Sei sulla pagina 1di 476

Titolo originale: Lust for Life

Traduzione dall’originale inglese


di Sergio Varini

I edizione aprile 1998


I edizione I grandi scrittori gennaio 2013
II edizione I grandi scrittori novembre 2014

© 1934 by Irving Stone


© 1999 Casa Editrice Corbaccio s.r.l., Milano
© 2013 Garzanti Libri S.r.l.
Casa Editrice Corbaccio è un marchio di Garzanti Libri S.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Irving Stone, indiscusso e ancora impareggiato maestro della biografia
romanzata, ripercorre in Brama di vivere il tormentato cammino della
vicenda umana e pittorica di Vincent Van Gogh, rivisitando tutti i luoghi in
cui l’artista visse e dipinse, ricreando le sue esaltazioni e le sue crisi, le sue
disperazioni e le sue speranze. Dopo gli anni della vocazione religiosa e
dell’apostolato fra i minatori del Borinage, Van Gogh visse le prime
esperienze di pittore a trent’anni: la sua prima opera fu esposta nel 1883.
Venne poi il periodo di Nuenen nel Brabante, il periodo parigino con i
contatti con gli impressionisti francesi, quello di Arles e quello di Saint-
Remy. Solo nove anni di breve ma folgorante ispirazione pittorica, fino al
suicidio in un campo di grano ad Auvers-sur-Oise il 27 luglio 1890.
Un’esistenza in cui la vita si identifica con la pittura in un drammatico
crescendo di tensione interiore e abbagliante creazione artistica.
PROLOGO

LONDRA

1.

— Monsieur Van Gogh! È ora che vi alziate!


Anche nel sonno, Vincent aveva atteso la voce di Ursula.
— Ero sveglio, Mademoiselle Ursula — rispose.
— Niente affatto — rise la ragazza. — Ma ora, sì che lo siete!
Vincent la sentì scendere le scale, entrare in cucina. Si cacciò le mani
sotto il corpo, si diede una spinta e balzò fuor dal letto. Spalle e petto
possenti, braccia muscolose e forti. Si vestì, versò un po’ d’acqua fresca da
una brocca e ripassò il filo del rasoio.
Gli piaceva questo rito quotidiano del radersi: prima un bel colpo giù
per la larga guancia, fino all’angolo destro della bocca voluttuosa; poi la
parte destra del labbro superiore, scendendo dalla narice, e quella sinistra;
quindi il mento, ampio e tondeggiante blocco di granito caldo.
Immerse la faccia nella ghirlanda d’erbe del Brabante e di foglie di
quercia, dono di suo fratello Theo, che le aveva raccolte nella landa vicino a
Zundert e gliele aveva mandate a Londra. L’odore dell’Olanda gli impregnò
le narici, facendo di colpo dileguare la luce del giorno.
— Monsieur Van Gogh! — chiamò Ursula, bussando nuovamente alla
porta. — Una lettera per voi, arrivata proprio ora.
Nell’aprire la busta, Vincent riconobbe la scrittura di sua madre.
«Caro Vincent, ti scrivo queste poche righe…».
Sentendosi la faccia fredda e bagnata, si mise la lettera nella tasca dei
pantaloni, ripromettendosi di leggerla in un momento di tranquillità da
Goupil. Si ravviò all’indietro i lunghi e folti capelli d’un biondo rossiccio,
s’infilò una camicia bianca inamidata dal colletto ampio, con una
svolazzante cravatta nera, scese a far colazione e a godersi il sorriso di
Ursula.
Ursula Loyer e sua madre, vedova di un curato d’origine provenzale,
avevano messo su un piccolo asilo infantile, situato in una casetta che
sorgeva nel giardino retrostante all’abitazione. Ursula aveva diciannove
anni ed era una creatura dagli occhi grandi e sorridenti, dalla delicata faccia
ovale dolcemente colorita, dalla personcina esile. Vincent godeva ad
osservare il riso luminoso che s’irradiava sul suo viso arguto come i riflessi
di un parasole dalle tinte sgargianti.
Ursula lo serviva con movimenti rapidi e graziosi, chiacchierando
vivacemente mentre egli mangiava. Lui aveva ventun anni, ed era
innamorato per la prima volta. La vita gli si apriva dinanzi. Pensava che
sarebbe stato un uomo ben fortunato, se avesse sempre potuto far colazione
seduto dirimpetto ad Ursula.
La fanciulla portò una fetta di lardo, un uovo ed una tazza di tè nero,
molto forte. Si sedette allegramente di fronte a lui, si toccò i riccioli scuri
sulla nuca e gli sorrise, passandogli il sale, il pepe, il burro e il pane
abbrustolito, una cosa dopo l’altra, con rapidità.
— La vostra reseda è già cresciuta un pochino — disse, inumidendosi le
labbra con la punta della lingua. — Volete darle un’occhiata prima di
andare alla galleria?
— Sì — rispose lui. — Se mi indicate… voglio dire, se volete avere la
cortesia di indicarmi dove si trova.
— Che tipo! Pianta la reseda, e poi non sa più dove sia! — Aveva un
modo tutto suo di parlare della gente come se non fosse presente.
Vincent deglutì. Aveva maniere pesanti e impacciate come il suo corpo:
non trovava mai, con Ursula, le parole che avrebbe voluto. Era una fresca
mattina d’aprile, ma i meli erano già fioriti. Un piccolo giardino separava la
casa dall’asilo infantile. Pochi giorni prima, Vincent aveva seminato
papaveri e piselli. La reseda era già spuntata su dal terreno. Vincent e
Ursula si accoccolarono intorno alla pianticella, con le teste che quasi si
toccavano. I capelli di Ursula avevano un loro profumo naturale che si
faceva fortemente sentire.
— Mademoiselle Ursula… — disse Vincent.
— Che cosa? — fece la ragazza, ritraendo la testa ma sorridendogli con
aria interrogativa.
— Io… Io… Cioè…
— Povera me, ma che cosa andate borbottando? — gli domandò Ursula,
rialzandosi di scatto. E mosse, seguita da lui, fino verso il cancello del
giardino. — Tra poco, i miei poupons saranno qui. Non arriverete in ritardo
alla galleria?
— Ho tempo. In tre quarti d’ora arrivo allo Strand.
Non trovando nulla da aggiungere, ella ripiegò ambo le braccia dietro il
capo, per fermare una piccola ciocca ricciuta che le scappava. Le curve del
suo busto erano di un’ampiezza sorprendente, per una figurina così sottile.
— E quel quadro del Brabante che mi avete promesso per l’asilo? — gli
domandò.
— Ho mandato a Parigi una riproduzione di uno schizzo di César de
Cock. Egli la dedicherà a voi.
— Oh, magnifico! — Batté le mani, fece un mezzo giro sui fianchi,
tornò a voltarsi. — A volte, Monsieur, ma soltanto a volte, siete proprio
carino.
Gli sorrise con gli occhi, con la bocca; fece per andarsene. Egli la prese
per il braccio.
— Ieri sera, quando sono andato a letto, vi ho trovato un nome. L’ange
aux poupons.
Ursula gettò indietro la testa, ridendo con gusto. — L’ange aux
poupons! Bisogna che vada a dirlo alla mamma!
Sfuggì alla sua stretta, gli sorrise ancora voltando il viso sulla spalla e,
attraversato di corsa il giardino, entrò in casa.

2.

Vincent si mise il cappello, prese i guanti e uscì sulla strada di Clapham.


In questa zona lontana dal cuore di Londra, le case erano rade, sparpagliate.
In ogni giardino fiorivano i lillà, i biancospini, gli avornielli.
Le otto e un quarto. Bastava che fosse da Goupil alle nove. Era un
camminatore vigoroso; a mano a mano che le case s’infittivano, incontrava
un numero sempre crescente di uomini d’affari che andavano al lavoro.
Provava per tutti un’immensa simpatia: anch’essi sapevano che cosa
meravigliosa sia l’essere innamorati.
Percorse la banchina del Tamigi, attraversò il ponte di Westminster,
passò accanto all’omonima Abbazia e al Parlamento, svoltò in Southampton
Street, nello Strand, ed entrò nella casa segnata col N° 17: la sede di
«Goupil & C, mercanti d’arte ed editori di incisioni».
Attraversando il salone ornato di folti tappeti e di sontuose tappezzerie,
vide una tela con una specie di pesce o drago lungo da cinque a sei metri,
cui sovrastava un ometto. Voleva rappresentare l’arcangelo Michele che
uccide Satana.
— C’è un pacco per te sul tavolo delle litografie — lo avvertì un
commesso, passando.
La seconda stanza del negozio, dopo il salone della pittura, dov’erano
esposti quadri di Millais, Boughton e Turner, ospitava le incisioni e le
litografie. Le vendite venivano contrattate nella terza stanza, che aveva più
che altro l’aspetto di un ufficio commerciale. Vincent rise al pensiero della
signora che aveva fatto l’ultimo acquisto della sera precedente.
— Che antipatico questo quadro, Harry, non trovi anche tu? — aveva
domandato al marito. — Quel cane sembra proprio quello che mi morse
l’estate scorsa a Brighton.
— Senti qua, vecchia mia — aveva risposto Harry. — Dobbiamo
proprio prendere un cane? Generalmente, non fanno che procurar grattacapi
alla padrona.
Vincent sapeva benissimo di vendere robaccia. La massima parte della
gente che veniva qua dentro non capiva nulla di ciò che comprava. Pagava
ad alto prezzo merce dozzinale; ma a lui che interessava? Lui doveva
soltanto badare a far funzionare bene il reparto delle incisioni.
Aprì il pacco proveniente da Parigi e spedito da Cesar de Cock. C’era
una dedica. «A Vincent e a Ursula Loyer: Les amis de mes amis sont mes
amis».
«Stasera le farò la dichiarazione, quando le darò questo — mormorò tra
sé. — Tra pochi giorni compio ventidue anni, e guadagno cinque sterline al
mese. Non c’è motivo d’aspettare più a lungo».
Nella stanza calma e silenziosa, il tempo passava rapidamente. Vendeva
in media cinquanta fotografie al giorno per conto di «Goupil & C.». Certo,
avrebbe preferito occuparsi di quadri e di stampe, comunque provava
soddisfazione ad incassare tanto denaro per la ditta. Aveva simpatia per i
suoi compagni di lavoro, ed essi per lui; passavano insieme molte ore
piacevoli discorrendo delle faccende europee.
Da ragazzo, era un tipo piuttosto chiuso, evitava la compagnia. La
gente, allora, lo trovava strano, un po’ eccentrico. Ma Ursula aveva operato
in lui una radicale trasformazione. Gli aveva infuso il desiderio di riuscire
simpatico e ben visto, l’aveva aiutato ad uscire da se stesso, gli aveva
insegnato ad apprezzare il lato buono della vita quotidiana.
Il negozio si chiudeva alle sei. Il signor Obach lo fermò mentre stava
per uscire.
— Ho ricevuto una lettera da tuo zio Vincent Van Gogh, dove mi
parlava di te. Voleva sapere come ti comporti. Sono stato lieto di
rispondergli che sei uno dei nostri migliori commessi.
— Molto gentile da parte vostra, signore.
— Ma ti pare? Dopo le ferie estive, conto di farti venir via da quella
stanza in fondo e farti lavorare nel reparto incisioni e litografie.
— Questo significa molto per me, in questo momento, perché… ho
intenzione di sposarmi!
— Davvero? Questa sì che è nuova. E quando?
— Quest’estate, credo. — Finora non aveva ancora pensato alla data.
— Bene, ragazzo mio. Magnifico. Hai già avuto un aumento di
stipendio proprio all’inizio di quest’anno, ma ho idea che quando tornerai
dal viaggio di nozze riusciremo a fartene dare un altro.

3.

— Ora andrò a prendervi il dipinto, Mademoiselle Ursula — disse


Vincent dopo pranzo, spingendo indietro la sedia.
Ursula indossava una veste color verderame ricamata secondo la moda
del tempo.
— L’artista ha scritto qualcosa di grazioso per me? — domandò.
— Sì. Prendete una lampada e io andrò ad attaccarvelo nell’aula dei
bambini.
Ella fece un’adorabile boccuccia che strappava i baci e gli lanciò una
sbirciata di sbieco. — Devo aiutare la mamma. Lo facciamo tra mezz’ora?
Salito in camera sua, Vincent posò i gomiti sullo stipetto e si guardò
nello specchio. Rare volte gli era accaduto di preoccuparsi dell’aspetto della
sua persona; in Olanda, a queste cose non badava. Già aveva notato che, a
confronto con gli inglesi, la sua faccia e la sua testa avevano un che di
massiccio. Gli occhi erano appiattati in due profonde fenditure di roccia; il
naso prominente, largo e dritto come un osso di stinco; l’arcata frontale
eguagliava in ampiezza la distanza dalle folte sopracciglia alla bocca
sensuale; le mascelle erano larghe e forti, il collo alquanto tozzo e
voluminoso; il mento poderoso pareva un monumento vivente al tipo
olandese.
Distogliendosi dallo specchio andò a sedersi pigramente sulla sponda
del letto. Era cresciuto in una casa austera. Non aveva mai amato nessuna
ragazza; anzi non ne aveva mai guardate, né scherzato con persone di altro
sesso, come si fa comunemente. Nel suo amore per Ursula non c’era ombra
di passione o di desiderio sensuale. Era giovane, idealista, innamorato per la
prima volta.
Diede un’occhiata all’orologio. Erano trascorsi appena cinque minuti. I
venticinque che ancora mancavano gli parevano un’eternità. Cavò dalla
busta della lettera materna un biglietto del fratello Theo, lo rilesse, Theo, di
quattro anni più giovane di lui, aveva ora assunto il suo posto nella
succursale di «Goupil & C.», all’Aia. Theo e Vincent, come già il loro
babbo Theodorus e lo zio Vincent, da ragazzi erano sempre stati legati da
un’amicizia particolare.
Prese un libro, vi appoggiò sopra un foglio di carta e scrisse alcune
righe al fratello. Trasse dal cassetto superiore dello stipetto alcuni schizzi
eseguiti alla meglio lungo il Tamigi e li mise in una busta per mandarli a
Theo, con una riproduzione fotografica della Ragazza con la spada di
Jacquet.
«Accidenti! — esclamò poi. — Mi sono completamente dimenticato di
Ursula!».
Guardò l’orologio: aveva già un quarto d’ora di ritardo. Afferrò un
pettine, cercò di ravviare gli arruffati e ondulati capelli rossi, prese sul
tavolo il dipinto di Cesar de Cock e scappò via lasciando la porta aperta.
— Credevo vi foste dimenticato di me — disse Ursula, quando scese in
salotto. Stava incollando giocattoli di carta per i suoi poupons. — Mi avete
portato il quadro? Posso vederlo?
— Vorrei attaccarlo, prima che lo guardiate. Avete trovato la lampada?
— L’ha la mamma.
Quando Vincent uscì dalla cucina, ella gli diede una sciarpa azzurra
perché se l’avvolgesse intorno al collo. Il contatto della seta lo fece
rabbrividire. Nel giardino, si sentiva il profumo dei meli in fiore. Il sentiero
era buio, ed Ursula gli posò leggermente le punte delle dita sulla manica
della giacca nera, di stoffa ruvida. A un certo momento inciampò, si strinse
più forte al braccio di lui e rise allegramente di sé. Egli non comprendeva
perché trovasse tanto buffo il fatto d’inciampare, ma gli piacque vedere il
suo corpo curvarsi in quell’accesso d’ilarità lungo il sentiero tenebroso. Le
aprì la porta. Nel passare, sfiorandolo quasi col viso dai lineamenti delicati,
ella lo guardò profondamente negli occhi e parve rispondere alla sua
domanda prima ancora che egli l’avesse formulata.
Vincent collocò la lampada sul tavolo.
— Dove volete che lo appenda?
— Sopra il mio tavolino, non vi pare?
Nell’aula, che faceva parte di quella ch’era stata un tempo una residenza
estiva, c’era una quindicina di seggiole basse e tavolinetti. In fondo una
piccola pedana che reggeva il tavolo di Ursula. A fianco a fianco, cercarono
il punto giusto sulla parete. Vincent era nervoso: lasciò subito cadere i
chiodi. Ella rise di lui, con un tono calmo e intimo.
— Qua, buono a niente, lasciate fare a me.
E, alzando le braccia al disopra del capo, prese a lavorare con
movimenti agevoli di tutto il corpo, con gesti rapidi e graziosi. Vincent
avrebbe voluto prenderla tra le braccia lì, nel tenue bagliore della lampada,
e sistemare con un vigoroso abbraccio l’intera faccenda. Ma Ursula, pure
sfiorandolo frequentemente in quella dubbia luce, pareva non trovarsi mai
nella posizione adatta. Vincent sollevò la lampada, perché ella potesse
leggere la dedica. Ursula batté le mani, contenta, si dondolò all’indietro sui
talloni. Si moveva così di continuo, che egli non riusciva mai ad afferrarla.
— Così è diventato anche amico mio, nevvero? — disse. — Ho sempre
desiderato tanto di conoscere un artista.
Vincent tentò di dirle qualcosa di tenero, qualcosa che aprisse la strada
ad un’aperta dichiarazione d’amore. Nella penombra, Ursula volse la faccia
verso di lui. L’oscillante chiarore della lampada suscitò nei suoi occhi
piccoli guizzi luminosi. L’ovale del suo volto spiccava nel buio. Qualcosa
che non avrebbe saputo definire s’agitò dentro di lui nel distinguere su quel
levigato pallore le labbra rosse e umide.
Subentrò una pausa carica di cose inespresse. Ebbe l’impressione
ch’ella gli si facesse più vicina, aspettando che pronunciasse le superflue
parole d’amore. Si umettò diverse volte le labbra. Ursula volse il capo, lo
guardò negli occhi alzando lievemente la spalla e scappò via.
Incalzato dall’affanno di veder fuggire per sempre l’occasione, Vincent
la inseguì. Ella si soffermò un momento sotto il melo.
— Ursula, vi supplico…
Ella lo guardò, lievemente fremendo. Brillavano fredde le stelle. La
notte era nera. Egli aveva lasciato la lampada nell’aula. Solo dalla finestra
della cucina veniva un fioco alone di luce. Il profumo dei capelli di Ursula
gli impregnava le narici. Ella si strinse nello scialle di seta, incrociò le
braccia sul petto.
— Avete freddo — le disse lui.
— Sì. È meglio che rientriamo.
— No, vi prego! — E le sbarrò il sentiero.
Ella nascose il mento nel tepore dello scialle, guardandolo con occhi
dilatati dallo stupore. — Temo di non comprendervi, Monsieur Van Gogh.
— Volevo solo parlarvi. Vedete, io…
— Non ora, per favore. Ho i brividi.
— Pensavo che aveste già compreso. Oggi ho ricevuto una
promozione… Passerò nel reparto litografie… Sarà il secondo aumento di
stipendio che ottengo quest’anno…
Ursula diede un passo indietro, aprì lo scialle sul petto e si erse
risolutamente nella notte, come se non sentisse più il freddo.
— Insomma, che cosa volete dirmi, Monsieur Van Gogh?
Avvertendo la freddezza della sua voce, egli si ribellò contro la propria
impacciata timidezza. Di colpo l’emozione l’abbandonò; si sentì calmo,
padrone di sé. Passò mentalmente in rassegna diversi toni di voce e scelse
quello che gli parve più adatto.
— Voglio dirvi, Ursula, una cosa che già sapete. Vi amo con tutto il
cuore e sarò felice soltanto se vorrete essere mia moglie.
Notò come la sorprendesse questo suo improvviso dominio di se stesso.
Si domandò, se dovesse prenderla tra le braccia.
— Vostra moglie! — esclamò la ragazza, alzando alquanto la voce. —
Ma è impossibile, Monsieur Van Gogh!
Egli la fissò di sotto la fronte prominente e rocciosa: Ursula distinse
perfettamente, nel buio, i suoi occhi.
— Ora temo di essere io a non…
— Strano, che non sapeste. Da più d’un anno sono fidanzata.
Vincent non avrebbe poi saputo dire quanto tempo restasse lì, che cosa
pensasse, che cosa sentisse.
— Con chi? — domandò poi, come intontito.
— Oh, non avete mai visto il mio fiancé? Occupava la vostra stanza,
prima che veniste voi. Credevo lo sapeste.
— Come avrei potuto saperlo?
Ella guardò in direzione della cucina, alzandosi in punta di piedi.
— Ebbene, immaginavo… che qualcuno ve l’avesse detto.
— Perché mi avete tenuto nascosto questo fatto, per tutto l’anno, dal
momento che sapevate che stavo innamorandomi di voi? — La sua voce,
ora, non rivelava più impaccio né esitazione.
— Che ne potevo io, se eravate innamorato di me? Volevo
semplicemente che fossimo amici.
— È venuto qualche volta a trovarvi, da quando io sono qui?
— No. Sta nel Galles. Verrà a passare qui l’estate con me.
— Non lo vedete da un anno? Ma allora l’avete dimenticato! E adesso
volete bene a me!
Buttando all’aria ogni buonsenso ed ogni discrezione, la ghermì e la
baciò violentemente sulla bocca riluttante. Assaporò l’umidore delle sue
labbra, la dolcezza della sua bocca, il profumo dei suoi capelli; tutto
l’intenso fremito dell’amore gli si scatenò nel sangue.
— Ursula, tu non lo ami. Non ti permetterò di volergli bene. Sarai mia
moglie. Non posso perderti. Insisterò fino a quando l’avrai dimenticato e mi
sposerai.
— Sposarvi! — ella proruppe. — Devo forse sposare chiunque
s’innamori di me? Su, lasciatemi andare. Avete capito? Altrimenti, mi metto
a gridare.
Si strappò alla sua stretta e fuggì affannosamente per il sentiero buio.
Raggiunta la gradinata, si voltò e gli lanciò, con un sussurro che lo colpì
come un urlo, queste parole: — Pazzo dalla testa rossa!

4.

La mattina dopo, nessuno salì a chiamarlo. Scese dal letto come un


automa sonnolento. Si rase distrattamente, lasciando intatti parecchi punti.
A colazione, Ursula non si fece vedere. Egli si avviò verso la città.
Sfiorando gli stessi individui che aveva visto la mattina precedente, gli
parvero completamente diversi. Sembravano anime in pena, anime di
nessuno, che s’affrettassero tristemente verso un’inutile fatica.
Non vide gli avornielli in fiore, né i castagni che fiancheggiavano la
strada. Il sole splendeva anche più raggiante che la mattina precedente: egli
non se ne accorse.
Durante la giornata, vendette venti épreuves d’artiste a colori della
Venere Anadiomene di Ingres. Un bel profitto per la ditta Goupil: ma
Vincent non provava più nessuna soddisfazione a far denaro per la galleria.
Si spazientiva con i clienti. Trovava che non soltanto non sapevano
distinguere tra un’opera bella e un’opera brutta, ma rivelavano una vera
genialità nello scegliere le cose più artificiose, più banali, più dozzinali.
I suoi colleghi non l’avevano mai ritenuto un tipo allegro; ma aveva
fatto sempre del suo meglio per riuscire simpatico.
— Che cosa avrà, secondo te, il membro della nostra illustre famiglia
Van Gogh? — domandò un commesso ad un altro.
— Stamattina si sarà alzato male.
— Non avrebbe proprio nessun motivo di preoccuparsi. Suo zio,
Vincent Van Gogh, è comproprietario delle gallerie Goupil di Parigi,
Berlino, Bruxelles, L’Aia e Amsterdam. È vecchio, malato e senza figli; si
dice che lascerà a costui la metà della sua sostanza.
— Certa gente nasce proprio con la camicia.
— E non è tutto. Suo zio Hendrik Van Gogh possiede grandi negozi di
oggetti d’arte a Bruxelles e ad Amsterdam; eppoi un altro zio, Cornelius
Van Gogh, è a capo della più importante ditta olandese. Un bel giorno il
nostro rosso della sala di là avrà praticamente sotto il suo controllo tutto il
commercio d’arte del continente!
Entrando quella sera nella sala da pranzo, Vincent trovò Ursula e sua
madre intente a discorrere sottovoce. Al suo entrare tacquero, lasciando in
sospeso una frase.
Ursula corse in cucina.
— Buona sera — disse la signora Loyer, sbirciandolo in modo strano.
Vincent pranzò da solo, seduto all’ampia tavola. Il colpo infertogli da
Ursula l’aveva stordito, ma non battuto. Non si sarebbe accontentato di quel
«no». Le avrebbe cancellato dalla mente quell’altro.
Ci volle quasi una settimana, prima che gli riuscisse di farsi ascoltare. In
tutti questi giorni aveva mangiato e dormito pochissimo; all’intontimento
era subentrato il nervosismo. Alla galleria, il livello delle sue vendite era
considerevolmente scemato. I suoi occhi avevano perso il loro color verde,
per assumere una malinconica tinta azzurra. Stentava più che mai a trovare
le parole.
Dopo il desinare domenicale, la seguì in giardino.
— Mademoiselle Ursula, mi dispiace di avervi spaventata alcune sere
fa…
Ella alzò fuggevolmente verso di lui i grandi occhi freddi, sorpresa che
egli l’avesse seguita. — Oh, non importa. Cose senza importanza. Non
pensiamoci più, volete?
— Mi piacerebbe tanto poter dimenticare d’essere stato così rude con
voi. Ma le cose che vi ho detto erano vere.
Fece un passo verso di lei, che si scostò.
— Perché riparlarne? È un episodio che io ho completamente
dimenticato. — E, voltandogli le spalle, si avviò per il sentiero.
Vincent le tenne dietro.
— Bisogna che ve ne parli ancora. Voi non vi rendete conto di quanto vi
amo, Ursula! Non immaginate quanto sono stato infelice, questa settimana.
Perché continuate a sfuggirmi?
— Rientriamo? Credo che la mamma aspetti gente.
— Non può essere che amiate quell’altro. L’avrei letto nei vostri occhi.
— Temo di non aver più tempo da perdere. Quand’è che vi proponete di
partire per le ferie?
— A luglio — rispose con sforzo.
— Ma guarda che fortunata combinazione. Il mio fidanzato deve
appunto venire a passar qui con me il mese di luglio, e avremo bisogno
della stanza.
— Non vi cederò mai a lui, Ursula!
— Dovete semplicemente smetterla con queste storie. Altrimenti, dice
la mamma che prenderemo un altro pensionante.
Per due mesi ancora, egli tentò di persuaderla. Era tornato ad essere in
tutto e per tutto il tipo d’un tempo: se non poteva vivere con Ursula,
ebbene, se ne sarebbe stato solo con se stesso, in modo da poter pensare
liberamente a lei. In negozio, trattava scortesemente i clienti. Tutto ciò che
era stato destato in lui dall’amore per Ursula, s’era riaddormentato: egli
ridiventò il ragazzo cupo e scontroso dei tempi di Zundert.
Giunse il mese di luglio, e con esso il periodo di ferie. Gli rincresceva
lasciare Londra per due settimane. Aveva la sensazione che Ursula non
potesse amare nessun altro, finché lui era presente.
Scese in salotto. Ursula e la madre, lì sedute, si scambiarono
un’occhiata significativa.
— Mi porterò via soltanto un po’ di roba, madame Loyer; lascerò tutto
il resto nella stanza, come si trova ora. Ecco l’anticipo per le due settimane
in cui non ci sarò.
— Credo che fareste meglio a portare via tutto, Monsieur Van Gogh —
rispose la signora.
— E perché?
— La vostra stanza è già affittata a cominciare da lunedì mattina.
Pensiamo sia meglio che andiate ad abitare altrove.
— Pensate? Tutte e due?
E si volse a guardare Ursula, con le sopracciglia accentuatamente
aggrottate. Quello sguardo non voleva affermare nulla: era semplicemente
una domanda.
— Sì, tutte e due — confermò la madre. — Il fiancé di mia figlia ha
scritto che non vi vuole in questa casa. Purtroppo, Monsieur Van Gogh,
sarebbe stato meglio che non ci foste venuto mai.
5.

Theodorus Van Gogh andò a prendere il figlio alla stazione di Breda con
una carrozza. Indossava l’austero abito nero della sua professione di
ministro del culto, un panciotto dagli ampi risvolti, una camicia bianca
inamidata, con una cravatta dal grosso nodo nero, che lasciava scoperta
soltanto una striscia sottile del colletto alto. Con una rapida occhiata,
Vincent colse i due elementi più caratteristici della fisionomia paterna: la
palpebra destra più bassa della sinistra, sì da coprire in gran parte l’occhio;
la bocca che all’angolo sinistro formava una linea esile e fine, mentre
all’angolo destro era carnosa e sensuale. Gli occhi avevano un’espressione,
per così dire, passiva, che significava semplicemente: «Questo sono io».
Gli abitanti di Zundert notavano spesso che il reverendo Theodorus
andava in giro a far del bene con un imponente cappello di seta in testa.
Fino all’ultimo dei suoi giorni, non comprese mai perché non gli
arridesse maggiormente il successo. Si riteneva meritevole d’esser chiamato
da tempo a reggere una importante parrocchia ad Amsterdam o all’Aia. I
suoi parrocchiani lo chiamavano: «Il bel pastore». Era un uomo
d’educazione compita, di temperamento affettuoso, dotato di belle qualità
intellettuali e spirituali, infaticabile nel servizio di Dio. Eppure da
venticinque anni viveva sepolto e dimenticato in quel paesuccio di Zundert.
Era l’unico dei sei fratelli Van Gogh che non avesse raggiunto, con la sua
posizione, una notorietà nazionale.
La casa parrocchiale di Zundert, dov’era nato Vincent, consisteva in un
edificio di legno situato sulla via del mercato e dello stadhuis. Dietro la
cucina s’apriva un giardino con acacie e tanti piccoli sentieri che correvano
tra aiuole di fiori assai curati. Anche la chiesetta era un piccolo edificio di
legno, nascosto tra gli alberi proprio dietro il giardino, con due finestrelle
gotiche per parte, forse una dozzina di banchi sul pavimento di assi e una
quantità di scaldini che rimanevano lì in permanenza. In fondo, una scala
che dava accesso all’organo. In complesso, un austero e semplice luogo di
preghiere, dove dominava lo spirito di Calvino e della sua riforma.
Anna Cornelia, la mamma di Vincent, stava in attesa alla finestra della
facciata e, prima che la carrozza si fermasse, s’era già precipitata fuori dalla
porta. Mentre si stringeva il figlio all’ampio seno, s’accorse che c’era in lui
qualcosa che lo affliggeva.
— Myn lieve zoon! — mormorò. — Vincent mio!
I suoi occhi, ora azzurri ora verdi, sempre completamente aperti,
dolcemente interrogativi, vedevano in cuore alle persone, sempre con
indulgente comprensione. Le due rughe sottili che dai lati delle narici
scendevano verso gli angoli della bocca andavano approfondendosi con gli
anni: ma più si accentuavano, più davano l’impressione di una faccia
increspata da un lieve sorriso.
Anna Cornelia Carbentus era dell’Aia, dove suo padre rivestiva la carica
di «Legatore di libri della Real Casa». Gli affari di Guglielmo Carbentus
andavano a gonfie vele; l’incarico di rilegare la prima Costituzione
olandese lo aveva reso noto da un capo all’altro della nazione. Le sue figlie
— una delle quali aveva sposato lo zio Vincent Van Gogh e una terza il ben
noto reverendo Stricker di Amsterdam — erano davvero bien élevées.
Anna Cornelia era inoltre una gran brava donna. Ignorava il male, non
lo vedeva mai in nulla. Sapeva soltanto che le creature umane vanno
soggette alla debolezza, alla tentazione, alle sofferenze e al dolore. Anche
Theodorus Van Gogh era un brav’uomo, ma comprendeva a fondo il male e
ne condannava inesorabilmente anche i più lievi indizi.
La sala da pranzo era situata al centro dell’abitazione dei Van Gogh e la
grande tavola, una volta sparecchiata, diventava il centro della vita
familiare, dove tutti si raccoglievano a passar la sera intorno all’amichevole
lampada a petrolio. Anna Cornelia era preoccupata per Vincent: lo trovava
smagrito, ravvisava nei suoi modi un che di nervoso.
— C’è qualcosa che non va, Vincent? — gli domandò quella sera, dopo
cena. — Non ti trovo bene.
Vincent lanciò un’occhiata intorno alla tavola, dove sedevano Anna,
Elisabetta e Willemien, quelle tre strane ragazze ch’erano le sue sorelle.
— No, va tutto bene.
— Ti piace Londra? — domandò Theodorus. — Se non ti va, ne parlerò
con lo zio Vincent. Credo che non avrebbe difficoltà a trasferirti in una delle
gallerie di Parigi.
Vincent si agitò. — No, no, non devi! — proruppe. — Non voglio venir
via da Londra, io… — Si calmò. — Quando lo zio Vincent vorrà farmi
cambiar posto, sono certo che ci penserà da solo.
— Come vuoi — disse Theodorus.
«È per quella ragazza — pensò Anna Cornelia. — Adesso capisco ciò
che c’era nelle sue lettere».
La landa nelle vicinanze di Zundert era cosparsa di boschi di pini e di
ciuffi di querce. Vincent passava ora le giornate a camminar solo per i
campi, soffermandosi a fissare le acque degli stagni di cui era disseminata
la brughiera. L’unica sua distrazione consisteva nel disegnare: eseguì una
quantità di schizzi ritraendo il giardino, il mercato del sabato pomeriggio
visto dalla finestra della casa parrocchiale, l’ingresso dell’abitazione. Di
tanto in tanto gli riusciva di dimenticare per qualche momento Ursula.
Theodorus aveva sempre trovato un motivo di delusione nel fatto che il
figlio maggiore non seguisse le sue orme. Andavano talvolta insieme a
visitare un contadino ammalato; tornando poi attraverso la landa,
scendevano dalla carrozza e camminavano un poco. Il sole tramontava tra
rossi bagliori dietro i pini, il cielo serale si specchiava negli stagni, nella
brughiera e sulle sabbie dorate regnava un immenso respiro d’armonia.
— Mio padre era parroco, Vincent, ed io ho sempre sperato che tu
tenessi viva la tradizione.
— Che cosa ti fa pensare che io desideri cambiar mestiere?
— Dicevo così, qualora tu volessi… Potresti abitare presso lo zio Jan ad
Amsterdam, mentre fai gli studi all’università. Il reverendo Stricker sarebbe
ben disposto ad occuparsi di te.
— Mi consigli di piantare Goupil?
— No, no di certo. Ma se là non ti trovi bene… A volte sopravvengono
in noi dei cambiamenti…
— Capisco. Ma non ho nessuna intenzione di venir via dalla ditta.
I genitori lo accompagnarono fino a Breda, quando dovette ripartire per
Londra.
— Dobbiamo sempre scriverti allo stesso indirizzo, Vincent? — gli
domandò Anna Cornelia.
— No. Mi trasferisco.
— Sono contento che te ne vada dalla casa delle Loyer — osservò suo
padre. — Non mi sono mai piaciute. Hanno troppi segreti.
Vincent s’irrigidì. La mamma gli mise una mano sulla sua e aggiunse
sottovoce, perché Theodorus non udisse: — Non essere triste, caro. Col
tempo, quando avrai una posizione più solida, ti troverai molto meglio con
una bella olandesina. Quell’Ursula non farebbe per te. È troppo diversa.
Egli si domandò come sua madre potesse sapere.

6.

Di ritorno a Londra, si stabilì in Kensington New Road. L’affittacamere


era una piccola vecchia signora che si ritirava ogni sera alle otto. Nella casa
non s’udiva mai il minimo rumore. Egli doveva sostenere ogni sera una
dura lotta con se stesso, per non precipitarsi dalle Loyer. Si chiudeva a
chiave nella stanza, giurava e spergiurava a se stesso di mettersi a letto. Un
quarto d’ora dopo, chissà come, si trovava in istrada diretto verso la casa di
Ursula.
Arrivando all’altezza della casa di lei, si sentiva tutto preso
dall’atmosfera della ragazza. Che tortura, sentirla tanto e non poter giungere
fino a lei! Ma era una tortura infinitamente più crudele trovarsi lì,
nell’androne di Ivy Cottage, e non poterla avvicinare, non poter penetrare
nel vivo alone della sua perturbante personalità.
La sofferenza agiva stranamente su di lui. Lo rendeva sensibile alla
sofferenza altrui. Lo rendeva intollerante d’ogni volgarità trionfante nel suo
mondo quotidiano. Alla galleria, non combinava più nulla di buono.
Quando i clienti gli chiedevano la sua opinione su una data stampa, non
esitava ad affermarne recisamente l’orribile bruttezza ed essi non
compravano più. Le uniche pitture in cui trovasse verità e profondità di
commozione, erano quelle in cui l’artista aveva espresso il dolore.
In ottobre venne una corpulenta signora con un alto colletto di trina, un
petto prominente, una giacca di zibellino e un cappello di velluto dalla
piuma azzurra, e chiese di vedere alcuni quadri per la sua nuova casa in
città. Toccò a Vincent accontentarla.
— Voglio quanto di meglio avete in magazzino. Non dovete
preoccuparvi del costo. Ecco le dimensioni: nella sala ci sono due pareti
lunghe cinquanta piedi, senza interruzioni, e un’altra che ha due finestre,
con uno spazio centrale…
Egli cercò per quasi tutto il pomeriggio di farle acquistare alcune
incisioni di opere di Rembrandt, una eccellente riproduzione di una marina
veneziana di Turner, alcune litografie su soggetti di Thys Maris e splendide
riproduzioni fotografiche di quadri di Corot e Daubigny. Quella donna
aveva un istinto infallibile nello scegliere, fra tutte le opere di un pittore che
Vincent le presentava, le più scadenti. E possedeva un’eguale genialità nel
respingere a prima vista, nella maniera più perentoria, tutto ciò che secondo
lui valeva veramente. Col passar delle ore, quella cicciona con le sue
puerilità piene di condiscendenza divenne per lui il perfetto simbolo
dell’imbecillità e della volgarità delle classi medie.
— Ecco! — esclamò la signora con aria soddisfatta. — Credo d’aver
scelto bene.
— Tanto valeva che aveste chiuso gli occhi e preso a casaccio — disse
Vincent: — non vi sarebbe capitato di peggio.
La donna balzò faticosamente in piedi, scostando con un gesto le lunghe
falde della gonna. Vincent poté scorgere un turgido flusso di sangue salirle
dal petto enorme al collo, sotto il colletto di trina.
— Ma come! — esclamò. — Lo sapete, che cosa siete? Nient’altro che
un villanzone!
E se ne andò tempestosamente, facendo oscillare avanti e indietro la
vistosa piuma del cappello.
Il signor Obach era indignato.
— Mio caro Vincent, che cosa fai? Hai mandato a monte il più
bell’affare della settimana, offendendo quella donna!
— Mi permettete di rivolgervi una domanda, signor Obach?
— Che cosa? Per conto mio, ci sono poche domande da fare.
Vincent spinse da parte le stampe scelte dalla signora e posò ambo le
mani sull’orlo del tavolo. — Ditemi dunque: come può un uomo
giustificare di fronte a se stesso il fatto di passare la sua unica vita a vendere
pessimi quadri a gente stupida?
Obach non tentò nemmeno di rispondere alla domanda. Disse invece: —
Se continui di questo passo, dovrò scrivere a tuo zio e farti trasferire ad un
altro reparto. Non posso permettere che tu mi rovini gli affari.
Vincent accolse la minaccia con un gesto elusivo della mano. — Perché
dobbiamo fare così lauti guadagni vendendo porcherie, signor Obach? E
perché le uniche persone che possono permettersi di entrar qui sono proprio
quelle che non sanno valutare le autentiche opere d’arte? È forse il denaro a
renderle così grossolane nei gusti? E perché i poveri che sanno apprezzare
le cose belle non hanno un centesimo da spendere per adornare le pareti
della loro casa?
Obach lo guardò incuriosito. — Che cos’è questo? Socialismo?
Rincasando, Vincent prese sul tavolo un volume di Renan e lo aprì ad
una pagina segnata. «Per ben operare in questo mondo, dobbiamo morire a
noi stessi. L’uomo non è su questa terra per godere la felicità, né per essere
semplicemente onesto: è qui per compiere grandi cose a vantaggio
dell’umanità, nobilitandosi ed evadendo dalla volgarità in cui si trascina
l’esistenza della maggior parte degli individui».
Una settimana circa prima di Natale, le Loyer eressero nel vano della
finestra un grazioso albero natalizio. Passando davanti al villino due giorni
dopo, di sera, egli scorse le stanze bene illuminate, vicini che entravano.
Udì dall’interno un rumore di voci e di risa. Le Loyer offrivano il consueto
ricevimento natalizio. Vincent corse a casa, si rase in fretta e furia, indossò
una camicia di bucato, una cravatta nuova, e tornò di corsa verso Clapham.
Dovette aspettare parecchi minuti in fondo alle scale, perché il respiro gli si
calmasse.
Ecco Natale. Atmosfera di gentilezza, di bontà, di indulgenza. Salì.
Bussò. Udì un passo ben noto attraversare l’atrio, una voce ben familiare
lanciare qualche parola agli ospiti in salotto. La porta s’apri. La luce della
lampada gli cadde sul viso. Guardò Ursula. Indossava una polonaise verde,
senza maniche, con ampi nodi e cascate di merletto. Non l’aveva mai vista
così bella.
— Ursula…
Il viso di lei assunse un’espressione che ripeteva chiaramente tutto ciò
che già gli aveva detto in giardino. Guardandola, egli ricordò quelle parole.
— Andatevene.
E gli sbatté la porta in faccia.
La mattina dopo, Vincent s’imbarcò per l’Olanda.
Il Natale segnava per le Gallerie Goupil l’epoca di maggior lavoro. Il
signor Obach scrisse allo zio Vincent, riferendogli che suo nipote s’era
preso le vacanze senza dir nulla a nessuno. Lo zio Vincent decise di
trasferire il giovinotto alla galleria principale, in Rue Chaptal a Parigi.
Vincent annunciò con tutta calma che ne aveva abbastanza del
commercio d’arte. Lo zio ne fu sorpreso e profondamente offeso. Dichiarò
che da questo momento non si sarebbe più occupato di lui: se ne lavava le
mani. Ma dopo le feste cessò di lavarsele, quanto bastava per procurare
all’omonimo nipote un impiego nella ditta «Blussé & Braam», a Dordrecht.
Fu questa l’ultima occasione in cui i due Vincent Van Gogh ebbero a che
fare l’uno con l’altro.
Vincent rimase a Dordrecht circa quattro mesi. Non era contento né
scontento; non se la cavava né bene né male. Semplicemente, viveva col
pensiero altrove. Un sabato sera prese l’ultimo treno per Oudenbosch, indi
si diresse a piedi verso casa. Com’era stupenda la brughiera di Zundert, con
i freschi e pungenti odori della notte! Nonostante l’oscurità, distingueva i
boschi di pini e le erbe della landa che si stendeva verso infinite lontananze.
Il paesaggio gli ricordava quell’incisione di Bodmer che era appesa alla
parete nello studio del babbo. Il cielo era coperto, ma le stelle brillavano tra
le nuvole. Alle prime ore del mattino, giunse al cimitero di Zundert: si
udivano le allodole cantare laggiù sui campi scuri di grano ancora tenero.
I genitori compresero che stava attraversando un periodo di crisi. Verso
l’estate, la famiglia si trasferì a Etten, cittadina commerciale a pochi
chilometri di distanza, dove Theodorus era stato nominato parroco. Etten
aveva una vasta piazza circondata da olmi e un treno a vapore che la
collegava con l’importante città di Breda. Per Theodorus, si trattava di un
piccolo passo avanti.
Al venir dell’autunno, una decisione s’impose. Ursula non era ancora
sposata.
— Non sei adatto per quell’attività commerciale — disse il babbo. —
Hai in te la vocazione al servizio divino.
— Lo so, babbo.
— E allora, perché non vai a studiare ad Amsterdam?
— Vorrei andarci, ma…
— Esiti ancora in cuor tuo?
— Sì. Adesso non posso spiegarti. Lasciami ancora un po’ di tempo.
Passò a Etten lo zio Jan. — Ad Amsterdam, in casa mia, c’è una stanza
a tua disposizione, Vincent — disse.
— Il reverendo Stricker ha scritto che ti procurerà ottimi insegnanti —
aggiunse la mamma.
Il doloroso colpo infertogli dalla ripulsa di Ursula lo aveva fatto
ripiegare verso i diseredati della terra. Ora sapeva che per lui c’era una via
sola: recarsi all’università di Amsterdam. Tanto i Van Gogh quanto gli
Stricker sarebbero stati lieti di ospitarlo, incoraggiarlo, fornirgli denaro,
libri, simpatia. Ma non riusciva a risolversi. Ursula era sempre lassù in
Inghilterra, nubile. Stando in Olanda, aveva perso ogni contatto con lei. Si
fece arrivare giornali inglesi, rispose ad una quantità di annunci pubblicitari
d’offerte d’impiego e infine ottenne un posto d’insegnante a Ramsgate, città
di mare a quattro ore e mezza di treno da Londra.

7.

La scuola del signor Stokes sorgeva in una piazza, in mezzo alla quale si
stendeva una vasta radura erbosa circondata da una cancellata di ferro.
Ventiquattro alunni, dai dieci ai quattordici anni d’età. Vincent doveva
insegnare francese, tedesco e olandese, tener d’occhio i ragazzi dopo le
lezioni, sorvegliarli durante il bagno del sabato sera. Compenso: vitto e
alloggio; nessuno stipendio.
Ramsgate era una località malinconica, ma che ben s’adattava al suo
umore. Senza avvedersene, egli aveva imparato ad amare la propria
sofferenza come una compagna cara: grazie ad essa, Ursula gli restava
sempre vicina. Del resto, che cosa gl’importava di trovarsi qua o là, dal
momento che non poteva essere con la fanciulla amata? S’accontentava che
nessuno s’interponesse tra lui e la pesante malinconia di cui il pensiero di
Ursula gli saturava anima e corpo.
— Non potreste corrispondermi almeno un piccolo stipendio? — chiese
al signor Stokes. — Quanto basta per il tabacco e i vestiti…
— Impossibile. Con vitto e alloggio, insegnanti ne trovo a volontà.
Il primo sabato, di buon mattino, Vincent partì da Ramsgate per Londra.
Una ben lunga passeggiata, con un caldo che durò fino a sera. Giunse
finalmente a Canterbury. Riprese a camminare, finché arrivò ad un
boschetto di grandi faggi ed olmi presso un piccolo stagno. Lì dormì fino
alle quattro del mattino; lo svegliò all’alba il canto degli uccelli. Nel
pomeriggio giunse a Chatham, dove vide in lontananza, tra bassi prati in
parte sommersi, il Tamigi solcato da battelli e bastimenti. Verso sera entrava
nei noti sobborghi di Londra. Nonostante la stanchezza, si precipitò verso la
casa delle Loyer.
Lo scopo per cui era tornato in Inghilterra fu raggiunto nell’istante in
cui gli si presentò allo sguardo quel villino. In Inghilterra, ella era ancora
sua, perché poteva sentirla, essere a contatto con lei.
Non riusciva a calmare i battiti del cuore. S’appoggiò ad un albero,
lacerato da uno spasimo che nessuna parola avrebbe potuto esprimere.
Infine la luce si spense nel salotto di Ursula, quindi anche nella sua stanza
da letto. Tutta la casa sprofondò nel buio. Vincent si strappò da là e riprese
la strada di Clapham, con passo stanco e barcollante. Quando non vide più
quella casa, sentì di averla riperduta.
Se pensava al suo matrimonio con Ursula, non la immaginava più come
la moglie di un fortunato commerciante d’arte. Vedeva in lei la fedele e
coraggiosa compagna di un predicatore, che con lui lavorava nei quartieri
più miserabili, a sollievo del povero.
Quasi ad ogni fine di settimana cercava di trascinarsi fino a Londra, ma
era poi difficile tornare a Ramsgate in tempo per le lezioni del lunedì
mattina. A volte camminava tutta la notte del sabato, per arrivare appena in
tempo a vedere Ursula uscir di casa la domenica mattina e avviarsi alla
chiesa. Non aveva denaro per comprarsi da mangiare né pagarsi una stanza,
e al venir dell’inverno patì il freddo. Quando all’alba del lunedì tornava a
Ramsgate, era tutto scosso da brividi, esausto e affamato. Gli ci voleva tutta
la settimana per rimettersi.
Pochi mesi dopo, trovò un impiego migliore, presso la scuola metodista
del signor Jones, a Isleworth. Il signor Jones era ministro del culto, con una
parrocchia assai vasta. Assunse Vincent come insegnante, ma ben presto lo
trasformò in un curato di campagna.
Ancora una volta, Vincent dovette procedere ad una radicale
sostituzione di immagini. Ursula non doveva più essere la compagna di un
predicatore che lavorava nei più miserabili quartieri, ma bensì la moglie di
un curato di campagna, ed aiutare il marito nel lavoro della parrocchia come
faceva la mamma col babbo. Gli pareva che Ursula lo guardasse
approvando, lieta che avesse abbandonato la meschina attività commerciale
di Goupil per dedicarsi al servizio dell’umanità.
Non permetteva a se stesso di pensare che il giorno delle nozze di
Ursula andava facendosi sempre più vicino. Nella sua mente, quell’altro
non era mai realmente esistito. Il rifiuto di Ursula era dovuto ad un qualche
errore da parte sua, errore a cui doveva in qualche modo rimediare. E quale
via migliore che dedicarsi al servizio di Dio?
I poveri studenti del signor Jones venivano da Londra. Egli diede a
Vincent gli indirizzi delle famiglie e lo mandò in città, a piedi, a raccogliere
le rette. Vincent trovò questi poveracci nel cuore di Whitechapel. Viuzze
impregnate di fetori, famiglie numerose stipate in stanze nude e fredde,
occhi dilatati dalla fame e dalla malattia. Parecchi trafficavano in carne di
bestie malate, che il governo proibiva di vendere nei normali mercati.
Vincent capitò in mezzo a famiglie che, rabbrividendo nei loro cenci,
stavano ingoiando brodaglia, tozzi di pan secco, carne avariata. Fino al
venir della notte stette ad ascoltare i loro racconti di miseria e di sofferenze.
Aveva accolto con gioia quell’occasione di recarsi a Londra, perché al
ritorno avrebbe potuto passare davanti alla casa di Ursula. Ma le
stamberghe di Whitechapel gliela cancellarono dalla mente, e si dimenticò
di passare per Clapham. Tornò ad Isleworth senza il becco d’un quattrino
per il signor Jones.
Un giovedì sera, durante la funzione religiosa, l’ecclesiastico si
appoggiò a lui, fingendosi stanco morto. — Stasera non mi reggo più,
Vincent. Tu hai già scritto sermoni, vero? Bene, allora faccene sentire uno.
Voglio un po’ vedere se hai la stoffa del predicatore.
Vincent salì sul pulpito, tremando. Aveva il volto in fiamme, non sapeva
che fare delle mani. La voce gli usciva rauca, spezzata. Non poté far altro
che cercare tastoni nella memoria quelle frasi ben cadenzate che aveva
messo così bellamente in carta. Ma, pur attraverso le parole mozze e i gesti
impacciati, si sentiva l’anima in fiamme.
— Molto bene, Vincent! — lo complimentò il signor Jones. — La
settimana prossima ti manderò a Richmond.
In quella chiara giornata autunnale, fu molto piacevole camminare da
Isleworth a Richmond lungo il corso del Tamigi, nelle cui acque si
specchiavano il cielo azzurro e i grandi castagni. Gli abitanti di Richmond
scrissero al signor Jones che avevano assai apprezzato il giovine predicatore
olandese, cosicché il brav’uomo decise di fornirgli l’occasione di
distinguersi. La sua chiesa a Turnham Green era molto importante; vi si
raccoglievano fedeli numerosi e di gusti difficili. Superando bene quella
prova, Vincent avrebbe poi potuto predicare da qualsiasi pulpito.
Vincent prese lo spunto dal versetto 19 del Salmo 119: «Sono uno
straniero sulla terra: non nascondermi i Tuoi comandamenti». Parlò con
semplicità e fervore. La sua giovinezza, il suo fuoco, il gesto possente delle
sue mani, la sua testa massiccia e i suoi occhi penetranti operarono sui
fedeli un effetto strepitoso.
Molti di essi vennero a ringraziarlo. Stringeva loro la mano e sorrideva
con occhi imbambolati e sperduti in una specie di nebbia luminosa. Non
appena tutti se ne furono andati, sgattaiolò fuori dalla porticina in fondo alla
chiesa e prese la strada di Londra.
Scoppiò un temporale. Egli aveva dimenticato il cappello e il soprabito.
Le acque del Tamigi erano giallognole, specialmente in prossimità della
sponda. All’orizzonte si stendeva una striscia palpitante di luce, sormontata
da immense nubi grigie che rovesciavano diluvi di pioggia. Inzuppato fin
nelle ossa, procedeva tuttavia con passo svelto e allegro.
Aveva finalmente conseguito il successo! Aveva trovato se stesso. Ecco
un trionfo da deporre ai piedi di Ursula, da condividere con lei.
La pioggia intrideva la polvere del piccolo sentiero bianco,
trasformandola in melma; scoteva e piegava i cespugli di biancospino. In
lontananza si profilava una città che pareva un’incisione di Durer, con le
sue torri, le sue fabbriche, i tetti d’ardesia e le case in stile gotico.
Sfangando nelle pozzanghere, lottando contro la pioggia, arrivò a
Londra con l’acqua che gli scorreva per il viso e gli ciangottava nelle
scarpe. Era pomeriggio inoltrato, quando giunse dinanzi alla casa delle
Loyer. Cadeva un crepuscolo grigio, fosco. Musica, note di violino. Che
succedeva? Tutte le stanze del villino erano illuminate. All’ingresso, una
quantità di carrozze ferme sotto la pioggia. Scorse figure di gente che
ballava in salotto. Un vecchio cocchiere sedeva a cassetta, al riparo di un
enorme ombrello, tenendosi tutto raggomitolato.
— Che cosa succede lì dentro? — gli domandò.
— Matrimonio, credo.
Vincent s’appoggiò alla carrozza, mentre rivoli d’acqua gli scorrevano
dai capelli rossi sulla faccia. A un certo momento, la porta d’ingresso
s’aprì: la figura di Ursula si presentò sulla soglia, accanto a quella di un
uomo alto e snello. La folla degli invitati si riversò nell’atrio, ridendo,
gridando, lanciando manciate di riso.
Vincent balzò dalla parte in ombra della carrozza. Ursula e suo marito vi
salirono. Il cocchiere sfiorò con la frusta i cavalli, che s’avviarono
lentamente. Vincent seguì per alcuni passi la vettura: Ursula era tra le
braccia dello sposo, con la bocca sulla sua. La carrozza s’allontanò.
Qualcosa di sottile si spezzò dentro Vincent, si spezzò con un colpo
netto e secco. L’incantesimo era rotto. Non avrebbe mai immaginato che
fosse così facile.
Tornò faticosamente a Isleworth sotto l’imperversare della pioggia,
radunò le sue cose e lasciò l’Inghilterra per sempre.
PARTE PRIMA

ILBORINAGE

1.

Il viceammiraglio Johannes Van Gogh, alto ufficiale della Marina


olandese, era ritto sullo stoep della sua spaziosa e gratuita abitazione dietro
l’Arsenale. In onore del nipote in arrivo aveva indossato l’uniforme, con le
spalline d’oro. Sopra il mento poderoso proprio dei Van Gogh sporgeva un
naso forte, diritto, che saliva ad incontrarsi con la convessa rupe della
fronte.
— Sono lieto d’averti qui, Vincent. Nella casa c’è molta tranquillità, ora
che i miei figli si sono sposati e mi hanno lasciato.
Salirono per un’ampia scala e lo zio Jan aprì una porta. Vincent entrò,
posò la valigia. Una larga finestra dava sui cantieri. Lo zio Jan sedette sulla
sponda del letto, cercando di assumere l’atteggiamento più libero che gli
fosse consentito dalla sua divisa.
— Sono stato contento, quando ho saputo che avevi deciso di
abbracciare la carriera ecclesiastica — disse. — Per tradizione, un membro
della famiglia Van Gogh si è sempre dedicato al servizio di Dio.
Vincent prese la pipa, la caricò accuratamente: gesto in lui abituale,
quando aveva bisogno di riflettere un momento. — Volevo diventare
predicatore, sai, e mettermi all’opera.
— Niente affatto, Vincent. Quella è gente ignorante, e sa Iddio che
razza di guazzabugli teologici vada predicando. No, ragazzo mio, i Van
Gogh dedicatisi alla carriera ecclesiastica sono sempre stati laureati
all’università. Ma ora vorrai certamente tirar fuori la tua roba. Si pranza alle
otto.
Appena la larga schiena del viceammiraglio fu scomparsa dal vano della
porta, Vincent si sentì preso da una vaga malinconia. Si guardò intorno. Il
letto era grande e comodo, il cassettone spazioso, il basso e ben levigato
tavolo da lavoro invitante. Ma egli si sentiva a disagio, come gli succedeva
in presenza d’estranei. Prese il berretto e uscì, camminando rapidamente per
il Dam, dove trovò un libraio ebreo che gli mise sott’occhio una raccolta di
belle incisioni. Dopo averle lungamente esaminate, Vincent ne scelse
tredici, se le cacciò sotto il braccio e tornò a casa lungo la spiaggia,
aspirando un forte odore di pece.
Mentre stava delicatamente appendendo le incisioni, in modo da non
danneggiare l’intonaco delle pareti, sentì bussare alla porta. Entrò il
reverendo Stricker, che era bensì suo zio, ma non un Van Gogh. Aveva
sposato una sorella della madre di Vincent. Era assai noto ad Amsterdam,
dove godeva fama d’individuo molto in gamba. Il suo abito nero, di ottima
stoffa, era confezionato con eleganza.
Liquidata la faccenda dei saluti, il pastore disse: — Ho affidato a
Mendes da Costa, uno dei nostri migliori studenti di lingue classiche,
l’incarico di insegnarti il latino e il greco. Abita nel quartiere ebraico;
andrai da lui lunedì alle tre del pomeriggio per la prima lezione. Ma io sono
venuto a pregarti di venire a pranzo da noi domani, domenica. La zia
Wilhelmina e la tua cugina Kay sono ansiose di vederti.
— Felicissimo. A che ora devo venire?
— Desiniamo a mezzogiorno, dopo l’ultima funzione religiosa del
mattino.
— Vogliate presentare i miei saluti alla zia e alla cugina — disse
Vincent mentre il reverendo Stricker prendeva cappello e borsa.
— A domani — rispose lo zio, e se ne andò.

2.

La Keizersgracht, dove abitava la famiglia Stricker, era una delle più


aristocratiche vie di Amsterdam: il quarto corso alberato, con un canale
parallelo, che partendo dall’angolo meridionale del porto e piegando a ferro
di cavallo tornava a finire sul porto, all’angolo settentrionale. Un’arteria
linda e luminosa, con un canale troppo importante per essere coperto di
kroos, quel misterioso strato di muschio verde che da centinaia d’anni si
stende sui canali dei quartieri più poveri.
Le case che fiancheggiavano la via erano di puro stile fiammingo:
strette, ben costruite, compatte: una lunga fila di soldati puritani irrigiditi
sull’attenti.
Il giorno seguente, dopo aver ascoltato la predica dello zio Stricker,
Vincent si diresse verso la sua abitazione. Un sole sfolgorante aveva fugato
le nubi cenerognole che veleggiano eternamente per i cieli dell’Olanda;
l’atmosfera aveva una luminosa tersità. Essendo in anticipo, Vincent
procedeva con passo lento e meditabondo, osservando le barche che
risalivano la corrente del canale.
In gran parte, barche di renaioli, oblunghe, con le punte affusolate;
barche d’un color nero corroso dall’acqua, con ampie cavità al centro, per il
carico. Da prua a poppa erano tirate lunghe corde, con la biancheria della
famiglia stesa ad asciugare. Il padre piantava la pertica nella fanghiglia, la
puntellava contro la spalla e premendovi sopra con tutto il peso del corpo
faceva procedere la barca lungo il canale tutto angoli e sinuosità. La moglie,
una donna corpulenta, rubiconda, prosperosa, se ne stava seduta a poppa,
reggendo il rudimentale timone. I bambini giocavano col cane e correvano
tutti i momenti nella cabina che formava la loro abitazione.
La casa del reverendo Stricker era di tipica architettura fiamminga:
stretta, a tre piani, dominata da una torretta con la finestra della soffitta, e
decorata di svolazzanti arabeschi. Dalla finestra della soffitta spuntava una
trave con un lungo gancio di ferro sulla punta.
La zia Wilhelmina diede il benvenuto a Vincent e lo condusse in sala da
pranzo. Ad una parete era appeso un ritratto di Calvino, opera di Ary
Scheffer; sulla credenza scintillava un servizio d’argenteria. Le pareti erano
rivestite di legno scuro.
Prima che Vincent s’avvezzasse alla penombra abituale della stanza,
sbucò dalla semioscurità una ragazza alta e flessuosa, che lo salutò con
effusione.
— Non mi avresti conosciuta certamente — gli disse con voce
melodiosa. — Sono la tua cugina Kay.
Vincent strinse la mano che ella gli tendeva, sentendo per la prima volta
dopo tanti mesi la calda morbidezza di una giovine mano femminile.
— È la prima volta che c’incontriamo — riprese la ragazza, con tono
intimamente cordiale. — E mi sembra strano, se penso che io ho ventisei
anni e tu… quanti?
Vincent la fissò in silenzio. Passarono alcuni istanti, prima che si
rendesse conto di dover rispondere a quella domanda. Per rimediare alla sua
stupida distrazione, sbottò con voce forte e ruvida: — Ventiquattro. Più
giovane di te.
— Già. Ebbene, in fin dei conti la cosa non è poi tanto strana. Tu non
sei mai venuto ad Amsterdam e io non sono mai stata nel Brabante. Non
vuoi sederti?
Egli si sedette sull’orlo d’una sedia. Con una di quelle rapide e
inesplicabili metamorfosi che da goffo rozzone lo trasformavano in un
signore compito e garbato, disse: — La mamma desiderava tanto che tu
venissi a trovarci. Credo che il Brabante ti sarebbe piaciuto. La campagna è
davvero simpatica.
— Lo so. La zia Anna mi ha scritto diverse volte, invitandomi.
Bisognerà che ci vada molto presto.
Ma soltanto una parte remota della sua mente partecipava alla
conversazione, ascoltando le parole della ragazza e suggerendogli le
risposte. Tutto il resto dell’esser suo s’avventurava sulla bellezza di lei con
la sete appassionata di un uomo che troppo a lungo s’è abbeverato al pozzo
dell’astinenza. Kay aveva i lineamenti marcati delle donne olandesi, ma
affinati, cesellati con tocco delicato. I suoi capelli non avevano il biondo-
grano né il rosso crudo delle sue compatriote, ma una curiosa tinta
intermedia, in cui il fuoco dell’uno e la luminosità dell’altro dei due colori
si confondevano in una sfumatura calda, dolce e raggiante. La carnagione
bianca, accuratamente difesa dal sole e dal vento, s’avvivava sulle guance
d’un rossore tenue e delicato che faceva pensare alla maestria del pennello
d’un pittore olandese. Gli occhi, d’un azzurro intenso, esprimevano
vivacemente la gioia di vivere; la bocca dalle labbra carnose era lievemente
aperta, come ad accoglierla.
Notando il silenzio di Vincent, gli domandò: — A che pensi, cugino?
Mi sembri preoccupato.
— Pensavo che a Rembrandt sarebbe piaciuto ritrarti.
Kay diede in una risata sommessa, piena d’una dolcezza densa e matura.
— A Rembrandt piaceva soltanto dipingere donne vecchie e brutte, no?
— Niente affatto — replicò Vincent. — Ha dipinto vecchie bellissime,
donne povere o infelici, ma che attraverso il dolore avevano acquistato
un’anima.
Per la prima volta Kay lo guardò davvero, intensamente. Al suo entrare
gli aveva appena rivolto un’occhiata, notando i folti capelli color ruggine e i
lineamenti duri. Ora invece osservò la bocca vigorosa, gli occhi
profondamente infossati e ardenti, l’alta e simmetrica fronte dei Van Gogh e
il mento da lottatore, alquanto proteso verso di lei.
— Scusami d’aver detto una sciocchezza simile — mormorò, quasi in
un bisbiglio. — Capisco che cosa vuoi dire di Rembrandt. Egli raggiunge la
vera essenza della bellezza, vero?, quando dipinge quelle vecchie nodose
che hanno incisi sul volto i segni della sofferenza.
— Di che cosa parlavate con tanto interesse, ragazzi? — li interruppe,
dalla soglia, il reverendo Stricker.
— Abbiamo fatto conoscenza — rispose Kay. — Perché non mi hai
detto che ho un cugino così simpatico?
Un altro uomo entrò nella stanza: un tipo smilzo dal sorriso spontaneo e
dai modi assai piacevoli. Kay s’alzò e lo baciò teneramente.
— Vincent, ecco mio marito, Mijnheer Vos.
Uscì, tornò quasi subito con un bambino di due anni dai capelli di
stoppa, un frugolo vivace dal visetto spiritoso, con i luminosi occhi azzurri
della madre. Kay si curvò, lo sollevò tra le braccia. Vos li abbracciò
entrambi.
— Vuoi sederti qui a tavola accanto a me, Vincent? — domandò la zia
Wilhelmina.
Di fronte a Vincent, con Vos da una parte e il piccolo Jan sulla sua
seggiolina alta dall’altra, sedeva Kay. La presenza del marito le aveva fatto
dimenticare il cugino. Le sue guance avevano preso un colore più vivo. A
un certo momento, mentre Vos scoccava un’arguzia con voce bassa e
studiata, si volse con mossa rapidissima a baciarlo.
Le onde vibranti del loro amore, dilatandosi, sommergevano Vincent.
Per la prima volta da quella domenica fatale, l’antico dolore per Ursula
riscaturiva da qualche misteriosa sorgente dentro di lui, sopraffacendo tutte
le sue difese fisiche e morali. La famigliola che lo circondava, così
intimamente unita, così affettuosamente allegra, lo metteva di fronte ad una
constatazione: in tutti questi tristi mesi era stato affamato, disperatamente
affamato d’amore. Una fame che non si lasciava facilmente reprimere.
3.

Ogni mattina s’alzava poco prima dell’aurora, per leggere la Bibbia. Al


levar del sole, verso le cinque, andava ad affacciarsi alla finestra
prospiciente i cantieri e guardava le squadre d’operai che entravano, lunga
fila ineguale di figure nere. Vaporetti andavano e venivano per lo Zuider
Zee; laggiù in lontananza, in direzione del villaggio, si scorgevano vele
scure che solcavano rapidamente il mare.
Quando il sole ormai alto sull’orizzonte illuminava la nebbia che saliva
dalle cataste di legname da costruzione, Vincent si staccava dalla finestra,
faceva colazione con un pezzo di pane raffermo e un bicchiere di birra e per
sette ore consecutive dava l’assalto al latino e al greco.
Dopo quattro ore di concentrazione, la testa gli s’appesantiva; spesso gli
bruciava e i pensieri si facevano confusi. Come avrebbe fatto a perseverare
in uno studio tranquillo e metodico, dopo quegli anni di violente emozioni?
S’imbottiva il cervello di regole fino a quando il sole cominciava a calare
dalla parte opposta del cielo. Era ora di andare a lezione da Mendes da
Costa. S’avviava, camminando lungo il Buitenkant, aggirava la cappella di
Oudezyds e la Chiesa Vecchia, infilava una serie di viuzze angolose e
contorte, con botteghe di fabbri e bottai, negozi di litografie.
Mendes ricordava a Vincent l’Imitazione di Cristo di Ruyperez. Era il
classico tipo d’ebreo dagli occhi profondi e cavernosi, una faccia smunta,
incavata, spirituale, la barbetta a punta degli antichi rabbi. Verso la metà del
pomeriggio, nel quartiere ebraico ci si sentiva soffocare. Vincent, con sette
ore di latino e di greco sullo stomaco, e in più alcune ore di storia olandese
e di grammatica, parlava con Mendes di litografie. Un giorno portò al
maestro lo studio da Un battesimo di Maris.
Mendes sollevò tra le dita ossute e appuntite questo Battesimo,
esponendolo al vivido fiotto di luce crepuscolare, densa di pulviscolo, che si
riversava dall’alta finestra.
— Buono — disse, con la sua voce gutturale d’ebreo. — C’è un certo
spirito di religione universale.
Di colpo, Vincent non si sentì più stanco. Si lanciò in un’entusiastica
esposizione dell’arte di Maris. Mendes scoteva impercettibilmente la testa.
Il reverendo Stricker lo pagava profumatamente perché insegnasse al
giovinotto il latino e il greco.
— Senti, Vincent — gli disse pacatamente. — La pittura di Maris è una
gran bella cosa, ma il tempo fugge e faremmo meglio a rimetterci al lavoro,
no?
Vincent comprese. Tornando a casa, dopo due ore di lezioni, si
soffermava davanti ai cortili delle case, dove legnaiuoli, falegnami e
fornitori marittimi erano intenti al loro lavoro. Enormi cantine aperte:
uomini che entravano e uscivano dalle buie arcate facendosi lume con
lanterne.
Lo zio Jan dovette recarsi a Helvoort per una settimana. Sapendolo solo
nella grande casa dietro i cantieri, Kay e Vos vennero una sera a prenderlo
per portarlo a cena.
— Devi venire da noi ogni sera, finché non torni lo zio Jan — gli disse
Kay. — La mamma, poi, desidererebbe che tu venissi a pranzare da noi ogni
domenica, dopo le funzioni.
Dopo il pasto, si giocò a carte; ma siccome Vincent non conosceva il
gioco, si sedette in un angolo tranquillo e prese a leggere la Histoire des
Croisades di August Gruson. Dal suo angolo appartato poteva osservare
Kay e le varie trasformazioni del suo sorriso pronto e provocante. Ella
s’alzò, gli andò vicino.
— Che cosa leggi, Vincent?
Egli le mostrò il volume. — È un bel libro. Direi quasi che è scritto col
sentimento di Thys Maris.
Kay sorrise. Sempre queste buffe allusioni letterarie. Domandò: —
Perché Thys Maris?
— Leggi questo brano e dimmi se non ti ricorda una tela di Maris, qui
dove l’autore descrive un vecchio castello su una rupe, con i boschi
autunnali nell’ora del crepuscolo, in primo piano i campi anneriti dalla sera
e un contadino che ara con un cavallo bianco.
Mentre Kay leggeva, Vincent le prese una sedia. Alzando poi gli occhi
dal libro, ella lo guardò con le pupille azzurre incupite da un’espressione
pensosa.
— Sì, è proprio come Maris — disse. — Con mezzi diversi, lo scrittore
e il pittore esprimono la stessa visione.
Vincent prese il libro e fece scorrere nervosamente il dito sulla pagina.
— Questa riga potrebbe essere stata tolta di peso da Michelet o da Carlyle.
— Ma sai, Vincent, che per esserti dedicato così poco agli studi classici
hai una cultura sorprendente? Leggi sempre molto?
— No. Mi piacerebbe, ma non posso. Del resto, non è più il caso che
coltivi tanto questa passione, perché nella parola di Cristo si trova già tutto.
E con più bellezza e perfezione che in qualsiasi altro libro.
— Oh, Vincent! — esclamò Kay, balzando in piedi. — Questo non ti si
addice!
Vincent la fissò sbalordito.
— Quando ravvisi Thys Maris nella Histoire des Croisades, sebbene il
babbo dica che tu devi concentrarti e non occuparti di queste cose, ti trovo
infinitamente più carino di quando parli come un goffo prete di provincia.
Si fece avanti Vos. — Ti abbiamo distribuito le carte, Kay.
Kay fissò per un istante lo sguardo negli occhi di Vincent, che parevano
due carboni vivi e ardenti sotto le sopracciglia prominenti; poi infilò il
braccio in quello del marito e tornò a giocare.

4.

Mendes da Costa sapeva che a Vincent piaceva discorrere con lui sugli
argomenti generali della vita e quindi, diverse volte la settimana, inventava
un pretesto per riaccompagnarlo in città dopo la lezione.
Un giorno condusse l’allievo in un’interessante zona della città: il
quartiere periferico che si stende dal Leidsche Poort, vicino al Vondel Park,
alla stazione ferroviaria. Segherie, casette d’operai con i loro giardinetti,
intensa animazione. Il quartiere era intersecato da una quantità di piccoli
canali.
— Dev’essere una cosa magnifica, avere cura d’anime in un quartiere
come questo — osservò Vincent.
— Sì — rispose Mendes, caricando la pipa e passando all’allievo la
borsa conica del tabacco. — Questa gente ha più bisogno di Dio e di
religione, che non i nostri amici della città alta.
Stavano attraversando un ponticello di legno che dava quasi l’idea di
trovarsi in Giappone. Vincent si soffermò. — Che cosa volete dire
Mijnheer?
— Questi lavoratori — spiegò Mendes, con un moderato gesto del
braccio — hanno una vita dura. Quando s’ammalano, non sono in grado di
pagarsi un medico. Lavorano oggi per mangiare domani; e la loro è una
fatica improba, per giunta. Abitano, come vedi, in povere casette; sfiorano
continuamente l’indigenza e le privazioni. Un brutto affare, per loro, la vita.
Hanno bisogno di trovare conforto nel pensiero di Dio.
Vincent accese la pipa e lasciò cadere il fiammifero nel canale
sottostante. — E quegli altri lassù? — domandò.
— Quelli hanno bei vestiti, posizioni sicure, denaro da parte per ogni
eventuale avversità. Quando pensano a Dio, lo concepiscono come un
vecchio ricco signore, abbastanza soddisfatto di come vanno le cose a
questo mondo.
— Insomma, sono gente gretta e alquanto odiosa — concluse Vincent.
— Oh, io non ho mai detto questo! — esclamò Mendes.
— No. Lo dico io.
Quella sera, aprì i libri di greco, ma rimase a lungo con lo sguardo fisso
sulla parete di fronte. Ricordava gli slums di Londra, la sordida miseria, le
inenarrabili sofferenze; ricordava l’antico desiderio di dedicarsi alla
diffusione del Vangelo e di soccorrere quei disgraziati.
Pensò quindi alla chiesa dello zio Stricker. Una congregazione di
persone ricche, colte, sensibili alle cose belle della vita e capaci di
procurarsele. Le prediche dello zio Stricker erano belle e consolanti: ma chi,
tra i suoi fedeli, aveva bisogno di consolazione?
Sei mesi erano trascorsi dal suo arrivo ad Amsterdam. Cominciava
finalmente a capire che la fatica è un meschino surrogato dell’abilità. Mise
da parte le grammatiche e pose mano all’algebra. A mezzanotte entrò lo zio
Jan.
— Ho visto dallo spiraglio della porta che avevi ancora la luce accesa,
Vincent — disse il viceammiraglio — e il guardiano mi ha riferito di averti
visto passeggiare per il cantiere alle quattro di stamattina. Quante ore al
giorno lavori?
— Secondo. Dalle diciotto alle venti.
— Venti! — Lo zio Jan scosse la testa; la sua fisionomia rivelò
un’inquietudine più evidente. Gli riusciva difficile adattarsi al pensiero che i
Van Gogh non sapessero cavarsela senza troppi sforzi. — Non dovresti aver
bisogno di sgobbar tanto.
— Devo portare a termine il lavoro della giornata, zio Jan.
Lo zio aggrottò le sopracciglia cespugliose. — Comunque sia, ho
promesso ai tuoi genitori di aver cura di te. Mi farai quindi il piacere di
andare a letto e di non star più su fino a quest’ora, d’ora in avanti.
Vincent si staccò dai suoi esercizi. Non aveva desiderio di dormire; non
aveva desiderio d’amore, né di simpatia, né di divertimenti. Una cosa sola
gli stava a cuore: imparar bene il latino e il greco, l’algebra e la
grammatica, in modo da superare gli esami, entrare all’università, diventare
ministro del culto e lavorare al servizio di Dio sulla terra.

5.

In maggio, ad un anno giusto dal suo arrivo ad Amsterdam, cominciò ad


accorgersi della propria irrimediabile inettitudine agli studi scolastici. Non
era semplicemente una constatazione: era l’ammissione di una sconfitta. E
ogni qualvolta essa gli balenava davanti agli occhi, si costringeva, per
eluderla, a immergersi in un ostinato lavoro.
Se si fosse trattato semplicemente della difficoltà degli studi e della sua
manifesta mancanza di idoneità, non se ne sarebbe preoccupato. Ma la
domanda che lo ossessionava giorno e notte era questa: voleva diventare un
ecclesiastico scaltro e fine come lo zio Stricker? Dove sarebbe andato a
finire il suo ideale di dedicarsi al servizio dei poveri, degli infermi, delle
vittime della società, se per cinque anni si riduceva ad occuparsi
esclusivamente di declinazioni e di formule?
Un tardo pomeriggio di maggio, al termine della lezione, disse a
Mendes: — Mijnheer da Costa, avete tempo di fare una passeggiata con
me?
Mendes s’era accorto della lotta intima che si svolgeva nell’allievo;
intuiva che il giovane era giunto ad un punto in cui s’imponeva una
decisione.
— Sì, pensavo appunto di fare una camminatina. Abbiamo un tempo
splendido, dopo le piogge di questi giorni. Ti accompagno con piacere.
S’avvolse intorno al collo una cravatta di lana, con parecchi giri, e
indossò una giacca nera abbottonata fino al collo. Scesero in istrada,
passarono accanto alla sinagoga in cui Spinoza era stato scomunicato più di
trecent’anni addietro e dopo un breve tratto sfiorarono la vecchia casa di
Rembrandt, nella Zeestraat.
— È morto in povertà e in disgrazia — disse Mendes col solito tono di
voce, mentre passavano davanti all’antico edificio.
Vincent gli lanciò una rapida occhiata. Mendes aveva un modo tutto suo
d’arrivare al punto centrale d’un problema prima ancora che uno gliene
facesse cenno. Le reazioni di questo individuo erano stranamente profonde:
le parole che gli si dicevano parevano cadere in abissi senza fondo. Con lo
zio Jan e con lo zio Stricker era una cosa ben diversa: le parole battevano
contro un muro ben preciso e rimbalzavano prontamente con una risposta
categorica: sì, oppure no. Mendes invece immergeva i pensieri
dell’interlocutore nel pozzo della propria matura saggezza, prima di
rispondere.
— Ma non è morto infelice — disse Vincent.
— No. Aveva espresso pienamente se stesso e conosceva il valore
dell’opera sua. Era l’unico ai suoi tempi a conoscerlo.
— Ed era poi un bene che ne fosse così convinto? E se si fosse
ingannato? Se il mondo avesse avuto ragione nel trascurarlo?
— Il giudizio del mondo aveva poca importanza. Rembrandt doveva
dipingere. Che dipingesse bene o male, non importa: la pittura era la sua
ragione di vita. Il valore essenziale dell’arte, Vincent, sta nell’espressione
ch’essa dà all’artista. Rembrandt portò a compimento quello che riteneva il
suo compito d’uomo; e questo bastava a giustificarlo. Anche se la sua opera
non avesse avuto nessun pregio, egli avrebbe così conseguito un successo
mille volte superiore a quello che avrebbe potuto conquistare rinunciando
alle sue aspirazioni e diventando il più ricco mercante di Amsterdam.
— Capisco.
— Il fatto che oggi l’opera di Rembrandt dia tanto godimento al mondo
— riprese Mendes, come riflettendo a voce alta per conto suo — è
interamente gratuito. Morì dopo aver vissuto un’esistenza piena e riuscita,
anche se fu perseguitato fino alla tomba. Si chiuse allora il libro della sua
vita: uno splendido libro. Il valore della sua perseveranza e della sua fedeltà
all’ideale, ecco la cosa veramente importante, e non già il valore della sua
opera.
Si fermarono a guardare un gruppo di manovali che trascinavano
carretti di sabbia, poi percorsero diverse viuzze anguste, con giardini pieni
d’edera.
— Ma come può un giovane sapere se sceglie la via giusta, Mijnheer? E
se dopo aver creduto d’essere destinato a svolgere un determinato compito
nella vita, constata di non essere adatto?
Mendes sollevò il mento dal bavero della giacca; i suoi occhi neri
scintillarono. — Guarda, Vincent — esclamò — come il tramonto arrossa
quelle nuvole grige!
Erano giunti al porto. Gli alberi delle navi, le vecchie case allineate tra
file d’alberi sulla spiaggia si profilavano nettamente contro il cielo di
porpora, e tutto si specchiava nello Zee. Mendes caricò la pipa e passò la
borsa del tabacco a Vincent.
— Sto già fumando, Mijnheer — osservò il giovane.
— Ah, è vero. Dobbiamo andare fino a Zeeburg lungo la diga? Là c’è il
cimitero ebraico e potremmo sederci un momento dov’è sepolta la mia
gente.
Proseguirono in amichevole silenzio, col vento che spingeva al disopra
delle loro spalle gli sbuffi di fumo. — Non si può mai essere
definitivamente sicuri di nulla, Vincent — disse Mendes. — Si può solo
avere il coraggio e la forza di fare ciò che sembra giusto e conveniente. Può
darsi che a un certo momento ci si accorga d’aver torto; ma per lo meno lo
si è fatto, ed è questo che conta. Noi dobbiamo agire in conformità ai
migliori dettami della ragione, e poi lasciare che Dio giudichi del valore
dell’opera nostra. Se in questo momento sei sicuro di voler servire in un
modo o in un altro il nostro Creatore, questa fede è l’unica guida a cui devi
attenerti per l’avvenire. Non aver paura di riporre in essa la tua fiducia.
— E se non ho le qualità necessarie?
— Per servire Dio? — fece Mendes con un mezzo sorriso.
— No. Voglio dire le qualità necessarie per diventare uno di quegli
ecclesiastici di stampo accademico che sforna l’università.
Ma Mendes non voleva pronunciarsi sul problema specifico di Vincent;
voleva soltanto discuterlo nei suoi aspetti generali, lasciando che il giovane
decidesse poi da sé. Erano intanto arrivati al cimitero ebraico: un recinto
pieno di semplicità, disseminato di pietre tombali con iscrizioni ebraiche,
fiorito di piante di sambuco e coperto qua e là di erbe alte e scure. Vicino al
sepolcreto della famiglia da Costa c’era una panchina di pietra, e i due
amici vi si sedettero. Vincent si cacciò in tasca la pipa. In quell’ora serale il
cimitero era deserto; non s’udiva una voce.
— Ogni individuo ha una sua qualità di carattere, Vincent — disse
Mendes, guardando le tombe affiancate di suo padre e di sua madre. —
Purché vi si attenga, tutto ciò che fa finisce per dare buoni risultati. Se
avessi continuato ad occuparti di commercio di quadri, la tua innata qualità
avrebbe fatto di te un buon commerciante. La stessa cosa vale per la
missione che ti proponi. Un giorno riuscirai ad esprimerti pienamente,
qualsiasi mezzo tu abbia scelto.
— E se non resto ad Amsterdam per diventare ministro del culto?
— Non importa. Tornerai a Londra per dedicarti alla diffusione del
Vangelo, o lavorerai in un negozio, o farai il contadino nel Brabante.
Qualunque attività tu scelga, la svolgerai bene. Ho saggiato la tua fibra e so
che è di buona qualità. Molte volte nella vita ti sembrerà forse d’essere sul
punto di soccombere, ma riuscirai infine ad esprimere te stesso: e questo
giustificherà la tua esistenza.
— Grazie, Mijnheer da Costa. Le vostre parole mi saranno d’aiuto.
Mendes ebbe un piccolo brivido. La panchina di pietra era fredda e il
sole già s’era tuffato in mare. S’alzò.
— Andiamo, Vincent?

6.

Il giorno dopo, al cader del crepuscolo, Vincent era affacciato alla


finestra che dava sui cantieri. Il piccolo viale di pioppi dai tronchi esili e dai
rami sottili spiccava delicatamente contro il cielo bigio della sera.
«Il fatto che io non sia adatto a questi studi — pensava Vincent —
significa forse che non serva a niente in questo mondo? In fin dei conti, che
cos’hanno a che vedere il latino e il greco con l’amore del prossimo?».
Lo zio Jan stava passando per il cantiere, in un giro d’ispezione. In
lontananza si vedevano le alberature delle navi all’ancora, di fronte l’Atjeh,
completamente nero tra i «monitori» rossi e grigi.
«La mia aspirazione è sempre stata quella di dedicarmi praticamente al
servizio di Dio, non di disegnare triangoli e cerchi. Non ho mai desiderato
d’avere una grande chiesa e di tenere brillanti sermoni. Io appartengo agli
umili e ai sofferenti. Ma ora, non tra cinque anni!».
Proprio in quel momento suonò la campana e gli operai si avviarono
all’uscita, come una fiumana. L’addetto a questo servizio venne ad
accendere il lampione nel cantiere. Vincent si staccò dalla finestra.
Si rendeva ben conto che suo padre, lo zio Jan e lo zio Stricker avevano
speso per lui, quell’anno, un mucchio di tempo e di quattrini. Se troncava
gli studi, avrebbero considerato tutto sprecato.
Ebbene, aveva onestamente tentato. Più di venti ore al giorno non
poteva lavorare. Era ben chiaro che gli studi non facevano per lui. Aveva
cominciato troppo tardi. Se domani si accingeva alla diffusione del Vangelo,
prodigandosi per il popolo di Dio, doveva questo considerarsi un
fallimento? Se curava gli ammalati, confortava i deboli e gli sfiduciati,
consolava i peccatori e convertiva gli increduli, era questo un fallimento?
La famiglia avrebbe risposto di sì. Avrebbe detto che non era mai
riuscito a niente, che era un ingrato, un essere di cui non valeva la pena di
occuparsi, la pecora nera dei Van Gogh.
«Qualunque attività tu scelga, la svolgerai bene — gli aveva detto
Mendes. — Riuscirai infine ad esprimere te stesso: e questo giustificherà la
tua esistenza».
Kay, che comprendeva tutto, già aveva ravvisato in lui i germi di un
ecclesiastico dalla mentalità limitata. Sì, ecco che cosa sarebbe diventato
rimanendo ulteriormente ad Amsterdam, dove la vera voce dell’anima si
faceva ogni giorno più fioca. Sapeva quale fosse il suo posto nel mondo: e
Mendes gli aveva dato il coraggio di partire. I suoi l’avrebbero disprezzato,
ma non gliene importava più. La sua posizione personale era ben poco, per
sacrificarla a Dio.
Fece in fretta e furia le valige e partì da quella casa senza salutar
nessuno.

7.

Il «Comitato belga di Evangelizzazione», composto dai reverendi Van


den Brink, de Jong e Pietersen, stava aprendo a Bruxelles una nuova scuola,
dove l’istruzione era libera e gli alunni dovevano soltanto pagare una
piccola retta per il vitto e l’alloggio. Vincent si presentò al Comitato e fu
accettato come studente.
— Alla fine dei tre mesi — gli disse il reverendo Pietersen — vi daremo
un incarico in qualche parte del Belgio.
— Ammesso che dimostri di possedere le qualità necessarie — precisò
gravemente il reverendo de Jong, volgendosi verso Pietersen. De Jong
aveva perso un pollice lavorando ad una macchina, da giovane, ed era stato
questo incidente ad orientarlo verso la teologia.
— Nel lavoro evangelico, signor Van Gogh, occorre soprattutto saper
parlare al popolo in modo gradevole e attraente — disse il reverendo Van
den Brink.
Pietersen lo accompagnò fuori dalla chiesa dov’era avvenuto l’incontro
e lo prese a braccetto, mentre s’immergevano in un oceano di sole. — Sono
lieto di avervi con noi, ragazzo mio. C’è molto da fare in Belgio e il vostro
entusiasmo mi fa ritenere che siate veramente chiamato a dare il vostro
contributo.
Vincent non avrebbe saputo dire che cosa lo riscaldasse di più: se il sole
o l’inattesa cordialità di quest’uomo. Infilarono la via tra due strapiombanti
dighe di edifici in pietra a sei piani, e intanto Vincent si sforzava di trovare
qualcosa da rispondere. Il reverendo Pietersen si fermò.
— Qui devo svoltare. Eccovi il mio biglietto di visita. Quando avete una
sera libera, venite a trovarmi. Mi farà piacere chiacchierare un poco con
voi.
La scuola evangelica aveva tre soli alunni, compreso Vincent. Furono
affidati al maestro Bokma, un ometto segaligno dalla faccia smunta; un filo
a piombo calatogli dalla fronte al mento non avrebbe toccato il naso né le
labbra.
I due compagni di Vincent erano ragazzi di campagna sui diciannove
anni, che strinsero immediatamente amicizia tra loro e per meglio
cementarla si misero a prenderlo in giro.
— Il mio scopo — confidò Vincent ad uno di essi, in un momento di
ingenuo abbandono — è di umiliare me stesso, di mourir à moi-même. —
Da allora, ogni qualvolta lo trovavano intento a mandare a memoria un
brano in francese o ad agonizzare su un manuale accademico, gli
domandavano: — Che fai, Van Gogh? Stai morendo a te stesso?
Ma i momenti più brutti li passava con Bokma. Il maestro voleva
insegnar loro a parlar bene: ogni sera dovevano preparare una conferenza da
pronunciare in classe la mattina dopo. I due ragazzi mettevano insieme un
discorsetto facile e liscio e lo recitavano scorrevolmente. Vincent invece
redigeva lentamente i suoi sermoni, effondendo in ogni riga tutto il suo
cuore. Sentiva profondamente le cose che doveva esprimere; ma quando si
alzava in classe le parole stentavano terribilmente a venire.
— Come potete sperare di diventare un buon predicatore, Van Gogh, se
non sapete neanche parlare? — gli domandava Bokma. — Chi vi starà a
sentire?
Lo sdegno di Bokma toccò l’apice quando Vincent si rifiutò nettamente
di improvvisare. Lavorava fino a notte alta per elaborare conferenze dense
di pensiero, di significato, distillando ogni parola con stento, in un francese
studiato e meticoloso. Il giorno dopo, in classe, quei due parlavano con la
massima facilità di Gesù Cristo e della salvezza umana, lanciando appena
qualche occhiata agli appunti, mentre Bokma faceva cenni d’approvazione.
Quando venne il turno di Vincent, questi prese in mano il testo della sua
composizione e cominciò a leggere. Bokma non volle nemmeno sentire.
— È così che vi hanno insegnato ad Amsterdam? Nessuno, Van Gogh,
ha mai lasciato la mia scuola senza aver imparato ad improvvisare e a
commuovere l’uditorio!
Vincent ci si provò, ma non riusciva a ricordare nel giusto ordine quanto
aveva scritto la sera precedente. I compagni ridevano sfacciatamente dei
suoi pietosi tentativi e Bokma partecipava alla loro ilarità. L’anno trascorso
ad Amsterdam aveva agito tremendamente sul sistema nervoso di Vincent.
— Professor Bokma — dichiarò — io farò le mie conferenze come mi
pare più conveniente. So di avere scritto una buona predica e mi rifiuto di
sottostare alle vostre beffe!
Bokma s’infuriò. — Farete come vi dico io! — urlò. — Altrimenti non
vi lascerò più entrare in questa scuola!
Da quel giorno in avanti, tra l’insegnante e l’alunno fu guerra aperta.
Vincent scriveva sermoni in numero quattro volte maggiore di quanto gli
veniva richiesto, perché certe notti non riusciva a chiudere occhio ed era
inutile che si mettesse a letto. Perse l’appetito, diventò sparuto e
nervosissimo.
In novembre fu invitato a recarsi alla chiesa, per incontrarsi con il
Comitato ed essere destinato ad una missione. Finalmente gli ostacoli erano
rimossi dalla sua strada; si sentiva stanco, ma contento. Arrivando, trovò i
suoi due compagni già presenti. Il reverendo Pietersen non lo guardò
nemmeno, quando entrò; ma ben lo guardò Bokma, con un’occhiata
significativa.
Il reverendo de Jong si congratulò con i due alunni più giovani per la
loro buona riuscita e li destinò a Hoogstraeten e ad Etiehove. Essi uscirono
tenendosi allegramente a braccetto.
— Signor Van Gogh — disse poi de Jong — il Comitato non è
purtroppo convinto che siate ben preparato per spiegare al popolo la parola
di Dio. Mi dispiace dovervi dire che non abbiamo incarichi da affidarvi.
Dopo una pausa che parve lunghissima, Vincent domandò: — Che cosa
ho fatto di male?
— Vi siete rifiutato di sottomettervi all’autorità. La prima regola della
nostra Chiesa è l’assoluta obbedienza. Inoltre, non avete imparato ad
improvvisare. Il vostro insegnante non vi ritiene adatto per predicare.
Vincent si volse verso il reverendo Pietersen, ma il suo amico guardava
fuori dalla finestra. — Che cosa devo fare? — domandò senza rivolgersi a
nessuno in particolare.
— Se volete, potete tornare alla scuola per altri sei mesi — rispose Van
den Brink. — Al termine di quel periodo, forse…
Vincent abbassò lo sguardo sulle sue scarpe grosse, rozze, a punta
quadra e notò che il cuoio stava screpolandosi. Poi, non trovando
assolutamente niente da dire, si voltò e uscì in silenzio.
Percorse rapidamente le vie della città e si trovò a Laeken. Senza sapere
dove volesse andare, tirò avanti per la stradicciola che costeggiava il canale,
fiancheggiata dall’altra parte da officine ronzanti. Ben presto si lasciò
addietro le case e si trovò in aperta campagna. Un vecchio cavallo bianco,
magro, emaciato, sfinito da una vita di duro lavoro, stava lì, fermo, in una
zona solitaria e desolata. Per terra, un cranio equino; più lontano, uno
scheletro bianco fuori dalla casupola dello scuoiatore di cavalli.
Alcune vaghe idee cominciarono a riaffiorare dal limbo brumoso del
suo stato d’animo. Cercò macchinalmente la pipa. L’accese, ma il tabacco
aveva un gusto stranamente amaro. Si sedette su un tronco d’albero. Il
vecchio cavallo bianco gli venne vicino e gli strofinò il naso contro la
schiena. Egli si volse a carezzare il collo smunto della povera bestia.
A un certo momento gli si presentò alla mente il pensiero di Dio, che gli
diede conforto. «Gesù era calmo in mezzo alla tempesta — rifletté. — Non
sono solo, perché Dio non mi ha abbandonato. Un giorno troverò forse la
via per servirlo».
Rincasando, trovò il reverendo Pietersen che lo aspettava. — Sono
venuto a pregarti di venire a pranzo a casa mia, Vincent — gli disse.
Si avviarono per strade affollate di lavoratori che tornavano alle loro
abitazioni dove li aspettava il pasto serale. Pietersen parlava del più e del
meno, come se nulla fosse accaduto. Vincent distingueva con terribile
lucidità ogni sua parola. Pietersen lo introdusse nella sala d’ingresso,
trasformata in studio. Alcuni acquerelli alle pareti; in un angolo, un
cavalletto.
— Ah, dipingete! — disse Vincent. — Non lo sapevo.
Pietersen rimase imbarazzato. — Sono un dilettante. Disegno un
pochino nelle ore libere per distrarmi. Ma ti prego di non farne cenno con i
miei confrères.
Si misero a tavola. Pietersen aveva una figlia, una ragazza timida e
riservata di quindici anni che non alzò mai gli occhi dal piatto. Il reverendo
seguitò a parlare di cose senza importanza, mentre Vincent si sforzava per
cortesia di mangiare un poco. Improvvisamente la sua attenzione ribalzò
sulle ultime parole dette da Pietersen; non avrebbe saputo ricordare come il
reverendo fosse entrato in argomento.
— Il Borinage — stava ora dicendo il suo ospite — è una regione di
miniere di carbone. Praticamente ogni uomo della zona fa il minatore. Quei
poveretti lavorano in mezzo a pericoli innumerevoli e sempre ricorrenti,
guadagnano appena appena quanto basta per tenersi in piedi. Abitano in
catapecchie dove le loro mogli e i loro bambini passano la maggior parte
dell’anno tra i brividi del freddo, della febbre e della fame.
Vincent si domandò perché gli raccontasse tutto questo. — Dove si
trova il Borinage? — domandò.
— Nel Belgio meridionale, vicino a Mons. Io vi ho passato
recentemente un po’ di tempo e ti assicuro, Vincent, che se c’è gente al
mondo che ha bisogno di una parola di speranza e di conforto, è proprio
quella.
A Vincent si strinse la gola, impedendogli di trangugiare il boccone.
Posò la forchetta. Perché Pietersen lo torturava così?
— Vincent — riprese il reverendo — perché non vai nel Borinage? Con
la tua forza e il tuo entusiasmo, faresti molto bene.
— Ma come posso? Il Comitato…
— Sì, lo so. L’altro giorno ho scritto a tuo padre, spiegandogli la
situazione. Oggi ho ricevuto la sua risposta. Dice che ti darà i mezzi
necessari per lavorare nel Borinage, fino a quando io abbia potuto farti
assegnare un posto dal Comitato.
Vincent balzò in piedi. — Dunque, mi farete dare un posto!
— Sì, ma devi darmi tempo. Quando il Comitato avrà constatato gli
eccellenti risultati del tuo lavoro, mollerà certamente. E anche se non
volesse mollare… Uno di questi giorni, de Jong e Van den Brink devono
venire da me per chiedermi un favore, e io in cambio… La povera gente di
quella zona ha bisogno di uomini come te, Vincent, e io sono convinto in
piena coscienza, davanti a Dio, che ogni mezzo è buono pur di mandarti
laggiù.

8.
Via via che il treno correva verso il Sud, un gruppo di montagne
apparve all’orizzonte. Vincent le guardò con gioia e sollievo, dopo la
monotona pianura delle Fiandre. Da pochi minuti stava osservandole,
quando notò che si trattava di montagne ben strane. Ognuna sorgeva isolata
e scoscesa da una campagna pianeggiante.
«Egitto nero…», mormorò tra sé, contemplando dal finestrino quella
lunga linea di fantastiche piramidi. E rivolgendosi al vicino: — Sapete
spiegarmi come abbiano fatto a sorgere quelle montagne laggiù?
— Sì — rispose il viaggiatore. — Sono composte di terril, ossia dai
detriti che vengono scavati e portati alla superficie della terra col carbone.
Vedete quel carretto che sta per raggiungere la cima della collina?
Osservatelo un momento.
Mentre così diceva, il carretto si rovesciò su un fianco, facendo rotolare
giù per il pendio una nuvola nera. — Ecco come si formano — concluse il
vicino. — Da cinquant’anni io le vedo salire ogni giorno di qualche
centimetro.
Il treno si fermò a Wasmes e Vincent scese. Wasmes era situata in fondo
ad una fredda vallata; i raggi anemici e obliqui del sole non riuscivano a
dissipare uno strato di fumo che si stendeva a mezz’aria. Wasmes si
sforzava d’inerpicarsi su per il fianco della collina con due file tortuose di
case d’un rosso sudicio; ma prima che fosse giunta a toccarne la vetta si
disperdeva, e appariva Petit Wasmes.
Avanzando per la strada in salita, Vincent si domandava come mai il
paese fosse così deserto. Non si vedeva un uomo; ci s’imbatteva ogni tanto
in una donna ferma sulla soglia con un’espressione cupa e istupidita.
Petit Wasmes era il villaggio dei minatori. Vantava un unico edificio in
mattoni, la casa del panettiere Jean-Baptiste Denis, che sorgeva proprio
sulla cresta della collina. Verso di essa si diresse Vincent, perché Denis
aveva scritto al reverendo Pietersen di tenere a pensione il predicatore che
doveva arrivare.
La signora Denis accolse cordialmente Vincent e, facendolo passare
attraverso il locale dov’era il forno, tutto odoroso di pane in cottura, lo
condusse nella sua stanza: una cameretta situata proprio sotto l’orlo del
tetto, con una finestra che dava sulla Rue Petit Wasmes e travi che
scendevano verso il fondo con un angolo assai pronunciato. Le mani forti
ed esperte della signora Denis avevano fatto una buona pulizia. A Vincent
la stanza piacque immediatamente. Era così eccitato dall’entusiasmo, che
non aprì nemmeno le valige, ma discese a precipizio i pochi e rozzi scalini
di legno che conducevano in cucina, per informare la padrona di casa che
sarebbe uscito.
— Non vi dimenticherete mica di venire a cena? — gli domandò la
signora Denis. — Mangiamo alle cinque.
Vincent la trovava simpatica. Intuiva in lei una di quelle persone che
comprendono le cose senza doversi prendere la briga di pensarci su.
— Non mancherò, signora — rispose. — Voglio soltanto dare
un’occhiata in giro.
— Stasera viene da noi un amico che dovete conoscere. È a capo dei
minatori di Marcasse e potrà darvi molte indicazioni utili per il vostro
lavoro.
Aveva nevicato molto. Camminando lungo la strada, Vincent osservava
le siepi spinose intorno ai giardini e ai campi anneriti dal fumo delle
ciminiere. A levante della casa di Denis un pendio scosceso dove stavano
ammucchiate la maggior parte delle casupole dei minatori; dalla parte
opposta si stendeva una vasta zona di campagna con una montagna nera di
terril e le ciminiere del charbonnage di Marcasse, dove lavoravano in gran
numero i minatori di Petit Wasmes. Tale zona era attraversata da una strada
incassata, disseminata qua e là di cespugli e di affioranti radici d’alberi
nodosi.
Pur essendo soltanto una delle sette miniere di proprietà dei
«Charbonnages Belgique», quella di Marcasse vantava il doppio primato di
essere la più antica e la più pericolosa di tutto il Borinage. Aveva una
cattiva fama: molti uomini vi erano periti, scendendo o risalendo, per
esalazioni velenose o per esplosioni, per inondazioni o per il crollo di
vecchie gallerie. Ci si scorgevano due piatte e basse costruzioni in mattoni,
dove veniva azionato il macchinario per tirar su il carbone, oltre che per
lavarlo e caricarlo sugli appositi carri. Le alte ciminiere, un tempo di color
giallo-mattone, spandevano sulla regione per tutte le ventiquattr’ore del
giorno un denso fumo nero. Intorno agli stabilimenti di Marcasse sorgevano
catapecchie di minatori, con pochi alberi stenti o morti, neri, siepi di spini,
letamai, mucchi d’immondizie o di carbone inservibile: e su tutto
torreggiava la montagna nera. Un posto squallido e tetro, che subito
produsse su Vincent un’impressione molto triste.
«Non c’è da stupirsi che questo posto venga chiamato il paese nero»,
pensò.
Dopo un po’ di tempo, i minatori cominciarono ad uscire dal cancello.
Indossavano rozzi panni cenciosi e avevano in testa cappelli di cuoio; le
donne vestivano come gli uomini. Erano tutti completamente neri, come
spazzacamini; il bianco degli occhi spiccava stranamente sui volti coperti di
polvere di carbone. Non senza ragione li chiamavano gueules noires. Dopo
aver lavorato per tante ore nelle viscere buie della terra, iniziando prima
dell’alba, la pallida luce del pomeriggio feriva loro gli occhi. Uscivano con
passo incerto, quasi incespicando come ciechi, parlando tra loro in un
dialetto veloce e inintelligibile. Gente piccola, smilza e ringobbita, ossuta.
Ora Vincent capiva perché nel pomeriggio il villaggio fosse così
deserto: il vero Petit Wasmes non era già il piccolo gruppo di catapecchie
sulla ripida falda della collina, bensì la labirintica città sotterranea scavata
ad una profondità di settecento metri, dove quasi l’intera popolazione
trascorreva la maggior parte delle ore non dedicate al sonno.

9.

— Jacques Verney è venuto su dal niente — gli spiegò la signora Denis


a tavola — ma è rimasto un vero amico per i minatori.
— Non tutti coloro che fanno carriera rimangono amici degli operai?
— No, Monsieur Vincent, non è così. Non appena da Petit Wasmes
scendono a Wasmes cominciano a vedere le cose in altro modo. Per amor
del denaro si schierano dalla parte dei padroni, dimenticando che hanno
sgobbato anch’essi nelle miniere. Ma Jacques è leale ed onesto. Quando si
verificano scioperi, è l’unico che abbia ascendente sui minatori, l’unico i
cui suggerimenti vengano ascoltati. Ma, poveretto, non vivrà più a lungo.
— Che cos’ha? — domandò Vincent.
— La solita storia… Malattia di polmoni. La malattia che buscano tutti
quelli che scendono sottoterra. Probabilmente non supererà l’inverno.
Jacques Verney arrivò poco dopo. Era un individuo basso, dalle spalle
curve, con gli occhi malinconici e profondamente infossati di tutti gli
abitanti del Borinage e ciuffetti di peli sporgenti dalle narici, dagli angoli
delle sopracciglia e dalle orecchie. Calvo. Quando gli fu detto che Vincent
era un predicatore venuto per addolcire la sorte dei minatori, sospirò
profondamente. — Ah, signore, tanti hanno cercato di aiutarci. Ma le cose
qui continuano ad andare come sono sempre andate.
— Siete d’opinione che le cose vanno male qui nel Borinage?
Jacques tacque un momento. Poi disse: — Quanto a me, no. Mia madre
mi ha insegnato un poco a leggere e così son potuto diventare capo-reparto.
Ho una casetta in mattoni sulla strada che scende a Wasmes e il cibo non ci
manca. Per conto mio, non posso lagnarmi…
Un violento accesso di tosse lo costrinse ad interrompersi: Vincent ebbe
l’impressione che lo stomaco gli si dovesse schiantare dallo sforzo. Dopo
essersi fatto sulla porta ed avere sputato più e più volte in istrada, Jacques
tornò a sedersi nella cucina ben riscaldata e prese a tirarsi delicatamente i
peli delle orecchie, delle narici e delle sopracciglia.
— Vedete, signore, avevo ventinove anni quando fui nominato capo-
reparto. Già allora i miei polmoni erano rovinati. Comunque, in questi
ultimi anni gli affari non sono poi andati tanto male, per me. Ma per i
minatori… — Lanciò un’occhiata alla signora Denis e le domandò: — Che
ne dite? Devo condurlo a trovare Henri Decrucq?
— Perché no? Non sarà male che sappia subito la verità.
Jacques si volse nuovamente a Vincent, come per scusarsi. — In fin dei
conti, signore, io sono capo-reparto e ho verso di «loro» certi doveri di
lealtà. Ma Henri vi farà vedere!
Vincent lo seguì fuori nella notte gelida. Scesero immediatamente l’erta
dov’erano rintanate le abitazioni dei minatori. Tuguri di legno, d’una sola
stanza. Costruiti senza un piano prestabilito, erano scaglionati a casaccio
per il fianco della collina con svolte ed angoli che davano luogo ad un
labirinto di viottoli ingombri di lordure, dove soltanto un individuo pratico
del posto poteva orientarsi. Vincent camminava dietro Jacques
inciampando, cadendo su pietroni, tronchi, mucchi di rifiuti. Dopo una
mezz’ora di discesa giunsero alla catapecchia di Decrucq. Un debole
bagliore filtrava dalla finestrella aperta nella parete di fondo. Bussarono, la
moglie di Decrucq venne ad aprire.
La casupola era esattamente come tutte le altre del villaggio. Nessun
altro pavimento che la terra nuda, tetto coperto di muschio, strisce di sacco
infilate nelle fessure delle assi per difendersi dal vento. In fondo, negli
angoli, due letti, uno dei quali già occupato da tre bambini addormentati. La
suppellettile consisteva in una stufetta ovale, un tavolo con panche, una
sedia e una cassetta inchiodata al muro, contenente pentole e piatti. Come la
maggior parte degli abitanti del Borinage, i Decrucq tenevano una capra e
alcuni conigli per avere ogni tanto un po’ di carne da mangiare. La capra
dormiva sotto il letto dei bambini; i conigli avevano un po’ di paglia dietro
la stufa.
La signora Decrucq aprì lo sportellino praticato nella parte superiore
della porta per vedere chi ci fosse, quindi pregò i due di entrare. Per diversi
anni, prima che si sposassero, aveva lavorato con Decrucq nelle stesse
miniere, spingendo i carretti di carbone fino al posto di controllo. Vi si era
quasi disseccata, riducendosi in una creatura pallida, logora e precocemente
vecchia d’aspetto benché non avesse ancora compiuto ventisei anni.
Decrucq, che se ne stava seduto con le spalle volte al tepore della stufa,
alla vista di Jacques balzò in piedi. — Bene! — esclamò. — È tanto tempo
che non venite più a casa mia. Siamo lieti di avervi qui. Benvenuto anche il
vostro amico.
Decrucq si vantava di essere l’unico in tutto il Borinage che le miniere
non potessero far crepare. — Morirò di vecchiaia nel mio letto — diceva
spesso. — Non possono uccidermi, perché io non lo permetterò!
Sulla parte destra del capo una larga striscia rettangolare di pelle
spiccava, come una finestra, tra i capelli duri e arruffati. Ricordo del giorno
in cui la gabbia con la quale stava calando nella miniera era sprofondata per
centinaia di metri come una pietra in un pozzo, uccidendo i suoi ventinove
compagni. Camminando trascinava un po’ la gamba, che gli era stata
spezzata in quattro punti dal crollo di un’armatura, sotto le cui travi era
stato imprigionato per cinque giorni. La ruvida camicia nera disegnava una
sporgenza sul lato destro del torace: tre costole rotte e mai messe a posto, in
seguito ad un’esplosione di grisou che l’aveva sbattuto contro un carretto di
carbone. Ma era un lottatore, una pellaccia dura; niente lo metteva fuori
combattimento. Siccome aveva l’abitudine di inveire violentemente contro
la Compagnia, veniva sempre assegnato alle couches peggiori, dove il
lavoro era più faticoso e le condizioni più difficili. Più lo angariavano e più
tempestava contro di «loro», gli ignoti e mai visti ma sempre presenti
nemici. Una fossetta in mezzo al mento tozzo dava al suo viso corto e
massiccio un’impronta lievemente asimmetrica.
— Monsieur Van Gogh — disse — siete proprio venuto in un posto
buono. Qui nel Borinage non siamo soltanto schiavi, siamo bestie. Filiamo
a Marcasse alle tre del mattino. Abbiamo un quarto d’ora di sosta per
desinare, poi tiriamo avanti fino alle quattro del pomeriggio. È buio pesto
laggiù, Monsieur, e fa caldo. Dobbiamo quindi lavorare nudi. L’aria è piena
di polvere di carbone e di gas velenosi, e non possiamo respirare! Quando
scaviamo il carbone dalle couches, manca lo spazio per stare in piedi;
dobbiamo lavorare inginocchiati o piegati in due. Cominciamo a scendere
sottoterra, ragazzi e ragazze, all’età di otto o nove anni. A venti, prendiamo
le febbri e abbiamo i polmoni rovinati. Se non lasciamo la pelle in uno
scoppio di grisou o nella gabbia — (e si toccò la rossa striscia scotennata
sulla testa) — possiamo magari vivere fino ai quarant’anni, per morire poi
di consunzione! Dico fandonie, Verney?
Parlava in dialetto, con tanta foga che Vincent stentava a seguirlo. La
fossetta sul mento gli conferiva un’aria allegra, ma gli occhi dardeggiavano
di collera.
— È così — disse Jacques.
La moglie di Decrucq era andata a sedersi sulla sponda del letto, là in
fondo all’angolo. Il debole chiarore della lampada a petrolio la lasciava
nella penombra. Ascoltava le parole del marito, benché avesse già sentito
quegli sfoghi migliaia di volte. Gli anni trascorsi a spinger carretti nelle
gallerie sotterranee, i tre parti e una serie di duri inverni di miseria nella
baracca imbottita di stracci di sacco l’avevano svuotata d’ogni energia.
Decrucq andava su e giù da Jacques a Vincent, trascinando la gamba rotta.
— E che cosa guadagniamo, Monsieur, in cambio di tutto questo? Che
cosa ci vien dato? Una baracca d’una stanza e quel tanto di cibo che basta
perché possiamo resistere a maneggiare un piccone. Che cosa mangiamo?
Pane, formaggio acido, caffè nero. Una volta o due all’anno, quando va
bene, un po’ di carne! Se ci togliessero cinquanta centesimi al giorno,
creperemmo di fame. Non potremmo più aver la forza di scavare il loro
carbone. Ecco l’unica ragione per cui non ci pagano meno. E rischiamo la
morte ogni giorno della nostra vita, Monsieur! Se ci ammaliamo, ci buttano
fuori senza un franco e moriamo come cani, mentre le nostre mogli e i
nostri bambini vengono mantenuti dai vicini. Dagli otto anni ai quaranta,
Monsieur: trentadue anni nel buio della terra, e poi una fossa su quella
collina dall’altra parte della strada perché possiamo dimenticare tutto…
10.

Vincent constatò che i minatori erano ignoranti, in massima parte


analfabeti, ma che nello stesso tempo dimostravano nel loro lavoro
intelligenza e sveltezza e che erano coraggiosi, sinceri, dotati di viva
sensibilità. Pallidi e smunti dalle febbri, avevano un aspetto stanco ed
emaciato, la pelle appiccicaticcia e smorta (soltanto la domenica vedevano
il sole), tutta punteggiata di pori neri, gli occhi infossati e tristi degli
oppressi che non possono difendersi.
Vincent li trovava simpatici. Erano di temperamento semplice e buono,
come la gente di Zundert e di Etten. Anche la desolante impressione
prodottagli dal paesaggio circostante era scomparsa, perché ora ravvisava
nel Borinage una forte ed eloquente fisionomia.
Dopo alcuni giorni di permanenza, tenne la prima adunanza religiosa
sotto una tettoia situata dietro il forno dei Denis. La spazzò accuratamente,
vi portò panche per gli ascoltatori. Alle cinque giunsero i minatori con le
loro famiglie, tutti incravattati e con i berretti in testa per difendersi dal
freddo. Una sola lampada a petrolio, che Vincent s’era fatta imprestare. I
minatori si sedettero sulle panche, al buio, guardarono Vincent curvo sulla
Bibbia e si disposero attentamente ad ascoltare, con le mani sotto le ascelle
per sentire meno il freddo.
Vincent cercò con grande impegno lo spunto appropriato per il suo
sermone d’apertura. Scelse finalmente il versetto nono del capitolo XVI
degli Atti degli Apostoli: «Nella notte, apparve a Paolo una visione: vide un
uomo di Macedonia, che lo pregava: Vieni là in Macedonia e soccorrici».
— Dobbiamo vedere nel macedone un lavoratore, amici miei — disse
Vincent: — un lavoratore col viso scavato dai solchi dell’afflizione, delle
sofferenze e della fatica. Ha anche lui una sua bellezza e una sua nobiltà,
poiché possiede un’anima immortale, ed abbisogna di quel cibo
incorruttibile che è la parola di Dio. Dio vuole che ad imitazione di Gesù
Cristo l’uomo viva nell’umiltà e non persegua nella vita scopi orgogliosi,
ma si adatti anche alle situazioni più meschine, imparando dal Vangelo ad
essere mite ed umile di cuore, affinché nel giorno designato da Dio possa
entrare nel Regno dei Cieli e trovar pace.
V’erano nel villaggio parecchi infermi ed ogni giorno egli andava a
visitarli come un medico portando loro, ogni qualvolta lo poteva, un po’ di
latte o di pane, un paio di calze di lana o una coperta. Il tifo e una febbre
maligna che i minatori chiamavano la sotte fièvre imperversavano su quelle
miserabili catapecchie, provocando brutti sogni e accessi di delirio. Il
numero dei malati, consunti, deboli e divorati dall’angoscia, andava ogni
giorno crescendo.
Tutti, a Petit Wasmes, lo chiamavano «Monsieur Vincent» e lo
trattavano con affetto, seppure con un’ombra di riserbo. Non c’era nel
villaggio una casupola dove non avesse portato cibo e conforto, dove non
avesse sostentato un malato, pregato con un infelice e recato ad uno
sventurato la luce di Dio. Parecchi giorni prima di Natale trovò nei pressi di
Marcasse una stalla abbandonata, abbastanza ampia per contenere un
centinaio di persone. Era un locale nudo, freddo e desolato; ma i minatori vi
si affollavano fino a riempirlo. Vincent narrava loro la storia di Betlemme,
ripetendo il messaggio di pace sulla terra. Pur trovandosi soltanto da sei
settimane nel Borinage, aveva visto le condizioni di quella povera gente
farsi ogni giorno più tristi; ma lì, in quell’umile stalla illuminata soltanto
dalle fiammelle fumose di qualche lanterna, sapeva portare Gesù Cristo ai
rabbrividenti lavoratori dal volto annerito e riscaldare i loro cuori con la
promessa del Regno futuro.
Una cosa sola lo turbava e lo affliggeva: il fatto che fosse ancora suo
padre a mantenerlo. Ogni sera pregava Dio di dargli modo di guadagnarsi i
pochi franchi necessari per vivere.
Imperversava un tempo orribile. Nubi nere incombevano su tutta la
regione. La pioggia cadeva a torrenti, trasformando le strade infossate in
fiumi di fango e i pavimenti delle baracche in pantani. Il primo giorno
dell’anno Jean-Baptiste scese a Wasmes e tornò con una lettera per Vincent.
Nell’angolo superiore della busta c’era il nome del reverendo Pietersen.
Vincent corse su nella sua cameretta, tremando dall’eccitazione. La pioggia
scrosciava sui tetti, ma egli non la sentiva. La lettera diceva:
«Caro Vincent,
«il Comitato di Evangelizzazione, informato dello splendido lavoro da
te svolto, ha deciso di assumerti in carica per un periodo di sei mesi,
cominciando dal primo giorno dell’anno.
«Se alla fine di giugno tutto sarà andato bene, la tua nomina diventerà
definitiva. Nel frattempo, riceverai uno stipendio di cinquanta franchi
mensili.
«Scrivi spesso e continua a lavorare con fiducioso coraggio.
Cordialmente tuo
Pietersen».

