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BLOG GENERATION

Una pubblicazione di:

LIMITED EDITION BOOKS


Cura editoriale: Antonella Malaguti e Margherita Bortolani
Progetto grafico: Albalisa Giorgio
Illustrazione di copertina: Manuel Preitano

©2014 Alessandro Apreda


©2014 LIMITED EDITION BOOKS per la presente edizione
Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

www.limitededitionbooks.it – info@limitededitionbooks.it

ISBN: 978-88-908413-1-6
Alessandro “DocManhattan” Apreda

Per il potere di Grayskull


“Perché è il loro momento, lassù.
Ma qua sotto è il nostro momento.
È il nostro momento qua sotto.
E finirà tutto nell’istante in cui salteremo
dentro questo secchio”
(I Goonies)
INTRO

Non tutti lo sanno, ma per una bizzarra coin-


cidenza astrale, esattamente nel decennio compreso
tra il primo gennaio del 1980 e il 31 dicembre del
1989, il nostro pianeta è stato proiettato in un uni-
verso parallelo. Una dimensione alternativa, nota in
campo scientifico come anni 80. Un mondo in cui
tutto era colorato e sbrilluccicoso, ogni cosa sem-
brava destinata a migliorare, le persone apparivano
felici e si aspettavano ragionevolmente di diventar-
lo ancora di più. Anche se erano ancora in corso gli
ultimi sgoccioli di Guerra fredda e c’era pur sempre
il rischio che il mondo intero, nella sua sbrilluccico-
sità, con tutti i suoi balletti di Heather Parisi e i suoi
Duran Duran, esplodesse da un momento all’altro in
un enorme fungo atomico, come ricordavano le ze-
lanti maestre elementari dell’epoca ai loro alunni.
Ma il mondo non è esploso e non siamo diven-
tati esattamente tutti più felici. Le cose, in termini
generali, hanno iniziato un pelo a peggiorare, Mi-
ckey Rourke è diventato brutto e gli anni hanno for-
tunatamente diluito il ricordo di tutte quelle giacche

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con spalline inquietanti. Oggi, un terzo di secolo più
tardi, per un trentenne avviato verso gli anta come
l’autore di questo libro, parlare degli anni 80 sarebbe
di per sé estremamente semplice. Il problema è far-
lo liberando gli occhi dalle spesse fette di prosciutto
della nostalgia. Nei Paesi anglosassoni li chiamano
rose-tinted spectacles, gli occhiali dalle lenti rosa: la
tendenza a ricordare solo il bello, tralasciando il re-
sto. Ma se la nostalgia prova a trasformare tutto in
una sua versione più edulcorata, è lecito chiedersi
se si stesse davvero bene negli anni 80. Beh, per chi
quegli anni lì li ha trascorsi giocando con i Transfor-
mers, sciroppandosi ogni singolo cartone mandato
in TV e disintegrando joystick del Commodore 64,
senza dubbio. Benone.
Se i figli del boom avevano conosciuto lo svi-
luppo, i suoi nipoti sguazzavano ora nel benessere.
Erano, quelli, gli anni in cui si assisteva esaltati alla
rivoluzione digitale, al trionfo dell’elettronica su-
gli elettrodomestici di casa (partita sospesa per in-
vasione di campo dei tifosi), all’arrivo smargiasso
dei cassoni dei videogiochi in pizzerie e bar. In cui
i cartoni animati giapponesi insegnavano un sacco
di cose più o meno valide dal punto di vista pedago-
gico, come l’importanza dell’amore per i genitori, del
credere sempre nei propri sogni, del saper eseguire
alla perfezione una mossa spaccaschiena dell’Uomo
Tigre. Erano gli anni delle mille linee di giocattoli,
dell’invasione delle serie TV americane, dei film di

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fantascienza più belli della storia dell’uomo. Anni in
cui i ragazzi (inizialmente solo delle superiori, poi
l’epidemia ha contagiato anche quelli più piccoli)
salutavano con la manina i loro coetanei politiciz-
zati del decennio precedente, e abbracciavano felici
un fancazzismo allegro e colorato come un piumino
Moncler. Gli anni in cui la moda, con la m minusco-
la, sfornava aberrazioni che hanno riempito il mon-
do di paura e gli album fotografici di orrori incon-
fessabili: anni di fiocchettoni, scaldamuscoli di lana,
giacche da uomo confezionate dal sarto di Mazinga,
cotonature, mullet sfoggiati con criminale indiffe-
renza.
Tante, troppe cose e tutte insieme, in un decen-
nio talmente pop che anche la musica pop, per adat-
tarsi, si è dovuta fare a un certo punto molto più pop.
Ma come affrontare la descrizione di tutto questo,
senza ridurre il libro che tu, gioviale lettore, stringi
ora tra le mani a uno sterile elenco di nomi? Più che
una guida a fenomeni e tormentoni degli anni 80,
Per il potere di Grayskull vuole essere un insieme di
ricordi e suggestioni che quel periodo porta ancora
alla mente, patrimonio comune, trent’anni più tardi,
per chi all’epoca era già in giro a fare danni con un
pupazzino dei Masters o una Barbie in mano. Chi
invece è venuto dopo, e ha comprato questo libro
d’impulso, incuriosito da un mondo di cui ha senti-
to così tanto parlare ma all’interno del quale non ha
fatto in tempo per motivi anagrafici a gironzolare in

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prima persona, stia comunque tranquillo: si cercherà
di rievocare il tutto in modo oggettivo… per quanto
possibile. Non per altro: sfilare quegli occhiali con le
lenti rosa è sempre un casino.

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Uno

Al cinema con Mazinga e He-Man


(col trucco)

Le enciclopedie. Quanto erano fighe le enci-


clopedie. Oggi, ai tempi in cui qualsiasi informazio-
ne dista solo un «Aspetta che te lo cerco su Wiki-
pedia», in cui tutti possono sapere tutto di qualsiasi
cosa facendo scorrere per due secondi il pollice sullo
schermo di uno smartphone, le enciclopedie sem-
brano una roba utile e moderna quanto un treno a
carbone. Vecchie e tendenzialmente insopportabili
a partire dal nome, come buona parte delle parole
derivate dall’etimo ciclo: ciclostile, triciclo, Ciclope
degli X-Men. Siamo d’accordo. Ma negli anni 80 non
era così. L’enciclopedia era allora, per il ragazzino cu-
rioso in orario non presidiato da cartoni alla TV o
partitelle sotto casa, uno strumento per esplorare il
mondo, l’unico modo per saperne di più, per capire
quello che c’era da capire di veramente importante
nella vita.
Ossia imparare a memoria il nome, le caratte-
ristiche comportamentali e le dimensioni stimate di
tutte le specie di dinosauri conosciute.
Perché le enciclopedie non erano solo quei

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mattonazzi enormi di colore blu, marroncino o gri-
gio che costavano quanto tre o quattro stipendi e si
tenevano in salotto, in posti scomodi dove nessuno li
avrebbe mai toccati, per ostentare benessere (uno tra
gli status symbol più pesanti e tendenti all’accumulo
di polvere mai entrati nelle case degli italiani). Le en-
ciclopedie erano, per quel che ci interessa in questa
sede, anche e soprattutto quelle per ragazzi. Piccole,
grandi meraviglie raccolte in una serie di volumi più
alti, smilzi e colorati delle pallose enciclopedie per
adulti, tutte testo e immagini scattate dal cugino fo-
tografo di David Gnomo. Le enciclopedie per ragazzi
erano capolavori della divulgazione illustrata come
I Quindici - I libri del come e del perché, o Conosce-
re - Ieri, oggi, domani, che in un attimo rendevano il
piccolo lettore onnisciente in fatto di dinosauri, si di-
ceva, ma anche di macchine da guerra usate dagli an-
tichi romani, storia dell’aviazione spaziale e altre figa-
te astrali dello stesso livello. Il ragazzino degli anni 80
diventava così una versione iperspecializzata di Pico
De Paperis, pronto a irridere l’anziana maestra che,
poverina lei, quando si arrivava finalmente a parla-
re di questi cavolo di dinosauri, conosceva solo il ti-
rannousaro e lo pterodattilo. Ah, le gravi lacune della
scuola primaria dell’obbligo! Fiero della sua enorme
cultura di settore, con piglio da piccolo, insopporta-
bile precisino, il ragazzino degli anni 80 si alzava in
piedi, chiedeva alla signora maestra di fare la cortesia
di accomodarsi un attimo a lato – grazie –, e raccon-

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tava alla classe i fondamentali in fatto di velociraptor,
brontosauri e triceratopi. Prima di esser portato in
trionfo dai compagni, come Oronzo Canà nel finale
de L’allenatore nel pallone, e, dieci volte su dieci, di
esser cacciato dall’aula da una maestra inviperita. Per
il fatto che, ecco, non è facilissimo mandar giù che
un tizio di sei anni alto poco più di un metro venga a
insegnarti il mestiere.
Ma quando ciò accadeva, il ragazzino degli
anni 80 lasciava la classe a testa alta, vittima incolpe-
vole di una cultura retrograda e accentratrice, dire-
mo, pregustando l’ormai prossima venuta del mondo
dei robot, dove le anziane maestre veterofasciste, che
puzzavano di naftalina e guidavano residuati FIAT
dei primi anni 70 dai colori impossibili, sarebbero
state soppiantate da amichevoli esseri di metallo con
i tratti di C-3PO di Star Wars. Buongiorno, sono il
vostro nuovo droide protocollare, prendete a pagina
25 del sussidiario: oggi niente temi di italiano pallosi,
parliamo di gladiatori. Ola della classe.
E fa niente che poi sia venuto fuori che i velo-
ciraptor erano in realtà alti quanto un pollo e muni-
ti di piume, o che il nome corretto del brontosauro
è il molto meno figo Apatosaurus: su certe cose si è
sbagliato pure Spielberg con Jurassic Park dieci anni
dopo, senti.
Ma le enciclopedie, unico rifugio del ragazzino
assetato di sapere in fatto di rettili giganti, strumenti
di morte e combattimenti letali con spade, reti e tri-

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denti, avevano un terribile lato oscuro, esattamente
come la forza dei cavalieri Jedi: andavano vendute.
Pur di riuscirci, temibili piazzisti Sith avevano affi-
nato decine di tecniche diverse, le più terrificanti.
Dopo anni di porta a porta, in cui la privacy di placi-
di e inconsapevoli nuclei familiari pantofolati veniva
violata alla domenica mattina, con la scusa di son-
daggi demoscopici e altre minchiate simili, i malvagi
piazzisti con la giacchetta troppo stretta sulle spalle e
la cravatta Regimental troppo larga sul petto passa-
rono al livello successivo del loro piano di conquista
mondiale su base condominiale.
Tirarono dentro i bambini.
Le prime avvisaglie del feroce dramma umano
che si sarebbe consumato di lì a poco si presentarono
con i rassicuranti, mendaci tratti dei robottoni giap-
ponesi. Alla fine degli anni 70, davanti alle scuole
apparvero dal nulla questi strani individui, nei luo-
ghi assegnati per tradizione agli spacciatori invisibili
di caramelle drogate, volendo dar credito a quanto
andavano ripetendo tutte le madri italiane. E, in ef-
fetti, proprio come quelle figure generate dal mito
parentale, gli uomini in giacca e cravatta regalavano
qualcosa: dei biglietti con su stampata – in genere
malissimo – la faccia di Goldrake, Mazinga o, più
avanti, di He-Man. Caratteri cubitali spiegavano che
quel foglietto di carta lì era un preziosissimo titolo
al portatore: chi lo stringeva in mano aveva diritto a
entrare gratis al cinema assieme a un genitore, per la

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proiezione di un film dei suoi beniamini dei carto-
ni. Un film intitolato Mazinga contro Goldrake? Una
pellicola con He-Man e la sorella bona She-Ra? Al
cinema? Gratis? Troppo bello per essere vero!
E infatti.
Le prime vittime cadevano lì, sul marciapiede
davanti all’ingresso della sala, alle soglie del sogno.
Il biglietto omaggio parlava chiaro: per ragioni che
sarebbero diventate esplicite solo a fine primo tem-
po, per entrare il bambino doveva essere accompa-
gnato da un genitore. Non da un adulto qualsiasi,
da un genitore. Severi come la Dottoressa Tirone,
inflessibili di fronte al pianto disperato di bambini
orfani accompagnati da uno zio o da un nonno, gli
uomini in giacca e cravatta passavano al setaccio l’or-
da di ragazzini, lasciando libero accesso solo a quel-
li in regola. Scene che il piccolo privilegiato munito
di genitore regolamentare non riusciva a compren-
dere: un corso super-accelerato sulla crudeltà della
vita, ma iniziava il film. C’erano Mazinga e Goldrake
in una storia assurda; c’erano He-Man e She-Ra con
il loro segreto della spada e un Hordak da menare.
Non c’era tempo per pensarci. E il film andava avan-
ti, tra i cori da stadio e gli schiamazzi del pubblico.
Età media: vent’anni. Considerando gli esaltatissimi
bambini in età scolare e gli annoiatissimi genitori,
con l’occhio all’orologio ogni due secondi nella stra-
ziante attesa che quel primo tempo e quel supplizio
di Tantalo finissero. Solo che quando il primo tempo

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finiva, iniziava l’atto secondo del dramma: il VERO
supplizio.
Gli uomini in giacca e cravatta irrompevano
sulla scena, come in una retata in un film sul proi-
bizionismo, e calavano la maschera. Tanto sotto ne
portavano un’altra, identica. Partiva allora un pippo-
ne pazzesco per cercare di convincere il maggior nu-
mero possibile di genitori regolamentari a comprare
una benedetta enciclopedia. Questo, quello, il valore
della cultura, l’investimento per il futuro, l’obbligo
morale nei confronti dei propri figli e della loro vo-
glia di sapere. I figli in questione, in quel momento
lì, volevano sapere solo quando sarebbe iniziato il
secondo tempo, ma gli uomini in giacca e cravatta
non li fregavi mica. Il pippone continuava inesora-
bile, mentre i venditori di enciclopedie si aggiravano
in platea come squali famelici, cercando di leggere
il minimo cenno di cedimento sui volti dei genitori.
Un solo sguardo da Ma sai, forse... ed eri fregato.
In ogni caso, fintanto che un numero cospicuo
di acquirenti non saltava fuori, niente secondo tem-
po: qualcuno doveva pur pagare il costo della sala
presa a nolo, oh. L’improvviso timore che qualcuno
prima o poi costringesse a firmare qualcosa o il fatto
che, va bene tutto, ma quaranta minuti di intervallo
proprio no, santo cielo, portavano ai primi abban-
doni coatti. Ragazzini recalcitranti venivano trasci-
nati fuori in lacrime da madri e padri spazientiti, la-
sciando solo le coppie genitore-figlio più irriducibili

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a gustarsi il secondo tempo, il resto di quella storia
raffazzonata di Goldrake e Mazinga tirata fuori in-
collando con lo sputo vario materiale giapponese, o
Adora che faceva vedere alla famiglia reale di Eternia
chi avesse davvero gli attributi in famiglia tra lei e
suo fratello Adam (lei, ovvio). Perché c’era una sola
eventualità peggiore del non poter entrare nel cine-
ma in cui proiettavano il film dei tuoi eroi a cartoni,
ed era poterne vedere solo mezzo, prima di esser tra-
scinato fuori per un braccio.
Poi arrivarono i videoregistratori, o si trovaro-
no altri canali per rifilare le enciclopedie. Fatto sta
che gli uomini in giacca e cravatta, con i loro biglietti
per il cinema gratis ma col trucco, sparirono. Non
è facile capire esattamente cosa sia stato di questi
professionisti, talmente spietati e inarrestabili da far
sembrare Terminator un debosciato. Ma c’è chi, di
tanto in tanto, giura di averne incontrato uno ancora
in attività. I tratti appesantiti dagli anni, la giacchetta
non più così stretta sulle spalle e la cravatta Regimen-
tal non più così larga sul petto (magari viceversa), ma
l’immutata, inconfondibile aria da inflessibile piaz-
zista terminatore. Il venditore di enciclopedie, esat-
tamente come l’enciclopedia stessa, non si è estinto
come uno stupido velociraptor pennuto: si è evolu-
to. Se prima adescava i bambini delle elementari con
la faccia disegnata male di Goldrake o He-man su
un biglietto fintogratuito per il cinema, negli ultimi
anni ha scelto semplicemente un altro terreno di cac-

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cia. E, volenti o nolenti, le sue nuove vittime devono
ascoltarlo: qualcuna, prima o poi, dovrà capitolare,
giurando sui suoi cari che comprerà quella danna-
ta batteria di pentole con coperta in lana merino in
omaggio. Dovrà farlo. O altrimenti col cazzo che il
pullman per la gita gratis a San Giovanni Rotondo da
Padre Pio, fermo da quaranta minuti, si rimetterà in
viaggio.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Una volta se la TV non si vedeva bene potevi sma-


nettare con l’antenna. O lasciare che il nonno la
prendesse a pugni. Adesso, se la TV non riceve bene
il segnale del digitale terrestre o del satellite, vi attac-
cate. Tu e il nonno.

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Due

Lo zainetto Jolly,
scoliotici per scelta

Quella di indossare tutti le stesse cose, di ve-


stirsi tutti allo stesso modo come dei metalmeccanici
in fabbrica, non è chiaramente un’esigenza giovanile
nata negli anni 80. Anzi, a guardare certe tardone an-
darsene in giro oggi con addosso improbabili panta-
loni sportivi, si direbbe che non sia neanche un’esi-
genza tipicamente giovanile. Ma c’è che durante gli
anni feroci delle medie inferiori, e poi su fino agli ul-
timi anni del liceo, ogni ragazzo è costretto a seguire
LAMODADELMOMENTO©. Ieri, oggi, sempre.
LAMODADELMOMENTO© consiste in una
serie di spietate norme estetico-comportamentali
scolpite nel granito e valide per tutti, ma soprattut-
to per i ragazzi più insicuri: violarle vuol dire essere
additati come diversi, finire ai margini della società,
venir presi per il culo pure dai bidelli. O magari no,
chiaro, ma questo il ragazzo insicuro – categoria nel-
la quale rientra, in quegli anni difficili, il 99% del-
la popolazione scolastica (l’1% residuo è impegnato
a vendere il fumo durante la ricreazione) – non ha
modo di saperlo. Privo com’è della benché minima

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fiducia in se stesso, solo di fronte allo sguardo spie-
tato di compagni di classe e fintoamici a vario titolo,
un ciuffo di capelli a coprire la wasteland seborroica
provocata sulla sua fronte dall’acne giovanile, il gio-
vane studente vede dinnanzi a sé solo due vie percor-
ribili: l’omologazione o la morte. O starsene chiuso
in casa, d’accordo, ma a quindici anni meglio la mor-
te, dai.
Questo in linea generale. Se poi vai a studiare
le declinazioni del fenomeno in un decennio vota-
to al consumismo sfrenato come gli anni 80, ti trovi
di fronte a cataclismi di potenza inenarrabile come
la moda dei Paninari, o a piccoli, ma parimenti pe-
ricolosissimi, esempi di malcostume come la storia
dello zainetto Jolly portato male. Lo zainetto Jolly
arriva nelle scuole già nei primi 80, ma il fenome-
no, in qualche modo connesso a quello dei Paninari,
esplode verso la metà del decennio. Ovunque, in tut-
to il Paese, da Cuveglio (VA) a Palizzi Marina (RC),
zaini e tascapane di qualsiasi altra marca vengono
sterminati dall’invasione dei Jolly Invicta. Le schiene
degli studenti di ogni ordine e grado sono marchia-
te a fuoco dal suo rettangolino catarifrangente, da
una massa compatta di tessuti sintetici a fondo blu
scuro, con le tasche colorate e i laccetti azzurri. Ma
non si fa quasi in tempo a rendersi conto della reale
portata del fenomeno, che già lo stesso miete le sue
prime vittime. I possessori di zainetti Seven sono resi
oggetto di un ostracismo feroce, quelli con in spalla

