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Almond e Powell
Il celebre manuale di Almond e Powell, Comparative politics (1966), ispirato
all'approccio struttural-funzionalista e ai lavori di Easton e della scuola
comportamentista, specificava il contenuto dell'analisi della Politica vista come un
sistema. Secondo Almond e Powell, il sistema politico si struttura in una pluralità di
funzioni: 1. le funzioni di sistema, come quella di socializzazione e mobilitazione
politica o quella di selezione e reclutamento del personale politico,
corrisponderebbero alla formazione delle strutture interne alla scatola nera del
sistema stesso; 2. le funzioni di processo, ossia l'aggregazione e l'articolazione degli
interessi e la messa in opera delle decisioni, corrisponderebbero invece alle
concrete azioni portate sui due versanti del sistema eastoniano, l’input e l’output; 3.
le funzioni di politica pubblica (estrazione, regolazione e distribuzione/ridistribuzione
delle risorse) costituirebbero l'ulteriore insieme di operazioni che attendono gli attori
politici per rispondere in modo concreto alle domande e alle aspettative della
comunità. Quest’ultima dimensione della politica, i due autori la trovavano già allora
enormemente più complessa rispetto a quella che Max Weber aveva
sostanzialmente descritto come un’azione ripetitiva e prevedibile, basata sui due
tradizionali compiti dello Stato liberale: mantenimento dell'ordine interno e difesa dei
propri confini e delle proprie aspettative sullo scenario internazionale. Almond e
Powell indicavano una serie di strutture che assolverebbero molteplici funzioni dei
sistemi politici avanzati:
- gruppi di interesse e partiti politici, cioè i principali attori impegnati sul
versante degli input, che si occupano di raccogliere, rappresentare e
articolare le domande sociali;
- governi, parlamenti e altre istituzioni, centrali e locali, che compongono
l’ossatura istituzionale di un sistema;
- le amministrazioni e l’insieme degli attori pubblici e semipubblici che si
prendono cura della fase esecutiva e dell’implementazione dei programmi
pubblici, operando sul versante degli output del sistema.
Un ritorno di attenzione
Il sistema politico italiano è stato al centro di un ampio dibattito, costituendo l'oggetto
di una serie di sforzi interpretativi da parte della comunità scientifica. Il caso italiano
è stato reinserito nell'agenda di molti progetti comparati, figurando come caso di
studio rilevante in vari manuali.Non poteva essere altrimenti del resto: il
cambiamento politico avvenuto negli anni 1992-1996 e quello più strisciante degli
anni successivi, rappresenta un esempio molto peculiare, non solo per la storia
italiana, di transizione: il tipo di mutamento, classificabile come “transizione da
democrazia a democrazia”, non è sufficientemente studiato in letteratura, e
all'interno di questa categoria la transizione italiana sembra avere caratteri
particolari. L'improvviso sussulto della politica italiana, nel corso degli anni ‘90, aveva
risvegliato l'interesse degli osservatori per un'analisi condotta livello di sistema
politico: fino a quel momento la comunità scientifica non sentiva il bisogno di
rimettere mano a una interpretazione che poteva essere sintetizzata con la vecchia
metafora del calabrone. Come l'insetto pesante che riesce a volare, il sistema
politico italiano, nonostante i suoi molti problemi, “funzionava” e questa tutto
sommato era un elemento sufficiente, per quanto sorprendente. La sfida per gli
studiosi era quella di spiegare le cause e talvolta i prezzi di una democrazia difficile,
senza prestare un’eccessiva attenzione alla complessità di un sistema che in
qualche modo era considerato un modello di successo o, perlomeno, un sistema
destinato a rimanere in equilibrio. L'immagine prevalente del sistema politico italiano
è quella di un insieme di attori e pratiche politiche ancora in cerca di una loro
definizione, che proprio per questo motivo esercita grande fascino presso gli
osservatori internazionali.
Dalla crisi alla crisi: gli anni ‘90, il tentato riconsolidamento del
sistema politico, la recessione e lo stallo istituzionale del 2013
L'equilibrio di coalizione tra i “partiti di governo” è stato costantemente sottoposto a
negoziazione e questo ha determinato un alto livello di instabilità dei governi. Alla
fine, tuttavia, nonostante le tensioni, le accuse reciproche e le lunghe crisi di
governo, gli stessi partiti ritornavano sempre insieme.
