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«Si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà» (2 Cor

8,9)

Diego Fares S.I.

La citazione di Paolo – «Si è fatto povero per voi, perché voi diventaste
ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9) – è centrale nel pensiero di
Francesco, nel suo stile di vita, nei suoi gesti e nel suo modo di governare.
Paolo trae spunto da un atteggiamento solidale – le chiese della Macedonia
hanno organizzato una colletta per aiutare quella di Corinto – per far vedere
che lì risiede l’essenza del cristianesimo. L’apostolo rimarca che si è trattato di
una grazia data loro dal Signore: infatti nella grande prova della tribolazione la
loro gioia sovrabbondante e la loro estrema povertà hanno sovrabbondato nella
ricchezza della loro generosità (2 Cor 8,2). Fa notare che «hanno dato al di là
dei loro mezzi» (8,4) e «si sono offerti se stessi» (8,5).

Bergoglio ha sempre davanti agli occhi la via dell’abbassamento che il Signore


ha scelto per salvarci; l’abbiamo intravista subito, dietro quella frase che gli è
venuta dal cuore quando ha raccontato la sua elezione a Sommo Pontefice:
«Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!». In Evangelii gaudium Francesco
sviluppa il tema: «Desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da
insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze
conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare
da loro. […] Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra
voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a
comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci
attraverso di loro» (EG 198).

Ci concentreremo sulla luce che le frasi di Paolo e quella del Santo Padre
apportano al tema della riforma della Chiesa.

Consideriamo la povertà come qualcosa che non si può definire


sociologicamente, né a partire dal luogo comune secondo cui essa è «cosa
risaputa», ma nel mistero del suo dinamismo interiore: farsi povero, per il
Signore, non è uno stato o una condizione a cui perviene, bensì un «modo
suo», che imprime a tutto il suo agire il dinamismo di chi si abbassa per
innalzare l’altro, di chi s’impoverisce per arricchirci con la sua povertà.

L’impronta di povertà che, fin dal primo momento, Francesco sta imprimendo
nella vita della Chiesa ha il proprio fondamento cristologico in questo modo di
essere del Signore.

La valenza della povertà nella spiritualità gesuita

In quanto gesuita, Bergoglio ha sempre visto e predicato ciò che insegna


sant’Ignazio: che la povertà è muro e madre della vita religiosa1 (e della vita di

1 «Nella vita consacrata la povertà è sia un “muro” che una “madre”. È un “muro” perché
protegge la vita consacrata, è una “madre” perché la aiuta a crescere e la conduce nel giusto
tutta la Chiesa). Muro perché protegge contro gli attacchi del demonio, e madre
perché permette al Signore di agire fecondamente nella piccolezza dei suoi
servitori. Ai professi della Compagnia sant’Ignazio fa promettere di «non far
nulla per alterare quello che nelle Costituzioni riguarda la povertà, se non per
renderla, piuttosto, in qualche modo più stretta» (Costituzioni, n. 553). Per un
gesuita le possibilità di «riformare» la propria vita o quella della Compagnia si
orientano sempre verso la maggior povertà ed «essere umiliato in tutto con
Cristo»2.

Davanti alla scelta di povertà e umiliazioni là dove si desse «un’uguale gloria di


Dio» – ovvero, dove non è in gioco alcun dovere –, sant’Ignazio adduce il
motivo di «rassomigliare di più a Cristo»: vale a dire, quella scelta si compie
per amore gratuito di corrispondenza a Colui che ha assunto gratuitamente la
nostra condizione umana.

Da questa spiritualità degli Esercizi vengono le proposte pratiche di Bergoglio,


che segue lo spirito della XXXII Congregazione generale dei gesuiti riguardo al
punto di «camminare pazientemente con i poveri, imparando da loro». Papa
Bergoglio non manca di insistere sul fatto che non è soltanto per giustizia e per
misericordia che dobbiamo aiutare i poveri, ma anzitutto perché ne
riconosciamo la dignità e vogliamo ricevere ciò che essi hanno da darci e da
insegnarci (EG 198). Infatti, come diceva il gesuita cileno sant’Alberto Hurtado,
«il senso del povero è l’essenza del cristianesimo»3.

Tentazioni contro la povertà

Nel discernimento ignaziano la povertà e l’umiliazione sono la chiave affinché


le cose spirituali «si concretizzino»4. Questo discernimento è lo strumento di
governo spirituale di papa Francesco e in proposito può venirci in aiuto un suo
scritto di quand’era Provinciale dei gesuiti argentini.