Si gettò bocconi sul letto, folle di gioia, stringendo forte la lettera tra le
dita. Finalmente era riuscito! Aveva trovato il suo posto nel mondo! Ecco
ciò che aveva sempre voluto; ma gli erano mancati il coraggio e la forza per
giungervi direttamente. Avrebbe ricevuto cinquanta franchi al mese: più che
sufficienti per pagare il vitto e l’alloggio. E non avrebbe più dovuto
dipendere da nessuno.
Si sedette al tavolino e scrisse a suo padre una lettera tumultuosa,
trionfale, dicendogli che non aveva più bisogno del suo aiuto e che da quel
momento si riprometteva di far onore alla famiglia, di procurarle gioia e
soddisfazione. Quando finì di scrivere, era quasi l’ora del crepuscolo; su
Marcasse era un continuo guizzar di lampi e scrosciar di tuoni. Scese
impetuosamente, attraversò di corsa la cucina e si lanciò allegramente in
mezzo al diluvio.
La signora Denis gli corse dietro fin sulla soglia. — Monsieur Vincent!
Dove andate? Avete dimenticato il cappello e il soprabito!
Vincent non si fermò nemmeno a rispondere. Raggiunse di corsa un
poggio vicino, da cui l’occhio spaziava su un vasto tratto del Borinage.
Ciminiere, mucchi enormi di carbone, casette di minatori, figure nere che
uscivano dalle houillères e che andavano e venivano come formiche. In
lontananza un oscuro bosco di pini sul cui sfondo si stagliavano villini
bianchi, più lontano ancora la guglia d’una chiesa e una vecchia fabbrica.
Su tutto questo scenario, uno strato di nebbia. Le ombre delle nubi creavano
un fantastico effetto di chiaroscuro. Per la prima volta da quando si trovava
nel Borinage, quella visione gli richiamò alla mente certi quadri di Michel e
di Ruysdael.

11.

Ora che aveva ricevuto la nomina, gli occorreva un luogo fisso dove
tenere le riunioni. Dopo molte ricerche, scoprì in fondo al pendio, lungo una
stradicciola tra i boschi di pini, un locale abbastanza ampio, detto il «Salon
du Bébé», dove un tempo s’insegnava ai ragazzi della comunità a ballare.
Quando Vincent vi ebbe attaccato tutte le sue incisioni, il locale assunse un
aspetto attraente. Qui radunava ogni pomeriggio i bambini dai quattro agli
otto anni, insegnava loro a leggere e narrava loro gli episodi più semplici
della Bibbia. La maggior parte di essi non avrebbe ricevuto in tutta la vita
altra istruzione.
— Come troveremo il carbone per riscaldare il locale? — domandò a
Jacques Verney, che l’aveva aiutato ad ottenere la concessione di quella
casetta. — I bambini devono stare al caldo e le riunioni serali potrebbero
prolungarsi maggiormente se ci fosse una stufa.
Jacques rifletté un momento. — Trovatevi qui domani a mezzogiorno
— gli disse poi — e vi dirò come si può fare.
Il giorno dopo, arrivando al «Salon», Vincent trovò un gruppo di donne,
mogli e figlie di minatori, che lo aspettavano. Camiciotti neri, sottane nere,
un fazzoletto azzurro in testa. Ognuna aveva un sacchetto.
— Monsieur Vincent, ho portato un sacchetto anche per voi — gli disse
la figlia di Verney. — Anche voi dovete riempirne uno.
Inerpicandosi per il dedalo di viuzze formato dalle abitazioni dei
minatori, passarono accanto alla casa del fornaio Denis in cima alla collina,
si slanciarono per la campagna in mezzo a cui sorgevano gli stabilimenti di
Marcasse, li oltrepassarono, finché giunsero alla nera piramide di terril
situata dietro i fabbricati. Qui si sparsero in varie direzioni, dando l’assalto
alla montagna da punti diversi, arrampicandosi sui suoi fianchi come insetti
sul tronco d’un albero morto.
— Dovete salire fin sulla cima, Monsieur Vincent, se volete trovare
carbone — gli disse la signorina Verney — Qui in fondo, sono anni che
abbiamo già fatto piazza pulita. Venite su, io vi farò vedere qual è il carbone
che serve.
Balzò su come una capretta, mentre Vincent doveva aiutarsi con le
ginocchia e con le mani perché il terril gli franava continuamente sotto i
piedi. La signorina Verney lo precedeva, s’accoccolava e gli tirava
scherzosamente pezzetti di carbone. Era una bella ragazzina dalle guance
colorite e dai modi vivaci, irrequieti: aveva sette anni quando suo padre era
stato nominato dirigente del personale e non era mai scesa in una miniera.
— Su, forza, Monsieur Vincent! — gli gridava. — Altrimenti, sarete
l’ultimo a riempire il sacco! — Questa era per lei una gita. La Compagnia
vendeva ottimo carbone a Verney a prezzo ridotto.
Non poterono giungere fin sulla cima perché i carretti rovesciarono il
loro carico di rifiuti prima da un lato, poi dall’altro, con meccanica
regolarità. Non era un’impresa facile trovare carbone su quella piramide. La
signorina Verney insegnò come bisognava fare: raccogliere il terril facendo
coppa con le mani e lasciar cadere tra le dita il terriccio, i sassolini e le altre
sostanze estranee. La quantità di carbone che la Compagnia si lasciava
sfuggire era davvero trascurabile. Tutto ciò che le mogli dei minatori
potevano trovare era una specie di argilla scistosa, eterogenea, che non
poteva essere assolutamente lanciata sul mercato. Il terril era inzuppato
dalle piogge e dalla neve, e ben presto Vincent ebbe le mani graffiate e
tagliuzzate; ma quando le donne ebbero i sacchetti pieni si trovò ad aver
riempito una quarta parte del suo d’un qualcosa che sperava fosse carbone.
Le donne lasciarono i sacchi al «Salon» e corsero a casa a preparar la
cena, non senza aver promesso di venire alla funzione della sera
accompagnate da tutta la famiglia. La signorina Verney invitò Vincent a
pranzo, ed egli accettò senza farsi pregare. La casa dei Verney aveva ben
due stanze: nella prima, la stufa, il necessario per la cucina e la tavola per
mangiare; nella seconda, i letti. Nonostante il fatto che Jacques se la
passasse benino, in casa non c’era sapone: come Vincent aveva appreso, il
sapone rappresentava per gli abitanti del Borinage un lusso impossibile. Dal
giorno in cui i ragazzi cominciano a scendere nelle gallerie delle miniere e
le bambine a salire su per le montagnole di terril fino al giorno in cui
muoiono, non riescono mai a ripulirsi completamente la faccia dalla polvere
di carbone.
La signorina Verney portò fuori, per Vincent, un recipiente d’acqua
fredda. In piena strada. Egli si lavò meglio che poté. Non aveva idea del
risultato ottenuto con quell’abluzione, ma quando si trovò seduto di fronte
alla ragazza e le vide la faccia tuttora rigata di strisce nere, pensò che anche
lui doveva trovarsi nelle stesse condizioni. Per tutta la durata del pasto la
signorina Verney chiacchierò allegramente.
— Vi trovate qui a Petit Wasmes da quasi due mesi, Monsieur Vincent
— gli disse Jacques — e ancora non conoscete bene il Borinage.
— Verissimo, signor Verney — rispose umilmente Vincent. — Ma
credo di aver cominciato pian piano a comprendere questa gente.
— Non è questo che voglio dire — spiegò Jacques tirandosi fuori dalla
narice una lunga antenna e guardandola con interesse. — Voglio dire che
avete soltanto visto la nostra vita fuori dal sottosuolo. Non è essa che conta.
Qui alla superficie, dormiamo soltanto. Se volete farvi un’idea precisa della
nostra vita, dovete calarvi in una miniera e vedere come lavoriamo dalle tre
del mattino alle quattro del pomeriggio.
— Non chiedo di meglio. Ma come posso ottenere il permesso dalla
Compagnia?
— L’ho già chiesto io per voi — rispose Jacques, tenendo in bocca una
zolletta di zucchero e lasciandosi filtrare in gola, attraverso di essa, il caffè
tiepido, nero e amaro. — Domani scendo per un’ispezione nelle miniere di
Marcasse. Trovatevi davanti alla casa di Denis domani mattina alle tre
meno un quarto e vi condurrò con me.
Tutta la famiglia accompagnò Vincent al «Salon»; ma per istrada
Jacques, che nel tepore della sua casa era sembrato così pieno di benessere
fisico e di animazione, fu colto da una violenta crisi di tosse, e dovette
tornare indietro. Henri Decrucq era già al «Salon» e s’aggirava
meditabondo intorno alla stufa trascinando la sua gamba rotta.
— Oh, buona sera, Monsieur Vincent! — esclamò col più largo sorriso
consentitogli dal suo viso duro e tozzo. — Sono io l’unico in tutto Petit
Wasmes che sappia accendere questa stufa. La conosco da vecchia data,
quando venivamo qui a divertirci. È una stufa méchante, ma io so i trucchi.
Il contenuto dei sacchi era umido e solo in parte carbone, ma Decrucq
fu così abile che la stufa panciuta non tardò a diffondere un buon calore.
Mentre zoppicando si dava da fare, il sangue affluiva alla scalvatura del
cranio dando alla pelle increspata un color rosso sporco di barbabietola.
Quasi tutte le famiglie di Petit Wasmes vennero quella sera al «Salon»
per sentire la prima predica di Vincent nella sua chiesa. Esaurite le panche,
dalle case più vicine furono portate casse e sedie. Più di trecento anime
erano lì, in attesa. Commosso dalla generosità che gli avevano dimostrata
nel pomeriggio le mogli dei minatori e dal fatto di parlare finalmente nel
«suo» tempio, Vincent predicò con tanto slancio e tanta fede, che i volti di
quella povera gente persero la loro abituale espressione triste.
— È un’antica e consolante convinzione — disse al suo uditorio dalle
facce nere — quella che sulla terra siamo stranieri. Ma non siamo soli,
perché il nostro Padre è con noi. Siamo pellegrini; la nostra vita è un lungo
viaggio dalla terra al Cielo. Il dolore val meglio della gioia: ed anche
nell’allegrezza il cuore è triste. Meglio andare alla casa del pianto che non
alla casa dei banchetti e delle feste, poiché la sofferenza affina il cuore. Per
coloro che credono in Gesù Cristo, non v’è dolore che non sia pervaso di
speranza. È un continuo rinascere, è un continuo andare dalle tenebre alla
luce. Padre, noi Ti preghiamo di tenerci lontani dal male. Non ti chiediamo
la povertà né la ricchezza, ma soltanto quel pane che ci è necessario. Amen.
La moglie di Decrucq fu la prima a farglisi accanto. Aveva gli occhi
annebbiati di lacrime e un tremito agli angoli della bocca. — Monsieur
Vincent — gli disse — la mia vita era così dura che avevo perduto Dio. Ma
voi me lo avete ridato. Ed io vi ringrazio per questo.
Quando tutti se ne furono andati, Vincent chiuse il «Salon» e s’avviò
pensosamente su per la collina. L’accoglienza avuta quella sera gli
dimostrava che ogni resto di riserbo era scomparso dall’atteggiamento di
questa gente nei suoi confronti e che finalmente si fidavano di lui. Ora era
pienamente accetto alle «facce nere» nella sua qualità di ministro di Dio. A
che cosa era dovuto quel cambiamento? Non era certo al fatto che adesso
disponeva di una chiesa: a queste cose i minatori non davano nessun peso.
Né sapevano della sua nomina, perché arrivando aveva taciuto sul fatto di
non avere nessuna designazione ufficiale. Aveva fatto una bella predica,
piena di calore: ma ne aveva fatte altre non meno efficaci nelle squallide
casupole e nella stalla abbandonata.
I Denis erano già andati a dormire nel loro stambugio attiguo alla
cucina, ma nel forno si respirava ancora un gradevole profumo di pane
fresco. Vincent attinse un secchio d’acqua dal pozzo situato in cucina, ne
versò in una catinella e salì in camera sua a prendere specchio e sapone.
Appoggiò lo specchio contro il muro e si guardò. Sì, il suo sospetto era ben
fondato: dai Verney s’era pulito molto male la faccia dalla polvere di
carbone. Le palpebre, le guance erano ancora sporche di nero. Sorrise tra sé
al pensiero di aver inaugurato il nuovo tempio con la faccia sudicia di
carbone: chissà come sarebbero inorriditi suo padre e lo zio Stricker, se lo
avessero visto!
Immerse le mani nell’acqua fredda, cominciò a sfregarsele col sapone
che s’era portato da Bruxelles e stava per portarsele al viso, quando gli
balenò un’idea. Rimase con le mani bagnate a mezz’aria. Si guardò
nuovamente nello specchio, scorse il nero del terril nelle rughe della fronte,
sulle palpebre, sulle guance, sul mento tondo e formidabile.
— Ah, ora capisco! — disse ad alta voce. — Ecco perché mi hanno
accolto così. Sono finalmente diventato uno dei loro.
Si risciacquò le mani e andò a letto senza toccarsi la faccia. Da allora in
poi, finché rimase nel Borinage, si sfregava ogni giorno la faccia con
polvere e carbone in modo da averla come tutti gli altri.

12.

Il mattino dopo, Vincent si alzò alle due e mezzo, mangiò in cucina un


pezzo di pane secco e attese Jacques alle tre meno un quarto davanti alla
casa dei Denis. Durante la notte era scesa un’abbondante nevicata, che
aveva fatto scomparire la strada per Marcasse. Mentre sgambavano
attraverso la campagna dirigendosi verso le ciminiere nere e le montagnole
di terril, Vincent scorse i minatori che avanzavano sulla neve sbucando da
tutte le direzioni, come piccole creature nere che s’affrettassero a
raggiungere la loro casa, il loro nido. Faceva un freddo pungente; i
lavoratori s’erano tirato su il bavero della giacca fino al mento e
camminavano curvi, raccolti, per sentir più caldo.
Jacques lo condusse dapprima in una stanza dov’erano appese tante
lanterne, ognuna contraddistinta da un numero. — Quando succede una
disgrazia nelle gallerie — spiegò — dalle lanterne che mancano sappiamo
subito a chi è toccata.
I minatori prendevano frettolosamente le loro lanterne e attraverso un
cortile nevoso si precipitavano verso un edificio in muratura dove era
impiantato l’ascensore. Vincent e Jacques si unirono a loro. La gabbia
comprendeva sei compartimenti sovrapposti, ognuno dei quali poteva
contenere e portare su un vagoncino di carbone. Ogni compartimento era
abbastanza ampio da consentire a due uomini di stare comodamente
accoccolati durante la discesa; ma in ognuno si stipavano cinque minatori,
che parevano formare un mucchio di carbone.
Dato che Jacques era capo-reparto, nello scompartimento superiore
entrarono soltanto lui, un suo subalterno e Vincent. Si rannicchiarono con i
piedi puntati contro i bordi e la testa contro il cavo centrale.
— Attento alle mani, Monsieur Vincent! — l’avverti Jacques. — Se una
di esse tocca la parete del pozzo, è bell’e spacciata.
Fu dato un segnale e la gabbia, con uno scatto, prese a tuffarsi scorrendo
lungo le sue due rotaie verticali d’acciaio. Vincent provò un brivido alla
schiena, pensando che si trovava sospeso su una voragine tenebrosa di
mezzo miglio di profondità e che il minimo incidente avrebbe significato
inevitabilmente la morte. Era una specie d’orrore che finora non aveva mai
provato, questo piombare nelle viscere di un abisso ignoto. Pensò poi che
non era il caso d’aver paura, perché in più di due mesi non erano accadute
disgrazie di questo genere, ma la luce fosca e guizzante delle lanterne non
favoriva i calmi ragionamenti.
Confidò le sue sensazioni a Jacques, che gli rispose con un sorriso di
bonaria comprensione. — È una cosa che succede a tutti, anche ai minatori.
— Ma essi ci fanno l’abitudine, no?
— No, mai! Fino al giorno della morte provano per questa gabbia un
sentimento ineluttabile di orrore e di paura.
— E voi, signore?
— Stavo trepidando come voi, quando mi avete rivolto la parola: e sono
trentatré anni che faccio questa discesa!
Percorsi trecentocinquanta metri (metà strada), la gabbia si fermò un
momento, poi riprese a scendere. Vincent scorse rivoli d’acqua che
filtravano dalle pareti del pozzo, ed ebbe un altro brivido. Alzando lo
sguardo, l’apertura luminosa lassù gli appariva non più grande d’una stella
in cielo. Giunti a seicentocinquanta metri di profondità essi uscirono dalla
gabbia, ma i minatori continuarono la discesa. Vincent si trovò in un’ampia
galleria percorsa da rotaie fissate su un fondo roccioso e argilloso.
S’aspettava un’immersione in un caldo infernale; invece nel tunnel c’era un
fresco gradevole.
— Mica male qui, signor Verney! — esclamò.
— Infatti. Ma qui non ci sono uomini che lavorano. Questi strati sono
esauriti da lungo tempo. Noi qui beneficiamo di una ventilazione che viene
dall’alto, ma i minatori qua sotto non se ne avvantaggiano affatto.
Camminarono lungo la galleria per circa un quarto di miglio, poi
Jacques infilò una svolta. — Venite dietro a me, Monsieur Vincent, ma
doucement, doucement; se scivolate, v’ammazzate.
E scomparve davanti agli occhi di Vincent, che avanzò brancolando,
trovò un passaggio aperto e salì tastoni gli scalini. Il buco era largo quanto
bastava per lasciar passare un uomo. I primi cinque metri non furono duri,
ma a metà strada Vincent dovette fare dietro-front e scendere in direzione
opposta. Sgocciolava acqua dalla roccia; i gradini della scala erano viscidi
di fanghiglia. Vincent si sentiva cadere addosso le stille fitte.
Giunti finalmente in fondo strisciarono carponi per un lungo passaggio
che conduceva a couches situate nel punto più lontano dall’uscita. Una
lunga fila di celle, come suddivisioni d’una cantina, sostenute da rozze
travi. In ogni cella lavorava una squadra di cinque minatori: due scavavano
il carbone con i picconi, il terzo lo toglieva loro di tra i piedi, il quarto lo
caricava su carretti e il quinto li spingeva via su uno stretto binario.
Gli scavatori indossavano ruvidi abiti di tela, sudici e neri. Lo spalatore
era generalmente un ragazzo con nient’altro addosso che un pezzo di tela di
sacco avvolto intorno ai fianchi, nero in tutto il corpo; l’incarico di spingere
i carretti era sempre affidato ad una ragazza, nera come i suoi compagni,
con la parte superiore del corpo coperta da un indumento rudimentale.
L’acqua filtrava dalle volte, formando una grotta di stalattiti. L’unica luce
era fornita da piccole lanterne il cui stoppino veniva tenuto basso per
evitare esplosioni. Nessuna ventilazione. Un’aria densa di polvere di
carbone. Il calore naturale della terra faceva scorrere lungo le membra dei
minatori rivoletti di sudore nero. Nelle prime caverne, gli uomini potevano
lavorare in piedi; ma quanto più s’andava avanti, tanto più le celle
diventavano piccole, finché da ultimo i minatori dovevano star distesi col
ventre a terra e manovrare il piccone facendo leva sui gomiti. Col passar
delle ore, il calore dei corpi faceva salire la temperatura, la polvere di
carbone ond’era impregnata l’aria si faceva più densa e gli uomini
boccheggiavano, ansavano, ingoiavano pesanti sorsate di fuliggine calda e
nera.
— Costoro guadagnano due franchi e mezzo al giorno — disse Jacques
a Vincent — ammesso che l’ispettore addetto al posto di controllo approvi
la qualità del carbone da essi scavato. Cinque anni fa guadagnavano tre
franchi, ma da allora in avanti le paghe sono state ogni anno diminuite.
Jacques ispezionò le armature di sostegno che s’interponevano tra i
minatori e la morte. Quindi s’accostò ai minatori addetti allo scavo.
— Le vostre armature di sostegno sono in cattive condizioni — disse.
— Si vanno allentando e potrebbero crollare prima che lo sospettiate.
Uno di essi, il capo-squadra, si diede a inveire con tanta violenza e
parlando così rapidamente che Vincent riuscì ad afferrare soltanto una metà
delle parole.
— Quando ci pagheranno il lavoro di puntellamento — disse —
rafforzeremo le armature! Se perdiamo tempo a puntellare, chi scava il
carbone per noi? Tanto vale morire qui sotto la roccia, come morire di fame
a casa nostra.
Al di là dell’ultima caverna, s’apriva un altro passaggio. Stavolta non
c’era nemmeno più una scalinata per scendere. A intervalli più o meno
regolari erano stati collocati dei tronchi per impedire alla fanghiglia di
scorrer giù e sommergere i minatori che lavoravano là in fondo. Jacques
prese la lanterna di Vincent e gliel’appese alla cintura.
— Doucement, Monsieur Vincent — ripeté. — Non mettetemi i piedi
sulla testa e non fatemi ruzzolare in fondo.
Scesero per altri cinque metri, posando cautamente un piede dopo l’altro
e cercando ad ogni passo l’appoggio del tronco d’albero messo di traverso,
artigliandosi con le mani da una parte e dall’altra, nella melma, per evitare
voli pericolosi.
Al piano sottostante v’era un’altra couche, ma qui i minatori non
disponevano nemmeno di caverne. Bisognava estrarre il carbone da una
stretta apertura praticata lungo il fondo della parete. Gli uomini lavoravano
inginocchiati, premendo la schiena contro la bassa volta rocciosa e
manovrando il piccone con estrema difficoltà. Vincent constatava ora che le
caverne di sopra erano davvero fresche e comode: qui faceva un caldo tale
che pareva d’essere in un forno acceso. Un caldo così denso, che quasi lo si
poteva tagliare. I lavoratori ansavano come bestie battute, la lingua
spenzolante, spessa e arida, i corpi nudi coperti da uno strato di sudiciume,
limo e polvere di carbone. Vincent, che pure non faceva niente, sentiva di
non poter più reggere per un altro minuto a quel caldo asfissiante, a quella
polvere. I minatori eseguivano un lavoro manuale enormemente faticoso e
ben più di lui avevano il respiro mozzo, eppure non potevano interrompersi,
né uscire a riprender fiato, perché altrimenti non avrebbero potuto estrarre il
quantitativo richiesto di carbone e riscuotere la paga stabilita.
Vincent e Jacques avanzarono carponi lungo il passaggio, appiattendosi
ogni momento contro la parete per lasciar passare un carretto. Questo
passaggio era più stretto ancora del precedente. I vagoncini erano pesanti e
le ragazze facevano una fatica improba per sospingerli.
In fondo s’apriva una specie di piano inclinato in metallo, lungo il quale
i carretti venivano calati con l’aiuto di funi metalliche. — Venite, Monsieur
Vincent — disse Jacques: — ora scendiamo al piano più basso, ad una
profondità di settecento metri, dove vedrete qualcosa di unico al mondo!
Scesero lungo il piano metallico per una trentina di metri, sboccando in
un’ampia galleria con due rotaie. Procedettero lungo questo tunnel per circa
mezzo miglio; giunti in fondo s’inerpicarono per un rialzo, strisciarono
attraverso un varco e scesero dalla parte opposta in una caverna aperta di
recente.
— Questa è una couche nuova — spiegò Jacques. — Il posto più infame
di tutte le miniere del mondo.
Allo sbocco della caverna in cui si trovavano s’apriva una serie di
dodici piccole buche nere. Jacques si cacciò nella prima, gridando: —
Seguitemi! — L’apertura era appena sufficiente per lasciar passare un
uomo: Vincent dovette appiattirsi carponi, strisciare sul ventre come un
serpente aiutandosi con le unghie delle dita e con le punte dei piedi per
guadagnar terreno. Non discerneva gli scarponcini di Jacques, a un palmo di
distanza. Questo tunnel scavato nella roccia non aveva più di un piede
d’altezza e due e mezzo di larghezza. La bolgia di poc’anzi poteva sembrare
un luogo di refrigerio, al confronto.
A furia di strisciar così, Vincent sboccò in una piccola caverna con la
volta a cupola, sufficientemente alta per consentire ad un uomo di stare in
piedi. Buio pesto. Da principio, Vincent non distinse nulla. Poi notò lungo
una parete quattro tenui fiammelle azzurrognole. Aveva tutto il corpo intriso
di sudore, che colandogli dalla fronte gli faceva scorrere negli occhi
rigagnoli di polvere di carbone, tanto che gli bruciavano terribilmente.
Ansando per la fatica sostenuta, si drizzò in piedi con un senso di sollievo
cercando di respirare un poco. Ma non aria si respirava, bensì fuoco: un
fuoco liquido che bruciava e chiudeva i polmoni. Questa era la cava
peggiore di Marcasse, una camera di tortura degna del Medioevo.
— Tiens, tiens! — esclamò una voce ben nota. — C’est Monsieur
Vincent! Siete venuto a vedere come ci guadagniamo i nostri quattro soldi,
Monsieur?
Jacques andò subito ad ispezionare le lanterne, con le fiammelle
soffocate da un arco azzurrognolo.
— Non dovrebbe venir qua dentro! — sussurrò Decrucq a Vincent, col
bianco degli occhi scintillante. — In quel tunnel si buscherà un’emorragia e
allora dovremo tirarlo fuori con le cinghie.
— Decrucq, è da tutta la mattinata che le lanterne danno una fiamma
così? — domandò Jacques.
— Si — rispose con indifferenza Decrucq. — Il grisou aumenta ogni
giorno. Un bel momento esploderà e allora tutti i nostri guai saranno finiti.
— Queste cave sono state pompate soltanto domenica scorsa.
— Ma il grisou ritorna, ritorna — disse Decrucq, grattandosi con gusto
la larga cicatrice nera sul cranio.
— Allora, un giorno di questa settimana dovete stare a casa in modo che
possiamo di nuovo mettere in azione le pompe.
I minatori sollevarono un coro di proteste. — Non abbiamo pane per i
nostri bambini! Come si fa a vivere, se perdiamo una giornata? Vengano a
togliere il grisou quando non ci siamo; anche noi dobbiamo mangiare come
tutti gli altri!
— Giustissimo. Vedrete che non succederà niente! — rise Decrucq. —
Non saranno le miniere ad ammazzarmi. Ci si sono già provate, ma con me
non ce la fanno. Io devo morire di vecchiaia nel mio letto. A proposito di
mangiare, che ora è, Verney?
Jacques accostò l’orologio ad una delle fiammelle azzurrognole. — Le
nove.
— Bene. Possiamo desinare.
Quelle figure nere, sudate, in cui spiccava soltanto il bianco degli occhi,
interruppero il lavoro e, sedutesi sulle calcagna a ridosso della parete,
aprirono i loro tascapani. Non potevano passar di là, in un’atmosfera un po’
meno pesante, perché si concedevano soltanto un quarto d’ora di sosta.
Percorrendo il tunnel carponi all’andata e al ritorno, questi quindici minuti
se ne sarebbero andati quasi tutti. Ed eccoli così accalcagnati in quel calore
intenso e ristagnante, che tiravan fuori due pagnotte e un pezzo di cacio e
mangiavano avidamente, stampando sul povero cibo enormi ditate nere.
Ognuno aveva una bottiglietta di caffè, con cui s’aiutava a mandar giù il
pane. Il caffè, il pane e quel pezzo di formaggio rappresentavano l’unico
scopo per cui lavoravano tredici ore al giorno.
Già da sei ore Vincent si trovava nella miniera. Si sentiva estenuato
dalla mancanza d’aria, soffocato dal caldo e dalla polvere. Non ne poteva
realmente più. Si rallegrò quando Jacques disse che dovevano andare.
— Attento al grisou, Decrucq — disse ancora Jacques, prima d’infilare
il tunnel. — Se continua ad aumentare, sarà meglio che tu conduca via la
tua squadra.
Decrucq ruppe in una risata aspra. — Già, e ci pagheranno lo stesso, se
non tiriamo fuori il carbone?
A una domanda simile non era possibile rispondere: Decrucq lo sapeva
quanto Jacques, che si strinse nelle spalle e prese a strisciare carponi lungo
la galleria. Vincent gli tenne dietro, completamente accecato da quel sudore
denso e irritante che gli colava negli occhi.
Dopo mezz’ora di cammino giunsero all’accrochage, da dove partiva il
montacarichi che portava su il carbone e gli operai. Jacques si ritrasse nella
stalla scavata dentro la roccia, dove venivano tenuti i cavalli, tossendo e
sputando catarro nero.
Entrarono nella gabbia, che prese a salire come un secchio in un pozzo.
Vincent si volse verso l’amico. — Ditemi, signore: perché continuate a
scendere nelle miniere? Perché non andate tutti quanti a cercare lavoro
altrove?
— Eh, mio caro Monsieur Vincent, non c’è altro lavoro. E altrove non
possiamo andare, perché ci manca il denaro. In tutto il Borinage non c’è una
famiglia che abbia dieci franchi da parte; Ma se anche potessimo andar via,
Monsieur, non ci andremmo. Il marinaio sa che mille pericoli lo aspettano a
bordo della sua nave; eppure quand’è sulla terra ferma sente la nostalgia del
mare. Così è di noi, Monsieur. Amiamo le nostre miniere, preferiamo stare
sotto che sopra. Chiediamo soltanto un guadagno che ci consenta di vivere,
un orario di lavoro meno pesante e l’assicurazione contro i pericoli.
Il montacarichi giunse alla superficie. Vincent si avviò per il cortile
nevoso, stordito dalla scialba luce del sole. Guardandosi nello specchio,
nella stanza di pulizia, si trovò una faccia nera come la pece. Non si lavò
nemmeno: si lanciò per la campagna, quasi fuor di sé, ingoiando avide
sorsate d’aria fresca e domandandosi se non avesse buscato la sotte fièvre e
fosse in preda ad un incubo. Non era possibile che Dio permettesse che i
suoi figli lavorassero in simili condizioni di schiavitù! Doveva essere stato
un sogno, un brutto sogno!
Oltrepassò la casa dei Denis, che adesso gli sembrava quasi un palazzo,
e senza stare a riflettere infilò il sudicio labirinto di viottoli che scendevano
lungo la scarpata, dirigendosi verso la catapecchia dei Decrucq. Bussò, ma
lì per lì nessuno rispose. Finalmente un bimbo di sei anni venne ad aprire.
Era un fanciullino pallido, anemico e poco sviluppato; ma c’era in lui
qualcosa del battagliero coraggio del padre. Ancora due anni: e ogni
mattina avrebbe dovuto scendere nelle miniere di Marcasse alle tre, per
caricare i vagoncini di carbone.
— La mamma è andata per terril — disse con una vocetta alta e sottile.
— Vogliate aspettare, Monsieur Vincent. Io sto badando ai bambini.
I due piccini di Decrucq giocavano seduti per terra con alcuni bastoncini
e un pezzo di spago, con nient’altro addosso che una camiciola. Erano
paonazzi dal freddo. Il fratellino maggiore gettava terril nella stufa, ma
questa spandeva ben poco calore. Vincent li guardò, con un brivido. Li mise
a letto, li coprì fino al mento. Non sapeva perché fosse venuto in questa
miserabile casupola. Sentiva di dover fare qualcosa, dire qualcosa ai
Decrucq, aiutarli in qualche modo: far loro comprendere che almeno si
rendeva conto di tutta la loro triste condizione.
La mamma dei tre bimbi rientrò, mani e volto neri. Dapprima non
riconobbe Vincent, sotto quello strato di sudiciume. Andò premurosamente
ad aprire la cassetta dove teneva le provviste e mise la caffettiera sulla stufa.
Quando gliel’offrì, il caffè era più freddo che tiepido, e nero, amaro, dal
gusto di legno; ma egli lo bevve per far piacere alla buona donna.
— Il terril non val niente in questi giorni, Monsieur Vincent — ella si
lagnava intanto. — La Compagnia non vi lascia dentro una briciola di
carbone. Come devo fare per tenere al caldo i bambini? Non ho niente per
vestirli; soltanto quelle camicine e un po’ di tela di sacco. Ma questa tela fa
bruciar loro la pelle e finisce per produrre delle piaghe. E se li tengo a letto
tutto il giorno, come possono crescere?
Vincent si sentiva le lacrime agli occhi, ma non trovava parole. Non
aveva mai visto una miseria così avvilita. Si domandò, per la prima volta, a
che avrebbero giovato a questa donna le preghiere e il Vangelo quando i
suoi bimbi stessero per morire di freddo. Che c’entrava Dio, in tutto questo?
Aveva alcuni franchi in tasca; li diede alla donna.
— Comprerete qualche indumento di lana per i bambini — le disse.
Gesto ben poco efficace, lo sapeva. Centinaia di altri bimbi stavano
soffrendo il freddo nel Borinage. Appena quei pochi indumenti di lana si
fossero logorati, i piccoli Decrucq avrebbero nuovamente battuto i denti.
Risalì la collina, dirigendosi verso casa. La cucina era calda,
accogliente. La signora Denis gli fece scaldare acqua per lavarsi e gli
preparò un buon desinare, con lo stufato di coniglio avanzato la sera
precedente. Vedendo che era stanco e sconvolto dall’esperienza fatta nelle
miniere, gli diede anche un po’ di burro da spalmare sul pane.
Vincent salì poi nella sua stanza. Ora aveva lo stomaco caldo e pieno. Il
letto era ampio e comodo, le lenzuola pulite, il guanciale aveva una bella
federa bianca. Alle pareti, riproduzioni d’opere dei più grandi maestri. Aprì
il cassettone e osservò le file di camicie, maglie, calze, panciotti. S’avvicinò
all’armadio e guardò le due paia di scarpe di ricambio, il pesante cappotto,
gli abiti appesi agli attaccapanni. Ora constatava finalmente che era un
bugiardo e un vile. Predicava ai minatori le virtù della povertà, ma per
conto suo viveva nelle comodità e nell’abbondanza. La sua religiosità era
una cosa inutile e poltrona. I minatori avrebbero dovuto disprezzarlo e
cacciarlo via dal Borinage. Fingeva di condividere la loro sorte, ma, ecco
qua, aveva bei vestiti caldi, dormiva in un letto comodo e aveva più cibo a
disposizione lui per un pasto che essi per una settimana. E le sue comodità,
i suoi lussi, non se li guadagnava nemmeno col lavoro. Non faceva altro che
andare in giro a spacciare melliflue fandonie, posando a uomo di buon
cuore. Gli abitanti del Borinage avrebbero dovuto rifiutarsi di andare ad
ascoltare le sue prediche e di lasciarsi guidare da lui. Tutta la sua vita
smentiva le sue parole. Ecco un altro fallimento: e più triste di tutti i
precedenti.
Ebbene, si trattava di scegliere. O andarsene via dal Borinage, fuggendo
col favor della notte, prima che s’accorgessero quale bugiardo, quale cane
vigliacco egli fosse; o mettere a profitto l’esperienza che gli aveva aperto
gli occhi e diventare un vero uomo di Dio.
Trasse fuori tutta la sua roba dal cassettone e la cacciò nella valigia, poi
vi mise dentro gli abiti, le scarpe, i libri, le stampe, e la chiuse. Per il
momento la lasciò sulla sedia, e uscì di corsa.
In fondo alla scarpata c’era un piccolo corso d’acqua, dopo il quale si
ricominciava a salire per l’opposto pendio, tra boschi di pini con capanne
sparse di minatori. Dopo alcune ricerche, Vincent trovò una casupola
disabitata. Una piccola baracca di legno senza una finestra, che sorgeva su
un’altura scoscesa. Il pavimento era costituito dal puro e semplice terreno
pesticciato e compresso dal lungo uso; l’acqua della neve sciolta scorreva
da ogni parte lungo le assi. Rozze travi sostenevano il tetto; e siccome per
tutto l’inverno la baracca era rimasta disabitata, dai buchi e dalle fessure
entravano spifferi gelidi.
— Di chi è questa capanna? — domandò Vincent alla donna che l’aveva
accompagnato.
— Di un commerciante di Wasmes.
— Sapete quanto chieda d’affitto?
— Cinque franchi al mese.
— Benissimo, la prendo io.
— Ma, Monsieur Vincent, non potete abitare qua dentro!
— Perché no?
— Ma… ma… è in pessime condizioni. Perfino peggiori della mia. È la
più brutta capanna di Petit Wasmes!
— Ed è appunto per questo che la voglio.
Risalì la collina, con un nuovo senso di serenità in cuore. La signora
Denis, salita nel frattempo nella sua stanza per prendere qualcosa, aveva
visto la valigia pronta.
— Monsieur Vincent! — esclamò quando lo vide entrare. — È successa
qualche disgrazia? Perché partite così improvvisamente per l’Olanda?
— Non parto, signora Denis. Resto nel Borinage.
— E allora…? — gli domandò, perplessa.
Quando Vincent le ebbe spiegato ciò che intendeva fare, ella gli disse
con dolcezza: — Credete a me, Monsieur Vincent, non potrete vivere a quel
modo. Non ci siete abituato. I tempi sono cambiati, dall’epoca di Gesù
Cristo in qua; oggigiorno dobbiamo vivere tutti quanti il meglio che ci è
possibile. La gente vede benissimo dalla vostra attività che siete un
brav’uomo.
Vincent non si lasciò dissuadere. Si recò dal commerciante di Wasmes,
prese in affitto la baracca e vi si trasferì. Pochi giorni dopo, quando gli
giunse l’assegno di cinquanta franchi del suo primo stipendio, si comprò un
lettuccio di legno e una stufa di seconda mano. Dopo queste spese gli
restava appena appena la somma necessaria per vivere di pane, formaggio e
caffè per il resto del mese. Rincalzò con terriccio, dall’esterno, le pareti
della baracca perché non v’entrasse l’acqua, turò con stracci i buchi e le
fessure. Ora viveva in un’abitazione identica a quella dei minatori,
mangiava e dormiva come loro. Era uno dei loro. Aveva il diritto di portare
a quelle disgraziate creature la parola di Dio.

13.

Il direttore della Compagnia «Charbonnages Belgique», che controllava


le quattro miniere nella zona di Wasmes, non era affatto quella bestia vorace
che Vincent s’immaginava di vedere. Un po’ corpulento, sì; ma aveva occhi
buoni, simpatici, e l’aria d’uno che per conto suo non farebbe male a una
mosca.
— Capisco, Monsieur Van Gogh — disse, dopo aver attentamente
ascoltato l’esposizione fattagli da Vincent sulle sofferenze dei minatori. —
È una storia vecchia. Essi credono che noi a bella posta li riduciamo alla
fame per realizzare utili più alti. Nulla di più falso, signore, credete a me.
Ecco, permettetemi di farvi vedere alcuni prospetti dell’ «Ufficio
Internazionale delle Miniere» di Parigi.
Spiegò sulla scrivania un largo foglio e puntò l’indice su una riga
azzurra in fondo alla pagina.
— Vedete, signore? Le miniere di carbone del Belgio sono le più povere
del mondo. Per noi, il carbone è così difficile da snidare, che diventa quasi
impossibile venderlo con profitto sul libero mercato. Le nostre spese di
produzione sono le più alte del genere in tutta Europa, e i nostri utili sono i
più bassi! Perché, vedete, dobbiamo vendere il nostro carbone allo stesso
prezzo praticato dalle miniere che producono al costo più basso. Siamo
continuamente sull’orlo del fallimento. Mi seguite?
— Credo.
— Se dessimo ai minatori un franco di più al giorno, il nostro costo di
produzione verrebbe a superare il prezzo di vendita sul mercato. Dovremmo
immediatamente chiudere. E allora quella gente morrebbe davvero di fame.
— Non potrebbero i proprietari accontentarsi d’un utile un po’ minore?
Così potrebbero pagar meglio i minatori.
Il direttore scosse tristemente la testa. — No, signore. Sapete su che
cosa si basa l’attività delle miniere? Sul capitale. Come ogni altra industria.
E il capitale deve fruttare, altrimenti cerca un altro investimento.
Oggigiorno le azioni dei «Charbonnages Belgique» rendono appena un
dividendo sulla base del tre per cento. Basterebbe ridurlo di un mezzo per
cento, perché gli azionisti ritirassero i loro capitali, E in questo caso
dovremmo chiudere, perché senza capitale non si va avanti. Ed ecco che
ancora una volta i minatori sarebbero ridotti a morir di fame. Vedete quindi,
signore, che non sono i proprietari né i direttori a creare nel Borinage queste
orribili condizioni. È la posizione estremamente sfavorevole dei giacimenti.
E di questo, suppongo, dovremmo dar la colpa a Dio!
Vincent avrebbe dovuto essere urtato da questa bestemmia. Non lo fu.
Stava riflettendo su quanto gli aveva detto il direttore.
— Ma almeno potrete far qualcosa per ridurre l’orario di lavoro. Tredici
ore di fatica là sotto sono massacranti!
— No, signore, non possiamo ridurre l’orario perché sarebbe come
aumentare le paghe. Scaverebbero tanto carbone di meno pur ricevendo lo
stesso compenso, e di conseguenza aumenterebbe per noi il costo di
produzione alla tonnellata.
— Ma c’è almeno una cosa che si può migliorare…
— Intendete parlare delle pericolose condizioni di lavoro?
— Appunto. Potete perlomeno far diminuire i casi di infortunio e di
morte nelle miniere.
Il direttore scosse pazientemente la testa. — No, signore, non possiamo.
Non riusciamo a vendere azioni sul mercato perché i nostri dividendi sono
troppo bassi. E non abbiamo assolutamente margini di profitto da investire
in migliorie d’impianti. Eh, signore, è un circolo vizioso, una faccenda
disperata. Mi ci sono rotto la testa mille volte. Ecco perché da cattolico
convinto e praticante sono diventato un ateo amaro. Non riesco a capire
perché, se ci fosse un Dio, avrebbe deliberatamente creato situazioni simili,
condannando un’intera popolazione alla più sordida miseria per secoli e
secoli, senza un’ora di tregua, senza un’ora di pietà!
Vincent non trovò nulla da aggiungere. S’avviò verso casa, sgomento.

14.

Il mese di febbraio fu il più freddo dell’anno. Raffiche selvagge di vento


irrompevano per la vallata e percotevano la cresta della collina, rendendo
impossibile il camminar per le strade. Ora più che mai le casupole dei
minatori avrebbero avuto bisogno d’una buona provvista di terril, ma con
quel vento gelido e feroce le donne non potevano uscir di casa e andar a
cercarlo sulla montagna nera. Non avevano altro, per difendersi dagli assalti
della tramontana, che le loro gonne di tela ruvida, i loro camiciotti, calze di
cotone, fazzoletti.
I bambini si vedevano costretti a stare continuamente a letto per non
gelare. Quasi impossibile preparar qualcosa di caldo da mangiare, perché
non c’era carbone. Uscendo dall’atmosfera ardente e asfissiante delle
miniere, gli uomini si tuffavano di colpo in una temperatura di parecchi
gradi sotto zero e dovevano attraversare la campagna nevosa lottando
contro la furia del vento. Ogni giorno della settimana si avevano casi di
morte dovuti alla tisi o alla polmonite. Nel corso di quel mese Vincent lesse
un gran numero di uffizi funebri.
Aveva rinunciato ad insegnare a leggere a quei poveri bambini dal volto
paonazzo e passava le sue giornate sulla montagnola di terril di Marcasse,
raccogliendo quanto più carbone poteva, per distribuirlo poi alle casupole
dove più infieriva la miseria. In quei giorni non ebbe bisogno di sfregarsi la
faccia con polvere di carbone: aveva continuamente l’aspetto caratteristico
del minatore. Un forestiero che fosse giunto a Petit Wasmes avrebbe detto:
— Ecco là un altro «muso nero».
Dopo parecchie ore di lavoro su e giù per i fianchi della piramide, era
riuscito a mettere insieme quasi un mezzo sacco di terril. Le mani livide
erano tagliuzzate e sanguinanti. Poco prima delle quattro decise di smettere
e di portare al villaggio quel che aveva potuto raccogliere, in modo che
almeno alcune donne potessero preparare il caffè caldo ai mariti. Giunse al
cancello degli stabilimenti di Marcasse proprio mentre i minatori
cominciavano a riversarsi fuori. Alcuni lo riconobbero e lo salutarono
borbottando un «Bojou!»; gli altri tirarono avanti con le mani in tasca, la
testa incassata nelle spalle curve, gli occhi fissi a terra.
L’ultimo a uscire fu un vecchietto, scosso per tutto il corpo da una tosse
così furiosa che riusciva a malapena a camminare. Le ginocchia gli
tremavano e quando fu investito da una di quelle raffiche gelide che
s’avventavano basse sulla campagna nevosa, barcollò come se avesse
ricevuto un colpo tremendo. Per poco non stramazzò con la faccia nella
neve. Dopo un momento riprese coraggio e si diede ad attraversare
lentamente il campo, offrendo il fianco agli urti del vento. Aveva intorno
alle spalle un pezzo di tela di sacco, procuratosi probabilmente in qualche
negozio o magazzino di Wasmes. Vincent notò che c’era scritto qualcosa.
Aguzzando lo sguardo, decifrò le lettere: Fragile.
Distribuito il terril in alcune casupole di minatori, raggiunse la sua
capanna e dispose sul letto tutti i propri oggetti di vestiario. Aveva cinque
camicie, tre maglie e tre paia di mutande, quattro paia di calze, due paia di
scarpe, due abiti e un cappotto militare. Lasciò sul letto una camicia, un
paio di calze e uno di mutande, una maglia. Mise tutto il resto nella valigia.
Portò i due abiti al vecchietto che recava scritto sulla schiena: Fragile.
Diede le maglie, le mutande e le camicie ad alcune donne, perché le
adattassero ai loro bambini. Regalò le calze a minatori malati e il cappotto
ad una donna incinta il cui marito era morto alcuni giorni prima in seguito
al crollo d’una galleria, e che ora doveva andare a lavorare al posto del
marito per mantenere i due bambini.
Il «Salon du Bébé» era chiuso, poiché Vincent non voleva che venisse a
mancare alle donne il terril destinato a questo uso. D’altronde, con questo
tempaccio nessuna famiglia di minatori amava avventurarsi fuor di casa e
bagnarsi i piedi nelle pozzanghere. Vincent svolgeva piccole funzioni
religiose nell’interno stesso delle casupole, durante i suoi giri. Con l’andar
del tempo, trovava sempre più necessario dedicarsi a cose pratiche: curare i
malati, lavare, strofinare, preparare bevande calde, somministrare medicine.
Finì per lasciare la Bibbia a casa, dato che non trovava mai il tempo
d’aprirla. La parola di Dio era diventata un lusso che i minatori non
potevano permettersi.
In marzo il freddo scemò un poco, ma venne la febbre a prendere il suo
posto. Vincent spese quaranta franchi del suo stipendio di febbraio
nell’acquisto di cibi e medicine per i malati, soffrendo egli stesso la fame.
Le privazioni l’avevano smagrito; i suoi gesti tradivano un nervosismo
sempre più accentuato. Il freddo stava distruggendo le sue forze vitali;
cominciò ad andare in giro con la febbre. Gli occhi erano diventati come
due caverne di fuoco, la sua testa massiccia pareva si fosse contratta e
raggrinzita. Le guance s’infossarono ma il mento era sempre energicamente
proteso come prima.
Il bimbo più grandicello dei Decrucq fu colpito dal tifo. Si creò una
situazione difficile per la sistemazione del malatino. Nella casupola c’erano
solo due letti, uno occupato dai genitori e l’altro dai tre bambini. Dormendo
nello stesso letto del fratello, i due più piccoli potevano contrarre la stessa
malattia. Dormendo per terra, si sarebbero buscata una polmonite. Se
avessero dormito per terra i genitori, come avrebbero potuto lavorare il
giorno dopo? Vincent trovò immediatamente la soluzione.
— Decrucq — disse al minatore, quando tornò dal lavoro — volete
aiutarmi un momento, prima di mettervi a tavola?
Decrucq era stanco, la vecchia ferita alla testa gli faceva male, ma lo
seguì senza far domande, trascinando la gamba. Quando furono giunti
all’abitazione di Vincent, questi tirò via dal letto una delle due coperte e
disse: — Prendete di lì. Portiamo questo letto a casa vostra per il ragazzino.
Decrucq fece stridere i denti. — Abbiamo tre bambini — disse — e, se
Dio vuole così, possiamo perderne uno. Ma c’è un solo Monsieur Vincent
per aver cura di tutto il villaggio e io non lascerò che s’uccida!
E se ne andò, col suo passo stanco. Vincent tirò da parte il letto, se lo
caricò sulle spalle, arrancò fino all’abitazione dei Decrucq e lo sistemò.
Decrucq e sua moglie lo guardavano alzando il viso dalla loro cena, fatta di
pan secco e caffè. Vincent mise il bambino nel suo letto, lo curò
amorevolmente.
Quella sera, più tardi, andò dai Denis a chiedere se non avessero una
bracciata di paglia per farsene un giaciglio. La signora Denis fu atterrita
quando seppe che cos’aveva fatto.
— Monsieur Vincent, la vostra stanza è ancor sempre libera. Dovete
tornare ad abitare qui.
— Siete molto buona, signora Denis, ma non posso.
— Lo so, vi preoccupate per il denaro della pigione. Ma non è il caso.
Jean-Baptiste ed io ce la passiamo benone. Potete stare liberamente con noi,
come un fratello. Non ci dite sempre che i figli di Dio sono tutti fratelli?
Vincent aveva freddo, un freddo che gli dava i brividi. Aveva fame.
Aveva nelle ossa la febbre, che trascinava da settimane e che gli dava il
delirio. Era esausto, a furia di nutrirsi male e dormir poco. Portava su di sé
il peso delle miserie e delle sofferenze di tutto il villaggio: un’ossessione
che quasi lo rendeva pazzo. Di sopra, c’era un letto caldo, soffice, pulito. La
signora Denis gli avrebbe dato da mangiare, in modo da non sentir più quel
male allo stomaco dilaniato dalla fame; l’avrebbe curato e fatto guarire
dalla febbre; gli avrebbe somministrato bevande calde, forti, liberandolo da
quel freddo terribile che l’aveva invaso fin nel midollo delle ossa. Ebbe un
brivido, si sentì venir meno, per poco non cadde sul pavimento di
mattonelle rosse. Fece appena in tempo a dominarsi.
Era l’ultima prova che Dio gli mandava. Se s’arrendeva ora tutto il suo
lavoro sarebbe stato inutile. Ora che il villaggio aveva raggiunto il culmine
delle sofferenze e delle privazioni, avrebbe egli indietreggiato? Sarebbe
stato così spregevolmente codardo, da acciuffare prontamente la buona
occasione di star bene che gli veniva offerta?
— Dio vede la vostra bontà, signora Denis — disse — e ve ne
compenserà. Ma non dovete tentare di distogliermi dalla strada del dovere.
Se non mi date un po’ di paglia, temo che dovrò dormire per terra. Ma non
portatemi nient’altro, ve ne prego, perché non potrei accettarlo.
Gettò la paglia in un angolo della sua capanna, sulla terra umida, e si
coprì con quella sottile coperta che s’era tenuta. Non chiuse occhio in tutta
la notte; al mattino aveva la tosse e pareva che gli occhi gli si fossero
infossati ancor di più. La febbre s’era fatta più violenta, tanto che non aveva
quasi nozione di ciò che faceva. Nella capanna non c’era terril per
accendere la stufa: da parecchio tempo non si sentiva di sottrarre ai minatori
anche soltanto una manciata del combustibile che si poteva penosamente
racimolare dietro Marcasse. Riuscì ad inghiottire alcuni bocconi di pane
duro, e uscì a svolgere il suo lavoro quotidiano.

15.

Marzo cedette lentamente il posto ad aprile; le condizioni generali


migliorarono leggermente. Cessò di tirar vento, il sole cominciò a riscaldare
un po’ di più e venne finalmente lo sgelo. Allo sciogliersi delle nevi
riemerse la terra scura, s’udirono le allodole cantare, nei boschi spuntarono
ai piedi dei vecchi alberi i primi germogli. Le febbri scomparvero e col
tornare delle belle giornate le donne del villaggio ripresero a sciamare
intorno alla piramide nera di Marcasse in cerca di terril. Ben presto nelle
povere casupole le stufe tornarono ad avvampare deliziosamente; i bambini
poterono nuovamente passare la giornata fuor dal letto e Vincent riaprì il
«Salon». Tutto il villaggio accorse a sentire la sua prima predica. Il tenue
raggio d’un sorriso riaffiorava negli occhi malinconici dei minatori; la gente
ardiva rialzare un pochino la testa. Decrucq, che si era auto-designato
fochista e portiere ufficiale del «Salon», scherzava allegramente vicino alla
stufa, grattandosi vigorosamente il cranio.
— Si annunciano tempi migliori! — gridò Vincent esultante, dal suo
pulpito. — Dio vi ha provati e vi ha trovati degni. Le vostre sofferenze
peggiori sono finite. Il grano maturerà nei campi e il sole vi riscalderà,
quando dopo la giornata di lavoro siederete dinanzi alle vostre case. I
bambini correranno fuori ad inseguire l’allodola e a raccogliere fragole nei
boschi. Sollevate gli occhi a Dio, perché sono in serbo per voi le cose buone
della vita. Dio è misericordioso. Dio è giusto. Egli compenserà la vostra
fede e la vostra vigilanza. Rendete grazie a lui, poiché arrivano tempi
migliori.
I minatori levarono fervide preghiere di ringraziamento. La stanza si
riempì di voci allegre. Ognuno diceva al vicino: — Monsieur Vincent ha
ragione. I nostri patimenti sono finiti. L’inverno se n’è andato. Ora vengono
tempi migliori!
Alcuni giorni dopo, mentre Vincent e una frotta di bambini stavano
raccogliendo terril a Marcasse, videro piccole figure nere uscire
affannosamente dall’edificio dov’era situato l’ascensore e sparpagliarsi di
corsa nei campi in ogni direzione.
— Che succede? — esclamò Vincent. — Non sono ancora certamente le
tre. Il sole è ancora alto.
— È successa una disgrazia! — urlò uno dei ragazzi più grandicelli. —
Già altre volte li ho visti correre così! È accaduto qualcosa nelle miniere.
Scesero dalla montagna nera con tutta la velocità di cui furono capaci,
lacerandosi le mani e i panni contro le sporgenze aguzze. Il campo intorno a
Marcasse era pieno di gente che scappava: pareva uno sciame di formiche
che fuggissero verso un ricovero. Quando Vincent e i ragazzini si trovarono
a terra, il movimento della marea s’era invertito: ora donne e bambini
arrivavano di corsa dal villaggio, sbucando da ogni parte, affannati, atterriti,
le donne con i piccini in collo e gli altri bimbi che le seguivano
trotterellando.
Giunto al cancello, Vincent udì gridare: — Il grisou! Il grisou! Nel
giacimento nuovo sono stati presi sotto! Non hanno potuto salvarsi!
Jacques Verney, che durante il periodo dei grandi freddi aveva dovuto
stare continuamente a letto, giunse di corsa attraverso il campo. Era
diventato ancora più smunto, col petto più incavato. Vincent gli si fece
incontro mentre passava. — Che è successo? Ditemi!
— La couche di Decrucq! Vi ricordate, quelle fiammelle azzurrognole?
Lo sapevo che sarebbe andata a finire così!
— Quanti? Quanti sono? Non possiamo arrivare fino a loro?
— Dodici caverne. Le avete viste. Cinque uomini per caverna.
— Non possiamo salvarli?
— Non so. Farò subito scendere una squadra di volontari.
— Lasciate venire anche me. Lasciate che aiuti.
— No. Ho bisogno di uomini pratici. — E corse verso l’ascensore.
Il piccolo carro col cavallo bianco venne a fermarsi presso il cancello, il
piccolo carro col cavallo bianco che aveva portato già tanti morti e tanti
feriti alle casupole sul fianco della collina. I minatori che poc’anzi erano
fuggiti attraverso il campo cominciavano ora a tornare, accompagnati dalle
famiglie. Alcune donne gridavano e piangevano istericamente, altre
guardavano di fronte a sé con gli occhi dilatati e fissi. I bambini
piagnucolavano. I capi-squadra correvano di qua e di là urlando con tutta la
voce che avevano in gola, organizzando squadre di soccorso.
Improvvisamente tutto quel clamore cessò. Dall’ascensore uscì un
piccolo gruppo di uomini e scesero lentamente i gradini, reggendo qualcosa
avvolto in coperte. Fu un silenzio terribile. Poi tutti ripresero d’un colpo a
gridare e a piangere.
— Chi sono? Sono morti? Sono vivi? Per amor di Dio, diteci i loro
nomi! Fateceli vedere! C’è anche mio marito, là sotto! Ci sono due miei
bambini, in quella couche!
Il gruppo si fermò accanto al piccolo carro col cavallo bianco. Uno di
essi parlò. — Sono stati salvati tre che stavano scaricando il carbone allo
sbocco della galleria. Ma hanno bruciature terribili.
— Chi sono? Per amor di Dio, diteci chi sono! Fateceli vedere! Fateceli
vedere! Ho il mio bambino laggiù! Il mio bambino! Il mio bambino!
L’uomo sollevò le coperte scoprendo i volti bruciacchiati di due
ragazzine di circa nove anni e di un fanciullo di dieci. Tutti e tre svenuti. I
familiari si buttarono loro addosso con grida di strazio e di gioia al tempo
stesso. I tre involti vennero adagiati sul carro col cavallino bianco e condotti
via lungo la strada incassata in mezzo al campo. Vincent e i familiari
seguirono il carro, correndo e ansando come bestie affannate. Vincent
sentiva, alle sue spalle, quei gemiti di paura e d’angoscia che salivano,
salivano sempre più. Volgendo la testa, scorse all’orizzonte la lunga fila di
montagne di terril.
— Egitto nero! — gridò forte, dando sfogo all’amarezza. — Egitto
nero, dove il popolo eletto è nuovamente ridotto in schiavitù! Oh, Dio,
come puoi permettere? Come puoi permettere?
I tre ragazzi erano quasi tutta una piaga. Da tutte le parti esposte alla
fiamma, la pelle e i capelli erano stati portati via. Vincent entrò nella prima
casupola. La madre si torceva le mani dall’angoscia. Vincent svestì la
bambina e gridò: — Olio, olio, presto! — La donna aveva un po’ d’olio in
casa. Vincent l’applicò sulle bruciature, poi gridò: — Su, le bende.
La donna stava lì e lo guardava con occhi pieni di terrore. Vincent
s’infuriò. — Le bende! Volete che la vostra bambina muoia?
— Non abbiamo niente — balbettò la donna. — In tutta la casa non
abbiamo un pezzo di biancheria pulita. È da tutto l’inverno che non ne
abbiamo.
La bambina s’agitò, gemendo. Vincent si strappò d’addosso la giacca, la
camicia e la maglia. Si rimise la giacca, ridusse in tante strisce gli altri due
indumenti e bendò la fanciulla dalla testa ai piedi. Prese poi il recipiente
dell’olio e passò alla seconda bambina, ripetendo lo stesso lavoro. Quando
si trattò di fasciare il ragazzo, non c’erano più bende: la camicia e la maglia
erano state interamente adoperate. Il ragazzo stava morendo. Vincent si levò
i pantaloni e ridusse in strisce le mutande.
Poi, tenendosi i lembi della giacca ben stretti sul petto nudo, corse
nuovamente a Marcasse. Era ancora lontano e già udiva i lamenti, le
incessanti grida delle mogli e delle madri.
I minatori stavano raggruppati presso il cancello. Solo una squadra alla
volta poteva lavorare giù nella miniera, dato che il passaggio era tanto
stretto. Gli uomini delle altre squadre aspettavano il loro turno. Vincent si
rivolse ad un capo-squadra: — Dunque?
— A quest’ora sono morti.
— Non si può arrivare fino a loro?
— Sono sepolti sotto la roccia.
— Quanto ci vorrà per tirarli fuori?
— Settimane. Forse mesi.
— Ma perché? Ma perché?
— È il tempo che ci s’impiega di solito. È già accaduto altre volte.
— Allora sono perduti!
— Cinquantasette tra uomini e ragazzi!
— Tutti quanti?
— Non li vedrete mai più!
Le squadre di soccorso si diedero il cambio per trentasei ore. Non si
riusciva a trascinare via le donne che avevano i figli o i mariti là sotto. Gli
uomini le rincoravano, dicevano loro che si sarebbe riusciti a salvarli. Esse
sapevano che mentivano. Le donne dei minatori che non avevano perduto
nessuno portavano alle altre caffè caldo e pane. Ma le poverette non
volevano toccar cibo. Nel cuor della notte portarono su Jacques Verney,
avvolto in una coperta. Aveva avuto un’emorragia. Morì il giorno dopo.
Dopo quarantotto ore, Vincent poté persuadere la moglie di Decrucq a
tornarsene a casa con i bambini. Per dodici giorni, squadre di volontari
lavorarono senza interruzione. Il lavoro ordinario delle miniere restò
completamente sospeso. Niente carbone, e quindi niente paga. I pochi
franchi degli abitanti del villaggio sfumarono rapidamente. La signora
Denis continuava a cuocere il pane e a distribuirlo a credito. Esaurì le sue
disponibilità e dovette chiudere. La Compagnia non erogò un centesimo di
sussidio. Al termine della dodicesima giornata venne ordinato alle squadre
di soccorso di abbandonare i tentativi e agli operai di tornare al lavoro. Petit
Wasmes non aveva più un soldo e stava per morire di fame.
I minatori scioperarono.
Giunse a Vincent lo stipendio d’aprile. Egli scese a Wasmes e spese tutti
i suoi cinquanta franchi in viveri, che distribuì alle famiglie. Il villaggio
visse per sei giorni di questo soccorso. Poi gli abitanti andarono nei boschi
a raccogliere bacche, foglie, erbe. Gli uomini si sguinzagliarono a dar la
caccia ad ogni bestia reperibile: topi, scoiattoli, lumache, rospi, lucertole,
gatti, cani. Qualunque cosa che si potesse cacciare nello stomaco per
placare gli strazi della fame. Infine, non ci fu più niente da trovare. Vincent
scrisse a Bruxelles, invocando aiuto. Non giunse aiuto di sorta. I minatori
stavano a guardare le mogli e i bambini che morivano di fame sotto i loro
occhi.
Chiesero a Vincent di svolgere una funzione religiosa in suffragio dei
cinquantasette sventurati morti nella miniera, i cinquantasette compagni che
li avevano preceduti. Un centinaio di persone, uomini, donne e bambini, si
stiparono nella sua capanna. Da parecchi giorni Vincent si nutriva di solo
caffè. Dal momento della disgrazia non aveva quasi più ingerito nulla di
solido. Non aveva più la forza di stare in piedi. La febbre e la disperazione
l’avevano ripreso. I suoi occhi erano ormai soltanto due punte nere, le
guance risucchiate lasciavano duramente emergere gli zigomi; la barba
lunga, rossa, metteva sul suo volto un’impronta di sporco. Invece della
maglia, aveva intorno al petto un ruvido pezzo di tela di sacco. La capanna
era illuminata da un’unica lanterna che, appesa ad una trave rotta, spandeva
un debole bagliore oscillante. Vincent stava disteso sul suo giaciglio di
paglia, in un angolo, puntellandosi sul gomito e appoggiando la testa sulla
mano. La lanterna proiettava ombre fantastiche, fluttuanti, sulle assi e su
quell’accolta d’anime in pena.
Cominciò a parlare con voce arida, febbrile. Ogni parola cadeva in un
silenzio impressionante e vi si dilatava con immense vibrazioni. Smagriti,
emaciati, accasciati dalla fame e dall’avvilimento, i «musi neri» lo
fissavano come avrebbero fissato Dio. Dio era molto lontano, chissà dove.
Ad un tratto s’udirono strane voci fuori dalla capanna: voci che
tradivano una violenta indignazione. La porta si spalancò e un bambino
gridò: — Monsieur Vincent è qui dentro, signori.
Vincent s’interruppe. I minatori si voltarono verso la porta. Entrarono
due signori ben vestiti. La lampada a petrolio diede un guizzo più vivido.
Vincent lesse sui loro volti un’espressione di orrore e di paura.
— Siate i benvenuti, reverendo de Jong e reverendo Van den Brink —
disse senza alzarsi. — Stiamo tenendo un servizio religioso in suffragio dei
cinquantasette minatori che son rimasti bruciati vivi nella miniera di
Marcasse. Volete dire una parola di conforto a questa gente?
Ci volle parecchio tempo prima che i reverendi riuscissero a spiccicar
parola.
— Nauseante! Semplicemente nauseante! — esclamò de Jong,
battendosi una sonora manata sullo stomaco imponente.
— Credevate forse di trovarvi nelle giungle dell’Africa? — aggiunse
Van den Brink.
— Solo il Cielo sa quanto male avrà fatto.
— Ci vorranno diversi anni per ricondurre questa gente al
Cristianesimo.
De Jong incrociò le mani sulla pancia. — Ve l’avevo pur detto di non
affrettarvi tanto a prenderlo in carica!
— Lo so… Ma Pietersen… Chi avrebbe mai immaginato una cosa
simile? Quest’individuo è assolutamente pazzo!
— L’ho sempre sospettato, io, che fosse pazzo. Non mi ha mai ispirato
fiducia.
I reverendi parlavano rapidamente in un francese corretto,
incomprensibile agli abitanti del Borinage. Vincent era troppo debole e
malato per rendersi conto della portata e del senso di quanto dicevano.
De Jong s’aprì a colpi di stomaco un passaggio attraverso la calca e
disse a Vincent, con tono calmo ma feroce:
— Mandate a casa questa sozza canea!
— Ma il servizio religioso! Non abbiamo ancora finito il…
— Non preoccupatevi del servizio. Mandateli via.
I minatori se ne andarono lentamente, incapaci di comprendere. I due
reverendi si piantarono dinanzi a Vincent. — Che vi prende? Che vi salta in
testa di tenere un servizio religioso in una catapecchia come questa? Quale
razza di barbaro culto avete instaurato? Non avete proprio nessun senso di
decenza, di decoro? È questo il contegno che s’addice ad un ministro del
culto? Siete proprio pazzo, per comportarvi a questo modo! Volete rovinare
la nostra Chiesa?
Il reverendo de Jong riprese fiato un momento, osservò la squallida e
sordida baracca, il giaciglio di paglia su cui stava disteso Vincent, la tela di
sacco avvolta intorno al suo busto, i suoi occhi infossati di febbricitante.
— Meno male per la nostra Chiesa, signor Van Gogh — riprese — che
vi abbiamo assunto soltanto in linea provvisoria. Potete fin d’ora
considerare scaduta la vostra nomina. Non vi prenderemo mai più al nostro
servizio. Trovo disgustosa e vergognosa la vostra condotta. Non riceverete
più un soldo, e verrà subito un altro a prendere il vostro posto. Se non fossi
tanto caritatevole da considerarvi pazzo, vi definirei il peggior nemico della
Cristianità che la Chiesa Evangelica belga abbia mai avuto!
Seguì un lungo silenzio.
— Dunque, signor Van Gogh, non avete nulla da dire a vostra discolpa?
Vincent ricordò il giorno in cui, a Bruxelles, avevano rifiutato di dargli
un posto. Non che parlare, non poteva nemmeno riscuotersi da quello stato
di insensibilità.
— Possiamo andare, fratello de Jong — disse dopo un poco il reverendo
Van den Brink. — Niente da fare. Il suo caso è disperato. Se non troviamo
un buon albergo a Wasmes, dovremo in serata farci portare in carrozza fino
a Mons.

16.

La mattina dopo, un gruppo di minatori anziani si recò da Vincent.


— Signore, ora che Jacques Verney se n’è andato, non ci restate che voi.
Diteci che cosa dobbiamo fare. Non vogliamo morir di fame, se ne
possiamo fare a meno. Forse potrete indurre «quei signori» a soddisfare le
nostre richieste. Parlate con loro. Poi, se ci direte di tornare al lavoro, ci
torneremo. E se ci direte di continuare a patir la fame, continueremo.
Daremo retta a voi, Monsieur Vincent, e a nessun altro.

Gli uffici dei «Charbonnages Belgique» avevano un aspetto lugubre. Il


direttore si rallegrò della visita di Vincent e lo ascoltò benevolmente.
— Lo so, signor Van Gogh, che i minatori sono irritati perché non
abbiamo ricuperato le salme. Ma a che sarebbe servito? La Compagnia ha
deciso di lasciar perdere quel giacimento: non rende abbastanza. Avremmo
dovuto scavare per un mese, e con quale risultato? Semplicemente per tirar
fuori quelle salme da una tomba e metterle in un’altra.
— E per i vivi? Non potete far niente per migliorare le condizioni di
lavoro? Devono proprio rischiare la morte ogni giorno?
— Oui, signore, per forza. Per forza. La Compagnia non ha fondi da
investire in impianti di sicurezza. I minatori non hanno ragioni da far
valere: non possono spuntarla, perché la legge è contro di loro. E il peggio è
questo: che se non tornano al lavoro entro una settimana, gli stabilimenti di
Marcasse saranno definitivamente chiusi. Allora sa Dio che fine faranno.
Vincent riprese la lunga strada serpeggiante di Petit Wasmes, sconfitto.
«Forse Dio lo sa — pensò amaramente. — O forse no».
Era chiaramente evidente che egli non poteva più far niente per i
minatori. Ora doveva dir loro di tornare a lavorare tredici ore al giorno nelle
miniere dove ci si rovinava i polmoni, per salari di fame, con la morte
sempre incombente: morte fulminea per gli uni, lenta e inesorabile per gli
altri. Non aveva saputo aiutarli in nessun modo. Nemmeno Dio poteva
aiutarli. Era venuto nel Borinage per portare ai loro cuori la parola di Dio:
ma che cosa avrebbe ancora potuto dire, di fronte al fatto evidente che
l’eterno nemico dei minatori non erano già i padroni, ma l’Onnipotente?
Fin dal momento in cui avesse detto ai minatori di tornare al lavoro, alla
schiavitù, non avrebbe più contato niente per loro. Non avrebbe neanche più
potuto fare una predica (pur ammettendo che il Comitato glielo
permettesse): a che serviva ormai il Vangelo? Dio s’era mostrato sordo alle
preghiere dei minatori, né egli aveva saputo impietosirlo.
Ed ecco, una cosa che oscuramente sapeva da gran tempo gli si fece
improvvisamente chiara. Tutto questo parlar di Dio era un’evasione puerile:
disperate menzogne che l’uomo atterrito e solo bisbiglia a se stesso
nell’angoscia di una fredda, buia, eterna notte. Dio non esisteva. Proprio
così: Dio non esisteva. Esisteva soltanto il caos: un eterno caos fatto di
miserie, di sofferenze, di crudeltà, di torture e di cecità.

17.

I minatori tornarono al lavoro. Theodorus Van Gogh, informato della


situazione dal «Comitato di Evangelizzazione», scrisse al figlio di tornare a
Etten, accludendogli il denaro necessario. Vincent tornò invece ad abitare
dai Denis, dopo aver fatto una visita d’addio al «Salon», dove staccò le
incisioni per riportarsele nella sua stanza.
Era un’altra volta la bancarotta. Il momento di salvare il salvabile, per
balzare alla riscossa. Ma più nulla restava da salvare. Né lavoro, né denaro,
né salute, né forza, né idee, né entusiasmi, né desideri, né ambizioni, né
ideali: nessun cardine, insomma, su cui far ruotare la propria vita. Si
trovava, a ventisei anni, con cinque fallimenti alle spalle e senza il coraggio
di ricominciare.
Si guardò nello specchio. Ciuffi di barba rossiccia gli coprivano il viso.
I capelli gli si erano diradati. La bocca tumida e rossa gli si era assottigliata
in una esigua ferita. Gli occhi si perdevano in due cupe caverne. Tutto il
Vincent Van Gogh d’un tempo pareva essersi aggrinzito e contratto,
raggelato, quasi morto interiormente.
Fattosi dare un pezzo di sapone dalla signora Denis, si lavò
vigorosamente dalla testa ai piedi, dritto in un mastello d’acqua. Guardava
il suo corpo un tempo robusto e possente, e lo trovava smilzo, consunto. Si
rase accuratamente, domandandosi da dove fossero sbucate tutte quelle ossa
che gli rendevano così angolosa la faccia. Per la prima volta dopo tanti
mesi, si pettinò alla vecchia sua maniera. La signora Denis gli portò su una
camicia e della biancheria personale di suo marito. Si vestì, scese nella gaia
e accogliente atmosfera della cucina. Si sedette a tavola con i Denis e, per la
prima volta dal giorno della catastrofe nella miniera, mangiò
abbondantemente. Trovava strano, che ancora si prendesse la briga di
mangiare. Il cibo gli sapeva di calda poltiglia di legno.
Benché non avesse informato i minatori del divieto fattogli di predicare,
essi non lo sollecitarono a tenere altri sermoni. Sembrava non se ne
curassero affatto. Raramente Vincent parlava con loro. Parlava pochissimo
con tutti. Scambiava soltanto qualche saluto passando. Non entrava più
nelle loro casupole, non s’interessava più dei fatti loro, dei loro pensieri. Per
una qualche profonda intuizione e per un tacito accordo, i minatori
s’astennero dal far commenti. S’adattarono al suo nuovo modo di fare,
senza biasimarlo. Capivano, senza bisogno di parole. E nel Borinage la vita
continuava.
Un biglietto da casa l’informò che era morto improvvisamente il marito
di Kay Vos. Nello stato di estrema depressione in cui si trovava, egli
archiviò semplicemente il fatto in un angolo remoto della memoria.
Le settimane passavano. Vincent non faceva altro che mangiare,
dormire e star seduto, come imbambolato. La febbre se ne andava pian
piano. Ricuperava forza e peso. Ma i suoi occhi erano come due spiragli di
vetro in una bara che conteneva un cadavere. Venne l’estate: i campi scuri,
le ciminiere e le montagnole di terril scintillavano al sole. Vincent
vagabondava per la campagna. Non camminava per esercizio fisico o per
divertimento. Non sapeva mai dove andasse, non vedeva nemmeno le cose
che sfiorava. Camminava semplicemente perché era stanco di dormire, di
star seduto, di far niente. E quand’era stanco di camminare, si sedeva, si
coricava o stava a far niente.
Poco dopo aver esaurito il denaro inviatogli dal padre, ricevette una
lettera dal fratello Theo, che si trovava a Parigi. Theo lo pregava di non
stare a perdere pigramente il tempo nel Borinage, ma di servirsi delle
accluse banconote per fare un passo decisivo e rimettersi in carreggiata.
Vincent passò il denaro alla signora Denis. Non restava nel Borinage perché
gli piacesse; vi restava perché non aveva nessun altro posto dove andare e
perché ci voleva troppo sforzo per muoversi.
Aveva perduto Dio e aveva perduto se stesso. Ora perse il bene più
prezioso che avesse sulla terra: l’unica persona che avesse sempre provato
per lui una istintiva simpatia, l’unica che lo avesse compreso come
s’augurava d’esser compreso. Theo abbandonò suo fratello. Durante tutto
l’inverno gli aveva scritto almeno una volta la settimana, lunghe lettere
affettuose, piene d’incoraggiamento e d’interesse. Bruscamente, smise di
scrivere. Anche Theo aveva perso la fede, rinunciando alla speranza. E così
Vincent rimase solo, completamente solo, privo anche di Dio: un uomo
morto che si moveva in un mondo deserto domandandosi che cosa ancora ci
stesse a fare.

18.

All’estate subentrò gradatamente l’autunno. Con lo smorire della magra


vegetazione, qualcosa dentro Vincent si schiuse alla vita. Non avendo
ancora la forza di guardare in faccia la propria esistenza, si volse verso la
vita degli altri. Tornò ai suoi libri. La lettura aveva sempre costituito il suo
divertimento più bello e più assiduo; e ora nella narrazione dei trionfi e dei
fallimenti, delle sofferenze e delle gioie di altre persone trovava un
diversivo dall’ossessionante pensiero delle proprie catastrofi.
Quando il tempo lo permetteva, usciva per i campi e leggeva tutto il
giorno; quando pioveva, si stendeva sul letto o si sedeva in cucina, contro la
parete, e passava le ore così, assorbito nella lettura. Con l’andar delle
settimane seguì a questo modo le vicende di centinaia di personaggi: figure
qualunque, come lui, che lottavano, ottenevano qualche successo e molti
smacchi. E attraverso di essi imparò ad analizzare se stesso. Il tema che gli
ricorreva continuamente nel cervello: «Sono un fallito. Sono un fallito.
Sono un fallito», si dileguò sotto una serie di domande incalzanti: «Che
cosa devo tentare ora? A che cosa sono destinato? Quale è il mio posto nel
mondo?». In tutti i libri cercava ora un’indicazione che lo aiutasse a dare un
nuovo orientamento alla sua vita.
Nelle lettere che gli giungevano da casa la sua esistenza era definita
«choquante»; suo padre affermava che conducendo quella vita di poltrone
contravveniva alle più elementari norme di decoro sociale. Quando aveva
intenzione di cercarsi un altro impiego, guadagnarsi da vivere, diventare un
membro utile della società e recare il suo contributo al lavoro dell’umanità?
Vincent avrebbe ben voluto saper rispondere a una domanda simile!
A furia di leggere, raggiunse finalmente il limite di saturazione, tanto
che non si sentiva più di toccare un libro. Per parecchie settimane subito
dopo il disastro, l’intontimento e la debolezza fisica non gli avevano
consentito di riscuotersi da una profonda insensibilità. Successivamente si
era dato alla lettura per affogarvi la propria amarezza e vi era riuscito. Ora
ch’era quasi completamente ristabilito, il flusso delle emozioni
accumulatesi nel corso dei mesi si scatenò come un torrente furioso
sommergendolo in una piena di dolore e di disperazione. La conquistata
prospettiva mentale si rivelava infruttuosa.
Aveva raggiunto il punto di maggior depressione della sua vita, e lo
sapeva.
Sentiva d’avere in se stesso qualcosa di buono, sentiva di non essere un
pazzo e un dissipatore, sentiva di poter fare qualcosa al mondo. Ma che
cosa precisamente? Non era adatto all’attività consuetudinaria degli affari, e
aveva ormai provato tutto ciò per cui gli sembrava di possedere qualche
attitudine. Era inevitabilmente condannato al fallimento e alla sofferenza?
La vita era davvero finita per lui?
Domande senza risposta. E intanto s’avvicinava l’inverno. Suo padre
finì per disgustarsi e non gli mandò più denaro; dovette allora rinunciare
alla tavola dei Denis e mangiare quando poteva. Poi Theo sentì una punta di
rimorso e gli mandò qualcosa da Etten. Quando Theo perdeva la pazienza,
suo padre s’arrendeva di nuovo ad un senso di responsabilità. Tra l’uno e
l’altro, Vincent riuscì più o meno a sbarcare il lunario.
In una limpida giornata di novembre, Vincent s’aggirava nei paraggi di
Marcasse, col cervello vuoto e le tasche parimenti vuote. Si sedette su una
rugginosa ruota di ferro, nelle adiacenze degli stabilimenti. Uscì un vecchio
minatore col berretto nero tirato sugli occhi, le spalle ringobbite, le mani in
tasca, movendo a scatti le gambe ossute. Qualcosa in quella figura (non
avrebbe saputo dire esattamente che cosa) attrasse l’attenzione di Vincent.
Con un gesto pigro, senza nessun particolare interesse, cavò di tasca un
mozzicone di matita e una lettera della famiglia e abbozzò sul rovescio
della busta la piccola figura che avanzava con passo dinoccolato attraverso
il campo nero.
Aprì la lettera e vide che lo scritto occupava una facciata sola. Poco
dopo un altro minatore uscì dal cancello, un ragazzotto sui diciassette anni.
Più alto, più eretto, sollevava le spalle con una certa allegra baldanza nel
camminare lungo il muro di pietra di Marcasse, in direzione delle rotaie.
Vincent ebbe tutto il tempo di disegnarne la figura, prima che scomparisse.

19.

Dai Denis, trovò parecchi fogli di carta bianca e una grossa matita. Posò
sul suo tavolo i due schizzi e si mise a copiarli. La mano era impacciata e
rigida: non riusciva a fissare sulla carta la linea che aveva in mente. Usava
molto più la gomma che non la matita, ma insisté con foga. Era così intento
al lavoro, da non accorgersi nemmeno che cominciava a far buio. Sobbalzò,
quando la signora Denis bussò alla porta.
— Monsieur Vincent, la cena è pronta.
— La cena! — esclamò Vincent. — Ma è impossibile che sia già così
tardi!
A tavola chiacchierò animatamente con i suoi ospiti; c’era nei suoi
occhi una luce insolitamente viva. I Denis si scambiarono uno sguardo
significativo. Dopo il pasto, Vincent si scusò e salì immediatamente nella
sua stanza. Accese la lampada e appese i due schizzi alla parete, tirandosi
indietro il più possibile per osservarne l’effetto.
«Brutti — disse a se stesso con una smorfia curiosa — molto brutti. Ma
forse domani riuscirò a fare di meglio».
Si coricò, posando la lampada a petrolio sul pavimento, accanto al letto.
Guardò ancora i due schizzi senza pensare a nulla di speciale; poi lo
sguardo gli cadde sulle stampe appese alle pareti. Era la prima volta che le
osservava deliberatamente dal giorno in cui, sette mesi addietro, le aveva
staccate dalle pareti del «Salon». Fu preso da un’improvvisa nostalgia per il
mondo della pittura. C’era stato un tempo in cui sapeva chi fossero
Rembrandt, Millet, Jules Dupré, Delacroix, Maris… Ripensò a tutte le belle
riproduzioni che aveva posseduto in diverse epoche, le litografie e le
incisioni che aveva mandato a Theo e ai genitori. Ripensò a tutte le
splendide tele che aveva visto nei musei di Londra e di Amsterdam: e in
questi pensieri dimenticò la propria infelicità, sprofondando poi in un sonno
ristoratore. La lampada a petrolio diede alcuni guizzi d’agonia, la sua
fiammella si tinse d’azzurro e si spense.
La mattina dopo si svegliò alle due e mezzo, fresco come una rosa.
Balzò agilmente fuor dal letto, si vestì, prese la matita e i fogli, trovò nel
forno un’assicella e s’avviò verso Marcasse. Si sedette sulla stessa ruota
rugginosa nel buio, e attese l’arrivo dei minatori.
Abbozzava con tocchi rapidissimi e approssimativi, semplicemente per
fissare la prima «impressione» d’ogni figura. Un’ora dopo, quando tutti i
minatori erano scesi nei pozzi, aveva tra le mani cinque figure senza faccia.
Riattraversò speditamente il campo, risalì in camera sua a bere una tazza di
caffè e quando finalmente si fece giorno copiò gli schizzi eseguiti, cercando
di insinuarvi tutti quegli elementi vivacemente caratteristici delle
fisionomie di quella gente: elementi che egli conosceva così bene, ma che
non aveva potuto cogliere nell’oscurità di quelle prime ore del mattino,
mentre i suoi modelli passavano e s’allontanavano.
L’anatomia era pessima, le proporzioni grottesche, il disegno così
strambo da riuscir comico. Eppure, quelle erano autentiche figure di abitanti
del Borinage, inconfondibili. Ridendo della propria inabilità e della propria
gaucherie, Vincent lacerò i cinque schizzi. Poi si sedette sulla sponda del
letto, di fronte alla riproduzione d’un quadro di Allebé rappresentante una
vecchietta che porta acqua e carbone su per una stradicciola sferzata dal
vento, e si provò a copiarla. Riuscì a dare un’idea abbastanza fedele della
donna, ma non a realizzare il rapporto tra questa figura, la viuzza e le case
in sfondo. Appallottolò il foglio, lo scaraventò in un angolo e andò a sedersi
davanti ad uno studio di Bosboom: un albero solitario contro un cielo
nuvoloso. Ma i valori formali dell’opera di Bosboom erano precisi e squisiti
e Vincent apprese che la più semplice opera d’arte rappresenta sempre il
risultato di un arduo e rigido processo di eliminazione, e che pertanto è
difficilissimo riprodurla.
Trascorse così la mattinata, fuori d’ogni nozione del tempo. Consumato
l’ultimo foglio di carta, Vincent frugò dappertutto per vedere quanto
possedeva. Trovò due franchi. Sperando di potersi procurare a Mons della
buona carta e fors’anche un bel carboncino, partì senz’altro per quella
passeggiata di dodici chilometri. Scendendo per la collina da Petit Wasmes
a Wasmes s’imbatté in alcune mogli di minatori ferme sulla soglia delle loro
case. Al solito e automatico «Bonjour» aggiunse un cordiale: «Comment ca
va?». A Paturages, paesello situato a metà strada per Mons, notò una bella
ragazza alla finestra d’una panetteria. Entrò a comprare un panino dolce da
cinque centesimi, soltanto per vederla da vicino.
Da Paturages a Cuesmes i campi erano tutta una verdeggiante distesa
ravvivata dalle piogge recenti. Decise di tornare a disegnarli, non appena
avesse potuto permettersi la spesa d’una matita verde. A Mons trovò un
blocco di carta gialla ben levigata, alcuni carboncini e una grossa matita.
Nel negozio di fronte c’era un banco di vecchie stampe. Vincent rimase per
ore curvo su di esse pur non potendo acquistarne nemmeno una. Il
proprietario gli venne vicino e le commentarono insieme una dopo l’altra,
proprio come due amici che visitassero un museo.
— Dovete scusarmi se non ho denaro per comprarne qualcuna — disse
Vincent dopo che ebbero passato molto tempo a guardarle.
Il proprietario alzò le mani e le spalle in un eloquente gesto gallico. —
Non importa, Monsieur! E ritornate ancora, anche se non avete denaro.
Vincent ripercorse i dodici chilometri di strada a suo agio. Il sole
splendeva alto sull’orizzonte frastagliato dalle piramidi nere, accendendo
gli orli delle nuvole vagabonde d’una delicata tinta rosea. Vincent osservò
come le casette in pietra di Cuesmes paressero ritagliate da un’incisione e,
quando giunse in cima a una collina, che senso di pace si sprigionasse dalla
vallata sottostante. Si sentiva felice e non ne sapeva il perché.
Il giorno dopo si recò ai depositi di terril dietro Marcasse e disegnò
figure di ragazze e di donne aggrappate sui pendii a frugare in cerca di
pezzetti d’oro nero. Dopo aver desinato disse ai padroni di casa: — Per
favore, state lì un momento. Voglio fare una cosa.
Corse su nella sua stanza, tornò col blocco di carta e il carboncino, e
abbozzò rapidamente un ritratto dei suoi amici. La signora Denis venne a
guardare il disegno al disopra della sua spalla ed esclamò: — Ma voi siete
un artista, Monsieur Vincent!
Rimase imbarazzato. — No, mi diverto semplicemente.
— Ma è carino! — protestò la signora Denis. — Mi somiglia quasi.
— Quasi! — rise Vincent. — Quasi, non proprio!
Ai suoi non scrisse nulla di questa sua attività, perché certamente
avrebbero detto, e con ragione: «Oh, un’altra delle sue! Quando mai farà
giudizio e si metterà a combinare qualcosa di buono?».
Eppoi, questa nuova attività aveva una prerogativa curiosa, speciale: era
una cosa sua, e di nessun altro. Gli ripugnava parlarne o scriverne. Provava
nei confronti dei suoi disegni un senso di reticenza che non aveva mai
provato in nessun’altra occasione, una invincibile ripugnanza a permettere
che occhi estranei vedessero i suoi lavori. In un certo inesplicabile senso,
erano sacri, anche se miseramente dilettanteschi fin nel minimo particolare.
Tornò ad entrare nelle casupole dei minatori, portando però, invece della
Bibbia, carta da disegno e matita. I minatori si rallegrarono ugualmente di
rivederlo. Disegnò bambini che giocavano sul pavimento, donne curve sulla
stufa, famiglie raccolte intorno alla tavola dopo la giornata di lavoro.
Ritrasse Marcasse con le sue alte ciminiere, i campi neri, i boschi di pini
dirimpetto alla scarpata, contadini intenti ad arare nei dintorni di Paturages.
Quando il tempo era cattivo, restava nella sua stanza a copiare le
riproduzioni appese alle pareti e i disegni eseguiti nella giornata precedente.
A sera, quando si metteva a letto, sentiva che alcuni degli schizzi fatti quel
giorno non erano poi tanto da disprezzare. Ma svegliandosi la mattina dopo
libero dai fumi euforici dello sforzo creativo, trovava che quei disegni erano
autentiche porcherie. Li buttava via, senza scrupoli e senza rimorsi.
Aveva domato la propria sofferenza: era felice perché non pensava più
alla propria infelicità. Avrebbe dovuto vergognarsi, lo sapeva, di continuare
a vivere alle spalle del padre e del fratello, senza fare il minimo sforzo per
guadagnarsi il pane: ma trovava che la cosa non aveva importanza e
continuava imperturbabilmente a disegnare.
Dopo alcune settimane, quando aveva ormai copiato e ricopiato più
volte la sua collezione di stampe, pensò che per far progressi aveva bisogno
di altre opere da copiare, opere di buoni maestri. A dispetto del fatto che
Theo non gli scriveva da un anno, nascose l’orgoglio e il puntiglio sotto una
pila di scadenti disegni e gli indirizzò una lettera.

«Caro Theo,
«se non sbaglio, devi ancora avere Les travaux des champs di Millet.
Vorresti avere la gentilezza di imprestarmeli per un po’ di tempo,
spedendomeli per posta?
«Devo dirti che sto copiando grandi riproduzioni di opere di Bosboom e
Allebé. Ebbene, se tu vedessi i miei tentativi, forse non ne rimarresti
completamente insoddisfatto.
«Mandami ciò che puoi e non stare in pensiero per me. Purché io possa
continuare a lavorare, questo mi aiuterà in un modo o in un altro a
riprendermi e a rimettermi in sesto.
«Ho smesso un momento di disegnare per scriverti e ho una premura
matta di rimettermi al lavoro. Quindi, buona notte, e mandami quella
raccolta il più presto possibile.
«Una cordiale stretta di mano.
Vincent».

A poco a poco un nuovo, impaziente desiderio lo prese: parlare con


qualche artista del proprio lavoro, per vedere in che cosa era sulla buona
strada e in che cosa sulla strada sbagliata. Sapeva che i suoi disegni erano
scadenti, ma vi era troppo direttamente interessato, troppo vicino, per
distinguere gli errori. Aveva bisogno dell’occhio spietato di un estraneo che
non si lasciasse accecare dall’inevitabile orgoglio creativo al quale va
soggetto l’autore.
A chi rivolgersi? Nemmeno durante l’inverno precedente, quando per
giorni e giorni era vissuto di pan secco, aveva provato un bisogno così
urgente, una fame così divorante. Eppure sapeva e sentiva che c’erano al
mondo altri artisti, uomini della stessa razza che affrontavano gli identici
problemi tecnici, che vivevano in preda ai medesimi pensieri; uomini che
avrebbero giustificato e sorretto i suoi sforzi dimostrandogli un serio
interesse, con tutti gli elementi della loro consumata esperienza artistica.
C’erano al mondo, ricordò, uomini come Maris e Mauve, che alla pittura
consacravano tutta la loro vita. Una cosa simile, qui nel Borinage, sembrava
quasi inconcepibile.
Un pomeriggio piovoso, mentre stava copiando nella sua stanza, gli
balenò alla mente l’immagine del reverendo Pietersen che, ritto nel suo
studio di Bruxelles, gli diceva: «Ma vi prego di non farne cenno con i miei
confrères». Ecco l’uomo che faceva per lui! Riesaminò i suoi disegni
originali, ne scelse alcuni: un minatore, una donna china sulla stufa, una
vecchia intenta a raccogliere terril. E partì per Bruxelles.
Avendo poco più di tre franchi in tasca, non poteva permettersi il lusso
di viaggiare in treno. La distanza era di un’ottantina di chilometri.
Camminò quel pomeriggio, tutta la notte e gran parte della giornata
seguente, arrivando così a una trentina di chilometri da Bruxelles. Avrebbe
continuato la marcia, ma le scarpe avevano le suole consumate e una
lasciava uscir le dita del piede. Il vestito, che egli usava ininterrottamente
da un anno a Petit Wasmes, era coperto d’uno strato di polvere e, siccome
non aveva nemmeno un pettine né una camicia di scorta, tutta la sua toeletta
della mattina seguente si ridusse a lavarsi la faccia nell’acqua fredda.
Imbottì le suole delle scarpe con cartone e riparti di buon’ora. Sulla
punta del piede, il cuoio gli tagliava le dita, che ben presto cominciarono a
sanguinare. Il cartone si consumò, le piante dei piedi gli si coprirono di
vesciche che poi si riempirono di sangue e si lacerarono. Aveva fame, aveva
sete, la stanchezza lo opprimeva: eppure era felice quanto può esser felice
un uomo.
Tra poco si sarebbe veramente incontrato con un altro artista e gli
avrebbe parlato!
Giunse nel pomeriggio nei sobborghi di Bruxelles, senza un centesimo
in tasca. Ricordava benissimo l’ubicazione della casa di Pietersen e vi si
diresse a passo spedito. La gente si scansava di scatto al suo passaggio, poi
si voltava a guardarlo e scoteva la testa. Vincent non se ne accorgeva
nemmeno: tirava avanti con tutta la fretta consentitagli dai suoi piedi
piagati.
Venne ad aprirgli la figlia del reverendo. Guardò inorridita il viso sporco
di Vincent, sgocciolante di sudore, i suoi capelli spettinati e aggrovigliati, la
giacca sudicia, i pantaloni inzaccherati, i piedi che uscivano dalle scarpe
neri e sanguinanti, e scappò in casa strillando. Venne allora alla porta il
reverendo Pietersen, lo fissò un istante senza riconoscerlo, poi gli sorrise
cordialmente.
— Ebbene, Vincent? Come mi fa piacere rivederti, figlio mio. Vieni
dentro, vieni.
Lo introdusse nello studio e gli offrì una comoda poltrona. Ora che
aveva raggiunto la mèta, la forza di volontà che l’aveva sostenuto cedette di
schianto ed egli sentì improvvisamente il peso degli ottanta chilometri che
aveva percorso in quei due giorni nutrendosi di pane e d’un po’ di
formaggio. I muscoli della schiena si rilassarono, le spalle si lasciarono
cadere, il respiro gli si fece penoso.
— Un mio amico qui vicino ha una stanza libera, Vincent — disse
Pietersen. — Vuoi andare a rassettarti e a riposare, dopo un viaggio simile?
— Sì. Non immaginavo di essere così stanco.
Il reverendo prese il cappello e uscì con lui, incurante degli sguardi
curiosi della gente.
— Probabilmente stasera vorrai dormire. Ma domani a mezzogiorno
verrai a colazione da me. D’accordo? Avremo un mucchio di cose da dirci.
Vincent si cacciò in una tinozza da bucato e si lavò dalla testa ai piedi;
poi, benché fossero soltanto le sei, andò a letto con lo stomaco vuoto. Si
svegliò soltanto alle dieci della mattina seguente, sotto gli stimoli
implacabili della fame. L’individuo da cui il reverendo Pietersen aveva
preso in affitto la stanza gli portò un rasoio, un pettine, una spazzola; egli
fece del suo meglio per rendersi presentabile, riuscendo a rimediare a tutto
fuorché al disastro delle scarpe.
Era in preda a una voracità furiosa, insaziabile: e mentre Pietersen
chiacchierava animatamente delle ultime novità di Bruxelles, Vincent
divorava senza vergogna. Poi andarono nello studio.
— Oh, avete lavorato parecchio, vero? — osservò Vincent. — Le pareti
sono coperte di disegni nuovi.
— Già — rispose Pietersen. — Comincio a trovare molto più piacere a
disegnare che non a predicare.
— E la coscienza non vi rimorde talvolta — domandò Vincent
sorridendo — di rubare tanto tempo al vostro vero lavoro?
Pietersen rise. — Conosci quell’aneddoto su Rubens? Era al servizio del
governo olandese come ambasciatore in Spagna e usava passare i suoi
pomeriggi nei giardini reali davanti al cavalletto. Passò un giorno un
azzimato cortigiano spagnolo e osservò: «Vedo che il diplomatico si diverte
talvolta a dipingere». E Rubens: «No, il pittore si diverte talvolta a far della
diplomazia!».
Scambiarono una risatina d’intesa. Vincent aprì il suo plico. — Ho fatto
anch’io alcuni disegni e vi ho portato a vedere tre figure. Volete aver la
gentilezza di dirmi il vostro parere?
Pietersen fece una smorfia, perché sapeva che criticare l’opera d’un
principiante è una faccenda ingrata. Comunque, collocò i tre disegni sul
cavalletto e li guardò a lungo. Di colpo, Vincent vide i propri disegni con
gli occhi dell’amico e constatò come fossero tremendamente dilettantistici.
— La mia prima impressione — disse infine il reverendo — è che devi
aver lavorato molto da vicino ai tuoi modelli. È vero o no?
— È vero. La massima parte del mio lavoro è eseguito dentro le strette
casupole dei minatori.
— Capisco. Ciò spiega la tua mancanza di prospettiva. Non puoi trovare
un posto dove abbia modo di tenerti ad una certa distanza dai tuoi modelli?
Li vedrai molto più nettamente, credimi.
— Ci sono capanne di minatori abbastanza ampie. Potrei affittarne una e
trasformarla in studio.
— Ottima idea. — Tacque di nuovo. Poi disse, con sforzo: — Hai
studiato disegno? Squadri il foglio prima di abbozzare le linee principali
delle facce? Prendi le misure?
Vincent arrossì. — Non so nemmeno che cosa significhi tutto questo —
confessò. — Vedete, non ho mai preso lezioni. Credevo bastasse mettersi lì
e tirar giù.
— Ah, no! — disse tristemente Pietersen. — Devi prima imparare le più
elementari nozioni tecniche; poi, pian piano, cominciare a disegnare.
Guarda, ora ti faccio vedere gli errori di quella figura di donna.
Prese una riga, squadrò la testa e il corpo della figura, mostrò al giovane
amico gli errori di proporzione; quindi prese a ricostruire la testa,
accompagnando l’esecuzione con le spiegazioni. Dopo quasi un’ora di
lavoro si trasse indietro, fissò il disegno ottenuto e disse: — Ecco lì. Ora
credo che quella figura sia disegnata correttamente.
Vincent andò a metterglisi al fianco in fondo alla stanza e guardò anche
lui. Non c’era dubbio: le proporzioni ora risultavano perfette. Ma non era
più la moglie d’un minatore, non era più una donna del Borinage che
raccoglieva carbone sulla montagnola di terril. Era semplicemente una
donna qualunque come tantissime altre, disegnata perfettamente in
quell’atteggiamento. Senza dir parola, Vincent andò nuovamente dinanzi al
cavalletto, collocò accanto al disegno corretto la figura di donna curva sulla
stufa e tornò accanto a Pietersen.
— Uhm — fece il reverendo Pietersen. — Sì, capisco che cosa vuoi
dire. Le ho dato proporzioni giuste e le ho tolto carattere, originalità.
Rimasero a lungo con lo sguardo fisso sul cavalletto. Pietersen dovette
ammettere: — Sai, Vincent, quella donna china sulla stufa non è niente
male. Proprio niente male. Il disegno è orribile, la tecnica è completamente
sbagliata, la faccia è una cosa assurda. Anzi, non ha nemmeno la faccia.
Eppure in quello schizzo c’è qualcosa. Hai afferrato qualcosa su cui non
saprei mettere il dito. Che cos’è, Vincent?
— Non lo so nemmeno io. L’ho semplicemente ritratta come l’ho vista.
Stavolta fu Pietersen ad andare rapidamente vicino al cavalletto. Gettò
lo schizzo da lui corretto nel cestino della carta straccia, dicendo: — Mi
scusi, vero?, d’avertelo rovinato — e vi lasciò soltanto l’altro. Tornò vicino
a Vincent. Si sedettero. Il reverendo cercò più volte di esprimere qualcosa,
ma non trovava le parole. Disse infine: — Mi dispiace doverlo ammettere,
Vincent, ma credo davvero che quella figura di donna quasi quasi mi
piaccia. Dapprima la trovavo orribile; ma ha qualcosa che ti prende, che ti
conquista…
— Perché vi dispiace doverlo ammettere?
— Perché non dovrebbe piacermi. È un disegno sbagliato, sbagliato da
cima a fondo! I più elementari rudimenti scolastici ti costringerebbero a
farlo a pezzi e a ricominciare daccapo. Eppure, ha qualcosa che mi colpisce.
Potrei quasi giurare d’aver conosciuto in qualche posto quella donna.
— L’avrete forse vista nel Borinage — disse ingenuamente Vincent.
Pietersen gli scoccò una sbirciata per vedere se scherzasse. Poi disse: —
Credo che tu abbia ragione. Non ha volto, non è una determinata persona.
In un certo qual senso, è la personificazione di tutte le mogli di minatori del
Borinage messe insieme. Ecco che cosa hai saputo cogliere nella personalità
di quella moglie di minatore, Vincent; e ciò è mille volte più importante che
la correttezza tecnica del disegno. Sì, quella tua figura di donna mi piace.
Ha il potere di dirmi qualcosa.
Vincent ebbe un fremito, ma non osò parlare. Pietersen era un artista
consumato, un professionista; se gli avesse chiesto quel disegno, se
veramente gli fosse piaciuto tanto da desiderarlo…
— Ti rincrescerebbe regalarmelo, Vincent? Mi piacerebbe moltissimo
attaccarlo alla parete. Credo che quella donna ed io diventeremo ottimi
amici.

20.

Quando Vincent si decise a tornare a Petit Wasmes, il reverendo


Pietersen gli diede un paio di scarpe smesse per sostituire le sue che erano a
pezzi e il denaro per il viaggio in treno. Vincent accettò con quel sereno
spirito d’amicizia che ben sa come la differenza tra il dare e il prendere sia
puramente temporale.
In treno fece due constatazioni importanti: il reverendo Pietersen non
aveva fatto il minimo accenno alla sua cattiva riuscita come «evangelista»,
e l’aveva trattato da pari a pari come collega in arte. Il disegno gli era
andato così a genio che gliel’aveva chiesto: questa era la prova più
convincente.
«Mi ha dato la spinta — pensò. — Se le mie cose piacciono a lui,
piaceranno anche agli altri».
Dai Denis trovò Les travaux des champs. Theo glieli aveva prontamente
spediti, benché senza alcuna lettera d’accompagnamento. Animato
dall’incontro con Pietersen, s’immerse con gusto nei disegni di Millet. Theo
gli aveva incluso nel pacco parecchia carta da disegno in grande formato e
in pochi giorni Vincent empì dieci pagine dei Travaux, terminando così il
primo volume. Poi, accorgendosi che avrebbe dovuto esercitarsi sul nudo e
ben sapendo che nel Borinage non avrebbe trovato nessun modello disposto
a posare a quel modo, scrisse al suo vecchio amico Tersteeg, direttore delle
Gallerie Goupil all’Aia, pregandolo di prestargli gli Esercizi al carboncino
di Bargue.
Nel frattempo, ricordando il suggerimento di Pietersen, prese in affitto
una capanna di minatore quasi all’estremità della Rue Petit Wasmes, per
nove franchi al mese. Questa volta scelse il meglio che si potesse trovare,
non il peggio. La capanna aveva un pavimento di assi, due ampie finestre
che lasciavano entrare luce in abbondanza, un letto, una tavola, una sedia e
una stufa. Ed era sufficientemente spaziosa per consentirgli di collocarsi ad
un giusto distacco dal modello. Non c’era in Petit Wasmes una donna o un
ragazzo che durante l’inverno precedente non fosse stato aiutato in qualche
modo da Vincent; nessuno quindi si rifiutò di venire a posare per lui. La
domenica, i minatori si recavano numerosi alla sua capanna e lasciavano
che egli li ritraesse in rapidi schizzi. Trovavano molto divertente la cosa. La
capanna era sempre piena di gente che stava dietro di lui a guardarlo
lavorare, con interesse e stupore.
Giunsero dall’Aia gli Esercizi al carboncino e Vincent passò due
settimane a copiare i sessanta studi, lavorando dalle prime ore del mattino
alla sera. Tersteeg gli mandò altresì il Corso di disegno dello stesso Bargue,
e Vincent vi si applicò con energico impegno.
Il ricordo dei cinque fallimenti precedenti non esisteva più: l’entusiasmo
glielo aveva spazzato via dalla mente. Nemmeno il servir Dio gli aveva dato
un’estasi così pura, una gioia così costante e indefettibile come ora il
fervore della creazione. Quando per undici giorni consecutivi si trovò senza
un centesimo in tasca e dovette vivere di qualche pagnotta avuta a credito
dalla signora Denis, non si lamentò mai della fame, nemmeno con se stesso.
Che cos’importava la fame del ventre, dal momento che lo spirito era così
ben nutrito e soddisfatto?
Per una settimana, si recò ogni mattina alle due e trenta all’ingresso
degli stabilimenti di Marcasse ed eseguì un disegno di ampie proporzioni:
minatori, uomini e donne, che andavano al lavoro percorrendo la
stradicciola fiancheggiata da una siepe di spini che attraversava la
campagna nevosa; ombre che passavano, vaghe e imprecise nel crepuscolo.
Nello sfondo, i grandi fabbricati degli stabilimenti, con ammassi di
materiali da costruzione che campeggiavano confusamente contro il
chiarore dubbio del cielo. Quando il disegno fu finito, ne fece una copia e la
spedi a Theo.
Passò così due buoni mesi disegnando dall’alba al tramonto e copiando
poi al chiarore della lampada. Lo riprese il desiderio di andare a parlare con
un altro artista, per vedere se era ben avviato: quantunque gli paresse d’aver
fatto qualche progresso, raggiungendo maggior plasticità di tocco ed
efficacia di concezione, non ne era troppo sicuro. Ma questa volta pensava
ad un autentico maestro, a qualcuno che lo prendesse sotto le sue ali e gli
insegnasse con calma, con impegno, i rudimenti della vera e grande arte. In
compenso d’un simile insegnamento, era disposto a fare qualunque cosa: a
lucidargli le scarpe e a scopargli lo studio magari dieci volte al giorno.
A Courrières, distante un centosettanta chilometri, viveva Jules Breton,
la cui opera era per lui oggetto d’ammirazione da lunga data. Vincent
viaggiò in treno fin dove le finanze glielo permisero, poi marciò per cinque
giorni, pernottando su mucchi di fieno in aperta campagna e vendendo
disegni per sfamarsi. Quando, giunto a Courrières, vide che Breton abitava
in una grandiosa villa di recente costruzione, dove aveva impiantato il suo
studio, si sentì mancare il coraggio di presentarsi. S’aggirò per Courrières
un paio di giorni, poi andò a finire che l’aspetto freddo e inospitale di quella
casa d’artista lo sgomentò, lo vinse. Allora, massacrato dalla stanchezza e
dilaniato dalla fame, senza un centesimo in tasca e con le scarpe del
reverendo Pietersen che gli si assottigliavano minacciosamente sotto le
piante dei piedi, iniziò la camminata di centosettanta chilometri per tornare
nel Borinage.
Arrivò nella sua capanna depresso e malato. Niente denaro, niente
corrispondenza che lo aspettasse. Si mise a letto. Le donne dei minatori lo
curarono, portandogli quel po’ di cibo che potevano sottrarre alla fame dei
mariti e dei bimbi.
La fatica del viaggio gli aveva fatto perdere parecchie libbre: il viso gli
si era nuovamente incavato, la febbre guizzava nelle insondabili profondità
dei suoi occhi verde-neri. Malato com’era, conservava una perfetta lucidità
mentale e si rendeva conto d’esser giunto ad un altro punto critico.
Che fare? L’insegnante, il libraio, il mercante d’arte, l’impiegato? Dove
andare? A Etten, con i genitori? A Parigi, con Theo? Ad Amsterdam, con
gli zii? O semplicemente buttarsi allo sbaraglio, tentando la sorte e
affrontando rischi ignoti?
Un giorno in cui, tornategli un po’ le forze, se ne stava seduto sul letto,
copiando Le four dans les landes di Teodoro Rousseau e domandandosi fino
a quando si sarebbe abbandonato a questo innocuo passatempo del disegno,
qualcuno aprì la porta senza bussare ed entrò.
Era suo fratello Theo.

21.

