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Gli Eleati e i Pluralisti

PARMENIDE

Gli eleati e la scoperta dell'essere

Parmenide nacque e visse a Elea (oggi Velia, in Campania) tra il 540 e il 450 a.C.
A Elea egli fondò la sua Scuola detta appunto eleatica, destinata ad avere un influsso assai grande sul pensiero
greco. Ci viene riferito che fu attivo politico e che diede buone leggi alla sua città.
Scrisse un poema Sulla natura di cui ci sono giunti integralmente il prologo, quasi tutta la prima parte e
frammenti della seconda.

Nel proemio del poema, suggestivo e di vasto respiro, Parmenide immagina di essere trasportato, su un carro
trascinato da accorte cavalle e guidato da fanciulle figlie del Sole, dalle case della Notte verso la luce e condotto
di fronte alla dea (che impersona la verità), la quale gli rivela la verità stessa nel suo complesso.

«Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere,
mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice [molte cose,
che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l'uomo che sa.
Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle
tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via.
L'asse dei mozzi mandava un sibilo acuto,
infiammandosi - in quanto era premuto da due rotanti
cerchi da una parte e dall'altra -, quando affrettavano il corso nell'accompagnarmi,
le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte,
verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo.
Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,
con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra;
e la porta, eretta nell'etere, è rinchiusa da grandi battenti.
Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole,
con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello
senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi,
produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare
nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi
fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito, attraverso la porta,
diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle.
E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra
prese, e incominciò a parlare e mi disse così:
«O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici,
con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,
rallegrati, poiché non un'infausta sorte ti ha condotto a percorrere
questo cammino - infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini -,
ma legge divina e giustizia. Bisogna che tutto apprenda:
e il solido cuore della Verità ben rotonda"
e le opinioni dei mortali, nelle quali non c'è una vera certezza».
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Il fatto che Parmenide scriva in versi e presenti la propria filosofia come una rivelazione divina non significa
che egli davvero voglia ritornare ai miti e alle credenze religiose; il suo discorso, come vedremo, è
rigorosamente razionale; con questo proemio così solenne egli vuole piuttosto esaltare l’importanza e
l’originalità delle sue tesi. Parmenide infatti si presenta, nell'ambito della filosofia della physis, come un
radicale innovatore e in un certo senso come un pensatore rivoluzionario: con lui la cosmologia si trasforma in
ontologia (teoria dell'essere).

Le tre vie della ricerca

La dea al cui cospetto giunge Parmenide gli indica tre possibili vie della ricerca:
• quella della assoluta verità (aletheia);
• quella delle opinioni fallaci (la doxa fallace), ossia quella della falsità e dell'errore;
• infine, una terza via che si potrebbe chiamare dell'opinione plausibile .

La prima via

Il grande principio esposto da Parmenide, che è il principio stesso della verità (il «solido cuore della verità ben
rotonda»), è: l'essere è e non può non essere; il non essere non è e non può in alcun modo essere.
"Essere" e "non essere" hanno dunque un unico significato, integrale e univoco: l'essere è il puro positivo e il
non essere è il puro negativo, l'uno è l'assoluto contraddittorio dell'altro. Parmenide giustifica questa tesi con
un'argomentazione molto semplice: tutto ciò che uno pensa e dice è. Non si può pensare (e quindi dire) se non
pensando (e quindi dicendo) ciò che è. Pensare il nulla significa non pensare affatto, e dire il nulla significa non
dire nulla. Perciò il nulla è impensabile e indicibile. Quindi pensare ed essere coincidono: «Lo stesso è pensare ed
essere».
N.B 1. qui il termine “essere” è usato nel significato di “esistere” e non come copula. Del resto la lingua greca
esprime “essere” ed “esistere” con una sola parola: einai; dunque l’essere è tutto ciò che esiste e il non-essere è
il nulla.
N.B. 2 Il principio parmenideo “l'essere è e non può non essere; il non essere non è e non può in alcun
modo essere” costituisce la prima formulazione del principio di non contraddizione, ossia di quel principio
che afferma l'impossibilità che i contraddittori coesistano a un tempo. E i due supremi contraddittori sono,
appunto, "essere" e "non essere"; se c'è l’essere, è necessario che non ci sia il non-essere; il principio di non
contraddizione costituisce il primo fondamento di tutta la Logica.

