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di Giuseppe Campesi
1. Introduzione
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All’esito del nostro itinerario lungo l’opera di Canguilhem saremo in
grado, questo è l’auspicio, di fornire alcune linee interpretative per la let-
tura del concetto di biopolitica in Foucault e la comprensione della posi-
zione che il fenomeno giuridico assume nella complessa genealogia del
potere foucaultiana.
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e positivamente analizzabili. Tale concezione, strettamente legata allo svi-
luppo dell’anatomia patologica, venne definitivamente cristallizzata nel
cosiddetto principio di Broussais, sintesi di “una teoria dei rapporti tra
normale e patologico secondo cui i fenomeni patologici negli organismi
viventi non sono nient’altro che variazioni quantitative, secondo il più e il
meno, dei corrispondenti fenomeni fisiologici”10.
Il linguaggio dell’iper e dell’ipo che caratterizza le scienze biologiche
moderne presenta a parere di Canguilhem delle irrisolvibili debolezze. In
primo luogo una debolezza di carattere logico. L’identità tra normale e
patologico è infatti stabilita a partire da un duplice rapporto di omogenei-
tà e continuità tra i due stati della materia vivente11. Il problema è che en-
trambi i rapporti impongono delle esigenze logiche di cui il sapere medi-
co-biologico moderno sembra scarsamente consapevole. È chiaro infatti
che per poter postulare l’omogeneità di due fenomeni o stati, in questo
caso lo stato patologico e lo stato normale, si deve essere in grado di de-
terminare preliminarmente un criterio che permetta di identificare “alme-
no la natura di uno dei due, oppure una qualche natura comune all’uno e
all’altro”12. Non a caso, confrontandosi con questo problema della defini-
zione della natura particolare dei fenomeni normali o patologici, le scien-
ze della vita del XIX secolo mostrano di non riuscire a liberarsi comple-
tamente dalla necessità di utilizzare termini qualitativi13. Nemmeno il cri-
terio della continuità è, d’altra parte, adatto a restituire una parvenza
d’oggettività alle nozioni di normale e patologico, pur mirando ad istituire
rapporti puramente quantitativi tra i due termini. Se infatti “affermo una
continuità, posso soltanto inserire tra due estremi, senza ridurli l’uno
all’altro, tutti i termini medi di cui dispongo, mediante una dicotomia ad
intervalli progressivamente ridotti14”. L’istituzione di un rapporto di mera
continuità tra il normale e il patologico implica la fissazione, inevitabil-
mente arbitraria, delle misure in base alle quali determinare la linea di
continuità: “è in relazione ad una misura giudicata valida e auspicabile – e
dunque in relazione a una norma – che sussiste eccesso o difetto. Definire
l’anormale mediante il troppo o il troppo poco significa riconoscere il ca-
rattere normativo dello stato cosiddetto normale”15.
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La sostenibilità dell’identificazione di normale e patologico va dunque,
a parere di Canguilhem, incontro ad un duplice ostacolo di natura logica.
Non è infatti possibile tradurre in termini puramente quantitativi la nozio-
ne di normale, giacché anche la fissazione di una semplice misura implica
una scelta di valore. Ciò, in particolare, è testimoniato dall’insistenza con
cui ricorrono nel discorso del sapere medico-biologico i riferimenti a con-
cetti qualitativi. In questo senso “la quantità è qualità negata, non qualità
soppressa”16, dato che “il fisiologo studiando uno stato che egli dice fisio-
logico, lo qualifica in questo modo anche inconsciamente; lo considera
qualificato positivamente dal vivente e per il vivente”17.
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stretto: “la norma il medico la mutua solitamente dalla propria conoscen-
za della fisiologia, intesa come scienza dell’uomo normale, dalla propria
esperienza diretta delle funzioni organiche, dalla rappresentazione comu-
ne della norma in un ambiente sociale in un dato momento”21.
Nell’esercizio concreto della pratica medico-terapeutica si sovrappongo-
no, dunque, diverse nozioni di normalità, una coscienza fisiologica, una
coscienza sociale ed una coscienza individuale dello stato di salute. Nulla
garantisce, a priori, che la coscienza fisiologica di normalità sia un co-
strutto neutro, prodotto indipendentemente dalle significazioni sociali ed
individuali dello stato di salute: “è perché ad esso la terapeutica mira co-
me al buon fine da raggiungere che si deve dirlo normale, oppure è perché
esso viene considerato normale dall’interessato, vale a dire dal malato,
che la terapeutica ne fa il proprio obiettivo?”22 La medicina usa certo no-
zioni provenienti dalla fisiologia, ma in quanto arte della vita non si limi-
ta a farne un uso puramente descrittivo, trasformando queste stesse no-
zioni in dati normativi e “la fisiologia moderna si presenta come una rac-
colta canonica di costanti funzionali in rapporto con funzioni di regola-
zione ormonali e nervose. Tali costanti sono qualificate come normali in
quanto designano caratteri medi e i più frequenti tra i casi osservabili pra-
ticamente. Ma esse sono qualificate come normali anche perché entrano a
titolo di ideale in quella che è l’attività terapeutica. Le costanti fisiologi-
che sono dunque normali nel senso statistico, che è un senso descrittivo, e
nel senso terapeutico, che è un senso normativo”23.
Le scienze della vita, attraverso il ricorso ad uno strumentario concet-
tuale quantitativo, hanno finito per disconoscere l’esperienza fondamenta-
le della malattia, fornendo solo l’illusione di una positiva conoscenza del-
lo stato normale, o patologico, l’illusione della possibilità di sradicare
“tutte le significazioni vissute dalla malattia per pensarla come pura posi-
tività24”. Canguilhem, distinguendo tra un’esperienza pretesa oggettiva di
salute e malattia, normalità ed anormalità, ed un’esperienza individuale,
ha posto una questione cruciale per il fondamento epistemologico delle
scienze della vita. È la fisiologia che offre alla pratica medico-terapeutica
una nozione scientifica di normalità, oppure è l’arte medica che ritaglia
preliminarmente una nozione sociale e dunque normativa di salute, stimo-
10
lando una riflessione scientifica il cui grado d’oggettività sarà inevitabil-
mente condizionato dal sostrato normativo a partire dal quale muove?
