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titolo: Analisi matematica - I

Lorenzo Orio

ANALISI MATEMATICA - I
Versione classica
con elementi di logica, teoria degli
insiemi, combinatoria

NUOVA EDIZIONE

Torino 2018

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titolo: Analisi matematica - I

SOMMARIO

0 – TEORIA DEGLI INSIEMI………………………………..……………………………….3


0.1. PREMESSE………………………………………………………………………………..3
0.2. SOTTOINSIEMI. INCLUSIONI…………………………………………………………..4
0.3. OPERAZIONI FRA INSIEMI E SOTTOINSIEMI………………………………………..5
0.4. RELAZIONI O CORRISPONDENZE FRA INSIEMI……………………………………9
0.5. CRITICA ALLA TEORIA INTUITIVA (ANTINOMIA DI RUSSELL)……………….16
0.6. SPAZI METRICI…………………………………………………………………………19
0.7. INTORNI SFERICI (CIRCOLARI). INSIEMI APERTI E INSIEMI CHIUSI….…..19
0.8. PUNTI DI ACCUMULAZIONE DI UN INSIEME…………………………………..21
0.9. INTERVALLI INCAPSULATI…………………………………………………………22

I − GENERALITA’ SULLE FUNZIONI……………………….........................................23


I.1. FUNZIONI MATEMATICHE…………………………………………………………...23
I.2. CLASSIFICAZIONE DELLE FUNZIONI MATEMATICHE…………………………23
I.3. RAPPRESENTAZIONE CARTESIANA DELLE FUNZIONI………………………..24
I.4. MASSIMO, MINIMO, ESTREMI………………………………………………………25
I.5. MONOTONIA…………………………………………………………………………….26
I.6. CONCAVITA’…………………………………………………………………………….27
I.7. FUNZIONE MODULO, FUNZIONI PARI E DISPARI, PERIODICHE……………28
I.8. FUNZIONI INVERSE……………………………………………………………………29
I.9. FUNZIONI COMPOSTE…………………………………………………………………30

II − COMPORTAMENTO DELLE FUNZIONI NEGLI INTORNI


DEI PUNTI DI ACCUMULAZIONE DEL LORO INSIEME DI
DEFINIZIONE: LIMITI…………………………………………………………………..31
II.1. LIMITI DI FUNZIONI. ASINTOTI…………………………………………………...31
II.2. TEOREMI GENERALI SUI LIMITI…………………………………………………..36
II.3. OPERAZIONI SUI LIMITI……………………………………………………………..36
II.4. CONTINUITA’ DELLE FUNZIONI IN UN PUNTO. DISCONTINUITA’………..37
II.5. ESEMPI DI LIMITI (CALCOLI E VERIFICHE)…………………………………...39
II.6. FORME INDETERMINATE. ALTRI ESEMPI DI LIMITI…………………………43
II.7. LIMITI PARTICOLARI ( FONDAMENTALI)………………………………………..47
II.8. CONTINUITA’ DI FUNZIONI COMPOSTE…………………………………………50
II.9. TEOREMI SULLE FUNZIONI CONTINUE……………………………………………51

III − DERIVABILITA’ E DIFFERENZIABILITA’ DELLE


FUNZIONI REALI DI VARIABILE REALE …………………………………...53
III.1. INTRODUZIONE ……………………………………………………………...……….53
III.2. INCREMENTO DELLA FUNZIONE ……………………………………………..…53
III.3. RAPPORTO INCREMENTALE. DERIVATA DI UNA FUNZIONE……….…….....54
III.4. SIGNIFICATO GEOMETRICO DI DERIVATA……………………………....……55
III.5. DIFFERENZIALE DI UNA FUNZIONE y = f(x) E SUO SIGNIFICATO
GEOMETRICO…………………………………….……………………………...…….57
III.6. DERIVATE E DIFFERENZIALI SUCCESSIVI………………………………….….58
III.7. CONTINUITA’ DELLE FUNZIONI DERIVABILI……………….…………...…….58

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III.8. DERIVATE FONDAMENTALI …………………………….………………………...60


III.9. TEOREMI SUL CALCOLO DELLE DERIVATE…………………………………..62
III.10. DERIVATA DI FUNZIONE COMPOSTA………………………………………….64
III.11. DERIVATA DI FUNZIONE INVERSA……………………………………………65
III.12. DERIVAZIONE LOGARITMICA…………………………………………………...68
III.13. PROSPETTO RIASSUNTIVO DELLE PRINCIPALI FUNZIONI CON LE
LORO DERIVATE……………………………………………………………………69
III.14. REGOLA DI DE L’HOSPITAL (o di DE L’H Ô PITAL)…………………………70
III.15. CONDIZIONE SUFFICIENTE DI DERIVABILITA’ IN UN PUNTO…………..74
III.16. RETTA TANGENTE AD UNA CURVA DI EQUAZIONE y = f(x)…………...75

IV − STUDIO DI FUNZIONE REALE DI VARIABILE REALE………………..76


III.1. INTRODUZIONE………………………………………………………………………..76
III.2. CAMPO DI ESISTENZA……………………………………………………………...76
III.3. INTERSEZIONI CON GLI ASSI E SEGNO………………………………………..76
III.4. SIMMETRIE E PERIODICITA’………………………………………………………77
III.5. COMPORTAMENTO DELLA FUNZIONE AGLI ESTREMI DEL CAMPO DI
ESISTENZA. ASINTOTI………………………………………………………………78
III.6. CRESCENZA, DECRESCENZA, MASSIMI E MINIMI……………………………82
III.7. CONCAVITA’ E FLESSI……………………………………………………………...83
III.8. ESEMPIO DI STUDIO DI FUNZIONE……………………………………………...85

V − TEOREMI SULLE FUNZIONI DERIVABILI………….…………………………...88


V.1. ALTRI TEOREMI FONDAMENTALI RELATIVI ALLE FUNZIONI DERIVABILI..88

VI − INTEGRALI DELLE FUNZIONI REALI DI UNA VARIABILE


REALE……………………………………………………………………………………….93
VI.I. UN PO’ DI STORIA: DAL PROBLEMA DELLE AREE AL CALCOLO
INTEGRALE……………………………………………………………………………..93
VI.2. AREA DEL CERCHIO………………………………………………………………….94
VI.3. INTEGRALE DEFINITO………………………………………………………………95
VI.4. PROPRIETA’ DELL’ INTEGRALE DEFINITO…………………………………….97
VI.5. FUNZIONI D’AREA. FUNZIONI INTEGRALI……………………………………..98
VI.6. LA RICERCA DELLE PRIMITIVE. INTEGRALE INDEFINITO……………… 101
VI.7. INTEGRALI INDEFINITI IMMEDIATI…………………………………………… 102
VI.8. PROPRIETA’ DEGLI INTEGRALI INDEFINITI………………………………… 103
VI.9. METODI DI INTEGRAZIONE……………………………………………………....104
VI.10. TABELLE RIASSUNTIVE SUGLI INTEGRALI INDEFINITI………………….109
VI.11. INTEGRAZIONE DELLE FUNZIONI RAZIONALI FRATTE………………… 111
VI.12. INTEGRAZIONE DI PARTICOLARI FUNZIONI IRRAZIONALI…………….116
VI.13. AREA DELLA PARTE DI PIANO DELIMITATA DAL GRAFICO DI DUE
FUNZIONI…………………………………………………………………………... 118
VI.14. VOLUME DI UN SOLIDO DI ROTAZIONE……………………………………120
VI.15. INTEGRALI IMPROPRI……………………………………………………………..122
VI.16. LUNGHEZZA DI UN ARCO DI CURVA PIANA…………………………………..129

APPENDICE
A. 1 − ELEMENTI DI LOGICA FORMALE (O SIMBOLICA) …...…………………....131
A. 2 − RELAZIONI IN UN INSIEME………………………...……………………………...139
A. 3 − CALCOLO COMBINATORIO……………………………………………...………..142
2

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Cap. 0 - TEORIA DEGLI INSIEMI

0.1. PREMESSE.

Due sono essenzialmente i punti di vista, i modi usati, di formulare la suddetta teoria:

• metodo intuitivo (o teoria “ingenua” degli insiemi), che noi useremo;


• metodo assiomatico (più rigoroso), come ad es. la sistemazione di Zermelo e Fraenkel.

Il concetto di insieme si traduce solitamente come idea primitiva, non definibile se non facendo un
discorso vizioso, usando cioè dei sinonimi della parola insieme. Infatti, noi potremmo immaginare
l’insieme appunto come un gruppo, una collezione, un aggregato di oggetti. Questi oggetti si
chiamano elementi dell’insieme stesso. Gli insiemi vengono di solito denotati con lettere latine
maiuscole, i loro elementi con lettere minuscole. Poiché, come può essere intuito, un insieme può
essere pensato come elemento di un altro insieme (quest’ultimo prende in genere il nome di
“famiglia di insiemi”), la distinzione tra “elemento” ed “insieme” ha un valore relativo e non
assoluto.
Il predicato o simbolo ∈ si legge “appartiene a …” o “è elemento di…”; il simbolo contrario
∉ si legge “non appartiene a …” o “non è elemento di …” (predicati di appartenenza).

Un insieme A viene individuato:


- quando elenchiamo tutti i suoi elementi (modalità “estensiva”);
- quando assegniamo una proprietà caratteristica di tutti i suoi elementi e di essi soli (modalità
“intensiva”).
Per un approfondimento di questo concetto vedasi oltre il “paradosso di Russell”.

Ecco alcuni esempi:

A = {a,b,c,3}. Cioè: l’insieme A è formato dagli elementi a,b,c,3.


C = {x / x è un cane}. Leggasi: “C è l’insieme degli x tali che x è un cane”

Il simbolo /, che significa “tale che” può scriversi anche “:”.


Si noti pure l’uso delle parentesi graffe.
Come il lettore avrà già intuito, nell’esporre la teoria degli insiemi (in forma “ingenua”), si stanno
introducendo anche i vari simboli del linguaggio insiemistica e i loro modi di utilizzo: è come
apprendere una nuova lingua per cui si ha bisogno sia dei vocaboli appropriati, sia della
grammatica, sia della sintassi, sia della semantica. In questa sede si daranno le nozioni fondamentali
della suddetta teoria e si presenteranno i simboli necessari ad un suo esauriente apprendimento pur
non seguendo un ordine di stretto rigore e tralasciando una catalogazione esasperata al fine, cioè, di
non annoiare troppo il lettore e di stimolarlo ad un approfondimento dell’argomento in sedi
specifiche.

Non tutti i predicati o le proprietà che si potrebbero usare, al fine di individuare un insieme, danno
effetti positivi. Vi sono, infatti, proprietà che non danno origine ad alcun insieme ben definito, ma
generano dei paradossi o delle antinomie, la più famosa (ma non la prima scoperta) delle quali è
quella dovuta a Russell (come si è detto all’inizio del paragrafo). Sorge così l’esigenza di limitare,
“regolarizzare”, questi predicati: ciò è stato fatto da Zermelo e Fraenkel. Per ovviare alle antinomie
della teoria degli insiemi possiamo, ad esempio (come si fa in statistica e calcolo delle probabilità),
convenire do restare entro un ben determinato insieme ambiente o universo Ω di cui si conosca

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quanto a noi necessita; pertanto tutti gli elementi e tutti gli insiemi che considereremo dovranno
avere una precisa collocazione in Ω.
Per essere più espliciti avvertiamo che, ad esempio, non possiamo prendere in considerazione
insiemi troppo “ampi” come sarebbe, infatti, l’insieme di tutti gli insiemi: esso, si noti, non è un
insieme ! Infatti ha se stesso sia come sottoinsieme (vedi definizione 2) sia come elemento (vedi
ancora paradosso di Russell). Questi insiemi più “strani” vengono in genere chiamati “classi”.

Diamo ora alcune importanti e fondamentali definizioni con le quali si fonda una seria teoria
insiemistica.

DEFINIZIONE 1. – Chiamiamo insieme vuoto (o insieme nullo) un insieme che


non possiede alcun elemento.
Tale insieme viene indicato col simbolo ∅ (simile ad una effe
greca).

Un modo per indicarlo “in formule” è ∅ = def {x / x ≠ x}


“= def “ si legge e si intende “uguale per definizione”.

0.2. SOTTOINSIEMI. INCLUSIONI.

Mediante la relazione di appartenenza possiamo definire la relazione di inclusione tra insiemi nel
seguente modo:

DEFINIZIONE 2. – Siano A e B due insiemi. Se ogni elemento di A è anche


elemento di B, si dice che A è contenuto (o incluso) in B,
scrivendo A ⊆ B, oppure che B è contiene A, scrivendo B ⊇ A.
Si dice pure che A è un sottoinsieme di B e che B è un
soprainsieme di A. Se poi vi è almeno un elemento di B che
non appartiene ad A, si dice che A è un sottoinsieme proprio di
B e che B è un soprainsieme proprio di A, scrivendo
rispettivamente A ⊂ B, B ⊃ A.

Le definizioni precedenti si possono tradurre simbolicamente nel seguente modo:


(2a):
A ⊆ B = def (∀x)(x∈A ⇒ x∈B) o anche
(∀x / x∈A ⇒ x∈B)

N.B. “ ⇒ “ o “ → “ significa “implica”, “ne consegue che”, ecc. (vedi Appendice 1)


“ ∀ “ significa e si legge “per ogni” : quantificatore universale.
La definizione simbolica di cui sopra può così essere letta:
“A sottoinsieme di (o incluso in) B è uguale per definizione all’insieme degli elementi x tali che per
ogni x che appartiene ad A appartiene anche a B”. In termini di lingua corrente: “gli elementi di A
sono anche di B”.
(2b):
A ⊂ B = def (A ⊆ B) ∧ (∃ x)( x∈B ∧ x∉A)

dove “∧” significa e (“et” latino), congiunzione logica (vedi Appendice 1).
“∃“ significa “esiste almeno un”: quantificatore esistenziale.

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La (2b) si può leggere: “A sottoinsieme proprio di B significa che A è incluso in B ed esiste


almeno un elemento di B che non appartiene ad A”.

DEFINIZIONE 3. – Dati due insiemi A e B, se ogni elemento di A è anche elemento


di B, e viceversa, si dice che A è uguale a B, scrivendo A = B.
La negazione di questa relazione si indica con A ≠ B.
In simboli:
A = B equivale a: (∀x / x∈A ⇒ x∈B ∧ x∈B ⇒ x∈A)
(∀x)( x∈A ⇔ x∈B)

Il simbolo “⇔” o “ ↔“ significa e si legge “equivale”, “biimplica”, ecc. (vedi Appendice 1).

A ≠ B equivale a: (∃x)( x∈A ∧ x∉B) ∨ (x∈B ∧ x∉A)

Il simbolo “ ∨ “ significa e si legge “o” (“vel” latino): disgiunzione logica(vedi Appendice 1)..

OSSERVAZIONE 1. – L’insieme vuoto ∅ è sottoinsieme di qualsiasi insieme.


– Ogni insieme è sottoinsieme di se stesso ma impropriamente.

DEFINIZIONE 4. – Sia I un insieme. Si chiama insieme delle parti o insieme


potenza di I l’insieme formato da tutti i sottoinsiemi di I. Tale
insieme viene indicato con P(I) che si legge “Pi di I”. 1

ESEMPIO.

Sia I = {a,b,c}, avremo P(I) = {{a},{b},{c},{a,b},{a,c},{b,c},{a,b,c}, ∅}, cioè


P(I) = { ∅, {a},{b},{c},{a,b},{a,c},{b,c}, I }.
Si notino gli insiemi unitari, ad esempio {a}, gli insiemi di due elementi (o insiemi coppia),
l’insieme vuoto e l’insieme I stesso.
Sarà utile, a questo punto, e per i paragrafi successivi, accennare alla rappresentazione grafica più
usata nei riguardi degli insiemi: essa è dovuta ad Eulero-Venn e consiste nell’utilizzare linee
chiuse; all’interno della regione da esse definita si immaginano o vengono rappresentati gli elementi
dell’insieme considerato.
Talvolta sarà utile pure la rappresentazione di tipo cartesiano, soprattutto nel caso di insiemi
aventi un numero infinito di elementi (ad es. punti di una retta).
Le figure accanto alle prossime definizioni chiariranno le idee.

0.3. OPERAZIONI FRA INSIEMI E SOTTOINSIEMI.

DEFINIZIONE 5. – Siano I un insieme ed A un suo sottoinsieme. Si chiama


insieme complementare di A rispetto ad I, scrivendo I−A il
sottoinsieme di I formato da tutti e soli gli elementi di I che non
appartengono ad A.

1
N.B. Si può dimostrare che, se un insieme I ha un numero finito n di elementi, P(I) ha 2n elementi.

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I-A
A

In simboli:

I – A = def (∀x)( x∈I ∧ x∉A) oppure: I – A = def {x / x∈I ∧ x∉A}

DEFINIZIONE 6. – Siano A e B due insiemi. Chiamiamo unione di A e B,


scrivendo A ∪ B, l’insieme formato dagli elementi che stanno
o in A, o in B, o in entrambi (se ce ne sono).

A ∪ B = def {x / x∈A ∨ x∈B} ,

definizione in simboli dove il significato del connettivo (così anche si chiama) “∨” rivela
chiaramente il suo operato non esclusivo: “o questo, o quello, o entrambi”.

DEFINIZIONE 7. – Siano A e B due insiemi. Chiamiamo intersezione di A e di B,


scrivendo A ∩ B, l’insieme formato dagli elementi che stanno
sia in A che in B.
In simboli:
A ∩ B = def {x / x∈A ∧ x∈B}

A B
A

A∪B A∩B

ESEMPIO.

Sia A = {a,b,c,d,e} e B = {d,e,f,g}.

Avremo: A ∪ B = {a,b,c,d,e,f,g} e A ∩ B = {d,e}.

Può accadere che i due insiemi A e B non abbiano elementi in comune. In questo caso la loro
intersezione è vuota cioè è uguale all’insieme vuoto.
Se i due insiemi non hanno elementi in comune si dicono insiemi disgiunti.

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A B
A∩B=∅

Se A è sottoinsieme di B, l’intersezione è uguale ad A e l’unione è uguale a B.

A∪B A∩B

DEFINIZIONE 8. – Siano I un insieme non vuoto (I ≠ ∅) ed R una famiglia di


sottoinsiemi di I. Si dice che R è un ricoprimento di I se
l’unione di tutti gli elementi di R è uguale ad I.

(N.B. Alcuni Autori definiscono ricoprimento una famiglia di sottoinsiemi di I l’unione dei quali
contiene I).

ESEMPIO.
Sia I = {a,b,c}, allora R = {{a,b}, {b,c}, {c}} è un ricoprimento di I.
Infatti è {a,b} ∪ {b,c} ∪ {c} = I.

Come si può ben notare il ricoprimento non è quasi mai (tranne il caso I = ∅) unico.

DEFINIZIONE 9. – Un ricoprimento R di i si dice partizione di I se:


• gli elementi di R sono a due a due disgiunti;
• nessun elemento di R è l’insieme vuoto.

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OSSERVAZIONE 2. Il ricoprimento massimo (nel senso di maggior numero di elementi) di un


insieme I è P(I) (privato ovviamente di ∅).

DEFINIZIONE 10. – Siano A e B due insiemi disgiunti. Si chiama prodotto


cartesiano di A e B (scrivendo A × B) l’insieme degli
elementi-coppia {a,b} con a ∈ A e b ∈ B. In questo caso
gli insiemi A e B si dicono fattori .

In simboli:
A × B = def {x / x = {a,b} ∧ a∈A ∧ b∈B}
ESEMPIO.

Sia A = {a,b,c} , B = {1,2,3,4}. Avremo:

A × B = {{a,1},{a,2},{a,3},{a,4},{b,1},{b,2},{b,3},{b,4},{c,1},{c,2},{c,3},{c,4}}.

Rappresentazione pseudo-cartesiana di A × B :

a b c

OSSERVAZIONE 3. Come è facile convincersi, se n è il numero (finito) di elementi di A ed m


il numero di elementi di B, il prodotto cartesiano A × B ha n⋅m elementi.

DEFINIZIONE 10 bis. – Siano A e B due insiemi qualunque. Si chiama prodotto


cartesiano ordinato di A e di B, l’insieme delle coppie
ordinate (a,b) 2 con a∈A e b∈B.

2
N.B. In genere si indica con {a,b} un insieme formato da una coppia non necessariamente ordinata di elementi e con
(a,b) una coppia ordinata.

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In simboli:
A × B = def {x / x = (a,b) ∧ a∈A ∧ b∈B} .

In questo frangente gli insiemi A e B vengono chiamati primo e secondo fattore.

ESEMPIO. Eseguire il prodotto cartesiano dei seguenti due insiemi:

A = {0,x,y,z} ; B = {1,3,7} .

Avremo: A×B = {(0,1),(0,3),(0,7),(x,1),(x,3),(x,7),(y,1),(y,3),(y,7),(z,1),(z,3),(z,7)}.

Graficamente :

(z,7)
(y,3)
7
(x,1)
3

1 ecc….

0 x y z

OSSERVAZIONE 4. Per quanto riguarda il numero di elementi di A×B (ordinato) vale la regola
enunciata nell’osservazione alla definizione n. 10.

0.4. RELAZIONI O CORRISPONDENZE FRA INSIEMI.

DEFINIZIONE 11. – Siano A e B due insiemi (eventualmente coincidenti) e sia


A × B il loro prodotto cartesiano ordinato. Si chiama grafo 3
(di una relazione tra l’insieme A e l’insieme B) un qualunque
sottoinsieme F di A × B.

3
N.B. Si noti la differenza fra GRAFO e GRAFICO: il primo è un insieme, cioè un ente astratto, il secondo è un
disegno!

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ESEMPIO GRAFICO.

F ⊆ A×B

y F

x A

DEFINIZIONE 11. – Per mezzo del sottoinsieme (o grafo) F possiamo definire una
relazione o corrispondenza ϕ (fi minuscola) nel seguente
modo:
• se (a,b) ∈ F, si dice che b è in relazione con a o è un
corrispondente di a, rispetto a ϕ, vale a dire che si associa ad ogni
primo elemento delle coppie di F il rispettivo secondo elemento;
• se (a,b) ∈ F, si dice pure che b è una immagine di a e che a è una
controimmagine di b in ϕ, scrivendo b = ϕ(a) e a = ϕ-1(b) od
anche ϕ : a → b; inoltre si indica la relazione o corrispondenza
associata al grafo F col simbolo: ϕ : A → B.

DEFINIZIONE 12. – Sia ϕ : A → B una relazione: l’insieme A si chiama


dominio di ϕ e l’insieme B si chiama codominio o rango
di ϕ. Indichiamo con ϕ(A) l’immagine della relazione, vale a
dire l’insieme delle immagini; con ϕ-1(B) la controimmagine
di ϕ, vale a dire l’insieme delle controimmagini.

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ESEMPI GRAFICI.

F
B

ϕ(A) F

A ϕ-1(B)
Qui è ϕ(A) ⊆ B ϕ-1(B) ⊆ A

OSSERVAZIONE 5. Se F = ∅ si ottiene la relazione vuota in cui non esiste


alcuna coppia di elementi corrispondenti; se invece F = A×B
si ottiene la relazione banale in cui ad ogni elemento di A
corrisponde ogni elemento di B.

OSSERVAZIONE 6. Da quanto detto risulta che una relazione è definita da una


terna di elementi, precisamente il dominio A, il codomimio
B ed il grafo F (F ⊆ A×B). Pertanto una relazione ϕ può
considerarsi come una terna ordinata ϕ = (A,B,F) (nota di
derivazione francese).

DEFINIZIONE 13. – Una relazione si dice ovunque definita, se ogni elemento di A


ha, per mezzo di essa, almeno un corrispondente o immagine,
cioè se la controimmagine di B è A: ϕ-1(B) = A.
Semplicemente: se “esaurisce” tutto l’insieme A.

Graficamente (es.):
A B
A×B

Grafico di tipo cartesiano Grafico alla “Eulero-Venn”

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DEFINIZIONE 14. – Una relazione si dice funzionale o ad un sol valore o


univoca, se ogni elemento di A possiede, per mezzo di essa,
al più un corrispondente, cioè, fissato un generico elemento a,
non c’è alcuna coppia di F che contenga a come primo
elemento oppure ce n’è una sola.

Graficamente (es.):

A B

DEFINIZIONE 15. – Una relazione si dice FUNZIONE o APPLICAZIONE , se


essa è ovunque definita e funzionale, cioè, per ogni
elemento di A esiste sempre un’unica coppia di F che lo
contiene come primo elemento.
Sinteticamente: se ogni elemento di A possiede una ed una
sola immagine.
Graficamente (es.):

A B
A×B

F
B

Grafico di tipo cartesiano Grafico alla “Eulero-Venn”

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DEFINIZIONE 16. – Una relazione si dice suriettiva, quando ogni elemento di B è


immagine di qualche elemento di A, cioè se l’immagine di A
è B.
In altri termini: se “esaurisce” B: ϕ(A) = B.

Esempi grafici:
A B
A×B

F
B

Grafico di tipo cartesiano Grafico alla “Eulero-Venn”

DEFINIZIONE 17. – Una relazione si dice iniettiva, se ogni elemento di B è


immagine al più di un elemento di A, cioè se dato un generico
b∈B, o non c’è in F alcuna coppia che contenga b come
secondo elemento oppure ce n’è una sola.

Si noti che l’iniettività (per così dire) si può esprimere più chiaramente dicendo che elementi
diversi di a hanno immagini diverse (o non ne hanno affatto) in B. In simboli:

(∀a1)(∀a2) [a1 ≠ a2 ⇒ ϕ(a1) ≠ ϕ(a2)]


Graficamente (es.):

A B
A×B

F
B

Grafico di tipo cartesiano Grafico alla “Eulero-Venn”

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DEFINIZIONE 17. – Una funzione diventa biiettiva e si chiama biiezione quando


è sia suriettiva che iniettiva, quando, cioè, gli elementi di A e
di B sono tra loro in corrispondenza biunivoca senza
eccezioni.

Graficamente e “simbolicamente”:

A B
Funzione 
suriettiva 


+ = biiezione
Funzione 

iniettiva 

DEFINIZIONE 18. – Una funzione si chiama iniezione quando è iniettiva.

Graficamente (es.):

A B
A×B

F
B

Grafico di tipo cartesiano Grafico alla “Eulero-Venn”

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DEFINIZIONE 19. – Una funzione si chiama suriezione quando è suriettiva.

Graficamente (es.):

A B
A×B

F
B

Grafico di tipo cartesiano Grafico alla “Eulero-Venn”

DEFINIZIONE 20. – Due insiemi si dicono equipotenti se hanno lo stesso “numero


di elementi”, cioè se esiste (almeno una) corrispondenza
biunivoca fra loro.

OSSERVAZIONE 7. – Le biiezioni possono servire per “contare” gli elementi di un


insieme (finito è ovvio, ma anche e soprattutto infinito! Cioè
controllare se due insiemi infiniti sono equipotenti).

DEFINIZIONE 21. – Sia ϕ : A → B una relazione di grafo F. Chiamiamo


relazione inversa di ϕ, scrivendo ϕ-1, la corrispondenza che
ha come grafo il simmetrico F-1 del grafo F di ϕ. Cioè le
coppie (elementi) di un grafo hanno gli elementi ordinati in
modo inverso rispetto all’altro: se (a,b) ∈ F allora (b,a) ∈ F-1.

OSSERVAZIONI SUGLI INSIEMI INFINITI

Una notevole proprietà degli insiemi aventi un numero non finito di elementi è quella per cui
l’insieme stesso si può mettere in corrispondenza biunivoca con un suo sottoinsieme proprio. Anzi
questa proprietà viene spesso usata proprio per definire un insieme infinito.
La suddetta caratteristica può inizialmente sfuggire al senso comune poiché equivale a dire che
esistono sottoinsiemi (ovviamente infiniti) di insiemi infiniti che hanno lo stesso “numero di
elementi” del loro soprainsieme: sono, cioè, equipotenti ad esso (!).
L’esempio più famoso riguarda l’equipotenza fra l’insieme dei numeri razionali Q e il suo
sottoinsieme proprio N dei numeri naturali (interi).
E’ molto facile, invece, trovare una biiezione tra l’insieme N dei numeri naturali e l’insieme dei
numeri pari (o dispari). Basta infatti associare ad ogni intero il suo doppio per convincersi che la
suddetta biiezione esiste: essa infatti non tralascia alcun numero intero, poiché tutti hanno un
doppio, e, viceversa, ad ogni numero pari è associabile la sua metà.

15

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Graficamente (Eulero-Venn):

N P

0
0

1 2

2 4

3 6

4 8
. .
. .
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0.5. CRITICA ALLA TEORIA INTUITIVA (ANTINOMIA DI RUSSELL)

Su base “ingenua” o intuitiva è possibile (come si è visto) costruirre la teoria degli insiemi, come
è stato fatto da Cantor e da altri matematici.
In tal modo si può edificare buona parte della matematica nota, tuttavia ci si espone a diversi
rischi di cui i più conosciuti sono le definizioni impredicative e le antinomie.
Una definizione si dice impredicativa se essa presenta un vizio di circolarità, cioè se l’ente da
definire viene definito mediante se stesso. Non discutiamo le implicazioni filosofiche di questo
modo di procedere, ma ci limitiamo ad osservare che dal punto di vista logico una tale definizione
non soltanto è inutile, ma può addirittura essere dannosa, in quanto pur non essendo di per sè
contraddittoria, può condurre a contraddizioni.
Il primo tentativo di Cantor fu quello di definire ciò che si intende per “insieme”, ma finiva, in un
modo o nell’altro, col dare definizioni impredicative, come, ad esempio, la seguente:

“Insieme è un aggregato di oggetti, della nostra esperienza o della nostra intuizione, concepito
come un tutto unico”

in cui la parola “insieme” è definita mediante il suo sinonimo aggregato.


C’è però, nella definizione sopra riportata, qualcosa da porre esplicitamente in luce, come un
presupposto essenziale della teoria degli insiemi, e precisamente:

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“Qualunque sia la natura degli enti che costituiscono un insieme, questo è sempre un ente
astratto”.

Ponendo la questione in termini più precisi, ci si accorge che l’idea alla base del concetto di
insieme è la seguente: ogni volta che si enuncia un predicato P(x), contenente una variabile libera
x, l’estensione di questo predicato (cioè la totalità degli x che lo soddisfano) è un insieme.
Da una tale indiscriminata applicazione dei predicati nasce l’inconveniente più serio della teoria
intuitiva; si hanno cioè le contraddizioni.
Tra esse la più famosa (anche se non la prima storicamente), è l’antinomia di Russell, che ora
viene esposta.
Si ricordi, innanzitutto, che in un sistema formale contenente una antinomia o contraddizione, ogni
enunciato risulta valido e non valido allo stesso tempo.
Ciò premesso, ed accettata l’esistenza di insiemi in corrispondenza ad ogni possibile predicato,
possiamo suddividere gli insiemi (“tutti”?!!? gli insiemi) in due insiemi (o, meglio, “famiglie” di
insiemi) A e B non vuoti e privi di elementi comuni, formati rispettivamente da:

a) gli insiemi che sono elementi di se stessi; in simboli:


A={X/X ∈X} ;
b) gli insiemi che non sono elementi di se stessi; in simboli:
B = { X / X ∉ X }.

L’insieme dei concetti astratti è un concetto astratto, quindi è del primo tipo. L’insieme dei
numeri naturali (che non è un numero naturale) è del secondo tipo, come pure l’insieme dei cani
(che non è un cane!).
Avendo così assegnato un predicato ben definito “essere elemento di se stesso”, possiamo
affermare che esistono i due insiemi disgiunti A e B sopra considerati.
Chiediamoci ora: l’insieme B è del primo o del secondo tipo? Supponiamo che sia B ∈ B :
allora, per la definizione di B, B ∈ A, cioè B ∉ B; viceversa, supponiamo che B ∉ B : allora,
sempre per la definizione, B ∈ B : abbiamo quindi ottenuto una proposizione la cui falsità ne
implica la verità e viceversa; questa proposizione risulta vera e falsa contemporaneamente e ciò è
ovviamente inaccettabile.

Altre antinomie possono costruirsi considerando:

- l’insieme di tutti i numeri cardinali;


- l’insieme di tutti i numeri ordinali.

La seconda di esse è detta antinomia di Burali-Forti ed è stata la prima antinomia scoperta nella
teoria degli insiemi.

Stabilita così l’esistenza di antinomie, per non rinunciare alla teoria degli insiemi, si poneva il
problema di dare ad essa una nuova sistemazione.
Tra le diverse soluzioni proposte è da considerare quella di Zermelo e Fraenkel, per la quale non
tutti i predicati portano all’esistenza di insiemi; esistono cioè alcuni predicati, come ad esempio
“essere elemento di se stesso”, che sono di “estensione troppo vasta” per costituire un insieme.
Le conseguenze di questo punto di vista sono:

a) - la rinuncia a definire esplicitamente un insieme;

b) - la costruzione di un sistema assiomatico in cui non si possono costruire insiemi “troppo ampi”.

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Poiché il termine insieme non può essere definito esplicitamente, gli assiomi posti alla base della
teoria costituiscono una definizione implicita di insieme.

OSSERVAZIONE 8. Secondo Bernays, si chiamano classi le estensioni di predicati per le quali


non è stato dimostrato che costituiscono un insieme, oppure si è provato che non lo sono. Ad
esempio, si dice la classe di tutti i numeri ordinali, la classe di tutti gli insiemi equipotenti , la classe
di tutti gli insiemi-coppia, ecc.

TEOREMA DI CANTOR

“Fra l’insieme I e l’insieme P(I) non esiste corrispondenza biunivoca: la potenza di P(I) è
maggiore di quella di I”.

DIMOSTRAZIONE

La dimostrazione è immediata per insiemi finiti, infatti se la potenza di I è n, quella di P(I) é


n
2 .
In generale si può ragionare per assurdo: se esistesse una biiezione fra i due insiemi, ogni
elemento di I sarebbe “collegato” con un sottoinsieme di I che lo contiene (meglio: a cui appartiene)
oppure che non lo contiene.
Chiamiamo “ordinario” ogni elemento di I del secondo tipo, “straordinario” ogni elemento del
primo.
Esistono sicuramente elementi ordinari, poiché ∅ ∈ P(I) e la controimmagine di ∅ non potrà
essere che un elemento ordinario.
Analogamente esistono certamente elementi straordinari, poiché I ∈ P(I), quindi la
controimmagine di I (tramite la supposta biiezione) dovrà essere un elemento straordinario.
Abbiamo individuato così una partizione di I.
Consideriamo ora il sottoinsieme A di I (A ∈ P(I)) formato da tutti gli elementi ordinari.
Chiamiamo x (elemento di I) la controimmagine di A. Ci chiediamo: x è ordinario o
straordinario?
1°) Se x fosse ordinario dovrebbe appartenere ad A, per la definizione di A stesso. Ma questo
implicherebbe x straordinario: contraddizione!
2°) Se x fosse straordinario dovrebbe appartenere ad A, poiché è a lui collegato, ma ciò è
ancora una contraddizione, infatti A è l’insieme degli elementi ordinari!

In conclusione si deduce che la biiezione in questione non esiste e si prova la tesi.


Per chiudere completamente il discorso si osservi che si può sempre stabilire una corrispondenza
biunivoca fra I ed un sottoinsieme “proprio” di P(I) associando ad ogni elemento di I il sottoinsieme
unitario da lui formato. Resta quindi provato che la potenza di I è minore di quella di P(I) c.v.d.

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0.6. SPAZI METRICI.

DEFINIZIONE 22 − Un qualsiasi insieme S, nel quale si possa concepire una distanza 4


fra due
qualsiasi dei suoi elementi (punti) lo chiameremo spazio metrico (ambiente).

Esempio.

S=ℜ×ℜ d(x,y) = α

α = PQ = ( x1 − x 2 ) 2 + ( y1 − y 2 ) 2 (distanza euclidea nel piano cartesiano)

0.7. INTORNI SFERICI (CIRCOLARI). INSIEMI APERTI E INSIEMI CHIUSI.

DEFINIZIONE 23 − Si definisce intorno circolare di un certo punto C, l’insieme dei punti tali che
la loro distanza da C sia minore di un certo numero reale r (r ≥ 0). Cioè d(P,C) < r, dove P è un
qualunque punto dell’intorno.

OSSERVAZIONE 9. Si è qui sottinteso di prendere in considerazione insiemi di “punti” su un


piano cartesiano (o su uno spazio ad n dimensioni): ciò equivale, comunque come è ormai chiaro, a
considerare coppie ordinate di numeri reali (o n.uple di numeri reali). Questa equivalenza è molto
utile nell’analisi matematica, soprattutto nello studio delle funzioni e nel tracciamento dei loro
grafici.

Es. (Def. 23):

PC < r Caso lineare

4
N.B. Nella nostra trattazione della teoria insiemistica, non potendo, per ovvi motivi, né spaziare né approfondire
troppo in alcuni concetti, si è dato per acquisito il concetto di “ordine” (vedi comunque “RELAZIONI IN UN
INSIEME”), necessario per la rappresentazione dei numeri reali su una retta (retta reale, appunto). Crediamo altresì che
il lettore possa seguire la trattazione senza troppa difficoltà poiché si è cercato di armonizzare i contenuti e
razionalizzarne la loro sequenza.

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DEFINIZIONE 24 − Un punto P si dice interno ad un insieme E se esiste almeno un intorno sferico


(se trattiamo spazi a più di due dimensioni: intorno lineare o segmento aperto, cioè che non
comprende gli estremi, se siamo su una retta…!) di P che sia tutto contenuto in E.

Esempio grafico:

DEFINIZIONE 25 − Un insieme, tale che tutti i suoi punti siano interni, si chiama aperto. Il
complementare di un insieme aperto in S (nostro “ambiente”) è chiuso.

DEFINIZIONE 26 − I punti che non sono né interni né esterni ad un insieme si chiamano punti di
frontiera dell’insieme stesso.

Esempio grafico:

OSSERVAZIONI 10, 11, 12.


