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LA FESTA PERDUTA

Il Natale tra consumi e non senso

Crescenzo Fiore
LA FESTA PERDUTA
Il Natale tra consumi e non senso

INDICE

Tempo, calendari, feste


La festa di Saturno
L’annuncio: Gesù/Sole
Il giro del sole: tra due solstizi.
Il presepe
La festa consumata
L’oro delle merci

Tempo, calendari, feste

“Chiunque rifletta su quattro cose, sarebbe meglio per lui se non fosse venuto al mondo – ciò che è
sopra; ciò che è sotto; ciò che è prima; ciò che è dopo”. (Mishnah)

Improponibile in questo contesto tentare di “fare il punto” su una delle questioni


più complesse e controverse che attraversa l’intera cultura occidentale e,
antropologicamente parlando, investe la stessa condizione dell’uomo: il Tempo.
Ci limiteremo a segnalare alcuni passaggi e a riproporre qualcuna di quelle
immagini che nutrono e danno forma alla nostra idea di tempo. E’ solo un modo di
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propiziarci il tema più specifico, ma non meno difficoltoso, dei calendari e della
nozione di festa.
Tempo-fiume, inarrestabile, secondo la sentenza eraclitea. Ma il mondo greco aveva
un’immagine ancora più inquietante del fiume: Crono, divoratore insaziabile di tutte
le sue creature: tempo che inghiotte nelle profonde e insondabili caverne ogni essere
che viene alla luce.
Questo sentimento di terrore e di irrisolvibile precarietà sta dentro il senso della
durata e lo scandire il tempo non offre riparo, così l’orologio di sabbia di J.L. Borges
non fa che rendere palpabile il trascorrere e l’inevitabile inabissarsi:

<<(…) La sabbia dei cicli è la stessa


e infinita la storia della sabbia;
così, sotto le tue gioie o il tuo dolore,
l’invulnerabile eternità si inabissa.

Non si ferma mai la caduta.


Io mi dissanguo, non il vetro. Il rito
Di travasare la sabbia è infinito
E con la sabbia ci scappa la vita.
(…)
tutto trascina e perde questo instancabile
filo sottile di sabbia numerosa.
Non mi salverò io, fortuita cosa
di tempo, che è materia così friabile>>.

E’ questa la clessidra che A. Dürer affida a San Girolamo, alla Malinconia e al


Cavaliere, la Morte e il Diavolo: tutti impegnati nella più tremenda delle pensosità,
tutti, impietosamente, trascinati dal “filo sottile di sabbia numerosa”.

Eppure con il tempo si ha, o crediamo di avere, una relazione familiare, tanto da
poter riprendere le parole di Sant’Agostino che sosteneva di sapere che cos’era il
tempo a patto di non doverne dare nessuna spiegazione. Ma Agostino trovava in Dio
la quiete riparatrice :<< Gli anni tuoi sono tutti in un punto perché immobili, né
quelli che passano sono spinti via dai sopravvenienti, perché non passano: i nostri