A ben vedere, infatti, tutti i fallimentari tentativi di oggettivare i con-
cetti di normale e patologico, riducendo la nozione di anormalità al mero
dato quantitativo dello scarto, dell’anomalia, si sono scontrati con la loro
irrudicibile normatività intrinseca. Normatività che deriva dall’essere, i
concetti di normale e patologico, frutto di una preliminare identificazione
che si svolge nel quadro di un’esperienza, come quella clinica, su cui in-
cidono giudizi sociali ed individuali. Non tutti gli scarti, le anomalie,
vengono identificati come patologici e ciò perché, nonostante tutti i tenta-
tivi operati in tal senso dalla fisiologia, l’anomalia non è di per sé diret-
tamente identificabile come patologia. Come suggerisce Canguilhem,
“patologico implica pathos, sentimento di vita impedita”25. Lo stato pato-
logico non è dunque riducibile alla mera diversità quantitativa, esso è
piuttosto una esperienza, qualcosa che fa parte di un vissuto pre-
scientifico entro certi limiti non inquadrabile secondo i canoni del sapere
positivo26.
Questo è ciò che Canguilhem definisce bisogno terapeutico27. È tale
bisogno terapeutico, più che l’esistenza al fondo delle scienze biologiche
di una nozione obbiettiva di normalità, a guidare concretamente la pratica
medica. Vale a dire la capacità dell’uomo di costruire, a partire
dall’esperienza clinica e dalla pratica medico-terapeutica che costituisco-
no lo spazio istituzionale al cui interno si sono storicamente condensate le
aspettative individuali e sociali sul benessere fisico, una nozione di salute
e malattia interamente assiologiche. “La clinica non può essere separata
dalla terapeutica, e la terapeutica è una tecnica di instaurazione o di re-
staurazione del normale il cui fine, vale a dire la soddisfazione soggettiva
dell’instaurazione di una norma, si sottrae alla giurisdizione del sapere
oggettivo”28.
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2.2. Il “bisogno vitale”. Sulla normatività del biologico
12
L’essere capace di istituire nuove forme di vita in grado di tradursi in al-
trettante costanti biologiche: “le costanti si presentano con frequenza e
valore medi nel gruppo che dà loro valore di normale, e questo normale è
davvero l’espressione di una normatività. La costante fisiologica è
l’espressione di un optimum fisiologico in condizioni date, condizioni en-
tro le quali vanno collocate quelle che il vivente in generale, e l’homo fa-
ber in particolare, si danno”34.
Il vivente non può essere studiato come un meccanismo di cui rintrac-
ciare le determinanti invariabili. Esso è “una potenza”35, o meglio, una
potenzialità aperta. Non esiste dunque una normalità, bensì una normati-
vità dei fenomeni biologici. La vita non può essere descritta come un me-
ro complesso di reazioni meccaniche ed invariabili a stimoli esterni, essa
è una “maniera particolare di rapportarsi all’ambiente esteriore”36, che si
manifesta secondo due dinamiche fondamentali: l’una riproduttrice, tesa
alla conservazione ed al mantenimento del vivente nella sua forza intrin-
seca; l’altra direttamente produttrice o creatrice, “che permette
all’organismo di inventare risposte inedite a ciò che lo minaccia”37. Can-
guilhem ha descritto la prima di tali manifestazioni vitali nell’articolo
dell’Enciclopedia Universalis38 dedicato al concetto di regolazione, inteso
appunto come capacità dell’organismo di preservare l’equilibrio generale
del suo ambiente interno in relazione alle differenti condizioni
dell’ambiente esterno. Ma al di là del riferimento alle capacità omeostati-
che degli organismi, che consentono al vivente di riprodurre costantemen-
te un equilibrio funzionale al mutare delle condizioni ecologiche, la nor-
matività del vivente si manifesta anche in ciò che Canguilhem definisce
operazione di differenziazione. Vale a dire nella capacità del vivente di
selezionare, o preferire, gli adattamenti funzionali idonei alla prosecuzio-
ne della vita anche quando l’equilibrio originario non può più essere man-
tenuto. Se dunque la vita è di fatto un’attività normativa, ciò è perché essa
si sostanzia in uno sforzo continuo del vivente per “differenziare la vita in
vista del suo miglioramento e della sua continuazione”39.
Tale discorso, come è stato giustamente sostenuto, ribalta la prospetti-
va tradizionale delle scienze biologiche in generale e della fisiologia in
13
particolare: “non è la vita ad essere sottomessa a delle norme che agisco-
no su di lei dall’esterno, ma sono le norme che in maniera completamente
immanente, sono prodotte dal movimento stesso della vita”40. Esso giunge
ad una assunzione filosofica cruciale: l’idea che la vita sia essa stessa at-
tività creatrice, che non esista la possibilità di fissare le regole di un inva-
riante biologico, ma che sia necessario piuttosto introdurre la storia nella
vita. Tale assunzione impone naturalmente un mutamento radicale dello
statuto della fisiologia, la quale è adesso chiamata ad individuare i diversi
modi d’esercizio della sua normatività da parte della vita. Piuttosto che
studiare una supposta normalità biologica, scrive Canguilhem, “ci sembra
che la fisiologia abbia di meglio da fare che cercare di definire oggetti-
vamente il normale, e cioè riconoscere l’originale normatività della vi-
ta”41. Ciò non implica naturalmente lo svuotamento della nozione di pato-
logia, bensì la sua restituzione all’originale dimensione qualitativa. Di-
mensione che il discorso della fisiologia moderna ha sovente tentato di
mascherare. Malattia ed anormalità non saranno più indicati come assenza
di norma o allontanamento dalla stessa, dato che di per sé ogni mera a-
nomalia può rappresentare, anziché un funzionamento patologico, il pri-
mo manifestarsi di una nuova forma di vita: “la malattia non è soltanto
scomparsa di ordine fisiologico, ma comparsa di un nuovo ordine vita-
le”42. Per patologia deve piuttosto intendersi incapacità, perdita o riduzio-
ne della capacità di essere normativo da parte di un essere vivente43. La
normalità di un organismo è dunque la sua normatività, la sua capacità di
mutare norme. La sua patologia, viceversa, è la riduzione di tale potere
normativo. In questo senso normalità e patologia sono concetti di valore
non riducibili quantitativamente.