La povertà, diceva Bergoglio, ci salva da «questi atteggiamenti disperati [che]


seguono gli stessi gradini dell’antiregno: cominciano poco poveri, proseguono
diventando vani e finiscono imbevuti di superbia»5. La povertà ci salva dalle
tentazioni della ricchezza, che possono esprimersi tramite categorie temporali.

Rispetto al futuro, la tentazione è una «ricchezza fatta di cose futuribili» e va


contro quella povertà che «ripone la speranza soltanto in Dio». I futuribili danno
luogo a una specie di sociologia di futuri possibili a partire dai quali il presente

cammino» (FRANCESCO, Incontro con le comunità religiose in Corea, 16 agosto 2014).

2 IGNAZIO DI LOYOLA, s., Direttorio autografo, 23.

3 A. HURTADO S.I. s. «Lettera al p. Arturo Gaete», Santiago del Cile, gennaio 1952, in Cartas e
Informes del Padre Alberto Hurtado S.I., Santiago de Chile, Ediciones Universidad Católica de
Chile, 2013, 315-316.
4 In Laudato si’, per esempio, quando i temi ecologici suscettibili di molte opinioni teoriche
contrapposte vengono messi in relazione con la vita dei poveri di oggi, acquistano drammatico
realismo e urgenza (Cfr D. Fares, «Povertà e fragilità del Pianeta», Civ Catt 3961, 11 luglio
2015, 35-49).

5 J. M. BERGOGLIO, Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Rizzoli, Milano
2014, pp. 111-112.
della Chiesa si trasforma in un territorio di battaglia attorno a «questioni
disputate» che costituiscono una sorta di «ricchezza del negativo», della
lagnanza e della protesta. Francesco definisce tutto ciò come un tipo di
gnosticismo, un cristianesimo illuminista ed elitario che non segue il
camminare paziente del popolo fedele di Dio.

Rispetto al passato, la tentazione è la ricchezza di conservare ciò che è già


acquisito, in cui si ripone la sicurezza. È la proposta pelagiana, come la chiama
il papa, di restaurare forme passate che oggi non posseggono una capacità
culturalmente significativa.

Rispetto al presente (anche le altre due tentazioni si giocano nel presente, ma


questa si concretizza maggiormente nell’oggi) la tentazione è la ricchezza
funzionalista. Ricchezza di carte e di piani, ricchezza di gestione efficiente di
cose, di beni, di denaro. È una sorta di «teologia della prosperità» in campo
organizzativo pastorale, come ha detto il papa in Brasile6.

La dinamica del farsi poveri come sintesi della logica dell’amore

Da parte del Signore, farsi povero per arricchirci con la sua povertà non è un
risultato – come potrebbe suggerire l’espressione «si è fatto povero» –, ma il
dinamismo proprio del suo modo quotidiano di amarci. Il motivo e il desiderio –
«per farci diventare ricchi» – dà un carattere dinamico al «farsi povero». Ogni
volta che il Signore vuole «darci e comunicarci quello che ha, o di quello che ha
o può» (ES 231), come dice sant’Ignazio nella Contemplazione per giungere ad
amare, lo fa in un modo che segue la via dell’«abbassarsi e impoverirsi». Lo
vediamo in tutta la vita di Gesù, ma in modo speciale nella sua maniera di farsi
incontro alla comunità come risorto povero, con l’aspetto di un uomo qualsiasi,
che chiede asilo a Emmaus e domanda «qualcosa da mangiare» sulla sponda
del lago. Nel «farsi povero» di Gesù non c’è misura se non quella di dare tutto,
fino alla propria vita sulla croce, per rimanere sotto la forma del rinnovato
impoverirsi in ogni Eucarestia e nel perdono instancabile dei nostri peccati,
come dice il papa.

Ma ci stupisce ancora di più il terzo elemento della frase di Paolo: il fatto che ci
faccia ricchi «con quella povertà»7. Distinguiamo quale povertà sta designando
la frase: non una povertà qualsiasi, bensì quella dotata del dinamismo che si
adegua a ciò che rende ricco l’altro. La ricchezza di Cristo non ci viene dunque
donata e comunicata come se fosse una cosa, bensì un dinamismo a cui
possiamo associarci, per entrarvi e parteciparne. Il comandamento del Signore,
6 FRANCESCO, Incontro con i vescovi responsabili del Celam, 28 luglio 2013.

