Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
ANLACHI
Premessa: due parole per cominciare
Quella che leggete è la vita di Juan Sebastian Anlachi: oh, certo, questa
non è una sua biografia. Questa è proprio la vita del mio protagonista. Vi
chiederete (e mi chiederete) chi diavolo sia Juan Sebastian Anlachi:
semplicemente Juan è il protagonista di tutte le vicende che vi narrerò. Per
il resto, lui non è nessuno.
Ma perché questi racconti? Qual è il senso profondo di tutto ciò? Rullino i
tamburi…nessuna risposta a queste domande. Questa è la vita di un uomo,
d’un personaggio. Non ha per forza bisogno d’un senso, né di realismo.
Non vi è criterio temporale, né di contenuti nella disposizione di questi
sproloqui: come sono venuti sono stati disposti, nulla di più. Certo, così la
vita di Juan apparirà un po’ ingarbugliata, ma in fondo, quale non lo è. E
poi, mi chiedo, perché non porre tutte le domande a lui, dato che, ora, è
vivo?
Portatore di luce
- Grazie, grazie davvero per avermi accolto a casa vostra; non sapete
cosa significhi per me…
Così esordì Juan verso i suoi improvvisati benefattori. La ridente
famigliola lo guardava con aria fra l’ironico e l’incredulo. Certo la
mammina e il paparino erano anche un po’ preoccupati (e magari quello
non era davvero Juan Sebastian Anlachi, il famoso giornalista, ma solo un
barbone che, guarda caso, gli assomigliava pure tanto); ma la figlioletta, la
dolce Nausicaa (che nome poi!) dai ricci capelli rossi e con le ribelli
lentiggini sul viso, lei sì che lo fissava estasiata…
- Si figuri, e che vuole che sia per noi, discreta famigliola, aiutare lei,
qui, in difficoltà, dopo tanti giorni che è scomparso da casa…
- Non me ne parli! Dieci giorni d’inferno!
- Ma ci racconti, cosa le è accaduto?
- Di tutto, davvero, e sarebbe lungo da raccontare…
Nausicaa emise un sospiro d’ammirazione, mentre il paparino insisteva:
- Suvvia, non sia timido, ci racconti pure!
- Va bene, allora, prima di tornare a casa dalla mia mogliettina, vi
narrerò cosa ho passato da quando sono andato via da casa dieci
giorni fa.
Così il nostro eroe iniziò a narrare le sue epiche imprese alla discreta
famigliola (così loro stessi si definivano)… Io per quanto mi riguarda, per
oggi, almeno per un po’, lascerò penna e inchiostro a lui stesso, e da solo,
il mio protagonista, vi delizierà del suo racconto.
Partii da casa per una chiamata improvvisa del mio direttore, quello del
giornale: invano avevo tentato di nascondermi, di chiedere le ferie; per lui,
quella maledetta mattina di dieci giorni fa, dovevo andare a fare un pezzo
su di una squallidissima vicenda di corna. Lui ama lei, lei ama lui, lei
incontra l’altro e dimentica lui, lei fugge con l’altro, lui raduna fratelli e
amici e sistema l’altro e lei, e poi torna felice e tranquillo a casa, come se
niente fosse. Tutto qui! E voleva che lo condissi con intricate vicende di
passione e un buon condimento dei più alti e dei più bassi sentimenti
umani! Schifato e annoiato andai comunque a svolgere il mio lavoro, sulla
mia scomodissima vespa. Giunto sul luogo del duplice omicidio, trovai
una selva di cronisti e di reporter: poliziotti e curiosi ovunque. La famiglia
dell’indagato non parlava, mentre quelle delle vittime sproloquiavano pure
troppo: in breve, s’accense una vera e propria battaglia che ci vide tutti
coinvolti. Alla fine della giornata, dopo sei ore di viaggio di sola andata,
montai sulla ancor più scomoda vespa riportando il notevole bottino di due
contusioni e qualche costola incrinata: ovviamente, del pezzo da portare al
direttore, ancora neanche l’ombra.
