritorno
dell’acqua del secondario inferiore a quella di progetto con conseguenze anche gravi sul corretto
funzionamento dell’impianto.
In Figura 139 si ha un esempio di circuito secondario disaccoppiato dal primario mediante un
bypass, come detto in precedenza, ma con gruppo di pompaggio comune.

Figura 139: Portata variabile nel circuito secondario con disaccoppiamento e pompe comuni
Le pompe operano a portata costante e il circuito secondario opera a portata variabile con
terminali regolati con valvole a due vie. Il dimensionamento del circuito secondario è effettuato per la
massima portata contemporanea.
Questo schema fa lavorare i refrigeratori in condizioni nominali e questi possono essere
parzializzato in parallelo. La portata di acqua rimane costante attraverso ogni evaporatore per qualsiasi
condizione di carico.
La valvola a due vie nel ramo di bypass consente di rilevare la caduta di pressione conseguente
alla variazione di portata nel secondario e quindi è possibile attivare e/o spegnere uno o più
refrigeratori.
In Figura 140 si ha l’esempio di una riduzione del 33% di portata nel secondario e conseguente
spegnimento di un refrigeratore d’acqua in modo che gli altri due lavorino a potenza nominale.
Una variante con circuito secondario a portata variabile disaccoppiato ma con pompe
diversificate è rappresentato in Figura 141. I refrigeratori operano a portata costante e parzializzato in
parallelo. La portata del circuito primario deve essere sempre superiore a quella del secondario.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 117

Figura 140: Portata variabile nel secondario con disaccoppiamento e pompe comuni: esempio di regolazione

Figura 141: Portata variabile nel secondario con disaccoppiamento e pompe diversificate
Quando necessario (raramente negli impianti con rete secondaria estesa data la massa di acqua
nei circuiti) il serbatoio inerziale deve essere miscelato e possibilmente inserito nel circuito primario,
sul ritorno comune dei refrigeratori, vedi Figura 142.
In tal modo svolge infatti anche la funzione di attenuare la velocità di variazione della
temperatura dell’acqua refrigerata in ingresso ai refrigeratori in funzione, quando si inserisce o
disinserisce una macchina.
Occorre evitare di posizionare il serbatoio di accumulo sulla mandata, come indicato in Figura
143, poiché in questo modo l’inevitabile miscelamento dell’acqua nel serbatoio fa perdere il controllo
della temperatura dell’acqua di mandata ai carichi, senza produrre alcun beneficio.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 118

Figura 142: Corretto inserimento di un serbatoio di accumulo sul ritorno

Figura 143: Inserimento errato di un serbatoio di accumulo sulla mandata dei refrigeratori
Il serbatoio di accumulo può essere disposto anche correttamente nel ramo di bypass, come
indicato in Figura 144 anche se risulta più razionale lo schema di Figura 142.
Alcuni produttori accettano una variazione della portata nominale dei refrigeratori in modo da
consentire la portata variabile anche nel circuito primario.
Tuttavia occorre sempre inserire opportuni controlli dei flussi per evitare la ghiacciatura degli
evaporatori.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 119

Figura 144: Inserimento del serbatoio di accumulo nel ramo di bypass


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 120

2. ISOLAMENTO TERMICO DELLE TUBAZIONI


Le reti tecnologiche trasportano fluidi di lavori ad alta o a bassa temperatura (rispetto a quella
ambientale) e pertanto è necessario isolarle termicamente in modo da non disperdere potenza termica
(di qualunque segno). In taluni casi le norme vigenti obbligano all’isolamento termico per conseguire
un più elevato risparmio energetico e la L. 10/91 ne è un esempio con l’introduzione anche del
rendimento di distribuzione.
Il problema dell’isolamento per fluidi caldi si risolve con le normali regole della Trasmissione del
Calore e pertanto note le temperature del fluido trasportato e dell’ambiente esterno nonché i diametri
dei condotti si determina lo spessore minimo necessario.
Si ricordi che per piccoli diametri valgono le regole del raggio critico di isolamento e quindi
occorre verificare di avere un raggio complessivo (tubo più isolamento) superiore al raggio critico
rc=λ/h per avere convenienza economica nell’isolare.
Lo stesso dicasi per i canali d’aria ove, di solito, la geometria dei canali fa variare, non di molto, i
riferimenti al raggio critico. Ci si può riferire, come criterio guida, al diametro equivalente.
Volendo impostare analiticamente il problema si faccia riferimento alla Figura 145 percorsa dalla
portata ponderale G di fluido alla temperatura T diversa da quella esterna Te. Scriviamo il bilancio di
energia trasmessa verso l’esterno nel tratto dL:

G, T, h

Te
dL

Figura 145: Schematizzazione di un condotto isolante


T − Te
dQ = dL [90]
RT
ove RT è la resistenza termica per unità di lunghezza. In regime stazionario questo flusso è pari
al calore trasmesso (e quindi perduto) dal fluido attraverso la sezione di passaggio. Possiamo studiare
due casi principali.
Fluidi che non cambiano di fase
Si può completare il bilancio in modo semplice scrivendo:
T − Te
dQ = dL = −Gc p dT [91]
RT
Integrando fra due sezioni si ha:
2 dT 2 dL

1 T − Te
= −∫
1 Gc p RT
da cui deriva:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 121

T2 − Te L
ln =−
T1 − T0 Gc p RT
Passando dai logaritmi ai numeri si ha:
L
RT = [92]
T −T
Gc p ln 1 e
T2 − Te
Per tubazione fredda si ha Te> T1 e quindi:
L

TF = Te − (Te − T0 ) e
Gc p RT
[93]
e ancora:
L
RT = [94]
T −T
Gc p ln e 1
Te − T2
Nota la portata e le caratteristiche geometriche e termiche di un condotto, si calcola la caduta di
temperatura, ovvero, imposta la temperatura finale si calcola la resistenza termica necessaria.
Fluidi che cambiano di fase
In questo caso possiamo scrivere il seguente bilancio:
T −T
dQ = 1 e dL = −Gdh [95]
RT
Integrando si ottiene:
T1 − Te
h2 = h1 − L [96]
GRT
T1 − Te L
RT = [97]
T2 − Te G
Nel caso di tubazione fredda, te > T1, le precedenti equazioni divengono:
T −T
h2 = h1 + e 1 L [98]
GRT
Te − T1 L
RT = [99]
Te − T2 G
Perché si abbia cambiamento di fase occorre che non sia superata la lunghezza massima:
GRT r
Lmax = [100]
∆T
con r calore latente di vaporizzazione o di condensazione. Al di là di questa lunghezza il fluido si
comporta come nel caso precedente e le relazioni divengono esponenziali.
Il fenomeno dello Stillicidio
Se il fluido trasportato è a bassa temperatura allora si può avere una temperatura superficiale del
condotto inferiore a quella di rugiada nelle condizioni dell’aria esterna per cui sulla superficie laterale
esterna del condotto si forma un velo di condensa che provoca alterazioni del mantello di isolamento
e dei materiali vari al di sotto. E’ quindi opportuno fare in modo che questo fenomeno non si
verifichi. Con riferimento alla Figura 146 sia TF la temperatura esterna del condotto, ne segue che si
libera una quantità di condensa:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 122

∆x = xA − xF [101]
La temperatura limite (o di rugiada) è TP e quindi la temperatura superficiale del condotto non
deve essere inferiore a questo valore.
Con riferimento alla Figura 147 si può scrivere che il calore uscente per unità di lunghezza del
condotto è pari al flusso convettivo esterno e cioè:
TP − TF T −T
Q= = A P [102]
1 1  re  1  rI  1
+ ln   + ln  
2π hi ri 2π λm  ri  2π λ I  re  2π he rI
Da questa relazione si trae:
1
TA − TP 2π he rI R
= = Te [103]
TF − TF 1 1 r  1  r  RTi
+ ln  e  + ln  I 
2π hi ri 2π λm  ri  2π λI  re 
La precedente relazione esprime la proporzionalità inversa fra i salti termici parziali e le
corrispondenti resistenze termiche.
h
h ϕ
A A
A
TA

TP

TF

xF

xA
x

Figura 146: Formazione di condensa- stillicidio

Ta
ri
Tf
re
hi
rs
he

Figura 147: Tubazione isolata


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 123

In fase di progetto, nota TA e (dal diagramma psicrometrico) TP (temperatura limite) si ricava il


raggio rI e quindi, noti i raggi interni ed esterni della tubazione, lo spessore di isolante mimino
necessario. In fase di verifica, noto rI si calcola la TP di parete e si controlla che sia superiore a quella di
rugiada TPlimite. Se si trascura la resistenza termica per conduzione nel materiale di cui è fatto il
r 
ln  I 
r
condotto si può ritenere RTi ≅  e  e quindi:
2π λI
1
TA − TP 2π he rI
= [104]
TP − TF 1  rI 
ln  
2π λI  re 
La precedente si può scrivere in forma adimensionale:
rI  rI  TP − TF λI
ln   = [105]
re  re  TA − TP he re
Questa relazione è del tipo:
x ln ( x ) = costante
e quindi è una equazione trascendentale che può essere risolta graficamente, come indicato in
Figura 148 o con metodi numerici mediante calcolatore. Data la grande variabilità delle condizioni
ambientali esterne è opportuno riferirsi alle condizioni peggiori per motivi cautelativi.

y= x ln[x]

y=costa nte

1/e

1 x* x
-1/e

Figura 148: Determinazione dello spessore di isolante


Nel caso di geometria piana (come, ad esempio, pareti dei canali rettangolari) le precedenti
relazioni variando, semplificandosi, nella forma seguente:
TP − TF T −T
Q= = A P [106]
s I sm 1 1
+ +
λI λm hi he
Con analogo procedimento visto per condotti cilindrici si ha:
s I sm 1
+ +
TP − TF λI λm hi
= [107]
TA − TP 1
he
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 124

Da questa, risolvendo in modo esplicito, si ha:


 1 TP − TF sm 1 
s I = λI  − −  [108]
 he TA − TP λm hi 
E’ ovvio che se il calcolo precedente porta ad avere sI<0 allora basta la parete nuda del condotto
a garantire che sia TP > TPlimite.

2.1.1 TUBI PERCORSI DA FLUIDI QUASI SATURI


Spesso occorre trasportare fluidi prossimi al punto di saturazione, come avviene per il trasporto
di vapore negli impianti industriali o anche di riscaldamento a vapore. Durante il moto il fluido
scambia calore con l’esterno per trasmissione termica attraverso le pareti e riceve calore per effetto
delle dissipazioni per attrito durante il moto. Queste ultime condizioni divengono importanti nel caso
di moto bifase perché le perdite sono superiori a quelle corrispondenti monofase.
Poiché i fenomeni di laminazione per attrito sono eliminabili (per il 2° Principio della
Termodinamica) allora occorre bilanciare la rete di distribuzione in modo far pervenire alle utenze il
vapore nelle condizioni desiderate.
Tubazione percorsa da vapore saturo
Detta G la portata ponderale di vapore saturo, il calore trasmesso attraverso le pareti è:
T −T
dQ = c e dL [109]
RT
Il flusso termico ottenuto per attrito vale:
G G ρ v w2 8ξ ϕ G 3
dQ = ψ dL = ξ ϕ dL = 2 2 5 dL [110]
ρv ρv Di 2 ρ v π Di
ove si è posto:
ρ v w2
⋅ ψ =ξ la perdita per unità di lunghezza;
2 Di
L + Le
⋅ ϕ= con l’ipotesi di uniforme distribuzione delle resistenze localizzate.
L
Eguagliando i secondi membri si ottiene:
Tc − Te 8ξ ϕ G 3
dL = 2 2 5 dL [111]
RT ρ v π Di
Ovvero
RT (Tc − Te ) ρ v π
2 2

= [112]
Di5 8ξ ϕ G 2
La resistenza termica RT vale:
1 1 r  1 r  1 1 D 
RT = + ln  e  + ln  I  + ≅ ln  I  [113]
2π hi ri 2π λm  ri  2π λI  re  2π he re 2π λI  De 
e pertanto si ha:
D 
ln  I  = KDi5 [114]
 De 
dove si è posto:
λI (Tc − Te ) ρ v2π 2
K=
4ϕ λG 3
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 125

Si può ancora scrivere:


D 
ln  I  = K ' De5
 De 
ove, ponendo:
De = kDi
si ha:
K
K'=
k5
Nota la portata G e note le condizioni del vapore, fissato il diametro Di e la velocità del vapore
si calcolano ψ, K, K’ e quindi diametro del tubo isolato, DI.
Tubazione percorsa da liquido saturo
In questo caso le rientrate di calore e il riscaldamento per attrito sono complementari ed occorre
determinare il grado di sottoraffreddamento del liquido affinché l’azione combinata dei due fenomeni
porti il liquido in condizioni di saturazione all’utenza. La temperatura del liquido sottoraffreddato
risulta variabile e si ha:
T −T
dQ = e dL [115]
RT
Ponendo ancora:
Dr = kDi
si ha che il riscaldamento per attrito vale:
8ϕ ξ ϕ G 3 k 5
dQ ' = dL [116]
ρ L2π 2 De5
L’equazione di bilancio termico dice che la somma dei due precedenti flussi deve eguagliare il
riscaldamento del fluido:
Te − T 8ϕ ξ ϕ G 3 k 5
dL + dL = Gc p dT [117]
RT ρ L2π 2 De5
da cui si ricava:
dL T Te 8ϕ ξ ϕ G 3 k 5
+ = + [118]
dT Gc p RT Gc p RT ρ L2π 2 De5
L’omogenea associata di questa equazione integrale è:
dL T
+ =0
dT Gc p RT
il cui integrale generale è:
L

T = C1e
Gc p RT

Un integrale particolare può ottenersi ponendo:


T = cost
e quindi si ha:
8ϕ ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT
T = Te +
ρ L2π 2 De5
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 126

Pertanto la soluzione della [118] è data da:


L

8ϕ ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT
T = C1e + Te +
Gc p RT
[119]
ρ L2π 2 De5
Imponendo la condizione che per L=0 sia T=T0 sia ha:
L
 8ϕ ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT  − Gc p RT 8ϕ ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT
T =  T0 − Te −  e + T + [120]
ρ L2π 2 De5 ρ L2π 2 De5
e
 
Si osservi che vale il limite:
lim L→0 T = T0
e ancora:
8ϕ ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT
lim L→0 T = Te +
ρ L2π 2 De5
L’andamento della temperatura del fluido è data in Figura 149.
T

T
lim

0 L

Figura 149: Andamento della temperatura del fluido


Come significato fisico di questa tendenza al limite si può dire che, raggiunta la Tlimite il fluido si
porta in condizioni tali da scambiare con l’esterno (si ricordi che è T∞ > Te) il calore dissipato per
8ϕ ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT
attrito fluidodinamico, come si può verificare ricavando dalla T∞ = Te + il rapporto:
ρ L2π 2 De5
T∞ − Te 8ϕ ξ ϕ G 3 k 5ϕ
=
RT ρ L2π 2 De5
ovvero Q=Q’.
Tubazione percorsa da vapore inizialmente surriscaldato
Se si desidera distribuire alle utenze vapore saturo allora occorre che esso sia immesso in rete
inizialmente surriscaldato in modo da avere, per effetto degli scambi di flusso con l’esterno e per
attrito, le condizioni di vapore saturo secco finali.
Con la trattazione seguita per i casi precedenti otteniamo che il bilancio di energia vale:
T − Te 8ϕ ξ ϕ G 3 k 5
dL + dL = Gc pv dT [121]
RT ρ v2π 2 De5
e l’integrale dell’equazione differenziale che ne deriva vale, con analogo ragionamento visto in
precedenza:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 127

L
 8 ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT  − Gc pv RT 8ϕξ ϕ G 3 k 5ϕ RT
T =  T0 − Te −  e + T + [122]
ρ v2π 2 De5 ρ v2π 2 De5
e
 
dalla quale, noto il diametro De si ricava DI..
Nota la resistenza termica RT, imponendo che per L =Lf sia T =Ts (temperatura di saturazione)
si ottiene
L
8 ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT  8 ξ ϕ G 3 k 5ϕ RT  − RT Gc pv
T0 = Te + +  T − T − e [123]
ρ v2π 2 De5 ρ v2π 2 De5 
s e

Se T0 < Ts allora le dissipazioni fluidodinamiche risultano maggiori del flusso scambiato
attraverso le pareti e pertanto il fluido dovrà essere immesso nella sezione di ingresso in condizioni
umide e non surriscaldate. L’equazione di bilancio risulta:
8 ξ ϕ G 3 k 5ϕ T −T
Gdh = dL − c e dL [124]
ρ v π De
2 2 5
RT
Da questa deriva l’equazione a variabili separabili:
dh 8 ξ ϕ G 3 k 5ϕ Tc − Te
= − [125]
dL ρ v2π 2 De5 GRT
Ne segue che l’integrale è:
 8ξ ϕ G 3 k 5ϕ Tc − Te 
hF − h0 =  −  LF [126]
 ρ v π De
2 2 5
GRT 
Se imponiamo che per L =LF sia l’entalpia finale hF pari a quella del vapore saturo secco si può
ricavare il titolo di vapore in ingresso dalla relazione:
 8ξ ϕ G 3 k 5ϕ Tc − Te 
h0 = hF −  −  LF [127]
 vρ π
2 2 5
D e GR T 

Quanto sopra detto completa i casi possibili per fluidi in prossimità delle condizioni di
saturazione.
2.2 ISOLAMENTO DELLE TUBAZIONI AI SENSI DELLA L. 10/91
La L. 10/91 e il DPR 412/93 impongono che le tubazioni siano isolate anche al fine di
massimizzare il rendimento di distribuzione ηd definito dalla relazione:
Qhr
ηd =
Qhr + Qdnr

con:
⋅ Qhr è l’energia termica richiesta per il riscaldamento della zona, fornita in parte dal corpo
scaldante (Qrad) ed in parte dalle tubazioni correnti all’interno dell’involucro riscaldato (Qdr è il
calore disperso recuperato);
⋅ Qdnr è l’energia termica dispersa dalla rete di distribuzione corrente all’esterno dell’involucro
riscaldato e quindi non recuperata.
Il calcolo dettagliato del calore Qdnr disperso dalla rete di distribuzione e non recuperato va
effettuato secondo la norma UNI 10347, che fornisce le metodologie di calcolo per le diverse
situazioni di seguito illustrate. L’energia scambiata da un fluido che scorre all’interno di una tubazione
con l’ambiente che la circonda si determina, in generale, con la seguente formula:
π D1 L
Qd = ⋅ ∆θ fa ⋅ t p
R
dove:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 128

⋅ R è la resistenza termica globale, in m2K/W;


⋅ D1 è il diametro esterno della tubazione, in m;
⋅ L è la lunghezza equivalente della tubazione, cioè la lunghezza effettiva della tubazione,
aumentata di una opportuna quantità, che tenga conto della maggiore energia scambiata a causa
della presenza di punti singolari quali staffe, appoggi, distanziatori, valvole, ecc., (in caso di tubi
affiancati, anche all’interno di un unico involucro isolante, L è la somma della lunghezza dei
tubi) in m;
⋅ ∆θfa = (θf - θa) è la differenza tra la temperatura media del fluido termovettore e la temperatura
dell’ambiente che circonda la tubazione, in °C.

Tabella 20: Valori dell’esponente n per il calcolo della potenza erogata dai terminali
La differenza di temperatura ∆θfa fra fluido e ambiente dipende dalla quantità di corpi scaldanti
installata (a sua volta funzione della temperatura di progetto) e dal tipo di conduzione e si calcola nel seguente
modo:
1
Φ  n
∆θ fa =  m  ∆θ n
 Φn 
dove:
⋅ Φm è la potenza media erogata dai terminali di emissione nel periodo considerato, in W,
determinata come segue:
Q
Φ m = hr
tp
dove:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 129

⋅ Qhr è il fabbisogno energetico utile reale, in J;


⋅ tp è la durata del periodo di erogazione del calore, in s;
⋅ Φn è la potenza termica nominale (nelle condizioni previste dalla relativa norma di prova)
degli stessi terminali di emissione, in W;
⋅ ∆θn è la differenza di temperatura nominale (prevista dalla norma di prova) fra corpo scaldante
e ambiente, in °C;
⋅ n è l’esponente che definisce la caratteristica di emissione della tipologia di corpo scaldante,
fornito dal costruttore o, in mancanza, dalla tabella Tabella 20.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 130

3. CIRCOLAZIONE DEI FLUIDI BIFASE


Un fluido si dice bifase quando è costituito da due fasi fisiche distinti una liquida ed una gassosa.
Una miscela di acqua ed aria, ad esempio, costituisce una miscela bifase, come pure una miscela di
acqua e vapore d’acqua in equilibrio con essa.
L’interesse scientifico e tecnico per queste miscele è grandissimo per le notevoli applicazioni che
si possono avere. Si pensi, ad esempio, agli impianti nucleari24, agli impianti solari25, agli impianti
termotecnici civili ed industriali (ad esempio le caldaie e i generatori di vapore).
Il moto delle miscele bifase pone diversi problemi di calcolo fluidodinamico per le diverse
azioni inerziali che esercitano la fase liquida e la fase gassosa.
In generale uno studio analitico completo richiede l’applicazione delle equazioni di Navier Stokes
e dell’energia (vedi il capitolo sulla Convezione Termica in Fisica Tecnica) sia per la fase liquida che per
quella gassosa. Inoltre, a causa dei diversi regimi di moto che si possono instaurare nel moto bifase
(vedi dopo), si ha la doppia necessità di scrivere ed integrare le suddette equazioni di equilibrio sia nel
dominio dello spazio (cioè in zone omogenee) che del tempo (condizioni tempo varianti).
Se il moto dei fluidi bifase è associato anche ad uno scambio energetico (ad esempio in un tubo
bollitore di una caldaia o di un impianto nucleare) allora si hanno, contemporaneamente ai fenomeni
fluidodinamici, fenomeni di cambiamento di fase (ebollizione e/o condensazione) che complicano
non poco le equazioni di bilancio. Così, ad esempio, perdite di pressione nell’ebollizione
sottoraffreddata sono più elevate di quelle in ebollizione ordinaria e pur tuttavia l’incremento non è
eccessivo.
Le perdite di pressione bifase sono sempre maggiori di quelle monofasi e pertanto occorre
sempre stimarle correttamente per evitare problemi di sottodimensionamento delle pompe di
circolazione.
L’equazione dell’energia già vista all’inizio del corso sotto forma di equazione di Bernoulli
generalizzata può essere scritta in forma differenziale nella forma:
wdw dl w2 dLm
− dp = + ρ gdz + ξ +
v d 2v v
Ricordando l’equazione di continuità mɺ = ρ wS l’equazione di Bernoulli generalizzata si può
ancora scrivere nella forma:
mɺ 2 1 mɺ 2 dL
− dp = 2 dv + γ dz + ξ 2
vdl + m A)
S d 2S v
ove si ha il seguente simbolismo:
⋅ γ peso specifico del fluido, kg/m³;
⋅ ρ densità del fluido, kg/m³;
⋅ v volume specifico del fluido, m³/kg;
⋅ w velocità del fluido, m/s;
⋅ Lm lavoro motore sul fluido, J/kg;
⋅ ξ fattore d’attrito del condotto;
⋅ d diametro (o diametro equivalente) del condotto, m;
⋅ l lunghezza del condotto, m;
⋅ p pressione nel fluido, Pa;
⋅ mɺ portata di massa del fluido, kg/s.
⋅ g accelerazione di gravità, m²/s.

24 Nei reattori ad acqua bollente si ha una circolazione di acqua con piccole percentuali di vapore in equilibrio
termico. Questo fluido assolve sia alle funzioni di refrigerazione che di moderazione neutronica.
25 Le centrali eliotermiche di potenza utilizzano sia miscele acqua-vapore (centrali tipo Francia) che di metalli

liquidi (Sodio fuso o leghe NaK o similari). Anche i collettori a vetro usano una miscela bifasica costituita da freon liquido
e aeriforme.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 131

Si osservi che qualora ci riferisce alla velocità media del fluido nella sezione di passaggio del
condotto occorre tenere conto, nelle precedenti relazioni, di un fattore pari a 1.2 per moto turbolento
e 1.8 per moto laminare, cioè occorre scrivere α w al posto della sola velocità. A questa equazione si
associa l’equazione dell’energia per sistemi aperti stazionari:
 w2 
q + l = ∆1− 2  + gz + h 
 2 
ove si è indicato con:
⋅ h l’entalpia del fluido, J/kg;
⋅ q il calore fornito all’unità di massa di fluido, J/kg;
⋅ l=lm+lr il lavoro totale fornito all’unità di massa di fluido, J/kg.
Data l’arbitrarietà nella scelta delle sezioni di integrazione si fa in modo da non avere, all’interno
del condotto in esame, alcun organo motore e pertanto possiamo annullare il lavoro motore presente
nelle precedenti equazioni. Integrando l’equazione di Bernoulli generalizzata fra due sezioni 1 e 2 prive
di organi motori si ottiene la seguente espressione:
mɺ 2 2 dz mɺ 2 1 2
p1 − p2 = 2 ( v2 − v1 ) + ∫ + 2 ∫ ξ vdl B)
S

1 v
 2
S d 1
 
Slip Gravimetriche Attrito

Questa equazione dice chiaramente che la differenza di pressione fra la sezione iniziale e finale
nel condotto esaminato è somma dei tre termini a secondo membro che esprimono, nell’ordine:
⋅ le perdite di pressione per effetto della variazione di energia cinetica (perdite di slip);
⋅ per perdite per alleggerimento termico dovute all’azione della gravità;
⋅ le perdite di attrito totali dovute alla viscosità del fluido.
Nel caso di moto bifase le perdite di slip debbono tenere conto anche delle diverse velocità delle
due fasi e quindi dell’attrito virtuale che si viene a determinare nel moto relativo (scorrimento o slip)
della fase più veloce rispetto a quella più lenta. Questo termine presenta notevoli difficoltà di calcolo
anche in considerazione del tipo di moto che si instaura nel condotto. Le perdite gravimetriche sono
certamente le più semplici da valutare, come si vedrà nel prosieguo. Le perdite di attrito sono
nuovamente complesse da determinare proprio per l’eterogeneità del fluido bifase e del tipo di moto
nel condotto.
3.1 TIPI DI MOTO BIFASE
Per condotti verticali si è avuto modo di esaminare i regimi di flusso che si instaurano durante
l’ebollizione dinamica in un tubo bollitore, come illustrato dalla Figura 150. I regimi possono essere:
⋅ Moto a bolle: il vapore si muove sotto forma di bolle sparse in una matrice di liquido;
⋅ Moto a tappi: il vapore è presente in quantità elevate e tali da creare, per coalescenza fra bolle
vicine, dei veri e propri tappi interni al condotto;
⋅ Moto anulare: il liquido si muove in aderenza alle pareti e il vapore nel cuore interno della
sezione del condotto;
⋅ Moto a nebbia: il liquido è quasi del tutto evaporato ed occupa tutto il volume disponibile
mentre il liquido, in quantità residuali, si muove sotto forma di minute goccioline sparse nella
matrice di vapore.
Ciascuna di queste tipologie di flusso richiede un tipo di analisi particolare per la necessità, come
sopra accennato, di dovere integrare le equazioni di Navier Stokes e dell’energia in zone di spazio
spesso determinate casualmente e quindi senza alcuna possibilità pratica di previsione analitica.
Del resto anche l’istaurarsi del regime di moto non è facile da prevedere anche se esistono
alcune mappe sperimentali che delimitano, certamente non in modo preciso, i campi di esistenza dei
vari regimi di flusso.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 132

M O T O A N E B B IA

M OTO AN ULARE

M OTO A TAPPI

M O T O A BO LLE

C O N V E Z IO N E M O N O F A S E

L IQ U ID O

Figura 150: Regimi di moto in condotto verticale durante l’ebollizione


In Figura 151 si ha un esempio di regimi di flusso per l’ebollizione in condotti orizzontali.

M O T O A B O LLE

M OTO A T APPI

M O T O A N U LA R E

M O T O S T R A T IF IC A T O

Figura 151: Regimi di moto in condotto orizzontale durante l’ebollizione


Oltre ai regimi visti in precedenza si ha il moto stratificato nel quale la fase liquida si mantiene,
per gravità, in basso e la frazione aeriforme nella parte superiore sotto forma di bolle. L’instaurarsi di
un regime di moto piuttosto che un altro dipende fortemente dai rapporti delle portate della fase
liquida e della fase aeriforme. I profili di velocità nel moto bifase non hanno una definizione ben
precisa, come del resto si può intuire, e spesso si ricorre a rappresentazioni fittizie di tipo polinomiali
determinate con esperienze mirate per particolari regimi di moto.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 133

3.2 CALCOLO DELLE PERDITE DI PRESSIONE IN REGIME BIFASE


In calcolo delle perdite di pressione nel moto bifase è stato oggetto di studi da diversi decenni.
Inizialmente in mancanza di sperimentazioni pratiche si è cercato di proporre metodi analitici
basati su ipotesi di moto semplificati e in particolare immaginando che il fluido complessivo bifase
fosse determinato dalle caratteristiche medie di un fluido omogeneo opportunamente definito.
Negli anni ‘settanta si sono avute le prime sperimentazioni di Martinelli e Nelson che hanno
portato alla definizione di metodi semiempirici ritenuti più affidabili di quelli solamente teorici.
Negli anni ‘novanta le esperienze di Thom hanno fornito una metodologia semiempirica
completa oggi ritenuta fondamentale per il calcolo delle perdite di pressione in regimi bifasi.
3.2.1 METODO DI HANFORD
E’ uno dei primi metodi di calcolo analitico delle perdite di pressione e si base su alcune ipotesi
semplificative che qui riportiamo:
⋅ Si suppone il condotto orizzontale e quindi si trascurano le perdite gravitazionali;
⋅ Il fluido si suppone omogeneo avente volume specifico dato dalla relazione:
v +v
vm = 1 2
2
ove, per miscele sature, si ha, come si ricorda dalla Termodinamica: v = vl + x ( vv − vl ) con vl
volume specifico del liquido, vv volume specifico del vapore ed x titolo della miscela. Inoltre il punto 1
indica l‘ingresso del condotto e 2 l’uscita. La velocità media del fluido è data dalla relazione inversa di
Leonardo: w = mɺ
ρS .
Si definisce, inoltre, la fluidità (inverso della viscosità newtoniana) data dalla relazione:
1 1− x x
= +
µ µl µv
con la solita convenzione sui pedici. La fluidità media del fluido omogeneo è data, analogamente
a quanto visto per volume specifico medio, dalla relazione:
µ + µ2
µm = 1
2
essendo 1 e 2 l’ingresso e l’uscita del condotto considerato. Nel caso di un tubo bollitore o in
ogni caso con scambi termici con l’esterno l’ipotesi di un fluido omogeneo per lunghi condotti appare
poco realistica e in ogni caso fortemente dipendente, per via dei volumi specifici e delle viscosità, dalle
pressioni locali nelle sezioni di condotto. Pertanto si può suddividere il condotti in tratti di piccola
lunghezza all’interno dei quali le ipotesi di omogeneità appaiono maggiormente valide. Per ogni
condotto si può scrivere, con l’ipotesi dz=0, l’equazione di Bernoulli:
mɺ 2 (i ) (i ) mɺ 2 1 (i ) (i ) (i )
p1 − p2 = 2 ( v2 − v1 ) + 2 ξ vm l
(i ) (i )

S 2S d
ove con l’apice (i) si intende il generico tratto del condotto. In pratica partendo dal primo tratto,
nel quale è nota la pressione p1(1) , si determina la pressione di uscita p2(1) che è poi la pressione di
ingresso del secondo tratto, cioè si ha p1(2) = p2(1) e così via per gli altri tronchi fino ad arrivare alla p2
d’uscita dell’ultimo tronco che coincide con la pressione finale all’uscita del condotto.
In definitiva la somma delle equazioni parziali dei singoli tratti porta all’equazione totale:
mɺ 2 2 mɺ 2 1 2
p1 − p2 = 2 ∑ ( v2(i ) − v1(i ) ) + 2 ∑ ξ (i ) vm(i )l (i )
S 1 2S d 1
Il coefficiente di attrito ξ può essere calcolato con la classica relazione di Weissbach valida per
tubi lisci:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 134

x=0.184 Re-0.2
per cui per ogni singolo tratto si può scrivere l’equazione di bilancio26:
 mɺ  d µ (i ) (i ) (i )
1.8 −1.2 0.2
mɺ 2 (i ) (i )
p1 − p2 = 2 ( v2 − v1 ) + 0.184  
(i ) (i )
vm l
S S 2
Per calcolare il volume specifico medio, vm, occorre conoscere come varia il titolo in funzione
della lunghezza e della pressione parziale del tratto considerato. L’equazione dell’energia per il singolo
tratto (sempre supposto orizzontale) diviene:
 w2 
qe(i ) = ∆ (i )  h + 
 2 
L’entalpia della miscela bifase in una generica sezione (i) è dato da:
h = hl + xr
ove r è il calore latente di vaporizzazione alla pressione parziale nel tratto. Fra le sezioni 1 e 2
di ciascun tratto si ha:
∆1,2 = ∆hl + r2 x2 − r1 x1
ove r2 ed r1 sono i calori latenti di vaporizzazione alle pressioni p2 e p1 ed è:
∆hl = hl2 − hl1
la variazione delle entalpie specifiche del liquido alle pressioni suddette. Combinando le
precedenti equazioni si ha, per la velocità media, l’espressione:
mɺ mɺ
w = v = vl + x ( vv − vl ) 
S S
Pertanto si ha:

= 2 vl1 + x2 ( vv2 + vl 2 )  − vl1 + x1 ( vv1 + vl1 ) 


w2 mɺ 2 2 2

2 2S
ove vl e vv sono note una volta conosciute le pressioni p2 e p1.
Si osservi che i volumi specifici del liquido, non appena il titolo x supera qualche centesimo,
divengono trascurabili di fronte ai volumi specifici del vapore, per cui la precedente diviene:
w2 mɺ 2 2 2
∆ ≈ 2  x2 vv2 − x12 vv21 
2 2S
Con gli sviluppi sopra esposti si può applicare il metodo di Hanford per approssimazioni
successive. Nota la pressione iniziale del prima tratto si stima la pressione di uscita dello stesso tratto e
si calcola la x2 dello stesso tratto (eventualmente risolvendo l’equazione di 2° grado sopra indicata).
A questo scopo, trascurando il termine cinetico (di solito piccolo rispetto ai termini termici) si
può scrivere:
qe(1) − ∆ (1) h1 + r1(1) x1(1) = r2(1) x2(1)

Il calore fornito qe(1) può essere calcolato dalla relazione:


1 l (1)
qe(1) = ∫ qbdz
mɺ 1

26 Si ricordi che vale la relazione: Re = ρ wd µ = ρ wd µ = dmɺ µ S e quindi è

( ) ( mɺ S )
0.2 −0.2
ξ = 0.184 Re −0.2 = 0.184 d µ .
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 135

con b perimetro del condotto. nota x2(1) si ricava v2(1) dalla relazione:
v2(1) = vl(1)
2
+ x2(1) ( vv(1)2 − vl(1)
2
)
e quindi:
v1(1) + v2(1)
vm(1) =
2
Si calcola poi:
µ1(1) + µ 2(1)
µ m(1) =
2
Ora si ricava il valore della pressione di uscita p2(1) che di solito differisce da quella inizialmente
stimata. Se la differenza è minore dell’errore massimo tollerabile allora si procede con il tratto
successivo reiterando le operazioni appena descritte.
Nel caso di differenza maggiore dell’errore ammissibile allora si assume la p2(1) appena calcolata
e si riparte per una nuova iterazione fino a quando la differenza fra il valore di calcolo attuale e quello
del ciclo precedente è minore dell’errore ammissibile.
La caduta di pressione totale è quindi data da:
i= N
∆p1,2 = ∑ ( p1(i ) − p2(i ) )
i =1

Osservazioni sul metodo di Hanford.


L’ipotesi di modello omogeneo, alla base del metodo di Hanford, presuppone che la fase
aeriforme sia in percentuale piccolissima (o che si abbia moto a nebbia) o che la pressione media sia
elevata e vicina alla pressione critica del fluido.
Si ricordi, infatti, che alla pressione critica non si ha differenza fra la fase liquida e quella
aeriforme. In queste condizioni la precisione del metodo è dell’ordine del 30% che, in mancanza di
altri dati sperimentali, è da considerarsi buona per le applicazioni impiantistiche.
Nelle situazioni diverse da quelle sopra indicate il metodo di Hanford commette errori non
trascurabili. E va utilizzato con molta cautela.
3.2.2 CONDOTTI VERTICALI E CALCOLO DELLE PERDITE GRAVIMETRICHE
Nel caso di condotti verticali occorre valutare anche il termine gravimetrico (prima del tutto
trascurato), cioè il termine:
2 dz
∆pgrav. = ∫
1 v

Vediamo adesso una semplice metodologia per effettuare questo calcolo. Si supponga di avere
un flusso termico uniforme lungo la lunghezza del condotto e che il salto di pressione sia piccolo27.
Allora si può scrivere:
dqe = rdx
ovvero:
qb
dqe = dz = rdx

con z lunghezza del condotto a partire dall’ingresso, b il perimetro e q il flusso termico specifico
(J/m²). Questa relazione ci dice che la variazione del titolo è proporzionale alla lunghezza progressiva,
per cui, supponendo che sia x1=0, si ha:

27 Il salto di pressione ∆p è pari alla caduta di pressione totale e pertanto questo deve essere comunque limitato

nelle applicazioni impiantistiche onde evitare eccessive potenze di pompaggio.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 136

x2
v = vl + x ( vv − vl ) = vl + ( z − z1 )( vv − vl )
l
Sostituendo nell’espressione di ∆pgrav si ha (per i=z2 – z1) :
2 dz z2 − z1 v + x2 ( vv − vl )
∆pgrav. = ∫ = ln v
1 v x2 ( vv − vl ) vl
Questa perdita va sommata alle perdite per slip e per attrito.
3.2.3 METODO DI MARTINELLI E NELSON
Negli anni ‘settanta, data la complessità analitica del problema, si effettuarono numerose
esperienze per determinare le cadute di pressione in miscele bifasiche di acqua ed aria.
Inizialmente Lochkart e Martinelli definirono un moltiplicatore, Xtt, definito come radice quadrata
del rapporto fra la caduta di pressione nella fase liquida e la caduta di pressione nella fase aeriforme ed
è dato a sua volta dalla relazione:
0.5 0.1
∆pl  1 − x   ρ v   µ l 
0.9

X tt = =     
∆pv  x   ρl   µ v 
con x titolo del vapore e con il solito significato per gli altri simboli. In Figura 152 si ha
l’andamento delle curve sperimentali che forniscono il moltiplicatore di Martinelli, Xtt, al variare della
pressione e del titolo della miscela.
Si osservi, però, che il titolo della miscela non è costante lungo il condotto per cui sarebbe
necessario conoscere la legge di variazione di x e procedere a successive integrazioni.
Successivamente sono state elaborate altre curve sperimentali alla base del metodo di calcolo
semiempirico detto di Martinelli e Nelson.
Se si suppone, almeno inizialmente, che il titolo vari linearmente fra ingresso e uscita (con x=0
in ingresso del condotto) e che vi sia somministrazione uniforme di calore allora Martinelli e Nelson
definiscono il rapporto:
∆p
M = 2 Fa
∆p1Fla
ove si ha il seguente simbolismo:
⋅ ∆p2Fa caduta di pressione per attrito per moto bifase, Pa;
⋅ ∆p1Fla caduta di pressione per attrito per portata totale pensata di solo liquido, Pa.
In definitiva M (sempre >1) è il rapporto fra le cadute di pressione per attrito nelle reali
condizioni di moto bifase rispetto a quelle che si avrebbero, sempre per attrito, se la portata totale
fosse di solo liquido.
Queste ultime sono calcolabili facilmente con i metodi della Fluidodinamica monofase visti nei
precedenti capitoli e pertanto se si conosce M di possono calcolare le perdite di attrito bifase mediante
la relazione:
∆p2 Fa = M ∆p1Fla
Martinelli e Nelson hanno determinato l’andamento sperimentale di M partendo dalle curve di
Lochkart – Martinelli, come rappresentato nell’abaco di Figura 153.
L’abaco fornisce M al variare della pressione nel condotto per assegnato titolo, x2, in uscita.
Si osservi come sia sempre M>1 (quindi le perdite bifase sono sempre maggiori di quelle
monofase) e come le curve tendano a congiungersi per la pressione critica dell’acqua (222 bar) laddove
non si ha più alcuna differenza fra la fase liquida e il vapore.
Se il titolo in ingresso è x1,≠0 allora si può procedere in questo modo, vedi Figura 154:
⋅ si calcola la M1 corrispondente alla caduta di pressione fittizia di un condotto avente titolo in
ingresso nullo e in uscita pari ad x1;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 137

Xtt
1000
1 bar
500

7 bat

100

50 35 bar
70 bar

10
5
210 bar

1 x
0.1 0.2 0.4 0.6 0.8 1.0

Figura 152: Diagramma del moltiplicatore Xtt di Martinelli


⋅ Si calcola M2 per un condotto fittizio nelle condizioni di titolo in ingresso 0 e in uscita x2;
⋅ Si calcola il fattore M per condotto con titolo in ingresso x1 e in uscita x2 dalla differenza:
M = M1 − M 2
pertanto le perdite di pressione sono date da:
∆p2 Fa = ( M 2 − M 1 ) ∆p1Fla
Ricordando quanto detto per le cadute totali di pressione:
∆ptot = ∆
p + ∆ p + ∆ p
Slip Gravimetrico Attrito

il metodo di Martinelli e Nelson consente di calcolare le cadute di pressione per attrito.


Il termine relativo alle cadute di pressione per slip può essere calcolato, sempre
sperimentalmente, ponendo:
mɺ 2 mɺ 2
∆pslip = 2 ( v2 − v1 ) = R 2
S S
con R (ove è, per quanto detto in precedenza, R = v2 − v1 ) coefficiente dato dall’abaco di Figura
155. Nel caso in cui le condizioni iniziali del titolo siano x1≠0 allora, in analogia a quanto detto per il
calcolo di M e con riferimento alla Figura 154, si procede così:
⋅ Si calcola R1 per il tratto fittizio con titolo variabile da 0 a x1;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 138

⋅ Si calcola R2 per il condotto fittizio con titolo variabile da 0 a x2;


⋅ Si calcola il valore reale: R=R2 – R1.
Se nel condotto si hanno anche perdite concentrate allora queste debbono essere valutate per la
sola fase liquida per una portata di liquido equivalente a quella totale. Le perdite di attrito ∆p1Fla sono
date da:
∆p1Fla = ( ∆p1Fla ) distribuite + ( ∆p1Fla )concentrate
e le perdite bifase totali corrispondenti si calcolano moltiplicando le precedenti per il
coefficiente R calcolato come sopra specificato.

1000
100%
Tot
olo
80 usci
ta
60
100
20
10

10
0

1
1 10 100 p
Bar

Figura 153: Abaco di Martinelli e Nelson per M

M1 M2
x=0 x=x1
R1 R2 x=x2

L1 L2

Figura 154: Condizioni iniziali con titolo non nullo


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 139

1 100%
80%
6 0%

40%
0,1
20%

10%

0,01

1%

0,001
1 10 100 p
Bar

Figura 155: Abaco di Martinelli e Nelson per R


Osservazioni sul Metodo di Martinelli e Nelson
Questo metodo ha come ipotesi di base l’esistenza di due fasi distinte e quindi è in netta
contrapposizione con il modello omogeneo di Hanford. Il modello di riferimento è, quindi, quello del
moto anulare o del moto stratificato o anche del moto a nebbia.
I risultati ottenuti con questo metodo vanno bene fino a titoli elevati in uscita (anche x2=1).
Esso è tutt’oggi quello più utilizzato per portate specifiche ( mɺ S ) elevate.
I risultati sperimentali, ottenuta da Muscettola del CISE28, mostrano una sopravvalutazione di
circa il 20% delle perdite di pressione. Ciò è ritenuto dai progettisti una garanzia di maggior sicurezza
sia per le inevitabili incertezze progettuali che per tenere conto dell’invecchiamento del condotto e
quindi dell’aumento delle perdite localizzate29. Il metodo di Martinelli e Nelson non fornisce metodi di
calcolo del termine gravimetrico e quindi occorre effettuare separatamente questo calcolo, ad esempio
come illustrato in precedenza (§3.2.2).

28 Il CISE (Centro Italiano Studi Elettricità) si è occupato di impianti nucleari proponendo, negli anni sessanta, un
tipo di reattore prova elementi combustibili denominato CIRENE (CIse REattore Nebbia) caratterizzato dal moto a nebbia
all’interno dei canali di refrigerazione.
29 L’invecchiamento del condotto porta al deposito di materiali (incrostazioni) e all’incremento delle asperità

interne.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 140

3.2.4 METODO DI THOM


Le ipotesi di base sono quindi analoghe a quelle di Martinelli e Nelson e pertanto si ha un
modello a fasi separate. Le ipotesi di base sono quindi analoghe a quelle di Martinelli e Nelson e
pertanto si ha un modello a fasi separate.
E’ il metodo semiempirico più recente e si basa su una serie di esperienze effettuate negli USA
negli anni cinquanta su miscele di acqua e vapore con pressioni variabili da 1 a 210 bar e titolo in
uscita variabile da 3 al 100%.
Il flusso termico è stato mantenuto uniforme (ipotesi fondamentale) lungo la superficie laterale
del condotto. Il titolo iniziale è sempre pari a zero.
Il metodo di Thom permette di calcolare tutti e tre i termini (slip, gravimetrico e attrito) per la
caduta totale di pressione mediante abachi sperimentali.
Analogamente a quanto visto in precedenza si ha ancora la definizione del fattore M:
∆p
M = 2 Fa
∆p1Fla
anche se le curve sono diverse da quelle di Figura 153. Le nuove curve sono riportate in Figura
156.
Le curve hanno andamento simile e convergono in corrispondenza della pressione critica
dell’acqua. Si osservi ancora che Thom tiene conto dell’influenza dello scorrimento fra le due fase
mentre Martinelli e Nelson non ne tenevano conto.
Le perdite di slip si definiscono mediante la relazione:
mɺ 2
∆pslip = R ' 2 vl
S
e quindi la formulazione è diversa da quella di Martinelli e Nelson anche per la presenza del
volume specifico del liquido, vl. Il coefficiente R’ è riportato nell’abaco di Figura 157 per vari titoli di
uscita e per varie pressioni di ingresso.
Infine le perdite gravimetriche sono calcolate mediante la relazione:
vusc . dz 1
∆pgrav. = ∫ = Lζ
ving . v vl
Il coefficiente ζ è dato dall’abaco di Figura 158 per titoli di uscita e pressione di ingresso
variabili.
La perdita totale di pressione nel tubo bollitore con titolo iniziale nullo è data da:
mɺ 2 ζL
∆ptot = ∆
 p + ∆
 p + ∆ p = R ' v +
2 l
+ M ∆p1Fla
Slip Gravimetrico Attrito
S vl

Thom estende il suo metodo semiempirico anche al caso in cui non ci sia somministrazione di
calore: in questo caso restano le formulazioni precedenti ma il termine di attrito va calcolato
utilizzando l’abaco di Figura 159 anziché quello di Figura 156.
Gli altri coefficienti restano invariati.
Per condizioni di ingresso diverse dal titolo nullo, come illustrato in Figura 154, si procede allo
stesso modo già visto per Martinelli e Nelson utilizzando un condotto fittizio tale che per esso il titolo
vari da x=0 ad x=x1.
Osservazioni sul metodo di Thom
Rispetto al metodo di Martinelli e Nelson questo metodo presenta errori minimi rispetto ai dati
sperimentali.
E’ approssimato in eccesso quando le portate specifiche sono inferiori a 230 g/(cm².s).
Il metodo è approssimato in difetto per portate specifiche elevate, cioè > 230 g/(cm².s).
Il metodo di Martinelli e Nelson presenta sempre valori stimati in eccesso rispetto ai dati
sperimentali e l’errore si riduce allorquando il titolo di uscita si avvicina al 100%.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 141

100
70
100
50

70
20

30
10
7 10

5
5

2
1
p
1

10 50 100 200 bar


20 150

Figura 156: Abaco di Thom per M

R 60
50 100
30
20

20
10

7
10
5

4
2

2
1

0,7
1
0,5

0,2

p
0,1
10 50 100 200 bar
20 150

Figura 157: Abaco di Thom per R


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 142

1
ζ
1
0,7

0,5 10

0,2 20

50
0,1

100

p
0,05
10
30 50 100 bar 200

Figura 158: Abaco di Thom per ζ

M
100 Senza Flusso Termico
100 70
70
50
50
33

20
10

10 5

7
3
5
2

2 1

p
1

10 50 100 200 bar


20 150

Figura 159: Abaco di Thom per M per condotto senza flusso termico
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 143

3.2.5 METODO DI CHENOVETH, MARTIN, LESTER


Si tratta ancora di un metodo semiempirico di rapida applicazione per la progettazione di
impianti industriali. La sua validità si ha per diametri dei condotti > 2” (quindi tubi bollitori di caldaie
e/o generatori di vapore) con miscela bifasica acqua – aria o acqua – vapore.
Analogamente ai due metodi precedenti, si definisce il fattore M:
∆p
M = 2 Fa
∆p1Fla
con M dati in Figura 160, ove le curve sono in funzione del rapporto fra le cadute di pressione
per attrito nella sola fase vapore rispetto a quelle analoghe della fase liquida:
∆p
ϕ = 1Fva
∆p1Fla
Nel calcolare questo rapporto si immagina di calcolare le perdite di pressione per attrito prima il
condotto con solo vapore di portata pari a quella totale e poi di solo liquido con analoga portata
totale. In ascisse si ha la frazione di sezione occupata dal liquido, 1-α, essendo α la frazione di vuoto
definita dal rapporto fra l’area occupata dal vapore rispetto all’area totale della sezione del condotto:
S
α= v
S
Questo metodo non è molto indicato per basse pressioni.
M ∆ p1Fva
ϕ=
1000 1000 ∆ p1Fla

500

200

100 100
50

10

1-α
1
0,00001 0,0001 0,001 0,01 0,1

Figura 160: fattore M per C-M-L


3.3 STABILITÀ DEI TUBI BOLLITORI
Negli impianti industriali (caldaie, generatori di vapore, reattori chimici, ….) riveste grande
importanza la stabilità e la sicurezza dei tubi bollitori all’interno dei quali si hanno i cambiamenti di
stato dell’acqua (come di qualunque altra sostanza). I fenomeni che possono avvenire all’interno dei
tubi bollitori sono molteplici in funzione del flusso termico, delle proprietà termofisiche del fluido e
della topologia dell’impianto.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 144

3.3.1 TUBO BOLLITORE ORIZZONTALE


Si supponga inizialmente che il tubo bollitore sia orizzontale e a sezione costante, che sia nota la
pressione di sbocco, p2, e che sia uniforme e costante il flusso termico lungo le pareti. Quando non c’è
ebollizione a velocità elevate il numero di Reynolds varia poco con il variare della portata ponderale
poiché alle diminuzioni di portata corrisponde, a parità di flusso termico, un incremento di
temperatura del fluido secondo la relazione:
= c (t f − t p )
Qe

essendo tf la temperatura del fluido e tp la temperatura della parete.
Pertanto la viscosità diminuisce ed essendo:
4mɺ d mɺ
Re = =K
πd µ2
µ
si può ritenere che il rapporto mɺ µ si mantenga sensibilmente costante. Viceversa avviene se la
portata ponderale cresce poiché si avrebbe una diminuzione del salto termico ed un incremento della
viscosità dinamica. La caduta di pressione nel condotto, nell’ipotesi di assenza di ebollizione e quindi
con flusso monofase, è data dalla solita relazione:
L mɺ 2
∆p = ξ v
d 2S 2
ove per la relazione di Weissbach si ha:
ξ = 0.184 Re −0.2
che varia poco essendo Re sensibilmente costante, come sopra illustrato.
Ne segue che possiamo scrivere, raggruppando i termini:
∆p = p1 − p2 = K1mɺ 2

che, in coordinate (p, mɺ 2 ), vedi Figura 161 ove in ascisse si ha mɺ 2 , è una retta passante per
l’origine e coefficiente angolare K1.(retta OR).
Un diagramma più preciso potrebbe essere tracciato per punti calcolando le perdite di pressione
effettive. La retta OR rappresenta le condizioni di funzionamento fino alla portata mɺ B in cui inizia
l’ebollizione sottoraffreddata (vedi capitolo dell’Ebollizione). Al di sotto di questa portata si hanno
perdite di pressione crescenti (si ricordi che le perdite bifase sono sempre maggiori di quelle monofasi)
al diminuire della portata di massa anche perché, a pari flusso termico, cresce il titolo di vapore
presente. Allo sbocco abbiamo:
Qe
≈ rx2

ove x2 è il titolo finale della miscela. Si ha, quindi, la curva BH di Figura 161 che si raccorda con
continuità con la OR in quanto l’ebollizione non si presenta contemporaneamente e nella stessa forma
in tutte le sezioni del condotto.
In corrispondenza ad un titolo x=025÷0,30 (a seconda dei casi), punto V della figura, si ha il
massimo della caduta di pressione p1v − p2 = ∆pv . Se la portata decresce ulteriormente allora p1
diminuisce fino al punto S (dove si ha x=1) dove si ha la scomparsa del liquido allo sbocco.Una
ulteriore diminuzione della portata comporta il surriscaldamento del vapore (si è quindi in regime
nuovamente monofase ma di vapore e non più di liquido) con andamento lineare con una nuova K2.
In realtà giunti nel punto Z si ha la bruciatura (burn out) del tubo bollitore. Si osservi che ci si può
spingere fino al punto Z solo se il flusso termico specifico (cioè per unità di superficie) è basso. Con i
valori correnti dei flussi termici si ha la bruciatura molto prima di arrivare ad S, più precisamente per x
= 0.7÷0.8. Se il flusso termico è particolarmente elevato si può avere la bruciatura del tubo bollitore
già durante l’ebollizione sottoraffreddata.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 145

p
p Vapore surriscaldato Liquido + Vapore Liquido
p1H'
1B
p R''
1K
p V H
1V
S K'

R' N'' M' R


p
1R N D
M
D'
B

D''
m
p
2 0 m m m
B M R

Figura 161: Andamento delle pressioni al variare della portata

3.3.2 PUNTO DI LAVORO DEL TUBO BOLLITORE

Supponiamo di avere la pressione iniziale p1=pR , come indicato in Figura 161, ed introduciamo
all’ingresso del condotto una resistenza localizzata (ad esempio un ugello) tale che si abbia una caduta
di pressione data da:
r w2 mɺ 2 v
∆pr = = r 2 = r ' mɺ 2
v 2 2S
con r’ funzione della resistenza adottata. In figura si ha la rappresentazione della caduta di
pressione con la retta p1RD formante con la p1RR (orizzontale) un angolo α tale che sia tag(α)=r’.
Il significato fisico di queste rette appare evidente se si considera che per ogni valore della
portata di massa mɺ si hanno segmenti intercetti fra esse che rappresentano le cadute di pressione ∆pr
nella resistenza localizzata.
I punti M ed N rappresentano punti di funzionamento in presenza dell’ugello quando
all’imbocco è applicata una pressione p=1R, così come i punti R, R’ rappresentano punti possibili di
funzionamento in assenza dell’ugello. In corrispondenza dei predetti punti, infatti, la somma della
caduta di pressione nell’ugello ∆pr e nel tubo bollitore eguaglia la caduta di pressione totale p1R –p2.
I punti come R ed M sono punti di funzionamento stabile: infatti se per ragioni accidentali la
portata aumenta o diminuisce si ha, rispettivamente, un difetto o un eccesso di pressione motrice che
tende a ripristinare le condizioni primitive.
Non si può dire lo stesso di R’ ed N’: infatti un aumento accidentale di portata provoca un salto
repentino in R o in M (rispettivamente) mentre una diminuzione di portata tende ad esaltarsi portando
il condotto alla bruciatura.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 146

Se si sceglie come pressione di imbocco p1K si può ottenere il funzionamento nel punto R con
l’introduzione di una resistenza tale che sia:
p −p
r ' = tagα ' = 1K 2 1R
ɺ
m
Per questo valore tracciamo la retta p1KR tale che sia:
R R" p −p
tagα ' = 2 = r ' = 1K 2 1R
mɺ R ɺ
m
Questa retta incontra la curva delle pressioni, oltre che in R, anche in K e K’. Di questi punti
solo R e K sono relativi ad un funzionamento stabile mentre K’ è instabile e si salta in R o in K.
Quindi con la scelta della pressione p1R per la pressione di imbocco una eventuale instabilità si ferma
in K e pertanto, se la bruciatura avviene oltre questo punto, si può evitare il danno al tubo bollitore.
Quando il funzionamento nel punto R è ottenuto con la pressione p1R si è garantiti contro
eventuali bruciature per ostruzioni accidentali aventi:
RD '
r'≤ 2
mɺ R
mentre con la pressione p1K questo valore diviene più elevato, fino a:
R"D"
r'=
mɺ R2
La pressione p1K presenta anche il vantaggio che, in caso di ostruzioni che portino il
funzionamento nella curva VS, si ha ancora un funzionamento stabile e la bruciatura può essere
evitata con maggiore facilità se si dispone di un apparecchio di allarme acustico. La scelta della
pressione p’1H sulla tangente da R al punto H, oltre a migliorare le condizioni di sicurezza
precedentemente citati (con riferimento alle ostruzioni accidentali) permette un ritorno automatico
delle condizioni dell’arco ZSH al punto R. Questo non è possibile con pressioni minore di p1V; infatti
dalla Figura 161 si osserva che se:p1 < p1V per il ritorno dell’arco SV ed R non basta regolare la
resistenza di imbocco ma occorre ridurre anche la potenza termica fornita in modo da avere una
diminuzione di p1max (in corrispondenza di V). La scelta di una pressione di imbocco più elevata di p1B
consente il funzionamento in tutte le condizioni mediante l’introduzione di resistenza variabili
(saracinesche di regolazione); si possono, infatti, intersecare con la retta di carico tutti i punti della
curva del tubo bollitore ed avere un funzionamento stabile. In definitiva, la scelta della pressione a
monte di un tubo bollitore va fatta oculatamente in base al grado di sicurezza che si desidera ottenere.
Il raggiungimento di condizioni di optimum comporta la necessità di scegliere pressioni
piuttosto elevate, introducendo all’ingresso del condotto resistenze concentrate (ugelli, saracinesche,
…). Queste resistenze proteggono il tubo bollitore (che di solito funziona in parallelo ad altri tubi)
dato che variazioni accidentali della portata nominale hanno minore peso. L’introduzione di ugelli allo
sbocco (anziché all’imbocco) esercita una protezione, nel senso che fa crescere la pressione a monte.
In questo caso l’ebollizione inizia a temperature più elevate e quindi per portate minori. Tuttavia, se
l’ebollizione inizia allora le condizioni risultano aggravate. L’ugello posto all’imbocco è sempre
attraversato da solo liquido mentre se è posto allo sbocco è attraversato da una miscela di liquido e
vapore e quindi producendo una resistenza maggiore. La portata, per conseguenza, diminuisce
rapidamente e la bruciatura del condotto viene facilitata.
3.3.3 TUBO BOLLITORE VERTICALE
Lo studio dei tubi bollitori verticali è più complesso di quello prima mostrato di tubi orizzontali.
Per questi condotti si possono avere due casi:
⋅ Moto del fluido dal basso verso l’alto: in questo caso si hanno condizioni di stabilità maggiori
rispetto ai tubi orizzontali;
⋅ Moto del fluido dall’alto verso il basso: le condizioni di sicurezza diminuiscono rispetto al caso
di condotto orizzontale.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 147

3.3.4 CALCOLO DELLA PORTATA DI INIZIO E FINE EBOLLIZIONE


Ai fini dell’analisi della stabilità e sicurezza di un tubo bollitore è necessario conoscere le portate
di inizio e fine ebollizione. Si abbia, quindi, un condotto sottoposto a flusso termico Qe esterno
(supposto costante ed uniforme). Il fluido entra alla temperatura ti con entalpia hl1 e ad una pressione p
che possiamo ritenere costante. Il calore necessario per avere l’ebollizione è pari a:
qel ,2 = hl2 − hl1

x=0

ove hl2 è l’entalpia del fluido in ebollizione alla pressione p e qe il flusso specifico (J/kg) da fornire
al fluido. Noto il flusso totale esterno Qe e la portata totale di massa si calcola:
Q
qel ,2 = e

Si può anche scrivere, per la portata totale e il flusso termico totale, la relazione globale di
bilancio:
Qe
mɺ i =
hl2 − hl1

essendo mɺ i la portata di massa di inizio ebollizione.


Supponendo costante la pressione30 p del condotto, alla fine dell’ebollizione l’entalpia del vapore
saturo vale:
hv2 = hl2 + r2
essendo r2 il calore latente di vaporizzazione alla pressione considerata. Il flusso specifico vale:
ql2 = hv2 − hl1 = hl2 + r2 − hl1

x =1

e deve aversi:
Qe
hl2 + r2 − hl1 =
mɺ f

ove mɺ f è la portata specifica di fine ebollizione. Risulta, pertanto:


Qe
mɺ f =
hl2 + r2 − hl1

Le cadute di pressione per portate di massa inferiori a quella di inizio ebollizione, mɺ i , si


calcolano con le solite relazioni per flusso monofase (Weissbach):
L w2 L mɺ 2
∆p = ξ =ξ v
d 2v d 2S 2
Per il calcolo di ξ si utilizza la solita correlazione per tubi lisci ξ = 0.184 Re −0.2 . Allorquando ha
inizio l’ebollizione la caduta di pressione va calcolata con uno dei metodi prima esposti per le perdite
di pressione in moto bifase, ad esempio con il metodo di Thom.
Il titolo di vapore in uscita dal tubo bollitore si calcola mediante la già citata equazione
dell’energia:
 w2 
qel ,2 = ∆1,2  h + gz + 
 2 

30 Si ricordi che le cadute di pressione sono sempre mantenute basse per evitare grandi potenze di pompaggio per

il moto del fluido nel condotto considerato.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 148

Ponendo x1=0 e trascurando il contributo dei termini meccanici (cinetico e gravimetrico) si può
scrivere:
qe1,2 ≈ r2 x2
ovvero anche:
Qe
≈ r2 x2

Da questa relazione si calcola il titolo in uscita x2 al variare di mɺ . Noto x2 si calcola la caduta
totale di pressione:
mɺ 2 Lζ
∆p1,2 = ∆p2 Fa + ∆pslip + ∆pgrav = M ∆p1,21 Fla + R 2 vl2 +
S vl2

con M, R e ζ calcolati con gli abachi di Thom31.


Va osservato, infine, che la portata allo sbocco non può variare a piacere dovendo essere
sempre inferiore alla velocità massima (per tubi a sezione costante) pari a quella del suono, come si è
visto per il moto dei fluidi comprimibili.
3.3.5 EFFETTI DELLA VARIAZIONE DI DENSITÀ NEL MOTO DEI FLUIDI IN CONDOTTI
VERTICALI
All’interno dei tubi bollitori o dei canali di refrigerazione degli impianti nucleari o di reattori
chimici si ha moto di fluido con cambiamento di densità, dovuta alle variazioni di temperatura lungo il
condotto, che possono produrre problemi di instabilità se non adeguatamente controllati.
Ambiamo già trovato l’equazione A) che qui si ripete riscrivendo diversamente il termine
cinetico:
wdw 1 mɺ 2 dL
− dp = + γ dz + ξ 2
vdl + m
v d 2S v
Integrando questa equazione fra le sezioni 1 e 2 (ingresso e uscita) e trascurando il termine
dovuto al lavoro positivo del circolatore si ha:
2 wdw 2 2 dR
p1 − p2 = ∫ + ∫ γ dz + ∫
1 v 1 1 v

In questa equazione occorre osservare che, per condotti a sezione costante, la variazione di
volume specifico è di solito piccola e quindi le variazioni di velocità sono parimenti piccole e pertanto
il termine cinetico apporta contributi trascurabili.
Nel termine gravimetrici il peso specifico γ varia con la temperatura secondo la legge:
γ = γ 1 1 + β ( t − t1 ) 

con β coefficiente di dilatazione cubica (o di espansione isobaro già visto in Termodinamica) e t


la temperatura corrente. La stessa relazione vale per la variazione della densità con la temperatura.
Per saldi termici piccoli si può ritenere parimenti piccola la variazione di densità e pertanto si
può utilizzare il suo valore medio, ρ , fra le due sezioni considerate e quindi la caduta totale di
pressione diviene:
p1 − p2 = ρ R1,2 + γ 1 ( z2 − z1 ) − γ 1 ∫ β ( t − t1 ) dz
2

Sempre supponendo piccole variazioni dei parametri termofisici e linearizzando le variazioni


con l’altezza, possiamo ancora scrivere:

31 E’ ovvio che lo stesso discorso vale per l’applicazione del metodo di Martinelli e Nelson ove, però, le perdite

gravimetriche debbono essere stimate separatamente.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 149

L mɺ 2 z −z Q
p1 − p2 + γ 1 ( z1 − z2 ) = ξ − γ 1β 2 1 e
d 2ρ S 2
2 cmɺ
ove si è tenuto conto che è Qe = c mɺ ( t2 − t1 ) .
L’ultimo termine (negativo) rappresenta l’alleggerimento termico (thermal buoyancy) della colonna
di fluido dovuto al riscaldamento subito ed è quello che determina il movimento del fluido nei casi di
circolazione naturale32.
La precedente equazione può essere così schematizzata:
B
p1 − p2 mɺ − Z = Amɺ 1.8 − (movimento verso l'alto)

B
p1 − p2 mɺ − Z = Amɺ 1.8 + (movimento verso il basso)

ove A e B sono costanti di raggruppamento positive. Gli indici 1 e 2 si riferiscono sempre
all’imbocco e allo sbocco, qualunque sia l’orientamento del condotto.
Si è anche supposto, secondo la relazione di Weissbach per tubi lisci, che sia ξ = Kmɺ −0.2 ed
inoltre si è supposto K / ρ indipendente dalla portata e pari al suo valore medio fra le due sezioni
considerate.
In Figura 162 si ha la rappresentazione grafica della caduta totale di pressione sia per moto
verso l’alto che per moto verso il basso. In essa sono riportati anche gli andamenti dei singoli termini,
B
, Amɺ 1.8 , Z per i due casi, secondo le precedenti equazioni.

Nella figura la portata mɺ è posta in relazione con ∆p – Z per il moto verso l’alto e con ∆p + Z
per il moto verso il basso. Le curve in neretto rappresentano le combinazioni dei termini, come dianzi
specificato. Al crescere della potenza ceduta al fluido la curva complessiva si sposta verso destra,
allontanandosi da quella segnata.
Si osservi che le due curve (moto verso l’alto e moto verso il basso) si raccordano, per
continuità, nel modo segnato a tratto punteggiato in figura.
B
Quando la potenza cresce il termine Amɺ 1.8 varia poco mentre cambia molto essendo B ∩

Qe.
Le curve reali si arrestano in corrispondenza dei punti X nei quali ha inizio l’ebollizione.
A pieno carico, cioè per il massimo valore di Qe, l’ebollizione inizia, come si intuisce,a valori più
alti della portata essendo l’aumento di temperatura dato (per quanto detto in precedenza) dalla
relazione:
Q
t2 − t1 = e
c mɺ
Pertanto quando ci si trova nelle condizioni di fluido lavorante in caldaia o in un reattore
nucleare a potenza ridotta occorre fare in modo che il salto di temperatura dello stesso fluido sia il più
possibile costante e pari al valore di regime precedente. Ciò si ottiene riducendo la portata mɺ in modo
proporzionale al calore Qe.
Riducendo la portata mɺ ci si porta in corrispondenza del punto M o del punto N (a seconda del
verso del fluido) di Figura 162.

32 La circolazione naturale non è quasi mai utilizzata direttamente per il moto dei fluidi negli impianti ma
rappresenta sempre un elemento di sicurezza da considerare quando viene meno la potenza motrice della pompa. Se il
fluido può ancora circolare esso può trasportare calore e quindi mantenere la temperatura del canale sotto controllo. In un
impianto nucleare o in un reattore chimico o in un generatore di vapore l’arresto del fluido all’interno dei canali può
portare facilmente a scoppi estremamente pericolosi e distruttivi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 150

Il movimento in corrispondenza di questi punti è stabile: infatti, se per qualsivoglia ragione la


portata mɺ cresce o diminuisce il punto di lavoro si sposta a destra o a sinistra e si determina un
difetto di pressione motrice che tende a ripristinare le condizioni iniziali.
Lo stesso succede a sinistra del punto B. A destra di B si ha, invece, instabilità e si tende verso la
condizione del punto X di inizio ebollizione e quindi verso le condizioni di burn out del condotto.
Anche per il tratto MB le condizioni operative non sono buone perché un aumento accidentale
della resistenza può provocare, con relativa facilità, un salto nel tratto BX della curva.
Tutte le circostanze sopra indicate debbono essere tenute in conto quando si progetta un tubo
bollitore o un qualunque sistema nel quale il fluido lavorante funga da refrigerante per il sistema.
In definitiva, in base a quanto detto, il moto verso l’alto risulta sempre stabile.
Tuttavia spesso si preferisce il moto verso il basso per avere di migliori condizioni operative ai
fini della protezione in caso di incidenti33.

