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PAOLO BERTELLI

Appunti di iconografia ducale:


Federico II Gonzaga e Margherita Paleologo*

L’immagine di Federico II

L’iconografia di Federico II si rivela piuttosto articolata, basandosi


almeno su due o tre modelli principali, che hanno avuto una certa
fortuna, e su una committenza estremamente raffinata, in molti
casi deliberatamente scelta, in altri dovuta a fattori contingenti e
a decisioni aliene dalla volontà del primo duca: basti pensare alla
celeberrima Scuola di Atene di Raffaello per le Stanze Vaticane, nella
quale, secondo tradizione, appare il giovane principe ritratto dal
Sanzio al tempo della sua “custodia” romana, o al ciclo del Tintoretto,
realizzato per le sale dell’Addizione Guglielmina del Palazzo Ducale
di Mantova.1 In quest’ultima serie di dipinti, oggi a Monaco di
Baviera, per ben tre volte torna l’effigie del Gonzaga, piuttosto
generica, come si vedrà, realizzata ovviamente quando il primo
duca di Mantova era già scomparso da almeno un quarantennio. 105
L’impressione è che un ventaglio così ampio e raffinato di immagini
possa aver dato luogo a diverse repliche e copie; in almeno un paio
di casi, in effetti, così è stato. Ciononostante l’iconografia di Federico
II sembra, al momento, contare un numero di esemplari minore a
quanto ci si sarebbe aspettato e probabilmente numerosi sono i
ritratti non riconosciuti e conservati presso collezioni private o
depositi di istituzioni museali.

* Intorno ai ritratti gonzagheschi, numerose sono le pubblicazioni che ho


curato in tempi relativamente recenti; basti in questa sede segnalare l’Atlante
dell’iconografia gonzaghesca, in corso di realizzazione, nonché un volume
dedicato alla Mostra Iconografica Gonzaghesca tenuta nel 1937 nel Palazzo
Ducale di Mantova. Ritengo utile segnalare il seguente indirizzo mail dedicato
a richieste, aggiornamenti e segnalazioni intorno ai ritratti dei Gonzaga:
gonzaga.portrait@gmail.com.

1 Un primo tentativo di riordinamento dell’iconografia di Federico II Gonzaga si


deve a Lisa ZEITZ (2000) che nel suo volume ha contribuito a sistemare con buona
correttezza e a riallineare cronologicamente molti dipinti e disegni.
Uno sguardo alle opere note ritraenti Federico II Gonzaga si può
senz’altro aprire con il delizioso ritratto realizzato da Francesco
Francia, oggi a New York,2 affascinante sia per la qualità, sia per
l’ambientazione. Il giovane Gonzaga mostra sobrietà e dolcezza,
ricchezza e moderazione, malcelato ardimento guerriero, in un
gioco continuo che assomma le virtù del futuro duca e che colloca
il dipinto su un sottile spartiacque tra ritratto privato e ufficiale.
L’affascinante ritratto venne realizzato nel 1510 per un’occasione
particolare. Isabella d’Este, per consentire il rilascio di Francesco II
Gonzaga, marchese di Mantova (catturato dai Veneziani a Legnago),
consegnò il figlio come ostaggio presso la corte papale. Prima
di far partire Federico per Roma desiderò che la sua immagine
fosse immortalata da uno dei pittori che gravitavano intorno alla
corte gonzaghesca. Il ritratto venne dapprima commissionato a
Lorenzo Costa, ma poi venne richiesto a Francesco Francia, che
realizzò l’effige tra il 29 luglio e il 10 agosto 1510. Il dipinto fu
particolarmente gradito ad Isabella d’Este, che chiese soltanto di
ritoccarlo nei capelli, troppo biondi. L’opera presenta il decenne
106 Federico che si affaccia da una bassa spalliera marmorea, con
sullo sfondo un dolce paesaggio, caratterizzato da un cielo sereno,
solcato da alcune nubi, e da un verde territorio, mosso da alcune
colline e, ai lati, da radi boschi; sullo sfondo una città turrita verso
la quale sembra scorrere una via (o un corso d’acqua?) sulla quale
sono due figurette. Il principino indossa una berretta nera con
passamaneria e fiocchetto purpureo. Il volto, incorniciato dai
lunghi capelli castano biondi con riflessi rossicci, ha un incarnato
chiaro e delicatissimo. Appena accennate le sopracciglia, gli occhi
sono castani, il naso diritto e allungato, delicato il disegno delle
labbra, mentre il mento appare appena diviso da una leggera
fossetta. Il futuro duca indossa una camiciola bianca, della quale si
intuisce il colletto, sopra la quale è una veste nera, con una fascia
decorata geometricamente, con filo d’oro, attorno al collo. Sempre
attorno al collo è un monile quattrocentesco: una catena ad anelli e
nodi che si alternano a compassi con pietre acquamarina e rubini;
al centro è un pendente con una perla barocca. Interessante, poi, il
gesto: con la mano destra, infatti lascia intravedere l’impugnatura
della spada, e ben si scorgono il pomo a spicchi e, più in basso,

2 Francesco Francia, Ritratto di Federico Gonzaga, 1510, olio su tavola non


originaria, 45,1 × 34,3 cm, New York, Metropolitan Museum of Art, inv. 14.40.638.
Sterminata la bibliografia: almeno si veda il recente BAYER 2011.
l’innesto della lama. Dalla forma si deduce che potrebbe trattarsi
di una “cinquedea”, arma da parata e non da battaglia, simbolo
del potere. Il ritratto, infine, è di particolare interesse anche per
la sua veste di immagine privata che non rinuncia, comunque,
ad una componente ufficiale (rimarcata dal gesto di mostrare
l’arma del signore), segno delle aspettative materne nei confronti
del primogenito maschio che sarà dal 1519 quinto marchese di
Mantova e dal 1530 primo duca.

