La poesia inizia così: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E
questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo
esclude.”. Il poeta ha quindi davanti a sé un colle ed una siepe, ma è soltanto una raffigurazione puramente metaforica (per quanto riguarda il colle, si tratta probabilmente del monte Tabor). Leopardi prende spunto da una dimensione reale (il colle e la siepe che lui vede dinanzi a sé) per entrare con la mente in una dimensione immaginaria che assume – nella fantasia del poeta e di chi legge l’opera – i caratteri di una specie di sovrannaturale “realtà differente”. La configurazione materiale dell’ermo colle non ha, in pratica, alcuna rilevanza, non conta nulla che si tratti del monte Tabor o di qualche altra protuberanza collinare; quella montagna e quella siepe rappresentano la dimensione reale della vita, il limite del presente e del vissuto quotidiano oltre il quale ciascuno di noi, spesso, non osa andare, oppure, a volte, ne trasvola la dimensione per compiere quel volo immaginario e momentaneo che allieta – seppur nella mera immaginazione – la vita quotidiana. Ciò è confermato dal fatto che la siepe “da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. La dimensione reale del presente e del vissuto (quest’ermo colle e questa siepe) ostacola la visione dell’altra parte, cioè di quanto di misterioso o anche solo di normalmente immaginario ci può essere al di là della vita quotidiana e della realtà. l poeta prova ad immaginare cosa può esserci al di là della siepe, cioè al di là del limite del proprio vissuto quotidiano; “vede” spazi interminati, cioè senza limite, “ascolta” silenzi sovrumani, prova una quiete così profonda che viaggia beato con la propria anima in questo suo personale pensiero, dove manca poco perché il cuore non provi addirittura paura. In questo bellissimo “viaggio della mente e dell’anima”, Leopardi immagina ciò che potrebbe essere la sua vita oltre la propria realtà, quindi costruisce – oltre quella siepe – un percorso di estensione per la propria anima che vola, viaggia e sovrasta ciò che potrebbe esserci al di là di quello che vede e che vive ogni giorno. Termina a questo punto l’aspetto visivo ed inizia quello uditivo: “E come il vento / Odo stormir tra queste piante, io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando:”. Il poeta ascolta il vento che soffia tra le piante e paragona quella “voce del vento” a quel silenzio Infinito… “e mi sovvien l’eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei.”, quindi, mentre ascolta quel vento, gli viene in mente l’eterno, cioè quanto di interminato esiste al di là della siepe, cioè quella che sarebbe potuta essere stata la sua esistenza o che potrebbe ancora essere la sua vita oltre il tetro presente. Oltre all’eterno, cioè a quanto di fantastico può esserci al di là della siepe, gli vengono in mente “le morte stagioni”, cioè la vita sino a quel momento già trascorsa e che non potrà più tornare indietro perché già vissuta (passata), “e la presente La mente del Leopardi ha dunque iniziato un viaggio che lo porta oltre la dimensione della realtà che vive quotidianamente, e durante questo viaggio – al di là della siepe e del colle – vede “spazi interminati” che rappresentano, appunto, l’Infinto, vale a dire quella che sarebbe potuta essere stata la sua vita sino a quel momento o quella che potrebbe ancora essere la propria esistenza al di là del vissuto quotidiano. Durante questo viaggio nello spazio immaginario interminato ed Infinito, appaiono nella mente del poeta anche le morte stagioni, cioè quella che è stata sino a quel momento la sua vita, e la presente / E viva, e il suon di lei, quindi anche quella che è la propria presente e deludente realtà quotidiana. La poesia termina con la beatitudine che il poeta raggiunge con la mente attraverso questo viaggio nell’Infinito: “Così tra questa / Immensità s’annega il pensier mio: / E il naufragar m’è dolce in questo mare”. L’anima e la mente viaggiano nell’Immensità di quegli spazi infiniti misti ai ricordi delle stagioni passate (gli anni già trascorsi). Il poeta, quindi, è immerso in questo viaggio del tutto immaginario nella cui Immensità si trasferisce (s’annega) totalmente col proprio pensiero: tale totale “annegamento” della mente in un “mare” così vasto gli provoca uno stato – seppur breve – di grande beatitudine, quindi il poeta prova un vero e proprio piacere mentale – seppur effimero – nel naufragare in tale infinità senza spazio. Questo “volo” immaginario che ciascun uomo compie ad occhi aperti con la propria anima non corrisponde necessariamente a quello che avremmo voluto che fosse la nostra vita, ma si tratta fondamentalmente di pensieri in cui ciascuno desidera annegare in quanto rappresentano situazioni di vita migliore o, comunque, differenti rispetto alla dimensione reale e presente in cui si vive nel quotidiano. Non si tratta di desideri limitati a viaggi su spiagge dorate in isole sconosciute, anzi, tutt’altro: trattasi di pensieri che vanno semplicemente oltre la realtà quotidiana e che sono il prodotto della mente umana circa realtà differenti che rappresentano dimensioni immaginarie (quindi infinite) di come potrebbe essere stata la propria vita se si fossero intraprese strade diverse da quelle già scelte, o di come potrebbe essere in futuro la propria esistenza di fronte ad una decisione di cambiamento di quella realtà sino a quel momento vissuta (o subita).