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IL MURO

INTRODUZIONE

Il film “The Wall” è costruito intorno alla vita di Pink, un musicista rock in crisi, che sta
seduto in una camera d'albergo.

Troppi spettacoli, troppi applausi, troppa droga, troppe donne. La tv sempre accesa, gli
occhi sempre semi-aperti a ricordare il passato, che come un cancro si impossessa
sempre più della sua anima.
Mischiando il tempo e i posti, la sua realtà con i suoi incubi, il padre morto in guerra
mentre lui era ancora un bambino, la madre possessiva e iper-protettiva, la scuola
rigida, inumana, pronta a creare modelli stampati di ragazzi da mandare al macello, le
rivolte studentesche, il divorzio e le puttane, pian piano il protagonista si crea un muro
insormontabile dietro il quale nasconde i suoi sentimenti e oltre il quale prevarica la
pazzia.

Lentamente abbandona il mondo reale e si rifugia del tutto nei suoi incubi, momento nel
quale Alan Parker si serve di fumetti ( superbamente disegnati da Gerald Scarfe) per
regalarci sequenze animate mischiate a sogni onirici, suggerendoci quella pazzia che sta
devastando la mente di Pink.
Pazzia che si completa e culmina con l'immaginazione di essere un insensibile capo
agitatore di folle alla quale ribaltare l'odio per il proprio mondo e per il mondo intorno a
lui.

E mentre il suo personale processo continua, le persone che hanno contribuito alla
costruzione del muro ritornano e testimoniano contro di lui. Sono sicuramente i minuti
più duri del film, immagini violente scandite dalle note più forti del disco, sbotti di
rabbia e di paranoia, figure animate macchiate di sangue, ritmi cadenzati militari,
immagini di guerra e di follia pura. L'abisso è toccato, il punto di non ritorno è segnato.

Ora il muro può solo esplodere..... Outside the wall, il brano che chiude l'intera opera,
è una poesia intensa di lucida constatazione della realtà, rappresentata dall'immagine di
un Pink che torna bambino, giocando in mezzo al fumo di macerie di un vecchio muro
appena distrutto, trova fra delle bottiglie di latte una molotov, l'annusa, capisce che è
qualcosa di sbagliato e ne rovescia il contenuto come a voler riprendere la propria vita
da dove è stata segnata, per poterla magari migliorare.
1) La libertà di pensiero e di espressione è uno dei mezzi per realizzare o garantire la

libertà in assoluto. E’ un principio, dunque, ineludibile e indisponibile. Nella nostra


cultura, quella occidentale, la libertà di pensiero nasce già nell’antica Grecia (la
simbolica condanna di Socrate, per tanti aspetti il simbolo stesso della libertà di
pensiero, la parresia di Euripide), ha i suoi martiri (Bruno, Galileo, Giannone, etc), i
suoi grandi teorici (Milton, Mill, Voltaire, etc)
2) E’ difficile immaginare la libertà di pensiero fuori da un contesto democratico. E’
impossibile pensare una democrazia senza libertà di pensiero. Infatti se è
ipotizzabile che vi siano sistemi di governo nei quali, pur senza una cornice
giuridico-istituzionale pienamente democratica, vi è una certa libertà di espressione,
una democrazia intesa in senso moderno, che sia priva di questa libertà,
semplicemente muore. Per essere tale, la democrazia, deve poter essere
innanzitutto pluralista e il pluralismo non può che non organizzarsi attraverso la
diversità e il confronto delle opinioni, dei pensieri, il rispetto delle minoranze, quali
che siano le idee e le sensibilità che le animano. Già Tocqueville, ne La democrazia
in America, aveva compreso i rischi e i limiti di quella che definiamo democrazia
plebiscitaria o, addirittura, totalitaria. Fra i limiti fondamentali individua quello del
conformismo il quale è una forma, per così dire, mite, o indotta, di negazione della
libertà di espressione: la tirannia della maggioranza.

3) Nel secolo passato, il Novecento, abbiamo conosciuto forme di totalitarismo, ossia


di organizzazione “scientifica” del consenso, nelle quali, accanto alle più atroci
repressioni fisiche, si sono sperimentate forme di indottrinamento di massa ai fini di
eliminare la stessa possibilità di dissenso attraverso la totale pianificazione (e
mistificazione) dell’informazione e della conoscenza. In modo diverso, ma
profondo, Hanna Arendt con il lungo saggio Le origini del totalitarismo e, sul piano
letterario, Gorge Orwell, con 1984, hanno mostrato come i due grandi totalitarismi
del Novecento, il nazismo e il comunismo, si siano distinti dalle dittature classiche
per l’avere cercato, ed essere in parte riusciti nel loro proposito, non solo di
reprimere il dissenso ma soprattutto di convincere e persuadere le popolazioni
dominate a credere nei principii del totalitarismo stesso.
4) Nel nostro paese, il fascismo, pur distinguendosi, solo in parte, dai totalitarismi
descritti, procede (precedendo il nazismo) ad un’analoga eliminazione della libertà
di espressione e di stampa attraverso le cosiddette leggi fascistissime che
svuotano, di fatto, l’ancora vigente Statuto Albertino. Ma, nella nostra prospettiva, è
importante mettere in rilievo come le leggi liberticide trovino un presunto
fondamento culturale nell’antiindividualismo del cosiddetto Stato etico rozzamente
teorizzato nel Manifesto degli intellettuali del fascismo al quale risposero Benedetto
Croce e Giovanni Amendola con il notissimo contromanifesto.
5) Con la nostra Costituzione (l’art. 21) si riconquista la piena libertà di espressione
come nella solenne Dichiarazione dei Diritti universali dell’uomo del 1948. Questo
fondamentale principio costituzionale non ha, sul piano sociale e politico, vita facile.
Sia per le condizioni culturali di un paese non educato al “gusto della libertà”, sia
per le condizioni socio-economiche, sia perché, in un’ulteriore fase, ci si è dovuti

porre la questione del limite alla libertà di espressione quando essa rischi di
danneggiare la vita degli individui o di colpire razze, etnie, minoranze.
6) Questi problemi si ripropongono oggi in tutto il mondo con l’avvento di Internet. La
rete appare essere, infatti, da un lato il luogo dell’assoluta libertà di espressione e di
informazione, capace di superare tutti gli ostacoli posti da governi, chiese,
comunità, lobby, monopoli, etc. Dall’altro essa appare il luogo dell’assoluta anarchia
dell’informazione, dove tutto è possibile, dove rischiano di essere negati anche gli
altri principii costituzionali che difendono la privacy. Internet rischia, infine, di essere
un potente strumento di disinformazione, perfino di mistificazione della realtà,
difficilmente controllabile.
STALINISMO

Regime totalitario istaurato da Stalin dopo la morte di Lenin nel 1924 con l’ascesa al
potere nell’ Unione Sovietica. Resse da dittatore l’Unione Sovietica fino al 1953. Gli
elemento fondamentali furono: la ferrea dittatura del Partito comunista sul paese e
quella di Stalin; eliminazione fisica degli oppositori; controllo dello Stato sulla vita della
società. Lo Stalinismo per i suoi sostenitori fu l’unica via percorribile per sconfiggere le
forze rivoluzionarie interne e il boicottaggio internazionale, per trasformare l’Unione
Sovietica in una potenza industriale e quindi permettere il consolidamento del
Socialismo. Stalin infatti dette il via all' industrializzazione pesante forzata dell' Urss e
alla collettivizzazione forzata delle campagne.

