Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
INTRODUZIONE
Il film “The Wall” è costruito intorno alla vita di Pink, un musicista rock in crisi, che sta
seduto in una camera d'albergo.
Troppi spettacoli, troppi applausi, troppa droga, troppe donne. La tv sempre accesa, gli
occhi sempre semi-aperti a ricordare il passato, che come un cancro si impossessa
sempre più della sua anima.
Mischiando il tempo e i posti, la sua realtà con i suoi incubi, il padre morto in guerra
mentre lui era ancora un bambino, la madre possessiva e iper-protettiva, la scuola
rigida, inumana, pronta a creare modelli stampati di ragazzi da mandare al macello, le
rivolte studentesche, il divorzio e le puttane, pian piano il protagonista si crea un muro
insormontabile dietro il quale nasconde i suoi sentimenti e oltre il quale prevarica la
pazzia.
Lentamente abbandona il mondo reale e si rifugia del tutto nei suoi incubi, momento nel
quale Alan Parker si serve di fumetti ( superbamente disegnati da Gerald Scarfe) per
regalarci sequenze animate mischiate a sogni onirici, suggerendoci quella pazzia che sta
devastando la mente di Pink.
Pazzia che si completa e culmina con l'immaginazione di essere un insensibile capo
agitatore di folle alla quale ribaltare l'odio per il proprio mondo e per il mondo intorno a
lui.
E mentre il suo personale processo continua, le persone che hanno contribuito alla
costruzione del muro ritornano e testimoniano contro di lui. Sono sicuramente i minuti
più duri del film, immagini violente scandite dalle note più forti del disco, sbotti di
rabbia e di paranoia, figure animate macchiate di sangue, ritmi cadenzati militari,
immagini di guerra e di follia pura. L'abisso è toccato, il punto di non ritorno è segnato.
Ora il muro può solo esplodere..... Outside the wall, il brano che chiude l'intera opera,
è una poesia intensa di lucida constatazione della realtà, rappresentata dall'immagine di
un Pink che torna bambino, giocando in mezzo al fumo di macerie di un vecchio muro
appena distrutto, trova fra delle bottiglie di latte una molotov, l'annusa, capisce che è
qualcosa di sbagliato e ne rovescia il contenuto come a voler riprendere la propria vita
da dove è stata segnata, per poterla magari migliorare.
1) La libertà di pensiero e di espressione è uno dei mezzi per realizzare o garantire la
porre la questione del limite alla libertà di espressione quando essa rischi di
danneggiare la vita degli individui o di colpire razze, etnie, minoranze.
6) Questi problemi si ripropongono oggi in tutto il mondo con l’avvento di Internet. La
rete appare essere, infatti, da un lato il luogo dell’assoluta libertà di espressione e di
informazione, capace di superare tutti gli ostacoli posti da governi, chiese,
comunità, lobby, monopoli, etc. Dall’altro essa appare il luogo dell’assoluta anarchia
dell’informazione, dove tutto è possibile, dove rischiano di essere negati anche gli
altri principii costituzionali che difendono la privacy. Internet rischia, infine, di essere
un potente strumento di disinformazione, perfino di mistificazione della realtà,
difficilmente controllabile.
STALINISMO
Regime totalitario istaurato da Stalin dopo la morte di Lenin nel 1924 con l’ascesa al
potere nell’ Unione Sovietica. Resse da dittatore l’Unione Sovietica fino al 1953. Gli
elemento fondamentali furono: la ferrea dittatura del Partito comunista sul paese e
quella di Stalin; eliminazione fisica degli oppositori; controllo dello Stato sulla vita della
società. Lo Stalinismo per i suoi sostenitori fu l’unica via percorribile per sconfiggere le
forze rivoluzionarie interne e il boicottaggio internazionale, per trasformare l’Unione
Sovietica in una potenza industriale e quindi permettere il consolidamento del
Socialismo. Stalin infatti dette il via all' industrializzazione pesante forzata dell' Urss e
alla collettivizzazione forzata delle campagne.