A questo ritrattino segue immediatamente, come già accennato,


l’affresco di Raffaello per le Stanze Vaticane, dove il giovane Federico
II compare nella Scuola di Atene.3 Il volto del futuro duca, secondo
Vasari, venne dipinto durante la sua “cattività” romana, e si riconosce
nel fanciullo ricciuto (e ciò sembra contrastare con i capelli lisci
del ritratto di New York) accanto al giovane intento a leggere
appoggiato ad una colonna; il ritratto forse non è somigliantissimo,
seppur non distante da quello già conosciuto del Francia, ma certo
attestato dalla robusta citazione in entrambe le edizioni delle Vite
(«Fra i medesimi, nella figura d’un giovane di formosa bellezza, il
quale apre le braccia per meraviglia e china la testa, è il ritratto di
Federigo II duca di Mantova, che si trovava allora in Roma»).4
107

Ben poco rimane dell’affresco, che tradizione vuole sia stato


eseguito dal Pordenone, sulla facciata della Casa della Corporazione
dei Mercanti in Piazza Broletto, a Mantova.5 Il pittore stipulò nel
1520 il contratto per la realizzazione del dipinto. La damnatio
memoriae che il destino ha riservato alle sue opere mantovane ha
parzialmente toccato anche questo affresco, che già nell’Ottocento
era ai limiti della visibilità e che Alessandro LUZIO (1913, p. 323)
descriveva così: «sino a pochi anni fa poteva ancora discernersi
nettamente, su la facciata d’una casa di piazza Broletto, ritratto a
cavallo Federico Gonzaga. L’ombra sua può oggi pure intravedersi,
come fantasma che s’invola: mentre su in alto, graziosi gruppi di

3 Raffaello SanziO, Scuola di Atene, 1509-1511 ca., affresco, 500 × 770 cm, Stato
della Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura.
4 Per questo: VASARI 1976, p. 166.
5 Giovanni Antonio de’ Sacchis detto “Il Pordenone”, Ritratto di Federico II
Gonzaga in armi a cavallo, 1520 ca., affresco, Mantova, facciata della Casa della
Corporazione dei Mercanti in Piazza Broletto. Intorno all’affresco, almeno: ZEITZ
2000, p. 125; L’OCCASO 2009, p. 27.
putti, di meravigliosa bellezza, lottano ancora, prima di sparire
affatto, contro la moderna barbarie vandalica». Un’osservazione
attenta del fronte edilizio permette di intuire le linee principali
della composizione. La più ampia facciata è divisa in senso
verticale dalle coppie sovrapposte di finestre, che individuano
una fascia centrale dove l’intonaco originale mostra le tracce di
pittura. Al di sopra una cornice a dentelli al di sotto della quale
si scorge, con tracce di coloritura, una fascia con giochi di putti,
probabilmente reggenti dei festoni. Quest’area sembra conservare
ancora l’intonachino dipinto; al di sotto, invece, ogni traccia di
pigmento appare perduta e solo una variazione dei toni di grigio
costituiti dalla differente conservazione dell’intonaco suggerisce
la figura del cavaliere. Rivolto verso la sinistra della composizione,
Federico II pare indossare l’elmo, probabilmente con la ventaglia
alzata, e l’armatura (forse alla massimiliana). Si scorge il braccio
sinistro flesso a tenere le redini, a malapena gli scarselloni. Ai lati
della figura del signore di Mantova (l’intero cavallo è perduto)
sembrano potersi scorgere due architetture alte quanto il capo di
108 Federico II, probabilmente due torrioni (e forse in quello sinistro si
possono riconoscere, a fatica, i caditoi e una sorta di altana), quasi il
pittore avesse voluto ribadire l’aspetto guerresco dell’allora quinto
marchese; più labile, invece, è un possibile confronto con il castello
di San Giorgio. Il dipinto, in pessime condizioni, è stato restaurato
dapprima nel 1972 e, recentissimamente, nella primavera del
2012. L’ultimo intervento, condotto da Maria Giovanna Romano,
ha anche approfondito la conoscenza del precedente, che vide
gli affreschi strappati, restaurati in laboratorio e successivamente
ricollocati, seppur con differente disposizione.6 Appare perlomeno
curioso che secondo la restauratrice la figura di Federico II sia
probabilmente un secondo strappo: questo implica che in qualche
collezione privata possa esservi, ben più leggibile, il primo strato
dell’affresco con l’effigie del primo duca di Mantova (allora, per la

6 Il restauro del 1972 vide al lavoro per la parte edilizia l’impresa Vergani,
direttore dei lavori l’arch. Dino Nicolini e come restauratore Assirto Coffani.
La rimozione dell’affresco permise di verificare che la forometria della parete
(finestre, cornici e oculi) in antico coincideva con quella della parte meridionale
dell’edificio, corrispondente all’elevato soprastante l’arco posto a sinistra rispetto
a quello sul quale compaiono i dipinti. Secondo la restauratrice la disposizione
delle figure doveva essere in origine differente, col cavaliere al centro e i putti
attorno. Interventi effettuati nell’Ottocento sulle finestre e la ricollocazione
incongrua degli strappi effettuati nel 1972 hanno mutato la composizione. Per
una narrazione del restauro: SCANSANI 2012a; DALL’ARA 2012; SCANSANI 2012b.
precisione, ancora quinto marchese). Dell’immagine sopravvivono
alcuni frammenti dell’incarnato del volto, tracce del busto e del
braccio reggente le briglie del cavallo.