A partire dal 1936 organizzò le grandi epurazioni attraverso cui eliminò completamente
ogni sospettato avversario, liquidò fisicamente ogni avversario, molte persone vennero
giustiziate e deportate in campi di detenzione e di lavoro. Dette sempre maggiori poteri
alla polizia politica, creando un sistema dittatoriale e imprigionando milioni di persone
nel Gulag. Stalin aveva il controllo in ogni settore. Dopo anni di sanguinose epurazioni il
dittatore emerse come padrone assoluto dello stato e arbitro delle sue leggi, riducendo
a mere funzioni celebrative l'apparato di governo e di partito. La repressione non
risparmiò alcun settore della vita del paese, precipitando la società sovietica in
un'atmosfera di delazione e paura. Milioni di persone e intere popolazioni furono
deportate, incalcolabile fu il numero delle vittime di questo olocausto sovietico. Il
Terrore si trasformò in metodo permanente di governo.

FASCISMO

Il fascismo è un movimento politico autoritario sviluppatosi in Italia come reazione ai


profondi mutamenti politici a sociali dovuti alla prima guerra mondiale e al diffondersi
delle dottrine socialiste e comuniste. Questo regime di carattere totalitario fu
instaurato da Mussolini nel 1922.

Il programma originario del fascismo era un miscuglio di idee di sinistra e di destra e


propugnava la necessità di un uomo forte al governo. Le capacità oratorie di Mussolini,
la crisi economica post-bellica, una profonda e diffusa sfiducia nel sistema politico
vigente e una crescente paura del socialismo contribuironoalla salita al potere di
Mussolini con il suo partito fascista.Il fascismo è stato denominato totalitarismo
imperfetto perchè vi si imponeva una sorta di doppia fedeltà al re e al Duce. L’ideologia
fascista poneva l’accento sulla necessità che l’individuo si sottomettesse a uno stato
“totalitario” che doveva controllare ogni aspetto della vita nazionale. La violenza come
forza creativa era una caratteristica primaria della filosofia fascista. Un aspetto
particolare del fascismo italiano era il tentativo di eliminare la lotta di classe della
storia attraverso il nazionalismo e lo stato corporativo. Ma in effetti lo stato corporativo
non venne mai portato a compimento. Mussolini dovette scendere a compromessi con i
grandi capitalisti e con la Chiesa cattolica.

Il fascismo fu caratterizzato dal monopolio della rappresentanza da parte di un unico


partito; da un’ideologia fondata sul culto del capo (il “duce”); dal disprezzo per i valori
della civiltà liberale, che si concretizzò nella soppressione delle libertà politiche e civili
(di pensiero, di stampa, di associazione ecc.); dall’ideale della collaborazione tra le
classi, opposto alla teoria socialista e comunista della lotta di classe; dal dirigismo
statale; da un apparato di propaganda che mirò a mobilitare le masse e a inquadrarle in
organizzazioni di socializzazione politica funzionali al regime; dall’integrazione nel
partito o nello stato dell’insieme dei rapporti economici, sociali e culturali. Benito
Mussolini sciolse i partiti e i sindacati. La società, l’informazione, la scuola vennero
fascistizzate; gli oppositori furono picchiati, incarcerati, inviati al confine o costretti
all’esilio; nel ’38 furono anche promulgate le leggi razziali, che privarono gli ebrei dei
diritti civili. La dittatura fascista durò un ventennio, fino al luglio del 1943.

NAZISMO

Il nazionalsocialismo è un movimento politico nato in Germania intorno al 1919 in


conformità ad un esasperato nazionalismo. Fu ribattezzato come partito
nazionalsocialista dei lavoratori, comunemente chiamato partito nazista, e fu
trasformato da Hitler in uno strumento per la conquista del potere, prese come simbolo
la svastica formando un esercito privato, la SA, che serviva ad intimidire i suoi avversari
politici. Con un’abile propaganda, Hitler riuscì ad assicurarsi un crescendo di favore
popolare e seppe soprattutto essere per le masse esasperate da anni di governo debole,
il simbolo dello stato d’ordine che nel giro di pochi anni gli diede la Germania nelle
mani. I comunisti furono accusati di voler sovvertire l’ordine su cui si fondava lo stato e
su cui era fondata la moderna Germania e quindi furono schiacciati con tutti i mezzi.
Quando la propaganda non bastò più i nazisti ricorsero all’assassinio politico, ai ricatti,
alla deportazione e alla tortura. Ai tedeschi Hitler prospettò la costruzione di un "ordine
nuovo" che avrebbe dovuto durare mille anni in cui erano previste l’unificazione di tutti i
tedeschi, la supremazia della Germania in Europa e l’acquisizione di "spazi vitali" ad est
con l’eliminazione di masse di slavi. Al fine di far esaltare il mito del biondo tedesco,
puro ariano nordico, occorreva porre la scelta di qualcosa che fosse il contrario. Si
scatenò allora una furiosa ondata di persecuzioni contro gli ebrei, accusati di inquinare
la razza tedesca, culminate poi nel massacro della "soluzione finale". Elementi centrali
dell’ideologia nazista erano la dottrina razziale e la teoria dello "spazio vitale". Il
nazismo predicava la superiorità della razza ariana, la razza padrona destinata a
dominare il mondo e le altre razze, e un violento odio per gli ebrei, considerati colpevoli
di tutti i problemi della Germania. La razza ebraica alla quale si deve la produzione di
tutti i moderni veleni come il capitalismo, finanza, democrazia…Furono proibiti i
matrimoni con persone che avessero sino ad una quarto di sangue ebraico. Gli ebrei
furono esclusi dalle attività professionali e dagli affari, mentre i loro beni erano
confiscati. Nel 1939 si passò ad una politica di totale sterminio; altri popoli furono
coinvolti nella politica razziale nazista che presupponeva una scala discendente di diritti
civili e politici in cui il gradino più alto era destinato alla razza tedesca. L’antisemitismo
in ogni modo costituì un forte mezzo psicologico di coesione della società tedesca e di
consolidamento del nazismo e di rafforzare l’idea di uno Stato tedesco nell’Europa
centrale. In questo modo la dottrina razziale si saldò con l’idea della "spazio vitale". Si
avvertiva anche il bisogno di espandere i propri territori in virtù del fatto che la razza
superiore doveva avere spazi sufficienti per crescere e prosperare, relegando gli altri
gruppi etnici ad una condizione subalterna. Il mondo sarebbe stato in poche grandi sfere
d’influenze, dominata ciascuna da una potenza egemone che avrebbe assegnato ai
gruppi subalterni la loro funzione economica e il loro status politico.Niente doveva
rimanere fuori dell’ambito della sfera di competenza del governo: ogni interesse e ogni
volere, fosse esso economico, morale o culturale, doveva essere usato e controllato
come parte dei beni nazionale, cosa che portò all’abolizione del federalismo e dall’auto
- governo locale. Il controllo si estese ad ogni settore, dall’educazione alle scienze,
all’arte, alla stampa; nessun genere d’influenza doveva essere trascurato.