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saranno tutti quando non saranno più. (…) Tu hai creato tutti i tempi e tutti li
precedi: non si può parlare di tempo quando il tempo non esisteva>>.
(Sant’Agostino)
A Dio, fonte del tempo e fuori dal tempo, fa eco l’uomo tessuto di tempo, intrecciato
con il filo dei giorni, trama larga delle stagioni, ostaggio delle ripetizioni e destinato,
quando la fortuna lo assiste, a percorre tutte le stazioni stabilite della propria vita.
Non solo il tempo quantitativo, scandito meccanicamente dalle diverse “macchine”,
uguale per definizione, identico per necessità, ma anche, forse soprattutto, il tempo
qualitativo dell’esistenza di ognuno, quello stesso tempo che si accorcia e si allunga
a seconda degli stati d’animo per cui un attimo ci sembra una eternità e l’eternità un
rapido vorticare di attimi.
Per necessità stabiliamo le convenzioni che ci permettono di dire la durata,
stabiliamo i tempi in cui alcune cose accadono (tanto l’inizio di un regno quanto la
durata di un esercizio finanziario): i calendari sono la rappresentazione concreta di
queste convenzioni, sono gli oggetti culturali, religiosi e sociali che, naturalmente,
sono essi stessi oggetti della storia e del suo farsi.
Assoggettare il tempo, dominarlo o costringerlo entro uno schema teorico e pratico è
un bisogno fondamentale, un passaggio decisivo nel controllo dell’universo da parte
delle diverse culture.
Come giustamente è stato fatto notare il calendario “è uno dei grandi emblemi e
strumenti del potere”: i padroni del tempo finiscono per dettare il calendario. I
sacerdoti, i re, i fondatori di movimenti religiosi o rivoluzionari hanno avvertito il
bisogno di ordinare diversamente il tempo; il più delle volte si è voluto rifondare il
tempo, dargli un nuovo inizio e una nuova scansione: così nelle dinastie cinesi, nella
rivoluzione francese o nell’era fascista, tanto per citare alcuni casi.
“Il regno di Chouen meritava che gli si attribuisse la regolarità di una liturgia
perfetta”: inaugurando un nuovo tempo si procedette con un preliminare e necessario
rito di espulsione. I discendenti della precedente dinastia vengono relegati ai margini
del nuovo impero, segno evidente ed invalicabile di un tempo esaurito e, quindi,

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messo fisicamente in un “luogo altro” ad evitare ogni possibile contaminazione tra
vecchio ordine e nuovo ordine:<<Nel momento stesso in cui proclamava il suo
avvento promulgando il calendario destinato a caratterizzare il suo periodo di
dominazione, una dinastia cinese si prendeva cura di staccare dall’Impero alcuni feudi
destinati ai discendenti delle dinastie decadute. Questi ultimi erano incaricati di
conservare in tali zone chiuse i regolamenti significativi d’un ciclo compiuto della
storia>>. (M. Granet)
Il calendario della rivoluzione francese cancellò la settimana e inaugurò i tempo della
decade (da primodì a decadì), come pure i mesi dell’anno presero nuovi nomi:
“L’autunno comprese perciò vendemmiaio, brumaio, frimaio; l’inverno, nevoso,
piovoso, ventoso; la primavera, germinale, floreale, pratile; l’estate, messidoro,
termidoro, fruttidoro”. (J. Le Goff )
Questo tempo nuovo, prologo ad una rinnovata religiosità e un diverso ideale di virtù
civiche, faceva invocare al Marchese De Sade “ancora uno sforzo” perché il tempo
nuovo non potesse essere contaminato dal vecchio o, peggio ancora, il tempo vecchio
non perfettamente reciso potesse stendere le sue ombre di rivincita sul nuovo tempo:
<<Annientate per sempre tutto quello che può distruggere in un giorno la vostra
opera! Pensate che, pur essendo riservato ai vostri nipoti il frutto del vostro lavoro, è
proprio del vostro dovere, della vostra probità, non lasciar loro nessuno di quei germi
dannosi che potrebbero ripiombarli nel caos dal quale siamo usciti con tanta
difficoltà>>. (A. D. De Sade)
Non diversamente nell’Islam che inizia dal 622, anno della fuoriuscita del Profeta
dalla Mecca verso Medina, o nel Cristianesimo che, oggigiorno, segna il suo inizio
nella data della Natività, anche se in questo caso si è trattato di aggiustamenti
progressivi che, prendendo avvio dalla riforma voluta da Giulio Cesare nel 46 a.C.
(calendario giuliano), si assestava solo nel 1582 per volere del papa Gregorio XIII
(calendario gregoriano). Quest’ultimo calendario poneva fine ad una vera e propria
anarchia che aveva trovato il suo culmine “quando nel XII secolo gran parte della

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cristianità (e in particolare la Francia) adottò lo stile pasquale, che faceva cominciare
l’anno con una festa mobile”. (J. Le Goff).
Il calendario, aldilà degli inevitabili aggiustamenti dovuti al progredire della scienza,
resta il principale strumento di scansione e controllo della vita collettiva, detta il ritmo
della vita sociale e stabilisce le diverse durate: lavoro e vacanze, feriale e festivo,
sacro e profano.