Nei primi anni ‘90 il sistema politico ha attraversato una crisi profonda e improvvisa:
nel suo momento culminante molti osservatori erano arrivati persino a temere per la
sopravvivenza della democrazia. La crisi aveva infatti colpito l’architrave
dell’architettura politica: il sistema dei partiti. In un arco di tempo molto breve, tutti i
partiti che avevano governato l'Italia per più di quarant’anni erano crollati.
L'epicentro del terremoto era stata l'azione giudiziaria (Mani Pulite) nei confronti di
una larga fetta della classe politica e di alcuni importanti figure del mondo
imprenditoriale. Ma era evidente l'obsolescenza di un intero sistema di attori e di
relazioni che avevano a lungo connotato il sistema politico. Era inevitabile che una
tale tensione producesse delle alternative radicali:
1. la Lega Nord, la nuova forza politica apparsa nelle regioni del paese più
ricche, erodeva il sostegno elettorale democristiano nelle regioni del Nord Est
fino ad allora bastioni elettorali per il partito di governo, lasciando a
quest'ultimo un seguito prevalentemente meridionale;
2. il movimento per la riforma del sistema elettorale, il movimento referendario,
che proponeva l'introduzione di un sistema maggioritario, convinceva
l'opinione pubblica a esprimersi massicciamente a favore di una riforma che
avrebbe cambiato radicalmente il meccanismo sul quale partiti si erano
tradizionalmente basati;
3. la magistratura, la decisione del giudiziario di non fermarsi ai livelli inferiori
della scala politica, ma di incriminare anche i leader nazionali, come persone
che non potevano ignorare le azioni illegali dei responsabili finanziari dei
partiti, distruggeva in pochi mesi ciò che restava della credibilità della classe
politica.
L'apparizione da un lato di un attore completamente nuovo - Silvio Berlusconi con il
suo movimento Forza Italia creato giusto in tempo per le elezioni del 1994 - dall'altro
il rinnovamento della sinistra e della vecchia destra, producevano una forte
competizione bipolare, che tagliava le gambe alle speranze della Lega di diventare il
primo partito leader nel Nord, a quelle dei referendari moderati di creare un partito
riformista di centro di un qualche peso. Anche una delle figure simbolo dell'azione
giudiziaria, Antonio Di Pietro, avrebbe guidato solo più tardi un movimento per la
“politica pulita”, peraltro molto limitato nel consenso.
Dopo la riforma del sistema elettorale del 1993 cominciava a svilupparsi un quadro
politico completamente nuovo:
● la Lega vide i suoi trionfi iniziali ridimensionati, dovendo il partito di Bossi
spesso accettare un ruolo secondario nelle coalizioni;
● il leader del movimento referendario, Mario Segni, andò incontro a una dura
sconfitta elettorale;
● la magistratura, che aveva avviato un lungo duello con Berlusconi, avrebbe
subito riforme fortemente avversate e i giudici, come di Pietro, “prestati” alla
politica, sarebbero scesi in campo in ordine sparso e con risultati altalenanti.
Fino al 2011 questo nuovo quadro politico sembrava aver acquisito alcune
caratteristiche abbastanza stabili: tutti i partiti erano ormai diventati candidati
potenziali e accettati per ruoli di governo, e la competizione si svolgeva in misura
prevalente tra due grandi coalizioni di centro-sinistra e di centro-destra.
Questo comportava una capacità di durata maggiore e un'azione più incisiva del
governo in Parlamento. Altri caratteri invece non si mostrarono così consolidati,
come il sistema elettorale che, dopo essere stato modificato nel 1993, aveva
continuato a restare al centro della discussione per essere riformato nel 2005.
Anche la riscrittura dell'assetto centro-periferia dello Stato, introdotta con la riforma
del Titolo V della Costituzione dal governo di centro-sinistra del 2001, non era stata
certamente chiara e risolutiva. In agenda rimanevano temi come la riforma
dell'articolazione bicamerale del Parlamento e le relazioni istituzionali tra Governo e
Parlamento. Le vicende personali e giudiziarie di Berlusconi e soprattutto la crisi
economica hanno fatto il resto, azzerando gli effetti della lunga transizione e
conducendo il paese allo stallo istituzionale del 2013.
