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NORMA, NORMATIVITÀ, NORMALIZZAZIONE.

UN ITINERARIO TEORICO TRA CANGUILHEM E FOUCAULT.

di Giuseppe Campesi

1. Introduzione

Le note che seguono rappresentano il frutto di una ricerca dettata da


una profonda esigenza teorica. Lavorando attorno al concetto foucaultiano
di biopolitica ed alla posizione che Foucault ha riservato al fenomeno
giuridico nella sua genealogia delle tecnologie politiche moderne, ci sia-
mo imbattuti in una difficoltà cui la mole di materiali esegetici ormai ac-
cumulatasi sull’opera del francese non sembrava offrire una risposta ade-
guata. Ci è parso, in sostanza, che uno dei concetti chiave dell’intero pro-
getto teorico foucaultiano, il concetto di normalizzazione, non fosse stato
sufficientemente tematizzato da parte della critica. E tanto più tale lacuna
suscitava disagio teorico, quanto più tale concetto sembrava assumere un
ruolo cruciale per comprendere la rilevanza dei meccanismi disciplinari
nell’ambito della più ampia nozione di potere biopolitico e l’esatta chiave
di lettura del problema del diritto nell’opera di Foucault. Con questo con-
tributo proveremo, dunque, a colmare tale lacuna seguendo l’itinerario te-
orico che Georges Canguilhem, il maestro, e Michel Foucault, il discepo-
lo, hanno percorso attorno ai concetti di norma, normatività e normalizza-
zione.
Ci sembra, in particolare, che per comprendere il senso del progetto
genealogico foucaultiano non si possa fare a meno di passare attraverso
Canguilhem. Non perché l’opera dell’uno rappresenti una filiazione diret-
ta dell’opera dell’altro, ma piuttosto perché il percorso di ricerca seguito
da entrambi sembra ruotare attorno ad una identica questione di fondo.
Come ha rilevato lo stesso Foucault, infatti, l’originalità specifica di Can-
guilhem in quanto epistemologo e storico della scienza è stata quella di
“aver fatto scendere la storia delle scienze dai vertici (matematiche, a-
stronomia, meccanica galileiana, fisica di Newton, teoria della relatività)
verso regioni in cui le conoscenze sono molto meno deduttive, in cui esse
sono rimaste legate, molto più a lungo, alle suggestioni
Sociologia del diritto n. 2, 2008 5
dell’immaginazione”1. Nel porre al centro dell’indagine la storia e la
struttura epistemologica delle scienze della vita egli ha attirato
l’attenzione su tutto un campo del sapere, quello che assume come suo
oggetto di studio l’uomo in quanto essere vivente, particolarmente pro-
blematico non solo a causa della sua specifica debolezza epistemologica.
L’opera di Canguilhem si pone infatti sulla scia di quanti, pur da diverse
tradizioni culturali e teoriche, hanno posto nel XX secolo la questione dei
lumi, vale a dire la questione dell’“importanza assunta dalla razionalità
scientifica e tecnica nello sviluppo delle forze produttive e nel gioco delle
decisioni politiche”2. Ma, nell’interrogare la coscienza della ragione
strumentale egli, a differenza della scuola di Francoforte, non si è rivolto
alla razionalità scientifica in senso lato, bensì a quei saperi che facendosi
carico dello studio del vivente e della materia biologica umana appaiono
più strettamente legati alle imprese economiche e politiche della società
moderna3.
In questo senso il lavoro di Foucault sull’archeologia delle scienze
umane e poi l’indagine sul loro ruolo quali strumenti per modellare nuove
forme di vita e produrre soggettività, quali veri e propri meccanismi bio-
politici, sembrano trovare le loro radici più profonde nell’opera del suo
maestro. È infatti sullo sfondo teorico rappresentato dall’opera di Can-
guilhem che Foucault può finalmente porre la questione del razionalismo
come espressione di una fondamentale volontà di dominio del suo am-
biente vitale da parte dell’uomo e, segnatamente, la questione della cen-
tralità delle scienze umane, dei saperi antropologici alla cui ricostruzione
archeologica aveva consacrato i suoi primi lavori4, in tale progetto di as-
soggettamento. Una questione che avrebbe sostanzialmente fatto da sfon-
do a tutte le ricerche genealogiche successive, almeno fino alla fine degli
anni Settanta, consentendogli di sviluppare quella originale riflessione
sulla questione del potere nella società moderna che avrebbe innescato un
acceso dibattito con la cultura filosofico-politica marxista5.

1. M. Foucault, La vita, l’esperienza e la scienza, in G. Canguilhem (a cura di), Il


normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p. 276.
2. Ivi, p. 275.
3. Su questa tematica cfr. D. Trombadori (a cura di), Colloqui con Foucault. Pensieri,
opere e omissioni dell’ultimo maître-à-penser, Castelvecchi, Roma 1999, p. 80.
4. Cfr. G. Gutting, Michel Foucault’s Archaeology of Scientific Reason, Cambridge
University Press, Cambridge 1989; H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Fou-
cault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989.
5. S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 87. Cfr. anche B.
Smart, Foucault, Marxism and Critique, Routledge & Kegan Paul, London 1983.

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All’esito del nostro itinerario lungo l’opera di Canguilhem saremo in
grado, questo è l’auspicio, di fornire alcune linee interpretative per la let-
tura del concetto di biopolitica in Foucault e la comprensione della posi-
zione che il fenomeno giuridico assume nella complessa genealogia del
potere foucaultiana.

2. Canguilhem ed il sapere bio-medico moderno

La prima opera di Canguilhem, il suo Saggio del 1943 sul normale e il


patologico6, è già un esempio compiuto della particolare storiografia della
scienza che egli verrà sviluppando nel corso della sua opera. L’indagine
verte infatti, più che su una descrizione dello sviluppo e dell’evoluzione
di teorie, sull’analisi di concetti scientifici, le loro variazioni semantiche
in diversi ambienti teorici e la loro trasposizione in diversi ambiti discor-
sivi non necessariamente relativi allo stesso campo del sapere7. Al di là di
queste prime indicazioni di metodo, tuttavia, il Saggio è cruciale poiché
interroga alla radice concetti quali normalità e patologia, su cui si fonda-
no le moderne scienze della vita, esaminandoli ora sotto il profilo delle
loro implicazioni logiche ed epistemologiche, ora sotto il profilo del loro
significato sociale. Esso, infine, sviluppando l’idea della particolare nor-
matività del vivente, si pone come il libro fondatore dell’intera filosofia
della vita di Canguilhem8.
L’analisi muove dalla descrizione dei caratteri essenziali di una conce-
zione del normale e del patologico che, diffusasi a partire dal XIX secolo,
avrebbe definitivamente sostituito le più risalenti teorie in base alle quali
il patologico differisce dal normale, come una qualità differisce dall’altra,
sia per presenza o assenza di un principio definito, sia per “modificazione
della totalità organica”9. Si tratta della comune assunzione circa la possi-
bilità di ridurre lo studio di fenomeni fisiologici e patologici alla rileva-
zione di mere variazioni quantitative e, dunque, ad entità oggettivamente

6. Alludiamo al Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico, che,


oltre a costituire la tesi di dottorato in medicina di Georges Canguilhem, rappresenta il
primo nucleo di ciò che, insieme alle Nuove riflessioni sul normale e il patologico scritte
tra il 1963 ed il 1966, costituirà l’opera pubblicata presso le Presses Universitaires de
France nel 1966 con il titolo Le normal et le pathologique (tr. it., G. Canguilhem, Il nor-
male e il patologico, cit.).
7. D. Lecourt, Per una critica dell’epistemologia. Bachelard, Canguilhem, Foucault,
De Donato, Bari 1973, p. 110 ss.
8. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, PUF, Paris 1998 p. 8.
9. G. Canguilhem, Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico, in
Id., Il normale e il patologico, cit., p. 17.