Figura 162: Caduta totale di pressione

33 Negli impianti nucleari, ad esempio, il moto verso il basso consente di contenere nella zona inferiore

dell’impianto il fluido caldo e radioattivo.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 151

3.3.6 PROGETTO DEI CONDOTTI


Si tenga sempre presente che l’inizio dell’ebollizione porta sempre ad avere maggiori perdite di
pressione e quindi aumenti consistenti della resistenza al movimento che facilitano le condizioni di
burn out del condotto e pertanto occorre intervenire opportunamente per evitare che queste condizioni
si raggiungano.
Quando i tubi bollitori sono posti in parallelo (nei generatori termici e nei reattori nucleari si
utilizza spesso questa configurazione) allora le condizioni operative divengono più critiche poiché
l’aumento della resistenza in un condotto porta ad avere una nuova ridistribuzione della portata negli
altri condotti e quindi si ha una variazione rispetto alle condizioni nominali di lavoro.
Se si osserva la relazione precedentemente ottenuta:
L mɺ 2 z −z Q
p1 − p2 + γ 1 ( z1 − z2 ) = ξ − γ 1β 2 1 e
d 2ρ S 2
2 cmɺ
si può dire che il sistema prima dell’ebollizione risulta tanto più stabile quanto più il termine
z −z Q
relativo alla variazione della densità, γ 1 β 2 1 e , risulta piccolo rispetto a quello delle perdite per
2 cmɺ
2
L mɺ
attrito, ξ .
d 2ρ S 2
Cadute di pressione molto maggiori delle variazioni di densità
Se quest’ultimo è relativamente grande allora la progettazione di condotti in parallelo può essere
effettuata con i metodi visti in precedenza per i condotti in serie e in parallelo.
Cadute di pressione piccole rispetto alle variazioni di densità
Se il termine di variazione della densità prevale su quelle delle perdite di attrito allora si possono
avere condizioni di instabilità e si procede iterativamente nella progettazione. In pratica si scelgono le
pressioni di imbocco, p1, e di sbocco, p2, ed i diametri dei condotti. Si calcolano le portate mɺ i dei
singoli condotti utilizzando la relazione precedente e quindi si calcola la portata totale mɺ = ∑ mɺ . Se
1→ N
i

la portata totale mɺ è inferiore a quella desiderata si modificano alcuni parametri di progetto e si ripete
il calcolo fino al raggiungimento delle condizioni finali volute. Si osservi che è sempre necessario
verificare, oltre alle condizioni di moto, anche quelle di congruenza relative alla trasmissione del calore
e cioè che la superficie totale dei condotti sia tale da assicurare lo smaltimento del calore Qe e cioè:
Qe = ∑ i =1→ N K i Si ∆ti

Caso di circolazione naturale


Spesso si desidera avere una circolazione del fluido di tipo naturale34 allora la driving force è
proprio dovuta alla variazione di densità che è in diretta proporzione al calore ricevuto.
Pertanto la velocità di regime nei condotti cresce se cresce la potenza termica ceduta e ciò
provoca una sorta di uniformazione delle velocità nei condotti che riduce le tensioni termiche fra le
varie zone dell’impianto. La circolazione naturale avviene usualmente con basse perdite di pressione e
ciò porta ad avere diametri di condotti superiori ai corrispondenti a circolazione forzata, come già
visto in precedenza.

34 In alcune zone degli impianti nucleari, ad esempio negli schermi radioattivi, si preferisce avere moto verso l’alto

a bassa velocità e con piccole cadute di pressione. Si osservi che le condizioni di circolazione naturale sono sempre da
prendere in considerazione per le condizioni di emergenza. Una fermata delle pompe di circolazione, infatti, non può e
non deve comportare il blocco del fluido all’interno dei tubi bollitori perché ciò produrrebbe certamente un incidente: il
calore fornito non sarebbe più trasportato via e quindi si hanno scoppi o altri disastri. E’ quanto avvenuto, ad esempio, nel
reattore di Chernobil dove la fermata (forse volontaria) delle pompe di circolazione ha portato alla stagnazione del fluido
refrigerante con conseguente surriscaldamento del nocciolo del reattore nucleare che è fuso.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 152

4. RETI DI DISTRUZIONE DELL’ARIA COMPRESSA


L’aria compressa riveste notevole importanza in tutta l’impiantistica sia come fluido di lavoro
che come fluido ausiliario usato nelle apparecchiature di controllo pneumatiche.
Si tralasciano qui le problematiche della produzione dell’aria, proprie dei corsi di Macchine e di
Impianti Industriali.
Il dimensionamento della rete di distribuzione viene eseguito in base alle massime portate
richieste dalle utenze.

Figura 163: Abaco per il dimensionamento delle reti di distribuzione dell’aria compressa
La velocità dell’aria viene mantenuta fra 10 ÷20 m/s per evitare che gocce di condensa siano
trasportate e che si verifichino sensibili colpi d’ariete.
La perdite di pressione (effetto di laminazione fluidodinamico) comportano un raffreddamento
dell’aria con possibile formazione di condensa dell’umidità dell’aria.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 153

Pertanto le linee sono poste in leggera pendenza (1÷3 %) e nelle sezioni a quota minima si
inseriscono opportuni scaricatori di condensa. Sempre per evitare il trascinamento di gocce di
condensa alle utenze, le prese dell’aria compressa sono effettuate nella parte superiore del collettore
principale e munite, nella parte terminale, ancora di scarichi della condensa. Il progetto della rete può
seguire quanto detto per le altre reti di distribuzione. L’abaco che lega le perdite di pressione, i
diametri e le portate è riportato in Figura 163 con un esempio d’uso.
Scaricatori di condensa
Questi elementi hanno grande importanza per evitare grossi problemi alle utenze.
Essi debbono anche essere opportunamente equilibrati in pressione mediante tubi di
collegamento fra monte e valle, vedi Figura 164.
La scelta degli scaricatori di condensa viene effettuata in base alla portata di condensa che si
prevede nella rete, secondo i modelli forniti dalle case costruttrici.
Separatori di liquido
Lungo la rete si è già detto che si pongono gli scaricatori di condensa che hanno una sacca si
raccolta in grado di eliminare l’acqua che viene convogliata scorrendo sul fondo delle tubazioni ma
non possono fare nulla per intercettare l’acqua che scorre in sospensione, senza avere aderito alle
pareti interne delle tubazioni.
Per questo motivo si usano i separatori di liquido, installati a mente delle diramazioni principali,
vedi Figura 166.
Il funzionamento si basa sulla separazione meccanica per urto delle particelle contro un setto
poroso opportunamente collocato e dimensionato, nonché su un effetto di decantazione per il
rallentamento al flusso dovuto all’aumento della sezione, vedi Figura 167.
Il separatore di liquido deve poi essere munito di scaricatore di condensa del tipo compatibile
con la pressione di esercizio e con la quantità di condensa prevista.

Figura 164: Scaricatori di condensa con equilibratura

Figura 165: Portate degli scaricatori di condensa


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 154

Figura 166: Installazione dei separatori di liquido

Figura 167: Sezione di un separatore di liquido


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 155

5. RETI PER LA DISTRIBUZIONE DEL VAPORE


La distribuzione del vapore, importantissima nei processi industriali e nell’impiantistica in
genere, deve essere effettuata con molta cura. Accade, infatti, che il vapore, per effetto degli scambi di
calore con l’esterno attraverso le pareti, si raffreddi e in parte condensi. Inoltre l’utenza ciclica utilizza
il vapore in uno scambiatore di calore dal quale esce sotto forma di condensato per essere
nuovamente inviato nel generatore per la successiva vaporizzazione.
E’ necessario, quindi, prevedere accanto alle tubazioni principali di distribuzione del vapore
anche una seconda rete di raccolta condensa.
La progettazione segue quanto già detto a proposito dell’isolamento delle tubazioni e i singoli
condotti vengono dimensionati con appositi abachi nei quali si tiene conto della pressione di esercizio,
della velocità di trasporto (qualche decina di m/s) della portata e del diametro dei tubi. Questi abachi
sono un po’ più complessi dei soliti visti per la distribuzione dell’acqua e dell’aria proprio per gli effetti
dovuti alla condensazione lungo il trasporto.
Lungo la rete, nella condotta principale, occorre prevedere pozzetti di drenaggio e di scarico
termico della condensa. Quest’ultima risulta particolarmente pericolosa per la possibilità di colpi
d’ariete che ne possono derivare a causa delle velocità e pressioni elevate nelle reti di vapore.
Separatori di condensa
Il dimensionamento dei separatori di condensa viene effettuato tramite l’abaco di Figura 168.

Figura 168: Dimensionamento dei separatori di condensa per il vapore


La loro installazione va eseguita con cura secondo lo schema di Figura 171 nella quale si
consigliano le soluzioni:
⋅ A) per bassa e media pressione
⋅ B) per media pressione
⋅ C) per media e alta pressione.
I separatori di condensa debbono essere installati presso la presa della caldaia per eliminare la
schiuma o proiezioni liquide provenienti da quest’ultima. In oltre debbono essere installati in
corrispondenza di ogni utenza per impedire che nebbie o goccioline di condensazione incipiente che si
formano nel vapore vengano trasmesse agli utilizzatori.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 156

Figura 169: Abaco per il dimensionamento delle reti di vapore – 1° parte


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 157

Figura 170: Abaco per il dimensionamento delle reti di vapore – 2° parte


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 158

Figura 171: Installazione dei separatori di condensa per vapore


Il separatore va sempre munito di uno scaricatore con relativo filtro, come indicato in Figura
171.
Tubazioni per la condensa
Le tubazioni per la condensa debbono essere opportunamente dimensionate mediante l’abaco di
Figura 172 nel quale si tiene conto della pressione di condensazione, della portata di condensa e del
diametro della tubazione.
Esempio di installazione di una caldaia per produzione di vapore
In Figura 174 si ha un esempio di corretta installazione di una caldaia per produzione di vapore.
In essa sono visibili i collegamenti, la disposizione dei filtri, delle valvole di intercettazione e del by
pass di servizio, utile per la manutenzione dei dispositivi di controllo
Esempio di installazione di uno scambiatore di calore a vapore
In Figura 174 si ha un esempio sulla corretta installazione di uno scambiatore di calore con
fluido primario vapore. Questo schema rispecchia la normativa di sicurezza (Raccolta H, ex ANCC).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 159

Figura 172: Abaco per il dimensionamento delle tubazioni per la condensa


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 160

Figura 173: Esempio di installazione di una caldaia per produzione di vapore

Figura 174: Esempio di installazione di uno scambiatore di calore a vapore


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 161

6. LA COGENERAZIONE
Le ripetute crisi energetiche degli anni ‘settanta hanno svegliato l’interesse verso la cogenerazione
cioè la produzione combinata di energia meccanica o elettrica e di energia termica. I settori di interesse
sono numerosi e variano dai trasporti, al riscaldamento ambientale, alla termovalorizzazione dei rifiuti
solidi urbani e in genere a tutti gli usi civili ed industriali dell’energia.
L’uso combinato di sistemi integrati per la produzione contemporanea di energia elettrica e
termica partendo dalla stessa fonte primaria consente non solo di avere rendimenti complessivi elevati
ma anche di ridurre il consumo di combustibili di tipo tradizionali e quindi anche di ridurre le
emissioni di CO2 nell’atmosfera. Quest’ultimo effetto è quanto mai importante anche alla luce delle
determinazioni della Conferenza Internazionale di Kyoto (1992) per la riduzione dell’effetto serra.
La condizione probabilmente più importante ed impegnativa degli impianti cogenerativi è la
simultaneità della richiesta energetica elettrica e termica che porta ad avere una utilizzazione degli
impianti quasi costante ed ai massimi livelli. Per questo motivo la cogenerazione ha avuto interessanti
sviluppi nel settore industriale, dove i carichi sono quasi sempre a regime costante, mentre ha stentato
a farsi strada nel settore civile caratterizzati da una variabilità notevoli dei carichi sia termici che
elettrici.
Si pensi alla variabilità stagionali dei carichi: in inverno sono elevati quelli termici per il
riscaldamento mentre in estate sono elevati quelli elettrici per il condizionamento (compressori
alimentati elettricamente).
L’uso di un frigorifero ad assorbimento potrebbe convertire l’utenza elettrica estiva in una
termica e quindi consentire il recupero dell’energia termica prodotta dal cogeneratore ma esistono
alcune difficoltà generate dalla non equivalenza dei carichi.
Fra le applicazioni civili, inoltre, spiccano quelle di grandi complessi (centri commerciali,
ospedali, grandi alberghi, strutture aeroportuali, ….) caratterizzati da una utenza di base costante,
soddisfatta dagli impianti di cogenerazione, e da una parte variabile soddisfatta mediante
apparecchiature ausiliari o importando energia dalle reti esterne.
Ai fini del calcolo dei rendimenti occorrerebbe fare riferimento all’exergia anziché all’energia a
meno di non introdurre macchinose espressioni, spesso prive di significato fisico, per meglio definire i
vari contesti operativi degli impianti di cogenerazione. A questo scopo è utile richiamare i concetti
fondamentali dal corso di Termodinamica Applicata svolto in Fisica Tecnica.
6.1 STORIA DELLA COGENERAZIONE
Il termine cogeneration fu usato per la prima volta dal Presidente Carter nel suo messaggio
sull’energia del 1977 ed è un modo moderno di rappresentare concetti antichi. Gia nel 1930 la centrale
elettrica di Langerbrugge (Belgio) forniva anche vapore alla vicina fabbrica di carta. Interno agli anno
’50 si ebbe un nuovo impulso negli USA dove circa il 15% dei fabbisogni energetici dell’industria
venivano garantiti da impianti cogenerativi, pur con notevoli difficoltà dovute al bassissimo prezzo del
petrolio in quegli anni e fino all’inizio degli anni ’70. Fu proprio la crisi petrolifera del 1973 che portò
Carter ha promulgare una legge per la privatizzazione della produzione e distribuzione dell’energia
elettrica in regime di puro mercato. Ciò è stato sufficiente per avere uno sviluppo di impianti
cogenerativi che utilizzano meglio le fonti primarie e quindi garantiscono un uso più razionale
dell’energia prodotta.
L’Italia si è sempre contraddistinta in negativo nel recepire le novità e per oltre due decenni ha
mantenuto intatto il regime di monopolio dell’ENEL, anzi ha complicato le cose introducendo un
assurdo e antieconomico sovrapprezzo termico dettato solamente da esigenze di difesa dello stesso del
regime di monopolio. Questo balzello (non so come si possa definire altrimenti!) ha praticamente
bloccato lo sviluppo delle energie alternative ed è servito a mantenere ben saldo il potere dell’ENEL.
Proprio negli anni ‘settanta nasceva il TOTEM® della Fiat che si è visto chiudere il possibile
mercato a favore del monopolio energetico ENEL.
Finalmente nel 1991 con la L. 9/91 e L. 10/91 si cominciano a recepire gli aspetti innovativi
della cogenerazione favorendo lo sviluppo dell’autoproduzione dell’energia elettrica mediante
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 162

l’applicazione della nota determinazione del Comitato Interministeriale Prezzi n. 6 (detta CIP-6) che
consentiva ai privati di vendere all’ENEL l’energia elettrica autoprodotta in eccesso rispetto ai propri
fabbisogni.
Ci sono voluti più di venti anni per capire ciò che il resto del mondo aveva capito ed attuato due
decenni prima. E ancora non siamo al meglio: solo di recente (Decreto Bersani) si parla di ridurre il
monopolio ENEL con la possibilità di produzione e distribuzione dell’energia elettrica aperta ai
privati.
C’è molto rumore sui nuovi soggetti industriali ma ancora si è fatto poco, ad eccezione di un
numero limitato di aziende municipalizzate di grandi città che hanno sviluppato in proprio il settore
energetico (vedansi gli esempi di Milano, Brescia, Ferrara, Roma,..).
Va detto che in questi ultimi anni l’Italia ha un deficit produttivo di energia elettrica dell’ordine
del 20% e che l’autoproduzione dei privati ha contribuito per ben il 12% dell’energia prodotta,
riducendo fortemente il deficit. Forse è stata questa la sorpresa maggiore delle nuove leggi.
Ma quando c’è un monopolista che vuole difendere i propri interessi c’è poco da fare: l’ENEL
ha sempre contrastato l’applicazione del CIP-6 riguardante la cessione in rete dell’eccesso di energia
autoprodotta per una asserita (e in parte condivisibile) difficoltà di gestione e programmazione dei
flussi di energia prodotta e nel febbraio 1997 ha abrogato (l’ENEL è ancora lo stesso Stato!) questa
possibilità consentendo il solo vettoriamento. Per fortuna c’è l’Europa!
Infatti le norme sulla libera concorrenza hanno di fatto scardinato il potere dei monopoli (che
Italia ancora resistono abbarbicati dietro leggi e leggine che ne stanno prolungando ancora la vita con
mille scuse non certo degne di uno stato moderno che vuole sentirsi protagonista europeo) e pertanto
l’ENEL deve rinunciare alla sua (comoda!) posizione di monopolista e cedere parte delle proprie
centrali termoelettriche riservandosi (giusto perché siamo in libero mercato?) il 50% della produzione
e il monopolio del vettoriamento: la rete di distribuzione resta sempre dell’ENEL con buona pace
dell’Europa. SIC!
Ad ogni buon conto il 50% passerà ai privati che potranno innescare quel benefico regime di
concorrenza che solo una elevata efficienza industriale potrà garantire.
E’ certo, comunque, che sia le nuove centrali che il revamping35 delle vecchie esistenti dovranno
utilizzare cicli combinati e cogenerativi per sfruttare al massimo ogni Joule ottenibile dal combustibile
che, ogni giorno di più, diviene caro e prezioso.
6.2 EXERGIA
Il rendimento di una macchina motrice è dato dal rapporto:
L
η = netto (128)
Q fornito
Il lavoro massimo ottenuto dal calore Q1 è dato, secondo Carnot, dall’espressione:
 T 
Lmax = Q1 1 − 2  (129)
 T1 
Quest’espressione definisce anche il livello termico di riferimento T2 solitamente coincidente
con l’ambiente esterno. Gli anglosassoni, sempre piuttosto fioriti nelle loro definizioni, chiamano
l’ambiente esterno con il termine dead state (stato morto) per meglio testimoniare il fatto che,
approssimandosi la temperatura di utilizzo dell’energia termica alla temperatura dell’ambiente il lavoro
ottenibile tende a zero. La (129) definisce anche un valore termico della quantità di calore Q1 dato dal
fattore di Carnot:
T
1− 2 (130)
T1
qualora si assume T2 come temperatura di riferimento.

35 Termine utilizzato nell’industria per indicare il rifacimento o l’aggiornamento di un impianto.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 163

Si ricorda ancora che la degradazione dell’energia verso livelli inferiori (ad esempio mediante
uno scambiatore di calore) porta ad una perdita inevitabile di lavoro dato da:
1 1
∆L = T2  −  = T2 ∆Stotale (131)
T
 3 1T
Una produzione di entropia è sempre correlata ad una perdita di lavoro utile. Si ricorda ancora che il
secondo principio della Termodinamica può essere scritto nella forma di Clausius:
δQ
dS = + dSirreversibile (132)
T
la quale esprime il concetto di produzione di entropia per irreversibilità. Questa produzione è sempre
presente nelle trasformazioni reali e pertanto essa è anche associata ad una perdita di exergia propria di
queste trasformazioni. In genere, nota la produzione di entropia si ha:
∆L = T0 ∆S (133)
con T0 temperatura dell’ambiente (dead state), considerato come serbatoio finale di tutte le
trasformazioni reali.
Come conseguenza di quanto sopra accennato possiamo dire che il primo principio della
Termodinamica esprime la conservazione dell’energia e quindi anche di quella termica.
Il secondo principio ci dice che, a pari energia, parte dell’exergia viene perduta nelle trasformazioni
(reali) per divenire energia perduta o anergia. Vale, quindi, il seguente bilancio:
∆E = ∆X + ∆A (134)
ove si sono indicati:
⋅ ∆E variazione di energia;
⋅ ∆X variazione di exergia
⋅ ∆A variazioni di anergia.
Esiste, quindi, una notevole differenza fra l’energia e la sua disponibilità (availability) ad essere
utilizzata e in particolare ad essere trasformata in lavoro.
Definiamo, pertanto, come energia disponibile di un sistema rispetto ad un altro, definito come
serbatoio, la massima quantità di energia che può essere trasformata in lavoro quando il sistema è portato in equilibrio
con il serbatoio. Avendo detto che il serbatoio finale delle trasformazioni reali è l’ambiente esterno allora
definiamo exergia l’energia disponibile di un sistema rispetto all’ambiente, considerato come serbatoio
ideale. Si definisce exergia di sistema per un sistema chiuso la differenza:
Ex = (U − T0 S ) − (U 0 − T0 S0 ) (135)
avendo usato il pedice 0 per l’ambiente.
Possiamo dare ancora una nuova definizione del secondo principio della Termodinamica:
l’exergia si conserva solo per i sistemi reversibili mentre si degrada nei sistemi irreversibili.
6.3 EFFICIENZA DELL’USO DELL’ENERGIA
Si è soliti utilizzare, per abitudine ormai plurisecolare, una definizione di rendimento basato
sull’energia (detto anche rendimento di primo principio) e quindi assumendo che l’energia totale del
sistema si conserva (1° Principio). Ne segue che, nelle applicazioni pratiche, l’ottimizzazione
energetica si risolva in una riduzione al minimo delle perdite di energia dal sistema (ad esempio
attraverso i fumi nel camino o attraverso i disperdimenti dalle pareti o mediante la riduzione degli
attriti, …).
In pratica il rendimento energetico viene definito dal rapporto:
E
ηen = utile (136)
Etotale
avendo anche definito:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 164

Eutile = Etotale − E perduta (137)


Il rendimento energetico è una grandezza minore di 1 e il suo complemento esprime il rapporto fra
l’energia perduta e quella totale. Si intuisce dalla (137) come massimizzare il rendimento significhi
minimizzare le perdite. E’ quello che si fa nelle caldaie, negli accumulatori termici, nel riscaldamento
degli edifici, ….
Si può subito osservare che quanto sopra definito è corretto se le energie in gioco sono tutte
dello stesso valore ovvero se sono della stessa qualità. Va bene per una macchina elettrica o una macchina
operatrice meccanica ma non va bene per una macchina termica perché cambia il valore termico
dell’energia in funzione della temperatura di utilizzo, in base al fattore di Carnot (130).
Pertanto se forniamo ad una caldaia calore a 1500 K per riscaldare acqua a 370 K è evidente che
una definizione di rendimento basato sulla (136) è concettualmente errata perché il calore a 370 K ha
un valore termico molto inferiore del calore fornito a 1500 K. Eppure è ciò che viene giornalmente
fatto quando si definisce il rendimento di caldaia come:
Eutile all ' acqua
ηcaldaia = (138)
E fornita dal bruciatore
e la differenza fra denominatore e numeratore è data dalle perdite attraverso il mantello della
caldaia e attraverso i fumi. L’analisi energetica (diagramma di Sunkey) ci dice che le perdite exergetiche
a bassa temperatura (cioè vicine a quella ambiente) sono trascurabili rispetto al degrado termico
effettuato nello scambiatore di calore fra 1500 K e 370 K.
Ecco allora che appare più corretto definire il rendimento di secondo principio (o secondo
ordine) come:
Lmin ( Exergia utile)
ηex = (139)
Lmax ( Exergia introdotta )
e vale anche la relazione:
Lmax = Lmin + ∆Ex (140)

avendo indicato con ∆EX le perdite di exergia.


Massimizzare il rendimento exergetico significa ridurre le perdite exergetiche dissipando la
minore quantità di lavoro possibile.
E’ utile osservare che l’analisi exergetica può portare a conclusioni anche profondamente diverse
da quelle dell’analisi energetica. Ad esempio il rendimento exergetico di una buona caldaia è circa il
5% mentre quello energetico può essere anche il 97%: il primo valore ci dice che siamo di fronte ad
un assurdo termodinamico (il degrado del calore dall’alta alla bassa temperatura) mentre il secondo
valore ci inebria e ci riempie di illusioni sulla funzionalità della caldaia.
Lo stesso avviene, lo si ricorderà dalla Fisica Tecnica, andando a calcolare le perdite exergetiche
definite dal rapporto:
Eexergia _ perduta
η perdite _ exergetiche = (141)
Eexergia _ ricevuta
per un condensatore in un impianto a vapore a ciclo Hirn: le perdite energetiche sono enormi
(circa il 66%) mentre quelle exergetiche sono irrisorie (circa 1,5%). Il diagramma di Sunkey per un ciclo
a vapore ci dice che perdiamo moltissima exergia nel processo di combustione e di riscaldamento del
vapore a soli 570 °C pur avendo una temperatura di fiamma di circa 1800 °C.
In base a quanto detto si può osservare che un impianto di riscaldamento può essere reso
efficiente se è possibile migliorare la combustione del gas (ad esempio metano) e degli scambi termici.
Si può immaginare di bruciare metano in una centrale termoelettrica con rendimento exergetico
del 40% e di riscaldare l’acqua dei radiatori con una pompa di calore con COP 3.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 165

Il rendimento exergetico complessivo diviene pari all’8% circa contro qualche percento
ottenibile con l’uso diretto del metano in caldaia per produrre acqua a 80 °C.
Una seconda ipotesi potrebbe essere quella di bruciare metano in un motore a combustione
interna, ad esempio un motore di automobile opportunamente convertito per questo utilizzo, con
rendimento exergetico del 35% circa e che azioni una pompa di calore. Questa potrebbe preriscaldare
l’acqua che alimenta i radiatori fino a 50 °C utilizzando parte dell’energia del liquido di raffreddamento
del motore e dei gas di scarico del motore per raggiungere temperature fino a 80 °C. Il COP della
pompa di calore salirebbe fino a 3,5 ed il rendimento exergetico complessivo salirebbe fino all’11%.
La cogenerazione e la trigenerazione36 rispondono bene alle necessità di economia dell’exergia
migliorando la qualità dei processi di trasformazione dell’energia. Queste nuove tecniche applicano il
concetto dell’energy cascading e quindi consentono alle singole utenze di attingere ad una sorgente il cui
livello exergetico è il più consono per gli usi finali preposti. Ciò consente di riversare nell’ambiente un
cascame termico quasi del tutto esausto, cioè con un minor grado di irreversibilità e quindi con minore
impatto ambientale.
6.4 IL FATTORE DI QUALITÀ, FQ
Per caratterizzare una fonte di energia si utilizza il fattore di qualità, FQ, che misura la parte di
exergia contenuta nella quantità totale di energia.
Per l’energia elettrica e meccanica FQ=1 mentre per l’energia termica vale il fattore di Carnot
(130) che esprime il grado di conversione ideale di una sorgente di calore in lavoro utile (cioè la sua
exergia).
In Figura 175 si ha l’andamento del Fattore di Carnot in funzione della temperatura della sorgente
calda rispetto ad un ambiente a 300 K.

1
0.85

0.8

0.6

FQ ( T )

0.4

0.2

0 0
0 500 1000 1500 2000
300 T 3
2 ×10
Figura 175: Andamento del Fattore di Carnot
Si comprende bene, dall’osservazione di questa figura, come FQ tenda a zero quando ci si
avvicina all’ambiente (dead state) mentre cresce molto quanto più alta è la temperatura della sorgente.
Noto il fattore di qualità FQ si può calcolare l’exergia ottenibile dalla semplice relazione:
e = FQ ⋅ h (142)

36 Con Trigenerazione si intende la produzione simultanea di energia elettrica, di calore e di freddo. Si vedrà in

seguito come sono costituiti gli impianti trigenerativi.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 166

ove con h si è indicata l’entalpia specifica (kJ/kg) della fonte considerata.


6.5 ESPRESSIONI DEI RENDIMENTI
Se consideriamo una macchina cogeneratrice che produrre una potenza elettrica E ed una
termica Q utilizzando una fonte di energia primaria C =m⋅(p.c.i.), con m quantità di combustibile avente
potere calorifico inferiore p.c.i., si definisce rendimento energetico della cogenerazione:
E +Q E+Q
η= = = ηE + ηT (143)
m ⋅ pci C
ove ηE ed ηT sono i rendimenti elettrici e termici ciascuno riferito alla stessa quantità di energia
primaria C. L’exergia del combustibile è definita come il lavoro massimo ottenibile in un sistema
termodinamico aperto in regime puramente con possibilità di scambio termico solo con l’ambiente esterno, sede di una
reazione di ossidazione completa (mediante operazioni reversibili) dell’unità di massa del combustibile con aria
comburente, i reagenti entrando nel sistema a temperatura e pressione ambiente ed i prodotti della combustione uscendo
dal sistema ancora a temperatura e pressione ambiente, ed in equilibrio chimico con l’ambiente esterno.
Ai fini pratici l’exergia del combustibile è quasi coincidente con il suo p.c.i. Nella seguente tabella
si ha il rapporto e/pci di alcuni combustibili.
Combustibile e/pci
Monossido di Carbonio, CO 0,97
Idrogeno, H2 0.985
Metano, CH4 1.035
Etano, C2H6 1.046
Etilene, C2H4 1.028
Acetilene, C2H2 1.007
Gas Naturale 1.04
Coke 1.05
Carbone 1.06
Torba 1.16
Oli combustibili 1.04
Tabella 21: Rapporto exergia-potere calorifico inferiore per alcuni combustibili
L’exergia totale di una massa m di combustibile può, in prima approssimazione, essere posta pari
:
ecambustibile = mcombustibile ⋅ pci (144)
Il rendimento exergetico può essere posto nella forma:
E ⋅ FQ ( E ) + Q ⋅ FQ (T )
ηexergetico = = ηE + ηT FQ (T ) (145)
mcombustibile pci
ove si è posto, come già osservato, FQ(E) =1. Si osservi che in questa espressione si suppone
che l’exergia del vapore o dell’acqua calda sia riferita a quella ambiente (che è nulla). Se ci si riferisce ad
un circuito chiuso con acqua di ritorno a temperatura diversa da quella ambiente allora occorre
valutare correttamente l’exergia del flusso di calore come differenza fra il flusso entrante e quello
uscente dal sistema e cioè:
E + mH 2O ( hentrante − huscente ) − T0 ( suscente − sentrante ) 
ηexergetico = (146)
mcombustibile pci
Si vedrà nel prosieguo che è importante confrontare il rendimento cogenerativo con quella del
Sistema di Confronto, SC, definito come il sistema che produce la stessa energia elettrica e termica con
processi separati e quindi non partendo dalla stessa fonte di energia primaria.
Il rendimento della produzione separata del SC è dato dal rapporto:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 167

E+Q
ηSC = (147)
C ( E ) + C (Q)
ove C(E) e C(Q) sono, rispettivamente, le energie primarie necessarie per fornire l’energia
elettrica E e quella termica Q. Naturalmente la produzione separata si suppone effettuata con le
migliori tecnologie reperibili sul mercato.
La cogenerazione è priva di interesse quando ha rendimento minore di quello del sistema di
confronto, cioè con produzione separata.
6.6 RISPARMIO ENERGETICO NEL RISCALDAMENTO DEGLI EDIFICI
La più volte citata L10/91 sul contenimento dei consumi energetici per il riscaldamento
ambientale obbliga al ricorso a fonti rinnovabili o assimilate37 nel caso di edifici pubblici.
Si tratta, quindi, di una norma che tende a favorire il risparmio energetico nelle forme oggi
possibili e sostanzialmente in modo attivo (cioè mediante l’uso di impianti attivi,ad esempio solari) o
passivo (cioè intervenendo sugli involucri degli edifici).
Il risparmio dell’energia nella climatizzazione degli edifici può essere ottenuto in numerosi modi,
spesso sinergici. In primo luogo si può (e si deve!) intervenire nel sistema costruttivo mediante l’uso di
coibenti termici in tipologia e spessori adeguati.
A questo riguardo alcune amministrazione (ad esempio le province autonome di Trento e
Bolzano e qualche altra amministrazione del Nord Ovest) incentivano l’utilizzo dei coibenti termici
anche al di là delle prescrizioni indicate dalla L. 10/91 (già viste in precedenza) premiando il maggior
investimento con una riduzione degli oneri di urbanizzazione o del sistema di tassazione locale.
Un secondo metodo di pari efficacia è quello di ottimizzare l’interazione edificio-impianto
mediante scelte ottimali dei generatori (ad alto rendimento energetico) e con l’adozione di adeguati
piani di manutenzione. Infine la sostituzione delle normali finestre a singolo vetro con analoghe a
doppio vetro o con vetro-camera può contribuire in modo significativo alla riduzione dei consumi
energetici, unitamente al controllo delle infiltrazioni esterne.
L’eliminazione del riscaldamento unifamiliare a favore del riscaldamento centralizzato di
condominio o, meglio, di quartiere può contribuire ancora alla riduzione dei consumi energetici con il
raggiungimento di rendimenti energetici dei generatori certamente superiori a quelli dei piccoli
generatori singoli unifamiliari. In quest’ultima ipotesi si avrebbero benefici notevoli anche sulla
riduzione dell’inquinamento atmosferico per effetto di un miglior controllo della combustione.
Dal punto di vista della riduzione dei consumi, l’applicazione dei concetti di cogenerazione può
fornire contributi certamente significativi. Si consideri, infatti, che l’utilizzo dell’energia termica per il
riscaldamento ambientale è fatto a temperatura sostanzialmente bassa (70 °C in media nei radiatori e
35 °C nei pannelli radianti) e quindi il rendimento exergetico risulta molto basso se si tiene conto che la
combustione in caldaia del gasolio o del gas porta ad avere temperature dell’ordine dei 1000 °C e
quindi con un degrado exergetico molto grande.
Ad esempio, con un utilizzo a temperatura di 330 K rispetto ad una temperatura di fiamma di
1573 K si ha un rendimento exergetico di circa il 4%.
Se consideriamo che ai fini del riscaldamento ambientale solo una frazione (anche se
maggioritaria) dell’energia prodotta in caldaia arriva agli ambienti (si ricordi il rendimento globale
definito con la L. 10/91 come prodotto dei rendimenti del generatore, di distribuzione, di emissione e
di regolazione) allora, detta Qa l’energia effettivamente utilizzata si ha il rendimento exergetico, riferito
all’exergia Ec fornita alla caldaia mediante il combustibile, si ha:;
 T 
Qa 1 − e 
Tai   T 
ηex =  = ηen 1 − ae  (148)
mE
ɺ c  Tai 

37 Si intendono per fonti assimilabili le fonti energetiche derivanti dalla cogenerazione, il calore recuperato da

scarichi (fumi,…), i risparmi energetici conseguenti all’utilizzo di isolanti termici.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 168

avendo indicato con Tae la temperatura dell’aria esterna di alimentazione della caldaia e Tai quella
dell’aria interna. Assumendo Tae = 0 °C e Tai = 20 °C ed un rendimento energetico di caldaia ηen=90%
si ottiene un rendimento exergetico pari a ηex=6%.
Quanto appena calcolato, confrontato con il rendimento energetico dei generatori di calore
normalmente utilizzato nell’impiantistica termotecnica, ci dice che l’utilizzo dell’energia termica da
combustione per il riscaldamento ambientale è, da un punto di vista termodinamico di seconda legge,
scarsamente efficiente.
Se invece di utilizzare l’energia termica direttamente nell’impianto di riscaldamento la
utilizziamo per produrre energia elettrica (ciclo Hirn) ed alimentiamo in contropressione la turbina in
modo da avere anche un utilizzo termico allora il fattore di utilizzazione energetico diviene:
Energia _ Elettrica + Energia _ Termica
fu = (149)
Entalpia _ combustibile
Si osservi che la precedente relazione non definisce un rendimento termodinamico poiché rapporta
energie non omogenee (cioè di diversa qualità exergetica).
Un uso dei combustibili come prima indicato porta ad avere riduzioni significative del 20÷30%
rispetto alla produzione separata di energia elettrica e termica.
Anche l’uso delle pompe di calore risulta exergeticamente più conveniente. Ad esempio, con
riferimento ad un ciclo di Carnot inverso, una potenza meccanica W fornisce una potenza termica:
T1
W (150)
T1 − T2

ove T1 è la temperatura maggiore e T2 quella minore (in pratica si ha COP=T1/(T1-T2) ).


Ad esempio operando con un ciclo inverso di Carnot fra 1 e 40 °C si ha un COP = 8.06 che, in
un ciclo reale divengono circa 5.
La pompa di calore può anche funzionare in modo diretto (ciclo estivo) producendo acqua
refrigerata per il condizionamento e quindi potrebbe essere utilizzata durante tutto l’anno per la
climatizzazione degli edifici.
Ne segue che per un uso intelligente dell’energia occorrerebbe incentivare l’installazione di
impianti di climatizzazione a pompa di calore. Purtroppo i costi elevati dei componenti unitamente ad
una tariffazione dell’energia elettrica che vede l’Italia molto sfavorita (abbiamo le tariffe più alte in
Europa!) rendono la diffusione delle pompe di calore problematica e quasi di nicchia, malgrado che
l’attuale legislazione preveda anche forme di sovvenzionamento per i nuovi impianti.
La produzione combinata di energia elettrica e vapore per teleriscaldamento (vedansi gli esempi dei
comuni di Brescia e Ferrara) produce benefici elevati sia in termini energetici che di costi finali del
riscaldamento ambientale.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 169

7. SISTEMI AD ENERGIA TOTALE, SET


La pigrizia mostrata per decenni nell’uso della cogenerazione viene oggi pian piano combattuta
dall’esigenza di innovazione tecnologica in settori (quelli energetici) spesso scossi da forti crisi
mondiali che finiscono per condizionare la vita stessa dei popoli. In questa ottica si inquadrano i
Sistemi ad Energia Totale (detti SET) che cercano di soddisfare contemporaneamente entrambe le esigenze di
una utenza: quella termica e quella elettrica. I SET possono utilizzare energie tradizionali o anche fonti
energetiche rinnovabili o comunque alternative a quelle fossili tradizionali. Qui ci limiteremo ad
esaminare con maggior dettaglio i SET alimentati con energia tradizionale.
Occorre precisare che i sistemi SET si stanno sviluppando in Italia solo di recente poiché fino a
pochi anni fa la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica era appannaggio unicamente
dell’ENEL. Con l’avvento della deregulation in campo energetico elettrico (L. 308/82) si è avuta la
possibilità di avere energia elettrica prodotta da terze parti e quindi anche da privati o industrie
(piccole e grandi) mediante sistemi quasi sempre di tipo combinato, cioè che risolvono problemi sia
termici che elettrici.
Si pensi, ad esempio, all’industria petrolifera che ha in Sicilia tre poli di notevole importanza
capaci di autoprodursi ed esportare l’energia elettrica in eccesso con potenze di centinaia di MW.
Purtroppo le condizioni di monopolio degli enti statali per l’energia elettrica (ENEL) e per il gas
(SNAM) hanno bloccato ogni sviluppo, anche scientifico, nel settore dei SET.
Finalmente l’epoca dei monopoli (di mentalità tipicamente e strettamente italiana!) sta per finire
sotto l’impulso delle nuove regole europee di libera concorrenza (evviva!) e pertanto anche la
comunità scientifica potrà giovarsi dei nuovi sviluppi che il settore dell’energia potrà dare.
Si pensi che l’ENEL sta per lasciare in parte il settore produttivo (le centrali termoelettriche) per
dedicarsi alla sola distribuzione. Nuovi soggetti, anche privati, potranno produrre energia elettrica e
potranno liberamente distribuirla in rete.
Lo schema di funzionamento di un sistema ad energia totale, SET, è dato in Figura 176. Si può
osservare come detto sistema cerchi di risolvere sia l’aspetto termico che elettrico dell’utenza (civile o
industriale) ottimizzando l’utilizzo delle fonti energetiche e quindi massimizzando le qualità
termodinamiche (cioè exergetiche). Per potere raggiungere questi obiettivi occorre definire con precisione
le configurazioni di impianto, i vincoli esterni, le metodologie di analisi exergetica e i criteri di
valutazione del SET in relazione al mondo esterno (sia sotto l’aspetto energetico che ambientale).
Ciò comporta la definizione di una adeguata metodologia progettuale e di impiego di tecniche di
analisi (energetica ed economica) adeguate.

C O M B U S T IB IL E U TEN ZE
MOTORE PRIM O
E L E T T R IC H E

C O M B U S T IB IL E
U T E N Z E T E R M IC H E
CALDAIA

Figura 176: Schema di principio di un SET


7.1 CONFIGURAZIONE DEI SISTEMI ENERGETICI TOTALI (SET)
Il SET è un sistema termodinamico a tutti gli effetti e pertanto può essere essenzialmente di tipo
aperto e di tipo chiuso. Definiamo chiusi i SET che interagiscono con la sola utenza, vedi Figura 177,
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 170

mentre definiamo aperto un SET che interagisce anche con le grandi reti di distribuzione dell’energia
elettrica e del calore, vedi Figura 178.
E N E R G IA E LE T T R IC A

SET UTENZA

E N E R G IA T E R M IC A

Figura 177: Schema chiuso di un SET


La scelta della tipologia è dettata dalla taglia dell’impianto e dagli obiettivi che si intendono
raggiungere. I sistemi aperti possono esserlo solo dal lato elettrico o dal lato termico o da entrambi i
lati. Per sistemi aperti dal lato elettrico si ha la possibilità di sfruttare la rete elettrica ENEL che,
essendo attualmente monopolistica, è piuttosto diffusa e ben magliata. Un sistema aperto dal lato
termico può appoggiarsi alle reti di distribuzione del calore (reti urbane di teleriscaldamento, reti dei
servizi di utilities industriali, …).
E’ il motore primo che caratterizza il SET. E’ questo componente, infatti, che alimenta l’utenza
elettrica con una frazione di scarto di energia termica.
Spesso non è sufficiente un solo motore primo per soddisfare tutte le esigenze dell’utenza
poiché esistono quasi sempre vincoli impiantistici fra le frazioni di energia elettrica e termica prodotte.
Di solito l’integrazione delle richieste elettriche viene effettuata tramite l’allacciamento alla rete
ENEL. Se l’utenza richiede servizi più articolati, ad esempio calore, elettricità e servizi di
riscaldamento e condizionamento a pompa di calore, allora occorre integrare il SET anche con altri
componenti quali pompe di calore, macchine ad assorbimento, sistemi di refrigerazione e/o di
accumulo dell’energia.

R E T E E L E T T R IC A IT A L IA N A

E N E R G IA E L E T T R IC A

SET UTENZA

E N E R G IA T E R M IC A

RETE DI CALORE

Figura 178: Schema Aperto di un SET


In genere si hanno due tipologie di funzionamento del motore primo, a seconda delle esigenze
dell’utenza e delle condizioni al contorno del SET:
⋅ Funzionamento a carico elettrico imposto: il motore primo è dimensionato per soddisfare
totalmente il carico elettrico dell’utenza e pertanto il carico termico può essere soddisfatto anche
con integrazioni esterne (sistema aperto dal lato termico).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 171

⋅ Funzionamento a carico termico imposto: il motore primo è dimensionato per fornire


totalmente il carico termico dell’utenza e si utilizza la rete ENEL per soddisfare eventuali
deficienze nel carico elettrico (sistema aperto dal lato elettrico).
La scelta del sistema di funzionamento è funzione di variabili economiche e di condizioni al
contorno del SET e dell’utenza.
Le condizioni al contorno (vincoli) variano a seconda se il SET è indirizzato al settore civile o a
quello industriale. Nel settore civile si possono avere società di servizi (energia elettrica, calore, gas)
municipalizzate che possono avere proprie centrali di produzione.
Nel settore industriale le industrie (specialmente quelle di grande taglia) possono produrre
quantità notevoli di energia elettrica e possono anche rivenderla all’ENEL (in futuro non ci sarà più questo
interlocutore unico, per fortuna). Nel caso di cessione di energia al Gestore (ENEL) si hanno regole fissate
dall’attuale legislazione che fissano il prezzo in base alle delibere del Comitato Interministeriale Prezzi
(CIP).
I contratti con ENEL garantiscono i seguenti servizi:
⋅ Integrazione: cioè fornitura di energia all’utenza nel caso di richiesta (acquisto) di energia per i
propri fabbisogni (tipico dei sistemi a carico termico imposto);
⋅ Parallelo: cioè capacità di collegamento alla rete ENEL con la garanzia del mantenimento della
frequenza (50 Hz ± 0,5 Hz) e della tensione. In pratica l’ENEL rende disponibile il proprio
sistema di regolazione potenza-frequenza in modo da mantenere il più uniforme possibili i valori di
tensione e frequenza. Questa regolazione consente alla rete pubblica di avere inserimenti e
disinserimenti di carichi (anche grandi) senza conseguenze sulle variabili di controllo suddette.
⋅ Soccorso: in questo caso l’ENEL fornisce energia all’utenza nel caso di fuori servizio degli
impianti interni;
⋅ Riserva programmata: viene fornita energia all’utenza durante i periodi di manutenzione
programmata dei loro impianti;
⋅ Vettoriamento: nel caso di soggetti produttori con più sedi localizzate in siti distinti l’ENEL si
incarica di trasportare l’energia prodotta da uno stabilimento all’altro;
⋅ Ritiro dell’energia: cioè acquisto da parte ENEL dell’energia prodotta dal soggetto e che risulti in
eccesso rispetto ai propri fabbisogni interni;
⋅ Permuta: quindi scambio di energia autoprodotta con quella prodotta dall’ENEL in determinati
periodi.
Come già detto in precedenza, in Sicilia si hanno casi notevoli di autoproduzione dell’energia
elettrica nei poli petrolchimici di Priolo, Gela e Milazzo. La potenza disponibile in rete è dell’ordine
del centinaio di MW e questo contribuisce a ridurre il deficit energetico ENEL e quindi a limitare le
importazione energetiche dal Nord. Una interessante possibilità di energia prodotta e venduta come
sopra specificato si avrà in Sicilia con l’installazione di impianti di termovalorizzazione dei rifiuti solidi urbani
(RSU). Questi nuovi impianti potranno produrre una potenza valutata in 100÷150 MW e quindi
ridurranno ancora ulteriormente il deficit energetico siciliano. Questa energia, inoltre, avrà un prezzo
di acquisto da parte ENEL concordato secondo le indicazioni del CIP638 o del nuovo Decreto Bersani39
entrato in vigore nel 2000.
Si tenga presente che i sistemi SET e in genere i sistemi di cogenerazione richiedono
conoscenze tecnologiche aggiuntive a quelle dei tradizionali impianti termotecnici ed elettrici. Ciò

38 La delibera del Comitato Interministeriale dei Prezzi relativa alla tariffa speciale di acquisto dell’energia elettrica

prodotta da terze parti è nota come CIP6 del 1992. Attualmente il prezzo dell’energia è di circa 290 L/kWh (prezzo
politico di incentivazione) ed ha una validità contrattuale di 8 anni. Il CIP6 è attualmente sospeso in attesa di una nuova
delibera CIP che fissi modalità di cessione dell’energia elettrica confacente alle nuove esigenze di produzione e
distribuzione dell’energia.
39 Questo decreto impone ai nuovi gestori della distribuzione dell’energia elettrica di acquistare e distribuire

almeno il 2% di energia indicata col termine verde e cioè prodotta da fonti alternative (fra cui anche i RSU). Questa
percentuale dovrà salire negli anni futuri fino oltre il 6%. L’energia verde viene ceduta mediante certificati di credito che
attualmente valgono circa 200 Lire per kWh.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 172

comporta il ricorso a competenze tecniche specialistiche che aggravano i costi di primo impianto e di
gestione. In campo civile questo problema può essere rilevante mentre in campo industriale si può
pensare che le suddette competenze siano più facilmente reperibili all’interno delle stesse industrie. In
ogni caso un progetto SET basa la sua motivazione d’essere sulla maggiore convenienza rispetto agli
impianti tradizionali.
Questa convenienza deve essere dimostrata con una analisi economica dettagliata (studio di
fattibilità tecnico-economica e business plan) che parta dall’esame dei carichi elettrici e termici e tenga conto
delle condizioni al contorno (distributori esterni di elettricità e di calore).
Quanto appena detto comporta la necessità di descrivere con maggior dettaglio l’approccio
metodologico all’analisi progettuale dei SET.
7.2 METODI DI ANALISI PROGETTUALI PER UN SET
La scelta e la composizione di un sistema energetico totale può essere molto complessa sia per
la molteplicità di soluzioni tecniche possibile che per grande variabilità delle esigenze dell’utenza.
E’ necessario, pertanto, una attenta analisi economica ed energetica sulla base dei diversi parametri di
riferimento possibili e disponibili.

7.2.1 ANALISI DELLE ESIGENZE DELL’UTENZA


L’analisi progettuale inizia con l’esame delle esigenze impiantistiche dell’Utenza e cioè dalla
corretta definizione delle esigenze termiche ed elettriche, dalla tipologia di impianto (fluidi
termovettori, variabilità temporale dei carichi,….) e dalla conoscenza e definizione dei vincoli
tecnologici ed ambientali.
I parametri principali nell’analisi del fabbisogno dell’Utenza si possono qui riassumere:
⋅ Potenza elettrica assorbita; PE;
⋅ Potenza termica assorbita, PT;
⋅ Energia elettrica consumata, EE;
⋅ Energia termica consumata, ET;
⋅ Rapporto termico/elettrico (energia termica richiesta rispetto all’energia elettrica richiesta), C;
⋅ Portata del fluido termovettore, Q;
⋅ Temperatura e pressione del fluido termovettore, T,p;
⋅ Fattore di utilizzazione degli impianti, fu.
Ai fini della scelta del motore primo occorre conoscere i valori medi e le variabilità dei suddetti
parametri. Inoltre questa scelta è funzione della destinazione d’uso degli impianti: per uso civile e per
uso industriale.

7.2.2 SETTORE CIVILE


Per la definizione dei valori dei parametri di una utenza civile occorre partire dai dati urbanistici,
demografici e metereologici.
I consumi di energia elettrica sono tipicamente destinati a:
⋅ Servizi pubblici (acquedotti, illuminazione, );
⋅ Servizi abitativi locali (illuminazione esterna,ascensori, elettrodomestici, illuminazione interna,
condizionamento, produzione di acqua calda,…);
⋅ Servizi per le utenze terziarie (scuole,uffici, negozi,…)
I consumi di energia termica sono tipicamente destinati a:
⋅ Servizi abitativi (riscaldamento, acqua calda per usi sanitari, usi di cucina,…);
⋅ Servizi per le utenze terziarie (riscaldamento, acqua sanitaria, altri usi, …..).
Nel caso dell’uso civile la parte preponderante dell’energia termica è destinata al riscaldamento
ambientale che è caratterizzato da una variabilità giornaliera, mensile e stagionale.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 173

Occorre sapere il tipo di combustibile utilizzato (gasolio, metano, oli pesanti,….) e di fluido
termovettore (ad esempio acqua calda,..).
I consumi termici possono essere caratterizzati da indici di prima approssimazione (quale, ad
esempio, il consumo specifico per unità di volume) o di seconda approssimazione, più precisi,
derivanti da calcoli specifici in relazione alla tipologia edilizia e alla climatologia del sito.
E’ possibile anche usare codici di calcolo per avere indicazioni più affidabili in funzione dei
parametri edilizi e climatologici del sito. I dati relativi al fabbisogno possono essere globali (riferiti
all’anno), mensili, giornalieri o anche orari.

7.2.3 SETTORE INDUSTRIALE


Oltre a quanto specificato per il settore civile occorre aggiungere anche i consumi interni per i
processi di lavorazione che offrono una grande casistica e variabilità.
Nel caso di applicazioni industriali ci si può riferire alla contabilità aziendale per centri di costo
per reperire dati certi e specifici sui costi energetici.
Anche in questo caso si possono avere dati organizzati per media annuale, mensile, giornaliera
ed oraria. Spesso è possibile organizzare i dati mediante curve di frequenza che forniscono l’andamento
cumulativo dei carichi nel tempo.
C A R IC O

1000 2000 4000


ORE

Figura 179: Andamento cumulativo dei carichi (Diagramma di Frequenza)


Occorre anche definire i sistemi di produzione e i fattori di utilizzo degli impianti e dei sistemi
di produzione e trasformazione dell’energia. Quando è possibile, è sempre bene effettuare una
rilevazione diretta dei carichi termici ed elettrici.
7.3 SCELTA DELLA CONFIGURAZIONE
La configurazione del SET può essere effettuata una volta noti i carichi, come sopra indicato, e
la disponibilità di servizi aggiuntivi (sistemi aperti). In particolare si può scegliere il motore primo e gli
eventuali componenti aggiuntivi (caldaie, pompe di calore, …).
I motori primi disponibili su mercato sono caratterizzati da ben precisi rapporti fra energia
termica ed energia elettrica prodotte:
Energia_Termica_Utile_Prodotta
CMP = (151)
Energia_Elettrica_Utile_Prodotta
Pertanto la scelta del motore primo si effettua confrontando il rapporto offerto rispetto a quello
richiesto dall’Utenza (vedi parametri sopra definiti).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 174

Preliminarmente si assume CMP ≤ CU per minimizzare la quantità di energia termica recuperata


dal motore non utilizzabile dall’Utenza.
La scelta del motore primo deve essere compatibile con i livelli entalpici e i fluidi termovettori
richiesti dall’Utenza e de essere compatibile con i vincoli esterni (combustibili disponibili, rispetto
ambientale, impatto ambientale, …).
Inoltre occorre tenere conto della durata dei fabbisogni di energia termica ed elettrica
dell’Utenza, cioè del numero di ore annuo in cui il rapporto utente è eguagliato o superato.
Di solito si fa in modo che le punte di carico (sia termico che elettrico, vedi Figura 179) siano
soddisfatte dalle reti di servizio esterne (rete elettrica e/o termica) lasciando al motore primo i carichi
intermedi in modo da non saturarlo. Nel caso di indisponibilità di reti esterne (sistema aperto) si fa
ricorso a componenti integrativi. Spesso la rete termica non è disponibile e pertanto si ricorre ad un
generatore ausiliario mentre si lascia alla rete ENEL il compito di intervenire per soddisfare le punte
del carico elettrico.

7.3.1 OTTIMIZZAZIONE DEGLI IMPIANTI SET


La variabilità dei carichi elettrici e termici e le peculiarità dei motori primi disponibili portano
alla necessità di ottimizzare gli impianti SET ricorrendo a componenti aggiuntivi ed integrativi.
Occorre tenere conto che:
⋅ La pompa di calore elettrica permette di modificare il rapporto termico/elettrico dell’Utenza
trasformando un fabbisogno termico in uno elettrico, vedi Figura 180.

CO M BU STIBILE UT ENZE
MOTORE PRIMO
E LE TTR ICHE

ENERGIA POMPA DI
TERMICA CALORE

CO M BUS TIB ILE CALDAIA


AUSILIARIA
UTE NZE TE RM ICHE

Figura 180: Inserimento di una pompa di calore per incrementare il carico elettrico
⋅ La macchina ad assorbimento permette di trasformare un fabbisogno di tipo elettrico
(compressore frigorifero tradizionale) in uno di tipo termico (cioè si ha il caso duale del
precedente).
⋅ Un sistema di accumulo di energia termica permette di ridurre le punte di potenza nel
diagramma di carico orario dell’Utenza.
Le tre possibilità concorrono ad avvicinare CMP al CU minimizzando il ricorso (interscambio)
all’integrazione mediante reti esterne (ENEL o di servizi calore).
7.4 ANALISI ENERGETICA ED ECONOMICA DI UN SET
Per stabilire la convenienza di un SET occorre effettuare una analisi energetica ed una
economica secondo le linee delineate nel prosieguo.
7.5 ANALISI ENERGETICA DI UN SET
Per effettuare l’analisi energetica di un SET occorre seguire una metodologia di analisi che sia in
grado di quantificare le prestazioni del SET, permetta di operare un confronto con la situazione
preesistente o in ogni caso con un sistema convenzionale. Inoltre occorre pervenire alla definizione
dei dati necessari per la valutazione della convenienza economica. Abbiamo fin ad ora caratterizzato il
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 175

motore primo mediante il rapporto CMP (rapporto termico/elettrico fornito). E’ ora opportuno definire
nuovi parametri caratteristici e in particolare:
Rendimento Elettrico (o Termodinamico) NE
E’ dato dal rapporto:
EE
NE = (152)
F
ove EE è l’energia elettrica prodotta ed F è l’energia primaria del combustibile necessaria per
produrre EE.
Rendimento Termico NT
E’ dato dal rapporto:
ET
NT = (153)
F
con ET energia termica utile prodotta ed F energia del combustibile per produrre ET.
Rendimento Globale NTot
E’ dato dalla somma:
NTot = N E + NT (154)
Si ricordi che questa somma non è omogenea in quanto si sommano grandezze aventi qualità
termodinamica diversa.
Rendimento Exergetico EEx
Dato dalla relazione:
 T 
EEx = N E + NT 1 − 0  (155)
 T1 
ove T0 è la temperatura di riferimento, in K, T1 è la temperatura di utilizzo del calore, in K.
Il rendimento exergetico pesa in modo corretto i contributi elettrici e quelli termici (mediante il
Fattore di Carnot) e quindi valuta correttamente i benefici di un sistema SET basato sulla
cogenerazione. Come è facile dedurre dalla (155), il rendimento exergetico è tanto maggiore quanto
più elevata è la temperatura di utilizzo termico T1.
Quanto sopra indicato vale per un SET nel quale siano individuati univocamente i morsetti
elettrici (uscita elettrica) e la flangia di uscita del calore. Possono esserci casi più complessi nei quali, ad
esempio, gli utilizzi termici avvengono a temperature diverse e quindi si dovranno calcolare
separatamente i singoli contributi termici.
Rendimenti di distribuzione
Per tenere conto della distribuzione dell’energia si definiscono i seguenti rendimenti:
⋅ Rendimento di distribuzione elettrica NDE;
⋅ Rendimento di distribuzione termica NDT.
Come già detto, per valutare i benefici indotti dal SET occorre effettuare un confronto con la
soluzione preesistente o convenzionale. Ciò si ottiene introducendo il concetto di Sistema
Convenzionale di Riferimento (SC) definito come quel sistema che produce in modo disgiunto la
stessa quantità di energia elettrica e termica ottenuta, questa volta in modo congiunto, dal SET.
Risparmio di Energia Primaria, R
E’ il risparmio di energia primaria di un SET che abbia rendimenti elettrico NE e termico NT è
definito, a pari quantità di energia elettrica e termica prodotta, dalla relazione:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 176

1
R= (156)
N E NT
+
N E NT
ove i parametri sopra segnati sono riferiti al Sistema Convenzionale (SC).
Costo Marginale del Calore, CMT
Il Costo Marginale del Calore è l’energia primaria che occorre fornire in più ad un SET che
produce solo energia elettrica per produrre una unità di energia termica e la stessa energia elettrica
prodotta dal SC. Esso è definito, quindi, dal rapporto:
N
1− E
NE
CMT = (157)
NT
Costo Marginale dell’Energia Elettrica, CME
Il Costo Marginale dell’Energia Elettrica è l’energia primaria che occorre fornire in più ad un SET
che produce solo energia termica per produrre una unità di energia elettrica e la stessa energia termica
prodotta dal SC. Esso è definito, quindi, dal rapporto:
N
1− T
NT
CME = (158)
NE
Entrambi i due parametri di costo marginale possono anche tenere conto dei rendimenti di
distribuzione dell’energia elettrica e termica.
Modalità di Confronto fra SET ed SC
Per confrontare il Sistema Convenzionale (SC) ed il Sistema ad Energia Totale (SET) in una data
applicazione si possono utilizzare i rendimenti exergetici.
Sulla base dei parametri definiti nel paragrafo precedente è possibile confrontare i flussi di
energia in entrata e in uscita sia per il SC che per il SET, la quantità di energia utile prodotte dal SC e
dal SET, il consumo di combustibile, i rendimenti ed il risparmio di energia primaria.
7.6 ANALISI ECONOMICA DI UN SET
I benefici termofisici (riduzione dei consumi, riduzione di energia primaria) di un sistema SET
possono essere calcolati mediante le definizioni del paragrafo precedente. Il confronto e la
convenienza di un SET è però determinata anche da parametri economici e pertanto è fondamentale
predisporre un’analisi economica approfondita.
Da un punto di vista termodinamico sarebbe meglio definire un’analisi exergonomica, cioè
un’analisi economica basata sui rendimenti exergetici anziché solamente energetici. In definitiva
un’analisi basata sul secondo principio della Termodinamica è oggi (da non più di due decenni) più
indicata di una semplice analisi di primo principio.
In genere un sistema termofisico (cioè un impianto di cogenerazione nel caso in esame) con i
valori di rendimenti più elevati è anche il sistema economicamente più costoso sia in termini di primo
investimento che di gestione.
Occorre pertanto verificare sempre la convenienza economica di una scelta progettuale (SET)
e in particolare, tenuto conto dell’obiettivo di un SET di ridurre i consumi energetici rispetto ai sistemi
convenzionali, occorre dimostrare che le spese di investimento richieste per il SET (certamente
maggiori rispetto a quelle corrispondenti di un Sistema Convenzionale che utilizza tecnologie note e
più comuni) siano giustificate da un minor costo di gestione.
E’ proprio quest’ultimo aspetto che riveste una importanza economica fondamentale: in genere
la fattibilità tecnico economica tende a dimostrare che il risparmio di gestione (cioè di energia
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 177

primaria e manutenzione degli impianti SET) nell’arco di vita (programmata) dell’impianto compensa
il maggior costo di investimento.
E in genere c’è anche un utile aggiuntivo40 che giustifica l’investimento!
E’ bene sottolineare che non sempre la convenienza energetica porta (o giustifica) una
convenienza economica per cui è bene condurre le analisi energetica ed economica con molta
attenzione utilizzando dati certi e verificati. Spesso il margine di profitto di questi investimenti è basso
o addirittura nullo e l’investimento si giustifica anche per altri benefici indotti quali il minor
inquinamento, posti di lavoro aggiuntivi, rinnovo degli impianti, riduzione delle tasse41 ,….
L’analisi economica segue le regole finanziarie tipiche dell’analisi Costi Benefici e/o del Bussiness
Planning che in questa sede non si approfondiscono perché appaiono fuori tema. Se ne forniscono
brevemente i principi basilari e si rimanda ai testi specializzati di economia per una trattazione
approfondita.
Scopi dell’analisi economica
Fra gli scopi principali occorre:
⋅ Valutare gli effetti economici della scelta e quindi della costruzione di un sistema ad energia
totale, SET, in funzione dei fattori di progetto quali, i dati di produzione e consumi di energia
termica ed elettrica, configurazione dell’impianto e criteri di gestione;
⋅ Valutare i dati economici relativi all’investimento e alla gestione dell’impianto anche in relazione
al costo di mercato dei vari componenti, del costo dell’energia e dei servizi esterni;
⋅ Valutare i dati economici dell’Utenza, quali il personale, il sito, le strutture ausiliarie, le spese
assicurative, …;
⋅ Prevedere lo scenario evolutivo della disponibilità e del costo dell’energia. Si tratta di una
operazione complessa e fortemente aleatoria in quanto legata a variabili non governabili
localmente ma dipendenti, a scala mondiale, da situazioni geo-politiche, da interessi economici e
speculativi di difficile previsione.
In genere i costi vengono suddivisi in:
⋅ Fissi: sono i costi relativi all’investimento per l’acquisto dei componenti, per la realizzazione
delle opere civili, per gli impianti ausiliari, per le spese di montaggio e collaudo dell’opera;
⋅ Variabili: sono i costi relativi ai combustibili, ai lubrificanti e in genere ai materiali di consumo
legati al funzionamento del SET. Sono qui comprese le spese di manutenzione e, per i sistemi
aperti, i costi dei flussi di energia elettrica e termica dalle reti esterne.
Metodo del Cash Flow Attualizzato
Un metodo molto spesso utilizzato e particolarmente efficace per la valutazione economica è
denominato Cash Flow Attualizzato e rappresenta il bilancio, in genere si base annuale, dei flussi di cassa
del denaro attualizzati che interessano una data attività e quindi anche per l’analisi economica di un SET.
In Figura 181 si ha lo schema a blocchi di un cash flow per un sistema ad energia totale, SET e
vale il seguente simbolismo:
⋅ AS incasso annuale totale proveniente dalla globalità delle vendite dei prodotti e/o servizi;
⋅ ATE spese totali annuali necessarie per vendere e produrre il prodotto e/o servizi (ad
esclusione degli ammortamenti);
⋅ ACI Entrata di cassa annuale;
⋅ AIT Tassa annuale sulle entrate;

40 La L. 10/91 si basa su questo concetto di ritorno dell’investimento aggiuntivo favorendo l’aggiornamento degli
impianti da parte di Terzi Dante Causa (cioè i Gestori) senza richiedere alcun costo agli Enti Proprietari. In definitiva i
Gestori possono aggiornare gli impianti e in particolare possono sostituire le caldaie con altre di alto rendimento (più
moderne ed efficienti) pagando le spese con il minor costo di gestione (energia e manutenzione) conseguente.
41 Si pensi alla Carbon Tax che oggi in sede europea si vuole applicare a tutte le attività produttive che generano

CO2 mediante processi di combustione.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 178

⋅ ATC spese annuali di capitale di investimenti che non sono necessariamente nulli dopo che
l’impianto è stato costruito (ad esempio, per ampliamenti, modifiche, sostituzioni, ….);
⋅ ACF Flusso di cassa annuale al netto delle tasse.

ATE AIT ATC

As ACI ACF

Figura 181: Schema a blocchi di un Cash Flow per un SET


Valgono le seguenti relazioni di bilancio (espresse in moneta coerente, L/anno o €/anno):
ACI = AS − ATE (159)

ANCI = ACI − AIT (160)


ove ANCI è l’entrata di cassa netta. Ancora:
AIT = ( ACI − AD − AA ) t (161)
ove è:
⋅ AD quota annuale di ammortamento. L’ammortamento è una grandezza che non
corrisponde ad un vero flusso di denaro di cassa ma risulta essere una scrittura
contabile di una forma di ripristino del capitale iniziale speso per gli acquisti
dell’impianto. Le quote di e la durata di ammortamento sono determinate da norme
fiscali che possono variare da stato a stato.
⋅ AA quota di denaro annua corrispondente ad eventuali sgravi fiscali (ad esempio
cofinaziamento o altre forme di sgravio fiscale determinato dalla legislazione corrente
per il tipo di investimento).
⋅ t aliquota di tassazione (espressa in valore relativo fra 0 ed 1).
Ancora si ha la relazione:
ACF = ACI − ( ACI − AD − AA ) t − ATC (162)
Pertanto il flusso di cassa attualizzato si ottiene sommando algebricamente, per tutto l’arco di
tempo di vita dell’impianto, le grandezze annuali attualizzate dello schema a blocchi di Figura 181.
L’andamento temporale del Cash Flow varia di anno in anno, come indicato a titolo di esempio
in Figura 182. All’inizio il cash flow è negativo perché si pagano gli impianti senza riceverne alcun
beneficio e il periodo di negatività dipende dalla complessità dell’opera esaminata.
Successivamente il Cash Flow comincia a salire e può variare nel corso degli anni per effetto di
modifiche di benefici fiscali42.
In genere la sola conoscenza dell’andamento di ACF (Cash Flow) nell’arco di tempo considerato
come tempo di vita dell’impianto o dell’iniziativa fornisce informazioni poco fruibili per la valutazione
della convenienza economica poiché non è agevole confrontare tra loro movimenti di danaro
distribuiti nel tempo in modo non omogeneo.

