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MIZR é uno strumento di divulgazione Direttore responsabile:

interna che presenta studi Mauro Cerulli


sul Martinismo, la Libera Muratoria
e lo Gnosticismo. Comitato scientifico:
Fabrizio Fiorini
La raccolta (che non ha periodicità Luizio Capraro
ed é riservata ai soli membri della Arrigo Gareffi
Associazione Culturale MIZR) Antonino Bonanno
non é in vendita
e può essere stampata in proprio
Vincenzo Malatesta
scaricandola gratuitamente.
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considerata una testata giornalistica
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della legge n. 62 del 07.03.2001. www.mizr.eu

Apis - Editoriale Pag. 1

Maathor - Raimondo Lullo, Pag. 10


il «Dottore Illuminato»

Algol - Martinismi e Martinisti Pag. 27

ADM - Lo specchio: la magia


di un’immagine non riflessa Pag. 32

Enoch Eliau - Il mio incontro Pag. 47


con Fabrizio Mariani

Heru Pha Khered - L’essenza Pag. 50


della ricerca ermetica
attraverso la relazione
uomo - anima - divinità

Hathor Go-Rex - Angelologia Pag. 68


delle Sephirot

Igneus - Storia e metastoria Pag. 80


del Martinismo

Calendario Operativo 2017

Anno 2 - n. 9 - inverno 2017


EDITORIALE
Apis

Rudolf Steiner, indubbiamente uno dei più grandi Maestri Spirituali di tutti
i tempi ammoniva che, prima dei quarant’anni, si dovrebbe parlare il meno pos-
sibile e quasi mai di argomenti di carattere spirituale. In effetti, guardandomi un
po’ attorno mi viene da pensare che, in molti casi, meglio sarebbe se tale aurea
regola venisse osservata anche dopo i cinquanta, o i sessanta, o i settant’anni con-
siderando la quantità enorme di sciocchezze che quotidianamente leggiamo o
ascoltiamo (già, perchè ora i “predicatori del web” hanno anche l’abitudine di uti-
lizzare i c.d. “canali you toube”) nella rete; tuttavia l’importanza del silenzio nelle
prime fasi dello sviluppo spirituale del discepolo era una regola assai conosciuta e
strettamente osservata nell’antichità. Coloro che, ad esempio, entravano a far parte
dell’Ordine Pitagorico venivano per diversi anni ammessi esclusivamente alla cerchia più
esterna dei discepoli del Filosofo di Samo, gli acusmatici, (dal greco akusmaticoi, ovvero “gli
auditori”); questi potevano unicamente ascoltare gli insegnamenti senza neppure avere la fa-
coltà di poter vedere in faccia il Maestro che impartiva le sue lezioni nascosto da una tenda.
Il Dio egizio del silenzio, Hor-pa-Khred, ellenizzato in Arpocrate, era in effetti raffigurato
come un fanciullo (il giovane Horus) nell’atto di sigillare le proprie labbra con una o due dita
(in genere indice e medio della mano destra) in un gesto molto ben conosciuto da coloro che
seguono il Cammino della Libera Muratoria Egizia. Le sembianze giovanili di Hor-pa-Khred
ci confermano dunque l’importanza, per i giovani, di os-
servare il silenzio; è, del resto, noto che nel primo grado
della moderna Libera Muratoria (Apprendista) è obbliga-
torio rimanere in silenzio durante lo svolgimento dei lavori
per tutta la durata dell’apprendistato. Purtroppo però, at-
tualmente, la permanenza nel grado di Apprendista è li-
mitata ad un breve periodo di tempo, ovvero 1-2 anni al
massimo, laddove in passato tale periodo era assai più
lungo. Le motivazioni occulte relative all’esigenza di par-
lare il meno possibile di argomenti spirituali prima dei
quarant’anni, Steiner le chiarisce in diversi punti della Sua
vasta opera e particolarmente nel ciclo di conferenze rac-
colte al numero 235 della Sua Opera Omnia con il titolo
Esoterische Betrachtungen karmischer Zusammenhange tra-
dotte in italiano nei sei volumi intitolati Considerazioni eso-
teriche sui nessi karmici (Editrice Antroposofica, Milano).
In estrema sintesi Steiner spiega che una corretta
investigazione occulta non può essere compiutamente ef-
fettuata se non dopo i quarant’anni e ciò proprio a causa
di una “immaturità di sviluppo” dei c.d.“organi superiori”
perciò, anche il discepolo più dotato, non potrà, senza quell’armonica maturazione dei propri
arti costitutivi (corpo fisico, corpo eterico, corpo astrale, organizzazione dell’Io, sè spirituale,
spirito vitale, etc.), realizzabile unicamente dopo il quarantesimo anno di età, avere chiarezza
attorno al proprio destino karmico, ovvero attorno al senso ultimo della propria presente in-
carnazione sulla terra, né, tanto meno, sarà in grado di poter comprendere o intuire quali

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siano state le proprie incarnazioni precedenti. Si badi bene poi, che soltanto pochissimi e qua-
lificati individui possono essere in grado di giungere a tali risultati dal momento che, come è
logico, la stragrande maggioranza degli individui verrà semplicemente trascinata dalla corrente
del proprio karma finendo per vivere un’esistenza da burattino i cui fili sono mossi, appunto,
unicamente dagli istinti inferiori in massima parte stabiliti per occulta legge karmica, come ben
sapeva l’iniziato Carlo Collodi che, in quella che è poi divenuta la fiaba più celebre del mondo,
il suo Pinocchio, ha saputo con grande maestria inserire dei concetti iniziatici potentissimi (e
tutto ciò, per inciso, spiega anche il successo di
Pinocchio nel mondo); in tal senso, Steiner ci for-
nisce gli esempi di alcuni personaggi celebri, quali
ad esempio, Karl Marx, Friedrich Nietzsche, Otto
Weininger, dimostrandoci come tutta la loro vita
e la loro opera sia stata fortemente condizionata,
diremmo quasi eterodiretta, dalle proprie infelici
esperienze maturate nelle loro precedenti esi-
stenze.
I più fortunati tra gli uomini (come diceva
Marco Tullio Cicerone), ovvero coloro che
avranno la fortuna di conoscere l’Iniziazione, potranno, a tempo debito, allorquando la loro
maturazione spirituale giungerà a compimento, comprendere il senso ultimo del loro attuale
transito terrestre ed essere in grado di scorgere nitidamente lo scenario dei mondi superiori
e allora, solo allora, potranno essere in grado di guidare gli altri!
In questa epoca degenerata, tuttavia, ogni fondamento di sacralità sembra essere
scomparso, la spiritualità è stata trasformata in una specie di burletta quando non in un vero
e proprio business con“iniziazioni”e“seminari formativi”venduti all’incanto a prezzi in molti
casi anche esorbitanti ( ricordatelo sempre, lo Spirito o è gratis o non è Spirito) e la stragrande
maggioranza degli “Ordini Iniziatici” si sono oramai trasformate in strutture completamente
depotenziate e prive di qualunque REALE valenza iniziatica. Dunque oggi più che mai è valido
il celebre detto delle Upanishad “chi sa non parla e chi parla non sa”. Pertanto alcuni stolti
giovani, quasi sempre abbeveratisi a fonti inquinate, oggi pretenderebbero di fare da“maestri”
pur non avendo non solo raggiunto alcuna effettiva maturazione spirituale, ma non avendo
neppure conseguito quegli indispensabili
requisiti di maturità psicologica senza i
quali non ci si può certamente prendere
cura degli altri dato che, con tutta evi-
denza, non si è neppure in grado di pren-
dersi cura di sé stessi!
L’estrema immaturità di questi sog-
getti, miscelata all’irrequietezza ed alla su-
perficialità proprie di quest’epoca ed al
delirio di onnipotenza caratteristico dei
giovani, li spinge, inizialmente, ad intra-
prendere percorsi assolutamente irregolari
e fuordevianti nella scia di “Ordini”,
“Scuole”, “Accademie”, dei quali, se essi
fossero stati più maturi e meno sconside-
rati, avrebbero potuto comprendere l’as-
soluta inconsistenza, e successivamente
“mettersi in proprio”trasferendo perciò ad

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altri sprovveduti che si lasciano incantare da questi“bamboccioni”, i propri errori di pensiero,
le proprie lacune interpretative e sovente anche i propri deliri.
I risultati sono sconcertanti e sotto gli occhi di tutti: “sacerdotesse” e “sacerdoti” che
cianciano di “Arcani” e “Misteri” ai Quali non sono mai stati iniziati e che gabellano per “ope-
razioni ermetiche” sconce ingurgitazioni di liquidi organici ed altre consimili porcherie più o
meno rientranti nel novero delle c.d.“devianze sessuali”, baby (o meno baby)”maestri” o “je-
rofanti” che, con incredibile faccia tosta, essendo stati allontanati con disonore da Regolari
Strutture Iniziatiche (il bello è che in questi ambienti di nicchia e con l’attuale sviluppo del
web, in quasi tutti i casi sono visibili anche i relativi decreti di espulsione!) danno vita a
“pseudo-ordini” pretendendo addirittura di essere gli “unici e regolarmente autorizzati de-
tentori” di questo o di quel lignaggio!
Molti di questi grotteschi personaggi sono, peraltro, palesemente affetti da patologie
psichiche o organiche (che poi sono la medesima cosa dal momento che Steiner ci spiega che
qualunque malattia di interesse psichiatrico si sviluppa a partire da un fondamento organico),
ergo, sulla base di quanto Guènon afferma nel capitolo XIV di “Considerazioni sull’Iniziazione”
(capitolo intitolato “Delle qualificazioni iniziatiche”) tali soggetti non avrebbero neppure avuto
titolo per essere ammessi in un’autentica Scuola esoterica ed Iniziatica! Ma ammettiamo
anche che questi “maestri in erba” possano aver avuto una regolare formazione iniziatica e
che fossero divenuti individui sani, coscienti e spiritualmente sviluppati: rimarrebbero co-
munque aperte tutte le limitazioni esposte da Steiner in“Considerazioni esoteriche sui nessi kar-
mici” nonché permarrebbero in ogni caso le regole che da sempre vigono nelle Associazioni
Iniziatiche, regole che non possono essere definite temporali ma sono bensì eterne dal mo-
mento che la vera Iniziazione ha sempre regole immutabili ed immodificabili. Sulla necessità
di attendere un tempo molto lungo prima di poter iniziare ad insegnare agli altri così si
esprime un altro Grande Maestro dell’umanità, Louis Claude de Saint-Martin nell’Homme de
Dèsir, opera scritta dal Maestro di Amboise nel 1790, ovvero a 47 anni di età: “La saggezza non
lascerebbe entrare in voi dei desideri veri, se non avesse messo in voi anche dei mezzi sicuri per sod-
disfarli. Essa è la misura stessa, e non opera con voi che in questa misura.
Ma voi, giudici imprudenti e insensati, voi turbate tale misura nei deboli mortali! Se comin-
ciate troppo presto a fare da maestri, non offrirete loro che dei frutti precoci o rubati, che fini-
ranno per farvi confondere. Se esaltate troppo le loro idee, darete loro dei desideri anticipati e
pericolosi. Se piegate il loro spirito sopra
delle cose composte, farete sorgere in loro
delle difficoltà traviatrici. Saggezza, sag-
gezza, solo tu sai dirigere l’uomo senza fatica
e pericolo, nelle tranquille gradazioni della
luce e della verità. Tu hai preso, come tuo or-
gano e tuo mediatore, il tempo; egli insegna
tutto, come te, in modo dolce, insensibile e con-
servando perennemente il silenzio, mentre gli
uomini non ci insegnano niente, con la loro
continua ed eccessiva abbondanza di parole.”
Mi vengono rapidamente in mente
alcuni (pseudo) esegeti del Filosofo Inco-
gnito i quali, con ogni probabilità, o non
hanno mai letto questo illuminante brano
di una delle opere più importanti di Saint-
Martin, o lo hanno letto ma commettono
uno degli errori più tipici dei c.d.“esoteri-

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sti” ovvero quello di ritenere che a loro stessi non debba essere applicabile ciò che, viceversa,
dovrebbe essere applicato agli altri. Molto spesso nella mia, oramai non breve vita, mi è ca-
pitato di ascoltare idiozie del tipo “le regole sono fatte per i
profani, per gli esseri ordinari, non per
gli iniziati” con la variante “l’Ini-
ziato è al di sopra del bene e
del male” etc. Coloro che
affermano queste scioc-
chezze dimostrano di non
aver capito nulla della Via Ini-
ziatica dal momento che, in realtà,
le regole vanno seguite SOPRA-
TUTTO da coloro che seguono un
Cammino di perfezionamento e, maxime, da chi pretenderebbe di ricoprire
incarichi di responsabilità.
Un vero Iniziato, infatti, è sempre molto più severo con sé stesso che con
gli altri. Ovviamente i“precoci Gran-Qualcosa”, adusi a pontificare fin dai loro primi passi
nel mondo esoterico si chiedono poi da dove siano scaturiti personaggi che hanno iniziato a
far sentire la propria voce solo molto dopo aver compiuto i quarant’anni (nel caso di specie
solo dopo aver compiuto i cinquanta) ricorrendo a ironici paragoni con le lumache nascoste
nella terra o ad altre consimili facezie. Il paragone non mi offende, né potrei certamente rite-
nermi offeso da ciò che è semplicemente stato da parte mia, il rispetto assoluto delle regole
del mondo Iniziatico: io ho iniziato, assai timidamente, a parlare di certi argomenti in pubblico
assai dopo i quarant’anni avendo nei vent’anni precedenti, osservato il silenzio prescritto
dalla regola di Arpocrate, perché così mi era stato comandato dai miei Maestri. Ho in
definitiva fatta mia la bella frase di una canzone di Battiato ovvero “e quando si trattava
di parlare aspettavamo sempre con piacere”. Mi sono
poi reso visibile ESCLUSIVAMENTE DOPO la
mia nomina ai vertici degli Ordini Iniziatici che
guido, nomina che non ho né cercato né voluto
come possono testimoniare i miei familiari e co-
loro che mi sono più vicini. Nei trent’anni (e più)
precedenti ho osservato, ascoltato, assorbito, va-
lutato: ho conosciuto personalmente e diretta-
mente Personaggi del mondo iniziatico dei quali
il 90% degli attuali “gran qualcosa” ha soltanto
sentito parlare, magari anche piuttosto vaga-
mente ed imprecisamente, infine conosco PER-
SONALMENTE E MOLTO BENE TUTTI
COLORO CHE SONO A CAPO DI ORDINI
INIZIATICI TRADIZIONALI AUTENTICI E RE-
GOLARI e con Costoro ho rapporti costanti, tal-
volta quasi quotidiani. Ergo, se qualcuno vale
qualcosa, se qualcuno è credibile io lo conosco e,
dal momento che mi guardo bene dall’avere la
pretesa di essere “l’unico”, “il solo legittimo ed au-
torizzato” a differenza degli stolti in argomento
(anzi a proposito, vi ripeto per l’ennesima volta
di diffidare profondamente da coloro che fanno

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affermazioni del genere), posso anche indiriz-
zare coloro che siano interessati a determinati
argomenti verso Maestri autentici e qualificati.
Tempo fa fui contattato da una persona asso-
lutamente decisa ad approfondire gli insegna-
menti del Kremmerz, insegnamenti nei
confronti dei quali ho pubblicamente espresso
molte riserve; avendo chiesto a questa per-
sona per quale motivo egli si rivolgeva a me
pur conoscendo le mie personali posizioni sull’argomento, ricevetti la seguente risposta:
”Maestro io ho potuto constatare che lei è una persona seria, perciò mi fido del suo giudizio e sono
sicuro che lei non mi indirizzerà verso dei cialtroni”; ipso facto ho fornito a costui, senza alcun
ulteriore commento, i recapiti di tre serissimi e qualificati studiosi ed interpreti della Via Krem-
merziana ed ho poi saputo che uno di loro ha accolto questo giovane come discepolo. Pur
non condividendo quel cammino ritengo che la personalità in argomento meriti pienamente
la qualifica di Maestro, per la sua serietà, la sua sapienza, il suo rigore e, soprattutto, per la
sua profonda moralità, tutte doti indispensabili, che, modestamente, credo di possedere come
potranno confermarvi tutti coloro che condividono il mio Cammino e come potranno con-
fermarvi diverse Personalità che sono a capo di vari Ordini Iniziatici con i quali ho l’onore di
intrattenere fraterni ed amichevolissimi rapporti.
La mia, credetemi, non è presunzione ma solo chiarezza: non sono affatto più intelli-
gente o più bravo di altri (anzi!) ma ho avuto due grandi fortune: 1) l’aver incontrato molto
presto Coloro che sono stati i miei Maestri i quali, per mia buona sorte, sono stati tra i massimi
esoteristi del XX secolo 2) l’aver fatto una professione la cui regola principale è rappresentata
dalla disciplina onde il conformarmi a regole, disposizioni, restrizioni non è mai stato per me
un problema, anzi!
Dunque, per concludere, vista la mia notevole esperienza in questo campo, mi per-
metto di dare un affettuoso consiglio a tutti coloro che vogliono intraprendere un REALE per-
corso Spirituale: informatevi BENE E PREVENTIVAMENTE riguardo alla Struttura alla quale
siete interessati, incontrate PERSONALMENTE e PRIMA i loro responsabili, parlateci e guar-
dateli in faccia e, possibilmente, fatevi mostrare PRIMA i documenti che attestano le loro Di-
scendenze, Filiazioni, Depositi, etc.
In quanto la stridula canzoncina “noi certe cose le mostriamo soltanto a coloro che sono
entrati a far parte della nostra struttura” non è altro che la confessione di non possedere nulla!

fessione! n
A proposito... quasi mi dimenticavo: controllate bene anche, naturalmente, la loro pro-

Continuando l’azione chiarificatrice e rettificatrice del confuso mondo del c.d. "esoterismo italiano", nella
scia di quanto intrapreso a luglio con la creazione della Federazione Massonica Internazionale dei Riti Egizi,
evento del quale abbiamo dato conto nello scorso numero della rivista, si è celebrato a Padova il 5 novembre scorso
un Convegno Martinista per commemorare il centesimo anniversario della morte di Papus, onorando il Fondatore
del Martinismo moderno.
A tale evento hanno partecipato cinque Ordini Martinisti Tradizionali i cui Gran Maestri hanno inteso
delineare, con la firma della lettera di intenti che riportiamo integralmente, i punti fondamentali ed irrinunciabili
del Martinismo Italiano ed intraprendendo in tal modo una fraterna e fattiva collaborazione che crediamo possa
essere assai utile alla causa del Martinismo.
A tale iniziativa hanno immediatamente aderito anche i Responsabili di altre due Strutture Martiniste, i
Carissimi Fratelli IGNEUS e ALGOL, figure storiche del Martinismo Italiano, i quali erano stati fisicamente impediti
a partecipare al Convento ma erano certamente presenti in spirito, come si evince dalle rispettive lettere di questi
due illustri ed anziani Fratelli che pubblichiamo con il Loro consenso.