Si inseriscono tra il 1521 ed il 1522 per le vicende narrate, ma


risalgono al 1579-1580 i teleri dei “Fasti Gonzagheschi” realizzati da
Jacopo Tintoretto per l’Addizione Guglielmina del Palazzo Ducale
di Mantova.7 La collocazione cronologica degli eventi raffigurati è
chiara, e in quell’ambito temporale si ripongono le effigi dell’allora
marchese di Mantova. In tutti e tre i casi si nota una somiglianza
decisa tra le raffigurazioni di Federico II, ma una certa distanza dalla
reale fisionomia che il Gonzaga doveva mostrare in quel periodo.
Difficile affermare se Tintoretto si sia basato su qualche ritratto più
tardo tentando di ringiovanirne le fattezze, o se abbia impostato
il suo lavoro sulle effigi di Francesco III e Guglielmo, entrambi
raffigurati nel telero con L’arrivo di Filippo II infante di Spagna
a Mantova. In questo dipinto, in effetti, i due duchi appaiono con
fattezze reali e caratterizzate da un aspetto giovanile: il viso tende
ad essere tondo e paffuto, differente dalla sagoma leggermente
allungata del volto di Federico II.
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Sempre allo stesso torno di tempo risale (1522) la grande tela
con L’investitura di Federico II Gonzaga a Capitano Generale
della Chiesa originariamente collocata nel Salone del Trionfo di
Cesare del Palazzo di San Sebastiano in Mantova e oggi a Praga.8
Concordemente alle parole di Mario Equicola, Lorenzo Costa venne
richiesto di dipingere due tele che avrebbero in maniera dovuto
integrare il ciclo realizzato da Andrea Mantegna, mostrando però,
accanto ai trionfanti (in questo caso esplicitamente i Gonzaga),
sia gli spettatori, sia «la pompa che sequir solea il triumphante». I
due dipinti, molto lunghi, furono posti nelle testate della sala, che
vedeva, pertanto, sul terzo lato le tele di Mantegna e sul quarto le
finestre. Il soggetto tramanda la nomina di Federico II Gonzaga

7 Jacopo Robusti detto “Il Tintoretto”, La presa di Parma; La presa di Milano;


La difesa di Pavia, 1579-1580, olio su tela, Monaco, Alte Pinakothek, Bayerische
Staatsgemäldesammlungen, Inv. 7306, 7305, 7308. Per il ciclo rimandiamo a SYRE
2000, catalogo della mostra di Monaco, ancor oggi esaustivo.
8 Lorenzo Costa il vecchio, L’investitura di Federico II Gonzaga a Capitano
Generale della Chiesa, 1522, olio su tela, 266 × 638 cm, Praga (CZ), Národní
Galerie, Palazzo Sternberg, inv. O 8274. Intorno al dipinto, almeno: ZEITZ 2000, pp.
122-123; NEGRO, ROIO 2001, pp. 133-134.
a Capitano Generale della Chiesa, avvenuta il 1° luglio 1521. In
effetti Federico II appare sul lato sinistro del dipinto, a cavallo,
mentre mostra il bastone del comando passando in rassegna
le truppe schierate di fronte a lui. Vale la pena rammentare
la descrizione vasariana (1568, p. 134, in VASARI 1971, p. 416)
secondo la quale le due tele poste nelle testate della Sala dei
Trionfi in Palazzo San Sebastiano raffiguravano, rispettivamente,
un Sacrificio di Ercole comprendente i ritratti di Francesco II
Gonzaga e dei figli, e (la presente) con La nomina di Federico II a
Capitano Generale della Chiesa. Quest’ultimo dipinto, realizzato
nel 1522 (ad una certa distanza, peraltro, dal precedente) viene
così descritto: «Nell’altra, che fu fatto a olio molti anni dopo il
primo, e che fu quasi dell’ultimo cose che dipingnesse Lorenzo, è
il Marchese Federigo fatto uomo, con un bastone in mano, come
generale di Santa Chiesa sotto Leone Decimo, et intorno gli sono
molti signori ritratti dal Costa di naturale». Curiosa l’osservazione
(NEGRO, ROIO 2001, p. 134) che la disposizione del corteo militare
schierato in rivista non è casuale, ma, riposizionando idealmente il
110 ciclo mantegnesco e la presente tela nel salone di San Sebastiano,
prosegue sulla stessa linea di sviluppo il corteo descritto dal
maestro di Isola di Carturo. Le divergenze che si riscontrano nelle
citazioni di Mario Equicola e di Giorgio Vasari sono state spiegate
da MARTINDALE (1980, pp. 88, 189) il quale suggeriva che la scena
di sacrificio (per Giove capitolino secondo Equicola, per Ercole
secondo Vasari) fungesse da culmine delle celebrazioni trionfali
illustrate nella sala. Anni dopo, lavorando al capo opposto, Costa
iniziò a dipingere l’esercito al seguito del carro di Cesare, ma il
lavoro si fermò a causa della morte di Francesco II. Fu ripreso
circa tre anni dopo, e il dipinto modificato per illustrare la nomina
a Capitano Generale. Circa l’aspetto di Federico II, che compare
in armi avvolto da un mantello e colto in atto di reggere il bastone
del comando, è curioso notare come il viso sia praticamente
sovrapponibile al ritratto di Federico II che compare nella Difesa
di Pavia realizzata da Tintoretto nell’ambito dei Fasti gonzagheschi.
Non è possibile, però, stabilire con certezza se la derivazione dal
modello costesco si debba ad un prototipo comune o se la tela
oggi a Monaco abbia visto il maestro veneziano basarsi, per il volto
di Federico II Gonzaga, sull’iconografia del dipinto di Praga, meglio
se mediata da un disegno o da una copia.
111
L’esatto aspetto che l’ultimo marchese e primo duca di Mantova
doveva avere intorno alla metà del terzo decennio del Cinquecento
si riscontra nella celeberrima tela di Tiziano oggi conservata al
Prado.9 Lo splendido ritratto risulta tra i più alti, qualitativamente
parlando, dell’opera tizianesca. In un’ambientazione ovattata, in
una gamma di toni compresa tra il blu e il grigio, il futuro duca
appare stante, preso a tre quarti. Indossa un giuppone in velluto blu
oltremare legato in vita e bordato al collo, alle maniche, sui lembi del
petto (tra i quali si intravedono i fiocchetti di chiusura, terminanti in
puntali d’oro) e al taglio inferiore da una passamaneria ricamata in
filo d’oro ad arabeschi ed elementi fitomorfi.Al di sotto si intuiscono
le gambe, con una calzamaglia rossa e, probabilmente, un fiocco in
tessuto sempre rosso all’altezza del ginocchio destro; ovviamente
alla moda l’imbottitura alludente al pene che si scorge tra i lembi
inferiori della giubba. Di grande interesse la presenza della corona
del rosario in lapislazzuli, con i paternoster in oro, e dal quale
pende, sul petto, una crocettina; elemento che torna, come si vedrà,
sia nel gruppo di dipinti composto dai ritratti di Sarasota, Ambras e
112 Mantova, nonché – evidentemente frainteso – nel duplice ritratto
di collezione privata ove il duca compare mano nella mano con
la moglie. Al fianco è una spada da lato, dal pomo tornito ovaloide,
presso la quale scende la mano sinistra caratterizzata da un anello
all’anulare; sul lato opposto della composizione, invece, un cagnetto
maltese che fa le feste al padrone. Federico II lo accarezza sul dorso
con la mano destra, aperta, sulla quale si scorgono due anelletti,
all’anulare e al mignolo (con, rispettivamente, un’acquamarina e un
granato o un rubino). Il viso di Federico II è di alta qualità nella
resa dell’incarnato; i tratti somatici tornano nella ritrattistica certa
del duca: capelli scuri e corti, fronte alta, occhi di taglio regolare e
di colore castano, naso retto, labbra carnose leggermente nascoste
da barba e baffi. La realizzazione è di particolare intensità; Tiziano
ha lavorato in punta di pennello con una miriade di piccoli tocchi
a creare diversi livelli del pigmento, al fine di ottenere sia effetti di
sfumato, sia i volumi della figura. Il dipinto è, probabilmente, quello
cui si riferisce Braghino, agente di Federico Gonzaga, in una lettera
datata da Venezia l’11 agosto 1523, quando scriveva di un ritratto
che Tiziano invierà immediatamente (CROWE, CAVALCASELLE 1877, pp.