A partire dal 1936 organizzò le grandi epurazioni attraverso cui eliminò completamente
ogni sospettato avversario, liquidò fisicamente ogni avversario, molte persone vennero
giustiziate e deportate in campi di detenzione e di lavoro. Dette sempre maggiori poteri
alla polizia politica, creando un sistema dittatoriale e imprigionando milioni di persone
nel Gulag. Stalin aveva il controllo in ogni settore. Dopo anni di sanguinose epurazioni il
dittatore emerse come padrone assoluto dello stato e arbitro delle sue leggi, riducendo
a mere funzioni celebrative l'apparato di governo e di partito. La repressione non
risparmiò alcun settore della vita del paese, precipitando la società sovietica in
un'atmosfera di delazione e paura. Milioni di persone e intere popolazioni furono
deportate, incalcolabile fu il numero delle vittime di questo olocausto sovietico. Il
Terrore si trasformò in metodo permanente di governo.
FASCISMO
NAZISMO
IL NAZISMO AL POTERE
Tra realismo e simbolismo lirico si colloca l’opera di Cesare Pavese, per il quale la realtà
delle natìe langhe e della Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni
interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi, della ricerca di
autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come
protagonista più la coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e
storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese padre del neorealismo post-
bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente
come materia di scrittura nell’opera di Pavese. L’aspetto forse più vistoso del suo
appartenere al decadentismo è offerto dalla crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca
della noluntas l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di conflitti. Sua
unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso
negativo, corrodendo ogni certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo.
C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e l’agire, per cui il primo
elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita
assieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare
l’esistenza, gravemente handicappato nei rapporti umani, sempre a disagio in ogni
situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa situazione
di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa “mestiere” da
apprendere con grande pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento
l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho imparato a scrivere, non a
vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un
attimo, persino felici «Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno», dice Pavese.
Per la letteratura del Novecento, il grado di autenticità poetica è determinato dalla
misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di angoscia.
Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è “essere per la morte”.
L'arresto e la condanna
Il 4 agosto 1935 giunse in Calabria a Brancaleone e scrisse ad Augusto Monti [9] "Qui i
paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro
tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio,
ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta
indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora
escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre
anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se
non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la
seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei
passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare,
giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo
un'inutile castità.
Nell'ottobre di quell'anno aveva iniziato a tenere quello che nella lettera al Lajolo
definisce lo "zibaldone", cioè un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere e
aveva fatto domanda di grazia, con la quale ottenne il condono di due anni.
La luna e i falò (1950), ritorna il mondo contadino delle Langhe, con il suo bagaglio di
violenza e morte, sul quale è passata la guerra. Il protagonista, Anguilla, è un trovatello
che fatta fortuna in America ritorna al suo paese dove, con l’aiuto del suo vecchio
amico Nuto, riscopre i luoghi e le impressioni dell’infanzia attraverso una ricognizione
paesistica e memoriale che gli permette di ricostruire il suo passato. Alla fine, in un
secondo “falò” bruciano gli ultimi residui dell’infanzia.
Poetica e stile
La tecnica
Se a quei tempi la parola tecnica era, nel clima letterario crociano, parola disprezzata,
essa viene spesso menzionata da Pavese per il quale, certamente grazie all'influenza
dovuta alla sua cultura americana, la tecnica è l'unico strumento in grado di decidere lo
stile di un autore
« La prova dell'essenziale composizione a freddo è lo stile, lucido, vitreo, anche se ogni
tanto si colora di passionali scatti. Sono calcoli, ragionati, anche questi. »
Pavese parla spesso di arte intesa come "mestiere" e la tecnica gli serve come
autodisciplina per sfuggire alle tentazioni del romanticismo con una scelta quindi che
non intende solamente rispondere a canoni estetici ma soprattutto etici e che l'aiutano
ad evitare di lasciarsi andare ad un semplice piacere narrativo.
