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API INGEGNOSE ANNO V NumErO 4, GENNAIO 2015

API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

Api ingegnose
Quaderno di studi ricerche e sperimentazione didattica
a cura del liceo classico Pietro Giannone Benevento
Numero 4 Gennaio 2015
Direzione: Norma Fortuna Pedicini
Coordinamento: Amerigo Ciervo
Hanno collaborato a questo numero:
Nunzia Campanelli, Paola Maglione, Linda Mercuro,
Anna Chiara Porcaro, Nicola Sguera.

Grafica: C&M Comunicazione

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INDICE

Didattica/1 - Le competenze al servizio di una pedagogia erotica


Schizofrenia o terza via?
NICOLA SGUERA

Didattica/2 - Si dicono classici quei libri che costituiscono


una ricchezza per chi li ha letti e amati...

13

Didattica/3 - Alla ricerca di un motto


per il Liceo Classico Pietro Giannone

19

Didattica/4 - Il lavoro e dintorni. Un percorso letterario sul lavoro

25

Fonti - La canzone de li Crusci

49

PAOLA MAGLIONE LINDA MERCURO ANNA CHIARA PORCARO

LINDA MERCURO MARINA RICCI V E 2013/14


NUNZIA CAMPANELLI III E 2012/13
DIODORO COCCA

Argomenti - Il dramma sacro e la cultura popolare


AMERIGO CIERVO

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DIDATTICA/1

NICOLA
SGUERA

Le competenze al servizio
di una pedagogia erotica

Schizofrenia
o terza via?
Una cara collega, un po di tempo
fa, dopo che avevo letto in pubblico

nella notte poetica, esalta leros come


fondamento della paideia, e nella luce
diurna della scuola capitalistica lavora
per la costruzione di competenze
spendibili nel mercato?

un frammento tratto da Lora di lezione. Per unerotica dellinsegnamento


di Massimo Recalcati, mi disse che
ero schizofrenico. In quel passo
si prendeva di mira la scuola delle
competenze in nome di una scuola
che non misura ma fa innamorare
del sapere. Perch schizofrenico?
Perch nel Liceo Giannone rivesto da
tre anni il ruolo di responsabile del
Piano dellOfferta Formativa e, col
supporto della Dirigente e la collaborazione di tutti i colleghi, ho avviato
il faticoso transito della nostra scuola
(che ha aderito al progetto Vales)
dalle conoscenze alle competenze,
anche per ottemperare a quanto sollecitato dai valutatori esterni. Dunque,
la collega ha ragione? E come posso
giustificare questa doppiezza? Sono
un (dis)onesto dissimulatore che,

Per unerotica dellinsegnamento


La lettura del libro di Recalcati ha
accompagnato i mesi di avvio di questo nuovo anno scolastico. un libro
prezioso: tutti i docenti dovrebbero
leggerlo. Insegna, prima di tutto, che
non esistono viti storte, che anche
lalunno pi riottoso, se adeguatamente
motivato, pu cambiare, che anche
un bambino bocciato in seconda elementare e poi di nuovo in un Istituto
Agrario pu diventare un plurilaureato
e riverito psicoanalista, come lautore
del libro. Se... accade un incontro!
Con una persona fisica, in carne ed
ossa, un insegnante che non ha paura
di essere anche un educatore. Nel caso
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di Recalcati, una docente di italiano


delle superiori che lo innamor,
attraverso un complesso processo di
transfert, della lettura, dei libri, del
sapere. Il modello archetipico di questo educatore , ovviamente, Socrate.
E la condicio sine qua non di un vero
processo educativo che non si voglia
trasmettere un sapere dato (da un
pieno a un vuoto), ma che leducatore,
socraticamente, riconosca il proprio
non sapere (meglio: che il sapere pu
sempre progredire, che la ricerca non
avr mai fine) e cerchi, dunque, non di
trasmettere ma di creare nellallievo
un vuoto, una faglia, un desiderio...
Riprendendo lantica distinzione della
pederastia greca fra eromenos ed erasts, Recalcati invita leducatore a far
diventare leromenos erasts, lamato
amante. Solo il desiderio di sapere
costruisce un vero sapere:

non dovrebbe avere questo come suo


proprio compito? Rendere il sapere un
oggetto in grado di muovere il desiderio, un oggetto erotizzato capace di
funzionare come causa del desiderio, in
grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento lallievo. Non questa
la funzione agalmatica che con Lacan
dobbiamo riconoscere a un sapere che
si rivela erotico, cio capace di mobilitare il desiderio di sapere? Non forse
la competenza che rende possibile tutte
le altre? Se non si anima il desiderio
di sapere, non c alcuna possibilit di
apprendere in modo singolare il sapere
che viene trasmesso.
Lettera aperta sulla questione delle
competenze
Allinizio del 2014, ho indirizzato ai
colleghi del Giannone una lettera aperta in cui ragionavo sulla questione delle
competenze, ipotizzando una terza
via tra ladesione acritica e il rifiuto
aprioristico. Scrivevo:

Se c qualcosa che resta della Scuola


nellepoca della sua evaporazione indisciplinare, il rapporto del soggetto col
sapere che la funzione dellinsegnante
deve essere in grado di animare. La
partita della Scuola continua nonostante tutto a giocarsi essenzialmente
a questo livello. Esiste la possibilit di
introdurre il soggetto in un rapporto
vitale col sapere? Esiste ancora la possibilit di lavorare attorno agli oggetti
del sapere tenendo conto del rapporto
che hanno con la vita di chi li deve
assimilare? Ancora pi radicalmente:
ci che resta della Scuola non forse
la possibilit, ogni volta nuova, di
trasformare gli oggetti del sapere in
oggetti del desiderio, in corpi erotici?
Non in questo che consiste, in ultima
istanza, la posta in gioco di tutta la
partita dellinsegnamento? La Scuola

Lo scorso mese nella nostra scuola due


esperti del progetto VALES hanno fatto uno screening (mi adeguo al linguaggio dei colleghi valutatori!) dellintero
Liceo. Io, come altri colleghi, ho dovuto
rispondere ad una batteria di domande, dalle quali emerso il ritardo
(attenzione alle virgolette!) della nostra
scuola rispetto alle attese europee (che
risalgono almeno agli anni Novanta, al
Libro Bianco di Delors). Per questo ci
sar prospettato a breve un piano di
miglioramento.
Ho cercato, durante le vacanze, di elaborare il senso di disagio che avevo provato, simile a quello degli anni liceali
durante linterrogazione di chimica
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(ero un pessimo alunno, confesso, nelle


discipline scientifiche!). Grazie anche
alla lettura del fascicolo monografico
di Aut-Aut della primavera 2013
dedicato allargomento, ho capito che
la questione non pu essere posta solo
nei termini di innovazione (buona) vs.
conservazione (cattiva). Ho utilizzato,
dunque, come strumento per decifrare
quanto andavo elaborando, lidea di
paradigma. La scuola italiana, e
pi in generale europea, sta vivendo
una fase di conflitto fra due modelli, due ipotesi, due possibilit. Una
privilegia la trasmissione dei contenuti
disciplinari, laltra la costruzione di
competenze in unottica multidisciplinare. Ovviamente semplifico per intenderci. Il rischio che, per, la scuola
delle competenze costruisca un tipo
di allievo poco propenso allelaborazione critica, educato al problem solving
come approccio complessivo alla realt, obbediente a forme di verifica
molto semplici (stimolo/risposta), che
annullino lelaborazione, la riflessione
che necessita spesso di tempi lunghi:

senso prodotto altrove, da acquisizione


dellarte del disgiungere per ricomporre
a un saper-ricomporre mediante pacchetti preformati da maneggiare secondo regole imposte. La retorica delle
competenze di cui ammantato il pi
recente discorso pedagogico nasce da
qui, da questa esigenza presupposta e
inindagata pertanto metafisica che
funzionale allo scopo di otturare quei
vuoti di senso che, daltronde, lo
stesso tardo-capitalismo a produrre
(Raoul Kirchmayr, La dittatura del
programma).
A mio avviso possibile una terza
via che permetta di cogliere il buono
di questa innovazione, accettata dai
pi acriticamente, come un dogma,
rifiutandone limplicita dimensione
tecnocratica. Io ritengo sia possibile
declinare il nuovo paradigma delle
competenze in maniera critica, facendone lo strumento per plasmare quelle
che Morin definiva, nel suo celebre,
aureo libriccino, teste ben fatte. [...]
Individuato il nemico (la scuola al
servizio della tecnica, delleconomia,
una scuola eteronoma, privata della
sua peculiare ed autonoma elaborazione del senso, che sostanzialmente
consiste, per evocare Gardner, nelleducare al vero, al giusto e al bello), possiamo limitarci a giustapporre strategie
entrambe critiche ma totalmente
disomogenee? Io credo di no. Omaggio
quanti svolgono magnificamente il
proprio lavoro allinterno del vecchio
paradigma (discipline a canne dorgano, autoreferenzialit disciplinare),
ma io mi pronunzio risolutamente
per uninnovazione che ponga per
con rigore il problema di un sapere
critico. Per semplificare al massimo:

La trivializzazione della cultura avvenuta sotto la specie della sottocultura


aziendalistica. Con il suo lessico falsamente oggettivo, essa ha avuto lo scopo
di riempire i margini del linguaggio e
di colmare le beanze della nostra realt
sociale e culturale, di saturare con un
troppo di senso lessenziale spazio del
non-senso. Densificare la realt un
antidoto allangoscia: lo scopo manifesto dellodierno programma ideologico
che la scuola debba mutare radicalmente il suo senso, da comunit autonoma a struttura soggetta a eteronomia. Cos, da apprendistato alla critica,
essa deve diventare portatrice di un
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custodire questa splendida anomalia ma accettando la sfida di uninnovazione nelle pratiche didattiche e
relazionali, rivendicare, per citare il
fortunato libro di Ordine, lutilit
dellinutile, ma ponendoci allaltezza
del tempo. Rimodulare, per parafrasare un pensatore ospite del nostro
Liceo alcuni anni fa, Franco Cassano,
la tradizione in forma rivoluzionaria.
Allora, forse, lo sguardo sul mondo,
irrimediabilmente non asservibile alla
ragione economica e strumentale della
filosofia greca o medievale, della poesia
di ogni tempo, dellindagine scientifica
finalizzata al taumazein e non al dominio, della matematica come conoscenza
di un ordine ideale, della lingua come
incontro possibile con laltro potranno
contribuire a plasmare uomini e donne
che abitano consapevolmente e criticamente il proprio tempo, agenti della
trasformazione e non meri esecutori
o consumatori passivi di merci le pi
varie (e avariate).

s ad una scuola delle competenze ma


solo a patto che esse siano strumento
di esercizio critico, di pensiero libero,
di consapevolezza civica.
Dal mio punto di vista laccettazione
di una scuola delle competenze significa ripensare radicalmente il nostro
modo di lavorare in classe e fuori di
essa, il rapporto fra di noi, il rapporto
con gli studenti. La sfida elaborare
il profilo in uscita degli studenti del
Liceo Giannone e, rispetto ad esso,
ridefinire le pratiche didattiche e gli
strumenti di lavoro, abbandonando la
pratica mortifera dei programmi e
della lezione meramente trasmissiva.
La sfida, per, e vorrei essere chiaro su
questo, ben sapendo di muovermi su
un terreno minato, avviare pratiche
reali di programmazione comune, in
base, appunto alle competenze da costruire nei ragazzi, ben sapendo quanto
questo sia difficile.
Care colleghe, cari colleghi, questa
la sfida che abbiamo davanti. Quello
che chiedo, umilmente, in primis a me
stesso, : lo vogliamo fare? O, ancora
una volta, le carte dovranno camuffare
pratiche antiche che si perpetuano?
Siamo in grado di abbandonare la
nostra autoreferenzialit o vogliamo
continuare ad essere imperatores nelle
nostre ore di lezione, senza dar conto
del lavoro che stiamo facendo sulla
testa, unica, unitaria, dei nostri alunni?
Questo non li condanna ad una sorta di
schizofrenia, rispetto a modelli cos
diversi di pratiche didattiche?
Per quanto mi riguarda, proprio insegnare in un Liceo Classico, dove
linutile, la dpense, per dirla con
Bataille, il cuore stesso, la ragion
dessere della scuola, mi rafforza nelle
mie convinzioni. Dobbiamo, dunque,

Tentativo di sintesi
La scuola italiana in un momento
di grande sofferenza. Assisteremo in
questi mesi allennesimo tentativo di
grande riforma calata dallalto, i
cui esiti non possiamo prevedere. Sicuramente i Licei Classici, in un tempo
dominato dalla razionalit tecnicoscientifica, vivono in maniera ancor
pi drammatica questa crisi, che si
manifesta prima di tutto con perdita
di iscritti e domande di senso (perch
il latino, il greco, la filosofia ecc.?). A
me pare che si debba avere la capacit,
coniugando sguardo lungo e realismo,
di tenere insieme le due proposte di
cui ho discusso sopra: da una parte,
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potremmo dire, la passione socratica ed erotica di un insegnamento che


mira ad accendere fuochi e non a
riempire vasi, dallaltra la capacit
(anche tecnica) di saper organizzare
nuove metodologie didattiche, nuovi
spazi, nuove forme organizzative della
scuola. Se letta in maniera originale (e
non funzionale a logiche mercatiste),
la questione delle competenze pu
portare ad innovare didattiche che
appaiono irrimediabilmente datate. E
non si tratta, come alcuni potrebbero
credere, di utilizzare supporti tecnologici e di trasformare i docenti in webmaster, quanto piuttosto di capire che
la trasformazione tecnologica in atto
inevitabilmente modifica anche le
strutture percettive e le modalit di apprendimento dei ragazzi, dei cosiddetti
nativi digitali (come ben illustrato
da Paolo Ferri nei suoi fondamentali
lavori). Il docente dei prossimi anni
dovr avere una missione socratica
utilizzando gli strumenti (soprattutto

mentali) del XXI secolo. La sua missione non dovr essere subordinata alla
costruzione di lavoratori delle societ
post-industriali quanto piuttosto di
teste ben fatte, capaci di pensiero
critico, e cittadini attivi. Solo attraverso
la conversione radicale delle didattiche,
nella direzione della partecipazione
attiva degli studenti, si potr ottenere
questo obiettivo. E da questo punto di
vista la scuola delle competenze pu
essere uno sprone. Tutto sta a vivere
questa transizione, anche correndo il
rischio della schizofrenia, non subendola ma cavalcandola e indirizzandola verso liperuranio della paideia
integrale, utilizzando sapientemente il
cavallo bianco delleros.
Bibliografia
Aut-Aut. La scuola impossibile, n. 358, maggiogiugno 2013.
P. Ferri, Nativi digitali, Mondadori, 2011.
M. Recalcati, Lora di lezione. Per unerotica dellinsegnamento, Einaudi, 2014.

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DIDATTICA/2

PAOLA MAGLIONE
LINDA MERCURIO
ANNA CHIARA PORCARO

Si dicono classici quei libri


che costituiscono
una ricchezza per chi
li ha letti e amati...
S

i dicono classici quei libri che


costituiscono una ricchezza per chi li
ha letti e amati; ma costituiscono una
ricchezza non minore per chi si riserba
la fortuna di leggerli per la prima volta
nelle condizioni migliori per gustarli.1
Italo Calvino, nel noto saggio Perch
leggere i classici, propone diverse definizioni sul felice abbinamento dellarte
del leggere e del fare suo oggetto i
classici. Due concetti nobili e complessi, in cui allazione della lettura
come scoperta, ricerca e formazione si
associa lidea di classico, qualcosa- riprendendo Calvino- che sto rileggendo
e non mai sto leggendo2.

letterarie con i cittadini adempiendo


alla finalit di divulgare, preservare e
promuovere il sapere antico e moderno.
Introdotta ormai da tempo, di anno
in anno rinnovatasi nei contenuti e
nelle formule di mediazione, la lettura
dei classici alla citt ha trovato negli
studenti del Liceo gli interpreti ideali
per dare voce e anima a pagine scritte
in epoche e luoghi diversi, per poi
constatare che un filo rosso lega lhumanitas pur nelle diversit temporali,
che sentimenti e riflessioni degli autori
greci e latini riecheggiano in parole e
pensieri della contemporaneit e delle
differenti epoche storiche. Unattivit
che senza fatica si riconosce nel nostro
istituto, deputato proprio a preservare
il sapere degli antichi, a incarnare il
significato di classico, a far convivere
il passato e il presente. Puntualizzando
che classico non semplicisticamente

Facendo proprio questo felice binomio,


il Liceo Classico Pietro Giannone ha
avuto il merito, gi anni fa, di ideare
La lettura dei classici alla citt, un
progetto nato per condividere pagine
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ci che appartiene al passato, ma


come ancora ci suggerisce Calvino -
un libro che non ha mai finito di dire
quel che ha da dire, un testo di cui
ogni rilettura una lettura di scoperta
come la prima3.
Su questa accezione del concetto di
classico, nellA. S. 2013/2014 la lettura dei classici alla citt si rivestita di
un carattere pi istituzionale entrando
a pieno diritto nelle attivit formative
del nostro istituto. Ideata da Amerigo
Ciervo e trasformata in PON per volere della Dirigente Scolastica Norma
Fortuna Pedicini, questanno la lettura
si rivelata un laboratorio creativo di
alto profilo. Il progetto stato suddiviso in due fasi. La prima, pi lunga,
iniziata a gennaio 2014, ha coinvolto
circa cinquanta ragazzi e si svolta in
orario pomeridiano. Durante le lezioni
i docenti hanno analizzato la tematica
del lavoro e limportanza che ha rivestito, nel corso dei secoli, nella letteratura
greca, latina e italiana. Le attivit,
destinate agli alunni delle classi liceali,
si sono svolte in 50h extra-curricolari
ripartite tra i professori Michele Rinaldi, Massimiliano Calabrese e Amerigo
Ciervo, rispettivamente docenti di
Lingua e letteratura italiana, Lingua e
cultura latina e greca, Storia e filosofia.
Discipline, dunque, diverse ma che,
tramite la mediazione della parola, con
linguaggi differenti o apparentemente
tali, assolvono alle medesime funzioni
formative: comunicare, collaborare e
partecipare, acquisire e interpretare
linformazione, finalit in perfetta
coincidenza con quanto recitano le
ultime disposizioni ministeriali nellaffannosa ricerca di definire e delineare
cosa sia una competenza4.

