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Léo Malet

La vita è uno schifo

A cura di Luigi Bernardi

Fazi 2000

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Léo Malet e la grammatica del noir

Alla fine del 1969, l’editore Eric Losfeld mandò in libreria la Trilogie noire,
di Leo Malet. Era uno spesso volume che raccoglieva tre romanzi, i primi
due già pubblicati una ventina di anni prima, il terzo inedito. Oggi, possiamo
considerare la pubblicazione di quel libro, che si fregiava della
sopracopertina di René Magritte, come un autentico avvenimento letterario.
Vediamo perché.

Eric Losfeld era un editore sui generis, bersagliato dalla censura e dalla
giustizia, la sua casa editrice si chiamava La Terrain Vague (‘terreno
abbandonato’, ‘terra di nessuno’: il nome, traduzione in francese del
fiammingo losfeld, si doveva a una felice intuizione di André Breton) ed era
una sorta di cenacolo post-surrealista nel quale si riunivano tutti coloro che,
per un motivo o per un altro, parteggiavano l’entusiasmo di promuovere le
culture marginali contemporanee: fumetti, cinema fantastico e horror,
erotismo, fantascienza, realismo magico, poliziesco, noir. Fra gli altri,
Losfeld aveva pubblicato i fumetti di Barbarella, riesumato i romanzi
“maledetti” di Boris Vian, ed editava anche due riviste di cinema che si
sarebbero fatte ricordare a lungo («Positif» e «Midi-Minuit Magazine»). Era
stato proprio il direttore di quest’ultima pubblicazione, Jean-Claude Rohmer,
a interessarsi dell’opera di Leo Malet. Rohmer collezionava le pubblicazioni
delle ricercatissime Éditions du Scorpion e non riusciva a trovare un titolo
che gli risultava esservi stato pubblicato alla fine degli anni Quaranta: Sueurs
aux tripes, di Leo Malet. Dopo tutta una serie di ricerche vane, Rohmer si
decise a contattare l’autore. Malet gli assicurò che il romanzo esisteva, solo
che non era mai uscito dalla tipografia a causa della brusca chiusura della
casa editrice: si trovava nell’elenco delle pubblicazioni ma di fatto era un
testo fantasma. Rohmer ne parlò allora con Losfeld e l’idea di riunire La vie
est dégueulasse (il presente La vita è uno schifo), Le soleil n’est pas pour
nous e l’inedito Sueur aux tripes (che nel frattempo Malet aveva rititolato al
singolare) in un’unica Trilogie noire era sembrata il più bell’omaggio che un

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editore stravagante come Losfeld potesse fare a un autore altrettanto
eccentrico, dalla storia tutt’altro che lineare.

Ai tempi della pubblicazione della Trilogie noire, Leo Malet era già il
maestro riconosciuto del poliziesco francese: il personaggio di Nestor Burma
e la trentina di romanzi che ne raccontavano gli exploit costituivano ormai
pagine gloriose di un genere letterario fortemente in voga in un paese che se
n’è sempre (e non a torto) arrogato i natali. La Trilogie noire, pur avendo
poco a spartire con il poliziesco in senso stretto, rinnovò l’attenzione
sull’autore, ebbe un notevole successo di vendite e oggi è considerata,
insieme ad alcuni romanzi con Nestor Burma, il capolavoro di Malet, di certo
l’opera che maggiormente ha influenzato la generazione di scrittori che ha
iniziato a pubblicare fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni
Ottanta (Jean-Patrick Manchette, Pierre Siniac, Didier Daeninckx, Thierry
Jonquet, Alain Demouzon, Marc Villard, Hervé Prudon, fra gli altri).

E’ singolare la fortuna del romanzo poliziesco francese. Indissolubilmente


legato al feuilleton e alla serializzazione, ha sempre saputo creare personaggi
in grado di resistere ai cambiamenti del gusto, dal Monsieur Lecoq di Emile
Gaboriau fino al Fantòmas di Pierre Souvestre e Marcel Allain, passando
almeno per il Roulettabille di Gaston Leroux e l’Arsene Lupin di Maurice
Leblanc, e proseguendo poi con il “naturalizzato” Maigret di Simenon e
l’indemoniato Sanantonio di Fréderic Dard. Non solo, ma si è posto sempre
il problema di mantenere costante il contatto con il lettore, anticipando in
qualche modo il marketing editoriale, in cui eccellono oggi agenti e case
editrici americane. Ogni personaggio, ogni collana, ogni autore doveva farsi
trovare pronto all’appuntamento periodico con il chiosco o la libreria,
ognuno tempestivo nello sfamare il proprio lettore (sfamare come solo
sanno fare i libri, che non tolgono quel residuo di appetito…). Tanto che in
una situazione di emergenza, quando cioè durante l’occupazione nazista
venne istituito il divieto di tradurre opere di autori statunitensi, si concretizzò
per chiunque avesse un paio di buone idee (anche di seconda o terza mano)
e sapesse scrivere almeno decentemente la possibilità di accedere alla
pubblicazione, sia pure con uno pseudonimo di secco sapore americano: Leo
Malet fu della partita e macinò uno dopo l’altro una serie di romanzi di
scuola hard-boiled che furono pubblicati a nome di firme fantasiose quali
Frank Harding o Leo Latimer. L’esperienza fu oltremodo positiva, Leo Malet

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guadagnò qualche soldo e acquisì sul campo quella capacità di scrittura e di
gestione della trama che gli permisero di fare velocemente il grande salto:
pubblicare con il proprio nome romanzi polizieschi con protagonisti e
ambientazioni francesi. Nacque così Nestor Burma, un personaggio che
oltralpe avrebbe saputo gareggiare in popolarità, e spesso vincere, addirittura
con il commissario Maigret.

Nonostante la notorietà acquisita (aveva già pubblicato sette inchieste di


Burma, oltre a innumerevoli altri libri, quando uscì La vie est dégueulasse),
la scrittura di romanzi polizieschi non poteva appagare uno spirito inquieto
come quello di Leo Malet. Era nato a Montpellier il 7 marzo 1909, e subito il
destino non si era dimostrato affatto tenero con lui: quando aveva appena
due anni aveva perduto a distanza di un paio di giorni il padre e il fratellino,
e un anno dopo gli sarebbe morta anche la madre. Di lui si era allora preso
cura il nonno, un personaggio curioso, grande divoratore di libri, un
appassionato più che un intellettuale, ma era stata l’influenza degli articoli di
André Colomer, anarchico, pacifista e disertore della grande guerra, a
incitarlo ad abbandonare, quando aveva appena sedici anni, la città natale
per raggiungere Parigi, dove avrebbe vissuto alla giornata. Colomer aveva
uno stile lirico e trascinante entro il quale riusciva a filtrare messaggi di
violenza così espliciti da mettere spesso in imbarazzo i suoi stessi pur
agguerriti compagni: cosa potessero istigare quelle parole nello spirito di un
adolescente in credito con la sorte è facilmente intuibile. A Parigi, Colomer
aveva subito introdotto il giovane Leo negli ambienti anarchici, regalandogli
in qualche modo la famiglia che non aveva mai posseduto. Sei anni più
tardi, nel 1931, la conoscenza di André Breton gli era valsa l’ingresso in
un’ulteriore famiglia contigua con la precedente, quella dei surrealisti, oltre a
un incitamento continuo alla scrittura (ma tutta l’esperienza surrealista di
Malet andrebbe raccontata a parte, dai testi che produsse, agli incontri con
Aragon e Prevert, fino alla censura che lo stesso Breton gli fece subire alla
vigilia dell’Esposizione Internazionale del Surrealismo, nel 1938). Breton
comunque non aveva dovuto insistere troppo e Malet non si era fatto
pregare: scriveva, non faceva altro che scrivere. Le frequentazioni
nell’ambito surrealista gli avevano fatto conoscere editori e redattori di case
editrici: per tutti avrà un testo e uno pseudonimo, sia che si tratti di romanzi
polizieschi che di storie di pirati o di cappa e spada. Malet aveva la scrittura
nel sangue (l’opera omnia raccolta qualche anno fa dall’editore Laffont

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consta di cinque volumi per un totale di quasi seimila fittissime pagine,
ognuna delle quali contiene almeno il triplo del libro che avete tra le mani)
ed era sempre alla ricerca di nuove frontiere, l’invenzione di Nestor Burma
non gli bastava: sentiva che era venuta l’ora di scrivere anche il “suo”
romanzo, questo La vita è uno schifo, il primo di quella che vent’anni dopo
sarà conosciuta come Trilogie noire.

Qui, Malet procede per accumulo, unisce in un unico grande progetto


letterario l’anarchismo della giovinezza, il surrealismo delle prime
manifestazioni intellettuali e la scrittura poliziesca della maturità. Il tema
dell’anarchismo lo si ritrova in alcune linee di pensiero del protagonista e
nella riproposta del dibattito che animava il mondo anarchico parigino: quali
armi per abbattere il potere? La violenza, il furto alla maniera di Jules
Bonnot, o qualche strategia più moderna, che prescindesse dall’illegalità? E
evidente che Malet, che dopo la conoscenza di Colomer aveva vagheggiato
per se stesso un’esistenza da fuorilegge, è sedotto dalla prima ipotesi, anche
se sa benissimo che i limiti fra violenza a scopo politico e violenza a scopo
individuale sono così labili che lo sconfinamento prima o poi è inevitabile.
Ma non c’è solo questo: Jean Fraiger, il protagonista, ha molti altri punti di
contatto con l’autore. Il nome stesso, che ricorda quello della madre morta
(Luise Refreger), la condizione di orfano, per non parlare di una concezione
molto surrealista dell’amore (l’amour fou) che emerge nelle pagine centrali
del romanzo. E che dire dell’idea, surrealista anche questa, ma già
fortemente caratterizzata nel Marchese De Sade, che siccome l’ordine è il
male, non si può sfuggire dal male se non commettendo altro male, magari
maggiore…

La vita è uno schifo, insomma, è un romanzo composito e sfaccettato:


supera il romanzo poliziesco e apre la prospettiva di una scrittura e di
tematiche diverse; di fatto canonizza un genere contiguo, il noir, con le sue
scarne ma efficaci regole grammaticali.

Il noir, checché ne dicano alcuni critici di settore, non ha nulla a che vedere
con l’hard-boiled school, la ‘scuola dei duri’ americani formatasi intorno alla
rivista «Black Mask»; in una parola il noir non ha nulla a che vedere con il
poliziesco d’azione dei vari Hammett e Chandler (mentre in nuce traspare nei
romanzi di James Cain, non a caso autore più amato dalla cultura europea,

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Visconti in testa). Il noir autentico è un romanzo psicologico intorno alla
figura di una vittima, la scrittura del noir è sempre dal punto di vista della
vittima, che si racconta o si fa raccontare nella propria discesa (o precipizio
che dir si voglia) verso un punto di non ritorno. Nel giallo e nel poliziesco lo
statu quo viene frantumato da un evento imprevedibile di natura delittuosa,
compito della narrazione sarà di scoprire l’autore dell’infrazione, assicurarlo
alla giustizia, ricomponendo così l’ordine iniziale. Che l’evento delittuoso sia
un omicidio, un rapimento, un furto o una rapina, non ha importanza, così
come non ne hanno l’identità (investigatore privato, poliziotto, detective
dilettante) e il modus operandi di colui o coloro che si incaricano
dell’indagine. Nel noir, invece, non c’è nessun ordine da ricomporre, non si
torna mai al punto di partenza, l’ordine è un continuo frantumarsi in schegge
impazzite di cui si perde il conto e la sostanza. Il romanzo poliziesco è un
puzzle completo di tutte le proprie tessere: sarà sufficiente incastrare le une
nelle altre e il disegno apparirà in tutta la sua chiarezza. Nel noir il disegno è
in continua evoluzione, ubbidisce a regole diverse, che possono cambiare da
un momento all’altro. Per questo il noir non ammette lieto fine, o almeno
l’unico lieto fine possibile è quando la vittima, conscia della propria
condizione, si ribella e, attraverso una serie di atti “contro la legge”, riesce a
scamparla, a dettare le regole di un nuovo disegno, che avrà contorni, figure
e colori del tutto differenti dal proscenio iniziale. In questo il noir è figlio del
surrealismo: viviamo in un’epoca di male, e solo un male più forte può
contrastarlo, cambiarne i connotati. Di qui il distacco finale, ancora più
marcato, di fatto un’opposizione: nel romanzo poliziesco il male è un
accidente, nel noir una costante; il primo ha una sostanziale attitudine
rassicurante e consolatoria, il secondo è sempre eversivo.

Oggi si parla spesso di noir, quasi sempre a sproposito, lo si confonde con il


romanzo poliziesco, il thriller, il mystery o la detective story. Ecco che allora
la riedizione di questo romanzo, oltre a rendere disponibile un testo
fondamentale, potrà servire anche a fare un po’ di chiarezza, proponendo la
scrittura noir nella sua efficace e diabolica semplicità, attraverso la lezione di
colui che con maggiore chiarezza ne ha fissato il modello, Leo Malet.

LUIGI BERNARDI

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DA QUEL MOMENTO,
LA MIA VITA DIVENNE UN LUNGO SUICIDIO

LACENAIRE

I. Azione

Superate le ciminiere che sputavano un fetido fumo nero, toccai il braccio


nudo di Albert per fargli capire che stavamo arrivando. Un gesto
perfettamente inutile, poiché Albert conosceva benissimo il luogo che
avevamo ispezionato insieme nei giorni precedenti. A quell’ora del mattino la
zona era praticamente deserta.
Dissi ad Albert di fermarsi, e lui parcheggiò l’auto lungo il marciapiede, vicino
alla traversa che tagliava il boulevard. All’angolo c’era una salumeria. Il telone
abbassato, giallo, con all’estremità inferiore un ornamento a intreccio e nel
centro la scritta, in caratteri blu sbiaditi, «Alimentari di prima scelta», faceva
pensare al sipario di un teatrino delle marionette. Trovai la cosa divertente,
dato che i nostri burattini dovevano arrivare proprio da quella direzione. Tutto
era pronto per lo spettacolo: ci sarebbe stato da spassarsela. Mi ripromisi di
godermela ben bene, e mi concessi subito un anticipo. Il momento era
piuttosto sul grave, ma cominciai a ridere piano. Avevo la reputazione di
buontempone, e mi sollazzavo al pensiero della scenetta umoristica di cui avrei
gratificato i cittadini.
Tenendo il motore acceso, Albert iniziò ad accompagnarne il ritmo
tamburellando sul volante. Indossava una canottiera che lasciava
abbondantemente scoperti il collo e le braccia. Era buffo vedere i guanti alla
fine delle sue braccia nude.

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Piccolo, tarchiato, con folte sopracciglia unite fra loro, non valeva un fico dal
punto di vista intellettuale, ma aveva una predisposizione innata per la
meccanica. Lui e l’automobile formavano un unico corpo, una sorta di
moderno centauro che in altri tempi sarebbe stato un buon quadrupede.
Socchiusi la portiera e restai incollato al sedile. Nell’ombra dell’interno della
vettura, Paul e Marcel non si mossero.
Passò una vecchietta. Mi vide ridere. Avrà pensato che dovevamo essere nati
con la camicia per possedere una quattroruote. Fosse stata a conoscenza della
mia reale situazione, mi avrebbe volentieri lasciato la macchina. La quale,
meglio dirlo subito, non era precisamente di mia proprietà. Seguii la nonnina
con lo sguardo per qualche istante.
Poi fu la volta di una ragazza. Vestita con un abito chiaro che ne modellava le
forme, attirò l’attenzione di Albert, che lanciò un fischio da intenditore.
«Chiudi il becco!», mormorai.
Albert sorrise e si azzittì. Per un attimo smise di tamburellare. Poi ricominciò.
La giovane sfilò senza vederci. Si leggeva nei suoi occhi che stava pensando a
cose importanti: la bolletta del gas, l’affitto, il lavoro, il tipo che le faceva il filo e
compagnia bella. Sporsi la testa fuori dal finestrino per guardarla allontanarsi,
come avevo fatto prima con l’anziana casalinga. Feci scivolare la mano sotto la
borsa di cuoio che tenevo sulle ginocchia, dove avevo ficcato un pesante
revolver spagnolo di grosso calibro: una Primamata, con il relativo nastro di
munizioni. L’accarezzai. Fu un po’ come se mi stessi facendo la ragazza che si
allontanava con quell’invitante movimento dei fianchi.
Chiesi l’ora, di brutto. Albert si sollevò l’orlo del guanto e controllò l’orologio.
Disse che mancava poco. Un fiammifero, sfregato alle mie spalle, nelle
profondità del veicolo, mi ricordò la presenza di Paul e Marcel. Stavano
parlando. Colsi uno spezzone di frase dove si accennava a una «cocca nuda».
Mi voltai. Da sempre Marcel mi dava sui nervi con i racconti dei suoi successi
amorosi. E oggi ne stava rimpinzando Paul. Volevo bene a Paul. Aveva
vent’anni ed era gobbo. Le storie di Marcel non erano indicate per lui.
«Faresti meglio a prepararti per il lavoro che ci aspetta», osservai.
«E’ tutto pronto», rispose.
Era un bel ragazzo, niente da dire. Un torace d’atleta con tutto quel che piace
alle donne. Indossava una canottiera, come Albert. Solo io e Paul riuscivamo a
sopportare la giacca, con quella temperatura.
«Potrò ben parlare della mia ultima conquista», aggiunse aggressivo. «Non sarà
certo questo che farà saltare il colpo. Sappiamo forse come andrà a finire? E

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allora lasciami godere dei miei ricordi…».
Mi stomacava, con le sue rievocazioni che puzzavano di bidè. Glielo dissi.
«Basta», intervenne pesantemente Albert. «Smettetela di punzecchiarvi. C’è
gente. Rischiamo di farci notare. Datevi una calmata». (A volte Albert era il
buon senso in persona). «Già che quelli tardano ad arrivare», aggiunse
tamburellando di brutto sul volante. «Perdio! Che stanno combinando? Ma che
diavolo stanno combinando?».
«Non hanno certo fretta di fare il viaggio», dissi, lasciando perdere Marcel che
si era ammutolito.
Le mie parole dovettero suonar male alle orecchie di Paul. Aveva dei principi,
lui. Sostenne che bisognava spiegare bene la faccenda a chiunque ci fossimo
trovati di fronte, che non ce l’avevamo con loro, che loro non erano
nient’altro che poveri cristi, senza responsabilità, innocenti eccetera.
«Sarò io a fargli il discorsetto», assicurai.
In quell’attimo ci fu una certa agitazione sul marciapiede. Uno strillone saliva il
pendio a passo rapido, distribuendo a destra e a manca la sua merce e
gridando: «Edizione straordinaria!». Aggiungeva qualcosa, ma il rumore
dell’auto ci impediva di coglierne il senso.
«Chissà perché si sta sgolando in quel modo», fece Albert inquieto.
«Dovrebbe risparmiare il fiato per stasera», sghignazzai. «Ne avrà bisogno».
Nel frattempo il venditore di giornali era giunto alla nostra altezza. Comprai
una copia, l’aprii, e subito ci saltarono agli occhi i titoli in grassetto ancora
umidi d’inchiostro.
Sangue durante lo sciopero dei minatori. Gli scioperanti non rispettano le intimazioni, e i
militari sono costretti a far uso delle armi. Rilancio provvisorio: quattro morti e numerosi
feriti…
Fra i cadaveri figurava una bambina di dieci anni, «la cui presenza in mezzo agli
scioperanti era inspiegabile», continuava l’articolo, «a meno che alcuni agitatori non si
fossero fatti scudo di lei…».

«Bastardi!», ringhiò Paul, che si era sporto in avanti e leggeva al di sopra della
mia spalla. «Bastardi! Scudo o no, hanno sparato…».
«Non c’è la foto della ragazzina?», domandò Marcel.
«No», risposi. «Niente foto».
«Per me è come se ci fosse», brontolò Albert. «Voglio dire che non mi serve
un’immagine per capire. Guardate il trafiletto dell’ultima ora. È trionfalista. Le
trattative, interrotte da diversi giorni, sono ricominciate dopo il massacro. Il

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lavoro riprenderà, è chiaro. Sono sconfitti…».
«In casi simili succede sempre così», sentenziò Marcel. «E’ un mese che va
avanti questa storia. Non c’è più un soldo, e ora le pallottole…».
Si mise a canticchiare Le fusil Lebel.
«Allora», balbettò Paul, «si continua?».
Lo sentivo fremere quanto me. Non gli sarebbe piaciuta una risposta negativa.
E neanch’io volevo rinunciare.
«Si continua. Se non hanno il becco d’un quattrino…».
Albert mi interruppe bruscamente: «Eccoli!».
«Adelante!», esclamai. «E pensa alla ragazzina, Marcel. Se quei porci non
l’avessero uccisa, chissà, fra sette anni magari te la saresti fatta. Che il piombo
che porta in pancia possa riempire la tua di coraggio!».
Marcel eruttò un’ingiuria abominevole. L’auto scattò in avanti.
Doveva percorrere solo pochi metri. Fu un affare di tre secondi, durante i
quali il mio cranio si trasformò in vulcano. Pensai che me ne sbattevo
altamente delle rivendicazioni dei minatori, della loro lotta e dei suoi esiti,
vittoriosi o meno. Mi sembrava che tutto ciò non fosse mai stato così confuso
come in quel momento. Se i soldati avessero mitragliato la bimba otto giorni
prima, l’azione cui tenevo tanto sarebbe stata rimandata, se non annullata.
Rispetto alla ragazzina ero come Marcel. Mi sarebbe piaciuto vedere la foto,
sapere che era bella. Doveva essere bella, era necessario. Giaceva a gambe
aperte su un mucchio di carbone, con il suo povero vestitino, il suo povero
vestitino da povera macchiato di sangue, con i capelli biondi pieni di polvere
nera e il ventre ancora vergine penetrato da un seme mortale, caldo e tagliente,
lanciato da sudici figuri gonfi d’alcol. Aveva dieci anni. Mi sarebbe piaciuto
avere dieci anni. La vita era uno schifo. La conferma veniva quotidianamente.
Mi sarebbe piaciuto avere dieci anni. Non so perché ma mi sarebbe piaciuto
avere dieci anni. Un immenso desiderio di avere dieci anni. La vita era uno
schifo, era un ignobile e spaventoso ingranaggio, e noi tutti contribuivamo a
perpetuarne la merda. I soldati erano schifosi, e noi pure. Maiali sanguinari da
una parte e dall’altra. Mi salì dalle budella un’insopprimibile voglia di vomitare e
balzai giù dall’auto, con la rivoltella in pugno e con un ghigno suscettibile di
provocare d’un colpo solo l’aborto di un esercito di donne gravide.
Il furgoncino con i finestrini protetti dalle griglie, sbucando dalla strada
trasversale, si trovò bloccato dalla nostra automobile. La manovra di Albert era
stata perfetta, prima un’accelerazione, poi un sensazionale testacoda che aveva
rischiato di capovolgerci. Ma Albert sapeva il fatto suo. Adesso occupavamo la

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posizione più favorevole: via di fuga completamente libera e obiettivo
immobilizzato. Alla vista della nostra macchina che gli andava addosso, il
conducente del furgoncino, pensando di avere a che fare con piloti inesperti o
con ubriachi, aveva frenato e si era bloccato per evitare l’incidente. La sua
bocca, pronta agli insulti, non ne lasciò uscire nemmeno uno, per contorcersi
invece in un ghigno inebetito. L’espressione collerica del suo viso si trasformò
in paura. Capì, quando già era troppo tardi, che si trovava di fronte a una
rapina. Lui e il denaro che trasportava non potevano spostarsi. Albert, sempre
al volante della macchina, lo teneva sotto tiro con una Mauser automatica, la
cui canna smussata spuntava dal parabrezza rialzato. Io non vedevo Albert, ma
sapevo che la sua mano sinistra continuava a tamburellare. Marcel, coprendo i
movimenti miei e di Paul, aveva immobilizzato i pochi testimoni del nostro
grazioso numero di music hall. Il dito sul grilletto della mitragliet-ta, lo sguardo
truce, li teneva a bada.
Seguito da Paul, corsi verso il retro del furgoncino. La portiera si aprì
brutalmente, e per poco non la beccai in pieno muso. All’interno erano in due:
un individuo canuto con un’uniforme logora ai gomiti, e un altro cittadino
dall’aspetto più prospero, con baffi e abiti curatissimi. Mi colpirono gli occhi di
quest’ultimo: mi ricordavano vagamente qualcuno. Il vecchietto, vedendoci,
alzò le mani con fare comprensivo. L’altro imbecille, che impugnava una
pistola, lo trattò da vigliacco. Si credeva un furbastro e voleva darci una lezione.
«Statemi a sentire, compagni…», cominciò Paul, constatando che io non
dicevo niente.
S’immaginava in un’assemblea pubblica. Il tipo ben vestito, come si usa fare in
casi del genere, apportò l’inevitabile distinguo rispetto all’inizio del discorso. Ci
fu una detonazione e Paul rischiò di prendere il confetto in un punto delicato.
Io, non so come, schivai di misura il secondo proiettile.
«Sii benedetto, fottuto bastardo», sogghignai.
Mi facilitava il lavoro, e misi in funzione l’artiglieria. La mano e il braccio mi
sussultavano con voluttà; il nastro delle munizioni, srotolandosi, mi accarezzava
dolcemente il polso. Il vecchietto che teneva le mani in aria le lasciò cadere
con un gemito sordo per portarsele alle gambe. Era stato colpito. Non gliene
volevo particolarmente, ma mitragliavo l’interno del veicolo con frenesia
rabbiosa. Era impossibile che restasse illeso. Il rumore degli spari, amplificato
da quella specie di cassa di risonanza, m’inebriava. E quando sentii l’odore della
polvere, del fumo, del sangue e del calore del ferro, mi si annebbiò la vista. Il
tizio dagli occhi familiari era crollato su se stesso in un angolo, e io gli ficcai

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gratis altre due palle di piombo nelle reni. Se fosse riuscito a cavarsela, l’avrei
convinto a portare i vestiti dal rammendatore, dato che mi sembrava soltanto
una successione di buchi, con qualche filo di stoffa a mo’ di decorazione.
Al momento del nostro intervento, le bisacce stavano probabilmente sulle
ginocchia dei due individui. Adesso giacevano sul fondo del furgoncino,
costellate da macchie di sangue. Una si era aperta e lasciava fuoriuscire il
denaro. Arraffai in fretta il malloppo, ne passai una parte al gobbo, e
raggiungemmo la nostra vettura.
«Squagliamocela», ansimai. «L’affare ha richiesto un certo tempo… un
tempo… Credevo non finisse più…».
L’auto partì furiosamente, e Marcel balzò dal marciapiede. In quel momento ci
furono altre detonazioni. Avvertiti di ciò che stava succedendo, entravano in
ballo gli sbirri, con l’intenzione di organizzare una festa in piena regola. Marcel,
già mezzo dentro la macchina, lanciò un urlo e rotolò sul selciato. Mentre
cadeva tenne premuto il grilletto, e l’arma si vuotò di tutte le munizioni.
«Recupera Marcel!», gridai.
Albert fece retromarcia, si portò presso il corpo. Misi in azione una seconda
pistola, per coprire la manovra. Paul aprì la portiera, si curvò e afferrò l’amico
per la cintura, senza preoccuparsi se gli straziava o no la pelle. Le sue unghie
divennero rosse quando dilaniarono la carne.
«Il cuscino!».
Paul gettò fuori un pacchetto informe. Era un trucco per imbrogliare gli sbirri.
«E adesso dacci dentro!».
L’auto sembrò volare. Un poliziotto, che cercava di sbarrarci la strada, rifletté
in tempo che non era ancora maturo per raccogliere postuma una medaglia al
valore, e si scansò con la grazia di un torero. Tuttavia non mancò di salutarci
con il suo revolver. Il parabrezza si crepò a raggiera e si udì un ploc sulla
carrozzeria, senza ulteriori danni.
Albert pareva una statua di bronzo. Il piede sull’acceleratore, le mani guantate
contratte sul volante, un’aria truce, praticamente irrigidito, faceva tutt’uno con
il veicolo. Azzannava le curve con un rabbioso ringhio di pneumatici.
M’immaginavo la vettura con l’aspetto di una bestia feroce.
Paul controllava la strada dal finestrino posteriore. Un’auto aveva tentato di
inseguirci, ma poi aveva desistito. Ora stavamo correndo in mezzo ai campi, a
un’andatura folle, senza nessuno sulle nostre tracce.
Mi passai la mano sugli occhi.
«Perdio, se è stato lungo!», esclamai.

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«No», disse Albert. «Tutto si è svolto rapidamente».
«Mi è parsa un’eternità», ripetei. «Forse perché in qualche secondo ho fatto il
lavoro di parecchi mesi».
«Si è messa male, eh?».
«Un autentico macello», intervenne Paul con il tono neutro della pura e
semplice constatazione.
Accesi una sigaretta. Un vero macello, sì. E non era che l’inizio.

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II. Marcel

Attraversammo due piccoli centri abitati. Che avessero o no diramato via


telegrafo gli avvisi di ricerca, nei due paesini non notammo nulla di sospetto. Li
superammo a bassa velocità, per non attirare l’attenzione. Sulla strada aperta e
deserta, invece, Albert pigiava a fondo sull’acceleratore. A quella velocità
saremmo arrivati in fretta da Duval.
Marcel era svenuto. Paul, bloccato dai piedi del ferito, si era accovacciato sul
sedile posteriore, non prima d’aver messo al sicuro i sacchi rapinati, onde
evitare che i biglietti si sporcassero di sangue.
Tutto sommato, non c’era andata male. Paul aveva una chiazza sospetta sui
pantaloni, e nient’altro. Non avrei mai pensato fosse possibile cavarsela così a
buon mercato, e quasi senza sporcarsi, da una sparatoria simile. La macchia sui
pantaloni di Paul proveniva dalla ferita di Marcel. Tuttavia non sarebbe stata
una precauzione inutile prevedere un cambio d’indumenti.
Passai dietro ed esaminai Marcel.
Per quanto potessi capire, non mi sembrava che la ferita fosse mortale. Mi
attardai sul viso di Marcel. Detestavo sempre più la sua faccia belloccia.
Nonostante il dolore e la fatica delle recenti emozioni, continuava ad essere
seducente. Percorsi Marcel con lo sguardo, dai piedi a quella testa che
detestavo.
Il suo corpo, armonioso come quello di un dio ferito, meritava le premure
attente e inquiete di un’amante. Me la vedevo augurargli dolcemente la
buonanotte sfiorandogli le labbra febbricitanti. I capelli della donna gli
accarezzavano le guance. Io non credevo nella Provvidenza, ma ce ne doveva
essere una, perché, in caso contrario, tra i quattro non sarebbe certo stato
Marcel a farne le spese. Ignoravo come sarebbe finita, ma un fatto era certo:
per il momento era Marcel a dover pagare.
«E’ grave?», domandò Paul.
Avevo inconsciamente assunto un atteggiamento da medico, e Paul reggeva la
scena. «Sì», risposi.
Aggiunsi, rivolto ad Albert:
«A sinistra, due o tre chilometri prima di arrivare da Duval, c’è un boschetto.
Andiamo lì». C’era una cosa importante da fare.

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L’auto imboccò il sentiero sobbalzando. I rami bassi degli alberi frustavano la
carrozzeria. Un coniglio scappò davanti alle nostre ruote. Gli uccelli
cinguettavano. Albert si fermò nel folto della vegetazione. Da un minuscolo
squarcio fra le piante si scorgeva un prato disseminato di fiori. Il posto era
deserto, e sembrava isolato dal resto del mondo.
Scendemmo dalla vettura. Marcel si era lamentato debolmente, ma io assicurai
che non era nulla. L’essenziale era quello che avevo da dire.
Ci sedemmo su dei ceppi e accesi una sigaretta.
«Niente ha funzionato secondo le nostre previsioni», dissi. «Abbiamo il
bottino, ed è già qualcosa, ma niente ha funzionato secondo le nostre
previsioni. Ancora una volta si è confermato l’eterno scarto fra la teoria e la
prassi. Dovevamo fare un discorso ai tipi, spiegar loro il senso della nostra
azione, dimostrare loro che, per quattro miseri soldi mensili, non era certo il
caso di difendere i milioni dei loro padroni. Tutto doveva svolgersi senza
violenza. Le nostre armi dovevano servire soltanto a mettere un po’ di
strizza… Non abbiamo potuto dire una sola frase. Un tizio del furgone ha
incominciato le ostilità. Con lui, non abbiamo sicuramente avuto fortuna. Il
vecchietto si sarebbe certo mostrato sensibile alle nostre argomentazioni.
D’altronde, non ha opposto alcuna resistenza. Il che non gli ha evitato di
ricevere la sua dose. La vita è uno schifo. Non meritava una punizione, eppure
l’ha subita lo stesso. La colpa è stata di quell’altro che, con una berta in pugno,
si è ritenuto un eroe. Doveva andare tutto liscio, e invece non ho mai visto una
corrida del genere…».
Gettai il mozzicone e mordicchiai un filo d’erba.
«…Siccome doveva andare tutto liscio, non pensavamo di poter avere dei
feriti. Invece ne abbiamo uno: Marcel. Il che significa che siamo fregati. Se
trasformiamo l’auto in ambulanza e noi in infermieri, ci ficcheremo in guai
grossi. E per niente, dato che la sua ferita è grave. È spacciato».
Erano le parole che ci volevano.
«E allora?», fece Albert.
«È spacciato, e ci condanna alla medesima sorte. Il compagno medico, che
comunque non lo salverebbe, vive in città. Sapete bene come dobbiamo
rientrare in città. Con questo fardello non ci riusciremo, e saremmo fregati».
«È proprio spacciato?», chiese Albert.
Il suo lento cervello cominciava ad agitarsi.
«So di cosa parlo. Non se la caverà», ribattei.
Per sapere di cosa parlavo, lo sapevo bene.