Non si deve tuttavia pensare che una conformazione così nettamente sbilanciata a
favore dei partiti significasse una totale sottomissione nei confronti dei leader politici:
infatti, le analisi empiriche pongono sempre accanto al tema della subalternità il
concetto di collateralismo: i gruppi di interesse, in particolare sindacato e
associazioni delle categorie produttive, hanno costituito per decenni delle
fondamentali strutture capaci di sostenere, ma anche di forgiare le élite partitiche,
fornendo loro personale da reclutare, valori, laboratorio di costruzione dei progetti e,
naturalmente, consenso.
Il politologo americano J.LaPalombara identificava i due modelli (clientela e
parentela) con i quali i politici, burocrati e gruppi di interessi avevano costruito in
Italia un solido sistema di potere:
● la relazione definita come clientela indica una pratica di contatti stretti e
continuativi tra uno specifico gruppo di pressione e gli attori burocratici. Un
esempio è il rapporto instauratosi, sotto l’egida della Democrazia cristiana, tra
la principale associazione di agricoltori italiani (la Confagricoltura) e il
ministero dell’Agricoltura: l’associazione influenzava la selezione dei politici
chiave del settore e anche le nomine al massimo livello ministeriale;
● la relazione di parentela si sviluppa quando, in un dato settore delle politiche
pubbliche, un ampio novero di attività viene portato avanti con la
consultazione continua di attori amministrativi e sociali che “condividono”
valori e percorsi di formazione. Un esempio è quello del ministero della
Pubblica istruzione, a lungo dominato dalla Democrazia cristiana: tale
ministero aveva ospitato la collaborazione di politici, dirigenti pubblici ed
esperti di policy cresciuti in larga misura all’interno di associazioni culturali
religiose, come l’Azione cattolica.
Tutti e tre i tipi di relazioni partito-elettore sono stati diffusi e ben rappresentati, con
una prevalenza del voto di appartenenza nelle aree del Centro e del Nord-Est. Il voto
di opinione è stato cruciale nel generale piccoli ma determinanti spostamenti di
consenso in aree ad alta competizione, come il triangolo industriale. Il voto di
scambio è emerso soprattutto in vaste aree del Mezzogiorno, determinando i
presupposti per il successo di alcune cordate di politici, in particolare quelli della
Democrazia cristiana. La persistenza di questi modelli ha generato un' elevata
prevedibilità degli eventi elettorali.
Le competizioni diverse da quelle legislative costituivano in buona misura elezioni di
secondo ordine, perché gli elettori vi si avvicinavano pensando alle tematiche
generali del dibattito politico, finendo per premiare o sanzionare i partiti nel loro
complesso e non i rappresentanti locali, provinciali, regionali, ecc. in quanto tali.
Per anni sono state decisive alcune tematiche generali e in qualche misura
simboliche, come la scelta sullo scacchiere internazionale, la posizione
sull'integrazione europea, quella circa di religione e la difesa delle “libertà
costituzionali”. In virtù di ciò, in Italia il comportamento elettorale non è mai risultato
dominato da forme di mobilitazione tipicamente locale come quelle che spesso
decidono i picchi di partecipazione, e gli stessi risultati, negli Stati Uniti.
Il secondo aspetto da evidenziare è il valore elevatissimo della mobilitazione
elettorale, misurabile sia con il tasso di partecipazione al rito del voto sia con
l'effettiva espressione di un voto valido, ovvero di una preferenza questo o quel
partito/candidato. Questo fenomeno rimane perfettamente discernibile almeno fino al
1976, turno elettorale cruciale, che segna l'apice del duello tra Democrazia Cristiana
e Partito comunista.
Partiti e “cleavages”
Il PCI ha mostrato l'organizzazione di iscritti più sviluppata fin dall’inizio, articolata in
una fitta rete di sezioni e cellule, e ha costruito una serie molto estesa di
associazioni parallele nel settore della cultura, dello sport e del tempo libero con la
finalità di creare una sorta di “società autosufficiente”. La Dc, che soprattutto all'inizio
era molto più debole quanto all'organizzazione partitica, poteva compensare questo
svantaggio grazie all'appoggio delle organizzazioni religiose, da un lato, e al
controllo degli apparati dello Stato, dall'altro. Anch’essa tuttavia promosse, a partire
dagli anni 50, lo sviluppo di un'organizzazione di iscritti più autonoma rispetto alla
chiesa e in grado di competere con quella comunista.