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La «Scala della ascesa e della discesa»: dalla prima edizione del “Liber de ascensu ed descensu intellectus” di Lullo.
Composto a Montpellier nel 1305 e stampato a Valencia nel 1512, questo testo vuole portare l’intelletto alla conoscenza
mistica di Dio attraverso l’intelligenza della natura di tutti gli enti, che si possono conoscere sia «per modus ascensus
ad superiora» che «per modus ascensus ad inferiora» che ricorda davvero molto
il «ciò che sta in alto é come ciò che sta in basso...» di Ermete Trismegisto.
RAIMONDO LULLO,
IL «DOTTORE ILLUMINATO»
Maathor

Una delle più interessanti e complesse figure della spiri-


tualità medioevale cristiana é, senza dubbio, Raimondo Lullo
(Palma de Maiorca,1232 o 1233; tra l’Africa e le Baleari, 1315).
Un inesauribile eclettismo lo condusse a sperimentare la poesia, il
romanzo, la trattatistica, la filosofia e la teologia. La sua attività e
versatilità hanno del prodigioso, con una produzione veramente
enorme: oltre 300 titoli dai quali fluisce la pratica dello studio,
l’ascesi, la contemplazione unita all’intensa attività di predicazione.
Fu detto doctor illuminatus.
Terziario francescano, fu venerato come beato a partire dal XIV se-
colo (il culto di beato popolarmente attribuito a Lullo fu ufficial-
mente riconosciuto solo nel 1858 dal papa Pio IX).
Raimondo Lullo (in catalano: Ramòn LLull) nacque a Maiorca
nella prima metà del milleduecento; grazie al padre, un nobile di
Barcellona che aveva partecipato con il re aragonese alla cacciata
dei Saraceni dall’isola ed alla sua Conquista, ricevette educazione
cavalleresca e cortese, diventando prima paggio di corte, poi istrut-
tore ed infine siniscalco dell’infante Giacomo II di Maiorca, futuro re e suo più grande
e sicuro protettore.
Nel 1257 si sposò con Blanca Picany, dalla quale ebbe due figli.
In questi tumultuosi anni mondani, dominati dalla passione trovadorica, crebbe
in lui l’esigenza di impegnarsi in più alti ideali di
vita. Questa progressiva tensione culminò, dopo i
trent’anni, in una profonda crisi spirituale che fu ca-
pace di imprimere una radicale svolta nella sua esi-
stenza: un improvviso e globale cambiamento,
paragonabile a quello che trasformò altri grandi di
quel secolo XIII - come frate Francesco, Iacopone da
Todi o Gioacchino da Fiore - nell’esperienza scon-
volgente della visione del Cristo crocefisso.
Maiorca era stata da poco liberata dai Sara-
ceni, che tuttavia costituivano ancora la maggio-
ranza della popolazione; la Catalogna stava
vivendo una splendida stagione culturale e spiri-
tuale con una grande comunità ebraica, che culminò
nell’attività delle scuole kabbalistiche di Gerona
prima e di Barcellona poi. In Lullo divenne urgente
il problema dell’incontro tra le varie fedi non solo per la conversione dei tiepidi, ma
soprattutto per quella degli “infedeli” che ritenne possibile unicamente utilizzando le

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armi del dialogo, della persuasione razionale e del pacifico confronto tra le fedi.
Nasce così la speculazione filosofica lulliana, che attinse alle più diverse tradi-
zioni di pensiero. Per poter sviluppare completamente questi obiettivi Lullo seguì
l’esempio di Francesco dopo che ne ebbe udito le vicende durante un sermone, e si
emancipò dagli obblighi che lo tenevano legato alla famiglia.
Dopo alcuni pellegrinaggi nei maggiori centri religiosi del tempo, si trasferì a
Parigi, allora massimo punto di riferimento per gli studi teologici. Lasciate le vesti del
cortigiano per i panni umili del penitente, abbandonò quasi tutti i suoi beni (tranne
quelli dedicati alla sopravvivenza della moglie e dei figli) e si sottopose, nel decennio
1265-1274, ad una severa serie di rinunce e di studi di preparazione tra l’Oratorio ed il
Laboratorio, come prescrivevano i più alti dettami spirituali
del tempo. Alla filosofia, alle arti liberali, alla teologia unì lo
studio intenso della medicina, della cultura e della lingua
araba, che utilizzò per scrivere le sue prime opere (probabil-
mente nel monastero cistercense di Santa Maria Reale, a Ma-
iorca, nella cui biblioteca si trovavano molte fonti del suo
pensiero, da Dionigi Aeropagita a Scoto Eriugena, da S. An-
selmo ai Vittorini del XII sec., a S. Bonaventura, a Ruggero
Bacone).
In Lullo é palese tanto il concorso del misticismo france-
scano e, in genere, della tradizione platonica-agostiniana,
quanto alcuni suggerimenti del misticismo islamico dei sûfi
e di quello ebraico della Kabbalah: egli seppe aprirsi com-
pletamente all’eredità delle altre tradizioni, come appare in
uno dei suoi primi trattati, il Libro del Gentile e dei tre Savi, nel
quale un ateo giunge ad una condizione spirituale superiore
proprio grazie al dialogo di tre Saggi (un Ebreo, un Cristiano
e un Saraceno) che hanno maturato una armoniosa capacità
di stare insieme in virtù degli insegnamenti di una miste-
riosa dama, di nome Intelligenza, depositaria e garante della
verità unica racchiusa presso tutte e tre le fedi. Questo scritto
costituisce una sintetica esposizione delle teologie giudaica,
cristiana e islamica: il sistema lulliano suggerisce così che la
pluralità di fedi non é una confusione babelica, ma deve es-
sere invece intesa come espressione di diversi popoli e tra-
dizioni che concorre ad individuare una più completa
visione di una unica e vera perfezione: nel retaggio di cia-
scuna esiste il modo di risolvere l’enigma di quella loro plu-
ralità che risulta voluta dallo stesso Dio.
Lo strumento capace di attuare questa sintesi é innova-
tivo: si tratta del “metodo speculativo” fondato su un nucleo di insegnamenti comuni
alle principali tradizioni: questo metodo avrà una amplissima, monumentale ed arti-
colata espressione nella Ars Magna (1274), opera che lo stesso Lullo attribuiva ad una
particolare illuminazione divina.
In sostanza, Lullo rivela una sincera adesione al cristianesimo quando questo
entra in una dimensione mistico-esoterica, cioé come testimonianza di una religiosità
più universale. Poiché nella consonanza delle religioni egli vede “la sostanziale armonia

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di tutte le fedi e anche la ragione segreta della loro intima
identità” (Massimo Candellero, Raimondo Lullo, la
spiritualità perenne, in Abstracta, n° 21, anno II, di-
cembre 1987), Lullo si professò cristiano spingendo
questa sua testimonianza fino al martirio.
Dopo i quarant’anni Raimondo Lullo si ritirò
in ascetico isolamento sul monte Randa, a Maiorca,
vivendo una esperienza del tutto simile a quella di
Francesco e di Bonaventura sul monte di Verna: qui
concepì il metodo per entrare in assonanza con il
trascendente, accordando la ragione umana alla ra-
gione divina e perciò alla segreta intelligenza delle
cose. Vide come i molteplici aspetti della divina po-
tenza, i «Divini Attributi», pervadessero e regges-
sero l’intero universo con una serie di intrecci ed
inter-relazioni di stupefacente complessità; vide che
la loro assimilazione poteva costituire una specie di
“chiave universale” per interpretare la vita appunto
perché fondata sui termini ultimi della realtà e per-
ciò dotata di una validità assoluta.
La dottrina dei «Divini Attributi», o delle
«Dignità», appariva confermata dalle principali tra-
dizioni ed in essi si dovevano riconoscere le stesse “rationes necessariae”, i “principia es-
sendi vel cognoscendi”: l’Arte, perciò, si fonda su di essi e non su principî logico-deduttivi
e quindi é un metodo di conoscenza reale che unisce una logica ed una metafisica. L’ela-
borazione lulliana si richiama a fonti cristiane, islamiche e giudee, presenta consonanze
con l’insegnamento kabbalistico relativo alle sephirot sviluppato dai mi-
stici ebraici spagnoli del XII secolo, ha analogie con la dottrina isla-
mica degli hadras (parola anch’essa che indica i «Divini Attributi»)
cara alla tradizione esoterica dei sûfi e che fu approfondita da
al-Ghazali con opere che Lullo ben conobbe e che ripropone-
vano un ordine di concetti largamente diffusi già nel mondo
antico (come le Idee platoniche, nella interpretazione di Plo-

cose create: concetto prossimo a quello stoico dei logoi sper-


tino, cioé come strumento dell’azione divina, archetipi delle

maticoi, o rationes seminales, che fu in seguito accolto nell’am-


bito della tradizione francescana, alla quale Lullo fu sempre
particolarmente legato).
Attraverso l’uso del simbolismo il doctor illuminatus
pensava di poter desumere ogni cosa dalla Causa Prima, attra-
verso una serie progressiva di cause seconde e di effetti che,
costituendo l’ordine gerarchico dell’universo, consentiva una
riduzione metafisica di tutta la creazione all’opera dei «Divini Attributi». È alla luce
delle «Dignità» dei principî attivi che si può ricondurre la vita e l’azione dei vari enti
particolari. Occorre scoprire tutti i termini semplici e trovare la regola che li combini.
Egli individua 9 predicati assoluti, che sono i nove attributi divini: bontà, grandezza,
eternità, potenza, sapienza, volontà, virtù, verità e gloria; 9 relazioni: differenza, con-

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cordanza, contrarietà, principio, mezzo, fine, maggioranza,
minoranza ed eguaglianza; ma poi deve aggiungere 9 que-
stioni, 9 soggetti, 9 virtù e 9 vizi.
Mentre per Aristotele i principi non si basano su di-
mostrazioni ma derivano dall’esperienza e dall’induzione,
Lullo suppone di risolvere ogni problema con precisione
matematica: parte dal presupposto che ogni proposizione
sia riducibile a termini e i termini complessi siano riducibili
a più termini semplici o principi. Supposto di aver comple-
tato il numero di tutti i termini semplici possibili, combinan-
doli in tutti i modi possibili si otterranno tutte le proposizioni
vere possibili: nasce così l’arte combinatoria, anche come
forma di mnemotecnica, in quanto facilita la memorizzazione
delle nozioni di base. Questa concezione potrebbe avere
avuto influenza sui successivi sviluppi del calcolo computa-
zionale e su questioni riguardanti l’intelligenza artificiale.
L’importanza del catalano consiste nella sua concezione di una logica intesa
come scienza universale, fondamento di tutte le scienze: poiché ciascuna scienza ha
principî propri, diversi dai principî delle altre scienze, vi deve essere una scienza ge-
nerale nei cui principî siano impliciti e contenuti tutti quelli delle scienze particolari,
come il particolare é contenuto nell’universale. L’Ars magna deve consistere essenzial-
mente nella capacità di comporre i termini suddetti in modo da formare con essi tutte
le verità naturali che l’intelletto umano può attingere.
Questo concetto dell’arte combinatoria suscitò nel Rinascimento entusiasti se-
guaci, tra i quali Enrico Cornelio Agrippa, il quale scrisse il commentario dell’Ars Brevis
(In Artem Brevem Raymundi Lulii cammentaria). Tra i chiosatori e gli esegeti sono da ri-
cordare: Bernardo Lavinheta (Artis Magnae interpretatio et practica, Lione, 1517-1523); H.
Sauchez (Methodus generalis ad omnes scientias addiscendas in qua R. Lulli Ars Brevis expli-
catur, Tarascona, 1613-1619); Valerius de Valerijs (Arboris Scientiae expositio, Strasburgo,

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1612-1633); N. Morestel (Encyclopaedia sive artificiosa ratio
et via circularis ad artem Magnam Lulli, Rouen, 1646-1648);
Jean Belot (Oeuvres des Oeuvres, Rouen, 1640). Ed inoltre
Nikolaus von Knes, Giovanni Pico della Mirandola,
Francisco Ximenes de Cisneros, Carlo Bovillo (Carolus
Bovillus, latinizzazione di Charles de Bouelles, filosofo
e matematico francese che nel De sapientiae del 1510 re-
stituisce all’uomo la soggettività come funzione). Fu
commentato da Cusano e dal cardinal Bessarione, il
platonico allievo di Giorgio Gemisto Pletone.
Soprattutto, Giordano Bruno lo onorò con il De ar-
chitectura et commento artis Lullo (Parigi, 1582). I suoi
scritti di arte lulliana e di mnemotecnica furono poi
sviluppati nell’Ars reminescendi dello stesso anno,
nella Triginta sigillorum ex-
plicatio e nel Sigillus sigil-
lorum, sempre del 1583,
nel De progressu et lampade venato-
ria e con il De lampade combinatoria, data alle
stampe a Praga tra il 1587 e il ‘58, fino al De imaginum composi-
tione datato 1591, oltre ad altri numerosi libri tutti in latino.
John Dee gli fu debitore. Lo stesso Leibniz, più tardi, ri-
prese il concetto lulliano di un’arte combinatoria come fonda-
mento di una logica inventiva, cioé diretta a scoprire per via
sintetica e verità delle scienze.
L’aspetto tecnico dei metodi dell’Arte lulliana, che lar-
gamente attinsero alla Kabbalah, si può molto grossolana-
mente riassumere nel tentativo di individuare gli elementi
primi del sapere, raffigurandoli con lettere o simboli, per porli
quindi in relazione tra loro, appunto, attraverso procedimenti
combinatori e mnemonici rappresentati da simboli geometrici
(cerchi, triangoli) per poter poi elaborare ragionamenti anali-
tico-sintetici applicabili a qualunque disciplina o problema,
perché del tutto impersonali e “matematicamente infallibili”
(Cfr. T. Gregory, Raimondo Lullo, in Enciclopedia Fisolofica, VI,
Milano 1976 ed anche, per le sue connessioni con le arti della
memoria, con P. Rossi, Clavis Universalis. Arti della memoria e
logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Bologna, 1983) anche per
la possibilità di promuovere la conversione degli agnostici e
degli “infedeli” proprio attraverso l’impiego delle «ragioni
necessarie».
Raimondo Lullo era conscio di star vivendo in un’epoca di profonda modifica-
zione della civiltà occidentale: da una parte era sempre più evidente la frantumazione
dell’antico ecumène cristiano; dall’altra, premeva prepotente la presenza vivace di altre
culture e altre tradizioni, riconducibili tuttavia ad una medesima origine. Questa con-
sapevolezza sviluppò in lui la necessità di riunire la “divisa famiglia d’Abramo”, idea che
lo portò a lasciare il monte Randa per dimostrare al mondo dei sapienti e dei potenti la

16
verità della sua illuminazione e della sua Arte. Diventò il
“...campione di una nuove cavalleria di tipo spirituale posta al
servizio della fede cattolica” (Carreras y Artau).
Dottrinario e uomo d’azione, tra il 1276 e il 1287 si
rivolse alle Corone di Francia e d’Aragona, ai Comuni
delle Repubbliche marinare italiane; compì un lungo viag-
gio nel settentrione d’Europa, visitò l’Asia (forse con mis-
sioni evangelizzatrici presso i Tartari) e toccò le coste
mediterranee dell’Africa.
Ritornato da Giacomo II di Maiorca a Montpellier,
si ritirò nel monastero di Miramar (da lui costruito nel
1275-76, come conferma la bolla di fondazione di papa
Giovanni XXI, il logico Pietro Ispano) dove tra il 1283 e il
1285 scrisse il Blanquerna, uno dei più antichi modelli di
novella a sfondo utopico e sociale, nel quale suggeriva
l’idea di una specie di “Società delle Nazioni” guidata da
una superiore autorità di carattere teocratico, capace anche
e soprattutto di comporre i dissidi tra i diversi Stati.
Nel 1287 si recò in missione a Roma, ma la morte del papa Onorio IV impedì
che ottenesse il consenso per le proprie idee missionarie. Poiché anche la Curia si di-
mostrò indifferente al suo metodo apostolico, partì per Parigi dove poteva contare su
una risonanza ben più grande: nel soggiorno parigino conseguì il grado di magister in
artibus (e non quello di maestro in teologia, essendo sposato e privo degli ordini sacri):
ma non riuscì a coinvolgere il re Filippo II, nè a convincere la locale Università, nel pro-
getto di fondare anche in Francia un collegio simile a quello di Miramar a Maiorca, nel
quale preparare alla lingua e alla cultura orientale coloro che si sarebbero poi dedicati
all’opera di conversione soprattutto dei Tartari: l’illuminato catalano, profeticamente,
temeva infatti una loro adesione all’Islam (cosa che effettivamente avvenne nel 1301,
con la conversione del khan Ghãzan).
Deluso da questo soggiorno, lasciò al suo discepolo Thomàs le
Myèsier il compito di proseguire la sua azione presso la Corte francese
e si trasferì a Montpellier, dove si dedicò alla preparazione di una nuova
e semplificata stesura della sua Arte: l’Ars inventiva veritatis.
Il Ministro generale dei Francescani, R. Gaufredi, gli consegnò
delle lettere di presentazione affinché le scuole Minori accogliessero il suo
metodo per l’Arte. Si diresse quindi in Italia, dove ebbe diversi contatti
con vari personaggi del movimento degli Spirituali.
Giunto infine a Roma, dedicò al nuovo papa Niccolò IV il Trac-
tatus de modo convertendi infideles, ispirandosi alla recente caduta di S.
Giovanni d’Acri.
Una volta di più i suoi progetti risultarono inattesi.
Ormai sessantenne, decise allora di percorrere autonomamente la
via della missione personale agendo con i metodi dialettici della sua Arte:
a Tunisi, cercò di intavolare delle pubbliche dispute con i teologi musul-
mani, ma fu imbarcato a viva forza per ordine del sovrano locale e co-
stretto a tornare in Italia dove il nuovo papa, Celestino V, dava speranze
a tutti coloro che auspicavano un profondo rinnovamento della Chiesa.

17
Durò davvero poco: pochi mesi dopo fu innalzato al Sacro
Soglio Bonifacio VIII che, come tutti gli altri papi, rimase sordo agli
accorati appelli di Lullo.
Il poema Desconort, scritto a Roma tra il 1295 ed il ‘96 nel
metro dei trobadours,
é la vibrante testimonianza di questo periodo di insuccessi, molto
importante per l’ampia parte autobiografica “che ne fanno uno degli
esiti più emozionanti dell’autore” (Candellero).
Instancabile e costantemente ispirato, iniziò una nuova espo-
sizione dei metodi dell’Arte con una vasta opera di carattere enci-
plopedico, l’Arbre de Ciéncia; quindi, tornò a Parigi dove, nel 1297,
poté entrare in contatto con Filippo il Bello, nipote del re Giacomo
II di Maiorca, che lo accolse nella sua Corte. Lì produsse la Disputatio
contra aliquorum philosophorum opiniones, concedendo libero sfogo
alla propria personale battaglia contro l’averroismo, le cui dottrine
giudicava particolarmente pericolose. L’ostilità di Lullo contro la fi-
losofia di Averroé deriva dalla convinzione che la fede può essere
dimostrata con ragioni necessarie: la diversità e l’opposizione che
l’averroismo stabiliva tra ragione e fede rendono il doctor illuminatus,
per forza di cose, un avversario accanito contro l’averroismo, proprio perché profon-
damente convinto che é la fede stessa a suscitare, in colui che crede, le ragioni necessarie
che la giustificano. Dunque, la fede diventa inevitabilmente lo strumento dell’intelletto,
giacché il fine dell’intelletto non é il credere ma l’intendere; e perciò la fede é l’interme-
diaria tra l’intelletto e Dio, poiché per suo mezzo l’intelletto può elevarsi fino a Dio e

19
trovare così appagamento nel suo oggetto primo.
A Parigi conobbe Arnaldo Villanova, col quale ebbe
modo d’intrattenersi intorno alle mirabili scoperte al-
chemiche. Esiste un’opera, stampata a Francoforte nel
1599 presso Roffius, che pare scritta in comune dai
due grandi iniziati, che porta il titolo: “Lullo Ramon et
Villeneuve Arnould Medicinae Hermeticae Artificibus Ca-
tholicae ad Hominis sanitatem etc.”
Nel 1298 appare il mistico Arbre de filosofia d’Amor al
quale seguì, l’anno dopo, il lirico Cant de Ramon, in-
tensissima composizione che trasse ispirazione dal
proprio disinganno: le richieste che continuava ad
avanzare per l’evangelizzazione dei Mori d’Africa
non ottenevano mai un esito positivo.
Provò allora a Barcellona, alla Corte di Giacomo II
d’Aragona: nell’ottobre del ‘99 il re gli concesse la pos-
sibilità di predicare liberamente nelle moschee e nelle
sinagoghe del regno. Gli dedicò il Dictat de Ramon ed il Libre d’oraciò, e trascorse un paio
d’anni a Maiorca, occupato in intense dispute teologiche con i Mori fino a quando gli
giunse notizia delle vittorie tartare in Siria, vittorie che suggerivano una possibile in-
crinatura della potenza musulmana. Immediatamente, con l’ardente furore che carat-
terizzò tutta la sua vita, partì in una nuova campagna missionaria nel Mediterraneo,
che lo condusse anche a conoscere e diventare amico del Gran Maestro del Tempio, Jac-
ques de Molay, a Cipro.
Tra il 1302 ed il 1307 fu a Genova, Maiorca, Montpellier, Barcellona ed infine a
Parigi per propagandare le sue tesi missionarie con il De fine. Clemente V, amico di Fi-
lippo il Bello, era stato nel frattempo eletto papa e quindi, nel novembre del 1305, si
recò a Lione alla sua incoronazione dedicandogli la sua Petitio pro conversione infidelium.
Ma, come sempre, non ottenne alcun risultato: non gli rimase allora che proseguire
nella sua personale - ed instancabile - azione missionaria.
Ormai settantacinquenne, nel 1307, salpò per l’Africa settentrionale e raggiunse
Bugia nella quale prese a svolgere una intensa propaganda cristiana, quasi assetato di
martirio. Fu malmenato dalla popolazione e gettato in carcere per oltre sei mesi, durante
i quali scrisse in arabo la Disputatio Raymundi et Hamari saraceni per rispondere ad una
controversia con un saggio musulmano.
Espulso, fu imbarcato su una nave in rotta per Genova che naufragò all’altezza
delle coste toscane, facendogli perdere
tutto l’equipaggiamento e gran parte dei
suoi manoscritti. Accolto con grandi onori
a Pisa, riscrisse subito in latino, nel mona-
stero di S. Domenico, le opere perdute;
sempre qui, portò a compimento l’Ars Bre-
vis, la più sintetica presentazione del suo
sistema di pensiero, e l’Ars generalis ultima,
la sua esposizione sistematica finale.
Eduardo II, re d’Inghilterra, volle
che sperimentasse innanzi a lui la trasmu-

20
In questa pagina ed in quella di sinistra: “Tractatus novus de astronomia”
22
tazione dei metalli: lo chiamò a Londra e lo chiuse nella Torre. La leggenda vuole che
il doctor illuminatus lo accententò cambiando in oro rilevanti masse di mercurio e stagno:
con parte di questo oro furono coniate le monete che pre-
sero il nome di raimondine.
L’instancabile catalano iniziò a promuovere allora
una nuova crociata, raccogliendo tali consensi sia a Ge-
nova che nel Comune pisano da indurlo a raggiungere il
papa ad Avignone e presentargli il suo Liber de Acquisi-
tione terrae sanctae, saggio che rappresenta una
decisa”evoluzione in senso filo-francese delle tesi lulliane di
crociata” (Candellero).
Come Giovanni nel deserto, anche questo suo ap-
pello fu inascoltato.
Nel novembre del 1309 si recò per l’ultima volta a
Parigi, con l’intento di combattere l’averroismo. Furono
di supporto di questa sua personale crociata numerosi
scritti nei quali, inoltre, suggeriva al sovrano di fondare
un nuovo Ordine di Cavalieri, che riunisse eventual-
mente ogni altro Ordine esistente, per liberare la Terra
Santa ed edificare nuovi collegi missionari.
Finalmente Filippo IV, che rivendicava per sé il
ruolo di «difensore della Chiesa», diede la sua approva-
zione alla attività lulliana e, nel 1310, l’Università ed il
suo Cancelliere emanarono dei documenti che conferma-
vano l’ortodossia della dottrina di Raimondo Lullo.
Riconoscente, dedicò al re francese il Liber natalis
ed il Liber lamentationis philosophiae, riemergendogli fortissima la speranza di veder fi-
nalmente anche la Chiesa accogliere le proprie tesi. L’occasione di presentare al papa
ed ai cardinali i propri metodi e le istanze missionarie gli venne
offerta dal Concilio convocato da Clemente V a Vienne per l’otto-
bre 1311. Durante il viaggio per raggiungere il Delfinato, sede del
Concilio, compose in forma e linguaggio di poema trovadorico il
De Concili ed il dialogo Phantasticus (titolo con il quale é più nota
la Disputatio Petri clerici cum Raimondo phantastico): due lavori con-
tigui che esprimevano, oltre alle speranze per l’imminente Conci-
lio, anche la consapevolezza dei pericoli che incombeva su di esso,
come la mancanza di coesione in una visione unitaria e di uno zelo
cristiano nei partecipanti, troppo attenti
al proprio particolare interesse per seguire la forte attesa e l’entusiasmo idealista del
maiorchino.
Ciò che l’anziano apostolo catalano ne ricavò non fu certo un completo successo,
ma neppure la solita sequenza di rifiuto. Non furono accettate nè la progettata campa-
gna contro l’averroismo nè gli riuscì a far accogliere i metodi della sua Arte. Tuttavia,
alcune sue tesi missionarie ebbero largo e vivace consenso: ufficialmente fu ordinato
l’introduzione dello studio delle lingue orientali in appositi collegi che avrebbero visto
la luce presso la Curia Romana, le Università di Parigi, Oxford, Bologna e Salamanca
(la teoria delle missioni di Raimondo Lullo fu sviluppata, in seguito, in varie e diverse