16
«E allora?», ripetè Albert.
Sputai fra l’erba e accesi un’altra sigaretta.
«Lo finisco io», dichiarai. «E poi ci sbarazzeremo del cadavere. Nessuno lo
cercherà qui in mezzo».
«Perdio!», bestemmiò Albert. «È una brutta storia!».
«Forse è una brutta storia, ma la vita è uno schifo. E ha le sue esigenze. Il
vecchio del furgone non lo meritava, ma si è preso una raffica lo stesso. Se
continuiamo a portarci dietro Marcel, siamo fottuti». «Perdio d’un dio!».
Guardò Paul. Il gobbo, fino a quel momento silenzioso scosse la testa e disse:
«Jean ha ragione».
Volevo bene a Paul. E lui a me. Soprattutto da quando gli avevo detto che le
donne erano tutte delle vacche o delle puttane.
Abbandonai il ceppo, gettai la cicca, la schiacciai con la scarpa e mi diressi
all’auto. Al mio arrivo, Marcel sollevò le palpebre. Negli occhi si leggeva una
grande stanchezza. Aveva perso molto sangue. Era contento che fossi
ritornato da lui.
«Stammi a sentire, vecchio mio», mormorai con una voce carezzevole. «La
situazione non è granché. Io… siamo ridotti a un rimedio estremo che mi
ripugna, ma… Eri ben d’accordo che l’azione doveva riuscire, vero? E non
vorresti che tutto finisse in un disastro, vero? Sei ferito, e di brutto. Non hai
nessuna possibilità di cavartela, vecchio mio. Quindi…».
Tirai fuori la Colt.
«Non soffrirai», dissi. «E ti risparmierò una lenta agonia. Eri un buon amico,
Marcel. Pensa a tutte le ragazze che hai avuto. Ai loro seni, alle loro cosce, a
tutto il loro armamentario e al piacere che ti hanno dato…».
Mi domandai dov’ero andato a prendere quella voce. Vero e proprio miele. Ne
avevo la bocca appiccicosa. Me ne intendevo, in fatto di consolazione. La
rievocazione delle gioie amorose che non avrebbe più potuto gustare lo
sconvolse. Il terrore e la disperazione invasero i suoi occhi.
«Jean… Jean…», balbettò. «È vero?… Sono spacciato?».
Gettai una veloce occhiata intorno. Albert e Paul erano abbastanza lontani.
Non potevano udirmi. Mi chinai. La mia voce diventò ancora più dolce. Non
l’avrei mai creduto possibile.
«No, vecchio mio, non sei spacciato. Ma è come se lo fossi. Potresti cavartela,
ma io non voglio. Basta donnette per te. Ti ammazzo».
Reagì bruscamente. Raccolse tutte le forze, lanciò un urlo rauco e scalciò come
un animale agonizzante. Mi presi le suole in pieno petto, ma sparai prima di

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cadere. Gli uccelli scapparono sbattendo le ali come ossessi.
Mi rialzai massaggiandomi il torace. Non avevo lasciato la Colt. La misi in tasca
ancora tutta calda. Albert e Paul si erano avvicinati.
«E’ morto», fece Albert dopo aver dato un’occhiata all’interno della vettura e
per rompere in qualche maniera il ghiaccio.
«Non pare l’abbia presa bene», obiettò Paul.
«Si è preso il piombo e, quale che sia il modo, l’essenziale è fatto», tagliai corto.
Il sudore mi salava le labbra. Mi asciugai.
«Non è stato piacevole, ma era necessario».
«E adesso, che facciamo?».
«Ho visto una buca fra i cespugli», disse Albert. «Potremmo gettarlo lì dentro e
ricoprirlo di terra». «Non abbiamo le pale». Albert bestemmiò.
«Intanto tiriamolo fuori dalla macchina», dissi.
Paul prese il cadavere per i piedi. Gli ci vollero alcuni strattoni per estrarlo
interamente dalla vettura. Si sarebbe detto che Marcel non voleva lasciarla. Le
sue braccia erano messe in modo tale che per un attimo restò incastrato
nell’apertura. Alla fine cadde per terra con un brutto rumore. La testa urtò il
predellino.
«Fammi vedere questa buca», dissi ad Albert.
Lo seguii all’interno del boschetto. Scostò dei rovi davanti a una buca naturale
che già di per sé esalava un tanfo putrido. Marcel sarebbe stato come a casa sua.
«Lo getteremo qui dentro», decisi. «Lo seppelliremo il meglio possibile con
rami e foglie. Sarà sufficiente, dato che il luogo non ha l’aria di essere molto
visitato».
Ritornammo dal cadavere. Paul l’aveva perquisito e aveva ammucchiato il
contenuto delle tasche. Stava lì, con le braccia penzolanti, la testa curiosamente
piegata, come schiacciato dal peso della gobba. Tutto stranito. Eppure mi aveva
approvato. Gli appoggiai la mano sulla spalla.
«È tremendo», dissi, «ma non si poteva fare altrimenti. Non dobbiamo correre
alcun rischio… E poi, noi non siamo mammolette, no? Ora vi dico come la
penso veramente. È un bene che sia toccato a Marcel quello che gli è capitato,
la ferita e… le sue conseguenze. Sì, è un bene che sia stato liquidato sin dal
nostro primo colpo. Con la sua mania delle donne avrebbe finito presto o tardi
per venderci, volontariamente o no. I cuscini sono cattivi consiglieri».
«Non parliamone più», intervenne Albert. «Prendigli i piedi, Paul».
Il gobbo si scosse e si apprestò a ubbidire. Io schioccai le dita.
«Un momento», sbottai. «Marcel era stato arrestato. Me l’aveva detto lui. Gli

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sbirri hanno senz’altro la sua foto e le sue impronte. Può succedere che lo
ritrovino troppo presto. Bisogna che non sia identificabile…».
Scostai Paul, afferrai il morto per le caviglie e lo trascinai. Lo disposi di
traverso al sentiero, con le braccia incrociate sul ventre. Quindi salii in auto.
Albert, confuso, mi chiese cosa volessi fare. Non doveva assolutamente notare
la fiamma che mi bruciava gli occhi. Abbassai il capo.
«Un’operazione orribile, ma necessaria», biascicai con un’espressione contrita.
Misi in moto e iniziai a schiacciare lentamente la testa e le mani del cadavere.

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III. Ritorno

Ci sbarazzammo dell’auto, come previsto, in un fiume vicino alla casa di Duval.


Era un garage acquatico, perfetto sotto ogni punto di vista, che offriva le
massime garanzie di sicurezza. La macchina completamente immersa,
raggiungemmo attraverso i campi il domicilio di Duval, appena un chilometro
più in là.
Duval gestiva una sperduta stazione per camionisti, situata a un incrocio
deserto che al crepuscolo doveva assumere l’aspetto di un rustico luogo di
tagliagole, tipo albergo di Peyrebelle. Tuttavia sembrava che Duval godesse di
una buona reputazione presso i contadini della zona. Era un vecchio amico e,
al momento, ci dava una mano. Per farla breve si poteva dire che, pur senza
accumulare una grossa fortuna, era riuscito a mettersi a posto meglio di tanti
altri, e che cercava di farsi perdonare in mille maniere la sua buona sorte. Ci
sono dei tipi così, gente che non crede di essersi meritato il pane che mangia.
Sapeva da dove saremmo arrivati, e ci aspettava sulla porta posteriore della
baracca, con le mani che stringevano nervosamente le bretelle della tuta unta
d’olio.
«Allora», fece, «un casino, eh? L’ho sentito alla radio. Credevo vi avessero
beccato. Il notiziario non lo diceva, ma è proprio di quello che non dice che
bisogna diffidare. Siete un po’ in ritardo, ma non fa niente».
«Un compare è rimasto impallinato», dissi. «È stato necessario nasconderlo.
Abbiamo perso tempo». «Non fa niente», ripetè.
Non desiderava ulteriori dettagli. Meno ne sapeva, meglio era. Era già
sufficientemente impegolato nell’affare. Aggiunse guardandomi:
«La persona che deve trasportarti sarà qui solo fra mezz’ora… Entrate».
«Che dice la radio?», chiesi una volta dentro, indicando l’apparecchio.
Per il momento non parlava. Cantava. Qualcuno scandiva mielosamente:
Muoio per te, amore mio, gioia mia…
Una canzonetta balorda, ma che mi scombussolava. Muoio per te! Una volta
l’avevo detto a Gloria. Le avevo detto: «Morirò per te…». Gloria! Al diavolo!
Mi diressi verso il ricevitore e girai le manopole zigrinate, troncando la parola
in bocca al melenso cantante.
Accesi una sigaretta e mi sedetti a tavola; sulla tovaglia cerata i culi delle
bottiglie e dei bicchieri avevano disegnato cerchi violacei. Le mosche vi si

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abbeveravano, prima di andare a invischiarsi su un’apposita carta appesa al
paralume della lampadina. Una volta cadute in trappola, le si udiva sbattere
furiosamente le ali.
«Non ci sono altri notiziari prima del pomeriggio», fece il nostro ospite. «Ma
appena un quarto d’ora fa raccontavano per l’ennesima volta il resoconto
dettagliato del fatto».
«Che dicevano?».
Scosse la testa.
«Si è messa male, eh?».
«Gliel’abbiamo cantata. Erano dei recalcitranti. Assurdi, per quello che
prendono…».
«Uno è morto. Svolgeva una funzione importante nel direttivo dell’azienda.
L’altro, un subalterno, è ferito gravemente, ma si pensa che ce la farà».
«Pensavamo d’averli fatti fuori tutti e due… Muoio per te», canticchiai… «Me ne
frego di loro», aggiunsi. «Che dicono di noi?».
«Siete già stati avvistati ai quattro punti cardinali… E’ un buon segno».
«Segnalati anche da queste parti?».
«Più o meno, e allo stesso modo che altrove. Nulla di preoccupante. La polizia
brancola nel buio, e le informazioni contraddittorie non le faciliteranno il
compito. Soprattutto con le descrizioni di cui dispongono».
«Che tipo di descrizioni?».
«Confuse. Uno grande, uno piccolo, uno finto gobbo…».
«Il trucco del cuscino ha funzionato», dissi, scambiando un’occhiata con Paul.
Ero contento del mio stratagemma. Mi tolsi la giacca.
«Brucerai tutti i nostri stracci. Passaci gli altri indumenti».
Duval andò a un armadio metallico chiuso a chiave, lo aprì e ne tirò fuori tre
vestiti completamente diversi da quelli che indossavamo. Per la verità il mobile
conteneva quattro completi, ma uno non serviva più. Ci cambiammo in fretta,
discutendo. Gli sbirri non sapevano che pesci pigliare, e questo era essenziale.
Unico dato di base: tutti erano disorientati per la ferocia della rapina.
«Noi non abbiamo voluto né ci auguravamo che succedesse tutto ciò», dissi,
per sopire gli eventuali scrupoli di Duval. «Ma ciò che è fatto è fatto, e non si
può certo disfare».
«Sicuro», convenne. «Volete mangiare un boccone?».
Terminato lo spuntino, esaminai il contenuto delle bisacce. Molti biglietti
nuovi. Troppi. La cosa non mi piacque. Ne passai alcuni usati ai miei compagni.
Paul doveva rimanere per qualche tempo “congelato” da Duval. Con la sua

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gobba era troppo identificabile. Il trucco del cuscino poteva aver funzionato,
oppure no. Non bisognava credere a tutto quello che dicevano gli sbirri.
Albert, con un complicato percorso ferroviario, sarebbe rientrato nella capitale
da solo. Io dovevo attendere un camion.
Arrivò poco dopo, e fece il pieno di benzina. L’autista aveva una faccia
relativamente simpatica. Era un amico.
«Ecco il passeggero», gli disse Duval. «Lavorate insieme da questa mattina».
«Capito», fece l’altro. «Così, ragazzo mio, mi fai da aiuto, eh?».
«Così sembra», risposi.
«Non hai mai trasportato cemento, eh?».
Era orgoglioso dei suoi muscoli. Le sue braccia ne erano così fornite da
risultare ripugnanti. Nient’altro che tumefazioni mobili. Io mi ero tolto la
giacca. Le mie braccia magre sembravano inoffensive. Non avevo mai
trasportato cemento? Sì, quindici anni prima mi ero caricato le spalle di sacchi
di cemento, e di zolfo, e di carbone, e mi ero piegato sotto il peso, e avevo
barcollato zigzagando fra le risate generali. Da allora portavo sulle spalle
qualcosa di più gravoso. Non sapevo bene cosa, ma perdio se pesava!
«Non sono un granché robusto, no», riconobbi laconicamente.
«Il mondo è bello perché è vario», disse.
Nascosi la borsa di cuoio, quella che mi trascinavo dietro dal mattino e nella
quale avevamo riposto il contenuto delle due bisacce, in mezzo al carico del
camion. Poi salutai gli amici, m’installai sul sedile a fianco dell’autista e
partimmo.
Il sole picchiava duro, e nella cabina si cuoceva. Il sudore gocciolava dal viso
del mio compagno sui suoi bicipiti. Io non ero più asciutto di lui. Una macchia
umida mi si allargava sotto ciascuna ascella. Avevo posato la giacca piegata sulle
ginocchia. Per ogni eventualità, la mia mano destra stringeva in una tasca
l’impugnatura della Colt.
Praticamente ripercorremmo in senso inverso la via di fuga del mattino. Il
camionista se ne stava in silenzio. Mi chiedevo cosa potesse pensare di un
tanghero come me.
Nelle vicinanze della città, tre motociclisti della polizia ci fecero cenno
d’accostare. I loro caschi d’acciaio scintillavano sotto il sole. Perdevano il loro
grasso nelle uniformi scure. Uno di loro, un graduato, si era sbottonato il
colletto. Non erano precisamente l’immagine della gentilezza. Strinsi più forte
la rivoltella.
Il mio compagno frenò, i pneumatici raschiarono il suolo, ci fermammo in una

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nuvola di polvere. Quello con il colletto aperto si avvicinò, la mano alzata.
Chino sulla moto e con un piede a terra, ci chiese:
«Da dove venite, giovanotti?».
Il camionista pronunciò il nome di una località e mostrò tutte le scartoffie
necessarie. Lo fece con l’aria di chi è abituato a non stupirsi di nulla.
«Che succede?», domandò ripiegando i documenti che l’altro gli restituiva.
«Non avete incrociato un’auto così e cosà?», fece lo sbirro, dando una
descrizione più o meno esatta della macchina che riposava in fondo al fiume.
«No. Cos’ha fatto?».
«Banditi. Hanno sgraffignato la paga degli operai delle Officine Folk,
uccidendo due impiegati…».
«Cavolo!», esclamai. «C’è chi non sta con le palle in mano».
«In compenso, le rompono agli altri», concluse lo sbirro. «Allora, voi non avete
notato nulla di sospetto?».
«No, niente».
«Potete andare», fece il poliziotto con un gesto liberatore. «Arrivederci!».
«Arrivederci!», rispose il camionista aggiustandosi il berretto.
«Arrivederci!», dissi io staccando la mano dall’impugnatura della Colt.
Ripartimmo.
L’autista evitava il mio sguardo. Fissava la strada. Si passava la grossa lingua sulle
labbra spesse, raccogliendo agli angoli le enormi gocce di sudore che,
scendendo dalla fronte e scivolando ai lati del naso, gli inondavano la bocca. Io
non stavo meglio. La camicia mi s’incollava alla pelle. Non scambiammo una
sola parola fino al nostro ingresso in città.
Mi lasciò in una strada deserta. Recuperai la mia preziosa borsa e gli dissi
arrivederci. Lui scosse la testa. Continuava a sudare e alcune gocce mi
annaffiarono.
«Preferirei di no, compagno», soffiò sorridendo a denti stretti. «Non avrei mai
pensato che fosse così dura. Vedi, compagno, preferisco ancora il mio
pidocchioso mestiere. Che pure è duro, ma in un altro senso…».
«Il mondo è bello perché è vario», sogghignai io.

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Un atto di banditismo…

Un atto di banditismo d’inaudita ferocia è stato commesso questa mattina alla periferia ovest
della città. Quattro uomini, a bordo di una macchina color marrone, hanno assaltato nei
pressi delle Officine Folk il furgone speciale che trasportava la paga degli operai della fabbrica.
Si stima che il bottino ammonti sui cinque milioni di franchi.
Sembra che l’autista dei malviventi sia quello che si dice un asso del volante. La manovra
effettuata per bloccare il furgone denota sia esperienza e abilità che sangue freddo e audacia.
Mentre il guidatore dell’auto teneva sotto tiro il conducente del furgone, tre individui si
precipitavano fuori dalla vettura. Il primo, armato di una mitraglietta, minacciava i pochi
testimoni dell’aggressione. Gli altri due, che impugnavano pistole automatiche, si buttavano
all’assalto del furgone e cominciavano immediatamente una fitta sparatoria contro i suoi
occupanti: MM. Bernard e Lebas.
M. Bernard, gravemente ferito alle gambe, sopravviverà alle sue lesioni, ma rimarrà storpio
per tutta la vita. M. Lebas, addetto alla direzione delle Officine Folk, è stato letteralmente
tranciato in due dai colpi. Il medico legale ha rilevato più di venti fori di proiettile.
Chiamata sul posto, la polizia ha aperto il fuoco a sua volta, colpendo il gangster che
manteneva a distanza i passanti.
Costui è tuttavia riuscito a montare in auto e a fuggire con i suoi complici.
Non si ha praticamente alcuna segnalazione dei fuorilegge. I testimoni del dramma hanno
rilevato che due rapinatori indossavano giacca e cravatta, mentre i loro complici erano quasi a
torso nudo. Secondo gli inquirenti i due completi tradiscono per l’uno il bisogno di celare
tatuaggi troppo vistosi, e per l’altro la necessità di un travestimento. Quest’ultimo pareva
infatti gobbo, ma la fuga precipitosa e il movimento occorso per salvare il suo compare hanno
fatto cadere un cuscino sul selciato. Verosimilmente una falsa gobba, destinata a sviare le
ricerche, ha persona che si suppone troppo tatuata per svestirsi è l’assassino della banda, colui
che si è accanito sui signori Bernard e Lebas. Questo individuo sanguinario ha un piacevole
aspetto, esile e giovanile. La signora Berger, che dice di essere passata accanto alla vettura dei
banditi pochi istanti prima del fatto, assicura che il killer sprizzava buonumore da tutti i pori,
e che mai avrebbe pensato che un giovanotto così contento s’apprestasse a commettere un atto
tanto abominevole. Un altro testimone ha sentito gridare al momento dell’azione «avanti» in
spagnolo. Adelante! Si tratta di stranieri? Di pistoleros? Alcuni bossoli raccolti sul luogo del
crimine confermerebbero questa ipotesi. Gli esperti li ritengono provenienti da un’arma
iberica.
L’emozione…

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IV. Cucaracha

Lessi resoconti identici, con insignificanti varianti, sui diversi giornali, andando
in sede. L’emozione era al massimo, evidentemente, dato che non si era mai
assistito a niente di simile. Ma la forza pubblica avrebbe fatto il proprio dovere,
si poteva contare su di essa e, beninteso, erano già state prese in esame diverse
piste, come d’abitudine. La nostra auto, uscita di sicuro dal fiume per opera
dello Spirito Santo, era segnalata un po’ dappertutto. Un inoffensivo
automobilista si era pure beccato gli spari della Stradale, in una zona
completamente opposta a quella verso cui eravamo scappati. Alcuni cronisti,
dando prova di buona memoria e d’intuito, ricordavano il caso Bonnot.
In generale, mi parve che ciò che irritava maggiormente i giornalisti, più
ancora del selvaggio omicidio di Lebas… (A proposito, ero contento di sapere
che si chiamava Lebas. Non che il nome m’ispirasse una particolare repulsione.
No, Ero solo felice di venirne a conoscenza. Lebas, Lehaut, Lecentre, era lo
stesso. L’importante era che avesse un nome. Uccidere una persona anonima
non produce il medesimo effetto. E meno concreto. E io amavo la
concretezza). Per tornare a quei maledetti giornalisti, ai quali nei giorni seguenti
avrei fornito materia per tirature che mi sarebbero dovute valere un
monumento, vivevano come un torto personale il fatto che fossi riuscito a
impadronirmi del malloppo. Il mio cinismo stava al di fuori del loro orizzonte.
Erano davvero divertenti! Immaginavano che avessi organizzato il colpo, fatto
una tale carneficina, per lasciare che il bottino reintegrasse la cassaforte delle
Officine Folk? Se poi avessero saputo cosa intendevo fare del denaro,
sarebbero rimasti senza fiato!… Per consolarsi della perdita dei cinque milioni,
annunciavano, con un ghigno dei trenta tasti della macchina da scrivere e un
fremito beffardo della penna, che la maggior parte dei numeri dei biglietti
rubati era registrata. Non bisognava credere a tutto quello che raccontavano i
giornalisti e gli sbirri ma, su questo punto, certamente non bluffavano.
Quell’abbondanza di biglietti nuovi non mi aveva mai ispirato fiducia.

I membri del Comitato stavano seduti attorno al misero tavolo di legno


bianco. La stanza puzzava d’umidità e d’inchiostro tipografico. Dal laboratorio

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contiguo proveniva il ronzio di due macchine a pedali su cui si stampavano i
giornali dell’Organizzazione. Sospesa al soffitto, una lampadina anemica
spandeva una luce parsimoniosa. Con la barba e l’ampia fronte levigata, colui
che chiamavamo “Christ” rassomigliava sempre più al Nazareno. Ma nei suoi
occhi non si leggeva alcuna rassegnazione, ed era tutt’altro che un apostolo
della nonviolenza.
«Ecco i soldi», annunciai posando la borsa sul tavolo.
«Com’è andata?», domandò Christ. «Ho letto i giornali. Non troppo liscia, eh?».
«Esattamente al contrario delle nostre previsioni. Il Lebas ha aperto il fuoco
per primo. Io e Paul non potevamo far altro che rispondere. Ero infuriato.
Inoltre, Marcel è morto. Gli sbirri l’hanno ferito gravemente…».
Spiegai i fatti.
«Mi chiedo», articolò qualcuno, «se abbiamo fatto bene a seguire la tua idea.
Riprendere la tradizione dell’illegalità!… Comunque, ciò ch’è fatto è fatto».
«Il denaro sta qui», dissi quasi giustificandomi. «I minatori sono stati dissanguati
e sono disposti a cedere. Ma con questi soldi potranno tenere duro. Abbiamo
qualcuno per farglieli pervenire?».
«Un amico, un compagno del movimento, sarà qui entro un’ora. Conosce la
provenienza della grana, ma è meglio non ti veda…».
«A proposito, il tizio che mi ha caricato, da Duval, è fidato?… T’informo che
se la faceva sotto e che non lo rifarebbe per niente al mondo. Spero che,
nonostante la fifa, tenga la bocca chiusa».
«Nessun problema», disse Christ. «I due terzi dei bigliettoni sono inutilizzabili,
vero?», aggiunse sciogliendo le cinghie della borsa e rovesciando le banconote
sul tavolo.
Alcuni biglietti si staccarono dalle mazzette e planarono sul pavimento in terra
battuta.
«Numeri registrati…».
Tirò fuori di tasca uno dei pochi giornali che non avevo comprato. La prima
pagina riportava solo cifre. Christ le confrontò con quelle di qualche biglietto
nuovo preso a casaccio. Concordavano. Ammucchiò i biglietti nuovi.
«Da bruciare», decretò con il muto accordo dei presenti.
Raccolsi due biglietti di grosso taglio.
«Li conservo per feticismo», spiegai.
Il loro ruvido contatto mi ricordò la morte di Lebas e di Marcel.

Più tardi, mentre camminavo sui boulevard, dov’ero andato a mescolarmi

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voluttuosamente tra la folla che commentava le mie prestazioni, mi resi conto
che, a parte i due biglietti impossibili da riciclare e qualche spicciolo, ero al
verde.
Da Duval si era fatta una certa confusione maneggiando i soldi e, mentre ne
era stata prelevata una parte per Albert e Paul, la mia aveva dovuto prendere il
cammino della borsa attualmente in possesso del Comitato. Lì, peraltro, non
avevo reclamato la mia quota. Non mi era neppure passato per la testa. E
Christ e gli altri, pensando mi fossi già servito, non avevano detto niente in
proposito.
Controllai l’ora. Era troppo tardi per tornare in sede, e poi, a dire il vero, me
ne sbattevo della grana. Ero un gangster poco comune, e gli imbecilli che mi
stavano intorno, che mi spingevano, ignorando di muoversi gomito a gomito
con l’assassino la cui condotta sanguinaria rivoltava anche i più incalliti fra loro,
un giorno o l’altro l’avrebbero imparato.
Mi accorsi della mia miseria perché mi venne fame. Avevo appena toccato il
cibo di Duval, e non mi ricordavo d’aver mangiato il giorno prima. In genere
mangiavo poco. Il gesto in sé mi ripugnava. Non ne avevo mai compreso la
necessità. Lasciarsi andare da solo, furtivamente, poteva anche andare. Ma
riunirsi, fra sconosciuti, nelle sale dei ristoranti, oppure fra amici e conoscenti
in quelli che chiamano banchetti e pranzi familiari, mi sembrava il colmo
dell’oscenità. Il rumore dei coperti e delle mandibole, le facce animate dal
movimento della masticazione, le guance gonfiate dalle cibarie e svuotate a
mano a mano che il pomo d’Adamo si metteva in funzione, tutte le
trasformazioni fisiche subite dai convitati (ingrossavano e smagrivano a vista
d’occhio): tutto ciò costituiva uno spettacolo che mi riempiva di rabbia piena
di disprezzo e di tristezza. Eppure… Era a causa del tubo digerente che
scoppiavano scioperi e ribellioni… Mi ricordavo di un film dove un pezzo di
carne marcia, sfolgorante di vermi e brulicante d’insetti, era all’origine di una
rivolta. Ma non dovevano tutti diventare come quell’ignobile carne putrida che
mi aveva ipnotizzato per un momento? E allora? L’osservazione di un
mangiatore in esercizio mi riempiva anche di un certo piacere. Aspettavo
l’incidente. Provavo una gioia particolare a spiare il liquido che va di traverso, la
zuppa troppo calda, gli effetti del pepe e della senape, l’osso che ferisce.
Adoravo la fine dei pasti, quando i visi s’imporporano e si procede al rito
d’estrazione dei resti alimentari che si sono subdolamente incastrati fra i denti.
Ciascuno lo fa con i mezzi a portata di mano: chi servendosi di un piccolo
utensile appropriato, estratto da una scatoletta di mica o da un astuccio; chi con

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un fiammifero intagliato; chi con la punta d’un coltello. Dio! Com’era ridicolo,
e tragico, e schifoso, mangiare davanti a tutti. No, niente mi sembrava più
demoralizzante e indecente, e io rimandavo di ora in ora il momento di
sedermi a tavola. Saltavo i pasti senza accorgermene. La fame non
m’infastidiva. La conoscevo bene. C’ero abituato. Non mi nutrivo se non
quando lo stomaco era attanagliato dalla morsa del digiuno. Era il caso di quel
momento. Si dice che le emozioni facciano venire l’appetito. Forse è vero…
Prima d’entrare in un ristorante mi tastai, secondo una vecchia abitudine degli
spiantati, per controllare il contenuto delle mie tasche. Ero a secco. Eppure
dovevo assolutamente mangiare. Me lo consigliava la più elementare prudenza.
Cominciavo a provare un vago malessere, e non era certo quella la situazione
per svenire, con i soldi rubati e la berta in tasca. Farmi beccare fin dal primo
colpo, questo proprio no.

Il biglietto da visita, fissato con due puntine da disegno, riportava in corsivo:


M. e Mme Frédéric Lorboit, con un errore d’ortografia. Lorbois si scriveva con la
s, ma i tipografi dei luna park non sono il massimo della precisione. In qualche
appartamento c’era una radio in funzione. Premetti il pulsante e provocai al
tempo stesso lo squillo e una serie di gorgoglìi. La porta si spalancò su Frédo.
«Guarda guarda. Buonasera, Jean», borbottò.
Stava masticando e teneva in mano un tovagliolo. Gli puntai un dito contro.
«Vedo che stai rimpinzandoti», ridacchiai. «Bella coincidenza, dato che avevo
giusto l’intenzione d’invitarmi a cena».
“Sempre in bolletta, eh? Dai, entra!”
Mi strinse la mano. Lo precedetti nella modesta sala da pranzo, conoscevo la
strada. La radio troneggiava su un mobiletto appositamente costruito.
Cinguettava dolcemente. Mme Lorbois era a tavola.
«Buonasera, M. Fraiger», disse. «Ci chiedevamo chi poteva essere. Come sta?».
«Come al solito», rispose suo marito al posto mio, ridacchiando senza
cattiveria. «Sempre con le tasche vuote. Aggiungi un coperto».
Mme Lorbois si alzò e andò in cucina. Frédo sospirò. Lo conoscevo da
parecchi anni. Ero stato il suo manovale in una ditta idraulica dove lavorava. La
mia partenza dall’azienda non aveva rotto il nostro rapporto. Mi aveva tolto
dagli impicci non poche volte. Quel brav’uomo di proletario aveva superato la
quarantina e mi considerava quasi un figlio. La cosa non mi disturbava.
«Bella vita, la tua!», aggiunse con una punta d’affettuoso rimprovero.
«Comunque, sono fatti tuoi… È un sacco di tempo che non ci si vede, eh? Che

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stai combinando? Non hai un aspetto troppo malmesso…».
Mi sedetti.
«Lavoricchio. Non una gran cosa».
Uno speaker della radio, con una curiosa pronuncia, annunciò che avremmo
ascoltato dei successi della madonna. Non si espresse esattamente così, ma il
tono era quello. Mme Lorbois mise il coperto.
«Dovrebbe cercare qualcosa di serio, M. Fraiger», disse. «Lei è una persona
intelligente…».
La osservai. Era molto gentile a trovarmi intelligente, anche se si trattava di
una frase fatta. A nessuno verrebbe l’idea di dichiarare a un altro: «Lei, che è un
perfetto buono a…».
No, si dice: «Un giovane della sua intelligenza…». Sulla faccia della terra non
esistono idioti. Solo persone intelligenti. E’ confortante, se uno ci pensa… La
radio incipriava le mie considerazioni con parole d’amore. Accennai un gesto
incerto.
«Via», concluse, «non deve scoraggiarsi. Prima o poi troverà una
sistemazione…».
Spinse verso di me un piatto ricolmo di cibo. Iniziai a mangiare ridendo e
assicurando che non mi sarei scoraggiato. Intelligente! Se avessero saputo che
ero ridotto a mendicare un pasto dopo aver appena sgraffignato cinque milioni,
di sicuro non mi avrebbero trovato così intelligente. «Che strano tipo!»,
avrebbero pensato. Non sarebbero stati i primi. Era la stronza di radio che mi
ricordava quella espressione. Uno strano tipo! Me l’aveva detto anche Gloria,
una volta…
Mi sono voltato per guardarla bene in faccia, Gloria. Lei mi ha imitato. E ho
potuto ubriacarmi della luce dei suoi occhi e dei suoi denti di madreperla,
perché mi ha sorriso con discrezione, con il capo reclinato e i capelli rossi che
le accarezzavano la spalla.
«Gloria», ho chiesto, «da quanto tempo ci conosciamo?».
«Non lo so», ha risposto con la sua voce limpida.
La domanda le sembrava bizzarra.
«Tre anni, forse…».
Non dava nessuna importanza alla cosa. «Quattro anni e due mesi», ho
precisato. «Ho tenuto il conto».
«Perché?», ha detto. «Perché… Uhm…».
Ho fatto uno sforzo bestiale per continuare. Eppure avevo fissato
l’appuntamento solo per dirle quello che stavo per dirle…

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«Perché sono esattamente quattro anni e due mesi che ti amo», ho detto.
E subito – per amor proprio, dignità, o altre fregnacce del genere – ho
sottolineato la mia tardiva dichiarazione con una lunga sghignazzata. Perché ci
sono delle situazioni ridicole per un uomo, a quanto pare. Nello stesso tempo il
mio cuore ha gridato aiuto. Tutto si è capovolto, in quella saletta del bar. Ho
perso la bussola. Mi sentivo sballottato da ogni parte. Un naufragio in un
vortice di disperazione. Solo per i suoi occhi che manifestavano un’indicibile
confusione. Diavolo! Avrei dovuto continuare a tacere. Perdio di un dio!…

«Versami ancora un po’ di rosso, Frédo», biascicai.


«Alzi sempre il gomito, eh?», ridacchiò Lorbois servendomi.
«È necessario», ribattei in tono allegro.
«Dovrebbe mangiare invece di bere tanto», consigliò Mme Lorbois con fare
materno. «Il suo piatto è ancora pieno. Mi sembra un tantino stralunato. A che
sta pensando?».

Pensavo che dopo siamo usciti dal caffè. Ci siamo fermati sulla soglia di un
portone. Era notte, e la strada era buia. L’ho presa per i fianchi, stringendola
forte contro di me, ho nascosto il viso tra i suoi capelli. Profumavano di vita, di
felicità, di qualcosa di raro. Era come rotolare in mezzo al grano. Diventerà
pane! La vita! I suoi capelli erano il mio pane, il mio pane rosso! Lei ha avuto
un fremito. E sono rabbrividito anch’io. Di panico. Mi ha sommerso un
incomprensibile bisogno di fuggire. Ci siamo separati.
L’ho rivista il giorno seguente. Dovevo rivederla, e l’ho rivista. Lei ha sorriso,
con quel suo sorriso chiaro, un po’ beffardo.
«Si può ben dire che sei uno strano tipo», ha detto. Avrei dovuto andarci a
letto il giorno prima.

«Non riesco ad ascoltare la radio senza sentire una volta su due questa
canzone: Muoio per te», dissi, indicando l’apparecchio con la punta del coltello.
«Potrebbero cambiar disco».
«Piace a tutti», disse Mme Lorbois. «E’ il grande successo del momento».
«Ma non c’è solo questa canzone», fece Frédo. «Poco fa parlavano dei banditi
che hanno rapinato le paghe delle Officine Folk. Ecco…», aggiunse ridendo,
«ecco quello che dovresti fare per toglierti dalla miseria: un bel colpo».
«Troppo pericoloso», ridacchiai vuotando il bicchiere.
«Che tempi!», sospirò la donna. «La gente è matta, mi creda! Ha sentito là, alle

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miniere, quella bambina di dieci anni…».
Scrollai la testa con un’espressione ambigua. Non sapevo più se bisognava
rallegrarsi o rattristarsi per quel dramma. La piccola era morta. Non sarebbe
diventata né vacca né puttana.
«La vita è uno schifo», commentai.
«Nonostante tutto ha i suoi buoni momenti, bisogna ammetterlo», fece Frédo
strizzando l’occhio alla bottiglia. Mi versò da bere. «Non oltre il bordo», dissi.
«E ora, cari ascoltatori», modulò una voce nasale, «l’orchestra Gonzalès
interpreterà La Cucaracha».
Non era possibile! Alla stazione radio si erano passati parola. Dovevano
sospettare che stessi ascoltando e volevano rincretinirmi del tutto. Mi alzai e
zittii l’apparecchio sulle prime note della melodia messicana.
«Ben fatto», esclamò Frédo. «Rompono le scatole. Tieni, bevi un sorso».