9 Tiziano Vecellio, Ritratto di Federico II Gonzaga, 1523 ca., olio su tavola, 125
× 99 cm, Madrid, Museo del Prado, P00408. Almeno: WETHEY 1971, pp. 107-108 n°
49.
282, 442; BRAGHIROLLI 1881, p. 45); anche se il personaggio non viene
identificato, è probabile che si tratti proprio del dipinto del Prado,
che si colloca infatti nei primi anni Venti. Può essere interessante
ricordare che la prima visita di Tiziano a Mantova avvenne
esattamente nel febbraio di quell’anno.
Da un punto di vista storico l’opera potrebbe essere rimasta a
Mantova almeno fino al 1627; le tracce si perdono durante il sacco
del 1630 riemergere successivamente a Madrid, nella raccolta del
Marqués de Leganés (nell’inventario del 1655, stilato dopo la sua
morte, si legge: «otro retrato de un Duque de Ferrara con su perro»);
la tela giunge successivamente all’Alcázar (descritta nell’inventario
1666 al n° 571, collocata nella Galería de Mediodía) e sopravvive
all’incendio del 1734 (compare nell’inventario di quell’anno al
numero 90). Nel 1772 il dipinto è documentato all’interno del
Palacio Nuevo nell’Anticámera del Infante don Luis; nel 1794 è
«Pieza de la librería» (e curiosamente attribuito a Tintoretto: BEROQUI
1946, p. 42). Dal 1821, infine, viene esposto al Museo del Prado
(BEROQUI 1933, p. 144).
Estremamente nobile nella posa e strepitosa nella qualità pittorica,
l’opera ha avuto una notevole fortuna iconografica: di grande
interesse, ma assai meno conosciuta, infatti, è l’intrigante copia
113
conservata al Musée Jacquemart André di Parigi.10 Da un punto
di vista iconografico il ritratto è perfettamente sovrapponibile
con il suo antigrafo, senza alcun mutamento o innovazione. Più
problematica sembra essere l’attribuzione. L’opera, infatti, mostra
alcuni danni che non compromettono la leggibilità, ma, nel
contempo, rivela un aspetto “non finito” in diverse zone. La materia
appare corposa, in alcuni punti densa e in rilievo, talora stesa con
una tessitura sommaria nella rapidità ma non nell’attenzione del
gesto. La copia si deve ad un artista capace che è stato indicato da
Didier Bodart (1990) nel giovane Rubens appena giunto alla corte
dei Gonzaga (1602-1603). Il pittore fiammingo, infatti, ebbe modo
proprio a Mantova di intraprendere una serie di copie dei capolavori
tizianeschi (basti rammentare il Ritratto di Isabella d’Este in
rosso di Vienna). Bodart in questo contesto ritiene che nelle copie
giovanili da Tiziano «Rubens rimane fedele al modello, mentre nelle
repliche posteriori, che risalgono al secondo soggiorno spagnolo,

10 Tiziano Vecellio, copia da, Ritratto di Federico II Gonzaga, 1523 ca., olio su
tela, 111 × 97 cm, Parigi, Museo Jacquemart André. Pubblicato come Rubens in
BODART 1990.
la pennellata è assai fluida, e l’effetto più barocco». In realtà appare
più prudente e ponderato accogliere la lucida osservazione di
Bernard J. Aikema,11 il quale nota l’aspetto calligrafico e fedelmente
descrittivo che è alieno dal modus operandi del giovane Rubens e
più probabilmente dovuto ad un artista spagnolo o fiammingo di
buona qualità che interpreta la novità tizianesca intorno alla metà
del XVI secolo o poco oltre.
Praticamente sconosciuta (e se ne ignora l’attuale collocazione)
è un’ulteriore copia, invero di buona qualità, già appartenuta alla
collezione mantovana del conte Alessandro Magnaguti ed esposta
alla Mostra Iconografica Gonzaghesca del 1937.12 Dopo il trittico
tintorettiano è interessante notare come la tela oggi a Madrid (e
secondo la critica realizzata nel 1523) costituisca l’esemplare
capostipite di un gruppo di dipinti, segno di una buona fortuna del
modello iconografico anche valorizzato dal pregio dell’artista.

Allo stesso modo un terzo gruppo di opere sembra derivare


da un altro prototipo tizianeggiante. Si tratta del Ritratto di
114 Federico II Gonzaga con una lettera ritenuto opera del Vecellio e
attualmente conservato, in deposito, al The Muscarelle Museum of
Art di Williamsburg, in Virginia (Usa), già nelle raccolte ungheresi
di Marczell von Nemes e recentemente oggetto di una campagna
di analisi scientifiche volute generate dall’approfondimento sul
dipinto realizzato dal direttore del museo statunitense Aaron H. De
Groft.13 L’effigie descrive dettagliatamente il duca di Mantova nella
piena maturità, alle soglie dei quarant’anni. La chioma, corta e scura,
incornicia il viso. La fronte è alta, gli occhi tondi sono leggermente
segnati; curiosa è la barba, castano scura, lunga e folta, che lascia
intravedere il labbro inferiore carnoso. L’impostazione del viso è
assai simile a quella del dipinto del Prado e, nonostante qui l’età sia
più avanzata, non pare esservi un divario cronologico amplissimo.