Esiste pertanto una duplice impossibilità da parte delle scienze della
vita di accedere ad una conoscenza oggettiva del normale, duplice perché
connessa da un lato alla fondamentale normatività dell’esperienza indivi-
duale e sociale degli stati definiti patologici e dall’altro all’ontologica
normatività della vita stessa. Tale impossibilità fa sì che la fissazione di
costanti biologiche, quelle che la fisiologia pretende di definire normali,
sia sempre contingente e da porre in relazione con l’ambiente sociale e
geografico che il vivente si trova ad abitare. Scrive Canguilhem, “il vi-
vente e l’ambiente non sono normali presi separatamente, ma è la loro re-
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lazione che rende tali l’uno e l’altro, l’ambiente è normale per una data
forma vivente nella misura in cui esso permette una tale fecondità, è, in
relazione a ciò, una tale varietà di forme che, nel caso in cui se ne presenti
la necessità per la modificazione dell’ambiente, la vita possa trovare in
una di queste forme la soluzione al problema di adattamento che essa è
chiamata brutalmente a risolvere. Un vivente è normale in dato ambiente
in quanto esso è la soluzione morfologica e funzionale trovata dalla vita
per rispondere a tutte le esigenze dell’ambiente”44.
In questo senso la riduzione di normale e patologico, più che la mani-
festazione di un progresso del sapere scientifico e l’accesso definitivo dei
saperi medico-biologici alla sfera dei saperi positivi, rappresenta una tipi-
ca manifestazione di ciò che Canguilhem stesso avrebbe definito ideolo-
gia scientifica45. Vale a dire l’espressione del complesso di valori sociali
che sottendono il discorso scientifico. Da tale riduzione positivistica di-
scendono, infatti, tutta una serie di notevoli conseguenze: in primo luogo
la negazione della qualità specifica dei fenomeni patologici e la loro as-
similazione a delle mere anomalie, allo scarto da cui non è dato imparare
nulla più rispetto a quanto non sia già possibile fare attraverso la cono-
scenza dei fenomeni fisiologici, o normali. In secondo luogo,
l’instaurazione di un dogma determinista in base al quale tutti i fenomeni
vitali si riducono a meri scarti quantitativi rispetto ad una dinamica di
causa ed effetto in cui non è possibile inserire mutamenti d’ordine quali-
tativo. In terzo ed ultimo luogo il rifiuto del valore della tecnica o
dell’arte medica in quanto manipolazione della varietà dei fenomeni vitali
a vantaggio di una rappresentazione volgarmente positivistica del sapere
medico quale studio teorico delle regolarità fisiologiche. Quest’insieme di
conseguenze mostra con particolare evidenza come tale dogma non sia
altro, in fondo, che l’espressione del “primato generale dell’ordine sul di-
sordine”46. Un primato socialmente strutturato che finisce per trasformare
la stessa filosofia della medicina in una generale “filosofia dell’ordine”47,
che la circolazione dei concetti di normalità e patologia in altri campi del
sapere renderà a partire dal XIX secolo particolarmente pervasiva.
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3. Normatività del sapere medico
48. M. Foucault, Nascita della clinica. Un’archeologia dello sguardo medico, Einau-
di, Torino 1998, p. 14.
49. M. Porro, Canguilhem. La norma e l’errore, in G. Canguilhem (a cura di), Il nor-
male e il patologico, cit., pp. xxviii, xxxix; P. Macherey, De Canguilhem à Canguilhem
en passant par Foucault, cit., p. 289.
50. Cfr. F. Duroux, L’imaginaire biologique du politique, in AA.VV., Georges Can-
guilhem. Philosophe et historien des sciences, cit., p. 49 ss.
51. G. Canguilhem, Saggio su alcuni problemi riguardanti il normale e il patologico,
cit., 190.
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hanno potuto assumere una tale centralità nel lessico delle discipline poli-
tico-sociali, è appunto a causa della rilevanza dell’istituzione medica e,
più in generale, della vera e propria medicalizzazione del corpo sociale
operata nel quadro delle moderne società industriali. Medicalizzazione
che appare come la maggiore espressione “di una esigenza di razionaliz-
zazione che si profilava anche in politica, così come essa si profilava in
economia sotto l’effetto della nascente automazione industriale, e che
sfociò, infine, in ciò che in seguito è stato chiamato normalizzazione”52.