A partire da questo significato integrale e univoco con cui Parmenide intende essere e non essere, e quindi dal
principio di non contraddizione, ben si comprendono gli attributi strutturali dell'essere, che, nel poema,
vengono via via dedotti con una logica ferrea e con una lucidità assolutamente sorprendente, al punto che
ancora Platone ne sentiva il fascino, tanto da denominare il nostro filosofo «venerando e terribile».
• L'essere è, in primo luogo, ingenerato e incorruttibile. È ingenerato, in quanto, se fosse generato, sarebbe
dovuto derivare da un non essere, il che è assurdo, dato che il non essere non è; oppure sarebbe dovuto
derivare dall'essere, il che è ugualmente assurdo, perché, allora, già sarebbe. E per queste stesse ragioni è
impossibile che si corrompa.
• L'essere non ha, di conseguenza, un "passato", perché il passato è ciò che non è più, e neppure un "futuro",
che non è ancora, ma è presente eterno, senza inizio né fine.
• L'essere, di conseguenza, è anche immutabile e immobile, perché sia la mobilità sia il mutamento
suppongono un non essere verso cui l'essere dovrebbe muoversi o in cui dovrebbe mutarsi.
• L'essere, inoltre, è indivisibile in parti differenti e quindi è un continuo tutto uguale, giacché ogni
differenza implica il non essere e quindi non è.
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• Parmenide, poi, proclama più volte il suo essere come limitato e finito, nel senso che è compiuto e perfetto.
E l'uguaglianza assoluta e la finitudine e la compiutezza gli suggerirono l'idea di sfera, ossia la figura che già per
i pitagorici indicava la perfezione.
Infine l’essere è unico perché ammettere l’esistenza di più essere vorrebbe dire ammettere differenze tra essi e
quindi ammettere il non-essere
• Unica verità, dunque, è l'essere ingenerato, incorruttibile, immutabile, immobile, uguale, sferiforme e uno.
Tutte le altre cose non sono altro che vani nomi.

“Ora, io ti dirò - e tu ascolta e ricevi la mia parola -


quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare:
l'una che «è», e che non è possibile che non sia
- è il sentiero della Persuasione, perché tien dietro alla Verità -
l'altra che «non è», e che è necessario che non sia.
E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende.
Infatti, non potresti conoscere ciò che non è, perché non è cosa fattibile,
né potresti esprimerlo.
... Infatti lo stesso è pensare ed essere.
È necessario il dire e il pensare che l'essere sia: infatti l'essere è,
il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare.
[...]
Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono!
Resta solo un discorso della via:
che «è». Su questa via ci sono segni indicatori
assai numerosi: che l'essere è ingenerato e imperituro,
infatti è un intero nel suo insieme, immobile e senza fine”

La via dell’errore, della doxa (opinione) fallace

Se la via della verità è la via della ragione (il sentiero del giorno), la via dell'errore è sostanzialmente quella
dei sensi (il sentiero della notte). Infatti sono i nostri sensi che parrebbero attestare il non essere, nella misura
in cui attestano l'esistenza del nascere e del morire, del movimento e del divenire.
Perciò la dea esorta Parmenide a non lasciarsi ingannare dai sensi e dalla abitudine che essi creano e a
contrapporre ai sensi la ragione e il suo principio: «Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero, / né
l'abitudine nata da molte esperienze umane su questa via ti forzi a usare l'occhio che non vede, l'orecchio che
rimbomba / e la lingua: ma con il pensiero giudica la prova con le molteplici confutazioni / che ti è stata fornita.
Una sola via resta al discorso: / che l'essere è».
E evidente che sulla via dell'errore cammina non solo chi espressamente dice "il non essere è", ma anche chi
crede di poter ammettere, insieme, essere e non essere e chi crede che le cose passino dall'essere al non essere
e viceversa. Insomma: la via dell'errore riassume tutte le posizioni di coloro 1 che in qualsivoglia modo
ammettono espressamente o fanno ragionamenti che implicano il non essere che, come abbiamo visto, non è,
perché impensabile e indicibile.
“…i mortali che nulla sanno / vanno errando, uomini a due teste: infatti, è l'incertezza / che nei loro petti
guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati, / sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini
senza giudizio, / dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa”
“…Perciò saranno tutte dei nomi, quante cose i mortali hanno posto, / persuasi che fossero vere, il nascere
ed il perire, l’essere e il no, / e cambiare luogo, e mutare lucente colore. “