Da questo momento, in ogni modo, partì la mia vera odissea. Imbottigliato
nel traffico sulla via del ritorno, decisi di cambiare strada, di fare il giro dei
paesini: uscii al primo casello autostradale che incontrai, e andai in
direzione delle prime case (e dico tra me, tanto ci sono i cartelli! Che vuoi
che sia!). Ovviamente mi illudevo. In una selva, in una marea di viuzze
tutte uguali mi perdetti rapidamente in un paesuncolo di cui ancora non ho
neanche capito il nome. Decisi così di entrare in un bar, per chiedere
informazioni (nel frattempo s’era pure fatta notte). Lì, sorseggiando un
bicchiere di vino, un gruppo di giovani mi riconobbe. Avvicinatisi a me
spavaldamente, quelli iniziarono a parlarmi:
- Scusi, Lei è il famoso giornalista Juan Sebastian Anlachi, vero? Noi
siamo dei suoi fan…
- Ah, la cosa mi fa piacere. Ora scusate, andrei di fretta…
- No, aspetti, rimanga qui con noi. Che vuole che sia se rimane seduto
a parlare per dieci minuti!
Voi avete già capito che anche se sono irritato, a me piace molto fare
quattro chiacchiere con la gente. Così, senza rimanere lì a pensare sul da
farsi, mi sedetti ad un tavolino con quei giovani e mi misi a discorrere:
- Lei è così bravo a raccontare le storie, – fece uno per sciogliere il
ghiaccio – e poi quei suoi articoli, sempre così di stile decadente!
- Io non direi…
- Oh, ma forse lei neanche se ne accorge – riprese un altro – eppure
quel suo gusto per il piacere, per l’edonismo, non immagina neanche
quanto ci piaccia! Lei ha proprio la capacità di rinfrancare quelli
come noi, quelli costretti a vivere in un mondo così squallido!
Ora, dovete sapere, amici miei, che se c’è un genere di persona che odio,
quelli sono gli esteti, o peggio, gli edonisti. Questa sotto specie
d’ominicchi, tutti presi da se stessi e dal loro piacere, incapaci di vedere
oltre il loro naso e i loro gusti; ecco, questi omuncoli, proprio non li reggo.
Per l’appunto, ora avevo davanti di quelle creature:
- Lei è proprio un’artista della parola, si fidi! – Continuò un altro
ancora di quei giovani, buttandomi sempre più nel panico – Lei è
capace di dipingere dei quadri soltanto attingendo al suo calamaio. E
che arte, che cura!
- E poi come descrive bene i suoi casi, quegli uomini capaci di
infischiarsene di questa volgare morale, così capaci di trascenderla
per soddisfare i propri sacri piaceri. Si vede proprio che lei, nel
cuore, nell’animo, sta con loro.
Ormai non ce la facevo più, e la discussione mi poneva dei seri
interrogativi: erano degli idioti, quei ragazzi, che leggevano nei miei
articoli giusto ciò che non c’è mai stato, o io ero come loro? Trasalendo
sbottai:
- Scusate, ma voi scherzate, vero?
- No, perché lo crede?
- Ma pensate davvero che io sia con voi, con i vostri gusti? Ma avete
mai capito qualcosa da ciò che scrivo? Voglio dire, il non
condannare non vuol dire per forza essere d’accordo!
- Ma via, come fa a pensare che questo buon costume, queste ipocrite
leggi morali, siano vere! Un uomo intelligente come lei! Le cose
capitano nella vita, bisogna coglierle così come vengono, e gustarne
la polpa fino all’ultimo…
- E stia attento a non affogarsi lei, con quella polpa, con questi frutti di
loto buoni solo a perdercisi. Anzi, ci si perda, ci si perda, va, e non
dia più fastidio!
Con quella risposta brusca mi sollevai dalla sedia e me ne andai al banco.
Pagato il conto e ricevuta qualche informazione, uscii dal bar.