• I punti di frontiera (di un insieme E) sono tutti e soli quei punti per cui ogni loro intorno
contiene sia punti dell’insieme E sia punti del complementare di E. La frontiera di E si
denomina con F(E).
• Un insieme chiuso contiene la sua frontiera.
• La frontiera di un insieme è un insieme chiuso5.

5
N.B. Il lettore provi, per esercizio (e per controllare se ha ben assimilato i concetti esposti!), a cercare delle
dimostrazioni a quanto asserito.

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Esempio grafico:
S

S ⊆ ℜ2 = ℜ × ℜ, come ovviamente per tutti gli esempi di cui sopra.


Si osservi che i punti F1 e F2, se facessero parte di E sarebbero punti di frontiera, se non
appartenessero ad E sarebbero punti esterni.

DEFINIZIONE 27 − Gli insiemi che contengono solo una parte della loro frontiera non sono né
aperti, né chiusi. Vedasi esempio grafico alle osservazioni precedenti.

0.8. PUNTI DI ACCUMULAZIONE DI UN INSIEME.

DEFINIZIONE 28 − Si dice punto di accumulazione (o punto limite) di un insieme un punto tale


che ogni suo intorno (per quanto “piccolo”6) contiene infiniti punti dell’insieme stesso.
Un punto che non sia di accumulazione si dice punto isolato.

Esempio:

 1 1 1 1 1 
L’insieme numerico E = 1, , , , ,..., n ,... , con n intero positivo, ha 0 come punto
 2 4 8 16 2 
(numero) di accumulazione.

Graficamente:

6
N.B. Matematicamente non ha molto significato la parola “piccolo”: il suo significato è infatti solo relativo, ma ha un
buon riscontro psicologico (vedasi la trattazione dei limiti).
Si noti ancora, poi, che c’è piena equivalenza fra le affermazioni:
1) “Ogni intorno di P contiene infiniti punti di E”
2) “Ogni intorno di P (per quanto “piccolo”) contiene almeno un punto di E diverso da P”

21

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0.9. INTERVALLI INCAPSULATI.

Teorema [I.9.1] (“teorema degli intervalli incapsulati”). Sia [a n , bn ] , con n = 1,2,3,…, una
successione7 di intervalli chiusi e limitati, ciascuno dei quali contenga il seguente, cioè si abbia
a n ≤ a n +1 < bn +1 ≤ bn , con n = 1,2,3,….
Nella corrispondente successione (non crescente) delle ampiezze bn − a n di tali intervalli vi siano
numeri piccoli (in valore assoluto) quanto si voglia. Allora esiste uno ed un sol numero reale a
comune a tutti gli intervalli.

Dimostrazione.
Per assurdo, se ci fossero (almeno) due numeri reali comuni a tutti gli intervalli, detti a1 e a 2 ,
potremmo considerare l’intervallo ( a1 , a 2 ) di ampiezza finita a 2 − a1 (ipotizzando a1 < a 2 ) contro
l’ipotesi che a n e bn siano vicini quanto si voglia. Si ha quindi la tesi.
La dimostrazione si può fare anche considerando il fatto che {a n } e {bn } sono due classi contigue in
ℜ8.

N.B. E’ altresì evidente che almeno un punto appartiene a tutti gli intervalli, essendo ciascuno
incluso negli altri ed essendo un punto il “minimo” intervallo possibile.

7
N.B. Dicesi successione un insieme ordinato di elementi di qualsiasi natura contrassegnati mediante un indice che
assume valori nell’insieme dei numeri naturali. Sinteticamente si tratta di una funzione con dominio N (oppure N-{0}) e
codominio generalmente ℜ.
8
N.B. Due classi (o insiemi) A e B di numeri reali sono contigue se sono separate e “vicinissime”. Formalmente A e B
sono contigue se: 1) per ogni a di A e per ogni b di B si ha a < b; 2) comunque si prenda un numero positivo arbitrario ε
esiste un a di A e un b di B tali che b-a < ε (si noti che la proprietà 2, per ε che tende a zero garantisce l’esistenza di
elementi dei due insiemi la cui differenza è quasi nulla, cioè “infinitesima”).

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Cap. I − GENERALITA’ SULLE FUNZIONI

I.1. FUNZIONI MATEMATICHE.

Ci occuperemo esclusivamente di funzioni “matematiche”, cioè di funzioni fra insiemi numerici


(principalmente numeri reali), le quali possono essere espresse da equazioni nelle due variabili x e
y. Si scriverà y = f (x), leggendo: “y uguale effe di x”, intendendo (come si fa in analisi classica) la
“x” come variabile indipendente, cioè come elemento dell’insieme-dominio o “campo di
esistenza”(9) della funzione (come si fa in analisi moderna) ed intendendo la “y” come variabile
dipendente, cioè come elemento dell’insieme-codominio, in breve come immagine (funzione
appunto) di x.

Ci troveremo soprattutto di fronte ad espressioni del genere:


x3 −1
y = 4x 2 + 6x + 9 ; y = 2 ; y = log a ( x − 6) ,
x −4
nelle quali il legame funzionale (la “legge”, per così dire, che associa ad un valore di x uno ed uno
solo valore di y) è espresso appunto dalla “formula” stessa, cioè fissato un valore di x (elemento del
dominio), si può ricavare il corrispondente valore di y attraverso l’equazione data.

I.2. CLASSIFICAZIONE DELLE FUNZIONI MATEMATICHE.

Le funzioni matematiche si distinguono in algebriche e trascendenti.


Sono algebriche quelle funzioni nelle quali la relazione che passa fra x ed y si può ridurre ad
un’equazione algebrica di grado qualsiasi nelle due variabile x ed y. Il grado di questa equazione è
pure il grado della funzione. Quindi il valore di queste funzioni si ottiene eseguendo solo le seguenti
operazioni sul loro argomento (la variabile x): addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione,
elevamento a potenza (estrazione di radice di ordine qualsivoglia).
Queste funzioni algebriche prendono poi il nome di funzioni razionali intere (nell’equazione non
figurano divisioni, riguardanti in qualche maniera la variabile x, né radicali), funzioni razionali
fratte (compaiono divisioni…), funzioni irrazionali (vi sono radicali il cui argomento riguarda la
variabile x), ecc.
Ogni funzione che non sia algebrica si dice invece funzione trascendente.
Per esempio sono funzioni algebriche le prime due accennate in questo inizio di capitolo, come pure
lo è la seguente:
y = 2x − 5 .
Sono trascendenti la terza accennata e le seguenti:
y = sen x (oppure, in termini “informatici” o alla latina, y = sin x ) ; y = cos x ; y = tg x ; y = ax.

NOTA. In seguito ci occuperemo solo di funzioni reali di variabile reale, cioè tali per cui sia le
immagini che le contro immagini siano numeri reali. In simboli: f : A → B con A ⊆ ℜ, B ⊆ ℜ.

9
N.B. Alcuni autori distinguono fra “dominio” e “campo di esistenza”, intendendo quest’ultimo come “massimo”
dominio. Mentre il dominio può essere “deciso” da chi studia la funzione: è quindi un sottoinsieme del campo di
esistenza.

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I.3. RAPPRESENTAZIONE CARTESIANA DELLE FUNZIONI.

Una funzione numerica (o applicazione) reale y = f (x) di una variabile reale si può rappresentare
col diagramma cartesiano (o grafico) nel modo ben noto dalla geometria analitica (rappresentazione
grafica).
Il diagramma è l’insieme dei punti (x, f(x)) del piano cartesiano ortogonale O(x,y); nei casi più
comuni tale insieme è apprezzabile dall’intuizione come una linea: questa linea è incontrata in un
solo punto da ogni parallela all’asse delle y, quando x ∈ E (dominio(10)); il suo andamento rende
visivo il comportamento della funzione f (x) al variare di x nell’insieme di definizione.
In breve si può dire che il grafico di una funzione è la rappresentazione visiva del grafo (vedi
TEORIA DEGLI INSIEMI) della funzione stessa.
Esistono funzioni che, anche se definite a parole in forma semplice, hanno un diagramma che non è
una linea intuitiva. Per esempio la funzione (di Dirichlet)

0 per 0 ≤ x ≤ 1; x ∈ Q
y=
1 per 0 ≤ x ≤ 1; x ∉ Q
ha il diagramma in parte sul segmento 0 ≤ x ≤ 1 dell’asse delle ascisse e in parte sul segmento ad
esso parallelo, avente ordinata 1, in ogni intervallo per quanto “piccolo” la y(x) salta infinite volte
da 0 a 1 e viceversa senza assumere mai alcun valore intermedio. Ecco un tentativo di grafico in
figura 1):

Fig. 1

A noi interesseranno soprattutto funzioni che avranno grafici “regolari”, come succede per le
funzioni algebriche (che noi studieremo) date attraverso un’unica espressione analitica, reali di
variabile reale, le quali avranno applicazione pure in economia.

OSSERVAZIONE IMPORTANTE. Nel linguaggio comune si è spesso abituati a confondere il


termine “funzione” con “grafico della funzione”, affermando ad esempio che una certa funzione ha
“la concavità verso l’alto” in un certo intervallo. E’ evidente che si intende parlare della concavità
del grafico disegnato che rappresenta la funzione data.
Analoga cosa succede nei riguardi degli elementi del dominio e del codominio, i quali a volte
vengono chiamati “numeri” (come in effetti è) a volte “punti”, poiché fra questi due enti c’è
corrispondenza biunivoca per mezzo della retta reale. Anche in questo secondo caso perciò entra in
gioco la nostra intuizione che ci fa “vedere” i numeri come punti e le funzioni come insiemi
(grafici) di punti.
Anche noi useremo la parola “punto” al posto di “numero reale” quando questo non creerà
confusione, mentre saremo più cauti nello scambiare la parola “grafico” con “funzione” (lo faremo
solo nel caso non ci sia la minima incertezza).
10
N.B. Se ciò non fosse, cioè se la retta incontrasse il diagramma in più di un punto, significherebbe che la relazione
x→ f (x) non sarebbe ad un sol valore e quindi nemmeno una funzione, contro l’ipotesi formulata.

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I.4. MASSIMO, MINIMO, ESTREMI.

Sia f (x) una funzione definita in E e sia x0 un punto (= numero = elemento) di E e di accumulazione
per E: si dice che x0 è un punto di minimo relativo per f(x) e che f( x0 ) è un minimo relativo,
quando esiste un intorno U( x0 ) del punto x0 tale che per ogni punto x comune a questo intorno e
all’insieme E, cioè x ∈ U( x0 ) ∩ E, si abbia:

f (x) ≥ f ( x0 ).

Analogamente si definisce x0 punto di massimo relativo per f(x); la relazione allora diventa:

f (x) ≤ f ( x0 ).

In particolare se U( x0 ) coincide con E (o meglio se U( x0 ) ∩ E coincide con E, cioè si può


considerare tutto il campo di esistenza quale intorno di x0 , in altre parole se la condizione vale per
tutti i punti di E) il punto x0 è un minimo (massimo) assoluto.

Per insiemi finiti è ovvia l’esistenza del minimo e del massimo, mentre altrettanto non si può dire
per insiemi infiniti come provano i seguenti esempi:

a) l’insieme dei numeri 1, 1/2, 1/3,…, 1/n,… (reciproci dei numeri interi) ha il numero 1 come
massimo, ma non ha minimo;
b) l’insieme dei numeri 0, 1/2, 2/3,…, n/n+1,… (rapporti fra ciascun numero intero e quello
immediatamente superiore) ha il numero 0 come minimo, ma non ha massimo;
c) l’insieme dei numeri razionali relativi il cui quadrato non supera 2 non ha né massimo né
minimo;
d) l’insieme dei numeri interi positivi non ha massimo;
e) l’insieme dei numeri interi negativi non ha minimo;
f) l’insieme di tutti i numeri reali non ha né massimo né minimo.

I primi tre esempi presentano una caratteristica: infatti anche quando non esiste il massimo (o il
minimo) esiste tuttavia un numero non appartenente all’insieme a cui non è superiore (inferiore)
alcun numero dell’insieme stesso; si dice allora che l’insieme è limitato superiormente
(inferiormente); invece nei casi d), e), f), quando non esiste il massimo od il minimo comunque si
prenda un numero reale k vi è sempre qualche elemento dell’insieme superiore (inferiore) a k; si
dice in questo caso che l’insieme è illimitato superiormente (inferiormente).

Pertanto sia E un insieme di numeri limitato superiormente: si definisce come estremo superiore di
E il numero L (indicato anche con sup(E)) che gode delle due seguenti proprietà:

a) non vi sono elementi di E superiori ad L;


b) qualunque sia il numero reale positivo ε (per quanto “piccolo”) esistono sempre elementi di
E che verificano la relazione: L − ε < x < L

Analogamente si definisce l’estremo inferiore, indicato anche con inf(E).


.

25

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Una funzione si dice che ha estremo superiore (inferiore), o che è limitata superiormente
(inferiormente), quando l’insieme delle immagini (sottoinsieme – proprio o non – del codominio)
ammette estremo superiore (inferiore).
Ad esempio la funzione illustrata nella figura 2 è definita in E = {x ∈ ℜ / x ≤ b}, ammette massimi
relativi in x = M1, x = M2, minimi relativi in x = m1, x = b, minimo assoluto in x = m2, ed estremo
superiore uguale ad L.

Fig. 2

N.B. Ovviamente se una funzione y = f (x) definita in E ammette massimo (minimo) assoluto, allora
ammette anche l’estremo superiore (inferiore) che coincide col massimo (minimo).

I.5. MONOTONIA.

Si dice tratto di invariabilità di f (x) ogni intervallo chiuso a ≤ x ≤ b (che non si riduca ad un
punto) nel quale f (x) si conserva costante. Il diagramma su un tratto di invariabilità è un segmento
parallelo all’asse x.

Si dice che la funzione f (x) è crescente nel punto x = x0 se esiste un intorno di questo punto tale
che per tutti i punti di tale intorno si abbia:
alla destra di x0 , cioè per x> x0 , f (x) > f ( x0 );
alla sinistra di x0 , cioè per x< x0 , f (x) < f ( x0 ). Vedi fig.3.
Si dice invece che la funzione f (x) è decrescente nel punto x = x0 se esiste un intorno di questo
punto tale che per tutti i punti di tale intorno si abbia:
alla destra di x0 , cioè per x> x0 , f (x) < f ( x0 );
alla sinistra di x0 , cioè per x< x0 , f (x) > f ( x0 ). Vedi fig.3.

Una funzione si dice monotòna in E (o solo in un intervallo) quando o non è mai crescente (cioè
decrescente o costante) o non è mai decrescente (cioè crescente o costante); si dice strettamente
monotòna se è sempre e solo crescente o sempre e solo decrescente. Si noti che le funzioni
strettamente monotòne (e continue, vedi cap. successivi) sono iniettive.

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Fig. 3

f (x) crescente f (x) decrescente

I.6. CONCAVITA’.

Sia f (x) una funzione definita in E: si dice che il grafico di f (x) è concavo verso l’alto su E
quando per ogni coppia di punti x’ e x” appartenenti ad E, con x’< x”, il grafico di f (x) nei punti
dell’intervallo di estremi x’ e x” sta al di sotto o almeno non sta al di sopra della corda
congiungente i due punti (x’, f(x’)), (x”, f(x”)). Vedi figura 4.

Fig. 4

Questa circostanza si presenta quando per ogni x’ ≤ x ≤ x”, x ∈ E, risulta

x − x' x"− x
f ( x) ≤ f ( x" ) + f ( x' ) ( x' ≤ x ≤ x" ) .
x"− x' x"− x'

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(media ponderata dei valori f(x’), f’(x”)). Infatti il secondo membro fornisce, per x’≤ x ≤ x”,
l’ordinata q della corda in questione.
Lo stesso discorso può essere ripetuto in modo analogo per la concavità verso il basso.

I.7. FUNZIONE MODULO, FUNZIONI PARI E DISPARI, PERIODICHE.

Accanto ad f (x) definita in E si può considerare la funzione f (x) . Il diagramma di y = f (x) si


ottiene da quello di y = f (x) ribaltando al di sopra dell’asse delle ascisse le parti del diagramma di
y = f (x) che ne stanno al di sotto: f (x) = f (x) per f (x) ≥ 0, f (x) = − f (x) per f (x) < 0. Vedi
figura 5.

Fig. 5

Sia f (x) definita in un insieme simmetrico rispetto all’origine degli assi. Per semplicità penseremo
f (x) definita in (−a, a) con a > 0, eventualmente (−∞, ∞).
Una funzione f (x) si dice funzione pari quando è f (−x) = f (x) per ogni x dell’intervallo, si dice
funzione dispari quando è f (−x) = − f (x) per ogni x dell’intervallo. Le funzioni pari hanno il
grafico simmetrico rispetto all’asse y, quelle dispari simmetrico rispetto all’origine.
Esempio di funzioni pari: y = x 2 , y = cos x .
Esempio di funzioni dispari: y = x , y = sen x.

La somma algebrica di due funzioni pari (dispari) è ancora, dove definita, una funzione pari
(dispari).

Il prodotto di due funzioni entrambe pari o entrambe dispari dà una funzione pari, il prodotto di una
funzione pari e di una dispari dà una funzione dispari.

N.B. Naturalmente quando si parla di “prodotto, somma, ecc. di funzioni” si intende considerare la
funzione che ha come espressione funzionale il prodotto, la somma, ecc. delle espressioni funzionali
relative alle suddette funzioni. Ad esempio si abbiano y = f (x) e y = g (x), definite in E; la
funzione prodotto sarà y = f (x)g (x).

Sia f (x) definita sull’asse reale −∞ < x < +∞; supponiamo che esista un numero reale w ≥ 0 per il
quale valga la proprietà ∀x, f (x) = f (x+ w): allora w si dice periodo di f (x). Il minimo w tale che
valga f (x) = f (x+ w) si dice periodo proprio di f (x). Se f (x) è periodica di periodo w, allora sarà
f (x+k w) = f (x) per ogni k intero.

28

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Può accadere che f (x) non sia definita su tutto l’asse reale, ma che tuttavia sia definita solo in un
insieme E tale che da x∈ E segua (x+ w) ∈ E; allora se per ogni x∈ E è f(x+ w) = f (x), la funzione
f (x) si dice periodica di periodo w; in questo caso l’insieme E è necessariamente illimitato. Se f (x)
f ( x)
e g (x) sono funzioni periodiche di periodo w, anche le funzioni a f(x) + b g(x), f(x)⋅g(x),
g ( x)
(con a e b numeri reali) sono funzioni periodiche di periodo w laddove, naturalmente, siano definite.

I.8. FUNZIONI INVERSE.

Le funzioni y = f (x) che considereremo saranno definite in un insieme E contenuto in ℜ (insieme


dei numeri reali). Questo insieme potrà essere un intervallo (chiuso, semiaperto, aperto) o l’unione
di un numero finito di intervalli o un insieme più generale. Il valore y = f (x) è in ℜ, cioè è un
numero reale: −∞ < y < +∞. Pertanto le funzioni da noi considerate faranno passare da un punto di
ℜ ad un punto di ℜ e precisamente da un punto (= numero!) x dell’insieme E di definizione ad un
punto y del codominio, che è un numero reale.
Ora, sappiamo che ad un valore di x corrisponde uno ed uno solo valore di y, ma, in generale, ad un
assegnato valore di y possono corrispondere più controimmagini. Può tuttavia accadere che ogni
valore y = f (x) sia immagine di uno ed uno solo valore x di E; ciò accade nelle funzioni iniettive (in
particolare considereremo funzioni continue strettamente monotone); allora f (x) pone una
corrispondenza uno ad uno, cioè biunivoca, fra l’insieme E e l’insieme f (E) detto anche coinsieme.
In altre parole y = f (x) è una biiezione fra E ed f (E). La legge che fa passare da un punto y di f (E)
al punto x corrispondente (cioè tale che y = f (x)) è una funzione x = g (y), definita in f (E), che si
dice funzione inversa di f (x).

Ad esempio y = x con E = {x ∈ ℜ / 0 ≤ x < +∞} (il radicale inteso in senso aritmetico) ha per
funzione inversa x = y 2 , ristretta al dominio corrispondente (0 ≤ y < +∞).
Altro esempio di funzione inversa è il seguente:
sia y = ln x, con x numero reale positivo, si ha, per definizione di logaritmo naturale, la funzione
inversa x = e y . Analogamente da y = log10 x si ottiene x = 10 y .

I diagrammi cartesiani delle funzioni inverse y = f −1 ( x) (dove f −1 ha il significato dell’operatore


funzionale g usato in precedenza, cioè rappresenta la stessa “legge”) si possono dedurre da quelli
delle funzioni dirette y = f (x) con una costruzione geometrica molto semplice.
E’ facile accertarsi che tale costruzione consiste semplicemente nell’eseguire la simmetria
ortogonale rispetto alla retta y = x (cioè la bisettrice del primo e terzo quadrante), purché – si
intende – sia di nuovo indicata con x la variabile indipendente e con y la variabile dipendente
(scambio dei due assi cartesiani x, y fra di loro).

La figura 6 cerca di chiarire il concetto.

29

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Fig. 6

I.9. FUNZIONI COMPOSTE.

Se y = f (x) è una funzione definita in un insieme E e se z = g(y) è una funzione definita


nell’immagine f (E), la nuova funzione
z = h(x) = g[ f(x)]
è definita in E e la sua immagine h(E) è l’immagine g[f(E)]. Essa si dice funzione composta (della
variabile indipendente x, per tramite della y = f(x)). Le due funzioni g(y) ed f(x) si dicono le
componenti (rispettivamente prima e seconda componente).

Ad esempio da y = x2, definita per ogni x reale, e da z = ln y, definita per y reale positivo (non
nullo) si può ottenere la funzione composta z = ln x2, definita per ogni x reale non nullo.
L’immagine della prima funzione, infatti, è l’insieme di tutti gli y reali non negativi (perciò
compreso lo zero). Eliminando lo zero si ottiene proprio il campo di esistenza della seconda
funzione.

OSSERVAZIONE. Studiare le funzioni composte è utile al fine di ottenere regole e formule


semplici nei riguardi delle derivate (Cap. III). Infatti saper scomporre una funzione nelle sue
(eventuali) componenti rende più facile la sua “derivazione”. Ad esempio si vedrà che sarà molto
agevole pensare alla funzione y = (3 x 2 − 11x + 57) 4 come funzione composta da
z = 3 x 2 − 11x + 57 e da y = z 4 .

30

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Cap. II − COMPORTAMENTO DELLE FUNZIONI NEGLI INTORNI


DEI PUNTI DI ACCUMULAZIONE DEL LORO INSIEME DI
DEFINIZIONE: LIMITI.

II.1. LIMITI DI FUNZIONI. ASINTOTI.

Sia y = f(x) una funzione (reale di variabile reale) definita in E (E ⊆ ℜ) e c un punto di


accumulazione di E.

Definizione [II.1.1]. Si dice che per x tendente a c la funzione f (x) tende al limite finito L
(oppure che ha per limite L) se, fissato un numero reale positivo ε arbitrariamente “piccolo”, si può
trovare, in corrispondenza ad esso, un intorno Iε(c)(11) tale che per ogni valore di x di questo
intorno, escluso al più il punto x = c, si abbia:
f ( x) − L < ε (II.1.1)

Ciò si esprime scrivendo


lim f ( x) = L , oppure f ( x) → L per x → c
x →c
e si legge “f (x) tende a L per x tendente a c”.

Si osservi che se x è tale per cui f (x) > L allora la (II.1.1) si può scrivere

f ( x) − L < ε ossia f ( x) < L + ε ;


se invece x è tale per cui f (x) < L allora la (II.1.1) dice che

L − f (x) < ε ossia L − ε < f (x) .

La (II.1.1) è quindi equivalente alla doppia disuguaglianza

L − ε < f ( x) < L + ε ,

la quale esprime che, se f (x) tende al limite L, i valori di f (x), in un conveniente intorno di c, sono
compresi tra L − ε ed L + ε.

Usando i simboli della logica formale, la definizione [II.1.1] può scriversi:

∀ε > 0, ∃ I ε (c) / ∀x ∈ I ε (c) − {c} ⇒ f ( x) − L < ε (II.1.1’)

La (II.1.1’) si legge “Per ogni(12) ε > 0 esiste [almeno] un intorno Iε(c), in generale dipendente da ε,
tale che, per ogni x appartenente a Iε(c), escluso al più x = c, la differenza in valore assoluto fra
f (x) e L è minore di ε “. Vedi figura 7.

11
N.B. Considereremo l’intorno Iε(c) formato di soli punti di E. Ciò accadrà anche in seguito. In modo più generale ci
eravamo comportati in I.4.
12
N.B. Ciò significa che non basta che l’implicazione funzioni per qualche ε , ma essa deve valere per ogni ε: in pratica
per un valore infinitesimo di ε.

31

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Fig. 7

Oppure, utilizzando un intorno simmetrico di c, (c - δ, c + δ), dove δ dipende in generale da ε


(δ = δε ) ed è in generale anche lui “infinitesimo” (vedi nota 4), si scrive

∀ε > 0, ∃ δε > 0 / ∀x (x ≠ c), x − c< δε ⇒ f(x) − L< ε (II.1.1”)

Usando un linguaggio ancora più semplice, la definizione [II.1.1] dice che la funzione f (x) ha per
limite L per x che tende a c quando, “avvicinandosi” x a c di “tanto quanto vogliamo” la f (x) si
avvicina ad L in modo altrettanto definitivo. Ancora: se si potessero usare gli infinitesimi (vedi
Analisi Non-Standard), ci si potrebbe esprimere dicendo “se x si trova infinitamente vicino a c,
allora f (x) si trova infinitamente vicino ad L”.
Si noti che quest’ultima “lettura” è molto più semplice (e chiara!) delle precedenti soprattutto
perché parte da x e giunge ad y, come dovrebbe naturalmente essere, mentre la definizione
“classica” (dovuta a Weierstrass) parte da y va ad x e ritorna ad y, creando vari problemi di
comprensione a molti studenti (…!).

OSSERVAZIONE. Quando si presentano i limiti e si dice “…per x che “tende” a c…”, si possono
creare dei problemi anche di carattere filosofico sul “come” x si approssima a c e come questo
possa avvenire. Le definizioni qui date (e che si daranno) sono definizioni “statiche” che non
implicano l’idea di moto e perciò risolvono completamente il problema dal punto di vista
matematico (salvo la difficoltà di comprensione dello studente, come si è notato sopra). Vengono
pure, in questo modo, superati i paradossi relativi al moto continuo formulati a suo tempo da
Zenone. E’ comunque, a nostro avviso, didatticamente utile presentare agli studenti l’idea classica
di limite anche come avvicinamento indefinito (dipendente da un altro avvicinamento: x → c),
poiché essa ha una realtà psicologica ed è perciò particolarmente intuitiva per la mente umana.
E’ altresì da osservare che l’idea di limite, importantissima e fondamentale in matematica (benché
superabile ed evitabile utilizzando l’Analisi Non-Standard), è una delle più difficili ed impegnative
per la corretta comprensione ed assimilazione. E’ consigliabile ai docenti che questo concetto
venga presentato in modo graduale e con dovizia di esempi.
Questa stessa “osservazione”, in inciso dopo una sola (la prima) definizione di limite, vuole essere
una pausa di riflessione.

Dalla definizione generale [II.1.1] si ha in particolare la


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Definizione [II.1.1’]. Si dice che la funzione f(x) tende a zero per x tendente a c quando, fissato ad
arbitrio il numero positivo ε, esiste un conveniente intorno Iε(c) di c per tutti i punti del quale
(escluso al più x = c) si ha
f (x) < ε .
Si scrive
lim f ( x) = 0 oppure f ( x) → 0 per x → c .
x →c

In questo caso, fissato il numero positivo ε, esiste un intorno del punto c per tutti i punti del quale
(escluso al più x = c) i valori della funzione sono compresi fra −ε e +ε.

Se si devono considerare solo valori di x appartenenti ad un intorno destro (sinistro) del punto c,
allora si dice che la funzione f (x) ha per limite destro (sinistro) il numero L, quando x tende a c da
destra (da sinistra), se, preso ad arbitrio il numero positivo ε, è possibile corrispondentemente
determinare un intorno destro (sinistro) di c per tutti i punti del quale si abbia

f ( x) − L < ε .
In questo caso si scrive
lim f ( x) = L lim f ( x) = L
x →c + x →c −
(limite destro) (limite sinistro)

In un punto c una funzione può ammettere il limite destro e non quello sinistro o viceversa; nel caso
esistano entrambi questi limiti, essi possono essere uguali o differenti; se sono uguali, il loro valore
comune coincide con il limite di f(x) per x tendente a c nel senso sopra definito.

Quando nel punto c non esistono entrambi i limiti destro e sinistro, oppure esistono ambedue ma
sono tra loro diversi, si dice che la funzione f (x) non ammette limite nel punto c (o, meglio, per x
tendente a c).

Definizione [II.1.2]. Si dice che per x tendente a c la funzione f (x) tende all’infinito, quando,
prefissato un numero positivo M arbitrariamente “grande”, esiste in corrispondenza ad esso un
intorno di c tale che per tutti i valori di x appartenenti a tale intorno (che indicheremo con IM(c)),
escluso al più il punto x = c, si abbia
f ( x) > M .
Si scrive in tal caso
lim+ f ( x) = ∞ oppure f (x) → ∞ per x → c .
x →c
In simboli logici:
∀M > 0, ∃ I M (c) / ∀x ∈ I M (c) − {c} ⇒ f ( x) > M .

Oppure, utilizzando δ, col significato di cui sopra:

∀M > 0, ∃ δM > 0 / ∀x (x ≠ c), x − c< δM ⇒ f(x)> M

Ciò significa che quando la variabile indipendente x assume i valori di un conveniente (“piccolo”)
intorno del punto c, i valori corrispondenti di f (x), cioè le immagini, superano, in valore assoluto,
qualsiasi numero positivo fissato a piacere per quanto “grande”.

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Più precisamente si dice che una funzione tende a +∞ (oppure a −∞) se, scelto il numero positivo M,
si può trovare un intorno di c tale che per tutti i suoi punti (escluso al più lo stesso c) sia:

f (x) > M ( oppure f (x) < −M).

In questi casi si scrive rispettivamente

lim f ( x) = +∞ , oppure f (x) → +∞ per x → c (vedi figura 8a)


x→c +

lim f ( x) = −∞ , oppure f (x) → −∞ per x → c (vedi figura 8b)


x→c +

Fig. 8

(a) (b)

Quando f (x) → +∞ (−∞) per x → c si dice che la retta x = c è un asintoto verticale della
funzione f (x) o meglio del diagramma della funzione stessa (vedi figure precedenti). Se la funzione
tende all’infinito (positivo o negativo) sia per x → c − sia per x → c + la retta x = c si chiama
asintoto verticale completo o bilaterale (vedi oltre: al IV.5).

In particolare la stessa variabile indipendente x tende all’infinito quando nel suo variare assume
valori crescenti, finendo per superare in valore assoluto qualunque numero positivo grande a piacere
(concezione classica di “tendenza all’infinito”).

Definizione [II.1.3]. Si dice che per x tendente all’infinito la funzione f (x) tende al limite finito L,
se, prefissato un numero positivo ε arbitrariamente “piccolo”, si può trovare, in corrispondenza ad
esso, un numero Nε > 0 tale che, per ogni |x| > Nε si abbia:

f ( x) − L < ε (vedi fig. 9)

In simboli logici: ∀ε > 0, ∃N ε > 0 / ∀x, x > N ε ⇒ f ( x) − L < ε


N.B. In generale N dipende da ε.

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Fig. 9

(a) Asintoto orizzontale unilaterale (per x → +∞ ) (b) Asintoto orizzontale completo

In questo caso la retta y = L si chiama asintoto orizzontale. Esso può essere completo (o
bilaterale) in modo analogo all’asintoto verticale già visto; basta controllare se f ( x) → L sia per
x → −∞ sia per x → +∞ (vedi oltre: al IV.5).

Definizione [II.1.4]. Si dice che per x tendente all’infinito la funzione f (x) tende all’infinito
quando, prefissato un numero positivo M, arbitrariamente “grande”, si può trovare, in
corrispondenza ad esso, un numero NM tale che, per ogni |x| > NM, si abbia

f ( x) > M (vedi figura 10)

In simboli: ∀M > 0, ∃ NM > 0 / ∀x, |x| > NM ⇒ f ( x) > M .


N.B. Naturalmente ci sono quattro possibilità specifiche per questo caso di limite. Eccole
sinteticamente formulate:

1) lim f ( x) = −∞ ; 2) lim f ( x) = −∞
x → −∞ x → +∞

3) lim f ( x) = +∞ ; 4) lim f ( x) = +∞
x → −∞ x → +∞

Fig. 10

La figura rispecchia il caso n. 4 di cui sopra.

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II.2. TEOREMI GENERALI SUI LIMITI.

Diamo un elenco, senza dimostrazioni, dei teoremi riguardanti i limiti.

1) Il limite di una costante è la costante stessa. Cioè, data f (x) = a, si ottiene lim f ( x) = a , ∀c ∈
x→c
E (c è di accumulazione per E).

2) Se una funzione f (x) ammette il limite L ( x → c ), la funzione −f (x) ammette il limite −L


(finito o infinito).

3) Se la funzione f (x) ha per limite L, la funzione f (x) − a (dove a è una costante) ha per limite
L− a.

4) Se la funzione f (x) ammette un limite ( x → c ) questo è unico.

5) Teorema della permanenza del segno. Se per x → c la funzione c tende al limite finito L ≠
0, esiste un intorno U(c) di c tale che per tutti i punti di tale intorno (che considereremo formato da
soli punti di E: vedi nota 3 di II.1) la funzione ha lo stesso segno del limite.

6) Teorema del confronto (o “dei Carabinieri”). Se due funzioni g(x), h(x) tendono allo stesso
limite per x → c ed una terza funzione f(x) è tale che in un certo intorno di c si abbia g(x) ≤ f(x)
≤ h(x), allora è anche lim f ( x) = L .
x →c

II.3. OPERAZIONI SUI LIMITI.

1) Il limite della somma di due funzioni è uguale alla somma dei limiti (naturalmente sempre per
uno stesso x → c ). Ciò significa che, se lim f ( x) = L1 e lim g ( x) = L2 , allora
x →c x →c

lim[ f ( x) + g ( x)] = L1 + L2 .
x →c

2) La differenza di due funzioni ha per limite la differenza dei limiti. In generale il limite della
somma algebrica di quante si vogliano funzioni è uguale alla somma algebrica dei limiti delle
singole funzioni.

3) Il limite del prodotto di una costante per una funzione è uguale al prodotto della costante per il
limite della funzione, cioè: lim kf ( x) = k lim f ( x) essendo k la costante citata.
x →c x →c

4) Il limite del prodotto di due funzioni è uguale al prodotto dei limiti delle due funzioni. In
generale il limite del prodotto di più funzioni è uguale al prodotto dei limiti delle singole funzioni.
In particolare se uno dei fattori tende a zero, gli altri ad un limite finito, il prodotto tende a zero.

Osservazioni:
a) Se uno dei fattori tende all’infinito, gli altri ad un limite finito, il prodotto tende a zero.

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b) Se entrambi i fattori tendono all’infinito, anche il prodotto tende all’infinito con la solita
regola dei segni.
c) Nulla per ora possiamo dire quando uno dei fattori tende all’infinito e l’altro a zero. Infatti la
forma 0⋅∞ è una forma indeterminata (cioè può dare qualunque risultato).

Dalla 4) si deduce che il limite della potenza con esponente n intero positivo di una funzione che
tende ad un limite finito è la potenza n.esima del limite.

1
5) Se f (x) tende al limite finito L, diverso da zero, per x → c , la funzione (reciproco di
f ( x)
1
f(x)) tende al limite .
L
1
6) Se la funzione f (x) tende a zero, la funzione tende all’infinito.
f ( x)

1
7) Se la funzione f (x) tende all’infinito, la funzione tende a zero.
f ( x)

8) Il limite del quoziente di due funzioni, la seconda delle quali ha un limite diverso da zero, è
uguale al quoziente dei limiti.

9) Se f (x) tende al limite L ed è L > 0, allora lim n f ( x) = n L , essendo n un numero intero


x →c
positivo. Se L < 0 si ottiene un numero reale solo se n è dispari.

II.4. CONTINUITA’ DELLE FUNZIONI IN UN PUNTO. DISCONTINUITA’.

Una funzione f (x) definita in E si dice continua in un punto c ∈ E e di accumulazione per E,


quando esiste il limite della funzione per x → c e questo limite è uguale al valore della funzione in
quel punto. In simboli:

1°) ∃ f (c)
2°) lim f ( x) = f (c) .
x →c

Una funzione si dice continua in un intervallo se è continua in tutti i punti dell’intervallo.

In base alla nozione di continuità ora introdotta si può affermare che la funzione f (x) è continua in
c quando esistono finiti i limiti lim+ f ( x) , lim− f ( x) ed inoltre è
x→c x→c

lim f ( x) = lim+ f ( x) = f (c).


x→c − x→c

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Fig. 11

(g)

Si consideri la fig. 11, comprendente vari casi: in essi il valore che si intende assunto da f (x) per
x = c è segnato con un punto in grassetto (azzurro).
Nel caso (a) si è voluto rappresentare un punto di continuità per la f (x). Risulteranno evidenti le
seguenti definizioni.

1) La funzione y = f (x) presenta in c una discontinuità di prima specie quando il limite


sinistro e il limite destro per x → c esistono finiti, ma sono diversi tra loro: la funzione
presenta un “salto” finito nel punto di ascissa c (vedi casi (c), (d), (e)). Qui non ha
influenza il valore di f (c).

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2) La funzione y = f (x) presenta in c una discontinuità di seconda specie quando almeno uno
dei due limiti, sinistro o destro per x → c , è infinito oppure non esiste. In questo caso si
parla pure di discontinuità “essenziale” (vedi ad es. casi (f) e (g)).
3) La funzione y = f (x) presenta in c una discontinuità di terza specie o eliminabile quando
esistono finiti i limiti destro e sinistro per x → c , ma il loro valore è diverso da f (c) (vedi
caso (b)).

