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I RICORDI DEL RE
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RACCONTI D’AUTUNNO
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Prologo
L’uomo che bussò alla sua casa aveva circa quarantacinque anni: bussava
forte, con insistenza
- Arrivo, arrivo…chi è a quest’ora?
Felev s’accostò la porta, titubante. Lui, ormai vecchio, come poteva
difendersi da qualsiasi brigante che vagava allora per quelle terre?
- Chi sei?
- Porin, quello che per te era come un figlio.
Felev, al solo udire quel nome obliato dal tempo, aprì di fretta la sua casa
all’uomo. Piovigginava fuori, e l’ospite era bagnato. Celere il padrone di
casa lo fece accostare al fuoco, per scaldarsi, e gli diede qualcosa con cui
cambiarsi, dei vecchi stracci che lui chiamava abiti.
- Come, com’è possibile…come sono felice, Porin, tu sei qui! Che
gioia!
- Sì, padre, alla fine ti ho ritrovato…
- Hai tante cose da raccontarmi, caro ragazzo; no, sbaglio, non sei più
un ragazzo, sei un uomo. Ma dimmi, dove hai vagato, cosa hai fatto
in questi vent’anni?
- Non farmi domande, per favore. Almeno non oggi.
- Oh, certo, hai ragione! Che stupido che sono! Ma devi essere
stanchissimo, te lo leggo in volto: ecco, vieni, dormi nel mio letto, io
dormirò nella sedia, non temere.
- No, padre, faremo il contrario, secondo l’ordine. Eri tu il Grande Re,
e io il tuo servo.
- Ero, Porin, ero: non lo sono più. Ma sia come tu desideri.
- Grazie, mio signore, io dormirò qui, sulla sedia. Ogni racconto, per
piacere, rimandiamolo a domani.
Allora Porin si stese nella sedia, con aria distrutta. La barba scura
gocciolava ancora, incolta, come i corti capelli. Gli occhi incavati
s’assopirono veloci, sotto lo sguardo di Felev, stupito e felice ad un tempo.
Il vecchio fissò per un po’ il dormiente, massaggiandosi i radi peli bianchi
sul suo volto e i lunghi capelli canuti. Gobbo sul letto rimase desto finché
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il cuore e gli anni glielo concessero, poi cadde in un sonno leggero, finché
una nuova visita non lo destò.
- Scrivi; io t’aiuterò per le parti della storia che non conosci o che hai
dimenticato.
La voce del Viandante assordò il vecchio, Grande Re, Felev, solo nella sua
piccola stanza ricavata in una delle mura esterne della fortezza di Bingrim.
Non viveva più nessuno in quell’antico palazzo, solo lui in quella casetta
che dava sull’esterno. Il Grande Re, fissando il Veida, chiese amareggiato:
- Perché devo essere io a scrivere i ricordi di questa sventura? Perché?
- Perché tu l’hai conosciuta meglio di tutti, tu l’hai patita più di tutti.
- Proprio per questo non voglio farlo. Non ti basta che io continui ad
affogare la vita nel mio dolore? Perché mi condanni a quest’altro
supplizio?
- Perché nessuno, eccetto te, potrà narrare di quando gli uomini hanno
giudicato un giusto, l’hanno condannato. Nessuno meglio di te potrà
narrare del tuo figlio che ha deciso di portare sventure che non erano
sue.
- Sì, e di quando il padre è stato l’assassino del suo unico figlio, e da
ciò considerato eroe.
- Uno dei più grandi di sempre.
- Solo il fallimento dell’umanità. Non so narrare, non sono un bardo
io, Felev, figlio di Belessar, discendente di Nelian.
- Sì, ma in te scorre anche il sangue di bardo, non solo quello del
guerriero. Ora chinati sul foglio, che il nostro racconto abbia inizio.
Felev si piegò dolente su una pergamena ingiallita ma vuota, ignara
d’inchiostro. Attingendo la sua penna al calamaio, attese:
- Come devo iniziare?
- Scrivi “Ricordi del Grande Re Felev, o della sventura degli Uomini”.
Partiremo dal principio, da quando il male sembrò sparire per sempre
da Arret, e gli Elfi sembrarono scomparire dal mondo.
Così prese il via il dolente racconto della vita e delle opere del Grande Re
Felev, e di come gli Uomini, i signori d’Arret, furono essi stessi il nuovo
male del mondo, la causa della distruzione di molte meraviglie, e assieme
la cura contro ogni tormento che afflisse in quei tempi tutte le genti.
Prima di narrare però, il Viandante cantò, un canto sommesso:
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I
Felev
Ai confini del mondo, sulle Rupi del Cielo, il Corvo Bianco stava in attesa
da tempo infinito. Da quando tutto era stato creato, l’animale sacro
attendeva. Fissava il vuoto immobile, finché non fosse venuto il segno: e il
segno giunse. Un fischio profondo risuonò allora nei cieli, e pochi
poterono udirlo, volontà e potere d’Euon. Il Corvo udì il fischio, e si
mosse. Gli occhi del colore dell’arcobaleno guizzarono, improvvisi, e le
maestose ali si spiegarono impetuose. Come un lampo, l’animale sacro
spiccò il volo, come le antiche canzoni, perdute nei ricordi degli elfi,
annunciavano che sarebbe avvenuto, Quello fu il principio del viaggio
degli elfi, il principio del dominio degli uomini.
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- Ma che dici! Voi non potete andare! E verso dove, poi? Non sapete
cosa c’è nei mari!
- Lo so – rispose l’elfo – e temo cosa ci aspetta: eppure non possiamo
non partire, perché ora il nostro cuore brama le onde. Sire, è passato
tanto tempo dall’epoca delle grandi genti: io la ricordo, io ero lì,
sventurato protagonista. Degli amici di Lendelin Eidur e di Nelian,
forse solo io e Mel del Lovar siamo rimasti. Ma le cose sono
cambiate, e i nostri cuori, in cinquecento anni, si sono stancati. A
volte ci sembra di non udire più la voce di questa terra, di esserne
diventati estranei: altre volte, come un richiamo dal mare e dal cielo.
Sire, questa è l’epoca degli uomini: non c’è più spazio per le certezze
degli elfi, per le loro arti e la loro grazia, non qui. Voi crescete in
numero, noi ci assottigliamo, ci sentiamo sparire; e ora, il Corvo
Bianco ci chiama a seguirlo. Nessuno ora ci può fermare; il nostro
viaggio è benedetto da Euon.
Così parlò, e questa volta si sollevò, e io non riuscii a fermarlo. A passi
veloci uscì via dalla sala, e con lui quanti lo seguivano: furono gli ultimi
elfi ad andar via dal Morien, di ritorno dalla mia reggia. Quando gli
ambasciatori erano tornati alla loro terra, una sola nave rimaneva ad
attenderli: tutti gli altri elfi del Morien erano partiti, o scomparsi, non so.
Le loro navi erano salpate, veloci così come lo era stata la loro decisione di
partire. Degli elfi dei boschi, i Lovariani, nulla sapevamo, nulla era stato
comunicato: eppure le parole di Ronilis non lasciavano speranza; anche
quelli sarebbero partiti, o scomparsi, e nulla, nessuna traccia sarebbe
rimasta di loro. Ero giovane allora, e poco compresi della gravità degli
eventi: eppure le conseguenze apparvero quasi subito. Ben presto noi
uomini ci insediammo in quelle che un tempo erano le terre degli elfi del
sud: all’inizio i coloni furono pochi, ma col passare degli anni
aumentarono in numero.
In quell’epoca nacque il mio unico figlio, quello che doveva essere il suo
erede: avevo trent’anni, allora. Norea, mia moglie, di poco più giovane di
me, ebbe una gravidanza tranquilla, così mio figlio Nolundir nacque sano e
forte, la speranza del futuro per gli uomini. Pochi mesi dopo nacque anche
quello che fu il migliore amico e il compagno di sventura di mio figlio, il
suo fraterno compagno Porin: per me fu come un secondo figlio, tanto gli
volli bene. I due crebbero assieme, uniti in tutto, mentre la corte attenta
vegliava e vigilava su di loro, affinché non conoscessero né dolore né
fatica. Erano privilegiati: l’uno il figlio del Grande Re, l’altro il suo fedele
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II
Nolundir
“Guarda, figlio, gli elfi che partono su navi veloci verso altri lidi,
sconosciuti. Guarda i loro volti lucenti per un’ultima volta, mentre le terre
mute li salutano con sguardo assente. Ascolta i loro canti, che non più
udrai risuonare fra le onde e rami fruscianti. Senti, le loro ultime parole
che rintoccano dalle navi per gli uomini:‘Partiamo senza meta, né
sappiamo se vedremo ritorno, se rivedremo mai queste candide spiagge, o
se mai ci risveglieremo dal torpore che c’oblia nei reconditi nascondigli fra
alberi remoti, se non alla fine di tutto. Vi doniamo il mondo,
v’abbandoniamo queste lande: a noi fu dato di proteggerle e conoscerle, a
voi di forgiarle; di chi sia il più grave destino, solo il cielo lo sa. ’” Così
cominciava un racconto di allora sui viaggi degli elfi che partivano, e poi
continuava con mirabolanti imprese sui mari e nuove terre conosciute dalla
stirpe d’Argento. Ma in realtà, nessuno di noi seppe davvero che fine
fecero gli elfi, e quando una loro nave fece il suo breve ritorno, alla fine
della storia che devo narrare, fu in circostanze tristi, guidata dal Corvo
Bianco, e poi subito, svolto il suo compito, ripartì.
Ma mentre questi racconti, e queste bizzarrie, dilagavano fra gli uomini,
mio figlio e Porin crescevano, belli e forti nell’aspetto e nell’animo. Si
facevano uomini, avevano già raggiunto quasi gli anni della maturità. Fra
di loro Nolundir era il capo, il maggiore, non solo nell’età, mentre Porin
era più debole e insicuro. Nolundir teneva i capelli lunghi e scuri, mossi,
quasi ricci, sempre legati. Non aveva barba, cosa che sembrava farlo più
piccolo d’età rispetto a quanti anni avesse realmente. Porin invece teneva
capelli corti e scuri come il carbone, e barba incolta sul viso, quasi a dargli
un po’ della sicurezza che non aveva; di carnagione più chiara di mio
figlio, Porin aveva a volte l’aspetto d’un bambino, a volte quello d’un
uomo, e la sua indole era indefinibile, quasi sfuggente, in ogni caso
insicura. I due ragazzi stavano sempre assieme, come due fratelli, e io
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nei suoi sogni senza notte e paura, mentre un dolce sorriso si stendeva
sulla pelle morbida e bianca.
La donna, la padrona di casa, parlò:
- Allora vi siete perso, giusto? Non temete, mio marito appena arriverà
vi indicherà la via. Sapete, noi siamo i custodi del bosco…qui non
viene mai nessuno…e voi chi siete?
- Signora, forse dovrei dirvi che sono solo un cavaliere che s’è perso
durante una caccia, eppure sento di potermi fidare di voi: sono
Nolundir, figlio del Grande Re.
- Oh, mi scusi principe, se non l’ho riconosciuta! Mi prego, perdoni la
povertà della casa! Oh, non si preoccupi, non appena verrà, mio
marito l’accompagnerà subito fuori da qui…lo farei io, ma come
vede, non posso lasciare mio figlio…vuole favorire?
- Signora, davvero, non si preoccupi: starò qui in un angolo ad
aspettare.
Così Nolundir rimase in casa, in attesa, assieme alla donna: la padrona di
casa era poco più che una ragazza, giovane e bella. Aveva capelli rossi, e
occhi chiari, incastonati in un viso bianco e brillante. Era snella, e
scattante, e sembrava innocente come il cerbiatto che il principe aveva
visto il giorno prima. Avrebbe potuto essere una principessa, e invece era
un’umile donna di casa. Sbrigava le sue faccende con grazia, un po’
intimidita dalla presenza del principe, e nel frattempo badava la figlio,
tutto vestito d’azzurro, che ogni tanto reclamava la giusta attenzione della
madre. Le ore passarono così, mentre da un momento all’altro doveva
tornare l’uomo di casa: eppure non giungeva. Ma la donna non era
preoccupata, diceva che qualche ritardo nel bosco era normale. Qualcuno
bussò alla porta, una vocettina flebile chiese:
- Signora, potete aprire, abbiamo bisogno d’aiuto…
- Certo – fece la donna di getto, aprendo la porta con incauta
noncuranza.
Apertasi la porta, un omone enorme si getto sulla ragazza, mentre altri
entravano in massa: erano circa venti, banditi. Uno di loro, ridendo, prese
ad urlare come un folle:
- Buon giorno, bella signora, tuo marito ci ha indicato la strada per la
tua mensa, prima di morire…e noi siamo venuti dove ci ha detto, non
potevamo certo fargli questo sgarbo, no!
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Solo dopo molte ore Nolundir si risvegliò, con un gran dolore al capo e la
rabbia che riaffiorava: la donna era ancora lì, esattamente come quando i
banditi avevano deciso d’andarsene. Le si avvicinò: tremava, era in fin di
vita. Il principe avrebbe voluto rincuorarla, avrebbe voluto sapere cosa
dire; invece tacque, distrutto da tutto ciò che era successo. Mentre pensava
al da farsi, la donna, ormai vinta nel corpo e nell’animo, chiuse gli occhi e
si spense per sempre.
La casa rimase vuota, e dopo poco tempo anche Nolundir la lasciò,
malconcio e dolorante. Camminò senza meta, senza voler pensare: eppure
una folla d’immagini, per la maggior parte agghiaccianti, s’affollarono
nella sua testa, mentre il bosco si faceva più fitto fra i suoi piedi. Vagò per
due giorni, fermandosi raramente: un branco di lupi o qualsiasi altro
animale avrebbe potuto attaccarlo, allora, ma per il principe non contava,
non in quel momento. Invece Nolundir ritrovò la via di casa, e la voce di
un cavaliere amico lo risvegliò dal suo torpore, dopo il lungo vagare:
- Signore, guardate, il principe!
Un cavaliere su di un alto destriero richiamò un altro uomo poco lontano.
Questi, il signore, Porin, accorse pieno di gioia: quasi subito però, alla
vista dell’amico malconcio, questa si rivolse in paura. Con fare frenetico
chiese:
- Nolundir, tutto bene? Come stai? Cosa ti è accaduto? Sei sparito per
giorni!
Nolundir non rispondeva, sicché Porin insistette con più forza:
- Nolundir, cosa c’è? Che cosa hai visto?
- Per favore Porin, non ora. Ho visto l’orrore che la vita e l’uomo
sanno essere…voglio solo riposare, dormire e dimenticare; abbi pietà
di me.
Porin non fece altre domande, solo fece montare l’amico sul suo cavallo e
insieme tornarono dove dovevano alloggiare per quella caccia. Si
riposarono l’intero giorno, e il successivo di buon ora si misero in
cammino per tornare a Tedaran.