IL NAZISMO AL POTERE

La crisi del ’29, infatti, si ripercosse sull’economia tedesca, molto indipendente


dall’economia internazionale, determinando una ripresa dell’inflazione e un aumento
della disoccupazione. Tutto ciò compromise la già fragile struttura politica della
Repubblica di Weimar e favorì il riassetto del partito in cui emerse l’ideologia nazista,
incentrata sul criterio della razza, contenuto nel "Mein Kampf" di Hitler, secondo il
quale, ne derivò la totale intolleranza verso etnie diverse, il feroce antisemitismo e il
rigoroso sistema gerarchico al vertice del quale si aveva un capo (il Führer) che doveva
guidare il suo popolo a dominare le altre razze. Hitler voleva, infatti, conquistare l’est
europeo eliminando le numerose comunità ebree presenti, perseguendo anche una
politica antisovietica e anticomunista. Nel 1932 il nazionalsocialismo si affermò come
primo partito politico del paese. Nel 1933 Hitler assunse la guida del governo. Con
l’incendio della sede del "Reichstag" si ebbe il pretesto per emanare 28 leggi eccezionali
nelle quali fu dichiarato fuori legge il partito comunista, incolpato dell’incidente e in cui
furono limitate le libertà civili e politiche. Hitler ottenne il controllo della maggioranza
parlamentare e la legge sui pieni poteri portò alla liquidazione di tutte le opposizioni
politiche e allo scioglimento dei sindacati. Hitler fece uccidere sia i principali capi della
cosiddetta “opposizione di sinistra”, sia esponenti della destra tradizionale. Si avviò
quindi un regime di totalitarismo in cui tutte le attività produttive, associative e
culturali furono controllate dal partito attraverso un programma di bonifica razziale. Si
assistette al rogo di libri di grandi autori tedeschi ma ebrei o d’esponenti di teorie
democratiche, socialiste o umanitarie. S’intensificò la politica di nazificazione della
cultura cui aderirono intellettuali influenzati dalla ripresa dello "spirito germanico" ma
che comportò l’esilio di coloro che non l’accettavano. La liquidazione dell’opposizione
politica continuò grazie all’opera della Gestapo e con l’internamento in campi di
concentramento di questi avversari del regime, di sviluppò la persecuzione degli ebrei
tedeschi anche attraverso le leggi di Norimberga del 1935 in cui essi erano privati dei
diritti di cittadinanza riducendoli così a status di razza inferiore: questo era l’annuncio
di quella "soluzione finale" che il nazismo avrebbe perseguito durante la Seconda Guerra
Mondiale.
CESARE PAVESE

Tra realismo e simbolismo lirico si colloca l’opera di Cesare Pavese, per il quale la realtà
delle natìe langhe e della Torino della vita adulta diventa teatro delle proiezioni
interiori, del profondo disagio esistenziale, dei miti immaginativi, della ricerca di
autenticità, delle ossessioni psichiche. Così le colline e la città vedono come
protagonista più la coscienza dell’autore che non la realtà esterna, ambientale e
storica. Per questo va dissipato l’equivoco di un Pavese padre del neorealismo post-
bellico. Le componenti esistenziali hanno un cospicuo rilievo ed entrano direttamente
come materia di scrittura nell’opera di Pavese. L’aspetto forse più vistoso del suo
appartenere al decadentismo è offerto dalla crisi del rapporto tra arte e vita. E’ l’epoca
della noluntas   l’artista si lascia vivere, è pieno di contraddizioni e di conflitti. Sua
unica ricchezza è una sensibilità che non serve a nulla e agisce soltanto in senso
negativo, corrodendo ogni certezza sul destino del mondo, della storia, dell’individuo.
C’è uno scompenso fondamentale tra il sentire, il capire e l’agire, per cui il primo
elemento determina una specie di paralisi degli altri due. L’artista decadente, smarrita
assieme ai valori tradizionali ogni volontà di agire, si trova nell’incapacità di affrontare
l’esistenza, gravemente handicappato nei rapporti umani, sempre a disagio in ogni
situazione esistenziale, con grosse tare nevrotiche originate proprio da questa situazione
di inadeguatezza nei confronti della vita. Ecco allora che vivere diventa “mestiere” da
apprendere con grande pena e spesso senza risultati. In tale situazione di sradicamento
l’arte appare come sostituto integrale dell’esistenza «Ho imparato a scrivere, non a
vivere», ma anche come unico rimedio, la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un
attimo, persino felici «Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno», dice Pavese.
Per la letteratura del Novecento, il grado di autenticità poetica è determinato dalla
misura di aderenza alla sconsolata visione dell’uomo, colto nel suo destino di angoscia.
Autenticità e morte diventano sinonimi, vivere è “essere per la morte”.

L'arresto e la condanna

Nel 1935 Pavese, intenzionato a proseguire nell'insegnamento, si dimise dall'incarico


all'Einaudi e incominciò a prepararsi per affrontare il concorso di latino e greco ma, il 15
maggio, in seguito ad altri arresti di intellettuali aderenti a "Giustizia e Libertà", venne
fatta una perquisizione nella casa di Pavese, sospettato di frequentare il gruppo di
intellettuali a contatto con Ginzburg, e venne trovata, tra le sue carte, una lettera di
Altiero Spinelli detenuto per motivi politici nel carcere romano. Accusato di
antifascismo, Pavese venne arrestato e incarcerato dapprima alle Nuove di Torino, poi a
Regina Coeli a Roma e, in seguito al processo, venne condannato a tre anni di confino a
Brancaleone Calabro. Pavese, in realtà, era innocente per il fatto che la lettera trovata
era rivolta a Tina, la "donna dalla voce rauca", della quale era stato precedentemente
innamorato. Tina era politicamente impegnata e iscritta al partito comunista
clandestino e continuava ad avere contatti epistolari con un ex - fidanzato, appunto lo
Spinelli e le lettere pervenivano a casa di Pavese che, per accontentarla e senza
valutare le conseguenze, le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo.
Il confino a Brancaleone

Il 4 agosto 1935 giunse in Calabria a Brancaleone e scrisse ad Augusto Monti [9] "Qui i
paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro
tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio,
ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta
indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora
escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre
anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se
non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la
seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei
passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare,
giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo
un'inutile castità.

Nell'ottobre di quell'anno aveva iniziato a tenere quello che nella lettera al Lajolo
definisce lo "zibaldone", cioè un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere e
aveva fatto domanda di grazia, con la quale ottenne il condono di due anni.

La produzione di Pavese inizia con un libro di poesie, Lavorare stanca (1936),


importante per la selta di un linguaggio poetico lontano dai modi ermetici e vicino
invece a quelli parlati, secondo l’idea di una poesia-racconto.
Nel 1941 segue il romanzo Paesi tuoi, in cui si precisa il clima poetico di Pavese,
rappresentato dal chiuso mondo delle campagne piemontesi. Scritto in prima persona,
coma quasi tutte le altre opere, il romanzo mostra chiari riscontri autobiografici.