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e positivamente analizzabili. Tale concezione, strettamente legata allo svi-
luppo dell’anatomia patologica, venne definitivamente cristallizzata nel
cosiddetto principio di Broussais, sintesi di “una teoria dei rapporti tra
normale e patologico secondo cui i fenomeni patologici negli organismi
viventi non sono nient’altro che variazioni quantitative, secondo il più e il
meno, dei corrispondenti fenomeni fisiologici”10.
Il linguaggio dell’iper e dell’ipo che caratterizza le scienze biologiche
moderne presenta a parere di Canguilhem delle irrisolvibili debolezze. In
primo luogo una debolezza di carattere logico. L’identità tra normale e
patologico è infatti stabilita a partire da un duplice rapporto di omogenei-
tà e continuità tra i due stati della materia vivente11. Il problema è che en-
trambi i rapporti impongono delle esigenze logiche di cui il sapere medi-
co-biologico moderno sembra scarsamente consapevole. È chiaro infatti
che per poter postulare l’omogeneità di due fenomeni o stati, in questo
caso lo stato patologico e lo stato normale, si deve essere in grado di de-
terminare preliminarmente un criterio che permetta di identificare “alme-
no la natura di uno dei due, oppure una qualche natura comune all’uno e
all’altro”12. Non a caso, confrontandosi con questo problema della defini-
zione della natura particolare dei fenomeni normali o patologici, le scien-
ze della vita del XIX secolo mostrano di non riuscire a liberarsi comple-
tamente dalla necessità di utilizzare termini qualitativi13. Nemmeno il cri-
terio della continuità è, d’altra parte, adatto a restituire una parvenza
d’oggettività alle nozioni di normale e patologico, pur mirando ad istituire
rapporti puramente quantitativi tra i due termini. Se infatti “affermo una
continuità, posso soltanto inserire tra due estremi, senza ridurli l’uno
all’altro, tutti i termini medi di cui dispongo, mediante una dicotomia ad
intervalli progressivamente ridotti14”. L’istituzione di un rapporto di mera
continuità tra il normale e il patologico implica la fissazione, inevitabil-
mente arbitraria, delle misure in base alle quali determinare la linea di
continuità: “è in relazione ad una misura giudicata valida e auspicabile – e
dunque in relazione a una norma – che sussiste eccesso o difetto. Definire
l’anormale mediante il troppo o il troppo poco significa riconoscere il ca-
rattere normativo dello stato cosiddetto normale”15.

10. Ivi, p. 18.


11. Ivi, p. 31.
12. Ivi, p. 50.
13. Ivi, p. 29.
14. Ivi, p. 50.
15. Ivi, p. 32.

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La sostenibilità dell’identificazione di normale e patologico va dunque,
a parere di Canguilhem, incontro ad un duplice ostacolo di natura logica.
Non è infatti possibile tradurre in termini puramente quantitativi la nozio-
ne di normale, giacché anche la fissazione di una semplice misura implica
una scelta di valore. Ciò, in particolare, è testimoniato dall’insistenza con
cui ricorrono nel discorso del sapere medico-biologico i riferimenti a con-
cetti qualitativi. In questo senso “la quantità è qualità negata, non qualità
soppressa”16, dato che “il fisiologo studiando uno stato che egli dice fisio-
logico, lo qualifica in questo modo anche inconsciamente; lo considera
qualificato positivamente dal vivente e per il vivente”17.

2.1. Il “bisogno terapeutico”. Sulla normatività dell’umano

Le difficoltà cui va incontro ogni tentativo di trasporre in termini og-


gettivi i concetti di normalità e patologia risiedono, tuttavia, anche in più
generali ragioni di ordine epistemologico. Le idee di salute e malattia so-
no, infatti, il frutto di una rappresentazione che precede la loro stessa
concettualizzazione. Come suggerisce Canguilhem, fisiologia e patologia
ricevono tali nozioni da un’esperienza del tutto prescientifica delle stesse,
“la patologia, sia essa anatomica o fisiologica, analizza per conoscere
meglio, ma essa non può considerarsi patologia, vale a dire studio dei
meccanismi della malattia, se non in quanto riceve dalla clinica la nozione
di malattia, la cui origine va ricercata nell’esperienza che gli uomini han-
no dei loro rapporti d’insieme con l’ambiente”18. Lo studio dei fenomeni
patologici non è in grado di imporre al suo presunto oggetto di studio, la
malattia, alcuna forma di dominio poiché, sostiene Canguilhem, “non vi è
niente nella scienza che prima non sia apparso alla coscienza”19. Il sapere
medico-biologico deve accettare di non potersi confrontare con un dato
oggettivo, ma di avere a che fare con dei malati concreti, soggettivamente
definitisi e socialmente definiti tali. Al di sotto del discorso scientifico
sulla malattia come negazione della salute vi è dunque l’esperienza fon-
damentale di una sofferenza, di un mal vivre20.
Parimenti la nozione di normalità fisiologica, su cui è costruita l’idea
di salute, proviene solo parzialmente dal discorso scientifico in senso

16. Ivi, p. 81.


17. Ivi, p. 82.
18. Ivi, p. 63.
19. Ivi, p. 66.
20. P. Macherey, De Canguilhem à Canguilhem en passant par Foucault, in AA.VV.
(a cura di), Georges Canguilhem. Philosophe et historien des sciences. Actes du colloque
6-7-8 décembre 1990, Albin Michel, Paris 1993, p. 287.

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stretto: “la norma il medico la mutua solitamente dalla propria conoscen-
za della fisiologia, intesa come scienza dell’uomo normale, dalla propria
esperienza diretta delle funzioni organiche, dalla rappresentazione comu-
ne della norma in un ambiente sociale in un dato momento”21.
Nell’esercizio concreto della pratica medico-terapeutica si sovrappongo-
no, dunque, diverse nozioni di normalità, una coscienza fisiologica, una
coscienza sociale ed una coscienza individuale dello stato di salute. Nulla
garantisce, a priori, che la coscienza fisiologica di normalità sia un co-
strutto neutro, prodotto indipendentemente dalle significazioni sociali ed
individuali dello stato di salute: “è perché ad esso la terapeutica mira co-
me al buon fine da raggiungere che si deve dirlo normale, oppure è perché
esso viene considerato normale dall’interessato, vale a dire dal malato,
che la terapeutica ne fa il proprio obiettivo?”22 La medicina usa certo no-
zioni provenienti dalla fisiologia, ma in quanto arte della vita non si limi-
ta a farne un uso puramente descrittivo, trasformando queste stesse no-
zioni in dati normativi e “la fisiologia moderna si presenta come una rac-
colta canonica di costanti funzionali in rapporto con funzioni di regola-
zione ormonali e nervose. Tali costanti sono qualificate come normali in
quanto designano caratteri medi e i più frequenti tra i casi osservabili pra-
ticamente. Ma esse sono qualificate come normali anche perché entrano a
titolo di ideale in quella che è l’attività terapeutica. Le costanti fisiologi-
che sono dunque normali nel senso statistico, che è un senso descrittivo, e
nel senso terapeutico, che è un senso normativo”23.
Le scienze della vita, attraverso il ricorso ad uno strumentario concet-
tuale quantitativo, hanno finito per disconoscere l’esperienza fondamenta-
le della malattia, fornendo solo l’illusione di una positiva conoscenza del-
lo stato normale, o patologico, l’illusione della possibilità di sradicare
“tutte le significazioni vissute dalla malattia per pensarla come pura posi-
tività24”. Canguilhem, distinguendo tra un’esperienza pretesa oggettiva di
salute e malattia, normalità ed anormalità, ed un’esperienza individuale,
ha posto una questione cruciale per il fondamento epistemologico delle
scienze della vita. È la fisiologia che offre alla pratica medico-terapeutica
una nozione scientifica di normalità, oppure è l’arte medica che ritaglia
preliminarmente una nozione sociale e dunque normativa di salute, stimo-

21. G. Canguilhem, Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico,


cit., p. 94.
22. Ivi, p. 96.
23. Ivi, p. 94.
24. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 32.

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lando una riflessione scientifica il cui grado d’oggettività sarà inevitabil-
mente condizionato dal sostrato normativo a partire dal quale muove?
A ben vedere, infatti, tutti i fallimentari tentativi di oggettivare i con-
cetti di normale e patologico, riducendo la nozione di anormalità al mero
dato quantitativo dello scarto, dell’anomalia, si sono scontrati con la loro
irrudicibile normatività intrinseca. Normatività che deriva dall’essere, i
concetti di normale e patologico, frutto di una preliminare identificazione
che si svolge nel quadro di un’esperienza, come quella clinica, su cui in-
cidono giudizi sociali ed individuali. Non tutti gli scarti, le anomalie,
vengono identificati come patologici e ciò perché, nonostante tutti i tenta-
tivi operati in tal senso dalla fisiologia, l’anomalia non è di per sé diret-
tamente identificabile come patologia. Come suggerisce Canguilhem,
“patologico implica pathos, sentimento di vita impedita”25. Lo stato pato-
logico non è dunque riducibile alla mera diversità quantitativa, esso è
piuttosto una esperienza, qualcosa che fa parte di un vissuto pre-
scientifico entro certi limiti non inquadrabile secondo i canoni del sapere
positivo26.
Questo è ciò che Canguilhem definisce bisogno terapeutico27. È tale
bisogno terapeutico, più che l’esistenza al fondo delle scienze biologiche
di una nozione obbiettiva di normalità, a guidare concretamente la pratica
medica. Vale a dire la capacità dell’uomo di costruire, a partire
dall’esperienza clinica e dalla pratica medico-terapeutica che costituisco-
no lo spazio istituzionale al cui interno si sono storicamente condensate le
aspettative individuali e sociali sul benessere fisico, una nozione di salute
e malattia interamente assiologiche. “La clinica non può essere separata
dalla terapeutica, e la terapeutica è una tecnica di instaurazione o di re-
staurazione del normale il cui fine, vale a dire la soddisfazione soggettiva
dell’instaurazione di una norma, si sottrae alla giurisdizione del sapere
oggettivo”28.