II.5. ESEMPI DI LIMITI (CALCOLI E VERIFICHE).

Diamo ora alcuni esempi di calcolo di limiti (di funzioni reali di variabile reale).

a) Si voglia calcolare il lim(2 x − 1) . Facciamo alcune semplici osservazioni: la funzione y = 2x – 1


x →1
è definita per ogni x reale, il suo grafico cartesiano è una retta, dunque è una funzione continua.
Sarà perciò:
lim(2 x − 1) = (2⋅1 – 1) = 1.
x →1
Naturalmente il procedimento corretto è quello inverso, cioè stabilire prima il valore del limite e poi
dire che la funzione è continua. Spesso e volentieri però, in pratica, si ragiona come sopra per
sveltire i calcoli e avendo già un po’ di esperienza sull’argomento limiti. La nostra mente è portata
immediatamente a sostituire ad x il valore a cui tende (anche se poi non potesse “raggiungerlo”).
Ciò è corretto – si sa – solo se la funzione è continua: vi è proprio una tecnica di calcolo dei limiti
che si basa sulle funzioni continue. La nostra propensione a sostituire c ad x è dovuta alla
percezione che “x è infinitamente vicina a c”…(vedi ancora Analisi Non-Standard).

Proviamo ora che è veramente lim(2 x − 1) = 1. Anche se ciò appare banale e scontato, serva
x →1
soprattutto come esempio e strategia per esercizi più complessi e significativi.

In base alle definizioni date, basterà dimostrare che, dato il famoso ε (numero positivo “piccolo” a
piacere), esiste un intorno del punto x = 1 tale che, per tutti i valori di x di quell’intorno, sia
verificata la disuguaglianza:
2x − 1 − 1 < ε (II.5.1)
cioè sia verificato il sistema:
 ε
2 x − 1 > 1 − ε x > 1 − 2

 . Facilmente si trova  .
2 x − 1 < 1 + ε x < 1 + ε

 2

Dunque abbiamo determinato un intorno del numero x = 1, la cui ampiezza varia con ε,
ε ε
1− < x < 1+ ,
2 2
tale che, per tutti gli x di questo intorno, è verificata la disuguaglianza (II.5.1), cioè si può scrivere
che
lim(2 x − 1) = 1.
x →1

Notiamo quindi che qui δ = δε = ε/2: vedi (II.1.1”). L’intorno di c = 1 è simmetrico


“naturalmente”, infatti stiamo trattando una funzione lineare.

39

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1
b) Proviamo che lim = ∞.
x →0 x

1
Fissato un numero M positivo e “grande” ad arbitrio, il numero ε = sarà positivo e “piccolo”
M
1
ad arbitrio, perciò tutti i punti per cui sia x < costituiscono un intorno del punto x = 0.
M
1 1
Per tali punti si ha > M e ciò prova che lim = ∞.
x x → 0 x
Più particolarmente è evidente che se x tende a zero assumendo sempre valori positivi (cioè “da
1
destra”) allora tende a +∞; se invece x tende a zero assumendo sempre valori negativi (cioè “da
x
1
sinistra”) allora tende a −∞.
x

1
c) Proviamo che lim = 0.
x→∞ x

1
Fissato il numero ε positivo e piccolo a piacere, il numero sarà positivo e grande a piacere.
ε
Poiché dobbiamo far tendere x all’infinito vorrà dire che x nel suo variare finirà col superare, in
1 1 1
valore assoluto, il numero , cioè x > . Da qui si trae < ε e ciò esprime, per x tendente
ε ε x
1
all’infinito, tende a zero.
x
1
Più particolarmente è evidente che se x tende a infinito positivo tende 0+ (“zero da destra”: nella
x
1
fattispecie “zero da sopra”, se si pensa al grafico!); se invece x tende a infinito negativo tende a
x
0− (“zero da sinistra”…”zero da sotto”…!).

1
d) Proviamo che lim = ∞.
x →1 x −1
1
Basterà vedere se la disuguaglianza > M , ove M è un numero reale positivo grande a
x −1
piacere, è verificata in un intorno del punto x = 1.
1
Per brevità facciamo queste considerazioni: il denominatore della frazione tende a zero per
x −1
x →1, dunque, per quanto si è detto al punto b), il limite è infinito (infatti il numeratore è la costante
1).

3x
e) Verifichiamo che lim = 3. (II.5.2)
x →1 x − 1

Procediamo anche qui in modo spedito senza ricorrere subito alla definizione. Mettiamo in evidenza
x sia a numeratore che a denominatore e semplifichiamo: la semplificazione è lecita poiché x è

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certamente diverso da zero in un conveniente intorno di ∞ (e non raggiungerà certo il valore


infinito stesso o almeno lo possiamo supporre nell’intorno scelto). Così:
3x 3x 3
lim = lim = lim ,
x → ±∞ x − 1 x → ±∞  1 x → ±∞ 1
x1 −  1−
 x x
ma, per i teoremi (8), (2), (7) del II.3, si ha appunto la tesi (II.5.2).

x2 − 4
f) Dimostriamo ora che lim = ∞.
x→ ∞ 5x
Basterà, fissato il numero positivo M, opportunamente grande, esaminare quando sono verificati i
due sistemi

x < 0 x > 0
 2  2
x − 4 x − 4
 < −M ,  >M .
 5x  5x
(per x → −∞) (per x → +∞)

Come al solito questa via la lasciamo, come esercizio, al lettore. Noi facciamo queste operazioni:
mettiamo in evidenza x sia a numeratore che a denominatore e semplifichiamo facendo le stesse
considerazioni fatte al punto e). Si ha così:
 4
x x − 
x2 − 4 x−0
= lim 
x
lim = lim = ∞, c.v.d. (leggasi “come volevasi dimostrare”).
x→∞ 5x x → ∞ 5x x → ∞ 5

4 − x2
g) Proviamo ancora che lim = −∞ .
x → +∞ 5x
Considerando x > 0, basta risolvere la disequazione
4 − x2
< −M
5x
dove M è un numero positivo opportunamente grande; facilmente si trova che la suddetta
disequazione è verificata per ogni x tale che
5 25 2
x>N = M+ M +4 ,
2 4
che è appunto la caratteristica di un intorno (dipendente da M) di +∞.
Come nostro solito avremmo potuto dimostrare la tesi operando così:
4
−x
4 − x2 −x
lim = lim x = lim = −∞ , c.v.d.
x → +∞ 5x x → +∞ 5 x → +∞ 5

h) Proviamo infine che la funzione a non ha limite per x → 0 nell’ipotesi che sia a > 1.
x

1
Infatti, se x tende a zero per valori positivi, la funzione è sempre positiva e tende a diventare
x
infinitamente grande: in questo caso (come è noto sia dall’algebra sia dallo studio della funzione

41

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esponenziale in geometria analitica) anche la funzione a x tende a diventare infinitamente grande


assumendo sempre valori positivi e si ha perciò
1

lim+ a x = +∞ .
x →0

Dunque il limite destro esiste ed è +∞.


1
Invece se si fa tendere x a zero per valori negativi, la funzione è sempre negativa e, in valore
x
1
x
assoluto, tende a diventare infinitamente grande: allora la funzione a tende a zero (per una
proposizione nota all’algebra), cioè si ha:
1

lim a = 0 .
x
x →0−
Dunque il limite sinistro esiste ed è uguale a zero. I due limiti destro e sinistro esistono entrambi,
1

ma sono diversi, perciò la funzione y = a x non ha limite per x → 0. Vedi figura 12.

Fig. 12

Dal grafico si nota che la retta y = 1 è un asintoto orizzontale completo (bilaterale), infatti si ha:
1

lim + a x = a 0 = 1 .
x → ±∞

OSSERVAZIONE. Può ovviamente capitare che una funzione non ammetta limite alcuno per x→c:
vedasi in proposito, quale esempio emblematico, la funzione di Dirichlet del I.3 che qui
riprendiamo (vedi fig. 1):
0 per 0 ≤ x ≤ 1; x ∈ Q
y=
1 per 0 ≤ x ≤ 1; x ∉ Q
(Come è noto, Q è l’insieme dei numeri razionali)

Essa è discontinua dappertutto (!). Infatti, per qualsiasi valore a cui facciamo tendere x, non esiste il
1
limite. Prendiamo ad esempio il valore c = (che è di accumulazione per E: 0 ≤ x ≤ 1) e
2
1
cerchiamo il limite per x → : per quanto “piccolo” sia l’intorno del punto c, in esso vi sono
2
42

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infiniti numeri razionali ed infiniti numeri irrazionali, i primi con immagine “0”, i secondi con
immagine “1”. Non c’è possibilità di “separarli”, cioè non è possibile trovare un intorno I di zero (o
di uno) in funzione del quale si individui un intorno di c tale che, per ogni x di tale intorno, f (x)
appartenga ad I. Al più qui si potrà parlare di valori limiti, cioè punti (= valori, numeri) tali per cui,
prefissato il famoso ε piccolo a piacere, si può trovare, in corrispondenza ad esso, un intorno di c (o
un numero δ =δε …) per infiniti valori del quale (escluso al più il punto x = c) si abbia:
f ( x) − L < ε , dove L qui è il valore limite.
Naturalmente ci possono essere, per una funzione e per x→c, più valori limite: nel caso succitato
essi sono due: 0 e 1.
Quando ce n’è uno solo esso è appunto il limite.

N.B. Si osservi ancora, per finire il discorso sui valori limiti, che la differenza sostanziale fra valori
limiti e limiti sta nel fatto che per i primi è sufficiente l’esistenza di “infiniti” valori x di I(c),
intorno di c, tali che f ( x) − L < ε , mentre per i secondi è necessario che la proprietà f ( x) − L < ε
valga per “tutti” gli x di I(c), escluso al più il punto c. In simboli:

L valore limite di f (x) per x→c : ∀I( L), ∀I(c), ∃x ∈ I(c) / f ( x) ∈ I( L), ( x ≠ c) .
L limite di f (x) per x→c : ∀I( L), ∃I(c) / ∀x ∈ I(c) ⇒ f ( x) ∈ I( L), ( x ≠ c) .
(L, in entrambi i casi, è finito).

II.6. FORME INDETERMINATE. ALTRI ESEMPI DI LIMITI.

Nel calcolo dei limiti può accadere di trovare delle forme quali:

0 ∞
, , 0 ⋅ ∞ , ∞ − ∞ , 0 0 , ∞ 0 , 1∞ .
0 ∞

Esse sono forme indeterminate,cioè, come si può dimostrare, possono dare qualsiasi risultato.
0
Infatti la forma può essere uguagliata a qualsiasi numero n poiché è sempre 0⋅n = 0 (con n
0

finito). Analoga cosa succede per , infatti risulta ∞ ⋅ n = ∞ , ∀n (n ≠ 0), intendendo che un

valore infinito (anche se nell’analisi standard l’infinito non è un numero), moltiplicato per un valore
finito, resta infinito.

La seconda e la terza forma suindicate si possono ricondurre alle due prime considerate tramite
qualche semplice trasformazione. Infatti:

1 ∞
0⋅∞ → ⋅∞ →
∞ ∞
n m n−m 0
∞−∞ → − → → se n = m e per ε→0.
ε ε ε 0

Si prenda con la dovuta cautela (!) la simbologia appena usata: le implicazioni (o “deduzioni” o
“pseudo uguaglianze”) sono vere “al limite” e servono soprattutto, qui, per dimostrare con
semplicità le affermazioni di cui sopra.

43

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Impareremo in seguito (III.14: “Regola de L’Hospital”) una regola generale – quando applicabile –
0
per calcolare il limite di una espressione funzionale che si presentasse sotto forma indeterminata
0

o .

Ignorando per ora tale regola, diciamo che, per calcolare il “vero” valore di una forma
indeterminata, si cerca, con qualche artificio, di eliminare la ragione dell’inderminatezza, come ora
mostreremo con alcuni esempi.

Esempio 1°). Cerchiamo il limite per x tendente a 1 della frazione (cioè della funzione espressa
algebricamente dalla frazione):
5x 3 − 8x 2 + 4 x − 1
x 3 − 3x + 2
i cui termini (numeratore e denominatore) si annullano per x = 1.
Si osservi, in via preliminare, che la suddetta frazione è definita per ogni x reale diverso da 1 e da 2,
cioè:
E = {x ∈ ℜ : (x ≠ 1) ∧ ( x ≠ 2)}
e che x = 1 è un punto di accumulazione per E.
Si osservi ancora che si ha l’identità (ottenuta applicando la regola di Ruffini, con l’ipotesi x ≠ 1):

( )
5 x 3 − 8 x 2 + 4 x − 1 ( x − 1) 5 x 2 − 3 x + 1
=
x 3 − 3x + 2 ( x − 1)( x − 2)
x −1 (13)
e che lim = 1 , come è ovvio e come è facile verificare; dunque
x →1+ x −1
5x 3 − 8x 2 + 4x − 1 5x 2 − 3x + 1 5 − 3 + 1
lim+ = lim = = −3 .
x →1 x 3 − 3x + 2 x →1+ x−2 1− 2

Esempio 2°) Analogamente al 1° esempio si voglia calcolare il

x 3 − 3x 2 + 4
lim+ ,
x →2 x 2 − 3x + 2

0
che si presenta sotto la forma indeterminata come è facile verificare.
0
Poiché numeratore e denominatore sono polinomi divisibili per (x – 2), si trova, con la regola di
Ruffini (o con l’algoritmo riguardante la divisione fra polinomi),

x 3 − 3x 2 + 4 ( x − 2)( x 2 − x − 2) x2 − x − 2 0
lim+ = lim = lim = =0.
x →2 x 2 − 3 x + 2 x →2 + ( x − 2)( x − 1) x →2 + x −1 1

13
N.B. Ricordiamo ancora che è x ≠ 1. Appunto per questo possiamo fare la suddetta semplificazione sotto il segno di
limite. D’ora in avanti lasceremo queste considerazioni al lettore.

44

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6x 2 − 7x − 8
Esempio 3°) Se si calcola il limite di per x tendente all’infinito, si incontra la
4x 2 − x + 3

forma .

Mettiamo in evidenza x2 in entrambi i termini della frazione; si ha così
 7 8 
x2 6 − − 2  6 − 7 − 8
6x − 7 x − 8
2
 x x  x x2
= = per x ≠ 0,
4x 2 − x + 3  1 3  1 3
x2  4 − + 2  4 − + 2
 x x  x x
come si può comodamente supporre.
Passiamo ora al limite per x → ∞: siccome tutte le frazioni (intese come funzioni di x, ovviamente)
7 8
, 2 , ecc. tendono a zero, mentre i numeri 6 e 4 restano tali, si ottiene
x x
6x 2 − 7x − 8 6 3
lim+ = = .
x →∞ 4x 2 − x + 3 4 2

x− 2
Esempio 4°) Si voglia trovare lim .
x →2 x−2

Si moltiplichino ambedue i termini della frazione per ( )


x + 2 (la quale quantità tende al limite
finito 2 2 ); si avrà:
x− 2 x−2 1
= =
( )
, quindi
x−2 ( x − 2) x + 2 x+ 2

x− 2 1 1 2
lim = lim = = .
x →2 x−2 x → 2
x+ 2 2+ 2 4

x 3 + 5x 2 + 6
Esempio 5°) Si voglia trovare lim ;
x → −∞ 9x 2 − 7

 5 6   5 6 
x 3 1 + + 3   1+ + 3 
avremo: lim x + 5 x + 6 = lim  x x  = lim  x
3 2
x x  = −∞ .
x → −∞ 9x − 7
2 x → −∞  7  x → −∞  7 
x 2 9 − 2   9− 2 
 x   x 

x3 − 2
Esempio 6°) Si voglia calcolare il limite di y = per x → -∞.
x−8
Avremo, come nell’esempio precedente, che

45

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 2   2 
x 3 1 − 3   1− 3 
x −2
3
= lim 
x 
lim = lim  x 2 x  = +∞ .
x → −∞ x − 8 x → −∞  8 x → −∞ 8 
x 1 −   1− 
 x  x 

Esempio 7°) Si voglia trovare il limite di y = x 2 + 5 x − x per x→ +∞.

Questo limite si presenta sotto la forma indeterminata ∞ − ∞.

Potremo scrivere (forti di esperienze precedenti):

lim ( )
x 2 + 5 x − x = lim
( x 2 + 5x − x )( x 2 + 5x + x ) = lim 5x
.
x → +∞ x → +∞ x → +∞
x 2 + 5x + x x 2 + 5x + x

OSSERVAZIONE. La razionalizzazione del numeratore che abbiamo effettuato è lecita poiché


abbiamo semplicemente moltiplicato la nostra espressione funzionale per una funzione che tende a
1 (come sarebbe facile dimostrare).

Dividiamo ora ambedue i termini della frazione per x (supponendo comodamente x > 0); avremo
che il limite proposto è
5 5.
lim =
x → +∞ 2
5
1+ +1
x

Esempio 8°) Sia da calcolare il seguente limite: lim x − 8 + x − 4 .


3 2

x →2 + x−2

Come si può immediatamente verificare (sostituendo direttamente ad x il valore 2), ci troviamo di


0
fronte alla forma indeterminata .
0
Conviene sviluppare il binomio x 3 − 8 e la radice x 2 − 4 in questo modo:

lim+
x3 − 8 + x2 − 4
= lim+
( x − 2)( x 2 + 2 x + 4) + x − 2 ⋅ x + 2
= lim+ { }
x − 2 ⋅ ( x 2 + 2 x + 4) + x + 2 =
x →2 x−2 x →2 x−2 x →2

(per la proprietà II.3.(1))

= lim+
x→2
[ ]
x − 2 ⋅ ( x 2 + 2 x + 4) + lim+ x + 2 = 0 + lim+ x + 2 = 4 = 2 .
x→2 x→2

46

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x2 +1 − x
Esempio 9°) Si calcoli infine il lim .
x → +∞ x
Conviene operare così:

x2 +1 − x x2 +1− x2 1
lim
x → +∞ x
= lim
x → +∞
(
x x +1 + x
2
= lim
x → +∞
) 2
(
x x +1 + x
= 0.
)

II.7. LIMITI PARTICOLARI ( FONDAMENTALI).

II.7.1) Il numero e.
n
 1
Consideriamo la successione(14) a n = 1 + 
 n
Si dimostra che è convergente (cioè ha limite finito) e il suo limite, per n tendente all’infinito, si
n
 1
indica con e, cioè si scrive lim1 +  = e .
n →∞
 n
Verifichiamo ora che il numero e è compreso fra 2 e 3.
Utilizzando la formula della potenza del binomio, si trova:

n
 1 n 1 n 1 n 1 1
1 +  = 1 +   +   2 +   3 + ... + n =
 n 1  n  2  n 3  n n
1 1 n − 1 1 (n − 1)(n − 2) 1 (n − 1)(n − 2)...[n − (n − 1)]
= 1+ n + + + ... + da cui
n 2! n 3! n 2
n! n n −1

1  1  2   n − 1 
n
 1 1  1  1  1  2 
1 +  = 2 + 1 −  + 1 − 1 −  + ... + 1 − 1 − ...1 −  (**)
 n 2!  n  3!  n  n  n!  n  n   n 

n
 1
Poiché gli addendi del secondo membro sono tutti positivi si ha, per ogni n, 1 +  > 2 . Inoltre, al
 n
 1  2  3  n −1
crescere di n, ciascuno dei fattori 1 −  ; 1 −  ; 1 −  ; … ; 1 −  , che figurano nei
 n  n  n  n 
vari addendi del secondo membro della (**), cresce, ma sono tutti minori di 1. Si ha quindi:

n
 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
1 +  < 2 + + + ... + . Ma < < 2 ; < < 3 ;… < n −1 .
 n 2! 3! n! 3! 3 ⋅ 2 2 4! 4 ⋅ 3 ⋅ 2 2 n! 2
n
 1 1 1 1
Pertanto, per n > 2 si ha, a maggior ragione, 1 +  < 2 + + 2 + ... + n −1 .
 n 2 2 2

14
N.B. Dicesi successione un insieme ordinato di elementi di qualsiasi natura contrassegnati mediante un indice che
assume valori nell’insieme dei numeri naturali. Sinteticamente si tratta di una funzione con dominio N (oppure N-{0}) e
codominio generalmente ℜ.

47

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Il secondo membro è formato dal numero 2 più la somma di n− 1 termini di una progressione
n −1
1
1−  
1 1 1
geometria di ragione . Avremo: + 2 + ... + n −1 =
1 1  2  = 1− 1 .
2 2 2 2 2 1 2 n −1
2
n n
 1 1  1
Quindi 1 +  < 3 − n −1 e dunque 2 < 1 +  < 3 , c.v.d.
 n 2  n
Calcoli opportuni hanno fornito per e il valore approssimato:

e = 2,7182818284…

Il numero e ha molta importanza nell’analisi matematica perché viene assunto come base di un
sistema di logaritmi, che si dicono naturali o neperiani dal nome del matematico, astronomo e
fisico scozzese John Napier (Merchiston Castle, 1550 – Edimburgo, 4 aprile 1617), noto come
Giovanni Nepero (o semplicemente Nepero), il quale ebbe il merito di esporre per primo una teoria
10
 1
dei logaritmi nei quali assumeva come base il numero 1 +  che differisce da e per meno di
 10 
10 . Il numero e è un numero irrazionale, come il numero π, è un irrazionale non algebrico, cioè
-6

trascendente, vale a dire un numero che non è soluzione di nessuna equazione algebrica a
coefficienti interi.
Il logaritmo neperiano di un numero α si denota semplicemente con lnα.
x
 1
Si può dimostrare che è lim 1 +  = e anche per x ∈ ℜ .
x → ±∞
 x

sin x
II.7.2) Proviamo che lim = 1 (x misurato in radianti).
x→0 x
Nota preliminare. Daremo per acquisito il fatto che le funzioni y = sinx e y = cosx siano funzioni
continue in tutto il loro dominio, per cui
lim sin x = 0 e lim cos x = 1 .
x →0 x →0
Dim.
Sia x un angolo (misurato in radianti). Avremo (riferendoci alla circonferenza trigonometrica di
fig. 13):

Fig. 13

48

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Area (triangolo AOH) < Area (settore AOK) < Area (triangolo BOK).
sin x
Osserviamo che se si cambia x in −x la funzione resta invariata. Prendiamo quindi x > 0.
x
Dalla figura si nota che:
Arco AK = x , AH = sin x , OH = cos x , BK = tg x , AO = OK = 1, si ha
sin x ⋅ cos x < x ⋅ 1 < tgx ⋅ 1
Dividendo per sin x ( > 0):

x 1 sin x 1
cos x < < o anche cos x < < . Da cui, essendo
sin x cos x x cos x
1
lim cos x = lim = 1 , per il teorema del confronto (II.2.(6)), si ha la tesi.
x→0 x → 0 cos x

Analogamente per x < 0.

OSSERVAZIONE. Nel caso in cui la misura dell’angolo sia espressa in gradi sessagesimali,
chiamando con α questa misura, si avrebbe:

180 , perciò
α= x
π

sin α sin x sin x π π


lim = lim = lim ⋅ = .
α →0 α x→0 180
x
x → 0 x 180 180
π

1 − cos x
II.7.3) Proviamo che lim = 0.
n →0 x
Si ha infatti
1 − cos x (1 − cos x)(1 + cos x) 1 − cos 2 x  sin x sin x 
lim = lim = lim = lim ⋅  = 1⋅ 0 = 0
n →0 x n→ 0 x(1 + cos x) n →0 x(1 + cos x ) n →0
 x 1 + cos x 

1 − cos x 1
II.7.4) Proviamo che lim = .
n →0 x2 2
Si ha infatti
1 − cos x (1 − cos x)(1 + cos x) 1 − cos 2 x  sin x sin x 1  1 1
lim = lim = lim = lim ⋅ ⋅  = 1 ⋅1 ⋅ =
n →0 x 2 n→ 0 x (1 + cos x)
2 n →0 x (1 + cos x )
2 n →0
 x x 1 + cos x  2 2

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II.8. CONTINUITA’ DI FUNZIONI COMPOSTE.

Teorema. [II.8.1]. Abbiamo le due funzioni g(x) e f (t). Sia: g(x) continua in x = c, c ∈ [a, b],
f (t) continua in t = g(c).
(N.B. Si potrebbe supporre g(x) continua in tutto [a, b] e f (t) continua in [min g(x), max
g(x)](15)).
Allora: f [g(x)] è continua in x = c.

[
Cioè: lim f [g ( x)] = f [g (c)] = f lim g ( x) .
x →c x →c
]
Si può quindi scambiare l’operatore lim con la f !!!
Conseguenza questa molto importante per il calcolo dei limiti.

Dimostrazione.

Sappiamo che lim g ( x) = g (c) , quindi


x→c

∀ε > 0, ∃ I c / ∀x ∈ I c ⇒ [g (c) − ε < g ( x) < g (c) + ε ] .


Poiché si può scrivere g(x) = g(c) + δ, δ = δ(x), con δ < ε , in Ic e con lim δ ( x) = 0 (cioè se x
x →c

appartiene ad Ic, δ appartiene ad un opportuno intorno di zero), essendo g(x) continua, si avrà:

∀x ∈ I c ⇒ f [g ( x)] = f [g (c) + δ ] e quindi:

(*) lim f [g ( x)] = lim f [g (c) + δ ( x)] = lim f [g (c) + δ ] = f [g (c)] essendo f continua, c.v.d.
x→c x →c δ →0

[
Sarà pure lim f [g ( x)] = f lim g ( x) , c.v.d.
x→c x→c
]
OSSERVAZIONE II.8.1. Lo scambio di “lim” con la “f” si può operare talvolta anche se g(x) non è
continua in c. Basta che esista, finito, il limite di g(x) e che f (t) sia continua per t = lim g ( x) = L .
x →c

Infatti, se L è il limite suddetto, si può porre g(x) = L ± δ in I’c = Ic - {c} ed operare come in (*)
con δ > 0.

Se L è infinito sarà g(x) = M + N (M >>0(16), N > 0, nel caso dell’infinito positivo) in I’c, quindi
lim f [g ( x)] = lim f ( M + N ) = lim f (t ) , ma non avrebbe senso (almeno in questo tipo di analisi)
[ ]
x→c N → +∞ t → +∞

scrivere: ….= f lim g ( x) = f (+∞) , anche se il significato è piuttosto chiaro. Analogamente per
x →c
limiti “destro” e “sinistro”.

Se il lim g ( x) non esiste, non si può concludere nulla di definitivo.


x →c
Esistono, infatti, funzioni discontinue(17) tali che la loro composizione è una funzione continua.
Esistono ovviamente (ed è più facile trovarne esempi) funzioni discontinue(9) tali che la loro
composizione è una funzione discontinua.
Un esempio del primo caso è il seguente.

15
N.B. Il max e il min di g(x) esistono essendo g(x) continua in [a, b]: vedi teorema di Weierstrass (II.9.2).
16
N.B. Leggasi “molto maggiore di zero”, cioè “grandissimo”…
17
N.B. Si intende: almeno una fra f o g (o altre considerate) sia discontinua (ad es. in x = c …).

50

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Sia g(x) la funzione di Dirichlet:

0 se x∈Q
g ( x) =  con dominio (per noi) E ≡ ℜ, discontinua “dappertutto”.
1 se x∉Q

Sia c la funzione “fattoriale”: f(t) = t! con t ∈ N (zero compreso).


Si avrà f [g(x)] = 1, ∀x ∈ ℜ (!!!), funzione continua.
[ ]
Non si potrà comunque porre: lim f [g ( x)] = f lim g ( x) !!! Infatti il primo limite è 1, il secondo
x→c x→c
non esiste.

Un esempio del secondo caso è il seguente.


Sia g(x) la funzione di Dirichlet. Sia f(t) = t2, t ∈ ℜ.
Ovviamente la funzione f [g(x)] è discontinua “dappertutto”. Infatti essa coincide con g(x), in
questo esempio. Analogamente per g[f(x)].

OSSERVAZIONE II.8.2. L’uguaglianza (*) e l’OSSEVAZIONE II.8.I di cui sopra giustificano


anche il procedimento di sostituzione o cambiamento di variabile, molto utile nel calcolo dei limiti
delle funzioni composte, che si può formulare nel modo seguente.
Se si deve calcolare il lim f [g ( x)] , si pone z = g (x) e si calcola
x→c

(**) lim z = lim g ( x) = L .


x →c x →c
Si ha quindi
(***) lim f [g ( x)] = lim f ( z ) ,
x →c z→L
purché esistano i limiti (**) e (***).

II.9. TEOREMI SULLE FUNZIONI CONTINUE.

Teorema [II.9.1]. Teorema degli zeri per le funzioni continue.


Sia f (x) continua in I = [a, b] e assuma segni diversi in I, allora esiste almeno un punto c ∈ [a, b]
tale che f (c) = 0.

Dimostrazione. Sia ad esempio f (a) < 0 e f (b) > 0. Suddividiamo I in 2,4,8… intervalli,
dimezzando sempre le ampiezze. Possiamo ipotizzare queste evenienze:
1) non troviamo intervalli in cui la funzione cambia segno;
2) scegliamo un intervallo in cui la funzione cambia segno e continuiamo a dimezzarlo.
Nel caso 1 ci dovranno essere almeno due intervalli consecutivi in uno dei quali la funzione è
positiva e nell’altro è negativa. Se consideriamo i limiti, destro e sinistro, della funzione per x che
tende all’estremo suddetto, essi dovranno coincidere, per l’ipotesi di continuità, per cui il limite
considerato dovrà essere zero (e questo conferma la tesi).
Nel caso 2 se ci imbattiamo in un intervallo che ha le caratteristiche del caso 1 la tesi è dimostrata.
Altrimenti siamo di fronte ad una successione di intervalli incapsulati i quali avranno un solo punto
in comune: chiamiamolo c. Avremo lim− f ( x ) = lim+ f ( x ) = 0 = f ( c ) , c.v.d.
x→c x→c

Teorema [II.9.2]. Teorema di Weierstrass.


Sia f (x) è una funzione continua in un insieme chiuso e limitato D (in particolare un intervallo
[a, b]), essa è ivi dotata di massimo assoluto e di minimo assoluto.

51

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Dimostrazione relativa ad un intervallo D = [a, b].

Sia supf(D) = M, inff(D) = m. M e m devono appartenere a f (D) e quindi sono massimo e minimo
rispettivamente, infatti:
a) se M = m significa che f (x) è costante;
b) se M > m, f(D) possiede infiniti elementi ed M e m sono punti isolati, il teorema è
dimostrato.
c) se M > m, f(D) possiede infiniti elementi ed M e m (almeno uno fra loro) sono punti di
accumulazione di f (D), considerando tale ad es. M, si ha: ∀ε > 0, ∃x ∈ D / M - f ( x ) < ε ,
ma lim f ( x) = f ( x ) , quindi ∃I ε ( x ) / ∀x ∈ I ε ( x ) ⇒ f ( x) − f ( x ) < ε , cioè
x→ x

f ( x ) − ε < f ( x) < f ( x ) + ε ed ancora, da M ≤ f ( x ) + ε , si ottiene 0 ≤ M − f ( x ) ≤ ε .


Ora, ammettendo che x sia punto di Weierstrass cioè tale che ∀I ( x ) si abbia supf(x) = M,
otteniamo f ( x ) = M per l’arbitrarietà di ε, c.v.d. Analogamente per il minimo m.

Una immediata conseguenza di questo teorema è la seguente:

Ogni funzione continua in un insieme chiuso e limitato D è ivi limitata.

Teorema [II.9.3].
Una funzione continua in un intervallo chiuso e limitato [a, b] assume ogni valore compreso fra il
suo minimo ed il suo massimo assoluto.

Dimostrazione.
Sia k un numero reale qualsiasi compreso tra m e M (minimo e massimo assoluto della funzione):
m < k < M. Proviamo che esiste almeno un punto di [a, b] in cui la funzione assume il valore k.
Detti x1 e x 2 , rispettivamente, due punti di minimo e di massimo assoluto per la f (x) in [a, b], si ha
f ( x1 ) = m , f ( x 2 ) = M e supposto, tanto per fissare le idee, x1 > x 2 , consideriamo la funzione
continua ϕ ( x) = f ( x) − k . Avremo
ϕ ( x1 ) = f ( x1 ) − k = m − k < 0 , ϕ ( x2 ) = f ( x2 ) − k = M − k > 0 .
Per il teorema [II.9.1] esiste almeno un punto ξ ∈ ( x 2 , x1 ) in cui risulta: ϕ (ξ ) = 0 , ossia
f (ξ ) − k = 0 , da cui f (ξ ) = k . Con questa conclusione, data l’arbitrarietà di k, numero reale
compreso fra m e M, resta dimostrato il teorema.

L’enunciato del suddetto teorema può anche essere quindi:

“I valori che una funzione continua assume in un intervallo chiuso e limitato [a, b] costituiscono
essi pure un intervallo chiuso e limitato”.

Riassumiamo i due ultimi teoremi in un unico teorema:

Teorema di Bolzano-Weierstrass [II.9.4].


Se la funzione y = f ( x) è continua nell’intervallo chiuso e limitato [a, b], allora la funzione
assume, in tale intervallo, un valore minimo ed un valore massimo e assume, almeno una volta, tutti
i valori compresi tra il minimo e il massimo.

52

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Cap. III − DERIVABILITA’ E DIFFERENZIABILITA’ DELLE


FUNZIONI REALI DI VARIABILE REALE.

III.1. INTRODUZIONE.

La continuità di una funzione in un punto è una proprietà molto indicativa del comportamento della
funzione in un intorno del punto stesso, cioè indicativa del modo di variare della funzione nelle
vicinanze del punto.
La derivabilità di una funzione in un punto, quando sussiste, dà notizie ancor più precise su questo
modo di variare. Non solo, ma permettendo essa, quando sussiste, di calcolare effettivamente la
derivata della funzione nel punto, essa fornisce una valutazione non più soltanto qualitativa, ma
propriamente quantitativa di questo modo di variare: perché, come subito vedremo la detta
derivata è un numero che misura, per così dire, la rapidità con cui la funzione varia nelle
immediate vicinanze del punto considerato.

III.2. INCREMENTO DELLA FUNZIONE.

a) Incremento della variabile indipendente.

Sia y = f (x) una funzione reale della variabile (indipendente) x, definita in un insieme E ⊆ ℜ; si
presenta frequentemente la necessità di considerare il passaggio da un valore x0 della variabile x
appartenente a E ad un altro valore x = x0 + h anch’esso appartenente ad E.

Definizione [III.2.1]. Si dice incremento della variabile indipendente x nel passaggio dal punto
iniziale x0 al punto variato x = x0 + h la differenza ∆x = h = x − x0 . Questo incremento può
essere positivo, nullo o negativo: il punto x si trova rispettivamente alla destra del punto x0 ,
coincidente con x0 , alla sinistra di x0 .

b) Incremento della funzione.

Definizione [III.2.2]. Si dice incremento delle funzione y = f (x) attinente al passaggio dal punto
iniziale x0 al punto variato x = x0 + h la differenza ∆y = ∆f ( x) = f ( x0 + h) − f ( x0 ) .

Questo incremento può essere positivo, nullo o negativo (vedi figura 14, casi (a), (b), (c)).

Quando sia utile distinguere chiameremo incremento destro o incremento sinistro l’incremento ∆y a
seconda se h è positivo o negativo.

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Fig. 14

(a) (b) (c)

∆f >0 ∆f =0 ∆f <0

III.3. RAPPORTO INCREMENTALE. DERIVATA DI UNA FUNZIONE.

Si chiama rapporto incrementale della funzione f (x), attinente al passaggio dal punto iniziale
∆y ∆f f ( x0 + h) − f ( x0 )
x0 al punto variato x = x0 + h, il rapporto = = dell’incremento
∆x ∆x h
(positivo, negativo o nullo) ∆f della funzione rispetto all’incremento ∆x = h della variabile
indipendente. Si suppone h ≠ 0. Quando sia utile distinguere, diremo rapporto incrementale destro
(sinistro) ogni rapporto incrementale in cui è h > 0 (h < 0).

Definizione di derivata [III.3.1]. La funzione f (x) si dice “derivabile nel punto x0 ” se esiste
determinato e finito il

f ( x 0 + h) − f ( x0 ) f ( x) − f ( x0 )  ∆y   dy 
lim = lim = lim   = y ' ( x0 ) = f ' ( x0 ) =  
h →0 h x → x0 x − x0 ∆x →0 ∆x
  x = x0  dx  x = x0

Questo limite si chiamerà la “derivata” della funzione f (x) nel punto x0 .


Se la funzione è discontinua in x0 non si può parlare di derivabilità in x0 in quanto al più
esisteranno i limiti destro o sinistro del rapporto incrementale, ma non entrambi. Analogamente si
dirà che in x0 non esisterà la derivata di f (x) se il valore del limite del rapporto incrementale è
±∞; si dirà però che il punto x0 è un punto di flesso a tangente verticale (vedi significato geometrico
di derivata) rispettivamente “saliente” o “discendente”.

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Può capitare che non esista il limite finito del rapporto incrementale ma che esistano i limiti destro e
sinistro (finiti o infiniti) diversi fra loro. Anche in questi casi, per quanto si è detto, la funzione non
è derivabile (nel punto considerato). Si dice allora che la funzione ammette derivata destra o sinistra
o entrambe. Più precisamente se la derivata destra è −∞ e la sinistra +∞, il punto x0 si dice di
cuspide verso l’alto, se viceversa di cuspide verso il basso (vedi figura 15 e significato geometrico
di derivata); se le derivate destra e sinistra sono finite (almeno una lo sia) ma disuguali, il punto x0
si dice punto angoloso. Si può dimostrare che se una funzione è derivabile in x0 è pure ivi
continua (ma non sempre viceversa). Vedi dimostrazione in III.7.

III.4. SIGNIFICATO GEOMETRICO DI DERIVATA.