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III
La terra degli uomini
IV
Malinwe
Ci sono tre visioni possibili del mondo e dello svolgersi della storia,
sostanzialmente: le altre, credo, sono più o meno varianti. C’è chi crede
che tutto sia un’eterna evoluzione, che si passi da una fase all’altra, senza
cambiamento sostanziale, un cambiamento di forma, non di qualità,
insomma. Per chi la vede così, la scomparsa degli elfi, e tutto ciò che ne è
seguito, è stata solo una fase: un periodo storico, come lo sono stati il
mondo degli elfi, e quello degli elfi e degli uomini assieme. Anzi per taluni
di quelli che parlano così, si può anche parlare d’evoluzione, di progresso,
di passaggio da una condizione peggiore ad una migliore, e di scomparsa
degli elementi più deboli od ormai inutili nelle società. Questa è la visione
della nostra cultura d’oggi, e quindi anche la visione della mia mente.
Poi c’è un’altra visione del mondo, opposta. Ci sono uomini che
rimpiangono il passato, come se tutto dipendesse da esso, come se tutto il
bene del mondo venisse dai tempi andati, e se al giorno d’oggi non ci fosse
che bruttura e ingiustizia: certo, hanno anche le loro prove, quest’uomini.
Se si guarda a che cos’è l’uomo oggi, certo, spesso gli si dà ragione. E, in
effetti, dalla partenza delle navi mai più riapparse, molte cose sono
successe, che c’hanno spinto in condizioni spesso disastrose. La vita al
mondo è realmente peggiorata, e in molti campi, dalle scienze all’arte,
nascondendoci dietro la nostra volontà di cambiamento, fingiamo di non
vedere la decadenza che ci ha colpiti. Dietro questa visione, pessimistica,
c’è qualcosa, proveniente da parti profonde del nostro spirito, spesso della
nostra stessa spiritualità. Molti fra noi uomini credono che la storia sia un
lento, inesorabile declino: per chi ci crede, da quando Relue ed Evria
hanno aperto il vaso proibito, l’uomo si è condannato da solo alla sua
stessa pena; noi stessi, nella storia, siamo gli esecutori della nostra
condanna. Tutto sparirà alla fine, tutto si perderà, e ciò che c’è stato di
buono fra gli uomini, inesorabilmente, crollerà. Questa, è triste
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V
Navi verso sud
S’annida in me il canto,
Si pasce di sospiri e sogni:
A suo diletto in me si muove
Percorrendo il corpo esanime,
Vinto da sonno e notte.
Mi sono sempre chiesto i perché di molte cose, riguardo agli uomini: e fra
questi, uno dei dubbi che mi ha sempre incuriosito di più è il perché ci
affanniamo tanto dietro le forme, non guardando ai contenuti. Ammetto di
non avere una risposta, di non aver mai capito: forse ho sempre sbagliato
io, affaccendandomi troppo su cose che, in fondo, sono pura costruzione
anch’esse; forse non ho l’animo per capire certe finezze e sfumature
dell’anima, la sensibilità sopita di spiriti eletti. Forse sono soltanto
un’ipocrita che non giunge a comprendere l’estasi magica della parola, il
suo potere obliante, il sonoro oblio del suo suono appena sussurrato: in
questo però avevo per compagno mio figlio. Ricordo che odiava questo
genere di canti, aveva una parola per definirli: finzione. Oltre la musicalità,
nulla. Dietro la maschera dell’immagine, il buio. Perché? Certo, il potere
della poesia è grande, la sua magia immensa, come quella della musica:
ma così non si sminuisce? Se dietro la formula magica del poeta non c’è
niente, non si spreca la parola? Penso che talora i migliori poeti siano
quelli che non usano orpelli di sorta, quelli il cui unico strumento sia la
parola nuda e cruda: non amo coloro che vogliono evocare ai miei sensi
per giungere al mio animo; preferisco quelli che hanno il coraggio di
parlare direttamente al mio cuore. Non intendo che dietro ogni parola ci
debba essere un insegnamento, perché i migliori maestri sono quelli che
hanno imparato di non poter insegnare; intendo che dietro ogni parola ci
debba essere la verità, che sia del reale o del cuore e dei sentimenti. Ma
ogni costruzione fatta per stimolare un attimo, di passaggio, i sensi, quella
non m’interessa, ed è quella che mio figlio definiva finzione.
Questa era una delle rarissime cose su cui Malinwe e mio figlio, il principe
Nolundir, erano d’accordo; del resto, non poteva che essere così, vista la
loro ottusa volontà di giungere al profondo delle cose: ma per il resto,
come si sa, erano quasi sempre in contrasto. Appunto per questo loro
opposto modo di vedere le cose, furono scelti entrambi per guidare la
spedizione sul mare, e con loro l’affabile Porin. Certo c’era il rischio di
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Fra quella gente che salutava c’ero anch’io, ad osservare mio figlio che
partiva: in cuor mio non so se era maggiore l’eccitazione e l’orgoglio, o la
paura di non rivederlo mai più. Quello s’affacciò verso il porto, poco
prima di sparire all’orizzonte, o forse fu solo una mia impressione. Da
lontano, mi parve di vederlo salutare, e far cenno di addio con le mani.
Così salparono le tre navi verso sud: quando tornarono, ogni cosa fu
diversa fra noi uomini, e soprattutto per me.
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VI
Fallimenti
Non comprese, Nolundir, di che posto fosse quello in cui era giunto: ora
anche il suo fato si compiva, si incanalava in una via che gli veniva posta
davanti, e che lui sceglieva di percorrere. Il principe penetrò nella grotta,
con i compagni. Era breve il tragitto, illuminato da candele e profumato
d’incenso: di fronte un altare. Subito il principe s’avvicinò, e lì sopra trovò
un foglio scritto in elfico; accanto giacevano gemme e monili
d’antichissima fattura, e una piccola otre aperta. Non facendo caso a quei
monili lì vicini, il giovane uomo disse ai compagni disattenti:
- Queste sono parole d’elfi! La stirpe d’Argento e passata da queste
isole nel suo viaggio. Qui hanno lasciato un loro monito:‘Questo è il
luogo del fato degli uomini, e il suo mistero non ci riguarda. Eppure
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VII
Il principe contro il saggio
Ben presto però ci si rese conto, fra la gente, che le cose non erano andate
così bene come si pensava. Anche se la grotta e l’otre non vennero mai
citate, si parlò di isole che non si dovevano raggiungere, e di oscuri motivi
per cui quel viaggio era stato un fallimento. Solo in pochi conoscevano le
reali motivazioni di quel ritorno al Grande Regno, con l’equipaggio
decimato, e fra i più si congetturava: qualcosa doveva essere accaduta,
qualche sventura, ora se ne parlava, doveva aver colto le navi in mare.
Oppure qualcosa s’era trovato nelle isole, che non doveva essere scoperto;
c’era anche chi, lasciando ampio spazio alla sua fantasia, sosteneva che le
navi erano giunte alle terre degli elfi, e che questi avevano scacciato in
malo modo la stirpe d’Elettro.
Solo a consiglio si parlò delle reali motivazioni del ritorno, e dell’accaduto
nelle isole, che da allora furono dette Maledette. Quando tutti i membri del
consiglio furono riuniti, a palazzo, e tutti fummo seduti attorno al tavolo, il
primo a prendere fu Nolundir. Mio figlio appariva pallido, stanco, anche
dopo il riposo che avevo concesso dal ritorno delle navi. Qualcosa lo
turbava nel cuore, mentre le parole scorrevano fra le sue labbra:
- Molte cose sono accadute nelle isole che abbiamo toccato, anche se
non sembrerebbe. Poco abbiamo trovato, ma di gran valore: per tre
notti ì abbiamo sostato, sulla costa della prima isola che abbiamo
raggiunto, colti da incubi, ma nient’altro ottenevamo nella nostra
ricerca, che cielo e mare. Poi, addentratomi nella foresta con tre
compagni, è accaduto ciò che non doveva accadere, e causa ne sono
solo io e la mia follia: scorta una grotta, luminosa di candele e
odorosa d’incenso, vi siamo entrati, incuranti dell’avviso al suo
ingresso; dentro trovammo l’otre di Relue ed Evria, e come stolti ad
essa c’accostammo, vinti nell’animo. Fuggimmo via, come riavutici
da sogno, ma il danno era fatto: una triste e grave febbre prese i tre, e
in breve perirono: pesante compagna, la malattia dilagò fra gli
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Dopo qualche ora decisi di cercare mio figlio, ma non lo trovai: allora
qualcuno dei cortigiani mi riferì quanto gli era stato lasciato detto. Mio
figlio era partito, con Porin al seguito, preparati rapidi bagagli. Non
lasciava detto quando sarebbe tornato, né dove andasse: solo chiedeva di
non preoccuparmi. Così feci, e lasciai correre, tornando a pensare al mio
regno.
E di certo i problemi non mancavano: non avevamo risolto il problema
della sovrappopolazione e della redistribuzione delle terre, mentre
avevamo ottenuto solo false e infondate speranze per il popolo. Quanto
aveva predetto Malinwe si stava drammaticamente avverando, portando
presto, lo immaginavo, scompiglio. Ora si cercava un capro espiatorio, ed
era naturale che questi fosse il principe Nolundir, mio figlio: lui era stato
l’esponente fra coloro che avevano voluto questa spedizione, che s’era
risolta in un fallimento. Come proteggerlo, come difenderlo? Non lo
sapevo, e in questo mio dramma personale mi arrovellavo: in gioco non
c’era solo la presenza di mio figlio alle sedute del consiglio, ma anche la
stessa credibilità della nostra casata. Se avessi condannato mio figlio a
stare fuori dalle decisioni, come avrei potuto poi affidargli il regno alla
mia morte? Che fiducia poteva avere la popolazione in lui. E ora la sua
fuga, la sua scomparsa non mi aiutava di certo: come un bambino
sembrava fuggire alla sconfitta, inerme e impaurito di fronte al suo errore.
Malinwe aveva ragione su tutta la linea, me ne rendevo conto; e per di più
le sue richieste erano le stesse che avrei posto io nel suo ruolo. Il consiglio
s’era diviso, ma la maggioranza era dalla parte del saggio: certo, come
Grande Re potevo comunque decidere di mia volontà; ma sarebbe stato
giusto ignorare le ragioni altrui per difendere la mia famiglia? Volevo dare
un’altra possibilità a mio figlio, sapevo che la meritava: ma come fare?
Cosa dire? Che motivazione trovare?
Intanto altri lutti s’affacciavano all’orizzonte. La malattia, come c’era da
immaginarsi, non s’era fermata agli equipaggi della nave, ma iniziava a
colpire fra la gente di Minaran, che per primi era stata a contatto con essa:
quando la notizia giunse, segreta, a corte, convocai Malinwe, invitandolo a
recarsi nella città, per costatare se i sintomi corrispondessero a quelli che
lui conosceva. Il suo responso fu quello che temevo: la malattia si
propagava, si faceva epidemia, e oscuro morbo della mia gente.
Convocammo tutti i medici più illustri del Grande Regno, alla ricerca di
una cura, di un qualche medicamento per risolvere la crisi, ma ogni
tentativo risultò vano: nulla funzionava contro quella febbre che
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VIII
Di notte
Le mura della taverna erano scure della poca luce: a stento si scorgevano i
visi degli avventori. I bicchieri di vino e i boccali di birra ricolmi
rilucevano dei lumi delle candele e delle torce, mentre fumo e sospiri caldi
annebbiavano vista e menti: da tutte le parti vociare scomposto e caos, risa
e schiamazzi che intorpidivano il pensiero. In mezzo a quel trambusto,
tranquilli con le loro bevande e i loro pensieri, Nolundir e Porin
risaltavano per la loro estraneità. Il principe, tutto preso dagli eventi degli
ultimi giorni, non emetteva respiro o sibilo, mentre Porin invano cercava
di scrutare lo sguardo basso dell’amico. Poi, preso coraggio, il compagno
del principe, dopo un interminabile silenzio, chiese:
- Nolundir, perché da giorni ormai stai lontano da casa, rifugiatoti fra
la gente, e vaghi di strada in strada senza meta?
Il principe non rispose; emise solo un lungo respiro, quasi cercando,
frugando fra le sue idee qualcosa da dire, ma niente. Silenzioso, appena un
sussurro, cantò qualcosa
capire, anche lui preso dai fumi dell’alcol; Nolundir invece, era fin troppo
lucido, inviolato il suo boccale:
- Brindiamo tutti al nostro re! Brindiamo al principe, che ci ha fatto
questo splendido dono!
- Cosa urli, sei ubriaco – rispose qualcuno dalla folla.
- E anche se fosse? Io voglio proprio brindare al nostro buon sovrano
che ha ammazzato mio figlio portandolo in mare, e che ora ammazza
mia figlia con ciò che ha portato in dietro dal viaggio. Non smetterò
mai di ringraziarlo!
- Cosa c’importa dei tuoi figli, vecchio. Sta zitto e non disturbare.
Il vecchio s’ammutolì, e sedette ad una panca, guardando nel vuoto: una
lagrima scese sulla sua guancia, rossiccia. Nolundir solo ascoltava il
vecchio sul serio, col capo chino: Porin non sentiva, preso com’era a
fissare tutti gli avventori, ponendosi interrogativi sui loro perché e sulla
loro vita. Ma più ancora si perdeva nelle immagini e nelle visioni del vino,
obliato ogni pensiero: quel dolce veleno lo prendeva, appropriandosi
sempre più del suo animo, e ora nient’altro esisteva che il suo dolce vagare
fra finzioni e falsità.
Il principe s’alzò, con passo malfermo, e venne al vecchio; postosi vicino,
chiese con fare amico:
- Dimmi dei tuoi figli.
Nessuno in quei giorni l’aveva riconosciuto fra la folla, se non pochi, e
nessuno gli aveva parlato; in tutto il suo vagare, il principe era rimasto
irrimediabilmente solo:
- Sono morti, entrambi ammazzati da questa febbre.
- Tuo figlio aveva navigato col principe?
- Sì, era andato con quel dannato, nella sua stessa nave. Credeva in lui,
e quello l’ha ucciso. Perché non s’è ammalato anche lui? Il suo
popolo muore della sua malattia, e lui gioca a fare il bambino viziato,
scompare nell’ombra, fugge. Si nasconde dietro giustificazioni e
scuse, ma non vale niente: uno qualsiasi dei suoi uomini è migliore di
lui.
- Forse hai ragione; sì, credo proprio che tu abbia ragione.
- Grazie ragazzo, sei una brava persona; come ti chiami? Perché possa
pregare per te sul letto di morte.
- Nolundir, come il principe.
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- Addio Nolundir; ora devo andare. Non credo che più ci rivedremo,
perciò t’auguro di vivere una vita migliore della mia, persa fra
miseria e vino.