23
applicazioni solo dopo il pontificato di Giovanni
XXII per concretizzarsi, assai più tardi, nella fonda-
zione della Congregazione della Propaganda Fide).
Lullo sopravvisse solo alcuni anni al Concilio,
anni oscuri “durante i quali la sua figura pare trapassare
direttamente dalla realtà storica alla leggenda ed al mito”
(Candellero).
Dopo un anno alla Corte di Sancio, figlio di
Giacomo II, nel maggio 1313 si imbarcò per Messina,
una delle residenze favorite di Federico di Sicilia,
fratello dello stesso re Giacomo II d’Aragona, suo
antico amico. Federico s’era mostrato favorevole agli
Spirituali ed era in relazione con Arnaldo da Villa-
nova, conterraneo di Lullo. Offrì la sua protezione al
Dottore illuminato che si trattenne in Sicilia fino al
1314, componendo una moltitudine di brevi trattati teologici, abbandonando definiti-
vamente la sua idea di una crociata armata e tornando alle antiche tesi di pacifiche di-
spute coi musulmani con il De partecipatione Christianorum et Sarracenorum dedicata
proprio a Federico ed al re musulmano di Tunisi: in questa opera giunse a proporre
uno scambio di dotti coi Saraceni, in modo da poter giungere attraverso un dialogo co-
struttivo ad una piena pacificazione con essi. Coerente con questa tesi, ancora una volta
si mise in viaggio con un ardore assolutamente inesausto nonostante l’età avanzata.
Sono del dicembre 1315 le sue ultime opere, dedicate da Tunisi al re Abu Yaiya Zakarya
al-Lihyani nelle quali cercò di illustrare razionalmente, sempre attraverso le «ragioni
necessarie», il dogma trinitario ai musulmani.
Secondo la leggenda agiografica, pare che Raimondo Lullo incontrasse la morte
in seguito ai supplizi ricevuti dai Saraceni: subita la lapidazione in Africa, spirò in vista
dell’isola natia il 29 giugno 1315 dopo essere stato raccolto moribondo sulla pubblica
piazza da alcuni mercanti genovesi o catalani. Tuttavia, anche se ciò era in accordo con
la psicologia di Lullo (che implicava coerenza fino all’estremo sacrificio), ciò appare in-
vece storicamente inverosimile sia perché aveva la pro-
tezione dello stesso sovrano locale, amico di Giacomo II
d’Aragona, sia perché nel dicembre di quello stesso 1315
si hanno altre sue notizie sempre da Tunisi.
Abbiamo detto che il catalogo lulliano comprende
non meno di trecento
opere (secondo il De Vernon, circa tremila!).
Dieci volumi in folio compongono l’edizione
dell’Opera completa, edita in Magonza per i tipi di J. Sal-
zingerum (o Salzinger) tra il 1722 ed il 1742. Nella Biblio-
teca Nazionale di Roma esiste un’altra edizione
dell’Opera del catalano che i biografi non citano: tre vo-
lumi in folio che contengono soltanto il trattato dell’Ars
Magna ed altri scritti minori di religione. La stessa é
stampata anche a Magonza nel 1721-1722 dalla tipografia
Mayeriana; edizione incompleta é quella edita nel 1651
(Accessit Valerii de Valerijs, Argentolarati, Laz. Zetzneri,

24
in 8° di 1109 pagg. ed Indice).
Il Testamentum, la più vasta opera alchemica di Raimondo Lullo, fu pubblicato
in due volumi da J. Birkmannus nel 1663 e contiene nel primo libro la teorica, nel se-
condo la pratica nelle distinte trattazioni: Testamentum novissimum integrum; Lux mer-
curiorum; Experimenta; Elucidatio verborum eius; Vade medum; Compendium de trasmutatione
metallorum; De compositione gemmarum et lapidum pretiosorum; Epistola accurtatoria ad
Regem Neapolitanum; De Medicinis secretissimis; Dialogus Demogorgon; e così via. Attri-
buita a lui l’opera alchemica del Fugax Vitae di ricerca interiore della pietra alchemica
filosofale (simboleggiata dall’acronimo V.I.T.R.I.O.L.: visita interiora terra rettifficando
invenium occultum lapidem). Altri importanti libri su argomenti di questa natura sono:
Liber atramentorum; Codicillus; Apertorium; Liber artis matrimonialis; Origo nostrorum ar-
gentorum vegetabiliam; Lumen artis; Magica Raymundi De Anima metallorum; Opus Marga-
ritarum; Lumen Solis; De intentione Alchymistarum; Liber limus lapidis; Clavicola; Medicinae
Hermeticae Artificibus; Ars expositiva; e altri.
Lullo, cultore dell’Arte, ebbe anche fama di sperimentatore e la sua tomba - come
il porticato dedicato in Parigi a Nicholas Flamel - divenne meta di pellegrinaggi di al-

25
chimisti. Questi solevano contare le colonne della tomba ed esaminarne le sculture, spe-
rando di ritrovare la chiave con cui raggiungere la “perfezione”; molti altri scrissero
trattati sulla pietra filosofale firmando con il suo nome e riconoscendo così al maestro
catalano l’aver raggiunto - se non nel crogiuolo, per lo meno nella propria persona -
una perfetta trasmutazione. Per quanto poco, da vano cortigiano a spirito ardito difen-
sore dei propri ideali.
Un moderno storico del magismo dice di Lullo: “Il Genio della Scienza fece nascere
Raimondo Lullo che rivendicò, per il Salvatore, (...) l’eredità di Salomone, e che chiamò per la
prima volta i figli della credenza cieca agli splendori della conoscenza universale. Fu amoroso
come Abelardo, iniziato come Fausto, alchimista come Ermete, penitente e sapiente come San
Girolamo, viaggiatore come l’Ebreo Errante, pietoso e illuminato come San Francesco d’Assisi,
martire infine come San Stefano e glorioso nella morte come il Salvatore del mondo”.
Candellero così lo definisce: “Nel suo intenso apostolato presso gli «infedeli» ed i po-
tenti del tempo, Lullo non fu comunque mai il semplice arrivista d’una particolare confessione
religiosa, quanto semmai un autentico e disinteressato paladino della Verità. Proprio ciò dona
alla figura ed al pensiero del Dottore Illuminato il suo estremo interesse e la sua perenne attualità,
soprattutto considerando come nell’unire l’impegno dello studioso e del contemplativo a quello
dell’ardente ed entusiasta missionario, egli abbia offerto un modello di speciale e personalissima
sintesi tra vita attiva e vita contemplativa, che ben pochi raffronti possiede nell’intero panorama
della religiosità universale”. n

26
MARTINISMI E MARTINISTI
Algol

Molte volte in passato si è tentato, in Italia, senza, peraltro, mai


riuscirvi, di trovare un punto di coesione fra diversi Ordini Martinisti.
Il più noto, sulla spinta di quello che fu stipulato in Francia fra
Papus (Encosse) e Aurifer (Ambelain), è stato quello che
avvenne, immediatamente dopo, quando, al Convento
di Ancona del 1962, l’Ordine Martinista e l’Ordine Mar-
tinista degli Eletti Cohen, nelle persone, rispettivamente,
di Artephius (Zasio) e Nebo (Brunelli), sottoscrissero un
protocollo, dei princìpi da rispettare, per la riunione dei due
Ordini. Un secondo tentativo fu espletato, nel 1983, fra Libertus
(Comin) G.M. dell’Ordine Martinista Antico e Tradizionale, succes-
sore di Nebo, e Vergilius (Caracciolo) G.M. dell’Ordine Martinista,
successore di Aldebaran. Entrambi i tentativi fallirono, ufficial-
mente, per diversità insanabili di impostazione: una visione
mistica, quella di Aldebaran (Ventura), successore di Arte-
phius (Zasio), ed una teurgica, quella degli Eletti Cohen di cui
era G.M. Nebo (Brunelli).
Quello che è accaduto, all’indomani del Convento di Ancona, a
seguito della scissione verificatasi nell’Ordine Martinista, ripropone una
certa riflessione, anche se molta acqua è passata sotto i ponti e, fortuna-
tamente, oggi tutti sembrano pervasi dalla opportunità, se
non dalla necessità, di creare un qualche cosa di comune
che superi le diverse visioni di impostazione tradizio-
nale, per riconoscersi in alcuni principi comuni a tutti i
martinismi di qualsiasi scuola.
Vi sono diversi modi di disporsi, per approcciarsi al mondo
iniziatico. L’atteggiamento di coloro che vi si avvicinano con un at-
teggiamento completamente passivo e che reputano principalmente
gratificante sentirsi parte integrante di un circolo, di una associa-
zione, iniziatica, parainiziatica, esoterica o paraesoterica che sia.
Prendere parte alle vicende dell’associazione consente
loro di sentirsi partecipi di un mondo esclusivo e misterioso,
e ciò è sufficiente a farli sentire realizzati. Costoro realizzano
il proprio obiettivo, nel far parte del mondo iniziatico, con il porsi in at-
tesa, nella convinzione che otterranno la propria affermazione personale
confidando nel destino, rivelando, in ciò, un atteggiamento completa-
mente passivo.
Poi ci sono quelli che sono convinti di dover fare qualcosa e sanno
che, per ottenere una trasmutazione di se stessi, debbono costruire qual-
cosa. Costoro, avendo chiaro lo scopo, per cui hanno cercato l’apparte-
nenza al mondo dell’iniziazione, pensano di raggiungerlo facendo ricorso

27
28
alle più svariate tecniche che, al di là delle singole particola-
rità, possono essere identificate, nella loro generalità, secondo
l’accezione più comune, usata dagli studiosi di esoterismo,
come tecniche attive o passive.
Di questi, tuttavia, soltanto una piccola parte prende co-
scienza di come si deve attivare. Nasce allora, nell’affrontare il
problema del come attivarsi, la necessità di considerare che non esi-
stono particolari tecniche. In realtà, non esistono tecniche che possono essere definite
attive o passive; ma, piuttosto, dobbiamo soltanto considerare che esistono, semplice-
mente, due atteggiamenti: uno è l’atteggiamento completamente passivo, l’altro è l’at-
teggiamento attivo, che dovrebbe essere favorito e dinamizzato.
Qualsiasi tecnica si voglia seguire, sia essa una tecnica passiva od attiva, assume
una valenza attiva, soltanto in forza della attività che si pone nel dinamizzarla e nel
renderla viva, tanto da farla diventare operante.
Tuttavia, forse, è bene chiarire che tutte le di-
spute, sulla attività o sulla passività delle tecniche
o degli atteggiamenti, come tutte le diatribe, su
quale sia la scuola di pensiero più valida, se la
corrente mistica o la corrente solare, sono dispute,
tanto ridicole quanto inutili.
Anche in relazione alla tecnica più attiva di
questo mondo, come anche in relazione all’atteg-
giamento più attivo, fintanto che si continua a dissertare su quale tecnica di realizza-
zione privilegiare in un futuro, che non si sa bene quando e se verrà, si resta sempre in
un atteggiamento passivo.
Allora, è, forse, il caso di chiarire che tutte le tecniche di realizzazione, qualsiasi
tecnica, diventa attiva, quando viene applicata, ed è inesorabilmente passiva quando
non si utilizza.
Anche un atteggiamento attivo, relativo ad una tecnica tradizionale, se non è se-
guito da una consapevole attuazione, resta a livello di una mera espressione filosofica.
E dunque, siccome, di queste discussioni, si sente
sempre parlare, diremo, per coloro che vogliono
approfondire il problema, dal punto di vista filo-
sofico, che ci sono interi libri scritti, a questo pro-
posito, cui è possibile rifarsi.
Ed allora, schierarsi per l’attività o per la
passività o dibattere sulla via attiva, via passiva,
via solare, via mistica, via umida, come si voglia
chiamarla, non serve a niente. È l’attività del
comportamento che, rendendole indistinguibili,
determina la identificazione delle vie.
Tutto diventa attivo, quando lo si applica
concretamente. Anche la contemplazione del pro-
prio ombelico può essere attiva, se è realmente
perseguita con continuità e serietà. Se non ci si
applica concretamente, si otterrà soltanto una contemplazione di tipo orientale, che
porta, tutt’al più, alla concentrazione.

29
Né si può fare discorso diverso, anche in relazione al massimo concetto dell’at-
tività, rappresentata proprio dall’atteggiamento alla teurgia. Del tutto inutili si presen-
tano le discussioni, sulla natura stessa della reintegrazione, di cui parla Martinez de
Pasqually; non vale certo la pena discutere,
se dobbiamo integrarci o se dobbiamo rein-
tegrarci, su cui si dividono molte scuole di
pensiero. Per taluni non possiamo parlare di
reintegrazione perché non è mai esistita una
caduta, mentre altri naturalmente dicono
l’opposto.
Che cosa volete che importi, a colui
che desidera veramente progredire, nel cam-
mino della propria reintegrazione od inte-
grazione, stabilire se siamo caduti da uno
stato edenico primitivo ovvero se sorgiamo
con la terra e vediamo maturare, piano
piano, dentro di noi, il fiore d’oro.
In realtà il problema è uno solo. Quello
della costruzione della propria personalità, del proprio Sé o della rivelazione del pro-
prio Sé, già esistente.
Ma, dico! Per stabilire se costruirlo, ovvero per farlo risplendere se c’è già, c’è
forse bisogno di discutere? C’è, soltanto, da operare una decantazione delle cose che
opprimono o che impediscono la manifestazione di questo Sé, e basta.
E però, quando uno ha capito che deve assolutamente fare qualcosa, se vuole
avviarsi verso la sua integrazione - o verso la sua reintegrazione, non importa – deve,
anche, assolutamente, stabilire dei punti fermi da cui partire.
Prima, dobbiamo metterci di fronte allo specchio e studiare il nostro essere, qual
è, in questo momento, e quale dovrebbe essere. Qual è il nostro essere, con i nostri mi-
steri, i nostri istinti, i nostri desideri; tutta la
nostra personalità, tutta insieme, così come è,
e come dovrebbe essere, secondo modelli
ideali, che ci siamo creati, facendo riferimento
a coloro che ci hanno preceduto, o che si sono
affacciati nella nostra vita.
Il secondo punto è studiare com’è il
mondo in cui noi siamo - e ci accorgeremo,
magari, che il mondo non è che una semplice
rappresentazione - e poi stabilire quali sono i
rapporti tra noi e il mondo, tra il microcosmo
ed il macrocosmo.
È chiaro che ognuno di noi ambisce a
divenire qualcosa di diverso da quello che è
attualmente. Si debbono, quindi, studiare i
mezzi per trasformarci, da come siamo a come desideriamo diventare; per studiare que-
sti mezzi, bisogna cominciare con il valutare noi stessi, dove siamo in questo momento.
Si capisce, così, che gli atteggiamenti, da tenere, sono l’uno in funzione dell’altro;
il momento della attività passiva non si disgiunge da quella attiva. È abbastanza noto

30
che esiste un legame segreto, che ci unisce al mondo, che lega il microcosmo al macro-
cosmo.
Quando vogliamo intraprendere un iter iniziatico, quale esso sia, dobbiamo
prendere coscienza di tre basi fondamentali: noi stessi, quali siamo; ciò che ci circonda
ed i rapporti che intercorrono, tra noi e quello che ci circonda.
Superare la soglia dell’evidente, immergersi nell’esame delle nostre emozioni,
fino alla contemplazione della soglia, in cui si fissano i pensieri,
fino ad arrivare a riconoscere le varie forze che ci animano. Pren-
dere coscienza delle forze che animano l’universo, la natura e la
consistenza della manifestazione, per giungere ad una conferma,
più o meno consapevole, che le forze, che ci animano, sono analoghe a quelle che per-
vadono la manifestazione.
Questo percorso, se effettivamente intrapreso, è, in linea di principio, lo stesso,
sia che si affronti con una tecnica meditativa, sia che si affronti ricorrendo ad una qua-
lunque tecnica teurgica.
La conseguenza è che si manifesta, come del tutto inutile, stabilire quale delle
due vie sia migliore, e che non ha senso voler convincere qualcuno sulla prevalenza
dell’una sull’altra. Quello che conta è operare secondo la Tradizione.
Solo così potremo lavorare proficuamente per la nostra reintegrazione e, secondo
l’indirizzo di Martinez de Pasquallis, per la reintegrazione di tutti gli esseri nelle loro
primitive proprietà, virtù e potenza spirituali e divine. n

31
32
LO SPECCHIO:
LA MAGIA DI UN’IMMAGINE NON RIFLESSA
ADM

Nella ricchezza dei simboli in grado di esprimere la mistica,


scegliamo l’immagine dello specchio, giacché un tale simbolo, più
di ogni altro, si presta a manifestare la natura di questa mistica, ossia
il suo carattere essenzialmente “gnostico”, fondato su una percezione
diretta. Lo specchio è infatti il simbolo più diretto della visione spi-
rituale, la contemplatio, e in generale della gnosi, giacché attra-
verso di esso si trova concretizzato l’avvicinamento del soggetto
e dell’oggetto. Lo specchio è, in un certo senso, il simbolo dei sim-
boli. É in effetti possibile considerare la simbologia come il ri-
flesso figurato delle idee non riducibili o degli archetipi.
L’apostolo Paolo dice: “Noi ora vediamo in uno specchio, un enigma, ma
verrà un tempo in cui vedremo faccia a faccia. Ora la mia scienza è parziale, ma verrà un tempo
in cui io conoscerò per intero, come sono conosciuto” (I Corinti, 13, 12).
Qual è lo specchio in cui il simbolo appare come immagine di un archetipo eterno?
Innanzi tutto l’immaginazione, qualora si consideri il carattere figurativo, “plastico”, del
simbolo, contrariamente alla nozione astratta. Ma, in un senso più ampio, è la ragione
che, in quanto capacità di conoscere e di discernere, riflette il puro spirito; e in un senso
ancora più ampio, lo spirito stesso è lo specchio dell’Essere assoluto.
É necessario ricordare che la luce rap-
presenta l’Essere e, di conseguenza, che
l’oscurità rappresenta il nulla; che quanto è
visibile è la presenza e che quanto non è vi-
sibile è l’assenza. Non si vede nello specchio
che ciò che vi si riflette. L’esistenza dello
specchio è tradita dalla possibilità di questo
riflesso. In quanto tale, tuttavia, senza la luce
che cade su di lui, lo specchio è invisibile, e
ciò significa, secondo il senso del simbolo,
che esso non è specchio in quanto tale. Esiste
dunque un legame con la teoria indiana della
Maya, la forza divina in virtù del cui potere
l’infinito si manifesta in modo finito dissimu-
landosi sotto il velo dell’illusione. Tale illu-
sione consiste precisamente nel fatto che la
manifestazione, e ugualmente il riflesso, ap-
pare come qualcosa che esiste al di fuori
dell’unità infinita.
Il latino “speculum” ha dato il nome a
speculazione: in origine speculazione significava osservare il cielo e i relativi movimenti
delle stelle, con l’aiuto di uno specchio. ”Sidus”, che significa “stella”, ha parimenti dato
considerazione, che etimologicamente, significa guardare l’insieme delle stelle. Che cosa
riflette lo specchio? La verità, la sincerità, il contenuto del cuore e della coscienza. Lo spec-
chio magico, sotto forma puramente divinatoria, è solamente lo strumento più basso della

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34
rivelazione di Dio. La verità rivelata dallo specchio
può essere di ordine superiore. Lo specchio sarà lo
strumento dell’Illuminazione. Lo specchio è infatti
il simbolo di saggezza e della conoscenza, mentre lo
specchio coperto di polvere è simbolo dello spirito
oscurato dall’ignoranza. Questi riflessi dell’intelli-
genza o della parola celeste fanno apparire lo spec-
chio come simbolo della manifestazione che riflette
l’intelligenza creatrice. È anche il simbolo dell’intel-
letto divino che riflette la manifestazione, creandola
come tale a sua immagine. L’intelligenza celeste riflessa dallo specchio si identifica sim-
bolicamente con il sole; per questo motivo lo specchio è spesso simbolo solare. Ma è anche
un simbolo lunare perché la luna, come uno specchio, riflette la luce del sole. Lo specchio
dà un’immagine rovesciata della realtà. “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, dice la
Tavola di Smeraldo ermetica, ma in senso inverso. La manifestazione è il riflesso rovesciato
del principio, come è espresso dai due triangoli rovesciati dell’esagono stellato. Esso è
d’altra parte il segno dell’armonia, dell’unione coniugale e lo specchio spezzato è segno
della separazione (la metà spezzata dello specchio viene sottoforma di una gazza a ren-
dere conto al marito dell’infedeltà della moglie). La gazza chiamata p’o-ching o specchio
rotto è collegato alle fasi della luna; l’unione del re e della regina si realizza quando la
luna è piena, quando lo specchio è ricostituito nella sua interezza. Lo specchio, come la
superficie dell’acqua, è usato nella divinazione per interrogare gli spiriti. La loro risposta
alle questioni poste vi si inscrive per riflesso.
Nelle molteplici tradizioni il nesso mistico è tra l’immagine speculare e l’oggetto
fonte dell’immagine. Inoltre, allo specchio à associata la capacità di concentrarsi, memo-
rizzare e trasformare energia, il potere spirituale (i primi esseri umani sono stati realizzati
su specchi di metallo, ottone o rame; tutti simboli che in parte, ancora oggi, abbiamo ere-
ditato); questa visione ha consentito la nascita di una serie di costumi.
Per gli Egiziani è una finestra, un occhio aperto sul mi-
stero interiore; il suo nome era Oun-Her (quello che rivela
la faccia), o anche Imahou Her (dove si vede il proprio viso).
Si dice che gli specchi prendono in considerazione
l’anima o la forza vitale della persona che si riflette, ed in
Egitto lo specchio era anche chiamato ankh, poiché rinvia
immagini della vita manifestata; è un oggetto magico per
eccellenza che permette di trovare la luce delle origini, cosa
che garantisce un rinnovamento perpetuo, ecco perché egli
è l’immagine più simbolica del Ka, poiché il Ka è rinnova-
mento perpetuo, uno specchio in una tomba era dunque
legato al Ka, che è uno dei costituenti dell’Essere.
Nell’antichità - preparato in rame, oro, elettro o
bronzo - lo specchio aveva una doppia natura, lunare e so-
lare, ed in Egitto era messo sotto l’egida di Hathor la luce
femminile, e di Hor la luce maschile. Gli Egiziani lo consi-
deravano come un intermediario tra gli uomini e Neter,
cioè tra l’anima umana e le funzioni divine della vita.
Lo specchio è un vuoto che si riempie. Lo si riempie di
sé anche o di ciò che si crede di essere. Lo specchio riflette
quest’ambivalenza, si può riempirlo di buone o di cattive