Lapertura del corso, in unaffollatissima aula del nostro liceo, spetta


a Michele Rinaldi, esperto dantista.
Tocca a lui accogliere gli studenti e
cercare di introdurli, con una fare colloquiale e discreto, semplice e dotto al
tempo stesso, nella pagina dantesca,
a veicolare il Sommo Poeta attraverso
una lettura fluida, dinamica, quasi con
essa conversando. La seconda sezione
del corso tenuta da Massimiliano
Calabrese, che si occupa dellidea di
lavoro nella civilt classica. La ricchezza delle fonti, da Omero a Virgilio, da
Platone a Cicerone, mette gli alunni in
contatto diretto con il passato e li apre
a un confronto sullidea di lavoro che
gi dallantichit focalizzato sulla
fatica che esso comporta, sulla dignit
che conferisce alluomo, sul grado di
civilizzazione che esprime: labor omnia
vicit improbus5. Lultima sezione del
corso affidata ad Amerigo Ciervo,
a cui spetta il compito di volgere lo
sguardo al presente e di indagare sul
concetto di lavoro nellepoca contemporanea. Le narrazioni di Calvino,
i versi di Giovanni Giudici fanno da
sfondo alle immagini di Tempi moderni di Chaplin, alle musiche di Bruce
Springsteen e di Riccardo Sinigallia.
La seconda fase, attuata nel mese di
maggio, ha visto protagoniste tutte
le classi del liceo, dalle IV ginnasiali
alle terze liceali, nella ri lettura, per
dirla alla Calvino, di passi scelti di autori che hanno dedicato alcune pagine
allargomento. Il tutto confluito nella
performance finale, durante la quale gli
alunni, accompagnati dai Giannoniani,
ex alunni del nostro Liceo, hanno letto i
brani nei luoghi pi significativi e suggestivi della citt, come la Prefettura,
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lHortus Conclusus, il Museo del Sannio, per condividere con la comunit il


valore civico ed educativo della lettura
e attuare unefficace mediazione del
sapere al di fuori delle aule scolastiche.
La chiusura della manifestazione ha
avuto poi, luogo nel cortile del Giannone, dove, alla presenza dei docenti, della Dirigente Scolastica Norma Fortuna
Pedicini e dellex Dirigente Scolastica

Maria Felicia Crisci, gli alunni iscritti al


PON hanno letto in lingua e in metrica
testi significativi sullargomento preso
in esame.
La lettura dei Classici non , dunque,
solo levento che apre le porte agli alunni e consente loro di leggere testi classici per le vie della citt; soprattutto
il momento in cui gli alunni e i docenti
lavorano in sinergia e costruiscono un
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percorso da concretizzare nella messa


in scena finale. Detta cos, sembra la
solita iniziativa scolastica che mira ad
attirare lattenzione su di s; tuttavia
la realt ben diversa. Al di l delle
canoniche competenze, previste dalle
Indicazioni nazionali, sicuramente
imprescindibili per la formazione degli
studenti, sono stati ben altri i traguardi
raggiunti. Sin dallinizio del percorso,
gli alunni hanno evidenziato un grande
interesse per la tematica e una forte
curiosit per le strategie adottate. Hanno partecipato agli incontri con uno
slancio emotivo tale da essere non pi
semplici fruitori del percorso tematico,
ma veri attori e registi dello stesso.
Subito sono entrati in sintonia tra loro
e con i docenti coinvolti, creando un
clima stimolante e costruttivo. Hanno
formato un gruppo unito, complice,
disposto a confrontarsi con lealt e
serenit. Si sono sentiti protagonisti.
Ad un tratto, il progetto non era pi
dei docenti, era loro. Loro hanno scelto i passi e deciso come interpretarli.
Loro hanno stabilito di leggere Omero
e Virgilio in metrica. Infatti sono stati
proprio i ragazzi a costruire la rappresentazione finale, cui ognuno ha dato
il proprio contributo, senza mai tirarsi
indietro.
Sicuramente vincente stata la scelta
di coniugare linsegnamento classico
con le nuove tecnologie; il supporto
multimediale risultato indispensabile
per coinvolgere i ragazzi, per dimostrare che la lettura di Senofonte e di
Seneca non esclude lascolto di Bruce
Springsteen, che lart. 1 della nostra
Costituzione - recitato a pi voci pu acquistare un significato altro, un
tono solenne, proponendosi come una
pagina irrinunciabile per lidentit del

nostro paese.
Trascorsi diversi mesi dal termine
del PON, Anna Chiara Porcaro,
unalunna di II F, a fornire unanalisi
complessiva dellesperienza fatta. Il
tema principale del programma afferma la studentessa - consisteva in
uninnovativa ed interattiva rilettura
dei testi classici: partendo da scritti
greci e latini, passando per la Divina
Commedia, fino al Novecento, abbiamo analizzato approfonditamente i
diversi contenuti cos cronologicamente
distanti, ma tutti affini e compatibili
con i medesimi ingranaggi culturali e
sociali. Il perno attorno a cui ruotavano
gli aspetti comuni delle tre epoche
stato individuato nel Lavoro.
Da qui partito uno studio di gruppo
che ha coinvolto tutti i partecipanti,
portando sul palco - bench il termine
sia un po azzardato - gli studenti del
Liceo P. Giannone nelle vesti di indiretti divulgatori di antiche tradizioni
ed insegnamenti che non dovrebbero
mai essere trascurati, specialmente
da noi studenti in un liceo classico. Il
punto , infatti, questo: in una scuola
dove la cultura greca e latina devono
essere offerte agli studenti sotto tutte
le ottiche possibili, analizzando e contestualizzando ogni autore studiato,
proprio unesperienza come questa
pu garantire il successo dei propositi
educativi.
Lutilizzo di forme espressive, come
film, musica e poesia, a volte distanti
dalla solita lettura di testi, ha reso coinvolgenti anche i pomeriggi pi caldi di
maggio. Non dico che nel corso delle
lezioni mattutine e regolari non sia
fatto un lavoro simile, ma certamente
la possibilit di dedicare un pomeriggio
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ad un testo di Senofonte, analizzandolo


anche con metodi meno accademici, ha
consentito una migliore riuscita dellobiettivo, perlomeno per noi alunni.
Tutti abbiamo partecipato attivamente
al progetto, potendo dedicarci liberamente a ci che pi ci era consono
o piacevole. Abbiamo avuto tutto il
tempo per stringere i rapporti con i
compagni di classe e non. Non sono
mancate risate, inconvenienti e occasioni per mettersi anche un po in
gioco. Ogni parte del progetto stata
costruttiva. Gli effetti sono evidenti
sugli stessi ragazzi. Penso di parlare a
nome di molti: personalmente ho notato un affiatamento nuovo con i miei
compagni di classe e di corso.
Per quanto possa risultare bizzarro,
nella norma, assegnare ad una qualsiasi attivit scolastica lattributo
divertente, in questo caso mi vedo
costretta a farlo.
Dalla collaborazione nasce sempre
qualcosa di buono. Corsi PON cos
strutturati rendono il punto di credito formativo lultimo interesse; quei

pomeriggi a scuola assumono tutta


unaltra aria.
A conclusione dellesperienza, posso
dichiarare soddisfatte le aspettative che
avevo avuto agli inizi.
Con questo progetto di certo gli allievi
e, perch no, i docenti hanno imparato
ad imparare, volendo parafrasare il
grande Mario Luzi a proposito dei sui
alunni.
PAOLA MAGLIONE e LINDA MERCURO
hanno svolto il ruolo di tutor nel PON. ANNA
CHIARA PORCARO, studentessa di II F, ha
partecipato al PON.

note
1 Calvino, I., Perch leggere i classici, Milano,
1995.
2 Ibid.
3 Ibid.
4 D. M. 139 del 22 agosto 2007
5 Virgilio, Georgiche I, 145-6.

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DIDATTICA/3

Alla ricerca di un motto


per il Liceo Classico Pietro Giannone

AD SAPIENTIAM ITINERA CONFICIMUS


PERCORRIAMO LE STRADE
VERSO LA SAPIENZA
Ta th sofia odou porizome
WE TRAVEL THE PATHS OF LEARNING

Itol profondo.
significato del nostro motto molEsso ci fa intendere che

sapientiam itinera conficimus per renderlo di pi facile impatto. Le parole


aetate e ingenio, pur espunte, sono tuttavia significative e riteniamo opportuno illustrarle. La prima, derivante
dal sostantivo di terza declinazione in
dentale aetas,aetatis, lascia intendere
che per gli adolescenti laetas, intesa
come lo scorrere del tempo e non nel
senso generico dellet, fondamentale
perch limpegno protratto nel tempo,
associato allingegno (ingenium-ii),
ovvero alle doti dellintelletto, ci pu
aiutare a raggiungere la sapienza. Altra parola chiave , dunque, ingenio:
non a caso i Romani, oltre al significato di intelligenza, davano a questo
vocabolo il valore di natura, qualit
naturali. I Romani infatti consideravano lingegno un dono della natura,
con il quale, se opportunamente stimolato, era possibile raggiungere sapienza e cultura.

ognuno di noi pu raggiungere la sapienza nel cammino della vita attraverso lo studio, limpegno, la costanza,
lingegno e, dunque, tramite le doti
dellintelletto. Per percorrere i sentieri che ci portano alla sapienza, come
il motto lascia intendere, bisogna
sempre impegnarsi con laspettativa
che i risultati, col passare del tempo,
arriveranno a condizione di un comportamento retto, illuminato, aperto
al confronto e al miglioramento. La
sapienza, dagli antichi Romani cos
come dalla societ contemporanea,
viene, difatti, intesa come il complesso
delle conoscenze acquisite tramite non
solo gli studi, ma anche le esperienze.
Dopo aver esaminato due motti elaborati da alcuni studenti della nostra
classe, abbiamo scelto il seguente: ad
sapientiam itinera conficimus aetate ingenioque, poi semplificato in ad
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Struttura morfo-sintattica

Altri motti presi in esame

del motto

Ingenio virtuteque sapientiae iuventus/adulescentia alitur


Ovvero
la gioventu e alimentata dallingegno e dalla forza della sapienza
Questa frase stata elaborata sul modello di una celebre espressione di Cicerone (Cic, Off. 1,105): hominis mens
discendo alitur (la mente delluomo si
alimenta imparando)
-La parola ingenio deriva, come detto
precedentemente, dal latino ingeniumii, un sostantivo neutro di seconda
declinazione con varie accezioni di
significati: qualit naturali, ingegno,
intelligenza, capacit intellettuali e di
comprensione. In pratica, ingenium in
latino inteso come qualit naturale
o connaturata di qualcuno o qualcosa;
se riferito a persone, inteso nel senso
di indole, carattere, inclinazione.
-Virtus, virtutis un sostantivo femminile di terza declinazione; pu avere
varie accezioni: valore, virt (doti fisiche e morali), vigore, capacit, bravura, facolt, eccellenza. Al plurale assume il significato di pregi, doti, buone
qualit o di imprese, gesta. Oltre a ci,
pu significare anche forza militare
o esercito. Sapientia-ae un sostantivo femminile di prima declinazione
e appartiene a due fondamentali aree
semantiche:
Per quanto riguarda la prima area, assume i significati di:
-sapienza
-saggezza (intesa come buon senso,
prudenza, senno)
Per quanto riguarda la seconda area
semantica, assume il significato di
scienza (sapere esatto). Vi sono due
espressioni latine di Tacito che riman-

-ad sapientiam = complemento di


moto a luogo figurato composto da
ad + accusativo femminile singolare
di sapientia-ae
-itinera = complemento oggetto, accusativo neutro plurale; da iter-itineris
-aetate = complemento di strumento,
ablativo femminile singolare; da
aetas-aetatis
-ingenio(que) = complemento
di
strumento, ablativo neutro singolare;
da ingenium-ii e que= congiunzione
enclitica che equivale a et
-conficimus= predicato verbale, indicativo presente, prima persona plurale,
da conficio-is-confeci-confectumconficere
A cura di Giuseppe Chiusolo,
Flavio Latino, Flavia Verdino,
Gaetana Pontillo,
Giacomo Varricchio

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API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

dano a sapientia come eccellenza del


sapere, riconducibile, in tale ambito,
alla filosofia:
- Sapientiae studia (studi filosofici)
- Sapientiae doctores (i filosofi)
- Il sostantivo femminile iuventus-iuventutis appartiene alla terza declinazione e significa giovinezza, giovent, giovani.
- La parola adulescentia-ae appartiene alla prima declinazione ed un
sostantivo di genere femminile. Esso
lalternativa alla parola iuventusiuventutis, poich ha il medesimo
significato di giovinezza, adolescenza, insieme di giovani, ma meglio si
adatta alla nostra fascia di et.
- Alo-alis-alui-altum-alere un verbo transitivo appartenente alla terza
coniugazione e significa alimentare,
nutrire oppure promuovere, rafforzare, favorire.
A cura di Jessica Mastrovito,
Silvia Ruggiero,
Maria Letizia Ciarleglio,
Natasha Pacifico,
Anna Cavuoto, Arianna Forni

sembrava troppo poderoso e cacofonico per il nostro motto. Si tratta inoltre


di un verbo di raro uso, poco diffuso
nella classicit latina. Abbiamo dunque ipotizzato di sostituire il verbo
apiscor con colo (colo, colis, colui, cultum, colere: coltivare, celebrare, onorare) perch ci sembrava abbracciare
meglio il senso del raggiungimento
della sapienza attraverso un percorso
lento, costante e meditato. Anche nel
nostro motto compare il termine ingenio che - ci piace ribadirlo - non ha
il significato riduttivo assunto dal suo
derivato italiano ingegno. Il termine
latino ingenium, ii, come gi ripetuto,
non trascende dalle disposizioni naturali e dal proprio talento; difatti inteso come qualit connaturata.
A cura di Ilaria Ianniello, Viviana
DArgenio, Lucia Paoletti, Martina
Minicozzi, Chiara Pezzuto,
Francesca Rosella
Tra i tre motti analizzati, abbiamo,
dunque, scelto il primo: ad sapientiam
itinera conficimus. Esso, a nostro
avviso, il pi significativo e, agli
occhi di noi giovani, appare come un
monito riguardo la strada da seguire
per ottenere un futuro migliore.

Sapientam colimus aetate ingenioque


coltiviamo la sapienza con let e lingegno

Il nostro motto in greco

Abbiamo realizzato questa espressione


ispirandoci alla frase di Tito Maccio
Plauto non aetate verum ingenio apiscitur sapientia (non con leta ma con
lingegno si raggiunge la sapienza).
La nostra proposta, un po distante
dalloriginale plautino, ha anzitutto
preso in considerazione alcune esigenze fonetiche, in quanto il verbo apiscitur (da apiscor, eris, aptus sum, apisci:
raggiungere,ottenere, guadagnare) ci

Dopo questo lungo percorso di confronto in latino, abbiamo convertito il


motto in greco: ta th sofia odou
porizome. Per il greco abbiamo scelto una resa pi semplice e pi snella
dellomologo latino per non imbatterci
nel complesso uso delle preposizioni.
Ci siamo confrontati soprattutto sulla resa del verbo porizome, a lungo
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in ballottaggio con steicome, poco


diffuso e di uso tragico, e badizome,
pi usuale e generico. La traduzione
in greco del nostro motto conferma
la nostra convinzione di percorrere la
strada verso la sapienza con impegno
continuo, raccogliendo di giorno in
giorno i frutti del nostro studio e delle
nostre esperienze formative.

gli eredi e che quotidianamente studiamo la lingua di Roma? Abbiamo,


quindi, compiuto un percorso inverso:
dallinglese al latino per poi tornare
allinglese. A conclusione del lavoro
qui illustrato, abbiamo tradotto il nostro motto anche in inglese: we travel
the paths of learning.
Siamo soddisfatti del nostro operato
e siamo certi di poterci riconoscere in
questo percorso, che ci ha offerto loccasione di verificare inaspettatamente
lattualit delle lingue classiche e la
possibilit di coesistenza tra antico e
moderno!
A cura di Cosimo Iadanza,
Carmine Parente,
Federica Caiazza,
Ilde Carletta

Lorigine del nostro motto


Eppure, la nostra idea di elaborare
un motto nata dallo studio dellInglese. S, perch, attraverso lo studio
degli ordinamenti scolastici nel Regno
Unito, abbiamo con sorpresa scoperto
che le scuole inglesi si riconoscono in
un motto e che esso non nella lingua
madre ma in Latino! Gli istituti anglosassoni sintetizzano il loro percorso
formativo in massime e sentenze di
autori classici, come Seneca, Cicerone,
Lucrezio, Livio. E perch, allora, non
farlo anche noi, che dei Latini siamo