Il vecchio si rizzò in piedi: a stento si teneva sulle gambe, e le mani
cercando appigli lo portavano verso l’uscita. Il principe rimase lì a fissarlo
per un po’, assorto; poi, quando ormai l’uomo era sparito dalle nebbie
della taverna, Nolundir tornò al tavolo, dove a stento Porin s’era accorto
della sua assenza:
- Dov’eri? Non ti ho più visto…
- Qui vicino. Porin, come ti sei ridotto…andiamo via da questo posto:
qui non abbiamo più nulla da fare.
- Va bene…dove andremo?
- Per strada. Ancora non è tempo per me di tornare a palazzo: prima
devo confessare le mie ultime colpe, a me stesso, per primo. Forse
domani tornerò da mio padre.
- Come vuoi tu, Nolundir: sai che verrò ovunque con te.
- Va bene, ma ora usciamo da qui: questo posto, tutto questo, non lo
sopporto più. Mi prende la nausea; no, non pensar male di me, non
delle persone che sono qui: mi prende la nausea di come ci si riduca
qui, e del perché lo si faccia. Non sopporto più la miseria di questo
mondo d’uomini, e delle bestie che sappiamo essere per
nascondercela. Tutti questi uomini, qui, si mischiano alle bestie,
come loro non vogliono essere, perdere la loro mente, essere solo,
vivere perché si deve, finché occorre. Del resto, la vita ha insegnato
loro a non occuparsene: ma in fondo, questo, lo facciamo tutti.
Il principe ed il suo amico uscirono in fretta dalla taverna, pagato ciò che
avevano consumato: fino a quel giorno avevano dormito in un piccolo
ostello, in realtà non molto distante dal palazzo di Tedaran, eppure, come
parte d’un altro mondo. Le mura basse, il tetto ammuffito dall’umidità, i
letti scricchiolanti e grondanti d’insetti: quello era davvero un altro mondo
rispetto al lusso a cui erano abituati. Tuttavia, Nolundir e Porin si curavano
poco della cosa: s’erano allontanati da palazzo perché avevano bisogno di
stare fra la folla, di sentire la gente viva, e di capire molte cose; avevano
bisogno di riflettere su quanto era accaduto negli ultimi tempi, anche per
causa loro, e il modo migliore era stare in mezzo alle conseguenze.
Le strade erano buie, e la notte ormai giungeva al suo culmine: una luna
alta e rossa brillava in cielo, silenziosa compagna del sonno. Poche stelle
splendevano vispe, le più s’ammutolivano sotto sottili veli di nubi, che
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RACCONTI D’INVERNO
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57
I
Parole di saggio
La stanza era muta: Felev quella sera non scriveva, non ci riusciva. Troppi
dubbi gli affollavano la mente, troppe domande insolute, questioni senza
risposta; e su ogni cosa, una questione: perché.
Perché; perché il dolore, perché la sofferenza, perché la vita. Perché il
piacere, a stridere ancora di più con le angosce della vita, perché questo
vivere stesso. E ancora il perché di quel destino che gli toccava in sorte,
ora, di scrivere, aveva dovuto patirlo lui, la sua famiglia, suo figlio, e di
riflesso il suo mondo, la sua epoca. Non trovava risposte, e fissava il
tavolino su cui era solito scrivere, assente. Porin era già andato a dormire:
da quando aveva preso a raccogliere le sue memorie era già passata una
settimana, e quell’uomo che era sparito dalla vita del Grande Re Felev
ormai da vent’anni era rimasto con lui in quei giorni. Ma Porin non sapeva
niente di quel manoscritto, e non c’era motivo per cui ne venisse a
conoscenza: in effetti, Felev non sapeva neanche perché stesse scrivendo
questi suoi ricordi.
L’incedere lieve del Viandante lo destò dai suoi pensieri, ma il volto
rimase fisso, immobile, vitreo:
- Sei appena arrivato?
- Se così vuoi dire: oppure ero già qui da un po’.
- Non capisco, ma fa lo stesso.
Il Viandante s’avvicinò al Grande Re, vicino al tavolo, lento e grave. Con
un movimento del braccio scintillò sul manoscritto, e lesse le ultime
parole:
- Sei fermo al punto di ieri sera.
- Lo so.
- Perché? Hai dimenticato qualcosa e aspettavi il mio aiuto?
- Dimmelo tu.
Il Viandante, tutto incappucciato e nascosto in viso dal buio fissò Felev per
qualche attimo, senza dare segno di che, poi proferì verbo:
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Il nunzio arrivò dopo poche ore, trascorse veloci nella notte. Bussò forte
alla porta, temendo di non essere udito, ma per fortuna destò Porin: l’uomo
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sotto le rughe e i solchi del tempo che aveva percorso il suo corpo. La
stanza era calda e poco illuminata, per dettami dei medici: la luce dava
fastidio alla regina, le doleva agli occhi, e così si era resa necessaria la
penombra. Coperte spesse le pesavano addosso, e quella nel sonno le
scostava, forse accaldata; subito qualche ancella ricopriva la donna,
amorevolmente. Tutta la corte stava attorno al letto infermo della regina
Norea, tutti sembravano ormai in attesa dell’ultima ora; nessuno faceva
caso ai nuovi arrivati, l’unica cosa che contasse allora era la veglia per
quella donna che aveva retto negli ultimi vent’anni, da sola, il Grande
Regno, e che ora si spegneva.
Felev, lasciando il posto accanto a Porin, s’avvicinò a sua moglie
facendosi spazio: prese una sedia e si mise accanto a lei, facendo cenno, se
possibile, a tutti quelli che erano nella stanza di allontanarsi. Rimasto solo,
prese la mano della donna, e la baciò, dolcemente e flebilmente. Mentre
compiva quel gesto, una lagrima scorreva sul suo viso; il suo addio alla
moglie che, lo sapeva, da tempo, da troppo tempo, ormai non lo amava.
Stava per alzarsi, lasciata la mano, Felev, quando Norea, la regina, si
risvegliò. Norea vide il marito, Felev, il padre di suo figlio; a stento, con
un sottile soffio di voce, gli chiese di rimanere
Così Felev, il Grande Re, e Norea, la sua regina, rimasero soli.
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63
II
L’ultimo atto
- No, caro Felev, caro Grande Re; non capisci che un tempo riposi la
mia fiducia in te, il mio cuore, ciecamente: io, probabilmente sola fra
tutti. Ti difendevo a spada tratta da ogni diceria, da ogni menzogna o
critica, da ogni voce che si levasse contro di te. Tutta la mia persona
aveva un solo obiettivo, essere il tuo scudo: pensavo che tu, essendo
il sovrano, dovessi essere sottoposto a pressioni e sofferenze che non
avevo neanche il diritto di tentare di figurarmi; pensavo che nella tua
posizione, con l’amore che nutrivo per te, cieco, le tue decisioni,
qualsiasi fossero, dovessero avere ragioni che non potevo vedere o
capire, per la mia stupidità, per la mia piccolezza. Tu eri il
grand’uomo, io la tua umile serva. Allora l’amore m’orbava della
vista, non osservavo i tuoi sbagli, la tua arroganza, le tue follie, le tue
fobie e la tua assoluta indecisione; sempre in balia di consiglieri e di
consigli, sempre guidato dalle opinioni di altri, che sapevi solo fare
tue. Eri una marionetta dei tuoi uomini e di qualche tuo ideale fuori
dal mondo, della tua presunta saggezza e della tua conclamata
idiozia: ed io? Io dietro di te, ad osservare, giustificare, comprendere,
aiutare; io dietro a zittire, a reprimere i primi dubbi, le prime
incertezze. Avevi ragione, punto e basta. Ma dov’era la tua ragione?
Hai portato questa gente alla rovina, hai dato inizio ad una crisi e ad
un male che non cesserà più; non hai compreso in tempo cosa
perdevamo, non hai saputo impedirlo, non hai voluto farlo. Tutto
preso da te stesso e dalla tua piccola visione del mondo e della vita,
non hai osservato la vita degli uomini dimezzarsi per i mali che hai
causato e permesso: qualcuno ti ha salvato, sempre, è vero; ma la
cosa non è mai stata merito tuo.
- Per favore, non pensare a queste cose ora; conosco tutte le mie colpe,
e me ne dolgo più di quanto tu possa credere; ma non è questa l’ora
di tornare su di esse. Ora noi due dovremmo solo tentare di
riconciliarci, prima che sia troppo tardi, prima che non si possa più.
- Riconciliarci? Parli di riconciliazione, tu? Forse non comprendi che
tutto quello che ti ho detto, fino ad ora, non è che una piccolissima
parte dei motivi per cui ti odio; al massimo per queste tue idiozie
saresti degno del mio disprezzo. No, Felev, non ti sopravvalutare,
non per questi motivi ti odio, semmai il tuo popolo, sempre che si sia
mai sentito tuo. Sai perché ti odio: non udrai da me quel nome; gia
rimbomba troppo nella mia mente.
- Nolundir.
65
III
Relimam
allora i due provarono una gran gioia, e rimasero in quella posizione per
interminabili minuti. Dopo parecchio però, Nolundir si decise a guardare
in volto la sua donna, vergognandosi della sua condizione: con orrore si
rese conto d’aver riconosciuto la voce che lo chiamava prima, ma di non
vedere più lo stesso viso d’un tempo. I segni della malattia apparivano
chiari sul volto di Relimam, e chiara era anche la sua fine imminente:
l’ennesima persona che era passata per la vita di mio figlio, scompariva.
Con orrore Nolundir comprese tutto, né ebbe più la forza di parlare: con lo
sguardo impietrito fissava la donna sua amata, e vedeva solo un fantasma
che sbiadiva lentamente sotto i suoi occhi.
Con orrore Relimam si rese conto di tutto, della paura e della rabbia che
suscitava in Nolundir, e ne provò sgomento: mio figlio non riusciva a
parlare, e la cosa la feriva, ora che lei aveva bisogno della sua presenza,
per un ultima volta. Con titubanza prese la parola:
- Nolundir, non guardarmi così, te ne prego. Non aver paura di me…
- No, no! Relimam, non ho paura di te! Improvvisamente ho paura di
ciò che accade: tu, così, malata. Io non riesco a pensare.
- Sto morendo, Nolundir, non c’è nulla su cui riflettere. Muoio a poco
a poco ad ogni istante; anche ora, ecco, tu m vedi morire.
- No che dici, non dirlo neanche per scherzo! Vedrai, guarirai…
- Nolundir, non guarirò, come nessun’altro è guarito da questo male.
Giungo alla fine, e prima di essa volevo vederti per un ultima volta.
- No! Non sarà l’ultima volta!
- Smettila, basta. Non è per piangere che sono qui: ormai ho versato le
mie lacrime e saluto la mia vita. Tu sei qui con Porin – l’amico di
mio figlio stava rintanato in un angolo, in silenzio, senza interferire
in quella che era una discussione privata – e ancora hai una speranza.
Ti credo quando dici di essere innocente, perché fra la gente s’è
sparsa la notizia che questa sia la tua opinione: ma anche se sarà una
bugia, confessa, se ti può salvare la vita.
- Relimam, ma che dici…
- Sì, metti da parte l’orgoglio e confessa, Nolundir! Almeno tu, vivi.
Nolundir rimase muto, con gli occhi bassi nel buio, a riflettere. Relimam lo
fissava dolcemente, senza parlare; con le mani gli carezzava il viso:
- Non dici niente? Non hai qualcosa da dirmi?
- Sei venuta solo per questo? Per chiedermi di confessare?
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- No, mio amore: sono venuta per darti il mio addio ed il mio dono,
perché ti siano di conforto in quest’ora. Ora che muoio, sappi che ti
amo.
- Lo so, mio amore: anch’io t’amo e sempre lo farò.
- Se è vero promettimi che farai quel che chiedo.
Nolundir rimase immobile e muto, i suoi occhi fissi negli occhi di
Relimam. Questa ansimava vistosamente, e la sua pelle negli ultimi minuti
s’era fatta ancora più pallida, quasi trasparente:
- Non posso, per quanto è vero che t’amo perdutamente e su ogni cosa.
- Bene, Nolundir; perché è per questo che t’amo, e questa è stata la
prova di quello che sei ai miei occhi. Anch’io t’amerò finché avrò
respiro e oltre, là dove, nessuno sa dove sia, tutti giungiamo dopo la
fine. Ti veglierò sempre, amore mio; quando sarai triste e solo,
ricordati di me, come io farò da lì.
- Non mi lasciare ora solo, te ne prego…
- Non ho scelta Nolundir, devo. Già ora mi sento di sparire, e non
voglio che tu lo veda. Devo andare via, fuggire alla tua vista, addio
Nolundir!
Con quelle parole dette nello spasimo, Relimam si voltò verso la porta
della cella: allora Nolundir, dimentico d’ogni pericolo, la tenne per il
braccio, fino a farle male, e farne a sé assieme; tirata la donna al petto,
strettala nell’abbraccio più delicato e forte che poteva, Nolundir, baciò
Relimam, con tutto la passione e l’anima che teneva in corpo. Non c’era
tempo o malattia o condanna che lo trattenesse, soli erano, entrambi, e la
loro sorte: senza fiato, si lasciarono, e la donna corse via, debole, nei
corridoi delle carceri. Sudava freddo e gli occhi non vedevano più.
Relimam s’appoggiava alle mura, in preda alla debolezza, sentendosi
svenire: intanto mio figlio s’era seduto accanto a Porin, in lacrime.
La corsa s’arrestò ben presto; le gambe non sorressero più il corpo, le mani
non trattennero il venir meno. La mente si lasciò andare, le forze
s’affievolirono, la vista cedette il passo all’oblio. Tutto si fece scuro per
Relimam, indistinto, mentre la febbre bruciava le carni e fiaccava l’anima.
Nulla tratteneva più alla vita quella donna, nulla ci riusciva più. Come lo
scorrere improvvisamente celere d’un fiume ad una cascata, tutto sparì; e
poi la corrente si fece lenta davanti alle onde del mare, alla foce raggiunta
con infinita fatica. In uno scioccare di forze e turbinare di suoni indistinti e
immagini lontane, tutto s’obliò e si perse, e ogni fatica apparve vana e
74
IV
L’isola perduta
Ed il sonno prese mio figlio, e lo avvinse nella sua stretta, tenace come la
morsa dell’acciaio d’un serpente, le cui spire di ferro stringono la flebile
natura d’un uomo. Allora, abbattuto e tradito dalla luce, immerso nel
mondo irreale al di là dell’Oceano, mio figliò tornò a vagare, Nolundir,
senza meta stabilita, senza compagnia di speranza o sogni da realizzare,
solo avvinto nelle immagini che un destino e un volere più grande di lui gli
proponevano; e in esse, scelte che non avrebbe più potuto cambiare, e
nuove volontà e segni che apparivano. Luci, luci s’affollavano alla sua
vista, soli segnacoli d’una vita ancora presente, senza respiro o soffio di
vento; sole strade da percorrere, le luci indicavano la via al passo
malfermo, per un pendio scosceso, non calpestato da piedi, senza odore di
erba o di terra; senza contatto col fango o l’ombra di alberi e foglie. Ma la
via s’alzava e s’abbassava ad intervalli regolari; una catena di moti e di
colline che s’affacciavano ai sensi e alla mente, scorrendo via, liquidi e
senza forma.