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uno zaino senza marca vengono additati come paria
o soggetti socialmente pericolosi.
Poi, vinte le sacche di resistenza dei non in-
victizzati, quando un Jolly ormai ce l’hanno tutti,
partono i primi distinguo. Come ne La fattoria degli
animali di Orwell, le regole del gioco cambiano in
corsa: non basta più andare a scuola con un Jolly, oc-
corre che sia anche uno dei primi modelli. La linea di
demarcazione diventano le ultime varianti cromati-
che del Jolly liscio, con le tasche di due colori diversi:
qualunque cosa venga dopo non vale più, è in fuori-
gioco di venti metri. Compri un Jolly Top, con quelle
tinte fluo e i moschettoni al posto dei fermalaccetti?
Ti guardano tutti come un parvenu dello zainetto.
Anche questo era edonismo reaganiano.
E poi, chiaro, non bastava mica avercelo, il
Jolly: LAMODADELMOMENTO© indicava nel
dettaglio come andasse portato, imponendo tassati-
vamente di utilizzare uno solo dei due spallacci. In
genere il destro, ma per i mancini era possibile chie-
dere una deroga speciale. Non si è mai capito bene
il motivo, ma usarli entrambi non si poteva mica: il
peso dello zaino andava affidato a un’unica spalla. Il
che, lavorando in tag team con le duemila pagine e i
due chili e mezzo di un vocabolario Rocci Greco-I-
taliano qualsiasi, gettava le basi di una vita di lussi e
benessere per la futura generazione di ortopedici.
Era inoltre necessario che il Jolly avesse il look
più vissuto possibile: non stava bene sfoggiare uno

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zainetto pulito, da imberbi ragazzini delle elementari,
e pertanto occorreva imbrattarlo con gli Uni Posca,
tappezzarlo di spillette, ridurlo in brandelli trasci-
nandoselo dietro ovunque. I meno capaci si accon-
tentavano dei tasconi scuciti e resi inutilizzabili, ma i
più bravi arrivavano a sfondare a colpi di vocabolario
Castiglioni Mariotti, antologie di italiano e volumi
di trigonometria, oltre al proprio cingolo scapolare
destro, anche il fondo dello zainetto, richiudendolo
poi alla bell’e meglio con un paio di spille di sicurez-
za. Più post-punk di così, neanche Siouxsie Sioux e i
suoi Banshees ubriachi a un concerto.
Dalla schiavitù dello zainetto ci si liberava solo
all’ultimo anno delle superiori. Lì, improvvisamen-
te (come giocare con i pupazzini dei Masters cinque
anni prima), arrivare a scuola con il Jolly non era più
prassi socialmente accettabile. Si varcava un confine
sottile e, tutto d’un tratto, quello zainetto che sem-
brava avesse fatto il Vietnam E la Guerra del Gol-
fo prima di finire a vivere per qualche anno in una
comune di graffitari sgrammaticati con una cono-
scenza dell’inglese molto approssimativa, andava ab-
bandonato. LAMODADELMOMENTO© imponeva
infatti che quelli dell’ultimo anno a scuola dovessero
andarci trascinandosi dietro un quantitativo massi-
mo di numero 1 libri di piccola taglia e numero 1
agende. Assicurati da una cinghia elastica, ma alla
bisogna anche no: portati così, in mano, con non-
chalance. La spalla destra, dopo anni di atroci fati-

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che, poteva finalmente riposare: ora toccava al polso
dei giovani maschi italiani quasi maturi soffrire un
po’. Ma, oh, quello agli straordinari c’era già abituato
da un pezzo.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Prima la gente sbuffava quando un semaforo restava


rosso troppo a lungo. Oggi sbuffa perché è scattato
già il verde. E non ha finito di leggere le mail sullo
smartphone.

25
Tre

Al Fight Club del Super Santos

Nel 1999, il mondo intero restò sinistramen-


te affascinato da Fight Club di David Fincher, film
tratto dal romanzo omonimo di Chuck Palahniuk. Il
mondo intero tranne i ragazzini italiani venuti su ne-
gli anni 80, che la storia di un’organizzazione segreta
e capillare incentrata sulla pratica di uno sport virile
in cui si lotta fino allo sfinimento, rispettando solo
poche, semplici e inflessibili regole, l’avevano già vis-
suta. In prima persona.
Italia, primi anni 80, il campetto. Laddove per
“campetto” si intende qualsiasi spiazzo, parco, par-
chetto, parcheggio, giardino pubblico, area condomi-
niale, tratto di litorale, terrazzone o strada pubblica
con poco traffico e non presidiata da vigili incazzosi,
insomma ovunque si possa prendere a calci un pal-
lone. Dall’immediato dopopranzo (post colazione in
estate, quando le scuole sono chiuse) fino al tramon-
to, si consumano feroci battaglie nella rigorosa os-
servanza del REGOLAMENTO UNIVERSALE DEL
GIOCO DEL PALLONE. Che non è quello adottato
dalla FIGC, attenzione, ma una roba completamente

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diversa. Otto regole, pare ereditate da fratelli maggio-
ri e cugini che il loro contributo alla causa del mer-
curocromo l’avevano dato nel decennio precedente,
anche se nessuno lo sapeva per certo. Otto regole che
si erano diffuse esclusivamente per tradizione orale,
di campetto in campetto, in TUTTO lo Stivale, iso-
le comprese. Fino ad arrivare agli svizzeri, anche se
quelli non li aveva invitati nessuno.
La regola numero uno recitava: Chiunque por-
ta da casa il PALLONE DI CUOIO ha sempre ragione
e va assecondato. Sempre. La legge parlava chiarissi-
mo, stabilendo con la regola numero due un preciso
ordine gerarchico dei portatori di pallone: Pallone di
cuoio batte Tango che batte Super Santos. Perché pal-
loni di cuoio veri ne giravano pochi, e quelli che gi-
ravano finivano presto spellati sull’asfalto mangiagi-
nocchia o ingoiati da voraci balconcini di condomini
anziani. E i rispettivi proprietari finivano a loro volta
presi a cinquine da genitori incazzati per il regalo
nuovo distrutto: una mano a dispensare educazione
parentale old school, l’altra pronta con il boccione da
un litro di mercurocromo (per tutti: mercurio cro-
mo). Se allora ne vedevi uno integro, di pallone di
cuoio, beh, chi lo portava sotto il braccio aveva il di-
ritto di pretendere il cavolo che gli pareva.
In mancanza di palloni di cuoio, ci si accon-
tentava del Tango, replica in gomma dell’omonimo
pallone ufficiale dei mondiali in Argentina del ’78,
pesante il giusto, sì da fargli generare dei soddisfa-

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centi TUMP-TUMP quando lo si riportava a casa
palleggiando con la mano, prima di cercare di farlo
girare sul dito come Kareem Abdul-Jabbar.
E di dover tornare indietro a riprenderlo.
Quando mancava pure il Tango, si giocava con
quel mito di 280 grammi di gomma arancione che
risponde al nome di Super Santos. Mai con il Super
Tele. Mai. Nel senso di MAI. Il Super Santos si pre-
sentava sempre e solo nel suo colore arancione vivis-
simo: fatta salva la brutta parentesi del Super Santos
giallo di fine anni 80, sfortunato errore di percorso,
il pallone economico della Mondo è sempre rima-
sto fedele alla sua tinta mandarino, laddove il Su-
per Tele, nel vano tentativo di arruffianarsi giovani
tifosi bambascioni, destinati a una vita da laureati
precari schiavizzati da un contratto a progetto, si è
proposto in una moltitudine di varianti cromatiche
sinceramente disturbanti. E proprio quell’arancione
mandarino del Super Santos, durante le partite sulla
spiaggia, ne agevolava il recupero a seguito di una
rovesciata sul bagnasciuga troppo vigorosa.
Il Super Santos costava sempre di più del Super
Tele. Così, per principio. Per scucire a un negozio un
Santos, come lo chiamava con affetto un’intera ge-
nerazione di piccoli selvaggi, potevano occorrere, a
metà anni 80, tra le 2.500 e le 3.000 lire. In certi po-
sti pure 4.000. Il Super Santos lo trovavi ovunque,
appeso nelle sue retine di plastica – le stesse che ora
il mare, premuroso, restituisce a ogni mareggiata –

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nelle mercerie e nelle edicole. Finanche negli orto-
frutta, giusto accanto alle banane Chiquita gonfiabi-
li. Il Super Tele, invece, era roba da supermercato e
negozio di giocattoli.
E andare a comprare il pallone in un super-
mercato o in un negozio di giocattoli, dopo aver fatto
la colletta tra i compagni di merenda, era situazione
in grado di degenerare per tutta una serie di motivi
molto spiccioli che ora non stiamo qui a raccontare.
Il Super Santos, con le sue righine nere e le sue
scanalature (le prime MAI sovrapposte in modo ur-
bano alle seconde) aveva peraltro dalla sua un van-
taggio mica da ridere: come tutte le cose perfette, mi-
gliorava con l’uso.
Il rodaggio lo ammorbidiva, riducendone il
volume: si perdeva un po’ il meraviglioso suono me-
tallico del pallone nuovo al rimbalzo (PANG!), ma i
dribbling venivano meglio.
E solo dopo averlo spedito a incastrarsi sotto
un numero sufficiente di Ritmo e di 500, solo dopo
averlo calciato con violenza su alberi, balconi, pali,
porte-finestre, tetti condominiali e pensionati, lo
sentivi rispondere adeguatamente, con il giusto peso,
ai tiri di collo pieno potenziati dalle scarpe da tennis
bianche con la chiusura a strappo. Il Super Tele, in-
vece, invecchiando conservava inalterate le sue pro-
prietà peculiari, ossia quelle di essere un palloncino
di merda che al minimo soffio di vento manifestava
preoccupanti affinità con i boomerang degli abori-

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geni australiani. Un Super Tele abbandonato era, per
esempio, una scena comune nei parchetti di tutta Ita-
lia, là dove si andava forgiando una nuova genera-
zione di campionissimi e di disoccupati. Un Santos,
invece, non lo si abbandonava MAI. Non importava
quanto alti fossero i terrazzi e le onde o bassa la 500.
Non è un caso, del resto, che al Super Santos
siano stati dedicati album, canzoni e un libro di Sa-
viano. Il Super Tele, invece, non se l’è mai inculato
nessuno.
La regola numero tre del REGOLAMENTO
UNIVERSALE imponeva che la porta, in caso di as-
senza di veri e propri portieri (ovvero bambini mu-
niti di guanti ricevuti per sbaglio in regalo da una zia
ricca e sbadata al compleanno) dovesse essere difesa
da qualsiasi essere umano non adatto alla mischia nel
campo: fratelli più piccoli, sorelle, bambini obesi, in-
fermi.
Qualunque cosa insomma avesse due mani e
almeno una gamba, ma non fosse arruolabile per la
battaglia là nel mezzo; tanto non era ovviamente ri-
chiesta alcuna particolare capacità atletica, se non il
coraggio di non girarsi mai di lato quando arrivava
il tiro. Dritti, dovevano stare dritti. Così avevano più
possibilità di respingere di faccia la pallonata.
La quarta regola stabiliva che, in caso di assen-
za di un numero pari di giocatori, andassero adot-
tate tutte le soluzioni possibili per cavarne comunque
una partita. Ne venivano fuori squadrissime delle

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grandi intese e ardite soluzioni che chiamavano in
causa portieri volanti, gare a una porta sola, appog-
gio esterno da parte di ragazzi più grandi, impiegati
a tempo solo per riequilibrare un risultato sbilenco,
in casi estremi conversione della partita di calcetto
in altre forme d’intrattenimento giovanile aventi per
protagonista un pallone: a sette si schiaccia, giocolo-
ne, tentativi di battere il record condominiale di pal-
leggi consecutivi di ginocchio, pallonate a un garage
per dar fastidio all’odiatissimo vecchio rubapalloni
del piano di sopra, eccetera.
La regola numero cinque obbligava a include-
re nell’area di gioco pali della luce, muretti, panchine,
alberi e qualsiasi altro ostacolo naturale presente sul
campetto.
La palla veniva dichiarata fuori solo ed esclu-
sivamente nel caso di definitivo smarrimento della
stessa, salvo diversa indicazione del proprietario del
pallone se di cuoio, naturalmente. La stessa regola
imponeva altresì di utilizzare, in caso di assenza di
porte vere o di alberi da sfruttare come pali, pile di
zainetti, pietre, laterizi di varia natura e provenienza
ammucchiati in modo precario. I concetti di “palo”,
“traversa” e “alto” venivano perciò affidati, esatta-
mente come quello di “rigore”, a metri di valutazione
totalmente soggettivi, al richiamo a oscuri preceden-
ti storici come nei sistemi giuridici di common law
(“L’altra volta era palo, quindi mo’ è palo!”), al libe-
ro arbitrio dei giocatori e, in definitiva, al loro buon

31
senso.
Quando ormai erano stanchi di menarsi.
La regola numero sei determinava la forma-
zione tipica della squadra di calcio da campetto: un
portiere (vedi regola numero tre), un attaccante e un
numero di difensorcentrocampisti variabile tra 0 e 20,
dediti al calcio totale meglio dell’Olanda di Johan
Cruijff.
La regola numero sette fissava la durata massi-
ma delle partite in dodici/tredici ore.
Per prassi, comunque, le stesse si chiudevano
con punteggi da pallacanestro un po’ prima, ossia
quando andava via l’ultimo possessore di pallone (se
possessore di pallone di cuoio, al momento dei saluti
circondato da sinceri e disinteressati gesti di amicizia
e parole di adulazione).
La regola numero otto, infine, bypassava nei
casi di forza maggiore la sette, imponendo il rientro
immediato negli spogliatoi dell’atleta convocato dalla
madre con un urlo cacciato dal terrazzino.
Ovunque rispettato, il REGOLAMENTO
UNIVERSALE non era soggetto a deroghe o suscet-
tibile di modifiche: le sue otto regole erano scolpite
nella roccia (a pallonate, come Shingo Tamai).
Otto regole, si narra tramandate ancora oggi
dai ragazzini non ancora sufficientemente rincoglio-
niti dai videogiochi e da Internet.
Otto regole, come nel Fight Club.
Ma senza neanche dover ripetere due volte la

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prima: prendi e porta a casa, Tyler Durden.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Una volta non sapevi quello che stavano mangiando


i tuoi amici a OGNI pasto, in tempo reale.

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Quattro

Masters of the Universe:


i pupazzetti del popolo

Per tutti gli anni 80 e la prima metà del decen-


nio successivo, il negozio di giocattoli è stato, per il
giovane italiano medio non ancora in età da visita
militare, il Paese di Bengodi glassato col marzapane
di Hansel e Gretel. Il negozio specializzato dell’epoca
vedeva al tavolo del Wow! quanto puntato dal setto-
re negli anni 70 (Lego, Playmobil, Big Jim, Barbie,
soldatini Atlantic, Subbuteo e primi robottoni giap-
ponesi di plastica) e rilanciava alla grandissima, in
un tripudio di giocattoli trainati dai rispettivi carto-
ni.
Decine e decine di linee diverse, che spaziava-
no dai Masters ai G.I. Joe, dai Transformers a Vol-
tron, da Rainbow Brite Iridella ai Cabbage Patch
Kids, passando per gli ubiqui Puffi.
Vittima di un circolo vizioso astutamente alle-
stito dalla subdola industria del giocattolo, il ragaz-
zino degli anni 80 guardava alla TV le serie a cartoni
e poi, appena finito l’episodio, iniziava un’opera di
instancabile, orchiclastico pressing psicologico sui
genitori per farsi regalare i relativi pupazzetti, delle

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cui pubblicità erano allora letteralmente imbottite le
pagine di Topolino. Se si mette in conto il fatto che
nei negozi di giocattoli venivano vendute ANCHE
le console dell’epoca, come il Sega Master System,
il Nintendo a 8-bit e in seguito Mega Drive e Super
Nintendo, si comprende bene perché le vetrine di
questi luoghi di perdizione fossero perennemente
macchiate all’esterno, poco sotto il metro e mezzo,
dalle impronte di nasi di fanciulli.
In tutto questo, la linea simbolo tra quelle che
gli appassionati trentenni chiamano oggi action fi-
gure (perché non hanno il coraggio di chiamarle
con il loro nome: pupazzetti), la serie di giocattoli
principe per tutti i ragazzi venuti su negli anni 80
ingurgitando ettolitri di succo Billy, è senza dubbio
quella dei Masters of the Universe. Trent’anni dopo,
non è semplice comprendere le ragioni del fulmineo
successo riscosso su scala mondiale da He-Man e dai
suoi amichetti, così come quelle dell’altrettanto rapi-
do tracollo delle loro fortune.
Quando nel 1982 sono arrivati sul mercato,
questi personaggi di plastica con il busto muscoloso,
le gambette arcuate da cavallerizzi e la mutanda di
pellicciotto, sembravano solo una delle tante serie lì
a spartirsi il mercato delle paghette settimanali e dei
regali di compleanno economici.
Eppure I dominatori dell’Universo ci misero
meno di un battito di ciglia a spopolare: erano vari,
erano tanti, costavano poco. C’era un cattivo con la

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pelle azzurra e la faccia da scheletro che cavalcava
una dannatissima pantera! C’era un gladiatore del
futuro con la corazza arancione! C’erano Trap Jaw e
Tri-Klops, la tigre corazzata Battle Cat… e sì, c’era
pure una versione fisicata di Nino D’Angelo come
protagonista, il femmineo Principe Adam/He-Man,
ok. Ma non soffermiamoci sui dettagli.
Costavano poco i Masters, si diceva, e quindi
li avevano tutti. Andare a giocare dagli amici por-
tandosi dietro i propri, perciò, si traduceva nella
concreta possibilità di allestire maestose battaglie e
coreografici assalti al Castello di Grayskull. E di tor-
narsene a casa con uno Stratos con il braccio man-
giucchiato perché ti eri portato via per sbaglio quello
di Vincenzo, lasciandogli il tuo.
I Masters: questi eroi e questi cattivi con mezzi
spettacolari, in grado di ridicolizzare i pur bellissimi
veicoli del tronfio Big Jim: carri armati con la bocca
da squali, cavalli da battaglia, ragni meccanici. E poi
una linea di personaggi via via arricchita da prota-
gonisti sempre più particolari – Buzz-Off, Roboto,
Webstor, il pornodivo Fisto – sfornati da Mattel e in-
filati nel cartone animato prodotto dalla Filmation,
o viceversa. Per non parlare dei playset, ovviamente.
Macinando montagne di dollari, la Mattel affiancò
presto al Castello del Teschio Grigio la Cittadella del
Serpente, la Tana dell’Orda Infernale di Hordak e so-
prattutto l’ambitissima Eternia. Ecco, i playset, a dif-
ferenza dei singoli pupazzetti, democratici nel loro

36
essere alla portata di tutti, non erano così diffusi. Il
Castello ce l’avevano grossomodo tutti quanti, siamo
d’accordo, ma chi possedeva il Castello E un altro
playset era oggetto in pari misura di venerazione e
invidia infinite. Se poi aveva pure Eternia, il costo-
sissimo playset composto da tre torri e una monoro-
taia, quando andava in giro lo salutavano tutti con il
cinque alto avanti e indietro, come i piloti di Top Gun
durante la partita di beach volley (vedi al riguardo il
capitolo 12).
Giocando con i Masters, sorgevano però alcuni
dubbi, incredibilmente irrisolti ancor oggi, nell’era di
Internet, quando chiunque fa il fenomeno fingendo
di conoscere le cose lette su Wikipedia, come l’autore
di questo libro. Il dubbio amletico, in poche parole,
era il seguente: era lecito giocare con i personaggi
femminili della serie? Si trattava di un problema per-
lopiù inedito, perché le altre linee di pupazzetti pre-
cedenti non avevano protagoniste femminili.
Solo tra i Big Jim c’era Fresca Rugiada/India
Apache, la mamma della Famiglia Felice Mattel ri-
collocata come squaw da un’agenzia per il lavoro in-
terinale, ma si trattava di un caso isolato, e nessuno
si sognava comunque di comprarla.
Le Barbie e i loro cloni economici venduti alla
Standa erano giochi da femmine, e come tali derisi
con ostentato machismo coatto da scuole elementa-
ri. Con i Masters, però, la faccenda si complicava: già
nella prima linea c’era Teela, poi seguita da Evil-Lyn

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e Sorceress. E pur nella loro natura di guerriere, ma-
ghe malvagie, amiche travestite da quaglia del bion-
do principe di Eternia con il caschetto di un noto
cantante neomelodico napoletano, cos’erano se non
BAMBOLE?
Negli ultimi vent’anni, tutti i maschi adulti
del pianeta rimasti infettati dal morbo del nerdismo
hanno aggirato il problema, usando la conveniente
definizione di action figure, si diceva poco sopra, ma
allora mica c’erano i forum a dirti che era normale
giocare con le bambole se le chiamavi con un altro
nome.
Se gli regalavano Teela invece di un altro Evil
Warrior di Skeletor, uno ci restava male e si faceva
un sacco di domande.
A quale titolo poteva continuare a perculare
le Barbie della sorella, ora che aveva una bambola
guerriera prodotta dalla stessa azienda, assemblata
dagli stessi bambini del Sud-est asiatico sottopagati?
I capelli plastificati, il possesso di armi e l’assenza nel
vestiario di capi color fucsia aggressivo bastavano a
marcare una linea di separazione rispetto all’odiata
bambola modaiola?
E se quel pover’uomo di Ken per anni non era
mai stato ammesso tra i Big Jim grossomodo per le
ragioni opposte, si poteva mai seguire adesso una
politica di figli e figliocci?
Varie scuole di pensiero sorte allora, nel vano
tentativo di trovare una soluzione all’angoscioso di-

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lemma, proposero l’impiego dei personaggi femmi-
nili in ruoli di supporto. Perché menare una donna
giocattolo con un mostro, pur nel machismo coatto
delle scuole elementari, sembrava fortunatamente
già una roba sbagliata, e menare un mostro impu-
gnando una bambola pure.
Perciò le femmine della linea Masters of the
Universe, come la Daphne del videogioco Dragon’s
Lair o la principessa Peach di Super Mario Bros., fini-
vano prigioniere da salvare nel castello. Tutte e quat-
tro: Teela, Evil-Lyn, Sorceress... e He-Man.
Qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto
perché non si sia fatta menzione di quegli ALTRI usi
impropri dei personaggi femminili.
Ma ne parlate giovedì con il vostro analista,
ok? Più o meno con la stessa velocità con cui il fe-
nomeno Masters aveva trasformato milioni di geni-
tori di tutto il pianeta nell’azionariato popolare della
Mattel, le vendite all’improvviso precipitarono.
Dai 400 milioni di dollari incassati dalla linea
nel 1986, si passò a soli 7 nell’anno successivo. Ma-
gari perché non c’era più il cartone animato (andato
in onda negli USA fino al 1985), traino chiaramente
fortissimo nella vendita dei pupazzetti.
Magari perché cominciava a farsi sentire an-
che in tutto il mondo occidentale la concorrenza
dell’intrattenimento elettronico, la forza delle conso-
le giapponesi a 8-bit. Magari, semplicemente, perché
se in una linea di guerrieri giocattolo passi da Zodac

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e Trap-Jaw a Moss Man, l’Uomo Muschio, e Stinkor,
il Master che puzza, un po’ te la cerchi, senti.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Gli spazzolini da denti prima avevano le setole tut-


te bianche e dritte. Non sembravano la suola di una
Nike da pallacanestro.