42Ad esempio la tariffazione agevolata CIP6 scade dopo 8 anni e quindi la vendita di energia elettrica a tariffa di
mercato (notevolmente inferiore a quella CIP6) comporta una riduzione di flusso cassa, come indicato in Figura 182.
Analogamente si possono avere cessazioni di benefici fiscali per la mano d’opera: in Sicilia si ha la fiscalizzazioni di parte
degli oneri sociali per i primi 5 anni di attività. Oppure ci possono essere dipendenti assunti con la cosiddetta Legge
Giovanile con oneri fiscali ridotti e che dopo due anni di servizio ritornano alla piena fiscalità.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 179

Si utilizzano, pertanto, opportuni indicatori economici che sintetizzano la variabilità nel tempo di
ACF in espressioni di facile e comodo uso.
Cash Flow (icluding taxes)

60.000

40.000

20.000

0
0 2 4 6 8 10 12 14 16
CF

Cash Flow (icluding taxes)

-20.000

-40.000

-60.000

-80.000
Anni

Figura 182: Andamento tipico di un Cash Flow nell’arco di 15 anni


⋅ Valore attuale, VAN: somma estesa a tutto il tempo di vita dell’impianto o dell’iniziativa di
tutti i flussi di cassa annuali attualizzati ad uno stesso anno, di solito quello iniziale;
⋅ Indice di Redditività interno, IIR: tasso di interesse che rende nullo il valore attuale;
⋅ Tempo di pay-back o di ritorno, TPB: è il numero di anni (o frazione di anni) dopo i quali il
cash flow cumulativo diviene nullo. In pratica questo parametro indica il tempo necessario a
riprendere il capitale investito nell’iniziativa43.
Il valore attuale del flusso di cassa (indicato universalmente con l’acronimo NPV, Net Presentò
Value) è dato dalla seguente espressione:
N

∑ nA CFn
NPV = 1
(163)
(1 + i )
n

dove si ha il simbolismo:
⋅ i tasso di attualizzazione44;
⋅ n anno di vita considerato dell’iniziativa;
⋅ N tempo di vita dell’impianto o dell’iniziativa. Questo tempo è dettato, spesso, da
considerazioni finanziarie quali, ad esempio, tempo di estinzione del mutuo bancario avuto per
l’investimento o la durata di una concessione pubblica o contrattuale di una iniziativa.
Normalmente varia fra 15 e 20 anni anche se si possono considerare tempi più lunghi.
L’indice IIR (Indice di Redditività Interno) si ha quando è NPV=0. Questo indice è considerato fra i
più importanti per la valutazione economica perché sintetizza numerosi aspetti economici che il Tempo

43
In Figura 182 il tempo di pay-back è dato dall’ascissa di intersezione della curva cumulativa con l’asse dei tempi.
44
L’attualizzazione tiene conto della svalutazione del denaro per effetto degli interessi (tasso di sconto) da pagare
al finanziatore per avere disponibile la somma S al momento iniziale dell’investimento. Il valore di S fra n anni con interessi
V = S (1 + i ) e V è detto valore attuale della somma S al tasso di sconti i dopo n anni.
n

IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 180

di Ritorno45 o il Valore Attuale da soli non consentono di vedere. Questi ultimi due parametri sono,
però, accessori all’IIR e comunque richiesti per la valutazione economica.
Viene indicato con Valore Attuale Netto di un investimento I nel periodo N e valore attuale NPV
la differenza:
VAN = NPV – I (164)
Si definisce Indice di Profitto, IP, il rapporto tra la somma dei flussi di cassa lordi attualizzati ed il
valore degli investimenti. Nel caso in cui l’intero investimento sia riferibile al momento iniziale allo si
ha:
VAN + I NPV
IP = = (165)
I I
Si definisce inoltre Redditività dell’Investimento, RI, il rapporto:
VAN
RI = (166)
I
Sono oggi molto usati alcuni indici di derivazione anglosassone e in particolare il Tasso di
Redditività, ROI (Return of Investment), definito dal rapporto fra l’utile medio annuale e l’investimento
iniziale. L’utile medio annuale è definito come differenza tra il risparmio annuale medio R e la quota di
ammortamento della spesa iniziale Sa, pertanto si ha:
R − Sa
TR = ROI = (167)
I
Osservazione sul metodo del Net Cash Flow
Il metodo del flusso di cassa netto consente di determinare una innumerevole quantità di indici
(più o meno richiesti dalle banche in sede di certificazione del bussiness plan) ma occorre fare molta
attenzione al valore reale che il metodo può avere. Esso, infatti, si basa sulla presunzione di prevedere gli
andamenti a lungo termine dei vari parametri finanziari oltre che dei costi e dei ricavi.
Non è assolutamente facile arrivare a tanta sicurezza specialmente se le previsioni si estendono
oltre i cinque anni. Un esempio può chiarire quanto appena enunciato. Se si vuole esaminare la
convenienza economica di un SET nell’arco di venti anni si deve inevitabilmente assumere un costo
dell’energia primaria (gasolio, gas metano, …) che è certamente noto al momento della stesura dello
studio ma che è del tutto imprevedibile nel corso dei successivi venti anni.
Si suole ipotizzare uno scenario di sviluppo dei costi che è più o meno cabalistico poiché nessun
operatore economico può prevedere l’evoluzione geopolitica delle regioni fornitrici di materie prime
per l’energia (paesi arabi, Russia, Regioni africane, ..).
Basta un piccolo conflitto regionale o una ipotesi di conflittualità in una regione della terra per
innescare una spirale non controllabile di innalzamento dei prezzi. In questi mesi stiamo vivendo una
situazione che esemplifica molto bene quanto appena detto: il costo del barile di grezzo è passato nei
giro di sei mesi da 14 a 34 $/barile.
All’inizio degli anni settanta, con la prima grande crisi petrolifera innescata dai conflitti arabo –
israeliani, il costo del petrolio sembrava aumentare del 15% all’anno e certo una tendenza del genere
avrebbe innescato eventi catastrofici sulle economie degli stati importatori di petrolio.
Dopo circa un paio d’anni il costo del barile scese dai circa 40 $ ai 12 $ annullando tutte le
previsioni possibili, da quelle ottimistiche a quelle pessimistiche. Allo stesso modo è difficile prevedere
il costo del denaro per lunghi periodi a causa della contingenza economica ormai su scala mondiale.
La sostanziale insicurezza delle previsioni di cassa rende il metodo del cash Flow sostanzialmente
approssimato e quindi poco affidabile. Per questo motivo, ad esempio, le banche richiedono molti
indici economici poiché ognuno di essi presenta suscettibilità di errore differenziati.

45 Si può avere un tempo di ritorno breve ma poi un cash flow minore per effetto della variabilità dei parametri,

come già osservato. Così pure, il valore attuale può essere piccolo ma essere alla fine del tempo di vita dell’impianto e
quindi poco importante per l’iniziativa.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 181

Inoltre la prevedibile imprecisione dei flussi di cassa porta a richiedere indici non solo elevati, e
quindi sinonimi di convenienza economica dell’iniziativa esaminata, ma le banche si mettono al riparo
da sorprese possibili richiedendo valori più elevati del necessario in modo da essere sicure che l’iniziativa
possa recuperare liquidità anche in situazioni contingenti molto sfavorevole. Così, ad esempio, non
basta che, detratte le tasse, una iniziativa renda il 20% (valore già elevato!) ma si chiede che la
redditività netta sia superiore al 30÷35% (enorme!).
Si può intuire quale sia la ratio di una simile richiesta: una redditività molto alta garantisce un
ritorno degli investimenti in un numero limitato (2÷4) di anni e quindi le possibilità di rischio si
riducono fortemente quanto minore è il tempo di pay back.
In genere gli indici economici di breve periodo forniscono più sicurezza alle banche rispetto ad
altri di lungo periodo.

7.6.1 TEMPO DI RITORNO ATTUALIZZATO DELL’INVESTIMENTO, TAR


E’ già stato definito come il tempo necessario a riacquistare l’investimento iniziale (attualizzato)
e il metodo del flusso di cassa consente facilmente, vedi l’esempio di Figura 182, di trovarlo come
valore dell’ascissa di intersezione con la curva del cash flow.
Questo tempo (Discounted pay back, DPB) assume un significato notevole, come illustrato in
precedenza, poiché fino a quel momento l’investitore è esposto a perdite finanziarie e quindi incapace di
riacquistare (e quindi le banche non possono riavere) l’investimento iniziale.
Si osservi che nel lungo periodo, cioè nel tempo di vita dell’impianto o in genere dell’iniziativa,
non è detto che quanto minore risulta il TRA tanto migliore è l’iniziativa poiché dopo questo periodo
si possono avere capovolgimenti di ogni sorta. Una iniziativa può essere più favorevole nel lungo
periodo di un’altra anche se con TRA maggiore. Pur tuttavia, anche ai fini di un recupero del credito
da parte di enti finanziatori, il TRA riveste grandissima importanza e l’analisi di cassa in questo breve
periodo (rispetto alla durata dell’iniziativa che normalmente è di 15÷20 anni) sia quanto più precisa e
coscienziosa possibile. Superato il TRA l’iniziativa risulta comunque remunerativa e con indici
economici variabili in base al flusso di cassa del periodo successivo fra il TAR e la vita prevista per
l’iniziativa. Un TRA ridotto è preferito anche nei periodi congiunturali meno favorevoli per uno stato.
Nel caso in cui il TRA è di pochi anni si può abbandonare l’ipotesi di attualizzare i costi e flussi
di cassa. In questo caso il rapporto fra l’investimento I ed il risparmio R fornisce il Tempo di ritorno
Semplice, TRS (SPB Simple Pay Back). Si tratta di una stima immediata ed efficace sulla proponibilità
dell’iniziativa anche se i flussi considerati non sono attualizzati.

7.6.2 ANALISI DI SENSITIVITÀ


L’incertezza nella previsione dei flussi di cassa e quindi dell’analisi finanziaria giustifica la
necessità di conoscere entro quali limiti la realtà può discostarsi dalla previsione senza subire una
perdita finanziaria. Quanto detto comporta l’analisi di sensitività del valore attuale netto, VAN, rispetto
alla variazione di uno o più parametri finanziari rispetto ai valori nominali previsti. Risulta utile
conoscere il valore limite di un parametro finanziario per cui il VAN si annulla: esso rappresenta il
limite del campo di convenienza dell’investimento.
Il Tasso Interno di Redditività, (che gli anglosassoni indicano con IIR Internal Rate of Return)
introdotto in precedenza come il tasso di attualizzazione che rende nullo il VAN nel periodo previsto
per l’investimento, va visto nell’ottica dell’analisi di sensitività. Poiché il tasso di sconto non è mai certo
nel lungo periodo allora l’IIR indica il valore limite del tasso che annulla i guadagni (o meglio il VAN)
nel periodo previsto.
Pertanto quanto maggiore è la differenza fra il Tasso di Sconto previsto in analisi e l’IIR tanto
minore è il rischio legato alla variabilità (o stima approssimata) di questo parametro.
L’analisi di sensitività può essere estesa anche ad altri parametri, oltre il tasso di sconto, e in
genere si individuano quei parametri che influenzano il risultato economico e finanziario dell’iniziativa
e che più sono soggetti ad imprecisione di valutazione iniziale.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 182

In genere si calcola l’IIR in funzione di ciascuno di questi parametri, a parità di altre assunzioni,
per cui è possibile individuare il valore limite del parametro nell’ambito della convenienza
dell’impianto (o dell’iniziativa) che corrisponde ad un dato IIR così calcolato pari al tasso di sconto i.
Fra i parametri che interessano gli impianti SET sono da considerare il costo dell’energia
primaria, il fatturato, la spesa di investimento (specialmente se il periodo di costruzione dell’impianto
non è breve). L’analisi di sensitività può essere oggi condotta con strumenti di calcolo sofisticati e
computerizzati. In ogni caso è sempre bene ricorrere ad uno specialista finanziario per evitare di
incorrere in errori grossolani.

7.6.3 INDICE ENERGETICO IEN


Si è già detto che l’attuale legislazione nazionale favorisce le fonti rinnovabili incentivando la
cessione di energia all’ENEL (Prezzo concordato mediante CIP-6 o Certificati Verdi).
Per le fonti energetiche tradizionali si dice che sono assimilabili a quelle rinnovabili se l’efficienze
energetica raggiunta nelle trasformazioni è elevata. In definitiva la Legge tende a favorire i sistemi per
il risparmio energetico per le ricadute sociali ed ambientali che esso produce. Il Criterio di Assimilabilità
delle fonti energetiche tradizionali si base sul concetto di Indice Energetico (denominato IEN)
definito dalla relazione:
E ET
IEN = E + −a (168)
EC 0.9 EC
dove si ha il simbolismo:
⋅ EE energia elettrica netta prodotta in un anno;
⋅ ET energia termica utile prodotta in un anno;
⋅ EC energia consumata in un anno mediante combustibili fossili.
Il termine a è dato dalla relazione:
 1  E 
a= − 1  0.51 − E  (169)
 0.51   EC 
Ne segue che perché un impianto tradizionale sia assimilabile ad un impianto che utilizza fonti
rinnovabili46 deve essere IEN>0.51.
In questo modo si ha diritto alla tariffazione privilegiata dell’energia ceduta all’ENEL. Si osservi
che l’indice energetico è la somma del rendimento di trasformazione elettrica (EE/EC) più quello di
trasformazione termica supponendo di avere un generatore con rendimento del 90%.
Questa somma viene penalizzata se il rendimento di trasformazione elettrica è inferiore a 0.51
tramite il fattore sottrattivo a. In Figura 183 si ha l’andamento dell’indice IEN. Ancora meglio vanno
le cose se risulta IEN>0.6 per cui si ha diritto ad una tariffazione più elevata.
Si osservi che il valore limite 0.51 è particolarmente selettivo nei riguardi di impianti cogenerativi
con elevate prestazioni.
Per impianti di produzione combinati questa limitazione equivale a scrivere:
EE ET
EC E
+ C ≥1 (170)
0.51 0.9

46 Cioè energia solare, eolica, idraulica, geotermica, marina o da rifiuti.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 183

AREA RISPETTO IEN

50%

RENDIMENTO TERMICO
45%

MEDIO ANNUALE
40%

35%

30%

25%

20%
25% 26% 27% 28% 29% 30% 31% 32% 33% 34% 35% 36% 37% 38% 39% 40%

RENDIMENTO ELETTRICOMEDIO ANNUALE

Figura 183: Andamento di IEN in funzione dei rapporti di trasformazione elettrica e termica
Si deduce che i due rendimenti limiti per l’assimilabilità sono 0.51 per l’elettrico e 0.9 per il
termico. Ora mentre è agevole, con le attuali tecnologie, arrivare a 0.9 per un generatore elettrico non
è altrettanto facile raggiungere il valore 0.51 per il rendimento elettrico, specialmente per gli impianti
cogenerativi.
Ne deriva che per compensare il minor rendimento elettrico si debbono avere forti rendimenti
termici e quindi risultano favoriti gli impianti con una forte utilizzazione termica a scapito degli impianti con
forte utilizzazione elettrica.
I cicli misti gas-vapore sono nettamente svantaggiati rispetto ai motori a combustione interna e
alle turbine a gas con forte post combustione47 (vedi nel prossimo capitolo le caratteristiche dei motori
primi). Naturalmente tutto ciò è vero se si ha una piena utilizzazione dell’energia termica prodotta.
Quest’ultima osservazione incentiva, specialmente negli usi civili, l’uso del calore in esubero per
la produzione del freddo nel periodo estivo.
7.7 I MOTORI PRIMI DEL SET
Il componente fondamentale di un Sistema ad Energia Totale, SET, è il motore primo cioè il
componente che fornisce energia termica ed elettrica in modo cogenerativo. Quelli maggiormente
utilizzati sono:
⋅ Il motore alternativo;
⋅ La turbina a vapore;
⋅ La turbina a gas.
E’ importante inquadrare il funzionamento del motore primo in un ciclo termodinamico nel
quale si evincano i livelli di utilizzo delle frazioni energetiche interessate.
Vediamo ora brevemente (si rimanda ai Corsi di Macchine per maggiori approfondimenti) i
punti principali da ricordare per la scelta del motore primo di un impianto di cogenerazione.

7.7.1 MOTORI ALTERNATIVI


I motori alternativi che più vengono utilizzati sono quelli endotermici basati su ciclo Diesel e su
Ciclo Otto. Va tenuto presente, tuttavia, che se i combustibili di elezione di questi motori sono il
gasolio e la benzina, in campo cogenerativo si usano anche combustibili diversi quali il metano, il
syngas (derivato da pirolisi industriali), oli pesanti (di scarto), …..
La cogenerazione spinge questi motori a funzionare al limite delle possibilità termodinamiche
nello spirito di utilizzare il maggior numero di fonti energetiche primarie possibili.

47 La post combustione non incrementa il rendimento elettrico poiché agendo sui soli gas di scarico non porta

maggior potenza alla turbina che alimenta il generatore elettrico.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 184

7.7.2 CICLO DIESEL


Il campo di potenza interessato da questi motori si estende fino a 40 MW ed essenzialmente si
utilizzano motori diesel o anche, in minor misura, motori a gas.
Il rendimento elettrico delle unità di maggiore potenza si avvicina sensibilmente a quello delle
centrali termoelettriche raggiungendo punte del 40÷42 %.
Il rendimento globale, incluso il recupero di calore di scarto, raggiunge valori elevati pari a 80÷85%.
Un grosso vantaggio di questo tipo di motore primo è che la curva di rendimento si mantiene
quasi piatta in funzione del carico fino al 50÷60 % del carico nominale ed inoltre l’utilizzazione del
calore di scarto, anche ad alta temperatura, non riduce le prestazioni meccaniche del motore.
E’ anche possibile frazionare la potenza in varie unità modulari e ciò consente di avere
rendimenti massimi in ampie condizioni di carico.
Il diesel può anche funzionare a gas con opportune iniezioni di nafta (combustione pilota) in
percentuale del 5% del totale. Questa soluzione (detta dual quel) consente di funzionare anche a gas ma
con un aggravio dei consumi di circa il 10% rispetto al solo funzionamento a nafta.
Va tenuto conto anche degli aspetti negativi che il motore diesel presenta e cioè:
⋅ Potenza unitaria limitata e non suscettibile di rapidi aumenti;
⋅ Complessità notevole della macchina e quindi maggiori oneri di manutenzione;
⋅ Abbondante produzione di ossidi di azoto.
Ciclo Termodinamico
Il ciclo Diesel è formato da due isoentropiche una isobara ed una isocora, come indicato in
Figura 184. La fase di combustione avviene insufflando, ad alta pressione (oltre 100 bar e oggi si
possono avere pressioni elevatissime fino a 1500 bar nei diesel common rail), gasolio nebulizzato in
piccolissime goccioline nel cilindro ove si trova aria compressa nelle condizioni del punto B e quindi
ad una temperatura di circa 900 °C, sufficiente per fare avvenire la combustione.
Temperatura

C
C A L O R E F O R N IT O
P E R C O M B U S T IO N E A
P R E S S IO N E
CO STAN TE

B LAVORO NEI
C IL IN D R I

LAV O RO
COMPRESSORE D

A C A L O R E D I S C A R IC O A
VOLUM E COSTANTE
E n tro p ia

Figura 184: Ciclo ideale Diesel


Non occorre alcun dispositivo elettrico di accensione, quindi, e la trasformazione avviene ad
una pressione che si può ritenere, almeno idealmente, costante poiché durante la combustione si ha un
aumento di volume della camera di combustione per effetto del movimento del pistone.
Il rendimento del ciclo Diesel è dato dalla relazione:
1  r −1 
k
η = 1 − k −1  c  (171)
rv  k ( rc − 1) 
ove rv è sempre il rapporto di compressione volumetrico mentre rc è il rapporto di combustione
definito dalla relazione:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 185

vC
rc = (172)
vB
con i simboli di Figura 184. I rendimenti di questo ciclo sono elevati, rispetto ai cicli Otto,
poiché si può comprimere solo aria nella fase AB evitando i fenomeni di autodetonazione delle
benzine.
I motori diesel richiedono poca manutenzione e sono caratterizzati da un numero di giri al
minuto inferiore rispetto a quello dei cicli a benzina. Oggi si hanno i cicli misti, cicli Sabathè,
caratteristici dei diesel veloci. Si raggiungono circa 6000 g/m ed alti rendimenti.

7.7.3 CICLO OTTO


Si tratta di uno dei cicli termodinamici più utilizzati ed è il ciclo di riferimento per i motori a
benzina. Esso si compone, vedi Figura 185, di una compressione isoentropica, sempre con riferimento
al ciclo ideale ad aria standard, seguito da una combustione interna isocora, mediante scoppio attivato
da una scarica elettrica, seguita da una fase utile di espansione e poi di una fase di scarico dei prodotti
di combustione in atmosfera ancora isocora. Il rendimento di questo ciclo è dato dalla seguente
relazione:
1
η = 1 − k −1 (173)
rv
ove rv è il rapporto di compressione volumetrico dato da:
v
rv = A (174)
vB
I valori di rendimento che si ottengono normalmente sono compresi fra il 16 e il 24% e quindi
bassi rispetto ai valori ottenibili con un ciclo ideale di Carnot
Temperatura

C
C A LO R E F O R N ITO
P E R C O M B U S TIO N E A
V O LU M E C O S TA N T E

B LA V O R O N E I
C ILIN D R I

LA V O R O
COM PRESSORE D

A C A LO R E D I S C A R IC O

E ntrop ia

Figura 185: Ciclo Otto per motori a benzina


Nel confronto con il ciclo Diesel il ciclo Otto funziona meglio a pari rapporto di compressione.
In realtà a pari temperatura massima di ciclo si ha un notevole vantaggio nel rendimento dei motori
Diesel potendosi raggiungere, in quest’ultimi, elevati rapporti di compressione con sola aria impensabili
con i cicli Otto. I cicli reali Diesel e Otto risultano alquanto modificati rispetto ai cicli ideali sopra indicati
per varie ragioni fra le quali, si ricorda:
⋅ Compressione ed espansione reali (politropiche) dei fluidi;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 186

⋅ Comportamento della miscela di gas diverso dall’aria standard e quindi con calori specifici
variabili alle varie pressioni e temperature;
⋅ I prodotti di combustione presentano fenomeni di dissociazione ad elevate temperature;
⋅ I fenomeni di accensione e combustione avvengono in intervalli di tempo non trascurabili e
quindi non istantanei;
⋅ I cicli sono aperti e quindi con scambi di massa con l’esterno.

7.7.4 COMBUSTIBILI UTILIZZATI DAI DIESEL


I Diesel possono utilizzare, nelle versioni industriali, diversi tipi di oli combustibili e quindi sia
frazioni leggere, come il gasolio, che frazioni pesanti. Le caratteristiche delle frazioni leggere sono:
Proprietà Valori Unità di Misura
Densità 835÷870 Kg/m²
Viscosità a 40 °C 2.1÷13 CSt
Viscosità a 50 °C 1.1÷1.8 °E
Residuo Conradson (max) 6 %
Ceneri (max) 0.02 %
Acqua e sedimenti (max) 0.3 %
Zolfo 2.5 %
Potere Calorifico Inferiore 42.7 MJ/kg
Tabella 22: Proprietà dei frazioni leggere per Diesel
Le proprietà delle frazioni pesanti sono:
Proprietà Valori Unità di Misura
Densità 950÷990 Kg/m²
Viscosità a 38 °C 75÷120 °E
Residuo Conradson (max) 16 %
Acqua (max) 0.3 %
Ceneri (max) 0.03 %
Asfalteni (max) 4÷11 %
Zolfo (max) 1÷4 %
Potere Calorifico Inferiore 41 MJ/kg
Vanadio 100÷200% ppm
Sodio 20÷80% ppm
Tabella 23: Proprietà dei frazioni pesanti per Diesel
Si osservi che il residuo Conradson e le ceneri influiscono molto sullo sporcamento e sull’usura del
motore. Il tenore di vanadio e di sodio influenza il grado di corrosione ad elevata temperatura e la
formazione di depositi sulle valvole.
Infine il tenore di zolfo influenza la corrosione nel motore e negli scambiatori di recupero termico
dei gas di scarico. Le frazioni leggere possono essere usate nei diesel veloci ed automobilistici mentre
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 187

le frazioni pesanti possono essere usate solo nei diesel lenti con opportune scelte di materiali (testate
in ghisa).

7.7.5 IMPATTO AMBIENTALE DI UNA LOCALIZZAZIONE DI MOTORI ALTERNATIVI


I motori Diesel (o anche quelli Otto) di grande potenza pongono problemi di impatto ambientale
(vedi capitolo successivo per altri approfondimenti) per localizzazioni all’interno di aree urbane e di
centri densamente abitati a meno di ricorrere a soluzioni di protezione ambientale spesso costosi e
complessi.
Nel valutare l’impatto ambientatale occorre considerare:
⋅ Le emissioni nei gas di scarico (e quindi il tipo di combustibile utilizzato);
⋅ La rumorosità prodotta e quindi il rispetto del DPCM 1/3/91 e L. 447/94;
⋅ Le vibrazioni eventualmente indotte negli edifici.
Un motore diesel produce circa 7÷8 kg/kWh prodotto di gas di scarico ad una temperatura
uscente dallo scambiatore di recupero di circa 120÷180 °C. In genere si ha circa il 77% di N2, 13% di
CO2, 5% di CO e 5% di H2O. Si hanno, inoltre, varie percentuali di COx ed NOx oltre che idrocarburi
incombusti, ceneri e fuliggine.
Un parametro che deve essere tenuto in considerazione è l’opacità dei fumi misurata in gradi Bosch
o Bacharach e compresa fra 0.3÷0.5 ° Bosch.
Per quanto riguarda la rumorosità i motori Diesel si distinguono dai motori Otto a benzina, vedi
Figura 186, per uno spettro più ricco alle basse frequenze e di notevole ampiezza
In genere le fonti di rumorosità sono individuabili in corrispondenza a:
⋅ Aspirazione dell’aria;
⋅ Emissione dei gas di scarico;
⋅ Funzionamento del motore (specialmente quelli lenti)
Nei primi due casi si può fare uso di speciali silenziatori per attenuare la rumorosità mentre per
il rumore del motore occorre intervenire sugli edifici mediante applicazione di coibenti acustici.

Figura 186: Spettro a banda di terzi di ottava di un motore a benzina


Per le vibrazioni i problemi possono essere rilevanti in considerazione della notevole massa in
gioco nei motori di potenza. In genere occorre progettare bene il blocco di fondazione avendo cura di
isolarlo (mediante tagli) dal terreno circostante con l’interposizione di materiali assorbenti (pannelli di
gomma, strati di sughero, ammortizzatori meccanici, …).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 188

Si ricordi che le frequenze naturali dell’edificio debbono essere lontane da quelle indotte dalle
vibrazioni dei motori per evitare pericolose risonanze.
Per un corretto studio del blocco delle fondazioni occorre conoscere i modi di vibrazione del
blocco motore-fondazioni, l’impedenza meccanica del terreno e i modi di oscillazione dell’edificio.
Come criterio guida per la progettazione della fondazione occorre che la sollecitazione unitaria
sul terreno non deve superare 1/3 ÷ ¼ della sollecitazione statica ammissibile, il baricentro dei carichi
deve essere sulla verticale al centro dell’area di base della fondazione, l’ampiezza delle vibrazioni deve
essere contenuta entro valori limiti imposti dalle norme e il peso della fondazione (cioè del solo blocco
di calcestruzzo di base) deve essere grande (3÷20 volte maggiore) rispetto a quello del motore, anche
in funzione della velocità di rotazione di quest’ultimo.

7.7.6 COGENERAZIONE DEI MOTORI DIESEL


Il motore alternativo diesel (ma anche quello a benzina) presenta sorgenti differenziate di calore
in corrispondenza degli scarichi gassosi, dell’acqua di refrigerazione, dell’aria di sovralimentazione,
dell’olio di raffreddamento secondo quanto indicato, sommariamente, in Figura 187.
In genere dagli scarichi si può ricavare 900÷1200 kcal/kWh di lavoro meccanico erogato all’asse
del motore. Circa il 15% del calore introdotto viene asportato dall’acqua di raffreddamento e dall’olio
che escono dal motore a temperature di 80 e 75 °C rispettivamente. Si tratta di calore facilmente
recuperabile mediante l’inserimento di uno scambiatore di calore.
In alcuni casi si possono avere temperature dell’acqua di raffreddamento fino a 125÷130 °C e
dell’olio di 80÷85 °C.
Per motori con intercooler si può estrarre circa il 9% di calore fra il primo e il secondo stadio
del sistema di raffreddamento dell’aria di sovralimentazione.
Il calore asportato nei gas di scarico è circa il 33% di quello totale introdotto ed è disponibile ad
un livello di temperatura di circa 400 °C. Si osservi che non è possibile raffreddare totalmente a
temperatura ambiente i gas di scarico per evitare pericolose e corrosive condense dei fumi. Di solito ci
si ferma a circa 110÷120 °C anche in funzione del tenore di zolfo del combustibile adottato.

Gs di scarico a 400 °C

Acqua Motore a 80 °C

Aria sovralimentazione
a 150 °C
Olio Raffreddamento

Irraggiamento Acqua
polverizzatori
Lavoro Utile

Figura 187: Bilancio di un motore Diesel


Ipotizzando una portata dei gas di scarico di 7÷8 kg/kWh si ha una quantità di energia termica
recuperabile pari a 400÷600 kcal/kWh. Considerando l’elevata temperatura dei gas di scarico è anche
ipotizzabile la produzione di vapore acqueo.
Il rapporto C = ET/EE per i motori Diesel è compreso fra 1÷1.2 con rendimenti elettrici fra
0.35÷0.41. Per motori a ciclo Otto si ha C =1.3÷1.4 ed NE fra 0.3÷0.34.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 189

7.7.7 SCHEMI DI IMPIANTO


Sulla base di quanto sopra detto si può pensare di utilizzare il motore alternativo in diversi modi
con soluzioni che tengono conto delle diverse esigenze impiantistiche.
In Figura 188 si ha la soluzione più semplice: il gas di scarico (a 400 °C) viene utilizzato in uno
scambiatore a recupero per produrre vapore mentre l’acqua di raffreddamento e l’olio di lubrificazione
cedono la loro energia termica in uno scambiatore per il recupero a bassa temperatura (70÷80 °C).
In Figura 189 si ha uno schema impiantistico più complesso ove lo scambiatore di calore
dell’acqua di raffreddamento e dell’olio lubrificante serve per preriscaldare l’acqua di alimento dello
scambiatore a recupero dei gas di scarico per la produzione di vapore.
Si può anche rinunciare alla produzione di acqua calda se l’Utenza non la desidera. In questo
caso si ha solamente produzione di vapore che può ancora essere inviato in una turbina per la
produzione di energia elettrica.
In Figura 190 si ha un impianto a ciclo combinato con produzione di energia elettrica e calore
(sotto forma di vapore ed acqua surriscaldata) che raggiunge rendimenti complessivi dell’ordine del
75%. Si può anche immaginare di utilizzare il motore primo a ciclo Diesel per produrre acqua calda a
80 °C e surriscaldata a 120÷200 °C per alimentare una rete di teleriscaldamento urbano. Il calore viene
recuperato dall’acqua di raffreddamento e dall’aria di sovralimentazione e dai gas di scarico.

7.7.8 MOTORI PRIMO CON TURBINE A GAS


Le turbine a gas si prestano bene alle applicazioni cogenerative. Si tratta di macchine a flusso
continuo con fluido comprimibile che può operare sia a ciclo aperto che a ciclo chiuso.
Va osservato che la turbina a gas nella versione per impianti di terra (heavy duty) non raggiunge
rendimenti paragonabili agli impianti a vapore o con motori diesel ma presenta alcuni vantaggi
(rapidità di messa in marcia e variabilità del carico) che la fanno preferire per impianti di produzione di
energia elettrica per carichi di punta.
Nelle installazioni heavy duty è possibile modificare il ciclo termodinamico di base con
rigenerazioni termiche, intercooler ed altri accorgimenti tecnici che rendono la turbina a gas
alimentabile con calori di scarto e pertanto conveniente anche per i carichi di base.
Tra i pregi si citano:
⋅ Accettabile costo di investimento;
⋅ Basso rapporto massa/potenza;
⋅ Semplicità costruttiva;
⋅ Potenza unitaria elevata (fino a 200 MW);
⋅ Avvio rapido;
⋅ Non necessita di acqua di raffreddamento.
Per contro si hanno alcuni difetti che qui si riportano:
⋅ Basso rendimento elettrico;
⋅ Necessità di combustibili di elevata qualità;
⋅ Vita limitata di alcuni componenti;
⋅ Necessità di manutenzione frequente.
Il rendimento della turbina a ciclo aperto ha valori medi dell’ordine del 30% nel caso di ciclo
Bryton semplice e del 35% nel caso di ciclo rigenerativo.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 190

ALL-UTENZA

SEPARATORE DI VAPORE

SCAMBIATORE GAS DI
SCARICO

POMPE
``

`
MOTORE
`

ALL-UTENZA

SCAMBIATORE OLIO
SCAMBIATORE ACQUA POMPE
ACQUA DI ALIMENTO

Figura 188: Schema di un impianto di recupero del calore di un motore diesel

ALLA UTENZA

E C O N O M IZ Z A T O R E
A L C A M IN O

S C A M B IA T O R E G A S D I
S C A R IC O

S C A M B IA T O R E

ALLA UT ENZA

`
MOTORE
`

S C A M B IA T O R E OSLCIO
A M B IA T O R E A C Q U A POM PE A C Q U A D I A L IM E N T O

Figura 189: Schema di un impianto di recupero del calore di un motore diesel con economizzatore
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 191

ALLA UTENZA

ACQUA DI ALIMENTO

SEPARATORE DI VAPORE

VALVOLA
SCAMBIATORE GAS DI
DI BY POASS
SCARICO

MOTORE

POMPA

Figura 190: Schema di impianto con motore Diesel e recupero di calore con produzione di vapore

7.7.9 IL CICLO TERMODINAMICO


Si utilizza il noto ciclo di Joule - Bryton. Esso consiste48, con riferimento al ciclo ideale ad aria
standard49, in un ciclo formato da due isobare e due isoentropiche, come indicato in Figura 191.
Lungo la trasformazione AB si ha una compressione (qui supposta ideale isoentropica) dell’aria
esterna fra la pressione pA e la pressione pB.
La compressione viene effettuata in un compressore rotativo alimentato dalla turbina (vedi
dopo) e pertanto assorbe parte dell’energia prodotta dalla stessa turbina.
Nella trasformazione BC si ha la combustione di petrolio raffinato (detto JP, Jet Propeller)
all’interno di una camera di combustione toroidale.
La combustione avviene a pressione costante perché si ha fuoriuscita dei gas di combustione in
modo continuo verso l’anello di distribuzione della turbina di potenza.

48 Si rimanda ai corsi di Macchine per maggiori approfondimenti.


49 Un ciclo si dice ideale quando è formato da trasformazioni termodinamiche internamente reversibili. I cicli a
combustione (ciclo Otto, Diesel, Sabathè, Joule-Bryton) utilizzano aria come comburente e benzina o gasolio o petrolio come
combustibile. La combustione produce vari composti chimici detti gas di combustione e pertanto la composizione del fluido
di lavoro (inizialmente aria esterna) viene modificata. Poiché le caratteristiche termodinamiche complessive (calore
specifico, densità, costante di adiabaticità,….) non sono molto diverse da quelle dell’aria esterna allora si fa l’ipotesi
(ovviamente semplificativa) di fluido di lavoro con caratteristiche costanti e coincidenti con quelle dell’aria standard ossia
dell’aria supposta come fluido ideale e quindi con calori specifici costanti al variare della temperatura. Questa ipotesi semplifica
molto i calcoli termodinamici anche se è un po’ lontana dalla realtà. Per quanto necessario nell’ambito di questo corso
possiamo accettare pienamente questa semplificazione senza perdita di generalità.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 192

Temperatura
C
C A LO R E F O R N ITO Q 1

B LA V O R O
TU R B IN A

LA V O R O
COMPRESSORE D

A C A LO R E C E D U TO Q 2

En tro pia

Figura 191: Ciclo Joule – Bryton con aria standard


La trasformazione di espansione (sempre supposta ideale isoentropica) CD avviene in turbina
ed è proprio in essa che si ha la produzione di energia meccanica che serve in parte ad alimentare il
compressore. La differenza fra l’energia meccanica prodotta e quella assorbita dal compressore è
l’energia utile che è possibile utilizzare esternamente al ciclo.
La trasformazione isobare DA è di raffreddamento e può avvenire in uno scambiatore di calore
(impianti fissi di terra) o in aria (impianti mobili aeronautici) cioè scaricando i prodotti di combustione
nell’atmosfera esterna. Si osservi che avendo aspirato aria atmosferica con il compressore in A lo
scarico equivale ad una cessione di calore all’ambiente esterno a pressione costante.
In Figura 193 si ha la vista sezionata di una turbina di tipo aeronautico nella quale si possono
vedere i componenti fondamentali del ciclo Joule – Bryton e cioè il compressore, a destra in primo
piano, a cui segue la camera di combustione toroidale, al centro, e poi la turbina di potenza che, per
questo tipo di motore, è seguita da un ugello di scarico che fornisce la spinta per far muovere gli aerei.
Per gli impianti di terra si usano configurazioni impiantistiche meno compatte e con elevati
carichi di lavoro (heavy duty) tipicamente 8000 ore/anno.
Il rendimento del ciclo Joule – Bryton è dato dalla relazione:
1
η = 1 − k −1 (175)
rp k
ove rp è il rapporto delle pressioni definito come:
p
rp = B (176)
pA
Poiché il lavoro prodotto dalla turbina:
L+ = hC − hD (177)
viene assorbito dal compressore in quantità pari a:
(178)
ne segue che il lavoro utile prodotto dal ciclo è dato dalla differenza:
Lu = L+ − L− = ( hC − hD ) − ( hB − hA ) (179)
Per motivi impiantistici dipendenti dalla resistenza termica dei materiali alle elevate temperature
(oltre 1200 °C) occorre limitare la temperatura massima del ciclo e ciò porta anche ad avere un
rapporto massimo delle pressioni che vale:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 193

k
k −1
T 
rpmax = C (180)
 TA 

Figura 192: Layout del ciclo Joule – Bryton


Si definisce Rapporto dei lavori il rapporto fra il lavoro utile e il lavoro positivo della turbina:
k −1

L −L +  r − k
RL = +
= 1−  p  (181)
L  rpmax 
Il Rapporto dei lavori è massimo per rp=0 mentre vale 0 quando rp = rp.max come indicato in
Figura 194. In essa si può anche osservare come il lavoro utile abbia un andamento parabolico con un
valore massimo corrispondente interno al rapporto delle pressioni.
Il Rapporto dei lavori è quindi massimo in corrispondenza ad un valore ottimale del rapporto delle
pressioni che vale:
k
2( k −1)
T 
rpottimale = rpmax = C  (182)
 TA 
I cicli Joule – Bryton sono caratterizzati da uno sviluppo di grandi potenze con piccoli volumi di
impianto. Ciò è dovuto al fatto che, diversamente dai motori a scoppio (sia a benzina che diesel) essi
producono potenza in continuità.
I rendimenti vanno dal 25% al 35% a seconda del rapporto delle pressioni utilizzato e del
rapporto fra la temperatura massima e la minima del ciclo.
Si tratta di valori lontano dai rendimenti dei cicli a vapore (circa 40% e oltre nei moderni
impianti) e pertanto la produzione di grandi potenze elettriche è oggi sempre più delle centrali a
vapore (sia tradizionali che nucleari) mentre i cicli a gas sono considerati complementari ai cicli a
vapore.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 194

Figura 193: Sezione di una turbina a gas per aereo

Figura 194: Andamento del rendimento del ciclo Joule – Bryton e del Rapporto dei lavori

7.7.10 IMPIANTI DI TERRA


Negli impianti di terra si vuole ottenere dal ciclo Joule – Bryton la massima potenza senza avere il
problema del peso da trasportare. Pertanto negli impianti fissi si hanno layout che favoriscono gli
scambi termici (combustori esterni ottimizzati) e si possono anche avere cicli rigenerativi cioè cicli nei
quali si riducono le irreversibilità esterne delle trasformazioni di scambio termico (Q1 e Q2) non
isoterme. In pratica si fa in modo di recuperare parte del calore che andrebbe riversato in atmosfera
per preriscaldare l’aria di alimento in camera di combustione. Il ciclo così modificato presente un
miglior rendimento ma richiede uno scambiatore di calore in più.
Oltre alla rigenerazione si possono anche usare uno o più raffreddamenti intermedi sia nella fase
di compressione (cicli con intercooler) che nella fase di espansione in turbina (cicli ad espansione multipla). In
questi cicli occorre inserire tanti scambiatori di calore intermedi quante sono le interruzioni delle fasi
di compressione e di espansione. Si rinvia ai testi specializzati per ulteriori approfondimenti. In Figura
195 si ha una rappresentazione di impianti a gas di terra: a sinistra si può osservare il combustore (ora
esterno alla turbina) e a destra si ha una vista di una turbina a più stadi accoppiata ad un compressore
sullo stesso albero motore.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 195

Figura 195: Impianti a gas di terra

7.7.11 COMBUSTIBILI UTILIZZATI DALLE TURBINE A GAS


Negli impianti di terra le turbine a gas sono nate per bruciare gas naturale ma l’evoluzione
tecnologica porta oggi all’uso anche di combustibili gassosi di altro tipo ed anche liquidi purché
sottoposti a trattamenti di depurazione particolari.
Le caratteristiche medie dei combustibili gassosi sono le seguenti:
Proprietà Valori Unità di Misura
Piombo < 0.02 ppm
Vanadio <0.01 ppm
Sodio <0.024 ppm
Polveri < 25 Mg/Nm³
Zolfo <0.5 %
Potere Calorifico Inferiore 12.5÷35.5 MJ/Nm³

Per i combustibili liquidi si hanno le seguenti proprietà:


Proprietà Valori Unità di Misura
Viscosità 3÷20 cSt
Densità <875 Kg/m³
Residuo Conradson <0.2 %
Acqua < 0.1 %
Zolfo <0.5 %
Potere Calorifico Inferiore >24 MJ/Nm²
Ceneri <0.01 %
Vanadio < 0.5 ppm
Sodio <0.5 ppm
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 196

Per combustibili aventi caratteristiche diverse da quelle sopra indicate occorre prevedere
turbine opportunamente modificate. Nel caso di combustibili gassosi non devono essere presenti fasi
liquide.
I combustibili pesanti possono richiedere un preriscaldamento per rendere possibile sia la
nebulizzazione che il pompaggio.
I metalli vanno separati mediante trattamento di separazione elettrostatica, lavaggio e
centrifugazione (per il sodio) e l’aggiunta di additivi neutralizzanti (per il vanadio).
Nel caso di funzionamento con olio pesante occorre prevedere una fermata ogni 400÷1000 ore
per l’eliminazione delle ceneri ed il lavaggio con acqua calda.

7.7.12 VALUTAZIONE DELL’IMPATTO AMBIENTALE PER LE TURBINE A GAS


A causa del grande eccesso d’aria (oltre il 200%) necessario per il controllo della temperatura in
camera di combustione si ha una percentuale di azoto ed ossigeno nei gas di scarico con percentuali
del 4 e 16% rispettivamente.
Sono presenti ancora componenti varie di NOx e COx oltre a idrocarburi incombusti e frazioni
trascurabili di SOx e di particolato. Gli ossidi di zolfo presenti sono in proporzione alla percentuale di
zolfo nel combustibile. Gli idrocarburi incombusti e la CO sono emessi nelle fasi di avviamento e nei
periodi di funzionamento a carico parziale.
Per ridurre le emissioni azotate è opportuno usare combustibili a basso contenuto di azoto,
ridurre i picchi ad elevata temperatura e il rapporto combustibile- aria (anche se questo tende ad
elevare la temperatura in camera di combustione). Oggi si usano camere di combustione di opportuna
geometria e getti di acqua e vapore per evitare la combinazione dell’azoto con l’ossigeno dell’aria.
I fumi emessi sono poco visibili poiché l’opacità Bosch è sempre <1.

7.7.13 LA RUMOROSITÀ DEGLI IMPIANTI CON TURBINA A GAS


La rumorosità delle turbine a gas è sempre elevata e richiede particolare cura in fase di progetto
(Valutazione di Impatto Ambientale, vedi dopo) e della scelta del sito. Essa si origina in
corrispondenza delle tre sezioni: aspirazione, scarico e corpo motore. In corrispondenza
dell’aspirazione del compressore d’aria si ha l’emissione di un rumore a forma di sibilo (rumore a
sirena) la cui frequenza è data dal prodotto del numero di giri dell’asse per il numero di pale.
Questo rumorosità può essere ridotta con opportuni filtri acustici e con l’orientamento delle
bocche di aspirazione verso l’alto in modo da non produrre coni acustici che investano edifici
viciniori.
La rumorosità allo scarico è di solito di bassa frequenza e richiede forti spessori di isolante
inseriti in pannelli fonoassorbenti.
Le pareti che portano i pannelli possono a loro volta riemettere rumore verso l’esterno e quindi
debbono attentamente essere isolate mediante rivestimenti esterni di materiali isolanti e con
l’inviluppo di lamiere pesanti. Il rumore prodotto dal corpo della turbina viene ridotto coibentando la
sala macchine e costruendone le pareti in calcestruzzo pesante.

7.7.14 POSSIBILITÀ DI COGENERAZIONE DELLE TURBINE A GAS


Tipicamente per una turbina a gas si hanno le percentuali di energia indicate in Figura 196.
L’elevata percentuale di energia nei gas di scarico (67%) lascia intravedere forti possibilità di
recupero energetico a temperature variabili fra 400 e 550 °C e quindi ancora interessanti
impiantisticamente.
Naturalmente occorre evitare che la temperatura finale dei gas di scarico scenda al di sotto dei
120÷140 °C per evitare il pericolo di condensazione dell’acqua acida.
Le possibilità di cogenerazione delle turbine a gas possono essere schematizzate nelle seguenti:
⋅ Recupero termico per uso diretto di processo;
⋅ Produzione di fluidi termovettori (ad esempio per il teleriscaldamento)
⋅ Ciclo combinato turbina a gas – turbina vapore.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 197

Gs di scarico
Olio Raffreddamento
Lavoro Utile

Figura 196: Bilancio energetico per una turbina a gas

Figura 197: Ciclo combinato a gas e a vapore


Il rapporto C = ET/EE può variare nell’intervallo 1.7÷3.5 per turbine a semplice recupero.
La produzione di acqua calda surriscaldata o anche di vapore per tele riscaldamento urbano
lascia intravedere interessanti sviluppi per questo tipo di impianti.
In Figura 197 si ha lo schema di impianto per un ciclo combinato gas- vapore con caldaia a
recupero per la produzione del vapore acqueo da inviare nella turbina a vapore (che può essere a
condensazione, a derivazione, a spillamento o in contropressione a seconda delle esigenze
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 198

impiantistiche). In Figura 206 si ha lo schema di ciclo rigenerativo con la possibilità di recupero


termico e produzione di vapore.
Si possono pensare diverse applicazioni dei cicli cogenerativi negli impianti di
termovalorizzazione. Infatti, si può gassificare i RSU, alimentare un impianto a gas e poi produrre
acqua calda surriscaldata per alimentare una rete di teleriscaldamento. Una applicazione del genere è
realizzata nel comune di Brescia per la centrale di alimentazione del teleriscaldamento urbano.

Figura 198: Impianto cogenerativo con turbina a gas : 120 kWe e 146 MWe

7.7.15 LE MICROTURBINE
Le microturbine sono dei piccolo generatori elettrici che bruciano combustibile gassoso o
liquido per generare un’elevata velocità di rotazione che mette in moto un alternatore. Oggi la
tecnologia della microturbina è il risultato di un lavoro di sviluppo nelle piccole turbine a gas degli
autoveicoli, apparecchiature ausiliari di potenza, che furono sviluppate dall’industria automobilistica
dal 1950. I test sulle microturbine iniziano attorno al 1997 e diventano commerciali nel 2000. Le
potenze di targa delle microturbine commercializzate vanno dai 30 ai 350 kW, mentre le turbine a gas
convenzionali presentano un range di potenze che vanno dai 500 kW ai 250 MW.
Le microturbine come le maggior parte delle turbine a gas, possono essere usate per la
generazione di sola potenza elettrica oppure per la produzione combinata di calore ed elettricità (CHP
= Combined Heat Power). Esse sono capaci di funzionare con una varietà di combustibili, includendo
il gas naturale, gas acidi, e combustibili liquidi come benzina, cherosene, e diesel.
Le microturbine sono adatte per le applicazioni di “generazione diffusa” dovuto alla loro
flessibilità nei metodi di connessione, infatti possono essere collegati in parallelo per servire un grande
carico, inoltre provvedono ad una stabile e attendibile potenza con basse emissioni. Le applicazioni
tipiche sono:
• livellamento dei picchi e generazione di una potenza base ( grid parallel).
• Produzione combinata di calore ed elettricità.
• Stand-alone power.
• ecc,…
I campi di applicazione includono le telecomunicazioni, i ristoranti, gli alloggi, gli ospedali, gli
uffici ed altri settori commerciali. Le microturbine sono attualmente utilizzate nelle applicazioni di
recupero di risorse nelle sorgenti di produzione di olio e gas, nelle miniere di carbone, ecc. Il loro uso
è importante poiché la maggior parte di questi luoghi non sono serviti da corrente elettrica, e spesso
quando sono serviti dalla rete, il servizio è molto costoso.
Nelle applicazioni combinate, il calore di scarico della microturbina è usato per produrre acqua
calda sanitaria, per riscaldare gli edifici, per far funzionare una macchina frigorifera ad assorbimento o
a fornire energia
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 199

7.7.16 4.1 − DESCRIZIONE DELLA TECNOLOGIA


Le microturbina sono piccole turbine a gas, la maggior parte di esse presenta uno scambiatore
interno di calore chiamato recuperatore.
In una microturbina, un compressore radiale centrifugo comprime l’aria in ingresso che poi è
preriscaldata nel recuperatore usando il calore proveniente dai gas di scarico della turbina (Figura 199).
In seguito l’aria calda uscente dal recuperatore viene miscelata con il combustibile nella camera
di combustione. I gas caldi della combustione vengono fatti espandere nella turbina. Questo
determina la rotazione della turbina e quindi del compressore che a sua volta, nel modello ad albero
singolo, mette in rotazione il generatore.
Nel modello a due alberi, una prima turbina trascina il compressore invece la seconda trascina il
generatore. Alla fine, il recuperatore usa i gas di scarico della turbina per preriscaldare l’aria uscente dal
compressore.
I modelli ad unico albero operano generalmente a velocità superiore ai 60.000 rpm e generano
una potenza elettrica di elevata e variabile frequenza (corrente alternata, AC). Questa potenza è
modificata in corrente continua (DC) e poi mutata a 60 Hz per gli Stati Uniti.
Nella versione a doppio albero, la turbina è connessa mediante ingranaggi al generatore che
produce potenza elettrica a 60 Hz. Alcuni costruttori offrono delle unità che producono potenza a 50
Hz. Queste vengono richieste da paesi dove la frequenza standard è di 50 Hz, come l’Europa e parte
dell’Asia.

Figura 199: Schema di una microturbina.

7.7.17 4.2 − COMPONENTI DI BASE


I componenti base delle microturbine sono il compressore, la turbina e il recuperatore (Figura
207)
Turbocompressore
Il cuore della microturbina è il turbocompressore, che è comunemente montato su un singolo
albero insieme al generatore elettrico. Due cuscinetti supportano l’unico albero. Questa soluzione è
utilizzata per ridurre le necessarie manutenzioni e accrescere la totale realizzabilità. Ci sono anche
versioni a due alberi, le quali, anche se hanno più parti in movimento, non complicano la conversione
dall’alta frequenza ai 60Hz.
Per le contenute dimensioni le turbomacchine a gas usano turbine e compressori assiali
multistadio, nelle quali il gas fluisce lungo l’asse dell’albero ad è compresso e fatto espandere
attraverso gli stadi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 200

Comunque, il turbocompressore e la turbina delle microturbomacchine sono basati su un


singolo stadio radiale. La turbomacchine radiali usano piccole quantità di portate volumetriche di aria
e di prodotti della combustione con la conseguenza di elevate efficienze. Le grandi turbine ed i grandi
compressori assiali sono tipicamente più efficienti di quelle radiali. Comunque, nelle dimensioni delle
microturbine radiali i componenti presentano piccole superficie disperdenti procurando efficienze
molto elevate.
Nelle microturbine, l’albero del turbocompressore ruota ad elevate velocità, circa 96.000 rpm
nel caso di macchine di 30 kW e circa 80.000 rpm in quelle di 75 kW.
Le turbine radiali che conducono il compressore sono abbastanza simili in termini di modello e
portate volumetriche a quelle delle automobili, camion, ecc.
Le piccole turbine a gas, delle dimensioni e potenze delle microturbine, vengono anche
utilizzate come sistemi ausiliari di potenza sugli aeroplani.
Generatore
Le microturbine producono potenza elettrica grazie ad un generatore che è posto in rotazione o
sull’unico albero del turbocompressore oppure con una seconda turbina di potenza che guida,
mediante ingranaggi, un generatore convenzionale che ruota a 3600 rpm. Il generatore del modello ad
unico albero utilizza un alternatore, del tipo magnete permanente (tipicamente Samarium-Cobalt), e
richiede che l’alta frequenza in AC di uscita (circa 1600 Hz per una macchina di 30 kW) sia convertita
a 60÷50 Hz per i diversi impieghi. Questo tipo di operazione richiede due fasi:
• rettificazione, in questa fase si modifica l’alta frequenza, da corrente alternata (AC) a corrente
continua (DC).
• inversione, in questo caso si converte la DC in AC con frequenza di 60÷50 Hz.
Il processo di conversione comporta una riduzione dell’efficienza (approssimativamente 5%).
Nella fase di avvio, nel modello ad albero singolo, il generatore funge da motore mettendo in
moto il turbocompressore. Raggiunta una sufficiente velocità di rotazione si avvia il combustore. Per
completare la fase di avviamento sono richiesti parecchi minuti.
Se il sistema opera indipendentemente dalla rete sono richiesti dei gruppi elettronici di
continuità per avviare il generatore.
Recuperatore
I recuperatori sono degli scambiatori di calore che utilizzano i gas caldi di scarico della turbina
(tipicamente attorno ai 650 °C) per preriscaldare l’aria compressa (tipicamente attorno ai 150 °C) che
poi va al combustore. In questo modo si riduce di molto il combustibile necessario per raggiungere
elevate temperature in ingresso turbina.
Questo tipo di sistema è detto rigenerativo (Fig. 4.2.3.1) il quale comporta un elevato
rendimento termodinamico rispetto a quello senza rigenerazione, infatti facendo riferimento all’aria
standard si ha:
• senza rigenerazione:
(h − hD ) − (hB − hA ) = (TC − TD ) − (TB − TA )
ηno _ rig = C
(hC − hB ) (TC − TB )
• con rigenerazione:
ηsi _ rig =
(hC − hD ) − (hB − hA ) = (TC − TD ) − (TB − TA )
(hC − hE ) (TC − TE )
Nelle microturbine i recuperatori possono più che raddoppiare l’efficienza della macchina.
Comunque, poiché c’è una caduta di pressione nel recuperatore sia nel lato turbina che nel lato
compressore, la potenza di uscita si abbassa di circa 10÷15% da quella ottenibile senza la
rigenerazione.
Il recuperatore inoltre abbassa la temperatura dei gas di scarico della microturbine, riducendo
l’efficacia della microturbine nelle applicazioni cogenerative (CHP).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 201

p
B
T C

p
A

E
D
B

A
s
CALORE DI RIGENERAZIONE

Figura 200: Ciclo rigenerativo con l’evidenziazione del calore trasferito.

7.7.18 4.3 − APPLICAZIONI COGENERATIVE (CHP)


Nelle applicazioni cogenerative (CHP) viene utilizzato un secondo scambiatore di calore (Figura
206) che trasferisce l’energia rimanente dei gas di scarico della microturbina ad un sistema di
riscaldamento dell’acqua sanitaria. Il calore dei gas di scarico può essere utilizzato anche per diverse
applicazioni come: raffrescamento mediante macchine ad assorbimento, riscaldamento degli edifici,
ecc.
Alcune microturbine realizzate per le applicazioni cogenerative non usano il recuperatore, infatti
in questo caso la temperatura dei gas di scarico è più alta e quindi più calore può essere utilizzato per
il recupero. Le caratteristiche delle microturbine utilizzate per scopi cogerativi sono:
• calore in uscita, le microturbine producono un calore in uscita a temperature comprese tra i 200
ed i 270 °C, adatto per svariati impieghi.
• flessibilità sul combustibile, le microturbine possono funzionare usando differenti combustibili: gas
naturale, gas acidi, e combustibili liquidi come benzina, cherosene, gasolio.
• affidabilità e durata, la durata di progetto è stimata tra le 40000 e le 80000 ore di lavoro. Sebbene i
componenti hanno dimostrato un’elevata affidabilità, essi non hanno dato, nei servizi
commerciali, una durata abbastanza lunga.
• potenza di targa, le microturbine commerciali ed in via di sviluppo presentano potenze di targa
variabili tra i 30 ed i 350 kW.
• emissioni, le basse temperature di ingresso e gli elevati valori del rapporto aria-combustibile
comportano una riduzione degli NOX di circa 10 parti per milioni (ppm) quando si utilizza il gas
naturale.
• modularità, le unità possono essere connesse in parallelo per servire un elevato carico.
• Carico parziale, poiché le microturbine riducono la potenza riducendo la portata d’aria e la
temperatura di combustione, può succedere che l’efficienza a carico parziale sia superiore a
quella a pieno carico.

7.7.19 PRESTAZIONI DELLE MICROTURBINE


Le microturbine sono più complesse delle convenzionali turbine a gas a ciclo semplice, inoltre
l’aggiunta del recuperatore in entrambi i casi riduce la quantità di combustibile utilizzato (aumenta di
molto l’efficienza) ma introduce una perdita di pressione interna che abbassa di poco l’efficienza e la
potenza di uscita.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 202

Il recuperatore a sua volta presenta quattro connessioni, per cui diventa una sfida per il
produttore di microturbine fare delle connessioni in modo tale da ridurre le perdite di pressione,
mantenere i costi di produzione bassi ed avere allo stesso tempo un’elevata affidabilità.
Il recuperatore ha due parametri che ne misurano le prestazioni, l’efficienza e la caduta di
pressione, che vengono selezionate facendo un’analisi dei costi e delle vendite. Un’elevata efficienza
richiede un recuperatore con grande superficie di scambio termico, la quale genera un incremento del
costo e un’ulteriore caduta di pressione.
Quest’ultima riduce la potenza netta prodotta e di conseguenza aumenta il costo delle
microturbine per ogni kW.
Efficienza elettrica
La Figura 201 mostra l’efficienza elettrica di una microturbina con recuperatore in funzione del
rapporto di compressione, per un intervallo di temperature di fiamma comprese tra i 850 ed i 950°C
alle quali corrisponde un’ottima conservazione della vita dei materiali della turbina.
L’efficienza riportata è quella lorda infatti non vengono considerate le perdite di conversione
dall’alta alla bassa frequenza. La stessa figura 4.4.1.1 mostra una elevata prestazione per un rapporto
delle pressioni compreso tra 3 e 4.
La Figura 202 mostra l’andamento della potenza specifica per lo stesso intervallo di temperature
di fiamma e del rapporto delle pressioni. Più elevato è il rapporto di compressione e più alta è la
potenza specifica.
Comunque, i limiti pratici del raggiungere certe velocità di punta da parte dei componenti del
compressore e della turbina dovuto alla forza centrifuga, fa si che si utilizzano rapporti delle pressioni
tra 3,5 e 5.

Figura 201: Efficienza della microturbina in funzione del rapporto di compressione e della temperatura di
fiamma.
In questa figura è mostrato anche il valore del potere calorifero superiore (HHV), il quale
include il calore di condensazione del vapore acqueo nei prodotti della combustione.
Nella letteratura scientifica è spesso usato il potere calorifero inferiore (LHV), il quale non
include il calore di condensazione del vapore acqueo.
Il potere calorifero superiore è più grande di quello inferiore e nel caso di gas naturale la
differenza è del 10%.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 203

Figura 202: Potenza specifica delle microturbine in funzione del rapporto di compressione e temperatura di
fiamma.
Prestazioni a carico parziale
Quando siamo a carico parziale si richiede una minor potenza di uscita dalla microturbina. La
riduzione di potenza può avvenire riducendo la portata massica (ottenuta riducendo la velocità del
compressore) e la temperatura di ingresso alla turbina.
I tempi necessari ad una microturbina per andare dalla condizione di assenza di carico a quella a
pieno carico sono dell’ordine dei 15 secondi. Una rapida eliminazione del carico causerà quindi un
accumulo di energia nella microturbina con un aumento della velocità di rotazione che danneggerà la
stessa.
Insieme ad una riduzione della potenza, questi cambiamenti delle condizioni operative riducono
anche l’efficienza (Figura 203).

Figura 203: Prestazioni a carico parziale di una microturbina.


Effetti delle condizioni ambientali sulle prestazioni delle microturbine
Le condizioni ambientali in cui lavora una microturbina ha un notevole effetto sulla potenza di
uscita e sull’efficienza. Ad una elevata temperatura dell’aria in ingresso, decrescano sia la potenza che
l’efficienza. La potenza decresce a causa di una minore portata d’aria d’ingresso (infatti la densità
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 204

dell’aria diminuisce all’aumentare della temperatura), e l’efficienza decresce perché il compressore


richiede una maggiore potenza per comprimere aria ad una più elevata temperatura (Figura 204).

Figura 204: Effetto della temperatura ambiente sulle prestazioni di una microturbina.
Un altro fattore che condiziona le prestazioni delle microturbine è l’altitudine in quanto la
densità decresce all’aumentare dell’altitudine rispetto al livello del mare e di conseguenza diminuisce la
potenza (Figura 205).

Figura 205: Effetto dell’altitudine sulle prestazioni della microturbina.


Recupero di calore
L’uso dell’energia termica contenuta nei gas di scarico accresce l’economicità delle microturbine.
L’energia contenuta nei gas di scarico può essere recuperata ed usata in svariati modi, incluso il
riscaldamento dell’acqua sanitaria, il riscaldamento degli edifici, il raffrescamento mediante chiller ad
assorbimento.
L’efficienza del sistema di cogenerazione delle microturbine è funzione della temperatura del
calore di scarico. L’efficacia del recuperatore influenza fortemente la temperatura di scarico della
microturbina. Di conseguenza i sistemi cogenerativi delle microturbine hanno differenti valori di
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 205

efficienze e di calore netto utilizzabile. Queste variazioni sono dovuti al modello e al costo di
realizzazione del recuperatore.
Emissioni
Le microturbine presentano delle emissioni particolarmente basse. Tutte la microturbina si
basano sulla tecnologia di bruciare combustibili gassosi che hanno la caratteristica di essere
premiscelati e magri. In questo caso si riducono gli NOx.. I principali inquinanti che fuoriescono dalle
microturbine sono gli NOx (ossidi di azoto), CO (monossido di carbonio) e idrocarburi incombusti.
Esse producono anche delle piccole quantità di SO2 (diossido di zolfo). Le microturbine sono
realizzate per ridurre le emissioni quando siamo a pieno carico; spesso esse sono molto più elevate
quando si opera a carico parziale. L’inquinante NOx è una miscela di NO e NO2. Gli NOx si formano
da tre meccanismi quello predominante è quello termico. L’ossigeno e l’azoto presenti nell’aria non
reagiscono tra loro a temperatura ambiente ma possono reagire ad alta temperatura dando luogo
all’ossido di azoto:
O2 + N 2 ⇒ 2 NO
Il livello di NOx prodotti dall’effetto termico dipende dalla temperatura di fiamma e del tempo
di residenza. Una elevata temperatura di fiamma incrementa di molto la produzione di NOx.
Una combustioni incompleta ci dà CO ed idrocarburi incombusti. Le emissioni di CO sono
dovuti ad un insufficiente tempo di residenza ad elevata temperatura. Le emissioni di CO dipendono
pesantemente anche dalle condizioni di carico. Infatti un’unità che lavora a bassi carichi tenderà ad
avere una combustione incompleta che incrementerà la formazione di CO. I valori di CO devono
essere sotto i 50 ppm. Anche se non è considerato come un inquinante nel vero senso della parola, le
emissioni di CO2 sono alquanto pericolose per il contributo al riscaldamento della Terra. Il
riscaldamento atmosferico è dovuto al fatto che la radiazione solari penetra sulla superficie della Terra
ma la radiazione infrarossa emessa dalla stessa superficie viene assorbita dalla CO2 presente
nell’atmosfera incrementando quindi la temperatura del globo terrestre. La quantità di CO2 emessa è
funzione del carbonio contenuto nel combustibile e dall’efficienza del sistema

7.7.20 ESEMPIO DI COGENERATORI CON TURBINE GAS


Esistono in commercio moduli compatti di sistemi di cogenerazione con turbina a gas del tipo
di quelli indicato in Figura 207 (Sistema Turbec ®) capace di produrre, alle condizioni nominali di 15
°C di temperatura a b.s. dell’aria di immissione, 100 kW di energia elettrica e 160 kW di energia
termica con acqua a 95 °C.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 206

Figura 206: Ciclo rigenerativo a gas

Figura 207: Esempio di modulo compatto di cogeneratore con turbina a gas


In Figura 208 si ha la vista frontale dello stesso modulo: sono visibili i canali di immissione
dell’aria esterna e di espulsione dei gas combusti. In Figura 209 si ha la vista dell’interno del modulo
Turbec ® da 100 kWe nominali.
Si osservi come il contenitore (lungo 2900 mm, largo 760 mm ed alto 1900 mm) racchiuda sia la
turbina a gas che il generatore elettrico e i recuperatori di calore.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 207

Figura 208: Vista frontale del modulo


I canali di immissione aria sono di 400 mm di diametro e quelli di espulsione degli incombusti di
200 mm di diametro. Il sistema è dato per un funzionamento garantito di almeno 60.000 ore (cioè di
oltre 7 anni continui di funzionamento).

Figura 209: Interno del modulo Turbec da 100 kWe nominali.


Il package sopra indicato consente di utilizzare il sistema di cogenerazione come un qualsiasi
generatore al quale ci si deve preoccupare di garantire l’aria di combustione e lo scarico dei gas. Il
modulo prevede anche, vedi figure precedenti, gli attacchi per l’ingresso e l’uscita dell’acqua calda.
Il sistema indicato funziona a gas metano con pressione di alimentazione di 6.5 bar e con
consumo nominale di 360 kW e rendimento globale pari al 72 %..
La rumorosità del modulo è ridottissima e pari a 70 dB ad 1 m di distanza. Si tratta, quindi, di un
generatore molto silenzioso, specialmente se paragonato ai generatori a turbina tradizionali.
Il costo indicativo del sistema Turbec ® è di circa 280 ML, esclusa installazione e pipino e quindi
si tratta di un sistema interessante sia per le applicazioni di cogenerazione di media grandezza che per
le applicazioni di trigenerazione in accoppiamento con un refrigeratore d’acqua ad assorbimento a
bromuro di litio.

7.7.21 MOTORE PRIMO CON TURBINA A VAPORE


La turbina a vapore si presta benissimo quale motore primo per gli impianti di cogenerazione.
Essa può essere a condensazione, a contropressione o a prelievo regolato.
La turbina a condensazione è solitamente utilizzata per sola produzione di energia elettrica ed
hanno ottimi rendimenti (specialmente con gruppi di potenza > 100 MW).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 208

La turbina a contropressione scarica parte del vapore ad una pressione stabilita per usi esterni
(di processo o termici) mentre parte (o anche niente per la contropressione totale) prosegue fino a
condensazione).
La turbina a vapore consente di utilizzare combustibili diversi ed avere anche caldaie a recupero
per varie applicazioni. Ha una elevata affidabilità, facilità di conduzione e manutenzione e bassi
consumi specifici per la produzione di elettricità.
In genere la turbina a vapore consente poca elasticità nel carico e quindi si ha una elevata rigidità
di impianto. Le turbine a prelievo regolato presentano una maggiore flessibilità in funzione della
variazione del carico.

7.7.22 CICLO TERMODINAMICO


La macchina a vapore utilizza il vapore come fluido di lavoro poiché esso gode della
caratteristica di operare trasformazioni isotermiche ed isobariche all’interno della curva di Andrews,
come indicato in Figura 210. Si osservi, infatti, che per una generica isobara all’interno della curva si ha
un andamento orizzontale (coincidente con l’isoterma, anche se non di eguale valore, s’intende!).
Questo è giustificato dalla varianza ridotta ad 1 quando il vapore è saturo50. Questa caratteristica risulta
interessante per la realizzazione di un ciclo che si avvicini al ciclo ideale di Carnot.
Si osservi, infatti, la Figura 211: in essa si ha all’interno della curva di Andrews un ciclo di
Carnot a tratto intero. Non vi è dubbio che le trasformazioni BC di vaporizzazione e DA di
condensazione sono contemporaneamente isotermiche ed isobare. Nella realtà si ha sempre un perdita
di pressione nel movimento del vapore saturo nelle tubazioni della caldaia ma si può per il momento
pensare che queste perdite siano piccole e trascurabili.
Le trasformazioni CD e AB sono isoentropiche ma non realizzabili nella realtà. L’espansione
CD può essere politropica e quindi con una perdita di lavoro utile a causa della non isoentropicità. La
trasformazione AB rappresenta una compressione di un vapore saturo (in D) che viene compresso
fino al punto A in cui è liquido saturo secco.
Una tale trasformazione non è in alcun modo realizzabile nella pratica, neanche con produzione
di irreversibilità, a causa della grande variazione del volume specifico del fluido (grande quando c’è
vapore e piccolo quando c’è liquido!) e del pericolo di impuntamento del pistone di compressione.
Pertanto la trasformazione AB viene sostituita, per il momento con riferimento al ciclo ideale
reversibile, con la trasformazione di piena condensazione DA’ e poi segue una compressione in fase
liquida (mediante una normale pompa) da A’ alla pressione in caldaia, punto A’’.
Dal punto A’’ occorre ora riscaldare l’acqua fino al punto B di inizio vaporizzazione per poi
proseguire con le fasi normali del ciclo di Carnot. Purtroppo la fase di riscaldamento A’’B è
esternamente irreversibile nel senso che in questa trasformazione si fornisce calore alla macchine
ma a temperatura variabile e pertanto si ha una irreversibilità termodinamica che porta ad avere un
ciclo ideale (cioè internamente reversibile) ma con un rendimento inferiore rispetto al ciclo di Carnot.
Il ciclo di Carnot così modificato è il ciclo Rankine che è il ciclo noto fin dalla fine del
settecento come ciclo delle macchine a vapore. Le prime macchine a vapore furono costruite in Gran
Bretagna per azionare i montacarichi nelle miniere del Galles. Esse avevano rendimenti bassissimi (2-
4%) ma segnarono l'inizio della cosiddetta era industriale.
Pian piano vennero perfezionate e divennero sempre più affidabili e potenti tanto da potere
essere utilizzate anche per le locomotive a vapore e per i motori marini dei piroscafi.