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cose. Tra il soggetto e la sua immagine, esiste un tipo di fascino che viene probabilmente
dalla memoria dell’unità originale dell’androgino. Lo specchio permette di trovare l’altra
metà di sé che abbiamo persa. È in ciò che la luna è affascinante, essa è lo specchio del
sole. Inoltre gli occhi sono lo specchio dell’anima. In realtà,
sono soltanto lo specchio di quello o di quella che li osserva.
È sé che cerchiamo negli occhi dell’altro.
Ma il pericolo è di intrappolare lo sguardo paraliz-
zando l’osservatore nella sua posizione contemplativa,
come Narciso; o ancora lo spettatore diventa vittima del suo
potere che deforma o delle sue illusioni, egli passa dall’altra
parte si trova paralizzato, catturato dalla sua fragilità, ri-
schia di finire per perdersi di vista e potrebbe perdere la ra-
gione. Questo specchio è dunque un grande simbolo
esoterico, poiché se sdoppia le immagini, è anche il simbolo
dell’anima che diventa più limpida per riflettere l’imma-
gine di Dio. Lo specchio diventa il simbolo del mistico che
va verso Dio.
Lo specchio ci parla del miracolo della vita e del mi-
racolo rinnovato della comparsa della coscienza al mondo,
comparsa che può far paura, se non si sono prima di tutto
esorcizzati i propri demoni. Segna il passaggio della vista
imperfetta alla visione faccia a faccia e diventa il modello di ogni conoscenza analogica
poiché conduce dal visibile all’invisibile, dall’irreale al reale, dall’illusione all’Essenza.
Evoca la manifestazione del trascendente nell’immanente; in questo senso è una metafora
dell’unione mistica.
In alchimia, si parla dello specchio dell’arte, che è un indice dell’inizio dell’opera,
la fine dei lavori è segnata dal corno dell’abbondanza (che consegna la fine delle ric-
chezze). Lo specchio è il geroglifico della materia universale, specchio ed argomento dei

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saggi sono dunque sinonimi in lingua alchemica. Lo specchio è tuttavia lo strumento più
segreto di Hermes Trismégistos; si sono trovati nelle catacombe dell’epoca Alessandrina
degli specchi sui quali erano incisa in greco la celebra formula ermetica, Nosce te Ipsum:
conosci te stesso. In altre parole: se vuoi entrare nel tempio devi rientrare in te stesso.
Simbolo di riflessione fisica e spirituale fa la sua comparsa tra gli dei egizi, raffi-
gurati con uno specchio in mano.
Osservandoli infatti, erano in grado di vedere le conseguenze degli eventi che “in-
nescavano”. Il loro era un eterno processo di auto-valutazione al fine di riflettere sul vero
modo in cui apparivano all’interno del regno in cui si esprimevano.
Ma cosa serve per far sì che uno specchio funzioni correttamente?
La luce.
Simbolicamente la Luce rappresenta l’illuminazione, la consapevolezza e la sag-
gezza. Possiamo allora dedurre che l’introspezione è un esercizio sterile se non si affronta
con mente illuminata.
Molte culture e religioni utilizzano gli specchi come portali verso altri tempi e di-
mensioni. Passato, presente e futuro diventano accessibili grazie alla “catottromanzia”, la

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forma di divinazione basata sull’utilizzo
degli specchi.
Questa pratica è abbastanza complessa:
si usano specchi neri o lucidi, a seconda delle
energie che si intendono catalizzare; lo spec-
chio è inteso come un “condensatore”, grazie
al quale l’operatore potrà dar vita a “forme
pensiero” o evocare determinate entità; gli
specchi devono essere forgiati con materiali
particolari (incluse sostanze organiche, me-
talli e pietre pregiate). Lo specchio può essere
consultato solo in particolari momenti astro-
logici con l’ausilio di fumigazioni e candele
adeguate; l’operazione richiede che il consul-
tante sia puro (astensione da rapporti ses-
suali, dal contatto con determinati animali o
cadaveri, da alcuni cibi, ecc.) e la creazione di
uno spazio magico.
Può essere necessario un “medium”, un/a vergine che nel suo stato di innocenza
primordiale, sia in grado di catalizzare adeguatamente le visioni trasmesse dalle entità
evocate.
La magia degli specchi è profondamente connessa all’acqua (le sacerdotesse egizie divi-
navano utilizzando catini d’acqua) e quindi alla Luna, a Venere e al femmineo sacro della
Grande Madre. L’astro, identificato con “l’occhio della dea” è lo Specchio che vede e ri-
flette ogni cosa sulla Terra. Lo specchio presenta numerose analogie con la Luna e per
questo motivo può richiamare gli aspetti più oscuri ad essa legati: ecco che allora diverrà
la sede di un mondo illusorio, infernale, parallelo in cui abitano le creature dell’oltre-
mondo.
In sostanza lo specchio può rappresentare due tendenze opposte: un’eccessiva at-
tenzione rivolta a se stessi che riporta al
mito di Narciso, o una sana introspe-
zione.
Quando i riflessi onirici sono
spiacevoli, è importante ricordare che i
riflessi non sono “l’essenza” della per-
sona. Ciò che è riflesso può essere cam-
biato e questo è ciò su cui si deve
lavorare.
Guardare lo specchio e non ve-
dere il proprio riflesso, potrebbe invece
indicare problemi con la propria iden-
tità.
Tutte le parti della psiche portano
ombre e il sé, il più luminoso di tutti gli
archetipi, ha quella più scura, quella che
non può essere riflessa.
Più raramente non vedere la pro-
pria immagine nello specchio può signi-
ficare che si è raggiunta un’illuminazione

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tale da non considerare prioritario l’avere un’immagine.
É l’osservatore che, per immedesimazione, si figura
d’essere l’uomo dentro allo specchio: chi invece eviti di com-
portarsi come Alice e non penetri dentro lo specchio, non sof-
frirà di questa illusione.
Le implicazioni simboliche derivano, abbiamo visto,
dalla violazione dei singoli assiomi necessari a definire l’iden-
tità di una superficie riflettente: la trasgressione, ad esempio,
dell’assioma della sincronicità tra immagine e originale con-
duce all’idea di specchio capace di svelare il futuro, o nel
quale si può scorgere il passato; altro tipo di “specchio ma-
gico” è quello in cui viene meno il principio della cospazialità
tra originale e specchio.
Lo specchio come luogo di trasformazione e d’inganno, dove ambiguità e dupli-
cazione dell’apparenza possono rivelare aspetti inattesi e sorprendenti lati dell’esistenza,
lascia emergere la vera identità individuale o collettiva. Nello specchio c’è un altro che ci
spia, direbbe Borges, poiché l’essere che lo abita non riconosce chi ha davanti a sé, in un
gioco abominevole dove è impossibile distinguere l’immagine reale da quella riflessa.
Anche la pratica della catottromanzia, la divinazione condotta con l’ausilio degli
specchi, ha radici simboliche profonde, connesse con le figure archetipiche della donna,
dell’acqua e della luna: a questo substrato simbolico è legato anche un certo carattere di
nefandezza che gli specchi conservano in diverse tradizioni culturali: gli oracolanti hanno
la possibilità di portare alla superficie “verità” occulte, ma rischiano anche di “aver gli
occhi cavati dai corvi”.
Lo specchio inteso come luogo di manifestazione del “doppio”, canale di decan-
tazione della controparte occulta della personalità cosciente, è stato studiato all’interno
del mito arcaico di Narciso, della storia avventurosa di Alice, del substrato superstizioso
di molte tradizioni popolari.
Il nesso luna-specchio oltre all’analogia funzionale (entrambi inerti per natura, vi-
vono di vita riflessa; la luna stesa è,
come si è detto, una sorta di specchio),
e morfologica (la sagoma tondeggiante),
riaffiora nella pratica occulta in cui nu-
merosi esperimenti con lo specchio, sia
a scopo divinatorio che magico-opera-
tivo, devono tener conto dei ritmi lunari
e svolgersi (specialmente se il rito è al-
l’aperto) alla luce soffusa del satellite
terrestre.
L’associazione ACQUA-SPECCHIO ri-
sulta palese nei suoi termini di corri-
spondenza, vuoi a livello di strutture
culturali profonde. Per quanto riguarda
infine la correlazione DONNA-SPEC-
CHIO, questa emerge così chiaramente
dalla stessa storia dell’iconografia e del
costume, da costituire un binomio ormai
inscindibile: dee, regine, dame, streghe, vi contemplano a seconda dei casi la bellezza, i
guasti del tempo, il diavolo in persona.

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Athanasius Kircher, “Ars Magna Lucis”. Amsterdam, 1671
La rete dei rimandi sopra illustrati conduce
pertanto ad una prima conclusione circa l’atmosfera
di negatività che più o meno velatamente accompa-
gna lo strumento riflettente: lo specchio racchiude in
sé potenzialità nefaste, o almeno pericolose, in
quanto strettamente collegato alla costituzione in-
tima dell’acqua, della donna e della luna.
Lo specchio adoperato in occultismo non
sfugge a questa regola; anzi, considerando che fin
dall’antichità fu impiegato a scopi precipuamente
mantici e che, nonostante la presenza di figure ma-
schili di indovini, la maggior parte dei personaggi
legati alla divinazione apparteneva all’altro sesso
(sibille, profetesse, ecc.), la pratica predittoria andò
sempre più a identificarsi con l’aspetto cosiddetto
“lunare” della magia, contrapponendosi (pur se
condotto ai massimi gradi) al magistero “solare” vi-
rile, operante nella prospettiva della realizzazione
trascendente dell’individuo.
La prima testimonianza occidentale di predizione mediante superfici brillanti (una
sorta di protocatottromanzia) ci giunge da Aristotele, che negli Arcanesi (circa 426 a.C.)
riferisce dell’uso di uno scudo di bronzo cosparso d’olio da parte del soldato Lamaco in
procinto di partire per la guerra contro Sparta. Intorno allo stesso periodo si colloca il
vaso detto “a figure rosse” di Vulci (oggi custodito nel Museo di Berlino), raffigurante la
giovane profetessa Temi che si serve a fini oracolari di una coppa svasata (forse uno spec-
chio di bronzo concavo), mentre non molto di-
verso (un nappo d’argento) appare il mezzo
impiegato dal sileno barbuto dell’affresco augu-
steo di Pompei durante le fasi dell’iniziazione dio-
nisiaca.
Non si può dire tuttavia che materiali e tec-
niche di fattura degli specula “magici” conoscano
nel tempo effettiva evoluzione. In tutto il corso di
questa branca dell’Ars specularis, modalità creative
estremamente elaborate e componenti rarissime da
un lato, si alternano dall’altro a materie prime - e
procedimenti modestissimi. Talvolta a comunicare
con l’invisibile basta un semplice bacile d’acqua,
un’unghia inumidita, un tuorlo d’uovo, un pezzo
di cartone ricoperto di stoffa scura da un lato e
carta stagnola dall’altro (specchio del Barone du
Potet), una lastra di vetro scaldata cosparsa di li-
matura di piombo impastata con olio d’oliva (spec-
chio di Swedemborg); a volte occorre invece un
complicato corredo di lamine d’oro e d’argento in-
cise, un marchingegno elaboratissimo come lo
“specchio cabalistico”, o, dopo l’800, il raffinato ap-
parecchio costituito da due dischi metallici calibrati
di rame e zinco (specchio galvanico) che avrebbe

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sfruttato la combinazione elettromagnetica per stimolare
il nervo ottico umano e sottoporlo all’influenza dei me-
talli. Malgrado i menzionati collegamenti fra mezzo spe-
culare e polarità femminile, non sarà inutile ricordare che
presso certi gruppi esoterici gli specchi “magici” sono
sempre stati suddivisi in maschi e femmine; i primi tanto
potenti magneticamente da riuscire a influenzare una
persona a distanza o da materializzarne la presenza
(ruolo attivo); i secondi, più piccoli, adatti a favorire la
veggenza in genere e gli stati di estasi (ruolo passivo).
Quanto alle modalità di costruzione degli specchi
stessi, bisogna dire subito che la loro finalità “magica”
implica necessariamente una serie di precauzioni, mani-
polazioni, cerimoniali altrettanto variati, come alterne,
complicate e talvolta contraddittorie sono le istruzioni e le formule contenute nella ster-
minata letteratura occulta.
Non ci si può accingere all’Opus specularis senza i dovuti accorgimenti: le propor-
zioni delle componenti devono essere accuratamente rispettate, l’esecuzione richiede par-
ticolari tonalità di luce, precisi tempi astrologici, consacrazioni, purificazioni mediante
fumigazioni o “lavaggi”, sigillazioni (modelli a strati o a serbatoio) e saldature con amal-
game d’oro, argento, cera d’api. Vanno osservati altresì i limiti dimensionali (non si pos-
sono superare determinate grandezze), le condizioni metereologiche (notti calme e
serene), la temperatura ambientale, la conduttività elettromagnetica. Di solito la forma
più adatta è quella ellittica o rotonda, su piano di rifrazione concavo, ma, prescindendo

42
dalle “pietre di visione”, troviamo anche
specchi convessi e piatti.
Una volta messo a punto, lo spec-
chio diventa uno strumento molto perso-
nale che il solo contatto di mani estranee, o
maggiormente la manipolazione da parte
di soggetti non qualificati, possono seria-
mente danneggiare. La specifica delicatezza
dell’oggetto necessita anzi, secondo le testi
più autorevoli, di un’accurata protezione
dagli agenti esterni (polvere, umidità, ecc.)
per cui se ne consiglia oltre alla custodia
nell’oscurità e in luogo inaccessibile, la fa-
sciatura con drappi di seta o velluto di co-
lore scuro.
Lo speculum è per la maggior parte
degli individui un mezzo divinatorio, ma
per un numero molto inferiore di altri, il
supporto di esercizi concentrativi che mi-
rano a risultati assai più elevati di un sem-
plice vaticinio azzeccato.
Dall’esame comparativo dei suddetti resoconti, raffrontato alle notizie testuali pro-
venienti dall’oriente, affiorano anzitutto concordanze significative, sulle metodologie aventi
come tramite superfici lucido-brillanti: si tratti di liquidi, di cristalli o di specchi, la visione
paranormale per verificarsi richiede che il postulante non sia, per lo più, la stessa persona
che vede (prevede); occorre cioè un mediatore (medium) tra la fonte rivelatrice (divina, de-
moniaca, ecc:) e l’organo interrogante. Tale intermediario nella gran parte dei casi è un bam-
bino, ovvero una fanciulla vergine; nei rimanenti, un ragazzo impubere o una donna incinta.
Risulta evidente da ciò che requisito fondamentale per l’esercizio di un simile ministero sia
lo stato “originario” di purezza.
L’innocenza del catalizzatore, comunque, non basta da sola a garantire la congruità
del pronostico. Sia l’impetrante, che una terza figura spesso presente (colui che interpreta
la “visione”) devono ottemperare a prescrizioni tassative prima di essere degni di “rice-
vere”: regime alimentare vegetariano preli-
minare, astensione dai rapporti sessuali,
assenza di contatti contaminanti (cadaveri,
donne mestruanti, ecc.). Soddisfatti questi
requisiti comincia l’esperienza effettiva, che
nonostante pittoresche varianti presenta nel
complesso una medesima liturgia: ci si
pone alle spalle del giovane medium (“pu-
pilla” lo chiama il Kremmerz, “colomba” il
conte di Cagliostro) fatto sedere di fronte
alla matrice riflettente; gli si ordina di fis-
sarla attentamente stendendo nel contempo
una mano sul suo capo o allungandole en-
trambe all’altezza dell’occipite di lui. Nello spazio di pochi istanti sul piano rifrangente
dovrebbero manifestarsi delle nubi policrome, quindi i colori dello spettro solare, infine
la visione vera e propria.

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L’apparizione non si produr-
rebbe nell’oggetto speculare, ma
avrebbe da esso soltanto “l’innesco”:
l’indovino fissa la superficie fino a
che i suoi occhi non la vedono più, e
una specie di nebbia si interpone fra
essi e lo specchio. È sopra questo
velo che si disegnano le figure che
egli desidera vedere, e ciò gli per-
mette di rispondere negativamente
od affermativamente alle domande
che gli vengono fatte. Egli allora de-
scrive le sue percezioni così come le
ha ricevute. Quando l’indovino si
trova in questo stato, non vede nello
specchio ciò che realmente vi sa-
rebbe da vedere: e la percezione sua
nasce dal suo intimo e non si tra-
smette agli occhi ma bensì al-
l’anima... Se dall’ambito divinatorio
passiamo alla sfera autorealizzativa,
constatiamo procedure similari nel
servirsi degli specula, ma l’operatore
tende qui ad agire su se stesso di-
staccando il “corpo fluidico” e “fissando” il nucleo originario, extra-cerebrale dell’Io.
L’arte magica che si avvale dello specchio per scopi di integrazione col sovrasen-
sibile, mantiene al soggetto un ruolo attivo, in cui la coscienza ordinaria, lungi dal dis-
solversi o dipendere dalla medianità, riafferma il suo ruolo di guida malgrado e oltre
l’universo allucinatorio proiettato nel mezzo riflettente. Lo stadio ulteriore vede l’elimi-
nazione stessa dello speculum quale “sostegno” operativo, essendo adesso l’esoterista ca-
pace di procedere da solo, sulla base della propria energia interiore.
Facilmente si potrà vedere il proprio corpo e l’altrui quasi come una massa d’un co-
lore grigio cupo, qua e là più intenso, circondato interamente da una leggera fascia lieve-
mente luminosa; ad un certo punto, ci si accorge che anche la dualità è sorpassata e che un
quid cosciente sta contemplando se stesso, fuori da se stesso, senza confondersi né col
corpo, né con se stesso.
Le fasi successive al grado descritto, delineando un itinerario magico “totale” che
non poggia più sopra sussidi materiali (e che dovrebbe concludersi, se rettamente diretto,
con l’identificazione del soggetto nella coscienza co-
smica) esulano dal nostro assunto, poiché lo specchio
è a tal punto soltanto il lontano ricordo inerente una
tappa del cammino ampiamente superata. Ma la te-
matica speculare, per essere almeno sommariamente
illustrata, richiede l’esame di due ultime questioni
fondamentali. La prima riguarda gli eventuali peri-
coli cui si espone chiunque faccia uso di apparati di-
vinatori, con particolare attenzione alle superfici
riflettenti. La seconda concerne la natura “ontolo-
gica” del fenomeno che mediante queste ultime si

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produce. Quanto al primo argomento è opportuno
dire subito che sebbene in molti manuali per fattuc-
chiere sia sostenuta l’innocuità di tali apparecchi,
ciò non risponde a verità sotto nessun aspetto. Se
infatti l’uso maldestro di cristalli e specchi può cau-
sare dal lato fisico danni al sistema visivo a più o
meno lunga scadenza, i guasti sul versante psichico
possono essere ancora maggiori, verificandosi
spesso sindromi ansioso-depressive culminanti in
forti esaurimenti nervosi.
Nel linguaggio occulto troviamo l’espres-
sioni “cadere in mano ai demoni”, “essere preda degli
spiriti”, cui corrisponde in Alchimia la locuzione
“aver gli occhi cavati (o mangiati) dai corvi”; uno dei
primi sintomi d’allarme dovrebbe considerarsi il
senso di spossatezza mortale che si impossessa
della persona appena questa abbia terminato la se-
duta: le proiezioni incontrollate delle proprie costellazioni irrazionali aprirebbero infatti
la psiche ad un’estasi passiva, in cui i protagonisti della visione verrebbero ad acquisire
vita propria, mutuandola “vampiricamente” dall’energia vitale dell’evocatore, divenuto
così “ossessionato”, prima di diventare “posseduto”.
Secondo certi occultisti contemporanei, tutte le forme di chiaroveggenza attivate
da sforzi isolati invece che attraverso un graduale percorso di crescita iniziatica, hanno
come risultato sviluppi morbosi. In particolare, dei quattro elementi presiedenti alla co-
stituzione umana - fuoco, aria, acqua, terra - gli esperimenti aventi per supporto oggetti
riflettenti causerebbero, in caso di degenerazione, la menomazione irreversibile del prin-
cipio igneo. Ossia, nel nostro caso: se l’uso dello specchio rivela al postulante un accadi-
mento futuro o una modalità esistenziale altrimenti
inconoscibili, quale differenza fa che a rivelarli sia un’en-
tità proveniente da altri mondi, invece di un principio la-
tente relegato in una porzione normalmente inutilizzata
dal cervello umano? L’importante è che la conoscenza in
questo modo acquisita venga opportunamente messa a
frutto. Il pensiero platonico secondo il quale noi cono-
sciamo tutto pur ignorando di conoscerlo, fornirebbe la
chiave di queste illuminazioni. Le conoscenze devono es-
sere scoperte dentro di noi come in un pozzo. E lo sguardo
è reso più acuto dalla contemplazione di oggetti lucidi.