In quel periodo Theo aveva fatto parecchi passi avanti. A ventitré anni
appena era già un mercante di quadri ottimamente piazzato a Parigi,
apprezzato dai colleghi e dalla famiglia. Conosceva e praticava tutte le
eccentricità in voga, nella foggia di vestire, nei modi, nella conversazione.
Indossava una giacca nera dagli ampi risvolti, abbottonata in alto con
cordoncini di raso, colletto duro, cravatta bianca dal nodo vistoso.
Aveva anche lui l’impressionante fronte dei Van Gogh. Capelli scuri,
lineamenti delicati, quasi femminili. Occhi dolci e spiritosi, viso fine ed
ovale.
Theo s’appoggiò contro la porta e guardò, inorridito, il fratello. Da
poche ore era partito da Parigi, dove possedeva un appartamento
ammobiliato alla Luigi Filippo con tutto l’occorrente per la toeletta
personale, tende alle finestre, tappeti sul pavimento, una scrivania, scaffali
pieni di libri, lampade dalla luce dolce e riposante, una tappezzeria
deliziosa. Ed ecco lì Vincent disteso su un sudicio coltrone, con addosso
una vecchia coperta. Pareti e pavimento di tavole scabre e, per tutta mobilia,
una tavolaccia scassata e una sedia. E lui: disordinato, la faccia da lavare,
l’irta barba rossiccia dilagante per le guance e il collo.
— Oh, Theo! — fece Vincent.
Theo si fece impetuosamente avanti, si curvò sul letto. — In nome di
Dio, Vincent, che ti succede? Che cosa hai fatto?
— Niente. Ora sto benone. Sono stato un po’ malato.
— Ma questo… questo tugurio! Non abiterai mica qui… Non sarà mica
questa la tua casa!
— Sicuro! Che ci trovi di strano? Mi serve come studio.
— Oh, Vincent! — Gli passò la mano sui capelli; un nodo alla gola gli
impediva di parlare.
— Mi fa piacere averti qui, Theo.
— Dimmi, Vincent, te ne prego: che cosa ti succede? Come mai ti sei
ammalato? Che cos’avevi?
Vincent gli narrò il suo viaggio a Courrières.
— Sei in una condizione d’esaurimento, ecco la verità. Ti sei nutrito
sufficientemente, da quando sei tornato? Hai avuto cura di te?
— Sono stato curato dalle donne dei minatori.
— Sì, ma che cosa mangiavi? — Theo si guardò intorno. — Dove tieni
le provviste? Non vedo niente.
— Le donne mi portano ogni giorno qualche cosa. Ciò che riescono ad
avanzare: pane, caffè, un po’ di formaggio o di carne di coniglio.
— Ma, Vincent, tu sai che non puoi rimetterti in forze soltanto con un
po’ di pane e di caffè. Perché non ti compri uova, verdura, carne?
— Per comprarle ci vogliono soldi, tanto qui nel Borinage quanto
altrove.
Theo si sedette sul letto.
— Vincent, perdonami, ti supplico. Non sapevo. Non mi rendevo conto.
— Lascia andare, caro, tu hai fatto tutto ciò che potevi. Ora va
benissimo. Tra qualche giorno potrò di nuovo alzarmi e andare in giro.
Theo si passò le mani sugli occhi, come per rimuovere qualcosa che gli
offuscava la vista. — No. Non mi rendevo conto. Credevo che tu… Non
capivo, Vincent, semplicemente non capivo.
— Oh, andiamo! Va benone, ti dico. Come te la passi a Parigi? Dove sei
diretto ora? Sei stato a Etten?
Theo balzò in piedi. — Ci sono negozi in questo paesaccio sperduto? Ci
si trova qualcosa da comprare?
— Sì, ci sono botteghe a Wasmes, in fondo alla collina. Ma prenditi una
sedia. Ho tanta voglia di chiacchierare un po’ con te. Buon Dio, sono quasi
due anni che non ci vediamo, Theo!
Theo sfiorò con le dita il viso del fratello. — Prima di tutto voglio
rimpinzarti con quanto si può trovar di meglio qui nel Belgio. Hai sofferto
la fame, ecco la tua malattia. Poi ti farò ingerire qualcosa contro la febbre e
vedrò di procurarti un buon guanciale. È stato un bene che io sia capitato
qui proprio oggi. Se avessi soltanto avuto la minima idea… Non muoverti
finché io non torni.
E corse fuori. Vincent prese la matita, fissò un momento lo sguardo su
Le four dans les landes e riprese a copiare. Mezz’ora dopo, Theo era di
ritorno, seguito da due ragazzini, con un paio di lenzuola, un guanciale,
pentole, piatti e pacchi di viveri. Rassettò il letto mettendovi le lenzuola
fresche e bianche, costrinse il fratello a distendersi.
— E adesso come si fa per accendere questa stufa? — domandò
sfilandosi l’elegantissima giacca e rimboccandosi le maniche.
— Guarda, lì ci sono rami e carta. Accendi prima la legna, poi metti il
carbone.
Theo diede un’occhiata al mucchietto di terril. — Carbone! Tu la
chiami carbone, quella roba?
— Così siamo abituati qui. Aspetta, ti faccio vedere io come bisogna
fare.
Tentò d’alzarsi, ma Theo gli fu addosso d’un balzo. — Stattene giù,
pezzo d’idiota! — gridò. — E non muoverti più, se non vuoi costringermi a
suonartele sode.
Vincent sorrise, per la prima volta dopo tanti mesi. Quel sorriso che gli
raggiava negli occhi parve quasi fugare la febbre. Theo mise due uova in un
pentolino d’acqua, una manciata di fagiolini in un altro, fece bollire un
tegamino di latte fresco e abbrustolire alcune fette di pane bianco. Vincent
guardava il fratello curvo sulla stufa, in maniche di camicia: quella
vicinanza gli faceva bene più di qualsiasi cibo.
Il pasto fu finalmente pronto. Theo trasse la tavola vicino al letto, vi
stese un asciugamani pulito prendendolo dalla propria valigia. Mise sui
fagiolini una bella fetta di burro, ruppe le due uova al guscio in un piatto e
prese un cucchiaio.
— Be’, adesso apri la bocca, marmocchio! Sarà il primo pasto decente
che fai da chissà quanto tempo.
— Ma smettila, Theo! So mangiare da me.
Theo prese una cucchiaiata d’uovo e gliel’avvicinò al viso. — Apri la
bocca, giovinotto, o ti caccio questa roba in un occhio.
Finito di mangiare, Vincent lasciò ricadere la testa sul guanciale con un
gran sospiro di soddisfazione. — Che buon gusto ha la roba! Non lo
ricordavo nemmeno più.
— Non lo dimenticherai più così facilmente.
— E ora raccontami tutto, Theo. Come vanno le faccende alla Galleria
Goupil? Ho una vera avidità di sapere che cosa accade fuori di qui.
— Allora dovrai rassegnarti a tenerti ancora per un po’ di tempo la tua
avidità. Ecco qui una medicina per farti dormire. Voglio che tu stia
tranquillo e lasci al cibo il tempo di fare il suo effetto.
— Ma io non ho voglia di dormire, Theo. Ho voglia di parlare. C’è
sempre tempo per dormire.
— Nessuno ti ha chiesto di che cosa hai voglia. Sei ai miei ordini.
Ingoia questa roba, da bravo. Quando ti sveglierai, troverai una bistecca con
patatine, che ti rimetterà di colpo in piedi.
Vincent dormì fino all’ora del tramonto e si svegliò ch’era un altro.
Theo, seduto presso la finestra, stava esaminando i disegni del fratello.
Vincent lo guardò a lungo prima di farsi sentire, col cuore invaso da un
delizioso senso di pace. Quando Theo vide che era sveglio, balzò su con un
gran sorriso.
— Benone! Come ti senti ora? Meglio? Hai dormito sul serio!
— Come li trovi, quei disegni? Ce n’è qualcuno che ti piace?
— Aspetta prima che metta al fuoco la bistecca. Ho già sbucciato le
patate, ora le faccio lessare.
S’affaccendò intorno alla stufa finché tutto fu pronto, poi s’accostò al
letto con una bacinella d’acqua calda. — Devo usare il mio rasoio, Vincent,
o il tuo?
— Non posso mangiare la bistecca senza che tu mi faccia la barba?
— Nossignore. Né senza che io ti lavi il collo e le orecchie e ti pettini
per benino. Su, mettiti davanti questo asciugamani.
Lo rase accuratamente, lo lavò come si deve, lo pettinò e gli fece
indossare una delle camicie nuove che aveva nella valigia.
— Ecco! — esclamò, tirandosi indietro per osservare l’effetto del
proprio lavoro. — Ora hai di nuovo l’aria di un Van Gogh.
— Svelto, Theo! La bistecca brucia!
Theo apparecchiò la tavola: patatine lesse, burro, una grossa e tenera
bistecca, latte.
— Perbacco, Theo, non t’aspetti certo che io mangi tutta questa
bistecca!
— No di certo. Mezza è per me. Be’, diamoci dentro. Ora basterebbe
che chiudessimo gli occhi, e ci sembrerebbe di essere a casa, a Etten.
Dopo il pasto, Theo riempì la pipa di Vincent con tabacco portato da
Parigi. — Fatti una fumatina. Non dovrei permettertela, ma penso che un
po’ di vero tabacco non ti farà male, anzi ti farà bene.
Vincent fumava con intensa soddisfazione, strofinandosi ogni tanto la
cannuccia calda e umidiccia della pipa contro la guancia liscia. Con lo
sguardo perso nel vuoto oltre le volute di fumo, oltre le rozze pareti d’assi,
Theo si rivedeva fanciullo là nel Brabante. Vincent era sempre stato per lui
la persona più importante della famiglia, molto più importante del babbo e
della mamma. Era stato Vincent a rendergli dolce e gaia la fanciullezza. Nel
corso di quest’ultimo anno, a Parigi, l’aveva dimenticato; ma ora non
doveva dimenticarlo mai più. Senza Vincent, la vita aveva per lui un che di
incompleto. Aveva l’impressione di far parte di Vincent, e che Vincent
facesse parte di lui. Insieme avevano sempre compreso il mondo; solo, il
mondo lo eludeva e gli sfuggiva. Insieme avevano trovato il senso e le
finalità della vita, e l’avevano apprezzata; solo, egli si domandava spesso
quale potesse essere lo scopo del suo lavoro e dei suoi successi. Aveva
bisogno di Vincent, per vivere intensamente. E Vincent aveva bisogno di
lui, perché davvero era semplicemente un bambino. Occorreva tirarlo fuori
da questa tana, rimetterlo in piedi. Occorreva fargli comprendere che finora
non aveva fatto altro che rovinarsi; occorreva fargli ritrovare uno slancio di
giovinezza.
— Vincent, ti lascerò qualche giorno di tempo per rimetterti in forze,
poi ti ricondurrò a Etten.
Vincent sbuffò in silenzio alcune boccate di fumo. Sapeva che tutta
questa faccenda doveva essere liquidata una volta per sempre, e che
purtroppo non avevano altro mezzo d’intendersi all’infuori delle parole.
Ebbene, avrebbe cercato di far capire a Theo come stavano le cose. Dopo,
tutto sarebbe andato a meraviglia.
— Theo, a che servirebbe che io tornassi a casa? Senza volerlo, sono
diventato per la famiglia una specie di tipo sospetto e impossibile, o per lo
meno un individuo di cui non si fidano. Ecco perché credo che il partito più
ragionevole sia per me quello di star lontano, in modo da cessare d’esistere
per loro. Io sono un uomo impulsivo, tutto scoppi di passione, capace di far
follie. Parlo ed agisco troppo prontamente, quando invece converrebbe
saper pazientemente aspettare. Così stando le cose, devo considerarmi un
individuo pericoloso e inetto su tutta la linea? Non lo credo. Il problema è
piuttosto un altro: come indirizzare a un buon fine queste mie inclinazioni.
Per esempio, ho un’irresistibile passione per la pittura e per i libri; ho fame
d’istruzione come ho fame di cibo. Tu certamente mi comprendi.
— Sì, ti comprendo, Vincent. Ma guardar quadri e legger libri, alla tua
età, è semplicemente un diversivo. Libri e quadri non hanno niente a che
vedere con i problemi essenziali della vita. Da quasi cinque anni sei senza
impiego e vagabondi di qua e di là. E in tutto questo periodo di tempo sei
caduto sempre più in basso, in una situazione rovinosa.
Vincent prese un pizzico di tabacco, lo stropicciò tra le palme delle
mani per ammorbidirlo e lo mise nella pipa. Poi si dimenticò di accenderla.
— È vero — disse — che a volte un tozzo di pane me lo sono
guadagnato e a volte l’ho avuto in carità da un amico. È vero che ho
perduto la fiducia di molte persone, che la mia situazione finanziaria è
deplorevole e che il mio avvenire è quanto mai oscuro. Ma è proprio
necessario parlare di rovina? Devo continuare per la strada che ho preso,
Theo. Se non studio, se non continuo a cercare, allora sì che son perduto.
— Tu vuoi evidentemente dirmi qualcosa, vecchio mio, ma ti giuro che
non riesco a farmene un’idea.
Vincent accese la pipa, soffiò sulla fiamma del fiammifero.
— Ricordo i tempi — disse — in cui passeggiavamo insieme nelle
vicinanze del vecchio mulino di Ryswyk. Allora ci intendevamo su tante
cose.
— Ma sei così cambiato, Vincent!
— Questo è vero fino a un certo punto. La mia esistenza era allora meno
difficile; ma quanto al modo di pensare e di vedere le cose sono sempre
quello.
— Vorrei poterlo credere, per il bene che ti voglio.
— Theo, non credere che io rinneghi niente. Nella mia infedeltà sono
fedele. E la mia unica ansia è questa: in che modo posso servire a qualcosa
nel mondo? Possibile che io non possa contribuire al raggiungimento di uno
scopo e fare qualcosa di utile?
Theo s’alzò, s’arrabattò intorno alla lampada a petrolio e finalmente
riuscì ad accenderla. Gli riempì il bicchiere di latte. — Su, bevilo. Non
voglio che ti stanchi troppo.
Vincent lo ingoiò troppo in fretta, tanto da averne quasi il respiro
mozzo. E, senza nemmeno aspettare d’essersi ripulite le labbra ingorde,
riprese: — Forse che i nostri più intimi pensieri possono sempre rivelarsi?
A volte c’è nella nostra anima un gran fuoco, e nessuno viene a
riscaldarvisi. Coloro che ci sfiorano non vedono che un filo di fumo uscir
dal camino, e tirano avanti. E allora dimmi, che cosa bisogna fare? Non
dobbiamo forse tener vivo quell’intimo fuoco, tener desto lo spirito,
aspettare pazientemente l’ora in cui qualcuno verrà a riscaldarsi alla nostra
fiamma?
Theo s’alzò, si sedette sulla sponda del letto. — Sai a che cosa pensavo
in questo momento?
— No.
— Al vecchio mulino di Ryswyk.
— Bello, vero?
— Sì.
— E anche la nostra fanciullezza è stata bella.
— Sei stato tu a rendermela bella, Vincent. I miei primi ricordi sono
tutti legati a te.
Un lungo silenzio.
— Vincent, ti renderai conto, spero, che l’accusa che ti ho mossa viene
dalla nostra famiglia e non da me. Sono stati loro a mandarmi qui, perché
vedessi di farti vergognare della tua situazione presente e d’indurti a tornare
in Olanda, a cercarti un impiego.
— Sta bene, Theo: tutto ciò che dicono è perfettamente vero. È naturale
che non comprendano le mie ragioni personali e non sappiano collegare la
mia situazione attuale con tutta la mia vita passata. Ma se io sono scaduto
nel mondo, tu invece ti sei messo in luce. Se io ho perduto la stima e la
simpatia della gente, tu invece te le sei conquistate. Ciò mi fa molto piacere.
Te lo dico con tutta sincerità: e sarà sempre così. Ma sarei tanto felice se tu
potessi vedere in me qualcosa di diverso da un poltrone della peggior
specie.
— Dimentichiamo quelle parole. Se sono stato un anno intero senza
scriverti, l’ho fatto per negligenza, non per un senso di disapprovazione. Ho
creduto in te, ho avuto fede in te fin dai giorni lontani in cui mi conducevi
per mano attraverso i folti prati di Zundert. E questa fede non è oggi meno
viva. Ho soltanto bisogno di esserti vicino, per non dover stare in ansia per
te.
Vincent sorrise: un largo, schietto e allegro sorriso brabantino. — Sei
molto buono, Theo.
Questi si trasformò bruscamente in un uomo d’azione.
— Ascolta, Vincent, mettiamo subito a posto le cose. Ho l’impressione
che sotto tutte queste idee astratte che hai enunciato ci sia qualcosa di ben
concreto che tu vuoi fare, qualcosa che ha per te un’importanza suprema e
decisiva, qualcosa che potrà darti felicità e successo. Ebbene, vecchio mio,
parla chiaro. «Goupil & C.» mi hanno raddoppiato lo stipendio nel corso di
quest’ultimo anno e mezzo, sicché ho più denaro di quanto sappia
spenderne. Dunque, se c’è qualcosa che ti sta a cuore e per iniziare hai
bisogno d’aiuto, dimmi soltanto che hai trovato finalmente il vero scopo
della tua vita e formeremo una specie di società. Tu fornirai il lavoro, io i
capitali. Quando la tua attività sarà ben avviata, potrà compensare
l’investimento con dei buoni dividendi. E adesso parla francamente: hai per
la testa qualcosa di preciso? Il tuo scopo, lo scopo da perseguire con tutte le
forze fino all’ultimo giorno della vita, non è forse già definito da lunga
data?
Vincent guardava il fascio di disegni che Theo aveva poc’anzi
esaminato presso la finestra. Un sorriso di stupore, d’incredulità e infine di
entusiastica gioia gli si schiuse sulle labbra, irraggiandogli tutto il viso.
Spalancò gli occhi, spalancò la bocca, tutto il suo essere pareva aprirsi
improvvisamente come la corolla d’un girasole investita dai caldi raggi
solari.
— Ah, finalmente! — mormorò. — È proprio ciò che volevo e che non
ho mai saputo dirti.
Anche gli occhi di Theo si posarono là, sui disegni. — L’ho ben pensato
— disse.
Vincent fremeva d’eccitazione e di gioia: sembrava si fosse
improvvisamente destato da un profondo sonno.
— Theo, tu lo sapevi prima ancora di me! Io non volevo pensarci.
Avevo paura. Ma sì che c’è qualcosa che devo assolutamente fare! Ho
sempre camminato in questa direzione, e non lo sospettavo nemmeno. Già
quando studiavo ad Amsterdam e a Bruxelles, provavo continuamente il
bisogno di disegnare, di fissare sulla carta ciò che vedevo. Ma non me lo
permettevo. Temevo che ciò mi distraesse dal mio vero compito. Il mio vero
compito! Com’ero cieco! In tutti questi anni c’era in me qualcosa che
cercava di venir fuori, di esprimersi: e io lo soffocavo. Lo ricacciavo
indietro. Eccomi qua, a ventisette anni, senza nulla di fatto. Che idiota, che
cieco e stupido idiota sono mai stato!
— Non importa, Vincent. Con la tua forza e la tua decisione, saprai
procedere mille volte più in fretta di qualsiasi altro principiante. E hai di
fronte a te tutta una lunga vita.
— Per lo meno dieci anni. In dieci anni, saprò combinare qualcosa di
buono.
— Ma certo! E potrai vivere dovunque ti piaccia: a Parigi, a Bruxelles,
ad Amsterdam, all’Aia. Non hai che da scegliere; io ti manderò ogni mese il
denaro necessario per vivere. Non m’importa se anche ti ci vorranno diversi
anni, Vincent. Finché tu non perdi la speranza, non la perderò nemmeno io.
— Oh, Theo, aver annaspato per tanti mesi amari per arrivare a
qualcosa, per scoprire il vero senso e il vero scopo della mia vita, e non aver
mai saputo che il mio destino era quello! Ma ora che lo so, non mi
scoraggerò mai più. Comprendi, Theo, che cosa significa? Dopo tanti anni
sciupati, ho finalmente trovato me stesso! Sarò pittore. Certo. Non potrei
essere altro. Ecco la ragione dei miei fallimenti in ogni altro campo: non era
quella la mia vocazione. Ma adesso ho davanti a me un campo d’attività in
cui non farò più cilecca. Oh, Theo, la prigione si è finalmente aperta, e sei
tu che me ne hai spalancato le porte!
— Nulla ci dividerà più! Siamo nuovamente insieme, vicini, non è vero,
Vincent?
— Sì, Theo, per tutta la vita.
— Adesso cerca soltanto di riposare e di star bene. Tra pochi giorni,
quando ti sarai completamente rimesso, io ti condurrò in Olanda, o a Parigi,
o dovunque tu voglia andare.
Con un balzo, Vincent saltò in mezzo alla stanza.
— Macché tra pochi giorni, per tutti i diavoli dell’inferno! — gridò. —
Partiamo immediatamente. Alle nove c’è un treno per Bruxelles.
E prese a vestirsi in fretta e furia.
— Ma, Vincent, non puoi metterti in viaggio, stasera. Sei ammalato.
— Ammalato? Frottole. In vita mia, non mi sono mai sentito così bene.
Andiamo, Theo, ragazzo mio; abbiamo dieci minuti per andare alla
stazione. Caccia nella valigia quelle belle lenzuola bianche, e corriamo!
PARTE SECONDA

ETTEN

1.

Theo e Vincent trascorsero insieme una giornata a Bruxelles, poi Theo


fece ritorno a Parigi. Stava arrivando la primavera, la campagna del
Brabante lanciava invitanti richiami, la casa paterna sembrava un porto
magico. Vincent si comprò un abito da operaio di comune veloutine nera,
fece provvista di bella carta da disegno tipo «Ingres» e prese il primo treno
per Etten.
Anna Cornelia disapprovò il sistema di vita di Vincent perché gli
procurava più dolore che felicità. Theodorus lo disapprovò per ragioni più
solide; se Vincent non fosse stato suo figlio, avrebbe rotto con lui ogni
rapporto. Sapeva che a Dio non garbava la condotta di Vincent, ma aveva il
sospetto che ancor meno gli garbasse un padre che scaccia il figlio.
Vincent notò che i capelli del babbo s’erano fatti più bianchi e la
palpebra destra più cascante. L’età gli raggrinziva il viso, né egli si lasciava
crescere la barba per dissimulare l’opera devastatrice del tempo e
aggiungere maestà ai lineamenti. L’espressione della sua fisionomia non
affermava più: «Questo sono io»; pareva domandare: «Possibile che questo
sia io?».
Vincent trovò invece la mamma più forte e più attraente che mai.
Anziché abbatterla, l’età la rendeva più vigorosa, più imponente. Quel
sorriso inciso nelle rughe che s’incurvavano dalle narici verso il mento
esprimeva un anticipato perdono d’ogni errore; il suo volto largo, spazioso,
buono, diceva un eterno «sì» alla bellezza della vita.
Per diversi giorni Vincent venne rimpinzato di cibo e d’affetto, perché si
riprendesse; nessuna allusione alla sua situazione catastrofica e al suo
avvenire oscuro. Andava a passeggiare per la landa, tra le casette dal tetto di
paglia; osservava i taglialegna al lavoro in un bosco di pini; camminava
pigramente lungo la strada di Roozendaal, spingendosi oltre il magazzino
della comunità protestante, che aveva di fronte il mulino e il cimitero con
gli olmi. Il Borinage s’allontanava nel ricordo; la salute e la forza
ritornavano impetuosamente; in breve fu ripreso da un impaziente desiderio
di mettersi al lavoro.
Una mattina di pioggia, Anna Cornelia, scendendo di buon’ora in
cucina, trovò la stufa già accesa. Seduto davanti alla stufa, con i piedi
appoggiati sul predellino di ghisa, Vincent stava terminando di copiare un
foglio delle Heures de la journée.
— Buon giorno, figlio mio.
— Buon giorno, mamma. — E le baciò affettuosamente la larga
guancia.
— Come mai ti sei alzato così presto, Vincent?
— Ebbene, mamma, volevo lavorare.
— Lavorare?
Anna Cornelia si curvò sulla spalla del figlio a guardare il disegno che
teneva sulle ginocchia, poi diede un’occhiata alla stufa accesa.
— Ah, accendere la stufa, vuoi dire. Ma non devi alzarti per questo.
— No. Mi sono alzato per disegnare.
Anna Cornelia tornò a sbirciare il foglio. Le fece l’impressione degli
sforzi d’un bambino per riprodurre, nell’ora di ricreazione, un’illustrazione
di giornale.
— Hai intenzione di metterti a disegnare, Vincent?
— Sì.
— Il nostro cugino Anton Mauve fa il pittore e guadagna un sacco di
soldi. Proprio l’altro giorno ho ricevuto questa lettera di mia sorella. Mauve
ha sposato sua figlia Jet, come ben sai. Ora mi scrive che alla Galleria
Goupil il signor Tersteeg vende con la massima facilità qualsiasi produzione
di Anton a cinquecento e perfino seicento fiorini.
— Certo Mauve sta diventando uno dei nostri pittori più in vista.
— Quanto tempo ci vuole per fare uno di quei quadri, Vincent?
— Dipende, mamma. Per alcune tele bastano pochi giorni; per altre ci
vogliono anni.
— Anni! Povera me!
Anna Cornelia rifletté un momento, quindi gli domandò: — Tu sei
capace di ritrarre una persona in maniera che la si riconosca?
— Mah, non so. Nella mia stanza ho alcuni disegni. Te li farò vedere.
Quando tornò, la mamma aveva messo la cuffia bianca da cucina e stava
collocando sulla stufa alcuni pentolini d’acqua. Le mattonelle bianche e
azzurre della parete davano alla cucina un’aria allegra.
— Ora ti faccio il formaggio al forno, che ti piaceva tanto — disse Anna
Cornelia. — Ti ricordi?
— Se mi ricordo? Oh, mamma!
E l’abbracciò con fare un po’ rozzo. Ella lo sogguardò con un sorriso
pensoso. Vincent era il suo primogenito, il suo figlio prediletto; la sua
infelicità era l’unica cosa che la affliggesse profondamente.
— Sei contento di ritrovarti a casa con la tua mamma? Egli le pizzicò
scherzosamente la guancia rugosa.
— Sì, cara.
Anna Cornelia prese i ritratti di minatori e li esaminò attentamente.
— Ma, Vincent, e le facce?
— Come?
— Non ne hanno.
— Lo so. M’interessavano soltanto le figure.
— Ma le facce, non sei capace di disegnarle? Sono certa che qui a Etten
troveresti una quantità di signore disposte a farsi fare il ritratto. Potresti
guadagnarti la vita.
— Sì, lo credo anch’io. Ma prima devo ancora perfezionarmi.
La mamma stava rompendo uova in una padella dove c’era del
formaggio allestito il giorno prima. Si volse, con un mezzo guscio in mano.
— Vuoi dire che devi perfezionarti nel disegno perché i tuoi ritratti si
possano vendere?
— No — rispose Vincent, movendo rapidamente la matita sul foglio. —
Devo perfezionarmi nel disegno perché il mio disegno sia perfetto.
Anna Cornelia prese a sbattere i tuorli mischiandoli col formaggio,
sopra pensiero.
— Non capisco, figlio mio.
— Neanch’io. Comunque, è così.
Durante la colazione, dopo aver messo in tavola il formaggio rigonfio e
dorato, Anna Cornelia riferì la notizia al marito. Già infinite volte avevano
dibattuto tra loro due il problema di Vincent, senza mai approdare ad una
soluzione soddisfacente.
— È una faccenda che offra garanzia per l’avvenire, Vincent? — gli
domandò il padre. — Potrai guadagnare di che vivere?
— Non subito. Theo mi aiuterà finché io non possa andare avanti da
solo. Una volta imparato il disegno, potrei cavarmela benissimo. I
disegnatori di Londra e di Parigi guadagnano da dieci a quindici franchi al
giorno; gli illustratori delle riviste sono molto ben pagati.
Theodorus trasse un respiro di sollievo nel vedere che Vincent aveva per
lo meno uno scopo, uno scopo qualsiasi, e che l’avrebbe finalmente smessa
di lasciarsi pigramente trascinare alla deriva come in tutti quegli anni.
— Spero che, se ti metti per questa strada, saprai andare avanti, senza
più andare a batter la testa ora qua ora là.
— No, papà. Stavolta si tratta di una risoluzione definitiva. Non
cambierò più idea.

2.

Smise finalmente di piovere, si ebbero belle giornate calde. Vincent


prendeva carta colori e cavalletto e usciva ad esplorare la campagna.
Amava soprattutto lavorare nella landa, vicino a Seppe; ma spesso si
spingeva fino ad una grande palude dalle parti del Passievaart, a disegnare i
gigli acquatici. Etten era una località molto piccola, con le case addossate le
une contro le altre; la gente lo sogguardava incuriosita e sospettosa. In
paese non s’era mai visto un abito di velluto nero come il suo; soprattutto,
non s’era mai visto un uomo di quell’età che passasse la giornata a
bighellonare per le campagne con carta e matita. Egli trattava i parrocchiani
di suo padre con una cortesia un po’ rude, priva d’interesse; ma essi
preferivano non aver niente a che fare con lui. Per la loro ristretta mentalità
di provinciali, era un mezzo matto, un perdigiorno: tutto, in lui, dava
un’impressione di stramberia: la foggia del vestire, il modo di fare, la barba
rossa, i suoi precedenti, il fatto che non lavorava, quella sua abitudine di
sedersi in un angolo della campagna e stare a guardare chissà che cosa.
Diffidavano di lui, lo temevano, perché era diverso: sebbene non facesse
loro nulla di male e chiedesse soltanto d’esser lasciato in pace. Vincent non
s’immaginava nemmeno di riuscire così antipatico alla gente.
Stava elaborando un grande studio sul bosco di pini recentemente
abbattuto, concentrandosi su un albero solitario in riva ad un corso d’acqua.
Un taglialegna veniva ogni tanto a guardarlo disegnare, osservando il suo
lavoro con un sorriso ebete e rompendo talvolta in una grossa risata. Questo
disegno richiese a Vincent parecchi giorni d’applicazione. E ogni giorno le
risate del taglialegna si facevano più fragorose. Vincent decise di
chiedergliene il motivo.
— Trovate tanto buffo — gli domandò gentilmente — che io disegni un
albero?
— Sicuro, sicuro, è proprio buffo! — sghignazzò l’uomo. — Dovete
essere fou!
Vincent rifletté un momento. — Sarei fou se piantassi un albero?
Il taglialegna ridiventò subito serio. — Oh, no di certo!
— Sarei fou se mi prendessi cura di farlo crescere bene?
— No, naturalmente.
— Sarei fou se ne raccogliessi i frutti?
— Vous vous moquez de moi!
— E sarei fou se un bel giorno lo abbattessi, come è stato fatto di queste
piante?
— Oh, no, prima o poi tutti gli alberi devono essere abbattuti.
— Dunque, posso piantare un albero, curarlo, raccoglierne i frutti e
abbatterlo: ma se lo disegno sono un fou. È così?
Il taglialegna si mise nuovamente a ridere. — Sì, dovete proprio essere
fou, per starvene lì seduto a questo modo. Lo dicono tutti, in paese.
La sera, si tratteneva con i familiari nella stanza di soggiorno. Stavano
tutti raccolti intorno al vasto tavolo, cucendo, leggendo o scrivendo lettere.
Cor, il suo fratello minore, era un ragazzo quieto, di poche parole. La
sorella Anna, sposatasi, era andata via di casa. Elisabetta aveva una tale
antipatia per lui da industriarsi in tutti i modi d’ignorare il suo ritorno.
Willemien si mostrava invece molto gentile: posava volentieri per lui ogni
qualvolta glielo chiedesse e gli prodigava un affetto senza critiche e senza
riserve. Ma i loro rapporti d’amicizia non erano alimentati da ragioni
spirituali.
Anche Vincent lavorava alla luce comoda e riposante dell’enorme
lampada gialla imparzialmente collocata al centro del tavolo. Copiava
esercizi, rielaborava gli schizzi eseguiti nel corso della giornata. Theodorus
lo guardava rifare una dozzina di volte la medesima figura, per buttarla poi
via con un gesto di scontentezza; e una sera non si trattenne più.
— Vincent — sbottò, protendendosi attraverso il tavolo — possibile che
quella figura non ti riesca mai?
— Proprio così — rispose Vincent.
— Allora, farai certamente un errore.
— Ne faccio moltissimi, papà. A quale alludi?
— Mi sembra che se tu avessi ingegno, se fossi veramente un artista,
codesti disegni ti dovrebbero subito venir bene.
Vincent abbassò gli occhi sullo studio a cui stava lavorando: un
contadino inginocchiato e intento a insaccar patate. Non gli era ancora
riuscito di rendere con naturalezza la linea del braccio.
— Forse hai ragione, papà.
— Non avresti bisogno, voglio dire, di rifare cento volte un disegno
senza azzeccarlo. Se possedessi una vera disposizione naturale, non dovresti
fare tanti sforzi.
— Da principio la natura oppone sempre resistenza all’artista, papà —
affermò Vincent, senza posare la matita. — Ma se io affronto seriamente il
mio lavoro, non mi lascerò piegare da quella resistenza. Anzi, essa mi sarà
di stimolo a lottare più accanitamente per meritarmi la vittoria.
— Non mi pare. Dal male non può mai venire il bene: da un cattivo
lavoro non può mai venir fuori un buon risultato.
— In teologia sarà forse così. In arte, no. Anzi, dev’essere tutto il
contrario.
— Hai torto, figlio mio. Un artista lavora bene o lavora male. In
quest’ultimo caso, non è artista autentico. E dovrebbe rendersene conto da
sé fin da principio, senza stare a sciupare tanto tempo e tanti sforzi.
— Ma se questa sua arte, anche scadente, gli dà la felicità, perché
dovrebbe astenersene?
Theodorus cercò inutilmente, nella sua cultura teologica, una risposta al
quesito.
— No — riprese Vincent, cancellando il sacco di patate e lasciando
rigidamente sospeso a mezz’aria il braccio del contadino. — Alla fin fine la
natura e il vero artista arrivano sempre ad un perfetto accordo. Ci vogliono
anni di lotta e di divincolamenti prima ch’essa si arrenda e gli si pieghi
docilmente; ma anche il lavoro più scorretto, più meschino, finisce per
raggiungere un certo livello di eccellenza e giustificare se stesso.
— E se invece non ci arriva? Sono diversi giorni che fai e rifai codesta
figura di contadino, e non va mai. Supponi di continuare così per anni e
anni, e di essere sempre allo stesso punto…
Vincent si strinse nelle spalle.
— L’artista deve accettare questo rischio, papà.
— E il compenso?
— Compenso? Quale compenso?
— Guadagno. Posizione sociale.
Vincent alzò per la prima volta lo sguardo dal foglio ed esaminò
minuziosamente il volto del padre, come se avesse dinanzi a sé un essere
molto strano.
— Credevo che stessimo discutendo di arte buona e di arte cattiva —
concluse.

3.

Lavorava giorno e notte. Se pensava talvolta all’avvenire, era soltanto


per affrettare col desiderio il tempo in cui avrebbe cessato di essere di peso
a Theo e i risultati del suo lavoro si sarebbero avvicinati alla perfezione.
Quand’era troppo stanco per continuare a disegnare, leggeva. E quand’era
stanco di leggere, andava a dormire.
Theo gli mandava carta da disegno, tavole anatomiche provenienti da
una scuola di veterinaria e raffiguranti un cavallo, una mucca e una pecora,
alcuni disegni di Holbein tratti dai Modelli d’artisti, matite e penne da
disegno, la riproduzione di uno scheletro umano, nonché tutti i franchi che
poteva mettere da parte e l’incitamento a lavorar sodo, a non diventare un
artista mediocre. Consigli a cui Vincent rispondeva:
«Farò del mio meglio; ma la mediocrità, nel suo significato più
semplice ed evidente, è una cosa che non disprezzo affatto. E certamente
non ci si eleva al disopra della mediocrità, disprezzandola. Ma hai
perfettamente ragione d’incitarmi a lavorare con impegno. Nulla dies sine
linea, come ci ammonisce Gavarni».
Aveva sempre più la sensazione che il disegno della figura umana
esercitasse una benefica influenza anche sul disegno del paesaggio. Se
sapeva raffigurare un salice come un essere vivo (e in realtà lo era), anche
gli oggetti circostanti gli venivano bene, purché concentrasse su
quest’albero tutta la sua attenzione e non se ne distogliesse prima d’avervi
infuso la vita. Amava moltissimo il paesaggio, ma infinitamente di più
amava quegli studi tratti direttamente dalla vita, talora d’uno sconcertante
realismo, ch’erano stati eseguiti con tanta maestria e ispirazione da Gavarni,
Daumier, Doré, De Groux e Félicien Rops. Esercitandosi a ritrarre tipi di
lavoratori, sperava di riuscire a mettersi al più presto in grado di eseguire
illustrazioni per riviste e giornali, in modo da bastare a se stesso durante i
lunghi e duri anni di applicazione che gli sarebbero occorsi per perfezionare
la propria tecnica e attingere più alte forme d’espressione.
— Vincent — gli disse un giorno il babbo, convinto che leggesse per
puro divertimento — tu dici sempre di dover lavorare sodo. Perché dunque
sprechi tanto tempo su quegli stupidi libri francesi?
Chiudendo Le père Goriot con un dito tra le pagine per segnare il punto
a cui era giunto, Vincent alzò gli occhi. Continuava sempre a sperare che un
bel giorno il babbo finisse per comprenderlo, quando parlava di ciò che gli
stava a cuore.
— Vedi — spiegò lentamente — per disegnare figure e scene tratte dalla
vita non si richiede soltanto abilità tecnica, ma anche una profonda
conoscenza della letteratura.
— Devo confessarti che non ne vedo la necessità. Se io voglio fare una
bella predica, non sto in cucina a guardar tua madre che prepara la lingua
marinata.
— A proposito di lingua marinata — interloquì Anna Cornelia — credo
che domani potremo mangiarla a colazione.
Vincent non si curò di respingere quell’analogia.
— Non posso disegnare una figura senza conoscere perfettamente le
ossa e i muscoli e i tendini che contiene. E così non posso disegnare una
fisionomia senza conoscere tutto ciò che passa nel cervello e nell’animo di
quella persona. Per dipingere la vita bisogna comprendere non soltanto
l’anatomia, ma ciò che la gente sente e pensa del mondo in cui vive. Il
pittore che dispone semplicemente d’una conoscenza tecnica del mestiere
sarà sempre un artista quanto mai superficiale.
— Ah, Vincent — sospirò suo padre — temo che tu stia diventando un
teorico!
Vincent tornò a sprofondarsi nel Père Goriot.
Un altro giorno esplose in manifestazioni d’entusiasmo all’arrivo di
alcuni libri di Cassagne, mandatigli da Theo perché l’aiutassero ad
emendare i suoi errori di prospettiva. Vincent prese a sfogliarli
gioiosamente e li mostrò a Willemien.
— Non conosco rimedio migliore contro il mio male. Se ne guarirò,
dovrò ringraziare questi libri.
— Vuoi forse dire, Vincent — domandò Theodorus, diffidente verso
tutto ciò che proveniva da Parigi — che puoi imparare a disegnare
correttamente leggendo libri che trattano d’arte?
— Certo.
— Strano!
— A condizione, naturalmente, che io metta in pratica la teoria ch’essi
contengono. La pratica, però, non s’acquista con i libri. Se così fosse, se ne
venderebbero molti di più.
I giorni trascorrevano felici e operosi. Venne l’estate. Ora non era più la
pioggia a impedirgli d’andare nella landa, bensì il caldo. Ritrasse Willemien
seduta alla macchina da cucire, copiò per la terza volta gli esercizi di
Bargue, disegnò cinque volte un bêcheur in pose diverse, due volte un
seminatore e una ragazza intenta a scopare, poi una donna in cuffia bianca
che sbucciava patate, un pastore col suo bastone e un vecchio contadino
malato seduto presso il focolare con la testa tra le mani e i gomiti sulle
ginocchia. Uomini e donne dei campi in atto di vangare, di seminare, di
arare: ecco le figure che si sentiva continuamente portato a ritrarre. Doveva
osservare e fermare sulla carta tutto ciò che si riferiva alla vita della
campagna. La natura non lo sgomentava più con le sue difficoltà, e questo
fatto gli dava la gioia più viva che avesse mai provato.
Gli abitanti di Etten continuavano a considerarlo un tipo stravagante e a
tenerlo a distanza. Benché sua madre e Willemien — e, a modo suo, anche
il babbo — lo colmassero d’affetto e di bontà, nei più intimi recessi
dell’anima, là dove nessuno dei suoi concittadini e dei suoi familiari poteva
penetrare, si sentiva terribilmente solo.
A poco a poco, i contadini avevano cominciato a volergli bene, a
prender confidenza con lui. Vincent trovava nella loro semplicità qualcosa
d’affine alla terra su cui s’affaticavano vangando e zappando. Tentava di
rivelare nei suoi disegni quest’affinità. Spesso i suoi familiari stentavano a
distinguere, nei suoi schizzi, il contadino dalla terra. Egli non avrebbe
saputo dire perché gli venisse fatto di disegnare così, ma sentiva d’essere
sulla via giusta.
— Non ci dovrebbe essere nessuna linea di separazione — disse una
sera, rispondendo ad un’osservazione della madre. — Il contadino e la
campagna sono realmente due specie di terra che si compenetrano e si
appartengono reciprocamente: due forme della stessa materia,
sostanzialmente identiche.
La madre pensava che, siccome non aveva moglie, toccava a lei
guidarlo, aiutarlo a conquistarsi un po’ di successo.
— Vincent — gli disse una mattina — vorrei che oggi tu rincasassi
prima delle due. Mi farai questo piacere?
— Sì, mamma. Perché?
— Desidererei che tu venissi con me a far visita ad una signora.
Vincent rimase atterrito. — Ma, mamma, io non posso buttar via così il
mio tempo!
— Buttar via il tuo tempo? E perché?
— Perché non ci sarà niente da dipingere.
— Hai torto! Ci saranno tutte le signore più ragguardevoli di Etten.
Vincent sbirciò la porta, con una voglia matta di scappare. Si contenne
con sforzo e cercò di spiegarsi, con parole stentate.
— Voglio dire, mamma, che ad un ricevimento di questo genere
s’incontrano soltanto signore senza carattere.
— Sciocchezze! Sono tutte signore sul cui carattere non c’è nulla da
ridire. Rispettabilissime, dalla prima all’ultima.
— Ma no, cara! Voglio dire che sono tutte uguali. Tutte foggiate sullo
stesso stampo, a furia di condurre un determinato genere d’esistenza.
— Eppure, per conto mio, le distinguo benissimo l’una dall’altra.
— Sì, mamma. Ma, capisci, hanno avuto tutte quante una vita così
facile e tranquilla, che le loro fisionomie non presentano nessun elemento
interessante.
— Non ti comprendo, figlio mio. Non disegni forse tutti i contadini che
incontri nei campi?
— Ah, certo.
— Ma che vantaggio pensi di ricavarne? Sono tutti poveri, non possono
spendere. Le signore di Etten potranno invece farsi ritrarre da te.
Vincent l’abbracciò, le prese il mento nel cavo della mano. Quegli occhi
azzurri erano così limpidi, così profondi e teneri. Perché non
comprendevano?
— Cara — disse con dolcezza — ti prego d’avere un po’ di fede in me.
Io so quale dev’essere la mia strada e, se mi dai tempo, riuscirò.
Continuando ad esercitarmi su cose che oggi ti sembrano inutili, un giorno
potrò vendere i miei disegni e guadagnar bene.
Anna Cornelia avrebbe voluto comprendere: lo desiderava con la stessa
ansia disperata con cui Vincent desiderava d’essere compreso. Passò le sue
labbra sulla ispida barba rossa del figlio, ripensando al terribile giorno in
cui questo forte e duro corpo d’uomo le era stato strappato dalle braccia
nella casa parrocchiale di Zundert. Il suo primogenito era nato morto; e
quando Vincent, appena venuto al mondo, aveva lanciato uno strillo lungo e
impetuoso, ella aveva provato una gioia e una riconoscenza indicibili. Nel
suo affetto per lui c’era sempre un’ombra di tristezza per il primo bimbo
che non aveva aperto gli occhi alla luce e di gratitudine al Cielo per tutti gli
altri che le erano nati successivamente.
— Sei un bravo ragazzo, Vincent. Va’ pure avanti per la tua strada. Tu
sai che cosa è meglio per te. Io volevo soltanto aiutarti.
Quel giorno, invece d’andare a lavorare nei campi, Vincent pregò Piet
Kaufman, il giardiniere, di posare per lui. Ci volle un piccolo sforzo di
persuasione, ma Piet finì per consentire.
— Dopo desinare. In giardino.
Uscendo di casa, Vincent lo trovò accuratamente vestito a festa, con la
faccia e le mani ben lavate. — Un momento — gli gridò, eccitato. — Vado
soltanto a prendermi uno sgabello, poi sono pronto.
Andò a prendere lo sgabello e sedette, rigido come un palo, nell’assetto
voluto per farsi fare il dagherrotipo. Vincent scoppiò, senza volerlo, in una
risata.
— Ma, Piet, non posso ritrarti vestito così!
Piet, stupito, si guardò i panni. — Che cosa c’è che non va? È un vestito
nuovo. L’ho portato poche volte alle funzioni della domenica.
— Lo so. Appunto per questo. Io voglio ritrarti in abito da lavoro, con
un rastrello in mano, mentre lavori. Soltanto così la tua figura acquista
evidenza. Voglio poter vedere i tuoi gomiti, le ginocchia, le scapole. Così
come sei ora, non vedo nient’altro che l’abito che indossi.
Quella parola «scapole» produsse su Piet un effetto decisivo.
— I miei panni da lavoro sono sudici e rattoppati. Se volete che posi,
dovete ritrarmi come sono.
E così Vincent tornò nei campi a disegnare contadini curvi sulle zolle.
Passò l’estate; egli s’accorse d’aver esaurito per il momento tutte le
possibilità di far progressi e riprovò intensamente il desiderio di mettersi in
rapporti con qualche pittore, di continuare il proprio tirocinio in un buon
studio. Cominciava ad avvertire l’assoluta necessità di avere sott’occhio dei
bei lavori e di vedere artisti all’opera, perché soltanto così avrebbe potuto
scoprire le proprie manchevolezze ed imparare a far meglio.
Theo gli scrisse invitandolo a Parigi, ma Vincent si rendeva conto di
non essere ancora maturo per affrontare questa grande avventura. Aveva
ancora la mano troppo impacciata, troppo dilettantistica. L’Aia, piuttosto:
una città che distava poche ore di viaggio, dove avrebbe potuto giovarsi
dell’aiuto del suo amico Mijnheer Tersteeg, direttore della ditta Goupil & C,
e di suo cugino Anton Mauve. Forse sarebbe stato meglio stabilirsi
senz’altro all’Aia per quest’altra fase del suo lento tirocinio. Chiese
consiglio a Theo, che per tutta risposta gli mandò il denaro per il viaggio.
Prima di trasferirsi definitivamente conveniva accertarsi se Tersteeg e
Mauve fossero disposti ad aiutarlo; in caso contrario, meglio scegliere
un’altra direzione. Raccolse tutti i suoi disegni, si fornì stavolta di
biancheria personale di ricambio, e partì per la capitale in conformità
dell’autentica tradizione di tutti i giovani artisti di provincia.
4.

Mijnheer Herman Gijsbert Tersteeg, fondatore della scuola di pittura


dell’Aia, era il più cospicuo mercante d’arte che ci fosse in Olanda. Da ogni
parte della nazione gli acquirenti di quadri venivano a consultarlo: se
Mijnheer Tersteeg diceva che una tela era buona, il suo giudizio aveva
valore definitivo.
Quand’era subentrato allo zio Vincent Van Gogh nella direzione della
ditta Goupil, i più promettenti giovani artisti olandesi erano sparsi per tutto
il Paese. Anton Mauve e Josef abitavano ad Amsterdam, Jacob e Willem
Maris vivevano in provincia. Josef Israels, Johannes Bosboom e Blommers
vagabondavano di città in città senza una sede fissa. Tersteeg aveva scritto a
tutti quanti proponendo: «Perché non riunirci qui all’Aia e farne la capitale
dell’arte olandese? Potremmo aiutarci vicendevolmente, imparare l’uno
dall’altro e, unendo i nostri sforzi, ridare alla pittura olandese quel prestigio
mondiale di cui godeva ai tempi di Frans Hals e di Rembrandt».
Il successo della sua proposta era stato lento, graduale; ma con l’andar
degli anni tutti i giovani pittori notati da Tersteeg per le loro doti artistiche
erano venuti via via a stabilirsi all’Aia. A quei tempi le loro tele non
incontravano assolutamente nessuna richiesta. Tersteeg li aveva scelti non
già perché fossero commercialmente ben piazzati, ma in quanto ravvisava
nei loro lavori la promessa di una futura grandezza. Aveva comprato tele di
Israels, di Mauve e di Jacob Maris sei anni prima che gli riuscisse di
persuadere il pubblico del loro valore.
Di anno in anno continuava pazientemente ad acquistare pitture di
Bosboom, Maris e Neuhuys, confinandole in una sala in fondo al negozio,
voltate contro il muro. Bisognava aiutare e sostenere questi giovani pittori
mentre si dibattevano per la conquista della loro maturità artistica; se il
pubblico olandese era troppo cieco per ravvisare nei loro lavori l’impronta
del proprio genio nazionale, lui, critico e mercante d’arte, avrebbe badato a
che non si perdessero irrimediabilmente nella miseria, nell’incomprensione
e nello scoraggiamento. Acquistava le loro tele, criticava il loro lavoro, li
metteva a contatto con altri colleghi, li incoraggiava in quegli anni aspri e
duri. E giorno per giorno s’industriava accanitamente d’educare il pubblico
olandese ad aprire gli occhi alla bellezza e alla profondità d’espressione che
tralucevano dalle opere dei suoi giovani campioni.
Quando Vincent si recò da lui, Tersteeg era ormai riuscito nell’ardua
impresa. Mauve, Neuhuys, Israels, Jacob e Willem Maris, Bosboom e
Blommers non soltanto riscotevano alti prezzi dalla ditta Goupil per ogni
loro lavoro, ma erano ben avviati a diventare classici.
Mijnheer Tersteeg era un bell’uomo, nel senso schiettamente olandese
del termine: lineamenti accentuati e prominenti, fronte alta, capelli scuri
ravviati all’indietro, una bella barba liscia e tonda, occhi limpidi come il
cielo riflesso in un lago d’Olanda. Indossava una giacca nera alla Principe
Alberto, ampi pantaloni a righe cascanti sulle scarpe, colletto alto senza
risvolto, cravatta nera annodatagli ogni mattina dalla moglie.
Tersteeg aveva sempre provato viva simpatia per Vincent; quando il
ragazzo era stato trasferito al negozio londinese della ditta Goupil, l’aveva
munito d’una calda lettera di raccomandazione per il direttore della
succursale inglese. Era stato lui a mandargli nel Borinage gli Esercizi al
carboncino e il Corso di disegno di Bargue, ben sapendo quanto gli
avrebbero giovato. Il fatto che la succursale dell’Aia della ditta Goupil
apparteneva allo zio Vincent Van Gogh autorizzava il giovane artista a
ritenere che le gentilezze usategli da Tersteeg fossero tutt’altro che
disinteressate. Tersteeg non era tipo da agire per pura generosità.
Il negozio d’arte aveva sede in piazza Plaats 20, la più aristocratica ed
elegante piazza dell’Aia, a due passi dal castello del Gravenhage, l’antico
nucleo primitivo della città, col suo cortile medioevale, il fosso trasformato
in un bel lago e in fondo il Mauritshuis dove venivano conservate le opere
di Rubens, di Hals, di Rembrandt e di tutti i maestri olandesi.
Vincent infilò, uscendo dalla stazione, la stretta tortuosa affaccendata
Wagenstraat, tagliò per il Plein e la Binnenhof del castello e si trovò sulla
piazza. Otto anni erano trascorsi dal giorno in cui aveva percorso per
l’ultima volta questo itinerario: la fiumana della sofferenza subita in questo
breve spazio di tempo tornava ora a sommergerlo, corpo ed anima, con
sconvolgente veemenza.
Otto anni. Allora tutti gli volevano bene ed erano orgogliosi di lui. Era il
nipote prediletto di Vincent Van Gogh. Si sapeva che sarebbe stato non
soltanto il successore, ma anche l’erede dello zio. Avrebbe ora potuto essere
un uomo influente e ricco, rispettato e ammirato da tutti. E, col tempo,
diventare il proprietario del più cospicuo complesso di gallerie d’arte in
tutta Europa.
E invece, in quali condizioni si trovava?
Senza indugiare a cercare una risposta a questa domanda, attraversò la
piazza e varcò la soglia del negozio. Lo sorprese lo splendore
dell’arredamento e della decorazione: aveva dimenticato. Si sentì
improvvisamente misero e trasandato, nel suo rozzo abito di velluto nero.
Entrando, ci si trovava in un lungo salone dalle pareti coperte di sontuose
tappezzerie di color giallo pallido; si salivano tre gradini e s’entrava in una
sala più piccola, col soffitto a vetrata; un’altra gradinata immetteva in una
saletta piena di raccoglimento e d’intimità dov’erano esposte opere squisite,
per iniziati. Un ampio scalone conduceva al piano superiore, dove Tersteeg
aveva i suoi uffici e il suo appartamento. Le pareti erano coperte di quadri.
Nella galleria si respirava un’atmosfera di grande ricchezza e di
raffinata cultura. Gli impiegati erano individui eleganti, dalle maniere
impeccabili. Le tele appese ai muri avevano cornici dispendiose; perfino i
ganci che le reggevano davano un’impressione di ricchezza. Su per le scale
tappeti soffici e folti; nelle poltrone collocate modestamente negli angoli,
Vincent ravvisava pezzi antichi d’inestimabile valore. Pensò ai suoi disegni:
sudici minatori uscenti dall’ascensore, le loro donne curve a frugare nel
terril, contadini del Brabante intenti a vangare o a seminare. E si domandò
se questi semplici disegni di umili e povere creature avrebbero potuto un
giorno essere esposti in questo grandioso palazzo dell’arte.
Tutt’altro che probabile.
Si piantò, in un goffo atteggiamento d’ammirazione, dinanzi ad una tela
di Mauve: una testa di pecora. I commessi che chiacchieravano sottovoce
intorno ad un tavolo carico d’incisioni, gettatagli un’occhiata, non si
presero nemmeno il disturbo di domandargli che cosa desiderasse. Tersteeg
sopraggiunse in quel momento dalla terza sala, dove s’era trattenuto a
preparare una mostra. Vincent non lo vide.
Tersteeg si soffermò in fondo alla piccola gradinata ed esaminò il suo
ex-commesso: i capelli tagliati corti, la barba ispida e rossiccia, gli scarponi
da contadino, la giacca da operaio abbottonata fin sotto la gola, senza
cravatta, il pacco mal raffazzonato che il giovanotto portava sotto il braccio.
C’era nella figura di Vincent qualcosa di estremamente gauche, che
l’eleganza dell’ambiente metteva crudelmente in evidenza.
— Ebbene, Vincent? — fece Tersteeg, avanzando silenziosamente sul
morbido tappeto. — Vedo che stai ammirando i nostri quadri.
Vincent si voltò. — Sì, sono meravigliosi. Come state, Mijnheer
Tersteeg? Vi porto i saluti di papà e della mamma.
Si strinsero la mano. Quegli otto anni di distacco li dividevano come un
invalicabile abisso.
— Avete un aspetto splendido, Mijnheer. Vi trovo perfino meglio
dell’ultima volta che ci siamo visti.
— Ah, sì, mi piace vivere, Vincent. E questo mi tiene giovane. Vuoi
venire un momento nel mio studio?
Vincent lo seguì su per lo scalone, inciampando perché non poteva
staccare gli occhi dai dipinti appesi al muro. Era la prima volta che vedeva
di nuovo delle belle opere, dal giorno in cui aveva trascorso con Theo una
breve ora a Bruxelles. Ne era abbagliato. Tersteeg aprì la porta dello studio
e vi introdusse Vincent.
— Siediti, prego.
Vincent stava contemplando una tela di Weissenbruch, la prima opera
che vedesse di questo pittore. Si sedette, posò il pacco, lo riprese tra le mani
e si diresse verso la lucente scrivania di Tersteeg.
— Vi ho riportato i libri che mi avete gentilmente prestato, Mijnheer
Tersteeg.
Aprì il pacco, scartò una camicia e un paio di calzini, tirò fuori la serie
degli Esercizi al carboncino e la posò sulla scrivania.
— Mi sono applicato con molto impegno. Mi avete reso un grande
servizio, prestandomi questi Esercizi.
— Fammi vedere le tue copie — tagliò corto Tersteeg.
Vincent frugò in un mucchio di fogli e ne trasse la prima serie di
disegni, eseguita nel Borinage. Tersteeg serbò un impenetrabile silenzio.
Allora Vincent s’affrettò a mostrargli le copie della seconda serie, eseguita
ad Etten. Tersteeg la commentò semplicemente con un «Hmm». Vincent
passò alla terza serie, che comprendeva gli ultimi disegni copiati prima di
mettersi in viaggio. Tersteeg dimostrò un vivo interesse.
— Mica male. — E dopo una pausa: — Mi piace l’ombreggiatura.
Quasi quasi ci siamo.
— Anche a me è parso che non fossero tanto male.
Esaurita la scorta, Vincent si volse a Tersteeg per sentire il suo giudizio.
— Già — disse questi, posando sulla scrivania la mano lunga e fine e
picchiettando con le dita — un po’ di progresso l’hai fatto. Non molto, ma
un certo progresso sì. Le prime copie mi avevano fatto una cattiva
impressione… Ma il tuo lavoro dimostra che per lo meno hai compiuto
degli sforzi.
— Niente di più? Soltanto degli sforzi? Nessuna abilità?
Si rese conto che non avrebbe dovuto formulare queste domande, ma
non aveva saputo trattenersi.
— Non è ancora troppo presto per parlarne, Vincent?
— Forse sì. Ho portato anche alcuni disegni originali. Volete vederli?
— Molto volentieri.
Vincent gli passò alcuni disegni di minatori e contadini.
Immediatamente piombò un terribile silenzio: quel silenzio famoso in tutta
Olanda per aver espresso a centinaia di giovani artisti una condanna senza
appello. Tersteeg esaminò l’intera serie senza lasciarsi nemmeno sfuggire
un «Hmm». Vincent provò un’indicibile costernazione. Tersteeg rovesciò il
busto contro lo schienale della poltrona lasciando errare lo sguardo,
attraverso la finestra, sulla piazza e sui cigni del lago. Vincent sapeva per
esperienza che, se non avesse parlato lui per primo, quel silenzio sarebbe
durato chissà quanto.
— Non ci vedete proprio nessun progresso, Mijnheer Tersteeg? Non vi
pare che i disegni eseguiti nel Brabante siano migliori di quelli portati dal
Borinage?
— Migliori, sì — rispose Tersteeg, staccando lo sguardo dalla finestra.
— Ma veramente buoni, no. C’è in essi qualcosa di fondamentalmente
sbagliato. Di che cosa si tratti, in questo momento non potrei precisare.
Secondo me, faresti bene a continuare ancora per un po’ di tempo a copiare.
Non sei ancora atto a far lavoro originale. Prima di applicarti allo studio dal
vero, devi arricchire la tua scorta di nozioni tecniche.
— Vorrei venire a studiare all’Aia. Vi pare una buona idea, Mijnheer?
Tersteeg non voleva assumersi responsabilità ed impegni nei confronti
di Vincent. La loro situazione reciproca gli appariva sotto una luce
particolare.
— L’Aia è un bel posto. Abbiamo buone gallerie e una quantità di
giovani pittori. Ma non saprei proprio se sia da preferirsi ad Anversa, a
Parigi o a Bruxelles.
Vincent se ne andò non del tutto scoraggiato. Tersteeg aveva visto nei
suoi lavori un certo progresso: ed era il più severo critico olandese. Per lo
meno, era andato avanti. Sapeva anche lui che i suoi disegni dal vero
lasciavano qualcosa a desiderare, ma gli rimaneva la speranza di giungere
alla perfezione, mediante un’applicazione lunga ed ostinata.

5.

L’Aia è forse la più linda ed educata città di tutta Europa. Semplice,


austera e bella alla schietta maniera olandese. Vie pulitissime, fiancheggiate
da alberi maestosi; graziose case in mattoni che danno su giardinetti
deliziosi, coltivati a gerani e rose. Nessun quartiere miserabile, nulla che
offenda l’occhio; tutto rivela una cura estrema, improntata all’operoso
ascetismo degli olandesi.
Molti anni addietro, L’Aia aveva adottato come proprio emblema
ufficiale la cicogna. Da allora la popolazione era cresciuta a balzi vigorosi.
Vincent aspettò fino al giorno dopo, per recarsi da Mauve, che abitava
al n. 198 della Uileboomen. La suocera di Mauve era una Carbentus, sorella
di Anna Cornelia; e siccome in questi ambienti i vincoli familiari erano
fortemente sentiti, Vincent si vide accolto con molta cordialità.
Mauve era un tipo possente, dalle spalle spioventi ma eccezionalmente
sviluppate e robuste, dall’ampio torace. La testa costituiva in lui, come in
Tersteeg e nella maggior parte dei Van Gogh, più ancora dei lineamenti del
volto, l’elemento predominante della sua figura. Aveva occhi luminosi, un
tantino sentimentali; naso forte, diritto e ossuto che si staccava dalle
sopracciglia con una linea risentita; fronte alta e squadrata; orecchie
aderenti; una barba pepe e sale che nascondeva il perfetto ovale del volto.
Portava i capelli con la scriminatura, tirati verso la tempia destra in una
grande banda liscia parallela alla fronte.
Mauve era un uomo pieno di concentrata energia. Dipingeva; quand’era
stanco, continuava a dipingere; e quand’era sfinito, dipingeva ancora. Così
finiva per sentirsi riposato e poteva tornare ad applicarsi al lavoro con lena
rinnovata.
— Qui non mi sento completamente a casa mia, Vincent. Andiamo nel
mio studio? Credo che là ci troveremo meglio.
— Sì, andiamo. — Aveva un desiderio vivissimo di vedere lo studio.
Mauve lo condusse nell’ampio locale di legno costruito in giardino. La
porta d’ingresso si trovava di fianco alla casa, ma ad una certa distanza. Le
siepi che cintavano il giardino assicuravano al pittore un completo
isolamento.
Nel varcar la soglia, Vincent fu accolto da un gradevole odore di
tabacco, di vecchie pipe e di colori. Lo studio era veramente molto
spazioso, col pavimento coperto da un folto tappeto di Deventer e, qua e là,
cavalletti con quadri incompiuti. Pareti ravvivate da pitture; in un angolo,
un tavolo antico con davanti un piccolo tappeto persiano. La parete a nord
era formata per metà da una grande vetrata. Libri sparsi un po’ dappertutto,
tra una profusione d’arnesi del mestiere. Pur in mezzo a quella pienezza e a
quella vita dell’ambiente, Vincent avvertì un rigoroso senso d’ordine che,
emanando dalla personalità dell’artista, regnava nello studio.
Sbrigate in pochi istanti le formalità e i convenevoli riguardanti i
membri delle loro famiglie, si tuffarono immediatamente nell’argomento
che più li interessava al mondo, l’unico che stesse loro a cuore. Da qualche
tempo Mauve evitava con impegno la compagnia di ogni altro pittore
(sosteneva che un uomo può dipingere o parlare di pittura, ma non far le
due cose alla volta) ed era tutto invasato dall’idea di un nuovo quadro da
dipingere: un paesaggio nebbioso nella tenue luce del crepuscolo. Non
s’attardò a discuterla con Vincent: s’accontentò di un rapido accenno.
Rincasò intanto la signora Mauve e insistette perché Vincent si fermasse
a pranzo. Fu un pranzo molto piacevole. Poi Vincent si sedette davanti al
caminetto, trattenendosi con i bambini e pensando come sarebbe stato bello
avere una casetta sua, con una moglie che gli volesse bene e credesse in lui,
con dei bambini che gli giocassero intorno e lo chiamassero papà: un titolo
pari a quello di imperatore e signore. Sarebbe venuto anche per lui quel
giorno felice?
Poco dopo, i due cugini si trovavano nuovamente nello studio, fumando
beatamente la pipa. Vincent tirò fuori le sue riproduzioni. Mauve le esaminò
con l’occhio rapido e sicuro dell’uomo del mestiere.
— Come esercizi non sono da disprezzare. Ma che importanza possono
avere?
— Importanza? Non…
— Hai semplicemente copiato, Vincent. Come uno scolaro. Son cose
create da altri, non da te.
— Credevo che potessero darmi il senso del reale.
— Assurdo. Se vuoi creare, volgiti direttamente alla vita. Non imitare.
Non hai nulla di tuo?
Vincent ricordò il giudizio datogli da Tersteeg sui suoi studi originali. Si
domandò se dovesse mostrarli anche a Mauve, o no. Era venuto all’Aia per
chiedere a Mauve di fargli da maestro. E se aveva soltanto da mostrargli dei
lavori scadenti…
— Sì, ho fatto alcuni studi di figure.
— Bene!
— Minatori del Borinage e contadini del Brabante. Non sono gran che,
ma…
— Non importa. Fammi vedere. In quei posti, dovresti aver colto
qualche nota originale.
Vincent trasse fuori i suoi schizzi, con un battito furioso in gola. Mauve
si sedette, passandosi e ripassandosi le dita tra i capelli, mentre di tra i peli
della barba pepe e sale gli sfuggivano risatine sommesse. A un certo
momento si scompigliò con un brusco movimento della mano la
capigliatura e, senza curarsi di ricomporla, gettò al visitatore una rapida
occhiata di disapprovazione. Poi prese il foglio che aveva sott’occhio — lo
studio d’una figura di contadino — s’alzò e andò ad accostarlo ad una
figura appena abbozzata del suo nuovo quadro.
— Ora vedo il mio errore!
Afferrò una matita, corresse con alcuni rapidi tocchi il gioco d’ombre e
di luci, sempre tenendo d’occhio il disegno di Vincent.
— Così va meglio — concluse, traendosi qualche passo indietro. —
Adesso quel mendicante si fonde veramente col paesaggio circostante.
Si riaccostò al cugino, gli posò una mano sulla spalla.
— Molto bene. Sei sulla strada giusta. I tuoi disegni sono ancora rozzi
nella tecnica, ma schietti, autentici. Butta via i libri d’esercizi di copia,
Vincent; comprati una scatola di colori. Più presto cominci a lavorare coi
colori e meglio è per te. Disegni ormai discretamente, e ti farai via via la
mano.
Vincent ritenne che il momento fosse propizio per esporre il proprio
piano.
— Ho intenzione di venire all’Aia, cugino Mauve, a continuare il mio
tirocinio. Saresti disposto ad aiutarmi un poco? Ho bisogno dell’aiuto d’un
uomo come te. Qualche insegnamento di tanto in tanto, come hai fatto oggi
mostrandomi i tuoi studi. Ogni giovane artista ha necessità d’avere un
maestro, cugino Mauve, e io ti sarò tanto grato se mi permetterai di lavorare
sotto la tua guida.
Mauve indugiò con lo sguardo sulle sue tele incompiute. Tutto quel po’
di tempo che gli avanzava dal lavoro, amava dedicarlo alla famiglia. Quella
calda aura di lode di cui aveva circondato Vincent si dissolse. Subentrò un
atteggiamento di riserbo, quasi di diniego. Sempre sensibilissimo ai
mutamenti psicologici degli altri, Vincent l’avverti immediatamente.
— Io sono sovraccarico di lavoro, Vincent, e mi resta ben poca
possibilità di aiutare gli altri. Un artista deve essere egoista: deve essere
avarissimo del proprio tempo. Temo di non potere insegnarti molto.
— Ti chiedo poco. Consentimi soltanto di venire qualche volta a vederti
dipingere. Parlami del tuo lavoro come hai fatto oggi. Così vedrò come si
realizza l’idea di un quadro. Eppoi di tanto in tanto, nei tuoi momenti di
sosta, potresti dare un’occhiata ai miei disegni e farmi notare gli errori. Non
ti chiedo altro.
— A te sembra di chieder poco. Ma, credimi, prendere un allievo è una
faccenda seria.
— Non ti sarò di peso, posso garantirtelo.
Mauve rifletté a lungo. Non aveva mai voluto saperne d’avere un
allievo; non gli piaceva vedersi degli estranei intorno mentre lavorava. Era
poco espansivo circa la propria fatica creativa, e s’era sempre visto mal
ripagato dei consigli dati ai principianti. Ma ora si trattava di suo cugino, lo
zio Vincent Van Gogh e la ditta Goupil compravano i suoi quadri, e nella
rude ed intensa passione di questo giovanotto — la stessa rude ed intensa
passione che si sprigionava dai suoi disegni — c’era qualcosa che lo
colpiva profondamente.
— Bene, Vincent. Proviamo.
— Oh, cugino Mauve!
— Ma non ti faccio nessuna promessa, bada bene. L’esito potrebbe
anche essere disastroso. Comunque, quando ti sarai trasferito all’Aia, vieni
pure liberamente nel mio studio e vedremo di giovarci a vicenda. Io andrò a
passar l’autunno a Drenthe; tu potresti trasferirti qui all’inizio dell’inverno.
— È appunto l’epoca che avevo scelto. Ho ancora bisogno di lavorare
alcuni mesi nel Brabante.
— Allora, d’accordo.
Per tutto il viaggio di ritorno, in treno, Vincent si sentì cantare dentro
una voce che diceva: «Ho un maestro, ho un maestro. Tra pochi mesi
studierò con un grande pittore e allora imparerò anch’io a dipingere.
Lavorerò. Oh, quanto lavorerò in questi mesi che mi restano! Allora potrò
misurare il progresso compiuto».
Rientrando ad Etten, vi trovò Kay Vos.

6.

Kay era spiritualizzata dal dolore sofferto. Amava devotamente il marito


e la sua morte aveva ucciso qualcosa anche dentro di lei. La sua
straordinaria esuberanza, il suo buon umore, il suo brio e il suo entusiasmo
erano completamente scomparsi. Perfino i suoi capelli dal colore caldo e
vivo parevano aver perduto il loro splendore. L’ovale del volto aveva
assunto un che di ascetico, gli occhi azzurri mostravano cupe infossature, la
superba bellezza della carnagione s’era dileguata sotto uno smorto pallore.
Alla smagliante vitalità dell’epoca in cui Vincent l’aveva conosciuta ad
Amsterdam era subentrata ora una grazia più matura, più morbida: una
abituale tristezza che le conferiva un senso di profondità, di intensità
espressiva.
— Che gioia, averti finalmente qui, Kay!
— Grazie, Vincent.
Era la prima volta che si chiamavano con i loro nomi di battesimo,
senza premettervi la parola «cugino». Nessuno dei due avrebbe saputo
spiegare una cosa simile: non ci badarono nemmeno.
— Hai portato con te anche Jan, vero?
— Sì, è in giardino.
— È la prima volta che vieni nel Brabante. Sono lieto di trovarmi qui
per fartelo vedere. Faremo lunghe passeggiate nella landa.
— Mi piacerebbe davvero, Vincent.
Parlava con gentilezza, ma senza calore. Egli notò che la voce le si era
fatta più profonda, più vibrante. Ricordò la simpatia che aveva provato per
lei, laggiù nella sua casa di Amsterdam. Doveva parlare della morte del
marito, presentarle le proprie condoglianze? Sapeva che avrebbe dovuto dir
qualcosa su questo argomento, ma gli parve più delicato non riagitare il suo
dolore.
Kay ne apprezzò la delicatezza. Suo marito era per lei una cosa sacra, di
cui non amava discorrere con gli altri. Anch’ella rammentava quelle
piacevoli serate invernali in cui giocava a carte con Vos e i genitori presso il
camino, mentre Vincent stava seduto in un angolo a leggere al chiarore
d’una lampada. Un’angoscia silenziosa la sommerse, gli occhi scuriti le si
annebbiarono. Vincent le posò dolcemente le mani sulla sua; ella alzò gli
occhi e lo guardò in volto con palpitante gratitudine. La sofferenza l’aveva
trasformata in un essere squisito. Mentre prima era semplicemente una
ragazza felice, ora era una donna appassionatamente sofferente, dotata di
tutta quella ricchezza interiore che il dolore sa dare. Gli affiorò alla
memoria l’antico detto: «Dal dolore scaturisce la bellezza».
— Ti piacerà, Kay — disse con calma. — Io passo tutta la giornata in
campagna a disegnare; tu verrai con me e porterai anche Jan.
— Ti sarei semplicemente d’impaccio.
— Oh, no! Mi piace la compagnia. Camminando, ti farò vedere molte
cose interessanti.
— Se è così, sarò ben felice d’accompagnarti.
— E farà bene a Jan. L’aria dei campi lo renderà più forte.
Ella gli strinse lievemente la mano.
— E saremo amici, nevvero, Vincent?
— Certo, Kay.
Ella staccò la mano dalle sue e fissò la chiesa protestante, dall’altra
parte della strada, senza vederla.
Vincent uscì in giardino, portò una panca per lei ed aiutò Jan a fare una
casetta di sabbia. Aveva momentaneamente dimenticato la grande novità
portata dall’Aia.
A tavola, quella sera, annunciò alla famiglia che Mauve l’aveva
accettato come allievo. In altre circostanze si sarebbe astenuto dal riferire le
parole d’elogio dettegli da Tersteeg e da Mauve, ma la presenza di Kay gli
insinuò il desiderio di mettersi in luce. Sua madre dimostrò una viva
soddisfazione.
La mattina dopo Kay, Jan e Vincent partirono di buon’ora per il
Liesbosch, dove Vincent si proponeva di lavorare. Benché le altre volte non
si portasse mai niente da mangiare a mezzogiorno, la mamma preparò per
tutti e tre un bel pacco di cibarie. Pensava che si trattasse di una specie di
picnic. Lungo il tragitto avvistarono un nido di gazza su un’acacia del
cimitero: Vincent promise al ragazzetto entusiasta ed eccitato dalla scoperta
che sarebbero venuti a prendervi l’uovo. Attraversarono il bosco di pini col
suo strato di foglie crocchianti, poi s’avventurarono per le sabbie gialle,
bianche e grige della landa. Ad un certo punto Vincent scorse un aratro
abbandonato, accanto ad un carro agricolo, in mezzo ad un campo.
Impiantò il piccolo cavalletto, mise Jan sul carro e abbozzò rapidamente un
quadretto. Kay se ne stava un po’ in disparte, ad osservare Jan che si
divertiva un mondo. Taceva. Vincent non cercava d’interrompere il filo dei
suoi pensieri: gli bastava averla vicina. Non aveva mai immaginato che
fosse così piacevole avere una donna al proprio fianco, lavorando.
Oltrepassarono una quantità di casette dal tetto di paglia e di giunchi, e
giunsero sulla strada di Roozendaal. Kay ruppe finalmente il silenzio:
— Sai, Vincent? Poc’anzi, guardandoti lavorare davanti al cavalletto,
m’è venuta in mente una cosa che pensavo sempre, di te, ad Amsterdam.
— Che cosa, Kay?
— Non ti offenderai?
— Affatto.
— Ebbene, se devo dirti la verità, ho sempre pensato che non eri
tagliato per la carriera ecclesiastica. Sapevo che sprecavi il tuo tempo.
— E perché non me l’hai detto?
— Non ne avevo il diritto, Vincent.
Si respinse sotto il berretto scuro alcune ciocche di capelli rosso-oro;
una buca della strada la fece barcollare contro la spalla di Vincent, che le
sostenne il braccio con una mano per aiutarla a rimettersi in equilibrio e si
dimenticò di ritirarla.
— Sapevo che dovevi trovar la tua strada da solo. Le parole non
avrebbero servito a niente.
— Ora ricordo. Un giorno mi mettesti in guardia dal pericolo di
diventare un ecclesiastico di corte vedute. Strano avvertimento, sulle labbra
della figlia d’un ministro del culto!
Le sorrise vivamente, ma gli occhi di Kay si fecero tristi.
— Lo so. Ma, vedi, Vos m’insegnava tante cose che altrimenti non avrei
compreso.
Dopo un’ora di cammino giunsero al Liesbosch e Vincent tornò ad
installare il suo cavalletto, per ritrarre un lembo di palude. Jan giocava sulla
sabbia e Kay stava seduta dietro a lui, su un piccolo sgabello ch’egli aveva
portato con sé. Teneva un libro tra le mani, ma non leggeva. Vincent
procedeva velocemente, con un certo slancio focoso. Quello studio gli si
sviluppava sotto le mani con una vigoria ignota. Non avrebbe saputo dire se
fosse l’effetto delle lodi di Mauve o della presenza di Kay: fatto sta che la
sua matita aveva una sorprendente sicurezza di tocco. Eseguì parecchi
schizzi, l’uno dopo l’altro. Non si voltava a guardare Kay, né ella gli
rivolgeva la parola, ma la sua semplice vicinanza gli dava un caldo senso di
benessere. Voleva lavorare meglio che mai, quel giorno, per meritarsi la sua
ammirazione.
Quando fu ora di mangiare, si diresse verso un vicino boschetto di
querce. Kay preparò lo spuntino alla fresca ombra d’un albero. C’era
nell’aria un silenzio profondo. L’odore dei gigli acquatici della palude si
mischiava con la fragranza lieve delle fronde di quercia. Kay e Jan si
sedettero da un lato, Vincent dall’altro. Kay prese a servirlo. Egli ricordò la
scena vista in casa di Mauve: il pittore e la sua famiglia seduti intorno al
desco.
Guardando Kay, gli parve di non aver mai visto creatura così bella. Il
formaggio grasso e giallo era prelibato, il pane della mamma aveva la
consueta fragranza: eppure, non poteva mangiare. Una fame diversa, nuova
e formidabile, stava destandosi dentro di lui. Non sapeva distogliere lo
sguardo dalla carnagione delicata di Kay, dal cesellato ovale del suo volto,
dagli occhi infossati e meditabondi, dalla bocca dolce e carnosa, che aveva
momentaneamente perduto la sua succulenta ricchezza ma che — egli lo
sapeva — sarebbe un giorno tornata a fiorire.
Dopo lo spuntino, Jan s’addormentò con la testa in grembo alla mamma.
Vincent la guardava carezzare i soffici capelli del bimbo scrutando
intensamente il visino innocente. Sapeva che in quel momento ella vedeva
riflessa nella faccia del bimbo quella del marito, sapeva che era col pensiero
laggiù nella loro casa della Keizersgracht con l’uomo amato e non nella
landa del Brabante col cugino Vincent.
Disegnò per tutto il pomeriggio, talvolta con Jan sulle ginocchia. Il
piccino gli si era affezionato. Vincent lasciò che gli insudiciasse con ditate
parecchi fogli della sua bella carta da disegno «Ingres». Il ragazzetto rideva,
gridava e correva per la landa sabbiosa, tornando sempre da lui con qualche
nuova domanda, con qualche oggetto tra le mani, chiedendo ch’egli lo
facesse divertire. Vincent non se ne infastidiva; trovava ch’era bello avere
un vivace animaletto che ti s’arrampichi affettuosamente sulle ginocchia.
S’era alle soglie dell’autunno, il sole già tramontava presto. Tornando
verso casa si fermarono più volte presso gli stagni, a guardare come i colori
del tramonto palpitavano sull’acqua con battiti d’ali di farfalla, via via
oscurandosi e spegnendosi col crepuscolo. Vincent mostrò a Kay i suoi
disegni. Ella li vedeva appena, come attraverso un velo di distrazione; le
parvero crudi e rozzi. Ma Vincent era stato tanto buono con Jan, ed ella
sapeva anche troppo bene che cosa fosse la sofferenza.
— Mi piacciono, Vincent.
— Davvero, Kay?
Quelle parole di lode infransero dentro di lui un argine. Kay gli aveva
dimostrato tanta simpatia e comprensione ad Amsterdam; ora avrebbe
certamente compreso lo spirito ch’egli si sforzava di trasfondere nei suoi
lavori. Chissà perché, aveva l’impressione che lei sola potesse capire.
Impossibile parlarne con i familiari, perché non conoscevano nemmeno il
significato dei vocaboli con cui avrebbe dovuto esprimersi; con Mauve e
Tersteeg doveva assumere quell’atteggiamento d’umiltà che s’addice ad un
principiante e che non sempre egli sentiva.
Diede sfogo al cuore con un torrente di parole tumultuose, incoerenti.
Col crescere dell’entusiasmo, accelerò il passo, tanto che Kay aveva
difficoltà a mantenere l’andatura. Sotto l’influsso dell’emozione, al suo
contegno calmo ed equilibrato subentrava sempre l’antico modo di fare,
violento e tutto scatti. Più nessun segno del compito gentiluomo che s’era
mostrato nel corso del pomeriggio: al suo posto c’era un rozzone di
provinciale che la sconcertava e la spaventava. Kay ravvisava in
quell’esplosione di loquacità qualcosa d’incolto, di ineducato. Non sapeva
che egli le tributava il più raro, il più apprezzabile omaggio che un uomo
possa tributare ad una donna.
Vincent diede sfogo a tutti quei sentimenti che ribollivano chiusi in lui
da quando Theo era ripartito per Parigi. Le confidò le sue mire e le sue
ambizioni, le rivelò quale spirito s’industriava d’infondere nei suoi tentativi
artistici. Kay si domandò perché s’eccitasse tanto. Non lo interrompeva, né
gli prestava ascolto. Lei viveva nel passato, e trovava alquanto sconveniente
che qualcuno vivesse con tanta gioia e tanto impeto nel futuro. Vincent era
troppo assorbito dal senso acuto della propria sofferenza, per rendersi conto
del fatto ch’ella non lo seguiva. Continuò a parlare e a gestire, finché un
nome da lui pronunciato fece presa sull’attenzione di Kay.
— Neuhuys? Quel pittore che abitava ad Amsterdam?
— Un tempo. Ora vive all’Aia.
— Già. Vos era suo amico. Lo portava talvolta a casa nostra.
Vincent s’interruppe bruscamente.
Vos! Sempre Vos! Perché? Era morto. Morto da un anno. Era tempo di
dimenticarlo. Apparteneva al passato: come Ursula. Perché Kay portava
sempre il discorso su di lui? Già all’epoca del soggiorno all’Aia, il marito di
Kay non gli era mai andato a genio.
Autunno inoltrato. Nei boschi, il tappeto d’aghi di pino volgeva ad un
colore di ruggine. Ogni giorno Kay e Jan accompagnavano Vincent nelle
sue scorribande per la campagna. Le lunghe camminate attraverso la landa
avvivavano le guance della donna, il suo portamento si faceva più sicuro,
più energico. Ora portava sempre con sé il cestino da lavoro e, come
Vincent, aveva continuamente le mani in moto. Cominciava a parlare più
volentieri: della propria infanzia, di libri letti, di persone interessanti
conosciute ad Amsterdam.
La famiglia ne era ben lieta. La compagnia di Vincent le restituiva il
gusto di vivere. E la sua presenza in casa trasformava gradevolmente
l’umore di Vincent. Anna Cornelia e Theodorus ringraziavano Dio di quel
fortunato accostamento tra i due e facevano tutto il possibile per spingerli
l’uno verso l’altro.
Tutto, in Kay, piaceva a Vincent: l’esile figura austeramente vestita di
nero; l’elegante berretto nero che portava uscendo con lui per la campagna;
il profumo naturale del suo corpo, che gli penetrava nelle nari quand’ella si
chinava dinanzi a lui; le boccucce che faceva talvolta, parlando in fretta; lo
sguardo penetrante dei suoi profondi occhi azzurri; il tocco vibrante della
sua mano, quando lo sfiorava nel prendergli di tra le braccia il bambino; la
voce gutturale, disarmonica, che lo scoteva fin nelle più intime fibre e
continuava a cantargli in cuore quando andava a letto; il vivo splendore
delle sue carni, su cui bramava ardentemente di posare le avide labbra.
Per tanti anni — ora se ne rendeva conto — aveva vissuto soltanto in
parte; grandi riserve d’affetto e di tenerezza si erano in lui inaridite; le
chiare e fresche acque dell’amore erano state negate alla sue sete. Si sentiva
felice soltanto quando Kay gli era vicina; gli pareva che la sua presenza lo
avvolgesse in una dolce carezza. Quand’ella s’avventurava con lui
all’aperto, lavorava rapidamente e con ispirata facilità; quand’ella restava in
casa, ogni linea gli costava sforzo. La sera sedeva di fronte a lei, al grande
tavolo della stanza di soggiorno e, pur rifacendo gli schizzi della giornata, il
volto delicato di Kay s’interponeva continuamente tra i suoi occhi e il
foglio. Quando di tanto in tanto alzava lo sguardo su di lei, seduta nel
pallido alone luminoso della lampada, e i loro occhi s’incontravano, ella gli
sorrideva con una dolce e rassegnata malinconia. Gli sembrava spesso di
non poter più resistere, di dover balzare in piedi lì davanti a tutti e
precipitarsi su di lei, stringerla selvaggiamente a sé, immergere le labbra
aride e brucianti nella freschezza della sua bocca.
Non amava soltanto la sua bellezza, ma tutto il suo modo di essere, tutto
il suo modo di fare: l’incedere calmo, la perfetta compostezza del
portamento, la squisita educazione che si rivelava da ogni più lieve gesto.
Non s’era mai accorto della propria solitudine, nel corso dei sette lunghi
anni trascorsi da quando aveva perduto Ursula. In tutta la sua vita non s’era
mai sentito rivolgere una parola carezzevole da labbra di donna; nessuna
l’aveva mai guardato con occhio velato di tenerezza; nessuna gli aveva mai
sfiorato con le dita il viso coprendoglielo di baci.
Nessuna donna l’aveva mai amato. Questa non era vita, ma morte. Ben
diversa era la sua condizione quando amava Ursula, perché allora,
inesperto, voleva soltanto dare e il suo dono era stato respinto. Ma ora, nella
piena maturità dell’amore, voleva dare e ricevere in eguale misura. Ed era
convinto che la vita gli sarebbe diventata impossibile, se Kay non avesse
appagato con una calda corresponsione questa fame che era sorta in lui.
Una sera, leggendo Michelet, s’imbatté in una frase: «Il faut qu’une
femme souffle sur toi pour que tu sois homme».
Michelet, come sempre, aveva ragione. Non era ancora stato un uomo.
Sebbene avesse ventotto anni, non era ancora nato. La fragranza della
bellezza di Kay e il soffio dell’amore eran passati su di lui, trasformandolo
finalmente in un uomo.
Come uomo, desiderava Kay. La desiderava disperatamente e
appassionatamente. Amava anche Jan, perché il ragazzo era parte della
donna amata. Ma odiava Vos, lo odiava con tutte le forze, perché pareva che
nulla potesse abolire dalla mente di Kay il ricordo di questo defunto. Non
deplorava il fatto ch’ella lo avesse amato e sposato, più di quanto
deplorasse gli anni di sofferenza causatigli dalla ripulsa di Ursula. Entrambi
erano stati martellati sull’incudine del dolore: e tanto più puro sarebbe stato,
per questo, il loro amore.
Si sentiva capace di far dimenticare a Kay quest’uomo, che apparteneva
al passato. Avrebbe saputo far divampare così impetuosamente il proprio
amore nel presente, da consumare ogni traccia del passato. Presto sarebbe
andato all’Aia, a studiare sotto la guida di Mauve. Avrebbe condotto con sé
Kay, e si sarebbero creata una casa, una loro vita; un ménage come quello
visto nella Uileboomen. Voleva far di Kay la propria moglie, averla sempre
vicina. Voleva un nido, un focolare, dei bambini che recassero sul volto
l’impronta dei suoi lineamenti. Era ormai un uomo, doveva smetterla di
vagabondare. Aveva bisogno d’amore; l’amore avrebbe tolto al suo lavoro
d’artista quel carattere di rozza durezza che vi si scorgeva,
ammorbidendone le angolosità e rendendoglielo più facile, più rapido, con
un senso del reale che finora gli era mancato. Non s’era mai reso conto di
come, senza amore, fosse un uomo morto; altrimenti, avrebbe
appassionatamente amato la prima donna che gli fosse capitata a tiro.
L’amore è il sale della vita, indispensabile per dar sapore alla realtà.
Ora si rallegrava che Ursula non gli avesse corrisposto. Come era stato
superficiale, allora, il suo amore! E com’era ricco e profondo, ora! Se
avesse sposato Ursula, non avrebbe conosciuto il significato del vero
amore. Non avrebbe potuto amare Kay. Comprendeva per la prima volta
che Ursula era una bambina insignificante, vuota, senza finezza né pregio.
E lui aveva passato gli anni a soffrire per un poupon! Un’ora con Kay
valeva un’intera vita con Ursula. La strada era stata aspra, ma l’aveva
condotto fino a Kay: una conclusione che giustificava tutto. D’ora in poi la
vita sarebbe stata bella: egli avrebbe lavorato, avrebbe amato, avrebbe
venduto i suoi disegni. E sarebbero stati felici, insieme. Ogni vita umana ha
un suo predisposto e inevitabile destino, che dev’essere realizzato con
paziente lentezza.
Nonostante la sua natura impulsiva e il suo focoso stato d’animo, riuscì
a dominarsi. Mille volte, quando si trovava solo con lei in mezzo ai campi e
discorrevano di cose insignificanti, si sentiva tentato di prorompere: «Senti,
basta con questo atteggiamento di finta indifferenza. Io voglio stringerti tra
le braccia e baciarti sulle labbra, ribaciarti, ribaciarti ancora! Voglio che tu
sia mia moglie e rimanga sempre con me! Ci apparteniamo. Nella nostra
solitudine, abbiamo un disperato bisogno l’uno dell’altro!».
Riusciva miracolosamente a dominarsi. Non poteva parlar di punto in
bianco d’amore: sarebbe stata un’iniziativa troppo brusca. Kay non gli
offriva mai la minima occasione. Evitava sempre l’argomento dell’amore,
del matrimonio. Come e quando avrebbe dunque potuto parlare? Sentiva di
doverlo fare quanto prima, perché s’avvicinava l’inverno ed egli avrebbe
dovuto partire per l’Aia.
Infine non seppe più resistere: la sua forza di volontà s’infranse.
Avevano preso la strada per Breda. Vincent aveva disegnato per tutta la
mattinata contadini curvi sulle zolle. Poi avevano mangiato in riva ad un
ruscello, all’ombra degli olmi. Jan s’era addormentato sull’erba. Kay
sedeva accanto al paniere delle provviste. Vincent s’inginocchiò a farle
vedere alcuni disegni. Mentre parlava rapidamente, senza sapere nemmeno
che cosa dicesse, si sentiva bruciar contro il fianco il calore della spalla di
Kay: questo contatto lo infiammava fino a fargli perdere il dominio di se
stesso. I fogli gli caddero di mano; con un gesto improvviso, violento, la
strinse bruscamente a sé e un fiotto di parole impetuose, disordinate gli
proruppe dalle labbra.
— Kay, bisogna che ti parli; non posso più aspettare nemmeno un
istante. Devi sapere che ti amo, Kay, devi saperlo meglio di me! Ti ho
sempre amata, fin dalla prima volta che t’ho vista ad Amsterdam. Bisogna
assolutamente che ti abbia sempre con me! Kay, dimmi che mi ami almeno
un poco. Andremo a stare all’Aia, noi soli. Avremo la nostra casa, saremo
felici. Tu mi ami, Kay, nevvero? Dimmi che mi sposerai, cara!
Kay non aveva fatto nessuno sforzo per svincolarsi da lui. La bocca le si
era increspata in una smorfia di orrore e di ripugnanza. Non udì le sue
parole, ma ne afferrò il senso e si sentì invasa da un grande spavento. I suoi
occhi nero-azzurri lo fissarono crudelmente; si portò una mano alla bocca
per soffocare un grido.
Si strappò dalla sua stretta, ghermì tra le braccia il bimbo addormentato
e fuggì selvaggiamente per i campi. Vincent l’inseguì. Incalzata dalla paura,
ella correva con tutte le sue forze. Vincent non si rendeva conto di quanto
era accaduto.
— Kay! Kay! Non scappare!
Le sue grida valsero soltanto a farle accelerare la corsa. Anche lui
correva, agitando pazzamente le braccia e scotendo la testa. Kay inciampò e
cadde tra i solchi. Jan prese a piagnucolare. Vincent si gettò in ginocchio
davanti a lei, afferrandole la mano.
— Kay, perché fuggi da me mentre ti amo tanto? Bisogna che ti abbia,
non capisci? Anche tu mi ami, Kay. Non spaventarti, sto soltanto dicendoti
che ti amo. Dimenticheremo il passato, Kay, e cominceremo una vita nuova.
L’espressione di spavento che si leggeva negli occhi di Kay si trasformò
in un’espressione d’odio. Liberò la mano dalle sue. Jan s’era
completamente svegliato. Atterrito dall’aria stravolta e accesa di furibonda
passione di Vincent, impressionato dal tumultuoso torrente di parole che si
riversava dalle labbra di quell’uomo strano, s’avvinghiò al collo della
madre e scoppiò in pianto.
— Cara, non puoi proprio dirmi che mi ami almeno un poco?
— No, mai, mai!
E riprese a correre per la campagna, dirigendosi verso lo stradone.
Vincent rimase lì seduto sulla terra smossa, intontito. Kay giunse sullo
stradone, scomparve. Vincent si scosse e, alzandosi, si lanciò sulle sue
tracce chiamandola per nome con quanta voce aveva in gola. Giunto a sua
volta sullo stradone vide ch’era già lontana: continuava a correre, col
bambino tra le braccia. Egli si fermò. La guardò svanire ad una svolta,
sempre correndo, col bimbo stretto al seno. Rimase lì immobile a lungo. Poi
riattraversò il campo. Raccolse i fogli sparsi. Si erano un poco insudiciati di
terra. Rimise nel paniere gli avanzi del desinare, si appese alla spalla il
cavalletto e prese a camminare pesantemente verso casa.
Nella casa parrocchiale c’era un’atmosfera tesa: Vincent se ne accorse
subito entrando. Kay si era chiusa a chiave nella sua stanza con Jan. Il
babbo e la mamma, soli nella stanza di soggiorno, stavano parlando; al suo
entrare s’interruppero di botto, lasciando in sospeso una frase. Egli si
richiuse la porta alle spalle. Vide che suo padre doveva essere
tremendamente in collera, perché la palpebra destra era quasi chiusa.
— Come hai potuto fare una cosa simile, Vincent? — si dolse la madre.
— Come ho potuto che cosa? — Non sapeva con precisione perché lo
rimproverassero.
— Fare un tale affronto a tua cugina!
Vincent non trovò nessuna risposta. Si sfilò di spalla il cavalletto e lo
posò in un canto. Suo padre era ancor troppo sconvolto per parlare.
— Kay vi ha riferito esattamente che cos’è successo?
Il babbo si sbottonò l’alto colletto che gli si configgeva nella carne rossa
del collo, poi artigliò con la mano destra l’orlo del tavolo.
— Dice che l’hai abbracciata, uscendo in discorsi da pazzo.
— Le ho detto che l’amo — replicò calmo Vincent. — Non vedo che
affronto ci sia in questo.
— Non le hai detto altro? — insisté il babbo con voce gelida.
— No. Le ho chiesto di diventare mia moglie.
— Tua moglie!
— Sì. Che c’è di straordinario?
— Oh, Vincent, Vincent! — esclamò la madre. — Come hai potuto
metterti in testa una cosa simile?
— È un’idea che devi aver avuto anche tu…
— Ma come avrei potuto immaginare che ti saresti innamorato di lei?
— Ti rendi conto, Vincent — aggiunse suo padre — che Kay è tua
cugina in primo grado?
— Certo. E con questo?
— Non puoi sposare una cugina in primo grado. Sarebbe… sarebbe…
Suo padre non sapeva decidersi a pronunciare quella parola. Vincent
andò alla finestra e si mise a guardare in giardino.
— Sarebbe?
— Incesto!
Vincent si dominò con sforzo. Come osavano insozzare il suo amore
con una parola convenzionale di questo genere?
— Stupidaggini, papà, stupidaggini assolutamente indegne di te.
— Ti ripeto che sarebbe incesto — urlò Theodorus. — Non tollererò
questa relazione peccaminosa nella famiglia Van Gogh.
— Spero che non crederai di citare la Bibbia, papà. È sempre stato
permesso ai cugini di sposarsi tra loro.
— Oh, caro — interloquì la madre — se l’amavi veramente, perché non
hai saputo aspettare? Suo marito è morto da appena un anno. Lei l’ama
ancora. Eppoi, lo sai, non sei in condizione di mantenere una moglie.
— Considero il tuo gesto quanto mai prematuro e indelicato —
aggiunse il babbo.
Vincent si sentì toccato nel vivo. Si frugò in tasca per cercar la pipa, la
tenne un momento tra le mani, se la rimise in tasca.
— Papà, devo seriamente pregarti di non usar più espressioni simili. Il
mio amore per Kay è quanto di più bello sia sorto in me. Non voglio che tu
lo chiami prematuro e indelicato.
Afferrò il cavalletto e andò nella sua stanza. Si sedette sulla sponda del
letto, domandandosi: «Che cos’è successo? Che cos’ho fatto? Ho detto a
Kay che l’amo ed ella è scappata. Perché? Non mi vuole?».
«No, mai, mai!».
Per tutta la notte si tormentò rievocando l’episodio. La conclusione era
sempre la stessa: quelle tre parole brevi che gli riecheggiavano
nell’orecchio come una condanna, come un rintocco funebre.
Soltanto a tarda ora, la mattina dopo, poté indursi a scendere.
L’atmosfera non era più tesa. Sua madre si trovava in cucina. Al suo entrare
gli diede un bacio e gli batté alcuni colpetti affettuosi sulla guancia.
— Hai dormito bene, caro?
— Dov’è Kay?
— Papà l’ha accompagnata a Breda.
— Perché?
— Per prendere il treno. Kay torna a casa sua.
— Ad Amsterdam?
— Sì.
— Capito.
— Le è parso meglio far così, Vincent.
— Ha lasciato detto qualcosa per me?
— No, caro. Vuoi far colazione?
— Nemmeno una parola? Più nessun accenno al fatto di ieri? Era in
collera con me?
— No. Semplicemente ha creduto meglio tornare dai suoi genitori.
Anna Cornelia ritenne opportuno non riferirgli ciò che aveva detto Kay
e mettere, invece, un uovo a cuocere.
— A che ora parte il treno da Breda?
— Alle dieci e venti.
Vincent lanciò un’occhiata all’orologio azzurro della cucina.
— Sono già le dieci passate.
— Già.
— Dunque, non posso più far niente.
— Vieni a sederti, caro. Stamattina ho della buona lingua francese.
Sgombrò una parte del tavolo, stese la tovaglia e gli apparecchiò la
colazione. Non si staccava un momento da lui, lo incitava a mangiare,
convinta che a stomaco pieno avrebbe visto le cose in una luce diversa.
Per farle piacere, Vincent ingoiò tutto ciò che gli presentava. Ma aveva
in bocca il sapore di quel «No, mai, mai!», che gli rendeva ogni boccone
indicibilmente amaro.

7.

Sapeva d’amare il suo lavoro assai più di quanto amasse Kay. Se si


fosse visto costretto a scegliere tra l’uno e l’altra, non avrebbe avuto nessun
dubbio sulla scelta. Ma i suoi disegni scaddero improvvisamente di valore e
di vigore. Non provava più interesse al lavoro. Osservando gli schizzi di tipi
del Brabante, appuntati alla parete, s’accorgeva d’aver fatto notevoli
progressi dal giorno in cui s’era destato in lui l’amore per Kay. Riconosceva
che c’era ancora nel suo lavoro un che di aspro e di duro, ma sentiva che
l’amore di Kay l’avrebbe portato ad una maggiore morbidezza. La sua era
una passione troppo seria e forte per lasciarsi raggelare da quel «No, mai,
mai!». Considerava quella ripulsa come un blocco di ghiaccio destinato a
sciogliersi al calore del suo cuore.
Ma un piccolo germe di dubbio gli impediva di applicarsi al lavoro. E se
non fosse mai riuscito a farle modificare la propria decisione? Si sarebbe
detto che la semplice idea dell’eventualità d’un nuovo amore si urtasse, nel
suo animo, contro scrupoli di coscienza. Egli voleva aiutarla a guarire dal
suo male, ch’era quello di seppellirsi nel passato. Voleva unire la propria
mano d’artista alla sua di donna, lavorare per il loro sostentamento
quotidiano e per la loro felicità.
Chiuso in camera sua, le scriveva lettere appassionate, imploranti.
Soltanto parecchie settimane dopo doveva apprendere ch’ella non le
leggeva nemmeno. E quasi ogni giorno scriveva a Theo, il suo confidente,
irrigidendosi a forza contro il dubbio che gli s’annidava in cuore e contro le
concertate manovre dei suoi genitori e del reverendo Stricker. Soffriva,
soffriva amaramente, e non sempre sapeva nasconderlo. La mamma gli
s’avvicinava con aria di compassione e parole di conforto.
— Vincent, non fai altro che picchiar la testa contro un muro. Lo zio
Stricker dice che il «no» di Kay è veramente definitivo.
— Il suo parere non m’interessa.
— Ma è stata lei a dirglielo, caro!
— Gli ha detto che non mi ama?
— Sì, e che non cambierà mai atteggiamento.
— Questo lo vedremo.
— Ma non c’è niente da fare, Vincent! Lo zio Stricker dice che se anche
Kay ti volesse bene, egli non darebbe il proprio consenso a tale matrimonio
se tu non guadagnassi almeno un migliaio di franchi l’anno. E tu sai
benissimo che per il momento ne sei ancora ben lontano.
— Ebbene, mamma, chi ama vive, chi vive lavora, e chi lavora
guadagna.
— Molto bello, caro. Ma Kay è cresciuta nel lusso e nell’abbondanza.
Ha sempre avuto tante cose belle.
— Le sue cose belle ora non la rendono felice.
— Se voi due foste innamorati l’uno dell’altro e vi sposaste, andreste
incontro ad una grande miseria: povertà, fame, freddo, disagi. Perché tu sai
che la tua famiglia non potrebbe soccorrerti nemmeno con un franco.
— Son tutte cose che già ho provato, mamma, e non mi spaventano.
Anche a questa condizione sarebbe sempre meglio per noi vivere insieme,
che non divisi.
— Ma, caro, Kay non ti ama!
— Se io potessi andare ad Amsterdam, ti garantisco che trasformerei
quel «no» in un «sì»!
Gli pareva una delle peggiori petites misères de la vie humaine il fatto
di non potersi recare dalla donna amata, il fatto di non poter guadagnare
nemmeno un franco per acquistare il biglietto ferroviario. Quest’impotenza
lo esasperava rabbiosamente. Aveva ventott’anni; da dodici lavorava come
un ossesso rinunciando a tutto ciò che non fosse rigorosamente
indispensabile per vivere: ed ecco, non sapeva dove batter la testa per
procurarsi l’esigua somma indispensabile per acquistare un biglietto per
Amsterdam.
Si prospettò l’idea di percorrere a piedi quei cento chilometri; ma
sapeva che sarebbe arrivato sporco, affamato, sfinito. Non gl’importava la
fatica del viaggio, ma che cosa avrebbe detto il reverendo Stricker quando
se lo fosse visto arrivare in casa nelle condizioni in cui era giunto dal
reverendo Pietersen?… Benché quella mattina già avesse scritto una lunga
lettera a Theo, la sera stessa gliene scrisse un’altra.

«Caro Theo,
«ho urgente bisogno di denaro per recarmi ad Amsterdam. Se riesco a
trovare la somma strettamente necessaria ci vado senz’altro.
«Ti mando alcuni disegni, con preghiera di dirmi perché non trovano
acquirenti e come posso renderli tali da poterli smerciare. Devo a tutti i
costi guadagnar tanto da poter comprare il biglietto ferroviario e andare ad
assodare la consistenza di quel No, no, mai!».
Col passar dei giorni, sentì sorgere dentro di sé una nuova e sana
energia. L’amore lo rendeva risoluto e deciso. Aveva sgominato ogni
residuo di dubbio ed era convinto che se avesse potuto soltanto veder Kay,
aiutarla a comprendere quale realmente era nell’intimo dell’animo, avrebbe
potuto trasformare quel «No, no, mai!» in un «Sì, per sempre, per sempre!».
Si rimise al lavoro con nuova lena; pur sapendo di avere ancora la mano
indocile e pesante, nutriva la ferma fiducia di conseguire un giorno una
maggior facilità e scioltezza, allo stesso modo ch’era sicuro di vincere la
ripulsa di Kay.
La sera dopo scrisse una lettera al reverendo Stricker, per chiarire i
termini della situazione. Non stette a misurare le parole; l’idea dello
scoppio di collera in cui avrebbe dato lo zio lo riempiva di buon umore. Il
babbo gli aveva proibito di scrivere questa lettera: un vero conflitto si
preparava nella casa parrocchiale. Theodorus vedeva tutta la vita in termini
di rigorosa obbedienza e di rigoroso buon contegno; ignorava le
vicissitudini dell’animo umano. Se suo figlio non sapeva adattarsi al
modello prestabilito, era lui che aveva torto, non il modello.
— Tutta colpa di quei libri francesi che leggi — gli disse la sera, nella
stanza di soggiorno. — Se bazzichi in compagnia di ladri e di assassini,
come ci si può aspettare che ti comporti da figlio obbediente e da
gentiluomo?
Vincent sollevò gli occhi dalle pagine di Michelet, con una blanda
espressione di stupore.
— Ladri ed assassini? Tu chiami ladri Victor Hugo e Michelet?
— No, ma mi riferisco a ciò che scrivono. I loro libri sono pieni di cose
cattive.
— Sciocchezze, papà. Michelet è puro e incensurabile quanto la Bibbia.
— Non voglio che tu bestemmi qua dentro, giovanotto! — urlò
Theodorus, invaso da una legittima indignazione. — Quei libri sono
immorali. Sono state quelle idee francesi a rovinarti.
Vincent s’alzò, fece un mezzo giro intorno al tavolo e collocò davanti al
babbo L’amour et la femme.
— C’è un unico modo di convincerti. Leggi soltanto qualche pagina. Ne
rimarrai impressionato. Michelet vuole semplicemente aiutarci a risolvere i
nostri problemi e a sollevarci dalle nostre piccole miserie.
Theodorus scagliò L’amour et la femme sul pavimento col gesto di un
uomo retto che respinga il peccato.
— Non ho bisogno di leggerlo! — replicò furiosamente. — Abbiamo in
famiglia un prozio che si lasciò contagiare da idee francesi e si mise a bere!
— Mille pardons, babbo Michelet — mormorò Vincent, raccattando il
libro.
— E perché «babbo Michelet», se è lecito? — domandò gelidamente
Theodorus. — È forse per offendermi?
— Nemmeno per sogno. Ma devo francamente confessarti che se avessi
bisogno di consiglio mi rivolgerei piuttosto a Michelet che a te. Avrei
maggiori probabilità di capitar bene.
— Oh, Vincent — supplicò la mamma — perché parli così? Vuoi
rompere i legami con la famiglia?
— Sicuro, ecco quello che stai facendo! — esclamò Theodorus. — Vuoi
proprio rompere i legami con la famiglia. La tua condotta è imperdonabile.
Faresti meglio a lasciare questa casa e andartene a vivere altrove.
Vincent salì in camera sua e sedette sulla sponda del letto,
domandandosi perché mai, ogni qualvolta riceveva un colpo duro, provasse
il bisogno di sedersi lì anziché su una sedia. Passò in rassegna i disegni
appesi alle pareti: contadini che vangavano, contadini che seminavano,
garzoni, una donna che cuciva, una ragazza che faceva pulizia, boscaioli;
eppoi i disegni di Heike. Sì, aveva progredito. Andava avanti. Ma il suo
lavoro non era ancora finito. Mauve si trovava tuttora a Drenthe, dove
sarebbe rimasto ancora un mese. Non aveva nessun desiderio di andarsene
da Etten. Ci si trovava bene, godeva d’ogni comodità; vivere altrove, gli
sarebbe costato assai di più. Aveva ancora bisogno di tempo per vincere
l’impaccio dell’espressione e cogliere il vero spirito dei contadini del
Brabante, prima di partire per sempre. Suo padre gli aveva ingiunto di
lasciare questa casa, quasi maledicendolo. Ma si trattava d’uno scoppio
d’ira. Se i genitori gli avessero realmente detto «Vattene!», se si fosse
trattato di una seria ingiunzione… Era davvero un tal cattivo soggetto da
dover essere cacciato dalla casa paterna?
Con la posta della mattina dopo, gli arrivarono due lettere. La prima era
del reverendo Stricker, in risposta alla sua, con accluso un biglietto della
moglie dell’ecclesiastico. Gli riassumevano il suo passato in termini ben
chiari, lo informavano che Kay voleva bene ad un altro, ad un uomo
facoltoso, e lo invitavano ad astenersi definitivamente e subito da qualsiasi
tentativo con la loro figliola.
«Non ci sono proprio al mondo persone più prive di fede, dure di cuore
e attaccate ai beni terreni degli uomini di Chiesa», commentò tra sé
Vincent, schiacciando nel pugno la lettera di Amsterdam con un piacere
selvaggio, come se si trattasse del reverendo in persona.
La seconda lettera era di Theo.
«I disegni — diceva — sono eccellenti. Farò tutto il possibile per
venderli. Ti accludo intanto venti franchi per il viaggio ad Amsterdam.
Buona fortuna, vecchio mio!».

8.

Quando Vincent uscì dalla stazione centrale, cominciava ad annottare.


Risalì speditamente il Damrak fino al Dam, oltrepassò il Palazzo Reale e
l’edificio delle Poste, tagliò per la Keizersgracht. Era l’ora in cui gli
impiegati e i commercianti escono dagli uffici e dai negozi.
Attraversato il Singel, si soffermò un momento sul ponte
dell’Heerengracht ad osservare gli uomini dell’equipaggio d’un barcone che
consumavano il loro pasto serale a base di pane e aringa. Svoltò a sinistra
per la Keizersgracht, sfiorò una lunga successione di case di stile
fiammingo e si trovò di fronte alla stretta gradinata in pietra e alla nera
cancellata dell’abitazione del reverendo Stricker. Ricordò la prima volta che
v’era venuto, all’inizio della sua avventura di Amsterdam, e si rese conto
che esistono certe città in cui un individuo ha sempre sfortuna.
Aveva compiuto tutto il tragitto su per il Damrak e attraverso il centro
con passo frettoloso; adesso ch’era giunto provava un senso di paura e di
esitazione ad entrare. Alzando gli occhi notò il lungo gancio di ferro
sporgente sopra la finestra della soffitta e pensò come sarebbe stato adatto
per impiccarsi.
Attraversò la via spaziosa, lastricata di mattoni rossi, e si trovò sul
margine del canale con gli occhi fissi sulla corrente. Sapeva che quest’ora
avrebbe deciso tutto il suo destino. Se almeno avesse potuto vedere Kay,
parlarle, farsi comprendere, tutto si sarebbe accomodato. Ma per avere
l’accesso ad una ragazza bisognava passare attraverso suo padre. E se il
reverendo Stricker non l’avesse lasciato entrare?
Un barcone da renaiolo risaliva lentamente la corrente, movendo verso
l’ancoraggio per la notte. Recava sul fianco scuro una traccia di sabbia
bagnata, dalla parte da cui era stato scaricato. Vincent notò che non v’era
biancheria stesa ad asciugare da prua a poppa: la cosa gli parve strana. Un
uomo magro e ossuto faceva forza sulla pertica poggiandovisi con tutto il
peso del corpo per sospingere l’imbarcazione, che procedeva con la sua
massa compatta e sgraziata. Una donna dal grembiule sporco sedeva a
poppa, reggendo con la mano dietro il dorso il rudimentale timone. Sul tetto
della cabina, un bambino, una ragazzetta e un sudicio cane bianco, che
guardavano con vivo interesse le case della Keizersgracht.
Vincent salì i cinque gradini e suonò. Un momento dopo, la cameriera
venne ad aprire. Sbirciò il visitatore in ombra, lo riconobbe e si piantò sulla
soglia con la sua figura corpulenta.
— C’è il reverendo Stricker?
— No. È uscito. — Aveva ricevuto ordini in merito. Vincent udì, di
dentro, delle voci. Spinse bruscamente da parte la donna.
— Levatevi di mezzo!
La donna gli si lanciò dietro, cercando di sbarrargli la strada.
— Sono a tavola — protestò. — Non potete entrare. Vincent percorse il
lungo atrio e varcò la soglia della sala da pranzo. Immediatamente vide le
falde di una ben nota veste nera scomparire attraverso la porta di fronte.
Erano rimasti a tavola il reverendo Stricker, la zia Wilhelmina e i due
ragazzi minori. Sulla tavola era apparecchiato per cinque persone. Al posto
rimasto vuoto, con la sedia scostata indietro, si vedeva un piatto di vitello
arrosto con patatine e piselli.
— Non ho potuto fermarlo — si scusò la persona di servizio. — È
entrato di prepotenza.
C’erano sulla tavola due candelieri d’argento, con due alte candele
bianche per tutta illuminazione. Un ritratto di Calvino appeso alla parete
guardava con aria spettrale, nel giallo chiarore. I servizi d’argento
scintillavano nella credenza. Vincent notò la stretta e alta finestra sotto cui
aveva parlato per la prima volta con Kay.
— Dunque, Vincent, — disse lo zio — sembra che tu stia diventando
sempre più screanzato.
— Ho bisogno di parlare con Kay.
— Kay non c’è. Si trova in casa d’amici.
— Era seduta qui, quando ho suonato. Aveva cominciato a mangiare.
Stricker si volse alla moglie. — Porta via i bambini. — E riprese: —
Senti, Vincent. Tu stai provocando un mucchio di guai. Non soltanto io, ma
tutti quelli della famiglia hanno perso completamente la pazienza con te.
Sei un vagabondo, un fannullone, un villanzone e, per quanto mi risulta, un
individuo ingrato e vizioso. Come puoi arrogarti il diritto di innamorarti di
mia figlia? È un affronto che mi fai.
— Lasciatemi vedere Kay, zio Stricker. Desidero parlarle.
— Lei non vuole parlare con te. Non vuole nemmeno più vederti.
— L’ha detto lei?
— Sì.
— Non ci credo.
Stricker non poté quasi credere alle sue orecchie. Da quando aveva
ricevuto gli Ordini sacri, era la prima volta che gli capitava d’essere
accusato di menzogna.
— Come osi affermare che io non dico la verità?
— Non ci crederò finché non l’abbia sentito dire da lei. E non ci crederò
nemmeno allora!
— E pensare che ho sciupato per te tanto tempo prezioso e tanto denaro
qui ad Amsterdam!
Vincent si lasciò stancamente cadere sulla sedia occupata fino a
poc’anzi da Kay e posò ambe le braccia sulla tavola.
— Zio, ascoltatemi un momento. Dimostratemi che anche un uomo di
Chiesa può avere un cuore sotto la sua triplice armatura d’acciaio. Io amo
vostra figlia. L’amo disperatamente. Ad ogni ora del giorno e della notte
penso a lei e spasimo per lei. Voi lavorate per Dio: per amor di Dio usatemi
dunque un po’ di pietà. Non siate così crudele con me. Finora non sono
riuscito a farmi una posizione, lo so; ma ci riuscirò, se mi concedete un po’
di tempo. Datemi la possibilità di dimostrarle il mio amore. Permettetemi di
farle comprendere perché deve volermi bene. Anche voi siete stato
certamente innamorato, zio, e sapete quali angoscie può soffrire un uomo.
Io ho sofferto abbastanza; lasciate che trovi almeno una volta un po’ di
felicità. Accordatemi soltanto la possibilità di conquistarmi il suo affetto,
non vi chiedo altro. Non posso più sopportare questa solitudine e
quest’angoscia!
Il reverendo Stricker lo sogguardò un momento.
— Sei così debole e codardo da non saper sopportare un po’ di dolore?
Non puoi proprio fare a meno di piagnucolare continuamente?
Vincent scattò violentemente in piedi. Ora non c’era più in lui ombra di
dolcezza. Soltanto il fatto di trovarsi da due lati opposti della tavola,
separati dagli alti candelieri d’argento, lo trattenne dall’avventarsi sul
ministro del culto. La stanza fu invasa da un silenzio schiacciante, mentre i
due uomini si guardavano biecamente negli occhi scintillanti di furore.
Vincent non avrebbe saputo dire quanto tempo passò. Alzò la mano,
l’accostò alla fiamma della candela.
— Lasciatemi parlare con lei soltanto quanto saprò tenere la mano su
questa fiamma.
Rovesciò la mano, posò il dorso sulla fiamma. La luce nella stanza
s’offuscò. In un batter d’occhio, il dorso della mano s’annerì di fumo.
Quindi, nello spazio di pochi istanti, si fece d’un color rosso vivo,
bruciante. Vincent non indietreggiava, né staccava gli occhi da quelli dello
zio. Passarono cinque secondi. Dieci. Il dorso della mano cominciò ad
enfiarsi. Gli occhi del reverendo Stricker erano dilatati dall’orrore.
Sembrava paralizzato. Ripetutamente tentò di parlare, di muoversi, ma non
poté. Gli occhi di Vincent — crudeli, penetranti — lo tenevano nella loro
morsa. Quindici secondi. La pelle gonfia prese a scricchiolare, a fendersi;
ma il braccio non aveva nemmeno un tremito. Il reverendo Stricker si
riscosse finalmente, con uno scatto violento.
— Pazzo! — urlò con quanta voce aveva in gola. — Pazzo! Pazzo!
Si gettò sul tavolo, strappò il candeliere di sotto la mano di Vincent, ne
schiacciò la fiamma col pugno. Poi si protese verso l’altra candela e la
spense con un gran soffio.
La stanza rimase immersa in una completa oscurità. I due uomini,
appoggiandosi con le palme delle mani alla tavola che li divideva,
frugarono con gli occhi la tenebra. Non si vedeva niente, eppure si
vedevano anche troppo bene.
— Sei pazzo! — gridò il reverendo Stricker. — E Kay ti detesta con
tutta l’anima. Esci da questa casa e non arrischiarti mai più a tornare!
Vincent scese lentamente in istrada, tastoni, e di passo in passo finì per
trovarsi in una zona della periferia. Il noto e sgradevole fetore d’acqua
ferma gli invase le nari, mentre fissava la superficie salmastra e stagnante
d’un canale. La lampada a gas, all’angolo, proiettava il suo chiarore.
Osservando a quella luce la mano sinistra (un misterioso istinto l’aveva
salvaguardato dal bruciarsi l’altra, quella che gli serviva per disegnare),
scorse nella pelle una piaga nera. Rive d’altri canali, vago odore d’un mare
da lungo tempo dimenticato. Si trovò infine nei pressi della casa di Mendes
da Costa. Si distese sulla banchina d’un canale. Lasciò cadere un ciottolo
sul denso strato verde di kroos. Il ciottolo sprofondò senza rivelare l’acqua
sottostante.
Kay era scomparsa dalla sua vita. Quel «No, mai, mai!», le era
veramente scaturito dal profondo dell’anima. Un grido ch’era passato in lui,
ch’era diventato suo. Gli risonava nel cervello, ripetendo: «No, mai, mai più
la rivedrai. Mai udrai la dolce cantilena della sua voce, mai ti sorrideranno i
suoi occhi azzurri, mai sentirai sulla guancia il calore del suo viso, delle sue
mani. Mai conoscerai l’amore, perché non puoi farlo sorgere, no, nemmeno
per tanto tempo quanto hai tenuto le tue carni esposte al martirio della
fiamma!».
Una grande e muta ondata di dolore gli salì alla gola. Si portò la mano
sinistra alla bocca per soffocare un grido, affinché Amsterdam e il mondo
intero non sapessero mai che era stato giudicato e ritenuto indegno. E sentì
sulle labbra il sapore infinitamente amaro del desiderio non corrisposto.
PARTE TERZA

L’ A I A

1.

Mauve si trovava tuttora a Drenthe. Cercando nei pressi della


Uileboomen, Vincent trovò un piccolo alloggio a quattordici franchi il
mese, dietro la stazione di Ryn. Lo studio — che finora era sempre stato
designato col modesto nome di camera — era discretamente ampio, con un
bugigattolo adatto per far cucina e una grande finestra esposta a
mezzogiorno. Comprendeva anche una stufa bassa, col suo lungo tubo nero
che s’addentrava nel muro quasi all’altezza del soffitto. La tappezzeria era
pulita, d’un colore neutro; affacciandosi alla finestra Vincent poteva
scorgere il deposito di legname appartenente al proprietario della casa, un
prato verdeggiante e, in fondo, una vasta striscia di dune. La casa, situata
nella Schenkweg, l’ultima via tra la città e i prati dalla parte di sud-est, era
tutta annerita dal fumo delle locomotive che entravano ed uscivano
strepitando dalla stazione di Ryn.
Vincent comprò una robusta tavola da cucina, due sedie e una coperta
per ripararsi dal freddo dormendo sul pavimento. Queste spese diedero
fondo alla sua magra scorta di denaro; ma il primo del mese non era più
lontano e Theo gli avrebbe spedito i cento franchi dell’assegno mensile su
cui erano rimasti d’accordo. La rigida temperatura di gennaio non gli
consentiva di andare a lavorare fuor di casa; non avendo denaro per pagar
modelli, non poteva far altro che starsene lì ad aspettare l’arrivo di Mauve.
Mauve tornò finalmente all’Aia. Vincent si recò immediatamente a
trovarlo nel suo studio. Il pittore stava allestendo febbrilmente una grande
tela sul cavalletto, con i capelli spioventi sugli occhi. S’accingeva ad attuare
il poderoso progetto dell’annata: un quadro per il Salon, in cui intendeva
rappresentare un battello da pesca tirato in secco sulla spiaggia di
Scheveningen da cavalli. Lui e la moglie Jet avevano messo seriamente in
dubbio che Vincent venisse davvero a stabilirsi all’Aia; ritenevano si
trattasse d’una di quelle velleità artistiche per cui passano quasi tutti a un
dato momento della vita.
— Dunque, sei veramente venuto. Benone, Vincent, vedremo di far di te
un pittore. Hai trovato alloggio?
— Sì. In via Schenkweg 138, proprio dietro la stazione di Ryn.
— Siamo dunque vicini. E come stai a denaro?
— Be’, non ne ho da buttar via. Mi sono comprato una tavola e due
sedie.
— E un letto — aggiunse Jet.
— No. Dormo sul pavimento.
Mauve bisbigliò qualcosa alla moglie, che andò in casa e tornò subito
con un portafoglio in mano. Mauve ne tolse un biglietto da cento fiorini.
— Accetta questo prestito, Vincent. Comprati un letto; devi riposar
bene, la notte. L’affitto, l’hai pagato?
— Non ancora.
— Fallo subito. E per la luce?
— Ce n’è in abbondanza, ma l’unica finestra è esposta a mezzogiorno.
— Questo è un guaio a cui ti conviene rimediare, perché il sole ti
sposterà la luce ogni dieci minuti. Procurati delle tende.
— Non mi piace farmi prestare del denaro da te, cugino Mauve. Ti
prendi già anche troppo disturbo ad insegnarmi.
— Stupidaggini, Vincent. Ad un uomo accade una volta tanto di dover
mettere su casa. E a lungo andare conviene sempre di più avere roba
propria.
— Certo, questo è vero. Io spero di poter presto vendere dei disegni e
restituirti così questo denaro.
— Tersteeg ti aiuterà. Ha aiutato anche me, quand’ero giovane e appena
agli inizi, acquistando i miei lavori. Ma devi cominciare a dipingere ad
acquerello e ad olio. Di semplici disegni a carboncino non c’è richiesta.
Benché atticciato e corpulento, Mauve si moveva a scatti, nervosamente
e in fretta. Appena avvistato qualcosa che stava cercando, spingeva avanti
una spalla e si lanciava decisamente in quella direzione.
— To’, Vincent. Eccoti qua una scatola di colori, con alcuni acquerelli,
pennelli, tavolozza, olio e trementina. Fammi vedere come tieni la
tavolozza e come stai davanti al cavalletto.
Gli insegnò alcuni elementi di tecnica. Vincent afferrava rapidamente.
— Bene! — esclamò Mauve. — Ti credevo duro di comprendonio, ma
vedo che non lo sei affatto. Potrai venire qui la mattina e lavorare ad
acquerello. Proporrò la tua candidatura ai Pulchri, cercando di farti
accettare come membro straordinario; là potrai andare a disegnare parecchie
sere la settimana con un modello a disposizione. Ciò ti servirà inoltre per
far conoscenza con altri pittori. Quando poi comincerai a vendere, potrai
diventare membro regolare.
— Sì, ho tanto bisogno di lavorare con un modello. Cercherò di
procurarmene uno che venga da me tutti i giorni. Una volta impadronitomi
della figura umana, tutto il resto verrà da sé.
— Giustissimo. La figura umana è la cosa più ardua; ma quando la
possiedi, alberi, mucche e tramonti non presentano più difficoltà. I pittori
che trascurano la figura lo fanno perché non ci riescono.
Vincent comperò un letto, un paio di tende per la finestra, pagò la
pigione e attaccò alla parete i disegni eseguiti nel Brabante. Sapeva che
erano invendibili e ne scorgeva facilmente i difetti, ma trovava in essi
qualcosa di schietto, di naturale; erano stati fatti con una certa passione.
Non avrebbe saputo precisare in che cosa si rivelasse questa passione e
come l’avesse attinta. Non ne comprendeva nemmeno adeguatamente il
valore: lo comprese soltanto quando strinse amicizia con De Bock.
De Bock era un tipo affascinante: bien élevé, fornito di modi simpatici e
di una rendita sicura. Aveva fatto gli studi in Inghilterra. Vincent l’incontrò
alla galleria Goupil. De Bock rappresentava sotto ogni aspetto l’esatta
antitesi di Vincent: prendeva le cose alla leggera, nulla aveva il potere
d’irritarlo o d’entusiasmarlo eccessivamente, era fisicamente delicato, con
una bocca la cui larghezza non superava quella delle narici.
— Vieni a bere una tazza di tè a casa mia? — propose a Vincent. —
Vorrei farti vedere alcuni miei lavori recenti. Mi sono scoperto delle
attitudini, da quando Tersteeg ha cominciato a vendere i miei quadri.
Il suo studio era situato nel Willemspark, il quartiere aristocratico
dell’Aia. Egli ne aveva fatto coprire le pareti con drappi di velluto di tinta
neutra. Negli angoli, comodi divani dai cuscini lussuosi. Tavolini per
fumare, scaffali riccamente riforniti, tappeti orientali. Pensando al proprio
studio, Vincent si sentì un anacoreta.
De Bock collocò un samovar russo su un fornello ad alcool, accese e
mandò la donna di servizio a comprare dei dolciumi. Trasse quindi una tela
da un armadio e la collocò sul cavalletto.
— Ecco il mio ultimo quadro. Vuoi accendere un sigaro, mentre lo
guardi? Può darsi che la mia tela ci guadagni; non si sa mai.
Parlava con tono divertito e leggero. Da quando era stato scoperto da
Tersteeg, la sua fiducia in se stesso aveva attinto vertici altissimi. Era sicuro
che quel quadro sarebbe piaciuto a Vincent. Accese una di quelle lunghe
sigarette russe per cui andava famoso all’Aia e si mise a scrutare la
fisionomia del visitatore per leggervi le impressioni riportate.
Vincent osservò intensamente la pittura attraverso le volute di fumo del
sigaro dispendioso offertogli dall’amico. Sentiva nell’atteggiamento di De
Bock quell’attimo terribile di sospensione che ogni artista prova quando
presenta per la prima volta agli occhi d’un estraneo una propria creazione.
Che cosa doveva dire? Il paesaggio non era cattivo, ma nemmeno buono.
Rassomigliava troppo al carattere dell’autore: superficiale. Rammentò il
furore e il malessere da cui si sentiva assalito, quando un qualche giovane
«arrivato» s’arrischiava a giudicare con benevola condiscendenza un suo
lavoro. Sebbene il quadro fosse di quelli per cui basta un’occhiata, continuò
a studiarlo.
— Hai il senso del paesaggio, De Bock — disse infine. — E sai
indubbiamente renderlo affascinante.
— Oh, grazie! — rispose De Bock, soddisfatto di ciò che riteneva un
complimento. — Una tazza di tè?
Vincent afferrò la tazza con tutt’e due le mani, temendo di versare
qualche goccia di tè sul sontuoso tappeto. De Bock s’accostò al samovar e
riempì una tazza anche per sé. Vincent avrebbe tanto voluto non aver
nessuna osservazione sfavorevole da fare su quella tela. De Bock gli
riusciva simpatico, ne desiderava l’amicizia. Ma l’obiettività dell’artista,
dell’uomo del mestiere, lo costrinse a formulare le sue critiche.
— C’è una sola cosa che non mi piace troppo in questo quadro…
De Bock prese il vassoio che gli porgeva la donna di servizio.
— Una pasta, su, vecchio mio!
Vincent rifiutò, non sapendo come fare per mangiare una pasta e tenere
contemporaneamente sulle ginocchia una tazza di tè.
— Che cos’è che non ti piace? — domandò con tono leggero De Bock.
— Le figure. Non mi sembrano reali.
— Sai — gli confidò De Bock, stendendosi pigramente sul divano —
molte volte mi sono proposto di applicarmi seriamente allo studio della
figura. Ma si vede proprio che non è il mio forte. Prendo un modello e
lavoro per alcuni giorni, poi di punto in bianco mi sento riattratto dal
paesaggio. Volere o no, il paesaggio è realmente il mio campo e non è
quindi il caso che mi perda dietro la figura, ti pare?
— Io, anche quando faccio un paesaggio, cerco di trasfondervi qualcosa
della figura umana. Tu hai su di me un vantaggio di parecchi anni, eppoi sei
un artista ormai affermato. Ma mi permetti di dirti una parola di critica
amichevole?
— Anzi, mi fai piacere.
— Ebbene, direi che la tua pittura manca di passione.
— Passione? — ripeté De Bock, chinandosi sul samovar e sbirciando
l’amico con un occhio solo. — Le passioni sono tante. A quale alludi?
— È un po’ difficile a spiegarsi. Ma nella tua opera s’avverte un
sentimento piuttosto vago. Secondo me, dovrebbe esserci più intensità.
— Ma capisci, vecchio mio — disse De Bock, alzandosi e guardando da
vicino uno dei suoi quadri — io non posso rovesciare sulle mie tele un
vomito di emozione semplicemente perché qualcuno mi dice di far così, ti
sembra? Dipingo ciò che vedo, ciò che sento. E se non sento nessuna
passione veemente, come posso forzare il mio pennello ad esprimerla? La
passione non è una cosa che si compri dal droghiere a un tanto la libbra, è
vero?
Dopo quella visita allo studio di De Bock, il suo gli parve quasi sordido
e squallido; ma egli sapeva che anche quella povertà aveva i suoi vantaggi.
Sospinse il letto in un angolo e nascose gli oggetti di cucina: voleva che il
locale avesse l’impronta d’uno studio, non d’una stanza d’abitazione.
L’assegno mensile di Theo non era ancora giunto, ma gli rimanevano alcuni
franchi del prestito fattogli da Mauve. Li spese per procurarsi dei modelli.
Si trovava da poco tempo nel suo studio, quando Mauve venne a trovarlo.
— Non ho impiegato più di dieci minuti a venir fin qua — disse,
guardandosi intorno. — Sì, così va bene. Dovresti avere la luce da nord, ma
anche così può andare. Farà buona impressione su certa gente che potrebbe
sospettarti di dilettantismo e di pigrizia. Vedo che oggi hai lavorato con un
modello…
— Già. Tutti i giorni. Ma costa caro.
— Eppure, tutto sommato, è il sistema meno costoso. Sei a corto di
denaro, Vincent?
— Grazie, cugino Mauve. Tiro avanti.
Non gli conveniva diventare per Mauve un peso finanziario. Gli restava
appena un franco in tasca, ossia quanto bastava per vivere un giorno, ma
preferiva che Mauve fosse generoso d’insegnamenti: il denaro non aveva
molta importanza.
Mauve passò un’ora ad insegnargli l’uso dei colori ad acquerello.
Vincent stentava ad impratichirsi e combinava dei pasticci.
— Non lasciarti impressionare dalle difficoltà — lo esortò allegramente
Mauve. — Sciuperai almeno una decina di disegni, prima di imparare a
maneggiar bene il pennello. Ora fammi vedere alcuni dei tuoi ultimi schizzi
del Brabante.
Vincent li trasse fuori. Mauve era un tale maestro di tecnica, da cogliere
e condensare in poche parole i difetti essenziali di un disegno. Non diceva
mai semplicemente: «Questo è sbagliato», ma aggiungeva: «Prova a far
così». Vincent l’ascoltava attentamente, sapendo che Mauve gli parlava
come avrebbe parlato a se stesso se avesse scoperto qualche errore nei
propri lavori.
— Tu sai disegnare. Quell’anno d’allenamento col carboncino ti sarà di
gran vantaggio. Non mi stupirei se Tersteeg si decidesse tra poco a
comprare i tuoi acquerelli.
Quelle belle parole d’incoraggiamento giovarono ben poco a Vincent
quando, due giorni dopo, si trovò senza un centesimo in tasca. Il primo del
mese era già trascorso da parecchi giorni e i cento franchi di Theo non
arrivavano. Come mai? Theo era forse in collera con lui? Possibile che
Theo lo abbandonasse proprio ora che si vedeva dischiudere le porte della
carriera? Trovò nella tasca della giacca un francobollo, che gli permise di
scrivere al fratello pregandolo di spedirgli almeno una parte dell’assegno,
per potersi sfamare e procurarsi ogni tanto un modello.
Da tre giorni non toccava più cibo: la mattina s’esercitava con gli
acquerelli nello studio di Mauve, il pomeriggio disegnava nelle cucine
popolari e nelle sale d’aspetto di terza classe, la sera andava a lavorare nella
sede dei Pulchri o da Mauve. Aveva una paura folle che Mauve
s’accorgesse della sua situazione e perdesse ogni fiducia in lui. Capiva che,
nonostante tutta la simpatia, suo cugino l’avrebbe abbandonato a se stesso
senza pensarci due volte, se le difficoltà in cui si dibatteva avessero turbato
il ritmo della propria attività. Rifiutava perfino gli inviti a pranzo di Jet.
Gli spasimi della fame che gli dilaniava lo stomaco risospingevano il
suo pensiero ai tempi del Borinage. Doveva patir la fame per tutta la vita?
Non avrebbe mai avuto un momento di tranquillità e di agio, in nessun
posto del mondo?
Il giorno dopo, facendo tacere l’orgoglio, si recò da Tersteeg; sperava
d’ottenere dieci franchi in prestito da quest’uomo che manteneva una metà
dei pittori dell’Aia.
Tersteeg si trovava a Parigi per affari.
Gli venne la febbre. Non poteva più tenere in mano la matita. Si mise a
letto. Il giorno dopo si trascinò fino al Plaats. Tersteeg era tornato. A Parigi
aveva promesso a Theo di occuparsi di Vincent. Gli prestò venticinque
franchi.
— Volevo appunto venire a dare un’occhiata al tuo studio, Vincent. Ci
verrò molto presto.
Vincent non poté far altro che pronunciare qualche parola di
ringraziamento. Non vedeva il momento d’uscire, di sfamarsi. Venendo alla
galleria Goupil aveva pensato: «Se trovo un po’ di denaro, sono
nuovamente a posto». Ma ora che il denaro l’aveva, si sentiva più
miserabile e triste che mai, invaso da un amaro senso di solitudine e di
abbandono.
«Un buon pasto farà passar tutto», si disse.
Il cibo fece svanire gli spasimi dello stomaco, ma non quelli della
desolazione che gli s’annidava dentro. Comprò un po’ di tabacco a buon
mercato, andò a casa, s’allungò sul letto e accese la pipa. La brama di Kay
lo riassalì con forza spaventosa. Si sentiva così disperatamente infelice da
non poter respirare. Balzò in piedi, andò ad aprire la finestra e sporse fuori
la testa, nella notte nevosa di gennaio. Pensò al reverendo Stricker. Un
brivido gelido gli corse per tutto il corpo, come se fosse stato troppo a lungo
appoggiato contro le fredde mura di pietra d’una chiesa. Chiuse la finestra,
afferrò il cappello e la giacca e s’avventò fuor di casa, dirigendosi verso una
bettola che aveva notata di fronte alla stazione di Ryn.
2.