Classe V sez. E anno scol. 2013/2014, a cura


delle docenti Linda Mercuro e Marina Ricci

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DIDATTICA/4

NUNZIA CAMPANELLI
e III E 2012/13

Il lavoro
e dintorni

Un percorso letterario sul lavoro


A

della vita materiale e dellesistenza


quotidiana delle masse contadine,
entra di prepotenza nella letteratura
italiana. Per la prima volta il popolo
non visto con distacco, n giudicato
da una prospettiva moralistica e populistica, ma diventa protagonista.
La rivoluzione verghiana non solo
tematica, ma anche stilistica: abbandonato il narratore onnisciente, lo
scrittore opta per una sorta di narratore anonimo popolare che racconta
i fatti dallinterno di una comunit,
di cui condivide schemi mentali, valori e modi linguistici. Si tratta, quindi, di una nuova poetica inaugurata
con Rosso Malpelo e proseguita con
la raccolta di novelle Vita dei campi
(1880). I racconti sono ambientati
nella Sicilia contadina, immersa in
quel mondo rurale dai caratteri veristici e pessimistici, ma che cela qualche traccia di idoleggiamento romantico e nostalgico, quasi come se costituisse quel paradiso antico al riparo
dalla modernit e dalla storia.
proprio in un clima simile che ha

bbiamo immaginato il nostro percorso nel mondo del lavoro raccontato dalla letteratura come un viaggio.
Dal momento che il progetto biennale, abbiamo individuato due linee
di ricerca e di studio: quella del lavoro agricolo nel mondo contadino e
quella del lavoro operaio e impiegatizio nel mondo delle fabbriche e del
terziario. Il primo anno vedr lapprofondimento delle tematiche del
mondo rurale attraverso lo studio di
autori che hanno trattato questo argomento nelle loro opere: Verga, Alvaro, Silone, Levi, Scotellaro e Jovine
sul versante della narrativa, Pascoli,
DAnnunzio e Pavese per la produzione in versi. La seconda fase, invece, prender le mosse da Pirandello
e Svevo per proseguire con Bernari,
Moravia, Pavese, Pratolini, Ottieri,
Bianciardi e Volponi.
Punto di partenza della nostra avventura Giovanni Verga, il fondatore
del romanzo moderno. Con lo scrittore siciliano, esponente del verismo
italiano, un mondo nuovo, il mondo
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turbolenza si riscontra anche nellattivit instancabile di Jeli: il mandriano completamente dedito al suo lavoro, sicch La gn Lia, soleva dire:
- Vedete Jeli il pastore? stato sempre
solo pei campi, come se lavessero figliato le sue cavalle, ed perci che
sa farsi la croce con le due mani!- e
rende i suoi servizi senza pretendere
molto in cambio se non il necessario
sostentamento quotidiano. Asseconda
le esigenze dei cavalli, se intendono
sostare dove il mangime abbondante, o se, turbati dagli improvvisi cambiamenti climatici, lasciano intendere
di voler ritornare nella stalla; diligente sul lavoro, ma diligente anche
con il padre, soprattutto quando, in
punto di morte per aver contratto la
malaria, fa ogni cosa con garbo da
brava massaia. Ma Jeli resta di quelli che al lavoro e alla rendita bada
molto, un po come il padre, le cui
ultime parole furono quelle di ricordare al figlio di ritirare dal padrone il
denaro che avanzava dal suo ultimo
periodo di attivit pastorale. Nonostante una cos grande attenzione, un
incidente compromette la sua carriera: lo stellato (stallone di grande
valenza) precipita da un burrone la
notte di San Giovanni durante il tragitto verso il paese dove lo attende
il fattore e questepisodio basta a rinominare il povero Jeli paneperso,
ossia uomo inefficiente e non meritevole. Jeli abbandonato senza lavoro
in mezzo alla strada, sperimentando
cos la realt dellesclusione, gi prescritta nella sua condizione di orfano
e di povero, collocato su un gradino
sociale inferiore. Va, dunque, alla ricerca di un lavoro, mentre tutti, anche i contadini e i pastori che appar-

luogo la vicenda di Jeli il pastore. Jeli


un giovane guardiano di cavalli che
intesse unamicizia con Don Alfonso,
il signorino, e Mara. Le prime righe
della novella rimandano allatmosfera e al tempo adolescenziale nostalgicamente filtrati dalla percezione di
una realt adulta, lontana e non pi
recuperabili. Con il trascorrere degli
anni, Jeli mantiene lingenuit infantile e si innamora di Mara; anzi,
Massaro Agrippino, padre della ragazza, aiuter pure il giovane quando
questo, il d della festa di San Giovanni, perder il lavoro. La giovane,
tuttavia, promessa sposa (seguendo
la legge non scritta della roba e
delleconomia contadina) di un altro
massaro locale, anche se poco prima
delle nozze la scoperta della tresca
della donna proprio con don Alfonso
fa sfumare le possibilit di progresso
sociale di Mara. allora Jeli a sposare Mara, coronando il sogno di una
vita. La tragedia per incombe: Jeli,
nonostante le voci che circolano, non
vuole credere al proseguimento della
relazione tra la moglie e don Alfonso.
Eppure, quando questultimo invita Mara a ballare durante una festa
paesana, Jeli reagisce obbedendo al
suo senso di giustizia e di vendetta,
vibrando una coltellata allormai non
pi caro amico dinfanzia, Don Alfonso.
Analisi e Interpretazione
Lo sviluppo della trama piuttosto
turbolento e tutto improntato a un
climax ascendente che prende avvio
dal quadro idillico che ritrae il tredicenne Jeli che gioca con i nuovi amici
e che lavora serenamente, e termina
con linaspettata vendetta. Questa
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tengono alla sua stessa classe, hanno


da spendere qualche soldo. Le cose
del mondo vanno cos: mentre Jeli andava cercando un padrone colla sacca ad armacollo e il bastone in mano,
la banda suonava in piazza allegramente, coi pennacchi nel cappello, in
mezzo a una folla di berrette bianche
fitte come le mosche, e i galantuomini
stavano a godersela seduti nel caff.
Costretto a cercarsi un lavoro, si accontenta alla fine del mestiere del pastore, e siccome paziente e laborioso
impara a trattare le pecore allo stesso
modo in cui trattava i suoi cavalli. E
sar grazie a questa nuova attivit
che Jeli riesce a sposare Mara, garantendole una vita di agiatezze, perch
questa, essendo figlia di un massaro,
ne ha come un diritto naturale. A lui
spetta la durezza della vita contadina, perch collocato in basso nella
scala sociale, Mara, invece, figlia di
un massaro ed giusto, agli occhi di
Jeli, che sua moglie non condivida la
sua stessa vita. Solo ora che ha una
moglie che se ne resta al caldo perch
non nata per custodire le greggi, Jeli
avverte tutta la pesantezza della propria esistenza, per la accetta come
fatto naturale e quindi necessario:
Mara figlia di un massaro, lui di un
guardiano di vacche.
Al culto della roba e al sogno di potenza creatrice del self-made man
ispirata la seconda novella che presentiamo. Dopo Vita dei campi e
I Malavoglia, Verga pubblica una
raccolta di novelle veriste, dal titolo Novelle rusticane (1882), sempre
ambientate nella campagna siciliana.
Particolare interesse riveste la novella La roba: protagonista del racconto Mazzar, un contadino siciliano

che a poco a poco, tutto sacrificando alla logica economica, divenuto


il maggior proprietario terriero della
regione, sostituendosi al barone. Egli
d lavoro a moltissime persone e si
reca spesso nei campi per controllare
personalmente che il lavoro sia svolto
adeguatamente. Tutta la sua roba
lha guadagnata con le sue sole forze.
E un uomo che si lamenta solo del
fatto che sta invecchiando: quando
gli viene detto di lasciare la roba
perch tempo di pensare allanima,
Mazzar esce nel cortile e come un
pazzo comincia ad uccidere gli animali che capitano sotto il tiro del suo
bastone, urlando: Roba mia, vientene con me!.
Analisi e Interpretazione
A differenza delle novelle precedenti,
questo racconto rappresenta labbandono definitivo di ogni mitizzazione
nostalgica romantica del mondo rurale; il polo positivo dei valori puri
scompare lasciando, invece, la scena
alla figura di un self-made man rurale, che dal nulla si crea una grande
fortuna. Tra i temi che ricorrono nella
novella, pertanto, emerge pi di tutti
la celebrazione iperbolica dellaccumulo capitalistico in un mondo in cui
i mietitori sembrano un esercito di
soldati, gli aratri sono numerosi come
le lunghe file dei corvi e per la vendemmia accorrono villaggi interi per
le vigne di Mazzar ecc Mazzar
un poveraccio, un contadino nullatenente ed analfabeta che lavora per
una vita, sotto il sole implacabile di
Sicilia e al freddo dellinverno per realizzare il suo sogno: possedere della
terra. Descritto cos, il personaggio di
Mazzar sembra una figura concreta,
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solida, in definitiva buona: uno che


lavora con sacrificio e che, alla fine,
riesce a coronare il suo sogno. In realt, il ritratto che ne fa Verga tuttaltro che positivo: una figura gretta,
avida, avara fino al parossismo. Uno
che, quando gli muore la madre, non
pensa allaffetto che perde ma ai dodici tar che spender per il funerale. Si avverte, cos, una critica feroce,
gelida, distaccata che Verga fa al suo
personaggio: uno che fatto cos,
vuol dire che fatto per la roba. E
che la roba fatta per lui. Mazzar
la sua roba, Mazzar la sua terra.
Ci che conta possedere terre su terre, a qualunque costo. Cos, quando
sta per morire, uccide le sue bestie,
perch, se non possono essere di sua
propriet nellaldil, almeno muoiano, per non essere di nessun altro. Di
fronte alla morte, Mazzar scopre il
non-senso di una vita dedicata esclusivamente allaccumulazione. La religione della roba, che diviene vera
ossessione, si riflette nel martellante
ripetersi della parola lungo tutta la
novella (viene nominata ben 24 volte). La tensione eroica del protagonista e la sua insaziabile fame di terra
si proiettano sulla natura che si presenta solo sotto laspetto di paesaggio
agricolo, propriet lavorata dalluomo e segno della sua ricchezza; dunque anche la natura pervasa da una
logica economica e produttiva. Il paesaggio originario scompare, per lasciare posto a una seconda natura
gremita di strumenti, di animali, di
persone, oppure teatro dellenergia infaticabile di Mazzar. Perci
la morte non rappresenta un naturale ricongiungimento alla terra, ma
una drammatica separazione da essa

e dalla roba in cui Mazzar si alienato. Il contadino-proprietario terriero larchetipo di alcuni personaggi
verghiani che vedono nel possesso un
fine assoluto, come lo Zio Crocifisso
dei Malavoglia, o uno scopo da raggiungere per avanzare nella scala sociale, come Gesualdo.
Continuiamo il nostro viaggio in compagnia di Corrado Alvaro e Ignazio
Silone, due esponenti del meridionalismo degli anni Trenta e precursori
del neorealismo. In Gente in Aspromonte (1930) Alvaro, riannodandosi
alla lezione verghiana, rappresenta lo
stato di miseria e di ingiustizia delle
masse rurali, alzando il velo dalla sua
arcaica e arretrata Calabria pastorale
e contadina e mostrando in essa lesistenza sofferta di unumanit logorata dalle lotte per la sopravvivenza.
La provincia calabrese ritratta da Alvaro un mondo senza sbocchi, dove,
come ebbe a dire Vittorini, la tragedia
scoccata e la sofferenza e la fatica
di vivere la fanno da padrone. Eppure la raffigurazione di questo universo umano e sociale sfumata in una
visuale fantastica e mitica, permeata
com dalla tensione a una realt assoluta e metastorica, emblema di una
vita innocente e autentica. Stemperata la durezza della denuncia sociale,
il racconto acquista dunque una risonanza pi profonda e assoluta.
Gente in Aspromonte una raccolta
di trediciraccontidiCorrado Alvaro,
considerata tra le pi alte espressioni della letteratura meridionalistica
e tra le pi significative del nuovo realismo del Novecento. il primo lungo racconto a dare il nome
allintera opera. Gli altri dodi28

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ciraccontiminori sono:La pigiatrice


duva,Il rubino,La zingara,Coronata,Teresita,Romantica,La signora
Flavia,Innocenza,Vocesana e Primante,Temporale dautunno,Cata
dorme,Ventiquattrore.

a casa; quindi anche Benedetto deve


abbandonare il seminario. Ma Antonello si ribella alla malasorte e si d
al banditismo per vendicare i soprusi patiti dalla sua famiglia e da tutti
i poveri del luogo. Brucia quindi un
bosco del Mezzatesta, ne uccide il bestiame distribuendo la carne ai poveri e si rifugia infine sulle montagne,
dove in seguito viene catturato dai
carabinieri.

Questo racconto narra la vicenda del


pastore Argir, custode della mandria di Filippo Mezzatesta. Costretto
a tornare in paese prima del tempo,
a causa della morte di due mucche
del signor Mezzatesta, dal quale era
a servizio da molti anni, si vede negata una nuova possibilit di lavoro.
Ritrovandosi nella miseria pi nera,
si rivolge allaltro fratello Mezzatesta per ottenere un prestito col quale
avrebbe messo su un piccolo campo,
che per non va molto bene. Cos
dopo una serie di altri sfortunati lavori, riesce comunque a mettere su
un po di soldi con i quali compra un
mula e fa da trasportatore tra i vari
paesi. Nel frattempo Antonello, il figlio maggiore, inizia a frequentare i
figliastri del Mezzatesta, che non sono
certo una buona compagnia. Ma la
nascita di un altro fratello, Benedetto, porta dei cambiamenti: divenuto
grande, Argir decide di farlo studiare da prete con lintento di realizzare il suo riscatto sociale ed avere una
famiglia che possa tener testa ai prepotenti signori del luogo. Intanto Antonello sarebbe andato a lavorare in
zone lontane per guadagnare qualcosa e aiutare la famiglia nel sostentamento di Benedetto. Ma la situazione
imprevedibilmente precipita. Filippo
Mezzatesta fa bruciare il fienile di Argir e gli fa uccidere la mula. A causa
di una malattia Antonello si trova costretto a lasciare il lavoro e a tornare

Analisi e Interpretazione
Il microcosmo calabrese dellAspromonte offre allautore lo spunto per
descrivere la vita dura e faticosa dei
pastori. Ma questa civilt che va ormai scomparendo con le sue tradizioni percepita come lontana, incantata, magica. I suoi personaggi
assumono le sembianze di qualche
dio greco, gli animali vengono rappresentati come figurine da presepe.
Del resto risulta evidente nel testo un
alone favoloso che cela agli occhi del
lettore la crudezza della situazione
degradata nel Meridione.
Tutto ci gioca a favore degli obiettivi dellautore: da un lato la denuncia
sociale rivelata dalla descrizione minuziosa della vita dei pastori calabresi, dallaltro la nostalgia di un mondo
arcaico e pastorale.
In questo modo, la situazione sociale
degradata e triste viene sottoposta ad
una raffinata visione evocativo-elegiaca, che ne stempera in parte i toni
di denuncia sociale.
Romanzo desordio di Ignazio Silone, Fontamara (1934) rappresenta
un volto nuovo della civilt del sud:
quella del mondo dei contadini meridionali oppressi da unatroce miseria,
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API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

dallignoranza, dalla superstizione,


dal servilismo, oltrech dalla violenza
del totalitarismo fascista. Timidamente questa povera gente inizia a prendere coscienza della necessit della
lotta per il riscatto, tentando di affacciarsi sullo scenario della storia come
soggetto attivo e con unembrionale
coscienza di classe. La raffigurazione siloniana prospetta quelluniverso sociale dallangolazione marxista
dello scontro tra le classi: i diseredati,
da un lato, e la borghesia dirigente,
dallaltro, in connivenza con il potere. Il narratore mostra di guardare
al mondo subalterno con una totale
identificazione affettiva e ideologica e
di provare uno struggente sentimento di piet, sentimento che si coniuga
a un impegno attivo per il riscatto di
quella societ contro le prevaricazioni
del ceto dirigente e del potere politico.
In definitiva Fontamara un romanzo in cui situazioni e personaggi, sia
pur rappresentati realisticamente, assumono un loro significato simbolico,
come metafore universali della storia
intemporale delle assurdit radicata
nella condizione degli uomini.

Trama
Scenario della rappresentazione
Fontamara, immaginario paesino
abruzzese presso il Lago di Fucino,
nei primi anni del regime fascista.
A partire dal 1 giugno del 1929 al
paese non arriva pi lelettricit. Sperando di rimediare a questa fatalit ogni contadino firma una misteriosa carta bianca, portata da un
graduato della milizia, il cav. Pelino,
carta che, in seguito, si scoprir essere lautorizzazione a deviare lacqua
per lirrigazione verso i possedimenti
dellImpresario, un galantuomo divenuto podest del paese. Questi un
imprenditore appoggiato dal regime
che si impossessato della carica di
primo cittadino, cercando di favorire
i propri interessi in tutti i modi. Capito linganno i fontamaresi si recano
a casa dellImpresario, dove tentano
di convincerlo a ridare loro lacqua,
perch bene indispensabile per la loro
sopravvivenza, ottenendo solo altri
inganni che li lasciano senzacqua e
portano alla riduzione del loro salario. Dai soprusi ottenuti con le parole,
si passa quindi ai soprusi fisici, con
una violenta incursione dei militi fascisti, inviati a Fontamara sotto segnalazione del cav. Pelino, che aveva
riscontrato comportamenti antifascisti. Frattanto la mediazione dellAvvocato don Circostanza sancisce con
un accordo-beffa il sopruso subto dai
fontamaresi: lacqua del ruscello sarebbe stata assegnata per tre-quarti
allimpresario e altri tre-quarti ai paesani, e avrebbe avuto la validit di
dieci lustri (ovviamente, i fontamaresi ignoravano il significato di lustro).
Intanto senzacqua le campagne
inaridiscono e, per di pi, il giovane

Fontamara, scritto da Silone negli


anni 30 , durante il suo esilio allestero, appartiene alla corrente del neorealismo e rappresenta unalta testimonianza delle disperate condizioni
dei contadini abruzzesi sotto la dittatura fascista. In esso, infatti, vengono
affrontati il tema dellavvento del fascismo nellItalia centro-meridionale,
sono descritte le disumane condizioni
dei contadini di quel tempo, e denunciate la violenza e le ingiustizie.