Pavese evita nelle sue opere tutte le forme romanzesche che si basano su costruzioni
tradizionali come gli intrighi e i colpi di scena e costruisce storie che si basano su una
trama narrativa quasi inesistente, tanto è vero che, come scrive Marziano Guglielminetti
"... è stato osservato che il termine "romanzo", riferito alla narrativa pavesiana, viene
usato non senza qualche approssimazione e improprietà (lo stesso Pavese preferì del
resto ricorrere alla formula di "romanzo breve")".
Nell'esaminare le opere di Pavese si osserva inoltre che la sua narrativa si rifà alla legge
statica della ripetizione in quanto egli circoscrive il suo ambito tematico intorno a
motivi fondamentali che non si cura di ampliare ma che al contrario cerca di ripetere
con insistenza volutamente monotona, perché, come egli scrive
« Raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa, una cifra
irrisolta del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre
sfuggente. La monotonia è un pegno di sincerità. »
Lo scrittore vuole così dimostrare che, per rappresentare la realtà interiore finalmente
trovata, non è necessario cercare cose nuove ma che il più grande sforzo è da rivolgersi
a come, tecnicamente, questa realtà verrà rappresentata.
Il simbolo
Come l'autore stesso scrive nel "Mestiere di vivere" in data 10 dicembre 1939, si tratta di
riuscire a rappresentare la realtà attraverso i simboli perché « Il simbolo... è un legame
fantastico che tende una trama sotto il discorso. »
Pertanto ciò che interessa a Pavese veramente (e su questo argomento egli si sofferma
più volte nel suo Mestiere di vivere) è quello di riuscire a rappresentare non tanto la
realtà oggettiva delle cose ma quella che egli definisce la "realtà simbolica", quella cioè
che si nasconde al di sotto della esteriorità.
« Ci vuole la ricchezza d'esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo.
Il motivo del mito, che ritorna continuamente in Pavese, si ricollega all’infanzia, alla
campagna delle Langhe, collocate fuori dalla storia: il distacco dall’infanzia e dalla terra
natia è vissuto come dramma come conflitto insanabile. Tale vagheggiamento di un
mondo mitico e irrazionale riporta Pavese alla grande tradizione decadente.
Lo stile
La poesia
Ben diverse le poesie delle due ultime raccolte di Pavese, La terra e la morte ( i versi
che furono composti a Roma nel 1945 e pubblicati nel 1947 sulla rivista "Le Tre Venezie")
e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (pubblicati postumi insieme ai versi della
precedente raccolta dall'editore Giulio Einaudi nel 1951) dove il discorso diventa più
fluido e il discorso lirico si basa su immagini che non hanno più, come in Lavorare
stanca, un diretto rapporto con un fatto o un oggetto specifico ma sono da essi
scollegati. L'ultima poesia di Pavese si rifà pertanto alla tradizione lirica petrarchesca e
leopardiana anche se i motivi ripresi, come il legame amore-morte, si presentano
attraverso una nuova prospettiva che è quella del mito. Con le poesie di queste due
ultime raccolte avviene pertanto il passaggio da una poesia intesa come racconto ad una
poesia intesa come canto che adotta il verso breve e si esprime in forme e ritmi
melodici.
Il vizio assurdo, cioè il suicidio, l’ombra minacciosa della morte, che perseguitò in vita
sotto forma di depressione Pavese, ritorna con un tono lirico essenziale, assoluto, nella
raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dieci disperate liriche dedicate all’ultimo
amore per l’attrice americana Costance Dowling. Si erano conosciuti verso le fine del
’49, si erano amati per tutta la primavera seguente, poi la storia era finita. La fine di
questo amore è il preludio (la causa ? l’occasione?) per il gesto definitivo da tanto tempo
immaginato vagheggiato. Verrà la morte rappresenta con esattezza spoglia la concezione
di Pavese della vita, come avventura senza speranza. Quell’ultimo verso -«Scenderemo
nel gorgo muti»- sembra non lasciare illusioni.