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E’ probabile che Parmenide non si riferisca soltanto alla gente comune, ma anche ai filosofi che lo hanno preceduto.
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La via delle apparenze plausibili

Ma la dea parla anche di una terza via, quella delle apparenze plausibili. Parmenide quindi vuole giustificare
un discorso che dia conto dei fenomeni e delle apparenze delle cose, a patto che esso non vada contro il grande
principio di non contraddizione e non ammetta, insieme, essere e non essere.
Il discorso plausibile ammesso da Parmenide è questo: gli opposti esistono e derivano dalla coppia originaria
“luce” e “notte”, ma non devono essere concepiti come positivo e negativo, essere e non-essere; devono invece
essere pensati come inclusi nella superiore unità dell’essere: gli opposti sono ambedue "essere".
È però evidente che questo tentativo era destinato a urtare contro insuperabili aporie (cioè difficoltà,
problemi). Una volta riconosciute come "essere", luce e notte (e in genere gli opposti) perdono qualsiasi
carattere differenziante e diventano identiche, appunto perché ambedue sono essere, e l'essere è, come
abbiamo detto, “tutto uguale”. L'essere parmenideo non ammette differenziazioni . E così, in quanto assorbiti
nell'essere, i fenomeni risultavano svuotati di tutta la loro ricchezza e immobilizzati nella fissità dell'essere.
Dunque, il grande principio di Parmenide, così come era stato da lui formulato, spiegava l'essere, ma
non i fenomeni.
In altri termini: Parmenide nega il valore dell’esperienza, la riduce ad apparenza, perché essa è in
contrasto con il rigoroso ragionamento, ma non riesce a spiegarne l’esistenza e la funzione.

DOPO PARMENIDE: ZENONE DI ELEA

Il ragionamento per assurdo: Parmenide delinea un modello di argomentazione che consiste nel dimo-
strare una tesi mettendo in luce le contraddizioni che derivano dall’ammettere la tesi ad essa opposta. Questo
tipo di argomentazione è detto “per assurdo”.
Tale modello viene ripreso all’interno della scuola eleatica da Zenone (secolo V a. C). Per dimostrare
l’affermazione parmenidea che l’essere è uno e immutabile-immobile , Zenone sviluppa una serie di argomenti
in cui ammette inizialmente l’esistenza della molteplicità e del divenire, per poi mostrare che si tratta di ipotesi
che portano a conclusioni inconcepibili e incoerenti, ossia assurde.
Vediamo un esempio di argomentazione per assurdo contro la molteplicità. Ammettiamo che le cose esistenti
siano molte. Ma se le cose esistenti sono molte, esse sono simili (perché appunto sono tutte cose esistenti), e
anche dissimili per il fatto che sono molte (ciascuna distinta, dissimile, dalle altre), ma è impossibile, perché
contraddittorio, che esse siano insieme simili e dissimili. Perciò è impossibile che esista la molteplicità, ovvero
il concetto di molteplicità è assurdo.
I paradossi: Alla tecnica della riduzione all'assurdo Zenone affianca un altro strumento, che egli applica alla
divisibilità delle grandezze: il regresso all’infinito. Ne risultano i cosiddetti paradossi ovvero proposizioni
contrarie all’opinione comune, in quanto inducono a conclusioni contrastanti con il modo comune di pensare.
Per dimostrare l’assurdità del movimento Zenone propone vari argomenti, il più spettacolare dei quali ipotizza
una gara di corsa tra Achille "dal piede veloce" - come era definito l'eroe nei racconti omerici - e una tartaruga,
animale simbolo di lentezza.
Achille dà un tratto di vantaggio alla tartaruga. Nel tempo da lui impiegato per raggiungere il punto di partenza
della tartaruga, questa percorre un tratto di spazio in avanti. Quando Achille raggiunge la posizione già
occupata dalla tartaruga, questa di nuovo ha percorso un altro spazio, e così via all’infinito. Poiché si
presuppone che lo spazio sia divisibile all’infinito. Achille non riuscirà a raggiungere la tartaruga in un tempo
finito. La distanza tra l’uno e l’altra diventerà sempre più piccola, ma non arriverà mai a zero.
L’argomento di Zenone si basa sul presupposto che lo spazio sia infinitamente divisibile, per cui un corpo in
movimento, dovendo passare attraverso gli infiniti punti che compongono la distanza tra un punto x e un
punto y, impiegherà un tempo infinito, ovvero non raggiungerà mai la meta in un tempo finito.
II procedimento di Zenone non tiene conto dell'esperienza comune (sulla base della quale si vede che Achille
correndo raggiunge e sorpassa la tartaruga), anzi ne prescinde. Esso analizza dal punto di vista concettuale la
nozione di movimento per mostrarne l’impossibilità. Poiché il concetto di movimento risulta impensabile, si
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confermano le tesi dell’immobilità dell'essere e dell'illusorietà del divenire, secondo l'insegnamento di