7 L’«eptojeuzen» – si è fatto povero, come un mendicante – è come l’«ekenozen» – si è


annullato, si è abbassato, si è spogliato – di Fil 2, 7. Ed entrambi hanno carattere permanente
nel «si è fatto carne» di Gv 1. Cristo, così com’è tuttora uomo e ha la nostra carne (con le sue
piaghe), allo stesso modo siede da povero alla destra del Padre, «intercedendo» – mendicando
– per noi. Perciò la sua identificazione con i poveri della storia è reale, non figurata.
«amatevi come io ho amato voi», può essere letto in questa chiave: «fatevi
poveri per rendere ricchi gli altri come faccio io». Il modello della povera
vedova che diede le due monetine – tutto ciò che quel giorno aveva per vivere
– non è soltanto un esempio edificante. Nei piccoli gesti quotidiani praticati dai
più piccoli del popolo fedele di Dio il Signore vede già attivo questo dinamismo
proprio del suo amore, e per questo si rallegra del fatto che «il regno di Dio sia
stato rivelato ai piccoli» come dirà varie volte nei Vangeli.

Dunque il passo avanti che avverrà – o sta già avvenendo – da parte di


Francesco in una cosiddetta riforma della Chiesa, non può che andare nella
direzione di «farci ricchi con la sua povertà».

Non ci intriga la gioia indescrivibile che quei piccoli gesti di spoliazione di papa
Francesco generano quasi in tutti? (E non dico tutti, ma «quasi tutti» perché c’è
sempre un qualche Giuda che si lamenta amareggiato quando vede qualcuno
che rompe l’ampolla del profumo). Le persone intuiscono che non si tratta di
gesti di ascetismo personale, ma di gesti che arricchiscono il popolo di Dio,
impersonato in ciascuno di coloro davanti ai quali il papa si abbassa a lavare i
piedi, per esempio, o perde tempo a chiamarli per telefono. Tutti i giorni il papa
arricchisce la Chiesa con i suoi gesti di abbassamento per amore, che stanno
diventando sempre più «spogli», per così dire, e non vanno sui giornali come
quando aveva rinunciato alle scarpe rosse o aveva scelto di rimanere ad
abitare nella stanza provvisoria di Santa Marta. Bisogna saperli leggere in
piccoli particolari: la maniera, per esempio, di chiedere preghiere per sé dopo
la prima messa a Cuba: «vi prego» – e ha lasciato cadere le braccia –, «come
un mendicante, di pregare per me». Nella stessa direzione vanno le sue
richieste ai giornalisti: «per favore, interpretatelo bene, tenendo presente il
contesto». Francesco «impoverisce» un linguaggio papale che, volendo essere
infallibile in ogni frase, era diventato comprensibile soltanto agli specialisti, per
entrare in dialogo con le persone, fiducioso nel fatto che chi ha buona volontà
«salverà le affermazioni del prossimo», come consiglia sant’Ignazio. Dietro lo
schietto «questo papa lo capisco» che dicono le persone semplici si nasconde
l’esperienza di essere stati «arricchiti».

Cade qui a proposito una delle interpretazioni che il Santo Padre ha dato di
questo versetto di Paolo, nel suo messaggio per la Quaresima 2014, dove ha
rilevato che in quella frase c’è lo stile e la logica di Dio, il modo di amarci di
Gesù con «questa sua “ricca povertà” e “povera ricchezza”», che sono «come
quelle di un bambino che si sente amato dai genitori». Diceva papa Francesco:
«Ci colpisce che l’Apostolo dica che siamo stati liberati non per mezzo della
ricchezza di Cristo, ma per mezzo della sua povertà. Eppure san Paolo conosce
bene le “impenetrabili ricchezze di Cristo” (Ef 3,8), “erede di tutte le cose” (Eb
1,2)». «Non si tratta di un gioco di parole», continua il papa, «di un’espressione
ad effetto! È invece una sintesi della logica di Dio, la logica dell’amore, la logica
dell’Incarnazione e della Croce. Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza
dall’alto, come l’elemosina di chi dà parte del proprio superfluo con pietismo
filantropico. Non è questo l’amore di Cristo! Quando Gesù scende nelle acque
del Giordano e si fa battezzare da Giovanni il Battista, non lo fa perché ha
bisogno di penitenza, di conversione; lo fa per mettersi in mezzo alla gente»8.

8 FRANCESCO, Messaggio per la Quaresima 2014.


Tramite la dinamica del farsi povero il Signore riforma (rende nuovo) il modo di
amare: in questo suo stile si sintetizza la logica dell’amore. Ebbene,
l’interpretazione del papa ci porta al tema del «mettersi in mezzo alla gente»
come il luogo concreto in cui questa logica si rende comprensibile e praticabile
anziché l’astrazione di un pio desiderio.

Impoverire il modo di situarci

Il carattere relazionale e inclusivo della povertà evangelica riforma la nostra


maniera di situarci: ci porta a stare, come uno fra gli altri, in mezzo al popolo
fedele di Dio.