40
Cinque

Il Walkman, musica solida

Avete presente quello che si dice sempre del-


le invenzioni più geniali, degli oggetti in grado di
cambiare i costumi di mezzo pianeta, di segnare
un’epoca? Di come siano nati per caso, da un’idea
brillata all’improvviso nella mente di qualcuno che
stava pensando ad altro, tipo che il loro inventore al
momento della folgorazione si trovava in un caffè e
rimuginava sulla bolletta del telefono troppo cara,
tutta colpa di sua moglie e sua figlia, ché lui non
chiamava mai nessuno? Bene, il Walkman, uno degli
oggetti simbolo degli anni 80, piccolo parallelepipe-
do plasticoso votato al culto del volubile dio sumero
chiamato pila stilo, non nasce per caso. Manco per
niente.
Se il Walkman viene inventato, nel 1979, è
infatti solo perché al co-fondatore della Sony, Akio
Morita, giravano le balle.
Giravano le balle, a Morita-san, perché dove-
va sorbirsi quegli interminabili voli intercontinentali
per lavoro senza poter ascoltare la sua adorata mu-
sica classica. Ecco perché nel 1978 ordinò all’inge-

41
gnere capo della divisione audio della sua azienda di
inventarsi qualcosa.
E quello, gridando È un bel direttore! con la
voce del Geometra Calboni, gli tirò fuori il Walk-
man. A Morita-san le balle continuarono comunque
a girare a lungo, perché il nome che la sua compagnia
aveva scelto per quel coso – Walkman, appioppato-
gli in qualità di successore del registratore portatile
Pressman – a lui non piaceva affatto.
Ma si era già messa in moto la campagna pub-
blicitaria, si erano già spesi un pacco di soldi... Walk-
man? Walkman.
Poi arrivò Il tempo delle mele (film francese di
limonare diretto da Claude Pinoteau nel 1980), con
la stranota scena del ballo con le cuffiette, e tutti i ra-
gazzini dell’epoca iniziarono a desiderare follemente
di averlo anche loro, un lento con la divina Sophie
Marceau sulle note di Reality di Richard Sanderson,
mentre tutti gli altri intorno ballano come dei droga-
ti. Siccome però la Marceau non la vendevano mica
nei negozi di musica ed elettrodomestici, purtroppo,
mentre quel coso con le cuffiette sì, dovettero accon-
tentarsi.
Nel giro di qualche anno, il Walkman spopolò,
tanto da ritrovarsi a un certo punto ad annaspare tra
le ondate di cloni a basso costo, basso prezzo, bassa
resistenza dello sportellino pile. Fagocitato dal suo
stesso successo, come il Pong della Atari o quei gio-
vani attori prodigio che finiscono in rehab dopo il

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terzo film con la Disney. Walkman divenne così un
termine generico, un nome buono per indicare tutti
i riproduttori di audiocassette portatili con cuffiette,
che fossero quelli sfornati dalla Sony o dall’ultimo ta-
rocchificio taiwanese.
Un fenomeno che tecnicamente si chiama vol-
garizzazione del marchio, ma non ha niente a che fare
con alcuni modelli di auto tipo la vecchia Golf o la
Uno Turbo che diventavano tamarri perché uno ci
metteva i coprisedili in pelliccia e i dadi di peluche
appesi allo specchietto retrovisore. E insomma, il
parallelepipedo con le cuffiette coperte di spugna
arancione e legate da un archetto metallico finisce in
mano ai ragazzi, che vivono felici la loro rivoluzione
musicale.
Il popolo della cassettina, che sta lì a chiedere
con insistenza i brani alla radio per registrarseli, è
ora finalmente libero. Libero di ascoltare la musica
in autobus fingendo che quello che scorre oltre il fi-
nestrino e sotto i loro occhi sia un videoclip lunghis-
simo tutto girato in piano sequenza. Libero di sentire
le proprie compilation sfornate dalla più indipen-
dente delle etichette (un compagno di classe con la
doppia piastra), mentre pedala felice per la città sulla
sua bicicletta, rischiando di esser messo sotto a ogni
incrocio. Libero di far sentire una canzone a un ami-
co o un’amica – se la canzone non era un pezzo rock,
si stava tentando di rimorchiare – senza prestargli/
le i propri dischi o invitarlo/la a casa. Basta un “To’,

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ascolta”. È un mondo nuovo, la scena madre di uno
di quei musical in cui, non si capisce bene per quale
motivo, tutti a un certo punto scendono in strada e si
mettono a ballare.
Ma è una libertà che ha un prezzo.
E non è quello del Walkman in sé, presto alla
portata di tutti nel tripudio di tarocchi dai colori ag-
gressivi di cui sopra, né il costo di tutto quello scotch
immancabilmente chiamato ad assicurare lo sportel-
lino del vano pile, che al terzo, massimo quarto at-
terraggio di fortuna tendeva ad andarsene per i fatti
propri: è il costo di quanto in quel vano pile anda-
va infilato. Perché c’era un momento preciso in cui
la voce sul nastro, metti quella di Robert Smith che
canta In Between Days o Miguel Bosè che canta Bravi
ragazzi, diventava quella di un 45 giri riprodotto a
33, e poi sfumava nel grande niente. Erano morte le
dannate batterie.
La potente lobby della pila stilo, dall’alto della
sua loggia del coniglietto felice che non si stanca mai
perché si sfonda di anfetamine, si fregava le mani
nell’assistere alla nascita di una nuova generazione
di adepti da prendere a frustate.
Nelle case degli italiani, come in quelle di tutto
il resto del pianeta civilizzato, si andava delineando
nel frattempo la grande piramide alimentare delle
batterie. Bilance pesapersone, radiosveglie e picco-
li elettrodomestici finirono rapidamente alla base,
piccoli erbivori indifesi sottomessi davanti al nuovo

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predatore.
Almeno fino a quando qualche anno dopo non
sarebbe saltato fuori il Game Boy a rimescolare tutte
le carte, a ridisegnare i rapporti di forza, se trovavi la
radio di casa o il frullino per montare il latte senza
batterie, è perché qualcuno in famiglia se l’era prese
per infilarle nel Walkman. Garantito al limone.
Quale che ne fosse l’origine, quelle pile biso-
gnava poi farsele durare ovviamente il più a lungo
possibile, il che spiega perché il tasto Rewind non
fosse MAI utilizzato dalla maggior parte dei pos-
sessori di un Walkman. Oggi la musica è diventata
liquida a tal punto che le persone l’acquistano solo
in MP3, hanno discografie complete da ascoltare su
Spotify e i CD sembrano una roba ormai obsoleta:
negli anni 80, invece, quella da ascoltare con le cas-
settine e il Walkman era una musica talmente solida
che i nastri si riavvolgevano con la penna Bic.
Chi, tra i lettori di questo libro, ai tempi non
c’era o era troppo giovane, provi a condurre il se-
guente esperimento: raccatti da qualche parte – tipo
nella macchina del nonno, in genere grande collet-
tore di vecchi nastri con i successi di Claudio Villa e
artisti coevi – una musicassetta e si presenti davanti
a un trenta/quarantenne a sua scelta impugnando in
una mano la cassetta e nell’altra una Bic.
Appena avrà finito di piangere, il soggetto scel-
to vi farà vedere come si faceva. Chi invece c’era, ri-
corderà commosso tutti quei nastri riavvolti con una

45
penna a sfera. O le pile infilate nel frigo. In buona so-
stanza, tutto faceva brodo, pur di fregare quel fottuto
coniglietto maratoneta.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Prima, per chiamare una persona da fuori dovevi a)


procurarti una pila di monetine e o gettoni, b) tro-
vare una cabina libera e non devastata dagli Unni,
c) sperare che quella persona fosse in casa. Non era
solo una telefonata: era un esercizio di calcolo delle
probabilità.

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Sei

Lo sport visto dai (cartoni)


giapponesi

Il barone Pierre de Coubertin – pedagogista


francese con un paio di baffi importanti, fondato-
re dei Giochi Olimpici moderni e gran consolatore
di sconfitti ai quali, di aver partecipato, a un certo
punto sai che fregava – definì lo sport “una possibile
fonte di miglioramento interiore per ogni individuo”.
Haile Gebrselassie, campione olimpico etiope, disse
che “lo sport è nato per far felice la gente”. Secondo il
grande tennista americano Pancho Gonzales, “nello
sport più ti diverti più ti alleni; più ti alleni più mi-
gliori; più migliori più ti diverti”. Ma sono tutte caz-
zate: lo sport è sofferenza. Tanta, tanta sofferenza, che
conduce alla fine alla vittoria. Oppure alla morte.
Una delle due. Tutto questo, come noto, è sta-
to spiegato benissimo da decine di cartoni animati
giapponesi.
Prendi per esempio L’Uomo Tigre. La vita del
piccolo orfano Naoto Date cambia improvvisamente
il giorno in cui allo zoo si trova davanti alla gabbia
di un animale fiero e possente, e decide di voler di-
ventare proprio come quella bestia. Per sua fortuna,

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la gabbia non era quella dei babbuini, ma quella delle
tigri: si fosse chiamato l’Uomo Babbuino, magari non
se lo sarebbe cagato nessuno, metti. Il piccolo Naoto
che vuole diventare forte come una tigre finisce così
più o meno casualmente nelle mani di una spietata
organizzazione chiamata Tana delle Tigri, che scova
giovani orfani in giro per il mondo e li porta in un
posto segreto delle Alpi per tirarne fuori dei wrest-
ler sottoponendoli ad allenamenti da tortura medie-
vale: restare appesi sotto un ponte a testa in giù per
giorni, passare sotto lame a mezzaluna oscillanti, ve-
nir presi a sferzate dalla mattina alla sera, affrontare
belve feroci a mani nude, assistere per giorni senza
addormentarsi a una pallosissima telenovela argen-
tina. Prove di una crudeltà inaudita. Anni dopo, Na-
oto diventa un lottatore mascherato e inizia a calcare
i ring prima degli USA, poi del Giappone. Essendo
uscito da Tana delle Tigri, organizzazione al cui ver-
tice c’erano tre tizi chiamati Tigre Nera, Grossa Ti-
gre e Re Tigre, con grande personalità decide di farsi
chiamare Uomo Tigre. Inizia però a esser persegui-
tato dagli emissari di Tana delle Tigri, che vogliono
ucciderlo. Aveva forse violato un qualche sacro giu-
ramento dell’organizzazione? Aveva forse detto che
quella statua gigantesca della tigre alata con la coda
di serpente era di un kitsch incredibile e non esat-
tamente ideale per un’organizzazione segreta? Aveva
fatto notare a Re Tigre che teneva la panza? No, è che
non aveva cacciato i soldi. Tana delle Tigri pretende-

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va dai suoi lottatori metà degli incassi, perché, beh,
tutti quegli anni di formazione gratuita? L’acquisto
di motoseghe e fruste e mezzelune oscillanti e fiere
sanguinarie? Viene mica via gratis tutta quella roba
lì, ciccio.
Ma Naoto non vuole pagare, e così, anziché
chiedere l’emissione di un decreto ingiuntivo o rivol-
gersi a un’agenzia di recupero crediti, Tana delle Ti-
gri decide che l’Uomo Tigre sia uno sporco traditore
e debba morire. Ragion per cui un uomo con la pelle
viola, il monocolo, il cilindro, un mantello e una voce
tremendamente nasale noto come Mister X – perché
quando gli chiedevano di firmare un documento si
scopriva subito che era analfabeta – gli sguinzaglia
contro tutta una serie di tizi uno più brutto dell’altro.
Un energumeno gigantesco allevato nella
giungla dai primati, la versione finita malissimo del-
la storia di Tarzan e Mowgli (Uomo Gorilla), un lot-
tatore cresciuto in mezzo a lupi e librogame (Lupo
Solitario), un altro svezzato all’Agenzia delle Entrate
(Piranha) o il celebre Mister No, non l’eroe Bonelli
ma il simbolo, con la sua enorme testa a forma di
pene, di quanto fossero cazzoni i lottatori di Mister
X. Ma Naoto non si arrende. Combatte, migliora le
sue tecniche, si sforza di metter da parte la violen-
za e le scorrettezze che caratterizzavano i match de-
gli esordi per diventare un wrestler buono. Patisce
le pene dell’inferno e supera ostacoli disumani, ma
batte tutti gli avversari.

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E poi muore in un incidente stradale.
Passiamo a Rocky Joe. Un altro orfano ribelle
che un giorno conosce il guercio ubriacone Danpei
Tange, vecchio pugile ed ex allenatore. Joe accetta di
farsi allenare per diventare un campione di boxe, e
perciò si fa un culo quadrato in una baracca di peri-
feria: suda, picchia e sbuffa, come recitava la sigla.
Come premio per i suoi sforzi, finisce in rifor-
matorio, dove lo gonfiano come un canotto. Poi esce,
diventa un pugile professionista, e sviluppa questa
tecnica che consiste nel prenderle fino alla fine per
poi risolvere il match con un colpo d’incontro incro-
ciato. Arriva finalmente a sfidare il suo rivale storico
Toro Riki, e quello muore. Joe resta traumatizzato,
ma non si arrende: c’è ancora il suo sogno, la possibi-
lità di combattere per il titolo mondiale di categoria.
Joe sa di doverlo fare, di dover vincere. Per se stes-
so, per il vecchio Danpei, per Riki, per la caritatevole
signorina Shiraki, per tutti i poveri disperati che in
lui vedono un simbolo di rivalsa, l’emblema di chi ce
l’ha fatta a uscire da una vita di povertà e miseria.
Deve vincere: contro il campione messicano
Mendoza, cascasse il mondo, può e deve vincere.
Solo che perde. E muore.
Anche lasciandoci alle spalle gli sport di com-
battimento, il tema di fondo non cambia. Vuoi essere
un campione? Soffri, ché qui mica si sta ad annoda-
re i nastrini a Hello Kitty, senti. L’autore dei manga
da cui sono state tratte le serie animate dell’Uomo

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Tigre e di Rocky Joe, Ikki Kajiwara, si occupò an-
che di calcio. Il cartone tratto da quel fumetto arrivò
in Italia diverso tempo dopo rispetto al Giappone,
nei primissimi anni 80, con il titolo di Arrivano i Su-
perboys. Era, quella, la storia del sempre sudatissimo
Shingo Tamai e dei suoi compagni nella squadra del
liceo, allenata da un professore di educazione fisica
(Tempei Matsuki) che aveva ottenuto l’abilitazione
all’insegnamento a Sparta. La serie è tutto un susse-
guirsi di allenamenti sotto il diluvio, tuffi sullo ster-
rato, palle di ferro da ergastolani ai piedi trascinate
in pendenza sulla neve. E come dimenticare l’allievo
di Pelè, Ken Santos, brasiliano di madre giapponese
e dai capelli viola, che si allena di notte rifilando dei
calci fortissimi di collo pieno al tronco di un albero?
O appendendosi una roccia al collo? O stendendo,
appena se ne presenta l’occasione, un toro infuriato
con un calcio in testa, una roba che avrebbe lascia-
to a bocca aperta pure Chuck Norris? E come tacere
l’ovvio beneficio apportato alle caviglie di un gioca-
tore dal PASSARCI SOPRA CON UNA JEEP?
Ai calciatori più bravi, una bella vacanza pre-
mio al campo estivo di Tana delle Tigri, teh, crepi
l’avarizia.
Vabbè, ma magari era una fissa di questo auto-
re, Kajiwara, no? No. In Mimì e la nazionale di palla-
volo, cartone noto per aver spinto a giocare con una
palla anche un’intera generazione di ragazzine, la
protagonista Mimì Ayuhara si sottopone ad allena-

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menti disumani, a base di catene ai polsi e pallonate
in faccia, agli ordini di un uomo con la barba e gli
occhiali scuri da maniaco. Un allenatore campione
panasiatico di sadismo. Ma Mimì, negli occhi un’in-
tera batteria di luci anabbaglianti, non molla: come
tutti gli eroi dei cartoni giapponesi sportivi, crede nel
suo sogno, cioè diventare assoluta protagonista della
nazionale giapponese e portarla alla vittoria. Si sfor-
za, combatte.
E le muore il fidanzato.
Sofferenza, sofferenza e poi un altro po’ di sof-
ferenza, giusto per. Vale anche per Jenny la tennista,
per Ken Falco, pilota che rischia di finire ucciso in
ogni gara, per i protagonisti di Tommy, la stella dei
Giants. Si potrebbe pensare che la serie Holly e Benji
rappresenti una grande eccezione a questo tema,
ma non è ovviamente così. Lasciamo da parte tutti
quei discorsi sulle geniali trovate che schiaffeggia-
vano metaforicamente fortissimo il volto di Newton
in ogni puntata, su quella fisica particolare per cui
i protagonisti portavano palla per 700 metri su un
campo di calcio ricavato su un piccolo asteroide, con
6 milioni di spettatori a una partitella di ragazzini.
Le catapulte infernali, i palloni che si ovaliz-
zavano quando veniva scoccato un tiro – tratto co-
mune a tutti i cartoni sportivi giapponesi (la colpa
era ovviamente del padre di Shingo Tamai, fabbri-
cante di palloni. Truccati) – i flashback a metà salto
che duravano tre puntate. Li lasciamo da parte, quei