Parmenide.
Più in generale, si conferma la tesi parmenidea secondo cui l'essere vero non è quello che appare
nell'esperienza e che fa da sfondo alla vita quotidiana.
Le analisi di Zenone e Aristotele
I paradossi zenoniani, che pongono problemi di carattere filosofico-scientifico come il concetto di infinito, la
divisibilità delle grandezze, il concetto di movimento, sono stati oggetto di critiche e discussioni, a partire dai
suoi contemporanei fino a oggi. Per risolvere l’aporia di Zenone, Aristotele distingue tra il piano reale,
che riguarda le cose esistenti, e il piano logico, cioè il piano del pensiero. Dal punto di vista reale esiste solo
il finito, mentre dal punto di vista logico esiste l’infinito come possibilità della mente di aumentare o diminuire
indefinitamente una certa quantità. Nel mondo reale, dove esistono solo distanze finite, il movimento compie
un certo tragitto in un tempo finito e ciò comporta il rifiuto dell'argomento zenoniano.
La soluzione aristotelica è valida solo se si ammette che lo spazio reale sia finito, ma poiché dal punto di vista
logico e matematico l’ipotesi dell’infinita divisibilità è possibile, l’argomento di Zenone mantiene una sua forza
e costringe a riconoscere uno scarto tra piano reale e piano logico-matematico. Anzi a Zenone è stato
riconosciuto il merito di avere ammesso la possibilità della divisione all’infinito, cioè del concetto che sta alla
base del calcolo infinitesimale, uno strumento efficacissimo nelle analisi matematiche, messo a punto nell'età
moderna.

I FILOSOFI PLURALISTI

La differenza radicale tra essere e non essere, che sta alla base del pensiero parmenideo, apre un grave
problema che occuperà a lungo la scena filosofica greca, mettendo alla prova i suoi successori: come rispettare
il rigore della ragione che afferma l’impossibilità di identificare essere e non essere e, nello stesso tempo,
“salvare i fenomeni” dell’esperienza (come dirà Platone), cioè come spiegare il fatto che l’esperienza risulta in
contrasto con il ragionamento? Com'è possibile conciliare la tesi parmenidea dell'immutabilità dell'essere - una
tesi fondata sull'innegabile opposizione tra essere e non essere - e l'evidenza del divenire di cui i sensi ci danno
continua testimonianza?
Sono le domande a cui cercano di rispondere i filosofi pluralisti, cioè i filosofi che, diversamente da Parmenide,
ammettono l’esistenza di più principi all’origine delle cose ma, nello stesso tempo, riconoscono la fondatezza
della tesi secondo cui l’essere non può venire dal niente né andare a finire nel niente.
La soluzione che viene fornita dai pluralisti è questa: esistono molteplici principi che sono eterni e immutabili
(come l’essere parmenideo) i quali, aggregandosi e disgregandosi, producono i fenomeni naturali caratterizzati
dal divenire; il divenire non deve essere inteso come passaggio dall’essere al non-essere (e viceversa), ma come
trasformazione di aggregati (per cui “nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”).
I principali filosofi pluralisti sono Empedocle di Agrigento, Anassagora di Clazomene (che non tratteremo) e
Democrito di Abdera.

