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Al Tempio della Fraternità

Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
(Ungaretti, 1969, pag.25)

La storia che mi appresto a raccontare ha inizio in un tempo molto lontano, un tempo di


dolore e di sofferenza che ha coinvolto il mondo intero: la Seconda Guerra Mondiale. La
poesia di Ungaretti, pur essendo legata alle vicende del primo conflitto mondiale, ci mette
in contatto con i sentimenti che stanno all’origine del Tempio della Fraternità. Certo,
perché ogniqualvolta l’uomo si appresta a compiere un’opera per lui importante è mosso
da sentimenti, emozioni che trovano un significato in ciò che si realizza. Altro termine
centrale in questa narrazione è appunto significato, perché “la mente vive di significati
come il corpo d’ossigeno” (Albasi, 2009): la vita di ciascuno di noi è all’insegna della
ricerca di significati che si costruiscono nelle azioni che compiamo in interazione con gli
altri. Per millenni, e forse tutt’ora, la guerra è stata la situazione in cui l’uomo riusciva a
sprigionare tutta la sua potenza e la sua verità; quasi unico modo per cambiare il suo
destino, per trovare la propria verità e il proprio senso etico (Baricco, 2004). “Di
conseguenza alle anemiche emozioni della vita, e alla mediocre statura morale della
quotidianità, la guerra rimetteva in movimento il mondo e gettava gli individui al di là dei
consueti confini, in un luogo dell’anima che doveva sembrar loro, finalmente, l’approdo di
ogni ricerca e desiderio” (idem, pag. 161).
Giunti sul campo ed entrati in quello sconfinato luogo dell’anima, magari dopo “un’intera
nottata buttato vicino a un compagno massacrato” (Ungaretti, 1969), si ritrovavano a
pensare alla quotidianità della vita attribuendo nuovamente ad essa valore.
Don Adamo Accosa si trovò in mezzo alla guerra, cappellano militare degli alpini impegnati
sul fronte Albanese (Cfr. Ruolo Matricolare).
1
È proprio in questo contesto che nella mente di Don Adamo si è costruito un particolare
significato che aveva a che fare con parole come vita, amore, uguaglianza, fratellanza;
esso doveva trovare una rappresentazione materiale ma ancora non si sapeva come
realizzarla. La guerra, insieme a questa idea, aveva portato deterioramenti fisici e morali al
cappellano, per questa ragione si era recato dal Vescovo di Varzi per chiedere di poter
andare in un posto isolato. Venne così inviato a Cella di Varzi, nel settembre del 1945 era
già in loco e quello che i suoi occhi videro fu un chiesetta in cima ad un’altura discostata
dal paese, un campanile modesto, un cimitero da un lato e la casa dal lato opposto, poco
più in là una stalla, una cascina e un vecchio pozzo. Questo quadro durò pochi anni, alla
fine del 1951, la chiesa, la casa, il campanile, già gravemente lesionati da una scossa di
terremoto, e che erano collocati in una zona franosa, colpita dalle continue piogge che
avevano interessato Pavia e il Polesine, dovettero essere demoliti dal Genio Militare.
L’ultima messa in quella chiesa fu celebrata l’8 dicembre 1951, al termine della
celebrazione la popolazione cercò di portare in salvo tutto ciò che si poteva. Don Adamo
dovette trasferirsi in una casetta di Selvapiana e proprio in quei giorni trascorsi lì maturò
l’idea del Tempio delle Fraternità. È in questo momento che entra in scena un nuovo
personaggio che accompagnerà tutte le vicende legate al Tempio: la Divina Provvidenza,
per presentarla mettiamoci in ascolto delle vive parole del Cappellano.