Era ormai notte fonda, quando m’avviai per la strada, irritato e assonnato,
con la mia vespa. Ma figuriamoci se finiva lì! La fortuna sarà pure cieca,
ma la sfortuna no, e quando ti sceglie come vittima, hai voglia di aspettare
fino a quando non si trova qualcun altro con cui giocare! Questo
preambolo sta soltanto ad indicare che in quel momento scoprii che la mia
vecchia, scomodissima vespa aveva deciso d’abbandonarmi, e non ci fu
santo o preghiera che la convinse ad un ultimo sforzo. Così, buttata la mia
compagna di viaggio a lato della stradina, continuai a piedi. Ora, per
evitare che vi facciate strane idee di me, devo spiegare una cosa: quella
stradina, di notte, era male illuminata, e la cosa avrebbe dovuto farmi
pensare. Ma con i nervi che avevo! Non feci caso neanche alle poche,
pochissime macchine che passavano, lente…Comunque, tagliando corto,
dopo un’oretta di cammino, un gruppetto di donne mi si avvicinò. Erano
vestite, direi, in maniera decisamente succinta:
- Ciao paparino, ti serve qualcosa? Gradisci?
- Ehm…veramente, non mi serve niente, grazie…
- Ma dai, oggi sconto per te!
- No, grazie davvero…non serve…
- Ma che hai, stai male, ti serve qualcosa?
Non so perché, ma quelle donne mi videro in difficoltà, anche se non
avevo davvero niente. A questo punto, divennero realmente premurose:
- Forza, paparino, vieni con noi che ti diamo qualcosa da bere, un po’
di pane!
Dicendo questo, mi si fecero tutte attorno (ed erano pure un bel gruppetto),
e mi portarono di peso in una casupola, lì vicino, dove vivevano tutte
assieme. Lì mi costrinsero a forza a sdraiarmi in un lettino e…presa una
copertina e messamela addosso, mi si sederono tutte accanto e mi
trattarono come un malato! Cioè, meglio, come un figlio, un bimbo
malato! Non lo so, sarà stata la faccia pallida per la paura, sarà stato
qualcos’altro, ma mi riempirono di medicine e m’accudirono come un
cucciolo. Solo io potevo trovare le prostitute con l’istinto materno! Tutte
bravissime donne, che si davano il cambio ogni tot di ore e andavano poi a
svolgere onestamente il loro compito nella società; ma, dico io, proprio su
di me dovevano sfogare tutto il loro affetto? E intanto diventavo sempre
più pallido e debole per le medicine, e per loro ero sempre più malato; e
così nuova dose di medicine. In questo modo la cosa è durata per cinque
giorni, finché, quando vidi che rimaneva ad accudirmi la più gracilina di
loro, richiamando tutte le mie forze non mi sollevai dal letto e scappai via,
facendo un gran fracasso per farle paura (e chissà quanta gliene feci,
povera ragazzina, avrà avuto al massimo sedici anni…)
Erano passati così sei giorni, ed era mattina presto. Avevo perso il
portafogli chissà dove (non voglio assolutamente sospettare di quelle brave
donne) ed ero rimasto a piedi. Attraversavo una strada in aperta campagna,
e, praticamente mi ero perso. Non vedevo un cartello già da un bel po’. Ad
un certo punto, mi si fa davanti un pecoraio con il suo gregge. Quell’uomo
era bello grasso, rubicondo, con le guanciotte piene e rosse, mezzo brillo
già di mattina. Non appena mi vide, iniziò a parlare ad alta voce:
- Hic! Ehilà, brav’uomo, come va?
- Mi sono perso, mi sa indicare la strada per la città?
- Sempre dritto…hic…non può sbagliare!
- Grazie, e mi sa dire quanto dista?
- Oh, al massimo mezza giornata a piedi…hic…ma…hic…lei è
palliduccio…
A quella frase mi sentii come un colpo al cuore pensando a tutte le
medicine che mi ero preso in quei giorni. Lo stesso il pecoraio continuò:
- Tenga, le regalo questo, – e mi porse una fiasca di vino – stia attento
perché è molto forte…hic!
- Grazie, non doveva.
- Si figuri…hic!
Così dicendo il pecoraio mi lasciò al mio viaggio, mentre lui proseguiva
per la sua via con il suo gregge.
Dopo poco, pensai che la fortuna finalmente si fosse ricordata di me. Una
macchina, la prima che vidi, mi si accostò, e la voce d’un ragazzo sui
venticinque mi chiese:
- Salve, le serve un passaggio?
- Sì, grazie, andate in città?
- Sì, salga pure!