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La festa di Saturno

“I dodici giorni (e le dodici notti) che separano il Natale dall'Epifania: sono notti
misteriose, compendio dell'anno che valgono un mese ciascuna, notti di trasgressione
delle norme abituali di comportamento (le antiche "libertà di dicembre"), notti che
accompagnano la Grande Festa, il Capodanno”. Festa drammatica quella del
Capodanno, luogo e tempo sostenuti dall’ambivalente tensione tra timore e speranza:
l’anno precipita incontro alla propria fine e mostra inequivocabilmente il senso ultimo
degli esseri e, in particolar modo, dell’uomo. C’è bisogno di eccessi, di ebbrezza, di
eros, di tragica giocosità: il mondo deve rovesciarsi, deve abolire i confini che
ordinariamente governano i giorni e la vita, deve esporsi alla contaminazione con il
regno dei morti.
“Nei Saturnalia romani, tra il 17 e il 23 dicembre, il mondo sembrava rovesciarsi e, in
particolare, la fine dell'ordine costituito e il ritorno del caos primordiale erano
caratterizzati dall'abolizione delle differenze tra i servi e i padroni. Ma in realtà il caos
della fine dell'anno non era altro che quello d'un tempo esaurito, che stava per esser
rinnovato con maggior vigore: non a caso Saturno, l'antico dio laziale poi identificato
con il greco Kronos, era un dio civilizzatore, e la festa dei Saturnalia si diceva fondata
da Giano, un' altra divinità civilizzatrice. Così la notte di Natale è la notte del grande
rovesciamento, della Grande Rivoluzione: la notte in cui gli animali, secondo una
diffusa credenza folklorica, parlano nelle loro stalle e in cui il Re dell'Universo nasce
in una mangiatoia; ma è anche la notte da cui inizia il riscatto dell'umanità, la notte
della Grande Restaurazione dell'ordine turbato dal peccato dei progenitori”.
(F.Cardini)
Caos e ristabilimento dell’ordine sono le polarità entro cui si instaura la tensione
festiva, nel mentre che il tempo viene contato alla rovescia sino allo scoccare della
mezzanotte lo spasmo dell’anno che muore si confonde con gli auspici di una buona
sorte, con quelle segrete aspettative che ognuno cela nel cuore e che l’anno nuovo,

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non ancora contaminato dalla banale quotidianità dell’esistenza, sembra custodire
presso di sé come una promessa.
<<Poi vidi un cielo nuovo ed una terra nuova.
Il primo cielo infatti e la prima terra sono scomparsi
E il mare non è più.
E vidi la Città santa, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo
Da presso Dio, pronta come una sposa abbigliata per il suo sposo.
E udii venire dal trono una gran voce che diceva:
“Ecco la tenda di Dio tra gli uomini, ed abiterà con loro,
ed essi saranno il suo popolo ed Egli sarà Dio-con-loro,
ed asciugherà ogni lacrima dai loro occhi,
e la morte non ci sarà più, né lutto, né grido, né pena,
perché le cose di prima sono scomparse”.
E Colui che sedeva sul trono disse:
“Ecco io faccio nuove tutte le cose”>>.
(Apocalisse, 21, 1-5)

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L'annuncio : Gesù / Sole

Le grandi feste dell’antichità, che scandivano il ritmo della vita sia privata che
pubblica, erano anche le grandi occasioni festive del popolo cristiano e su di questo
esercitavano una forte attrazione.
La Chiesa era indubbiamente preoccupata da queste sovrapposizioni e da queste
commistioni festivo-calanderiali; in particolar modo la diffusione di culti solari e del
movimento religioso dedicato a Mitra, con le sue promesse salvifiche non troppo
dissimile dalla promessa cristiana. Si avvertiva la necessità di strutturare un percorso
calanderiale che potesse sovrapporsi e, in seguito, imporsi sul precedente ritmo
festivo.
Il Sole invitto dell’antica tradizione poteva, senza nessuna forzatura, rappresentare
benissimo la figura del redentore, essendo fin troppo esplicita la relazione tra verità-
luce-salvezza, attestata fin dall’Antico Testamento attraverso la voce autorevole dei
Profeti; così Isaia annuncia il sopraggiungere della luce di salvezza:
<<Sorgi e risplendi, Gerusalemme,
perché è giunta la tua luce
sopra di te brilla lo splendore di Dio!
Le tenebre ricopriranno la terra e l’oscurità le nazioni.
Ma sopra di te risplenderà il Signore
e la sua gloria si manifesterà sopra di te.
I popoli cammineranno alla tua luce
e i sovrani allo splendore che emana da te>>.