50 Un vapore si dice saturo quando è in presenza del proprio liquido.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 209

Temperatura
C

x=0.6

x= 0
.2

x=1
x=0.4
x= 0

a
x= 0

bar
.8

iso
A X
B
T e p costanti

Curv
a de
o
secc

l vap
ore s
turo
o sa

aturo
quid

secc
del li

o
a
curv

sl sx sv Entropia Specifica

Figura 210: Curva di Andrews per il vapore d’acqua


Le macchine a vapore del secolo scorso (ma che sono utilizzate anche oggi in alcune
applicazioni) utilizzavano quale organo motore il cassonetto con stantuffo.
L'esempio tipico é quello delle locomotive a vapore o dei motori marini vecchio tipo.
Oggi tali organi motori sono stati soppiantati quasi del tutto dalle turbine a vapore. Il ciclo di
Rankine o delle macchine a vapore e rappresentato in Figura 212 nel piano (p,v). Il calore viene
ceduto in caldaia all'acqua che vaporizza (trasformazione ABC) e poi si invia il vapore in una turbina
dove viene fatto espandere (trasformazione CD).
In uscita dalla turbina il vapore viene condensato (cioè passa dallo stato di vapore a quello di
liquido) nel condensatore (trasformazione DA) e da questo mediante una pompa (non é
rappresentata in figura la corrispondente trasformazione perché troppo piccola alla scala considerata)
viene rimandato in caldaia e si ripete il ciclo. Il rendimento termodinamico dipende dalle quantità di
calore cedute nella vaporizzazione in caldaia e nella condensazione nel condensatore secondo la
relazione
L Q
η= = 1− 2 . (183)
Q1 Q1
Ricordando che per trasformazioni isobare si può calcolare il calore scambiato mediante
differenza di entalpia così come per trasformazioni adiabatiche il lavoro è ancora dato dalla differenza
di entalpia, si può ancora scrivere:
L h −h
η= = C D (184)
Q1 hC − hA
Questo ciclo é utilizzato in tutte le centrali termiche per ottenere potenze elevate. Esso é
utilizzato nelle centrali ENEL (non nella versione di base ora vista ma con ulteriori miglioramenti
impiantistici) e negli impianti industriali.
Il ciclo Rankine produce, negli impianti di grande potenza (oggi si hanno centrali da 1 GW),
inquinamento termico nel senso che il condensatore si hanno scarica nell'ambiente enormi quantità di
calore a bassa temperatura che può, qualora non adeguatamente controllato, provocare mutazioni
nell'equilibrio ecologico dell'ambiente circostante.
In genere si limitano a due o tre i surriscaldamenti per problemi in caldaia.
In Figura 214 si ha il confronto (supponendo trasformazioni internamente reversibili!) fra il
ciclo Rankine ed il ciclo di Carnot.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 210

L’area tratteggiata indica la perdita ideale51 rispetto al ciclo di Carnot a pari temperature estreme.
La stessa figura spiega anche perché è importante utilizzare i vapori saturi per le macchine termiche.

Temperatura

B C

A''

A' D
A

Entropia

Figura 211: Ciclo di Carnot con vapore saturo


Si osserva, infatti, che la trasformazione BC è di vaporizzazione (da A verso B) e pertanto, per
quanto detto per i cambiamenti di stato, la temperatura è costante. Analogo discorso, anche se
parziale, può essere fatto per la trasformazione DE di parziale condensazione.
Quindi l’utilizzo di trasformazioni all’interno della curva di Andrews consente di avere scambi
termici a temperature costanti e quindi, almeno idealmente, di essere confrontabili con le analoghe
trasformazioni del ciclo di Carnot.
Si può ancora osservare dalla Figura 214 che la fase AB di preriscaldamento del liquido fino alle
condizioni di saturazione (corrispondenti al punto B) non avviene a temperatura costante e pertanto la
trasformazione, pur essendo internamente reversibile, è esternamente irreversibile con la conseguenza che il
rendimento del ciclo Rankine è ineluttabilmente inferiore a quello del ciclo di Carnot corrispondente.
Oggi si cerca di ovviare a queste conseguenze mediante la rigenerazione termica con la quale si
riduce al massimo la fase esternamente irreversibile di preriscaldamento.
Il Ciclo che ne deriva è più complesso di quello sopra schematizzato.

7.7.23 DISPOSITIVI FONDAMENTALI PER LE CENTRALI TERMICHE A VAPORE


Le trasformazioni indicate in Figura 212 sono realizzate mediante particolari dispositivi,
schematizzati con simbolismo in Figura 212 a destra.
Questi dispositivi sono fra loro collegati mediante tubazioni nelle quale scorre il vapore o
l’acqua di condensa, a seconda delle trasformazioni.

51 Si ricordi che le trasformazioni reali sono sempre irreversibili e che le aree nel piano di Gibbs non sono pari ai

lavori reali poiché sono incluse anche le perdite per irreversibilità che il diagramma entropico non visualizza.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 211

La Caldaia
Le caldaie di potenza sono mastodontiche installazioni, vedi Figura 215, nelle quali si trasferisce
la massima quantità di energia termica dalla fiamma, in basso nella sezione conica, all’acqua e al vapore
che fluiscono lungo le pareti e nella zona laterale protetta, rispettivamente.
La zona laterale è utilizzata per il surriscaldamento del vapore: essa riceve calore solo per
convezione poiché l’irraggiamento termico della fiamma viene mascherato dalla struttura e in questo
modo può limitare la temperatura massima del vapore.
Si ricordi, infatti, che il calore specifico del vapore è minore di quello dell’acqua e pertanto se si
mantenesse lo stesso flusso termico di fiamma si avrebbe il rischio di bruciatura dei tubi.
Queste caldaie sono assai ingombranti e pongono seri problemi anche dal punto di vista delle
installazioni. Esse richiedono, infatti, strutture portanti di grandi dimensioni, solitamente in acciaio, e
capaci di sopportare azioni deflagranti e sismiche.
TURBINA

LAVORO UTILE

CONDENSATORE
CALDAIA

POMPA

Figura 212: Ciclo delle macchine a vapore di Rankine


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 212

Temperatura

B C

D
E

Entropia

Figura 213: Rappresentazione del Ciclo Rankine ideale.


Temperatura

Zona in difetto rispetto al ciclo di Carnot

B C

D
E

Entropia

Figura 214: Confronto fra il ciclo Rankine e il ciclo di Carnot


Per impianti di modeste dimensioni si possono avere tipologie di caldaie più semplici a tubi
d’acqua e a tubi di fumo.
La fiamma proveniente dal bruciatore produce fumi che lambiscono i tubi all’interno dei quali
scorre l’acqua che viene così riscaldata e/o vaporizzata.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 213

Figura 215: Layout di una caldaia di potenza per grandi centrali


Le caldaie a tubi di fumo (cioè con passaggio dei gas di combustione all’interno del fascio tubiero
mentre l’acqua scorre all’esterno) hanno limiti di pressione e temperatura di 30 bar e 350 °C con una
produzione di circa 2.8 kg/s (cioè 10 t/h).
Le caldaie a tubi d’acqua possono produrre vapore in condizioni diverse.
Nelle caldaie a circolazione naturale la circolazione avviene senza organi motori esterni. Nelle
caldaie a circolazione forzata le pompe di alimentazione assicurano la circolazione attraverso l’intero
generatore a vapore in modo da favorire lo scambio termico in condizioni di assoluta sicurezza.
I componenti di una caldaia sono, in genere:
⋅ La camera di combustione in cui avviene la trasformazione dell’energia del combustibile in calore;
⋅ Il corpo cilindrico superiore in cui la miscela acqua-vapore (funzione del titolo di uscita) si separa
liberando in alto il vapore acqueo che prosegue il ciclo;
⋅ Il corpo cilindrico inferiore che serve per distribuire l’acqua nel fascio tubiero;
⋅ Il fascio tubiero costituito da tubi, investiti esternamente dai fumi caldi e percorsi internamente
dall’acqua in riscaldamento e/o vaporizzazione;
⋅ Il surriscaldatore, costituito da una serpentina ove il vapore passa da saturo a surriscaldato;
⋅ Il desurriscaldatore in cui il vapore viene raffreddato in caso di necessità;
⋅ L’economizzatore, posto nella parte estrema della caldaia con la funzione di riscaldare l’acqua di
alimento;
⋅ Il riscaldatore d’aria che sfrutta il calore contenuto nei fumi all’entrata della caldaia;
⋅ Le pompe di circolazione, presenti solo nelle caldaie a circolazione forzata o controllata;
⋅ L’impianto di pulizia della caldaia per allontanare i depositi e/o le incrostazioni.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 214

La Turbina a vapore
L’organo che produce potenza attiva è la turbina a vapore il cui schema costruttivo è dato in
Figura 216 nella quale sono visibili gli organi di distribuzione del vapore e gli anelli del rotore di
diametro crescente verso l’uscita52. Nella Figura 217 si può osservare una turbina a vapore di potenza
aperta in stabilimento. Sono ben visibili gli anelli di palette e la sezione crescente verso il collettore di
uscita (coclea esterna). Le dimensioni delle turbine a vapore sono crescenti man mano che la pressione
di esercizio si abbassa rispetto a quella atmosferica. Pertanto le turbine ad alta pressione (oltre 50 bar)
sono molto più piccole di quelle a bassa pressione (una decina di bar). Le turbine ad alta pressione
sono spesso del tipo contrapposto, vedi Figura 218, per ridurre lo sforzo sui cuscinetti di supporto. In
questo caso la distribuzione del vapore è centrale e il flusso viene poi suddiviso verso i due lati in
modo da bilanciare la spinta laterale sui banchi di supporto. I parametri che caratterizzano una turbina
a vapore sono i seguenti:
⋅ condizioni del vapore all’ammissione e allo scarico;
⋅ portata massica del vapore;
⋅ rendimento adiabatico;
⋅ potenza fornita.
Il rendimento adiabatico ηa dipende dal tipo di turbina e in particolare dalla taglia secondo la
seguente tabella:
⋅ per potenze sopra i 150 MW si ha ηa= 0.82÷0.83
⋅ per potenze tra 5 e 50 MW si ha ηa= 0.76÷0.82
⋅ per potenze fra 1 e 5 MW si ha ηa= 0.70÷0.76
⋅ per potenze < 1 MW si ha ηa< 0.72
Quando la turbina a vapore è accoppiata ad un alternatore occorre tenere conto, ai fini del
calcolo della potenza elettrica prodotta, del rendimento di quest’ultimo variabile, secondo la taglia,
nell’intervallo 0.96÷0.99.

Figura 216: Schema di una turbina a vapore

52 Si ricordi che il vapore espandendosi aumenta considerevolmente il suo volume specifico e pertanto la turbina

deve consentire questo incremento volumetrico mediante l’incremento della sezione di passaggio del vapore.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 215

Condensatore
Il condensatore è l’organo di maggiori dimensioni di tutto l’impianto.
Esso è costituito da grandi banchi di tubi di rame nei quali si fa passare acqua fredda all’interno
e vapore in uscita dalla turbina all’esterno.
La condensazione avviene ad una temperatura di 32-40 °C e ad una pressione di 0,035-0,045
bar.
Si utilizza, di norma l’acqua di mare o l’acqua di fiumi di grandi portate (ad esempio il Po) per
evitare l’inquinamento termico cioè l’innalzamento sensibile della temperatura dell’acqua e ciò per evitare
conseguenze biologiche nella flora e nella fauna marina.
Pompe di alimentazione in caldaia
L’acqua uscente dal condensatore a bassa pressione (circa 0,04 bar) viene poi portata alla
pressione di alimentazione in caldaia (circa 70 bar) mediante opportune pompe di alimentazione le cui
dimensioni sono piccole rispetto a quelle degli altri organi sopra descritti.
La potenza assorbita dalle pompe di alimentazione è di 1-÷2 % di quella prodotta dalle turbine.

7.7.24 CICLO HIRN


L’evoluzione naturale del ciclo Rankine è il ciclo Hirn nel quale il vapore in uscita dalla caldaia
non è in condizioni saturo secco bensì surriscaldato, vedi Figura 219. Il rendimento di questo ciclo è
ancora dato dalla (183) ma con calore Q1 dato dalla differenza:
Q1 = hD − hE (185)
e pertanto il rendimento vale:
L hD − hE
η= = (186)
Q1 hD − hA

Figura 217: Turbina a vapore aperta


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 216

Rispetto al ciclo Rankine il surriscaldamento del vapore da C a D porta ad avere rendimenti più
elevati anche se le perdite per irreversibilità rispetto al ciclo di Carnot corrispondente sono ancora
maggiori.
La temperatura massima oggi raggiungibile in D è di circa 570 °C per le centrali ENEL e di 760
°C per le centrali tedesche. Il motivo di questa diversità è da ricercare nel tipo di acciaio utilizzato per
le costruzioni impiantistiche.
In Italia si usano acciai meno pregiati ma più economici mentre in Germania si utilizzano acciai
austenitici più costosi ma che consentono di lavorare a temperature più elevate con conseguente
maggior rendimento rispetto alle centrali italiane. Oggi con il combustibile ad alto costo è preferibile
avere rendimenti più elevati che costi iniziali di installazione più ridotti. Per aumentare ulteriormente il
rendimento del ciclo Hirn si può anche avere più di un surriscaldamento, come riportato in Figura
220.
In genere si limitano a due o tre i surriscaldamenti per problemi in caldaia.

7.7.25 CICLI A SPILLAMENTO


L’ultima tendenza nella direzione del miglioramento del rendimento del ciclo a vapore è quella
dei cicli a spillamento. In questi cicli, che qui non si approfondiscono per la limitatezza del corso, si cerca
di riparare al guasto termodinamico provocato dal preriscaldamento dell’acqua prima di vaporizzare.
Questa fase è, come già detto in precedenza, fortemente irreversibile e riduce molto il
rendimento del ciclo Hirn (o anche di Rankine). Allora se si riesce a riscaldare il più possibile l’acqua
di alimento in caldaia con calore sottratto allo stesso vapore durante l’espansione in turbina si può
pensare di ridurre le perdite di irreversibilità anzidette.

Figura 218: Turbina a vapore ad anelli contrapposti


Questo è proprio quello che si fa nei cicli a spillamento. Si preleva vapore dalla turbina durante
la fase di espansione e lo si fa condensare in uno scambiatore di calore (detto recuperatore) in modo da
cedere il calore di condensazione all’acqua che alimenta la caldaia.
In Figura 221 si ha un esempio di ciclo Hirn con 4 spillamenti che portano l’acqua dalle
condizioni del punto A (uscita dalla pompa) fino al punto B’. Occorrerà fornire solamente il calore di
preriscaldamento da B’ a B.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 217

Questo è certamente inferiore al calore AB senza spillamenti e pertanto si riducono le perdite


per irreversibilità.

Temperatura

C
B

F E

Entropia

Figura 219: Ciclo Hirn nel piano (T,s)


Temperatura

G
D

C
B
E

F H

Entropia

Figura 220: Ciclo Hirn con due surriscaldamenti


Aumentando il numero di spillamenti si può portare il punto B’ molto vicino a B
incrementando, così, il rendimento termodinamico. Per motivi di costo si limitano gli spillamenti a
12÷18 al massimo.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 218

I cicli a spillamento risultano vantaggiosi anche perché producono una sensibile riduzione delle
dimensioni delle turbine e del condensatore. In questi organi, infatti, viene a fluire una portata
inferiore rispetto al caso di ciclo senza spillamento.
Per il calcolo del rendimento occorre prima determinare le frazioni di vapore spillate e poi
determinare l’energia utile prodotta dalla quantità residua di vapore che si espande fra i vari tratti del
segmento DE. Per la determinazione delle frazioni spillate si ricorre ad equazioni di equilibrio termico
nei singoli recuperatori di calore (in numero pari agli spillamenti).
Tale applicazione viene qui tralasciata per semplicità. Si osservi ancora che vi sono vari criteri
per individuare i punti ottimali di spillamento.
Un criterio semplice, ma in buon accordo con la pratica, è quello di suddividere il salto termico
DE in parti eguali al numero di spillamenti desiderati (come indicato nella Figura 221).
Temperatura

Calore di preriscaldamento C
B

B'
re
alo
di c

Spillamenti
ero
cu p
Re

A
F E

Entropia

Figura 221: Cicli a spillamento

7.7.26 COMBUSTIBILI UTILIZZATI


Si è detto che nel ciclo a vapore si può, in generale, utilizzare qualunque tipologia di
combustibile sia esso solido, liquido o gassoso. La scelta del combustibile si riflette sulle caratteristiche
della caldaia, del ciclo di trattamento del combustibile e del sistema di depurazione dei fumi. La
combustione con combustibili gassosi e con polverino di carbone polverizzato viene realizzata tramite
l’uso di bruciatori nei quali l’aria viene miscelata al combustibile mentre nel caso di combustibili solidi
(non polverizzati) si ha un focolare dotato di griglie.
Fra i combustibili principali si ricordano:
⋅ greggio;
⋅ olio combustibile
⋅ gas naturale
⋅ gas residuo (gas di cokeria, gas di raffineria, …)
⋅ polverino di carbone;
⋅ coal-oil
Nelle caldaie a focolare si possono bruciare:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 219

⋅ carbone povero
⋅ combustibile da rifiuti (CDR)
⋅ legna
I combustibili gassosi non richiedono, in generale, alcun trattamento ed i bruciatori sono più
semplici che in altri casi. I combustibili liquidi comportano una fase di filtraggio e riscaldamento al
fine di raggiungere i valori necessari di pressione e viscosità (40÷60 bar e η< 5 °E) per la successiva
operazione di polverizzazione al bruciatore.
I combustibili solidi (carbone, scarti di lavorazione, RSU, …) possono subire trattamenti
preliminari per raggiungere i valori di granulometria e contenuto d’acqua imposti dal tipo di bruciatore
adottato o del tipo di forno (ad esempio a letto fluido).

7.7.27 POSSIBILITÀ DI COGENERAZIONE


Per un ciclo cogenerativo nel quale si desideri avere la necessaria flessibilità nel soddisfacimento
del carico elettrico e termico si utilizza, di solito, la turbina in derivazione e condensazione (detta
anche a prelievo regolato).
Questo tipo di impianto può lavorare anche separatamente dalle reti esterne (parallelo elettrico e
termico) come pure possono lavorare in parallelo con la rete ENEL e cedere energia in caso di
sovrapproduzione.
Impianti a derivazione e condensazione
Il rapporto C =ET/EE può variare fra 0 e 4 e anche oltre nel caso di contropressione. In Figura
222 si ha un esempio di impianto con turbina a vapore a derivazione e condensazione.
In questo caso la turbina è sostanzialmente divisa in due parti: un corpo ad alta pressione, ove si
espande tutto il vapore prodotto, ed uno a bassa pressione dove avviene l’espansione del vapore che
eccede quello richiesto dalla utenza.

TURBINA

CONDENSATORE
CALDAIA

Figura 222; Ciclo a vapore a derivazione e condensazione


Questo tipo di impianto consente di realizzare tutti i casi fra la turbina a condensazione pura e
quella in contropressione pura. E’ quindi molto flessibile e segue perfettamente le esigenze del carico
elettrico e termico dell’Utenza. Si tenga presente che occorre avere almeno 6÷7% di vapore in
espansione nella sezione a bassa pressione per avere un raffreddamento del corpo turbina.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 220

Inoltre il corpo a bassa pressione non è dimensionato per ricevere tutta la portata di vapore e
pertanto i due casi limiti sono solo teorici. Per questa tipologia di impianto occorre considerare i
seguenti parametri:
⋅ rendimento totale, N
⋅ rendimento elettrico, NE
⋅ consumo specifico di vapore per la produzione elettrica, qp
⋅ rapporto energia termica su energia elettrica, C.
Tutti questi parametri variano al variare del carico elettrico e della potenza termica estratta. In
un gruppo a derivazione e condensazione si può variare il carico elettrico, entro certi limiti, senza
pesare sul carico termico e, viceversa, è possibile variare il carico termico senza disturbare il carico
elettrico. La regolazione, infatti, agisce sia sulle valvole di ammissione alla turbina che su quelle a valle
del prelievo.

7.7.28 IMPIANTI A CONTROPRESSIONE


Questi impianti sono detti a recupero totale e forniscono calore ad una utenza (detta fredda) in
grado di dissipare tutto il carico. Essi presentano una elevata rigidità e quindi non consentono di
variare indipendentemente i carichi elettrici e termici.
In genere gli impianti a contropressione sono dimensionati sull’utenza termica con rendimento
complessivo che può raggiungere il 90%. In Figura 223 si ha lo schema di un impianto in
contropressione nella versione più semplice, adatto per piccole taglie.
Lo stadio di riduzione di pressione e di desurriscaldamento del vapore, unitamente al by-pass
della turbina, è utilizzato sia in fase di avviamento del gruppo che in caso di fuori servizio della
turbina. Il desurriscaldatore serve ad adattare il vapore alle esigenze dell’utenza.
In Figura 224 si ha uno schema di impianto a contropressione con due turbine: in questo modo
si hanno due livelli di scarico del vapore a diversa pressione.

DESURRISCALDATORE TURBINA GENERATORE

CALDAIA

ALLA UTENZA

DEGASATORE RITORNO CONDENSA

Figura 223: Schema di un impianto a vapore con turbina in contropressione


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 221

In Figura 225 si ha uno schema tipico per applicazioni di teleriscaldamento. La turbina in


contropressione è regolata dalla quantità di combustibile bruciato in caldaia e quindi dalla quantità di
vapore inviato alla turbina stessa, a parità di condizioni termodinamiche.
In linea di principio la regolazione può essere asservita sia al carico termico che al carico
elettrico.

TURBINA GENERATORE
TURBINA

G
AP BP

CALDAIA

DEGASATORE RITORNO CONDENSA

Figura 224: Schema di un impianto a contropressione con due turbine e due livelli di scarico vapore

DESURRISCALDATORE TURBINA GENERATORE

RETE ELETTRICA ESTERNA


CALDAIA

UTENZA

Figura 225: Schema di un SET con turbina a vapore a contropressione per reti di teleriscaldamento
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 222

7.8 ESEMPI DI APPLICAZIONI DELLA COGENERAZIONE


Gli effetti della L 9/91 e L 10/91 non si sono fatti aspettare e già oggi si contano numerose
applicazioni della cogenerazione che hanno dimostrato maturità e convenienza. In genere i problemi
tecnici sono di facile risoluzione per cui la convenienza dei sistemi cogenerativi si basa tutta sull’analisi
finanziaria ed economica, come precedentemente detto.
Un errore da evitare è quello di sovradimensionare questi impianti ad esempio scegliendo taglie
dei componenti dimensionati per far fronte alle punte dei carichi termici e/o elettrici: si rischia di
avere oneri finanziari molto grandi e rendimenti ai carichi ridotti bassi.
Il dimensionamento dei componenti di impianto e della giusta taglia del SET deve partire
dall’analisi approfondita e certa degli andamenti dei carichi termici ed elettrici (ad esempio mediante le
curve cumulative già citate) avendo cura di selezionare i carichi medi e non le punte.
Non sempre questa analisi risulta agevole poiché certe applicazioni (ad esempio quelle di
climatizzazione degli edifici) risultano sempre fortemente variabili nel tempo. In questi casi occorre
diversificare i casi di edifici esistenti per i quali sono reperibili dati storici ed edifici nuovi per i quali si
debbono operare scelte progettuali sulla base di confronti e/o assimilazioni con casi esistenti.
Un metodo oggi seguito per la previsione dei carichi è quello dell’utilizzo di codici di calcolo
affidabili che forniscano risultati utili per lo scopo prefissato.
In genere si fa riferimento ad un anno tipo (reference year) o a sequenze temporali di dati
climatologici tali da essere statisticamente significativi per il periodo di simulazione desiderato. Tali
codici sono reperibili commercialmente53 o tramite istituti di ricerca.

7.8.1 APPLICAZIONI INDUSTRIALI DELLA COGENERAZIONE


La taglia industriale degli impianti cogenerativi varia da 100 kW a 20 MW e più e quindi si tratta
di potenze significative anche rispetto alle applicazioni più importanti in campo civile.
L’esigenza della cogenerazione scaturisce, di norma, dall’elevato costo dell’energia elettrica nelle
fasce orarie di maggior uso e dalla necessità di disporre di calore per applicazioni di processo (vapore,
acqua calda, reti tecnologiche interne,…). Sono spesso utilizzati motori endotermici (quando si
richiedono basse temperature) più efficienti e comodi rispetto agli altri tipi di motori primi.
Per potenze elevate e per temperature richieste superiori ai 100 °C si utilizzano prevalentemente
turbine a vapore o a gas: si tratta quasi sempre di grosse iniziative che nascono in grandi
raggruppamenti industriali che utilizzano anche residui di lavorazione o rifiuti urbani o industriali (oli,
scarti petroliferi, …).

7.8.2 IL TELERISCALDAMENTO
Il teleriscaldamento è una distribuzione di energia termica distribuita sul territorio anche a
notevole distanza e per applicazioni anche differenziate. In Italia si sono avute applicazioni di
teleriscaldamento per iniziativa di Aziende Municipalizzate per il riscaldamento urbano (vedansi gli
esempi di Brescia, Ferrara, …).
Purtroppo questa tecnologia è da considerare ancora agli inizi e limitata a superfici limitate
(qualche quartiere). L’energia termica viene prodotta in una centrale appositamente attrezzata (forni
policombustibile) e distribuita mediante reti, magliate e/o ramificate, di tubi di acqua calda a pressione
posta sotto terra. Le centrali cogenerative consentono di produrre sia energia termica che elettrica,
entrambe distribuite in rete dalle stesse aziende municipalizzate. Il calore viene utilizzato sia per
riscaldamento ambientale che per usi sanitari e/o ospedaliero.
Il dimensionamento dell’impianto viene effettuato utilizzando i codici di calcolo per la
previsione dei carichi termici al variare delle condizioni esterne. E’ cos’ possibile conoscere per una

53Si citano, per la loro grande diffusione e riconosciuta validità, i codici TRNSYS, DOE, BLAST. L’ASHRAE
ha proposto il metodo TEDT/TA nel 1967 e CLTD/CLF nel 1977: entrambi questi metodi sono implementati in
programmi commerciali. Anche i codici BIOCLI e DPM predisposti dal Gruppo di Fisica Tecnica della Facoltà di
Ingegneria di Catania si inquadrano in queste tipologie di strumenti di previsione. Questi, fra l’altro, sono stati validati
sperimentalmente presso le test facilty europee della Conphoebus di Catania.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 223

taglia di motore primo l’energia termica che può essere prodotta per soddisfare l’utenza (carico termico
imposto) e la conseguente energia elettrica disponibile.
La convenienza economica e finanziaria di questi impianti porta a preferire taglie dimensionate
per i carichi comuni più frequenti e quindi lontani dai carichi di picco: in genere l’80% dell’energia
richiesta è circa il 40% inferiore al carico di picco.
Per soddisfare le punte massime di carico si usano generatori ausiliari (più economici) che
entrano in funzione nel momento richiesto dall’utenza.

7.8.3 GLI OSPEDALI


Un complesso ospedaliero moderno può essere considerato (per estensione, tipologia e taglia
degli impianti) un impianto industriale vero e proprio. Si hanno forti consumi energetici sia termici
che elettrici e, in genere, gli ospedali costituiscono una favorevole occasione per la cogenerazione.
Gli studi preliminari debbono stabilire i consumi (storici per enti esistenti o prevedibili per
nuove costruzioni) sia elettrici che termici.
In quest’ultimo caso occorre anche stabilire le temperature di utilizzo delle fonti termiche: ad
esempio, vapore di sterilizzazione a 140 °C, vapore per i mangani per la stiratura a 180 °C. In passato
l’uso di grandi quantità di vapore ha portato ad avere generatori termici solamente per la produzione
di vapore che veniva usato anche per altri scopi, compresi la produzione di acqua sanitaria, il
riscaldamento e il raffrescamento (mediante macchine frigorifere ad assorbimento) ambientale.
Oggi, dato l’alto costo di gestione dei generatori di vapore e delle reti di distribuzione, si
preferisce limitare l’uso del vapore ai soli casi necessari e quindi utilizzando normali caldaie per la
produzione di acqua sanitaria e per il riscaldamento ambientale.
Un aspetto interessante si ha, sempre negli ospedali, per l’utilizzo dell’energia elettrica.
Oltre al normale collegamento alla rete ENEL occorre sempre prevedere gruppi di continuità
con alimentazione preferenziale per le sale operatorie, le sale di terapia intensiva e per tutti i casi ove la
continuità del servizio è assolutamente necessaria.
Pertanto, oltre all’uso di gruppi di continuità elettronici di limitata durata, occorre prevedere veri
e propri gruppi elettrogeni alimentati con motori a combustione interna e capaci di assicurare l’energia
elettrica anche per lunghi periodi.
Pertanto risulta immediata la possibilità di usare questi motori per cogenerare anche l’energia
termica usata internamente negli ospedali. Al fine di dimensionare il sistema cogenerativo occorre
valutare correttamente i carichi termici, suddivisi per temperatura di utilizzo, e i carichi elettrici,
compresi i carichi per illuminazione.
La scelta del criterio di progetto può essere basata sia sul carico termico imposto che sul carico
elettrico imposto. Quest’ultima possibilità risulta conveniente nel caso di tariffa multioraria e in ogni
caso quando il costo di autoproduzione dell’energia elettrica risulta inferiore alla tariffa ENEL.
In genere è l’analisi economica e finanziaria che consiglia, caso per caso, il criterio migliore da
seguire in base ai tempi di ritorno più rapidi.

7.8.4 IL TERZIARIO
L’attuale tendenza alla concentrazione di attività commerciali in grossi centri ha creato un nuovo
mercato per la cogenerazione. La mole delle strutture e l’esigenza di climatizzazione sia invernale che
estiva, oltre alle altre esigenze impiantistiche interne (catena del freddo, banconi frigoriferi,…)
presentano ottime possibilità per la cogenerazione.
I criteri progettuali sono del tutto simili a quelli indicati per gli ospedali. Occorre quindi
esaminare correttamente i carichi termici ed elettrici (eventualmente prevedendoli mediante codici di
calcolo opportuni).
Occorre tenere presente che la variabilità climatica incide moltissimo sull’andamento dei carichi
sia termici che elettrici.
Un sistema sufficientemente semplice di cogenerazione è quello di recuperare il calore dei
condensatori di raffreddamento dei gruppi frigoriferi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 224

La variabilità delle tipologie edilizie e delle tipologie di carico non consentono, a priori, di
indicare il miglior sistema cogenerativo. Spesso considerazioni economiche (maggior investimento
iniziale) e di gestione limitano l’adozione di sistemi cogenerativi a soluzioni ibride di recupero degli
scarti energetici (ad esempio nei condensatori dei gruppi frigoriferi) o di riduzione degli sprechi.
Si tenga presente che per effetto del sistema di tariffazione ENEL non risulta spesso
conveniente autoprodurre energia elettrica nel periodo estivo (tariffa F4 per ore vuote in agosto)
perché più costosa di quella venduta dall’ENEL.
Ciò limita notevolmente la possibilità di ipotizzare sistemi total energy complessi a favore dei
sistemi cogenerativi ridotti dianzi esposti.

7.8.5 LA MICROGENERAZIONE
Per applicazioni al di sotto dei 100 kW elettrici (carico elettrico imposto) si hanno
microcogenerazioni che possono risultare convenienti quando si ha una frazione di energia termica
richiesta che si mantiene costante durante l’anno.
Ciò si ottiene, ad esempio, quando si ha un elevato consumo di acqua sanitaria e quindi questa
microcogenerazione si applica a servizi sportivi, camping, alberghi, …., e cioè la dove i servizi sono
non trascurabili rispetto al riscaldamento ambientale.
L’impianto di cogenerazione viene dimensionato sulla base del carico termico costante da
alimentare con motori endotermici a carico elettrico costante.
Sono stati immessi sul mercato da una decina d’anni sistemi total energy che utilizzano motori
automobilistici per produrre circa 40 kW elettrici e circa 100 kW termici.
Uno di questi sistemi è il TOTEM® originariamente predisposto dalla FIAT con un motore
endotermico derivato da quello della 127. Combinando più unità si possono ottenere potenze
elettriche e termiche anche considerevoli per applicazioni civili condominiali.

7.8.6 CENTRALI TERMO-ELETTRO-FRIGORIFERE


L’idea di base di un SET è di fornire contemporaneamente elettricità e calore e quindi di soddisfare,
direttamente o con l’inserimento di ausiliari o con scambi di rete (sistemi aperti) i fabbisogni globali
dell’utenza.
Una delle esigenze oggi in crescita è la produzione del freddo sia per l’accresciuta domanda nel
settore climatico ambientale sia per applicazioni commerciali ed industriali. Appare quindi logico
soddisfare le richieste di energia frigorifera sfruttando la produzione di calore dei sistemi cogenerativi.
In primo luogo si può pensare di usare un motore primo per trasformare energia primaria (data dal
combustibile) in energia meccanica per alimentare i compressori alternativi di una macchina a
compressione di vapori saturi per la produzione del freddo. Se poi il ciclo è reversibile si può anche
avere produzione di calore.
Questa applicazione consente di svincolarsi dall’uso diretto dell’energia elettrica sia per la
produzione di freddo che di caldo. Inoltre questo schema libera il sistema total energy dal rigido rapporto
fra produzione di energia elettrica ed energia termica.
La taglia dei sistemi appena descritti è medio-bassa (entro qualche centinaio di kW) e quindi il
motore primo è quasi sempre un motore endotermico e, al limite superiore, con piccole turbine a gas.
Un motore endotermico consente facilmente l’accoppiamento sia ad un compressore che ad un
generatore elettrico, come schematizzato in Figura 226.
Il generatore elettrico è di solito sempre accoppiato anche in assenza di carico elettrico (con
funzioni di volano) mentre il compressore viene accoppiato mediante innesto a frizione nel momento
di richiesta del carico.
Se il motore elettrico è di tipo asincrono può fungere anche da motore di alimentazione del
compressore nel momento in cui il motore primo si ferma (gusto e/o manutenzione) assicurando la
produzione del freddo. In questo modo il sistema si comporta come una centrale elettro-termo-
frigorifera capace di adattarsi a tutte le esigenze di carico.
Il compressore fa parte, come già accennato, di una pompa di calore (freddo-caldo) e quindi si
tratta di pompe endotermiche e non del tipo usuale con motori elettrici.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 225

Oggi si trovano sul mercato pompe di calore endotermiche alimentate da motori a combustioni
interna di derivazione automobilistica. Il compressore funziona con R22 o similare. Le taglie di
potenza termica totale (di ciclo inverso e di recupero termico) sono variabili da 150 a 400 kW con
gradini di 50 kW (vedasi il già citato TOTEM®). E’ possibile avere potenze maggiori mediante
parallelo di più moduli termici.
Il motore endotermico può essere alimentato anche con gas metano di rete e la regolazione del
numero di giri avviene mediante regolazione sulla valvola a farfalla. In questo modo si mantengono
1000÷1500 gpm con un rendimento, quasi costante, di circa il 31%. Combinando la variazione del
numero di giri con la parzializzazione dei cilindri del compressore (già vista nel capitolo sulle centrali
frigorifere) si possono avere variazioni di potenza fra il 15% ed il 100% della potenzialità nominale.

INNESTO A
FRIZIONE

G
GENERATORE MOTORE PRIMO

COMPRESSORE

Figura 226: Schema dell’accoppiamento di un motore primo con un compressore ed un generatore


Dal raffreddamento del motore e dai fumi di scarico si può ancora ricavare energia termica, allo
stesso modo di quanto già descritto nei sistemi cogenerativi usuali e pertanto la pompa di calore
endotermica presente un rendimento termico elevatissimo e superiore a quello relativa ad una buona
caldaia tradizionale ad alto rendimento nella stagione invernale.
Rispetto alle pompe di calore elettriche si hanno anche ulteriori vantaggi derivati, ad esempio,
dalla possibilità di sbrinamento (quando la temperatura esterna scende al di sotto dei 5°C) mediante
calore di recupero dal motore e non con inversione di ciclo, come avviene nelle pompe di calore
alimentate elettricamente.
Poiché le pompe di calore endotermiche funzionano con ciclo reversibile è possibile soddisfare
anche le esigenze del condizionamento estivo.
Per valutare la convenienza economica di questo sistema (che presenta un maggior costo iniziale
dovuto al motore primo a al generatore elettrico) si deve dimostrare che sottraendo al costo della
macchina il risparmio che si ottiene per la riduzione della potenzialità della centrale termica e dei
refrigeratori tradizionali si ottiene un vantaggio economico al limite pari a zero.
Si tenga presente che attualmente ci sono contributi previsti dalle leggi vigenti sia per
l’installazione (e quindi per l’acquisto) di pompe di calore endotermiche che una riduzione tariffaria
del gas metano di alimentazione. Tuttavia non è possibile avere certezza della durata di questi incentivi
né della loro estensione a tutti i settori civili e del terziario. Nel dimensionare questi tipi di sistemi si
ricordi che la potenza meccanica dei motori endotermici è pari a circa 1/5 della potenza termica totale
prodotta. Da confronti effettuati in casi reali (edifici commerciali con superfici variabili da 5000 a
12000 m2) si osserva che il risparmio energetico (in termini di energia primaria riferita al consumo
nominale dell’impianto in assenza di macchine endotermiche) varia dal 15 al 40% per potenze del
motore variabili da 150 a 1000 MW. Se si considera il consumo energetico per il condizionamento
estivo il sistema a pompa di calore endotermica consente di raggiungere risparmi maggiori con tariffe
multiorarie.
A conclusione di questo capitolo si fa osservare che l’attuale sistema legislativo introduce sgravi
fiscali per il combustibile utilizzato per la semplice cogenerazione termica – elettrica ma non per
l’alimentazione delle pompe di calore endotermiche. Questa assurda dissimmetria può in taluni casi
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 226

portare ad una convenienza maggiore installando un normale sistema cogenerativo che alimenta
elettricamente una pompa di calore elettrica reversibile.
Per taglie grandi (oltre 500 kW) si possono raggiungere economie del 15÷15% nel combustibile
e questo non per un fatto termodinamico ma solo per una sperequazione legislativa. SIC! L’uso
combinato delle pompe di calore endotermiche con accoppiamento al generatore elettrico richiede
un’analisi complessa che dipende fortemente dalla taglia, dall’andamento dei carichi (elettrici e termici)
e dal tipo di tariffazione elettrica utilizzata. I risparmi energetici e gestionali appaiono maggiormente
rilevanti, per grandi impianti, per sistemi cogenerativi mentre la redditività è maggiore per i sistemi a
pompa di calore endotermica alimentate a gas, malgrado la non favorevole agevolazione fiscale. Per i
sistemi alimentati elettricamente i sistemi cogenerativi, pur fornendo risparmi energetici maggiori,
pongono problemi di utilizzo della notevole quantità di energia termica recuperata.
7.9 LA TRIGENERAZIONE
Si indica con Trigenerazione la produzione combinata di elettricità, calore e freddo applicando i
criteri dell’energy cascading ai gas di scarico di un’unità motrice rotativa o alternativa. Per la
climatizzazione ambientale si utilizza una macchina ad assorbimento che fornisce caldo in inverno e
freddo in estate.
Per la parte termica si ha, in genere, anche richiesta di vapore e pertanto il sistema trigenerativo
utilizza un generatore di vapore a recupero alimentato con i gas di scarico di un motore primo del tipo
turbina a gas.
Lo schema impiantistico è dato in Figura 227. Il calore sensibile dei gas di scarico è recuperato
attraverso una caldaia a recupero (HRSG) per la produzione di vapore destinato alla copertura dei
fabbisogni termici, invernali ed estivi, questi ultimi attraverso un gruppo ad assorbimento.
La turbina è collegata tramite albero ad un alternatore per la produzione dell’energia elettrica. In
aggiunta si ha un circuito di emergenza, vedi Figura 229, verso cui scaricare il flusso di vapore
prodotto per smaltire il calore in caso di overhating oppure di overcooling dell’immobile.
Vapore alle utenze

Condensato dall'utenza
Gas caldi

Gas di scarico al camino


Alternatore Turbina a gas
Figura 227: Schema di un impianto per Trigenerazione

7.9.1 LA TURBINA A GAS


Le turbine a gas hanno subito in questi ultimi anni una grande evoluzione tecnologica dovuto
all’aumento delle potenze unitarie, al miglioramento dei rendimenti e alla riduzione delle emissioni di
NOx nell’ambiente. L’uso di quei motori primi in assetto cogenerativo favorisce la flessibilità
dell’impianto (E/C = 0.3÷1.5).
I tempi di avviamento sono oggi ridotti a pochi minuti e la caldaia a recupero inizia a produrre
vapore dopo circa venti minuti dall’avviamento della turbina.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 227

Questi tempi si dimezzano con avviamenti a caldo e sono bassissimi rispetto a quelli ottenuti
con turbine a vapore. Di soliti è presente un camino di by-pass dei gas di scarico e del post bruciatore
per rendere la turbina più flessibile e adatta alle applicazioni del terziario.

7.9.2 CALDAIA A RECUPERO, HRSG


I gas di scarico in uscita dall’espansore della turbina hanno ancora una temperatura di circa 500
°C. La caldaia a recupero HRSG (Heat Recovery Steam Generator) permette di trasferire parte del calore
sensibile dei gas all’acqua surriscaldata circolante in pressione all’interno dei tubi. Si ha così il recupero
del calore dei gas di scarico su cui si basa il concetto di cogenerazione.
L’acqua surriscaldata alimenta un corpo cilindrico dove si separa il vapore per l’utilizzazione.
Questo può essere ulteriormente surriscaldato per usi specifici.
Il punto critico della caldaia a recupero è nella sezione nella quale la differenza di temperatura
tra i gas di scarico e l’acqua di alimentazione è la più bassa possibile (pinch point).
Per uno scambio efficace occorre avere una differenza di temperatura minima di almeno 10 °C.
T

PINCH POINT

Figura 228: Diagramma di scambio gas di scarico acqua


Le caldaie a recupero sono caratterizzate, da un punto di vista costruttivo, da:
⋅ Superfici di scambio termico superiori alle corrispondenti caldaia radiative tradizionali;
⋅ Utilizzo di tubi alettati allo scopo di aumentare il coefficiente di scambio termico globale;
⋅ Pressioni del vapore generalmente inferiori a 40 bar al fine di avere un pinch point
sufficientemente elevato.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 228

Figura 229: Schema impiantistico di un trigeneratore


In Figura 229 si ha un ulteriore dettaglio impiantistico del trigeneratore. Questo tipo di impianto
di cogenerazione risulta conveniente quando si ha la presenza della contemporanea richiesta dei tre
carichi, ad esempio negli ospedali.

7.9.3 LA REGOLAZIONE DELL’IMPIANTO DI TRIGENERAZIONE


Nel caso in cui la richiesta di vapore non è costante nel tempo si possono avere due possibilità
di regolazione: una riguarda la turbina a gas e l’altra la caldaia a recupero.
Regolazione della Turbina a Gas mediante IGV
Si varia l’inclinazione delle pale mobili dello statore all’ingresso del compressore mediante un
dispositivo detto IGV (Inlet Guide Variable) per regolare la portata di aria in ingresso alla turbina a gas.
Se la portata in ingresso diminuisce la portata dei gas combusti varia all’incirca nello stesso rapporto
nel caso di temperatura di ingresso turbina costante.
La diminuzione della portata d’aria in ingresso produce una diminuzione analoga della quantità
di energia termica recuperabile.
Regolazione del carico mediante post combustione
Qualora il contenuto energetico dei fumi non è sufficiente per coprire i fabbisogni dell’utenza
allora si ricorre alla post combustione, possibile grazie all’eccesso d’aria tipica delle turbine a gas. La
post combustione può aumentare notevolmente la potenza termica della caldaia a recupero
permettendo, così, di rispondere alla domanda di calore facendo funzionare la turbina in condizioni di
funzionamento nominale.
Naturalmente il combustibile utilizzato per la post combustione non fornisce energia elettrica e
pertanto si riduce il risparmio energetico.
D’altra parte essa è utilizzata per i picchi di carico termico e consente di ridurre i costi di
investimento per le turbine di maggiori dimensioni.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 229

Nel caso la post combustione non sia sufficiente a far fronte alla variazione dei carichi allora si
possono utilizzare generatori tradizionali in parallelo ovvero importare energia dalle reti (sistemi
aperti).
Scelta della modalità della regolazione
La scelta delle opzioni di regolazione scaturisce da un compromesso tecnico-economico dovuto
alla grande mole di parametri da tenere in conto quali, ad esempio, il costo di investimento, il
diagramma del carico termico, il costo di vendita dell’energia elettrica (L/kWh), il costo del
combustibile. Se la turbina a gas è dimensionata, com’è solito farsi, per il carico medio allora sono
possibili entrambi i criteri di regolazione sopra indicati. Va però tenuto presente che attualmente,
malgrado il risvegliarsi dell’interesse per la cogenerazione mediante turbine a gas, si hanno ancora
pochi modelli disponibili sul mercato e pertanto la scelta del motore primo è spesso dettata anche da
un compromesso o da una scelta obbligata.
Macchine ad assorbimento
Nel caso della trigenerazione termica si utilizzano, dal lato termico, le macchine ad assorbimento
che garantiscono sia la produzione di acqua calda per riscaldamento che l’acqua fredda per il
condizionamento estivo. Le macchine ad assorbimento costituiscono una valida scelta impiantistica
anche in considerazione delle incertezze in materia di inquinamento e di costo dell’energia ed inoltre
trasformano un carico solitamente elettrico, quale quello frigorifero, in carico termico e quindi
migliorando il rapporto ET/EE.
Queste macchine richiedono solo una minima quantità di energia elettrica (per gli organi
ausiliari) e pertanto presentano una maggiore compatibilità ambientale rispetto ai compressori
frigoriferi alimentati elettricamente. Il loro costo iniziale di investimento è più elevato rispetto ai
frigoriferi tradizionali ma hanno, per contro, un minore costo di gestione e di manutenzione. Inoltre
non danno luogo a vibrazioni per assenza di parti in movimento e pongono pochi problemi di
installazione nei siti dove sono richieste. Le tipologie oggi maggiormente utilizzate sono:
⋅ Acqua ed ammoniaca;
⋅ Acqua e bromuro di litio.
Il funzionamento di queste macchine è semplice (vedi corso di Fisica Tecnica). In Figura 230 é
schematizzato lo schema impiantistico per una macchina del tipo acqua-ammoniaca.
La miscela acqua-ammoniaca si compone di acqua che fa da solvente e di ammoniaca che fa da
soluto (e quindi più volatile).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 230

NH3 30 °C La macchina ad assorbimento si


compone due due bocce dette
NH3 Condensatore - Generatore : ove cedendo una
Q3
quantità di calore Q3 si fa libe-
Q1 rare NH3 pura;
Generatore

Componenti Normali
H2O+NH3 - Assorbitore : ove l'NH3 pura si
130 °C ricombina, cedendo il calore Q4,
Laminazione

Laminazione
con la miscela impoverita prove-
niente dal Generatore.
Pompa

p1>p2 Linea delle


pressioni Per effetto del calore Q3 si separa
p2 dalla miscela H2O+NH3 l'ammonia-
ca quasi pura che segue poi le nor-
mali fasi del ciclo frigorifero :
45 °C Q2 - Condensazione;
Evaporatore - Laminazione;
Assorbitore - Evaporazione.
H2O+NH3 -10 °C La miscela arricchita nell'assorbitore
NH3
viene pompata nel generatore per un
Q4
nuovo ciclo interno.

Figura 230: Schema di una macchina frigorifera ad assorbimento


Per effetto del calore Q4 ceduto al serbatoio superiore (detto generatore) si libera NH3 allo stato
quasi puro e ad alta pressione. L'NH3 inizia il ciclo classico di condensazione, laminazione ed
evaporazione (presente anche nel ciclo frigorifero classico a compressione di vapori saturi).
All'uscita dell'evaporatore l'NH3 si ricombina nel serbatoio inferiore, detto assorbitore, con la
miscela di acqua-ammoniaca impoverita di ammoniaca e proveniente dal serbatoio superiore (tramite
una valvola di laminazione perché in basso c'è una pressione inferiore a quella presente in alto).
La reazione di assorbimento é esotermica e quindi cede calore Q4 all'esterno. Una pompa
provvede a riportare la miscela di acqua e ammoniaca ricomposta al serbatoio superiore (generatore) e
si riprende il ciclo.
In conclusione si hanno due cicli:
⋅ uno interno fra generatore e assorbitore;
⋅ uno esterno che produce nell'evaporatore l'effetto frigorifero.
Nella Figura 230 sono anche indicate le temperature tipiche di utilizzo della macchina proposta.
Oltre alla miscela acqua-ammoniaca si utilizzano oggi anche miscele acqua-bromuro di litio o anche acqua-
fluoruro di litio: in questi casi é l'acqua il componente più volatile.
Queste macchine hanno il pregio di funzionare a temperatura inferiore (circa 80 °C) rispetto a
quella ad ammoniaca (130÷150 °C). In alcuni casi si é anche utilizzata l'energia solare per alimentare il
generatore (Q3).
Le macchine ad assorbimento possono essere utilizzate anche con cascami termici (termine usato
per indicare i rifiuti termici nei processi di lavorazione industriale). L'utilizzo come pompa di calore
appare improprio: la temperatura del calore fornito al generatore é maggiore di quella del
condensatore anche se in minore quantità.
Negli impianti di trigenerazione, a causa dell’elevata temperatura raggiungibile con il vapore
nella caldaia a recupero, si utilizzano assorbitori con acqua e bromuro di litio a doppio effetto in modo
da potere avere temperature di ingresso all’assorbitore di 190 °C. Le macchine a doppio effetto sono
certamente più costose rispetto a quelle a singolo effetto ma presentano consumi specifici di vapore
inferiori e quindi hanno minori costi di esercizio.
Il bromuro di litio (LiBr) è un sale igroscopico che presenta grande affinità con il vapore acqueo
ed è usato in concentrazioni del 60÷64%. Non è un sale tossico e non è infiammabile. E’ leggermente
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 231

corrosivo per cui si aggiunge lo 0,4% di nitrato di litio (LiNO3) per disinibirne l’aggressività in assenza
di aria. Le macchine a doppio effetto dispongono di due generatori e di due scambiatori di calore per
la soluzione. I generatori sono detti ad alta pressione (comunque inferiore a quella atmosferica con
uno scambiatore ad alta temperatura) e a bassa pressione (con uno scambiatore a bassa temperatura).
Il fluido frigorigeno è l’acqua che segue il ciclo canonico (condensazione, laminazione,
evaporazione) per poi essere assorbita nuovamente nel LiBr contenuto nell’assorbitore. Mediante una
pompa di circolazione si riporta la miscela nel generatore di alta pressione dove si ha una prima
separazione del vapore acqueo. Da questo generatore si passa in quello a bassa pressione e
temperatura ove si ha una ulteriore fase di separazione del vapore acqueo che prosegue il ciclo
frigorifero. La separazione dei due generatori (ad alta e bassa temperatura) consente di ottimizzare i
consumi di energia in base ai livelli termici richiesti.
Le macchine ad assorbimento hanno la grande capacità di adattarsi facilmente alle fluttuazioni di
carico e quindi presentano una buona flessibilità impiantistica potendo variare la loro potenzialità
teoricamente nell’intervallo 0÷100% con minime variazioni del COP.
La regolazione della capacità frigorifera si ottiene variando la concentrazione della soluzione
nell’assorbitore in due modi, spesso anche in combinazione fra loro:
⋅ variando la quantità di vapore o la portata d’acqua surriscaldata che attraversa il generatore (e
quindi regolando l’energia termica fornita alla macchina);
⋅ inviando nell’assorbitore una soluzione più diluita del generatore.
Al diminuire del carico termico anche la temperatura dell’acqua fredda in uscita tende a crescere
per cui una sonda di temperatura comanda l’inizio della chiusura della valvola modulante sul vapore di
alimentazione o della valvola a tre vie dell’acqua surriscaldata. In questo modo si rallenta il ripristino
della soluzione concentrata nel generatore e pertanto la quantità di refrigerante (acqua) che torna
all’evaporatore diminuisce e quindi scende anche il livello di acqua in esso presente.
Quando il carico scende a circa il 50% della capacità di progetto si può anche ridurre la portata
di soluzione di LiBr al generatore e ciò fa diminuire anche il consumo di energia poiché viene richiesta
una minore quantità di vapore al generatore.
Un problema a cui può andare incontro una macchina ad assorbimento è la cristallizzazione del
LiBr nel generatore. Questo fenomeno è irreversibile e non produce danni meccanici alla macchina
ma solo una riduzione della capacità frigorifera. La cristallizzazione avviene per diversi motivi fra i
quali:
⋅ perdita di vuoto;
⋅ temperatura dell’acqua di condensazione troppo bassa;
⋅ arresto improvviso e prolungato della macchina per mancanza di corrente;
⋅ infiltrazioni di incondensabili nel circuito in quantità superiore alla capacità di spurgo;
⋅ arresto della macchina senza che venga continuato il processo di diluizione della soluzione di
LiBr nell’assorbitore;
⋅ cariche errate di refrigerante (acqua) e della soluzione nel circuito della macchina.
Nelle moderne macchine ad assorbimento sono inseriti numerosi accorgimenti atti a ridurre o
ad eliminare il pericolo della cristallizzazione anzidetta. In ogni caso è sempre bene avere personale
tecnico opportunamente addestrato alla gestione di questi impianti.

7.9.4 COSTI DELL’IMPIANTO DI TRIGENERAZIONE


Spesso si ha il problema di sostituire gli impianti esistenti con questi cogenerativi. In altri casi
(invero ancora pochi e limitati) occorre affrontare il progetto di trigenerazione ex novo partendo da
considerazioni non solo termodinamica (certamente positive) ma anche economiche.
Occorre affrontare un’analisi costi benefici considerando fra i costi:
⋅ Costo fisso di impianto
⋅ Consumi di combustibile dell’unità motrice (dalla simulazione)
⋅ Manutenzione e gestione (aggiuntivi)
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 232

⋅ Interessi passivi sul debito


Fra i benefici si hanno:
⋅ Costo evitato sull’acquisto dell’energia elettrica
⋅ Costo evitato del combustibile di alimentazione delle caldaie
⋅ Ricavi dalla vendita delle eccedenze di produzione elettrica al netto delle imposteAlla base delle scelte
economiche ed impiantistiche occorre effettuare la scelta della taglia ottimale della turbina a gas e la
valutazione del risparmio di gestione sulla fattura energetica rispetto all’impianto esistente, nel caso di
sostituzione di vecchio impianto, a rispetto al sistema di confronto, SC, nel caso di nuovo impianto.

7.9.5 SCELTA DELLA TAGLIA DELL’IMPIANTO


La prima decisione è, quindi, la taglia da adottare per far fronte alla richiesta energetica
dell’utenza. La scelta è ancora fra la tipologia a carico elettrico imposto o a carico termico imposto. Vediamo
brevemente quali sono le problematiche che ne scaturiscono.
Carico Elettrico Imposto (Power Driven)
In questa condizione si dimensiona l’impianto in modo da soddisfare con il motore primo tutto
il carico elettrico dell’utenza. Il calore recuperato dai gas di scarico varia con la domanda di elettricità.
E’ questa una soluzione utile quando si hanno carichi elettrici costanti durante tutto l’anno o
comunque presentano fluttuazioni piccole rispetto al valore medio.
Se la scelta del gruppo motore è fatta sulla massima potenza elettrica richiesta allora la turbina a
gas si troverà a lavorare al di sotto delle condizioni nominali quando il carico elettrico risulta inferiore
a quello massimo e ciò comporta una riduzione, anche sensibile, del rendimento termodinamico della
turbina a gas.
Inoltre, a causa della diretta proporzionalità del calore recuperato con la produzione di energia
elettrica, le variazioni di carico elettrico debbono essere compensate da variazione di pari segno del
carico termico. Qualora queste condizioni non si verifichino allora occorre ricorrere, se si è in difetto
di energia termica recuperata, ad fonti energetiche supplementari (generatori termici ausiliari) ovvero,
se si è in eccesso di energia termica recuperata, ad una dispersione nell’ambiente dell’esubero
energetico mediante scambiatori di calore raffreddati con aria ambiente.
Carico termico Imposto (Heat Driven)
In questo caso si dimensiona il motore primo e quindi la taglia dell’impianto per soddisfare tutto
il carico termico dell’Utenza. Si ha il caso duale rispetto al precedente e gli eccessi o i difetti di
produzione di energia elettrica conseguenti alle variazioni del carico termico possono essere
compensati con interscambi positivi o negativi dalla rete ENEL (sistema aperto). Potendo avere la
post combustione per la fornitura di energia termica54 in eccesso da recuperare le eventuali maggiori
richieste del carico termico possono essere soddisfatte rapidamente ed efficacemente. Pertanto la
scelta della taglia di impianto va eseguita sui valori medi dei carichi termici.
In Figura 231 si ha una schematizzazione di quanto appena detto: la sezione inferiore della
figura è coperta dalla configurazione nominale della turbina mentre la parte superiore, dovuta ad una
maggiore richiesta del carico termico, è soddisfatta mediante il post combustore.
Naturalmente l’uso del post combustore penalizza il rendimento totale di cogenerazione poiché
non comporta maggiore produzione di energia elettrica ma rappresenta un modo efficace di controllo
del carico termico senza dover far ricorso, fin dove è possibile, a generatori ausiliari e quindi con una
riduzione degli investimenti iniziali.
Scelta della Turbina a Gas
Nell’ipotesi, per altro molto spesso rispettata nei casi pratici, di dimensionamento a carico termico
imposto, la turbina deve garantire il soddisfacimento del carico termico durante tutto l’anno. Resta

54 Si ricordi che la post combustione agisce a valle della turbina e quindi non produce effetti sulla produzione di

energia elettrica ottenuta dal generatore elettrico comandato dall’albero motore della turbina.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 233

ancora da valutare se la scelta di un grosso gruppo turbogas, e quindi di grande produzione di energia
elettrica, sia conveniente alla luce degli andamenti di mercato dell’energia elettrica in eccesso.
Si verifica, infatti, che quanto più il punto di funzionamento nominale della turbina è prossimo
alla domanda di calore richiesta dall’utenza tanto più elevata è la produzione nominale di potenza
elettrica. Il costo del motore primo (turbina a gas) rappresenta all’incirca il 40% del costo totale
dell’investimento e pertanto esagerare nella taglia potrebbe comportare il rischio di investimento non
economico. Inoltre la variabilità di regime di funzionamento della turbina comporta anche una perdita
di rendimento che riduce ulteriormente la convenienza economica dell’investimento.
A priori non è possibile dare una regola fissa per la scelta del motore primo ma è l’analisi
economica (cash flow) nel periodo di vita previsto dell’impianto che deve indicare, in base alla
variazione dei carichi termici ed elettrici reali dell’utenza, quale è la migliore scelta impiantistica.
In Figura 232 si ha la schematizzazione di quanto detto: al variare della potenza nominale della
turbina varia il cash flow attualizzato (NTP, Net Present Value) di una determinata applicazione e
pertanto il valore massimo di NTP si determina per un valore della potenza ottimale intermedio fra la
potenza minima e la massima ammissibile.
Q
C A R IC O C O N P O S T C O M B U S T IO N E

C A R IC O D I B A S E

O re

Figura 231: Copertura del carico termico con il post combustore

NTP
NTPmax

Potenza nominale della turbina

Pot min Pot Pot max


ammissib ileottimal e ammissibile

Figura 232: Andamento del Cash Flow attualizzato al variare della potenza della turbina

7.9.6 ANALISI ECONOMICA


Gli indici economici da prendere in considerazione sono quelli già visti in precedenza e in
particolare i tempo di pay back e il VAN a 20 anni (periodo canonico per questo tipo di investimenti).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 234

Fra le voci da considerare nell’analisi economica vi è il costo fisso di impianto dovuto alla turbina a
gas. Il costo di mercato di questo motore primo varia molto in funzione del tipo di turbina e della
potenza nominale.
In Figura 233 si ha una curva che indica il costo medio specifico per turbine commerciali con
potenze nominali variabile da 1 MWe a 60 MWe. Questa curva è stata ricavata mediando i listini
commerciali (anno 1999) dei fornitori di turbine a gas di varia potenzialità.
Questi costi sono suscettibili di variazione sia per contingenze economiche sia per innovazione
tecnologica possibile in caso di domanda crescente.
Il costo del combustibile è una delle variabili più imprevedibile di tutta l’analisi economica
poiché questo elemento varia quasi giornalmente, come gli avvenimenti degli ultimi sei mesi ci hanno
mostrato, in funzione di contingenze anche politiche, dell’andamento dei cambi e dell’umore dei
fornitori.
Si pensi, ad esempio, che all’inizio del 1999 il gasolio costava 1200 L/Litro circa mentre oggi
costa circa €/L 0.92 (1800 L/Litro). E fra un anno? Potrà costare 2,00 €/Litro o anche più: chi può
prevedere un andamento certo di questo parametro?
1 .10
6
5
9.578×10

9 .10
5

8 .10
5

y ( x)
7 .10
5

6 .10
5

5
5.077×10 5 .105
1 .10 2 .10 3 .10 4 .10 5 .10 6 .10
4 4 4 4 4 4
0
3 x 4
1×10 6×10
Figura 233: Costo medio specifico, y, di una turbina a gas in funzione della potenza nominale (x in kWe)
Anche il costo di acquisto e di vendita dell’energia elettrica variano in modo non del tutto
indipendenti dal costo del combustibile per via del famigerato sovrapprezzo termico che lega la tariffa
elettrica al costo del petrolio. I costi di acquisto variano da 250 a 320 L/kWh.
Simulazione dell’Impianto
Per valutare le prestazioni di questo impianto si utilizzano codici di calcolo del tipo GATE55
CYCLE la cui rappresentazione è data in Figura 234.
Il programma consente di simulare impianti esistenti o in fase di progettazione in modo
descrittivo, combinando una interfaccia grafica con modelli di analisi termodinamica dettagliati di tutti
i processi descritti (turbina, scambiatori di calore, pompe,…).
Il codice GATE CYCLE è stato predisposto per simulare impianti contenenti turbine a gas di
costruttori diversi56 e quindi svincolando i progettisti dalla necessità di utilizzare i codici proprietari dei
costruttori che valgono, come si intuisce, solo per i modelli da loro forniti. Nel 1988 il codice ha
integrato i cicli a vapore e da questo deriva il nome GATE CYCLE.

55 Acronimo di Gas Turbine Evaluation.


56 Il codice ha al proprio interno un corposo data base sui modelli di turbine esistenti con tutte le loro
caratteristiche meccaniche e termodinamiche,
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 235

Nel 1993 è stata aggiunta anche la possibilità di usare caldaie tradizionali e quindi si ha oggi uno
strumento valido per simulare qualunque tipo di impianto di produzione di potenza. Possono essere
studiate diverse tipologie di impianto, dai più semplici basati su cicli a gas a quelli più complessi basati
su cicli combinati a livelli multipli di pressione. E’, inoltre, possibile affrontare problemi di repowering e
di cogenerazione. L’uso interattivo del codice, mediante icone rappresentative di componenti di
impianto, è facilitato anche da un controllo delle connessioni effettuato dallo stesso programma in
base alle caratteristiche dei componenti selezionati.
Mediante alcune macro si possono poi simulare condizioni di funzionamento particolari. Le macro
stabiliscono un legame tra le variabili presenti nel modello simulato e, ad esempio, si possono scrivere
macro che combinano certe variabili con funzioni definite dall’operatore. Una macro può calcolare il
consumo aggiuntivo di combustibile nel post bruciatore in funzione delle portate di acqua calda agli
scambiatori della caldaia a recupero.
Con questo codice si possono simulare i rendimenti, le quantità di energia termica ed elettrica
prodotta ed effettuare confronti fra le prestazioni in varie configurazioni nel periodo di vita ipotizzato
e per gli andamenti temporali dei carichi disponibili o ipotizzati (anche in questo caso mediante codici
di simulazione del tipo già citato).

Torre evaporativa

S27 CT1
S26

S28

S25

HX3
PUMP3 S29

V1
S9
Vapore risc. a 10 bar e 180 C

S17 S18

S24
HX2
Ritorno del vapore da risc. a 165 C S11

SP1
S8
Vapore out verso il generatore: 170 C, 8bar

S20 S21
S5

Vapore macch. ad assorb: 90 C, 8 bar HX1


M1
S14

S7
S6 S22
S1 S16
Fumi al camino
S12
S13
S2 S3 S4

GT1

DUCT1 DB1 SPHT1


ECON1
EVAP1
Turbina post-bruciatori
PUMP2

Caldaia a recupero

Figura 234: Rappresentazione di un impianto di Trigenerazione con GATE CYCLE


Il codice può funzionare in modalità on design ed off design. Nel primo caso vengono stabilite le
caratteristiche operative e fisiche di un componente (ad esempio il rendimento della turbina, la
superficie di uno scambiatore di calore, …) mentre nel secondo modo viene valutata la performance
dell’intero impianto al variare delle condizioni ottimali, del carico termico e del carico elettrico.
Il codice GATE CYCLE consente di valutare anche le emissioni gassose utilizzando programmi
specifici di libreria per la composizione dei gas di combustione e di scarico in aria.
In questo modo è possibile conoscere le specie chimiche emesse in camino anche ai fini della
valutazione di impatto ambientale (vedi nel prosieguo). Una simulazione per un caso concreto con
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 236

diverse turbine a gas ha fornito i risultati riportati in Figura 235. In particolare per una potenza di 2.7
MW si hanno i risultati indicati in Figura 236 al variare del costo dell’energia.
A conclusione di questo capitolo si vuole rimarcare la complessità del problema della
progettazione di un impianto di trigenerazione e, in generale, di cogenerazione. Occorre evitare
sempre di sovradimensionare gli impianti perché questo riduce o annulla addirittura la loro
convenienza economica vanificando l’investimento. Spesso più che di un errore progettuale di calcolo
si tratta di un errore basato sull’ignoranza o sul timore di sottodimensionare gli impianti. Comunque
una scelta sbagliata della taglia si rivela un errore grave perché irreversibile e quindi irrecuperabile per
l’impianto.
Di certo la progettazione in oggetto non è basata su regole certe ma si tratta di una
progettazione complessa che richiede la sintesi di più algoritmi risolutivi e di più competenze
(tecniche, economiche, chimico-fisiche, …).
30
25
20
15
VAN [G£]

10
5
0
-5 120 150 170 200
-10
[£ / kWh]
-15
-20

2,4 MW 3,3 MW
4,5 MW 2,7 MW

Figura 235: VAN per varie potenze di turbine a gas installate

25,000 5,000

20,000 4,000
VAN [G£]

15,000 3,000
anni

10,000 2,000

5,000 1,000

- -
120 150 170 200
[£/kWh]

VAN TPB

Figura 236: Andamento del VAN e TPB al variare del costo energetico
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 237

8. COGENERAZIONE NELL’INDUSTRIA
8.1 RIFERIMENTI NORMATIVI
77/714/CEE: “Raccomandazione del Consiglio, del 25 ottobre 1977, concernente
l’istituzione negli Stati membri di organi o comitati consultivi per promuovere la produzione
combinata di calore e di energia nonché la valorizzazione del calore residuo”
Il Consiglio delle Comunità Europee ritiene che si può utilizzare più razionalmente l’energia
ricorrendo maggiormente alla produzione combinata di calore ed energia e valorizzando il calore
residuo nei settori dell’industria, della produzione di elettricità e dell’erogazione di calore a distanza.
Invita inoltre gli Stati membri ad individuare e rimuovere gli ostacoli legislativi, amministrativi o
tariffari che si oppongono allo sviluppo della produzione combinata di calore e di energia destinati ad
essere erogati all’industria.

Legge 9 gennaio 1991, n. 9 "Norme per l'attuazione del nuovo Piano energetico
nazionale: aspetti istituzionali, centrali idroelettriche ed elettrodotti, idrocarburi e geotermia,
autoproduzione e disposizioni fiscali" (S.O. alla G.U. n. 13 del 16 gennaio 1991 – Serie
Generale)
L'art. 22 stabilisce che la produzione di energia elettrica a mezzo di impianti combinati di
energia e calore non è soggetta alle autorizzazioni previste dalle normative di settore ma è sufficiente
una semplice comunicazione al Ministero dell'Industria e all'UTF competente per territorio.
L'eccedenza di produzione può essere ceduta all'ENEL o alle imprese produttrici e distributrici.

Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 18 dicembre 1997 concernente una
strategia comunitaria per promuovere la produzione combinata di calore ed elettricità (GUCE
8 gennaio 1998, pag. C 4/01)
Si afferma che “la produzione combinata calore/energia elettrica costituisce un impiego
efficiente delle risorse energetiche e può pertanto contribuire in modo sostanziale alla riduzione delle
emissioni di CO2”.
Si indica anche agli Stati membri che l’obiettivo da raggiungere “è l’elaborazione di una
strategia per assicurare il raddoppio della quota globale della cogenerazione nella Comunità entro il
2010”.

Seconda comunicazione nazionale dell’Italia alla Convenzione-quadro sui cambiamenti


climatici, Roma novembre 1998
Al paragrafo 5.3.6 si riconosce “il ruolo fondamentale e l’importanza crescente della
cogenerazione per l’approvvigionamento del paese di energia elettrica con caratteristiche di elevata
efficienza energetica e basso inquinamento ambientale”.

D.Lgs. 16 marzo 1999, n. 9 (decreto Bersani) “Attuazione della direttiva 96/92/CE


recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica” (G.U. n.75 del 31 marzo
1999)
La cogenerazione viene definita come la produzione combinata di energia elettrica e calore alle
condizioni definite dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas, che garantiscano un significativo
risparmio di energia rispetto alle produzioni separate. (art. 2, comma 8).
Il decreto stabilisce una serie di agevolazioni per l’utilizzo delle fonti rinnovabili e della
cogenerazione:
art. 3, comma 3: obbligo di utilizzazione prioritaria dell’energia elettrica prodotta da fonti
energetiche rinnovabili e di quella prodotta da cogenerazione.
art. 11, commi 1 e 2: obbligo di produzione (o alternativamente di acquisto) di una certa quota
(2%) di energia rinnovabile da parte degli autoproduttori.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 238

D.Lgs. 23 maggio 2000, n. 164 (decreto Letta) “Attuazione della direttiva 98/30/CE
recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell’articolo 41 della
legge 17 maggio 1999, n. 144” (G.U. n. 142, 20 giugno 2000)
Art. 22, comma 1, lett. b: Le imprese che acquistano gas per la cogenerazione sono considerate
“cliente idoneo”, indipendentemente dal livello di consumo annuale e limitatamente alla quota di gas
destinata a tale utilizzo.

Decreto 24 aprile 2001 “Individuazione degli obiettivi quantitativi nazionali di risparmio


energetico e sviluppo delle fonti rinnovabili di cui all’art.16, comma 4, del decreto legislativo
23 maggio 2000, n. 164”
Decreto 24 aprile 2001 “Individuazione degli obiettivi quantitativi per l’incremento
dell’efficienza energetica negli usi finali ai sensi dell’art.9, comma 1, del decreto legislativo 16
marzo 1999, n. 79” (S.O. n. 125 del 22 maggio 2001 alla G.U. n. 117 del 22 maggio 2001)
Questi due decreti attuano le disposizioni previste dai citati decreti di liberalizzazione del
mercato elettrico e del gas e vincolano i distributori energetici a conseguire degli obiettivi
progressivamente crescenti di innalzamento dell’efficienza energetica.
Le possibilità di intervento sono indicate in tabelle allegate ai decreti le quali definiscono un
ampio menù di soluzioni tecnologiche: tra queste vengono esplicitamente menzionate le sueguenti
tipologie di interventi:
• la climatizzazione diretta tramite teleriscaldamento da cogenerazione
• la cogenerazione e i sistemi di microcogenerazione come definiti dall’Autorità per l’energia
elettrica e il gas
• uso del calore geotermico a bassa entalpia e del calore da impianti cogenerativi, geotermici o
alimentati da prodotti vegetali e rifiuti organici e inorganici per il riscaldamento di ambienti e per
la fornitura di calore in applicazioni civili.
Il varo dei decreti offrirà dunque la possibilità di far decollare programmi di incentivazione per
la diffusione della cogenerazione e della microcogenerazione.

Autorità per l’energia Elettrica e il Gas: Deliberazione 19 marzo 2002, n. 42 “Condizioni


per il riconoscimento della produzione combinata di energia elettrica e calore come
cogenerazione ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79”
(GU n. 79 del 4 aprile 2002, pag. 58)
La Deliberazione definisce come impianti di cogenerazione quelli che soddisfano
contemporaneamente due condizioni:
• un risparmio energetico del 10% per ogni nuova sezione dell'impianto
• una produzione di almeno il 15% di energia termica sul totale della produzione complessiva
(termica più elettrica).
Le due condizioni variano in funzione di altri parametri (potenza della sezione dell'impianto,
combustibili utilizzati, destinazione dell'energia prodotta).

Decreto del Ministero dell'ambiente 31 luglio 2003 "Modifiche al decreto 4 giugno 2001,
n. 467, relativo all'individuazione dei programmi nazionali, previsti ex art. 3 del decreto n. 337
del 2000" (G.U. n. 260 dell'8 novembre 2003)
Vengono definiti nuovi programmi nazionali di ricerca per la riduzione delle emissioni ai fini del
raggiungimento degli obiettivi del protocollo di Kyoto. Tra gli altri viene approvato il sottoprogramma
3/i "Diffusione dei sistemi ad alta efficienza di microcogenerazione diffusa di energia elettrica e
calore" (Accordo programmatico con Confindustria), art. 2, comma 1.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 239

Direttiva 2002/91/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2003 sul
rendimento energetico nell'edilizia
Tra le altre disposizioni, questa Direttiva richiede agli Stati membri di provvedere affinchè, per
gli edifici nuovi la cui metratura utile totale superi i 10.000 m2, sia valutata la fattibilità tecnica,
ambientale ed economica dell'installazione di sistemi alternativi quali la cogenerazione prima dell'inizio
dei lavori di costruzione. (art. 5).
Gli Stati membri dovranno adeguarsi entro il 4 gennaio 2006.

D. Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 "Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla
promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato
interno dell'elettricità" (s.o. G.U. n. 25 del 31 gennaio 2004))
L'art. 5, comma 1 prevede la nomina di una commissione di esperti che, entro un anno
dall'insediamento, predisponga una relazione nella quale siano indicate, tra l'altro, le condizioni per la
promozione prioritaria degli impianti cogenerativi di potenza elettrica inferiore a 5 MW (lettera g).
L'art. 5 tratta la valorizzazione energetica delle biomasse, dei gas residuati dai processi di depurazione
e del biogas quindi è ragionevole pensare che gli impianti cogenerativi di cui si parla alla lettera g)
siano quelli alimentati da tali fonti.

Autorità per l’energia Elettrica e il Gas: Delibera 30 dicembre 2003, n. 168 “Condizioni
per l’erogazione del pubblico servizio di dispacciamento dell’energia elettrica sul territorio
nazionale e per l’approvvigionamento delle relative risorse su base di merito economico, ai sensi
degli articoli 3 e 5 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79” (GU – Supplemento ordinario
n. 16 del 30.1.04), poi integrata dalla successiva Delibera AEEG n. 71/2004
La Delibera stabilisce le condizioni per la priorità di dispacciamento delle unità di
cogenerazione, nel primo periodo di esercizio delle stesse, in maniera da partecipare al sistema delle
offerte avviato con la Borsa elettrica.

Direttiva 2004/8/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell'11 febbraio 2004 sulla
promozione della cogenerazione basata su una domanda di calore utile nel mercato interno
dell'energia e che modifica la direttiva 92/42/CE (GUCE L 52 del 21.2.2004, pag. 50)
La Direttiva si propone di creare un quadro utile alla promozione della cogenerazione al fine di
accrescere l'efficienza energetica e migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti nel settore
energetico.
La cogenerazione è definita come "la generazione simultanea in un unico processo di energia
termica ed elettrica e/o di energia meccanica" (art. 3, lettera a). Al di sotto di 50 kWe si parla di
microcogenerazione, tra 50 kWe e 1 MWe si parla di piccola cogenerazione.
Viene anche definita la cogenerazione ad alto rendimento che si ha quando l'impianto fornisce
un risparmio di energia primaria pari almeno al 10% rispetto ai valori di riferimento per la produzione
separata di elettricità e calore. Gli Stati membri dovranno adeguarsi entro il 21 febbraio 2006.

Legge 23 agosto 2004, n. 240 "Riordino del settore energetico, nonché delega al
Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia" (G.U. n. 215 del
13.09.2004)
All'art. 1, comma 85 vengono definiti gli impianti di microgenerazione come "impianto per
la produzione di energia elettrica, anche in assetto cogenerativo, con capacità di generazione non
superiore a 1 MW".
Al successivo comma 86 viene stabilito che gli impianti di microgenerazione sono soggetti a
norme autorizzative semplificate.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 240

8.2 DELIBERAZIONE 19 MARZO 2002: Condizioni per il riconoscimento della produzione


combinata di energia elettrica e calore come cogenerazione ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del
decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (deliberazione n. 42/02)
L’AUTORITA’PER L’ENERGIA ELETTRICA E IL GAS
• Nella riunione del 19 marzo 2002,
Premesso che:
- l’articolo 2, comma 8, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale, Serie generale, n. 75 del 31 marzo 1999 (di seguito: decreto legislativo n. 79/99)
prevede che l’Autorità per l’energia elettrica e il gas (di seguito:
- Autorità) definisce le condizioni alle quali la produzione combinata di energia elettrica e
calore è riconosciuta come cogenerazione, e che tali condizioni devono garantire un
significativo risparmio di energia rispetto alle produzioni separate;
- - l’articolo 3, comma 3, ultimo periodo, del decreto legislativo n. 79/99 stabilisce che
l’Autorità prevede, nel fissare le condizioni atte a garantire a tutti gli utenti della rete la
libertà di accesso a parità di condizioni, l’imparzialità e la neutralità del servizio di
trasmissione e dispacciamento, l’obbligo di utilizzazione prioritaria dell’energia elettrica
prodotta a mezzo di fonti energetiche rinnovabili e di quella prodotta mediante
cogenerazione;
- - l’articolo 11, comma 2, del decreto legislativo n. 79/99 prevede che i titolari degli impianti
di cogenerazione sono esonerati dall’obbligo di immettere nel sistema elettrico nazionale, a
partire dall’anno 2002, energia elettrica prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili
entrati in esercizio dopo il 31 marzo 1999, gravante sui produttori e sugli importatori di
energia elettrica da fonti non rinnovabili con produzioni e importazioni annue eccedenti i
100 GWh;
- - l’articolo 11, comma 4, del medesimo decreto legislativo dispone che la società Gestore
della rete di trasmissione nazionale Spa assicura la precedenza all’energia elettrica prodotta
da impianti che utilizzano, nell’ordine, fonti energetiche rinnovabili, sistemi di
cogenerazione e fonti nazionali di energia combustibile primaria;
- - l'articolo 22, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale, Serie generale, n. 142 del 20 giugno 2000 (di seguito: decreto
legislativo n. 164/00) prevede l’attribuzione della qualifica di cliente idoneo alle imprese che
acquistano il gas per la cogenerazione di energia elettrica e calore, indipendentemente dal
livello di consumo annuale, e limitatamente alla quota di gas destinata a tale utilizzo;
Visti:
⋅ - il decreto legislativo n. 79/99;
⋅ - il decreto legislativo n. 164/00;
⋅ - il decreto del Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, di concerto con il
Ministro dell’ambiente 11 novembre 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, Serie generale, n.
292 del 14 dicembre 1999 (di seguito: decreto 11 novembre 1999);
⋅ - il decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445;
⋅ - il decreto del Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato 9 maggio 2001 recante
disciplina del mercato elettrico, pubblicato nel Supplemento ordinario, n. 134 alla Gazzetta
Ufficiale, Serie ordinaria, n. 127 del 4 giugno 2001 (di seguito: decreto ministeriale 9 maggio
2001);
Visti:
⋅ - il documento per la consultazione recante Criteri e proposte per la definizione di
cogenerazione e per la modifica delle condizioni tecniche di assimilabilità degli impianti che
utilizzano fonti energetiche assimilate a quelle rinnovabili diffuso dall’Autorità il 3 agosto 2000;
⋅ - il documento per la consultazione recante Condizioni per il riconoscimento della produzione
combinata di energia elettrica e calore come cogenerazione diffuso dall’Autorità il 25 luglio
2001;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 241

⋅ - le osservazioni e le proposte inviate dai soggetti interessati all’Autorità in seguito alla diffusione
di due soprarichiamati documenti per la consultazione;
Considerato che:
⋅ - l’Autorità intende definire le condizioni tecniche che devono essere soddisfatte dagli impianti
per la produzione combinata di energia elettrica e calore affinché tali impianti possano avvalersi
dei benefici e dei diritti descritti in premessa come previsti dai decreti legislativi n. 79/99 e n.
164/00;
⋅ - il risparmio di energia conseguibile mediante la produzione combinata di energia elettrica e di
calore deve essere valutato con riferimento a soluzioni tecnologiche caratterizzate da specifiche
taglie di impianto e tipi di combustile utilizzati;
⋅ - l’evoluzione tecnologica dei componenti termici ed elettromeccanici utilizzati nella
realizzazione degli impianti con produzione combinata di energia elettrica e calore richiede che
vengano periodicamente aggiornati i parametri che individuano le sopra richiamate condizioni
tecniche;
Ritenuto che:
⋅ - gli impianti di cogenerazione contribuiscano alla promozione della concorrenza nell’attività di
generazione elettrica, assicurando un significativo risparmio di energia primaria rispetto alle
produzioni separate delle stesse quantità di energia elettrica e termica e riducendo le
conseguenze ambientali negative, a parità di altre condizioni;
⋅ - le norme per la produzione combinata di energia elettrica e di calore debbano favorire
soluzioni tecnologiche che comportano un significativo risparmio di energia rispetto alle
produzioni separate, escludendo soluzioni orientate alla produzione di sola energia elettrica o di
sola energia termica per una quota significativa dell’anno solare;
⋅ - sia opportuno fare riferimento agli anni solari nel riconoscimento della produzione combinata
di energia elettrica e di calore, come previsto dall’articolo 3, comma 1, del decreto 11 novembre
1999;
⋅ - sia opportuno fare riferimento alle sezioni degli impianti di produzione combinata di energia
elettrica e calore con potenza nominale non inferiore a 10 MVA, in coerenza con la “Disciplina
del mercato elettrico” predisposta dalla società Gestore del mercato elettrico Spa e approvata
con decreto del Ministro delle attività produttive del 9 maggio 2001;

DELIBERA
Articolo 1

Definizioni
1.1 Ai fini del presente provvedimento, si applicano le definizioni di cui all'articolo 2 del decreto
legislativo 16 marzo 1999, n. 79, e all'articolo 2, lettera g), del decreto legislativo 23 maggio 2000, n.
164, nonché le seguenti:
⋅ a) Autorità è l'Autorità per l'energia elettrica e il gas, istituita con legge 14 novembre 1995, n.
481;
⋅ b) decreto legislativo n. 79/99 è il decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79;
⋅ c) decreto legislativo n. 164/00 è il decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164;
⋅ d) impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore è un sistema integrato che converte
l’energia primaria di una qualsivoglia fonte di energia nella produzione congiunta di energia
elettrica e di energia termica (calore), entrambe considerate effetti utili, conseguendo, in
generale, un risparmio di energia primaria ed un beneficio ambientale rispetto alla produzione
separata delle stesse quantità di energia elettrica e termica. In luogo della produzione di energia
elettrica in forma congiunta alla produzione di energia termica, è ammessa anche la produzione
di energia meccanica. La produzione di energia meccanica o elettrica e di calore deve avvenire in
modo sostanzialmente interconnesso, implicando un legame tecnico e di mutua dipendenza tra
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 242

produzione elettrica e utilizzo in forma utile del calore, anche attraverso sistemi di accumulo. Il
calore generato viene trasferito all'utilizzazione, in forme diverse, tra cui vapore, acqua calda,
aria calda, e può essere destinata a usi civili di riscaldamento, raffrescamento o raffreddamento o
a usi industriali in diversi processi produttivi. Nel caso di utilizzo di gas di sintesi, il sistema di
gassificazione è parte integrante dell’impianto di produzione combinata di energia elettrica e
calore. Nel caso di impianto a ciclo combinato con postcombustione, il post-combustore è parte
integrante dell’impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore. Le eventuali
caldaie di integrazione dedicate esclusivamente alla produzione di energia termica non rientrano
nella definizione di impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore;
⋅ e) sezione di impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore è ogni modulo in cui può essere
scomposto l’impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore in grado di operare
anche indipendentemente dalle altre sezioni e composto da un insieme di componenti principali
interconnessi tra loro in grado di produrre in modo sostanzialmente autosufficiente energia
elettrica e calore. Una sezione può avere in comune con altre sezioni alcuni servizi ausiliari o
generali. Nel caso di utilizzo di gas di sintesi, il sistema di gassificazione è parte integrante della
sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore. Nel caso di sezione a ciclo
combinato con post-combustione, il postcombustore è parte integrante della sezione di
produzione combinata di energia elettrica e calore;
⋅ f) cogenerazione, agli effetti dei benefici previsti dagli articoli 3, comma 3, 4, comma 2, e 11,
commi 2 e 4, del decreto legislativo n. 79/99 e dell’articolo 22, comma 1, lettera b), del decreto
legislativo n. 164/00, è la produzione combinata di energia elettrica e calore che, ai sensi di
quanto previsto dall'articolo 2, comma 8, del decreto legislativo n. 79/99 e dell’articolo 2, lettera
g), del decreto legislativo n. 164/00, garantisce un significativo risparmio di energia rispetto alle
produzioni separate, secondo i criteri e le modalità stabiliti nei successivi punti del presente
provvedimento;
⋅ g) potenza nominale di un generatore elettrico è la massima potenza ottenibile in regime continuo,
come fissata nella fase di collaudo preliminare all'entrata in esercizio o, in assenza di collaudo,
come certificata dal costruttore o dal fornitore dell’impianto;
⋅ h) potenza nominale di una sezione di impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore è la
somma aritmetica delle potenze nominali dei generatori elettrici della sezione destinati alla
produzione di energia elettrica;
⋅ i) potenza nominale di un impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore è la somma
aritmetica delle potenze nominali dei generatori elettrici dell'impianto destinati alla produzione
di energia elettrica;
⋅ j) taglia di riferimento ai fini della determinazione del parametro hes di cui all’articolo 2, comma
2.2, del presente provvedimento è:
i) la potenza nominale del generatore elettrico di ciascuna delle turbine a gas nel caso di
sezioni a recupero con più turbine a gas operanti in ciclo semplice o di ciascuno dei motori
a combustione interna che alimentano un unico sistema a recupero di calore;
ii) ii) la potenza nominale del generatore elettrico di ciascuna delle turbine a gas sommata ad
una parte della potenza nominale del generatore elettrico della turbina a vapore della
sezione proporzionale al rapporto tra la potenza nominale di ciascuna delle turbine a gas e
la somma delle potenze nominali di tutte le turbine a gas nel caso di sezioni a ciclo
combinato costituite da più turbine a gas che alimentano un ciclo termico a recupero di
calore dotato di turbina a vapore;
iii) iii) la potenza nominale della sezione, come definita alla precedente lettera h), negli altri
casi;
⋅ k) potere calorifico inferiore di un combustibile, a pressione costante, è la quantità di calore che si libera
nella combustione completa dell'unità di peso o di volume del combustibile, con l’acqua
contenuta nei fumi allo stato di vapore, ovvero con il calore latente del vapor d'acqua contenuto
nei fumi della combustione non utilizzato a fini energetici;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 243

⋅ l) energia primaria dei combustibili utilizzati da una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore
Ec è il contenuto energetico dei combustibili utilizzati, pari al prodotto del peso o del volume di
ciascun tipo di combustibile utilizzato nel corso dell'anno solare per il rispettivo potere
calorifico inferiore, come definito alla precedente lettera k). Nel caso di sezioni a ciclo
combinato con post-combustione, l’energia primaria del combustibile utilizzato comprende
anche il contenuto energetico del combustibile che alimenta il post-combustore. Nel caso di
sezioni alimentate da gas di sintesi, l’energia primaria del combustibile utilizzato comprende il
contenuto energetico di tutti i combustibili utilizzati, inclusi quelli che alimentano un eventuale
sistema di gassificazione;
⋅ m) produzione di energia elettrica lorda di una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore è la
quantità di energia elettrica prodotta nell’anno solare, misurata dai contatori sigillati dall’UTF
situati ai morsetti di uscita dei generatori elettrici;
⋅ n) produzione di energia elettrica netta di una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore Ee è
la quantità di energia elettrica lorda prodotta dalla sezione nell'anno solare, diminuita dell'energia
elettrica destinata ai servizi ausiliari della sezione e delle perdite nei trasformatori principali. I
servizi ausiliari includono i servizi posti sui circuiti che presiedono alla produzione di energia
elettrica e di calore, inclusi quelli di un eventuale sistema di gassificazione, ed escludono i servizi
ausiliari relativi alla rete di trasporto e distribuzione del calore, come le pompe di circolazione
dell'acqua calda. Nel caso in cui i servizi ausiliari siano in comune tra più sezioni, i loro consumi
sono da attribuire ad ogni sezione in misura proporzionale alla rispettiva quota parte di
produzione di energia elettrica lorda. Nel caso di produzione combinata di energia meccanica e
calore, l’energia meccanica viene moltiplicata per un fattore pari a 1,05 per convertirla in una
quantità equivalente di energia elettrica netta;
⋅ o) produzione di energia termica utile di una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore Et è la
quantità di energia termica utile prodotta dalla sezione nell'anno solare effettivamente ed
utilmente utilizzata a scopi civili o industriali, pari alla differenza tra il contenuto entalpico del
fluido vettore in uscita ed in ingresso misurato alla sezione di separazione tra la sezione di
produzione e la rete di distribuzione del calore, al netto dell’energia termica eventualmente
dissipata in situazioni transitorie o di emergenza (scarichi di calore). Qualora non esista
fisicamente una rete di utilizzazione del calore, la produzione di energia termica utile può essere
calcolata con metodi indiretti. I consumi specifici di calore utile risultanti dalle utilizzazioni a
scopo civile o industriale devono risultare confrontabili a quelli utilizzati in campo nazionale per
analoghe applicazioni con produzione separata di calore. La produzione di energia termica di
eventuali caldaie di integrazione dedicate esclusivamente alla produzione di energia termica non
rientra nella determinazione della produzione di energia termica utile Et. L’eventuale utilizzo di
vapore per iniezione nelle turbine a gas non è energia termica utile. Et è somma delle due
componenti Etciv e Etind definite come:
⋅ energia termica utile per usi civili Etciv è la parte di produzione di energia termica utile di una
sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore destinata alle utilizzazioni
di tipo civile a fini di climatizzazione, riscaldamento, raffrescamento, raffreddamento,
condizionamento di ambienti residenziali, commerciali e industriali e per uso igienico-
sanitario, con esclusione delle utilizzazioni in processi industriali;
⋅ energia termica utile per usi industriali Etind è la parte di produzione di energia termica utile di
una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore destinata ad
utilizzazioni diverse da quelle previste per Etciv ;
⋅ p) rendimento elettrico netto medio annuo hes di un impianto destinato alla sola produzione di energia
elettrica è il rapporto tra la produzione annua netta di energia elettrica e l'energia primaria del
combustibile immessa annualmente nell'impianto, entrambe riferite all’anno solare;
⋅ q) rendimento termico netto medio annuo hts di un impianto destinato alla sola produzione di energia
termica è il rapporto tra la produzione annua netta di energia termica e l'energia primaria del
combustibile immessa annualmente nell'impianto, entrambe riferite all’anno solare;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 244

⋅ r) energia elettrica autoconsumata Eeautocons è la parte di energia elettrica prodotta, definita alla
precedente lettera n), che non viene immessa nella rete di trasmissione o di distribuzione
dell’energia elettrica in quanto direttamente utilizzata e autoconsumata nel luogo di produzione;
⋅ s) energia elettrica immessa in rete Eeimmessa è la parte di energia elettrica netta prodotta che non rientra
nella definizione di cui alla precedente lettera r);
⋅ t) indice di risparmio di energia IRE è il rapporto tra il risparmio di energia primaria conseguito dalla
sezione di cogenerazione rispetto alla produzione separata delle stesse quantità di energia
elettrica e termica e l’energia primaria richiesta dalla produzione separata definito dalla formula:
Ec
IRE = 1 −
Ee Et Et
+ cv + ind
ηes p ηts ,civ ηts ,ind
dove:
⋅ - Ec, Ee, Etciv e Etind sono definite, rispettivamente, alle precedenti lettere l), n) e o), espresse in
MWh ed arrotondate con criterio commerciale alla terza cifra decimale;
⋅ - ηes è il rendimento elettrico medio netto, come definito alla precedente lettera p), della
modalità di riferimento per la produzione di sola energia elettrica;
⋅ - ηts,civ è il rendimento termico netto medio annuo, come definito alla precedente lettera q), della
modalità di riferimento per la produzione di sola energia termica per usi civili Etciv;
⋅ - ηts,ind è il rendimento termico netto medio annuo, come definito alla precedente lettera q), della
modalità di riferimento per la produzione di sola energia termica per usi industriali Etind ;
⋅ - p è un coefficiente che rappresenta le minori perdite di trasporto e di trasformazione
dell’energia elettrica che gli impianti cogenerativi comportano quando autoconsumano l’energia
elettrica autoprodotta, evitando le perdite associate al trasporto di energia elettrica fino al livello
di tensione cui gli impianti stessi sono allacciati o quando immettono energia elettrica nelle reti
di bassa o media tensione, evitando le perdite sulle reti, rispettivamente, di media e alta tensione.
Il coefficiente p è calcolato come media ponderata dei due valori di perdite evitate pimmessa e
pautocons rispetto alle quantità di energia elettrica autoconsumata Eeautocons ed immessa in rete
⋅ Eeimmessa, come definite rispettivamente alle precedenti lettere r) e s), secondo la seguente
formula:
p ⋅ Eeimmessa + pautocons ⋅ Eeautocons
p = immessa
Eeimmessa + Eeautocons
I valori di pimmessa e pautocons dipendono dal livello di tensione cui è allacciata la sezione di
produzione combinata di energia elettrica e calore e sono riportati nella seguente tabella:

⋅ u) limite termico LT è il rapporto tra l’energia termica utile annualmente prodotta Et e l’effetto
utile complessivamente generato su base annua dalla sezione di produzione combinata di
energia elettrica e calore, pari alla somma dell’energia elettrica netta e dell’energia termica utile
prodotte (Ee + Et), riferiti all’anno solare, secondo la seguente formula:
Et
LT =
Ee + Et
con il significato dei simboli definito alla precedente lettera t);
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 245

⋅ v) data di entrata in esercizio di una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore è la data in
cui è stato effettuato il primo funzionamento in parallelo con il sistema elettrico nazionale della
sezione, come risulta dalla denuncia dell’UTF di attivazione di officina elettrica;
⋅ w) data di entrata in esercizio commerciale di una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore è
la data di entrata in esercizio commerciale della sezione fissata dal produttore, considerando
come periodo di collaudo e avviamento un periodo massimo di 12 (dodici) mesi consecutivi a
partire dalla data in cui è stato effettuato il primo funzionamento della sezione in parallelo con il
sistema elettrico nazionale, come risulta dalla denuncia dell’UTF di attivazione di officina
elettrica;
⋅ x) sezione esistente è la sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore che, alla data
di entrata in vigore del presente provvedimento, era già entrata in esercizio o per la quale, alla
medesima data, erano state assunte obbligazioni contrattuali relativamente alla maggior parte, in
valore, dei costi di costruzione;
⋅ y) rifacimento di una sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore è l’intervento su una
sezione dell’impianto che sia in esercizio, esistente da almeno venti (20) anni, finalizzato a
migliorare le prestazioni energetiche ed ambientali attraverso la sostituzione, il ripotenziamento
o la totale ricostruzione di componenti che nel loro insieme rappresentano la maggior parte dei
costi di investimento sostenuti per la realizzazione della sezione;
⋅ z) sezione di nuova realizzazione è la sezione di produzione combinata di energia elettrica e calore
con data di entrata in esercizio commerciale successiva alla data di entrata in vigore del presente
provvedimento.
Articolo 2
Definizione di cogenerazione ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto legislativo n. 79/99 e
dell'articolo 2, lettera g), del decreto legislativo n. 164/00
2.1 Si definisce cogenerazione, ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del decreto legislativo n. 79/99
e dell'articolo 2, lettera g), del decreto legislativo n. 164/00 ed ai fini dei benefici di cui al precedente
articolo 1, lettera f), un sistema integrato di produzione combinata di energia elettrica o meccanica e di
energia termica, entrambe considerate energie utili, realizzato dalla sezione di un impianto per la
produzione combinata di energia elettrica e calore, come definita al precedente articolo 1, lettera e),
che, a partire da una qualsivoglia combinazione di fonti primarie di energia e con riferimento a ciascun
anno solare, soddisfi entrambe le condizioni concernenti il risparmio di energia primaria e il limite
termico di cui ai successivi commi 2.2 e 2.3.
2.2 Ai fini del riconoscimento della produzione combinata di energia elettrica e calore come
cogenerazione, di cui al precedente comma 2.1, l'indice di risparmio di energia IRE della sezione,
come definito al precedente articolo 1, lettera t), non deve essere inferiore al valore minimo IREmin
che, fino al 31 dicembre 2005, viene fissato pari a 0,050 (5,0%) per le sezioni esistenti, come definite al
precedente articolo 1, lettera x), pari a 0,080 (8,0%) per i rifacimenti di sezioni, come definiti al
precedente articolo 1, lettera y), e pari a 0,100 (10,0%) per le sezioni di nuova realizzazione, come
definite al precedente articolo 1, lettera z), assumendo:
⋅ a) per il parametro ηes il rendimento elettrico netto medio annuo delle modalità di riferimento
per la produzione separata di sola energia elettrica, differenziato per ciascuna fascia di taglia di
riferimento, come definita al precedente articolo 1, lettera j), e per ciascun tipo di combustibile
utilizzato, secondo i valori riportati nella seguente tabella:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 246

Nel caso di utilizzo di combustibili solidi fossili di produzione nazionale in misura non inferiore
al 20% dell’energia primaria annualmente immessa nella sezione di produzione combinata di energia
elettrica e calore, i valori del parametro ηes riportati in tabella sono ridotti del 5%. A tale fine, non
rientrano tra i combustibili fossili di produzione nazionale il carbone di tipo coke, prodotto
in Italia a partire da carbone di importazione, e il petrocoke o coke di petrolio.
Nel caso di utilizzo di combustibili di processo e residui, biogas, gas naturale da giacimenti
minori isolati il parametro ηes è pari a 0,35 per tutte le taglie di riferimento.
Nel caso di sezioni di produzione combinata di energia elettrica e calore che utilizzino più
combustibili di diverso tipo C1, C2,…,Cn, il parametro ηes viene calcolato come media ponderata dei
parametri di cui alla precedente tabella rispetto all’energia primaria EcC1, EcC2, …,EcCn, dei
combustibili annualmente immessi nella sezione, secondo la seguente formula:
η ⋅ EcC1 + ηes ,C 2 ⋅ EcC 2 + ..... + ηes ,Cn ⋅ EcCn
ηes = es ,C1
EcC1 + EcC 2 + ..... + EcCn
Nel caso di utilizzo di combustibili diversi da quelli sopra richiamati, ai fini della determinazione
del parametro ηes si assume il gas naturale come combustibile di riferimento. I valori del parametro ηes
riportati nella tabella per i rifiuti solidi, organici e inorganici, e per le biomasse si applicano nei soli casi
di co-combustione, definita come la combustione contemporanea di combustibili da fonti rinnovabili,
come definite dall’articolo 2, comma 15, del decreto legislativo n. 79/99, e di combustibili da altre
fonti di energia. Ai fini dei benefici di cui al precedente articolo 1, lettera f), e in particolare di quelli
previsti dall’articolo 3, comma 3, del decreto legislativo n. 79/99, l’indice di risparmio di energia IRE
per gli impianti di produzione combinata di energia elettrica e calore con potenza nominale inferiore a
10 MVA è riferito all’intero impianto.
Nel caso di sezioni di impianto aventi n taglie di riferimento T1, T2,...,Tn, che individuano n
rendimenti elettrici di riferimento ηes,1, ηes,2, …, ηes,n, ed una potenza nominale della sezione pari a P,
il parametro ηes da utilizzare per il calcolo dell’indice IRE della sezione viene determinato con la
seguente formula:
n η ⋅T
ηes = ∑ es , j j
j =1 P
b) per il parametro ts,civ un valore pari a 0,8 e per il parametro ts,ind un valore pari a 0,9.
Nel caso di utilizzo di combustibili solidi fossili di produzione nazionale in misura non inferiore al
20% dell’energia primaria annualmente immessa nella sezione di produzione combinata di energia
elettrica e calore, i valori dei parametri ts,civ e ts,ind sono ridotti del 5%. A tale fine, non rientrano
tra i combustibili fossili di produzione nazionale il carbone di tipo coke, prodotto in Italia a partire da
carbone di importazione, e il petrocoke o coke di petrolio.
2.3 Il limite termico LT, come definito al precedente articolo 1, lettera u), per il processo di cui al
comma 2.1 non deve essere inferiore al valore minimo LTmin che, fino al 31 dicembre 2005, viene
fissato pari a 0,150 (15,0%). Nel caso di sezioni di nuova realizzazione che soddisfino la condizione di
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 247

IREmin di cui al comma 2.2, ma non soddisfano la condizione per il limite termico LT è ammessa, ai
soli fini dell’esenzione dall'obbligo previsto dall'articolo 11, comma 1, del decreto legislativo n. 79/99,
l’esenzione dal predetto obbligo per la quota di energia elettrica che soddisfa il limite termico di 0,150
(15,0%). Ai fini dei benefici di cui al precedente articolo 1, lettera f), e in particolare di quelli previsti
dall’articolo 3, comma 3, del decreto legislativo n. 79/99, si assume che nel calcolo del limite termico
LT per gli impianti di produzione combinata di energia elettrica e calore con potenza nominale
inferiore a 10 MVA la sezione coincide con l’impianto.

Articolo 3
Aggiornamento e periodo di validità dei parametri di riferimento
3.1 I valori di riferimento dei parametri ηes, ηts,civ, ηts,ind, LTmin e IREmin, come riportati al
precedente articolo 2, sono in vigore fino al 31 dicembre 2005 e vengono aggiornati dall’Autorità
con periodicità triennale.
3.2 Per ciascuna sezione esistente i valori di riferimento dei parametri ηes, , ηts,civ, ηts,ind, LTmin e
IREmin, di cui al precedente articolo 2, rimangono fissi, ai fini del riconoscimento della condizione
tecnica di cogenerazione, per un periodo di dieci (10) anni a partire dalla data di entrata in vigore del
presente provvedimento. A partire dall’anno solare successivo a quello in cui vengono completati i
dieci (10) anni di esercizio si applicano i valori di riferimento dei parametri aggiornati dall’Autorità su
base triennale, di cui al comma 3.1, in vigore per quel triennio.
3.3 Per ciascuna sezione di nuova realizzazione e per i rifacimenti i valori di riferimento dei
parametri ηes, ηts,civ, ηts,ind, LTmin e IREmin in vigore alla data di entrata in esercizio rimangono fissi, ai
fini del riconoscimento della condizione tecnica di cogenerazione, per un periodo di quindici (15)
anni. A partire dall’anno solare successivo a quello in cui vengono completati i quindici (15) anni di
esercizio si applicano i valori di riferimento dei parametri aggiornati dall’Autorità su base triennale, di
cui al comma 3.1, in vigore per quel triennio.
3.4 Nel caso di sezioni dotate di reti di teleriscaldamento per la distribuzione del calore utile
prodotto i periodi di cui ai commi 3.2 e 3.3 vengono estesi di 5 (cinque) anni.
3.5 Durante il periodo di collaudo e avviamento, e limitatamente al periodo massimo di 12
(dodici) mesi consecutivi di cui al precedente punto 1, lettera w), si applica per il parametro IREmin un
valore pari a 0,050 (5,0%) e per il parametro LTmin un valore pari a 0,100 (10,0%). Per l’anno solare in
cui termina il periodo di collaudo e avviamento, i valori dei parametri IREmin e LTmin sono calcolati
come media ponderata sui due periodi.
3.6 Agli impianti di nuova realizzazione per i quali, alla fine di un triennio di vigenza dei valori di
riferimento dei parametri ηes, , ηts,civ, ηts,ind, LTmin e IREmin di cui al precedente articolo 2, sono state
assunte obbligazioni contrattuali in valore relativamente alla maggior parte dei costi di costruzione, si
applicano i valori di riferimento previsti per il triennio precedente .

Articolo 4
Attestazione delle condizioni per il riconoscimento della produzione combinata di energia
elettrica e calore come cogenerazione
4.1 I soggetti produttori con sezioni di produzione combinata di energia elettrica e calore che
intendono avvalersi dei benefici di cui al precedente articolo 1, lettera f), comunicano, separatamente
per ciascuna sezione, mediante dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà firmata dal legale
rappresentante ai sensi degli articoli 21, 38 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28
dicembre 2000, n. 445, il valore dell'indice di risparmio di energia IRE e del limite termico LT,
calcolati con riferimento ai valori dei parametri ηes, ηts,civ e ηts,ind fissati nel precedente articolo 2,
relativi all’anno solare precedente.
4.2 La dichiarazione di cui al comma 4.1 deve essere inviata alla società Gestore della rete di
trasmissione nazionale Spa entro il 31 marzo di ogni anno. La società Gestore della rete di
trasmissione nazionale Spa, entro il 30 giugno di ogni anno, trasmette all’Autorità un prospetto
riepilogativo delle dichiarazioni pervenute ed un piano annuale di verifiche sulle sezioni ai sensi
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 248

dell’articolo 5 del presente provvedimento. Tale dichiarazione deve contenere le seguenti


informazioni:
⋅ a) identificazione del soggetto produttore, in particolare: ragione sociale, natura giuridica, sede
legale, codice fiscale o partita Iva;
⋅ b) identificazione della sezione e dell’impianto, in particolare: localizzazione geografica,
eventuale denominazione, data di entrata in esercizio e data di entrata in esercizio
commerciale, come definite, rispettivamente, al precedente articolo 1, lettere v) e w);
c) energia elettrica utile prodotta nell’anno solare precedente dalla sezione al netto dell’energia
assorbita dai servizi ausiliari (Ee), come definita al precedente articolo 1, lettera n); energia termica
utile (Et), incluse le due componenti per usi civili Etciv e industriali Etind prodotte nell’anno solare
precedente dalla sezione, come definite al precedente articolo 1, lettera o); tipologia e quantità dei
combustibili utilizzati (C1, C2, …, Cn) e energia primaria immessa nell’anno solare precedente nella
sezione per ciascuna tipologia di combustibile (EcC1, EcC2, …,EcCn), come definita al precedente
articolo 1, lettera l). Tutti i dati della presente lettera c) devono essere espressi in MWh e arrotondati
con criterio commerciale alla terza cifra decimale;
⋅ d) metodi di misura e criteri utilizzati per la determinazione dei valori delle grandezze di cui alla
precedente lettera c);
⋅ e) programma annuale di utilizzo della sezione, in particolare: capacità di produzione combinata
di energia elettrica e calore, rendimenti e combustibili utilizzati (inclusi i combustibili di
processo, residui o recuperi di energia, combustibili non commerciali), finalità della produzione
(usi propri, distribuzione, vendita ad altri soggetti, riportando le quantità annue di produzione
dei prodotti nel cui processo di lavorazione viene utilizzato il calore, il consumo specifico di
calore per le diverse fasi del ciclo produttivo, nel caso di usi propri, e le quantità di calore
vendute a terzi, con indicazione dei soggetti acquirenti e delle rispettive quote, nel caso di
vendita a terzi);
⋅ f) caratteristiche tecniche generali della sezione, in particolare: tipo di sezione e di impianto,
schema generale di funzionamento, identificazione e caratteristiche di generatori e scambiatori
di calore, motori primi, generatori elettrici (tra cui, almeno, la potenza nominale dei generatori
elettrici, come definita al precedente articolo 1, lettera g), e taglia di riferimento ai fini della
determinazione del parametro ηes, come definita al precedente articolo 1, lettera j) ed altri
componenti significativi.
4.3 La documentazione di cui al precedente comma 4.2, lettere d) e f), deve essere trasmessa in
occasione della prima richiesta di riconoscimento della produzione combinata di energia elettrica e
calore come cogenerazione e, successivamente, solo nel caso in cui siano intervenute variazioni con
conseguenze significative sul rispetto della condizione tecnica di cogenerazione.
4.4 L’invio di informazioni incomplete o difformi comporta, per la sezione o per l’impianto,
l'esclusione, per l’anno di riferimento, dei benefici di cui al precedente articolo 1, lettera f). La società
Gestore della rete di trasmissione nazionale Spa ne dà comunicazione al soggetto produttore e
all’Autorità.
4.5 In caso di dichiarazioni contenenti dati e informazioni non veritiere, l’Autorità, su
segnalazione della società Gestore della rete di trasmissione nazionale Spa, può applicare le sanzioni di
cui all’articolo 2, comma 20, lettera c), della legge 14 novembre 1995, n. 481.

Articolo 5
Verifiche sulla sezione
5.1 Le verifiche sulla sezione atte a controllare il rispetto delle condizioni per il riconoscimento
della produzione combinata di energia elettrica e calore come cogenerazione ai fini dei benefici di cui
al precedente articolo 1, lettera f), sono effettuate dalla società Gestore della rete di trasmissione
nazionale Spa e svolte, ove necessario, attraverso sopralluoghi al fine di accertare la veridicità delle
informazioni e dei dati trasmessi, avvalendosi eventualmente anche della collaborazione di altri
enti o istituti di certificazione.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 249

Articolo 6
Disposizioni finali
6.1 La presente deliberazione viene pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana
e nel sito internet dell’Autorità ed entra in vigore il giorno successivo alla data della sua pubblicazione.

8.2.1 COMMENTI SULLE NORME VIGENTI SULLA COGENERAZIONE


L’Autorità per l’Energia e il Gas formula una definizione di cogenerazione che consente di
identificare, sia fra gli impianti esistenti che in quelli di nuova installazione, quelli che forniscono un
significativo risparmio di energia rispetto alle produzioni separate.
A questo scopo sono considerati uno o più indicatori che consentono:
⋅ di valutare il risparmio effettivo di energia primaria di un impianto di cogenerazione rispetto alle
produzioni separate;
⋅ di garantire l’effettiva natura cogenerativa delle modalità di utilizzo dell’impianto evitando i casi
di soluzioni eccessivamente sbilanciate nella produzione di energia elettrica.
Questi indicatori debbono, inoltre:
⋅ risultare applicabili alle diverse configurazioni impiantistiche presenti in questo segmento della
generazione caratterizzate da differenze significative nelle prestazioni tra impianti di piccola e
grande taglia, nuovi ed esistenti, con utilizzazione stagionale o continua;
⋅ essere riferiti a data di consumo misurabili su base annuale con sistemi di contabilizzazione
certificati e controllati;
⋅ considerare l’evoluzione tecnologica con meccanismi di aggiornamento periodici per impianti
non ancora entrati in esercizio.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 250

9. IMPIANTI ANTINCENDIO
Il rischio di incendio è oggi rilevante anche a causa dell’uso sempre crescente di materiali
altamente infiammabili (ad esempio materiale plastico, carta, legno, ….) presenti nei locali di lavoro o di
abitazione.
L’Italia è una delle nazioni più all’avanguardia nel campo della prevenzione degli incendi con
una serie di norme tecniche che coprono tutti i settori civili e industriali.
Si tralascia in questa sede, a causa del tempo limitato, il problema dei grandi rischi di tipo
industriale regolamentati dal D.Lgs 334/99 (detto anche Seveso 2) per soffermarci solamente ai classici
impianti antincendio per impianti civili ed industriali normali.
Una delle norme più importanti è data dal D.Lgs 149/96: Approvazione della regola tecnica di
prevenzione e incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio dei locali di intrattenimento e pubblico spettacolo”. Di
essa si riportano alcuni fra gli articoli più importanti57. Si vedranno anche altre norme e/o decreti
riguardanti l’argomento qui trattato.
Prima di procedere all’esame delle leggi e norme vigenti si vuole qui presentare la problematica
che gli impianti antincendio debbono affrontare.
9.1 FINALITÀ DEGLI IMPIANTI ANTINCENDIO
Gli impianti antincendio hanno come finalità la riduzione dei danni conseguenti al verificarsi di
un incendio, agendo quindi sulla Magnitudo dell’evento incendio.
Gli interventi si suddividono in misure di protezione attiva o passiva in relazione alla necessità
o meno dell’intervento di un operatore o dell’azionamento di un impianto.
⋅ Protezione PASSIVA - non c'è il bisogno di un intervento
⋅ Protezione ATTIVA - c'è il bisogno di un intervento
9.2 LA PROTEZIONE PASSIVA
Gli impianti antincendio hanno come finalità la riduzione dei danni conseguenti al verificarsi di
un incendio, agendo quindi sulla Magnitudo dell’evento incendio.
Gli interventi si suddividono in misure di protezione attiva o passiva in relazione alla necessità
o meno dell’intervento di un operatore o dell’azionamento di un impianto.
⋅ Protezione PASSIVA - non c'è il bisogno di un intervento
⋅ Protezione ATTIVA - c'è il bisogno di un intervento
9.3 LA PROTEZIONE ATTIVA
L’insieme delle misure di protezione che richiedono l’azione di un uomo o l’azionamento di un
impianto sono quelle finalizzate alla precoce rilevazione dell’incendio, alla segnalazione e all’azione di
spegnimento dello stesso.:
⋅ estintori
⋅ rete idrica antincendi
⋅ impianti di rivelazione automatica d’incendio
⋅ impianti di spegnimento automatici
⋅ dispositivi di segnalazione e d’allarme
⋅ evacuatori di fumo e calore
9.4 MISURE DI PROTEZIONE PASSIVA
Si tratta, come sopra specificato, di misure insite nell’edificio e che non richiedono interventi
esterni. Vediamole in dettaglio.

57 La Norma Tecnica è tutta parimenti importante ma in questa sede si vuole porre maggiormente l’attenzione sugli

aspetti progettuali della norma stessa. Si rimanda l’Allievo ad una lettura di tutto il testo per un maggiore
approfondimento.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 251

9.4.1 DISTANZE DI SICUREZZA


La protezione passiva realizzata con il metodo delle barriere antincendio è basata sul concetto
dell’interposizione, tra aree potenzialmente soggette ad incendio, di spazi scoperti o di strutture. Nel
caso di interposizione di spazi scoperti la protezione ha lo scopo di impedire la propagazione
dell’incendio principalmente per trasmissione di energia termica raggiante.
Nella terminologia utilizzata per la stesura delle normative nazionali ed internazionali per
indicare l’interposizione di spazi scoperti fra gli edifici o installazioni si usa il termine di “distanze di
sicurezza”.
Le distanze di sicurezza si distinguono in distanze di sicurezza interne e distanze di sicurezza esterne a
seconda che siano finalizzate a proteggere elementi appartenenti ad uno stesso complesso o esterni al
complesso stesso.
Un altro tipo di distanza di sicurezza è da considerarsi la “distanza di protezione” che è definita la
distanza misurata orizzontalmente tra il perimetro in pianta di ciascun elemento pericoloso di una
attività e la recinzione (ove prescritta) ovvero il confine dell’area su cui sorge l’attività stessa.
La determinazione delle distanze di sicurezza in via teorica è basata sulle determinazioni
dell’energia termica irraggiata dalle fiamme di un incendio. Esistono vari modelli di calcolo che
forniscono dati molto orientativi. Nelle norme antincendio ufficiali vengono introdotti invece valori
ricavati empiricamente da dati ottenuti dalle misurazioni dell’energia raggiante effettuata in occasione di
incendi reali e in incendi sperimentali.
Appare evidente che compartimentare una struttura ricorrendo alla sola adozione di distanze
di sicurezza comporta l’utilizzo di grandi spazi che dovranno essere lasciati vuoti e costituire di per se
una misura poco conveniente di realizzazione di una barriera antincendio da un punto di vista
economico, anche nel caso di edifici industriali dove si dispone di solito di grandi spazi, poiché così
facendo si aumenterebbero i tempi di lavorazione e i costi relativi all’incremento dei servizi di
trasporto dei prodotti all’interno del ciclo produttivo.
Pertanto la protezione passiva si realizza anche mediante la realizzazione di elementi si
separazione strutturale del tipo “tagliafuoco”.
9.4.2 RESISTENZA AL FUOCO E COMPARTIMENTAZIONE
La resistenza al fuoco delle strutture rappresenta il comportamento al fuoco degli elementi che
hanno funzioni strutturali nelle costruzioni degli edifici, siano esse funzioni portanti o funzioni
separanti.
In termini numerici la resistenza al fuoco rappresenta l’intervallo di tempo, espresso in minuti primi,
di esposizione dell’elemento strutturale ad un incendio, durante il quale l’elemento costruttivo
considerato conserva i requisiti progettuali di stabilità meccanica, tenuta ai prodotti della combustione,
nel caso più generale, di coibenza termica.
La determinazione della resistenza al fuoco delle strutture si effettua generalmente mediante un
metodo di calcolo globale (Circolare del Ministero dell’Interno n. 91 del 1961) che si basa su una relazione
tra la durata presumibile dell’incendio e il carico d’incendio che caratterizza il compartimento in
esame, facendo inoltre riferimento ad un incendio con una curva standard temperatura-tempo di regola
piuttosto severa rispetto alle possibili condizioni reali.
Più specificatamente la resistenza al fuoco può definirsi come l’attitudine di un elemento da
costruzione (componente o struttura) a conservare:
⋅ la stabilità R
⋅ la tenuta E
⋅ l’isolamento termico I
R stabilità
⋅ l’attitudine di un elemento da costruzione a conservare la resistenza meccanica sotto l’azione del
fuoco;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 252

E tenuta
⋅ attitudine di un elemento da costruzione a non lasciar passare ne produrre se sottoposto
all’azione del fuoco su un lato fiamme, vapori o gas caldi sul lato non esposto al fuoco;
I isolamento termico
⋅ attitudine di un elemento da costruzione a ridurre, entro un dato limite, la trasmissione del
calore
Pertanto:
⋅ con il simbolo REI si identifica un elemento costruttivo che deve conservare, per un
determinato tempo, la stabilità, la tenuta e l’isolamento termico;
⋅ con il simbolo RE si identifica un elemento costruttivo che deve conservare, per un
determinato tempo, la stabilità e la tenuta;
⋅ con il simbolo R si identifica un elemento costruttivo che deve conservare, per un determinato
tempo, la stabilità;
Quindi in relazione ai requisiti degli elementi strutturali in termini di materiali da costruzione
utilizzati e spessori realizzati, essi vengono classificati da un numero che esprime i minuti primi per i
quali conservano le caratteristiche suindicate in funzione delle lettere R, E o I, come di seguito
indicato per alcuni casi:
⋅ R 45 R 60 R 120
⋅ RE 45 RE 60 RE 120
⋅ REI 45 REI 60 REI 120
Le barriere antincendio realizzate mediante interposizione di elementi strutturali hanno invece la
funzione di impedire la propagazione degli incendi sia lineare (barriere locali) che tridimensionale
(barriere totali) nell’interno di un edificio, nonché, in alcuni casi, quella di consentire la riduzione delle
distanze di sicurezza.
Per una completa ed efficace compartimentazione i muri tagliafuoco non dovrebbero avere
aperture, ma è ovvio che in un ambiente di lavoro è necessario assicurare un’agevole comunicazione
tra tutti gli ambienti destinati, anche se a diversa destinazione d’uso.
Pertanto è inevitabile realizzare le comunicazioni e dotarle di elementi di chiusura aventi le
stesse caratteristiche di resistenza al fuoco del muro su cui sono applicati. Tali elementi di chiusura si
possono distinguere in:
Porte incernierate
⋅ porte munite di sistemi di chiusura automatica quali fusibili, cavetti e contrappesi o sistemi
idraulici o a molla, che in caso d’incendio fanno chiudere il serramento;
⋅ porte scorrevoli: porte sospese ad una guida inclinata di pochi gradi rispetto al piano orizzontale
mediante ruote fissate al pannello. Normalmente stanno in posizione aperta trattenute da un
contrappeso e da un cavo in cui è inserito un fusibile che in caso d’incendio si fonde liberando
il contrappeso e permettendo alla porta di chiudersi;
⋅ porte a ghigliottina: porte installate secondo un principio analogo a quello adottato per le porte
scorrevoli, ma con la differenza che in questo caso il pannello viene mantenuto sospeso sopra
l’apertura e le guide sono verticali.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 253

Tabella 24: Spessore delle pareti tagliafuoco

Tabella 25: Spessori minimi dei solai


Per quanto attiene al trattamento delle strutture, è ormai alquanto noto che alcuni particolari
rivestimenti tra i quali vernici intumescenti, conseguono una vera e propria azione protettiva delle
strutture sulle quali sono applicate, realizzando un grado di resistenza al fuoco determinato sperimentalmente.
Prerogativa essenziale di questi elementi protettivi è di essere ininfiammabili, di possedere
capacità isolanti al calore, nonché la particolarità di rigonfiarsi, schiumando, generando così uno
strato coibente ed isolante, quando sono investite dalla fiamma o da una sorgente di calore ad alta
temperatura.
Dalla Tabella 24 fino alla Tabella 27 si hanno gli spessori richiesti per i rivestimenti, le murature
antincendio, dei rivestimenti e dei solai.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 254

Tabella 26: Spessore minimo del rivestimento

Tabella 27: Tipi e spessori dei rivestimenti


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 255

9.4.3 VIE DI ESODO


Nonostante il massimo impegno per prevenire l’insorgere di un incendio e la massima
attenzione nell’adozione dei più moderni mezzi di rivelazione, segnalazione e spegnimento di un
incendio, non si può escludere con certezza la possibilità che l’incendio stesso si estenda con
produzione di calore e fumi tale da mettere a repentaglio la vita umana.
In considerazione di tutto ciò, il problema dell’esodo delle persone minacciate da un incendio è
universalmente riconosciuto di capitale importanza, a tal punto da comportare soluzioni tecniche
irrinunciabili.
Le soluzioni tecniche finalizzate all’esodo delle persone dai locali a rischio d’incendio nelle
migliori condizioni di sicurezza possibile in caso d’incendio o di qualsiasi altra situazione di pericolo
reale o presunto.
Gli elementi fondamentali nella progettazione del sistema di vie d’uscita si possono fissare in:
⋅ dimensionamento e geometria delle vie d’uscita;
⋅ sistemi di protezione attiva e passiva delle vie d’uscita;
⋅ sistemi di identificazione continua delle vie d’uscita (segnaletica, illuminazione ordinaria e di
sicurezza).
In particolare il dimensionamento delle vie d’uscita dovrà tenere conto del massimo
affollamento ipotizzabile nell’edificio (prodotto tra densità di affollamento persone al m² e superficie degli ambienti
soggetti ad affollamento di persone m²) nonché della capacità d’esodo dell’edificio (numero di uscite, larghezza
delle uscite, livello delle uscite rispetto al piano di campagna).
Di norma occorre avere almeno una via di fuga sicura entro i 50 m e pertanto occorre
predisporre architettonicamente attraversamenti (con porte tagliafuoco) e/o uscite esterne su luoghi
sicuri. Ulteriori notizie e norme operative possono essere trovate del D.M. 10-03-1998.
In quest’ottica vanno inserite, ove necessario, le scale di emergenza antincendio. Per una
applicazione di quanto qui esposto si veda la relazione CPI dell’esempio pratico descritto nel §14.
9.5 MISURE DI PROTEZIONE ATTIVE
Queste misure richiedono l’intervento di impianti dedicati all’antincendio. Vediamone i più
significativi.
9.5.1 ESTINTORI
Gli estintori sono in molti casi i mezzi di primo intervento più impiegati per spegnere i principi
di incendio.
Vengono suddivisi in:
⋅ estintori portatili
⋅ estintori carrellati
Gli estintori portatili
Sono concepiti per essere utilizzati a mano ed hanno un peso che può superare 20 Kg. Essi
vengono classificati in base alla loro capacità estinguente. Infatti sono sperimentati su fuochi di diversa
natura classificati in base al tipo di combustibile.
⋅ Classe “A” fuochi di solidi con formazione di brace
⋅ Classe “B” fuochi di liquidi infiammabili
⋅ Classe “C” fuochi di gas infiammabile
⋅ Classe “D” fuochi di metalli
⋅ Classe ”E” fuochi da materiale elettrico sotto tensione (classifica oggi non più utilizzata).
La scelta dell’estintore va fatta in base al tipo di incendio ipotizzabile nel locale da proteggere.
Su ciascun estintore sono indicate le classi dei fuochi ed i focolai convenzionali che è in grado di
estinguere (esempio: 21A 89BC). Per norma devono essere di colore rosso e riportate una etichetta con
le istruzioni e le condizioni di utilizzo.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 256

La posizione deve essere scelta privilegiando la facilità di accesso, la visibilità e la possibilità di


raggiungere uno percorrendo al massimo 20 m.
L’operatore deve usare l’estintore avendo cura di mettersi sopravvento, cercando di colpire con
il getto di scarica la base del focolaio senza provocare la fuoriuscita di liquidi infiammabili dal loro
contenitore.
Nel caso in cui operino contemporaneamente due estintori, le persone che li utilizzano devono
disporsi sfalsate di circa 90°.
Ulteriori valutazioni sulle corrette tecniche di intervento con gli estintori saranno fatte nella
parte conclusiva del corso nella quale vengono previste esercitazioni pratiche di spegnimento.
Gli estintori carrellati
Hanno le medesime caratteristiche funzionali degli estintori portatili ma, a causa delle maggiori
dimensioni e peso, presentano una minore praticità d’uso e maneggevolezza connessa allo
spostamento del carrello di supporto, vedi Figura 237.
La loro scelta può essere dettata dalla necessità di disporre di una maggiore capacità estinguente
e sono comunque da considerarsi integrativi di quelli portatili.
Vengono di seguito citate le varie tipologie di estintori:
⋅ ad acqua, ormai in disuso,
⋅ a schiuma, adatto per liquidi infiammabili,
⋅ ad idrocarburi alogenati, adatto per motori di macchinari,
⋅ a polvere, adatto per liquidi infiammabili ed apparecchi elettrici,
⋅ ad anidride carbonica, idoneo per apparecchi elettrici;

Figura 237: Esempi di estintori – carrellato, a polvere a CO2


Per queste ultime due tipologie di estintori, di uso più diffuso, vengono fornite ulteriori
informazioni:
Estintori a polvere
Per il lancio delle polveri antincendio si adoperano estintori costituiti da un involucro metallico,
contenente la miscela di bicarbonato di sodio e polvere inerte; collegato ad una bombola di gas
compresso o liquefatto (CO2).
Il gas propellente della polvere può essere CO2, per estintori di capacità sino a 30 Kg; per gli
estintori di maggiore capacità il gas è aria, o meglio azoto in pressione (150 bar effettivi). Il CO2
contenuto nella bomboletta, interna od esterna all’estintore, è circa, in peso, 1/10 della polvere da
espellere.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 257

Un sistema di tubicini, opportunamente disposti nell’interno dell’estintore, distribuisce con


regolarità la pressione in tutta la massa, sommovendo la polvere e favorendo la rapida ed uniforme
espulsione attraverso un tubo pescante collegato alla manichetta di gomma di erogazione al termine
della quale è sistemato un cono diffusore oppure una lancia con comando a pistola.
Estintore ad anidride carbonica
Gli estintori a CO2 sono costituiti da una bombola collaudata e revisionata ogni 5 anni
dall’ISPESL (ex ANCC) per una pressione di carica, a 15°C. a 250 ate; da una valvola di erogazione a
volantino o a leva e da una manichetta snodata rigida o flessibile con all’estremità un diffusore in
materiale isolante.
Il congegno di apertura della bombola può essere:
⋅ con valvola di comando a leva, con tenuta in ebanite normalmente usata per gli estintori
portatili;
⋅ con valvola di comando a vite, con tenuta in ebanite normalmente usata per gli estintori
carrellati.
Sull’ogiva della bombola in colore grigio chiaro sono punzonati i dati di esercizio, di collaudo e
delle revisioni. All’estremità della manichetta dell’estintore è montato un cono diffusore di gomma,
ebanite o bachelite. Sconsigliabile il metallo che potrebbe venire a contatto con parti elettriche in
tensione.
Al momento dell’apertura della bombola a mezzo delle valvole il liquido spinto dalla pressione
interna, sale attraverso un tubo pescante, passa attraverso la manichetta raggiungendo il diffusore
dove, uscendo all’aperto, una parte evapora istantaneamente provocando un brusco abbassamento di
temperatura (79° C.) tale da solidificare l’altra parte in una massa gelida e leggera detta “neve
carbonica” o “ghiaccio secco”.
La neve carbonica si adagia sui corpi che bruciano, si trasforma rapidamente in gas sottraendo
loro una certa quantità di calore; il gas poi, essendo più pesante dell’aria, circonda i corpi infiammabili
e, provocando un abbassamento della concentrazione di ossigeno, li spegne per soffocamento.
Nei locali chiusi occorre prevedere una quantità di anidride carbonica pari al 30 % della
cubatura del locale stesso per ottenere lo spegnimento dell’incendio per saturazione d’ossigeno.
Determinazione del numero degli estintori da installare
É determinato da disposizioni di legge solo in alcuni casi (alberghi, autorimesse etc.).
Negli altri casi si deve eseguire il criterio di disporre questi mezzi di primo intervento in modo
che siano prontamente disponibili ed utilizzabili.
Si può ritenere che sia sufficiente disporre di un numero di estintori in modo che almeno uno di
questi possa essere raggiunto con un percorso non superiore a 15 m circa. Ne consegue che la
distanza tra gruppi di estintori deve essere circa 30 m.
Posizionamento degli estintori
Debbono essere sempre posti nella massima evidenza, in modo da essere individuati
immediatamente, preferibilmente vicino alle scale od agli accessi.
Estintori, di tipo idoneo, saranno inoltre posti in vicinanza di rischi speciali (quadri elettrici, cucine,
impianti per la produzione di calore a combustibile solido, liquido o gassoso eccetera).
Gli estintori potranno essere poggiati a terra od attaccati alle pareti, mediante idonei attacchi che
ne consentano il facile sganciamento; se l'estintore non può essere posto in posizione ben visibile da
ogni punto della zona interessata, dovranno porsi dei cartelli di segnalazione, se necessario a bandiera)
del tipo conforme alle norme della segnaletica di sicurezza.
Campi di utilizzo degli estintori
Ad ogni classe di incendio corrispondono agenti estintori maggiormente indicati di altri. I campi
di utilizzo degli estintori possono essere riassunti nella seguente Tabella 28.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 258

Sostanza estinguente Campo di impiego Non adatti per


Acqua sotto forma di getti Incendi di sostanze solide, in genere incendi di Incendi di apparecchiature elettriche,
classe A oli minerali, gas infiammabili.
Acqua nebulizzata Incendi di idrocarburi e similari, apparecchiature Gas infiammabili
elettriche
Schiuma Incendi di oli minerali, bitumi. In genere incendi Incendi di impianti elettrici e gas
di classe B ed A. infiammabili
Polvere chimica Incendi di oli, vernici, bitumi, liquidi e gas Incendi che si sviluppano con
infiammabili, apparecchiature elettriche formazioni di braci
Anidride carbonica Apparecchiature elettriche, oli minerali. Grassi, Materiali che bruciano con
vernici, solventi, etc. formazione di braci
Composti alogenati Incendi di liquidi infiammabili e apparecchiature Locali grandi e molto ventilati e per
elettriche sostanze che formano braci
Tabella 28: Sostanze estinguenti e loro utilizzo

9.5.2 RETE IDRICA ANTINCENDIO


A protezione delle attività industriali o civili caratterizzate da un rilevante rischio viene di norma
istallata una rete idrica antincendio collegata direttamente, o a mazzo di vasca di disgiunzione,
all’acquedotto cittadino.
La presenza della vasca di disgiunzione è necessaria ogni qualvolta l’acquedotto non garantisca
continuità di erogazione e sufficiente pressione.
In tal caso le caratteristiche idrauliche richieste agli erogatori (idranti UNI 45 oppure UNI 70)
vengono assicurate in termini di portata e pressione dalla capacità della riserva idrica e dal gruppo di
pompaggio.
La rete idrica antincendi deve, a garanzia di affidabilità e funzionalità, rispettare i seguenti criteri
progettuali:
⋅ Indipendenza della rete da altre utilizzazioni.
⋅ Dotazione di valvole di sezionamento.
⋅ Disponibilità di riserva idrica e di costanza di pressione.
⋅ Ridondanza del gruppo pompe.
⋅ Disposizione della rete ad anello.
⋅ Protezione della rete dall’azione del gelo e della corrosione.

Figura 238: Esempi di idranti a parete UNI-45


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 259

Caratteristiche idrauliche pressione-portata (50 % degli idranti UNI 45 in fase di erogazione con
portata di 120 lt/min e pressione residua di 2 bar al bocchello). Idranti (a muro, a colonna, sottosuolo o
naspi, vedi Figura 238 e Figura 239) collegati con tubazioni flessibili a lance erogatrici che consentono,
per numero ed ubicazione, la copertura protettiva dell’intera attività.
Un breve cenno va dedicato alla rete antincendi costituita da naspi che rappresenta, per la
possibilità di impiego anche da parte di personale non addestrato, una valida alternativa agli idranti
soprattutto per le attività a rischio lieve.

Figura 239: Esempi di naspi


Le reti idriche con naspi vengono di solito collegate alla normale rete sanitaria, dispongono di
tubazioni in gomma avvolte su tamburi girevoli e sono provviste di lance da 25 mm. con getto
regolabile (pieno o frazionato) con portata di 50 lt/min ad 1,5 bar.

Figura 240: Esempi di idranti per sopra suolo UNI-70


Alimentazione della rete per idranti
La rete antincendio ad idranti deve essere alimentata da una rete separata da quella idrica e, se
possibile, in modo preferenziale. L’acqua può provenire da pozzi, canali, serbatoi o anche dalla rete
pubblica. Nel caso in cui non si utilizzi la rete pubblica è bene che le pompe di alimentazione della rete
antincendio siano alimentate elettricamente in modo preferenziale58.
Nel caso di acquedotto pubblico occorre verificare che la portata contrattuale sia sufficiente alle
necessità dell’impianto.

58 Cioè in modo elettricamente autonomo e quindi direttamente da un gruppo elettrogeno esterno alla rete
normale.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 260

In caso di verifica negativa occorre prevedere un serbatoio di accumulo specificamente


utilizzato per l’alimentazione della rete antincendio e capace di alimentare la rete per almeno 2 ore.
Se si usano serbatoi sopraelevati è bene che la riserva idrica si la zona inferiore con pescaggio
solamente per l’impianto antincendio.
La rete di alimentazione degli idranti (UNI-45 o UNI-70) è priva di contatore e le saracinesche
dei singoli idranti devono essere piombate ed aperte solo in caso di incendio. La rete di alimentazione interna
deve avere almeno una connessione con la rete esterna UNI-70 in modo da potere essere
alimentata dalla autocisterna dei VV.F. in caso di necessità.
Per la rete esterna (UNI-70) occorre che gli idranti non distino più di 50 m l’uno dall’altro.
Nel caso di impianti industriali si utilizzano anche super idranti (UNI-100, UNI-125)
caratterizzati da un diametro di attacco alle tubazioni pari a DN 100 e DN 125.
Fra idranti e rete si può inserire una saracinesca (da tenere normalmente aperta!) che risulta utile in
caso di riparazioni alla rete o agli idranti.
La progettazione della rete antincendio con idranti fissi può essere eseguita con le metodologie
usuali delle reti idriche. I dati di partenza sono la portata delle lance antincendio, le pressioni minime
dell’acqua da assicurare ai singoli idranti. Apposite tabelle o anche i dati forniti dai costruttori
consentono di determinare la portata d’acqua dagli idranti al variare della pressione di alimentazione.
In genere si impone una pressione di 3-4 bar all’idrante più lontano nella rete. La portata
minima della rete è di 600-800 lt/min (per consentire un buon fattore di contemporaneità) e la velocità
dell’acqua è di 2-3 m/s.
9.5.3 IDRANTI DI SPEGNIMENTO AUTOMATICI SPRINKLER
Tali impianti possono classificarsi in base alle sostanze utilizzate per l’azione estinguente:
⋅ Impianti ad acqua Sprinkler (ad umido, a secco, alternativi, a preallarme, a diluvio etc.);
⋅ Impianti a schiuma;
⋅ Impianti ad anidride carbonica;
⋅ Impianti ad halon;
⋅ Impianti a polvere.
Un impianto automatico di estinzione ad acqua consta di più parti:
⋅ Fonte di alimentazione (acquedotto, serbatoi, vasca, serbatoio in pressione);
⋅ Pompe di mandata;
⋅ Centralina valvolata di controllo e allarme;
⋅ Condotte montanti principali;
⋅ Rete di condotte secondarie;
⋅ Serie di testine erogatrici (sprinkler).
Tipi di impianto
L’erogazione di acqua può essere comandata da un impianto di rilevazione incendi, oppure
essere provocata direttamente dalla apertura delle teste erogatrici, per fusione di un elemento metallico
o per rottura a determinate temperature, di un elemento termosensibile a bulbo che consente in tal
modo la fuoriuscita d’acqua.
⋅ Ad umido: tutto l’impianto è permanentemente riempito di acqua in pressione: è il sistema più
rapido e si può adottare nei locali in cui non esiste rischio di gelo.
⋅ A secco: la parte d’impianto non protetta, o sviluppantesi in ambienti soggetti a gelo, è
riempita di aria in pressione: al momento dell’intervento una valvola provvede al riempimento
delle colonne con acqua.
⋅ Alternativi : funzionano come impianti a secco nei mesi freddi e ad umido nei mesi caldi.
⋅ A preallarme: sono dotati di dispositivo che differisce la scarica per dar modo di escludere i
falsi allarmi.
⋅ A diluvio :impianti con sprinklers aperti alimentati da valvole ad apertura rapida in grado di
fornire rapidamente grosse portate.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 261

⋅ Gli impianti a schiuma sono concettualmente simili a quelli ad umido e differiscono per la
presenza di un serbatoio di schiumogeno e di idonei sistemi di produzione e scarico della schiuma
(versatori).
⋅ Impianti di anidride carbonica, ad halon, a polvere: hanno portata limitata dalla capacità
geometrica della riserva (batteria di bombole, serbatoi). Gli impianti a polvere, non essendo
l’estinguente un fluido, non sono in genere costituiti da condotte, ma da teste singole
autoalimentate da un serbatoio incorporato di modeste capacità. La pressurizzazione è sempre
ottenuta mediante un gas inerte (azoto, anidride carbonica).
Erogatori
Alla base del funzionamento degli impianti automatici di spegnimento vi sono gli erogatori
(sprinkler) che sono costituiti da elementi termosensibili che, raggiunta una temperatura limite,
rilasciano automaticamente un getto d’acqua in modalità predefinite (dalla forma e posizione
dell’ugello, vedi Figura 241).