25. Ivi, p. 106.


26. Scrive Canguilhem: “è perché vi sono anomalie vissute o manifestate come un ma-
le organico che esiste un interesse dapprima affettivo, poi teorico nei loro confronti. È
perché l’anomalia è diventata patologica che è nato lo studio scientifico delle anomalie.
Dal proprio punto di vista oggettivo il medico vuole vedere nell’anomalia soltanto lo scar-
to statistico, dimenticando che l’interesse scientifico del biologo è stato suscitato dallo
scarto normativo” (ibidem).
27. Ivi, p. 97.
28. Ivi, p. 188.

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2.2. Il “bisogno vitale”. Sulla normatività del biologico

Tale idea della fondamentale normatività dell’umano non è, tuttavia,


espressione solo del bisogno terapeutico, individuale o sociale che sia, ma
anche di un più radicale bisogno vitale29 che è alla base della normatività
della vita stessa30. Scrive Canguilhem: “riteniamo che la medicina esista
come arte della vita perché lo stesso vivente umano qualifica come pato-
logici, quindi come da evitare o da correggere, certi stati o comportamenti
assunti, relativamente alla polarità dinamica della vita, sotto forma di va-
lore negativo. Riteniamo che in questo il vivente umano prolunghi, in
modo più o meno lucido, uno sforzo spontaneo proprio della vita a lottare
contro ciò che costituisce un ostacolo al suo mantenimento e al suo svi-
luppo intesi come norme”31. Tale fondamentale bisogno vitale è ciò che
spinge la materia biologica a ricercare il suo optimum fisiologico in rela-
zione alle diverse condizioni ambientali d’esistenza. Se dunque non è
possibile oggettivare la nozione di normalità in quella di media, in un da-
to puramente quantitativo, non è solo perché l’idea di normalità è in fon-
do il frutto di un processo di costruzione derivato dalla normatività indi-
viduale e sociale dell’uomo, ma anche e soprattutto perché esiste una fon-
damentale normatività della vita che rende problematica l’idea stessa di
esistenza di un invariante biologico.
La riduzione positivistica che governa le moderne scienze dalle vita, vale
a dire la pretesa di poter ridurre lo stato patologico ad una pura variazione
quantitativa dello stato normale, impedisce di cogliere la natura specifica
dei fenomeni patologici. La malattia non può essere letta come pura e
semplice rottura di un equilibrio, alterazione di determinati valori quanti-
tativi. Nell’ottica di Canguilhem essa è “creazione di una soglia qualitati-
va nuova”32. Esiste in sostanza una sorta di plasticità fisiologica del vi-
vente, e dell’uomo in particolare, espressione della sua capacità di darsi
norme biologiche diverse in relazione alle differenti condizioni
dell’ambiente geografico e sociale che si trova ad abitare. In questo senso
Canguilhem può arrivare ad asserire che “l’uomo normale è l’uomo nor-
mativo, l’essere in grado di istituire nuove norme, anche organiche”33.

29. Ivi, p. 97.


30. Cfr. C. Debru, Georges Canguilhem et la normativité du pathologique, in AA.VV.
(a cura di), Georges Canguilhem. Philosophe et historien des sciences, cit., pp. 110-120.
31. G. Canguilhem, Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico,
cit., p. 96.
32. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 41.
33. G. Canguilhem, Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico,
cit., p. 109.

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L’essere capace di istituire nuove forme di vita in grado di tradursi in al-
trettante costanti biologiche: “le costanti si presentano con frequenza e
valore medi nel gruppo che dà loro valore di normale, e questo normale è
davvero l’espressione di una normatività. La costante fisiologica è
l’espressione di un optimum fisiologico in condizioni date, condizioni en-
tro le quali vanno collocate quelle che il vivente in generale, e l’homo fa-
ber in particolare, si danno”34.
Il vivente non può essere studiato come un meccanismo di cui rintrac-
ciare le determinanti invariabili. Esso è “una potenza”35, o meglio, una
potenzialità aperta. Non esiste dunque una normalità, bensì una normati-
vità dei fenomeni biologici. La vita non può essere descritta come un me-
ro complesso di reazioni meccaniche ed invariabili a stimoli esterni, essa
è una “maniera particolare di rapportarsi all’ambiente esteriore”36, che si
manifesta secondo due dinamiche fondamentali: l’una riproduttrice, tesa
alla conservazione ed al mantenimento del vivente nella sua forza intrin-
seca; l’altra direttamente produttrice o creatrice, “che permette
all’organismo di inventare risposte inedite a ciò che lo minaccia”37. Can-
guilhem ha descritto la prima di tali manifestazioni vitali nell’articolo
dell’Enciclopedia Universalis38 dedicato al concetto di regolazione, inteso
appunto come capacità dell’organismo di preservare l’equilibrio generale
del suo ambiente interno in relazione alle differenti condizioni
dell’ambiente esterno. Ma al di là del riferimento alle capacità omeostati-
che degli organismi, che consentono al vivente di riprodurre costantemen-
te un equilibrio funzionale al mutare delle condizioni ecologiche, la nor-
matività del vivente si manifesta anche in ciò che Canguilhem definisce
operazione di differenziazione. Vale a dire nella capacità del vivente di
selezionare, o preferire, gli adattamenti funzionali idonei alla prosecuzio-
ne della vita anche quando l’equilibrio originario non può più essere man-
tenuto. Se dunque la vita è di fatto un’attività normativa, ciò è perché essa
si sostanzia in uno sforzo continuo del vivente per “differenziare la vita in
vista del suo miglioramento e della sua continuazione”39.
Tale discorso, come è stato giustamente sostenuto, ribalta la prospetti-
va tradizionale delle scienze biologiche in generale e della fisiologia in

34. Ivi, p. 137.


35. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 52.
36. Ibidem.
37. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 53.
38. G. Canguilhem, Régulation, in Enciclopedia Universalis, XIX, Paris 1989,
p. 712 ss.
39. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 56.

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particolare: “non è la vita ad essere sottomessa a delle norme che agisco-
no su di lei dall’esterno, ma sono le norme che in maniera completamente
immanente, sono prodotte dal movimento stesso della vita”40. Esso giunge
ad una assunzione filosofica cruciale: l’idea che la vita sia essa stessa at-
tività creatrice, che non esista la possibilità di fissare le regole di un inva-
riante biologico, ma che sia necessario piuttosto introdurre la storia nella
vita. Tale assunzione impone naturalmente un mutamento radicale dello
statuto della fisiologia, la quale è adesso chiamata ad individuare i diversi
modi d’esercizio della sua normatività da parte della vita. Piuttosto che
studiare una supposta normalità biologica, scrive Canguilhem, “ci sembra
che la fisiologia abbia di meglio da fare che cercare di definire oggetti-
vamente il normale, e cioè riconoscere l’originale normatività della vi-
ta”41. Ciò non implica naturalmente lo svuotamento della nozione di pato-
logia, bensì la sua restituzione all’originale dimensione qualitativa. Di-
mensione che il discorso della fisiologia moderna ha sovente tentato di
mascherare. Malattia ed anormalità non saranno più indicati come assenza
di norma o allontanamento dalla stessa, dato che di per sé ogni mera a-
nomalia può rappresentare, anziché un funzionamento patologico, il pri-
mo manifestarsi di una nuova forma di vita: “la malattia non è soltanto
scomparsa di ordine fisiologico, ma comparsa di un nuovo ordine vita-
le”42. Per patologia deve piuttosto intendersi incapacità, perdita o riduzio-
ne della capacità di essere normativo da parte di un essere vivente43. La
normalità di un organismo è dunque la sua normatività, la sua capacità di
mutare norme. La sua patologia, viceversa, è la riduzione di tale potere
normativo. In questo senso normalità e patologia sono concetti di valore
non riducibili quantitativamente.
Esiste pertanto una duplice impossibilità da parte delle scienze della
vita di accedere ad una conoscenza oggettiva del normale, duplice perché
connessa da un lato alla fondamentale normatività dell’esperienza indivi-
duale e sociale degli stati definiti patologici e dall’altro all’ontologica
normatività della vita stessa. Tale impossibilità fa sì che la fissazione di
costanti biologiche, quelle che la fisiologia pretende di definire normali,
sia sempre contingente e da porre in relazione con l’ambiente sociale e
geografico che il vivente si trova ad abitare. Scrive Canguilhem, “il vi-
vente e l’ambiente non sono normali presi separatamente, ma è la loro re-

40. P. Macherey, De Canguilhem à Canguilhem en passant par Foucault, cit., p. 288.


41. G. Canguilhem, Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico,
cit., p. 144.
42. Ivi, p. 158.
43. Ivi, p. 150, 160.