52
discorsi lì, perché sono cose di cui si è occupata In-
ternet da quando è nata, e fanno ridere solo gli inge-
gneri.
Concentriamoci sui protagonisti del cartone:
il sorriso da pistola di Oliver Hutton, detto Holly,
potrebbe in effetti trarre in inganno. Questo picco-
lo mentecatto vuole diventare un campione e corre
sempre felice dietro alla palla, qualsiasi cosa gli capi-
ti.
Ci sono dei problemi in famiglia? Un suo com-
pagno di squadra (ci arriviamo subito) rischia di
schiattare?
Che gli frega! Lui ride e si rimette a correre
dietro al suo pallone. Roba che al confronto Forrest
Gump era Nikola Tesla. Ma basta vedere la sorte ca-
pitata agli altri protagonisti del cartone per realizzare
come il tasso di sfiga medio del protagonista di un
anime sportivo (o TSMPAS), schivato per puro culo
dal sorridente aspirante campione scemo, SI AB-
BATTA INESORABILMENTE su chi lo circonda. Se
infatti Hutton se ne sta lì, con la sua voce da bambi-
netto, a palleggiare anziché allenarsi sotto il diluvio,
sfondare i muri a pallonate, sputare sangue (letteral-
mente) e sconfiggere tori infuriati come Shingo Ta-
mai e i suoi amici, attorno a lui è un fiorire di piccoli
drammi. La carriera del carismatico portiere Benja-
min Price, detto Benji, è funestata da una sequela in-
terminabile di infortuni e disgrazie. Bruce Harper è
una pippa con il monociglio di Peo Pericoli, e non

53
si sa bene perché continuino a farlo giocare. Julian
Ross, invece, continuano a tenerlo in campo anche se
soffre di una malattia cardiaca congenita e ogni volta
rischia di schiattarti lì durante la partita. I gemelli
Derrick hanno un gravissimo problema ortodontico
(un unico, gigantesco incisivo in bocca), ma nessuno
sembra accorgersene.
E poi c’è Mark Lenders, ovvio. Il tiro della ti-
gre, la pelle abbronzata, le maniche arrotolate e in
generale quell’aria da giostraio dell’Est che mette a
posto le macchine dell’autoscontro e i calcinculo.
Lenders ha tutti i tratti dell’eroe giapponese
sportivo classico: è orfano, è povero, ha un allenato-
re avvinazzato e una gran voglia di vincere. Quando
ancora milita nella sua prima squadra – chiamata in
italiano Muppet perché facevano tutto lui, il suo por-
taborse Danny Mellow e il grande portiere karateka
Ed Warner: gli altri stavano lì come dei pupazzi – si
allena sull’arenile sotto la pioggia (un grande classi-
co), resistendo impavido alla forza delle onde e pren-
dendo a pallonate un falco di passaggio. Il risultato
dei suoi sforzi? Viene battuto nella grande finale del
campionato nazionale minchietti delle elementari
dall’odiato Hutton. «Ed è gol!», urlava il solito tele-
cronista ai milioni di telespettatori che seguivano l’e-
vento in diretta da casa. «Ma porca puttana!», urlava
Lenders, distrutto.
In seguito altri manga dello stesso autore e re-
lative serie TV (come Che campioni Holly e Benji!!! e

54
Holly e Benji forever) ci hanno raccontato cosa ne sia
stato di questi ragazzi. Rimasti tutti uguali, con giu-
sto un metro di gambe in più. Hutton il raccoman-
dato finisce a raccoglier gloria al Barcellona, mentre
Lenders viene ingaggiato dalla Juventus. Ma il me-
dico sociale scopre che il suo corpo è troppo pro-
vato da quegli allenamenti massacranti, e in campo,
alla prima di campionato, rimedia una figura barbi-
na contro il Parma perché Thuram non gli fa toccar
palla. Lo spediscono così in prestito in una squadra
minore (la Reggiana) in C1, a rodersi il fegato, e spa-
risce dalla scena. E quell’altro, intanto, fa le goleade
e dribbla squadre intere in Spagna con il suo sorriso
da pistola. È il TSMPAS, quando ti tocca ti tocca.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Nel compito in classe non potevi farti aiutare da


Wikipedia e Google sul telefonino: potevi solo chie-
dere a un compagno secchione di darti una mano. Se
il compagno secchione era stronzo, eri fottuto.

55
Sette

I telefilm, scuola di vita sbagliata

Che le serie TV siano oggi molto più comples-


se rispetto a com’erano trent’anni fa è sotto gli oc-
chi di tutti. Per dire, c’è ancora gente che sta lì a farsi
mille domande sul finale di Lost o che si chiede che
diavolo sia successo a Tony in quell’ultima puntata
de I Soprano (è morto? Gli hanno sparato? Gli è pre-
so un coccolone? Un attacco di dissenteria?). Inizia
una nuova serie e per capire a) di cosa parli, b) se
possa essere o meno di tuo gradimento, devi arrivare
almeno a metà stagione. Negli anni 80 non era così. I
telefilm americani, quelli nati in quel periodo e quelli
figli degli anni 70, ma arrivati insieme agli altri nel
grande frullatone della programmazione delle prime
reti private nazionali, erano infinitamente più sem-
plici e lineari.
Potevi guardare una puntata dell’A-Team, per
esempio, senza averne mai vista una in precedenza,
e godertela esattamente come chi la serie aveva ini-
ziato a seguirla dal primo episodio. Tutto quello che
c’era da sapere te lo diceva addirittura la sigla, con un
mini-spiegone iniziale: Dieci anni fa, gli uomini di un

56
commando specializzato operante in Vietnam venne-
ro condannati ingiustamente da un tribunale militare.
Evasi da un carcere di massima sicurezza, si rifugiaro-
no a Los Angeles vivendo in clandestinità. Sono tutto-
ra ricercati, ma se avete un problema che nessuno può
risolvere, e se riuscite a trovarli, forse potrete ingaggia-
re il famoso A-Team. Ed era tutto lì, eh. Hannibal era
quello che fumava i sigari e adorava i piani ben riu-
sciti, Sberla era quello che rimorchiava, Murdock era
il pazzo, P.E. Baracus quello vestito tutto tamarro che
odiava volare e prendeva la gente a cazzotti. E? E ba-
sta. In ogni episodio, un qualche povero cristo vessa-
to da un malvagio latifondista/palazzinaro/specula-
tore chiamava l’A-Team; loro arrivavano, sparavano
diecimila proiettili a vuoto senza colpire mai nessu-
no – perché erano delle brave persone o forse per-
ché erano solo tutti e quattro molto miopi – lancia-
vano dei candelotti di dinamite che facevano saltare
per aria gli stuntman e sgommavano col furgoncino
nero. E alla fine, in ogni circostanza, quale che fosse
il contesto o il problema da risolvere, si ritrovavano
circondati in uno scantinato/autorimessa/miniera/
bungalow e costruivano un carro armato partendo
da un camioncino della frutta. Un paio di bulloni
stretti a mano da P.E., una botta di fiamma ossidrica
e voilà, a prendere a calci in culo i cattivi. Fatte salve
alcune eccezioni, non c’era che una continuity molto
vaga nei telefilm di allora, i personaggi erano carat-
terizzati in modo ben preciso e ogni episodio face-

57
va storia a sé. Puro intrattenimento, senza intrecci
secondari, sottotrame da tenere a mente, situazioni
ambigue che si prestano a molteplici interpretazio-
ni: in buona sostanza, non chiedevano allo spettato-
re nulla di più che starsene lì a ruminare merendine
davanti alla TV. Guardavi l’episodio e basta. E se ti
infilavano una puntata vecchia in mezzo a quelle più
recenti – e capitava, eh, oh, se capitava – te ne accor-
gevi perché uno dei protagonisti era più giovane, o
magari perché assieme all’A-Team c’era ancora quella
tizia, la giornalista Amy; ma non faceva nulla, alla
fine era la stessa cosa.
Prova a farlo oggi con un episodio di Breaking
Bad o di Game of Thrones.
Nel suo libro Tutto quello che fa male ti fa
bene, il giornalista e scrittore statunitense Steven
Johnson spiega che i telefilm a un certo punto si
sono fatti più complessi perché il pubblico era pron-
to. Dopo aver seguito decine e decine di serial per
alcuni decenni, era pronto a produzioni più arti-
colate, diverse dagli schemi seguiti fino ad allora.
Prova ne è che anche le sitcom, per definizione le
serie TV più spensierate di tutte, si sono arricchite
di citazioni e hanno iniziato a sperimentare struttu-
re e formule diverse. Prendi I Robinson o I Jefferson
e confrontali con un episodio qualsiasi di How I met
your mother o Big Bang Theory. A un certo punto,
semplicemente, è successo: il prodotto televisivo si
è evoluto e il pubblico – noi tutti – era in grado di

58
fruirlo. Il grande clamore suscitato e intere famiglie
italiane raccolte davanti al televisore da I segreti di
Twin Peaks di Lynch nel ’91 ne sono un esempio
perfetto. Sì, con tutto che la fascia più anziana di
pubblico andò in confusione quando iniziarono ad
apparire il nano, la stanza rossa e quelle altre robe
strane, ok. Ma se da un lato è evidente che i serial
odierni stimolano molto di più l’intuito e l’imma-
ginazione, dall’altro bisogna ammettere che anche
i telefilm degli anni 80 ti insegnavano qualcosa. Si
parlava poco sopra dell’A-Team: bene, le avventure
di Baracus e amici ti insegnavano che se avevi un
problema che nessuno poteva risolvere e, come ogni
cittadino rispettabile, anziché telefonare alla polizia
ingaggiavi dei mercenari ricercati come criminali di
guerra e armati fino ai denti, potevi stare tranquillo
perché a) non avrebbero ucciso nessuno e b) l’eser-
cito avrebbe chiuso tutti e due gli occhi e fatto finta
di niente, girandosi dall’altro lato e gridando LALA-
LA NON VI SENTO LALALA. Quelli esplodevano
quintali di proiettili, costruivano bulldozer improv-
visati, lanciavano decine di candelotti di dinamite
accesi col sigaro di Hannibal in giro per gli States,
scatenando piccole guerre private, e riuscivano a
fare tutto questo vivendo in clandestinità, come
sosteneva la sigla. Ché se, metti, avessero deciso di
uscire allo scoperto, minimo sarebbero passati alle
testate nucleari.
Anche la serie MacGyver ti insegnava un sacco

59
di cose pratiche. E cioè che ritrovandosi rinchiusi in
un bagno di servizio come il protagonista , sarebbe
bastato avere un coltellino svizzero per grattare un po’
di alluminio da una tapparella e spalmarci sopra del
dentifricio e un po’ di carta igienica, ottenendo così
una mitragliatrice a canne rotanti Vulcan o un lan-
ciarazzi. Ma il meglio, sul piano didattico, riusciva-
no a dispensarlo i telefilm aventi per protagonisti dei
veicoli: vera scuola di vita per generazioni di italiani
che, grazie a queste serie, hanno imparato a guidare
malissimo e a rappresentare un pericolo per l’incolu-
mità pubblica sulla strada. Pensateci un attimo. Haz-
zard, l’adoratissima Hazzard, era basata come tutti
sanno sul culo incredibile della cugina Daisy e, solo
secondariamente, sui salti spacca-sospensioni del
Generale Lee, una Dodge Charger del 1969 arancio-
ne, con la bandiera degli Stati Confederati d’America
sul tetto, le portiere saldate e un clacson da podio
garantito nel campionato internazionale delle ta-
marrate. Alla guida del Generale Lee c’erano i cugini
Bo e Luke Duke, che per quella storia delle portiere
saldate che nessuno ha mai capito davvero, o proba-
bilmente solo per fare gli sboroni, entravano in auto
dai finestrini, con un’evoluzione ginnica da esercizi
al quadro svedese. Bene, non tutti ricorderanno che i
cugini Duke erano due delinquenti. Condannati per
contrabbando di whisky distillato illegalmente dallo
zio Jesse, erano sottoposti a un regime di libertà vi-
gilata. Il che, a quanto sembra, non impediva loro di

60
bruciare ogni limite di velocità della contea (quelli
veri e quelli con il trucco), per seminare lo sceriffo
Rosco P. Coltrane e gli altri sgherri di Boss Hogg;
o, siccome non potevano adoperare armi da fuoco,
di utilizzare archi con candelotti di esplosivo fissati
alle frecce. Se ogni ragazzo venuto su negli anni 80
ancora oggi, da adulto, appena vede un dosso bello
pronunciato sogna di saltarlo con la sua auto, la col-
pa è di quei due ex contrabbandieri spacconi. Quello
che nel telefilm non ti dicevano, del resto, è che di
Generale Lee non ne è stata usata una sola. A secon-
da delle fonti, si parla di un numero compreso tra le
256 e le 321 macchine impiegate, perché dopo OGNI
salto lungo le Dodge andavano buttate: nonostante
fossero preparate appositamente, riportavano danni
strutturali tali da renderle inutilizzabili. Centinaia e
centinaia di macchine arancioni distrutte, in media
più di una a episodio. Così, cari i miei cugini Duke, a
far gli sboroni son buoni tutti. Perfino quegli altri cu-
gini tarocchi (Coy e Vance Duke) che avevano preso
il vostro posto a un certo punto, quando voi eravate
in sciopero.
E vogliamo parlare di Supercar, che i salti li fa-
ceva anche senza bisogno di una rampa? Di chi cre-
dete sia la colpa se oggi, in mezzo al traffico, vedete
litigare dei giovani uomini con i controlli vocali della
propria auto, paonazzi in volto, anziché accostare e
premere UN tasto? E ringraziamo il cielo perché al-
meno navigatori satellitari e auto parlanti non sono

61
spocchiosi e super-precisini come KITT. Ci sarebbe
poi da fare tutto un discorso sulle lucine, che trasfor-
mano normali utilitarie in pacchiani alberi di Natale
su ruote, ma lì la colpa va divisa almeno al 50% con il
revival della lucina tamarra introdotto dai film della
serie Fast and furious, a essere onesti. Quanto alla
velocità, il mito della supermacchina velocissima,
già rappresentato da decenni dagli sport motoristici,
veniva sublimato in questi mostri tecnologici neri.
Oltre a rimproverare il protagonista Michael
Knight per i suoi atteggiamenti a volte discutibili, la
sua impulsività e il fatto che se ne andasse in giro
con una giacchetta di pelle nera, un paio di pantaloni
bianchi e una camicia sbottonata fino all’ombelico,
come un traffichino da ippodromo vintage, KITT
era in grado di saltare con il Turbo Boost, di cam-
minare su due ruote, di farti il caffè e di raggiungere
in Super Pursuit Mode le 300 miglia orarie. Vale a
dire 483 CHILOMETRI ALL’ORA, senza che il pro-
tagonista indossasse il casco o mettesse la cintura di
sicurezza. La prossima volta che incontrate un pirata
della strada o che un pericolo pubblico, lanciato ai 90
in un centro abitato con un’utilitaria ribassata e pie-
na di lucine, inchioda davanti alle strisce pedonali a
un millimetro dalle vostre gambe, infilate la testa nel
finestrino e chiedetegli quale fosse la sua serie prefe-
rita in TV da ragazzino.
E se poco fa si parlava di mostri tecnologici
neri, al plurale, è perché KITT l’auto saputella non

62
era mica un caso isolato. In Street Hawk – Il Falco
della Strada, un poliziotto di Los Angeles resta quasi
ucciso da una banda di narcotrafficanti. Un’agenzia
segreta in seno all’FBI lo cura a patto che accetti di
guidare un prototipo di supermoto per affrontare
il crimine. Altrimenti? Altrimenti ciccia, al massi-
mo un mazzo di fiori quando schiatti. L’uomo, Jes-
se Mach, accetta e chiede almeno di poter lasciare il
suo lavoro diurno da poliziotto, ma gli rispondono
picche, adesso non ti allargare. E così di giorno Jes-
se passa carte in un ufficio della centrale, e di notte,
dopo essersi calato un caffè lungo, insegue delin-
quenti con la supermoto munita di cannoncino tipo
quelle di Big Jim... inseguito a sua volta dagli stessi
colleghi della centrale, i quali non sanno di questo
suo doppio lavoro. Lanciato a tutta velocità in sella
a una due ruote nera che raggiunge, esatto, le 300
miglia orarie, i 483 km/h d’ordinanza. Se il pilota sta-
canovista non si abbiocca prima.
Il mondo dei telefilm anni 80 era tutto così: se
non avevi un veicolo superfigo che sgommava e face-
va cose, non eri nessuno, ti guardavano tutti dall’alto
in basso. Perfino Arnold il nanetto.
In Automan, un programmatore che lavora
per la polizia di Los Angeles crea per errore un olo-
gramma, Automan; un uomo con la giacchetta stel-
lare superbellissima generato dal computer, che a sua
volta si porta dietro Cursore, un cursore luminoso,
appunto, che è in grado di creare dal nulla qualun-

63
que cosa Automan desideri. E cosa può mai volere
un uomo virtuale in un mondo in cui tutti vanno a
300 miglia orarie così, per sfizio? Ovviamente una
supermacchina. Tra i tanti oggetti creati da Cursore,
il più utilizzato è infatti una specie di Lamborghi-
ni Countach luminosa, che non solo schizza a una
velocità assurda, ma se ne frega della fisica, essendo
una roba generata dal computer. E nel 1984 se una
cosa era generata dal computer, potevi fare quello
che volevi e nessuno ti diceva niente. E così l’auto di
Automan prende le curve ad angolo retto, e il povero
protagonista Walter Nebicher finisce ogni volta con
la guancia spalmata sul finestrino. Peccato che la se-
rie sia stata un flop e l’abbiano interrotta dopo una
sola stagione, altrimenti già alla seconda avremmo
visto Automan che fumava e girava con il finestrino
abbassato per fischiare alle ragazze.
Oppure prendi Magnum P.I., Thomas Sulli-
van Magnum IV, detto semplicemente Magnum, è
un veterano del Vietnam. E fin qui. Nelle serie degli
anni 80 TUTTI avevano fatto il Vietnam, pure quan-
do erano attori così giovani che veniva il dubbio li
avessero spediti a combattere i Viet Cong a dodici
anni, armati di raudi e cerbottana. Ma comunque: ri-
entrato dal Vietnam, Magnum diventa investigatore
privato, e invece di condurre una vita da squattrina-
to, con la barba incolta, la cravatta allentata, grossi
problemi di alcolismo e un’ex moglie che gli sta con
il fiato sul collo per gli alimenti, come tutti gli inve-

64
stigatori privati americani che si rispettino, vive alle
Hawaii.
Aspetta: vive alle Hawaii in una villa meravi-
gliosa che non è sua, guidando una Ferrari 308 GTS
che non è sua, circondato da clienti una più bona
dell’altra. La villa e la macchina e tutto il resto del
patrimonio di cui Magnum gode pressoché illimi-
tatamente con la scusa di gestirne la sorveglianza
– se non fosse per il maggiordomo Higgins e i suoi
dobermann Zeus e Apollo – sono di un tale Robin
Masters. Ma il punto è che questo padrone di casa,
questo tizio che lascia usare a un ex marine rozzo
e provolone la sua villa e la sua Ferrari per andare
a fighe, non si è mai visto. Se togli un episodio in
cui compare di spalle (doppiato da Orson Welles pe-
raltro), la faccia di Robin Masters non l’ha mai vista
nessuno. Per quanto ne sappiamo, Magnum lavorava
per la mafia, ecco. La villa, il macchinone, le donni-
ne: si spiega tutto.
E visto che abbiamo parlato di vizi e delin-
quenti e macchinoni, non vogliamo citare Miami
Vice? Per risultare credibili, i due detective sotto co-
pertura Sonny Crockett (che in Vietnam, per non
farsi mancare niente, c’era stato DUE volte) e Rico
Tubbs se ne andavano in giro con dei completi Ar-
mani chiari portati su una magliettina, come perfetti
narcos. Ma non bastava. E allora al distretto aveva-
no messo a loro disposizione una Ferrari Daytona
tarocca, ottenuta modificando una Chevrolette Cor-

65
vette. Narra la leggenda che dopo un paio di stagioni,
la Ferrari avesse detto ai produttori della NBC «To’,
pezzenti», regalando loro due Testarossa bianche. E
così i due detective infiltrati più modaioli e celebri
d’America poterono anche loro andarsene in giro in
Ferrari come quel tizio delle Hawaii. E i colleghi in
divisa della narcotici intanto a piedi, raus, ché i soldi
erano finiti per le spese di Sonny e Rico. Ché solo il
bollo e la benzina, non ne hai idea.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Prima si prendevano solo una decina di canali, e tutti


ripetevano che non c’era mai nulla in TV. Oggi inve-
ce ce ne sono centinaia e... no, niente. Uguale.

66
Otto

La sala giochi: attenti al gufo

I primi a capitolare erano stati bar e pizzerie.