Calco laico della chiesa nella cura delle malattie fisiche, i saperi bio-
medici assumono così uno statuto politico, costituendosi come arti del
benessere, tecniche sociali per la produzione dello stato fisico ideale
nell’uomo. Le riflessioni di Canguilhem convergono qui con l’opera di
Foucault. Quest’ultimo, in particolare, descrivendo il processo attraverso
cui le istituzioni si sono fatte carico del progetto di medicalizzazione della
società, ha contribuito a situare socialmente e storicamente quella norma-
tività dei saperi sulla salute e la malattia, sul normale e sul patologico, che
era già stata al centro della precedente ricerca di Canguilhem. Ha scritto
infatti Foucault:
La medicina non deve più essere solamente il corpus delle tecniche della
guarigione e del sapere che richiedono; essa comprenderà anche una cono-
scenza sull’uomo in salute, cioè una esperienza dell’uomo non malato e una
definizione dell’uomo modello insieme. Essa assume nella gestione
dell’esistenza umana postura normativa, che non l’autorizza a distribuire
semplicemente consigli di vita saggia, ma l’incarica di reggere i rapporti fi-
sici e morali dell’individuo e della società in cui vive. Essa si situa nella
zona marginale, ma per l’uomo moderno sovrana, in cui una certa felicità
organica, levigata, senza passione e vigorosa, comunica di diritto con
l’ordine di una nazione, il vigore del suo esercito, la fecondità del suo po-
polo e il cammino paziente del suo lavoro53.
17
Il prestigio della scienza della vita nel XIX secolo, il ruolo di modello che
hanno svolto, soprattutto per le scienze dell’uomo, non è primitivamente
legato al carattere comprensivo e trasferibile dei concetti biologici, ma piut-
tosto al fatto che questi concetti erano disposti in uno spazio la cui struttura
profonda doveva corrispondere all’opposizione tra sano e morboso. Quando
si parlerà della vita dei gruppi e delle società, della vita della razza, o anche
della vita psicologica, non si penserà subito alla struttura interna dell’essere
organizzato, ma alla bipolarità medica del normale e del patologico54.
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normalità sociale è sempre il frutto di una intenzione normativa che fissa
dei valori, l’esito di una decisione formatrice che istituisce delle regole e
dei modelli di riferimento, il risultato di una pratica normalizzatrice, infi-
ne, che utilizza un dato modello di normalità per sanzionare ed eliminare
gli scarti, le anomalie58. Scrive Canguilhem: “normare, normalizzare è
imporre un’esigenza a un’esistenza, a un dato la cui varietà e differenza si
offrono, di fronte all’esigenza, come un indeterminato ostile più ancora
che straniero59”.
Come accennato, tuttavia, a differenza che nel caso della normatività
vitale, il valore associato alla produzione di normalità non è in
quest’ultimo caso immanente alla norma stessa. La normatività sociale è
sempre fondata su valori contingenti, l’ordine da essa prodotto non è in-
scritto in alcuna necessità a-storica, ma sempre legato a scelte politiche,
esigenze economiche, tecniche e morali determinate. La normatività so-
ciale è dunque “un’esperienza specificamente antropologica e cultura-
le”60, così come la pratica di normalizzazione, espressione della normati-
vità sociale tipica delle moderne società industriali, esprime le esigenze di
razionalizzazione legate alle necessità tecniche, economiche e politiche di
questo tipo di società, mirando alla produzione del tipo antropologico ad
esse conforme. Normalizzazione significa produzione di soggettività in
conformità con le esigenze di un dato sistema sociale. Produzione che può
giungere fino alla manipolazione della stessa materia biologica umana,
poiché “la forma e le funzioni del corpo umano non sono solamente
l’espressione delle condizioni offerte alla vita dall’ambiente, ma
l’espressione dei modi di vivere l’ambiente socialmente accettati”61.
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della normatività del vivente; in terzo ed ultimo luogo un argomento so-
ciologico, legato all’idea dell’influenza che l’ambiente sociale esercita sui
tratti della vita stessa, alterandone ritmi, modificandone la longevità e, più
in generale, la sua stessa struttura biologica essenziale.
Foucault, nel corso della sua archeologia dei saperi antropologici, sa-
rebbe partito proprio dalle principali acquisizioni del suo maestro, radica-
lizzandole ulteriormente nel senso di una critica della moderna razionalità
politica in quanto tecnologia per la produzione di soggettività. Il punto di
partenza della sua ricostruzione genealogica fu infatti l’idea dell’assenza
di costanti antropologiche nell’individuo e della sostanziale plasticità del-
la materia biologica umana che era già stata al centro del lavoro di Can-
guilhem. Un punto che Foucault ebbe l’occasione di sottolineare con de-
cisione nella sua rilettura dell’opera nietzscheana, allorché indicò i tratti
epistemologici essenziali di una wirkliche Historie in quanto storia che
tende a “reintrodurre nel divenire tutto ciò che si era creduto immortale
nell’uomo”. In quest’ottica tutto nell’uomo ha una storia ed è socialmente
prodotto, così i suoi sentimenti, i suoi istinti, persino il corpo, comune-
mente associato alle invarianti fisiologiche, “è preso in una serie di regimi
che lo plasmano; è rotto a ritmi di lavoro, di riposo e di festa; è intossica-
to da veleni – cibo o valori, abitudini alimentari e leggi morali insieme; si
costruisce delle resistenze62”. Come in Canguilhem, dunque, l’individuo
ed il suo corpo non sono più ridotti a delle semplici costanti biologiche. Il
corpo individuale non è un dato naturale, ha esso stesso una storia, entità
complessa inscritta all’interno di una rete di dispositivi di sapere-potere
che concretamente lo producono e lo modellano. È proprio questo rappor-
to tra potere politico e corpo il centro della ricerca foucaultiana attorno
alla nozione di biopolitica.
L’ipotesi teorica da cui muove il progetto genealogico foucaultiano è
che l’età moderna abbia sviluppato, all’ombra delle grandi figure teorico-
giuridiche della sovranità, tutta una meccanica per l’esercizio della poten-
za politica basata sulla “forma generale del contatto sinaptico potere poli-
tico-corpo individuale”63. Certo l’esercizio del potere ha sempre implicato
un dato rapporto con il corpo individuale. Come illustra lo stesso Fou-
20
cault, esiste una serie molto vasta di “apparati corporali”64 che hanno ca-
ratterizzato la storia delle istituzioni politiche moderne. Vi sono innanzi-
tutto gli “apparati di garanzia e di prova”, per mezzo dei quali si cerca di
impedire fisicamente il prodursi di un certo tipo di azioni o si cerca di
cautelare certi interessi o beni. Vi sono in secondo luogo “apparati che
hanno lo scopo di estorcere la verità”, i quali, per mezzo di una modula-
zione progressiva dell’intensità della loro azione sul corpo, tendono ad
estorcere le informazioni desiderate da determinati individui. Vi sono in-
fine apparati che hanno quale funzione essenziale quella di “manifestare,
e marchiare al contempo, la forza del potere”65 agendo sul corpo indivi-
duale direttamente per distruggerlo o suppliziarlo.