Cesare Pavese si suicidò nel 1950. Alle radici di questo gesto estremo, oltre
all’impossibile relazione con un’attrice statunitense, c’erano un profondo pessimismo e
una disperata concezione dell’esistenza.
SENECA
Note sull’autore
Lucio Anneo Seneca, nacque a Cordoba, in una ricca famiglia provinciale di rango
equestre. Ancora giovane si trasferì a Roma, dove si dedicò allo studio di filosofia e
retorica. Seneca aspirava a condurre una vita contemplativa, dedita allo studio e alla
riflessione, tuttavia abbandonò tale proposito per assecondare i desideri del padre,
Lucio Anneo Seneca detto il Retore, che lo spingeva ad intraprendere la carriera
politica. Vennero subito riconosciute ed apprezzate le sue doti oratorie, che avrebbero
potuto assicurargli una brillante carriera politica, se non avesse avuto dei rapporti così
difficili con gli imperatori romani. Caligola gli fu talmente ostile de progettare di farlo
uccidere. Claudio, nel 41, istigato dalla moglie Messalina, lo accusò di adulterio con
Giulia Lavilla, e lo condannò all’esilio in Corsica, dove rimase fino al 49, quando, per
intercessione della nuova moglie di Claudio, Agrippina, venne richiamato a Roma.
Avendo ormai più di cinquant’anni, Seneca non intendeva riprendere l’attività politica,
tuttavia dovette accettare l’incarico di precettore di Nerone, figlio che Agrippina aveva
ottenuto dal suo primo matrimonio e che Claudio aveva adottato.
Nel 54, alla morte di Claudio, Nerone divenne imperatore, e Seneca si trovò ad essere
consigliere imperiale di un sovrano molto giovane ( non ancora diciottenne): di
conseguenza si trovò ad avere nelle sue mani un potere imperiale.
In quegli anni Seneca aveva concepito la speranza, espressa nel De Clementia, di fare
del giovane Nerone un sovrano esemplare: speranza che ben presto si rivelò un’illusione.
Nel 59 Nerone, in rotta con la madre Agrippina, la fece uccidere. Seneca continuò a
seguire l’imperatore anche dopo il matricidio, ma la sua influenza su Nerone divenne
sempre più debole, e quindi chiese di abbandonare l’incarico di consigliere, per
dedicarsi completamente allo studio e alla riflessione.
Dal 62 al 65, anno in cui morì, Seneca realizzò quella vita contemplativa cui aspirava fin
da giovane. Tuttavia non riuscì ad evitare l’ostilità dell’imperatore, che lo accusò di
aver partecipato alla congiura ordita contro la sua persona. Seneca fu costretto a
togliersi la vita, affrontando la morte con coraggio, come avevano fatto Socrate e molti
altri grandi filosofi.
In realtà, il destinatario delle lettere non è solamente Lucilio, infatti Seneca si riferisce
per lo più ai posteri. Questo non significa, però, che l’epistolario sia una raccolta di
lettere fittizie, ovvero che Seneca scrisse senza mai spedire. Egli nelle epistole a Lucilio
porta avanti un discorso che sembrava aver già iniziato in precedenza, facendo
riferimento a fatti di vita quotidiana ripresi in funzione morale. Il tono è quello tipico
del genere epistolare, ovvero colloquiale, familiare: Seneca scrive come se stesse
realmente conversando con l’amico. Ciò che lega le diverse lettere tra di loro è l’intento
di trattare gli argomenti con un’insistente spinta verso la filosofia morale, esortando
Lucilio a compiere la sua stessa scelta di vita. Infatti ciò che più conta per Seneca è la
scelta dell’otium, e nel corso del dialogo epistolare egli riesce a convincere l’amico ad
abbandonare la carica di procuratore in Sicilia per dedicarsi esclusivamente allo studio.