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lazione che rende tali l’uno e l’altro, l’ambiente è normale per una data
forma vivente nella misura in cui esso permette una tale fecondità, è, in
relazione a ciò, una tale varietà di forme che, nel caso in cui se ne presenti
la necessità per la modificazione dell’ambiente, la vita possa trovare in
una di queste forme la soluzione al problema di adattamento che essa è
chiamata brutalmente a risolvere. Un vivente è normale in dato ambiente
in quanto esso è la soluzione morfologica e funzionale trovata dalla vita
per rispondere a tutte le esigenze dell’ambiente”44.
In questo senso la riduzione di normale e patologico, più che la mani-
festazione di un progresso del sapere scientifico e l’accesso definitivo dei
saperi medico-biologici alla sfera dei saperi positivi, rappresenta una tipi-
ca manifestazione di ciò che Canguilhem stesso avrebbe definito ideolo-
gia scientifica45. Vale a dire l’espressione del complesso di valori sociali
che sottendono il discorso scientifico. Da tale riduzione positivistica di-
scendono, infatti, tutta una serie di notevoli conseguenze: in primo luogo
la negazione della qualità specifica dei fenomeni patologici e la loro as-
similazione a delle mere anomalie, allo scarto da cui non è dato imparare
nulla più rispetto a quanto non sia già possibile fare attraverso la cono-
scenza dei fenomeni fisiologici, o normali. In secondo luogo,
l’instaurazione di un dogma determinista in base al quale tutti i fenomeni
vitali si riducono a meri scarti quantitativi rispetto ad una dinamica di
causa ed effetto in cui non è possibile inserire mutamenti d’ordine quali-
tativo. In terzo ed ultimo luogo il rifiuto del valore della tecnica o
dell’arte medica in quanto manipolazione della varietà dei fenomeni vitali
a vantaggio di una rappresentazione volgarmente positivistica del sapere
medico quale studio teorico delle regolarità fisiologiche. Quest’insieme di
conseguenze mostra con particolare evidenza come tale dogma non sia
altro, in fondo, che l’espressione del “primato generale dell’ordine sul di-
sordine”46. Un primato socialmente strutturato che finisce per trasformare
la stessa filosofia della medicina in una generale “filosofia dell’ordine”47,
che la circolazione dei concetti di normalità e patologia in altri campi del
sapere renderà a partire dal XIX secolo particolarmente pervasiva.

44. Ivi, p. 113.


45. G. Canguilhem, Ideologia e razionalità nella storia delle scienze della vita, La
Nuova Italia, Scandicci 1992.
46. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 48.
47. Ibidem.

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3. Normatività del sapere medico

Tra il 1963 ed il 1966, qualche anno prima della pubblicazione di Na-


scita della clinica, seconda ricerca del suo discepolo Michel Foucault,
Canguilhem sarebbe tornato a riflettere sul suo lavoro, sviluppando ulte-
riormente le intuizioni sulla genesi sociale dell’idea di normalità biologi-
ca La prossimità degli eventi non rappresenta a nostro avviso una pura
coincidenza temporale. Sebbene la ricerca foucaultiana si concentri so-
prattutto sugli sviluppi epistemologici del sapere bio-medico, senza arti-
colare un’analisi dettagliata del ruolo politico e sociale della pratica me-
dica, essa non manca di rilevare il peso che i fattori istituzionali e politici
hanno avuto sull’evoluzione della disciplina medica. La clinica viene in-
fatti assunta come una delle “condizioni di possibilità dell’esperienza me-
dica”48, quale struttura istituzionale e sociale che crea l’insieme delle
condizioni non discorsive a partire dalle quali potrà parlare il discorso
della medicina moderna. In questo senso Nascita della clinica rappresenta
un perfetto complemento delle indagini sulle scienze della vita sviluppate
da Canguilhem. Essa contribuisce ad illustrare la genesi sociale del con-
cetto di normalità biologica ed, in particolare, il ruolo della pratica tera-
peutica e dell’istituzione clinica nella produzione del normale e del pato-
logico49, facendo emergere la fondamentale posizione normativa assunta
dalla medicina nella gestione dell’esistenza umana.
Nello stesso periodo Canguilhem svolgeva una riflessione simile sulla
trasposizione di modelli concettuali dalle scienze della vita alle scienze
politico-sociali50. Secondo la sua ricostruzione, la comunicazione tra
l’immaginario medico-biologico e l’immaginario politico è stata sostan-
zialmente determinata dall’originaria non innocenza delle scienze della
vita e della pratica medica in particolare. Come suggerisce Canguilhem,
infatti, “vale per la medicina ciò che vale per tutte le tecniche, essa è
un’attività che si radica nello sforzo spontaneo del vivente per dominare
l’ambiente e organizzarlo secondo i propri valori di vivente”51. Se l’idea
di normalità, e la stessa concezione di fisiologia dell’organismo sociale,

48. M. Foucault, Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico, Einau-
di, Torino 1998, p. 14.
49. M. Porro, Canguilhem. La norma e l’errore, in G. Canguilhem (a cura di), Il nor-
male e il patologico, cit., pp. xxviii, xxxix; P. Macherey, De Canguilhem à Canguilhem
en passant par Foucault, cit., p. 289.
50. Cfr. F. Duroux, L’imaginaire biologique du politique, in AA.VV., Georges Can-
guilhem. Philosophe et historien des sciences, cit., p. 49 ss.
51. G. Canguilhem, Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico,
cit., 190.

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hanno potuto assumere una tale centralità nel lessico delle discipline poli-
tico-sociali, è appunto a causa della rilevanza dell’istituzione medica e,
più in generale, della vera e propria medicalizzazione del corpo sociale
operata nel quadro delle moderne società industriali. Medicalizzazione
che appare come la maggiore espressione “di una esigenza di razionaliz-
zazione che si profilava anche in politica, così come essa si profilava in
economia sotto l’effetto della nascente automazione industriale, e che
sfociò, infine, in ciò che in seguito è stato chiamato normalizzazione”52.
Calco laico della chiesa nella cura delle malattie fisiche, i saperi bio-
medici assumono così uno statuto politico, costituendosi come arti del
benessere, tecniche sociali per la produzione dello stato fisico ideale
nell’uomo. Le riflessioni di Canguilhem convergono qui con l’opera di
Foucault. Quest’ultimo, in particolare, descrivendo il processo attraverso
cui le istituzioni si sono fatte carico del progetto di medicalizzazione della
società, ha contribuito a situare socialmente e storicamente quella norma-
tività dei saperi sulla salute e la malattia, sul normale e sul patologico, che
era già stata al centro della precedente ricerca di Canguilhem. Ha scritto
infatti Foucault:

La medicina non deve più essere solamente il corpus delle tecniche della
guarigione e del sapere che richiedono; essa comprenderà anche una cono-
scenza sull’uomo in salute, cioè una esperienza dell’uomo non malato e una
definizione dell’uomo modello insieme. Essa assume nella gestione
dell’esistenza umana postura normativa, che non l’autorizza a distribuire
semplicemente consigli di vita saggia, ma l’incarica di reggere i rapporti fi-
sici e morali dell’individuo e della società in cui vive. Essa si situa nella
zona marginale, ma per l’uomo moderno sovrana, in cui una certa felicità
organica, levigata, senza passione e vigorosa, comunica di diritto con
l’ordine di una nazione, il vigore del suo esercito, la fecondità del suo po-
polo e il cammino paziente del suo lavoro53.

È proprio questa normatività fondamentale dei saperi medico-


biologici, il loro ruolo nell’istituzione dei criteri per determinare normali-
tà e patologia della dinamica del vivente, a generare quella particolare
comunicabilità tra saperi medico-biologici e saperi politico-sociali che sa-
rà tipica delle società moderne:

52. G. Canguilhem, Nuove riflessioni sul normale e il patologico, in G. Canguilhem, Il


normale e il patologico, cit., p. 199.
53. M. Foucault, Nascita della clinica, cit., pp. 47, 48.

17
Il prestigio della scienza della vita nel XIX secolo, il ruolo di modello che
hanno svolto, soprattutto per le scienze dell’uomo, non è primitivamente
legato al carattere comprensivo e trasferibile dei concetti biologici, ma piut-
tosto al fatto che questi concetti erano disposti in uno spazio la cui struttura
profonda doveva corrispondere all’opposizione tra sano e morboso. Quando
si parlerà della vita dei gruppi e delle società, della vita della razza, o anche
della vita psicologica, non si penserà subito alla struttura interna dell’essere
organizzato, ma alla bipolarità medica del normale e del patologico54.