Del 1948 è La casa in collina considerato il capolavoro di Pavese. Si raccontano le


incertezze di un intellettuale, Corrado, nell’ultimo periodo del fascismo, i suoi dubbi tra
lo scegliere la lotta partigiana e il rifluire verso casa, verso la collina. Il fallimento è
reso più evidente dalle figura di contorno, come Cate e Dino, che trovano nella loro
semplicità popolare il coraggio dell’azione,

La luna e i falò (1950), ritorna il mondo contadino delle Langhe, con il suo bagaglio di
violenza e morte, sul quale è passata la guerra. Il protagonista, Anguilla, è un trovatello
che fatta fortuna in America ritorna al suo paese dove, con l’aiuto del suo vecchio
amico Nuto, riscopre i luoghi e le impressioni dell’infanzia attraverso una ricognizione
paesistica e memoriale che gli permette di ricostruire il suo passato. Alla fine, in un
secondo “falò” bruciano gli ultimi residui dell’infanzia.

Poetica e stile

La tecnica

Se a quei tempi la parola tecnica era, nel clima letterario crociano, parola disprezzata,
essa viene spesso menzionata da Pavese per il quale, certamente grazie all'influenza
dovuta alla sua cultura americana, la tecnica è l'unico strumento in grado di decidere lo
stile di un autore
« La prova dell'essenziale composizione a freddo è lo stile, lucido, vitreo, anche se ogni
tanto si colora di passionali scatti. Sono calcoli, ragionati, anche questi. »

Pavese parla spesso di arte intesa come "mestiere" e la tecnica gli serve come
autodisciplina per sfuggire alle tentazioni del romanticismo con una scelta quindi che
non intende solamente rispondere a canoni estetici ma soprattutto etici e che l'aiutano
ad evitare di lasciarsi andare ad un semplice piacere narrativo.

Pavese evita nelle sue opere tutte le forme romanzesche che si basano su costruzioni
tradizionali come gli intrighi e i colpi di scena e costruisce storie che si basano su una
trama narrativa quasi inesistente, tanto è vero che, come scrive Marziano Guglielminetti
"... è stato osservato che il termine "romanzo", riferito alla narrativa pavesiana, viene
usato non senza qualche approssimazione e improprietà (lo stesso Pavese preferì del
resto ricorrere alla formula di "romanzo breve")".

Nell'esaminare le opere di Pavese si osserva inoltre che la sua narrativa si rifà alla legge
statica della ripetizione in quanto egli circoscrive il suo ambito tematico intorno a
motivi fondamentali che non si cura di ampliare ma che al contrario cerca di ripetere
con insistenza volutamente monotona, perché, come egli scrive

« Raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa, una cifra
irrisolta del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre
sfuggente. La monotonia è un pegno di sincerità. »

Lo scrittore vuole così dimostrare che, per rappresentare la realtà interiore finalmente
trovata, non è necessario cercare cose nuove ma che il più grande sforzo è da rivolgersi
a come, tecnicamente, questa realtà verrà rappresentata.

Il simbolo

Come l'autore stesso scrive nel "Mestiere di vivere" in data 10 dicembre 1939, si tratta di
riuscire a rappresentare la realtà attraverso i simboli perché « Il simbolo... è un legame
fantastico che tende una trama sotto il discorso. »

Pertanto ciò che interessa a Pavese veramente (e su questo argomento egli si sofferma
più volte nel suo Mestiere di vivere) è quello di riuscire a rappresentare non tanto la
realtà oggettiva delle cose ma quella che egli definisce la "realtà simbolica", quella cioè
che si nasconde al di sotto della esteriorità.

« Ci vuole la ricchezza d'esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo.

Il motivo del mito, che ritorna continuamente in Pavese, si ricollega all’infanzia, alla
campagna delle Langhe, collocate fuori dalla storia: il distacco dall’infanzia e dalla terra
natia è vissuto come dramma come conflitto insanabile. Tale vagheggiamento di un
mondo mitico e irrazionale riporta Pavese alla grande tradizione decadente.

Lo stile

Nell'opera di Pavese lo stile si fonde con le situazioni attraverso la disposizione delle


parole che seguono lo stesso ritmo delle emozioni vissute nella realtà interiore. Il ritmo
diventa pertanto il protagonista delle sue opere dove i personaggi e gli episodi, non sono
altro che un pretesto per raccontare. Un raccontare che rifugge dalle costruzioni
complesse e che si basa su una sintassi essenziale fatta di cadenze prese dal linguaggio
dialettale, da cesure del periodo e dall'uso della paratassi. La scrittura di Pavese può
dunque sembrare povera, ma è una povertà apparente perché essa corrisponde a un
programma teorico ben delineato che si basa su un severo esercizio di stile e non è una
scrittura naturalistica come scrive lo stesso autore nel suo diario l'11 settembre del 1941

« ... il narrare non è fatto di realismo psicologico, né naturalistico, ma di un disegno


autonomo di eventi, creati secondo uno stile che è la realtà di chi racconta, unico
personaggio insostituibile. »

La poesia

La poesia-racconto di "Lavorare stanca"

« Poesia è ora, lo sforzo di afferrare la superstizione - il selvaggio - il nefando - e


dargli un nome, cioè conoscerlo, farlo innocuo. Ecco perché l'arte vera è tragica - è
uno sforzo. La poesia partecipa di ogni cosa proibita dalla coscienza - ebbrezza,
amore - passione, peccato - ma tutto riscatta con la sua esigenza contemplativa, cioè
conoscitiva. »

Lo sperimentalismo tecnico e metrico di Pavese viene applicato alla raccolta di


"Lavorare stanca", isolando la stessa dalla tipologia della produzione poetica
contemporanea. La sua vuole essere una poesia-racconto, priva di immagini retoriche e
basata sui fatti essenziali, il più possibile basata sulla chiarezza, sulla semplicità e
sull'oggettività in contrapposizione alla poesia astratta degli ermetici. Ad offrirgli
l'esempio di un linguaggio improntato alla semplicità è Gozzano che, nel nominare le
cose e gli avvenimenti con il grigiore della quotidianità, usa un tipo di verso che è
discorsivo e prosastico.

La lirica di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi"

Ben diverse le poesie delle due ultime raccolte di Pavese, La terra e la morte ( i versi
che furono composti a Roma nel 1945 e pubblicati nel 1947 sulla rivista "Le Tre Venezie")
e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (pubblicati postumi insieme ai versi della
precedente raccolta dall'editore Giulio Einaudi nel 1951) dove il discorso diventa più
fluido e il discorso lirico si basa su immagini che non hanno più, come in Lavorare
stanca, un diretto rapporto con un fatto o un oggetto specifico ma sono da essi
scollegati. L'ultima poesia di Pavese si rifà pertanto alla tradizione lirica petrarchesca e
leopardiana anche se i motivi ripresi, come il legame amore-morte, si presentano
attraverso una nuova prospettiva che è quella del mito. Con le poesie di queste due
ultime raccolte avviene pertanto il passaggio da una poesia intesa come racconto ad una
poesia intesa come canto che adotta il verso breve e si esprime in forme e ritmi
melodici.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-


questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Il vizio assurdo, cioè il suicidio, l’ombra minacciosa della morte, che perseguitò in vita
sotto forma di depressione Pavese, ritorna con un tono lirico essenziale, assoluto, nella
raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dieci disperate liriche dedicate all’ultimo
amore per l’attrice americana Costance Dowling. Si erano conosciuti verso le fine del
’49, si erano amati per tutta la primavera seguente, poi la storia era finita. La fine di
questo amore è il preludio (la causa ? l’occasione?) per il gesto definitivo da tanto tempo
immaginato vagheggiato. Verrà la morte rappresenta con esattezza spoglia la concezione
di Pavese della vita, come avventura senza speranza. Quell’ultimo verso -«Scenderemo
nel gorgo muti»- sembra non lasciare illusioni.