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API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

Berardo Viola, che ha capeggiato le


proteste dei fontamaresi, decide di
reagire tentando di trovare maggior
fortuna fuori dal paese, nella capitale. Ma anche qui finisce per essere vittima di soprusi: arrestato con laccusa
di fomentare lopposizione clandestina al regime, poco dopo muore per
le torture subite dalla polizia. Questa
notizia riaccende nei fontamaresi la
volont di lottare e la speranza in un
futuro riscatto, nonostante si trovino
ora a subire una nuova repressione da
parte della milizia fascista.

per la sopravvivenza contro lingordigia dei padroni, laridit della terra e


linclemenza del tempo. Ai contadini
si contrappone la figura del cavalier
Pelino, il rapace speculatore protetto
dalla legge che provoca i cafoni con
il taciuto proposito di giustificare una
violenta repressione. Silone sottolinea
soprattutto lestraneit della societ
contadina al resto del mondo. I cafoni
fontamaresi diventano il simbolo di
tutti i poveri della terra, perch occupano il gradino pi basso della scala
sociale e sono estranei al mondo, non
ne capiscono le leggi e gli avvenimenti. A Fontamara, per esempio, non
si sa nemmeno cosa sia il fascismo,
finch non bisogna fare i conti con il
suo odioso potere. E anche il resto del
mondo considera i cafoni estranei, li
tratta come subordinati e li sottomette sfruttando la loro ignoranza. Per il
mondo contadino meridionale, vilipeso e tradito, non resta che prendere
coscienza di se stesso attraverso la
protesta e la lotta contro la violenza e
i soprusi dei feudatari. Lo scrittore si
fa interprete di questa funzione storica dei contadini del sud e fa delle loro
vicende un emblematico documento
morale e di protesta civile.

In capo a tutti c Dio, padrone del


cielo. Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani della guardie del
principe.
Poi nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si pu dire che finito.
Analisi e Interpretazione
Il passo, tratto dal capitolo I, mette
in scena il conflitto ideologico fra gli
abitanti del luogo, definiti cafoni, e
un forestiero, il cavalier Pelino, funzionario del fascio che con subdole
argomentazioni cerca di vincere la
diffidenza dei contadini di Fontamara verso lautorit. Affiorano nel testo
aspetti drammatici del mondo contadino meridionale: lineluttabile miseria, unatavica rassegnazione di fronte allimpossibilit di mutare il corso
di un destino avverso, unesistenza di
schiavit subumana, lassuefazione al
dolore e al sopruso, la lotte estenuante

Il nostro viaggio prosegue con Carlo


Levi, Rocco Scotellaro, e Francesco
Jovine, tre esponenti del movimento
neorealistico sviluppatosi tra il 1943
e il 1956, la cui genesi va correlata
alla speranza di una palingenesi,
come scrisse Calvino, un testimone di
quella stagione. Dopo la caduta del
fascismo, infatti, gli intellettuali avvertirono lurgenza di testimoniare le
tragiche esperienze vissute e presero
coscienza della necessit di fondare
31

API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

una cultura nuova, intesa non pi a


consolare nelle sofferenze, bens attivamente impegnata nel reciderle alla
radice.

Trama
Il racconto ambientato a Gagliano,
paesino a sud di Potenza dove lautore stato confinato dalla polizia. In
quel luogo la vita appare immobile,
scandita solo dallalternarsi delle stagioni, della siccit e della grandine,
fra estati desolate e inverni interminabili che isolano il paese dal resto
del mondo, fra sciami di mosche e
malaria perniciosa. In questa desolazione regna la miseria pi disperata e
vieppi alimentata dalle tasse imposte dallo Stato persino sulle capre: la
popolazione del paese sente lo Stato
come una forza estranea e vessatoria. Gli eventi della storia dItalia non
hanno alcun senso per quella gente: lunica storia in cui si riconoscono costituita dalle gesta disperate
dei briganti che hanno osato opporsi
allo Stato. Attraverso losservazione
diretta e le conversazioni con la gente, lautore penetra a fondo in quel
mondo misterioso e antico dominato
dalla superstizione e dalla magia. In
questo coacervo di mali e afflizione si
distingue, gelosa dei propri privilegi,
la piccola borghesia locale costituita
da personaggi come il podest, lavvocato, due medici, il farmacista, il
brigadiere, microcosmo immeschinito da inerzia, odio e risentimento nei
confronti delle altre famiglie e sempre
pronto allarroganza e al sopruso in
danno dei cafoni.

Cominciamo con Carlo Levi. A partire dal romanzo Cristo si fermato


a Eboli (1945), al sud si riconosce finalmente una cultura che ha bisogno
di trovare un suo possibile sviluppo
storico e che quindi non deve essere
emarginata o colonizzata. Il mondo
raccontato da Levi quello arcaico e
senza tempo della Lucania contadina negli anni della guerra dEtiopia
(1935-36); in questo periodo si svolgono le vicende personali dellautore, che sconta la sua condanna di un
anno al confino. Il titolo rimanda ad
un detto popolare lucano, secondo cui
il cristianesimo (cristiano in dialetto significa uomo) e quindi anche la
civilt umana non hanno neppure
lambito lentroterra di quella regione. Lopera una profonda indagine
antropologica che si risolve, ad un
tempo, in una rigorosa protesta civile
e denuncia del problema dellarretratezza del sud.
Il mondo contadino lucano, remoto e
stregonesco, rappresentato con tensione realistica ma anche con commozione trasfigurante, spia di un
sentimento mitico del reale. La discesa agli inferi di una civilt depressa
viene compiuta da Levi sul filo di
una intensissima empatia (di chiara
matrice decadente) per quel mondo
magico e primitivo non ancora toccato dal progresso, da conservare e
salvaguardare, quasi isola fuori della
storia.

Analisi e Interpretazione
Tra i temi folclorico-etnologici emerge il ritratto del vecchio becchino e
banditore, che introduce nella dimensione di un tempo diverso e dimenticato, di una lontananza arcaica e remota, legata alla terra e alla magia. Il
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vecchio ormai sotto il peso degli anni


rimaneva spesso da solo pur in mezzo agli altri, raccogliendosi nei suoi
pensieri. Era un uomo consumato dal
lavoro nei campi, ma che conservava
unenergia interiore che si rifletteva
nei suoi occhi cerulei. La sua capacit di adattamento lo aveva portato a
svolgere diverse attivit e tutte con lo
stesso spirito. Era becchino e banditore comunale, due mestieri diversi ma
complementari che creavano un quadro a certi tratti anche inquietante:
banditore e becchino, lasciato il tamburo imbracciava la vanga e seppelliva un cadavere. Ma cera qualcosa
di ancora pi speciale: era come se
laver lavorato nella terra da solo tanto a lungo gli avesse conferito poteri
profondi e magici. Infatti si raccontava che potesse far scendere i lupi nel
paese o allontanarli: anche gli animali non potevano resistergli e dovevano seguirlo. Proprio queste leggende
creavano intorno alla sua persona
unaura allo stesso tempo di rispetto e
timore. Aveva, infine, sempre dimostrato una forza quasi sconosciuta agli
altri uomini: era in grado si svolgere
da solo il lavoro di molti uomini per
poi arrivare a fine giornata con pi
forze di quante non ne avesse allinizio, come se quel lavoro nei campi
anzich sfiancarlo lo rinvigorisse. Lo
scrittore insiste sul carattere arcaico
e diabolico delluomo, la cui figura
legata ad un senso del sacro, magico e
animista. La rappresentazione che ci
restituisce ha un valore fortemente allusivo e non scientifico. La dimensione soggettiva della prosa di Levi ha il
potere di evocare e far affiorare dalle
zone pi nascoste della realt e dellio
una memoria preconscia di imma-

gini mitiche, in consonanza con una


natura e unumanit immerse in un
mondo magico e primordiale, dove il
progresso ancora non arrivato.
Unaltra interessante raffigurazione
dei lavoratori del territorio lucano
presente nel capitolo 12 del romanzo dove, dopo una breve descrizione
del paesaggio di Gagliano, lautore si
sofferma su un particolare: dallalto
i lavoratori sembrano tante piccole
formiche che avanzano quasi a ritmo di marcia. Questa prosa pittorica, con un doppio effetto coloristico
ed allegorico, risulta particolarmente
efficace: laccostamento tra contadini e formiche, formulato in base alla
grandezza, in realt non fa altro che
assimilare il massacrante lavoro dei
campi a quello svolto dai piccoli animali. I contadini vengono quindi qui
dipinti come dotati di forze quasi sovraumane; le formiche sono notoriamente degli animali forti ed anche i
contadini sembrano muoversi con lo
stesso ritmo incessante, massacrante
ed eterno.
Figura di spessore, nellambito della
poesia neorealistica, Rocco Scotellaro che, animato da autentica e intensa sensibilit sociale e politica, si
fa voce della civilt contadina meridionale, di una gente che vive fuori
dalla storia, in uno stato di abbandono e schiavit atavica, ma ricca di un
prodigioso patrimonio di affetti e di
valori non contaminato dalle mistificazioni della civilt urbana. Il suo
romanzo autobiografico rimasto incompiuto, Luva puttanella, rappresenta unimportante novit che consiste, come chiar Carlo Levi, in un
atto di fiducia preventivo nel mondo
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contadino, nella sua capacit di sviluppo, nella sua esistenza reale. Il


titolo indica una qualit di uva dagli
acini pi piccoli del normale assunta
da Scotellaro a simbolo di una impossibile maturazione del mondo contadino. I contenuti di forte realismo
appaiono in distonia con il linguaggio
poetico dellautore, la cui sensibilit
decadente la porta a sentirsi intensamente attratto verso le matrici mitiche dellambiente culturale dorigine.

della croce.
Lopera dello scrittore di Tricarico
un documento di una condizione esistenziale e non una trasfigurazione di
una realt immobile e primitiva.
La produzione di Scotellaro tiene
conto dellinsorgenza del fenomeno
migratorio delle popolazioni meridionali verso le regioni pi industrializzate del nord e dunque la sua lultima autentica testimonianza di una
civilt contadina che si va sfaldando.

Analisi e Interpretazione
Nella parte terza, capitolo primo,
Scotellaro fornisce un ritratto interessante non di un contadino qualunque,
ma proprio del padre. La rappresentazione del padre non si d solo come
una trasfigurazione mitica, ma nella
realt del lavoro contadino. La vigna
rappresenta un luogo al contempo reale e mitico, in cui riemergono i ricordi del passato, primo fra tutti quello
del padre. Il motivo della vigna, secondo unantica concezione classica
e biblica, profondamente impresso
nella cultura contadina: naturale
quindi che la vita umana venga delineata poeticamente con la metafora del lavoro ( ci stava bene con la
vigna, lunghe giornate). Nelleconomia e nella simbologia contadina la
vigna la coltura pi ambita e ancestrale perch d prosperit e abbondanza ed legata al regno dei morti:
di qui la figura fantasmatica del padre morto che riappare. Lallegoria
della vigna ha una duplice valenza,
come lavoro e come configurazione
dellaldil, sede dei morti , espressa
nelliniziale immagine, di tipo evangelico, del corpo di Cristo addossato
al tronco senza braccia, senza le ali

Di grande interesse anche linchiesta


sociologica Contadini del sud (1978),
unopera insieme di storia e di poesia
che rivela la partecipazione diretta di
Scotellaro al mondo contadino, ma
anche la sua capacit di distaccarsene e offrirne unimmagine obiettiva e
approfondita attraverso approcci diversi: quello delleconomista e del politico agrario, del geografo economico
e sociale, del sociologo e dellantropologo, del politico tout court e dellattento osservatore, spesso anche diretto partecipante, delle vicende degli
anni 40 e 50 del Novecento.
Come risulta da alcune carte recanti un elenco di capitoli scritti poco
prima di morire, lautore intendeva
offrire un panorama della ricchezza
e dellarticolazione della societ contadina meridionale, ritratta attraverso episodi, personaggi, tradizioni che
permettevano di cogliere luoghi, storie e momenti significativi della realt
agraria.
Un progetto ambizioso e mai portato
a termine che copriva quattro regioni
del Mezzogiorno, Puglia, Campania,
Calabria e Basilicata, e prevedeva
lintervista e il racconto autobiografico come strumenti di ricerca. Ad
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esempio, per i contratti agrari lautore avrebbe parlato con alcuni contadini del beneventano, mentre per la
rivoluzione insubordinata si sarebbe rivolto a quelli del Cilento.
I saggi pubblicati riguardano le vite
di quattro contadini lucani - Michele
Mulieri, Andrea Di Grazia, Antonio
Laurenzano e Francesco Chironna- e
del bufalaro campano Cosimo Montefusco; ad essi seguono i tre racconti
sconosciuti della madre dellautore
Francesca Armento, e le pagine che
ella scrisse un mese dopo la morte del
figlio, ricordandone la breve vita.
Riportiamo un passo del racconto di
Cosimo Montefusco.

Chi tarrobbe ...


chi tarrobbe bene te v
E cane...
pure e cane stanne amare
Poggioreale..
Poggioreale sta a Campolungo
A coccagna ...
sta coccagna pure firnisce
A puvarella
(non ha cognome)
Tantu bene...
tantu bene pure firnisce
Change ...
chiange ca aia ragione
A ferrimena ...
a femmena fa cumme vole
Manila ...
manila n pitte ca ce sta
A lu frie ...
a lu frie se sente laddore
Traretore ...
si state sempe nu traretore
A mmiria...
a mmiria te fa parl
U sposo mio
A fera
Ra nu tiempo.
Queste sono tutte le bufale con il nome
e cognome. Il toro non ha nome, uno
solo; le giovenche neanche ce lhanno,
una giovenca prende il nome quando fa il primo figlio e il latte. Come
faccio a conoscerle una per una? Voi
come conoscete i cristiani? Cos sono
pure le bufale. I nomi delle bufale degli altri sono tanti, io non li conosco,
qualcuno lho sentito e lo sento qua
attorno, dagli altri bufalari:
Allerchi...
quannu te viesti fai allerch
N guollo a nui...
n guollo a nui campino tutti
Salierne ...
ca a Salierne pe te cur

- Nel cuore della bufala


E posso dire i nomi di tutte le bufale
e i cognomi, che sono a vutata dei
nomi:
nome
cognome o <a vutata>
A signora ...
a signora cuntente a tutti
U giureo.
u giureo ncasa li chiuve
Chi campa ...
chi campa vere sta massaria
Chistatanne.
chistatanne tarrive a fa
U generale
(non ha cognome)
U nturzo.
u nturzo t lassato n canna
Mai che f...
nun ce sta mai che fa
A casa mia...
a casa mia tutta uarnta
Abbreghe...
amarrivate mane e bbreghe
A malatia...
tiene sempre sta malatia
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Mala lenga ...


a mala lenga t rimasa
U padrone...
u padrone fa cumme vole
Fatti crere...
fatti crere ca s buone
Nzuppurtable ...
sti vicini s nzuppurtable
Si no sparte...
si no sparte guaragne cchi poco.
Tutti contro...
tutti contro e Dio n favore
Sagli n coppe...
sagli ncoppe taggia parl
Quanne auste ...
quanne auste facime li cuonti
Tutti lusi...
tutti Fusi so flniti
Ncoppe a paglia...
ncoppe a paglia sadda mur

quando siete passato dalla masseria.


Mai che fa nun ce stai mai che fa
vuol dire, per scherzo, che lavoriamo
sempre.
Chi
cumanne
nun
sude
ve
lho
gi
detto.
Abbreghe
non
sono
quelli che imbrogliano la gente?
Io ho messo solo il nome a Chistatanne perch cera una bufala che si chiamava cos e mori e ce lo misi a unaltra. Cos facciamo sempre quando
muore una, unaltra prende il nome.
Quando muore un vitello, conserviamo la pelle e la mettiamo addosso a
un altro e solo cos la mamma annusa
la pelle, sente il figlio e si fa mungere.
Manila per qualche ragazza,
ma quando succede! Qualcuna sempre succede chiacchierando che si fa
toccare il petto: sono le ragazze che
vengono a lavorare ai pomodori e al
tabacco, vengono col camion e se ne
vanno col camion. Prima di andarsene si lavano le mani e la faccia, si
cambiano i vestiti vicino a qualche
masseria. Queste cose c bisogno che
me le devono dire? Non mi mai capitato niente, ma queste cose si sanno.
Il toro, quando gli viene u vulio
piglia e zompe ncuollo, ma la bufala pu calare la coda, come la femmina: quando vuol fare sta zitta, se
non allucca e se ne va. Non so pi
niente. Uno da qua basso, a Battipaglia, a Campolungo, impara qualcosa a fare il soldato: esce, vede, un
diventimento il soldato. E se succede la guerra, pazienza. Se si chiamano, andiamo; dobbiamo morire
una volta. Ma che guerra pu succedere pi? Che vogliono fare pi?
Qui sentiamo soli i granughi quando
alluccano la sera e non finiscono mai.