Soprattutto nelle località di villeggiatura, a partire
dagli ultimi sgoccioli degli anni 70 erano arrivati
gli eredi di flipper, calcio balilla e percorsi delle bi-
glie: erano dei cassoni pieni di luci che, messi uno
accanto all’altro, producevano una fantastica, insop-
portabile, bellissima, terrificante cacofonia di beep.
Erano i videogiochi arcade o coin-op (abbreviazione
di coin-operated), come li chiamavano in America.
Erano Space Invaders e Pac-Man, Galaga e Donkey
Kong, Defender, Asteroids, Missile Command e tutti i
loro fratelli.
Erano un futuro meravigliosamente presente.
Ma quando la famiglia si allargò, quando di
videogiochi nuovi da provare cominciavano ad ar-
rivarne ogni mese camioncini pieni, bar e pizzerie
non bastarono più. Anche le salette dedicate che al-
cuni locali avevano allestito nel retrobottega, in mez-
zo alle pile di elenchi della SIP e alle cabine indoor
da punto telefonico, non andavano più bene. Perché
erano piccole, c’era troppa luce che copriva di riflessi

67
gli schermi e, soprattutto, quelle cacchio di vecchie
che andavano lì per telefonare ai parenti gridavano
troppo. Gente anziana che non aveva rispetto per i
giovani che stavano lì a rischiare la pelle, saltando i
barili lanciati dal cugino di secondo grado di King
Kong. Poi dice che il mondo va a rotoli, signora mia.
Dicevamo: quegli spazi non erano più adeguati alla
crescente voglia di smanettamento, nell’accezione
non autoerotica del termine, dei ragazzini degli anni
80.
Le sale giochi, un tempo fumoso regno di bi-
liardi e flipper popolato solo da adulti, vennero così
invase da queste diavolerie elettroniche nippoameri-
cane che facevano beep e waka-waka e fagocitavano
monetine molto più in fretta di qualsiasi altra cosa.
E da milioni di ragazzini in età da scuola dell’obbli-
go che su quelle macchine, cascasse una pannocchia,
volevano spendere tutta la paghetta. Nascevano,
contemporaneamente, la più improbabile delle con-
vivenze e tutti i timori parentali che si portava dietro.
Nessun genitore, anche solo vagamente inte-
ressato alle sorti del figlio, avrebbe infatti potuto ac-
cettare di buon grado che il suo pargolo trascorresse
interi pomeriggi in posti bui, esposto a dosi massic-
ce di fumo passivo, in mezzo ad adulti delinquenti
e perdigiorno. «Non andare in quel posto» e «Se ti
ci rivedo non esci più per un mese» divennero pre-
sto frasi gettonatissime – per restare in tema – sugli
usci di casa di tutto il Paese. Bisognava tenere lonta-

68
ni i ragazzi da quei luoghi di perdizione e deboscia,
dove sicuramente circolavano le caramelle drogate.
E anche se queste caramelle con la droga dentro nes-
suno le aveva mai viste davvero, il ragazzino degli
anni 80 lo sapeva bene che quei posti erano spesso
effettivamente poco raccomandabili. Te ne accorgevi
per il fatto che attorno al tavolo del biliardo orbita-
vano giovani uomini con l’aria da ergastolani fuggiti
a nuoto dall’Asinara, o che il proprietario era sempre
un allampanato ex fricchettone, un capo ultrà di una
qualche frangia violenta del tifo organizzato locale,
un uomo brizzolato con i polsi pieni di strani ta-
tuaggi e capace di esprimersi solo a gesti e mugugni,
un’anziana donna con una gamba di legno.
Il ragazzino degli anni 80 era ben conscio del
fatto che entrare in uno di quegli antri bui volesse
dire tornarsene a casa con le mani impiastricciate di
cenere per i mozziconi spenti direttamente sul cas-
sone, giusto accanto a uno dei tasti, e in ogni caso
ritrovarsi alle prese con le categorie di varia umanità
che vedremo tra un attimo.
Lo sapeva, ma ci andava lo stesso. Perché a
scuola girava voce di questo nuovo, fantastico gioco
– delle legnate di Double Dragon, della mitraglietta
da imbracciare per Operation Wolf, di Rolling Thun-
der, in cui pare si dovessero ammazzare un sacco di
nemici incappucciati di Goldrake alla guida di un at-
letico 007 – e il ragazzino degli anni 80 voleva imme-
diatamente metterci le mani sopra: andare lì, aspet-

69
tare educatamente il suo turno, e poi urlare agitando
quel joystick da invasato, come tutti. Alle volte suc-
cedeva anche che l’improvviso interesse per la sala
giochi fosse dettato più dal posto in sé che dai nuo-
vi giochi appena arrivati, è doveroso precisarlo, ma
succedeva solo tra i ragazzi più grandi, e solo quando
quella stronza di matematica aveva proprio voglia di
interrogarti.
Rifugio sicuro per rifugio sicuro, niente evi-
tava meglio lo sgamamento che un ex garage buio
avviluppato da una perenne cortina di nebbia artifi-
ciale e che puzzava di fumo e piscio di gatto.
Ma torniamo alla ragione primaria: i giochi.
Attratto da quelle sirene, il nostro ragazzino
medio dell’epoca, con addosso una di quelle felpe dai
colori osceni che tanto si portavano, ripensa alle rac-
comandazioni dei genitori, soppesa i rischi e, lì a un
passo dall’ingresso, sotto un’insegna da circolo ACLI
che non ha mai letto nessuno, quasi quasi ci ripensa.
Per quel mezzo secondo che serve alla sua
mente per ricordare quanti “fantastico” abbia usato
Pieretti del secondo banco per descrivergli Chase
H.Q., nuovo cassone della Taito.
E siccome si trattava di sicuro di un numero
compreso tra 40 e 55, il ragazzino degli anni 80 en-
tra. Se riesce a rimediare qualche amico è meglio, ma
anche da solo entra comunque. I Goonies avevano
affrontato una banda di delinquenti e i tracobetti di
Willy l’Orbo e lui non trovava il coraggio per varcare

70
la soglia di una sala giochi? Solo perché popolata da
pendagli da forca e alimentata da un probabile traffi-
co di caramelle drogate invisibili? Appunto. E allora
si fa coraggio, ed entra.
Oltre al gestore e ai tizi poco raccomandabili
che orbitavano attorno al biliardo ma ci giocavano
pochissimo, la sala giochi media era popolata, per
tutti gli anni 80 e fino alla seconda metà del decennio
successivo – quando le sale giochi iniziarono a spa-
rire, rese obsolete dall’arrivo di console domestiche
sempre più performanti –, da alcune precise tipolo-
gie di individui.
Nella fauna di soggetti di varia umanità che vi
trovavi a qualunque ora, ogni giorno della settima-
na, c’era sempre il gufo. Nessuno ha mai capito quali
fossero le sue origini, ma ogni sala giochi ne aveva
almeno uno in dotazione. Fisso.
Entravi e lui era lì, appollaiato sulla spalla di
un povero cristo che stava giocando. Il gufo era un
coetaneo dell’avventore senza precedenti penali della
sala, cioè era anche lui un ragazzino degli anni 80,
ma era diverso da tutti gli altri. Perché lui, pur tra-
scorrendo interi pomeriggi là dentro, non giocava
mai.
Stava lì e basta, esprimendosi con una strana
lingua molto prossima al dialetto usato dai parcheg-
giatori abusivi e sottoponendo le sue vittime a un
fuoco di sbarramento di parole, con una frequenza
tale da far impallidire un rapper campione di free-

71
style. Il tempo di inserire il gettone e iniziare a gioca-
re, e il gufo te lo ritrovavi incapsulato sulla scapola,
pronto a rompere il ghiaccio e i maroni con i gran-
di classici del suo repertorio: «Amico, mi fai fare un
cannone/una pallina/una vita?», oppure «Amico, un
amico di mio cugino l’ha finito due volte».
Ignorato, il gufo proseguiva nella sua offensi-
va, adottando subdole tattiche di guerra psicologica.
La frase tipica, resa comprensibile solo dimezzando
la sua velocità originale, era per esempio «No non di
lì se vai di lì muori a uno l’altra volta ce l’ho detto ma
lui è andato a destra ed è morto occhio attento là no
non a sinistra stammi a sentire non andare di lì oh
amico ma mi ascolti?».
E siccome la calma zen per resistere contem-
poraneamente alle insidie del gioco e a quell’enorme
rompicoglioni non era da tutti, era facile ritrovarsi a
contemplare la schermata di Game Over con i nervi
a pezzi e l’irrefrenabile voglia di strangolarlo. Ma era
troppo tardi: il gufo era volato altrove, già due o tre
cassoni più in là, sulla spalla di qualche altro malca-
pitato. «Amico, te lo posso fare io il boss di fine livel-
lo?», lo sentivi urlare nel padiglione auricolare di un
povero cristo che quella partita a Shinobi se la stava
pregustando dalla sera prima. Qual era lo scopo del
gufo? Gli allungava forse dei soldi il gestore della sala
giochi per far durare di meno le partite? Che ne è sta-
to di tutti quei gufi? Che fanno oggi nella vita? Non
lo sapremo mai.

72
Variazione sul tema era l’accattone. Grande
esperto delle partite altrui esattamente come il gufo,
non stava però lì a dispensare consigli non richiesti
o a elemosinare scampoli di gioco. L’accattone voleva
farsi una partita per i fatti suoi, ma non c’aveva i sol-
di, o le sue 2.000 lire in gettoni se l’era già sparate in
dieci minuti, e perciò dava il tormento a chiunque si
trovasse a portata di questua.
I gettoni li rimediava sempre non perché la
bontà albergasse nel cuore dei giovani frequentatori
della saletta, ma perché nessuno riusciva a resistere
a lungo alla sua azione da orchiclasta consumato. E
nessuno vuole iniziare a soffrire di ipertrofia prosta-
tica a dodici anni.
In cambio, a volte, l’accattone elargiva segre-
ti da iniziati sulla borsa valori: si scopriva così che
in un’altra sala giochi, per 1.000 lire di gettoni te ne
davano sei e non cinque, e andavano benone anche
nelle gettoniere di quella saletta lì. Quello che l’accat-
tone non ti diceva subito, però, è che la sala giochi
dal tasso di cambio lire/gettoni più conveniente si
trovava dall’altra parte della città, a svariati chilome-
tri di distanza. Ti davano un gettone in più, ma per
l’autobus ti sputtanavi il doppio.
Il campionissimo, invece, era diverso. Il cam-
pionissimo in sala giochi trascorreva pochissimo
tempo, ma quando entrava te ne accorgevi subito,
per l’aura da Cavaliere d’Oro dello Zodiaco che lo
avvolgeva. Il campionissimo finiva qualsiasi gioco,

73
perché era un mostro. Li finiva tutti, e senza nean-
che usare trucchi da debosciati come la gomitata di
Double Dragon: lui era un vero uomo, anche se aveva
tredici anni e non gli era cresciuta ancora la barba.
Le tre iniziali con cui firmava ogni volta un
nuovo record nella schermata degli high-score erano
marchiate a fuoco nella mente di tutti, e si narrava
che se nelle prime riviste di settore mancava il suo
nome nelle pagine dei record era solo perché il cam-
pionissimo non aveva tempo per queste stupidate.
Serissimo maestro del joystick, taciturno e dai
movimenti controllati, il campionissimo era un in-
crocio tra Joe il Condor della Squadra G e lo Scuro
del film di Francesco Nuti.
Arrivava, distruggeva qualsiasi cosa i designer
giapponesi e statunitensi gli avessero piazzato davan-
ti, e andava via. Lasciando gli altri a contemplare le
schermate finali in un coro di «Oooooohhh» – inci-
so: i bambini dell’epoca facevano “Oooooohhh” solo
per i campionissimi (scusa ma non c’hai mai capito
un cazzo, Povia).
Chiunque non fosse il campionissimo deside-
rava diventarlo, ma non era ovviamente possibile:
ogni sala giochi poteva avere un solo campionissimo,
che avrebbe regnato su tutti, illuminando quell’antro
buio con il suo carisma, fino alla fine dei giorni. Un
po’ prima, se quel locale lo chiudeva la polizia per
spaccio di droga. Qualcuno, tra i campionissimi di
allora, si estinse con l’arrivo dei Continue: una bieca

74
mossa da parte delle vili aziende produttrici di vi-
deogiochi permetteva ora anche ai più incapaci di
arrivare in fondo a un gioco, continuando semplice-
mente a rimpinzare la macchina di gettoni.
Nei casi peggiori, senza che questo azzerasse
nemmeno il punteggio. Per alcuni campionissimi fu
troppo, e abbandonarono la scena disgustati, incam-
minandosi sul ciglio di una lunga superstrada diret-
ta verso il tramonto, con in sottofondo una musica
triste, come nei finali di puntata del telefilm L’incre-
dibile Hulk. Altri, invece, sono diventati grandi casti-
gatori di imberbi minchietti d’Oltralpe nei giochi in
multiplayer sulle console odierne: li riconosci perché
in una partita non parlano con nessuno.
Arrivano all’improvviso, come Zorro, rifilano
potentissimi coppini sulle nuche digitali a tutti e spa-
riscono, lasciandosi dietro solo occhi sbarrati dallo
stupore e una traccia del loro passaggio: una sigla di
tre lettere come nickname.
La giovane vaiassa era un’altra figura la cui pre-
senza era al contempo obbligatoria nelle sale giochi e
legata a motivi ignoti.
Grande ciancicatrice di chewing-gum in mi-
nigonna, restava sempre appollaiata sul suo sgabello
in uno degli angoli del locale, in genere parte di un
piccolo branco formato da due o tre esemplari della
stessa taglia. Chi erano queste ragazze, e che face-
vano lì dentro? Erano forse loro a nascondere nella
borsetta le famigerate caramelle drogate? Erano in

75
cerca di sigarette con pochissimo tabacco dentro?
Erano le figlie del gestore? Nessuno ha mai tro-
vato il coraggio di chiederlo.
Qualche tempo dopo, con l’arrivo di giochi
unisex come Tetris e Puzzle Bobble, le giovani vaiasse
si sarebbero mescolate agli altri giocatori, pur non
degnando mai quei piccoli nerd di mezza parola, ov-
viamente.
L’unico punto di contatto possibile era che
mentre stavi lì a incasellare tetramini sperando che
si facesse vivo quel dannato pezzo lungo rosso o a
elaborare complessi calcoli balistici nel microsecon-
do utile a sparare quella bolla, una di loro si manife-
stasse al tuo fianco e, dopo aver imbucato il gettone,
cominciasse a cantare a squarciagola una canzone
di Ramazzotti o Biagio Antonacci. E tu muto, occhi
sullo schermo, o tempo zero e partiva facile il «Che
cazzo ti guardi?».
L’ultima ma non ultima figura era quella del
bullo. Il bullo non era, si badi, uno degli stimati de-
linquenti semiadulti che popolavano l’area biliardo:
quelli, impegnati dai loro affari, intenti a NON gio-
care al biliardo, con quei dannati ragazzini con le fel-
pe brutte non interagivano mai, se non rifilando loro
di tanto in tanto, a tradimento, una semplice occhia-
ta che precipitava immediatamente i destinatari nel
terrore.
Il bullo era un giovane teppista che aspirava a
diventare uno di loro. Un wannabe delinquente, di-

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ciamo, che per portarsi avanti con i compiti aveva
come unico scopo quello di dare il tormento a tut-
ti quei ragazzini degli anni 80 vestiti come ragazzi-
ni degli anni 80. Estorcendo loro tutti i soldi che si
erano portati dietro per giocare, come nella grande
tradizione del bullismo scolastico statunitense, o im-
ponendo che la partita in corso venisse lasciata a lui.
In caso contrario si rischiavano un paio di
schiaffi o, peggio ancora, che il maledetto spegnesse
tutto a tradimento, togliendo la corrente al gioco dal
tasto sopra al cassone.
Nell’inventare sempre nuove tattiche stealth
per evadere lo sguardo del bullo e nuovi modi per
infrattarsi addosso le monetine sui quali sarà meglio
soprassedere, il giovane frequentatore medio della
saletta si chiedeva, avvolto nella sua felpa orrenda,
perché il gestore non sbattesse fuori quello stron-
zo. Ma lo stronzo era magari figlio o fratello di uno
dei tizi del biliardo, o minacciava anche lui, e quin-
di il gestore restava muto, a braccia conserte, anche
quando quello iniziava a tempestare di calci il gioco
e a urlare bestemmie molto creative dopo aver perso
l’ultima vita.
Perché il bullo non era mai un campionissimo,
ed essendo privo della giusta dedizione, ai giochi era
una pippa e le sue partite estorte finivano in un puf-
fosecondo. Era un karma proprio a bassissimo costo,
da discount, e nell’andare via, il ragazzino che ave-
va rischiato di prenderle gli rifilava quell’impagabile

77
ghigno lungo un quarto di secondo. «Hai qualcosa
da dire?», chiedeva il bullo con il suo fare aggressivo.
«Chi? Io? Figurati», rispondeva il ragazzino nella sua
maschera da poker. Aggiungendo telepaticamente
un fortissimo Suca, coglione.
Poi, si diceva in principio, le sale giochi hanno
iniziato a cadere come mosche durante un lungo in-
verno polare. C’erano le console via via sempre più
monster e i PC con le schede grafiche che costavano
un botto: il sogno di avere in casa tutti i giochi della
sala, coltivato per anni da chi non fosse il figlio di un
industriale e non potesse permettersi le cartucce di
un Neo Geo, era stato raggiunto e superato a destra
con una strombazzata di clacson. Per tenere il passo,
i produttori di coin-op avevano continuato a sfor-
nare cassoni sempre più complessi e ingombranti,
di quelli che ancora oggi si trovano abbandonati ac-
canto alla pista da bowling nei multisala e sono così
grossi che devono pagare l’IMU.
Di certo non progettati per piccole salette buie
ricavate da un vecchio garage. Così, molte di quelle
sale giochi diventarono altro, per poi tornare negli
ultimi anni a essere sale da gioco. Solo che i giochi
erano cambiati. I cassoni più smilzi che riempiono
oggi quei locali e gli angoli più infrattati dei bar di
periferia non sono fantasiosi videogame di avventu-
ra e di guida, picchiaduro e sparatutto americani e
giapponesi, ma videopoker e slot. Può sembrare la
stessa cosa, ma è tutto diverso: sono spariti il fumo, i

78
gufi, i campionissimi, gli accattoni, le giovani vaiasse
e perfino i bulli. Al posto della magia dei giochi nuo-
vi, c’è la disperazione dei biglietti da 50 euro bruciati.
E, soprattutto, le mamme di oggi non dicono
ai loro figli di star lontani dalle sale giochi perché lì
girano le caramelle drogate: lo fanno perché se pro-
vano di nuovo a sputtanarsi mezza pensione della
nonna come hanno fatto il mese precedente, papà ha
giurato che li caccia di casa, quanto è vero il mondo.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Una volta, se non conoscevi il titolo di una canzone,


non lo conoscevi e basta.