Le luci sul capo di Nolundir si fecero più potenti, più vicine: fattesi
un'unica stella dispersa nel cielo azzurro, sola visibile, anche più del sole,
la via fu rischiarata di nuova chiarezza. La spuma del mare apparve nel suo
chiarore, bianca, chiara, pura: le onde si succedevano sempre uguali e
diverse, il ritmo del respiro del mare, mai identico a se stesso, eppure
sempre lì a dichiarare la sua esistenza. Lo sguazzare di delfini attorno alla
nave ricordavano che il mondo esisteva ancora, che Nolundir non era
l’unica creatura vivente su quelle acque chiare e calme, che il vento a
stento scalfiva con un soffio leggero, di bambino. Le voci dell’equipaggio
s’affacciarono all’udito del principe silenziose e fuggitive, sospiri di genti
vicine, e allo stesso tempo così irrimediabilmente lontane: invano Nolundir
parlava a quegli uomini che richiamavano la sua attenzione; niente riusciva
a dire o a spiegare, che la sua voce facesse chiaro a quelle orecchie sorde.
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abbandonato dietro. Solo mio figlio scorgeva la luna, piena, come un tondo
scolpito nel buio, che illuminava di riflessi sull’acqua il suo mondo,
confinato ad un chiarore di mare e ad un turbarsi di specchi. La luna gli fu
compagna per istanti che apparvero interminabili, pensieri che si
rincorrevano senza senso e che sparivano d’incanto così come erano
apparsi: nulla valeva il reale, nulla era reale davvero.
Il nuovo sole portò un dono, un bagliore, come la freccia, che, scoccata
dall’arco, indica di nuovo chiara la via. Ma solo Nolundir la scorgeva,
mentre l’equipaggio rumoreggiava infastidito. Perché continuare verso il
vuoto ancora? Anche se da poco salpati, nulla v’era all’orizzonte da
scorgere, nulla che valesse il viaggio. Lo sconforto si fece sussurro, il
sussurro proclama, il proclama rabbia. L’equipaggio ammutinava,
deponeva il suo capitano mai scelto: con foga, tutti gli uomini venivano a
mio figlio, pronti a fare quello che in molti avevano desiderato da tanto,
porre fine alla sua vita. Le lame scintillavano al sole chiaro, riflettendo sul
viso di Nolundir la luce, abbagliandolo: le acque si mostravano sulle
spade, sempre immobili e placide, con lo schiumare delle basse onde sulla
legna della nave. Una di quelle spade gli fu contro, più veloce ed irruenta
delle altre: su di essa si specchiava qualcosa che non era il viso del
principe. Un urlo fermò ogni gesto, ogni follia di rabbia:
- Terra, terra!
L’uomo sull’albero maestro gridò con quanto fiato aveva in corpo, con
tutta la forza dei suoi polmoni:
- Terra, all’orizzonte un isola!
- Dove?
- All’orizzonte, verde si staglia sul mare. Guardate!
Al richiamo tutti osservarono, tutti cercarono: l’isola si intravedeva fra le
nebbie del mare lontano, alta di monte e bianca e verde di sabbia e foresta.
Una nuova terra viveva di fronte, e la meta di quel viaggio intrapreso per
caso, nel sonno.
Ciechi e vani
Canti d’artisti
E poeti:
Presunti geni e signori
Di dolori e vite;
Ma chissà poi
Se si perde sul fiume
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Del vivere
Tal miserabile orgoglio,
E nell’infinito
Silenzio
Del loro nulla essere,
Quell’alto sentire
Non sia soltanto
Orpello
E finzione
Di cuori vuoti.
Nell’attesa cantava, mio figlio, simili poesie e pensieri; e nella sua accusa
e nel suo disprezzo, prima di tutti veniva lui stesso. Non era ogni ricerca,
allorché si gloriava di se stessa, spoglia della sua vera essenza? Non era,
invece, orgogliosa affermazione di grande sentire? E chi stabiliva questa
grandezza? Chi diceva a Nolundir d’essere, di provare qualcosa di diverso
da ogni altro uomo, o superiore? Quale arcana consapevolezza, o finzione?
Forse era solo un ometto illuso, preso di se stesso, vacuo e vuoto come un
vaso dipinto lasciato di lato, un orpello da contemplare con ammirazione
dopo averlo plasmato. Certo, che senso avevano allora quei pensieri? In
realtà ne avevano: perché era lui il capitano, e non un altro? Perché non
uno qualsiasi di quegli uomini, che, sapeva, gli erano probabilmente
superiori? Non si arrogava forse un diritto che non poteva dimostrare suo?
Non era, alla fine, un sopruso, quanto il suo essere principe, in condizione
più agiata di quanti gli erano sottoposti? Quando, realmente, saggi, poeti,
sono più grandi del resto degli uomini? E quando, invece, si sono posti da
soli su di un piedistallo che non avrebbero neanche il diritto di osservare?
Quanti di loro si pongono il problema del loro stesso essere, prima della
sua espressione? Quanti alla fine, valgono come uomini, quanto
pretendono d’affermare?
Fra quei voli era calata la notte, cupa, questa volta, senza stelle né luna, né
bagliori riflessi sul tappeto di specchi delle onde. La ciurma mormorava
alla vista dell’isola che s’avvicinava: nessun fuoco o segno di vita appariva
sulla costa, né resti di mura o di porti. Il bagliore che aveva guidato
Nolundir ancora splendeva per lui, se possibile, anche più forte, ma a
nessun altro appariva, e nessuno scorgeva la linea che tratteggiava nel
cielo, verso dove conduceva la sua nave mio figlio. Giunse al fine la nave
alla costa, bassa: gli ormeggi furono gettati, e l’equipaggio scese veloce
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Canta le odi
Della donna a te giunta;
Canta le odi
Della donna scomparsa;
Perduta è l’ombra compagna
Dei sonni antichi:
Volteggia al tuo sguardo
Lo svanito amore
Dei perduti giorni.
quella cappa di muti suoni si ruppe alle parole della donna, mentre guidava
il principe a compiere quegli ultimi passi verso l’ingresso:
- Vieni con me, non temere: ho cose da mostrarti, e tu hai fatti da
apprendere.
Così i due si incamminarono, e nella notte scomparvero dall’isola.
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83
V
Bianco e nero
Nuovamente mio figlio non rispose; fissava il vuoto del trono, fisso,
aspettando che la sua prova si concludesse:
- Certo, mio principe. T’hanno insegnata la fedeltà al destino che
qualcuno t’ha inferto. Sappi che non sono io, piccolo potere che
mendica rispetto in questa aula abbandonata. T’hanno mentito,
t’hanno sedotto, Nolundir. T’hanno avvinto con belle parole, ma alla
fine ti hanno ingannato. Anche se morrai, tutto sarà vano; nessuno
comprenderà il tuo gesto. Da martire, sarai solo un nome su una
lapide. Dimentica tutto quello che t’è stato insegnato, cancella questa
follia! Il tuo sangue non laverà alcun peccato, non darà senso alla
pazzia! È solo pazzia tutta questa, Pazzia!
Nolundir allora cadde in ginocchio, come sferzato da qualche arma. Con
un gesto veloce della mano, scosse via lo scotimento dal capo:
- Ti faccio una proposta, mio principe: confessa il falso, e la vita ti sarà
salva. Penserò io poi, a farti liberare da tuo padre. Il mondo presto,
vedrai, dimenticherà l’accaduto, e tu sarai nuovamente il principe,
anzi no, il Grande Re.
- Non posso…
La risposta farfugliata da mio figlio fu solo l’eco della voce roboante
dell’Oscuro:
- Non puoi, o non vuoi? Disprezzi così tanto la tua vita?
Nolundir si sentiva travolgere dalla forza del contendente; era quasi
sconfitto, abbattuto. Come per cercare sollievo, si volse a ciò che teneva di
più caro al mondo. Dietro di mio figlio, Relimam attendeva, sbiadita;
allora apparve la rivalsa per il principe, la forza di lottare ancora un po’
con l’Oscuro. Ma la rivalsa divenne una nuova arma per l’Oscuro, una
nuova tentazione:
- Quella donna, l’ami, vero? Sai che presto ti dimenticherà? Sai che
anche tu, da morto, la oblierai? Lo vuoi davvero?
Nolundir tremò a sentire parlare di Relimam, ed esclamò:
- Cosa c’entra lei?
- Bene, vedo che tieni a lei più d’ogni altra cosa. Ti propongo uno
scambio: confessa e salva la vita. Presto tuo padre ti cederà il regno,
e tu lo donerai a me. In cambio, io ti donerò la sua eterna compagnia,
e il suo amore, vivo. Tutto sarà come prima; non è quello che vuoi,
Nolundir? Rifletti, principe, perché non avrai altra occasione. Questa
è la tua ultima scelta. Ora va: hai poco tempo per decidere; fra poco,
dovrai tornare a me con la risposta.
90
VI
Tentazioni e scelte
- Basta! Non ce la faccio più, lo capisci? Tutto questo, tutto nelle mie
mani; qualcuno mi tolga questo calice dalla bocca, perché io non so
più berlo.
- Lo so, amore, lo so…
- No, non puoi saperlo! Mi sento il mondo addosso, e tutto ciò che
vorrei è scaricarlo da qualche parte e fuggire. Tutte queste tentazioni,
queste scelte: troppo dolore, troppa morte sulle mie mani.
Furioso mio figlio prese a passeggiare: in giro, un venticello mesto e
assente si levava dalla collina verso la piana, proprio contro il suo capo,
risvegliandone i capelli e i sensi. In quel momento Relimam strinse come
poté il suo amato; quell’abbraccio fu freddo come la neve:
- Vorrei aiutarti, ma posso solo consigliarti. Non fare quello che ora
mediti, non cedere e porta la tua croce; tutti lo hanno fatto in passato
nella tua casa, tu forse lo farai per ultimo, poco importa.
- La mia casa, mio padre: cosa contano ora? Fuggire, morire,
dormire…
- Cosa dici, Nolundir?
- Sto dando di pazzo, mia amata: il mio senno vola via portato dal
vento; lontano, dove, non so.
- Fermati, per favore.
- No, tutto ciò deve finire, sia come sia.
- Basta Nolundir, smetti di giocare e torna te stesso!
- Non sto giocando, dannazione, Relimam! Sto morendo, sto morendo
dentro, non so più che fare! Tutte le mie certezze svaniscono di
fronte al dolore, davanti all’orrore della realtà: ogni mia azione è
stata un fallimento, ogni mio pensiero, solo un insulto verso la
sofferenza del prossimo. Ho il diritto di continuare in questa mia
pantomima? Non credo.
- Basta Nolundir, ho ascoltato troppe bugie e scuse da te in un solo
giorno: perché sai che queste sono tutte scuse, e che l’unica cosa che
stai cercando è la via più breve.
- E anche se fosse? Sbaglio? Qualcuno m può condannare se cerco il
minore dei dolori?
- Sì: io. Questo non è l’uomo che ho amato.
- Forse solo la sua ombra.
- Il riflesso su di uno specchio deformante.
- Le spoglie senza più l’anima.
- E tutto ciò ti va bene, Nolundir?
93
meno grande dei suoi predecessori, gli uomini della sua casata; in fine, non
meno tragico, e dal destino non meno triste di quello dei grandi elfi d’un
tempo, antico e perduto.
La voce dell’Oscuro, roboante, spezzò il filo di quelle visioni,
riecheggiando nella sala:
- E allora, è giunta la tua decisione, principe?
- Sì, essa è giunta con lo sparire d’una visione.
- Ebbene?
- Morirò, così come devo, così come si vuole.
- Sei certo delle tue parole? Sappi che perderai presto ogni ricordo,
d’amore e di gloria, e la tua scelta non sarà che un sacrificio fra tanti.
- E sia, se così deve essere. E se così dovrà essere, come dici, porterò
fardelli che non mi spettano.
- Vedo di non avere più potere su di te; non sei più schiavo delle mie
tentazioni. Eppure sappi, che nella tua sorte sarai solo, e chi sarà con
te quel giorno, fuggirà il suo destino, vagando per anni lontano dal
tuo ricordo. La tua famiglia patirà per il tuo volere, la discordia
affonderà le sue zanne su tua madre e tuo padre: nessuno terrà
ricordo del tuo morire, se non annali consumati nelle biblioteche;
tutto non sarà che un attimo, ma il dolore che infliggerai ai tuoi cari,
eterni.
- E anche questo sia così, se così dovrà essere: chi dovrà fuggire,
scamperà alla sua morte; chi dovrà litigare, perderà il suo orgoglio.
Tutto sarà secondo questa strada, e le tue parole non fermeranno il
mio volere.
- Stolto, pensi di poter sfuggire al mio potere? Tu non sei che cenere, e
cenere ritornerai ad essere: mucchio di ossa che si corrode, sarai per
sempre, in una tomba, il martire del mio tormento; imparerai così a
sfidare i miei desideri.
- Sia così, se deve: ma, se qualcun altro vorrà, così non sarà. Ma
accada ciò che deve accadere, io porterò la mia croce.
Allora, con una forza d’animo che non s’era mai sentito in corpo, Nolundir
uscì dalla sala, seguito da Relimam. L’Oscuro era vinto, e la sua presenza
scomparve come la notte all’alba. Fuori dalla reggia, Relimam parlò a mio
figlio:
- Ti amo, mio principe, ricordalo sempre: la prossima volta che ci
vedremo, forse non avremo più ricordo l’uno dell’altra, eppure
t’amo. Ora va, la notte finisce, i compagni salpano.
96
RACCONTI DI PRIMAVERA
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99
I
Ricordi delle origini
- Hai vinto tu, no? Sto continuando il racconto: perché sei ancora qui?
Il passo leggero, invisibile, del Viandante, risuonò solo per Felev, mentre
era intento ai suoi scritti. Il Veida, fattosi vicino al Grande Re, interruppe il
lavoro, e con fare calmo, rispose alla domanda:
- Ricordi le domande che mi hai posto? Ho da darti delle risposte.
Felev rimase a bocca aperta, sorpreso; dopo qualche istante di stupore, si
mise in attesa, attento a ciò che il Veida stava per raccontare:
- Bene; allora parla.
- Prima ricorda cosa mi hai chiesto: il perché del destino tragico degli
uomini; il perché del dolore; il perché del tuo dolore. Ora considera
che sto per raccontarti ciò che già altri ti narrarono: ma io, come puoi
immaginare, ero lì ad osservare, immobile ed impotente, quanto
accadeva; anch’io, nel mio piccolo, sono stato un muto testimone del
vostro dolore.
- Va bene, terrò a mente queste tue raccomandazioni. Ora parla.