Figura 241: Esempi di sprinkler, di sistema ad acqua, valvola di allarme sprinkler


Lo sprinkler è costituito da una parte filettata per il fissaggio al tubo di mandata dell’acqua, da
un erogatore per il rilascio dell’acqua e da un bulbo di vetro che si rompe al raggiungimento della
temperatura prefissata. La tipologia degli sprinkler può ridursi alle due seguenti:
⋅ Erogatori che producono un getto d’acqua (fra l’80 e il 90% della portata totale) di forma
parabolica verso il pavimento su un’area definita;
⋅ Erogatore che fornisce un getto d’acqua semiparabolico verso il pavimento e la parte
retrostante. Essi sono utilizzati in prossimità delle pareti, di pilastri o in genere in vicinanza di
ostacoli che possono ostacolare il flusso d’acqua.
Portata di scarica
La portata minima di scarica degli erogatori, espressa in lt/min, è determinata mediante la
relazione:
Q=K P
con K coefficiente di efflusso (funzione del diametro dell’erogatore) e P la pressione minima all’erogatore
(espressa in MPa). Ad esempio con K = 253 e P = 0.05 MPa si ha una portata di scarica di 56.7
lt/min. Il valore di K viene fornito dai costruttori.
In Figura 246 si ha un esempio di selezione di sprinkler, mediante CAD, con l’indicazione del
simbolismo e della sigla.
Posizionamento degli erogatori
Gli sprinkler debbono essere installati con una disposizione il più possibile regolare) come
indicato dalla norma UNI 9489) con diffusore parallelo all’intradosso dei solai di copertura ed in
modo da evitare interferenze fra i getti degli erogatori contigui. A questo scopo è opportuno rispettare
le seguenti distanze:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 262

⋅ Al di sotto degli erogatori deve esserci sempre una distanza dal muro o pavimento non inferiore
a 50 cm;
⋅ La distanza fra due erogatori non sarà mai inferiore a 2 m;
⋅ La distanza dalle estremità di ciascuna diramazione sarà eguale alla metà della distanza fra i
singoli erogatori;
⋅ La distanza dal soffitto dovrà essere compresa fra 75 e 150 cm e in ogni caso ad una distanza
mai superiore ai 450 cm.
In Figura 242 si ha un esempio di installazione di sprinkler per un capannone industriale e in
Figura 243 si ha una vista assonometrica dell’installazione in un locale chiuso.

Figura 242: Esempio di installazione di impianto sprinkler in un capannone

Elementi termosensibili
Gli elementi termosensibili sono costituiti da bulbi di vetro con all’interno un liquido
opportunamente scelto. Il colore del liquido caratterizza la temperatura nominale di taratura e quindi
di apertura dell’ugello. Si utilizzano liquidi e colori corrispondenti alla seguente Tabella 29. La
selezione del tipo di liquido deve essere fatta in modo che la temperatura nominale sia almeno 30 °C
superiore a quella dell’ambiente.
Temperatura Nominale di Taratura (°C) Colore del liquido
57 Arancione
68 Rosso
79 Giallo
93 Verde
141 Blu
182 Lilla
227 Nero
260 Nero
343 Nero
Tabella 29: Codice dei colori per gli sprinkler
Alimentazione
L’alimentazione dell’impianto sprinkler entra in funzione automaticamente quando una o più
testine entrano in funzione. Essa deve garantire una pressione adeguata anche quando l’impianto non
è in fase operativa.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 263

E’ opportuno alimentare gli impianti sprinkler con utenze preferenziali59 ed è opportuno avere
anche un attacco UNI-70 esterno (opportunamente segnalato) per consentire, in caso di necessità,
l’alimentazione esterna dalle autobotti del VV.F.
Valvole ed apparecchiature ausiliarie
A valle dell’alimentazione e a monte del resto dell’impianto occorre installare le seguenti
apparecchiature di controllo:
⋅ Valvola principale di intercettazione;
⋅ Valvola di comando allarme;
⋅ Campana idraulica di allarme;
⋅ Valvola principale di scarico;
⋅ Apparecchiature di prova;
⋅ Due manometri.
In Figura 244 si ha un esempio di gruppo di controllo di un impianto sprinkler.
Tubazioni
Le tubazioni avranno in ogni caso un diametro non inferiore a DN 32 e di tipo in acciaio PN
10. Esse debbono essere ancorate alle strutture del fabbricato mediante opportuni sostegni che
garantiscano la stabilità dell’impianto in ogni condizione. I sostegni debbono assorbire gli sforzi assiali
e trasversali in fase di scarica e dovranno essere incombustibili.
I tubi debbono essere trattenuti mediante collari di sostegno che li inviluppano per intero e non
si possono utilizzare graffe elastiche o sostegni di tipo aperto.

Figura 243: Esempio di sprinkler a secco60

59 Le utenze preferenziali sono quelle che debbono comunque essere alimentate dalla rete elettrica o da quella
idrica per garantire le massime condizioni di sicurezza. Ad esempio solo utenze idriche presenziali gli impianti ad idranti,
quelli sprinkler, le reti UNI-70 esterne. Le pompe di alimentazione o le autoclavi, se presenti, debbono essere alimentate in
modo preferenziale elettricamente.
60 Gli impianti sprinkler a secco sono impiegati a protezione delle aree dove non vi è riscaldamento, di

conseguenza pericolo di formazione di ghiaccio nei mesi invernali all’interno delle tubazioni dell’impianto sprinkler.
Quest’ultime, alle quali sono collegati gli erogatori, sono caricate ed alimentate con aria compressa in qualità di agente di
pressurizzazione. Il calore sviluppato dall’incendio provoca l’apertura di uno o più erogatori sprinkler, causando la
fuoriuscita dell’aria e la relativa caduta di pressione. Di conseguenza l’acqua riempie l’intera rete di tubazioni e verrà
erogata solo dagli sprinkler aperti in quel momento, ponendo sotto controllo l’incendio dell’area interessata e attivando il
sistema di allarme generale dell’impianto.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 264

Figura 244: Vista assonometrica del montaggio di un sistema sprinkler


La distanza fra i sostegni non dovrà mai superare i 4 m per tubazioni di diametro sotto DN 65 e
di 6 m per diametri superiori.
Criteri di dimensionamento di un impianto sprinkler
Il dimensionamento è effettuato prendendo in considerazione le aree operative (di dimensioni
dipendenti dalla classe dell’edificio, vedi esempio di Figura 245) e alla densità di scarica risultanti dalla
UNI 9489 per la classe dell’edificio. La rete di alimentazione è del tipo a pettine con collettore centrale
o ad anello a seconda dei casi.
La procedura di calcolo della rete parte dalla determinazione, per ciascuna area operativa, di
tutte le caratteristiche idrauliche dell’area operativa (portate, perdite distribuite e concentrate), della
prevalenza totale, della portata totale e della curva di domanda dell’area operativa.
Le perdite distribuite sono calcolate mediante la relazione di Hazen-Williams:
6,05 ⋅ Q1,85 ⋅109
p=
C1,85 ⋅ d 4,87
dove:
⋅ p è la perdita di carico unitaria, in millimetri di colonna d’acqua al metro di tubazione;
⋅ Q è la portata, in litri al minuto;
⋅ C è la costante dipendente dalla natura del tubo, che è assunta uguale a:
⋅ 100 per tubi in ghisa;
⋅ 120 per tubi in acciaio;
⋅ 140 per tubi di acciaio inossidabile, in rame e ghisa rivestita;
⋅ 150 per tubi in plastica, fibra di vetro e materiali analoghi;
⋅ d è il diametro interno medio della tubazione, in millimetri.
Le perdite concentrate dovute ai pezzi speciali inseriti in ciascun tratto della rete possono essere
calcolate, ad esempio, con il metodo della lunghezza equivalente e quindi associando a ciascun pezzo
speciale un coefficiente di perdita di Darcy opportuno. I coefficienti utilizzati sono dati nella Tabella
30. Per il calcolo viene impostata la pressione di scarica minima da assicurare alle testine di erogazione
idraulicamente più sfavorita, pari a 50 kPa, nell’ipotesi che tutti gli erogatori dell’area operativa
eroghino simultaneamente una portata totale pari alla portata da destinare all’area operativa.
La progettazione delle reti sprinkler può essere effettuata mediante CAD specifici che
consentono anche il disegno della rete.
Ad esempio in Figura 245 si ha il caso di un impianto sprinkler per una biblioteca. Il CAD
consente di selezionare il tipo di sprinkler, vedi Figura 246 e la Figura 247, e le aree operative e la
pompa di alimentazione, vedi Figura 248.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 265

Tipo di elemento Fattore di Darcy


Valvole 0.3
Curve a 90 ° 1.5
Innesti a T 1.5
Restringimenti 0.5
Allargamenti 1.0
Saracinesche 5.0
Curve graduali 0.5
Tabella 30: Fattori di Darcy per alcuni elementi
Poi effettua i calcoli di verifica e di dimensionamento della rete (tubazioni, perdite, portate totali) e
consente di avere stampe del tipo indicate in Tabella 31 e Tabella 32. In quest’ultima si ha la stampa
solo di alcune righe a titolo di esempio. Caratteristica degli impianti sprinkler a maglia chiusa è di
potere ricevere l’alimentazione idrica da più direzioni essendo la rete chiusa ad anello. Ciò rende
migliore l’operatività di queste reti potendosi avere condizioni di sicurezza certamente più elevate. La
suddivisione in aree operative consente di progettare una rete per un incendio ridotto avente
dimensioni pari a quella dell’area operativa calcolata. E’ dunque necessario effettuare le verifiche per
tutte le aree operative ed individuare quella nelle peggiori condizioni.

Figura 245: Rete sprinkler, in pianta, per una biblioteca

Figura 246: Selezione degli sprinkler da inserire in rete


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 266

Figura 247: Dati caratteristici di uno sprinkler

Figura 248: Selezione della pompa di alimentazione

Tabella 31: Dati generali di calcolo per l’impianto sprinkler della biblioteca
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 267

Tabella 32: Risultati di calcolo per l’impianto sprinkler della biblioteca

9.5.4 SISTEMI DI ALLARME INCENDIO


La gestione della sicurezza dei sistemi antincendio è spesso affidata all’Uomo che interviene
manualmente (ad esempio con estintori) o attivando gli impianti attivi. Oggi questa gestione è
automatizzata mediante sistemi elettronici di intervento che vengono attivati da rivelatori di incendio
(rivelatori di fumo). Essi consentono, ad esempio, di attivare la chiusura delle porte antincendio o gli
stessi impianti antincendio (a idranti o sprinkler).
Essi consentono, altresì, di chiamare automaticamente i VV.F. e quindi di avere un intervento
esterno rapido e sicuro. Se ne presenta nel prosieguo una breve descrizione.
9.5.5 SISTEMI DI RIVELAZIONE AUTOMATICA
Tali impianti rientrano a pieno titolo tra i provvedimenti di protezione attiva e sono finalizzati
alla rivelazione tempestiva del processo di combustione prima cioè che questo degeneri nella fase di
incendio generalizzato.
È fondamentale riuscire ad avere un tempo d’intervento possibilmente inferiore al tempo di prima
propagazione (prima parte della curva di incendio di Figura 256), ossia intervenire prima che si sia
verificato il “flash over”; infatti siamo ancora nel campo delle temperature relativamente basse,
l’incendio non si è ancora esteso a tutto il sistema e quindi ne è più facile lo spegnimento ed i danni
sono ancora contenuti.
Dal diagramma qualitativo riportato in Figura 256 si può vedere che l’entità dei danni, se non si
interviene prima, ha un incremento notevole non appena si è verificato il “flash over”. Pertanto un
impianto di rivelazione automatica trova il suo utile impiego nel ridurre il “tempo reale” e consente:
⋅ di avviare un tempestivo sfollamento delle persone, sgombero dei beni etc;
⋅ di attivare un piano di intervento;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 268

⋅ di attivare i sistemi di protezione contro l’incendio (manuali e/o automatici di spegnimento).


Rivelatori d’incendio – Generalità
I rivelatori di incendio possono essere classificati in base al fenomeno chimico-fisico rilevato in:
⋅ di Calore
Rilevatori
⋅ di fumo (a ionizzazione o ottici)
⋅ di gas
⋅ di fiamme
oppure in base al metodo di rivelazione:
⋅ statici (allarme al superamento di un valore di soglia)
⋅ differenziali (allarme per un dato incremento)
⋅ velocimetrici (allarme per velocità di incremento).
La suddivisione può essere infine effettuata in base al tipo di configurazione del sistema di
controllo dell’ambiente:
⋅ puntiformi
⋅ Rilevatori a punti multipli (poco diffusi)
⋅ lineari (poco diffusi).
In sintesi potremo quindi definire un “rilevatore automatico d’incendio” come un dispositivo
installato nella zona da sorvegliare che è in grado di misurare come variano nel tempo grandezze
tipiche della combustione, oppure la velocità della loro variazione nel tempo, oppure la somma di tali
variazioni nel tempo. Inoltre esso è in grado di trasmettere un segnale d’allarme in un luogo
opportuno quando il valore della grandezza tipica misurata supera oppure è inferiore ad un certo
valore prefissato (soglia).
“L’impianto di rivelazione” può essere definito come un insieme di apparecchiature fisse utilizzate
per rilevare e segnalare un principio d’incendio. Lo scopo di tale tipo d’impianto è quello di segnalare
tempestivamente ogni principio d’incendio, evitando al massimo i falsi allarmi, in modo che possano
essere messe in atto le misure necessarie per circoscrivere e spegnere l’incendio.
Componenti dei sistemi automatici di rivelazione
Un impianto rilevazione automatica d’incendio è generalmente costituito da :
⋅ • rilevatori automatici d’incendio;
⋅ • centrale di controllo e segnalazione;
⋅ • dispositivi d’allarme;
⋅ • comandi d’attivazione;
⋅ • elementi di connessione per il trasferimento di energia ed informazioni.
Evidentemente vi possono essere impianti che hanno componenti in più o in meno rispetto a
quelli elencati.
La centrale di controllo e segnalazione garantisce l’alimentazione elettrica (continua e
stabilizzata) di tutti gli elementi dell’impianto ed è di solito collegata anche ad una “sorgente di energia
alternativa” (batterie, gruppo elettrogeno, gruppo statico ecc.) che garantisce il funzionamento anche in caso di
“mancanza di alimentazione elettrica”. Avvenuto l’incendio, l’allarme può essere “locale” o “trasmesso a
distanza”.
L’intervento può essere manuale (azionamento di un estintore o di un idrante, intervento squadre VV.F.)
oppure automatico (movimentazione di elementi di compartimentazione e/o aerazione, azionamento di impianti di
spegnimento automatico, d’inertizzazione, predisposizione di un piano esodo).
Un approfondito studio delle operazioni svolte manualmente ed automaticamente e la loro
interconnessione e sequenza temporale e procedurale può evitare falsi allarmi e mancati funzionamenti
oppure ridurne gli effetti negativi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 269

Ad esempio nel caso di un impianto di rivelazione automatica collegato ad un impianto fisso di


spegnimento a pioggia è preferibile, se è possibile, che in seguito ad un allarme un operatore possa
visualizzare sul pannello di controllo della centrale in quale zona dell’insediamento è stato rilevato
l’incendio (presunto); effettuato un controllo visivo, solo se effettivamente è in corso un incendio,
l’operatore aziona l’impianto di spegnimento.
E’ opportuno quindi perseguire soluzioni equilibrate che prevedono un grado d’automazione
compatibile con le soluzioni tecnologiche già ampiamente collaudate affidando all’uomo il compito di
effettuare i controlli che si rendessero necessari.
Tali tipi d’impianti trovano valide applicazioni in presenza di:
⋅ Depositi intensivi;
⋅ Depositi di materiali e/o sostanze ad elevato valore specifico;
⋅ Ambienti con elevato carico d’incendio, non compartimentabili;
⋅ Ambienti destinati ad impianti tecnici difficilmente accessibili e controllabili (cunicoli, cavedi,
intercapedini al di sopra di controsoffitti etc.).
9.6 SEGNALETICA DI SICUREZZA
In base al D.Lgs 14081996 N. 493 si hanno le seguenti definizioni:
⋅ segnaletica di sicurezza e di salute sul luogo di lavoro una segnaletica che, riferita ad un
oggetto, ad una attività o ad una situazione determinata, fornisce una indicazione o una
prescrizione concernente la sicurezza o la salute sul luogo di lavoro, o che utilizza, a seconda dei
casi, un cartello, un colore, un segnale luminoso o acustico, una comunicazione verbale o un
segnale gestuale;
⋅ segnale di divieto, un segnale che vieta un comportamento che potrebbe far correre o causare
un pericolo;
⋅ segnale di avvertimento, un segnale che avverte di un rischio o pericolo;
⋅ segnale di prescrizione, un segnale che prescrive un determinato comportamento;
⋅ segnale di salvataggio o di soccorso, un segnale che fornisce indicazioni relative alle uscite di
sicurezza o ai mezzi di soccorso o di salvataggio;

Figura 249: Segnaletica di salvataggio e antincendio


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 270

9.6.1 ILLUMINAZIONE DI SICUREZZA


Si tratta di un impianto di illuminazione che fa uso principale della energia elettrica e quindi di
luce artificiale: esso deve garantire una illuminazione sufficiente a permettere di evacuare in sicurezza i
locali (intensità minima di illuminazione 5 lux).
Dovranno pertanto essere illuminate le indicazioni delle porte e delle uscite di sicurezza, i
segnali indicanti le vie di esodo, i corridoi e tutte quelle parti che è necessario percorrere per
raggiungere un’uscita verso luogo sicuro. E’ opportuno, per quanto possibile, che le lampade ed i
segnali luminosi dell’impianto luci di sicurezza non siano posizionati in alto (la presenza di fumo ne
potrebbe ridurre la visibilità in maniera drastica sin dai primi momenti).
L’Impianto deve essere alimentato da una adeguata fonte di energia quali batterie in tampone o
batterie di accumulatori con dispositivo per la ricarica automatica (con autonomia variabile da 30
minuti a 3 ore, a secondo del tipo di attività e delle circostanze) oppure da apposito ed idoneo gruppo
elettrogeno; l’intervento dovrà comunque avvenire in automatico, in caso di mancanza della fornitura
principale dell’energia elettrica, entro 5 secondi circa (se si tratta di gruppi elettrogeni il tempo può
raggiungere i 15 secondi). In caso di impianto alimentato da gruppo elettrogeno o da batterie di
accumulatori centralizzate sarà necessario posizionare tali apparati in luogo sicuro, non soggetto allo
stesso rischio di incendio della attività protetta; in questo caso il relativo circuito elettrico deve essere
indipendente da qualsiasi altro ed essere inoltre protetto dai danni causati dal fuoco, da urti, ecc.
9.6.2 EVACUATORI DI FUMO E DI CALORE
Tali sistemi di protezione attiva dall’incendio sono di frequente utilizzati in combinazione con
impianti di rivelazione e sono basati sullo sfruttamento del movimento verso l’alto delle masse di gas
caldi generate dall’incendio che, a mezzo di aperture sulla copertura, vengono evacuate all’esterno.
Gli evacuatori di fumo e calore (EFC) consentono pertanto di:
⋅ Agevolare lo sfollamento delle persone presenti e l’azione dei soccorritori grazie alla maggiore
probabilità che i locali restino liberi da fumo almeno fino ad un’altezza da terra tale da non
compromettere la possibilità di movimento.
⋅ Agevolare l’intervento dei soccorritori rendendone più rapida ed efficace l’opera.
⋅ Proteggere le strutture e le merci contro l’azione del fumo e dei gas caldi, riducendo in
particolare il rischio e di collasso delle strutture portanti.
⋅ Ritardare o evitare l’incendio a pieno sviluppo “flash over”.
⋅ Ridurre i danni provocati dai gas di combustione o da eventuali sostanze tossiche e corrosive
originate dall’incendio.
Gli EFC devono essere installati, per quanto possibile, in modo omogeneo nei singoli
2
compartimenti, a soffitto in ragione, ad esempio, di uno ogni 200 m (su coperture piane o con
pendenza minore del 20 %) come previsto dalla regola tecnica di progettazione costituita dalla norma
UNI VVF 9494. Degli EFC si parlerà estesamente nel §13.5. La ventilazione dei locali può essere
ottenuta con vari sistemi:
⋅ lucernari a soffitto :possono essere ad apertura comandata dello sportello o ad apertura per
rottura del vetro, che deve essere allora del tipo semplice
⋅ ventilatori statici continui: la ventilazione in questo caso avviene attraverso delle fessure
laterali continue. L’ingresso dell’acqua è impedito da schermi e cappucci opportunamente
disposti. In taluni casi questo tipo è dotato di chiusura costituita da una serie di sportelli con
cerniera centrale o laterale, la cui apertura in caso d’incendio avviene automaticamente per la
rottura di un fusibile
⋅ sfoghi di fumo e di calore: il loro funzionamento è in genere automatico a mezzo di fusibili
od altri congegni. La loro apertura può essere anche manuale. E’ preferibile avere il maggior
numero possibile di sfoghi, al fine di ottenere che il sistema di ventilazione entri in funzione il
più presto possibile in quanto la distanza tra l’eventuale incendio e lo sfogo sia la più piccola
possibile
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 271

⋅ aperture a shed: si possono prestare ad ottenere dei risultati soddisfacenti, se vengono


predisposti degli sportelli di adeguate dimensioni ad apertura automatica o manuale
⋅ superfici vetrate normali: l’installazione di vetri semplici che si rompano sotto l’effetto del
calore può essere adottata a condizione che sia evitata la caduta dei pezzi di vetro per rottura
accidentale mediante rete metallica di protezione.

Figura 250: efficacia degli evacuatori di fumo e di calore

Figura 251: Tipologia di EFC


9.7 CODICE ATTIVITÀ
Ogni edificio viene identificato mediante un codice di attività, opportunamente previsti dalle
norme vigenti, che ne descrive le funzioni principali. E’ anche possibile avere una attività principale ed
una secondaria. Nel caso di Figura 252 si ha un primo codice 86 che si riferisce ad ospedali ed un
secondo codice 77 che si riferisce ad autorimesse.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 272

Figura 252: Esempio di selezione del codice di attività


9.8 IL CARICO DI INCENDIO
Il carico di incendio, vedi Circolare 14-09-1961 nel prosieguo, é espresso dalla quantità
equivalente di legno per m², che si ottiene dividendo per 4.400 (potere calorifico del legno) il numero di
calorie per unità di superficie orizzontale del locale, o del piano considerato, che al massimo si
possono sviluppare per effetto della combustione di tutti i materiali combustibili presenti:
q = Σgi Hi/ (A • 4400)
dove:
⋅ q é il carico di incendio (in kg legna / m²)
⋅ gi il peso (in kg) del generico fra gli n combustibili che si prevedono presenti nel locale o
nel piano nelle condizioni più gravose di carico di incendio
⋅ Hi é il potere calorifico superiore (in kcal/kg) del generico fra gli n combustibili di peso gi ;
⋅ A é la superficie orizzontale (in m²) del locale o del piano del fabbricato considerato
⋅ 4.400 é il potere calorifico del legno (in kcal/kg).
Le condizioni più gravose del carico di incendio di un certo locale o piano sono quelle per le
quali la sommatoria gi • Hi è massima e vanno determinate esaminando le previste utilizzazioni dei
locali e dei piani come dichiarato dal progettista e dal proprietario del fabbricato stesso.
Si osservi che il calcolo del Carico di Incendio (CdI) può essere effettuato con CAD specifici che
facilitano molto il lavoro. In Figura 253 si ha un esempio di selezione dei materiali.
Per i fabbricati civili con struttura di acciaio vengono distinte le seguenti classi:
⋅ Classe 15
⋅ Classe 30
⋅ Classe 45
⋅ Classe 60
⋅ Classe 90
⋅ Classe 120
⋅ Classe 180
Il numero indicativo di ogni classe esprime il carico di incendio virtuale in kg/m² di legna
standard. Detto numero indicativo esprime anche in minuti primi la durata minima di resistenza al
fuoco da richiedere alla struttura o all’elemento costruttivo in esame.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 273

Figura 253: Selezione dei materiali interni ad un comparto

Figura 254: Selezione del tipo di archivio (Categorie dei materiali)


La classe del piano o del locale considerato si determina pertanto in base alla formula:
C=k•q
in cui:
⋅ C è il numero indicativo della classe
⋅ q è il carico di incendio dichiarato (in kg legna/m2)
⋅ k è un coefficiente di riduzione che tiene conto delle condizioni reali di incendio del
locale o del piano nel complesso dell’edificio.
Il valore del coefficiente k, compreso tra 0,2 e 1,0, viene determinato secondo le modalità che
seguono, in base alle caratteristiche dell’edificio, alla natura del materiale combustibile presente, alla
destinazione, alla distanza da altri edifici ed alle esistenti misure di segnalazione e prevenzione degli
incendi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 274

Tabella 33: Indici di valutazione


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 275

Per il calcolo del coefficiente di riduzione, i singoli fattori di influenza vengono valutati
mediante indici numerici che possono essere negativi o positivi, in quanto si intendono riferiti alle
condizioni di un caso reale medio di incendio.
Gli indici di valutazione degli edifici nel loro complesso, e dei singoli piani e locali sono indicati
nella Tabella 33.
Il valore della somma algebrica degli indici di valutazione, riportato in ascisse nel diagramma di
Figura 255, fornisce direttamente il coefficiente di riduzione, per cui va moltiplicato il carico di
incendio per la determinazione della classe del piano e del locale nell'ambito dell' edificio considerato.
Qualora il numero indicativo della classe risultante dal carico fosse diverso dal numero distintivo
delle classi previste dalle presenti Norme, si assegnerà l'edificio o la parte di esso considerata alla classe
immediatamente superiore.
Nel caso in cui i numeri indicativi di classe risultassero dal calcolo superiori alla classe 180,
l'edificio o la parte di esso considerata saranno assegnati alla classe 180.

Figura 255: Diagramma per gli indici di valutazione


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 276

10. LEGGI – NORME E DECRETI UTILI PER L’ANTINCENDIO


Quanto descritto nel precedente capitolo è una sintesi delle procedure previste da Norme,
Decreti e Leggi sugli impianti antincendio. In questo capitolo si vuole riportare una breve sintesi di
alcune delle norme, Leggi e decreti di riferimento in questo settore. L’Allievo potrà osservare come
molo di quanto sopra detto derivi immediatamente dal testo normativo che viene presentato nei
successivi paragrafi. E’ sempre opportuno fare riferimento al testo vigente !
10.1 D.LGS 149/96 – LOCALI DI INTRATTENIMENTO E PUBBLICO SPETTACOLO
Art. 4.5.3 Ventilazione
I vani scala devono essere provvisti superiormente di aperture di aerazione con superficie non
inferiore a 1 m2, con sistema di apertura degli infissi comandato automaticamente da rivelatori di
incendio o manualmente in prossimità dell’entrata alle scale, in posizione segnalata.
Art. 5.2.5 Sistema di evacuazione fumi e calore
La scena deve essere dotata di un efficace sistema di evacuazione fumi e calore, realizzato a
regola d’arte. I dispositivi di comando manuale del sistema devono essere ubicati in posizione
segnalata e protetta in caso di incendio.
Art. 5.3 Scena integrata nella sala
L’affollamento sulla base del quale vanno dimensionate le vie d’uscita, deve tenere conto, oltre
che del pubblico, anche degli artisti e del personale di servizio alla scena, qualora l’area riservata alla
scena non disponga di vie d’uscita a uso esclusivo.
La lunghezza massima delle vie d’uscita deve essere ridotta del 20% rispetto a quanto previsto al
punto 4.3.4. Il numero di uscite dalla sala e quelle che immettono sull’esterno non può essere in ogni
caso inferiore a tre, di larghezza non inferiore a 1,2 m. ciascuna. Lo spazio riservato al pubblico deve
distare di almeno 2 m. dalla scena. Gli scenari devono essere di tipo fisso e di classe di reazione al
fuoco non superiore a1. La sala deve essere dotata di un efficace sistema di evacuazione fumi.
Capo I Disposizioni generali

Art. 1 Campo di applicazione


⋅ 1. Le presenti norme di sicurezza si applicano agli edifici pubblici e privati che, nella loro
globalità, risultino normalmente sottoposti a tutela ai sensi della legge 1° giugno 1939, n. 1089
(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 184 dell’8 agosto 1939), destinati a contenere biblioteche
ed archivi.
...omissis...
Capo II Prescrizioni tecniche

Art. 3 Disposizioni in esercizio


⋅ 1. E’ vietato, nei locali di cui all’Art. 1, tenere ed usare fiamme libere, fornelli o stufe a gas, stufe
elettriche con resistenza in vista, stufe a kerosene, apparecchi a incandescenza senza protezione,
nonché depositare sostanze che possono, per la loro vicinanza, reagire tra loro provocando
incendi e/o esplosioni.
⋅ 2. Il carico d’incendio delle attività di cui all’Art. 1, certificato all’atto della richiesta del
certificato di prevenzione incendi, non può essere incrementato introducendo negli ambienti
nuovi elementi di arredo combustibili con esclusione del materiale librario e cartaceo la cui
quantità massima dovrà essere in ogni caso predeterminata.
⋅ 3. Negli atri, nei corridoi di disimpegno, nelle scale, e nelle rampe, il carico d’incendio esistente
costituito dalle strutture, certificato come sopra, non potrà essere modificato con l’apporto di
ulteriori arredi e di materiali combustibili.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 277

⋅ 4. Per le attività di cui al comma 1 dell’Art. 1 di nuova istituzione o per gli ampliamenti da
realizzare negli edifici sottoposti nella loro globalità a tutela ai sensi della legge n. 1089/1939, il
carico di incendio relativo agli arredi e al materiale depositato, con esclusione delle strutture e
degli infissi combustibili esistenti, non dovrà superare i 50 kg/m2 in ogni singolo ambiente.
⋅ 5. Gli elementi di arredo combustibili introdotti negli ambienti successivamente alla data di
entrata in vigore della presente norma, con esclusione del materiale esposto, debbono risultare
omologati nelle seguenti classi di reazione al fuoco: i materiali di rivestimento dei pavimenti
debbono essere di classe non superiore a 2; gli altri materiali di rivestimenti e i materiali
suscettibili di prendere fuoco su ambo le facce debbono essere di classe 1; i mobili imbottiti
devono essere di classe 1 IM.
Art. 5 Depositi
⋅ 1. Nei depositi il materiale ivi conservato deve essere posizionato all’interno del locale in scaffali
e/o contenitori metallici consentendo passaggi liberi non inferiori a 0,90 m tra i materiali ivi
depositati.
⋅ 2. Le comunicazioni tra questi locali ed il resto dell’edificio debbono avvenire tramite porte REI
120 munite di congegno di autochiusura.
⋅ 3. Nei depositi il cui carico di incendio è superiore a 50 kg/m2 debbono essere installati impianti
di spegnimento automatico collegati ad impianti di allarme.
⋅ 4. Nei locali dovrà essere assicurata la ventilazione naturale pari a 1/30 della superficie in pianta
o n. 2 ricambi ambiente/ora con mezzi meccanici.
Art. 8 Mezzi antincendio
3. Devono essere installati impianti fissi di rivelazione automatica di incendio. Questi debbono
essere collegati mediante apposita centrale a dispositivi di allarme ottici e/o acustici percepibili in
locali presidiati.
Capo III prescrizioni per la gestione

Art. 9 Gestione della sicurezza


⋅ 3. Il responsabile tecnico addetto alla sicurezza deve intervenire affinché:
⋅ a) siano mantenuti efficienti i mezzi antincendio e siano eseguite con tempestività le
manutenzioni o sostituzioni necessarie. Siano altresì condotte periodicamente verifiche degli
stessi mezzi con cadenza non superiore a sei mesi ed annotate nel registro dei controlli di cui al
punto 4;
⋅ b) siano mantenuti costantemente in buono stato tutti gli impianti presenti nell’edificio. Gli
schemi aggiornati di detti impianti nonché di tutte le condotte, fogne e opere idrauliche,
strettamente connesse al funzionamento dell’edificio, ove in dotazione all’Istituto, devono
essere conservati in apposito fascicolo. In particolare per gli impianti elettrici deve essere
previsto che un addetto qualificato provveda, con la periodicità stabilita dalle specifiche
normative CEI, al loro controllo e manutenzione ed a segnalare al responsabile dell’attività
eventuali carenze e/o malfunzionamento, per gli opportuni provvedimenti. Ogni loro modifica
o integrazione dovrà essere annotata nel registro dei controlli e inserita nei relativi schemi. In
ogni caso tutti gli impianti devono essere sottoposti a verifiche periodiche con cadenza non
superiore a tre anni;
⋅ c) siano tenuti in buono stato gli impianti di ventilazione, di condizionamento e riscaldamento
ove esistenti, prevedendo in particolare una verifica periodica degli stessi con cadenza non
superiore ad un anno. Le centrali termiche e frigorifere devono essere condotte da personale
qualificato in conformità con quanto previsto dalle vigenti normative;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 278

⋅ d) sia previsto un servizio organizzato composto da un numero proporzionato di addetti


qualificati, in base alle dimensioni e alle caratteristiche dell’attività, esperti nell’uso dei mezzi
antincendio installati;
⋅ e) siano eseguite per il personale addetto all’attività periodiche riunioni di addestramento e di
istruzioni sull’uso dei mezzi di soccorso e di allarme, nonché esercitazioni di sfollamento
dell’attività.
⋅ 4. Il responsabile tecnico addetto alla sicurezza di cui al comma 1 deve altresì curare la tenuta di
un registro ove sono annotati tutti gli interventi ed i controlli relativi all’efficienza degli impianti
elettrici dell’illuminazione di sicurezza e dei presidi antincendio, nonché all’osservanza della
normativa relativa ai carichi d’incendio nei vari ambienti dell’edificio e nelle aree a rischio
specifico.
Art. 10 Piani di intervento e istruzioni di sicurezza
⋅ 1. Nelle attività di cui al comma 1 dell’Art. 1 devono essere predisposti adeguati piani di
intervento da porre in atto in occasione delle situazioni di emergenza ragionevolmente
prevedibili. Il personale addetto deve essere edotto sull’intero piano e, in particolare, sui
compiti affidati ai singoli.
⋅ 2. Detti piani, definiti caso per caso in relazione alle caratteristiche dell’attività, devono essere
concepiti in modo che in tali situazioni:
⋅ ...omissis...
⋅ sia attivato il personale addetto, secondo predeterminate sequenze, ai provvedimenti del caso,
quali interruzione dell’energia elettrica e verifica dell’intervento degli impianti di emergenza,
arresto delle installazioni di ventilazione e condizionamento, azionamento dei sistemi di
evacuazione dei fumi e dei mezzi di spegnimento e quanto altro previsto nel piano di intervento.
⋅ ...omissis...
⋅ 5. All’ingresso dell’attività va esposta una pianta dell’edificio corredata dalle seguenti indicazioni:
⋅ scale e vie di esodo;
⋅ mezzi di estinzione;
⋅ dispositivi di arresto degli impianti di distribuzione del gas, dell’energia elettrica e dell’eventuale
impianto di ventilazione e di condizionamento;
⋅ eventuale quadro generale del sistema di rivelazione e di allarme;
⋅ impianti e locali a rischio specifico.
⋅ 6. A cura del responsabile dell’attività dovrà essere predisposto un registro dei controlli periodici
relativo all’efficienza degli impianti elettrici, dell’illuminazione di sicurezza, dei presidi
antincendio, dell’osservanza della limitazione dei carichi d’incendio nei vari ambienti della
attività e delle aree a rischio specifico. Tale registro deve essere mantenuto costantemente
aggiornato e disponibile per i controlli da parte dell’autorità competente.
10.2 D.P.R. N. 37 DEL 12/10/98 – CONTROLLO DELLE CONDIZIONI DI SICUREZZA
Art. 1 Oggetto del regolamento
⋅ 1. Il presente regolamento disciplina i procedimenti di controllo delle condizioni di sicurezza per
la prevenzione incendi attribuiti, in base alla vigente normativa, alla competenza dei comandi
provinciali dei vigili del fuoco, per le fasi relative all’esame dei progetti, agli accertamenti
sopralluogo, all’esercizio delle attività soggette a controllo, all’approvazione delle deroghe alla
normativa di conformità.
...omissis...
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 279

Art. 2 Parere di conformità


⋅ 1. Gli enti e i privati responsabili delle attività di cui al comma 3 dell’articolo 1 sono tenuti a
richiedere al comando l’esame dei progetti di nuovi impianti o costruzioni o di modifiche di
quelli esistenti.
⋅ 2. Il comando esamina i progetti e si pronuncia sulla conformità degli stessi alla normativa
antincendio entro quarantacinque giorni dalla data di presentazione. Qualora la complessità del
progetto lo richieda, il predetto termine, previa comunicazione all’interessato entro 15 giorni
dalla data di presentazione del progetto, è differito al novantesimo giorno. In caso di
documentazione incompleta od irregolare ovvero nel caso in cui il comando ritenga
assolutamente indispensabile richiedere al soggetto interessato l’integrazione della
documentazione presentata, il termine è interrotto, per una sola volta, e riprende a decorrere
dalla data di ricevimento della documentazione integrativa richiesta. Ove il comando non si
esprima nei termini: prescritti, il progetto si intende respinto.
Art. 3 Rilascio del certificato di prevenzione incendi
⋅ 1. Completate le opere di cui al progetto approvato, gli enti e privati sono tenuti a presentare al
comando domanda di sopralluogo in conformità a quanto previsto nel decreto di cui all’articolo
1, comma 4.
⋅ 2. Entro novanta giorni dalla data di presentazione della domanda il comando effettua il
sopralluogo per accertare il rispetto delle prescrizioni previste dalla normativa di prevenzione
degli incendi nonché la sussistenza dei requisiti di sicurezza antincendio richiesti. Tale termine
può essere prorogato, per una sola volta, di quarantacinque giorni, dandone motivata
comunicazione all’ interessato.
⋅ 3. Entro quindici giorni dalla data di effettuazione del sopralluogo viene rilasciato all’interessato,
in caso di esito positivo, il certificato di prevenzione incendi che costituisce, ai soli fini
antincendio, il nulla osta all’esercizio dell’attività.
⋅ 4. Qualora venga riscontrata la mancanza dei requisiti di sicurezza richiesti, il comando ne dà
immediata comunicazione all’interessato ed alle autorità competenti ai fini dell’adozione dei
relativi provvedimenti.
⋅ 5. Fatto salvo quanto disposto dal comma 1, l’interessato, in attesa del sopralluogo, può
presentare al comando una dichiarazione, corredata da certificazioni di conformità dei lavori
eseguiti al progetto approvato, con la quale attesta che sono state rispettate le prescrizioni
vigenti in materia di sicurezza antincendio e si impegna al rispetto degli obblighi di cui
all’articolo 5. Il comando rilascia all’interessato contestuale ricevuta dell’avvenuta presentazione
della dichiarazione che costituisce, ai soli fini antincendio, autorizzazione provvisoria
all’esercizio dell’attività.
⋅ 6. Al fine di evitare duplicazioni, nel rispetto del criterio di economicità, qualora il sopralluogo
richiesto dall’interessato debba essere effettuato dal comando nel corso di un procedimento di
autorizzazione che preveda un atto deliberativo propedeutico emesso da organi collegiali dei
quali è chiamato a far parte il comando stesso, il termine di cui al comma 2 non si applica
dovendosi far riferimento ai termini procedimentali ivi stabiliti.
Art. 4 Rinnovo del certificato di prevenzione incendi
⋅ 1. Ai fini del rinnovo del certificato di prevenzione incendi, gli interessati presentano al
comando, in tempo utile e comunque prima della scadenza del certificato, apposita domanda
conforme alle previsioni contenute nel decreto di cui all’articolo 1, comma 4, corredata da una
dichiarazione del responsabile dell’attività, attestante che non è mutata la situazione riscontrata
alla data del rilascio del certificato stesso, e da una perizia giurata, comprovante l’efficienza dei
dispositivi, nonché dei sistemi e degli impianti antincendio. Il comando, sulla base della
documentazione prodotta, provvede entro quindici giorni dalla data di presentazione della
domanda.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 280

Art. 5 Obblighi connessi con l’esercizio dell’attività


⋅ 1. Gli enti e i privati responsabili di attività soggette ai controlli di prevenzione incendi hanno
l’obbligo di mantenere in stato di efficienza i sistemi, i dispositivi, le attrezzature e le altre misure
di sicurezza antincendio adottate e di effettuare verifiche di controllo ed interventi di
manutenzione secondo le cadenze temporali che sono indicate dal comando nel certificato di
prevenzione o all’atto del rilascio della ricevuta a seguito della dichiarazione di cui all’articolo
⋅ 3, comma 5. Essi provvedono, in particolare, ad assicurare una adeguata informazione e
formazione del personale dipendente sui rischi di incendio connessi con la specifica attività,
sulle misure di prevenzione e protezione adottate, sulle precauzioni da osservare per evitare
l’insorgere di un incendio e sulle procedure da attuare in caso di incendio.
⋅ 2. I controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione, l’informazione e la formazione del
personale, che vengono effettuati, devono essere annotati in un apposito registro a cura dei
responsabili dell’attività. Tale registro deve essere mantenuto aggiornato e reso disponibile ai fini
dei controlli di competenza del comando.
⋅ 3. Ogni modifica delle strutture o degli impianti ovvero delle condizioni di esercizio dell’attività,
che comportano una alterazione delle preesistenti condizioni di sicurezza antincendio, obbliga
l’interessato ad avviare nuovamente le procedure previste dagli articoli 2 e 3 del presente
regolamento.
⋅ 5. Fatto salvo quanto disposto dal comma 1, l’interessato, in attesa del sopralluogo, può
presentare al comando una dichiarazione, corredata da certificazioni di conformità dei lavori
eseguiti al progetto approvato, con la quale attesta che sono state rispettate le prescrizioni
vigenti in materia di sicurezza antincendio e si impegna al rispetto degli obblighi di cui
all’articolo 5. Il comando rilascia all’interessato contestuale ricevuta dell’avvenuta presentazione
della dichiarazione che costituisce, ai soli fini antincendio, autorizzazione provvisoria
all’esercizio dell’attività.
⋅ 6. Al fine di evitare duplicazioni, nel rispetto del criterio di economicità, qualora il sopralluogo
richiesto dall’interessato debba essere effettuato dal comando nel corso di un procedimento di
autorizzazione che preveda un atto deliberativo propedeutico emesso da organi collegiali dei
quali è chiamato a far parte il comando stesso, il termine di cui al comma 2 non si applica
dovendosi far riferimento ai termini procedimentali ivi stabiliti.
Art. 6 Procedimento di deroga
⋅ 1. Qualora gli insediamenti o gli impianti sottoposti a controllo di prevenzione incendi e le
attività in essi svolte presentino caratteristiche tali da non consentire l’integrale osservanza della
normativa vigente, gli interessati, secondo le modalità stabilite dal decreto di cui all’articolo 1,
comma 4, possono presentare al comando domanda motivata per la deroga al rispetto delle
condizioni prescritte.
⋅ 2. Il comando esamina la domanda e, con proprio motivato parere, la trasmette entro trenta
giorni dal ricevimento, all’ispettorato regionale dei vigili del fuoco. L’ispettore regionale, sentito
il comitato tecnico regionale di prevenzione incendi, di cui all’articolo 20 del decreto del
Presidente della Repubblica 29 luglio 1982, n. 577, si pronuncia entro sessanta giorni dalla
ricezione, dandone contestuale comunicazione al comando ed al richiedente. L’ispettore
regionale dei vigili del fuoco trasmette ai competenti organi tecnici centrali del Corpo nazionale
dei vigili del fuoco i dati inerenti alle deroghe esaminate per la costituzione di una banca dati, da
utilizzare per garantire i necessari indirizzi e l’uniformità applicativa nei procedimenti di deroga.
10.3 D.M. 8/3/85 – DIRETTIVE SULLE MISURE DI PREVENZIONE INCENDI
1. Aerazione
⋅ 1.1. Indipendentemente dai singoli locali in cui si articola, il complesso ove si svolge l’attività
deve essere dotato di aperture di aerazione anche se munite di serramento comunque realizzato.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 281

⋅ 1.2. Nei locali dove si depositano o si impiegano sostanze che possono dar luogo a miscele
infiammabili o esplosive deve essere assicurata una superficie di aerazione naturale, realizzata
eventualmente anche a mezzo di aperture munite di infissi, non inferiore ad 1/30 della loro
superficie in pianta per ambienti sino a 400 m3 e di 1/50 per la superficie eccedente i 400 m3. Per
i locali ove sono presenti gas con densità relativa maggiore di 0,8 tale superficie deve essere
equamente distribuita in basso ed in alto. Ove non sia possibile raggiungere per l’aerazione
naturale il rapporto di superfici prescritto è ammesso il ricorso all’aerazione meccanica con
portata di almeno 2 ricambi orari semprechè sia assicurata una superficie di aerazione naturale
pari ad almeno il 25% di quella prescritta. Quando poi l’aerazione naturale dovesse risultare
incompatibile con la tecnologia di particolari processi produttivi possono consentirsi soluzioni
alternative che facciano conseguire condizioni di sicurezza equivalente. Se all’atto della
presentazione dell’istanza del nulla osta provvisorio siano in corso i lavori per il conseguimento
delle superfici prescritte o il relativo iter procedurale, e tale circostanza risulti da
documentazione allegata all’istanza stessa, può farsi ugualmente luogo al rilascio del nulla osta
provvisorio a condizione che nella suddetta documentazione sia precisata la data di ultimazione
dei lavori che deve essere contenuta entro il termine di tre mesi dalla data di rilascio del nulla
osta.
...omissis...
⋅ L’ispettore regionale, sentito il comitato tecnico regionale di prevenzione incendi, di cui
all’articolo 20 del decreto del Presidente della Repubblica 29 luglio 1982, n. 577, si pronuncia
entro sessanta giorni dalla ricezione, dandone contestuale comunicazione al comando ed al
richiedente. L’ispettore regionale dei vigili del fuoco trasmette ai competenti organi tecnici
centrali del Corpo nazionale dei vigili del fuoco i dati inerenti alle deroghe esaminate per la
costituzione di una banca dati, da utilizzare per garantire i necessari indirizzi e l’uniformità
applicativa nei procedimenti di deroga.
⋅ 3. limitazione del carico d’incendio
⋅ 3.1. Per le attività di cui ai punti 85 e 86 del D. M. 16 febbraio 1982 (G. U. n. 98 del 9 aprile
1982), il carico d’incendio non può superare i seguenti valori:
⋅ 30 kg/m2 per locali ai piani fuori terra;
⋅ 20 kg/m2 per locali al 1o e 2° piano interrato;
⋅ 15 kg/m2 per locali oltre il 2° piano interrato.
⋅ I valori suddetti del carico d’incendio possono essere raddoppiati quando sono installati
impianti di estinzione ad attivazione automatica. Per i locali ai piani fuori terra i valori del carico
d’incendio possono essere raddoppiati anche in presenza d’impianti di rivelazione automatica
d’incendio.
⋅ Negli atri, nei corridoi di disimpegno, nelle scale, nelle rampe e nei passaggi in genere, il carico
d’incendio non può superare i 10 kg/m2.
⋅ 3.2. Per le attività di cui ai punti 82 e 89 del D. M. 16 febbraio 1982 (G. U. n. 98 del 9 aprile
1982), sprovviste di servizio di vigilanza aziendale durante le ore di attività o di sistema di
estinzione automatica o di rivelazione d’incendio, il carico di incendio non può superare 50
kg/m2.
⋅ Nelle scale e nelle rampe il carico d’incendio non può superare i 10 kg/m2.
⋅ 3.3. Per gli edifici di cui al punto 94 del D. M. 16 febbraio 1982 (G. U. n. 98 del 9 aprile 1982), il
carico d’incendio non può superare i seguenti valori:
⋅ 20 kg/m2 per locali al 1o e 2° piano interrato;
⋅ 15 kg/m2 per locali oltre il 2° piano interrato é consentita la comunicazione dei piani interrati
con i vani scala e/o ascensori, ove non sia possibile documentare tali valori per il carico
d’incendio, purché vengano interposte porte a chiusura automatica aventi resistenza al fuoco
non inferiore a 30’.
... omissis...
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 282

6. Comportamento al fuoco delle strutture


⋅ 6.1. I locali dove si tengono in deposito o si manipolano sostanze capaci di emettere, a
temperatura ordinaria, vapori in quantità tali da produrre, se mescolati con l’aria dell’ambiente,
miscele esplosive o infiammabili, devono essere realizzati con strutture portanti non
combustibili. Sono consentite strutture portanti in legno purché sia certificato che la sezione
residua, dopo un tempo pari al valore del carico di incendio, calcolato come da circolare del
Ministero dell’interno n. 91 del 14 settembre 1961, conservi la stabilità R, in relazione ai carichi
cui è sottoposta, essendo noto che le dimensioni degli elementi strutturali si riducono sotto
l’azione del fuoco secondo i seguenti valori:
⋅ Travi estradosso e laterali 0,8 mm/min
⋅ intradosso 1,1 mm/min
⋅ Pilastri 0,7 mm/min
⋅ Altre strutture orizzontali 1,1 mm/min
⋅ Le finalità di cui sopra possono essere raggiunte anche con interventi protettivi realizzati con
materiali certificati.
⋅ 6.2. Per i locali di cui al punto 83 del D. M. 16 febbraio 1982 (G. U. n. 98 del 9 aprile 1982), si
applicano gli articoli 2, 3, 4, 5 e 6 del D. M. 6 luglio 1983 (G. U. n. 201 del 23 luglio 1983), e
successive modificazioni di cui al D. M. 28 agosto 1984 (G. U. n. 246 del 6 settembre 1984),
nonché quanto consentito dal D. M. 4 febbraio 1985 (G. U. n. 49 del 26 febbraio 1985). Anche
in questo caso sono consentite strutture portanti in legno la cui stabilità R deve essere certificata
con le stesse determinazioni di cui al punto precedente.
⋅ 6.3. Per le attività di cui ai punti 85, 86 e 89 del D. M. 16 febbraio 1982 (G. U. n. 98 del 9 aprile
1982), i tendaggi, se posti in opera negli atrii, nei corridoi di disimpegno esterni ai locali dagli
stessi serviti, nelle scale e nelle rampe, devono essere di classe I di reazione al fuoco, secondo il
D. M. 26 giugno 1984 (G. U. n. 234 del 25 agosto 1984), e alle condizioni stabilite dal D. M. 4
febbraio 1985 (G. U. n. 49 del 26 febbraio 1985). Limitatamente all’attività di cui al punto 89,
negli atrii e nei corridoi di disimpegno esterni ai locali stessi serviti, nelle scale e nelle rampe
possono essere mantenuti in opera tendaggi non rispondenti al requisito di cui al comma
precedente purché siano installati impianti automatici d’estinzione o di rivelazione d’incendio,
ovvero, nell’ambito delle attività, siano assicurati i servizi di emergenza contro gli incendi, come
da successivo punto n. 9.
... omissis...
11. Attività di cui al punto 92 del d. m. 16 febbraio 1982 (g. u. n. 98 del 9 aprile 1982)
autorimesse

L’aerazione naturale deve essere non inferiore ad 1/30 della superficie in pianta del locale. Ove
non sia possibile raggiungere per l’aerazione naturale il rapporto di superfici prescritto, è ammesso il
ricorso all’aerazione meccanica con portata di almeno 3 ricambi orari semprechè sia assicurata una
superficie di aerazione naturale pari ad almeno il 50% di quella prescritta. E’ vietato:
⋅ usare fiamme libere;
⋅ depositare sostanze infiammabili;
⋅ parcheggiare automezzi funzionanti a g.p.l.;
⋅ eseguire riparazioni a caldo e prove motori;
⋅ fumare.
Le autorimesse devono essere separate da altri ambienti a diversa utilizzazione con strutture di
resistenza al fuoco non inferiore a REI 30. Per le autorimesse pubbliche non è consentita la
comunicazione con vani scala ed ascensori che non siano ad esclusivo uso delle stesse; per le
autorimesse ad uso privato ivi comprese quelle a servizio di uffici, è consentita la comunicazione con
vani scale ed ascensori mediante porte metalliche piene con autochiusura. La capacità di parcamento
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 283

deve essere dichiarata dal titolare dell’attività sotto la propria responsabilità secondo le indicazioni
contenute nella circolare del Ministero dell’interno n. 2 del 16 gennaio 1982.
La superficie massima di ogni compartimento deve essere conforme alla tabella 2.30 del D. M.
20 novembre 1981 (G. U. n. 333 del 3 dicembre 1981) con tolleranza del 15%. Deve essere installato
n. 1 idrante per capacità di parcamento superiore a 50 autoveicoli e n. 1 estintore di tipo approvato
con capacità estinguente non inferiore a 21A, 89B ogni 20 autoveicoli.
Le uscite di sicurezza per le persone verso spazi a cielo libero o grigliato devono essere
facilmente accessibili, apribili dall’interno, di larghezza non inferiore a 0,60 m e raggiungibili con
percorsi non superiori a 40 m o 50 m se i locali sono dotati di impianto di spegnimento automatico.
12. Attività di cui al punto 95 del d. m. 16 febbraio 1982 (g. u. n. 98 del 9 aprile 1982)
Il vano ascensore non può comunicare direttamente con autorimesse pubbliche, impianti di
produzione di calore (con esclusione di cucine e lavaggio stoviglie) e deve essere, da tale attività,
separato con elementi costruttivi di resistenza al fuoco non inferiore a REI 30.
I vani montacarichi non possono comunicare direttamente con i locali depositi ad eccezione
degli impianti a servizio di attività industriali e commerciali.
L’aerazione naturale dall’esterno, per il vano corsa, se di tipo chiuso, e per il locale macchine
deve essere non inferiore a 0,05 m3.
Ove non sia possibile raggiungere per l’aerazione naturale il rapporto di superfici prescritto, è
ammesso il ricorso all’aerazione meccanica con portata di almeno 3 ricambi orari semprechè sia
assicurata una superficie di aerazione naturale pari ad almeno il 50% di quella prescritta.
Le porte di accesso al locale macchine devono essere di materiale non combustibile.
13. Depositi di sostanze infiammabili a servizio delle attività di cui ai punti 85,86,89 del
DM. 16 febbraio 1982 (GU. n. 98 del 9 aprile 1982).
La presente direttiva si applica ai depositi costituiti da contenitori di capacità geometrica unitaria
superiore a litri 2 di infiammabili liquidi, gassosi liquefatti o disciolti.
I locali destinati a tali depositi devono avere una aerazione naturale non inferiore ad 1/30 della
loro superficie in pianta.
La separazione con altri ambienti deve avvenire con strutture di resistenza al fuoco non
inferiore a REI 30 senza comunicazioni.
Gli accessi devono avvenire unicamente da spazi a cielo libero o tramite filtro a prova di fumo.
Le attrezzature mobili di estinzione devono essere costituite da n. 1 estintore di tipo approvato
con capacità estinguente non inferiore a 21A, 89B per ogni locale.
E’ consentito tenere in deposito ai piani fuori terra e non oltre il 2° piano interrato i seguenti
quantitativi massimi di sostanze infiammabili: liquidi litri 300, gas compressi m3 0,25, gas disciolti
liquefatti kg 25.
Per i depositi ubicati ai piani interrati deve essere installato un impianto di rivelazione di fughe
di gas. E’ vietato depositare insieme nello stesso locale liquidi infiammabili, gas compressi, gas disciolti
o liquefatti, materiali combustibili, gas comburenti.
14. Spazi adibiti a depositi di materiali solidi combustibili, archivi, biblioteche a
servizio delle attività di cui ai punti 85, 86, 89 del DM. 16 febbraio 1982 (g. u. n. 98 del 9 aprile 1982)
con carico d’incendio superiore a quanto previsto al punto 3 del presente allegato
I locali oggetto della presente direttiva devono avere una aerazione naturale, realizzata
eventualmente anche a mezzo di aperture munite di infissi, non inferiore ad 1/40 della loro superficie
in pianta per ambienti sino a 400 m3 e di 1/50 per la superficie eccedente i 400 m3.
Ove non sia possibile raggiungere per l’aerazione naturale il rapporto di superfici prescritte, è
ammesso il ricorso all’aerazione meccanica con portata di almeno 2 ricambi orari semprechè sia
assicurata una superficie di aerazione naturale pari ad almeno il 25% di quella prescritta.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 284

I locali possono essere ubicati ai piani fuori terra e non oltre il 2° piano interrato; è vietato il
deposito di sostanze infiammabili.
La separazione con altri ambienti ai piani interrati deve avvenire con strutture di resistenza al
fuoco non inferiore a REI 30 senza comunicazioni.
Nei piani interrati gli accessi possono avvenire dall’interno con vani provvisti di porte metalliche
piene con autochiusura.
Le attrezzature mobili di estinzione devono essere costituite da n. 1 estintore, di tipo approvato,
di capacità estinguente non inferiore a 13A, ogni 200 m3 di superficie.
10.4 D.M. 10/03/1998 – SICUREZZA INCENDIO NELLE ZONE DI EMERGENZA DEI
LUOGHI DI LAVORO
Arti. 1 Oggetto campo di applicazione
⋅ 1. Il presente decreto stabilisce, ...omissis..., i criteri per la valutazione dei rischi di incendio nei
luoghi di lavoro ed indica le misure di prevenzione e di protezione antincendio da adottare, al
fine di ridurre l’insorgenza di un incendio e di limitarne le conseguenze qualora esso si verifichi.
⋅ 2. Il presente decreto si applica alle attività che si svolgono nei luoghi di lavoro come definiti
dall’Art. ...omissis... di seguito denominato decreto legislativo n. 626/1994.
⋅ 3. Per le attività che si svolgono nei cantieri temporanei o mobili di cui al decreto legislativo 19
settembre 1996, n. 494, e per le attività industriali di cui all’Art. 1 del decreto del Presidente della
Repubblica 17 maggio 1988, n. 175, e successive modifiche, soggette all’obbligo della
dichiarazione ovvero della notifica, ai sensi degli articoli 4 e 6 del decreto stesso, le disposizioni
di cui al presente decreto si applicano limitatamente alle prescrizioni di cui agli articoli 6 e 7.
...omissis...
Art. 3 misure preventive, protettive e precauzionali di esercizio
...omissis...
⋅ c) realizzare le misure per una rapida segnalazione dell’incendio al fine di garantire l’attivazione
dei sistemi di allarme e delle procedure di intervento, in conformità ai criteri di cui all’allegato
IV;
...omissis...
Art. 4 controllo e manutenzione degli impianti e delle attrezzature antincendio
⋅ 1. Gli interventi di manutenzione ed i controlli sugli impianti e sulle attrezzature di protezione
antincendio sono effettuati nel rispetto delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti, delle
norme di buona tecnica emanate dagli organismi di normalizzazione nazionali ed europei o, in
assenza di dette norme di buona tecnica, delle istruzioni fornite dal fabbricante e/o
dall’installatore.
Art. 8 disposizioni transitorie e finali
...omissis...
⋅ 2. Sono fatti salvi i corsi di formazione degli addetti alla prevenzione incendi, lotta antincendio e
gestione delle emergenze, ultimati entro la data di entrata in vigore del presente decreto.
...omissis...
10.4.1 LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DEI RISCHI DI INCENDIO NEI LUOGHI DI
LAVORO
1.3.obiettivi della valutazione dei rischi di incendio
La valutazione dei rischi di incendio deve consentire al datore di lavoro di prendere i
provvedimenti che sono effettivamente necessari per salvaguardare la sicurezza dei lavoratori e delle
altre persone presenti nel luogo di lavoro. Questi provvedimenti comprendono:
⋅ la prevenzione dei rischi;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 285

⋅ l’informazione dei lavoratori e delle altre persone presenti;


⋅ la formazione dei lavoratori;
⋅ le misure tecnico organizzative destinate a porre in atto i provvedimenti necessari.
La prevenzione dei rischi costituisce uno degli obiettivi primari della valutazione dei rischi. Nei
casi in cui non è possibile eliminare i rischi essi devono essere diminuiti nella misura del possibile e
devono essere tenuti sotto controllo i rischi residui, tenendo conto delle misure generali di tutela di cui
all’Art. 3 del decreto legislativo n. 626. La valutazione del rischio di incendio tiene conto:
⋅ del tipo di attività;
⋅ dei materiali immagazzinati e manipolati;
⋅ delle attrezzature presenti nel luogo di lavoro compresi gli arredi;
⋅ delle caratteristiche costruttive del luogo di lavoro compresi i materiali di rivestimento;
⋅ delle dimensioni e dell’articolazione del luogo di lavoro;
⋅ del numero di persone presenti, siano esse lavoratori dipendenti che altre persone, e della loro
prontezza ad allontanarsi in caso di emergenza.
1.4.criteri per procedere alla valutazione dei rischi di incendio
La valutazione dei rischi di incendio si articola nelle seguenti fasi:
⋅ individuazione di ogni pericolo di incendio (p.e. sostanze facilmente combustibili e
infiammabili, sorgenti di innesco, situazioni che possono determinare la facile propagazione
dell’incendio);
⋅ individuazione dei lavoratori e di altre persone presenti nel luogo di lavoro esposte a rischi di
incendio;
⋅ eliminazione o riduzione dei pericoli di incendio;
⋅ valutazione del rischio residuo di incendio;
⋅ verifica della adeguatezza delle misure di sicurezza esistenti ovvero individuazione di eventuali
ulteriori provvedimenti e misure necessarie ad eliminare o ridurre i rischi residui di incendio.
1.4.1. Identificazione dei pericoli di incendio

1.4.1.1. Materiali combustibili e/o infiammabili


I materiali combustibili se sono in quantità limitata,correttamente manipolati e depositati in
sicurezza, possono non costituire oggetto di particolare valutazione. Alcuni materiali presenti nei
luoghi di lavoro costituiscono pericolo potenziale poiché essi sono facilmente combustibili od
infiammabili o possono facilitare il rapido sviluppo di un incendio. A titolo esemplificativo essi sono:
⋅ vernici e solventi infiammabili; adesivi infiammabili
⋅ gas infiammabili;
⋅ grandi quantitativi di carta e materiali di imballaggio;
⋅ materiali plastici, in particolare sotto forma di schiuma
⋅ grandi quantità di manufatti infiammabili;
⋅ prodotti chimici che possono essere da soli infiammabili o che possono reagire con altre
sostanze provocando un incendio;
⋅ prodotti derivati dalla lavorazione del petrolio;
⋅ vaste superfici di pareti o solai rivestite con materiali facilmente combustibili.
1.4.1.2. Sorgenti di innesco
Nei luoghi di lavoro possono essere presenti anche sorgenti di innesco e fonti di calore che
costituiscono cause potenziali di incendio o che possono favorire la propagazione di un incendio. Tali
fonti, in alcuni casi, possono essere di immediata identificazione mentre, in altri casi, possono essere
conseguenza di difetti meccanici od elettrici. A titolo esemplificativo si citano:
⋅ presenza di fiamme o scintille dovute a processi di lavoro, quali taglio, affilatura, saldatura;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 286

⋅ presenza di sorgenti di calore causate da attriti;


⋅ presenza di macchine ed apparecchiature in cui si produce calore non installate e utilizzate
secondo le norme di buona tecnica;
⋅ uso di fiamme libere;
⋅ presenza di attrezzature elettriche non installate e utilizzate secondo le norme di buona tecnica.
...omissis...
⋅ 1.4.3.2. Misure per ridurre i pericoli causati da sorgenti di calore
...omissis...
10.4.2 CLASSIFICAZIONE DEL LIVELLO DI RISCHIO DI INCENDIO
Sulla base della valutazione dei rischi è possibile classificare il livello di rischio di incendio
dell’intero luogo di lavoro o di ogni parte di esso: tale livello può essere basso, medio o elevato.
A. Luoghi di lavoro a rischio di incendio BASSO
Si intendono a rischio di incendio basso i luoghi di lavoro o parte di essi, in cui sono presenti
sostanze a basso tasso di infiammabilità e le condizioni locali e di esercizio offrono scarse possibilità di
sviluppo di principi di incendio ed in cui, in caso di incendio, la probabilità di propagazione dello
stesso è da ritenersi limitata.
B. Luoghi di lavoro a rischio di incendio MEDIO
Si intendono a rischio di incendio medio i luoghi di lavoro o parte di essi, in cui sono presenti
sostanze infiammabili e/o condizioni locali e/o di esercizio che possono favorire lo sviluppo di
incendi, ma nei quali, in caso di incendio, la probabilità di propagazione dello stesso è da ritenersi
limitata. Si riportano in allegato IX, esempi di luoghi di lavoro a rischio di incendio medio.
C. Luoghi di lavoro a rischio di incendio ELEVATO
Si intendono a rischio di incendio elevato i luoghi di lavoro o parte di essi, in cui:
⋅ per presenza di sostanze altamente infiammabili e/o per le condizioni locali e/o di esercizio
sussistono notevoli probabilità di sviluppo di incendi e nella fase iniziale sussistono forti
probabilità di propagazione delle fiamme, ovvero non è possibile la classificazione come luogo a
rischio di incendio basso o medio. Tali luoghi comprendono:
⋅ aree dove i processi lavorativi comportano l’utilizzo di sostanze altamente infiammabili (p.e.
impianti di verniciatura), o di fiamme libere, o la produzione di notevole calore in presenza di
materiali combustibili;
⋅ aree dove c’è deposito o manipolazione di sostanze chimiche che possono, in determinate
circostanze, produrre reazioni esotermiche, emanare gas o vapori infiammabili, o reagire con
altre sostanze combustibili;
⋅ aree dove vengono depositate o manipolate sostanze esplosive o altamente infiammabili;
⋅ aree dove c’è una notevole quantità di materiali combustibili che sono facilmente incendiabili;
⋅ edifici interamente realizzati con strutture in legno.
Al fine di classificare un luogo di lavoro o una parte di esso come avente rischio di incendio
elevato occorre inoltre tenere presente che:
⋅ molti luoghi di lavoro si classificano della stessa categoria di rischio in ogni parte. Ma una
qualunque area a rischio elevato può elevare il livello di rischio dell’intero luogo di lavoro, salvo
che l’area interessata sia separata dal resto del luogo attraverso elementi separanti resistenti al
fuoco;
⋅ una categoria di rischio elevata può essere ridotta se il processo di lavoro è gestito
accuratamente e le vie di esodo sono protette contro l’incendio;
⋅ nei luoghi di lavoro grandi o complessi, è possibile ridurre il livello di rischio attraverso misure
di protezione attiva di tipo automatico quali impianti automatici di spegnimento, impianti
automatici di rivelazione incendi o impianti di estrazione fumi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 287

...omissis...
1.4.5. Adeguatezza delle misure di sicurezza
Nelle attività soggette al controllo obbligatorio da parte dei Comandi provinciali dei vigili del
fuoco, che hanno attuato le misure previste dalla vigente normativa, in particolare per quanto attiene il
comportamento al fuoco delle strutture e dei materiali, compartimentazioni, vie di esodo, mezzi di
spegnimento, sistemi di rivelazione ed allarme, impianti tecnologici, è da ritenere che le misure attuate
in conformità alle vigenti disposizioni siano adeguate.
Per le restanti attività, fermo restando l’obbligo di osservare le normative vigenti ad esse
applicabili, ciò potrà invece essere stabilito seguendo i criteri relativi alle misure di prevenzione e
protezione riportati nel presente allegato.
Qualora non sia possibile il pieno rispetto delle misure previste nel presente allegato, si dovrà
provvedere ad altre misure di sicurezza compensative. In generale l’adozione di una o più delle
seguenti misure possono essere considerate compensative:
...omissis...
C. Rivelazione ed allarme antincendio
⋅ installazione di un sistema di allarme più efficiente (p.e. sostituendo un allarme azionato
manualmente con uno di tipo automatico);
⋅ riduzione della distanza tra i dispositivi di segnalazione manuale di incendio;
⋅ installazione di impianto automatico di rivelazione incendio;
⋅ miglioramento del tipo di allertamento in caso di incendio (p.e. con segnali ottici in aggiunta a
quelli sonori, con sistemi di diffusione messaggi tramite altoparlante, ecc.;
...omissis...
10.4.3 MISURE INTESE A RIDURRE LA PROBABILITÀ DI INSORGENZA DEGLI INCENDI
Generalità
All’esito della valutazione dei rischi devono essere adottate una o più tra le seguenti misure
intese a ridurre la probabilità di insorgenza degli incendi.
A) Misure di tipo tecnico:
⋅ ...omissis...
⋅ ventilazione degli ambienti in presenza di vapori, gas o polveri infiammabili;
⋅ adozione di dispositivi di sicurezza.
⋅ ...omissis...
3.8. Misure per limitare la propagazione dell’incendio
⋅ A) Accorgimenti per la presenza di aperture su pareti e/o solai Le aperture o il passaggio di
condotte o tubazioni, su solai, pareti e soffitti, possono contribuire in maniera significativa alla
rapida propagazione di fumo, fiamme e calore e possono impedire il sicuro utilizzo delle vie di
uscita.
Misure per limitare le conseguenze di cui sopra includono:
⋅ provvedimenti finalizzati a contenere fiamme e fumo;
⋅ installazione di serrande tagliafuoco sui condotti.
Tali provvedimenti sono particolarmente importanti quando le tubazioni attraversano muri o
solai resistenti al fuoco.
Allegato II

MISURE PER LA RIVELAZIONE E L’ALLARME IN CASO DI INCENDIO


....omissis....
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 288

4.1. Obiettivo
L’obiettivo delle misure per la rivelazione degli incendi e l’allarme è di assicurare che le persone
presenti nel luogo di lavoro siano avvisate di un principio di incendio prima che esso minacci la loro
incolumità. L’allarme deve dare avvio alla procedura per l’evacuazione del luogo di lavoro nonché
l’attivazione delle procedure d’intervento.
....omissis....
4.3. Misure per i luoghi di lavoro di grandi dimensioni o complessi
Nei luoghi di lavoro di grandi dimensioni o complessi, il sistema di allarme deve essere di tipo
elettrico. Il segnale di allarme deve essere udibile chiaramente in tutto il luogo di lavoro o in quelle
parti dove l’allarme è necessario.
In quelle parti dove il livello di rumore può essere elevato, o in quelle situazioni dove il solo
allarme acustico non è sufficiente, devono essere installati in aggiunta agli allarmi acustici anche
segnalazioni ottiche. I segnali ottici non possono mai essere utilizzati come unico mezzo di allarme.
....omissis....