Nel Nuovo Testamento il Vangelo di Giovanni si apre con prepotente teofania


luminosa: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; e la luce nelle tenebre
brilla e le tenebre non la compresero. (…) Era la luce vera che illumina ogni uomo,
quella che veniva nel mondo. Era nel mondo e il mondo fu fatto per mezzo di lui e il
mondo non lo riconobbe”.
Ecco aperto il tema della grande lotta tra la luce e la tenebra, tra la pesantezza oscura
del peccato e la luminosità della grazia; secondo la bella espressione di Simone Weil
“Due forze regnano sull’universo: luce e pesantezza”. Nella liturgia slava si celebra il
Cristo-Oriente: “O Cristo Dio, / la tua nascita / ha inondato il mondo / con la luce
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della conoscenza. / In questa luce, / coloro che adoravano le stelle, / impararono da
una stella ad adorare Te, / sole di giustizia, / e a riconoscerTi Oriente apparso
dall’alto. / Gloria a te, o Signore”.
Nella notte più fonda dell’anno, il solstizio d’inverno, dalle profondità del copro della
Vergine, prorompe la luce del modo: vera “Porta del Cielo” che traccia il sentiero
della liberazione e sconfigge la paura delle tenebre: “Ave, raggio di sole spirituale /
ave, dardo di luce che non ha tramonto / ave, fulgore che rischiara le anime / ave,
poiché fai sorgere la luce sfolgorante…” (Inno della Chiesa orientale)
Così la vicenda umana viene inscritta nella dialettica giorno/notte, luce/tenebra e i
transiti salvifici conducono oltre le notti dell’umanità: “Possiamo dire che tre sono i
motivi per i quali il cammino che l’anima compie per giungere all’unione con Dio può
chiamarsi notte” –scrive S. Giovanni della Croce- e mostra le tappe di questo
cammino: rinuncia e privazione (prima notte); il cammino della fede (seconda notte);
Dio (terza notte). Ma il Dio-Notte, così definito perché non rischiarabile dall’umana
ragione, è la vera luce che guida l’uomo di fede, “senza altra guida o luce / fuor di
quella che in cuor mi riluce. / Questa mi conduceva, / più sicura che il sol di
mezzogiorno, / là dove mi attendeva / Chi bene io conosceva / e dove nessun altro si
vedeva”.
Ben altra notte è quella di cui parla M. Heidegger: “La notte del mondo distende le
sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla mancanza di
Dio… L’epoca a cui manca il fondamento pende nell’abisso”.
Al grido di Heidegger fa eco un rapido scambio di battute:
<<domanda: Dove sta Dio nella società contemporanea?
risposta: E’ molto emarginato. (…) Dio rimane ai margini>>.
(Intervista di Marco Politi al Card. J. Ratzinger )
Forse questa stessa notte e questa stessa marginalità aveva negli occhi quando
Giovanni Paolo II diede avvio al suo pontificato con il grido “Non abbiate paura!”:
“L’esortazione ‘Non abbiate paura!’ va letta in una dimensione molto ampia. In un
certo senso, era un’esortazione rivolta a tutti gli uomini, un’esortazione a vincere la

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paura nell’attuale situazione mondiale, sia in Oriente sia in Occidente, tanto al Nord
quanto al Sud.
Non abbiate paura di ciò che voi stessi avete creato, non abbiate paura nemmeno di
tutto ciò che l’uomo ha prodotto e che sta diventando ogni giorno di più un pericolo
per lui! Infine, non abbiate paura di voi stessi!”.

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Il giro del sole: tra due solstizi.