- Ti narrerò di Relue e d’Evria, il primo uomo e la prima donna: della
loro nascita e della loro vita; della loro ascesa e della loro caduta.
Ma il racconto non iniziò allora: il fioco suono d’un canto ammantato di
ricordi lo lasciò in attesa per qualche attimo.
I loro dolori,
Le loro scelte funeste
Ed eterne
S’immergono ancora oggi
Nello stesso mare,
Sotto lo stesso cielo,
Lontani nel tempo.
101
II
Quando il mondo era giovane
Venne il giorno sulle Isole Maledette, e con esso una nuova vita: Relue,
come narrato da lungo tempo, si svegliava nella nebbia della nascita, solo
sotto il suo primo sole. Allora quelle isole che gli facevano da casa non
avevano nome, e lo spumare delle onde sulle loro spiagge risuonava nel
silenzio. Relue era muto, non parlava, né conosceva cosa alcuna attorno:
gli alberi, le piante, tutto gli era estraneo, nuovo, e la vita stessa era
un’incognita mai contemplata. La stirpe d’Elettro sorgeva.
Improvvisamente le isole si popolarono degli animali che il creato già
aveva conosciuto, e Relue li conobbe e contemplò: udì le voci delle fiere,
ed emise i suoi primi suoni; ma nessuno c’era ad ascoltarli e a
comprenderli.
Ma il racconto d’Euon era ancora incompleto, e molte cose avevano
ancora da avvenire, molte cose ancora doveva conoscere, Relue, e molte
parole udire: ora però la stanchezza lo prendeva, e dopo il sole, Relue
conobbe il sonno, e i dolci ed ingrati inganni dei sogni; vivo di vita breve,
Relue s’assopì, e nella notte le sue membra trovarono pace oltre i sensi.
Durante il sonno, un dolce canto, di voce mai udita, femminea: la voce
cantava, mentre Relue tentava senza riuscire d’ascoltare quelle parole che
102
il vento dei sogni portava via, lontano; tutto era inutile, però, ché non gli
era dato d’afferrare quelle note e quei suoni, mentre intanto il risveglio già
gli era prossimo.
Giunse il nuovo giorno, e Relue, stordito, fu desto. Ignoto gli era ciò che
aveva udito nel sonno, e incomprensibile era per il primo uomo anche lo
stato che fino a poco tempo prima gli era appartenuto. Così, sperduto e
solo, Relue prese a vagare, scoprendo nuove sensazioni: ebbe fame, e si
nutrì di frutti; ebbe sete, e si dissetò ad una fonte. Provò gioia, e corse per i
prati, rincorrendo il vento con i piedi veloci; fu alla fine stanco, Relue, e si
quietò sotto un albero. Gli animali allora, tutti, gli si avvicinarono
incuriositi, e alcuni gli furono amici, altri gli furono estranei, altri
diffidenti: ma nessuno era come lui, il primo della stirpe d’Elettro, e
nessuno lo comprendeva appieno, né lui comprendeva appieno alcuna
delle fiere. Giunse nuovamente la notte, mentre una tiepida luna
s’affacciava, gialla e bella come l’oro che risplende, e venne nuovamente
il sonno, fitto di sogni e voci. Nuovamente una voce femminea cantò il suo
richiamo, e nuovamente Relue la udì: questa volta però le sue parole
furono chiare, e la voce limpida
Morto il canto, Relue si svegliò di sobbalzo, e senza meta partì alla ricerca.
Vagò per l’isola, finché non si trovò a valle; nascosto sotto le foglie d’un
albero, si riposò dal caldo, Relue. Allora udì un singhiozzare, come di
neonato, ma d’un’innocenza strana, diversa: accostatosi alla fonte, vide
qualcosa che non aveva mai vista; lì, per terra, giaceva sperduta e sola
Evria, la prima donna. Allora Relue la strinse a sé, per proteggerla, e
quella cessò il suo pianto: in quell’abbraccio si sentì quieta, e silente stette
immersa in quelle braccia. Quando fu passato qualche minuto, allora Relue
condusse lontano dalla valle Evria, verso i luoghi che l’uomo già
conosceva, e lì rimasero, l’uno fissando l’altra, tentando di comunicare a
gesti e parole: fra d’essi nacque il dialogo, e i due si capirono. In quel
momento uomo e donna compresero d’essere l’uno il completamento
dell’altra, e decisero di rimanere assieme, così come, per ogni altra
creatura, femmina e maschio vivevano gli uni per gli altri.
Relue ed Evria rimasero così assieme nelle isole, e conobbero ogni cosa, e
vissero a lungo in pace e nella tranquillità più santa. Di tanto in tanto
qualche sogno veniva a loro, di notte, e diceva di venire ad una grotta: lì,
avrebbero sentito una voce; eppure, per lungo tempo, i due rimasero
dubbiosi sul da farsi, e temevano che da quella grotta, mali nascessero. A
volte Relue s’avvicinò al luogo indicatogli, cosicché bene imparò dove
fosse, e quale fosse la via più veloce e migliore per arrivarci: tuttavia, mai
v’entrò da solo. Così, la voce attese, mentre uomo e donna vivevano
nell’isole. Una sera però un nuovo sogno venne, e questa volta le sue
104
Il canto si spande
E le sue parole volano;
Volano agli uomini,
E la voce chiama.
Venite, non è più tempo
D’attesa e di timori.
Venite a me, ché è giunto
Il tempo di ascoltare
Il chiaro suono
Della mia voce.
Udrete d’ogni bene,
Che ogni cosa v’appartiene.
Sarete felicemente liberi
E al mio cospetto
Voi vivrete.
III
Voci
Relue ed Evria vennero alla grotta – la grotta che tuo figlio conobbe, Felev
– e la trovarono disabitata, vuota. Dentro, solo un bagliore splendeva,
visibile anche dall’esterno. Guardatisi in viso, con un muto cenno di
consenso, entrambi penetrarono, e seguirono quanto era stato loro chiesto
dal sogno. Nulla trovarono dapprincipio, e le mura erano fredde, irte di
punte aguzze: per terra pietre pungevano i piedi, e freddi i sassi
raggelavano le membra. Eppure qualcosa spingeva proseguire: era il
bagliore che ad ogni passo si faceva più intenso, e la sua luce riscaldava i
corpi nudi dei due uomini.
Proseguendo, Relue ed Evria giunsero fino alla parete che limitava la
grotta: su di essa, bianca, splendeva una gran fiamma, senza legna o altro
da ardere essa bruciava, e i lembi dei suoi fuochi giungevano fino al
soffitto della caverna, senza oscurarlo; dalla fiamma non nasceva fumo,
ma solo luce, e la cenere non le apparteneva, solo il bagliore. In
ammirazione i due uomini s’accostarono alla fiamma, per osservarla più da
vicino, quando una gran vampata, e un soffio di potente vento,
annunziarono nuovi miracoli e voci: allora la grotta s’illuminò tutta a
giorno, e in essa fu come se si risvegliasse la primavera nel fiore della sua
vita. S’udì lo sgorgare di ruscelli, lo strepitare del mare sulle coste, e gli
infiniti richiami delle fiere e delle creature più mansuete. Il vento rispose
al vento, le foglie frusciarono d’assenso, mentre la fiamma si faceva più
alta e rigogliosa, e gli uomini arretravano al suo splendore. Dopo poco,
tutto fu nuova quiete, e tutto si placò al calmarsi della fiamma, mentre
allibiti e increduli, Relue ed Evria rimanevano ad osservare. Passarono i
minuti, e la fiamma arse ancora, abbagliando i volti dei suoi osservatori,
finché Evria, sola, non decise d’accostarsi nuovamente: tutto fu
nuovamente rigoglio, come pochi minuti prima, e la fiamma ancora
s’accrebbe, più alta e splendente che poc’anzi; quasi da essa fu colta la
donna, e su di lei fu Relue per proteggerla, entrambi colti da veneranda
106
paura. In quel momento, la voce udita nei sogni si spanse dalla luce e parlò
ai due uomini:
- Finalmente siete venuti a me; che da me voi siete stati plasmati, e da
me ottenete vita e libertà.
- Chi sei?
- Sono colui che è, e la fiamma imperitura della vita è solo una mia
parte.
- Perché ci chiami?
- Perché è giusto che voi mi conosciate, e voi siete fra le mie genti: un
giorno voi verrete a me, e mi vedrete in tutta la mia essenza, quando
io sarò con voi.
- Quando? Perché?
- Quando io sarò fra voi, alla fine di tutto: prima vi coglierà la lunga
notte.
- Cos’è la lunga notte?
- La morte che attende le stirpi d’Elettro; voi, Relue ed Evria.
- Relue, è questo il mio nome? Ed il suo Evria?
- Sì, io ve li diedi, a voi che siete il primo uomo e la prima donna.
- Perché ci hai chiamati a te? Perché in questo luogo, tu che puoi tutto?
- Perché conosceste la strada di questo luogo, e sapeste: d’ora in poi
non dovrete più entrare in questa grotta, e vi sarà vietato ciò che qui
sarà custodito. Per il resto, il mondo è la vostra casa.
- Ci hai chiamati a te solo per dirci questo?
- No, Relue: altro ho da dirti. Sappi che sarai padre d’una lunga stirpe,
e la tua vita sarà sola nelle tue mani. Io oggi ti dono la possibilità
d’essere felice, e d’avere nella tua gioia la compagnia di questa
donna. I tuoi figli, qualsiasi cosa tu farai, lasceranno queste spiagge,
troveranno nuove case: a loro un giorno sarà dato il dominio di
quanto io ho narrato, e a loro la scelta di come adoperarlo; questo
sarà il tuo dono alla tua discendenza. E tu, Evria, tu sarai madre dei
suoi figli, e tuo sarà l’amore verso ciò che genererai; ne farai dono
col cuore. Per sempre mi sarai più vicina e più lontana ad un tempo
dell’uomo, ché nella tua natura si mescoleranno tante anime quante
io ne seppi creare. In te, donna, brilleranno stelle, le più magnifiche,
e s’oscureranno i più profondi pozzi e le profondità del mare. Tu sei
la creatura preferita, e assieme quella che più mi si rivolterà e
m’amerà: ma il tuo amore per sempre, sarà in parte amore del tuo
107
IV
Errori di gioventù
Relue ed Evria tornarono alle loro vite sull’isola, e per lungo tempo
trascorsero la vita in pace: passarono gli anni, e le cose sembrarono non
cambiare. Ma i cuori e gli animi degli uomini facilmente si lasciano andare
alla dimenticanza, e alla giustificazione; cercano le scuse per le proprie
debolezze, invece che correggerle. Così accadde anche per primi della
vostra stirpe, ed in ciò per nulla siete migliorati.
Relue ed Evria sapevano che la grotta era loro vietata, e così se ne
tenevano lontani: allora pascolavano le greggi nei campi, frequentavano le
spiagge e i boschi. Passavano il loro tempo assieme,e assieme parlavano
fra loro, e di nulla si curavano che di se stessi.
Relue ed Evria osservavano tutto: osservavano il sorgere del sole e della
luna, lo scrosciare delle onde sulla spiaggia, il crescere delle piante, ed il
morire delle creature ed il loro svanire nel nulla. Osservavano, e
ricordavano, ma senza comprendere: la cosa però non aveva importanza,
perché semplicemente i due scrutavano e non scorgevano le ombre attorno
alla loro vista.
Il tempo passò, e molte delle cose dette parvero solo come ricordi, voci del
passato che scorreva via, silenzioso e senza più sogni. Le onde del mare
scotevano ancora le sabbie, gli astri ancora sorgevano e si nascondevano
col trascorrere delle ore; ancora le piante crescevano e germogliavano, e da
molte di esse nascevano frutti; sempre le creature attorno morivano, e
persino Relue ed Evria ora si sentivano come più vecchi, anche se il loro
fisico non era cambiato, e il loro aspetto appariva lo stesso del loro primo
giorno. Tutto ancora si perdeva nel suo sbiadirsi, e i giorni, i mesi, gli anni
scorrevano via, con il defluire delle acque, portandosi dietro domande che
rimanevano senza risposta. L’inquietudine cresceva nei cuori di Relue ed
Evria: cos’era tutto? Che fine faceva il sole al tramonto? Dove andava la
luna all’alba? Perché la vita, perché la morte?
110
Queste domande crescevano nel cuore degli uomini, e su tutto la sete della
conoscenza: conoscere per conoscere, conoscere per essere se stessi; non
la conoscenza per vivere, quando la vita era già data.
Spesso di questo parlarono i due della stirpe d’Elettro, e spesso si
mostrarono i loro dubbi: perché le onde, e cos’erano? Perché le nubi, i
venti, e da dove venivano? Tante volte provarono a chiedere al silenzio,
ma questo tale restò. Nessuna voce s’udì più, e l’isola, eccetto che le voci
degli uomini e lo sbatter d’ali degli uccelli, rimase muta. Così la vita
proseguì ancora a lungo, ed un segreto rancore crebbe in seno alla
curiosità: rancore per una solitudine che non s’accettava, per un’ignoranza
che non si desiderava, e delle conseguenze degli atti, che non si riuscivano
a scorgere. Così gli uomini smisero di pascolare le greggi, e smisero
d’osservare: colsero i frutti della terra, senza più chiedersi i perché; tanto
non avrebbero ottenuto risposta, perché nessuno rispondeva più ai loro
quesiti. Erano abbandonati a se stessi, e le loro scelte apparivano ora
libere, soggette solo al loro volere; almeno, così presero a considerarle. Il
desiderio d’andare alla grotta li colse senza che loro se ne accorgessero,
Relue ed Evria. Quella tentazione si nascondeva bene nelle vesti della loro
sete d’umanità: volevano essere uomini, e la cosa, per i due, implicava il
ritorno a quel luogo.
Allora Evria una volta andò da Relue; questi carezzava dei cani lì vicino, e
con essi giocava, attendendo che venisse la notte. Interrotto quell’idillio,
Evria prese con sé Relue, e gli parlò. Allora Relue si mostrò dubbioso, ma
lei con poche parole fugò ogni incertezza:
- Cosa c’è da temere! Andremo, osserveremo, e non faremo mai più
ciò che c’è vietato: per una volta trasgrediremo le leggi, e finché la
cosa sarà nascosta, nulla accadrà. Quieta il tuo dubbio, perché a noi è
necessario, talvolta, concederci qualche debolezza.
- Forse hai ragione, Evria; eppur temo.
- Che cosa temi? Hai paura di tutto, mio caro? Ma lascia fare a me, e
tu seguimi; agirai solo quando sarà il momento, quando te lo dirò io.
Così alla fine decisero Relue ed Evria, ed attesero il nuovo giorno per
andare alla grotta: la notte trascorse senza luna, né stelle, e nella luce che
era scomparsa, dal loro capezzale si fugò anche il senno che li aveva fino
ad allora frenati.