4.5. Rivelazione automatica di incendio


....omissis....Nella gran parte dei luoghi di lavoro un sistema di rivelazione incendio a comando
manuale può essere sufficiente, tuttavia ci sono delle circostanze in cui una rivelazione automatica di
incendio è da ritenersi essenziale ai fini della sicurezza delle persone. Nei luoghi di lavoro costituiti da
attività ricettive, l’installazione di impianti di rivelazione automatica di incendio deve essere
normalmente prevista. In altri luoghi di lavoro dove il sistema di vie di esodo non rispetta le misure
indicate nel presente allegato, si può prevedere l’installazione di un sistema automatico di rivelazione
quale misura compensativa.
Un impianto automatico di rivelazione può essere previsto in aree non frequentate ove un
incendio potrebbe svilupparsi ed essere scoperto solo dopo che ha interessato le vie di esodo.
Se un allarme viene attivato, sia tramite un impianto di rivelazione automatica che un sistema a
comando manuale, i due sistemi devono essere tra loro integrati.
ATTREZZATURE ED IMPIANTI DI ESTINZIONE DEGLI INCENDI

5.1 Classificazione degli incendi


Ai fini del presente decreto, gli incendi sono classificati come segue:
⋅ incendi di classe A: incendi di materiali solidi, usualmente di natura organica, che portano alle
formazioni di braci;
⋅ incendi di classe B: incendi di materiali liquidi o solidi liquefacibili, quali petrolio, paraffina,
vernici, oli, grassi, ecc.;
⋅ incendi di classe C: incendi di gas;
⋅ incendi di classe D: incendi di sostanze metalliche.
Incendi di classe A
L’acqua, la schiuma e la polvere sono le sostanze estinguenti più comunemente utilizzate per tali
incendi. Le attrezzature utilizzanti gli estinguenti citati sono estintori, naspi, idranti, od altri impianti di
estinzione ad acqua.
Incendi di classe B
Per questo tipo di incendi gli estinguenti più comunemente utilizzati sono costituiti da schiuma,
polvere e anidride carbonica.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 289

Incendi di classe C
L’intervento principale contro tali incendi è quello di bloccare il flusso di gas chiudendo la
valvola di intercettazione o otturando la falla. A tale proposito si richiama il fatto che esiste il rischio di
esplosione se un incendio di gas viene estinto prima di intercettare il flusso del gas.
Incendi di classe D
Nessuno degli estinguenti normalmente utilizzati per gli incendi di classe A e B è idoneo per
incendi di sostanze metalliche che bruciano (alluminio, magnesio, potassio, sodio). In tali incendi
occorre utilizzare delle polveri speciali od operare con personale particolarmente addestrato.
Incendi di impianti ed attrezzature elettriche sotto tensione
Gli estinguenti specifici per incendi di impianti elettrici sono costituiti da polveri dielettriche e
da anidride carbonica....omissis...
6.4. Attrezzature ed impianti di protezione antincendio
Il datore di lavoro è responsabile del mantenimento delle condizioni di efficienza delle
attrezzature ed impianti di protezione antincendio.
Il datore di lavoro deve attuare la sorveglianza, il controllo e la manutenzione delle attrezzature
ed impianti di protezione antincendio in conformità a quanto previsto dalle disposizioni legislative e
regolamentari vigenti.
Scopo dell’attività di sorveglianza, controllo e manutenzione è quello di rilevare e rimuovere
qualunque causa, deficienza, danno od impedimento che possa pregiudicare il corretto funzionamento
ed uso dei presidi antincendio.
L’attività di controllo periodica e la manutenzione deve essere eseguita da personale competente
e qualificato. ....
…..omissis...
9.2. Attività a rischio di incendio elevato
La classificazione di tali luoghi avviene secondo i criteri di cui all’allegato I al presente decreto.
A titolo esemplificativo e non esaustivo si riporta un elenco di attività da considerare ad elevato
rischio di incendio:
⋅ industrie e depositi di cui agli articoli 4 e 6 del DPR n. 175/1988, e successive modifiche ed
integrazioni;
⋅ fabbriche e depositi di esplosivi;
⋅ centrali termoelettriche;
⋅ aziende estrattive di oli minerali e gas combustibili;
⋅ impianti e laboratori nucleari;
⋅ depositi al chiuso di materiali combustibili aventi superficie superiore a 20.000 m2;
⋅ attività commerciali ed espositive con superficie aperta al pubblico superiore a 10.000 m2;
⋅ scali aeroportuali, infrastrutture ferroviarie e metropolitane;
⋅ alberghi con oltre 200 posti letto;
⋅ ospedali, case di cura e case di ricovero per anziani;
⋅ scuole di ogni ordine e grado con oltre 1000 persone presenti;
⋅ uffici con oltre 1000 dipendenti;
⋅ cantieri temporanei o mobili in sotterraneo per la costruzione, manutenzione e riparazione di
gallerie, caverne, pozzi ed opere simili di lunghezza superiore a 50 m;
⋅ cantieri temporanei o mobili ove si impiegano esplosivi.
I corsi di formazione per gli addetti nelle sovrariportate attività devono essere basati sui
contenuti e durate riportate nel corso C.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 290

9.3. Attività a rischio di incendio medio


Rientrano in tale categoria di attività:
⋅ i luoghi di lavoro compresi nell’allegato D.M. 16 febbraio 1982 e nelle tabelle A e B annesse al
DPR n. 689 del 1959, con esclusione delle attività considerate a rischio elevato;
⋅ i cantieri temporanei e mobili ove si detengono ed impiegano sostanze infiammabili e si fa
uso di fiamme libere, esclusi quelli interamente all’aperto. La formazione dei lavoratori addetti in
tali attività deve essere basata sui contenuti del corso B.
9.4. Attività a rischio di incendio basso
Rientrano in tale categoria di attività quelle non classificabili a medio ed elevato rischio e dove,
in generale, sono presenti sostanze scarsamente infiammabili, dove le condizioni di esercizio offrono
scarsa possibilità di sviluppo di focolai e ove non sussistono probabilità di propagazione delle fiamme.
...omissis...
10.5 CIRCOLARE N. 91 DEL 14/09/61
Con l’aumento della produzione dei materiali ferrosi, che negli ultimi anni ha assunto un ritmo
rapidamente crescente, si è reso possibile, anche dal punto di vista economico, l’utilizzazione dei
profilati d’acciaio per la costituzione delle strutture portanti anche nelle costruzioni adibite a fini civili.
Tale impiego, che se effettuato indiscriminatamente, potrebbe determinare gravi pericoli per la
stabilità degli edifici in caso di incendio, ha consigliato lo studio e l’emanazione di apposite Norme
dirette alla protezione delle persone presenti in tali costruzioni dai pericoli innanzi detti.
Dopo un preventivo fondamentale studio delle Norme stesse condotto da apposita
Commissione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, questo Ministero ha predisposto un proprio
schema che si allega alla presente.
Le Norme tengono conto di esperienze sia estere che nazionali in materia nonché dalla pratica
di servizio che il Corpo Nazionale Vigili del fuoco ha nel campo di sua specifica competenza.
Esse sono basate sul criterio fondamentale che la struttura debba resistere, senza rovinare,
all’incendio delle sostanze combustibili in essa contenute.
Pertanto il grado di protezione delle strutture di acciaio varia secondo la qualità e la quantità dei
materiale combustibili presenti nei singoli locali, nonché in base alla destinazione dei locali stessi, alla
posizione ed al numero delle uscite, al pericolo della propagazione del fuoco ad altri fabbricati e
finalmente alla rapidità ed importanza presuntiva del soccorso.
Poichè gli elementi di valutazione della natura e dell’entità del rischio, nonchè della rapidità ed
importanza dei mezzi di soccorso, devono essere determinati in sede di progetto, le dichiarazioni
rilasciate dai richiedenti la licenza di costruzione debbono avere carattere vincolante per l’uso cui
l’edificio sarà destinato.
Le Norme di cui al testo allegato dovranno essere applicate per la formulazione del parere che,
ai fini della sicurezza, i Comandi dei Vigili del fuoco esprimeranno in sede di approvazione dei
progetti degli edifici civili.
...omissis...
10.5.1 PREMESSE
Le presenti Norme hanno lo scopo di fornire ai progettisti ed ai costruttori di fabbricati civili
con struttura di acciaio i criteri per il proporzionamento della protezione contro il fuoco da disporre a
difesa delle strutture metalliche, in modo che l’incendio delle materie combustibili nel fabbricato si
esaurisca prima che le strutture stesse raggiungano temperature tali da comprometterne la stabilità. Le
Norme non si applicano ai fabbricati militari ed industriali.
Sono valide tutte le norme di carattere distributivo, costruttivo ed in genere di sicurezza previste
dalle vigenti disposizioni che disciplinano la distribuzione ed il funzionamento dei locali adibiti ad usi
speciali.
Per durata di resistenza al fuoco in forno si intende il tempo in minuti, misurato a partire
dall’accensione del fuoco, dopo il quale l’elemento costruttivo considerato, sottoposto a prova a fuoco
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 291

secondo la curva unificata di temperatura e le modalità delle prove in forno (1), perde la sua capacità
portante.
La durata di resistenza al fuoco effettiva di un locale o di una struttura, sottoposti ad incendio
reale, é in relazione diretta con la quantità di materiale combustibile presente, espressa dal “carico di
incendio” ed é in ogni caso maggiore della durata di resistenza determinata eseguendo una prova in
forno con curva unificata di temperatura e con lo stesso carico di incendio.
Il carico di incendio é espresso dalla quantità equivalente di legno per m², che si ottiene
dividendo per 4.400 (potere calorifico superiore del legno) il numero di calorie per unità di superficie
orizzontale del locale, o del piano considerato, che al massimo si possono sviluppare per effetto della
combustione di tutti i materiali combustibili presenti:
q = Σgi Hi/ (A• 4400)
dove:
⋅ q é il carico di incendio (in kg legna / m²)
⋅ gi il peso (in kg) del generico fra gli n combustibili che si prevedono presenti nel locale o
nel piano nelle condizioni più gravose di carico di incendio
⋅ Hi é il potere calorifico (in kcal/kg) del generico fra gli n combustibili di peso gi ;
⋅ A é la superficie orizzontale (in m²) del locale o del piano del fabbricato considerato
⋅ 4.400 é il potere calorifico del legno (in kcal/kg).
Le condizioni più gravose del carico di incendio di un certo locale o piano sono quelle per le
quali la sommatoria gi • Hi è massima e vanno determinate esaminando le previste utilizzazioni dei
locali e dei piani come dichiarato dal progettista e dal proprietario del fabbricato stesso.
Gli elementi che determinano la durata di resistenza al fuoco durante le prove in forno sono
riportati in Appendice (omissis).
Poichè la durata di resistenza al fuoco viene determinata in base ai risultati della prova di
incendio unificata eseguita in forno le presenti Norme forniscono gli elementi necessari per stabilire la
relazione che esiste far l’incendio reale e l’incendio di prova in forno. Il procedimento di
determinazione di questi elementi si basa sulla valutazione statistica dei vari fattori che influiscono
sulla durata di resistenza al fuoco effettiva in casi normali di incendio.
...omissis...
Art. 3. classi di edifici
Per i fabbricati civili con struttura di acciaio vengono distinte le seguenti classi:
⋅ Classe 15
⋅ Classe 30
⋅ Classe 45
⋅ Classe 60
⋅ Classe 90
⋅ Classe 120
⋅ Classe 180
Il numero indicativo di ogni classe esprime il carico di incendio virtuale in kg/m2 di legna
standard. Detto numero indicativo esprime anche in minuti primi la durata minima di resistenza al
fuoco da richiedere alla struttura o all’elemento costruttivo in esame.
Art. 4. determinazione delle classi
La classe del piano o del locale considerato si determina pertanto in base alla formula:
C=k•q
in cui:
⋅ C è il numero indicativo della classe
⋅ q è il carico di incendio dichiarato (in kg legna/m2)
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 292

⋅ k è un coefficiente di riduzione che tiene conto delle condizioni reali di incendio del
locale o del piano nel complesso dell’edificio.
Art. 5. calcolo del coefficiente di riduzione del carico di incendio
Il valore del coefficiente k, compreso tra 0,2 e 1,0, viene determinato secondo le modalità che
seguono, in base alle caratteristiche dell’edificio, alla natura del materiale combustibile presente, alla
destinazione, alla distanza da altri edifici ed alle esistenti misure di segnalazione e prevenzione degli
incendi. Per il calcolo del coefficiente di riduzione, i singoli fattori di influenza vengono valutati
mediante indici numerici che possono essere negativi o positivi, in quanto si intendono riferiti alle
condizioni di un caso reale medio di incendio.
Gli indici di valutazione degli edifici nel loro complesso e dei singoli piani e locali sono indicati
nella Tabella 33. Il valore della somma algebrica degli indici di valutazione, riportato in ascisse nel
diagramma di fig. 1 a pag. seguente (omissis), fornisce direttamente il coefficiente di riduzione, per cui
va moltiplicato il carico di incendio per la determinazione della classe del piano e del locale nell’ambito
dell’edificio considerato.
Art. 1 poteri calorifici superiori di alcuni combustibili
A scopo indicativo, ai fini del calcolo dei carichi di incendio nei singoli piani e locali di un
edificio, si riportano nella presente Tabella 34 i calori specifici superiori delle sostanze combustibili più
comunemente presenti negli edifici civili.

Tabella 34: Alcuni poteri calorifici utili


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 293

11. SICUREZZA E RESISTENZA AL FUOCO


Il rischio di incendio di un ambiente dipende da numerose variabili: dalle caratteristiche dello
scenario di incendio, quali la presenza di sorgenti di ignizione, le distanze delle sorgenti dal prodotto
potenzialmente infiammabile, l’area esposta, l’orientamento verticale o orizzontale del prodotto, la
forma, le dimensioni e la posizione delle aperture di areazione.
Il livello di pericolo globale è inoltre condizionato dai pericoli della reazione al fuoco dei
materiali contenuti nell’ambiente. Con questo articolo si intende fornire una trattazione sintetica che
evidenzi l’importanza che attualmente rivestono, ai fini della sicurezza contro gli incendi, le valutazioni
di comportamento al fuoco dei prodotti, con particolare riferimento alla reazione al fuoco dei
materiali contenuti nell’ambiente abitativo, industriale, commerciale e all’attuale quadro normativo.
11.1 D.M. 26/08/1984
Art. 1 scopo
Il presente decreto ha lo scopo di stabilire norme, criteri e procedure per la classificazione di
reazione al fuoco e l’omologazione dei materiali ai fini della prevenzione incendi con esclusione dei
rischi derivanti dai fumi emessi, in caso d’incendio, dai suddetti materiali.
Art. 2 Definizione

2.1 Materiale
Il componente (o i componenti variamente associati) che può (o possono) partecipare alla
combustione in dipendenza della propria natura chimica e delle effettive condizioni di messa in opera
per l’utilizzazione.
2.2 Reazione al fuoco
Gradi di partecipazione di un materiale combustibile al fuoco al quale è sottoposto. In relazione
a ciò i materiali sono assegnati alle classi 0, 1, 2, 3, 4, 5 con l’aumentare della loro partecipazione alla
combustione; quelli di classe 0 sono non combustibili.
11.2 D.M. 30/11/1983
1.3. Carico d’incendio
Potenziale termico della totalità dei materiali combustibili contenuti in uno spazio, ivi compresi i
rivestimenti dei muri, delle pareti provvisorie, dei pavimenti e dei soffitti.
Convenzionalmente è espresso in chilogrammi di legno equivalente (potere calorifico inferiore
4.400 Kcal/Kg.)
1.11. Resistenza al fuoco
Attitudine di un elemento da costruzione (componente o struttura) a conservare, secondo un
programma termico prestabilito e per un tempo determinato in tutto o in parte: la stabilità “R”, la
tenuta “E”, l’isolamento termico “I”, così definiti:
⋅ R stabilità: attitudine di un elemento da costruzione a conservare la resistenza meccanica sotto
l’azione del fuoco;
⋅ E tenuta : attitudine di un elemento da costruzione a non lasciar passare ne produrre, se
sottoposto all’azione del fuoco su un lato, fiamme, vapori o gas caldi sul lato non esposto;
⋅ I isolamento termico: attitudine di un elemento da costruzione a ridurre, entro un dato limite,
la trasmissione del calore.
Gli intervalli di tempo stabiliti sono: 15, 30, 45, 60, 90 120 e 180 minuti primi. Pertanto:
⋅ con il simbolo “REI 90” si identifica un elemento costruttivo che deve conservare, per 90
minuti, la stabilità, la tenuta e l’isolamento termico.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 294

⋅ con il simbolo “RE” si identifica un elemento costruttivo che deve conservare, per un tempo
determinato, la stabilità e la tenuta.
⋅ con il simbolo “R 120” si identifica un elemento costruttivo che deve rimanere, per 120 minuti,
indenne all’esposizione dell’incendio, ma non garantisce dalla possibilità del passaggio di fumi e
calore attraverso di essa.
Per la classificazione degli elementi non portanti il criterio “R” è automaticamente soddisfatto
qualora siano soddisfatti i criteri “E” ed “I”.
11.3 CIRCOLARE N. 24 DEL 26/01/1993
Come è noto gli impianti di protezione attiva antincendi nel loro complesso costituiscono una
delle misure fondamentali per il conseguimento delle finalità della prevenzione incendi. In particolare
tali impianti sono annoverati fra gli accorgimenti intesi a ridurre le conseguenze dell’incendio a mezzo
della sua rivelazione precoce e della estinzione rapida nella fase del suo sviluppo.
In considerazione pertanto dell’importanza che tali impianti rivestono, si ritiene necessario
fornire le seguenti indicazioni affinché in sede di esame dei progetti e di rilascio dei certificati di
prevenzione incendi, venga particolarmente curato l’aspetto dell’impiantistica antincendio, anche in
correlazione con le disposizioni legislative concernenti la sicurezza degli impianti di cui alla legge 5
marzo 1990, n. 46 e DPR 6 dicembre 1991, n. 477. In tale ottica si ravvisa l’opportunità che i Comandi
Provinciali dei Vigili del Fuoco acquisiscano fra la documentazione allegata all’istanza di approvazione
preventiva dei progetti, per le attività soggette ai controlli di prevenzione incendi il progetto
particolareggiato degli impianti antincendio previsti dalle specifiche norme di sicurezza, ovvero
richiesti dai Comandi stessi in virtù dell’articolo 3 del DPR 29 luglio 1982, n. 577 per attività non
normate.
Gli impianti in argomento dovranno essere progettati nel rispetto delle specifiche norme di
sicurezza antincendi e secondo la regola d’arte. Nel richiamare che questo Ministero per attività
soggette a controllo ha gia provveduto ad emanare normative relative a tipi di impianto, a
caratteristiche generali e a prestazioni specifiche, si rende noto che sono in via di recepimento, con
decreti ministeriali, le norme tecniche UNI-VV.F., i cui estremi si riportano in allegato, e che nelle
more del recepimento stesso, definendo compiutamente caratteristiche e prestazioni di impianti e
componenti, rendono possibile considerare gli impianti realizzati secondo dette norme rispondenti alla
regola dell’arte.
Il progetto dovrà essere redatto allegando una serie di elaborati tecnici necessari per ottenere
una completa visione degli impianti antincendio che lo costituiscono quali:
⋅ schema a blocchi dell’impianto con rappresentazione delle parti principali;
⋅ disegni planimetrici, in scala opportuna, con la rappresentazione grafica degli impianti e del tipo
di installazione, con l’ubicazione delle attrezzature di protezione attiva e dei comandi
dell’impianto, con specifico riferimento ai singoli ambienti da proteggere;
⋅ relazione tecnico descrittiva sulla tipologia e consistenza degli impianti e relative indicazioni sul
calcolo analitico effettuato secondo le norme di riferimento.
Gli elaborati grafici e la relazione tecnica dovranno essere redatti facendo uso dei simboli grafici
e della terminologia contenuta nel DM 30 novembre 1983 e debitamente firmati da professionisti
regolarmente abilitati nell’ambito delle specifiche competenze.
Ai fini del rilascio del certificato di prevenzione incendi i Comandi Provinciali, anche per quanto
attiene gli impianti di protezione attiva antincendi ed i relativi componenti, oltre agli accertamenti ed
alle valutazioni direttamente eseguite, potranno richiedere certificazioni rilasciate da enti, laboratori o
professionisti autorizzati ed iscritti negli elenchi del Ministero dell’interno ai sensi dell’articolo I,
comma 2 della legge 7 dicembre 1984, n. 818; dovranno inoltre acquisire la dichiarazione di
conformità degli impianti realizzati nel rispetto delle specifiche norme di sicurezza antincendi e
secondo la regola d’arte. Tale dichiarazione dovrà essere rilasciata dalla ditta installatrice secondo il
modello al DM 20 febbraio 1992 (G.U. n. 49 del 28 febbraio 1992).
Fermo restando quanto innanzi detto, per gli impianti antincendi negli edifici di civile abitazione
con altezza in gronda superiore a 24 m, soggetti ai controlli di prevenzione incendi ai sensi del punto
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 295

94 del D.M. 16 febbraio 1982, si richiama l’attenzione sull’obbligatorietà del rispetto del disposto
normativo con le disposizioni di cui all’Art. 14 della legge 5 marzo 1990, n. 46.
11.4 ALLEGATO: NORME UNI-VV.F RELATIVE AI COMPONENTI DI IMPIANTO
⋅ UNI-VV.F. 9485 Apparecchiature per estinzione incendi Idranti a colonna soprasuolo in
ghisa.
⋅ UNI-VV.F. 9486 Apparecchiature per estinzione incendi Idranti sottosuolo in ghisa.
⋅ UNI-VV.F. 9487 Apparecchiature per estinzione incendi Tubazioni flessibili antincendio di
DN 45 e 70 per pressioni di esercizio fino a 1.2 MPa.
⋅ UNI-VV.F. 9488 Apparecchiature per estinzione incendi Tubazioni semirigide DN 20 e 25
per naspi antincendio.
⋅ UNI-VV.F. 9491 Apparecchiature per estinzione incendi, impianti fissi di estinzione
automatici a pioggia , erogatori (sprinkler).
⋅ UNI-VV.F. 9487 Apparecchiature per estinzione incendi Tubazioni flessibili antincendio di
DN 45 e 70 per pressioni di esercizio fino a 1.2 MPa.
11.5 NORME UNI-VV.F RELATIVE A IMPIANTI
⋅ UNI-VV.F. 9489 Apparecchiature per estinzione incendi, impianti fissi di estinzione
automatici a pioggia (sprinkler).
⋅ UNI-VV.F. 9490 Apparecchiature per estinzione incendi Alimentazioni idriche per impianti
automatici antincendio.
⋅ UNI-VV.F. 9494 Evacuatori di fumo e calore: caratteristiche, dimensionamento e prove.
⋅ UNI-VV.F. 9795 Sistemi fissi automatici di rivelazione e di segnalazione manuale d’incendio.
11.6 D.P.R. 29/07/1982 N. 577
Art. 1.5 compartimento antincendio
Parte di edificio61 delimitata da elementi costruttivi di resistenza al fuoco predeterminata e
organizzato per rispondere alle esigenze della prevenzione incendi.
Art. 3 principi di base e misure tecniche fondamentali
Per il conseguimento delle finalità perseguite dal presente decreto del Presidente della
Repubblica si provvede, oltre che mediante controlli, anche mediante norme tecniche che vengono
adottate dal Ministero dell’interno di concerto con le amministrazioni di volta in volta interessate.
Le predette norme, fondate su presupposti tecnico scientifici generali in relazione alle situazioni
di rischio tipiche da prevenire, dovranno specificare:
⋅ 1. misure, provvedimenti ed accorgimenti operativi intesi a ridurre la probabilità dell’insorgere
dell’incendio quali dispositivi, sistemi, impianti, procedure di svolgimento di determinate
operazioni atti ad influire sulle sorgenti d’ignizione, sul materiale combustibile e sull’agente
ossidante;
⋅ 2. misure, provvedimenti ed accorgimenti operativi atti a limitare le conseguenze dell’incendio
quali sistemi, dispositivi e caratteristiche costruttive, sistemi per le vie d’esodo d’emergenza,
dispositivi, impianti, distanziamenti, compartimentazioni e simili;
⋅ 3. apprestamenti e misure antincendi predisposti a cura di titolari di attività comportanti
notevoli livelli di rischio ai sensi di quanto fissato dall’Art. 2, comma c) della legge 13 maggio
1961, n. 469.

61 Le dimensioni dei comparti sono determinate di volta in volta in funzione della destinazione d’uso del locale

secondo quanto stabilito dalle varie Regole Tecniche dei VV.F.


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 296

12. LA PREVENZIONE DEGLI INCENDI


L’incendio, definito come “una combustione incontrollata di materiali e strutture
combustibili”, costituisce una delle maggiori insidie che minacciano l’integrità di strutture, di beni e la
sicurezza delle persone. Tale fenomeno, vista la rilevanza e la globalità delle conseguenze, deve essere
affrontato sia a livello di prevenzione sia a livello di protezione; la materia interdisciplinare che studia e
applica i provvedimenti, i mezzi, le azioni ed i modi per il conseguimento degli obiettivi della sicurezza
contro i rischi dell’incendio è la “prevenzione incendi”.
⋅ L’attuale concezione della prevenzione incendi intesa come l’azione diretta al condizionamento
dei sistemi di combustione, sia allo stato potenziale di incendio sia allo stato di combustione,
può essere espressa attraverso:
⋅ la prevenzione degli incendi vera e propria, che persegue l’obiettivo di ridurre la probabilità
dell’accadimento dell’incendio;
⋅ la protezione antincendio, che ha lo scopo di ridurre i danni entro limiti accettabili.
In merito ai provvedimenti da attuare per il conseguimento degli obiettivi sopra esposti si
possono definire conseguentemente le misure di prevenzione antincendio e le misure di protezione
antincendio, precisando che queste ultime svolgono il ruolo di protezione attiva e protezione
passiva.
I sistemi di evacuazione del fumo e del calore, tema principale della presente trattazione,
costituiscono uno dei provvedimenti da adottare ai fini della prevenzione incendi intesa sia a livello di
prevenzione sia a livello di protezione.
In ultimo è opportuno ricordare che un sistema di combustione allo stato potenziale presenta
sempre un rischio di incendio, e che tale rischio non può essere annullato, ma solamente ridotto. Lo
studio dello stato di un sistema e delle sue possibili evoluzioni, l’individuazione e la valutazione dei
fattori di rischio, nonché la riduzione di tali fattori e delle conseguenze dovute al mancato controllo
del rischio primario, costituiscono l’analisi dei rischi.
12.1 PROFILO DI INCENDIO
L’incendio è un fenomeno complesso che coinvolge generalmente materiali differenti e nelle
condizioni più diverse; può manifestarsi immediatamente o restare latente anche per tempi non brevi,
e poi manifestarsi con grande violenza e rapidità, con la propagazione esplosiva del fuoco (flash-over
UNI9494) e con fenomeni dovuti a ignizioni esplosive di gas incombusti.
La latenza, nel suo significato più generale, indica il periodo di tempo che intercorre tra l’inizio
dell’incendio e la sua scoperta; quest’ultima dipende sicuramente dal luogo dove ha origine l’incendio e
dalla modalità con cui viene rilevato (vedi anche la presenza ed efficienza di sistemi di protezione
attiva).
Superato il periodo di latenza, l’incendio si sviluppa molto rapidamente, in funzione ovviamente
delle condizioni ambientali e dei tipi e dei quantitativi di materiali interessati dal fenomeno; la velocità
di propagazione dello stesso può essere notevolmente accelerata dalla presenza di liquidi infiammabili,
o da fenomeni esplosivi dovuti alla formazione di miscele combustibili gassose o di nubi di polvere.
Sulla base dei risultati emersi da studi e ricerche effettuati su scala reale, nonché dagli elementi
emersi dall’analisi di incendi accaduti realmente, si è definita una schematica rappresentazione delle
caratteristiche dell’incendio che si può sviluppare all’interno di uno spazio chiuso.
L’incendio così identificato, rappresentato della relativa curva temperatura-tempo (Figura 256),
può essere suddiviso in tre fasi:
Prima Fase, Iniziale O Accensione
Caratterizzata da una durata di circa 20 minuti, presenta un rapido aumento della temperatura
media e della velocità di combustione delle sostanze coinvolte. In questa fase il calore delle fiamme e
dei prodotti della combustione viene trasferito ai materiali presenti i quali liberano gas di distillazione.
La temperatura del locale è relativamente bassa, i danni sono limitati e si hanno considerevoli
possibilità di intervento e di sfollamento delle persone.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 297

Seconda Fase, Di Combustione Attiva Costante


Caratterizzata da una combustione generalizzata di tutti i materiali (flash-over) con temperatura
tendenzialmente uniforme in tutta l’area interessata. I gas di distillazione prodotti formano con l’aria
dell’ambiente una miscela combustibile che può entrare in combustione unitamente ai materiali che già
bruciano. La temperatura media sale molto rapidamente, si raggiungono i 1000°C e oltre; la velocità di
combustione delle sostanze coinvolte passa da 0,51 kg/min dell’inizio della combustione ai 1516
kg/min dopo il flash-over.
Terza Fase, di Regressione o di Raffreddamento
La combustione volge alla conclusione; la temperatura si abbassa gradualmente.

Figura 256: Curva tipo di incendio


12.2 CAUSE DI INCENDIO
Le cause di incendio propriamente dette, identificate come il motivo iniziale dell’accensione,
sono di natura più svariata; comunque, in linea teorica, sono conosciute. Parlando di incendio, ovvero
di prevenzione incendi, dobbiamo però analizzare le cause di incendio ed i fattori che le determinano:
gli eventi che causano o concorrono alla creazione delle condizioni dell’accadimento primario; si può
pertanto parlare più precisamente di “fattori di rischio di incendio”.
Mentre le cause di incendio propriamente dette sono conosciute, esiste un margine di incertezza
nell’analisi dei fattori che le determinano:
⋅ si può considerare, ad esempio, l’influenza di particolari fenomeni imprevedibili, quella dovuta
ad anomalie di apparecchi, o quella dovuta ad errore umano.
Anche uno studio incentrato sul punto di vista probabilistico, in funzione delle caratteristiche
ambientali e strutturali, delle caratteristiche specifiche delle attività svolte e della destinazione d’uso
delle strutture, nonchè dei tassi di guasto di impianti ed apparecchiature ed errori umani, risulta
estremamente difficile.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 298

Tentativi di definizione del criterio probabilistico sono basati pertanto sui risultati di eventi
realmente accaduti e documentati da statistiche.
12.3 PROPAGAZIONE
La propagazione dell’incendio si manifesta con la propagazione della fiamma dal centro di
ignizione ad altri punti posti a differenti distanze nello spazio circostante e la diffusione estesa dei
prodotti della combustione.
In una certa area l’energia raggiante della fiamma ed il calore dei prodotti della combustione
producono altri centri di ignizione e l’aumento della temperatura dell’ambiente circostante e dei
materiali presenti; questo comporta l’incremento della velocità di combustione e l’estensione dei
contorni dell’incendio stesso ad aree o locali contigui senza soluzione di continuità.
In materia di prevenzione incendi, al fine di ridurre i danni prodotti dal suddetto fenomeno, è
stato introdotto il concetto di “compartimentazione” ovvero la realizzazione, all’interno di locali o
piani, di settori delimitati nel contorno (volumetricamente parlando) da elementi costruttivi atti ad
impedire, entro certi limiti, il propagarsi dell’incendio e dei suoi prodotti. Più precisamente nel D.M.
del 30 novembre 1983 (vedi cap. Norme e direttive tecniche) si definisce come “compartimento
antincendio” la «Parte di un edificio delimitata da elementi costruttivi di resistenza al fuoco
predeterminata e organizzata per rispondere alle esigenze di prevenzione incendi».
12.4 MATERIALI COMBUSTIBILI
In linea generale vengono chiamate combustibili le sostanze che non si incendiano molto
facilmente e danno luogo ad incendi con velocità di propagazione relativamente bassa, mentre
vengono chiamate infiammabili le sostanze più facilmente incendiabili che presentano una velocità di
propagazione elevata. I materiali combustibili possono essere suddivisi in funzione delle loro
caratteristiche di infiammabilità, del loro stato fisico, del loro modo di bruciare e del tipo di fuoco cui
possono dar luogo.
12.4.1 CLASSIFICAZIONE DEI COMBUSTIBILI IN BASE AL TIPO DI FUOCO
Tale sistema di classificazione raggruppa i materiali in base al tipo di fuoco cui possono dare
luogo; indicano gli estinguenti appropriati e quelli esclusi (vedi Tabella 35)

Tabella 35: Classificazione dei combustibili in base al tipo di fuoco


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 299

12.4.2 CLASSIFICAZIONE DEI COMBUSTIBILI IN BASE ALLE CARATTERISTICHE


Tale sistema di classificazione raggruppa i materiali in base alle loro caratteristiche
chimicofisiche ed alle loro caratteristiche di infiammabilità (tab. IV e V); questa classificazione è
finalizzata alla progettazione di impianti di produzione, trasformazione ed immagazzinamento.

Tabella 36: Classificazione dei combustibili in base alle caratteristiche

Tabella 37: Classificazione dei combustibili in base al punto di infiammabilità

12.4.3 COMBUSTIONE DI LIQUIDI


La combustione dei liquidi, intesa come combustione del vapore in presenza della fase liquida,
necessita della formazione di miscela infiammabile nelle vicinanze della superficie del liquido stesso.
La temperatura alla quale ha inizio il fenomeno è chiamata “punto di infiammabilità”. A
questo proposito si richiama la tabella precedentemente riportata per la classificazione italiana dei
minerali, dei residui e delle miscele carburanti. Nel caso in cui il liquido sia trasformato allo stato di
vapore e miscelato con aria, l’ignizione e la combustione non differiscono da quelle dei gas
combustibili.
Altro elemento fondamentale per la combustione dei vapori di liquidi è la concentrazione della
miscela vapori-aria; se la quantità di aria è inferiore o superiore a determinati limiti, la miscela non può
infiammarsi.
Ciascun liquido ha un proprio punto di infiammabilità ed una diversa velocità di combustione; si
deduce pertanto che si abbiano anche diversi gradi di pericolosità dal punto di vista dell’incendio.
Sono elementi di maggior pericolo una bassa temperatura di infiammabilità, un ampio campo di
infiammabilità, una bassa temperatura di accensione ed un basso limite inferiore di infiammabilità.
Va ricordato che in presenza di liquidi infiammabili e condizioni ambientali particolari si
possono anche avere esplosioni.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 300

12.4.4 COMBUSTIONE DI GAS


Agli effetti della combustione si può ritenere simile il comportamento dei gas e quello dei vapori
di liquidi infiammabili; ai fini della infiammabilità inoltre si ritiene ininfluente la distinzione tra gas e
vapori. La maggior pericolosità dei gas rispetto ai liquidi infiammabili sta nel fatto che questi, così
come si trovano, risultano già idonei alla combustione; fermo restando che anche per essi valgono le
espressioni limite legate alle caratteristiche di infiammabilità.
Va fatto presente che, ai fini pratici di utilizzazione, i gas vengono sempre conservati sotto
pressione in appositi contenitori, nelle più svariate grandezze e con diverse modalità di stoccaggio, a
seconda del tipo di gas e di impiego cui esso è destinato.
Un gas infiammabile fuoriuscito dal suo contenitore può essere incendiato ed in particolari
condizioni ambientali può causare una esplosione; tali effetti possono essere prodotti anche
dall’aumento di temperatura dello stesso contenitore. Pertanto per una corretta valutazione del rischio
si dovrà tenere conto anche delle caratteristiche di conservazione e stoccaggio dei liquidi e gas
infiammabili.
12.4.5 COMBUSTIONE DI POLVERI
Con il termine di polvere si vuole indicare lo stato di suddivisione spinta delle sostanze solide; la
loro eventuale presenza in un ambiente, al di fuori del loro normale sistema di contenimento,
costituisce pericolo di esplosione. Strati o mucchi di polveri infiammabili sono pericolosi e, se
innescati, possono formare atmosfere esplosive.
La maggior parte dei combustibili solidi allo stato di polveri può dar luogo ad esplosioni se la
concentrazione delle particelle disperse in aria è compresa nei limiti di infiammabilità; sono purtroppo
numerosi i casi di violente esplosioni causate da dispersioni di polveri di materie plastiche, di materiali
organici e di metalli. I fattori che influenzano la reattività di una atmosfera con pericolo di esplosione
sono:
⋅ la granulometria delle particelle;
⋅ la presenza di umidità;
⋅ la composizione e concentrazione della miscela;
⋅ l’energia della sorgente di ignizione.
La valutazione della prevedibilità del pericolo di esplosione di una polvere è lasciata alla
competenza e responsabilità del progettista dell’impianto di lavorazione o di deposito. Nella Tabella
38 sono riportate alcune caratteristiche significative di polveri infiammabili.

Tabella 38: Dati caratteristici per la combustione delle polveri


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 301

13. CALCOLO DEL CARICO DI INCENDIO


Dal punto di vista del comportamento al fuoco dei materiali e delle strutture ha grande
importanza la quantità di calore che viene sviluppata nel corso di un incendio; questa dipende dal
potere calorifico dei materiali coinvolti nell’incendio, dalla loro qualità e quantità, nonché dalle
condizioni ambientali, ivi inclusa la ventilazione, e dal tipo di strutture.
La massima emissione di calore è data dalla somma dei prodotti dei pesi dei materiali
combustibili presenti per il loro potere calorifico inferiore; la misura del massimo calore che verrebbe
emesso per combustione completa di tutti i combustibili presenti in un certo compartimento, ivi
comprese le parti di strutture costituite da materiali combustibili, è il “carico di incendio q”. In Italia,
secondo la vigente normativa, si usa esprimere il carico di incendio specifico in kg di legna standard
(potere calorifico inferiore 4400 kcal/kg) per m2 di superficie lorda in pianta del compartimento
considerato; calcolandolo tramite la formula:
q = Σgi Hi/ (A• 4400)
dove:
⋅ q é il carico di incendio (in kg legna/ m²);
⋅ gi é il peso (in kg) del generico fra gli n combustibili che si prevedono presenti nel locale
o nel piano nelle condizioni più gravose di carico di incendio;
⋅ Hi é il potere calorifico (in kcal/kg) del generico fra gli n combustibili di peso gi;
⋅ A é la superficie orizzontale (in m²) del locale o del piano del fabbricato considerato;
⋅ 4.400 é il potere calorifico superiore del legno (in kcal/kg).
Il carico d’incendio così definito fornisce, entro certi limiti, il grado di pericolo che presenta un
fabbricato contenente materiale combustibile, essendo associabile alla durata dell’incendio e alla
massima temperatura raggiungibile. Il grafico (Figura 257) riportato a titolo indicativo dà un’idea delle
quantità ideali di legno, in relazione alle rispettive durate di incendio nel loro periodo principale, ed
alle massime temperature raggiungibili.

Figura 257: Quantità ideali di legno standard al variare della temperatura


Lo stesso valore di “q” costituisce un fattore determinante, unitamente ad altri fattori quali la
destinazione di uso del fabbricato e la presenza di impianti di protezione antincendio, per il
dimensionamento delle aree dei compartimenti antincendio, e per il dimensionamento di altri sistemi
di difesa passiva contro gli incendi dei fabbricati.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 302

13.1 PRODOTTI DELLA COMBUSTIONE


I prodotti della combustione più importanti dal punto di vista del danno arrecato alle persone e
della propagazione dell’incendio sono:
⋅ i gas della combustione, il calore ed i fumi.
I gas sono i prodotti della combustione che rimangono allo stato gassoso anche se raffreddati
alla temperatura ambiente di 15°C.
Poiché la maggior parte dei combustibili contengono carbonio, i gas più diffusi sono:
⋅ anidride carbonica: se la combustione avviene con un’alta concentrazione di ossigeno
⋅ ossido di carbonio: se la combustione avviene con una bassa concentrazione di ossigeno
Gli altri gas prodotti dipendono dalla composizione chimica del combustibile interessato, dalla
concentrazione di ossigeno nell’aria comburente e dalla temperatura raggiunta durante l’incendio. I gas
della combustione sono in maggior parte tossici per l’organismo umano; oltre all’ossido di carbonio
precedentemente citato, l’uso massivo e generalizzato dei materiali plastici ha introdotto altre sostanze
altamente tossiche, quali l’acido cloridrico, l’acido cianitrico, il fosgene ed altri.
Va tenuto presente che la presenza dei gas tossici e la mancanza di ossigeno
costituiscono la principale causa dei decessi che si verificano durante gli incendi.
Il calore che si sviluppa durante la combustione, trasmesso nei modi usuali (per conduzione, per
convezione e per irraggiamento), costituisce uno degli effetti più appariscenti dell’incendio e la causa
principale della propagazione dello stesso.
Il calore costituisce inoltre anche un pericolo per le persone: una prolungata esposizione
dell’organismo umano a temperature elevate può causare la disidratazione dei tessuti, scottature,
difficoltà o blocco della respirazione, arresto cardiaco.
In via indicativa si può considerare che l’apparato polmonare è in grado di resistere a
temperature dell’aria superiori ai 60-65°C solo per brevi periodi, mentre a 150°C la funzione
respiratoria diventa impossibile dopo pochi secondi.
Il fumo è costituito da piccolissime particelle solide incombuste e particelle liquide o vapore
d’acqua trascinate dai gas caldi della combustione. La quantità di fumo che si sviluppa in un incendio è
notevole e generalmente è tale da invadere i locali interessati e quelli contigui, se non opportunamente
compartimentati, in tempi molto brevi. La pericolosità del fumo, in relazione alla sua densità ed ai
fattori ambientali, va analizzata sia dal punto di vista della nocività diretta sull’organismo umano (è
noto l’effetto irritante e tossico del fumo), sia dal punto di vista più generale della sicurezza, in quanto la sua
presenza riduce sensibilmente la visibilità.
Quest’ultimo fenomeno crea notevoli difficoltà nello svolgimento delle operazioni di
sfollamento delle persone con conseguente prolungamento dei tempi di permanenza in ambienti
pericolosi.
13.2 VENTILAZIONE DEI LOCALI
In caso di incendio all’interno di un locale i prodotti della combustione si innalzano e, lambendo
la superficie del comparto, dilagano negli spazi circostanti invadendo completamente il locale in tempi
estremamente brevi, anche se questo è di grandi dimensioni. Le modalità della diffusione dipendono
ovviamente dalla configurazione stessa del locale e dalle condizioni ambientali.
La diffusione di questi prodotti causa il rapido innalzamento della temperatura delle strutture,
pareti e materiali anche in punti lontani dell’area dell’incendio, e può essere causa della formazione di
concentrazioni di gas o vapori infiammabili che in determinate circostanze possono dar luogo a
fenomeni di combustione ad altissima velocità o ad esplosioni.
Inoltre, come già accennato, la presenza dei fumi interferisce notevolmente sulle operazioni di
evacuazione delle persone e sulle operazioni di soccorso. La presenza di superfici di ventilazione
aperte tempestivamente riduce sensibilmente tali fenomeni dannosi; infatti, sulla scorta di studi e
sperimentazioni affidabili, si è riscontrato che l’intervento di un “sistema di evacuazione di fumo e di calore”,
correttamente dimensionato e realizzato, apporta in termini di sicurezza contro l’incendio tangibili
benefici, quali:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 303

⋅ la riduzione sensibile dell’accumulo di calore con conseguente riduzione della progressione


della temperatura rispetto a quella dell’incendio tipo ed un ritardo del fenomeno “flashover”;
⋅ la limitazione all’interno del locale e del fabbricato della “diffusione orizzontale” dei prodotti della
combustione;
⋅ la riduzione negli spazi interni interessati della concentrazione dei gas e relativi componenti
pericolosi;
⋅ la realizzazione ed il mantenimento negli stessi spazi interni di una “predeterminata altezza”da
terra libera da fumo, condizione che permette un più agevole intervento dei soccorsi e
sfollamento delle persone.
Tali benefici sono particolarmente evidenti in locali ove siano presenti “cortine a tenuta di fumo” e
“carichi di incendio” non troppo elevati; per contro, si possono considerare la presenza di ampie
superfici di coperto senza compartimentazioni, la presenza di elevati carichi di incendio e la presenza
di materiali con velocità di combustione elevata.
Sono inoltre da escludere in linea generale casi di incendio di sostanze infiammabili in grandi
superfici o casi di incendio con presenza di fenomeni esplosivi.
Le cortine a tenuta di fumo sono, in genere, setti realizzati con materiale apposito resistente al
calore; partono dalla copertura estendendosi fino ad una certa altezza dal pavimento, creando nella
parte alta del locale dei compartimenti atti ad ostacolare la diffusione orizzontale dei “fumi” (Figura
258).
La compartimentazione con cortine può essere realizzata anche utilizzando eventuali
caratteristiche strutturali della copertura del locale, ad esempio travi sporgenti, shed o altri elementi.

Figura 258: Compartimentazione a soffitto


Infine si evidenzia che il “tiraggio” del sistema di evacuazione dipende dall’efficacia aerodinamica
del sistema stesso, e che pertanto si rende necessaria la presenza di opportune aperture per
l’immissione di aria nella parte bassa del locale.
13.3 RIFERIMENTI NORMATIVI
Per quanto precedentemente descritto si può ritenere che il problema della evacuazione dei
prodotti della combustione, ovvero, della realizzazione di sistemi atti a garantire una “corretta
evacuazione del fumo e del calore” dell’incendio, deve essere affrontato nell’ambito della “prevenzione incendi”,
costituendo esso stesso un provvedimento che può contribuire al raggiungimento di un certo livello di
sicurezza contro gli incendi.
Questo concetto è stato concretamente recepito nell’ambito della sicurezza nei luoghi di lavoro
ed “attività” soggette ai controlli di prevenzione incendi, vedi D.L. n. 626 del 19 settembre 1994 «...
Legislazione sulla sicurezza ed igiene del lavoro» e D.M. del 10 marzo 1998 «Criteri generali di
sicurezza antincendio e per la gestione dell’emergenza nei luoghi di lavoro», realtà per le quali
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 304

si è ritenuto molto importante, in caso di incendio, minimizzare gli effetti causati dai prodotti della
combustione sia per tutelare la sicurezza delle persone sia per preservare i beni dall’incendio.
Inoltre, in considerazione dell’importanza che gli impianti di protezione antincendio rivestono,
in sede Ministeriale si è ritenuto necessario fornire delle indicazioni specifiche affinché in sede di
esame dei progetti e di rilascio dei certificati di prevenzione incendi venga particolarmente curato
l’aspetto della impiantistica antincendio, anche in correlazione con le disposizioni di cui alla Legge
del 5 marzo 1990 in materia di sicurezza degli impianti.
In tale ottica si è ravvisata altresì l’opportunità che i Comandi Provinciali dei Vigili del Fuoco
acquisiscano, con le precisate modalità, il progetto particolareggiato degli impianti antincendio previsti
dalle specifiche norme di sicurezza, ovvero richiesti dai Comandi stessi in virtù dell’Art. 3 del DPR
del 29 luglio 1982 n. 577 per le attività non normate.
Per quanto sopra vedi DPR del 12 gennaio 1998 n. 37 «Regolamento recante disciplina dei
procedimenti relativi alla prevenzione incendi a norma dell’Art. 20, comma 8, della legge 15
marzo 1997 n. 59», e la precedente Circolare n. 24 MI. SA del 26 gennaio 1993 «Impianti di
protezione attiva antincendi».
Per la definizione delle caratteristiche tecniche e la progettazione dei sistemi di evacuazione di
fumo e di calore, a livello nazionale, si fa direttamente riferimento alle norme UNI attualmente in
vigore in materia specifica; in particolare alla norma UNI-VV.F. 9494, nella quale vengono stabiliti i
requisiti funzionali ed i criteri di dimensionamento degli “evacuatori di fumo e calore”.
13.4 EVACUATORI DI FUMO E CALORE (EFC)
Un aspetto importante nella lotta antincendio è che l’incendio difficilmente può essere soffocato
chiudendo tutte le aperture, al contrario esso trova sempre o quasi il modo per diffondersi
rapidamente grazie all’abbondanza di comburente (ossigeno) presente nell’aria e quindi in ogni
ambiente.
Scoppiato l’incendio all’interno di un edificio, la propagazione dei prodotti della combustione
(anidride carbonica, ceneri, etc.) avviene rapidamente ed in queste condizioni la visibilità diventa molto
bassa o addirittura nulla, creando un ambiente invivibile per le persone ed estremamente dannoso per
i beni in esso contenuti. Lo scopo dell’EFC è quello di limitare l’accumulo di fumo e di ridurre il
surriscaldamento all’interno di un edificio nel quale si sia sviluppato l’incendio.
Ciò consente di ottenere nella parte inferiore dei locali, come espresso nella norma UNI 9494,
una zona libera da fumo facilitando l’intervento dei mezzi di soccorso e la sopravvivenza delle persone
presenti. Inoltre, temperature più basse, permettono di preservare le strutture per un tempo maggiore
ritardando o evitando la fase di “flash-over” in cui vi é una accelerazione ed una generalizzazione
dell’evento.
La ventilazione, provocata da questo tipo di evacuatori, avviene naturalmente; infatti i prodotti
della combustione a causa della loro elevata temperatura tendono ad innalzarsi spontaneamente in
senso verticale creando una corrente ascensionale.
La presenza poi di aperture nella copertura e nella parte inferiore del locale interessato
dall’incendio, crea un fenomeno di “tiraggio” assimilando il locale ad un condotto percorso dai prodotti
della combustione.
Esistono altri sistemi di evacuazione poco utilizzati in Italia ma presenti nel resto del mondo
che, a titolo informativo, elenchiamo di seguito:
⋅ sistemi di aspirazione costituiti da ventilatori creati appositamente per le alte temperature;
⋅ sistemi di protezione degli ambienti per pressurizzazione;
⋅ sistemi composti che prevedono la pressurizzazione e l’evacuazione naturale.
13.5 CRITERI DI PROGETTAZIONE
Visti gli aspetti più generali in materia di incendi e prevenzione incendi, ed evidenziata
l’importanza dei sistemi di evacuazione fumi, si può passare al tema della progettazione di tali sistemi;
ossia alla individuazione ed analisi delle componenti che caratterizzano il sistema “attività struttura”
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 305

in esame, alla valutazione delle condizioni ottimali di installazione, al dimensionamento delle superfici
delle aperture di scarico, ai criteri di manutenzione.
La progettazione di un sistema di evacuazione fumi richiede uno studio mirato, che deve tenere
conto di numerose variabili, che possono intervenire anche in combinazione tra di loro, quali il rischio
ed il profilo dell’incendio, la tipologia della struttura che è sede del rischio, la configurazione e destinazione d’uso
della stessa, il tipo e quantità di sostanze combustibili presenti e le loro modalità di stoccaggio, il valore
presunto dell’altezza da terra libera dai “fumi” nell’area considerata e la presenza di cortine a tenuta di fumo.
Il dimensionamento della superficie di apertura di evacuazione risulta pertanto dipendente da
vari fattori e difficilmente determinabili, che sono legati specificatamente al “sistema combustione
fumi” della particolare attività in esame.
In campo nazionale è la norma UNI VV.F. 9494 che fornisce i criteri ed i metodi di calcolo per
determinare la superficie utile totale d’apertura (Sut) richiesta per ogni area “A” (compartimento),
considerata invasa del fumo, in relazione ai fattori di variabilità citati.
Secondo tale norma la superficie Sut viene dimensionata attraverso la formula:

Sut = s
100
⋅ dove As = area del compartimento a soffitto considerato;
α = coefficiente di dimensionamento da determinarsi secondo le procedure dettate negli articoli
6.3, 6.4 e 6.5 della norma stessa.
Dall’analisi di quanto esposto emerge che nella calcolazione della Sut è il coefficiente “α” a tenere
conto delle caratteristiche specifiche connesse con l’ambiente e l’attività esercitata, con la tipologia
della struttura ed il sistema di combustione, nonché con i sistemi di protezione previsti e con l’altezza
della zona libera da fumo.
Inoltre si evidenzia che dei vari fattori che concorrono a determinare tale coefficiente gli unici
che risultano variabili e gestibili dal progettista per correlare la Sut all’ “attività” in esame, sono
l’altezza della zona libera da fumo e la velocità di propagazione dell’incendio.
In merito all’altezza della zona libera da fumo, il cui valore risulta condizionato in maniera
significativa dalla presenza di cortine e tenuta di fumo e dell’entità della superficie del compartimento
in esame si osserva che la norma impone: «l’altezza della zona libera da fumo y deve
corrispondere almeno al valore di 0,5 h e non deve essere minore di 2 m».
Va precisato tuttavia che quanto richiesto dalla norma rappresenta la condizione minima che
deve essere comunque garantita; il progettista, su valutazioni fatte in funzione delle reali caratteristiche
dell’attività mirate a limitare il danno prodotto dal contatto dei fumi con strutture e beni, e a
migliorare le condizioni operative dei soccorritori, ha l’opportunità di assumere valori di altezza
superiori a quelli imposti dalla norma.
Per quanto riguarda la velocità di propagazione dell’incendio la norma fornisce tre parametri
(bassa normale alta) senza definire esplicitamente alcun parallelismo che permetta al progettista di
individuare la corrispondenza tra questi ed il tipo di attività in esame; ovvero la corrispondenza tra
questi parametri e l’elencazione delle attività soggette al controllo dei VV.F., o le funzioni/lavorazioni
aziendali, o la tipologia dei depositi/magazzini/natura delle merci in essi contenute.
In altri termini viene lasciato al progettista il compito di definire, anche se solo
parzialmente, l’incidenza del tipo di rischio in funzione dell’attività in esame.
Pertanto, in base a tali considerazioni, è emersa la necessità di introdurre il concetto della
classificazione delle attività e delle aree interessate (compartimenti) dell’installazione degli evacuatori,
in funzione del rischio di incendio.
Si rende quindi necessario individuare, per le attività ed aree suddette, differenti livelli di rischio,
in base al loro contenuto ed alla probabilità di sviluppo di un incendio; ad ogni livello di rischio
potranno essere poi associati i parametri relativi alla velocità di propagazione dell’incendio.
Come prima ipotesi si può parlare di correlazione tra pericolosità dell’incendio e la quantità di
calore sviluppata nel corso dell’incendio. Quest’ultima dipende essenzialmente dal potere calorifico
delle sostanze coinvolte e dalla loro quantità; ovvero dal carico di incendio.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 306

A titolo indicativo riportiamo un prospetto, Tabella 39, con il dimensionamento di massima


delle aperture e delle cortine (schermi), così come suggerito dalla National Fire Protection Association nella
pubblicazione n. 204 May 1968.

Tabella 39: Dimensionamento delle aperture e delle cortine


A completamento del prospetto riportato si fa presente che la norma della N.F.P.A. indica una
classificazione in base alle emissioni di “calore” anziché in base ai “carichi di incendio” e
precisamente:
⋅ Attività che possono dar luogo a “basse emissioni di calore”: Rientrano in questa classe i
locali nei quali si trovano normalmente senza continuità piccole quantità di materiali
combustibili; come ad esempio nelle officine meccaniche (che non impiegano oli combustibili di
raffreddamento, fluidi idraulici infiammabili), nelle fonderie, nei caseifici, nei laboratori di
lavorazione carni, fabbriche di acque minerali.
⋅ Attività che possono dar luogo a “moderate emissioni di calore”: Rientrano in questa classe
i locali nei quali si trovano distribuite, con una certa uniformità, moderate quantità di materiali
combustibili; come ad esempio laboratori per la lavorazione del cuoio (escluso cuoio artificiale e
rigenerato, concerie), lavorazioni meccaniche con presenza di oli combustibili per il
raffreddamento.
⋅ Attività che possono dar luogo a “notevoli emissioni di calore”: Rientrano in questa classe i
locali ove sono concentrate significative quantità di materiali combustibili o sono svolte
operazioni definibili pericolose; come ad esempio reparti di produzione di gomma, di
produzione vernici, di produzione prodotti chimici.
Alle classi così definite possono essere associati indicativamente i seguenti valori di carico di
incendio:
⋅ bassa emissione di calore: < 20 kg/m2 di legna std.
⋅ moderata emissione di calore: da 20 a 60 kg/m2 di legna std.
⋅ notevole emissione di calore: > 60 kg/m2 di legna std.
L’efficacia della ventilazione nella terza classe non può essere assicurata in ogni condizione, in
quanto, in presenza di quantitativi apprezzabili di materiali a rapida combustione, difficilmente si
riuscirà a produrre e mantenere la voluta altezza da terra libera da fumo, anche con i più alti rapporti
superficie di evacuazione superficie del pavimento. Si precisa inoltre che i dati forniti hanno carattere
orientativo, in quanto suscettibili di significative variazioni dovute all’incidenza del fattore “velocità di
combustione”.
Quest’ultimo fattore riveste particolare importanza nella determinazione del grado di
pericolosità (grado di severità) dell’incendio, infatti il grado di pericolo risulta legato non solo alla
quantità di calore che i vari materiali possono, per combustione completa, svolgere; ma anche al
tempo in cui tale fenomeno avviene.
Si prenda ad esempio la notevole differenza di pericolosità esistente tra la celluloide, che ha un
potere calorifico di circa 4500 kcal/kg, ed il legno std che ha un potere calorifico di 4400 kcal/kg. Ne
consegue, pertanto, che sarebbe più opportuno ai fini della determinazione del potenziale pericolo
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 307

presentato dai vari materiali combustibili, di valutare, oltre ai carichi di incendio, anche la loro velocità
di combustione nello stato in cui si trovano; in altri termini di assumere come fattore rappresentativo
del pericolo dell’incendio la “potenza del fuoco”. A titolo indicativo riportiamo una tabella con alcune
caratteristiche tecniche di materiali combustibili.

Tabella 40: Materiali Combustibili


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 308

Tabella 41: Tabella Combustibili


Riprendendo il tema della classificazione delle attività precedentemente introdotto si può
pensare, per quanto emerso in quest’ultima analisi, di attribuire una certa attività ad un livello di
rischio non solo in funzione del relativo carico di incendio, ma prendendo in esame anche altri fattori,
quali la velocità di combustione e la probabilità di innesco dei materiali presenti.
La definizione del livello di rischio non può essere pertanto eseguita semplicemente tramite
verifica di parametri prestabiliti, ma deve essere determinata secondo esperienza e valutazione
oggettiva delle condizioni specifiche dell’attività interessata.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 309

Alla luce di ciò, può risultare utile mantenere, per l’uso specifico, i livelli di rischio individuati
dalla norma UNI 10779 “Impianti di estinzione incendi Reti di idranti”, in ordine alle aree da
proteggere. La suddetta norma, all’appendice B “Criteri di dimensionamento degli impianti”,
definisce per le aree da proteggere tre livelli di rischio identificandoli come “livelli di area”:
⋅ aree di livello 1: Aree nelle quali la quantità e/o la combustibilità dei materiali presenti sono
basse e che presentano comunque basso rischio di incendio in termini di probabilità d’innesco,
velocità di propagazione delle fiamme e possibilità di controllo dell’incendio da parte delle
squadre di emergenza. Le aree di livello 1 corrispondono in buona parte a quelle definite di
classe A dalla UNI 9489, cui si può fare riferimento per ulteriori indicazioni; rientrano pertanto
in tale classe tutte le attività di lavorazione di materiali prevalentemente incombustibili ed alcune
delle attività di tipo residenziale, di ufficio, ecc., a basso carico d’incendio.
⋅ aree di livello 2: Aree nelle quali c’è una presenza non trascurabile di materiali combustibili e
che presentano un moderato rischio di incendio come probabilità d’innesco, velocità di
propagazione di un incendio e possibilità di controllo dell’incendio stesso da parte delle squadre
di emergenza. Le aree di livello 2 corrispondono in buona parte a quelle definite di classe B dalla
UNI 9489, cui si può fare riferimento per ulteriori indicazioni; rientrano pertanto in tale classe
tutte le attività di lavorazione in genere che non presentano accumuli particolari di merci
combustibili e nelle quali sia trascurabile la presenza di sostanze infiammabili.
⋅ aree di livello 3: Sono le aree nelle quali c’è una notevole presenza di materiali combustibili e
che presentano un alto rischio di incendio in termini di probabilità d’innesco, velocità di
propagazione delle fiamme e possibilità di controllo dell’incendio da parte delle squadre di
emergenza. Le aree di livello 3 corrispondono in buona parte a quelle definite di classe C e D
dalla norma UNI 9489, cui si può fare riferimento per ulteriori indicazioni; rientrano pertanto in
questa categoria le aree adibite a magazzinaggio intensivo come definito dalla UNI 9489, le aree
dove sono presenti materie plastiche espanse, liquidi infiammabili, le aree dove si lavorano o
depositano merci ad alto rischio d’incendio quali cascami, prodotti vernicianti, prodotti
elastomerici, ecc.
Ai livelli così definiti possono essere associati, indicativamente, i seguenti valori di carico di
incendio:
⋅ carico di incendio limitato (basso): < 20 kg/m2 legna std
⋅ carico di incendio moderato: da 20 a 45 kg/m2 legna std
⋅ carico di incendio elevato: > 45 kg/m2 legna std
⋅ Infine si riportano alcune precisazioni in merito ai criteri di classificazione adottatati nella norma
UNI 9489 sopra citata:
⋅ le attività considerate sono distinte esclusivamente in “reparti” ed in “depositi”, intendendo per
“deposito” sia i locali interamente e permanentemente destinati a magazzini, sia le zone di quelli
adibiti a “reparto” nelle quali si ha sensibile accumulo, anche temporaneo, di merci e materiali;
⋅ per “reparto” si intende tutto quanto non definibile “deposito”;
⋅ l’attribuzione dell’area protetta o una certa attività ad una determinata classe è effettuata in base
alle caratteristiche di comportamento al fuoco del solo contenuto, prescindendo da quelle del
fabbricato;
⋅ nel caso di elevata combustibilità degli elementi costruttivi potrà essere necessario assumere per
quanto in esame una classificazione superiore alla normale;
⋅ le indicazioni fornite per la classificazione dei reparti fanno riferimento a reparti di pericolosità
corrispondente a quella mediamente riscontrata.
Nei paragrafi precedenti sono state fatte delle considerazioni ed ipotesi per associare il
parametro “velocità di sviluppo di incendio” al tipo di attività in esame; sulla scorta di tali ipotesi sono stati
individuati dei livelli di rischio di attività o aree di esse, ed una corrispondenza tra questi ed una data
classificazione di attività. A questo punto, facendo riferimento ai “livelli di rischio” individuati dalla
norma UNI 10779, alla “classificazione delle attività” determinate dalla norma UNI 9489 ed alla “velocità
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 310

di propagazione di incendio” definita dalla norma UNI 9494, si possono assumere, quale ipotesi finale di
lavoro, le rispondenze indicate nella Tabella 42.