EMPEDOCLE DI AGRIGENTO: LE QUATTRO RADICI DELL’ESSERE

Tra realtà e leggenda: Ad Agrigento, nelle terre della Magna Grecia, si svolge la vicenda di Empedocle (484
ca-424 a.C), il quale, pur appartenendo a una nobile e ricca famiglia, si schiera con la parte democratica, tanto
da rifiutare la nomina a re offertagli dai suoi concittadini. L’episodio testimonia la fama di cui Empedocle
godeva - anche al di fuori di Agrigento - come sapiente, medico, poeta, mago, indovino, addirittura uomo-dio
immortale, ovunque onorato dalle folle.
Anche la sua morte, avvenuta secondo alcuni nel cratere dell'Etna, in cui si sarebbe buttato per dimostrare la
propria origine divina (altri però lo dicono morto normalmente nel Peloponneso), si riveste di caratteri
leggendari.
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La tradizione gli attribuisce varie opere in versi, fra cui un poema Sulla natura e un altro, intitolato
Purificazioni, dei quali restano vari frammenti.

Le quattro radici: Nella scia di Parmenide, Empedocle giudica insensati i discorsi degli uomini sulla nascita e
la morte delle cose, perché dietro all’incessante mutamento sussistono, eterne e immutabili, le quattro radici
dell’essere, cioè gli elementi fondamentali: aria, acqua, terra, fuoco. La mescolanza delle quattro radici secondo
proporzioni diverse e la loro separazione spiegano l’origine e il mutamento delle cose, le quali propriamente
non nascono e non muoiono, ma si trasformano le une nelle altre. Se ci fossero nascita e morte, ci sarebbe un
passaggio dal non essere all’essere e dall’essere al non essere. In tal modo Empedocle può affermare insieme
l’esistenza di un essere immutabile (le quattro radici non sottoposte né alla nascita né alla distruzione) e la
realtà del divenire.
E’ tuttavia evidente la distanza che separa Empedocle da Parmenide, in quanto l’essere che si mantiene identico
al di là di ogni mutamento non è un’unità compatta, bensì una molteplicità, un insieme di più elementi soggetti
al movimento.
La mescolanza e la separazione degli elementi avvengono, secondo Empedocle, per l’azione di due forze
contrapposte, l’Amore (la Concordia) e l’Odio (la Discordia): a seconda del prevalere dell’una o dell’altra, le
radici tendono ad aggregarsi o a disgregarsi, dando luogo ai fenomeni di trasformazione.

Il tempo ciclico: In base a questo modello di spiegazione della realtà, Empedocle delinea un grandioso
quadro del tempo cosmico, che si sviluppa ciclicamente. A fasi in cui predomina l’Amore se ne alternano, con
periodica regolarità, altre in cui predomina l’Odio. Nel primo caso, l’universo appare omogeneo e compatto,
tutto concentrato in se stesso, quello che egli chiama lo sfero; nel secondo caso, l’ universo appare lacerato e
caotico.
Tra queste due situazioni estreme si danno delle fasi di compresenza delle forze opposte, ed è in questa specie
di equilibrio instabile che appare il mondo. Fasi estreme e fasi intermedie scorrono secondo un ordine di
successione che si ripete sempre uguale e che costituisce perciò una costante al di là dei mutamenti all’interno
del divenire cosmico.

La conoscenza sensibile: Sulla dottrina dei quattro elementi Empedocle fonda anche la spiegazione di ciò
che avviene nella conoscenza sensibile, secondo il principio che il simile si riconosce con il simile. Dietro
all'analisi di Empedocle possiamo cogliere una domanda sottintesa: la conoscenza nasce dall’incontro tra
l’uomo che conosce e la cosa conosciuta? In che modo si stabilisce un rapporto tra due realtà tanto diverse
come l’uomo e la cosa? Il rapporto è possibile - questa è la risposta - perché c’è una costituzione omogenea tra
gli uomini che percepiscono le cose e le cose stesse. Infatti, in ciascuno degli organi di senso sono presenti le
quattro radici, che permettono di percepire la presenza degli stessi elementi nelle cose. Queste, a loro volta,
emanano degli "effluvi" che favoriscono il contatto e il riconoscimento.