11 Comunicazione orale. Lo ringrazio per il generoso e costruttivo confronto


intorno a questi temi.
12 Tiziano Vecellio, copia da, Ritratto di Federico II Gonzaga, metà del XVI
secolo (?), olio su tela, 125 × 99 cm, ubicazione ignota. Ricordato in GIANNANTONI
1937, p. 24 n° 104; immagini del dipinto ritornano negli scatti Calzolari APT 874
e APT 1776.
13 Tiziano Vecellio, attribuito a, Ritratto di Federico II Gonzaga con una
lettera, 1530 ca., olio su tela, 137,6 × 100,33 cm, Williamsburg, Virginia (Usa),The
Muscarelle Art Museum (in deposito). Il più recente riferimento bibliografico è
in DE GROFT 2006.
Federico II indossa un giubbone di velluto scuro; al collo si intravede
la camisa bianca e l’imbottitura di pelo del giubbone stesso,
come si nota anche nelle maniche chiuse sul davanti, ai polsi, o
all’abbottonatura sul fronte. Il primo duca mostra una postura aulica
e caratteristica della ritrattistica intorno alla metà del Cinquecento:
con il gomito sinistro poggia su di un mobile avvolto da un drappo
di velluto blu.Al mignolo un anellino in oro con pietra scura tagliata
a tavola (un sigillo?), mentre tra le altre dita è una lettera ancora
piegata,elemento simbolico che può riferirsi alla nomina ducale o alla
corrispondenza intessuta con il destinatario del dipinto, se si tratta
effettivamente di Otto Enrico (e si noti che quella che viene creduta
essere una piuma con un “pennino” dorato non è altro che il lembo
di chiusura della missiva stessa). In vita Federico indossa una cinta
con fibbia dorata che regge, sul fianco sinistro la spada dal lato, con
pomo, paramano e rami di guardia dorati, oggetto particolarmente
raffinato, mentre la mano destra (anche qui al mignolo un anello
con una pietra incastonata, forse una corniola) regge uno stiletto,
del quale si intuisce l’immanicatura. Interessante è l’oggetto di
devozione che si scorge al collo: un rosario in lapislazzuli con
paternoster in oro. L’identica postura, ma, soprattutto, la presenza
di questo elemento, consente di tracciare alcuni legami con altri
115
dipinti (per questo: DE GROFT 2006 e, indipendentemente, BERTELLI
2011), specie con il ritrattino della collezione di Ambras, che risulta
essere un particolare, e con la non spettacolare tela del Museo
Diocesano di Mantova, per tempo fraintesa nel soggetto. La fortuna
di questo modello iconografico sembra ribadire l’importanza che
il dipinto ha avuto nel passato, ma anche la presenza a Mantova
della tela per lungo tempo, o della realizzazione di un’altra copia/
versione identica utilizzata come modello. La ricostruzione delle
vicende storiche tracciata da Aaron H. De Groft (che ringrazio per la
disponibilità) appare articolata. Il dipinto dovrebbe coincidere con
quello prodotto da Tiziano nel 1540 e ritenuto perduto. Secondo la
traccia segnata, la tela venne realizzata come dono a favore di Otto
Enrico, conte palatino del Reno e duca di Baviera, che aveva inviato a
Mantova il ritratto suo e della moglie Susanna, richiedendo in cambio
quelli di Federico e Margherita Paleologo. La morte di Federico II
(28 giugno 1540) ritardò ulteriormente la spedizione dell’opera, poi
sollecitata anche dal cardinal Ercole Gonzaga, reggente dello Stato.
Del dipinto si perdono quindi le tracce; riemerge presso la raccolta
di Marczell von Nemes a Budapest (TSCHUDI 1911) dove compare al
116
numero 27 come Federico II duca di Mantova («Dalla collezione
del cardinal Broschi [sic, ma Braschi] di Bologna»). Dopo diverse
vendite e passaggi all’asta, giunta negli Stati Uniti, la tela è giunta
all’attuale proprietà e al deposito presso il Museo di Williamsburg;
in tempi recenti è stata sottoposta ad una campagna di analisi
scientifiche che ha indicato la piena compatibilità tra i materiali
utilizzati e quelli impiegati da Tiziano tra la metà e la fine degli anni
Trenta del Cinquecento, mentre non compaiono pigmenti prodotti
dopo il 1576.

Intorno al dipinto tizianeggiante di Williamsburg si legano, come


accennato, il ritratto della collezione di Ambras, limitato al solo mezzo
busto,14 e quello pure a tre quarti già presso il Santuario della Beata
Vergine della Comuna di Ostiglia (Mn) ed ora conservato al Museo
Diocesano di Mantova, probabilmente opera di Muzio Ghisoni e
che si colloca tra il 1575 ed il 1588.15 I due gruppi di ritratti appena
descritti costituiscono l’asse portante dell’iconografia federiciana,
riflettendosi anche in un curioso dipinto raffigurante Federico
II Gonzaga e Margherita Paleologo.16 Questa tela, infatti, risulta
probabilmente essere una copia tarda17 da un dipinto più antico
oggi perduto, e intrisa di citazioni: la figura del duca, infatti, ricalca
117
quasi perfettamente, benché in controparte, l’effigie che ritorna nei
due gruppi appena descritti; quella della duchessa, come si vedrà, è
uno stereotipo ben affermato.
Anche se realizzate in età ducale, sono da ritenere immagini
convenzionali e frutto di una tradizione ormai stanca e affidata
a modelli inerti sia il ritratto di Federico II realizzato da Orazio
Samacchini nella volta della Stanza di Adone della Rocca dei
Rossi a San Secondo (Pr),18 sia quello presente nella grande tela