Cesare Pavese si suicidò nel 1950. Alle radici di questo gesto estremo, oltre
all’impossibile relazione con un’attrice statunitense, c’erano un profondo pessimismo e
una disperata concezione dell’esistenza.

SENECA

Note sull’autore

Lucio Anneo Seneca, nacque a Cordoba, in una ricca famiglia provinciale di rango
equestre. Ancora giovane si trasferì a Roma, dove si dedicò allo studio di filosofia e
retorica. Seneca aspirava a condurre una vita contemplativa, dedita allo studio e alla
riflessione, tuttavia abbandonò tale proposito per assecondare i desideri del padre,
Lucio Anneo Seneca detto il Retore, che lo spingeva ad intraprendere la carriera
politica. Vennero subito riconosciute ed apprezzate le sue doti oratorie, che avrebbero
potuto assicurargli una brillante carriera politica, se non avesse avuto dei rapporti così
difficili con gli imperatori romani. Caligola gli fu talmente ostile de progettare di farlo
uccidere. Claudio, nel 41, istigato dalla moglie Messalina, lo accusò di adulterio con
Giulia Lavilla, e lo condannò all’esilio in Corsica, dove rimase fino al 49, quando, per
intercessione della nuova moglie di Claudio, Agrippina, venne richiamato a Roma.

Avendo ormai più di cinquant’anni, Seneca non intendeva riprendere l’attività politica,
tuttavia dovette accettare l’incarico di precettore di Nerone, figlio che Agrippina aveva
ottenuto dal suo primo matrimonio e che Claudio aveva adottato.

Nel 54, alla morte di Claudio, Nerone divenne imperatore, e Seneca si trovò ad essere
consigliere imperiale di un sovrano molto giovane ( non ancora diciottenne): di
conseguenza si trovò ad avere nelle sue mani un potere imperiale.

In quegli anni Seneca aveva concepito la speranza, espressa nel De Clementia, di fare
del giovane Nerone un sovrano esemplare: speranza che ben presto si rivelò un’illusione.

Nel 59 Nerone, in rotta con la madre Agrippina, la fece uccidere. Seneca continuò a
seguire l’imperatore anche dopo il matricidio, ma la sua influenza su Nerone divenne
sempre più debole, e quindi chiese di abbandonare l’incarico di consigliere, per
dedicarsi completamente allo studio e alla riflessione.

Dal 62 al 65, anno in cui morì, Seneca realizzò quella vita contemplativa cui aspirava fin
da giovane. Tuttavia non riuscì ad evitare l’ostilità dell’imperatore, che lo accusò di
aver partecipato alla congiura ordita contro la sua persona. Seneca fu costretto a
togliersi la vita, affrontando la morte con coraggio, come avevano fatto Socrate e molti
altri grandi filosofi.

Epistulae morales ad Lucilium

L’epistolario di Seneca è sicuramente l’opera filosofica più importante del letterato,


nella quale viene espressa nel modo più consapevole la sua visione della vita e
dell’uomo. Si tratta di una raccolta di 124 lettere scritte tra il 62 ed il 65. Il destinatario
è Lucilio Iuniore, amico di Seneca, cui dedicò anche le Naturales quaestiones e il dialogo
De providenzia.

Le 124 epistole nell’insieme compongono un’appassionata riflessione di filosofia morale.


Seneca si pone nei confronti dell’amico come un maestro: si presenta come un uomo che
giunto ad un’età avanzata, consapevole di aver sprecato gran parte della propria vita in
attività inutili, ormai padrone del suo tempo, si dedica alla riflessione filosofica e
morale, e dunque cerca di aiutare l’amico a raggiungere quella sapienza che ammette
egli stesso di non possedere ancora.

In realtà, il destinatario delle lettere non è solamente Lucilio, infatti Seneca si riferisce
per lo più ai posteri. Questo non significa, però, che l’epistolario sia una raccolta di
lettere fittizie, ovvero che Seneca scrisse senza mai spedire. Egli nelle epistole a Lucilio
porta avanti un discorso che sembrava aver già iniziato in precedenza, facendo
riferimento a fatti di vita quotidiana ripresi in funzione morale. Il tono è quello tipico
del genere epistolare, ovvero colloquiale, familiare: Seneca scrive come se stesse
realmente conversando con l’amico. Ciò che lega le diverse lettere tra di loro è l’intento
di trattare gli argomenti con un’insistente spinta verso la filosofia morale, esortando
Lucilio a compiere la sua stessa scelta di vita. Infatti ciò che più conta per Seneca è la
scelta dell’otium, e nel corso del dialogo epistolare egli riesce a convincere l’amico ad
abbandonare la carica di procuratore in Sicilia per dedicarsi esclusivamente allo studio.
A questo si aggiunge la ricerca del vero bene che consiste nella virtù, che può essere
coltivata solo attraverso una vita tranquilla e lontana dal volgo, circondati da una
ristretta cerchia di amici, con i quali si può discutere di filosofia. Altri temi dominanti
sono quelli del tempo e della morte. Seneca si libera della paura della morte, perché
che ha raggiunto la virtù, è pronto a morire in qualunque momento, qualunque sia la
sorte dell’uomo dopo la morte, inoltre la morte rappresenta qualcosa di positivo, perché
libera l’uomo dalle sofferenze della vita.  Secondo Seneca alla visione quantitativa della
vita è necessario sostituire una visione qualitativa.

Il valore del tempo  (Epistulae morales ad Lucilium, 1)

Temi principali:

Tempo: Seneca invita Lucilio a rivendicare il possesso di se stesso, ovvero ad


impadronirsi del tempo che ha a disposizione, impiegandolo per studiare e riflettere, per
ricercare la virtù, unico vero bene della vita, senza sprecarlo in attività inutili, come la
politica. Seneca parla all’amico consapevole di aver sprecato gran parte della sua vita, e
quindi esorta Lucilio a non commettere lo stesso errore. Egli spinge l’amico a non
dipendere dal domani, dal futuro incerto, ma ad impadronirsi dell’oggi, a vivere il
presente intensamente nella ricerca della virtù. Questo pensiero è molto simile al carpe
diem oraziano: la differenza sta nel fatto che Orazio, epicureo, invitava a cogliere i
piaceri del momento, mentre Seneca, stoico, esorta a perseguire istante per istante il
dovere morale.