Una lampada a petrolio sospesa all’ingresso, un’altra sul banco. Lo


spazio centrale della bettola era immerso in una semi-oscurità. Alcune
panche contro le pareti, sudici tavoli di pietra. Un locale da operai, con muri
dalla tinta sbiadita e il pavimento di cemento: un luogo di rifugio, più che
d’allegria.
Vincent si sedette ad un tavolo, appoggiando stancamente il dorso alla
parete. Le cose non andavano poi tanto male, dal momento che poteva
lavorare e aveva denaro per comprarsi da mangiare e pagare qualche
modello. Ma chi gli offriva un po’ di compagnia? Con chi avrebbe potuto
scambiare quattro chiacchiere alla buona, sul tempo o su altre banalità?
Mauve era il suo maestro, Tersteeg un eminente ed occupatissimo uomo
d’affari, De Bock un ricco uomo di società. Forse un bicchiere di vino
l’avrebbe aiutato a vincer la tristezza. Domani si sarebbe rimesso al lavoro e
tutto sarebbe andato meglio.
Sorseggiò lentamente il vino rosso, acido. C’erano pochi altri avventori.
Dirimpetto a lui, un operaio. Nell’angolo vicino al banco, una coppia; la
donna vestita a colori sgargianti. Al tavolo accanto, una donna sola. Non la
guardò.
S’avvicinò il cameriere e domandò sgarbatamente a costei: — Ancora
altro vino?
— Non ho più un soldo.
Vincent si volse. — Volete bere un bicchiere con me? — le propose.
La donna lo sogguardò un momento. — Ma certo!
Il cameriere portò il bicchiere di vino, prese i venti centesimi e se ne
andò. I due tavoli erano vicinissimi.
— Grazie — disse la donna.
Vincent l’osservava intensamente. Non più giovane, nemmeno bella, un
po’ sbiadita: una su cui la vita ha lasciato i suoi segni. Un corpo piuttosto
smilzo, ma ben formato. Vincent notò la sua mano, mentre afferrava il
bicchiere. Non aveva la finezza di quella di Kay: era la mano d’una donna
che ha lavorato molto. Tutt’insieme, in quella penombra, ella gli richiamava
alla memoria certe figure strane di Chardin e di Jan Steen. Aveva il naso un
po’ uncinato, una leggera peluria sul labbro superiore, due occhi
malinconici eppure animati da un certo scintillio di vivacità.
— Non c’è di che — le rispose. — Vi sono grato della compagnia.
— Mi chiamo Cristina. E voi?
— Vincent.
— Lavorate qui all’Aia?
— Sì.
— Che cosa fate?
— Il pittore.
— Oh! Un brutto mestiere anche quello, vero?
— Certe volte, sì.
— Io faccio la lavandaia. Quando ho la forza di lavorare. Ma non
sempre ce l’ho.
— E allora?
— Ho battuto per lungo tempo i marciapiedi. Quando non mi sento più
di lavorare, torno a far questo mestiere.
— È un lavoro duro quello della lavandaia?
— Sì. Ci fanno sgobbare dodici ore. E ci pagano malissimo. A volte,
dopo aver lavorato tutto il giorno, devo trovare un uomo per sfamare i
bambini.
— Quanti ne avete, Cristina?
— Cinque. E adesso sono di nuovo incinta.
— Vostro marito è morto?
— Li ho avuti tutti da estranei.
— Un bel guaio vero?
Ella scrollò le spalle. — Eh, Gesù Cristo! Un minatore non può mica
rifiutarsi di scendere nella miniera per il fatto che potrebbe lasciarci la pelle,
vi pare?
— Certo. Sapete chi è il padre di qualcuno dei bambini?
— Soltanto il padre del primo, quel figlio d’una cagna. Degli altri non
ho mai saputo nemmeno il nome.
— E riguardo al bambino che deve nascere?
— Be’, non posso dire con sicurezza chi sia suo padre. Allora ero
troppo debole per lavorare e così dovetti battere per un bel pezzo i
marciapiedi. Ma non importa.
— Un altro bicchiere di vino?
— Gin e bitter, piuttosto. — Aprì la borsetta, ne trasse un nero e ruvido
mozzicone di sigaro, l’accese. — Nemmeno voi avete l’aria di essere in
condizioni floride. Quadri, ne vendete?
— No, sono appena agli inizi.
— Sembrate tutt’altro che giovane, per essere ancora agli inizi.
— Ho trent’anni.
— Ne dimostrate quaranta. E allora come fate a tirare avanti?
— Un mio fratello mi manda un po’ di denaro.
— Be’, ve la passate sempre meglio d’una lavandaia.
— Con chi vivete ora, Cristina?
— Stiamo tutti in casa di mia madre.
— Sa che battete i marciapiedi?
La donna scoppiò in una risata fragorosa, ma punto allegra. — Cristo,
certo che lo sa! È stata lei a spingermi. In vita sua non ha mai fatto altro. È
così che siamo venuti al mondo io e mio fratello.
— Che cosa fa vostro fratello?
— S’è cercato una donna da sfruttare, e le fa da ruffiano.
— Non è certo un bell’esempio per i vostri bambini.
— Che importa? Anche loro, un giorno, faranno lo stesso.
— Una brutta vita insomma, vero, Cristina?
— Ma piangere e lamentarsi non serve a niente. Mi offrite ancora un
bicchiere di gin e bitter? Che cosa vi siete fatto alla mano? Avete una larga
piaga nera.
— Me la sono bruciata.
— Accidenti, deve avervi fatto molto male! — E gliela prese
teneramente tra le sue.
— Niente affatto, Cristina. L’ho voluto io.
Ella gli lasciò cadere la mano. — Perché siete venuto qui solo? Non
avete amici?
— No. Ho mio fratello, ma è a Parigi.
— Dovete sentirvi solo, no?
— Sì, Cristina. Terribilmente.
— È così anche per me. A casa ci sono i marmocchi, mia madre, mio
fratello. Eppoi, tutti gli uomini che riesco ad adescare. Ma in fondo si è
sempre soli, no? Le persone non contano. Ci vorrebbe qualcuno a cui si
volesse veramente bene.
— Non c’è mai stato nessuno a cui voleste bene, Cristina?
— Il primo. Avevo sedici anni. Lui era ricco, non poteva sposarmi a
causa della sua famiglia. Ma mi passava un assegno per il bambino. Poi è
morto, e sono rimasta senza un centesimo.
— Quanti anni avete?
— Trentadue. Troppo vecchia per mettere al mondo dei marmocchi. Il
medico dell’ospedale m’ha detto che questo parto mi farà morire.
— Ma no! Purché abbiate una buona assistenza medica.
— E come posso procurarmela? Non ho un soldo da parte. I medici
dell’ospedale se ne infischiano; hanno già troppe donne da curare.
— Non avete proprio modo di procurarvi un po’ di denaro?
— Certo. Bisognerebbe che andassi tutta la notte a caccia d’uomini per
un paio di mesi. Ma questo mi ucciderebbe prima ancora del parto.
Tacquero per parecchi istanti. — Dove andrete, Cristina, uscendo di
qui?
— Ho lavato tutto il santo giorno e sono venuta qui a bere un sorso
perché non ne potevo più. Avrebbero dovuto darmi un franco e mezzo, ma
non mi pagheranno fino a sabato. Devo guadagnare due franchi per
mangiare domani. Volevo riposarmi un poco, prima di darmi a cercare un
uomo.
— Volete che venga io con voi, Cristina? Mi sento tanto solo. Mi
farebbe veramente piacere.
— Volentieri. Così è tutto risolto. Eppoi, sei un tipo carino.
— Anche tu mi piaci, Cristina. Quando m’hai preso la mano bruciata tra
le tue… È stata la prima parola gentile che una donna mi abbia detto da non
so quanto tempo.
— Strano. Non sei affatto brutto. E hai un modo di fare molto
simpatico.
— Ma sono sfortunato in amore.
— Sì, vero? Potresti ancora farmi portare un altro bicchiere?
— Senti, noi due non abbiamo bisogno di ubriacarci per provar
qualcosa l’uno per l’altro. Metti in tasca questi soldi che ti posso dare. Mi
rincresce di non poterti offrire di più.
— Tu hai l’aria d’averne più bisogno di me. Puoi venire lo stesso.
Quando te ne andrai, troverò qualcuno per guadagnarmi i due franchi.
— No. Prendi questo denaro. Non ne ho bisogno. Mi son fatto prestare
venticinque franchi da un amico.
— Sta bene. Allora, andiamo.
Per istrada, percorrendo l’una dopo l’altra una successione di vie buie,
discorsero animatamente, come vecchi amici. Ella gli parlava della propria
vita, senza parole di pietà per se stessa, senza lamenti.
— Non hai mai posato come modella?
— Da giovane.
— E allora perché non posi per me? Non posso pagarti molto.
Nemmeno un franco al giorno. Ma quando comincerò a vendere, ti darò due
franchi al giorno. Sarà sempre meglio che far la lavandaia.
— Perdinci, mi piacerebbe! Ti porterei anche il bambino e potresti
ritrarlo per niente. E quando sarai stufo di me, c’è mia madre, che sarebbe
ben contenta di guadagnare ogni tanto un franco in più. Lavora alla giornata
come persona di servizio.
Giunsero finalmente a casa di Cristina: un caseggiato di pietra grezza,
d’un sol piano, con un cortile. — Non avrai da vedere nessuno — gli disse
lei. — La mia camera dà in istrada.
Era una cameretta semplice e modesta, con una tappezzeria che le dava
una tonalità calma, grigia, come in un quadro di Chardin. Sul pavimento in
legno, una stuoia e un vecchio tappetino. In un angolo una stufa da far
cucina, in un altro un cassettone, in mezzo un grande letto. Insomma, una
stanza di donna che lavora per vivere.
Al mattino, quando Vincent si svegliò e invece di trovarsi solo vide
accanto a sé nella prima luce del giorno una donna, il mondo gli parve
meno ostile. Il dolore della solitudine s’era dileguato, sostituito da un
profondo senso di pace.

3.

La posta del mattino gli recò una lettera di Theo, con acclusi i cento
franchi. Soltanto ora Theo aveva potuto mandarglieli. Uscito di casa, trovò
una vecchia che vangava nel giardinetto d’una casa vicina e le domandò se
volesse venire a posare per cinquanta centesimi. La vecchia accettò
volentieri.
Giunti nello studio la fece sedere contro uno sfondo sonnacchioso,
accanto alla stufa, con una piccola teiera vicino. Stava cercando
l’atmosfera; la testa della vecchia era piena di vita e di luce. Diede a tre
quarti dell’acquerello una tonalità verde. Trattò con tocco morbido, tenero,
ricco di sentimento l’angolo dov’era seduta la vecchia. Mentre negli ultimi
tempi il lavoro gli era riuscito faticoso, duro e secco, ora procedeva con
fluida facilità. L’idea trovava espressione adeguata, con linee precise e
sicure. Provò un sentimento di gratitudine verso Cristina, per quanto aveva
fatto per lui. La mancanza d’amore poteva farlo infinitamente soffrire, ma
non nuocergli; la mancanza di sfogo sessuale poteva invece disseccare le
sorgenti della potenza creativa e ucciderlo come artista.
«La soddisfazione sessuale è come un lubrificante — mormorò tra sé
mentre lavorava con tanta speditezza e facilità. — Mi domando perché
babbo Michelet non ha mai fatto cenno di questa verità».
Qualcuno bussò alla porta. Mijnheer Tersteeg, con un paio di pantaloni
a righe impeccabilmente stirati, scarpe marrone lucide come uno specchio,
la barba ben curata, i capelli con la scriminatura da una parte, il colletto
d’un bianco immacolato.
Tersteeg si compiacque schiettamente di vedere che Vincent possedeva
un vero studio d’artista e stava lavorando con impegno. Gli piaceva vedere i
giovani artisti conseguire il successo: non soltanto per un interesse
professionale, ma anche per un proprio gusto personale. Ma voleva che il
successo venisse raggiunto metodicamente, per vie prestabilite; riteneva
fosse meglio per un pittore attenersi ai sistemi tradizionali e fallire che non
ribellarsi contro tutte le regole e riuscire ad imporsi. Le regole del gioco
avevano per lui ben maggiore importanza della vittoria. Era un uomo onesto
e rispettabile, ed esigeva che anche gli altri lo fossero. Non ammetteva
assolutamente la possibilità che il male si mutasse in bene, che dal peccato
scaturisse la salvezza. I pittori che vendevano le loro tele alla galleria
Goupil sapevano di dover sorvegliare la propria condotta e le proprie
maniere. Sarebbe bastato che violassero le norme del contegno che s’addice
a gentiluomini perché Tersteeg rifiutasse di interessarsi dei loro quadri
anche nel caso che si trattasse di autentici capolavori.
— Bene, Vincent, sono lieto di sorprenderti al lavoro. È così che mi
piace trovare i miei pittori.
— Siete molto gentile a fare tanta strada per venire fin da me, Mijnheer
Tersteeg.
— Figurati! Fin da quando ti sei stabilito qui volevo venire a vedere il
tuo studio.
Vincent diede un’occhiata intorno: il letto, il tavolo, le sedie, la stufa e il
cavalletto.
— Non c’è molto da vedere!
— Non importa, sprofondati nel lavoro e ben presto potrai permetterti
qualcosa di più. Mi dice Mauve che hai cominciato a fare acquerelli. Sono
molto richiesti. Potrei vendertene qualcuno, e così pure tuo fratello.
— È appunto a questo che miro, Mijnheer.
— Mi sembri assai più di buon umore che ieri.
— Non stavo bene. Ma stanotte mi sono rimesso.
Ricordò i bicchieri di vino, di gin e bitter, Cristina; rabbrividì al
pensiero di ciò che avrebbe detto Tersteeg se avesse saputo. — Volete dare
un’occhiata a qualcuno dei miei lavori, Mijnheer? Il vostro parere mi
sarebbe veramente prezioso.
Tersteeg si piantò davanti alla figura della vecchia dal grembiule bianco
emergente dallo sfondo verde. Il suo silenzio non fu più così eloquente e
terribilmente significativo come quel giorno che Vincent s’era recato da lui.
S’appoggiò alcuni istanti al bastone da passeggio, poi se l’appese al braccio.
— Sì, sì, ti vai sviluppando. Mauve farà di te un buon acquarellista, a
quanto vedo. Ti ci vorrà un po’ di tempo, ma vi arriverai. Devi affrettarti,
Vincent, in modo da guadagnarti di che vivere. Per Theo è un vero sforzo
mandarti cento franchi al mese: me ne sono ben accorto durante la mia
permanenza a Parigi. Devi cercare di bastare quanto prima a te stesso.
Credo che molto presto potrò comprarti qualche quadretto.
— Grazie, Mijnheer. Siete molto buono ad interessarvi
— Voglio aiutarti a conquistare il successo, Vincent. Sarà tanto di
guadagnato anche per la galleria Goupil. Non appena comincerò a vendere i
tuoi quadri, potrai sistemarti in uno studio migliore, vestirti bene e
frequentare un poco la società. Anche questo è necessario, se vorrai più
tardi vendere le tue pitture a olio. Ora devo correre da Mauve. Voglio
vedere il quadro di Scheveningen che sta preparando per il Salon.
— Tornerete ancora, Mijnheer?
— S’intende! Tra qualche settimana. Bada di sgobbare e di farmi
trovare un po’ di progresso. Devi far rendere le mie visite, capisci!
Gli strinse la mano e se ne andò. Vincent s’immerse nuovamente nel
lavoro. Se almeno fosse riuscito a guadagnarsi la vita, la più modesta vita
del mondo! Non chiedeva di più. Essere indipendente. Non rappresentare
un peso per nessuno. E soprattutto non aver fretta: potersi permettere di
procedere lentamente, con passo sicuro, verso quella maturità artistica e
quella forma d’espressione che stava cercando.
Nel pomeriggio ricevette un biglietto di De Bock, su carta rosa.

«Caro Van Gogh,


«domani mattina condurrò nel tuo studio una modella di Artz; così
disegneremo insieme.
De B.».

La modella di Artz risultò una bellissima ragazza, che si faceva pagare


un franco e mezzo per seduta. Vincent, che non avrebbe potuto affrontare
una spesa simile, ne fu assai contento. La modella si svestì vicino alla stufa,
dove scoppiettava un bel fuoco, per stare al caldo. All’Aia soltanto le
modelle di professione posavano nude. E ciò esasperava Vincent, che
avrebbe voluto ritrarre corpi di vecchi e vecchie, corpi che avevano tono e
carattere.
— Ho portato la borsa del tabacco — disse De Bock — e qualcosa da
mangiare preparatomi dalla donna di servizio. Ho pensato che così
avremmo evitato il disturbo di dover uscire.
— Voglio provare il tuo tabacco. Il mio è un po’ troppo forte per la
mattina.
— Io sono pronta — dichiarò la modella. — Volete mettermi in posa?
— Seduta o in piedi, De Bock?
— Proviamo prima in piedi. Nel mio nuovo paesaggio ci sono alcune
figure dritte.
Disegnarono per circa un’ora e mezza, poi la modella si sentì stanca.
— Facciamola sedere un poco — propose Vincent. — La figura sarà più
rilassata.
Lavorarono fino a mezzogiorno, ognuno chino sulla sua tavola da
disegno, scambiando soltanto qualche rara parola sulla luce o sul tabacco.
Poi De Bock aprì il pacco della colazione e tutti e tre si raccolsero intorno
alla stufa per mangiare. Mentre consumavano le sottili fette di pane con
carne fredda e formaggio, esaminavano il lavoro eseguito nella mattinata.
— Strano, come si riesce a vedere obiettivamente il proprio lavoro
quando ci si mette a mangiare — osservò De Bock.
— Mi permetti di vedere il tuo?
— Con piacere.
De Bock aveva colto ottimamente la fisionomia della ragazza, ma il
corpo non aveva nemmeno un’ombra d’individualità. Semplicemente un
corpo perfetto.
— Perbacco! — esclamò De Bock, esaminando il disegno di Vincent.
— Che cos’è questa roba che hai messo al posto della faccia? È questo che
intendi per passione?
— Non dovevamo fare un ritratto, ma uno studio di figura.
— È la prima volta che sento dire che il volto non appartenga alla
figura.
— Guarda come le hai fatto il ventre.
— Che c’è che non va?
— Sembra pieno d’aria calda. Non ci vedo i visceri.
— E perché dovresti vederli? Io non ho affatto notato che la povera
ragazza avesse le budella spenzolanti.
La modella continuò a mangiare senza nemmeno sorridere. Tutti i
pittori, per lei, erano dei pazzi. Vincent accostò il suo disegno a quello
dell’amico.
— In questo ventre che ho fatto io, se badi bene ci senti la massa dei
visceri. Ti basta guardarlo per renderti conto che ci sono passate dentro,
faticosamente, tonnellate di cibo.
— E che c’entra questo con la pittura? Non siamo mica specialisti in
budella, ti pare? Quando la gente guarda le mie tele io voglio che ci veda la
nebbia in mezzo agli alberi e il sole rosso che tramonta dietro le nuvole.
Non desidero affatto che ci veda dei visceri.
Ogni mattina di buon’ora Vincent usciva a cercarsi un modello per la
giornata: il ragazzetto d’un fabbro, una vecchia uscita dal manicomio della
città, un manovale del mercato del carbone, una nonna col nipotino scovati
nel quartiere ebraico. I modelli gli costavano molto: ed era tutto denaro, lo
sapeva, che avrebbe dovuto serbare per sfamarsi fino alla fine del mese. Ma
a che gli sarebbe servito essere all’Aia, avere Mauve per maestro, se non
s’affrettava ad andare avanti? Avrebbe mangiato dopo, quando si fosse
affermato.
Mauve continuava ad insegnargli con pazienza. Ogni sera Vincent
andava a lavorare nel caldo e operoso studio del cugino. Talvolta si
scoraggiava perché i colori degli acquerelli gli riuscivano troppo densi,
pasticciati e opachi. Mauve si limitava a sorridere.
— Si capisce che non va ancora! Se i tuoi saggi fossero già fin d’ora
limpidi e trasparenti, avrebbero soltanto un certo chic e probabilmente con
l’andare del tempo si appesantirebbero. Adesso fai fatica e ti vengono fuori
delle cose pesanti, stentate, ma via via imparerai a procedere speditamente e
con spontaneità.
— Questo è vero, cugino Mauve. Ma se un individuo ha bisogno di
guadagnare, come deve fare?
— Credi a me, Vincent: se hai troppa fretta d’arrivare, ucciderai
semplicemente te stesso come artista. L’uomo del giorno è di solito l’uomo
di un giorno. In arte vale il vecchio detto: «La miglior politica è l’onestà».
Meglio sudare ma impegnarsi a fondo, che accontentarsi di un certo chic
destinato a lusingare i gusti del pubblico.
— Io vorrei essere sincero con me stesso, cugino Mauve, ed esprimere
cose schiette, serie, in uno stile ruvido. Ma quando ci si trova nella
necessità di guadagnarsi la vita… Ho qui alcune pitture. Le ho fatte
ultimamente, pensando che Tersteeg potrebbe forse… Naturalmente mi
rendo conto che…
— Fammele vedere.
Appena datavi un’occhiata, Mauve le fece in mille pezzi.
— Attienti alla tua rudezza di stile, Vincent; non andar dietro ai
dilettanti e ai mercanti. E aspetta che coloro a cui piace il tuo lavoro
vengano a te. Verrà anche per te il tempo del raccolto.
Vincent abbassò lo sguardo su quei pezzi di carta. — Grazie, cugino
Mauve. Avevo bisogno di questo calcio.
Quella sera Mauve dava un piccolo ricevimento. Arrivarono parecchi
pittori: Weissenbruch, noto con l’epiteto di «Spada spietata» per le sue
feroci critiche alle opere altrui, Breitner, De Bock, Jules Bakhuyzen e
Neuhuys, l’amico del defunto Vos.
Weissenbruch era un ometto dotato di uno spirito micidiale. Non
trovava mai nulla di perfetto. Quando una cosa non gli andava (e non gli
andava quasi nulla), la stroncava con quattro parole. Dipingeva ciò che gli
piaceva e come gli piaceva, e sapeva imporlo al pubblico. Dal giorno in cui
Tersteeg s’era permesso di fare un’osservazione ad un suo quadro, aveva
bruscamente troncato ogni rapporto d’affari con la galleria Goupil. E
tuttavia vendeva tutto ciò che faceva: nessuno avrebbe saputo dire come e a
chi. Aveva una faccia affilata come la sua lingua; testa, naso e mento
egualmente taglienti. Tutti lo temevano e desideravano la sua approvazione.
S’era acquistata una reputazione nazionale col semplice trucco di disprezzar
tutto. Trasse in disparte Vincent nell’angolo del caminetto e lanciando
frequenti sputi nelle fiamme per il gusto di sentirne lo sfriggolio, prese a
carezzare un piede di gesso.
— Sento che siete un Van Gogh. Dipingete con lo stesso successo con
cui i vostri zii vendono quadri?
— No. Non ne ho ancora imbroccata una.
— Tanto meglio per voi! Ogni artista dovrebbe patir la fame fino ai
sessant’anni. Allora, forse, farebbe qualcosa di buono.
— Ballista! Voi avete poco più di quarant’anni e dipingete
magnificamente.
Piacque a Weissenbruch quel «Ballista!». Era la prima volta, da anni,
che un individuo aveva il coraggio di parlargli su questo tono. Gli dimostrò
il proprio apprezzamento confidandoglisi con sincerità.
— Se trovate qualcosa di buono nella mia pittura, è meglio che
smettiate di fare questo mestiere e andiate a fare il portinaio. Perché,
secondo voi, vendo i miei quadri a quell’idiota di pubblico? Perché sono
porcherie. Se avessero un po’ di valore, li terrei per me. No, ragazzo mio.
Per ora sto soltanto esercitandomi. A sessant’anni comincerò a dipingere sul
serio. E tutto ciò che farò da allora in poi, me lo terrò, per farlo seppellire
con me quando morrò. Un artista non si separa mai da ciò che ritiene ben
riuscito, Van Gogh. Al pubblico vende soltanto la robaccia.
Dall’altra parte della stanza, De Bock lanciò a Vincent un cenno di
richiamo. Egli disse quindi all’interlocutore: — Avete sbagliato mestiere,
Weissenbruch: dovevate fare il critico d’arte.
Weissenbruch ruppe in una risata e disse ad alta voce: — Ehi, Mauve,
questo tuo cugino non è tanto stupido come sembra! La lingua non gli
manca! — E rivolgendosi a Vincent gli domandò crudelmente: — Perché
diavolo andate in giro con questi stracci addosso? Perché non vi comprate
un abito decente?
Vincent indossava un abito smesso da Theo, che s’era cercato di
adattare a lui. L’operazione non era riuscita; per giunta, Vincent l’aveva
ridotto male portandolo ogni giorno, anche quando lavorava.
— I vostri zii sono così ricchi che potrebbero vestire tutta la
popolazione d’Olanda. Non vi danno niente?
— E perché dovrebbero darmi qualcosa? Sono anch’essi convinti, come
voi, che gli artisti devono patir la fame.
— Se non credono in voi, devono aver ragione. I Van Gogh, si dice,
sanno fiutare l’odore d’un pittore a cento chilometri di distanza.
Probabilmente non valete un fico secco.
— E voi potete andare all’inferno!
Vincent gli voltò rabbiosamente le spalle; ma Weissenbruch l’afferrò per
il braccio, con la bocca aperta in un largo sorriso.
— Questo è spirito! Questo è temperamento! Io volevo soltanto vedere
fino a che punto vi sareste lasciato sfottere e trattar male. Su il morale,
ragazzo mio! La stoffa ce l’avete.
A Mauve piaceva fare imitazioni per divertire gli ospiti. Era figlio di un
ecclesiastico, ma conosceva e praticava una sola religione: la pittura.
Mentre Jet distribuiva tè, pasticcini e panini col formaggio, egli faceva una
predica sulla barca da pesca di san Pietro. Quella barca, Pietro l’aveva avuta
in dono o ricevuta in eredità? Comprata a rate? Oppure — oh, sospetto
orribile! — rubata? I pittori riempivano la sala di fumo e di risate,
mandando giù con stupefacente rapidità panini imbottiti e tazze di tè.
«Mauve è cambiato», pensò Vincent.
Non sapeva che Mauve stava subendo una metamorfosi che si verifica
in tutti gli artisti a una certa fase della loro fatica creativa. Cominciava una
tela come in stato di letargo, lavorando quasi senza interesse. Gradualmente
la sua energia si destava, a mano a mano che nel cervello spuntavano e si
schiarivano nettamente le idee. Ogni giorno lavorava un po’ più a lungo,
con maggiore impegno. Come gli oggetti affioravano chiaramente sulla tela,
diventava sempre più esigente verso se stesso. Il suo pensiero si staccava
dalla famiglia, dagli amici e da ogni altro interesse consueto. Perdeva
l’appetito, passava notti insonni, immerso in riflessioni connesse con
l’opera in corso. Le forze fisiche sminuivano, l’eccitazione cresceva. Finiva
per vivere soltanto di energia nervosa. Il suo corpo possente si faceva più
scarno, gli occhi espressivi si velavano d’una nebbia vaga. Più la stanchezza
l’opprimeva, più disperatamente lavorava. La passione nervosa da cui era
posseduto aumentava sempre più d’intensità. Sapendo quanto tempo doveva
ancora impiegare per portare l’opera a compimento, s’imponeva di resistere
ad ogni costo fino a quel giorno. Era come un uomo dominato da mille
dèmoni: pur avendo dinanzi a sé anni ed anni per finire quella tela, un
intimo inesorabile impulso lo costringeva a martoriarsi senza respiro per
tutte le ventiquattro ore del giorno. Finiva per trovarsi in un tale stato di
fremente eccitazione nervosa, che se qualcuno lo disturbava ne seguiva una
scena spaventosa. Spremeva su quella tela fin all’ultima goccia della sua
forza. Per quanto si protraesse la fatica, la tensione della volontà resisteva
sempre all’ultima pennellata. Nulla l’avrebbe potuto uccidere prima che
l’opera fosse compiuta.
Consegnata la tela, crollava di schianto. Cadeva in una prostrazione che
rasentava la malattia, il delirio. Ci volevano parecchi giorni prima che Jet
riuscisse a rimetterlo in forze e in salute. Il suo esaurimento era così
completo che la sola vista ed il solo odore dei colori gli davano la nausea. A
poco a poco, lentamente, le forze tornavano. E con esse l’interesse per le
cose quotidiane. Ricominciava ad aggirarsi per lo studio, rimettendolo in
ordine. Usciva a passeggiare per la campagna, dapprima senza veder nulla.
Infine qualche scena gli colpiva l’occhio, sollecitava la sua attenzione. Il
ciclo normale della vita ricominciava.
Quando Vincent era venuto per la prima volta all’Aia, Mauve stava
cominciando il quadro di Scheveningen. Ma ora il ritmo delle sue
pulsazioni si faceva ogni giorno più intenso e ben presto egli sarebbe stato
preso dal più pazzo, dal più splendido, dal più sconvolgente di tutti i deliri:
quello della creazione artistica.
4.

Qualche sera dopo, Cristina bussò alla porta di Vincent. Indossava una
gonna nera con una camicetta turchina, aveva in testa un cappellino nero.
Aveva lavorato tutto il giorno in lavanderia. Teneva la bocca semiaperta,
come sempre quand’era estremamente stanca; le macchie della pelle erano
più accentuate di quanto gli fossero parse al primo incontro.
— Buona sera, Vincent. Ho pensato di venire a vedere dove abiti.
— Sei la prima donna che venga a trovarmi, Cristina. Benvenuta!
Dammi qua lo scialle.
La donna si sedette accanto alla stufa per scaldarsi. Poi osservò la
stanza.
— Mica male. Solo che è vuota.
— Lo so. Non ho soldi per comprare dei mobili.
— Be’, ce ne sarebbe proprio bisogno.
— Stavo per prepararmi un po’ di cena, Cristina. Resti con me?
— Perché non mi chiami Sien? Tutti mi chiamano così.
— D’accordo, Sien.
— Che cos’hai per cena?
— Patate e tè.
— Oggi ho guadagnato due franchi. Vado a comprare un po’ di carne.
— Ho soldi anch’io. Me ne ha mandati mio fratello. Quanto ti occorre?
— Credo che cinquanta centesimi possano bastare. Tornò poco dopo
con un involto di carne. Vincent lo prese e fece per mettersi all’opera.
— No, tu siediti. Non t’intendi di cucina. Io sono una donna.
China sulla stufa, con la guancia caldamente avvivata dal riflesso della
fiamma, sembrava carina. Era una cosa tanto naturale e dava un tale senso
di benessere casalingo vederla sbucciare e tagliare le patate, mettendole nel
tegame con la carne per fare lo stufato! Seduto contro il muro, Vincent
stava a guardarla con un caldo senso di gioia in cuore. Qui era a casa sua, e
aveva una donna che gli preparava la cena con mani affettuose. Quante
volte aveva sognato una scena simile, con Kay per compagna! Sien gli
lanciò un’occhiata e vide che la sedia su cui stava era rovesciata contro il
muro, in una posizione pericolosa.
— Ehi, pazzo che sei! Siediti per bene! Vuoi romperti l’osso del collo?
Vincent scoppiò in una risata. Tutte le donne con cui aveva vissuto nella
stessa casa — la mamma, le sorelle, le zie e le cugine — tutte gli dicevano
sempre: «Vincent, stai ben seduto! Vuoi romperti l’osso del collo?».
— Va bene, Sien. Starò come si deve.
Ma appena Sien ebbe voltato gli occhi, rovesciò nuovamente lo
schienale della sedia contro la parete e accese allegramente la pipa. Sien
apparecchiò. Aveva comprato anche due pagnotte. Finito di mangiare la
carne e le patate, intinsero il pane nel sugo.
— Che te ne pare? — disse Sien. — Scommetto che tu non sei così
bravo a far cucina.
— No, Sien. Quando faccio cucina io, non so mai se mangio pesce,
selvaggina o che diavolo altro.
Servito il tè, Sien accese uno dei suoi sigari neri. Presero a discorrere
animatamente. Vincent si sentiva più a suo agio con lei che con Mauve o De
Bock. C’era tra loro una certa fraternità, ch’egli non cercava nemmeno di
analizzare. Parlavano di cose banali, senza finzioni e senza dispute. Quando
parlava lui, Sien stava ad ascoltarlo con piacere, senza nessuna impazienza
che finisse per aprir bocca lei. Non aveva l’ambizione di far valere il
proprio «io». Nessuno dei due aspirava a far colpo sull’altro. Quando Sien
narrava della sua vita, dei suoi patimenti e delle sue miserie, Vincent
doveva soltanto cambiare qualche parola perché quel racconto si adattasse
anche a lui. Nessuna posa d’asprezza nei loro discorsi, nessuna affettazione
nei loro silenzi. L’incontro di due anime senza maschera, al di fuori d’ogni
pregiudizio di classe, d’ogni artificio e d’ogni ritegno d’orgoglio.
Vincent s’alzò.
— Che cosa vuoi fare? — gli domandò lei.
— Lavare i piatti.
— Stattene seduto. Non è il tuo mestiere. Io sono una donna.
Egli accostò la sedia alla stufa, si riempì la pipa, l’accese e si mise a
sbuffare beatamente boccate di fumo mentre lei si chinava sul catino. Belle
le sue mani intrise di schiuma di sapone, con le vene in risalto e le grinze
che parlavano di dure fatiche sostenute. Vincent prese carta e matita, e le
disegnò.
— Si sta bene qui — disse Sien, finito quel lavoro. — Se avessimo poi
un po’ di gin e bitter…
Andarono a comprarne e passarono la serata in casa, sorseggiando
tranquillamente, mentre Vincent ritraeva la figura dell’amica. Sien si
godeva quel calmo e riposante benessere, seduta presso la stufa con le mani
in grembo.
Il bagliore della fiamma e il piacere di poter parlare con qualcuno che la
comprendeva la riempivano di brio e di vivacità.
— Quando finisci il lavoro alla lavanderia?
— Domani, per fortuna. Non ce la faccio più.
— Sei stata male?
— No, ma il brutto s’avvicina, s’avvicina. Quest’accidente di
marmocchio mi si fa sentire ogni tanto.
— Allora la settimana prossima cominci a posare per me?
— Non avrò da far nient’altro che star seduta?
— Nient’altro. Qualche volta dovrai stare in piedi o posare nuda.
— Bellissimo! Tu lavori e io prendo i soldi. Guardò fuori dalla finestra.
Nevicava.
— Vorrei già essere a casa. Fa tanto freddo e ho soltanto lo scialle. C’è
da fare un bel pezzo di strada.
— Domani mattina devi tornare da queste parti?
— Sì. Alle sei, quand’è ancora buio.
— Se vuoi, Sien, puoi restare qui. Io ne sarei felicissimo.
— Non ti darei noia?
— Nemmeno per sogno. Il letto è grande.
— Ci si può dormire in due?
— Comodamente.
— Allora mi fermo.
— Bene.
— Sei stato molto gentile a invitarmi.
— E tu sei molto gentile a restare.
La mattina Sien gli preparò il caffè, rifece il letto e scopò lo studio. Poi
partì per andare alla lavanderia. La stanza gli sembrò tristemente vuota.
5.

Nel pomeriggio venne Tersteeg. Aveva gli occhi lucidi e le guance rosse
per quella camminata al freddo.
— Come va, Vincent?
— Benone, Mijnheer Tersteeg. La vostra visita mi fa piacere.
— Hai qualcosa di interessante da mostrarmi? Sono venuto per questo.
— Sì, ho qualcosa di nuovo. Sedete, prego.
Tersteeg diede una sbirciata alla sedia, prese il fazzoletto per
spolverarla, poi gli sembrò un gesto poco simpatico e se ne astenne.
Sedette. Vincent gli portò tre o quattro piccoli acquerelli. Tersteeg vi gettò
dapprima un’occhiata molto rapida, come uno che percorra rapidamente
una lunga lettera; poi tornò ad esaminare attentamente il primo.
— Andiamo bene — disse infine. — Non ci siamo ancora, si capisce;
questi acquerelli sono ancora un po’ crudi; ma si vede che fai progressi.
Devi presto darmi qualcosa che si possa vendere, Vincent.
— Sì, Mijnheer.
— Devi pensare a guadagnarti la vita, ragazzo mio. Non è bello vivere
del denaro altrui.
Vincent prese tra le mani gli acquerelli, li osservò. Ammetteva che
fossero ancora un po’ crudi, un po’ immaturi; ma, come tutti gli artisti, non
sapeva vedere i difetti del proprio lavoro.
— Non chiedo di meglio che riuscire a mantenermi, Mijnheer.
— Allora devi lavorare con più accanimento. Accelerare il passo. Vorrei
proprio che ti sbrigassi a darmi qualcosa di buono.
— Sì, Mijnheer.
— Comunque, sono lieto di vederti di buon umore e seriamente
impegnato. Theo mi ha pregato di tenerti d’occhio, di seguirti. Animo,
Vincent, fai qualcosa di bello; voglio importi alla galleria Goupil.
— Cercherò di fare del mio meglio. Ma non sempre la mano obbedisce
alla volontà. Però, Mauve mi ha lodato uno di questi lavori.
— Che cosa t’ha detto?
— «Comincia quasi ad aver l’aria di un acquerello». Tersteeg rise, e
s’avvolse intorno al collo la sciarpa di lana.
— Continua a sgobbare, Vincent, continua a sgobbare. È così che si
producono i grandi quadri.
E se ne andò.
Vincent aveva scritto allo zio Cor, informandolo che s’era stabilito
all’Aia e invitandolo a venirlo a trovare. Lo zio Cor si recava spesso all’Aia
per fare acquisti di quadri per il suo negozio d’arte, ch’era il più importante
di Amsterdam. Una domenica pomeriggio Vincent offriva una festicciola ad
alcuni bambini con cui aveva stretto conoscenza. Per trattenerli e divertirli
mentre li ritraeva, aveva comprato un pacco di dolciumi e ora, chino sulla
tavola da disegno, raccontava loro una favola dopo l’altra. Ad un tratto sentì
bussare alla porta e udì una voce profonda, rimbombante: quella dello zio.
Cornelius Marinus Van Gogh era un uomo che aveva conseguito la
notorietà, il successo e la ricchezza: eppure i suoi occhi grandi e scuri
esprimevano una profonda malinconia. La bocca era un po’ meno ampia
che negli altri Van Gogh. Era il più anziano della famiglia: fronte ampia e
squadrata, mascelle forti ed egualmente squadrate, mento fortemente
pronunciato e tondeggiante, naso possente.
Senz’averne l’aria, colse in un’occhiata indagatrice tutti i particolari
dello studio. In tutta Olanda non c’era probabilmente un altro individuo che
avesse visto tanti studi di pittore.
Vincent distribuì ai bambini i dolciumi rimasti e li rimandò a casa.
— Una tazza di tè, zio Cor? Fuori deve fare un freddo tremendo.
— Grazie, Vincent.
Servitogli il tè, Vincent si stupì nel vedere come lo zio sapeva tenere in
equilibrio la tazza sul ginocchio senza minimamente preoccuparsene,
chiacchierando intanto di questo e di quello.
— Dunque, Vincent, hai scelto la carriera del pittore. Era tempo che
nella famiglia Van Gogh ce ne fosse uno. Da trent’anni Hein, Vincent e io
compriamo quadri da estranei. Ora potremo finalmente tenere un po’ di
quel denaro in famiglia!
Vincent sorrise. — Non potrei avere un inizio più favorevole, con tre zii
ed un fratello che esercitano il commercio di quadri. Un po’ di pane e
formaggio, zio Cor? Avrai forse appetito.
Cornelius Marinus sapeva che ad un artista povero non si può far
peggiore offesa che rifiutare di mangiare un boccone in casa sua.
— Sì, grazie. Ho fatto colazione presto.
Vincent dispose parecchie fette di pane scuro e raffermo su un piatto
screpolato e trasse da un involto di carta un pezzo di formaggio a buon
mercato. Cornelius Marinus dovette fare uno sforzo per mangiare un poco.
— Mi dice Tersteeg che Theo ti manda cento franchi al mese.
— Sì.
— Theo è giovane e quel denaro potrebbe servire a lui. Dovresti saperti
guadagnare il pane.
A Vincent bruciavano ancora le parole dettegli soltanto il giorno prima
da Tersteeg sullo stesso argomento. La sua replica fu pronta e impulsiva.
— Guadagnare il pane, zio Cor? In che senso? Guadagnarmi il pane… o
meritarmelo? Non meritarsi il pane, ossia esserne indegno, è indubbiamente
una grave colpa, perché ogni uomo onesto si merita il pane che mangia. Ma
non poterselo guadagnare, pur essendone degno, è purtroppo una disgrazia,
una grande disgrazia. — Prese a giocherellare con un pezzo di mollica,
facendone una pallottolina nera e dura. — Se tu quindi, zio Cor, mi dici:
«Non meriti il pane che mangi», mi fai un insulto. Se invece vuoi dire che
non sempre me lo guadagno, hai pienamente ragione. Ma perché gettarmi in
faccia questa verità? A che serve? Non certamente a migliorare la mia
situazione e a facilitarmi la strada, se ti limiti a farmi questo appunto.
Cornelius Marinus non parlò più di guadagnarsi il pane. La
conversazione filò liscia fino a quando Vincent menzionò casualmente,
parlando di capacità espressiva, il nome di De Groux.
— Ma non sai, Vincent, che nella vita privata De Groux non gode di
buona reputazione?
Vincent non seppe star a sentire che cosa si diceva del bravo De Groux.
Sapeva che avrebbe fatto molto meglio a dar ragione allo zio, ma sembrava
davvero che gli riuscisse impossibile dar ragione a quelli della sua
parentela.
— Mi è sempre parso, zio Cor, che quando un artista presenta la propria
opera al pubblico abbia il diritto di tenere per sé gli intimi conflitti della sua
vita privata, che sono direttamente e fatalmente connessi con le difficoltà e
il tormento della fatica creativa.
— Ma il semplice fatto che un individuo lavori di pennello anziché fare
il contadino o il commerciante non gli conferisce il diritto di condurre una
vita licenziosa — ribatté lo zio Cor, sorseggiando il tè per il quale Vincent
non gli aveva offerto lo zucchero. — Io son d’avviso che non dovremmo
comprar quadri d’artisti che tengono una condotta sconveniente.
— Secondo me è più sconveniente ancora la condotta del critico che si
permette d’andare a frugare nella vita privata di un individuo la cui opera è
irreprensibile. Tra la vita privata di un artista e l’opera sua c’è lo stesso
rapporto che tra una donna in istato di gravidanza e il bambino che dà alla
luce. Avete il diritto di guardare il bambino, non di alzarle la camicia per
vedere se sia macchiata di sangue. Questo sì che sarebbe sconveniente.
Cornelius Marinus si era appena cacciato in bocca un pezzetto di pane e
formaggio, ma lo risputò immediatamente nel cavo della mano, s’alzò e
andò a gettarlo nella stufa.
— Bene, bene! — commentò. — Bene, bene, bene, bene!
Vincent temette che lo zio andasse in collera, ma per fortuna la
situazione si schiarì. Egli prese una cartella in cui teneva disegni e studi di
piccole proporzioni. Fece sedere lo zio in posizione esposta alla luce.
Cornelius Marinus dapprima non espresse nessun giudizio; ma quando
giunse ad un piccolo schizzo del Paddemoes visto dal mercato del carbone,
eseguito da Vincent una sera a mezzanotte mentre gironzolava in quei
paraggi con Breitner, s’arrestò.
— Buono, questo. Potresti farmi altri quadretti dello stesso genere?
— Sì. Li faccio talvolta tanto per cambiare, quando sono stanco di
lavorare con un modello. Ne ho altri ancora. Vuoi vederli?
Si chinò sulla spalla dello zio, cercando tra i fogli disuguali.
— Ecco il Vleersteeg… Ecco il Geest… Questo è il mercato del pesce.
— Me ne prepareresti una dozzina?
— Certo. Ma qui si tratta d’affari e dobbiamo quindi fissare un prezzo.
— Benissimo. Quanto vuoi?
— Ho fissato il prezzo di ogni quadretto di queste dimensioni, sia a
matita che a penna, in due franchi e mezzo. Lo trovi eccessivo?
Cornelius Marinus sorrise dentro di sé. La cifra era così modesta!
— No. Anzi, se riescono bene, ti pregherò di farmi anche dodici vedute
di Amsterdam. Il prezzo, poi, lo stabilirò io in modo da farti guadagnare un
poco di più.
— Zio Cor, questa è la prima ordinazione che ricevo! Non so dirti la
mia felicità.
— Siamo tutti disposti ad aiutarti, Vincent. Cerca soltanto di migliorare
sempre più il tuo lavoro, e noialtri ti compreremo tutto. — Prese il cappello
e i guanti. — Quando scriverai a Theo, mandagli i miei saluti.
Inebriato dal successo, Vincent afferrò quell’acquarello e corse da
Mauve. Venne Jet ad aprirgli, con aria preoccupata.
— Non ti consiglio di metter piede nello studio, Vincent. Anton è in uno
stato!
— Che cos’ha? È malato?
Jet sospirò. — Siamo alle solite.
— Allora immagino che preferisca non vedermi.
— Un’altra volta, Vincent. Gli dirò che sei stato qui. Appena calmatosi
un pochino, sarà lui a venire da te.
— Non ti dimenticherai di dirglielo?
— Non mi dimenticherò.
Vincent aspettò parecchi giorni, ma Mauve non si faceva vedere. Venne
invece Tersteeg, non una volta sola, ma due. Ed ogni volta il suo verdetto fu
identico.
— Già, già, un po’ di progresso c’è, forse. Ma non ci siamo ancora. Non
riuscirei a venderli, questi acquerelli. Temo che tu non lavori con sufficiente
impegno, che proceda troppo a rilento.
— Mio caro Mijnheer, mi alzo alle cinque del mattino e ci do dentro
fino alle undici di sera, spesso fino a mezzanotte. Mi fermo soltanto per
mandar giù un boccone.
Tersteeg scosse la testa, perplesso. Tornò a guardare gli acquerelli.
— Non capisco. I tuoi lavori presentano ancor sempre quel carattere di
durezza e di crudezza che vi ho riscontrato la prima volta che sei venuto da
me. Dovresti ormai aver superato questa fase d’immaturità. Un individuo
che abbia un po’ di attitudine riesce sempre a superarla, se lavora sul serio.
— Lavorare sul serio! — ripeté tristemente Vincent.
— Dio sa se vorrei comprare qualcosa da te. Non vedo il momento che
tu cominci a guadagnarti la vita. Non trovo giusto che Theo debba… Ma
non posso comprar niente fino a quando il tuo lavoro non abbia un reale
valore, ti pare? Tu non vuoi mica che ti si faccia la carità…
— No.
— Devi affrettarti, ecco, affrettarti. Hai bisogno di cominciare a vendere
e a guadagnarti la vita.
Quando Tersteeg ripeté per la quarta volta questo ritornello, Vincent si
domandò se volesse prenderlo in giro. «Devi guadagnarti la vita… ma io
non compro nulla da te!». Come, come poteva mai guadagnarsi la vita se
nessuno comprava da lui?
Un giorno incontrò Mauve per istrada. Mauve camminava furiosamente
a testa bassa, senza meta, spingendo avanti la spalla destra. Stentò a
riconoscere il cugino.
— Non ti vedo da tanto tempo, cugino Mauve.
— Ero occupato — rispose Mauve con voce fredda, indifferente.
— Lo so. Il tuo nuovo quadro. Come va il lavoro?
— Oh… — E abbozzò un gesto vago.
— Posso venire un giorno o l’altro nel tuo studio, per un momento solo?
Temo di non far progressi con i miei acquerelli.
— Adesso no! Sono occupato, ti ripeto. Non ho tempo da perdere.
— Non potresti passare una volta o l’altra da me quando esci di casa?
Mi basterebbe sentire qualche parola da te.
— Chissà, chissà, ma adesso ho da fare. Devo andare.
E tirò avanti con passo impetuoso e movimenti nervosi. Vincent lo seguì
con lo sguardo, sconcertato.
Che cos’era mai accaduto? L’aveva forse offeso? Se l’era in qualche
modo inimicato?
Provò un enorme stupore, alcuni giorni dopo, vedendo entrare nel suo
studio Weissenbruch. Weissenbruch non si prendeva mai il disturbo di
occuparsi di giovani artisti, e nemmeno di quelli già affermati, se non per
stroncarne di tanto in tanto qualcuno.
— Magnifico, magnifico! — fece, guardandosi intorno. — Questo è un
vero palazzo. Non andrà molto che farete i ritratti del re e della regina.
— Se non vi piace — grugnì Vincent — potete andarvene.
— Perché non mandate al diavolo la pittura, Van Gogh? È una vita da
cani.
— Che però, a quanto sembra, non v’impedisce di prosperare.
— Ma io ho raggiunto il successo. Voi non lo raggiungerete mai.
— Può darsi. Ma farò quadri infinitamente più belli dei vostri.
Weissenbruch rise. — Questo no, ma vi ci avvicinerete probabilmente
più di qualsiasi altro qui all’Aia. Se la vostra pittura rassomiglia alla vostra
personalità…
— Perché non me l’avete detto subito? — domandò Vincent, prendendo
la cartella degli acquerelli. — Sedete, prego.
— Da seduto non posso veder bene.
Guardati gli acquerelli, li scartò con un gesto della mano.
— Non è questo il mezzo d’espressione che fa per voi. Gli acquerelli
sono troppo insipidi, per le cose che avete da dire.
E concentrò la propria attenzione sui disegni a carboncino in cui erano
ritratti minatori del Borinage, contadini del Brabante, vecchi della città. E
man mano che passava da un foglio all’altro, ridacchiava allegramente tra
sé. Vincent si preparò a ricevere una gragnuola di scherni.
— Sapete che disegnate maledettamente bene, Vincent? — disse
Weissenbruch, con occhi scintillanti. — Sono disegni da cui potrei imparare
anch’io!
Fu un colpo così inaspettato, che Vincent si sentì piegar le ginocchia e
cadde di schianto sulla sedia.
— Avevo sentito dire che vi chiamano la «Spada spietata».
— Infatti. Se i vostri studi non valessero niente, ve lo direi chiaro e
tondo.
— Tersteeg me li ha criticati aspramente. Dice che sono troppo rozzi e
crudi.
— Stupidaggini! Appunto lì è la loro forza.
— Io vorrei continuare a far disegni a penna, ma Tersteeg ritiene che io
debba dipingere acquerelli.
— Per poterli vendere, vero? No, ragazzo mio. Se vedete le cose in
forma di disegni a penna e a carboncino, dovete disegnarle a penna e a
carboncino. E soprattutto, non dar retta a nessuno. Nemmeno a me. Andate
avanti, per la vostra strada.
— Credo che farò così.
— Quando Mauve ha detto che siete un pittore nato, Tersteeg l’ha
negato e allora Mauve ha preso le vostre parti. C’ero anch’io. Se questa
disputa dovesse ripetersi, vi sosterrò anch’io, ora che ho visto come
lavorate.
— Mauve ha detto che sono un pittore nato?
— Sì, ma non montatevi la testa. Accontentatevi di morir tale: ossia di
diventar vero pittore prima di andarvene da questo mondo. Sarà già una
bella fortuna.
— E allora, perché è stato così freddo con me?
— Lui tratta tutti allo stesso modo, quando sta per terminare un quadro.
Non vi preoccupate; finita quella tela tornerà a mostrarsi cordiale. Intanto
potete venire da me, se v’occorre qualcosa.
— Posso farvi una domanda, Weissenbruch?
— Certo.
— È stato Mauve a mandarvi qui?.
— Sì.
— E perché?
— Voleva sentire la mia opinione sulla vostra pittura.
— Ma per quale ragione? Se veramente ritiene che io sia un pittore
nato…
— Non so. Forse Tersteeg gli ha insinuato qualche dubbio sulle vostre
attitudini.

6.

Se Tersteeg andava perdendo la fiducia in lui e Mauve lo trattava


sempre più freddamente, Cristina veniva prendendo il loro posto e portava
nella sua vita quella compagnia semplice e riposante di cui egli sentiva
tanto desiderio. Arrivava ogni mattina di buon’ora, col cestino da lavoro per
tenersi occupata e aiutarsi a passare il tempo. Aveva una voce grossolana e
si serviva di parole scelte con gusto poco felice, ma parlava piano e Vincent
riusciva facilmente a non darle ascolto quando aveva bisogno di
concentrarsi. Ella s’accontentava abitualmente di starsene seduta
tranquillamente vicino alla stufa, guardando dalla finestra o cucendo e
lavorando di maglia per la creatura che doveva nascere. Come modella non
valeva molto: mancava la pratica ed era lenta ad imparare, ma aveva tanta
buona volontà. Prese ben presto l’abitudine di preparargli il desinare prima
d’andare a casa.
— Non dovevi prenderti questo disturbo, Sien.
— Niente disturbo. È più affar mio che tuo.
— Allora ti fermi qui con me, naturalmente.
— Certo. Ai marmocchi bada mia madre. Mi piace star qui.
Vincent le dava un franco al giorno. Sapeva ch’era una spesa superiore
alle sue possibilità, ma gli piaceva star con lei; il pensiero di liberarla dalle
fatiche massacranti della lavanderia lo riempiva di soddisfazione. A volte,
quando nel pomeriggio doveva uscire, la tratteneva fino a tarda ora della
sera; e allora ella non si prendeva nemmeno più la pena di tornare a casa
sua. Che senso di gioia provava Vincent nel destarsi all’odore del caffè
appena fatto e nel vedere affaccendarsi intorno alla stufa quella donna che
gli voleva bene! Era la sua prima esperienza di ménage: trovava ch’era una
cosa veramente comoda e piacevole.
Talvolta Cristina restava con lui la sera senza nessun motivo.
— Stanotte vorrei dormire qui, Vincent. Mi permetti?
— Ma certo, Sien. Fermati tutte le volte che vuoi.
Sebbene non le chiedesse mai nulla, ella prese l’abitudine di lavargli la
biancheria, di rammendare, di andare a far la spesa.
— Voialtri uomini non sapete cavarvela. Avete bisogno d’una donna.
Sono sicura che al mercato t’imbrogliano.
Non era affatto una buona donna di casa; gli anni d’indolenza e di ozio
trascorsi nell’abitazione della madre avevano distrutto in lei ogni istinto
d’ordine e di pulizia. S’occupava sporadicamente della stanza, in
improvvisi accessi d’energia e di decisione. Era la prima volta che le
capitava di far da donna di casa nell’abitazione d’un amante, e provava
gusto a questi lavori… quando se ne ricordava. Vincent era già più che
contento nel vederla disposta a far qualcosa; quindi non si sognava
nemmeno di muoverle rimproveri od osservazioni. Ora che non era più
sfinita a furia di lavorare giorno e notte, la sua voce andava perdendo un po’
di quella ruvida e roca asprezza, il suo vocabolario si liberava dalle parole
grossolane. Non avvezza però a dominare i propri impulsi, quando qualcosa
la contrariava, dava in scoppi di collera, inveendo con voce nuovamente
villana e scagliando parole oscene che Vincent non aveva più udito dal
tempo in cui era ragazzino e andava a scuola.
In questi momenti Cristina gli sembrava la caricatura di se stessa: e se
ne stava zitto zitto, aspettando che la tempesta cessasse. Cristina si
mostrava ugualmente tollerante. Quando un disegno non gli veniva bene,
quando ella dimenticava gli insegnamenti ricevuti e posava male, Vincent
scoppiava in escandescenze da far tremare i muri. Lei lasciava che si
sfogasse; pochi minuti dopo tornava la bonaccia. Per fortuna non
s’arrabbiavano mai simultaneamente.
Dopo aver disegnato tante volte la figura di Sien da familiarizzarsi
perfettamente con le linee del suo corpo, Vincent decise di fare un vero
quadro. Fu una frase di Michelet a dargliene l’ispirazione: «Comment se
fait-il qu’il y ait sur la terre une femme seule désespérée?». Fece posare
Cristina nuda, su un basso blocco di legno vicino alla stufa. Trasformò
questo blocco in un ceppo d’albero e aggiunse un po’ di vegetazione,
trasportando la scena all’aperto. Poi ritrasse Sien con le mani nodose sulle
ginocchia, la faccia affondata tra le braccia scheletriche, i seni spenzolanti
fino a toccar le gambe, i piedi larghi che mal si reggevano sul terreno. E a
questo disegno diede nome Dolore. Era la figura di una donna da cui è stata
spremuta ogni linfa di vita. Sotto vi scrisse la frase di Michelet.
Questo studio gli portò via una settimana e diede fondo a tutta la sua
riserva di denaro; mancavano ancora dieci giorni per arrivare al primo di
marzo. C’era in casa ormai soltanto un po’ di pane nero: tanto da poter
resistere alla peggio per due o tre giorni. Bisognava congedare la modella,
per poter resistere un po’ di più.
— Sien, purtroppo devo lasciarti in libertà fin dopo il primo del mese.
— Perché?
— Non ho più quattrini.
— Per pagarmi, vuoi dire?
— Appunto.
— Tanto non ho nient’altro da fare. Verrò lo stesso.
— Ma tu hai bisogno di soldi, Sien.
— Posso procurarmene.
— Stando qui tutto il giorno, non puoi più andare alla lavanderia.
— Ebbene… non preoccuparti. Ne troverò.
Vincent le permise di venire per altri tre giorni, finché non ci fu più
pane. Mancava ancora una settimana al primo del mese. Disse a Sien che
sarebbe andato a trovare suo zio ad Amsterdam e che al ritorno sarebbe
passato da lei. Per tre giorni rimase rinchiuso nello studio, facendo qualche
esercizio di copia e vivendo d’acqua, senza che gli spasimi della fame lo
facessero soffrir troppo. Il terzo giorno, nel pomeriggio, andò a trovare De
Bock sperando che gli si offrisse una tazza di tè e qualche pasta.
— Salve, vecchio filibustiere! — lo salutò De Bock, ritto davanti al
cavalletto. — Accomodati. Io lavorerò fino all’ora di pranzo. Sul tavolo ci
sono delle riviste. Prendi, leggi.
Ma del tè non si parlò nemmeno.
Vincent sapeva che Mauve non voleva vederlo, e si vergognava di
chiedere aiuto a Jet. Rivolgersi a Tersteeg, dopo che costui aveva parlato
male di lui con Mauve? Piuttosto si sarebbe lasciato morir di fame. Pur
trovandosi nella situazione più disperata, non gli passava nemmeno per la
testa l’idea di guadagnarsi qualche franco con un qualsiasi lavoro
d’occasione, diverso dalla sua normale attività. Lo riassalì la vecchia
nemica, la febbre; le ginocchia non lo reggevano più; dovette mettersi a
letto. Pur sapendo ch’era un’assurdità, continuò a sperare in un miracolo:
che i cento franchi di Theo dovessero arrivargli con qualche giorno
d’anticipo. Theo riscoteva lo stipendio soltanto il primo giorno del mese.
Nel pomeriggio del quinto giorno giunse Cristina. Entrò senza bussare.
Vincent era addormentato. Ella si chinò su di lui, osservando i solchi
profondi del viso, il pallore della pelle sotto la barba rossiccia, le labbra
increspate e risecchite. Gli posò delicatamente la mano sulla fronte, e la
sentì bruciare. Andò a guardare nella scansia dove teneva abitualmente le
provviste. Nemmeno una briciola di pane nero, nemmeno un grano di caffè.
Uscì.
Circa un’ora dopo, mentre stava sognando la cucina della mamma ad
Etten e le pietanze ch’ella gli preparava, si svegliò e vide Cristina
affaccendata intorno alla stufa.
— Sien…
Ella gli s’avvicinò e gli sfiorò la guancia con la sua mano fresca: aveva
la faccia in fiamme.
— Un’altra volta non far più l’orgoglioso. E non dir più bugie. Se siamo
spiantati, non è colpa nostra. Dobbiamo aiutarci l’un l’altro. Tu non mi hai
forse aiutato quella sera che c’incontrammo per la prima volta alla bettola?
— Sien…
— Stattene lì quieto. Io sono andata a casa, a prendere un po’ di patate e
piselli. Ora è bell’e pronto.
Schiacciò le patate nel piatto, vi aggiunse qualche cucchiaiata di piselli,
si sedette sulla sponda del letto e gli diede da mangiare.
— Perché mi pagavi tutti i giorni, se non avevi quasi più quattrini? Non
c’è senso, se poi devi patir la fame.
Egli avrebbe saputo resistere fino all’arrivo dell’assegno di Theo, anche
se si fosse trattato di settimane. Ma di fronte a un gesto di gentilezza la sua
forza di resistenza s’infrangeva. Decise di recarsi da Tersteeg. Cristina gli
lavò la camicia, ma mancava il ferro per stirarla. La mattina dopo gli servì
una piccola colazione a base di pane e caffè. Egli s’avviò verso la galleria
Goupil. Stivali infangati e scalcagnati, pantaloni sudici, pieni di macchie.
Una giacca di Theo, troppo piccola per lui. Una vecchia cravatta di
sghembo. In testa uno di quegli stravaganti berretti che lui solo aveva la
genialità d’andare a pescare chissà dove.
Camminò lungo i binari della ferrovia di Ryn, sfiorò il margine dei
boschi, passò accanto alla stazione da cui un treno partiva sbuffando per
Scheveningen, si diresse verso la città. Un pallido sole gli faceva
maggiormente sentire la propria anemia. Giunto al Plein, scorse la propria
immagine nella vetrina d’un negozio. In un raro intervallo di lucidità vide
se stesso come lo vedevano gli altri: un sudicio vagabondo malandato, uno
spostato, un uomo senza un amico, debole, ammalato, rozzo e stravagante,
déclassé.
Il Plaats s’apriva in un ampio triangolo, congiungendosi all’Hofvijver
lungo il fianco del castello. Quartiere dei negozi più ricchi ed eleganti.
Vincent non trovava il coraggio di avventurarsi in quella zona sacra. Si
rendeva conto per la prima volta dell’invalicabile abisso che aveva
frapposto tra sé e il Plaats.
I commessi della galleria Goupil stavano spolverando. Lo fissarono con
sfacciata curiosità. I parenti di costui controllavano il mercato artistico
europeo. Perché andava in giro in questo stato?
Tersteeg era seduto alla scrivania, nel suo studio al piano superiore.
Stava aprendo la corrispondenza con un tagliacarte dal manico di giada.
Osservò le piccole orecchie rotonde di Vincent situate sotto la linea delle
sopracciglia, l’ovale del volto che scendeva rimpicciolendo fino alle
mascelle e terminava nella risentita e squadrata sporgenza del mento, la
testa con una ciocca di capelli spioventi sull’occhio sinistro, gli occhi
verdazzurri che lo guardavano con espressione così scrutatrice e così
apatica al tempo stesso, la forte bocca rossa, resa ora più rossa dalla barba e
dai baffi che la circondavano. Non avrebbe saputo dire se quella faccia gli
sembrasse bella o orribilmente brutta.
— Sei il primo cliente che arriva stamattina, Vincent. Che cosa posso
fare per te?
Vincent gli espose la propria situazione.
— E dell’assegno mensile, che ne hai fatto?
— L’ho speso.
— Se non sai regolarti, non puoi certo aspettarti che io t’aiuti. Il mese
ha trenta giorni: tu non dovresti spendere più di un tanto al giorno.
— I soldi non li ho buttati via. Ne ho speso la massima parte per
procurarmi dei modelli.
— Non dovevi. Puoi farne benissimo a meno.
— Lavorare senza modelli è una rovina, per un ritrattista.
— Non dipingere figure. Fai mucche e pecore. Non hai bisogno di
pagarle.
— Non posso disegnare mucche e pecore, Mijnheer, se non le sento.
— Comunque, non dovresti fare ritratti di persone, che poi non riesci a
vendere. Acquerelli, e nient’altro.
— L’acquerello non è il mio campo.
— Io penso che tu trovi nel disegno una specie di narcotico per
soffocare il disappunto di non saper dipingere ad acquerello.
Subentrò un intervallo di silenzio. A quest’osservazione Vincent non
trovò risposta.
— De Bock non si serve affatto di modelli, benché sia ricco. Eppure
vorrai convenire con me che dipinge quadri veramente splendidi; le sue
quotazioni sono in continuo aumento. M’aspettavo che tu sapessi infondere
nei tuoi lavori un po’ del suo fascino. Ma, chissà perché, questo non
avviene mai. Sono realmente deluso, Vincent; i tuoi saggi restano sempre
rozzi e dilettantistici. Di una cosa sono ben sicuro: tu non sei un artista.
La fame patita da Vincent nel corso di quei cinque giorni gli tagliò
improvvisamente le gambe. Si lasciò cadere su un seggiolone di stile
italiano, superbamente intagliato. La voce gli si era persa dentro, chissà
dove, non riusciva a ritrovarla.
— Perché mi dite questo, Mijnheer? — poté infine domandare.
Tersteeg cavò di tasca un fazzoletto immacolato, si strofinò, il naso, gli
angoli della bocca, il mento barbuto.
— Perché è un dovere che ho verso di te e verso la tua famiglia.
Bisogna che tu sappia la verità. Sei ancora in tempo per salvarti, Vincent, a
condizione di tornare immediatamente sui tuoi passi. Non sei tagliato per
fare il pittore; devi cercare altrove il tuo posto nella vita. Non ho mai
sbagliato nel valutare le attitudini d’un pittore.
— Lo so.
— Per me, una difficoltà essenziale sta nel fatto che hai cominciato
troppo tardi. Se ti ci fossi messo fin da ragazzo, a quest’ora avresti
raggiunto un certo grado di maestria. Ma hai trent’anni, Vincent, e dovresti
ormai esserti affermato. Alla tua età, io m’ero già fatto una posizione. Come
puoi sperare nel successo, se ti mancano le attitudini? Peggio ancora, come
puoi giustificare ai tuoi occhi il fatto d’accettare la carità di Theo?
— Mauve m’ha detto un giorno: «Vincent, nel campo del disegno sei un
autentico artista».
— Mauve è tuo cugino, voleva mostrarsi buono con te. Io ti sono amico
e, credimi, la mia bontà è di lega migliore. Torna sui tuoi passi, prima di
doverti accorgere che tutta la vita t’è ormai sfuggita dalle mani. Un giorno,
quando avrai trovato la tua vera strada e ti sarai fatto una buona posizione,
verrai a ringraziarmi.
— Mijnheer Tersteeg, da cinque giorni non ho un centesimo in tasca per
comprarmi un pezzo di pane. Ma non vi chiederei niente, se si trattasse
soltanto di me. Ho una modella, una povera donna malata. Non ho potuto
corrisponderle il denaro che le devo. E lei ne ha assolutamente bisogno. Vi
prego di prestarmi dieci fiorini, fino a quando m’arrivi l’assegno da Theo.
Ve li restituirò.
Tersteeg andò alla finestra a guardare i cigni nel laghetto: tutto ciò che
restava degli antichi giochi d’acqua del castello. E si domandò perché
Vincent fosse venuto a piantar le tende proprio all’Aia, mentre i suoi zii
possedevano negozi d’arte ad Amsterdam, a Rotterdam, a Bruxelles e a
Parigi.
— Tu sei convinto che ti farei un favore prestandoti dieci fiorini —
disse senza voltarsi, con le mani intrecciate dietro la giacca alla «Principe
Alberto». — Ma io non sono sicuro di non farti un favore più grande
rifiutandoteli.
Vincent sapeva molto bene come Sien avesse guadagnato i soldi per
comprare quelle patate e quei piselli. Non poteva continuare a farsi
mantenere da lei.
— Mijnheer Tersteeg, vi do perfettamente ragione. Non sono un artista,
non ho attitudini. Fareste molto male a incoraggiarmi in questo errore
aiutandomi finanziariamente. Devo cominciare immediatamente a
guadagnarmi la vita e industriarmi di trovare il mio posto nel mondo. Ma in
nome della nostra vecchia amicizia vi chiedo di prestarmi dieci fiorini.
Tersteeg tirò fuori il portafogli, cercò un biglietto da dieci fiorini e
glielo porse senza una parola.
— Grazie — disse Vincent. — Siete molto gentile.
Tornando verso casa lungo quelle vie linde, fiancheggiate da graziose
casette in mattoni che gli parlavano eloquentemente di sicurezza, di agi e di
pace, pensò: «L’amicizia non può sempre filar liscia, qualche volta è
inevitabile che ci si azzuffi. Ma per sei mesi non tornerò più da Tersteeg,
non gli parlerò più, non gli farò più vedere i miei lavori».
Fece una capatina da De Bock per vedere che cosa fosse questa
faccenda così facilmente smerciabile, questo «fascino» che De Bock
possedeva e lui no.
De Bock era seduto con i piedi su una poltrona, sprofondato nella lettura
d’un romanzo inglese.
— Ciao! Mi trovi in un momento di completa ottusità mentale. Non
riesco a tracciare una linea. Prenditi una sedia e tienimi allegro. È troppo
presto per offrirti un sigaro? Hai qualche buona storiella fresca fresca?
— De Bock, fammi nuovamente vedere qualcuno dei tuoi quadri. Ti
dispiace? Voglio rendermi conto del perché i tuoi lavori si vendono e i miei
no.
— Talento, vecchio mio, talento! — disse De Bock, alzandosi
pigramente. — È un dono. O l’hai o non l’hai. Non saprei dirti nemmeno io
in che cosa consista e come mi sian venuti fuori questi quadri.
Gli portò una mezza dozzina di tele ancora fissate ai telai e si mise a
commentarle con tono frivolo e leggero, mentre Vincent scandagliava con
occhi brucianti quei dipinti lievi, senza profondità di sentimento.
«I miei lavori sono migliori — pensava. — Più veri, più profondi. Dico
più io con una matita da falegname che non lui con tutta una scatola di
colori. Ciò ch’egli esprime, è ovvio e superficiale. Alla fin fine non ha detto
niente. Perché, mentre a lui prodigano lodi e fior di quattrini, a me non
danno nemmeno di che comprarmi un po’ di pane nero e di caffè?».
Uscendo da quell’appartamento, si disse: «Che atmosfera deprimente in
quelle stanze! La personalità di De Bock ha qualcosa di blasé e di insincero
che mi opprime. Millet aveva ragione: J’aimerais mieux ne rien dire que de
m’exprimer faiblement. De Bock si tenga pure il suo fascino e i suoi soldi.
Io mi terrò il mio duro senso della vita, della realtà. Non è certamente una
strada che possa condurre alla rovina».
Trovò Cristina intenta a lavare con uno straccio umido il pavimento
dello studio, con i capelli raccolti in un fazzoletto nero e la faccia smagrita
scintillante di gocce di sudore.
— Hai trovato il denaro? — gli domandò alzando la testa.
— Sì. Dieci franchi.
— Vedi com’è bello aver degli amici ricchi?
— Sicuro. Eccoti i sei franchi che ti devo.
Sien s’alzò, asciugandosi la faccia col grembiule nero.
— Adesso no. Me li darai quando avrai ricevuto l’assegno da tuo
fratello. Con quattro franchi faresti ben poco.
— Me la caverò benissimo. Sien. Tu hai bisogno di questi soldi.
— Ne hai bisogno anche tu. Ora ti dico come facciamo. Io starò qui con
te fino a quando t’arriverà la lettera di tuo fratello. Mangeremo con quei
dieci franchi come se fossero di tutti e due. Io saprò farli durare più di te.
— E per le pose? Non potrei più darti niente.
— Mi darai vitto e alloggio. Non è abbastanza? Io sono contentissima di
starmene qui al caldo, senza dover andare a lavorare col pericolo di
ammalarmi.
Vincent la strinse tra le braccia, le carezzò gli ispidi e radi capelli neri,
ravviandoglieli su dalla fronte.
— Sien, a volte fai quasi un miracolo. Quasi mi fai credere che c’è
realmente un Dio!

7.
Circa una settimana dopo, si recò da Mauve. Suo cugino lo ricevette
nello studio, ma s’affrettò a gettare un pezzo di stoffa sul quadro di
Scheveningen senza lasciargli il tempo di vederlo.
— Che cosa vuoi? — gli domandò, come se non lo sapesse.
— Ho qui con me alcuni acquerelli. Ho pensato che tu potessi dedicarmi
qualche minuto.
Mauve stava lavando con gesti nervosi un mazzo di pennelli. Da tre
giorni non metteva piede nella stanza da letto. I brevi sonni sul divano dello
studio non gli avevano dato nessun ristoro.
— Non sempre posso essere in vena per insegnarti, Vincent. Certe volte
sono troppo stanco, e allora bisogna proprio che tu abbia pazienza e aspetti
un momento più adatto.
— Scusami, cugino Mauve — disse Vincent, avviandosi verso la porta.
— Non volevo disturbarti. Posso venire domani sera?
Mauve, che aveva nuovamente scoperto il quadro, non udì nemmeno
che cosa dicesse.
Tornando la sera dopo, Vincent trovò nello studio del cugino anche
Weissenbruch. Mauve, in preda ad un isterico esaurimento, approfittò
dell’apparizione di Vincent per divertire se stesso e l’amico.
— Guarda, Weissenbruch, che razza di faccia ha!
E improvvisò una delle sue abili imitazioni, raggrinzendo il viso e
protendendo duramente il mento alla maniera del cugino. Una caricatura
perfetta. Mosse verso l’amico, lo sbirciò attraverso le palpebre socchiuse a
spiraglio.
— Ora ti faccio sentire come parla.
E buttò fuori un diluvio di parole nervose, smozzicate, con quella voce
aspra con cui s’esprimeva spesso Vincent. Weissenbruch guaiolava e si
torceva dal ridere.
— Magnifico, magnifico! Ecco come vi vedono gli altri, Van Gogh.
Sapevate di essere un così bell’animale? Mauve, sporgi di nuovo il mento e
grattati la barba. È veramente divertentissimo!
Vincent rimase come intontito. Si ritrasse in un angolo. Poi un fiotto di
parole gli sgorgò dalla gola, con una voce che non gli sembrava più la sua.
— Se aveste passato delle notti di pioggia per le vie di Londra o delle notti
all’aperto, d’inverno, nel Borinage, affamati, senza una casa, con la febbre
nelle ossa, avreste anche voi delle brutte rughe sulla faccia e la voce rauca!
Weissenbruch se ne andò poco dopo. Appena fu uscito, Mauve mosse
con passo malcerto verso una sedia, debolissimo per naturale reazione a
quel piccolo sfogo d’allegria. Vincent se ne stava zitto e fermo nel suo
angolo. Mauve s’accorse infine della sua presenza.
— Oh, sei ancora lì?
— Cugino Mauve — disse impetuosamente Vincent, raggrinzendo la
faccia proprio come aveva fatto poc’anzi Mauve — che cos’è successo tra
noi due? Dimmi almeno che cosa ho fatto. Perché mi tratti così?
Mauve s’alzò con sforzo e si passò la mano tra i capelli,
scompigliandoli.
— Non mi va la tua condotta, Vincent. Dovresti ormai guadagnarti la
vita e non andare in giro a disonorare il nome dei Van Gogh chiedendo
denaro a tutti.
Vincent rifletté un momento. — È stato qui Tersteeg?
— No.
— Allora non vuoi insegnarmi?
— No.
— Benissimo. Stringiamoci la mano e lasciamoci senza amarezza né
rancore. Nulla mi impedirà mai di provare per te una sincera gratitudine.
Mauve tacque lungamente.
— Non prendertela, Vincent — disse poi. — Sono stanco, non mi sento
bene. Ti aiuterò quanto posso. Hai portato qualcosa?
— Sì. Ma non è il momento…
— Fammi vedere.
Esaminò quei fogli con occhi arrossati; quindi commentò: — Il disegno
non va. Non va assolutamente. Mi stupisco di non essermene accorto prima.
— Eppure mi hai detto un giorno che nel campo del disegno sono un
autentico artista.
— Confondevo la crudezza con la forza. Se vuoi davvero imparare, devi
ricominciare daccapo. In quell’angolo là vicino alla cassa del carbone, ci
sono alcuni modelli di gesso. Puoi servirtene, se credi.
Vincent mosse in quella direzione, come un sonnambulo. Sedette
davanti ad un bianco piede di gesso. Per un bel po’ di tempo non gli riuscì
di formulare un pensiero né di fare un movimento. Cavò di tasca qualche
foglio di carta da disegno. Non si sentì di tracciare una riga. Guardandosi
intorno, vide Mauve ritto davanti al cavalletto.
— È venuto bene il quadro, cugino Mauve? Mauve si buttò sul divano,
chiudendo gli occhi arrossati.
— Tersteeg mi ha detto oggi che è il più bel quadro ch’io abbia fatto
finora.
— Dunque, è stato proprio Tersteeg! — osservò Vincent, dopo alcuni
istanti.
Mauve non sentì nemmeno: già russava sommessamente.
A poco a poco il dolore si placò. Egli si diede a disegnare quel piede di
gesso. Alcune ore dopo, quando suo cugino si svegliò, Vincent aveva già
eseguito sette studi. Mauve balzò su come un gatto, come se non si fosse
nemmeno addormentato, e si precipitò verso di lui.
— Fai vedere. Fai vedere. — Ma, passati in rassegna i sette fogli, si
mise a tempestare: — No! No! No!
Li lacerò rabbiosamente e ne scagliò i pezzi sul pavimento.
— Sempre la stessa durezza, lo stesso piglio dilettantesco! Possibile che
tu non sappia disegnare questo piede com’è? Non sei proprio capace di
riprodurre fedelmente una linea? Non imparerai mai a copiare con esattezza
almeno una volta in vita tua?
— Parli come un professore dell’accademia, cugino Mauve.
— Se tu avessi frequentato un po’ di più le accademie, adesso sapresti
disegnare. Rifai ancora quel piede. E vedi se ti riesce di fare veramente un
piede!
Uscì in giardino e andò in cucina a mangiare un boccone. Poi tornò a
lavorare al suo quadro, al lume della lampada. Le ore passavano. Vincent
disegnava piedi su piedi. E più ne disegnava, più detestava quell’infame
pezzo di gesso che aveva davanti agli occhi. Quando i primi chiarori
dell’alba cominciarono a penetrare dalla finestra esposta a nord, aveva
eseguito un mucchio di copie. Si alzò, con i crampi alle giunture, invaso da
un senso di disgusto. Anche stavolta, data un’occhiata ai fogli, Mauve li
strizzò rabbiosamente tra le mani.
— Tutto sbagliato! Tu contravvieni alle più elementari regole del
disegno. Su, vai a casa e portati via questo piede. Disegnalo di nuovo e poi
di nuovo e poi di nuovo. E non tornare finché non l’abbia fatto come si
deve!
— Il diavolo mi porti se faccio una cosa simile! — urlò Vincent. E
afferrato quel piede lo scagliò nella cassetta del carbone, mandandolo in
cento pezzi. — Non parlarmi mai più di gessi, perché non ne voglio più
sapere. Prenderò per modelli i gessi quando non vi saranno più da disegnare
mani e piedi di creature vive!
— Come ti pare — replicò gelidamente Mauve.
— Cugino Mauve, io non sono disposto a lasciarmi imporre un sistema
di fredde regole, né da te né da altri. Devo esprimere le cose secondo il mio
temperamento e la mia sensibilità. Devo renderle come le vedo io, non
come le vedete voialtri!
— Ormai non mi interesserò più di te — disse Mauve col tono di un
medico che si rivolga ad un cadavere.
Svegliandosi a mezzogiorno, Vincent vide nello studio Cristina col
figlio più grandicello, Herman: un ragazzino pallido di dieci anni, con un
paio d’occhi verdi, spaventati, e un mento piccolo piccolo. Cristina gli
aveva dato un pezzo di carta e una matita perché stesse buono. Herman non
sapeva ancora leggere né scrivere. S’avvicinò timidamente a Vincent: gli
estranei gli incutevano soggezione. Vincent gli insegnò a tenere la matita e
a disegnare una mucca. Il ragazzino si diverti un mondo, e strinsero
rapidamente amicizia. Cristina mise sulla tavola un po’ di pane e
formaggio, e si sedettero tutti e tre a mangiare. Vincent pensava a Kay e a
Jan, il suo grazioso bambino. La gola gli si chiuse.
— Oggi non mi sento troppo bene — disse Cristina. — Così t’ho
portato Herman: puoi far posare lui.
— Che cos’hai, Sien?
— Non so. Mi sento tutta contorcere dentro.
— Ti succedeva anche nelle altre gravidanze?
— Stavo male, ma non così. Stavolta è peggio.
— Devi andare da un medico.
— È inutile che vada a farmi visitare dal medico dell’ospedale. Non fa
altro che darmi qualche medicina. Le medicine non servono a niente.
— Bisognerebbe che andassi all’ospedale di Leyden.
— Già, lo credo anch’io…
— In treno ci s’impiega poco. Domani mattina ti ci conduco. Vengono
da tutte le parti dell’Olanda per farsi visitare a quell’ospedale.
— Sì, dicono che ci sono medici molto bravi.
Cristina stette a letto tutto il giorno. Vincent fece posare il ragazzino.
Verso sera lo riportò a casa, dalla madre di Cristina. Il mattino dopo, di
buon’ora, presero il treno per Leyden.
— Sfido che vi sentite male — disse il medico, dopo averla visitata
rivolgendole una quantità di domande. — Il bambino non è nella posizione
giusta.
— Non si può far niente, dottore? — domandò Vincent?
— Oh, sì. Possiamo operarla.
— Sarà una cosa seria?
— Nel suo caso, no. Si tratta semplicemente di rettificare la posizione
del bambino col forcipe. Ma ci vuole un po’ di denaro. Non per
l’operazione, ma per le spese d’ospedale. — E rivolgendosi alla donna: —
Avete qualche soldo da parte?
— Nemmeno un franco.
Il medico sospirò tristemente. — Sempre così…
— Quanto costerebbe, dottore? — chiese Vincent.
— Non più di cinquanta franchi.
— E se non la operano?
— Nessuna probabilità di salvarla.
Vincent rifletté un momento. I dodici acquerelli ordinatigli dallo zio Cor
erano quasi finiti; ne avrebbe ricavato trenta franchi. Gli altri venti poteva
prenderli dall’assegno d’aprile del fratello Theo.
— Al pagamento penso io, dottore.
— Bene. Riportatela qui sabato mattina, la opererò io stesso. Ancora
una cosa. Io non so quali siano i vostri rapporti, né m’importa saperlo. Son
cose che non riguardano il medico. Ma dovete sapere che se questa povera
donna ritorna a battere i marciapiedi, se ne andrà all’altro mondo entro sei
mesi.
— Non farà mai più quella vita, dottore. Vi dò la mia parola.
— A meraviglia. Allora ci rivedremo sabato mattina.
Qualche giorno dopo, ecco arrivare Tersteeg.
— Vedo che ti ostini ancora.
— Sì, sto lavorando.
— Ho ricevuto i dieci franchi che mi hai restituito per posta. Avresti
almeno potuto venire a ringraziarmi personalmente.
— Abito così lontano, Mijnheer, e il tempo era brutto.
— La strada non ti è sembrata troppo lunga quando avevi bisogno di
quei soldi, vero?
Vincent non rispose.
— È appunto questa mancanza di educazione, Vincent, che mi
indispone nei tuoi confronti. Ecco perché non ho fiducia in te e non posso
comprare i tuoi lavori.
Vincent si sedette sulla sponda del tavolo, preparandosi a sostenere un
altro scontro.
— Credevo che nei vostri acquisti prescindeste completamente da ogni
questione personale — disse. — Avrei pensato che teneste conto non già
della mia persona, ma della qualità del lavoro. Non è affatto onesto che vi
lasciate influenzare da un sentimento d’antipatia nei vostri giudizi.
— No, certamente. Se tu sapessi far qualcosa di smerciabile, di
attraente, io sarei felicissimo d’acquistarlo.
— Mijnheer Tersteeg, i lavori a cui ci si è dedicati con tremendo
impegno infondendovi sentimento e originalità non sono affatto invendibili
né privi d’attrazione. Per ora è forse meglio che i miei quadri non si
sforzino di piacere a tutti.
Tersteeg sedette senza sbottonarsi il soprabito né sfilarsi i guanti,
tenendo ambedue le mani sul pomo del bastone da passeggio.
— Sai, Vincent, a volte penso addirittura che tu preferisca non vendere
e che ti piaccia assai di più vivere a modo tuo.
— Sarei felicissimo di vendere un mio disegno, ma sono più felice
ancora quando un vero artista come Weissenbruch mi dice, a proposito d’un
disegno che voi definite invendibile: «Ecco una cosa schietta. Autentica
natura. Qualcosa da cui potrei imparare anch’io». Benché il denaro abbia
una grande importanza per me, specialmente in questo momento, ciò che
più mi preme è far qualcosa di serio.
— È un discorso che starebbe bene in bocca ad un riccone come De
Bock, ma non certamente a te.
— L’arte, mio caro Mijnheer, ha ben poco a che vedere col guadagno.
Tersteeg posò il bastone sulle ginocchia e s’appoggiò allo schienale
della sedia. — I tuoi genitori mi hanno scritto pregandomi di far per te tutto
ciò che posso. Molto bene. Se non posso in coscienza comprare i tuoi
disegni, posso almeno darti un piccolo consiglio pratico. Tu ti rovini,
andando in giro così mal vestito. Devi comprarti qualche abito nuovo e
cercare di far bella figura. Dimentichi di essere un Van Gogh. Eppoi,
dovresti industriarti di frequentare la migliore società dell’Aia, e non farti
continuamente vedere con miserabili e individui d’infima qualità. Si
direbbe proprio che tu abbia la tendenza al sordido e al brutto; t’han visto
nei posti più discutibili e nelle più discutibili compagnie. Come speri
d’arrivare al successo, comportandoti così?
Vincent si staccò dal tavolo e andò a piantarsi davanti al visitatore. Se
c’era una possibilità di ricuperarne l’amicizia bisognava tentarla
immediatamente. Cercò di dare alla propria voce un’inflessione gradevole e
persuasiva.
— Mijnheer, è molto generoso da parte vostra questo desiderio di
aiutarmi. Vi risponderò con la massima sincerità. Come posso vestir meglio,
se non ho nemmeno un franco per procurarmi altri abiti e mi manca ogni
possibilità di guadagno? Aggirarsi sui moli, per i vicoli e i mercati, nelle
sale d’aspetto e nelle bettole, non è certo un piacevole passatempo, fuorché
per un artista! Come tale, uno si può sentire indotto a frequentare più
volentieri i posti più sordidi, dove c’è qualcosa di interessante da ritrarre,
che non i ricevimenti dove s’incontrano signore affascinanti. La ricerca di
soggetti e di spunti, la vita tra la gente del popolo, il disegno dal vero e sul
posto costituiscono un duro lavoro, a volte perfino sporco. A me non
interessano le maniere e il modo di vestire d’un commerciante; né possono
interessare chi non si trovi nella necessità di conversare con belle signore e
ricchi signori per vender loro a caro prezzo i suoi quadri e far denaro. Io
sono chiamato a ritrarre tipi di spalatori del Geest, come effettivamente ho
fatto tutto il giorno. Là, la mia brutta faccia e i miei panni luridi si
armonizzano perfettamente con l’ambiente: sono me stesso e lavoro con
gioia. Se vesto bene, i miserabili e i lavoratori che voglio ritrarre provano
nei miei confronti un senso di diffidenza e di paura. Io tendo a rivelare alla
gente cose meritevoli d’osservazione e che nessuno conosce. Se sacrifico
talvolta le convenienze sociali agli interessi del mio lavoro, non sono quindi
giustificato? Mi degrado forse vivendo in mezzo ai tipi che disegno? Mi
degrado entrando nelle abitazioni dei lavoratori e della povera gente, o
accogliendoli nel mio studio? È il mio mestiere che lo richiede. E voi dite
per questo che mi rovino?
— Tu sei tremendamente cocciuto, Vincent, e non dai retta ad uomini
più esperti che potrebbero aiutarti. Non hai fatto che accumulare fallimenti,
e fallirai anche questa volta. Sempre la stessa storia.
— Io ho polso d’artista, Mijnheer Tersteeg, e per quanti consigli mi
diate non cesserò di disegnare! Ditemi: dal giorno in cui mi sono messo per
questa strada, ho mai dubitato, esitato, vacillato? Dovrete saper benissimo
che sono andato avanti e che a poco a poco vado diventando sempre più
forte nella lotta.
— Sarà. Ma lotti per una causa perduta.
S’alzò, s’abbottonò un guanto sul polso e si mise in testa il cilindro.
— Mauve ed io faremo in modo che Theo non ti mandi più nulla. È
l’unico sistema per ridurti alla ragione.
Vincent provò un violento tuffo al cuore. Se lo colpivano attraverso
Theo, era perduto.
— Perdio! Perché mi volete fare una cosa simile? Che cosa vi ho fatto
io, perché mi roviniate? È una cosa onesta ammazzare un uomo per una
divergenza d’idee? Non potete lasciarmi andare per la mia strada? Vi
garantisco che non v’importunerò più. Mio fratello è l’unico essere che mi
rimanga al mondo. Come potete portarmelo via?
— È per il tuo bene, Vincent — rispose Tersteeg; e uscì.
Vincent afferrò il portafogli e corse in città a comprare un piede di
gesso. Venne Jet ad aprirgli, stupita di vederlo.
— Anton non è in casa. Ce l’ha terribilmente con te. Ha detto che non ti
vuole più vedere. Ah, Vincent, mi dispiace tanto una cosa simile!
Vincent le porse il piede di gesso. — Fammi il favore di dar questo ad
Anton e pregalo di scusarmi.
Si volse e stava per scendere i gradini dell’ingresso quando Jet, mossa
da un impulso di simpatia, gli posò una mano sulla spalla.
— Il quadro di Scheveningen è finito. Vuoi venire a vederlo?
Egli ristette in silenzio davanti alla grande tela di Mauve, dove si
vedeva un battello da pesca tirato a riva da cavalli. Sapeva di trovarsi
dinanzi ad un capolavoro. I cavalli erano delle povere bestie vecchie e
sfiancate, maltrattate, dal mantello nero, bianco o baio; stavano lì, pazienti e
sommessi, volonterosi, rassegnati e quieti. Ancora dovevano trascinare la
pesante imbarcazione su per l’ultimo tratto di spiaggia; il lavoro era quasi
finito. Ansavano, erano coperti di sudore, ma non si lamentavano. Da anni e
anni facevano quella vita. Ed erano rassegnati a continuare ancora a vivere
e a lavorare; ma se domani avessero dovuto esser condotti all’ammazzatoio
e scuoiati, ebbene, così sia, erano pronti.
Vincent scoprì in quel quadro una profonda filosofia pratica. E pensò:
«Savoir souffrir sans se plaindre, ça c’est la seule chose pratique, c’est la
grande science, la leçon à apprendre, la solution du problème de la vie».
Partì da quella casa moralmente più forte, sorridendo ironicamente al
pensiero che l’uomo da cui aveva ricevuto il colpo peggiore gli aveva
insegnato nello stesso tempo a sopportarlo con rassegnazione.

8.

L’operazione di Cristina ebbe esito felice, ma bisognava pagarla.


Vincent spedi allo zio Cor i dodici acquarelli e aspettò i trenta franchi che
gli spettavano. Dovette aspettare parecchi giorni; lo zio Cor glieli mandò
con suo comodo. Siccome il medico dell’ospedale di Leyden che aveva
operato Cristina era lo stesso che avrebbe assistito al parto, conveniva
trattarlo bene. Vincent si privò così degli ultimi venti franchi, quando
ancora mancavano diversi giorni al primo del mese. E ricominciò la vecchia
storia. Dapprima caffè e pane nero, poi soltanto più pane nero, poi soltanto
più acqua, infine la febbre, l’esaurimento e il delirio. Cristina mangiava a
casa sua, ma non aveva nulla da portare a Vincent. Quand’egli si vide agli
estremi, scese faticosamente del letto e riuscì a trascinarsi, come attraverso
una nebbia infocata, fin nello studio di Weissenbruch.
Weissenbruch era carico di soldi, ma aveva la fissazione dell’austerità.
Per accedere al suo studio bisognava fare quattro rampe di scale.
Un’enorme vetrata esposta a nord. Nulla che potesse distrarlo: niente libri
né riviste, niente sofà o poltrone, niente disegni o quadri alle pareti,
nemmeno una finestra a cui affacciarsi: nulla all’infuori degli arnesi del
mestiere. Non c’era nemmeno uno sgabello in più, su cui un visitatore
potesse sedersi: e questo serviva a tener lontani i seccatori.
— Ah, siete voi? — grugnì, senza posare il pennello. Lui non andava a
disturbare i colleghi mentre lavoravano, ma con coloro che venivano a
disturbarlo si mostrava press’a poco ospitale come un leone in trappola.
Vincent gli espose il motivo della visita.
— No, no, ragazzo mio! — fece Weissenbruch. — Siete capitato male,
non potevate capitar peggio. Non vi presto nemmeno una moneta da dieci
centesimi.
— Volete forse dirmi che non potete?
— Certo che posso! Credete che io sia un povero diavolo di dilettante
come voi e che non riesca a vendere niente? In questo momento ho più
denaro in banca di quanto potrei spenderne vivendo tre volte.
— E allora, perché non volete prestarmi venticinque franchi? Mi trovo
in una situazione disperata! Non ho nemmeno più una briciola di pane in
casa.
Weissenbruch si stropicciò allegramente le mani. — Bene! Bene! È
proprio ciò che vi occorre! Una cosa magnifica, per voi! Potete ancora
diventare un vero pittore.
Vincent dovette appoggiarsi al muro: non aveva più la forza di reggersi
in piedi. — Che cosa c’è di così meraviglioso nel patir la fame?
— È per voi la miglior cosa del mondo, Van Gogh. Vi farà soffrire.
— Che v’interessa vedermi soffrire?
Weissenbruch sedette sull’unico sgabello, accavallò le gambe e puntò
contro la guancia del visitatore un pennello intinto di rosso.
— M’interessa perché la sofferenza farà di voi un vero artista. Più
soffrite, più dovreste ringraziarne il cielo. Di questa stoffa sono fatti i pittori
di prim’ordine. Uno stomaco vuoto val meglio d’uno stomaco pieno, Van
Gogh; un cuore spezzato val meglio d’un cuore felice. Non dimenticate mai
queste parole!
— Queste sono stupidaggini, Weissenbruch, e voi lo sapete benissimo.
Weissenbruch prese a picchiettare l’aria col pennello in direzione di
Vincent. — L’uomo che non ha sofferto non ha nulla da dipingere, Van
Gogh. La felicità è bovina: va bene per le mucche e i commercianti.
L’artista prospera e fiorisce sul dolore. Se sei affamato, scoraggiato e
tormentato, ringrazia Dio che ti vuol bene.
— La miseria distrugge.
— Sì, distrugge il debole. Ma non il forte! Se la miseria ha il potere di
annientarvi, è segno che siete un debole e meritate d’andare a fondo.
— Senza che voi moviate un dito per aiutarmi?
— Nemmeno se vi ritenessi il più grande pittore di tutti i tempi. Se la
fame e il dolore hanno il potere d’uccidere un uomo, costui non merita
d’essere salvato. Gli unici artisti degni di stare al mondo sono quelli che né
Dio né il diavolo possono uccidere finché non abbiano detto tutto ciò che
avevano da dire.
— Ma sono anni che io soffro la fame, Weissenbruch. Ho vissuto senza
una casa dove ripararmi, ho camminato nella pioggia e nella neve quasi
senza uno straccio addosso, malato, febbricitante, abbandonato da tutti. In
questo campo non ho più niente da imparare.
— Avete appena grattato la superficie della sofferenza. Siente ancora un
principiante. Il dolore, ve lo dico io, è l’unica cosa infinita che esista al
mondo. Correte a casa subito, prendete la matita. Più siete affamato e
disperato, meglio lavorerete.
— E più facilmente vedrò respinti e rifiutati i miei disegni.
Weissenbruch rise di cuore. — Ma certo che li vedrete respinti e
rifiutati! Non può essere diversamente. Tanto di guadagnato per voi. Così
soffrirete ancor di più. E il vostro prossimo quadro sarà più bello del
precedente. Soffrendo, patendo la fame e vedendo deriso e disprezzato il
vostro lavoro per un certo numero d’anni, potrete forse (badate che ho
detto: forse) dipingere dei quadri degni di stare accanto a quelli di Jan Steen
e…
— …e di Weissenbruch.
— Appunto. Di Weissenbruch. Se ora vi prestassi del denaro, vi
toglierei ogni possibilità di raggiungere l’immortalità.
— Al diavolo l’immortalità! Io voglio poter lavorare ora, subito. E non
lo posso fare a stomaco vuoto.
— Ecco una madornale sciocchezza, ragazzo mio. Tutti i quadri
d’autentico valore sono stati dipinti a stomaco vuoto. Con le budella piene,
si creano delle solenni porcherie.
— Non mi risulta che voi abbiate sofferto tanto.
— Io ho fantasia creatrice. So comprendere la sofferenza senza subirla.
— Vecchio imbroglione!
— Niente affatto. Se mi fossi accorto che la mia produzione era insipida
come quella di De Bock, avrei già buttato via il mio denaro e mi sarei
messo a condurre una vita da vagabondo. Ma caso vuole che io sappia
creare la perfetta illusione della sofferenza senza averne fatto l’esperienza.
Ecco perché sono un grande artista.
— Ecco perché siete un grande ciarlatano. Andiamo, Weissenbruch,
siate buono e prestatemi venticinque franchi.
— Nemmeno venticinque centesimi! Credetemi, parlo sinceramente. Ho
troppo alta opinione di voi per mettere a repentaglio il vostro avvenire
prestandovi dei soldi. Un giorno farete dei capolavori, Vincent: a
condizione che sappiate scavarvi il vostro destino. Me ne ha convinto quel
piede di gesso scaraventato nella cassa del carbone. Ora andate, e fermatevi
alla cucina dei poveri per farvi dare gratis un piatto di minestra.
Vincent lo fissò un momento, poi gli voltò le spalle e aprì la porta.
— Un momento! — gridò Weissenbruch.
— Non vorrete mica dirmi che siete un vigliacco e vi arrendete
pietosamente alla mia richiesta? — fece aspramente Vincent.
— Sentite, Van Gogh. Non lo faccio per avarizia, ma per principio. Se
vi giudicassi un imbecille, vi darei quei venticinque franchi tanto per
sbarazzarmi di voi. Ma vi rispetto e vi apprezzo, come compagno d’arte. Vi
darò qualcosa che non potreste comprare nemmeno con tutto l’oro del
mondo. E non c’è un altro uomo all’Aia, all’infuori di Mauve, per cui io sia
disposto a fare una cosa simile. Venite qui. Aggiustate quella tenda della
vetrata. Così. Date un’occhiata a questo studio. Ecco come disegno io,
come equilibro i volumi e ripartisco la materia. Ma, perdiana, come volete
fare a vedere se ve ne state lì con la luce negli occhi?
Vincent uscì da quello studio un’ora dopo, fremente d’entusiasmo e di
gioia. Aveva imparato di più in quell’ora che non in un anno d’accademia.
Solo dopo un bel tratto di strada si ricordò d’essere affamato e febbricitante
e di non avere il becco d’un quattrino.

9.

Alcuni giorni dopo, sulle dune, incontrò Mauve. Se ancora nutriva


qualche speranza di riconciliazione, dovette ricredersi.
— Cugino Mauve, desidero chiederti scusa di quell’incidente. È stato
un gesto stupido da parte mia. Non mi perdoni? Non verrai più qualche
volta a vedere i miei lavori e a scambiare quattro chiacchiere con me?
— Neanche per sogno — rispose seccamente Mauve. — Tra noi è tutto
finito.
— Hai perso ogni fiducia in me?
— Sì. Non sei una persona come si deve.
— Se mi dici che cosa ho fatto di male, cercherò di emendarmi.
— Basta, quel che fai non m’interessa più.
— Non ho fatto altro che vivere e lavorare come qualsiasi altro artista.
Che cosa ci vedi di male?
— Tu ti chiami un artista?
— Certamente.
— Che assurdità! Non hai mai venduto un quadro in vita tua.
— Essere un artista significa dunque questo: vendere? Io credevo
invece che l’artista fosse uno che cerca sempre e non trova mai. Uno che
non dice mai: «Ora so, ora ho trovato». Quando dico che sono un artista,
voglio semplicemente dire: «Sto cercando, sto dibattendomi, ci metto tutta
l’anima».
— Comunque, resta sempre il fatto che non sei una persona come si
deve.
— Tu sospetti qualcosa sul mio conto. Lo sento. Pensi che io ti
nasconda qualcosa, di cui mi vergogno. Che cos’è, Mauve? Dimmelo
francamente.
Mauve tornò al cavalletto e si rimise a dipingere. Vincent s’allontanò,
camminando lentamente sulla sabbia.
Non s’ingannava. C’era realmente qualcosa in aria. In città si sapeva
della sua relazione con Cristina. Fu De Bock a venire ad informarlo. Entrò
nello studio con un sorriso maligno sulle labbra a bocciolo. Cristina stava
posando; egli parlò quindi in inglese.
— Bene, bene, Van Gogh — disse, sfilandosi il pesante soprabito nero e
accendendo una lunga sigaretta. — Tutta la città sa che ti sei preso
un’amante. Ne ho sentito parlare da Weissenbruch, da Mauve e da Tersteeg.
Tutta l’Aia è in subbuglio per questa faccenda!
— Ah, è dunque questo! — fece Vincent.
— Dovresti usare maggior discrezione, vecchio mio. È una modella di
queste parti? Credo di conoscere tutte le più carine.
Vincent sogguardò Cristina che lavorava a maglia accanto alla stufa.
C’era un certo fascino casalingo in quella donna seduta là, col suo
grembiule e lo scialletto di lana, gli occhi chini sul minuscolo giubbettino
che stava confezionando. De Bock lasciò cadere la sigaretta e scattò in
piedi.
— Dio mio! Non vorrai mica dirmi che la tua amante è costei!
— Io non ho nessuna amante, De Bock. Ma immagino che sia lei la
donna di cui si parla.
De Bock si deterse la fronte da un immaginario sudore ed esaminò
attentamente la figura di Cristina.
— Dove trovi il coraggio di andare a letto con lei?
— Perché mi fai questa domanda?
— Ma, vecchio mio, è una strega! Una vecchia strega della specie più
volgare! Un orrore! Ma che diavolo t’è saltato in testa? Adesso capisco
come Tersteeg sia così disgustato. Se hai voglia di un’amante, perché non
scegli una di quelle graziose modelle che abbiamo in città? Ce n’è a iosa!
— Te l’ho già detto, De Bock: questa donna non è la mia amante.
— E allora che cos’è?
— Mia moglie!
De Bock strinse i labbruzzi, con la smorfia d’un individuo che si sforzi
di far entrare un bottone nell’asola.
— Tua moglie!
— Proprio così. Ho intenzione di sposarla.
— Signore Iddio!
De Bock lanciò a Cristina un’ultima occhiata d’orrore e di disgusto, e
scappò via senza infilarsi il soprabito.
— Che cosa dicevate di me? — domandò Cristina.
Vincent fece qualche passo verso di lei e stette un momento a guardarla.
— Ho detto a De Bock che ho intenzione di sposarti.
Cristina tacque a lungo, mentre le sue mani continuavano a muoversi
con automatica agilità. La lingua le sfrecciò per il varco delle labbra
semiaperte, come quella d’un serpente, per umettare le labbra fattesi
improvvisamente aride.
— Vorresti davvero sposarmi, Vincent? E perché?
— Perché se non ti sposo avrei fatto meglio a lasciarti in pace. Voglio
provare le gioie e i dolori della vita coniugale, per fare anche questa
esperienza e poterli esprimere nei miei quadri. Un tempo ero innamorato
d’una donna, Cristina. Quando andai a casa sua, mi sentii dire che non
voleva saperne di me, che le ispiravo orrore. Il mio era un amore sincero,
onesto e forte, Cristina; e uscendo da quella casa sentii che l’avevano
ucciso. Ma dopo la morte c’è una resurrezione: e questa resurrezione sei
stata tu.
— Ma tu non puoi sposarmi! E i bambini? Senza contare che tuo
fratello potrebbe cessare d’aiutarti.
— Io rispetto una donna che è madre, Cristina. Terremo con noi Herman
e il bambino che deve nascere, gli altri possono stare con tua madre. Quanto
a Theo… certo, potrebbe tagliarmi i viveri. Ma quando gli avrò scritto tutta
la verità, credo che non mi abbandonerà.
Si sedette sul pavimento, ai suoi piedi. Sien aveva ora un aspetto molto
migliore di quando l’aveva incontrata la prima volta. Nei suoi malinconici
occhi scuri brillava una piccola scintilla di felicità. Tutta la sua personalità
era stata investita da un nuovo soffio di vita. Quella di posare non era stata
per lei una fatica lieve, ma ella l’aveva sostenuta con ostinata pazienza. Al
tempo del loro primo incontro era una creatura grossolana, malata e
infelice; ora da tutto il suo contegno traspariva una certa calma interiore.
Alzando lo sguardo verso il suo viso aspro e tormentato dove s’era
insinuata ora una certa nota di dolcezza, Vincent ripensò a quella frase di
Michelet: «Comment se fait-il qu’il y ait sur la terre une femme seule
désespérée?».
— Sien, cercheremo di risparmiare quanto più si può, nevvero? Temo
che verrà il tempo in cui sarò completamente senza mezzi. Potrò aiutarti
fino a quando tu dovrai andare a Leyden, ma al tuo ritorno non so in quali
condizioni mi troverai, se provvisto o no di un pezzo di pane. Ciò che avrò,
lo dividerò con te e il bambino.
Cristina si lasciò scivolare sul pavimento accanto a lui, gli strinse le
braccia al collo e gli posò la testa sulla spalla.
— Lasciami soltanto stare con te, Vincent. Non chiedo molto. Se anche
c’è soltanto un po’ di pane e caffè, non mi lamento. Ti voglio bene, Vincent.
Sei il primo uomo che sia stato buono con me. Non è necessario che mi
sposi, se non vuoi. Poserò per te, lavorerò con buona volontà, farò tutto ciò
che mi dirai. Lasciami soltanto stare con te! È la prima volta che sono
felice, Vincent. Non voglio nulla, non desidero nulla. Dividerò con te ciò
che c’è, e sarò contenta.
Egli sentiva contro il proprio fianco il corpo della creaturina ancora
nascosta, calda e viva. Sfiorò delicatamente con le dita il povero viso della
donna, baciandone ad uno ad uno i solchi dolorosi. Le sciolse i capelli sulle
spalle, carezzandone le ciocche sottili. Ella accostò la guancia rossa di
felicità e prese a strofinarla teneramente contro la sua barba ruvida.
— Mi vuoi bene, Cristina?
— Sì, Vincent, sì.
— Bello, essere amati. Il mondo dica pure che è male.
— Alla malora il mondo! — disse lei, semplicemente.
— Vivrò come un operaio: è la vita che mi s’addice. Noi due ci
comprendiamo e possiamo fare a meno di badare a ciò che dicono gli altri.
Non abbiamo bisogno di fingere un certo decoro sociale. La mia casta
d’origine mi ha respinto da tanto tempo. Preferisco mangiare un tozzo di
pane a casa mia, per quanto povera essa sia, che vivere negli agi lontano da
te, senza sposarti.
Rimasero lì seduti sul pavimento, riscaldati dai rossi bagliori della
fiamma che divampava nella stufa, l’uno tra le braccia dell’altro. Fu il
postino a rompere l’incantesimo. Una lettera proveniente da Amsterdam.

«Vincent,
«ho saputo or ora della tua condotta obbrobriosa. Ti «prego di
considerare annullata l’ordinazione dei sei disegni. Non mi interesserò più
della tua produzione.
Cornelius Marinus Van Gogh».

Il suo destino dipendeva ora esclusivamente da Theo. Qualora non


fosse riuscito a fargli comprendere la vera natura dei suoi rapporti con
Cristina, anche Theo avrebbe trovato ben giusto sospendere l’invio dei
cento franchi mensili. Ed egli poteva fare a meno del suo maestro Mauve;
poteva fare a meno del mercante Tersteeg; poteva fare a meno della
famiglia, degli amici e dei colleghi dal momento che gli restavano il suo
lavoro e Cristina. Ma non poteva fare a meno di quei cento franchi mensili!
Scrisse al fratello una lunga lettera appassionata, spiegandogli ogni
cosa, scongiurandolo di comprendere e di non abbandonarlo. E visse giorno
per giorno nella paura del peggio. Non osava più ordinare materiale da
disegno che non potesse pagar subito, né dipingere acquerelli, né forzare il
ritmo del lavoro.
Theo formulò, nella lettera di risposta, parecchie obiezioni, ma non lo
condannò. Gli offrì anche dei consigli, ma senza fargli intendere che
qualora i suoi consigli non fossero stati accettati avrebbe cessato di
mandargli i soldi. E infine, pur non esprimendo nessuna approvazione,
assicurava Vincent che avrebbe continuato ad aiutarlo come in passato.
S’era ai primi di maggio. Il medico di Leyden aveva detto a Cristina di
ripresentarsi a giugno per il parto. Vincent ritenne conveniente che ella non
venisse ad abitare con lui se non dopo; sperava per quel tempo di poter
prendere in affitto una casetta libera, a due passi dall’abitazione attuale.
Cristina passava la maggior parte del tempo nel suo studio, ma teneva
ancora tutto in casa della madre. Dovevano sposarsi quando si fosse
rimessa.
All’epoca del parto di Cristina, egli si recò a Leyden. Dalle nove di sera
all’una e mezza del mattino il bambino non fece il minimo movimento. Lo
si era dovuto estrarre col forcipe, ma non aveva riportato nessuna ferita.
Cristina soffriva terribilmente, ma quando vide Vincent dimenticò tutto.
— Presto ricominceremo a disegnare — gli disse.
Vincent la guardava con le lacrime agli occhi. Che cos’importava che il
bambino fosse d’un altro? Quelle due creature erano la sua moglie e il suo
piccino ed egli si sentiva felice, dolorosamente felice.
Tornando all’Aia, trovò sul portone di casa il proprietario del deposito
di legname.
— E allora, Mijnheer Van Gogh, la prendiamo o non la prendiamo
quell’altra casa? Sono appena otto franchi la settimana. Ve l’ho fatta
intonacare e dipingere a nuovo. Quanto alla tappezzeria, non avete che da
sceglierla come vi piace e io ve la farò applicare.
— Non c’è urgenza. Vorrei traslocare quando tornerà mia moglie, ma
prima devo scrivere a mio fratello.
— Be’, tanto una tappezzeria ce la devo mettere; scegliete dunque voi.
Se poi non prenderete la casa in affitto, non importa.
Da diversi mesi Theo sapeva di questa casetta. C’erano parecchi locali a
disposizione: uno studio, una stanza di soggiorno, una cucina, uno stanzino
e una soffitta adattabile a camera da letto. Costava alla settimana quattro
franchi in più dell’attuale abitazione, ma con Cristina, Herman e il piccino
occorreva maggiore spazio. Theo scrisse che aveva avuto un nuovo
aumento di stipendio: Vincent poteva quindi contare su un assegno mensile
di centocinquanta franchi. Vincent s’affrettò allora a prendere in affitto
l’appartamento. Cristina doveva tornare tra una settimana, ed egli voleva
farle trovare il nido bell’e pronto: un nido caldo e accogliente. Il padrone di
casa gli mise a disposizione due manovali della sua azienda per aiutarlo nel
trasloco. La madre di Cristina venne a mettere ogni cosa in ordine.