14 Artista mantovano, Ritratto di Federico II Gonzaga, 1581 ca., olio su carta,


13,4 × 10,4 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, collezione
Ambras, inv. Nr. GG 5086. Si veda: BEAUFORT-SPONTIN 1994.
15 Muzio Ghisoni, attribuito a, Ritratto di Federico II con lo stemma Gonzaga,
1530 ca., olio su tela, 118 × 81 cm, Mantova, Museo Diocesano “Francesco
Gonzaga”, Inv. 256. Intorno al dipinto, almeno: BERTELLI 2011, p. 6; BERZAGHI 2011.
16 Artista mantovano (?), Ritratto di Federico II Gonzaga e Margherita
Paleologo, sesto-settimo decennio del Cinquecento (?), olio su tela, Mantova,
collezione privata. Per questo: MALACARNE 2006, p. 79 (sola immagine).
17 Dovrebbe risalire almeno al sesto-settimo decennio del Cinquecento, se non,
più probabilmente, già al primo decennio del Seicento – questa è l’impressione
ricavata dalle immagini disponibili.
18 Orazio Samacchini, Ritratto di Federico II Gonzaga in armi, 1557-1563,
di Francesco Borgani raffigurante Federico II alla difesa di Pavia,
già nel castello di Goito ed oggi ad Opo no (Repubblica Ceca).19 Al
limite dell’invenzione risulta essere l’effigie retrospettiva dipinta da
Domenico Fetti, già collocata nella serie iconografica della Galleria
della Mostra di Palazzo Ducale ed oggi conservata a Vienna.20 Assai
tardo e per certi versi vicino alle immagini di San Secondo Parmense
e, ancor più, di Opo no, è il ritratto affrescato ad inizio Settecento
nella Sala dei Principi di Palazzo Ducale (oggi strappato e ricollocato
nella Sala degli Staffieri).21

L’immagine di Margherita Paleologo

Più complessa pare essere la ritrattistica della prima duchessa di


Mantova, Margherita Paleologo, non tanto per il numero delle opere,
quanto per ricostruire la concatenazione delle immagini secondo
i modelli iconografici ricollocandole secondo l’età anagrafica
dell’effigiata. Il primo dipinto che si può prendere in considerazione
118 è senz’altro la pala di Occimiano (Al), dove, nella serie di ritratti che
compare ai piedi della Madonna del Rosario, è stato riconosciuto il
volto di Margherita Paleologo.22 Nonostante il dipinto sia piuttosto
tardo (1580, secondo la critica), l’aspetto della duchessa è quello
che si può collocare nella sua prima gioventù e curioso è il
particolare dei capelli ricci che si scorgono al di sotto della corona.23

affresco, San Secondo (Pr), Rocca dei Rossi, Stanza di Adone. Ringrazio Renato
Berzaghi per la segnalazione. Intorno al dipinto: BASTERI, ROTA 1994.
19 Intorno al quale, almeno: BERZAGHI 1998, pp. 209, 226 (ill. pp. 210-211).
20 Domenico Fetti, Ritratto retrospettivo di Federico II, 1620 ca., olio su tela,
101 × 88 cm, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, Inv. Nr. GG
2423. Almeno: LAPENTA 2002.
21 Scuola mantovana (Antonio Calabrò? Sante Vandi?), Ritratto di Federico II
Gonzaga, 1701, affresco strappato, 248 × 345 cm, Mantova, Palazzo Ducale, Sala
degli Staffieri, inv. 2067. Rimando al dettagliatissimo L’OCCASO 2011, pp. 378-381
n° 476.
22 Ambrogio Oliva, Madonna del Rosario, 1580 ca., olio su tela, Occimiano (Al),
chiesa del Santissimo Nome di Gesù e del Rosario.
23 Il dipinto con la Madonna del Rosario conservato nella chiesa del Santissimo
Nome di Gesù e del Rosario (chiesa domenicana, sede dei battuti vestiti di cappa
bianca) di Occimiano (Al) nella parte inferiore vede un’infilata di personaggi
storici di particolare interesse: Margherita Paleologa, Anna d’Alençon, Carlo
V, Stefano Guazzo, papa Pio V, Ambrogio Aldegatti, Ercole Gonzaga, Guglielmo
Gonzaga, Isabella Gonzaga. L’opera, già ridotta in ovale, si deve all’artista casalese
Ambrogio Oliva (tra l’altro padre di Laura, moglie di Guglielmo Caccia detto il
Il riconoscimento, in questo caso, è ad sensum, ma i tratti somatici
non sono lontani (benché, come detto, giovanili) da quelli delle altre
effigi certe conosciute. È quindi la volta, nell’ideale serie iconografica
relativa a Margherita Paleologo, del magniloquente ritratto realizzato
da Giulio Romano e conservato a Londra (Hampton Court).24 Il
dipinto, per lungo tempo ritenuto un Ritratto di Isabella d’Este,
raffigura una dama, seduta in un ambiente chiuso e scuro; alle sue
spalle una curiosa scena, dal significato oscuro, mostra l’arrivo di altre
dame. Splendida è la mise della donna in primo piano: vestiti, gesti,
gioielli, tutto concorre a stabilirne l’alto rango. Anche per questo
il soggetto ha visto un non corretto riconoscimento (e, va detto,
la ritrattistica relativa ad Isabella d’Este presenta numerosi errori
e fraintendimenti); i tratti somatici, invece, esprimono una positiva
coincidenza con la fisionomia di Margherita Paleologo nella prima
maturità (MARTINEAU 1981; CASTAGNA, LORENZONI 1989; FERINO PAGDEN
1994, pp. 114-116). Il viso è allungato, con la parte mandibolare
leggermente sfuggente; i capelli, al di sotto della capigliara gonfia e
decorata al centro da un diadema (datata da J. Bridgeman 1525-1532;
cfr.WHITAKER, LOCONTE 2007, p. 138 n. 1), sono castani e ricci, pettinati
con una scriminatura centrale e numerose ciocche libere. La fronte
è alta, gli occhi, dal taglio tondo leggermente allungato, sono
119
castani; il naso retto, la bocca regolare. Alle orecchie due pendenti
con perle barocche. Strepitoso l’abbigliamento: l’ampia scollatura
esaltata dalla catena d’oro che scende fin sul ventre, è coperta dalla
camicia bianca decorata, specie nella bordura al collo, con motivi
geometrici in filo d’oro. Sopra tutto la sopraveste caratterizzata da

