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Per il calcio giapponese esiste una data di nascita, il 1873, quando un gruppo di marinai inglesi, a

conclusione di una parata militare, disputa una partita dimostrativa a Tsukiji. Ma il calcio fa fatica a imporsi
nei gusti popolari: inizialmente si diffonde in una ristretta cerchia di scuole e circoli in cui si apprende la
lingua e la cultura inglese. Soltanto negli anni Venti comincia ad affermarsi e soprattutto si intensificano i
contatti con il resto del mondo. La prima uscita fuori dall'Asia del Giappone, che pure sin dagli albori aveva
manifestato un'apertura straordinaria alla più evoluta pratica europea e sudamericana, avviene ai Giochi di
Berlino nel 1936, con un bilancio in chiaroscuro: da una parte il successo per 3-2 sulla Svezia, impresa che
all'epoca suscita non poco scalpore, dall'altra la pesante sconfitta ai quarti di finale patita contro gli azzurri
di Pozzo (8-0). Prima di allora la nazionale giapponese aveva partecipato soltanto ai Giochi dell'Estremo
Oriente, debuttando ufficialmente nel 1917 e vincendo in finale contro le Filippine nel 1927.

Nel 1960 la Federazione organizza la prima tournée in Europa, visitando Germania, Svizzera, Unione
Sovietica, Inghilterra, Italia e Cecoslovacchia. L'anno successivo è la Iugoslavia a compiere il cammino
inverso, diventando il primo paese europeo a disputare un'amichevole nel Sol Levante: il risultato è 1-0 per
gli ospiti. Nel frattempo alla guida della nazionale viene chiamato il primo tecnico straniero, il tedesco
Dettmar Cramer. L'obiettivo è preparare al meglio l'Olimpiade di Tokyo del 1964, sulla quale naturalmente
si investono progetti ambiziosi. Il Giappone ottiene un bel successo contro l'Argentina (3-2) e approda
addirittura ai quarti di finale, dove è sconfitto dalla Cecoslovacchia. Il lavoro di Cramer è facilitato dalla
proverbiale disciplina nipponica ma anche da un interesse crescente per il calcio, di cui è effetto, nel 1965,
la costituzione di una nuova lega (J-League), alla quale partecipano 8 squadre. È la vigilia di uno storico
traguardo: il terzo posto alle Olimpiadi del 1968 in Messico, dietro all'Ungheria e alla Bulgaria. Il Giappone
si arrende in semifinale davanti ai futuri campioni, ma nel primo turno batte la Nigeria e pareggia contro
Brasile e Spagna. A coronare la spedizione, il titolo di capocannoniere conquistato da Kunishige Kamamoto.

Negli anni Settanta e Ottanta i giapponesi non sono più principianti, tuttavia il
professionismo è un obiettivo incompiuto. L'autopromozione diventa un'esigenza
prioritaria: così si spiega l'inaugurazione della Kirin Cup nel 1978 e due anni dopo
l'acquisizione della Coppa Intercontinentale, subito ribattezzata Toyota Cup. Quest'ultimo
appuntamento, almeno per un paio di giorni l'anno, fa di Tokyo la capitale del pallone.
La miscela di yen, televisioni e sponsor rappresenta il volano del calcio giapponese, che
nei primi anni Novanta cambia marcia, entrando nella sua era moderna. Il 15 maggio 1993
si gioca la partita inaugurale del primo Campionato professionistico, Yomiuri Verdy contro
Yokohama Marinos; tutto esaurito allo stadio di Tokyo: 52.000 spettatori a fronte di una
richiesta di 854.000 biglietti. I club sono sostanzialmente un'emanazione aziendale.
Toshiba, Matsushita, Sony, Canon, Nissan, Yamaha, Mitsubishi: non c'è colosso che rifiuti
di investire nel calcio, imprestando il proprio nome e la propria solidità finanziaria. In
questo modo la neonata Lega giapponese diventa in pochi anni un porto sicuro per i
fuoriclasse a fine carriera di tutto il mondo, campioni in odore di pensionamento che
strappano l'ultimo ingaggio miliardario. Già nel 1995, alla terza edizione della J-League, si
presentano in campo 58 stranieri, quasi la metà vengono dal Brasile (28), alcuni portano in
dote il titolo di campioni del Mondo: da Dunga a Bebeto, da Leonardo a Jorginho, da
Müller a Careca. Il primo italiano è Salvatore Schillaci, che firma un contratto con il Jubilo
Iwata; presto lo raggiunge l'ex rossonero Daniele Massaro. Ci sono francesi (Frank Durix e
Gerald Passi), olandesi (Hans Gillhaus), croati (Skrinjar Vjekoslav) e neozelandesi
(Wynton Rufer). Ma a tenere a battesimo la ricchissima J-League è soprattutto Zico, il vero
apripista. Il Giappone sa celebrare anche i propri campioni, a cominciare da Kamamoto. Il
primo giocatore esportato è Yasuhiko Okudaira, con un'onorevole militanza in Bundesliga,
il primo a trovare un ingaggio in Italia è Kazu Miura, al Genoa. Lo seguiranno Hidetoshi
Nakata, campione d'Italia con la Roma nel 2001, e Irosi Nanami, apparso fugacemente a
Venezia.
Campione d'Asia nel 1992, dopo aver superato la Cina in finale (2-0), il Giappone si ripete nel 2000, a spese
dell'Arabia Saudita (1-0). Più sospirato l'ingresso alla fase finale dei Mondiali: ci si avvicina nel 1994, quando
gli è fatale la sconfitta subita ad opera dell'Iraq: al suo posto si qualifica la Corea del Sud. L'appuntamento è
rinviato all'edizione successiva, in Francia, dove però il Giappone finisce ultimo nel gruppo H, perdendo
contro l'Argentina, la Croazia e addirittura la Giamaica. Ben altre le prospettive per il 2002: dieci città
coinvolte (Yokohama, Sapporo, Miyagi, Niigata, Ibaraki, Saitama, Shizuoka, Osaka, Kobe e Oita), la sinergia
con la Corea decisiva nella battaglia elettorale per l'assegnazione. Ma dopo le grandi aspettative aperte da
un brillante primo turno, arriva la delusione negli ottavi di finale con la sconfitta da parte della Turchia.

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