«Mettersi in mezzo alla gente»: è un’altra espressione ricorrente di Francesco.


Diceva che per lui restare ad abitare a Santa Marta era una questione di salute
psicologica, perché nello spazio di «imbuto al contrario» del palazzo vaticano
non poteva entrare in relazione spontanea con la gente. Alcuni la interpretano
come una scelta un po’ pittoresca e certamente transitoria. Tuttavia la gente, il
popolo fedele di Dio dell’ovile ecclesiale e quello degli «altri ovili», ama questo
contatto personale col papa e lo cerca come qualcosa di cui aveva una vera e
propria sete.

Il Santo Padre diceva a un gruppo di nuovi vescovi: «Ora consentitemi di


parlarvi con semplicità su alcuni temi che mi stanno a cuore. Sento il dovere di
ricordare ai Pastori della Chiesa l’inscindibile legame tra la stabile presenza del
Vescovo e la crescita del gregge. Ogni riforma autentica della Chiesa di Cristo
comincia dalla presenza, da quella di Cristo che non manca mai, ma anche da
quella del Pastore che regge in nome di Cristo. E questa non è una pia
raccomandazione. Quando latita il Pastore o non è reperibile, sono in gioco la
cura pastorale e la salvezza delle anime (Decreto De reformatione del Concilio
di Trento, IX). Questo diceva il Concilio di Trento, con tanta ragione»9.

La maniera di stare a cui mira Francesco è «situata» – in mezzo alla gente e da


«simile agli uomini» (Fil 2,7) – e implica i tre «movimenti» che lui compie
sempre: abbassarsi (chinare la testa per ricevere la benedizione), uscire (verso
le frontiere per includere tutti) e, così situato, predicare una parola che ci
incentra su Cristo. Sono movimenti da pastore, non da principe e nemmeno da
funzionario.

Che cosa desideriamo mostrare con questo? Che questo sapersi situare
trascende qualsiasi struttura, per quanto alcune siano più d’aiuto rispetto ad
altre. Situarsi è un atteggiamento relazionale e importa che il luogo e il modo
prescelti prudentemente in ogni «situazione», per l’appunto, lascino scorgere
l’atteggiamento di fondo.

La sequenza del messaggio paolino interpretato da Francesco è quindi: non si


può rendere ricco l’altro per amore senza farsi poveri per amore, e non è
possibile farsi poveri amorosamente se non in mezzo alla gente che si ama, in
mezzo alla famiglia, in mezzo a un popolo, in mezzo alla Chiesa. Senza questa
appartenenza comunitaria non c’è povertà evangelica bensì miseria,
esclusione. Perfino nell’ascetismo più sublime, se praticato senza riferimento

9 ID., Omelia ai nuovi vescovi, 18 settembre 2014.


alla dimensione sociale e comunitaria, c’è qualcosa di «strano», come in quel
dono delle lingue di cui Paolo diceva che restava incomprensibile se non c’era
nessuno a tradurlo, e andava a beneficio di uno solo, mentre i doni dello Spirito
sono sempre per il bene comune.

Il «mettersi in mezzo alla gente» del Signore, dunque, non è un «espediente».


Non è un bene «utile», bensì un bene «onesto». È il modo concreto
d’«incarnarsi» del Verbo, non soltanto in una natura umana ma nella cultura di
un popolo. Qui troviamo il fondamento teologico del perché l’Incarnazione non
avviene in una natura astratta, ma nella cultura di un popolo concreto. Come
dice Evangelii gaudium, «l’essere umano è sempre culturalmente situato:
“natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse” (GS 53)» (EG 115).
Così come l’Incarnazione non si può «dare» in astratto, ma arricchendo altri
nella loro cultura concreta, allo stesso modo le culture che sono state arricchite
col dono del Vangelo, grazie a quanti si sono impoveriti e inculturati in esse, si
trasformano in fonti della grazia per sé stesse e per altre culture a cui si
aprono. È questa la ricchezza del Popolo fedele di Dio, nella sua spiritualità
popolare che ha «ricevuto» la ricchezza del Vangelo inculturato e a sua volta,
entrando in questa dinamica, l’arricchisce ed evangelizza sé stesso nei suoi figli
(EG 122; Aparecida 264).

Dal «farsi poveri per arricchire con questa povertà», visto come proprio del
Vangelo, dalla sua dinamica d’inculturazione, fluiranno le riflessioni sulla
riforma della Chiesa che dovrà essere «riforma delle chiese», impoverendo
strutture astratte e rafforzando quelle di ogni diocesi e parrocchia concreta. Il
mettersi di cui il papa parla ai vescovi è un «mettersi inculturato» e si traduce,
per ogni pastore (sacerdote, vescovo o papa) nel suo legame indissolubile col
suo gregge, scansando la tentazione dei ministeri astratti, dei vescovi senza
popolo10.