Col nuovo sole, Relue ed Evria s’avviarono verso la grotta, per cui
conoscevano il tragitto. Vicino ad essa, un piccolo torrente scorreva
111
V
Conseguenze
Tutto tremò, e s’alzò un forte vento fuori dalla grotta: il cielo si fece cupo,
e gli alberi s’incrinarono. Sotto la pioggia, i due uomini si coprirono delle
vesti prese nella grotta; fino ad allora non ne avevano sentito il bisogno. La
notte non fece posto al giorno per lungo tempo, e la fitta valanga d’acqua
dal cielo non trovò più pausa. L’isola tutta rumoreggiava, come se volesse
espellere esseri che sentiva ora come corpi estranei. Relue allora pregò,
pregò forte, implorando perdono e pietà, e dalla sua bocca sgorgò un canto
che non più risuonò fra gli uomini, il suono della voce d’un maledetto.
A quelle parole il cielo rimase muto perché per quanto compiuto non c’era
un’altra possibilità: e anche se ci fosse stata, temo, il tempo avrebbe
portato agli stessi avvenimenti, né l’uomo impara mai dai suoi errori.
Così Relue ed Evria costruirono una barca, e ben presto presero a navigare
sul mare aperto, verso nord, cercando nuove terre da abitare, lontane dalle
isole che avevano conosciute. Navigando, ben presto li colse ancora la
tempesta, e l’onde alte li sbalzarono, come il rigetto d’un mondo che
rifiutava i suoi carnefici. Così, in quello stato d’abbandono dolente, su una
corrente nemica in acque agitate, Relue pianse, lagrime amare, e gridò
forte al vento:
- Perché, perché tutto deve andare così? Tutto finisce in un miserabile,
mio fallimento.
- Vedrai che tutto s’aggiusterà in un modo o in un altro, Relue.
- Basta menzogne, Evria! Abbiamo commesso un errore. L’unica cosa
che dovremmo fare ora, è chiedere perdono.
Allora Relue pianse ancor di più, e le sue furono lagrime sulla vita di
miseria che apprestava alla sua gente.
Calò la notte, e venne un nuovo giorno, e poi ancora, finché nuove terre
non furono visibili; davanti a quella visione, una nube di nebbia calò sugli
occhi degli uomini, e un sonno di sogni. Nel sonno, di nuovo una voce
conosciuta parlò, ora con tono amorevole e persuasivo:
- Sappiate che non tutto è perduto, non tutto è fallito. Verrà il tempo in
cui qualcuno laverà via il vostro errore, e verrà il tempo in cui
l’errare vostro non sarà che un ricordo. Allora le isole che
abbandonaste saranno di nuovo per voi terre accessibili, e la mia
voce ritornerà ad essere chiara alle vostre orecchie. Per ora andate, ed
il ricordo delle mie parole sia con voi.
Così parlò la voce che quei primi uomini conoscevano così bene, e mai più
essi la risentirono, anche dopo che nelle nuove terre, ad ovest del Lago
Maggiore, essi si insediarono e conobbero il realizzarsi di quanto predetto
loro e alla loro stirpe. Queste furono davvero le ultime parole che
echeggiarono per quei due uomini; in seguito, la nebbia svanì, e il sonno si
diradò, lasciando spazio alla veglia e ad un sole caldo. Gli uomini
popolarono le terre del nord, e si moltiplicarono. Il racconto di come,
dopo, incontrarono prima l’Oscuro così come era conosciuto in quelle
terre, e poi gli elfi, questa è un’altra storia.
116
RACCONTI D’ESTATE
120
121
I
La verità
I ricordi del Viandante armarono di nuovo le parole del Grande Re, le mie
parole, Felev; l’ultimo sovrano di tutti gli uomini.
Venne il giorno dell’interrogatorio, alla fine. Quella mattina la luce
penetrava forte dalle grate, e un caldo umido soffocava la bocca; il corpo
sudato si rannicchiava alla ricerca d’un po’ di frescura, ma di essa, solo
l’abbaglio sotto i raggi potenti del sole. Dopo due giorni che Nolundir e
Porin erano rinchiusi in quella cella bollente, finalmente vennero ad
interrogarli, a chiedere la loro versione dei fatti. Un gran vociare si sparse
della città, perché quel giorno ci sarebbe stato il confronto fra accusatori
ed accusati, e si sarebbe stabilita, o almeno si sarebbe tentato, la verità.
Porin era nervoso: sul suo viso contrariato e stirato, come da presse, per
tutto quello che stava accadendo, scorrevano gocce di sudore e paura, e la
pelle, bianca di fremiti, improvvisamente s’accendeva di rabbia. Allora
l’orgoglio sopito dell’uomo che si riteneva nel giusto, senza saperlo
esplodeva e le mani tremavano senza motivo, la vista si faceva più cupa,
come gli occhi dell’uomo, le labbra si inarcavano in uno sguardo d’odio
puro e di vendetta; vendetta, sì, su chi tentava di colpire impunemente lui e
mio figlio, che già avevano provato abbastanza i colpi della vita in quei
giorni.
Nolundir era invece immobile: immerso nelle sue profonde visioni (era
pallido in viso, due giorni l’avevano smagrito come anni d’ascesi) e non
s’accorgeva di nulla intorno a lui. Le sue gote ogni tanto si tingevano di
rosso, ma non di furore, solo la prova che il sangue ancora scorreva in lui,
ultimo segnacolo d’una vita che già sembrava abbandonarlo, sicura d’una
condanna. Le game rannicchiate al corpo, le mani a tenerle, lo sguardo
impietrito, gli occhi chiusi: così si presentava mio figlio ai suoi carcerieri,
mentre questi, curiosi, lo scrutavano, come per scorgere l’ultimo segno
della sua rinomata vitalità, o i primi segnali d’una follia che, ne erano
quasi certi, gli si accostava come una compagna di viaggio.
122
- Quello che lei voleva, o non voleva fare, questo tocca a noi scoprirlo.
Ora si sieda, perché dobbiamo fare una lunga chiacchierata. Voi –
disse rivolgendosi ai carcerieri – portate via l’altro.
Così Porin fu preso di peso e portato via, in un’altra cella, dall’altra parte
del carcere. Da lì non udì niente di quanto disse Nolundir interrogato:
- Cominciamo. Dov’era la sera dell’omicidio?
- Per strada, in giro con Porin. Prima eravamo andati in una taverna, a
bere.
- E tu bevesti? – l’accusatore usava ora un tono più confidenziale,
mentre un sorriso bonaccione, da complice, s’affacciava sotto il naso
camuso.
- No, non amo bere.
- E il tuo amico? Lui invece ama bere?
- Sì.
- C’è qualcuno che può testimoniare quanto avvenne? Fin quando voi
rimaneste lì?
- Sì, forse; ma nessuno lì ci riconobbe, almeno da quanto ne so.
- Quindi, in realtà, nessun testimone, eccetto voi stessi.
- Penso di poter dire così.
- Bene, e dopo? Raccontami i particolari.
- Dopo – l’accusatore prese a passeggiare tranquillo sul racconto di
mio figlio, mentre le parole tentavano d’afferrare e rendere solido
quanto era successo nella sera dell’omicidio – passeggiammo per
strada, e poi ci trovammo per caso sotto la casa di Malinwe.
- Per caso, vero?
- Sì, per caso.
- Bene, e poi?
- Udimmo voci, e ci accostammo alla porta d’ingresso: era aperta.
Entrammo, insospettiti, e al buio giungemmo alla stanza di Malinwe.
Lì lo trovammo morto.
- E il sangue sulle vostre mani?
- Urtammo qualcosa per terra, al buio, e lo raccogliemmo: era il
coltello.
- Già, con cui vi trovarono gli uomini accorsi e le guardie.
- Sì, proprio quello.
- Principe, si rende conto che senza testimonianze la sua condizione è
indifendibile.
- Lo immagino – rispose quieto in animo Nolundir.
124
al più puro dei terrori. La febbre salì nelle sue membra, d’un tratto, e il
viso si fece rosso di calore. In uno spasimo, il corpo s’agitò tutto, poi più
nulla, mentre le palpebre si chiudevano in un fuggevole riposo.
Dopo qualche istante, il singhiozzare interruppe nuovamente il correre dei
pensieri, e le lagrime corsero sul volto. Le mani portate assieme le
asciugarono, mentre s’avvertiva un lontano frastuono, dalla cella
dell’interrogatorio.
II
Giudizi
Io, Felev, giunsi alla piazza dove venne letta prima la sentenza, e poi la
pena a cui furono condannati gli imputati, che ancora mio figlio stava
giungendo. Lo vidi arrivare, senza potergli parlare, né toccarlo: fino ad
allora non mi era stato concesso, e, mi si diceva, avrei potuto farlo solo
dopo le decisioni. Era una mattinata calda, afosa: sedutomi sul mio trono, a
distanza dalla corte, vidi tutta la scena, come in un teatro, mentre un
pubblico recalcitrante applaudiva esasperato; mia moglie, accanto, si
teneva il viso, pallida per il caldo e la scena a cui, povera, era costretta ad
assistere. Quella fu una delle giornate più nere nella mia vita.
statura, con indosso un alto e pesante copricapo: il cappello era nero, con
dei lunghi pendenti argentati che calavano sui lati, ad incorniciare un viso
spento per il caldo, amplificato dal copricapo.
Quando tutti i giudici furono ben posizionati davanti al tavolo, salutarono
verso la folla, e poi s’andarono a posizionare sui loro troni. Quando furono
messi composti, il più importante di loro, quello con il cappello, si issò in
piedi, a fatica. Era un vecchio, uno di quei giudici di lungo corso, che
avevano caratterizzato, in parte, con le loro decisioni, anche la sorte stessa
del regno. Come fu ben dritto, il giudice fece cenno agli imputati d’alzarsi
anch’essi, e poi prese la parola:
- Di fronte a questa corte, principe Nolundir, e voi, Porin, avete nulla
da dire? Conoscete le accuse che vi si fanno?
- Sì, le conosciamo.
- E cosa rispondete ad esse?
- Rispondiamo – disse a piena voce Nolundir – che siamo del tutto
innocenti della morte di Malinwe.
- Negate quindi d’essere stati voi gli assassini del consigliere chiamato
Malinwe?
- Sì – fece ancora Nolundir – lo neghiamo.
- Sapete che tutte le prove depongono contro di voi?
Ma a quella domanda non ci fu risposta; dopo qualche istante di silenzio, il
giudice riprese nuovamente:
- Ebbene, la corte ha deciso
Allora un altro fra i giudici s’alzò, e venne accanto al suo superiore,
portando una pergamena, intarsiata, di quelle che s’usano a corte. La
srotolò e la consegnò al vecchio oratore, e questi lesse:
- Questa è la decisione della corte: viste le prove, tutte a danno degli
imputati; visto che gli imputati qui presenti non hanno saputo portare
testimoni della loro innocenza, e unico dato che recano per essa è la
loro parola; vista la gravita dell’accaduto – a queste parole seguì una
lunga pausa, inframmezzata solamente da urletti che provenivano
dalla folla; in questa, solo il palco regale rimaneva muto – gli
imputati in piedi qui davanti a noi sono dichiarati colpevoli.
La folla gridò d’approvazione: davanti a sé vedeva dei colpevoli che
andavano puniti, era certo; e in più erano anche gli uomini che avevano
portato dal loro viaggio folle il male che li stava scotendo tutti…ora
dovevano davvero pagare per tutto.
132
E io, Grande re, assistetti impotente a quella scena, mentre tutta la mia
gente reclamava il sangue di mio figlio. Il cielo crollava sulla pedana
rialzata da cui assistevo a quell’incubo, e nel caos una sola parola veniva
alla mia bocca, pressante, spingendo onnipotente fra la torma di pensieri e
paure che ora si affacciavano alla mia mente.
Perché?
Perché alla mia casa, alla mia famiglia?
Perché alla mia gente?
Perché quegli stupidi non stavano zitti, invece d’affogare la loro idiozia
nella condanna?
Perché desideravano tanto la morte di chi aveva tentato d’aiutarli?
Perché doveva contare tanto per loro se mio figlio aveva ucciso un uomo,
che fino ad allora, non avevano neanche mai considerato?
Ma ovviamente non arrivava risposta, né dal cielo né dagli spettatori di
quel teatrino, di quella farsa tragica, completamente disinteressati a quanto
accadeva dietro di loro.
non accadde. Una frase sola uscì da quel viso spento, che osservava occhi
che non lo comprendevano più, ma che in parte compativano:
- Quell’uomo paga per noi; non capisco.
III
Sentenze
- E’ strano, vero?
- Cosa, Nolundir?
- Come tutto alla fine sparisca; persino le persone.
- Che vuoi dire?
Tutto ciò che si sentiva nella cella erano le parole dei due amici. Quel
discorso, frutto di pensieri che ormai sfuggivano dal senno, appariva come
il volo d’una follia che si realizzava improvvisa, senza avvisaglie:
- Credi che io stia impazzendo?
- No, Nolundir, come puoi pensarlo; ma non capisco…
- Guarda, anche noi spariamo; anche chi ci è stato vicino, o ha finto
d’esserlo, sparisce senza lasciare traccia.
- Cosa stai dicendo…
- Il mondo ti usa, la gente ti usa, finché ha bisogno della tua esistenza;
poi, via, la tua vita viene gettata, fra i rifiuti.
- Nolundir, calmati…
- Follia, il nome comune dell’intransigenza; sai, mi chiedo se i folli
non siano che rabbiosi.
- Calma Nolundir, questi discorsi non sono da te: il principe che
conosco non direbbe queste frasi, non si abbandonerebbe al dolore.
Morirebbe con dignità.
- Morire con dignità? E cos’è la dignità? Il buon costume di non dar
fastidio agli altri neanche nel momento della morte? Forse hai
ragione, però. Forse, come sempre, sei lo specchio che riflette
l’immagine che io, in quel momento, non so più mostrare.
Porin scosse il capo, accigliato:
- Non so cosa sono, Nolundir: forse nessuno lo sa davvero, e ciascuno
si costruisce da sé la sua immagine. Ma so che ora stai dando di folle,
e stai dicendo cose non da te.
136
Attesi la condanna sulla stessa pedana, sullo stesso trono da cui appresi
della sentenza: mia moglie era accanto, ma per tutte le ore dell’attesa non
parlammo. Non mangiammo neanche, solo rimanemmo ad osservare la
folla che si diradava lentamente, mentre ciascuno tornava alle sue
occupazioni. Sembrava che noi non avessimo niente da fare, ma in realtà la
questione era diversa: improvvisamente, tutto l’equilibrio che c’eravamo
creati attorno, si sfasciava. Con una rapidità sorprendente, tutto si rivoltava
contro di me e la mia famiglia: la malattia, la condanna di mio figlio.
Norea, da quando nostro figlio era stato arrestato, aveva smesso di
parlarmi. Non capiva come non potessi intervenire, come non volessi fare
nulla per impedire quanto accadeva.
E cosa potevo fare? Impedire il processo e causare una rivolta?