79
Nove

Commodore, una generazione


in attesa

Siete ora l’orgoglioso proprietario del COM-


MODORE 64, per cui vi facciamo le nostre più vive
congratulazioni per aver acquistato uno dei migliori
computer del mondo. La COMMODORE è nota come
la società del computer amico ed essere amici signifi-
ca fornire manuali di istruzione facili da leggere, da
comprendere e da usare. Con queste parole si apriva
l’introduzione della GUIDA PER L’USO DEL COM-
MODORE 64, il manuale di uno degli home compu-
ter di maggior successo e più amati di sempre, vero,
genuino simbolo degli anni 80 tanto quanto l’infla-
zionato e odiatissimo cubo di Rubik (ne riparliamo
più avanti) e gli scaldamuscoli. Con l’arrivo del fortu-
nato computer a 8-bit, erede del VIC-20, nasceva la
Commodore Generation, generazione di smanettoni
che avrebbero scoperto il proprio amore per l’infor-
matica pigiando tasti marroncini e rumorosi.
O che ci avrebbero almeno provato, prima di
gettare la spugna dopo l’ennesimo listone trovato
sulle riviste, battuto al computer per ore e poi rilet-
to decine di volte per scovare la singola battuta sba-

80
gliata che non faceva girare il programma. Solo per
ritrovarsi alla fine davanti a una cacchio di pallina
che rimbalzava, o qualche altra idiozia simile. Erano,
quelli, gli anni in cui il Basic sembrava la lingua del
futuro, la chiave per entrare dalla porta principale
nell’era delle macchine e fare mille robe incredibi-
li e meravigliose pigiando dei tasti su una tastiera,
esattamente come Richie Adler nel telefilm I ragazzi
del computer. E invece il Basic era una fregatura, e
uno avrebbe dovuto pure accorgersene prima, visto
come si chiamava. Ma faceva nulla, la scusa ormai
aveva fatto il suo: i genitori avevano cacciato i soldi,
il Commodore 64 te l’avevano comprato. Che la scu-
sa fosse soltanto, per l’appunto, una scusa, i genitori
meno tecnofili non avevano modo di saperlo: la vec-
chia balla passepartout «Ma’, mi serve per studiare»
in quei tempi molto analogici lì funzionava ancora
alla grandissima. Ma se smanettare con i program-
mi, venire a patti con quel cavolo di Basic per andare
al di là del semplice

>10 PRINT “Sasà è un puzzone”


>20 GOTO 10

(dove la variabile “Sasà” = il nome del proprio mi-


glior amico dell’epoca), non era per tutti, smanettare
con i giochi era chiaramente il motivo per cui tutti
volevano un Commodore 64. E, attenzione, il verbo
“smanettare” non è stato usato a caso. I debosciati

81
esponenti dell’Atari Generation, i fratelli maggiori,
i cugini che erano venuti prima, vivendo in diretta
l’arrivo dei primissimi videogiochi e delle primissi-
me console, avevano avuto la mangiatoia bassissima.
Quelle prime console, l’Atari 2600, l’Intellivi-
sion, il Colecovision, quelle macchine presto ingoia-
te dal grande crash dei videogame nel mercato USA
– troppi cloni, troppa roba di bassa qualità, troppa
fuffa – funzionavano, grossomodo, come le console
attuali. Infilavi il gioco (su cartuccia), accendevi, gio-
cavi. Ma per i ragazzi della Commodore Generation
non era mica così facile, eh. Nossignore.
Le poche cartucce presenti all’arrivo del Com-
modore 64 sparirono presto, soppiantate dagli altri
supporti. I più fortunati, i possessori di un letto-
re di floppy disk da 5¼ pollici che costava più del
computer, dovevano affrontare una procedura tutto
sommato semplice e veloce. Per tutti gli altri, c’era
l’inferno dei giochi su cassetta. Caricare un gioco del
Commodore 64 (o degli altri home computer dell’e-
poca) da nastro era un’operazione complessa, che ri-
chiedeva decine di minuti di preparativi, preghiere e
riti scaramantici, affinché tutto andasse per il verso
giusto. Una metafora del sesso? Può essere.
Alla voce Caricamento di programmi, il ma-
nuale del Commodore 64 chiedeva di a) riavvolge-
re il nastro, b) battere a video il comando LOAD, c)
premere il tasto “play” sul registratore all’apparire
della scritta PRESS PLAY ON TAPE, d) aspettare

82
che quest’ultimo trovasse qualcosa, e) premere il ta-
sto “Commodore” per caricare il programma trovato
f) pregare che riuscisse a caricarlo. Tempo di attesa
perché dal passo f) si arrivasse a poter smanettare
con il joystick, anche 15/20 minuti. Esistevano tutta
una serie di scorciatoie, tramandate esclusivamente
per tradizione orale nell’intervallo a scuola, come
la combinazione di tasti SHIFT + RUN/STOP, così
come esistevano fortunatamente i Fast Loader, pro-
grammi come il celebre Turbo Tape che servivano
proprio a velocizzare i tempi di caricamento. In al-
cuni casi, piazzando pure lì un minigioco (come un
clone di Space Invaders) per aiutarti ad ammazzare il
tempo, mentre i lati dello schermo si riempivano di
righe colorate. Oh, sempre meglio che mangiarsi le
unghie. Poi finalmente il caricamento aveva termine
e potevi iniziare a giocare. Evviva! Solo che in mol-
ti, dannatissimi giochi, ogni livello andava caricato
a parte. E se morivi, dovevi ricaricare tutto da capo.
Evviva!
E giù bestemmie come neanche uno scaricato-
re di porto pregiudicato con la sindrome di Tourette.
Ma non era tutto. Le vette di masochismo rag-
giunte dalla Commodore Generation 1.0, prima che
arrivassero l’Amiga e le nuove console come il NES e
il Master System a salvarla da questa vita di sofferen-
ze autoinflitte, erano incredibili. Molto spesso tutti
quei quarti d’ora sacrificati sull’altare dello Speriamo-
chefunziona restituivano a schermo solo un beffardo,

83
bestemmiogeno LOAD ERROR, perché la testina del
registratore era sporca, e dovevi pulirla col cotton
fioc, o, peggio, non era più allineata, e dovevi regola-
re l’azimuth.
Nessuno sapeva bene cosa fosse, questo dan-
natissimo azimuth, ma gli unici modi per risolvere
il problema erano affidarsi a programmi appositi di
taratura o seguire dei metodi empirici girando delle
vitine. Poi c’era il problema dei giri. Un concetto an-
cora piuttosto vago di pirateria comportava all’epoca
che le edicole fossero piene di giochi copiati.
Compilation dai nomi molto fantasiosi come
Super Games, Mega Games o Special Games pro-
ponevano ciascuna dai cinque ai dieci giochi e ol-
tre, spesso con una facciata del nastro dedicata al
C64 e l’altra a software per computer diversi, come
ZX Spectrum e Commodore 16. Software inedito o,
nella maggior parte dei casi, giochi di varie software
house, buttati lì semplicemente cambiandone il tito-
lo. Il prezzo stracciato, l’inesistenza di una normati-
va in materia e, spesso se non sempre, la buona fede
dei giovani acquirenti ne decretarono il successo. Sì,
senza star lì a girarci troppo intorno, le cassettine da
edicola le compravano tutti.
E quando si aveva a che fare, in questo caso
come per le compilation ufficiali, con delle cassette
contenenti più software, si usava il contagiri del re-
gistratore per far partire il nastro dal punto giusto,
dopo averlo mandato avanti o averlo riavvolto. In te-

84
oria era un ottimo metodo, ma la pratica era fatta di
infinite crisi di nervi provocate da tutta una serie di
piccoli, fastidiosi fattori.
Vuoi perché non tutti usavano un registratore
a cassette ufficiale Commodore (ne esistevano diver-
si compatibili, prodotti da altre aziende e più econo-
mici), vuoi perché quei dannati accrocchi ogni tanto
perdevano i giri.
E quand’anche tutto andasse bene, molti di quei
giochi facevano semplicemente pena. Chiunque ne
abbia posseduto uno, ivi compreso l’autore di questo
libro, ricorda con grande affetto il Commodore 64,
chiaro, e molti titoli originali della macchina o anche
alcune conversioni realizzate da gente capace erano
delle piccole perle.
Ma se ci sfiliamo un attimo gli occhiali dalle
lenti rosa della nostalgia, la verità è che tantissimi
giochi per il C64 erano pessimi.
Molte delle conversioni da sala o dei giochi su
licenza erano delle fregature pazzesche: per limiti
tecnici del computer, incapacità dei programmato-
ri o semplice malafede, ne venivano fuori svogliate,
pallide imitazioni, rifilate a poveri ragazzini incolpe-
voli grazie a confezioni truffaldine, con dietro le foto
della versione originale da bar. Ricapitolando: si but-
tavano dei pomeriggi cercando di giocare a dei titoli
che non sempre funzionavano, e che se funzionava-
no alle volte avevi voglia di buttarli dalla finestra.
La prossima volta che sentite qualcuno più

85
giovane di voi lamentarsi perché in un videogioco
odierno, con grafica fotorealistica, una fisica pazze-
sca e colonna sonora orchestrale, tocca aspettare cin-
que secondi tra un livello e l’altro, abbiate pietà di lui.
Non sa assolutamente di cosa sta parlando.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Una volta le magliette degli eroi Marvel e DC non le


vendevano in tutti i negozi di tutti i centri commer-
ciali del mondo.

86
Dieci

Il cubo di Rubik

Il cubo di Rubik è questo accrocchio inventato


da un architetto ungherese, che da almeno un paio di
lustri i media anglosassoni cercano di imporci come
vero simbolo degli anni 80. Vogliamo dirlo? Il cubo
di Rubik era un gioco di merda.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Negli anni 80 due coniugi, con i loro stipendi da im-


piegati, potevano permettersi almeno due case: una
in città e una per le vacanze, al mare o in montagna.
Ora pure. Però fatte di LEGO.

87
Undici

BMX, a scuola di penne

In principio era il verbo, e il verbo era crossa-


re. Impegnativo residuato degli anni 70, le bici da
cross avevano sconfinato nei primi 80 portandosi
dietro tutto il loro piccolo mondo fatto di temibili
maglioni in sintetico a collo alto, tutine attillate, ca-
pelli selvaggi. Per ragioni mai del tutto indagate dalla
scienza ufficiale, le bici da cross erano sempre gialle
o rosse. Nella maggior parte dei casi giallorosse, il
che, se non eri un piccolo ultrà dell’AS Roma o del
Catanzaro, poteva essere già di suo un problema. Le
bici da cross avevano un’enorme leva del cambio a tre
rapporti sulla canna, le forcelle con gli ammortizza-
tori, un fanale a dinamo protetto da una griglia an-
ticaduta, i parafanghi e, soprattutto, un’immancabile
sella lunga che, in caso di rovinosa caduta, garantiva
al 100% l’azzeramento delle proprie possibilità di ri-
prodursi, quanto e più di una vasectomia. Erano bici
vistose, ma di un vistoso sbagliato, pieno di orpelli,
monocromatico. Nate per stupire come la discomu-
sic contemporanea, queste piccole Alfasud su due
ruote da parcheggiare nel parcheggio del parchetto,

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si presentavano aggressive a partire dal nome, come
la Graziella Leopard MX2 della Carnielli. Appena il
tempo che a inizio anni 80 spuntassero nei negozi le
nuove, essenziali, policrome, modernissime biciclet-
te chiamate BMX, e le vecchie bici da cross di fratelli
maggiori e cugini si ritrovarono ad avere sul ragaz-
zino medio lo stesso appeal di un trenino di legno.
Rotto.
La BMX (abbreviazione di Bicycle MotoCross)
nasce negli USA nei primi anni 70, e diventa in pochi
anni uno dei tanti fenomeni californiani da esporta-
zione, insieme allo skateboard, ai videogiochi e alle
bionde alte un metro e ottanta. Le BMX erano una
fusione di colori metallici, tinte primarie e sana vo-
glia di fracassarsi da qualche parte o contro qualcosa
in modo altamente spettacolare. I primi articoli sulle
pagine di Topolino che ne annunciavano l’avvento,
generando in centinaia di migliaia di lettori la voglia
di fiondarsi a comprarne una, sgombravano il campo
da qualsiasi possibile dubbio: le BMX esistevano per
un solo e unico scopo, e cioè quello di fare le penne.
Camminare su una ruota sola e, per chi am-
biva al rango di gran visir della propria compagnia
di amici, di maschio alpha in età scolare del proprio
condominio, saltellare su quella stessa dannata ruota
come un canguro bionico. Affidabile nonché unico
strumento d’informazione per il ragazzino dell’epo-
ca, le Papernews di Topolino spiegavano anche la cor-
retta esecuzione del gesto tecnico, illustrando in un

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rapido tutorial – Topolino 1456 dell’ottobre 1983, in
un articolo che si intitolava non a caso «Oops, si sal-
ta!» – le fasi della spinta, del colpo di reni, delle gam-
be da tenere strette alla sella per evitare di perdersi la
bici e ritrovarsi a saggiare la consistenza dell’asfalto
con glutei, gomiti, mani, naso.
Pur se presentate in una serie di varianti cro-
matiche, le BMX erano tutte uguali. Ponendo fine
all’anarchia filo romanista dell’era bici da cross, a quel
tripudio di selle attentatrici dell’integrità testicolare,
le BMX aderivano a uno standard rigidissimo: ruote
piccole da 20 pollici, niente parafanghi, niente cam-
bio; un’imbottitura di spugna – sempre in tinta con
la bici – sul manubrio, un’altra sulla canna, pronte
ad accogliere premurose, rispettivamente, gli incisivi
e il bassoventre della vittima in caso di rovinosa ca-
duta da filmare per i posteri e per Paperissima. Ché
era un attimo e uno si scordava la corretta procedura
spiegatagli da Topolino per librarsi in aria, ritrovan-
dosi spalmato a terra e irriso da fintoamici invidiosi.
Con la potenza di un fulmine e la velocità di
un ragazzino che pedalava in discesa perché così, al
dosso seguente, sarebbe riuscito a volare come Elliott
in E.T. - L’extra-terrestre, le BMX furono ovunque.
Non c’era concorso dell’epoca che non mettes-
se in palio una BMX insieme a viaggi a Disneyland,
pupazzi e agghiaccianti stereo portatili doppia cas-
setta gialli da rapper dell’East Coast daltonico. Non
era possibile aprire un Topolino senza imbattersi in

90
variazioni sul tema di un’iconografia sempre uguale:
un tizio con addosso un completino che aveva tutta
l’aria di essere un pigiama colorato, il volto celato da
un casco, le mani strette nei guanti da professioni-
sta, proiettato in una penna furiosa, la ruota davanti
sollevata verso l’infinito e molto oltre. Erano, quelli,
i tempi di pubblicità entrate nel mito, come quelle
dell’Atala, in cui (1985 ca.) l’immagine di un giovane
centauro in BMX a inizio impennata veniva giustap-
posta a quella di un cavallo al galoppo, sopra all’esor-
tazione a caratteri cubitali “MONTALA A PELO!”,
che faceva terra bruciata per ogni tentativo di spin-
gere i futuri adolescenti a un uso responsabile della
contraccezione. La stessa azienda italiana, va detto,
nel medesimo periodo reclamizzava i propri motori-
ni della linea Master con la gigantografia di un polso
e lo slogan “Per polsi caldi”, con cui, oltre che dalla
contraccezione, si invitavano evidentemente i giova-
ni a stare lontano anche dalle ragazze.
Ma a convincere l’eroe della nostra storia, il
ragazzino degli anni 80, che abbandonare qualsiasi
altra bici in soffitta per chiedere ai genitori di com-
prargli una BMX, giocandosi il più maturo ed effica-
ce strumento persuasivo a sua disposizione – gettarsi
in ginocchio e implorare, se necessario, facendo vi-
gliaccamente leva sul fatto che non fosse colpa sua,
ecco, l’esser figlio degli anni del benessere anziché
dell’immediato dopoguerra – fosse in pratica un suo
dovere, era altro. La BMX, per tutta la prima metà

91
degli anni 80, era lo Zeitgeist degli under dodici.
Ogni ragazzino d’America e di ogni altro Pae-
se anglosassone, a giudicare dai film che arrivavano
al cinema e in TV, doveva averne una. Ecco allora
che un altro fulmine, ancora più potente del primo,
squarciava le ultime perplessità superstiti e mostrava
come la BMX non fosse solo un mezzo di trasporto
estremamente ecologico, e neanche solo una mac-
china da penne come voleva farci credere Topolino.
E no, neppure lo strumento per veicolare l’educazio-
ne sessuale sbagliata delle pubblicità dell’Atala. La
BMX era un concentrato d’avventura.
Dei meravigliosi film per ragazzi che caratte-
rizzarono il decennio, facendo sognare una gene-
razione, ci occuperemo più avanti. Per ora ci basti
sottolineare come la BMX fosse un silenzioso, onni-
presente compagno dei giovani protagonisti di quel-
le pellicole. Spingendo furiosamente sui suoi pedali,
Elliott e i suoi amici cercavano di salvare un picco-
lo alieno deforme sfuggendo ai poliziotti, i Goonies
si mettevano sulle tracce del tesoro di Willy l’Orbo,
i tre protagonisti (due scavezzacollo e una giovane
commessa con una nuvola di ricci rossi in testa) de
La banda della BMX sgominavano una gang di ra-
pinatori. Protagonisti che erano esattamente come i
loro coetanei italiani: ragazzi normali, della Suburbia
californiana, di un qualche quartiere sfigato dell’O-
regon, di una sonnacchiosa Sydney, non odiosi plu-
tocrati che abitavano in una mansion come quel ma-

92
ledetto biondino de Il mio amico Ricky, o tizi bardati
con caschi integrali e guanti come i giovani giocatori
di Rollerball delle pubblicità delle BMX. Al ragaz-
zino degli anni 80, che l’avventura la sognava H24,
tenacemente aggrappato al joystick del Commodore
e ai suoi fumetti, era ciò che bastava: la sua piccola
dose di amichevole avventura di quartiere gli spet-
tava di diritto. Nello sterrato del parco sotto casa,
tra i dossi della villa comunale, in mezzo alle insidie
del cantiere di quel palazzo lì accanto ancora in co-
struzione, con la spinta di reni insegnata da Topoli-
no, quell’avventura l’avrebbe trovata e fatta propria
prima di cena. Magari senza arrivare a quel volo a
propulsione aliena davanti alla Luna, d’accordo, ma
tanto gli americani sono sempre un po’ sboroni, toc-
ca capirlo.
Poi, come per tutte le cose, il fulmine per-
se d’intensità. Le BMX mossero in una disordinata
ritirata sotto la spinta delle truppe del nemico: era
arrivata la mountain bike, il nuovo credo di giova-
ni già anziani nell’animo. Riviste, pubblicità e finan-
che concorsi a premi si prostravano ora dinnanzi al
nuovo idolo della fluorescente fighetteria fintospor-
tiva, alla comodità modaiola delle salite da affrontare
smanettando sul cambio Shimano a 18 rapporti: fu-
turo, perpetuo regalo da ammollare con le batterie di
pentole da televendita. Perché la piccola BMX aveva
fatto il suo tempo, si era scolpita a furia di penne un
posto nella storia, e poteva tornare in pace a esse-

93
re una disciplina sportiva da appassionati. Il BMX,
con l’articolo maschile. Per questo, e anche perché
andare in giro con quelle ruotine da 20 pollici, dopo i
quindici anni, viene un attimo difficile se non ti chia-
mi Brumotti.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Quella ragazzina con i capelli rossi e i ricci di cui


si parlava nel capitolo precedente? La protagonista
quindicenne de La banda della BMX? Era Nicole
Kidman.