Avevo paura di confondere il piano della Provvidenza con i miei sogni e le mie ambizioni,
e tanto per distrarmi cominciai a pensare alle necessità materiali e finanziarie. Per
questo, nella settimana dell'Epifania del 1952 andai a Roma a batter cassa. E qui
avvenne un fatto che mi ha lasciato impressione. - Nella chiesa dell'Ara Coeli, c'è un
Bambino Gesù che i romani dicono sia miracoloso. Andai per baciarlo ma c'era troppa
gente. Allora, il frate che lo teneva in braccio, di nascosto, mi fece il segno di spostarmi a
destra, oltre la balaustra. Così feci e lui me lo portò da baciare. In quel momento ho
sentito come una scossa elettrica, qualcosa di indefinibile entrare nella mia persona e
percorrerla tutta, ed ho avuto la sensazione, la precisa certezza di realizzare il Tempio
della Fraternità. Questo fenomeno si è ripetuto a Parigi, un mese dopo, ma lo anticipo
qui. Ero entrato nella cappella della Beata Vergine della Medaglia Miracolosa e vi trovai
alcuni soldati raccolti molto devotamente in preghiera. Toh! ... pensai ... come sono diversi
i soldati francesi dai soldati italiani! Mi sono avvicinato e parlando con loro venni a sapere
che erano seminaristi, soldati in licenza dall'Indocina. Dissi loro del mio progetto e spiegai
la mia presenza a Parigi. Un soldatino mi disse: va ... va là a sederti su quello scanno in
fianco all'altare: è dove si è seduta la Madonna mentre parlava a Caterina Labouré. Così
feci, e sedendomi al posto della Madonna, ho avuto la stessa sensazione provata nel

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baciare il Bambino di Ara Coeli: la certezza di riuscire nell'impresa del Tempio (Accosa,
1989; pag. 16).

Maturata l’idea era ora il momento di realizzarla, un giorno di fine gennaio del 1952 il
nostro don Adamo decise di recarsi a Torino ma senza sapere bene la ragione, giunto alla
stazione di Porta Nuova vide un treno diretto a Parigi e decise di salarci. Giunto alla Gare
de Lion si rese conto di ciò che aveva fatto, sceso dal treno pensò di uscire dalla stazione
per osservarla e poi riprendere un treno per l’Italia. Proprio in quell’istante un operaio
italiano gli chiese cosa cercava e gli disse che se voleva poteva condurlo dalle Suore di
Carità; don Adamo accettò e si fece accompagnare. In quel luogo fece l’incontro con una
donna, dirigente delle Dame di Carità di Parigi, e a lei illustrò l’idea del Tempio. Questa
signora gli propose di incontrare il Nunzio Apostolico e lo accompagnò da lui. Quest’uomo
era Angelo Roncalli, futuro Papa con il nome Giovanni XXIII; nel loro incontro il
Cappellano spiegò quali erano i suoi progetti e il Nunzio offri un aiuto economico per
poterli realizzare e promise che avrebbe inviato la prima pietra. Il momento di commiato
tra i due è così denso di significati che è meglio udirlo, in silenzio, dalle parole di Don
Adamo:

Scendevo lentamente sul tappeto rosso dello scalone, ed arrivato sul ripiano mi venne
l’istinto di voltarmi. Angelo Roncalli era sulla porta che mi guardava con una lacrima agli
occhi. Ci fissammo un istante e poi proseguii la discesa. Cercavo di intuire i pensieri del
nunzio; chissà, si sarà detto, se riuscirà, questo povero pretino che porta sulle spalle un
peso più grave di se (Accosa, 1989; pag.19).

Il rapporto tra questi due uomini religiosi proseguì nel tempo, Angelo Roncalli fu sempre
tenuto aggiornato con lettere e fotografie, quando Don Adamo lo incontrò, ormai Papa, a
Roma gli chiese sorridendo se era ancora fermo alla prima pietra. Questo spaccato di
storia ci permette di tratteggiare un quadro colorato di dolcezza, amore, passione per
l’uomo ed in particolare ci fa cogliere l’intervento della Divina Provvidenza nella
realizzazione di questo grande progetto.
A questo episodio ne seguirono molti altri fatti di incontri con persone di ogni genere alle
quali illustrare l’idea del Tempio e chiedere un sostegno, essi si alternavano a momenti di
riflessione: immaginiamo don Adamo seduto sulle rovine della vecchia chiesa e sistemare
quella collana di perle che è la memoria. I ricordi del dolore vissuto riaffiorano e sono la
guida e la forza per continuare la sua opera. Tra questi ascoltiamone uno:

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Ancora seduto su quei mucchi di pietre, cercavo di ricordare il triste momento di
consegna alle famiglie dei ricordi del loro soldato, in una cascina del milanese aspetta-
vano il ritorno del loro militare. Invece arrivai io col portafogli ed altri ricordi del defunto.
Tutti mi si strinsero intorno piangendo e chiedendo notizie, e specialmente la mamma,
tutta lacrimante, continuava ad abbracciarmi e baciarmi come se fossi stato io il suo figlio
tornato a casa. -Su una collina ligure entrai in una casa contadina a compiere il mio triste
ma doveroso ufficio. C'era solo una donna in casa, seduta su un mucchio di erbe che
stava facendo delle cernite. - "Voi siete la mamma di…" - "Si, ma è già molto che non lo
vedo e spero che arrivi a casa presto" - "Io l'ho conosciuto" - "Tu l'hai visto? Stava bene?"
- "Si stava bene". "Ed ora come sta?" - "Penso che stia ancora più bene". - "L'hai visto
davvero mio figlio?" -" Si (ho dovuto dirglielo) si … l'ho visto morire. - A questo punto la
donna si è lasciata andare su quel mucchio di erbe e rotolandosi su di esso e
singhiozzando ha cominciato ad uscire in espressioni tali di amor materno, da costituire
un'elegia che io non ho letto o sentito, così bella e così toccante. Non ho retto alla scena,
e lasciando lì il portafoglio, l'orologio e qualcos'altro, sono uscito col cuore in tumulto e
con le lacrime agli occhi. "O Signore ... disperdi i popoli che amano la guerra" leggevo sul
breviario (in latino allora) al versetto 32 del salmo 67. E più avanti al salmo 139: "ecco
quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme". Mi dispiace qui, di aver
fatto vibrare forse troppo intensamente la corda dei sentimenti di chi legge e ne chiedo
venia (Accosa, 1989; pag. 22-23).

Queste parole ci fanno tornare nuovamente alla poesia di Ungaretti, in tutto questo dolore
don Adamo non si è mai sentito così tanto attaccato alla vita, e la realizzazione del Tempio
saranno proprio quelle lettere d’amore di cui il Poeta parla. Lettere che si costruirono tra
continui contatti e legami che il nostro Cappellano intesseva instancabilmente e che lo
conducono sino alla posa della prima pietra. Queste lettere però non le scrive da solo ma
con un’instancabile compagna: la sorella Anna Accosa. Ho pensato di introdurla a questo
punto della narrazione perché c’è un episodio legato al loro rapporto che fa riferimento ai
viaggi fatti per consegnare i ricordi dei caduti alle familgie.

Col nostro doloroso bagaglio camminammo a piedi fino ad un cavalcavia dove c'era già
molta gente ad aspettare un mezzo di fortuna per Milano. Ci fermammo anche noi e dissi
a mia sorella: tu va in mezzo al gruppo alla parte destra .... e io starò in mezzo al gruppo
qui a sinistra, perchè sarà impossibile essere accolti nello stesso mezzo tutti e due.
Facciamo il viaggio separati e ci aspettiamo a Milano. […]Passò una camionetta di soldati
sudafricani e vedendo tanta gente (70-80 persone) si fermò. Un militare si alzò in piedi e
rivolto alla comitiva, fece segno con la mano: due, due sole persone avrebbero preso a
bordo. Passò lentamente con lo sguardo tutti i presenti, e poi rivolto a me e segnandomi
col dito disse: tu salire. Guardò ancora verso la parte destra e segnando in mezzo al

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gruppo mia sorella disse: tu salire. Così, tra la meraviglia e il disappunto dei presenti solo
noi due salimmo sulla camionetta e ci mettemmo in corsa per Milano (Accosa, 1989;
pag.22)