I nomi certamente hanno un significato e non c bisogno di spiegarli:


sono i fatti e i ragionamenti che facciamo ogni giomo tra di noi. Pure i
cani tengono i nomi. Mettiamo, chiamo la bufala Poggioreale. Poggioreale dicono che un carcere che sta a
Napoli e allora Poggioreale sta pure
qua a Campolungo: non puoi parlare
con nessuno, solo chiamare gli animali e stai senza farniglia. Mia madre
ora fa i pomodori, tiene un tomolo e
mezzo a mezzadria da Matassini, il
fratello di 20 anni porta il trattore in
unaltra terra, quellaltro tira la pensione perch mutilato e va in cerca
di qualche mestiere, quello di tredici
anni fa la terza perch and a scuola a
nove anni, e io sto qua. Ci vediamo la
sera, tutti e quattro i figli dormiamo
nel letto matrimoniale e mia madre
nel lettino. La casa di due stanze e
la cucina fuori e lavete vista la casa
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non viene mai descritto dal giovane


come insostenibile, n la subalternit rispetto al padrone appare insopportabile: ma entrambi concorrono a
determinare una condizione infinitamente limitante e, quindi, opprimente. La realt contadina dellepoca
costituita per lo pi da braccianti salariati fissi e avventizi; i padroni sono
abili imprenditori divenuti audaci
e sicuri dai profitti resi dalle produzioni di pomodoro e tabacco e dagli
allevamenti zootecnici; i lavoratori
scendono ogni giorno nei campi dalle
colline di Eboli e di Capaccio stipati in camion e carretti, sottopagati a
fine giornata. Cosimo un ragazzo
che ancora non conosce il mondo ma
pienamente consapevole di volerlo
conoscere. Ed facilmente prevedibile che, seppure ami quel mestiere secolare tramandatogli dal padre, malgrado sia analfabeta egli resister ancora poco con le bufale, perch sente
che quel lavoro in liquidazione,
perch i pascoli sono ormai accerchiati dalle coltivazioni di pomodoro
e di tabacco, perch la bonifica della
piana del Sele sta ormai prosciugando
quei tonzi di acqua melmosa dove
le bufale vanno a sciacquarsi, perch
lo zappatore, il mestiere che vorrebbe fare, gli garantirebbe una paga
maggiore e pi cadenzata di quella di
bufalaro sottopagato (faccio il sottomassaro e mi pagano da garzone).
E se anche questultimo desiderio non
dovesse avverarsi, resterebbe ancora
per poco bufalaro perch pi in l
c Salerno, c Napoli, che lui non ha
mai visto, da dove, gli riferiscono, si
sentono riecheggiare le note della radio che suona le canzoni, dove al
cinema si va con poche lire per vedere

Se avessi i soldi, mi farei la casa, perch oggi o domani ci appiccichiamo


col padrone, va a trovare unaltra
casa, va a scasare! e vorrei un p di
terra per fare un orto. E pure a stare
col padrone, voglio andare a zappare, a fare i fossi, ma non pi appresso
agli animali.
Analisi e Interpretazione
Di Cosimo Montefusco, analfabeta (Nessuno dei fratelli andato a
scuola, io non so mettere la firma
mia), che ha 17 anni, orfano di padre ed guardiano di bufali, bufalaro, Scotellaro, dopo aver delinea-to
un puntuale quadro dellimprenditoria agricola nel Cilento, disegna il
seguente ritratto: Cosimo un pezzo
di ragazzo con gli stivali di gomma,
alto, bruno, con le carni cotte e sode,
e cos pare pittato perch non parla
e se parla e dice i versetti come se
non capisse il significato delle parole: una creatura che deve ancora
parlare..Attraverso lui conosciamo
il lavoro del bufalaro. Curiosi sono
i nomi che vengono dati alle bufale,
vere e proprie frasi cantilenanti, che
compongono nome e cognome: nun
ce sta mai che fa un esempio tra i
tanti che sono indicati. Il mestiere
faticoso, meglio fare lo zappatore:
un suo sogno (voglio andare a zappare, a fare i fossi, ma non pi appresso agli animali).
E singolare la capacit dellautore di
andare oltre la semplice descrizione
delle emozioni quotidiane del diciassettenne ebolitano, lasciando trasparire nel carattere sobrio e nella fierezza del giovane analfabeta la condizione di odio-amore per il proprio lavoro
e per il proprio padrone. Il lavoro
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scorrere sullo schermo una vita che


non fatta delle sue poche certezze
e delle sue tante privazioni. Cosimo,
che da sempre dorme in un letto con
gli altri tre fratelli ed giusto che sia
cos, che non ha mai mangiato la carne se non quando muore una bufala
o un maiale, vuole una casa e un po
di terra per fare un orto perch un
giorno potrebbe appiccicarsi con il
padrone. Ma anche il desiderio di
un ragazzo che munge e custodisce
le bufale nei campi dalle quattro del
mattino alla sera, mentre osserva che
altri vanno a spasso con le macchine,
altri si siedono davanti ai bar a bere
arangiata e caff, altri vanno a cinema tutte le sere. E vorrebbe cambiare la sonata, ma dopo, quando
sar adulto e potr votare come forse
un giorno gli indicheranno i bufalari
che parlano di partiti; perch chi comanda non suda.

della narrativa verista: il mondo subalterno dei contadini non una


massa amorfa e indifferenziata, ma
dimostra una coscienza della sofferenza e la volont di riscattarsi e
lottare per una condizione migliore
di vita e di lavoro. La realt dolente
delle masse popolari pietrificata nel
tempo descritta e rivissuta da Jovine
con il cuore antico del lucano deluso e
amareggiato. Egli fissa i termini della
cultura contadina e ne esalta i valori,
senza collocarla in un mito che travalichi il tempo e trasfiguri la realt, ma
prospettando un varco per un possibile riscatto.
Trama
La vicenda si svolge tra Calena (Isernia) e il paesino di Morutri, negli anni
in cui si sta affermando il fascismo.
Le terre del Sacramento sono un vasto feudo terriero originariamente
appartenuto alla Chiesa, divenuto
propriet di una famiglia notabile,
ultimo della quale lavvocato Cannavale. Ritenendole maledette in quanto sottratte alla Chiesa, i contadini
si rifiutano di coltivare quelle terre
che vanno in rovina. Ma la situazione cambia il giorno in cui la moglie
del proprietario, Laura, riesce a reperire i fondi per valorizzare il feudo e
convincere i contadini a lavorarlo. La
mediazione di Luca Marano, uno studente in legge figlio di braccianti che
gode della piena fiducia dei contadini della zona, e la celebrazione della
messa sulle terre del Sacramento da
parte di Don Giacomo, un vecchio
prete modernista e democratico, danno una svolta alla vicenda: i contadini
iniziano a dissodare il terreno, fiduciosi nella promessa fatta da Laura

Ci siamo poi intrattenuti con Francesco Jovine, personalit di forte rilievo nellarea della letteratura neorealistica. Lo scrittore molisano, allacciandosi alla tradizione realistica
verghiana, polarizza i suoi interessi
sui temi della questione meridionale,
aprendosi anche ad una visione problematica e ad una interpretazione
storico-politica della realt del sud
dItalia. Nel suo capolavoro Le terre
del Sacramento (1950), il mondo rurale come elemento folclorico scompare per lasciare posto ad un tono di
rivendicazione etico-sociale. Nucleo
tematico originario del romanzo
larretratezza della provincia molisana che Jovine rappresenta con realismo fermo e critico.
Qui non c pi traccia del fatalismo
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che quelle terre diventeranno gradualmente di loro propriet. Ma di l


a poco i contadini si vedono sfrattati;
quando reagiscono occupando le terre del Sacramento, sopraggiungono a
cacciarli via i carabinieri, spalleggiati dalle squadre fasciste che operano
nella zona in appoggio ai proprietari
terrieri. Nello scontro a fuoco muore
Luca Marano, insieme a due compagni.

mento dal bisogno che rende gli animi


imbelli, della speranza vergata con l
umore ematico (e perci indelebile),
e soprattutto dellaspirazione alla libert cui Luca si affeziona, proprio
perch ritenuta impossibile. Il travaglio di Luca lo stesso travaglio
di Iovine. La chiusa del romanzo
terribile ed evocativa: Per tutta la
notte le donne nel vegliare il cadavere
di Luca promettono tutto il dolore ai
morti. E aggiungono con voce commossa: Per noi fame e dannazione ma per i figli paradiso e pane.
Ancor una volta la presa di coscienza
avviene negli animi pi sensibili , per
l appunto in quello delle donne, che
tanto peso hanno avuto nella societ
molisana.

Analisi e Interpretazione
Il mondo dei cafoni raffigurato
come un microcosmo chiuso basato
su leggi fisse, sulla paura e sulla superstizione.
Tra i contadini uno dei protagonisti
principali Seppe Marano che, un
giorno, mentre sta arando, supera i
confini della terra del Sacramento e
riceve le critiche di Immacolata Marano e di Arduino.
Centrale nel romanzo il tema della
terra. Essa non viene vista come un
semplice elemento descrittivo o come
un mero paesaggio suggestivo, ma
come una realt dolente di situazioni
ed elemento di conflittualit di classe.
In Jovine, i personaggi minori di Morutri non hanno una funzione coreografica, come un commento patetico
o lirico alla vicenda dei personaggi
principali, ma sono parte integrante e
necessaria alla struttura del racconto.
Un altro motivo presente nellopera
quello della superstizione, la cui strumentalizzazione a danno dei contadini affidata alla voce di Immacolata,
che rievoca leggende di maledizione
che avvolgono le terre, mantenute
vive nella memoria dei semplici.
Le Terre restano il romanzo della
dignit delluomo, del suo affranca-

Dopo aver esplorato alcune tra le pi


significative invenzioni letterarie sul
versante della narrativa, ci spostiamo
nellarea della produzione in versi.
Il primo autore a cui ci rivolgiamo
Giovanni Pascoli, cantore della realt
rurale. La sua poesia proviene da una
sensibilit poetica di segno decadente,
anche se il suo decadentismo sembra
essere pi un esito di istintivit che di
adesione consapevole al nuovo orientamento artistico di fine Ottocento e
inizio Novecento.
Un dato significativo dellesperienza
pascoliana da individuare nella cultura contadina, nella quale egli rest
perennemente radicato e per la quale
si sentiva imparentato con il prediletto Virgilio.
Allanima contadina rinvia la linea
ispirativa delle umili Tamerici che
comprende le liriche in cui il paesaggio agreste non ha nulla di na39

API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

turalistico e tutto percepito in una


dimensione impressionistica e simbolizzante. Gli aspetti del reale e le cose
sono isolati e posti in primo piano e
caricati di significati simbolici.
In questa linea ispirativa si iscrive
primariamente la raccolta poetica
Myricae del 1891, in cui compaiono le esperienze pi innovative
del linguaggio pascoliano. Legata al
mondo agreste la lirica Arano, che si
presenta solo apparentemente come
un bozzetto di vita campestre: in realt al di sotto del quadro realistico si
avverte un senso vago di malinconia e
il dramma della lotta delluomo contro la natura, faticosa, ma condotta
sempre con stoica tenacia. Affine alla
precedente poesia per tema e impostazione il componimento Lavandare, in cui gli aspetti della vita contadina, il campo arato, laratro abbandonato in mezzo alla campagna, il canto
delle lavandaie che si sente nellaria
sono il corrispettivo simbolico della
solitudine malinconica dellautunno e
delluomo.

ta essenzialmente come un bozzetto


campestre: un campo, uomini che
arano, un passero ed un pettirosso
che spiano, pronti a rubare qualche
seme. Ma, come daltronde per tutte
le altre opere di Pascoli, si tratta di
un bozzetto-copertina per messaggi e
simboli ulteriori e pi profondi: infatti, laratura ed i suoi protagonisti non
sono inquadrabili in un contesto realisticamente individuabile, bens nello
spazio-tempo ideale di un rito e rappresentano le immagini di un sistema
di valori esemplare: quello del mondo
contadino, nido protettivo contro
le frenesie della civilt industriale.
Infine, Arano considerata la rappresentazione di uno spazio sacro,
di un piccolo tempio della natura e
della storia umana , al quale implicitamente viene opposta la minaccia
di uno spazio esterno profano e
negativo. Laratura, il rosso dei pampini, la nebbia mattutina, il tintinno
del pettirosso sono alcuni dei simboli
esemplificativi di questa evidente opposizione tra sacro e profano.

Analisi e Interpretazione
Arano, composta nel 1885, tra le
pi antiche poesie di Myricae, gi
presente nella prima edizione della raccolta (1891). In questo componimento troviamo una delle linee
ispirative originarie della raccolta:
lambiente e la vita dei campi raccontati attraverso quadri e scorci naturalistici, frammenti e impressioni. A
questa tematica si affiancheranno e
si intrecceranno poi i temi della morte, del nido, della regressione e pi
complesse chiavi di interpretazione simbolistica. La lirica si presen-

Analisi e Interpretazione
In Lavandare i temi principali sono
quelli dellabbandono e della solitudine, rappresentatidallimmagine
dellaratro dimenticato in mezzo al
campo deserto, che ritorna allinizio
e alla fine della poesia, conferendole
una struttura circolare ed assurgendo
a significato ulteriore della nostalgia
e del senso di smarrimento. Gi il
titolo evoca un mondo quotidiano e
semplice, quale quello delle donne
che lavano i panni al fiume. Per ci
che concerne lambito linguistico, il
lessico e la sintassi sono elementari e
quotidiani, a differenza della struttu40

API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

ra fonica, che molto elaborata e ben


studiata.
La prima strofa statica e presenta
una prevalenza di sensazioni visive:
infatti, Pascoli descrive un aratro fermo e abbandonatoin un campo, arato soltanto in parte ed avvolto nella
nebbia. Nella seconda strofa, invece,
le parole onomatopeiche (sciabordare, tonfi) contribuiscono alla prevalenza di sensazioni uditive, le rime
al mezzo, inoltre, ne velocizzano il
ritmo: sono descritti i suoni dei panni
lavati e i tristi canti delle lavandaie.
Nella strofa finale, infine, il ritmo risulta molto rallentato, per rendere al
meglio lidea della cantilena intonata
dalle donne, e viene inoltre istituito
un parallelismo tra la donna protagonista del canto, abbandonata dal
marito, e laratro lasciato dai contadini nel bel mezzo del campo. Gli ultimi versi sono tratti da canti popolari
marchigiani.
Anche Lavandare che, a prima vista,
potrebbe dare lidea di un bozzetto
naturalistico, presenta un paesaggio
agreste tuttaltro che raffigurazione realistica. Il fumare mattutino
della nebbia, il cadere delle foglie, lo
sciabordare delle lavandaie, gli oggetti semplici legati al mondo agricolo
producono una sorta di rivelazione,
perch non sono connotati oggettivamente, ma diventano un simbolo,
colto per la prima volta da un poeta fanciullino che riesce a penetrare
a fondo nella realt e suggerisce al
lettore lessenza vera di tutto ci che
lo circonda. Cos, la rappresentazione
apparentemente oggettiva della natura autunnale e dei gesti quotidiani
delle donne diventa una proiezione
simbolica dellinquietudine e della

profonda malinconia dellanimo del


poeta.
Il sentimento georgico che rappresenta il filo conduttore di Myricae viene
ripreso nei Poemetti (1897), in cui il
nucleo narrativo centrale costituito
dalla descrizione della vita quotidiana di una famiglia di contadini.
Analisi e Interpretazione
Nel componimento La Siepe il discorso si carica di unenfasi da epopea
rustica con le ripetute apostrofi alla
siepe. Esaltata come simbolo della
piccola propriet contadina ed elevata ad ideale di vita, essa racchiude
un mondo raccolto, ordinato, in cui
tutti gli esseri e le cose hanno un proprio posto e un proprio ruolo, sotto
locchio vigile del padre-padrone. Un
altro tema significativo lassimilazione della fecondit della terra a
quella sessuale, un antichissimo mito
di tutte le civilt contadini che, in Pascoli, si associa allidea di possesso e
di violenza. Da notare ancora come la
moglie appaia ora come donna, ora
come massaia: ai due termini sono
associati ruoli diversi che ne fanno
una figura subordinata ma importante. Dal punto di vista formale si rileva
lalternanza di espressioni colloquiali
Oh! tu sei buona!, che si sente..- , tipiche di un semplice contadino e di espressioni preziose come
anfore preziose e i ciliegi popolosi e una citazione dotta dormi ld. Attraverso lepiteto, che traduce
unespressione dellantico poeta greco
Esiodo, il poeta vuole suggerire lidea
che la semplicit del contadino una
semplicit antica, quindi ben espressa in un linguaggio arcaico.
Interessante infine il poemetto Italy
41

API INGEGNOSE Anno V Numero 4, Gennaio 2015

sul dramma dellemigrazione degli


italiani oltre Atlantico.

vate, dellesteta e del profeta dei nuovi valori, del cultore della bellezza e
delluomo darmi si fondono.
Pungolato da una curiosit artistica
inesauribile (o rinnovarsi o morire), tent forme e modi di arte sempre diversi, accogliendo di volta in
volta suggestioni che gli provenivano
da svariate direzioni.
Della esperienza letteraria dannunziana abbiamo privilegiato due momenti: quello della poesia delle Laudi (1903) in particolare lAlcyone, e
quello del teatro, con La figlia di Iorio
(1904).
In Alcyone il poeta realizza una nuova
forma di esperienza vitale, attraverso
la quale si identifica con il tutto della natura, si trasfigura e si potenzia
allinfinito, attingendo ad una condizione divina.
Attinente al tema del nostro percorso la lirica I pastori incentrata sul
motivo della migrazione dei pastori
abruzzesi, a settembre, dai pascoli
montani al mare, ovvero il rito, primitivo e ancora attuale, della transumanza.