Impoverire il ricettacolo

Dato che a farci ricchi è «la povertà» del Signore, il Vangelo che Egli ci invia ad
annunciare, i sacramenti che ci ha raccomandato e le strutture ecclesiali di
governo e di gestione devono condividere questo stile e questo modo di
situarsi del Signore. Non devono acquisire il carattere di «ricchezze» di cui, per
esempio, l’integrità vada conservata attraverso un’eccessiva preoccupazione di
evitare una contaminazione formale. Quando il Signore dice che ciò che
contamina l’uomo non viene da fuori ma dall’interno del suo cuore e dichiara
puri tutti i cibi, questo «fuori» e questi «cibi» non sono soltanto cose o un luogo
spazialmente definito, bensì parlano di un dinamismo dello Spirito che entra in
ogni vita così come gli viene incontro, come dice il papa, e la trasforma
progressivamente dall’interno. Lo Spirito scompiglia anche le tradizioni (la
circoncisione) e l’ordine temporale degli avvenimenti, come quando Cornelio e
la sua famiglia ricevono lo Spirito e poi vengono battezzati.

Il ricettacolo della misericordia, diceva il papa poco tempo fa, è il peccato. Sì, il
ricettacolo dell’infinita Misericordia di Dio è la povertà, la fragilità del vaso di

10 Per questo motivo renderà i vescovi più protagonisti circa questioni, per esempio, come
quelle di nullità matrimoniale, impoverendo i processi amministrativi e la moltiplicazione degli
interventi (cfr FRANCESCO, motu proprio Mitis et misericors Iersu, 8 settembre 2015).
argilla, la malattia dei malati e il peccato dei peccatori. Il Signore ci ha amati da
peccatori.

E questa frase non va letta soltanto in riferimento al passato. Parlando ai


religiosi in Corea, Francesco diceva: «Sembra contraddittorio, ma essere poveri
significa trovare un tesoro. Anche se siamo affaticati, possiamo offrirgli i nostri
cuori appesantiti da peccati e debolezze; nei momenti in cui ci sentiamo più
fragili, possiamo incontrare Cristo, che si fece povero affinché noi diventassimo
ricchi (cfr 2 Cor 8,9). Questo nostro bisogno fondamentale di essere perdonati e
guariti è in sé stesso una forma di povertà che non dovremmo mai dimenticare,
nonostante tutti i progressi che faremo verso la virtù. Dovrebbe inoltre trovare
espressione concreta nel vostro stile di vita, sia personale che comunitario»11.

Questa dinamica del farsi poveri per ricevere e per dare non può fermarsi a
prodotti confezionati12, ovvero quelli che la Chiesa amministra, come a dire:
l’amore del Signore è infinito ma non posso dartelo se non in questo stampo
perfetto nel quale mi è stato affidato. Il Signore non ci si è dato in alcuno
stampo perfetto, ma nel suo corpo donato e nel suo sangue sparso. Dandone
un segno, Maria ruppe l’ampolla del profumo e il suo aroma profumò tutta la
casa.

Portare il bene più prezioso in «vasi d’argilla», trasformare l’acqua in vino


usando come recipiente i catini destinati al lavaggio delle cose sporche, dire
con gentilezza «neanch’io ti condanno» alla peccatrice sorpresa in flagrante
delitto, trasformare una circostanza di ingiusta ripartizione dei beni familiari,
come reclamava il figlio maggiore, in un caso di ritorno dalla morte alla vita:
tutto questo riguarda l’essenza del cristianesimo. Ed è urgente sottrarsi per
sempre al trabocchetto dello «stampo perfetto per la grazia». Il Seminatore
semina in tutti i terreni, non taglia la zizzania, cerca la pecora smarrita, mangia
con i peccatori, cura nel sabato, esce ad assumere lavoratori fino
all’undicesima ora e invita alla festa tutti coloro che incontra per strada.

Farsi poveri – fino a farsi peccato – per darsi non è un’eccezione alla regola che
può talora verificarsi e soltanto qualche volta, bensì è il modo proprio di darsi
per salvarci – nella povertà della carne a per la povertà della carne – che il
Signore esercita di continuo.

Impoverire il modo di pensare

In un colloquio informale, in cui papa Francesco commentava alcune domande


che gli erano state sottoposte in vista di un servizio giornalistico, padre
Spadaro faceva riferimento a una di esse, in cui lo si interrogava
sull’«orientamento» che voleva dare alla Chiesa. Sono rimasto colpito da come
11 FRANCESCO, Incontro con le comunità religiose in Corea, 16 agosto 2014.