In queste parole cogliamo ancora una volta il segno della Divina Provvidenza, segno che
ha percepito anche Anna e ha determinato la sua vita: ha scelto infatti di dedicare tutta la
sua esistenza a suo fratello e al suo progetto, regalando a quanti si recavano al Tempio il
suo entusiasmo e il suo sorriso.
Torniamo ora alla storia della Chiesa, era il sette settembre 1952 e a Cella di Varzi giunse
Heléne, Dama di Carità inviata da Mons. Angelo Roncalli, con una delegazione francese,
per consegnare la prima pietra come da promessa. Va aggiunto come questa Dama
avesse ricevuto un ordine preciso dal futuro Papa: recarsi in Normandia a prelevare una
pietra da una chiesa distrutta nel Giugno del 1944 durante la battaglia dello sbarco alleato.
Tornando a quella mattina di settembre possiamo immaginare questa scena: in un clima
tiepido, un corteo di slitte giunse sul piazzale dove sarebbe sorto il Tempio, in testa c’era
una slitta infiorata trainata da bambini sulla quale era posta la prima pietra. Ad essa
seguiva quella con il Nunzio Apostolico di Cuba e Haiti Mons. Guerra che avrebbe
presieduto la celebrazione. Dietro l’altare provvisorio era posta una croce grezza recante
la scritta “Ut Omes Unum Sint”1 e a destra di esso un cartello con la seguente iscrizione:
“Qui dove un giorno le valli e le chiostre montane riecheggiavano al cielo la preghiera dei
monaci antichi, oggi nella grave ora che volge, fratelli di diversa patria solennemente
pongono la prima pietra, dono della cattolica Francia, perché il Tempio risorto, in simbolo
ed auspicio di Fraternità tra i popoli, ancora riaccolga la gente dei monti ad implorare
concorde per un mondo discorde la pace la pace la pace” (Accosa, 1989; pag. 25). La
prima pietra venne poi benedetta, per fare ciò don Adamo riuscì a procurarsi dell’acqua
proveniente dalle fonti del Danubio al fine di dare una dimensione europea all’evento, e
murata insieme ad un biglietto di banca, prima offerta fatta da un contadino di 94 anni, una
pergamena e il messaggio dello scrittore cattolico Pierre L’Ermite. Da quel giorno le opere
di progettazione e costruzione2 proseguirono sino a giungere al 20 settembre 1958 giorno
in cui il Tempio della Fraternità venne inaugurato. Il piazzale era uno sventolio di bandiere
animato dalla fanfara dei bersaglieri di Novara, in un lato era posta una tenda bianca di un
ospedale militare volta ad accogliere le autorità e i convitati. Venne ripetuto il corteo di
slitte come nel giorno della posa della prima pietra, il palco dei discorsi era costituito da un
1
Traduzione: “Affinchè tutti siano una cosa sola”.
2
Va sottolineato come per la progettazione don Adamo non si servì di architetti e ingegneri ma fece tutto da sé, questo mette in luce la
potenza generativa del dolore che deriva dall’elaborazione dello stesso.
5
carro agricolo ornato di verde e di fiori. Il prefetto di Pavia al posto del nastro tricolore
tagliò con le cesoie un cordone d’edera. Si entrò poi nel Tempio dove venne celebrata la
Santa Messa.
La nuova chiesa aveva preso vita, l’opera muraria era compiuta, ora doveva essere
arredata. A me piace pensare al tempio come un contenitore perché questo termine ne
richiama alla mente un altro: quello di capacità, già, perché in una visione simbolica le
mura del Tempio divengono quel contenitore capace di contenere il dolore, l’orrore, la
sofferenza della guerra, rappresentato da tutti gli oggetti e i resti pervenuti in essa nel
tempo. La vasca battesimale è costituita dall’otturatore di un cannone 305 della corazzata
Andrea Doria, resti di navi inglesi che hanno partecipato allo sbarco in Normandia formano
il pulpito e ancora la figura del Cristo che ora ci facciamo descrivere da Don Adamo:

Era la sera del 7 Dicembre 1964. La radio trasmetteva da Milano l'apertura della stagione
scaligera. Nell'attesa di ascoltare quella musica, mi sono recato in chiesa. Era una serata
fosca, ventosa e fredda. Trovandomi davanti alla parete nuda dove ora c'è la figura di
Cristo, osservavo e pensavo: qui ci vuole un grande crocefisso; ma come dovrebbe
essere il crocefisso di questa chiesa? - Riflettevo senza approdare a nulla, e mi
proponevo di cercare in qualche vecchia sacrestia, oppure di andare su in Val Gardena,
dove gli artigiani del legno hanno alle volte delle intuizioni luminose. Mentre ero
soprapensiero così, guardando la mensa dell'altare (che poi è un tavolo della sala ufficiali
della corazzata Andrea Doria) e contemplando le armi che c'erano sopra, ho notato i due
fucili giapponesi che Fausto Tommei3 mi aveva portato dall'America. Li ho presi, li ho stesi
sul pavimento ed ho visto in essi le due gambe scarnite di un uomo. È stata una scintilla:
ho visto la figura del Cristo come ora è. A questo scoccar di scintilla però, mi sono
accorto di esserci stato preparato da quarant'anni di vita: la fanciullezza, il seminario, la
guerra; i primi anni di Cella, ed altro ancora. In quel momento, ho dimenticato "La Scala"
di Milano: ho preso la scala di legno della chiesa, ed appoggiandola al muro, nella notte,
lentamente, ho messo insieme il Cristo. Non mi sono servito di armi o di oggetti di serie:
ho scelto ciò che aveva una storia particolare. Così è nato quel Cristo visto attraverso i
dolori dell'umanità; anzi: composto di questi stessi dolori. ] Visto da vicino è un po' crudo,
perché si nota la lama, il grilletto, la scheggia; mentre visto da una certa distanza si nota
appena la linea metallica d'insieme. Nella semioscurità della sera è una visione
struggente (Accosa, 1989; pag.41).

Questi tre esempi riportati permettono di aggiungere un passaggio a quanto affermato


prima, questo contenitore ha in sé anche una forza trasformativa, quella forza che
3
Fausto Tommei, nato a Venezia il 29 luglio 1909, uomo di teatro, di radio, di televisione conosciuto da don Adamo negli studi di
Milano. Dal loro incontro nacque un’amicizia che portò Fausto ad interessarsi al Tempio andando anche un mese in America alla ricerca
di cimeli. Questa amicizia durò sino alla morte dell’attore avvenuta il 23 luglio 1978 a Padova, ora riposa per suo volere nel piccolo
cimitero di Cella di Varzi.
6
permette di passare dalla morte alle lettere piene d’amore. E credo che sia proprio questa
la predisposizione d’animo con la quale visitare il Tempio: entrare e nel silenzio di questo
ambiente carico di significati attendere il realizzarsi dell’alchimia che tramuta la sofferenza
in amore.

Ottobre 09
Filippo Mittino

Bibliografia, tracce della storia

Accosa A., (1989), Il Tempio della Fraternità. I edizione, Rotary Club Voghera.
Albasi C., (2009), Psicopatologia e ragionamento clinico. Raffaello Cortina, Milano.
Baricco A., (2004), Omero, Iliade. Feltrinelli, Milano.
Caroselli G., (1976), Il Tempio della Fraternità. II edizione, Rotary Club Voghera, 1981.
Mariotti M., (1994), Il Tempio della Fraternità. Un messaggio di pace dall’Oltrepò Pavese. In Qui Touring, Anno XXIV,
n°3, Marzo 1994, pag. 80-83.
Ungaretti G., (1915), Veglia. In G. Ungaretti, (1969), Vita d’un uomo. Tutte le poesie, I Meridiani. Mondadori, Milano.

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