Analisi e Interpretazione
Per cantare la vita, i sentimenti e i sogni degli italiani costretti ad abbandonare dolorosamente il loro nido
alla ricerca di un lavoro allestero,
Pascoli sceglie una situazione molto
ben definita e un punto di vista infantile: il dramma dellemigrazione
si riassume nel personaggio di Molly,
una bambina figlia di emigrati, nata
e cresciuta negli Stati Uniti. Ritornata dallAmerica per un breve soggiorno nella campagna toscana presso i
nonni, non riconosce pi lItalia come
paese suo. Nel rapporto tra nonna e
nipote rispecchiato il confronto tra
larcaica e immobile civilt contadina
con il suo patrimonio di valori (la vita
semplice, il lavoro dei campi, la natura) e il mondo della modernit industriale rappresentato dallAmerica,
una terra straniera distante e diversa, affarista e metropolitana, vissuta
come un incubo dai nostri vu cumpr. Il testo un notevole esempio
dello sperimentalismo linguistico pascoliano. In esso, infatti, ritroviamo la
compresenza di diversi registri linguistici: quello dialettale (toscano-lucchese), quello inglese di Molly, quello
italo-americano degli emigranti. Loriginale impasto linguistico risulta di
grande efficacia in quanto conferisce
immediatezza realistica alla scena
rappresentata.

Analisi e Interpretazione
settembre, il tempo di migrare da
un luogo ad un altro, il tempo in
cui i pastori lasciano gli alti pascoli
e scendono verso il mare verde come
i pascoli montani. Larrivo dellautunno riporta alla memoria del poeta
immagini della sua terra nata, lAbruzzo. Ai suoi occhi il paese natale,
rievocato con nostalgia, rappresenta un mondo semplice, legato ad un
sentimento di selvaggia e nostalgica
pienezza, depositario di antichi valori che si esprimono in gesti rituali
sempre identici, ripetuti nei secoli.

Non poteva mancare nel nostro itinerario letterario una tappa con il maestro del decadentismo europeo: Gabriele DAnnunzio.
In lui la figura del dandy e del poeta42

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Il poeta accompagna idealmente il


cammino dei pastori: li immagina
mentre si fermano a bere alle sorgenti dei monti, mentre scendono per il
sentiero erboso, immagina la voce sonante del primo e le greggi che invadono la spiaggia. E come se , in un
certo senso, avvolgesse la figura dei
pastori ed il mondo contadino in un
alone sublime, mitico. Infine, esprime
il suo rammarico per non essere con
loro e, quindi, il suo desiderio di pace
e serenit, di unesistenza in completa
sintonia con la natura possibile soltanto nella dimensione del sogno e
della lontananza.

un intento documentario, lascia trasparire il gusto decadente per il barbarico e il primitivo, il fascino esercitato dal popolo contadino in cui gli
istinti e le passioni sono liberi di prorompere, non frenati dai condizionamenti della societ.
Lautore ci restituisce, cos, unimmagine favolosa e selvaggia del mondo
contadino, un mondo di vita primordiale verso cui egli sente unirresistibile attrazione.
il richiamo della sua terra e della
sua gente, la gente antica e rude di un
Abruzzo mitico, al di fuori del tempo
e dello spazio.

Il teatro di DAnnunzio si colloca sul


versante opposto a quello borghese e naturalistico; esso infatti non
costruito come specchio della vita
ordinaria, ma ambisce a proporre un
modello di umanit teso verso ideali
eroici e sovrumane passioni.
Di particolare interesse per il nostro percorso la tragedia pastorale
La figlia di Iorio ambientata in un
Abruzzo arcaico e selvaggio, immerso
nella cultura contadina e pastorale,
pervaso di superstizione e violenza.
Colpiscono nel dramma due aspetti
in particolare: la registrazione dettagliata di usi e costumi, comportamenti, credenze, rituali magico-religiosi,
oggetti tipici della primitiva societ
agricolo-pastorale, formule, scongiuri, proverbi, canti, preghiere, e la rappresentazione della figura di Lazaro,
padre-padrone che ha potest assoluta su tutto e tutti: il podere, i pastori, i contadini, i servi, gli animali, gli
strumenti di lavoro, cos come i figli e
le donne.
Tutto questo, lungi dal rispondere ad

Trama
La figlia di Iorio unopera
drammatica in versi diGabriele
DAnnunzio, una tragedia rustica dargomento abruzzese, come
la defin lo stesso DAnnunzio, in
tre atti scritta nellestate del 1903.
La vicenda ambientata in un Abruzzo rurale, patriarcale e superstizioso,
nel giorno di San Giovanni. La famiglia di Lazaro di Roio sta preparando le nozze del figlio Aligi, pastore, con la giovane, Vienda di Giave.
Secondo lantico rituale le tre sorelle
di Aligi, Splendore, Favetta e Ornella,
lavorano agli arredi e alle vesti per il
matrimonio, mentre la madre benedice gli sposi, riceve e accoglie i parenti che giungono con i doni nuziali.
Questa atmosfera di serenit agreste
turbata dallirrompere di Mila, figlia del mago Iorio, che inseguita e
minacciata da uno stuolo di mietitori
ubriachi. La giovane donna una meretrice, sospettata di stregoneria, ma
Aligi prende le sue difese e pone sulla
soglia una croce di cera di fronte alla
43

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quale i mietitori indietreggiano. Il rito


nuziale ormai profanato e interrotto.
Mila e Aligi vivono una casta ma intensa vicenda damore, lontani da
tutti in una caverna sui monti. La
situazione precipita rapidamente
quando il padre di Aligi, Lazaro, cerca di sedurre Mila. Aligi interviene a
difendere la donna e nasce cos una
colluttazione tra padre e figlio che termina con la morte del padre. Il parricida viene condannato dalla comunit ad essere chiuso in un sacco con
un mastino e buttato nel fiume, ma
Mila per salvarlo si attribuisce ogni
responsabilit, dichiarando di averlo
ammaliato con le sue arti magiche e
spinto al delitto. Creduta dalla folla
e finanche da Aligi (smemorato sotto
linflusso di narcotici), la donna viene condannata al rogo che affronta
come sacrificio e purificazione.

rienze della vita quotidiana. Un lessico cos difficile, enfatico e retorico fa


s che lopera appaia al lettore di oggi
fuori dal tempo: la lettura faticosa e sicuramente non immediata.
DAnnunzio, in controtendenza rispetto alla maggior parte degli scrittori dellepoca che utilizzavano un
linguaggio pi semplice e naturale,
rivolto invece al passato, alla continua
ricerca della parola o dellespressione
di forma arcaica per poter impreziosire e conferire nobilt al suo linguaggio.
Il suo lessico aulico si basa su unaccurata indagine per sostituire ai termini
comuni i sinonimi pi ricercati,pi
alti (dimandare anzich domandare, bevere anzich bere).
Allelaboratissima trama linguisticolessicale corrisponde unaltrettanto
ricercata struttura metrica e ritmica. Vi alternanza tra i ritmi degli
endecasillabi e i ritmi dei novenari
che vengono utilizzati in base alla
tematica; i primi sono impiegati per
le scene legate al mondo pastorale, religioso e ritualizzato, i secondi per il mondo agricolo, brutale e
violento. Vi inoltre abbondanza di
figure retoriche. Il verso continuo,
intero, senza spezzettamenti per ricordare landamento ininterrotto del
canto popolare. Vengono utilizzate formule del linguaggio popolare
come scongiuri, proverbi e preghiere.
Anche nella tematica DAnnunzio rifiuta il teatro borghese e ambisce ad
una forma pi elevata di rappresentazione, il teatro di poesia, teso a
sublimare e trasfigurare la realt e
incentrato su personaggi deccezione
caratterizzati da passioni e sentimenti
fuori dal comune.

Analisi e Interpretazione
Limmagine della fanciulla che, corrotta, inesorabilmente si perde acquistando cos un fascino tragico e
maledetto ispirata ad un quadro del
pittore Michetti e presenta caratteristiche care alverismo: Mila rappresenta infatti la femminilit rovinosa
che scatena lossessione carnale,
tema ricorrente in DAnnunzio.
Nello stesso tempo Mila incarna leroina che per amore consapevolmente sceglie il sacrificio.
Dal punto di vista linguistico DAnnunzio propone uno stile lontano dal
linguaggio comune, una lingua del
tutto artificiale e un registro alto. Insomma un linguaggio puro. Ci perch il lettore, o lo spettatore, deve
sentirsi partecipe di un evento di alto
valore estetico, superiore alle espe44

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eroi nuovi, abbassati, vinti, sognanti


e dannati (V. Coletti): Pae-saggio e
Il figlio della vedova.

Il nostro viaggio termina con uno degli scrittori pi rappresentativi della


linea poetica antinovecentista degli
anni Trenta: Cesare Pavese.
Il suo primo libro, Lavorare stanca
(1936), fornisce un esempio di poesia
narrativa o poesia-racconto oggettivo del tutto controcorrente in quegli
anni nei quali stava affermandosi la
poetica dellErmetismo. Lo stesso
Pavese dichiar la radice polemica
del suo personale poetare: In tempi
che la prosa italiana era un colloquio
estenuato con se stessa e la poesia un
sofferto silenzio, io discorrevo in prosa e in versi con villani, operai, sabbiatori, prostitute, carcerati, operaie,
ragazzi. I temi della raccolta riguardano la campagna e la sua opposizione alla citt, il lavoro, lozio, lamore,
la sessualit, la fecondit della terra
e della donna. Ci siamo soffermati
in particolare sui testi in cui prende
corpo il tema della campagna come
luogo dorigine e di salvezza e che
rappresentano realisticamente lesistenza quotidiana, piena di fatica e
di miseria, dei contadini. Si tratta di
personaggi allapparenza privi di una
qualunque dimensione poetica, figure che non hanno mai registrato una
presenza di rilievo nella poesia del
Novecento; per raccontare le loro piccole storie, le loro comuni ed elementari esperienze, lautore adotta un
parlato quotidiano, la metrica libera
e il verso prolungato, fino a sfiorare
la struttura prosastica.
Abbiamo preso in considerazione e
analizzato due poesie che rispecchiano linteresse di Pavese per la realt
immediata, quotidiana, rugosa e rivelano la sua predilezione per i personaggi poveri, sfruttati ed emarginati

La prima lirica narra della dura condizione del contadino, che non solo
impegnato in un lavoro faticoso ed
estenuante, ma anche costretto a vigilare sul proprio podere perch i ladri con la scusa di andare a tartufi
entran dentro alla vigna e saccheggiano le uve. Il poveruomo, dopo aver
trovato due graspi buttati e avendo
perci preso consapevolezza del furto, decide di vegliare sui propri campi
di modo che, se i ladri avessero saccheggiato ancora una volta la vigna,
avrebbe impugnato il fucile e sarebbe
ricorso, se necessario, anche a soluzioni estreme, poich i furfanti sono
gente da fare un servizio da bestie che
non vanno a contarla. Tuttavia il
contadino si rende conto che se avesse
avuto la vigna lass sulle coste allora avrebbe fatto la guardia da casa,
nel letto col fucile puntato. Da quella sua postazione, invece, neppure
larma gli ormai pi utile. Larticolazione tematica, nella poesia di Pavese, pu essere ridotta a due grandi
nuclei che, peraltro, sono compresenti
in quasi tutte le sue poesie: da un lato
lanalisi antropologica, attraverso la
quale deve essere interpretato ogni
gesto umano, specialmente quello pi
vicino ad un sistema di vita primitivo,
cio quello agreste; dallaltro, lindagine singolare sul paesaggio. Se nella
poesia italiana dellepoca il paesaggio
sublimato, divenendo allegoria di
condizioni esistenziali (come accade
in Montale), in Lavorare stanca innanzitutto un luogo geografico e come
tale concreto e reale: ha nomi ricono45

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scibili, contorni familiari (le colline,


le vigne). Pavese infatti reinterpreta
il paesaggio umano e naturale caricandolo di significati antropologici
intensi e a volte amari, esponendolo,
cio, ad una rilettura simbolica che
lascia intuire uninterpretazione mitica e favolosa del reale.

donna-sesso, donna-madre, donna-se


stesso e donna genericamente intesa,
analizzando per prima la figura della donna-natura, privilegiata dallo
stesso Pavese. Secondo Giacone, un
noto critico, la seconda categoria,
quella di donna-sesso, fa riferimento
alle difficolt dellautore nel rapporto
con le donne stesse e alla conseguente
misoginia che, del resto, si ripercuote
anche nelle altre opere. Anche la terza, la donna-madre descritta negativamente; infatti le caratteristiche
tipiche materne vengono definite in
senso spregiativo, ad esempio inIl figlio della vedova(La donnetta... dal
gran ventre maturo...). Invece, per
la categoria donna-se stesso, i personaggi femminili fanno riferimento al
Pavese autore, al suo estro e al suo
impeto. Infine, per lultima figura di
donna, quella genericamente intesa,
Giacone sottolinea come Pavese colga
sempre gli aspetti deteriori della femminilit: dalla civetteria allostentazione, dal senso di superiorit allinvidia, ad esempio inPaesi Tuoi(una
voce di testa, da matto o da donna.
Ma coshanno stasera ... Sono
peggio delle mosche, stasera. Donne, .... Donne)

La seconda lirica narra di una donnetta seduta in attesa del giorno. La


partoriente assiste, con lo sguardo
e affranta dal gran ventre maturo,
al lavoro dei villani, i quali, ad un sol
cenno di lei, sarebbero addirittura disposti ad abbandonare il loro lavoro
quotidiano. Improvvisamente una
voce che non giunge ai villani solleva la gola della donna la quale, portandosi le mani al grembo, vacillando
entra in casa. Qui giungono le donne
che si dicono disposte ad aiutarla. La
poesia, infatti, si chiude con limmagine della fanciulla ormai pallida in viso
che impaziente si tende in ascolto.
Uno tra i molteplici aspetti che ha
fortemente animato la critica letteraria di Pavese la misoginia. Una
delle analisi pi profonde quella del
Gualtieri, per il quale, lintero corpus
pavesiano testimonia lincompatibilit fondamentale tra luomo e la
donna dovuta essenzialmente ad un
fattore biologico, oppure, lungimirante, a tal proposito, linterpretazione che ne d Dominique Fernndezche definisce la donna di Pavese come un personaggio che rompe
il rapporto privilegiato e magico
che luomo intrattiene con la natura
(Tornerebbero intorno alla donna i
villani). Diverse sono le tipologie di
donne che il poeta descrive allinterno
della propria raccolta: donna-natura,

Il saggio a cura di: Carmen Cardillo, Roberta Ciampo, Valeria Conte, Enza Curcio,
Rossella DArgenio, Martina Ficociello, Daniela Furno, Romolo Giangregorio, Antonella
Guerrera, Martina Iele, Ilaria Izzo, Roberta
Izzo, Cristina Liberti, Francesca Lucia, Daniela Massarelli, Alessia Palmiero, Federica
Parrella, Mattia Pizzella, Maria Rina Rainone, Marika Salomone, Luciano Vetrone,
coordinati dalla prof.ssa Nunzia Campanelli.

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FONTI

DIODORO COCCA

La canzone
de li Crusci
Nel febbraio dellanno scorso, un tragico incidente metteva fine alla vita di Diodoro
Cocca, eccellente professore di filosofia e storia presso il liceo scientifico Rummo di
Benevento. Per ricordare il grande collega - e, per quanto ci riguarda, il carissimo amico - dolorosamente scomparso, pubblichiamo il testo di un canto, da lui raccolto a San
Marco dei Cavoti, e gentilmente girato, nel 2001, a chi firma questa nota per contribuire come tenne a sottolineare alla ricostruzione della storia sociale e politica del
Sannio beneventano con tutte le fonti possibili. Le prime strofe della lunga canzone,
da lui stesso eseguite con la chiarezza e la forza della sua voce baritonale, vennero
riportate nel cd de iMusicalia Tinchitera, del 2002. Ci sembra giusto e opportuno
pubblicare linedito testo completo, integrandolo con la traduzione in italiano e con le
note di commento, entrambe opera dello studioso scomparso. Un esempio mirabile di
come sia possibile utilizzare i documenti pi disparati per rileggere quelle storie, apparentemente minime, ma che, viceversa, descrivono pi di cento saggi, la vita reale di
uomini e donne di cui, molto spesso, la grande storia non si cura.
(Am. Ci.)