12 Nel trattare il tema della grazia il cardinale Müller ha fatto vedere il pericolo di limitare la
grazia a un «effetto creato» e lasciare da parte l’«autodonazione di Dio». Il fondamento
pneumatologico garantisce il primato dell’autodonazione e dell’autocomunicazione di Dio
(gratia increata) rispetto agli effetti creati della grazia nell’uomo. Sotto il profilo ecclesiale e
sotto quello sacramentale la grazia accade nello spazio storico ed escatologico del regno di Dio
che s’inizia in virtù dell’incarnazione di Dio in suo Figlio e con l’invio dello Spirito Santo ai cuori
degli uomini (cfr Rm 5,5) (cfr G. L. MÜLLER, Dogmatica Cattolica, Cinisello Balsamo, San Paolo,
1999, cap 12 III 12).
il papa ha toccato quel tema e ci si è soffermato mettendo molta enfasi in
quello che diceva, tanto che le sue parole mi sono rimaste impresse: «Non c’è
niente da riorientare. Si tratta di vedere bene dov’è il centro13, d’incentrarsi su
Cristo. Tutto ciò che non ha il centro in Cristo è disorientamento. Se ci
incentriamo su Cristo, lo Spirito Santo conduce la Chiesa come vuole. Ed è
quanto in effetti fa. La Chiesa va bene. Nella Chiesa c’è tanta santità! Tante
persone sante…».

Lo diceva a noi gesuiti nelle due messe celebrate al Gesù: «Se il Dio delle
sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta». L’immagine che il Santo
Padre ha in mente è quella dei primi compagni di Ignazio, Saverio e Favre:
«Favre prova il desiderio di “lasciare che Cristo occupi il centro del cuore”
(Memorie spirituali, 68). Solo se si è centrati in Dio è possibile andare verso le
periferie del mondo! E Favre ha viaggiato senza sosta anche sulle frontiere
geografiche tanto che si diceva di lui: “pare che sia nato per non stare fermo da
nessuna parte” […] a [realizzare] tutte queste “pazzie” apostoliche»14.

Dunque l’abbassamento a immagine del Signore, che si è «spogliato» della sua


condizione divina, non si traduce tanto in una povertà di cose, quanto in una
povertà di sé stessi15. Si tratta, aggiunge Francesco, «di non essere centrati su
sé stessi ma su Cristo», e ciò «significa essere una persona dal pensiero
incompleto, dal pensiero aperto: perché pensa sempre guardando l’orizzonte
che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa
è l’inquietudine della nostra voragine. Questa santa e bella inquietudine!»16.

Questo pensiero incompleto ci parla di una «forma incompleta» – «non c’è


gloria compiuta in questo mondo», diceva il cura gaucho Brochero malato di
lebbra mentre avrebbe voluto morire in sella –, e pertanto di una «riforma
incompleta». Questa forma incompleta non va interpretata con categorie
funzionaliste, come se improvvisare fosse meglio che pianificare. Il pensiero
incompleto è tale verso l’orizzonte, verso il Dio sempre più grande, non davanti
all’azione immediata in cui esso viene definito e messo in atto nel concreto
dalla misericordia. Paradossalmente, quando il nostro pensiero impoverisce la
pretesa intellettuale – il desiderio di dominare le forme ideali – aprendosi al Dio
che sarà sempre più grande di qualsiasi cosa si possa pensare, per poi

13 «Cristo è al centro, Cristo è il centro. […] Oltre ad essere centro della creazione e centro
della riconciliazione, Cristo è centro del popolo di Dio. […] In Lui noi siamo uno; un solo popolo
uniti a Lui, condividiamo un solo cammino, un solo destino. Solamente in Lui, in Lui come
centro, abbiamo l’identità come popolo. […] e anche il centro della storia di ogni uomo. […]
Quando Gesù è al centro, anche i momenti più bui della nostra esistenza si illuminano, e ci dà
speranza, come avviene per il buon ladrone» (FRANCESCO, Messa a conclusione dell’Anno della
fede, 24 novembre 2013).

14 FRANCESCO, Omelia nella chiesa del Gesù, 3 gennaio 2014.

15 «Lo stemma di noi gesuiti è un monogramma, l’acronimo di “Iesus Hominum Salvator” (IHS).
[…] E questo porta noi gesuiti e tutta la Compagnia ad essere “decentrati”, ad avere davanti il
“Cristo sempre maggiore”, il “Deus semper maior, l'“intimior intimo meo”, che ci porta
continuamente fuori da noi stessi, ci porta ad una certa kenosis, ad “uscire dal proprio amore,
volere e interesse” (EE, 189)» (FRANCESCO, Messa nella chiesa del Gesù, 31 luglio 2014).