Così dicendo montai sulla macchina. Dentro, oltre all’autista c’erano una
ragazza davanti, e altri due dietro. I giovani erano tutti vestiti con abiti
scuri, di pelle, con borchie, anellini. Appena salito (oh, furono carinissimi,
tanto che quelli di dietro mi fecero sedere in mezzo, per mia sfortuna), i
ragazzi mi dissero che erano un gruppo rock che andava da uno dei tanti
paesini della zona a fare un concerto giù in città, in uno dei tanti pub.
Erano simpatici, e apparentemente cordiali. Eppure notavo, che anche se
cercavano di non farlo vedere, spesso i loro occhi cadevano sulla fiasca di
vino. Ben presto l’autista parlò apertamente:
- Senti un po’ paparino, quello cos’è, vino? Passalo un po’;
modestamente sono un esperto!
Non feci in tempo a rispondere che già m’avevano strappato di mano la
fiasca. Rapidamente il ragazzo alla guida bevette, e poi a circolo tutti gli
altri. Non so da dove, quasi subito uscirono fuori lattine di birra. E la cosa
peggiore è che convinsero a bere anche me…me ne vergogno. Ora, avevo
completamente dimenticato il consiglio del pecoraio (lo so, sono troppo
sbadato), e in breve ci ritrovammo tutti sbronzi, nella peggiore maniera.
Non mi chieda come abbiamo fatto, ma in un giorno di viaggio abbiamo
percorso tutta la strada per la città, e siamo riusciti pure ad andare oltre di
parecchio, senza accorgercene! Siamo giunti a quest’altra provincia che io
ancora dormivo, quando abbiamo finito la benzina (e non ho ancora capito
chi guidasse, dato che, quando mi sono svegliato, ho trovato l’autista
sdraiato su di me). E, peggio, eravamo ancora in aperta campagna, ed era
già passato un altro giorno. Mamma mia, chissà come sarà preoccupata
mia moglie!
Sarò stato crudele, ma abbandonai quei rockers in erba alle loro strade
(quegli invidiosi non mi hanno neanche permesso di chiamare a casa dai
loro cellulari!) e ho ripreso la via a piedi, senza incontrare più nessuno per
tre giorni, finché non ho trovato voi, grazie a Dio. Questa è la storia, più o
meno, delle cose che mi sono accadute in questi dieci giorni.
Così finì il monologo di Juan sotto gli occhi allibiti della discreta
famigliola, e qui riprendo io la parola. C’è poco da dire, ora.
Cortesemente, molto cortesemente, quella famiglia accompagnò sino in
città il nostro protagonista (e che storia avevano ora da raccontare agli
amici), e lo lasciarono proprio di fronte casa.
Ora, non che Juan s’aspettasse davvero la polizia o la folla di fronte alla
porta ad attenderlo, ma neanche quell’aria di normalità che lo accolse.
Eppure, non era tutto come prima. Suonò ripetutamente il campanello
(aveva perso anche le chiavi…) finché non gli venne ad aprire uno
sconosciuto che neanche lo guardò in viso, ma scappò via, dentro, in
cucina. Dentro, sì che c’era la folla! Sua moglie, la sua bellissima
Stephanie era tutta attorniata dai suoi colleghi; chi l’abbracciava, chi si
dimenava per consolarla, chi gli faceva gli occhioni a cuori, chi le diceva
parole dolci. Rimase lì per un po’ ad osservare, senza essere visto, mentre
sua moglie teneva tutti a bada, quei porci, poi quando si rese conto che la
cosa si faceva insistente, richiamò l’attenzione con un colpo di tosse:
- Ciao cara, sono tornato!
- Mio caro, finalmente! Ma dove sei stato?
Stephanie corse ad abbracciarlo commossa:
- Niente, cara, ho vissuto la mia Odissea. E ora scacciò di casa i miei
proci, anzi i miei porci.
Detto questo, Juan iniziò a sbraitare verso i suoi colleghi, che scapparono
dalla casa con la coda fra le gambe. Rimasto solo con la moglie, le spiegò
tutto l’accaduto. In seguito furono avvisate le autorità competenti, e
l’allarme per la sua scomparsa si placò. Fu intervistato dalla televisione, e
per un po’ il suo caso fece clamore, finché, col tempo, tutto non tornò alla
normalità, porci compresi.