Consideriamo una funzione continua e derivabile in un certo intervallo (a, b). Il rapporto
f ( x0 + h) − f ( x0 )
incrementale lim , con x0 ∈ (a, b), rappresenta, come è noto dalla geometria
h →0 h
analitica, il coefficiente angolare o pendenza m della retta y = mx + q secante il diagramma di f (x)
nei punti A ≡ [x0 , f ( x0 )] , B ≡ [x0 + h, f ( x0 + h)] .

Vedi figura 15.

Fig. 15

Al tendere di h a zero, il punto B tende al punto A e la retta per AB da secante la curva y = f (x)
tende a diventarne la tangente nel punto A.
Pertanto y’(x0) rappresenta il coefficiente angolare della suddetta tangente.

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La figura 16 seguente presenta schematicamente i casi particolari elencati nel paragrafo precedente.

Fig. 16

Cuspide verso l’alto

Cuspide verso il basso

Punti angolosi

Flessi a tangente verticale

Il primo si chiama “flesso saliente” perché da concavità negativa (verso il basso) si passa a
concavità positiva (verso l’alto). Il secondo si chiama “flesso discendente” per analogo motivo.

56

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III.5. DIFFERENZIALE DI UNA FUNZIONE y = f(x) E SUO SIGNIFICATO


GEOMETRICO.

∆y f ( x + h) − f ( x)
Poiché, preso x interno al dominio E, il rapporto incrementale = ha per limite
∆x h
f ( x + h) − f ( x )
f’(x) per h→0, potremo scrivere = f ' ( x) + ε dove si ha: lim ε = 0 .
h h →0

Moltiplicando per h si ottiene ∆y = f ' ( x)h + εh dove εh tende a zero per h→0.
L’espressione f ' ( x)h si dice differenziale della funzione (nel punto x e con incremento h) e si
indica con df:
df = f’ (x)h . (III.5.1)

Il differenziale della variabile (unica, qui) indipendente x coincide con il suo incremento(18),
pertanto df = f’ (x)dx, da cui (notazione di Leibniz)

df dy
f ' ( x) = =
dx dx

che esprime la derivata come rapporto di differenziali.

Consideriamo la curva di equazione y = f (x) e la tangente nel punto P ≡ [x. f ( x)] e sia Q il punto
della curva di coordinate ( x + h, f ( x + h) ) , come in figura 17.

Fig. 17

TP̂M = α ; tg α = m = pendenza retta (PT).

18
N.B. Vedi più avanti derivata di y = x, par. III.8, caso 2.

57

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Dalla figura 16 si ha ∆y = MQ = MT + TQ (nel caso della figura abbiamo a che fare con valori
positivi); MT = tgα = h ⋅ tgα = hf ' ( x) .
Pertanto MT = dy , cioè il differenziale df(x) rappresenta l’incremento (positivo, negativo o nullo)
subìto dalla y al passaggio da x a x+ h calcolato sulla tangente al diagramma anziché sul
diagramma stesso.

III.6. DERIVATE E DIFFERENZIALI SUCCESSIVI.

Data una funzione y = f (x) definita in un intervallo E ed ivi derivabile e differenziabile, si può
calcolare la sua derivata y’ = f’ (x) ed il suo differenziale dy. In generale la sua derivata, che
possiamo indicare con g, sarà una g(x) cioè funzione di x e di conseguenza anche df = dy = g(x)dx.
Se g(x) è ancora derivabile e differenziabile (nel caso di funzioni di una sola variabile
differenziabilità e derivabilità sono concetti equivalenti), si potrà calcolare g’(x) e dg(x); g’(x) si
d2y
chiamerà derivata seconda di y = f (x) e si indicherà g ' ( x) = y" = f " ( x) = 2 = D 2 f ( x) = ...
dx
Il differenziale della g si chiamerà analogamente differenziale secondo della y e si indicherà con
d 2 y . Applicando successivamente lo stesso procedimento, quando ciò sia possibile, alla f (x), si
ottengono le derivate e i differenziali successivi: primi, secondi, terzi,…, ennesimi.

Esistono naturalmente funzioni infinitamente derivabili.


In generale però, come si potrebbe facilmente verificare, il campo di esistenza della derivata di una
funzione è sottoinsieme proprio del campo di esistenza della funzione primitiva. Mai un
soprainsieme (sarebbe paradossale che la derivata, “deducibile” da una f (x), esistesse anche dove
non fosse definita f (x)).

III.7. CONTINUITA’ DELLE FUNZIONI DERIVABILI.

Sussiste il seguente teorema:

Teorema [III.7.1]. Ogni funzione derivabile in un punto è continua in tale punto.

Consideriamo il rapporto incrementale relativo al punto x = x0 in cui si suppone esistente la


derivata della funzione y = f (x) in questione. Potremo scrivere

f ( x 0 + h) − f ( x0 )
= f ' ( x0 ) + ε (vedi III.5) dove è lim ε = 0 .
h h →0

Moltiplicando per h, potremo avere

f ( x0 + h) − f ( x 0 ) = [ f ' ( x0 ) + ε ]h
cioè
f ( x0 + h) = f ( x0 ) + [ f ' ( x0 ) + ε ]h .

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Facendo tendere h a zero, [ f ' ( x0 ) + ε ]h tende a zero (poiché f ' ( x0 ) assume valore finito, per
ipotesi), quindi sarà
lim f ( x 0 + h) = f ( x 0 ) , cioè(19) lim f ( x) = f ( x0 ) ,
h →0 x → x0

il che esprime che f (x) è una funzione continua in x0 , c.v.d.

Questo teorema non è invertibile, infatti vi sono funzioni che sono continue in un punto, ma non
sono in esso derivabili. Così ad esempio la funzione y = 5 − x , definita per ogni x reale minore o
uguale a 5, è continua per x ≤ 5 (continua da sinistra), ma non ha derivata nel punto x = 5. Si noti
che la causa della mancanza della derivata per x = 5 è duplice (se non vogliamo considerare derivate
“sinistre”). Infatti, per prima cosa, in x = 5, manca il limite destro del rapporto incrementale e poi –
seconda cosa – il limite sinistro è infinito:

5 − (5 − h) − 5 − 5 0+h −0 h 1
lim+ = lim+ = lim+ = lim+ = +∞ ,
h →0 h h →0 h h→ 0 h h h →0 h

dove si considerato h > 0 (infatti si è potuto più comodamente, così, costruire il limite sinistro in
questione).
Per una più immediata comprensione del fatto che il limite sinistro del suddetto rapporto
incrementale è infinito, si consideri la derivata della f (x) che è (vedi avanti al III.11):
−1
y ' = f ' ( x) = , la quale tende all’infinito per x → 5 − . Si ha un punto a tangente verticale.
2 5− x

OSSERVAZIONE IMPORTANTE. Vi sono casi di funzioni continue in un punto x0 , derivabili


nello stesso, ma con derivata discontinua in x0 (!).
Esempio di funzione continua su tutto ℜ, derivabile su tutto ℜ, con derivata discontinua in x0 = 0.

 2 1
 x sin x≠0
y = f ( x) =  x .

 0 x=0
1
f(x) è continua in x0 = 0. Infatti limm x 2 sin = 0 = f ( x 0 ) = f ( 0) .
x →0x
1 1
Calcoliamo y’ = f’(x). Per x ≠ 0 si ha y’ = 2 x sin − cos .
x x
1
h 2 sin − 0
f (0 + h) − f (0) h 1
Per x = 0 si ha: lim = lim = lim h sin = 0 . Quindi:
h →0 h h →0 h h →0 h

 1 1
2 x sin − cos x≠0
y ' = f ' ( x) =  x x ,

 0 x=0
 1 1
ma il limm  2 x sin − cos  NON ESISTE.
x →0  x x

19
N.B. Il cambiamento di variabile x = x0 + h e relativo cambio di h 0 con x x0 , è giustificato con considerazioni
utilizzate nella dimostrazione del teorema [II.7.1].

59

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III.8. DERIVATE FONDAMENTALI.

Troveremo ora, in base alla definizione, le derivate di alcune funzioni elementari, che è importante
tenere a mente (insieme ad altre che vedremo in seguito) per poter speditamente derivare vari tipi di
funzioni più complesse.

1) Sia y = c, dove c è una costante. Il rapporto incrementale assume la forma


c−c 0
= = 0,
h h
dunque anche il limite è zero. Concludendo:
la derivata di una costante è zero. In breve: D(c) = 0.

2) Sia y = x. Il rapporto incrementale è


( x + h) − x
= 1,
h
perciò anche il limite è uguale a 1, cioè D(x) = 1. Concludendo:
la derivata della variabile indipendente è uguale a 1.

Ora possiamo provare che il differenziale della variabile indipendente x è uguale a dx (quindi
h = ∆x = dx, vedasi III.5).
Sia appunto f (x) = x. Da quanto appena appreso troviamo f’ (x) = 1. Quindi dx = 1⋅ h = h, c.v.d.

( x + h) 2 − x 2 x 2 + 2hx + h 2 − x 2 h(2 x + h)
3) Sia y = x 2 . Il rapporto incrementale è = = = 2x + h ;
h h h
dunque lim(2 x + h) = 2 x . Concludendo:
h→0
la derivata della funzione y = x2 è la funzione y = 2x.

4) Caso generale di “funzione potenza” y = x n con n ∈ N, in cui rientra l’esempio (3).


Il rapporto incrementale è (binomio di Newton):

n n n


x n +   x n −1 h +   x n − 2 h 2 + ... +  h n − x n
( x + h) − x
n n
1  2 n n
= = nx n−1 +   x n − 2 h + ... + h n−1 .
h h 2

Poiché tutti i termini del polinomio ottenuto, tranne il primo, contengono il fattore h, passando al
limite per h →0, si ha: D ( x n ) = nx n−1 . Cioè:
la derivata della potenza n.esima di x è uguale ad n volte la potenza (n-1).esima di x.

In breve basta portare a fattore l’esponente e diminuire di un’unità l’esponente della potenza di x.

N.B. La suddetta regola vale anche per n non intero, ma reale qualunque, come si potrebbe
2

dimostrare. Cioè, ad esempio, la funzione y= 3


x =x
2 3
ha come derivata
2 1
2 −1 2 − 2
y' = x 3
= x 3
= (con x ≠ 0).
3 3 33 x

60

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5) Sia y = log a x con a > 0 e a ≠ 1.


Il rapporto incrementale relativo a questa funzione è

x
log a ( x + h) − log a x 1 x+h 1 x  h 1  h h
= log a = ⋅ log a 1 +  = log a 1 +  .
h h x x h  x x  x

log a ( x + h) − log a x 1
z
x  1
Se poniamo z = , otteniamo = log a 1 +  .
h h x  z

Si noti ora che, quando h tende a zero, z tende all’infinito. Risulta perciò:

x
z
 h h  1
lim1 +  = lim1 +  = e (numero di Nepero ≅ 2,718281828. Vedi II.7). Quindi:
h→0
 x h → 0
 z

log a ( x + h) − log a x 1
D (log a x ) = lim = log a e .
h →0 h x
1
Se si pone a = e, poiché log e e = ln e = 1 , si ha D (ln x) = , cioè:
x
la derivata di lnx è 1/x.

sin( x + h) − sin x
6) Sia y = sin x. Il rapporto incrementale relativo è . Usando le formule di
h
prostaferesi otteniamo.

h  h
2 sin cos x +  sin h
sin( x + h) − sin x 2  2 2 cos x + h  .
= =
h h h  2
2
Passando al limite per h →0, ricordando il teorema II.3.(4), abbiamo

h
sin
sin( x + h) − sin x 2 ⋅ lim cos x + h  = 1 ⋅ cos x = cos x . Cioè D(sinx) = cosx. Diremo
lim = lim
h →0 h h → 0 h h→0  2
2
quindi che:
la derivata di sinx è cosx.

7) Analogamente si può provare che D(cosx) = −sinx. Quindi:


la derivata di cosx è −sinx.

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III.9. TEOREMI SUL CALCOLO DELLE DERIVATE.

Teorema [III.9.1]. La derivata della somma di due funzioni (derivabili, ovviamente) è uguale
alla somma delle derivate delle funzioni stesse.

Ciò significa che se


y = f (x) + g(x), con f (x) e g(x) definite in E, è
y’ = f’ (x) + g’(x), con f’(x) e g’(x) definite in E’ ⊆ E(20)

Per la dimostrazione si osservi che è


[ f ( x + h) + g ( x + h)] − [ f ( x) + g ( x)]  f ( x + h) − f ( x) g ( x + h) − g ( x) 
lim = lim +  = (per la (1) del
h →0 h h →0
 h h 
f ( x + h) − f ( x) g ( x + h) − g ( x)
II.3) = lim + lim = f ' ( x) + g ' ( x) , c.v.d.
h →0 h h →0 h

In particolare se y = f (x) + c (c = costante) è y’ = f’ (x), cioè: una costante additiva viene


eliminata.
In modo analogo si dimostra che da y = f (x) − g(x) consegue y’ = f’ (x) − g’(x) e, più in generale,
si ha il

Corollario [III.9.1]. (Teorema III.9.1 generalizzato). La derivata della somma algebrica di


quante si vogliano(21) funzioni è la somma algebrica delle derivate delle funzioni stesse.

ESEMPI.
1°) Se y = x 5 − x 3 + x − 6 , si ha y ' = 5 x 4 − 3 x 2 + 1 .
1
2°) Se y = x 4 + ln x − 3 , si ha y ' = 4 x 3 + .
x

Teorema [III.9.2]. La derivata del prodotto di due funzioni è uguale al prodotto della prima
funzione per la derivata della seconda, aumentato del prodotto della seconda funzione per la
derivata della prima (o viceversa).

In simboli: y = f (x)g(x) implica y’ = f (x)g’(x) + f’ (x)g(x). Infatti:


∆y f ( x + h) g ( x + h) − f ( x) g ( x)
= = (aggiungendo e togliendo f ( x + h) g ( x) a numeratore) =
∆x h
g ( x + h) − g ( x ) f ( x + h) − f ( x )
= f ( x + h) + g ( x) . Si noti che f (x) è continua in x, perché ivi
h h
derivabile (vedi III.7). Passando al limite per h→0 e ricordando i teoremi sui limiti di una somma e
di un prodotto di funzioni, avremo:
∆y g ( x + h) − g ( x ) f ( x + h) − f ( x)
y ' = lim = lim f ( x + h) ⋅ lim + lim g ( x) ⋅ lim = f ( x) g ' ( x) + g ( x) f ' ( x)
∆x → 0 ∆x h →0 h→0 h h →0 h→ 0 h
che è la tesi.

Applicando questo teorema alla funzione y = cf (x), dove c è una costante, si ottiene y’ = cf’ (x),
cioè si ha il
20
N.B. D’ora in poi sottintenderemo verificate queste condizioni per tutte le funzioni considerate, anzi supporremo le
suddette funzioni derivabili almeno in tutto un intervallo (aperto, in genere) contenuto in E. I teoremi varranno, dunque,
in tutto un intervallo e non solo in un punto.
21
N.B. Il teorema è dimostrabile anche per un’infinità (di addendi) numerabile di funzioni.

62

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Corollario [III.9.2]. La derivata del prodotto di una costante per una funzione è uguale al
prodotto della costante per la derivata della funzione.

ESEMPI.
1°) Se y = 7x 4 , si ha: y ' = 7 ⋅ 4 ⋅ x 4 = 28 x 3 .
2°) Se y = (4 x 2 + 3 x − 5)(8 x 3 − 11x + 2) si ha:
y ' = (8 x + 3)(8 x 3 − 11x + 2) + (4 x 2 + 3 x − 5)(24 x 2 − 11) .

Il teorema [III.9.2] si estende facilmente al caso del prodotto di qualsivoglia (vedi nota 13) numero
di funzioni. Per esempio se

y = f ( x) g ( x)r ( x) p ( x) , si ha
y ' = f ' ( x ) g ( x ) r ( x ) p ( x ) + f ( x ) g ' ( x ) r ( x ) p ( x ) + f ( x ) g ( x) r ' ( x ) p ( x ) + f ( x ) g ( x ) r ( x ) p ' ( x ) .

In generale si ha il

Corollario [III.9.3]. La derivata del prodotto di più funzioni è uguale alla somma dei prodotti
della derivata di ciascuna funzione per tutte le altre.

ESEMPIO. Se y = x 2 ln x ⋅ (3 x − 7) , si ha:
1
y ' = 2 x ⋅ ln x ⋅ (3 x − 7) + x 2 ⋅ ⋅ (3 x − 7) + x 2 ⋅ ln x ⋅ (3) = (3 x 2 − 14 x) ln x − 3 x 2 + 7 x .
x

Teorema [III.9.3]. La derivata del quoziente di due funzioni (con denominatore non nullo nei
punti in cui si calcola la derivata) è uguale ad una frazione che ha per denominatore il
quadrato del denominatore e per numeratore il prodotto del denominatore per la derivata del
numeratore diminuito del prodotto del numeratore per la derivata del denominatore.

Cioè, in simboli più chiari e sintetici:


f ( x) f ' ( x) g ( x) − f ( x) g ' ( x)
se abbiamo y = (( g ( x) ≠ 0) , si trova: y' = .
g ( x) g 2 ( x)
Infatti il rapporto incrementale è:

∆y 1  f ( x + h) f ( x)  1  f ( x + h) g ( x) − f ( x) g ( x + h) 
= − = =
∆x h  g ( x + h) g ( x)  h  g ( x + h) g ( x ) 

(togliendo e aggiungendo f ( x) g ( x) nel numeratore)

1 f ( x + h ) g ( x ) − f ( x ) g ( x ) + f ( x ) g ( x ) − f ( x ) g ( x + h)
= ⋅ =
g ( x + h) g ( x) h
1  f ( x + h) − f ( x ) g ( x + h) − g ( x) 
= ⋅  g ( x) − f ( x) .
g ( x + h) g ( x)  h h 

Passando al limite per h→0, poiché lim g ( x + h ) = g ( x ) (perché la funzione g(x) è


h→ 0

derivabile in x e quindi continua), si ha:

63

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g ( x) f ' ( x) − f ( x) g ' ( x)
y' = , che è la tesi.
g 2 ( x)

1 − g ' ( x)
In particolare se f (x) = 1 e quindi f’ (x) = 0, da y = , si ottiene y = 2 , cioè si ricava il
g ( x) g ( x)
Corollario [III.9.4]. La derivata della reciproca di una funzione è uguale ad una frazione
avente per denominatore il quadrato del della funzione stessa e per numeratore l’opposto
della derivata della funzione data.

ESEMPI:
3x + 6 3(2 x + 1) − 2(3 x + 6) −9
1°) Se y = , si ottiene y ' = = .
2x + 1 (2 x + 1) 2
(2 x + 1) 2
1 −2
2°) Se y = , si ottiene y' = .
2x − 5 (2 x − 5) 2

III.10. DERIVATA DI FUNZIONE COMPOSTA.

Sappiamo, dal I.9, che le funzioni composte sono funzioni di funzioni, cioè corrispondenze del tipo
z = g [ f (x)] , dove f e g sono funzioni definite come in I.9.
Sia perciò y = f (x) e dunque z = g(y). Come sappiamo, ad un valore di x corrisponde un valore di y
e a questo valore di y corrisponde un valore di z. Vogliamo trovare una regola che ci permetta di
calcolare la derivata di z rispetto ad x.

Analogamente alla formula (vedi III.5)

(III.10.1) ∆y = f ' ( x)h + εh , dove lim ε = 0 ,


h →0

corrispondentemente ad un incremento ∆x = h della variabile indipendente x, varrà un’altra formula


del tipo

(III.10.2) ∆z = g ' ( y )∆y + ε 1 ∆y , dove lim ε 1 = 0 .


∆y → 0

Si noti che quando h tende a zero, anche ∆y tende a zero.


Sostituendo nella (III.10.29 l’espressione di ∆y data dalla (II.10.1), si trova:

(II.10.3) ∆z = g ' ( y )[ f ' ( x)h + εh] + ε 1 [ f ' ( x)h + εh] = g ' [ f ( x)] f ' ( x)h + {g ' [ f ( x)]ε + f ' ( x)ε 1 + ε 1ε }h ,

dove l’espressione racchiusa in parentesi graffa è una funzione tendente a zero per h→0. Dunque è

∆z ∆z
z ' ( x) = lim = lim = g ' [ f ( x )] f ' ( x ) = g ' ( y ) f ' ( x ) = z ' ( y ) y ' ( x ) .
h →0 h ∆x →0 ∆x

Concludendo, si ha l’affermazione seguente.


La derivata di z rispetto ad x è uguale al prodotto della derivata di z rispetto ad y per la
derivata di y rispetto ad x.

64

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A questo risultato si può giungere (molto più velocemente!) anche considerando la derivata come
rapporto di differenziali (vedi III.5), cioè

df dy
f ' ( x) = = (notazione, genialissima, dovuta come si è già detto a Leibniz)
dx dx

dy
Si osservi che il simbolo , per come è stato qui introdotto, ha il significato di vero e proprio
dx
rapporto. In virtù di ciò potremo scrivere:

dz dz dy
z ' ( x) = = ⋅ , che corrisponde pienamente alla conclusione testè tratta.
dx dy dx

La regola ora trovata si estende immediatamente al caso più generale in cui la dipendenza di z da x
sia data per tramite di un numero qualunque (vedi nota 13 del III..9) di funzioni intermedie.
Così, se si ha
z = h(u ) , u = g ( y ) , y = f (x) ,
allora z è funzione di x per tramite di u e di y e si ha:
z ' ( x) = h' (u ) g ' ( y ) f ' ( x) .
ESEMPI.
1°) Quale primo esempio vogliamo riportare il caso della funzione relativa all’”osservazione”
del I.9 (come là promesso)
Sia dunque: y = (3 x 2 − 11x + 57) 4 .
La struttura è quella di una y = g [ f (x)] in cui è z = f (x) . Più chiaramente, si può pensare a:
y = z 4 e z = 3 x 2 − 11x + 57 .
Sappiamo, dalla teoria finora svolta, che sarà:
y ' ( x) = y ' ( z ) z ' ( x) , cioè y ' ( z ) = 4 z 3 e z ' ( x) = 6 x − 11 . Dunque sarà:
y ' = 4(3 x 2 − 11x + 57) 3 (6 x − 11) .
4x
2°) Sia ln(2 x 2 − 7) . Sarà pure: y ' = 2 .
2x − 7

III.11. DERIVATA DI FUNZIONE INVERSA.

dy dy 1
Tenendo ancora presente la notazione f ' ( x) = , si può ottenere = e, ricordando la
dx dx dx
dy
definizione di funzione inversa (vedi I.8), si ha il

Teorema [III.11.1]. La derivata di una funzione inversa (rispetto ad x) è uguale al reciproco


della derivata della funzione data (rispetto ad y).

−1 −1
Naturalmente il teorema vale per f ( y ) ≠ 0 , dove f è la funzione inversa di f , e ai sensi del
III.9.

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Un modo più compiuto (o più “classico”) per dimostrare il precedente teorema è il seguente.

−1
Sia y = f (x) una funzione che, nell’intervallo (a, b) ammette la sua inversa x = f ( y ) . Per motivi
di sintesi e per non far confusione con gli apici, porremo f −1 = F.
Se diamo ad x un incremento ∆x, la y subirà un incremento relativo

∆y = f ( x + ∆x) − f ( x)

Poiché f ( x) è derivabile, f ( x) è pure continua, cioè:

lim ∆y = lim [ f ( x + ∆x) − f ( x)] = f ( x) − f ( x) = 0 (III.11.1)


∆x →0 ∆x → 0

Viceversa, se diamo un incremento ∆y ad y, la x subirà l’incremento

∆x = F ( y + ∆y ) − F ( y ) .

Sempre nell’ipotesi che y = f (x) sia derivabile, si può dimostrare che anche x = f −1 ( y ) = F ( y ) lo
è in un opportuno intervallo (basti pensare alla simmetria dei loro grafici rispetto alla retta y = x).
Dall’identità

∆x 1
=
∆y ∆y
∆x
si ottiene, per ∆x tendente a zero:

∆x 1
lim = lim .
∆x →0 ∆y ∆x → 0 ∆y

∆x
Ma, per la (III.11.1), si ha pure:

∆x 1 F ( y + ∆y ) − F ( y ) 1 1
lim = , cioè lim = = .
∆y →0 ∆y ∆y ∆y →0 ∆y f ( x + ∆x) − f ( x) f ' ( x)
lim lim
∆y → 0 ∆x ∆x → 0 ∆x

Quindi, estendendo il limite del rapporto incrementale relativo alla funzione x = F ( y ) , si può
concludere che tale funzione è derivabile e, precisamente

1
F ' ( y) = , c.v.d.
f ' ( x)

La validità di questo teorema si può constatare tramite l’osservazione dei grafici della funzione
y = f (x) e della sua inversa y = f −1 ( x) = F ( x) . Ecco un esempio in figura 18, in cui si è
considerato y = f ( x) = ln x e y = f −1 ( x) = F ( x) = e x . Si tenga sempre presente lo scambio tra
variabile indipendente e variabile dipendente ai sensi del I.8.

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Fig. 18

Coerentemente a quanto detto, qui le due funzioni sono espresse mediante x come variabile
indipendente e y come variabile dipendente (funzione). Infatti solo così si può ottenere la succitata
simmetria dei due grafici rispetto alla retta y = x (sennò essi risulterebbero, in opportuni intervalli,
coincidenti!).

Si osservi dalla figura 18 che AH = ∆x e BH = ∆y = ∆f per la funzione “diretta” f, mentre


H' B' = ∆x e A' H' = ∆F per la funzione “inversa” F. Poiché, per ragioni di simmetria,
considerando le opportune corrispondenze, si ha AH ≅ A' H' e BH ≅ B' H' , segue che i rapporti
incrementali delle due funzioni, costruiti a partire da punti in corrispondenza (cioè xf → f(x) = xF);
xf = OR = OR' ; f(x) = xF ; [x + ∆x] f = OS = OS' → S' B' , ecc.), sono uno l’inverso dell’altro. Infatti:

BH 1
= , c.v.d.
AH A' H'
B' H'

ESEMPI.

1°) Sia data la funzione y = n x , la cui inversa è x = y n . Si ha

( )
y' = D n x =
1
( )
n
1
= n −1 =
1
.
D y ny n n x n −1
1
In particolare se y = x , si ha y ' = .
2 x

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OSSERVAZIONE. Poiché si può scrivere

1 1− n 1
1 1 1 1 −1
y= n
x=x , n
si ha y' = = n −1
= x n
= xn ,
n n x n −1 n n
nx n
quindi si vede che la regola di derivazione delle potenze con esponente intero, positivo o negativo,
vale anche per le potenze con esponente frazionario (si potrebbe dimostrare che la suddetta regola
vale per ogni esponente reale).
4 4 1
4 −1 4 − 4
Così, in particolare, se y = x 5 , si ha y ' = x 5 = x 5 = 5 .
5 5 5 x
m
mn x m
In generale, perciò, se y = x n , si ha y ' = , come si può verificare.
nx

1 1
2°) Sia y = e x e quindi x = ln y , si ha y ' = D(e x ) = = = y = ex .
D(ln y ) 1
y
Perciò la funzione y = e x ammette se stessa come derivata. Ovviamente ciò succede anche per tutte
le sue derivate successive.
Analogamente, se y = a x (a > 0, a ≠ 1) e quindi x = log a y , si ha

1 1
y ' = D(a x ) = = = y ln a = a x ln a .
D(log a y ) 1
y ln a

III.12. DERIVAZIONE LOGARITMICA.

In molti casi è utile la seguente regola, per una funzione f(x) che, in un punto x, sia positiva e
derivabile(22).
Posto y = f(x), si avrà: ln y = ln f ( x) (in x ed anche in un intorno sufficientemente piccolo di x).
Perciò:

D(ln y ) =
f ' ( x)
e quindi
f ( x)

f ' ( x) = f ( x) ⋅ D[ln f ( x)] (III.12.1)

Applicazione. Si voglia derivare la funzione y = (3 x 2 + 7) ( 2 x −3) . Per la (III.12.1) si ha:

[ ] [ ]
y ' = (3 x 2 + 7) ( 2 x −3) ⋅ D ln(3 x 2 + 7) ( 2 x −3) = (3 x 2 + 7) ( 2 x −3) ⋅ D (2 x − 3) ⋅ ln(3 x 2 + 7) , da cui

22
N.B. Interessa in realtà solo che, nel punto considerato, sia f(x) ≠ 0. Infatti, per il teorema della permanenza del
segno, sotto quell’ipotesi, f(x) si manterrà di segno costante in tutto un intorno di detto punto. Qualora la f(x) fosse, in
tale intorno, sempre negativa, basterebbe applicare la regola della derivazione logaritmica alla funzione opposta − f(x).

68

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 1 
y ' = (3 x 2 + 7) ( 2 x −3) ⋅ (2 x − 3)(6 x) ⋅ + 2 ln(3 x 2 + 7) =
 3x2 + 7 
12 x − 18 x
2

= (3 x 2 + 7) ( 2 x −3)  + 2 ln(3 x 2 + 7),
 3x + 7
2

dove si sono applicati i teoremi e le regole di derivazione fin qui imparati.

III.13. PROSPETTO RIASSUNTIVO DELLE PRINCIPALI FUNZIONI CON LE


LORO DERIVATE.

Funzioni Derivate
y= c (costante) y’ = 0
y = xn y’ = nxn-1
y = sin x y’ = cos x
y = cos x y’ = − sin x
y = tg x 1
y’ = = 1 + tg 2 x
cos 2 x
= −(1 + cotg 2 x )
y = cotgx 1
y’ = − 2
sin x
y= x 1
y’ =
2 x
n n
y= x 1 x
y’ = =
n n −1 nx
n x
y= n
x m
mn x m m
y’ = =
nx n n x n−m
y = log a x (a > 0, a ≠ 1) 1 1
y’ = log a e = (a > 0, a ≠ 1)
x x ln a
y = ln x 1
y’ =
x
y = ax (a > 0, a ≠ 1) ax
y’ = a x ln a = (a > 0, a ≠ 1)
log a e
y = ex y’ = e x
y = arcsin x 1
y’ =
1− x2
y = arccos x 1
y’ = −
1− x2
y = arctgx 1
y’ =
1+ x2
y = arccotgx 1
y' = −
1+ x2
NOTA. f ' ( x) = f ( x) ⋅ D[ln f ( x)] , infatti è: D[ln f ( x)] =
f ' ( x)
, con f(x) > 0.
f ( x)

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III.14. REGOLA DI DE L’HOSPITAL (o di DE L’H Ô PITAL).

Nel II.6 abbiamo accennato alle forme indeterminate ed abbiamo preannunciato una regola
generale che serve a determinare (quando applicabile!) il limite (se esiste) di una funzione che si
0 ∞
presenta sotto forma indeterminata oppure .
0 ∞
Ecco la regola (di Guillaume F. de L’Hospital, 1661-1704).
Siano f(x) e g(x) due funzioni continue nell’intervallo (a, b), le quali si annullino entrambe per
x = c, cioè sia f(c) = 0 e g(c) = 0. Si vuole ricercare il
f ( x)
lim ,
x→c g ( x)

notando che se si applicasse il criterio del limite di un quoziente, si giungerebbe alla forma
0
indeterminata .
0
Supporremo che esistano le derivate prime di f(x) e di g(x), che queste siano continue nel punto c e
che sia g’(x) ≠ 0 in tutti i punti di (a, b).
Dimostreremo che risulterà

f ( x) f ' ( x)
(III.14.1) lim = lim ,
x →c g ( x ) x →c g ' ( x )

cioè, se esiste il limite del rapporto delle loro derivate, allo stesso limite tende il rapporto delle
due funzioni.

OSSERVAZIONE PRELIMINARE. Il teorema suddetto è valido anche con ipotesi più restrittive.
Ad esempio è valido anche per limiti unilaterali (destri o sinistri) e funziona pure se le due funzioni
tendono entrambe (o solo quella a denominatore!) all’infinito. Vale persino senza l’ipotesi di
continuità di g’(x).
Noi lo dimostreremo usando le ipotesi sopra formulate, poiché sarà ben semplice farlo in questa
maniera e, d’altro canto, avremo a che fare soprattutto con funzioni che soddisferanno le succitate
ipotesi(23).

Dimostriamo ora la (III.14.1).


Si consideri un intorno del punto c: i punti di tale intorno si possono indicare, come è ovvio, con
x = c + h (h sarà generalmente “piccolo”), perciò

f ( x) f (c + h )
lim = lim .
x →c g ( x ) h → 0 g (c + h )

Poiché, per ipotesi, si ha f(c) = g(c) = 0, si ottiene l’identità:

f (c + h ) − f ( c )
f (c + h ) f ( c + h ) − f (c ) h
= = e, passando al limite per h→0,
g (c + h ) g ( c + h ) − f (c ) g ( c + h ) − g (c )
h

23
N.B. Per un approfondimento dell’argomento consigliamo di consultare:
- T. Viola: “Lezioni di analisi matematica”, vol. I, ed. Levrotto & Bella, Torino (1971).
- F. G. Tricomi: “Lezioni di analisi matematica”, vol. I, ed. CEDAM, Padova (1965).

70

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f ( x) f (c + h ) f ' (c )
lim = lim = .
x→c g ( x) h → 0 g (c + h ) g ' (c )

Siccome f’(x) e g’(x) sono, per ipotesi, funzioni continue in c, si ha ancora:

f ' ( x ) f ' (c ) f ( x) f ' ( x)


lim = , ed infine: lim = lim che è la (III.14.1), c.v.d.
x→c g ' ( x ) g ' (c) x → c g ( x) x → c g ' ( x)

f ' ( x) 0
Può avvenire che il limite del rapporto si presenti anch’esso sotto la forma indeterminata .
g ' ( x) 0
In questo caso (se le premesse lo consentono) si applicherà nuovamente la regola di L’Hospital
ottenendo quindi:

f ( x) f ' ( x) f " ( x)
lim = lim = lim ;
x→c g ( x) x → c g ' ( x) x → c g " ( x)

a così via finché si giungerà ad un limite determinato.


Abbiamo già avvertito che il teorema vale anche per la forma indeterminata . Vediamone una

semplice dimostrazione.
f ( x) ∞
Supponiamo quindi che il lim si presenti sotto la forma .
x→c g ( x) ∞
1
g ( x) 0
Consideriamo allora il lim , il quale si presenterà sotto la forma indeterminata .
x→ c 1 0
f ( x)
1 1
Supponiamo che le funzioni e soddisfino le ipotesi del teorema. Si noti che, poiché f(x) e g(x)
f g
1 1
tendono all’infinito per x→c, e tendono a zero per x→c. Si potrà dunque prolungare
f ( x) g ( x)
1 1
per continuità le funzioni e nel punto x = c ponendole uguali a zero, cioè al loro limite: sarà
f g
così soddisfatta una parte dell’ipotesi suddetta. Si potrà allora scrivere:

1
f ( x) g ( x)
lim = lim = (per il teorema prima dimostrato)
x →c g ( x ) x →c 1
f ( x)

g ' ( x)

g 2 ( x) g ' ( x ) f 2 ( x)  g ' ( x) f ( x) f ( x) 
= lim = lim 2 = lim  ⋅ = (per un noto teorema sui limiti)
x →c f ' ( x) x →c g ( x) f ' ( x) x →c  g ( x) f ' ( x) g ( x) 
− 2
f ( x)

71

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g ' ( x) f ( x) f ( x)
= lim ⋅ lim .
x →c g ( x) f ' ( x) x → c g ( x)

Dal confronto fra il primo e l’ultimo membro dell’uguaglianza (vera, per il teorema, qualunque sia
il limite) si ha:

g ' ( x) f ( x) f ( x) f ' ( x)
lim = 1 , da cui: lim = lim , che è quanto si voleva dimostrare, riguardo al
x →cg ( x) f ' ( x) x → c g ( x) x → c g ' ( x)

teorema di L’Hospital, nel caso della forma indeterminata .

N.B. L’esistenza del limite del rapporto delle derivate è essenziale per il teorema (III.14.1). Infatti
potrebbe esistere il limite del rapporto delle funzioni senza che esista il limite del rapporto delle loro
derivate. (Vedi esempio 5° dei seguenti, il quale evidenzia la “non invertibilità” del teorema).

ESEMPI.
5x 3 − 8x 2 + 4 x − 1
1°) Si debba calcolare il limite per x→1 del rapporto che si presenta sotto
x 2 − 3x + 2
la forma 0/0 e che già abbiamo trovato nell’esempio 1° del II.6. Là siamo dovuti ricorrere ad artifici
algebrici: vediamo ora come è generalmente più semplice e sbrigativo servirsi del teorema sopra
dimostrato. Sarà
5x 3 − 8x 2 + 4x − 1 15 x 2 − 16 x + 4 15 − 16 + 4
lim = lim = = −3 .
x →1 x 2 − 3x + 2 x →1 2x − 3 2−3

2°) Si voglia calcolare il


ex − x −1 ex −1
lim = lim , il quale però è ancora della forma 0/0.
x →0 3x 2 x →0 6 x

Riapplicando la regola di L’Hospital, si otterrà


ex −1 ex 1
lim = lim = .
x →0 6 x x→0 6 6

3°) Sia da calcolare


5x 2 + 7 x − 3
lim 2 , che si presenta sotto al forma ∞/∞. Applicando la nostra regola si avrà
x → ∞ 4 x − x + 67

5x 2 + 7 x − 3 10 x + 7 10 5
lim 2 = lim = lim = , come si può ricavare in modo analogo all’es. 3° del
x → ∞ 4 x − x + 67 x →∞ 8 x − 1 x →∞ 8 4
III.6.
Alla luce del precedente risultato, con ovvie generalizzazioni, si può ricavare la seguente regola:

“Il limite, per x → ∞, di una frazione avente per numeratore e denominatore dei polinomi
dello stesso grado è uguale al valore (finito) del quoziente dei rispettivi monomi aventi le
potenze di grado massimo (della variabile x)”.

Nell’esempio sopra proposto i polinomi in questione erano di 2° grado, per cui si è ottenuto:

5x 2 5
= .
4x 2 4

72

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OSSERVAZIONE. Se il grado del numeratore fosse stato maggiore di quello del


denominatore, la frazione avrebbe avuto per limite ∞; in caso contrario il limite sarebbe stato
zero.