A questo si aggiunge la ricerca del vero bene che consiste nella virtù, che può essere
coltivata solo attraverso una vita tranquilla e lontana dal volgo, circondati da una
ristretta cerchia di amici, con i quali si può discutere di filosofia. Altri temi dominanti
sono quelli del tempo e della morte. Seneca si libera della paura della morte, perché
che ha raggiunto la virtù, è pronto a morire in qualunque momento, qualunque sia la
sorte dell’uomo dopo la morte, inoltre la morte rappresenta qualcosa di positivo, perché
libera l’uomo dalle sofferenze della vita. Secondo Seneca alla visione quantitativa della
vita è necessario sostituire una visione qualitativa.
Temi principali:
Morte: Lucio Seneca ha una visione complessa della morte, costituita di due aspetti
diversi, uno tradizionale e uno originale. Come molti suoi predecessori, Seneca
considerava la morte qualcosa di positivo, in quanto liberazione dei mali di una
tormentata esistenza.
L’originalità sta nell’idea che l’uomo, seppure non se ne renda conto, muore giorno per
giorno: infatti anche se si è soliti considerare la morte come qualcosa di lontano, gran
parte di questa è già stata vissuta perché tutto il tempo che è già trascorso appartiene
alla morte.
Il tono dell’epistola 1, è decisamente colloquiale: lo dimostra la scelta dei vocaboli. Le
prime parole, ita fac (fa così), sono espressione del linguaggio quotidiano e insinuano nel
lettore l’idea che questa prima lettera sia il seguito di un discorso iniziato in
precedenza. Inoltre nell’espressione mi Lucili, l’aggettivo possessivo mio sottolinea la
profonda amicizia e l’affetto che esiste tra i due, evidenziando un tono personale, tipico
del genere epistolare.
Risulta evidente l’ampio utilizzo di imperativi, questo mostra che il colloquio con Lucilio
è basato sull’esortazione, il consiglio. Per quanto riguarda la sintassi, prevale la
paratassi: le frasi sono brevi e si susseguono senza congiunzioni. Sono presenti nel testo
delle metafore tratte dal linguaggio giuridico-finanziario (Omnes horas conplectere -
Afferra e tieni stretta ogni ora; Mihi constat impensae – tengo i conti delle spese). La
lettera si conclude con una massima proverbiale: Serva parsimonia in fundo est (è
troppo tardi per risparmiare quando si è arrivati alla feccia).
Anche in questa lettera il tono è familiare, ma dalle parole di Seneca emerge una certa
severità che non era presente nella prima epistola, evidente nel ritmo incalzante con cui
Seneca spiega a Lucilio il suo parere riguardo alla morte, in certi punti sembra quasi
rimproverare l’amico perché non condivide la sua visione della morte. Risulta evidente
l’ampio utilizzo di imperativi che mostrano che il colloquio con Lucilio è basato
sull’esortazione, il consiglio. Per quanto riguarda la sintassi, prevale la paratassi: le frasi
sono brevi e si susseguono senza congiunzioni. Sono presenti molte domande retoriche
che Seneca rivolge all’amico anche se in realtà è lui stesso a rispondere.
Suicidio: Seneca è favorevole al suicidio, infatti sarà lui stesso a togliersi la vita, quando
verrà incolpato da Nerone di aver partecipato alla congiura contro di lui. Tuttavia da
questa lettera emerge un aspetto originale: Seneca infatti spiega a Lucilio che non è
lecito togliersi la vita finché qualcuno a noi caro, e che si preoccupa della nostra salute,
è ancora vivo. Questo è proprio il suo caso: egli è infatti sposato con Paolina, e, seppure
sia molto vecchio e di salute cagionevole, deve curare particolarmente la sua condizione
fisica perché facendo altrimenti arrecherebbe un dolore gravissimo alla giovane moglie.
De brevitas vitae
Probabilmente quest’opera risale al 49, anno in cui Seneca venne richiamato a Roma per
volere della seconda moglie di Claudio, ed è dedicata all’amico Paolino. Seneca,
nell’opera sostiene che gli uomini fanno male a lamentarsi della brevità della vita,
perché se se ne fa un buon uso, la vita è molto lunga.