94
Dodici

Top Gun sul motorino

Il cinema e i suoi appassionati devono molto


agli anni 80. Si pensi per esempio alla fantascienza e
alla quantità di capolavori del genere nati anche solo
nella prima metà del decennio. A film del calibro di
Blade Runner, Aliens - Scontro finale, Ritorno al fu-
turo; de L’Impero colpisce ancora, in assoluto il più
bello di tutti e sei e tre i capitoli della saga di Star
Wars. Film che hanno praticamente ispirato tutta
la fantascienza successiva, al punto che, giusto per
fare un esempio, all’improvviso è diventata pratica
comune aprire la sinossi di film/libri/videogiochi di
genere sci-fi con la frase da creativi sottopagati “In
un mondo alla Blade Runner”. Ma si pensi anche alle
tante commedie indimenticabili come Ghostbusters
- Acchiappafantasmi, Una poltrona per due o The
Blues Brothers. E potremmo continuare per pagine
e pagine, ma non è di quello che si vuol parlare. Il
tema di questo capitolo, infatti, sono i danni terrifi-
canti prodotti da tutta un’altra serie di pellicole hol-
lywoodiane. Da film che sono andati a colonizzare
le ultime spiagge libere dell’immaginario collettivo

95
occidentale, costruendoci tempietti abusivi con den-
tro le robe più turpi. I film che, in gergo tecnico, sono
indicati dai cinefili come film tamarri.
Prendi gli eroi del cinema action. Prendi, per
esempio, Rambo. Le avventure di questo reduce dal
Vietnam con la voce di Ferruccio Amendola e la boc-
ca storta di Stallone – tre film in sei anni, tra l’82 e
l’88 – galvanizzano a tal punto il pubblico mondiale
da spingere rispettabili padri di famiglia a stringersi
una fascia sulla fronte pure per andare a funghi. Da
rendere comune tra i ragazzini iscritti ai boy-scout
l’aggirarsi con giganteschi coltelli da survival ag-
ganciati alla cintura, con lama lunga 15 centimetri,
bussola, fiammiferi e kit da cucito nell’impugnatura.
C’era più acciaio in un reparto di Giovani Esploratori
degli anni 80 che in uno stabilimento siderurgico di
Piombino.
Gli eroi muscolosi e ammucchia cadaveri di
Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, e quel-
li sudaticci e sorridenti di Bruce Willis (Die Hard
- Trappola di cristallo, 1988) diffondono il culto del
bicipite e della canottiera, facendo dilagare sui litora-
li di tutta Italia un look fino ad allora appannaggio
esclusivo di pensionati chiusi in casa con le tapparel-
le abbassate per trovare scampo alla calura estiva.
Giovani con le braccia gonfiate da mesi di su-
date in palestra, ignorando tutto il resto: bicipiti a pa-
gnotta da flettere all’esterno del finestrino abbassato
della propria Uno Turbo, portati con fierezza sopra

96
alle gambette magre di sempre.
Ma tra i tanti film tamarri dell’epoca, in mezzo
a centinaia di pellicole destinate a farcire per anni e
anni il palinsesto di Italia 1, tra un Rombo di tuono
e un Senza esclusione di colpi, quello dagli effetti più
nefasti è stato insospettabilmente Top Gun. A un oc-
chio distratto, il film di Tony Scott del 1986 potrebbe
sembrare solo una pellicola d’azione condita da una
prevedibilissima, banale storia d’amore. Maverick,
l’eroe scavezzacollo con il volto di Tom Cruise, gli
F-14 Tomcat che ingaggiano spettacolari duelli aerei
contro i MIG pilotati da russi senza volto, Kelly Mc-
Gillis, Take my breath away di Moroder, dùn-dùn, ti-
toli di coda. Ma Top Gun era, purtroppo, anche altro.
Era il sogno, venduto a un’intera generazione,
di questi piloti di aerei fighi come Tom Cruise e Val
Kilmer, che facevano le battute da bulli della scuola
e c’avevano sempre la faccia sorridente da vendito-
ri di automobili usate. Quando nel 1991, durante la
prima Guerra del Golfo, l’Italia è rimasta con il fiato
sospeso per le sorti di Cocciolone e Bellini, si sareb-
be scoperto che i piloti di caccia più che a stelle di
Hollywood somigliano a ingegneri del catasto. Ma
era troppo tardi. Per allora, Top Gun aveva già pro-
dotto i suoi danni: il look dei suoi piloti era ormai
stato trascinato nella vita quotidiana degli studenti
italiani dalla moda dei Paninari, tutti grandissimi fan
di Cruise e del film, a quanto si leggeva sul giorna-
lino Il Paninaro - I nuovi galli. Il giubbotto di pelle

97
Avirex pieno di toppe, accompagnato dagli occhiali
Ray-Ban a goccia, diventava così l’alternativa prima-
vera e autunno al piumino Moncler: un giubbotto da
aviatori, indossato da tizi che si salutavano col pol-
lice su come Maverick. Anche se erano in sella a un
Ciao invece che alla guida di un velivolo da combat-
timento da centinaia di milioni di dollari. Dettagli.
E poi c’era quel fatto del beach volley. Perché se
i membri della prestigiosa scuola Top Gun giocavano
a beach volley nel tempo libero, doveva trattarsi per
forza di una roba super-fichissima. E allora al diavo-
lo le partitelle a pallone in spiaggia e i passatempi da
anziani come le bocce: sulla sabbia si doveva giocare
a beach volley. Dandosi il cinque alto con lo schiaffo
avanti e indietro dopo ogni schiacciata, come face-
vano Maverick, Iceman e quegli altri, ed esibendosi
in spettacolari, superflui recuperi in tuffo, che in ge-
nere producevano un unico risultato: fracassare gli
occhiali da sole appena comprati.
Poi la moda dei Paninari, dopo esser arriva-
ta a colonizzare le medie inferiori in tutto lo Stiva-
le, avrebbe terminato il suo corso, e il culto di Top
Gun avrebbe perso forza, rivelando la pellicola del
compianto Tony Scott per quello che effettivamente
era: una colossale minchiata con delle belle riprese
aeree. Lasciati in un cassetto i Ray-Ban a goccia tipo
Venditti, i vecchi fan di Tom Cruise sarebbero andati
avanti, provando per esempio a rimorchiare con le
frasi di Cocktail (di Roger Donaldson, 1988).

98
Soprattutto quella dell’averci scritto in fron-
te scop*mi. Ad attenderli, niente più occhiali nuovi
scassati e sabbia da sputare, ma solo innocui ceffoni
rimediati in uno stile molto, molto hollywoodiano.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Negli anni 80, per tutti quelli che non ci abitavano,


Milano era la Milano dei film di Pozzetto. Taaac.

99
Tredici

Robottoni e robottini:
more than meets the ahia!

Il primo ad arrivare era stato Goldrake, nel ’78.


Non era il primo dei robottoni giapponesi e ne-
anche il primo di quelli creati da Go Nagai, d’accor-
do, ma in un’Italia che di robottoni giapponesi non
ne aveva visto ancora manco mezzo, non cambiava
niente. L’unica finestra sull’animazione nipponica,
fino ad allora, era stata Heidi, che aveva debuttato
due mesi prima con le sue storie di malvagia bambi-
na svizzera sorridente.
Il 4 aprile del 1978, alle 18 e 45, sulla seconda
rete RAI – che allora si chiamava ancora Rete 2, e se
vi sembra una cosa di quarant’anni fa... beh, ci siete
andati vicino, gli anni sono trentasei – il programma
Buonasera con... presentato da Maria Giovanna Elmi
ospita il primo episodio di Atlas UFO Robot. È il de-
lirio.
Quello di Goldrake è un cartone diverso da
qualsiasi altro visto fino ad allora.
La storia di Actarus, profugo dello spazio con
i capelli lunghi, il gilettino da cantante beat e la chi-
tarra da tizio che suona i grandi successi di Battisti

100
ai falò sulla spiaggia, conquista in un nanosecondo
milioni di giovani italiani.
Gli indici di ascolto del Servizio Opinioni
RAI, si legge in un numero del Radiocorriere TV di
quell’anno, parlano di 2 milioni di spettatori... ma
solo perché quelle rilevazioni sono limitate al pub-
blico maggiorenne. Si stima che nel segmento under
dodici, la serie di Go Nagai arrivi a percentuali di
penetrazione prossime al 340, 350%.
La tuta da pilota, con il casco da gladiatore del
futuro e il simbolo sul petto copiato a Zagor; il disco
volante, negli anni in cui la parola UFO sembrava
la più figa del mondo e tutti davano per certo di po-
ter girare in centro con un’auto volante entro l’anno
2000; Alcor, la bellissima Maria, Re Vega, con la bar-
ba da preside di un istituto tecnico; l’alabarda spazia-
le e il doppio maglio perforante.
E poi, chiaro, i mostri spaziali lanciati da Vega:
tutti diversi, uno per episodio, belli ordinati, che si
chiamavano tipo Gisu Gisu e Giru Giru, o Bal Bal e
Bue Bue. Ché non ce l’hanno mai detto, ma i nomi li
aveva scelti tutti Heidi, dopo gli amici di montagna
Mu Mu, Cip Cip, Be Be. Mostri di Vega che aveva-
no questo vizio di esplodere sempre in coreografici,
spettacolari funghi atomici della giustizia. Ma c’era
un enorme però.
Goldrake non era come Rascal, l’orsetto lava-
tore apparso qualche anno dopo in un altro cartone.
Se Rascal, avrebbe cantato la Cristinona nazionale,

101
era anche lui nato da un’idea di Dio – il dannato pro-
cione creazionista –, Goldrake appariva chiaramente
a un sacco di gente come il figlio di Satana. Se il ro-
bot pilotato da Actarus aveva le corna, una certa fetta
dell’opinione pubblica se l’era messe, dichiarandogli
guerra.
Con la solita prontezza di riflessi, adulti rom-
picoglioni a vario titolo si accorgono solo otto mesi
dopo la prima puntata della sottile differenza che
corre tra un film d’animazione Disney e Goldrake
che taglia in due come una mela un mostro lanciato
da Vega.
Quando nel dicembre dello stesso 1978 viene
inserita nel palinsesto RAI la seconda serie di Gol-
drake, arrivano le prime proteste di genitori preoc-
cupati – ne parliamo tra un attimo – cavalcate da
un membro della commissione di vigilanza RAI, il
deputato Corvisieri, che propone un’interpellanza
parlamentare, e tenute vive da critiche al vetriolo sui
quotidiani. Lo stesso Corvisieri scrive un celebre, fa-
migerato articolo per La Repubblica, «Un Ministero
per Goldrake», in cui cerca di destare le coscienze
degli italiani contro “l’orgia della violenza annien-
tatrice, il culto della delega al grande combattente,
la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto vi-
scerale del diverso”. Il rifiuto del diverso, parlando di
una serie in cui l’eroe viene da un altro pianeta.
Nel gennaio dell’80, con grande senso della
misura, Alberto Bevilacqua scrive sul Corriere della

102
Sera che “Goldrake è lo stadio che può precedere la
droga vera e propria”, e poco dopo seicento genitori
di Imola firmano un esposto ai ministri dell’Istru-
zione e delle Poste e Telecomunicazioni per ferma-
re l’invasione di cartoni giapponesi nel frattempo in
atto. Questi cartoni che inculcano valori sbagliati nei
figli e ce li buttano a fari spenti nel tunnel della dro-
ga.
Al che uno potrebbe domandarsi cos’è che
avessero di preciso tutte queste persone, impegnate
com’erano a confondere sempre il robot con chi lo
pilotava, contro Goldrake e gli altri eroi meccanici
arrivati sulla sua scia. Quale fosse esattamente il pro-
blema. Il problema erano i ragazzini che si gettavano
dal balcone.
Cioè, forse.
L’Italia tutta ha vissuto per decenni questo
dramma dei bambini che forse si gettavano dal bal-
cone.
Forse, perché gli episodi concreti alla fine lati-
tavano, ma la casistica invisibile bastava e avanzava
per titoloni sui giornali un pelo allarmistici su una
scala da zero a IL MONDO È PERDUTO E MORI-
REMO TUTTI, per far scendere in piazza genitori
incazzati non solo a Imola, per intavolare infinite di-
scussioni inutili con il pregevole contributo di ospiti
che ovviamente non sapevano nulla dell’argomento
in questione. E soprattutto, vogliamo dirlo?
Per mettere i bastoni tra le ruote a qualunque

103
diavolo di contenuto nuovo e non disneyano inte-
ressasse ai ragazzi. Qualunque. Arrivava una roba
leggermente più moderna di Pinocchio (1881), Cuore
(1886) e Gian Burrasca (1907)? C’era il pericolo che i
ragazzini si gettassero dal balcone. Superman? I primi
cartoni dell’Uomo-Ragno? Pericolo. Goldrake? Pe-
ricolo. Jeeg? Con quella storia dei componenti Ikea
scagliati dal Big Shooter? Pericolo3. Peter Pan, il ra-
gazzino che vola? No, niente: quello era Disney, tutto
ok. Se pure si fosse gettato dal balcone per imitar-
lo, il ragazzino non si sarebbe fatto nulla, planando
tranquillo fino alla seconda stella a destra, prima di
tornare dritto a casa con l’autobus.
Si è andati avanti così per anni e anni, quando
sarebbe stato molto più semplice metterci delle cavo-
lo di grate a quei balconi, e ciao.
Il problema è che le grate non fanno vendere i
giornali e non ci puoi intavolare su un dibattito tele-
visivo in cui paragonare Goldrake all’Ape Maia.
Ci hanno provato, non funzionava: arrivati a
parlare di spessore e verniciatura delle sbarre, la gen-
te cambiava canale.
Ma Goldrake, si diceva, era solo l’apripista. L’e-
sercito di genitori incazzati avrebbe avuto ben presto
molto altro per cui incazzarsi, senza riuscire neanche
solo lontanamente a immaginare cosa sarebbe venu-
to fuori, una manciata di anni dopo, in una puntata
qualsiasi di Ken il guerriero. Alle reti RAI si affiancò
la programmazione selvaggia delle prime televisio-

104
ni private, che spuntavano come funghi in una fiera
dell’edilizia dei Puffi: Goldrake fu seguito da quelli
che in Giappone erano stati i suoi predecessori, Ma-
zinga Z e Il Grande Mazinga, e in un attimo, all’alba
degli anni 80, c’erano robot giapponesi ovunque ci
si girasse. Per tutti i gusti. Come variazione sul tema
del singolo robot guidato dal singolo eroe alle prese
con un’ambientazione più o meno drammatica, figu-
re fantozziane dei comprimari mocciosi o sovrap-
peso a parte, arrivano l’ammiccante Haran Banjo di
Daitarn 3, praticamente un incrocio tra James Bond
e Tre cuori in affitto, i robot componibili come le cu-
cine (Jeeg robot d’acciaio e Gakeen, il robot magneti-
co), quelli affiancati da un drago spaziale (Gaiking, il
robot guerriero) o da un gigantesco leone robotico
(Daltanious).
E se un leone robotico non bastava, Golion –
poi ribattezzato Voltron in un perfido complotto or-
dito per venderne i pupazzetti agli americani – ne
aveva cinque, to’.
C’erano queste serie in cui il paladino mecca-
nico del Giappone, e di riflesso anche di tutto il resto
del pianeta, via, era un colosso trasformabile forma-
to da più parti da agganciare con tutta calma in volo,
mentre il mostro alieno andava a bersi una birretta a
un distributore automatico.
Getter Robot/Space Robot, Combattler V, Vul-
tus V, Ginguiser (il robot croupier) e tanti altri. A
gestire i singoli velivoli/veicoli/trivelle, una squadra

105
di eroi assemblata secondo gli inviolabili canoni di
reclutamento stabiliti nel 1972 dalla serie Gatcha-
man - La battaglia dei pianeti: un eroe belloccio e
risoluto, giovane clone di Ken l’Aquila; un fascinoso
lupo solitario come Joe il Condor, che si tiene in di-
sparte, parla pochissimo, ma risolve la situazione a
colpi di carisma quando il capo si dimostra un totale
incapace; un goffo cicciobombo dei Take That come
Ryu il Gufo; un giovane pirletta inutile sulla falsariga
di Gimpy la Rondine; una ragazza carina come Pret-
ty (appunto) Jane il Cigno, assunta per le quote rosa
imposte dal sindacato piloti di robottoni trasforma-
bili.
E poi c’era Gundam. Il primo di una nuova
stirpe, i real robot, cartoni a base di robottoni tecno-
logicamente più verosimili.
Anche se a pilotare quello più fico era sempre
un ragazzino finito lì praticamente per caso.
Una serie in cui i robot sono prima di ogni altra
cosa delle semplici macchine. Mezzi bellici impiegati
in una vera guerra su vasta scala e non in singolari
duelli in un campo deserto a due passi da Tokyo da
chiudere con il fungo atomico della giustizia: il che
significa che vanno riparati quando si scassano, non
fanno smorfie e, in linea di massima, il pilota non si
mette a urlare per solidarietà a ogni colpo subìto dal
mezzo. E pure che non si guidano con lo sterzo di un
FIAT Iveco.
Gundam è una serie in cui non ci sono più il

106
Bene assoluto e suonatore di chitarra ai falò da una
parte e il Male rappresentato da alieni invasori e in-
vadenti o da antichi popoli ibernatisi nella roccia
solo perché non c’avevano la televisione dall’altra. In
Gundam va in scena per la prima volta un conflit-
to credibile, in cui l’antagonista principale di Peter
Rei, Char Aznable/Scia la Cometa Rossa, entra con
prepotenza nell’immaginario collettivo come icona
della fantascienza mondiale. Nonostante combatta
chiaramente per un esercito di neonazisti.
Dopo Gundam, nulla fu più lo stesso. Il genere
robottoni, che in meno di dieci anni aveva sfornato
in Giappone decine e decine di titani robotici con
un qualche suffisso alfanumerico nel nome, iniziava
a mostrare la corda: Gundam, in un tripudio di film
e serie più o meno riusciti, andò avanti, l’animazio-
ne giapponese pure, concentrandosi però principal-
mente su altro.
Nuovi generi, nuovi eroi, mentre i vecchi ro-
bottoni, spariti il merchandising, i pupazzetti taroc-
chi e i fumetti prodotti in Italia e disegnati male, ve-
nivano condannati da noi ad anni di repliche furiose
sulle reti minori.
Da fuoriclasse ad attempati ex atleti nei cam-
petti dell’estrema periferia dell’intrattenimento per
ragazzi.
E insieme ai nuovi protagonisti della scena, a
questi giovanotti sorridenti che giocavano a pallone
anche se cardiopatici, a un esercito di maghette tut-

107
te felici di recitare il loro pampulu-pimpulu-parim-
pampùm come idiote, all’aliena in costumino tigrato
più bona della storia dell’umanità, a Chobin, a Lady
Oscar che portava sfiga, a Babil Junior, arrivarono
alla spicciolata anche nuovi eroi americani. Come i
Masters, come i G.I. Joe, o, per tornare a bomba al
tema di questo capitolo, come i Transformers.
Co-produzione nippoamericana sempre det-
tata dal nobile scopo di vendere i pupazzetti, i Tran-
sformers erano robot trasformabili in veicoli di varia
natura, quindi di dimensioni molto più piccole ri-
spetto ai robottoni giapponesi, e privi di un pilota.
Commander e i suoi Autorobot non ne aveva-
no bisogno, in qualità di macchine senzienti, nella
loro eterna lotta con il malvagio Megatron.
Tra uno scontro e l’altro, animatissime discus-
sioni per cercare di capire chi di loro avesse avuto la
geniale idea di scegliere di trasformarsi in macchine
da ricchi, camion, furgoni e ambulanze, al posto di
tutti quegli aerei da guerra usati dai più pragmatici
Distructor, cazzarola.
Solo pochi anni dopo le crociate per non far
lanciare i ragazzini dal balcone, le petizioni di Imola
e le accuse di istigazione al consumo di sostanze stu-
pefacenti, i Transformers rappresentavano qualcosa
di completamente diverso da Goldrake e dai suoi
compagni di merende a base di insalate di matemati-
ca. Erano il nuovo che avanzava.
E siccome si trattava di un nuovo trasformabi-

108
le alla bisogna in una Lancia Stratos da rally o in una
Lamborghini Countach, andava bene a tutti.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Per gli italiani degli anni 80, il tedesco medio doveva


avere necessariamente la faccia di Harry Klein, l’assi-
stente dell’ispettore Derrick.

109
Quattordici

Postalmarket, l’online shopping


prima dell’online

Si fa presto, oggi, a comprare da casa un libro


o la libreria componibile in cui riporlo. Un videogio-
co, un maglione, una lavatrice. Su siti che ti fanno
vedere l’oggetto in decine di foto diverse, da tutte le
angolazioni, con le recensioni degli altri acquirenti e
i consigli su cos’altro avranno mai comprato questi
sconosciuti con i tuoi stessi gusti. Un paio di clic, co-
modamente svaccati davanti al computer o all’iPad,
sul divano di casa, e poi non resta che attendere il
corriere per la consegna. E l’estratto conto della car-
ta di credito, per pentirsi di aver speso anche que-
sto mese uno sproposito in roba inutile, certo, ma
non divaghiamo. Negli anni molto analogici prima
dell’arrivo di Internet, invece, la cosa più prossima
all’online shopping erano gli acquisti per corrispon-
denza con il Postalmarket e Vestro: questi catalogoni
che proponevano di tutto, dalle pantofole agli stura-
lavandini, dalle TV ai computer.
Arrivavano per posta o si compravano in edi-
cola, un paio di volte l’anno, e avevano in copertina
attrici, soubrette e modelle del momento, che “in-

110
dossavano la boutique del catalogo”: Ornella Muti,
Brooke Shields, Sydne Rome, Carol Alt. Arrivavano
e venivano studiati e commentati come un testo reli-
gioso da tutta la famiglia, per giorni. Stilando listoni
infiniti, quasi sempre lasciati da parte a prender pol-
vere, senza ordinare niente. Così, per il gusto di farlo.
Perché il Postalmarket o Vestro (catalogo meno
importante e quindi privo dell’articolo determinati-
vo) non erano solo e semplicemente dei cataloghi:
specie per chi abitava in un piccolo centro – quando
ancora i piccoli centri non sorgevano tutti, per leg-
ge, a meno di 5 minuti di macchina da un gigante-
sco centro commerciale chiamato I Due Qualcosa,
come oggi – erano un modo per tenersi vagamente
aggiornati su quello che andava, su mode e tendenze
in ogni campo. In un certo senso, erano uno stru-
mento per comprendere come girava il nostro Paese
e, a voler esagerare, forse anche il mondo.
Le pagine dell’abbigliamento donna-uomo-bam-
bino si riempivano così progressivamente, esattamente
come le vie del passeggio delle città italiane, di impro-
babili felpe fluo con il pupazzo Rockfeller e di scarpe
Timberland da barca, di poncho, mantelli, giacche con
le spalline giusto un niente più piccole di quelle dei van-
dali postapocalittici di Mad Max, scaldamuscoli, fuse-
aux leopardati, maglioni da uomo con ricami da far
vergognare pure il dottor Cliff de I Robinson, stiva-
loni da cowboy e altri capi inquietanti spacciati per
qualche motivo, in quegli anni lì, come moda.