Si dice che lo specchio in sé sia soltanto una porta


chiusa, e che per essere aperta ci sia bisogno di particolari
sigilli, che andrebbero disegnati in aria con le mani davanti
allo specchio stesso. Tali sigilli aprirebbero determinate dimensioni, e alla fine dell’espe-
rimento andrebbero assolutamente richiusi per evitare di lasciare la porta aperta...
Guardarsi allo specchio almeno per una mezz’ora al giorno non deve essere scam-
biato per un atteggiamento vanitoso e con il solo fine di contemplare la propria figura. Se
lo facciamo innalziamo tra noi e l’esterno una barriera contro gli influssi negativi esterni
ed accresciamo il nostro potere occulto rendendoci più forti. Leviamoci catene e bracciali
e se possibile denudiamoci completamente e avvolgiamo il nostro corpo solo con una tu-

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nica o un telo rosso mentre lo facciamo. Sediamoci
di fronte allo specchio con una candela bianca alle
nostre spalle, incrociando le gambe e tenendo le
braccia sollevate. Con molta forza dovremo guar-
dare la figura che lo specchio ci rimanda riflessa e
mentalmente, bisbigliando o ad alta voce (secondo
come ci dà più carica) ripetendo per tre volte: ”Spi-
rito profondo che sei in me, spezza le mie catene, proteg-
gimi e rendimi forte, potente e vittorioso”.Respirare
profondamente per tre volte prima di dire: “Per
Iside io vincerò’”. Col tempo si riuscirà a vedere attorno alla nostra figura delle luci, dei
volti e persino la nostra stessa aura oltre che le nostre entità protettive.
In conclusione non è da dimenticare che qualsiasi atto magico che mettiamo in atto
sprigiona comunque delle energie che devono essere indirizzate al centro dei nostri de-
sideri per renderli materia nella materia. Sia che la pratica sia considerata positiva o ne-
gativa è indifferente, questo avviene sempre e indistintamente, qualsiasi sia la nostra
intenzione e qualsiasi sia l’effetto che se ne ricava, indipendentemente anche dal fatto che
il rituale vada a buon fine oppure no. Ogni rito possiede sempre una “memoria” o una,
chiamiamola così, “ricevuta di ritorno” e questa è una legge fisica alla quale la materia
non si sottrae e dato che la magia si avvale di forze materiali che agiscono nella materia
anche essa ne è soggetta. n

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IL MIO INCONTRO CON FABRIZIO MARIANI
Giovanni/Giovanni Aniel
N.V.M.P.
che la sua Luce ci illumini

Enoch Eliau

Sei salito sul silicio splendente


con sulle labbra il Veni Creator Spiritus
e nel cuore l’amore che tutti
unisce in un’unica luce.

É il 17 gennaio 1971 a.D., una domenica, e


Fabrizio Mariani, un giornalista di professione, è
Associato all’Ordine Martinista con il nome inizia-
tico di Giovanni FRLTT28M, da Aloysius S.I. IV°; al
secolo Luigi Furlotti.
Aloysius è un Iniziatore facente parte del-
l’O.M. cosiddetto di Venezia il cui Sovrano Gran
Maestro è il fr. Aldebaran, Gastone Ventura.
Aloysius, insieme ad altri 6 iniziatori tra cui
Nebo, Francesco Brunelli, si riunisce a Roma fon-
dando una “Comunità di Liberi Iniziatori”. La “Co-
munità” si trasforma il 31 ottobre 1971 in Ordine
Martinista Italico e viene eletto e consacrato Gran
Maestro Aloysius; dopo soli sette mesi Aloysius
passa alla Grande Montagna Eterna; è il 28 aprile
1972; è quello il momento in cui il fr. Giovanni che
da 9 giorni ha compiuto 34 anni si chiede preoccu-
pato: “E adesso come faccio a proseguire senza Inizia-
tore?...” Ciò a rimarcare l’importanza del filo aureo
(apparentemente interrotto) che s’era andato for-
mando tra l’allievo e l’istruttore; ma dopo questi
primi momenti di smarrimento ad aiutarlo
sarà l’eggregoro dell’Ordine che gli fornirà un altro personaggio che comparirà
all’oriente del suo cammino spirituale e che aveva avuto modo di conoscere tra-
mite il suo Iniziatore, Ram S.I.I., il quale, alla fine degli anni ’70, per via delle
condizioni di salute, lascerà a lui gestire la sua Loggia che, per un mistero che si
può ricollegare solo alle vie della Provvidenza, ha proprio il nome del suo primo
Iniziatore, Aloysius.
In quegli anni l’O.M. Italico si trasforma in O.M. Antico e Tradizionale con
il fr. Nebo Gran Maestro.
Capii dopo, molto dopo, che l’Accademia dei Nuovi Filaleti, che aveva sede
in via Martello a Roma, era il luogo delle riunioni della loggia Aloysius che si riu-

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niva tutti i giovedì e che il martedì si tenevano delle informali fatte da alcuni personaggi
tra cui un certo Fabrizio Mariani che sembrava avesse doti particolari in quanto a oratoria
e conoscenze esoteriche; e fu così, quella sera, una sera di un martedì di febbraio del 1979,
che conobbi quello che sarebbe diventato il mio Iniziatore. E proprio quella sera la “chiac-
chierata” (così soleva chiamare le sue lezioni Fabrizio) verteva sulla VI Lama dei
Taro, detta l’Innamorato; neanche a farlo apposta. Questi incontri suscita-
rono in me un interesse totale che stimolarono in me una ispirazione con-
tinua che mi fece comporre (feb. apr.’79) una silloge di poesie che
pubblicai l’anno successivo con il titolo di Pareo 1 (con l’1 scritto al con-
trario). Eccone una, breve, -più biografica che poetica, a parte l’epigrafe:

(L’unico decibel
straripa
dalla fronte)
Fu così che intuii
che lui fosse quello
che fosse mio figlio
lui, un uomo
di quarantun anni.

In quel periodo Fabrizio Mariani col nome di Giovanni era la Luce occidentale
(S.I.) della Gran Loggia Nazionale dell’Ordine di cui Gran Maestro era Nebo (Francesco
Brunelli), Gran Maestro Aggiunto Ram (Vincenzo Mura) Gran Cerimoniere Eros (Renzo
Baccioni) Gran Segretario e Tesoriere Ioram (Mario Bottazzi).
Quando vengo immesso nella sezione esoterica tramite il rito di iniziazione al 2°
grado, e questo avviene il 12 settembre del 1981 a Città della Pieve durante il Congresso
Nazionale dell’Ordine, il mio Iniziatore, Giovanni, mi chiede un compito molto impor-
tante: di copiare in maniera ordinata i Libri Alfa che Nebo aveva trasmesso in passato e
a più riprese al mio Iniziatore su fogli volanti di cui alcuni malfotocopiati; con questa as-
soluta clausola: di non fare nulla di operativo di quello che proponevano quei libri: solo leggere
correggere e trascrivere chiaramente.
É nelle intenzioni di Fabrizio Mariani di dare al Collegio dei S:I:I: e ai S.I. questo
materiale altamente operativo che attiene alla Mistica dell’Or-
dine e che aveva ricevuto in forma privata da Francesco Brunelli
Gran Maestro.
Consacrato domenica 2 dicembre 1984 Gran Maestro del-
l’O.M.A.T., elargì a tutto il corpus sacerdotale i 12 Libri Alfa.
A seguire farà comprendere che l’unzione sacerdotale non è
solo prerogativa dei IV°; e dopo lunghe e accese discussioni del
Collegio dei S.I.I. si riesce a spostare l’unzione sacerdotale sin
dal grado di S.I. .
Avevo in quegli anni la fortuna di seguire da vicino il mio Ini-
ziatore, il quale spesso mi diceva: “Se fossero tutti come te, io non
saprei più dove trovare il tempo per fare le altre cose!...” Ma tutte le mie
richieste d’incontro che venivano da lui rarefatte nel tempo mi
davano comunque alla fine la possibilità di poterlo incontrare; spesso mi riceveva nel suo
Tempio personale da dove si accedeva passando tra una colonna bianca e una nera; lì rice-
vevo le istruzioni, specialmente per il mio iter martinista ; lì le parole erano per lo più poche
e i silenzi tanti e le indicazioni date velatamente e date, come diceva lui con il contagocce.

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Fabrizio sapeva del grande carisma iniziatico che possedeva e peraltro sapeva che
questo avrebbe potuto, a secondo delle nostre ottiche, influire o infastidire molti di noi;
per questo voleva ad esempio per le decisioni importanti da prendere che il Collegio, la
collegialità, avesse una supremazia su tutto e tutti, intercluso quel
Primus inter pares che lui rappresentava; supremazia intesa come
unanimità , ovvero “unità/insieme di anime”. “Noi apparteniamo a
questo consesso” diceva “che detiene la custodia della sacralità dell’Or-
dine, e proprio in nome di questa sacralità, non è concesso che si approvi
alcunché se, anche un solo anello di questa Sovrana Catena, è di parere
contrario. La sacralità non attiene a questo mondo…”
Una delle qualità riconosciute che possedeva era l’ascolto,
sapeva ascoltare ognuno di noi e discernere: questo gli permetteva
di poter operare dei “cambiamenti” come quella volta, nel suo ul-
timo Congresso Nazionale dei III° a Santa Severa del 2002, proprio
allocati vicinissimi alla riva del mare, quel mare etrusco nei pressi
del quale lui possedeva una casa e dove l’estate continuava, seb-
bene avvolto nel suo latinitante otium, a ricevere gli Amici Intimi. Dal 1989 lo sostenevo
come Gran Cerimoniere, e il 2002, anno palindromo per eccellenza, era l’ultimo anno della
sua Gran Maestranza e della sua collocazione in quanto a Giovanni Aniel nel corpo fisico
di Fabrizio Mariani.
Avevo lavorato da sei mesi prima alla stesura di una rituaria che con il suo accordo
dovevo presentare ai fratelli S.I.. Il Gran maestro durante il Congresso fece una premessa
a questo lavoro predisponendo poi i fratelli all’operatività che per scopo aveva “la purifi-
cazione dell’aura terrestre”; così chiarii in tutte le sue parti il rito; ma poco prima d’iniziare
l’esposizione pratica un S.I. espresse delle forti perplessità in merito all’esecuzione. Gio-
vanni Aniel malgrado spiegasse allo stesso che il lavoro in fondo era stato fatto dal Gran
Cerimoniere dell’Ordine e che era stato supervisionato da lui stesso, decideva comunque
di non farlo eseguire.
Il Gran Maestro, almeno con i suoi occhi di carne, non vedrà mai più l’esecuzione
di questo rito perché era prossimo a salire sulla Grande Montagna Eterna, il 20 ottobre
dello stesso anno, una domenica. Di lì a poco anche il suddetto S.I., per altri motivi, scom-
parirà dalla scena dell’Ordine.
Fu quello l’anno in cui mi propose la presidenza del Collegio dell’Italia Centrale
che accettai, però con l’opzione straordinaria, perché non prevista, di una consacrazione
particolare per questo incarico; così nella stessa riunione dei III del Congresso Nazionale
di S. Severa mi invitò nei pressi dell’Ara al cospetto delle Luci e dei N.V.M.P., mi fece in-
ginocchiare e poste le mani sulla mia testa disse le parole di rito; era la domenica del 15
aprile 2002, 4 giorni prima del suo compleanno. Fu quella la sua ultima azione rituale di
consacrazione, che era iniziata su di lui il 17.1.1971, una domenica. n

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L’ESSENZA DELLA RICERCA ERMETICA
ATTRAVERSO LA RELAZIONE
UOMO - ANIMA - DIVINITÁ

Heru Pha Khered

“L’ermetismo è un culto senza templi e liturgia,


praticato nella solitudine della mente,
una filosofia religiosa
o una religione filosofica contenete una gnosi”.
Frances Yates (1899 - 1981)1

Tra i molti motivi di interesse che i testi ermetici offrono, uno in particolare testi-
monia un atteggiamento di devozione nei confronti del mondo, cioè l’Amore per la Vita
in tutte le sue differenti manifestazioni.
Novit qui colit: Consegue la Conoscenza colui che pratica la pietà.
Questa formula ermetica ricorda che i saggi filosofici e i manuali sono anche scritti
di pietà rispetto alla misteriosa rete di legami che unisce l’uomo all’Universo, immagine
visibile del Dio invisibile; dunque sono la testimonianza di una ricerca continua del divino
insito nell’Essere Umano.
L’Ermetismo è il termine moderno che indica un insieme di scritti, composti in pe-
riodo ellenistico e attribuiti a Ermete Trismegisto, il Tre Volte Grandissimo, una divinità
del sincretismo greco-egiziano risultante
dalla fusione di Ermete, dio greco della
scrittura e dall’interpretazione con Toth,
dio egizio della scrittura.
Questa letteratura comprende due
tipi di scritti: alcuni più tecnici relativi al-
l’astrologia, alla magia e all’alchimia; altri
più filosofici, in forma dialogica, in cui si ri-
vela il Sapere della divinità ad un ristretto
gruppo di discepoli.
Tra i testi astrologici il più impor-
tante a noi pervenuto è il “Liber Hermetis
Trismegisti”, traduzione latina di un testo greco che, si suppone, risalga all’Egitto tolemaico
del III° secolo A.C.
All’astrologia sono collegati i trattati i Trattati Ermetici di medicina astrologica che
mirano a stabilire il rapporto tra origine della malattia e corrispondente flusso astrale.
Per quanto riguarda la magia i testi di rilevante importanza accreditati ad Ermete,

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sono nel “Corpus dei papiri magici greci” databili tra il II° e il IV° secolo D.C.
Quanto all’alchimia, sviluppatasi a partire dal II° secolo A.C., il collegamento tra il
primo e il secondo tipo di letteratura ermetica, è evidente nei testi dell’alchimista Zosimo2.
Il secondo gruppo di scritti com-
prende i seguenti testi: il Corpus Herme-
ticum, raccolta di diciotto trattati, tra i
quali il più noto è il Poimandres; una serie
di frammenti redatti in varie lingue tra
cui la Kore Kosmou e l’Asclepio, tradu-
zione latina di un originale greco noto
come Discorso Perfetto, e testi apparte-
nenti alla biblioteca di Nag Hammadi al-
cuni dei quali pervenuti in armeno e
risalenti al I° secolo D.C.
L’oggetto di questa rivelazione si
manifesta negli scritti tecnici come negli
scritti filosofici e si impernia sulla concezione di un Cosmo percorso e sorretto dall’energia
divina, all’interno del quale l’uomo è inserito armonicamente.
Entrambi i tipi di letteratura propongono una riflessione sul fondamento mitico
di questa rivelazione: “Ogni cosa può essere vista da chi possiede l’intelletto; chi si riflette in
quanto intelletto si ri-conosce e chi si ri-conosce conosce il Tutto. Il Tutto è nell’Uomo”3.
Da qui la consapevolezza che questo Tutto non è esterno, ma interno all’uomo: la ri-
cerca dell’unità, l’origine del Tutto, rivestono particolare importanza nella gnosi ermetica.
Grazie al suo “Occhio del Cuore”4, dono concesso da Dio a tutti e che dipende
dalla fede nella divinità, l’ermetista è in grado di “Vedere Dio” ovunque perché Egli è im-
manente in tutto.
L’aspirazione di risalire alla sorgente dell’Essere è
dunque motore e desiderio umano e trova la sua realizza-
zione nel mito del Poimandres ed in quello della Kore Kosmou.
Nella parte centrale di quest’ultimo trattato Ermete
traduce al figlio Tat il dramma vissuto dalle anime: “Vedi o
figlio, attraverso quanti corpi noi dobbiamo passare, attraverso
quante schiere di demoni, attraverso quale successione continua
e quali orbite di astri, per affrettarci verso l’Uno e Solo!”5.
Sorge così l’interrogativo sul perché e come l’anima,
fatta della stessa sostanza divina, sia precipitata nel corpo.
L’immagine del corpo, come prigione per l’anima, ha
una lunga tradizione, confluita in Platone ed ereditata dal
Pensiero ermetico; è il motivo ricorrente che sottolinea il rap-
porto tra corpo e male: il corpo, infatti, è il nemico che opera
contro l’anima: “…la prigione tenebrosa, la morte vivente, il ca-
davere sensibile, la tomba che ti porti dietro, il ladro che sta nella
tua casa, colui che ti odia attraverso le cose che ama e ti invidia at-
traverso le cose che odia”6.
L’originalità del trattato, più che nella risposta a questa domanda, consiste nel ri-
cercare una Conoscenza che riconduca alla possibilità di “Vedere” integralmente la Fonte

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4 6

52
Divina del Tutto da cui l’anima proviene.
Il tema di una visione totalizzante, come possibilità concessa già in questa esi-
stenza, è presente in quasi tutti gli scritti ermetici che fanno intravedere, come culmine
della loro particolare Iniziazione, l’esten-
sione della coscienza fino ai limiti del
Cosmo, abbracciando il Tutto dall’infini-
tamente grande all’infinitamente pic-
colo, dagli elementi inanimati a quelli
animati, confondendosi in un certo
senso, con la coscienza divina: “Vedi
quanta potenza, quale velocità possiedi! E se
tu puoi tutto questo, non lo può forse Dio?
Così tu devi pensare Dio: tutto ciò che esiste
Egli lo contiene in Se stesso come oggetto di
Pensiero: il mondo, Se stesso, il Tutto. Se
dunque tu non ti rendi uguale a Dio, non
puoi com-prenderlo; poiché il simile è intelligibile solo al simile. Ingrandisci te stesso fino a rag-
giungere la grandezza senza misura liberandoti da ogni corpo; elevati al di sopra di ogni tempo,
divieni l’eternità. Allora comprenderai Dio. Una volta convinto che per te non vi è niente di im-
possibile, stima te stesso immortale e capace di com-prendere tutto: ogni arte, ogni scienza, l’intima
natura di ogni essere vivente. Sali più in alto di ogni altezza, scendi più in basso di ogni profondità.
Riunisci in te stesso le sensazioni di tutti gli elementi creati; del fuoco, dell’acqua, dell’aridità e
dell’umidità, immaginando di essere ugualmente in ogni luogo: nella terra, nel mare, nel cielo; im-
maginando di non essere ancora nato, di essere nel ventre della Madre, di essere giovane, di essere
vecchio, di essere morto, di essere quello che sarai dopo la morte. Se tu com-prendi tutte queste
cose insieme: tempi, luoghi, sostanze, qua-
lità, quantità; tu puoi com-prendere Dio”7.
Tra tutti gli scritti ermetici il Poimandres
influenza, nei primi tempi del cristiane-
simo, discorsi e argomentazioni dei
padri della chiesa che lo citarono ripor-
tandone brani e testimonianze.
Il libro fu portato da un monaco dalla
Macedonia a Cosimo dei Medici che ne
volle una traduzione in latino e diede
l’incarico a Marsilio Ficino; il testo venne
tradotto con il nome di De Potestate et Sa-
pientia Dei.
Secondo alcuni studiosi la traduzione di
Marsilio Ficino fu imperfetta interpreta-
zione, in senso cristiano, del testo greco
arrivato a Firenze.
In seguito alcuni filosofi e religiosi tro-
varono risposte, tra le idee espresse in questa interpretazione del libro ermetico, ad alcuni
dogmi relativi alla nascita dell’uomo ed al mistero della Vita; stabilirono che Ermete Tri-
megisto, autore del testo, fosse un antico precursore del Cristianesimo.
Sulle origini del Poimandres sono state avanzate varie ipotesi: tra queste che sia

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stato scritto nella scuola dei Terapeuti d’Egitto, spesso
confusi con gli Esseni, e che, per spirito di rivalità con
questi ultimi, diffusero il testo attribuendolo ad Ermete
Trimegisto celebre in tutto l’Egitto.
Chiunque fosse l’autore, comunque doveva essere un
Iniziato di qualche scuola esoterica egizia conservatrice
del significato primitivo dei Simboli e dell’originario
senso della re-ligio: una profonda descrizione della na-
tura dell’essere umano.
La Kore Kosmou si presenta come un discorso di Iside
al figlio Horus; tra le varie creature dell’opera è da no-
tare Psychosis, l’unica che Dio crea direttamente: sferica
e trasparente come un occhio, che risponde allo sguardo
di Dio con un sorriso.
Nell’ermetismo “vedere” è “conoscere” e la storia dell’anima contenuta nella Kore
Kosmou è da considerarsi come il mezzo per comprendere e tornare a Dio.
Nella descrizione, che Iside fa della creazione, il primo intervento divino fu inviare
Ermete sulla terra: il suo destino era scrivere i testi sacri della rivelazione, nasconderli,
tornare in cielo, ma prima di tutto ciò, rivelare la verità al figlio perché la tramandasse,
oralmente, ai predestinati.
La seconda emanazione divina è la coppia Iside e Osiride, il cui destino è insegnare
agli uomini la civiltà, ritrovare e rivelare i segreti nascosti
da Ermete.
La presenza di Iside e il suo ruolo si giustificano se ri-
cordiamo che la letteratura ermetica è, quasi senza ombra
di dubbio, di matrice Egizia.
Iside offre al figlio, probabile immagine dell’Iniziato
ermetico, ambrosia e Parole Sacre. Ambrosia e Parola Sacra
hanno la medesima funzione: conferiscono l’immortalità.
La stessa corrispondenza è esplicita nel Poimandres. In
questo testo Ermete dice: “Seminai in loro parole della sapienza
ed essi crebbero grazie all’acqua dell’Ambrosia”.
Il discorso di Iside è la rivelazione di una dottrina se-
greta e questo supporta la natura iniziatica del dialogo er-
metico, nel quale l’interlocutore non contribuisce più alla
costruzione del discorso per ricercare una verità razionale,
bensì diventa ascoltatore al quale è richiesta attenzione,
umiltà e silenzio.
Possiamo dedurre, quindi, che l’ermetismo non è un
sistema filosofico; non è nemmeno una religione: è piutto-
sto un’attitudine religiosa che utilizza tradizioni, anche
contrastanti, pur di soddisfare il bisogno di incontrare il
divino; bisogno che può essere soddisfatto solo da una Pa-
rola Sacra, parola rivelata che deve restare segreta.
Nei testi ermetici viene più volte ribadito come l’uomo, con i suoi limiti, non abbia
possibilità di comprendere tutti i Misteri del Mondo, ma come sia proprio l’ignoranza a
provocare il desiderio e spingere alla ricerca.
Il problema della Conoscenza, contrapposto alla vana curiosità, attraversa tutti i
testi; viene esaltata infatti la Gnosis, Conoscenza positiva che consiste nell’Illuminazione