Foucault ritiene, tuttavia, che l’età moderna sia caratterizzata per la
diffusione di una serie di apparati corporali che si distinguono radical-
mente dai tre tipi precedenti poiché la loro funzione non consiste
nell’“imprimere il marchio del potere, estorcere la verità, ottenere garan-
zie” ma nel “correggere ed addestrare il corpo”66. Si tratta di apparati, o
tecnologie politiche del corpo, che funzionano secondo la logica degli
strumenti ortopedici: “in primo luogo la loro azione è continua, in secon-
do luogo l’effetto progressivo che producono deve fare in modo di arriva-
re a renderli inutili, nel senso che, al limite, deve risultare possibile to-
gliere lo strumento e continuare a ottenere i risultati, visto che l’effetto
conseguito grazie al suo impiego è ormai definitivamente inscritto nel
corpo. Si tratta dunque di apparati il cui effetto dovrà essere quello di an-
nullare se stessi. Infine dovranno essere apparati con un carattere il più
possibile omeostatico, vale a dire tali per cui meno si oppone resistenza,
meno se ne avverte l’azione, mentre al contrario, più si tenta di sfuggirvi
e più si è destinati a soffrirne”67. Tale tecnologia ortopedica del corpo si
basa su una minuziosa “politica di coercizioni che sono un lavoro sul cor-
po, una manipolazione calcolata dei suoi elementi, dei suoi gesti, dei suoi
comportamenti”68, una vera e propria microfisica del corpo che mira alla
produzione di un “corpo docile”69 poiché appunto malleabile, plasmabile,
utilizzabile a seconda delle diverse esigenze politiche.
21
La tecnologia politica disciplinare è descritta da Foucault come un
meccanismo per l’esercizio del potere che investe l’esistenza individuale
in maniera totalizzante. A differenza di ciò che egli definisce potere di
sovranità, il potere disciplinare non si limita ad agire episodicamente sulla
sfera individuale, prelevandone risorse economiche, il tempo o colpendo-
ne la sostanza fisica, esso manifesta piuttosto una “capacità di espugna-
zione esaustiva del corpo, dei gesti del tempo, del comportamento
dell’individuo”70. Si tratta com’è evidente di una razionalità politica che
rinuncia all’azione fisica esercitata sul corpo dall’esterno, non limitan-
dosi all’utilizzo della tecnica del divieto e dell’ostacolo al libero dispie-
garsi dell’azione individuale. Essa tenta piuttosto di scendere al livello
delle strutture profonde della personalità, fino alle “fibre molli del cer-
vello”71, cercando di plasmare attitudini ed inculcare gli automatismi
dettati dalle esigenze politiche che stanno alla base delle diverse istitu-
zioni disciplinari.
Il potere disciplinare, attraverso la sua indefinita capacità di far presa
ed esercitare un controllo costante sull’esistenza individuale, “fabbrica
degli individui”72, o meglio, “fabbrica, distribuisce corpi assoggettati”73.
In questa sua costante opera di assoggettamento/soggettivazione esso fun-
ziona come una tecnica generale di esercizio del potere trasferibile a isti-
tuzioni e apparati numerosi e diversi. Una tecnica i cui effetti essenziali
sono tuttavia riducibili a ciò che Foucault, riprendendo direttamente
l’opera del suo maestro, definisce “normalizzazione”74. L’espandersi del-
le tecnologie politiche disciplinari è infatti legato, nell’ottica di Foucault,
a quel processo generale di normalizzazione che Canguilhem aveva visto
radicarsi in numerose sfere della vita sociale con lo strutturarsi della mo-
derna società industriale. Come ribadisce Foucault, sviluppando le intui-
zioni del suo maestro, “la norma non si definisce affatto nei termini di una
legge naturale, ma a seconda del ruolo disciplinare e coercitivo che è ca-
pace di esercitare negli ambiti cui si rivolge”75. Dietro al concetto di nor-
malità, tanto più quando esso è all’opera nel quadro dei saperi politico-
sociali, o guida il funzionamento di apparati e tecnologie di potere, vi è
sempre una pretesa di normatività. “La norma non è un principio
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d’intelligibilità; è un elemento a partire dal quale un determinato esercizio
del potere si trova fondato e legittimato. Concetto polemico dice Canguil-
hem. Forse si potrebbe dire politico”76. In quanto tale il concetto di norma
implica sempre, oltre che un principio di designazione degli scarti e delle
anormalità, anche una tecnica di intervento e correzione. Essa, nel suo
concreto operare all’interno delle diverse pratiche istituzionali e sociali, è
sempre legata ad un “progetto normativo”77.
Le tecnologie disciplinari, in quanto tecniche positive per plasmare e
modellare tipi antropologici, per produrre soggettività, sono dunque il
veicolo principale di tale processo di normalizzazione all’opera nelle so-
cietà moderne. Esse, in particolare, fanno funzionare i due principali
strumenti attraverso cui può espandersi la logica normalizzatrice. In pri-
mo luogo stabiliscono ciò che Foucault definisce una infra-penalità78,
“incasellano uno spazio che le leggi lasciano vuoto; qualificano e repri-
mono una serie di comportamenti che per il loro interesse relativamente
scarso sfuggivano ai grandi sistemi di punizione”79. Si tratta di una opera-
zione che istituisce un regime di punibilità indefinita del minimo scarto e
della minima irregolarità, sanzionando quello che Foucault definisce il
“campo indefinito del non-conforme”80. Tuttavia, contrariamente a quanto
potrebbe apparire ad uno sguardo superficiale, tutto ciò non implica un
rafforzamento del potere di sovranità. L’estensione del dominio discipli-
nare sul campo dell’infrapenalità non istituisce infatti un meccanismo
punitivo che rientra nella sfera della “penalità tradizionale della legge”81.