Condannati
- Signor Ted, Hearth, come si sente? Domani sarà la sua ultima serata
fra di noi, vero?
- E’ strano, davvero strano. Mi mancheranno molte cose di questo
posto…per quindici anni è stata la mia casa, e anch’io l’ho resa
grande…
Juan era fresco di laurea: subito aveva mandato il suo curriculum, appena
aveva letto che si cercavano booker per la più importante federazione di
wrestling del globo. Forte di qualche racconto pubblicato e della sua
attività di collaboratore per qualche giornale, fu preso in prova. Non era
retribuito in maniera gratificante, ma il lavoro gli piaceva. Certo, non
veniva consultato per le decisioni più importanti, così ad esempio, non
sapeva l’esito dell’incontro di quella sera:
- Ma scusi, lei non è ancora campione? Perderà questa sera?
- Qui, a casa mia? Nella mia città. No, non di certo. Domani, domani
cederò il titolo, ho ottenuto questa promessa da Win Owner.
- Senta, mi dica la verità. È vero quel che si dice, che andrà a
combattere da qualche altra parte prima di perdere il titolo?
- No, mai! Non farei mai una vigliaccata del genere.
Bussando alla porta dello spogliatoio, entrò nella stanza uno dei dirigenti:
- Ted, sta iniziando l’incontro prima del tuo. Accendi il monitor e
seguilo, così saprai quando entrare.
Quella sera Ted combatteva contro il suo rivale storico, Late Love;
l’incontro si sarebbe ripetuto anche il giorno successivo, l’ultima serata di
Hearth.
Intanto era salito sul ring un peso leggero, astro nascente della federazione:
IAN combatteva il suo primo incontro importante, per il titolo Cruiser. Il
suo avversario era Oil Hard, un sopravvalutatissimo lottatore. Il
presentatore lanciò l’incontro, e questo cominciò subito a grande velocità,
con scambi di colpi tipici da pesi leggeri. Poi Oil Hard immobilizzò in una
presa IAN, ma questi si divincolò facilmente.
Intanto negli spogliatoi Ted Hearth si preparava, indossava il suo famoso
costume nero e rosa. Nello spogliatoio fece capolino anche Late Love, e i
due iniziarono a preparare l’incontro, sotto l’occhio attento di Juan che
aveva tanto da imparare da quei due grandi professionisti. Late love era
l’opposto di Ted: tanto era timido Ted, tanto spavaldo Late Love, il primo
scuro di carnagione e dai lunghi capelli neri, ricci, l’altro chiaro, dai
capelli lisci e biondi. Non si amavano, e si rispettavano poco: ma erano gli
uomini di punta, i più amati, i veri campioni. Improvvisamente,
accompagnato dal cognato di Ted, Dave, ritornò il dirigente di prima;
Dave aveva lo sguardo dubbioso:
- Sentite, perché non fate anche questo, per rendere più elettrizzante
l’incontro? Sarebbe grandioso se ad un certo punto Late usasse il
colpo finale di Ted, la Sharpshooter, la presa del cecchino, e lui la
ribaltasse e vincesse, no?
I due lottatori si guardarono in faccia, poi acconsentirono:
- Va bene, chiuderemo così.
Non appena però il dirigente fu lontano, Dave s’avvicinò a Hearth:
- Ted, non ti fidare; questa cosa mi puzza di bruciato.
- Non temere! Non siamo negli anni trenta; vedrai, andrà tutto bene.
Intanto l’incontro di IAN volgeva al termine. Oil Hard era a tappeto,
mentre il giovane lottatore gli balzava addosso con una capriola dal
paletto, eseguendo la sua Suicide. Il pubblico chiamava la mossa, e subito
IAN lo accontentò; urlando il suo sfottò chiuse l’avversario nella presa
tipica, la Mule Streetch. L’arbitrò fermò la mossa, mentre Oil Hard
toccava il paletto con una mano: comunque il biondine era stremato, in
ginocchio vicino alle corde. Tutta la folla cominciò ad urlare un solo coro:
- 095! 095!