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divina che rivela la Verità, in genere tramite una visione che
viene concessa alla facoltà intuitiva dell’uomo.
Viene degradata la ricerca intellettuale che assume i
connotati di una pericolosa curiosità.
Questo atteggiamento verso la Conoscenza era molto
diffuso quando il posto dei filosofi venne preso da un gran
numero di profeti, i quali proclamavano che l’uomo aveva
in sé una parte divina che gli poteva assicurare una “Nuova
Nascita” e una “Nuova Vita”.
La Gnosi era non la conoscenza intellettiva data dalla
filosofia, ma la visione intuitiva fondata sulla Grazia del Dio
che si rivela.
Un tema ermetico che denota la mutata sensibilità del
mondo tardo-antico è quello del nome di Dio: Dio non ha
nome o piuttosto li ha tutti poiché è, contemporaneamente,
Uno e Tutto.
Si oscilla tra i molti nomi e l’anonimia di Dio per arrivare al nome nascosto, ricor-
dato nel brano che conclude il Poimandres: “Tu ineffabile, indicibile, Tu il cui nome è pronun-
ciato solo dal Silenzio”.
Nella Kore Kosmou i nomi di Dio si possono dividere in due gruppi: il primo allude
alla funzione creatrice di Dio, il secondo ne sottolinea la Potenza; troviamo nel primo
gruppo: Artefice, Creatore, Padre; e nel secondo: Re, Padrone, Principe, Signore.
Tema dominante, in particolar modo nella Kore Kosmou, è quello dell’ignoranza
dell’essere umano (agnosia) che va collegato a quello della ricerca e del ritrovamento;
l’agnosia prelude all’intervento divino ed è ricorrente in due punti del testo; l’ignoranza
e l’angoscia commuovono Dio, una prima volta, quando decide di rivelarsi a Ermete, sua
prima emanazione; l’ignoranza dell’uomo provoca il lamento dei quattro elementi (fuoco,
aria, acqua, terra) e la compassione di Dio, una seconda volta, quando decide di inviare
sulla terra la sua seconda emanazione: la coppia sacra Iside e Osiride.
Il tema dell’angoscia va collegato quindi
a quello della salvezza: “Dio non ignora
l’uomo, lo conosce perfettamente e vuole essere
conosciuto da lui. Questa è l’unica salvezza per
l’uomo: la Conoscenza di Dio”8.
Placare l’angoscia che nasce dal pro-
blema del destino diventa urgenza prima-
ria dell’individuo, essa viene soddisfatta da
un rapporto con Dio costruito sulla forza
del desiderio; Dio vuole farsi conoscere, lo
stesso movimento d’Amore, che dà origine
alla creazione, provoca la ricerca di un rap-
porto personale di conoscenza.
Dio ispira il desiderio d’Amore e,
contemporaneamente, offre lo strumento
per ricercare la “Luce”.
I testi ermetici costruiscono una vera teologia della Luce dove la stessa diventa, di volta
in volta, lo Strumento di Dio, il Dono gratuito e immeritato, la Sostanza della visione divina.

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Nel primo trattato ermetico la visione che svela la verità riassume i vari significati
che la Luce assume nel racconto; la rivelazione a Er-
mete si attiva attraverso la Luce, ma la Luce si tra-
sforma, poi, nell’aspetto stesso della Conoscenza.
L’identificazione della Luce con il divino è un
tratto caratteristico dell’ermetismo: “Concentra il tuo spi-
rito sulla Luce e sforzati di conoscerla”9; “Vita e Luce con-
sentono all’uomo di ritornare a Dio, anzi di diventare Dio”10.
In molti testi ermetici si trova la triplice for-
mula: “Volessero cercare, desiderassero trovare, potessero
riuscire” e, soprattutto nel Poimandres, Ermete struttura
la ricerca di Dio in tre fasi: fase di partenza è il voler
cercare, fase intermedia è il desiderio di trovare e fase
di arrivo è la beatitudine concepita come visione di
Dio o visione della Verità.
Mentre nel Poimandres Ermete, dopo aver
avuto la rivelazione tramite una visione, diventa la
voce che annuncia l’immortalità degli esseri umani;
nella Kore Kosmou Ermete è colui che scrive i libri sacri
della rivelazione; dunque come colui che ha visto
tutto, sa tutto e scrive egli può dire: “Padre, Vedo Tutto
e mi Vedo nell’Intelletto”11.
Le modalità della rivelazione passano attraverso una scrittura nascosta; i libri sacri
vengono celati in attesa di essere ritrovati; qui
compare un altro schema ternario: “Conobbe,
scrisse, nascose”; questo schema potrebbe allu-
dere alla tematica agnosi – ricerca: la rivela-
zione è nascosta in modo che ogni generazione
compia la sua ricerca.
I libri, creature di Ermete, creature di-
vine, dotati di vita propria, destinati a nutrire
le anime, sono stati scritti per salvare le anime
medesime dall’ignoranza.
Ogni impulso creativo, ricorrente nei
testi ermetici, è collegato al tema della sterilità
e inattività del mondo; la natura sterile di-
venta, dopo l’intervento di Dio, Physis, genera-
trice degli esseri12; Physis è concepita come la
parte femminile del mondo e a lei è affidato il
compito di generare gli esseri che lo dovranno
popolare; gli esseri, non le anime, create in se-
guito da Dio stesso: “Egli volendo che il mondo
superiore non restasse più inattivo pose mano,
senza indugio, alla sua Opera di artigiano usando elementi sacri per produrre la creazione. Dopo
aver tratto da Se stesso pneuma e averlo mescolato, con sapienza, al fuoco, lo amalgamò con alcune
sostanze sconosciute; fuse in un tutto unico questi elementi e li chiamò Psychosis, da questi fece

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nascere le anime”13.
La presenza di intermediari che sollecitano e aiutano
Dio nella sua Opera è evidente, soprattutto, nella Kore Ko-
smou: “Il periodo dell’inattività era durato abbastanza, la natura
restava sterile, finché quelli che avevano avuto l’ordine di fare il
giro del cielo…”14.
È probabile che quelli che avevano avuto l’ordine fos-
sero i Decani; in epoca ellenistica i Decani erano trentasei di-
vinità siderali che dominavano, ognuna, dieci gradi del
cerchio zodiacale.
Anteriori all’epoca ellenistica, in origine non erano
trentasei; erano nati dall’idea egizia che
ogni divisione del tempo dovesse appar-
tenere a qualche divinità.
La natura dei Decani era com-
plessa: avevano un aspetto siderale poi-
ché designavano, originariamente, una
stella o una costellazione; avevano un
aspetto geometrico come suddivisione di
ogni zona del cielo riservata a un segno zodiacale.
L’importanza dei Decani nei testi ermetici è evidente nel libro
di Stobeo che è dedicato all’esposizione di questa teoria: “La forza che
anima tutti i fatti di portata universale viene dai Decani…”15.
L’elemento che dovrebbe attrarre la nostra attenzione è la se-
quenza tra corpo e anima accennata precedentemente: il corpo è mo-
dellato da esseri divini (Psysis), ma inferiori; l’anima è creata
direttamente da Dio.
Questa volta Dio crea con le sue mani, è
un artigiano all’Opera; i suoi gesti fanno pensare a un alchi-
mista che sa combinare sostanze e usare formule segrete.
Composta di pneuma, di fuoco e di sostanze misteriose,
l’anima emerge dinnanzi al suo creatore; l’anima è sottile e
trasparente, solo Dio può vederla.
Come Dio è colui che non è materia, che non ha colore, né
forma, così l’anima, figlia di Dio, è senza colore né forma; la
rappresentazione dell’anima è tutta giocata sull’incorporeità:
“L’anima è una sostanza incorporea, perché se avesse un corpo non
potrebbe più salvare se stessa” .
Alle anime è assegnato il compito di collaborare alla crea-
zione ed è da notare come, nei testi ermetici, i segni dello zo-
diaco abbiano la stessa composizione delle anime (pneuma
divino, fuoco e sostanze sconosciute ad uno stato più solido)
e come la loro creazione abbia lo scopo di fare da modello alle
anime per la creazione degli animali .
Gli animali, in tutte le loro specie, sono destinati a popolare aria, terra e acqua.

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Nella Kore Kosmou hanno un
ruolo di una certa dignità essendo opera
delle anime e il materiale usato per for-
marli è lo stesso che Dio ha usato per
comporre lo zodiaco.
In Stobeo si chiarisce che: “L’anima
degli animali privi di ragione consiste nell’ira-
scibile e nel concupiscibile che ad essa appar-
tengono. Per questo la specie dei viventi è
detta priva di ragione, essendo privi della
parte ragionevole dell’anima” . Nello stesso
testo troviamo la classificazione degli ani-
mali in uccelli, quadrupedi, rettili e pesci;
classificazione che nasce da un metodo di
combinazione dei quattro elementi: “Tutti
gli esseri viventi che hanno avuto una quan-
tità maggiore di fuoco e aria sono diventati
uccelli e stanno in alto, presso gli elementi da
cui provengono. Quelli che hanno avuto molta acqua, molta terra, poca aria e poco fuoco sono di-
ventati quadrupedi e, a causa del calore che è in loro, sono diventati più aggressivi di altri animali.
Quelli che hanno avuto terra e acqua in parti uguali sono diventati rettili. Quelli che hanno avuto
molto umido e poco secco sono diventati pesci” .
I segni zodiacali, ordinati in antropomorfi e zoomorfi, potenziati dal pneuma, sono
destinati a influenzare tutto ciò che esiste: “Quanto al corpo
l’uomo dipenderà dallo zodiaco in virtù della materia che hanno
in comune; quanto all’anima, al contrario, poiché quest’anima
deriva da una sostanza
più pura l’uomo sarà, es-
senzialmente, indipen-
dente dallo zodiaco, sarà
libero e il suo destino sarà
il risultato del genere
della vita che avrà sulla
terra. Lo zodiaco avrà in-
vece completo dominio sugli animali. Esso resta comunque
il tramite tra il mondo superiore e il mondo inferiore” .
I testi ermetici fanno riferimento a una “disob-
bedienza” dell’anima e dunque ad una “caduta nel
corpo”; Dio si è allontanato, le anime vogliono sapere
più del dovuto e non riescono nel loro ambizioso in-
tento. Terrorizzate poi dall’idea dell’ira divina, per la
loro audacia piena di vane curiosità che le ha spinte
fuori dai limiti loro assegnati, si apprestano a subire il “castigo”.
Lo spazio loro assegnato, artefice della loro caduta, è chiarito dal racconto di Iside
a Horus sulla disposizione dei cieli: “Ciò che si estende dalla luna fino a noi, figlio mio, è l’abi-
tacolo delle anime…in queste regioni, che sono sessanta, abitano le anime, ognuna secondo la na-

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tura che le è propria; esse hanno tutte un’unica e sola costi-
tuzione, ma non la stessa dignità. La differenza delle
anime serve a giustificare le differenze esistenti tra gli
uomini” .
L’interpretazione della caduta dell’anima è ab-
bastanza complessa: le principali teorie si ba-
sano sull’interpretazione della caduta come
“errore originario”, ma la gamma di soluzioni
è ampia; le anime scendono per completare
l’universo, per dare una rappresentazione della
vita degli dei in terra, per conser-
vare le cose terrestri, per puni-
zione in seguito a un giudizio.
La discesa può essere
classificata come volontaria o
involontaria; avviene volonta-
riamente per motivi spontanei o per
ubbidienza agli dei; involontariamente
quando l’anima è trascinata forzatamente verso il basso.
Nell’interpretazione di Plotino si trovano due opinioni di-
vergenti: la discesa dell’anima è un male perché comporta una caduta
nella materia, oppure: la discesa è un bene perché contribuisce al com-
pimento del mondo sensibile riempiendolo di tante specie viventi quante
ce ne sono nel mondo intelligibile.
La letteratura ermetica è percorsa da ambedue le opinioni; la soluzione pessimista
prevale nella Kore Kosmou, mentre, in altri testi,
prevale la soluzione ottimista.
Si insiste molto sul fatto della trasgres-
sione degli spazi assegnati alle anime; l’impor-
tanza è data dal movimento: lo stare ferme per
esse equivale a morire.
Il corpo come prigione per l’anima è un
motivo ricorrente che sottolinea il rapporto tra
il corpo e il male; i testi insistono molto sulla de-
bolezza del corpo umano: “I nostri corpi, come la
materia di cui sono fatti, sono composti di elementi
corporei dissolubili e mortali. Essi hanno bisogno di
continua assistenza per la loro debolezza…” .
L’umidità presente nel corpo era stata, al
momento della creazione, l’elemento voluto
dagli dei per indebolire l’uomo; ora gli umori
presenti nel corpo indicano chiaramente la sua
disposizione alla dissoluzione suscitando or-
rore nelle anime, elementi secchi e incorruttibili.
Dio ordina l’incorporazione delle anime e il loro lamento, a questo giudizio, è im-
postato sul fatto che il corpo, definito carcere e supplizio, diventa una lente che distorce

61
l’immagine di Dio e l’anima, “pupilla creata per guardare
il suo Creatore”, è destinata a non poter “vedere” e, so-
prattutto è destinata a sbagliare perché il corpo è ori-
gine del male .
All’interno di questa visione ermetica si sviluppa la
tematica dell’addestramento dell’anima che deve eser-
citarsi di continuo per sfuggire alle deleterie influenze
del corpo.
Il tema della “visione” è molto importante nell’erme-
tismo; lo sguardo da grande spazio al tema della luce che è identificata con la divinità ;
la rivelazione coincide con l’illuminazione o la visione della luce: “E tutto si svelò all’istante.
Ebbi una visione…tutto si era trasformato in una luce serena…” .
Nella Kore Kosmou al tema dell’agnosia, come oscurità che sommerge tutte le cose,
corrisponde quello di Dio che decide di rivelarsi donando la luce che, in abbondanza,
aveva in petto.
Nella cultura ermetica “vedere” e “sapere” sono tutt’uno; la conoscenza è inter-
pretata ed espressa secondo il mondo della visione; questo modo di collegare vista e co-
noscenza esprime appieno il lamento dell’anima a proposito di vedere il suo Creatore.
L’anima, originariamente piena di occhi, può vedere in tutte le direzioni ed è, come
suggerisce il titolo stesso Kore Kosmou, la “Pupilla del Mondo”; occhio che Dio crea per es-
sere guardato; la visione è possibile solo nel caso in cui esista tra ciò che è visto e colui che
vede un’identità assoluta; visione che sarà ridotta dall’incorporazione e resa quasi nulla.
Oltre al dramma dell’incorporazione l’anima pena per la forte nostalgia della se-
parazione che innesca il desiderio del ritorno; lo stesso tema, anche se in modo apparen-
temente diverso, è stato sviluppato nel libro di John Milton, il Paradiso perduto.

62
Il ritorno dell’anima al luogo
d’origine è possibile solo a determi-
nate condizioni: le buone opere ma-
nifestano il suo distacco dal corpo,
mentre le azioni malvage eviden-
ziano la sua sottomissione alla ma-
teria.
La morale ermetica sui reali rap-
porti che intercorrono tra anima e
corpo è che “vi sono due tipi di vita e
due tipi di scelte”; l’una è una scelta
secondo sostanza, l’altra secondo
natura corporea .
Il cielo riattende l’anima che ha
scelto seguendo la sua natura di-
vina; questa risalita è descritta nel
Poimandres.
Il cammino al quale sono desti-
nate le anime è un lunghissimo per-
corso attraverso i corpi, un ingegnoso
sistema che permette alle anime di poter ritornare al cielo.
Per mettere l’uomo in difficoltà bastano pochi elementi tutti collegati alla sua natura
mortale: la paura, il dolore, la speranza, il desiderio e l’amore; la ricerca di vani piaceri e di
vane speranze sono i tratti che allungano il cammino di purificazione dell’anima.
Così viene chiarito il motivo per cui le anime possono trovarsi a condurre un lungo
cammino di purificazione: “Le anime corrono grandi pericoli nella vita terrena perché il piacere
le afferra costringendole a restare attaccate a quella parte del-
l’uomo che è mortale” .
Poco chiara risulta la gerarchia dei corpi, so-
prattutto la posizione che occupano i corpi animali;
nella narrazione si legge che Dio aveva diviso le anime
in due gruppi: quelle che sarebbero ritornate al cielo e
quelle che avrebbero vagato per sempre in corpi di ani-
mali, ma questo entra in opposizione con un ulteriore
brano secondo il quale le anime possono incarnarsi sia
in uomini che in animali; così la sequenza viene de-
scritta: “Le anime affrontano moltissime metamorfosi: al-
cune verso un destino migliore, altre verso un destino
contrario. Infatti le anime degli animali che strisciano pas-
sano in animali acquatici, quelle di animali acquatici in ani-
mali terrestri, quelle degli animali terrestri negli animali che
volano, mentre le anime che stanno nell’aria passano agli uo-
mini; infine le anime degli uomini cominciano a divenire im-
mortali trasformandosi in demoni e in questo modo arrivano
a far parte del corpo dei cieli” .

63
Tutti i testi ermetici sono basati, comunque, sulla
Conoscenza: “Ti prego fa che io non sia privato di quel tanto
di conoscenza concessa entro i limiti del nostro essere” .
Il limite di tale conoscenza è continuamente ri-
preso ed è alla base dell’ermetismo: “Per quanto è consen-
tito all’intelletto umano, agli uomini è permesso di vedere le
cose del cielo come attraverso un velo di nebbia. Infatti, quando
si tratta di vedere cose grandi, la potenza del nostro vedere è
limitatissima, ma una volta che si è potuto vedere la felicità
del conoscere è immensa” .
La chiave unica per comprendere gli argomenti
trattati nei testi ermetici è racchiusa nella famosa Tavola
di Smeraldo.
Essa si trova riprodotta in molte raccolte di trat-
tati ermetici ed alchemici; nell’arco del tempo se ne
sono fatte traduzioni in latino, in arabo, in persiano, in
greco antico e moderno e, ovviamente, anche in alcuni testi italiani.
Nell’ambito delle pubblicazioni di Basilio Valentino , scopritore dell’antimonio,
elemento chimico di numero atomico 51 che, essendo un semimetallo può avere forma
stabile dal colore bianco azzurrognolo e una forma instabile con tono giallo o nero, la Ta-

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vola di Smeraldo è, a volte, affiancata al-
l’acronimo V.I.T.R.I.O.L inciso su pietra.
Il sigillo ha un rapporto con la
Tavola di Smeraldo in quanto anche
questa è una “Pietra Preziosa”, una Pie-
tra della Scienza Ermetica, una Pietra
Verde (e, come sappiamo, il verde è un
colore altamente iniziatico…), una Pie-
tra Verde Risplendente, uno Smeraldo
lavorato a Tavola; anche in questo do-
vremmo fermare, per un momento, la
nostra attenzione sul fatto di chiamare
Tavole i nostri Lavori… riprendendo il
discorso… una Tavola di quel tipo di Tavole che, molto probabilmente, vennero conse-
gnate a Mosè con sopra inciso il decalogo della Legge.
Tutti gli studiosi di esoterismo citano la Tavola di Smeraldo come l’indispensabile
documento per poter avere le basi delle cognizioni ermetiche e degli studi alchemici.
Ermete Trismegisto afferma che l’Alchimia è la scienza immutabile che lavora sui
corpi con l’aiuto della teoria e dell’esperienza e, che per mezzo di una congiunzione na-
turale, li trasforma in una specie superiore e preziosa.
Ancora oggi, dopo più di 2000 anni, gli studiosi rammentano che l’Alchimia è
l’Arte di Lavorare con la Natura sui corpi per perfezionarli; ed è proprio questo che de-
scrive la Tavola di Smeraldo.
Uno studio del secolo scorso evidenzia come in tutte le significazioni sia alchemiche,
sia bibliche, sia cabalistiche, si rinvengano le tracce della famosa Decade Pitagorica (appli-

65
cata nel Sepher Yetzirah, il Libro della Formazione) nozione completa e assoluta del
mondo superiore, decade composta dall’unità e da un triplice ternario
(1+3+3+3=10) che i Maestri Ebraico-Esseni hanno chiamato Albero Luminoso delle
Sephiroth.
Questo studio mette in evidenza come le idee filosofiche assolute degli anti-
chi fossero attaccate al primo denario, cioè ai primi dieci numeri rappresentati
dalle dita delle mani e di come Pitagora avesse raggiunto un’intesa perfetta con
Mosè, depositario di un grande Segreto, in quanto entrambi avrebbero attinto alla
stessa fonte: la Tavola di Smeraldo.
Pitagora era stato iniziato in Egitto alle discipline esoteriche, per questo insegnava
che i numeri, in particolare il primo denario, erano l’ultima Pietra di Costruzione, la radice
del Mondo; egli considerava i numeri e i rapporti matematici come Simboli di una realtà
superiore in quanto i numeri, come le lingue, non sono cose pensate o create dall’uomo;
essendo i numeri qualità primarie della realtà superiore manifestano, se ben intesi, le Leggi
e i Misteri della Creazione rappresentando, nello stesso tempo, il processo di Creazione.