Cosa potevo fare, se mio figlio non voleva il mio aiuto? Lui si dichiarava
innocente, e ancora oggi gli credo: ma tutto era contro di lui, e
137
la folla s’esaltava perché vedeva il dolore che, nella crisi che sconvolgeva
gli uomini tutti, colpiva il sovrano ed i suoi. In realtà di Nolundir, non
interessava niente: in lui e con lui, pagava suo padre e la sua stirpe.
Nient’altro.
Finito tutto, anche i due veri colpevoli tornarono alle loro occupazioni.
Ormai era sera, la notte li chiamava al suo riposo; ma ovunque si
espandeva una malcelata soddisfazione, e il motto del giorno echeggiava
di casa in casa.
Esulta
Ché giustizia è fatta.
IV
L’oblio
anche meno. Cosa si può pretendere da tanta creatura? Non è forse meglio
non chiedergli nulla e continuare da soli? A volte, forse, sì.
L’oblio, il dolce abbraccio del nulla intarsiato di fini decori, dipinto tutto
dall’arcobaleno, ma solo alla rinfusa, un’immagine da ricostruire con
l’inganno. Questo per taluni l’oblio; ma per altri, il vuoto, il non essere.
Scompaiono i pensieri, le paure, gli spasmodici affanni. L’anima s’abbatte
da sé, s’acquieta e zittisce il suo grido, reclama da sola la sua requie, e nel
silenzio scompare. Diviene un vizio, un bisogno, l’oblio; il dolce e oscuro
nemico del pensiero, dai pensatori a volte cercato nel momento
dell’affanno, per giustificare il muto vuoto del proprio cuore. Dai poeti
spesso cantato, come un sogno in cui vivere? La ricerca del senso d’una
vita, diviene in esso il senso stesso, ed il tetro inganno delle sue parole,
risponde bene a domande poste perché si deve, non perché le si vuole: in
quel caso, la prima risposta è quel che vale.
È questo l’oblio? Chi lo sa? Forse per ognuno è diverso, forse non esiste.
Ma questo non era il problema di mio figlio.
Il suo problema era riuscire ormai a fare quel che sentiva di dovere;
doveva, doveva non perdersi, doveva proseguire per la sua strada, con
insofferente coerenza; quello che il mondo un giorno prenderà per
arroganza, per coerenza priva di senso, di ego malato, quella in realtà era
la sua virtù. È comico come la storia trasmuti a suo piacere i fatti,
cercandovi significati che più le sono graditi in quel determinato luogo e
tempo: eroi divengono mostri, decadenze sono solo cambiamenti, cadute si
mascherano di passaggi; tutto non è altro che ciò che vogliamo vedere, o
non vedere, il più delle volte. La storia stessa, la vita stessa, non è che la
nostra creazione, il frutto del nostro peggio celato bisogno: essere i padroni
di tutto. Ma queste sono solo le mie di riflessioni, frutto di anni di
meditazione su singoli, minuti eventi, di quella vita che intanto scorreva
via, come sabbia fra le dita; la vita di mio figlio è stata un abbaglio, e per
quanto se ne sia andata con un ultimo lampo di luce, fu solo quello; così
breve, fugace. Vita vissuta per qualcosa che non era la vita stessa, per
altro: ma cosa fosse davvero, quest’altro, non lo saprò davvero mai.
Una delle guardie s’avvicinò con passi pesanti. Guardo con sguardo
compassionevole, a suo modo, quei due carcerati, consapevoli d’essere
solo morti che ancora camminavano, e chiese, reggendosi alle sbarre:
- Volete qualcosa per trascorrere questo tempo?
Sorpreso, Nolundir non rispose, mentre Porin, scosso ma desto, domandò:
- In che senso? È uno scherzo?
143
- Sei ubriaco.
- Non è affare tuo, lasciami in pace!
Allora Nolundir smise di parlare, e rimase solo ad osservare quello che il
suo amico, ormai del tutto ubriaco, faceva. Questi smise d’armeggiare con
le bottiglie, e prese i due pani di oppio:
- Che fai?
- Cosa vuoi da me? Me li vuoi togliere!
- Lasciali Porin; non lo fare…
- Va via! Lasciami stare, lasciami andare via…
- Basta, smettila!
Porin stava per adoperare i due pani di oppio, arrotolati nelle foglie, che gli
aveva passato la guardia. Nolundir s’avvicinò a lui, e lo prese a schiaffi,
facendogli cadere dalle mani quanto teneva:
- Cosa vuoi fare con questi? Cosa vuoi ottenere con queste follie?
- T’ho detto d’andar via! Tu li vuoi solo tutti per te!
Con quelle parole Porin prese a spintoni il suo amico, senza riconoscerlo.
Sebbene fosse ubriaco, era ancora forte, e Nolundir fu scaraventato contro
il muro:
- Tu chi sei, tu chi ti credi di essere! Non sei nessuno, non sai cosa è
giusto o sbagliato! Se ti togliessi quelle vesti da censore che indossi,
noi oggi ci potremmo salvare…ma no, tu devi essere coerente con te
stesso…tu devi credere nelle tue stupide leggi, e gli altri devono
pagare per le tue scelte. Va via, e lasciami perdere, se non posso
fuggire.
Nolundir s’avvicinò, ora più calmo, all’amico che dopo quello sfogo s’era
acquietato, come una bestia in attesa d’un attacco. Sedutosi davanti a lui,
Nolundir prese ad accarezzarlo:
- Le vesti da censore? Non sai da quanto le ho smesse, Porin. Basta,
smettila anche tu di farti del male da solo, te ne prego. Tutto questo
non ti serve, non serve a niente questo dolore che ti provochi, e che
provochi anche a me che ti osservo.
Nolundir guardava fisso Porin; questi era silenzioso, con gli occhi
socchiusi, ascoltava:
- Non obliare, non dimenticare, non ti perdere mai. Non lasciare che il
mondo ti scorra addosso, non ti perdere nelle tue vicende, nei tuoi
pensieri, nelle tue paure, nel tuo egoismo. Ricordati sempre che sei
solo un uomo, e per quanto tu possa essere grande, la tua sensibilità
superiore, la tua saggezza maggiore di quella degli altri, per quanto la
145
tua grandezza possa troneggiare sugli altri infinitamente più alta, sei
solo questo; un uomo, uno dei tanti. Tutto quello che fai ha
conseguenze sugli altri, e non solo sul loro pensiero, sulla loro
opinione; sulla loro stessa vita, le loro passioni, i loro sentimenti, le
loro sensazioni ed emozioni. Chi siamo noi per arrecare dolore agli
altri, per chiuderci nel nostro mero egoismo? Mentre ti perdi, e lo fai
per tua scelta, lasci che le tue azioni scorrano via, falsamente
irresponsabili; ma è sempre tua la scelta, tua la condanna nella
coscienza. Potrai tentare d’obliare anch’essa, e forse ci riuscirai, ma
credo, non del tutto. Eppure la realtà rimarrà sempre là davanti, a
specchiarsi nei tuoi occhi con le sue mute ombre che ti osservano.
Non obliare, non cercare mai la fuga dal mondo, qualunque essa sia:
il riposo verrà, forse, dopo la vita; non pretenderlo là dove non è
concesso, non è giusto verso chi soffre per te. Porta il tuo fardello,
Porin, fallo di buon animo, perché non è solo tuo; forse, da qualche
parte, senza che tu lo sappia, qualcun altro sta sorreggendo il tuo
carico, se ne fa portatore. Tutti siamo colpevoli di tutto, tutti
responsabili, tutti dobbiamo esserne le vittime, se ne siamo carnefici;
proprio perché ciascuno è causa di male, tutti noi dobbiamo essere
portatori del suo fardello. Non c’è scelta, Porin, o tutto crollerà alla
fine.
Ma Porin, chissà da quanto, non ascoltava più, e i suoi occhi crollavano col
capo in un profondo sonno senza sogni. Allora Nolundir sistemò il suo
amico, perché fosse più comodo:
- Dormi, Porin, dormi tranquillo; e rifuggi questi oblii, queste fughe
dai sensi e dalla vita: non sia mai per noi la diserzione dall’uomo.
Detto ciò, il principe prese i due pani, e chiamò la guardia. Gli disse di
farli sparire, e di non portarne mai più; gli diede anche le bottiglie,
ringraziandolo per il suo tentativo, spinto da buone intenzioni, ma che alla
fine aveva solo procurato più mali che beni. Poi, compiuto tutto ciò,
Nolundir si sedette per terra, con le spalle poggiate ad un muro della cella.
Nella penombra, prese a cantare con ritmo greve e lento.
E viene la notte
Con i suoi silenzi,
Su tutto si stende,
Tutto ricopre col manto
Che ombreggia le vite,
146
V
Carnefice
Vistili arrivare, rimasi senza parole: era la prima volta che mi si dava
l’occasione di parlare con mio figlio, da quando era scomparso da casa, e
dalla morte di Malinwe. Purtroppo però il corollario di cortigiani tutti
attorno a noi ci impedivano d’essere più diretti, oserei dire onesti, nelle
nostre parole, e la forma del cerimoniale ci costringeva in assurde formule
e domande che giravano solamente attorno agli argomenti. Non mi era
comunque dato di sapere come stesse, se avesse patito, se avesse da
recriminare qualcosa; non potevo sapere se qualcuno gli aveva torto anche
solo un capello mentre era stato in carcere.
148
Attorno a noi, mentre mio figlio e Porin, giunti ormai al mio cospetto,
s’inchinavano, s’alzava il frastuono sgradevole delle voci: ciascuno
esprimeva più o meno sotto voce la sua opinione sull’accaduto, e la sua
idea sul condannato. Per la maggior parte dei presenti Nolundir era
colpevole, e con lui Porin. Dietro un angolo della sala, scorsi, nascosta,
Norea, ad osservare quanto accadeva nell’aula; con gli occhi che
brillavano fissava suo figlio, in ginocchio e con le mani e i piedi legati,
davanti a suo padre. Mentre tutto sembrava fermo, e lo scrosciare delle
parole sussurrate faceva da cornice agli occhi bassi dei presenti, qualcuno,
non saprei dire chi, chiese:
- Perché sei qui? Cosa chiedi al tuo sovrano?
- Sono qui – rispose Nolundir – perché qui sono stato condotto; non fu
per mia scelta.
- E allora chi è che volle questo incontro – chiesi sorpreso.
- Non saprei, mio sovrano.
- Chiunque sia stato – ci interruppe Porin – lo fece evidentemente per
un motivo; per chiederti la grazia, mio sovrano, perché tu solo puoi
concedercela.
Le mura rimbombarono, e i marmi bianchi della sala del trono, tinti
dell’arcobaleno dalla luce che filtrava dalle finestre, furono ricoperti dalle
grida dei consiglieri. Un urlo comune, di sdegno, per la richiesta di Porin,
fu la risposta che venne da molti consiglieri alla sua affermazione, mentre
in pochi difendevano l’amico del principe:
- Come puoi chiedere una tal cosa – gridò uno degli uomini presenti.
- E’ una vergogna che un tale assassino reclami la grazia – gli fece eco
un altro.
- E’ un suo diritto – intervenne uno con forza.
- Ma che diritti! Non ne hanno, questi vili assassini – fu la conclusione
d’un uomo nascosto tra la folla.
La baraonda prese la sala, e nessuno smise di parlare, finché non
intervenni:
- Zitti tutti, ve lo ordino! E ciò che è la mia decisione, è solo mio.
Allora tutti si ammutolirono, rimanendo in attesa che dicessi o facessi
altro. Pensieroso su cosa dire o fare, rimasi un po’ in attesa, fissando il
pavimento: scaglie nere sul marmo bianco come latte, si rischiaravano
sotto i colpi della luce, e i vetri che filtravano i raggi del sole
trasmettevano il miraggio di colori che la dura pietra non aveva,
intingendo il proprio pennello fra le tinte dei migliori pittori. Giochi
149
davvero egli ha ucciso l’uomo che odiava, e forse il suo amico l’ha
aiutato. Tutto rimarrà possibile, nulla ci sarà mai di certo: eppure su
questo noi dobbiamo decidere.
- Appunto – fece un anziano, avanzando fra gli altri – perché nulla
abbiamo di certo, possiamo così impunemente dispensare morte e
condanne. Non abbiate fretta d’essere carnefici, non siate così
presuntuosi da pretendere di conoscere bene e male.
- E nel frattempo – rispose l’accusatore – il regno cadrà perché
abbiamo garantito la vita del principe. Per quanti non siamo così
magnanimi? Eppure la cosa ci verrà rinfacciata, certamente.
Nuovamente nacque lo scompiglio, ed io lasciai che proseguisse
indisturbato, mentre mi ritiravo nelle miopi profondità del mio pensiero, a
cercare una soluzione alla situazione. A parte poche voci, nessuno voleva
la grazia per i due condannati; comprendevo le ragioni di questo fronte, ma
in ballo c’era la vita di mio figlio. Su di un piatto tenevo tutto il mio regno,
la sua quiete, la sua vendetta, il suo volere; su di un altro c’era la mia
famiglia, il mio amore di padre, e un’assurda condanna verso persone che,
lo sapevo, ne ero certo, non potevano essere colpevoli di quanto li si
condannava.
Cosa fare? Ancora oggi non ho certezze, non so come mi sarei dovuto
comportare. Nessuno si dovrebbe mai trovare a sopravvivere al proprio
figlio, o in genere ad un proprio caro; sarebbe meglio morire assieme a
quanti si è amati, o piuttosto non essere mai vissuti. Ma ancora peggio è
essere i carnefici della propria creatura, del sangue del tuo sangue: allora,
ogni certezza che fino a quel momento hai avuto in seno, scompare,
lentamente e dolorosamente, si scioglie come neve al sole. Se hai delle
certezze nella vita, se sai di poter credere o di poter confidare su qualcuno,
allora le avversità sembrano minori, o addirittura appaiono come
inesistenti; ma se quegli appigli scompaiono, o addirittura sei tu ad esser
costretto a distruggerli, allora tutto si fa più difficile. Le maschere si
sgretolano, le finzioni s’accavallano, e improvvisamente, davanti a te, si
rivelano per tali. Tutto quello che ti sei costruito in anni, pensando che la
vita potesse solo migliorare, tutto si sgretola con una facilità estrema, e
quanti ti erano stati accanto nella fortuna, si rivelano come ombre dai
sorrisi agghiaccianti. Forse sono solo un paranoico, frustrato e abbattuto
dalla vita: forse non ho capito niente dell’esistenza; o forse l’ho capita
meglio di tutti, e il mio odierno, cupo pessimismo, suonerà ai più solo
151
come gli incubi d’un cuore nero. Comunque, sarò solo nello scorrere del
tempo.
Così come ero solo allora.
Fissai tutti i volti che potei inquadrare con il mio sguardo: la rabbia li
tratteggiava tutti di sangue, e gli occhi sembravano voler uscire dalle
orbite. Allora mi sembrò di cogliere, mio malgrado, la giustizia, e parlai:
- Non posso, non posso concedere questa grazia; non sarebbe giusto
verso il mio popolo.