Religione solare, il cristianesimo pone la sua attenzione ai momenti-culmine


dell'avventura dell'astro diurno in cielo, durante il suo corso apparente attorno alla
terra. Il solstizio d'estate coincide, nel mondo mediterraneo, con un fervore d'attività: è
il tempo della mietitura, il tempo della raccolta del frutto del lavoro, il tempo della
navigazione serena grazie al mare ordinariamente tranquillo. Ma é anche il tempo in
cui le scorte alimentari, raccolte e ammassate, cominciano a diminuire; e così, in pari
tempo, le giornate si accorciano. Nel simbolismo antropomorfico dell'anno, il solstizio
d'estate è paragonabile al "mezzo del cammin" della vita umana: massimo vigore,
prorompente energia, ma al tempo stesso culmine oltre il quale la forza comincia pian
piano a regredire e anche le giornate terrene diventano più brevi. La doppia spirale
simbolo astrologico del Cancro, che presiede al solstizio d'estate, indica bene questo
momento di precario equilibrio fra due curve, l'ascendente ormai trascorsa e la
discendente che sta per essere intrapresa. Nella tradizione indù, il solstizio d'estate è il
pitri-yana, la "porta degli uomini". Il solstizio estivo è il caldo, prorompente
mezzogiorno della vita, dopo il quale ci si avvia al meriggio e alla sera.
All'estremo opposto del cerchio zodiacale, a centottanta gradi da esso, sta il solstizio
invernale, il deva-yana, "porta degli dèi", della tradizione indù. È l'inverno, la
vecchiaia, la morte, la mezzanotte dell'uomo e del cosmo. Ma, poiché ciò ch'è stato
ritorna eternamente e l'omega non è che un alfa, la fine non è che un principio, là
fredda mezzanotte invernale partorisce un sole fanciullo. Dalla notte del solstizio, le
giornate cominciano ad allungarsi di nuovo, il sole riprende il suo cammino
ascensionale. Nel freddo della notte invernale, si apre nel cielo il tempo del mattino
cosmico.
Nello zodiaco cristiano, il Cristo e Giovanni Battista occupano i quattro cardini
dell'orbita solare. Concepito tradizionalmente nell'equinozio d'autunno, Giovanni
nasce nel solstizio d'estate; concepito nell'equinozio di primavera, il Cristo nasce nel
solstizio d'inverno. (F.Cardini)

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Il tempo profano è incardinato sulla scansione del tempo sacro, tesi cara a Mircea
Elide il quale non si stancherà mai di ribadire questo bisogno di sacralizzazione
dell’esistenza, questa nostalgia delle origini che, a suo dire, affiora anche nelle forme
distorte o dimentiche del mondo che si vuole compiutamente desacralizzato.
Certo, ci vogliono occhi acuti o visionari per ritrovare la sacertà del Natale sommerso
dal fiume delle bollicine degli spumanti, sopraffatto dai soffici panettoni o confuso tra
i doni dei magi trasformati in morbidi torroncini che non giungeranno mai a
destinazione perché destinati alla irrefrenabile golosità degli stessi donatori.
I giorni magici che separano il Natale dall’Epifania, calendario nel calendario, sono
irrimediabilmente persi: “La Chiesa ha voluto a sua volta compendiare tra Natale ed
Epifania, nel suo ciclo santorale, la storia della sua stessa fondazione. Il 25 dicembre è
Natale; ma in quel giorno la Chiesa commemora anche il Progenitore, Adamo, a
sottolineare il rapporto tra lui e Gesù interpretato come Nuovo Adamo. Il 26 è la festa
di santo Stefano, il Protomartire. Il 27 è si festeggia la Sacra Famiglia. Il 28 si
celebrano i Santi Innocenti, e secondo un'antica tradizione il giorno della settimana in
cui tale festa cade sarà infausto per tutta la durata dell' anno a venire. Il 31, ultimo
giorno dell'anno del calendario giuliano, si festeggia san Silvestro papa, colui che
secondo la tradizione battezzò Costantino e con lui cristianizzò l'impero. Il 1° gennaio
la Chiesa solennizzava tradizionalmente la circoncisione, quindi a un tempo l'entrata
ufficiale del Salvatore nella famiglia dei figli di Giacobbe e la prima effusione del
sangue divino. Infine, il 6, si giunge all'Epifania, all'aperta manifestazione della
divinità e della regalità di Gesù Cristo”. (F.Cardini)