16 Ibid.
incentrarsi sull’azione concreta di misericordia che è sotto gli occhi e si può
realizzare qui e ora, quello stesso pensiero diventa straordinariamente creativo
ed è capace di esprimere vere e proprie opere d’arte, come vediamo nelle
istituzioni fondate dai santi.

La riforma degli atteggiamenti

Qualcuno diceva che siccome l’uomo è un animale abitudinario, tutto sommato


i santi non sono altro che persone abituate a fare il bene. Nella vita dello Spirito
le riforme avvengono sempre nell’ambito libero delle virtù, degli atteggiamenti
scelti liberamente e ripetutamente. Perciò papa Francesco insiste sul fatto che
la riforma è anzitutto una «riforma degli atteggiamenti» di una «Chiesa Madre e
Pastora»17. Quando viene coltivato il farsi poveri per ricevere la grazia, per
arricchire altri e per mettersi in mezzo alla gente, e diventa un atteggiamento
abituale, connaturale, stiamo parlando non di cose accidentali ma di
atteggiamenti virtuosi.

Portiamo alla riflessione l’altro testo prediletto di papa Francesco: il secondo


capitolo di Paolo ai Filippesi. Quando Paolo ci dice «abbiate in voi gli stessi
sentimenti di Cristo Gesù», si riferisce a un sentimento ben preciso, quello di
chi, «pur essendo di natura divina, non considerò come un tesoro per rapinare
avidamente la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la
condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana»
(Fil 2,6-8). È questo movimento di abbassarsi compiuto dal Signore a far sì che
il Padre a sua volta lo esalti e attiri tutti gli uomini al suo amore.

La lettura di questo passo, se ci si sofferma sulla parola «forma» e si legge ogni


termine, per così dire, secondo la sua «definizione», conduce bibbie come
quella di Gerusalemme a inserire un’infinità di note per dire che «forma» non
va inteso come se Cristo si spogliasse della sua natura. Ma se guardiamo i
sentimenti di Cristo, la dinamica del suo amore, che è quanto Paolo vuole
esprimere, tutto si semplifica: e s’interpreta perfettamente che il «non rapinare
avidamente» di Filippesi è un’immagine che dà precisione a quella di «si è fatto
povero per voi, perché voi diventaste ricchi» di 2 Corinti. Il dinamismo del
«rapinare avidaemente» è molto espressivo. Mostra come si ottengono e si
mantengono le ricchezze in un mondo dove regna tanta inequità.

Nel linguaggio interpersonale dell’amore risulta chiaro che colui che, nel
contesto di una relazione – di amicizia, di coppia, familiare o sociale – «si fa
povero» di qualcosa che possedeva come «proprio», e inoltre si spoglia dal
farne un «tesoro geloso», si arricchisce possedendolo in comune. L’amore
rivela che, in realtà, non c’è nulla che non sia comune.

Lì avviene la riforma fondamentale del cuore umano, nell’esperienza della gioia


del farsi poveri, sostituendo il dare sé stessi al gesto di custodire cose
gelosamente, come hanno fatto i cristiani delle chiese della Macedonia.

Il movimento di riforma della Chiesa, pertanto, deve guardare sempre più al


fine di trasformare in una realtà abituale questo sentimento di povertà
spirituale di Cristo Gesù, che si abbassa per mettersi nelle mani del Padre e a

17 FRANCESCO, Intervista di Antonio Spadaro, 19 agosto 2013.


nostra disposizione, generando così il movimento di attrazione di tutti i figli di
Dio dispersi.

La riforma delle pratiche

La riforma degli atteggiamenti, che sintetizzano quel che siamo per carattere,
quel che ci è stato dato per grazia e la pratica di un modo di vivere scelto e
coltivato nel corso della vita, trova la sua fonte negli Esercizi spirituali, i quali
mirano a una riforma di vita che ci incentri sempre più su Cristo.

Può tornarci utile, dato che la parola «riforma» è storicamente connotata dalla
riforma protestante e dalla controriforma cattolica, situarci brevemente
nell’epoca di sant’Ignazio e guardare il suo compagno san Pietro Favre con gli
occhi di un gesuita contemporaneo, Michel de Certeau.