Piuttosto si tratta della messa in opera di una sorta di penalità della nor-
ma che rientra nella sfera delle tecnologie di ortopedia politica. Pur ri-
mandando all’immaginario giuridico-politico classico, l’intervento disci-
plinare tende ad essere correttivo, l’afflizione che esso pratica è centrata
sull’esercizio e l’addestramento. Ma allo stesso tempo il suo valore vuole
essere qualificante: esso non pratica solo afflizioni, elargisce anche grati-
ficazioni secondo una scala di qualificazione degli individui tarata sui di-
versi parametri di conformità, “attraverso la microeconomica di una per-
petua penalità, si opera una differenziazione che non è più quella degli
atti, ma degli individui stessi, della loro natura, delle loro virtualità”82.
23
In secondo luogo, come meccanismo per far funzionare costantemente
tale infra-penalità disciplinare, opera un strumento istituzionale che, pur
funzionando come le tecnologie giudiziarie quale apparato di sape-
re/potere, è governato da un logica radicalmente differente rispetto al
meccanismo giuridico. L’esame, “controllo normalizzatore”, istanza di
sorveglianza e controllo che “permette di qualificare, classificare e puni-
re”83, è uno strumento di assoggettamento ed oggettivazione cruciale per
il funzionamento dei meccanismi disciplinari. Come ribadisce Foucault,
“la sovrapposizione dei rapporti di potere e delle relazioni di sapere as-
sume nell’esame tutto il suo splendore visibile”84. Esso consente in primo
luogo quella visibilità permanente degli individui che è precondizione
stessa del processo d’oggettivazione85, ma soprattutto consente la fissa-
zione delle identità individuali all’interno di quel “campo documenta-
rio”86 che costituisce la base indispensabile per “la costituzione
dell’individuo oggetto descrivibile, analizzabile”87, per la costruzione del
“caso clinico” individuale88. Se, nei suoi lavori sulle pratiche giudiziarie,
Foucault ci aveva descritto la nascita dell’inchiesta come strumento di sa-
pere/potere indispensabile per lo sbocco epistemologico delle scienze na-
turali, adesso con il riferimento all’esame segnala “l’importanza decisiva
[…] di tutte quelle piccole tecniche di annotazione, registrazione, costitu-
zione di dossiers, messa in colonna e in quadro, che ci sono familiari” per
“lo sbocco epistemologico delle scienze dell’individuo”89.
Le discipline costituiscono dunque la “società della norma”90. Esse,
contribuendo alla maturazione epistemologica dei saperi antropologici,
centrati sulla coppia dicotomica normale/patologico, hanno finito per tra-
sformare la società moderna in una civiltà della normalizzazione, dove la
rilevanza politica dei saperi medico-antropologici è addirittura superiore
rispetto a quella assunta dai saperi giuridici91. Le tecnologie disciplinari si
fondano infatti su un discorso radicalmente eterogeneo rispetto alla scien-
za giuridica, un discorso che non è più quello “della regola giuridica deri-
vata dalla sovranità, bensì quello della regola naturale, cioè della norma”,
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poggiano su un piano discorsivo che non è più quello “della legge ma
quello della normalizzazione”, si riferiscono “ad un orizzonte teorico” che
necessariamente non è più “l’edificio del diritto ma il dominio delle
scienze umane”92. L’essenza del potere disciplinare, con le sue istanze di
normalizzazione, sta appunto nel suo essere un potere limitrofo alla prati-
ca giudiziaria. Un potere che non colpisce infrazioni di una legge ma, at-
traverso la capacità di produrre ed utilizzare il discorso delle scienze u-
mane, tende piuttosto a sanzionare delle mere irregolarità, delle devia-
zioni rispetto ad un paradigma di normalità. Al centro di tale civiltà nor-
malizzatrice vi sono dunque delle tecnologie politiche che si articolano
sullo spettro di un potere che oscilla tra l’istanza medica e l’istanza giudi-
ziaria93, avendo come punto focale una figura individuale ibrida, quella
dell’anormale, che coniuga in sé i tratti del malato ed i tratti del crimina-
le94.
Una volta, non vi erano che dei soggetti, dei soggetti giuridici da cui poter
ricavare beni […] adesso, si hanno dei corpi e delle popolazioni. Il potere è
diventato materialista, cessa di essere essenzialmente giuridico. Esso deve
trattare con queste cose reali che sono i corpi, la vita. La vita entra nel do-
minio del potere: mutazione capitale, una delle più importanti, senza dub-
bio, nella storia delle società umane95.
92. M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France, 1976, Fel-
trinelli, Milano 1998, p. 46.
93. M. Foucault, L’estensione sociale della norma, cit., p. 96.
94. M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 46.
95. M. Foucault, Les mailles du pouvoir, in Id., Dits et écrits, IV, Gallimard, Paris
1994, p. 194.
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per giungere ai dispositivi di normalizzazione come tecnologie ortopedi-
che per la concreta produzione delle singole normalità individuali e la più
generale normalità sociale96. Ci chiediamo però che rapporto esista tra il
concetto di norma, tanto centrale in Foucault, ed il fenomeno giuridico,
cui il filosofo francese si è sempre rapportato usando i toni di una polemi-
ca teorica esplicita, arrivando a sostenere di voler “costruire un’analitica
del potere che non prenda più per modello e per codice il diritto”97.