Moncalvo). Si tratta evidentemente di una celebrazione della famiglia ducale già


al tempo di Guglielmo Gonzaga, in un momento ideale che verosimilmente si
colloca all’inizio degli anni Sessanta del Cinquecento, considerando sia l’aspetto
degli effigiati, sia le date riguardanti le cariche pubbliche. Margherita Paleologo
appare piuttosto idealizzata (come, peraltro, molti dei personaggi qui raffigurati);
la struttura del volto, allungato, è simile a quella documentata da altri dipinti, ma
certamente ingentilita. Vestita in nero, con una lattuga al collo, la duchessa di
Mantova porta in capo la corona; i capelli sono castani e ricci, la fronte alta, gli
occhi castani, il naso diritto e le labbra regolari. L’impressione è che, al di là di un
aspetto generico dovuto ad una limitata conoscenza dell’aspetto della duchessa o
di un “accomodamento” dei tratti del volto scientemente realizzato dal pittore, vi
possa essere alla base di questo ritratto un modello iconografico antico, relativo
alla gioventù della duchessa, oggi perduto o non noto. Intorno al dipinto: NATALE
1985, pp. 414, 436; GRIGNOLIO, ANGELINO 1994, pp. 72-73; ALETTO 2006, p. 169.
24 Giulio Romano, Ritratto di Margherita Paleologo, 1531 ca., olio su tavola,
115,5 × 90 cm, Londra, Hampton Court, RCIN 405777. Per quanto riguarda la
bibliografia rimandiamo almeno a WHITAKER, LOCONTE 2007.
una struttura traforata a nodi in tessuto nero bordati in oro, sotto
la quale si intravede, specie alle maniche, il tessuto sottostante a
fasce salmone e bianche (originariamente il colore era cremisi
pallido, come si nota in un tassello rimasto coperto dalla cornice:
WHITAKER, LOCONTE 2007, p. 138 n. 1); l’utilizzo di questo ricamo “ad
intaglio” (se può essere utilizzata questa espressione) conferisce
all’insieme un grande volume, specie alle spalle e alle maniche, che
appaiono gonfie e nel contempo leggerissime. Il concatenarsi del
motivo decorativo, probabilmente ispirato a modelli leonardeschi,
vede un modulo più volte replicato grazie al continuo ribaltamento
speculare. Il motivo, inventato dall’umanista Niccolò da Correggio
intorno al 1493, era detto “fantasie dei vinci” e caratterizza anche le
maniche del ritratto di Isabella d’Este in nero del Kunsthistorisches
Museum di Vienna nonché la capigliara del ritratto di Isabella in
rosso, copia da Tiziano realizzata da Rubens, conservato presso lo
stesso museo. Particolarmente solenne, e segno dell’importanza
anche iconografica del dipinto, la gestualità: la Paleologina con la
mano sinistra (all’indice e al mignolo due anelli) tiene in grembo,
120 vicino al bracciolo in legno della poltrona, un paio di guanti in
pelle camoscio, probabilmente come quelli per i quali Isabella
d’Este era famosa: impregnati di olii ed essenze profumate, capaci
di ammorbidire la pelle delle mani. Con la destra, invece, la dama
tiene tra le dita (all’indice un anello con una pietra scura, con
taglio quadrato) i grani del rosario in lapislazzuli (in oro quelli dei
paternoster), che si conclude in una targa devozionale e che appare
legato in vita alla cintura a maglie metalliche dorate. Curiosamente
un simile rosario in grani di lapislazzuli alternati, ogni decina, ad
uno in oro, compare al collo del marito Federico II in alcuni ritratti
(in particolare quelli tizianeschi che fanno capo al dipinto oggi
al Prado e a quello già della collezione von Nemes). Un rosario
in lapislazzuli fu inviato da Federico II alla moglie (ASMn, b. 747,
Casale, 17 settembre 1531, lettera di Capino de’ Cappi a Federico II
Gonzaga, ove la duchessa viene descritta con la capigliara in testa;
cfr. DAVARI 1891, p. 76; MARTINEAU 1981, p. 161 che però riporta la
data errata del 28 settembre); nell’inventario dei beni di Margherita,
inoltre, compare un rosario in lapislazzuli con sessantatré Ave
Maria intercalate da nove paternoster in oro e terminante con una
targa con Santa Caterina (CASTAGNA, LORENZONI 1989, pp. 21-22; FERRARI
2003, pp. 334-335; nn. 7002-7009).
Se l’identità di Margherita Paleologo appare corroborata da numerosi
indizi, più complesso è intuire il significato della scena che si svolge
alle spalle del personaggio principale. Al di là dell’ambiente in
tenebra nel quale è la prima duchessa di Mantova, oltre una porta
della quale si intuisce lo stipite marmoreo, è un nuovo vano in luce,
dal pavimento in cotto. In infilata una seconda porta dal portale
monumentale (si nota sull’architrave la parte inferiore di un busto
marmoreo). Una dama, che indossa pure un’alta capigliara e una
veste verde brillante, apre il tendaggio per far entrare un gruppo di
persone. Si tratta di altre tre donne. Quella al centro, sicuramente
più anziana, indossa una lunga veste cinerina; in mano un ventaglio
in piume, mentre attorno al capo è un lungo velo plissettato in seta
gialla. Alle sue spalle, rispettivamente a sinistra e a destra, altre due
dame: la prima si direbbe indossare un abito religioso, della seconda
si scorge solo il viso incorniciato dalla capigliara.
Sarebbe suggestivo individuare un momento particolare descritto
da questo dipinto. Da un punto di vista pittorico l’opera si colloca
tra terzo e quarto decennio del Cinquecento. Proprio in quel
torno di tempo avveniva il matrimonio tra Margherita Paleologo e
Federico II. Curioso sarebbe ricollegare l’opera a questo contesto
e, magari, riconoscere nella figura femminile incedente sul fondo
la madre dello sposo, Isabella d’Este, al tempo quasi sessantenne. In
121
questo senso è seducente l’affermazione di Jane Martineau (1981,
p. 161) che individua con grande probabilità gli ambienti illustrati
nel dipinto con l’Appartamento di Margherita Paleologo in Castello.
In particolare nella Camera delle Armi, nel 1530, Giulio Romano
dispose ritratti di Federico II lasciando spazio per un grande
dipinto che stava realizzando, e che potrebbe essere il presente
(MARTINEAU 1981, p. 161). Sempre Martineau suggerisce un’accurata
identificazione per le tre figure sul fondo: Isabella d’Este al centro,
accompagnata da Isabella di Capua e Margherita Cantelma, duchessa
di Sora, in abito monacale (si era trasferita in un convento a Mantova
dopo la morte del marito e dei figli).
Per quanto riguarda l’attribuzione a Giulio Romano va detto che
il dipinto, catalogato come «an Italian Dutchesse» e come opera
di Raffaello nell’inventario di Giacomo II Stewart fu ricondotto al
Pippi per la prima volta in MARIETTE 1857-1858, p. 167. Nella stessa
sede peraltro si rilevava il rapporto con un disegno preparatorio
conservato al Louvre, del quale si dirà, e si avanzava il riconoscimento
in Isabella d’Este. In seguito la paternità è stata sostanzialmente
accettata (MARIETTE 1969, p. 287; HARTT 1958, I, pp. 82-84, n° 10;
SHEARMAN 1983, n° 116; MARTINEAU 1981, n° 110, pp. 160-162;WHITAKER,
LOCONTE 2007).
Del dipinto è noto anche un disegno preparatorio, relativo al
particolare in secondo piano della dama che sta aprendo la tenda.25
Come correttamente notato in MARTINEAU 1981b il primo legame
col dipinto si trova in MARIETTE 1857-1858, p. 167; al contrario
appare improbabile che si tratti di una copia successiva (NICOLSON
1947), anche per le sottili differenze riguardanti l’acconciatura e
la capigliara. Si tratta con buona approssimazione di uno studio
realizzato quando il dipinto si trovava in una fase relativamente
avanzata e la costruzione dello spazio e della fonte di luce era già
consolidata. Intorno al disegno anche HARTT 1958, p. 289, n. 45.