La Cucaracha… La Cucaracha… Aveva sceso le scale del metrò canticchiando


La Cucaracha. Da quell’istante il canto dei partigiani di Pancho Villa non mi
aveva più evocato né la marcia degli insorti attraverso i monti, né le lunghe
gambe inguainate nelle calze nere che scaturivano sotto le gonne delle ragazze
che danzavano in mezzo a un baccano di nacchere e di battiti di mano, in
un’atmosfera che sapeva di polvere, d’alcol, di sudore e di calore. Era curioso
come l’allegria festosa della Cucaracha si coniugasse dentro di me con una
profonda malinconia. Non potevo dissociare La Cucaracha da Gloria che la
canticchiava scendendo le scale del metrò. Io la seguivo con degli amici. Avevo
ancora la testa pesante. Era stata una bella zuffa. A un certo punto erano in
quattro a giocare a calcio con la mia carcassa. Mi stavo scrollando tutto
contuso, quando una mano si era appoggiata al mio braccio, e una voce dolce e
leggermente inquieta aveva mormorato: «Le hanno fatto male?». E il mio
sguardo aveva incrociato i più begli occhi del mondo, risplendenti d’oro come
l’acquavite di Dantzig. E visto il volto più adorabile del mondo, incorniciato da
capelli rossi… Cinque anni fa!

«Dammi ancora un goccio, Frédo, e tanto peggio se non ti piace la musica


messicana. La Cucaracha non è poi così male. Anzi, cara Mme Lorbois, ci ritrovi
per favore questi benedetti musicisti messicani…».

La Cucaracha… La Cucaracha…

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Mi adagiai sulla sedia e incrociai le braccia, tutto preso da quella musica fottuta.
Sentii nella tasca interna, contro il cuore, la dura e potente Colt, eretta come
un sesso… Lei scendeva le scale del metrò con la canzone della mia malinconia
sulle labbra…

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V. Gloria

Lasciando i Lorbois, dovetti smaltire la sbornia incipiente m due o tre caffè.


Avevo soldi puliti, Frédo mi aveva allungato una piccola sommetta, con
discrezione e risolutezza.
Avevo la testa piena di Gloria. La sentivo camminare nel cervello come se vi
abitasse dentro. Provavo la deliziosa ferita dei suoi tacchi a spillo. Rimanevo
quindici giorni, tre settimane senza pensarla, e poi, d’improvviso, cominciava a
battermi alle tempie, al cuore, allo stomaco, dappertutto. Una specie di febbre
dolce e insopportabile che mi rodeva. E allora dovevo vederla…
Andai direttamente a casa sua, senza telefonarle, per timore di un rifiuto.
L’edificio in cui abitava era molto diverso da quello di Frédo. Trasudava
agiatezza. Poco dopo il nostro primo incontro, Gloria si era sposata con un
tipo che guadagnava di che vivere bene. Non era un poveraccio come me, non
gli mancava nulla, e tuttavia lo insospettivo. Per esempio, trovava strano che
Gloria e io ci dessimo del «tu». Pensandoci bene, ero d’accordo con lui.
Com’era potuto accadere?… Era successo così, e basta. Forse gli astri…
Suonai. Mi aprì Lautier, il marito, con quell’aria da funerale che riservava a tutte
le mie visite, per quanto fossero rade.
«Buonasera», dissi. «Passavo di qua e…».
«Evidentemente ha saputo», fece lui, con la voce sorda.
Non avevo saputo un bel niente, ma ebbi l’impressione che qualcosa non
girasse per il verso giusto. Assunsi l’aspetto di chi sa, senza parlare.
«Entri», m’invitò. «Ma la prego di non restare troppo a lungo».
Lo seguii in una stanza bene arredata, Gloria stava seduta su un divano, in
compagnia di una donna di una certa età che le assomigliava vagamente.
Istintivamente cercai con gli occhi il cesto delle cipolle, convinto di aver
interrotto l’operazione di sbucciatura di quella pianta lacrimogena. Le due
donne avevano inequivocabilmente pianto. Mi dissi che non ne perdevo una,
che cadevo sempre al momento giusto, che possedevo una fottuta
predisposizione… Anche senza trucco, Gloria era stupenda. La stanchezza del
viso ne aumentava addirittura il fascino. Gli occhi umidi e arrossati sulle
palpebre mantenevano i loro riflessi dorati.
«Buonasera, Jean», disse stringendomi la mano.

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Mi presentò sua madre.
«Sei stato gentile a venire», aggiunse.
«Ehm… non so», farfugliai goffamente. «Che succede?».
«Non è al corrente?», si meravigliò Lautier.
«Sono di ritorno da un viaggio», mentii a metà.
«Ma… i giornali… Suo padre è stato assassinato… M. Lebas…».
L’avevo dapprima conosciuta con il nome di Gloria, poi con quello di Mme
Lautier. Non avevo mai saputo il suo cognome di famiglia. E così quello
stronzo di Lebas che avevo riempito di piombo era suo padre! Stropicciai
convulsamente con le dita i biglietti nuovi che tenevo in tasca. Feci uno sforzo
per non scoppiare a ridere. Lei era lì che piangeva per colpa mia. Se quella non
era una sorpresa! Un istante di rara qualità, come avevo letto da qualche parte.
Ero io la causa di quelle lacrime. Dio santo! Non mi pentivo di nulla. Avevo
avuto ragione d’accanirmi su quel bastardo, di ridurlo a un colabrodo
irriconoscibile. Se l’avessi ucciso in modo pulito, con una palla in fronte o al
cuore, lei si sarebbe certamente addolorata, ma senza alcun paragone rispetto a
quanto stava soffrendo ora. Era l’orrore della carneficina che la sconvolgeva.
Forse aveva visto il cadavere. In ogni caso le era stato descritto o lo aveva più o
meno immaginato. Lei… Mi lasciai cadere su una poltrona. «Oh!», sussurrai.
Mal interpretando i miei sentimenti, mi lanciò un’occhiata di gratitudine.
Dentro, tutto il mio essere era scosso da un’ilarità maligna. Ero felice. Indirizzai
all’affranta compagnia le banalità di circostanza, e subito dopo mi alzai.
«Bene», dissi. «Me ne vado».
Si stava facendo tardi e temevo i… brutti incontri. Mi avvicinai a Gloria. Avrei
voluto stringerla, accarezzarle i capelli, con la scusa di partecipare alla sua pena.
Non lo feci per due motivi: il marito mi scrutava con sguardo diffidente, e
Gloria avrebbe potuto percepire il rigonfiamento della Colt sul mio petto.
Qualche attimo dopo, sulle scale, non so perché, quest’ultimo pensiero mi fece
ridere, un riso amaro e falso.

Io e Albert ci stabilimmo in due alberghi diversi, ma situati sulla stessa via.


Vivevamo fra l’officina del gas e un deposito di locomotive. La strada puzzava
di fuliggine e di coke. Qua e là era punteggiata dalle giallastre insegne
lampeggianti di qualche bistrot. Erano le sole luci a schiarire quella fogna, dato
che i due lampioni non si erano più accesi da quella sera lontana in cui un
polacco, dopo aver ammazzato la moglie e poco prima di suicidarsi, ne aveva
fatto scoppiare le lampadine a pistolettate.

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Passai all’hotel di Albert.
Era rientrato in città senza intoppi. Seduto alla turca sul letto, stava sfogliando i
giornali sparpagliati intorno a lui. Me ne allungò uno.
«Visto che roba?».
Si trattava di una rivista illustrata, specializzata in scandali e scabrosità varie. Un
cronista era riuscito a procurarsi una foto della salma di Lebas. L’ex direttore
delle Officine Folk non era bello da vedere. Assomigliava a una carta
topografica del genio militare, a delle macchie d’inchiostro, a una fetta di
mortadella, a tutto quello che si vuole, salvo che a un corpo umano.
«All’anima della raffica!», sentenziò cinicamente Albert. «Avrebbe fatto meglio
a starsene tranquillo». Non condividevo la sua opinione.
«Mi fa pensare a qualcosa di divertente», dissi. «Il tipo deve avere famiglia.
Ammettendo – l’età lo permetterebbe -che abbia una figlia sposata, tu credi
che questa notte lei farà l’amore?».
«Ti poni sempre di quei problemi, tu! Che diavolo può fottertene?».
«Curiosità d’intellettuale», sogghignai.
«Perdio!», esclamò. «Mi domando cos’hai nella crapa. Sicuro che se fosse mio
padre, e anche se non gli volessi troppo bene, una cosa simile mi lascerebbe di
stucco. Una donna, poi..».
«Anch’io la penso così», dissi.
No, quella notte Gloria non avrebbe fatto l’amore. E in effetti, quella notte,
l’ebbi tutta per me.

Non era la prima volta che mi ossessionava nel sonno. La sognavo spesso. La
scena si svolgeva generalmente in un caffè o in una piazza. Mai altrove. Io
entravo nel caffè o arrivavo sulla piazza. Nel primo caso, lei appariva sopra una
rampa di scale, io stavo al banco, dieci gradini più sotto, e subito sentivo le
gambe paralizzate e il soffitto che s’abbassava fino a schiacciarmi le spalle. Una
ridicola cariatide, dolorante dalla testa ai piedi, dentro e fuori, preda di un
immenso desiderio di muovermi e angosciato di fronte all’impossibilità di fare
il benché minimo gesto. Intorno a me persone indifferenti al mio dramma,
risparmiate dal soffitto che sembrava non avercela con loro, che si
comportavano normalmente. E Gloria ferma lì sopra, avvolta in un lungo
abito bianco.
Nel secondo caso – il sogno della piazza – mi accasciavo fin dal mio arrivo,
schiantato da uno strano e indecifrabile malessere che mi opprimeva
d’angoscia. Passavano dei tram su cui sarei voluto salire. Le gambe molli me lo

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impedivano. In ciascuno dei mezzi pubblici che si succedevano e che non
riuscivo a prendere c’era Gloria, avvolta in quel suo candido vestito che
sembrava un sudario.
A quel punto del sogno, immancabilmente, l’insostenibile dolore fisico e
spirituale che provavo mi risvegliava. La notte, che sovente mi terrificava,
tesseva intorno al mio letto la sua tela vischiosa e insidiosa. I muri trasudavano
umidità. Dal cortile salivano odori malsani. Faceva buio, ma indovinavo,
nell’oscurità popolata di larve, il misero paravento, i mobili zoppicanti, la
pattumiera, la tazza e il bidè con lo smalto scrostato, e tutta l’indigenza che era
sempre stata il mio destino. E pensavo che lei, in un’atmosfera profumata,
accarezzata da lenzuola di seta e di raso, stava godendo con un altro. Io
stringevo il capezzale a pugni chiusi e a denti stretti, e nascondevo la testa nel
cuscino sporco. Urlavo in silenzio contro tutte le donne che in quel momento
erano prese in un vortice di piacere, e contro tutti i maschi che lo stavano
dispensando. Un odio enorme ed estenuante che mi dava sollievo.
Quella notte fu deliziosa, finché durò il sogno. La scena si svolse in un bistrot
losco ma simpatico. I clienti erano gente qualunque, inoffensivi. I loro visi non
erano segnati da quelle stigmate patibolari così frequenti nei miei sogni. Avevo
appuntamento con lei. Arrivò. Al posto dell’abito bianco indossava un elegante
tailleur grigio. La camicetta era scollata. Quando si chinava, l’ombra
conturbante dei suoi seni si offriva al mio sguardo. La strinsi a me con mani
incerte. Le nostre labbra si unirono. Aveva in bocca tutti i frutti della terra, i
più bei paesaggi, i più limpidi ruscelli. La presi lì, davanti a quella gente
indistinta e qualunque che non si curava di noi.
Mi svegliai con la fronte umida e le cosce appiccicose per la polluzione
notturna. Quella notte l’avevo avuta solo per me. Era stato troppo bello. Fui
invaso da un’immensa tristezza, che accentuò ulteriormente il livido albeggiare
che stava entrando furtivamente in camera. Non mi piaceva lo spuntar del
giorno, perché da molto tempo non avevo che risvegli da condannato a morte.
Non amavo neppure il crepuscolo, che annunciava le tenebre che mi
paralizzavano di terrore nella mia solitudine. M’invase un’immensa tristezza. Il
magone. La Cucaracha. Mi sentii sconquassato e distrutto come nei miei sogni
abituali. Bisognava arrendersi all’evidenza: il problema era senza soluzione.
Non avrei mai avuto Gloria se non in sogno, e al tempo stesso non potevo
dirigere le manifestazioni oniriche. Il muro che ci divideva era insuperabile. E
non sarebbe stato ciò che avevo fatto, la strada su cui m’ero incamminato, che
l’avrebbe abbattuto.

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Il sogno era stato delizioso. Troppo. La realtà ne risultava ancor più tremenda.

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VI. Notte

Passai in sede a prendere un po’ di soldi. Spiegai a Christ in che modo mi fossi
dimenticato la mia parte. «Sei un puro», opinò. «Me lo dico anch’io»,
sogghignai.
Con Christ si poteva discutere senza problemi. Mi diede alcuni bigliettoni di
provenienza meno pericolosa di quelli della vigilia, e s’informò sui miei
progetti. Non sembrava molto in forma. Mi tornarono in mente le
dichiarazioni di biasimo che qualcuno aveva espresso.
«Non so», dissi seccamente, «se il mio modo d’agire sia gradito a tutti».
«Non preoccuparti», rispose sorridendo. «Abbiamo bisogno di grana per
aiutare i compagni, per far uscire le nostre pubblicazioni, e…».
S’interruppe.
«E che?».
«Le teorie mi hanno rotto le scatole. Dacché lottiamo per un mondo migliore,
ho la sensazione che quello in cui viviamo diventi sempre peggio. Se
potessimo, individualmente, costruirci una vita tranquilla…».
«Siamo sulla buona strada», dissi scoppiando a ridere.
M’indirizzò uno sguardo penetrante.
«Capisco», mormorò. «Tu non saprai mai cos’è una vita tranquilla, eh? Senti
che è un terreno proibito. Anch’io ho spesso un’impressione simile.
Apparteniamo a una stirpe maledetta. Il bello è che ha tutta l’aria di piacerci».
Una profonda tristezza si dipinse sul suo viso emaciato. S’avvicinò alla porta a
vetri che ci separava dalla tipografia e vi gettò uno sguardo assente. Un attimo
di silenzio e poi, volgendomi le spalle:
«In che cosa crediamo, Jean?».
«Non lo so», dissi.
Si voltò:
«Ma tu, credi ancora in qualcosa?».
Cominciai a ridere piano, come se vomitassi a scatti, con difficoltà.
«Vorrei credere nell’amore… Sembra puerile, ma è così… L’amore è la vita
stessa, ne è il centro di gravità. Solo che la vita è uno schifo, e allora l’amore…
Le donne rovinano tutto… Tutte vacche e puttane!».
«Le puttane non sono poi tanto male», fantasticò.

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«Troppo puttane, e al tempo stesso non abbastanza, non so se capisci quello
che voglio dire… Non si può sperare di azzeccarne una che vada bene… E
quand’anche si riuscisse a immaginarlo, sorgono un mucchio di difficoltà e
tutto si squaglia… L’assoluto non esiste… Sempre una perenne sensazione
d’insoddisfazione… La nostalgia di un altrove…».
«Oh! Perdio!», grugnì. «Smettiamola di spaccare il capello in quattro. E
ragionando così che si crepa… Hai dei progetti?».
Tornai sulla terra.
«Si continua?».
«Io sono di quest’idea. Il primo colpo non è andato troppo male. L’hai
preparato molto accuratamente e i poliziotti navigano in alto mare. Penso che
dobbiamo riprovarci. Finirà per disorientarli completamente…».
«Finirà anche per renderli rabbiosi e affinare il loro intuito».
«Ti scoccerebbe?».
«Parlavi di vita tranquilla», ridacchiai. «Come credi che vadano a finire gli
scherzi come questi? Pensi che lo stato mi darà la pensione, dopo che mi
avranno pizzicato?… Ma ancora non mi tengono e sentiranno di nuovo parlare
di me, te lo garantisco. Ti ho detto che tutto ciò finirà per rendere rabbiosa la
sbirraglia. Lo spero proprio. E non ci sarà solo lei a infuriarsi. Tutta la
popolazione… Rabbiosa e morta di paura…».
«Ti ecciti troppo», mi raffreddò Christ. «È questo che dà fastidio ai compagni,
già contrari all’azione diretta così come noi la concepiamo. Il macello di ieri
non è piaciuto a tutti».
«Non abbiamo potuto fare diversamente. Quel Lebas ha incominciato a
sparare per primo…».
«Non ne dubito. Ma la prossima volta, cerca di limitare i danni».
«Sono le circostanze che decidono», sostenni.
«Sissì», canticchiò. «Adesso ho capito in che cosa credi», aggiunse. «A
questa…».
Avvicinò la mano alla tasca interna della mia giacca, con l’intenzione di
palpeggiare il rigonfiamento della pistola. Balzai istintivamente all’indietro… Mi
sentii impallidire.
«Ehi!», esclamò. «Hai paura che te la freghi?».
«Non so», feci, stupito anch’io della mia reazione. «Non so, ma mi fa uno
strano effetto. Non mi piace che qualcuno che non sia io tocchi questo arnese.
In un certo senso è una parte sacra del mio essere».
«È proprio quello che dicevo».

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«Cambiamo disco», suggerii.
«L’altro lato, allora. I giornali annunciano come molto probabile la ripresa del
lavoro alle miniere».
«L’informazione risale a ieri. I ragazzi non avevano ancora ricevuto il nostro
mangime. Dovrebbe rimetterli in sesto».
«Chissà».
I nostri sguardi s’incrociarono. Entrambi esprimevano qualcosa d’indefinito e
d’indefinibile, d’inquieto e d’inquietante. E anche di stanco.

Lasciato Christ, passai da un fiorista. Ordinai una stupenda corona destinata a


ornare la bara di M. Lebas, addetto alla direzione delle Officine Folk, morto
nell’esercizio delle sue funzioni, praticando l’onorevole mestiere di maneggiare
la grana, propria o altrui. Ignoravo la data della sepoltura, ma feci portare
immediatamente la ghirlanda a casa di Gloria. Se ne sarebbe occupata lei.
Compiuto il dovere del caso, girovagai per il resto della giornata. Tornai in
albergo al calar della notte.
Il portiere mi disse che nel pomeriggio un certo «Monsieur», aveva chiesto di
me. Quando cercai d’informarmi sull’aspetto dello sconosciuto, ne ricavai una
descrizione inutilizzabile. Il visitatore poteva assomigliare tanto a un vescovo
quanto a un magnaccia, a un’attrice di cinema o a un lampione a gas. Eppure
non è che non si fosse fatto notare: nello spazio di qualche ora era passato due
volte. E visto che non era un tipo incline a scoraggiarsi, sarebbe senz’altro
venuto ancora.
«Va bene», dissi con aria indifferente. «Se ritorna, gli dica che ci sono».
Salendo i sozzi gradini, che puzzavano di polvere bagnata da poco, mi
domandai se gli sbirri avessero già fiutato la pista giusta. Ne sarei stato stupito,
ma bisognava aspettarsi di tutto.
Una volta in camera controllai la berta. In seguito riflettei sul fatto che in
genere i poliziotti si muovono in coppia. Per ogni evenienza, lasciai la Colt a
portata di mano e pronta a cantare. E dopo aver mimato più volte davanti allo
specchio rotto la scena del ricevimento che avrei riservato allo sbirro, sempre
che fosse tale, cominciai ad aspettare.
Più tardi udii gemere la scala sotto il peso di qualcuno, e bussarono alla porta.
Secondo lo scenario prestabilito andai ad aprire con l’arsenale in pugno. Non
era uno sbirro, ma Marcel. Non però il Marcel che a quell’ora, in paradiso, stava
probabilmente proponendo una botta agli angeli di sesso femminile, ma un
altro. Era stato lui a passare due volte nel pomeriggio. Il comitato, a quanto

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pareva, voleva vedermi. Era stata convocata una riunione straordinaria per la
notte stessa.

Il tavolo di legno bianco dietro cui sedeva Christ era cosparso di giornali.
Albert stava a lato del mobile, seduto di sbieco su una sedia zoppicante e
spagliata. Stava incidendo con un coltello una margherita sul legno del tavolo.
Era un sentimentale che non sapeva di esserlo. Mi dava l’impressione di avere
ingoiato un purgante.
Degli altri due presenti, uno non mi sopportava. Era un certo Raymond, un
cinquantenne con un paio di baffi bianchi da militante incallito. Aveva un
passato incolore, e più o meno credeva a Babbo Natale. Il mio modo
d’affrontare le lotte sociali lo disgustava. Per lui non esisteva avversario
peggiore di ciò che definiva «deviazioni dalla dottrina». Christ, che aveva la
stessa età, la pensava diversamente.
L’altro individuo, che non conoscevo, avrebbe avuto bisogno di lavarsi
seriamente la faccia. Chissà, forse si era lavato e rilavato, ma il carbone è
difficile da sloggiare dai pori. Il mio sapere sui minatori si riduceva al ricordo di
qualche foto vista di sfuggita sulla stampa, ma non dubitai un attimo di
trovarmi davanti a un rappresentante di quella corporazione.
Il silenzio era totale. Regnava un malessere pesante. L’atmosfera deprimente
era gravata dagli odori del tabacco e dell’inchiostro. Il posto, puzzolente e male
illuminato, era lugubre e sinistro quanto bastava. Avvertii che volevano
chiedermi spiegazioni. Osservai Albert con il timore che, sapendone più di
quanto immaginassi sull’esecuzione di Marcel, non avesse digerito il mio
comportamento. Ma l’occhiata che m’inviò non alludeva ad alcuna ostilità.
«Cosa succede?», chiesi.
«Va male», scatarrò Christ sbuffando. «Domani i minatori riprendono il
lavoro».
«Ah!», dissi. «Abbiamo agito troppo tardi?».
«No!», esclamò Raymond. «Ma i minatori non hanno voluto quel denaro».
«Non… non l’hanno voluto?», balbettai, introiettando il rifiuto come un
tradimento.
«L’epoca dell’illegalità è superata», continuò trionfalmente Raymond. «E
d’altronde non ha mai prodotto che frutti velenosi, e screditato le nostre
dottrine. Mi sono sgolato per farvelo capire, quando ci hai annunciato
l’intenzione di fare degli espropri. Non avete voluto credermi. I lavoratori vi
infliggono una lezione. Non ne vogliono sapere di quei soldi sporchi di

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sangue… i compagni sono ritornati a concezioni più sane».
«Saresti un buon deputato», ribattei. «La miseria! Che deputato modello saresti
con le tue frasi vuote!… Chiudi il becco!», aggiunsi esasperato impugnando la
Colt. «Chiudi il becco o ti faccio secco!».
«Calmatevi!», urlò Christ. «Abbiamo subito un affronto? Esatto. Ma si può
ancora discutere…».
«Non si discute con assassini di questa risma», riprese l’altro, continuando la
serie di belle frasi da comizio elettorale. «Di per se stessa l’illegalità non è una
pratica di cui dobbiamo andar fieri. Compiuta poi nelle condizioni dell’altro
giorno, non ne parliamo… D’altronde, lo ripeto, tutti i compagni hanno deciso
di abbandonare una scelta del genere. E’ troppo pericolosa e discredita il
movimento. Mi chiedo come abbiamo potuto darti carta bianca, a te e alla tua
cricca… E per fare quello che hai fatto, un’ignobile carneficina… Proprio dei
bei filantropi!».
In fin dei conti non aveva torto, ma la vita era uno schifo, e io non potevo
farci niente.
«E’ stato quel Lebas a cominciare», dissi, fedele alla mia tattica che poggiava
sulla teoria della “legittima difesa”. «Se…».
«Lascia perdere», mi consigliò Albert. «E rinfodera il ferro. Il signorino è
sensibile…».
Obbedii meccanicamente. Mi sentivo solo e stanco. L’aver pronunciato il
nome di Lebas mi fece pensare a Gloria. Pensai a Gloria e a un mucchio di
altre cose. In pratica non assistetti alla discussione che seguì. Ero assente.
Pensavo che tutto andava in fumo, che i minatori erano dei cretini, che i
compagni di laggiù avevano evidentemente sbagliato a rivelare la provenienza
del denaro, ma che ciò non toglieva che i minatori fossero dei fottuti imbecilli
e che si meritavano la loro mediocre e lurida esistenza. Perdio! Se erano così
delicati dovevano solo continuare a lavorare, farsi bastonare, scopare mogli
racchie quanto loro e fare piccoli minatori in attesa dell’emancipazione per
misericordia divina… e pensare alla rivoluzione, alla trasformazione in una
società migliore e altre fesserie eternamente promesse e mai realizzate…
Uscii dal mio torpore per preoccuparmi di cosa fosse successo al malloppo. Il
compagno con l’aria da minatore, che aveva trasferito il bottino, prese la
parola. Mi spiegò che, malgrado i suoi sforzi per difendere il nostro punto di
vista – da lui condiviso – davanti ai membri del comitato di sciopero, non era
stato ascoltato. Me ne sbattevo di quei dettagli. Volevo sapere dove fosse il
denaro. Il denaro “impuro” era rimasto laggiù.

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«Quegli onesti lavoratori dovrebbero sapere che i soldi mi appartengono, e
che sarebbe meglio rispedirli al mittente invece di spartirseli», canzonai.
«Non vogliono utilizzarli in alcun modo», protestò il minatore. «E siccome non
sono degli spioni, non diranno niente e li bruceranno. In ogni caso pochi sono
al corrente del fatto».
«E’ già qualcosa che non ci denuncino», dissi. Mi alzai.
«Ciao, Christ. La mia presenza non è più indispensabile. Passerà del tempo
prima che mi rifaccia vivo. Ne ho le scatole piene di discussioni e di dispute».
Alzò le spalle, abituato alle partenze e agli arrivi più imprevedibili.
«Che farai?», chiese.
Non faceva mai domande, e si concesse l’eccezione solo perché prevedeva la
risposta. Mi misi a ridere nervosamente.
«Cercherò di confezionarmi una normale vita tranquilla. Il mio sogno è di
farmi una villa accogliente, una bella compagna e magari pure due pupi… E un
paio di pantofole».
«Bene!», ironizzò. «Sono convinto che realizzerai i tuoi propositi».
«Puoi ben dirlo! È come se fosse già fatto». Mi girai verso Albert. Lui alzò la
mano. «Ti seguo», disse.
Si mosse senza salutare nessuno. Uscimmo. La strada era deserta. Una pioggia
sottile accentuava la desolazione del quartiere, generalmente poco animato. I
marciapiedi luccicavano intorno ai lampioni, e la loro luce tremolante rilevava
nelle buche della carreggiata pozzanghere punteggiate di gocce d’acqua. Le
finestre aperte sulla notte mostravano un lampadario, un pezzo di carta da
parati, l’angolo di un mobile… Elementi di un arredamento da buttarti a terra
il morale. C’erano persone che vivevano lì! Tutto era troppo calmo e troppo
tranquillo. Da spaccare il cuore.
Ci allontanammo dalla sede camminando lentamente, senza preoccuparci della
pioggia.
«Che cricca!», grugnì Albert, dopo un breve ruminare interiore.
«Mi aspettavo qualcosa del genere», dissi. «Abbiamo voluto rinverdire una
tradizione morta e sepolta».
«E ci siamo compromessi fino al collo. Io li pianto, Jean. Non sono leali».
Accese una sigaretta. Io pure.
«Non proprio fino al collo», mormorai. «Io continuo». «Che vuoi fare?».
«Richiamare Paul e metterci per conto nostro, come dei bravi borghesi. Da
adesso i quattrini saranno solo per noi. Basta con l’abnegazione. Sono solo
chiacchiere, e i minatori ce l’hanno ricordato. Sono dei bravi cristi. Scemi, ma

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bravi cristi. Ormai noi siamo lanciati, vecchio mio, ed è impossibile far marcia
indietro. Non c’è differenza fra un omicidio o quindici. Meglio approfittare una
buona volta di questa vitaccia. Sei d’accordo?».
Si fermò, afferrò i risvolti della mia giacca umida e mi guardò con
un’espressione dura. La sigaretta gli disegnava all’angolo delle labbra un punto
sanguinante. Dal mozzicone saliva un filo di fumo, e lui sbatteva le palpebre per
difendersene. Le sopracciglia sembravano ancor più spesse.
«Vorrei far fuori tutta la specie umana!», esclamò.
«Via», ridacchiai, «non dimostrarti più feroce di quanto sei. Si dice così e
poi…».
Mi staccai. Non avevo mai espresso a voce alta desideri di sterminio del genere
umano. Mi compiacevo solamente di fantasticarlo… Se avessi conosciuto il
punto del globo da cui poter contemplare l’universo, ci sarei andato di corsa,
avrei conficcato un piolo a terra, mi ci sarei appeso e mi sarei lasciato
precipitare nel vuoto, trascinando il mondo con me… E c’era anche il sistema
del tunnel, scavato nelle viscere della terra da un polo all’altro e riempito di
dinamite… Tutto ciò, non era che poesia. Era meglio abbatterli al dettaglio.
«Ti giuro che lo farei», disse Albert riprendendo il suo passo lento.
«Nell’attesa, cerchiamo di spassarcela», proposi. «Magari durerà poco, ma ti
garantisco che ne varrà la pena». «Che cos’hai in vista?».
«Una banca, bella come un fiore. Uno di questi giorni passeremo a visitarla.
Adesso comincio a stancarmi di questa pioggia. Farei volentieri un giretto in
macchina. Cerchiamo di noleggiarne una».
Incontrammo l’oggetto desiderato in una viuzza oscura. La fortuna c’era
amica: le porte lasciate aperte permettevano un facile accesso, e il motore non
faceva più rumore di un macinino da caffè. Presi il volante. Albert si adagiò
comodamente al mio fianco e si mise a sfogliare una lussuosa rivista di moda
lasciata sul sedile. L’interno della vettura profumava leggermente di garofano.
L’auto doveva appartenere a una donna. Solo una svampita dell’altro sesso
poteva averla lasciata così, a completa disposizione dei ladri.
Cominciai a zigzagare per un dedalo di viuzze, a diverse velocità e ripassando
più volte per gli stessi posti. Il mio comportamento incuriosì Albert.
«Stai studiando una tattica?», domandò.
Continuava a piovere. Azionai il tergicristallo.
«Che ne pensi di Raymond?», dissi.
«E’ un cagasotto. E un… non so come spiegarmi. Un mess… un mess…
Come si dice?». «Messianico».

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«Sì, di quelli che credono di poter migliorare la vita andando a messa».
Era bello guardare le gocce scivolare lungo il vetro. Il tergicristallo le ghermiva
con un ronzio soddisfatto. Mi ricordavano le lacrime di Gloria.
«Secondo me è pericoloso», insinuai dolcemente. «Si è sempre opposto alle
nostre scelte. Se viene a sapere che continuiamo, è capace di denunciarci».
Il profumo della proprietaria dell’auto continuava a persistere. L’odore del
tabacco non riusciva a scacciarlo. «Quello che dici è vero». «Eccome, se è
vero!».
Svoltai. Il motore e il parabrezza facevano le fusa. Immaginai di essere un
grosso gatto. Gloria amava i gatti. Lei ne possedeva gli occhi, carichi di mistero
e di splendore. Voltai di nuovo e illuminai con gli abbaglianti tutta la lunghezza
della strada che ci stava davanti. Colsi una figura familiare sparire dietro
l’angolo. Pigiai sull’acceleratore per raggiungerla. Diedi ancora un colpo di fari.
Con il collo della giacca rialzato e le mani in tasca, un uomo si allontanava sotto
la pioggia. Spensi i fanali e moderai l’andatura. L’auto scivolava senza rumore,
accarezzando il selciato. L’individuo attraversò. Quando lo chiamai, stava in
mezzo alla strada.
«Ehi! Raymond!».
S’immobilizzò, sorpreso. Io gli puntai bruscamente i fari addosso e lo inchiodai
nell’intenso fascio luminoso come una farfalla. Accecato, esitò un attimo, senza
urlare. Poi tentò di fuggire. Non gliene lasciai la possibilità. Premetti
l’acceleratore. La vettura scattò in avanti. Il profumo di garofano non era mai
stato così intenso. Sentimmo un urto sordo.
Il proprietario del grazioso negozio bianco avrebbe dovuto far pulire la
saracinesca.