La metempsicosi: Nel quadro della visione ciclica del tempo, Empedocle riprende la dottrina della
metempsicosi, affermando che le anime si reincarnano successivamente in diversi corpi di esseri viventi, sia
uomini che animali, in base alle colpe da espiare o ai meriti acquisiti nelle vite precedenti. Empedocle invita
perciò gli uomini a seguire determinate regole di vita - come l’astenersi da determinati cibi - e a compiere
esercizi purificatori per guadagnare dopo la morte una nuova vita più alta. La credenza nella metempsicosi, il
richiamo alle pratiche ascetiche e alla regolamentazione dei comportamenti indicano una affinità tra le
posizioni empedoclee e quelle orfiche e pitagoriche.

DEMOCRITO DI ABDERA E L’ATOMISMO


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Ad Abdera, in Tracia, nel corso del secolo V si sviluppa la cosiddetta scuola atomistica, fondata da Leucippo.
Nato probabilmente a Mileto nella prima metà del secolo V a.C, Leucippo lascia la città dopo la vittoria della
parte aristocratica, recandosi prima a Elea, quindi ad Abdera. Le sue dottrine, di cui restano tracce in
pochissimi frammenti, sono riprese e sviluppate da Democrito (460-370 a.C), il più illustre esponente della
scuola.
Nato ad Abdera, il giovane Democrito compie numerosi viaggi nel Vicino Oriente (Egitto, Babilonia, Persia),
forse anche in India, e almeno un viaggio ad Atene. I suoi vasti interessi sono attestati dalle molte opere
(riguardanti la riflessione morale, la fisica, la matematica, la musica, l’agricoltura, la medicina) di cui restano
una lunga serie di titoli e numerosi frammenti.

Come Empedocle e Anassagora, anche Leucippo e Democrito da un lato accolgono alcuni punti essenziali
dell’eleatismo (la contrapposizione essere/non essere, l’eternità e immutabilità dell’essere originario che non
nasce e non muore), mentre dall’altro se ne allontanano, introducendo nell’essere la molteplicità e il
movimento. La dottrina elaborata da Leucippo e Democrito si avvicina a quelle di Empedocle e Anassagora
anche per un altro aspetto, in quanto, attraverso il ragionamento, risale dal visibile, da ciò che appare
nell’esperienza, alla struttura profonda della realtà, che non è percepibile con i sensi, ma è conosciuta dalla
ragione.

La scoperta degli atomi e del vuoto: La dottrina di Democrito prende le mosse da una specie di
“esperimento mentale”: se vogliamo scoprire i principi costitutivi delle cose immaginiamo di dividerle in parti
sempre più piccole; questo processo di divisione non potrà però procedere all’infinito 2 (Democrito dice che
una divisione all’infinito sfocerebbe nel nulla, e le cose non possono essere costituite di nulla), perciò dobbiamo
ammettere che le cose siano costituite da molteplici elementi indivisibili = atomi. Questi elementi sono
invisibili, impercettibili (infatti ne abbiamo scoperto l’esistenza non con i sensi, ma con il ragionamento) ma
aggregandosi formano i corpi e i fenomeni naturali di cui abbiamo esperienza. In questo modo Democrito
supera la contraddizione tra ragione ed esperienza che caratterizzava la dottrina eleatica: ragione ed
esperienza si accordano perché la ragione conosce gli atomi, cioè la struttura profonda della realtà, mentre i
sensi conoscono i composti , gli aggregati (l’esperienza quindi produce una conoscenza più superficiale, ma non
ingannevole).
Inoltre gli atomi hanno alcune delle caratteristiche attribuite da Parmenide all’essere: sono ingenerati e
incorruttibili (quindi eterni), immutabili e qualitativamente indifferenziati (gli atomi si distinguono fra loro non
perché caratterizzati dalle qualità diverse che ritroviamo negli oggetti, come il caldo, il freddo, il dolce, l'amaro,
ma per la forma e la posizione)
Ma siccome essi formano tutti i composti è necessario che siano molteplici, che si muovano, ed è necessario
anche ammettere lo spazio vuoto in cui si muovono.