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La Tavola di Smeraldo comprende dieci proposizioni
rituali; composta da poche righe, scolpite sopra una pietra
verde, contenenti molti segreti; essa, fonte di ogni studio
ermetico, è la chiave soggettiva per chiunque si addentri
in un percorso di Re-integrazione spirituale affinché vi
possa trovare la Ri-Velazione e la Conoscenza che da essa
può derivare.

TESTO DELLA TAVOLA DI SMERALDO

1 È vero, è vero senza errore, è certo verissimo.


2 Ciò che è in basso è come ciò che è in alto,
e ciò che è in alto è come ciò che è in basso,
per fare il miracolo di una cosa sola.
3 Come tutte le cose sono sempre state e venute da Uno,
così tutte le cose sono nate per adattamento a questa cosa Unica.
4 Il Sole ne è il padre, la Luna ne è la madre, il Vento l’ha portato nel suo ventre,
la Terra è la sua nutrice, il padre di tutto, il Telesma di tutto il Mondo è qui;
la sua potenza è illimitata se viene convertita in terra.
5 Tu separerai la Terra dal Fuoco, il sottile dallo spesso,
dolcemente con grande industria.
Egli rimonta dalla Terra al Cielo, subito ridiscende in Terra
e raccoglie la forza delle cose superiori ed inferiori.
6 Tu avrai con questo mezzo tutta la Gloria del Mondo,
perciò ogni oscurità andrà lungi da te.
È la forza forte di ogni forza,
perché vincerà ogni cosa sottile e penetrerà ogni cosa solida.
7 È in questo modo che il Mondo fu creato.
8 Da questa Sorgente usciranno innumerevoli adattamenti
il cui mezzo si trova qui indicato.
9 È per questo motivo che Io venni chiamato Ermete Trismegisto,
perché possiedo le tre parti della filosofia del Mondo.
10 Ciò che ho detto dell’Operazione del Sole è Perfetto e Completo. n

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68
ANGEOLOGIA DELLE SEPHIROT

Hathor Go-Rex

“Siamo come bambini che necessitano


di maestri che li illuminino e li dirigono;
Dio ha provveduto a questo
nominando i suoi angeli insegnanti e guide”
[San Tommaso D’Aquino]

La parola Angelo ha origine dal greco ἄγγελος, ággelos (si pronun-


cia ánghelos) e significa messaggero, inviato: tale denominazione è
data agli esseri spirituali al servizio di Dio, espressione delle Sue po-
tenze, nonché collaboratori alla Creazione e da Lui posti a nostra guida
e difesa. Vi è quindi, a guisa di ciò, una stretta correlazione tra mondo
angelico e umano seppur limitata nell’esercizio di una costante in-
fluenza il più delle volte ignorata o, peggio, totalmente repressa, dalla
personale volontà dell’individuo, il libero arbitrio. Nessun Angelo (o
demone) può imporci d’agire in un modo preciso ma solamente creare in
noi la giusta inclinazione d’animo affinché ciò avvenga, incidendo attraverso
immagini mentali, comunicando pensieri, irradiando sentimenti. Gli Angeli,
attraverso la voce della coscienza, hanno il compito di aiutarci, dirigerci nel
percorso di evoluzione spirituale lungo la via della saggezza e verso la Verità.
Gli insegnamenti della dottrina cabalistica, una delle più ricche fonti di angelolo-
gia, tradizione vuole, vennero dapprima trasmessi agli Angeli e da loro poi ad Adamo
quando fu cacciato dal paradiso come strumento per farvi ritorno, delineano e studiano
le fasi della Creazione, originata dalla volontà di manifestarsi dell’Ain-Soph, la Natura
Divina, Increata, Infinita, Onnisciente, Onnipresente e Onnipotente che, tracimando da
Se Stessa, si separa generando le dieci Sephirot quali contenitori ed espressione delle Sue
potenze e con esse gli esseri che man mano, allontanandosene, si fanno via via più im-
perfetti. Il glifo dell’Albero della Vita e le Sante Sfere sono dunque una vera e propria
mappa della discendente consapevolezza Divina nonché, in senso inverso, un percorso
di risalita e reintegrazione con Dio. A ogni Sfera fa capo un Arcangelo, entità che ne
esprime il potenziale aspetto in tal modo personificata affinché l’uomo possa intenderla
più facilmente, comprensione che per essere tale abbisogna di un vero e proprio contatto
psichico con l’energia che la governa.
La frase iniziale della Genesi biblica “Beeshit Barà Elohim”, vede la parola Elohim
come l’unione di un articolo singolare el con un sostantivo plurale ohim e tradotta quindi
con “Egli-gli Dei”, riconosce il Supremo Ente quindi come un insieme di qualità rappre-
sentate singolarmente nei 72 nomi di potenza a Lui attribuiti e corrispondenti ai 72 Angeli
che circondano il Trono Divino, nomi composti di tre lettere ebraiche scelte con un metodo
preciso e tratti da tre precisi versetti dell’Esodo 14, 19-21:
19) L’angelo di Dio, che precedeva l’accampamento d’Israele, cambiò posto e passò indietro.
Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti passò indietro.
20) Venne così a trovarsi tra l’accampamento degli Egiziani e quello di Israele. La nube
era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvi-

69
cinarsi agli altri durante tutta la notte.
21) Allora Mosè stese la mano sul mare e il Signore, durante tutta la notte, risospinse il
mare con un forte vento d’Oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero.
Ogni versetto è formato da 72 lettere, scrivendo i versi per esteso in ebraico uno
sopra l’altro ma invertendo il senso del secondo che andrà quindi scritto da sinistra a de-
stra e non viceversa come si è soliti fare in tale idioma, si potranno così leggere ed estra-
polare le triadi dei nomi angelici nelle singole colonne verticali formatesi.
Il nome di Dio nella sua interezza, il Tetragrammaton o “Tetragramma sacro”, l’im-
pronunciabile è w così scritto in ebraico e letto quindi da destra a sinistra, essendo il
più completo racchiude e contiene ognuna delle Sue 72 sfumature qualitative. Tale nome,
che nell’Esodo 3:14 viene tradotto con “Io sono colui che è” e in italiano pronunciato soli-
tamente Iavhé, si compone di quattro Sacre lettere nella cui composizione numerica, oltre
al risaputo valore di 26 ottenuto attraverso la loro somma ghematrica y IOD = 10, HE=
5, w VAV = 6, HE = 5, troviamo occultato anche il valore di 72 ottenuto attraverso una
particolare sequenza:
prima lettera 10 = 10
prima lettera e seconda lettera 10 + 5 = 15
prima, seconda e terza lettera 10 + 5 + 6 = 21
prima, seconda, terza e quarta lettera 10 + 5 + 6 + 5 = 26
totale 72
oppure:
y y y y = 40
=15
w w = 12
=5
Totale 72.

70
Oltre alle entità angeliche rappresen-
tanti le qualità divine il 72 ricordiamo è anche
il numero dei battiti al minuto del cuore
umano, dei gradini della scala vista in sogno
da Giacobbe, dei cospiratori che tramarono
contro Osiride, delle lingue nate dalle altret-
tante famiglie presenti nella torre di Babele, il
numero di discepoli scelti dal Cristo oltre i 12
apostoli per predicare al mondo la sua parola:
“1) Dopo questi fatti il Signore designò altri settan-
tadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sè in
ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2) Diceva
loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi.
Pregate dunque il padrone della messe perché mandi
operai per la sua messe. 3) Andate: ecco io vi mando
come agnelli in mezzo a lupi” [Luca 10, 1-3]
Tale numero ricorre anche nelle tradi-
zioni templari, ad esempio 72 erano le regole
che dovevano seguire, le cappelle del sacro Graal, il numero dominante nella cattedrale
di Chartres, in Francia. Il 72 inoltre si paventa non solo nella tradizione biblica ma anche
in molti testi sacri di varie dottrine, stando spesso a indicare un percorso di evoluzione
spirituale e, come vedremo, le qualità legate agli Angeli, possono essere un vero e proprio
veicolo di tali Esseri per guidarci nel cammino verso la reintegrazione.
Tornando alla dottrina cabalistica sappiamo che ha definito quindi gli Angeli in-
torno al trono di Dio come 72 esattamente quanti i nomi a Lui attribuiti ma il numero di
tali Esseri è estremamente più ampio, basti pensare che il Creatore ne ha inviato uno a
custodia e guida di ogni anima umana lungo il percorso di tutte le incarnazioni terrene.
I 72 principali Spiriti angelici sono suddivisi in una gerarchia di nove cori, una per
ogni Sephirot, che possiamo immaginare come circonferenze concentriche di un mandala

71
circolare al cui centro vanno posti i Serafini, gli esseri maggiormente vicini al Creatore e
che lo amano nel modo più perfetto, via via, nei cori che da lui si distanziano, troviamo i
Cherubini dotati di una saggezza che comprende l’intero ordine del creato, i Troni la cui
conoscenza abbraccia tutti i decreti governanti l’universo, le Dominazioni coordinatori e
distributori dei compiti agli angeli, le Virtù che danno il movimento all’intero cosmo, le
Potestà che risolvono ciò che ostacola l’Ordine Supremo, i Principati che custodiscono i
paesi, gli Arcangeli che sovraintendono i culti e la fede, e infine, all’estremità della rosa
gli Angeli, schiera maggiormente prossima all’uomo e di lui custodi.
Detto ciò passiamo a delineare dettagliatamente tale gerarchia.

All’apice, in Kether, il più vicino alla diretta emanazione del Creatore, fa capo l’Ar-
cangelo Metatron il cui nome significa “colui che sta presso il trono”. Detto anche il Re
degli Angeli è uno dei volti di Dio nonché il Maestro che istruì Mosè “Ecco, io mando un
angelo davanti a te per custodirti nel cammino e farti
entrare nel luogo che ho preparato. Abbi rispetto della
sua presenza, ascolta la sua voce e non ribellarti a lui;
egli non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il
mio Nome è in lui!” (Es. 23, 20-21). Metatron è il su-
premo impulso divino, ha “72 ali” quanti i nomi
dell’Altissimo, condensa e contiene quindi i settan-
tadue angeli avendo in sé tutte le loro potenze; è il
rivelatore dei mondi spirituali, l’unico in grado di
donare la comprensione del fine universale e delle
sue leggi, colui che infonde la consapevolezza piu
alta, la sapienza profetica e capace di plasmare il
mondo a propria immagine, quella di Dio.
Metatron presiede l’ordine degli angeli
Chaioth ha Qadesh o più comunemente detti Seraphin, le Sante Creature Viventi, che
formano la gerarchia celeste più elevata essendo gli esseri maggiormente vicini alla con-
dizione divina e continuamente e costantemente impegnati a cantare le lodi del Creatore.
Nelle Sacre scritture vengono citati dal profeta Isaia che li vide in una moltitudine ai piedi
del trono di Dio, li descrive aventi sei ali, due a coprirne il
volto, due i piedi, le restanti due per volare. Serafin in
ebraico deriva dal verbo bruciare, e per questo sovente rap-
presentati dall’iconografia cristiana come fiamme, “bruciano
del fuoco della passione d’amore divina (…) Se noi decidiamo di
bruciare d’amore solo per il Creatore, il Suo fuoco che tutto con-
suma rapidamente ci renderà simili ai fiammeggianti Serafini”
scrive il filosofo Pico della Mirandola in una delle sue opere.
Tali esseri, emananti la più intensa Luce Divina, hanno qua-
lità purificatrici, le stigmate che ricevettero molti santi sono
state date proprio dal fuoco Seraphico in grado di purificare
da ogni peccato. Considerando le proprietà dell’elemento
fuoco possiamo comprenderne appieno la natura Superiore,
in primis ha un movimento ascendente, tendente quindi
verso l’alto e verso Dio, in secondo esprime il calore all’apice
della potenza e in costante fervore, in terzo emana luce, è quindi in grado di illuminare,
qualità ridondanti negli angeli di questa schiera.
A capo della seconda Sephirot Chokmah troviamo l’Arcangelo Raziel il cui nome

72
significa “Segreto di Dio”, tale Essere, denominato anche Padre cosmico, trasmette le Virtù
e applica la Volontà Divina, da lui proviene l’impulso macrocosmico Superiore che porta
tutto a convergere al compimento della Creazione e, parallelamente, nel microcosmo, sua
è la scintilla che accende nell’uomo il desiderio di ricerca della Verità; Raziel è in grado
di orientare il nostro cuore verso Dio, è l’Essere che può donare l’illuminazione, elevare
l’uomo decaduto come ricompensa ai suoi sforzi. L’Arcangelo è anche l’antagonista, il di-
struttore di tutte forze in contrasto alle leggi divine, l’Essere capace di vanificarle. La
schiera angelica che agisce nel mondo Yetziratico da lui diretta è quella degli Auphanim
o Cherubini, citati e spesso descritti nelle sacre scritture come esseri circondati dal fuoco
possedenti quattro ali, due delle quali puntate verso l’alto a sostegno del trono di Dio (la
Merkabah). La loro presenza simboleggia quella del Padre
poiché filtrano la Luce Divina e ogni loro movimento viene
da Lui diretto. Nella mistica cristiana i Cherubini sono so-
vente associati ai quattro evangelisti, custodi e portatori del
Vangelo e quindi della via che conduce alla liberazione; così
li descrive il profeta Ezechiele nelle Sacre Scritture: “Al centro
apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era
l’aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro
facce e quattro ali […] Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro
aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro
a sinistra e, ognuno dei quattro, fattezze d’aquila” (Ezechiele 1:
5,16), altra simile descrizione ci viene data da una visione
avuta da Santa Teresa d’Avila riportata nella sua opera “Il
libro della vita”: “Mi fu mostrato il trono che ho detto alla signoria
vostra di aver già visto, e sopra quello un altro, dove, per una rive-
lazione che non so dire, anche se non lo vidi, capii che stava la Di-
vinità. Mi sembrava che il trono fosse sorretto da certi animali di
cui credo di aver udito la descrizione, e pensai che essi fossero il simbolo degli evangelisti. Non
vidi nè come fosse il trono, nè chi vi sedesse sopra, ma solo una moltitudine di angeli che mi parvero
di una bellezza senza confronto, superiore a quella degli angeli fino allora visti in cielo. Pensai che
fossero serafini o cherubini, perchè la loro gloria è assai diversa da quella degli altri, e mi apparivano
infiammati d’amore di Dio”.
Cherubino significa “colui che prega” o “colui che intercede” appaiono aventi sem-
pre tra le mani una spada fiammeggiante e la loro capacità di contemplazione e cono-
scenza di Dio è superata solo dai Serafini a cui sono strettamene legati.

“Io sentiva osannar di coro in coro


al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne quai sempre fuoro.
E quella che vedea i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t’hanno mostrato Serafi e Cherubi”.
(Paradiso, Canto XXVIII)

A capo della terza Sephirot Binah troviamo l’Arcangelo Tzaphkiel o Binael. Detto
anche Madre cosmica, il suo nome significa “Visione di Dio”, trasforma le energie in leggi
ordinando il funzionamento dell’universo, elargisce la consapevolezza utile a conformare
a esse ogni nostro comportamento. Tale Arcangelo detta le regole e detiene il compito di in-
dicarci come agire nel Giusto, a lui dobbiamo rivolgerci per acquisire tale comprensione e

73
per la quale sono indispensabili studio, ri-
flessione, meditazione e contemplazione.
Binael ha inoltre l’importantissima fun-
zione di elargire il quadro esistenziale
micro e macrocosmico adatto a correggere
la nostra natura umana, regola le nostre
incarnazioni in modo che i destini asse-
gnati sviluppino le giuste qualità. L’ordine
degli angeli diretto da Binael è quello
degli Aralim, Troni.
Tali esseri, descritti ampiamente
nel libro d’Ezechiele, si presentano al
profeta come circondati da vortici lumi-
nosi similmente all’aspetto che hanno tal-
volta i Cherubini e con i quali si muovono in perfetta sintonia e sotto la direzione del
Creatore, “Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima
forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano
muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza
era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. Quando quegli esseri
viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano
da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e
ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote” (Ezechiele 1:16). I
Troni sono esseri maestosi ma di profonda umiltà, portatori della Divina giustizia riflet-
tono la Luce di Dio e ne sorreggono il trono (Merkabah) assieme a Cherubini e Serafini e
come loro hanno raggiunto un’elevata perfezione spirituale.
Presiede la quarta Sephirot Chesed l’Arcangelo Sachiel, rappresenta la maestosità,
la misericordia, la benevolenza, il benessere fisico ed eco-
nomico, nell’immaginario magico tiene in mano una co-
rona e uno scettro e indossa una tunica color porpora.
Seppur evocato, e molto generoso, non darà alcun aiuto a
colui il cui destino ha indotto in povertà affinché tale stato
giovi o rieduchi il suo animo, se la ricchezza si fa dannosa
anziché benevola nessuna supplica o preghiera otterrà la
sua intercessione; nessuno può modificare il fato di un uomo se non egli stesso attraverso
le prove che gli è dato superare. Sachiel viene anche raffigurato nell’atto di riversare il
contenuto di monete e petali di rosa da una cor-
nucopia come dispensatore di ricchezza e fortuna
sfarzo e prestigio, che elargisce secondo le leggi
del karma a ognuno in giusta misura, il modo in
cui viviamo sia la nostra un’esistenza di povertà
o ricchezza, influirà inevitabilmente sul futuro in-
dividuale ed è proprio tale essere che detiene il
compito di scrutare il vizio e la virtù legati a essi;
il denaro in sè non è nè un bene nè un male, ma è
l’uso che se ne fa a esserlo. L’aspetto spirituale e
virtuoso dell’Arcangelo potenzia la generosità,
l’altruismo la solidarietà sfruttando il dono della
ricchezza per aiutare gli altri interiorizzandola
come virtù e arricchendoci, importante è com-

75
prendere che l’agiatezza è un
dono che viene dall’alto non-
ché un esame sull’attacca-
mento che tale condizione
suscita riguardo i beni mate-
riali spesso allontanandoci da
quelli spirituali. L’Arcangelo
Sachiel governa il pianeta
Giove l’astro che influenza le
questioni finanziarie e la ferti-
lità della natura, siede a capo
della schiera dei Chasmalim,
i Brillanti, chiamati anche Do-
minazioni.
Tale coro dispensa bene-
volenze sotto la sua guida,
sono esseri molto generosi ma
inflessibili e severi nell’appli-
cazione delle leggi karmiche, rappresentano i canali attraverso i quali si manifesta la mise-
ricordia di Dio, governanti il punto di fusione iniziale tra il regno fisico e quello spirituale,
cominciano a stabilire le azioni creative attraverso le regole dettate dai Cherubini, armo-
nizzandole e facendo il tal modo conoscere le leggi della natura, tale autorità si esprime
negli emblemi che li caratterizzano: uno scettro o un globo nella mano sinistra e una verga
nella destra, donano fiducia in se stessi, Dio e gli altri.

Alla quinta Sephirot Geburah fa capo l’Arcangelo Camael, colui che amministra la
giustizia divina, il punitore detto anche “La mano destra di Dio”. É il Principe della Forza
e del Coraggio, l’essere che detiene attraverso le sue schiere, i registri del karma e che in-
duce le prove delle incarnazioni future, conduce l’umanità verso la conoscenza attraverso
il giusto sudore della fronte, attraverso l’esperienza.
Camael induce quindi all’abbandono della grazia e a
poter così conoscere l’essenza del male attraverso una
maturità acquisita nei mondi inferiori conquistando
consapevolezza e libertà di azione attraverso una risa-
lita cosciente mossa da una volontà individuale e sor-
retta da giusta saggezza. L’impulso luciferico capace
di distorcere l’uso delle facoltà creative insite nel-
l’uomo è quindi dannoso ma anche indispensabile af-
finché il progetto divino si compia nella sua interezza
e l’uomo si ponga in esso con la giusta e cosciente ope-
ratività. L’Arcangelo Camael insegna le divine leggi e
distrugge tutto ciò che è loro contrario. Il Nome del suo
Ordine di Angeli è Seraphim, i Fiammeggianti o Ser-
penti di Fuoco, chiamati anche Potestà che non sono
gli stessi retti da Metatron. Tali esseri, da lui guidati ri-
stabiliscono l’ordine Divino ove sia necessario, scacciano, frenano, indeboliscono e tengono
a bada le forza maligne impedendo loro di assalire l’uomo. Le potestà sono anche chiamati
i signori del karma poiché custodi di tale archivio, sono quindi gli angeli della morte e della
rinascita, sorveglianti e guide del cammino delle anime verso il Regno dei Cieli.

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La sesta Sephirot Tiphareth è presieduta dall’Arcangelo Ra-
phael il “Divino guaritore” l’essere a capo degli angeli custodi e
delle schiere angeliche il cui compito è elargire forze risanatrici.
Raphael è l’Arcangelo della provvidenza, sovrintende le guari-
gioni, aiuta gli uomini che operano in questo ambito, dona intui-
zioni, consigli affinché il malato che ne invoca l’aiuto possa trovare
il modo di risanarsi a patto però che il suo problema o la sua soffe-
renza non siano dovute al piano divino. Raphael è inoltre il protettore
e la guida dei viaggiatori, sia di coloro che devono raggiungere una località
lontana sia di quelli che intraprendono un cammino spirituale. Presiede la schiera dei
Malachim, i Re, chiamati anche Virtù. Tali esseri dispensatori di grazia, intervengono do-
nando coraggio, saldezza e sapienza, illuminando ogni situazione difficile, aiutano e do-
nano la forza per superare gli ostacoli, stabiliscono inoltre gli aspetti del mondo naturale
dando loro le adeguate caratteristiche quali forme, colori, dimensioni con cui poi si ma-
nifesteranno e sono in grado di sospenderne le leggi operando miracoli.