Il tema di questo brano è il tempo. Seneca spiega che il tempo si divide in passato,
presente e futuro. Di questi tre momenti, il presente è assai breve ed inafferrabile, il
futuro è incerto, e il passato è sicuro, perché acquisizione definitiva e immutabile.
Tuttavia solo gli uomini saggi si volgono al passato volentieri, perché sanno di aver
vissuto bene, sottoponendo tutte le loro azioni alla censura della coscienza e della
sapienza. Al contrario, gli uomini “affaccendati”, che trascorrono la propria vita
dedicandosi ad attività inutili, come la politica ed il commercio, senza dedicarsi alla
ricerca della sapienza, si rivolgono malvolentieri al passato, perché non osano
riesaminare le proprie azioni, per non doverne valutare le manchevolezze.
La “galleria” degli occupati (De Brevitas vitae, 12, 1-7, 13, 1-3)
Il tema di questo brano è la “galleria degli occupati”. Seneca illustra i vari tipi di
occupati, persone che trascorrono la vita dedicandosi ad attività inutili: ad esempio,
coloro che trascorrono le loro giornate dal barbiere, ritenendo il loro aspetto la cosa più
importante, i collezionisti, i musicisti, coloro che, talmente abituati al lusso e alle
ricchezze, hanno perso di vista la realtà, tanto da “non sapere più se hanno fame”…ecc.
Lo stile di questo brano è molto critico. Sono molto frequenti le domande retoriche, che
hanno lo scopo di avvalorare il punto di vista del filosofo, svalutando , invece, le
abitudini degli “occupati”.
De tranquillitate animi
Temi:
Conseguenze del fallimento dei propri propositi: Secondo il filosofo, quando ci si rende
conto di aver fallito, ci si chiude in se stessi, si ha paura di ricominciare, quindi ci si
rifugia nello studio, lontano dalle attività pubbliche, tuttavia chi è abituato a condurre
una vita attiva, sopporta malvolentieri la solitudine che deriva. Da qui nasce la
stanchezza di sé e la noia, che portano all’intolleranza verso i successi altrui.
Inutilità dei viaggi: Molti uomini, insoddisfatti della loro esistenza, cercano, attraverso
viaggi senza mete precise, di sfuggire alla noia e alla depressione, ma ben presto si
accorgono che, malgrado i numerosi spostamenti, si trovano al punto di partenza. Non è
sufficiente cambiare città per risanare il proprio spirito, è necessario cambiare se stessi,
avvicinandosi alla filosofia, che garantisce conoscenza e felicità.
In questo brano Seneca si rivolge all’amico, come un maestro fa con i propri alunni. Il
filosofo tratta, in modo dettagliato lo stato d’animo di Anneo, spiegando cause,
conseguenze e rimedi. Seneca si esprime in modo sentenzioso, come chi sa di avere
ragione.
È presente una citazione del De Rerum Natura di Lucrezio: “in questo modo ognuno
sempre fugge se stesso” ( III, 1068 ), quando Seneca spiega l’inutilità dei viaggi.
Phaedra
Ci è pervenuto un corpus di dieci tragedia attribuite a Seneca: una è una pretesta, nove
sono di argomento mitologico. Phaedra appartiene a quest’ultimo gruppo. La vicenda è
quella dell’Ippolito di Euripide, ma poiché ci sono differenze considerevoli, critici
suppongono che la tragedia di Seneca derivi da un’altra tragedia dello stesso Euripide,
che non ci è pervenuta.
Fedra, moglie di Teseo re di Atene, si innamora follemente del figliastro Ippolito e gli
dichiara il suo amore. Ippolito la respinge. Fedra si vendica accusando il figliastro di
aver cercato di usarle violenza, allora Teseo, disgustato dal comportamento del figlio, lo
maledice. In seguito a questa maledizione, Ippolito viene ucciso da un mostro marino.