In queste riflessioni attorno alla normatività del sapere medico svilup-


pate, in una sorta di dialogo a distanza, da Canguilhem e Foucault abbia-
mo tuttavia già visto affacciarsi un concetto nuovo. Il concetto di norma-
lizzazione, che tanto rilevante sarà per le analisi che Foucault condurrà
negli anni Settanta. Tale concetto, utilizzato per la prima volta da Can-
guilhem, serve per evidenziare la sostanza fondamentalmente politica di
quello che egli aveva inizialmente definito bisogno terapeutico, vale a di-
re della essenziale normatività biologica dell’uomo in quanto essere so-
ciale. Esso, dunque, segnala un certo mutamento di prospettiva. Se infatti
l’idea di normatività si riferiva ad una dinamica radicata nel vivente stes-
so, l’idea di normalizzazione indica il riferimento ad una dinamica di pro-
duzione della vita le cui radici affondano nei processi economici e socia-
li55. Il termine normalizzazione si riferisce dunque ad una sorta di norma-
tività sociale, vale a dire all’idea che non siano tanto, o meglio non solo,
le determinanti biologiche a condizionare i tratti essenziali assunti dal
processo di produzione e riproduzione della vita sociale, ma che sia piut-
tosto quest’ultimo a modellare gli stessi tratti essenziali della materia vi-
vente. Il sociale, in sostanza, produce esso stesso nuove forme di vita, in-
nesca una dinamica creatrice che è già di per sé produzione della vita.
Nell’ottica di Canguilhem l’idea di normalizzazione rimanda, come vi-
sto, al processo di produzione di normalità sociale avviatosi con la razio-
nalizzazione dei mezzi per la soddisfazione del fabbisogno politico ed e-
conomico delle moderne società industriali. La normatività sociale, dun-
que, a differenza della normatività biologica, non è imposta da esigenze
immanenti all’organismo vivente, ma è legata ad esigenze collettive stori-
camente definite56. In questo senso “il normale non è un concetto statico o
pacifico, bensì un concetto dinamico o polemico”57. Vale a dire che la

54. Ivi, p. 48.


55. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 78.
56. Ivi, p. 81.
57. G. Canguilhem, Nuove riflessioni sul normale e il patologico, cit., p. 201.

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normalità sociale è sempre il frutto di una intenzione normativa che fissa
dei valori, l’esito di una decisione formatrice che istituisce delle regole e
dei modelli di riferimento, il risultato di una pratica normalizzatrice, infi-
ne, che utilizza un dato modello di normalità per sanzionare ed eliminare
gli scarti, le anomalie58. Scrive Canguilhem: “normare, normalizzare è
imporre un’esigenza a un’esistenza, a un dato la cui varietà e differenza si
offrono, di fronte all’esigenza, come un indeterminato ostile più ancora
che straniero59”.
Come accennato, tuttavia, a differenza che nel caso della normatività
vitale, il valore associato alla produzione di normalità non è in
quest’ultimo caso immanente alla norma stessa. La normatività sociale è
sempre fondata su valori contingenti, l’ordine da essa prodotto non è in-
scritto in alcuna necessità a-storica, ma sempre legato a scelte politiche,
esigenze economiche, tecniche e morali determinate. La normatività so-
ciale è dunque “un’esperienza specificamente antropologica e cultura-
le”60, così come la pratica di normalizzazione, espressione della normati-
vità sociale tipica delle moderne società industriali, esprime le esigenze di
razionalizzazione legate alle necessità tecniche, economiche e politiche di
questo tipo di società, mirando alla produzione del tipo antropologico ad
esse conforme. Normalizzazione significa produzione di soggettività in
conformità con le esigenze di un dato sistema sociale. Produzione che può
giungere fino alla manipolazione della stessa materia biologica umana,
poiché “la forma e le funzioni del corpo umano non sono solamente
l’espressione delle condizioni offerte alla vita dall’ambiente, ma
l’espressione dei modi di vivere l’ambiente socialmente accettati”61.

4. Il concetto di normalizzazione in Foucault

Con il concetto di normalizzazione Canguilhem conclude una traietto-


ria teorica destinata a smantellare il mito dell’esistenza di un invariante
biologico e della possibilità concreta da parte dell’uomo di averne una
conoscenza oggettiva. Una idea questa contro cui sono stati mossi, come
visto, tre principali argomenti: in primo luogo un argomento epistemolo-
gico teso a svelare il mito dell’innocenza biologica del vivente; in secon-
do luogo un argomento strettamente biologico, messo in gioco dall’idea

58. G. le Blanc, Canguilhem et les normes, cit., p. 82.


59. G. Canguilhem, Nuove riflessioni sul normale e il patologico, cit. p. 201.
60. Ivi, p. 205.
61. Ivi, p. 203.

19
della normatività del vivente; in terzo ed ultimo luogo un argomento so-
ciologico, legato all’idea dell’influenza che l’ambiente sociale esercita sui
tratti della vita stessa, alterandone ritmi, modificandone la longevità e, più
in generale, la sua stessa struttura biologica essenziale.
Foucault, nel corso della sua archeologia dei saperi antropologici, sa-
rebbe partito proprio dalle principali acquisizioni del suo maestro, radica-
lizzandole ulteriormente nel senso di una critica della moderna razionalità
politica in quanto tecnologia per la produzione di soggettività. Il punto di
partenza della sua ricostruzione genealogica fu infatti l’idea dell’assenza
di costanti antropologiche nell’individuo e della sostanziale plasticità del-
la materia biologica umana che era già stata al centro del lavoro di Can-
guilhem. Un punto che Foucault ebbe l’occasione di sottolineare con de-
cisione nella sua rilettura dell’opera nietzscheana, allorché indicò i tratti
epistemologici essenziali di una wirkliche Historie in quanto storia che
tende a “reintrodurre nel divenire tutto ciò che si era creduto immortale
nell’uomo”. In quest’ottica tutto nell’uomo ha una storia ed è socialmente
prodotto, così i suoi sentimenti, i suoi istinti, persino il corpo, comune-
mente associato alle invarianti fisiologiche, “è preso in una serie di regimi
che lo plasmano; è rotto a ritmi di lavoro, di riposo e di festa; è intossica-
to da veleni – cibo o valori, abitudini alimentari e leggi morali insieme; si
costruisce delle resistenze62”. Come in Canguilhem, dunque, l’individuo
ed il suo corpo non sono più ridotti a delle semplici costanti biologiche. Il
corpo individuale non è un dato naturale, ha esso stesso una storia, entità
complessa inscritta all’interno di una rete di dispositivi di sapere-potere
che concretamente lo producono e lo modellano. È proprio questo rappor-
to tra potere politico e corpo il centro della ricerca foucaultiana attorno
alla nozione di biopolitica.
L’ipotesi teorica da cui muove il progetto genealogico foucaultiano è
che l’età moderna abbia sviluppato, all’ombra delle grandi figure teorico-
giuridiche della sovranità, tutta una meccanica per l’esercizio della poten-
za politica basata sulla “forma generale del contatto sinaptico potere poli-
tico-corpo individuale”63. Certo l’esercizio del potere ha sempre implicato
un dato rapporto con il corpo individuale. Come illustra lo stesso Fou-

62. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Il discorso, la storia, la ve-


rità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 54. Posizioni
queste che Foucault avrebbe ulteriormente ribadito nel dibattito sulla natura umana con
Noam Chomsky. Cfr. N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologi-
co e potere politico, Deriveapprodi, Roma 2005.
63. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France, 1973-1974, Fel-
trinelli, Milano 2004, p. 49.