Tuttavia la crescita di un esteso apparato organizzativo, essendo
contemporaneamente fallito il tentativo di creare una forte leadership centrale del
partito, aprì la strada al rafforzamento delle varie correnti, presto fortemente
organizzate, che assunsero un ruolo dominante nella vita interna del partito.
L’esistenza del voto di preferenza per l'elezione dei deputati favoriva una dimensione
anche elettorale e pubblica alla competizione tra i candidati delle diverse correnti. Di
conseguenza i capicorrente acquisirono una posizione di rilievo nel partito mentre il
segretario rimase relegato al ruolo che non andava molto oltre quello di primus inter
pares. Né, d'altra parte, riusciva ad affermarsi come il leader incontrastato della Dc il
Presidente del Consiglio, pur essendo sempre un democristiano fino agli anni 80. Si
determinava così un frazionamento profondo della guida effettiva del partito.
Fino agli anni 90 il sistema partitico italiano si è sostanzialmente basato su sette
principali partiti: due più grandi (Dc e Pci), uno medio (Psi) e quattro piccoli (Psdi,
Pri, Pli e Msi). Nel complesso questo sistema partitico è stato piuttosto stabile per
circa 45 anni punto questo non significa che nel tempo non ci siano stati dei
mutamenti. Il momento in cui è sembrata più vicina la possibilità che gli equilibri di
questo sistema venissero meno è stato nel 1975-1976, quando il Pci, grazie a una
crescita elettorale impetuosa, parve in grado di superare la Dc come partito di
maggioranza relativa. La reazione difensiva della Democrazia Cristiana, che incluse
il Pci nella maggioranza parlamentare e quindi lo rese corresponsabile delle difficili
decisioni connesse alle crisi economica e alla minaccia terroristica, contribuì
probabilmente insieme ad altri fattori, a fermare il trend positivo del più grande partito
di opposizione. Durante gli anni 80 Il Pci tornò all'opposizione e il suo seguito
elettorale cominciò a declinare, mentre il fattore più dinamico della scena politica fu il
Psi, sotto la guida del suo nuovo leader, Bettino Craxi.
A livello dei partiti la linea di frattura è stata evidenziata dal fatto che, da un lato, c'è
stato dal 1919 fino al 1994 un grande partito di ispirazione confessionale e, dall'altro,
una pluralità di partiti (soprattutto a sinistra) che hanno presentato caratteri
anticlericali piuttosto intensi. In particolare la linea di divisione è emersa tutte le volte
che sono state discusse questioni scolastiche o temi come la regolazione del
matrimonio, delle nascite, dell'aborto e più di recente, la fecondazione artificiale,
producendo alleanze di policy che hanno tagliato trasversalmente quelle di governo.
Questa linea di frattura non ha definito stabili maggioranze parlamentari e di
governo, anche perché la Dc ha sempre cercato un’alleanza con alcuni partiti “laici”
in chiave di opposizione al comunismo.
Il sistema partitico repubblicano è stato caratterizzato anche da significative
variazioni nel seguito elettorale ed organizzativo dei partiti da una regione all'altra:
- la Dc ha avuto i suoi punti di forza in Lombardia, Veneto, Friuli e in alcune
province del Piemonte, e nel Sud (Abruzzo, Sicilia, Puglia e Basilicata);
- il Pci invece ha avuto i suoi capisaldi nelle regioni “rosse” del centro.
Questa distribuzione territoriale conferma che gli allineamenti partitici non sono stati
determinati in maniera predominante dal fattore di classe, ma da un insieme più
complesso di fattori culturali e tradizionali. Proprio in alcune delle regioni più
industrializzate e con la maggiore presenza della classe operaia, ad esempio, la
sinistra è stata assai più debole di quanto ci si potrebbe aspettare.
Merita attenzione la distribuzione territoriale della Dc: la capacità di attrarre un largo
seguito sia nelle regioni più avanzate sia in quelle meno avanzate d'Italia, che l’ha
resa fino agli anni 90 il partito più compiutamente nazionale, è stata certo un
elemento chiave del suo successo. La Dc, grazie al suo orientamento anticomunista
e al suo ruolo di governo, era riuscita negli anni iniziali della Repubblica a unire la
tradizione del movimento cattolico organizzato (forte al Nord) con la componente più
liberale della destra, che aveva nel Sud i suoi punti di forza.