Fedra, disperata, confessa la sua colpa.
Ippolito abbandona precipitosamente la scena, ricomparirà, ormai morto, solo alla fine
della tragedia.
Teseo: Teseo, re di Atene, marito di Fedra e padre di Ippolito. In questa scena non è
realmente presente, viene soltanto nominato.
Temi:
Morte:Fedra considera la morte come qualcosa di positivo. La regina è disperata, perché
schiava di una passione incestuosa che la spinge verso il figliastro, e cui non può
sottrarsi in alcun modo. Fedra si rende conto che il sentimento che nutre per il giovane
Ippolito è sbagliato, quindi è tormentata, da una lato, dal senso di colpa, dall’altro,
perché una folle passione la spinge verso il ragazzo. In una situazione come questa, la
donna vede nella morte l’unica soluzione al suo tormento. Ippolito invece trova che la
morte di Fedra rappresenti punizione e purificazione: infatti uccidendo Fedra non vuole
solo punire la donna, ma evitare di essere contaminato dalla sua colpa. Proprio per
questo, quando sente le parole della regina che lo supplicano di ucciderla e di lasciarla
morire tra le sue braccia, Ippolito si tira indietro, e lascia il palazzo disgustato. Uccidere
Fedra avrebbe significato esaudire un suo desiderio, ma non averlo fatto significa per
Ippolito essere stato contaminato dalla colpa della matrigna, dalla quale non sa come
purificarsi.
Mente chi sostiene che la mole dei suoi affari gli impedisce di dedicarsi agli studi: finge
impegni, li aumenta e si tormenta da sé. Io sono libero, Lucilio, sono libero e
dovunque mi trovi sono padrone di me stesso. Non mi abbandono alle cose, mi presto
ad esse e non cerco scuse per perdere tempo; dovunque mi fermi, mi immergo nei miei
pensieri e medito su qualcosa di utile. 2 Quando mi dedico agli amici, non mi distolgo da
me stesso; e non mi intrattengo con quelli ai quali mi hanno legato le circostanze o gli
obblighi derivanti da pubblici uffici, ma sto con i migliori; rivolgo a loro il mio pensiero
dovunque e in qualunque periodo siano vissuti. 3 Porto sempre con me Demetrio, uomo
stimabilissimo e, lasciati da parte i porporati, parlo con lui benché vestito poveramente
e lo ammiro. Perché non dovrei? Mi sono accorto che non gli manca nulla. C'è qualcuno
capace di disprezzare tutto, ma nessuno può avere tutto: la via più breve per arrivare
alla ricchezza è una: il disprezzo. Il nostro Demetrio vive così: non disprezza tutto, ma
ne ha lasciato il possesso agli altri. Stammi bene.
Nessuno vuole guardare in faccia l’Esistenza, che è un pieno che l’uomo non può
abbandonare.
Il giovanissimo Pablo, per non morire come un bestia vorrebbe capire l’esperienza della
morte. Impossibile. Potrà riuscire, in quelle due ore, soltanto a rivedere la sua vita
incompiuta e ora come chiusa in un sacco, senza valore perché finita, senza nulla di
bello da vantare. La morte che disincanta ogni cosa gli fa scoprire di aver passato il
tempo ad emettere cambiali per l’eternità, dunque di non aver capito niente della vita.
Ne la camera, Eva cerca di scivolare nella follia del marito fingendo di condividerne
visioni e comportamenti. Se ne sta sulla soglia tra il mondo delle persone normali,
sempre più lontano, e la camera al di là del muro dove non c’è giorno né notte, né
stagione, né malinconia, dove il tempo si è arrestato prosciugando la vita reale.
J.-P. Sartre cerca di spiegare tale corrente di pensiero, che andrà ad influenzare non
solo la filosofia, ma anche l'arte, la letteratura, il teatro, la politica, in un semplice e
breve testo nato nel 1946 con l'intento di chiarire molte delle incomprensioni e delle
ambiguità che ruotavano attorno a tale orientamento culturale.