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La grande acqua

Posted: May 4, 2013 | Author: Roberto Alba | Filed under: drammatico | Tags: altre


culture, viaggio |Leave a comment
Di Roberto Alba

Mi chiamo Adisa Ekundayo Ebo. Ho diciassette anni.

Nel mio paese ci sono molti modi per morire.

Molti di più che per vivere, che è una cosa per ricchi.

Io sono povero.

La mia famiglia è povera, anche il nonno era povero, però è morto felice perché non
aveva mai visto la televisione.

Si muore per tre ragioni: l’acqua che non si può bere, perché contiene delle cose che ti
fanno gonfiare la pancia e muori mentre fai la cacca, che non è una bella cosa; di AIDS,
che è una malattia che uccide quando fai sesso e anche quando non lo fai, e non sai
perché; con la febbre della malaria, colpa dell’acqua e delle zanzare, che se non ti
uccide la prima ci pensano le seconde.

E si vive per una ragione sola: non morire per la sfortuna di essere nati.

Io adesso ho capito che, non è che si è poveri quando non si mangia, perché a casa mia
ci siamo sempre arrangiati, ma quando non hai quello che desideri. Mia madre, infatti,
dice che è ricca: le bastano i piedi nudi sulla terra, il sole che non manca e i nostri
sorrisi. Forse vorrebbe anche l’acqua pulita, ma “è bello avere un sogno”, dice.

Il mio villaggio si chiama Attabui, a nord est di Accra, la capitale del Ghana. Quando c’è
l’acqua il fiume che scorre vicino al villaggio serve a qualcosa, quando invece inizia la
stagione secca il fiume non serve a niente e l’acqua la prendiamo da una pozza a
cinque km da casa mia. L’acqua puzza spesso, adesso sono arrivati degli uomini che
devono costruire un pozzo.Quando hanno iniziato i lavori ho incontrato mio cugino Amir.
Lui vive ad Accra, è fortunato.

Fa l’operaio ed è venuto per i lavori: gli servono i soldi. Andrà via quando termineranno
il pozzo e mi ha parlato di un mondo fantastico, ma molto lontano. Si chiama Occidente
e lui ha deciso di raggiungerlo. Per questo ha venduto la sua parte di mucche e di capre
del padre e anche la sorella, che era brutta, ma a qualcosa serviva, e si è cercato quel
lavoro. Il posto più bello di quel mondo si chiama America, però è troppo lontana, ma
c’è un paese più vicino chiamato Italia che non è poi così male.
Così mi ha detto.

Un suo amico vive lì e fa il gran signore, mi ha raccontato; ogni mese manda alla
famiglia duecentocinquanta euro, che sono anche meglio dei dollari. Mio padre quando
lavorava alla miniera lo pagavano novanta cedi al mese – circa quaranta euro mi ha
detto mio cugino – per quindici ore di lavoro al giorno. Ma quando tornava a casa si
addormentava prima di mangiare.

È morto così, non si è più svegliato.

Per raggiungere l’Italia mi servono duemila euro. Dovrei lavorare più della vita che mi
resta, e sarei anche morto prima. Così ho convinto mia madre a vendere quasi tutto il
nostro bestiame. Le mie sorelle no, anche perché sono belle e alcune già maritate.

Mia madre ha letto il mio futuro con le ali di pollo, ma non mi ha dato buone notizie.

Lei non voleva che io partissi, dice che il mio è un sogno disgraziato e bugiardo, dice
che mi dovrei sposare con Felicia.

Secondo mia madre dovrei occuparmi del bestiame e degli affari di famiglia come fanno
i miei fratelli più grandi. Io non voglio restare in questo paese, voglio vivere e
conoscere un modo diverso, dove la vita ti regala tutto ciò che desideri. Ho anche
imparato a leggere e scrivere alla missione. Mio cugino mi ha fatto vedere l’Italia alla
televisione: nel container degli operai ce n’era una. Gli italiani sono ricchi, hanno tutti
la macchina e comprano in negozi giganteschi dove si può trovare qualunque cosa,
anche quello che non serve al momento, ma può servire dopo, oppure mai. Io non
sapevo che potevano esistere dei posti simili, ma ho visto quelle immagini ed è tutto
vero! Quando l’ho raccontato a mia madre lei non ha sorriso, già sapeva, ma non per la
magia delle ali di pollo. Mi ha raccontato che molti che partono non tornano, si perdono
nella grande acqua. Io avrei dovuto ricordarmi di questa cosa, perché quando ho visto
la grande acqua, che non conoscevo, ho capito cosa intendeva mia madre. L’acqua sa
di salato, non è come l’acqua del fiume.

Ha il sapore delle lacrime.

E se sa di lacrime è un posto triste.

Dopo due settimane di viaggio, io e mio cugino siamo arrivati a Tripoli, a nord della
terra di Libia. I soldati ci hanno ammassato tutti vicino al porto, ci aspettavano, anche
se non erano molto gentili. “C’è la guerra con l’Italia” ci dissero, e questa cosa ci
preoccupò moltissimo. Quei giorni io non riuscivo a dormire. Eravamo migliaia. Ho
capito che tutti avevano lo stesso sogno, quello mio e di mio cugino. Però le cose che
raccontavano non erano belle.
Io non volevo più partire, ma mio cugino mi spiegò che non ci avrebbero mai fatto
tornare indietro. Non avevamo più i soldi, solo una bottiglia d’acqua e delle gallette,
oltre le poche cose che avevo sistemato nella borsa.

La barca galleggiava per volontà di Dio e siamo saliti in circa seicento:stavamo stretti
che non si riusciva a respirare per la puzza di piscio e non solo. Ci hanno detto che il
viaggio sarebbe stato breve e quando saremmo arrivati dovevamo solo correre e
scappare. Sto già scappando, pensai.

Siamo partiti che era ancora buio, io con mio cugino ci siamo sistemati davanti, la prua,
ci ha detto quello che comandava. Mi piaceva guardare la grande acqua. All’inizio, con i
riflessi del sole, sembrava brillare come se possedesse tutti i tesori del mondo; la
grande acqua non si può immaginare se uno non la vede. Però, quando intorno a te c’è
solo lei, fa paura, anche perché si muove e si confonde con il cielo: ti fa salire e
scendere come quando mi dondolavano sull’albero del Pampuro ad Attabui, solo che
non smetteva quando volevo io.

La prima notte faceva freddo, ci siamo coperti con dei teli di plastica, ma quell’acqua
non si asciuga mai, ti rimane appiccicata sulla pelle e ti senti sempre bagnato. La
barca non camminava più dal pomeriggio. Il timone si era rotto e nessuno era riuscito a
ripararlo. Io tremavo quando ho visto le luci e sentito quelle voci che non capivo. Tutti
hanno iniziato a urlare. Erano i soldati italiani sulle navi che venivano ad aiutarci, mi
disse mio cugino.Qualcuno, invece, diceva che ci avrebbero uccisi tutti. La barca iniziò
a oscillare, s’inclinava da un lato e dall’altro. Io con la mano toccavo l’acqua.Poi, non
ho visto più niente. Adesso tocco il fondo della grande acqua e mi spingo verso l’alto,
pensai. La grande acqua non ha fondo. Cercai di salire verso il cielo. Ma non sapevo
dov’era il cielo.

“Mamma, volevo dirti che ti voglio bene.”

“Mamma, volevo dirti che avevi ragione.”

“Mamma, volevo dirti che ci sono troppe lacrime nella grande acqua.”

“Mamma…”

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Racconto vincitore del premio letterario CartaBianca 2011
Pubblicato nell’antologia “La grande acqua” Taphros editrice

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