4°) Può accadere di trovare la forma 0 ⋅ ∞ : questa forma la si può ricondurre a 0/0 oppure ∞/∞
e dunque applicare la regola dell’Hospital. Si voglia ad esempio:

 1 
lim+ ( x − 2) 2 ln  che si presenta come 0 ⋅ ∞ . Si può scrivere però:
x→ 2  x −2
lim+ ( x − 2) 2 ln
 1 
[ ]
 = lim+ − ( x − 2) ln( x − 2) = − lim+
2 ln( x − 2)
, il quale limite si presenta sotto
x→ 2  x − 2  x→2 x→2 1
( x − 2) 2
la forma di ∞/∞ e dunque è possibile applicare la regola dell’Hospital (poiché le funzioni che
abbiamo soddisfano le condizioni della regola stessa). Si ha perciò
1 1
ln( x − 2) ( x − 2) 2
− lim+ = − lim+ x − 2 = lim+ x − 2 = lim+ = 0.
x→2 1 x→ 2 2( x − 2) x → 2 2 x→2 2

( x − 2) 2 ( x − 2) 4 ( x − 2) 3

f ( x) 3 x + sin x ∞
5°) Si consideri y = = . Quando x→∞ si ha la forma di indecisione , ma il
g ( x) x − cos x ∞
f ( x)
teorema di De l’Hospital non è applicabile per calcolare il limite di .
g ( x)
f ' ( x) 3 + cos x
Infatti = non ammette limite per x→∞.
g ' ( x) 1 + sin x

N.B. La non applicabilità della regola suddetta è dovuta, nella fattispecie, anche al fatto che g’(x) =
1 + sin x si annulla infinite volte in ogni intorno di +∞ (e di −∞), cioè ∀|x| > M (M positivo grande
a piacere), contro le ipotesi sperate.

3 + cos x
Per calcolare il lim si può operare come segue:
x →∞ 1 + sin x

sin x
3+
3 x + sin x x = 3 , oppure, col teorema del confronto, osservare che se x è “molto
lim = lim
x → ∞ x − cos x x →∞ cos x
1−
x
3 x − 1 3 x + sin x 3 x + 1
grande” e positivo, < < . Analogamente per x negativo.
x +1 x − cos x x −1

3 x + sin x
Quindi anche lim = 3.
x→∞ x − cos x

73

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III.15. CONDIZIONE SUFFICIENTE DI DERIVABILITA’ IN UN PUNTO.

Il teorema di De L’Hospital permette di dimostrare il teorema seguente.

Teorema [III.15.1]. Sia f (x) una funzione continua in un intorno di I di x0 e derivabile in ogni
punto dell’intorno stesso escluso al più x0 . Se esiste finito, per x→ x0 , il limite di f‘(x), allora la
funzione f (x) è derivabile in x0 e risulta

f ' ( x0 ) = lim f ' ( x) .


x→ x0

Dim.
Consideriamo le funzioni h( x) = f ( x) − f ( x 0 ) e g ( x) = x − x 0 . Esse verificano le ipotesi del
teorema dell’Hospital. Infatti sono continue in tutto I e sono derivabili in I ad esclusione al più del
valore x0 . E’ pure g ' ( x) = 1 ≠ 0 , ∀x ∈ I . Avremo

h( x ) f ( x) − f ( x0 ) ∆f  0 
lim = lim = lim =   , essendo f (x) continua in x0 .
x → x0 g ( x ) x → x0 x − x0 ∆x → 0 ∆x
0

f ( x) − f ( x0 )
Ma è pure, per definizione di derivata in un punto, lim = f ' ( x0 )
x → x0 x − x0

Inoltre il limite del rapporto delle derivate

h' ( x) f ' ( x)
lim = lim = lim f ' ( x) esiste per ipotesi.
x → x0 g ' ( x) x → x 0 1 x → x0

Essendo soddisfatte tutte le ipotesi del teorema dell’Hospital, possiamo scrivere

h( x ) h' ( x ) f ( x) − f ( x0 )
lim = lim ⇒ lim = lim f ' ( x) = f ' ( x0 ) , c.v.d.
x → x0 g ( x ) x → x0 g ' ( x ) x → x0 x − x0 x → x0

OSSERVAZIONE. Nelle ipotesi del teorema [III.15.1], la derivata è pure continua in x0.

Si noti infine che il teorema esprime una condizione sufficiente, ma non necessaria per la
derivabilità; infatti se non fossero soddisfatte le ipotesi del teorema, la funzione potrebbe
ugualmente essere derivabile nel punto considerato. Vedasi in proposito l’“OSSERVAZIONE
IMPORTANTE” del III.7.

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III.16. RETTA TANGENTE AD UNA CURVA DI EQUAZIONE y = f(x).


Si ricordi che la pendenza (o coefficiente angolare) della tangente geometrica alla curva di
equazione y = f (x) è la derivata f’(x) di f (x) (vedi III.4).
Lasciando indeterminato il valore di x la derivata f’(x) si intende calcolata in un punto generico,
ma se si vuole la pendenza della retta tangente in un punto determinato di ascissa x0 si deve
sostituire x0 al posto di x nella f’(x), cioè considerare il valore f ' ( x0 ) .
Rammentiamo che l’equazione di una retta (non verticale) passante per un punto fisso (fascio
“proprio”) di coordinate ( x0 , y 0 ) e di coefficiente angolare m è
y − y 0 = m( x − x 0 ) .
Perciò, se abbiamo la curva di equazione y = f (x), il suo punto P di ascissa x0 avrà come ordinata
f ( x0 ) . La pendenza della tangente in P sarà m = f ' ( x0 ) . Quindi l’equazione di detta tangente
(sempre escluso il caso di retta verticale) sarà:

y − f ( x0 ) = f ' ( x 0 ) ⋅ ( x − x 0 ) .

x +1
ESEMPIO. Si abbia la curva di equazione y = e si voglia trovare la retta che le è tangente
3x − 2
nel punto di ascissa 1.
L’ordinata di tale punto è y(1) = 2 (come si trova con facili calcoli). La pendenza della tangente
cercata è m = y’(1).
3 x − 2 − 3( x + 1) −5
Calcoliamo: y ' ( x) = f ' ( x) = = .
(3 x − 2) 2
(3 x − 2) 2
Dunque m = y’(1) = −5. In definitiva:

y – 2 = –5(x – 1), cioè y = –5x + 7, che è l’equazione della tangente cercata.

N.B. Nel caso di tangenti verticali capiterà di notare che il limite della derivata per x che tende a x0
è infinito. Si voglia per esempio trovare la tangente nell’origine degli assi alla curva di equazione
1
y = 3 x . La derivata y ' = non esiste per x = 0 ed il suo limite, per x 0, è +∞.
3 x2
3

La tangente in O(0, 0), come è palese, esiste, ma è verticale come dimostra il limite di y’: è l’asse y.
Il punto O è un punto di flesso verticale per la curva. Vedi figura 19.

Fig. 19

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Cap. IV − STUDIO DI FUNZIONE REALE DI VARIABILE REALE.

IV.1. INTRODUZIONE.

“Studiare” una funzione reale di variabile reale significa determinarne i punti di carattere particolare
al fine di tracciarne un diagramma cartesiano che ne mostri l’andamento qualitativo.
Tali punti sono, ad esempio, gli estremi del campo di definizione, i punti estremanti (massimi e
minimi relativi e assoluti), punti di flesso(24), ecc.
Essi sono gli estremi di intervalli all’interno dei quali la funzione ha un andamento caratteristico
(crescenza, decrescenza, concavità, ecc.) che può essere visualizzato graficamente. Tale
visualizzazione rappresenta lo scopo ultimo dello studio di funzione.

IV.2. CAMPO DI ESISTENZA.

La determinazione del campo di esistenza (o dominio), come si sa ( I.1, I.2, I.3), consiste nel
determinare l’insieme dei punti x ∈ ℜ per i quali l’espressione analitica della funzione conserva
significato ed assume un valore y ∈ ℜ. Ecco alcuni esempi.

x2 +1
1) La funzione y = perde significato nel punto x = 1 poiché ivi si annullerebbe il
x −1
denominatore del rapporto che rappresenta la f (x).
In tutti gli altri punti (= numeri) reali la funzione ha un ben preciso [unico] valore. Il campo di
esistenza sarà quindi l’insieme:

E = {x ∈ ℜ / x ≠ 1} , cioè E = (−∞, 1) ∪ (1, +∞) .

2) Sia y = ln( x − 2) , essa sarà definita per x > 2 poiché il logaritmo assume valori reali se il suo
argomento è strettamente positivo. Sarà dunque E = {x ∈ ℜ / x > 2} , cioè E = (2, +∞).

IV.3. INTERSEZIONI CON GLI ASSI E SEGNO.

E’ utile, studiando una funzione, determinare gli eventuali punti di intersezione del grafico di f (x)
con gli assi coordinati. La determinazione di tali punti ci permette sia di conoscere
quantitativamente alcuni valori della funzione (gli zeri ed il punto di coordinate (0, k)), sia di
determinare gli intervalli di positività e di negatività della funzione di cui gli zeri sono in generale
gli estremi. Per la determinazione degli zeri si risolve il sistema

 y = f ( x)

y = 0

24
N.B. Vedi oltre IV.6 e IV.7, nonché fig. 16 (ultimi grafici).

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Per la determinazione dell’intersezione con l’asse delle ordinate si risolve il sistema

 y = f ( x)

x = 0

che dà come equazione risolvente y (0) = f (0) = k .

ESEMPI.
 2 2 
1) y = 3 x − 2 , con E =  x ∈ ℜ / x ≥  , ammette per zeri il punto  ,0  ; non ha
 3 3 
intersezioni reali con l’asse y .

2) y = x 2 + 10 x + 16 , con E = {x ∈ ℜ} = ℜ , ammette per zeri i punti di ascisse x = 2 e x = 8;


come intersezione con l’asse y il punto (0, 16).

La funzione di cui all’esempio 1), essendo espressa da una radice quadrata intesa in senso
aritmetico, è sempre non negativa, per cui il suo grafico sarà contenuto nel semipiano positivo delle
2 
ordinate salvo toccare l’asse delle ascisse nel solo punto  ,0  .
3 
La funzione di cui all’esempio 2) è positiva per x < 2 ∨ x > 8, conclusione a cui si può giungere
risolvendo la disequazione x 2 + 10 x + 16 > 0.

IV.4. SIMMETRIE E PERIODICITA’.

La determinazione della parità o disparità di una funzione (vedi I.7) permette di limitare lo studio
del suo grafico ai soli valori non negativi della x, in quanto la restante parte risulta un’immagine
speculare rispetto all’asse y o, rispettivamente, simmetrica rispetto all’origine.

Ad esempio la funzione y = sin x presenta un grafico simmetrico rispetto all’origine, è cioè una
funzione dispari.
La funzione y = x sin x è una funzione pari e perciò presenta un grafico simmetrico (o speculare)
rispetto all’asse y.

Spesso la simmetria si presenta rispetto ad una retta parallela all’asse delle ordinate: ad esempio la
funzione y = ax 2 + bx + c presenta una simmetria speculare rispetto alla retta di equazione
b b
x=− : ciò permette di limitare lo studio ai valori x ≥ − .
2a 2a

Anche la determinazione dell’eventuale periodicità della funzione permette di limitarne lo studio ad


un solo intervallo (di periodicità) dal momento che il grafico si ripete, sia a destra che a sinistra di
tale intervallo, in maniera perfettamente identica.

Esempio: la funzione y = ln sin x ha periodo 2π, per cui, determinato nel grafico, ad esempio per
l’intervallo −π < x < π, l’andamento della funzione si ripete in maniera identica sia per x < −π sia
per x > π. Vedi figura 20.

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Fig. 20

IV.5. COMPORTAMENTO DELLA FUNZIONE AGLI ESTREMI DEL CAMPO DI


ESISTENZA.

Sia x = c (finito od infinito) il generico estremo del campo di esistenza. Il comportamento della
funzione nell’intorno del suddetto punto si deduce calcolando gli eventuali limite destro e sinistro
della f (x) per x→c. Si possono presentare i seguenti casi:

a) c finito.

lim f ( x) = +∞ e lim f ( x) = −∞ o viceversa;


x→c − x→c +

oppure

lim f ( x) = +∞ o lim f ( x) = −∞
x→c ± x→c ±

oppure ancora esiste un solo limite infinito.

Come si sa dal II.1, si dirà che la funzione ammette in c un asintoto verticale (bilaterale o,
rispettivamente, unilaterale) ed il suo diagramma assume, nell’intorno del suddetto punto (= valore,
numero), una configurazione simile ad una di quelle in figura 21.

78

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Fig. 21

b) Può capitare il caso in cui lim f ( x) = k (con k finito) oppure lim f ( x) = h (con h finito)
x → +∞ x → −∞
oppure entrambi i casi (con eventualmente k = h). In queste condizioni si dice che la funzione
ammette un asintoto orizzontale (unilaterale o, rispettivamente, bilaterale), cioè il suo grafico
assume una configurazione simile ad una di quelle illustrate in figura 22. Ciò è noto sempre dal II.1.

Fig. 22

Da quanto si è detto finora risulta evidente che quando si dice che una funzione ammette un asintoto
significa affermare che il suo grafico si avvicina indefinitamente all’asintoto stesso (che è una retta)
per x tendente a c (con c estremo del dominio(25) e suo punto di accumulazione).

Ci possiamo chiedere se esiste una retta generica (intendiamo, qui, né orizzontale né verticale) a cui
può tendere la curva per x tendente a ±∞. Se questo succede la retta si chiama asintoto obliquo ed
è del tipo y = mx + q con m e q finiti.

25
N.B. In genere c non appartiene al dominio ed è l’estremo di un intervallo sulla retta reale o è punto all’infinito. Vedi
esempi.

79

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Si può osservare che la retta asintoto obliquo (come del resto anche gli altri tipi di asintoti, come si
è evidenziato) rappresenta la tangente alla curva all’infinito.

Per determinare m e q si può procedere come segue: dovrà essere lim [ f ( x) − mx − q ] = 0 . Più
x → ±∞

correttamente si dovrebbero subito distinguere i due limiti per x →−∞ oppure per x→+∞, ma qui
per brevità mischieremo le due cose (anche perché spessissimo i due limiti coincidono, s’intenda:
nelle funzioni più utilizzate comunemente).
 f ( x) q
Dato lim [ f ( x) − mx − q ] = 0 , a maggior ragione sarà lim  −m−  = 0.
x → ±∞ x → ±∞
 x x
q f ( x)
Essendo lim = 0 , affinché esista l’asintoto cercato dovrà esistere finito il lim .
x → ±∞ x x → ±∞ x
In questa ultima ipotesi risulta:
f ( x)
lim =m
x → ±∞ x
Trovato m, risulta
lim [ f ( x) − mx] = q .
x → ±∞

Si noti che, nel caso in cui m = 0 si ritrova l’equazione dell’asintoto orizzontale. E’ dunque
evidente che non si potrà parlare unilateralmente e contemporaneamente di asintoto orizzontale ed
obliquo: l’esistenza dell’uno esclude quella dell’altro (ripetiamo: per x che tendesse allo “stesso”
infinito).
1

Esempio: la funzione y = x + e x ammette per asintoto obliquo (“completo”) la retta y = x + 1,


infatti
 1
  1
  1
 1

m = lim  x + e x  = lim  x + e x  = 1 e q = lim  x + e x − x  = lim e x = e 0 = 1 (vedi fig. 23).


x → +∞ x → −∞ x → +∞ x → −∞
     

Fig. 23

80

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OSSERVAZIONE IV.5.1. Dal fatto che l’asintoto può considerarsi come la retta tangente alla
curva nel suo punto all’infinito consegue la possibilità di usare le derivate per trovare tale asintoto.
Infatti, se la retta y = mx+ q è un asintoto, ricordando il significato geometrico di derivata, si ha:

m = lim f ' ( x) ; q = lim[ f ( x) − mx] (come prima)


x →∞ x →∞

Naturalmente sarà necessario, per usare questa regola, che f (x) sia derivabile nell’intorno di ∞
(tranne al più per un’infinità numerabile di punti) e che esista il lim f ' ( x) .
x→∞

ESEMPIO.
Riprendendo il caso visto in precedenza, si può così agire:
1
1 1
 1  ex
y = x+e , x
y ' = 1 +  − 2 e x = 1 − 2 , da cui
 x  x
m = lim y ' ( x) = 1 − 0 = 1 e q = 1 come visto in precedenza.
x → ±∞

P( x)
OSSERVAZIONE IV.5.2. Se la funzione y = f (x) è una funzione razionale fratta, del tipo
Q( x)
dove P (x) è un polinomio di grado n + 1 in x e Q (x) è un polinomio di grado n in x; essa può
mettersi sotto la forma (eseguendo una semplice divisione fra polinomi):

R( x)
y = mx + q + ,
Q( x)

dove R (x) è un polinomio di grado minore di n ( R(x) è il resto della suddetta divisione); ed è
R( x)
lim = 0.
x→∞ Q ( x)

In tali condizioni la retta y = mx+ q è un asintoto (obliquo) della curva grafico di y = f (x).
Infatti le ordinate dei punti della curva differiscono da quelle dei punti corrispondenti della retta
P( x)
proprio della quantità , che tende a zero per x tendente all’infinito.
Q( x)

x3 + 4x2 − 2
ESEMPIO. Si voglia cercare l’asintoto obliquo della funzione y = .
x2 +1
x+6
Essa si può porre nella forma: y = x + 4 − , la quale esprime che la retta y = x + 4 è un
x2 +1
asintoto della curva, poiché le ordinate dei punti della curva si ottengono da quelle della retta
− x−6
y = x + 4 aggiungendo ad esse il numero , che tende a zero per x ∞.
x2 +1

Questo modo di procedere è dunque il metodo più spedito per ricercare l’eventuale asintoto obliquo
avendo a che fare con una funzione razionale fratta.

NOTA. Una funzione razionale fratta ammette asintoto obliquo se il grado del numeratore supera
di un’unità il grado del denominatore.

81

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IV.6. CRESCENZA, DECRESCENZA, MASSIMI E MINIMI.

La derivata prima di una funzione permette di stabilirne la crescenza o la decrescenza. Infatti, data
y = f (x), sia c il generico punto del suo insieme di definizione E in cui risulta ad esempio f’ (c) > 0.
Sarà perciò
f (c + h ) − f ( c ) f (c + h ) − f ( c )
lim > 0 ; ovvero ∃k > 0 / ∀ h < k per cui > 0.
h →0 h h
Questo significa che ∆f e h hanno lo stesso segno in un conveniente intorno di c; ovvero
f (c + h) > f (c) per h > 0, f (c + h) < f (c) per h < 0, il che equivale a dire che la funzione è
crescente in un conveniente intorno di c.
Analogamente viene trattato il caso di f ' (c) < 0 . Possiamo pertanto concludere che se f ' ( x) > 0
segue f (x) crescente, se f’ (x) < 0 segue f (x) decrescente. Tutto ciò risulta maggiormente evidente
se si considera il significato geometrico della derivata prima. Vedi figura 24.

Fig. 24

m = f’(c) = tg α > 0 m = f’(c) = tg α < 0

Nulla si è ancora detto per I punti c ∈ E tali che risulti f’(c) = 0. In tali punti risulta tg α = 0, dove
tg α è il coefficiente angolare della retta tangente alla curva y = f (x) nel punto di ascissa c.

Pertanto se risulta: f’(c) = 0, f’(c − h) > 0, f’(c + h) < 0, con h > 0, la funzione cresce prima del
punto c (valore x = c), decresce dopo e nel punto c presenta tangente orizzontale: cioè in c la
funzione ammette massimo relativo.

Se invece f’(c) = 0, f’(c− h) < 0, f’(c + h) > 0, con h > 0, la funzione ammette in c un minimo
relativo.

Ancora: se f’(x) si annulla per x = c e conserva lo stesso segno in un intorno (completo o


“bilaterale”) di c, si dice che la f (x) ammette in c un flesso a tangente orizzontale (vedi figura 25).

82

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Fig. 25

Infine, se è f’(x) = 0 in c ed in ogni punto di un suo intorno, f(x) è costante in quell’intorno.


Non tutti i punti estremanti di una funzione ammettono però tangente orizzontale (f’(c) = 0): si
ricordino in proposito i punti di cuspide e i punti angolosi, i quali ultimi possono anche non essere
estremanti.
Pertanto per effettuare la ricerca dei massimi e dei minimi non solo occorre esaminare i punti in cui
si annulla la derivata prima, ma anche gli eventuali punti in cui non esiste la derivata prima stessa o
assume un valore infinito..

IV.7. CONCAVITA’ E FLESSI.

La derivata seconda di una funzione permette di stabilirne la concavità. Infatti la derivata prima
f’(x) si interpreta come coefficiente angolare (o pendenza) della tangente alla curva y = f (x),
possiamo allora dire che se f”(x) > 0, f’(x) cresce, cioè cresce la pendenza della tangente quando si
procede nel verso positivo dell’asse delle ascisse. Ciò si verifica quando la concavità della curva è
rivolta verso l’alto. Al contrario, se f”(x) è negativa, allora f’(x) decresce e ciò esprime che
decresce il coefficiente angolare della tangente, il che si verifica quando la concavità della curva è
rivolta verso il basso (vedi figura 26).

Fig. 26

x1 < x 2 ⇒ α 1 < α 2 x1 < x 2 ⇒ α 1 > α 2

83

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Se la derivata seconda si annulla nel punto c appartenente ad E e f”(c− h) > 0, f”(c+ h) < 0 (h > 0),
nel punto x = c c’è un cambio di concavità e si dice che in c c’è un flesso discendente (o
decrescente). Analogamente se f”(c) = 0, f”(c− h) < 0, f”(c + h) > 0 si ha in c un flesso saliente (o
crescente).
Nel caso in cui f”(x) si annulla in tutto un intervallo, significa che ha un andamento rettilineo in
tale intervallo.
Come si vede dalla figura 27, tre sono i tipi di flesso a seconda della tangente alla curva nel punto
del flesso stesso.

Fig. 27

(a)

(b)

(c)

84

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Nel caso (a) la tangente è orizzontale, quindi accanto alla condizione f”(c) = 0 ci sarà anche la
condizione f’(c) = 0.

Nel caso (b) la tangente è verticale, quindi oltre ad essere f”(c) = 0, sarà lim f ' ( x) = −∞ oppure
x →c

lim f ' ( x) = +∞ rispettivamente.


x →c

Nel caso (c) la tangente è obliqua, quindi avremo f”(c) = 0 e f’(c) finita e positiva o negativa
rispettivamente.

IV.8. ESEMPIO DI STUDIO DI FUNZIONE.

x2 +1
Sia data la funzione reale di variabile reale: y =
x −1
Studiarla e tracciarne approssimativamente il grafico.

Soluzione.

N.B. Si consiglia di predisporre un foglio su cui riportare di volta in volta le varie proprietà
trovate. Ad ogni passo suggeriremo azioni in questo senso: alla fine il grafico cartesiano della
funzione verrà così quasi automaticamente realizzato.

• Campo di esistenza: E = {x ∈ ℜ / x ≠ 1} . Oppure E = (−∞, 1) ∪ (1, +∞).

Tracciare la retta verticale x = 1 (“probabile” asintoto verticale)

• Non si evidenziano periodicità, non ci sono simmetrie rispetto ad origine o ad asse y (anche
se ce ne saranno, come vedremo, rispetto ad un punto diverso dall’origine).

• Intersezioni con gli assi: x = 0 → y = 1.


y = 0 → x 2 + 1 = 0 , mai verificato in ℜ.

Segnare sul grafico il punto A(0,1).

• Segno della funzione: essendo x 2 + 1 > 0 sempre in E, la funzione è positiva se x > 1,


negativa se x < 1.

Conviene “cancellare” le parti del piano (pseudo-quadranti) in cui non vi sarà il grafico della
curva (vedi figura 26).

85

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Fig. 26

• Limiti ed asintoti.

Poiché gli estremi di E sono (con ovvia notazione) −∞, +∞, 1−, 1+ avremo:

x2 +1 x2 +1
lim f ( x) = lim = −∞ e lim f ( x) = lim = +∞ , dunque non vi è alcun asintoto
x → −∞ x → −∞ x − 1 x → +∞ x → +∞ x − 1

orizzontale. E ancora:

x2 +1 x2 +1
lim− f ( x) = lim− = −∞ e lim+ f ( x) = lim+ = +∞ , dunque la retta x = 1 è asintoto
x →1 x →1 x − 1 x →1 x →1 x −1
verticale completo.

Ricerchiamo quindi l’eventuale asintoto obliquo (non essendoci asintoti orizzontali), che dovrà
essere del tipo y = mx+q, con (sinteticamente):

f ( x) x2 +1  x2 +1  x +1
m = lim = lim 2 = 1 , q = lim  − x  = lim = 1.
x → ±∞ x − 1
x → ±∞ x x → ±∞ x − 1
  x →±∞ x − 1
Il grafico della funzione ammette dunque l’asintoto obliquo (completo) y = x +1.

• Derivata prima.
x 2 − 2x − 1
y ' ( x) = , la quale è positiva o nulla quando lo è il numeratore, essendo il denominatore
( x − 1) 2
sempre positivo (in E ovviamente). Dunque y’ ≥ 0 per x ≤ 1 − 2 ∨ x ≥ 1 + 2 .

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La funzione cresce per x < 1 − 2 , decresce per 1 − 2 < x < 1 + 2 , ammette un punto di
massimo relativo in M (1 − 2 ; 2 − 2 2 ) , cresce per x > 1 + 2 , ammette un minimo relativo in
N (1 + 2 ; 2 + 2 2 ) .

• Derivata seconda.
4
y" ( x) = , la quale non si annulla mai ed è y"> 0 per x > 1, y"< 0 per x < 1.
( x − 1) 3
Pertanto la funzione (o, meglio, il suo grafico) non ha flessi, è concava verso l’alto per x > 1, verso
il basso per x < 1.

Si può ora passare al disegno del grafico (figura 27):

Fig. 27

Solo ora si può notare (vedi come base i punti M ed N) che il grafico della funzione è simmetrico
rispetto al punto P (1, 2) intersezione dei due asintoti. Infatti, traslando gli assi nel punto P, cioè
ponendo
x = X + 1
+ =
( X + 1)2 + 1 , cioè: Y = X 2 + 2 che è una funzione dispari.
 , si trova Y 2
y = Y + 2 X +1−1 X

N.B. La suddetta simmetria si sarebbe potuta individuare rendendosi conto che la nostra curva è una
conica: è un’iperbole.

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Cap. V − TEOREMI SULLE FUNZIONI DERIVABILI

V.1. ALTRI TEOREMI FONDAMENTALI RELATIVI ALLE FUNZIONI


DERIVABILI.

Teorema di Rolle [V.1.1] [Michael Rolle (1652-1719), matematico francese].


Si abbia una funzione continua nell’intervallo chiuso [a, b], derivabile in (a, b), cioè nei punti
interni, e tale che f (a ) = f (b) , cioè assuma valori uguali agli estremi dell’intervallo.
In tali ipotesi esiste almeno un punto c interno all’intervallo [a, b] nel quale la derivata della
funzione si annulla; risulta cioè: f ' (c) = 0 .

Dimostrazione. Sinteticamente, con ovvia simbologia, tenendo conto del teorema [II.9.2] (di
Weierstrass), si può scrivere:

∀x ∈ [a, b] : m = f (c) ≤ f ( x) ≤ f (d ) = M
1° caso: m = M ⇒ f (x) costante in [a, b] ⇒ si ha la tesi.
2° caso: m < M ⇒ almeno uno fra c e d cade in (a, b). Sia ad es. il punto c.
Prendiamo h / c + h ∈ (a, b). Avremo
f (c + h) ≥ f (c) sia per h < 0 sia per h > 0, cioè f (c + h) − f (c) ≥ 0 . Dividendo per h (non nullo):
f (c + h ) − f (c )
• per h > 0: ≥0
h
f (c + h ) − f ( c )
• per h < 0: ≤ 0 . Passando al limite:
h
f (c + h ) − f (c )
lim =0 ⇒ f ' (c) = 0 , c.v.d. Vedi figura 28 (nella quale è contemplato il
h →0 h
caso in cui vi sono tre punti che soddisfano il teorema).

Fig. 28

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Teorema di Lagrange [V.1.2] [Giuseppe Luigi Lagrange (1756-1818), matematico italiano] o


“teorema della media del calcolo differenziale”

Si abbia una funzione continua nell’intervallo chiuso [a, b], derivabile in (a, b), cioè nei punti
interni, cioè assuma valori uguali agli estremi dell’intervallo.
In tali ipotesi esiste almeno un punto c interno all’intervallo [a, b] nel quale risulta
f (b) − f (a )
= f ' (c ) .
b−a

Dimostrazione (formale e sintetica).

Consideriamo la funzione ϕ ( x) = f ( x) − kx , con k ∈ ℜ.


Vogliamo che sia ϕ (a ) = ϕ (b) . Dovremo porre all’uopo: f (a ) − ka = f (b) − kb , da cui
f (b ) − f (a )
kb − ka = f (b) − f (a ) ⇒ k (b − a ) = f (b) − f (a ) ⇒ k = .
b − a
f (b ) − f ( a )
Otteniamo ϕ ( x ) = f ( x ) − . Per il teorema di Rolle, applicato alla ϕ (x ) , la quale ne
b−a
soddisfa l’ipotesi, si può affermare: ∃c ∈ ( a, b) / ϕ ' (c ) = 0 .
f (b ) − f ( a )
Poiché si ha ϕ ' ( x ) = f ' ( x ) − , abbiamo le seguenti implicazioni:
b−a
f (b ) − f ( a ) f (b) − f ( a )
ϕ ' (c ) = 0 ⇒ f ' (c ) − =0 ⇒ = f ' (c ) , c.v.d.
b−a b−a

Vedi figura 29 (nella quale è contemplato il caso in cui vi sono due punti che soddisfano il
teorema).

Si noti che trovare il punto c equivale a trovare una tangente (o meglio il suo coefficiente angolare)
alla curva, grafico di f (x ) , parallela alla retta congiungente i punti estremi del grafico A ( a, f ( a ))
e B(b, f (b)) .

Fig. 29

89

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Corollario 1, al teorema di Lagrange.

Se una funzione f (x) è continua in [a, b], derivabile in (a, b) e ammette derivata nulla in tutto
(a, b), allora tale funzione è costante in [a, b].

Dim. (sintetica).
f ( x 2 ) − f ( x1 )
∀x1 , x 2 ∈ (a, b), ∃c ∈ (a, b) / = f ' (c) = 0 , ( x1 ≠ x 2 ) . Da cui
x 2 − x1
f ( x 2 ) = f ( x1 ) = costante, c.v.d.

Corollario 2, al teorema di Lagrange.

Se f ( x) e g ( x) sono due funzioni reali continue in [a, b], derivabili in (a, b), che ammettono
uguale derivata in ogni punto di (a, b), allora queste funzioni differiscono per una costante.

Dim. (sintetica).

Poniamo F ( x) = f ( x) − g ( x) . Avremo F ' ( x) = f ' ( x) − g ' ( x) = 0 ⇒ F ( x) = costante. Quindi


f ( x) − g ( x) = costante, c.v.d.

Corollario 3, al teorema di Lagrange (Vedi IV.6, in cui già si è trattato questo argomento).

Se una funzione f ( x) è continua in [a, b], derivabile in (a, b) con f ' ( x) > 0, ∀x ∈ [a, b] , allora
f ( x) è strettamente crescente in [a, b]. Se invece f ' ( x) < 0, ∀x ∈ [a, b] , la suddetta funzione è
strettamente decrescente in [a, b].

Dim. (sintetica).

Sia f ' ( x) > 0, ∀x ∈ [a, b] .


f ( x 2 ) − f ( x1 )
Per il teorema di Lagrange: ∀x1 , x 2 ∈ (a, b), ∃c ∈ (a, b) / = f ' (c) .
x 2 − x1
Da qui supponendo x 2 > x1 deduciamo f ( x 2 ) > f ( x1 ) . Ciò prova che la funzione è crescente in
[a, b], c.v.d.
Analogamente si ragiona nel caso in cui f ' ( x) < 0, ∀x ∈ [a, b] . Risulterà f ( x) decrescente in [a, b].

Teorema di Cauchy [V.1.3] [Agostino Cauchy (1789-1857), matematico francese] o


“teorema degli incrementi finiti”.

Se f ( x) e g ( x) sono due funzioni continue in [a, b], derivabili in (a, b) e se la derivata g ' ( x) non
si annulla mai in (a, b), allora esiste almeno un punto c ∈ (a, b) tale che valga la relazione:

f (b) − f (a ) f ' (c)


= .
g (b) − g (a ) g ' (c)

90

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Dim. (sintetica).

Consideriamo la funzione F ( x) = f ( x) − kg ( x) , con k ∈ ℜ. Determiniamo k tale che F (a ) = F (b) ,


cioè:
f (b) − f (a )
f (a ) − kg (a ) = f (b) − kg (b) , k [g (b) − g (a)] = f (b) − f (a) , da cui k = (*)
g (b) − g (a )
Per il teorema di Rolle:
f ' (c)
∃c ∈ (a, b) / F ' (c) = 0 ⇒ f ' (c) − kg ' (c) = 0 ⇒ k = (**)
g ' (c)
Confrontando (*) con (**) segue che

f (b) − f (a ) f ' (c)


= , c.v.d.
g (b) − g (a ) g ' (c)

Teorema [V.1.4]. Formula di Taylor col termine complementare nella forma di


Lagrange.

Sia f ( x) una funzione definita nell’intervallo I (limitato o no), ivi derivabile n volte, e sia x0 un
punto di I. In tali ipotesi, per ogni x ∈ I − {x0 } esiste almeno un punto ξ (generalmente dipendente
da x) interno all’intervallo di estremi x e x0 tale che:
f ' ' ( x0 ) f ( n−1) ( x0 ) ( x − x0 ) n
f ( x) = f ( x0 ) + f ' ( x0 )( x − x0 ) + ( x − x0 ) 2 + ... + ( x − x 0 ) n −1 + f (n)
(ξ ) .
2! (n − 1)! n!

Dimostrazione.

Notiamo subito che per n = 1 si ha il caso particolare del teorema di Lagrange:


f ( x) = f ( x0 ) + f ' (ξ )( x − x0 ) .
Supponiamo, per semplicità e per fissare le idee, che sia x > x0 ed n = 3, ma risulterà evidente che
la dimostrazione sarà valida, in modo analogo, per qualunque n ≥ 1.
Si tratta dunque di dimostrare che
1 1
f ( x) = f ( x 0 ) + f ' ( x0 )( x − x0 ) + f ' ' ( x0 )( x − x 0 ) 2 + f ''' (ξ )( x − x0 ) 3 ,
2 3!
dove ξ è un conveniente punto dell’intervallo ( x0 , x).
Sostituiamo nella formula da verificare, al posto di f ''' (ξ ) , una lettera H, per cui otteniamo
1 1
f ( x) = f ( x0 ) + f ' ( x0 )( x − x0 ) + f ' ' ( x0 )( x − x0 ) 2 + H ( x − x0 ) 3
2 3!
Ci proponiamo quindi di dimostrare che esiste un punto ξ interno ad [ x0 , x] tale che f ''' (ξ ) = H .
1
f ( x) − f ( x0 ) − f ' ( x0 )( x − x0 ) − f ' ' ( x0 )( x − x0 ) 2
Abbiamo: H = 2 .
1
( x − x0 ) 3

3!

91

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Sostituiamolo nel 2° membro della formula da verificare, poi scriviamo in tale secondo membro una
variabile ausiliaria X al posto di x0 . Con questi passaggi il suddetto secondo membro diviene una
funzione ausiliaria
1 1
F ( X ) = f ( X ) + f ' ( X )( x − X ) + f ' ' ( X )( x − X ) 2 + H ( x − X ) 3 .
2 3!
Essa (mantenendo H costante) gode delle seguenti proprietà:
1°) F(X) esiste ed è continua in [ x0 , x].
2°) F ( X ) = F ( x0 ) = f ( x) , come si può ben controllare.
3°) F(X) è derivabile in tutto ( x0 , x). Si trova infatti:
1 1
F ' ( X ) = f ' ( X ) + f ' ' ( X )( x − X ) − f ' ( X ) + f ' ' ' ( X )( x − X ) 2 − f ' ' ( X )( x − X ) − H ( x − X ) 2 ,
2 2
F ' ( X ) = [ f ' ' ' ( X ) − H ]( x − X ) 2 .
1
2
La F(X) soddisfa dunque l’ipotesi del teorema di Rolle, relativamente all’intervallo [ x0 , x]. Esisterà
pertanto un punto ξ tale che
x0 < ξ < x, F ' (ξ ) = [ f ' ' ' (ξ ) − H ]( x − ξ ) 2 = 0 .
1
2
1
Essendo ( x − ξ ) 2 ≠ 0 , otteniamo f ' ' ' (ξ ) − H = 0, cioè f ' ' ' (ξ ) = H , c.v.d.
2
Analogamente si ragiona nell’ipotesi x < x0 .

La formula di Taylor prende il nome di Formula di Mac Laurin nel caso particolare x0 = 0.
Eccola:
1 1 1
f ( x) = f (0) + f ' (0) x + f ' ' (0) x 2 + ... + f ( n −1) (0) x n −1 + f ( n ) (ξ ) x n
2! (n − 1)! n!

ESEMPIO.