10.

Il nuovo studio aveva veramente l’aria d’uno studio, con la sua semplice
tappezzeria grigio scuro, il palchetto ben pulito, studi e quadri alle pareti, un
cavalletto ad ognuna delle due estremità e un grande tavolo bianco da
lavoro in abete. La madre di Cristina mise alle finestre delle tende di
mussola bianca. Attiguo allo studio v’era uno stanzino, dove Vincent
sistemò le tavolette da disegno, le cartelle, le incisioni in legno; in un
angolo c’era un armadio a muro, adatto a tenervi bottiglie, barattoli e libri.
Nella stanza di soggiorno, un tavolo, alcune sedie da cucina, un fornello a
petrolio e, accanto alla finestra, una poltroncina di vimini per Cristina.
Vicino alla poltroncina Vincent collocò una piccola culla di ferro con la
coperta verde e, sopra, l’incisione di Rembrandt in cui si vedono due donne
presso una culla, una delle quali legge la Bibbia al chiarore d’una candela.
Fornì la cucina di tutti gli oggetti necessari, sicché quando Cristina
fosse tornata, avrebbe potuto preparare il pranzo in dieci minuti. Comprò un
coltello, un cucchiaio, una forchetta e un piatto in più, per il giorno in cui
Theo venisse a trovarli. Su in soffitta mise un letto matrimoniale per sé e la
moglie e quello vecchio, completo di tutto l’occorrente, per Herman. Lui e
la madre di Cristina portarono su i sacconi di tela da materasso con la paglia
e le alghe secche per riempirli.
Quando Cristina lasciò l’ospedale, il medico curante, l’infermiera del
reparto e la capo-infermiera vennero a salutarla. Vincent comprese meglio
che mai come Cristina fosse una creatura per cui le persone più rispettabili
potevano provare affetto e simpatia. «Non ha mai conosciuto il bene —
pensò: — come potrebbe dunque esser buona?».
La madre di Cristina e il piccolo Herman vennero ad accoglierla nella
nuova casa. Fu un momento delizioso, perché Vincent non aveva detto nulla
del nido preparato per lei. Sien prese a correre di qua e di là, toccando tutto:
la culla, la poltroncina, il vaso di fiori ch’egli aveva collocato sul davanzale
esterno della finestra. Pazza di gioia.
— Che tipo buffo, il professore! «Ma come!», mi diceva. «Possibile che
vi piacciano davvero il gin e il bitter? che fumiate sigari?». E io: «Ma
certo». E lui: «Ve l’ho soltanto domandato per dirvi che non è necessario
che smettiate completamente. Ma non dovete più far uso d’aceto, né di
pepe, né di senape. E mangiate carne almeno una volta alla settimana».
La stanza da letto sembrava proprio la stiva d’una nave, rivestita
com’era di pannelli di legno. Ogni sera Vincent doveva portar su la culla,
ogni mattina riportarla giù nella stanza di soggiorno. In più doveva fare tutti
i lavori di casa per cui Cristina era ancora troppo debole: rassettare i letti,
accendere il fuoco, sollevare e spostare gli oggetti più pesanti, badare alla
pulizia. Aveva la sensazione di vivere con Cristina e i bambini da lungo
tempo; gli sembrava davvero di trovarsi nel proprio elemento. Pur
risentendo ancora le conseguenze dell’operazione, ella era come invasa da
un impeto di vita nuova: le pareva di rinascere.
Vincent si rimise al lavoro con in cuore un senso di pace finora ignoto.
Bello avere un proprio focolare, sentire intorno a sé l’animazione e
l’organizzazione d’una famiglia. La presenza di Cristina gli dava coraggio
ed energia per continuare la propria fatica. Purché Theo non lo
abbandonasse, era sicuro di poter diventare un artista di valore.
Nel Borinage aveva perdutamente lavorato per Dio: qui aveva una
nuova e più tangibile forma di divinità, una religione che si poteva
esprimere in poche parole: la figura d’un lavoratore, i solchi d’un campo,
un lembo di duna sabbiosa, di mare e di cielo rappresentavano soggetti
seriamente difficili, ma al tempo stesso così belli che valeva veramente la
pena di dedicare tutta la vita al compito di esprimerne la recondita poesia.
Un pomeriggio, tornando dalle dune, s’imbatté in Tersteeg davanti a
casa sua.
— Sono lieto di vederti, Vincent. Ho pensato di venire a vedere che
cosa combini di bello.
Vincent ebbe un moto di sgomento, prevedendo la tempesta che sarebbe
scoppiata non appena Tersteeg mettesse piede nell’appartamento. Si
trattenne per alcuni minuti a chiacchierare con lui in istrada, per farsi
animo. Tersteeg si mostrava simpatico e cordiale. Vincent rabbrividì.
Quando entrarono, Cristina, seduta sulla poltroncina, stava allattando il
bambino. Herman si trastullava vicino alla stufa. Tersteeg li guardò con
occhi dilatati dalla meraviglia: non finiva di guardarli.
— Come mai, quella donna e quel bambino? — domandò infine, in
inglese.
— Cristina è mia moglie. Il bambino è nostro.
— L’hai proprio sposata!
— Propriamente sposata, no: non siamo ancora stati uniti in
matrimonio, se è questo a cui intendete riferirvi.
— Ma come puoi convivere con una donna… e con dei bambini che…
— Quasi tutti si sposano, no?
— Ma tu non hai un soldo! Ti farai mantenere da tuo fratello.
— Niente affatto. Theo mi corrisponde uno stipendio. Tutta la mia
produzione appartiene a lui. Un giorno si rifarà del denaro che mi fornisce.
— Sei impazzito, Vincent? Questa è una condotta da persona a cui ha
dato di volta il cervello.
— La condotta umana, Mijnheer, rassomiglia molto al disegno. Tutta la
prospettiva cambia a seconda della posizione da cui si guarda e il fatto
dipende non già dall’oggetto, che non muta, ma da chi lo guarda.
— Scriverò a tuo padre, Vincent. E gli dirò tutto.
— Non trovate che sarebbe ridicolo se ricevessero da voi una lettera
piena d’indignazione e, subito dopo, una lettera in cui io li invitassi a
venirci a trovare qui a mie spese?
— Hai intenzione di scrivere, tu!
— E me lo domandate? Certo che scriverò. Ma dovete ammettere che
non è questo il momento indicato. Papà deve trasferirsi in questi giorni a
Nuenen, dove è stato nominato vicario. Mia moglie, poi, si trova in
condizioni che ogni emozione troppo forte potrebbe condurla alla tomba.
— Allora, naturalmente, non scriverò. Ragazzo mio, tu sei pazzo come
uno che voglia annegarsi. Io voglio soltanto salvarti da una brutta fine.
— Non dubito delle vostre buone intenzioni, Mijnheer Tersteeg, ed è
ben questo il motivo per cui cerco di sopportare senza arrabbiarmi quanto
mi dite. Ma questa conversazione mi riesce veramente sgradevole.
Tersteeg se ne andò con aria mogia e delusa. Fu Weissenbach ad
assestargli il colpo più duro. Se ne arrivò un pomeriggio con fare
indifferente, per vedere se Vincent fosse ancora vivo.
— Buon giorno. Vedo che ve la siete cavata benissimo anche senza quei
venticinque franchi.
— Infatti.
— Non siete contento, ora, che io vi abbia mandato via a becco
asciutto?
— Quella sera che c’incontrammo da Mauve, la prima cosa che vi dissi,
se non erro, fu: «Andate all’inferno!». Vi ripeto ora lo stesso invito.
— Continuando di questo passo, diventerete un altro Weissenbruch:
avete la stoffa d’un vero uomo. Ma perché non mi presentate alla vostra
amante? Non ho mai avuto quest’onore.
— Prendetevela con me fin che volete, Weissenbruch; ma lei, lasciatela
in pace.
Cristina stava dondolando la culla di ferro dalla copertina verde. Capiva
che quello sconosciuto stava facendosi beffe di lei, e alzò gli occhi verso
Vincent con un’espressione dolorosa sul volto. Vincent s’accostò
risolutamente a lei e al bambino, piantandosi accanto a loro in
atteggiamento di protezione. Weissenbruch sbirciò quel gruppetto, poi
l’incisione di Rembrandt appesa sopra la culla.
— Ma guarda che scena commovente! Mi piacerebbe dipingerla. La
chiamerei La Sacra Famiglia!
Vincent gli s’avventò contro lanciando un’imprecazione, ma
Weissenbruch se l’era già svignata. Si riaccostò alla donna e al bambino.
Sulla parete, accanto all’incisione di Rembrandt, era appeso un pezzo di
specchio. Vincent vi vide riflesse le loro tre figure: in un orribile,
sconvolgente attimo di lucidità mentale vide con gli occhi di Weissenbruch.
Il bastardo, la puttana e l’uomo della carità.
— Come ci ha chiamati? — domandò Cristina.
— La Sacra Famiglia.
— Come sarebbe a dire?
— Un quadro di Maria, Gesù e Giuseppe.
Gli occhi della donna si riempirono di lacrime; ella nascose la faccia tra
i panni del bambino. Vincent si inginocchiò accanto alla culla per
confortarla. Il crepuscolo penetrando dalla finestra, inondava la stanza di
un’ombra silenziosa e tranquilla. Ancora una volta Vincent riuscì a staccarsi
mentalmente dal gruppo e a vederlo come se egli non ne facesse parte. Ma
lo vedeva ora con gli occhi del cuore.
— Non piangere, Sien. Non piangere, cara. Rialza la testa e asciugati le
lacrime. Weissenbruch aveva ragione!

11.

Scoprì Scheveningen e la pittura a olio quasi contemporaneamente.


Scheveningen era un piccolo paese di pescatori disteso nella valle formata
da due dune sabbiose che parevano proteggerlo, sul Mare del Nord. Sulla
spiaggia, file di barche da pesca ad un albero solo, squadrate, dipinte a
colori vivaci, con vele logorate dalle intemperie, timoni rudimentali, le reti
distese e pronte per salpare e in alto una bandierina triangolare d’un rosso
ruggine o d’un azzurro marino. Si vedevano carretti blu con le ruote rosse,
che servivano per portare il pesce in paese; donne di pescatori con bianchi
copricapi di tela impermeabile fissati sul davanti con due spilloni d’oro;
gruppi di familiari radunati sul ciglio dell’acqua per salutare le barche che
tornavano; il «Kurzaal» con le sue gaie bandiere sventolanti, luogo di
divertimento per i forestieri che amavano sentire sulle labbra, ma non nella
gola, il gusto della salsedine. Un mare grigio, con increspature bianche
presso la riva e onde d’un verde sempre più intenso, trascolorante in un
azzurro cupo; un cielo egualmente grigio, con nuvole che parevano
disegnate e lasciavano ogni tanto filtrare uno squarcio d’azzurro perché i
pescatori si persuadessero che sull’Olanda splende ancor sempre il sole. Un
paese dove gli uomini faticavano, un paese di gente legata da vincoli
primordiali alla terra e al mare.
Vincent aveva dipinto ad acquerello un bel numero di scene colte per
istrada, trovando assai soddisfacente questa forma di pittura per le
impressioni rapide. Ma l’acquerello non aveva la profondità, la densità e la
forza necessarie per esprimere le cose ch’egli aveva bisogno di dire. Si
struggeva dal desiderio di tentare la pittura a olio, ma esitava, avendo
sentito parlare di tanti pittori che si erano rovinati applicandovisi prima di
aver imparato a disegnare bene. Ed ecco, Theo era arrivato all’Aia.
Theo, che aveva ora ventisei anni, possedeva una solida competenza in
fatto di quadri. Viaggiava frequentemente per la ditta ed era noto dovunque
come uno dei giovani di maggior valore nel campo della sua attività
professionale. La «Goupil & C.» aveva ceduto la succursale di Parigi a
Boussod e Valadon, noti col nome di «Les Messieurs»; e sebbene Theo
avesse conservato il posto di prima, le cose andavano ben diversamente da
com’erano andate sotto la direzione di Goupil e dello zio Vincent. Si
vendevano ora esclusivamente quadri di altissimo prezzo, senza tener conto
del loro reale valore artistico, favorendo soltanto i pittori già
clamorosamente affermati. Lo zio Vincent, Tersteeg e Goupil avevano
sempre ritenuto che il primo dovere d’un mercante d’arte fosse quello di
scoprire ed incoraggiare artisti nuovi, giovani; ora invece venivano soltanto
cercati i pittori vecchi, i già arrivati. Gli artisti scesi da poco in campo —
Manet, Monet, Pissarro, Sisley, Renoir, Berthe Morisot, Cézanne, Degas,
Guillaumin e altri più giovani ancora, come Toulouse-Lautrec, Gauguin,
Seurat e Signac — cercavano di dire qualcosa di diverso da ciò che
andavano stuccosamente ripetendo Bouguereau e gli accademici; ma
nessuno prestava loro ascolto. Nessuno di questi rivoluzionari aveva mai
avuto una propria tela esposta o messa in vendita nella galleria dei
«Messieurs». Theo aveva contratto un profondo disgusto per Bouguereau e
gli accademici; le sue simpatie andavano ai giovani innovatori. Cercava
ogni giorno di indurre i «Messieurs» ad esporre opere nuove per educare
l’occhio del pubblico e invogliarlo a poco a poco a comprare. Ma per i
«Messieurs» gli innovatori erano semplicemente dei pazzi, degli
imbrattatele puerili e senza tecnica. Theo ravvisava in essi i futuri maestri.
Cristina rimase su in camera da letto, mentre i due fratelli
s’incontravano nello studio.
— Sono venuto anche per affari — disse Theo, subito dopo i saluti —
ma devo confessarti che lo scopo principale di questa mia puntata all’Aia è
quello di dissuaderti dal vincolarti per sempre a questa donna. Anzitutto
com’è fisicamente?
— Ti ricordi della nostra vecchia bambinaia di Zundert, Leen Verman?
— Sì.
— Sien è un tipo di quel genere. Una donna ordinaria, una donna del
popolo; ma per me ha qualcosa di sublime. Basta amare una persona
qualsiasi ed esserne riamati per sentirsi felici, nonostante i lati brutti della
vita. È stata l’idea di rendermi utile a farmi ricuperare me stesso, a farmi
rivivere. Una cosa che non ho cercato, e che si è presentata spontaneamente.
Sien sa sopportare tutte le preoccupazioni e le difficoltà di cui è sempre irta
la vita d’un pittore e posa così volentieri che, credo, diventerò un miglior
pittore vivendo con lei che non se avessi sposato Kay.
Theo s’aggirò un poco per lo studio. Poi, osservando attentamente un
acquerello: — L’unica cosa che non riesco a comprendere, è come tu abbia
potuto innamorarti di costei mentre eri così disperatamente innamorato di
Kay.
— Non mi sono innamorato, Theo, o almeno non subito. Perché Kay mi
ha respinto, dovrebbero forse essersi spenti tutti i miei impulsi e i miei
sentimenti d’uomo? Arrivando qui, non mi hai trovato scoraggiato né triste;
sei entrato in uno studio nuovo, in una casa piena di animazione e di vita.
Uno studio che non ha nulla di misterioso, ma che è radicato nella realtà
della vita; una casa con una culla e una seggiola alta da bambino, dove nulla
ristagna e tutto stimola e spinge ad agire. Per me è chiaro come la luce
meridiana che bisogna sentire ciò che si dipinge e che bisogna vivere la
realtà della vita familiare se la si vuole esprimere con intimità e calore.
— Tu sai che non ho avuto mai pregiudizi di casta, Vincent; ma ti pare
una cosa sensata?…
— No, non credo di essermi degradato o disonorato — l’interruppe
Vincent — perché sento che la mia opera affonda le radici nel cuore della
gente del popolo, che devo tenermi abbrancato alla terra, afferrare
rapidamente gli attimi della vita e aprirmi la strada attraverso affanni e
tormenti.
— Non ne discuto — replicò Theo, tornando a piantargli davanti. — Ma
perché dovresti assolutamente sposarla?
— Perché gliel’ho promesso. Non voglio considerarla un’amante, una
donna con cui vivo un’avventura senza pensare alle conseguenze. Quella
promessa di matrimonio ha un duplice aspetto. È anzitutto un impegno a
sposarci civilmente non appena le circostanze ce lo permettano; in secondo
luogo, è un impegno ad aiutarci intanto scambievolmente e a volerci bene
come se già fossimo sposati, dividendo insieme gioie e dolori.
— Ma aspetterai almeno un poco prima di contrarre matrimonio civile?
— Sì, Theo, se così desideri. Rimanderemo fino a quando io possa
guadagnare centocinquanta franchi al mese e il tuo aiuto non mi sia
indispensabile. Ti prometto di non sposarla se non dopo aver fatto tali
progressi da rendermi indipendente. A mano a mano che comincerò a
guadagnare, tu potrai mandarmi ogni mese qualcosa di meno, finché non
avrò più bisogno del tuo aiuto. Allora parleremo di matrimonio civile.
— Questa mi pare la soluzione più sensata.
— Eccola che viene, Theo. Ti prego, cerca di vedere in lei soltanto una
moglie e una madre! Perché realmente lo è.
Scese le scale, Cristina apparve in fondo allo studio. Indossava una
graziosa veste nera, i capelli ravviati all’indietro erano ben pettinati, un po’
di rossore dissimulava quasi completamente le macchie della pelle sulle
guance. Aveva acquistato una specie di bellezza casalinga. L’amore di
Vincent aveva saputo circondarla di un’atmosfera di fiducia e di benessere
morale. Strinse la mano a Theo, gli domandò se accettava una tazza di tè e
lo pregò di fermarsi a pranzo. Poi sedette sulla poltroncina accanto alla
finestra, mettendosi a cucire e facendo dondolare la culla. Vincent correva
avanti e indietro per lo studio, eccitato, mostrando al fratello figure
disegnate a carboncino, scene e scorci di strada ad acquerello, studi di
gruppi vigorosamente sbozzati con una matita da falegname. Voleva fargli
constatare i progressi compiuti.
Theo aveva piena fiducia nell’avvenire artistico di Vincent, ma i suoi
saggi, almeno quelli eseguiti finora, lo lasciavano perplesso: non era troppo
sicuro che gli piacessero. Theo era un amatore raffinato, perfettamente
allenato nell’arte di giudicare un disegno o un quadro: eppure di fronte alle
opere del fratello rimaneva sconcertato, non riusciva a formulare
un’opinione precisa. Per lui, Vincent era sempre in fase di sviluppo, mai a
un punto d’arrivo.
— Se cominci a sentire il bisogno di dipingere a olio, perché non ti ci
metti senz’altro? — disse, dopo che Vincent gli ebbe mostrato tutti i suoi
studi e parlato di questo desiderio. — Che cosa aspetti?
— D’esser sicuro di saper disegnare. Mauve e Tersteeg dicono di no…
— …e Weissenbruch dice di sì. In fin dei conti, sei tu che devi
giudicare. Se ora senti di doverti esprimere con la pittura a olio, è segno che
il tempo è venuto. Coraggio!
— Ma Theo, i quattrini che ci vogliono! Quei maledetti tubetti costano
tanto oro quanto pesano.
— Vieni a trovarmi all’albergo domani mattina alle dieci. Più presto
cominci a mandarmi quadri a olio e più presto riavrò il denaro impiegato in
questo investimento.
A tavola, Theo e Cristina chiacchierarono animatamente. Al momento
d’andarsene, Theo, che già stava scendendo le scale, si volse e disse in
francese al fratello: — Simpatica, veramente simpatica. Non immaginavo!
Camminando a fianco a fianco lungo la Wagenstraat, la mattina dopo, i
due fratelli facevano uno strano contrasto: il più giovane, tutto lindo ed
elegante, con le scarpe lucide, la camicia inamidata, l’abito ben stirato, la
cravatta impeccabilmente annodata, il cappello nero piacevolmente
inclinato da una parte, la morbida barba castana accuratamente spuntata,
l’andatura calma e ben equilibrata; l’altro che, con un paio di scarponi
scalcagnati, i pantaloni rattoppati che stonavano con la giacca stretta,
nessuna cravatta, un assurdo berretto da contadino spiccicato sul cocuzzolo,
la barba sbrindellata in furiose ciocche rosse, camminava a scatti e sobbalzi,
accompagnando il discorso con grandi gesti eccitati.
Non s’accorgevano certamente della figura che facevano.
Theo condusse Vincent da Goupil a comprare tubetti di colori, pennelli
e tele. Tersteeg apprezzava e ammirava questo giovine Van Gogh; avrebbe
voluto provare anche per Vincent un senso di simpatia e di comprensione.
Quando gli esposero il motivo della visita, volle servirli personalmente e si
prodigò con Vincent in chiarimenti, delucidazioni e consigli a proposito dei
vari materiali.
Theo e Vincent si recarono quindi a Scheveningen, percorrendo a piedi i
sei chilometri attraverso le dune. Un battello da pesca stava appunto
arrivando nella piccola rada. Presso il monumento si vedeva una piccola
costruzione in legno, dove un individuo stava seduto con lo sguardo puntato
sul mare. Appena avvistato il battello, costui scese sulla spiaggia con una
specie di grande bandiera, seguito da una frotta di ragazzini. Alcuni minuti
dopo ch’ebbe agitato quello stendardo, arrivò un uomo in groppa ad un
vecchio cavallo per andare a prendere l’ancora. Al gruppo in attesa
s’unirono via via uomini e donne che uscivano dalle case del villaggio, per
venire ad accogliere i reduci dalla pesca. Quando il battello fu abbastanza
vicino l’uomo a cavallo si spinse in acqua e risalì a riva con l’ancora. I
pescatori vennero portati a spalla sulla spiaggia da individui muniti d’alti
stivaloni di gomma: e ad ogni arrivo scoppiavano allegre grida di saluto.
Quando furono tutti a riva e i cavalli ebbero tirato in secco il battello, si
avviarono tutti quanti verso il villaggio sfilando sulla collina sabbiosa come
i componenti d’una carovana: in testa alla fila torreggiava l’uomo a cavallo,
come uno spettro allampanato.
— Ecco ciò che voglio rappresentare nei miei quadri — disse Vincent.
— Mandami qualche tela, non appena ti sembrerà d’aver fatto qualcosa
di buono. Potrei trovare degli acquirenti, a Parigi.
— Oh, Theo, devi! Devi cominciare a vendere i miei quadri!

12.

Ripartito Theo, Vincent iniziò i tentativi di pittura a olio. Fece tre studi:
una fila di salici dietro il ponte di Geest, un sentiero riarso, gli orti di
Meerdervoort con un uomo in camiciotto turchino che raccoglieva patate. Il
terreno era d’un bianco sabbioso, in parte smosso, ancora solcato di file di
piante risecchite tra cui spiccavano erbacce verdi. In lontananza, alberi d’un
verde scuro e alcuni tetti di case. Osservando questo quadro nel suo studio,
provò un senso di ottimismo e di soddisfazione; nessuno avrebbe detto che
fosse l’opera d’un principiante nella pittura a olio. Il disegno — spina
dorsale della pittura, ossatura che reggeva tutto il resto — era solido,
preciso, aderente alla realtà. Rimase alquanto stupito, perché aveva
immaginato che i primi tentativi potessero riuscire disastrosi.
Ora dipingeva un pendio nei boschi, coperto di foglie di faggio secche e
accartocciate. Il terreno era chiazzato di luci e di ombre scure, tendenti al
rossiccio, rese ancora più scure dalle ombre d’alberi che le attraversavano e
in certi punti quasi le annullavano con la loro tonalità più accentuata. Si
trattava di rendere la profondità e l’intensità del colore, l’enorme forza e
solidità del terreno. Dipingendo, notò per la prima volta quanta luce restasse
tuttora in quell’oscurità densa. Bisognava conservare quella luce, e
bisognava nello stesso tempo mantenere la robustezza e la ricchezza del
colore.
Il terreno era come un tappeto cupamente rosseggiante nei bagliori d’un
tramonto d’autunno, attenuati dagli alberi. Giovani betulle s’ergevano
svettando, con un lato in piena luce, d’un verde scintillante, mentre il lato in
ombra era d’un intenso e caldo colore verde nero. Dietro gli arboscelli,
dietro il rosseggiante pendio, un delicatissimo cielo grigiazzurro, quasi
azzurro, tutto ardente e luminoso, su cui spiccava il profilo di una vaporosa
barriera di verzura con un intrico di rametti e una sfrangiatura di foglie
giallicce. Alcune figure di raccoglitori di legna s’aggiravano per il bosco
come ombre misteriose. Il berretto bianco d’una donna china a raccogliere
un ramo secco spiccava bruscamente sullo sfondo del terreno. Una figura
d’uomo si profilava al disopra dei cespugli, risaltando contro il cielo chiaro
con un ampio e robusto respiro di poesia.
Seguitando a dipingere questo paesaggio, Vincent si disse: «Non devo
andar via di qua prima d’aver colto almeno in parte la sensazione di una
sera d’autunno, qualcosa di misterioso e di grave». Ma la luce s’attenuava
sempre più. Bisognava lavorare in fretta. Realizzò rapidamente le figure,
con pochi tocchi di pennello vigorosi e decisi. Fu colpito dalla solidità con
cui i piccoli tronchi d’albero apparivano radicati nel terreno. Volle introdurli
immediatamente nel quadro, ma il colore del terreno era già così vischioso
che le pennellate vi si perdevano. Tentò e ritentò più volte, disperatamente,
perché cominciava a far buio. Infine dovette darsi per vinto: il pennello non
riusciva a far presa su quel fondo denso. Ispirato da una cieca intuizione
buttò via il pennello, abbozzò le radici e i tronchi spremendo direttamente il
colore dai tubetti, prese un altro pennello e modellò le figure degli alberi col
manico.
«Ecco — concluse, mentre l’oscurità della sera si stendeva finalmente
sui boschi. — Ora eccoli lì che si ergono dal terreno, fortemente radicati nel
suolo. Ho espresso ciò che volevo esprimere!».
In serata passò da lui Weissenbruch. — Venite con me ai Pulchri.
Quadri viventi e sciarade, stasera.
Vincent non aveva dimenticato il loro ultimo incontro. — No, grazie.
Non voglio lasciar sola mia moglie.
Weissenbruch s’avvicinò a Cristina, le baciò la mano, s’informò della
sua salute e giocherellò allegramente col bambino. Evidentemente non
rammentava più la frase pronunciata recentemente sul loro conto.
— Fatemi un po’ vedere qualcuno dei vostri lavori più recenti, Van
Gogh.
Vincent accolse con gioia quell’invito. Weissenbruch mise da parte uno
studio del mercato, ritratto nel momento in cui venivano disfatti i banchi; un
altro in cui si vedeva una fila di miserabili che aspettavano il loro turno
davanti a una cucina popolare; un altro dov’erano raffigurati tre vecchi del
manicomio; una scena di Scheveningen dov’era rappresentato un battello da
pesca mentre si tirava su l’ancora; e infine uno schizzo che Vincent aveva
eseguito in ginocchio nel fango delle dune durante un furioso temporale.
— Siete disposto a venderli? Vorrei comprarli.
— È anche questo uno dei vostri scherzi di cattivo genere,
Weissenbruch?
— In fatto di pittura non scherzo mai. Questi studi sono superbi. Quanto
volete?
— Fissate voi il prezzo — rispose Vincent, stordito dalla sorpresa e
ancora posseduto dalla paura che tutto si risolvesse in una presa in giro.
— Benissimo. Facciamo cinque franchi l’uno? Venticinque in tutto.
Vincent spalancò tanto d’occhi. — Ma è troppo! Mio zio Cor me li
pagava soltanto due franchi e mezzo.
— Vi imbrogliava, ragazzo mio. I mercanti imbrogliano sempre. Un
giorno si venderanno a cinquemila franchi. Dunque, siamo d’accordo?
— Weissenbruch, certe volte siete un angelo e certe volte un demonio!
— È per variare: così i miei amici non si stufano di me.
Tirò fuori il portafogli e gli porse venticinque franchi.
— E adesso venite con me. Avete bisogno di distrarvi un poco. Ci sarà
una farsa con Tony Offermans. Vi farà bene ridere un poco.
Vincent l’accompagnò. Il salone del circolo era affollato di tipi che
fumavano tutti quanti tabacco forte e a buon mercato. Il primo quadro
vivente fu una riproduzione della Capanna di Betlemme di Nicholas Maes:
ottima in quanto a tono e colore, ma decisamente priva d’espressione.
L’altra fu una riproduzione dell’Isacco che benedice Giacobbe di
Rembrandt, con una splendida Rebecca che cercava d’accertarsi se faceva
colpo sugli spettatori. A furia di respirare in quell’ambiente chiuso, Vincent
fu preso dall’emicrania. Uscì prima della farsa e rincasò, componendo
mentalmente per istrada una lettera.
Scrisse a suo padre, narrandogli della storia di Cristina quel tanto che gli
sembrava conveniente; accluse i venticinque franchi avuti da Weissenbruch
e lo invitò a venire a trovarlo.
Il babbo arrivò una settimana dopo. L’azzurro dei suoi occhi s’era fatto
smorto, il passo più lento. L’ultima volta che s’erano trattenuti insieme,
Theodorus aveva cacciato di casa questo suo figlio peggiore. Poi si erano
scambiati lettere affettuose. Theodorus e Cornelia gli mandavano ogni tanto
qualche pacco: biancheria personale, abiti, sigari, paste fatte in casa e
talvolta un biglietto da dieci franchi. Vincent non sapeva immaginare come
suo padre avrebbe reagito alla faccenda di Cristina. Gli uomini sono talora
comprensivi e generosi, talora ciechi e cattivi.
Era persuaso che suo padre non avrebbe saputo mantenersi indifferente
o sollevare protesta, vicino ad una culla. Una culla è una cosa diversa da
tutte le altre; una culla è una cosa sacra. Il babbo avrebbe dovuto per forza
passar sopra a tutto ciò che poteva esserci stato nel passato di Cristina.
Theodorus arrivò con un voluminoso pacco sotto il braccio. Vincent
l’apri, ne tirò fuori un soprabito di lana destinato a Cristina e le sue
inquietudini svanirono immediatamente: tutto andava a meraviglia. Quando
ella si ritirò per andare a letto, Theodorus e il figlio passarono nello studio.
— Vincent, c’è una cosa di cui non hai fatto cenno nella lettera. Il
bambino è tuo?
— No. Cristina era incinta, quando l’ho conosciuta.
— E dov’è il padre del piccino?
— L’ha abbandonata. — Non ritenne necessario dirgli che il bambino
era di padre ignoto.
— Ma tu la sposerai, Vincent, nevvero? Non è lecito convivere in
questo modo.
— S’intende. Ci faremo unire in matrimonio appena possibile. Theo e io
abbiamo convenuto che è meglio aspettare fino a quando io guadagni col
mio lavoro di pittore un centocinquanta franchi al mese.
Theodorus sospirò: — Sì, forse è meglio… Vincent, tua madre vorrebbe
tanto che tu venissi un giorno o l’altro a trovarci. E anch’io. Nuenen ti
piacerà, figliuolo; è uno dei più simpatici paesetti di tutto il Brabante, con
una chiesa piccina e sembra un igloo d’eschimesi. Ci stanno meno di cento
persone, figurati! Intorno al vicariato c’è una siepe di biancospini, Vincent,
e dietro la chiesa un cimitero pieno di fiori con piccole tombe sabbiose e
vecchie croci di legno.
— Croci di legno! Bianche?
— Sì. I nomi erano scritti in nero, ma la pioggia li va cancellando.
— La chiesa ha un bel campanile alto, papà?
— Un campanile esile e delicato, Vincent, ma tanto tanto alto. A volte
mi sembra che debba arrivare fin quasi a Dio.
— E proietta la sua ombra sottile sul cimitero… — fece Vincent,
assorto, con occhi scintillanti. — Come vorrei dipingere quel paesaggio!
— Nelle vicinanze abbiamo un tratto di landa e dei boschi di pini; si
vedono i contadini che vangano nei campi. Devi venire presto, figlio mio.
— Sì, bisogna proprio che vada a vedere Nuenen. Le piccole croci, il
campanile, i contadini nei campi. Credo che ci sarà sempre in me qualcosa
del Brabante.
Theodorus tornò a casa a rassicurare la moglie: la situazione del loro
ragazzo non era così brutta come l’avevano immaginata. Vincent si rituffò
nel lavoro con rinnovato vigore. Sempre più spesso si sorprendeva a
ripetersi una frase di Millet: «L’art ç’est un combat; dans l’art il faut y
mettre sa peau». Theo credeva in lui, i suoi genitori non si opponevano al
suo legame con Cristina, nessuno all’Aia gli dava più noia. Ora poteva
liberamente lavorare e andare avanti.
Il padrone di casa gli mandava come modelli tutti i manovali che
venivano a chiedergli lavoro nella sua azienda di legnami e a cui non poteva
darne. Il taccuino da disegno si esauriva, le cartelle si riempivano. Ritrasse
più volte il bambino nella culla accanto alla stufa. Quando presero a cadere
le piogge autunnali, andava a dipingere fuor di casa, cogliendo tutti gli
effetti che voleva. Imparò rapidamente che un buon colorista è colui che,
vedendo un colore in natura, sa immediatamente analizzarlo e dire: «Quel
verde-grigio è formato di giallo e di nero, con una sfumatura d’azzurro».
Tanto nel disegnare una figura quanto un paesaggio, non aspirava ad
esprimere una malinconia sentimentale, bensì un serio dolore. Voleva
arrivare a un punto tale che s’avesse a dire di lui: «Sente profondamente,
sente teneramente».
Si rendeva conto d’essere, agli occhi del mondo, un buono a nulla, un
tipo eccentrico e sgradevole, un uomo senza posizione sociale. Ebbene, la
sua opera avrebbe mostrato che cosa c’era nel cuore di questo tipo
stravagante, di questa nullità. Nelle più miserabili catapecchie, negli angoli
più sozzi egli scopriva soggetti di disegni e di quadri. Più dipingeva e più le
altre attività perdevano interesse per lui. Più se ne sbarazzava e più i suoi
occhi coglievano prontamente gli aspetti pittorici della realtà. L’arte voleva
un’applicazione tenace, un ostinato lavoro e un instancabile spirito
d’osservazione.
L’unico guaio consisteva nell’alto costo dei colori ad olio, di cui egli
non faceva risparmio. Quando spremeva i tubetti sulla tela creando ricche
masse di colore, era come gettar franchi nello Zuider Zee. Dipingeva con
tale rapidità un quadro dopo l’altro, da spendere in tela cifre considerevoli:
faceva in un giorno solo un lavoro che a Mauve avrebbe portato via due
mesi. Che farci? Non sapeva dosare avaramente il colore, né poteva
lavorare con lentezza. Il denaro svaporava e lo studio si riempiva di quadri.
Appena ricevuto l’assegno di Theo (col quale aveva combinato di ripartire
la somma in tre invii mensili di cinquanta franchi l’uno, il primo, il dieci, il
venti d’ogni mese) correva a comprar grossi tubetti di ocra, cobalto e blu di
Prussia, e tubetti più piccoli di giallo di Napoli, terra di Siena, oltremare e
gommagutta. Poi lavorava gioiosamente fino al completo esaurimento dei
colori e dei franchi, vale a dire per cinque o sei giorni. Dopo,
ricominciavano i guai.
Non sapeva capacitarsi che si dovessero comprare tante cose per il
bambino; che Cristina avesse continuamente bisogno di medicine, di oggetti
di vestiario, di vitto speciale; che si dovesse spendere tanto in libri e
quaderni per mandare Herman a scuola; che la casa fosse un tal pozzo senza
fondo dove non si finiva mai di gettare lampade, stoviglie, coperte, legna e
carbone, tende, stuoie, candele, lenzuola, posate, mobili e un flusso
interminabile di roba da mangiare. Ardua impresa, ripartire i cinquanta
franchi tra la pittura e le tre persone a cui doveva provvedere!
— Sembri un manovale che appena riscossa la paga si precipita
all’osteria — osservò Cristina un giorno in cui Vincent, ghermiti i cinquanta
franchi nella busta, si dava a raccogliere i tubetti vuoti.
Si allestì un nuovo strumento per la prospettiva, munito di due lunghe
gambe da piantarsi nella sabbia delle dune, facendone rinforzare in ferro gli
angoli dal fabbro. Scheveningen, col mare, le dune sabbiose, i pescatori, le
barche, i cavalli e le reti, lo attraeva irresistibilmente. Ogni giorno lo si
vedeva sgambare per le dune, col suo pesante cavalletto e il suo strumento
in spalla, per andare a cogliere i mutevoli aspetti del mare e del cielo. Al
cominciar dell’inverno, quando gli altri pittori cominciavano a starsene al
calduccio nei loro studi, egli s’avventurava a dipingere all’aperto, sotto il
vento, la pioggia, la nebbia e la tempesta. Spesso, in mezzo all’infuriare del
vento, la tela, con i colori ancora freschi, gli si copriva di sabbia e di spruzzi
marini. Inzuppato dalla pioggia, raggelato dalla nebbia e dal vento, con gli
occhi e il naso pieni di sabbia, si sentiva indicibilmente felice. All’infuori
della morte, nulla avrebbe ormai potuto fermarlo.
Una sera mostrò a Cristina un nuovo quadro.
— Ma, Vincent, come riesci a far apparire tutto così vero?
Vincent si dimenticò d’aver a che fare con una ignorante donna del
popolo e le parlò come avrebbe fatto con Weissenbruch o Mauve.
— Non lo so nemmeno io. Mi siedo con una tavola bianca davanti al
lembo di paesaggio che mi ha colpito e mi dico: «Questa tavola bianca deve
diventare qualcosa!». Lavoro a lungo, torno a casa scontento e la metto
nell’armadio. Dopo essermi un po’ riposato, vado a guardarla con un senso
di paura. La scontentezza perdura, perché ho troppo chiaramente nella
memoria l’originale per ritenermi soddisfatto del modo con cui l’ho reso.
Ma dopo tutto ci trovo come un’eco di ciò che mi ha colpito. Vedo che la
natura mi ha detto qualcosa, che mi ha parlato, e che io ho trascritto in una
specie di stenografia ciò che mi diceva. Nella mia trascrizione ci sono forse
parole impossibili a decifrare, ci sono forse errori o lacune; ma c’è pur
sempre qualcosa di ciò che i boschi, la spiaggia o una figura umana hanno
saputo dirmi. Mi comprendi?
— No.

13.

Cristina comprendeva infatti assai poco di ciò ch’egli faceva.


Considerava la sua passione per la pittura come una specie di dispendiosa
mania. Ma, ben sapendo ch’era questa la roccia su cui poggiavano le
fondamenta di tutta la sua vita, si guardava dal contrastarlo. Lo scopo, il
lento sviluppo e il logorante sforzo d’espressione dell’opera sua le erano
completamente ignoti. Era una buona compagna dal punto di vista delle
faccende domestiche, ma solo una piccolissima parte della vita di Vincent
rientrava nell’ambito degli interessi domestici. Quando egli sentiva il
bisogno di sfogarsi, si vedeva costretto a scrivere a Theo: quasi ogni sera
metteva assieme una lunga lettera vibrante di fervore, parlandogli di tutto
ciò che aveva visto, dipinto e pensato nel corso della giornata. E quando
provava il desiderio di accogliere confidenze e pensieri altrui, si rivolgeva
ai romanzi: francesi, inglesi, tedeschi ed olandesi. Cristina condivideva
soltanto una minima parte della sua vita. Comunque, Vincent era contento:
non rimpiangeva la promessa di sposarla, né tentava di imporle degli
interessi intellettuali a cui era manifestamente negata.
Tutto andò quindi benissimo durante i lunghi mesi dell’estate,
dell’autunno e dell’inverno, quand’egli usciva di casa alle cinque o alle sei
del mattino e lavorava all’aperto fino al cader della sera, tornando poi
attraverso le dune nel gelido crepuscolo. Ma da quando una spaventosa
bufera di neve servì a celebrare il primo anniversario del loro incontro nella
bettola di fronte alla stazione di Ryn e Vincent dovette star chiuso in casa a
lavorare dalla mattina alla sera, i loro rapporti si fecero più difficili.
Vincent si rimise a disegnare, risparmiando così i soldi dei colori, ma i
modelli gli costavano un occhio della testa. Individui che per quattro soldi
sarebbero stati ben lieti di sgobbare come bestie da soma, esigevano
d’essere pagati profumatamente per venire a posare e a starsene
comodamente seduti. Chiese l’autorizzazione ad andare a disegnare nel
manicomio, ma le autorità dichiararono che non c’era nessun precedente in
materia e che inoltre c’erano importanti lavori in corso: sicché dovette
accontentarsi d’andarci nei giorni di visita.
Tutta la sua speranza era riposta in Cristina. S’aspettava che, appena
ristabilita completamente, riprendesse a posare per lui con lo stesso
impegno d’un tempo, prima che nascesse il bambino. Ma Cristina non era
di quest’avviso.
— Non sono ancora abbastanza in forze — gli diceva dapprima. —
Pazienta un poco. Non hai mica fretta.
Quando si fu perfettamente rimessa trovò che le mancava il tempo.
— Non è più come una volta, Vincent. Devo dare il latte al bambino.
Devo tenere in ordine la casa. Devo far da mangiare per quattro persone.
Vincent provò ad alzarsi alle cinque del mattino per fare i lavori di casa,
in modo ch’ella potesse posare durante la giornata.
— Ma io non sono più una modella! — protestò lei. — Sono tua
moglie!
— Sien, devi posare per me! Non posso permettermi ogni giorno questa
spesa. È appunto questa una delle ragioni per cui sei qui con me.
Cristina esplose in uno di quegli incontrollati accessi di collera che le
erano così consueti all’epoca in cui aveva conosciuto Vincent. — Ah, mi
hai presa per questo! Per risparmiare! Io sono dunque una lurida serva per
te! Se non posso, mi sbatti fuori!
Vincent rifletté un momento. — Tutte queste belle cose, te le ha dette
tua madre, vero? Non è possibile che le abbia pensate tu.
— Ebbene, e con questo? È la verità, no?
— Sien, non devi più andare laggiù.
— Perché? Avrò il diritto di voler bene a mia madre, no?
— Ma i tuoi non fanno altro che guastare i nostri rapporti. Sai
benissimo che finiranno per metterti di nuovo in testa le loro idee. E allora
che ne sarà del nostro matrimonio?
— Non sei forse tu che mi ci mandi quando in casa non c’è niente da
mangiare? Guadagna di più, e potrò fare a meno d’andarci.
Quando finalmente poté indurla a posare, s’accorse d’aver fatto un buco
nell’acqua. Cristina cadeva in tutti quegli errori ch’egli aveva faticato tanto
a eliminare l’anno prima. Aveva talvolta il sospetto che ella si movesse e
assumesse atteggiamenti sbagliati a bella posta, per fargli perdere la
pazienza una volta per sempre e sottrarsi così a quel compito ingrato. Alla
fine Vincent dovette lasciarla in pace. La spesa per i modelli andava
continuamente crescendo. E di pari passo cresceva il numero dei giorni in
cui non c’era un soldo in casa e Cristina si vedeva costretta a ricorrere alla
madre. Ogni volta che tornava di là, Vincent notava nei suoi atteggiamenti e
nel suo contegno un piccolo cambiamento. Si trovava preso in un circolo
vizioso. Se avesse destinato tutto il suo denaro al bilancio domestico,
Cristina non sarebbe ricaduta sotto l’influenza della madre e i loro rapporti
si sarebbero mantenuti eccellenti. Ma così facendo avrebbero dovuto
rinunciare a lavorare. L’aveva forse salvata, questa donna, soltanto per
uccidere se stesso? Se ella non si recava diverse volte al mese dalla madre,
lei e i bambini sarebbero morti di fame; andandoci, avrebbe finito
inevitabilmente per distruggere il loro buon accordo. Che fare?
La Cristina malata e incinta, poi ricoverata in ospedale, poi
convalescente, era una persona: una donna abbandonata, désespérée, in
procinto di fare una fine miseranda, profondamente grata per una parola
buona o un gesto soccorrevole; una donna che conosceva tutta la sofferenza
del mondo e avrebbe fatto qualunque cosa per ottenere un momento di
tregua, prodigandosi in fervide ed eroiche promesse a se stessa e alla vita.
La Cristina rimessa in salute da un buon vitto, dalle medicine e dalle cure di
cui era stata circondata, nuovamente florida e pienotta, era un’altra donna.
Il ricordo dei tempi tristi s’allontanava, l’impegno preso d’essere una buona
moglie e una buona mamma andava perdendo vigore, la mentalità e le
abitudini della vita d’un tempo riprendevano lentamente il sopravvento. Era
vissuta senza freni morali, nella strada, tra liquori, sigari neri, espressioni
triviali e uomini volgari per quattordici anni. Ora che le erano tornate le
forze, quei quattordici anni di vita infingarda e dissoluta neutralizzavano gli
effetti di un anno d’ansie e d’affetto. Veniva insinuandosi in lei un insidioso
cambiamento. Vincent non lo comprese subito; ma poi, a poco a poco, si
rese conto di quanto stava accadendo.
Fu appunto in quest’epoca, all’inizio del nuovo anno, che gli giunse una
strana lettera da Theo. Suo fratello aveva incontrato sui marciapiedi di
Parigi una donna: una creatura sola, malata, disperata. Colpita da
un’infermità ad un piede, non era in condizione di lavorare e meditava
propositi di suicidio. Vincent gli aveva mostrato la strada, e Theo non fece
altro che seguire l’esempio del suo maestro. Fece accogliere la donna in una
casa d’amici, le procurò un medico, la fece visitare, s’addossò tutte le spese
per il suo mantenimento. Nelle lettere, la chiamava «la mia malata».
«Devo sposare la mia malata, Vincent? È questo il modo migliore per
rendermi utile a lei? Devo far celebrare il matrimonio civile? Ella soffre
molto, è infelice, si è vista abbandonata dall’unica persona che amava. Che
cosa devo fare per salvarla?».
Vincent fu profondamente commosso e gli espresse la propria simpatia.
Ma Cristina andava diventando ogni giorno più difficile. Quando in casa
c’era soltanto pane e caffè, borbottava. Insisteva perché la smettesse di
prendere modelle e impiegasse quel denaro per le necessità della famiglia.
Quando non riusciva a comprarsi una veste nuova, bistrattava quella
vecchia e, a furia di trascurataggine, finiva per averla tutta macchiata
d’unto. Non rammendava più, non rattoppava più. Ricadeva sempre
maggiormente sotto l’influsso della madre, la quale andava convincendola
che un bel giorno Vincent sarebbe scappato di casa o l’avrebbe mandata via.
Dal momento che una relazione durevole era impossibile, perché stare a
preoccuparsi tanto per un legame destinato fatalmente a durare poco?
Poteva consigliare a Theo un passo simile? Il matrimonio era forse il
mezzo migliore per salvare le donne di questo genere? O l’essenziale non
era forse per loro di trovare un tetto dove ripararsi, una buona tavola per
rimettersi in forze e un po’ di bontà per tornare ad amare la vita?
«Aspetta ancora! — consigliò. — Fai per lei tutto ciò che puoi: è una
nobile causa. Ma il matrimonio non risolverebbe niente. Se tra voi sorgerà
un vero amore, allora sarà il caso di parlare di matrimonio. Ma prima vedi
se puoi salvarla».
Theo gli mandava tre volte al mese cinquanta franchi. Ora che Cristina
trascurava l’andamento della casa, il denaro durava anche meno di prima.
Vincent cercava di trattenersene quanto più poteva per procurarsi dei
modelli, in modo da raccogliere un bel numero di studi preparatori che gli
servissero per dipingere poi qualche quadro di grande impegno.
Rimpiangeva ogni franco che veniva destinato alle spese di casa. Cristina
protestava invece per ogni franco che veniva destinato agli interessi
dell’arte. Una lotta serrata. I centocinquanta franchi mensili avrebbero
appena potuto bastare a lui per procurarsi vitto, alloggio e materiale di
lavoro; il tentativo di farli bastare per quattro persone era tanto eroico
quanto assurdo. Vincent cominciò a far debiti col padrone di casa, col
calzolaio, col droghiere, col panettiere, col mercante di colori. Per colmo di
disdetta, Theo venne a trovarsi a corto di quattrini.
Vincent gli indirizzava lettere imploranti.
«Se puoi, mandami i soldi un po’ prima del venti, o almeno non dopo.
Ho soltanto più due fogli di carta e un mozzicone di matita. E nemmeno un
franco per comprar da mangiare e prendere una modella».
Tre volte al mese si ripetevano queste lettere. Quando poi arrivavano i
cinquanta franchi, già li doveva ai fornitori e non gli restava più un
centesimo per sbarcare il lunario nei dieci giorni successivi.
La «malata» di Theo doveva essere operata d’un tumore al piede. Theo
la fece ricoverare in una buona clinica. Nello stesso tempo mandava denaro
anche ai genitori, perché la nuova parrocchia del babbo era molto piccola e
gli introiti non sempre bastavano per far fronte alle necessità. Theo doveva
così mantenere se stesso e la sua «malata», Vincent, Cristina, Herman,
Antoon e la famiglia a Nuenen. Spremeva fin l’ultimo centesimo dello
stipendio e non poteva assolutamente mandare a Vincent un franco in più.
Ed ecco, accadde sul principio di marzo che Vincent si trovasse soltanto
con un franco: un biglietto tutto lacero che gli era stato rifiutato da un
bottegaio. In casa, nemmeno un tozzo di pane. Mancavano almeno nove
giorni, prima che arrivassero i soldi di Theo. E Vincent non aveva il
coraggio d’affidare per tanto tempo Cristina alla madre.
— Sien, non possiamo far patire la fame ai bambini. Sarà meglio che tu
li porti da tua madre, fino a quando Theo ci manda i soldi.
Si guardarono un istante negli occhi, posseduti entrambi dagli stessi
pensieri, ma senza osare esprimerli.
— Sì, credo non ci sia altra soluzione.
Col biglietto lacero, Vincent poté avere dal droghiere una pagnotta di
pane e un po’ di caffè. Continuava a far venire in casa modelli e modelle,
rimandando il pagamento. Diventava sempre più nervoso. Il suo disegno si
faceva secco e duro. Soffriva la fame. Gli si leggevano in volto le incessanti
preoccupazioni finanziarie. Non poteva vivere senza lavorare, ma
s’accorgeva ogni giorno, ogni ora, che andava perdendo terreno.
Alla fine dei nove giorni, il 30, giunse puntualmente la lettera di Theo
con i cinquanta franchi. La sua «malata», subita l’operazione, s’era già
rimessa, ed egli l’aveva sistemata presso una famiglia. Anche dal tono della
sua lettera trasparivano le preoccupazioni finanziarie, accompagnate da una
certa depressione morale. Scriveva infatti: «Temo di non poterti garantire
nulla per il futuro».
Questa frase fece quasi impazzire Vincent. Theo voleva semplicemente
dire che non avrebbe più potuto mandargli niente? Il fatto in se stesso non
sarebbe stato una catastrofe. Ma se Theo avesse invece voluto dire che, in
base ai disegni ch’egli gli mandava quasi ogni giorno, s’era formata la
convinzione che non aveva nessuna attitudine e non poteva ripromettersi
nulla per l’avvenire?
Passò notti insonni, gli scrisse lettere su lettere chiedendogli una
spiegazione e intanto si diede disperatamente a cercare il mezzo d’uscire da
quella tremenda situazione finanziaria. Niente da fare.

14.

Quando andò a riprendersi Cristina, la trovò in compagnia della madre,


del fratello, dell’amante del fratello e di uno sconosciuto. Stava fumando un
sigaro e bevendo gin. Non mostrò affatto di rallegrarsi all’idea di tornare da
lui.
Quei nove giorni trascorsi in casa della madre l’avevano ricondotta alle
antiche abitudini, alla rovinosa vita d’un tempo.
— Fumo finché voglio! — gridò. — Non hai il diritto di impedirmelo,
dal momento che i sigari me li procuro io. E il medico dell’ospedale mi ha
detto che posso bere gin e bitter a volontà.
— Già. Come medicina… per stimolare l’appetito.
Ella ruppe in una risata rauca. — Come medicina! Ah, sei un bel…! —
E pronunciò un termine che dai primi giorni della loro conoscenza non le
era mai più uscito di bocca.
Vincent, con i nervi esasperati dalla tensione di quei giorni, non si
dominò più e diede in uno scoppio di collera. Cristina ne imitò l’esempio.
— Non t’importa più niente di me! — urlava. — Non mi dai nemmeno da
mangiare! Perché non sai trovare denaro? Che razza d’uomo sei?
Allorché al duro inverno successe un’imbronciata primavera, le cose
presero ad andare di male in peggio. I debiti aumentavano. Lo stomaco, non
sufficientemente nutrito, divenne dolente e inerte: Vincent non poteva più
trangugiare un boccone. Dallo stomaco, il dolore salì ai denti. Notti di
spasimo. Dai denti, il dolore si trasferì all’orecchio destro. Fitte tremende,
tutto il giorno.
La madre di Cristina prese l’abitudine di venire spesso a trovare la
figlia, fumando e bevendo con lei. Aveva cessato di considerare il prossimo
matrimonio di Cristina come un bel colpo di fortuna. Un giorno Vincent si
trovò in casa anche il fratello di Sien, che però se la svignò subito al suo
entrare.
— Perché è venuto qui? — domandò a Cristina. — Che cosa vuole da
te?
— Dicono che mi sbatterai fuori.
— Sai che non farò mai una cosa simile, Sien. A meno che sia tu a
volertene andare.
— Mia madre vuole appunto che io ti pianti. Dice che non mi conviene
star qui a patir la fame.
— E dove andresti?
— A casa mia, naturalmente.
— E porteresti in quella casa anche i bambini?
— È sempre meglio che star qui a digiunare. Io posso lavorare e
guadagnarmi la vita.
— Lavorare, come?
— Be’… in un modo o in un altro.
— Come donna di servizio? Alla lavanderia?
— Già.
Egli vide subito che mentiva.
— È dunque questo che vogliono farti fare! Il mestiere d’una volta.
— Ebbene… Non è poi un mestiere tanto brutto. Dà di che vivere.
— Ascolta, Sien. Se torni in quella casa, sei perduta. Tua madre, lo sai,
ti manderà di nuovo a battere i marciapiedi. Ricorda ciò che t’ha detto il
medico di Leyden. Se ti rimetti a fare quella vita, sarà la tua fine.
— Macché. Ora sto benissimo.
— Stai bene appunto perché hai condotto una vita regolata. Ma se torni
a…
— Oh, Dio, e chi parla di tornare? A meno che tu mi mandi via.
Egli si sedette sul bracciolo della poltroncina di vimini e le posò la testa
sulla spalla. Cristina era tutta spettinata. — Credimi dunque, Sien, io non ti
abbandonerò mai. Finché sarai disposta a condividere quel poco che ho, ti
terrò con me. Ma devi star lontana da tua madre e da tuo fratello. Ti
rovineranno! Promettimi, per il tuo bene, che non andrai più da loro.
— Te lo prometto.
Due giorni dopo, rincasando dal ricovero di mendicità dov’era stato a
disegnare, trovò l’appartamento vuoto. Nessun preparativo per la cena.
Corse dalla madre di Cristina. Ella era là, che beveva.
— Te l’ho pur detto che a mia madre voglio bene — protestò Sien
mentre tornavano a casa. — Non posso andare a trovarla quando e quanto
voglio? Non sei mica il mio padrone! Ho il diritto di fare come mi piace.
Ricadeva sempre più nelle abitudini della trasandata e disordinata vita
d’un tempo. Quando Vincent cercava di emendarla e le spiegava che a
questo modo si straniava da lui, rispondeva: — Sì, lo so, non mi vuoi più
con te. — Se le faceva notare la sporcizia e la trascurataggine che c’erano in
casa, replicava: — Ebbene, sono poltrona e una buona a niente, sono
sempre stata così, che ci vuoi fare? — E quando egli l’ammoniva della
brutta fine a cui andava incontro di questo passo, rispondeva: — Sono una
disgraziata, è vero, e finirò per gettarmi nel fiume!
La madre ora veniva quasi ogni giorno, togliendo a Vincent la
compagnia di Cristina, che gli era sempre stata tanto cara. In casa, un caos
spaventoso. I pasti, una tortura. Herman andava liberamente in giro
stracciato e sporco, non frequentava nemmeno più la scuola. Cristina, meno
lavorava, più beveva e fumava. Né diceva a Vincent dove si procurasse il
denaro per questi vizi.
Venne l’estate. Vincent andava nuovamente a dipingere all’aperto. E
questo significava nuove spese per i colori, i pennelli, le tele, le cornici, i
cavalletti. Le lettere di Theo davano buone notizie circa la salute della
«malata», ma prospettavano seri problemi per quanto si riferiva ai suoi
rapporti con lei. Che cosa doveva fare di questa donna, ora che stava
meglio?
Chiudendo gli occhi dinanzi alla realtà quotidiana, Vincent continuava a
dipingere. Sapeva che la sua casa stava andando in rovina, si sentiva anche
lui trascinato nell’abissale sozzura che aveva nuovamente ghermito
Cristina. Cercava di affogare la disperazione nel lavoro. Ogni mattina,
uscendo per la campagna con un nuovo progetto, sperava di poter dipingere
un quadro così bello, così perfetto, da trovar subito un acquirente, farsi un
nome e rimettere in equilibrio le dissestate finanze. E ogni sera rincasava
con la triste convinzione di dover ancora lavorare parecchi anni prima di
raggiungere quella maestria a cui tendeva con tanto desiderio.
Solo in Antoon, il bambino, trovava sollievo e conforto. Antoon era un
prodigio di salute e di vivacità; ridendo e cinguettando, trangugiava
qualunque roba gli venisse data. Andava spesso a sedersi in un angolo dello
studio, sul pavimento. Salutava con alti strilli d’allegria i disegni di Vincent,
poi si metteva a guardare gli studi appesi alle pareti, buono buono.
Prometteva di diventare un bel ragazzino, pieno di vita. Meno Cristina si
occupava di lui, più Vincent gli voleva bene. Vedeva in Antoon il vero
scopo e il prezioso compenso di quanto aveva fatto nel corso dell’inverno.
Weissenbruch venne una volta sola. Vincent gli mostrò alcuni disegni
dell’anno precedente, che ora gli ispiravano un invincibile disgusto.
— Non avete motivo di detestarli — gli disse Weissenbruch. — Tra
molti anni, quando riprenderete tra le mani questi vostri primi saggi, vi
accorgerete ch’erano sinceri e penetranti. Badate soltanto di perseverare
accanitamente, ragazzo mio, e non lasciarvi arrestare dalle difficoltà.
Ma ciò che lo arrestò sul serio, fu un pugno in piena faccia. In
primavera aveva portato una lampada a riparare, e il padrone della bottega
aveva voluto a tutti i costi fargli prendere alcuni piatti.
— Ma io non ho soldi per pagarveli!
— Non importa. Non c’è fretta. Portateveli a casa, me li pagherete
quando potrete.
Due mesi dopo, costui venne a picchiare alla porta dello studio. Era un
tipo atticciato, con un collo grosso come la testa.
— Cosa significano queste frottole? Perché prendete la merce da me e
poi non me la pagate pur avendo i soldi per farlo?
— In questo momento sono assolutamente al verde. Vi pagherò non
appena riceverò del denaro.
— Bugia! Proprio in questi giorni avete pagato il calzolaio che sta
vicino a me.
— Sentite: io sto lavorando, e non ho voglia che mi disturbiate. Vi
pagherò quando potrò. Fate il favore d’andarvene.
— Me ne andrò quando m’avrete dato i soldi e non prima!
Vincent lo spinse ruvidamente verso la porta.
— Fuori dai piedi!
Il bottegaio non aspettava altro. Non appena si sentì toccare, gli sferrò
un pugno sulla faccia mandandolo a sbattere contro il muro. Con un altro
pugno lo stese sul pavimento, e uscì senza dir parola.
Cristina si trovava in casa della madre. Antoon, trascinandosi a quattro
zampe, attraversò lo studio, gli venne vicino e si mise a passargli le manine
sul viso, piangendo. Dopo qualche minuto Vincent rinvenne, salì
penosamente in soffitta e si buttò sul letto.
I pugni non gli avevano prodotto nessuna lesione. Non sentiva dolore.
Cadendo non s’era fatto male. Ma quei due pugni avevano spezzato
qualcosa dentro di lui: l’avevano sconfitto. Ed egli lo sapeva.
Cristina tornò. Salì in camera da letto. In casa non c’era nulla: né soldi
né pane. Ella si domandava spesso come facesse Vincent a tenersi vivo. Lo
vide disteso di traverso sul letto con le braccia e la testa spenzolanti da una
parte, i piedi dall’altra.
— Che è successo?
Solo dopo un certo tempo egli trovò la forza di girarsi e di mettere la
testa sul guanciale.
— Sien, devo partire dall’Aia.
— Sì… Lo so.
— Devo andar via di qua. In campagna, non importa dove. A Drenthe,
forse. Dove possiamo vivere senza spender tanto.
— Vuoi ch’io venga con te? È un buco, Drenthe. Che cosa farò quando
tu non hai quattrini e non c’è niente da mangiare?
— Non lo so, Sien. Salterai i pasti, immagino.
— Mi prometti di usare tutti i centocinquanta franchi per le spese di
casa? Di non prendere più modelle né comprare colori?
— Non posso, Sien. Sono cose che hanno un’importanza essenziale.
— Per te, sì.
— Per te, no. Si capisce.
— Anch’io ho il diritto di vivere, Vincent. E non posso vivere senza
mangiare.
— Né io posso vivere senza dipingere.
— Ebbene, del denaro sei padrone tu… E tu conti più di tutto…
Capisco. Hai qualche soldo? Andiamo in quell’osteria di fronte alla stazione
di Ryn.
La bettola era impregnata d’un odore di vino acido. I due tavoli vicini
dove s’erano incontrati la prima volta erano liberi. Cristina puntò in quella
direzione, precedendolo. Ordinarono entrambi un bicchiere di vino. Cristina
giocherellava col gambo del bicchiere. Vincent ricordò come fosse stato
attratto dalle sue mani di lavoratrice quando l’aveva vista compiere
l’identico gesto, allo stesso tavolino, due anni addietro.
— Me l’hanno detto tante volte che mi avresti lasciata — mormorò
Sien. — E anch’io lo sapevo.
— Io non voglio abbandonarti, Sien.
— Non è un abbandono, Vincent. Tu mi hai sempre fatto del bene.
— Se vuoi continuare a vivere con me, ti condurrò a Drenthe.
Ella scosse la testa senza emozione. — No, i mezzi non bastano per tutti
e due.
— Tu sai comprendere, vero, Sien? Se avessi di più, ti darei tutto. Ma
quando devo scegliere tra nutrir te e nutrire il mio lavoro…
Ella gli posò la mano sulle sue: Vincent sentì la ruvidezza del palmo.
— Va bene — gli disse. — Non ti devi amareggiare. Hai fatto per me
tutto ciò che potevi. Era ormai tempo, credo, che tutto finisse… Ecco.
— Vuoi proprio che ci lasciamo, Sien? Se questo può renderti felice, io
ti sposerò e ti porterò con me.
— No. Devo stare con mia madre. Ognuno di noi deve vivere la propria
vita. Tutto si accomoderà. Mio fratello affitterà un’altra casa per la sua
ragazza e per me.
Vincent vuotò il bicchiere, assaporando la feccia depositata sul fondo.
— Ho cercato d’aiutarti, Sien. Ti ho amata e ti ho dato tutta la bontà che
avevo in me. Vorrei che in compenso tu facessi una cosa per me, una cosa
sola.
— Cioè? — gli domandò con tono indifferente.
— Non rimetterti più a fare quel mestiere. Ti ucciderà! Per amore di
Antoon, non ricominciare più quella vita.
— Possiamo ancora ordinare un bicchiere di vino?
— Sì.
Ella tracannò d’un sorso metà del contenuto.
— Io so soltanto che non posso guadagnare abbastanza, specialmente
ora che dovrò pagare a mia madre la pensione per tutti i bambini. Se quindi
mi rimetterò a girare per le strade, non è perché mi piaccia, ma perché non
posso farne a meno.
— Se trovi un lavoro che ti renda abbastanza, mi prometti di non far più
quella vita, è vero?
— Certo che te lo prometto.
— Ti manderò dei soldi ogni mese, Sien. Per il bambino più piccolo
pagherò sempre io. Desidero che tu lo tratti con ogni riguardo, che pensi al
suo avvenire.
— Starà benissimo… Come gli altri.
Vincent comunicò a Theo la propria intenzione di trasferirsi in
campagna e di rompere la relazione con Cristina. Theo gli rispose
immediatamente, accludendogli un biglietto da cento franchi per pagare i
creditori ed esprimendogli calorosamente la sua approvazione.
«La mia malata — aggiungeva — è scomparsa l’altra notte. Ora sta
benissimo; ma a quanto pare non siamo fatti per andar d’accordo. S’è
portato via tutto e non ha lasciato indirizzo. Meglio così. Ora tu ed io ci
siamo finalmente alleggeriti d’un bel peso».
Vincent immagazzinò tutto il mobilio in soffitta, ripromettendosi di
tornare un giorno o l’altro all’Aia. La vigilia della progettata partenza per
Drenthe, ricevette una lettera e un pacco da Nuenen. Il pacco conteneva un
po’ di tabacco e, avvolto in carta velina, uno di quei formaggi cotti al forno
ch’erano una specialità di sua madre.
«Quando verrai a dipingere il cimitero con quelle croci di legno?», gli
scriveva suo padre.
Vincent scoprì immediatamente in se stesso un immenso desiderio
d’andare a casa, dai suoi. Era fisicamente scosso, logorato dalla fame, dalla
nevrastenia, dalla stanchezza e dallo scoramento. Alcune settimane laggiù,
accanto alla mamma, gli avrebbero fatto bene allo spirito e al corpo. Un
senso di pace quale non provava più da molti mesi lo invase, al pensiero
della sua cara campagna del Brabante, con le siepi, le dune e i contadini nei
campi.
Cristina e i due bambini lo accompagnarono alla stazione. Eccoli tutti
quanti sulla banchina, incapaci di trovar parole. Giunse il treno, Vincent
salì. Cristina rimase lì col piccino al seno, tenendo Herman per mano.
Vincent stette a guardarli dal finestrino finché il treno s’allontanò nella luce
divampante del sole e la donna scomparve per sempre nella fuligginosa
oscurità della stazione.
PARTE QUARTA

NUENEN

1.

La residenza del vicario di Nuenen era un edificio a due piani,


intonacato di bianco, dietro cui si stendeva un imponente giardino. Olmi,
siepi, aiuole, uno stagno, tre querce. Nuenen contava duemilaseicento
abitanti, ma soltanto un centinaio di essi erano protestanti. La comunità
religiosa affidata alle cure di Theodorus era veramente esigua. Nuenen
risultava, sotto questo aspetto, inferiore alla prospera cittadina di Etten.
In realtà, il paese consisteva semplicemente in un piccolo gruppo di
case allineate ai due margini della strada per Eindhoven, capoluogo del
distretto. La popolazione era formata in maggior parte da tessitori e
contadini, le cui casupole punteggiavano la landa di minuscole macchie di
colore. Gente timorata di Dio, gente che faticava e viveva secondo le
abitudini e le tradizioni dei suoi vecchi.
Sulla facciata della casa del vicario, sopra la porta, spiccava in nere
lettere di ferro il numero «A0 1764». Dalla strada si passava direttamente in
un ampio atrio che fendeva la casa in due. A sinistra, tra la sala da pranzo e
la cucina, una rozza scala che conduceva alle camere da letto. A Vincent
venne assegnata quella situata sopra la stanza di soggiorno, dove già
dormiva suo fratello Cor. La mattina, svegliandosi, vedeva il sole sorgere al
disopra dell’esile campanile della chiesa del babbo avvivando di tenui e
delicati colori le acque dello stagno. Verso l’ora del tramonto, quando le
tinte erano più intense che non all’alba, sedeva presso la finestra ed
osservava il ricco manto iridescente di colori che si posava sulla superficie
dello stagno e che lentamente si dissolveva nei grigiori del crepuscolo.
Voleva bene ai suoi genitori; i suoi genitori gli volevano bene. Tutti e tre
avevano ora formulato il deciso proposito di mantenere i loro rapporti in un
clima di affettuosa cordialità, di perfetto accordo. Vincent dormiva molto,
mangiava molto, usciva talvolta a far camminate nella landa. Discorreva,
dipingeva, non leggeva più. Tutti in casa si mostravano con lui
studiatamente gentili: ed egli faceva altrettanto con loro. Rapporti
accuratamente vigilati. Ognuno, prima d’aprir bocca, doveva dire a se
stesso: «Attenzione a come parli! Bada di non rompere la buona armonia!».
La buona armonia durò finché durarono le cattive condizioni di salute di
Vincent. Il quale non poteva certamente sentirsi a suo agio, convivendo con
persone che la pensavano tanto diversamente da lui. Quando il babbo
annunciava: — Ora leggo il Faust di Goethe. Si tratta d’una traduzione del
reverendo Ten Kate, quindi non può essere un libro immorale — Vincent si
sentiva increspare i nervi.
Pensava dapprima di prendersi soltanto due settimane di vacanze, ma il
fascino che aveva per lui il Brabante gli infuse il desiderio di un più lungo
soggiorno. Voleva dipingere semplicemente e tranquillamente dal vero,
dalla natura, cercando d’esprimere soltanto ciò che vedeva. Non aspirava
che a vivere profondamente immerso nel cuore della campagna, ritraendo la
vita rurale. Come il buon Millet, desiderava vivere con i contadini,
comprenderli, ritrarli. Era fermamente convinto che certi individui,
trapiantati dalla campagna in città, della campagna conservano impressioni
incancellabili e per tutta la vita soffrono la nostalgia della terra e dei
contadini.
Sempre aveva avuto la certezza che un giorno sarebbe tornato nel
Brabante per non distaccarsene mai più. Ma non poteva restare a Nuenen,
se i suoi genitori non lo volevano.
— Una porta non può essere che aperta o chiusa — disse al babbo. —
Cerchiamo dunque di venire ad un’intesa.
— Sì, Vincent, anch’io lo desidero tanto. Vedo che, volere o no, la tua
attività di pittore promette di dare qualche risultato e ne sono veramente
lieto.
— Benissimo. E allora dimmi francamente se credi che possiamo vivere
insieme, qui, d’amore e d’accordo. Vuoi che mi fermi?
— Sì.
— Fino a quando?
— Finché vuoi. Questa è casa tua. Il tuo posto è con noi.
— E se non andassimo poi d’accordo?
— Pazienza. Cercheremo di vivere ugualmente in pace, sopportandoci a
vicenda.
— Ma dove posso impiantare il mio studio? Tu non vuoi ch’io lavori in
casa.
— Ci ho pensato. Perché non ti potresti sistemare in quel locale, là in
giardino? L’avresti a tua esclusiva disposizione. Nessuno ti darebbe noia.
Il locale di cui parlava il babbo era situato appena fuori dalla cucina, ma
isolato, senza porta di comunicazione. Poco più d’un bugigattolo, con una
finestrina stretta e alta che guardava in giardino e nessun altro pavimento
che la nuda terra, sempre umida d’inverno.
— Accenderemo un bel fuoco qua dentro, Vincent, e faremo scomparire
l’umidità. Poi metteremo un pavimento d’assi, in modo che tu possa star
bene. Che ne dici?
Vincent si guardò intorno. Era una stanza poverissima, che
rassomigliava molto all’interno delle casupole di contadini sparse per la
landa. Egli l’avrebbe trasformata in uno studio rustico.
— Se quella finestra è troppo piccola — disse Theodorus — ora
abbiamo qualche soldo da parte e possiamo farla allargare.
— No, no, va benissimo così. Il modello avrà la stessa dose di luce che
avrebbe se andassi a ritrarlo nella sua abitazione.
Accesero subito il fuoco e, quando ogni traccia d’umidità fu scomparsa
dai muri e dal soffitto e il pavimento di terra apparve ben risecchito, vi
fecero l’impiantito in legno. Vincent portò qui il suo lettino, un tavolo, una
sedia e i cavalletti. Attaccò un bel numero di disegni alle pareti, tracciò a
rudi pennellate il nome Gogh sul bianco intonaco del muro che divideva lo
studio dalla cucina e si dispose a diventare un Millet olandese.

2.

I tipi più interessanti di Nuenen erano i tessitori. Abitavano in casolari


dal tetto di paglia e di giunchi, generalmente di due stanze. Nella prima,
fornita d’una minuscola finestra che lasciava penetrare appena un filo di
luce, viveva la famiglia. I muri presentavano, a circa un metro d’altezza,
delle rientranze rettangolari dov’erano sistemati i giacigli. Una tavola,
qualche sedia, una stufa a carbone, una rozza credenza per le stoviglie e le
pentole. Il pavimento era di terra, disuguale; e di terra i muri. Nella stanza
attigua, ampia circa un terzo della precedente, col tetto che scendeva a
tagliare il muro esterno a metà, si trovava il telaio.
Un tessitore che lavorasse di buona lena poteva confezionare una pezza
di cinquantacinque metri la settimana. Mentre egli tesseva, una donna
doveva preparargli le spole. Su quella pezza di stoffa s’aveva un guadagno
netto di quattro franchi e mezzo la settimana. Quando il tessitore la portava
al datore di lavoro, spesso si sentiva dire che soltanto tra una settimana o
due gli sarebbe stata affidata l’ordinazione di un’altra pezza. Vincent
riscontrò in questa gente uno spirito assai diverso da quello dei minatori del
Borinage. Gente calma, composta, nei cui discorsi non si sentiva mai una
parola che avesse sapore di ribellione. Ma avevano un’aria allegra, press’a
poco, come i cavalli dei fiaccherai e le pecore cacciate in un piroscafo per
essere trasportate in Inghilterra.
Trovò un giorno, incisa su un telaio di quercia scurita dal tempo, la data
del 1730. Accanto al telaio, davanti ad una finestrella che dava su un lembo
di prato, c’era un bambino sulla seggiolina. Il poveretto stava lì per ore e
ore a seguire con gli occhi il moto della spola. Una povera stanza senza
pavimento: eppure Vincent vi scoprì una certa atmosfera di pace e di
bellezza, che cercò di rendere con i pennelli.
La mattina s’alzava presto e passava tutta la giornata per la campagna o
nei tuguri dei contadini e dei tessitori. Con la gente dei campi e dei telai si
sentiva nel proprio ambiente. Non inutilmente aveva passato tante serate
con i minatori, i carbonai e i contadini, fantasticando e chiacchierando
vicino alla stufa. Osservando continuamente, a tutte le ore del giorno, la vita
di questa gente, vi si era così intimamente immedesimato che non pensava
quasi più a nient’altro. Andava cercando «ce qui ne passe pas dans ce qui
passe».
Si riabbandonò alla sua radicata passione del disegno di figura; ma a
questa passione se n’era ora aggiunta un’altra: quella dei colori. I campi di
grano quasi maturo avevano una tonalità d’oro scuro, una tonalità di bronzo
fulvo e corrusco che acquistava sorprendente risalto dal contrasto con la
tonalità di cobalto del cielo. In fondo figure di donne: molto rudi, molto
energiche, facce e mani abbronzate dal sole, impolverate vesti turchine, i
capelli imprigionati in copricapi neri.
Quando percorreva lo stradone sgambando vigorosamente, col
cavalletto legato dietro la schiena e una tela fresca di colore sotto il braccio,
in fondo alle persiane d’ogni casa s’apriva uno spiraglio ed egli si trovava
sotto il fuoco di curiosi e scandalizzati occhi femminili. In casa s’accorse
che quel vecchio proverbio, «Una porta non può esser che aperta o chiusa»,
non risponde affatto a verità, quando venga applicato ai rapporti tra i
membri d’una famiglia. La porta della felicità domestica nella casa
parrocchiale aveva l’abitudine di rimanere in una certa misteriosa
posizione, che non era né decisamente aperta né decisamente chiusa. La
sorella Elisabetta lo detestava: temeva che le sue eccentricità le mandassero
a monte le probabilità di trovare un marito a Nuenen. Willemien gli voleva
bene, ma lo trovava fastidioso. Quanto a suo fratello Cor, soltanto più tardi
dovevano intendersi e stringere amicizia.
Vincent non pranzava a tavola con la famiglia, ma in un angolo, col
piatto sulle ginocchia e i disegni della giornata davanti agli occhi,
appoggiati contro lo schienale d’una sedia, esaminando i propri lavori con
attenzione penetrante, strappandoli inesorabilmente quando vi ravvisava
imperfezioni o li riteneva scadenti. Con i suoi non parlava mai. Raramente
essi gli rivolgevano la parola. Mangiava pane duro, perché non voleva
prender l’abitudine di trattarsi bene. Talvolta, quando a tavola si discuteva
di qualche scrittore a lui caro, diceva anche lui qualcosa. Ma in genere
trovava che meno discorrevano tra loro, più andavano d’accordo.

3.

Da circa un mese dipingeva per la campagna, quando cominciò ad avere


la strana sensazione d’essere osservato. Sapeva che gli abitanti di Nuenen lo
guardavano con curiosità; sapeva che spesso i contadini nei campi
s’appoggiavano al manico della zappa e stavano a contemplarlo stupiti. Ma
ora si trattava di una cosa diversa. Aveva la sensazione d’essere non
soltanto osservato, ma seguito. Nei primi giorni cercò di scrollar via
quest’impressione, con una certa impazienza; ma non riusciva a liberarsi
dalla sensazione fisica d’aver continuamente due occhi puntati su di sé. Più
d’una volta, in piena campagna, si guardò attentamente intorno: nulla. Un
giorno, voltandosi bruscamente, gli parve di vedere una bianca camicetta di
donna scomparire dietro un albero. Un’altra volta, mentre usciva da una
casupola di tessitori, una figura s’eclissò rapidamente per la strada. Una
terza volta, infine, mentre stava dipingendo nei boschi, s’allontanò dal
cavalletto per andare a bere in un laghetto. Tornando, notò sul colore fresco
del quadro impronte di dita.
Gli occorsero quasi due settimane per individuare quella donna. Stava
disegnando tipi di contadini nella landa. C’era nelle vicinanze un vecchio
carro abbandonato. E là ella stava nascosta, mentre Vincent lavorava. Con
mossa improvvisa egli raccolse il cavalletto e la tela, fingendo di non averla
vista e si diresse verso il paese. La donna lo precedette, camminando svelta.
Vincent la pedinò senza farsene accorgere e la vide entrare nella casa vicina
alla residenza parrocchiale.
— Chi abita qui vicino a noi, mamma? — domandò quella sera a
pranzo.
— I Begeman.
— Chi sono?
— Non sappiamo molto sul loro conto. La famiglia è composta dalla
madre e da cinque figlie. Il padre dev’essere morto da un po’ di tempo.
— Che gente sono?
— Difficile a dirlo. Si tengono piuttosto appartate.
— Cattoliche?
— No, protestanti. Il padre era un Pastore.
— Qualcuna di quelle ragazze è da sposare?
— Tutte e cinque. Perché questa domanda?
— Così. Chi le mantiene?
— Nessuno. Devono essere abbastanza ricche.
— Non sai come si chiamino, vero?
La mamma lo guardò incuriosita. — No.
Il giorno dopo, Vincent tornò allo stesso posto. Voleva dipingere le
contadine vestite di turchino nei campi di grano maturo o contro lo sfondo
di foglie avvizzite d’una siepe d’arbusti di faggio. Gli abitanti di Nuenen
vestivano di ruvida stoffa tessuta da loro stessi, con un ordito misto di
turchino e di nero. Quando la stoffa si scoloriva per effetto dell’aria, del
sole e delle intemperie, assumeva una tinta indicibilmente tenue e delicata,
che metteva efficacemente in risalto l’abbronzatura del corpo.
Verso la metà della mattinata, sentì nuovamente su di sé lo sguardo della
donna. Sbirciando con la coda dell’occhio la intravvide, nascosta tra i
cespugli dietro il carro abbandonato.
«Oggi non me la lascerò sfuggire — decise — anche a costo di dover
interrompere questo studio».
Andava abituandosi sempre più a «buttar giù» fissando d’un solo colpo,
con un impeto d’appassionata energia, l’impressione della scena che gli
stava dinanzi. Ciò che più l’aveva colpito nei quadri dei vecchi pittori
olandesi era il fatto ch’erano stati dipinti di getto: nei grandi maestri ogni
particolare era «buttato giù» con una pennellata risoluta, senza più
ritoccare. Essi avevano lavorato con focosa celerità per mantenere intatta la
purezza della prima impressione, dello stato d’animo in cui un dato motivo
era stato concepito.
Nel fervore della passione creativa, dimenticò completamente la donna.
Un’ora dopo, quando gli accadde di lanciare un’occhiata intorno, constatò
che era uscita di tra i cespugli e si trovava ora dietro il carro. Ebbe
l’impulso di piombarle addosso e domandarle perché lo seguisse di
continuo, ma non seppe distogliersi dal proprio lavoro. Guardando
nuovamente dopo un po’ di tempo, ebbe un sussulto di sorpresa: la donna
era di qua dal carro e lo fissava insistentemente. Era la prima volta che si
mostrava apertamente.
Continuò a lavorare febbrilmente. Più accanimento metteva nel lavoro,
più sembrava che la donna s’avvicinasse. Più passione infondeva nel
quadro, più brucianti si facevano gli occhi puntati su di lui. Girando
leggermente il cavalletto per avere la tela nella giusta luce, la vide dritta in
mezzo al campo, a metà strada tra sé e il carro. Sembrava che avanzasse in
preda a sonno ipnotico. Un passo dopo l’altro, s’avvicinava sempre più,
soffermandosi ogni volta, tentando di reagire all’impulso, ma inutilmente,
attratta verso di lui da un potere più forte della sua volontà. Egli se la
sentiva alle spalle. Si voltò di scatto, la guardò negli occhi. C’era sul volto
della donna un’espressione di spavento e d’eccitazione febbrile: sembrava
dominata da un’emozione prepotente alla quale non sapesse reagire. Non
guardava lui, ma il quadro. Vincent aspettò che dicesse qualcosa. Ella
taceva. Vincent le voltò nuovamente le spalle, si rimise al lavoro e, in un
impeto finale d’energia, finì il quadro. La donna non si moveva. Le falde
della sua gonna gli sfioravano la giacca.
Era pomeriggio inoltrato. La donna si trovava lì nel campo da parecchie
ore. Vincent si sentiva esausto, con i nervi tesi dalla fatica e dall’entusiasmo
della creazione. S’alzò, si volse verso di lei.
La bocca le si inaridì. Si umettò con la lingua il labbro superiore, e con
questo il labbro inferiore. Ma quella patina luccicante di saliva scomparve
istantaneamente, lasciandole le labbra secche come prima. Si teneva una
mano alla gola, e pareva facesse fatica a respirare. Volle parlare, non poté.
— Io sono Vincent Van Gogh, il vostro vicino. Ma immagino che lo
sappiate già.
— Sì. — Un bisbiglio così debole ch’egli lo udì a malapena.
— Quale delle sorelle Begeman siete voi?
Ella vacillò leggermente, e si sostenne afferrandosi alla manica di lui.
Poi cercò di nuovo di umettarsi le labbra con la lingua egualmente arida, e
fece diversi tentativi di parlare prima di riuscirvi.
— Margot.
— E perché mi seguite così, Margot Begeman? Me ne sono accorto da
parecchie settimane.
La donna soffocò un grido, gli conficcò le unghie nelle braccia per
sostenersi, ma cadde svenuta.
Vincent s’inginocchiò, le passò il braccio sotto la testa e le ravviò i
capelli su dalla fronte. Il sole tramontava in quel momento, rosso, nelle
lontananze della campagna e i contadini s’avviavano con passo stanco verso
casa. Vincent e Margot rimasero soli. Egli la guardò attentamente. Non era
bella. Doveva aver passato di parecchio la trentina. All’angolo sinistro la
bocca si interrompeva bruscamente, mentre dall’angolo destro si dipartiva
una linea sottile che si prolungava fino alla mascella. Gli occhi erano
cerchiati d’azzurro, con minuscole lentiggini. Nella pelle si scorgeva già un
preannuncio di rughe.
In una borraccia, Vincent aveva un po’ d’acqua. Le bagnò la faccia con
uno di quegli strofinacci che usava per asciugare i pennelli. Ella spalancò
gli occhi. Begli occhi d’un castano scuro, teneri, quasi mistici. Vincent si
inumidì le punte delle dita e gliele passò sulla faccia. Ella rabbrividì contro
il suo braccio.
— State meglio, Margot?
La donna rimase ancora distesa un istante, fissando i suoi occhi
verdazzurri, così simpatici, così penetranti, così intelligenti e comprensivi.
Poi, con un singhiozzo selvaggio che parve prorompere dalle sue più intime
fibre, gli serrò le braccia intorno al collo e affondò le labbra nella sua barba.

4.

Il giorno dopo s’incontrarono in un luogo lontano dal paese, dove


s’erano dato appuntamento. Margot indossava un’affascinante veste bianca
dal colletto alto e portava in mano un cappello estivo. Benché ancora agitata
da un certo nervosismo, pareva si dominasse meglio del giorno prima. Al
suo arrivo, Vincent posò la tavolozza. Margot non possedeva nemmeno
l’ombra della delicata bellezza di Kay; ma, paragonata a Cristina, sembrava
una donna incantevole.
Vincent s’alzò dal suo seggiolino. Non sapeva che fare. Normalmente
era prevenuto contro le donne che portavano vesti: il suo campo era quello
delle donne che indossavano giacche e sottane. Le donne della cosiddetta
«buona società» olandese non gli riuscivano particolarmente attraenti: né
per dipingerle, né semplicemente per guardarle. Preferiva le semplici
servette nelle quali si riscontrava spesso qualcosa che faceva pensare a
Chardin.
Margot alzò il viso e lo baciò: con naturalezza, con aria di possesso,
come se fossero in amorosi rapporti da tanto tempo; poi lo tenne stretto a sé,
con un breve tremito. Vincent allargò per terra la giacca, perché vi si
sedesse. A sua volta si rimise a sedere sul seggiolino; Margot gli si
appoggiò al ginocchio, alzandogli lo sguardo in viso con un’espressione che
egli non aveva mai visto negli occhi di nessun’altra donna.
— Vincent… — disse lei, semplicemente per la gioia di pronunciare il
suo nome.
— Sì, Margot. — Non sapeva che dire.
— Hai pensato male di me, ieri sera?
— Pensar male di te? No. Perché avrei dovuto farlo?
— Stenterai forse a crederlo, Vincent; ma ieri, quando t’ho baciato, era
la prima volta in vita mia che baciavo un uomo.
— Davvero? Non sei mai stata innamorata?
— Mai.
— Peccato.
— Sì, vero? — Tacque un momento. — Tu hai amato altre donne, no?
— Sì.
— Molte?
— No. Soltanto… tre.
— E ne sei stato riamato?
— No, Margot.
— Eppure avrebbero dovuto volerti bene.
— Sono sempre stato disgraziato in amore.
Margot gli scivolò vicino e posò il braccio sulle sue ginocchia,
facendogli scherzosamente scorrere le dita dell’altra mano sul viso e
sfiorandogli il naso prominente e robusto, la maschia bocca semiaperta, il
mento duro e tondeggiante. Poi ebbe uno strano fremito, e ritrasse la mano.
— Come sei forte! — mormorò. — Tutto in te dà l’impressione di
forza: le braccia, il mento, la barba. Non ho mai visto un uomo come te.
Egli le prese rudemente la faccia tra le mani. L’amore e l’eccitazione
che trasparivano da questo gesto parlavano con accento d’implorazione.
— Ti piaccio un poco? — gli domandò ansiosamente la donna.
— Sì.
— E mi bacerai?
Vincent la baciò.
— Non pensare male di me, Vincent, te ne prego. Non ho saputo
dominarmi. Vedi, mi sono innamorata… di te… e non ho avuto la forza di
star lontana.
— Ti sei innamorata di me? Ti sei davvero innamorata di me? Ma
perché?
Ella rovesciò la faccia e lo baciò sull’angolo della bocca.
— Ecco perché — disse.
Tacquero, assorti. Poco lontano si stendeva il «Cimetière des Paysans».
Per secoli, i contadini erano stati messi a dormire l’ultimo sonno in quegli
stessi campi su cui avevano lavorato e sudato da vivi. Vincent stava
tentando di dire nel suo quadro quale cosa semplice fosse la morte;
semplice come il cadere d’una foglia in autunno: un po’ di terra smossa,
una croce di legno. I campi intorno al margine erboso del cimitero col suo
muro di cinta formavano un’ultima linea sullo sfondo del cielo, come
l’orizzonte marino.
— Sai qualcosa di me, Vincent? — gli domandò sommessamente la
donna.
— Pochissimo.
— Ti hanno… qualcuno ti ha detto… la mia età?
— No.
— Ebbene, ho trentanove anni. Tra pochi mesi ne compirò quaranta. Da
cinque anni mi dico che se non avrò amato qualcuno prima d’uscire dalla
trentina mi ucciderò.
— Ma è così facile amare, Margot!
— Ah, tu lo credi?
— Certo. Il difficile è essere riamati.
— No. A Nuenen è veramente difficile amare. Son più di vent’anni che
io desidero d’amare qualcuno. E non ne sono mai stata capace.
— Mai?
Ella stornò lo sguardo. — Una volta, quand’ero ancora giovinetta, ho
voluto bene ad un ragazzo…
— Ebbene?
— Era cattolico. Lo condussero via.
— Chi?
— Mia madre e le mie sorelle.
S’inginocchiò nella terra grassa del campo, insudiciandosi la graziosa
veste bianca. Poggiò i gomiti sulle ginocchia di lui e si prese la faccia tra le
mani. Le ginocchia di Vincent le toccavano i fianchi.
— La vita d’una donna è vuota, Vincent, se le manca l’amore.
— Lo so.
— Ogni mattina, svegliandomi, mi dicevo: «Oggi troverò certamente
qualcuno da amare! Trovano le altre donne, perché dunque non dovrei
trovare anch’io?». Veniva la sera, e mi ritrovavo sola e triste. Una
interminabile serie di giorni vuoti, Vincent. In casa non ho niente da fare (ci
sono le persone di servizio), ed ogni ora della mia giornata era tormentata
da uno spasimoso bisogno d’amore. Mi dicevo ogni sera: «Tanto valeva che
fossi sotto terra, oggi, per quel che hai vissuto». Continuavo a sostenermi
col pensiero che un bel giorno, chissà come, sarebbe giunto un uomo che
avrei potuto amare. E intanto gli anni passavano. Trentasette, trentotto,
trentanove. Non mi sentivo di affrontare i quarant’anni senz’aver amato. Ed
ecco sei giunto tu, Vincent. Ora anch’io ho finalmente amato!
Era un grido di trionfo, come se avesse conseguito una grande vittoria.
Si protese verso di lui, offrendogli la bocca. Vincent le carezzò i capelli
morbidi, spingendoli dietro le orecchie. Ella gli gettò le braccia al collo e gli
tempestò la faccia di baci, di piccoli morsi nervosi. Seduto sul suo
seggiolino da pittore con la tavolozza accanto, il «Cimetière des Paysans»
di fronte e quella donna inginocchiata ed avvinghiata a lui, immerso nel
flusso della travolgente passione di lei, Vincent conobbe per la prima volta
in vita sua il delizioso e prodigioso balsamo ristoratore dell’incontenibile
amore d’una donna. E trepidò, perché si rendeva conto di trovarsi sul
terreno d’una realtà che aveva qualcosa di sacro.
Margot si sedette per terra tra le sue gambe, la testa riversa sulle sue
ginocchia. Le guance le divampavano, gli occhi le luccicavano; respirava
profondamente e con sforzo. Il fuoco dell’amore la faceva parer più
giovane: non dimostrava più di trent’anni. Insensibile, incapace di
condividere quell’eccitazione, Vincent prese a farle scorrere le dita sulla
faccia, finché ella gli afferrò la mano, la baciò e se la premette contro la
guancia infocata. Soltanto alcuni istanti dopo ruppe il silenzio.
— Lo so che tu non mi ami — disse con tono calmo. — Sarebbe
chieder troppo. Io ho soltanto pregato Dio di concedermi di innamorarmi.
Non mi sono mai sognata che qualcuno potesse amarmi. È l’amare che
conta, Vincent, non l’essere riamati.
Vincent pensò a Ursula e a Kay.
— È vero — rispose.
Ella strofinò la nuca contro il suo ginocchio, guardando in alto il cielo
azzurro. — Mi permetterai di venire con te? Se non vorrai parlare, io me ne
starò lì vicino a te, senza muovermi, senza dir nulla. Consentimi solo di
starti vicina; ti prometto che non ti disturberò nel tuo lavoro.
— Certo che puoi venire. Ma dimmi, Margot: se non c’era nessuno che
ti piacesse a Nuenen, perché non sei andata via? Almeno di tanto in tanto,
per un po’ di tempo. Ti mancava il denaro?
— Oh, denaro ne ho tanto! Mio nonno mi ha lasciato un buon reddito.
— E allora perché non sei andata ad Amsterdam o all’Aia? Avresti
incontrato uomini interessanti.
— Non volevano.
— Nessuna delle tue sorelle è sposata, vero?
— Nessuna, caro. Siamo tutte e cinque nubili.
Vincent provò un’impressione dolorosa. Era la prima volta che una
donna gli diceva «caro». Aveva provato come fosse triste amare e non
essere riamati, ma non aveva mai immaginato l’infinita dolcezza d’avere
una donna che gli volesse bene con tutta l’anima, con tutto il suo essere.
Aveva finora considerato la passione di Margot per lui come una specie di
curiosa avventura a cui, in fondo, sarebbe rimasto sentimentalmente
estraneo. Quell’unica, semplice parola, pronunciata con tanta dolcezza e
tanta tenerezza, mutò completamente il suo stato d’animo. Trasse a sé
Margot, tutta fremiti e brividi, e la tenne stretta contro il proprio corpo.
— Vincent, Vincent… Ti amo tanto!
— Che strana impressione mi fa, sentirmi dire questo da te.
— Non m’importa più d’aver dovuto trascorrere tutti quegli anni senza
amore. Valeva la pena d’aspettarti tanto, caro, adorato. In tutti i miei sogni
d’amore non ho mai immaginato di poter provare per qualcuno ciò che
provo per te.
— Anch’io ti amo, Margot.
Ella si ritrasse leggermente. — Non occorre che tu mi dica questo,
Vincent. Col tempo imparerai forse a volermi un po’ di bene. Ma adesso ti
chiedo soltanto di lasciarti amare.
Scivolò via dalle sue braccia, tirò più in là la giacca e si sedette.
— Adesso rimettiti a lavorare, caro. Io non ti devo intralciare. E mi
piace tanto vederti dipingere.

5.

Quasi ogni giorno Margot l’accompagnava nelle sue scorribande.


Accadeva spesso che percorressero una decina di chilometri per arrivare in
una zona della landa ch’egli voleva ritrarre: e vi arrivavano entrambi
stanchi e sfiniti dalla calura. Ma Margot non si lamentava mai. Aveva subito
una sconcertante metamorfosi. I capelli, che parevano prima d’un colore
castano scuro, andavano prendendo una vivida tinta bionda. Le labbra aride
e sottili s’erano fatte rosse e fiorenti. La carnagione, già disseccata e quasi
rugosa, appariva ora levigata, morbida e calda. Gli occhi s’erano ingranditi,
i seni spiccavano sodi e forti, la voce aveva un timbro nuovo, l’andatura
s’era fatta più vigorosa e decisa. L’amore aveva fatto sgorgare dentro di lei
qualche misteriosa sorgente: ed ella era continuamente immersa nelle sue
acque prodigiose, vero elisir d’amore. Gli faceva la sorpresa di squisiti
spuntini, ordinava a Parigi certe stampe di cui egli aveva parlato con
ammirazione, non gli intralciava mai il lavoro. Quando Vincent dipingeva,
se ne stava tranquillamente seduta al suo fianco, sprofondata nell’atmosfera
di quella lussureggiante passione che egli creava impetuosamente sulla tela.
Margot non s’intendeva di pittura, ma possedeva una intelligenza
pronta, una vibrante sensibilità e il dono di saper dire la parola giusta nel
giusto momento. Gli dava l’impressione d’un violino di Cremona guastato
da restauratori da strapazzo.
«Se l’avessi incontrata dieci anni fa!», pensava.
Margot gli domandò un giorno, mentre s’accingeva a cominciare un
nuovo quadro: — Come puoi esser sicuro che il tratto di paesaggio da te
scelto ti riuscirà bene sulla tela?
— Se voglio far qualcosa — rispose Vincent dopo un momento di
riflessione — non devo aver paura d’ottenere dei risultati infelici. Quando
vedo una tela bianca che mi guarda con quell’aria idiota, bisogna che butti
giù qualcosa.
— Butti giù davvero. Non ho mai visto far nulla così alla svelta.
— Ebbene, non posso fare diversamente. Mi sento come paralizzato, se
sto lì a guardare una tela bianca che mi dice: «Non sai niente!».
— In sostanza, vuoi dire ch’è una specie di rischio, di sfida?
— Per l’appunto. La tela vuota mi fissa con quell’aria stupida, ma io so
quanto abbia paura del pittore appassionato che osa e che una volta per
sempre ha spezzato il sortilegio del «non sai», del «non puoi». Anche la
vita, Margot, si presenta ad un uomo come una tela bianca, infinitamente
vuota, disperatamente scoraggiante, su cui non è scritto nulla: proprio come
questa tela da dipingere.
— È vero.
— Ma l’uomo di fede e d’energia non se ne spaventa: si fa avanti,
agisce, costruisce, crea; e alla fine la tela non è più bianca, ma presenta un
ricco disegno di vita veramente vissuta.
Godeva che Margot fosse innamorata di lui. Ella non lo guardava mai
con occhio critico. Tutto ciò che faceva, per lei era bello e giusto. Non gli
diceva che aveva maniere rudi, la voce aspra, dure rughe sul volto. Non
trovava a ridire sul fatto che non guadagnava, non insinuava che avrebbe
fatto meglio a cambiar mestiere. Tornando verso il paese nel calmo
crepuscolo, con un braccio intorno alla vita di Margot, Vincent le narrava,
con voce raddolcita dalla simpatia che provava per lei, tutto ciò che aveva
fatto, le spiegava perché preferiva ritrarre un contadino anziché il sindaco,
perché trovava una contadinella, con il suo costume turchino impolverato e
rattoppato, più bella di una signora. Ella non sollevava mai obiezioni,
assentiva sempre. Lo accettava come era, lo amava senza riserve.
Vincent non sapeva abituarsi a questa situazione. Ogni giorno
s’aspettava che la loro relazione si spezzasse, che Margot diventasse aspra e
cattiva e gli rinfacciasse crudelmente i suoi fallimenti. E invece l’amore di
Margot cresceva di pari passo con l’avanzar dell’estate; ella gli prodigava
quella pienezza di simpatia e di adorazione che soltanto una donna matura
sa dare. Contrariato dal fatto che ella non lo attaccasse di propria iniziativa,
cercò di mettersi in cattiva luce illustrandole con spietato rigore i propri
fallimenti. Ma lei non li considerava come tali: ci vedeva semplicemente la
spiegazione dei suoi moventi e delle sue aspirazioni.
Egli le narrò la storia degli inconcludenti studi per la carriera
ecclesiastica intrapresi ad Amsterdam e degli inutili sforzi nel Borinage. —
Un bel fiasco, vero? Tutto sbagliato dal principio alla fine.
Ella gli sorrise indulgentemente. — Il re non può sbagliare né aver
torto.
Vincent la baciò.
Un altro giorno Margot gli disse: — Mia madre dice che sei un poco di
buono. Le hanno riferito che all’Aia convivevi con donne di malaffare. Io
ho risposto ch’era una calunnia scandalosa.
Vincent la ragguagliò sulla sua relazione con Cristina. Margot l’ascoltò
con un po’ di quella malinconia pensosa che le si leggeva negli occhi prima
che l’amore gliela facesse svanire.
— Sai, Vincent, c’è in te qualcosa di Cristo. Sono certa che anche mio
padre avrebbe pensato così.
— Io ti racconto d’aver vissuto per due anni con una prostituta, e tu non
trovi altro da dirmi?
— Non era una prostituta: era tua moglie. Se hai fallito nel tentativo di
salvarla, non ne hai avuto colpa: come non ti si può far colpa di aver fallito
nel proposito di salvare i minatori del Borinage. Un uomo isolato può fare
ben poco contro tutta una civiltà.
— Verissimo: Cristina era mia moglie. Un giorno, quand’ero più
giovane, dissi a mio fratello Theo: «Se non troverò una buona moglie, ne
prenderò una cattiva. Meglio avere una cattiva moglie che non averne
nessuna».
Successe un silenzio alquanto teso: finora non avevano mai parlato di
matrimonio.
— La storia di Cristina — disse Margot — mi ispira un unico rimpianto.
Vorrei averli vissuti io quei due anni d’amore.
Vincent rinunciò allora al tentativo di distruggere l’amore di questa
donna per lui. Lo accettò.
— Un tempo pensavo, Margot, che tutto dipendesse dalla fortuna, da
piccole circostanze e da equivoci senza motivo. Ora invece comincio a
scorgere ragioni più profonde. Quasi tutti siamo condannati da una specie di
fatalità a cercare per lungo tempo la luce che ci abbisogna.
— Come io ho dovuto lungamente cercare te…
Erano giunti dinanzi alla bassa porta d’una casupola di tessitore.
Vincent le premette affettuosamente la mano. Margot gli rivolse un sorriso
così dolcemente arrendevole, che egli si domandò perché il destino l’avesse
privato in tutti questi anni della tenerezza d’una donna. Entrarono. Una
lampada era appesa sopra il telaio dov’era in corso di lavorazione una pezza
di stoffa rossa. Il tessitore e la moglie stavano aggiustando i fili: le loro
cupe figure curve controluce, risaltanti sullo sfondo colorato della stoffa,
proiettavano grandi ombre sulle assicelle e sulle traverse del telaio. Margot
e Vincent si scambiarono un sorriso allusivo. Egli le aveva insegnato a
cogliere la riposta bellezza di certi luoghi brutti e squallidi.
In novembre, al tempo della chute des feuilles, quando i rami degli
alberi andavano rapidamente spogliandosi, a Nuenen non si parlava che di
Vincent e Margot. Per lei, gli abitanti del villaggio provavano tutti simpatia;
per lui, un senso di soggezione e di diffidenza. La madre e le quattro sorelle
di Margot si misero d’impegno per cercare di spezzare quella relazione; ma
ella protestava che si trattava semplicemente d’amicizia: che male c’era
nell’aggirarsi insieme per la campagna? Le Begeman, sapendo che Vincent
era un tipo irrequieto ed errabondo, aspettavano fiduciosamente che da un
giorno all’altro se ne andasse. Non si preoccupavano molto della faccenda.
Se ne preoccupavano invece quelli del paese, i quali andavano dicendo e
ridicendo che da un individuo come quel Van Gogh non c’era da aspettarsi
nulla di buono e che le Begeman avrebbero dovuto pentirsi, se non gli
strappavano dalle braccia Margot. Vincent non riuscì mai a capire perché la
gente l’avesse in antipatia. Non s’interessava dei fatti personali di nessuno,
non offendeva nessuno. Non si rendeva conto della strana figura che faceva
in quel ristagnante paese, dove nulla era mutato da secoli. Solo quando
s’accorse che lo consideravano un fannullone, rinunciò alla speranza di
farseli amici. Dien Van den Beek, un piccolo bottegaio, lo fermò un giorno
mentre passava per istrada e gli fece chiaramente comprendere che cosa si
pensasse di lui.
— Siamo ormai in autunno e il bel tempo è finito, vero?
— Già.
— Adesso vi metterete anche voi a lavorare, no?
Vincent s’aggiustò il cavalletto appeso sul dorso. — Infatti, sto appunto
andando nella landa.
— No. Io intendo un vero lavoro. Un lavoro da farsi tutto l’anno.
— Il mio lavoro è la pittura — rispose tranquillamente Vincent.
— Voglio dire un lavoro che vi sia pagato. Un mestiere.
— Il mio mestiere è andare a dipingere in campagna come sto facendo
in questo momento, Mijnheer Van den Beek. Come per voi servire i clienti.
— Sì, ma io vendo! Voi le vendete, le vostre pitture?
Tutti quelli del paese con cui parlava gli rivolgevano l’identica
domanda. Cominciava ad esserne cordialmente stufo.
— A volte, sì. Mio fratello vende quadri, e compra anche i miei.
— Dovreste mettervi a lavorare, Mijnheer. Non vi conviene perder
tempo. Uno diventa vecchio e si trova a mani vuote!
— Perder tempo! Ma non sapete che la mia giornata di lavoro è lunga il
doppio della vostra?
— E lo chiamate lavoro, lo star seduto a pitturare? Gioco da bambini lo
chiamo io. Mandare avanti una bottega, coltivare un campo, questi sì che
sono veri lavori! All’età che avete, fate male a sciupar così il vostro tempo.
Vincent sapeva che Dien Van den Beek si faceva semplicemente
portavoce dell’opinione pubblica e che per la mentalità di questi provinciali
le parole «artista» e «lavoratore» si escludevano reciprocamente. Cessò di
preoccuparsi di ciò che si pensava sul suo conto; non li vedeva nemmeno
più, quando gli passavano accanto. Ma quando ormai il loro disprezzo e la
loro disapprovazione per lui erano giunti ad un punto culminante, accadde
un fatto che gli valse le simpatie generali.
Scendendo dal treno a Helmond, Anna Cornelia si ruppe una gamba. La
portarono subito a casa. Il medico, pur non facendone cenno con la
famiglia, temeva per la sua vita. Vincent interruppe immediatamente il
proprio lavoro. L’esperienza del Borinage aveva fatto di lui un eccellente
infermiere. Il medico, dopo averlo osservato per una mezz’ora, gli disse: —
Sapete fare meglio d’una donna. Vostra madre è in ottime mani.
Quelli di Nuenen, che di fronte ad una disgrazia sapevano mostrarsi
generosi allo stesso modo che in altre circostanze sapevano mostrarsi
maligni e spietati, venivano alla casa parrocchiale recando cibi prelibati,
libri, parole di conforto. E guardavano Vincent sbalorditi: egli sapeva rifare
il letto senza rimuovere la mamma, la lavava e le dava da mangiare, trattava
con infinita delicatezza la gamba ingessata. In capo a due settimane,
l’opinione generale sul suo conto era stata riveduta e corretta. Quando gli
abitanti del paese venivano a trovare la mamma, egli parlava con essi nel
loro stesso linguaggio: discorrevano del miglior sistema per evitare gli
indolenzimenti della lunga degenza a letto, dell’alimentazione che più
conveniva ad una persona malata, della temperatura che ci voleva nella
stanza. Parlando con lui e riuscendo a comprenderlo, ne conclusero che
malgrado tutto era anche lui un essere umano. Quando la mamma cominciò
a star meglio ed egli poté ricominciare ad uscire almeno per qualche ora al
giorno, gli sorridevano e lo chiamavano per nome. E passando per la strada
non sentiva più il fruscio delle persiane che si sollevavano di qualche
centimetro, a mano a mano che andava avanti.
Margot non si staccava dal suo fianco. Lei sola non s’era stupita della
sua bontà. Un giorno, mentre discorrevano sottovoce nella stanza della
malata, Vincent aveva detto casualmente: — La conoscenza del corpo
umano è veramente preziosa per un pittore, ma per procurarsela ci vorrebbe
del denaro. Esiste un bellissimo libro di John Marshall, Anatomia per i
pittori, ma costa molto caro.
— Non puoi comprarlo?
— No, finché non vendo qualcosa.
— Vincent, sarei tanto felice se mi permettessi di prestarti un po’ di
denaro. Sai che io ho un reddito fisso, e non riesco mai a spenderlo tutto.
— Sei molto buona, Margot, ma non posso accettare.
Ella non insisté. Ma un paio di settimane dopo gli porgeva un pacco
proveniente dall’Aia.
— Cosa c’è qua dentro?
— Apri e vedrai.
Legato allo spago c’era un biglietto. Il pacco conteneva il libro di
Marshall; il biglietto diceva: «Per il più felice di tutti i compleanni».
— Ma io non compio gli anni! — protestò Vincent.
— No — rise Margot. — Li compio io. Quaranta, Vincent. Tu m’hai
fatto il dono della mia vita. Sii buono e accetta questo libro, caro. Oggi sono
tanto felice e voglio che lo sia anche tu.
Si trovavano nel suo studio. Nessuno intorno; in casa soltanto
Willemien con la mamma. Pomeriggio inoltrato: il sole prossimo al
tramonto proiettava una lieve macchia di luce sulla parete bianca. Vincent
sfiorò teneramente il libro con le dita. Era la prima volta che una persona,
all’infuori di Theo, si mostrava così felice di aiutarlo. Posò il volume sul
letto e prese Margot tra le braccia. Ella aveva gli occhi velati di passione.
Nel corso degli ultimi mesi si erano scambiate ben poche carezze nei
campi: temevano d’esser visti. Margot s’arrendeva sempre alle sue
tenerezze con pieno abbandono, con illimitata generosità. Cinque mesi
erano trascorsi dal giorno in cui s’era staccato da Cristina, e ancora gli
restava un certo inquieto timore di spingersi troppo oltre, di offendere
Margot, di farle del male, d’urtarla nei suoi sentimenti. Baciandola,
immerse lo sguardo nei suoi occhi buoni. Ella gli sorrise, socchiuse gli
occhi e aprì leggermente le labbra per accogliere le sue. Si tennero
appassionatamente allacciati, i corpi completamente aderenti. Il letto
distava appena un passo. Vi si sedettero, senza staccarsi. In quell’abbraccio
dimenticavano entrambi gli anni senza amore che avevano resa così
squallida la loro vita.
Il sole tramontò, il rettangolo di luce sulla parete si spense. Un morbido
chiarore crepuscolare invase la stanza. Margot faceva scorrere le dita sul
volto di Vincent, strane voci sommesse le uscivano dalla gola parlando il
linguaggio dell’amore. Vincent si sentì sprofondare nell’abisso da cui ci si
salva soltanto con uno strappo precipitoso. Si staccò bruscamente dalle
braccia di Margot, balzò in piedi. S’avvicinò al cavalletto, appallottolò e
buttò via un foglio su cui aveva cominciato a disegnare. Un silenzio
profondo, rotto soltanto dal verso della gazza tra le acace e dal tintinnìo dei
campani delle mucche che tornavano dal pascolo.
— Puoi, caro, se lo desideri — disse Margot semplicemente, con voce
calma.
— Perché? — domandò lui senza voltarsi.
— Perché ti amo.
— Non sarebbe giusto.
— Te l’ho già detto, Vincent: il re non ha mai torto.
Vincent piegò un ginocchio accanto al letto. Margot teneva la testa sul
guanciale. Egli notò nuovamente la linea sottile che dipartendosi
dall’angolo destro della bocca si prolungava quasi fino alla mascella, e
gliela baciò. Le baciò il naso sottile, le narici troppo larghe, fece scorrer le
labbra su quel viso ringiovanito di dieci anni. Passivamente distesa con le
braccia allacciate al collo di lui, in quella tenue luce crepuscolare, ella
sembrava di nuovo la bella ragazza che doveva essere stata a vent’anni.
— Ti amo, Margot. Prima non lo sapevo, ora sì.
— Sei tanto buono, a dirmi questo, caro. — Parlava con voce dolce e
sognante. — Lo so che mi vuoi un po’ di bene. E io ti amo con tutto il
cuore. Ciò mi basta.
Vincent non l’amava come aveva amato Ursula e Kay. Non l’amava
nemmeno come aveva amato Cristina. Ma sentiva una struggente tenerezza
per questa donna che stava così passivamente distesa tra le sue braccia.
Capiva che l’amore include quasi ogni relazione umana. Qualcosa dentro di
lui soffriva al pensiero di non saper adeguatamente corrispondere alla
passione dell’unica donna al mondo che lo amasse sconfinatamente; e
ricordò il tormento patito per l’indifferenza di Ursula e di Kay. Ma mentre
rispettava il traboccante amore di Margot per lui, esso gli ispirava, chissà
perché, una punta di disgusto. Inginocchiato sull’impiantito della stanza
ormai immersa nella penombra, con le braccia sotto la nuca della donna che
l’amava come lui aveva amato Ursula e Kay, comprese alfine perché quelle
due donne non avessero voluto saperne di lui.
— Margot, la mia vita è ben povera e meschina, ma sarei veramente
felice se tu volessi condividerla con me.
— Lo voglio, caro.
— Potremmo starcene senz’altro qui a Nuenen. O forse preferisci che ce
ne andiamo via, una volta sposati?
Ella strofinò affettuosamente la testa contro il suo braccio. — Com’è
che disse Ruth? «Dovunque tu vada, andrò anch’io».

6.