Mi apparve esattamente come l’avevo vista nel giornale di moda. Ricordavo


perfettamente il testo. L’avevo letto solo una volta, ma mi si era impresso nella
memoria: «…abito da sera… camicetta-kimono di crèpe satinato… gonna di mussolina a
pieghe non stirate… bouquet di fiori in vita… doppio braccialetto…».
Il viso, leggermente asimmetrico, era sormontato da capelli raccolti che le
scoprivano le orecchie. Da queste pendevano dei diamanti. Aveva un naso
sottile, con le narici frementi. Lievi occhiaie le ombreggiavano gli occhi. Sotto
la gonna trasparente, la pelle si percepiva come avvolta nella nebbia. Si sedette
ai piedi del mio letto senza farlo cigolare. Percorse la mia misera stanza con
uno sguardo sdegnoso. Evidentemente si domandava cosa fosse venuta a fare
in un luogo simile. D’improvviso mi dispiacque che non fosse ancora più

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sporco. Mi osservò come per farmi una domanda muta. «Lei sta a pagina 22»,
dissi.
Rise. La sua bocca era grande – avrebbe potuto facilmente contenere quaranta
e passa denti – ma bella e attraente. Sì, quella bocca mi attirava. E anche i denti.
«L’ho impressionata?», civettò.
«Non più di altre», risposi.
Cominciai a provare un dolore fra le gambe.
«Perché mi detesta?».
«Non la detesto».
«Sì, lei mi detesta. Forse è perché mi desidera». Si mosse, liberando effluvi di
garofano.
«Non farei l’amore con lei per tutto l’oro del mondo».
«È pure bugiardo», scherzò. «Sembra un bambino. Ma lo sa che lei mi piace?».
«Lei è una puttana», dissi, continuando a mentire.
Non la detestavo, ci sarei volentieri andato a letto, e non la consideravo una
puttana.
«È un duro, lei», disse.
«Non so cosa sono. Se ne vada o l’ammazzo».
Avevo voglia di possederla lì, in mezzo alla sporcizia, completamente vestita, e
sgualcire e insozzare i suoi abiti lussuosi. Ma non potevo muovermi. La porta si
aprì per lasciar entrare Paul, accompagnato dal minatore incontrato al Comitato
il giorno precedente. Entrambi erano armati fino ai denti e portavano una
fascia rossa al braccio. La modella, vedendoli, s’alzò e scomparve attraverso la
finestra.
«Ci siamo!», esclamò Paul. «È iniziata la lotta finale. Si combatte nelle strade e
in tutto il paese».
«I minatori marciano sulla capitale», aggiunse l’altro. «Dio sia lodato», feci.
«Finalmente. Era tanto che aspettavo. Ci divertiremo, Paul». «Ti vogliono in
sede», disse.
«Mi chiamano da un’altra parte», ribattei indicando la rivista di moda che
giaceva sul pavimento. «È là che andremo. Vieni».
Nelle strade ci si sterminava senza pietà. Ovunque si sparava. C’erano
esplosioni di bombe. Le case bruciavano. I quartieri chic erano ancora
tranquilli. Come arrivammo noi, tutto cambiò.
«Mani in alto!», urlò Paul.
Le bambole della rivista di moda stavano tutte là: quella che m’aveva fatto
visita e le colleghe delle altre pagine, in tailleur, in pigiama, in abito da sera, in

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vestaglia. Paul, sinistro sotto la sua gobba, le scrutò con un ghigno cattivo sulle
labbra, gli occhi duri, la mitraglietta al fianco e il dito incollato al grilletto.
Ansimava: il desiderio lo scuoteva dalla testa ai piedi.
Feci un cenno a una bionda dal viso dolce e impaurito, che portava solo una
camicia da notte piena di disegni e di ricami. Si avvicinò timorosa.
La strattonai. Nel movimento le spuntarono fuori i seni. Uno sbucò dalla seta
come una divorante fiamma rosa. Presi a massaggiarlo, mentre le mie labbra
cercavano quelle della ragazza. Lei non le rifiutò, ma èrano fredde. La strinsi
forte a me e cominciai a spingerla. Incontrammo un ostacolo e lei cadde sul
divano…
Ebbi subito la sensazione che avrei potuto darmi da fare per otto giorni,
agitarmi come un tergicristallo in un meccanico movimento di va e vieni, ma
che non sarei riuscito a strapparle né un grido né un sospiro. I miei assalti non
la scioglievano, e fra la mia e la sua pelle il sudore colava gelato. La stoffa del
canapè era inzuppata. Mi guardai intorno. Paul, seduto a terra con la
mitraglietta in mano, mi guardava sorridendo in silenzio. D’un tratto capii.
Esaminai la ragazza. Le labbra, le narici e gli angoli degli occhi brulicavano di
vermi. La carne s’illividiva ed emanava un odore pestilenziale. Mi scostai
nauseato dal cadavere. Paul mi trascinò in un corridoio contiguo. Ammassate le
une sulle altre, bare di vetro guarnivano le pareti a perdita d’occhio. Tutti quei
feretri trasparenti contenevano il corpo inanimato di una donna. Sempre
sorridente, Paul mi segnalò un’etichetta. Lessi: Conserve per l’inverno. Scoppiai a
ridere anch’io. Paul si chinò e tuffò la mano in una capigliatura rossa che
giaceva ai nostri piedi. Sollevò una testa mozzata e, con una mimica espressiva,
la dondolò come fosse una lanterna. E sangue imperlava le narici, le labbra, le
orecchie e il collo sezionato. Gli occhi, fissi, avevano riflessi dorati. E Paul
avvicinò alla mia faccia la testa di Gloria, la cui bocca sanguinante era pronta a
mordermi.

Mi svegliai.

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VII. Azione

Il giorno dopo lessi sui giornali che:

Il cadavere di Raymond Labty, 55 anni, è stato rinvenuto questa mattina in Rue de la Voie.
Pare che l’uomo sia stato investito da un’auto rubata, ritrovata più tardi nella stessa via. Gli
inquirenti ritengono probabile che i responsabili dell’incidente siano non tanto ladri di
professione, quanto giovani ubriachi. Il che spiegherebbe oltre all’incidente in sé, attribuibile a
un errore di guida, anche il fatto che il veicolo sia stato abbandonato dopo la tragica bravata.

Rassicurato sulla questione, cercai il solito articolo riguardante le Officine Folk.


Relegato in terza pagina, non segnalava nulla di nuovo. L’inchiesta proseguiva, e
le diverse piste prospettate erano oggetto di minuziose indagini. In altre parole,
la polizia stava allenandosi per la traversata a nuoto dell’oceano. La stampa
annunciava inoltre i funerali di M. Lebas, la «compianta vittima», per
l’indomani; due tentati omicidi passionali falliti; un suicidio con il gas. Il tutto
occupava una colonna scarsa. Mi dissi che era ora di fornire carne fresca ai
giornalisti, sebbene fossero troppo ingordi e male organizzati. Una notizia
come quella delle Officine Folk sarebbe dovuta stare in prima pagina almeno
per una settimana.
Telefonai a Gloria. Mentre componevo il numero, avevo il cuore in gola.
Succedeva sempre cosi. Temevo che fosse un’altra persona a rispondermi. E
paradossalmente, anche quando sapevo che in casa c’era solo lei, paventavo il
momento in cui avrebbe detto «pronto» con una voce impersonale. Mi era già
capitato di attaccare prima che all’altro capo potessero reagire agli squilli.
Quel giorno fu lei a sollevare la cornetta. Le rinnovai le condoglianze nel
modo meno banale possibile, e mi scusai di non poter assistere alla cerimonia
funebre. Non disponevo di momenti liberi (li occupavo tutti a studiare una
banca vicina). Mi disse che ero stato gentile a inviarle la corona di fiori. Le
risposi che potevo essere ben più gentile con lei, se solo avesse acconsentito.
Mi consigliò, con la vocina secca che mi piaceva tanto, di non dire scemate.
Aveva ragione, per cui, dopo aver farfugliato qualcosa, la salutai. Prima di
riattaccare, m’invitò a passare da lei nei giorni successivi.

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Trovai bizzarro, dopo il sogno, rivedere Paul, che aveva lasciato il suo ritiro di
campagna. Gli esposi ironicamente quello che definivo il «nuovo orientamento
politico» del gruppo Jean. Si dichiarò d’accordo a unirsi a noi. Allora mi misi a
preparare seriamente il colpo che avevo ruminato, e incaricai Albert di
procurarsi un’auto. Ce la portò il giorno stabilito.
«È per domani», dissi. «Faremo una doppia razzia. Una banchetta del centro e
un cantiere dalle parti del mattatoio. Un malloppo decente. Niente a che
vedere con i cinque milioni di Folk, ma quanto meno biglietti pieni di bei
microbi…».
Mettemmo a punto l’azione.
Mi guardai bene dal far sospettare ai miei compagni che attaccavo la banca solo
per gusto artistico, per così dire. Non avrebbero compreso i miei sentimenti.
Era una sede marginale, e da sola non ci avrebbe certo dato di che ritirarci in
campagna. È vero, avevo bisogno di soldi – improvvisamente avevo voglia di
essere ricco – ma prima di cominciare a lavorare sul serio volevo fare una
cosetta di carattere squisitamente estetico, per creare l’atmosfera. La banca in
questione si trovava in una via frequentata dalle più belle donne della città. La
mia scelta era stata determinata da questo unico dettaglio. Volevo mettermi in
scena davanti a un pubblico profumato.

Giungemmo sul posto verso le quattro del pomeriggio. La banca stava


all’angolo di due strade, con l’ingresso principale sull’arteria maggiore. Albert
posteggiò di fronte alla filiale.
Non si trattava d’una visione! In quanto a sex appeal, il quartiere batteva ogni
record. Fra qualche attimo sarebbe scoppiato il casino.
Scesi dalla vettura tutto arzillo, fra le mani un pacchetto che maneggiavo con
precauzione. Attraversai la strada, percorsi alcuni metri di marciapiede e deposi
il mio delicato fardello nel corridoio di un edificio, fra due bidoni della
spazzatura. Fatto ciò, raggiunsi i miei complici. Albert aveva spostato l’auto
sull’altra strada, giusto davanti all’uscita posteriore dell’edificio.
«Andiamo», dissi.
Paul scese. Muniti entrambi di una cartella da musicista e di strumenti musicali
con capacità offensive garantite, entrammo in banca dalla porta principale. Il
pubblico era costituito da cinque impiegati e un paio di clienti. Ci dirigemmo
alle casse con espressione distaccata. Stavamo arrivando alla loro altezza,
quando ci fu una grossa esplosione, che fece vibrare l’intero viale. Seguirono
corse sfrenate, grida e bestemmie. Un pesante calcinaccio attraversò l’aria,

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ruppe un vetro e atterrò sopra una macchina per scrivere, rischiando di
mandare all’altro mondo la dattilografa, che, senza cercare di capire,
scomparve sotto il tavolo, la crapa infilata dentro al cestino della carta. I
colleghi che non cercarono riparo si precipitarono fuori, curiosi come gazze. Il
bordello era infernale. Ne approfittai. Saltai il bancone, penetrai nel gab-biotto
della cassa e, dopo una botta al cassiere con il calcio della rivoltella, cominciai a
ramazzare i contanti. Paul infilava nelle cartelle le mazzette che gli passavo
attraverso lo sportello. Non erano molte — la cassaforte era chiusa e non
avevo il tempo per forzarla – ma in fondo si trattava solo di un’azione
dimostrativa.
Tutto si svolse in modo estremamente rapido: non più di trenta secondi,
stando a ciò che pubblicarono i quotidiani del giorno dopo. Stavamo per
prendere la fuga attraverso gli uffici che immettevano sulla porta posteriore,
quando un individuo attirato in strada dall’esplosione si voltò, ci vide e lanciò
un urlo. Paul non gliene concesse un altro. Passò la parola alla compagna
Browning. L’imbecille si accasciò. Gli altri, presi dal panico, si precipitarono
fuori starnazzando. Ma la folla della strada era troppo scossa dall’esplosione per
cogliere il senso delle loro esclamazioni. In ogni caso urgeva tagliare
rapidamente la corda prima che qualcuno si rendesse conto di quanto
effettivamente accadeva.
La porta imbottita, con la scritta «Privato» a caratteri metallici, si aprì davanti a
noi, ma non per cortesia o per agevolarci il compito. Comparve un tizio che, a
giudicare dall’abbigliamento, doveva essere il direttore, il vicedirettore, o
l’addetto alla direzione. E’ destino trovarmi sempre sul cammino qualche
esponente di questa razza refrattaria agli scherzi. Messo sul chi vive
dall’esplosione e dagli spari, il tizio impugnava un utensile che poteva far
concorrenza ai nostri. Non gli lasciai il tempo di riflettere. Già m’ero pentito di
non aver fatto fuori il cassiere. Forse l’avevo risparmiato perché era curvo,
portava gli occhiali e un paio di baffi ingialliti, e rassomigliava a uno
spaventapasseri. Quello che invece se ne stava eretto davanti a noi aveva tutto
del seduttore, a partire dai morbidi fianchi da ballerino. L’impallinai all’istante.
Cadendo, il porco premette il grilletto, e Paul si beccò il confetto nel braccio.
Paul non era cattivo. Non avrebbe fatto male a una mosca, ma anche lui aveva i
suoi scatti di nervi. Spedì due proiettili nel cranio del signore, a saldo di quanto
aveva ricevuto. Dopodiché ce la squagliammo dal retro.
La strada era deserta. Non c’erano che Albert e la nostra macchina. La folla
stava tutta sull’altra via. La bomba era stata un ottimo diversivo. Partimmo

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lentamente, per non attirare l’attenzione.
Incrociammo un furgone della polizia che trasportava la forza pubblica sul
punto dell’esplosione. Albert accelerò un po’. La vettura gli obbediva
docilmente. La meccanica era impeccabile. Albert stava davanti da solo. Io
dividevo il sedile posteriore con Paul. La ferita del gobbo si riduceva a un
graffio. A farne le spese era stata solo la giacca. Trasferito il bottino dalle
cartelle a un borsone, e tutti e tre in perfetta salute, si passava alla seconda
parte dell’operazione.
Attraversato il fiume c’inoltrammo in quartieri tranquilli, che ignoravano le
nostre recenti prestazioni. Su mia raccomandazione, Albert pigiò
sull’acceleratore. Non bisognava arrivare troppo tardi al mattatoio.
Incappammo in un semaforo rosso, e mentre attendevamo il verde sbucò un
poliziotto in uniforme:
«E allora», grugnì, «si crede all’autodromo?».
«Via, via, signor agente, non s’arrabbi», rispose bonario Albert.
«Ci sono dei regolamenti», ribatté l’altro.
Pareva inflessibile, il che costituisce una posizione pericolosa. I regolamenti
cambiano e intanto ci si lasciano le penne.
«Certo che ci sono dei regolamenti», ammise Albert in tono conciliante.
Sbirciava il semaforo. Lo sbirro notò Paul, rannicchiato nel suo angoletto.
Qualche rotellina gli iniziò a girare sotto il chepì.
«Fatemi vedere i documenti», ordinò rivolto a tutti e tre. S’accese il verde. Le
due auto che ci precedevano si avviarono.
«La via è libera», osservò placidamente Albert. Innestò la marcia. L’agente
imprecò: «I documenti!». Ci balzò addosso. «D’accordo», feci.
Terrore e incredulità si dipinsero sul suo viso, che risultò irresistibilmente
comico. Capì che ormai non c’era più niente da fare. Ignoro se ebbe il tempo
d’immaginarsi il proprio funerale, con la commossa commemorazione del
prefetto. Gli sparai a bruciapelo. Si staccò dal veicolo, agitò le braccia e rotolò
sulla carreggiata.
«E ora al mattatoio».
Se le cose continuavano così, quel nome era veramente appropriato.

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VIII. Serata

Terminata la cena, accendemmo le sigarette, e Gloria servì il caffè. Mise a


disposizione anche una bottiglia d’Armagnac. «Spero ti piacerà», disse
sorridendo. «Adoro il buon caffè», risposi.
«Non parlavo del caffè», puntualizzò maliziosamente.
L’appartamento era grazioso e confortevole. Doveva essere piacevole viverci.
Il gatto cercava un posto di suo gradimento per accomodarvisi. I migliori
erano già occupati. Lautier stava in un angolo del divano, e Clermont, una
conoscenza comune persa di vista da molto tempo e ritrovata lì quella sera, era
stravaccato come me in una poltrona. Gloria imitava il felino. Andava e veniva
attenta, da perfetta padrona di casa, preoccupata di mettere gli ospiti a loro
agio. Quando girava su se stessa, il movimento di rotazione impresso alla gonna
mi dava le vertigini. Perdio! Se amavo quella donna! Un giorno sarebbe stata
mia. Era impossibile il contrario. Fra poco, io… Mi prese il magone. Quella era
solo fantasia.
«Di che cavolo parlavate?», farfugliò Clermont.
Avevamo bevuto parecchio, e lui faticava a seguire la conversazione.
Continuava ad addormentarsi, appesantito dall’alcol.
«Mi sembrava di aver capito che è tanto spiritoso quanto spirituale», articolò
Lautier, con un ghigno sprezzante.
«Chi? Io?». «No. Fraiger».
«Oh!», ridacchiai a mia volta. «Storie!».
«Sono convinta», disse Gloria, «che corrono un sacco di leggende sul tuo
conto».
«Possibile. Ma non me ne lamento. È una garanzia d’immortalità».
«Vanitoso!».
Mi allungò una tazza. La radio trasmetteva un blues in sordina. Lei si
raggomitolò sul divano. Lautier le accarezzò la spalla.
«Che stai facendo in questo periodo?», chiese Gloria. «Un po’ di teatro».
«Funziona?», fece il marito, reprimendo uno sbadiglio. «Non troppo male».
Sarebbe stato più esatto dire che le rappresentazioni avevano un successo
strepitoso. Alla radio crepitarono gli applausi. Il blues era finito.
«Giornale radio, ultima edizione della giornata», annunciò lo speaker… «A otto
giorni dalla straordinaria duplice rapina dei banditi in auto…».

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Lautier si alzò e spense l’apparecchio. Le allusioni agli assassini del padre
turbavano evidentemente Gloria.
«Che storia fantastica», dissi, senza aver l’aria di farlo apposta.
«Non se la caveranno sempre», fece Lautier, rallegrandosi anticipatamente della
loro cattura.
«È già una settimana che hanno attaccato la banca, ucciso un poliziotto e
svaligiato un cantiere», dissi, «e non è stata raccolta la benché minima
informazione utile sul loro conto».
«Parliamo d’altro», invitò.
«Ho visto un bel lavoro teatrale, qualche giorno fa». E recitai la critica di uno
spettacolo letta recentemente su un giornale. Gloria accarezzava il gatto, che le
faceva le fusa sul petto. A un tratto l’animale balzò a terra. Lo chiamai. Venne a
strusciarsi sulle mie gambe. Lo accarezzai guardando Gloria. Colsi un’occhiata
ostile del marito. Clermont si scosse e si versò dell’altro Armagnac.
«Perché vuole cambiare argomento?», bofonchiò.
Entrava nella conversazione sempre in ritardo. Mi piaceva, il giovanotto. A
maggior ragione perché era giornalista. Da qualche tempo avevo un debole per
quella categoria.
«Sì», proseguì con la testardaggine degli ubriaconi, «perché parlare d’altro?
Eh?», ridacchiò, «non è che per caso è lei il famoso gangster?».
«Beva un sorso, se l’aiuta a chiudere il becco», grugnì l’altro.
«Lautier non è pazzo», feci. «Quei banditi sono pazzi».
«Sì, dei pazzi assassini», disse Lautier.
«In effetti è l’opinione che abbiamo noi dalla stampa».
Volenti o nolenti, la discussione si sintonizzò sulla banda sanguinaria. Osservai
Gloria. Doveva farle male. Avrei voluto con tutte le forze mostrarmi dolce con
lei, ma non era nelle mie possibilità. Brutta cosa non poter ricominciare a
essere un altro uomo. Mi ricordai del sogno, della modella di «pagina 22».
«Riflettendoci bene, forse non sono proprio dei pazzi assassini», dissi. «Al
mattatoio non c’è stato spargimento di sangue…».
«Ci si chiede perché. Avevano già ammazzato due persone: il direttore della
banca e il poliziotto che li aveva fermati. In più, sempre in banca, un ferito
grave. Forse si sono prefissati solo un tot di omicidi quotidiani… Statemi a
sentire», continuò Clermont brandendo il bicchiere e versandone metà del
contenuto per terra, «statemi bene a sentire: non sono dei comuni delinquenti,
secondo il mio punto di vista… ma solo dei pazzi… dei pazzi da legare…».
«Un giorno li legheranno», profetizzò Lautier.

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«Li odio per il modo ignobile con cui hanno ucciso mio padre», sospirò Gloria,
«ma…».
«È sicuro che si tratta degli stessi individui?».
«La credevo intelligente, Fraiger», disse Clermont. «C’è il gobbo, di cui si
segnala la presenza in tutti gli attacchi…».
«Dicevano che era un finto storpio».
«Vero o finto, un tipo con la gobba’ha partecipato a tutti i colpi…».
Un giorno o l’altro Paul ci avrebbe messi nei guai, era inevitabile. Ma non
vedevo come rinunciare a lui. Una pulsione perversa mi spingeva a utilizzarlo
comunque. La stessa pulsione che mi faceva girare il coltello nella piaga di
Gloria.
«Dicevi?».
«Non si sa che pensare di questi individui», disse lei. «I loro comportamenti
sono irrazionali. Dei matti? Bisognava evidentemente essere pazzo per
accanirsi su mio padre come è successo. Ma forse pure dei disperati…».
«Disperati!», esclamò Clermont. «Ecco la parola giusta. Ci scribacchierò
qualcosa sopra».
«Vi prego, parliamo d’altro», ripetè Lautier.
Clermont non badò all’invito. Prese dell’altro Armagnac e raccontò che il
terrore s’impadroniva della gente.
«Mi chiedo che genere di vita facciano», mormorò Gloria con aria sognante.
«Quella che si sono scelti», dissi. «Spero non si facciano alcuna illusione
sull’esito della lotta che hanno dichiarato alla società. Nel frattempo, magari
vivono intensamente».
«Vivere nel sangue e nell’orrore non è vita», obiettò lei.
«Non si sceglie la propria vita», pontificai.
«Non è la sua prima contraddizione», fece Lautier, contento di farmi passare
per un imbecille o un incongruente.
Aveva colto nel segno, il porco. Non era la prima contraddizione, infatti. La
vita non era che un ordito di contraddizioni. La vita era uno schifo. Non era
«vivere» il termine da usare, ma «schifare», «urlare» e «vomitare». Mi alzai
sorridendo.
«Statemi a sentire…».
Quale sarebbe stata la loro reazione se avessi svelato di punto in bianco che
l’assassino di cui si parlava ero io? «Allora…?», chiese Gloria. Mi sedetti di
nuovo.
«Bevo un altro goccio d’Armagnac e me ne vado», dissi. «Domani devo

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alzarmi presto». «Anch’io», sbadigliò Lautier.
Che mi decidessi ad andarmene, non gli dispiaceva affatto.

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IX. Il sogno

Era trascorsa più di una settimana dalla nostra intensa giornata che aveva visto
il saccheggio di una banca, l’esecuzione in mezzo alla strada di un poliziotto e la
rapina delle paghe degli operai di un cantiere, e continuavamo ad avere l’onore
della prima pagina sulla stampa a grande tiratura.
Clermont aveva ragione: la nostra attività cominciava a turbare la brava gente e
a confondere gli animi. Dappertutto regnava un’atmosfera di terrore, e i
lodevoli cittadini, che non avrebbero fatto male a una mosca e che pagavano
puntualmente le tasse, approfittavano dell’occasione per denunciare
anonimamente alle autorità come probabile affiliato alla tragica banda il vicino,
l’amico o il parente con cui non andavano d’accordo. Questa valanga
d’indicazioni sbagliate o fantasiose depistava gli inquirenti e faceva il nostro
gioco.
Gli sbirri erano infuriati. Arrestarono a casaccio alcune persone che poi
dovettero rilasciare, con o senza scuse. I giornali coprirono le forze dell’ordine
di ridicolo, e qualche cronista più esacerbato di altri le accusò senza mezzi
termini d’incompetenza. Fu in questa contingenza estremamente sfavorevole
che due giovanotti, invidiosi dei nostri allori, decisero di dedicarsi a una rapina
in grande stile in un ufficio postale. Risultato: si fecero pizzicare giusto davanti
alla cassetta delle lettere, e il loro interrogatorio ruotò soprattutto sulle Officine
Folk e sui nostri successivi divertimenti.
Uno dei due aveva la schiena curva. Questa spiacevole caratteristica era dovuta
sia a ragioni ereditarie, più pericolose della pistola che lui stesso aveva puntato
contro gli impiegati delle poste, sia a un’infanzia particolarmente idilliaca, fatta
più di randellate e alimentazione insufficiente che di cure amorose. Si levarono
subito canti di vittoria. Finalmente i pericolosi malfattori non potevano più
nuocere. Il gobbo! Il famoso gobbo! Magari non era «mostruosamente gobbo»
come si era preteso, ma… eccetera. Il colmo fu che quell’aborto di furbizia,
senza dubbio suggestionato dai colpi del nervo di bue – per rinfrescargli la
memoria -confessò tutto quanto gli fu richiesto. L’affare Folk? Non conosceva
che quello. La banca? Idem. L’agente? Non dichiarò di averlo fatto a pezzi, ma
quasi. Il cantiere del mattatoio? Vi spiego subito… il suo compare negò con
tutte le sue forze, ma inutilmente.

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Quel gangster con il biberon mi rendeva quasi geloso. A causa delle sue
millanterie più o meno spontanee, noi fummo un po’ trascurati. La stampa
intonò l’abituale cantilena sulla delinquenza giovanile. Con i due malcapitati
dietro le sbarre tornò la tranquillità. I portavalori ripresero a circolare senza
sporcarsi i pantaloni. A volte capitava pure che un sorriso illuminasse i loro
volti sgraziati. Approfittammo di quel momento d’euforia per impallinarne uno
il mezzodì d’un giorno particolarmente caldo, soprattutto per il portavalori in
questione.
Dopo il fatto – «è firmato», scrisse uno specialista in titoli sensazionali – il
furfante in gattabuia non potè evidentemente perseverare nella sua attitudine.
Riprese i suoi panni abituali di povero cristo, e i buoni apostoli della strada e
della carta stampata non trovarono aggettivi sufficienti per linciarlo come
meritava. Lo si era trascinato nel fango quando si era accusato di colpe non
sue. E quando si scoprì che era soltanto un bugiardo matricolato, la sua
posizione, invece di alleggerirsi, si aggravò ulteriormente.
Comunque sia, noi tornammo ad essere l’argomento di maggiore attualità, e gli
sbirri, punti sul vivo, ripresero a digrignare i denti. Siccome, però, non
appartenevamo alla malavita classica, il loro compito risultò più difficoltoso.
Non eravamo dei criminali comuni, e ciò ci permetteva un momentaneo
vantaggio.
Il misterioso terzetto sanguinario: la gente ingoiava ogni mattina titoli di questo
genere. Nonostante tutte le indagini, non si sapeva niente di nuovo. Eravamo
tre, eravamo sanguinari (era constatabile a occhio nudo), eravamo misteriosi.
Tutto ciò non chiudeva affatto il cerchio.
Certo, c’era il gobbo maledetto, ma rispuntava il dubbio sull’autenticità della
sua protuberanza. Qualche storpio fu arrestato qua e là. Dopo ogni retata, Paul
si nascondeva con cura.
Il portavalori cui avevamo servito un pranzetto a base di piombo ci aveva
lasciato in eredità una borsa che ci consentiva un periodo di riposo sugli allori.
Non è che ci tenessi molto, ma era indubbio che tirare il fiato non poteva che
farci bene. Pensai a Cristo e all’esistenza tranquilla che gli avevo detto di volere,
e mi misi in cerca di una villa da affittare.

In un accesso di collera, Paul si strappò dalle labbra la sigaretta mezza


consumata che vi stava appesa. La gettò verso il piatto sbrecciato che serviva
da posacenere, già stracolmo di una montagna di cicche. La sua cadde di lato.
Se ne fece subito un’altra, l’accese e mi raggiunse alla finestra. Passando

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schiacciò il suo ultimo mozzicone con la scarpa.
Dal nostro osservatorio scrutammo il terreno incolto che si estendeva dietro
la villetta. Scendeva in dolce pendio verso il fiume. Un alto muro ricoperto
d’edera c’impediva di vedere l’acqua, ma non insonorizzava il passaggio dei
rimorchiatori e il loro urlo rauco. Gli alberi frusciavano. Si era alzato un vento
che schiacciava la pioggia sui vetri.
«Piove», constatò Paul.
Lo guardai in silenzio.
Girai il capo ed esaminai la stanza. L’arredo, anche se meno brutto di quello
degli alberghi loschi e a buon mercato dove avevamo sempre vissuto, era
comunque misero: tappeto consumato, mobili sbilenchi ricoperti di polvere e
dallo stile indefinibile e via di questo passo. Nessuno si era interessato alla casa
finché non mi ero presentato all’agente immobiliare che gestiva questa specie
di magazzino. Era troppo isolato, situato su una scorciatoia impraticabile nella
stagione invernale, e troppo lontano dalla città. Il luogo conveniva solo a dei
tipi come noi.
«Sì», dissi infine. «Piove».
L’acqua scrosciava a catinelle fin dal mattino. L’umidità filtrava attraverso le
pareti. Noi stessi n’eravamo inzuppati. Mi scossi:
«E se ci facessimo un goccio?», proposi.
Aprii un armadio a muro, afferrai una bottiglia di liquore e cominciammo a
sbevazzare. Su una mensola la sveglia scandiva il tempo.
«Le quattro», notò Paul servendosi ancora del rum. «Albert dev’essere al
cinema».
«Albert non ha lo spirito contadino», dissi.
Ci aveva giusto aiutato a spostare i mobili, e se n’era tornato a vivere in città.
No, lui non aveva l’animo agreste.
«Non è come noi», ridacchiò Paul.
Si curvò ancor più e familiarizzò di nuovo con la bottiglia. Andai a prenderne
un’altra. Se il gobbo continuava a questo regime, non ne sarebbe rimasto
neanche un goccio per me. Tirò fuori un mazzo di carte dalla tasca.
«Una briscola?».
«Non so giocare», risposi alzando le spalle.

Viste le volte che aveva provato a invitarmi, avrebbe dovuto saperlo.


«Fa lo stesso», si rassegnò come sempre.
Si alzò, andò al tavolo, lo liberò della tovaglia e iniziò un solitario. Mi

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accomodai in un angolo del divano e ripresi a sbaciucchiare la bottiglia. Era
sicuro che l’indomani avremmo avuto la testa pesante e tutto il corteo di
sentimenti malinconici e angosciosi. Se è vero che non c’è che qualche
decilitro d’alcol per rimettervi straordinariamente in sesto, è pure vero che
bisogna sapersi fermare in tempo. Insomma… era così…
Ingurgitato mezzo litro di liquido, tornai alla finestra. Non pioveva più. Gli
alberi sgocciolavano, ma non pioveva più. Uscii dalla stanza, ne attraversai
un’altra e mi piantai sulla scalinata davanti alla casa. Non pioveva più, ma
sarebbe durato poco, il colore scuro del cielo era inequivocabile. Tanto, per
quel che me ne fotteva! Dopo un attimo rientrai, salii in camera, indossai un
impermeabile e mi misi un cappello. Passando davanti allo specchio, mi sorrisi.
Con la barba di tre giorni sembravo un giovane attore affascinante.
«Vado a fare una passeggiata», dissi a Paul una volta sceso. «Vieni?».
Fece cenno di no. Immerso nel suo solitario, cercava di risolverlo. Non ci
riusciva mai, ma si distraeva lo stesso. Mi scolai un altro dito d’alcol e portai
con me la bottiglia. Raggiunsi il garage e salii in macchina. Con questa si poteva
circolare liberamente. L’avevamo comprata con la nostra grana. Un’occasione.
Niente di lussuoso, ma un buon aggeggio, solido e discreto. Serio.
Presi a sinistra e mi addentrai nella campagna ad andatura moderata,
accelerando solo per entrare violentemente nelle pozzanghere. Gli schizzi
d’acqua fangosa mi eccitavano. Per quanto sforzassi lo sguardo, intorno non
c’era anima viva. Passai davanti a due o tre case isolate come la nostra, ma
d’aspetto migliore. Nonostante i recenti acquazzoni, gli uccelli si chiamavano
da un albero all’altro. Era estate: passato quel temporale, non sarebbe più
piovuto fino alle calende greche. Avevo appoggiato la bottiglia di rum sul sedile
di fianco. Gli diedi un salutino e la riposi con precauzione. Giracchiai ancora un
po’, e poi, tutto sorridente, mi voltai verso il sedile vuoto.
«Gloria, sei felice?», chiesi.
Feci come se lei stesse lì e mi rispondesse:
«Sì».
Il lampo dorato dei suoi occhi non era mai stato così intenso. Mi domandai
che colore prendevano nel momento dell’orgasmo. Non l’avrei mai saputo,
perché in quell’istante lei abbassava le palpebre e assumeva l’aria d’una
bambina. Sorrise. La sua bocca e i suoi denti m’affascinavano. Si rannicchiò
contro di me. I suoi capelli mi sfiorarono. Fremetti.
«Se continui così faremo un incidente», dissi.
«Non con me, tesoro», mormorò.

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«Perché con te no?».
«Sono il tuo portafortuna, caro».
Mi misi a ridere.
«E io che avevo pensato che sarei morto solo per te…». «Cattivo!».
Finse un’espressione severa. Era meravigliosa. Le posai la mano sulla coscia. Le
sue dita strinsero le mie. Stavamo su una vettura lussuosa. Tornavamo dal
casinò…
«Detesto quello spilungone che abbiamo incontrato», dissi.
«Quello che voleva corteggiarmi in giardino?». Rise. Una frase simile la
divertiva. «Ti fanno tutti la corte».
«Non so cos’ho di speciale. Attiro gli uomini». «Sei troppo bella».
«Alcuni», continuò maliziosamente, «mi aspettano per anni interi. Mi chiedo
perché».
Afferrai la bottiglia di rum e la stappai nervosamente con i denti. Il tappo
cadde ai miei piedi. A Gloria non sarebbe certamente andato a genio che
bevessi. Ma per conservarla ancora qualche minuto vicino, appoggiata alla mia
spalla, dovevo bere. Ingollai una sorsata bruciante d’alcol. Dopo averla richiusa,
riposi la bottiglia sul sedile.
«Amore mio», sussurrò Gloria.
Strinsi la sua coscia.
«Perché hai tardato tanto?».
«Non lo so», risposi. «Ti amo come nessun altro potrà mai farlo».
«Amore mio», ripetè.
La camera profumava di garofano. In effetti ce n’erano in un vaso, insieme a
delle rose. I passi erano attutiti da un tappeto di lana alta. Il divano crollava
sotto le pellicce. Gloria stava di fronte a me, con la camicetta mezza aperta.
«Abbottonati…».
«Cosa vuoi…», disse in tono civettuolo, «si gonfiano». Infilai la mano sotto la
seta e le accarezzai il seno. Bloccai la macchina.
Il fiume scorreva a pochi metri. Terminai il rum, lasciai la vettura e mi avvicinai
alla riva attraverso la fitta vegetazione. La corrente trasportava un’enorme
quantità di sporcizia. Gli alberi si rispecchiavano nell’acqua plumbea. Pensai che
era quella la causa del caratteristico colore della pelle degli annegati. Si stingeva
su di loro. Rimasi immobile, con i piedi nel fango e nell’humus, il tempo di
fumare una sigaretta. Poi risalii in auto e tornai a casa. Calava la notte.
Paul giaceva bocconi sul divano. Russava. Si era ubriacato senza terminare il
solitario. Lo lasciai dormire e salii in camera con un’altra bottiglia. Non accesi la

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luce. Aprii la finestra sul buio. Il cielo limpido era pieno di stelle, promessa di
bel tempo a venire e negazione delle mie recenti previsioni. Già da molto
tempo sapevo il valore dei miei pronostici. Una grande calma scese nella
stanza. Mi buttai vestito sul letto e attaccai a bere a collo. «Gloria!».
Sarebbe stata una notte fantastica senza quel branco di vacche che fornicavano
per il mondo.