A prima vista la questione del diritto nell’opera foucaultiana non pare
adeguatamente tematizzata. Se è vero che la sua opera, perlomeno a parti-
re dal momento in cui negli anni Settanta si è posto l’interesse per la que-
stione del potere nelle società moderne, ha come bersaglio critico questa
l’idea di sovranità, il discorso della sovranità resta a lungo un mero ber-
saglio polemico piuttosto che un elemento teorico forte nel quadro della
genealogia del potere disciplinare. Esso, infatti, assume talvolta i tratti
della figura giuridica della monarchia feudale, altre volte quelli Leviatano
hobbesiano, altre ancora dell’immagine dell’apparato di Stato, centro del-
la filosofia politica marxista, senza tuttavia mai precisarsi teoricamente98.
Probabilmente, sotto un profilo strettamente esegetico, occorre dire che il
diritto e, più in generale, la ragione giuridica non interessavano Foucault
se non come espediente retorico per costruire, in costante dialettica con
essi, la tipologia del potere disciplinare. Nel muovere verso la sua analiti-
ca del potere egli, analizzando la formazione discorsiva del pensiero poli-
tico-giuridico contemporaneo, sembra gettare le basi per un’analisi genea-
logica della ragione giuridica. Un’analisi che tuttavia resta in potenza,
abbozzata solo in occasione del suo confronto più serrato con ciò che de-
finì “ipotesi repressiva”99.
Foucault, infatti, una volta individuati alcuni dei tratti essenziali della
“formazione discorsiva del pensiero politico-giuridico occidentale”100,
non sviluppa ulteriormente le sue considerazioni nel senso di una vera e
96. F. Ewald, Michel Foucault et la norme, in L. Giard (dir.), Michel Foucault. Lire
l’oeuvre, Millon, Grenoble 1992, p. 203.
97. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità I, Feltrinelli, Milano
2001, p. 80.
98. J. Terrel, Les figures de la souveraineté, in G. le Blanc, J. Terrel (dir.), Foucault
au Collège de France. Un itinérarie, Presses Universitaires de Bordeaux, Bordeaux 2003,
p. 102.
99. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 15; Id., Bisogna difendere la Società,
cit., p. 45.
100. C. Sarzotti, “Sapere giuridico tra diritto di sovranità e pratiche disciplinari nel
pensiero di Michel Foucault”, Sociologia del diritto, XVIII, 1991, 2, p. 48; cfr. M. Fou-
cault, Bisogna difendere la società, cit., 1998, p. 30.
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propria genealogia. Non si sofferma cioè sull’analisi del complesso di
conflitti sociali all’interno dei quali quel discorso sul diritto sovrano, e
più poi quello sui diritti dei cittadini, fu prodotto e funzionò. Si limita
piuttosto ad indicare le funzioni che la ragione giuridica moderna, svilup-
pandosi in parallelo con la nascita delle discipline, ha assunto:
Alla legge, alla ragione giuridica ed al linguaggio dei diritti che si svi-
luppa con la maturazione del pensiero filosofico-giuridico liberale è e-
splicitamente assegnata una funzione ideologica, essa copre, nasconde i
meccanismi disciplinari che s’inseriscono nel profondo delle pratiche so-
ciali quotidiane con la retorica dell’uguaglianza102. Con un ritorno ai mo-
tivi classici del marxismo, Foucault denuncia come all’ombra della co-
struzione dell’astratto soggetto di diritto da parte della ragione giuridica
moderna, abbiano operato i concreti meccanismi per la produzione delle
soggettività, per la manipolazione delle esistenze103.
In realtà, se si confronta attentamente il testo foucaultiano, è possibile
rendersi conto del fatto che Foucault non faccia mai riferimento ad una
scomparsa o ad un declino del ruolo del diritto nella società moderna. Il
suo bersaglio critico è piuttosto un certo modello teorico che tende a rap-
presentare il potere attraverso una semplicistica immagine giuridico-
repressiva, vale a dire “l’utilizzo del diritto come modello d’analisi, prin-
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cipio d’intelligibilità del potere”104. Più che del fenomeno giuridico in se
stesso, Foucault ha sottolineato la necessità di liberarsi di una certa im-
magine del diritto e della legge basata sul semplicistico schema divieto-
sanzione, un’immagine costantemente replicata nei classici temi della cri-
tica al potere repressivo tanto diffusi nel freudo-marxismo degli anni Set-
tanta105. Una immagine che nonostante la sua centralità in tutto il discorso
della filosofia politico-giuridica moderna, resta incapace di dare conto
della complessità e del ruolo concretamente esercitato dal fenomeno giu-
ridico quale meccanismo di potere.
Come ha suggerito Norberto Bobbio, “la teoria che considera il diritto
esclusivamente dal punto di vista della sua funzione ‘protettiva’” e quella,
solitamente sovrapposta alla prima, “che lo considera esclusivamente dal
punto di vista della sua funzione repressiva”106 sono le due facce di una
stessa maniera di considerare il diritto e lo Stato, tipica della filosofia e
della teoria del diritto liberale moderna. Nel primo caso, infatti, tende ad
essere dominante una immagine puramente conservativa dei fini del dirit-
to e dello Stato, in base alla quale le norme giuridiche sono considerate un
insieme di precetti puramente negativi finalizzati ad “evitare il male mag-
giore per l’umanità, la guerra” e “garantire il bene minore, la pace”107. In
quest’ottica lo Stato, permettendo tutto ciò che esplicitamente non proibi-
sce e punisce, si limita ad una funzione minima di tutela dell’ordine pub-
blico e protezione della sfera dell’autonomia privata108. Correlativamente,
l’immagine del diritto implicita in questa visione dei fini dello Stato è
quella di un complesso di norme tese a vietare le lesioni della sfera priva-
ta e sanzionare tali divieti per mezzo di corrispondenti privazioni di beni
dalla sfera giuridica del violatore. Un’immagine che riflette teoricamente
l’impianto retributivo-riparativo dell’illecito nei sistemi giuridici moderni
e che, come tale, risulta essere replicata da tutto il pensiero teorico-
giuridico liberale, per il quale l’ordinamento giuridico si risolve in un
complesso di divieti difesi da un complesso di sanzioni negative, vale a
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dire in una tecnologia politica funzionante solo per mezzo dello schema
divieto-sanzione109.