Ha autu une cinquanta e n fumata


5) Zi Angilu s lagnava verzu la sera
Luperaiu nun ha fattu l suo dovere
E lomu chera tantu sfatijatu
Era chiamatu Ntoniu Mastamatu
6) Zi Angilu parla chianu e ustinatu
Ha presune cinquanta e ce lha ddat
Ma loperaiha dittu: Mo m stizzu
Tu damm quanta lauti e statt cittu
7) E Prsempiu diceva
E bboni cunti s n ieva
Ch sfatijatu!
Sultantu u faucionu hai martellatu!
8) Michelu d Mnnozza dinta mtenn

1) Chi ch si vo chiagne i morti soi


se nadda i addi Crusci a pass uai
Ca de fatija tu quant ne voi
De mangia e bbeve ns ne parla mai
2) Quannu vannu p lla via
Dicenu semp: carastia
o pa amentu
T sanna ddice: nunnhai fattu nent
3) Sentiti quannu fu una giornata
Che si trovarono un falciatore fino
E lui chera un clbro fumatoro
Li biancheggi il foraggio dai lumini
4) E chi lomu desgraziatu?
Era Ntoniu Mastamatu
P n iurnata
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p nnanzi ieva Ntoniu Ciaramella


e lantineri che tantu mteva
Michelu d Mnnozza ci faceva
9) e Michelu s bbutatu
lantineri shannu abbaccatu!
scorreva sudata
quantu li parze longa la iurnata
10) Ciccu Pilirussu a sgogn statu
Zi Angilu Spatarellu lha rruinatu
Zi angilu che tantu laurava
Li ovi ncolla Cciccu li bbijava
11) Ciccu disse: Va tt fa fotte
le dtere de li pedi me lhai rotte
pe rraggiunn
tre gghiurni nun s pott arretirn
12) O Tammurraru nu fattu ccapitatu
si nun crediti mattu me chiamati
le prete dinta spogna lui accunciava
Geseppu da ncoppo carru nunnu
uardava
13) e cu na preta chha mnatu
una mani lha stumpatu
pe rraggiunn
ca mani stompa ci bbuta restn!
14) Nu iurn ier a la feria a Ciarcellu
e s trueru nu bellu uarzuncellu
e lui chera tantu ammidiatu
ci resistiti nannu e ha fatijatu
15) Pasqualucciu era chiamatu
puuerellu disgrazziatu
doppu nannata
senza capigli ncapu era restatu
16) Cola di zoppi add Vicenz statu
e innanzi a ttanta ggent lha sbruignatu
ce lha ffatta cap la veritn
ca loperai nunnanna maltrattn!
17) E Pellerinu d Fuscu ncamminatu
Na sera adda Signorina s truuatu
E la canzona che tantu le piaceva
Ca penna ncoppa carta la scriveva
18) E Cola di Zoppi sbergugnatu

cu lu fraulu lha cantata


cumaccurdava
e Caccavllu larmonicu sunava
19) E ch canzona addirizzata
u figlie Braciola lha studiata
senza cervella
lindicator Ccola dAnntella
Testo tradotto
1) Chi che se li vuole piangere (davvero)
i propri morti
se ne deve andare dai Crusci a passare
guai
ch di fatica ce n quanta ne vuoi
ma di mangiare e bere non si parla
mai
2) Quando vanno per la via
dicono sempre carestia
Il pagamento?
Ti sanno dire solo non hai fatto niente!
3) Sentite quando fu una giornata
che si trovarono un falciatore fine
(ironico)
E lui che era un celebre fumatore
gli rese bianco il foraggio per i troppi
fiammiferi
4) E chi luomo disgraziato?
Era Antonio di MastAmato.
Per una giornata (di lavoro)
Ha avuto una lira e cinquanta, pi
una fumata.
5) Zio Angelo (il massaro) si lagnava
verso sera
loperaio non aveva fatto il suo dovere
e luomo che era tanto sfaticato
era chiamato Antonio di MastAmato
6) Zio Angelo parla piano e risentito
ha preso una lira e cinquanta soldi e
glieli ha dati
Ma loperaio ha risposto Mo mar50

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rabbio!
Tu dammi quanto agli altri e statti zitto
7) E (zio Angelo) diceva per esempio
E proseguiva ad ogni buon conto
che sfaticato!
Hai soltanto martellato il falcione!
8) Michele di Mennozza durante la
mietitura
- davanti andava Antonio Ciaramellae lantiniere che mieteva tanto
Michele di mennozza non ce la faceva
9) e Michele s girato (verso gli altri
mietitori)
lantiniere se lo sono comprato!
scorreva il sudore
quando gli sembr lunga la giornata!
10) Cicco Pelorosso stato alla trebbiatura
zio Angelo Spatarello lha rovinato
zio Angelo che tanto lavorava
spingeva i buoi addosso a Cicco.
11) Cicco disse vai a farti fottere
le dita dei piedi me le hai rotte!
per dirla tutta
per tre giorni non pot tornarsene a
casa
12) al Tammurraro un fatto capitato
se non le credete chiamatemi pure
matto
lui sistemava le pietre nella spogna
Giuseppe da sopra il carro non lo
guardava
13) E con una pietra che ha lanciato
gli ha cioncato una mano
per dirla tutta
dovuto restare con la mano storpia
14) Un giorno andarono alla fiera di
Circello
e si trovarono un bel garzoncello
e lui che era tanto volenteroso
ci ha resistito un anno e ha lavorato
15) Pasqualuccio era chiamato

poverello disgraziato
Dopo unannata
senza capelli in testa era rimasto (per
il troppo lavoro)
16) Cola degli Zoppi stato da Vincenzo (un altro dei Crusci)
e davanti a tanta gente li ha svergognati
gliel ha fatta capire la verit
che gli operai non li debbono maltrattare!
17) Pellegrino Fusco per caso una
sera si trovato dalla signorina
e la canzone che tanto le piaceva
con la penna sulla carta la scriveva
18) E Cola degli Zoppi spudorato
accompagnandosi con il flauto lha
cantata
come accordava bene!
e Caccavllu suonava lorganetto
19) Che canzone ben congegnata
il figlio di Braciola lha studiata
senza cervello
lindicatore Cola il figlio di Annetella.
Note al testo
Strofa 7: il verso 4 si riferisce allattrezzo di lavoro del falciatore, che era
il falcione (altrove detto falce fienaia);
esso andava martellato ogni mattina,
prima di dare inizio al lavoro, per affilarne la lama. Per questo, si usava
una piccola incudine e un apposito
martelletto, che facevano parte della
dotazione di ciascun falciatore. Al falciatore era, naturalmente, concesso il
tempo per martellare il proprio strumento di lavoro, cos come ad ogni
lavoratore, per una sorta di gentlemens agreement tra fumatori, era
concesso il tempo per confezionarsi
51

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le sigarette che venivano preparate


a mano arrotolando il tabacco dentro sfoglie di granturco o dentro una
foglia di tabacco. Queste operazioni
consentivano al lavoratore di riposarsi un momento, di tanto in tanto.
Ntoniu Mastamatu, per, ha evidentemente esagerato sia con il martellamento del falcione che con il fumo!

in genere il mese di agosto, in tutto o


in parte, a seconda della quantit di
grano mietuto, cio della grandezza e
della ricchezza della masseria). Anche
qui c un operaio che lavora troppo fino a travolgere il povero Ciccu
che, evidentemente, si muoveva con
maggiore lentezza. Ciccu, come tutti
i braccianti poveri, era scalzo, a differenza dei massari che invece avevano
le scarpe: ecco perch i buoi pi facilmente gli rompono le dita dei piedi.

Strofe 8 e 9: Ci si riferisce qui al lavoro agricolo pi importante, la mietitura. La giornata andava da un


sole allaltro, cio, nel mese di luglio,
dalle sei del mattino alle nove di sera
circa; era interrotta quattro volte, per
i pasti: poco dopo le otto, per la colazione; verso mezzogiorno, per il pranzo; verso le cinque di pomeriggio, per
la ma renna; dopo il tramonto, per
la cena. Lantineri era il capo-mietitore che precedeva tutti gli altri operai
e dava il ritmo di lavoro, in quanto
tutti erano obbligati a tenergli dietro,
pena il licenziamento. Naturalmente i
massari ingaggiavano i migliori mietitori come antineri e per questo li
pagavano, sottobanco, pi degli altri.
A ci si riferisce Michele de Mennozza
quando dice: lantineri shannu abbaccati!. La parola antineri deriva da antu, la striscia di cereali da
mietere da parte di ciascun mietitore
in ogni sciuta, ovvero in ogni uscita da un capo allaltro del campo.
Un antu era largo circa un metro e
mezzo.
Strofe 10 e 11: Troviamo qui il lavoro successivo alla mietitura, cio la
sgogna (trebbiatura fatta coi buoi
che, passando e ripassando sulle spighe disposte sullaia, le frantumavano
provocando la separazione dei chicchi
dalla paglia. La sgogna occupava

Strofe 12 e 13: La spogna (= spugna): si scavava una trincea nei campi


acquitrinosi e la si riempiva di pietre,
sistemate opportunamente e poi ricoperte di fascine, di paglia e infine di
terra. In tal modo, lacqua non ristagnava ma veniva assorbita e scaricata fuori dal campo; sopra la spogna
si continuava a lavorare, grazie allo
strato di terra con cui veniva ricoperta.
Strofe 14 e 15: Pasqualoccio un vero
e proprio servo, come ce nerano normalmente nelle nostre campagne fino
agli anni Cinquanta del XX secolo,
quando essi cominciarono a fuggire
in massa verso la Svizzera dove, per
lo pi, almeno nei primi tempi continuarono a fare i garzoni di stalla come
nei paesi sanniti ma presumibilmente
con una retribuzione. I massari prendevano i garzoni (da qui lespressione: tenere a garzone) in occasione
delle fiere nei diversi paesi del circondario e li tenevano in cambio del
vitto e dellalloggio; talvolta dovevano
anche corrispondere un compenso in
natura (un quintale di grano allanno,
qualche pezza di formaggio) alla famiglia del garzone, che era sempre un
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ragazzo molto giovane, poco pi che


un bambino, appartenente a famiglia
poverissima che provava comunque
sollievo nel mandarlo presso unaltra
casa, liberandosi cos almeno di una
bocca da sfamare e talvolta ricavandone cibo per il resto della famiglia.

terriera ed lunica esponente della


classe signorile presente nella canzone. I galantuomini non compaiono
nel testo del canto al cui centro la
figura del massaro z angilu, presentato come avido e spietato sfruttatore
dei braccianti e contadini poveri che
vanno da lui a giornata. Questa figura, sorta di coltivatore diretto a met,
che al tempo stesso lavorava i propri
terreni e conduceva come mezzadro
(parzenalu o parzonalo) terreni
appartenenti ai signori, appare come
il vero nemico dei contadini pi poveri di lui, e viene dileggiato in casa
dei signori, la signorina appunto, che
mostra una specie di complicit compiaciuta e reciproca con i contadini
che, spudoratamente, eseguono cos
bene la canzone. Interessante anche
il riferimento agli strumenti usati: il
flauto e lorganetto.

Strofe 16, 17 e 18: Cola di Zoppi,


uno dei due autori della canzone, ne
fornisce la chiave di lettura: una sorta
di elementare ed embrionale lotta di
classe condotta con larma della parola
e della musica, davanti alla collettivit. Con lui compaiono altri personaggi: Pellegrino Fusco e Caccavellu,
contadini-braccianti che diffondono
la canzone addirittura in casa della
signorina la quale ne tanto entusiasta da trascriversela sulla carta.
Questa signorina una proprietaria

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ARGOMENTI

AMERIGO CIERVO

Il dramma sacro
e la cultura popolare
Studiare il dramma sacro, le cosiddette sacre rappresentazioni o,

Probabilmente, proprio negli anni in


cui si dava avvio a quella che gli storici hanno definito la fascistizzazione dello stato e, quindi, una sorta
di modernizzazione forzata della societ, il Toschi coglieva una qualche
parvenza di stanchezza in quelle manifestazioni popolari, ardentemente
auspicandone il rilancio. Potrebbe
essere vero. Ben si sa, infatti, come,
molto spesso, proprio grazie a un
ben determinato spirito del tempo
che talune manifestazioni riprendano
vigore. Daltra parte, chi ha pratica
di percorsi simili, sa anche che tale
atteggiamento risulti abbastanza frequente tra gli studiosi che finiscono,
come sembra naturale, per legarsi
appassionatamente alloggetto delle proprie indagini, essendo molto
difficile - cos evidenzia Ernesto De
Martino nellintroduzione del suo
capolavoro dedicato allo studio del

come tali eventi vengono solitamente chiamati in molti paesi, sanniti o


no, i misteri, equivale a mettere le
mani in alcune delle manifestazioni
popolari pi complesse e significative della nostra tradizione culturale
e che, per alcuni secoli, hanno simbolicamente rappresentato al meglio
la sostanza etica di una comunit.
Nel 1926, Paolo Toschi, i cui saggi
sono stati punto di riferimento per
tutti gli studiosi italiani del folklore, si augurava, nella prefazione al
suo Antico dramma sacro, di vedere
risorto a nuova vita il nostro antico
teatro religioso con la schiera pittoresca dei suoi personaggi, di angeli, di
diavoli, di remagi, di pastori, di imperatori, di santi e di sante, moventisi quasi in un unico immenso ciclo
rappresentativo1.
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tarantismo - per chi si accinge a


scrivere un rapporto etnografico ()
celare al pubblico le proprie passioni 2.
Non sembra il caso, a ben vedere, dei
drammi sacri costituenti, per buona
parte, il tessuto culturale di molti paesi del Sannio beneventano, il cui
andamento storico, dal secondo dopoguerra in poi, sembra seguire la linea che ha caratterizzato limmenso
patrimonio folklorico del nostro paese. Sono gli anni della ricostruzione a
rappresentare, in Italia, lo spartiacque tra una certa visione del mondo,
con tutti gli annessi e connessi, tipica di un mondo agricolo-pastorale e
laltra, che veniva affermandosi in
seguito ai profondi processi di trasformazione industriale che, in quegli anni, avevano investito il paese.
Lemigrazione verso alcune nazioni
europee e, soprattutto, verso il triangolo industriale, la scolarizzazione
di massa, con la riforma della scuola
media unica del 1962, e la televisione, con la diffusione di nuovi stili di
vita e, perfino, di nuovi valori, sono
i tre fenomeni che, intorno alla met
del secolo scorso, contribuiscono, in
maniera decisiva, a collocare, nella
soffitta della memoria, il variegato
mondo costituito da rituali, pratiche,
canti e sacre rappresentazioni. Tutto ci si verifica perch cala a picco, definitivamente, il mondo di cui
quelle produzioni rappresentavano la
fenomenologia culturale. Insomma,
sono state la trasformazione industriale e, ancora di pi, la cosiddetta
societ post-industriale, con le loro
conseguenze - tra le quali non si ricorder mai abbastanza, anche per motivi ben pi profondi e che esulano da

questo saggio - la desacralizzazione


radicale che colpisce anche le cosiddette zone interne, a spazzare via
tutti gli elementi che, sempre per citare De Martino, potrebbero rientrare
tra quelle povere forme di comunicazione simbolica definite, dal grande antropologo napoletano, relitti
folklorici. E tuttavia, nella seconda
met degli anni settanta, si assiste,
a pi riprese, a molteplici tentativi
di far rivivere seppure in unatmosfera nuova e con finalit totalmente diverse queste antiche forme
culturali. Sono soprattutto giovani
laureati, studenti liceali o universitari che - un po per aver attraversato
la bufera della contestazione studentesca o perch mossi dalle spinte
della stagione conciliare o, in ultimo,
per essere venuti a contatto con le
nuove scienze umane (antropologia culturale, sociologia, psicologia)
che sempre pi vanno facendo capolino nei piani di studi delle facolt
universitarie, e che contribuiranno a
modificare profondamente il giudizio sulle manifestazioni popolari, in
un recente passato troppo in fretta
abbandonate - riscoprono le antiche tradizioni del proprio villaggio
della memoria. Comprendono, sia
pure, molto spesso, senza la necessaria consapevolezza, come in quei
rituali, in quelle antiche vicende, sia
possibile riscoprire, o ritrovare qualcosa di cui la nuova societ televisiva
e scolarizzata sembra non sapere pi
che farsene, non avvertirne per nulla
lutilit. Si ritiene, con queste operazioni, di riscoprire quella che si
chiamer dimensione identitaria.
Concetto estremamente pericoloso,
questo, al di fuori di un solido punto
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di riferimento etico-culturale. Smarrito ogni aggancio con tale tessuto,


infatti, e in presenza di una profonda crisi non solo economica e sociale,
questa pur meritoria esigenza di riconoscimento identitario approder,
sul finire del Novecento, a lidi pericolosamente ambigui.
Ma riportiamo il discorso nellalveo
della questione e ritorniamo alla
specificit del problema. Riprendiamo Toschi. Molto interessante, per il
nostro discorso, il riferimento alle
due risposte che dal mondo cattolico
giunsero al suo desiderio di studioso
circa la ripresa di talune manifestazioni popolari. Alcuni accolsero con
simpatia la proposta formulata, altri,
invece, avanzarono caute riserve o
manifestarono, addirittura, una pi o
meno decisa opposizione. Questa seconda risposta oggi potrebbe persino
sorprendere. In realt essa non sorprende affatto ed la testimonianza
del perpetuarsi di quel particolare
modo di considerare il dramma sacro
e le sue manifestazioni, soprattutto
quelle di carattere pi marcatamente
popolare, che ha caratterizzato lazione della Chiesa dal concilio Trento fino al Vaticano II. Questo aspetto particolarmente significativo in
quanto tocca una delle questioni dominanti, ossia la posizione dellistituzione religiosa nei confronti di simili
rituali. E indubbio che, da Trento in
avanti, il distacco tra le funzioni liturgiche e il teatro religioso si sia venuto sempre profondamente accentuando e siano state accuratamente
controllate, da parte della gerarchia,
tutte quelle forme espressive che
nate allinterno della cosiddetta cultura del popolo tendevano, per la

loro stessa natura, a vivere e ad agire in autonomia, se non, in alcune


di esse, in opposizione.
Per tentare di misurare, con precisione pi o meno accettabile, la straordinaria forza dimpulso che ebbero le
varie forme del teatro sacro, la loro
durata, anche in rapporto alla loro
maggiore o minore rispondenza con
i bisogni e i gusti delle comunit,
sarebbe stato necessario lesame di
quelle che DAncona definisce, con
espressione felice, reliquie viventi
del dramma sacro3. Perch, mentre
la Chiesa ha ufficialmente escluso
dalla liturgia e dalle cerimonie da essa
controllate il vero e proprio dramma
sacro, allinterno delle varie comunit (da intendere sia come parrocchie
che come paesi) donne e uomini hanno continuato a mostrare interesse
verso questi aspetti della devozione religiosa, che conservavano pur
sempre, per i fedeli, grande efficacia
emotiva ed evocativa4. Impresa, ovviamente, impossibile per quanto s
detto in esordio. Nessuna, delle forme drammatiche pi antiche quelle, per intenderci, che costituivano il
corpus del teatro religioso medioevale e rinascimentale , sopravvissuta
fino a noi, neppure attraverso la tradizione orale. Tutte le sacre rappresentazioni che si mettono in scena, in
occasione del Natale o della Pasqua o
delle feste dedicate ai vari santi, non
vanno - nellipotesi pi ottimistica
al di l del Seicento e sono dovute, in genere, alla fantasia creatrice
di sacerdoti formatisi nellatmosfera
letterario-culturale dei seminari. Secondo il Toschi, in genere si tratterebbe di un fenomeno di discesa del
teatro dei Gesuiti5. Poich ci si rese
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presto conto che i fedeli rinunciavano a malincuore a questo genere di


spettacoli, si provvide, negli ambienti
ecclesiastici, a fornire loro i drammi
secondo gli stilemi della letteratura
devota di quei tempi. Emblematico,
a tale riguardo, il caso della Cantata dei pastori, scritta da Andrea Perrucci e pubblicata nel 1698con il titoloIl Vero Lume tra lOmbre, ovvero
la Spelonca Arricchita per la Nascita
del Verbo Umanato.
Ma dove vanno cercare, gli autori dei
vari drammi, i materiali da utilizzare per i loro copioni? Una delle fonti principali dei racconti leggendari,
relativi alle vite dei santi, che costituisce la base anche delle molteplici
storie cantate ancora riscontrabili nei
vari repertori popolari, sia quelli registrati sul campo che quelli riuniti
in raccolte solo letterarie6, sicuramente La leggenda aurea di Jacopo
da Varagine, a sua volta gi riferibili
alle fonti rappresentate dai leggendari dei domenicani Giovanni da Mailly e Bartolomeo da Trento7. A puro
scopo esemplificativo, ci sembra opportuno riportare il passo relativo a
san Vito, protagonista di alcuni misteri in alcuni paesi sanniti (tra gli
altri, Circello8 e Montorsi).