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X. Gisèle

Di buon’ora, il giorno dopo, i luminosi raggi di sole che entravano a fiotti nella
camera mi svegliarono dal sonno pesante. Avevo un formidabile mal di testa.
Paul stava nella mia stessa condizione. Lo trovai allungato sul tappeto. Era
caduto dal divano senza accorgersene.
«Perdio!», articolò con difficoltà, «se continuiamo così finiremo alcolizzati…».
«Bisogna darsi da fare», dissi. «Quando avremo veramente un bel gruzzolo, ci
sistemeremo all’estero».
Si frizionò la zazzera.
«Quand’è che facciamo fuori qualcuno?», domandò con naturalezza.
«Lasciamo perdere, per ora. Abbiamo di che vivere…». «Lo chiami vivere,
questo?».
«Non abbatterti. Abbi un po’ di pazienza e fidati. Appena saremo in possesso
di quello che si dice un sacco di soldi, cambieremo aria, non dovremo più
nasconderci, e tutte le belle sgrinfiette verranno a piluccarci in mano…».
«Mi sto annoiando», sbadigliò. «Dovremmo far fuori qualcuno. Aiuterebbe a
passare il tempo… Mi diverto un mondo se penso alla faccia del poliziotto
dell’altro giorno… Ti ricordi la faccia che aveva fatto?».
Lo lasciai dilettarsi con i suoi ricordi comici, feci un bagno e mi rasai. Le
abluzioni attenuarono il malessere fisico da sbronza. Presi l’auto e andai a
comprare giornali e vettovaglie. La stampa non segnalava niente di particolare.
Eravamo di nuovo relegati in terza pagina. La cosa un po’ mi piaceva e un po’
no. La prima era consacrata all’evasione di tre femminucce da un riformatorio.

La giornata si trascinava in maniera penosa. Pioggia o sole, era sempre una


merda. Sarei andato volentieri a farmi un giretto in città, ma mi seccava lasciare
Paul da solo. Verso sera mi dissi che avendo bevande disponibili sarebbe stato
veramente idiota privarsene. Presi una bottiglia già cominciata, deciso ad
andarci piano. Un bicchiere o due, non di più. Giusto per ritrovare l’ottimismo.
Non sarebbe stata la bolletta dell’elettricità a rovinarci. Faceva buio e noi
restavamo nella penombra. Il punto rosso della sigaretta, ravvivato a ogni tiro,
ci segnalava l’uno all’altro. Non avevamo voglia d’alzarci e girare l’interruttore.
Le finestre erano aperte sulla riposante calma notturna, rotta di tanto in tanto

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dal latrato lontano di un cane. Non parlavamo. Non avevamo niente da dirci.
D’un tratto mi alzai con uno scatto silenzioso. Paul fece lo stesso. Mi toccò il
braccio. Anch’io avevo percepito un singolare fruscio di foglie e il movimento
di un corpo davanti alla casa. Impugnammo le pistole e ci muovemmo in
ricognizione a passi di lupo. Scorgemmo, attraverso la griglia trasparente della
porta d’ingresso, un’ombra passare nel giardino. Girai l’interruttore della grossa
lampadina della scalinata, e la luce investì una donna che scappò in direzione
del recinto.
«Ferma o sparo!», gridai.
Paul rinfoderò la sua arma e si precipitò fuori. Poco dopo era di ritorno con la
fuggitiva, più morta che viva. Era una ragazzina di circa sedici anni, ricoperta di
stracci con ogni probabilità rubati ai vari spaventapasseri della regione. Aveva
un bel viso, illuminato da occhi duri e inquieti al tempo stesso. Una piega
d’amarezza le disegnava la bocca. I capelli castani, che le cadevano sulle spalle,
avevano bisogno di un buon colpo di pettine, cosi come invocavano un serio
rammendo la gonna e il corsetto. Quest’ultimo, strattonato da Paul, si era
strappato e lasciava intravedere, attraverso le lacerazioni, una camicia di tela
ruvida macchiata d’inchiostro tipografico. Lanciai un fischio e rinfoderai la
pistola. «Entriamo», dissi.
Spensi la luce della scalinata e l’accesi all’interno. Paul spinse la sua preda sul
divano, chiuse le finestre e tirò le tende.
«E allora, pupa», dissi scoppiando a ridere. «Avevi intenzione di svaligiarci?».
«Non avete l’aria d’avere preoccupazioni del genere», ribatté a tono.
Mi scrutò con insolenza. Abbozzai un gesto minaccioso. Istintivamente alzò il
braccio per proteggersi. I suoi occhi scuri, caldi o freddi, esprimevano una
paura animale.
«Hai timore delle… punizioni?». Ridacchiai di gusto, accentuando l’ultima
parola.
«Lasciatemi andare», disse.
La costrinsi a sedere spingendola sul petto. Le strappai definitivamente il
corsetto e palpeggiai il camicione.
«Bella biancheria. Con i numeri di riconoscimento della proprietaria… o più
esattamente dell’amministrazione penitenziaria… Chi sei?», domandai,
consultando rapidamente un giornale a portata di mano. «Simone, Gisèle o
Marie? Matricola 1635, 1215 o 7143?».
«Perdio!», bestemmiò Paul. «E…».
«Una delle nostre simpatiche evase, sì».

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«Lasciatemi andare», ripetè la ragazza.
«No», dissi scrollando energicamente la testa. «Sarebbe pericoloso per te. Qui
non hai nulla da temere…».
«Finché non mi consegnerete».
«Ascolta, pupa, hai l’aria d’avere la testa dura. Anch’io. F per questo che poco
fa ti ho strapazzata. Devi scusarmi. Oggi ho i nervi a fior di pelle. Un mio zio
ha abbandonato questa valle di lacrime diseredandomi. Non mi resta che
questa baracca e non so se dispongo di sufficiente denaro per tenerla ancora
sei mesi. Capisci, cocca? A parte ciò, sono una brava persona, e con noi non
hai nulla da temere. Siamo gente di fiducia. Se non abbiamo la faccia di chi si fa
svaligiare, non siamo a maggior ragione degli infami…».
«Santa verità», approvò Paul.
«Siamo fratellini tu e noi, bambola. E ciascuno di noi è la disperazione della
rispettiva famiglia…».
Paul la guardò con un’aria bizzarra. Girò su se stesso e rovistò in cucina.
Ritornò con pane, vino e due fette di prosciutto.
«Prendi», disse. «Devi averne bisogno. In gabbia era dura, e fuori non è andata
meglio, eh? Mangia!».
Non si fece pregare e si buttò sul cibo con grande appetito.
«Non ci capisco niente», biascicò con la bocca piena. «Siete degli strani
soggetti. Prima mi strapazzate e poi mi offrite da mangiare».
«Non farci caso», ridacchiai. «Siamo un tantino complicati».
Riprese del prosciutto.
«È carino qui da voi», osservò dopo aver dato un’occhiata in giro.
«Non è certo granché», protestò Paul. «Ma è un posto tranquillo… Nessuno
verrà a cercarti qui…».
L’aveva adottata. Le riempì un altro bicchiere di rosso. «Da quant’è che stavi
dentro?», domandò lui bruscamente. «Un anno».
Il gobbo mi lanciò un rapido sguardo d’intesa. La bimba non doveva essere a
conoscenza delle avventure dei banditi in auto. Perfetto.
«Aspettavi i venturi anni?». «Sì».
Le versò ancora da bere e si sedette sul divano al suo fianco. Non sapeva più
dove mettere le mani. Io non chiesi alla fanciulla il motivo del suo arresto.
Doveva essere l’eterno ritornello: tugurio, genitori indegni e tutto il resto. Mi
concessi il fondo della bottiglia.
«Non hai ancora detto come ti chiami».
«Gisèle».

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«Bel nome», fece Paul.
Avevo voglia di vomitare. Tutti, anche questo infermo, adescavano le femmine
con frasi idiote del genere.
«Un nome da eroina di un romanzo da quattro soldi», rettificai. «O di un capo
di biancheria intima».
«Non sei affatto galante», balbettò lei.
I suoi occhi scuri brillavano. Bevve ancora. Incominciava ad essere
leggermente brilla. La bocca le si inumidì. Si scosse, e i capelli neri
ondeggiarono.
«Non fa freddo qui», disse.
«Mettiti a tuo agio», suggerì Paul.
Si lasciò togliere i resti del corsetto senza protestare. Lui infilò la mano nella
scollatura della camicia e si sentì obbligato a palpeggiarla.
«Ehilà», ridacchiò lei. «Che fai?».
«Io? Niente», sorrise lui.
Continuò pian piano il suo maneggio. Era scosso da un desiderio violento. Si
tratteneva per non soddisfarlo subito. Lo comunicò all’altra, che si tolse d’un
colpo la camicia. Spuntarono i seni, piccoli, rotondi, con i capezzoli ritti come
dardi. Si rovesciò sul divano trascinando Paul con sé. Gli afferrò la testa con le
due mani e la schiacciò sul suo petto, mugolando. Lui si mise a succhiare come
un neonato. Gisèle s’illanguidì. Paul soffiò un gemito sordo cui rispose il
rantolo soddisfatto della partner.
Io assistevo all’esibizione con un acre sapore di rum sulle labbra.
Lei aveva belle mani, nonostante le unghie nere e l’avvilente lavoro del
laboratorio penitenziario, ed era allucinante vederle contrarsi di piacere sulla
gobba di lui.
Poi la coppia si acquietò. Paul si scrollò. La ragazza restò distesa languidamente
sul divano. Paul mi fece un chiaro cenno d’invito. Mi commossi. La fanciulla,
sfrontata, confermò. Declinai l’offerta.
Lui non insistette. Gli s’illuminò il viso al pensiero che poteva averla tutta per
sé. La sua proposta, in fin dei conti, non era che una formalità, un tributo alla
nostra amicizia che non era scontento di vedersi rifiutare. Si concentrò sulla
ragazza, e le percorse il corpo di baci. I seni s’inturgidirono di nuovo. L’aiutò a
lasciare il sofà. Si tennero allacciati come ballerini immobili. Paul affondò il viso
fra i suoi capelli neri.
Salirono in camera. Sentii i loro passi sopra di me. Il letto cigolò.
Rimasi da solo con la bottiglia.

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XI. Notte

A partire da quel giorno, la villetta ospitò due piccioncini domestici. Erano


molto diversi fra loro, ma sembravano volersi bene. Le coppie sono tutte
uguali! Feci un’incursione in città e ne tornai con indumenti femminili decenti e
un carico di prodotti di bellezza. Se nel nostro ritiro si era introdotta una
bambolina, che almeno fosse di classe. Classe? Dio santo! Quando quella sera,
ben vestita, pettinata e truccata, Gisèle ci raggiunse nella sala da pranzo, a Paul
gli si mozzò il fiato e arrossì d’orgoglio per essere l’amante di una pupa simile.
Per quanto mi riguarda, mi dissi che ero proprio una pappa molle, che una
sorellina così avrei dovuto farmela, appena possibile… Ci mettemmo a tavola.
Gisèle si preoccupò di quanto potevano scrivere i giornali.
«Le tue amichette sono state riacciuffate», annunciai.
Volle leggere l’articolo.
«Che sfortuna!», disse tentennando il capo.
Si guardò e toccò il vestito nuovo. Non era la creazione di uno stilista
rinomato, ma era tutt’altro dai cenci di prima. Si passò la mano tra i capelli.
Ondeggiavano soavemente, leggeri e morbidi.
«Non hai più nulla da temere, tu», la rassicurò Paul. Lei scosse le spalle come
per liberarsi di un peso, e per distrarsi sfogliò le altre pagine del giornale.
«Che succede con questi gangster?», domandò all’improvviso, con lo sguardo
su di un trafiletto che ci riguardava. «Ne ho sentito vagamente parlare appena
evasa. Li presentano come il pericolo pubblico numero uno…».
«C’è una grossa ricompensa per chi faciliterà la loro cattura», feci
insidiosamente.
«Quanto?», ribatté lei, tanto per continuare la conversazione e scordare le due
sfortunate compagne.
«Non lo so con precisione, ma dev’essere un bel pacco di bigliettoni. C’è gente
che ucciderebbe padre e madre per cifre simili».
«Non ne vorrei sapere di questa grana!», esclamò con convinzione.
«Si dice sempre così…». «Io lo penso davvero».
«Taglia o no, gangster o no», intervenne Paul indispettito. «Che diavolo può
interessarci? Lasciamo quei marmocchi a sbrigarsela da soli… Quanto a te,
Gisèle», aggiunse, «credo che qui tu sia al sicuro. Non ti accalappieranno più.

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Mai più!».
«Ho avuto buon naso ad avventurarmi da queste parti, eh?», rise. «Magari il
ricevimento non è stato dei migliori, ma bisogna ammettere che ho avuto una
fortuna della madonna a cadere su due tipi simpatici come voi…».
Mi alzai da tavola prima della fine del pasto. Adesso che Paul aveva compagnia,
mi era più facile andare in città.
Come giunsi alle prime case della periferia, fermai la macchina davanti a un
bistrot e telefonai a Gloria.
«Oh! Jean!», esclamò. «Che sorpresa! Ormai fai il prezioso…».
«Molto lavoro in provincia», spiegai.
«Tutti si trasferiscono in provincia e mi lasciano sola», fece con un risolino
soffocato.
Mi raccontò che negli ultimi tempi gli affari del marito lo trattenevano spesso
fuori città.
«Dovresti portarmi fuori», suggerì.
«Ah!… Ehm…», farfugliai. «Che intendi per portarti fuori? Non posso passare
a prenderti prima di un’ora o due. Devo vedere un tipo».
«Mi piacerebbe andare al cinema. Sei libero per lo spettacolo delle dieci?».
«Senz’altro».
«Allora, a presto».
Riattaccò. Composi il numero dell’hotel di Albert.
«Aspettami», dissi. «Vorrei vederti».
Venti minuti dopo entrai nella stanza del mio socio.
«Niente berta?», gli chiesi stringendogli la mano.
Le sue spesse sopracciglia s’inarcarono come quelle finte di un clown.
Ridacchiò.
«La zona è tranquilla. Ma c’è da domandarsi se sia proprio così. È straordinario
non avere precedenti penali, come si dice. Le probabilità di farti fottere sono
minime».
«Sì», approvai. «Per fare un buon criminale bisogna essere stati onesti a lungo.
Non è indicato cominciare troppo giovani. Tutto il segreto del successo sta lì…
Cioè, non solo. Intendo dire che ora ci serve un grosso colpo. Non so se la
pensi come me, ma sento il bisogno d’imbottirmi di denaro. Allora potremo
svignarcela all’estero, e… Insomma, tu mi capisci! Dovremmo approfittare
ancora della nostra fortuna…».
Mi rispose che capiva. Invece non capiva un cavolo, perché io non avevo mai
avuto l’intenzione di passare la frontiera. Ma desideravo una barca di soldi.

69
«Ci rivedremo», dissi. «Ti farò sapere».
«D’accordo», approvò.
Lo lasciai e filai da Gloria. Lei stava spazientendosi. Le sue scarpe in pelle di
serpente martellavano il tappeto, e avanzò con quell’espressione di leggero
rimprovero che mi emozionava tanto. Se avesse studiato il modo migliore per
confondermi, non si sarebbe comportata diversamente. Mi abbordò
dicendomi che cominciava a pensare a un bidone. Protestai che non era nelle
mie abitudini.
«In ogni caso», tagliò corto indicando l’orologio a pendolo, «se non troviamo
un taxi arriveremo in ritardo allo spettacolo».
Sorrisi.
«Un taxi? Che taxi? Non ci crederai finché non sarai fuori, ma sono in auto».
«Una macchina, Jean? Ti sei dunque deciso a lavorare seriamente?».
«Sì, molto seriamente», dissi.
Passammo una serata deliziosa. Il tempo vicino a lei era sempre delizioso.
Dopo, tutto cambiava. Era come con l’alcol. Mi dava un malsano e intollerabile
mal di testa.

La riaccompagnai e la porta dell’edificio si chiuse su di lei con un rumore


sordo che mi fece un brutto effetto. Rimasi pensieroso, appoggiato al volante.
Il corridoio s’illuminò. Nella calma della notte percepii il ronzio soffocato
dell’ascensore. Le luci a tempo dell’ingresso si spensero in perfetta sincronia
con l’illuminazione delle finestre del suo appartamento. Le lanciai un ultimo
sguardo e partii.
Feci una rapida sosta in due o tre bar incontrati lungo la strada e ancora aperti
nonostante l’ora avanzata. Poi mi misi alla ricerca di una puttana.
Mi diressi verso il quartiere di Les Halles, dove sapevo che si batteva fino a
tardi. Parcheggiai lungo un giardinetto e intrapresi a piedi l’esplorazione delle
sordide stradine. Erano deserte. Trovai infine una prostituta con gli stivali di
cuoio e con una vera faccia da troia. Mi fece un tenero cenno d’invito, condito
con un sorriso da bazar, che svelò denti non più cariati del normale. Risposi
affermativamente. L’albergo dove lavorava aveva un losco ingresso in una via
vicina. Nella hall miseramente illuminata, un giovanotto mal rasato, sfasciato,
sonnolento e occhialuto, fece un cenno vedendoci: la camera riservata agli
amplessi a pagamento stava al primo piano in fondo a un corridoio dalla puzza
nauseabonda. La finestra era chiusa, e aveva una lurida tendina davanti. Grossi
camion carichi di cibarie percorrevano il viale in lungo e in largo, e il loro

70
passaggio faceva vibrare tutto l’edificio. «E’ abbastanza rumoroso», notai.
«Che importanza può avere, cocco? Non si viene qui per dormire».
Pretese subito la sua paga, e io mi mostrai generoso. Mise in un cassetto il
denaro, mi consigliò di mettermi a mio agio e cominciò a spogliarsi. Quando fu
il mio turno, celò un risolino sotto la tosse.
«Perché ridi?», le chiesi in tono rude.
«Non rido», protestò.
Lasciai perdere. Aveva riso e io sapevo la ragione della sua ilarità sprezzante.
Dovevo solo uscire, urlare chi ero e avrei visto la gente scappare terrorizzata.
E questa stronza si prendeva gioco di me. La trattai male e la possedetti
brutalmente.
«Dì un po’, cocco», gracchiò, «hai l’aria di uno passionale, tu».
Ribollivo di rabbia, di vergogna e di dolore… Poco dopo sorpresi nel suo
sguardo un nuovo luccichio ironico. Di colpo mi riempii di una grande serenità
e, mostrando un biglietto di grosso taglio tutto nuovo, dissi:
«Prendi. Vorrei insegnarti la posizione del cuscino. Se la impari, ti farai una
ricca mancia. Viene dall’America. Si esegue in piedi, vestiti, come fanno gli
amanti che s’accoppiano nell’ombra dei portoni…».
Articolavo le parole lentamente, gustando quanto dicevo. Immaginai il fu
Marcel. Gli avevo parlato con la medesima dolcezza.
Lei esitò. La mettevo a disagio. I suoi occhi torvi, scintillanti di cupidigia,
andavano dai miei al mio bigliettone. Le sorridevo. Angelicamente è la parola
adeguata. Lei allungò la mano, prese i soldi e li ficcò nelle calze.
«Lo sapevo bene che eri un passionale», disse. «Fammi vedere il giochetto».
Presi il cuscino, lo piazzai fra le nostre due pance e strinsi forte con il braccio
sinistro quella sporca puttana idiota contro di me.
«Hai sempre voglia di ridere?», chiesi, con la voce tremante per l’esasperazione
e ai limiti di uno scoppio di risa.
Non le permisi di rispondere. Le schiacciai la bocca sotto le mie labbra
irrigidite dall’odio. Per quanto stupida fosse stata, credo che a quel punto capì
ed ebbe paura. Si dibatté. Le sue gambe s’afflosciarono. Aumentai la stretta e le
detti il tempo di ubriacarsi di terrore. Impugnavo il revolver con la destra.
Sparai due volte. Si prese le due palle in pancia e una terza, mentre la buttavo
sprezzantemente sul letto, dritta nel cuore.
Il rumore dei camion aveva coperto quello delle detonazioni. E il cuscino
pure, impedendo al tempo stesso che m’insozzassi di sangue.

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Sulla via del ritorno continuai a recitare a modo mio l’orazione funebre per
quella spazzatura, inventando le peggiori parolacce. Giunsi in vista della villetta.
Un filo di luce filtrava dalle persiane della camera di Paul. Pure la cucina era
illuminata. Lasciai la macchina in garage e mi avvicinai. In camicia e scalzo, il
gobbo stava preparando un tè.
«E’ bella la vita notturna e libertina, eh?», ridacchiai.
«Cosa c’è che non va?… Hai l’aria cupa», osservò. «Brutte notizie da Albert?».
«No. Niente».
Accesi una sigaretta.
«Sono preoccupato per quello che succede qui. Gisèle non t’ha fatto
domande?».
«Perché avrebbe dovuto?», si stupì.
«Non so. Un giorno o l’altro potrebbe capitare».
E con ciò andai a dormire.

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XII. Trappola

Dormii male, mi svegliai di buon’ora e mi alzai per primo. Andai in cucina a


bere una serie di succhi di frutta e a rovistare nel mucchio di giornali che
riempivano un armadietto. Scelsi e ritagliai gli articoli che parlavano di noi.
Riposi le pagine amputate in fondo al mobile e misi gli scampoli selezionati in
un sacchetto di tela. Poi mi rasai, mi vestii e preparai due caffè che portai
sorridente alla coppietta innamorata.
«Mi assenterò spesso in questi giorni», dissi a Paul facendogli l’occhiolino.
«Devo regolare l’affare dell’eredità».
La prima visita in città fu per Albert. Esaminammo due o tre possibilità di
obiettivi fruttuosi, già precedentemente presi in considerazione ma
abbandonati per diversi motivi. Ci mettemmo d’accordo per attaccare il più
redditizio.
Durante il pomeriggio telefonai a Gloria e trascorsi qualche momento in sua
compagnia.
I giornali della sera riportavano il nome della mia ultima vittima. La prostituta
Irma Rouc era stata assassinata da un cliente occasionale. L’ipotesi più
verosimile puntava al regolamento di conti. L’omicida era riuscito a fuggire
senza attirare l’attenzione attraverso un corridoio che immetteva in un cortile
comune a due edifici. Il portiere dell’albergo non aveva potuto fornire che una
vaga descrizione dell’uomo che si sospettava essere l’assassino.
Lessi tutto ciò mangiucchiando un panino e rientrando a casa.
Paul, stravaccato sul divano del misero salotto, fumava una sigaretta. Pur
essendo ancora presto, Gisèle si era già coricata.
«La stai spossando», ridacchiai. «Oppure comincia a stancarsi di te».
«Dio mio!», gemette inquieto, «spero di no… Non puoi sapere quanto sono
felice, Jean».
Invece me ne rendevo bene conto. Ed era proprio lì che stava il dramma.
«Tanto meglio», dissi.
Buttai il cappello sopra un mobile e accesi una sigaretta.
«Dovresti trovare una ragazza come Gisèle», disse.
«Ci penso da tanto», risposi. «Da quando ero piccolo…».
Temendo di avermi offeso, cambiò argomento.
«Hai visto Albert?».

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«Sì».
«State preparando qualcosa?». «Sì».
«Di che genere?». «Tu non sei previsto», dissi. Lasciò cadere la cicca. «Io…».
«Tu sei felice», canzonai. «Le persone felici non hanno posto nelle nostre
operazioni… Questione di riflessi…». «Ma… co… come… Jean», balbettò.
«Ne riparleremo», feci. «Adesso ho fame. E’ rimasto qualcosa da mangiare?».
Indicò la cucina in silenzio. Ci andai, mi tagliai un pezzo di pane, aprii una
scatoletta e trasportai il pasto freddo nel salotto. Prima di cominciare:
«Ho bisogno di qualcosa da leggere», borbottai. «Così non mi sembra di
perdere il tempo».
Andai a frugare nell’armadietto. Presi i giornali ritagliati e raggiunsi Paul.
«Non è che sei diventato scemo?», chiesi con l’aria corrucciata.
«Che c’è?», sussultò.
Gli mostrai i giornali.
«T’interessi un po’ troppo alle tue bravate. Collezioni come queste portano
direttamente al boia». S’alzò di scatto e mi strappò i fogli di mano. «Ma è…».
«La serie più o meno completa dei nostri crimini. Mi fai il piacere di non
conservare documenti del genere?». «Non sono stato io a farlo», disse.
«Forse allora sono stato io, o il papa! Dai, hai fatto un’idiozia. Vedi solo di non
ripeterla».
«Non sono stato io», ribatté con lo sguardo e la voce impregnati di un
profondo smarrimento.
Lo afferrai per il colletto della camicia.
«Perdio!», esclamai come preso da un’illuminazione. «Me lo giuri che non sei
stato tu?».
«Non sono stato io».
Lo lasciai e sgranai un perfetto riso amaro. Seduto sul divano, si prese la testa
fra le mani e bestemmiò interminabilmente con tono lamentoso.
«Non è possibile», gemette infine.
E per svuotarsi sputò due o tre imprecazioni, con una voce rotta. Era cotto a
puntino.
«Avremmo dovuto mandarla a quel paese fin dal primo giorno, o consegnarla
agli sbirri», dissi a voce bassa. «Ci avremmo guadagnato l’aureola di buoni
cittadini… Adesso è troppo tardi», continuai insidiosamente, con tono più
rattristato che brutale. «Lo sentivo che la topolina ci avrebbe attirato delle noie.
Tutte traditrici e puttane, Paul. Una volta anche tu eri d’accordo con me. Ma lei
t’ha fatto cambiare idea. Magari t’ha detto che ti ama, non è vero? Ma non ti sei

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mai guardato attentamente allo specchio? Non hai mai visto la tua gobba, la tua
sporca gobba e tutto il resto? Lo sai bene che non hai mai avuto successo con
le donne, che a loro provochi repulsione. Ne hai sofferto. E pretenderesti che
cambi tutto dall’oggi al domani solo perché dai ospitalità a una fuggitiva?
Questa ragazzina non ha le bistecche sugli occhi, Paul, e sa d’avere sufficiente
fascino e sex appeal per conquistare degli apolli o un banchiere, altro che un
delinquente della tua specie! Ed è quanto succederà se non corriamo ai ripari.
Se ci denuncia, non ritornerà in gabbia e intascherà la ricompensa. Forse tu sei
sessualmente soddisfatto, ma è un prezzo un po’ alto per qualche scopata, mi
rifiuto di pagare una tariffa simile…».
«Non è possibile», ripetè scuotendo dolorosamente il capo.
Continuai nell’opera di persuasione, sfruttando tutto il mio ascendente su di
lui. Instillai lentamente il veleno nel suo animo.
«L’amo», disse. «Non conoscevo questa dolcezza: avere una donna tutta per
sé…».
«Sei tu che appartieni a lei», rettificai. «E lei ti consegnerà al boia».
«Credo che anche lei mi ami…».
Lo disse senza convinzione. M’accontentai di scoppiare a ridere. Si curvò
ancor di più. Tutto il suo essere era sconvolto
«Lo saprò con precisione», mormorò. «Voglio vedere se me l’ha data a bere o
no!… Se ha gli articoli…».
«Il fatto è», conclusi con calma, «che lei sospetta della nostra vera identità, e ciò
la interessa da un suo particolare punto di vista. Sennò ce l’avrebbe detto
francamente…».
Si mise in piedi e restò così per alcuni minuti, oscillando a destra e a sinistra,
come se la gobba lo facesse ondeggiare e lui cercasse di ritrovare l’equilibrio.
Portò le mani al petto cercando qualcosa, adocchiò la sua giacca sul divano e la
indossò. Si diresse verso le scale.
Presi una bottiglia di rum dalla riserva e riempii un bicchiere che lasciai a
portata di mano senza usufruirne. Mi ficcai una sigaretta fra le labbra e preparai
tutto quanto serviva per accenderla. Tirai fuori anche la pistola, nel caso gli
avvenimenti avessero preso una piega contraria alle mie previsioni. Sarebbe
stato davvero un peccato.
Risuonarono dei passi sul soffitto. Percepii il brusio soffocato d’un breve
scambio di parole, e poi quello di una lotta ancor più corta. Infine, uno sparo.
Accesi la sigaretta e aspirai una boccata di fumo insieme a una sorsata di rum.
L’aveva detto la stessa Gisèle: una stramaledetta buona sorte quella di cadere su

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due tipi simpatici come noi. Inoltre, i gobbi portano fortuna.
Paul scese le scale gradino per gradino. Sembrava appesantito di cento chili.
Impiegò un secolo per raggiungere il pianterreno. Finalmente la sua figura
deforme s’inquadrò sulla soglia. Si appoggiò sullo stipite. Il viso era devastato
da tic nervosi. In una mano teneva il revolver ancora fumante, nell’altra dei
pezzi di carta stropicciati. Barcollò e crollò sul divano. L’arma, i ritagli di
giornale e il sacchetto che li aveva contenuti si sparpagliarono per terra.
«È uno schifo», singhiozzò stringendo il cuscino. «Quando sono entrato li stava
leggendo… Ha cercato di nasconderli… vedendomi… ha preteso d’averli
trovati… non ricordo più dove… non mi amava…».
La gobba era enorme.
«Non mi amava… fingeva… ci avrebbe venduti… io l’amavo… lei no… tutte
uguali… e io l’ho ammazzata… è uno schifo…».
«La vita è uno schifo», conclusi.
Rinfoderai la Colt, accesi un’altra sigaretta con il mozzicone della precedente e
mi versai ancora del rum. Il giardino sarebbe servito da cimitero.

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XIII. Litigio

Una volta che ebbi terminato quello che dovevo fare con Albert per preparare
il colpo che avevamo programmato, mi recai da Gloria.
In quel periodo non mi preoccupavo di annunciarmi per telefono. Il
soggiorno di Lautier in provincia si sarebbe prolungato ancora per due
settimane, il che mi consentiva di passare senza preavviso. La nuova situazione
mi piaceva. Creava nuove forme d’illusione che i nostri incontri rinfocolavano.
A volte m’intrattenevo una o due ore nel suo appartamento a chiacchierare, a
volte uscivamo.
Per qualche giorno tutto andò a meraviglia, e non credo d’essere mai stato così
contento. Cominciavo addirittura a pensare che dopotutto la vita non era poi
così squallida, e che la felicità…
Anche Paul, il gobbo, aveva avuto la sua parte di gioia… Però è anche
incontestabile che era finita male.

Premetti tre volte il pulsante del campanello di Gloria. Nel corridoio risuonò
un passo diverso dal suo, e la porta si aprì. Non seppi controllare un sussulto.
Lautier mi stava di fronte in spiacevole anticipo sull’orario previsto. La
delusione e la sorpresa che mi si dipinsero in faccia gli provocarono uno
sgradevole e significativo sorriso.
«Non se ne vada», disse. «Lei non è precisamente il benvenuto, ma devo
parlarle…».
Borbottai qualcosa e lo seguii in salotto. Gloria stava lì, con gli occhi dorati
arrossati dal pianto. Cera un vaso rovesciato e fiori sparsi sul tappeto. Altre
tracce di disordine testimoniavano che doveva esserci stato un alterco assai
violento lì dentro.
«Allora è così…», ridacchiò Lautier con un tono di fredda collera che non
avrebbe mantenuto a lungo. «Allora è così, abbiamo un codice, un segnale per
annunciarsi, eh?… Sono anni che mi dai il voltastomaco, Fraiger, e avrei
dovuto vietarti l’ingresso a casa mia. Oggi però non ne posso proprio più…».
«Ti prego», osò Gloria.
Si voltò pieno d’odio verso di lei.
«Tu sta’ zitta!», urlò. «Approfitti delle mie assenze per ricevere questo individuo

77
a qualsiasi ora del giorno e della notte, per uscire con lui e tutto il resto. Vorrei
che t’avesse messa incinta. Ti renderesti conto di che razzaccia può
inseminare…».
«Ascolti…».
Feci quello che voleva giustificarsi, ma m’interruppi subdolamente alla prima
parola, dato che non avevo la minima intenzione di discolparmi di alcunché. La
portinaia – incaricata senza dubbio di controllare – doveva aver esagerato il
suo rapporto; oppure era lui che faceva di un mucchietto di terra una
montagna. Comunque un fatto era chiaro: con il suo atteggiamento si stava
alienando definitivamente Gloria. E dato che era lui a cercarsela, che la
perdesse davvero, il porco!
Ci inondò di ingiurie, al cui confronto quelle che avevo recentemente
inventato per gratificare il cadavere della prostituta ridanciana erano
complimenti. È incredibile come la collera possa ispirare certi esseri e dotarli di
immaginazione.
Andava su e giù per la stanza calpestando i fiori, inciampi) do nel vaso ed
emettendo volgarità. Perdeva Gloria! discreditava e perdeva Gloria!
«Ascolti…», ripetei.
«Chiudi il becco!», muggì.
Mi fu addosso come un fulmine. Il suo pugno partì, stoppai alla base del
mento. Indietreggiai barcollando. Sola un giorno prima sarebbe stato un buon
pretesto. L’avrei steso con gioia. Oggi invece lasciai stare l’arma. Forse avevo
delle probabilità di vivere come sognavo, e non dovevo sciuparle
sconsideratamente. Mi afferrò per i risvolti della giacca.
«Magari adesso mi vieni a dire che non ci sei mai stato a letto?».
Mi liberai.
«Lei è un imbecille e un porco rimbambito», scoppiai. «I Gloria dovrebbe
lavarsi con la varechina per essersi strusciata sulla sua fetida pelle lurida. Non
sono stato a letto con lei, ma non posso negare che l’amo, e che l’amo più di
quanto la possa amare lei. Sono anni che l’amo. L’amo come nessuno l’ha mai
amata né l’amerà mai…».
«E non te la sei fatta?», ridacchiò. «Amandola così tanto, frequentandola così
assiduamente, non hai tentato di fartela? Allora, o sei un castrato o un coglione!
Ma non devi farmi credere che lo sei più di quanto lo dimostri…».
Mi sentii impallidire. Fu come la brutale applicazione di un lenzuolo ghiacciato
sul viso. Portai la mano alla giacca, ma desistetti subito e, trasformando il mio
gesto iniziale, abbottonai con cura i tre bottoni dell’indumento, come avrebbe

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fatto un contadino in abiti festivi. Non volevo rischiare che durante la lotta la
Colt potesse scivolarmi dalla tasca interna. Gli rifilai una castagna. Me la rese
con gli interessi. Il mio naso sanguinò.
«Jean!», gridò Gloria.
Mi immobilizzai. Avrebbe potuto tempestarmi di botte,
ma non avrei reagito. Non volevo battermi. Sarebbe finita troppo male. Dal
canto suo Lautier non cercò di sfruttare il vantaggio;
«Jean! Jean!», fece imitando il tono della moglie. «Jean! Iran! Te lo lascio il tuo
Jean. Curagli i bernoccoli. Fate tutte e due quello che volete. E tu, vecchio
stupido, lavora come un negro, come ho fatto io per soddisfare tutte le costose
fantasie ili questa egoista. Sei stato spesso al verde. Oggi sembra di no, ma ci
ricadrai. La miseria è come la sifilide: non si guarisce mai completamente. E
quando sarai senza un soldo, vedrai che la signora, passato il capriccio, si
metterà con uno più ricco, e sarà il tuo turno di fare il cornuto!».
Vomitò senza riprendere fiato tutta una serie di epiteti e di banalità inutilmente
vessatorie. Infine si diresse all’uscita, sbottò un ultimo oltraggio gratuito e
rabbioso, e si chiuse la porta alle spalle.
Io e Gloria restammo in silenzio. Lei si sedette con stanchezza sul canapè. Io
mi asciugai il naso. Qualche goccia rossa costellava la mia giacca e la mia
camicia. La vista del sangue mi divertì.
Andai in bagno a inumidire il fazzoletto e a tamponarmi il naso. L’emorragia si
arrestò. Pulii le macchie sui vestiti e raggiunsi Gloria.
Stava ancora sul divano, pensierosa. Sui suoi capelli saltellavano fuochi fatui
color rame. Alzò la testa e mi guardò. Com’era tutto idiota! Le presi la mano.
«Ti telefonerò», dissi.
Posai un bacio furtivo sui suoi capelli.
«Mio povero Jean», disse.
Uscii.