I tre numeri risuonarono per l’arena, e con essi i passi della rincorsa di
IAN. Poggiando sulla schiena dell’avversario, il ragazzetto esile dai capelli
castani spinse Oil a poggiare sulla corda più bassa: intanto con un balzo
faceva perno su quella più alta, roteando su di essa, finendo per rivoltarsi e
colpire con i talloni il viso dell’avversario. Questi volò, per rialzarsi
stordito, mentre IAN gli balzava addosso con una Italian Coast Pop, la sua
mossa finale, che gli valse il conteggio da tre. L’incontro era finito, e nel
putiferio, IAN era il nuovo campione dei pesi leggeri.
Era il turno di Ted, così questi si mosse ed uscì dallo spogliatoio, assieme
a Late Love. Quest’ultimo, dirigendosi verso il ring, scambiò uno sguardo
emblematico con i dirigenti, e nulla più. Nel corridoio Ted Hearth incontrò
IAN che tornava dal ring, ancora nei suoi pantaloncini lunghi e con la sua
maglietta da calcio numerata e con il suo nome; gli fece i complimenti,
augurandogli un futuro radioso: fu come uno scambio di testimone.
Risuonò la musica di Late Love, e il biondine entrò eseguendo al solito i
suoi ballettini idioti, da omino sexy. Poi rintoccarono le note rock della
canzone di Ted, e il pubblico andò in visibilio. Stringendo le mani a quanti
più poté, Hearth arrivò al ring, e salì. L’arbitrò sancì l’incontro per il titolo,
e così ebbero principio le ostilità. Win Owner, a bordo ring, seduto,
assisteva al tutto, teso. I lottatori partirono da prese basiche, come da
scuola di lotta: il tutto procedeva secondo perfetta psicologia, con prese
alle gambe, da parte di Ted, e colpi per fiaccare quella parte del corpo di
Late Love, e risposte rapide, fulminee, dell’avversario. Al tutto assisteva
anche Juan, come tutti, dagli spogliatoi. Era un gran spettacolo: i due non
si incontravano ormai da anni; c’erano stati dissapori in passato, calunnie,
ma tutto sembrava essere stato cancellato, anche se per Ted era stato
difficile passare sopra le accuse di adulterio che Late Love gli aveva fatto
in pubblico. Ora si incontravano, e l’incontro si sarebbe ripetuto il giorno
dopo: ma quel giorno, di fronte alla platea di Hearth, nella sua città, nella
sua casa, quella doveva essere la celebrazione d’un campione davanti alla
sua gente. Doveva, ma così non fu.
Si superarono i quindici minuti di lotta, lo scontro volgeva ormai al
termine, rimasto sostanzialmente in equilibrio per tutta la sua durata.
Lanciato contro le corde, nel rimbalzo Ted aveva evitato Late Love,
finendo però addosso all’arbitro: si arrivava alla sequenza programmata,
proposta dal dirigente negli spogliatoi. Mentre Hearth si rassicurava sulle
condizioni dell’arbitro, Late love si preparò per il suo colpo: la Mandibole
Music andò a segno, proprio mentre l’avversario si girava. Il calcio in
pieno viso aveva steso il campione nella sua casa, e ora Late Love
s’accingeva al massimo sfregio: chiudere Ted Hearth nella sua
famosissima presa. Mentre iniziava la manovra, sbagliando malamente per
l’inesperienza, un boato lo ricorreva per l’arena: ma alla fine ce la fece.
Chiuso nel suo stesso colpo finale, la Sharpshooter, Ted stava per
risollevarsi, mandando in visibilio il pubblico, per vincere; ma non ne ebbe
il tempo, un urlo da bordo ring fece risollevare l’arbitro fino ad allora
incosciente:
- Chiudi l’incontro, ora!
Nulla di già programmato, o che Ted conoscesse prima, accadde allora;
l’arbitro decreto la fine dello scontro, per lui Hearth aveva ceduto per il
dolore. Tutti lì sapevano che non era così, ma comunque il gong suonò, e
Late Love fu il nuovo campione. Da magistrale attore, il nuovo titolato
finse stupore anch’egli, mentre alcuni dirigenti lo riaccompagnavano di
corsa negli spogliatoi; dopo lo sbigottimento iniziale, Ted, con tutta la
dignità possibile, si risollevò, e affacciandosi dalle corde, fissò Win
Owner; gli disse qualcosa che nessuno sentì, e poi gli sputò, centrandogli il
viso. Owner se ne andò, mentre Ted rimaneva sul ring, girando
sconcertato; a lui accorsero gli amici, Dave, il fratello Orwen, tutti
spiegarono al pubblico quanto accaduto, e poi affranti, se ne andarono.