20
cault, esiste una serie molto vasta di “apparati corporali”64 che hanno ca-
ratterizzato la storia delle istituzioni politiche moderne. Vi sono innanzi-
tutto gli “apparati di garanzia e di prova”, per mezzo dei quali si cerca di
impedire fisicamente il prodursi di un certo tipo di azioni o si cerca di
cautelare certi interessi o beni. Vi sono in secondo luogo “apparati che
hanno lo scopo di estorcere la verità”, i quali, per mezzo di una modula-
zione progressiva dell’intensità della loro azione sul corpo, tendono ad
estorcere le informazioni desiderate da determinati individui. Vi sono in-
fine apparati che hanno quale funzione essenziale quella di “manifestare,
e marchiare al contempo, la forza del potere”65 agendo sul corpo indivi-
duale direttamente per distruggerlo o suppliziarlo.
Foucault ritiene, tuttavia, che l’età moderna sia caratterizzata per la
diffusione di una serie di apparati corporali che si distinguono radical-
mente dai tre tipi precedenti poiché la loro funzione non consiste
nell’“imprimere il marchio del potere, estorcere la verità, ottenere garan-
zie” ma nel “correggere ed addestrare il corpo”66. Si tratta di apparati, o
tecnologie politiche del corpo, che funzionano secondo la logica degli
strumenti ortopedici: “in primo luogo la loro azione è continua, in secon-
do luogo l’effetto progressivo che producono deve fare in modo di arriva-
re a renderli inutili, nel senso che, al limite, deve risultare possibile to-
gliere lo strumento e continuare a ottenere i risultati, visto che l’effetto
conseguito grazie al suo impiego è ormai definitivamente inscritto nel
corpo. Si tratta dunque di apparati il cui effetto dovrà essere quello di an-
nullare se stessi. Infine dovranno essere apparati con un carattere il più
possibile omeostatico, vale a dire tali per cui meno si oppone resistenza,
meno se ne avverte l’azione, mentre al contrario, più si tenta di sfuggirvi
e più si è destinati a soffrirne”67. Tale tecnologia ortopedica del corpo si
basa su una minuziosa “politica di coercizioni che sono un lavoro sul cor-
po, una manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi
comportamenti”68, una vera e propria microfisica del corpo che mira alla
produzione di un “corpo docile”69 poiché appunto malleabile, plasmabile,
utilizzabile a seconda delle diverse esigenze politiche.

64. Ivi, p. 106.


65. Ibidem.
66. Ibidem.
67. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., pp. 106, 107.
68. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1998,
p. 150.
69. Ivi, p. 148.

21
La tecnologia politica disciplinare è descritta da Foucault come un
meccanismo per l’esercizio del potere che investe l’esistenza individuale
in maniera totalizzante. A differenza di ciò che egli definisce potere di
sovranità, il potere disciplinare non si limita ad agire episodicamente sulla
sfera individuale, prelevandone risorse economiche, il tempo o colpendo-
ne la sostanza fisica, esso manifesta piuttosto una “capacità di espugna-
zione esaustiva del corpo, dei gesti del tempo, del comportamento
dell’individuo”70. Si tratta com’è evidente di una razionalità politica che
rinuncia all’azione fisica esercitata sul corpo dall’esterno, non limitan-
dosi all’utilizzo della tecnica del divieto e dell’ostacolo al libero dispie-
garsi dell’azione individuale. Essa tenta piuttosto di scendere al livello
delle strutture profonde della personalità, fino alle “fibre molli del cer-
vello”71, cercando di plasmare attitudini ed inculcare gli automatismi
dettati dalle esigenze politiche che stanno alla base delle diverse istitu-
zioni disciplinari.
Il potere disciplinare, attraverso la sua indefinita capacità di far presa
ed esercitare un controllo costante sull’esistenza individuale, “fabbrica
degli individui”72, o meglio, “fabbrica, distribuisce corpi assoggettati”73.
In questa sua costante opera di assoggettamento/soggettivazione esso fun-
ziona come una tecnica generale di esercizio del potere trasferibile a isti-
tuzioni e apparati numerosi e diversi. Una tecnica i cui effetti essenziali
sono tuttavia riducibili a ciò che Foucault, riprendendo direttamente
l’opera del suo maestro, definisce “normalizzazione”74. L’espandersi del-
le tecnologie politiche disciplinari è infatti legato, nell’ottica di Foucault,
a quel processo generale di normalizzazione che Canguilhem aveva visto
radicarsi in numerose sfere della vita sociale con lo strutturarsi della mo-
derna società industriale. Come ribadisce Foucault, sviluppando le intui-
zioni del suo maestro, “la norma non si definisce affatto nei termini di una
legge naturale, ma a seconda del ruolo disciplinare e coercitivo che è ca-
pace di esercitare negli ambiti cui si rivolge”75. Dietro al concetto di nor-
malità, tanto più quando esso è all’opera nel quadro dei saperi politico-
sociali, o guida il funzionamento di apparati e tecnologie di potere, vi è
sempre una pretesa di normatività. “La norma non è un principio

70. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 54.


71. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 148.
72. Ivi, p. 186.
73. M. Foucault, Il potere psichiatrico, cit., p. 64.
74. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France, 1974-1975, Feltrinelli,
Milano 2000, p. 52.
75. Ivi, p. 52.

22
d’intelligibilità; è un elemento a partire dal quale un determinato esercizio
del potere si trova fondato e legittimato. Concetto polemico dice Canguil-
hem. Forse si potrebbe dire politico”76. In quanto tale il concetto di norma
implica sempre, oltre che un principio di designazione degli scarti e delle
anormalità, anche una tecnica di intervento e correzione. Essa, nel suo
concreto operare all’interno delle diverse pratiche istituzionali e sociali, è
sempre legata ad un “progetto normativo”77.
Le tecnologie disciplinari, in quanto tecniche positive per plasmare e
modellare tipi antropologici, per produrre soggettività, sono dunque il
veicolo principale di tale processo di normalizzazione all’opera nelle so-
cietà moderne. Esse, in particolare, fanno funzionare i due principali
strumenti attraverso cui può espandersi la logica normalizzatrice. In pri-
mo luogo stabiliscono ciò che Foucault definisce una infra-penalità78,
“incasellano uno spazio che le leggi lasciano vuoto; qualificano e repri-
mono una serie di comportamenti che per il loro interesse relativamente
scarso sfuggivano ai grandi sistemi di punizione”79. Si tratta di una opera-
zione che istituisce un regime di punibilità indefinita del minimo scarto e
della minima irregolarità, sanzionando quello che Foucault definisce il
“campo indefinito del non-conforme”80. Tuttavia, contrariamente a quanto
potrebbe apparire ad uno sguardo superficiale, tutto ciò non implica un
rafforzamento del potere di sovranità. L’estensione del dominio discipli-
nare sul campo dell’infrapenalità non istituisce infatti un meccanismo
punitivo che rientra nella sfera della “penalità tradizionale della legge”81.
Piuttosto si tratta della messa in opera di una sorta di penalità della nor-
ma che rientra nella sfera delle tecnologie di ortopedia politica. Pur ri-
mandando all’immaginario giuridico-politico classico, l’intervento disci-
plinare tende ad essere correttivo, l’afflizione che esso pratica è centrata
sull’esercizio e l’addestramento. Ma allo stesso tempo il suo valore vuole
essere qualificante: esso non pratica solo afflizioni, elargisce anche grati-
ficazioni secondo una scala di qualificazione degli individui tarata sui di-
versi parametri di conformità, “attraverso la microeconomica di una per-
petua penalità, si opera una differenziazione che non è più quella degli
atti, ma degli individui stessi, della loro natura, delle loro virtualità”82.

76. Ivi, p. 52, 53.


77. Ivi, p. 53.
78. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 195.
79. Ibidem.
80. Ivi, p. 196.
81. Ivi, p. 201.
82. Ivi, p. 198.

23
In secondo luogo, come meccanismo per far funzionare costantemente
tale infra-penalità disciplinare, opera un strumento istituzionale che, pur
funzionando come le tecnologie giudiziarie quale apparato di sape-
re/potere, è governato da un logica radicalmente differente rispetto al
meccanismo giuridico. L’esame, “controllo normalizzatore”, istanza di
sorveglianza e controllo che “permette di qualificare, classificare e puni-
re”83, è uno strumento di assoggettamento ed oggettivazione cruciale per
il funzionamento dei meccanismi disciplinari. Come ribadisce Foucault,
“la sovrapposizione dei rapporti di potere e delle relazioni di sapere as-
sume nell’esame tutto il suo splendore visibile”84. Esso consente in primo
luogo quella visibilità permanente degli individui che è precondizione
stessa del processo d’oggettivazione85, ma soprattutto consente la fissa-
zione delle identità individuali all’interno di quel “campo documenta-
rio”86 che costituisce la base indispensabile per “la costituzione
dell’individuo oggetto descrivibile, analizzabile”87, per la costruzione del
“caso clinico” individuale88. Se, nei suoi lavori sulle pratiche giudiziarie,
Foucault ci aveva descritto la nascita dell’inchiesta come strumento di sa-
pere/potere indispensabile per lo sbocco epistemologico delle scienze na-
turali, adesso con il riferimento all’esame segnala “l’importanza decisiva
[…] di tutte quelle piccole tecniche di annotazione, registrazione, costitu-
zione di dossiers, messa in colonna e in quadro, che ci sono familiari” per
“lo sbocco epistemologico delle scienze dell’individuo”89.
Le discipline costituiscono dunque la “società della norma”90. Esse,
contribuendo alla maturazione epistemologica dei saperi antropologici,
centrati sulla coppia dicotomica normale/patologico, hanno finito per tra-
sformare la società moderna in una civiltà della normalizzazione, dove la
rilevanza politica dei saperi medico-antropologici è addirittura superiore
rispetto a quella assunta dai saperi giuridici91. Le tecnologie disciplinari si
fondano infatti su un discorso radicalmente eterogeneo rispetto alla scien-
za giuridica, un discorso che non è più quello “della regola giuridica deri-
vata dalla sovranità, bensì quello della regola naturale, cioè della norma”,

83. Ivi, p. 202.


84. Ibidem.
85. Ivi, p. 205.
86. Ivi, p. 207.
87. Ivi, p. 208.
88. Ivi, p. 209.
89. Ivi, p. 208.
90. M. Foucault, L’estensione sociale della norma, in G. Perni (a cura di), Dalle tortu-
re alle celle, Lerici, Cosenza 1979, p. 94; Id., Sorvegliare e punire, cit., p. 201.
91. M. Foucault, L’estensione sociale della norma, cit., p. 95.