Albert, seduto su di una sedia malridotta che scricchiolava a ogni movimento,


si sfregò le spesse sopracciglia come se avesse voluto cancellarle.
«Le tue informazioni erano esatte», disse. «Non è cambiato niente dal tempo in
cui lavoravi in quella fabbrica. La notte fra il 15 e il 16 andrà bene. La
cassaforte sarà rigonfia di grana, e non saranno certo due guardiani a farci
paura…».
«Perfetto», replicai.
«Solo che ci serve la fiamma ossidrica…». «So dove procurarmela e la so

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maneggiare. Serve a qualcosa aver fatto tutti i mestieri…». Albert scosse il
capo.
«Ho l’impressione che questa volta non andrà bene», disse. «Perché?».
«Solo un’idea così… È talmente differente da quello che abbiamo fatto finora
che mi sento come una verginella… Abbiamo avuto non poca fortuna e…».
«Ho cambiato metodo perché non bisogna esagerare. Sto diventando
prudente. Forse è l’età. Con questo colpo meno spettacolare dei nostri abituali
assalti, intascheremo altrettanto e con meno rischi. Se la buona stella non ci
abbandona, gli indiziati non saremo noi».
Albert si arrotolò una sigaretta. Sussultò con una risatina.
«Eppure ti piaceva leggere la tiritera dei giornali. Non t’interessa più?».
«Voglio i soldi e voglio godermeli tranquillamente».
«Il diavolo si veste da eremita».
«Non lo so».
«E Paul?», chiese d’un tratto.
Gli avevo raccontato i recenti avvenimenti.
«È abbacchiato. Penso di dargli la sua parte, ma di evitare la sua
partecipazione…».
«In effetti mi sembra una saggia decisione».
Discutemmo ancora un po’ per mettere a punto i dettagli del piano, e poi ci
separammo.
Entrai in una cabina per telefonare a Gloria.
Erano passati due giorni dal violento alterco, e Lautier non aveva più dato
segni di vita. Gloria mi disse che aveva fatto una breve e silenziosa apparizione
il giorno stesso, in compagnia di un tassista, e che aveva portato via con sé un
certo numero di cose che «gli appartenevano. Sembrava ancora infuriato. Mi
domandai se sarebbe continuata così, o se non avrebbe ritrovato il sangue
freddo e capito la stupidità del suo comportamento, per rientrare infine
all’ovile. Non ci si poteva dimenticare, non ci si poteva separare così da una
donna come Gloria. Ma era pure vero che Gloria poteva non volerne sapere
più di lui. L’aveva insultata troppo volgarmente. La mia debole possibilità
risiedeva proprio lì, anche se… Ed era questa la cosa peggiore: adesso che la
mia buona sorte si materializzava, ero sommerso dal panico.
«Questa sera sono libero», dissi. «Usciamo insieme?».
Era più forte di me.
«Volentieri», accettò. «Dopotutto adesso…». Quella sera uscimmo insieme e
l’indomani pure.

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81
GLI INTROVABILI BANDITI IN AUTO FANNO SCUOLA

Pare che l’impunità di cui gode — ci auguriamo momentaneamente – il pericoloso terzetto di


gangster la cui attività criminale occupa da qualche tempo la cronaca, stia risvegliando, nei
malintenzionati, istinti di rapina finora rimossi dal timore delle conseguenze.
Recentemente abbiamo dato notizia dell’ assalto ai danni di un ufficio postale da parte di due
giovani balordi, fra cui si credeva a torto d’aver riconosciuto il gobbo — o il falso gobbo —
della tragica banda.
La notte scorsa altri due banditi – anche questi in macchina, ma meno sanguinari di quelli
cui s’ispirano – si sono introdotti negli uffici di una fabbrica in periferia e hanno razziato il
contenuto di una cassaforte in cui erano custoditi fondi destinati al pagamento dei salari di
oggi.
L’azienda in questione, quando la paga coincide con un giorno di chiusura delle banche, è
solita ritirare il denaro alla vigilia dei pagamenti. I malviventi erano evidentemente a
conoscenza di questo fatto, così come sapevano di potersi procurare sul posto delle fiamme
ossidriche funzionanti, visto che proprio con la fiamma ossidrica, dopo aver ridotto
all’impotenza i due occupanti del posto di guardia contiguo agli uffici, hanno perforato la
cassaforte.
I guardiani non sono stati sottoposti ad alcuna particolare sevizia. Assaliti dai due individui
a viso coperto, che hanno usato i revolver solo come manganelli, sono stati storditi, imbavagliati
e legati molto strettamente, e hanno dovuto assistere al misfatto, annebbiati, senza potersi
opporre.
I delinquenti sono fuggiti a bordo di un’auto che in seguito è stata ritrovata a. non più di un
chilometro, abbandonata ai bordi di un terreno incolto. La vettura era stata rubata il giorno
stesso.
Né sul veicolo, né sul luogo della rapina, è stato rilevato alcun elemento in grado di fornire
nuovi spunti d’indagine agli inquirenti.
Si suppone che i malviventi avessero dei complici all’interno della fabbrica. Lo testimonierebbe
la perfetta conoscenza dei luoghi e delle consuetudini della ditta. I guardiani non hanno potuto
che fornire descrizioni molto approssimative dei loro aggressori. Alla domanda se il
comportamento dei criminali ricordasse loro quello di qualche dipendente dell’azienda, la
risposta è stata negativa.
L’inchiesta prosegue, e noi ci auguriamo che possa concludersi con l’arresto degli audaci
scassinatori, tanto più che, come sembra, dovremo rassegnarci a non vedere mai rispondere dei

82
loro crimini i responsabili del fatto di sangue delle Officine Folk e degli altri episodi di sangue.
Che in mancanza di falchi ci diano almeno dei merli! E che tutti coloro che sentono la
tentazione d’imitare il sanguinario terzetto, pur senza la disumanità di quest’ultimo,
conoscano subito qual è il prezzo da pagare.
E’ inconcepibile…

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XIV. Equivoco

Fermai la macchina davanti al bar-tabacchi situato all’angolo, tre edifici prima


di quello di Gloria, ed entrai a comprare le sigarette. Ne approfittai per bere un
bicchierino. Era sempre così: ogni incontro con Gloria esigeva un leggero
doping.
Le lancette del locale segnavano le due. Erano certamente indietro: doveva
essere più tardi, almeno a giudicare, se non dal mio orologio, pure lui
capriccioso, dalla calma che regnava in strada e nel caffè. Ma, quarto d’ora più,
quarto d’ora meno, non cambiava niente. Ammettendo che Gloria avesse
pranzato a casa, avevo buone probabilità di trovarla: nel primo pomeriggio si
assentava di rado.
Dopo la famosa disputa, era la prima volta che mi recavo da lei senza
preavviso telefonico. Era così bello arrivare all’improvviso, con la sensazione di
essere attesi in qualsiasi momento…
Poco disposto a compiere manovre complicate per qualche decina di metri,
non presi l’auto e m’incamminai a piedi. Stavo per oltrepassare il portone,
quando mi sentii chiamare. Mi girai e vidi Lautier.
Sembrava più rilassato dell’ultima volta, ma la sua presenza nei paraggi non mi
riempì affatto di gioia. Aprii immediatamente le ostilità, quasi con disperazione
e sforzandomi al dileggio:
«È una troia, una pupa dispendiosa, una stronza, una puttana, e che so io
ancora…», dissi. «Solo che lei non vuole riconoscere di averla perduta, vero?».
Il mio sarcasmo sapeva di falso. Forse non era percepibile da un altro, ma io lo
coglievo. In gola mi vibrava un brutto rumore da vecchia carcassa.
«Ascolti», disse in tono contrito. «L’altro giorno mi sono lasciato prendere la
mano. Perdio!», aggiunse con lo sguardo infiammato. «Lei conosce Gloria e
pretende di volerle bene. Può dunque comprendere cosa si può provare
all’idea di perderla».
«La capisco», dissi. «Che vuole?».
«Parlarle in un luogo discreto. La gente non ha bisogno d’essere al corrente dei
nostri affari. Devo raccontarle un sacco di cose. E’ per questo che le facevo la
posta».
«Che tipo di cose?».

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Ridacchiò.
«Di tutti i tipi… Via, non faccia quella faccia. Non ho intenzione di
riprendermela. Ma vorrei chiarire qualche dettaglio con lei… La farà cornuto a
sua volta. Meglio sapere come comportarsi con il prossimo venuto».
Lo guardai più a fondo. Impossibile sbagliarsi. Sotto la sua disinvoltura, soffriva.
Immaginava che scopassi con Gloria giorno e notte, che ventiquattr’ore non
bastavano a stancarci, e ne pativa. Mi dissi che potevo accrescere il suo
tormento. Pensare alla mia esistenza lo torturava, e avermi davanti a lui
aumentava la sua pena. Conoscevo bene il meccanismo, l’avevo vissuto sulla
mia pelle. La profondità del suo dolore sarebbe diventata sempre più palpabile.
Se voleva riprendersi la sua donna, poteva farlo. Fra me e Gloria non era
accaduto nulla che potesse impedire una riconciliazione. Mi restava un’unica
soddisfazione: fingere, giocare la commedia e farlo soffrire. Sarei stato un vero
idiota a non cogliere l’occasione.
«Dove vuole andare?», gli chiesi.
E immediatamente, senza lasciargli il tempo di rispondere, lo trascinai alla
macchina.
«Potremmo cominciare a parlare lì dentro…».
«Ehi!», esclamò. «Ha ricevuto un’eredità?».
«Qualcosa del genere», dissi.
«È per questo che si è fatto intraprendente, eh?».
Non risposi. Si piazzò al mio fianco e io misi in moto. Notò la targhetta di
rame fissata al cruscotto.
«Abita in periferia?», fece in tono strano.
Per lui periferia equivaleva a campagna. Ai suoi occhi ne risultavo diminuito.
Tentai di rivalorizzarmi.
«Una villa», dissi.
«È lontano?».
«Cinque chilometri oltre il passaggio a livello». «Andiamo a casa sua», decretò.
Aveva assunto un’espressione di comando. Ero incapace di oppormi.
«Devo comunicarle cose delicate…». Sorrise.
«Spero ci sia da bere a casa sua. Agevolerà il compito». «Come vuole», dissi.
Guidavo come un automa. Pensavo ai tipi che pestavano i piedi di una donna
in autobus, si giustificavano mormorando un soave «scusi», si servivano
dell’incidente per intavolare la conversazione, e ci finivano a letto. Lautier
doveva appartenere a quella razza di cretini sicuri di se stessi e della loro
presunta superiorità. Aveva incontrato Gloria e se l’era scopazzata. Anch’io

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l’avevo incontrata, ma avevo lasciato crescere una barriera fra me e lei. Non
avevo pensato subito di farmela. Era stato qualcosa di molto più profondo. Ero
stato preso in un vortice, causato da quegli occhi pagliuzzati d’oro. Solo più
tardi avevo realizzato che naufrago miserabile fossi. Non sapevo affrontare la
vita. Ero un nichilista. Non sapevo esprimermi che tramite i latrati di piombo
della compagna
Browning. Mi aprivo un cammino insanguinato verso Gloria, eliminando
ostacoli e creandone altri per fare lo stesso. E la muraglia più temibile la
portavo nell’anima. Di colpo mi ricordai della bimba uccisa dai soldati sul
piazzale davanti alla miniera. Aveva dieci anni e mi rammentai che avevo
rimpianto quell’età. Ebbene, non avevo pure io dieci anni? Lautier mi
abbordava, diceva che voleva parlarmi, io accettavo e lui proponeva di andare
a casa mia e io obbedivo come un adolescente, un vinto perenne che batte in
ritirata davanti al frustino…
«Senta un po’…», sbottò a un tratto, «magari aveva un appuntamento. E Gloria
s’arrabbierà, e si chiederà Dio sa cosa…».
«No», dissi.
Mi esaminò con stupore, fu sul punto di parlare, si ricredette e cadde in un
mutismo che ruppe solo per articolare:
«L’ho trattata da troia. Forse non lo è. Ma non bisogna prometterle mari e
monti. Ho lavorato come un negro…».
Era innegabile che stava male. Lasciai perdere le fantasticherie, non risposi e lo
guardai soffrire. Desideravo soltanto una cosa: che si tormentasse a lungo.
Aveva avuto a disposizione Gloria per un sacco di notti, lei si era sciolta fra le
sue braccia, lui… Perdio! Lo faceva stare da bestia immaginare che un altro…
A ciascuno il suo turno. Non volevo smentirlo. Soffriva. Avrebbe sofferto
ancora. Un giorno forse avrei ripreso coscienza della mia pochezza, ma almeno
mi sarei vendicato…
Giungemmo in cima a un pendio sul quale un caffè-dancing sembrava montare
la guardia. Era piuttosto desolato, con il tendaggio a pezzi e le strutture che
reclamavano una mano di vernice. Ma i giovani si accontentavano, e molti idilli
erano sbocciati in quella cornice squallida. Dopo il bistrot, la strada continuava
fiancheggiata da campi, boschetti e discariche pubbliche. Presi a destra,
costeggiando una cava abbandonata. In lontananza, in mezzo alla foschia
dell’afa, si scorgevano i palazzi della città. Il sole ne insanguinava i vetri.
Superata la cava, imboccai l’accidentata scorciatoia.
«È piuttosto deserto da queste parti», constatò il mio passeggero.

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«Staremo più tranquilli», dissi.
I bassi rami degli alberi frustavano la carrozzeria. Gli uccelli spiccavano il volo
al nostro passaggio.
«Non ha paura, così isolato?».
«Di cosa vuole che abbia paura?».
«Non so. Ma quest’ondata di banditismo…».
Evitai di guardarlo e finsi di consacrarmi unicamente alla guida. Fui percorso
da un fremito. Vuoi vedere che questo qui… Mi ricordai improvvisamente
della presenza di Paul in casa.
«Non c’è niente da fregare nella mia baracca», dissi. «Lo immaginavo»,
ridacchiò. «Per tenersi Gloria ci vuole qualcosa…»
Non risposi.
Dopo una curva apparve una villa. Io e Paul avevamo stabilito un segnale. Tre
colpi di clacson significavano un arrivo senza intralci. Niente clacson o un
colpo solo alludevano al pericolo. Una volta sceso per aprire il cancello,
indugiai il più possibile per permettere a Paul di nascondersi. Lo stesso feci con
il garage. Lautier guardava le mie operazioni con aria scocciata-
«Senta un po’…», fece arrogante, «spero che mi riaccompagnerà in città, eh?».
«È stato lei a volermi vedere, non io», ribattei seccamente. «Potevamo andare a
discutere ovunque, e lei ha scelto casa mia. Se decido di non muovermi, dovrà
arrangiarsi. A piedi o in autobus. C’è una fermata a un chilometro da qui. Gliela
indicherò».
«Preferirei la macchina», fece pacatamente.
E si mise a ridere, con un risolino a scatti assai strano.
La porta d’ingresso era chiusa solo con un paletto, ma finsi il contrario e
armeggiai un po’ con la chiave. Entrammo. Le finestre del salotto erano
spalancate. Questa circostanza e il fatto che entrambi avevamo una sigaretta
alle labbra impedì che l’odore del tabacco lasciato da Paul fosse troppo
percepibile. Con un ampio gesto, Lautier indicò le finestre, il mobilio sommario
e il disordine della stanza.
«In effetti ha ben ragione di non temere i ladri», osservò beffardo. «Gloria è già
venuta qui?».
Non attese la mia risposta, e riattaccò:
«Evidentemente no. Lei non manca di prudenza, e questo luogo non è il nido
d’amore ideale. E’ vero anche che quando si è innamorati… Dubito tuttavia
che, nonostante la sua passione, Gloria consideri questo ambiente alla propria
altezza. È come la vettura… volevo dire la carretta. D’occasione, no? Uhm…

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un’auto usata per Gloria! Vecchio mio, la bambola merita di più. Io per
esempio, non ho mai avuto i mezzi per acquistare un’auto degna di Gloria… La
bellezza ha esigenze insospettabili, caro mio. Se ne renderà conto in fretta».
«È solo per dirmi questo che è venuto fin qui e che si sorbirà un chilometro in
mezzo alla campagna e che aspetterà non so quanto alla fermata dell’autobus?».
Abbozzò un gesto rassicurante con la mano. Parola mia, era quasi paterno.
«Oh! Ripartirò in auto», sorrise. «Sì, il mio sesto senso mi dice che ripartirò in
auto… Ma lasciamo perdere, per il momento. E cerchiamo di farci un
goccetto. Arriva o no, questa benedetta bottiglia? Non mi dirà che qui dentro
non c’è niente da bere, mi sorprenderebbe davvero».
«È a casa sua o a casa mia?», ribattei.
«E quando ti fai mia moglie dove stai?», sbottò trasformandosi di colpo.
«Troppo giusto», riconobbi con insolenza.
Una risposta come quella, formulata il più cinicamente possibile, lo avrebbe
ferito più di una giustificazione necessariamente ambigua. Mi ripromisi di
giocare al gatto con il topo.
Andai verso l’armadio a muro e presi una bottiglia e due bicchieri, non troppo
puliti. Lui tirò fuori il fazzoletto dalla tasca e spazzò il bordo del suo bicchiere
con ostentazione provocatoria. Voleva umiliarmi. In quel momento cominciai a
capire il suo gioco, e sentii nelle viscere accendersi la speranza.
Servii due dosi abbondanti di rum. Mi sedetti e inzuppai le labbra nell’alcol.
Lautier bevve in piedi. Buttò la cicca e prese un’altra sigaretta. Lo imitai.
«E adesso», suggerii, «mi consentirà di sapere quanto le sta a cuore?».
Andò su e giù per la stanza, passando e ripassando davanti alle finestre e
lanciando occhiate furtive all’esterno. «È terribilmente isolato qui», fece.
«Non mi sta dicendo niente di nuovo», brontolai. «Lo so già da parecchio. Parli
o se ne vada!».
Si avvicinò e mi si piantò davanti con aria di sfida, le mani nelle tasche dei
pantaloni, un sorriso ambiguo sulle labbra marcato dalla smorfia provocata dal
filo di fumo che saliva dalla sua sigaretta. Probabilmente stava pensando di aver
adottato un atteggiamento che, nel suo ridicolo vocabolario di piccolo
borghese decaduto, poteva qualificarsi come “cattivo”. In realtà aveva l’aspetto
di un idiota, di un povero scemo destinato a soffrire.
«Ascolta, pezzente», scandì sordamente, infiorando i suoi propositi di un gergo
inabituale. «Stammi a sentire: l’altro giorno mi sono comportato come un
imbecille. Hai avuto ragione a trattarmi male, perché lo meritavo. Ero fuori di
me, ed è stata una cazzata. Più tardi ho riflettuto. Avrei dovuto calarti le

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mutande davanti a Gloria e darti una sonora sculacciata. Non avresti detto
niente. Credo di conoscerti. Sei una merda, un poveraccio. Suppongo che tu
abbia scopato con Gloria, anche se non ne sono del tutto sicuro. Vero o falso,
per me fa lo stesso, capisci? Ma non voglio che tu persista, sia che te la porti a
letto, sia che le faccia solo un po’ il filo. La voglio per me, e la tua presenza
guasta tutto. Tieni conto, comunque, che lei si stancherebbe presto di te. Tu
non puoi darle l’esistenza cui lei aspira. Non sei in grado di garantirle
nemmeno il suo attuale tenore di vita, quello che le ho dato io. Ma non ha
importanza. Anche se ritengo probabile che fra un paio di mesi ritornerà da
me pentita e contrita, non mi va di correre il rischio. Perciò toglierò la tua
presenza dalla sua strada…».
«In che modo?».
«Così».
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni la mano destra armata di una piccola
automatica.
«Per la nostra conversazione intima avevo scelto un luogo ad hoc», continuò,
«ma tu me ne hai fornito uno ancora migliore. Qui si può ammazzare una
persona senza alcun rischio».
«La casa è stata costruita apposta per questo», dissi scoppiando in una risata
nervosa.
Perdio, che situazione ridicola! Perché dovevo sempre lamentarmi? La vita non
era solo una lunga risata, un circo gigantesco, un immenso teatro comico, una
perpetua manifestazione di un enorme umorismo?
«Che c’è da ridere?», fece, sconcertato dalla mia reazione.
«Rido perché non mi ucciderai, Lautier», dissi con la voce vibrante. «No, tu
non mi ucciderai. Di recente hai detto che non ero certo più coglione di
quanto dimostrassi, ma in realtà eri tu che credevi lo fossi. Mi hai preso per un
poveraccio e un pappa molla. Sono parole tue. E ti tormenti per la perdita di
Gloria, e vuoi spazzarmi via dalla sua vita, come hai detto, e hai deciso di
terrorizzarmi. Che diamine! Ti sbagli, ti sbagli della grossa, perché non ho
paura, la tua scacciacani non mi fa paura. Non hai mai avuto l’intenzione di
farmi fuori, ma solo di fare il duro, di spaventarmi, sperando che me la facessi
sotto e scappassi a gambe levate battendo i denti. Il fatto è che non mi fai
paura…».
«Ammettendo che non avessi pensato di eliminarti, potrebbe sempre
venirmene la voglia».
Era falso. Avrebbe già fatto fuoco. Ma non aveva sparato, e non lo avrebbe

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fatto.
«Non è così semplice ammazzare la gente», dissi. «Dapprima c’è l’atto in se
stesso, e poi le conseguenze…».
«Alcuni criminali la fanno franca per parecchio tempo prima di essere
catturati», fece.
Indovinai a cosa pensava. Assunsi un’espressione di finta inquietudine.
«Ehilà!», esclamai. «Tu… non mi dirai che tu… fai parte del famoso terzetto,
eh?».
Abbozzò un sorriso equivoco che permetteva ogni interpretazione.
L’imbecille prendeva al volo l’idea che gli mettevo sul piatto. Era la sua ultima
carta per terrorizzarmi. Solo che lo stronzo cadeva veramente male! Mi prese
un nuovo accesso di risa. Lui perse completamente il controllo. Ne approfittai
per cambiare le carte in tavola.
«È davvero troppo forte!», esclamai. «Ma lo sai chi sono io?».
Stava davanti alla tenda mezza tirata che nascondeva le scale, con l’automatica
puntata sul mio torace. Avevo colto un impercettibile scricchiolio dei gradini
sotto il passo vellutato di una pantofola. Paul, allarmato dai toni accesi della
discussione, aveva voluto controllare cosa stesse succedendo. Guardai sopra le
spalle di Lautier e distinsi nella penombra del vestibolo una figura deforme in
agguato.
«Disarma il signore», dissi. «Certe rivelazioni potrebbero renderlo furioso…».
Il gobbo superò con un balzo la distanza dal malcapitato visitatore e gli
appoggiò alle costole la canna aggressiva di un’arma spagnola di grosso calibro.
Il nastro delle munizioni si arrotolava attorno al polso di Paul come un
serpente giallo.
«Mi dia il suo giocattolo», intimò sordamente il gobbo.
Lautier si lasciò disarmare senza opporre resistenza. Era troppo livido e
stupito per poter emettere il benché minimo suono. Intanto avevo impugnato
la mia pistola.
«Chi fa paura a chi?», ironizzai.
Batté le palpebre come un uccello notturno preso nel fascio di luce di una
lampada elettrica, il suo sguardo fece un isterico zigzag tra me e Paul, per
immobilizzarsi terrorizzato su quest’ultimo, che ridacchiò.
«Le faccio impressione, eh?».
Lautier aprì la bocca. Esalò un brutto suono, il gemito di un animale agli
estremi. Paul andò prudentemente a chiudere porte e finestre.
«Adesso chiariremo un punto oscuro della storia», dissi con sarcasmo. «I

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giornali nutrono forti dubbi sull’autenticità o meno della gobba. Noi possiamo
assicurarti che è vera, Lautier. Per sfortuna di Paul, che alla sua età non si
diverte affatto a portarsi quella protuberanza sul groppo. Lui non potrebbe
permettersi Gloria. Allora deve pur prendersi il piacere come può…».
Abbandonai il tono ironico.
«Volevi farmi paura? C’è un equivoco. Ti sei gettato nella tana del lupo. Ci
lascerai la pellaccia…».
Lo afferrai per il collo e lo gettai sul divano. Sul suo viso che diventava
verdastro scorrevano goccioloni di sudore malsano.
«Ah! Volevi terrorizzarmi», ringhiai. «Il fatto che tu abbia potuto pensare di
mettermi fifa mi fa ancora più male, mi ferisce più profondamente che se
avessi veramente avuto paura. Mi prendevi per un idiota. Tutti mi prendono
per un povero idiota, e invece sono il nemico pubblico numero uno. Non lo
trovi ridicolo, estremamente ridicolo, di un umorismo incredibile? Sono io che
ho fatto fuori il padre di Gloria, perché aveva gli occhi della figlia. Non sapevo
fosse suo padre, ma la vista di quegli occhi mi ha fatto scattare il grilletto…».
La mia voce cominciava a tremare. Forse ero altrettanto agitato dell’individuo
che minacciavo. Dimenavo pericolosamente la pistola, e l’indice mi prudeva.
«Non mi uccida», fece Lautier con voce roca e forzata. «Non mi uccida. Non
dirò niente. Le lascerò Gloria. Io…».
Presi lo slancio e gli diedi un violento calcio alla tibia. Cacciò un gridolino e si
portò la mano sul punto dolorante. Gli affibbiai un altro colpo. Il mio
battitacco metallico gli lacerò la pelle delle dita. Il suo maledetto anello nuziale
gli penetrò la carne.
«Non mi uccida!», implorò.
«Ti faremo un regalino», soffiai. «Per quanto riguarda Gloria… Stammi a
sentire, credevo di essere il solo disposto a rovinare sempre tutto. Ma tu,
allora… Non ho mai fatto l’amore con Gloria. Se l’altro giorno non ti fossi
comportato in maniera così idiota, ora resteresti in vita. Dato che sospettavi
qualcosa, ti sarebbe bastato sbattermi fuori dalla porta. Senza dubbio sarei
partito senza protestare. Perché non so bene se, in ultima analisi, sono davvero
un pappa molla e un coglione. E ciò ti avrebbe evitato il fatale esito di oggi.
Ormai, però, non c’è più niente da fare».
Sembrava non mi capisse. Lo scrollai.
«Ascolta, è interessante. Non ho scopato con Gloria. Perdio! Perché non l’ho
fatto? Non lo so. A volte mi sento come paralizzato. Come nei miei sogni. Non
riesco ad analizzarmi. Impazzisco di dolore, e non sono capace di capire che

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cosa voglio. Adesso l’ho capito. Immaginavo ci fossero degli ostacoli. Sei tu,
l’ostacolo principale. Non t’avrei mai ammazzato a sangue freddo… Lo sa il
diavolo quanto ti odiavo, ma tu rappresentavi un po’ di Gloria. Oggi sei venuto
a fotterti con le tue mani, e che sia per Gloria o per il papa, devi lasciarci le
penne…».
«Non mi uccida», ripetè singhiozzando. «Io…».
Mi ero alleggerito. Ero stufo. Dovevo farla finita. Verificai il funzionamento
della pistola.
Raccogliendo ogni stilla della propria forza, Lautier rannicchiò le gambe sotto
di sé e si raggomitolò all’angolo del divano, addossato contro il muro, le braccia
penzoloni e la testa incassata nelle spalle. Le sue labbra contorte s’inumidirono
di bava.
La mano di Paul si posò sulla mia.
«Lascia che faccia io», disse il gobbo. «Ho così poche distrazioni…».
I suoi occhi riflettevano una tristezza patetica.
«Va bene», dissi.
Gli dovevo questo favore!
«Togliti di lì!», urlò con voce stridula all’indirizzo della sua vittima.
«Non mi uccida», piagnucolò l’altro.
Paul spedì due pallottole contro il muro all’altezza della testa. Si divertiva.
Avrebbe potuto far centro, ma non voleva. Lautier saltò sul divano e scappò
all’altro lato della stanza, urtando i miseri mobili che poco prima aveva deriso.
Paul tirò di nuovo, in direzione delle gambe. Lautier lanciò un urlo selvaggio,
saltellando come un capretto per evitare i colpi. C’era odore di sudore e di
polvere da sparo. Ignoro chi dei due, Lautier o Paul, puzzasse così, e se fosse
per la fifa o per il piacere. Fatto sta che l’ambiente puzzava. Finalmente la
corrida terminò. La preda prese la sua dose nelle gambe, nella schiena e nel
petto, e si accasciò con le braccia in croce.
Mi avvicinai. Aveva avuto il fatto suo, ma respirava ancora. Nel suo sguardo
velato tremolava ancora un luccichio di coscienza. Armai la pistola per il colpo
di grazia e gli ficcai due palle nell’inguine. Una reazione meccanica lo fece
balzare in piedi, e sussultò come all’apice di una masturbazione. Solo che
eiaculò sangue.

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XV. Gloria

Durante la scena, la bottiglia di rum era andata in frantumi. Ai piedi del divano,
tra le schegge di vetro, si era formata una macchia puzzolente. Quella bottiglia
non era però l’unica. Presi la sorellina dalla riserva e mi attaccai a canna per un
lungo istante prima di passarla a Paul.
Riflettei che la casa era veramente una strana baracca. Ideale per persone
superstiziose. Prima di parlare non bastava pensarci su sette volte, ma
quattordici, ventuno, mille. Era meglio starsene zitti, perché non era
precisamente fortuna quella che portavano le folli considerazioni fatte sotto
quel tetto. Gisèle si era rallegrata di essere capitata con due tipi simpatici, e
Lautier aveva sottolineato con soddisfazione la posizione isolata della casa. Era
finita male per entrambi.
«Abbiamo fatto un bel casino», constatò Paul in tono neutro, lanciando uno
sguardo intorno.
Le pareti e i mobili portavano le tracce dei proiettili, e gli insulsi quadretti
appesi ai muri, che non avevamo avuto il coraggio di togliere e buttare, erano
stati finalmente castigati. Macchie sospette punteggiavano la zona delle
evoluzioni acrobatiche di Lautier.
«Chi verrà mai a vederlo?».
«Se filiamo all’estero…».
«Conserveremo questa stamberga per ogni evenienza. Nessuno s’accorgerà
mai di niente». «D’altronde, me ne sbatto», disse.
Alzò le spalle e andò a riporre l’artiglieria. Poi s’aggirò per la stanza come
un’anima in pena.
«Che ne facciamo di questo?», domandò piantato davanti al cadavere.
«Questa notte seppelliscilo nel giardino o in cantina», dissi. «Io non posso
aiutarti… Ho da fare in città…». «Mi arrangerò da solo», assentì.
Abbozzò un passo verso la finestra come per aprirla e scacciare il dolciastro
odore di sangue che regnava nella stanza, ma cambiò idea, si sedette e
s’arrotolò una sigaretta con espressione pensierosa.
Lo lasciai in compagnia del morto, salii a fare un bagno e a cambiarmi, e mi
diressi in garage.
Esaminai l’auto sotto una luce diversa dal solito. Non era proprio una carretta,

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ma si meritava una parte dei sarcasmi del fu Lautier. Non era una Rolls.
D’altronde, inutile rompersi la crapa: non avrei mai posseduto una Rolls. Però
avevo i mezzi per procurarmi qualcosa di meglio. Solo che non potevo
cambiarla il giorno stesso. Per il momento sarebbe ancora andata bene.
Misi in moto e mi avviai in direzione della città.
Il pomeriggio stava per finire; e l’idea di non trovare Gloria mi rendeva
febbrile. Dovevo vederla. Quella notte sarebbe stata la mia notte. Mi fermai al
primo caffè che mi capitò a tiro e telefonai. C’era. Dopo qualche frase
insignificante la convinsi a uscire con me quella sera. Avremmo cenato insieme,
saremmo andati al cinema, e poi c’era un cabaret che conoscevo…
«Dio mio! Jean», scherzò, «ma tu mi prometti la bella vita!».
«Oh!», ribattei modestamente, «per una volta…».
«Allora gli affari sono andati bene questi ultimi tempi?».
«Benissimo. Ne ho fatto uno ottimo proprio questo pomeriggio. Bisogna
brindare».
Mi riferivo all’eliminazione di Lautier. Il fatto di saperlo morto mi faceva stare
molto meglio. Era stato semplice. Come avevo fatto a non pensarci prima?
Eppure avevo sempre la pistola a portata di mano. Come gli avevo confessato,
lo odiavo e l’avrei ucciso volentieri, ma esitavo per non so
quale ragione. Insomma, forse non era tanto in qualità di rivale fortunato che
l’avevo tolto di mezzo, ma per sicurezza. In ogni caso, era defunto. Solo quello
contava.
Fissai l’appuntamento con Gloria.