Tabella 42: Classificazione incendio


La scelta del parametro velocità sarà effettuata pertanto in funzione delle caratteristiche di
comportamento al fuoco dell’area in esame; tuttavia, in sede di progetto, può essere razionale fare
riferimento all’area che presenta il livello di rischio più alto di tutta l’attività, e questo per consentire la
maggior flessibilità in materia di “layout” aziendali.
Nel caso di “attività” o “area di attività” ove coesistano reparti attribuiti a classi diverse o
coesistano reparti e depositi (non compartimentati), caso non raro nella realtà industriale, verrà fatto
riferimento alla classe di requisiti superiori.
13.6 CALCOLO DELLA SUPERFICIE TOTALE DEGLI EFC.
Nel capitolo precedente sono state fatte delle considerazioni ed ipotesi in merito ad alcuni
fattori che concorrono a determinare, tramite il coefficiente di dimensionamento “α”, la superficie
utile totale di un sistema di evacuatori EFC; in questo paragrafo si intende illustrare, con l’ausilio di
due esempi, la modalità con cui questa superficie può essere determinata.
Come già detto, in campo nazionale é la norma UNI CN VVF 9494 (4) che stabilisce i criteri
funzionali e di dimensionamento degli EFC; pertanto, di seguito, riassumiamo le definizioni e le
formule di tale norma per determinare la superficie totale di apertura degli evacuatori:
⋅ altezza di riferimento h (di un locale): Distanza tra il pavimento ed il punto medio tra l'estremo
superiore e quello inferiore interni della struttura formante la copertura.
⋅ aperture: Luci libere che vengono a fermarsi nella copertura per azionamento degli evacuatori
di fumo e calore in seguito ad un incendio.
⋅ compartimento (A): Settore dell'edificio considerato limitato da pareti e solai resistenti al
fuoco per un tempo predeterminato.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 311

⋅ compartimento a soffitto o al di sotto della copertura ( As): Area compresa tra due cortine a
tenuta di fumo o tra due elementi strutturali similari (per esempio travi) formanti la copertura.
⋅ cortine di contenimento del fumo: Separazioni verticali, pendenti dalla copertura fino ad una
certa altezza dal pavimento, atte ad evitare l'espandersi dei fumi e dei gas caldi in senso
orizzontale all'interno del locale, incombustibili ed aventi adeguata resistenza meccanica.
⋅ evacuatore di fumo e calore (EFC): Apparecchiatura destinata ad assicurare, in caso di
incendio ed a partire da un dato istante, l'evacuazione dei fumi e dei gas caldi con capacità
predeterminata e con funzionamento naturale. L'apparecchiatura è schematizzabile in:
⋅ basamento e suoi organi di fissaggio alla copertura;
⋅ elementi mobili di chiusura;
⋅ dispositivi di apertura.
⋅ incendio allo stato nascente: Stadio dell'incendio caratterizzato dalla temperatura minore di
300 °C del locale o all'interno dello strato di gas combusto.
⋅ incendio in sviluppo avanzato: Stadio dell'incendio caratterizzato dalla temperatura maggiore
di 300 °C, ma minore di quella di "flash-over".
⋅ incendio a pieno sviluppo: Stadio dell'incendio dopo la propagazione esplosiva del fuoco
(flash-over).
⋅ superficie geometrica d'apertura di un evacuatore di fumo e calore (SGA): Superficie
della sezione inferiore dell'evacuatore di fumo e calore.
⋅ superficie utile d'apertura di un evacuatore di fumo e calore (SUA): Superficie
aerodinamicamente efficace dell'evacuatore di fumo e calore ridotta rispetto alla superficie
geometrica d'apertura. Tale valore alla base del calcolo di dimensionamento è dato da:
Su = Sg • CVV
⋅ superficie utile totale d'apertura (sut) degli evacuatori di fumo e calore: Somma delle singole
superfici utili di apertura.
Sut = Σ Su
⋅ zona libera da fumo: Parte inferiore del locale di altezza y in cui, durante l'incendio, non si ha
presenza di fumo e gas di combustione (vedere fig. 1 della norma UNI 9494).
⋅ zona invasa da fumo: Parte superiore del locale in cui durante l'incendio si accumulano il fumo
ed i gas di combustione prima di essere evacuati all'esterno (vedere fig. 1 della norma UNI
9494).
⋅ altezza minima della zona libera da fumi y: L'altezza della zona libera da fumo y deve
corrispondere almeno al valore 0,5 h e non deve essere minore di 2 m. L'area del
compartimento As invaso da fumo non deve essere maggiore di 1.600 m². Il bordo inferiore
della cortina deve corrispondere a quello inferiore dello strato di fumo. Nel caso di cortine con
altezza minore dello strato di fumo e di compartimenti a soffitto con superficie maggiore di
1.600 m², il valore y viene corretto in:
∆h  As − 1600 
y0 = y +  
2  1600 
⋅ dove: yc è y corretto
⋅ AS è l'area del compartimento maggiore di 1.600 m²
⋅ ∆h = h (y + hc ) con hc altezza della cortina di contenimento fumo, in metri (vedere Norma
UNI 9494).
⋅ Il valore yc deve comunque essere > 0,5 h. Per superfici di compartimento A maggiori di 3.200
m², nell'equazione sopra riportata deve essere utilizzato A = 3.200 m². Se l'utilizzazione lo
richiede (per esempio oggetti facilmente danneggiabili dal fumo) per y possono essere utilizzati
valori più alti.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 312

⋅ durata convenzionale prevista di sviluppo di incendio: La durata convenzionale di sviluppo


dell’incendio viene stabilità sommando il tempo di allarme e quello di intervento:
⋅ il tempo di allarme, cioè quello che intercorre tra l’inizio dell’incendio e l’allarme, è
convenzionalmente fissato in 5 min. ma può essere posto =0 in presenza di impianti automatici
di rivelazione fumo;
⋅ il tempo di intervento, che è quello che intercorre tra l’allarme e l’inizio dell’azione di
spegnimento da parte di squadre esterne, viene stabilito convenzionalmente in 10, 15 e 20 min.
Se esistono squadre interne, impianti di spegnimento automatico o in presenza di particolari
condizioni favorevoli, il tempo di intervento può essere posto convenzionalmente = 5 min.
⋅ Si verificano così cinque possibili durate convenzionali: 5 min, ≤10 min, 15 min, 20 min e 25
min
⋅ superficie convenzionale di incendio, gruppi di dimensionamento: Sono previsti 7 gruppi di
dimensionamento determinati in base alla durata convenzionale di sviluppo di incendio come
indicato nel prospetto II (6.4) della norma e riportato in Tabella 43.
Dimensionamento

La SUT è determinata utilizzando i coefficienti α di cui al prospetto III secondo la formula:



Sut = s
100
⋅ in cui α: coefficiente di dimensionamento risulta tabellato, vedi prospetto III della norma
riportato in Tabella 44, in funzione dell’altezza della zona libera da fumo y (oppure della yc
corretta vedi 6.2 della norma) e del gruppo di dimensionamento; quest’ultimo viene definito in
base alla durata convenzionale prevista di sviluppo dell’incendio, sopra definita, e alla velocità
prevedibili di sviluppo dell’incendio, vedi prospetto II della norma, sopra riportato;
⋅ A S = area in pianta del compartimento a soffitto considerato

Tabella 43: Gruppi di dimensionamento

Tabella 44: Coefficienti di dimensionamento


Volendo ora procedere alla calcolazione della SUT relativa ad una certa “attività”, tenuto conto
delle formule e definizioni suddette, nonché di quanto esposto precedentemente, si rende necessario
individuare l’attività in oggetto in relazione a:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 313

⋅ caratteristiche e geometria del fabbricato;


⋅ destinazione d’uso, lavorazioni, materiali contenuti (tipo e quantità);
⋅ impianti e sistemi di protezione antincendio interni;
⋅ tempi di intervento di squadre di soccorso esterne;
⋅ altezza della zona libera da fumo.
Tali dati saranno esplicitati in progetto al fine di rendere noto, anche al gestore dell’impianto, i
criteri utilizzati per la determinazione del livello di rischio e il conseguente dimensionamento
dell’impianto in funzione delle condizioni specifiche dell’attività in oggetto.
Il primo caso trattato ha come oggetto una azienda produttrice di colori e prodotti affini; in
particolare la struttura esaminata è destinata internamente ad un reparto produttivo ed imballaggio con
annesse aree di stazionamento per i prodotti in lavorazione.
Sono presenti in quantitativi significativi anche materiali combustibili vari e prodotti in resine
espanse. Il fabbricato è costituito essenzialmente da un capannone monopiano, di tipo industriale, con
figura geometrica semplice nelle dimensioni in pianta di 25 m e 45 m, rispettivamente per la larghezza
e la lunghezza.
L’intero volume non presenta compartimentazioni interne e pertanto sarà trattato come un
unico locale, la copertura di tipo piano non presenta cortine di altezza significativa; l’altezza di
riferimento h del locale risulta 8 m. Inoltre ai fini della nostra trattazione si evidenzia:
⋅ la presenza di un idoneo impianto di rivelazione incendi con sistema di comunicazione diretta
con i VV.F;
⋅ la presenza di una squadra interna addestrata, ma limitatamente alle ore lavorative (circa 16 ore
giornaliere);
⋅ un tempo di intervento da parte di squadre esterne non superiore ai 15 min.;
⋅ l’assenza di impianti fissi di estinzione a pioggia (sprinkler).
La presenza di un impianto tipo sprinkler non influisce sul dimensionamento della s ut

degli EFC, tuttavia è da evidenziare in quanto condiziona il sistema di evacuazioni fumi in


ordine alla temperatura di intervento degli elementi termosensibili (5) ed in ordine al
posizionamento degli EFC (6).
A seguito di quanto descritto sino ad ora, possono essere individuati i seguenti fattori:
⋅ 1. durata convenzionale di sviluppo dell’incendio, che in base a:
⋅ un tempo di allarme T1 = 0 (presenza impianto automatico di rivelazione);
⋅ un tempo di intervento T2 = 15 min (condizione più sfavorevole ore notturne);
⋅ risulta T = T1 + T2 = 15 min
⋅ 2. velocità di sviluppo di incendio, che in virtù dell’ “attività” in esame può essere
ragionevolmente considerata “alta”.
⋅ 3. gruppo di dimensionamento Gd, che ricavato dal prospetto II della norma in funzione
della durata convenzionale e della velocità di sviluppo di cui ai precedenti punti 1 e 2, risulta
uguale a 5.
⋅ 4. altezza della zona libera fumo y: Per quanto riguarda l’altezza dello spazio interno al locale
libero da fumo, si osserva che il valore minimo impostato dalla norma come 0,5 h, e
corrispondente pertanto a 4 m, può essere considerato sufficiente ai fini della sicurezza e della
limitazione dei danni alle apparecchiature. Sarà quindi “0,5 h”: il valore utilizzato per la
determinazione del coefficiente di dimensionamento “α”.
⋅ 5. coefficiente di dimensionamento: A questo punto, in base al gruppo di dimensionamento
Gd ed all’altezza della zona libera da fumo y, viene individuato tramite il prospetto III della
norma, un coefficiente di dimensionamento α uguale a 1.
⋅ 6. calcolo della superficie utile totale: La Sut è determinata attraverso la formula già nota

Sut = s
100
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 314

dove:
⋅ A S = superficie del compartimento a soffitto privo di cortine, e coincidente con la superficie
totale del locale = 25 x 45 = 1.125 m2
⋅ α=1
pertanto:
1.125 ⋅1
Sut = = 11.25
100
⋅ 7. numero degli EFC da installare: Il numero degli evacuatori richiesti si ottiene dividendo la
superficie Sut sopra calcolata per la superficie utile di apertura (SUA) del modello di evacuatore
che si intende installare; è importante richiamare l’attenzione sulla definizione “superficie utile”
ampiamente descritta in precedenza. Sulla base del numero
S
N = ut
Su
⋅ si dovrà in seguito verificare che siano soddisfatte le condizioni, in numero e posizione poste
specificatamente dalla Norma. A titolo indicativo, in questo caso, si possono installare n. 8
evacuatori con superficie utile di apertura Su = 1,41 m² (oppure n. 10 con Su = 1,13 m²).
⋅ 8. Afflusso Di Aria Fresca: Per garantire l’efficacia aerodinamica al sistema occorre che nella
parte bassa dei locali ci siano aperture per l’immissione di aria aventi superficie non minore di
due volte la superficie geometrica di apertura della totalità degli EFC installati. Pertanto, nel caso
in cui fossero impiegati evacuatori con un coefficiente di flusso Cvv = 0,75, dovremmo garantire
aperture di afflusso aria per una superficie non minore di 30 m2.
Il secondo caso trattato ha come oggetto uno stabilimento industriale dove si costruiscono
macchine ed apparecchiature elettriche; la struttura esaminata è destinata in parte ai reparti produttivi
ed in parte a magazzini per materiali in ingresso e prodotti finiti.
Il fabbricato è costituito essenzialmente da un capannone monopiano, di tipo industriale, con
figura geometrica semplice nelle dimensioni in pianta di 60 m e 96 m, rispettivamente per la larghezza
e la lunghezza.
La copertura di tipo a minished non presenta cortine o elementi strutturali similari di altezza
significativa; l’altezza di riferimento h del locale risulta 6.5 m.
All’interno, mediante pareti tagliafuoco, sono stati creati due compartimenti delle dimensioni di
3.600 m2 e 2.160 m2; il primo è dedicato principalmente ai reparti produttivi e collaudi, il secondo ai
reparti di imballaggio spedizione e magazzini.
Dal punto di vista dell’incendio l’“attività” presenta livelli di rischio differenti a seconda delle
aree:
Reparti produttivi:
Livello 2 con moderata probabilità di innesco e moderati accumuli di materiali combustibili;
Magazzini e reparti di imballaggio:
livello 3 con elevata probabilità di innesco, elevato carico di incendio, accumuli di materiali
elettrici ed elettronici, presenza di materie plastiche varie ed anche di tipo espanso, presenza di olii e
liquidi infiammabili (in quantitativi limitati).
Inoltre ai fini della nostra trattazione si evidenzia:
⋅ la presenza di un idoneo impianto di rivelazione incendi con sistema di comunicazione diretto
ai VV.F;
⋅ la presenza di una squadra interna addestrata, ma limitatamente alle ore lavorative (circa 16 ore
giornaliere);
⋅ un tempo di intervento da parte di squadre esterne non superiore ai 15 min.;
⋅ l’assenza di impianti fissi di estinzione a pioggia (sprinkler).
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 315

Figura 259: Tipologie di coperture di magazzini


A seguito di quanto descritto sino ad ora, possono essere individuati i seguenti fattori:
⋅ 1. durata convenzionale di sviluppo dell’incendio, che in base a:
⋅ un tempo di allarme T1 = 0 (presenza impianto automatico di rivelazione);
⋅ un tempo di intervento T2 = 15 min (condizione più sfavorevole ore notturne);
risulta T = T1 + T2 = 15 min
⋅ 2. velocità di sviluppo di incendio, che in virtù dell’ “attività” in esame può essere
ragionevolmente considerata “alta” per il compartimento magazzini, e “normale” per il
compartimento reparti.
⋅ 3. gruppo di dimensionamento Gd, che ricavato dal prospetto II della norma in funzione
della durata convenzionale e della velocità di sviluppo di cui ai precedenti punti 1 e 2, risulta
uguale a 5 per il compartimento magazzini e 4 per il compartimento reparti.
⋅ 4. altezza della zona libera fumo y: Per quanto riguarda l’altezza della zona libera da fumo,
viste le caratteristiche strutturali dei due compartimenti in esame e le necessità produttive, si
osserva che:
⋅ non sono soddisfatte le condizioni limite imposte dalla Norma per la definizione di tale altezza;
⋅ il valore minimo di altezza imposto della Norma stessa come 0,5 h, corrispondente a 3,25 m, è
considerato insufficiente ai fini della limitazione dei danni alle apparecchiature.
⋅ Ne consegue, pertanto, che il coefficiente di dimensionamento α sarà determinato tramite il
valore yc (valore di y corretto, Art. 6.2 Norma) calcolato con la nota relazione:
∆h  As − 1600 
y0 = y +  
2  1600 
Per il compartimento reparti produttivi avremo:
⋅ y = 0,5 h = 3,25 m
⋅ ∆h = h (y + hc) per hc = 0 ∆h = 3,25 m
⋅ A = superficie coperta del compartimento 3.600 m2
⋅ As = superficie del compartimento a soffitto limitata della Norma a 3.200 m² per cui:
∆h  3200 − 1600 
y0 = y +   = 4.87 m
2  1600 
⋅ Il nuovo valore dell’altezza libera da fumo, da impiegare nel prospetto III, per determinare il
coefficiente di dimensionamento α, risulta pertanto “0,75 h”.
Per il compartimento magazzini avremo:
⋅ y = 0,5 h = 3,25 m
⋅ ∆h = h (y + hc) per hc = 0 ∆h = 3,25 m
⋅ A = superficie coperta del compartimento 2.160 m2
⋅ As = superficie del compartimento a soffitto 2.160 m2
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 316

⋅ per cui:
∆h  2160 − 1600 
y0 = y +   = 3.82 m
2  1600 
⋅ che corrisponde ad un nuovo valore di altezza da impiegare nel prospetto III, come già citato
per i reparti, uguale a “0,59 h”. Tuttavia, volendo garantire un’altezza minima libera da fumo
non inferiore ai 4 m, per determinare il coefficiente α sarà assunto un valore pari a “0,62 h”.
⋅ 5. coefficiente di dimensionamento: Giunti a questa fase, in base ai gruppi di
dimensionamento Gd ed alle altezze della zona libera da fumo y e yc, vengono individuati
tramite il prospetto III della norma, i coefficienti di dimensionamento:
⋅ compartimento magazzini: Gd = 5 y = 0,63 h α = 1,68
⋅ compartimento reparti: Gd = 4 y = 0,75 h α = 2,1
⋅ 6. calcolo della superficie utile totale : La Sut è determinata attraverso la formula già nota
dove:
Asα
Sut =
100
⋅ A S = superficie del compartimento a soffitto, che corrisponde a 2.160 m2 per i magazzini e 3600
m2 per i reparti;
⋅ pertanto:
2160 − 1.68
⋅ per il compartimento magazzini Sut = = 36.29 m 2
100
3600 − 2.1
⋅ per il compartimento reparti Sut = = 76.5 m 2
100
Visti i risultati ottenuti può risultare interessante esaminare quale influenza possa avere nella
determinazione di α e conseguentemente della superficie totale Sut, fermi restando gli altri fattori, la
realizzazione di compartimenti a soffitto con superficie non maggiore di 1.600 m2 mediante l’impiego
di cortine a tenuta di fumo. Nel caso del compartimento reparti la realizzazione di cortine
comporterebbe le seguenti variazioni (vedi Tabella 45):

Tabella 45: Variazioni


⋅ Le diminuzioni percentuali riportate nel prospetto si traducono in analoghe diminuzioni della
Sut; questo può essere tradotto in chiave economica per una giusta valutazione dei costi
complessivi delle opere da realizzare, sia a livello di impianti sia a livello di strutture.
⋅ Nella valutazione complessiva si dovranno inoltre includere gli eventuali svantaggi portati dalla
presenza fisica delle cortine che si estendono dalla copertura verso il basso fino all’altezza
determinata.
⋅ 7. numero degli EFC da installare: Anche in questo caso il numero degli evacuatori richiesti si
ottiene dividendo la superficie Sut calcolata per ciascun compartimento, per la superficie utile di
apertura (SUA) del modello di evacuatore che si intende installare in quel compartimento.
S
⋅ Sulla base del numero N = ut si dovrà in seguito verificare che siano soddisfatte le
Su
condizioni, in numero e posizione, poste specificatamente dalla Norma.
⋅ A titolo indicativo, in questo caso, si possono installare:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 317

⋅ nel compartimento magazzini: n. 25 evacuatori con Su = 1.5 m2


⋅ nel compartimento reparti: n. 51 evacuatori con Su = 1.5 m2
⋅ 8. afflusso di aria fresca: Considerando quanto specificato in precedenza in merito
all’efficienza delle aperture di afflusso aria, si suppone, in questo caso, l’impiego di evacuatori
con coefficiente di flusso Cvv = 0,7. Le aperture previste devono avere una superficie non
minore di 107,2 m2 per il compartimento magazzini e di 219 m2 per il compartimento reparti.
13.7 CRITERI DI INSTALLAZIONE DEGLI EFC
L’installazione degli evacuatori di fumo deve essere realizzata in modo tale da garantirne, in ogni
condizione, il funzionamento ottimale e la massima efficienza per quelle che sono le proprie
caratteristiche costruttive e le condizioni di progetto del sistema di evacuazione.
Quindi si dovrà avere cura di non alterare, direttamente o indirettamente, le caratteristiche
costruttive e di funzionamento comprovate dal costruttore dell’apparecchiatura; ad esempio,
modificandone i fattori aerodinamici interni ed esterni (griglie, veline, controsoffitti, etc.), o
installandolo non conformemente alle prescrizioni del costruttore (condizioni di posa, orientazione
delle aperture, etc.), o installandolo in condizioni che possono compromettere il regolare scarico di
fumi (presenza e posizione di impianti sprinklers o altri impianti di spegnimento, posizione sulla
copertura, etc.).
Gli evacuatori devono essere installati, per quanto possibile, in modo omogeneo nei singoli
compartimenti a soffitto, sia come distribuzione sia come modalità di installazione sulla copertura;
analogo criterio dovrebbe essere seguito per tutti i compartimenti di una stessa struttura.
La norma UNI 9494 stabilisce inoltre i seguenti criteri di installazione:
⋅ In generale è preferibile installare un numero elevato di EFC di dimensioni ridotte piuttosto
che pochi di grandi dimensioni. Occorre inoltre prevedere, come minimo, un EFC ogni 200 m2
su coperture piane o con pendenza non maggiore del 20% ed un EFC ogni 400 m2 su coperture
con pendenza maggiore del 20% (le misure sono riferite alla superficie coperta).
⋅ Nei locali in cui la copertura ha una pendenza maggiore del 20% gli EFC devono essere posti,
per quanto possibile, nella parte più alta della copertura stessa. Il centro di ogni singolo
apparecchio non deve comunque trovarsi al di sotto dell'altezza di riferimento h del locale.
⋅ Per coperture piane e con pendenza non maggiore del 20% la distanza fra gli EFC non deve
essere maggiore di 20 m né minore di 5 m, tra gli EFC e le pareti perimetrali la distanza massima
deve essere di 10 m e quella minima di 5 m.
⋅ Nessun lato di un EFC deve avere lunghezza maggiore di 2,5 m.
⋅ Nel caso di copertura a dente di sega o a shed non possono essere installati EFC sulla falda
verticale o a maggiore pendenza se il loro funzionamento è negativamente influenzato dal vento.
⋅ Per il montaggio di EFC su edifici con altezza maggiore di 20 m o edifici particolarmente
esposti, come per esempio i capannoni per aviorimessa, devono essere verificati i parametri di
stabilità e sicurezza.
⋅ Particolare cura deve essere posta nella realizzazione di tali installazioni al fine di evitare che
esse stesse possano aggravare il pericolo di propagazione di incendio da un fabbricato ad un
altro, nel fabbricato stesso e da un compartimento all'altro.
In ultimo, dopo aver illustrato i criteri da seguire per installare correttamente gli evacuatori, si
evidenzia la necessità di assicurare un flusso di aria fresca dall’esterno adeguato quantitativamente al
flusso di fumi evacuato.
Per garantire la massima efficacia aerodinamica al sistema occorre che nella parte bassa dei locali
siano presenti aperture per l’immissione di aria aventi superficie non minore di due volte la superficie
geometrica di apertura della totalità degli evacuatori installati.
La norma specifica che nel calcolo si devono considerare portoni, porte e finestre purché poste
nella zona libera da fumo; è necessario però precisare che gli infissi di tali elementi devono consentire
il flusso libero dell’aria in caso di intervento degli EFC.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 318

In questo caso si dovrà pertanto provvedere all’apertura degli infissi considerati


contemporaneamente all’intervento degli EFC.
13.8 DESCRIZIONE DEGLI EFC
Esistono diversi tipi di evacuatore di fumo e calore che, a titolo informativo, elenchiamo di
seguito:
⋅ E.F.C. A funzionamento meccanico: Il sistema si serve di un meccanismo a molla o
contrappeso.
⋅ E.F.C. a funzionamento elettrico: Il sistema si serve del motore elettrico e della relativa
batteria tampone.
⋅ E.F.C. A funzionamento pneumatico: Il sistema si serve di gas CO2, azoto o aria compressa.
Tra questi diversi sistemi l’E.F.C. pneumatico si è dimostrato il più affidabile e funzionale; di
seguito ne descriveremo in dettaglio le componenti ed il funzionamento.
13.8.1 EFC PNEUMATICO
Il meccanismo prevede che il cilindro pneumatico porti l’anta mobile in apertura fino ad un
angolo di 110°, dopodiché, per effetto del passaggio oltre la verticale, prosegua in caduta libera con
l’unico vincolo della molla ad azione frenante. Questo meccanismo (Figura 260), studiato in
conformità alla norma DIN 18232/3 può soddisfare quanto richiesto dalla norma UNI 9494 .

Figura 260: EFC pneumatico


Se al sistema sopra descritto viene applicata una forza contraria alla direzione di apertura, come
quella data dal vento, essa si somma all’azione frenante della molla. La somma di queste forze può
rallentare o addirittura impedire l’apertura dell’evacuatore.
Il cilindro pneumatico (Figura 261) nonostante le contenute dimensioni di lunghezza in stato di
chiusura ha lo stelo configurato in modo telescopico ed e composto da tre sfili.

Figura 261: Cilindro pneumatico


Grazie a questo meccanismo, al termine dell’espulsione totale dello stelo, l’anta fissa e l’anta
mobile si vengono a trovare solidamente contrastate dal cilindro.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 319

14. ESEMPIO DI RELAZIONE PER CPI


Si vuole qui fornire un esempio di stesura di una relazione per la richiesta del CPI (Certificato di
Prevenzione Incendi) per una ipotetica costruzione. L’Allievo osservi l’articolato dei paragrafi,
l’impostazione del calcolo e i riferimenti normativi citati. I dati illustrati nell’esempio qui considerato
sono riferiti ad un ipotetico ospedale.
14.1 GENERALITÀ
Il carico d’incendio è stato calcolato secondo le definizioni ed indicazioni di cui alla Circolare del
Ministero degli Interni n. 91 del 14 settembre 1961.
Il carico d’incendio è per definizione il potenziale termico della totalità dei materiali combustibili
contenuti in uno spazio, ivi compresi i rivestimenti dei muri, delle pareti, dei pavimenti e dei soffitti.
Esso è espresso convenzionalmente dalla quantità in chilogrammi di legna equivalente (potere
calorifero superiore a 18.48 MJ/kg).
Il carico di incendio specifico è quello riferito all’unità di superficie (1 m²) orizzontale; esso si
ottiene dividendo per 18.48 (pcs del legno) il numero di MJ per unità di superficie orizzontale (1 m²) del
locale che al massimo si possono sviluppare per effetto della combustione di tutti i materiali
combustibili presenti, cioè con l’espressione:
Σ gi ·Hi
q = —————
18.48 · A
dove:
⋅ q è il carico d’incendio [kg legno/m²]
⋅ giè il peso [kg] del generico fra gli n, combustibili che si prevede siano presenti nel locale nelle
condizioni più gravose di carico di incendio
⋅ Hi è il potere calorifero [MJ/kg] del generico combustibile fra gli n presenti
⋅ A è la superficie orizzontale [m²] del locale o del piano del fabbricato considerato 18.48 è
il potere calorifero [MJ/kg] del legno.
Le condizioni più gravose del carico di incendio di un certo locale o piano sono quelle per le
quali la sommatoria gi — Hi è massima e vengono determinate esaminando le previste utilizzazioni dei
locali e dei piani. In base alle previsioni di progetto si sono stabilite le situazioni reali di tutti i materiali
combustibili da utilizzare, arrivando quindi alla determinazione di una lista ove compaiono le quantità
(pesi, numero di pezzi, …) dei suddetti materiali in opera.
La classe d’incendio dell’edificio esprime il carico virtuale in kg/m² di legna standard ed è
indicativa anche dei minuti primi di durata minima di resistenza al fuoco da richiedere alla struttura in
esame.
La classe dell’edificio si determina in base alla formula:
C=K·q
in cui:
⋅ C è il numero indicativo della classe
⋅ q è il carico d’incendio in legna standard
⋅ K è il coefficiente di riduzione (compreso ta 0,2 e 1) che tiene conto delle condizioni reali
di incendio dell’edificio.
14.2 LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO
Le Leggi, regolamenti e Norme Tecniche di riferimento sono le seguenti:
⋅ Norme sulla sicurezza del lavoro, D.P.R. n. 457 del 27/04/1955, D.P.R. n. 164 del 07/01/1956,
D.P.R. n. 302 del 19/03/1956 e D.Lgs 626/94;
⋅ Norme generali per l’igiene del lavoro, D.P.R. n. 303 del 19/03/1956;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 320

⋅ Circolare Ministeriale n. 91 del 14/09/1961 recante “Norme di sicurezza per la protezione


contro il fuoco dei fabbricati a struttura in acciaio destinati ad uso civile”;
⋅ Circolare Ministeriale n. 68 recante “Norme di sicurezza per impianti termici a gas di rete”
⋅ Legge n. 1083 del 06/12/71 “Norme per la sicurezza dell’impiego del gas combustibile”
⋅ Circolare Ministeriale n. 31 MLSA del 31/08/1978 recante “Norme di sicurezza per
l’installazione di motori a combustione interna accoppiati a macchina generatrice elettrica o a
macchina operatrice”;
⋅ Decreto del Ministero dell’Interno del 16/02/1982 “Modificazioni del D.M. 27/08/1965
concernete la determinazione delle attività soggette a visite di prevenzione incendi”;
⋅ D.P.R. n. 577 del 29/07/1982 “Approvazione del regolamento concernete l’espletamento dei
servizi di prevenzione e di vigilanza antincendi”;
⋅ Decreto Ministero degli Interni del 30/11/1983 recante “Termini, definizioni generali e simboli
grafici di prevenzione incendi”;
⋅ Decreto Ministero degli Interni del 30/11/1983 “Classificazione di reazione al fuoco ed
omologazione dei materiali ai fini della prevenzione incendi”;
⋅ D.M. del 01/02/1986 Recante “Norme di sicurezza antincendi per la costruzione e l’esercizio di
autorimesse e simili”;
⋅ Decreto Ministero degli Interni n. 246 del 01/02/1986 “Norme di sicurezza antincendio per la
costruzione e l’esercizio di autorimesse e simili”;
⋅ DM. N. 246 del 16/05/1987 recante “Norme di sicurezza antincendio per gli edifici di civile
abitazione” e in particolare il punto 2.5 per gli ascensori;
⋅ L. n. 46 del 05/03/1990 recante “Norme per la sicurezza degli Impianti”;
⋅ D.P.R. n. 447 del 06/12/91 “Regolamento di attuazione della L. 46/90 in materia di sicurezza
negli impianti”;
⋅ Decreto Ministero degli Interni del 09/04/1994 “approvazione della regola tecnica di
prevenzione e incendi per la costruzione e l’esercizio delle attività ricettive turistico –
alberghiere”;
⋅ D.Lgs n. 626 del 19/09/1994 “attuazione delle direttive europee riguardanti il miglioramento
della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro”;
⋅ D.M. del 12/04/1996 recante la “Regola Tecnica di prevenzione incendi per la progettazione,
costruzione e l’esercizio degli impianti termici alimentati a gas metano”;
⋅ D.P.R. 14/01/1997 recante “Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e
alle province autonome di Trento e Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed
organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitari”;
⋅ D.M. 10/03/1998 recante “Criteri generali di sicurezza antincendio e per la gestione
dell’emergenza nei luoghi di lavoro”;
⋅ Decreto Ministero degli Interni del 04/05/1998 “Disposizioni relative alle modalità di
presentazione ed al contenuto delle domande per l’avvio dei procedimenti di prevenzione
incendi, nonché all’uniformità dei connessi servizi resi dal Comandi provinciali dei vigili del
fuoco”;
⋅ Circolare Ministero degli Interni n. 9 del 05/05/1998 e D.P.R. n. 37 del 12/01/1998 recante
“Regolamento per la disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione incendi. Chiarimenti
applicativi”;
⋅ Norma UNI-VV.F 8478, “Criteri per assicurare la robustezza delle lance a getto pieno per
l’acqua antincendi”;
⋅ Norma UNI-VV.F. 9485 e 9846, “Criteri progettuali e dimensionali per le reti idriche ove si
impiegano idranti a colonna fissa”:
⋅ Norma UNI-VV.F. 9487, “Norme di progettazione di reti con idranti a colonna in ghisa”;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 321

⋅ Norma UNI-VV.F. 9489 “Criteri di progettazione, dimensionamento e classificazione degli


impianti fissi di estinzione automatici a pioggia”;
⋅ Norma UNI-VV.F. 9490, “Norme di progettazione delle reti di distribuzione degli erogatori”;
⋅ Norma UNI-VV.F. 9491, “Norme di progettazione delle reti di distribuzione degli impianti
sprinkler”;
⋅ Norma UNI-VV.F. 9502, “Procedimento analitico per valutare la resistenza al fuoco degli
elementi costruttivi di conglomerato armato, normale e precompresso”
⋅ Norma UNI-VV.F. 9503, “Procedimento analitico per valutare la resistenza a fuoco degli
elementi costruttivi di acciaio”;
⋅ Norma UNI-VV.F. 9504, “Procedimento analitico per valutare la resistenza a fuoco degli
elementi costruttivi di legno”;
⋅ Norma UNI 9795 “Sistemi fissi automatici di rivelazione e di segnalazione incendi”
⋅ Norma UNI-VV.F. 10779, “Riferimento per la progettazione di una rete di idranti,
classificazione dei rischi e dimensionamento delle installazioni”
⋅ Norme UNIEN (3/1, 3/2, ¾, 3/5).
Caratteristiche Costruttive
Le caratteristiche costruttive dell’edificio in progetto variano a seconda dei locali e dei comparti
considerati.
Le strutture portanti sono in calcestruzzo armato con telai orditi nelle due direzioni trasversali
principali e conformi, tra l’altro, alla vigente normativa sismica e ai coefficienti di rischio per ospedali.
La resistenza a fuoco degli elementi strutturali, valutata ai sensi della Circolare Ministero degli
Interni n. 91 del 14/09/1961, le Norme UNI-VV.F. 9502 e 9503 e le Regole Tecniche indicate in
precedenza, è indicata con le lettere:
⋅ R, stabilità, è l’attitudine a conservare la resistenza meccanica sotto l’azione del fuoco;
⋅ E, tenuta: è l’attitudine a non lasciar passare fiamme, vapori o gas caldi sul lato non esposto;
⋅ I, Isolamento termico: è l’attitudine a ridurre la trasmissione del calore dalla faccia esposta a quella
non esposta.
In conseguenza di questa classificazione si ha la seguente classificazione delle strutture:
⋅ Pareti piani interrati : R/REI 120
⋅ Pareti piani fuori terra: R/REI 90
La muratura di tamponamento è costituita dalle seguenti tipologie:
⋅ Degenze e studi: Pareti esterne in Curtain Wall con elementi esterni in alluminio;
⋅ Degenze e studi: Pareti esterne e di confine con muratura a doppia parete di forati di 12
e 8 cm separati da intercapedine interna riempita di lana di roccia in pannelli rigidi ed intonaco
sulle due facce;
⋅ Degenze e studi: Pareti divisorie in laterizio forato da 8 cm con intonaco ai due lati;
⋅ Scale e ascensori. Muratura in cemento a faccia vista da 25 cm di spessore;
⋅ Degenze e studi: Copertura a terrazzo con solaio da 32 cm e piastrelle;
⋅ Studi: Copertura a solaio a volta esterna rivestita con lastre in alluminio
metallico.
La resistenza a fuoco dei vani scala ed ascensori nonché dei montacarichi, compresi i vani
macchina, sarà pari a REI 90.
14.3 MATERIALI UTILIZZATI
In conformità alle Regole Tecniche relative al presente progetto i materiali nelle diverse aree
avranno le seguenti caratteristiche:
⋅ Negli atri, nei corridoi, nei disimpegni, nelle scale, nelle rampe e nei passaggi in genere si
utilizzeranno materiali in Classe 1 in ragione di almeno il 50% massimo della loro superficie
totale mentre per le restanti parti si utilizzerà materiale in Classe 0;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 322

⋅ I materiali di rivestimento ed i materiali isolanti saranno posti in opera in aderenza agli elementi
costruttivi di Classe 0 escludendo spazi vuoti o intercapedini;
⋅ I tendaggi saranno di Classe non superiore ad 1 mentre i materassi ed i mobili saranno in Classe
1M;
⋅ Le pavimentazioni saranno di tipo resiliente in Classe 1;
⋅ I corridoi e gli altri locali ove sono posti canali, tubi o scarichi a soffitto saranno controsoffittati
con pannelli smontabili in gesso o fibra minerale.
14.4 COMPARTIMENTAZIONE
Una misura fondamentale per la riduzioni dei rischi di incendio è la compartimentazione
dell’edificio, cioè la delimitazione di parti di edificio detti “compartimenti antincendio” indispensabili per
isolare un incendio ed impedirne la propagazione in altre zone a rischio o con presenza di persone.
La Classe di un compartimento è data dalla resistenza al fuoco delle strutture che lo delimitano,
come indicato nelle tabelle che seguono.
La compartimentazione è stata effettuata cercando di coniugare le esigenze imposte dalle
Norme Tecniche con quelle di funzionalità del comparto in modo da limitare al minimo la fruibilità
degli ambienti e dei servizi ad essi associati.
Si è fatto riferimento all’ipotesi di Norma Tecnica di cui alla Circolare del Ministero dell’Interno
prot. 341/4122 sott. 46 All. 1 del 15/04/200262 in ottemperanza al decreto della Commissione
Europea previsto dalla direttiva 94/34/CE.
Le aree compartimentali sono così definite:
⋅ Aree di tipo A: aree o impianti a rischio specifico e classificate come attività soggette al
controllo dei V.V.F ai sensi del D.M. 16/02/1982 e del D.P.R. 689/59 (impianti di produzione
del calore , gruppi elettrogeni, autorimesse, ecc…);
⋅ Aree di tipo B: aree a rischio specifico accessibile al solo personale dipendente (Aule e
laboratori di ricerca, depositi, , etc..) ubicati nel volume degli edifici destinati, anche in parte, ad
aree di tipo C e D;
⋅ Aree di tipo C: aree destinate a studi dei docenti;
⋅ Aree di tipo D: aree destinate ad unità speciali (laboratori speciali, ….);
⋅ Aree di tipo E: aree destinate ad altri servizi (uffici, scuole e convitti professionali, spazi
per riunioni e convegni, mensa aziendale, spazi per visitatori inclusi bar e limitati spazi
commerciali, ecc…)
La compartimentazione sarà ottenuta utilizzando i seguenti sistemi costruttivi:
⋅ Solai intonacati per la compartimentazione orizzontali;
⋅ Infissi tagliafuoco per le aperture di comunicazione;
⋅ Serrande tagliafuoco ed altri accorgimenti (quali collari tagliafuoco, sigillanti tagliafuoco, ….) per
la compartimentazione in presenza di passaggi impiantistici.
Le comunicazioni con i percorsi di esodo (orizzontali e/o verticali) avvengono tramite filtri a
prova di fumo. I filtri hanno le seguenti caratteristiche:
⋅ Strutture di delimitazione con resistenza al fuoco al fuoco pari ad almeno REI 60 o REI 120
nel copro dell’edificio B di altezza superiore a 24 m;
⋅ Accessi dotati di porte con resistenza al fuoco almeno pari a REI 60 o 120 per l’edificio B
munite di congegno di chiusura automatica in caso di incendio;
⋅ Aerazione ottenuta mediante canna di ventilazione per l’evacuazione dei fumi di tipo Shunt
realizzata con pareti resistenti al fuoco REI 90, della sezione minima pari a 0.10 m².
Il passaggio fra un comparto e quello immediatamente a ridosso è protetto con l’inserimento di
una zona di filtro dotata di canna di ventilazione della sezione minima di 40 x 50 cm² per l’evacuazione
dei fumi.

62 Questa Regola Tecnica per gli ospedali è stata successivamente pubblicata come D.M. Interni nel settembre
2002.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 323

Figura 262: Esempio di compartimentazione di più reparti ospedalieri


In questo modo si può classificare il reparto adiacente come luogo sicuro statico o dinamico, ove
poter trasferire i pazienti del reparto interessato attiguo in attesa dei soccorsi.
Si aumenta, pertanto, la sicurezza e gestibilità delle operazioni di emergenza potendo attuare una
evacuazione orizzontale progressiva.
Le delimitazioni dei compartimenti e le relative superfici sono rilevabili nei disegni allegati (ed in
parte visibili nelle tavole di Figura 262 fino alla Figura 264) alla presente Relazione per il C.P.I
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 324

Figura 263: Esempio di compartimentazione di un piano operatorio


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 325

Figura 264: Esempio di compartimentazione di degenze ospedaliere63

63 Nelle tavole relative alla compartimentazione si sono utilizzati dei simboli per i componenti di impianto

antincendio che sono raccolti nella seguente tavola sinottica:

Simboli per gli impianti antincendio


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 326

14.5 DESCRIZIONE DEI LOCALI, DEI PIANI O DELLE ZONE


I locali (zone) presi in esame sono elencati nella seguente tabella:
Zona Attività(*) Descrizione Superficie [m²]
A 85 PIANO A QUOTA 130.60 1080,00
B 85 PIANO A QUOTA 138.60 800,00
C 85 PIANO A QUOTA 142.60 800,00
D 85 PIANO A QUOTA 146.60 800,00
(*) Si veda l’elenco dei depositi e industrie pericolose soggetti alle visite ed ai controlli di prevenzione incendi di cui al DM 16-2-1982 e alle
successive modifiche e integrazioni.
Tabella 46: A – Superfici dei comparti dell’ipotetico edificio
14.6 CALCOLO DEL CARICO D’INCENDIO SPECIFICO
Considerando, in base alla dichiarazione del titolare dell’attività, per le zone definite dalla tabella
A la presenza media di materiali definita dalle tabelle D, si ha per ogni zona un carico d’incendio
specifico come dal seguente prospetto:
Zona Superficie [m²] Potenza Energetica calcolata [MJ] C.d.I [kg/m²]

A 1080,00 135118,00 6,77


B 800,00 94312,00 6,38
C 800,00 94312,00 6,38
D 800,00 94312,00 6,38
Tabella 47: B – Carico d’incendio specifico
4 Calcolo della classe d’incendio
In base alla Circolare n. 91 si è determinato, per ogni zona, un indice di valutazione globale e un
coefficiente di riduzione del carico di incendio per tenere conto delle circostanze particolari in
relazione alla sicurezza antincendio.
La tabella C riporta tali valori insieme alla classe d’incendio corrispondente.
I fattori determinanti il coefficiente di riduzione sono riportati nelle tabelle seguenti .
Zona C.d.I. [kg/m²] K (coefficiente di riduzione) C.d.I. ridotto [kg/m²] Classe

A 6,77 0,55 3,69 15


B 6,38 0,55 3,52 15
C 6,38 0,55 3,52 15
D 6,38 0,55 3,52 15
Tabella 48: C – Calcolo della classe di incendio
14.7 ELENCO DEI MATERIALI PRESENTI NEI SINGOLI LOCALI O ZONE
Per le singole zone si hanno le seguenti tabelle.
Materiale Pcs [MJ] Quantità Totale [MJ]
Apparecchio radio 84,00 6 504,00
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 327

Armadio a muro (a 2 porte) 1340,00 6 8040,00


Poltrone 335,00 240 80400,00
Scrivania grande (2 serie di cassetti) 2177,00 6 13062,00
Sedia non imbottita 67,00 258 17286,00
Tavolo allungabile grande 590,00 6 3540,00
Tende (al m2 di superficie finestra) 23,00 24 552,00
Carta, oggetti di 1100,00 3 3300,00
Legno, rivestimento o impiallacciato 4200,00 2 8400,00
PVC elastico 34,00 1 34,00
Tabella 49: D – Materiali presenti nella zona A.
Materiale Pcs [MJ] Quantità Totale [MJ]
Apparecchio radio 84,00 8 672,00
Armadio a muro (a 2 porte) 1340,00 8 10720,00
Poltrone 335,00 12 4020,00
Scrivania grande (2 serie di cassetti) 2177,00 8 17416,00
Sedia non imbottita 67,00 520 34840,00
Tavolo allungabile grande 590,00 8 4720,00
Tende (al m2 di superficie finestra) 23,00 30 690,00
Carta, oggetti di 1100,00 4 4400,00
Legno, rivestimento o impiallacciato 4200,00 4 16800,00
PVC elastico 34,00 1 34,00
Tabella 50: D – Materiali presenti nella zona B.
Materiale Pcs [MJ] Quantità Totale [MJ]
Apparecchio radio 84,00 8 672,00
Armadio a muro (a 2 porte) 1340,00 8 10720,00
Poltrone 335,00 12 4020,00
Scrivania grande (2 serie di cassetti) 2177,00 8 17416,00
Sedia non imbottita 67,00 520 34840,00
Tavolo allungabile grande 590,00 8 4720,00
Tende (al m2 di superficie finestra) 23,00 30 690,00
Carta, oggetti di 1100,00 4 4400,00
Legno, rivestimento o impiallacciato 4200,00 4 16800,00
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 328

PVC elastico 34,00 1 34,00


Tabella 51: D – Materiali presenti nella zona C.
Materiale Pcs [MJ] Quantità Totale [MJ]
Apparecchio radio 84,00 8 672,00
Armadio a muro (a 2 porte) 1340,00 8 10720,00
Poltrone 335,00 12 4020,00
Scrivania grande (2 serie di cassetti) 2177,00 8 17416,00
Sedia non imbottita 67,00 520 34840,00
Tavolo allungabile grande 590,00 8 4720,00
Tende (al m2 di superficie finestra) 23,00 30 690,00
Carta, oggetti di 1100,00 4 4400,00
Legno, rivestimento o impiallacciato 4200,00 4 16800,00
PVC elastico 34,00 1 34,00
Tabella 52: D – Materiali presenti nella zona D
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 329

14.8 INDICI DI VALUTAZIONE E DETERMINAZIONE DEL COEFFICIENTE DI


RIDUZIONE
Fattori I.V.
1.1 Altezza totale dell’edificio 4
1.2 Altezza dei piani di un edificio multipiano 1
2.1 Superficie interna delimitata da muri tagliafuoco, pareti esterne, antincendio... 4
3.1 Materiali presenti nell'edificio 5
3.2 Destinazione dei locali 10
3.3 Uscite di soccorso 0
4.1 Distanza dagli edifici circostanti 1
5.1 Squadra interna soccorso 25
5.2 Impianto Sprinkler 0
5.3 Avvisatore automatico in diretto collegamento con la caserma VV.F. 0
5.4 Guardiania permanente con telefono 0
5.5 Impianto interno di idranti senza guardiania 2
5.6 Impianto esterno di idranti in prossimità dell'edificio 1
5.7 Estintori senza guardiania 1
5.8 Tempo richiesto per l'arrivo dei vigili del fuoco 2
5.9 Difficoltà di accesso interno 0
Indice totale di valutazione 16
Tabella 53: Indici per zona A.

Figura 265: Calcolo del coefficiente di riduzione per la zona A


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 330

Fattori I.V.
1.1 Altezza totale dell’edificio 4
1.2 Altezza dei piani di un edificio multipiano 2
2.1 Superficie interna delimitata da muri tagliafuoco, pareti esterne, antincendio... 4
3.1 Materiali presenti nell'edificio 5
3.2 Destinazione dei locali 10
3.3 Uscite di soccorso 0
4.1 Distanza dagli edifici circostanti 1
5.1 Squadra interna soccorso 25
5.2 Impianto Sprinkler 0
5.3 Avvisatore automatico in diretto collegamento con la caserma VV.F. 0
5.4 Guardiania permanente con telefono 0
5.5 Impianto interno di idranti senza guardiania 2
5.6 Impianto esterno di idranti in prossimità dell'edificio 1
5.7 Estintori senza guardiania 1
5.8 Tempo richiesto per l'arrivo dei vigili del fuoco 2
5.9 Difficoltà di accesso interno 0
Indice totale di valutazione 15
Tabella 54: Indici per zona B.

Figura 266: Calcolo del coefficiente di riduzione per la zona B


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 331

Fattori I.V.
1.1 Altezza totale dell’edificio 4
1.2 Altezza dei piani di un edificio multipiano 2
2.1 Superficie interna delimitata da muri tagliafuoco, pareti esterne, antincendio... 4
3.1 Materiali presenti nell'edificio 5
3.2 Destinazione dei locali 10
3.3 Uscite di soccorso 0
4.1 Distanza dagli edifici circostanti 1
5.1 Squadra interna soccorso 25
5.2 Impianto Sprinkler 0
5.3 Avvisatore automatico in diretto collegamento con la caserma VV.F. 0
5.4 Guardiania permanente con telefono 0
5.5 Impianto interno di idranti senza guardiania 2
5.6 Impianto esterno di idranti in prossimità dell'edificio 1
5.7 Estintori senza guardiania 1
5.8 Tempo richiesto per l'arrivo dei vigili del fuoco 2
5.9 Difficoltà di accesso interno 0
Indice totale di valutazione 15
Tabella 55: Indici per zona C.

Figura 267: Calcolo del coefficiente di riduzione per la zona C


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 332

Fattori I.V.
1.1 Altezza totale dell’edificio 4
1.2 Altezza dei piani di un edificio multipiano 2
2.1 Superficie interna delimitata da muri tagliafuoco, pareti esterne, antincendio... 4
3.1 Materiali presenti nell'edificio 5
3.2 Destinazione dei locali 10
3.3 Uscite di soccorso 0
4.1 Distanza dagli edifici circostanti 1
5.1 Squadra interna soccorso 25
5.2 Impianto Sprinkler 0
5.3 Avvisatore automatico in diretto collegamento con la caserma VV.F. 0
5.4 Guardiania permanente con telefono 0
5.5 Impianto interno di idranti senza guardiania 2
5.6 Impianto esterno di idranti in prossimità dell'edificio 1
5.7 Estintori senza guardiania 1
5.8 Tempo richiesto per l'arrivo dei vigili del fuoco 2
5.9 Difficoltà di accesso interno 0
Indice totale di valutazione 15
Tabella 56: Indici per zona D

Figura 268: del coefficiente di riduzione per la zona D


IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 333

14.9 RISPONDENZA DEGLI ELEMENTI DI PROGETTO ALLE NORME


Il dimensionamento degli spessori e delle protezioni da adottare per le varie classi di strutture e
nei vari casi delle pareti, dei solai, degli elementi strutturali in acciaio sollecitati a flessione e trazione, e
degli elementi compressi (colonne) è indicato nella Tabella 24 fino alla Tabella 27.
Qualora il rivestimento protettivo non sia completamente aderente alla struttura metal1ica,
intorno alla quale perciò si forma una canna, si dovrà provvedere ad interrompere la continuità della
canna stessa in corrispondenza dei solai interponendovi un idoneo diaframma.
Segue ora l’applicazione di quanto sopra indicato
Locale (zona) A, B,C e D , classe 15
Strutture previste:
I vari comparti saranno separati da pareti in muratura da 25 cm Le pareti di separazione dei
locali adibiti ad aule saranno realizzate in sette di cemento a faccia vista da cm 20.
⋅ • I solai dovranno avere uno spessore minimo di cm 30
⋅ • I rivestimenti dei solai è effettuato con intonaco di spessore 2 cm. Le travi principali e
secondarie hanno copriferro di almeno 3 cm.
⋅ • I rivestimenti delle colonne saranno con intonaco con un rapporto di miscelazione con sabbia
del 30%.
⋅ • La sporgenza minima del pannello per colonne esterne a contatto di vani di porte e finestre
sarà di 5 cm su ciascuno dei lati della colonna. Le colonne avranno una distanza minima dalla
più vicina via di uscita delle fiamme di cm 50.
14.10 STRUTTURA DEGLI ELEMENTI CONNETTIVI
Particolare riguardo è dato agli elementi connettivi (scale, ascensori, montacarichi) dell’edificio
in progetto.
14.10.1 SCALE
Le scale di accesso alle varie aree dell’edificio sono realizzate a prova di fumo e provviste di
aerazione permanete in sommità avente superficie non inferiore ad 1 m². Le dimensioni sono
conformi alle vigenti regole tecniche. La resistenza al fuoco delle strutture è pari a REI 120.
14.10.2 ASCENSORI
Ogni ascensore utilizzerà un vano corsa distinto con caratteristiche REI 120, come prescritto
dal D.M. n. 246 del 16/05/1987. La superficie netta di aerazione sarà non inferiore al 3% della
superficie del vano stesso e mai inferiore a 0.20 m². Le porte di piano dell’ascensore saranno del tipo
metallico con resistenza a fuoco REI 120 e l’accesso allo sbarco dei piani avverrà con filtro a prova di
fumo con caratteristica di resistenza al fuoco REI 120. Gli ascensori saranno dotati di impianto
citofonico fra le cabine, il locale macchine, i pianerottoli e la sala controllo. L’alimentazione elettrica
degli ascensori sarà doppia, una di sicurezza che interverrà automaticamente in caso di incendio. I
montanti delle due linee elettriche, ciascuno separato dall’altro, saranno adeguatamente protetti contro
l’azione del fuoco.
14.11 MISURE PER L’EVACUAZIONE
Come indicato nel D.M. 10/03/1998, si sono indicate le vie di esodo compatibilmente con il
massimo affollamento ipotizzabile per l’attività in esame.
La densità di affollamento delle varie aree è stata calcolata sulla base delle vigenti regole tecniche
dianzi citate. Sono stati adottati i seguenti parametri:
⋅ Aree di tipo C Aule e simili 0.1 persone/m²;
⋅ Sale di attesa: 0.4 persone /m²;
14.11.1 CAPACITÀ DI DEFLUSSO
La capacità di deflusso per i vari piani è stata assunta in conformità ai valori seguenti:
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 334

⋅ 50/modulo per i piani con pavimento a quota compresa ± 1 m rispetto al piano di


uscita dell’edificio;
⋅ 37.5/modulo per piani con pavimento a quota compresa tra ± 7.5 m rispetto al piano
di uscita dall’edificio;
⋅ 33/modulo per piani con pavimento a quota al di sopra o al di sotto di ± 7.5 m
rispetto al piano di uscita dall’edificio.
In generale le porte di accesso alle scale e quelle che immettono all’esterno si apriranno nel
verso dell’esodo a semplice spinta.
Le porte che si aprono sulle vie di uscita non riducono la larghezza utile delle stesse.
Il calcolo dell’affollamento massimo ipotizzabile e la verifica della capacità di deflusso, per
ciascuna area, sono riportati nella tabella seguente.
14.11.2 PIANI DI EVACUAZIONE
Le operazioni di evacuazione saranno del tipo orizzontale progressivo.
A tale scopo i compartimenti sono dimensionati anche in modo da potere ospitare gli occupanti
dei compartimenti viciniori in attesa che l’incendio sia domato o, se necessario, della successiva
evacuazione verticale.
14.11.3 SISTEMI DI VIE DI USCITA, LUNGHEZZA, CARATTERISTICHE, LARGHEZZA
I compartimenti sono dotati un sistema organizzato di vie di uscita dimensionato in modo da
garantire lo sfollamento totale di ogni singolo compartimento sia in senso orizzontale che verticale.
La larghezza dei percorsi per raggiungere i luoghi sicuri, le scale di esodo verticali o il
compartimento adiacente, è stata dimensionata nel rispetto dei limiti e delle tolleranze imposte dalla
specifica regola tecnica. I percorsi sono realizzati con pavimento non sdrucciolevole e non presentano
ostacoli o intralci lungo lo sviluppo orizzontale.
Le aperture delle uscite di sicurezza, previste apribili nel verso dell’esodo, sono dotate di
maniglione antipanico.
Nelle aree di tipo D la profondità dei pianerottoli delle scale con cambio di direzione a 180° non
è inferiore a 2 m, misurata nella direzione dell’asse delle rampe, per consentire la movimentazione dei
letti o delle barelle in casi di emergenza.
14.12 AREE ED IMPIANTI A RISCHIO SPECIFICO

14.12.1 LOCALI ADIBITI A DEPOSITO DI MATERIALE COMBUSTIBILE


I locali adibiti a deposito di materiale combustibile ubicati all’interno dei compartimenti avranno
superficie contenuta entro i 12 m² ed un valore del carichi di incendio non superiore a 30 kg/m².
Detti locali saranno provvisti di strutture di separazione con caratteristiche di resistenza al fuoco
REI 90 e saranno dotati di impianto automatico di rivelazione ed allarme di incendio nonché di porte
con resistenza al fuoco REI 120.
14.12.2 LABORATORI
I servizi di laboratorio saranno separati dai reparti presenti allo stesso piano mediante pareti di
tamponamento e strutture REI 90. Le porte, dotate di dispositivo di chiusura automatico, saranno di
pari resistenza al fuoco, REI 90. I laboratori saranno serviti dalla rete a gas metano per alimentare i
bunsen e per effettuare le analisi chimiche. La rete del gas sarà esterna all’edificio ed entrerà solo per
alimentare gli apparecchi utilizzatori.
Le condotte del gas saranno dotate di intercettazione esterna ed interna su ogni singola
diramazione e saranno realizzate con i dispositivi e i materiali conformi alle Norme UNI – CIG.
14.12.3 CENTRALE IDRICA
La centrale idrica sarà posta nel livello inferiore, a fianco della sottocentrale termica.
L’alimentazione sarà derivata dalla rete esistente che fornisce la necessaria portata e prevalenza.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 335

La rete di distribuzione sarà in acciaio zincato e, ove possibile, correrà in controsoffitto nel
corridoio per scendere sotto traccia nelle pareti in corrispondenza delle utenze.
L’adduzione idrica nei singoli locali sarà effettuata mediante tubazioni in rame che si
dirameranno da collettori complanari del tipo Modul contenuti in cassette facilmente ispezionabili.
Ciascun ramo di alimentazione ad utenze idriche sarà munito di saracinesca di intercettazione
facilmente accessibile in cassetta. L’acqua calda sanitaria sarà prodotta mediante bollitori ad accumulo
dotati di scambiatori di calore. La temperatura di accumulo sarà di 60 °C mentre quella distribuita ai
piani avrà temperatura massima di 48 °C.
14.12.4 CABINA MT/BT E GRUPPO ELETTROGENO
Gli impianti elettrici saranno alimentati da una cabina elettrica di trasformazione che verrà
alimentata a sua volta dalla rete a MT dell’ENEL direttamente dall’esterno. Il locale di consegna
dell’ENEL sarà ubicato nella centrale elettrica, al livello più basso dell’edificio, accessibile
esternamente dal lato ENEL. Nella suddetta centrale elettrica (power center) troveranno posto anche:
⋅ Il locale di trasformazione MT/BT contenente le celle di media tensione e i trasformatori;
⋅ Il locale quadro generale di bassa tensione, del tipo Power Center;
⋅ Il locale contenente il gruppo elettrogeno di riserva.
Tutti i suddetti locali saranno accessibili dall’esterno, aerati e dotati di n. 2 estintori di cui 1 a
CO2 da 5 kg ed uno a polvere da 6 kg posto nel locale che ospiterà il gruppo elettrogeno mentre negli
altri locali vi saranno 2 estintori a CO2 da 5 kg.
14.12.5 SOTTOCENTRALE TERMICA
Dalla esistente Centrale Termica saranno derivate le tubazioni di acqua surriscaldata per gli
scambiatori di calore per il riscaldamento, l’alimentazione dei gruppi frigoriferi ad assorbimento e i
bollitori ad accumulo per l’acqua sanitaria. Completano la sottocentrale termica le pompe di
circolazione e gli organi di controllo.
14.12.6 CENTRALE FRIGORIFERA
I gruppi di refrigerazione, tre di cui uno di riserva, saranno alimentati con acqua surriscaldata,
del tipo bistadio, e saranno raffreddati con acqua e torri di raffreddamento.
In prossimità dei gruppi frigoriferi saranno posti due estintori a polvere da 6 kg ciascuno.

14.13 IMPIANTO DI RIVELAZIONE E SEGNALAZIONE DI INCENDI


L’intero edificio sarà dotato di impianti di segnalazione di allarmi incendi e di rivelazione
incendi, giusto quanto indicato dalla UNI 9795 “Sistemi fissi automatici di rivelazione e di segnalazione
incendi”, indicati nei disegni allegati alla presente Relazione C.P.I.
La segnalazione di allarme proveniente da uno qualsiasi dei rivelatori utilizzati determinerà
sempre una segnalazione ottica ed acustica di allarme incendio nella centrale di controllo e
segnalazione in ambiente presidiato. La rivelazione fumi e la segnalazione incendi sarà
automaticamente gestita da un impianto di building automation con inoltro automatico delle segnalazioni
e chiamata ai V.V.F.
Lo stesso impianto elettronico gestirà le fasi di emergenza con l’avvio delle procedure di
sicurezza previste dal programma monitor.
14.14 IMPIANTI DI ESTINZIONE DEGLI INCENDI
Si prevedono di utilizzare sia impianti ad idranti che estintori.
14.14.1 IMPIANTI AD IDRANTI
I naspi ed idranti UNI 45 saranno disposti in modo che, pur in presenza di interferenze, ogni
punto dell’edificio venga a trovarsi a non più di 5 metri dalla lancia di erogazione.
Gli idranti UNI 45 saranno posti in vicinanza delle porte di accesso dall’esterno o dai comparti
adiacenti e, in caso di presenza di filtri a prova di fumo, all’interno di essi.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 336

Gli idranti UNI 70 saranno posti esternamente all’edificio e collocati in modo il fronte
dell’edificio protetto da ciascun idrante non superi i 60 m.
Essi saranno posti ad una distanza di sicurezza non inferiore a 6 m dal fronte dell’edificio, al fine
di ridurre il rischio di inagibilità di incendio. Appositi cartelli segnalatori ne agevoleranno
l’individuazione a distanza. Saranno seguiti i seguenti criteri:
⋅ La rete degli idranti idrici sarà costituita da un anello collegato con montanti disposti nelle
gabbie scale o delle rampe oppure in posizione perimetrale;
⋅ Il collegamento ad ogni idrante UNI 45 avverrà con tubazione DN 40;
⋅ Il collegamento ad ogni naspo avverrà con tubazione DN 25;
⋅ Il collegamento ad ogni idrante UNI 70 avverrà con tubazione DN 65;
⋅ La custodia degli idranti sarà situata in un punto ben visibile e sarà munita di sportello in vetro
trasparente ed una profondità tale da consentire, a sportello chiuso, di mantenere collegate
manichetta e lancia;
⋅ La tubazione flessibile sarà costituita da un tratto di apposito tubo di lunghezza che consenta di
raggiungere col getto ogni punto dell’area protetta;
⋅ Le tubazioni fisse della rete idranti sarà costituita da tubi in acciaio zincato protetto contro il
gelo per le parti esposte e tale rete sarà indipendente dalle altre reti PN16;
⋅ Le caratteristiche idrauliche dell’impianto ad idranti garantiranno al bocchello della lancia, nelle
condizioni più sfavorevoli di altimetria e distanza, una portata non inferiore a 120 L7m ad una
pressione di almeno 2 bar per gli UNI 45 con idranti in funzione;
⋅ Per gli idranti antincendio si disporrà un gruppo di pompaggio costituito da elettropompe e
motopompa rispondenti alle norme UNI 9480 ed avente caratteristiche tali da ottenere le
portate e prevalenze ai bocchello degli idranti sopra descritte;
⋅ La riserva idrica è già predisposta nei serbatoi di accumulo del Policlinico, appositamente adibiti
per l’uso antincendio ed alimentati dal serbatoio piezometrico.
Esternamente all’edificio, nei punti di più facile accesso dei mezzi di soccorso antincendio,
saranno posizionati gli attacchi per motopompa VV.F.
14.14.2 ESTINTORI
Si prevede l’installazione di estintori portatili da 6 kg aventi capacità estinguente pari a 55°
233BC in ragione di 1 estintore ogni 100 m² di superficie. Il posizionamento sarà segnalato mediante
cartellonistica adeguata posta in punti ben visibili.
14.15 SEGNALETICA ED ISTRUZIONI DI SICUREZZA
Secondo quanto disposto dal D.Lgs n. 493 del 14/08/1993 verrà disposta idonea ed adeguata
segnaletica facilmente individuabile da ogni punto dei comparti, posizionata in basso ed idoneamente
illuminata. Tale segnaletica dovrà indicare:
⋅ Le vie di fuga;
⋅ Le vie di circolazione;
⋅ Le uscite di sicurezza;
⋅ Gli spazi calmi in termini di posizione e di funzione:
⋅ La presenza di mezzi di estinzione mobili e fissi;
⋅ La posizione dei dispositivi di arresto di tutti gli impianti presenti (distribuzione del gas,
dell’energia elettrica, dell’impianto di ventilazione, ….) ed il relativo impianto afferente;
⋅ L’indicazione degli impianti e dei locali a rischio specifico;
⋅ Il divieto di compiere azioni pericolose;
⋅ Il divieto di usare acqua per spegnere gli incendi su apparecchiature elettriche;
⋅ Le informazioni necessarie ed i numeri utili in caso di emergenza;
⋅ L’obbligo dell’uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI) previsti per le specifiche
attività;
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 337

⋅ Gli ostacoli ed i punti di pericolo delle vie di circolazione.


In aggiunta alla segnaletica di cui sopra verranno esposti all’ingresso dei fabbricati e/o dei
comparti le istruzioni relative al comportamento del personale e dell’eventuale pubblico in caso di
emergenza nonché una planimetria riportante la posizione di quanto segue:
⋅ Delle scale e delle vie di esodo;
⋅ Dei mezzi di estinzione mobili e fissi;
⋅ Dei dispositivi di arresto degli impianti di distribuzione del gas e dell’elettricità;
⋅ Dei dispositivi di arresto del sistema ventilazione;
⋅ Del quadro generale del sistema di rivelazione ed allarme;
⋅ Degli impianti e dei locali che presentano un rischio specifico;
⋅ Degli spazi calmi.
In corrispondenza di ogni piano sarà riportata una planimetria d’orientamento riportante:
⋅ Le vie di esodo;
⋅ L’indicazione del divieto di usare gli ascensori;
⋅ L’indicazione degli altri divieti che l’Ente Gestore dell’attività riterrà opportuno evidenziare.
Sarà attuato quanto previsto ai punti 14, 15, 16 e 17 del D.M. 09/04/1994 come pure saranno
rispettate tutte le indicazioni previste nel citato D.M. anche se non espressamente riportate nella
presente relazione.
14.16 ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DELLA SICUREZZA
L’Amministrazione proprietaria provvederà ad organizzare e gestire un sistema permanente di
prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione dell’emergenza in generale. Sarà pertanto redatto un
programma per l’attuazione ed il controllo delle misure poste in atto e in particolare:
⋅ misure per prevenire il verificarsi di un incendio e la sua propagazione (divieti, precauzioni,
esercizi e controlli);
⋅ controllo e manutenzione dei presidi antincendio;
⋅ informazione e formazione del personale.
Sarà predisposto un registro dei controllo periodici nel quale saranno annotati:
⋅ tutti gli interventi ed i controlli relativi all’efficienza degli impianti elettrici e di illuminazione di
sicurezza;
⋅ tutti gli interventi ed i controlli relativi all’efficienza dei presidi antincendio, dei dispositivi di
sicurezza e di controllo delle aree a rischio specifico;
⋅ dell’osservanza delle limitazioni dei carichi di incendio dei vari ambienti dell’attività;
⋅ le riunioni di addestramento e le esercitazioni di evacuazione.
Il registro sarà mantenuto aggiornato e posto a disposizione del Comando dei VV.F. per i
controlli richiesti.
14.17 AUTORIMESSA
La struttura in progetto sarà dotata di un autoparcheggio posto a quota 166.70 m s.l.m. capace
di ospitare circa 250 auto e destinato ai dipendenti e ai visitatori. Il parcheggio per i dipendenti avrà
una superficie di 2550 m² per un totale di 80 posti auto. Questa zona è servita da idranti UNI 45
disposti ai due lati del parcheggio. Quest’area risulta aperta da tutti i lati, aerata e a contatto con il cielo
libero.
Pertanto per le condizioni di sicurezza si utilizzano gli usuali mezzi antincendio (naspi, UNI45,
estintori). Il parcheggio per i visitatori è di 1500 m² al piano 166.70 m.s.l.m. per un totale di 80 posti
auto.
Le realizzazioni dell’autorimessa saranno eseguite a regola d’arte, nel rispetto del D.M.
01/02/1986 “Norme di sicurezza antincendi per la costruzione e l’esercizio di autorimesse e simili”, delle norme
UNI e CEI e della L. 46/90.
IMPIANTI TERMOTECNICI – VOL.UME TERZO 338

Il parcheggio interrato è compartimentato in una zona di area pari a 2550 m². Non sarà
concesso il parcheggio di auto alimentate a GPL nei piani interrati e tale divieto sarà segnalato da
appositi cartelli posti in punti ben visibili e con chiara dicitura.
14.17.1 RESISTENZA A FUOCO DELLE STRUTTURE
I vani scala di accesso all’autorimessa saranno separati dagli ambienti destinati al parcamento e
alla manovra delle vetture con pareti tagliafuoco aventi resistenza al fuoco REI 120 e dotate di
congegno di autochiusura. Le altre strutture non separanti dell’autorimessa avranno comunque
resistenza al fuoco almeno pari a REI 90.
14.17.2 AFFOLLAMENTO ED USCITE DI SICUREZZA
La densità di affollamento prevista è di n. 1 persona ogni 20 metri quadrati di superficie lorda
(0.05 pers./m², D.M. 01/02/1986) con i seguenti affollamenti: Livello 166.70 m.s.l.m. , 128 persone
L’accesso e l’uscita dal parcheggio avverrà tramite la prevista viabilità sia a pari quota esterna che
all’interno dell’edificio, lungo il corpo longitudinale del complesso. Sono previste n 4 uscite di
sicurezza organizzate in modo da avere almeno 3 moduli (capacità di deflusso pari a 150 persone del
comparto). L’accesso ad ogni vano scale avverrà mediante filtro a prova di fumo in modo da rendere le
stesse scale un luogo sicuro (dinamico) ai fini delle normative antincendio.
Le uscite di sicurezza saranno distribuite opportunamente ed organizzate in modo da avere una
distanza non superiore a 40 m. Saranno evitate barriere architettoniche (scalini, guide sporgenti dei
portoni, telai, …) sui percorsi di fuga in modo tale da permettere un sicuro raggiungimento dei vani
scala, delle rampe e degli ascensori.
Le pendenze del pavimento dovranno impedire o spandimento dei liquidi verso le uscite e le
rampe e comunque i dislivelli di 3÷4 cm che potranno essere presenti a tale scopo saranno sempre
raccordati opportunamente in modo da non costituire barriera architettonica.
14.17.3 SEGNALAZIONI DI SICUREZZA
E’ prevista l’installazione di cartelloni di sicurezza secondo quanto previsto dalla normativa
vigente ed evidenziata negli elaborati grafici allegati alla presente relazione. In corrispondenza delle
uscite di sicurezza saranno apposti cartelli e segnalazioni luminose che indicheranno anche le vie di
fuga.
In corrispondenza delle rampe di accesso saranno disposti i cartelli di divieto per l’ingresso delle
auto alimentate a GPL. Inoltre saranno apposti nelle zone di accesso i cartelli di divieto di deposito di
sostanze combustibili e/o infiammabile.
14.17.4 IMPIANTO ANTINCENDIO
L’impianto antincendio sarà costituito da una rete di idranti alimentata