Non s’aspettavano certamente la tempesta che scoppiò quando, la


mattina dopo, comunicarono alle loro rispettive famiglie la decisione presa.
Per i Van Gogh la questione si prospettava semplicemente in termini
finanziari. Come poteva Vincent prender moglie, lui che si faceva
mantenere da Theo?
— Prima devi guadagnare, sistemarti; poi ti potrai sposare — disse il
babbo.
— Lavorando e lottando nel campo della mia arte, verrà anche il tempo
in cui guadagnerò.
— E allora ti sposerai. Ma non ora.
Il turbamento portato nella casa parrocchiale dai propositi matrimoniali
di Vincent era una bazzecola, al confronto con ciò che stava succedendo
nella casa vicina. Finché restavano tutte e cinque nubili, le sorelle Begeman
potevano affrontare il mondo formando un fronte ben solido: se invece
Margot si fosse sposata, il paese avrebbe ravvisato in quel matrimonio la
prova vivente e palpabile dell’incapacità delle altre quattro a trovar marito.
La signora Begeman trovava più giusto salvaguardare quattro figlie da una
più profonda desolazione, che renderne felice una.
Quel giorno, Margot non lo accompagnò per le case dei tessitori. Venne
da lui, nello studio, nel tardo pomeriggio. Aveva gli occhi gonfi, dimostrava
più che mai i suoi quarant’anni. Per alcuni istanti lo tenne avvinghiato in
una specie di abbraccio disperato.
— È tutto il giorno che mi parlano male di te. Non avrei mai creduto
che si potessero dire tante infamie d’una persona e che questa continuasse a
vivere.
— Dovevi aspettartelo.
— Me l’aspettavo. Ma non che ti attaccassero con tanta malignità.
Vincent le mise un braccio intorno alla vita, baciandola sulla guancia.
— Lascia fare a me. Lascia che me le lavori io. Verrò a casa tua stasera
dopo pranzo. Forse riuscirò a convincerle che non sono poi un tale furfante.
Appena messo piede in casa Begeman, s’accorse di trovarsi su un
territorio strano e malfido. C’era qualcosa di sinistro nell’atmosfera creata
da queste sei donne, atmosfera mai rotta da una voce o da un passo d’uomo.
Lo introdussero nel salotto. Un ambiente freddo, saturo d’un odore di
muffa. Da mesi non vi era più stato nessuno. Vincent sapeva i nomi delle
quattro sorelle, ma non s’era mai preso il disturbo di metterli in rapporto
con le rispettive facce. Gli sembravano altrettante caricature di Margot. La
più anziana, quella che dirigeva la casa, s’assunse il compito di aprire
l’interrogatorio.
— Margot ci dice che voi vorreste sposarla. Posso prendermi la libertà
di domandarvi che ne è della moglie che avevate all’Aia?
Vincent le spiegò la faccenda di Cristina. L’atmosfera dell’ambiente si
raffreddò ancor di più, precipitando di parecchi gradi.
— Quanti anni avete, Mijnheer Van Gogh?
— Trentuno.
— Vi ha detto Margot che lei ne ha…
— So l’età di Margot.
— Posso arrischiarmi a domandarvi quanto guadagnate?
— Ho centocinquanta franchi al mese.
— E qual è la sorgente di questo introito?
— Son denari che mi manda mio fratello.
— In altre parole, è lui che vi mantiene?
— No. Mi corrisponde uno stipendio mensile. In cambio, si prende tutti
i miei quadri.
— E quanti ne vende?
— Non saprei dire.
— Ebbene, posso dirvelo io. Vostro padre mi ha infatti riferito che
finora non ne ha venduto nemmeno uno.
— Col tempo li venderà. E gli frutteranno parecchie volte più di quanto
gli frutterebbero ora.
— Questo è per lo meno problematico. Atteniamoci ai fatti.
Vincent osservò meglio quella faccia dura e tutt’altro che bella. Da
costei non poteva aspettarsi simpatia o comprensione.
— E dato che non guadagnate un soldo — riprese la signorina Begeman
— ci si può permettere di domandarvi come contate di mantenere una
moglie?
— Se mio fratello crede bene di puntare centocinquanta franchi al mese
su di me, è affar suo, non vostro. Per me, è uno stipendio. E lavoro
duramente per guadagnarmelo. Con questo stipendio Margot e io potremmo
vivere, tenendoci naturalmente nei limiti.
— Ma non ce ne sarà bisogno! — proruppe Margot. — Io ho abbastanza
del mio.
— Tu stai zitta! — le ordinò la sorella.
— E ricordati, Margot — aggiunse la madre — che io ho la facoltà di
privarti di quella rendita se fai qualcosa che possa recar disonore al buon
nome della nostra famiglia!
Vincent sorrise. — Sposar me, sarebbe un disonore?
— Sappiamo ben poco di voi, Mijnheer Van Gogh, ma purtroppo quel
poco è tutt’altro che lusinghiero. Da quanto tempo fate il pittore?
— Da tre anni.
— E non avete ancora una posizione. Quanto tempo metterete ad
arrivarci?
— Non so.
— Che mestiere facevate prima di dedicarvi alla pittura?
— Ho fatto il commesso in un negozio di quadri, l’insegnante, lo
studente di teologia e il predicatore.
— Senza mai approdare a nulla?
— Ho lasciato perdere.
— Perché?
— Non erano attività che facessero per me.
— E quando lascerete perdere anche la pittura?
— Mai! — esclamò Margot.
— Mi sembra, Mijnheer Van Gogh — disse la sorella maggiore — che
sia una bella presunzione la vostra di voler sposare Margot. Siete un
déclassé, non avete il becco d’un quattrino né la possibilità di guadagnarlo,
non sapete attaccarvi seriamente a un mestiere, non fate altro che andare di
qua e di là come un perdigiorno e un vagabondo. Come potremmo avere il
coraggio di darvi in moglie nostra sorella?
Vincent tirò fuori la pipa, poi se la rimise in tasca. — Margot mi vuol
bene, e io a lei. Posso renderla felice. Resteremmo qui ancora per un anno o
due, poi andremmo all’estero. Da me non riceverà mai altro che amore e
bontà.
— L’abbandonerete! — strillò una delle altre sorelle. — Vi stancherete
di lei e l’abbandonerete per andare con qualche donnaccia come quella
dell’Aia!
— Volete soltanto sposarla per i suoi soldi! — rincarò l’altra.
— Ma non ci riuscirete! — proclamò la terza. — La mamma le toglierà
la rendita di cui gode.
Gli occhi di Margot si riempirono di lacrime. Vincent s’alzò. Inutile
continuare a perder tempo con queste virago. C’era un’unica soluzione:
farsi unire in matrimonio a Eindhoven e partire immediatamente per Parigi.
Avrebbe preferito trattenersi ancora nel Brabante, dove gli restava tanto
lavoro da fare; ma al solo pensiero di Margot costretta a vivere in mezzo a
quelle streghe gli venivano i brividi.
I giorni che seguirono furono molto tristi per lei. Cadde la prima
nevicata, e Vincent dovette star chiuso nel suo studio. Le Begeman non
permettevano più a Margot di andare a trovarlo. Dal momento in cui
s’alzava fino a quello in cui le era consentito di fingere d’aver sonno, era
costretta ad ascoltare furibonde tirate contro Vincent. Da quarant’anni
viveva con quelle donne; da pochi mesi conosceva Vincent. Odiava le
sorelle, perché sapeva che le avevano rovinato l’esistenza: ma l’odio è una
delle più oscure forme d’amore e genera talvolta un più forte senso del
dovere.
— Non capisco perché tu non voglia venir via con me — le disse
Vincent — o almeno sposarmi anche senza il loro consenso.
— Non me lo permetterebbero.
— Chi? Tua madre?
— Le mie sorelle. La mamma non fa altro che star seduta e dir di sì.
— E t’importa tanto di ciò che dicono le tue sorelle?
— Ti ricordi che t’ho raccontato come da giovane quasi m’innamorai
d’un ragazzo?
— Sì.
— Esse vi si opposero. Le mie sorelle. Non so perché. In tutta la mia
vita non hanno fatto che ostacolarmi. Decidevo d’andare a trovare dei
parenti in città? Non mi lasciavano. Avevo voglia di leggere? Mi proibivano
di toccare i libri migliori che avevamo in casa. Invitavo un uomo a venirci a
trovare? Quando andava via ne dicevano corna, cosicché non potevo più
avvicinarlo. Volevo dedicarmi a qualche attività: far l’infermiera, studiar
musica. Ma no, dovevo pensare come loro, vivere in tutto e per tutto come
loro.
— E adesso?
— Adesso manderanno a monte il mio matrimonio con te.
La sua voce e il suo portamento avevano perduto gran parte di quel
riflusso di vita che le aveva dato l’incontro con Vincent. Le labbra s’erano
rifatte aride, le lentiggini sotto gli occhi spiccavano con nuova evidenza.
— Non aver timore di loro, Margot. Ci sposeremo, e così tutto finirà.
Mio fratello mi ha spesso consigliato di trasferirmi a Parigi. Là potremmo
vivere benissimo.
Margot non rispose. Seduta sulla sponda del letto, teneva gli occhi fissi
sul pavimento, con la linea delle spalle che formava una specie di
mezzaluna. Vincent andò a sedersi accanto a lei e le prese la mano.
— Ti sgomenta l’idea di sposarmi senza il loro consenso?
— No — rispose con voce priva di forza e di convinzione. — Mi
ucciderò, Vincent, se mi separano da te. Non potrei sopportare una cosa
simile, dopo averti amato. Mi ucciderò, ecco tutto.
— Non c’è bisogno che lo sappiano, che ci sposiamo. Le cose, prima
farle e poi dirle.
— Non posso andare contro la loro volontà. Sono troppo più forti: in
quattro, contro me sola. Non ho la forza di oppormi.
— Ebbene, non stare nemmeno ad opporti. Hai semplicemente da
sposarmi, e tutto sarà finito.
— No, non sarebbe finito. Sarebbe appena il principio. Tu non le
conosci.
— Né le voglio conoscere! Stasera faremo un altro tentativo.
Fin dal momento in cui varcò la soglia del salotto, capì ch’era un
tentativo inutile. Aveva dimenticato la temperatura glaciale dell’ambiente.
— Tutto questo ce l’avete già detto, Mijnheer Van Gogh — replicò la
sorella maggiore — e non ci convince minimamente. Ormai abbiamo preso
una decisione. Noi desideriamo la felicità di Margot, ma non vogliamo che
si rovini l’esistenza. Abbiamo dunque deciso che se tra due anni sarete
ancora disposto a sposarla non ci opporremo più.
— Due anni! — fece Vincent.
— Tra due anni non sarò più qui — disse calma Margot.
— E dove sarai?
— Sotto terra. Se non me lo lasciate sposare, mi ucciderò.
Nel bel mezzo del fiotto di proteste sollevate da questa dichiarazione —
«Come osi dire una cosa simile!», «Vedete che begli effetti comincia a dare
l’influsso di questo signore su di lei!», eccetera — Vincent se la svignò.
Ormai non c’era più niente da fare.
Tutti quegli anni di disaccordo e di contrasti avevano seriamente influito
su Margot, che non possedeva una solida resistenza nervosa né una salute
molto buona. Sotto l’attacco frontale di quelle cinque donne risolute, cadde
in uno stato di depressione morale ogni giorno più grave. Una ragazza di
vent’anni avrebbe potuto sostenere vittoriosamente la battaglia e uscirne
illesa, ma la forza e la volontà di Margot già erano schiantate da quel lungo
inferno quotidiano. La faccia le si coprì di rughe, gli occhi furono invasi
dall’antica malinconia, la carnagione si fece smorta e ruvida. Il solco
accanto all’angolo destro della bocca s’approfondì.
L’affetto che Vincent aveva concepito per lei si dileguò con la sua
bellezza. Non l’aveva mai veramente amata né seriamente desiderata in
moglie: e ora la desiderava meno che mai. Si vergognava di questa sua
insensibilità, e per ciò stesso raddoppiava in dimostrazioni d’ardore nei loro
convegni amorosi. Non sapeva se ella indovinasse i suoi veri sentimenti.
— Le ami più di me, Margot? — le domandò un giorno in cui era
riuscita a fare una capatina nello studio, sfuggendo alla sorveglianza delle
sorelle.
Ella gli scoccò un’occhiata di stupore e di rimprovero. — Oh, Vincent!
— E allora, perché vuoi rinunciare a me?
Ella si rifugiò tra le sue braccia come una bambina stanca.
— Se fossi persuasa che tu mi ami come ti amo io — disse con voce
bassa perdutamente triste — affronterei il mondo intero. Ma tu dai così
poca importanza alla cosa… ed esse ne danno tanta…
— T’inganni, Margot. Io ti voglio bene…
Ella gli posò un dito sulle labbra. — No, caro. Vorresti, ma così non è.
Non devi affliggertene. Desidero essere io quella che ama di più.
— Ma perché non ti stacchi da loro, in modo da diventare padrona di te
stessa?
— Facile dirlo, per te. Tu sei forte, puoi lottare contro chiunque. Ma io
ho quarant’anni… Sono nata qui a Nuenen… Non sono mai andata più
lontano di Eindhoven. Capisci, caro? In vita mia non mi sono mai staccata
da nulla e da nessuno.
— Sì, capisco.
— Se si trattasse d’una cosa che ti sta veramente a cuore, Vincent,
lotterei con tutte le forze. Ma si tratta d’una cosa che sta a cuore soltanto a
me. Eppoi, volere o no, è giunta troppo tardi… quando ormai la mia vita se
n’è andata…
La sua voce si spense in un bisbiglio. Vincent le sollevò il mento con un
dito e lo tenne alzato. Gli occhi della donna erano intrisi di lacrime.
— Mia cara. Mia Margot tanto cara. Potremmo vivere tutta la vita
insieme. Non hai che da dire una parola. Stanotte, quando esse dormiranno,
fa’ un pacco della tua roba personale. Me lo porgerai dalla finestra.
Andremo a piedi fino a Eindhoven e domani mattina di buon’ora
prenderemo il treno per Parigi.
— Inutile, caro. Io sono legata a loro, ed esse a me. Ma tutto terminerà
come voglio io.
— Margot, non posso sopportare di vederti così infelice.
Ella volse la faccia verso di lui. Le lacrime cessarono di sgorgare.
Sorrise. — No, Vincent. Sono felice. Ho avuto ciò che desideravo. Amarti è
stata una cosa meravigliosa.
Vincent la baciò, assaporando sulle labbra il gusto amaro delle lacrime
che le erano scese per le guance.
— Non nevica più — osservò Margot qualche istante dopo. — Domani
mattina vai a disegnare in campagna?
— Sì, credo.
— Dove? Nel pomeriggio ti raggiungerò.
Il giorno dopo, Vincent lavorò fino a tardi, con un berrettone di pelo in
testa e la giacca di tela abbottonata fino al collo. Il cielo, lillà e oro, si
stendeva su scuri profili di casupole sparse tra masse rossicce di cespugli,
su cui s’ergevano pioppi spauriti. In primo piano una distesa di color verde
stinto e spruzzato di bianco, con strisce di terra nera e pallide canne secche
lungo i margini dei fossi.
Margot arrivò camminando rapidamente attraverso la campagna.
Indossava la stessa veste bianca del loro primo appuntamento, con uno
scialle intorno alle spalle. Vincent notò sulle sue guance un tocco di colore.
Rassomigliava nuovamente alla donna prodigiosamente rifiorita, fino a
qualche settimana addietro, per virtù d’amore. Recava in mano un piccolo
cestino da lavoro.
Gli gettò le braccia al collo. Vincent sentì contro il proprio petto il
battito selvaggio del suo cuore. Le rovesciò il volto, la guardò negli occhi
castani. Più nessuna ombra di malinconia.
— Che significa? — le domandò. — È successo qualcosa?
— No, no. È soltanto che… sono felice… di ritrovarmi con te.
— Ma perché sei uscita con questa veste leggera?
Ella tacque un momento.
— Vincent, quando sarai lontano, voglio che tu ricordi una cosa sola di
me.
— Che cosa, Margot?
— Che ti ho amato! Ricordati sempre che ti ho amato più di qualsiasi
altra donna che sia apparsa o che apparirà nella tua vita.
— Perché tremi così?
— Non è nulla. Mi hanno trattenuta. Per questo sono arrivata tardi. Hai
quasi finito?
— Ancora pochi minuti.
— Allora lasciami sedere qui dietro di te mentre lavori, come una volta.
Tu lo sai, caro, che non ho mai voluto disturbarti, né intralciarti la strada.
Desideravo soltanto che tu ti lasciassi amare.
— Sì, Margot — seppe soltanto dire.
— Rimettiti dunque al lavoro, caro, e finisci. Poi andremo a casa
insieme. — Ebbe un piccolo brivido, si strinse lo scialle intorno alle spalle.
— Ma prima di cominciare baciami ancora una volta, una volta sola, come
mi hai baciata quella volta nel tuo studio… quando siamo stati così felici
l’uno nelle braccia dell’altro.
Vincent la baciò teneramente. Ella raccolse le falde della veste e si
sedette dietro di lui. Il sole scomparve, il breve crepuscolo invernale scese
sulla pianura, e si trovarono immersi nel silenzio della campagna serale.
Il tintinnio d’una boccetta di vetro. Margot s’alzò sulle ginocchia con un
grido mal soffocato, poi stramazzò in preda a violenti spasimi. Vincent
balzò in piedi, si gettò a terra davanti a lei. Margot aveva gli occhi chiusi, la
faccia increspata in un sardonico sorriso. Si contorse in una serie di rapide
convulsioni; poi il corpo s’irrigidì, arcuato all’indietro, con le braccia
piegate. Vincent si chinò a prendere la boccetta sulla neve. Dentro
l’apertura, proprio in cima, c’era un residuo bianco, cristallino. Non aveva
nessun odore.
Sollevò sulle braccia Margot e si diede a correre pazzamente per la
campagna. Si trovava ad un chilometro da Nuenen. Aveva una paura folle
che morisse prima che fosse giunto in paese. Era l’ora in cui la gente
aspettava d’esser chiamata a tavola; diverse persone sedevano davanti
all’uscio di casa. Vincent giunse al principio dell’abitato e dovette
percorrere il paese da un capo all’altro con la donna sulle braccia. Arrivato
all’abitazione delle Begeman, aprì la porta con un calcio e depose Margot
su un divano del salotto. La madre e le sorelle si precipitarono nella stanza.
— Margot s’è avvelenata! — gridò Vincent. — Vado a chiamare il
medico!
S’avventò in casa del dottore, che stava pranzando.
— Siete sicuro che fosse stricnina? — gli domandò questi.
— Mi è sembrato.
— Ed era ancora viva quando l’avete portata a casa sua?
— Sì.
Quando giunsero Margot stava contorcendosi sul divano. Il medico si
chinò su di lei. — Proprio stricnina. Ma insieme deve aver ingerito qualcosa
per attutire gli spasimi. Laudano, direi dall’odore. Non sapeva che avrebbe
agito da antidoto.
— Allora si salverà, dottore? — domandò la madre.
— Non è da escludere. Dobbiamo portarla immediatamente a Utrecht.
Dovrà essere tenuta in osservazione.
— Potete suggerirci un buon ospedale, a Utrecht?
— L’ospedale non è da consigliarsi, secondo me. Faremo meglio a
portarla per il momento in una maison de santé. Ne conosco una molto
buona. Ordinate la carrozza. Dobbiamo arrivare a Eindhoven in tempo per
prendere l’ultimo treno.
Vincent si teneva in un angolo, ammutolito. La carrozza era pronta
davanti alla casa. Il medico avvolse Margot in una coperta e la portò fuori,
seguito dalla madre, dalle sorelle e infine da Vincent. Davanti all’ingresso
della vicina casa parrocchiale, i Van Gogh stavano a guardare. Tutto il paese
s’era riversato davanti all’abitazione delle Begeman. Quando il medico uscì
portando la donna sulle braccia si produsse un silenzio di tomba. Il dottore
la mise nella vettura. Le donne vi salirono a loro volta. Vincent rimase lì
accanto alla carrozza. Il medico raccolse le redini. La madre di Margot si
volse, vide Vincent e gridò: — La colpa è tua. Sei stato tu a uccidere mia
figlia!
Tutti, ora, guardavano lui. Il medico frustò i cavalli. La vettura
scomparve lungo la strada.

7.

Prima che Anna Cornelia si rompesse la gamba, gli abitanti del paese lo
trattavano freddamente perché diffidavano di lui e non potevano
comprendere il suo sistema di vita. Ma non l’avevano mai propriamente
detestato. Ora gli si volsero tutti contro, tanto che si sentiva sempre e
dovunque avvolto dal loro odio. Al suo avvicinarsi, voltavano la schiena.
Nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno mostrava di vederlo. Divenne un
paria.
Per sé, non gliene sarebbe importato un bel nulla (i tessitori e i contadini
continuavano ad accoglierlo nelle loro catapecchie come un amico); ma
quando la gente cessò di venire a trovare i suoi genitori nella casa
parrocchiale, si rese conto che avrebbe dovuto andarsene.
Sapeva che la cosa migliore che potesse fare era di staccarsi dal
Brabante e lasciare in pace i suoi genitori. Ma dove andare? Il Brabante era
la sua casa, la sua terra. Avrebbe voluto vivere sempre qui, disegnando
contadini e tessitori: era questa, per lui, l’unica giustificazione del proprio
lavoro. Com’era bello d’inverno trovarsi in mezzo a tutta quella neve,
d’autunno in mezzo a tutte quelle foglie ingiallite, d’estate passare tra i
campi di messi biondeggianti, di primavera per i prati folti d’erba! Com’era
bello stare con i contadini e le ragazze dei campi, d’estate con un grande
cielo azzurro sul capo, d’inverno accanto al fuoco, e sentire ch’era sempre
stato così e che così sarebbe sempre stato!
Per lui l’Angelus di Millet rappresentava quanto di più divino avesse
mai saputo creare un artista. Nella rozzezza della vita agreste ravvisava
l’unica vera ed eterna realtà. Sentiva il bisogno di andare a dipingere
all’aperto, sul posto. Là, è vero, doveva difendersi da nugoli di mosche,
subire la noia della polvere e della sabbia, e gli accadeva talvolta di fare
graffi alle tele portandole per ore attraverso campi e boscaglie. Ma tornando
a casa sapeva di essere stato a faccia a faccia con la realtà e di aver colto
qualcosa della sua elementare semplicità. Se i suoi quadri di contadini
sapevano odore di lardo, di fumo e di patate, nulla di male: era un odore
sano. Se una stalla puzzava di letame, nulla di più naturale: era una cosa che
s’addiceva perfettamente a una stalla. Se i campi diffondevano un odore di
grano maturo o di guano o di concime animale, anche questo era tanta
salute: specialmente per la gente di città.
Risolse il problema in un modo molto semplice. A poca distanza da casa
sua, lungo la strada principale, sorgeva la chiesa cattolica; accanto, la casa
del sagrestano Johannes Schafrath, che nelle ore libere faceva anche il sarto.
La moglie, Adriana, era una gran brava donna e ben volentieri affittò due
stanze a Vincent, lieta di poter far qualcosa per questo giovanotto osteggiato
da tutto il paese.
La casa era divisa per metà da un lungo atrio. A destra, entrando, le
camere dove viveva abitualmente la famiglia; a sinistra un ampio salotto
con le finestre che davano in istrada e, dietro, una stanza più piccola. Il
salotto diventò lo studio di Vincent, lo stanzino il suo ripostiglio. Dormiva
su in soffitta, metà della quale era utilizzata dagli Schafrath per stendervi la
biancheria, mentre nell’altra metà c’era un letto alto con un veeren bed ed
una sedia. La sera Vincent gettava i suoi panni sulla sedia, si metteva a
letto, fumava una pipata osservando la penombra che si trasformava in
oscurità e s’addormentava.
Nello studio attaccò alle pareti i suoi studi ad acquerello e i disegni a
carboncino: teste d’uomini e di donne che avevan qualcosa di negroide, nasi
all’insù, mascelle sporgenti e grosse orecchie. Tessitori e telai, donne con le
spole, contadini che seminavano patate. Strinse più cordiali rapporti con suo
fratello Cor: costruirono insieme un armadio e raccolsero almeno trenta
qualità diverse di nidi d’uccelli, ogni specie di muschio e piante della landa,
spole da telaio, aspi, scaldaletti, arnesi agricoli, vecchi berretti e cappelli,
zoccoli di legno, piatti e tanti altri oggetti attinenti alla vita dei campi.
Portarono perfino un piccolo albero e lo collocarono in un angolo.
Vincent si rimise al lavoro. Trovò che il bistro e il bitume, da cui la
maggior parte dei pittori s’andava distaccando, conferivano ai suoi colori un
che di morbido e di pastoso. Scoprì che doveva metter poco giallo, accanto
ad un violetto o ad un lilla, per farlo apparire molto giallo.
E imparò pure che l’isolamento è una specie di prigione.
Nel mese di marzo il babbo, di ritorno da una località molto lontana
della landa dove s’era recato per assistere un parrocchiano infermo,
stramazzò sulla gradinata di casa. Quando Anna Cornelia si precipitò in suo
soccorso, era già morto. Lo seppellirono nel giardino presso la vecchia
chiesa. Theo venne da Parigi per i funerali. La sera si trattennero nello
studio di Vincent, parlando dapprima d’affari di famiglia, poi del loro
lavoro.
— Mi sono stati offerti mille franchi al mese perché venga via dalla
ditta Goupil e passi ad un’altra, sorta di recente — disse Theo.
— Accetterai?
— Credo di no. Ho il sospetto che i padroni della nuova azienda
intendano ispirarsi a criteri puramente commerciali.
— Ma mi scrivevi che anche la ditta Goupil…
— Lo so, anche i «Messieurs» cercano i grossi guadagni. Ma io sono lì
da dodici anni. Perché dovrei cambiare per qualche franco di più? Non è da
escludere che un giorno o l’altro mi affidino un compito direttivo. In questo
caso, comincerò a vendere i quadri degli Impressionisti.
— Impressionisti? Non mi sembra d’aver mai letto questo nome. Chi
sono?
— Oh, semplicemente i nuovi pittori parigini: Edouard Manet, Degas,
Renoir, Claude Monet, Sisley, Courbet, Lautrec, Gauguin, Cézanne, Seurat.
— E dove hanno pescato quel nome?
— Fu alla mostra del 1874, da Nadar. Claude Monet aveva esposto un
quadro da lui intitolato «Impression: soleil levant». Il critico d’arte d’un
giornale, certo Louis Leroy, scrisse che quella era una mostra di
Impressionnistes: e il nome è rimasto.
— Lavorano a colori scuri o chiari?
— Oh, chiari! Detestano i colori scuri.
— Allora, credo che non potrei intendermela con loro. Ho intenzione di
cambiar le mie tonalità, ma nel senso di scurirle ancor di più.
— Quando verrai a Parigi, cambierai forse idea.
— Può darsi. Vendono, quei giovani pittori?
— Durand-Ruel riesce a smerciare ogni tanto qualche tela di Manet.
Tutto lì, si può quasi dire.
— Ma allora come vivono?
— Dio solo lo sa. D’espedienti, la maggior parte. Rousseau dà lezioni di
violino a ragazzi, Gauguin dà stoccate ai suoi ex colleghi dell’agenzia di
cambio, Seurat si fa mantenere dalla madre, Cézanne dal padre. Non saprei
proprio immaginare dove gli altri si procurano i mezzi per vivere.
— Li conosci tutti, Theo?
— Sì, a poco a poco vado facendo conoscenza con tutti. Ho tentato di
persuadere i «Messieurs» a riservar loro un cantuccio della Galleria Goupil,
ma essi non toccherebbero una tela impressionista nemmeno con un bastone
lungo tre metri.
— Ho idea che dovrei conoscerli anch’io. Senti, Theo. Perché non fai
assolutamente nulla per procurarmi un po’ di distrazione, dandomi modo
d’incontrarmi con altri pittori?
Theo andò alla finestra e si mise a guardare la sottile striscia erbosa che
separava la casa del sagrestano dalla strada d’Eindhoven.
— Vieni a stare con me a Parigi — disse. — Tanto finirai per venirci.
— Non è ancora il momento. Devo prima finire alcuni lavori qui.
— Se resti in provincia, non sperare di poter frequentare altri artisti.
— Può darsi che tu abbia ragione. Ma c’è una cosa che non riesco a
capire, Theo. Finora non hai mai venduto un mio disegno o un mio quadro.
Credo che tu non abbia nemmeno tentato. È vero?
— Infatti.
— E perché?
— Ho fatto vedere i tuoi lavori a degli intenditori. Dicono…
— Oh, gli intenditori! — replicò Vincent, scrollando le spalle. —
Conosco le banalità che san dire, per lo più, costoro. Tu sai certamente che i
loro giudizi hanno ben poco a che fare col valore intrinseco di un quadro o
di un disegno.
— Io non direi. I tuoi lavori si potrebbero quasi vendere, ma…
— Queste, Theo, sono press’a poco le identiche parole che mi scrivevi a
proposito dei miei primissimi disegni, quand’ero a Etten.
— È la verità, Vincent. Tu sembri costantemente in procinto di
conseguire una splendida maturità. Io prendo avidamente tra le mani ogni
tuo nuovo lavoro che mi giunge, sperando che tu l’abbia finalmente
conseguita. Ma finora…
— Quanto al vendere o non vendere — l’interruppe Vincent, battendo la
pipa sulla stufa per svuotarla — è una vecchia storia che conta fino a un
certo punto.
— Dici che devi ancora lavorare qui. E allora spicciati a finire. Più
presto vieni a Parigi, e meglio sarà per te. Ma se vuoi che intanto io venda
qualcosa di tuo, mandami dei quadri e non degli studi, che nessuno vuole.
— Be’, è un po’ difficile fare una netta distinzione tra lo studio e il
quadro, dire dove termini l’uno e cominci l’altro. Cerchiamo di dipingere
quanto più possiamo, Theo, e di essere noi stessi con tutti i nostri pregi e i
nostri difetti. Parlo al plurale perché il denaro che mi mandi (e che ti costa
sacrifici e grattacapi, lo so) ti dà diritto di considerare i miei lavori come
una creatura per metà tua.
— Oh, quanto a questo…
Theo andò in fondo alla stanza e si mise a giocherellare con un vecchio
berretto appeso all’albero.

8.

Prima della morte del babbo, Vincent si recava solo di tanto in tanto alla
casa parrocchiale per pranzare con i suoi o passare un’ora con loro. Dopo i
funerali, la sorella Elisabetta gli fece chiaramente intendere che la sua
presenza non era gradita: la famiglia desiderava tenere un certo decoro. La
mamma ritenne di doversi schierare dalla parte delle figlie: Vincent era
responsabile delle proprie azioni e della propria situazione.
Ora si trovava completamente solo, a Nuenen. Alla compagnia della
gente sostituì lo studio della natura. Aveva cominciato con un disperato
sforzo di esattezza nel riprodurre la natura, e tutto gli veniva male; finì per
creare tranquillamente in base alle suggestioni della propria tavolozza, e la
natura rispose ai suoi estri con docile adesione. Quando più amaramente
provava la tristezza della solitudine, ripensava al colloquio avuto nello
studio di Weissenbruch e all’elogio della sofferenza fatto dal caustico
pittore. Il suo caro Millet aveva espresso in forma anche più persuasiva la
stessa filosofia di Weissenbruch: «Non aspiro ad abolire la sofferenza,
perché spesso è in grazia sua che l’artista attinge la più forte e intensa
espressione».
Strinse amicizia con una famiglia di contadini, certi De Groot. Il padre,
la madre, un figlio e due figlie. Tutti quanti lavoravano la campagna. Come
la maggior parte dei contadini del Brabante, si sarebbe potuto chiamarli
gueules noires, non meno dei minatori del Borinage. Facce di tipo negroide,
con larghe narici dilatate, nasi gibbosi, grosse labbra tumide, lunghe
orecchie sporgenti. La parte inferiore del viso si spingeva fortemente in
avanti; la testa era piccola, a punta. Abitavano in una casupola d’una stanza
sola, con le rientranze nei muri per dormirci. Una tavola in mezzo, due
sedie, una quantità di casse e una lampada appesa ad una trave del rozzo
soffitto.
I De Groot erano mangiatori di patate. La loro cena era rallegrata da una
tazza di caffè e, forse una volta la settimana, da una fetta di lardo.
Seminavano patate, raccoglievano patate e mangiavano patate: a questo si
riduceva la loro vita.
Stien De Groot era una simpatica ragazza sui diciassette anni. Un ampio
copricapo bianco e un colletto dello stesso colore su una giacchetta nera:
così lavorava nei campi. Vincent prese l’abitudine di andare da loro ogni
sera. Lui e Stien facevano un mucchio di risate.
— Perdinci che bella dama sono io! Mi fanno perfino il ritratto. Devo
mettermi la cuffia nuova, Mijnheer?
— No, Stien, sei bellissima così.
— Bellissima, addirittura.
E dava in scrosci di risa. Aveva un paio d’occhi allegri, un’espressione
briosa e vivace. Una fisionomia indigena allo stato puro. Quando si chinava
a raccogliere le patate nei campi, Vincent ravvisava nelle linee del suo
corpo una grazia più schietta di quella di Kay. Aveva appreso che
l’elemento essenziale nella figura è il movimento, l’azione, e che il grave
difetto delle figure ritratte dai vecchi maestri consiste nella loro inerzia.
Disegnò i De Groot in atto di zappare nei campi, di apparecchiar la tavola in
casa, di mangiare patate; Stien stava sempre a curiosare china sulla sua
spalla, scherzando con lui. A volte, di domenica, si metteva una cuffia e un
colletto di bucato e andava a fare una camminata con lui per la landa. Era
questo l’unico divertimento dei contadini.
— Margot Begeman ti voleva veramente bene? — gli domandò un
giorno.
— Sì.
— E allora perché ha tentato di uccidersi?
— Perché la sua famiglia non voleva che mi sposasse.
— Che sciocca. Sai che cosa avrei fatto io, invece di avvelenarmi?
Avrei semplicemente continuato ad amarti.
Gli lanciò in faccia una risata argentina e si diede a correre verso un
boschetto di pini. Per tutto il giorno risero e si divertirono tra gli alberi.
Altre coppie errabonde li videro. Stien aveva il dono del buon umore: la
minima osservazione di Vincent, il suo minimo gesto le strappavano risa
folli, incontenibili. Faceva la lotta con lui, sforzandosi di stenderlo a terra.
Quando, in casa, un suo disegno non le piaceva, ci versava sopra del caffè
oppure lo gettava nel fuoco. Veniva spesso a posare nel suo studio; quando
se ne andava, la stanza era in un disordine spaventoso.
Passò così l’estate, l’autunno e venne l’inverno. La neve costringeva
Vincent a lavorare tutto il giorno in casa. A quelli di Nuenen non piaceva
posare; non fosse stato per i soldi, nessuno sarebbe venuto nel suo studio.
All’Aia aveva disegnato quasi novanta figure di donne intente a cucire, per
ricavarne un gruppo di tre e farne un quadro. Avrebbe voluto dipingere i De
Groot mentre consumavano la loro cena di patate e caffè: ma perché il
quadro gli venisse bene doveva prima esercitarsi a ritrarre tutti i tipi di
contadini della zona.
Il prete cattolico non era mai stato entusiasta del fatto che nella casa del
sagrestano fosse venuto a stabilir dimora un individuo che aveva la duplice
prerogativa di essere un infedele e un artista; ma siccome Vincent non dava
noie e si mostrava cortese, non poteva trovare nessun pretesto per farlo
sloggiare. Un giorno Adriana Schafrath entrò nello studio tutta eccitata. —
Padre Pauwels desidera parlarvi immediatamente!
Il reverendo Andrea Pauwels era un uomo corpulento, rosso di faccia.
Diede una rapida sbirciata allo studio e ne concluse che non aveva mai visto
un disordine simile.
— In che posso servirvi, Padre? — domandò garbatamente Vincent.
— Voi non potete servirmi in niente! Ma io posso servirvi in qualcosa!
Vi sistemerò questa faccenda, purché facciate come vi dico io.
— Quale faccenda, Padre?
— Lei è cattolica e voi protestante, ma io otterrò una speciale dispensa
dal vescovo. Tenetevi pronto a sposarvi tra pochi giorni!
Vincent fece due passi avanti per veder meglio il reverendo Pauwels,
alla luce della finestra. — Temo di non capire, Padre.
— Ma sì che capite. Inutile che stiate a fingere. Stien De Groot è in
stato interessante! L’onore della famiglia esige che si corra ai ripari.
— In stato interessante? Ma che diavolo mi dite!
— Lasciate stare il diavolo. Sebbene in questa faccenda abbia avuto
anche lui la sua parte…
— Ma siete ben sicuro, Padre? Siete ben sicuro di non ingannarvi?
— Non vado in giro ad accusare una persona, se non ho prove positive.
— E Stien vi ha detto… vi hanno detto… che sono stato io?
— No. Si è rifiutata di dirci il nome del responsabile.
— E allora perché conferite a me quest’onore?
— Molte volte vi hanno visto insieme. Non viene forse spesso qui nel
vostro studio?
— Sì.
— Non facevate delle scampagnate con lei, la domenica?
— Sì.
— Ebbene, quali altre prove dovrei andare a cercare?
Vincent tacque un momento.
— È una notizia che mi rattrista, Padre — disse poi, calmo. — Mi
dispiace proprio tanto per la mia amica Stien. Ma vi assicuro che i miei
rapporti con lei sono stati i più innocenti del mondo.
— E pretendete di farmi credere una cosa simile?
— No, non lo pretendo affatto.
Quella sera, quando Stien tornò dalla campagna, egli l’aspettava sulla
soglia della casupola. Tutti gli altri della famiglia entrarono per cenare.
Stien sedette pesantemente accanto a lui.
— Presto ti procurerò un altro tipetto da disegnare.
— Dunque è proprio vero, Stien!
— Altroché! Vuoi sentire?
Gli prese la mano e se la mise sul ventre, facendogliene palpare la
protuberanza.
— Oggi Padre Pauwels mi ha informato che il bambino è mio.
— Fosse vero! — rise Stien. — Ma tu non hai mai voluto.
Vincent guardò la sua faccia scura, con quella patina di sudore rappreso,
i lineamenti risentiti, il naso largo, le labbra tumide. Stien gli sorrise.
— Anch’io vorrei che il bimbo fosse mio, Stien.
— Così Padre Pauwels dice che sei stato tu! C’è proprio da ridere.
— Perché?
— Manterrai il segreto?
— Te lo prometto.
— È stato il kerkmeester della sua chiesa!
Vincent lanciò un fischio di sorpresa. — E i tuoi lo sanno?
— Nemmeno per sogno. E non glielo dirò mai. Ma sanno benissimo che
non sei stato tu.
Vincent entrò nella catapecchia. L’atmosfera era quella solita: nulla di
mutato. I De Groot accettavano il fatto della gravidanza di Stien con lo
stesso spirito con cui avrebbero accolto quella della mucca. Lo trattarono
come sempre, ed egli comprese ch’erano pienamente convinti della sua
innocenza.
Ma in paese fu tutt’altra cosa. Adriana Schafrath, che aveva origliato
alla porta, s’era affrettata ad informare i vicini. Un’ora dopo, i
duemilaseicento abitanti di Nuenen sapevano che Stien De Groot era incinta
ad opera di Vincent e che Padre Pauwels li avrebbe costretti a sposarsi.
Novembre. L’inverno. Tempo di partire. Che ci stava a fare, ormai, a
Nuenen? Aveva dipinto tutto ciò che c’era da dipingere, imparato tutto ciò
che c’era da imparare sulla vita dei contadini. Eppoi l’ambiente s’era fatto
troppo ostile, con questa recrudescenza d’odio di villaggio. Tutto gli faceva
capire ch’era giunto il momento di levar le tende. Ma dove andare?
— Mijnheer Van Gogh — disse tristemente Adriana Schafrath, dopo
aver bussato alla porta — Padre Pauwels dice che dovete sloggiare
immediatamente di qui e andare a stabilirvi altrove.
— Benissimo. Sarà fatto.
S’aggirò per lo studio, passando in rassegna il lavoro compiuto. Due
anni di fatiche a ritmo sostenuto. Centinaia di studi: tessitori e mogli di
tessitori, telai, contadini nei campi, gli alberi del giardino parrocchiale, il
campanile della vecchia chiesa, angoli della landa, siepi e boscaglie sotto il
divampar del sole e nei desolati tramonti invernali.
S’accasciò sotto una pesante tristezza. Un lavoro troppo frammentario,
il suo. Brandelli e attimi isolati di certe fasi della vita agreste del Brabante:
non un quadro in cui ci fosse tutto il contadino, tutta l’atmosfera della sua
catapecchia e delle sue patate cotte. Dov’era il suo Angelus dei contadini
del Brabante? E come poteva partire senz’averlo dipinto?
Diede un’occhiata al calendario. Mancavano ancora dodici giorni al
primo del mese. Chiamò Adriana.
— Dite al Padre Pauwels che ho pagato fino al primo e che non me ne
andrò prima di tale data.
Prese cavalletto, colori, tela e pennelli; si diresse risolutamente verso
l’abitazione dei De Groot. Nessuno in casa. Abbozzò a matita l’interno
della stanza. Quando la famiglia tornò dai campi, lacerò il foglio. I De
Groot si misero a tavola. Patate, caffè e lardo. Vincent collocò la tela sul
cavalletto e lavorò furiosamente finché quella povera gente andò a dormire.
Tornato nel suo studio, seguitò a lavorare per tutta la notte. Passò parte della
giornata a letto. Quando si svegliò, gettò quella tela nel fuoco con selvaggio
disgusto e tornò dai De Groot.
I vecchi maestri olandesi gli avevano insegnato che disegno e colore
sono una cosa sola. I De Groot si misero a tavola nella stessa posizione e
negli stessi atteggiamenti d’ogni sera, di tutta la loro vita. Vincent voleva
rendere evidente come le mani che questa gente metteva nel piatto,
mangiando patate al lume della lampada, avevano lavorato e scavato la
terra; voleva dar loro la sensazione inconfondibile della fatica manuale;
voleva far capire che questa gente si era onestamente guadagnato il cibo che
mangiava.
La vecchia abitudine di buttarsi violentemente al lavoro gli tornò ora
utilissima. Dipinse con ritmo furioso, con tremenda energia. Non aveva
bisogno di rifletter troppo su ciò che faceva: già aveva disegnato centinaia
di contadini, di abituri, di famiglie sedute a mangiare.
— Oggi è venuto qui Padre Pauwels — disse la madre.
— A far che cosa?
— A offrirci dei soldi perché non posassimo più per voi.
— E che cosa gli avete detto?
— Che siete nostro amico.
— Ha fatto il giro di tutte le case qui intorno — s’intromise Stien. —
Ma tutti gli hanno risposto che preferivano guadagnare un soldo posando
per voi che accettare la sua carità.
La mattina dopo, Vincent distrusse anche questa seconda tela. Fu preso
da un senso di rabbia e di impotenza. Gli restavano appena dieci giorni.
Doveva andar via da Nuenen, dove la vita gli diventava impossibile. Ma
non poteva partire prima d’aver mantenuto la sua intima promessa a Millet.
Tornava ogni sera dai De Groot. Lavorava finché i suoi amici non ne
potevano più dalla stanchezza. Ogni notte tentava nuove combinazioni di
colori, di valori e di proporzioni. E sempre si rendeva conto di non aver
realizzato l’idea, di averle dato un’espressione inadeguata.
Venne l’ultimo giorno del mese. Vincent era stremato dalla frenetica
tensione, dalla mancanza di sonno e spesso di cibo. Viveva d’esasperazione
nervosa. Più s’indeboliva, più l’eccitazione cresceva. Adesso era
nuovamente lì ad aspettare nella casupola. I De Groot tornarono dalla
campagna. Vincent aveva già tutto pronto: cavalletto, tela, colori. Era
l’ultima possibilità. La mattina dopo avrebbe dovuto lasciare il Brabante,
per sempre.
Lavorò per ore e ore. I De Groot avevano compreso. Finito di mangiare,
rimasero ancora a tavola discorrendo a bassa voce nel loro dialetto. Vincent
non sapeva che cosa dipingesse. Buttava giù, senza nessuna interposizione
di pensieri tra la mano e la tela, quasi senza rendersi conto di ciò che
faceva. Verso le dieci, i De Groot cadevano dal sonno e lui non ne poteva
più. Aveva fatto tutto ciò che poteva. Raccolse le sue cose, diede un bacio a
Stien e disse addio a tutti quanti. Poi s’avviò a lunghi passi verso casa, nel
buio della notte, senza nemmeno accorgersi di camminare.
Giunto nello studio posò la tela su una sedia, accese la pipa e osservò il
lavoro compiuto. Una porcheria. Un altro tentativo mancato. L’atmosfera
non si sentiva. Un altro fallimento. I due anni di fatiche nel Brabante erano
stati sciupati.
Continuò a fumare fino all’ultimo residuo di tabacco in fondo alla pipa.
Preparò i bagagli. Radunò tutti gli studi appesi alle pareti o chiusi nei
cassetti, li mise in una cassa. Poi si buttò sul divano.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato. S’alzò, strappò via
quella tela dal cavalletto e ne collocò un’altra. Mischiò i colori sulla
tavolozza, si sedette e ricominciò daccapo.

Si comincia con un disperato sforzo di esattezza nel riprodurre la


natura, e tutto viene male; si finisce per creare tranquillamente in base alle
suggestioni della propria tavolozza, e la natura risponde con docile
adesione.
On croit que j’imagine. Ce n’est pas vrai. Je me souviens.

Proprio come gli aveva detto Pietersen a Bruxelles: s’era tenuto troppo
vicino ai suoi modelli. Mancanza di prospettiva. S’era riversato nello
stampo della natura: ora riversava la natura nel suo proprio stampo.
Dipinse tutta la scena in una tonalità rispondente al colore di una patata
terrosa, da sbucciare. La sudicia tovaglia di tela sulla tavola, la parete
affumicata, la lampada appesa alle travi, Stien che serviva patate al padre, la
madre che versava il caffè, il fratello che alzava la tazza alle labbra: e su
tutti quei volti la calma e paziente accettazione di un immutabile ordine di
cose.
Si levò il sole, dalla finestra penetrò un barlume di luce. Vincent s’alzò
dallo sgabello. Un gran senso di pace, di calma. L’eccitazione di quei dodici
giorni era svanita. Osservò il quadro. Sapeva di lardo, di fumo, di patate
cotte. Sorrise. Aveva dipinto il suo Angelus. Aveva saputo cogliere, in ciò
che passa, ciò che non passa. Il contadino del Brabante non sarebbe mai
morto.
Lavò il quadro con bianco d’uovo. Portò alla casa parrocchiale la cassa
dei disegni e dei quadri, lasciandola in custodia alla madre; si congedò dai
suoi. Tornò allo studio, scrisse su quella tela: I mangiatori di patate; vi unì
alcuni dei suoi studi meglio riusciti e partì per Parigi.
PARTE QUINTA

PARIGI

1.

— Non hai dunque ricevuto la mia ultima lettera? — gli domandò Theo
la mattina dopo, a colazione.
— Credo di no. Che cosa mi scrivevi?
— Ti davo la notizia della mia promozione.
— Perbacco, Theo! E ieri non me ne hai detto niente.
— Eri troppo eccitato per darmi ascolto. Dirigo la galleria del
Boulevard Montmartre.
— Magnifico! Una galleria d’arte a tua disposizione!
— Fino a un certo punto, Vincent. Devo attenermi abbastanza
rigorosamente alle direttive dei padroni. Ma mi hanno permesso di esporre
gli impressionisti nell’entresol, cosicché…
— Quali sono gli impressionisti che presenti in questo momento?
— Monet, Degas, Pissarro e Manet.
— Tutta gente che non conosco.
— Allora, fai una cosa: vieni subito alla galleria e osserva per bene i
loro quadri.
— Perché fai quel sorrisetto malizioso, Theo?
— Oh, niente. Ancora una tazza di caffè? Ci resta poco tempo. Io vado
ogni mattina a piedi fin là.
— Grazie. No, no, solo una mezza tazza. Alla buon’ora, vecchio mio, fa
piacere ritrovarsi finalmente a tavola con te!
— Da tanto tempo aspettavo che tu venissi a Parigi. Certo, un bel giorno
saresti indubbiamente arrivato. Ma avrei preferito che tu aspettassi fino a
giugno, quando mi trasferirò in Rue Lepic. Là avremo tre stanze spaziose.
Qui, vedi, non puoi lavorar bene.
Vincent diede un’occhiata all’intorno, girandosi sulla sedia.
L’appartamento di Theo consisteva in una stanza da letto, una piccola
cucina e uno studiolo. La camera era elegantemente ammobiliata in
autentico stile Luigi Filippo, ma ci si moveva appena.
— Se ci metto ancora il mio cavalletto — disse Vincent — dovremo
sbatter via dalla finestra qualcuno dei tuoi mobili così belli.
— Già, qui c’è una vera sovrabbondanza di mobili; ma mi è capitata
l’occasione di comprarli ad una liquidazione e non me li sono lasciati
sfuggire, dato che per il mio nuovo appartamento volevo appunto roba di
questo genere. Andiamo, Vincent. Ti farò percorrere il mio itinerario
favorito, giù per la collina, fino al Boulevard. Non potrai mai dire di
conoscere Parigi, se non ne senti l’odore di buon mattino.
Indossò il soprabito nero, abbottonato alto fin sotto il nodo
dell’immacolata cravatta bianca, diede un ultimo colpettino di spazzola ai
riccioli che ornavano i due lati della scriminatura, si lisciò i baffi e il pizzo.
Si mise il cappello nero, prese guanti e bastone e si diresse verso la porta.
— Sei pronto, Vincent? Dio mio, sei uno spettacolo! Se andassi in giro
vestito a codesto modo in un’altra città che non fosse Parigi, ti
arresterebbero!
— Che ci trovi di speciale? — replicò Vincent, guardandosi. — Sono
quasi due anni che porto questo abito e nessuno mi ha mai detto niente.
— Non importa — rise Theo. — I parigini sono abituati a vedere tipi
come te. Stasera dopo la chiusura della galleria ti procurerò qualcosa da
vestire.
Scesero una rampa di scale a chiocciola, passarono davanti
all’abitazione del concierge e uscirono in Rue Laval: una via ampia, ricca e
dignitosa, fiancheggiata da grandi negozi: drogherie, botteghe di cornici e
oggetti antichi.
— Osserva quelle tre belle signore al terzo piano di casa nostra — disse
Theo.
Vincent alzò gli occhi. Le tre belle signore erano di gesso. Sotto la
prima si leggeva «Scultura»; sotto quella di mezzo «Architettura»; sotto la
terza «Pittura».
— Che cosa li ha autorizzati a credere che la pittura sia una così brutta
megera? — protestò Vincent.
— Non saprei. Comunque, vedi che sei proprio capitato nella casa che
fa per te.
Passarono dinanzi alla soglia del «Vieux Rouen», il negozio d’antichità
e oggetti d’arte dove Theo aveva acquistato i suoi mobili Luigi Filippo. In
un momento furono in Rue Montmartre, che aggirava graziosamente il
fianco della collina inerpicandosi verso il Boulevard de Clichy e la Butte
Montmartre, e scendeva verso il cuore della città. Sole mattutino, odor di
Parigi, esercizi affollati di gente che consumava caffè e croissants, spacci di
verdura, di carne e di formaggi che iniziavano la loro giornata di lavoro.
Una zona animatissima, prettamente borghese, piena di botteghe e
negozi. Operai che camminavano in mezzo alla strada. Massaie che
toccavano le merci esposte in cesti e cassette davanti alle botteghe
disputando accanitamente sui prezzi.
Vincent trasse un profondo respiro. — Questa è Parigi. Finalmente,
dopo tanti anni!
— Sì, Parigi. La capitale d’Europa. Specialmente per un artista.
Vincent si riempiva i polmoni di quell’intenso flusso di vita che
scorreva su e giù per la collina. I garçons dalle giacche a strisce rosse e
nere; le donne che portavano sotto il braccio lunghi bastoni di pane; i
carrettini a mano lungo il margine dei marciapiedi; le femmes de chambre in
pantofole; i ricchi uomini d’affari che si dirigevano verso i loro uffici. Dopo
una serie innumerevole di charcuteries, pâtisseries, boulangeries,
blanchisseries e piccoli caffè, la Rue Montmartre raggiungeva con una
curva il fondo della collina e si tuffava nella Place Châteaudun, un piccolo
circolo approssimativo formato dall’incontro di sei strade. L’attraversarono;
passarono dinanzi a Notre-Dame-de-Lorette, una chiesa rettangolare di
pietra annerita, con in cima tre angeli idillicamente volanti verso l’azzurro
empireo. Vincent si soffermò a leggere la scritta sopra la porta.
— Dànno ancora una seria importanza a questo «Liberté, Égalité,
Fraternité»?
— Credo. La Terza Repubblica sarà probabilmente duratura. I realisti
sono morti e sepolti, ora stanno facendosi avanti i socialisti. Émile Zola mi
diceva l’altra sera che la prossima rivoluzione sarà sferrata contro il
capitalismo anziché contro il principio monarchico.
— Zola! Tu lo conosci personalmente? Una bella fortuna.
— È stato Paul Cézanne a presentarmi. Ci raduniamo una volta alla
settimana al Caffè Batignolles. La prossima volta porterò anche te.
Staccandosi dalla Place Châteaudun, la Rue Montmartre perdeva il suo
carattere popolare e assumeva un’aria più sostenuta. Negozi più grandi,
caffè più imponenti, gente meglio vestita, edifici più ricchi. Lungo il
marciapiede s’allineavano ristoranti, caffè-concerto ed alberghi; invece dei
carretti si vedevano circolare eleganti carrozze.
I due fratelli procedevano a passo svelto. La fresca mattinata di sole
eccitava le energie, si respirava nell’aria un’atmosfera di febbrile e pulsante
attività.
— Dal momento che in casa non puoi lavorare, ti consiglierei di andare
alla scuola di pittura di Corman.
— Corman?
— Sì. È anche lui un pittore accademico come la maggior parte dei
maestri. Ma se le sue critiche non ti garbano, ti lascerà in pace.
— Costa molto?
Theo gli diede un colpetto sulla gamba col bastone da passeggio. —
Non ti ho detto forse che sono stato promosso direttore? Sto diventando uno
di quei plutocrati che Zola spazzerà via dalla terra con la sua imminente
rivoluzione!
La Rue Montmartre sfociava nell’ampio e imponente Boulevard
Montmartre, con i suoi grandi magazzini, le sue arcate, i suoi negozi di
lusso. Quest’arteria, che poco più avanti prendeva il nome di Boulevard des
Italiens e conduceva in Place de l’Opéra, era la più importante della città.
Benché a quest’ora del mattino fosse ancor quasi deserta, nell’interno dei
grandi negozi i commessi e gli impiegati si preparavano ad una giornata
operosa.
La galleria diretta da Theo era situata al n. 19, un isolato a destra della
Rue Montmartre. I due fratelli attraversarono il Boulevard, si soffermarono
presso un lampione per lasciar passare una carrozza e proseguirono verso la
galleria.
S’inoltrarono nella sala, tra commessi elegantemente vestiti che
s’inchinavano rispettosamente a Theo. Vincent ricordò come facesse anche
lui altrettanto, ai suoi tempi, all’apparire di Tersteeg e di Obach. Nell’aria,
quello stesso sentore di cultura e di raffinatezza: un odore che credeva di
aver dimenticato. Appesi alle pareti, quadri di Bouguereau, Henner e
Delaroche. In fondo alla sala principale c’era una balconata cui s’accedeva
per una rampa di scale.
— I dipinti che t’interessano sono lassù nell’ entresol — gli disse Theo.
— Quando li avrai guardati per bene, vieni a dirmi che cosa ne pensi.
— Perché mi fai quel mezzo sorriso?
Il mezzo sorriso di Theo si fece ancor più accentuato.
— À tout à l’heure! — E s’eclissò nel suo ufficio.

2.

«Ma sono capitato in un manicomio?».


Vincent mosse come smarrito verso l’unica poltrona dell’entresol, vi si
lasciò cadere e si stropicciò gli occhi. Dall’età di dodici anni era sempre
stato abituato a vedere pitture di tonalità scura e cupa: pitture in cui non si
scorgeva la traccia della pennellata, ogni particolare appariva corretto e
rifinito, i colori ben distesi sfumavano lentamente l’uno nell’altro.
Questi quadri che gli ridevano allegramente dalle pareti erano di una
novità sconcertante. Non aveva mai visto né sognato nulla di simile. Niente
tinte sfumate e levigate. Niente sobrietà e compostezza di sentimento.
Completamente scomparsa quella specie di salsa scura in cui l’arte europea
immergeva da secoli i suoi quadri. Una pittura capricciosamente e
insolentemente pazza di sole, questa. Luce, aria, pulsante ricchezza di vita.
Ecco qua: figure di ballerine realizzate con rossi verdi azzurri primitivi,
accostati senz’ombra di rispetto per la tradizione. Guardò la firma. Degas.
Ed ecco un gruppo di scene situate in riva ad un fiume, in cui
divampava tutta la calda e deliziosa ricchezza di colori d’una giornata di
mezza estate. Recavano la firma di Monet. In tutte le centinaia di tele che
Vincent aveva avuto occasione di vedere non c’era tanta luce, tanta
ampiezza di respiro, tanta fragranza, quanto in una sola di queste pitture
radiose e ridenti.
Il più scuro dei colori usato da Monet era ancora notevolmente più
chiaro dei più chiari colori che si potessero vedere in tutti i musei olandesi.
Le pennellate spiccavano con disinvoltissima evidenza, senza vergogna, e
ognuna rifluiva nel ritmo della natura. Una coloritura densa, profonda,
palpitante di ricchi e caldi rilievi.
Vincent passò ad osservare un ritratto d’uomo in maglietta di lana, che
reggeva il timone d’una barca con quell’intensa concentrazione tipica dei
francesi che si godono il pomeriggio domenicale. Vicino a lui sedeva la
moglie, con aria indifferente, passiva. Vincent cercò il nome dell’autore.
«Di Monet anche questo? Strano. Non ha nulla in comune con le tele di
poc’anzi».
Guardò meglio. Aveva letto male: il nome era Manet, non Monet.
Ricordò allora l’episodio del Déjeuner sur l’herbe e dell’Olympia, quando
la polizia aveva dovuto tendere dei cordoni dinanzi ai quadri per impedire
che il pubblico li squarciasse a coltellate e ci sputasse su.
Non avrebbe saputo dir perché, ma le pitture di Manet gli richiamavano
alla mente i romanzi di Zola. La stessa spietata ricerca del vero, la stessa
coraggiosa penetrazione, la stessa convinzione che la bellezza consisteva
nell’originalità e nella forza espressiva di un tipo o di un ambiente, per
quanto sordidi essi potessero essere. Studiandone attentamente la tecnica,
constatò che Manet accostava colori elementari senza gradazioni, che
parecchi particolari erano appena accennati e che colori, linee, luci e ombre
non presentavano limiti netti e precisi, ma interferivano tra loro, oscillando
e sconfinando.
«Proprio come li vede l’occhio, in natura».
Gli parve di riudire l’indignato rimprovero di Mauve: «Possibile che tu
non sappia riprodurre fedelmente una linea?».
Tornò a sedersi, continuando a contemplare quelle tele. Ad un certo
momento afferrò uno degli espedienti più semplici che contribuivano a
rivoluzionare così radicalmente la pittura. Questi pittori davano solidità e
consistenza all’aria! E quest’aria viva, mossa, piena faceva sentire il suo
effetto sugli oggetti e sulle figure. Vincent sapeva che per gli accademici
l’aria non esisteva: semplice spazio vuoto in cui collocavano oggetti rigidi,
fermi.
Ma costoro! Costoro avevano scoperto l’aria! Avevano scoperto la luce
e il respiro, l’atmosfera e il sole; vedevano le cose attraverso il filtro delle
innumerevoli forze che vivono in quel fluido vibrante. Comprese che la
pittura non sarebbe più stata, d’ora in poi, quella di prima. Le macchine
fotografiche e gli accademici avrebbero fatto riproduzioni scrupolosamente
esatte; i pittori avrebbero visto tutto attraverso il filtro del proprio
temperamento e dell’aria soleggiata in cui lavoravano. Si poteva quasi
parlare della creazione di un’arte nuova.
Ridiscese la scala come abbagliato. Theo si trovava nella sala
principale. Si volse verso di lui con un sorriso sulle labbra, scrutando in
viso il fratello.
— Ebbene, Vincent?
— Oh, Theo!
Volle, parlare non poté. Scoccò ancora un’occhiata all’entresol. Poi girò
sui tacchi e scappò fuori.
Camminò per l’ampio boulevard finché giunse davanti ad un edificio
ottagonale in cui riconobbe l’Opéra. In fondo a un’infilata di palazzi in
pietra scorse un ponte, e si diresse verso il fiume. Scese a fior d’acqua,
immerse le dita nelle onde della Senna. Varcò poi il ponte senza nemmeno
guardare le statue equestri di bronzo e si cacciò nel labirinto di vie della
Riva Sinistra. Proseguì per la salita con passo deciso. Oltrepassò un
cimitero, svoltò a destra e giunse davanti ad una vasta stazione ferroviaria.
Non ricordandosi più d’aver attraversato la Senna, domandò ad un vigile
dove fosse la Rue Laval.
— La Rue Laval? È dall’altra parte della città, Monsieur. Qui siete a
Montparnasse. Dovete discendere, attraversare la Senna e salire verso
Montmartre.
Per diverse ore Vincent bighellonò per Parigi, senza curarsi molto di
tener la direzione giusta. Larghi e lindi boulevards con negozi lussuosi,
viuzze sporche, arterie popolari con file interminabili di osterie e spacci di
vino. Si ritrovò in cima ad una collina dove sorgeva un arco di trionfo. Ad
est, un corso alberato, fiancheggiato da una parte e dall’altra da strisce di
parco e terminante in una larga piazza ornata d’un obelisco egiziano; ad
ovest, un bosco immenso.
Era pomeriggio inoltrato, quando trovò finalmente la Rue Laval. La
fatica della camminata aveva attutito la sensazione tormentosa lasciatagli da
quei quadri. Si diresse risolutamente verso le sue tele e i suoi disegni,
ancora arrotolati e legati. Li allargò tutti quanti sul pavimento.
Li osservò. Dio, com’erano tetri e scuri! Dio, com’erano pesanti, spenti,
senza vita! Aveva lavorato in un secolo remoto, e non se n’era accorto.
Theo rincasò verso l’ora del tramonto e lo trovò ancora seduto sul
pavimento, cupo e scoraggiato. S’inginocchiò accanto a lui. Nella stanza
non restava più traccia della luce del giorno. Theo tacque per un po’ di
tempo.
— Vincent, capisco il tuo stato d’animo. Sei come intontito. Un colpo
tremendo, vero? Stiamo gettando all’aria tutto ciò che finora è stato ritenuto
come sacro nel campo della pittura.
Vincent fissò negli occhi il fratello.
— Perché non me l’hai mai detto? Perché non mi hai informato? Perché
non mi hai fatto venir prima a Parigi? Mi hai lasciato sciupare ben sei anni.
— Sciupare? Non dire sciocchezze. Ti sei fatto un’arte tua. Dipingi alla
maniera di Vincent Van Gogh, e di nessun altro al mondo. Se fossi venuto
prima, la tua personalità si sarebbe cristallizzata e dispersa, Parigi ti avrebbe
modellato secondo la propria impronta.
— Ma adesso che devo fare? Guarda questa porcheria! — E diede un
calcio ad una grande tela scura. — Tutta roba morta, Theo. Roba che non
val niente.
— Mi domandi che cosa devi fare? Te lo dico subito. Dagli
impressionisti devi imparare la tecnica della luce e del colore. Questo e
nient’altro. Non devi imitare. Non devi rinunciare a te stesso. Non devi
lasciarti sopraffare e sommergere dalle acque di Parigi.
— Ma qui, Theo, si tratta di imparare di bel nuovo, di ricominciare
daccapo. Tutto ciò che ho fatto è sbagliato.
— Tutto ciò che hai fatto va benissimo: all’infuori di ciò che riguarda la
luce e il colore. Fin dal primo giorno in cui hai messo mano a una matita, là
nel Borinage, tu eri già un impressionista. Guarda il tuo disegno! Guarda la
tua pennellata! Prima di Manet, nessuno ha mai dipinto così. Guarda la tua
linea! Ben raramente ti capita di tracciare una linea netta e perentoria o di
riprodurre minuziosamente i particolari. Guarda quelle facce, quelle figure
di contadini, quegli alberi! Impressioni. Impressioni ruvide, imperfette,
passate attraverso il filtro della tua personalità. Essere un impressionista
significa appunto questo: non dipingere come nessun altro, non rendersi
schiavo di regole e di canoni. Tu appartieni pienamente alla tua epoca,
Vincent, e sei un autentico impressionista, ti piaccia o non ti piaccia!
— Eccome mi piace, Theo!
— I tuoi lavori sono conosciuti, qui a Parigi, nell’ambiente dei giovani
pittori che più contano. Oh, non alludo a quelli che vendono, ma a quelli
che stanno impegnandosi in esperimenti veramente importanti e
significativi. Ed essi vogliono conoscerti. Aspettati delle piacevoli sorprese.
— Conoscono i miei lavori? I giovani impressionisti conoscono i miei
lavori?
E s’alzò sulle ginocchia per veder meglio in faccia il fratello. Theo
ricordò i bei tempi di Zundert, quando loro due giocavano insieme sul
pavimento della stanza dei bambini.
— Ma certo. Che cosa credi che io sia stato a fare qui a Parigi, in tutti
questi anni? Sono tutti convinti che tu sei un artista dall’occhio penetrante e
dal polso sicuro. Hai semplicemente bisogno di dar più luce alla tua
tavolozza e di imparare a dipingere aria viva, luminosa. Non è una cosa
meravigliosa, Vincent, vivere in un’epoca in cui sta attuandosi un
movimento così importante?
— Ah, Theo, vecchio filibustiere, simpatico vecchio filibustiere!
— Su, alzati. Accendi la luce. Vestiamoci come si deve e andiamo a
pranzo. Ti porterò alla Brasserie Universelle. Vi si beve il più squisito
«Chateaubriand» di Parigi. Ti offrirò un vero banchetto. E non mancherà
una bottiglia di champagne, vecchio mio, per celebrare il grande giorno
dell’incontro di Parigi e di Vincent Van Gogh!

3.

La mattina dopo, Vincent prese i suoi materiali da disegno e si recò da


Corman. Lo studio consisteva in un’ampia stanza al terzo piano con finestre
che davano in istrada, verso nord, e la fornivano abbondantemente di luce.
In fondo allo studio, dirimpetto alla porta, un uomo nudo in posa. Una
trentina di sedie e altrettanti cavalletti, per gli studenti. Vincent si fece
iscrivere tra gli allievi di Corman, che gli assegnò subito un posto.
Disegnava da circa un’ora, quando la porta s’aprì ed entrò una donna,
con la faccia fasciata e una mano alla guancia. Lanciato uno sguardo pieno
d’orrore al modello nudo, lanciò un Mon Dieu! e scappò via.
— Perché è scappata così? — domandò Vincent al suo vicino.
— Oh, è una faccenda che si ripete quasi ogni giorno. Ha sbagliato
porta: credeva d’entrare nell’anticamera del dentista qui accanto.
Generalmente la scossa che provano queste signore nel trovarsi di fronte ad
un uomo nudo le guarisce dal mal di denti. Se il dentista non trasloca, finirà
per andare in rovina. È la prima volta che vieni qui, vero?
— Sì. Mi trovo a Parigi da appena tre giorni.
— Come ti chiami?
— Van Gogh. E tu?
— Henri Toulouse-Lautrec. Sei parente di Theo Van Gogh?
— È mio fratello.
— Allora non puoi essere che Vincent! Bene, sono lieto di conoscerti.
Tuo fratello è il miglior mercante d’arte di Parigi. L’unico che offra agli
artisti giovani qualche possibilità di farsi strada. Non solo: egli lotta per noi.
Se un giorno saremo accettati dal pubblico parigino, lo dovremo a Theo Van
Gogh. Tutti lo riteniamo un tipo molto in gamba.
— Anch’io.
Vincent lo osservò meglio. Lautrec aveva una testa schiacciata; naso,
labbra e mento fortemente prominenti. Portava una barba nera che si
spingeva in avanti anziché in giù.
— Come mai sei venuto a cacciarti in questo studio idiota? — gli
domandò Lautrec.
— Tanto per avere un posto dove poter disegnare. E tu?
— Il diavolo mi porti, se lo so. Ho vissuto tutto il mese scorso in un
bordello di Montmartre, facendo ritratti di prostitute. Quello sì che era
lavoro. Disegnare in uno studio è gioco da bambini.
— Mi piacerebbe vedere quei tuoi studi.
— Davvero?
— Certo. Perché no?
— I più mi credono pazzo perché dipingo ballerine, clowns e prostitute.
Ma è lì che si trovano dei veri tipi!
— Lo so. All’Aia ne avevo una con cui facevo vita matrimoniale.
— Bien! Questi Van Gogh sono proprio una famiglia come si deve! Ti
dispiace farmi vedere il disegno che hai fatto ora?
— Eccoli tutti. Ne ho fatto quattro.
Lautrec li osservò per qualche momento.
— Noi due andremo d’accordo, amico mio. Abbiamo le stesse idee. Li
hai già fatti vedere a Corman?
— No.
— Quando li avrà guardati, qua dentro sarai spacciato. Almeno per
quanto riguarda il suo giudizio critico. L’altro giorno mi diceva: «Lautrec,
voi esagerate, esagerate sempre. Ogni vostra linea è una caricatura».
— E tu gli hai risposto: «Questa è originalità, mio caro Corman, non
caricatura».
Gli occhi neri di Lautrec, penetranti come punte di spillo, s’accesero
d’una strana luce.
— Desideri ancora venire a vedere quei miei ritratti di ragazze?
— Certo.
— Allora andiamo. Questa è una camera mortuaria.
Lautrec aveva un collo corto e massiccio, spalle e braccia vigorose. Ma
quando s’alzò in piedi, Vincent notò che il suo amico era sciancato. In piedi
non appariva più alto che seduto. Il torso possente, che scendeva
restringendosi verso la cintura in modo da formar quasi un triangolo,
poggiava su un paio di gambe esili e rattrappite.
Scesero per il Boulevard Clichy; Lautrec s’appoggiava pesantemente al
bastone, soffermandosi ogni tanto a pigliar fiato e indicando all’amico
qualche bella linea architettonica, qualche grazioso effetto prodotto dalla
vicinanza di due edifici. Giunti ad un isolato dal Moulin Rouge, s’avviarono
su per la collina in direzione della Butte Montmartre. Lautrec doveva
soffermarsi più spesso.
— Ti domanderai probabilmente che cosa abbiano le mie gambe, Van
Gogh. Se lo domandano tutti. Ebbene, te lo dico subito.
— Oh, figurati, non è affatto necessario.
— Te lo dico lo stesso. — Si piegò sul bastone, premendovi sopra con
tutto il peso del busto. — Sono venuto al mondo con le ossa deboli. All’età
di dodici anni scivolai sul pavimento d’una sala da ballo e mi ruppi il
femore destro. L’anno dopo caddi in un fosso e mi ruppi il sinistro. Da
allora le mie gambe non si sono più sviluppate.
— Ciò ti rende molto infelice?
— No. Se fossi stato un individuo sano e normale, non sarei mai
diventato pittore. Mio padre è un conte di Tolosa. Io ero l’erede del titolo.
Volendo, avrei potuto avere un bastone di maresciallo e cavalcare accanto al
re di Francia. Ammesso, beninteso, che ci fosse un re di Francia… Mais,
sacrebleu, che cosa se ne fa un individuo del titolo di conte se non può
essere pittore?
— Già, credo che i tempi dei conti siano finiti.
— Andiamo? Laggiù è lo studio di Degas. Mi accusano di copiare da
lui, perché Degas dipinge ballerine e io le ragazze del Moulin Rouge.
Dicano quel che vogliono. Eccoci a casa mia: Rue Fontaine, 19 bis. Come
già avrai immaginato, abito a pianterreno.
Aprì la porta e fece passare Vincent.
— Vivo solo. Siediti, se trovi un posto.
Vincent si guardò intorno. Oltre alle tele, alle cornici, ai cavalletti, agli
sgabelli, alle predelle e ai rotoli di tendaggi, due ampi tavoli ingombravano
la stanza. Sul primo una quantità di bottiglie di vini pregiati e liquori
multicolori. Sull’altro, un mucchio di scarpette e pianelle da ballerina,
parrucche, libri vecchi, oggetti d’abbigliamento femminile, guanti, calze da
donna, fotografie volgari, preziose stampe giapponesi. In mezzo a tutto
questo caos, a Lautrec restava appena spazio sufficiente per sedersi a
dipingere.
— Che c’è, Van Gogh? Non trovi posto per sederti? Scosta tutta quella
roba sul pavimento e portati una sedia vicino alla finestra. In quel bordello
c’erano ventisette ragazze. Io sono andato a letto con tutte quante, l’una
dopo l’altra. Non credi anche tu che sia indispensabile andare a letto con
una donna, prima di poter dire d’averla compresa?
— Sì.
— Ecco i ritratti. Li ho portati ad un mercante di quadri sul Boulevard
des Capucines. M’ha detto: «Lautrec, perché avete la fissazione della
bruttezza? Perché dipingete sempre la gente più sordida e immorale che
possiate trovare? Queste donne sono repellenti, veramente repellenti. Hanno
scritto in faccia il vizio e il pervertimento più sinistro. A questo si riduce
l’arte moderna, a creare della bruttezza? Siete diventati così ciechi alla
bellezza, voialtri pittori, da non sapervi più rivolgere se non alla feccia della
terra?». E io: «Scusate, ma comincio a sentirmi rivoltar lo stomaco e non
vorrei vomitare su questo vostro bel tappeto». Va bene la luce, Van Gogh?
Bevi un sorso? Su, dimmi, che cosa preferisci? Ho tutto ciò che puoi
desiderare.
E zoppicando tra le sedie, i tavoli e i rotoli di stoffa con agili
movimenti, riempì i bicchieri e gliene portò uno.
— Alla bruttezza! — brindò — E che non abbia mai a infettare
l’Accademia!
Vincent bevve e si mise ad esaminare i ventisette ritratti delle prostitute
di Montmartre. Notò subito che l’artista le aveva fedelmente disegnate
come le aveva viste. Ritratti obiettivi, senza ombra di atteggiamenti morali
o di commenti etici. Nelle fisionomie di queste ragazze egli aveva colto
l’espressione della tristezza e della sofferenza, della sensualità incallita,
della bestiale sfrenatezza e della solitudine spirituale.
— Ti piacciono i ritratti di contadini, Lautrec?
— Sì, purché non siano sentimentalizzati.
— Ebbene, io dipingo contadini. E mi sorprende il fatto di trovare anche
in queste donne un che di contadinesco. Ortolane della carne, potremmo
dire. La terra e la carne sono semplicemente due forme diverse della stessa
materia, non ti pare? E queste donne coltivano la carne, la carne umana, che
deve essere coltivata perché produca della vita. Un bel lavoro, Lautrec: hai
detto qualcosa che meritava d’esser detto.
— E non li trovi brutti, tu, questi ritratti?
— Per me, sono schietti e penetranti commenti alla vita. Ed è questa la
più alta forma di bellezza, non credi? Se tu avessi idealizzato o
sentimentalizzato queste donne, allora sì che le avresti fatte brutte, perché i
tuoi ritratti sarebbero stati fiacchi e falsi. Invece hai espresso la verità come
la vedevi: e la bellezza significa appunto questo, no?
— Perdio! Perché gli uomini come te sono così rari a questo mondo?
Bevi ancora una volta! E guarda pure quegli altri quadri. Guardane quanti
vuoi.
Vincent sollevò alla luce una tela, rimase un momento soprappensiero,
poi esclamò: — Daumier! Ecco che cosa mi ricorda!
Lautrec s’illuminò in viso.
— Sì, Daumier. Il più grande di tutti. L’unico da cui io abbia imparato
qualcosa. Come quell’uomo sapeva magnificamente odiare!
— Ma perché dipingere le cose che si odiano? Io dipingo soltanto ciò
che amo.
— Ogni grande arte scaturisce dall’odio, Van Gogh. Ah, vedo che stai
ammirando il mio Gauguin.
— Come hai detto?
— Paul Gauguin. Lo conosci?
— No.
— Dovresti conoscerlo. Quello è il ritratto di un’indigena della
Martinica. Gauguin è stato laggiù per qualche tempo. È completamente fou
con la sua fissazione di ridiventare un primitivo; ma che stupendo pittore!
Aveva una moglie, tre bambini e una buona posizione in un’agenzia di
cambio che gli rendeva trentamila franchi all’anno. Comprò opere di
Pissarro, di Manet e di Sisley per un importo di quindicimila franchi.
Nell’anniversario del matrimonio dipinse il ritratto della moglie. Lei trovò
ch’era un simpaticissimo beau geste. Gauguin dipingeva di domenica. Il
Circolo Artistico della Borsa, immagini? Un giorno mostrò un suo quadro a
Manet, che lo trovò eccellente. «Oh, sono soltanto un dilettante!», si
schermi Gauguin. E Manet: «No, no, dilettanti sono soltanto coloro che
fanno brutti quadri». Quel giudizio gli diede alla testa, gli procurò
un’ubriacatura da cui non doveva più liberarsi. Lasciò perdere l’agenzia di
cambio, portò la famiglia a Rouen e visse per un anno dei suoi risparmi, poi
mandò la moglie e i bambini dai suoceri, a Stoccolma. E da allora tira
avanti come può.
— Interessante.
— Stai attento, quando lo incontrerai; gli piace tormentare i suoi amici.
Senti un po’, Van Gogh: che diresti se ti portassi a vedere il Moulin Rouge e
l’Élysée-Montmartre? Conosco tutte le ragazze che ci sono là dentro. Ti
piacciono le donne, Van Gogh? Andare a letto con loro, voglio dire. Io ne
vado pazzo. Che ne dici, dobbiamo andare a spassarcela una notte o l’altra?
— Io ci sto.
— Benone. Ora potremmo tornare da Corman. Ancora un bicchiere?
Ecco. E adesso ancora uno, così vuoti la bottiglia. Guarda che butti giù quel
tavolo! Non importa, la donna di servizio rimetterà tutto a posto. Credo che
dovrò presto sloggiare di qui. Io sono ricco, Van Gogh. Mio padre ha paura
che lo maledica per avermi messo al mondo in queste condizioni, e così mi
dà tutto ciò che desidero. Quando trasloco, mi porto sempre via soltanto i
miei lavori. Prendo in affitto uno studio vuoto e me lo ammobilio io, poco
per volta. Quando corro rischio di esser soffocato tra tutta quella roba, altro
trasferimento. A proposito, che tipo di donne preferisci? Le bionde? Le
rosse? Non preoccuparti di chiudere a chiave. Guarda come ondeggiano
quei tetti di metallo verso il Boulevard Clichy: sembrano un oceano nero.
All’inferno! Con te non ho bisogno di fingere. Mi appoggio su questo
bastone e addito le bellezze della città perché sono un povero sciancato
maledetto da Dio e non posso fare più di qualche passo per volta. Be’, in un
modo o in un altro siamo tutti quanti sciancati. Andiamo avanti!

4.

Tutto sembrava facilissimo. Non aveva che da buttar via la vecchia


tavolozza, far provvista di colori chiari e dipingere alla maniera
impressionista. Al termine della prima giornata di prova, Vincent provò un
certo senso di sorpresa e di disappunto. Al termine della seconda giornata lo
stupore si mutò in sconcerto. Allo sconcerto subentrarono via via la
preoccupazione, la rabbia, lo sgomento. In capo a una settimana era in un
stato di parossismo. Dopo tanti mesi d’esperimenti con i colori, rimaneva
ancor sempre un novizio. Le tele gli venivano scure, cupe, vischiose.
Seduto accanto a lui nello studio di Corman, Lautrec lo guardava lavorare
con un accompagnamento d’imprecazioni, ma si asteneva dal dargli
suggerimenti.
Se fu una settimana dura per Vincent, lo fu mille volte di più per Theo.
D’anima delicata, di maniere dolci e blande, d’abitudini signorili, Theo era
un tipo estremamente fine e ordinato: e lo dimostrava nel modo di vestire,
nella squisitezza del portamento e del tratto, in casa e in ufficio. Aveva ben
poco dell’esplosiva vitalità di Vincent.
Il piccolo appartamento della Rue Laval era appena sufficiente per lui e
per i suoi mobili Luigi Filippo. Alla fine della prima settimana, Vincent
l’aveva trasformato in un immondezzaio. Andava rabbiosamente su e giù
pigliando a calci i mobili che gl’ingombravano il passaggio; sparpagliava
sul pavimento tele, pennelli e tubetti vuoti, lasciava sui divani e sui tavoli le
sue impronte sporche, rompeva piatti, lasciava cadere schizzi di colore,
sconvolgeva e scompigliava l’ordinarissima vita di Theo.
— Vincent! Vincent! Non comportarti in quel modo da tartaro!
Vincent, che andava su e giù per l’esiguo appartamento, mordendosi le
nocche delle dita e borbottando tra sé, si lasciò cadere pesantemente su una
fragile poltroncina.
— Inutile! — grugnì. — Ho cominciato troppo tardi. Sono troppo
vecchio per cambiare. Dio sa se ho provato, Theo! Questa settimana ho
cominciato venti tele. Ma sono ormai incallito nella mia tecnica, e non
posso ricominciare daccapo. Sono spacciato, ti dico! Ormai, dopo ciò che
ho visto qui, non posso più tornare in Olanda a dipinger pecore. Eppoi sono
arrivato troppo tardi, per poter dirigere la grande corrente della mia arte.
Dio mio, che fare?
Balzò su, s’avventò ad aprire la porta per far entrare un po’ d’aria
fresca, la richiuse con un tonfo, spalancò una finestra, fissò per un momento
il Restaurant Bataille, la richiuse con tanta violenza da spaccar quasi i vetri,
andò a bere in cucina e versò metà acqua sul pavimento, poi tornò con due
rigagnoletti che gli scorrevan giù da una parte e dall’altra del mento.
— Che ne dici, Theo? Devo rinunciare? Sono un uomo finito? Sembra
proprio così, vero?
— Ti comporti come un bambino, Vincent. Siediti lì un momento e
stammi a sentire. No, no, smettila di camminare! Se no, non posso parlarti.
E, per amor di Dio, levati quegli stivalacci, se hai intenzione di pigliare a
calci quella sedia dorata tutte le volte che le passi vicino!
— Ma sono sei anni che mi mantieni, Theo! E che cosa ne ricavi? Un
mucchio di quadri orribilmente scuri e la responsabilità di un irrimediabile
fallimento.
— Ascolta, vecchio ragazzone. Quando ti sei messo in testa di ritrarre i
contadini, ci sei forse riuscito in una settimana? O non ci hai messo cinque
anni?
— Sì, ma allora cominciavo soltanto.
— E anche adesso cominci, nel campo del colore! E probabilmente ti
occorreranno altri cinque anni.
— Allora non s’arriva mai alla fine? Devo andare tutta la vita a scuola?
Ho trentatré anni: in nome di Dio, quando raggiungerò la maturità?
— Questo è l’ultimo sforzo, Vincent. Ho visto tutta la pittura europea:
gli artisti del mio entresol rappresentano l’ultimo punto d’arrivo. Una volta
che tu abbia schiarito la tua tavolozza…
— Oh, Theo, credi davvero che riuscirò? Non mi giudichi un fallito?
— Ti giudico piuttosto un somaro. Qui si tratta della più grande
rivoluzione che si sia prodotta nella storia dell’arte, e tu pretendi di
signoreggiarla in una settimana! Facciamo una passeggiata fino alla Butte,
andiamo a rinfrescarci il cervello. Se sto ancora cinque minuti qua dentro
con te, scoppio.
Il pomeriggio seguente, Vincent disegnò da Gorman fino a tardi, poi
andò a prendere Theo alla galleria. Le lunghe file dei palazzi a sei piani
erano immersi nei rosei bagliori moribondi del crepuscolo d’aprile. Tutta
Parigi stava bevendo l’aperitivo. I tavoli esterni dei caffè della Rue
Montmatre erano affollati di gruppi d’amici. Dall’interno giungevano
musiche sommesse che suonavano per ristorare i parigini dopo la dura
giornata di lavoro. Le lampade a gas s’accendevano in quel momento, i
garçons dei ristoranti stendevano le tovaglie sui tavoli, i commessi dei
magazzini abbassavano le saracinesche, i bottegai portavano dentro le casse
delle loro merci.
Theo e Vincent uscirono a passeggiare tranquillamente per la città.
Attraversarono la Place Châteaudun, con i suoi torrenti di carrozze che si
riversavano dalle vie convergenti, passarono davanti a Notre-Dame-de-
Lorette e presero su verso la Rue Laval.
— Un aperitivo, Vincent?
— Volentieri. Sediamoci in un posto da dove si possa vedere la folla.
— Andremo da Bataille, in Rue des Abbesses. Troveremo
probabilmente qualcuno dei miei amici.
Il Restaurant Bataille era frequentato da un folto stuolo di pittori. Fuori
c’erano soltanto quattro o cinque tavoli, ma nelle due sale c’era posto in
abbondanza. Madame Bataille ne riservava sempre una agli artisti e l’altra
ai borghesi; sapeva distinguere a prima vista a quale delle due categorie
appartenesse un individuo.
— Garçon! — chiamò Theo. — Un Kümmel Eckau OO.
— E a me che cosa consigli?
— Prova un cointreau. Dovrai fare parecchi assaggi, prima di trovare un
liquore che risponda ai tuoi gusti.
Il cameriere portò i due aperitivi, con l’indicazione del prezzo sul
piattino. Theo accese un sigaro. Vincent la pipa. Passavano lavandaie in
grembiule nero, col canestro della biancheria stirata sotto il braccio; passò
un operaio, impugnando per la coda un’aringa spenzolante; e poi pittori con
i loro camici e tele ancora fresche di colore legate al cavalletto; uomini
d’affari in cappello duro e giacca grigia; massaie in pantofole, con una
bottiglia di vino o un involto di carne; belle donne dalle lunghe gonne
fluttuanti, dal vitino di vespa, con cappellini guerniti di piume e tirati verso
la fronte.
— Una sfarzosa parata, Theo, non ti pare?
— Sì. Parigi non si sveglia sul serio se non all’ora dell’aperitivo.
— Ho pensato più d’una volta: che cos’è che rende così meravigliosa
Parigi?
— Francamente, non saprei. È un eterno mistero. Credo che molto
contribuisca il carattere dei francesi. Qui c’è un’atmosfera di libertà e di
tolleranza, una scanzonata accettazione della vita che… Guarda, arriva un
mio amico che desidero farti conoscere. Buona sera, Paul. Come va?
— Benone, caro Theo.
— Posso presentarti mio fratello, Vincent Van Gogh? Vincent, ecco
Paul Gauguin. Siediti, Paul, e fatti portare uno dei tuoi inevitabili absinthes.
Gauguin alzò il bicchiere, sfiorò il liquore con la punta della lingua e ne
assaporò quindi il gusto.
— Che impressione vi fa Parigi, Monsieur Van Gogh?
— Bellissima.
— Tiens! C’est curieux. Eppure, c’è certa gente a cui piace. Per me è un
secchio di immondizie. Dove le immondizie sono rappresentante dalla
civiltà.
— Questo cointreau non mi va molto, Theo. Sai suggerirmi
qualcos’altro?
— Provate un absinthe, Monsieur Van Gogh — consigliò Gauguin. — È
l’unico liquore degno d’un artista.
— Che ne dici, Theo?
— Lo domandi a me? Prova pure. Garçon, un absinthe per il signore.
Oggi mi sembri abbastanza contento, Paul. Come si spiega? Venduto un
quadro?
— Nessuna banalità del genere, Theo. Ma stamattina ho fatto
un’esperienza deliziosa.
Theo strizzò l’occhio al fratello. — Raccontaci, Paul. Garçon, un altro
absinthe per Monsieur Gauguin.
Gauguin immerse nuovamente la punta della lingua nel liquore, si
inumidì l’interno della bocca e cominciò:
— Conosci quel vicolo cieco, l’Impasse Frenier, che parte dalla Rue des
Fourneaux? Bene. Stamattina alle cinque sento mamma Fourel, la moglie
del vetturale urlare: «Aiuto! Mio marito s’è impiccato!». Salto fuori dal
letto, m’infilo un paio di pantaloni (la decenza!), mi precipito per le scale,
afferro un coltello e recido la corda. Il disgraziato era morto, ma ancora
caldo. Faccio per portarlo nel suo letto. «Alt!», mi grida mamma Fourel.
«Dobbiamo aspettare la polizia!». Dall’altra parte, la mia casa dà su un
pezzetto d’orto largo un palmo. «Avete un cantalupo?», domando al
proprietario. «Ma certo, signore, e ben maturo». A colazione mi mangio il
mio popone senza nemmeno più pensare all’impiccato. La vita ha qualcosa
di buono, come vedete. Accanto al veleno c’è sempre l’antidoto. Essendo
invitato a desinare, mi metto la camicia migliore, ripromettendomi di far
rabbrividire tutta la compagnia. Raccontai infatti la storia. Ebbene:
sorridendo, fregandosene, tutti quanti, mi chiesero un pezzo della fune con
cui il povero diavolo s’era impiccato!
Vincent lo osservò attentamente. Aveva la grossa testa nera d’un
barbaro, con un naso massiccio che calava obliquamente dall’angolo
dell’occhio sinistro all’angolo destro della bocca. Larghi occhi a mandorla,
sporgenti, dominati da una feroce malinconia. Sopra gli occhi, sotto gli
occhi, giù per le guance e fino al mento, tutto un risalto d’ossa angolose. Un
gigante dotato d’una straripante vitalità bruta.
Theo accennò un lieve sorriso.
— Paul, temo che tu ti diverta un po’ troppo ad ostentare il tuo sadismo,
perché sia del tutto naturale. Adesso devo andare: sono invitato a pranzo.
Vieni con me, Vincent?
— Lascialo qui con me, Theo. Voglio conoscere un po’ meglio questo
tuo fratello.
— Benissimo. Ma non ingozzarlo troppo di absinthes. Non è abituato.
Garçon, combien?
— Vostro fratello è un tipo come si deve, Vincent. Esita ancora ad
esporre i quadri dei giovani pittori, ma immagino che sia Valadon a non
permetterglielo.
— In questo momento espone opere di Monet, Sisley, Pissarro e Manet.
— Vero. Ma dove sono i Seurat, i Gauguin, i Cezanne, i Toulouse-
Lautrec? Gli altri stanno ormai invecchiando e presto avranno fatto il loro
tempo.
— Oh, conoscete Toulouse-Lautrec?
— Henri? Naturalmente! Chi non lo conosce? Un pittore coi fiocchi, ma
pazzo. Crede di vendicarsi della propria disgrazia fisica andando a letto con
cinquemila donne. Ogni mattina si sveglia con un rabbioso senso
d’inferiorità per il fatto di non aver gambe, si può dire; e ogni sera affoga
questo senso d’inferiorità nell’alcool e nel corpo d’una donna. Ma la
mattina dopo ricomincia la stessa storia. Se non fosse pazzo, sarebbe uno
dei nostri migliori artisti. Ecco, siamo arrivati. Il mio studio è al quarto
piano. Attenzione a quel gradino: l’asse è rotta.
Gauguin precedeva il nuovo amico. Accese una lampada. Vincent si
trovò in una squallida soffitta: un cavalletto, un letto in ferro e ottone, una
tavola e una sedia. In un angolo vicino alla porta scorse alcune fotografie
d’una cruda oscenità.
— A giudicare da queste fotografie, direi che tu non abbia un concetto
molto alto dell’amore.
— Dove vuoi sederti, sul letto o sulla sedia? C’è del tabacco da pipa
sulla tavola: serviti. Be’, le donne mi piacciono, purché siano grasse e
viziose. La loro intelligenza mi scoccia. Ho sempre desiderato un’amante
grassa, e non l’ho mai trovata. Tutte quelle che incontro, manco a farlo
apposta, sono sempre incinte: si direbbe che lo facciano per prendermi in
giro. Hai letto una novella pubblicata il mese scorso da un certo
Maupassant? Uno scrittore giovane, protetto di Zola. Un individuo a cui
piacciono le donne grasse si fa preparare in casa un pranzo natalizio per due
persone, ed esce per trovare una compagna. S’imbatte in una donna che
risponde perfettamente ai suoi gusti. Ma quando sono all’arrosto, lei viene
presa dalle doglie del parto e si sgrava d’un robusto maschietto!
— Ma tutto questo ha ben poco a che vedere con l’amore, Gauguin.
Gauguin si distese supino sul letto, ripiegò un braccio muscoloso sotto
la nuca e sbuffò nuvolette di fumo verso le travi nude del soffitto.
— Non voglio dire che io non sia sensibile alla bellezza, ma
semplicemente che della bellezza i miei sensi non sanno che farsene. Come
già hai capito, non so cosa sia l’amore. Dover dire «ti amo», mi farebbe
aggricciar la pelle. Ma non mi lamento. Dico anch’io come Gesù: «La carne
è carne e lo spirito è spirito». Grazie a questo principio, con una piccola
somma di denaro soddisfo la carne, e lo spirito se ne sta tranquillo.
— Te la cavi con molta disinvoltura!
— No, la scelta della donna con cui andare a letto non è certo una
faccenda tanto semplice! Con una donna che gode, io godo il doppio. Ma
preferisco accontentarmi del puro atto fisico, senza compromettere il
sentimento. Il sentimento lo riservo esclusivamente per la mia arte.
— Anch’io sono giunto ultimamente alle stesse conclusioni. No, grazie,
basta con l’assenzio, perché non lo sopporterei più. Bevi tu. Mio fratello
Theo ha un’opinione molto alta della tua produzione. Posso vedere
qualcuno dei tuoi studi?
Gauguin balzò in piedi.
— No, non puoi. I miei studi sono roba personale e riservata, come la
corrispondenza. Ti farò invece vedere i miei quadri. Con questa luce potrai
veder poco. Vuoi vederli ugualmente? Sta bene.
S’inginocchiò, tirò fuori di sotto il letto un mucchio di tele e le fece
passare una dopo l’altra appoggiandole contro la bottiglia d’absinthe sul
tavolo. Vincent era preparato a trovarsi di fronte a qualcosa d’insolito, ma i
dipinti di Gauguin gli produssero uno stupore che rasentava lo stordimento.
Una massa confusa di pitture intrise di sole: alberi quali nessun botanico
avrebbe potuto scoprire, animali la cui esistenza non era mai stata sospettata
da Cuvier, uomini che soltanto Gauguin poteva aver creato, un mare che si
sarebbe detto fosse scaturito da un vulcano, un cielo dove non poteva
abitare nessun Dio. Indigeni goffi e angolosi, col mistero dell’infinito dietro
gli occhi ingenui e primitivi; visioni di sogno realizzate con vampate di
rosa, violetto e rosso rabbrividente; strane scene decorative in cui una flora
e una fauna selvaggia fiammeggiavano di incandescente luce solare.
— Sei come Lautrec — mormorò Vincent. — Anche tu odii. Odii con
tutte le tue forze.
Gauguin rise. — Che impressione ti fa la mia pittura, Vincent?
— Francamente, non saprei dire. Lasciami il tempo di pensarci.
Bisognerebbe che tornassi ancora, che vedessi meglio.
— Vieni quando vuoi. Oggigiorno a Parigi c’è un solo giovane la cui
pittura valga quanto la mia: Georges Seurat. Anche lui un primitivo. Tutti
gli altri idioti di queste parti sono civilizzati.
— Georges Seurat? Mi sembra di non averlo mai sentito nominare.
— Lo credo bene! Non c’è un mercante che voglia esporre i suoi quadri.
Eppure è un grande pittore.
— Mi piacerebbe conoscerlo, Gauguin.
— Più tardi ti condurrò da lui. Che ne diresti, se andassimo a pranzo e
poi da Bruant? Soldi, ne hai? Io ho soltanto due franchi. Sarà meglio che
prendiamo questa bottiglia. Scendi prima tu: io ti farò lume da quassù
finché tu sia a metà scala, perché non abbia a romperti l’osso del collo.

5.

Quando giunsero nei paraggi di Seurat erano quasi le due del mattino.
— Non hai paura che sia già a dormire? — domandò Vincent.
— Macché. Lavora tutta la notte. E la maggior parte del giorno. Credo
che non dorma mai. Ecco, la casa è questa. È della madre di Seurat. Un
giorno m’ha detto, quella donna: «Mio figlio s’è messo in testa di fare il
pittore. Bene, lasciamo che faccia il pittore. Io ho abbastanza denaro per
tutti e due. Purché ciò lo faccia contento». Georges è un vero figlio
modello. Non beve, non fuma, non bestemmia, non va fuori di notte, non
sta dietro alle donne, non spende un soldo se non per comprare tele e colori,
ha un unico vizio: quello della pittura. Ho sentito dire che ha un’amante e
un figlio che vivono molto vicino a lui; ma non ne parla mai.
— Sembra tutto buio. Come faremo a entrare senza svegliare tutta la
famiglia?
— Georges lavora in soffitta. Dall’altro lato della strada vedremo
probabilmente la finestra illuminata. Lanceremo un sassolino. Lascia fare a
me. Se non prendi bene la mira, colpisci la finestra del terzo piano e svegli
la madre.
Georges Seurat scese ad aprire, si mise un dito sulle labbra e li condusse
su. Poi si chiuse alle spalle la porta della soffitta.
— Georges — disse Gauguin — ho voluto farti conoscere Vincent Van
Gogh, fratello di Theo. Dipinge come un olandese, ma a parte questo è un
gran bravo ragazzo.
La soffitta di Seurat era di dimensioni imponenti: si stendeva quasi per
tutta la lunghezza della casa. Sui muri, enormi tele incompiute, con predelle
e impalcature davanti. Sotto la lampada a gas, un altro tavolo quadrato su
cui era distesa una tela non ancor asciutta.
— Lieto di conoscervi, Monsieur Van Gogh. Mi scuserete un momento,
vero? Devo dare alcune pennellate prima che il colore asciughi.
S’arrampicò su un alto sgabello e si curvò sulla tela. La lampada a gas
diffondeva un fermo chiarore giallognolo. Sulla tavola erano allineati una
ventina di piccoli barattoli di colori. Seurat immerse leggermente in uno di
essi la punta del più piccolo pennello che Vincent avesse mai visto e si
diede a segnare sulla tela minuscoli puntini di colore con matematica
precisione. Lavorava con calma, in silenzio, senza emozione. Un fare
freddo e impassibile, come quello d’un meccanico. Punto punto punto
punto. Alzò verticalmente il pennello, tornò a immergerlo
leggerissimamente nel vasetto di colore, e poi punto punto punto punto
sulla tela, centinaia e centinaia di puntini.
Vincent lo guardava sbalordito. Finalmente Seurat si girò sullo sgabello.
— Ecco. Ho riempito lo spazio vuoto.
— Ti dispiace di far vedere a Vincent? — gli domandò Gauguin. — Al
suo paese dipingono mucche e pecore. Fino a una settimana fa non sapeva
ancora che esiste un’arte moderna.
— Accomodatevi quassù, Monsieur Van Gogh.
Vincent salì e posò lo sguardo sulla tela che gli si stendeva dinanzi. Non
aveva mai visto nulla di simile, né nel campo dell’arte né in quello della
realtà. Il quadro rappresentava l’Ile de la Grande Jatte. Esseri umani
concepiti architettonicamente e realizzati con un’infinita gradazione di
puntini di colore si ergevano come pali in una cattedrale gotica. L’erba, il
fiume, le barche, gli alberi: tutto formava vaghe e astratte masse di puntini
luminosi. L’intero quadro era dipinto con i più chiari colori della tavolozza,
più chiari ancora di quelli che osavano adoperare Manet, Degas e perfino
Gauguin. Qui s’era nelle inaccessibili solitudini d’un regno di quasi astratta
armonia. Se c’era vita, si trattava d’una vita ben diversa da quella della
natura. Un’aria vibrante di scintillii e di riverberi, ma non un alito di brezza.
Una vita ferma, fissa, da cui era stato bandito per sempre qualsiasi
movimento.
Gauguin, ritto al fianco di Vincent, rise del suo sbalordimento.
— Niente di più legittimo del tuo stupore, Vincent. I quadri di Georges
fanno a tutti quest’effetto, la prima volta che li guardano. Ma adesso
riscuotiti! Che te ne pare?
Vincent si rivolse a Seurat con tono di scusa. — Mi perdonerete,
Monsieur, ma in questi ultimi giorni mi sono trovato di fronte a novità così
sconcertanti che non riesco ancora a raccapezzarmi. Io mi sono formato
nella tradizione olandese. Gli impressionisti, non sapevo nemmeno chi
fossero. Arrivo e trovo che non si tiene più nessun conto di ciò in cui ho
sempre creduto.
— Comprendo — rispose calmo Seurat. — Il mio metodo sta
rivoluzionando tutta l’arte della pittura; non si può quindi pretendere che
l’afferriate al primo colpo d’occhio. Vedete, Monsieur: fino ad oggi la
pittura è stata una questione d’esperienza personale. Io mi propongo di
trasformarla in una scienza astratta. Dobbiamo giungere a formarci una
mentalità lucida, precisa, matematica. Ogni sensazione umana può e deve
essere ridotta ad una oggettivazione astratta, fatta di colori, linee e tonalità.
Vedete questi puntini di colore?
— Sì, stavo appunto osservandoli.
— Ognuno di questi puntini, Monsieur Van Gogh, contiene una
specifica emozione umana. Con la mia formula, si possono fabbricare in
serie e vendere nei negozi. Basta con le arbitrarie e casuali misture di colori
sulla tavolozza: è un metodo che appartiene al passato. D’ora in poi il
pittore non farà altro che andare in un negozio, venire a casa e scoperchiare
i suoi vasetti. Siamo nell’epoca della scienza, ed io voglio fare della pittura
una scienza. La personalità deve scomparire, la pittura deve diventare un
lavoro di precisione come l’architettura. Mi seguite, Monsieur?
— No, temo di no.
Gauguin toccò Vincent col gomito.
— Senti un po’, Georges. Perché continui a chiamar tuo questo metodo?
L’aveva già inventato Pissarro prima che tu nascessi.
— È una menzogna!
Una vampata di rossore salì alla faccia di Seurat, che balzò giù dallo
sgabello, andò alla finestra, si mise a tamburellare sul davanzale con le
punte delle dita e poi si voltò furiosamente.
— Chi t’ha detto che l’ha inventato Pissarro? Ti ripeto che il metodo è
mio. Sono stato io il primo a concepirlo. Pissarro ha imparato da me questa
tecnica dei puntini. Ho percorso tutta la storia dell’arte, cominciando dai
primitivi italiani, e ti dico che nessuno ci aveva ancora pensato. Come osi…
Si morse rabbiosamente le labbra e andò a piantarsi davanti ad una delle
sue impalcature, curvo, voltando le spalle ai visitatori.
Vincent fu sconcertato da quel brusco cambiamento d’umore. Poc’anzi,
quando lavorava, aveva sul volto dai lineamenti perfetti la gelida
impassibilità di una statua. Occhi senza passione, il fare impersonale di uno
scienziato nel proprio laboratorio. Fredda, pedagogica, quasi, anche la sua
voce. Con lo stesso velo d’astrazione sugli occhi aveva osservato il proprio
lavoro. Ma ora, là in fondo alla soffitta, si mordeva il rosso e carnoso labbro
inferiore emergente tra i peli della barba, scompigliandosi nervosamente i
folti e ricciuti capelli castani, prima così ben pettinati.
— Suvvia, Georges! — fece Gauguin, strizzando l’occhio a Vincent. —
Lo sappiamo tutti che il metodo è tuo. Senza di te, sarebbe ancora da
inventare.
Rabbonito, Seurat tornò presso il tavolo. Nei suoi occhi si spense a poco
a poco il fuoco della collera.
— Monsieur Seurat — disse Vincent — come possiamo fare della
pittura una scienza impersonale, dal momento che ciò che più conta è
l’espressione dell’individuo?
— Guardate qui! Ora ve lo spiego.
Afferrò sul tavolo una scatola di pastelli e s’accoccolò sul pavimento di
legno. La lampada a gas continuava a spandere il suo chiarore un po’ fosco.
Intorno, la notte profondamente silenziosa. Vincent s’inginocchiò accanto a
lui, Gauguin s’accalcagnò dall’altra parte. Seurat, ancora eccitato, parlava
con animazione.
— Secondo la mia teoria, tutti gli effetti pittorici si possono ridurre a
formule. Supponiamo che io voglia disegnare una scena di circo. Qui c’è il
cavallo, qui l’acrobata, qui le gradinate e il pubblico. Voglio dare
un’impressione d’allegria. Quali sono i tre elementi della pittura? Linea,
tono e colore. Bene. Per dare un’impressione d’allegria, porto tutte le linee
sopra la orizzontale: così. Faccio dominare i colori luminosi: così. E i toni
caldi: così. Ecco fatto! Non rende evidente l’astrazione dell’allegria?
— Sta bene — replicò Vincent. — Renderà evidente l’astrazione
dell’allegria, ma non l’allegria stessa.
Seurat, sempre così accoccolato, lo guardò di sotto in su, con la faccia
in ombra. Vincent vide che bell’uomo fosse.
— Non m’interessa l’allegria. M’interessa l’essenza dell’allegria.
Conoscete Platone, amico mio?
— Sì.
— Ebbene, ciò che i pittori devono addestrarsi a raffigurare non è la
cosa, ma l’essenza della cosa. Quando un artista dipinge un cavallo, non
deve fare quel determinato cavallo, con quelle determinate caratteristiche,
che voi potreste riconoscere. Per fare fotografie abbiamo ormai la
macchina: noi dobbiamo spingerci oltre. Ciò che ci interessa cogliere
dipingendo un cavallo, Monsieur Van Gogh, è la «cavallinità» in senso
platonico, ossia l’eterna e astratta essenza del cavallo. E quando dipingiamo
un uomo, non dev’essere il portiere col suo porro sul naso, ma un’astratta
figura umana, spirito ed essenza di tutti gli uomini. Mi seguite, amico mio?
— Vi seguo, ma non sono d’accordo.
— Col tempo finiremo per intenderci. — Si sollevò un poco, si sfilò il
camice e se ne servì per cancellare il disegno fatto sul pavimento. — Ora
andiamo avanti con calma. Io sto facendo un quadro che ha per oggetto:
L’Ile de la Grande Jatte. Traccio tutte linee orizzontali: così. Quanto al
tono, mi servo tanto di una tonalità calda come di una tonalità fredda: così.
E quanto al colore, una giusta contemperanza di chiari e di scuri: così. Mi
capite?
— Vai avanti, Georges! — disse Gauguin. — Non far domande stupide.
— Adesso devo produrre un effetto di tristezza. Traccio tutte le linee in
direzione discendente: così. Faccio dominare i toni freddi: così. E i colori
scuri: così. Ecco resa l’essenza della tristezza! Anche un bambino saprebbe
farlo. In un libriccino fornirò le formule matematiche per la giusta
distribuzione degli spazi sulla tela. Già le ho fissate. Il pittore non ha da far
altro che leggere questo piccolo manuale, andare in un negozio a comprare i
vasetti di colori occorrenti per quel determinato soggetto e attenersi alle
regole. Sarà un perfetto pittore scientifico. Potrà lavorare alla luce del sole o
a quella della lampada a gas, condurre una vita da monaco o da Ubertino,
essere un ragazzino di sette anni o un vecchio di settanta: il quadro
raggiungerà sempre una impeccabile perfezione architettonica e
impersonale.
Vincent sbirciò Gauguin, che scoppiò in una risata.
— Ti prende per un pazzo, Georges.
Seurat finì accuratamente di cancellare il disegno, poi lanciò il camice
in un angolo scuro.
— Davvero, Monsieur Van Gogh?
— No, no — protestò Vincent. — Io stesso sono stato troppe volte
chiamato pazzo, perché possa piacermi questa parola. Ma devo ammettere
che trovo molto strane le vostre idee.
— È come se dicesse di sì, Georges — commentò Gauguin.
Si sentì bussare seccamente alla porta.
— Mon Dieu! — fece Gauguin. — Abbiamo di nuovo svegliato tua
madre! M’ha detto che se fossi ancora venuto qui di notte, m’avrebbe tirato
una spazzola.
Entrò infatti la madre di Seurat, avvolta in una pesante veste da camera,
con una cuffia da notte.
— Georges, mi avevi promesso di non star più su tutta la notte a
lavorare. Ah, siete voi, Paul? Perché non pagate l’affitto? Avreste almeno
un posto per dormire, la notte.
— Prendetemi in casa vostra, mamma Seurat; così non avrò nessun
affitto da pagare.
— Grazie tante, un pittore in famiglia è già più che sufficiente. Ecco,
Georges, ti ho portato un po’ di caffè e brioches. Se non puoi fare a meno di
lavorare, devi almeno mangiare. Adesso credo che dovrò scendere a
prendervi la solita bottiglia d’absinthe, Paul.
— Non ve la siete ancora bevuta tutta, mamma Seurat?
— Paul, ricordatevi della spazzola…
Vincent venne fuori dall’ombra.
— Mamma — disse Seurat — ti presento un mio nuovo amico, Vincent
Van Gogh.
La signora gli strinse la mano.
— Ogni amico di mio figlio è sempre il benvenuto in questa casa, anche
se sono le quattro del mattino. Che cosa posso offrirvi, Monsieur?
— Se non vi dispiace, berrò anch’io un bicchierino dell’absinthe di
Gauguin.
— Guai a te! — protestò Gauguin. — La mamma di Seurat mi tiene a
razione. Mai più d’una bottiglia al mese. Prendi un’altra cosa. Il tuo palato
profano non sa nemmeno distinguere tra un absinthe e una chartreuse
jaune.
I tre amici e la mamma si Seurat rimasero a chiacchierare, bevendo
caffè e mangiando brioches, finché un esile triangolo di sole venne ad
illuminare la finestra esposta a settentrione.
— Ora tanto vale che mi vesta — disse la signora. — Venite una sera a
pranzo da noi, Monsieur Van Gogh. Ci farete veramente piacere.
Sul portone di casa, Seurat disse a Vincent: — Vi ho spiegato il mio
metodo in un modo troppo brusco, temo. Tornate da me quando e quanto
volete; lavoreremo insieme. Quando avrete compreso la mia teoria, vi
renderete conto che la pittura non sarà mai più quella d’un tempo. Ora devo
tornare al lavoro. Bisogna che riempia ancora un tratto di spazio, prima
d’andare a letto. Salutate per me vostro fratello.
Vincent e Gauguin ripercorsero un intrico di viuzze deserte e
s’inerpicarono verso Montmartre. Parigi non si era ancora svegliata.
Imposte chiuse, saracinesche abbassate. Carri agricoli che tornavano a casa,
dopo aver scaricato alle Halles verdura e frutta e fiori.
— Saliamo fino alla Butte, a vedere il sole che sveglia Parigi —
propose Gauguin.
— Volentieri.
Raggiunto il Boulevard de Clichy, infilarono la Rue Lepic che, aggirato
il Moulin de la Gaiette, saliva tortuosamente per la collina di Montmartre.
Le case si diradavano sempre più; apparivano squarci di verde con alberi e
fiori. La Rue Lepic finiva bruscamente. I due amici presero per un sentiero
serpeggiante attraverso i cespugli.
— Dimmi sinceramente, Gauguin: che cosa ne pensi, di Seurat?
— Di Georges? Immaginavo che m’avresti fatto questa domanda. Da
Delacroix in poi, non c’è più stato uno che abbia come lui il senso del
colore. Il guaio è che ha delle teorie intellettualistiche sull’arte. Un guaio
serio. I pittori non dovrebbero riflettere su ciò che fanno. Lasciare le teorie
ai critici. Georges darà un contributo decisivo alla tecnica del colore, e la
sua architettura gotica affretterà probabilmente la reazione del primitivismo
in arte. Ma è fou, completamente fou, come hai visto tu stesso.
La salita era ripida; ma quando furono in vetta alla collina, tutta Parigi
si stendeva sotto i loro occhi, oceano di tetti neri con le fitte guglie dei
campanili emergenti dalle nebbie notturne. La Senna tagliava in mezzo la
città come un nastro di luce. Le case digradavano giù per il pendio di
Montmartre fino alla valle della Senna, per inerpicarsi poi verso
Montparnasse. Il sole squarciò le nebbie e illuminò il Bois de Vincennes.
Dall’altra parte della città la massa verde del Bois de Boulogne era ancora
avvolta nell’oscurità e nel sonno. I tre punti di riferimento della città —
l’Opéra al centro, Notre-Dame ad est e l’Arco di Trionfo ad ovest — si
ergevano nel cielo come imponenti spalti di pietra.

6.