Scrivere la formula di Mac-Laurin di ordine 3 (cioè composta dai primi 4 termini col “resto” – qui
di Lagrange – di quarto grado) della funzione f ( x) = e x .
Occorre conoscere il valore di f (x) e delle sue prime tre derivate nel punto x = 0 e, per scrivere il
termine complementare (quello contenente ξ), è necessaria un’espressione della derivata quarta di
f (x). Si ha:

f ( x ) = e x → f ( 0) = 1
f ' ( x ) = e x → f ' ( 0) = 1
f ' ' ( x ) = e x → f ' ' ( 0) = 1
f ' ' ' ( x ) = e x → f ' ' ' ( 0) = 1
f ( 4) ( x) = e x

1 2 1 3 eξ 4 x 2 x 3 eξ
Risulta perciò: e x = 1 + x + x + x + x = 1+ x + + + .
2! 3! 4! 2 6 24

92

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Cap. VI − INTEGRALI DELLE FUNZIONI REALI DI UNA VARIABILE


REALE.

VI.I. UN PO’ DI STORIA: DAL PROBLEMA DELLE AREE AL CALCOLO


INTEGRALE.

Il calcolo integrale risale agli antichi Greci. Eudosso di Cnido, vissuto nel 300 a.C., aveva ideato un
metodo per determinare l’ area di una figura piana a contorno curvilineo: il metodo consisteva
nel “riempirla” con poligoni sempre più “fitti” fino a ricoprirla completamente, ad “esaurirla”
(metodo detto poi di esaustione).
Tanto Euclide (300 a.C.) quanto Archimede (200 a.C.) fecero largo uso del metodo di esaustione
allo scopo di determinare l’area di figure piane ed il volume di figure solide. Per dare maggiore
generalità a queste costruzioni (i poligoni con cui si ricopriva una zona a contorno curvilineo
cambiavano di volta in volta) Archimede inventò un altro metodo, basato su un’idea semplice: si
pensa la figura formata da un certo numero di fili pesanti, paralleli fra loro, e dunque con un certo
peso complessivo.
Si può allora confrontare il peso di questa figura con quello di un’altra figura di area nota, formata
anch’essa da un certo numero di quei fili, sospendendo le due figure ai bracci di una leva. Poi,
dall’esperimento fisico, Archimede passò alla matematica, idealizzando i fili pesanti con delle
sottilissime strisce rettangolari. In questo modo, descritto nell’opera “Il metodo” (manoscritto
ritrovato nel 1906 in una biblioteca di Costantinopoli) Archimede precorre di molti secoli i
procedimenti che, nel 1600, costituirono le basi del calcolo integrale.
Le idee espresse ne “Il metodo” si ritrovano nei lavori degli studiosi della scuola di Galileo:
Cavalieri (1598-1647) e Torricelli (1606-1647).
Cavalieri pensa ad un’area composta da fili “indivisibili”, perché non possono essere ulteriormente
assottigliati; l’area del rettangolo, per esempio, è riempita di fili paralleli alla base, lungo tutta
l’altezza. Se questi fili vengono spostati, in modo che siano sempre paralleli fra loro, si formeranno
altre figure (fig. 30).

Fig. 30

Queste nuove figure saranno tutte equivalenti al rettangolo perché è “come se fossero costituite
dalla stessa quantità di materiale”.

Il metodo degli indivisibili è molto vicino a quello di Archimede.

Durante il rapido sviluppo del calcolo integrale (di cui ci occuperemo in paragrafi successivi) , gli
indivisibili di Cavalieri e di Torricelli perdono a poco a poco la loro natura di fili materiali,

93

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sottilissimi sì, ma divisibili, per assottigliarsi sempre più in una suggestiva visione dinamica (si
pensi ad es. all’integrazione numerica con il metodo dei rettangoli26).

Nel XVII secolo si sviluppano, in modo indipendente, le indagini su due tipi di problemi,
apparentemente molto lontani tra loro:

• il calcolo delle aree di figure a contorno curvilineo27

• e la ricerca di una funzione di cui é data la derivata28.

Torricelli e, poco più tardi Barrow (1630-1677), riconobbero che la soluzione dei due problemi era
basata sullo stesso procedimento. Questa scoperta ha stabilito un formidabile collegamento fra due
correnti di indagini rimaste per secoli separate e ha fornito un impulso notevolissimo allo sviluppo
di un nuovo ramo dell’analisi: il calcolo integrale.
Newton (1642-1727) e Leibniz (1646-1716) hanno dato i contributi più innovativi al calcolo
integrale, che ha continuato a svilupparsi nel XIX secolo, fino a ricevere una sistemazione rigorosa
soprattutto da parte di Cauchy (1798-1857) e Riemann (1826-1866).

VI.2. AREA DEL CERCHIO.

Un valore approssimato per difetto dell'area del cerchio si ottiene calcolando l'area di un poligono
regolare in esso inscritto e si capisce che, all'aumentare del numero dei lati del poligono, l'area
aumenta e tende a quella del cerchio (vedi figura 31).

Fig. 31

p⋅a
L’area di un poligono regolare è data da A= , con p = perimetro, a = apotema.
2
All'aumentare del numero dei lati del poligono regolare, accade che:
• il perimetro tende alla lunghezza della circonferenza;
• l' apotema tende al raggio r del cerchio,
quindi:
2πr ⋅ r
A= = r 2π
2
(essendo π: il rapporto fra la circonferenza e il diametro del cerchio).

26
N.B. Argomento analogo a quello che tratteremo nel paragrafo VI.3.
27
N.B. Vedi nota precedente.
28
N.B. Vedi oltre: integrale indefinito.

94

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VI.3. INTEGRALE DEFINITO.

Consideriamo una funzione f (x), continua in un intervallo I = [a, b] . Supponiamo inizialmente che
la funzione sia positiva in I. Vogliamo calcolare l’area della regione di piano delimitata dal grafico
della funzione, dalle rette x = a, x = b e dall’asse x. Tale regione è detta area sottesa dal grafico di
f (x) nell’intervallo I ed è un quadrilatero mistilineo chiamato anche trapezoide. Vedi figura 32 (il
trapezoide è ABNM).

Fig. 32

Suddividiamo l’intervallo, la cui ampiezza è b − a, in n parti uguali29, ciascuna delle quali avrà
quindi ampiezza
b−a
∆x = .
n
Gli estremi dell’intervallo sono x0 = a; x1 = a + ∆x; x 2 = a + 2∆x; ...; xn = b .
In ciascuno di tali intervalli la f (x) è continua e perciò, per il teorema di Weierstrass (II.9.2),
assume valore massimo e valore minimo assoluti. Chiameremo Mi e mi nell’ordine questi valori
della funzione nel generico intervallo [ xi −1 , xi ] . Consideriamo ora le seguenti somme (somme di
Riemann):
n n
s n = m1 ∆x + m2 ∆x + ... + mn ∆x = ∑ mi ∆x = ∆x ∑ mi (1)
i =1 i =1
n n
S n = M 1 ∆x + M 2 ∆x + ... + M n ∆x = ∑ M i ∆x =∆x ∑ M i (2)
i =1 i =1

La (1) e la (2) sono dette rispettivamente somma integrale inferiore e somma integrale superiore di
f (x) relativamente alla suddivisione operata in I.

Nella figura 33 viene evidenziata l’interpretazione geometrica di sn e di Sn (ogni addendo di queste


somme rappresenta l’area di un rettangolino…).

29
N.B. In generale la suddivisione viene fatta in parti di ampiezze anche diverse fra loro. L’importante è che, con
l’aumentare indefinito di n, le suddette ampiezze tendano tutte a zero. In questo caso i procedimenti sono equivalenti.

95

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Fig. 33

Le suddette somme si possono considerare approssimazioni, per difetto e per eccesso (infatti, per
come sono costruite, le somme sn sono tutte inferiori alle Sn) dell’area del trapezoide in figura.
Al crescere di n i valori di sn e di Sn formano due successioni E’ intuitivo che tali successioni
convergono ad un unico limite che rappresenta la misura A dell’area del trapezoide:

A = lim s n = lim S n .
n → +∞ n → +∞

Tale limite si chiama integrale definito della funzione f (x) nell’intervallo [a, b] e si indica con il
simbolo

b

a
f ( x)dx .

Osservazione [VI.3.1]. L’origine del segno ∫ è da ricercarsi in una deformazione della lettera S
(e/o dell’operatore ∑ ), iniziale della parola somma, ed esso sta a ricordare che l’integrale definito
proviene, tramite passaggio al limite, appunto da una somma. Il prodotto f (x)dx è posto per
rammentare che la somma, da cui l’integrale deriva, ha per addendi i valori (min. o max. o
intermedi: vedi nota 21 a piè pagina) della funzione moltiplicati per l’ampiezza ∆x degli intervalli in
cui è suddiviso l’intervallo di integrazione I, la quale ampiezza, nel passaggio al limite considerato,
diventa un infinitesimo.

Osservazione [VI.3.2]. Come già accennato I si chiama intervallo di integrazione e i suoi estremi
estremi di integrazione (a: primo estremo o estremo inferiore, b: secondo estremo o estremo
superiore). Il prodotto simbolico f (x)dx è l’integrando, la f (x) è la funzione integranda (cioè che
deve essere integrata) , la x è la variabile di integrazione: questa lettera può essere sostituita da una
qualunque altra, perché l’integrale definito di una funzione è un numero che non dipende, come è
evidente, dal nome che si dà alla variabile da cui dipende la funzione integranda; si ha così:

b b b
∫a
f ( x)dx = ∫ f (t )dt = ∫ f (u )du = ... .
a a

Se la funzione f (x) assume valori negativi in tutto l’intervallo I considerato, l’integrale (quindi
l’area fra il grafico di f (x) e l’asse x per x ∈ I) dà un valore negativo.

96

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Se f (x) assume valori di segno diverso, si suddividerà I in sottointervalli in cui la funzione ha segno
costante e l’integrale avrà un valore uguale alla somma algebrica delle aree calcolate nei suddetti
sottointervalli.

Affinché si possa parlare di integrale definito di una f (x), in generale basta che essa sia limitata
(con alcune ulteriori ipotesi che non ne implicano però la continuità) nell’intervallo di integrazione.
Vedremo che si potrà parlare di integrazione (integrali “impropri”) anche in casi speciali in cui
l’intervallo di integrazione è illimitato oppure f (x) tende all’infinito per x che tende a qualche
valore dell’intervallo stesso.

VI.4. PROPRIETA’ DELL’ INTEGRALE DEFINITO.

Si pone per definizione (o meglio convenzione):

a b a
a) ∫
a
f ( x)dx = 0 e b) ∫
a
f ( x)dx = − ∫ f ( x)dx .
b

c) Proprietà additiva (o relazione di Chasles): se f(x) è continua in [a, b] e se c è un punto


interno ad [a, b] , risulta:
b c b
∫a
f ( x)dx = ∫ f ( x)dx + ∫ f ( x)dx
a c
(senza dim.)

d) Proprietà distributiva:

∫ [ f ( x) ± g ( x)]dx =∫
b b b
f ( x)dx ± ∫ g ( x)dx (senza dim.)
a a a

e) Se K è una costante, si ha:


b b

a
Kf ( x)dx = K ∫ f ( x)dx
a
(senza dim.)

f) La d) e la e) possono così esprimersi sinteticamente.

∫a [Hf ( x) + Kg ( x)]dx =H ∫a
b b b
f ( x)dx + K ∫ g ( x)dx , con H e K costanti.
a

Teorema della media [VI.4.1].


Se la funzione f(x) è continua nell’intervallo I = [a, b] , allora esiste almeno un punto c di I, tale che
b
∫ a
f ( x)dx = (b − a ) f (c)
1 b
b − a ∫a
o, in forma equivalente f (c) = f ( x)dx (ovviamente con a < b).

97

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Dimostrazione.

Siano m ed M il minimo ed il massimo della f(x) in I. Avremo (vedi fig. 34):


b
m(b − a ) ≤ ( Area ABNM) = ∫ f ( x)dx ≤ M (b − a )
a

Fig. 34

Esiste dunque un certo numero µ compreso fra m ed M (m ≤ µ ≤ M) tale che

b
∫ f ( x)dx = µ (b − a )
a

Essendo f(x) continua nell’intervallo [a, b] , per il teorema [II.9.3], esiste almeno un punto c di
b
[a, b] in cui risulta f (c) = µ . Si ha quindi ∫ f ( x)dx = f (c)(b − a ) , che è la tesi.
a

Osservazione [VI.4.1]. Prescindendo dalla continuità o meno della f(x), se f ( x) ≤ M in tutto


b
[a, b] , si deduce la limitazione ∫
a
f ( x)dx ≤ M (b − a ) .

VI.5. FUNZIONI D’AREA. FUNZIONI INTEGRALI.

Consideriamo una f(x) integrabile in [a, b] , quindi anche in ogni intervallo [a, x] con x ∈ [a, b] . La
funzione così definita
x
F ( x) = ∫ f (t )dt
a

è funzione dell’estremo superiore x d’integrazione. Essa viene chiamata una “funzione integrale”.
Il suo significato geometrico è quello di rappresentare un’area variabile, come in figura 35 (in cui si
considera f(x) continua).

98

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Fig. 35

Utilizzando la relazione di Chasles (proprietà additiva, VI.4.c) si può generalizzare la definizione di


funzione integrale :
x a x
∀x0 , x ∈ [a, b], ∫ x0
f (t )dt = ∫ f (t )dt + ∫ f (t )dt .
x0 a

Si hanno così infinite funzioni integrali (una per ciascun x0 ∈ [a, b] ) e queste differiscono l’una
dall’altra per una costante additiva. Infatti se x1 è un altro punto qualunque di [a, b] , risulta:
x x1 x
∀x ∈ [a, b], ∫
x0
f (t )dt = ∫ f (t )dt + ∫ f (t )dt ,
x0 x1

dove appunto il primo termine del secondo membro è costante.

Teorema [VI.5.1].
x
Se la funzione f(x) è integrabile in [a, b] , ogni sua funzione integrale F ( x) = ∫ f (t )dt (con
x0

x0 , x ∈ [a, b ] ) è continua in tutto [a, b] .

Dimostrazione.
Evidentemente F(x) è definita in tutto [a, b] . E’ pure F ( x0 ) = 0 . Diamo ora un incremento arbitrario
∆x alla variabile x purché ( x + ∆x ) ∈ [a, b] . Troviamo:
x + ∆x x + ∆x
F ( x + ∆x) = ∫ f (t )dt , da cui ∆F = F ( x + ∆x) − F ( x) = ∫ f (t )dt .
x0 x

Supponendo che in [a, b] sia f (t ) ≤ M (M positivo), si ha ∆F ≤ M ∆x (osservazione VI.4.1) e


quindi
lim ∆F = 0 , ∀x ∈ [a, b] (anche per x = x0 ).
∆n →0
Ciò prova che
lim F ( x' ) = F ( x) , ∀x'∈ [a, b] ,
n '→ x

cioè che F(x) è continua in tutto [a, b] , c.v.d.


99

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Teorema fondamentale del calcolo integrale (di Torricelli-Barrow) [VI.5.2].

Se f(x) è integrabile in I = [a, b] ed ivi continua, ogni funzione integrale della f(x) in [a, b] è ivi
derivabile ed ha per derivata f (x) .

Dimostrazione.

Consideriamo x ∈ [a, b] e diamogli un incremento ∆x in modo che (x + ∆x) ∈ [a, b] .


Costruiamo il rapporto incrementale

∆F F ( x + ∆x) − F ( x) 1 x + ∆x 1
∆x
=
∆x
= ∫
∆x x
f (t )dt =
∆x
⋅ f (c) ⋅ ∆x = f (c) ,

dove c, per il teorema della media, è un conveniente valore dell’intervallo [x, x + ∆x ].


Tenendo presente che x è fissato ed è x ≤ c ≤ x + ∆x , si deduce che (∆x → 0) ⇒ (c → x ) .
Otteniamo quindi
∆F
lim = lim f (c) = f ( x) .
∆n →0 ∆x c→ x

L’esistenza del limite del rapporto incrementale dimostra che F(x) è derivabile e risulta inoltre

F’(x) = f(x), c.v.d.

Teorema [VI.5.3]. Se F(x) e G(x) sono due funzioni integrali di f(x), allora esse differiscono per
una costante.

Dimostrazione.
x x
Siano F ( x) = ∫ f (t )dt e G ( x) = ∫ f (t )dt due funzioni integrali di f(x) in un certo intervallo
x0 x1
x1
(contenente x0 , x1 , x ). Sarà: F ( x) − G ( x) = ∫ f (t )dt = C (costante), quindi
x0

F ( x) = G ( x) + C , c.v.d.

Definizione [VI.5.1] di funzione primitiva.

Una funzione F(x) si dice che è una primitiva della funzione f(x), nell’intervallo I = [a, b]
considerato, se F(x) è derivabile in ogni punto di I ed ivi risulta:

F ' ( x) = f ( x) .

Osservazione [VI.5.1]. Se F(x) è una primitiva di f(x), anche F(x) + C (C costante arbitraria) lo è.
Anzi, si può affermare che se F(x) è una primitiva di f(x), tutte e sole le primitive sono date dalla
formula F(x) + C, come è facile dimostrare.

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Formula fondamentale del calcolo integrale.


x
Se f(x) è integrabile in I = [a, b] ed ivi continua, ogni funzione integrale ∫x0
f (t )dt , ∀x0 ∈ I , risulta
essere una funzione primitiva della f(x) in tutto I.
Applicando questo teorema siamo in grado di calcolare l’integrale definito di molte funzioni .
Infatti, supponendo di conoscere una primitiva G(x) della funzione f(x), continua in I, anche la
funzione
x
F ( x) = ∫ f (t )dt , ∀x0 ∈ I ,
x0

sarà una primitiva di f(x), quindi (osservazione VI.5.1): G(x) = F(x) + C, con C costante
opportuna.
Abbiamo ora

b x0 b b a

a
f ( x)dx = ∫ f (t )dt + ∫ f (t )dt = ∫ f (t )dt − ∫ f (t )dt = F (b) − F (a ) .
a x0 x0 x0

b
Abbiamo pure perciò ∫a
f ( x)dx = G (b) − G (a ) , la quale espressione viene generalmente scritta

f ( x)dx = [G ( x)]a , oppure anche


b b
∫ ∫ f ( x)dx = G ( x) a .
b b
sotto la forma:
a a

Regola pratica : “Per calcolare un integrale definito di una funzione continua f(x) si cerca
di trovare una qualunque primitiva G(x) della f(x) e poi si calcola la differenza fra il valore
che questa assume nell’estremo superiore e il valore che assume nell’estremo inferiore di
integrazione”.

VI.6. LA RICERCA DELLE PRIMITIVE. INTEGRALE INDEFINITO.

Se F(x) è una primitiva della funzione continua f(x), sappiamo che tutte e sole le primitive di f(x)
sono della forma:
F(x) + C ,
con C costante arbitraria.

Definizione [VI.6.1]. La totalità delle primitive di una funzione continua f(x) si chiama integrale
indefinito della f(x) e si indica con il simbolo
∫ f ( x)dx ,
cioè con lo stesso simbolo dell’integrale definito (senza estremi di integrazione). Si legge:
“Integrale di f(x) in dx”
Bisogna altresì far notare la profonda differenza fra i concetti di integrale definito e di integrale
indefinito. Il primo rappresenta un numero, mentre il secondo rappresenta un insieme di funzioni
dipendenti da una costante additiva arbitraria.

[ ]
Dalla definizione data segue D ∫ f ( x)dx = f ( x) , da cui l’operazione di integrazione indefinita può
considerarsi come l’operazione inversa della derivazione.
Questo fatto porta come conseguenza che ad ogni regola di derivazione corrisponde una regola di
integrazione indefinita, come vedremo in seguito.

101

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VI.7. INTEGRALI INDEFINITI IMMEDIATI.

Se mediante le nozioni già acquisite nel calcolo differenziale si riconosce che la funzione continua
[integranda] f(x) è la derivata della funzione F(x) (vedi tabella delle derivate fondamentali al
III.13), l’integrale indefinito di f(x) è immediato, essendo:

∫ f ( x)dx = F ( x) + C , con C costante arbitraria.


Noi sappiamo che se n è un numero qualunque si ha
Dx n = nx n −1 ,
oppure, cambiando n in n +1, si ha
Dx n +1 = (n + 1) x n

x n+1
da cui risulta che D = x n , con n ≠ −1. Avremo quindi:
n +1

x n +1
∫ x dx = + C (n ≠ −1).
n

n +1

Quest’ultima formula vale anche per n ≠ 0, infatti:

∫ 1dx = ∫ dx =x + C ,
mentre per n = −1 si ha
−1 1
∫x dx = ∫ dx = ln x + C .
x

1 1
infatti ciò è evidente per x > 0; mentre per x < 0 si ha D ln x = D ln(− x) = (−1) = , c.v.d.
−x x
Altri casi particolari:
1 2 1 3 1 7 −2 x −2+1 1
∫ xdx = 2 x + C ; ∫ x dx = x +C ; ∫ x dx = x +C ; ∫ x dx = +C = − +C;
2 6

3 7 − 2 +1 x
1 3 1
1 +1 1 − +1
x 2
x 2 3 2
1 − x 2

∫ x dx = ∫ x dx =
2
1
+C =
3
+C =
3
x +C ; ∫ x
dx = ∫ x dx =
2
1
+C = 2 x +C.
+1 − +1
2 2 2

Ricordando sempre le derivate fondamentali, si ha in modo analogo:

dx
∫ sin xdx = − cos x + C ∫ cos xdx = sin x + C ; ∫ cos = tgx + C ; ∫e dx = e x + C ;
x
; 2
x
dx dx
∫ 1− x2
= arcsin x + C ; ∫
1+ x2
= arctgx + C .

∫ [ f ( x )] [ f ( x)]n+1 + C , come si verifica derivando.


1
Per n ≠ −1 è f ' ( x)dx =
n

n +1

102

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f ' ( x)
Per n = −1 l’integrale precedente diventa: ∫ f ( x)
dx = ln f ( x) + C (verifica come sopra).

∫e f ' ( x)dx = e f ( x ) + C
f (x)
Analogamente si prova che

f ' ( x)
ed anche ∫1+ f 2
( x)
dx = arctgf ( x) + C . Vedi tabella riassuntiva.

Esempi.

1
∫ sin x ⋅ cos xdx =
sin 4 x + C
3
(VI.7.1)
4
sin x − sin x
(VI.7.2) ∫ tgxdx = ∫ cos x dx =∫ − cos x dx = − ln cos x + C
3x 2 + 1
∫ x 3 + x − 1 dx = ln x + x − 1 + C
3
(VI.7.3)

∫e cos xdx = e sin x + C


sin x
(VI.7.4)

4x − 1
(VI.7.5) ∫ 1 + (2 x 2
− x + 1) 2
dx = arctg (2 x 2 − x + 1) + C

VI. 8. PROPRIETA’ DEGLI INTEGRALI INDEFINITI.

1°) L’integrale del prodotto di una costante per una funzione continua è uguale al prodotto
della costante per l’integrale della funzione30:

∫ K ⋅ f ( x)dx = K ⋅ ∫ f ( x)dx . Lo si dimostra derivando ambo i membri:

[ ]
(1° membro) D ∫ K ⋅ f ( x)dx = K ⋅ f ( x)
(2° membro) D[K ⋅ ∫ f ( x)dx ] = K ⋅ D[∫ f ( x)dx ] = K ⋅ f ( x) .

30
N.B. IMPORTANTE. Si ricordi sempre l’uguaglianza fra due simboli di integrale indefinito si intende asserire che i
due membri di dette formule differiscono al più per una costante. Infatti un integrale indefinito contiene una costante
additiva arbitraria.

103

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2°) L’integrale della somma algebrica di funzioni continue è uguale alla somma degli integrali
delle singole funzioni:

∫ [ f ( x) ± g ( x)]dx = ∫ f ( x)dx ± ∫ g ( x)dx . Infatti:

[ ]
D ∫ [ f ( x) ± g ( x)]dx = f ( x) + g ( x) come pure D ∫ f ( x)dx + ∫ g ( x)dx = f ( x) + g ( x) .

3°) L’integrale di una combinazione lineare di funzioni continue è uguale alla combinazione
lineare degli integrali delle funzioni date:

∫ [C1 f ( x) + C 2 g ( x)]dx = C1 ∫ f ( x)dx + C 2 ∫ g ( x)dx . Risultato che riassume il 1° ed il 2°.

Osservazione. Per questa ragione l’integrale si dice anche che è un operatore lineare (come la
derivata).

VI.9. METODI DI INTEGRAZIONE.

Quando la funzione integranda non è la derivata (o almeno è arduo vederlo) di una funzione nota, si
può ricorrere ad alcuni metodi.

1) Integrazione elementare indefinita per scomposizione in somma.

Se si riesce ad esprimere la funzione integranda f (x) come algebrica di un numero finito di


funzioni: f 1 ( x) , f 2 ( x) ,…, f n ( x) , che si sa integrare, si ha evidentemente:

∫ f ( x)dx = ∫ f ( x)dx + ∫ f
1 2 ( x)dx + ... + ∫ f n ( x)dx .

1
Esempio [VI.9.1]. Calcolare l’integrale: ∫ sin 2
x cos 2 x
dx .
Si può operare così:
1 sin 2 x + cos 2 x sin 2 x cos 2 x
∫ sin 2 x cos 2 x dx = ∫ sin 2 x cos 2 x dx = ∫ sin 2 x cos 2 x ∫ sin 2 x cos 2 x dx =
dx +

1 1
∫ cos 2 x dx + ∫ sin 2 x dx = tgx − cot gx + C.

2) Integrazione per parti.

Siano f (x) e g (x) due funzioni continue insieme con la loro derivata prima.
Poiché
D[ f ( x ) g ( x ) ] = f ' ( x ) g ( x ) + f ( x ) g ' ( x )

104

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si ha
∫ D[ f ( x) g ( x)]dx = ∫ f ' ( x) g ( x)dx + ∫ f ( x) g ' ( x)dx
31
ossia :
f ( x) g ( x) = ∫ f ' ( x) g ( x)dx + ∫ f ( x) g ' ( x)dx ,
da cui:
∫ f ( x) g ' ( x)dx = f ( x) g ( x) − ∫ f ' ( x) g ( x)dx

Osserviamo che f ( x) g ' ( x)dx può considerarsi come il prodotto di due fattori f (x) e
g ' ( x)dx = dg ( x) di cui il primo si chiama fattore finito e il secondo fattore differenziale. La
regola espressa dall’ultima formula si può esprimere così:

L’integrale del prodotto di un fattore finito per un fattore differenziale è uguale al prodotto
del fattore finito per l’integrale del fattore differenziale meno l’integrale del prodotto fra
l’integrale del fattore differenziale per il differenziale del fattore finito.

Esempio [VI.9.2]. Calcolare l’integrale ∫ x cos xdx .


Poniamo f ( x) = x e g ( x) = cos x .
Otteniamo f ' ( x) = 1 e g ( x) = ∫ cos xdx = sin x (la costante arbitraria C apparirà alla fine del
procedimento).
Quindi, usando la regola di cui sopra, abbiamo

∫ x cos xdx = x sin x − ∫ sin xdx = x sin x −(− cos x) + C = x sin x + cos x + C .

3) Integrazione per sostituzione.

Sia f (x) una funzione continua nell’intervallo [a, b] e ϕ (t ) una funzione continua insieme con la
sua derivata prima in un certo intervallo [α , β ] . Supponiamo inoltre che l’insieme delle immagini di
ϕ (t ) sia contenuto in [a, b] in modo che si possa considerare la funzione composta f [ϕ (t )] . Posto:

∫ f ( x)dx = F ( x) + C ,
avremo:
F ' ( x) = f ( x) .
Si ha pure
DF [ϕ (t )] = F ' [ϕ (t )] ⋅ ϕ ' (t ) = f [ϕ (t )] ⋅ ϕ ' (t ) ,
da cui
∫ DF [ϕ (t )]dt = ∫ f [ϕ (t )] ⋅ ϕ ' (t )dt ,
32
ossia
F [ϕ (t )] = ∫ f [ϕ (t )] ⋅ ϕ ' (t )dt .

31
N.B. Si tenga presente la nota 22.
32
N.B. Si tenga presente la nota 22.

105

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Dalla prima relazione possiamo anche scrivere:

[∫ f ( x)dx] x =ϕ ( x )
= ∫ f [ϕ (t )]ϕ ' (t )dt .

Supponiamo ora che la funzione x = ϕ (t ) sia dotata di funzione inversa t = ψ (x) , poiché
ϕ [ψ ( x)] = x , ponendo nell’ultima relazione appunto t = ψ (x) , si ha:

∫ f ( x)dx = [∫ f [ϕ (t )]ϕ ' (t )dt ] ψ t = ( x)


.

cos x
Esempio [VI.9.3]. Si voglia calcolare l’integrale ∫ x
dx .

1 dx
Poniamo: x = t . Differenziando: dx = dt , cioè: = 2dt . Sostituendo:
2 x x
cos x
∫ x
dx = 2 ∫ cos tdt = 2 sin t + C = 2 sin x + C .

Esempio [VI.9.4]. Si voglia calcolare l’integrale I = ∫ sin 2 xdx .


Lo calcoleremo prima combinando i metodi per parti e di sostituzione e poi solo col metodo di
integrazione per parti.
1°: metodo “combinato”)
1
I = ∫ sin 2 xdx = ∫ 1 ⋅ sin 2 xdx =x sin 2 x − ∫ x ⋅ 2 sin x cos xdx =x sin 2 x − ∫ 2 x ⋅ sin 2 xdx .
2
1 1
Poniamo ora 2 x = y , da cui x = y , cioè dx = dy . Quindi:
2 2
1
4
1
(
I = x sin 2 x − ∫ y sin ydy =x sin 2 x − − y cos y + ∫ cos ydy =
4
)
1 1 1 1
= x sin 2 x + y cos y − sin y + C = x sin 2 x + x cos 2 x − sin 2 x + C
4 4 2 4

2° metodo: per parti)


I = ∫ sin 2 xdx = ∫ sin x ⋅ sin xdx = − cos x sin x + ∫ cos 2 xdx = − cos x sin x + ∫ dx − ∫ sin 2 xdx =
− cos x sin x + x − I .

2 I = x − cos x sin x + C ' . Quindi (tenendo sempre presente la nota 22):

x − cos x sin x x sin 2 x


I= +C = − + C.
2 2 4

Ossevazione [VI.9.1]. Usando metodi diversi si possono ottenere talvolta formulazioni diverse
dell’integrale voluto. Si tenga presente che queste formulazioni o sono equivalenti o differiscono
per una costante.

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4) Integrazione definita per sostituzione.

Sia f (x) una funzione continua nell’intervallo [a, b] e ϕ (t ) una funzione continua insieme con la
sua derivata prima in un certo intervallo [α , β ] , con ϕ ' (t ) mai nulla (in modo che la funzione
x = ϕ (t ) sia invertibile in tutto il suo dominio) Supponiamo inoltre che l’insieme delle immagini di
ϕ (t ) contenga l’intervallo [a, b] e chiamiamo t = ψ ( x) la funzione inversa della x = ϕ (t ) . In tali
ipotesi sussiste la relazione:

f [ϕ (t )]ϕ ' (t )dt . (VI.1.*)


b ψ (b )
∫a
f ( x)dx = ∫
ψ (a)

Infatti, se F(x) è una primitiva di f (x) , si ha:

b
∫a
f ( x)dx =F (b) − F (a ) .

D’altro canto si nota facilmente che la funzione F [ϕ (t )] è una primitiva della funzione f [ϕ (t )]ϕ ' (t )
nell'intervallo [ψ (a ),ψ (b)] (vedi regola di derivazione di funzioni composte III.10), quindi:

f [ϕ (t )]ϕ ' (t )dt = [F [ψ (t )]]ψ ( a ) = F [ϕ (ψ (b) )] − F [ϕ (ψ (a ) )] = F (b) − F (a ) ,


ψ (b ) ψ (b )
∫ψ (a)

poiché le funzioni ϕ (t ) e ψ (x) sono tra loro inverse da cui si deduce: ϕ [ψ (t )] = x ; in particolare:

ϕ [ψ (b)] = b , ϕ [ψ (a)] = a , c.v.d.

Esempio [VI.9.5]. Sfruttiamo questa occasione per calcolare l’area di un cerchi di raggio r.
In un sistema di assi cartesiani ortonormali xOy consideriamo la circonferenza di raggio r con
centro nell’origine degli assi. Essa ha equazione:
x2 + y2 = r 2 .
L’equazione della semicirconferenza situata nel semipiano delle y positive, sarà:
y = r 2 − x2
e quindi l’area di un quarto di cerchio sarà
r
∫0
r 2 − x 2 dx .
 π
Ponendo x = r sin t , che per x ∈ [0, r ] e t ∈ 0,  , soddisfa le ipotesi della (VI.1.*), abbiamo:
 2
π
dx = r cos t ⋅ dt . Osservando che per x = 0 si ha t = 0, e per x = r si ha t = , otteniamo:
2

( )
π π
r t 1 2 π
∫0
r 2 − x 2 dx = ∫ 2
0
r 2 − r 2 sin 2 t dt = r 2 ∫ 2 cos 2 tdt = r 2  + sin 2t  = r 2 .
0
2 4 0 4

L’area del cerchio sarà quindi π ⋅ r 2 , come si è già trovato in geometria.


Vedi figura 36.

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Fig. 36

5) Derivata di una funzione integrale con estremi di integrazione variabili.


h( x )
Vogliamo calcolare la derivata F ' ( x) della funzione integrale F ( x) = ∫ f (t )dt in cui f (x) è
g ( x)

una funzione continua g (x) e h(x) sono funzioni derivabili. Avremo (con le ipotesi del caso) :

h ( x + ∆x ) h( x )
∆F = F ( x + ∆x) − F ( x) = ∫ f (t )dt − ∫ f (t )dt =
g ( x + ∆x ) g (x)

x0 h ( x + ∆x ) x0 h( x)
= ∫ g ( x + ∆x )
f (t )dt + ∫
x0
f (t )dt − ∫
g ( x)
f (t )dt − ∫
x0
f (t )dt ,

essendo x0 un valore del dominio di f ( x) . Sarà quindi (VI.4: relazione di Chasles):

f (t )dt = [h( x + ∆x) − h( x)] f (c1 ) − [g ( x + ∆x) − g ( x)] f (c 2 ) , dove c1 e


h ( x + ∆x ) g ( x + ∆x )
∆F = ∫ f (t )dt − ∫
h( x ) g ( x)

c 2 sono due opportuni valori appartenenti rispettivamente agli intervalli [h( x), h( x + ∆x)] e
[ g ( x), g ( x + ∆x)] (teorema della media per funzioni continue). Immaginando che le funzioni g ( x) e
h( x) siano strettamente crescenti e che sia ∆x > 0, risulta chiaro pensare ad intervalli del genere su
esposto. Il discorso vale comunque in generale. Abbiamo ora:

∆F h( x + ∆x) − h( x) g ( x + ∆x) − g ( x)
= f (c1 ) − f (c 2 ) . Passando al limite:
∆x ∆x ∆x

∆F
lim = h' ( x) lim f (c1 ) − g ' ( x) lim f (c 2 ) = h' ( x) f [h( x)] − g ' ( x) f [g ( x)] , per le ipotesi fatte.
∆n →0 ∆x c1 → x c2 → x

In conclusione si ha la formula:

F ' ( x) = f [h( x)]h' ( x) − f [g ( x)]g ' ( x)

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VI.10. TABELLE RIASSUNTIVE SUGLI INTEGRALI INDEFINITI.

Forme immediate

∫ dx = ∫ 1⋅ dx = x + C
x n +1
∫ x dx = + C , con n ≠−1
n

n +1
1
∫ x dx = ln x + C
∫ e dx = e + C
x x

1
∫ a dx = ln a a + C , con a > 0, a ≠ 1
x x

∫ sin xdx = − cos x + C ∫ Shxdx = Chx + C


∫ cos xdx = sin x + C ∫ Chxdx = Shx + C
1 1
∫ sin 2
x
dx = − cot gx + C ∫ Sh 2
x
dx = −Cothx + C
1 1
∫ cos 2
x
dx = tgx + C ∫ Ch 2
x
dx = −Thx + C
1
∫ 1− x2
dx = arcsin x + C

1
∫ 1 + x 2 dx = arctgx + C

∫e f ' ( x)dx = ∫ e f ( x ) df ( x) = e f ( x ) + C
f ( x)

1 f (x)
∫a f ' ( x)dx = + C , con a > 0, a ≠ 1
f ( x)
a
ln a

∫ [ f ( x)] f ' ( x)dx = ∫ f ( x) ⋅ df ( x) = n + 1 f ( x) + C , con n ≠−1


n n 1 n +1

f ' ( x) df ( x)
∫ f ( x)
dx = ∫
f ( x)
= ln f ( x) + C = ln k f ( x) (C = ln k , k > 0)

dx = arcsin[ f ( x)] + C
f ' ( x)
∫ 1 − f 2 ( x)

dx = arctg[ f ( x)] + C
f ' ( x)
∫1+ f 2
( x)

f ' ( x) 1 1 + f ( x)
∫1− f 2
( x)
dx = ln
2 1 − f ( x)
+C

109

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Integrali notevoli

∫ ln xdx = x ln x − x + C ( per parti )

∫ ln xdx = x ln x − 2 x(ln x − 1) + C ( per parti)


2 2

1 x
∫ a −x2 2
dx = arcsin
a
+ C , con a ≠ 0

1 1 x
∫ a 2 + x 2 dx = a arctg a + C , con a ≠ 0
1 x sin x 1 1 + cos x
∫ sin x dx = ∫ cos ecx ⋅ dx = ln tg 2 + C = ln 1 + cos x + C − 2 ln 1 − cos x + C = ln cos ecx − cot gx + C
π
= λ(x − )+C ( funzione Lambda )
2
1 π x 1 + sin x
∫ cos x dx = ln cot g 4 − 2  + C = ln cos x
+C


dx
1+ x 2
(
= ln x + 1 + x 2 + C ) ( per sostituzione x = tgy e poi sin y = t )

1
∫ x ±a2 2
dx = ln x + x 2 ± a 2 + C

∫ 1 + x 2 dx =
(
x 1 + x 2 + ln x + 1 + x 2
+C
) ( per parti )
2
x 1 − x 2 + arcsin x
∫ 1 − x 2 dx =
2
+C

a nx
∫ a dx = + C , con a > 0, a ≠ 1
nx

n ln a
n x x n
(
∫ x e dx = e x − nx + n(n − 1) x − ... + (−1) n! + C
n −1 n−2 n
)
− sin x
∫ tgxdx = −∫ cos x
dx = − ln cos x + C

sin 2 x 1 − sin 2 x − 1 dx
∫ = ∫ cos 2 x = − ∫ cos 2 x dx = − ∫ dx + ∫ cos 2 x = − x + tgx + C
2
tg xdx dx
1
∫ arctgxdx = xarctgx − 2 ln 1 + x + C
2
( )
x
∫ x 2 + 1 dx = x + 1 + C
2

xn n +1 n
∫ n+1 x n+1 + 1 dx = x + 1 + C
( )
x sin 2ax
∫ sin ax ⋅ dx = 2 − 4a + C
2

x sin 2ax
∫ cos ax ⋅ dx = 2 + 4a + C
2

dx 1
(
∫ kx 2 + a = k ln k x + kx + a + C (k > 0)
2
)
110

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VI.11. INTEGRAZIONE DELLE FUNZIONI RAZIONALI FRATTE.