Morte: Lucio Seneca ha una visione complessa della morte, costituita di due aspetti
diversi, uno tradizionale e uno originale. Come  molti suoi predecessori, Seneca
considerava la morte qualcosa di positivo, in quanto liberazione dei mali di una
tormentata esistenza.

L’originalità sta nell’idea che l’uomo, seppure non se ne renda conto, muore giorno per
giorno: infatti anche se si è soliti considerare la morte come qualcosa di lontano, gran
parte di questa è già stata vissuta perché tutto il tempo che è già trascorso appartiene
alla morte.

 
Il tono dell’epistola 1, è decisamente colloquiale: lo dimostra la scelta dei vocaboli. Le
prime parole, ita fac (fa così), sono espressione del linguaggio quotidiano e insinuano nel
lettore l’idea che questa prima lettera sia il seguito di un discorso iniziato in
precedenza. Inoltre nell’espressione mi Lucili, l’aggettivo possessivo mio sottolinea la
profonda amicizia e l’affetto che esiste tra i due, evidenziando un tono personale, tipico
del genere epistolare.

Risulta evidente l’ampio utilizzo di imperativi, questo mostra che il colloquio con Lucilio
è basato sull’esortazione, il consiglio. Per quanto riguarda la sintassi, prevale la
paratassi: le frasi sono brevi e si susseguono senza congiunzioni. Sono presenti nel testo
delle metafore tratte dal linguaggio giuridico-finanziario (Omnes horas conplectere -
Afferra e tieni stretta ogni ora; Mihi constat impensae – tengo i conti delle spese). La
lettera si conclude con una massima proverbiale: Serva parsimonia in fundo est (è
troppo tardi per risparmiare quando si è arrivati alla feccia).

Non conta quanto, ma come si vive  (Epistulae morales ad Lucilium, 93,1- 4)

Il tema principale dell’epistola è la morte. In questa lettera Seneca sembra quasi


rimproverare l’amico. Lucilio e molto dispiaciuto a causa della morte del filosofo
Metronatte, e quindi ne incolpa gli dei e il fato dicendo che avrebbe dovuto vivere più a
lungo. A questo proposito Seneca esprime il suo pensiero riguardo alla morte: non è
importante quanto tempo si vive, ma come viene vissuto il tempo che si ha a
disposizione. Infatti se un uomo vive ottanta anni nell’inerzia, il tempo che ha vissuto è
andato sprecato, ma se un altro che ha vissuto solo la metà del tempo, ma lo ha fatto
nella virtù, questo è stato ben usato, e quindi è valso molto di più di ottanta anni
sprecati.

Anche in questa lettera il tono è familiare, ma dalle parole di Seneca emerge una certa
severità che non era presente nella prima epistola, evidente nel ritmo incalzante con cui
Seneca spiega a Lucilio il suo parere riguardo alla morte, in certi punti sembra quasi
rimproverare l’amico perché non condivide la sua visione della morte.  Risulta evidente
l’ampio utilizzo di imperativi che mostrano che il colloquio con Lucilio è basato
sull’esortazione, il consiglio. Per quanto riguarda la sintassi, prevale la paratassi: le frasi
sono brevi e si susseguono senza congiunzioni. Sono presenti molte domande retoriche
che Seneca rivolge all’amico anche se in realtà è lui stesso a rispondere.

Affetto di Seneca per la moglie Paolina  (Epistulae morales ad Lucilium, 104, 1 - 8)

I temi della lettera a Lucilio sono due:


Inutilità dei viaggi: Seneca spiega all’amico come molti uomini intraprendano dei viaggi
lunghissimi con l’unico scopo di liberarsi dei propri affanni. In realtà Seneca è convinto
che l’unico modo per trovare la pace sia liberarsi di se stessi, in sostanza cambiare modo
di vivere. Non è possibile trovare la pace cambiando città o nazione, è necessario
cambiare se stessi, dedicarsi alla filosofia, allo studio e alla riflessione: ricercare la
virtù.

Suicidio: Seneca è favorevole al suicidio, infatti sarà lui stesso a togliersi la vita, quando
verrà incolpato da Nerone di aver partecipato alla congiura contro di lui. Tuttavia da
questa lettera emerge un aspetto originale: Seneca infatti spiega a Lucilio che non è
lecito togliersi la vita finché qualcuno a noi caro, e che si preoccupa della nostra salute,
è ancora vivo. Questo è proprio il suo caso: egli è infatti sposato con Paolina, e, seppure
sia molto vecchio e di salute cagionevole, deve curare particolarmente la sua condizione
fisica perché  facendo altrimenti arrecherebbe un dolore gravissimo alla giovane moglie.

Anche in questa lettera il tono è familiare, ma dalle parole di Seneca emerge


un’inflessione più tenera e pacata, che evidenzia l’affetto che il vecchio Seneca nutre
per la giovane e devota moglie Paolina. In questa epistola, a differenza delle altre, non
troviamo imperativi, perché l’argomento è particolarmente personale e lo spazio
dedicato alla trattazione filosofica è assai limitato.

De brevitas vitae

De Brevitas Vitae appartiene a una raccolta di opere di argomento filosofico, che ci è


pervenuta sotto il titolo di Dialogi (non è sicuro che sia il titolo dato da Seneca). In
realtà non si tratto di veri dialoghi, perché l’autore parla sempre in prima persona e
l’unico interlocutore è il destinatario stesso, immaginando di avviare con lui un vero e
proprio discorso.

Probabilmente quest’opera risale al 49, anno in cui Seneca venne richiamato a Roma per
volere della seconda moglie di Claudio, ed è dedicata all’amico Paolino. Seneca,
nell’opera sostiene che gli uomini fanno male a lamentarsi della brevità della vita,
perché se se ne fa un buon uso, la vita è molto lunga.

Solo il passato ci appartiene  ( De Brevitas vitae, 10, 2-5)

Il tema di questo brano è il tempo. Seneca spiega che il tempo si divide in passato,
presente e futuro. Di questi tre momenti, il presente è assai breve ed inafferrabile, il
futuro è incerto, e il passato è sicuro, perché acquisizione definitiva e immutabile.
Tuttavia solo gli uomini saggi si volgono al passato volentieri, perché sanno di aver
vissuto bene, sottoponendo tutte le loro azioni alla censura della coscienza e della
sapienza. Al  contrario, gli uomini “affaccendati”, che trascorrono la propria vita
dedicandosi ad attività inutili, come la politica ed il commercio, senza dedicarsi alla
ricerca della sapienza, si rivolgono malvolentieri al passato, perché non osano
riesaminare le proprie azioni, per non doverne valutare le manchevolezze.

Il tono è colloquiale, Seneca si rivolge al destinatario (probabilmente il dedicatario


Paolino, nonché i posteri) come se egli fosse al suo fianco. Seneca si presenta come un
maestro: parla al suo “allievo” come se stesse tenendo una lezione di filosofia. Il
colloquio non è basato sull’esortazione, e quindi non sono presenti imperativi, questo
perché Seneca sembra tenere una lezione di filosofia piuttosto che un vero e proprio
discorso con l’amico.