Michel Foucault, con la sua critica della ragione giuridica e del discor-
so della sovranità, non ha fatto altro che reagire a questa immagine esau-
sta della funzione puramente conservativo-protettiva dello Stato e, corri-
spettivamente, dell’ordinamento giuridico quale semplice strumento di
repressione. Una immagine che, come ha mostrato Norberto Bobbio, è na-
ta nell’alveo del discorso della filosofia politico-giuridica liberale, fon-
dandosi dunque su di un piano discorsivo assiologico e finendo poi per
imporsi come categoria analitica anche ai suoi critici. In verità, sgombrato
il campo da queste categorie, da questa limitata concezione del fenomeno
giuridico, appare immediatamente evidente come il discorso foucaultiano
sul potere disciplinare non implichi affatto una totale espulsione del dirit-
to dal quadro analitico. Piuttosto, l’espansione e la diffusione della logica
normalizzatrice tipica dei meccanismi disciplinari comporta una vera e
propria moltiplicazione della giuridicizzazione della vita sociale110. Il
concetto di normalizzazione, alla base dell’analisi del potere disciplinare
in Foucault, implica infatti l’idea di una istanza regolatrice che scenda a
disciplinare ogni dettaglio della esistenza individuale, invadendo anche
quella sfera che il pensiero filosofico giuridico liberale ha inteso costruire
quale dimensione intangibile e protetta dall’intervento sovrano e dalla
legge. La stessa idea, inoltre, della produttività del potere disciplinare,
come contrapposta ad una razionalità politico-giuridica tesa a bloccare le
forze sociali, a dire di no all’agire individuale, rimanda all’immagine di
una razionalità politica il cui fine essenziale è quello di organizzare e re-
golare l’agire individuale e sociale in vista di fini superiori, singolarmente
non raggiungibili da parte dei membri della comunità politica. Quando
Foucault, in breve, si riferisce ad una razionalità politica il cui fine essen-
ziale è quello di produrre delle forze, farle crescere e ordinarle, piuttosto
che bloccarle, piegarle o distruggerle, non fa altro che rimandare ad un
principio di regolazione e direzione sociale che implica una indefinita co-
109. N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione, cit., 19ss.; A. Catania, Manuale di teo-
ria generale del diritto, cit., p. 145.
110. F. Ewald, Michel Foucault et la norme, cit., 211.; cfr. anche A. Hunt, G. Wick-
ham, Foucault and Law, cit.; J. Palmer, F. Pearce, “Legal Discourse and State Power.
Foucault and the Juridical relation”, International Journal of the Sociology of Law, XI,
1983, 4, pp. 361-383.; P. Fitzpatrick, “Governmentality and the Force of Law”, European
Yearbook of Sociology of Law, 2000, Giuffrè, Milano 2001, pp. 3-24; V. Tadros, “Be-
tween Governance and Discipline. The Law and Michel Foucault”, Oxford Journal of Le-
gal Studies, XVIII, 1998, pp. 75-103; F. Ewald, “Norms, Discipline and the Law”, Repre-
sentations, XXX, 1990, pp. 138-61.
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lonizzazione degli spazi della vita individuale e sociale da parte di una
pervasiva istanza giuridico-normativa111.
Il riferimento al potere disciplinare, dunque, non impone una radicale
esclusione dal quadro analitico del ruolo del diritto e della legge. Piutto-
sto, nel rimandare a questa idea della regolazione e della direzione sociale
da parte delle agenzie istituzionali, implica una moltiplicazione comples-
siva della normazione delle esistenze individuali e della vita sociale in
generale. Sembra potersi sostenere, in sostanza, che lo sviluppo dei mec-
canismi disciplinari nelle società moderne, più che essere avvenuto in ra-
dicale antitesi con la razionalità giuridica, abbia finito per colonizzarne
gli spazi, determinando una sostanziale alterazione della struttura funzio-
nale e formale del diritto. I meccanismi disciplinari tendono, infatti, a tra-
sformare la legge, ciò che in tutta la teoria filosofico-giuridica liberale è
uno strumento di protezione dell’autonomo agire sociale degli individui
ed ordinamento delle condotte, in norma, cioè in uno strumento di minuta
disciplina delle esistenze individuali e, più in generale, regolazione della
vita sociale. Il diritto, in quest’ottica, diviene esso stesso una tecnica di
ortopedia sociale, strumento per dirigere e modellare le esistenze indivi-
duali, produrre nuove forme di soggettività.
111. Nel suo corso del 1977-1978 al Collège de France, Sécurité, territoire, popula-
tion, Foucault, tornando sulla distinzione tra meccanismo legale e meccanismo disciplina-
re, sembra confermare queste indicazioni. Egli rileva infatti che “anche il meccanismo
disciplinare stabilisce in permanenza il lecito e il vietato, o meglio l’obbligatorio e il vie-
tato, poiché l’oggetto proprio della disciplina non è ciò che non si deve fare, ma ciò che
va fatto. Una buona disciplina è quella che vi dice, in ogni momento, che cosa dovete fa-
re. [...] Nel sistema della legge l’indeterminato è permesso, mentre nel sistema disciplina-
re ciò che è determinato corrisponde a ciò che va fatto e perciò tutto il resto, essendo in-
determinato, è vietato” (M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Corso al Collège
de France, 1977/1978, Feltrinelli, Milano 2005, p. 46).
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