Appena usciti dallo spettacolo scoppiò un temporale. Fu di breve durata, ma


mi rese estremamente nervoso. Gloria voleva rientrare subito: riteneva d’essere
già stata abbastanza in mia compagnia. I suoi occhi dorati riflettevano uno
strano e indefinibile smarrimento.
«Non bisogna scordare che sono ancora sposata», disse con un leggero sorriso
sedendosi in macchina.
«Sposata!», ridacchiai. «Lui se ne frega altamente…».
Manovrai per immettermi nel traffico. La carreggiata sembrava uno specchio
sul quale i veicoli scivolavano con un soffocato stridio dei pneumatici. Le
insegne luminose lampeggiavano.
«Si tratta di capire se ti ama… Se ti amasse, non ti avrebbe offesa in quel
modo… e sarebbe già tornato a mendicare il perdono… Io non ti insulterò
mai», aggiunsi. «Con me potrai fare tutto quello che vorrai…».

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Lei posò la mano sul mio braccio. «Non parliamone più», sospirò. «Io non
t’insulterò mai…». «Riaccompagnami», disse.
Le nostre cosce si sfioravano. Tremavo un poco, come di freddo. La sua carne
mi comunicò una specie di tepore attraverso il tessuto della gonna. Mi misi una
sigaretta in bocca, ma senza accenderla. La gettai a terra quasi subito. E la
schiacciai. Volevo respirare il profumo di Gloria a pieni polmoni, approfittarne
più che potevo. Presi prima a destra e poi a sinistra, e m’infilai nel viale. Non
dicevamo niente. A volte le curve e i cambiamenti di velocità la facevano
urtare contro di me, e io inalavo il suo profumo. Era bello; non sarebbe mai
dovuto finire… oppure doveva finire subito, d’un colpo, e non se ne parlasse
più. Vidi senza emozione gli enormi fari gialli del pesante camion puntare su di
noi. Mi affascinavano come gli occhi iniettati di sangue di un mostro tanto
atteso. Solo la reazione meccanica della mano impedì il peggio. Fece tutto
l’indispensabile per evitare l’urto. Agiva in piena autonomia. Io stavo a fianco di
Gloria, e il suo profumo – o il suo odore – mi penetrava in tutti i pori. La
nostra vettura descrisse una leggera sbandata senza conseguenze e schivò di
misura lo scontro fatale. Il camion inchiodò con uno stridio prolungato dei
freni pigiati a fondo, e una bocca sdentata sormontata da un berretto spuntò
dalla cabina imprecando. Io non risposi.
«Hai avuto paura?», domandai a Gloria poco dopo. «Sì», disse.
«È colpa del pavé troppo viscido», spiegai.
Il pavé non c’entrava. Era… non lo sapevo con precisione. Morire, d’un colpo
e insieme, l’uno inzuppato nel sangue dell’altra… Ma queste cose non sono mai
state tanto semplici. Conoscevo un vecchio barbone che suonava la
fisarmonica in un bordello. Un giorno, a causa di un mucchio di storie che non
andavano per il verso giusto, si era cacciato una pallottola nel cranio. Il
proiettile si contentò di spezzare il nervo ottico, e lui sopravvisse. Adesso era
uno straccio d’uomo destinato alla notte perpetua ma attaccato alla vita, e
tollerato dall’affittacamere di un albergo a ore dove l’invalido, con le maniche
arrotolate su dei ridicoli tatuaggi aggressivi, solletico cava ogni sera il suo bolso
strumento per guadagnarsi un’incerta elemosina. No, crepare e finirla non era
così facile e… mi scossi. A che cavolo pensavo? Non dovevo più tormentarmi.
Lautier era morto. Era proprio morto, perdio! Forse era difficile abituarmi
all’idea, ma era crepato, defunto, rigido, freddato. Guardai l’orologio di bordo.
A quell’ora, dopo le diligenti attenzioni di Paul, doveva riposare al fresco nel
fondo del giardino, laggiù in periferia. E mentre la pioggia innaffiava la sua
tomba, sua moglie era vicino a me, e io volevo vivere, io… Era stata sua

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moglie, ma era finita. Più semplice di così. D’un tratto ebbi paura. Mi salì a
ondate dalle budella, mi circondò il cuore e mi serrò la gola. Cercai di
controllarmi, di guidare prudentemente, di fare attenzione agli altri veicoli e al
lastricato traditore. Abituato a bestemmiare il nome di Dio, mi sorpresi a
pronunciarlo diversamente, il che non costituiva un sacrilegio minore. Volevo
vivere, e forse ci sarei riuscito.
«Abbiamo avuto paura tutti e due», dissi. «Dobbiamo bere qualcosa per
rimetterci in sesto».
Lei sorrise, un po’ pallida sotto il trucco.
«Sempre degli eccellenti pretesti… Riaccompagnami», aggiunse con una punta
di autorità.
«Lo sto facendo, ma conosco un locale graziosissimo sulla strada, l’Iscariota
boiteux».
«Voglio rientrare».
In quel momento un nuovo temporale investì la città con i suoi fiotti fragorosi.
Non si era ancora calmato quando fermai l’auto davanti al cabaret, la cui
insegna verticale, in concorrenza con i fulmini, lanciava schiaffi di luce rossastra
e intermittente attraverso la coltre di pioggia. Un portiere in uniforme
gallonata accorse munito di un ampio ombrello.
«Solo un bicchiere, Gloria», dissi.
«Se proprio vuoi», si rassegnò alzando le spalle.
La sua occhiata piena di rimprovero mi fece rimpiangere la mia iniziativa. Fui
sul punto di mandare al diavolo il portiere, ma ormai stavo già al riparo
dell’ombrello. E all’improvviso ebbi una gran sete e aiutai Gloria a scendere
dalla vettura.
All’inizio trovai un conforto di bassa lega nell’atmosfera satinata del locale.
Prendemmo posto all’unico tavolo rimasto libero, guidati da un ossequioso
cameriere cui ordinai dello champagne. Il fumo del tabacco di qualità e i
profumi marca dell’elegante pubblico femminile mi carezzavano 1 narici. Sotto
la luce smorzata, i visi dei clienti si distinguevano male. Erano macchie incerte,
ombre che via via caricavo di odio. Tutta quella gente mi irritava. Alcune
coppie danza vano sulla minuscola pista al suono di una musica languida. Si
dimenavano, si strusciavano ritmicamente le pance. Erano bestie puzzolenti.
Non avrebbero mai amato come io ero capace di amare. Amavo Gloria; non
potevano immaginare fino a che punto amassi Gloria. Se solo l’avessero
percepito, sarebbero scappati, sarebbero andati a nascondere nelle fogne le
loro misere aspirazioni, avrebbero portato con sé l’orchestra e soprattutto il

96
violinista con la faccia da topo, e non sarebbero mai più venuti a scocciarmi,
perché io mi ripromettevo di ritornare con Paul per fare un bel tiro al bersaglio
con tutti quei fetenti e i loro ridicoli appetiti soddisfatti. Perché, perdio, ero
troppo infelice, la vita era uno schifo e non poteva continuare così, bisognava
farla finita e se…
Gesticolai, ruppi un bicchiere e mi accorsi con terrore che cominciavo a
essere ubriaco.
«Vengo subito, Gloria», dissi.
Raccolsi tutte le energie per alzarmi dignitosamente. Andai al bar e ordinai un
caffè triplo, molto forte e senza zucchero. Il barman sorrise e si mise a
manipolare i suoi apparecchi nichelati. Scesi ai gabinetti e mi sforzai di
vomitare infilandomi due dita in gola. Conoscevo le caratteristiche di una
sbornia di champagne. Bastava rimettere per essere in condizione di
ricominciare. Ma io non volevo più bere. Non volevo più fuggire. Vomitai
quanto più potei, mi bagnai la fronte con l’acqua fredda, e risalii al bar a
ingurgitare il mio mezzo litro di caffè. Poi raggiunsi Gloria con una sigaretta in
bocca.
«Andiamo», dissi.
Lei non chiedeva di meglio.
La brezza notturna carica di pioggia finì di togliermi il torpore di dosso.
Abbassai il finestrino, mi lasciai investire dalla corrente d’aria, e dopo qualche
metro ero arzillo e pimpante.
«Stavi male?», domandò Gloria.
«Non mi sentivo molto bene», ammisi. «Là dentro faceva troppo caldo».
«Sbronzo?». «No».
Lei sgranellò un risolino nervoso. «Io, invece, credo di esserlo».
«Non dire sciocchezze. Non abbiamo quasi bevuto…».
Non sapevo quanto avessimo bevuto. Avevo pagato meccanicamente il conto,
ma ignoravo il volume di liquido che la cifra rappresentava.
«Non mi credi? Toccami le mani».
«Sono calde», dissi.
«E’ la febbre. Viene la febbre quando si è ubriachi?».
«Non lo so».
«Dovresti saperlo».
Buttai la sigaretta.
«Parli come tuo marito».
«Non parlarmi più di lui».

97
«Ti ha insultato… Non t’insulterà mai più…».
Le strade erano vuote, ma andavo lentamente. La mia mano destra lasciò il
volante, mantenni la guida con la sinistra e il mio braccio s’avvolse attorno alla
spalla di Gloria. La sua testa toccò la mia.
«Non ti ama. Sennò sarebbe ritornato. E non ti avrebbe trattata così…».
«A sentirti, nessuno mi ama».
«Sì».
«E chi?».
Non risposi. Le mie dita si contrassero sulla sua spalla. Attraverso il vestito
sentivo come un fuoco. «Da quando mi ami?», domandò. «Da parecchi anni».
«E sempre di un amore così vivo?». «Aumenta di anno in anno». «Sei un tipo
straordinario, Jean». «Sono un coglione», sputai.
La sua mano sinistra cercò le dita che le premevano la spalla e le carezzò
dolcemente. «Non essere infelice, Jean».
«Non lo sono. Lo sono stato, ma ora non lo sono più». Rimasi un attimo in
silenzio, e poi:
«Ho cinque anni più di te. Quando ne avevo sedici, tu ne avevi undici. È
incredibile come faccio bene i conti. Che facevi a undici anni?».
«Non me lo ricordo», disse.
«Io mi ricordo i miei sedici anni», dissi. Per esempio, del mese di luglio, l’anno
in cui ho compiuto sedici anni, e tu ne avevi undici. Vagabondavo a piedi. A
volte prendevo il treno senza biglietto, per stanchezza e per amore del rischio.
Questo si chiama ragionare. Dormivo all’aperto. Città o campagna, io dormivo
all’aperto. Ho lavorato in una fabbrica di prodotti chimici. Guadagnavo
quindici franchi al giorno. Ero addetto al fosforo. Blocchi enormi immersi in
una vasca d’acqua, da ridurre a pezzetti servendosi di martello e scalpello. I
colpi degli utensili generavano scintille che s’infiammavano al contatto con
l’aria, e io avevo le mani e gli avambracci cosparsi di bruciature. Non mangiavo
tutti i giorni e dormivo all’aperto, e tu avevi undici anni, tesoro, eri una scolara
modello in un collegio da ragazzine di buona famiglia. Eri già elegante, radiosa,
bella come in questo momento e, chissà, magari anche provocante… Mi piace
soprattutto immaginarti a quattordici anni. A quell’età dovevi già essere
cosciente di quanto valevi. Io avevo diciannove anni e non ero nessuno. Le
mie peregrinazioni mi avevano condotto in un porto. Tu avevi quattordici
anni, i capelli rossi, belle labbra rosse, il meraviglioso colorito che hai
conservato, e la notte, mentre tu nel tuo letto morbido sognavi tranquillamente
il tuo Principe Azzurro, io bazzicavo i tuguri per marinai dove prostitute

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grassone, sozze e con l’alito pesante, si facevano scopare, per pochi soldi e su
un giaciglio cigolante e pieno di cimici, da quindici individui di seguito… ci
separava un intero universo, e nonostante ciò ci siamo incontrati, tesoro. Forse
stava scritto da qualche parte…».
Lei accentuò la pressione delle sue dita sulle mie.
«Tu non fai la corte come gli altri uomini», disse.
«Io non ti faccio la corte».
«Come chiami tutto ciò, allora?».
«Ti dico che ti amo».
«E non è farmi la corte, questo?».
«È una verità… c’è il sole, la terra, la luna, le stelle, e io ti amo… Constatare la
presenza non è corteggiare». «Sì, ma in un modo gentile». «Perché ti amo». «Sei
sempre stato molto gentile». «È vero?». «Sì».
«Davvero?». «Ma sì».
Fermai la macchina e accostai le mie labbra a quelle di Gloria. Una pioggia
sottile martellava il tetto dell’auto, ritmando le prime note della Cucaracha che
rimbombavano nel mio cervello.
«Baciami», implorai, «baciami… chiedimi se mi hanno fatto del male, come il
giorno in cui ci siamo visti per la prima volta, chiedimi se mi hanno fatto del
male tutti quelli che non sono noi due. Baciami e fammi male…».
Lei ritrasse le labbra.
«No», sospirò.
Le sue dita roventi continuavano a stringere le mie.
«Baciami, cucaracha. Aspetto questo momento da quando sono nato. Sono
venuto al mondo per assaporare questo istante. Ci separava un intero universo,
e nonostante ciò ci siamo incontrati».
Lei si raggomitolò contro di me. Sentivo battere il suo cuore. Il mio gli faceva
eco tumultuosamente.
«Baciami, tesoro».
«No. Dopo non mi ameresti più».
«Ti piace che ti ami?».
«Sì, amore». (Abbassò la testa. Era tenera e timida). «Ma è così bello essere
come siamo ora. Dopo non mi ameresti più…».
«Ti amerò sempre. Non puoi sapere quanto ti amo. Ti amo come nessun altro
ti amerà mai. Non so come devo dirtelo: ti amo. Non abbiamo a disposizione
che queste parole, che sono state usate e strausate, e che sono state
pronunciate da labbra impure e grondanti di menzogne. Ma se ti dico che ti

99
amo e che ti amerò per sempre, è la pura verità, anche se lo dico con queste
povere parole…».
«Amore!».
Si abbandonò. Colsi le sue labbra come un frutto delizioso e lo divorai
affamato, e lei balbettò frasi indistinte e io dissi più volte «amore mio» come un
lamento. E poi tutto si sconvolse e il mondo si trasformò meravigliosamente.
Mi misi a gemere e a sospirare, fu come se mi dilaniassero le reni con un
coltello, soffocai un grido d’intensa felicità e, in un grande cataclisma, un
sommovimento di terra, d’acqua, di fuoco, di cielo e d’inferno, il mio seme si
sparse in fiotto torrentizio, un delizioso Niagara, portando con sé, in un vento
d’agonia voluttuosa, tutta la mia cattiveria e il mio odio, la mia ignominia e i
miei pensieri più sporchi, e mi sentii puro, buono, affettuoso e dolce, disarmato
e sensibile, e mi dissi che non era possibile che fossi stato così crudele, che era
così piacevole essere buono e tenero, e posai la testa contro la testa del mio
amore, mi persi fra i suoi capelli rossi, le baciai il lobo dell’orecchio e poi lo
morsi e unii il mio corpo al suo e singhiozzai dolcemente cucaracha mia, luce
mia, oro dei mie occhi, la mia vita nei tuoi occhi, i tuoi seni, il tuo ventre, il tuo
sesso, carne mia, seta e raso, figlia mia, amore mio, donna mia, inizio e fine,
mia…

100
XVI. Notte

L’indomani affittai un piccolo appartamento ammobiliato nel quale ospitare il


nostro amore. Questa soluzione conveniva perfettamente a entrambi. Gloria
aveva notato la targhetta fissata sul cruscotto della vettura, ma le descrissi così
sfavorevolmente la periferia dove abitavo, che non ebbe alcuna voglia di venire
a vedere.
Il giorno stesso, con un pretesto qualsiasi, trovai il modo di recarmi alla villa.
Paul era di una tetraggine abissale. Aveva svolto alla perfezione la funzione di
becchino, e pareva averne conservato qualcosa nell’espressione. Gli fornii
nuovi motivi più o meno validi per giustificare le mie future assenze
prolungate, e lui non si preoccupò neppure di sapere come avrebbe mangiato
durante tutto questo tempo. Sembrava indifferente a tutto, salvo alla riserva di
liquori che consumava coscienziosamente. Gli dissi che le pratiche relative al
passaggio della frontiera procedevano bene. In realtà non era vero: non avevo
fatto assolutamente niente. Non avevo mai avuto l’intenzione di partire, e in
fondo me ne fregavo del gobbo e di Albert, che dilapidava tranquillamente la
sua fortuna in cinema, ristoranti e donne a buon mercato.
Per qualche giorno fui felice.
Mi trasferii ufficialmente nel nuovo appartamento, e Gloria mi raggiungeva lì.
Da parte sua non c’era alcuna novità. Lautier, per ovvie ragioni, continuava a
non dar segni di vita, e le allusioni di Gloria al suo riguardo diventavano via via
più brevi e saltuarie.

Gloria oziava sul divano. Mi mostrò un giornale che stava leggendo


distrattamente.
«Si dice che tutti abbiamo un sosia», fece. «Questa donna mi rassomiglia».
Presi la rivista. Era «Gazette-Dimanche», un settimanale specializzato in fatti di
cronaca nera. La foto di una donna effettivamente somigliante a Gloria si
stagliava sulla pagina corollario di un articolo. Il titolo in grassetto mi colpì.
Lessi a mezza voce:

L’assassinio della prostituta Irma Rouc porterà gli inquirenti sulla pista dei gangster finora
impuniti? Le indiscrezioni di «Gazette-Dimanche»…

101
«Si tratta ancora di quei banditi?», chiese Gloria. L’articolo diceva:
I nostri lettori ricorderanno che qualche giorno fa, in una camera d’albergo dove aveva portato
un cliente occasionale, fu scoperto il cadavere della prostituta Irma Rouc. Il caso che appariva
banale, sembra invece riservare delle sorprese. Siamo in grado di riferire, senza timore di
smentite, che fra i soldi trovati sulla vittima figura un biglietto di banca proveniente dalla paga
degli operai delle Officine Folk. Fino a ora il ritrovamento era stato tenuto segreto dalla
polizia.
Non ci sarebbe da stupirsi se la donna fosse stata una complice dei malviventi, e le indagini
sono indirizzate in tal senso.
Ma potrebbe anche essere che Irma Rouc abbia ricevuto la banconota come compenso dei suoi
favori dalle mani del suo assassino. In questo caso l’assassino sarebbe verosimilmente lo stesso
omicida della banda.
Si pone una domanda: quale ragione aveva il killer per sopprimere la donna? I suoi
precedenti comportamenti, caratterizzati da una ferocia sanguinaria, lasciano supporre che ci
si trovi in presenza di un folle omicida.
Uno dei nostri redattori ha avuto la possibilità di intervistare una “collega” di Irma Rouc,
tale Marie X, di cui pubblichiamo la foto. Questa donna, che conosceva la vittima, si
domanda oggi se per caso non conoscesse anche il criminale. Parecchi mesi fa, quando lavorava
in una casa chiusa, le capitò una disavventura senza precedenti. Un cliente ubriaco aveva
tentato di strangolarla mentre erano da soli in una camera. Lei si era dibattuta e il tipo era
scappato di corsa. L’incidente aveva destato grande emozione nell’edificio in questione, dove si
era atteso invano il ritorno del pericoloso cliente per prenderlo in trappola. Condividendo, nella
fattispecie, l’opinione espressa da Marie X, riteniamo che il suo pericoloso partner e
l’assassino di Irma Rouc siano la stessa persona. Marie X non può che fornirci una
descrizione molto imprecisa dell’uomo: «Simile agli altri e dall’aspetto addirittura più affabile,
mi sono molto meravigliata del suo modo di fare. Malgrado la sbronza, nulla lasciava
supporre simili istinti omicidi…». Alla nostra domanda: «Nulla di particolare?», la
testimone, pur rispondendo «no», ammette tuttavia che esistono delle somiglianze segnaletiche
fra il suo cliente e il bandito delle Officine Folk e degli altri misfatti. Si tratterebbe dunque…

Ripiegai il giornale. «Che storia!».


«Sono davvero dei pazzi!», fece Gloria. «Non si sa», dissi.
«Comunque sia, questa ragazza mi assomiglia…». Emise un risolino forzato. «…
Le mie sosia vivono in begli ambienti!». «Sì, ti assomiglia».
Non poteva immaginare come quella ragazza le somigliasse effettivamente. Era
stato molto tempo fa. Non avevo ancora deciso di abbracciare l’illegalità. Mi
ero scordato del fatto, ma adesso rivivevo la scena come allora. Quella sera.

102
Gloria, suo marito e io avevamo cenato insieme. Li avevo lasciati verso
mezzanotte. Nel corso della cena avevo alzato il gomito con il vino. Una volta
fuori, avevo continuato a bere nei locali in cui mi ero imbattuto per caso lungo
il cammino. Poi, mezzo incosciente, ero finito in quel bordello animato dalla
fisarmonica del cieco ex barbone di cui ho già parlato. Capitava sovente dopo
aver visto Gloria: dovevo andare da qualche puttana, toccarla e palpeggiarla.
Era il postribolo più ignobile e pittoresco della città, sia per quanto concerne la
clientela che il personale, squallido e deprimente. Sui sedili in finta pelle
screpolata giacevano cinesi pensosi, arabi taciturni, tutta una folla di solitari, di
malfattori e di spiantati, fratelli e sorelle del dolore, che restavano ore e ore
davanti a una birra fredda a guardare le evoluzioni di ragazze dal fascino in
disfacimento. Le tariffe modeste causavano un’incessante fila sulla stretta scala
dai gradini disuguali. Ma molti, più miserabili di quanto dovrebbe essere
permesso, s’accontentavano dello spettacolo. Si eccitavano parossisticamente
con le forme avvizzite delle sacerdotesse del luogo, poi uscivano con fare
goffo per abbandonarsi al piacere solitario in una via vicina, in qualche angolo
già irrorato dalle pisciate dei cani. Nel bordello regnava un baccano
spaventoso. La tenutaria del casino urlava inviti volgari per incutere ardore agli
incerti, e il suo grido era ripreso dal bestiame umano che andava e veniva fra
gli sgangherati maschi in calore, mentre la fisarmonica miagolava un ritornello
penoso, e un tipo troppo scuro cantava e si dava arie da cattivo, per farsi subito
espellere a sonori colpi di pugni da colossi usciti Dio sa da dove. Quella notte i
presenti non avevano occhi che per una nuova ragazza che si distingueva
nettamente dal mucchio. Come la vidi, barcollai.
Rassomigliava in modo impressionante a Gloria. Doveva avere la stessa età, e
non era ancora troppo segnata dal vizio. Le feci un cenno e, una volta di sopra,
la chiamai mentalmente Gloria. Per me divenne Gloria, e pensai che nello
stesso istante la vera Gloria si stava sciogliendo fra le braccia di un altro, e che
io stavo lì con un simulacro. La sbronza mi fece perdere il controllo di me
stesso e cominciai a stringere il collo della donna per punirla della
rassomiglianza con Gloria, o forse più semplicemente perché credevo di essere
davvero con Gloria…
Ma non avevo ucciso Marie. Era troppo simile a Gloria perché il furore che
provavo non si stemperasse nell’impossibilità di farle del male. Era stato un
miscuglio di sentimenti complessi. L’assassinio di Irma era stato un’altra cosa.
Ma Irma non assomigliava a nessuno, se non a se stessa, e poi aveva riso. Marie
no. La mia azione si sosteneva su motivi differenti in un caso e nell’altro… era

103
stato comunque maldestro adescarla con la trappola del cuscino e una
banconota dai numeri registrati. Avrei dovuto conservare il sangue freddo e,
dopo averla eliminata, riprendermela. Ma non avevo prestato alcuna attenzione
al biglietto. Ormai era fatta, e non era il caso di tornarci su. D’altronde, non era
la storia del biglietto, quel malaugurato indizio, che mi preoccupava. Era la
ragione per cui avevo ammazzato Irma. L’avevo fatto perché aveva riso…
Guardai Gloria.
Rideva anche lei, senza che me ne accorgessi? L’amavo così tanto, ero così
felice di averla per me, cadevo a ogni abbraccio in un così meraviglioso abisso
d’incoscienza, che non avevo pensato di osservarla. Mi stava solo sopportando,
e nient’altro?

«Gloria!».
Sulle sue palpebre chiuse e scure si disegnò una traccia di felicità. Le sue narici
fremettero. La sua bocca si socchiuse sui denti scintillanti da cui non potevo
distogliere lo sguardo, emise un sospiro di piacere e tutto il suo corpo vibrò
prima di rilassarsi dolcemente. Bevvi alle sue labbra qualcosa di freddo, ma
questo freddo era la vita stessa, e le sue dita dalle unghie smaltate si contrassero
sulla mia schiena, penetrarono la mia carne, tutta languida e gemente. Dalla
testa ai piedi, dal cuore al sesso, non era che un grande sospiro d’amore. «Sei
felice, Gloria?».
La mia voce aveva un suono strano. Era idiota parlare. Lei aprì gli occhi, i suoi
begli occhi dalle pagliuzze dorate, che in quel momento sembravano lingotti.
Cercò la mia mano e la strinse, sorrise in silenzio, e poi le palpebre si
abbassarono di nuovo.
Mi raddrizzai, un po’ ridicolo nella mia scompostezza. Il seno di Gloria si
sollevava. Con gli occhi ancora chiusi, il suo viso si distendeva. La guardai per
un momento, e bruscamente il velo nero del dubbio mi appannò la vista. Mi
presi la testa con le due mani e mi rifugiai nella stanza attigua. Sopra un mobile
c’era una bottiglia d’alcol. Ne ingurgitai un’abbondante sorsata. Un po’ di
liquido mi colò sul mento.
Una commediante bastarda! Tutte vacche e puttane, e Gloria come le altre.

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XVII. Lutto

Dalla finestra dell’appartamento fissavo l’ultimo piano della casa di fronte e il


suo tetto ricoperto di zinco, dove un gatto veniva spesso ad appisolarsi
all’ombra di un camino. Un vaso di fiori ornava il davanzale di una finestra e,
quando il vento soffiava come oggi, restavo per ore a fissarlo aspettandone la
caduta. Spiavo pure il gatto. Nel sonno avrebbe potuto fare un movimento
falso, e rotolare senza rendersene conto. Chinandomi vedevo la gente passare
per strada, sette piani più in basso. Calcolavo le possibilità che qualcuno
ricevesse il vaso di fiori in testa. Mi chiedevo pure se il felino avrebbe avuto il
tempo di girarsi e cadere sulle zampe, e se, pure nelle condizioni più favorevoli,
se la sarebbe cavata senza danni.
Gloria si avvicinò e mi tolse dalle labbra la sigaretta che stavo meccanicamente
fumando.
«Che fai?», domandò.
«Non lo so».
Fece due rapidi tiri e mi restituì la sigaretta, con l’impronta del rossetto
all’estremità. La presi e la tenni fra le dita. «Qualche grattacapo?». Sapeva pure
fingersi preoccupata.
Il vento muoveva la pianta nel vaso di fiori, ma non il vaso. Il gatto si stirò. La
brace del tabacco mi scottò le dita. Gettai il mozzicone.
«Non ti senti bene?». «Non so».
«Non hai l’aria d’essere in forma».
«In effetti non sto molto bene», dissi per farla finita.
Non ricordo che frase pronunciò allora lei. In ogni caso ci stava la parola
dottore, il che mi fece ridere.
«Dottore? Non esiste un medico per…».
M’interruppi. Resterò un eterno beffato, e il vaso di fiori non cadrà mai e il
gatto manterrà sempre l’equilibrio.
«Per…?», domandò.
L’attirai contro di me. Ero incerto fra il desiderio di picchiarla e quello di
stringerla.
«Scusami», dissi. «Ho il magone. Vicino a te non dovrei averlo, ma ce l’ho. E
non esiste un medico che possa guarire dal magone».

105
«Ma sì, invece, tesoro».
Afferrai il cappello.
«Usciamo», proposi. «Una passeggiata mi farà bene». Trascinai Gloria di bar in
bar, e mi presi una bella sbornia.

Qualche giorno dopo Gloria mi disse che la sera avrebbe cenato a casa di una
sua amica, o di un’amica di famiglia, non ricordo, incontrata per caso. Se volevo
avrei potuto accompagnarla, senza paura di disturbare nessuno. Ripetè che la
signora Clapas era una sua vecchia amica. E aggiunse stranamente che il marito
era di idee aperte e moderne: il nostro legame, se lo avesse indovinato, non lo
avrebbe affatto scandalizzato. Era uno psicanalista, o qualcosa del genere.
Ebbi la sensazione che non fosse stato proprio un caso l’incontro di Gloria
con la sua vecchia conoscenza. Ritenni al contrario che si trattasse di una
mossa organizzata: non saremmo andati da queste persone solo per dividere il
pane dell’amicizia.
Guardai Gloria a lungo.
Non ero mai stato così infelice e alla deriva. Non capivo il suo modo di fare,
non sapevo più cosa pensare. Pur prendendosi gioco di me, mi concedeva un
po’ di pietà? Ma lei doveva ben sapere, meglio di me e di chiunque altro, che la
pietà era inutile. E allora? Che genere di aiuto intendeva darmi trascinandomi
da quel ciarlatano?
Ciarlatano? Magari non del tutto…
Ero stato sul punto di rifiutare l’invito di Gloria, di piantarla in asso, lei e tutta
quella ridicola messinscena, ma d’improvviso non mi spiacque l’idea di
affrontare quell’uomo. La prospettiva mi provocava pure una vaga
soddisfazione…
«Verrò con te», dissi senza aggiungere altro.

Nell’anticamera del dottore troneggiava un’immensa foto che rappresentava


un personaggio molto dignitoso, il gilet attraversato da una borghese catenella
di orologio, il mento ornato da una corta barba bianca e il volto dai tratti
gradevoli, pieni di dolcezza: il ritratto del maestro di cui Clapas era soltanto
l’umile discepolo. Tale era il mio stato d’animo, avido di sostegno, che la vista
dell’immagine di quell’uomo grave, da cui emanava una comprensiva bontà, mi
riempì di conforto.
Questa impressione determinò una predisposizione favorevole alla conoscenza
dei padroni di casa. La signora Clapas era molto affabile, e i suoi capelli

106
argentati testimoniavano eloquentemente che doveva essere stata amica dei
genitori di Gloria prima di diventarlo di quest’ultima. Anche il marito doveva
avere una cinquantina d’anni. Per darsi un contegno ancor più serio e per
imitare il suo illustre maestro, portava pure lui la barba, però a punta. L’effetto
che aveva era di mitigare un che di malizioso presente nei suoi occhi
indagatori, nascosti da occhiali con una fine montatura d’argento.
Simpatizzammo immediatamente, e quando, mentre stavamo fumando un
sigaro, orientò astutamente la conversazione su quei «tormenti interiori» di cui
era esperto, non esitai più.
Spinto forse anche dal vino, gli sollecitai di mia propria iniziativa un
appuntamento. Il primo fu fissato per l’indomani.

All’ora stabilita, quando mi ritrovai in presenza di quell’uomo, non riuscii a


impedirmi di ridere. Mi ero prestato a quella commedia solo perché ero
ubriaco?
Dapprima mi chiese di che cosa soffrissi, ed io gli risposi che non ne sapevo
niente. In realtà lo sapevo, ma non volevo dirglielo. Quest’uomo non poteva
curarmi più di chiunque altro. Non si può pretendere che un ragazzino di
cinque anni possa misurarsi con successo con un pugile campione del mondo
dei pesi massimi, o che un individuo senza gambe possa battere il record dei
1500 metri. Tutto il sapere di questo personaggio non poteva nulla per favorire
il ragazzino di cinque anni o l’individuo senza gambe, ma mi divertiva lasciarlo
tentare. Avevo letto parecchi articoli sulle teorie che professava, e senza
dubbio mi avrebbe posto un mucchio di domande sui miei sogni, i miei ricordi
d’infanzia e compagnia bella. Magari mi avrebbe dato sollievo raccontare di
questo e di quello. Certo era ridicolo, ma almeno durante le mie confessioni
non avrei pensato ad altro.
Procedette come mi aspettavo. Dopo avermi riferito d’aver saputo da Mme
Lautier che ero un po’ nevrastenico, e avermi ascoltato rispondere che non ne
sapevo niente ma che poteva esser vero, m’invitò a parlargli di me. E si piazzò
in un angolo dello studio, arrotolandosi delle sigarette, però attentissimo alle
mie parole.
Mi piaceva raccontarmi. In questa merda di vita ne avevo viste troppe per non
desiderare di far comprendere agli altri, tramite la violenza, che un giorno
avrebbero dovuto pagare salata la loro felicità a tutti quelli che non l’avevano
conosciuta. Gli feci la descrizione dei miei vagabondaggi.
«Quanti anni aveva?».