Tutti gli altri ritratti conosciuti risultano essere praticamente


sovrapponibili e derivanti da un modello più antico oggi perduto o
non noto. Probabilmente in questo gruppo l’immagine più antica è
quella che compare nella Pala di Giarole (Al), già all’altare maggiore
della chiesa di San Domenico in Casale Monferrato.26 Anche qui, tra
122 diversi altri ritratti, compare, sul lato destro, il volto della duchessa
di Mantova, a mani giunte e in preghiera, con lo sguardo rivolto al
centro della composizione. La stessa effigie è quella che torna nella
già menzionata tela raffigurante Federico II Gonzaga e Margherita
Paleologo, e che anche in questo particolare presenta un’immagine
affermata e stereotipata: si noti, peraltro, come nel doppio ritratto

25 Giulio Romano, Una giovane che tira la tenda, 1531-1533 ca., penna e
acquarello, 233 × 158 mm, Musée du Louvre, Cabinet des Dessins, n° 3568.
26 Artista piemontese, Gloria di San Domenico, sesto-settimo decennio
del Cinquecento, olio su tela, 370 × 212 cm, Giarole (Al), cappella del castello
Sannazaro. Intorno alla tela: NATALE 1985, pp. 417-421; ALETTO 2006. Il dipinto con
la Gloria di San Domenico, posto all’inizio della navata sinistra della cappella
del castello di Giarole (Al), dedicata a San Giacomo, rivela una serie di ritratti tra
i quali una possibile effigie di Margherita Paleologo. La grande tavola che fino
al 1754 era all’altar maggiore della chiesa di San Domenico di Casale (NATALE
1985, pp. 417, 421), e che si lega ad un pittore piemontese-lombardo (1568) vede
in effetti sul lato destro un volto che ben si adatta all’iconografia di Margherita
Paleologo. L’aspetto, a confronto con il ritrattino di Ambras, che è praticamente
sovrapponibile, è piuttosto giovanile; il volto appare meno segnato dal tempo;
solo lo sguardo differisce leggermente dall’effigie viennese. Risulta pertanto
assai probabile che si tratti effettivamente di un ritratto della prima duchessa
di Mantova, il cui viso, però, appare tratto da un’opera non meglio identificata
e risalente alla sua gioventù. Tra i vari personaggi raffigurati, sulla destra sembra
riconoscibile papa Pio V, meno percorribile è l’individuazione di uno dei cardinali
con Ercole Gonzaga; sul lato sinistro risultano forse identificabili Bonifacio IV e
Guglielmo IX Paleologo.
la duchessa guardi al di fuori della composizione, a differenza
del marito, proprio in quanto il particolare è desunto dalla pala
di Giarole (nella quale, invece, si rivolge al santo protagonista
del dipinto). Il medesimo modello, infine, è quello utilizzato nel
ritrattino di Ambras, ove lo sguardo fuori campo della duchessa
viene leggermente attenuato.27

123

27 Artista mantovano, Ritratto di Margherita Paleologo Gonzaga, 1581 ca.,


olio su carta, 13,4 × 10,1 cm,Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie,
collezione Ambras, inv. Nr. GG 5087. Per questo: AMADEI, MARANI 1978, pp. 51-52.
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WHITAKER, LOCONTE 2007


L. WHITAKER, A. LOCONTE, Scheda 38, in L. Whitaker, M. Clayton (a cura di), The
Art of Italy in the Royal Collection. Renaissance & Baroque, London, Royal
Collection Pubblications, 2007, pp. 136-138.

ZEITZ 2000
L. ZEITZ, »Tizian, teurer Freund...« Tizian und Federico Gonzaga
Kunstpatronage in Mantua im 16. Jahrhundert, Petersberg, Imhof, 2000.

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