111
Poi c’erano gli oggetti per la casa, un calderone
spaventoso in cui finiva la qualsiasi: dai famigerati
aspirabrufoli ai profilattici, dai coprisedili a mostruo-
se statuine cambiacolore sole/pioggia, da piazzare
sulla TV del tinello per terrorizzare a tradimento gli
ospiti; dalle PISTOLE A SALVE (no, davvero...) alle
riproduzioni di archibugi, passando per praticissimi
set di spade da appendere in salotto, per una casa
moderna in stile arte povera di Grande Inverno.
Ma, soprattutto, c’erano i Pierrot. I fottutis-
simi Pierrot. I malvagi francesi avevano preso una
maschera italiana, un personaggio della Comme-
dia dell’Arte di nome Pedrolino, e grazie alle sordide
macchinazioni di un mimo parigino di inizio 800,
Jean-Gaspard Debureau, lo avevano naturalizzato in
Pierrot, facendone una loro icona da esportazione. I
subdoli. E allora, in un’ingiustificata euforia-pierro-
tica che attraversò il Bel Paese come un’onda, e della
quale le pagine del Postalmarket e di Vestro erano
solo incolpelvole cartina di tornasole, gran sciala-
re di lenzuola con Pierrot, portagioie di Pierrot – il
portagioie di un mimo che piange: ossimoro – e, più
nefasti di tutti, orridi cuscinetti di raso con la capuz-
zella in ceramica di Pierrot. Letteralmente ovunque
negli anni 80, testa di ponte di un’invasione fran-
co-mimica che aveva trascinato nel suo gorgo perfi-
no il povero Topo Gigio. E se non ricordate il Topo
Gigio Pierrot, ritenetevi fortunati. Ancora oggi, nelle
soffitte, di quei cuscinetti con capuzzella di cerami-

112
ca incorporata se ne conservano, per ragioni oscure,
a migliaia: bombe inesplose, pronte a precipitare un
giorno ignari posteri in un orrore senza fine. Una pa-
gina buia della storia italiana, con la quale il Paese
non è forse ancora pronto a fare i conti.
A parte i vestiti orribili, le armi da fuoco fin-
te, le spade in acciaio cinese di Valyria, gli anticon-
cezionali e i maledetti Pierrot, c’era però anche del
buono su quei cataloghi per tutta la famiglia, atten-
zione. Il ragazzino degli anni 80 trascorreva giorni e
giorni a sfogliarne le pagine. Se ancora in età scola-
re, leggendo e confrontando i prezzi dei giocattoli o
dei gadget dei Masters, il numero di funzioni di tutti
gli orologi LCD al quarzo della Casio, i modelli delle
svegliette decorate con il Pac-Man dei cartoni. Per-
dendosi nelle descrizioni in corpo 6 degli accessori e
dei programmi per il Commodore 64 e i suoi fratel-
li home computer. I portacassette con rivestimento
vintage in finto legno, i portafloppy con la serratura,
le penne ottiche, i mille kit di pulizia delle testine, i
copritastiera, le cartucce, i monitor. Sfogliare il Po-
stalmarket era come fare un salto in un negozio di
computer, ma senza il proprietario che ti diceva ogni
due secondi di non toccare niente, per cortesia.
E se il ragazzino era un po’ più grande, abban-
donato a se stesso nell’età feroce dell’adolescenza?
C’era qualcosa anche per lui, oltre agli aspira-
brufoli. Le pagine dell’intimo, grande strumento for-
mativo, all’insegna del vedo non vedo, di un’intera

113
generazione di giovani italiani che si accontentava-
no. Com’è che dice il proverbio, a proposito dell’ac-
contentarsi? Appunto.

Ti accorgi che sono passati trent’anni perché…

Si riusciva a fare dell’entertainment televisivo con dei


fagioli in un barattolo e un pappagallo svogliato.

114
Quindici

Nuovo Cinema Guaglione

Se c’è una cosa che questo piccolo viaggio tra


ricordi e vergogne ci ha insegnato, è che il nostro
protagonista senza nome, il ragazzino degli anni 80
caricato a succhi di frutta, doveva affidarsi alla fan-
tasia. Privo di cinquanta canali tematici che a ogni
ora del giorno ti fanno vedere qualsiasi cosa avvenga
in qualunque punto del mondo, comprese le strane
porcherie ingurgitate da un tizio sovrappeso, pri-
vo di videogiochi dalla grafica iper-realistica come
quelli attuali, privo soprattutto di Internet, non ave-
va molta scelta. E allora quella fantasia andava sti-
molata sparandosi in diretta tutti i cartoni giappone-
si che davano in TV, compresi quelli legati ad attività
o sport bizzarri. Perché un ragazzino degli anni 80
non era questo grande appassionato di golf o delle
declinazioni sadiche del Metodo Stanislavskij, però
Tutti in campo con Lotti e Il grande sogno di Maya se
li guardava lo stesso, perché quello c’era.
L’unica alternativa, finché non hanno iniziato a
diffondersi i videoregistratori, era convincere i geni-
tori – i propri, ma nel caso anche quelli di un amico

115
a cui accodarsi andavano benone – a portarti al cine-
ma. Perché il cinema di quegli anni lì, la fantasia di
un ragazzino la portava in giro come una DeLorean
alimentata a plutonio rubato ai terroristi libici. Si di-
ceva, qualche capitolo fa, dei tanti film di fantascien-
za che hanno riempito di meraviglia soprattutto la
prima metà degli anni 80. Ma c’era dell’altro. Messe
da parte le produzioni Disney del tardo Paleozoico
come I ragazzi di Camp Siddons, si visse l’alba di una
nuova generazione di pellicole più moderne e avven-
turose, di un Nuovo Cinema Guaglione che aveva in
cartello film per ragazzi interpretati da ragazzi, in cui
giovani più o meno coetanei degli spettatori, con i
capelli a caschetto, sfidavano l’impossibile, vinceva-
no e tornavano pure a casa prima di cena. D’altronde
il ragazzino de Il computer con le scarpe da tennis era
diventato nel frattempo Jena Plissken: il mondo era
andato avanti.
Sprofondato in una poltroncina al buio di
una sala, ruminando pop-corn e tavolette di Galak,
il ragazzino degli anni 80 poteva sognare di essere
lui stesso il protagonista di un’avventura incredibile.
Fantasticare sul fatto che, come Bastian ne La Storia
Infinita, bastasse leggere un libro polveroso, rubato a
un vecchio libraio con la faccia da pedofilo, per finire
nel mondo di Fantàsia, in compagnia di Atreyu e del
suo Artax. Il tempo di asciugarsi in fretta i lucciconi,
quando quello stupido, stupido cavallo sprofonda-
va nelle Paludi della tristezza, e poi in volo in sella

116
a Falkor, il fortunadrago nato da un incrocio tra un
drago cinese e Uan di Bim Bum Bam. Sul finale, l’im-
peratrice ragazzina si rivolgeva direttamente al letto-
re Bastian, e cioè al ragazzino spettatore con gli stessi
capelli a scodella che ruminava pop-corn in sala.
Solo lui poteva far tornare in vita il regno di
Fantàsia: Bastian doveva solo desiderare una cosa
perché questa si realizzasse. Così, compreso il gra-
ve fardello di responsabilità che gli veniva affidato,
Bastian esprimeva il suo desiderio. E gli appariva
l’intera collezione dei Masters. Poi la Principessa ra-
gazzina lo guardava storto, e allora lui faceva tornare
tutto com’era, ripristinava il regno e i suoi abitanti,
dai Mordiroccia a quello stupido, stupido cavallo, e
sulle note di Giorgio Moroder passava alla guida di
Falkor. Infine, da piccolo eroe qual era, si fiondava
a terrorizzare i bulli della scuola che a inizio film
lo avevano gettato nell’immondizia. Perché, ed è il
messaggio del film, il mondo ha bisogno di una sola
cosa, e quella cosa sono fantasia e vendetta.
Per chi non provasse tutto questo amore per
i draghi volanti di peluche di colore rosa, c’erano le
astronavi. Vere. Per il solo fatto di essere caduto in
un fosso mentre inseguiva suo fratello, David, un ra-
gazzino di dodici anni della Florida, scopre in Navi-
gator di essere stato in realtà a) rapito dagli alieni, b)
portato su un lontano pianeta, c) riportato indietro.
Solo che quelle 4 ore trascorse lontano da casa,
sul pianeta Terra sono stati 8 anni, e tutti l’hanno

117
dato per disperso. Così David fa amicizia con un’a-
stronave aliena – Trimaxion, per gli amici MAX – la
ruba alla NASA e si fa riportare indietro nel tempo.
In Explorers di Joe Dante, sempre per prende-
re per il culo la NASA e dimostrare come l’ente per
le attività spaziali abbia sperperato per anni milioni
e milioni di dollari dei contribuenti inutilmente, un
giovane Ethan Hawke sogna gli schemi di un’astro-
nave, la costruisce insieme a degli amici utilizzando
due oblò di lavatrice, il pannello di un televisore, la
batteria di un’auto, altri rottami e un Apple IIc, e rag-
giunge gli extraterrestri che lo avevano contattato in
sogno. Solo per scoprire che si tratta di due ragazzini
alieni teledipendenti ed essere costretto a sciropparsi
un terrificante frullato di TV nel quale si distinguono
le voci di Vianello, Benigni, Grillo, Pertini e Minà.
Imitate, narra la leggenda, da Fabio Fazio.
Così, i tre terrestri tornano a casa, e il giovane Ethan
Hawke bacia la compagna di classe carina bionda,
elemento imprescindibile nel 99% dei film del Nuo-
vo Cinema Guaglione.
E poi, chiaro, c’era E.T. - L’extra-terrestre, il
quarto maggior incasso della storia del cinema tra-
ducendo il prezzo del biglietto di allora in dollari del
2014. Un altro Incontri ravvicinati del terzo tipo per
Spielberg, ma ad altezza di ragazzino. L’incontro con
E.T., il desiderio di aiutarlo nascondendolo agli altri,
incarna nel piccolo Elliot la voglia di ogni ragazzo
dell’epoca di fare amicizia con un alieno e portarlo

118
in giro con la BMX. E.T., questo Eta Beta un po’ più
brutto che parlava come uno molto anziano, era da
un lato l’amico immaginario che lo Spielberg bambi-
no si era creato per reagire al divorzio dei genitori,
dall’altro un simbolo del diverso, concetto creato da-
gli adulti e che i bambini, nella loro innocenza, for-
tunatamente ancora non comprendono. Il che vuol
dire che Elliott, trovandosi alle prese con uno xeno-
morfo che a un certo punto muore e risorge, con tan-
to di cuore luminoso tipo le immaginette di Gesù,
se ne frega degli agenti del governo, delle autorità e
dei matusa, e come un Super-Giovane ante litteram
li affronta, pur di aiutare il suo amico con l’effetto
speciale sul dito. In sella alle loro BMX, pedalando
forte-fortissimo, Elliot e gli altri fuggono, portando
l’amico venuto da lontano al suo appuntamento con
l’astronave di ritorno, prima che perda la coinciden-
za. Fuggono, producendosi in penne e salti sui dossi,
già che ci sono, per far vedere a piedipiatti e gover-
nativi quanto sono ragazzi moderni degli anni 80 in
gamba, anche se quelli sono armati di fucili a pompa
e pistole. Mica solo di walkie-talkie, come nell’edi-
zione del film uscita al cinema nel 2000 con il ritoc-
co.
Elliot, e con lui il pubblico di suoi coetanei,
non vede alcun pericolo nell’alieno che spiega da
dove viene facendo levitare il pongo e fa rivivere le
piante morte. Lui ed E.T. sono esseri tanto diver-
si quanto simili, così da entrare a un certo punto in

119
perfetta simbiosi. Se sta bene uno, sta bene l’altro; se
uno si ammala, anche l’altro rischia la vita. E se E.T.
resta da solo a casa, si ubriaca, e, cambiando canale
con un Grillo Parlante smontato, guarda John Way-
ne baciare Maureen O’Hara in un vecchio film, El-
liot organizza una rivolta per liberare tutte le rane
del laboratorio di dissezione e può approfittarne per
baciare finalmente quella compagna carina, salen-
do sulla schiena di un povero tizio messo a zerbino
per compensare la differenza d’altezza. Oh, c’avevo la
simbiosi, eh. Scusate. L’imprescindibile compagna ca-
rina bionda, per la cronaca, era in questo caso Erika
Eleniak, la futura bagnina di Baywatch. Chiamalo
stronzo.
Viaggiando con la fantasia, spiegava la Hol-
lywood del Nuovo Cinema Guaglione, si potevano
anche scatenare delle enormi catastrofi. O arrivare a
un passo dalle stesse, certo, prima che qualcuno o
qualcosa, in genere sotto forma di una gigantesca,
significativa botta di culo, risolvesse il problema
mandando tutti a casa. In Labyrinth - Dove tutto è
possibile, una giovane e bellissima Jennifer Connel-
ly, indispettita perché la matrigna l’ha lasciata il sa-
bato sera a fare da babysitter al fratellino, si trova a
doverlo cercare in un mondo pieno di pupazzi, in
cui David Bowie ha lo stesso parrucchiere di Ricar-
do Montalbán in Star Trek II - L’ira di Khan e canta
Magic dance con una calzamaglia attillata sul pacco.
In Gremlins, a Billy regalano un mostrillo, il mogwai

120
di nome Gizmo. Ci sono solo tre regole base per te-
nere un mogwai in casa: non esporlo alla luce, non
bagnarlo – perché sono animali con un senso dell’i-
giene un po’ così – e mai e poi mai dargli da man-
giare dopo mezzanotte. Tre semplici regole. Tre, eh,
mica duecento. Ma Billy, da giovane debosciato qual
è, ci mette un niente a violarle tutte. La prima con
la complicità di sua madre, è vero, ma si sa: le mele
non cadono mai lontano dall’albero. E così, quello
che doveva essere un tenero regalo di Natale si tra-
sforma in un’orda di Gremlins che assediano la città,
seminando morte, distruzione e programmi TV sca-
denti. Billy, sentendosi in colpa per essere stato un
tale pirla, fa allora esplodere eroicamente il cinema
cittadino. Risultato: città devastata e privata dell’uni-
ca fonte di intrattenimento. Se non fosse intervenu-
to il piccolo Gizmo, alla guida di una Corvette rosa
di Barbie, col piffero che si sarebbero sbarazzati del
malvagio Ciuffo Bianco. Ma un’invasione di Grem-
lins assassini è ovviamente nulla in confronto a una
Guerra termonucleare globale come quella sfiorata
in Wargames - Giochi di guerra. Cioè, vogliamo met-
tere? Al giovane David Lightman non servono nem-
meno strane creature vendute da ameni tizi cinesi
con le lenti a contatto di Marilyn Manson: fa tutto
da solo, smanettando con un vecchio computer de-
gli anni 70 e un accoppiatore acustico. E siccome l’a-
vanzatissimo sistema di risposta in caso di attacco da
parte dei russi, il cervellone WOPR – a cui l’America

121
ha appena affidato il proprio arsenale nucleare –, è
stato progettato da Topo Gigio, David mette in moto
senza volerlo la più pericolosa partita a Tris della sto-
ria. David, il dottor Falken e tutti gli altri lì a sperare
che il computer crashasse. Solo che Windows ancora
non l’avevano inventato. Poi, a un passo dalla Terza
guerra mondiale, appena qualche istante prima che
il mondo scompaia in un enorme fungo atomico, il
supercomputer, indotto a giocare contro se stesso,
capisce che «L’unica mossa vincente è non giocare».
O forse che giocare da soli a Tris è una roba da idioti,
che non avrebbe fatto manco suo cugino, un VIC-20.
Fatto sta che il mondo è ancora una volta salvo, ma
se si è andati così vicino alla catastrofe, ricordiamolo,
è stato per un nobile scopo: scaricare del software il-
legalmente e broccolarsi la solita compagna di classe
bona.
Ma, probabilmente, il film definitivo per il ra-
gazzino di allora, il campione più fulgido del Nuovo
Cinema Guaglione, resta I Goonies. In una sorta di
ponte ideale tra il passato e il futuro dell’intratteni-
mento per giovani, diretto dal Richard Donner di
Superman, scritto dal Chris Columbus in seguito re-
gista di Mamma, ho perso l’aereo e dei primi due Har-
ry Potter, prodotto dallo Spielberg di... beh, tutto il
resto. Erano quelli gli anni di Indiana Jones, che ave-
va in qualche modo generato Jonathan - Dimensione
avventura del compianto Ambrogio Fogar, che a sua
volta aveva dato vita a Uanathan, con Paolo Bonolis e

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il pupazzo Uan. I preadolescenti sognavano l’Avven-
tura con la A, le due V e tutte le altre lettere maiusco-
le, e nel film dei Goonies c’era tutto. Un tesoro nasco-
sto, i videogiochi, i fumetti, l’amicizia e, ovviamente,
le BMX. Protagonisti non una banda di fighetti, ma
ragazzi comuni, di uno sfigato quartiere periferico
di Astoria, Oregon. Peraltro a rischio sfratto, perché
al posto delle loro case qualcuno vuole costruirci un
campo da golf. Ma la mappa del tesoro di un pirata
di nome Willy l’Orbo trasforma l’ordinario nel fan-
tastico, facendo vivere a Mikey e agli altri, spettatori
ovviamente inclusi, un’avventura indimenticabile.
Con tutti i suoi trabocchetti – o tracobetti,
come li avrebbe chiamati Data – I Goonies era la ver-
sione live action del gioco da tavolo Brivido della MB.
Ma era anche e soprattutto la manifestazione perfet-
ta di quella voglia di fantasy a basso livello, di esplo-
rare e scoprire e fendere idealmente una boscaglia a
colpi di machete, che collegava con un filo rosso In-
diana Jones e Indiana Pipps, Zagor e il grande Fogar
con il fido Armaduk accanto. Una voglia che portava
a comprare chili di merendine pur di farsi spedire
con i punti il gilet multitasche con binocolo e bussola
incorporati. O a iscriversi ai boy-scout, e patire così
la fame per settimane in cima a una montagna, se
questo voleva dire ricevere il permesso di comprare
un coltello con lama da 15 centimetri e portarselo
dietro.
D’altronde, bastava poco, ai ragazzi di allora,

123
per sognare a occhi aperti. Perché si viveva una vita
più semplice, direbbero alcuni. O magari perché, ri-
spetto a oggi, non c’era una mazza da fare. Una delle
due.

124
INDICE

13. Al cinema con Mazinga e He-Man (col trucco)


21. Lo zainetto Jolly, scoliotici per scelta
26. Al Fight Club del Super Santos
34. Masters of the Universe: i pupazzetti del popolo
41. Il Walkman, musica solida
47. Lo sport visto dai (cartoni) giapponesi
56. I telefilm, scuola di vita sbagliata
67. La sala giochi: attenti al gufo
80. Commodore, una generazione in attesa
87. Il cubo di Rubik
88. BMX, a scuola di penne
95. Top Gun sul motorino
100. Robottoni e robottini: more than meets the ahia!
110. Postalmarket, l’online shopping prima dell’online
115. Nuovo Cinema Guaglione

125
Alessandro Apreda è nato a Neo-Cosenza, Europa
Meridionale, nel dicembre del 1975, secondo il nuo-
vo calendario post-Disastro. Ha scritto il fumetto di
fantascienza Ethan? e un racconto – sempre di fanta-
scienza – vincitore del premio Spacewave, pubblicato
da Fanucci nel volume omonimo. Questa, insomma,
è la sua prima opera non fantascientifica. Cioè, non
del tutto. Quando non deve scrivere note biografiche
parlando di sé in terza persona, come un calciato-
re del secolo scorso, cura a orari improbabili L’Antro
Atomico del Dr. Manhattan (docmanhattan.blog-
spot.it), probabilmente il blog con il più alto tasso di
bassismo carismatico di sempre.

126
BLOG GENERATION

1. Per il potere di Grayskull - Alessandro “Doc Manhattan” Apreda


2. La Storia la fanno gli idioti - Nicolò “Nebo” Zuliani

127
Finito di stampare nel mese di febbraio 2014

Trebaseleghe (PD)

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