Viste le profonde differenze esistenti nella vita politica e sociale tra Nord e Sud,
questo ha significato anche che all'interno del più grande partito italiano si sono
riprodotte differenze organizzative e culturali di non poco conto. Il Pci avuto invece
maggiori difficoltà ad estendere il suo seguito delle diverse parti d'Italia e la sua forza
è rimasta più concentrata e omogenea, ma anche limitata.
Ci sono alcuni importanti aspetti di cambiamento che hanno avuto luogo in questo
quadro di stabilità. Occorre sottolineare soprattutto quei cambiamenti che hanno
avuto effetti cumulativi:
- progressivo declino della forza elettorale dei due partiti maggiori, avvenuto
durante gli anni 80. Il corrispettivo di questo declino è stata la crescita degli
altri partiti e quindi anche della frammentazione;
- calo significativo della forza organizzativa di tutti i partiti tradizionali.
Anche se questo non ha significato un allentamento della loro presa sui centri di
potere pubblici e su importanti settori dell'economia (Rai, Eni, Enel, Iri, ¾ del sistema
bancario) ha però accresciuto la distanza dei partiti dalla gente comune e ha
probabilmente contribuito ad alimentare la crescente insoddisfazione verso i politici.
All'interno del “guscio” sostanzialmente stabile del sistema partitico c'è dunque stato
un indebolimento dei partiti maggiori e una generalizzata perdita di capacità di tutti i
partiti tradizionali di rappresentare efficacemente la società.
Questo periodo ha visto anche i media sfidare più apertamente la classe politica di
governo, denunciandone la corruzione e criticandone l’incapacità di affrontare i
problemi del Paese e di decidere. Contemporaneamente ha acquistato un seguito
crescente l'idea che il sistema politico richiedesse una vera riforma istituzionale
mentre è aumentata la sfiducia nella disponibilità e capacità della classe politica nel
produrre i cambiamenti necessari. Occorre ricordare che il largo consenso intorno
alla necessità di riformare alcune delle regole centrali del gioco politico ha
rappresentato un mutamento significativo rispetto all’orientamento prevalente negli
anni 70, la Costituzione del 1948 era stata oggetto di una sorta di “mitizzazione” e
presentata come il terreno d'incontro per il riavvicinamento tra Dc e Pci, dopo le
tensioni degli anni precedenti. In quel momento era stata percepita come intoccabile,
così come il sistema elettorale proporzionale, che pur non essendo regolato da una
legge di rango costituzionale, era stato a lungo una sorta di tabù politico. Ma dopo il
fallimento dell'impresa tra Dc e Pci il tema della riforma costituzionale (cioè della
riforma costituzionale e del sistema elettorale) era stato posto al centro dell'agenda
politica dal leader politici emergenti come il socialista Bettino Craxi e il democristiano
Ciriaco De Mita. Il tema aveva quindi dominato la discussione pubblica degli anni 80
ed era stato largamente accreditato come una necessità, ma la classe politica
tradizionale aveva fallito nel dare una risposta.
Dopo le elezioni del 1992 la crisi della partitocrazia subì un'accelerazione imprevista
con l'entrata in gioco dell'altro fattore decisivo: la campagna giudiziaria contro la
corruzione. All'inizio degli anni 90 il clima dell'opinione pubblica e dei media era
diventato molto più militante e l'azione del giudiziario si trasformò rapidamente nella
messa in stato d'accusa del ceto dirigente dei partiti di governo.
Il governo
Il disegno costituzionale del 1948 stabiliva che il governo dovesse avere il sostegno
esplicito del Parlamento; pertanto, una volta che è stato nominato e ha giurato di
fronte al Capo dello Stato, il governo deve ottenere un voto di fiducia collettivo da
ciascuna delle due camere con un voto nominale e palese. Simmetricamente, il
gabinetto dovrà dimettersi nel caso di un voto di sfiducia di uno qualsiasi dei due
rami del Parlamento. Le regole costituzionali prevedono dunque che il Governo
debba godere di una maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, optando quindi
per un regime piuttosto rigoroso di dipendenza del governo dal Parlamento (o dalla
maggioranza parlamentare) e dunque lasciando poco spazio a esperimenti di
governi di minoranza. Per bilanciare il potere del Parlamento, la Costituzione ha
introdotto alcune limitazioni alla presentazione e discussione delle mozioni di
sfiducia: queste devono essere sottoscritte da almeno un decimo dei membri di una
camera e, una volta presentate, possono essere messe ai voti solo dopo tre giorni.