N ( x)
Sia y= una funzione razionale fratta, cioè il quoziente fra due polinomi in x, che
D( x )
supporremo primi fra loro, e siano N (x) un polinomio di grado m e D (x) un polinomio di grado n.
Supponiamo dapprima che sia m ≥ n. In tal caso si può eseguire la divisione fra N (x) e
D (x) ottenendo come quoziente un polinomio Q (x) di grado m − n e come resto un polinomio R (x)
di grado minore di n. Potremmo quidi scrivere:

N ( x ) Q ( x) D ( x ) + R ( x ) R( x)
y= = = Q( x) + .
D ( x) D ( x) D( x)

N ( x) R( x)
Per calcolare ∫ D( x) dx , basterà quindi calcolare ∫ Q( x)dx + ∫ D( x) dx .
Il primo integrale è facilmente calcolabile, poiché Q (x) è una funzione polinomiale intera. Per
ricavare il secondo bisognerà saper integrare una funzione razionale fratta il cui numeratore sia un
polinomio di grado inferiore a quello del polinomio a denominatore.

Consideriamo i casi seguenti.

px + q
1) Integrali del tipo:∫ ax 2 + bx + c dx , cioè il caso frequente in cui D(x) è un
polinomio di secondo grado: R(x) potrà quindi essere di primo grado o una
costante.
Ci proponiamo quindi di calcolare integrali del tipo

q px + q
(a) ∫ ax 2
+ bx + c
dx oppure (b) ∫ ax 2
+ bx + c
dx .

Vi sono tre casi possibili: ∆ = b 2 − 4ac > 0 ; ∆ = 0 ; ∆ < 0.

1° caso ∆ > 0.

In questo caso il trinomio a denominatore è così scomponibile in fattori :

ax 2 + bx + c = a ( x − x1 )( x − x 2 )

dove x1 e x1 sono le sue radici reali.


La funzione integranda (sia dal caso (a), sia del caso (b)) può essere scomposta nella somma di due
frazioni elementari

A B
+ ,
x − x1 x − x 2

111

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che, essendo A e B delle costanti, sappiamo già integrare. Le suddette costanti si determinano
applicando il principio di identità dei polinomi33, come si vedrà negli esempi successivi.

1
Esempio [VI.11.1] (relativo al caso (a)). Si voglia calcolare l’integrale ∫x 2
− 3x + 2
dx .
1 1 A B
Abbiamo ∫x dx = ∫ dx = ∫ dx + ∫ dx .
2
− 3x + 2 ( x − 1)( x − 2) x −1 x−2

1 A B
Poniamo = + , da cui applicando il principio di identità dei polinomi, si ha il
x − 3x + 2 x − 1 x − 2
2

sistema:

1 = A( x − 2) + B ( x − 1) 1 = ( A + B ) x − 2 A − B − 2 A − B = 1 − A = 1
 , cioè  ,  ,  , ed infine:
0 = A + B 0 = A + B B = − A B = − A
 A = −1
 .
B = 1
1 dx dx x−2
Otteniamo: ∫x 2
− 3x + 2
dx = − ∫
x −1
+∫
x−2
= − ln x − 1 + ln x − 2 + C = ln
x −1
+C .

2x − 7
Esempio [VI.11.2] (relativo al caso (b)). Si voglia calcolare l’integrale ∫x 2
−x−2
dx .
2x − 7 2x − 7 A B
Abbiamo ∫x 2
−x−2
dx = ∫
( x + 1)( x − 2)
dx = ∫
x +1
dx + ∫
x−2
dx .

Procedendo come sopra, troviamo: 2 x − 7 = Ax − 2 A + Bx + B , da cui: 2 x − 7 = ( A + B ) x − 2 A + B .


Applicando qui ancora il principio di identità dei polinomi, si ha il sistema:

A + B = 2 A = 3
 . Risolvendo si ha:  .
− 2 A + B = −7  B = −1

Troviamo quindi che

2x − 7  3 −1  dx dx (x + 1) 3

∫ x 2 − x − 2 dx = ∫  x + 1 + x − 2 dx = 3∫ x + 1 − ∫ x − 2 = 3 ln x + 1 − ln x − 2 + C = ln x − 2 + C .

Osservazione [VI.11.1]. Per integrali del tipo (b) si potrebbe procedere anche in quest’altro modo.
Cerchiamo, con qualche artificio (quando la cosa sia facile e proficua), di far apparire a numeratore
la derivata del denominatore:

2x − 7 2x − 1 − 6 2x − 1 6 6
∫x 2
−x−2
dx = ∫ 2
x −x−2
dx = ∫ 2
x −x−2
dx − ∫ 2
x −x−2
dx = ln x 2 − x − 2 − ∫ 2
x −x−2
dx .

33
N.B. Due polinomi P(x) e Q(x) si dicono identici se assumono gli stessi valori quando si sostituisce alla variabile x
uno stesso valore a, cioè P(a) = Q(a), ∀a ∈ ℜ. Si dimostra che ciò accade se e solo se i due polinomi hanno gli stessi
coefficienti relativi alle stesse potenze.

112

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L’integrale rimasto è del tipo (a) e si risolve come si è visto. Avremo quindi:

2x − 7 dx dx
∫x 2
−x−2
dx = ln x 2 − x − 2 + 2 ∫
x +1
− 2∫
x−2
= ln x 2 − x − 2 + 2 ln x + 1 − 2 ln x − 2 + C , cioè:

2x − 7
∫x 2
−x−2
dx = ln x + 1 + ln x − 2 + 2 ln x + 1 − 2 ln x − 2 + C = 3 ln x + 1 − ln x + 2 + C =

= ln
(x + 1)3 + C .
x−2

x +1
Esempio [VI.11.3] (altro esempio relativo al caso (b)). Si voglia calcolare l’integrale ∫x 2
−x
dx .
Con il solito procedimento avremo:

x +1 x +1 A B
∫x 2
−x
dx = ∫
x( x − 1)
dx = ∫ dx + ∫
x x −1
dx . Deve essere, identicamente:

A B x +1
+ = , da cui si ricava: A = −1 e B = 2. Otteniamo, in definitiva:
x x − 1 x( x − 1)
x +1 1 1 (x − 1) 2

∫ x 2 − x dx = − ∫ x dx + 2∫ x − 1 dx = − ln x + 2 ln x − 1 + C = ln x + C .

2° caso ∆ = 0.

In questo caso le radici x1 e x1 del trinomio a denominatore della funzione integranda sono
coincidenti. Si ha perciò:
ax 2 + bx + c = a ( x − x1 ) 2 .

Per l’integrale (a) procediamo così:


q q q −2 q ( x − x1 ) −2 +1 q
∫ ax 2 + bx + c dx = ∫ a ( x − x1 ) 2 dx =
a ∫ ( x − x1 ) dx =
a − 2 +1
+C = −
a ( x − x1 )
+C.

L’integrale (b) si calcolerà invece scomponendo la funzione integranda in una somma del tipo:

px + q px + q A B
= = + .
ax + bx + c a ( x − x1 )
2 2
a ( x − x1 ) a ( x − x1 ) 2

dx
Esempio [VI.11.4] (relativo al caso (a)). Calcolare ∫ 4x − 4x + 1
2
. Avremo:

dx dx 1 2dx 1 (2 x − 1) −1 −1
∫ 4 x 2 − 4 x + 1 ∫ (2 x − 1) 2 ∫
= = − = ∫ = +C = +C =
2
( 2 x 1) dx
2 (2 x − 1) 2
2 −1 2(2 x − 1)
1
= +C.
2(1 − 2 x)

113

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NOTA IMPORTANTE. In generale per scomporre una frazione polinomiale con molteplicità n
(riferita alle radici reali) ci si basa sulla formula:

1 A1 A2 An B x + C1 B1 x + C1
=
+ + ... + + 21 + ... +
n
(
(x − α ) x + rx + s
2
)
x − α (x − α )
m 2
(x − α ) n
x + rx + s x + rx + s
2
(
m
)
(qui con a = 1 ed immaginando realizzabile la scomposizione con polinomi al massimo di 2°
grado).

x −1
Esempio [VI.11.5] (relativo al caso (b)). Calcolare ∫ 4x + 4x + 1
2
dx . Avremo:

 1
A x +  + B
x −1 x −1 x −1
= 
A B 2
= = = + .
4x + 4x + 1
2
 2 1  1 
2
 1  1 
2
 1 
2
4 x + x +  4 x +  4 x +  4 x +  4 x + 
 4  2  2  2  2
 A
Ax +  B +  A = 1
x −1  2 
Quindi = , da cui, con le solite considerazioni  A .
 1
2
 1
2
 B + = −1
4 x +  4 x +   2
 2  2

3
Risolvendo si ottiene: A = 1 e B = − . Risulta allora:
2
x −1 1 1 3 1 1 1 3
∫ 4 x 2 + 4 x + 1 dx = 4 ∫  1  dx − 8 ∫  1  2 dx = 4 ln x + 2 +  1  + C =
x +  x +  8 x + 
 2  2  2
1 3
= ln 4 x + + +C.
2 4(2 x + 1)

3° caso ∆ < 0.

E’il caso “dell’arcotangente” nel senso che presto vedremo.


q f ' ( x)
Nel caso (a) ∫ 2 dx , l’integrale si può sempre porre nella forma: K ∫ 2 dx .
ax + bx + c f ( x) + 1

dx
Esempio [VI.11.6] (relativo appunto al caso (a)). Calcolare ∫x 2
− x +1
.

4
dx
dx dx dx 3 4 dx
Avremo: ∫ 2 =∫ =∫ = ∫ = ∫ =
x − x +1 x −x+ +
2 1 3  1 
2
3 4  1 
2
3  2x 1 
2

4 4 x −  +  x −  +1  −  + 1
 2 4 3 2  3 3

114

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2
dx
4 3 3 2 2x − 1
= ∫ 2
= arctg +C.
3 2  2x 1  3 3
 −  + 1
 3 3

Vi è pure una formula di immediato utilizzo:

1 1  x −α  α = Re( x)
∫ ax 2 + bx + c dx =

arctg 
 β   + C , dove è  .
  β = Im( x)

Infatti poiché ∆ < 0, il trinomio ax 2 + bx + c ha radici complesse x1 = α − iβ e x 2 = α + iβ .


Sarà ax 2 + bx + c = a[x − (α − iβ )] ⋅ [x − (α + iβ )] , da cui si può pervenire alla formula sopra
esposta.

px + q
Nel caso (b) ∫ ax+ bx + c
2
dx , si cercherà invece di scomporre la funzione integranda nella somma
di due frazioni algebriche, in modo tale che nella prima appaia al numeratore la derivata del
denominatore (vedi osservazione VI.11.1), ossia 2ax + b , mentre nella seconda il denominatore sia
una costante.

3x + 5
Esempio [VI.11.7] (relativo appunto al caso (b)). Calcolare 2 ∫ 2x
− x +1
dx .
Il denominatore è una funzione definita da un trinomio con ∆ negativo. A numeratore deve apparire
la sua derivata che è 4 x − 1 . Operiamo così:

3x + 5
x+
5
3
4x +
20
−1+1
3
(4 x − 1) + 23 3 4 x − 1 3 23 1
=3 2 3 = 3 = 3 = + ⋅ ⋅ 2
2x − x + 1
2
2x − x + 1 4 2x − x + 1
2
4 2x − x + 1
2
4 2x − x + 1 4 3 2x − x + 1
2

.
3 4x − 1 23 1
= + ⋅ 2 . Sarà quindi:
4 2x − x + 1 4 2x − x + 1
2

3x + 5 4x − 1
∫ 2x
3
dx = ∫ 2 dx +
23

1 3
(
23
dx = ln 2 x 2 − x + 1 + ∫ 2
1
)dx .
2
− x +1 4 2x − x + 1 4 2x − x + 1
2
4 4 2x − x + 1

Per calcolare il secondo integrale opereremo come nell’esempio precedente, magari utilizzando la
formula immediata.
1 7 1 7
Le radici dell’equazione 2 x 2 − x + 1 sono ± i . Quindi α = e β = . Avremo
4 4 4 4
 1
x− 
1 1 2 7 (4 x − 1) 7
∫ 2 x 2 − x + 1 dx = 7 arctg  7  + C ' = 7 arctg 7 + C ' . In definitiva:
4
2⋅  
4  4 
3x + 5 3
( )
23 7 (4 x − 1) 7
∫ 2 x 2 − x + 1dx = 4 ln 2 x − x + 1 + 14 arctg 7 + C .
2

115

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VI.12. INTEGRAZIONE DI PARTICOLARI FUNZIONI IRRAZIONALI.

Vogliamo calcolare integrali del tipo

∫ f ( x; ax 2 + bx + c )dx

dove f è una funzione razionale di x e di ax 2 + bx + c .

Se non si riesce a calcolare l’integrale proposto con i metodi fin qui esposti, si può ricorrere alle
cosiddette sostituzioni di Eulero.

1
Si voglia ad esempio calcolare I = ∫ ax 2 + bx + c
dx .

Abbiamo i seguenti due casi da considerare.

1) Se a > 0, conviene porre: ax 2 + bx + c = t − x a

2) Se a < 0, conviene porre: ax 2 + bx + c = t ( x − α ) , dove α è una delle radici (certamente


esistenti) di ax 2 + bx + c = 0 , il cui discriminante è sicuramente non negativo, sennò non
esisterebbe la funzione a denominatore.

Vediamo le procedure:

1
1) a > 0 e I = ∫ dx .
ax + bx + c
2

Poniamo: ax 2 + bx + c = t − x a . Otteniamo:

(
ax 2 + bx + c = t 2 − 2 a xt + ax 2 , da cui: 2 at + b x = t 2 − c . )
t2 − c a t 2 + bt + ac
Quindi x = , t−x a =
2 ax + b 2 at + b

dx =
( )
2t 2 a t + b − 2 a t 2 − c ( ) dt =
2 ( a t 2 + bt + ac ) dt . Abbiamo ora:
(2 at + b )
2
(2 at + b )2

1 (
2 at 2 + bt + a c ) dt = 2dt 1 2 a dt 1
I= ∫ at + bt + a c
2

(2 at + b )
2 ∫2 at + b
= ∫
a 2 at + b
=
a
ln 2 at + b + C .

2 at + b

1
Ed ancora I = ln 2 a 2 x 2 + abx + ac + 2ax + b + C . (VI.12.*)
a

116

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1
2) a < 0 e I = ∫ dx .
ax + bx + c
2

Poniamo: ax 2 + bx + c = t ( x − α ) , essendo ax 2 + bx + c = a ( x − α )( x − β ) , con α < x < β .

Otteniamo: a ( x − α )( x − β ) = t 2 ( x − α ) 2 , ax − aβ = t 2 x − t 2α , x(a − t 2 ) = aβ − αt 2 , cioè

aβ − α t 2 − 2αt (a − t 2 ) + 2t (aβ − αt 2 ) 2at ( β − α )


x= e quindi dx = dt = dt , da cui
a −t2 (a − t )
2 2
(a − t ) 2 2

aβ − α t 2 at ( β − α )
ax 2 + bx + c = t ( x − α ) = t − αt = . In definitiva:
a−t 2
a −t2

−1
 at ( β − α  2at ( β − α ) a −t2 2at ( β − α ) 2dt 2dt
I = ∫ ⋅ dt = ∫ ⋅ dt = ∫ = −∫ 2 =
 a −t 
2 
a−t (2 2
) at ( β − α ) a−t 2 2
( a−t )
2
t + (−a)

1 1

= −2 ∫ a 2 −a 2 t
 t 
2
dt = −
−a
∫ t
2
dt = −
−a
arctg
−a
+C .
  + 1   + 1
 −a   −a 

a ( x − α )( x − β ) a( x − β )
Quindi, essendo t= = , se x > α e di conseguenza α < x < β ,
x −α x −α
2 β−x
possiamo concludere che I = − arctg + C . (VI.12.**)
−a x −α

1
Esempio [VI.12.1] (relativo al caso 1) a > 0 ). Calcolare I = ∫ x2 − x +1
dx .

Risolviamo dapprima con tutti i passaggi.

Poniamo x2 − x +1 = t − x (t = x + x 2 − x + 1) .

Eleviamo al quadrato (t > x): x 2 − x + 1 = t 2 − 2tx + x 2 , da cui

t 2 −1 2(t 2 − t + 1)
x= e quindi dx = dt .
2t − 1 (2t − 1) 2

1 2(t 2 − t + 1) 2 t2 − t +1
I= ∫ t 2 − t + 1 (2t − 1) 2
⋅ dt = ∫ 2t − 1 dt = ln 2t − 1 + C , essendo t − x =
2t − 1
.

2t − 1

117

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Quindi: I = ln 2 x 2 − x + 1 + 2 x − 1 + C , che sarebbe stato immediatamente trovato, ponendo nella


formula (VI.12.*): a = −1, α = 1, β = 2.

1
Esempio [VI.12.2] (relativo al caso 2) a < 0 ). Calcolare I = ∫
− x + 3x − 2
dx .
2

Analogamente a quanto fatto in precedenza, essendo − x 2 + 3 x − 2 = −( x − 1)( x − 2) , poniamo:

− x 2 + 3 x − 2 = t ( x − 1) , con 1 < x < 2. Otteniamo: − ( x − 1)( x − 2) = t 2 ( x − 1) 2 , quindi

t2 + 2 − ( x − 1)( x − 2) 2− x
x= e t= = , con x > 1 (vedi sopra). Inoltre:
t2 +1 x −1 x −1

− 2t 1
dx = dt , x −1 = . Allora:
(t + 1) 2
2
t +1
2

− 2t1 − 2dt dt 2− x
I= ∫ (t 2
+ 1) 2
t
dt = ∫ 2

t +1
= −2 ∫ 2
t +1
= −2arctg
x −1
+ C , risultato che sarebbe stato

t 2 +1
immediatamente trovato, ponendo nella (VI.12.**): a = 1, α = 1, β = 2.

VI.13. AREA DELLA PARTE DI PIANO DELIMITATA DAL GRAFICO DI DUE


FUNZIONI.

Consideriamo due funzioni continue y = f (x) e y = g (x) e supponiamo che i loro grafici si
intersechino in due punti A e B di ascissa rispettivamente a e b. Supponiamo inoltre che ∀x ∈ [a, b]
sia f ( x) ≥ g ( x) , e che la parte di piano α delimitata dai due grafici in [a, b] appartenga al
semipiano delle ordinate positive, come in figura 37.

Fig. 37

118

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Tutto quanto si dirà varrà comunque, come ben si comprenderà (e sarebbe facile dimostrarlo), anche
nel caso in cui α attraversi l’asse x o ne stia completamente sotto.

Tenendo presente il significato geometrico di integrale definito, l’area di α è data dalla differenza
fra l’area del trapezoide AA’B’B, delimitato dal grafico di f (x) e quella del trapezoide AA’B’B
delimitato dal grafico di g (x) . Chiamando S la misura della superficie di α, abbiamo quindi:

b b b
S = ∫ f ( x)dx − ∫ g ( x)dx che, per la V.4.d, diventa S = ∫ [ f ( x) −g ( x)]dx . (VI.13.*)
a a a

Esempio [VI.13.1]. Sfruttiamo la formula precedente per calcolare l’area di un segmento


2
parabolico, che secondo il teorema di Archimede, è uguale ai di quella del rettangolo che ha un
3
lato coincidente con la corda che determina il segmento parabolico e il lato opposto tangente alla
parabola.
Verifichiamo il teorema nel caso particolare in cui la corda sia perpendicolare all’asse di simmetria
della parabola34.
Sia y = ax 2 , con a > 0, l’equazione della parabola con asse verticale. Il segmento parabolico è la
parte evidenziata in figura 38, mentre AA’B’B è il rettangolo circoscritto.

Fig. 38

Detta poi m (m > 0) l’ascissa di B, l’ordinata di B sarà y (m) = am 2 . L’area del rettangolo AA’B’B
varrà quindi
2m ⋅ am 2 = 2am 3 .

Ora la retta AB ha equazione y = am 2 , per cui l’area del segmento parabolico sarà data (vedi
VI.13.*) da:
m
m  1  1  1  4 2
S = ∫ (am − ax )dx = am 2 x − ax 3  = am 3 − am 3 −  − am 3 + am 3  = am 3 = ⋅ 2am 3 ,
2 2
−m
 3  −m 3  3  3 3
c.v.d.
34
N.B. In questo caso si parla di rettangolo circoscritto al segmento parabolico.

119

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VI.14. VOLUME DI UN SOLIDO DI ROTAZIONE.

Sia y = f (x) una funzione continua in un intervallo [a, b] . Supponiamo inizialmente che sia
f ( x) ≥ 0, ∀x ∈ [a, b] . Consideriamo ora il trapezoide T delimitato dal grafico della funzione, dalle
rette x = a, x = b e dall’asse x. Facciamo ruotare tale trapezoide di un giro completo attorno all’asse
x: vedi figura 39 (a) .

Fig. 39
(a) (b)

Si ottiene così un solido di rotazione α di cui vogliamo determinare la misura V del volume.
Procediamo in modo analogo a quanto fatto in VI.3. Suddividiamo l’intervallo, la cui ampiezza è
b − a, in n parti uguali35, ciascuna delle quali avrà quindi ampiezza
b−a
∆x = .
n
Gli estremi dell’intervallo sono x0 = a; x1 = a + ∆x; x 2 = a + 2∆x; ...; xn = b .
In ciascuno di tali intervalli la f(x) è continua e perciò, per il teorema di Weierstrass (II.9.2), assume
valore massimo e valore minimo assoluti. Chiameremo Mi e mi nell’ordine questi valori della
funzione nel generico intervallo [ xi −1 , xi ] . Consideriamo ora il plurirettangolo inscritto e il
plurirettangolo circoscritto al trapezoide T (vedi fig. 39 (b)): questi plurirettangoli, nella rotazione
di un giro completo attorno all’asse x danno luogo a due solidi, uno inscrito e l’altro circoscritto, al
solido α, solidi formati da n cilindretti tutti di altezza ∆x: l’i-esimo cilindro inscritto, relativo
all’intervallo [ xi −1 , xi ] , ha il raggio di base che misura mi. Analogamente l’i-esimo cilindro
circoscritto ha il raggio di base che misura Mi. Ricordando che il volume di un cilindro di raggio r e
di altezza h è πr 2 h , indicando rispettivamente con v n e Vn le misure dei volumi del plurirettangolo
inscritto e circoscritto, abbiamo

n n
v n = πm1 ∆x + πm2 ∆x + ... + πmn ∆x = ∑ πmi ∆x = π∆x ∑ mi
2 2 2 2 2
(1)
i =1 i =1
n n
Vn = πM 1 ∆x + πM 2 ∆x + ... + πM n ∆x = ∑ πM i ∆x = π ∆x ∑ M i
2 2 2 2 2
(2)
i =1 i =1

35
N.B. Vedi nota 21.

120

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Notiamo che la (1) si può considerare la somma integrale inferiore della funzione di equazione

y = π [ f (x)]
2

relativa alla suddivisione effettuata di [a, b] 36. Analogamente la (2) è la somma integrale superiore
della stessa funzione.

Al crescere di n i valori di vn e di Vn formano due successioni E’ intuitivo che tali successioni


convergono ad un unico limite che rappresenta la misura V del volume del solido di rotazione α37.
Possiamo quindi concludere che

b
[
lim v n = lim Vn = ∫ π f 2 ( x) dx .
n → +∞ n → +∞ a
]
Abbiamo stabilito in definitiva che

b
[
V = π ∫ f 2 ( x) dx
a
] (VI.14.*)

Altro modo per arrivare alla stessa formula (utilizzando maggiormente l’intuizione).
b
Si consideri il trapezoide T . La sua area sappiamo che vale ∫
a
f ( x)dx . Ora ruotiamo T intorno
all’asse x per un giro completo. Pensato a come costante ed x variabile il volume del solido di
rotazione è una funzione di x e sarà denotato con V(x). E’ intuitivo che la funzione V(x) sia una
funzione derivabile (alla stregua del VI.5.2): cerchiamo la derivata di V(x).
Prendendo ∆x molto piccolo, l’incremento ∆V = V(x + ∆x) −V(x) si può considerare con molta
approssimazione uguale al volume di un cilindretto avente per raggio di base f(x) e per altezza ∆x,
cioè molto vicino a π [ f ( x)] ∆x . Potremmo scrivere
2

V ( x + ∆x) − V ( x)
= π [ f ( x)] , cioè V ' ( x) = π [ f ( x)] .
2 2
lim
∆n →0 ∆x
Integrando fra gli estremi a e b, troviamo proprio la (VI.14.*): V = π ∫ f 2 ( x) dx .
a
b
[ ]

Esempio [VI.14.1]. Calcolare il volume della sfera.


Consideriamo la sfera generata dalla rotazione, intorno all’asse x, del semicerchio di raggio r avente
il centro nell’origine degli assi. Vedasi pure fig. 36 del VI.9.n.4.
L’equazione della semicirconferenza nel semipiano positivo delle ordinate è, come sappiamo
y = r 2 − x 2 . Il volume della sfera è perciò

r
r  x3   r3  r 3  4
V = π ∫ (r − x )dx = π r 2 x −  = π r 3 − −  − r 3 +  = πr 3 ,
2 2
come è noto dalla
−r 3  −r 3  3  3
 
geometria.

36
N.B. Avendo supposto f(x) ≥ 0, ∀x ∈ [a, b], la funzione f 2(x) ha gli stessi massimi e minimi di f(x) in ogni
intervallino in cui è suddiviso [a, b].
37
N.B. Se f(x) è continua lo è pure π f 2(x).

121

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VI.15. INTEGRALI IMPROPRI.

Finora abbiamo presentato il concetto di integrale definito di una funzione continua in un intervallo
chiuso e limitato (“compatto” secondo definizione appropriata). Estendiamo ora la definizione di
integrale trattando anche il caso di funzioni continue in un intervallo non chiuso o illimitato o di
funzioni dotate di un numero finito di punti di discontinuità, dette funzioni generalmente continue38.

1) Integrali impropri su intervalli illimitati (primo tipo).


Sia f(x) una funzione continua in un intervallo illimitato del tipo [a,+∞) . In tali ipotesi f(x) risulta
integrabile in ogni sottointervallo limitato [a, t ] con t > a, cioè in ogni intervallo [a, t ] ⊂ [a,+∞) . In
t
questo caso esiste l’integrale ∫a
f ( x)dx e il suo valore risulta una funzione dell’estremo superiore t
di integrazione.

Si dice che la funzione f(x) è integrabile in senso improprio (o generalizzato) nell’interallo [a,+∞)
se esiste finito il limite
t
lim ∫ f ( x)dx , (VI.15.*)
t → +∞ a
e scriveremo
+∞ t

a
f ( x)dx = lim ∫ f ( x)dx .
t → +∞ a

In tal caso si dice che l’integrale improprio (o generalizzato)


+∞
∫a
f ( x)dx (VI.15.**)
è convergente.

Se invece il limite (VI.15.*) è infinito, si dice che f(x) non è integrabile in senso improprio in
[a,+∞) e che l’integrale (VI.15.**) è divergente.

Se infine il limite (VI.15.*) non esiste, si dice che f(x) non è integrabile in senso improprio in
[a,+∞) e che l’integrale (VI.15.**) è indeterminato.

Analogamente si definisce l’integrale improprio di una funzione continua in un intervallo del tipo
(−∞, b] :
b b

−∞
f ( x)dx = lim ∫
s → −∞ s
f ( x)dx ,

nonché l’integrale improprio di una funzione f(x) continua nell’intervallo (−∞,+∞) , cioè in tutto ℜ:

+∞ t

−∞
f ( x)dx = lim ∫
t → +∞ s
f ( x)dx .
s → −∞

Si noti che le variabili s e t devono tendere all’infinito in modo indipendente tra loro.

38
N.B. Sia I un intervallo in ℜ (limitato o illimitato). Una funzione I → ℜ si dice generalmente continua (in breve
g.c.) se l’insieme dei suoi punti di discontinuità non ha punti di accumulazione reali, ovvero se ogni sottointervallo
limitato di I ammette al più un numero finito di discontinuità.

122

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1 +∞
Esempio [VI.15.1]. Calcolare l’integrale
x2 ∫
dx .
1
t
+∞ 1 t 1  1  1 
Si ha ∫ 2
dx = lim ∫ 2 dx = lim −  = lim  − + 1 = 1 .
1 x t → +∞ 1 x t → +∞
 x  1 t →+∞ t 
1
Possiamo quindi affermare che la funzione y = 2 ha integrale improprio convergente, ossia è
x
integrabile, sull’intervallo infinito [1,+∞) e il suddetto integrale vale 1.

L’integrale definito di cui sopra rappresenta (significato geometrico) ovviamente l’area della parte
di piano illimitata compresa tra il grafico della funzione, l’asse x e la retta x = 1. Vedi figura 40.

Fig. 40

Si noti come un “profilo” perimetrale infinito possa talvolta racchiudere una superficie di area
finita.

+∞ 1
Esempio [VI.15.2]. Calcolare l’integrale ∫
−∞ 1+ x2
dx .

π  π
dx = lim [arctgx ]s = lim (arctgt − arctgs ) = −  −  = π .
+∞1 t 1
∫ dx = lim ∫
t
Si ha
−∞ 1 + x 2 t → +∞ s 1 + x 2 t → +∞ t → +∞ 2  2
s → −∞ s → −∞ s → −∞

1
Possiamo quindi affermare che la funzione y = ha integrale improprio convergente, ossia è
1+ x2
integrabile, sull’intervallo infinito (−∞,+∞) e il suddetto integrale vale π.

+∞
Esempio [VI.15.3]. Calcolare l’integrale ∫
0
sin xdx .

sin xdx = lim ∫ sin xdx = lim [− cos x ]0 = lim (1 − cos t ) .


+∞ t

t
Si ha
0 t → +∞ 0 t → +∞ t → +∞

Ma, siccome non esiste il lim cos t , possiamo dire che la funzione y = sinx non è integrabile
t → +∞

sull’intervallo [0,+∞) .

123

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+∞ 1
Esempio [VI.15.4]. Calcolare l’integrale ∫
2 3x − 2
dx .
t
+∞ 1 1  1 1 
Si ha ∫ dx = lim  ln(3 x − 2) = lim  ln(3t − 2) − ln 4  = +∞ .
2 3x − 2

t → +∞ 3
 2 t →+∞ 3 3 
Possiamo quindi concludere che l’integrale improprio proposto è divergente e che la funzione
1
y= non è integrabile, in senso generalizzato, in [2,+∞) .
3x − 2

2) Integrali impropri su intervalli limitati (secondo tipo).


Consideriamo il caso di una funzione f(x) che sia continua nell’intervallo aperto a destra [a, b) ,
cioè per a ≤ x < b . Siccome la funzione risulta continua in ogni intervallo del tipo [a, b − ε ] , con
0 < ε < b − a , strettamente contenuto in [a, b) , esiste l’integrale

b −ε

a
f ( x)dx
che risulta una funzione di ε .
Orbene, se esiste finito il limite:
b −ε
lim+ ∫ f ( x)dx , (VI.15.***)
ε →0 a

si dice che la funzione f(x) ha integrale improprio convergente nell’intervallo [a, b) e, per
definizione, si pone:
b b −ε
∫a
f ( x)dx = lim+ ∫
ε →0 a
f ( x)dx .

Se invece il limite (VI.15.***) è infinito, si dice che f(x) non è integrabile in senso improprio in
b
[a, b) e che l’integrale ∫
a
f ( x)dx è divergente.

Se infine il limite (VI.15.***) non esiste, si dice che f(x) non è integrabile in senso improprio in
b
[a, b) e che l’integrale ∫
a
f ( x)dx è indeterminato.

Analogamente si definisce l’integrale improprio di una funzione continua in un intervallo del tipo
(a, b] :
b b
∫a
f ( x)dx = lim+ ∫
δ →0 a +δ
f ( x)dx ,

nonché l’integrale improprio di una funzione f(x) continua nell’intervallo (a, b) :

b b −ε
∫a
f ( x)dx = lim+ ∫
ε → 0 a +δ
f ( x)dx .
δ →0 +

Si noti che le variabili ε e δ devono tendere a zero in modo indipendente tra loro.

124

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3 1
Esempio [VI.15.5]. Calcolare l’integrale ∫
0
3− x
dx .

1
La funzione integranda f ( x) = è definita per x < 3 ed è continua, quindi integrabile in ogni
3− x
intervallo del tipo [0,3-ε) con 0 < ε < 3.
Osserviamo pure che una primitiva di f(x) è F(x) = − 2 3 − x .
Si ha quindi ∫
3

0
1
3− x
dx = lim+ ∫
ε →0 0
3−ε 1
3− x
dx = lim+ − 2 3 − 3 + ε + 2 3 = 2 3 .
ε →0
( )

3) Integrali impropri contemporaneamente di primo e secondo tipo.


Talvolta si incontrano integrali che sono contemporaneamente del primo e del secondo tipo (come
noi qui li abbiamo ordinati). Chiariamo con un esempio la questione.

+∞ 1
Esempio [VI.15.6]. Calcolare l’integrale ∫
1
x x −1
dx .

1
Osserviamo dapprima che la funzione integranda f ( x) = è continua e positiva
x x −1
nell’intervallo (1,+∞) .
Cerchiamo una primitiva di f (x) . Ponendo x −1 = t abbiamo x = t2 +1, nonché
1
dx = dt . Utilizzando il metodo di sostituzione, otteniamo:
2 x −1
1 2
∫ x x − 1 dx = ∫ t 2 + 1 dt = 2arctgt + C = 2arctg x − 1 + C . Avremo:

∫1
+∞ 1
x x −1
dx = lim+ ∫
δ →0 1+δ
t 1
x x −1
[
dx = lim+ 2arctg x − 1 1+δ =
δ →0
]t

t → +∞ t → +∞

(
= lim+ 2arctg t − 1 − 2arctg δ = 2 ⋅
δ →0
) π
2
−0 =π .
t → +∞

4) Integrale di una funzione generalmente continua.

Sia f(x) una funzione generalmente continua39 in I e siano c1 , c 2 ,..., c n i suoi punti di discontinuità.
Suddividiamo I in un certo numero di sottointervalli i cui estremi siano c1 , c 2 ,..., c n , oltre agli
eventuali estremi di I, in modo che f(x) sia continua nei punti interni di ciascuno di tali intervalli.
Possiamo quindi considerare, per ogni sottointervallo suddetto, l’integrale in senso improprio di
f(x).
Se tali integrali sono tutti convergenti diremo che f(x) è integrabile in senso improprio in I e il
valore dell’integrale di f(x) sarà, per definizione, la somma algebrica dei suddetti integrali.

39
N.B. Vedi nota 30.

125

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Chiariamo con alcuni esempi la questione.

3 1
Esempio [VI.15.7]. Calcolare, se è possibile, l’integrale ∫
−1 3
x
dx .

1
La funzione integranda f ( x) = è continua in tutto l’intervallo I = [−1,3], tranne in x = 0, dove
3
x
presenta una discontinuità di seconda specie (vedi II.4). Perciò f(x) è generalmente continua in I.
Suddividiamo allora l’intervallo I negli intervalli [−1,0] e [0,3], in ciascuno dei quali ha senso
calcolare l’integrale improprio di f(x) (vedi figura 41).

Fig. 41

ε
−ε 3 
dx = lim+  3 x 2  = lim+  3 (− ε ) − 1 = − .
0 1 1 3 3
∫ dx = lim+ ∫
2
Si ha
−1 3
x ε →0 −1 3
x ε →0  2  −1 ε →0 2   2

( 9− )
3
3 1 3 1 3  3 33
∫ dx = lim+ ∫ dx = lim+  3 x 2  = lim+ 3 3
δ2 = 9.
0 3
x δ →0 0 3
x δ →0  2  δ δ →0 2 2

Per la convergenza dei suddetti integrali, possiamo dire che esiste l’integrale improprio di f(x) in
[−1,3] e che esso è dato da


3

−1 3
1
x
dx = ∫
0

−1 3
1
x
dx + ∫
0 3
3 1
x
dx = −
3 33
+
2 2
9=
3
2
(
3
)
9 −1 .

( )
3
3 3 2  3 3 1
NOTA BENE. In questo caso, se avessimo operato così: ∫−1 3 x dx =  2 x  −1 = 2 3 9 − 1 , cioè,
pur seguendo un procedimento errato avremmo ottenuto un risultato corretto. Si badi bene che ciò
4
1
non avviene in generale: si provi ad esempio con ∫ dx , il quale diverge, ma con il
1
( x − 2) 2

3
procedimento scorretto succitato si otterrebbe − (risultato assurdo di per sé: la funzione
2

126

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1 2
integranda è sempre positiva). Oppure con
x +1 ∫
dx : otterremmo ln 3 , detto valore principale
−2

di Cauchy, che qui avrebbe pure senso come area-differenza fra due aree infinite, ma in qualche
modo confrontabili (come pure accadrebbe nell’esempio [VI.15.7]), nel momento in cui i due
integrali in [−2,−1] e in [−1,2] divergono.