Vito: Chiama i tuoi dei perch ti


risanino, se lo possono! E quello:
Credi forse di poterlo fare tu?
E Vito: Lo posso fare nel nome
del Signore. Dopodich si mise
in preghiera e il prefetto si trov
risanato. Il prefetto allora disse al
padre di Vito: Porta via questo
fanciullo perch non gli accada alcunch di male. Il padre lo ricondusse a casa e tent di corromperlo
con dolci musiche, belle fanciulle ed altre delizie. Un giorno che
lo aveva chiuso in camera sent
uscire dalla stanza un soavissimo
odore che
si diffuse per tutta
la casa. Guard e vide sette angioli che circondavano il fanciullo. Esclam: Gli dei sono venuti
nella mia casa! e subito divenne
cieco. Alle sue grida tutta la citt
accorse ed anche Valeriano che gli
domand che cosa fosse successo;
e il padre: Ho visto gli dei tutti di
fuoco e non ho potuto sopportare
il loro aspetto. Fu portato allora nel tempio di Giove dove promise un toro con le corna dorate
se avesse recuperato la vista: ma
niente gli giov tale preghiera cosicch preg il figlio di risanarlo e
subito riacquist la vista. Neppure
da questo miracolo il padre di Vito
fu convertito alla fede di Cristo,
anzi pensava di uccidere il figlio;
ma un angelo apparve a Modesto,
maestro di Vito, e gli ordin di fare
salire il fanciullo su una nave e di
condurlo su unaltra terra. Durante il viaggio, unaquila gli forn il nutrimento e molti furono i
miracoli che oper. Frattanto un
demone simpossess del figlio di
Diocleziano e dichiar che non lo
avrebbe lasciato libero se non per
opera di Vito. Vito fu condotto dinanzi allimperatore che gli disse:
Hai forse il potere di risanare il

Vito, fanciullo mirabile, soffr il


martirio in Sicilia allet di dodici anni. Il padre stesso lo batteva
perch si rifiutava di adorare gli
idoli: quando il prefetto venne a
sapere ci, si fece venire davanti il
fanciullo e, poich insisteva nel rifiuto, comand che fosse fustigato;
ma ecco che le braccia dei carnefici e dello stesso prefetto rimasero
paralizzate. Grid il prefetto: Misero me! Ho perso una mano! E

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illustre, (assenti nel succitato testo,


probabilmente perch scritto in tempi o in luoghi in cui si riteneva non
opportuna lesibizione teatrale, seppure nella forma del dramma sacro,
di donne), il prefetto Valeriano ( che,
nel manoscritto, si trasforma probabilmente, nel tribuno Valerio),
limperatore Diocleziano e il padre
che, nel testo circellese, si chiama Ila
ed caratterizzato come gentiluomo romano, oltre che come padre di
Vito. La tradizione suffragata dallo
spettacolare fistinu10 che, ogni anno,
fra la terza e la quarta domenica dagosto, si svolge a Mazara del Vallo
ritiene che Vito sia nato proprio nella
cittadina siciliana. In realt, nulla si
sa con certezza. Lunica notizia attendibile potrebbe essere quella relativa al martirio in Lucania. Nel Martirologio Gerominiano11, alla data del
15 giugno si legge: In Lucania Viti.
Tutto il resto frutto di leggende non
controllabili storicamente.
Ma non certo questo il problema
principale. Sarebbe necessario, piuttosto, cercare di individuare se ci ,
ovviamente, possibile - il rapporto
tra una manifestazione che si inscrive, almeno a livello fenomenologico,
nella tradizione religiosa di alcune
ben circoscritte comunit e la cultura generale di riferimento. Ma anche qui troveremo qualche difficolt.
Siamo, infatti, sicuri che sia possibile
rintracciare e definire, anche di una
sola, non grande comunit, una e
una sola cultura di riferimento? E
lecito nutrire qualche dubbio. Sicch
proverremo ad elencare alcuni spunti di riflessione che non presumiamo
n tantomeno riteniamo definitivi ma
che vogliono solo stimolare un appro-

figlio mio? E Vito non io ma il


Signore. Poi pose le mani sulla
testa del giovane che subito si trov liberato dal demone. Disse Diocleziano: Fanciullo, abbi piet di
te stesso e sacrifica agli dei! Vito
si rifiut onde con Modesto fu gettato in carcere; ma le grosse catene di cui erano stati caricati subito
si ruppero e il carcere si riemp di
una luce radiosa. Quando limperatore seppe tale notizia ordin
che Vito fosse immerso nella pece
ardente ma il santo ne usc illeso.
Allora un crudele leone fu eccitato
contro di lui perch lo divorasse,
ma al cospetto del santo divenne
mansueto. Infine Diocleziano ordin che Vito insieme a Modesto
e alla nutrice Crescenzia che sempre lo aveva seguito, fosse sospeso
ad un cavalletto; improvvisamente
laere si turb e la terra cominci
a tremare: fra il fragore dei tuoni
gli idoli caddero a pezzi uccidendo
molti infedeli. Fugg limperatore
e gridava percuotendosi il petto:
Misero me che sono stato vinto
da un fanciullo! Vito, Modesto e
Crescenzia furono liberati da un
angelo e si trovarono sulle rive di
un fiume: qui dopo avere insieme
pregato resero lanima a Dio. Le
aquile vegliarono sui loro corpi
fino a che una illustre matrona, di
nome Fiorenza, non li ritrov per
la miracolosa indicazione di Vito,
e con ogni onore li seppell9.

Come si vede, nella leggenda di Jacopo, compaiono, a parte Vito, alcuni personaggi che si ritrovano anche
nei copioni popolari: Modesto (nel
manoscritto circellese, per dire, indicato come educatore di Vito), Crescenzia e Fiorenza, rispettivamente
nutrice del giovane e matrona
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fondimento ulteriore in tale direzione


e creare loccasione per una riflessione corale sul nostro possibile, futuro
destino. La prospettiva antropologica della ricerca, in questo senso, pu
esserci di grande aiuto. Tanto per
dire, le parti degli attori delle sacre
rappresentazioni erano, di solito, riservate a gruppi familiari di artigiani
e commercianti che conservavano
e difendevano, con le unghie e con i
denti, quel privilegio - ma non ai
contadini che, viceversa, fungevano
da spettatori. Nella cultura che chiameremo agro-pastorale, erano altre
le esigenze da cui scaturivano ben
precise pratiche legate al culto dei
santi. San Vito, per esempio, era, inserito, come altri santi (per esempio,
San Domenico, in quella particolare
categoria di patroni-liberatori che
la chiesa aveva, in alcuni casi, accolto nella liturgia ufficiale con il nome
di Ausiliatores o Adiutores. Essi sono
delle figure che, radicate quasi sempre in culti subalterni e, molto spesso,
assolutamente autonomi rispetto alla
ufficialit dogmatico-liturgica, riflettono le situazioni storico-ambientali
di crisi e di esposizione alla malattia
e alla morte. Ritroviamo, nella lista
dei cosiddetti ausiliatori, santi che
proteggono contro lemicrania, il fulmine, il male di gola, la paura, il mal
caduco, la pazzia, le infezioni della
pelle, i pericoli del parto. In questa
stessa lista sicuramente inserito San
Vito cos come prova la diffusione
del suo culto e di molteplici pratiche
rituali a lui dedicate che veniva comunemente invocato contro i morsi
velenosi di serpente e di cane, anche
se pi notoriamente collegato al patronato contro la corea o ballo di san

Vito e della letargia12.


Si diceva pi sopra che gli anni sessanta, nella profonda trasformazione
culturale del nostro paese, rappresentano il confine tra due Weltanschauung agli antipodi, ossia tra
due opposte visioni del mondo e, di
conseguenza, tra due modelli di vita
opposti. Sono questi gli anni in cui
le lunghe serate invernali il tempo delle lunghe, estenuanti prove
dei misteri, quando, tra un bicchiere e un altro, nascevano i motti
di spirito, i racconti divertenti e le
grottesche manomissioni o trasgressioni degli aulici manoscritti13 che,
ripetute anno dopo anno, avrebbero contribuito alla sedimentazione
culturale della comunit -, davano
una risposta concreta ai bisogni forti di vita sociale e di tempo libero
degli artigiani, dei piccoli commercianti, insomma della piccolissima
borghesia paesana, non sono pi
destinate alla riproposizione del rituale che saldava, una volta ancora,
le ragioni della vita comune. Oramai
non ci si riunisce pi intorno al copione. Sono Lascia o Raddoppia? e i
primi, grandi romanzi sceneggiati ad
essere consumati comunitariamente. E, nella vita quotidiana che passa
sui teleschermi, sembra non ci sia pi
posto per drammoni in costume a
cui dedicare le lunghe ore dellinverno. Lentamente cominciano a morire
le ragioni profonde delle antiche rappresentazioni, sia quelle collegate direttamente alla ritualit religiosa che
quelle riferibili alla pura dimensione
socio-affettiva. Il pensare di poter
rimettere in pista, addirittura, lo spirito stesso di simili rappresentazioni
rientra nel campo delle pie illusioni,
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destinate a unovvia, e meritata, frustrazione. Se una data comunit, infatti, mostra di non avvertire pi il
bisogno di rappresentarsi, una volta
allanno, nelle guise scelte e codificate in altri tempi, vuol dire che essa
ha scelto altre forme di comunicare
simbolicamente la ragione profonda
del suo patto sociale. Basta, a tale
proposito, recarsi a Guardia Sanframondi, durante le giornate metastoriche dei riti settennali, per
rendersene conto. Ma, in ogni modo,
sarebbe opportuno se facessimo nostro laugurio di Toschi, con il quale
abbiamo aperto queste note. Conservare, non per nostalgia, ma, sia pure
solo per conoscenza, gi un grande
atto damore nei confronti delle proprie radici. Ben consapevoli, tuttavia,
che esse, forse, richiedono altre terre
e altri climi.

NOTE
1 TOSCHI, Paolo, Lantico dramma sacro,
scelta e prefazione di P.T. 2 voll., Firenze,
1925 e 1926,. vol. I, p. LXVII
2 DE MARTINO, Ernesto, La terra del rimorso - Contributo a una storia religiosa
del Sud, Il Saggiatore, Milano, 2009, p.
39.
3 DANCONA, Alessandro, Origini del Teatro italiano, libri tre con due appendici
sulla Rappresentazione drammatica del
contado toscano e sul teatro mantovano
nel secolo XVI, 2 voll., 2 ed., Torino, 1891.
In TOSCHI, P., op. cit. p. 704.
4 Sarebbe opportuno, a tale riguardo, avviare uno studio comparato tra le varie testimonianze scritte (i cosiddetti copioni)
per cogliere, allinterno di queste forme
drammatiche, schemi e motivi similari
che probabilmente ricalcheranno veri e
propri tpoi.
5 TOSCHI, P., op. cit. p. 712
6 A tale proposito, per il Sannio beneventano
vedere: DEL DONNO, Manfredi, Poesia
popolare religiosa. Canti narrativi del
Sannio beneventano, Biblioteca di Lares
nr. 15, Olschki, Firenze 1964
7 La Leggenda dei santi, successivamente
chiamata Aurea, una delle opere pi
famose e diffuse della religiosit popolare
italiana. Per secoli, attraverso la Leggenda
Aurea, intere comunit hanno conosciuto
le virt dei confessori, delle vergini, le
gloriose azioni dei martiri e i miracoli della
Madonna. Jacopo nacque a Varazze (Varagine) nel 1228. Non si sa molto della sua
vita, salvo che nel 1244 entr nellordine
dei predicatori da poco fondato da san
Domenico. Distintosi subito per dottrina
e sapienza, nel 1288 rifiut la nomina a
vescovo di Genova, nomina che dovette
accettare tre anni dopo. Jacopo muore
nel 1298. La Leggenda dei santi, successivamente Leggenda Aurea, si diffuse in
breve tempo per tutta lEuropa , copiata
e tradotta in molte lingue. Per Jacques
Le Goff, loriginalit dellopera consiste
nella capacit di legare il tempo liturgico
(ciclo annuale) con quello diacronico
della successione dei santi (il cosiddetto
tempo santorale, diventando, i santi
stessi, marcatori del tempo) e col tempo

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dellescaton, ossia del Giudizio Universale.
Per lo storico francese, il nostro domenicano vuole mostrare come solo il cristianesimo ha saputo strutturare e sacralizzare
il tempo della vita umana per condurre
lumanit alla salvezza.
8 Il copione circellese stato, per la prima
volta, pubblicato, nel 2013, a cura di
Isabella Miele.
9 JACOPO DA VARAGINE, Leggenda aurea, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze,
1990, pp. 339-341.
10 Il cuore della festa comincia con la
processione della statua dargento fino a
una chiesetta a un miglio della citt, in
riva al mare, da dove Vito per sfuggire ai
suoi persecutori sarebbe partito, insieme
col pedagogo Modesto e la nutrice Crescenzia, su una barchetta guidata dagli
angeli. Se la festa liturgica cade il 15, i
festeggiamenti, Lu fistinu Santu Vitu, si
svolgono fra la terza e la quarta domenica
dagosto, quando si celebra la solenne
festivit della traslazione. Il giorno centrale il gioved, quando ben due sono le
processioni: la prima, detta la processione
pi mattini era dItalia, perch comincia
alle quattro del mattino, con il trasporto
del Carro trionfale trainato a braccia dai
pescatori fino alla chiesetta di San Vito a
Mare e accompagnata da una suggestiva
fiaccolata e da uno spettacolo pirotecnico,
lo Jocu di Focu e Diunu. La seconda la
celeberrima Processione storico-ideale
a quadri viventi, in cui si rievocano i
principali episodi della sua vita. Il primo
carro, preceduto dalle figure della fede,
della speranza e della carit e seguito da
una schiera di famuli e ancelle, ospita Vito
e il padre crudele; su un secondo campeggia Diocleziano con la corte imperiale
mentre a piedi seguono senatori, pretoriani
, ancelle di corte e il preside Valeriano
con i suoi soldati; sul terzo carro appare
san Vito allet del martirio con i santi
Modesto e Crescenzia mentre li seguono a
piedi ancelle con la palma, i famuli con i
cani e il carnefice. Il carro trionfale con il
simulacro argenteo chiude la processione.
In: CATTABIANI, Alfredo, Santi dItalia,
Rizzoli, Milano, 1993, passim.
11 Martyrologium Hieronymianum (Martirologio geronimiano) costituisce il pi antico

catalogo dei martiri cristiani della Chiesa


romana a noi pervenuto, a torto attribuito
a san Gerolamo. Lautore potrebbe essere un anonimo del V secolo, vissuto fra
Milano e Aquileia che si serv come fonte
principale di un martirologio siriaco della
seconda met del IV secolo. Se ne hanno
due recensioni: quella italica, per un uso
liturgico e per edificazione dei fedeli, e
quella gallicana, che ebbe grande diffusione e arricchimenti vari nelle diverse
province della Francia.
12 Accenniamo a una serie di rituali collegati al culto di San Vito. A San Gregorio
Magno, in provincia di Salerno, il 15 di
giugno si svolge la Turniata, anticamente
definita circumambulatio, che consiste nel
far girare per tre volte, intorno alla chiesa
del santo, greggi, mandrie e singoli animali, accompagnati dai fedeli. Se un animale
entra in chiesa, diventa propriet del santo. Il triplice giro unazione augurale che
deve assicurare abbondanza e fertilit. A
Felitto, sempre in provincia di Salerno, a
quelli che portano la statua di san Vito in
processione fino alla cappella che come
al solito si trova lontano dal paese, vengono offerti, oltre al vino, i taralli di San
Vito. A Eboli, il 15 di giugno, molti fedeli
raggiungono la chiesa portando con loro
doni e ceri votivi a forma di barche, le
cente di san Vito, che le donne portano,
come un tempo sulla testa. A Vallata,
nellAvellinese, la sera del 14 giugno si
portano in processione le panelle, palline
di pasta lievitata e cotta al forno a legna,
destinate ai cani. Il 15 viene allestito nella
cappella dedicata al santo un tavolo, dove
si raccolgono i doni offerti, consistenti
soprattutto nella pigliata, formaggio di
pecora prodotto nella stessa giornata e il
gallo di san Vito. Anche qui presente
il rito della triplice circumambulatio.
13 Ne ricordiamo solo una, a mo desempio.
Lincipit della scena XIV del primo atto
Vado, principe dAverno diventava,
nella recitazione di un attore originario
di Napoli Vaco, principe de vierno,
come nella migliore tradizione del teatro
di Petito.

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