Nel piccolo appartamento della Rue Laval tornò la bonaccia. Theo


ringraziò il cielo di quell’intervallo di calma. Ma durò poco. Anziché
continuare ad aprirsi lentamente e pazientemente il proprio solco senza
deviare, Vincent cominciò ad imitare i suoi amici. Nella violenta smania di
diventare impressionista, dimenticò tutto ciò che aveva faticosamente
imparato. Le sue tele erano copie atroci di quadri di Seurat, Toulouse-
Lautrec e Gauguin. Ed era convinto di progredire splendidamente!
— Dimmi un po’, vecchio mio: come ti chiami? — gli domandò Theo
una sera.
— Vincent Van Gogh.
— Sei ben sicuro di non chiamarti Georges Seurat o Paul Gauguin?
— Ma che discorsi mi fai!
— Credi proprio di poter diventare un Georges Seurat? Non ti rendi
conto che dal principio del mondo c’è stato un solo Lautrec? E (grazie a
Dio) un solo Gauguin? È stupido che tu cerchi di imitarli.
— Non li imito. Vado imparando da loro.
— Imiti, imiti. Mostrami qualche tuo quadro nuovo, e ti dirò con chi sei
stato la sera prima.
— Comunque, c’è un costante miglioramento. Guarda come sono molto
più chiari questi quadri!
— No, vai scadendo ogni giorno più. Vai continuamente perdendo in
originalità: ogni nuovo quadro che dipingi, è sempre meno un Van Gogh.
Non aspettarti di trovar la strada facile, caro mio. Dovrai ancora affrontare
anni di duro lavoro. Sei così debole e incerto da non poter fare a meno
d’imitare gli altri? Non sai limitarti ad assimilare ciò che possono offrirti?
— Ti dico, Theo, che queste tele sono buone!
— E io ti dico che sono orribili!
La battaglia continuò.
Ogni sera, tornando dalla galleria stanco e nervoso, Theo trovava il
fratello che lo aspettava impazientemente con un quadro nuovo. Vincent gli
balzava addosso senza lasciargli nemmeno il tempo di levarsi il cappello e
la giacca.
— Guarda qua! Dimmi se non è un bel quadro! Dimmi che non faccio
progressi! Osserva quell’effetto di luce! Osserva questo…
Theo si vedeva costretto a dover scegliere tra due possibilità: o dirgli
una compiacente menzogna e passare con lui una simpatica serata, o dirgli
la verità e provocare una tempesta che sarebbe durata fino all’alba. Stanco
morto com’era, avrebbe trovato tanto comodo mentire. Eppure trovava la
forza di dirgli la verità.
— Quand’è che sei stato l’ultima volta da Durand-Ruel? — gli
domandava stancamente.
— Che c’entra?
— Rispondi alla mia domanda.
— Ebbene — rispondeva Vincent, sconcertato e confuso — ci sono
stato ieri sera.
— Sai, Vincent, che a Parigi ci sono quasi cinquemila pittori che
cercano di imitare Edouard Manet? E, per la maggior parte, ci riescono
meglio di te.
Vincent tentò un altro trucco. Raccolse in una tela sola le caratteristiche
e gli influssi dei diversi impressionisti.
— Delizioso! — mormorò Theo quella sera. — Lo chiameremo
Ricapitolazione. E sull’etichetta specificheremo tutto. Quell’albero è un
autentico Gauguin. La ragazza nell’angolo è senza possibilità di dubbio un
Toulouse-Lautrec. Direi poi che quell’effetto di sole sull’acqua è di Sisley,
il colore di Monet, le foglie di Pissarro, il cielo di Seurat e la figura centrale
di Manet.
Vincent lottava rabbiosamente. Sgobbava tutto il giorno: e all’arrivo di
Theo si trovava nelle condizioni d’un bambino che ha fatto una marachella.
Impossibile continuare a dipingere di notte, perché Theo dormiva nella
stanza di soggiorno. Eccitato e roso dalle dispute col fratello, non gli
riusciva di trovar sonno. Seguitava a discutere per ore ed ore, finché Theo
esausto dalle fatiche della giornata e da quelle accanite controversie
notturne, s’addormentava di colpo, mentre la luce era ancora accesa e
Vincent gesticolava furiosamente. Una cosa sola dava a Theo la forza di
continuare quella vita: il pensiero che ben presto si sarebbero trasferiti in
Rue Lepic, dove avrebbe avuto una stanza da letto per sé solo, con una
buona serratura alla porta.
Quando Vincent era stufo di discutere sui propri quadri, affliggeva le
notti del fratello con turbolente discussioni d’arte, di commercio di quadri,
pigliandosela con questo maledetto mestiere di pittore.
— Non capisco, Theo. Tu sei il direttore d’una delle più importanti
gallerie di Parigi, e non vuoi saperne di esporre almeno una tela di tuo
fratello.
— Valadon non me lo permetterebbe.
— Hai provato a parlargliene?
— Mille volte.
— Benissimo, ammettiamo pure che i miei quadri non ne siano
meritevoli. Ma quelli di Seurat? Quelli di Gauguin? Quelli di Lautrec?
— Tutte le volte che mi portano dei nuovi quadri, chiedo sempre a
Valadon di lasciarmeli esporre nell’entresol.
— Ma sei tu che comandi nella galleria, o è un altro?
— Ahimè, io ci lavoro soltanto.
— E allora dovresti venir via. È una situazione umiliante,
semplicemente umiliante. Io non lo tollererei, Theo. Me ne andrei fuor dai
piedi.
— Ne parleremo domani a colazione, Vincent. Ho avuto una giornata
spossante e ho voglia d’andare a dormire.
— No, non sono disposto ad aspettare fino a domani. Preferisco
parlarne subito. A che serve, Theo, che tu esponga Manet e Degas? Che
merito c’è? Ormai sono due pittori affermati. Cominciano a vendere. È per i
pittori più giovani che dovresti batterti ora.
— Dammi tempo! Forse fra tre anni…
— No! Non possiamo aspettare tre anni. Dobbiamo agire ora, subito.
Ah, Theo, perché non mandi al diavolo l’impiego e non apri una galleria
tua? Pensa: più nessun Valadon, più nessun Bouguereau, più nessuno
Henner!
— Ci vorrebbero molti quattrini, Vincent. E io non ne ho.
— Da qualche parte li troveremmo.
— Lo sviluppo di un’attività di questo genere è molto lento, sai!
— Sia lento fin che si vuole. Lavoreremo giorno e notte, finché la tua
galleria si sia consolidata e affermata.
— E che cosa faremo nel frattempo? Dobbiamo mangiare.
— È forse un rimprovero per il fatto che non mi guadagno da vivere?
— Fammi la carità, Vincent, vai a letto! Sono sfinito.
— Non vado a letto. Voglio sapere la verità. È forse questo l’unico
motivo per cui non lasci perdere l’impiego? Lo fai perché mi devi
mantenere? Su, parla chiaro. Io sono per te una macina legata al collo. Ti
tiro al fondo. Ti costringo a continuare questo lavoro. Se non fosse per me,
saresti libero.
— Se fossi un po’ più forte, un po’ più grande e grosso ti mollerei una
scarica di ceffoni. Stando così le cose, credo che chiamerò Gauguin perché
venga qui e lo faccia lui. Il mio compito è quello di lavorare alla Galleria
Goupil, Vincent, ora e sempre. Il tuo compito è quello di dipingere, ora e
sempre. Metà del mio guadagno appartiene a te, metà della tua produzione
appartiene a me. Adesso levati dal mio letto e lasciami andare a dormire,
altrimenti chiamo un gendarme!
La sera dopo, Theo porse al fratello una busta con un cartoncino.
— Se stasera non hai niente da fare, potremmo andare a questo
ricevimento.
— Chi lo offre?
— Henri Rousseau. Dài un’occhiata al biglietto d’invito.
Sul cartoncino erano scritti due versi semplici ed ingenui, ornati di fiori
dipinti a mano.
— E chi è costui?
— Lo chiamiamo le Douanier. Infatti fino ai quarant’anni ha fatto il
doganiere in piccole città di provincia. La domenica dipingeva, come
Gauguin. Trasferitosi a Parigi alcuni anni or sono, si stabilì in un quartiere
operaio nei pressi della Bastiglia. Non è mai stato a scuola da nessuno, non
ha mai preso un’ora di lezione, eppure dipinge, scrive poesie, compone
musica, dà lezioni di violino a figli d’operai, suona il pianoforte e insegna
disegno a due vecchi.
— E che cosa dipinge?
— Fantastici animali, per lo più, che spuntano da giungle più fantastiche
ancora. E dire che in fatto di giungle non ha visto altro in vita sua che il
Giardino d’Acclimatazione del Bois de Boulogne. È un contadino, un
autentico primitivo, anche se Paul Gauguin ride di lui.
— Che cosa pensi della sua pittura?
— Be’, non saprei dare un giudizio. Tutti lo definiscono un imbecille e
un pazzoide.
— E invece?
— È una specie di bambino, un bambino primitivo. Stasera andiamo
senz’altro da lui, e così potrai farti un’opinione. Tiene tutti i suoi quadri
attaccati alle pareti.
— Avrà quattrini, se offre ricevimenti.
— È probabilmente il pittore più povero che viva oggigiorno a Parigi.
Deve addirittura noleggiare il violino con cui dà lezioni, perché non arriva a
comprarsene uno. Ma ha uno scopo nel dare questi ricevimenti. Lo scoprirai
tu stesso.
Rousseau le Douanier abitava in una casa di operai. Occupava un
alloggetto al quarto piano. La strada era piena di bambini che facevano
schiamazzo. Entrando in quella casa si era investiti da un complesso d’odori
di cucina, bucato e latrine, le cui esalazioni mefitiche avrebbero potuto
soffocare una persona.
Theo bussò. Henri Rousseau venne ad aprire. Era un individuo basso,
atticciato, d’una complessione fisica che ricordava parecchio quella di
Vincent. Dita corte e tozze, una testa squadrata. Naso e mento ugualmente
tozzi, grandi occhi innocenti.
— Mi avete fatto un grande onore accettando il mio invito, Monsieur
Van Gogh — disse con voce dolce e affabile.
Theo presentò il fratello. Rousseau offrì loro due sedie. La stanza era
piena di colore, quasi allegra. Alle finestre, tende di gusto contadinesco a
quadretti rossi e bianchi. Le pareti erano letteralmente coperte di quadri in
cui si vedevano bestie e giungle e incredibili paesaggi.
In un angolo, accanto al vecchio pianoforte malandato stavano quattro
ragazzetti che tenevano nervosamente in mano i loro violini. Sulla cappa
del camino, piatti di pasticcini casalinghi fatti da Rousseau e aromatizzati
con semi di carvi. Sparsa per la stanza una quantità di panche e di sedie.
— Siete il primo ad arrivare, Monsieur Van Gogh — riprese Rousseau.
— Il critico Guillaume Pille mi farà l’onore di venire con una comitiva
d’amici.
Dalla strada salì un gran baccano: un più acuto vocio di bambini e uno
strepito di ruote sul selciato. Rousseau spalancò la finestra. Dal fondo delle
scale si udì un cinguettio di graziose voci femminili.
— Sempre avanti, sempre avanti! — rimbombò una voce di basso. —
Una mano sulla ringhiera e l’altra sotto il naso!
La frase suscitò un coro di risate. Rousseau, che l’aveva udita
benissimo, si volse verso Vincent e sorrise. Vincent ebbe l’impressione di
non aver mai visto in un uomo due occhi così limpidi, così innocenti, così
privi di malizia e di risentimento.
Una comitiva di dieci o dodici persone irruppe nella stanza: gli uomini
in abito da sera, le donne con vesti sontuose, eleganti scarpette, lunghi
guanti bianchi. Portavano nella stanza una fragranza di profumi costosi, di
ciprie delicate, di sete e di vecchi merletti.
— Dunque, Henri! — esclamò Guillaume Pille con la sua voce
profonda e pomposa. — Come vedi, siamo venuti. Ma non possiamo
fermarci molto, perché dobbiamo andare ad un ballo in casa della
principessa De Broglie. Intanto, cerca un po’ di divertire i miei amici.
— Oh, desideravo tanto di incontrarlo! — squittì una snella ragazza dai
capelli castani, con una veste di foggia Impero che le lasciava quasi
completamente scoperti i seni. — Pensate soltanto: questo è il grande
pittore di cui parla tutta Parigi. Volete baciarmi la mano, Monsieur
Rousseau?
— Attenta, Blanche! — l’ammonì qualcuno. — Sai, questi artisti…
Rousseau sorrise e le baciò la mano. Vincent si ritrasse in un angolo,
mentre Pille e Theo chiacchieravano un momento tra loro. Gli altri
componenti della comitiva giravano a coppie, commentando con scrosci di
risa i diversi quadri, indicandosi l’un l’altro le tende di Rousseau, i suoi
oggetti d’ornamento, cacciando il naso in ogni angolo della stanza per
trovar materia di scherzi e di divertimento.
— Se volete sedervi, signore e signori — annunciò Rousseau — la mia
orchestra eseguirà una mia composizione. È dedicata a Monsieur Pille e
s’intitola: Chanson Raval.
— Venite, venite tutti qua! — gridò Pille. — Rousseau ci terrà allegri.
Jeanne! Blanche, Jacques! Venite a sedervi. Sarà una cosa squisita.
I quattro tremanti ragazzini, dritti davanti ad un unico leggìo,
accordarono i violini. Rousseau sedette al pianoforte e chiuse gli occhi.
Dopo un momento disse: — Pronti! — e cominciò a suonare. La
composizione era una pastorale semplice e ingenua. Vincent avrebbe voluto
ascoltarla, ma la musica si perdeva sotto le risate degli invitati. I quali alla
fine applaudirono clamorosamente, vociferando. Blanche s’accostò al
pianoforte, posò le mani sulle spalle di Rousseau e gli disse: — Bellissimo.
Non mi sono mai commossa tanto.
— Voi mi adulate, Madame!
Blanche diede in strilli di risa.
— Guillaume, avete sentito? Crede che io lo aduli!
— Ora vi eseguirò un’altra mia composizione — disse Rousseau.
— E intanto che suonate, cantateci una delle vostre poesie, Henri.
Sappiamo che ne avete scritte tante.
Rousseau fece un risolino fanciullesco.
— Benissimo, Monsieur Pille. Adatterò alla musica una mia poesia, se
vi fa piacere.
S’avvicinò a un tavolino, tirò fuori un fascio di foglietti e, dopo aver
frugato e rifrugato, ne scelse uno. Sedette al piano e cominciò a suonare.
Vincent trovò bella la musica. E i pochi versi della poesia che riuscì ad
afferrare gli parvero deliziosi. Ma l’effetto delle due cose insieme — versi e
musica — era semplicemente ridicolo. Gli invitati si torcevano dalle risa,
mugolando, battendo sulla schiena a Pille.
— Ah, Guillaume, siete un asso! Veramente impagabile!
Finita l’esecuzione musicale, Rousseau andò in cucina e tornò con un
vassoio carico di rozze tazze di caffè, che distribuì agli ospiti. Essi
staccavano i semi di carvi dai pasticcini e se li gettavano reciprocamente nel
caffè. Nel suo angolo, Vincent fumava la pipa.
— E ora, Henri, fateci vedere i vostri ultimi quadri. Siamo venuti per
questo. Dobbiamo vederli qui, nel vostro studio, prima che siano acquistati
dal Louvre.
— Ne ho alcuni nuovi veramente carini. Adesso ve li stacco dalle pareti.
Gli invitati fecero ressa intorno al tavolo, cercando di superarsi l’un
l’altro nella stravaganza dei complimenti.
— Questo è divino, semplicemente divino! — sospirò Blanche come in
estasi. — Lo voglio, lo voglio per il mio boudoir. Senza di esso non potrei
nemmeno più vivere un giorno. Cher Maitre, qual è il prezzo di questo
immortale capolavoro?
— Venticinque franchi.
— Venticinque franchi! Figuratevi, una grande opera d’arte per
venticinque franchi! Volete scrivermi la dedica?
— Ne sarò onorato.
— Ho promesso a Françoise di portargliene uno — disse Pille. — È per
la mia fidanzata, Henri. Dev’essere il più bel quadro che abbiate mai
dipinto.
— Ho quello che fa per voi, Monsieur Pille.
E staccò un quadro dove si vedeva una specie di belva irreale che spiava
attraverso una giungla da fiaba. Proruppe un coro di ululi all’indirizzo di
Pille.
— Che cos’è?
— Un leone.
— No, è una tigre.
— Macché, vi assicuro che è la mia lavandaia: la riconosco.
— Questo è un poco più grande, Monsieur Pille — disse con dolcezza
Rousseau. — Vi costerà trenta franchi!
— Li vale, Henri, li vale. Un giorno i miei nipoti ricaveranno trentamila
franchi da questa tela stupenda.
— Ne voglio uno anch’io!
— Ne voglio uno anch’io!
— Bisogna che ne porti uno ai miei amici. Questo è il più bel
divertimento della stagione!
— Adesso andiamo — gridò Pille. — Altrimenti faremo tardi per il
ballo. E ognuno porti il proprio quadro. Otterremo un successo strepitoso
con questa roba, dalla principessa De Broglie. Au revoir, Henri. Ci siamo
divertiti un mondo. Non tardate ad offrire un altro ricevimento.
— Addio, cher Maître — disse Blanche, facendogli ondeggiare
svenevolmente sotto il mento il fazzolettino profumato. — Non vi
dimenticherò mai più. Vivrete sempre nel mio ricordo.
— Basta, Blanche! — esclamò un giovanotto. — Altrimenti questo
poveraccio non dormirà più.
E si riversarono rumorosamente per le scale, lanciando frasi scherzose e
lasciandosi addietro una scia di profumo che si mischiava col fetore
dell’ambiente.
Theo e Vincent mossero verso la porta. Rousseau, ritto accanto al
tavolo, osservava il suo mucchio di denaro.
— Hai proprio intenzione d’andare a casa? — domandò sottovoce
Vincent al fratello. — Io vorrei ancora restare per conoscerlo meglio.
Theo partì. Rousseau non s’accorse nemmeno che Vincent chiudeva la
porta e vi s’appoggiava. Continuò a contare il denaro dell’incasso.
— Ottanta… novanta… cento… Centocinque franchi.
Alzò la faccia e vide Vincent che stava ad osservarlo. I suoi occhi
ripresero quell’impressione ingenua, fanciullesca. Spinse un po’ da parte il
denaro e rimase lì, sorridendo scioccamente.
— Giù la maschera, Rousseau — disse Vincent. — Sono anch’io un
contadino e un pittore.
Rousseau si staccò dal tavolo, mosse verso di lui e gli strinse
saldamente la mano.
— Vostro fratello mi ha mostrato i vostri ritratti di contadini olandesi.
Molto buoni. Migliori di quelli di Millet. Li ho guardati più e più volte. Vi
ammiro, Monsieur.
— Anch’io ho guardato attentamente i vostri quadri, Rousseau, mentre
quei… facevano gli idioti. E anch’io vi ammiro.
— Grazie. Sedetevi, prego. Volete del tabacco per riempirvi la pipa?
Centocinque franchi, Monsieur. Potrò comprarmi tabacco, roba da mangiare
e tela per dipingere.
Seduti di fronte, da una parte e dall’altra del tavolo, fumarono in
silenzio. Un silenzio amichevole, meditabondo.
— Saprete certamente, Rousseau, che vi chiamano pazzo.
— Sì, lo so. E ho sentito dire che all’Aia ritenevano pazzo anche voi.
— Precisamente.
— Pensino ciò che vogliono. Un giorno i miei quadri saranno esposti al
Lussemburgo.
— E i miei al Louvre.
Lessero l’uno negli occhi dell’altro lo stesso pensiero e ruppero in una
risata spontanea, franca e cordiale.
— Hanno ragione, Henri. Siamo pazzi davvero!
— Ci beviamo sopra? — propose Rousseau.

7.

Il mercoledì seguente, verso l’ora di pranzo, Gauguin venne a bussare


alla porta dell’abitazione di Vincent.
— Tuo fratello mi ha pregato di portarti stasera al Caffè Batignolles. Lui
è occupato, dovrà trattenersi alla galleria fino a tardi. Interessanti, queste
tele. Posso guardare?
— Ma certo. Alcune le ho dipinte nel Brabante, altre all’Aia.
Gauguin le osservò per un bel po’ di tempo. Più d’una volta alzò la
mano, aprì la bocca e fece per parlare. Ma sembrava che non riuscisse ad
esprimersi.
— Scusami se ti faccio questa domanda, Vincent — disse alfine. — Ma
sei per caso epilettico?
Vincent stava infilandosi in quel momento una giacca d’agnellone che,
con vero orrore di Theo, aveva scoperta in un negozio di rigattiere, e che
s’ostinava a voler portare. Fece un mezzo giro e fissò Gauguin.
— Un… Come hai detto?
— Un epilettico. Uno di quegli individui che vanno soggetti ad attacchi
nervosi.
— No, che io sappia. Perché?
— Ebbene… questi tuoi quadri… si direbbe che stiano per scoppiare e
saltar via dalla cornice. Quando guardo le tue pitture… e non è la prima
volta che mi succede… comincio a provare un’eccitazione nervosa che non
riesco quasi a dominare. Ho l’impressione che se non scoppia il quadro
scoppierò certamente io! E sai dove mi fa maggiormente effetto la tua
pittura?
— No. Dove?
— Negli intestini. Mi mette le budella in uno scompiglio tremendo. Una
tale rivoluzione, qua dentro, che quasi non resisto.
— Allora potrei forse venderli come lassativi. T’immagini? Appenderne
uno nella latrina e guardarlo ogni giorno a una certa ora.
— Parlando seriamente, Vincent, credo che non potrei vivere con i tuoi
quadri davanti agli occhi. Mi farebbero dar di volta al cervello nello spazio
d’una settimana.
— Andiamo?
Risalirono la Rue Montmartre fino al Boulevard Clichy.
— Tu hai pranzato? — domandò Gauguin.
— No. E tu?
— Nemmeno. Andiamo da Bataille?
— Buona idea. Come stai a quattrini?
— Non ho un centesimo. E tu?
— Spiantatissimo, come al solito. Aspettavo Theo che mi portasse fuori.
— Pazienza. Credo che salteremo il pasto.
— Comunque, andiamo a vedere qual è il plat du jour.
Infilarono la Rue Lepic, poi svoltarono a destra in Rue des Abbesses. Il
menu di Madame Bataille, scribacchiato a penna, era appeso come sempre a
una delle piante in vaso che ornavano l’ingresso.
— Uhmmm! — fece Vincent. — Côte de veau aux petits pois. Il mio
piatto preferito.
— Io detesto il vitello. Meno male che non dobbiamo mangiare.
— Quelle blague!
Continuando a bighellonare, giunsero nel piccolo parco triangolare ai
piedi della Butte.
— Ma guarda! — fece Gauguin. Guarda lì Paul Cézanne addormentato
su una panca. Perché quell’idiota usi le scarpe per guanciale, è una cosa che
non riesco a comprendere. Svegliamolo.
Si tolse la cinghia dai pantaloni, la piegò in due e vibrò una forte
sferzata sui piedi del dormiente. Cézanne scattò su con un guaito di dolore.
— Ah, sadico infernale d’un Gauguin! Sono scherzi da fare, questi? Un
giorno o l’altro mi costringerai a spaccarti la testa.
— Ben ti sta. Chi t’ha insegnato a mettere in mostra i piedi? E perché
tieni quei luridi stivali provenzali sotto la testa? Per conto mio è peggio che
non aver guanciale di sorta.
Cézanne si sfregò una dopo l’altra le piante dei piedi, poi s’infilò gli
stivali borbottando.
— Non è che li usi per guanciale. Me li metto sotto la testa perché non
me li rubino mentre dormo.
— Dal modo come parla — disse Gauguin a Vincent — lo prenderai per
un artista squattrinato e affamato. Macché. Suo padre possiede una banca ed
è padrone di mezza Aix-en-Provence. Paul, ti presento Vincent Van Gogh,
fratello di Theo.
Cézanne e Vincent si strinsero la mano.
— Peccato che non t’abbiamo incontrato mezz’ora fa, Cézanne — disse
Gauguin. — Saresti venuto a pranzo con noi, Madame Bataille ha la più
squisita côte de veau aux petits pois che io abbia mai assaggiato.
— Era proprio buona?
— Buona? Deliziosa! È vero o no, Vincent?
— Perbacco.
— Voglio andare a provarla. Venite a tenermi compagnia?
— Non so se mi sentirei ancora di mangiare una porzione. E tu,
Vincent?
— Ne dubito anch’io. Ma se proprio Monsieur Cézanne ci tiene…
— Sii buono, Gauguin! Sai che non mi piace mangiar solo. Se non hai
più voglia di vitello, prenderai qualche altra cosa.
— Be’, per farti piacere. Andiamo, Vincent.
Risalirono la Rue des Abbesses, fino al Ristorante Bataille.
— Buona sera, signori — li salutò il cameriere, presentandosi alla loro
tavola. — Avete già scelto?
— Sì — rispose Gaugin. — Tre plats du jour.
— Bien. Vino?
— Il vino ordinalo tu, Cézanne. Te ne intendi più di me.
— Vediamo un po’. Saint-Estèphe, Bordeaux, Sauterne, Beaune…
— Hai mai provato il Pommard di questo ristorante? — l’interruppe
Gauguin, con l’aria più candida del mondo. — Secondo me è il miglior vino
che abbiano.
— Una bottiglia di Pommard — ordinò Cézanne.
Gauguin trangugiò in un batter d’occhio la sua porzione di carne e
piselli; poi si volse verso Cézanne, che stava ancora mangiando.
— A proposito, Paul, sento dire che L’Oeuvre di Zola si vende a
migliaia e migliaia di copie.
Cézanne gli scoccò un’occhiata livida e spinse via il piatto con disgusto.
— Avete letto quel libro, Monsieur? — domandò a Vincent.
— Non ancora. Ho appena finito Germinal.
— L’Oeuvre è un brutto libro, un libro falso. E per giunta il peggior
tradimento dell’amicizia che sia mai stato commesso. Vi si parla d’un
pittore, Monsieur Van Gogh. Ossia di me. Émile Zola è il mio più vecchio
amico. Siamo cresciuti assieme, ad Aix. Siamo andati a scuola assieme. Io
sono venuto a Parigi soltanto perché c’era lui. Eravamo più che fratelli, noi
due. Da giovani facevamo continuamente progetti per attuare il nostro
ideale di diventare grandi artisti, a fianco a fianco. E adesso mi fa questa
canagliata.
— Cioè?
— Mi prende in giro. Mi sfotte. Mi rende lo zimbello di tutta Parigi.
Ogni giorno io gli parlavo delle mie teorie sulla luce, sul modo di
rappresentare i solidi sotto apparenze di superfici piane, di rivoluzionare la
tavolozza. Lui mi ascoltava, m’incoraggiava, mi faceva parlare. E a quale
scopo? Semplicemente per raccogliere materiale per il suo libro, per
dimostrare che razza d’imbecille io fossi.
Vuotò il bicchiere e tornò a volgersi verso Vincent, con gli occhietti
scintillanti di odio.
— Zola ha messo in quel libro tre figure: me, Bazille e un povero
ragazzo che si occupava della pulizia dello studio di Manet. Costui aveva
delle ambizioni artistiche, ma finì per impiccarsi in un accesso di
disperazione. Zola mi dipinge come un visionario, un disgraziato che
s’illude di rivoluzionare l’arte, ma che in realtà non sa dipingere nella
maniera tradizionale per il semplice fatto di non avere un briciolo di talento
e di essere assolutamente negato alla pittura. Alla fine m’impicco
all’impalcatura del mio capolavoro, essendomi reso conto d’aver scambiato
per genio ciò che era una pura mania d’imbrattatele squilibrato. Di contro a
me fa campeggiare la figura di un altro artista di Aix, uno scultore
sentimentale, un banale cialtrone imbottito d’accademismo, e ne fa un
grand’uomo.
— C’è veramente da ridere — interloquì Gauguin — quando si pensa
che Zola fu il primo paladino della rivoluzione pittorica di Édouard Manet.
Nessun altro ha fatto per la pittura impressionista ciò che ha fatto Zola.
— Già, adorava Manet perché Édouard batteva in breccia gli
accademici. Ma quando io cerco di spingermi oltre gli impressionisti, di
superarli, mi chiama pazzo e idiota. Zola è un’intelligenza mediocre e un
amico detestabile. Da lungo tempo ho dovuto smettere d’andare a trovarlo.
Vive come un sozzo borghese. Ricchi tappeti sul pavimento, vasi sulla
cappa del camino, servitori, una scrivania intagliata e scolpita per elaborare
i suoi capolavori. Puah! È più borghese di quanto abbia mai osato esserlo
Manet, due anime gemelle: ecco perché andavano così ben d’accordo. Ma
semplicemente perché io sono delle sua stessa città e perché mi ha
conosciuto da bambino, mi crede incapace di far qualcosa di buono.
— Ho sentito dire che alcuni anni fa aveva scritto una brochure in
elogio dei tuoi quadri esposti al Salon des Refusés. Che fine ha poi fatto
quell’opuscolo?
— Émile l’ha strappato, Gauguin, proprio quando stava per mandarlo in
tipografia.
— Ma perché? — domandò Vincent.
— Temeva di compromettersi presso i critici, temeva che lo accusassero
di sostenermi perché eravamo amici di lunga data. Se avesse pubblicato
quella brochure avrei avuto il successo assicurato. Ha invece pubblicato
L’Oeuvre. Tanto per amicizia. I miei quadri al Salon des Refusés vengono
derisi dal novantanove per cento dei visitatori. Durant-Ruel espone Degas,
Monet e il mio amico Guillaumin; ma per me, nemmeno un palmo di
spazio. Neanche vostro fratello, Monsieur Van Gogh, ha il coraggio di farmi
posto nell’entresol della sua galleria. L’unico mercante di Parigi che tenga i
miei quadri in vetrina è il Père Tanguy: ma lui, povero diavolo, non
riuscirebbe a vendere un tozzo di pane ad un milionario affamato.
— C’è ancora un po’ di Pommard in quella bottiglia, Cézanne? —
domandò Gauguin. — Grazie. Ciò che mi urta in Zola è che fa parlare le
lavandaie da vere lavandaie, ma poi, quando si stacca da loro, si dimentica
di cambiare stile.
— Insomma, io ne ho abbastanza di Parigi. Voglio tornare ad Aix, a
passarvi il resto dei miei giorni. C’è laggiù una collina che s’innalza dalla
vallata e domina quasi tutta la zona. Sole, sole di Provenza, colori. E quali
colori! Quasi in vetta alla collina, so che c’è un tratto di terreno offerto in
vendita. Tutto coperto di pini. Vi farò fabbricare uno studio e pianterò un
frutteto di meli. E tutt’intorno un bel muro di cinta, alto, in pietra, irto di
cocci di vetri, per tener lontana la gente. E non lascerò mai più la Provenza,
mai più, mai più.
— Farai l’eremita, eh? — mormorò Gauguin dentro il suo bicchiere di
Pommard.
— Sicuro, l’eremita.
— L’eremita di Aix. Come suona bene! Ma adesso sarà meglio che
andiamo al Caffè Batignolles. A quest’ora ci saranno già tutti.

8.

C’erano quasi tutti. Lautrec aveva davanti a sé una pila di piattini


sufficientemente alta per posarvi su il mento. Georges Seurat chiacchierava
tranquillamente con Anquetin, un pittore magro e sparuto che cercava di
combinare il metodo degli impressionisti con quello delle stampe
giapponesi. Henri Rousseau prendeva in tasca delle paste e le inzuppava nel
caffelatte, mentre Theo sosteneva un’animata discussione con due dei più
moderni critici parigini.
Era qui alle Batignolles — inizialmente un sobborgo alle soglie del
Boulevard Clichy — che Édouard Manet aveva raccolto gli spiriti affini
della città. Prima della morte di Manet, l’ «École des Batignolles» soleva
radunarsi al caffè due volte la settimana. Legros, Fantin-Latour, Courbet,
Renoir, tutti s’incontravano qui, e qui elaboravano le loro teorie artistiche.
Ma ora all’ «École des Batignolles» era subentrato un nuovo manipolo
d’artisti.
Cézanne scorse Émile Zola. Andò a sedersi a un tavolino distante,
ordinò un caffè e se ne stette seduto in disparte. Gauguin presentò Vincent
al romanziere, poi si sedette accanto a Toulouse-Lautrec. Zola e Vincent
erano soli al loro tavolino.
— Vi ho visto entrare con Paul Cézanne, Monsieur Van Gogh.
Scommetto che vi ha parlato di me.
— Sì.
— Che cosa vi diceva?
— Credo che il vostro libro l’abbia ferito profondamente.
Zola sospirò, poi scostò maggiormente il tavolino dalla panca imbottita
e rivestita di cuoio, per far più spazio al ventre voluminoso.
— Non avete mai sentito parlare della cura di Schweininger? Dicono
che se un individuo non beve nulla durante i pasti, in tre mesi può diminuire
di tredici o quattordici chili.
— Mai sentito parlare.
— Ho sofferto molto nello scrivere quel libro su Paul Cézanne, ma è un
libro vero da capo a fondo. Voi siete pittore. Falsifichereste il ritratto d’un
amico semplicemente per non procurargli un dispiacere? No, certamente.
Paul è un ragazzo d’oro. Per molti anni è stato il mio più caro amico. Ma la
sua pittura è addirittura ridicola. Voi saprete che in casa mia siamo più che
tolleranti; ma quando vengono a trovarmi i miei amici devo chiudere i suoi
quadri in un armadio perché non si facciano beffe di lui.
— È impossibile che la sua produzione sia scadente come dite.
— Peggio, mio caro Van Gogh, peggio! Non avete mai visto nessuno
dei suoi quadri? Allora mi spiego la vostra incredulità. Disegna come un
bambino di cinque anni. Parola d’onore, penso che sia diventato
completamente pazzo.
— Gauguin lo rispetta.
— È una cosa che mi spezza il cuore vedere Cézanne sciupare così
stupidamente la sua vita. Dovrebbe tornare ad Aix e prendere il posto di suo
padre alla banca. Così almeno farebbe qualcosa, avrebbe una ragione di
vivere. Ma se continua di questo passo… un brutto giorno finirà per
impiccarsi: come io ho predetto nell’Oeuvre. Avete letto il mio libro,
Monsieur?
— Non ancora. Ho appena terminato Germinal.
— Davvero? E che impressione v’ha fatto?
— Per me è quanto di meglio si sia scritto da Balzac in poi.
— Sì, è il mio capolavoro. L’anno scorso è stato pubblicato in
appendice sul Gil Blas, e mi ha fruttato una bella somma. Del volume già si
sono vendute oltre sessantamila copie. Il mio reddito non è mai stato così
alto come oggi. Ho intenzione di far aggiungere una nuova ala alla mia casa
di Medan. Quel libro ha già provocato quattro scioperi e rivolte nelle
regioni minerarie francesi. Germinal scatenerà una gigantesca rivoluzione;
e allora, addio capitalismo! Che cosa dipingete, Monsieur… Non ho sentito
bene il vostro nome di battesimo.
— Vincent. Vincent Van Gogh. Sono fratello di Theo Van Gogh.
Zola posò bruscamente la matita con cui stava scarabocchiando il
marmo del tavolino e fissò l’interlocutore.
— Strano.
— Che cosa?
— Non è la prima volta che sento il vostro nome.
— Sarà stato forse Theo a parlarvi di me.
— Infatti mi ha parlato di voi. Ma non è questo. Aspettate un momento!
È stato… è stato… Ah, Germinal! vi siete mai trovato nelle regioni delle
miniere di carbone?
— Sì. Ho vissuto due anni nel Borinage, in Belgio.
— Il Borinage! Petit Wasmes! Marcasse!
I grossi occhi di Zola schizzavano quasi fuori dalla tonda faccia barbuta.
— Siete dunque voi il Cristo reincarnato!
Vincent arrossì. — Che cosa volete dire con questo?
— Ho trascorso cinque settimane nel Borinage, quando raccoglievo
materiale per Germinal. Le gueules noires parlano ancora di un secondo
Cristo che lavorò e predicò in mezzo a loro.
— Vi prego, abbassate la voce.
Zola intrecciò le mani sul ventre obeso, tirandolo in dentro.
— Non avete motivo di vergognarvi, Vincent. Ciò che avete tentato di
fare laggiù meritava realmente d’esser tentato. Soltanto, sbagliavate nella
scelta dei mezzi. La religione non risolverà mai niente. Solo gli individui
moralmente inferiori accettano la miseria in questo mondo per la promessa
d’una felicità da godersi nell’altro.
— Io sono arrivato troppo tardi alla scoperta di questa verità.
— Avete passato due anni nel Borinage, Vincent. Avete dato agli altri il
vostro cibo, il vostro denaro, i vostri abiti. Vi siete tormentato e logorato
fino a sfiorare la morte. E quale risultato ne avete avuto? Zero. Vi hanno
chiamato pazzo e vi hanno espulso dalla Chiesa. Quando siete partito le
condizioni di quella gente non erano migliori di quando eravate giunto.
— Anzi, erano peggiori.
— Ma lo strumento di cui mi servo io raggiungerà il fine. La parola
scritta scatenerà la rivoluzione. Ogni minatore non analfabeta, in Belgio e in
Francia, ha letto il mio libro. Non c’è in tutta la regione un’osteria o una
miserabile casupola dove non si trovi una copia di Germinal, gualcita e
sudicia di ditate. Tutti coloro che sanno leggere l’hanno letto e riletto.
Quattro scioperi, finora. E decine d’altri in preparazione. L’intero Paese è in
fermento. Germinal creerà una nuova società: cosa che la religione non
saprebbe fare. E sapete che cosa ne ritraggo io in compenso?
— Che cosa?
— Quattrini. Quattrini a palate. Bevete qualcosa con me?
La discussione al tavolo di Lautrec si fece accanita. Tutti volsero lo
sguardo da quella parte.
— Come sta ma méthode, Seurat? — domandò Lautrec, facendo
scricchiolare l’una dopo l’altra le nocche delle dita.
Seurat lasciò cadere la domanda ridanciana e pungente del collega. I
suoi lineamenti d’una perfezione squisita e la sua fisionomia calma e
impassibile come una maschera, parevano non già una faccia d’uomo, ma
l’essenza della bellezza virile.
— È uscito un nuovo libro sulla rifrazione dei colori, scritto da un
americano, Ogden Rood. Secondo me rappresenta un notevole passo in
avanti in rapporto a Helmholtz e Chevral, benché sia meno stimolante del
libro di Superville. Dovreste leggerlo tutti.
— Io non leggo i libri sulla pittura — rispose Lautrec. — Li lascio ai
profani.
Seurat si sbottonò la giacca a quadretti bianchi e neri, e s’aggiustò
l’ampia cravatta azzurra a puntini.
— Tu sì che sei un profano, finché adopri i colori senza criterio preciso,
tirando a indovinare.
— Io non tiro a indovinare. Seguo l’istinto.
— La scienza è un metodo, Georges — interloquì Gauguin. — Siamo
diventati «scientifici» nella scelta e nell’uso dei colori, grazie ad anni di
duro lavoro e di pazienti esperimenti.
— Non basta, caro mio. La nostra epoca tende irresistibilmente ad una
produzione oggettiva. I tempi dell’ispirazione, dei tentativi e degli sbagli,
sono finiti per sempre.
— Io non riesco proprio a leggere quei libri — disse Rousseau. — Mi
danno l’emicrania. Allora devo dipingere tutto il giorno per farmela
passare.
Tutti risero. Anquetin si volse verso Zola. — Avete visto nel giornale di
stasera l’attacco contro Germinal?
— No. Che cosa dice?
— Il critico vi definisce lo scrittore più immorale del secolo
decimonono.
— Il loro solito ritornello. Possibile che non sappiano trovar altro da
dire contro di me?
— Hanno ragione, Zola — affermò Lautrec. — Anch’io trovo sensuali e
osceni i vostri romanzi.
— Certo, di oscenità ve ne intendete, voi.
— Prenditi questa, Lautrec!
— Garçon, da bere a tutti quanti! — ordinò Zola.
— Siamo fregati — mormorò Cézanne ad Anquetin. — Quando Zola
offre da bere, significa che devi sorbirti un’ora di lezione.
Il cameriere portò i liquori. I pittori accesero le pipe e si fecero più
vicini, stringendosi in cerchio. Le lampade a gas formavano spirali di luce.
Agli altri tavoli le conversazioni proseguivano su un tono sommesso.
— Definiscono immorali i miei romanzi — disse Zola — per la stessa
ragione che li induce a bollare d’immoralità i vostri quadri, Henri. Il
pubblico non vuol saperne di capire che nell’arte non c’è posto per la
morale. L’arte è amorale: come la vita. Per me non esistono libri o quadri
osceni: esistono soltanto libri o quadri scadenti nella concezione e
nell’esecuzione. Una prostituta dipinta da Toulouse-Lautrec è morale,
perché egli sa rivelare e mettere in evidenza la bellezza che si nasconde
sotto l’apparenza esteriore di quella donna; una illibata contadinella di
Bouguereau è immorale, perché sentimentalizzata e così dolciastra che
basta guardarla per vomitare.
— Giustissimo — annuì Theo.
Vincent s’accorse che i pittori rispettavano Zola non già per il successo
conseguito (disprezzavano gli aspetti banali del successo), ma perché il suo
lavoro d’artista si svolgeva in un campo e con mezzi che per loro avevano
qualcosa di misterioso e di difficile. Lo ascoltavano con viva attenzione.
— Le persone ordinarie pensano in termini di dualismo: luce e ombra,
dolce e amaro, bene e male. Ma questo dualismo non esiste in natura. Nel
mondo non c’è né bene né male, ma soltanto «essere» e «fare». Quando
descriviamo un’azione, descriviamo la vita; quando diamo a quest’azione
un nome, come «depravazione» o «oscenità», entriamo nel regno dei
pregiudizi soggettivi.
— Ma che cosa farebbe la massa — obiettò Theo — senza un codice
morale?
— La moralità è come la religione — intervenne Lautrec: — un
soporifero che consente agli individui di chiudere gli occhi su quanto
succede intorno a loro.
— La vostra amoralità non è nient’altro che anarchia, Zola — aggiunse
Seurat. — Anarchia nichilistica. Roba che è già stata provata altre volte, ma
senza successo.
— Certo noi dobbiamo mantenere dati codici — convenne Zola. — Il
bene collettivo esige sacrifici dall’individuo. Io non me la prendo con la
morale, ma soltanto col puritanesimo che sputa sull’Olympia e vuole
bandire Maupassant. Credetemi, oggigiorno in Francia la moralità s’è
ridotta tutta nel campo dei rapporti sessuali. Lasciate che ognuno possa
andare a letto con chi vuole; in fatto di morale ci sono cose ben più
importanti.
— Alcuni anni fa — narrò Gauguin — offrii un pranzo. Uno degli
invitati mi disse: «Sai, amico mio, io non posso portare mia moglie a questi
tuoi pranzi, se c’è anche la tua amante». «Benissimo, stasera farò in modo
che non ci sia», gli risposi. Terminato il pranzo, quando tutti tornarono a
casa, la nostra onesta e pudica signora, che per tutta la serata non aveva
fatto altro che sbadigliare, disse al marito: «Parliamo un po’ di porcheriole,
prima di farle». E lui: «Limitiamoci a parlarne. Stasera ho mangiato
troppo».
— Questo dice tutto! — gridò Zola in mezzo a un coro di risate.
— Mettiamo un momento da parte l’etica e torniamo all’immoralità in
arte — proruppe Vincent. — Nessuno ha mai definito osceni i miei quadri,
ma tutti invariabilmente mi accusano di un’immoralità più grave ancora: la
bruttezza.
— Hai toccato un tasto importante, Vincent — disse Lautrec.
— Già, per il pubblico è questa l’essenza della nuova immoralità —
convenne Gauguin. — Avete visto come ci ha chiamati il Mercure de
France di questo mese? I cultori della bruttezza.
— La stessa critica viene mossa a me — disse Zola. — L’altro giorno
una contessa m’ha domandato: «Ma perché, caro Monsieur Zola, un uomo
come voi, dotato d’un genio straordinario, va in giro a rivoltar le pietre per
il solo gusto di vedere quali sudici insetti ci sono sotto?».
Lautrec cavò di tasca un vecchio ritaglio di giornale.
— Sentite che cos’ha detto un critico dei miei quadri in occasione
dell’ultima mostra al Salon des Indépendants. «Si può rimproverare a
Toulouse-Lautrec il fatto di dilettarsi a dipingere scene di allegria volgare,
di divertimenti grossolani e di bassi piaceri. Si direbbe che sia veramente
insensibile alla bellezza d’un volto, all’eleganza d’una forma, alla grazia
d’un movimento. È vero che dipinge con tocchi affettuosi creature deformi,
sgraziate e repellenti nella loro bruttezza; ma perché questa perversione?».
— Ombre di Frans Hals — mormorò Vincent.
— Ebbene, ha ragione — affermò Seurat. — Se voialtri non siete
pervertiti, siete almeno fuor di strada. L’arte è una questione di cose
astratte: colore, disegno, tonalità. Non deve servire a migliorare le
condizioni sociali, né deve andare alla ricerca del brutto. La pittura deve
essere come la musica, decisamente staccata dal mondo quotidiano.
— Victor Hugo è morto l’anno scorso — riprese Zola — e con lui è
morta un’intera civiltà. Una civiltà fatta di gesti graziosi, di atteggiamenti
romantici, di raffinate menzogne e di sottili evasioni. I miei libri preparano
una civiltà nuova: la civiltà amorale del ventesimo secolo. E così le vostre
pitture. Bouguereau trascina ancora la sua carcassa per Parigi, ma si è
ammalato il giorno in cui Édouard Manet esponeva il Déjeuner sur l’herbe,
ed è morto il giorno in cui Manet finiva l’Olympia. Ebbene, adesso Manet è
scomparso, e così pure Daumier; ma abbiamo ancora Degas, Lautrec e
Gauguin per continuare la loro opera.
— Aggiungete all’elenco il nome di Vincent Van Gogh — disse
Lautrec.
— E mettetelo come capolista — aggiunse Rousseau.
— Benissimo, Vincent — sorrise Zola. — Siete stato nominato anche
voi tra gli addetti al culto della bruttezza. Accettate la nomina?
— Ahimè, temo di trovarmici dentro fin dalla nascita.
— Formuliamo il nostro manifesto programmatico, signori! — disse
Zola. — Primo: noi riteniamo che la verità sia sempre bella, per quanto
ripugnante e schifosa possa sembrare la sua faccia. Accettiamo tutto ciò che
è in natura, senza nulla ripudiare. Crediamo che c’è più bellezza in una
verità ingrata che non in una bella menzogna, più poesia nella dimessa
realtà terrestre che non in tutti i salotti di Parigi. Apprezziamo la sofferenza,
perché è il più profondo di tutti i sentimenti umani. Riteniamo bello il sesso,
anche quando si presenta sotto l’aspetto di una prostituta o di una mezzana.
Poniamo l’originalità al disopra della bruttezza, la sofferenza al disopra
della leggiadria, l’aspra e cruda realtà al disopra di tutte le ricchezze della
Francia. Accettiamo la vita nella sua integrità, senza fare giudizi morali. Per
noi la prostituta vale la contessa, il portinaio vale il generale, il contadino
vale il ministro di Stato, perché tutti quanti rientrano nella realtà della
natura e sono altrettanti fili che formano il tessuto della vita!
— Alzate i bicchieri, signori! — gridò Lautrec. — Brindiamo
all’amoralità e al culto della bruttezza. Possano essi abbellire e ricreare il
mondo!
— Puah! — fece Cézanne.
— Puah! — ripeté Seurat.

9.

Ai primi di giugno, Theo e Vincent si trasferirono nel nuovo


appartamento, in Rue Lepic 54, Montmartre. La distanza era breve: si
trattava soltanto di percorrere un piccolo tratto della Rue Montmartre fino al
Boulevard Clichy, infilare la serpeggiante Rue Lepic e proseguire fin oltre il
Moulin de la Gaiette, là dove la città andava smorendo tra gli alberi della
Butte.
L’appartamento era al terzo piano. Tre stanze, uno stanzino e una
cucina. La stanza di soggiorno era comoda e piacevole, col grazioso stipo
antico di Theo, i suoi mobili in stile Luigi Filippo e una grossa stufa per
proteggersi dal freddo di Parigi. Theo aveva una vera genialità in fatto di
sistemazione e di arredamento. Amava vedere ogni cosa disposta con gusto.
La sua camera da letto era attigua alla stanza di soggiorno. Vincent dormiva
nello stanzino, dietro cui si trovava il suo studio: una camera di dimensioni
normali fornita di un’unica finestra.
— Ora non avrai più bisogno di andare a lavorare da Corman — gli
disse Theo, mentre provavano e riprovavano a sistemare i mobili nella
stanza di soggiorno.
— No, grazie al Cielo. Tuttavia dovrei ancora fare alcuni nudi maschili.
Theo collocò il sofà dirimpetto allo stipo e si trasse indietro ad
osservare l’effetto.
— Da qualche tempo non hai più dipinto un quadro completo a colori,
vero?
— No.
— Perché?
— A che servirebbe? Fino a quando non ho imparato a combinar bene i
colori… Dove vuoi che metta questa poltrona, Theo? Sotto la lampada o
vicino alla finestra?… Ma adesso che ho uno studio a mia disposizione…
La mattina dopo Vincent s’alzò col sole, sistemò il cavalletto nel nuovo
studio, vi collocò una tela, prese la tavolozza nuova fiammante che Theo gli
aveva comprato, ammorbidì sulla mano i pennelli. Quando fu ora che Theo
s’alzasse, mise su il caffè e scese a comprare dei croissants freschi.
Theo lo sentì sfaccendare, agitato e turbolento.
— Dunque, Vincent — gli disse a colazione — sei stato a scuola tre
mesi. Oh, non alludo a Corman: alludo alla scuola di Parigi. Hai visto i
quadri più importanti che si siano dipinti in Europa nel corso di
trecent’anni. E adesso sei in condizione di…
Vincent interruppe bruscamente la colazione, spinse via la tazza e balzò
in piedi.
— Credo che comincerò senz’altro.
— Siediti. Finisci di mangiare. Il tempo non ti manca. Non hai da
preoccuparti. Io acquisterò in blocco la tua produzione, disegni e quadri;
quindi il lavoro non ti mancherà. Sarà bene anche che ti faccia aggiustare i
denti. Voglio che tu sia perfettamente in forma. Ma, per carità, lavora
adagio e con metodo.
— Non dire stupidaggini, Theo. Quando mai mi hai visto fare qualcosa
adagio e con metodo?
Rincasando a sera, Theo lo trovò in uno stato di vero furore. Per sei anni
aveva lavorato nelle condizioni più disastrose, riuscendo a progredire, ad
ottenere buoni risultati: e adesso che non doveva più lottare con le difficoltà
quotidiane, adesso che le circostanze esterne gli erano così propizie, doversi
trovar di fronte alla constatazione di una umiliante impotenza!
Erano ormai le dieci, quando Theo riuscì a tranquillizzarlo un poco.
Uscirono per andare a pranzo. Vincent aveva ricuperato almeno in parte la
fiducia in se stesso. Theo appariva pallido ed esausto.
Seguirono per entrambi settimane di tortura. Quando Theo tornava dalla
galleria, trovava il fratello in una delle sue cento specie d’umor tempestoso.
La buona serratura su cui aveva fatto assegnamento per stare in pace non
serviva a niente. Vincent stava seduto sul suo letto fino alle ore piccole,
disputando. E quando Theo s’addormentava, lo scoteva per la spalla e lo
svegliava.
— Piantala d’andar su e giù, stai fermo un momento! — lo supplicava
Theo. — E smettila di bere quel maledetto absinthe. Anche Gauguin beve
absinthe, ma la sua tavolozza se l’è conquistata in altro modo. E adesso
senti, idiota d’inferno. Devi concederti almeno un anno, prima di guardare
la tua produzione con occhio critico. Che vantaggio hai a rovinarti così la
salute? Stai dimagrendo e diventando nevrastenico. Lo sai anche tu che in
queste condizioni non puoi lavorar bene.
Cominciava a farsi sentire il caldo dell’estate parigina. Le strade
avvampavano di sole. I parigini sedevano ai tavoli esterni dei loro caffè
preferiti fino alle due del mattino, sorseggiando bibite fresche. I fiori della
Butte di Montmartre esplodevano in un tumulto di colori. La Senna snodava
il suo nastro sfavillante attraverso la città, tra file d’alberi e fresche macchie
d’erba verdeggiante.
Ogni mattina Vincent si caricava il cavalletto in ispalla e andava in
cerca di qualcosa da dipingere. In Olanda non aveva mai visto un sole così
caldo, così continuo, né aveva mai trovato una così intensa ricchezza di
tinte. Quasi ogni sera tornava dalle sue scorribande pittoriche in tempo per
partecipare alle focose discussioni che si svolgevano nell’entresol della
galleria.
Un giorno Gauguin venne ad aiutarlo a fare certe combinazioni di
colori.
— Dove compri questi tubetti?
— Li compra Theo all’ingrosso.
— Dovreste servirvi dal Père Tanguy. I suoi prezzi sono i più bassi di
Parigi, e per giunta fa credito quando si è al verde.
— Chi è questo Père Tanguy? Non è la prima volta che lo nomini.
— Come, non lo conosci? Buon Dio, non devi aspettare nemmeno un
momento. Tu e Tanguy siete le uniche due persone che io abbia mai
incontrato, il cui comunismo sgorghi veramente dal cuore. Mettiti quel tuo
bellissimo berretto di pelo di coniglio e corriamo in Rue Clauzel.
Mentre scendevano per la Rue Lepic, Gauguin gli narrò la storia del
Père Tanguy.
— Prima di venire a Parigi faceva il muratore, specializzato in lavori in
gesso. Lavorò come macina-colori in casa di Édouard, poi riuscì ad avere
un posto di portinaio su dalle parti della Butte. Mentre sua moglie badava
alla casa, lui si mise ad andare in giro per il quartiere a vender colori.
Conobbe così Pissarro, Monet e Cézanne; e siccome costoro l’avevano in
simpatia, cominciammo tutti quanti a comprare da lui. Durante l’ultima
sommossa si unì ai comunardi. Un giorno, mentre sonnecchiava al suo
posto di sentinella, una banda proveniente da Versailles gli piombò addosso.
Il poveraccio per nulla al mondo avrebbe sparato ad un altro essere umano.
Gettò via il fucile. Fu condannato come traditore a due anni di servizio sulle
galere di Brest, ma riuscimmo a farlo liberare. Più tardi, avendo qualche
soldo di risparmio, aprì quel piccolo negozio in Rue Clauzel. Lautrec gliene
dipinse la facciata in azzurro. Fu lui il primo ad esporre una tela di
Cézanne. Da allora tutti noi gli abbiamo portato i nostri quadri. Ma non
credere che ne venda mai uno. Ah no! Il Père Tanguy, vedi, ha un’immensa
passione per la pittura, ma siccome è povero non può permettersi il lusso di
comprar quadri. E così si contenta di esporli nel suo negozio, dove può
vivere in mezzo ad essi tutto il giorno.
— Vuoi dire che non venderebbe un quadro nemmeno se gli venisse
fatta una buona offerta?
— No, assolutamente. Prende solo i quadri che gli piacciono e, una
volta che vi si è affezionato, non c’è più verso di portarglieli via. Ero lì un
giorno, quando entrò un signore molto elegante, ammirò un Cézanne e ne
domandò il prezzo. Qualsiasi altro mercante di Parigi sarebbe stato
felicissimo di darlo per sessanta franchi. Il Père Tanguy guardò a lungo la
tela, poi disse: «Ah, questo! Un Cézanne veramente speciale. Non posso
darlo a meno di seicento franchi». Il cliente scappò via; Tanguy lo staccò
dalla parete e se lo contemplò con le lacrime agli occhi.
— E allora a che serve dargli i propri quadri da esporre?
— Il Père Tanguy è un tipo strano. Tutto ciò che sa in fatto d’arte, è
macinar colori. Eppure ha un intuito infallibile per tutto ciò che è schietto,
genuino. Se ti chiede un tuo quadro, daglielo. Sarà la tua consacrazione
ufficiale come artista parigino. Ecco la Rue Clauzel, svoltiamo.
La Rue Clauzel era formata da un unico isolato, che congiungeva la Rue
des Martyrs e la Rue Henri Monnier. Una via piena di bottegucce,
sormontate da due o tre piani di appartamenti con le imposte bianche. Il
negozio di Tanguy era situato proprio di fronte ad una école primaire des
filles.
Il Père Tanguy stava esaminando alcune stampe giapponesi, che
cominciavano proprio allora a diventar di moda a Parigi.
— Père, vi ho portato un amico, Vincent Van Gogh. Un ardente
comunista.
— Sono lieto di darvi il benvenuto nel mio negozio — disse il Père
Tanguy con una voce dolce, quasi femminea.
Era un ometto dalla faccia tozza, con gli occhi intelligenti, pensosi e un
po’ malinconici, di un cane fedele. In testa un cappello di paglia dalla testa
larga, tirato in giù sulle sopracciglia. Braccia corte, mani grosse, barba
ispida. Allargò l’occhio destro, socchiudendo un pochino quello sinistro.
— Siete davvero comunista, Monsieur Van Gogh? — domandò
timidamente.
— Non so che cosa intendiate per comunismo, Père Tanguy. Secondo
me, ognuno dovrebbe lavorare quanto può, nel campo d’attività che
preferisce, e avere in compenso tutto ciò che gli abbisogna.
— Più semplice di così! — rise Gauguin.
— Ah, Paul! — lo rimproverò Tanguy. — Voi avete lavorato in
un’agenzia di cambio. È il denaro che trasforma gli uomini in bestie, no?
— Già, il denaro. E la mancanza del medesimo.
— No, non la mancanza di denaro, ma soltanto la mancanza di cibo e le
necessità della vita.
— Proprio così, Père Tanguy — assentì Vincent.
— Il nostro amico Paul — riprese Tanguy — disprezza gli uomini che
mirano a far soldi, e disprezza noialtri perché non sappiamo farne. Ma io
preferisco appartenere a questa seconda categoria. Chi spende più di
cinquanta centesimi al giorno per vivere è una canaglia.
— In questo caso, io sono un uomo onesto e virtuoso per pura necessità
di cose. Père Tanguy, mi date ancora qualche tubetto di colore a credito? So
che la lista dei miei debiti con voi è già lunga, ma non posso lavorare se
non…
— Ma sì, Paul, che vi faccio credito. Se io avessi un po’ meno di fiducia
nel prossimo e voi ne aveste un po’ di più, sarebbe meglio per tutti e due.
Dov’è il nuovo quadro che mi avete promesso? Potrei forse venderlo e
pagarmi i colori che vi ho dato.
Gauguin strizzò l’occhio a Vincent. — Ve ne porterò due, da appendere
l’uno accanto all’altro. E adesso se volete darmi un tubetto di nero, uno di
giallo…
— Pagate la nota arretrata, e avrete altri colori!
I tre si voltarono simultaneamente. Madame Tanguy sbatté la porta del
retrobottega e si fece avanti. Era una donna energica e nervosa, con una
faccia magra e dura, occhi torvi. Assalì ferocemente Gauguin.
— Credete forse che teniamo questo negozio per far la carità? Credete
che ci riempiamo la pancia col comunismo di Tanguy? Regolate il conto,
mascalzone, se non volete che vi mandi la polizia!
Gauguin fece il più irresistibile dei suoi sorrisi, le prese la mano e gliela
baciò galantemente.
— Ah, Santippe, come siete affascinante stamattina!
Madame Tanguy non capiva perché questo bel bruto la chiamasse
sempre Santippe, ma il suono di questo nome le piaceva e la lusingava.
— Non crediate di farmela con le vostre moine, barabba! Io sgobbo
tutto il giorno per macinare quei luridi colori, e voi venite qui a rubarli.
— Mia diletta Santippe, non siate così crudele con me. Avete un’anima
d’artista. Ve la vedo benissimo su quell’amabile volto.
Madame Tanguy alzò un lembo del grembiule come per strofinarsi dal
viso ogni traccia di anima d’artista.
— Alla malora! Artisti, in famiglia, ne basta uno. Immagino che già vi
abbia detto che vuole vivere con cinquanta centesimi al giorno. Ma dove
credete che li prenderebbe, quei cinquanta centesimi, se non glieli
guadagnassi io?
— Tutta Parigi parla del vostro fascino e della vostra abilità, cara
signora.
E si chinò a sfiorarle ancora una volta con le labbra la mano nodosa.
Ella si rabbonì.
— Siete un farabutto e un adulatore, ma per questa volta vi do ancora
qualche tubetto di colore. Cercate però di pagare il conto arretrato.
— Per compensarvi della vostra bontà, mia graziosa Santippe, vi farò il
ritratto. Un giorno sarà esposto al Louvre e ci immortalerà entrambi.
Il campanello della porta tintinnò: entrò un signore.
— Quel quadro che avete in vetrina, quella natura morta, di chi è?
— Di Paul Cézanne.
— Cézanne? Mai sentito nominare. È in vendita quel quadro?
— Ah, no. Mi dispiace, ma è già…
Madame Tanguy buttò via il grembiule, spinse da parte il marito e si
precipitò verso il signore.
— Ma certo che è in vendita. Una bellissima natura morta, vero,
Monsieur? Avete mai visto mele simili? Ve lo daremo a buon mercato,
Monsieur, dato che vi piace.
— Quanto?
— Quanto, Tanguy? — domandò la signora con un’ombra di minaccia
nella voce.
Tanguy deglutì con sforzo.
— Trecen…
— Tanguy!
— Duecen…
— Tanguy!
— Be’, cento franchi.
— Cento franchi? — si stupì il signore. — Per un quadro d’un pittore
sconosciuto? Temo sia veramente troppo. Ero disposto a spendere soltanto
un venticinque franchi.
Madame Tanguy prese il quadro dalla vetrina.
— Vedete, Monsieur, è un bel quadro grande. Ci sono quattro mele.
Tutte e quattro costano cento franchi. Voi volete spenderne venticinque.
Allora, perché non prendete una mela sola?
Il cliente esaminò un momento il dipinto.
— Già, magari potrei far così. Ritagliate questa mela per tutta la
lunghezza della tela, e io la prendo.
Madame corse di là a prendere un paio di forbici e tagliò la striscia di
tela che conteneva la mela laterale. L’avvolse in un pezzo di carta e la porse
al cliente, ricevendone i venticinque franchi. Il signore se ne andò
coll’involto sotto il braccio.
— Il mio Cézanne preferito! — gemette Tanguy. — L’avevo messo in
vetrina perché la gente si fermasse un momento a guardarlo e se ne andasse
felice.
La signora posò sul banco la tela mutilata.
— La prossima volta che viene qualcuno che voglia un Cézanne e non
abbia abbastanza quattrini, vendigli un’altra mela. Prendi quel che ti danno.
Non è il caso di andar per il sottile: Cézanne ne dipinge tante! E voi potete
fare a meno di ridere, Paul Gauguin, perché lo stesso vale per voi. Prenderò
quei vostri quadri appesi al muro e venderò tutte quelle donnacce nude a
cinque franchi l’una.
— Mia cara Santippe, la vita ci ha fatti incontrare troppo tardi. Se vi
avessi avuta come socia all’agenzia di cambio, oggigiorno saremmo
padroni della Banca di Francia.
Ritiratasi la signora, il Père Tanguy disse a Vincent: — Siete anche voi
pittore, Monsieur? Spero che verrete qui a comprare i colori. E vi
rincrescerebbe farmi vedere qualcuno dei vostri quadri?
— Ne sarò felicissimo. Graziose queste stampe giapponesi. Le vendete?
— Sì. Sono molto in voga a Parigi, da quando i fratelli Goncourt si sono
messi a farne collezione. Esercitano una grande influenza sui nostri giovani
pittori.
— Queste due mi piacciono molto. Voglio studiarle. Quanto costano?
— Tre franchi l’una.
— Le prendo. Oh, Dio, dimenticavo! Ho speso l’ultimo franco
stamattina. Gauguin, hai sei franchi?
— Non far domande ridicole.
Vincent posò nuovamente le due stampe sul banco con un gesto di
rimpianto.
— Mi dispiace di dovervele lasciare, Père Tanguy.
Il Père Tanguy gliele mise in mano guardandolo di sotto in su con un
sorriso timido e insinuante.
— Ne avete bisogno per il vostro lavoro. Prendetele, ve ne prego. Me le
pagherete un’altra volta.

10.

Theo decise di offrire un piccolo ricevimento agli amici di Vincent.


Fecero cuocere quattro dozzine di uova sode, comprarono un barilotto di
birra e riempirono di paste e panini una quantità di vassoi.
Nella stanza il fumo delle pipe e dei sigari era così denso che quando
Gauguin passava da un canto all’altro col suo cranio enorme, sembrava un
bastimento di linea navigante nella nebbia. Appollaiato in un angolo,
Lautrec rompeva le uova sul bracciolo della poltrona favorita da Theo e ne
lasciava cadere i gusci sul tappeto. Rousseau era tutto eccitato, per un
biglietto profumato ricevuto quel giorno da un’ammiratrice che voleva
conoscerlo, e non finiva di parlarne con occhi dilatati dallo stupore. Seurat
stava esponendo una sua nuova teoria a Cézanne, tenendolo inchiodato
contro la finestra. Vincent riempiva i bicchieri spillando la birra dal
barilotto, rideva alle storielle sconce di Gauguin, si domandava con
Rousseau chi mai potesse essere l’ignota ammiratrice, discuteva con
Lautrec se a rendere un’impressione servissero meglio le linee o i puntini di
colore; e infine accorse a liberare Cézanne dagli artigli di Seurat.
Nella stanza imperversava un assordante baccano. Questi uomini erano
tutti tipi esuberanti, forti personalità, feroci egoisti, implacabili iconoclasti.
Monomaniaci li chiamava Theo. Amavano discutere, battagliare, imprecare,
difendere le proprie teorie e dare addosso a quelle altrui. Avevano voci forti
e rudi; le cose che odiavano al mondo erano innumerevoli. Una sala venti
volte più ampia sarebbe ancora stata troppo stretta per contenere la
dinamica irruenza di questi pittori battaglieri.
L’atmosfera turbolenta e chiassosa, che accendeva Vincent d’un
entusiasmo eloquente e gesticolante, causava a Theo un fiero mal di testa.
Tutto questo stridulo urlio mal s’adattava al suo temperamento. Voleva
infinitamente bene a questi amici: non era forse per loro che continuava a
sostenere con i proprietari della galleria una battaglia paziente e ostinata?
Ma la clamorosa e incomposta turbolenza a cui s’abbandonavano non
faceva per lui. C’era in Theo qualcosa di femminile. Toulouse-Lautrec, col
suo solito umorismo all’acido solforico, aveva detto un giorno: «Peccato
che Theo sia fratello di Vincent. Sarebbe stato per lui una moglie coi
fiocchi».
Trovava tanto disgustoso dover vendere i quadri di Bouguereau quanto
Vincent avrebbe trovato disgustoso dipingerli. Ma, vendendo Bouguereau,
Valadon gli permetteva di esporre Degas. Un bel giorno sarebbe riuscito a
persuaderlo a lasciargli esporre una tela di Cézanne, poi di Gauguin o di
Lautrec, e infine, chissà quando, di Vincent Van Gogh…
Diede ancora un’occhiata a quella scena fumosa, rumorosa, litigiosa;
sgattaiolò via senza farsi notare e salì tranquillamente alla Butte, dove,
finalmente solo e in pace, stette a contemplare le luci di Parigi formicolanti
ai piedi della collina.
Gauguin stava accapigliandosi con Cézanne, brandendo in una mano un
uovo sodo e una brioche, nell’altra un bicchierone di birra. Si vantava
d’essere l’unico individuo in tutta Parigi, capace di bere un bicchiere di
birra con la pipa in bocca.
— La tua pittura è fredda, Cézanne! — urlava. — Fredda come il
ghiaccio. Mi sento gelare al solo guardarla. In tutti i chilometri di tela su cui
hai scaraventato del colore non c’è un’oncia d’emozione.
— L’emozione non m’interessa. La lascio ai romanzieri. Io dipingo
mele e paesaggi.
— Non dipingi emozioni perché non ne sei capace. Dipingi con gli
occhi, tu, ecco quel che sai fare.
— Con tante cose. — Gauguin volse una rapida occhiata per la stanza.
— Per esempio, Lautrec dipinge col suo spleen. Vincent col cuore. Seurat
col cervello, il che è quasi altrettanto riprovevole che dipingere con gli
occhi. E Rousseau con la fantasia.
— E tu, Gauguin, con che cosa dipingi?
— Chi, io? Non so. Non ci ho mai pensato.
— Te lo dico io — gridò Lautrec. — Tu dipingi con l’organo genitale!
Calmatasi la risata alle spalle di Gauguin, Seurat balzò sul bracciolo
d’un sofà e si mise a gridare.
— Potete farvi beffe d’un uomo che dipinge col cervello, ma sappiate
che è stato il cervello a farmi scoprire il modo di rendere doppiamente
efficaci le nostre tele.
— Oh, Dio mio, dobbiamo di nuovo ascoltare daccapo la solita blague?
— gemette Cézanne.
— Chiudi il becco, Cézanne! Gauguin, siediti in qualche posto e non
mettere in scompiglio tutta la stanza. Rousseau, finiscila di raccontare
quella storia infernale della tua ammiratrice. Lautrec, lanciami un uovo.
Vincent, mi dài un panino? E adesso ascoltate tutti quanti!
— Ma che cos’hai, Seurat? Non t’ho mai visto così eccitato dal giorno
in cui quel tale sputò sul tuo quadro al Salon des Refuses!
— Ascoltate! Che cos’è la pittura d’oggi? Luce. Quale specie di luce? A
gradazione. Puntini di colore fluttuanti gli uni negli altri…
— Ma quella non è pittura: è puntinismo!
— Per amor di Dio, Georges, ti metti di nuovo a farci lezione?
— Silenzio! Abbiamo finito una tela. E adesso che facciamo? La
affibbiamo a un imbecille che vi applica una schifosa cornice dorata
distruggendone così tutti gli effetti di colore e di luce. Io propongo che non
lasciamo mai partire un quadro dal nostro studio senza averlo incorniciato
noi e senza diventare parte integrante del quadro.
— Ma non basta, Seurat. Il quadro viene appeso in una stanza. E se la
tinta della stanza non è intonata, ammazza tela e cornice.
— Giusto. Perché non dipingere anche la stanza per adattarla al quadro?
— Buona idea — disse Seurat.
— E la casa in cui si trova la stanza?
— E la città in cui si trova la casa?
— Ah, Georges, Georges, che idee tiri fuori!
— Ecco che cosa succede a furia di dipingere col cervello!
— Il motivo per cui voialtri imbecilli non dipingete col cervello, è che
non ce l’avete.
— Guardate la faccia di Georges, presto! Guardatela tutti! Stavolta
abbiamo visto l’impassibile scienziato andare in bestia.
— Perché non fate altro che accapigliarvi? — domandò Vincent. —
Perché non cercare di lavorare assieme?
— Tu sei il comunista della banda — disse Gauguin. — Ci sai dire quali
sarebbero i risultati, se lavorassimo insieme?
— Benissimo — rispose Vincent, cacciandosi in bocca la pallottola d’un
rosso d’uovo. — Ve lo dico subito. Ho già un progetto bell’e fatto. Noi
siamo una cricca di illustri ignoti. Manet, Degas, Sisley e Pissarro ci hanno
spianato la strada. Sono riusciti a imporsi e le loro opere vengono ora
esposte nelle grandi gallerie. Benissimo, loro sono i pittori del Grand
Boulevard. Noi invece dobbiamo andare nelle vie secondarie. Noi siamo i
pittori del Petit Boulevard. Perché non potremmo esporre le nostre opere
nei piccoli ristoranti, nei ristoranti da operai? Ognuno di noi darebbe,
supponiamo, cinque tele. Ogni giorno, nel pomeriggio, le porteremmo in un
altro posto. E venderemmo i nostri quadri ai lavoratori, per la cifra che ci
possono dare. Oltre al vantaggio d’avere i nostri lavori continuamente
esposti agli occhi del pubblico, daremmo alla povera gente di Parigi la
possibilità di vedere della buona arte e di comprare dei bei quadri pagandoli
pochissimo.
— Tiens! — fece Rousseau con gli occhi dilatati dall’entusiasmo. —
Sarebbe una cosa bellissima.
— A me un quadro costa un anno di lavoro — protestò Seurat. — E
credi che io sia disposto a venderlo a uno sporco falegname per cinque
soldi?
— Potresti dare qualche piccolo studio.
— Già. Ma supponiamo che i ristoranti non vogliano lasciarci esporre.
— Ci staranno senz’altro.
— Perché no? Non ci rimettono niente e abbelliscono i loro locali senza
spendere un soldo.
— Ma come farete, praticamente? Chi s’incarica di trovare i ristoranti?
— Già tutto previsto — gridò Vincent. — Affideremo la nostra
rappresentanza al Père Tanguy. Penserà lui a trovare i locali, ad appendere i
quadri e a ritirare gli incassi.
— D’accordo. È proprio l’uomo che ci vuole.
— Rousseau, fai il favore, corri fin dal Père Tanguy. Digli che lo
aspettiamo qui per trattare un affare importante.
— Non fate assegnamento su di me — disse Cézanne.
— Perché? — lo aggredì Gauguin. — Temi che i tuoi bei quadri si
sporchino a esser guardati dagli operai?
— Non è per questo. Alla fine del mese tornerò ad Aix.
— Prova almeno una volta, Cézanne — insisté Vincent. — Se non va,
non sarà certo la tua rovina.
— D’accordo.
— Esauriti i ristoranti — disse Lautrec — passeremo ai postriboli. Io
conosco quasi tutte le Mesdames di Montmartre. Là hanno una clientela
migliore e credo che potremo realizzare cifre più alte.
Il Père Tanguy entrò di corsa nella stanza, eccitatissimo. Rousseau
aveva saputo fargli soltanto un resoconto molto ingarbugliato della
faccenda. Aveva il cappello di paglia sull’orecchio, la tozza faccia accesa di
entusiasmo e di impazienza.
Sentita l’esposizione del progetto, esclamò: — Sì, sì, ho già il posto
adatto. Il ristorante Norvins. Il proprietario è un mio amico. Ha appunto i
muri nudi e squallidi, e ne sarà felicissimo. Poi conosco un altro ristorante
in Rue Pierre. Oh, a Parigi ci sono migliaia di ristoranti.
— E quando avrà luogo la prima mostra del Gruppo del Petit
Boulevard? — domandò Gauguin.
— Perché rimandare? — chiese Vincent. — Perché non cominciare
domani?
Tanguy prese a saltellare per la stanza su un piede, sbandierò in aria il
cappello e tornò a piantarselo sulla testa.
— Sì, sì, domani! In mattinata portatemi i vostri quadri. Nel pomeriggio
io andrò ad esporli al ristorante Norvins. Come faremo colpo, quando
arriveranno gli avventori! I quadri andranno a ruba, come le candele
benedette a Pasqua. Che cos’è questo? Birra? Bene. Signori brindiamo al
Gruppo Artistico Comunista del Petit Boulevard. E auguriamo un gran
successo alla sua prima mostra.

11.

Verso mezzogiorno, il Père Tanguy si presentò all’abitazione di Vincent.


— Sono già passato ad avvertire tutti gli altri. Il ristorante Norvins ci
permette di esporre, ma a condizione che pranziamo là.
— D’accordo.
— Bene. Anche gli altri hanno acconsentito. Fino alle sedici e trenta
non possiamo appendere i quadri. Potete trovarvi nel mio negozio alle
quattro? Andremo al ristorante tutti insieme.
— Senz’altro.
Quando Vincent giunse nel negozio dalla facciata azzurra, il Père
Tanguy stava già caricando i quadri su un carrettino a mano. Gli amici
erano dentro, fumavano e discutevano sulle stampe giapponesi.
— Alors! — fece Tanguy. — Tutto è pronto.
— Posso aiutarvi a tirare il carretto? — gli chiese Vincent.
— No, no, l’impresario sono io.
Spinse il veicolo nel mezzo della strada e cominciò la lunga marcia. I
pittori venivano dietro, a due a due. In testa Gauguin e Lautrec, a cui
piaceva camminar vicini per la grottesca figura che facevano. Seurat
ascoltava i discorsi di Rousseau, tutto eccitato per via d’una seconda lettera
profumata che gli era giunta nel pomeriggio. Chiudevano il corteo Vincent
e Cézanne, il quale procedeva sostenuto, imbronciato, continuando a
borbottare e a pronunciar parole come «dignità» e «decoro».
— Sentite, Père Tanguy — disse Gauguin, dopo un certo tratto di salita
su per la collina. — Quel carretto è pesante, carico com’è di capolavori
immortali. Lasciate che spinga un po’ io.
— No, no — protestò Tanguy, accelerando l’andatura. — Io sono il
portabandiera di questa rivoluzione. Quando s’aprirà il fuoco, sarò il primo
a cadere.
Era una scena veramente buffa vedere quei tipi male assortiti, vestiti
nelle fogge più fantastiche, che camminavano in mezzo alla strada, dietro
un volgare carrettino a mano, infischiandosi tranquillamente delle occhiate
stupite e divertite dei passanti, ridendo e chiacchierando con allegra
animazione.
— Vincent — gridò Rousseau — t’ho già detto che oggi ho ricevuto
un’altra lettera? Profumata, anche questa. Della stessa signora.
E corse accanto a Van Gogh, agitando le braccia e raccontando daccapo
quell’interminabile storia. Quand’ebbe finito e tornò accanto a Seurat,
Lautrec chiamò Vincent.
— Sai già chi è la sconosciuta signora di Rousseau?
— No. Come posso saperlo?
— È Gauguin! — ridacchiò Lautrec. — È lui che gli ammannisce
quest’avventura amorosa. Il poveretto non ha mai avuto una donna.
Gauguin lo alimenterà di lettere profumate per un paio di mesi, poi gli darà
un appuntamento. Si vestirà da donna e incontrerà Rousseau in una di
quelle camere di Montmartre fornite di buchi per spiare. Andremo tutti ad
appostarci per vedere Rousseau che farà all’amore per la prima volta. Sarà
un divertimento impagabile.
— Sei tremendo, Gauguin. Questa è una crudeltà.
— Ma no, Vincent. È semplicemente uno scherzetto.
Giunsero finalmente al ristorante Norvins. Un locale modesto, cacciato
tra una bottiglieria e uno spaccio di forniture per cavalli, con la facciata
giallina e le pareti interne tinteggiate in azzurro chiaro. Una ventina di
tavoli con tovaglie a quadretti rossi e bianchi. In fondo, accanto alla porta
della cucina, il tavolo dove troneggiava il proprietario.
Per una buona ora i pittori disputarono sulla disposizione dei quadri.
Tanguy non sapeva più a che santo raccomandarsi. Il proprietario
cominciava ad arrabbiarsi, perché presto sarebbero arrivati gli avventori e
c’era un caos spaventoso. Seurat ricusava decisamente di lasciar attaccare i
suoi quadri al disopra degli altri, perché l’azzurro della parete faceva
naufragare l’azzurro dei suoi cieli. Cézanne non voleva saperne di lasciare
le sue nature morte accanto ai «miserabili cartelloni» di Lautrec. Rousseau
era offeso perché volevano appendere le sue opere alla parete in fondo,
vicino all’uscio che dava in cucina. Lautrec pretendeva che una sua grande
tela venisse esposta nel gabinetto.
— In tutta la giornata — affermava — è quello il momento in cui un
uomo è più disposto alla contemplazione.
Disperato, Tanguy ricorse a Vincent. — Sentite. Prendete questi due
franchi, se non bastano aggiungete qualcosa voi, e portateli tutti in un bar
qui di fronte. Se riesco ad avere un quarto d’ora di tranquillità, metto tutto a
posto.
Lo stratagemma riuscì. Quando rientrarono in gruppo nel ristorante, la
mostra era in ordine. Cessarono di azzuffarsi e si accomodarono ad
un’ampia tavola. Ogni qualvolta la porta s’apriva, voltavano la testa con un
moto di speranza. I clienti del ristorante non arrivavano mai prima delle sei.
— Guarda Vincent — sussurrò Gauguin a Seurat. — È nervoso come
una prima donna.
— Vuoi che te ne dica una, Gauguin? — saltò su Lautrec. — Sono
disposto a scommettere con te il prezzo del pranzo che venderò un quadro
prima di te.
— Accettato.
— E con te, Cézanne — disse ancora Lautrec — sono pronto a
scommettere tre contro uno.
A quella provocazione Cézanne arrossì di sdegno, e tutti risero di lui.
— Ricordatevi — li avvertì Vincent — che l’incarico della vendita
spetta esclusivamente al Père Tanguy. Quindi nessuno si metta a contrattare
con gli acquirenti.
— Ma come mai non arrivano? — domandò Rousseau. — È tardi.
Di mano in mano che le lancette dell’orologio a pendolo del ristorante
s’avvicinavano alle sei, il gruppo diventava sempre più nervoso. Gli scherzi
cessarono. I pittori non staccavano gli occhi dalla porta, soggiogati da
un’atmosfera di tensione.
— Non mi ha fatto questo effetto nemmeno la prima volta che ho
esposto agli «Indépendants», davanti a tutti i critici di Parigi — mormorò
Seurat.
— Guardate, guardate quell’uomo che attraversa la strada! — bisbigliò
Rousseau. — Viene certamente qui. È un avventore.
L’uomo passò davanti al ristorante e scomparve. Al pendolo scoccarono
le sei. All’ultimo rintocco la porta s’apri ed entrò un manovale mal vestito,
con le spalle piegate dalla stanchezza.
— Ora vedremo cosa succede — disse Vincent.
Il manovale s’avvicinò con passo pesante ad un tavolo situato dall’altra
parte della sala, attaccò il cappello e si sedette. I sei pittori lo osservavano
intenti, protesi. L’uomo esaminò la lista dei cibi, ordinò il plat du jour e un
momento dopo stava ingurgitando cucchiaiate di minestra senza nemmeno
alzare gli occhi.
— Tiens, c’est curieux! — fece Vincent.
Entrarono poi due operai. Risposero con un grugnito al «Buona sera»
del proprietario, si lasciarono cadere sulle prime due sedie che trovarono e
subito si lanciarono in una feroce disputa in seguito a qualcosa accaduto
durante la giornata.
A poco a poco il ristorante si andava affollando. Una clientela
prevalentemente maschile. Sembrava che ognuno avesse già il suo tavolo
abituale. La prima cosa che attirava la loro attenzione era il menu; una volta
serviti, si davano a mangiare con accanita concentrazione senza alzar più la
testa. Poi accendevano la pipa, chiacchieravano, aprivano il giornale della
sera e s’immergevano nella lettura.
— Adesso i signori desiderano mangiare? — domandò il cameriere
verso le sette.
Nessuno rispose. Il cameriere s’allontanò. Entrò una coppia.
Mentre l’uomo appendeva il cappello all’attaccapanni, notò una tigre di
Rousseau che sbirciava attraverso gli alberi d’una giungla. L’additò alla
compagna. I pittori s’impietrirono. Rousseau si sollevò dalla sedia. La
donna disse qualcosa sottovoce e rise. Poi i due si sedettero e si
sprofondarono avidamente nell’esame della lista dei cibi, con le teste
vicine.
Alle otto meno un quarto il cameriere portò in tavola la minestra senza
più consultare i pittori. Nessuno la toccò. Quando diventò fredda, il
cameriere la riportò via. Ed ecco il plat du jour. Lautrec si mise a tracciar
geroglifici nella salsa, con la forchetta. Soltanto Rousseau ebbe la forza di
mangiare. Tutti, perfino Seurat, vuotarono la propria caraffa di acido vino
rosso. L’aria era densa e calda: odore di cibi, odore di gente che aveva
lavorato e sudato tutto il giorno sotto la sferza del sole.
Uno dopo l’altro i clienti pagavano il conto, rispondevano al «Bonsoir»
del proprietario e filavano via.
— Mi dispiace, signori — disse il cameriere — ma sono le otto e
mezzo, e dobbiamo chiudere.
Il Père Tanguy staccò i quadri dai muri e li portò fuori. Poi s’avviò
verso casa, spingendo il carretto per le vie che lentamente s’andavano
oscurando.

12.
Dalle gallerie d’arte era svanito per sempre lo spirito del vecchio Goupil
e dello zio Vincent Van Gogh. Era subentrata una mentalità diversa: ora si
tendeva a vendere i quadri come un qualsiasi altro articolo commerciale,
scarpe o aringhe. Theo si sentiva continuamente incitare dai proprietari
della galleria a fare incassi più forti e a vendere pitture più dozzinali.
— Senti, Theo — gli diceva Vincent. — Perché non vieni via?
— Anche gli altri mercanti d’arte sono della stessa forza — rispondeva
stancamente Theo. — Eppoi è tanto tempo che sono lì. Meglio non
cambiare.
— Devi venir via. Devi, ti dico. Ogni giorno ti trovo più depresso. Non
preoccuparti di me. In qualche modo me la caverò. Di tutti i giovani che
lavorano in questo campo, tu sei il più quotato, il più noto. E godi tante
simpatie. Perché non apri una galleria tua?
— Oh, Dio, siamo daccapo?
— Ecco, ho un’idea meravigliosa. Apriremo una galleria d’arte
comunista. Noi tutti ti daremo i nostri quadri: il ricavo globale verrà diviso
in parti uguali. Con un po’ di buona volontà, tra tutti, possiamo
raggranellare la somma necessaria per aprire un piccolo negozio qui a
Parigi; nello stesso tempo affitteremo una casa in campagna, dove vivere e
lavorare tutti insieme. L’altro giorno Portier ha venduto un Lautrec, il Père
Tanguy ha smerciato parecchi Cézanne. Sono sicuro che attireremmo tutti
gli appassionati dell’arte nuova. Del resto, per mandare avanti la casa là in
campagna non ci vorrà tanto denaro. Si tratta semplicemente di abitare tutti
insieme, invece di tenere tanti alloggi qui a Parigi.
— Vincent, io ho la testa che scoppia. Mi lasci andare a dormire?
— No, dormirai domenica. Ascoltami… Ma dove vai? Bene, svestiti
pure, io continuerò a parlare. Ecco, mi siedo qui alla testa del letto…
Dunque, dal momento che in quella galleria ti rodi soltanto i pugni, mentre
tutti i giovani pittori di Parigi sono disposti ad attuare questo progetto e un
po’ di denaro si può facilmente trovare…
La sera dopo, insieme a Vincent arrivarono il Père Tanguy e Lautrec.
Theo aveva tanto sperato che Vincent passasse la serata fuor di casa. Gli
occhi del Père Tanguy saltellavano dall’eccitazione.
— Monsieur Van Gogh, Monsieur Van Gogh, è un’idea stupenda.
Dovete realizzarla. Io cedo il mio negozio e vengo in campagna con
voialtri. Preparerò i colori, tenderò le tele, costruirò i telai e le cornici. Mi
accontento del vitto e dell’alloggio.
Sospirando, Theo posò il libro che stava leggendo.
— Dove contate di trovare i fondi necessari per avviare un’impresa di
questo genere? I quattrini che ci vogliono per aprire un negozio, affittare
una casa e dar da mangiare a tutti?
— Ecco, li ho io! — esclamò trionfante il Père Tanguy. —
Duecentoventi franchi. Tutti i miei risparmi. Prendeteli, Monsieur Van
Gogh. Vi aiuteranno a dar l’avvio alla nostra colonia.
— Lautrec, tu sei un uomo di buonsenso. Che ne dici di tutta questa
assurdità?
— Per me è un’ottima idea. Allo stato attuale delle cose ci troviamo a
lottare non solo contro tutta Parigi, ma anche tra noi stessi. Formando
invece un fronte unito, compatto…
— Benissimo. Tu sei ricco. Ci aiuterai?
— Ah, no. Se la colonia venisse sussidiata, non avrebbe più scopo. Io
contribuirò con duecentoventi franchi, come Tanguy.
— Ma è una follia! Se voialtri v’intendeste un poco d’affari…
Il Père Tanguy balzò avanti, gli afferrò la mano. — Mio caro Monsieur
Van Gogh, vi scongiuro, non chiamatela una follia. È un’idea luminosa. E
voi avete il dovere, semplicemente il dovere…
— Ormai non ci scappi più, Theo — disse Vincent. — Sei nelle nostre
mani. Raccoglieremo i fondi e faremo di te il nostro capo. Ormai hai già
bell’e dato l’addio alla galleria. Tutto finito, con quei signori. Adesso sei il
direttore della Colonia Artistica Comunista.
Theo si passò una mano sugli occhi.
— Mi sembra già di vedermi, a dirigere un branco d’animali selvaggi
come voi!
Rincasando la sera dopo, Theo si trovò l’abitazione invasa da una
schiera di pittori smaniosi. In un’aria tutta azzurra di fumo di tabacco a
buon mercato si scontravano voci turbolente. Vincent sedeva su un fragile
tavolino in mezzo alla stanza, in funzione di maestro delle cerimonie.
— No, no! — gridava. — Nessuna paga, nessun stipendio.
Assolutamente niente denaro. Dal primo all’ultimo giorno dell’anno non
vedremo mai il becco d’un quattrino. Theo venderà la nostra produzione e
noi riceveremo vitto, alloggio e i materiali per lavorare.
— E che ne faremo di coloro i cui quadri non si vendessero mai? —
domandò Seurat. — Fino a quando continueremo a mantenerli?
— Finché vorranno restare a lavorare con noi.
— Magnifico — borbottò Gauguin. — Vedremo arrivarci tra i piedi tutti
i dilettanti d’Europa.
— Ecco Monsieur Van Gogh! — urlò il Père Tanguy, scorgendo Theo
appoggiato contro la porta. — Tre urrà al nostro direttore!
— Urrà! Urrà! Urrà!
Tutti erano in preda a un’eccitazione enorme. Rousseau voleva sapere se
nella colonia avrebbe potuto continuare a dar lezioni di violino. Anquetin
rivelò che doveva tre mesi d’affitto e che quindi avrebbero fatto bene a
sbrigarsi a trovare la casa in campagna. Cézanne insisteva sul fatto che ad
un individuo doveva essere permesso di spendere i suoi quattrini, se ne
aveva; mentre Vincent gridava: — No, sarebbe la fine del nostro
comunismo. Dobbiamo mettere tutto in comune, e dividercelo in parti
uguali. — Lautrec voleva sapere se si potessero portare donne in casa.
Gauguin pretendeva che ognuno avesse l’obbligo di dare almeno due quadri
al mese.
— Allora non vengo — protestò Seurat. — Io impiego un anno a
dipingere un quadro di grandi proporzioni.
— E per i materiali? — chiese Tanguy. — Dovrò dare a ciascuno ogni
settimana la stessa quantità di colori e di tela?
— Ma no! — gridò Vincent. — Ognuno avrà i materiali che gli
occorrono, né di più né di meno. Lo stesso che per il cibo.
— Sta bene, ma come si farà per il denaro che avanza, quando la nostra
produzione comincerà a rendere? A chi andranno i profitti?
— A nessuno. Appena messo un po’ di denaro da parte, prenderemo
una casa in Bretagna. Poi un’altra in Provenza. Ben presto avremo case in
tutta la Francia e potremo spostarci da una regione all’altra.
— E per i viaggi in ferrovia? Prenderemo i soldi dal fondo profitti?
— S’intende. Piuttosto, quanti viaggi potremo fare? Chi dovrà decidere
su questo punto?
— Supponiamo che a un certo momento ci troviamo in troppi. Chi
dovrà star fuori al freddo, me lo sapete dire?
— Theo, Theo, tu che sei l’impresario e il direttore di tutta la faccenda,
parla, spiegaci tutto. Potrà venire chiunque ad aggregarsi a noi? O la società
ha un organico limitato? Dovremo dipingere secondo un dato sistema?
Avremo dei modelli laggiù?
La riunione si sciolse all’alba. Gli inquilini dell’alloggio di sotto erano
sfiniti a furia di picchiare sul soffitto con manici di scopa. Theo si mise a
letto verso le quattro; ma Vincent, il Père Tanguy e alcuni dei più entusiasti
gli fecero cerchio intorno, sollecitandolo a licenziarsi per il primo del mese.
L’entusiasmo andò crescendo col passar delle settimane. Il mondo
artistico di Parigi si divise in due campi. I pittori affermati parlavano dei
fratelli Van Gogh come di due matti. Gli altri seguivano gli sviluppi di quel
nuovo esperimento con inesauribile interesse.
Vincent parlava e lavorava come un dannato, giorno e notte. C’erano
tanti e poi tanti particolari da fissare, tante questioni da risolvere: come
trovare i fondi, dove aprire il negozio, a quali criteri attenersi in materia di
prezzi, quali artisti accogliere nel gruppo, a chi affidare la direzione della
casa di campagna, quali regole stabilire per la convivenza. Quasi
controvoglia, Theo finiva per lasciarsi trascinare anche lui in
quell’atmosfera d’eccitazione febbrile. Nell’appartamento della Rue Lepic
c’era ressa ogni sera. Venivano giornalisti per trovar materia di piacevoli
articoli. Venivano critici per discutere il nuovo movimento. Da tutti gli
angoli della Francia, arrivavano pittori che chiedevano d’essere ammessi
nella nuova organizzazione.
Se Theo era il re, Vincent era il primo ministro. Redigeva innumerevoli
progetti, statuti, bilanci, richieste di fondi, codici e regolamenti, manifesti
per i giornali, opuscoli per informare l’Europa dei fini che si proponeva la
Colonia Artistica Comunista.
Aveva tanto da fare che non dipingeva più.
Quasi tremila franchi affluirono nelle casse dell’organizzazione. I pittori
davano fin l’ultimo franco che potevano mettere da parte. Venne
organizzata una fiera sul Boulevard Clichy, dove ogni pittore portò i suoi
quadri strillando a gran voce per trovare acquirenti. Giungevano lettere da
tutte le parti d’Europa, alcune con qualche piccolo biglietto di banca sudicio
e malconcio. I parigini amanti dell’arte salivano nell’appartamento dei
fratelli Van Gogh, si lasciavano contagiare dall’entusiasmo del nuovo
movimento e prima d’andarsene gettavano una banconota nella cassa
aperta. Vincent fungeva da segretario e da tesoriere.
Theo insisteva sul fatto che bisognava raccogliere almeno cinquemila
franchi prima di passare, all’attuazione del progetto. Già aveva adocchiato
un negozio in Rue Tronchet, molto ben situato a suo avviso, e Vincent
aveva scoperto una splendida vecchia casa nella foresta di St.-Germain-en-
Laye, che si poteva avere per un prezzo irrisorio. Nell’appartamento di Rue
Lepic arrivavano incessantemente quadri e quadri di pittori desiderosi di far
parte del sodalizio, finché si giunse al punto che non ci si poteva più
muovere. Era un continuo andare e venire di centinaia di persone che
discutevano, s’accapigliavano, bestemmiavano, mangiavano, bevevano e
gesticolavano furiosamente. Theo ricevette notifica di sfratto.
Alla fine del mese i bei mobili in stile Luigi Filippo erano a pezzi.
Vincent non trovava nemmeno più il tempo di pensare alla tavolozza.
Lettere da scrivere, gente da incontrare, case da andare a vedere, entusiasmi
da alimentare in tutti i pittori e i dilettanti di cui faceva la conoscenza. A
furia di parlare era diventato rauco. Negli occhi gli divampava un’energia
febbrile. Mangiava a strappi, non trovava quasi più il tempo di dormire.
Doveva continuamente muoversi, muoversi, muoversi.
Verso il principio della primavera, i cinquemila franchi erano stati
raccolti. Theo intendeva licenziarsi il primo del mese successivo. Aveva
deciso di aprire senz’altro il negozio in Rue Tronchet. Vincent depositò una
piccola caparra per la casa di St.-Germain. Theo, Vincent, Tanguy, Gauguin
e Lautrec stesero l’elenco degli artisti designati a far parte, inizialmente,
della colonia. Dalle pile di quadri accatastati nell’appartamento, Theo scelse
quelli che intendeva esporre nella prima mostra. Rousseau e Anquetin
litigarono aspramente per la questione di chi dovesse decorare l’interno
della galleria e chi la facciata. Theo non badava più al fatto che non lo
lasciavano dormire. Adesso era entusiasta come lo era stato Vincent agli
inizi. Lavorava accanitamente per organizzare tutto in modo che la colonia
potesse cominciare a funzionare in estate, e sosteneva interminabili
discussioni con Vincent per stabilire se la seconda casa dovesse essere presa
sulle coste dell’Atlantico o del Mediterraneo.
Una mattina Vincent si mise a letto verso le quattro, completamente
esausto. Theo non lo svegliò. Dormì fino a mezzogiorno e si svegliò fresco,
ristorato. Prese ad aggirarsi per lo studio. Sul cavalletto c’era una tela in
attesa da parecchie settimane. I colori sulla tavolozza, secchi, screpolati,
coperti di polvere. I tubetti, presi a calci, erano andati a finire negli angoli. I
pennelli erano sparpagliati da ogni parte, con i peli ridotti a croste.
Un’intima voce gli domandò sommessamente: «Un momento, Vincent.
Sei un pittore, o sei un organizzatore comunista?».
Afferrò bracciate di quadri male assortiti e li portò nella stanza di Theo,
accatastandoli sul letto. Nello studio lasciò soltanto le sue tele. Le fece
passare sul cavalletto una dopo l’altra, rosicchiandosi le unghie mentre le
esaminava con occhio critico.
Sì, aveva progredito. Pian piano, la sua tavolozza s’era schiarita,
aprendosi faticosamente la via ad una cristallina luminosità. E non si
scorgeva più traccia d’imitazione. Su queste tele non si potevano più
scoprire gli influssi dei suoi amici. S’accorse per la prima volta d’aver
conseguito una tecnica personalissima. La sua pittura non rassomigliava a
nessun’altra di quante ne conosceva. Nemmeno lui avrebbe saputo dire
come fosse giunto a questi risultati.
Aveva assimilato l’impressionismo attraverso il filtro del proprio
temperamento ed era quasi arrivato ad uno stranissimo modo d’espressione.
Poi, improvvisamente, s’era fermato.
Mise sul cavalletto le sue tele più recenti. A un certo punto per poco non
si lasciò sfuggire un grido. Aveva quasi, quasi afferrato qualcosa! I suoi
quadri cominciavano a rivelare un metodo ben definito, una specie di nuovo
balzo aggressivo, con le armi che s’era forgiate nel corso dell’inverno.
Quelle settimane di sosta gli consentivano ora di osservare la propria
produzione con un certo distacco, in una prospettiva limpida e chiara. Vide
che stava sviluppando una tecnica impressionistica tutta sua.
Si guardò attentamente allo specchio. Barba da sfrangiare, capelli da
tagliare, camicia sporca, pantaloni gualciti e spenzolanti come stracci. Si
stirò il vestito, indossò una camicia di Theo, prese dalla cassa della
comunità un biglietto da cinque franchi e andò dal barbiere. Quando fu ben
ravviato si diresse, cogitabondo, verso la Galleria Goupil, sul Boulevard
Montmartre.
— Theo, puoi uscire con me un momento?
— Che c’è?
— Prenditi il cappello. C’è da queste parti un caffè dove nessuno ci
possa scoprire?
Quando furono seduti in una saletta in fondo al caffé, in un angolo
appartato e tranquillo, Theo osservò: — Sai, Vincent, che da un mese a
questa parte è la prima volta che posso scambiare quattro parole con te a tu
per tu?
— Lo so. Temo d’aver fatto una sciocchezza madornale.
— Cioè?
— Dimmi francamente: sono un pittore? O sono un organizzatore
comunista?
— Spiegati meglio.
— Mi sono affaccendato tanto ad organizzare questa colonia, che non
ho più trovato il tempo di dipingere. E una volta occupata la casa di St.-
Germain, non avrò più un minuto per me.
— Capisco.
— Io voglio dipingere, Theo. Non ho affrontato questi sette anni di
fatiche e di sforzi per diventare il sovrintendente e l’amministratore d’una
comunità di pittori, tutto preso dell’ingranaggio delle faccende di casa.
Credimi, ho una nostalgia tremenda dei miei pennelli, una nostalgia tale che
quasi quasi partirei da Parigi col primo treno.
— Ma adesso, dopo tutto ciò che abbiamo…
— Ho fatto una sciocchezza madornale, ti ripeto. Posso farti una
confessione?
— Parla.
— La vista di altri pittori mi dà ormai una nausea maledetta. Sono
mortalmente stufo delle loro chiacchiere, delle loro teorie, delle loro eterne
dispute. Oh, non farmi quel sorriso, lo so che ho fatto anch’io la mia parte.
È appunto per questo. Che cosa diceva Mauve? O si fa il pittore, o si
chiacchiera di pittura; ma non si possono fare contemporaneamente le due
cose. Ebbene, Theo, mi hai mantenuto per sette anni semplicemente per
sentirmi esporre delle idee?
— Eppure, hai lavorato magnificamente per la colonia.
— Sì, ma adesso che siamo pronti a trasferirci laggiù m’accorgo che
non ho nessuna voglia d’andarci. Finirei per non far più niente. Non so se
riuscirò a farmi comprendere, Theo… Ma sì che mi comprenderai. Quando
ero solo, nel Brabante e all’Aia, avevo stima di me stesso. Ero un uomo allo
sbaraglio, in lotta con tutto il mondo. Ero un artista, l’unico artista vivente.
Tutto ciò che dipingevo, aveva valore. Mi riconoscevo un grande ingegno
ed ero persuaso che il mondo avrebbe detto un giorno: «Che stupendo
pittore!».
— E adesso?
— Adesso, ahimé, sono appena uno dei tanti. Vedo intorno a me
centinaia di pittori. Da qualunque parte mi volti, ravviso in un altro la mia
caricatura. Pensa a tutte quelle croste che ci sono nel nostro appartamento,
mandate da pittori che aspirano a far parte della colonia. Anch’essi si
ritengono destinati a diventare grandi artisti. Ebbene, forse sono anch’io
come loro. Come posso sapere? Con che cosa posso ora sostenere il mio
coraggio? Prima di venire a Parigi ignoravo che esistessero tanti pazzi i
quali s’illudevano per tutta la vita. Adesso lo so. Ed è una cosa che fa male.
— Ma personalmente non ti riguarda.
— Forse no. Ma non riuscirò mai a liberarmi completamente dal
dubbio. Quando sono solo, per la campagna, dimentico che ogni giorno si
dipingono migliaia di quadri. Immagino che il mio sia l’unico e che
rappresenti un bel dono al mondo. Continuerei a dipingere anche se sapessi
che la mia pittura non val niente: ma intanto questa… quest’illusione
d’artista mi sostiene, mi aiuta. Comprendi?
— Sì.
— Eppoi, io non sono un pittore di città. Non è questo il mio posto. Io
sono un pittore contadino. Voglio trovare un sole così ardente che bruci
tutto in me, fuorché il desiderio di dipingere.
— Vuoi dunque… lasciare Parigi?
— Sì. Devo farlo.
— E la colonia?
— Io mi ritiro. Ma tu devi andare avanti.
Theo scosse la testa. — Senza di te, no.
— Perché?
— Non so. Lo facevo soltanto per te. Perché tu volevi così.
Alcuni istanti di silenzio.
— Non ti sei ancora licenziato, Theo?
— No. Intendevo farlo il primo del mese.
— Potremo, immagino, restituire il denaro a chi ce l’ha dato.
— Certo. Quando ti proponi di partire?
— Non prima che la mia tavolozza si sia ben schiarita.
— Capisco.
— Allora me ne andrò. Verso il Sud, probabilmente. Non so dove. Mi
preme essere solo. E dipingere, dipingere, dipingere. Da solo.
Passò il braccio intorno alle spalle del fratello con un gesto di rude
affetto.
— Theo, dimmi che non mi disprezzi per il fatto di vedermi mandar
tutto al diavolo, così, dopo essermi tanto impegnato e agitato.
— Disprezzarti?
Theo sorrise con infinita tristezza. Batté un colpetto sulla mano posata
sulla sua spalla.
— No… no, figurati. Ti comprendo. E credo che tu abbia ragione. Be’,
vecchio mio… finisci tranquillamente di bere. Io devo tornare alla galleria.

13.

Vincent continuò a lavorare solo per un buon mese; ma sebbene la sua


tavolozza fosse ora quasi chiara e leggera come quella dei suoi amici,
sembrava non gli riuscisse di trovare una forma d’espressione pienamente
soddisfacente. Dapprima diede la colpa alla crudezza impetuosa del disegno
e cercò quindi di lavorare lentamente, a freddo. Il meticoloso processo della
coloritura rappresentava per lui una tortura, ma una tortura peggiore ancora
era quella che provava dopo, guardando il quadro. S’industriò di celare il
lavoro del pennello levigando le superfici; provò a far uso di colori lunghi,
molto stemperati, anziché densi e ricchi. Tutto inutile. Sempre più sentiva di
procedere tastoni verso una forma d’espressione che non soltanto sarebbe
stata unica, esclusivamente sua, ma gli avrebbe consentito di dire tutto ciò
che voleva. E tuttavia non riusciva ad afferrarla bene.
— Stavolta ci sono quasi arrivato — diceva una sera al fratello. —
Quasi, ma non completamente. Se almeno potessi scoprire l’ostacolo che
m’intralcia…
— Credo di potertelo rivelare io — rispose Theo prendendogli in mano
la tela.
— Davvero? E che cos’è?
— Parigi.
— Parigi?
— Sicuro. Parigi ha rappresentato per te un campo d’esperienze, una
scuola. Finché resti qui, sarai sempre e soltanto un apprendista. Ricordi la
nostra scuola lassù in Olanda, Vincent? Imparavamo come gli altri facevano
certe cose e come dovevano essere fatte, ma praticamente non facevamo
mai nulla per conto nostro.
— Vuoi dire che qui non trovo soggetti rispondenti alla mia sensibilità?
— No. Voglio dire che non ti riesce di romperla nettamente con i tuoi
maestri. Io mi troverò molto solo senza di te, ma mi rendo conto che hai
bisogno d’allontanarti da Parigi. In qualche angolo del mondo c’è
certamente un posto che tu potrai far tutto tuo. Dove sia non so, sta a te
trovarlo. Ma indubbiamente devi staccarti da questa scuola di Parigi per
raggiungere una piena maturità artistica.
— Sai, vecchio mio, quale è il paese a cui penso continuamente, da un
po’ di tempo?
— Quale?
— L’Africa.
— L’Africa? Ma no!
— Sicuro. In tutto questo lungo e freddo inverno non ho fatto altro che
pensare al sole, al bruciante sole africano. Là Delacroix ha trovato i suoi
colori, e là io potrei forse trovare me stesso.
— L’Africa è tanto lontana, Vincent — osservò Theo, meditabondo.
— Voglio il sole. Lo voglio nel suo più terribile calore e potere. Per
tutto l’inverno ho avuto la sensazione che mi attirasse verso il Sud, come
un’enorme calamita. Prima di venir via dall’Olanda, posso dire di non aver
mai saputo che esiste il sole. Ora so che senza sole non esiste pittura. Forse
ciò che mi occorre per realizzare completamente me stesso è proprio il sole.
L’inverno parigino mi è penetrato fin nelle ossa col suo gelo, e penso che un
poco di quel gelo abbia colpito anche la mia tavolozza e i miei pennelli. Io
non sono mai stato un tipo che fa le cose a metà: se affronto un’impresa, ci
metto tutta l’anima. Quando il sole africano avesse eliminato in me ogni
traccia di gelo e infiammata la mia tavolozza…
— Hm… Bisognerà che ci pensiamo su. Forse hai ragione.
Paul Cézanne diede una festa d’addio ai suoi amici. Aveva persuaso suo
padre a comprare il tratto di terreno sulla collina prospiciente Aix e tornava
nella sua città per costruirsi uno studio lassù.
— Lascia Parigi, Vincent, e vieni in Provenza. Non ad Aix, perché è
territorio mio, ma nelle vicinanze. Là il sole è più caldo e più limpido che in
qualsiasi altra parte del mondo. In Provenza troverai luce e colore come non
ne hai mai visto altrove. Io vi rimarrò per tutto il resto della mia vita.
— Il primo che lascerà Parigi, dopo di te, sarò io — disse Gauguin. —
Ritorno ai Tropici. Se credi d’avere veramente il sole in Provenza, Cézanne,
dovresti venire alle Isole Marchesi. Là il sole e il colore sono tanto primitivi
quanto la gente.
— Voialtri dovreste aggregarvi agli adoratori del sole — affermò
Seurat.
— Per conto mio — dichiarò Vincent — credo che andrò in Africa.
— Bene, bene! — mormorò Lautrec. — Abbiamo già bell’e pronto un
altro piccolo Delacroix.
— Dici sul serio, Vincent? — domandò Gauguin.
— Sì. Oh, probabilmente non subito. Penso che dovrei prima fermarmi
un poco in Provenza per abituarmi al sole.
— A Marsiglia non ti puoi fermare — l’avverti Seurat. — Quella città
appartiene a Monticelli.
— E non posso andare ad Aix — aggiunse Vincent — perché è di
Cézanne. Monet ha già sfruttato Antibes, e sono anch’io d’accordo che
Marsiglia è sacra a «Fada». C’è nessuno che sappia indirizzarmi?
— Aspetta! — esclamò Lautrec. — So io il posto che fa per te. Hai
pensato ad Arles?
— Arles? L’antica colonia romana, vero?
— Appunto. È situata sul Rodano, a due ore da Marsiglia. Ci sono stato
una volta. Ha una campagna così ricca di colore da far sembrare anemiche
le scene africane di Delacroix.
— Davvero? C’è un bel sole?
— Sole? Tanto da farti impazzire. Eppoi dovresti vedere le arlesiane: le
più stupende donne del mondo. Hanno i lineamenti puri e delicati delle loro
antenate greche, uniti alla corporatura robusta dei conquistatori romani.
Eppure, strano, hanno un aroma inconfondibilmente orientale: dovuto,
immagino, all’invasione saracena del secolo ottavo. È ad Arles, Vincent,
che fu trovata la vera Venere. E la modella fu un’arlesiana.
— Tutto questo dà l’impressione che le arlesiane debbano essere
veramente affascinanti.
— Lo sono. E aspetta poi d’aver provato il mistral.
— Il mistral? Che cos’è?
— Vedrai tu stesso! — rise Lautrec.
— La vita costa cara?
— All’infuori del vitto e dell’alloggio, che non costano molto, non
sapresti dove spendere un soldo. Dal momento che hai tanta voglia di
lasciar Parigi, perché non provare Arles?
— Arles — mormorò Vincent tra sé. — Arles e le arlesiane… Mi
piacerebbe dipingere quelle donne.
Parigi l’aveva intossicato. A Parigi aveva bevuto troppi absinthes,
fumato troppo, e troppo s’era disperso in attività esteriori. Era eccitato e
stanco. Sentiva un incalzante bisogno di andar via, d’esser solo, di rifugiarsi
in qualche angolo tranquillo e silenzioso dove trasfondere nel lavoro tutte le
sue energie. Aveva soltanto bisogno di sole per maturare. Aveva la
sensazione di non essere più lontano dal vertice culminante della sua vita,
da quella pienezza di potenza creatrice cui aveva teso, disperatamente
lottando, nel corso di questi otto lunghi anni. Sapeva che tutto ciò che aveva
dipinto finora non contava; forse gli restava soltanto un breve tratto di
strada da percorrere, per creare quei pochi quadri che avrebbero giustificato
l’intera sua esistenza.
Come aveva detto Monticelli? «Dobbiamo affrontare dieci anni di duro
lavoro, per giungere infine a poter dipingere due o tre ritratti d’autentico
valore».
A Parigi aveva tutto: sicurezza per il domani, amicizia, affetto. Con
Theo non gli mancava nulla. Suo fratello non gli avrebbe mai lasciato patir
la fame, non si sarebbe mai fatto chiedere due volte l’occorrente per
lavorare, non gli avrebbe mai negato nulla di ciò che egli poteva dare, meno
di tutto una piena e perfetta comprensione.
Sapeva che fin dal momento in cui avesse lasciato Parigi i suoi guai
sarebbero ricominciati. Lontano da Theo non sarebbe stato capace di
amministrarsi saggiamente. Quante volte gli sarebbe nuovamente capitato
di trovarsi senza nulla da mangiare, di trascinarsi per caffè di terz’ordine e
bettole miserabili, di rodersi i pugni per l’impossibilità di comprare i colori,
di sentirsi soffocar le parole in gola per non avere una persona amica a cui
rivolgersi…
— Arles ti piacerà — gli garantì Lautrec il giorno dopo. — È un posto
tranquillo, non avrai nessuno che ti scocci. Un caldo secco, colori
meravigliosi. È l’unico posto d’Europa dove si possa trovare una tersità
d’aria tipicamente giapponese. Un paradiso, per un pittore. Se non fossi così
legato a Parigi, ci andrei anch’io.
Quella sera Theo e Vincent si recarono ad un concerto di musiche
wagneriane. Tornarono a casa presto e passarono piacevolmente un’ora
insieme, rievocando le memorie della loro fanciullezza a Zundert. La
mattina dopo Vincent preparò il caffè per Theo e, quando suo fratello uscì
di casa per andare alla galleria, fece nel piccolo appartamento la pulizia più
radicale e accurata che vi si fosse mai vista. Appese alle pareti un quadro di
granchiolini rosei, un ritratto del Père Tanguy col suo cappello di paglia, il
Moulin de la Gaiette, un nudo femminile visto di dorso e uno studio dei
Champs-Elysées.
Quella sera, rincasando, Theo trovò sul tavolo della stanza di soggiorno
un biglietto.

«Caro Theo,
«sono partito per Arles. Appena arrivato, ti scriverò.
«Ho attaccato alle pareti alcuni miei quadri, perché tu non mi
dimentichi.
«Con una affettuosa stretta di mano,
Vincent».
PARTE SESTA

ARLES

1.

Vincent aprì bruscamente gli occhi, colpiti dal sole arlesiano. Il sole era
una vorticosa e liquida sfera di fuoco d’un color giallo limone, che
esplodeva in un secco cielo azzurro e riempiva l’aria d’una luce accecante.
Il tremendo calore e l’intensa chiarità creavano un mondo nuovo,
inconsueto.
Balzato giù dalla carrozza di terza classe in quell’ora mattutina, Vincent
infilò la strada serpeggiante che dalla stazione conduceva alla Place
Lamartine: la piazza del mercato chiusa tra la sponda del Rodano e una fila
di caffè ed albergucci. Arles si stendeva dinanzi, strusciando contro il fianco
d’una collina come appiccicatavi dalla cazzuola d’un muratore,
sonnacchiosa e stordita nella vampa tropicale del sole.
Quando si trattava di cercarsi un alloggio, Vincent procedeva con la
massima indifferenza. Entrò nel primo albergo della Place Lamartine, l’
«Hotel de la Gare», e fissò una stanza. Un pretensioso e volgare letto
d’ottone, una catinella con una brocca screpolata, una sedia zoppicante. Il
proprietario vi aggiunse una tavola sverniciata. Mancava lo spazio per
sistemare il cavalletto, ma Vincent si riprometteva di lavorare tutto il giorno
all’aperto.
Gettò la valigia sul letto e s’avvicinò fuori per vedere la città. Dalla
Place Lamartine si poteva raggiungere per due vie diverse il centro di Arles.
A sinistra passava una strada circolare, riservata ai veicoli, che sfiorava
tutt’intorno la città e saliva pian piano verso la sommità della collina
rasentando nel suo percorso l’antico foro romano e l’anfiteatro. Vincent
scelse la via più breve: un labirinto di stradicciole che s’inerpicavano verso
l’assolata Place de la Mairie, sfiorando freschi cortili lastricati in pietra e
spiazzi quadrangolari che parevano rimasti tali e quali dall’epoca
dell’occupazione romana. Per tener lontana la sfera del sole, le viuzze si
restringevano a tal segno che Vincent, aprendo le braccia, arrivava a toccare
con le punte delle dita le case allineate ai due margini. E per non lasciarsi
prendere d’infilata dalle raffiche implacabili del mistral, queste viuzze si
snodavano su per il pendio di un dedalo sfibrante e tortuoso, senza mai
formare un rettilineo che superasse i dieci metri di lunghezza. Mucchi di
rifiuti e spazzature, bambini sudici sui portoni, dovunque un che di sinistro
e di opprimente.
Vincent uscì dalla Place de la Mairie, raggiunse attraverso una viuzza
breve lo stradone alle spalle della città, s’aggirò per il piccolo parco e prese
a scendere per il fianco della collina verso l’anfiteatro romano.
Arrampicandosi di gradinata in gradinata come una capra, ne raggiunse la
sommità. Si sedette su un blocco di pietra con le gambe spenzolanti su un
forte strapiombo, accese la pipa e lasciò spaziare lo sguardo sul dominio di
cui si sentiva padrone e signore.
La città sottostante si riversava bruscamente verso il Rodano come una
caleidoscopica cascata. I tetti delle case formavano un fitto e intricato
disegno. Originariamente coperti di tegole rosse, sotto i dardeggianti raggi
del sole avevano assunto una coloritura variegata, con macchie e strisce che
andavano da una tenuissima tinta limone ad un delicato rosa di conchiglia,
ad un mordente color lavanda, ad un’opaca e densa tinta terrigna.
L’ampio e rapido corso del Rodano disegnava una curva decisa in fondo
alla collina cui s’aggrappava la città, lanciandosi impetuosamente verso il
Mediterraneo. Le acque correvano tra due sponde di pietra. Dall’altra parte
del fiume, Trinquetaille splendeva come una città dipinta. Alle spalle di
Vincent, le montagne: imponenti masse profilate nella chiara luce bianca.
Davanti a lui, un disteso panorama di campi ben coltivati, orti in fiore, il
poggio di Montmajour, fertili valli percorse da migliaia di solchi che
convergevano concordemente verso un remoto punto dell’infinito.
Ma fu il colore della plaga a sbalordirlo, tanto che si passò una mano
sugli occhi. Un cielo così intensamente azzurro, di un’azzurrità così fonda,
ferma e costante, da non sembrar più affatto azzurro, ma senza colore. Il
verde delle campagne che si stendevano sotto i suoi occhi rappresentava
l’essenza del color verde: un verde impazzito. Il fiammeggiante giallo-
limone del sole, il rosso-sangue del terreno, l’urlante bianchezza di una
nuvola solitaria su Montmajour, il sempre rinascente rosa degli orti: un
campionario di colori incredibili. Come presumere di riprodurli? E quando
pure fosse riuscito a trasferirli sulla propria tavolozza, come avrebbe potuto
convincere gli altri che simili colori esistevano realmente? Giallo-limone,
azzurro, verde, rosso e rosa: cinque torturanti gradi di espressione e di
rivelazione per cui trascorreva impetuosamente la natura.
Vincent tornò per lo stradone in Place Lamartine; prese cavalletto tela e
colori, e s’avviò lungo la sponda del Rodano. Da ogni parte i mandorli
cominciavano a fiorire. I bianchi riverberi del sole sull’acqua gli facevano
male agli occhi. Aveva lasciato il cappello all’albergo. Il sole gli faceva
avvampare la testa rossa e gli penetrava nelle carni eliminandone tutto il
freddo di Parigi, tutta la stanchezza, Io scoraggiamento e il tedio che la vita
di città gli aveva lasciato nell’anima.
Dopo aver camminato per un chilometro lungo il corso del fiume trovò
una specie di ponte levatoio su cui passava in quel momento un piccolo
carro che si profilava nettamente contro il cielo sereno. Le acque erano
azzurre come quelle d’una fonte, le rive di color arancione con folte
macchie d’erba verdeggiante. Lavandaie in grembiuli e cuffie multicolori
sciacquavano panni all’ombra di un albero solitario.
Vincent piantò il cavalletto, trasse un lungo respiro e socchiuse gli
occhi. Impossibile afferrare quei colori tenendo gli occhi aperti. I discorsi di
Seurat sul suo puntinismo scientifico, le arringhe di Gauguin sul
decorativismo primitivo, le proposizioni di Cézanne sulle superfici solide,
le teorie di Lautrec sulle linee di colore e i suoi abbandoni ad uno splenetico
odio: tutto cadde di colpo, tutto si sfaldò.
Rimaneva soltanto lui, Vincent Van Gogh.
Rientrò all’albergo verso l’ora del pranzo. Sedette ad un tavolino del bar
e ordinò un assenzio. Era troppo eccitato, troppo sazio d’impressioni e di
sensazioni, per pensare a mangiare. Un signore che sedeva ad un tavolo
vicino osservò gli spruzzi di colore che gli costellavano le mani, la faccia e
il vestito, e attaccò discorso con lui.
— Sono un giornalista parigino. Ho trascorso qui tre mesi a raccogliere
materiale per un libro sulla lingua provenzale.
— Io invece sono arrivato da Parigi soltanto stamattina.
— Già. E avete intenzione di fermarvi parecchio?
— Sì, probabilmente.
— Ebbene, non ve lo consiglio. Arles è la più matta città del globo.
— Che cosa ve lo fa pensare?
— Non lo penso: lo so. Da tre mesi osservo questa gente e, ve lo dico
io, son tutti cervelli balzani. Guardateli negli occhi. In tutta questa zona di
Tarascona non c’è una persona normale, ragionevole, equilibrata!
— Mi sembra tanto strano.
— Tra una settimana sarete d’accordo con me. La zona di Arles è la più
sconquassata di tutta la Provenza. Siete stato in giro per la campagna, avete
visto che cos’è questo sole. Non immaginate quali effetti deve produrre su
questa gente soggetta ogni giorno ai suoi raggi accecanti? Dissecca e
volatizza i cervelli, credetemi. Eppoi il mistral. Non l’avete mai provato?
Ah, caro mio, aspettate d’averne fatto l’esperienza. In questa città
imperversa per duecento giorni all’anno. Se tentate d’uscire in istrada, vi
scaraventa contro i muri. Se siete in campagna, vi sbatte per terra e vi fa
roteare nella polvere. Vi torce i visceri in una maniera tale che vi pare di
non poter resistere un minuto di più. Ho visto quel vento infernale svellere
finestre, sradicare alberi, abbattere siepi, sferzare e sbatacchiare uomini e
bestie da farmi pensare che da un momento all’altro dovesse ridurli in
brandelli. Sono qui da appena tre mesi, e comincio anch’io a diventare un
po’ matto. Domani mattina me la svigno!
— Adesso esagerate, vero? Per quel poco che ho visto, gli arlesiani mi
sono parsi gente perfettamente a posto.
— Per quel poco che avete visto. Aspettate di conoscerli. Sapete qual è
la mia opinione personale?
— Quale? Accettate un absinthe?
— Grazie. Secondo il mio modesto parere, Arles è una città epilettica.
Si eccita, si eccita fino a una tale intensità di eccitazione nervosa da farvi
credere che finirà per dare in un accesso violento di furia, con la schiuma
alla bocca.
— E accade realmente così?
— No. Questo è il fatto più strano. L’esplosione pare sempre
imminente, e non si verifica mai. Da tre mesi m’aspettavo di vedere
scatenarsi una sommossa o spalancarsi un vulcano in Place de la Mairie.
Almeno una dozzina di volte ho avuto l’impressione che gli abitanti
stessero per diventare improvvisamente pazzi furiosi e si tagliassero la gola
l’un l’altro. Ma proprio quando s’è giunti a sfiorare questo punto critico, il
mistral si placa per un paio di giorni e il sole si nasconde dietro le nubi.
— Dunque, se Arles non arriva mai fino alla crisi conclusiva, non potete
chiamarla epilettica, vi pare?
— Infatti. Ma io la chiamo epilettoidale.
— Che significa?
— Sto scrivendo su questo argomento un articolo per il mio giornale di
Parigi. È stato questo studio d’un autore tedesco a suggerirmene l’idea. —
Cavò di tasca una rivista e la passò all’interlocutore. — Alcuni medici
hanno studiato diverse centinaia di casi relativi a persone affette da malattie
nervose che parevano epilessia ma che non si manifestavano mai in accessi
veri e propri. Ecco tracciata in questo grafico la curva dello sviluppo del
nervosismo e dell’eccitazione; ecco qui la spiegazione di ciò che i medici
chiamano tensione volatile. Ebbene, in ognuno di questi casi i soggetti
hanno sofferto di stati febbrili sempre più intensi fino all’età di trentacinque
o trentott’anni. A trentasei, in media, subiscono un violento accesso
epilettico. Poi, in qualche raro caso, ancora una mezza dozzina di
convulsioni; e infine, nello spazio di un anno o due, tutto è finito e non se
ne parla più.
— Infatti è un’età in cui s’è ancora troppo giovani per morire. Un
individuo comincia appena allora ad esercitare un vero dominio su se
stesso.
Il giornalista si rimise in tasca la rivista.
— Vi fermerete per un po’ di tempo in questo albergo? Il mio articolo è
quasi finito; appena sia pubblicato ve ne manderò una copia. In sostanza io
sostengo questo: Arles è una città epilettoidale. Il ritmo delle sue pulsazioni
va crescendo da secoli. La prima crisi s’avvicina. È inevitabile. E si
verificherà ben presto. Assisteremo allora ad una catastrofe orrenda.
Omicidi, incendi, violenze carnali, distruzioni d’ogni specie! Questo paese
non può continuare all’infinito a vivere in uno stato di torturante tensione.
Qualcosa dovrà accadere, e sicuramente accadrà. Io me la svigno prima di
dover vedere la gente con la schiuma alla bocca. E vi consiglierei di fare
altrettanto.
— Grazie, io qui mi trovo molto bene. Ora salgo in camera mia. Ci
vediamo domani mattina? No? Allora, buona fortuna. E non dimenticate di
mandarmi una copia del vostro articolo.
2.