La “galleria” degli occupati  (De Brevitas vitae, 12, 1-7, 13, 1-3)

Il tema di questo brano è la “galleria degli occupati”. Seneca illustra i vari tipi di
occupati, persone che trascorrono la vita dedicandosi ad attività inutili: ad esempio,
coloro che trascorrono le loro giornate dal barbiere, ritenendo il loro aspetto la cosa più
importante, i collezionisti, i musicisti, coloro che, talmente abituati al lusso e alle
ricchezze, hanno perso di vista la realtà, tanto da “non sapere più se hanno fame”…ecc.

Il tono è familiare, tipico di un dialogo: l’autore si rivolge al suo interlocutore dandogli


del tu. Dal discorso si evidenzia una forte critica nei confronti degli “occupati”, cui
Seneca si riferisce in modo decisamente severo ed intransigente.

Lo stile di questo brano è molto critico. Sono molto frequenti le domande retoriche, che
hanno lo scopo di avvalorare il punto di vista del filosofo, svalutando , invece, le
abitudini degli “occupati”.

De tranquillitate animi

Il De Tranquillitate Animi, risale al periodo in cui Seneca era consigliere di Nerone.


Anche quest’opera, come il De Brevitas Vitae, appartiene ai Dialogi, raccolta di opere di
argomento filosofico. Seneca ha dedicato l’opera all’amico Anneo Sereno, che il filosofo
introduce al dialogo immaginando che Anneo gli chieda un consiglio, trovandosi in una
situazione di incertezza spirituale. Seneca procede nell’argomentazione illustrando in
modo dettagliato i sintomi e le manifestazioni del suo stato. Quindi indica dei rimedi
pratici: lavorare attivamente per il bene comune, essere parsimoniosi, accettare le
avversità della vita, non temere la morte.
Tedium vitae: Seneca, nel De Tranquillitate Animi tratta il tema del tedium vitae, già
trattato da Lucrezio e Orazio. Il tedium vitae è la noia e il disgusto per la vita che
affligge chi vive un’esistenza che gli appare priva di significato. Seneca, come Lucrezio e
Orazio, sostiene che l’unica soluzione alla noia e al disgusto per la vita è la filosofia, che
assicura all’uomo la sapienza e la felicità. Tuttavia in quest’opera segnala come
possibile soluzione anche l’impegno per il bene comune, mentre in altre opere, come
nelle Epistulae morales ad Lucilium, consiglia la scelta dell’otium.

Inquietudine e insoddisfazione (De Tranquillitate Animi, 2, 6-11; 13-15)

Temi:

Cause dell’inquietudine dell’animo: Seneca illustra in modo dettagliato i sintomi e le


manifestazioni dello stato d’animo di Anneo Sereno, che non affligge solo lui ma tutti gli
uomini.

Quest’insoddisfazione di sé, secondo Seneca, non è da attribuire al fato, ma a se stessi.


Infatti nasce  nel momento in cui gli uomini, che protendono troppo verso la speranza,
non riescono a conseguire ciò che desiderano. Ciò può avvenire perché i nostri desideri
sono troppo deboli, oppure perché siamo instabili, divisi tra molti obiettivi, senza
riuscire a raggiungerne nessuno.

Conseguenze del fallimento dei propri propositi: Secondo il filosofo, quando ci si rende
conto di aver fallito, ci si chiude in se stessi, si ha paura di ricominciare, quindi ci si
rifugia nello studio, lontano dalle attività pubbliche, tuttavia chi è abituato a condurre
una vita attiva, sopporta malvolentieri la solitudine che deriva. Da qui nasce la
stanchezza di sé e la noia, che portano all’intolleranza verso i successi altrui.

Inutilità dei viaggi: Molti uomini, insoddisfatti della loro esistenza, cercano, attraverso
viaggi senza mete precise, di sfuggire alla noia e alla depressione, ma ben presto si
accorgono che, malgrado i numerosi spostamenti, si trovano al punto di partenza. Non è
sufficiente cambiare città per risanare il proprio spirito, è necessario cambiare se stessi,
avvicinandosi alla filosofia, che garantisce conoscenza e felicità.

In questo brano Seneca si rivolge all’amico, come un maestro fa con i propri alunni. Il
filosofo tratta, in modo dettagliato lo stato d’animo di Anneo, spiegando  cause,
conseguenze e rimedi. Seneca si esprime in modo sentenzioso, come chi sa di avere
ragione.

È presente una citazione del De Rerum Natura di Lucrezio: “in questo modo ognuno
sempre fugge se stesso” ( III, 1068 ), quando Seneca spiega l’inutilità dei viaggi.
 

Phaedra

Ci è pervenuto un corpus di dieci tragedia attribuite a Seneca: una è una pretesta, nove
sono di argomento mitologico. Phaedra appartiene a quest’ultimo gruppo. La vicenda è
quella dell’Ippolito di Euripide, ma poiché ci sono differenze considerevoli, critici
suppongono che la tragedia di Seneca derivi da un’altra tragedia dello stesso Euripide,
che non ci è pervenuta.

Fedra, moglie di Teseo re di Atene, si innamora follemente del figliastro Ippolito e gli
dichiara il suo amore. Ippolito la  respinge. Fedra si vendica accusando il figliastro di
aver cercato di usarle violenza, allora Teseo, disgustato dal comportamento del figlio, lo
maledice. In seguito a questa maledizione, Ippolito viene ucciso da un mostro marino.
Fedra, disperata, confessa la sua colpa.

La dichiarazione di Fedra a Ippolito (Phaedra, vv.589-684, 698-718)

La scena è ambientata ad Atene, in una sala del palazzo reale.

Fedra:  Fedra è la moglie di Teseo, re di Atene. Fedra si è innamorata del figliastro,


Ippolito, e quando crede che suo marito sia morto si dichiara al ragazzo che, indignato,
la rifiuta. È una donna accecata dalla passione, tanto da accettare di essere uccisa da
Ippolito pur di morire tra le sue braccia. Ma quando si vede respinta, Fedra, decide di
accusare ingiustamente Ippolito, prima che lui racconti l’accaduto al padre, salvando il
suo onore.

Ippolito: Ippolito è il figlio di Teseo. È un giovane bello e responsabile, infatti si offre di


prendere il posto del padre fino al suo ritorno. Questa affermazione viene, però,
fraintesa da Fedra, che si sente legittimata a dichiarare la sua folle passione amorosa.
Ippolito disgustato dalle parole della matrigna, pensa di punirla, togliendole la vita.
Tuttavia desiste quando Fedra implora di accettare la morte pur di morire fra le sue
braccia.

Ippolito abbandona precipitosamente la scena, ricomparirà, ormai morto, solo alla fine
della tragedia.

Teseo: Teseo, re di Atene, marito di Fedra e padre di Ippolito.  In questa scena non è
realmente presente, viene soltanto nominato.