107
«Quindici. E lei ne aveva dieci».
«A chi si riferisce?». Mi ripresi: «A nessuno». «Continui», disse senza insistere.
Rimasi zitto.
«Lei aveva quindici anni», disse. «Orfano?».
«Sì, a quattro anni. Di padre e di madre. Sono stato educato dal nonno. Si è
dissanguato per me. A quindici anni l’ho abbandonato».
«Perché?».
«Così. Volevo vivere nella capitale». «E che differenza c’era tra casa sua e la
capitale?». «A casa mangiavo a sazietà. Nella capitale, no». «Strano motivo! E c’è
rimasto?».
«Qualche mese. Poi sono partito per altre grandi città, e sono ritornato e
ripartito di nuovo. Ho fatto di tutto un po’ ovunque. Ma non mi trattenevo
mai a lungo nello stesso posto. Si trattava sempre di lavori umili, faticosi e mal
pagati».
«Aveva quattro anni quando è morta sua madre?».
«Sì».
«Si ricorda di lei?».
«Non mi parli di donne morte», protestai. «Mi perseguitano senza tregua. Da
ragazzo pensavo che non avrei mai osato avvicinare una donna e ancor meno
far l’amore con lei… Allora ho riflettuto che l’ideale sarebbe stato avere una
bella morta a disposizione. Da quel momento, d’altronde, frequento volentieri i
cimiteri. Io stesso sono un cimitero. Ho la sensazione di portare un lutto
universale…».
«Più probabilmente il lutto di sua madre».
«No, sono altre morte, che si vendicano. Sono andato a letto solo con donne
morte. Non morte vere, ma finte. I fantasmi dei miei sogni o le donne che
rimangono inerti sotto le mie carezze. È di questo che soffro: mi sento
incapace di far godere. È strano! Quando la mia timidezza mi faceva desiderare
le morte, non pensavo che a godere da solo. Oggi che vorrei condividere le
mie estasi, non ne sono capace. Sono le morte che si vendicano. Le vedo,
allineate in una tomba cupa, vestite di lunghi camici bianchi, con le rose fra le
dita e un diadema intorno ai capelli. Riposano su blocchi di marmo, perché la
pietra tombale sta sottoterra, non sopra. Anna…».
Perché mi rammentavo di Anna? Il suo ricordo sbucò bruscamente dall’intimo
della mia memoria.
«…Avevo sei anni, e Anna dodici. Successe in campagna. Lei mi trascinò in un
campo vicino casa sua. C’era una buca profonda. Mi ci fece stendere. Sento

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ancora l’odore della buca, un odore di terra smossa e bagnata, e piena di
lumache tranciate dalla vanga. Una buca? No, una tomba. Ancora una tomba.
Anna era viva e il morto ero io. E quando ho cominciato a vivere a mia volta,
non ho trafficato che con donne morte, prostitute o pseudoamanti ipocrite. E
poi quella che ho amato più di ogni altra, e che era inaccessibile, cioè la morta
per eccellenza, che è diventata ancora più morta quando infine l’ho posseduta:
Gloria».
«Mme Lautier?».
Ebbi l’impressione di emergere da un sogno.
«Mi sono lasciato andare, eh?», ridacchiai. «Sì, Mme Lautier. Il marito se n’è
andato, e io ci vado a letto», soggiunsi con un volgare sollievo. «Non lo
sapeva?».
«Lo sospettavo», sorrise il medico. «Vediamo, vediamo…».
Si lisciò la barba.
«Una donna come Gloria, che sembra innamorata di lei…». «Da cosa si
riconosce che una donna ci ama?». «Mio Dio! C’è un atto assai inequivocabile».
«Anche le puttane compiono quest’atto. Eppure non amano i loro clienti».
«Sono donne a pagamento».
«E le altre? Le si porta al cinema, si regala loro un cappellino o un profumo. Si
tratta sempre di prostituzione e di commercio».
«Lei parla come un anarchico». «Possibile. Ho frequentato anche
quell’ambiente. Mi sono dovuto credere anche anarchico». «Che cosa
l’attirava?».
«Si ribellavano a un mucchio di cose che, lo percepivo confusamente, mi
opprimevano». «E per sostituirle con che cosa?». «Non me ne sono mai
interessato». «Lei è un nichilista», sorrise.
«Non precisamente», protestai. «Certo, la vita è uno schifo, ma si dovrebbe
poterla cambiare. E’ possibile?».
«Non lo so», disse. «Ma così come si presenta, nella sua imperfezione, ha pure
dei lati buoni. Lo ammette lei stesso, quando si tortura per non riuscire a dare
piacere».
«È appunto il mio dramma».
Mi fece altre domande e risposi docilmente. Non avevo più voglia di fare il
furbo. Quel barbuto era il solo essere al mondo in grado di comprendere la
mia angoscia.
«Molto bene», disse fregandosi le mani. «Per oggi basta. Lei è un caso
interessante. Comincio a distinguere l’origine e i prolungamenti della sua

109
nevrosi, anche se molti punti restano oscuri. Ma non si può pretendere di
decifrarli in una sola seduta. Però ci riusciremo, amico mio, ci riusciremo, e lei
smetterà di ritenersi non so che vittima maledetta. Dal punto di vista fisico lei è
come tutti, salvo… Posso parlarle francamente, vero? Lei è una persona
intelligente, e non s’offenderà. Ebbene! È lì dentro)…».
Mi picchiettò paternamente in fronte
«…che s’annida l’inghippo. Se le dicessi che a mezzogiorno brilla il sole, tranne
evidentemente quando piove, lei non mi crederebbe, eppure s j tratta di una
verità riconosciuta. Il mio compito consiste nel ridarle la vista, una chiara e sana
visione delle cose. Ci riuscirò…».
«C’è stato chi ha riso di me», azzardai.
«Chi?».
Non potevo menzionare Irma Rouc.
«Non so», dissi. «Suppongo…»-
Mi diede un’amichevole pacca sulla schiena.
«Lei suppone troppo. Lei è un immaginativo, parecchio perseguitato e un
tantino masochista. Un caso molto interessante, che sarò ben contento di
curare».
Lasciammo lo studio e passammo in una stanza attigua dove Gloria, che mi
aveva accompagnato, chiacchierava con la moglie del dottore. Tutti e quattro
scambiammo qualche parola per alcuni minuti, e poi io e Gloria ce ne
andammo.
Quell’uomo mi aveva sollevato, e forse avrei potuto cominciare a prendere la
vita in un altro modo, se non ci fossero stati tutti i miei atti recenti, quei
cadaveri che mi trascinavo dietro e che oggi mi pesavano, quei morti che
potevano unirsi alle mie famose morte e fare dei figli, in modo da completare il
lugubre corteo.
La Morte, sempre la Morte!
Avevo detto al dottore che ero un vero e proprio cimitero. Effettivamente
non potevo qualificarmi meglio. Lui aveva ribattuto che portavo il lutto di mia
madre. Invece portavo il mio proprio lutto, e non solo da ieri. E lo portavo
senza una valida ragione, non era che il frutto di folli fantasticherie, dato che il
barbuto me lo certificava… anche se…
Nonostante i dubbi, passai una notte deliziosa con Gloria.
L’ultima, poiché l’indomani tutto mi crollò addosso.

La seduta era appena iniziata. Le porte che ci separavano da Gloria e dalla

110
moglie del dottore si erano appena chiuse al cicaleccio delle due donne. Io non
mi ero ancora immerso in quella specie di stato così propizio alla confessione.
Stavo raccontando i miei sogni, ma senza interessarmi più di tanto a quanto
dicevo. Attraverso la finestra aperta sul giardinetto guardavo l’unico albero,
circondato da un cespuglio di fiori che lo adornava. Il dottor Clapas abitava in
una via tranquilla, che improvvisamente si trasformò in una baraonda mai vista.
Infastidito il medico aggrottò le sopracciglia, si alzò e andò a chiudere la
finestra. Anch’io abbandonai la sedia. Avevo riconosciuto la voce arrochita
degli strilloni urlare «Edizione straordinaria», e mi era sembrato di cogliere un
paio di parole sospette. Così, nonostante le stupite proteste di Clapas, riaprii la
finestra che lui aveva appena chiuso e tesi l’orecchio. Un venditore di giornali si
era fermato proprio lì di fronte per consegnare una copia a un cliente, senza
tuttavia smettere di sgolarsi col suo titolo sensazionale. Intesi, come in mezzo a
un rumore di tuoni:
«Cattura del gobbo della banda sanguinaria!».
«Ancora quei gangster», commentò il medico.
«Sì», feci.
«Speriamo almeno che sia l’ultima volta che si parla di loro…».
Richiusi la finestra, indeciso sul da farsi. Dovevo avere un aspetto bizzarro,
perché il dottore mi chiese se mi sentivo male. Risposi vagamente.
«Mi dica», ridacchiai, «quei tizi, gli assassini, dovrebbero costituire per voi
psichiatri un prezioso materiale d’esame, no?».
Mi lanciò una strana occhiata dietro gli occhiali. Intuiva che si stava profilando
una situazione eccezionale e che, dal punto di vista criminale e magari pure
psicanalitico, eravamo sulla soglia di drammatiche rivelazioni? Mi sospettava?
Non ebbi il tempo di saperlo. La sua barba tremolò, stava per parlare, ma il
rumore di una porta che si apriva gli bloccò la parola e mi fece voltare di
scatto. Gloria, seguita dalla padrona di casa, fece irruzione nello studio.
Scapigliata, sconvolta, con gli occhi folgoranti, più bella che mai, spiegazzava
un giornale fra le mani.
«Tu!», urlò.
Il grido esprimeva di tutto. Un completo campionario di sentimenti diversi.
Angoscia, orrore, paura e ostilità. Lei sapeva! Mi ritrovai in un attimo con la
rivoltella in pugno come se mi fosse scivolata dalla manica nell’incavo della
mano. Mi addossai al muro, al riparo da ogni sorpresa.
«Filate tutti lì», ordinai sordamente, indicando l’angolo più lontano. «In fretta e
senza fiatare, perché sono io il simpatico assassino numero uno, e questo è un

111
giocattolo detonante che non si è espresso da tanto e che potrebbe lasciarsi
andare…».
Si pietrificarono. Con tutta probabilità, Gloria doveva sapere come stavano le
cose dalla lettura del giornale, e il dottore, dal canto suo, doveva essersi
sufficientemente schiarito le idee. Ma la moglie, che forse aveva seguito Gloria
solo perché stupita dal suo comportamento, non si capacitava del mio brutale
ricevimento. Perse i sensi con un gridolino sottile. Il marito esitò, poi accennò
a soccorrerla.
«Lasci perdere, dottore», dissi. «Perdio! Ficcatevi in quell’angolo, e di corsa! E
mani in alto fino a nuovo ordine!».
Lui obbedì, così come Gloria, che lasciò cadere il giornale sulla gamba
magrolina della donna svenuta.
M’inebriavo nel vedere Gloria indietreggiare sotto la mia minaccia. Una
smorfia le schiuse le labbra senza imbruttirla, e i denti scintillarono come
qualcosa di meravigliosamente pericoloso dentro un frutto maturo. I seni,
orgogliosamente tesi per la posizione delle braccia, lanciavano una sfida
insolente alla mia misera condizione. Non mi ricordavo se avevo sognato che
un giorno avesse detto «si gonfiano», o se l’aveva detto davvero, o se l’avevo
detto io per lei…
Mantenendoli sempre sotto tiro, passai dietro la scrivania e controllai i cassetti
alla ricerca di un eventuale arsenale. Poi strappai i fili del telefono e scagliai
l’apparecchio a quel paese.
«Potete abbassare le braccia. Ma ricordatevi che al minimo gesto sospetto vi
faccio fuori…».
Indicai loro un tavolo sgombro, fiancheggiato da due sedie: «Sedetevi lì e
posate le mani sul tavolo!». Eseguirono. Io raccolsi il giornale e lo aprii davanti
a Gloria.
«Leggimi quanto sta scritto».
Lei mi lanciò uno sguardo disperato, fece uno sforzo, prese il giornale fra le
mani e cominciò a leggere con voce stridula. Accesi una sigaretta e ascoltai
avidamente. Il dottore non era meno attento.
Il demone dello scoop a ogni costo spingeva il giornale a divulgare cose che la
polizia certamente avrebbe desiderato mantenere segrete. Io comunque non
avrei protestato. Paul era in mano agli sbirri dal mattino. Non per merito del
loro fiuto. Quel maiale di un gobbo si era consegnato in un accesso di angoscia.
Avevo percepito che dopo l’eliminazione di Gisèle se ne fregava di tutto, ma,
da egoista imbecille qual ero, non avevo dato troppa importanza alla cosa.

112
Insomma, disperato senza più nulla da perdere, non fosse altro per vendicarsi
di chi l’aveva spinto a uccidere la sua amante, questo dannato porco di lurido
storpio stava raccontando tutto quello che avevamo fatto. Denunciava a
casaccio Albert, Christ, tutti i complici dei nostri inizi, e si accaniva
specialmente su di me, affibbiandomi l’assassinio di Gisèle – cosa che in fin dei
conti non era del tutto inesatta – e non dimenticando di mettere nella lista
Marcel e Lautier. Paul doveva odiarmi profondamente, di un buon odio
ingrassato. Lo capivo, e poi, perdio, un giorno o l’altro non doveva finire così?

Il giornale riferiva che ero attivamente ricercato e che la ricompensa per la mia
cattura, vivo o morto, era raddoppiata. Un paragrafo – che Gloria lesse con
emozione cresciuta -citava la parentela Lebas-Lautier.
Riflettei che era stata una fortuna che Gloria non fosse ritornata a casa dal
giorno prima. Oggi il suo palazzo doveva formicolare di poliziotti. Comunque,
la tregua di cui potevo usufruire prima del salto finale non doveva superare
qualche giorno, se non qualche ora.
«E allora, dottore?», ridacchiai. «Che ne pensa del suo paziente? E’ un
bell’esemplare per un esperto della sua reputazione? Presumo sarà stato
incaricato spesso dell’analisi di criminali, ma lei li ha incontrati solamente fra
quattro mura, già resi inermi, mentre io… Io sono qui, ancora libero. I suoi
colleghi si ammaleranno d’invidia. Un caso interessante? Non immaginava
neppure alla lontana che avesse ragione…».
M’interruppi. Sua moglie si muoveva debolmente sul tappeto, riprendendo
coscienza.
«Occupatevi di lei», dissi, «ma niente scherzi».
Si chinò sulla donna, la sollevò e la depose sul sofà. La picchiettò sulle mani e si
adoperò in ogni modo per farle riprendere i sensi. Mme Clapas aprì gli occhi,
ma, come s’accorse dell’arma che tenevo in mano, li richiuse e rischiò un
attacco epilettico. Le dissi che doveva stare tranquilla. Sembrò assimilare bene
le mie esigenze.
«Posso restarle vicino?», domandò il medico.
«Sì, ma tenga le mani sulle ginocchia. E che Gloria la raggiunga. Preferisco
sapervi raggruppati».
«Che farai di noi?», chiese Gloria una volta unitasi agli altri.
«Non tarderò,a partire», risposi. «Prima, però, vorrei parlare con il dottore. Ieri
mi diceva che aveva colto l’origine e gli sviluppi della mia nevrosi, ma che
parecchi punti gli restavano ancora oscuri. Glieli chiarirò io».

113
«La prego», articolò il medico, in tono cortese e senza alcuna traccia d’ironia
nella voce. «L’ascolterò volentieri, e sono persuaso che potremmo
approfittarne entrambi».
Nonostante la situazione critica, la sua professionalità prendeva il sopravvento.
Le sue pupille luccicavano d’impaziente curiosità dietro gli occhiali. Sì, ero un
caso interessante, e non avrei certo deluso le sue aspettative.
Gli raccontai trionfalmente tutto quanto avevo fatto, quello che il giornale
diceva e quello che non diceva, aggiungendo al tragico elenco i pensieri che mi
ricordavo più o meno d’avere avuto ogni volta che avevo premuto il grilletto.
E parlai di Gloria, di tutto. Feci in modo di soddisfare ampiamente la sua
curiosità, come mi ero ripromesso. Tanto più volentieri per il fatto che una
confessione così mi alleggeriva. Il giudice istruttore, ammettendo che un
giorno fossi dovuto comparire davanti a un magistrato, non mi avrebbe
permesso un discorso simile… E mi dilettavo a descrivere la mia miseria,
proclamare la mia angoscia, toccare il fondo dell’abisso, parlare delle mie
rivincite che non erano tali, e infine erigere trionfalmente la mia perenne
sconfitta in questa vita così schifosa…
Mi zittii.
Il silenzio si prolungò.
Mme Clapas evitava il mio sguardo. Un tremito convulso agitava la sua gamba
destra. Suppongo che fosse troppo terrorizzata per aver colto una sola parola
del mio racconto. Il viso di Gloria, incorniciato nei suoi splendidi capelli, dove
generalmente brillavano le pagliuzze dorate, era inespressivo come quello di
una bambola di cera. Il dottore mi aveva ascoltato con attenzione, scuotendo la
testa, e facendo una smorfia qui e là, a qualche passaggio del mio racconto.
Aveva docilmente mantenuto le mani sulle ginocchia. Ne staccò una e la puntò
in direzione dell’automatica che tenevo fermo contro il fianco.
«Eccolo il suo sesso!», disse.

«Lei porta il lutto per sua madre», espose tranquillamente il dottore. «Da
quando è morta, lei rifiuta la vita. Tutte le sue azioni lo provano. A una casa
dove non le manca nulla preferisce un’esistenza vagabonda e piena
d’incertezze, e il semplice fatto di mangiare riveste ai suoi occhi un carattere
d’intollerabile oscenità. Per restare fedele a questa sua madre morta, si è
rifugiato in una timidezza morbosa e si è castrato moralmente… altro rifiuto
della vita… al punto da credersi incapace di procurare il piacere sessuale a una
donna. E quando dispensa questo piacere, lo nega e lo taccia di commedia. Il

114
suo comportamento perennemente reietto – pure la mancanza di soldi è una
castrazione – la fa convincere di non aver diritto a partner affettive che non
siano delle prostitute. In ogni cosa che ha fatto, si è caricato di tutte le sfortune
per fallire. Ha voluto procurare piacere e sofferto di esserne, secondo lei,
incapace. Perché ha tentato di rinnovare la vecchia tradizione – morta –
dell’illegalità rivoluzionaria? Per soccorrere gli oppressi, cioè dare piacere a chi
non ne aveva? Senz’altro, ma ciò era insieme un valido motivo e un pretesto.
La sua propensione profondamente negativa le ha fatto ricercare la morte.
Ora, è frequente che gli individui più determinati esitino a sopprimersi con le
proprie mani. Tale fu il caso di Lacenaire. Indeciso sulla scelta della propria
morte, rifiutando per motivi estetici il veleno e l’annegamento, alla fine opta
per il ferro e si concede, con raccapricciante umorismo, alla mannaia della
ghigliottina. La sua vita non è stata che un lungo e raffinato suicidio. Lei ha
operato in modo da incontrare la morte per mano altrui. Credo che lo scopo
sia raggiunto… Il violento amore per Gloria l’ha definitivamente traumatizzata.
Chi è Gloria? Una donna che lei giudica inaccessibile per la doppia ragione che
vive su di un piano diverso dal suo e che è sposata. Certo, lei le vuole bene, ma
a causa del suo complesso di inferiorità lei rimuove la messa in atto dei suoi
istinti e non le dispiacciono gli ostacoli incontrati sulla sua strada. Gloria può
simbolizzare la morte che lei agogna. È di un altro mondo, e lei è persuaso di non
poter mai darle piacere: che la possieda o no resterà un cadavere. Morta fra le
morte, come ha detto lei stesso. Quando gli scioperanti per cui ha fatto la
rapina rifiutano il suo regalo, lei sente il rifiuto come una delusione amorosa, un
affronto sessuale. Decide allora di proseguire la sua carriera criminale, senza
dubbio, nella speranza di procurarsi il denaro per accedere a Gloria, ma anche
con l’intenzione incosciente di fare un passo ulteriore verso il boia… Ha
sostituito un revolver al suo sesso… e invece di dare la vita e il piacere, semina
la morte e la disperazione… L’acquietamento provato, quando infine Gloria le
appartiene, non è che passeggero, e rapidamente dubiterà della sincerità del
trasporto della sua amante. Il che si iscrive a pieno titolo nel tracciato
tormentoso del suo destino. Il fine della sua vita non è Gloria, ma la ricerca
appassionata della morte, un lungo suicidio… Glielo ripeto…».
Esalai una sorta di ruggito soffocato: «Stia zitto!».
Il dottore ignorò la mia ingiunzione. La sua voce vibrò: «Glielo ripeto: lei è in
lutto per sua madre e per se stesso; lei si è autocastrato volontariamente e ha
sempre rifiutato la vita…».
«Stia zitto!», ripetei.

115
«Oh! Volentieri», fece a bassa voce. «D’altronde, ho finito».
Si rovesciò all’indietro. La luce si rifletté sulle lenti dei suoi occhiali, rinviando
freddi riflessi d’acciaio.
«E’ un’analisi sommaria e frettolosa, ma ho terminato».
Regnò un silenzio fisicamente vischioso. Restai un attimo immobile a
contemplare i tre: l’uomo, professionalmente soddisfatto; la moglie, morta di
paura; e Gloria, irrigidita come me.
Presi dal pacchetto l’ultima sigaretta rimasta. Durante l’esposizione di Clapas
avevo fumato senza interruzione. L’accesi. La vita era uno schifo, e io l’avevo
resa ancora più schifosa. Questo revolver…
I miei occhi si posarono sull’arma. In effetti, l’avevo considerata come un
oggetto sacro. Ne verificai meccanicamente il funzionamento. Si alzò un grido:
veniva dalla moglie del dottore, spaventata dal mio gesto.
Riportai l’attenzione sul gruppetto. Il dottore mi scrutava, dietro gli occhiali
dagli scintillìi metallici e insostenibili.
«Ci ucciderai?», domandò Gloria, con una voce senza timbro in mezzo a quel
silenzio denso come pece.
Non risposi.
Proteggendomi la ritirata con l’automatica, indietreggiai lentamente verso la
porta, raschiando e maltrattando il tappeto con le suole.
Guardavo Gloria, i suoi occhi, il naso, la bocca, il mento, le orecchie fra le
ciocche di capelli rossi. M’inebriai del suo viso. Una morsa mi stritolava le
tempie. Non so se portavo il lutto per mia madre. Era possibile, ma nessuna
canzone evocava mia madre. Un giorno avevo detto a Gloria che sarei morto
per lei, ed esisteva una stupida canzonetta che ne riprendeva il proposito. E il
ritornello che lei cantava quando ci siamo incontrati per la prima volta mi
metteva il magone. Ignoravo per chi sarei morto: per Gloria, per mia madre,
per me stesso. Ma stavo per morire, stavo per raggiungere tutte le donne
morte, e la sensazione che mi sommergeva non era né triste né gioiosa, ma
semplicemente neutra, orrendamente matematica: due più due fa quattro, la
vita era così schifosa e io ero un cimitero…
Sentii l’uscio contro le mie spalle.
«Gloria!».
Ormai tutto era inutile. Niente aveva più senso, niente ne aveva mai avuto, e
pertanto… Mi chiedevo se quest’uomo avesse detto la verità… se per caso
un’eco sincera avesse risposto ai miei ardori…
«Hai goduto, Gloria?».

116
La stanza si vuotò degli esseri umani, dei mobili, della luce e dell’ombra, salvo
che di Gloria. Gloria riempiva tutto. Lei esitò. La frangia delle ciglia batté
violentemente e i cari occhi pagliettati d’oro si animarono di sentimenti confusi
in sorda lotta fra loro. «No!».
La mia gola si annodò. Un breve spasmo m’inacidì la bocca. Portai
pesantemente il braccio sinistro dietro la schiena, cercai a tentoni il pomello
della porta e lo girai. Non potevo staccare lo sguardo da Gloria.
«Mi sarebbe tanto piaciuto vivere», dissi.
Uscii.

117
STAMPA

«L’Echo», 7 ottobre…

Il membro più pericoloso della banda sanguinaria, l’omicida ]ean Fraiger, è stato ucciso ieri
all’interno di un commissariato dove si era presentato armi in pugno. Era invano ricercato dal
17 settembre, data in cui era stato denunciato dal complice Paul «il gobbo» (segue a pag. 5).

«Gazette-Dimanche», 12 ottobre…

I nostri lettori ricorderanno senz’altro che lunedì scorso, 6 ottobre, Jean Fraiger, il feroce
assassino della banda sanguinaria, è stato ucciso all’interno di un commissariato che aveva
deciso di assalire in un accesso di furore. Il bandito è comparso al calar della notte con
entrambe le mani armate di revolver, e ha cominciato a sparare senza tuttavia colpire nessuno.
Gli agenti, che avevano avuto il tempo di familiarizzarsi con la sua foto appesa in tutte le
stazioni di polizia, lo hanno immediatamente riconosciuto e non hanno esitato a rispondere al
fuoco.
Il gangster, con il volto alterato, tenendosi a malapena in piedi e sussultando per il rinculo
delle due rivoltelle che teneva strette contro il corpo all’altezza delle anche, ha gridato allora:
«Sparate al sesso!».
L’esame del cadavere ci permette di precisare che alcuni poliziotti hanno preso alla lettera lo
strano invito.
Dal 17 settembre, giorno che aveva trascorso in compagnia dell’ eminente psichiatra dottor
Clapas, il malvivente era introvabile. Si ignora dove si nascondesse. L’autopsia ha confermato
che, al momento d’irrompere nel commissariato, l’individuo moriva letteralmente di fame. È
stata ritrovata addosso all’uomo una lunga confessione scritta a penna e a matita su foglietti di
ogni forma e dimensione. Sembra che abbia impiegato i venti giorni che separano la denuncia
dalla morte a redigere il documento di cui «Gazette-Dimanche», sempre ai vertici per quanto
concerne gli avvenimenti più sensazionali, si è assicurata l’esclusiva.
I nostri lettori troveranno la prima puntata della suddetta confessione a pagina 7, insieme a
uno studio dedicato a questo particolare caso di complesso d’inferiorità redatto dall’ eminente
psichiatra dottor Clapas (vedi a pag. 7).

(ottobre 1947)

118
119
APPENDICI

120
Prefazione dell’autore alla prima edizione

Pubblicata in apertura alla prima edizione di La vita è uno schifo, la


prefazione che segue è stata quasi sempre eliminata nelle successive edizioni.
La riproponiamo in quanto testimonia la volontà di Leo Malet di considerare
questo romanzo come naturale sbocco delle proprie opere surrealiste.

Sulla soglia di questo racconto, l’autore intende precisare che, pubblicando


un “romanzo noir” moderno, non si sottomette per nulla a una moda.
J’arbre comme cadavre, raccolta di poemi pubblicata dieci anni fa,
testimonia sufficientemente, a partire dalla stessa parola cadavere nel titolo,
di preoccupazioni alle quali i gusti degli anni 1947-1948 sono del tutto
estranei. Del resto, altri testi poetici, sia pure dotati di titoli meno
significativi, furono ispirati all’autore dal sergente Bertrand, lo stupefacente
necrofilo, e da Eugen Weidmann, l’assassino sentimentale di «La Voulzie».
Il lettore sarà tuttavia padronissimo di rifiutarsi di riconoscere queste due
celebrità psico-criminali – senza dimenticare certi “espropriatori” come gli
anarchici individualisti della banda Bonnot – nel personaggio centrale di La
vita è uno schifo: Jean, questo Tristano al carboncino, questo Tristano senza
Isotta, che, sopra un abisso di crudeltà e di tenerezza e sopra il frastuono
delle mitragliette in azione, inalbera la bandiera color sangue e notte
dell’inquietudine sessuale.

LEO MALET

(da La vie est dégueulasse, sepe, 1948)

121
La vita è uno schifo visto dall’autore

Un’altra testimonianza di quanto Leo Malet tenesse a questo romanzo, di quanto lo


considerasse di caratura superiore ai libri polizieschi per i quali era giustamente famoso, e
soprattutto di quanto detestasse essere confuso con la narrativa dozzinale che in quegli anni
cominciava ad avere grande successo in Francia.

Per una sorta di gusto ironico, chiamo questo libro un «romanzo dolce». E
credo che, nonostante gli otto o nove omicidi che lo costellano, l’etichetta gli
stia a pennello, nella misura in cui il suo sanguinario e misero eroe è un tenero,
afflitto da una timidezza patologica che gli chiede di affermare la propria
virilità, di cui dubita, attraverso il trucco banalmente simbolico del revolver.
Inizialmente, mi ero proposto di mostrare la degenerazione di un “bandito
ideologico” (modello Bonnot) in volgare criminale comune. Dalla sua messa in
cantiere, questo, studio sociale si è trasformato in esposizione di un tragico
complesso di inferiorità. Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, il tema rimane il
medesimo: quello dello scacco. Nel primo: fallimento involontario dell’illegalità,
impotenza a conservare al gesto di rivolta la purezza originale. Nel secondo:
scacco volontario di un essere aspirante inconsciamente al suicidio.
Trattando di preferenza il secondo caso rispetto al primo, ho ceduto al fascino
dell’utilizzo della psicanalisi considerata come metodo d’indagine abbastanza
vicino, grosso modo, a quello degli investigatori dei romanzi. La mia specialità -
questo libro non deve farlo dimenticare - è l’intrigo poliziesco, dalla cui
influenza La vita è uno schifo non è del tutto libero. Freud vi gioca il ruolo
abitualmente riservato al brillante investigatore. Bracca nell’inconscio il
colpevole, che è allo stesso tempo la vittima.
E’ una tesi medica, ha sacramentato la critica, aggiungendo che questo fatto
non aveva nessun rapporto con la letteratura. Confesso di non aver cercato di
fare né letteratura, né antiletteratura.
Nel 1948 queste discriminazioni mi parevano superate. Con l’aiuto dei sogni e

122
dei ricordi personali, di interpretazioni forse abusive del comportamento di
grandi criminali, ho cercato di emettere un violento e brutale lamento
amoroso, perché questo libro, in fin dei conti, è un romanzo d’amore e di
passione, una disperata ricerca dell’assoluto affettivo, in cui ogni pagina porta in
filigrana l’immagine onnipotente della donna, imperiosamente campeggiarne
sopra i tacchi a forma di pugnale delle sue scarpe assassine, con nei capelli e
negli occhi i riflessi mortali dell’oro. Per questo mi spiacerebbe che, a causa di
alcuni scabrosi passaggi, si confondesse questo romanzo con l’erotismo
dozzinale oggi tanto in voga. La vita è uno schifo è un’altra cosa.

LEO MALET

(da «Fiches littéraires» n. 4, maggio 1948) Due lettere di René Magritte

123
Due lettere di René Magritte
Pubblichiamo queste due lettere che René Magritte scrisse a Leo Malet nel febbraio del
1956. Pur riferendosi ad altre opere dello scrittore, ci è parso che le parole dell’artista belga
sintetizzassero meglio di tante altre il clima entro il quale si è sviluppato il noir di espressione
francofona. Aggiungiamo solo che Hélène, di cui si accenna in calce alla seconda lettera, è la
segretaria di Nestor Burma, una donna per la quale tutti i lettori di Leo Malet hanno
spasimato.

11/2/1956

Caro Leo Malet,


ecco che è passata molta acqua sotto i ponti, senza che avessimo notizie dirette
l’uno dell’altro. Da parte mia l’ho “seguita”, ho letto tutti i suoi libri – insieme
agli unici leggibili in questo periodo: quelli di Rex Stout e di Simenon, quando
racconta le avventure di Maigret, non quando irrita con sciocchezze tutte sue.
Però c’è un romanzo, L’ombre du grand mur, che non sono riuscito a procurarmi.
Le sarebbe possibile…?
Il suo M’as-tu vu en cadavre è un puro e semplice capolavoro. Ci sono dei
personaggi deliziosi: Monsieur Nicols è sublime! Ma in tutti i “puri e semplici
capolavori” c’è sempre qualche “punto nero”. In generale, nei suoi Misteri di
Parigi,sono sempre gli stessi, credo i medesimi che si potrebbero trovare nella
mia Fata ignorante, di cui le allego la riproduzione: voglio dire la presenza di un
elemento che sarebbe perfetto se non avesse la sfortuna di essere da qualche
tempo a questa parte “di moda”. Si tratta della bellezza e del fascino delle
donne che non ci lascia insensibili, ma che da parte mia trovo insopportabile
quando questo fascino che mi piace tanto rimanda a tutta un’industria di cui
l’America è responsabile: la messa sul mercato dell’articolo “pin-up”, che fa
credere agli imbecilli che è per merito dell’industria se esistono le donne. Il
modello che ho “utilizzato” non è una ragazza di un collegio vicino (che avrei
preferito). Lei voleva il suo ritratto e il “punto nero” era che veniva da me non
dimenticando di passare prima dal parrucchiere.
Posso chiederle, per il piacere di quelli che leggono, di usare meno argot?
Quelli che leggono senza distinguere il buono dal cattivo (basta pensare a tutto
quanto viene dato alle stampe per rendersi conto che il cattivo passa altrettanto
inosservato del buono) spesso la leggono senza rendersi conto di quello che lei

124
scrive: questa poesia delle strade di Parigi, per esempio, non sarebbe meno
efficace in un linguaggio diverso.
Non viene mai a Bruxelles? C’è stato un delitto “interessante” qui: un barbiere
che ha strozzato un generale. Un giornale umoristico belga ha trovato le parole
giuste in proposito: «La realtà supera la frizione».
Molto cordialmente suo
René Magritte

23 febbraio 1956

Mio caro Malet,


ecco qualche carta di cui diventerà automaticamente felice proprietario (mi ha
scritto che quando ne trova in giro ne approfitta volentieri).
Una cosa alla quale tengo molto (e che devo dire a Scutenaire, che ha appena
finito di leggere M’as-tu vu en cadavre ed è d’accordo per amare Nicols, con
l’unica riserva che gli piace parecchio anche la gentile impresaria) è che
evidentemente nel mio letto ci vorrei la gentile impresaria, e non il sublime
Nicols. Ma in un libro d’indagini preferisco avere in grande quantità Nicols, o
Zigomar, o Nick Carter, o Fantomas.
In un libro come Il diario di una cantante tedesca, se a uno piace questo genere di
libri, è la combinazione sensazionale degli organi dei quali la combinazione
semplice può accontentare il normale fruitore che deve essere posta in primo
piano, credo.
Scutenaire, che è furbo come noi, ha le sue debolezze come noi. Vede, certo,
le pagliuzze nel mio occhio, ma io credo che sia una sciocchezza amare in un
libro quello che sarebbe meglio amare in un letto… o da un’altra parte.
Aspetto con impazienza L’ombre du grand mur, perché non riesco a leggere
nient’altro che libri usciti con il contagocce. Sono costretto a trovare il piacere
della lettura in opere abbastanza soporifere come quelle di Heidegger e
compagnia bella. Così l’uscita di un nuovo Nestor Burma è una cosa
importantissima per me.
Molto cordialmente suo
René Magritte
La gentile impresaria, certo, ma Hélène mi piacerebbe ancora di più.

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