Una concezione meccanicistica e deterministica: Gli atomi si muovono nel vuoto incessantemente e in
ogni direzione. Nel movimento essi si scontrano, ora respingendosi, ora aggregandosi, a seconda che le
rispettive forme e posizioni favoriscano o meno l'aggancio. L'unione di più atomi determina la formazione dei
corpi. Empedocle aveva detto che le radici si aggregano e si separano per l’azione di due forze cosmiche (amore
e odio), invece secondo Democrito non c’è nessuna forza o nessun principio esterno che muova gli atomi: gli
atomi sono naturalmente dotati di un moto vorticoso che determina gli urti e le combinazioni degli stessi.
Quindi tutto ciò che succede in natura ha solo cause meccaniche (= movimenti e urti di particelle materiali);
pertanto la concezione della natura di Democrito è una concezione meccanicistica e deterministica.
Nella Divina Commedia Dante colloca Democrito nel limbo tra i sapienti antichi e lo definisce “colui che il
mondo a caso pone”, colui che considera il mondo prodotto dal caso, nel senso che non c’è un disegno
intelligente, una “regìa” che diriga i moti e le combinazioni degli atomi. Ma Democrito afferma che solo per
2
Questa idea della divisione all’infinito di un corpo (impossibile secondo Democrito) è in rapporto, evidentemente, con la
riflessione di Zenone sulla divisibilità infinita della spazio.
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pigrizia mentale gli uomini parlano di caso, cioè di qualche cosa che accade senza essere prodotta da una causa
determinata: è la pigrizia mentale di chi non cerca spiegazioni e non usa la propria intelligenza per capire i
fenomeni della realtà. In realtà secondo Democrito in natura tutto è determinato (=avviene
necessariamente) dalle cause meccaniche (e per questo tutto ciò che avviene in natura può essere spiegato e
perfino previsto).

Atomi e organismi viventi: Gli atomi (e i loro moti) servono a spiegare non solo la struttura complessiva
della realtà, ma anche le caratteristiche degli esseri viventi, tutti dotati di anima (composta anch’essa da
atomi). La natura dell’anima consente di spiegare fenomeni come il calore, che contraddistingue i corpi
viventi, o la respirazione; infatti Democrito afferma che l’anima è costituita di atomi di forma sferica,
mobilissimi. L’alta mobilità genera calore. Al tempo stesso, la mobilità favorisce la dispersione: ecco allora la
necessità della respirazione che provvede a recuperare gli atomi di anima che continuamente si perdono.
Attraverso la teoria atomistica si spiega anche il fenomeno delle sensazioni, le quali risultano dall’incontro tra
gli organi di senso (occhi, naso ecc.) con gli éidola ("immagini"). Questi sono delle sottili emissioni atomiche
le quali, uscendo dagli oggetti, ne conservano la figura. Nell’incontro con gli organi di senso, essi trasmettono le
informazioni relative agli oggetti da cui provengono, dando luogo alle sensazioni. Ai sensi restano però
inaccessibili i principi costitutivi della realtà, gli atomi e il vuoto, che possono essere conosciuti solo andando
oltre la sensazione, cercando la verità nel profondo delle cose per mezzo della ragione.

Etica e politica: Dalle testimonianze antiche sappiamo che, nella riflessione di Democrito, hanno grande
spazio i problemi riguardanti la morale e il comportamento degli uomini, le società umane, le formazioni
politiche. Tuttavia la brevità dei frammenti rimasti non permette di ricostruire in modo esauriente le sue idee
su questi argomenti, ma solo di intravederne alcune linee. Particolarmente significativi appaiono alcuni aspetti
della dottrina morale, secondo cui gli uomini devono tendere soprattutto alla euthymìa, la tranquillità
dell'animo, cioè a vivere in modo tranquillo e sereno. A questo fine è necessario evitare l’eccesso delle
passioni, comportarsi con equilibrio e misura, non farsi troppo coinvolgere dagli eventi pubblici e privati.
Pur non impegnandosi nell’attività politica, Democrito manifesta apprezzamento per la democrazia come
forma di governo opposta alla tirannide; il suo modello di vita, comunque, è quello dello studioso dedito alla
riflessione e alla ricerca più che quello del cittadino partecipe della vita pubblica nella sua città. Il legame con la
città, che costituisce un elemento fondamentale nella cultura greca del tempo, lascia spazio a un più ampio
legame con il cosmo intero, per cui il saggio si sente in primo luogo cittadino del mondo. Si intravede così,
nell’esperienza di Democrito, un atteggiamento nuovo che sarà poi indicato con il nome di cosmopolitismo.

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