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Il presepe

<<C'era in quella contrada un uomo di nome Giovanni di buona fama e di vita anche
migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto
onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne.
Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso
faceva, lo chiamò a sé e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di
Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a
Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si é trovato
per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e
come giaceva sul fieno tra il bue e l'asinello>>. Appena l'ebbe ascoltato, il fedele e pio
amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l'occorrente,
secondo il disegno esposto dal Santo.

E giunge il giorno della letizia, il tempo dell'esultanza! Per l'occasione sono qui
convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della
regione, portando, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare
quella notte, nella quale s'accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni
e i tempi. Arriva alla fine Francesco, vede che tutto é predisposto secondo il suo
desiderio, ed é raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si
introducono il bue e l'asinello- In quella scena commovente risplende la semplicità
evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l'umiltà. Greccio é divenuto come una
nuova Betlemme.
Questa notte é chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente
accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero.
La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano cori festosi. I frati cantano
scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
Il Santo é li estatico di fronte al presepio, pieno di sospiri, lo spirito vibrante di
compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l'Eucaristia

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sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima>>. (Tommaso
da Celano, Vita prima di San Francesco d'Assisi)

LA NOTTE MISTICA
Vi sono notti portentose: bianche
di un tal candore, che le cose tutte,
immerse in quello, paiono d'argento.
Vi brillan così sante alcune stelle,
da sembrar che riguidino i pastori
verso un novel presepe.

Fin dove l'occhio giunge, diamanti


spruzzano in polverio ruscelli e prati.
E dentro i cuori, trepidi di sogni,
spunta una fede in noi, che, senza altari,
segretamente opera prodigi.
(R.M.Rilke)

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La festa consumata

<<Possiamo dire fin d’ora che la festa è una categoria della cultura in quanto tale;
ch’essa è lo specchio e la risposta data dall’uomo alla propria condizione di precarietà.
(…) La festa si contrappone (ndr) …a tutto ciò che dell’esperienza umana si può
raccogliere nella categoria del quotidiano, dell’ordinario, della routine, ma anche del
male, del dolore, della precarietà, della debilità, dell’impotenza. A tutto ciò la società,
o il gruppo in festa, allude implicitamente o in modo esplicito, esaltando
l’extraquotidiano, il non ordinario, e riscattando il male, il dolore, la precarietà, la
debilità e l’impotenza nell’abbandonarsi alla sensualità, alla gaiezza, all’esaltante
partecipazione, alla fiduciosa autoidentificazione nella solidarietà del gruppo>> (V.
Lanternari)
Ma la festa, oggigiorno, appare “consumata”, tenuta in vita artificialmente o piegata
ad altri sensi e distorta entro una congerie di segni vuoti e simbolismi trasformati in
belletto.
Come interpretare il fatto che Franco Cardini, nell’introdurre il suo splendido libro
dedicato alle feste, finisce poi con il dichiarare che: “D’altra parte, lo storico e ancor
di più l’antropologo sono uccelli del tramonto; essi planano solo quando le tradizioni
sono al crepuscolo, e per essere testimoni del loro scomparire nella notte”. (Franco
Cardini) Mi sembra una esplicita ammissione della fine delle feste, o meglio del loro
sopravvivere in quello che egli chiama “festivalismo esumatorio”: “Tutto un bagaglio,
cioè, originariamente legato a comunità che la società industriale, il mondo
consumistico, i mass media, l’urbanesimo e l’emigrazione hanno lacerato, e il cui
linguaggio globale non si può usare né restaurare più nella misura in cui esso era
viceversa proprio espressione di un’organicità basata su antiche solidarietà e su
strutture produttive e mentali ormai in via di liquidazione. Ora, la ripresa di un
discorso festivo tradizionale non è proponibile se una comunità organica non se ne fa
portatrice; e l’esplosione delle comunità organiche, la crisi del mondo contadino,
pastorale e artigianale della penisola hanno reciso appunto in un modo che deve forse
considerarsi irreversibile le radici che collegavano tali comunità al loro passato”.