Per quanto riguarda la struttura del governo, la Costituzione non ha scelto
chiaramente tra un modello collegiale, primoministeriale o dell'autonomia
ministeriale, ma ha introdotto elementi di ciascuno dei tre.
- Da un lato attribuisce uno status speciale al presidente del Consiglio: spetta
infatti a lui proporre i nomi dei ministri al Capo dello Stato, coordinarne
l'azione e guidare le iniziative di policy del gabinetto.
- Dall'altro, tuttavia, queste facoltà non annullano il carattere collegiale del
gabinetto; è infatti il governo nel suo insieme, e non il presidente del consiglio
da solo, a ricevere il voto di fiducia.
- Sulla scelta tra collegialità del gabinetto e individualismo ministeriale la
Costituzione sembra prima propendere per un modello collegiale coordinato
dal presidente del Consiglio stabilendo esplicitamente principio della
responsabilità collegiale dei ministri. Subito dopo, però, introduce una non
ben definita responsabilità individuale dei Ministri per quel che riguarda le
questioni relative ai loro ministeri. La cosa più importante è che la
Costituzione non prevede specifici strumenti per disciplinare i ministri, in
particolare non fa menzione alcuna di un potere del capo del governo di
licenziare ministri.
- Quanto al potere di scioglimento del Parlamento è stato posto nelle mani del
Capo dello Stato e il governo ha al massimo il potere di chiederlo, ma non ha
alcun ruolo speciale in questo procedimento.
- Infine, per quel che riguarda il processo legislativo, la Costituzione
attribuisce: alcuni privilegi al governo, il più importante dei quali è il potere di
emanare decreti legge che hanno effetti immediati, con l'unica condizione di
dover essere ratificati dal Parlamento entro 60 giorni altrimenti perdono la loro
validità e gli effetti; però, riconosce sia al governo sia ai singoli parlamentari lo
stesso potere in materia di iniziativa legislativa ordinaria e li sottopone alle
stesse procedure.
La gran parte dei tratti peculiari della forma di governo italiana e dell'assetto
dell'esecutivo non traggono origine dagli articoli della Costituzione ma piuttosto da
una serie di fattori politici che, in assenza di previsioni normative costituzionali
vincolanti, sono stati in grado di orientare le pratiche di governo. Si può dire dunque
che il quadro costituzionale italiano è stato di tipo “permissivo”, piuttosto che di tipo
“canalizzante”, rispetto ai fattori e agli attori politici.
Negli ultimi 15 anni il disegno di una grande riforma delle istituzioni di governo è
stato ripreso in varie versioni dalle coalizioni che si sono succedute. Nel 2005 il
governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi riuscì a far passare in
Parlamento una profonda riforma costituzionale che prevedeva il passaggio a un
sistema di governo del premier, rafforzando i poteri del capo del governo e
vincolandolo alla sola fiducia della Camera. Il referendum confermativo dell'anno
successivo bocciò tuttavia la riforma.
Dopo il 1994, con la nuova fase politica, importanti trasformazioni hanno interessato
l’esecutivo sebbene l'assetto costituzionale non abbia subito modifiche. Gli aspetti
più significativi di innovazione sono: la piena alternanza al governo tra coalizioni
distinte è diventata una proprietà del sistema; il presidente del Consiglio ha visto un
significativo rafforzamento del proprio ruolo; la durata dei governi è sensibilmente
accresciuta.
Il cambiamento del sistema elettorale e la profonda ristrutturazione del sistema
partitico sono stati i principali fattori alla base di questi mutamenti, anche se non
deve essere dimenticata l'importanza di fattori esterni come il processo di
europeizzazione.