24
poggiano su un piano discorsivo che non è più quello “della legge ma
quello della normalizzazione”, si riferiscono “ad un orizzonte teorico” che
necessariamente non è più “l’edificio del diritto ma il dominio delle
scienze umane”92. L’essenza del potere disciplinare, con le sue istanze di
normalizzazione, sta appunto nel suo essere un potere limitrofo alla prati-
ca giudiziaria. Un potere che non colpisce infrazioni di una legge ma, at-
traverso la capacità di produrre ed utilizzare il discorso delle scienze u-
mane, tende piuttosto a sanzionare delle mere irregolarità, delle devia-
zioni rispetto ad un paradigma di normalità. Al centro di tale civiltà nor-
malizzatrice vi sono dunque delle tecnologie politiche che si articolano
sullo spettro di un potere che oscilla tra l’istanza medica e l’istanza giudi-
ziaria93, avendo come punto focale una figura individuale ibrida, quella
dell’anormale, che coniuga in sé i tratti del malato ed i tratti del crimina-
le94.

5. Una conclusione sulle norme giuridiche

Il progetto foucaultiano di genealogia delle tecnologie politiche è dun-


que il tentativo di descrivere l’emergere di quel complesso di istituzioni
politiche e sociali che, attraverso la loro capacità di far presa sul corpo
umano, hanno contribuito in maniera decisiva a quell’impresa di assog-
gettamento che è anche vera e propria produzione di soggettività, impresa
biopolitica. Dice significativamente Foucault:

Una volta, non vi erano che dei soggetti, dei soggetti giuridici da cui poter
ricavare beni […] adesso, si hanno dei corpi e delle popolazioni. Il potere è
diventato materialista, cessa di essere essenzialmente giuridico. Esso deve
trattare con queste cose reali che sono i corpi, la vita. La vita entra nel do-
minio del potere: mutazione capitale, una delle più importanti, senza dub-
bio, nella storia delle società umane95.

Al centro del progetto filosofico di Michel Foucault vi è dunque la de-


scrizione della nascita di una società della norma. Una descrizione che
muove dalla ricerca sull’emersione dei diversi paradigmi di normalità si-
tuati alla base della struttura epistemologica delle scienze antropologiche,

92. M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France, 1976, Fel-
trinelli, Milano 1998, p. 46.
93. M. Foucault, L’estensione sociale della norma, cit., p. 96.
94. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 46.
95. M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Id., Dits et écrits, IV, Gallimard, Paris
1994, p. 194.

25
per giungere ai dispositivi di normalizzazione come tecnologie ortopedi-
che per la concreta produzione delle singole normalità individuali e la più
generale normalità sociale96. Ci chiediamo però che rapporto esista tra il
concetto di norma, tanto centrale in Foucault, ed il fenomeno giuridico,
cui il filosofo francese si è sempre rapportato usando i toni di una polemi-
ca teorica esplicita, arrivando a sostenere di voler “costruire un’analitica
del potere che non prenda più per modello e per codice il diritto”97.
A prima vista la questione del diritto nell’opera foucaultiana non pare
adeguatamente tematizzata. Se è vero che la sua opera, perlomeno a parti-
re dal momento in cui negli anni Settanta si è posto l’interesse per la que-
stione del potere nelle società moderne, ha come bersaglio critico questa
l’idea di sovranità, il discorso della sovranità resta a lungo un mero ber-
saglio polemico piuttosto che un elemento teorico forte nel quadro della
genealogia del potere disciplinare. Esso, infatti, assume talvolta i tratti
della figura giuridica della monarchia feudale, altre volte quelli Leviatano
hobbesiano, altre ancora dell’immagine dell’apparato di Stato, centro del-
la filosofia politica marxista, senza tuttavia mai precisarsi teoricamente98.
Probabilmente, sotto un profilo strettamente esegetico, occorre dire che il
diritto e, più in generale, la ragione giuridica non interessavano Foucault
se non come espediente retorico per costruire, in costante dialettica con
essi, la tipologia del potere disciplinare. Nel muovere verso la sua analiti-
ca del potere egli, analizzando la formazione discorsiva del pensiero poli-
tico-giuridico contemporaneo, sembra gettare le basi per un’analisi genea-
logica della ragione giuridica. Un’analisi che tuttavia resta in potenza,
abbozzata solo in occasione del suo confronto più serrato con ciò che de-
finì “ipotesi repressiva”99.
Foucault, infatti, una volta individuati alcuni dei tratti essenziali della
“formazione discorsiva del pensiero politico-giuridico occidentale”100,
non sviluppa ulteriormente le sue considerazioni nel senso di una vera e

96. F. Ewald, Michel Foucault et la norme, in L. Giard (dir.), Michel Foucault. Lire
l’oeuvre, Millon, Grenoble 1992, p. 203.
97. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano
2001, p. 80.
98. J. Terrel, Les figures de la souveraineté, in G. le Blanc, J. Terrel (dir.), Foucault
au Collège de France. Un itinérarie, Presses Universitaires de Bordeaux, Bordeaux 2003,
p. 102.
99. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 15; Id., Bisogna difendere la Società,
cit., p. 45.
100. C. Sarzotti, “Sapere giuridico tra diritto di sovranità e pratiche disciplinari nel
pensiero di Michel Foucault”, Sociologia del diritto, XVIII, 1991, 2, p. 48; cfr. M. Fou-
cault, Bisogna difendere la società, cit., 1998, p. 30.

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propria genealogia. Non si sofferma cioè sull’analisi del complesso di
conflitti sociali all’interno dei quali quel discorso sul diritto sovrano, e
più poi quello sui diritti dei cittadini, fu prodotto e funzionò. Si limita
piuttosto ad indicare le funzioni che la ragione giuridica moderna, svilup-
pandosi in parallelo con la nascita delle discipline, ha assunto:

Insieme all’organizzazione di un codice giuridico incentrato su di essa, la


teoria della sovranità ha permesso di sovrapporre ai meccanismi della di-
sciplina un sistema di diritto che ne nascondeva i procedimenti, che cancel-
lava ciò che poteva esserci di dominazione e di tecniche di dominazione
nella disciplina, garantendo infine a ciascuno, attraverso la sovranità dello
Stato, l’esercizio dei propri diritti individuali101.

Alla legge, alla ragione giuridica ed al linguaggio dei diritti che si svi-
luppa con la maturazione del pensiero filosofico-giuridico liberale è e-
splicitamente assegnata una funzione ideologica, essa copre, nasconde i
meccanismi disciplinari che s’inseriscono nel profondo delle pratiche so-
ciali quotidiane con la retorica dell’uguaglianza102. Con un ritorno ai mo-
tivi classici del marxismo, Foucault denuncia come all’ombra della co-
struzione dell’astratto soggetto di diritto da parte della ragione giuridica
moderna, abbiano operato i concreti meccanismi per la produzione delle
soggettività, per la manipolazione delle esistenze103.
In realtà, se si confronta attentamente il testo foucaultiano, è possibile
rendersi conto del fatto che Foucault non faccia mai riferimento ad una
scomparsa o ad un declino del ruolo del diritto nella società moderna. Il
suo bersaglio critico è piuttosto un certo modello teorico che tende a rap-
presentare il potere attraverso una semplicistica immagine giuridico-
repressiva, vale a dire “l’utilizzo del diritto come modello d’analisi, prin-

101. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 39.