Esempio [VI.15.8].
3 
x
2
per 0 ≤ x <1
Calcolare, se è possibile, l’integrale ∫0 f ( x )dx con f ( x ) = 
3 − 2
per 1 ≤ x ≤ 3
.
 x x
La funzione integranda ha una discontinuità di prima specie (“salto”, vedi II.4) in x = 1, mentre è
continua nel resto dell’intervallo [0,3]. Vedi figura 42.

Fig. 42

Operiamo così:
1−ε 3


3
f ( x)dx = lim+ ∫
1−ε
( 3
) 1  3 1 
x 2 dx + ∫ 3 x − x 2 dx = lim+  x 3  +  x 2 − x 3  =
ε →0  3
0 ε →0 0 1
0 2 3 1

= lim+
ε →0
1
(1 − ε )3 +
27 3 1 1 27
−9− + = +
3 1 11
−9− + = .
3 2 2 3 3 2 2 3 3

OSSERVAZIONE. Poiché la funzione y = x 2 è continua in x = 1 , si sarebbe potuto calcolare


l’integrale in senso proprio.

 x3
 per 0 ≤ x <1
3
NOTA BENE. Si noti che la funzione integrale F ( x) =  3
,
3 x2 − x − 5 per 1≤ x ≤ 3
2
 3 6

è continua anche in x = 1 (vedi fig. 43).

127

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Fig. 43

Consideriamo ora Φ( x) , funzione integrale di F (x) :

 x4
 per 0 ≤ x <1
 12
Φ( x) =  3 4
.
x − x − 5 x + 1 per 1≤ x ≤ 3

 2 12 6 2

1
Essa è continua [anche] in x = 1 ( Φ(1) = ) ed è pure derivabile in x = 1 (vedi III.15):
12

 x3
 per 0 ≤ x <1
3
Φ' ( x) = F ( x) =  3
.
3 x2 − x − 5 per 1≤ x ≤ 3

2 3 6

OSSERVAZIONE. Una funzione si “abbellisce”(!!!) integrandola…(vedi fig. 44).

Fig. 44

128

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VI.16. LUNGHEZZA DI UN ARCO DI CURVA PIANA.

Sia γ un arco di curva piana di equazione y = f (x) compreso fra le ordinate corrispondenti alle
ascisse a e b. Supponiamo che f (x) sia continua e derivabile con derivata continua nell’ intervallo
I = [a, b] . Vogliamo calcolare la lunghezza L di γ , chiamata con le ipotesi fatte, arco di curva
regolare. Vedi figura 45.

Fig. 45

Suddividiamo l’intervallo, la cui ampiezza è b − a, in n parti uguali40, ciascuna delle quali avrà
quindi misura
b−a
∆x = .
n
Gli estremi dell’intervallo sono x0 = a; x1 = a + ∆x; x 2 = a + 2∆x; ...; xn = b .
Da questi estremi conduciamo le perpendicolari all’asse delle ascisse; queste rette incontreranno
l’arco γ nei punti P0, P1, …, Pn-1, Pn, come in figura.
Per ognuno degli intervalli Ii conduciamo per l’estremo Pi-1 la retta tangente alla curva che interseca
in Qi la retta parallela all’asse y passante per Pi. Il segmento Pi-1Qi è un’approssimazione
dell’archetto di curva Pi-1Pi (vedi figura).
La somma delle misure degli n segmenti Pi-1Qi così ottenuti approssimerà la lunghezza dell’arco
P0Pn tanto meglio quanto più, in generale, sarà grande il valore di n.

Il segmentino generico ha lunghezza (teorema di Pitagora):

40
N.B. (Vedi nota 29) In generale la suddivisione viene fatta in parti di ampiezze anche diverse fra loro. L’importante è
che le suddette ampiezze tendano tutte a zero. In questo caso i procedimenti sono equivalenti.

129

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∆S i = (∆x) 2 + (∆y i ) = (∆x) 2 + [∆x ⋅ f ' ( xi −1 )] = (∆x) 2 + (∆x ) ⋅ [ f ' ( xi −1 )] = ∆x 1 + [ f ' ( xi −1 )]


2 2 2 2 2

.
La somma delle misure degli n segmentini sarà
n n
S n = ∑ ∆S i = ∆x ∑ 1 + [ f ' ( xi −1 )]
2

i =1 i =1
o, più sinteticamente
b
S n = ∑ 1 + [ f ' ( x)] ⋅ ∆x .
2

a
E’ naturale quindi definire (ammesse tutte le ipotesi del caso, come da inizio di questo capitolo)
come lunghezza L di γ, arco di curva regolare:

1 + [ f ' ( x)] ⋅ dx
b
L = lim S n = ∫
2
n→+∞ a

OSSERVAZIONE. La continuità di f ' ( x) garantisce che il limite suddetto è un valore finito.


Infatti se f ' ( x) è continua in I, allora è ivi continua pure F ( x) = 1 + [ f ' ( x)] . Per il teorema della
2

b
media del calcolo integrale esiste almeno un punto c di I, tale che ∫
a
F ( x)dx = (b − a ) F (c) , valore
finito, c.v.d.

Esempio.
2
Determinare la lunghezza dell’arco di curva di equazione y = , situato nel primo quadrante
x −1
degli assi e compreso fra i punti di ascisse 2 e 5.
La curva è un’iperbole equilatera traslata (funzione omografica). Vedi figura 46.

Fig. 46

 1
Si ha A(2,2) e B  5,  . La lunghezza dell’arco AB sarà
 2
dx = [2 ln x − 1 ]2 = 2 ln 4 = 4 ln 2 ≅ 2,77 .
5 2
L=∫
5
2 x −1

130

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APPENDICE
A.1 − ELEMENTI DI LOGICA FORMALE (O SIMBOLICA)

• Che cosa non è la logica formale: l’arte di ragionare.


• Che cosa è: semplicemente una presa di coscienza dei processi deduttivi.

La logica presuppone una oggettività (totale) di ragionamento.

CALCOLO DELLE PROPOSIZIONI

1) Proposizioni

Definizione 1:
Per proposizione (o enunciato41) intendiamo un’espressione del linguaggio (o forma linguistica)
per la quale ha senso affermare che essa è vera o falsa, e a cui compete uno ed uno solo dei due
suddetti attributi (cioè una proposizione o è solo vera o è solo falsa).

Sono esempi di proposizioni (vere o false):


- Torino è in Piemonte
- 2>5
- La luna ruota intorno alla terra

Non sono invece considerate proposizioni le seguenti espressioni (perché non si può assegnare
loro un valore di verità 0 o 1):
- Questo quadro è bello
- Domani pioverà
- Chi vincerà il prossimo campionato?

Stiamo quindi occupandoci di una “logica a due valori” (vero o falso). Tali valori (o attributi)
saranno indicati con 0 (falso) e 1 (vero). Infatti l’algebra delle proposizioni si basa su due principi:

1) Principio di non contraddizione: una proposizione non può essere contemporaneamente vera
e falsa.
2) Principio del terzo escluso: se una proposizione è vera, la sua negazione è falsa; e viceversa.

Una o più proposizioni possono essere combinate tra loro, per formarne altre più complesse (come
capita nel linguaggio usuale), attraverso dei connettivi (o operatori) che andremo a studiare.
Il valore di verità delle proposizioni composte dipende dal valore di verità delle proposizioni
componenti e per determinarlo faremo uso delle tavole di verità (o tabelle di verità o matrici di
verità), le quali associano, ad ogni distribuzione dei valori di verità delle proposizioni componenti,
il corrispondente valore di verità della proposizione composta.

41
N.B. Alcuni autori distinguono fra proposizione ed enunciato. Vedasi ad es. D. C. Demaria, “Topologia generale”,
vol. 1, ed. Tirrenia (TO), 1970.

131

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Indicheremo, per brevità, con una lettera (latina, minuscola o maiuscola) un certo enunciato.

Due proposizioni p e q aventi la stessa tavola di verità si dicono equivalenti. Indicheremo ciò con
la scrittura p ≡ q.

2) Connettivi proposizionali
a) Negazione. E’ una operazione unaria, ossia operante su un solo enunciato. Essa cambia il valore
di verità di quest’ultimo. Si indica col simbolo “¬” oppure si pone una lineetta sull’espressione che
rappresenta la frase da negare.

Ad esempio, sia p = “Carlo studia”


sarà ¬p = p = “Carlo non studia”
¬p si legge “non p” e si ha la seguente tavola di verità:

p ¬p
0 1
1 0

Si deduce che

La negazione di una proposizione è vera se la proposizione è falsa, mentre è falsa se la proposizione


è vera: ne cambia quindi i valori di verità.

Proprietà 1 (legge della doppia negazione): ¬¬p ≡ p (oppure si scrive p ≡ p)

b) Congiunzione logica o prodotto logico. E’ un’operazione binaria che, date due proposizioni, ne
produce una nuova collegandole con la particella “e” (o “et”, dal latino), indicata con “∧”.
Simbolicamente si scrive p ∧ q.

Ad esempio, sia p = “Carlo studia”


q = “Piero mangia”
sarà p ∧ q = “Carlo studia e Piero mangia”

Il prodotto logico di due proposizione è vero se entrambe le proposizioni componenti lo sono, falso
in tutti gli altri casi.

Eccone la tavola di verità:

p q p∧q
0 0 0
0 1 0
1 0 0
1 1 1

132

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c) Disgiunzione non esclusiva o somma logica. E’ un’operazione binaria che, date due
proposizioni, ne produce una nuova collegandole con la particella “o” (o “vel” latino), indicata con
“∨”. Simbolicamente si scrive p ∨ q.
Il significato, qui, del connettivo “o” è quello di non escludere il contemporaneo verificarsi di ciò
che descrivono le due proposizioni, proprio nel senso del “VEL” latino, al contrario dell’”AUT” il
quale esclude che due azioni possano avvenire contemporaneamente: “Aut disce aut discede” che
significa “O studi o te ne vai”, cioè può avvenire una sola delle azioni previste.

Ad esempio, sia p = “Carlo studia”


q = “Piero mangia”
sarà p ∨ q = “Carlo studia o Piero mangia”

La somma logica di due proposizione è falsa se entrambe le proposizioni componenti lo sono, vera
in tutti gli altri casi.

Eccone la tavola di verità:

p q p∨q
0 0 0
0 1 0
1 0 0
1 1 1

d) Implicazione materiale. E’ un’operazione binaria che, date due proposizioni p e q, le lega


mediante l’espressione “se p allora q” e si indica scrivendo p → q, dove p è detta antecedente e q
conseguente. Si legge anche, sinteticamente, “p implica q”.

Ad esempio, sia p = “Carlo studia”


q = “Carlo è promosso”
sarà p → q = “Se Carlo studia allora Carlo è promosso”

La proposizione composta mediante l’implicazione materiale è falsa quando l’antecedente è vera e


la conseguente è falsa. In tutti gli altri casi è vera.

Eccone la tavola di verità:

p q p→q
0 0 1
0 1 1
1 0 0
1 1 1

Osservazione 1. Ci si potrebbe stupire del fatto che “FALSO implica VERO” dia “VERO”. Ci
sono vari modi per giustificarlo, ma si pensi che qui siamo in un ambiente di tipo assiomatico, in
cui le regole iniziali (i postulati) vengono dati “arbitrariamente”, ma non senza una specifica

133

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finalità. Ad es. il motivo più “tecnico” di questa affermazione è che in questo modo si mantiene
come tautologia (vedi più avanti) il “modus ponens”, che è la formalizzazione del processo
deduttivo per eccellenza che l’uomo razionale ha comunemente ed istintivamente sempre utilizzato.

e) Biimplicazione (o doppia implicazione o bicondizionale o equivalenza). E’ il connettivo che


lega due proposizioni p e q con l’espressione “p se e solo se q” e si indica scrivendo p ↔ q.

Ad esempio, sia p = “Il negoziante vende la merce”


q = “Il cliente paga subito”
sarà p ↔ q = “Il negoziante vende la merce se e solo se il cliente paga subito”

La proposizione composta con la biimplicazione è vera quando le sue componenti hanno lo stesso
valore di verità, cioè o sono entrambe vere o entrambe false. E’ falsa negli altri casi.

Eccone la tavola di verità:

p q p↔q
0 0 1
0 1 0
1 0 0
1 1 1

Nota 1. Esiste anche l’implicazione logica, indicata col simbolo “⇒”, per la quale l’antecedente è
sempre vero, utilizzata nella formulazione dei teoremi in cui, come è noto, l’ipotesi (antecedente) è
considerata sempre vera. Analogamente, in questo contesto, si utilizza il simbolo “⇔” per la
biimplicazione.
Va anche detto che molti autori non fanno distinzione fra le due simbologie (come anche qui si è
fatto al punto 5: esercizio di logica).

Ovviamente si possono comporre proposizioni in modo arbitrario (rispettando naturalmente la


sintassi), molto lunghe e complesse, delle quali ha interesse calcolarne le tavole di verità. Si farà
uso anche delle parentesi per distinguere un “blocco” dall’altro. Esempio:
(¬p ∨ (q ∧ r )) → ( p ∨ r )

Nota 2. La logica formale si occupa esclusivamente della SINTASSI (cioè della correttezza formale
delle frasi42) e non della SEMANTICA (cioè del significato intrinseco e specifico delle frasi). Ad
es. ha senso calcolare valori di verità dell’espressione “Se io sono Napoleone allora 3 più 5 fa 27”,
la quale non ha molto senso, diciamo, per la gente comune, ma è ben formata sintatticamente (ed
ortograficamente) potendosi correttamente esprimere nel linguaggio logico formale di cui ci stiamo
occupando.

Nota 3. La biimplicazione “↔” o “⇔”è in pratica una equivalenza fra proposizioni. Va però distinta
dall’equivalenza “≡” di cui abbiamo parlato all’inizio. Quest’ultima studia “dal di fuori”
(metalogica) il fatto che due affermazioni dicano la stessa cosa. L’altra fa parte dei connettivi della
teoria e può essere anche così definita:

42
N.B. Qui talvolta, per brevità e semplicità, si è fatto uso del termine “frase” al posto di “proposizione” (o
“proposizione composta”).

134

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( p ↔ q) ≡ ( p → q ) ∧ (q → p )

Definizione 2. Una frase sempre vera (indipendentemente cioè dai valori di verità delle sue
eventuali componenti) si chiama tautologia (o anche tesi logica).

Definizione 3. Una frase che può avere diversi valori di verità (in funzione di quelli delle sue
eventuali componenti), si chiama soddisfacibile o amfòtera o contingente.

Definizione 4. Una frase sempre falsa (indipendentemente cioè dai valori di verità delle sue
eventuali componenti) si chiama contraddizione.

Osservazione 2. Si può dimostrare che ogni operazione logica binaria si può esprimere utilizzando
solo i connettivi su esposti, anzi ne basterebbero solo due: la negazione ed uno dei connettivi ∨, ∧,
→. Ad es., utilizzando ¬ e ∨, possiamo “simulare” l’implicazione. Infatti si ottiene:
( p → q ) ≡ ¬p ∨ q
Scriviamola così ( p → q ) ↔ (¬p ∨ q ) e facciamo vedere che è una tautologia. Eccone la tavola
di verità che dimostra la tesi.

p q p→q ¬p ¬p ∨ q (p → q) ↔ (¬p ∨ q)
0 0 1 1 1 1
0 1 1 1 1 1
1 0 0 0 0 1
1 1 1 0 1 1

3) Proposizioni equivalenti

1) p≡ p legge della doppia negazione

2) ( p ∧ p) ≡ p legge di idempotenza di ∧
3) ( p ∨ p) ≡ p legge di idempotenza di ∨

4) ( p ∧ q ) ≡ (q ∧ p) legge di commutatività di ∧
5) ( p ∨ q ) ≡ (q ∨ p ) legge di commutatività di ∨

6) [( p ∧ q ) ∧ r ] ≡ [ p ∧ (q ∧ r )] legge di associatività di ∧
7) [( p ∨ q ) ∨ r ] ≡ [ p ∨ (q ∨ r )] legge di associatività di ∨

8) [( p ∧ q) ∨ r ] ≡ [( p ∨ r ) ∧ (q ∨ r )] leggi di distributività tra


9) [( p ∨ q) ∧ r ] ≡ [( p ∧ r ) ∨ (q ∧ r )] ∧ e ∧

10) [( p ∧ q) ∨ p ] ≡ p leggi di assorbimento tra

135

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11) [( p ∨ q) ∧ p ] ≡ p ∧ e ∧

12) ( p ∧ q ) ≡ p ∨ q leggi di De Morgan


13) ( p ∨ q ) ≡ p ∧ q

14) [ p → (q ∧ r )] ≡ [( p → q) ∧ ( p → r )] legge di distributività tra → e ∧


15) [ p → (q ∨ r )] ≡ [( p → q) ∨ ( p → r )] legge di distributività tra → e ∨

16) [( p ∧ q) → r ] ≡ [( p → r ) ∨ (q → r )]
17) [( p ∨ q) → r ] ≡ [( p → r ) ∧ (q → r )]

19) ( p ↔ q ) ≡ (q ↔ p) legge di commutatività di ↔

20) [ p → (q → r )] ≡ [q → ( p → r )]
21) ( p → q ) ≡ ( p ∨ q ) ≡ ( p ∧ q ) definizione di →

22) ( p ∧ q ) ≡ ( p → q ) definizione di ∧ mediante ¬ e →


23) ( p ∨ q) ≡ [( p → q) → q ] definizione di ∨ mediante →

24) ( p ↔ q ) ≡ [( p → q) ∧ (q → p)] ≡ [( p ∨ q) ∧ ( p ∨ q )] ≡ [( p ∧ q) ∨ ( p ∧ q )]
definizione di ↔

4) Alcune TAUTOLOGIE

1) p→ p legge di identità

2) p∨ p legge del terzo escluso

3) ( p ∨ p) legge di non contraddizione (*)

4) ( p ∨ p) → p

5) ( p → p) → p

6) [ p ∧ ( p → q)] → q modus ponens

7) ( p ∧ p) → q

8) p → ( p ∨ q)

136

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9) ( p ∧ q) → p

10) ( p → q) → [(r ∨ p) → (r ∨ q)]

11) ( p → q) → [(r → p) → (r → q)]

12) [( p → q) ∧ (q → r )] → ( p → r ) legge di transitività di →

13) [( p ↔ q) ∧ (q ↔ r )] → ( p ↔ r ) legge di transitività di ↔

14) ( p → q ) ↔ (q → p ) legge di contrapposizione (dimostrazione


per assurdo)

(*) NOTA. La legge di non contraddizione si può ricavare dal “terzo escluso” con le leggi di De
Morgan, o viceversa:

( p ∨ p ) ≡ ( p ∧ p)
oppure
( p ∨ p ) ≡ ( p ∧ p)
oppure
( p ∧ p) ≡ ( p ∨ p )

5) Esercizio di logica

Abbiamo le seguenti tre frasi:

1) “Bianchi non è eleggibile a meno che si sia dimesso dall’incarico e abbia firmato una rinuncia”.

2) “Bianchi è eleggibile se si è dimesso dall’incarico oppure ha firmato una rinuncia”.

3) “Bianchi è eleggibile solo se ha firmato una rinuncia”.

Si chiede di:

1°) Cifrare le frasi


2°) Dire “ad occhio” se una ne implica un’altra.
3°) Controllare tramite tavole di verità.

Bozza di risoluzione.

Chiamo:

A = “Bianchi è eleggibile”
137

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B = “Bianchi si è dimesso”
C = “Bianchi ha firmato una rinuncia”

Traduco le frasi:

1) ¬ A ⇒ ¬ (B ∧ C) e dunque (B ∧ C) ⇒ A
2) (B ∨ C) ⇒ A
3) A ⇒ C

Si scopre che (2) ⇒ (1) e vi è solo questa implicazione.

A B C B ∧ C (B ∧ C) ⇒ A B ∨ C (B ∨ C) ⇒ A (2)⇒(1) A⇒C
0 0 0 0 1 0 1 1 1
0 0 1 0 1 1 0 1 1
0 1 0 0 1 1 0 1 1
0 1 1 1 0 1 0 1 1
1 0 0 0 1 0 1 1 0
1 0 1 0 1 1 1 1 1
1 1 0 0 1 1 1 1 0
1 1 1 1 1 1 1 1 1
Prop. base Frase (1) Frase (2) Frase (3)

Osservazione 3. Qui si è utilizzato il simbolo ⇒ come implicazione materiale (alla maniera, come
si è accennato, di alcuni autori).

138

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A2. RELAZIONI IN UN INSIEME

Dato un insieme non vuoto A, consideriamo le relazioni di A in se stesso o relazioni nell’insieme A.


Sappiamo che esse risultano determinate da un sottoinsieme del prodotto cartesiano (ordinato) A×A
detto grafo.

Per indicare che due elementi x ed y nell’insieme A sono associati (o si corrispondono) nella
relazione, che chiameremo ℜ, scriveremo:
xℜy

DEFINIZIONE 1. – Il sottoinsieme di A×A formato da tutte le coppie (x, x), cioè tali
che il primo ed il secondo elemento sono uguali, si chiama
diagonale e si indica con ∆.

DEFINIZIONE 2. – Sia ℜ una relazione nell’insieme non vuoto A avente grafo F.


Diciamo che la relazione ℜ è riflessiva, se ogni elemento x di A
è in relazione con se stesso, cioè se la diagonale ∆ è contenuta
nel grafo F.

In simboli:

(∀x )(x ∈ A ⇒ xℜx ) oppure ∆ ⊆ F

DEFINIZIONE 3. – Nelle stesse condizioni della definizione precedente diciamo che


la relazione ℜ è simmetrica, se, ogniqualvolta l’elemento x è in
relazione con l’elemento y, anche y è in relazione con x; cioè se
il grafo F è simmetrico e quindi ℜ coincide con la sua inversa
ℜ-1 .

In simboli:

(∀x )(∀y )[(x ∈ A ∧ y ∈ A) ⇒ (xℜy ⇒ yℜx )] oppure F = F −1

DEFINIZIONE 4. – Sempre nelle stesse condizioni diciamo che una relazione ℜ è


transitiva, se il fatto che x sia in relazione con y e y sia in
relazione con z implica che x sia in relazione pure con z.

In simboli:

(∀x )(∀y )(∀z )[(x ∈ A ∧ y ∈ A ∧ z ∈ A) ⇒ (xℜy ∧ yℜz ⇒ xℜz )]

139

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DEFINIZIONE 5. – Sempre nelle stesse condizioni diciamo che una relazione ℜ è


antisimmetrica, se il fatto che x sia in relazione con y e y sia
in relazione con x implica che x sia uguale ad y; cioè
l’intersezione tra il grafo F ed il suo simmetrico è contenuta
nella diagonale ∆.

In simboli:

(∀x )(∀y ){(x ∈ A ∧ y ∈ A) ⇒ [(xℜy ∧ yℜx ) ⇒ x = y]}


oppure F ∩ F −1 ⊆ ∆

A.2.1. RELAZIONI DI EQUIVALENZA

DEFINIZIONE 6. – Sia A un insieme. Si chiama relazione di equivalenza in A


ogni relazione che goda delle proprietà riflessiva, simmetrica e
transitiva.

DEFINIZIONE 7. – Siano A un insieme e ℜ una sua relazione di equivalenza. Dato


un elemento a appartenente ad A, si chiama classe di
equivalenza determinata da a, e si scrive {a}, l’insieme degli
elementi a’ di A equivalenti ad a, cioè tali che sia a ℜ a’.

In simboli:

{a} = def {a’ / (a, a’) ∈ F} , dove F è il grafo di ℜ.

DEFINIZIONE 7. – Nelle stesse condizioni si chiama insieme quoziente e si scrive


A/ℜ, l’insieme delle classi di equivalenza di A:

PROPRIETA’ 1. – Ogni relazione di equivalenza nell’insieme A produce una


partizione di A e viceversa.

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A.2.2. RELAZIONI DI ORDINE

DEFINIZIONE 8. – Siano A un insieme e ℜ una relazione di A in sé. Si dice che ℜ


è una relazione di preordine se gode delle proprietà riflessiva e
transitiva. Si dice poi che l’insieme A è preordinato.

DEFINIZIONE 9. – Una relazione di preordine è detta relazione di ordine, se per


essa vale pure la proprietà antisimmetrica. L’insieme viene
quindi detto ordinato.

DEFINIZIONE 10. – Una relazione di ordine si dice di ordine totale se è


definita per ogni coppia dell’insieme A, di ordine parziale se
essa è definita soltanto per alcune coppie.
Analogamente per le relazioni di preordine.

DEFINIZIONE 11. – Se in una relazione di ordine ℜ risulta , per a∈A e b∈A, che
a ℜ b oppure b ℜ a, si dice che a e b sono confrontabili,
altrimenti che a e b non sono confrontabili.

141

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A.3 − CALCOLO COMBINATORIO

A.3.1. GENERALITA’

Se abbiamo n oggetti che indichiamo con una stessa lettera dell’alfabeto dotata di indice:

a1 , a 2 , a3 ,..., a n −1 , a n

e ci proponiamo di formare dei gruppi con tutti o parte di essi, i gruppi ottenuti potranno differire
sia per l’ordine in cui sono distribuiti gli oggetti, sia per la loro diversità.

Gli oggetti, che spesso sono semplicemente numeri, si chiamano in generale elementi.

Lo studio dei vari raggruppamenti che si possono formare con un numero finito di elementi ed il
modo di calcolare il numero dei raggruppamenti stessi prende il nome di calcolo combinatorio.

Nota storica. Il calcolo combinatorio fu studiato già da Galileo (1564-1642), ma si sviluppò con
Pascal (1623-1662) e con Leibniz (1646-1716) al quale è dovuta la denominazione ars
combinatoria, ma fiorì con Giacomo Bernoulli (1654-1705).

A.3.2. PERMUTAZIONI

Si chiamano permutazioni semplici o semplicemente permutazioni, tutti i possibili gruppi che si


possono formare con la totalità degli elementi dati, tutti distinti, in modo tale che due qualsiasi di
questi gruppi differiscano fra loro soltanto per l’ordine degli elementi stessi.

Si nota che il numero delle permutazioni è uguale a quello di tutti gli ordinamenti possibili degli
n oggetti considerati.

Per calcolarne il numero basta pensare ad n caselle in sequenza da riempire con gli n oggetti.
La prima casella può ospitare uno qualunque degli oggetti e quindi ha n possibilità di essere
riempita, la seconda ne ha n – 1, … , l’ultima ne ha esattamente 1.
Il totale si ha moltiplicando i numeri da 1 a n , infatti per ogni situazione della prima casella se
ne hanno n – 1 della seconda e così via.

Indicando con P n il numero delle permutazioni di n oggetti si ha quindi:

P n = n·(n –1)·(n –2)·(n –3)·…·3·2·1

che si può scrivere, applicando la proprietà commutativa:

142

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P n = 1·2·3·…·(n – 3)·(n –2)·(n – 1)·n

e si deduce che : il numero delle permutazioni semplici di n elementi è uguale al prodotto dei
primi n numeri interi.

Questo prodotto si indica con in simbolo n! , che si legge “n fattoriale”.


Si scrive quindi, usualmente:

P n = n!
Dall’essere n! = (n – 1)! n si deducono le relazioni:

n! n!
=n e = ( n − 1)!
( n − 1)! n

che non sarebbero possibili per n = 0 (per n = 1 è chiaro che 1! = 1; infatti se ho 1 solo oggetto
lo posso ordinare in un modo solo). Si è convenuto, però, di porre 0! = 1. Vedremo più avanti
l’utilità di questo.

ESEMPIO.

Calcolare in quanti modi posso assegnare le maglie a 11 calciatori.


Soluzione. P 11 = 11 ! = 39.916.800 .
L’ “enormità” (imprevista per i più) del risultato ben giustifica l’esclamativo adottato per il
fattoriale !!!

Se gli elementi possono essere ripetuti quante volte si voglia, parleremo di permutazioni con
ripetizione : sono tutte le permutazioni in cui ogni elemento si può ripetere quante volte si vuole,
ma, ovviamente, non più di n volte.

r
Per la ricerca del loro numero, indicato con P n , ragionando come sopra, ogni posizione può
essere occupata in n modi, quindi :

r n
Pn = n

ESEMPIO.

Quanti numeri di 3 cifre posso formare con le cifre “1,2,3” ?


r
Soluzione: P 3 = 3³ = 27.

143

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A.3.3. DISPOSIZIONI

Si chiamano disposizioni semplici o semplicemente disposizioni di n elementi a k a k, o di


classe k, con k ≤ n, tutti i possibili gruppi che si possono formare con k degli n elementi dati,
tutti distinti, tali che due qualunque di questi gruppi differiscano fra loro per qualche elemento o
per lo meno per l’ordine degli elementi stessi.

Ragionando ancora come prima, pensiamo di “riempire” k caselle con n oggetti in ogni modo
possibile. Avremo n modi per la 1ª casella, n – 1 modi per la 2ª, … , n – k + 1 per l’ultima (la

k.esima). Quindi, denotando con D n, k il numero delle suddette disposizioni semplici, avremo:

D n, k = n·(n – 1)·(n – 2)· … ·(n – k + 2)·(n – k + 1)

Possiamo perciò dire che: il numero delle disposizioni semplici di n elementi di classe k è dato
dal prodotto di k fattori interi, consecutivi e decrescenti, a partire da n.

Tenendo conto del significato del fattoriale, si può anche scrivere (formula di Newton):

n!
D n, k =
(n − k )!

1·2·3·...·(n − k )·(n − k + 1)·...·(n − 1)·n


Infatti D n, k = =
1·2·3·...·(n − k )

= (n – k+1)·…·(n –1)·n , c.v.d.


ESEMPIO.

Quante squadre di calcio di 11 giocatori (bravi ciascuno in ogni ruolo) posso formare con 18
calciatori a disposizione?
N.B.: Qui si intende che ogni squadra è diversa dall’altra, oltre che per i giocatori, anche per il
ruolo che essi occupano.
Soluzione. Il portiere (maglia n. 1) può essere scelto su 18 atleti, il terzino destro su 17, … , l’ala
sinistra sugli 8 rimasti. Quindi:
18! 18!
D 18,11 = = = 18·17·16·15·14·13·12·11·10·9·8 = 1.270.312.243.200,
(18 − 11)! 7!
numero enorme (che giustifica il fatto per cui ogni italiano ha la sua “Nazionale” !).

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Se gli oggetti possono essere ripetuti, abbiamo la seguente definizione:

Si chiamano disposizioni con ripetizione o complete di n elementi a k a k, o di classe k, le


disposizioni in cui ogni elemento si può ripetere quante volte si vuole, ma non più di k volte. Si
r
indicano con D n, k .

Per la ricerca del loro numero, seguendo ancora il vecchio ragionamento, pensiamo di assegnare a
ciascuna delle k caselle un elemento scelto sugli n dati. Per ogni casella ci sono quindi n
possibilità. Da cui:

r k
D n, k = n

ESEMPIO.
Quanti numeri di tre cifre si possono formare in base dieci, tenendo conto dello zero anche come
1ª e/o 2ª cifra ?
r
Soluzione. D 10,3 = 10³ = 1000 (ovvio: da 0 a 999).

N.B. Le permutazioni con ripetizione sono un caso particolare delle analoghe disposizioni ponendo
k = n.

A.3.4. COMBINAZIONI

Si chiamano combinazioni semplici o semplicemente combinazioni di n elementi a k a k, o di


classe k, con k ≤ n, tutti i possibili gruppi che si possono formare con k degli n elementi dati,
tutti distinti, tali che due qualsiasi di questi gruppi differiscano almeno per un elemento.
n
Si indicano con C n, k oppure con   (simbologia utilizzata per i coefficienti binomiali).
k 

In pratica sono come disposizioni in cui non conta l’ordine e quindi i gruppi che contengono gli
stessi elementi coincidono.
Basta quindi considerare quanti gruppi si possono formare con k elementi. Ma questo lo
sappiamo: sono k ! .
Giungiamo alla conclusione che

D n, k = k ! · C n, k

da cui
Dn ,k n(n − 1)(n − 2)...(n − k + 1)
C n, k = =
k! k!

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o meglio

n n!
C n, k =   =
k  k!·(n − k )!

ESEMPIO.

Quante squadre di calcio di 11 giocatori posso formare con 18 calciatori a disposizione?


N.B.: Qui si intende che ogni squadra è diversa dall’altra se cambia almeno un giocatore.
18  18·17·16·15·14·13·12
Soluzione. C 18,11 =   = = 31.824 .
 11  7·6·5·4·3·2·1
Si chiamano combinazioni con ripetizione di n elementi a k a k, o di classe k, le combinazioni
in cui ogni elemento può ripetersi quante volte si vuole, ma non più di k volte. Si indicano con
r
C n, k .

Il calcolo, in questo caso, è un po’ laborioso.

Si consideri il numero totale t delle comparizioni di un elemento (per es. A) nell’insieme delle
combinazioni. Per motivi di simmetria anche gli altri n – 1 elementi (B,C,…) compariranno t
volte cosicché il totale di tutte le comparse è t·n. Ma l’insieme di tutte le comparse si ottiene anche
considerando che ogni combinazione contiene k comparizioni e le combinazioni sono
r
C n, k , ossia
r k r
t·n = k· C n, k , da cui t = C n, k .
n
Ciò premesso, cerchiamo di ottenere t per altra via. Si considerino le combinazioni che
contengono almeno una volta l’elemento A; esse si possono costruire aggiungendo A alle diverse
r
successioni C n , k −1 , sia che queste contengano o non contengano l’elemento A. Ma per la formula
r
k −1 r
precedente l’insieme delle C n , k −1 contiene A per un totale di C n , k −1 , sicché
n

k −1 r r
n + k −1 r
t = C n , k −1 + C n , k −1 = C n , k −1
n n
da cui
k r n + k −1 r
t = C n, k = C n , k −1
n n
cioè
r n + k −1 r
C n, k = C n , k −1
k

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La formula è ricorrente. Per k decrescente l’ultimo termine è


r r
C n ,k −( k −1) = C n ,1 = n. Allora

r
r n + k − 1 n + (k − 1) − 1
C n, k = · · C n , ( k −1) −1
k k −1

ed ancora:
r
r n + k − 1 n + (k − 1) − 1 n + ( 2) − 1
C n, k = · ··· · C n , ( 2 ) −1
k k −1 2

(n + k − 1)·(n + k − 2)···(n + 1)·n


= . Infine:
k!

r  n + k − 1
C n, k =   = C n + k −1, k
 k 

Possiamo quindi dire che: il numero delle combinazioni con ripetizione di n elementi di classe k
è uguale al numero delle combinazioni semplici di n + k – 1 elementi di classe k (teorema di
Frenicle – XVII secolo).

ESEMPIO.

Se si lanciano 3 dadi le configurazioni di punti diverse possibili saranno:

r 6 + 3 −1 8 8!
C 6,3 =   =   = = 56.
 3  3 3!5!

A.3.5. COEFFICIENTI BINOMIALI

n
Come già si è accennato, le C n, k si possono scrivere come   (leggi: n su k) e prendono il
k 
nome di coefficienti binomiali. In questo simbolo n si chiama ordine e k si chiama classe o
indice.

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Questa terminologia è dovuta al fatto che i suddetti numeri si possono interpretare come i
n
coefficienti delle sviluppo di (a + b) . Essi infatti sono uguali ai rispettivi elementi del triangolo
di Tartaglia. Ciò lo si può provare tenendo conto delle seguenti proprietà (la cui dimostrazione si
riduce ad una verifica di un’uguaglianza) :

1ª proprietà – dei termini complementari

n  n 
  =  
k  n − k 

Verifichiamo.

n n! n!  n 
  = = =   , c.v.d.
 k  k!(n − k )! (n − k )![n − (n + k )]!  n − k 

Osservazione. Se ho 18 calciatori posso fare tante squadre da 11 giocatori quante squadre da 7


(infatti, cambiando la squadra tramite qualche sostituzione cambia pure la panchina).

2ª proprietà – Teorema di Stiefel

 n   n − 1  n − 1 
  =   +  
 k   k   k − 1

Verifichiamo.

n n!
1° membro:   =
 k  k!(n − k )!

 n − 1  n − 1  (n − 1)! (n − 1)! k (n − 1)!+(n − k )(n − 1)!


2° membro:   +   = + = =
 k   k − 1 k!(n − k − 1)! (k − 1)!(n − k )! k!( n − k )!
(k + n − k )(n − 1)! n(n − 1)! n!
= = = che è pure il 1° membro, c.v.d.
k!(n − k )! k!(n − k )! k!(n − k )!

Osservazione. La costruzione del triangolo di Tartaglia segue proprio questa regola: ogni numero di
una riga è uguale alla somma dei due adiacenti nella riga precedente.

3ª proprietà – di ricorrenza

n  n  n − k +1
  =  ·
 k   k − 1 k
Verifichiamo.

n n!
1° membro:   =
 k  k!(n − k )!

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 n  n − k +1 n! n − k +1 n!
2° membro:  · = ⋅ = , c.v.d.
 k − 1 k (k − 1)!(n − k + 1)! k k!(n − k )!

N.B. Molti testi elencano pure la proprietà (che noi abbiamo già in pratica considerato citando
Newton e che abbiamo utilizzato per le verifiche di cui sopra) di G. Stirling (sec. XVII):

 n n!
  =
 k  k!(n − k )!

A.3.6. BINOMIO DI NEWTON

Come già anticipato, la potenza del binomio si può scrivere (formula di Newton):

n n n n  n  1 n −1  n  0


(a + b) =  a n b 0 +   a n −1b1 +  a n − 2 b 2 + ... +   a b +   a bn
0 1 2  n − 1 n

In sintesi:

n n
n
(a + b) = ∑  k ·a n −k
bk
k =0  

 n
N.B. Qui si può osservare come la definizione 0! = 1 sia utile. Infatti deve essere   = 1 e
 0
n! n! 1
quindi = = = 1 , da cui la giustificazione della nostra ipotesi 0! = 1 .
0!·(n − 0)! 0!·n! 0!

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titolo: Analisi matematica - I

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