Intanto negli spogliatoi regnava il caos: Win s’era chiuso nel suo ufficio, a
chiave, e non voleva uscire; alla sua porta bussava fortemente Deadman,
ordinandogli d’uscire, o sarebbero entrati a forza. Intanto Ted, Dave e
Orwen s’erano recati negli spogliatoi, chiedendo spiegazioni a Late Love,
e questi mentendo vergognosamente, finse di saperne quanto loro, e che
per dargli un segno, l’indomani sarebbe salito sul ring senza cintura.
Intanto Win Owner aveva trovato il coraggio d’uscire dal suo ufficio:
accompagnato da Deadman e dal figlio, era venuto a parlare a Ted,
esordendo con parole di scusa:
- Scusa Ted, scusami davvero. Ma non potevo rischiare che tu te ne
andassi, con la cintura di campione, alla concorrenza.
- Stupidaggini, Win, sai che non l’avrei fatto!
- E cosa me lo avrebbe dovuto accertare?
- Sono quindici anni che lavoro qui, e non ho mai mancato uno
spettacolo, mai disobbedito! E tu mi ripaghi così?
Sotto gli occhi di Juan, Ted Hearth saltò addosso a Win, prendendolo a
pugni; il figlio di questi si aggrappò alla schiena di Hearth, per toglierlo da
sopra il padre, ma su di lui balzò Dave, ricadendo malamente e
infortunandosi ad un ginocchio. Scoppiò il putiferio, e a stento i
contendenti vennero sparati: tutti si allontanarono ripromettendosi che le
cose non sarebbero finite così, e quella lunga notte si concluse con la
famiglia di Hearth che si allontanava sconfitta e abbattuta nell’orgoglio
dall’arena.
Venne il giorno successivo, quando Hearth avrebbe davvero dovuto
salutare il suo pubblico: Juan era lì, fra gli addetti, nei corridoi, che lo
attendeva. Ma il campione non venne, non si presentò, e con lui in molti;
ma di certo Late Love era lì. Salì sul ring, con la cintura, insultando tutta la
famiglia Hearth, celebrandosi come l’unico vero campione; il pubblico,
sicuro ormai di non vedere più Ted calcare quel ring, prese ad urlare:
- Vogliamo Ted, vogliamo Ted!
Late Love dovette allontanarsi fra gli insulti.
Quella sera l’incontro principale fu di IAN, e lo concluse in modo diverso
dal solito: messo a terra l’avversario con la sua 095, non balzò dalle corde,
non si agitò come al solito; fatto un cenno al pubblico, prese le gambe
dell’avversario, eseguendo la Sharpshooter, la mossa di quello che
considerava il suo maestro. Il pubblico fu con lui, mentre dedicava la
vittoria al suo mito, lanciando la sua sfida a Late Love: più tardi ricevette
una chiamata di Ted, che lo ringraziava per il gesto.
Così si concluse la storia di Ted Hearth, lì, su quei ring, fra quelle arene.
Juan si allontanò schifato da quell’ambiente patinato d’oro, all’interno di
carbone già consunto: ma seguì ancora quell’uomo che aveva imparato a
rispettare; lo vide vincere qualche altro titolo, soffrire per la morte del
fratello, sul ring, dopo una violenta caduta; lo vide accusato dal cognato
Dave d’averlo abbandonato alla squallida decadenza della sua carriera; lo
vide ritirarsi, sconfitto non dalla vecchiaia, ma un colpo maldestro d’un
nuovo sopravvalutato campione, che gli costò il venti per cento delle
capacità cerebrali. Ma Ted Hearth rimase nel cuore di tutti, rimase nella
leggenda; e anche se questo non è il suo vero nome, la sua storia rimarrà
sempre fra le pagine indelebili della memoria, almeno di quella di Juan
Sebastian Anlachi.