102. C. Sarzotti, “Sapere giuridico tra diritto di sovranità e pratiche disciplinari nel
pensiero di Michel Foucault”, cit., pp. 48 ss.; A. Hunt, “Foucault’s Expulsion of Law.
Toward a Retrieval”, Law & Social Inquiry, XVII, 1992, 1, pp. 5 ss.
103. Ha scritto Foucault in un passo giustamente famoso: “si dice spesso che il model-
lo di una società che abbia come elementi costitutivi gli individui è presa a prestito dalle
forme giuridiche astratte del contratto e dello scambio. La società mercantile si sarebbe
presentata come un’associazione contrattuale di soggetti giuridici isolati. Forse. La teoria
politica dei secoli XVII e XVIII sembra in effetti ubbidire spesso a questo schema. Ma
non bisogna dimenticare che nella stessa epoca è esistita una tecnica per costituire effetti-
vamente gli individui come elementi correlativi di un potere e di un sapere. L’individuo è
senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione ideologica della società, ma è anche
una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama disciplina”
(M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 212).

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cipio d’intelligibilità del potere”104. Più che del fenomeno giuridico in se
stesso, Foucault ha sottolineato la necessità di liberarsi di una certa im-
magine del diritto e della legge basata sul semplicistico schema divieto-
sanzione, un’immagine costantemente replicata nei classici temi della cri-
tica al potere repressivo tanto diffusi nel freudo-marxismo degli anni Set-
tanta105. Una immagine che nonostante la sua centralità in tutto il discorso
della filosofia politico-giuridica moderna, resta incapace di dare conto
della complessità e del ruolo concretamente esercitato dal fenomeno giu-
ridico quale meccanismo di potere.
Come ha suggerito Norberto Bobbio, “la teoria che considera il diritto
esclusivamente dal punto di vista della sua funzione ‘protettiva’” e quella,
solitamente sovrapposta alla prima, “che lo considera esclusivamente dal
punto di vista della sua funzione repressiva”106 sono le due facce di una
stessa maniera di considerare il diritto e lo Stato, tipica della filosofia e
della teoria del diritto liberale moderna. Nel primo caso, infatti, tende ad
essere dominante una immagine puramente conservativa dei fini del dirit-
to e dello Stato, in base alla quale le norme giuridiche sono considerate un
insieme di precetti puramente negativi finalizzati ad “evitare il male mag-
giore per l’umanità, la guerra” e “garantire il bene minore, la pace”107. In
quest’ottica lo Stato, permettendo tutto ciò che esplicitamente non proibi-
sce e punisce, si limita ad una funzione minima di tutela dell’ordine pub-
blico e protezione della sfera dell’autonomia privata108. Correlativamente,
l’immagine del diritto implicita in questa visione dei fini dello Stato è
quella di un complesso di norme tese a vietare le lesioni della sfera priva-
ta e sanzionare tali divieti per mezzo di corrispondenti privazioni di beni
dalla sfera giuridica del violatore. Un’immagine che riflette teoricamente
l’impianto retributivo-riparativo dell’illecito nei sistemi giuridici moderni
e che, come tale, risulta essere replicata da tutto il pensiero teorico-
giuridico liberale, per il quale l’ordinamento giuridico si risolve in un
complesso di divieti difesi da un complesso di sanzioni negative, vale a

104. F. Ewald, Michel Foucault et la norme, cit., p. 213.


105. A. Hunt, G. Wickham, Foucault and Law. Towards a sociology of law as gov-
ernance, Pluto Press, London 1994, p. 59.
106. N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Comu-
nità, Milano 1977, p. 14.
107. Ivi, p. 15.
108. Ivi, p. 16; cfr. anche: A. Catania, Manuale di teoria generale del diritto, Laterza,
Roma-Bari 1998, p. 143.

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dire in una tecnologia politica funzionante solo per mezzo dello schema
divieto-sanzione109.
Michel Foucault, con la sua critica della ragione giuridica e del discor-
so della sovranità, non ha fatto altro che reagire a questa immagine esau-
sta della funzione puramente conservativo-protettiva dello Stato e, corri-
spettivamente, dell’ordinamento giuridico quale semplice strumento di
repressione. Una immagine che, come ha mostrato Norberto Bobbio, è na-
ta nell’alveo del discorso della filosofia politico-giuridica liberale, fon-
dandosi dunque su di un piano discorsivo assiologico e finendo poi per
imporsi come categoria analitica anche ai suoi critici. In verità, sgombrato
il campo da queste categorie, da questa limitata concezione del fenomeno
giuridico, appare immediatamente evidente come il discorso foucaultiano
sul potere disciplinare non implichi affatto una totale espulsione del dirit-
to dal quadro analitico. Piuttosto, l’espansione e la diffusione della logica
normalizzatrice tipica dei meccanismi disciplinari comporta una vera e
propria moltiplicazione della giuridicizzazione della vita sociale110. Il
concetto di normalizzazione, alla base dell’analisi del potere disciplinare
in Foucault, implica infatti l’idea di una istanza regolatrice che scenda a
disciplinare ogni dettaglio della esistenza individuale, invadendo anche
quella sfera che il pensiero filosofico giuridico liberale ha inteso costruire
quale dimensione intangibile e protetta dall’intervento sovrano e dalla
legge. La stessa idea, inoltre, della produttività del potere disciplinare,
come contrapposta ad una razionalità politico-giuridica tesa a bloccare le
forze sociali, a dire di no all’agire individuale, rimanda all’immagine di
una razionalità politica il cui fine essenziale è quello di organizzare e re-
golare l’agire individuale e sociale in vista di fini superiori, singolarmente
non raggiungibili da parte dei membri della comunità politica. Quando
Foucault, in breve, si riferisce ad una razionalità politica il cui fine essen-
ziale è quello di produrre delle forze, farle crescere e ordinarle, piuttosto
che bloccarle, piegarle o distruggerle, non fa altro che rimandare ad un
principio di regolazione e direzione sociale che implica una indefinita co-

109. N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione, cit., 19ss.; A. Catania, Manuale di teo-
ria generale del diritto, cit., p. 145.
110. F. Ewald, Michel Foucault et la norme, cit., 211.; cfr. anche A. Hunt, G. Wick-
ham, Foucault and Law, cit.; J. Palmer, F. Pearce, “Legal Discourse and State Power.
Foucault and the Juridical relation”, International Journal of the Sociology of Law, XI,
1983, 4, pp. 361-383.; P. Fitzpatrick, “Governmentality and the Force of Law”, European
Yearbook of Sociology of Law, 2000, Giuffrè, Milano 2001, pp. 3-24; V. Tadros, “Be-
tween Governance and Discipline. The Law and Michel Foucault”, Oxford Journal of Le-
gal Studies, XVIII, 1998, pp. 75-103; F. Ewald, “Norms, Discipline and the Law”, Repre-
sentations, XXX, 1990, pp. 138-61.

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lonizzazione degli spazi della vita individuale e sociale da parte di una
pervasiva istanza giuridico-normativa111.
Il riferimento al potere disciplinare, dunque, non impone una radicale
esclusione dal quadro analitico del ruolo del diritto e della legge. Piutto-
sto, nel rimandare a questa idea della regolazione e della direzione sociale
da parte delle agenzie istituzionali, implica una moltiplicazione comples-
siva della normazione delle esistenze individuali e della vita sociale in
generale. Sembra potersi sostenere, in sostanza, che lo sviluppo dei mec-
canismi disciplinari nelle società moderne, più che essere avvenuto in ra-
dicale antitesi con la razionalità giuridica, abbia finito per colonizzarne
gli spazi, determinando una sostanziale alterazione della struttura funzio-
nale e formale del diritto. I meccanismi disciplinari tendono, infatti, a tra-
sformare la legge, ciò che in tutta la teoria filosofico-giuridica liberale è
uno strumento di protezione dell’autonomo agire sociale degli individui
ed ordinamento delle condotte, in norma, cioè in uno strumento di minuta
disciplina delle esistenze individuali e, più in generale, regolazione della
vita sociale. Il diritto, in quest’ottica, diviene esso stesso una tecnica di
ortopedia sociale, strumento per dirigere e modellare le esistenze indivi-
duali, produrre nuove forme di soggettività.

111. Nel suo corso del 1977-1978 al Collège de France, Sécurité, territoire, popula-
tion, Foucault, tornando sulla distinzione tra meccanismo legale e meccanismo disciplina-
re, sembra confermare queste indicazioni. Egli rileva infatti che “anche il meccanismo
disciplinare stabilisce in permanenza il lecito e il vietato, o meglio l’obbligatorio e il vie-
tato, poiché l’oggetto proprio della disciplina non è ciò che non si deve fare, ma ciò che
va fatto. Una buona disciplina è quella che vi dice, in ogni momento, che cosa dovete fa-
re. [...] Nel sistema della legge l’indeterminato è permesso, mentre nel sistema disciplina-
re ciò che è determinato corrisponde a ciò che va fatto e perciò tutto il resto, essendo in-
determinato, è vietato” (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Corso al Collège
de France, 1977/1978, Feltrinelli, Milano 2005, p. 46).

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