Alla settima Sephirot Netzach fa capo l’Arcangelo Haniel che presiede l’amore,
l’armonia e la bellezza in tutte le sue sfumature. Haniel è colui che ispira gli artisti affin-
ché, attraverso le loro opere, si esprima la gloria divina insita in ogni cosa o si oda l’ar-
moniosa musicalità delle Sfere. Tale Arcangelo opera affinché le arti siano strumenti di
elevazione dell’animo umano e i colori, i suoni, le forme tocchino e suscitino la nostra piu
profonda sensibilità. Haniel vivifica l’amore spirituale, la bellezza interiore e le qualità
artistiche di ciascuno. Haniel sta a capo degli Elohim, o Principati la schiera angelica
creatrice del mondo, la cui forza sta nell’amorevole dedizione con cui svolgono tale com-

77
pito. Tali esseri comandano e supervisionano l’operato degli angeli sotto di loro, posti a
custodia delle nazioni, le città, i luoghi sacri; proteggono il culto religioso, il legame tra
uomo e Dio, possono compiere miracoli e
stando direttamente sopra il nostro mondo
fungono da ponte tra materia e spirito.

L’ottava Sephirot Hod è presieduta


dall’Arcangelo Michael il cui nome signi-
fica “il Grande Dio” o “simile a Dio”. É il
comandante delle schiere celesti che com-
battono il male, la magia nera, i sortilegi,
protettore dei credenti e perciò raffigurato
spesso con indosso un’armatura e in pugno
la spada fiammeggiante con cui ha sconfitto Lucifero, e la cui luce dissipa le tenebre. Sim-
boleggia la lotta per superare gli ostacoli. Presiede la schiera dei Beni Elohim o Figli di
Dio, comunemente noti come Arcangeli. Tali esseri governano contemporaneamente su
molti livelli, sull’operato degli Angeli, degli astri, delle stagioni, della flora e della fauna
e talvolta inviati da Dio come diretti messaggeri del Suo volere e delle Sue leggi agli uo-
mini, sono i mediatori tra Principati e Angeli, dai primi ricevono la direzione da comuni-
care ai secondi attraverso la quale l’uomo dovrà operare per purificarsi ed elevarsi.

La nona Sephirot Yesod è presieduta dall’Arcagelo Gabriel, il messaggero di buone


notizie, il rivelatore, la voce di Dio,
colui che ci indicherà al momento op-
portuno l’obbiettivo, ciò che spiri-
tualmente ci è dato di compiere nel
nostro destino. Tale è l’angelo che
ispirò Giovanna d’Arco nonchè l’an-
nunciatore delle nascite prodigiose
come quella di Gesù e del figlio di
Abramo, bambini che custodirà poi
per tutta la vita. Gabriel è la potenza
celeste che guida il concepimento sia
fisico che spirituale, quello delle idee.
In lui e attraverso di lui si cristalliz-
zano gli impulsi di tutti gli arcangeli
divenendo immagini e spinte
d’azione ricevute dall’uomo attra-
verso i centri energetici, detti chakra.
Tali energie non sono tuttavia coerci-
tive ma direzionali, sta a noi impa-
rare a discernerle a coglierle nella
loro purezza evitandone la distor-
sione che l’egoismo e le illusioni del
mondo attuano di continuo nella no-
stra mente. L’Arcangelo, oltre a far
discendere le energie ha oltremodo il
compito di raccogliere in senso in-
verso le nostre esperienze portandole

78
verso l’alto creando un movimento di flusso e riflusso rit-
mico e continuo, ciò fa intuire quanto il sentire influenzi
non solo la nostra vita ma anche quella di chi sta vicino a
noi, nonchè di tutto il cosmo caricandolo di Bene o Male
attraverso i desideri e i pensieri che formuliamo. L’astro
lunare, strettamente correlato a Yesod e quindi all’Arcan-
gelo che sovrintende tale sfera, rappresenta l’inconscio
nonchè appunto il ricettacolo in cui albergano le nostre
energie esperienziali filtrate da tale essere ed espanse poi
nell’universo. Presiede la schiera
dei Kerubim, i Forti, o comune-
mente detti Angeli, tali esseri
hanno il compito di sorvegliare,
guidare e custodire gli uomini.

Alla nona Sephirot Malkuth fa capo l’Arcangelo San-


dhalphon, conosciuto come l’Angelo Oscuro colui che presiede
sul debito karmico da espiare nel piano materiale, il Regno
quindi in cui viene eseguito, presiede gli spiriti elementali ter-
restri: Salamandre, Ondine, Silfidi e Gnomi e la schiera angelica
degli Ashim, Anime di Fuoco chiamati anche Anime Benedette
o dei Giusti resi Perfetti, ossia i Santi, i profeti, gli iniziati, i
grandi Maestri aventi il compito di discendere sulla Terra per
guidare e istruire l’umanità nel cammino verso la Luce.

“Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino”


(Esodo 23,20) .n

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80
STORIA E METASTORIA
DEL MARTINISMO

Igneus

Mercuzio: maschera su maschera ora non temo


occhi curiosi che vengono a spiar le mie bruttezze.
Questa posticcia maschera arrossir dee per me…
(da “Romeo e Giulietta” Atto I°, scena IVa)

Il Martinismo attuale è una derivazione, diretta o indiretta che sia, del secolo dei
Lumi, e degli Illuminati e degli Illuministi che formarono lo spirito dei suoi tempi. La sua
pertinace permanenza nel nuovo millennio, ancora immerso nell’oscurità che ha seguito
le perdute illusioni di un progresso spirituale, in armonia con il progresso scientifico, è tal-
mente anomala che può veramente sembrare una volontà dei piani superiori. L’esplosione
dello pseudo-spiritualismo del New Age, ormai obsoleto, è stato n realtà un neo-materia-
lismo, quanto più pericoloso quanto più ha assunto la forma
dei gusci vuoti di residui psichici di religioni obsolete, di Mi-
steri ormai scomparsi.
La mistica India che i teosofi sognarono ha la stessa al-
tissima percentuale di cialtroni e ciarlatani che vi è in Occi-
dente, tanto che solo uno stupido esotismo può produrne
l’importazione.
Le infinitesimali possibilità d’illuminazione possono at-
tuarsi nella remota Katmandu o nella remotissima Roccacan-
nuccia di Sotto, ed è più facile trovare insegnamento e
conoscenza nelle biblioteche dell’Occidente che presso i luridissimi sadu di strada di Be-
nares. Quando per le strade vediamo quella sorta di dervisci mediatici che sono gli Hare
Krisna, molti possano credere che possa esistere in questi una parvenza di spiritualità, un
valore esoterico, e alcuni possano illudersi di lasciarsi alle spalle le superstizioni del catto-
licesimo, abbracciando una religione altrettanto arcaica, altrettanto bigotta e superstiziosa.
Robert Ambelain ha tracciato una storia impietosa del Martinismo; Arturo Reghini,
forse personalizzando troppo la sua disturna con il Gran Maestro Sacchi, (Synesius S::I::I::),
(che aveva ribattezzato Asinesius) ne ha messo in evidenza le contraddizioni ed il tempo-
ralismo. René Guènon, nonostante che la sua prima scuola di esoterismo fosse stata quella
di Papus, nel 1909 ruppe ogni rapporto con i gruppi esoterici a cui era appartenuto, com-
preso l’Ordine Martinista, e non è certamente tenero con questi gruppi che definisce come
occultistici e quindi contro-iniziatici.
Ma nel desolato panorama attuale che ha visto la frantumazione e la polverizzazione
progressiva di ogni valenza effettivamente esoterica, la clonazione truffaldina di Ordini e
gruppi che hanno per unico scopo quello di ramazzare denari e piccoli poteri meschini,
l’Ordine Martinista permane, e permarrà fin quando sarà osservata la sua povertà ed il suo
disinteresse. Aldebaran S::I::I:: (Gastone Ventura) imponeva che, a deroga della rigidissima
impostazione dell’Ordine, le Logge potessero accettare dai propri membri solo “un pizzico
d’incenso ed una candela”.
Ma già alcune clonazioni internetiche dell’Ordine mettono le mani adunche avanti,

81
dichiarando che per ricevere l’iniziazione Martinista vi sono delle capitazioni annuali…
contraddicendo e invertendo uno dei primi principi dell’Ordine, quello della gratuità e
della povertà. I nostri Fratelli francesi hanno da anni accettato il principio di non entrare
in polemica con le innumeri filiazioni dell’Ordine, ma di riconoscere come Fratelli tutti co-
loro che hanno ricevuto l’iniziazione Martinista.
Le infinite serie di divisioni, fratture, scissioni che il tempo e gli uomini hanno pro-
dotto, in un ambito che non ha dogmi, ma solo principi, e che predica la libertà spirituale e
intellettuale dei propri membri, sono comunque inevitabili ed accettabili. Il Martinismo non
potrà mai essere un Ordine unitario, non essendo una Chiesa e non avendo grandi pontefici.
Non avendo ortodossia, non ha quindi eresie nè ha motivo di disprezzare o perseguire al-
cuno. Ma nel nostro mondo attuale, in cui chi non comunica non esiste, vi è la deprecabile
possibilità che prevalgano gli aspetti oscuri che ogni luce inevitabilmente produce.
Sopportiamo quindi gli Arlecchini e i Pulcinella che usano la maschera solo per na-
scondere le loro brutture, sopportiamo i plagi e le truffe commesse in nome di ciò che pro-
fondamente amiamo, sopportiamo che i nomi venerati dei nostri Maestri sia pronunciato
da bocche impure ed interessate.
Gli dei a volte ridono delle nostre illusioni, delle nostre ambizioni anche se nobili e di-
sinteressate, delle nostre spesso inutili fatiche, delle nostre costruzioni effimere nel contin-
gente. Ma neanche gli dei possono sorridere di una verità interiore che è più reale quanto più
inespressa, di un desiderio che è più lancinante quanto più silente, di una volontà che è più
potente quanto più rivolta agli abissi muti ed insondabili della nostra povera essenza umana.
Vi è un solo modo di resistere alla pressione immane dell’età oscura, conservando,
tramandando e testimoniando: perseguire la conoscenza, che è l’unico argine al prevalere
della volgarità, dell’improvvisazione, del plagio, della prevaricazione. L’ingannato non è
colpevole quanto l’ingannatore, ma n’è perlomeno complice.
Vi è un modo infallibile per riconoscere immediatamente le clonazioni occultistiche.
Se queste ignobili quliphot chiedono denari, o prestazioni contrarie alla libertà e di-
gnità dell’individuo, coloro che si dichiarano iniziati dovranno ricordarsi che fra i mezzi
operativi non vi sono soltanto i ceri ed i profumi, ma anche la spada.
Questo non è un’invito marziale, ma piuttosto mercuriale. L’innocente, pur se qual-
cuno osi proclamarsi tale, è pacifico, anche se non pacifista a tutti i costi. I mezzi operativi
che la tradizione ci ha trasmesso sono quelli rituali, anche se nell’era attuale
questi strumenti sono difficilissimi da usare. Il rito ha un’effettiva funzione se
può collegare il microsmo al macrocosmo. Il passato aveva tempi e ritmi di-
versi, e la vita era inevitabilmente in armonia con i cicli dell’universo. Oggi
solo gli astrologi e chi segue un rito quotidiano osservano le fasi lunari, l’in-
gresso del Sole negli animali celesti, la segnatura delle ore. Il Tempo, insomma,
di chi aveva la ricchezza del tempo. Nella sua estrema rarefazione rituale, il
Martinismo rappresenta forse un adattamento essenziale degli atroci ritmi ai
quali è costretta l’umanità alla volontà di chi vuol comunque percorrere una
via spirituale. Gli antichi Veda affermavano che: “coloro che vivranno nel Kalj-
Yuga saranno beati, perché a loro sarà richiesto molto meno”. Forse alle nostre ge-
nerazioni sono sufficenti quei pochi minuti al giorno di meditazione,
invocazione, preghiera, la purificazione novilunare ed altri pochi e semplici riti per tentare
con speranza, ma senza illusioni, la via dell’illuminazione.
Ma questo non significa ignorare la grande teoria micro-macrocosmica, la legge
dell’analogia, le grandi regole rituali universali che sono valide “semper et ubique”. Da dove
deriva ciò che di rituale è rimasto nel Martinismo, quali sono le sue essenziali leggi, gli as-
siomi che un’auspicata primavera farà risgorgare dalle profondità della terra madre, dal-

82
l’altezza infinita dei cieli eterni?
Il problema è ancora una volta la conoscenza. Quando rievochiamo i grandi perso-
naggi Martinisti del passato, possiamo soltanto supporre in loro l’illuminazione e l’inizia-
zione effettiva, ma dobbiamo riconoscerne, senza dubbio, la loro profonda conoscenza.
Dopo la morte fisica di Gastone Ventura e Francesco Brunelli, con la loro grandezza intel-
lettuale e spirituale, i loro difetti umani e la grande querelle che ne derivò, potremmo scri-
vere qualcosa della storia del Martinismo italiano, o quantomeno una molto più modesta
cronaca?
Solo l’eco lontana di ormai obsolete fratture rimarca la differenza di Ordini sonno-
lenti, in cui la polvere del tempo e l’assenza di pensiero stratifica bigotterie ed ignoranze.
Spesso, di un pensiero complesso e profondo e virile come quello di Saint Martin rimane
solo un vago dormiveglia falsamente misticheggiante, un quietismo tanto dolce da essere stuc-
chevole, una sorta di caramella molle al lampone, per palati dalle gengive deboli. D’altro canto,
i tentativi di rendere l’Ordine più “operativo” in senso martinezista o, meglio, “modernizzarlo”
con neo-esoterismi alla Golden Dawn o con dei neo-ermetismi - che sono comunque degni
di rispetto, pur esulando dalla specificità dell’Ordine Martinista - sono falliti.
E questo fallimento non deriva tanto dalle enormi difficoltà che ciò comporta per
gli uomini che vivono la nostra era, quanto dall’incompetenza, dalla mancanza di talento
e conoscenza, dalla pigrizia e dalle ambizioni, appaganti di per sé, di coloro che avrebbero
dovuto “operare”, ma in realtà non hanno mai operato.
Che cosa direbbe Saint Martin di queste “interpretazioni” che non sono soltanto del
nostro tempo? Lasciamo a lui stesso la parola:
“Non mi sogno affatto di biasimare questi Martinisti; non è destino dei libri di diventare la
preda dei lettori? Ma sono stupito del fatto che mi avete giudicato così infatuato del mio debole merito
tanto da poter dare il mio nome alla mia antica scuola o a qualunque altra…”.
Il più celebre passo di Saint Martin sull’iniziazione è il seguente: “La sola iniziazione
che predico e che ricerco con tutto l’ardore della mia anima è quella attraverso cui noi possiamo entrare
nel cuore di Dio e far entrare il cuore di Dio in noi, per compiervi un matrimonio indissolubile, che
ci renda l’amico, il fratello e la sposa del nostro divino Riparatore. Non vi è altro mistero per giungere
a questa santa iniziazione che sprofondarci sempre più sin nelle profondità del nostro essere e di non
mollare la presa, fin quando non siamo pervenuti a sentirne la viva e vivificante radice, in quanto
allora tutti i frutti che dovremmo portare secondo la nostra specie si produrranno naturalmente in
noi e al di fuori di noi, come vediamo accadere ai nostri alberi terrestri, in quanto aderiscono alla loro
relativa radice e non cessano di estrarne i succhi”. (Lettere a Kirchberger, 19 giugno 1797).
Ma questo cammino individuale verso l’iniziazione è un fattore intimo, riservato,
che non ha necessità di esplicazione né di organizzazione, schematizzazione, ordinamento.
Nel suo Mon livre verte, n.° 859, Louis Claude de Saint Martin riconosce che: “le organizza-
zioni e società filosofiche e altro sono delle forme di cui ci si può anche disfare, ma che hanno avuto
ed hanno tuttora degli utili effetti spirituali”.
Ma se il desiderio e la volontà ci porteranno in un futuro indefinito e dindefinibile
all’illuminazione ed all’unificazione con i piani divini, queste non possano essere esercitate
senza la completezza della vita nel quaternario. La ricerca dell’iniziazione non contrasta,
ma coincide con la necessità e il gusto di vivere da uomini fra gli uomini, anche nelle eterne
e sempre nuove contraddizioni interiori ed esteriori che questo comporta.
Il Martinismo è forse più una metodica esoterica, un’influenza spirituale nella storia
e nel pensiero, che un ente organizzato. Trovare il filo d’Arianna secolare di quest’influenza
non è o difficile, anche se gli studi in questo campo sono per lo più inediti in Italia.
Possiamo intanto notare come gli scritti politici e sociali di L. C. de Saint Martin siano
una miniera inesplorata. Può sembrare inusitato che Ecce Homo e Le Nouvel Homme furono

83
considerati libri rivoluzionari, tanto che furono stampati primariamente presso la Stamperia
del Centro Sociale del Palais Royal, nel 1792 da Bonneville. Come afferma lo storico James
H.Billington: “Nel 1792, all’apice della sua influenza, il Circolo Sociale cominciò a pubblicare i testi
cripto-rivoluzionari del gran sacerdote del misticismo lionese, Louis Claude de Saint Martin”.
Può essere interessante notare che un acerrimo nemico dell’Illuminismo come Saint
Martin abbia affermato, a proposito della Rivoluzione Francese, che: “Un sole radioso si è
staccato dal firmamento per posarsi sopra Parigi, da cui diffonde una luce universale. L’Uomo Nuovo
può cogliere quella luce, contemplando i cerchi concentrici che convergono in un punto all’interno
della luce di una candela accesa: in questo modo, egli si “reintegra” con gli elementi primi: l’aria, la
terra e l’acqua. Nella misura in cui l’uomo si evolve in puro spirito, la democrazia rivoluzionaria
diventerà deocrazia.”
Bonneville, Marechàl e Tomas Payne avevano trovato in L. C.de Saint Martin le
stesse concezioni massonico-pitagoriche che ispiravano la loro utopia sociale. All’inizio
della rivoluzione le teorie illuminate erano fondate su un comunitarismo pitagorico che
non era basato sul predominio di una classe, ma sul governo illuminato d’illuminati.
Dell’influenza Martinista sulla rivoluzione francese si era espresso anche un autore
che ebbe un peso notevole sulla reazione europea della Santa Alleanza, con un enorme pam-
phlet, la Storia del Giacobinismo, il gesuita Abbé Barruel. Così il fa-
migerato Abbé definisce il pensiero di Saint Martin: “Io però
ricavo la sua dottrina [di De Saint Martin] dal suo grande oggetto dei
suoi scritti, da quello che ne ha fatto l’apocalisse de suoi seguaci, nella
sua famosa opera “Degli errori e della verità”. Io so quanto costa il
decifrare gli enigmi di quest’opera tenebrosa; ma conviene bene aver,
per la verità, la costanza che i suoi seguaci hanno per la menzogna. Ci
vuol pazienza per discoprire tutto il complesso del codice Martinista
fra il gergo misterioso dei numeri e degli enigmi. Risparmiamo, per
quanto possibile, questa fatica al lettore. L’eroe di questo codice, il fa-
moso Saint Martin, si mostri all’aperto; ed ipocrita al pari del suo mae-
stro egli non sarà più che un vile copista delle inezie dello schiavo
eresiarca, generalmente noto con il nome di Manete. Con tutti i suoi
raggiri egli non conduce meno i suoi seguaci negli stessi sentieri e loro
ispira il medesimo odio agli altari del cristianesimo e al trono de so-
vrani, ed ancora d’ogni governo politico.”
In questo brano si sintetizza tutto il livore antimassonico e antimartinista di quel-
l’epoca, e non solo di quella. La preoccupazione dei denigratori dello spirito libero non de-
riva che da un solo elemento: il mantenimento del controllo sociale da parte delle due
tirannie: quella politica e quella religiosa che sono, a volte, contrapposte ma purtroppo
molto spesso unite.
Il Martinismo, sia nei suoi concetti filosofici sia in quelli metafisici, è portatore di li-
bertà, anche indipendentemente dalla sua azione, che solo in alcuni periodi storici è stato
- solo concettualmente - politico. Il suo portare nei
propri geni questo principio etico essenziale, (che
porta a sua volta in sé la tolleranza per le altrui li-
bertà e la fraterna “passione” per l’uomo) ciò che
unisce i Martinisti, di là delle diatribe causate dai
personalismi e dall’intolleranza, ma anche di là
della storia e delle sue passioni, è la tensione a
quel piano metafisico dove si pone l’infinito ed
indefinibile Grande Architetto dell’Universo. n

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CALENDARIO OPERATIVO 2017
Le ore indicate tengono già conto dell’Ora Legale, perciò non occorre aggiungere 1 ora

12:35 ° °
01:08 l l
Giovedì 12 Luna piena
Gennaio Luna nuova
Sabato 28

01:33 °
Equinozi/Solstizi

16:00 l
Sabato 11
Febbraio
Domenica 26

Domenica 12 15:54 °
Marzo
04:59 l
Lunedì 20 10:28 Equinozio di Primavera
Martedì 28

08:09 °
14:18 l
Martedì 11
Aprile
Mercoledì 26

23:43 °
21:46 l
Mercoledì 10
Maggio
Giovedì 25

Venerdì 90 15:11 °
Giugno
04:32 l
Mercoledì 21 04:24 Solstizio d’Estate
Sabato 24

06:08 °
11:47 l
Domenica 90
Luglio
Domenica 23

20:12 °
20:31 l
Lunedì 70
Agosto
Lunedì 21

Mercoledì 60 09:04 °
Settembre
07:30 l
Venerdì 22 20:02 Equinozio d’Autunno
Mercoledì 20

20:41 °
21:12 l
Giovedì 50
Ottobre
Giovedì 19

06:24 °
12:42 l
Sabato 40
Novembre
Sabato 18

Domenica 30 16:48 °
Dibembre
07:31 l
Giovedì 21 16:28 Solstizio d’Inverno
Lunedì 18
Cappella di Sansevero, Napoli:
“IL DISINGANNO”
di Francesco Queirolo

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