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Nei diversi autori, qualunque sia la posizione “ideologico-interpretativa”, prevale il
convincimento che la festa è ormai ridotta a puro contenitore vuoto e, forse proprio
per questo, disponibile a farsi riempire di ogni possibile contenuto. Restano le forme
apparenti, l’involucro, ma il senso è deformato, tanto da sostenere che, se la festa è
morta, è preferibile celebrarne il funerale piuttosto che assistere a “esperimenti di
macabra resurrezione”.
Così, Alfredo Cattabiani nella prefazione al suo saggio “Calendario” richiama con
forza il tema della fine della festa: “Sul finire di questo secolo molte tradizioni, ancora
vive al suo inizio benché presentassero già segni di disfacimento, sembrano
dissolversi nella ormai predominante concezione del tempo lineare e strumentale deve
le feste stanno perdendo la funzione di ponti fra la dimensione atemporale e quella
temporale, e sono ridotte, tranne in ambienti limitati, a comportamenti genericamente
e talvolta tetramente festosi, o a semplici occasioni di vacanze –dal verbo vacare,
essere vuoto, privo di impegni- e di compere affannose”.
Questa trasformazione della festa in vacanza era già stata inequivocabilmente
individuata nella “Dialettica dell’Illuminismo” (1947) di M. Horkheimer e T.W.
Adorno: “L’evoluzione va dalla festa primitiva alle vacanze”.
La lista degli autori che hanno registrato la “morte della festa” si allunga e, pur da
posizioni ed analisi sensibilmente diverse, sembrano condurre ad uno stesso luogo.
“…simili atti si compiono solo festivamente: solo su di un piano di esistenza umana
diverso da quello quotidiano. La tradizione sostituisce soltanto la propria intima
necessità di salire su quel piano. Ma se essa deve anche sostituire la festività, tutta la
festa acquista qualche cosa di morto, di grottesco, come i movimenti di chi danza per
chi improvvisamente perde l’udito e non ode più la musica. E chi non ode più la
musica, non danza; senza senso di festività non vi è la festa”. (K. Kerényi)
E’ sotto il segno di Kerényi che Furio Jesi chiudeva il suo lavoro sulla “conoscibilità
della festa”, ancora con una musica, una danza, un silenzio:

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Vorrei dormire; ma tu devi danzare
“Questo verso di Storm, evocando la situazione di chi ha perduto la danza come
esperienza di ‘vedere-essere’, e solo più ascolta la musica che può essere danzata,
diviene emblematico per la ‘festa’ dell’oggi. Vorrei dormire: è l’oblio di conoscenza
che può tradursi nella ‘festa’ dell’oggi, nella ‘festa’ in cui soltanto si ode il suono
della macchina mitologica, ma si esclude a priori l’eventualità di vedere”.
Ancora due voci: “In quanto alla dinamica storica e culturale, un suo momento
significativo è dato dalla trasformazione che la festa viene subendo nella società
contemporanea. Alludo al formarsi di nuovi tipi di feste, come risposta alternativa
all’ideologia alienante diffusa dalla civiltà dei consumi e dalle forze economiche che
la promuovono.Possiamo ben dire che spreco, ostentazione, competizione (già
contrassegni del momento festivo ‘eccezionale’) con la civiltà del consumismo e delle
multinazionali si trasformano in bisogni ordinari irrinunciabili. Sono portati a livello
della quotidianità e imposti come valori dominanti. Ma questi bisogni artificialmente
diffusi dalla pubblicità e dai mass media operano una lenta e insidiosa azione
desocializzante, disgregativa, alienante”. (V. Lanternari)
“C’è più di quanto tutti insieme potrebbero consumare, e allo scopo di consumarlo
affluiscono sempre più persone. (…) Non c’è una meta comune a tutti, che tutti
insieme dovrebbero raggiungere. La festa è la meta, ed essa è stata raggiunta. (…) Le
feste si chiamano l’un l’altra, e attraverso la concentrazione di cose e persone si
moltiplica la vita”.
(Elias Canetti)