De Certeau ci fa contemplare Favre su una «frontiera fluttuante»18, quella di


città come Magonza, Colonia, Spira e Worms, in cui negli anni 1540-42 il
protestantesimo andava guadagnando terreno ma non aveva un pieno
successo. Dice: «In questa frontiera mutevole si svolge un dramma quotidiano
di cui Favre è al tempo stesso attore e testimone; ogni abbandono e ogni
ritorno hanno la loro importanza. Qual è il processo di questi abbandoni? Come
si può lavorare per aiutare questi ritorni?» Questo il punto di vista da cui Favre
considera il problema protestante (noi diremmo quello di chiunque lasci la
Chiesa). «Quando il cuore smette di essere davvero cattolico, la condotta fa
rapidamente altrettanto e subito dopo è il turno dei pensieri: ecco il processo».
Il discernimento di Favre è mistico prima che morale o teologico (o
sociologico…).

Tre anni dopo Favre proporrà a Lainez un metodo riguardo alla maniera di
comportarsi con i fratelli separati per riportarli alla fede cattolica. È un metodo
che segue il percorso inverso (rispetto a quello della defezione) e Favre
pronuncia una frase per noi suggestiva: «Il loro male non risiede né in primo
luogo né principalmente nell’intelligenza, ma nei piedi e nelle mani dell’anima
e del corpo. È necessario cominciare da quelli per poi venire a ciò che può
risvegliare in loro buoni sentimenti, e infine giungere, subito dopo, a quanto
attiene la rettitudine della fede»19

Favre racconta nelle sue Memorie spirituali che «notai allora e presi a sentire
come dei cristiani si allontanavano dalla Chiesa. Prima cominciavano a divenire
tiepidi nelle opere e nelle pratiche che rispondono alle grazie e ai doni diversi
fatti da Dio (MS, 218)»20.

Favre nota ciò che accade nel cuore di chi lascia la Chiesa e mira a quel cuore
per provocarne il ritorno. Non si cura degli effetti derivanti dalle dispute morali
e dalle giustificazioni teologiche. E trova la fonte del problema nel lasciare
«così sfuggire i doni effusi dallo Spirito», nel non riconoscere come un dono

18 Per quello che segue cfr. PIERRE FAVRE, s., Mémorial, Traduit et commenté par Michel de
Certeau, s.j., Paris, Desclée, 1960, p 70 ss. Per le citazione proprie di Favre cfr. PIETRO FAVRE,
Memorie spirituali, Milano, La Civiltá Cattolica - Corriere della Sera, 2014 (MS).
19 Ibid.
20 Ibid.
dello Spirito le grazie concrete che ciascuno ha ricevuto e che ci sono state
date per praticarle.

Questo legame tra «le pratiche e le opere» e lo Spirito è notevole. Il fatto di


riconoscere che si è pregato con piacere o che si è praticata un’opera di
misericordia con gioia è una vera e propria grazia dello Spirito, è la base
dell’esperienza cattolica della fede. Pertanto le persone che ai giorni nostri
«compiono opere di misericordia» nelle nostre opere di carità, facilmente poi
provano gusto per le pratiche che la Chiesa raccomanda e propone e credono
senza difficoltà alle questioni più difficili della fede. Papa Francesco segue lo
stesso metodo quando parla di un nuovo umanesimo consistente nel «praticare
le opere di misericordia e vivere le beatitudini». Da questa pratica, da questi
«piedi e mani dell’anima e del corpo» (opere di misericordia spirituali e
corporali), poi, nasce la riforma degli altri aspetti della vita della Chiesa.

La chiave della visione di Favre, che de Certeau dice mistica, sta nel
«riconoscere che quanto si va praticando è grazia dello Spirito». Ciò si oppone
al pensiero idealista secondo cui lo Spirito dà doni ideali, dei quali nessuno è
mai all’altezza, e quel che di fatto ciascuno pratica è una sorta di frutto diluito,
più da parte propria tramite i difetti che dallo Spirito. Coloro che praticano
poco, sentono che quanto fanno è poco, più peccato od omissione che merito.
Quanti si concentrano sugli adempimenti pensano che sia per merito loro. Si
pensa alla grazia come bisognosa di «uno stampo ideale» in cui dev’essere
riversata. E tutta la discussione teologica gira attorno a questo stampo ideale,
mentre nella realtà l’amore di Dio si riversa nei nostri cuori nel momento in cui
pratichiamo il bene. Le pratiche e le opere concrete che un cristiano compie
sono grazia dello Spirito. I frutti delle pratiche traboccano dal «vaso d’argilla»
attraverso cui vengono compiuti.

Vanno in questa direzione le pratiche che il papa raccomanda e di cui dà


esempio, che sono facili da compiere e portano gioia immediata alle persone:
portare con sé un vangelo tascabile, pregare per lui e augurargli il bene,
visitare i carcerati, salutare gli amici…

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