Temi:
Morte:Fedra considera la morte come qualcosa di positivo. La regina è disperata, perché
schiava di una passione incestuosa che la spinge verso il figliastro, e cui non può
sottrarsi in alcun modo. Fedra si rende conto che il sentimento che nutre per il giovane
Ippolito è sbagliato, quindi è tormentata, da una lato, dal senso di colpa, dall’altro,
perché una folle passione la spinge verso il ragazzo. In una situazione come questa, la
donna vede nella morte l’unica soluzione al suo tormento. Ippolito invece trova che la
morte di Fedra rappresenti punizione e purificazione: infatti uccidendo Fedra non vuole
solo punire la donna, ma evitare di essere contaminato dalla sua colpa. Proprio per
questo, quando sente le parole della regina che lo supplicano di ucciderla e di lasciarla
morire tra le sue braccia, Ippolito si tira indietro, e lascia il palazzo disgustato. Uccidere
Fedra avrebbe significato esaudire un suo desiderio, ma non averlo fatto significa per
Ippolito essere stato contaminato dalla colpa della matrigna, dalla quale non sa come
purificarsi.

Conflitto inconciliabile tra ragione e passione: In questa tragedia il conflitto tra


ragione e passione si esplica nella vicenda di Fedra. La donna è follemente innamorata
del figliastro e questo la tormenta al punto di pensare al suicidio. Da una lato Fedra si
rende conto che il sentimento che prova verso il giovane Ippolito è adultero e
incestuoso, quindi terribilmente sbagliato. Ma dall’altro è spinta verso il figliastro da
una passione cui non sa resistere. È impossibile che una delle due parti prevalga
sull’altra, quindi la vicenda si conclude, forse nell’unico modo possibile, con la morte
della donna.
Mentiuntur qui sibi obstare ad studia liberalia turbam negotiorum videri volunt: simulant
occupationes et augent et ipsi se occupant. Vaco, Lucili, vaco, et ubicumque sum, ibi
meus sum. Rebus enim me non trado sed commodo, nec consector perdendi temporis
causas; et quocumque constiti loco, ibi cogitationes meas tracto et aliquid in animo
salutare converso. [2] Cum me amicis dedi, non tamen mihi abduco nec cum illis moror
quibus me tempus aliquod congregavit aut causa ex officio nata civili, sed cum optimo
quoque sum; ad illos, in quocumque loco, in quocumque saeculo fuerunt, animum meum
mitto. [3] Demetrium, virorum optimum, mecum circumfero et relictis conchyliatis cum
illo seminudo loquor, illum admiror. Quidni admirer? vidi nihil ei deesse. Contemnere
aliquis omnia potest, omnia habere nemo potest: brevissima ad divitias per contemptum
divitiarum via est. Demetrius autem noster sic vivit, non tamquam contempserit omnia,
sed tamquam aliis habenda permiserit. Vale.

Mente chi sostiene che la mole dei suoi affari gli impedisce di dedicarsi agli studi: finge
impegni, li aumenta e si tormenta da sé. Io sono libero, Lucilio, sono libero e
dovunque mi trovi sono padrone di me stesso. Non mi abbandono alle cose, mi presto
ad esse e non cerco scuse per perdere tempo; dovunque mi fermi, mi immergo nei miei
pensieri e medito su qualcosa di utile. 2 Quando mi dedico agli amici, non mi distolgo da
me stesso; e non mi intrattengo con quelli ai quali mi hanno legato le circostanze o gli
obblighi derivanti da pubblici uffici, ma sto con i migliori; rivolgo a loro il mio pensiero
dovunque e in qualunque periodo siano vissuti. 3 Porto sempre con me Demetrio, uomo
stimabilissimo e, lasciati da parte i porporati, parlo con lui benché vestito poveramente
e lo ammiro. Perché non dovrei? Mi sono accorto che non gli manca nulla. C'è qualcuno
capace di disprezzare tutto, ma nessuno può avere tutto: la via più breve per arrivare
alla ricchezza è una: il disprezzo. Il nostro Demetrio vive così: non disprezza tutto, ma
ne ha lasciato il possesso agli altri. Stammi bene.

JEAN PAUL SARTRE


Morte, follia, claustrazione, impotenza e frigidità, perversione e assassinio,
omosessualità e malafede: questi i casi di cinque piccole disfatte, personaggi giunti al
limite di se stessi e che inciampano contro un’assurdità che non possono superare.

Nessuno vuole guardare in faccia l’Esistenza, che è un pieno che l’uomo non può
abbandonare.

Il giovanissimo Pablo, per non morire come un bestia vorrebbe capire l’esperienza della
morte. Impossibile. Potrà riuscire, in quelle due ore, soltanto a rivedere la sua vita
incompiuta e ora come chiusa in un sacco, senza valore perché finita, senza nulla di
bello da vantare. La morte che disincanta ogni cosa gli fa scoprire di aver passato il
tempo ad emettere cambiali per l’eternità, dunque di non aver capito niente della vita.

Ne la camera, Eva cerca di scivolare nella follia del marito fingendo di condividerne
visioni e comportamenti. Se ne sta sulla soglia tra il mondo delle persone normali,
sempre più lontano, e la camera al di là del muro dove non c’è giorno né notte, né
stagione, né malinconia, dove il tempo si è arrestato prosciugando la vita reale.

Alle spalle o di fronte, il muro dell’esistenza non si può sfuggire.

Il periodo che seguì il primo grande conflitto mondiale fu caratterizzato in Europa da un


comprensibile stato di smarrimento, cosiddetto «momento della sconnessione
dell'essere».Questa corrente chiamata esistenzialismo, si muove nella direzione di una
filosofia capace non più di superare negazioni ed ostacoli secondo metodi logico-
dialettici ma addirittura di accettare, di guardare coraggiosamente l'assurdo
dell'esistenza.

J.-P. Sartre cerca di spiegare tale corrente di pensiero, che andrà ad influenzare non
solo la filosofia, ma anche l'arte, la letteratura, il teatro, la politica, in un semplice e
breve testo nato nel 1946 con l'intento di chiarire molte delle incomprensioni e delle
ambiguità che ruotavano attorno a tale orientamento culturale.

Certo nella filosofia sartriana non è rara la comparsa di snodi teoreticamente


problematici, né è difficile incontrare parziali contraddizioni. Data la rottura con la
logica, con la razionalità delle precedenti filosofie, l'esistenzialismo deve farsi portavoce
di «una parola capace di sostenere... la novità della sua invenzione; una parola che...
evochi stati d'animo, situazioni spirituali, sentimenti; perché solo il sentimento,
mantenendosi allo stato fluido e incandescente, evita il coagulo del pensiero
concettuale».«La dialettica dell'esistenzialismo non sintetizza gli opposti, ma li
esaspera; le contraddizioni non vengono superate: restano sempre aperte, vive, operanti
sulla vita dell'individuo, di cui costituiscono il dramma perenne». 4 È per questo che per
analizzare «la finitezza, l'incertezza, la precarietà dell'esistere», 5 Sartre opta per
utilizzare il metodo fenomenologico. Sartre fa coincidere l'essere con l'apparire, dove
«l'apparenza non nasconde l'essenza, la rivela: è l'essenza».
«dove l'uomo è calato nel mondo, è un esserci, dove -- spiega l'autore -- ogni situazione
è una trappola per sorci: muri da ogni parte... non ci sono vie d'uscita. La via d'uscita
s'inventa. E ciascuno, inventando la propria, inventa se stesso. L'uomo è da inventare
giorno per giorno».8

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