La struttura ministeriale
Il governo è composto dal Presidente del Consiglio, eventualmente da uno o più
vicepresidenti e da un numero variabile di ministri e sottosegretari. I ministri sono a
capo di un ministero, cioè di un'entità autonoma della pubblica amministrazione
centrale. Ci sono poi i ministri “senza portafoglio”, che sono responsabili di uno
specifico settore di policy, ma non hanno una vera struttura burocratica a propria
disposizione: è la Presidenza del Consiglio a fornire un (limitato) supporto
amministrativo. I sottosegretari, a differenza dei ministri, non partecipano alle riunioni
del Consiglio dei Ministri; possono però sostituire i ministri in varie incombenze, nei
rapporti con la società come interlocutori di gruppi di pressione, associazioni, e con
enti locali. La loro autorità dipende da una delega esplicita del ministro sancita dal
Consiglio. Una posizione speciale è occupata da uno dei sottosegretari della
Presidenza del Consiglio, che ha il ruolo di segretario del Consiglio dei Ministri e
prende parte (ma senza potere formale di voto) alle riunioni del gabinetto. Svolge
una funzione cruciale nella preparazione dell'agenda dell'esecutivo, conducendo
spesso le complesse negoziazioni con i rappresentanti di partito, ho anche con attori
esterni.
Il governo può quindi essere descritto come una struttura a due livelli: 1. il primo
livello, quello del presidente del Consiglio e dei ministri, è responsabile del processo
decisionale collegiale; 2. il secondo livello, quello dei viceministri e dei sottosegretari,
è invece attivo in ogni ministero, nelle relazioni tra ministeri, con il parlamento, con
gli altri attori politici e sociali.
Prima del 1994 i segretari dei partiti della coalizione di governo hanno in genere
preferito restare fuori dal gabinetto. La natura coalizionale dei governi e la loro
durata limitata contribuivano a rendere un posto di ministro (talvolta anche la
Presidenza) meno prestigioso e attraente rispetto alla leadership partitica. I segretari
di partito, restando fuori dall'esecutivo, sono stati in grado di sopravvivere alle cadute
dei governi e hanno potuto mantenere una libertà di movimento meno vincolata dagli
obblighi di coalizione. La presenza dei capipartito nel governo è diventata più
frequente dopo il 1994, ma non tutti i leader di partito, durante il ventennio
dell'alternanza, hanno voluto accettare responsabilità di governo. Anche in questo la
situazione creatasi dopo le elezioni del 2013 appare piuttosto anomala ed
eccezionale: Enrico Letta era il “numero 2” di Bersani nel Pd, e non si è candidato
alle primarie del 2014 per stabilire il successore del segretario democratico
dimissionario. Renzi, vincitore di quelle primarie e nuovo leader del partito di
maggioranza, ha riunificato le posizioni di leader di partito e del governo, ma è stato
anche l’unico Presidente del Consiglio con una personalità non tecnica a giungere a
Palazzo Chigi senza detenere un seggio parlamentare.
A proposito di tecnici, nel passato il reclutamento di ministri non provenienti dalla
carriera politica è stata un'eccezione. Personalità tecnocratiche erano state reclutate
occasionalmente per dicasteri specifici. Tuttavia, già negli ultimi anni della fase del
pentapartito e, soprattutto, dopo il 1994, lo strumento della scelta di tecnocrati per
alcune importanti posizioni ministeriali è diventato più frequente da parte dei
presidenti del Consiglio forti, per tenere alcuni ministeri chiave sotto il proprio
controllo e sottrarli ha l'influenza dei partiti della coalizione.
Rimane invece fuori discussione il principio cardine del processo di formazione dei
misteri: l'allocazione delle cariche continua infatti a seguire il principio della
rappresentanza proporzionale tra i partiti della coalizione. La distribuzione delle
molto più numerose posizioni di sottosegretario ha sempre consentito ai diversi
partiti di ottenere una rappresentanza ministeriale vicina alla propria consistenza in
Parlamento e di essere presente anche in quei settori nei quali non avrebbero potuto
piazzare propri esponenti nelle posizioni di vertice.