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L’oro delle merci

L’arrivo delle festività natalizie viene scandito come un tempo il tamburo scandiva il
ritmo dei rematori: lento e solenne, poi sempre più accelerato, ossessivo, urgente sino
allo spasmo.
Consumi, aumento del costo della vita, crisi dei consumi, timore di non poter reggere
il ritmo di questa gigantesca e programmata distruzione di beni. Gli analisti si
avvicendano al capezzale del “consumatore ammalato”, debilitato dalla crisi e, perciò
stesso, bisognoso di stimoli più prepotenti.
La grande macchina della distribuzione è da tempo organizzata, le scorte sono state
approntate per tempo, gli scaffali già ammiccano con la loro promessa da paese di
Cuccagna.
In fondo si sa: la festa è spreco, eccesso, voglia ludica di accantonare la quotidianità,
le ristrettezze di ogni giorno; per una volta tanto “non fare i conti con la spesa”.
Bisogni indotti artificialmente e, altrettanto artificialmente, tenuti in vita: provate ad
attraversare la selva dei panettoni, il fiume in tempesta dei vini, la palude dei consigli,
lo stagno mieloso dei buoni sentimenti, delle famiglie perennemente sorridenti,
commosse, sostenute dalla finta ingenuità dei bambini-teatranti.
Il dato è noto, condiviso da più fonti, suffragato dai diversi sondaggi e dalle differenti
ricerche: neanche l’oro della tredicesima basterà, meglio, non basterà a tutti per
accedere al paradiso delle promesse, al santo graal dei doni infiniti: l’albero della
cuccagna è sempre stato cosparso di materiale untuoso e non tutti hanno la forza di
scalarlo per conquistarsi la corona di salsicce o il prosciutto profumato.
Non è certo un caso che l’approssimarsi delle feste coincide con l’attacco delle
finanziarie che con le loro offerte promettono di “realizzare i desideri nella massima
tranquillità e di rendere ancora più magiche le festività natalizie”; i grandi gruppi di
distribuzione invitano ad acquistare ora perché tanto si comincerà a pagare a Natale
del prossimo anno (naturalmente, al prossimo Natale saremo invitati a consumare per
indebitare il successivo): cresce il popolo delle rate e del pagamento in differita.

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I dati economici, pur nella loro valenza e significatività, non dicono quasi nulla sul
senso della festa: quel Natale che dovrebbe rappresentare il cuore della cristianità e
quel sentimento di partecipata solidarietà che fonda le comunità.
I Magi, persi nella società dei consumi, non troverebbero la loro stella-guida:
troverebbero un carnevale di luminarie e le infinite stelle comete finirebbero per
portarli disperatamente in giro da un negozio di intimo ad un supermercato, da un
megastore dell’ hi-fi all’enoteca; verrebbero travolti da una folla frettolosa e
affannata, storditi dalle musichette ripetitive che vorrebbero ricreare il “santo Natale”.
In fondo, se una pubblicità può dichiarare che “il Natale quando arriva, arriva”, allora
la notte magica della vittoria della luce sulle tenebre non ha bisogno di nessuna attesa
trepidante, perché nessuno più sembra ricordare la lotta eterna tra Notte e Giorno.
Resta, in fondo, una malinconia, una stanchezza dell’anima, ultimo inascoltato
segnale di una festa che non c’è più e che, nonostante i più avvertiti e sensibili
scrutatori di questo nostro tempo tentino di “rianimarla”, essa dilegua, sopraffatta dal
ritmo assordante del battitore del tamburo sulla nave dei balocchi.
Forse, in un baleno, riaffiora il senso della festa, nella memoria di persone, gesti, cose,
odori, sapori, come nella commossa dedica di Franco Cardini:
<<Alla memoria dei miei genitori, della mia famiglia d’una volta di cui rimango io
solo, della nostra povera casa in San Frediano; e delle feste che si facevano a Firenze
al tempo della miseria: lampadine colorate e fette di anguria. Sero vos amavi>>.

Crescenzo Fiore

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