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La contraddizione del riso: Barney e la sua versione

La versione di Barney del canadese Mordecai Richler compirà diciassette anni il prossimo
novembre. E dire che quando agli inizi del nuovo millennio il romanzo uscì nelle nostre librerie,
l’autore era un perfetto sconosciuto. Di Richler, in Italia era già stato pubblicato qualcosina da
editori minori, ma nulla di promettente sembrava si potesse cavar fuori dalla sua penna. Eppure,
complice soprattutto l’appassionata campagna editoriale del Foglio di Giuliano Ferrara, questo
romanzetto da quattrocento e passa pagine arrivò a vendere, con grande sorpresa di tutti, più di
trecentomila copie. Da quel momento si cominciò a dissezionare il libro, a scomporlo e ricomporlo
come un puzzle di cui non si trova la soluzione per cercare di capire le ragioni di questo inaspettato
successo. C’è chi ha seguito passo passo le orme del protagonista, l’irriverente Barney Panofsky,
visitando il Canada, i quartieri ebraici di Toronto o la Parigi degli anni Cinquanta; chi invece ha
intervistato moglie e figli e amici con la speranza di chiarire quale sia la vera versione di Barney,
che poi è un alter ego dello stesso Richler. Sarà, ma la storia della vita di Barney, scritta a mo’ di
autobiografia-confessione per scrollarsi di dosso l’accusa dell’omicidio del suo migliore amico, è
valida e rimarrà sempre tale in quanto è la storia di uno stronzo. Di un cattivo che vuole credersi
cattivo, che non crede nella redenzione ma la desidera come l’aria quando si è sott’acqua. Fuori
dal politicamente corretto della tipica e dilagante forma di fiction, il romanzo di Richler rimane
impresso in ragione di ciò che esso non è: grida con violenza i suoi no dove tutti ammiccano i loro
sì, scrive lettere falsamente accondiscendenti a chi gli chiede una mano, le ere della sua vita sono
scandite dalle tre mogli (una suicida, un’altra pluri-cornificata, e la terza scapperà di casa), in un
mondo fatto di fumo, alcol, sesso illecito, promiscuità borghese; il tutto condito con un pizzico di
antisemitismo. Il romanzo è una negazione continua. Ne esce fuori il ritratto di un uomo da
sempre sull’orlo della disperazione, attaccato come una sanguisuga alla vita nonostante il suo odio
per la vita, per gli uomini, per le donne che ama e che rappresentano l’unica sua ragione per
rimanere su questa terra. Un’autobiografia dove la parola è cruda, non nel senso comune del
termine: è la crudeltà che la parola compie su se stessa, comprimendola per farne fuoriuscire la
sua sostanza, senza paura di infrangere convenzioni e modelli prestabiliti. Una lettura dunque non
facile, nonostante il comico ne fondi la struttura, dando respiro e rotondità allo sviluppo. Ma
anche per il comico valgono le solite riserve: non il tipico comico, quello che plana sugli stereotipi,
ma un comico che rivela le contraddizioni della realtà, animalesco, e velenoso nero. Nero come
Barney, ma straordinariamente commovente al tempo stesso. Come Barney e la sua versione dei
fatti.

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