- Ma lui è tuo figlio – urlò Porin.
Ma prima che rispondessi, prima che chiunque rispondesse, intervenne lo
stesso principe, Nolundir:
- Capisco padre; non ti biasimo, vista la tua posizione. Se non hai altro
da dirci, noi andremo.
- Non ho più nulla da dire.
Allora, alzatosi da terra con tutta la dignità che poteva, Nolundir si diresse
verso la porta; dietro di lui, le guardie e Porin.
In breve l’aula si svuotò, nel solito inutile vociare. Quando cercai con lo
sguardo, non scorsi più mia moglie, Norea.
152
153
VI
La fuga
Decisi d’andarlo a trovare, di nascosto. Non potevo lasciare stare così, non
potevo far finta di niente e attendere in silenzio la morte di mio figlio. Lui
scompariva, ed io rimanevo con le mani in mano a volgere lo sguardo da
qualche altra parte. Non era giusto, non potevo lasciare che finisse così.
Quando vidi mio figlio, lui era rannicchiato per terra. Mancava un giorno
alla condanna, e le ore trascorrevano lente, senza senso. Le mani tra i
capelli sembravano fermare lo scorrere dei pensieri, mentre una muta voce,
accanto, quella di Porin, salmodiava di continuo preghiere affinché fosse
liberato: quelle parole volavano al vento, e fra le spesse pareti della cella
sembravano rimbombare d’un eco inesistente, come se si fermassero a
ricordare la follia degli eventi e il tragitto già stabilito di quelle vite.
Mio figlio trasalì nel vedermi, e con un balzo, in piedi, s’accostò alle
sbarre che ci separavano:
- Cosa ci fai qui, come sei venuto?
- Sono venuto di nascosto, non temere, e nessuno sa della mia
presenza qui. Ho già parlato alle guardie: non diranno niente a
nessuno.
- Rischi parecchio con l’essere venuto.
- Non importa, dobbiamo parlare.
Allora una guardia mi si avvicinò, e aprì la porta della cella. Con un gesto
d’assenso le feci cenno d’allontanarsi, e così quell’uomo fece. Lo osservai
mentre s’allontanava circospetto nei corridoi, ogni tanto tornando a fissare
se fosse tutto a posto: ma ovviamente io non temevo niente da mio figlio,
né dal suo amico. Entrato dentro alla cella, mi sedetti accanto a mio figlio,
dopo averlo abbracciato. Porin stava davanti a noi, immobile e silenzioso;
sembrava come già vivere in un altro mondo, ai confini della follia:
- Fa così da molto? – chiesi intenerito verso un ragazzo che avevo
visto crescere.
- No, solo da oggi.
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Ora ricordo, ora ricordo chi mi disse quella frase: fu lui, fu mio figlio. Me
la disse subito dopo queste parole. Mi disse, con un sorriso e una lacrima,
stringendomi le mani:
- Ho trovato la mia pace nella mia missione, nella mia scelta e nella
mia fine. Perdonami per questo.
Con quelle parole si concluse tutta la nostra discussione; non potei più
parlare con mio figlio, potei soltanto osservarlo mentre si allontanava da
me, senza più speranze di reincotrarci.
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Forse avrei potuto dirgli qualcos’altro, tentare qualche altra via. Ma alla
fine, che senso avrebbe avuto? Era felice così, in un modo o in un altro.
Non di quelle felicità che i danno gioia sul viso, che ti portano un sorriso
che non sparisce mai dal volto: semplicemente mio figlio realizzava
quanto credeva, e di tanto si accontentava, se era quello un accontentarsi.
Mi alzai in piedi, voltandomi verso Porin: neanche allora parlò, né sembrò
accorgersi di me. Salutai mio figlio, lo baciai in volto; lo strinsi a me, con
tutta la forza con cui un padre può stringere suo figlio. Ai miei occhi
tornava bambino, lo ricordavo quando ancora piccolo veniva a me e saliva
sulle mie ginocchia. Ora invece mi sfuggiva, senza ritorno. Piansi lacrime
amare, ma le asciugai subito, per la stupidissima dignità che un uomo non
deve mai perdere; poi, accostatomi alle sbarre, feci sbattere l’anello contro
il ferro, richiamando l’attenzione della guardia di prima. Quella venne a
noi, e aprì nuovamente la cella: uscii lento, voltandomi numerose volte
verso Nolundir. Quello mi fece un ultimo cenno, con la mano, e poi si
sedette nuovamente per terra, sempre fissandomi. Nell’arco di pochi passi
mi allontanai, svanendo nell’ombra senza ricordi del corridoio, perdendo
l’ultimo brandello, ora lo riconosco, della mia famiglia.
VII
L’esecuzione
- Va via.
- Cosa?
Porin udì una voce, mentre attendeva la sua morte; volgendosi in ogni
direzione cercò, ma nessuno gli era vicino, ché anche le sue guardie
s’erano allontanate, accorrendo al cadavere di Nolundir, per mirarlo:
- Va via. Non c’è bisogno d’altre morti oggi; un innocente è già morto,
non ne moriranno altri.
La voce ora tacque, e Porin fu solo, improvvisamente. I nodi alle mani e
alle gambe, le corde, li sentiva inspiegabilmente leggeri, e con poca forza
si sciolsero. Allora, accortosene, l’amico di mio figlio rimase interdetto su
quanto gli accadeva, finché non decise d’ascoltare la voce. Allora scese
rapidamente dal muro, proprio dalle scale da cui saliva mia moglie: i due
163
Ma allora a questi fatti non feci caso: osservai solo Norea che s’accalcava
sulla salma di mio figlio; inginocchiandosi, lo accarezzò, ancora sotto lo
stendardo; la mano scorreva lenta, con fare materno e dolente. Allora
Norea volle scoprire il capo di Nolundir, per baciarlo un’ultima volta,
mentre dal basso osservavo. Porin mi passò davanti, cercando di
richiamare la mia attenzione, senza riuscirci; in breve fu un punto fra la
folla, e poi sparì fra le vie e i palazzi. In seguito non lo rividi per anni.
Le mani di madre presero lo stendardo, tirandolo; sotto, già appariva un
lieve bagliore. Quando lo stemma del mio regno, bagnato da quella
pioggia e quel sangue furono issati, sotto non rimaneva più nulla, e le
spoglie senza vita del principe caduto erano scomparse dalla vista, nella
sorpresa senza parole, dolorosa e pietosa assieme, dei presenti.
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165
VIII
Navi da sud
Nel trambusto generale, molte cose furono dette: molte ipotesi furono
immaginate, si parlò di fughe e incantesimi, di miracoli. Non so cosa
accadde realmente, né forse lo saprò mai. Spero d’avere risposte certe
dopo la morte, ma sempre più spesso ne dubito. Non dubito solamente
delle certezze che tenni n quei giorni.
Queste certezze furono poche, ma stabili. Nel popolo il disappunto non
scomparve, né d’un tratto, con una bacchetta magica, i problemi vennero
meno: anzi, il male continuò a propagarsi fra quella che un tempo era la
mia gente. Ormai l’epidemia che aveva colpito noi uomini dilagava, con
proporzioni mai viste, e un numero di morti che ormai era incredibile,
persino per i più pessimisti. Le terre però da coltivare ed abitare
rimanevano poche, o meglio, mal gestite, e i problemi e le sommosse
s’accompagnavano alla povertà. Non bastava un capro espiatorio,
chiunque fosse, per portare via le disgrazie, e ora la cosa si faceva chiara,
manifesta per tutti. Nella mia corte il malumore regnava, perché non si era
riusciti a portare a termine quanto ci si era prefissato: Porin era ancora
vivo, e per molti la cosa era una grave onta. Se devo dire la verità della
cosa non mi interessava niente: certo quel ragazzo era stato amico di mio
figlio, e gli avevo voluto bene; ma ora mio figlio era scomparso, in
qualsiasi senso si volesse interpretare queste parole, lasciando un vuoto
infinito nella mia anima. Ma sparendo, Nolundir, per quanto mi
riguardava, aveva portato via con sé anche tutto ciò che gli era legato o gli
apparteneva: nulla mi restava di lui, se non i ricordi dei momenti passati
assieme. Sapevo che il tempo avrebbe cancellato anche quelli.
Eppure non tutto cancella il tempo, e spesso, sono le cose che non
dovrebbero salvarsi quelle che si salvano. Così fu anche allora, così sarà
sempre, e ormai nel mio più cupo pessimismo che chiama come amica
attesa la morte, riconosco che i miei pensieri sono solo fastidio per la gente
che mi sta attorno. Un tempo fui fastidio per altri motivi, ma oggi la mia
166
sangue lo scettro del potere, e di che pene; che gli stupidi si facessero
realmente carico delle loro libertà. Forse in fondo, pensavamo le stesse
cose, reagendo diversamente.
Dal mio esilio volontario a Bingrim osservai tutto, indistintamente, mentre
le cose sembravano cambiare attorno a me: non dubitavo che il mutamento
fosse solo di facciata, ma mantenevo per me le considerazioni che, in
realtà, non affollavano per nulla le mie giornate; solo e perso in una vaga
contemplazione e nel quieto vivere, ho lasciato che la mia anima scorresse
via col tempo, inseguendo un sogno di pace, solo un sogno. Nella mia
languida tristezza, non ho osservato altro che il germogliare dei giorni e lo
scendere delle notti dal lago, e di nulla mi sono curato. Eppure ancora
qualcosa rimaneva delle follie dei miei tempi, e ancora di qualcosa
portavamo alle labbra l’amaro calice. Ancora il male portato da sud
infestava le vite della gente tutta attorno: forse io non m’ammalai per poter
essere l’osservatore, per recare la cronaca di quanto accadde assieme a
quella pestilenza. Non so davvero se è così, o se solamente mi do un ruolo
nel mondo che altrimenti non avrei. Alla fine, neanche questo importa
realmente.
Quello che accadde, che arrestò l’epidemia, fu un regalo dal cielo,
nient’altro. Non fu merito nostro, di noi uomini intendo, fu solo un dono,
sotto forma di creature provenienti dal passato, e che nel passato poi
tornarono di nuovo, definitivamente.
Ricordo che quando giunse anche a me la voce, a Bingrim, delle navi
approdate a Minaran, rimasi sorpreso: non m’aspettavo quelle navi, né i
marinai che recavano. Gli elfi, da terre remote che ora abitavano, venivano
a noi, guidati, nuovamente, dal Corvo Bianco. Venivano silenziosi, come
se ne erano andati, eppure la loro vista riscaldò i cuori come nessun’altra
visione mai. Giungevano su navi bianche, con alti alberi e vele d’argento
ricamate d’oro: il loro bagliore splendeva sul mare, si diceva, accecando
come luce del sole. Ma poche navi venivano, tre in tutto, da sud, da
lontano, e venivano solo per ambasceria e per un richiamo, un’ultima
volta. Approdati in porto, gli elfi cantarono in lagrime, quanti fra loro
giungevano. A guidarli, Ronilis, antico d’antica stirpe
Rivedesti le spiagge
Ed il mare
Quando ormai non speravi
Che quiete e sonno.
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Pianure e laghi,
E fiumi assolati
Che abbandonai in lagrime,
Ora torno non per restare
Ma la vostra visione
Riempie di ricordi
Un cuore antico.
Ricordi di terre e tempi
Luoghi e genti
Che non più rivedranno
La stirpe d’Argento.
Ronilis venne condotto a Tedaran, e accolto da mia moglie. Veniva con dei
doni, uno scopo. Si disse che fosse stato mandato, lui e i suoi, per portare
agli uomini il regalo d’addio degli elfi. Quello che non ci avevano lasciato
partendo, ora lo riportavano, come qualcosa di dimenticato nella fretta:
dopo, forse non li avremmo rivisti più. Il Corvo Bianco s’appollaiò su di
una delle navi, attendendo di riportare nuovamente lontano quei legni della
stirpe d’Argento, ma intanto Ronilis era nuovamente fra noi.
E il suo dono fu manifesto, come acque pure in un’ampolla. Stappata la
bottiglietta, in breve il liquido contenuto evaporò al caldo dell’estate: un
tenue e frizzante odore s’espanse, sparendo ben presto. Allora Ronilis
disse:
- Ci fu detto di recarvi una delle nostre antiche medicine, e così feci,
lieto di tornare a queste terre. Ma già il ritorno mi chiama.
- Chi vi disse della medicina? – Chiese allora, nella reggia, Norea
- Un emissario dei tempi antichi, sparito da tempo fra di voi. La
medicina ora è nelle vostre carni, in breve v’avvolgerà tutti: essa era
nell’ampolla. Altre ne schiudono oggi gli elfi nelle navi; il male che
vi colpisce ora svanirà ben presto: per quelli futuri, non contate sugli
elfi.
- Questo è davvero un dono, Ronilis della stirpe d’Argento.
- Di niente, mia regina. Ma ora, se posso, concedimi una domanda:
dov’è tuo marito, il Grande Re?
- Lontano, a Bingrim: ha abbandonato tutto.
- Capisco. Se premetti, prima di tornare dalla mia gente, di fretta,
andrò da lui, per un ultimo saluto.
169
E così Ronilis fece, mentre la voce del suo arrivo serpeggiava veloce come
la pioggia fra le terre che percorreva. Quando giunse, su d’un cavallo
bianco, mi trovò in attesa:
- Ronilis, mio amico.
- Felev, mio Grande Re.
- Non più, mio caro. Ci rivediamo, una visita insperata!
- E veloce, mio caro. Devo fuggire via, non più dovrei essere qui; ti
trovo invecchiato.
Allora le mura della mia casa ci accolsero, risuonando della chiara voce
dell’elfo:
- Sono invecchiato dentro e fuori, mio compagno di viaggio.
- So cosa ti è accaduto, Felev: per quanto valgono, ti porgo le mie
condoglianze.
- Grazie, Ronilis. Tu invece sembri più giovane.
- Il mare ci ha ringiovaniti: ma già ora, qui, sento nuovamente il peso
degli anni.
- Allora va via, mio caro; ti capisco e ti invidio, perché a te è data
un’altra vita. A me questa misera.
- Ma finirà, anch’essa, vedrai. Ora davvero, la voce del mare canta il
mio nome: addio Felev; mai più ci rivedremo.
- Addio Ronilis: davvero mai più ci rivedremo.
Allora Ronilis salì in groppa al cavallo bianco su cui era venuto:
cavalcando leggero, giunse a Tedaran, e da lì scese le terre degli uomini
fino a Minaran.
Laggiù le navi degli elfi erano pronte a salpare: all’arrivo del mio amico,
esse mollarono gli ormeggi; dopo breve volgere di tempo, gli infiniti regni
del mare le avvolsero, ingoiandole nelle loro distese.
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Epilogo
Ho la mia pace nella sua missione, nella sua scelta e nella sua fine.