Il processo legislativo
La Costituzione italiana ha definito un complesso insieme di strumenti atti alla
produzione di leggi. Le principali procedure sono tre:
- legislazione ordinaria, rappresenta un processo lungo e complesso a causa
dei tanti passaggi intermedi all’interno di ogni “lettura” in una singola camera,
e anche per i tempi della navetta parlamentare, il meccanismo attraverso il
quale un progetto di legge “rimbalza” da una camera all'altra fino a che
entrambe non avranno approvato un identico testo. Il processo legislativo
ordinario fedele al modello del bicameralismo simmetrico comincia con
l'attribuzione di un progetto a una commissione permanente. La funzionalità
delle commissioni può essere diversa e quindi non limitarsi alla fase istruttoria
(sede referente) o di composizione dell'articolato (sede redigente), ma
addirittura sostituire il Parlamento nell'approvazione della legge (sede
legislativa). Questa possibilità, assicurando alle commissioni il massimo
margine di autonomia conosciuto in un parlamento democratico, rende il
nostro sistema parlamentare altamente decentrato.
- Il decreto legge e la legge delega consentono un processo legislativo nel
quale il governo può, da un lato, svolgere un ruolo rilevante, dall'altro, lasciare
al Parlamento poteri non indifferente di controllo. Nel caso dei decreti-legge, il
controllo del Parlamento è ex post, poiché le camere hanno 60 giorni per
convertire in legge una decisione presa autonomamente dall'esecutivo. Nel
caso delle leggi delega, il Parlamento approva un disegno legge di delega
appunto, che in ordine a una data questione, include soltanto i principi guida
e, se necessario, l'agenda e la possibile tempistica delle decisioni operative.
Queste spettano poi al governo che le varerà attraverso i successivi decreti
legislativi delegati che hanno forza di legge.
Per ogni tipo di output legislativo, lo stadio finale del processo è determinato dalla
promulgazione ad opera del Presidente della Repubblica. Il Presidente può porre il
veto, motivandolo con un messaggio alle Camere. Il potere di veto del presidente
rimane tuttavia solo sospensivo, non potendo che firmare la promulgazione nel caso
la legge venga nuovamente votata dal Parlamento. Lo scrutinio da parte del
presidente costituisce il primo dei contrappesi creati attorno al Parlamento, assieme
a quelli garantiti dalla Corte Costituzionale e dal referendum abrogativo.
Funzionalità
Bisognerà aspettare il 1956 perché la Corte costituzionale venga istituiti e cominci ad
operare. A ciò si aggiunge che, trattandosi di un’istituzione nuova, dovette partire da
zero, inventandosi il suo modus operandi e conquistandosi lentamente il proprio
posto all’interno del complesso sistema istituzionale italiano. Da un lato c’era il
problema del rapporto con il potere giudiziario e con la Corte di cassazione che, nei
primi anni della repubblica, era intervenuta sulla questione della legittimità
costituzionale delle leggi del passato regime; dall’altro, quello con le istituzioni
decisionali – parlamento e governo – che dovevano adattarsi al fato che un’altra
istituzione pubblica potesse annullare i loro atti. Sin dal suo inizio la Corte è stata
generalmente composta da figure di elevato prestigio accademico o giudiziario e ha
acquisito notevole autorevolezza. Con l’andare del tempo la sua attività si è estesa
notevolmente, concentrandosi sulle decisioni concernenti la costituzionalità delle
leggi. L’accesso alla Corte costituzionale è stato regolato in maniera tale che
soltanto dall’interno di un procedimento giudiziario una delle parti in causa possa
chiedere al giudice di portare di fronte alla Corte la questione della costituzionalità di
articoli di legge rilevanti per il processo: 1. se la questione sollevata non è
“manifestamente infondata” il giudice deve trasmetterla alla Corte; 2. si può però
avere anche un accesso diretto quando il governo chiede che una legge regionale
sia esaminata per stabilire la sua compatibilità con i principi costituzionali. In
entrambi i casi spetta alla Corte cost. decidere se la richiesta di giudizio sottopostale
possa essere ammessa o meno. Il secondo campo nel quale la Corte ha svolto un
ruolo significativo è quello dei conflitti di competenza tra i poteri dello Stato e ancor
più tra Stato centrale e le regioni o tra regioni. A partire dagli anni ’70 si è poi
sviluppata l’importante funzione riguardo il giudizio di ammissibilità del referendum.
La Corte non si è solo preoccupata di attuare la regola costituzionale che prevede
l’esclusione di certe materie dal referendum, ma con una certa liberà di
interpretazione ha esteso la sua prerogativa bocciando anche referendum in altre
materie laddove una decisione popolare avrebbe potuto mettere a rischio il
funzionamento delle istituzioni democratiche.