Ogni mattina s’alzava prima dell’alba, si vestiva e camminava per


chilometri e chilometri lungo il corso del fiume o verso l’interno per trovare
un angolo di paesaggio che gli mettesse l’animo in fermento. Tornava ogni
sera con un quadro finito: finito in quanto non ci poteva più far nulla.
Subito dopo cena andava a dormire.
Si trasformò in una cieca macchina da dipingere, che riempiva
d’effervescenti colori una tela dopo l’altra senza saper nemmeno che cosa
facesse. Gli orti erano in fiore. Fu preso da una folle passione di dipingerli
tutti. Non stava più a riflettere, a perdersi in considerazioni tecniche:
semplicemente dipingeva. Otto anni di fatiche, di tormento e di ricerche
prorompevano come in una trionfale esplosione d’energia creativa. Gli
accadeva talvolta di cominciare un quadro ai primi chiarori dell’alba e di
averlo finito verso mezzogiorno. Tornava a grandi passi in città, beveva una
tazza di caffè e munito d’una nuova tela si spingeva in un’altra direzione.
Nessuno gli rivolgeva la parola. Egli non parlava con nessuno.
Impiegava le poche forze lasciategli dalla fatica artistica nel lottare contro il
mistral. Tre giorni alla settimana doveva assicurare il cavalletto a paletti
infissi nel terreno. E tuttavia il cavalletto oscillava avanti e indietro sotto le
raffiche del vento come un lenzuolo steso ad asciugare. A sera Vincent si
sentiva ammaccato e pesto come se avesse subito una scarica di botte.
Andava sempre a testa scoperta. A poco a poco la vampa del sole gli
bruciava i capelli sulla sommità del capo. La notte, disteso sul lettuccio
d’ottone della sua stanza d’albergo, provava la sensazione d’avere la testa
chiusa in una sfera di fuoco. Il sole l’accecava completamente. Non riusciva
più a distinguere il verde delle campagne dall’azzurro del cielo. Ma
rincasando constatava che la tela dipinta nel corso della giornata era come
una sfolgorante e incandescente trascrizione della natura.
Un giorno dipinse un orto col terreno arato di fresco, color lillà, una
siepe rossa e due rosei peschi contro lo sfondo d’un meraviglioso cielo
azzurro e bianco.
«Questo è probabilmente il miglior paesaggio ch’io abbia mai fatto»,
pensò.
Tornato all’albergo, trovò una lettera che lo informava della morte di
Anton Mauve, avvenuta all’Aia. Scrisse sotto i peschi: «Souvenir de Mauve.
- Vincent e Theo»; e spedì immediatamente il quadro alla famiglia del
cugino.
La mattina dopo capitò in un orto di susini in fiore. Mentre stava
lavorando, s’alzò un vento maligno, accanito, che tornava ad intervalli
come le onde del mare, mentre il sole continuava a splendere e i fiori
bianchi scintillavano sui rami. A rischio di vedere da un momento all’altro
il cavalletto e la tela ruzzolare per terra, Vincent s’ostinò a dipingere
ugualmente. Gli tornavano alla memoria i giorni di Scheveningen, quando
soleva lavorare in mezzo alla pioggia, alla tempesta di sabbia, agli spruzzi
d’acqua marina che gli s’avventavano addosso. Sulla tela si veniva
formando un effetto di bianco variato da tonalità gialle, azzurre e lillà.
Quando l’ebbe finita s’accorse che nel quadro c’era un elemento cui non
aveva affatto pensato: il mistral.
«Diranno che l’ho dipinto in istato d’ubriachezza», rise tra sé.
Ricordò un particolare della lettera di Theo ricevuta il giorno prima. In
occasione d’un suo viaggio a Parigi, Mijnheer Tersteeg soffermandosi
davanti ad una tela di Sisley aveva mormorato a Theo: «Per conto mio non
posso fare a meno di pensare che l’autore di questo quadro fosse un po’
brillo».
Che cosa avrebbe dunque detto Tersteeg se avesse potuto vedere i suoi
quadri di Arles? Che egli era affetto da delirium tremens.
La popolazione di Arles si teneva alla larga da lui. Questi arlesiani lo
vedevano uscire dalla città prima del levar del sole, col cavalletto in ispalla,
il mento avidamente proteso, gli occhi accesi d’una febbrile eccitazione. Lo
vedevano tornare con due abissi di fuoco nel volto, la sommità del cranio
rossa come carne cruda, una tela fresca di colore sotto il braccio,
gesticolando da solo. Gli avevano appioppiate un nomignolo. E tutti lo
chiamavano così.
Fou-rou!
«Può darsi che io sia davvero un pazzo dalla testa rossa — pensava
Vincent. — Ma che ci posso fare?».
Il proprietario dell’albergo lo derubava a più non posso. Vincent non
trovava da mangiare, perché ad Arles quasi tutti consumavano i pasti in
casa. I ristoranti erano assai costosi. Li provò tutti, per vedere se gli
riuscisse di trovare almeno un buon piatto di minestra. Niente da fare.
— È poi tanto difficile far cuocere delle patate, Madame?
— Impossibile, Monsieur.
— Avete almeno del riso?
— No, fino a domani.
— E maccheroni?
— Nemmeno da pensarci.
Dovette infine rinunciare ad ogni idea di potersi nutrire in modo
decente. Il sole lo sosteneva e lo riempiva di vigoria, sebbene egli non
dedicasse molta attenzione al proprio stomaco e invece di alimentarlo di
buoni bocconi si limitasse ad ingurgitare absinthe, fumo di tabacco e pagine
del Tartarin di Daudet. Le innumerevoli ore di concentrazione davanti al
cavalletto lo snervavano. Aveva bisogno di eccitanti. L’alcool contribuiva
per parte sua ad accrescere una tensione nervosa già rudemente alimentata
dal mistral e inasprita dal sole.
Con l’avanzare dell’estate, tutto si faceva riarso. Vincent non vedeva
più nient’altro intorno che oro brunito, bronzo e rame, sotto un
incandescente cielo grigiazzurro. Tutto ciò che il sole toccava, assumeva
una tinta giallo-zolfo. Le sue tele erano masse di giallo acceso. Vincent
sapeva che fin dai tempi del Rinascimento questo colore non era più stato
adoperato nella pittura europea, ma non se ne preoccupava. Il giallo passava
incessantemente dai tubetti sulla tela, e ci restava. I suoi quadri erano intrisi
di sole, bruciati dal sole, conciati dal sole e spazzati dal vento.
Convinto che il fare un bel quadro non è impresa più facile che trovare
un diamante o una perla, era scontento di sé e del proprio lavoro, ma gli
restava pur sempre un raggio di speranza che la sua produzione potesse un
giorno attingere un più alto livello di eccellenza artistica. A volte anche
questa speranza assumeva le sembianze di una Fata Morgana. Eppure i soli
momenti in cui si sentisse veramente vivo erano quelli in cui era immerso
nel lavoro. Non aveva più una vita personale. Era semplicemente un
meccanismo, un cieco automa atto a maneggiare pennelli, che la mattina
veniva rifornito di cibo, bevande e colori, e la sera presentava un quadro
finito.
E a quale scopo? Per vendere? Oh, no. Sapeva che nessuno voleva i suoi
quadri. Ma allora, perché questa frenesia di lavoro? Perché costringersi a
dipingere dozzine e dozzine di quadri, quando già sotto il suo miserabile
letto d’ottone non ce ne stavano quasi più?
Vincent non aspirava ormai più al successo. Lavorava perché non
poteva farne a meno, perché il lavoro lo salvava dai pensieri tormentosi,
perché il lavoro lo distraeva. Poteva fare a meno di una moglie, di una casa,
di bambini; poteva fare a meno dell’amore, dell’amicizia e della salute;
poteva fare a meno della tranquillità, degli agi, del cibo; poteva perfino fare
a meno di Dio. Ma non poteva far a meno di una cosa ch’era più grande di
lui, di una cosa ch’era tutta la sua vita: la capacità e la gioia di creare.

3.

Cercò di trovare qualcuno che posasse per lui, ma gli abitanti di Arles
non ne volevano sapere. Pensavano che egli li avrebbe ritratti male e
temevano di incorrere nelle beffe degli amici. Vincent sapeva che, se avesse
dipinto con la grazia levigata e piacevole d’un Bouguereau, costoro non si
sarebbero adontati di lasciarsi ritrarre. Dovette rinunciare all’idea di trovar
modelli e applicarsi esclusivamente al paesaggio.
S’era ormai in piena estate. Il caldo si fece più forte, il vento s’acquetò e
si spense. Vincent lavorava in una luce che andava da un pallido giallo-
zolfo ad un pallido giallo-oro. Pensava spesso a Renoir, alla sua nitida
purezza di linea. Proprio così appariva ogni cosa nella chiara atmosfera
della Provenza: come nelle stampe giapponesi.
Una mattina s’imbattè in una ragazza dalla carnagione color caffè, con i
capelli biondo-cenere, occhi grigi, una camicetta d’un rosso pallido che
metteva in evidenza i seni acerbi, piccoli e sodi. Una creatura semplice
come i campi, virginea in ogni linea del corpo. La madre era invece una
sorprendente figura tutta giallo sporco e blu stinto, campeggiante in pieno
sole contro uno sfondo di sfolgoranti fiori bianchi e giallini. Per un tenue
compenso posarono diverse ore per lui.
Quella sera all’albergo, Vincent si sorprese a pensare alla ragazza dalla
carnagione color caffè. Non riusciva a prender sonno. Sapeva che ad Arles
c’erano dei postriboli; ma si trattava per lo più di posti da cinque franchi,
frequentati dagli zuavi, negri portati ad Arles per essere addestrati e
immessi nell’esercito francese.
Da mesi Vincent non parlava più con una donna, se non per chiedere
una tazza di caffè o un pacchetto di tabacco. Ricordava ora le parole
appassionate di Margot, risentiva sul volto la carezza delle sue dita e delle
sue labbra.
Balzò fuori dal letto, uscì dall’albergo e, attraversata precipitosamente
la Place Lamartine, s’addentrò in una viuzza tra scure masse di case. Dopo
un breve tratto di salita, gli giunse un rumore di voci e di trambusto. Si mise
a correre e giunse davanti alla porta d’una casa di tolleranza in Rue des
Ricolettes proprio al momento in cui i gendarmi portavano via due zuavi
uccisi da alcuni ubriachi. I fez rossi dei soldati giacevano in pozze di
sangue sul selciato. Una squadra di gendarmi trascinava verso le prigioni gli
uccisori, mentre si levavano grida di gente inferocita: — Impiccateli!
Impiccateli!
Vincent approfittò del trambusto per sgattaiolare dentro la casa di
tolleranza, situata al n. 1 di Rue des Ricolettes. Louis, il proprietario, gli si
fece incontro e lo introdusse in un salottino a sinistra dell’ingresso, dove già
alcune coppie stavano bevendo.
— Ho una ragazza che si chiama Rachel e che è veramente carina —
disse Louis. — Monsieur vuole provarla? Se non vi piace, potrete
sceglierne un’altra.
— Vorrei vederla.
Sedette a un tavolino e accese la pipa. S’udii dalla sala vicina il trillo
d’una risata, e una ragazza entrò a passo di danza. Si lasciò cadere sulla
sedia di fronte a Vincent e gli sorrise.
— Sono Rachel.
— Perbacco, ma sei ancora una bambina!
— Ho sedici anni — dichiarò fieramente Rachel.
— Da quanto tempo sei qui?
— Da Louis? È un anno.
— Lasciati guardare.
Ella volgeva le spalle alla lampada a gas, sicché la faccia restava in
ombra. Accostò la testa alla parete alzando il viso verso la luce, in modo
che Vincent potesse vederla bene.
Una faccia tonda e paffutella, grandi occhi cilestrini e spensierati, mento
e collo carnosi. I capelli neri tirati e ravvolti sulla sommità del capo
accentuavano la rotondità del viso. Indossava soltanto una veste di stoffa
leggera e un paio di sandali. Gli àpici dei seni tondi parevano due indici
puntati contro di lui in atteggiamento d’accusa.
— Sei davvero graziosa, Rachel.
Gli occhi le si avvivarono d’un brillante sorriso fanciullesco. Girò su se
stessa, gli prese la mano.
— Sono lieta di riuscirti simpatica. Mi piace tanto piacere agli uomini.
Così è una cosa più bella, non trovi?
— Certo. E io ti piaccio?
— Ti trovo un tipo buffo, four-rou.
— Fou-rou! Dunque, mi conosci?
— Ti ho visto in Place Lamartine. Perché corri sempre di qua e di là con
quell’affare in ispalla? E perché vai sempre a capo scoperto? Il sole non ti
dà noia? Hai gli occhi tutti rossi. Non ti fanno male?
Vincent rise di tanta ingenuità.
— Sei un vero amore, Rachel. Mi chiamerai col mio nome, se te lo
dico?
— Come ti chiami?
— Vincent.
— No, preferisco fou-rou. Non t’offendi mica? E mi fai portare
qualcosa da bere? Il vecchio Louis mi tiene gli occhi addosso, dall’atrio.
Si fece scorrere le dita sulla gola; Vincent le guardò affondarsi nella
morbidezza delle carni. Gli sorrise con i suoi spensierati e inespressivi
occhi azzurri; ed egli s’accorse che gli sorrideva per sembrar contenta,
affinché lo fosse anche lui. Aveva una dentatura regolare, ma scura; il
tumido e largo labbro inferiore si riversava quasi fino a sfiorare la profonda
fossetta orizzontale del mento.
— Ordina una bottiglia di vino — le disse Vincent. — Ma d’una qualità
non troppo costosa, perché ho pochi soldi.
Quando portarono il vino, Rachel gli propose: — Vuoi che andiamo a
bere nella mia camera? Ci si sta più tranquilli.
— Molto volentieri.
Salirono una rampa di scale in pietra ed entrarono nella stanzetta di
Rachel. Un lettino, un cassettone, una sedia e diversi medaglioni di Julien
appesi alle pareti bianche d’intonaco. Sul cassettone una bambola e un
bambolotto seduti, ormai laceri e ammaccati.
— Me li sono portati qui da casa mia. Tieni, fou-rou, prendili in mano.
Questo è Jacques e questa Catherine. Giocavo con loro a «papà e mamma».
Oh, fou-rou, non farmi quella faccia!
Vincent se ne stava lì sorridendo stupidamente con i due bambolotti in
braccio, uno per parte, aspettando che Rachel finisse di ridere. Ella glieli
riprese, li gettò sul cassettone, scalciò i sandali in un angolo e sgusciò fuori
dalla veste.
— Siediti, fou-rou, e mettiamoci a giocare. Tu farai il papà, e io la
mamma. Non ti piace questo gioco?
Era una ragazza bassa e atticciata, con grosse cosce convesse, una
profonda infossatura sotto i seni baldanzosamente sporgenti, e un ventre
morbido e tondeggiante che s’incurvava sul triangolo pelvico.
— Rachel, se continui a chiamarmi fou-rou, ho anch’io un nomignolo
che fa per te.
Rachel batté le mani e gli si gettò sulle ginocchia.
— Oh, dimmelo! Mi piace sentirmi chiamare con un nome nuovo!
— Ti chiamerò Le Pigeon.
Gli occhi cilestrini di Rachel espressero un senso di perplessità e
d’offesa.
— Perché Le Pigeon, papà?
Vincent le passò leggermente la mano sul ventre.
— Perché sembri proprio un piccione, con quegli occhi miti e questo
pancino grasso.
— Ed è una cosa simpatica essere un piccione?
— Certo. I piccioni sono assai graziosi: e anche tu lo sei.
Rachel lo baciò sull’orecchio, balzò giù dal letto e andò a prendere due
bicchieri.
— Che orecchie piccole hai, fou-rou! — esclamò tra due sorsi di vino.
Beveva come una bambina, col naso nel bicchiere.
— Ti piacciono?
— Tanto. Sono morbide e rotonde come quelle dei cuccioli.
— Allora prenditele.
Rachel rise forte. Si portò il bicchiere alle labbra. Ma ebbe un altro
accesso di ilarità, che le fece versare un po’ di vino. Un filo rosso le scese
sulla mammella sinistra, sgocciolò sul ventre e andò a perdersi,
serpeggiando, nel triangolo nero.
— Sei un bel tipo, fou-rou. Tutti parlano di te come d’un pazzo. Ma tu
non lo sei, vero?
— Solo un pochino — rispose Vincent con una smorfia.
— E sarai il mio amante? Da oltre un mese non ne ho più. Verrai a
trovarmi tutte le sere?
— Temo che non mi sia possibile, Pigeon. Rachel allungò le labbra
imbronciate. — Perché?
— Tra l’altro, perché non ho soldi.
Rachel gli tirò scherzosamente l’orecchio destro. — Se non avrai i
cinque franchi, fou-rou, ti taglierai l’orecchia e me la darai, no? Mi
piacerebbe tanto averla. La metterei sul cassettone e mi trastullerei con essa
tutte le sere.
— E me la ridarai, se più tardi troverò i cinque franchi?
— Oh, fou-rou, che simpaticone sei! Fossero tutti come te, quelli che
vengono qui!
— Ti trovi bene qua dentro?
— Oh, sì. Mi diverto un mondo e mi piace immensamente… Fuorché
quando vengono gli zuavi, s’intende.
Posò il bicchiere e gli gettò le braccia al collo. Vincent sentì la
morbidezza del suo ventre, e le punte dei seni tumidi che gli bruciavano
dentro. Rachel gli incollò la bocca sulla bocca. Egli si diede a suggere
avidamente la vellutata e umida dolcezza del labbro inferiore.
— Verrai ancora a trovarmi, fou-rou? Non mi dimenticherai, non andrai
da un’altra ragazza?
— Tornerò, Pigeon.
— E adesso vuoi che… giochiamo a «papà e mamma»? Vincent uscì di
là un’ora dopo, arso da una sete che riuscì a placare soltanto ingoiando uno
dopo l’altro tutta una serie di bicchieri d’acqua limpida e fresca.
4.

Era giunto alla conclusione che quanto più un colore viene tritato e
pestato fino a raggiungere un alto grado di finezza, tanto più si satura
d’olio. L’olio rappresentava soltanto un mezzo, in rapporto al colore; né egli
se ne preoccupava molto, dato che non gli dispiaceva affatto che i suoi
quadri avessero una certa impronta di rudezza. Invece di comprare colori
preparati a Parigi, pestati chissà quante ore, decise di allestirseli da sé. Theo
incaricò il Père Tanguy di mandargli i tre cromi, la malachite, il vermiglio,
l’arancione, il cobalto e l’oltremare. Vincent li tritò nella sua stanzetta
d’albergo. Constatò che così i colori non solo gli costavano meno, ma erano
più freschi e più duraturi.
Poi cominciò ad essere scontento della tela su cui dipingeva. Il tenue
strato di gesso che la ricopriva non assorbiva i suoi colori densi e ricchi. Si
fece mandare da Theo rotoli di tela non ancora preparata. La sera,
scioglieva il gesso in un piccolo recipiente e ne spalmava la tela su cui
doveva lavorare il giorno dopo.
Georges Seurat gli aveva inoculato la preoccupazione della cornice
destinata ad accogliere il dipinto. Mandando a Theo le sue prime tele
arlesiane, Vincent non mancò di spiegargli di che legno e di che colore
dovessero essere le varie cornici. Ma non si tenne pago finché non si mise
ad allestirle personalmente. Comprava semplici listelli di legno, li tagliava
della lunghezza voluta e li coloriva in accordo con la tonalità del quadro.
Faceva dunque tutto lui: si preparava i colori, spalmava e tendeva le
tele, le dipingeva, costruiva le cornici e le coloriva.
«Peccato che non possa anche comprare i miei quadri! — si
rammaricava. — Così sarei perfettamente autonomo!».
Riprese ad imperversare il mistral. Tutta la natura sembrava invasa da
un selvaggio furore. Nel cielo, non una nuvola. Ad un sole sfolgorante,
s’accompagnava un freddo secco e pungente. Vincent dipinse nella sua
stanza una natura morta: una tazzina da caffè smaltata di azzurro, una tazza
blu e oro, un boccale di maiolica azzurra con fregi in rosso, verde e
marrone, e infine due arance e tre limoni.
Acquetatosi il vento riprese ad uscire e dipinse una veduta del Rodano
— il ponte in ferro di Trinquetaille — dove il cielo e il fiume avevano il
colore dell’assenzio, gli argini erano d’un lillà sfumato, nere le figure curve
con i gomiti sul parapetto, d’un intenso turchino il ponte, con un cenno di
vivido arancione e un tocco di verde-malachite nello sfondo nereggiante.
Vincent tendeva a conseguire un accento angosciato e quindi angosciante.
Anziché industriarsi di riprodurre con esattezza il paesaggio che gli
stava dinanzi, usava arbitrariamente i colori per esprimere con maggior
forza se stesso. Si rendeva conto della verità di quanto gli aveva detto un
giorno, a Parigi, Pissarro: «Bisogna esagerare arditamente gli effetti
cromatici, tanto nel senso dell’armonia quanto nel senso dei contrasti».
Anche Maupassant aveva affermato qualcosa d’analogo nell’introduzione a
Pierre et Jean: «L’artista è libero di esagerare, di creare nella sua narrazione
un mondo più bello, più semplice, più consolante del nostro».
Lavorò un’intera giornata sotto un sole spietato, con ritmo febbrile, e
dipinse un campo arato di fresco: un vasto campo dalle zolle violacee che
saliva verso l’orizzonte, con un seminatore in blu e bianco. Verso la linea
dell’orizzonte una distesa di grano maturo. In alto un cielo giallo,
incendiato dal sole.
Sapeva che i critici parigini l’avrebbero accusato di lavorare troppo in
fretta. Quanto a lui, non era di quest’idea. Non obbediva forse all’impulso
costringente dell’emozione, di un sincero senso della natura? E se ora le
emozioni erano talvolta così forti ch’egli lavorava quasi senza rendersene
conto, se talvolta le pennellate si susseguivano rapide e coerenti come le
parole d’un discorso, sarebbe purtroppo venuto il tempo in cui avrebbe
nuovamente conosciuto giornate fiacche e pesanti, senza ispirazione.
Doveva battere il ferro mentre era caldo e mettere da parte i frutti di questa
eccezionale stagione creativa.
Si appese il cavalletto alla spalla e prese la strada che passava davanti a
Montmajour. Camminava così speditamente che non tardò a raggiungere un
uomo ed un ragazzo che lo precedevano. Riconobbe nell’uomo il vecchio
Roulin, il postino di Arles. L’aveva spesso avuto vicino al caffè e più d’una
volta avrebbe voluto attaccar discorso con lui, ma l’occasione non s’era mai
presentata.
— Buon giorno, Monsieur Roulin.
— Ah, siete voi, il pittore! Buon giorno. Oggi è domenica, e ho
condotto il mio ragazzo a fare una passeggiata.
— Splendida giornata, vero?
— Oh, sì, è una gran bella cosa quando non soffia il mistral! Avete
dipinto un quadro oggi, Monsieur?
— Sicuro.
— Io sono un ignorante, Monsieur, e di arte non mi intendo. Ma mi
fareste un onore e un piacere, se me lo lasciaste vedere.
— Volentieri!
Il ragazzo corse avanti, giocando. Vincent e Roulin camminavano
lentamente a fianco a fianco. Mentre Roulin guardava la tela, Vincent lo
osservava attentamente. Aveva in testa il suo berretto turchino di
portalettere. Due occhi dolci e curiosi; un lunga e ampia barba ondulata che
gli copriva completamente la gola e il colletto, scendendo fin sul bavero
della giacca blu. Dava la stessa impressione di bontà e di pensosa
malinconia che già aveva reso tanto simpatico a Vincent il Père Tanguy; la
sua faccia bonaria di contadino sembrava fuor di luogo in mezzo a quella
lussureggiante barba di filosofo greco.
— Sono un ignorante, Monsieur, e voi mi perdonerete se oso aprir
bocca. Ma questo vostro campo di grano è proprio vivo come quello dove
siamo passati, laggiù, quando vi ho visto lavorare.
— Sicché, vi piace?
— Ah, questo non lo saprei dire. Io so soltanto che mi fa sentire qualche
cosa, qui. — E si passò la mano sul petto.
Si soffermarono un momento sotto Montmajour. Il sole s’invermigliava
sopra l’antica abbazia, saettando i suoi raggi sui fusti e sul fogliame dei pini
che sorgevano tra le rocce e tingendoli di fiammanti bagliori, mentre in
lontananza altri pini color blu di Prussia si profilavano contro un cielo
tenero verde-cerulo. La sabbia bianca e le rocce ai piedi degli alberi
s’inazzurravano pallidamente.
— Anche qui è tutto vivo, Monsieur, vero?
— E lo sarà ancora quando noi non ci saremo più, Roulin.
Ripresero a camminare, discorrendo con tranquilla cordialità. La
conversazione di Roulin aveva un tono di calma serenità. Uomo semplice,
diceva cose semplici e profonde al tempo stesso. Manteneva se stesso, la
moglie e quattro figli col suo stipendio di centotrentacinque franchi mensili.
Faceva il postino da venticinque anni, senz’aver avuto mai una promozione,
ma soltanto alcuni lenti e irrisori aumenti di stipendio.
— Da giovane, Monsieur, pensavo molto a Dio. Ma mi sembra che con
l’andar degli anni Egli si sia sempre più allontanato. È ancora nel campo
che voi avete dipinto, è ancora nel tramontar del sole là su Montmajour; ma
quando penso agli uomini e allo stato in cui hanno ridotto il mondo…
— Capisco, Roulin. Ma io sento sempre più che non dobbiamo
giudicare Dio da questo mondo. Questo mondo è semplicemente un quadro
riuscito male. Che cosa fate davanti ad un brutto quadro, se amate ed
ammirate l’artista che l’ha eseguito? Rinunciate a criticare, tacete. Certo,
però, avete il diritto di chieder qualcosa di meglio.
— Ecco, proprio così! Un tantino, appena un tantino di meglio.
— Dovremmo vedere altri mondi creati dalla stessa mano, prima di
giudicarLo. Questo è stato evidentemente buttato giù in fretta e furia, in una
giornata senza ispirazione, quando l’artista non era in forma.
Sullo stradone tortuoso era caduto il crepuscolo. Lo scuro drappo di
cobalto della sera cominciava a punteggiarsi di pupille di stelle. Roulin alzò
in viso a Vincent i dolci occhi innocenti.
— Credete dunque che esistano altri mondi, Monsieur?
— Non so, Roulin. Da quando ho cominciato ad interessarmi di pittura,
ho lasciato da parte questi problemi. Ma la nostra vita mi sembra una cosa
tanto incompleta. Talvolta penso che come i treni e le carrozze sono mezzi
di locomozione per trasferirci da un punto all’altro di questa terra, così il
tifo e la tubercolosi siano mezzi di locomozione per trasferirci da un mondo
all’altro.
— Ah, ne avete delle idee, voialtri artisti!
— Roulin, volete farmi un favore? Lasciatemi dipingere il vostro
ritratto. Quelli di Arles non vogliono posare per me.
— Ne sarei onorato, Monsieur. Ma perché volete farmi il ritratto? Sono
così brutto!
— Se c’è un Dio, Roulin, io sono persuaso che deve avere una barba e
due occhi come i vostri.
— Volete prendermi in giro, Monsieur.
— Tutt’altro. Parlo seriamente.
— Volete venire a cena da noi stasera? Potremo offrirvi poco, ma
saremo felici di avervi con noi.
Madame Roulin, una contadina che gli ricordava un poco la signora
Denis, stese sulla tavola una tovaglia a quadretti bianchi e rossi.
Mangiarono un po’ di stufato con patate, pane cotto in casa, e bevvero una
bottiglia di vino acido. Dopo cena Vincent schizzò un ritratto di Madame
Roulin mentre chiacchierava col marito.
— Al tempo della rivoluzione ero repubblicano — disse Roulin — ma
ora vedo che non ci ho guadagnato niente. Sia che comandi un re, sia che
comandino i ministri, noialtri poveri siamo sempre allo stesso punto. Io
credevo che una volta stabilita la repubblica tutto sarebbe stato diviso in
parti uguali, e ognuno avrebbe avuto la sua.
— Illusione, Roulin.
— Per tutta la vita mi sono sforzato di capire, Monsieur, perché uno
debba avere più dell’altro, perché uno debba sudare come un dannato
mentre l’altro se ne sta seduto a far niente. Forse sono troppo ignorante per
capire. Credete che se fossi istruito, Monsieur, ci riuscirei?
Vincent gli lanciò un’occhiata. Roulin si metteva a fare il cinico? Ma
no: la sua fisionomia aveva sempre quell’aria d’innocente ingenuità.
— Sì, amico mio. Sembra che generalmente le persone istruite
comprendano benissimo i motivi di questo stato di cose. Ma anch’io sono
ignorante come voi, e non riuscirò mai a comprenderlo né ad accettarlo.

5.

S’alzava alle quattro del mattino, faceva tre o quattro ore di marcia per
giungere nel posto voluto e lavorava fino all’imbrunire. Non era affatto
piacevole ripercorrere poi quei dieci o dodici chilometri lungo lo stradone
deserto e solitario, ma egli trovava conforto nel sentirsi sotto il braccio il
quadro compiuto.
In sette giorni, sette grandi quadri. Al termine della settimana non si
reggeva quasi più. Era stata una magnifica estate, ma ormai non bisognava
più pensare a lavorare all’aperto. Si scatenò un violento mistral, che
sollevava turbini di polvere: gli alberi ne erano tutti bianchi. Vincent
dovette rassegnarsi alla reclusione. Fece una dormita di sedici ore
consecutive.
Si trovava in cattive acque. Era giovedì, e non aveva più un soldo. I
cinquanta franchi di Theo non sarebbero giunti fino al lunedì a
mezzogiorno. Theo non ne aveva colpa: oltre a tutto l’occorrente per
lavorare, continuava regolarmente a mandargli cinquanta franchi ogni dieci
giorni. La colpa era sua; impaziente di vedere incorniciati i suoi ultimi
quadri, aveva speso troppo in listelli per le cornici. Per quattro giorni visse
di ventitré tazze di caffè ed una pagnotta di pane lasciatagli a credito dal
fornaio.
Fu assalito da una reazione di disgusto contro i propri lavori, che
trovava immeritevoli della generosità di Theo. Avrebbe voluto tornare in
possesso del denaro speso, per restituirlo al fratello. Guardava ad uno ad
uno i suoi quadri, e si diceva amaramente che non valevano quanto erano
costati. Se anche da tutte le serie veniva fuori di tanto in tanto qualche tela
passabile, restava pur sempre il fatto che sarebbe costata molto meno,
comprandola da un altro artista.
Per tutta l’estate era vissuto in una vera frenesia di lavoro. Pur
conducendo un’esistenza solitaria, non aveva avuto il tempo di riflettere, di
abbandonarsi ai propri sentimenti. Era andato avanti come una macchina a
vapore. Ma ora si sentiva il cervello flaccido come una poltiglia, e non
aveva un soldo per procurarsi qualche distrazione e tirarsi su il morale, non
il becco d’un quattrino per comprarsi da mangiare o andare a trovare
Rachel. E trovava decisamente pessimi i quadri eseguiti durante l’estate.
«Comunque — si disse — una tela dipinta val sempre di più d’una tela
bianca. Le mie pretese non vanno più in là; ed è questa la mia
giustificazione, è questa la ragione per cui dipingo».
Aveva la convinzione che solo restando ad Arles sarebbe riuscito ad
affermare la propria libertà, la propria individualità. La vita era breve.
Fuggiva, si dissolveva rapidamente. Ebbene, essendo pittore doveva
continuare a dipingere.
«Queste dita mi si fanno sempre più abili al mestiere, anche se la
carcassa va in rovina».
Compilò un lungo elenco di colori da chiedere a Theo.
Improvvisamente gli venne fatto di constatare che di tutti questi colori non
uno si sarebbe potuto trovare sulla tavolozza degli olandesi, da Mauve a
Maris, a Weissenbruch. Arles gli aveva fatto spezzare i legami con l’intera
tradizione olandese.
Ricevuto finalmente l’assegno di Theo, il lunedì, trovò un posto dove si
poteva mangiare discretamente per un franco. Uno strano ristorante,
completamente grigio: pavimento grigio-bitume, muri rivestiti di
tappezzeria grigia. Persiane verdi sempre abbassate, una pesante tenda
verde alla porta per non lasciar entrare la polvere. Una sottile e vivida lama
di luce penetrava da uno spiraglio.
Dopo una settimana di riposo, decise di rimettersi al lavoro. Dipinse la
grigia sala del ristorante, con gli avventori a tavola e i camerieri che
andavano su e giù. Dipinse il denso e caldo cielo notturno, tempestato da
migliaia di stelle sfavillanti, visto dalla Place Lamartine. S’aggirò per le
campagne e dipinse nel chiarore lunare. Dipinse il «Café de Nuit», rifugio
di nottambuli troppo spiantati per avere una casa, o troppo ubriachi per
potervi esser condotti.
Ritrasse una sera l’esterno di questo caffè, la sera dopo l’interno. Cercò
di esprimere con rossi e verdi le terribili passioni dell’umanità. Eseguì
l’interno del locale in color rosso-sangue e giallo scuro. In mezzo, un
biliardo verde. Quattro lampade gialle che davano un bagliore tra
l’arancione e il verdognolo. In tutte quelle figure sonnacchiose o dormenti,
l’urto e il contrasto dei più stridenti rossi e verdi. Voleva far sentire in
questo caffè un luogo dove una creatura poteva rovinarsi, impazzire o
commettere un delitto.
Quelli di Arles si divertivano a vedere il loro fou-rou che di notte
dipingeva per le strade, mentre di giorno dormiva. Questo Vincent era
davvero un tipo spassoso.
Al primo del mese, il proprietario dell’albergo non solo aumentò
l’affitto della stanza, ma decise di farsi pagare un tanto al giorno per
l’armadio in cui Vincent teneva le sue tele. Vincent detestava l’albergo ed
era indignato dell’ingordigia del proprietario. Il ristorante grigio in cui
consumava i pasti gli andava invece perfettamente a genio; senonché le sue
finanze gli permettevano soltanto d’andarci due o tre giorni su dieci.
L’inverno si avvicinava: egli non aveva uno studio dove lavorare; la stanza
d’albergo era deprimente e avvilente. I pasti che si vedeva costretto a
consumare in osterie a buon mercato gli avvelenavano nuovamente lo
stomaco.
Doveva assolutamente trovarsi un’abitazione o uno studio indipendenti.
Una sera, mentre attraversava col buon Roulin la Place Lamartine, notò
su una casa gialla, non lontana dall’albergo, l’avviso: «Da affittare». Il
caseggiato, composto di due ali con un cortile in mezzo, dava sulla piazza e
verso la collina su cui sorge la città. Vincent si soffermò a guardarlo con
malinconica bramosia.
— Peccato che sia così grande. Mi piacerebbe abitare lì.
— Non occorre prendere in affitto tutta la casa, Monsieur! Potreste
prendere soltanto l’ala destra, ad esempio.
— Davvero? Quante stanze pensate che ci siano? Costerà molto?
— Tre o quattro stanze, direi. Costerà pochissimo, nemmeno la metà di
quanto spendete all’albergo. Domani dopo aver desinato andremo a darvi
un’occhiata, se credete. Forse potrò aiutarvi a farvi fare un buon prezzo.
La mattina dopo, Vincent non seppe far altro che andar su e giù per la
Place Lamartine, guardando da tutti i lati quella casa gialla, una costruzione
solida e massiccia che prendeva tutto il sole. Osservandola più da vicino
constatò che c’erano due ingressi distinti e che l’ala sinistra era già
occupata.
Roulin lo raggiunse, dopo il pasto di mezzogiorno. Entrarono insieme.
Un andito conduceva in una stanza spaziosa, comunicante a sua volta con
una stanza più piccola. I muri erano intonacati di bianco. Si saliva al piano
superiore per una scala in mattonelle rosse, come il pavimento del corridoio
d’ingresso. Quassù, un’altra camera grande e uno stanzino, pavimentati
anch’essi con mattonelle rosse. Pareti bianche, vividamente luminose.
Roulin aveva scritto un biglietto al proprietario, che già li aspettava al
piano superiore. Lui e Roulin ebbero una breve conversazione in
provenzale, di cui Vincent capì ben poco, data la rapidità con cui parlavano.
— Desidera sapere per quanto tempo affittereste la casa — spiegò
Roulin a Vincent.
— Per sempre, ditegli.
— Siete dunque d’accordo per un contratto della durata di almeno sei
mesi?
— Ma certo!
— Allora dice che ve la darà per quindici franchi al mese.
Quindici franchi! Tutta una casa! Appena un terzo di quanto spendeva
all’albergo. Meno ancora di quanto gli costava quello studio all’Aia. Una
casa, un domicilio fisso e sicuro per quindici franchi al mese. Si cacciò
frettolosamente la mano in tasca.
— Ecco qua i soldi. Presto, dateglieli subito. La casa è bell’e affittata.
— Vuole sapere quando avete intenzione di trasferirvi qui.
— Oggi. Subito.
— Ma vi manca il mobilio, Monsieur. Come farete?
— Comprerò per ora un materasso e una sedia. Voi non sapete, Roulin,
che cosa significhi passar la vita in una miserabile stanza d’albergo. Devo
trasferirmi qui immediatamente!
— Come volete, Monsieur.
Il proprietario se ne andò. Roulin tornò al lavoro. Vincent prese ad
andare da una stanza all’altra, risalendo e ridiscendendo le scale,
osservando e studiando minutamente a palmo a palmo il suo nuovo
domicilio. Proprio il giorno prima aveva ricevuto i cinquanta franchi da
Theo; gliene restavano in tasca una trentina. Corse in città, comprò un
materasso e una sedia a buon mercato e se li portò a casa. Decise di adibire
a camera da letto la stanza a pianterreno, a studio quella situata al primo
piano. Gettò il materasso sul pavimento di mattonelle, portò la sedia nello
studio e tornò per l’ultima volta all’albergo.
Il proprietario dell’albergo si valse d’un pretesto qualsiasi per
aggiungere al suo conto quaranta franchi, rifiutandosi di lasciargli portar via
i suoi quadri fino a quando non avesse pagato. Vincent dovette ricorrere alla
polizia per riaverli, e gli toccò versare metà della somma ingiustamente
addebitatagli dall’albergatore.
Nel tardo pomeriggio trovò un mercante disposto a lasciargli a credito
un fornello a gas, due pentolini e una lampada a petrolio. Vincent aveva
ancora tre franchi. Comprò caffè, pane, patate e un po’ di carne per la cena.
Rimase senza un centesimo. Giunto a casa, installò la cucina nello stanzino
a pianterreno.
Quando sulla Place Lamartine e sulla sua nuova abitazione scese
l’oscurità della sera, Vincent accese il fornello e si preparò da mangiare.
Non avendo nessun tavolo, distese un foglio di carta sul materasso, vi
imbandì la sua cena e mangiò seduto alla turca sul pavimento. E siccome
s’era dimenticato di comprare coltello e forchetta, si servì del manico d’un
pennello per infilzare i pezzetti di carne e le fette di patate. Sapevano un po’
di colore.
Terminato il pasto, impugnò la lampada a petrolio e salì al piano di
sopra. La stanza aveva un’aria squallida e solitaria, vuota com’era, col
cavalletto che si profilava contro il chiarore della finestra illuminata dalla
luna. Nello sfondo, il giardino scuro della Place Lamartine.
Ridiscese, s’allungò sul materasso. La mattina dopo, appena sveglio,
aprì le finestre e vide il giardino verdeggiante, il sole che nasceva, la strada
che saliva serpeggiando verso il centro della città. Guardò le linde
mattonelle rosse sul pavimento, le pareti d’un bianco immacolato; si
compiacque dell’ampiezza delle stanze. Fece scaldare il caffè e lo bevve dal
pentolino, andando su e giù ed elaborando progetti per l’arredamento della
casa, predisponendo mentalmente i posti per appendere ai muri i suoi quadri
e pensando alle ore felici che avrebbe trascorso in questa casa veramente
sua.
Il giorno dopo ricevette una lettera dell’amico Paul Gauguin, malato e
spiantatissimo, prigioniero in una osteriaccia di Pont-Aven in Bretagna.
«Non posso tirarmi fuori da questo buco — scriveva Gauguin — perché
non ho soldi per pagare il conto, e il proprietario ha messo sotto chiave
tutte le mie tele. Tra le varie e molteplici disgrazie che affliggono
l’umanità, nessuna mi fa così arrabbiare e impazzire come la mancanza di
quattrini. Eppure mi sento condannato ad un’eterna miseria d’accattone».
Vincent pensò a tutti i pittori della terra, angustiati, malati, indigenti,
scansati e derisi dal prossimo, affamati e tormentati fino al loro ultimo
respiro. Perché? Quale delitto avevano commesso? Per quale enorme colpa
erano ridotti alla condizione di reietti e di paria? Come potevano produrre
dei bei lavori questi poveri esseri perseguitati? Il pittore dell’avvenire, ah,
lui sì, sarebbe stato un artista e un uomo quale non s’era ancora mai visto.
Lui non avrebbe vissuto in osterie di infimo ordine, né sarebbe andato in
postriboli per zuavi.
Quel povero Gauguin, intanto. Costretto a marcire in quel sozzo buco
della Bretagna, troppo depresso e sofferente per lavorare, senza un amico
che gli venisse in aiuto, senza un franco in tasca per sfamarsi e farsi visitare
da un medico. Lui, un grande pittore, un grande uomo. E se fosse morto?
Quale tragedia per il mondo dell’arte.
Si cacciò la lettera in tasca, uscì di casa e s’avviò lungo la sponda del
Rodano. Un battello carico di carbone era ormeggiato alla banchina. Visto
dall’alto, appariva tutto lucente e intriso come se avesse preso una doccia.
L’acqua del fiume aveva un biancore giallognolo, con ombre grigio-perla. Il
cielo era d’un lillà striato d’arancione verso ponente; la città aveva un tinta
violetta. Sul battello, un andare e venire d’uomini vestiti di blu sporco e di
bianco, procedevano allo scarico del carbone.
Schietto e puro Hokusai. Per associazione di idee, Vincent ripensò a
Parigi, alle stampe giapponesi nel negozio del Père Tanguy… e a Paul
Gauguin, il più caro dei suoi amici.
Vide subito che cosa dovesse fare. Nella casa gialla c’era posto per
entrambi: una camera da letto e uno studio per ognuno di loro. Facendosi da
mangiare in casa, preparandosi personalmente i colori e attenendosi a un
criterio di saggia economia, avrebbero potuto vivere discretamente con i
centocinquanta franchi del suo assegno mensile. La spesa dell’affitto
sarebbe sempre stata la stessa, quella del vitto appena un po’ più alta. Che
cosa meravigliosa, avere di nuovo un amico, un compagno d’arte che
parlasse lo stesso suo linguaggio e gli fosse vicino con la sua comprensione
d’uomo del mestiere! E quante cose belle poteva insegnargli un Gauguin!
Non s’era ben reso conto, finora, della propria solitudine.
Eppoi, se non fosse stato assolutamente possibile vivere con
centocinquanta franchi al mese, Theo sarebbe stato forse disposto ad
aggiungere altri cinquanta franchi mensili, ricevendo in compenso una tela
di Gauguin.
Sì, sì, doveva far venire Gauguin qui ad Arles. Il caldo sole di Provenza
l’avrebbe guarito d’ogni malessere, come già aveva guarito lui. In poco
tempo la loro attività avrebbe assunto un ritmo sostenuto, travolgente. Il
loro sarebbe stato un primissimo studio del Mezzogiorno. Si trattava di
continuare la tradizione di Delacroix e Monticelli. Avrebbero immerso la
pittura nel sole e nell’opulenza del colore, avrebbero ridestato il mondo alla
gioia tumultuosa della natura.
Bisognava salvare Gauguin!
Invertì la rotta, corse in Place Lamartine, entrò in casa, s’avventò su per
le scale e con focoso entusiasmo si mise a studiare la ripartizione
dell’alloggio.
«Avremo ognuno la nostra stanza da letto quassù. Adibiremo a studio le
due camere a pianterreno. Comprerò due letti, materassi, lenzuola e coperte,
tavoli e sedie. Ci faremo una casa ammodo. La decorerò tutta quanta con
girasoli ed orti in fiore. Oh, Paul, Paul, come sarà bello riaverti con me!».

6.

Fu meno facile di quanto si fosse immaginato. Theo si mostrò disposto a


mandare cinquanta franchi in più al mese in cambio d’un quadro di
Gauguin, ma c’era il problema del viaggio in ferrovia, insolubile tanto per
Theo quanto per Gauguin, il quale era troppo malato per muoversi, troppo
indebitato per svignarsela da Pont-Aven e troppo depresso per entusiasmarsi
d’un progetto. Tra Arles, Parigi e Pont-Aven cominciò un nutrito e rapido
scambio di lettere.
Vincent era ora pazzamente innamorato della sua casa gialla. Con i soldi
di Theo si comprò un tavolo e un cassettone.
«Tra un anno — scrisse a Theo — sarò un tutt’altro uomo. Ma non
credere che allora io me ne vada da questa città. No, assolutamente.
Intendo trascorrere ad Arles tutto il resto della mia vita. Diventerò il pittore
del Sud. E tu devi tener presente che hai una casa di campagna ad Arles.
Non vedo l’ora di averla sistemata in modo che tu possa venir sempre qui a
passare le vacanze».
Spendeva una cifra minima per le necessità della vita, e profondeva
tutto il denaro che gli avanzava nell’arredamento. Ogni giorno si trovava a
dover scegliere tra se stesso e la casa. Comprare un po’ di carne per
desinare, o una brocca di maiolica? Un paio di scarpe nuove, o quella
coperta verde per il letto di Gauguin? Una cornice di pino per il suo ultimo
quadro, o quelle sedie impagliate?
E sempre la casa riportava il sopravvento.
Essa gli dava un senso di tranquillità e di sicurezza perché sapeva di
lavorare per garantirsi l’avvenire. Troppo aveva vagabondato, troppo aveva
battuto la testa di qua e di là, a casaccio. Ora non si sarebbe più allontanato.
Morto lui, un altro pittore sarebbe venuto a prendere il suo posto. Egli stava
creando uno studio destinato a durare nel tempo, uno studio dove
generazioni e generazioni di pittori avrebbero lavorato per interpretare
l’anima del Mezzogiorno. E cominciò ad essere ossessionato dall’idea di
dipingere la casa, di lasciarvi decorazioni che corrispondessero
adeguatamente ai sacrifici di denaro compiuti per lui durante gli anni in cui
non aveva prodotto opere di valore.
Si risprofondò nel lavoro con rinnovata energia. Sapeva che a furia di
guardare una cosa, essa maturava dentro di lui aprendogli la via ad una più
profonda comprensione. Si recò cinque volte a Montmajour, per studiare la
zona di campagna che si stendeva ai suoi piedi. Il mistral ostacolava
violentemente la docile rispondenza del pennello al sentimento ch’egli
voleva esprimere, mentre il cavalletto oscillava fortemente sotto le raffiche
del vento. Lavorava dalle sette del mattino alle sei di sera, senza ristare un
attimo. Un quadro al giorno!
— Domani farà un caldo tremendo — annunciò Roulin una sera di tardo
autunno, mentre erano seduti nel «Café Lamartine» davanti ad un boccale
di birra. — Poi, l’inverno.
— Com’è l’inverno, qui ad Arles?
— Brutto. Acquazzoni in abbondanza, un vento maligno, un freddo
cane. Ma dura poco. Solo un paio di mesi.
— Sicché domani avremo l’ultima bella giornata. Allora so dove devo
andare. Immaginate un giardino autunnale, Roulin, con due cipressi verdi a
forma di bottiglia e tre piccoli castagni con le foglie color tabacco e
arancione. Aggiungetevi un tasso col fogliame color limone pallido e il
tronco violetto, e due piccoli cespugli rosso-sangue con le foglioline tra lo
scarlatto e il violaceo. E infine sabbia, erba, cielo azzurro.
— Ah, Monsieur, quando mi descrivete le cose m’accorgo d’essere stato
per tutta la vita un cieco.
La mattina dopo, Vincent s’alzò col sole, d’ottimo umore. Si spuntò la
barba, si ravviò quei pochi capelli che il sole di Provenza gli aveva lasciato
sul cranio, indossò il suo unico abito e, a titolo di speciale gesto d’addio al
sole, si calcò in testa il berretto di pelo di coniglio acquistato a Parigi.
La predizione di Roulin s’avverò in pieno. Il sole, gialla sfera
divampante, s’alzava nel cielo. Il berretto di Vincent non aveva visiera, e la
luce gli batteva quindi negli occhi. Il giardino distava due ore di cammino
da Arles, e s’annidava contro il fianco della collina lungo la strada che
conduceva a Tarascona. Vincent piantò il cavalletto in un campo arato di
fresco, presso l’angolo in fondo al giardino. Gettò per terra il berretto, si
sfilò la giacca, sistemò la tela sul cavalletto. Nonostante l’ora mattutina il
sole gli arroventava la testa e gli faceva fluttuare dinanzi agli occhi il
consueto velo di riverberi infocati.
Studiò intensamente la scena che gli s’apriva allo sguardo, analizzò i
colori che la componevano, abbozzò mentalmente il quadro. Quando gli
parve d’aver osservato abbastanza, ammorbidì i pennelli sul palmo della
mano, svitò i cappucci dei tubetti e forbì la spatola con cui spalmava i colori
più densi. Diede ancora una occhiata al giardino, impresse mentalmente la
scena sulla tela bianca, mischiò un po’ di colore sulla tavolozza e alzò il
pennello.
— Devi proprio cominciare così di buon’ora? — gli domandò una voce,
alle sue spalle.
Vincent si voltò di scatto.
— È ancora presto, caro. Hai dinanzi a te tutta la giornata.
Vincent guardò quella figura di donna con occhi dilatati dallo stupore.
Era molto giovane, ma non più bambina. Due occhi azzurri come il cielo di
cobalto d’una notte arlesiana; i capelli sciolti, opulenti e fluenti sulle spalle,
biondi come il sole. I suoi lineamenti erano ancor più delicati di quelli di
Kay Vos, ma avevano qualcosa di morbidamente maturo, come la terra del
Mezzogiorno. Una carnagione d’oro bruciato; i denti nel varco delle labbra
atteggiate al sorriso, bianchi come un fiore d’oleandro visto attraverso un
vino rosso-sangue. Indossava una lunga veste bianca aderente alle linee del
corpo, chiusa soltanto sul fianco da una grande fibbia d’argento. Nei piedi,
un semplice paio di sandali. La sua figura era slanciata, vigorosa, ma
sinuosamente protesa verso di lui in un atteggiamento che ne metteva in
evidenza le curve perfette, pure e voluttuose.
— Sono stata tanto tempo lontana, Vincent.
Si collocò tra lui e il cavalletto, appoggiandosi alla tela bianca e
precludendogli la vista del giardino. Il sole le investiva i capelli biondi e le
riversava sulle spalle ondate di fiamma. Ella gli sorrise con tanta dolcezza,
con tanto amore, che Vincent si passò una mano sugli occhi domandandosi
se sognasse o se fosse stato colpito da un’allucinazione.
— Tu non comprendi, caro — disse la donna. — Come potresti
comprendere, dato che sono stata così a lungo lontana?
— Chi sei?
— La tua amica, Vincent. La migliore amica che tu abbia al mondo.
— Come fai a sapere il mio nome? Non ti ho mai vista.
— Lo so. Ma io ti ho visto tante volte.
— Come ti chiami?
— Maya.
— E nient’altro? Semplicemente Maya?
— Per te, Vincent, basta così.
— Perché mi hai seguito qui in campagna?
— Per la stessa ragione per cui ti ho seguito da un paese all’altro
d’Europa. Per esserti vicina.
— Mi scambi per qualcun altro. Non è possibile che io sia quello che tu
credi.
La donna gli posò sui capelli rossi e riarsi la sua mano fresca e bianca,
carezzandoglieli con dolcezza. La freschezza della sua mano e della sua
voce morbida, sommessa, aveva il potere ristoratore di un’acqua attinta da
una verde sorgente.
— C’è un solo Vincent Van Gogh. Non potrei mai sbagliarmi.
— Da quando credi di conoscermi?
— Da otto anni, Vincent.
— Ma otto anni fa mi trovavo nel…
— Sì, caro, nel Borinage.
— Mi hai conosciuto allora?
— Ti vidi la prima volta nel tardo pomeriggio d’autunno seduto su una
rugginosa ruota di ferro davanti a Marcasse.
— Mentre guardavo i minatori che tornavano alle loro case!
— Sì. Quando ti guardai la prima volta, eri là seduto, assorto. Io ti
passai accanto. Allora cavasti di tasca una vecchia busta e una matita, e ti
mettesti a disegnare. Mi curvai sulla tua spalla per vedere che cosa facevi. E
fu allora che mi innamorai di te.
— Ti innamorasti di me? Ti innamorasti di me?
— Sì, Vincent, Vincent mio: mi innamorai di te.
— Forse a quei tempi non ero ancora tanto brutto.
— Eri infinitamente meno attraente di ora.
— La tua voce, Maya, ha un suono così strano… In tutta la mia vita,
soltanto una donna mi ha parlato con una voce uguale alla tua.
— Margot. Ti amava, Vincent. Quanto ti amo io.
— La conoscevi?
— Ho trascorso due anni nel Brabante. Ogni giorno ti seguivo nei
campi. Ti guardavo lavorare nello studio che t’eri fatto in quella stanza a
pianterreno della casa parrocchiale di Nuenen, vicino alla cucina. Ed ero
felice che Margot ti volesse bene.
— Allora non mi amavi più?
— Oh, sì, ti amavo. Fin dal primo giorno, non ho mai cessato d’amarti.
— E non eri gelosa di Margot?
La donna sorrise. Le passò sul volto un’ombra d’infinita tristezza,
d’infinita pietà. Vincent pensò a Mendes da Costa.
— No, non ero gelosa di Margot. Il suo amore ti faceva bene. Non mi
piaceva invece il tuo amore per Kay. Ti faceva soffrire.
— Mi conoscevi già quand’ero innamorato di Ursula?
— No. Non ero ancora venuta nella tua vita.
— Allora non ti sarei piaciuto.
— No.
— Fui pazzo.
— Talvolta bisogna che da principio uno sia pazzo, per giungere infine
alla saggezza.
— Ma se m’amavi quando eravamo nel Brabante, perché non sei venuta
da me?
— Non eri preparato ad accogliermi, Vincent.
— E adesso lo sono?
— Sì.
— Mi ami ancora? Adesso… oggi… in questo momento?
— Adesso… oggi… in questo momento… e per l’eternità.
— Ma come mi puoi amare? Guarda. Ho le gengive malate. La bocca
piena di denti falsi. La testa scalvata e bruciata dal sole. Gli occhi rossi
come quelli d’un sifilitico. La faccia ridotta ad una massa d’ossa sporgenti.
Sono brutto. Il più brutto degli uomini! Ho i nervi dilaniati, il corpo esausto
e disseccato, tutto l’organismo intossicato. Come puoi amare un simile
relitto d’uomo?
— Siediti, Vincent.
Egli sedette sul suo seggiolino di pittore. La donna s’inginocchiò sulla
morbida terra del campo.
— No! — gridò Vincent. — T’insudicerai la veste bianca. Lascia che
stenda per terra la giacca.
La donna lo fermò con un gesto lieve della mano.
— Tante volte mi sono insudiciata la veste nel seguirti, Vincent, ma
sempre è tornata pulita.
Gli prese il mento nel palmo della vigorosa mano bianca, gli carezzò
con le punte delle dita i radi e arsicci capelli rossi dietro l’orecchia.
— Non è vero che sei brutto, Vincent. Sei bello. Hai tormentato e
torturato questo povero corpo in cui è racchiusa la tua anima; ma l’anima
non la puoi ferire. Ed è la tua anima che io amo. Quando avrai distrutto te
stesso a furia di appassionata fatica, la tua anima continuerà a vivere,
sempre. E con essa il mio amore per te.
Un’ora era trascorsa; il sole era salito più alto nel cielo, e li avvolgeva
nella sua vampa feroce.
— Lascia che ti conduca in un posto più fresco — disse Vincent. —
Laggiù sotto la strada ci sono dei cipressi. All’ombra starai meglio.
— Sono tanto felice qui con te. Non m’importa del sole. Mi ci sono
abituata.
— Da quanto tempo sei ad Arles?
— Vi sono giunta con te, da Parigi.
Vincent balzò rabbiosamente in piedi e si mise a pestare il piede sul
seggiolino.
— Bugiarda! Sei stata mandata qui a bella posta per coprirmi di
ridicolo. Qualcuno ti ha raccontato il mio passato, e ti paga perché ti faccia
beffe di me. Vattene. Non ti dirò più una parola!
La donna sostenne quello scatto d’ira col sorriso negli occhi.
— Non sono una bugiarda, Vincent. Non t’inganno. Sono la cosa più
reale e più vera della tua vita. Non potrai mai uccidere l’amore che ti porto.
— Menzogna! Non mi ami. Ti prendi gioco di me. Ma io saprò
smascherare e sventare il tuo gioco.
L’afferrò brutalmente tra le braccia: ella gli si strinse tutta, arrendevole.
— Ti farò del male, se non te ne vai, se non la smetti di tormentarmi!
— Fammi del male, Vincent. Me ne hai già fatto altre volte. L’amore ci
è avvezzo.
Egli la strinse più violentemente a sé. Incollò la bocca su quella di lei,
conficcandovi i denti e premendogliela sotto i suoi baci furiosi.
Ella gli schiuse le sue labbra morbide e calde, lasciando che
s’abbeverasse profondamente alla dolcezza della sua bocca e aderendo con
tutto il corpo al corpo di lui, muscolo contro muscolo, osso contro osso,
carne contro carne, in un completo e appassionato abbandono.
Vincent la respinse e tornò, barcollando, a sedersi. La donna si lasciò
cadere accanto a lui, posando un braccio sulle sue ginocchia e
appoggiandovi il capo. Vincent prese ad accarezzarle i lunghi e opulenti
capelli biondi.
— Adesso sei convinto?
Passarono alcuni istanti, prima che Vincent riuscisse a parlare.
— Ti trovi dunque ad Arles da quando ci sono venuto io. Non sai nulla
di quella ragazza, Le Pigeon?
— Rachel è una simpatica bambina.
— E tu non ci trovi nulla a ridire?
— Sei un uomo, Vincent, e hai bisogno di donne. Finché non era ancora
giunto il momento che io venissi a farti dono di me, bisognava per forza che
ti rivolgessi dove potevi. Ma ora…
— Ora?
— Non è più necessario. Non ne avrai mai più bisogno.
— Vuoi dire che…
— Certo, Vincent. Ti amo.
— Ma perché dovresti amarmi? Le donne mi hanno sempre disprezzato.
— Il tuo scopo, nella vita, non era l’amore. Avevi altro da fare. Il tuo
lavoro, la tua arte.
— La mia arte? Bah! Sono stato un pazzo. Che me ne faccio di tutte
quelle centinaia di quadri? Chi li vuole? Chi li compra? Chi mi dice almeno
una parola di lode, sia pure a denti stretti? Chi riconosce che ho saputo
comprendere la natura ed esprimerne la bellezza?
— Tutto il mondo lo dirà un giorno, Vincent.
— Un giorno. Sogni. Come se mi mettessi in testa che un giorno sarò
pieno di salute, avrò una casa, una famiglia, e potrò guadagnarmi la vita
dipingendo. Sono otto lunghi anni che dipingo. E in otto anni non una
persona ha voluto comprare un mio quadro. Sono stato un pazzo.
— Lo so. Ma un pazzo di genio, un pazzo destinato alla gloria. Quando
tu non sarai più su questa terra, Vincent, il mondo comprenderà ciò che ti
sei sforzato di dire. I quadri che oggi non riesci a vendere per cento franchi
saranno quotati a milioni. Ah, tu sorridi, ma io ti dico che è la pura verità.
Le tue opere saranno esposte e conservate nei musei di Amsterdam e
dell’Aia, di Parigi e di Dresda, di Monaco e di Berlino, di Mosca e di
Nuova York. Avranno un valore inestimabile, perché non si riuscirà più a
trovarne in vendita nemmeno una. Si scriveranno libri sulla tua arte,
Vincent, romanzi e drammi sulla tua vita. E dovunque s’incontrino due
uomini che amino la pittura, là il nome di Vincent Van Gogh sarà un nome
sacro.
— Se non sentissi ancora sulla mia bocca il sapore della tua, direi che
sto sognando o che mi ha dato di volta il cervello.
— Siediti qui per terra accanto a me, Vincent. Metti la tua mano nella
mia.
Il sole splendeva a picco. Il pendio e la valle erano immersi in una
vaporosità giallo-zolfo. Vincent si distese accanto a lei sulla terra smossa
del campo. Da sei lunghi mesi non aveva avuto altra persona con cui parlare
all’infuori di Rachel e di Roulin. E si sentiva in cuore un tale rigurgito di
cose da dire! La donna lo guardò profondamente negli occhi, ed egli
cominciò a parlare. Le narrò di Ursula, dei tempi in cui era impiegato alle
gallerie Goupil. Le lotte, le delusioni, l’amore per Kay, il tentativo di farsi
una casa e una vita con Cristina. Le speranze che l’avevano sostenuto lungo
l’ardua strada dell’arte, gli insulti e gli scherni subiti, gli affronti ricevuti, i
motivi per cui voleva che il suo disegno fosse crudo, la sua pittura non
rifinita, il suo colore esplosivo. Tutto ciò che si proponeva di compiere per
l’arte e per gli artisti, e come il suo fisico fosse ormai rovinato
dall’esaurimento e dalle malattie.
Più parlava, più si eccitava. Le parole gli si riversavano dalla bocca
come i colori dai suoi tubetti. E tutto il suo corpo s’agitava, partecipando a
quello sfogo. Parlava con le mani, gesticolava con le braccia e con le spalle,
andava su e giù davanti a lei con violente contorsioni. I battiti del cuore si
facevano frenetici, il sangue gli martellava ai polsi, la sferza del sole
scatenava in lui impeti ciechi di passione e di febbrile energia.
La donna ascoltava in silenzio, senza lasciarsi sfuggire una parola.
Dall’espressione dei suoi occhi, Vincent s’accorgeva d’esser compreso. Ella
beveva tutte le sue parole e continuava a star lì, avida e bramosa d’udirne
altre ancora, di comprenderlo ancor più a fondo, di accogliere in sé tutto ciò
che egli non poteva più tener compresso nella propria anima, tutto ciò che
esigeva d’esser detto.
Vincent s’interruppe bruscamente, agitato da fremiti e sussulti, con gli
occhi arrossati, le guance avvampanti, le membra corse da brividi.
La donna lo attirò a sé.
— Baciami, Vincent.
Egli la baciò sulla bocca. Le labbra di Maya non avevano più la
freschezza di prima. Si distesero a fianco a fianco sulla terra grassa e
grumosa. La donna gli baciò gli occhi, le orecchie, le narici, il solco del
labbro superiore, gli immerse nella bocca la sua lingua morbida e dolce, gli
fece scorrere le dita giù per la barba, per la gola, lungo le spalle, sulla
sensibile epidermide dell’ascella.
I suoi baci eccitarono in lui la più spasimosa passione che avesse mai
provato. Sentì per tutto il corpo il desiderio tormentoso della carne che non
può trovare appagamento nella carne sola. Mai nessuna donna gli si era data
con un bacio d’amore. Se la strinse tutta a sé, sentendo fluire sotto la soffice
veste bianca il suo calore vitale.
— Aspetta, Vincent.
Sganciò la fibbia d’argento che aveva sul fianco e gettò via con un
rapido gesto la veste bianca. Tutto il suo corpo aveva lo stesso colore d’oro
brunito del viso. Un corpo virgineo e pulsante. Vincent non aveva mai
immaginato che un corpo di donna potesse avere questa squisita perfezione
di linee. Né avrebbe mai immaginato che la passione potesse essere così
pura, così bella, così bruciante.
— Tu tremi, caro. Tienimi stretta a te. Non tremare, amor mio, amor
mio tanto caro. Prendimi, prendimi come vuoi.
Il sole già stava calando dalla parte opposta del cielo. La terra ne era
ancora arroventata. Diffondeva un sentore di semi appena deposti, di piante
cresciute, di frutti maturati e colti, di vegetazione disseccata e morta. Era
l’odore della vita, il ricco e penetrante odore della vita che sempre sorge e
sempre ritorna a disperdersi nella materia da cui è sorta.
La tensione di Vincent cresceva, cresceva sempre più; la sua emozione
attingeva vertici finora sconosciuti; il battito d’ogni sua fibra convergeva
verso un intimo e occulto centro di sensazioni spasimose. La donna aprì le
braccia, gli schiuse il suo calore, accolse in sé tutta la forza della sua
virilità, tutta la sua vulcanica turbolenza, tutta l’opprimente e straripante
passione che d’ora in ora gli straziava i nervi e gli bruciava il corpo, lo
condusse con ritmiche e carezzevoli ondulazioni al vertice esplosivo e
prorompente della voluttà creatrice.
Esausto, egli le s’addormentò tra le braccia.
Quando si svegliò, si trovò solo. Il sole era tramontato.
Aveva un grumo di terra sulla guancia, là dove l’aveva affondata nel
solco del campo. La terra cominciava a rabbrividire nella frescura serale e
dava un odore di bestie nascoste striscianti nelle sue viscere. Vincent
s’infilò la giacca, si mise il berretto di pelo di coniglio, si gettò in spalla il
cavalletto, prese la tela sotto il braccio e s’avviò verso casa lungo lo
stradone ormai scuro.
Gettò sul materasso della stanza da letto il cavalletto e la tela bianca.
Poi uscì di casa per andare a bere un caffè. Appoggiò i gomiti sul marmo
del tavolino, si prese la faccia tra le mani e ripensò agli avvenimenti della
giornata.
«Maya… Maya… Non ho già udito altre volte questo nome?
Significa… Significa… Che cosa?».
Ordinò una seconda tazza di caffè. Un’ora dopo riattraversò la Place
Lamartine, diretto verso casa sua. S’era alzato un vento freddo. Si sentiva
nell’aria odore di pioggia.
Rientrando dalla campagna, dopo la giornata di lavoro, non s’era curato
d’accendere la lampada a petrolio. Lo fece ora, e posò la lampada sul
tavolo. La stanza si riempì d’una luce giallognola. Una macchia di colore,
sul materasso, attrasse il suo sguardo. Ebbe uno scatto di stupore.
S’avvicinò, prese tra le mani la tela che aveva portato con sé quella mattina.
In un sontuoso sfarzo di luce, vide sulla tela il giardino autunnale: i due
cipressi verdi a forma di bottiglia; i tre piccoli castagni con le foglie color
tabacco e arancione; il tasso col fogliame color limone pallido e il tronco
violetto; i due piccoli cespugli rosso-sangue con le foglioline tra lo scarlatto
e il violaceo; e in primo piano la sabbia e l’erba; e in alto, sopra tutte queste
cose, un cielo profondamente azzurro con una turbinosa sfera di fuoco.
Contemplò a lungo il dipinto. L’attaccò alla parete. Andò a sedersi sul
materasso, fissò nuovamente il quadro, sorrise.
7.

Venne l’inverno. Vincent trascorreva le giornate nel suo studio caldo e


accogliente. Da una lettera di Theo apprese che Gauguin — il quale aveva
fatto una breve capatina a Parigi — era tremendamente depresso, inasprito,
e non voleva saperne di venire ad Arles. Nelle intenzioni di Vincent questa
sua casa non doveva rappresentare soltanto una dimora per due amici, ma
uno studio stabile, destinato ad accogliere tutti gli artisti del Mezzogiorno.
Faceva progetti su progetti per ingrandirlo, non appena lui e Gauguin gli
avessero dato un risoluto avvio. Ogni pittore che desiderasse venirci
sarebbe stato ben accolto, purché s’impegnasse, in cambio dell’ospitalità, a
mandare a Theo un quadro al mese. E non appena Theo avesse raccolto un
numero sufficiente di quadri di impressionisti, doveva piantare l’impiego
attuale per aprire a Parigi una galleria indipendente.
Vincent insisteva, nelle sue lettere, sul fatto che Gauguin sarebbe stato il
direttore dello studio, il maestro di tutti i pittori che vi avrebbero lavorato.
Risparmiava ogni franco che poteva, per arredare la propria stanza da letto.
Ne tinteggiò le pareti in violetto pallido. Il pavimento era di mattonelle
rosse. Comprò lenzuola e fodere per guanciali d’un tenuissimo colore
verde-limone, una coperta scarlatta, e dipinse in color crema il letto di legno
e le sedie, in arancione il tavolino da toeletta, in azzurro la bacinella, in lillà
la porta. Appese alle pareti un certo numero dei suoi quadri, tolse le imposte
e riprodusse l’intera scena su una tela da mandare a Theo, perché suo
fratello potesse farsi un’idea di come fosse riposante questa stanza. Si servì
di tinte piatte, come nelle stampe giapponesi.
Per la stanza di Gauguin, era un altro paio di maniche. Per il «maestro»
bisognava trovare mobili molto più belli. Madame Roulin gli disse che un
letto di noce come quello che avrebbe voluto comprare per Gauguin non
sarebbe costato meno di trecentocinquanta franchi: somma per lui
impossibile. Cominciò tuttavia a fare acquisto di oggetti di minore
importanza, condannandosi così ad uno stato di miseria cronica.
Quando non aveva soldi per procurarsi modelli, si piantava davanti ad
uno specchio e faceva un autoritratto dopo l’altro. Rachel veniva talvolta a
posare per lui; una volta alla settimana veniva Madame Roulin, portando
anche i bambini; Madame Ginoux, moglie del proprietario del caffè da lui
frequentato, posò in costume arlesiano. Vincent la ritrasse nello spazio di
un’ora; sfondo color limone pallido, faccia grigia, vesti nere e blu di
Prussia. La dipinse seduta su una poltrona presa a prestito, con i gomiti
appoggiati su un tavolo verde.
Per una piccola somma, anche uno zuavo dalla faccia piccola su un
collo di toro, occhi di tigre, posò per lui. Vincent lo ritrasse a mezza figura
nella sua uniforme turchina (il turchino delle casseruole smaltate), bordata
di fregi d’un arancione rossiccio e ornata di due grosse stelle sul petto. Sulla
testa felina, il fez rosso contro uno sfondo verde. Ne risultò una selvaggia
combinazione di colori discordi, aspri, comuni, perfino chiassosi, ma ben
rispondenti all’indole del soggetto.
Stava seduto per ore alla finestra, armato di matita e carta da disegno,
cercando di addestrarsi a schizzare con pochi e rapidi tocchi una figura
d’uomo o di donna, un ragazzo, un cavallo, un cane, abbozzandone d’un
colpo la testa, il corpo e le gambe. Copiò un bel numero di quadri dipinti
nel corso dell’estate, pensando che se fosse riuscito a smaltire entro l’anno
una cinquantina di pezzi a duecento franchi l’uno non sarebbe stata così
grave disonestà, da parte, sua, l’aver mangiato e bevuto per tanti anni al pari
di qualsiasi altro lavoratore che si guadagna la vita.
Imparò tante cose, quell’inverno: che non si deve far uso di blu di
Prussia nel dipingere la carne, perché diventa legnoso; che i suoi colori non
erano fermi e solidi come avrebbero dovuto essere; che l’elemento più
importante della pittura, qui nel Mezzogiorno, era costituito dal contrasto
del verde e del rosso, dell’arancione e dell’azzurro, del giallo e del lillà; che
la sua pittura doveva esprimere qualcosa di consolante, come la musica; che
gli premeva far sentire nelle sue figure umane quella luce di divino che gli
antichi pittori simboleggiavano nell’aureola e che egli cercava di esprimere
con la radiosa vibrazione del colore; e infine, che per gli individui forniti di
serie attitudini alla miseria, la miseria è eterna.
Uno zio, morendo, lasciò a Theo una piccola somma in eredità. Poiché
Vincent non vedeva il momento d’avere con sé Gauguin, Theo destinò metà
della somma all’arredamento della stanza da letto di Paul e alla spesa del
viaggio fino ad Arles. Vincent, pazzo di gioia, cominciò subito ad occuparsi
della decorazione della casa. Si proponeva di fare una dozzina di pitture su
tavola: i meravigliosi girasoli di Arles, una sinfonia di giallo e d’azzurro.
Parve che nemmeno la buona notizia del viaggio gratuito valesse a
scuotere Gauguin. Per ragioni ignote a Vincent, egli preferì attardarsi
ancora a Pont-Aven. Vincent era impaziente di terminare le decorazioni e di
mettere perfettamente in ordine lo studio per la data dell’arrivo dell’amico.
Giunse la primavera. Nel cortile della casa, gli oleandri impazzivano
effondendosi in una fioritura sgargiante, così tumultuosa e disordinata da
far quasi pensare che fossero affetti da atassia locomotrice. Masse di corolle
già appassite; un verde che continuamente si rinnovava e rigermogliava con
inesauribile vigore.
Vincent tornò a buttarsi in spalla il cavalletto e a batter la campagna, in
cerca di girasoli per le dodici tavole. La terra arata dei campi aveva una
vellutata morbidezza di colore; il cielo, azzurro come miosotidi, era
macchiettato di nuvole bianche. Vincent dipinse di getto alcune tavole
ritraendo i girasoli come gli apparivano sulle loro zolle, al levar del sole.
Altri girasoli, se li portò a casa e li dipinse con i gambi immersi in un vaso
verde.
Diede ai muri esterni della casa una nuova mano di giallo, con grande
spasso degli abitanti della Place Lamartine.
Finito questo lavoro, era ormai giunta l’estate: e con essa il sole ardente,
il travolgente mistral, un senso di crescente inquietudine, nell’aria, un
aspetto tormentato e frenetico in tutte le cose, in tutta la città schiacciata
contro la collina.
E giunse, finalmente, anche Paul Gauguin.
Arrivò ad Arles prima dell’alba e aspettò lo spuntar del sole in un
piccolo caffè aperto tutta la notte.
— Ma voi siete l’amico! — esclamò il proprietario del locale, dopo
averlo guardato attentamente. — Vi riconosco!
— Che diavolo andate dicendo?
— Monsieur Van Gogh mi ha mostrato il ritratto che gli avete mandato.
Rassomigliantissimo, Monsieur.
Gauguin andò a svegliare Vincent. Fu un incontro rumorosamente
allegro e cordiale. Vincent gli fece vedere la casa, l’aiutò a disfare la
valigia, gli chiese notizie di Parigi. Chiacchierarono animatamente per
diverse ore.
— Hai intenzione di lavorare oggi, Gauguin?
— Mi prendi forse per un Carolus-Duran, per pensare che io salti giù
dal treno, dia di piglio alla tavolozza e ti scombiccheri in quattro e
quattr’otto un effetto di sole?
— Domandavo soltanto.
— E allora non far domande idiote.
— Oggi faccio vacanza anch’io. Usciamo, ti porto a vedere la città.
Condusse l’amico su per la collina, gli fece attraversare l’assolata Place
de la Mairie; infilarono lo stradone e giunsero al margine della città. Gli
zuavi stavano facendo istruzione nello spiazzo vicino alla caserma, con i
loro fez rossi accesi dal sole. Vincent precedette l’amico per il piccolo parco
antistante all’anfiteatro romano. Alcune arlesiane passeggiavano lungo il
viale per godersi l’aria fresca del mattino. Vincent ne aveva vantato con toni
ditirambici la bellezza.
— Come le trovi, Gauguin?
— Mi raggelano il sudore sulla pelle.
— Accidenti, guarda il tono della carnagione, non le forme! Guarda che
colorito ha dato loro il sole.
— Come stiamo a postriboli, da queste parti?
— Ci sono soltanto dei posti da cinque franchi ad uso degli zuavi.
Rincasarono, per combinare un piano di vita in comune. Attaccarono
una cassetta al muro della cucina e vi misero dentro metà del loro denaro:
tanto per il tabacco, tanto per le piccole spese, tanto per l’affitto. Misero,
sopra la cassetta, un foglio di carta e una matita, per segnare di volta in
volta i soldi che ognuno di loro avrebbe preso di lì. In un’altra cassetta
versarono il resto dei loro averi, diviso in quattro parti, per la spesa
settimanale del vitto.
— Tu sei un buon cuoco, vero, Gauguin?
— Un cuoco coi fiocchi. Ho fatto il marinaio.
— Allora t’incaricherai tu della cucina. Ma oggi farò io da mangiare, in
tuo onore.
A sera, quando Vincent portò la minestra in tavola, Gauguin non riuscì a
mandarla giù.
— Che razza di pasticcio hai combinato, Vincent? Lo stesso pasticcio,
oserei dire, che fai con i colori dei tuoi quadri.
— Che cos’hai a ridire sui colori dei miei quadri?
— Ragazzo mio, tu stai ancora scalpicciando nel neoimpressionismo.
Faresti meglio a lasciar perdere lo stile attuale, che non risponde al tuo
temperamento.
Vincent spinse da parte la scodella.
— Ti senti di dire una cosa simile a prima vista, eh? Perbacco, che
critico!
— Ma guarda tu stesso! Non sei mica cieco. Quei gialli violenti, per
esempio. Non si può immaginare niente di più disordinato.
Vincent lanciò un’occhiata ai quadretti dei girasoli.
— È tutto quel che sai dire dei miei girasoli?
— No, amico mio. Trovo molte altre cose da criticare.
— Per esempio?
— I tuoi accordi. Sono monotoni e incompleti.
— Non è vero!
— Siediti, Vincent. Smettila di guardarmi come se mi volessi
ammazzare. Io ho parecchi anni più di te, e maggiore esperienza. Tu sei
ancora alla ricerca di te stesso. Ascoltami soltanto, e ti darò dei
suggerimenti molto utili.
— Scusa Paul. Ci tengo moltissimo al tuo aiuto.
— E allora, per prima cosa devi sbarazzarti il cervello da una quantità di
sciocchezze. Far piazza pulita di tutto il ciarpame. È tutto il giorno che mi
scocci con i tuoi entusiasmi per Meissonier e Monticelli. Non valgono
niente, né l’uno né l’altro. Finché ammiri una pittura di quel genere, non
farai mai un buon quadro.
— Monticelli era un grande pittore. Il miglior colorista del suo tempo.
— Era un ubriacone incretinito, ecco quel che era.
Vincent balzò in piedi e gli scoccò un’occhiata feroce. La scodella
cadde dalla tavola e si spezzò sul pavimento.
— Non parlare a questo modo di «Fada»! Io gli voglio quasi bene come
a mio fratello! Beveva, dicono; dicono che era matto. Pettegolezzi,
calunnie! Un ubriacone non avrebbe saputo dipingere i quadri che ha
dipinto lui. La fatica mentale per equilibrare i sei colori essenziali, la
tensione e i calcoli a cui doveva sottoporsi per risolvere nel giro d’una
mezz’ora cento problemi, richiedono una mente ben sana, ben lucida. Non
certo una mente d’alcolizzato. Quando tu vai ripetendo queste stupide
dicerie su «Fada», ti dimostri semplicemente maligno come quella
donnacciola che le ha messe in circolazione.
— Turlututu, mon chapeau pointu!
Vincent fece un balzo indietro, come se gli avessero gettato in faccia un
bicchiere d’acqua gelida, con la gola strozzata dall’ira e dalle parole che
avrebbe voluto dire. Cercò di dominarsi, di calmarsi, ma inutilmente. E
s’avventò nella sua stanza da letto, sbattendo la porta.

8.

La mattina dopo, il litigio era già dimenticato. Bevvero il caffè insieme,


quindi uscirono ognuno per conto proprio in cerca di soggetti. Tornando a
casa la sera, esausto dallo sforzo di raggiungere ciò ch’egli chiamava
l’equilibrio dei sei colori essenziali, Vincent trovò Gauguin già intento a
preparare la cena sul fornello a gas. Per un po’ di tempo chiacchierarono
tranquillamente del più e del meno poi la conversazione scivolò sulla pittura
e sui pittori, unico argomento che li interessasse appassionatamente.
E i contrasti tornarono a divampare.
I pittori che incontravano l’ammirazione di Gauguin suscitavano il
disprezzo di Vincent; gli idoli di Vincent erano per Gauguin oggetto di
anatemi. In materia di pittura, dissentivano su ogni punto. Di qualsiasi altra
cosa avrebbero potuto discorrere con serena cordialità; ma la pittura
rappresentava tutto per loro, la pittura era l’interesse supremo della loro
esistenza. Difendevano e sostenevano le proprie idee fino allo stremo delle
forze. Gauguin valeva due volte Vincent in fatto di forza bruta, ma questi
aveva il vantaggio di un potere d’eccitazione nervosa che gli assicurava un
valido compenso.
Anche quando discutevano di cose su cui erano fondamentalmente
d’accordo, i loro argomenti erano terribilmente carichi d’elettricità.
Uscivano da quelle dispute col cervello esausto come una batteria
d’accumulatori scarichi.
— Non sarai mai un artista, Vincent, fino a quando non saprai osservare
la natura, tornare nel tuo studio e dipingerla a freddo.
— Ma io non voglio dipingere a freddo, idiota! Voglio dipingere col
sangue in ebollizione! È per questo che sto ad Arles.
— Tutti questi tuoi quadri sono semplici copie servili della natura. Devi
imparare a improvvisare.
— Improvvisare! Ah, buon Dio!
— E non basta. Avresti fatto bene a dare ascolto a Seurat. La pittura è
una cosa astratta, bimbo mio. Nella pittura non c’è posto per le storie che tu
racconti e per le conclusioni morali che vuoi mettere in evidenza.
— Conclusioni morali? Tu sei pazzo.
— Se hai voglia di predicare, torna alla carriera ecclesiastica. La pittura
è colore, linea e forma: nient’altro. L’artista può riprodurre quanto v’è di
decorativo nella natura, e basta.
— Arte decorativa! — sbuffò Vincent. — Se non sai cavar altro dalla
natura, ti conviene rimetterti a far l’agente di cambio.
— In questo caso, verrò a sentire le tue prediche domenicali. Che cosa
cavi fuori tu dalla natura, Brigadier?
— Del movimento, Gauguin, e il ritmo della vita.
— Siamo fuor di strada.
— Quando io dipingo il sole, voglio dare l’impressione del suo
movimento vertiginoso, la sensazione della luce e del calore che si
sprigiona dalla sua tremenda potenza. Quando dipingo un campo di grano,
voglio far sentire lo slancio vitale con cui ogni atomo, in ogni pianticella,
tende a svilupparsi, a crescere, a prorompere nella maturazione. Quando
dipingo una mela, voglio che la gente ne senta il succo che preme contro la
buccia, i semi del torsolo che aspirano ad uscire, a germogliare, a dar frutto.
— Quante volte devo dirti che un pittore non deve avere teorie?
— Prendiamo questo quadro, Gauguin. Una vigna. Guarda! Questi acini
stanno per scoppiare, per schizzarti il loro succo negli occhi. To’, osserva
questo burrone. Io voglio dar la sensazione dei milioni di tonnellate d’acqua
che sono occorsi per farlo franare. Se dipingo un ritratto d’uomo, voglio che
chi lo guarda immagini tutto il corso dell’esistenza di quest’uomo, tutto ciò
che ha visto, fatto e sofferto!
— E dove vorresti arrivare, in sostanza?
— A questo. I campi che danno vita al grano, l’acqua che precipita sul
fianco del burrone, il succo degli acini d’uva, la vita e il passato dell’uomo
sono un’unica e identica realtà. L’unità della vita consiste esclusivamente in
un’unità di ritmo. Un ritmo a cui tutti danziamo: uomini, mele, burroni,
campi, carri in mezzo al grano, case, cavalli, il sole. La materia di cui tu sei
composto, Gauguin, sarà domani la polpa dell’acino, perché tu e l’acino
siete una cosa sola. Quando dipingo un contadino che lavora nei campi,
voglio far sentire che il contadino si compenetra con la terra, proprio come
il grano, e che a sua volta la terra si spinge verso il contadino e si
compenetra con lui. Voglio far sentire che il sole filtra nel contadino, nella
terra, nel grano, nell’aratro e nei cavalli, e che questo movimento è
reciproco. Quando cominci ad avvertire il ritmo universale in cui tutto si
muove sulla terra, allora cominci a comprendere la vita. Questo è Dio.
— Brigadier, vous avez raison!
Vincent s’era infervorato fino a raggiungere il più alto vertice
d’emozione, ed era scosso da sussulti febbrili. Le parole di Gauguin gli
fecero l’effetto d’uno schiaffo in piena faccia. Rimase lì a bocca aperta e
con gli occhi spalancati, con l’aria di un idiota.
— Che cosa vuoi dire con questo Brigadier, vous avez raison?
— Voglio dire che sarebbe ormai tempo di andare a berci un absinthe.
Al termine della seconda settimana Gauguin propose: — Stasera
andiamo a provare quel tuo postribolo. Può darsi che io ci trovi una bella
ragazzona grassa.
— Stai però alla larga da Rachel. È di mia proprietà. S’inerpicarono per
quel labirinto di viuzze ed entrarono nella casa di tolleranza. All’udire la
voce di Vincent, Rachel corse nell’atrio e gli si gettò tra le braccia. Vincent
presentò l’amico a Louis, il proprietario.
— Monsieur Gauguin — disse Louis — voi siete un artista. Vorreste
darmi il vostro parere sugli ultimi due quadri che ho acquistato l’anno
scorso a Parigi?
— Volentieri. Dove li avete comprati?
— Da Goupil, in Place de l’Opera. Sono in questo salotto. Prego,
Monsieur, entrate.
Rachel condusse Vincent nella saletta a sinistra, gli offrì una sedia
accanto a un tavolo e si sedette sulle sue ginocchia.
— Sono sei mesi che vengo qui — borbottò Vincent — e Louis non mi
ha mai chiesto un parere su quei quadri.
— Non ti considera un artista, fou-rou.
— Forse ha ragione.
— Tu non mi vuoi più bene — si lamentò Rachel facendo le boccucce.
— Perché dici questo, Pigeon?
— Hai lasciato passare diverse settimane senza venire a trovarmi.
— Ero occupato a preparare l’alloggio per l’arrivo del mio amico.
— Mi vuoi dunque bene, anche se stai lontano?
— Anche se sto lontano.
Ella gli pizzicò le orecchie piccole e tonde, poi gliele baciò tutte e due.
— E per dimostrarmelo, fou-rou, mi darai queste tue buffe orecchiette?
— Prenditele, se puoi staccarle.
— Oh, fou-rou! Bisognerebbe che fossero soltanto cucite, come quelle
della mia bambola.
Dal salotto situato dall’altra parte dell’atrio s’udì una specie di urlo,
seguito da una serie di strilli e di uggiolii che potevano essere tanto una
risata quanto dei gemiti. Vincent respinse la ragazza, attraversò di corsa la
stanza, poi l’atrio ed entrò nel salotto.
Gauguin si torceva sul pavimento, piegato in due, convulso, con la
faccia rigata di lacrime. Louis, con la lampada in mano, lo guardava
sbalordito e confuso. Vincent si chinò sull’amico, lo scosse.
— Paul, Paul, che succede?
Gauguin tentò di parlare, ma non poté. Infine gli spiegò, ansimando: —
Vincent… finalmente… siamo vendicati… Guarda… guarda… su quella
parete… I due quadri… che Louis ha comprato da Goupil… per il salotto di
questo lupanare… sono due Bouguereau!
Si tirò su, e mosse risolutamente verso la porta.
— Aspetta un momento! — gli gridò Vincent, correndogli dietro. —
Dove vai?
— All’ufficio telegrafico. Bisogna che telegrafi immediatamente questa
notizia agli amici del Gruppo Batignolles.
L’estate divampava in tutto il suo furibondo calore. La campagna era
tutto un tumultuoso fiammeggiare di colori. I verdi, gli azzurri, i gialli e i
rossi erano così violenti da far male agli occhi. Il sole bruciava tutto ciò che
toccava. La vallata del Rodano vibrava d’incessanti ondate di riverberi. Il
sole flagellava spietatamente i due pittori, li pestava, li riduceva in poltiglia
vivente, succhiava tutta la loro capacità di resistenza. Poi venne il mistral a
sferzarli, a straziar loro i nervi, a scuoter loro brutalmente la testa sul collo
tanto che s’aspettavano di sentirsela portar via. Eppure ogni mattina
uscivano di casa al levar del sole e lavoravano finché all’urlante azzurro del
giorno subentrava l’urlante azzurro della notte.
Tra Vincent e Gauguin — l’uno un autentico vulcano, l’altro un cumulo
di energie continuamente in ebollizione — si preparava un fiero scontro. La
sera, quand’erano troppo sfiniti per addormentarsi, troppo nervosi per
starsene tranquilli, spendevano tutte le loro residue energie ad aggredirsi
l’un l’altro. Vedendosi preclusa ogni possibilità di distrazione e di
divertimento dalla magra situazione finanziaria, sfogavano le passioni
represse esasperandosi a vicenda. Gauguin non si stancava mai di far
infuriare Vincent e di gettargli in faccia, quando lo vedeva al colmo del
parossismo, il suo solito ritornello: Brigadier, vous avez raison!
— Non mi fa meraviglia che tu non possa dipingere, Vincent. Dài
un’occhiata al disordine che c’è in questo studio. Guarda che pasticcio, in
questa scatola di colori. Perdio, se il tuo testone olandese non fosse tanto
infiammato per Daudet e Monticelli, potresti fare un po’ di pulizia, mettere
un po’ d’ordine intorno a te.
— Cose che non ti riguardano, Gauguin. Questo è il mio studio.
Padronissimo, tu, di tenere il tuo come ti pare.
— Dal momento che siamo in argomento, posso anche dirti che il tuo
cervello non è meno disordinato e caotico della tua scatola di colori. Mentre
ti sbrodoli d’ammirazione per tutti i pittori di francobolli che ci sono in
Europa, non sai capire che Degas…
— Degas! Che cosa ha mai fatto che possa reggere il confronto con un
quadro di Millet?
— Millet! Quello sdolcinato sentimentale! Quel…
Al sentir schernire Millet, ch’egli considerava come suo maestro e padre
spirituale, Vincent diventava una bestia. Si lanciava contro Gauguin, lo
inseguiva di stanza in stanza. Gauguin scappava. La casa era piccola.
Vincent gli lanciava grida furiose, lo arringava, gli agitava i pugni sotto la
faccia. Le loro risse tempestose e assordanti si protraevano fino a tarda ora
della notte calda e opprimente.
Lavoravano entrambi come dannati per realizzare se stessi e cogliere la
natura in questo studio di maturità. Ogni giorno si battevano con le loro
fiammeggianti tavolozze, ogni notte si battevano nell’urto delle loro
contrastanti individualità. E quando non s’azzuffavano, i loro discorsi
amichevoli erano così chiassosi ed esplosivi che riusciva impossibile
dormire. Ricevuto del denaro da Theo, lo spendevano immediatamente in
tabacco e absinthe. Faceva troppo caldo per poter mangiare. Credevano che
l’alcool dovesse calmar loro i nervi. Invece li eccitava ancor di più.
S’alzò un infernale mistral, che li ridusse a star tappati in casa. Gauguin
non poteva lavorare. Passava il suo tempo a far inviperire Vincent. Non
aveva mai visto nessuno infuriarsi a tal segno per delle semplici idee.
Vincent rappresentava il suo unico divertimento. Ed egli lo sfruttava a
fondo.
— Calmati, Vincent, stattene buono — gli disse una sera. Il mistral
infuriava da cinque giorni. Gauguin aveva ridotto l’amico in un tal stato
d’esasperazione che, al confronto della tempesta scoppiata nella casa gialla,
l’urlo demoniaco del vento pareva un dolce alito di brezza.
— E se ti calmassi anche tu, Gauguin?
— Vedi, sarà un caso, ma parecchi individui che avevano l’abitudine di
star molto in mia compagnia e di discutere con me sono impazziti.
— È una minaccia che mi fai?
— No, è un avvertimento.
— Tienteli per te, i tuoi avvertimenti.
— Benissimo. Ma non prendertela poi con me, se dovesse accader
qualcosa.
— Oh, Paul, finiamola con queste continue risse. Riconosco che come
pittore vali più di me. Riconosco che puoi insegnarmi molto. Ma non voglio
che tu mi disprezzi, capisci? Ho sgobbato ben nove anni, e per Cristo, ho
anch’io qualcosa da dire nel campo di questa maledetta arte! Ammettilo una
buona volta. Non è forse vero che ho anch’io qualcosa da dire? Parla,
Gauguin!
— Brigadier, vous avez raison!
Il mistral s’acquetò, gli abitanti di Arles ardirono nuovamente cacciare
il naso fuor di casa. Tornò a infuriare il sole. Sulla città incombeva
un’atmosfera di febbre. La polizia dovette occuparsi di delitti di violenza.
La gente s’aggirava con occhi iniettati d’eccitazione. Nessuno rideva.
Nessuno parlava. I tetti di pietra s’arroventavano al sole. In Place Lamartine
si ebbero risse violente, con guizzi di coltelli. C’era in aria un sentore di
catastrofe imminente. La tensione diventava insostenibile. La vallata del
Rodano pareva in procinto d’esplodere in milioni di frammenti.
Vincent si ricordò del giornalista parigino.
«Che cosa accadrà? — si domandava. — Un terremoto? Una
rivoluzione?».
Nonostante tutto, continuava a dipingere in campagna, a capo scoperto.
Il calore incandescente del sole gli era indispensabile per sciogliere e far
fluire dentro di sé le terribili passioni che provava. Il suo cervello era un
crogiolo rovente che stillava un quadro dopo l’altro: quadri di fuoco.
Ad ogni nuova tela sentiva più chiaramente che tutti quei suoi nove anni
di faticosa ricerca convergevano nell’impeto creativo di queste settimane
per far di lui, sia pure soltanto per un breve istante, il completo e perfetto
artista. La sua produzione attuale superava notevolmente in valore quella
dell’estate precedente. Mai più avrebbe saputo esprimere maggiormente
l’essenza della natura e la propria essenza d’uomo.
Dipingeva dalle quattro del mattino al cader della notte. Creava due e
talvolta perfino tre quadri al giorno. Su ognuna di queste tele, che parevano
strappate a forza e con dolore dalle più intime fibre del suo essere,
profondeva un anno di vita. Vi si dissanguava. Non la durata della vita
aveva importanza per lui, bensì il modo d’impiegarla, giorno per giorno.
Misurava il tempo sui quadri che produceva, non sui fogli del calendario
che si staccano e cadono l’uno dopo l’altro.
Sentiva che la sua arte aveva raggiunto un punto culminante; sentiva
d’esser giunto al vertice supremo della sua esistenza, al momento cui aveva
affannosamente teso in tutti questi anni. Non sapeva quanto sarebbe durato.
Sapeva soltanto che doveva dipingere, dipingere altri quadri, ed altri, ed
altri ancora. Questo vertice della sua vita, questo esiguo punto d’infinito
doveva essere saldamente tenuto difeso, protratto fino a quando avesse
creato tutte quelle opere che ancora gli urgevano nell’anima.
Dipingendo tutto il giorno, azzuffandosi tutta la notte, non dormendo
affatto e mangiando pochissimo, saturandosi di sole, di colore,
d’eccitazione, di tabacco e d’assenzio, tormentati dagli elementi e dal loro
affanno creativo, tormentandosi a vicenda con i loro scoppi di collera e di
violenza, vivevano in uno stato di crescente tensione.
La sferza accanita del sole. Gli assalti implacabili del mistral. Gli occhi
feriti e lancinati dai colori della campagna. I visceri vuoti, infiammati ed
enfiati dall’absinthe. La casa che nelle notti tropicali pareva una nave
sballottata dalla tempesta…
Gauguin ritrasse Vincent in atto di dipingere una natura morta. Vincent
guardò il ritratto con occhi sbarrati. Comprendeva chiaramente, per la prima
volta, ciò che Gauguin pensava di lui.
— Sono indubbiamente io — disse. — Sono io, ma raffigurato come
pazzo.
Quella sera andarono al caffè. Vincent ordinò un absinthe. Ad un tratto
scagliò il bicchiere e il contenuto contro la testa di Gauguin. Questi scansò
il colpo; afferrò l’amico, lo sollevò a viva forza tra le braccia e riattraversò
la Place Lamartine. Vincent si trovò a letto e s’addormentò
immediatamente.
— Caro Gauguin — disse la mattina dopo, calmissimo — ricordo
vagamente di averti offeso ieri sera.
— Tutto perdonato — rispose Gauguin. — Ma un episodio come quello
di ieri sera potrebbe ripetersi. E se tu mi colpissi, potrei perdere il dominio
di me stesso e strangolarti. Permettimi quindi di scrivere a tuo fratello per
avvertirlo che torno a Parigi.
— No! No! Paul, non puoi fare una cosa simile. Abbandonare la casa
gialla? Ma tutto, qua dentro, è stato fatto per te!
La disputa proseguì, tempestosa, per tutta la giornata. Vincent lottava
disperatamente per trattenere con sé l’amico. Gauguin opponeva a tutte le
suppliche, a tutti gli argomenti, un’inesorabile resistenza. Vincent implorò,
blandì, imprecò, minacciò, pianse perfino. Dimostrò in questa battaglia
d’essere il più forte. Sentiva che tutta la sua vita dipendeva dalla possibilità
di non lasciar partire l’amico. Verso sera, Gauguin non ne poteva più.
Cedette, soltanto per poter finalmente respirare.
In ogni stanza della casa gialla l’atmosfera era carica e vibrante
d’elettricità. Gauguin non riusciva a chiuder occhio. Solo verso l’alba
s’addormentò d’un sonno leggero, agitato.
Lo ridestò una strana sensazione. Vide Vincent ritto accanto al letto, che
lo fissava nel buio.
— Che cosa fai qui, Vincent? — gli domandò seccamente.
Vincent uscì dalla stanza, tornò a letto e sprofondò in un sonno pesante.
La notte seguente, Gauguin si destò di soprassalto in preda alla stessa
strana sensazione. Vincent era nuovamente ritto accanto al suo letto e lo
fissava nel buio.
— Vincent, va’ a dormire!
Vincent ubbidì.
Il giorno dopo, a tavola, litigarono ferocemente per la minestra.
— Ci hai versato dentro il colore mentre io non vedevo! — urlò
Gauguin.
Vincent ruppe in una risata. E andò a scrivere sulla parete:

Je suis Saint Esprit


Je suis sain d’esprit.

Per diversi giorni tenne un contegno molto calmo, taciturno. Aveva


un’aria triste e depressa. Non disse quasi più una parola. Non toccò un
pennello. Non leggeva. Stava seduto su una sedia, con gli occhi fissi nel
vuoto.
Il pomeriggio del quarto giorno, mentre per le strade soffiava il mistral,
pregò Gauguin d’uscire con lui a fare una passeggiata.
— Andiamo fino al giardino pubblico. Ho una cosa da dirti.
— E non puoi dirmela qui, dove si sta tanto bene?
— No. Non riesco a parlare stando seduto. Ho bisogno di camminare.
— Be’, se proprio non puoi farne a meno…
S’avviarono lungo lo stradone che si snodava rasente al margine sinistro
della città. Per andare avanti erano costretti a tuffarsi a testa bassa nei
vortici del mistral, lottando contro la resistenza ch’esso opponeva ai loro
passi. I cipressi del parco si torcevano e si piegavano quasi fino a toccar
terra con le fronde.
— Che cos’è che vuoi dirmi? — domandò Gauguin.
Dovette urlare nell’orecchio dell’amico. Il vento arraffava e portava via
le parole prima che Vincent potesse afferrarne il senso.
— Ho riflettuto molto in questi giorni, Paul. E m’è balenata un’idea
meravigliosa.
— Scusami, se sono un po’ scettico sulle tue idee meravigliose.
— Siamo tutti quanti dei falliti, come pittori. E sai perché?
— Come? Non sento niente. Gridami nell’orecchio.
— Sai perché siamo tutti degli artisti falliti?
— No. Perché?
— Perché dipingiamo da soli.
— Che diavolo tiri fuori?
— Certe cose sappiamo farle bene, certe altre le facciamo male. E le
belle e le brutte le mettiamo tutte insieme nello stesso quadro.
— Brigadier, io pendo dalle tue labbra.
— Ricordi i fratelli Both? Due pittori olandesi. Il primo era molto abile
nel paesaggio, il secondo nelle figure. Facevano il quadro insieme. Uno
dipingeva il paesaggio, l’altro vi aggiungeva la figure. E raggiunsero il
successo.
— Ebbene, qual è la misteriosa conclusione di questa lunga storia?
— Come? Non ti sento. Vieni più vicino.
— Concludi, ho detto.
— Paul! Noi dobbiamo far la stessa cosa. Tu ed io. Seurat, Cézanne,
Lautrec, Rousseau. Dobbiamo lavorare insieme alla stessa tela. Questo sì
che sarebbe vero comunismo artistico. Ognuno contribuirà al quadro
secondo le sue attitudini speciali. Seurat farà il cielo. Tu il paesaggio.
Cézanne le superfici. Lautrec le figure. Io il sole e la luna e le stelle. Tutti
insieme, formeremmo un grande artista. Che ne dici?
— Turlututu, mon chapeau pointu!
E diede in un roco e selvaggio scoppio di risa. Il vento scagliò la beffa
sulla faccia di Vincent come spruzzi d’acqua marina.
— Brigadier — gridò Gauguin, non appena poté riprender fiato — se
questa non è la più grande idea del mondo, sono contento d’ingoiare un
cane. Scusami se rido così.
E si lanciò avanti per il viale con passo barcollante, piegato in due,
tenendosi la pancia.
Vincent si piantò lì come una statua.
Uno stormo di merli invase il cielo, migliaia di uccelli neri che
fischiavano e battevano le ali. Gli piombarono addosso con un urto
violento, lo sommersero, gli volarono tra i capelli, nel naso, nella bocca,
nelle orecchie, negli occhi, lo avvolsero in un denso nero soffocante turbine
d’ali frenetiche.
Gauguin tornò indietro.
— Su, Vincent, andiamo fin da Louis. Un’idea formidabile come la tua,
sento davvero il bisogno di celebrarla.
Vincent lo seguì silenziosamente in Rue des Ricolettes.
Gauguin salì nella camera d’una ragazza.
Rachel si sedette sulle ginocchia di Vincent, nel salottino.
— Non vieni su con me, fou-rou?
— No.
— Perché?
— Non ho i cinque franchi.
— Allora mi darai l’orecchia?
— Certo.
Gauguin tornò ben presto. I due amici ridiscesero alla casa gialla.
Gauguin ingollò la cena, poi uscì senza dir parola. Era quasi giunto in fondo
alla Place Lamartine quando sentì dietro a sé un passo ben noto: corto,
rapido, irregolare.
Si voltò.
Vincent stava precipitandosi su di lui con un rasoio aperto in mano.
Gauguin non si mosse: stette lì, rigido, fissandolo.
Vincent si fermò a due passi di distanza. Nel buio, scoccò a Gauguin
un’occhiata terribile. Abbassò la testa, fece dietro-front e corse verso casa.
Gauguin andò in un albergo. Si fece assegnare una stanza, chiuse a
chiave la porta e si mise a letto.
Vincent entrò in casa. Salì nella sua camera. Prese lo specchio di cui
s’era servito tante volte per dipingere il proprio ritratto, e lo posò sul tavolo
da toeletta appoggiandolo contro il muro.
Guardò nello specchio i suoi occhi iniettati di sangue. Basta. La sua vita
era finita. Se lo leggeva nel volto.
— Meglio troncar gli indugi.
Alzò il rasoio. Sentì contro la pelle della gola la lama fredda e tagliente.
Voci gli sussurravano strane cose.
Il sole d’Arles ergeva un accecante muro di fuoco tra i suoi occhi e lo
specchio.
Si recise d’un colpo l’orecchia destra.
Rimase soltanto una piccola parte del lobo.
Lasciò cadere il rasoio. S’avviluppò la testa in un asciugamani. Il
sangue sgocciolava sul pavimento.
Raccolse l’orecchia dalla bacinella. La lavò per bene. L’avvolse in
diversi fogli di carta da disegno. Poi ne fece un pacchetto con un foglio di
giornale.
Si cacciò in testa un berretto basco, tirandolo da una parte in modo che
coprisse la bendatura. Scese le scale, uscì. Attraversò la Place Lamartine,
s’inerpicò fino in Rue des Ricolettes, suonò il campanello della casa di
tolleranza.
Venne una donna ad aprirgli.
— Mandatemi Rachel.
Rachel venne subito.
— Ah, sei tu, fou-rou. Che cosa vuoi?
— Ti ho portato una cosa.
— Per me? Un regalo?
— Sì.
— Come sei gentile, fou-rou!
— Conservalo con cura. È un mio ricordo.
— Che cos’è?
— Apri, e vedrai.
Rachel disfece l’involto. Alla vista dell’orecchia, sbarrò gli occhi dal
terrore. Poi stramazzò in terra, svenuta.
Vincent le volse le spalle. Ridiscese la collina. Riattraversò la Place
Lamartine. Entrò in casa, chiuse la porta e andò a dormire.
Tornando la mattina dopo alle sette e mezzo, Gauguin trovò un crocchio
di gente ferma davanti alla porta. Roulin si torceva disperatamente le mani.
— Che cosa avete fatto al vostro amico, Monsieur? — domandò un
individuo in bombetta, con tono brusco e severo.
— Non so.
— Oh sì, lo sapete benissimo… È morto.
Gauguin stentò parecchio a riaversi dal colpo. Gli occhi di quella gente,
fissi su di lui, parevano volerlo fare a pezzi, strangolarlo.
— Andiamo su, Monsieur — balbettò. — Là potremo spiegarci.
Sui pavimenti delle due camere a pianterreno c’erano degli asciugamani
inzuppati di sangue. E anche la scala che conduceva alla stanza di Vincent
presentava tracce di sangue.
Vincent giaceva sul letto, avviluppato nelle lenzuola, ringobbito in una
posizione a cane di fucile. Sembrava morto. Gauguin lo toccò con infinita
delicatezza. Era caldo. Gauguin ricuperò di colpo, a questa constatazione,
tutta la sua energia, tutta la sua lucidità mentale.
— Monsieur — disse sottovoce al commissario di polizia — abbiate la
gentilezza di svegliare quest’uomo con tutti i riguardi possibili. Se domanda
di me, ditegli che sono partito per Parigi. La mia vista gli sarebbe fatale.
Il commissario mandò a chiamare un medico e una vettura. Vincent
venne portato all’ospedale. Roulin correva accanto alle vettura, ansando.

9.

Il dottor Felix Rey, giovane interno dell’ospedale di Arles, era un


individuo basso, vigoroso, con una testa ottagonale su cui spuntava
un’ispida massa di capelli neri. Medicò la ferita, poi fece portare Vincent in
una stanzetta nuda come una cella, da cui era stata asportata ogni cosa.
Uscendo, ne chiuse a chiave la porta.
Verso l’ora del tramonto, mentre stava tastandogli il polso, Vincent si
svegliò. Fissò il soffitto, poi il muro intonacato di bianco, poi il rettangolo
di cielo che si scuriva nel varco della finestra. I suoi occhi, vagando
lentamente, si posarono infine sul viso del dottor Rey.
— Salve — disse con un filo di voce.
— Salve — rispose il dottore.
— Dove sono?
— Nell’ospedale di Arles.
— Oh…
Una smorfia di dolore gli contrasse la faccia. Alzò la mano per toccarsi
l’orecchia. Il dottor Rey gli fermò il braccio.
— Non dovete toccare.
— Sì… Ora ricordo…
— È una bella ferita, netta, che non presenta nessun pericolo. In pochi
giorni vi rimetterò in piedi, vecchio mio.
— Dov’è il mio amico?
— Ha fatto ritorno a Parigi.
— Già, capisco… posso fare una fumata?
— Non ancora, amico mio.
Il dottor Rey gli lavò la ferita, gliela bendò.
— È un incidente di ben poca importanza — disse. — Dopo tutto, un
individuo ode benissimo anche senza quelle due foglie di cavolo che porta
appiccicate alla testa. Non ne sentirete la mancanza.
— Siete molto buono, dottore. Ma perché questa stanza… è così vuota?
— Ho fatto portar via tutto per proteggervi.
— Da chi?
— Da voi stesso.
— Sì… Capisco.
— Bene, adesso devo andare. Vi manderò l’inserviente con la cena.
Cercate di starvene lì disteso, tranquillo. La perdita di sangue vi ha
indebolito molto.
Svegliandosi la mattina dopo, Vincent trovò Theo seduto al suo
capezzale: pallido, i lineamenti tesi, gli occhi stravasati.
— Theo…
Theo s’inginocchiò al letto, gli prese la mano, s’abbandonò senza
vergogna, senza reazione, ad un pianto angosciato.
— Theo… Sempre… quando mi sveglio… e ho bisogno di te… tu mi
sei accanto.
Theo non riusciva a parlare.
— È stata una crudeltà farti venire fin qui. Come hai saputo?
— Gauguin m’ha telegrafato ieri. Ho preso il treno della notte.
— Gauguin ha fatto male a farti affrontare questa spesa… Sicché sei
stato su tutta la notte.
— Naturalmente, Vincent.
Tacquero alcuni istanti.
— Ho parlato col dottor Rey, Vincent. Dice che è stato l’effetto d’un
colpo di sole. Lavoravi a capo scoperto, vero?
— Sì.
— Ebbene, vedi, vecchio mio, non dovevi. In avvenire bisognerà che tu
porti sempre il cappello Molta gente, qui ad Arles, si busca delle
insolazioni.
Vincent gli strinse affettuosamente le dita. Theo si sforzò di liberarsi dal
groppo che aveva in gola.
— Ho una notizia da darti, ma sarà bene che lasci passare qualche
giorno.
— Una bella notizia, Theo?
— Credo che ti farà piacere. Entrò il dottor Rey.
— Dunque, come sta il nostro malato stamattina?
— Dottore, posso dare a mio fratello una buona notizia?
— Direi di sì. Un momento, lasciatemi soltanto dare un’occhiata alla
ferita. Sì, va bene. Non tarderà a cicatrizzarsi.
Quando il medico fu uscito dalla stanza, Vincent domandò quale fosse
la notizia.
— Vincent — disse Theo — io… ebbene, io… sono fidanzato.
— Davvero?
— Sì. Con una ragazza olandese. Si chiama Johanna Bunger. Trovo che
somiglia molto alla mamma.
— Le vuoi bene?
— Sì. Mi sono sentito così disperatamente solo, dopo la tua partenza da
Parigi. Non provavo questa malinconia, prima della tua venuta; ma dopo
aver vissuto insieme due anni…
— Io sono sempre stato un pessimo compagno, Theo. Temo d’averti
fatto passare un brutto periodo.
— Oh, Vincent, se sapessi quante volte, entrando nell’appartamento
della Rue Lepic, mi sono immalinconito di non vedere più le tue scarpe
sulla credenza e le tue tele ancora fresche di colore sparpagliate sul mio
letto! Ma non parliamo più. Ora devi riposare. Accontentiamoci di trovarci
vicini.
Theo si trattenne ad Arles due giorni. Partì soltanto quando il dottor Rey
lo assicurò che Vincent era ormai sulla via della guarigione e che egli ne
avrebbe avuto cura non solo come d’un ammalato, ma anche come d’un
amico.
Roulin veniva a trovarlo ogni sera, portandogli dei fiori. La notte,
Vincent soffriva d’allucinazioni. Il dottor Rey, per combattere l’insonnia,
metteva della canfora sul guanciale e sulle coperte.
Al termine del quarto giorno, quando vide che Vincent era tornato nel
pieno possesso delle sue facoltà mentali, ordinò di riaprire la stanza e di
riportarvi i mobili.
— Posso alzarmi, dottore?
— Sì, se vi sentite abbastanza forte. Andate a prendere un po’ d’aria,
poi venite nel mio ufficio.
L’ospedale di Arles era un edificio a due piani, di forma quadrangolare,
con in mezzo un cortile pieno di fiori dai colori sgargianti e di felci, solcato
da vialetti di ghiaia. Vincent vi si aggirò lentamente per un po’ di tempo,
quindi si recò nell’ufficio del dottor Rey, situato a pianterreno.
— Come vi sentite, ora che siete in piedi?
— Benissimo, dottore.
— Ditemi, Van Gogh: perché avete fatto una cosa simile?
Vincent rimase lungamente silenzioso.
— Non so — disse infine.
— A che cosa pensavate in quel momento?
— Non… non pensavo a nulla, dottore.
Di giorno in giorno, le forze gli tornavano. Una mattina, mentre stava
discorrendo col dottor Rey nella stanza di quest’ultimo, prese un rasoio sul
lavabo e l’aprì.
— Non vi siete ancora raso, dottore. Volete che vi rada io?
Il dottor Rey indietreggiò in un angolo, facendosi schermo al viso con la
mano.
— No! No! Giù quel rasoio!
— Ma io sono davvero un buon barbiere, dottore. Saprei radervi alla
perfezione.
— Giù quel rasoio, Vincent!
— Non abbiate paura, amico mio. Ormai non c’è più pericolo.
Alla fine della seconda settimana, il dottor Rey gli diede il permesso di
rimettersi a dipingere. Venne mandato un inserviente alla casa gialla per
prendere il cavalletto, tele e colori. Per fare piacere a Vincent, il dottor Rey
consenti a posare. Vincent lavorava pian pianino, un poco ogni giorno.
Quando il ritratto fu terminato, ne fece dono al medico.
— Vorrei che lo teneste per mio ricordo, dottore. Non ho altro modo di
dimostrarvi la mia gratitudine per la bontà che mi avete usato.
— Molto gentile, Vincent. Ne sono lusingato.
Il dottor Rey si portò il ritratto a casa e se ne servì per coprire una
screpolatura della parete.
Vincent rimase ancora due settimane all’ospedale. Dipinse il cortile
immerso nel sole. Lavorava tenendo in testa un grande cappello di paglia.
Impiegò le due settimane a finire questo quadro.
— Passate pure tutti i giorni a trovarmi — gli disse il dottor Rey,
stringendogli la mano all’uscita dell’ospedale. — E ricordatevi: niente
absinthe, niente eccitazione, e non lavorare al sole a capo scoperto.
— Prometto, dottore. E grazie di tutto.
— Scriverò a vostro fratello che adesso siete completamente rimesso.
Il padrone di casa intendeva espellerlo; già aveva fatto un contratto di
locazione con un tabaccaio. Vincent era profondamente affezionato a questa
casa, che rappresentava il vincolo più forte, l’unico anzi, che lo legasse alla
terra di Provenza. L’aveva dipinta tutta lui, dentro e fuori. Nonostante
quanto era accaduto, la considerava tuttora come la sua vera casa, il suo
durevole e inalienabile focolare; ed era ben deciso a resistere ad oltranza
per difendere i propri diritti di fronte al padrone di casa.
A tutta prima provò un senso di paura nel trovarsi solo la notte, a causa
dell’insonnia contro cui la canfora si rivelava purtroppo inefficace. Il dottor
Rey gli aveva dato del bromuro di potassio, per eliminare le sue spaventose
allucinazioni. Infine le voci che gli bisbigliavano strane cose all’orecchio si
spensero: tornavano soltanto a farsi udire in certi incubi notturni.
Era troppo debole, per andare a lavorare all’aperto. La serenità
dell’animo tornava lentamente. Di giorno in giorno il sangue riacquistava
vigore, l’appetito cresceva. Pranzò con Roulin al ristorante: e fu un pranzo
allegro, spensierato. Riprese di buona lena un ritratto della signora Roulin,
rimasto incompiuto al momento dell’increscioso episodio. Gli piaceva il
modo con cui aveva graduato i rossi dal rosa all’arancione, passando
attraverso tutta una gamma di gialli, con verdi di varia intensità.
Con la salute, gli tornava di pari passo il gusto del lavoro. Aveva sempre
saputo che uno può rompersi una gamba od un braccio, e guarire; ma non
avrebbe mai immaginato che uno potesse rovinarsi il cervello e ricuperare
tuttavia le sue facoltà mentali.
Un giorno tornò a trovare Rachel, per vedere come stesse.
— Pigeon, ti prego di scusarmi.
— Oh, figurati, fou-rou! Non ti devi preoccupare. In questa città
accadono sovente fatti di quel genere.
Gli amici che venivano a scambiar quattro parole con lui lo
assicuravano che in Provenza tutti andavano soggetti ad accessi
d’allucinazione e di pazzia.
— Niente di strano, Vincent — gli disse Roulin. — Qui nel paese di
Tartarin siamo tutti un po’ tocchi.
— Bene, bene, tra noi ci comprendiamo come membri di una stessa
famiglia!
Passarono alcune settimane. Vincent poteva ora lavorare tutto il giorno
nel suo studio. Non aveva più pensieri di follia e di morte. Cominciava a
sentirsi quasi del tutto normale.
Tornò ad avventurarsi per la campagna. Il sole sfolgorava sul giallo
pomposo delle messi. Ma egli non riusciva più a coglierlo, a imprigionarlo
nei suoi quadri. Aveva mangiato regolarmente, dormito regolarmente,
evitato ogni occasione d’eccitazione e d’entusiasmo troppo intenso.
Si sentiva così normale, che non sapeva più dipingere.
— Siete un grand nerveux, Van Gogh — gli aveva detto il dottor Rey.
— Non siete mai stato un individuo normale. D’altronde, nessun artista lo
è; altrimenti non sarebbe un artista. Gli individui normali non creano opere
d’arte. Mangiano, dormono, attendono alle loro faccende consuete e
muoiono. Voi siete ipersensibile alla vita e alla natura: e appunto per questo
sapete interpretare per tutti noi. Ma se non starete in guardia, questa stessa
ipersensibilità vi condurrà alla rovina. Nessun artista regge ad una tensione
troppo prolungata.
Vincent sapeva che per raggiungere quella pulsante nota gialla che
dominava nelle sue precedenti tele arlesiane avrebbe dovuto trovarsi in uno
stato di estrema tensione psicologica, di palpitante eccitazione, di infocata
sensibilità, di tormentosa esasperazione nervosa.
Solo a questa condizione avrebbe potuto ricuperare l’estro d’un tempo.
Ma era questa una strada che conduceva a rovinose catastrofi.
«Un artista deve assolutamente portare a compimento la propria opera
— rifletteva. — È stupido e assurdo che io continui a vivere, se non so
dipingere come voglio».
E riprese ad aggirarsi per la campagna a capo scoperto, assorbendo la
forza violenta del sole. Ribevve a grandi sorsate i pazzi colori del cielo, la
vertiginosa sfera gialla di fuoco, il verde dei campi e le tinte esplodenti dei
fiori. Si lasciò sferzare dal mistral, soffocare dai densi cieli notturni,
esasperare dai girasoli. A mano a mano che l’eccitazione cresceva, egli
andava perdendo l’appetito. Ricominciò a vivere di caffè, d’assenzio e di
tabacco. La notte, giaceva insonne; negli occhi stravasati, un pazzo
susseguirsi di colori. La mattina, si gettava in ispalla il cavalletto e via per
la campagna.
Ricuperò l’estro e la potenza d’un tempo, quel suo senso del ritmo
universale della natura, quella sua capacità di buttar giù in poche ore un
quadro di grandi proporzioni inondandolo di sole. Ogni giorno una nuova
creazione; ogni giorno un più alto livello di fervore. Dipinse trentasette tele
senza un’interruzione.
Una mattina si svegliò con un senso di intontimento. Non riuscì a
rimettersi al lavoro. Si sedette. Fissò la parete di fronte. Rimase quasi tutto
il giorno inchiodato in una cupa immobilità, riassalito dalle voci ben note
che gli sussurravano all’orecchio strane cose. Verso l’imbrunire si recò nel
ristorante grigio, s’accasciò su una sedia e ordinò un piatto di minestra.
L’ostessa gliela portò. Una voce stridula gli trillava nell’orecchio parole
d’allarme.
Afferrò il piatto e lo scagliò sul pavimento, dove si ruppe in tanti pezzi.
— Voi volete avvelenarmi! — urlò. — Avete messo il veleno nella
minestra!
Balzò in piedi e si mise a dar calci alla tavola. Alcuni avventori
fuggirono. Altri stavano a guardarlo sbalorditi.
— Tutti quanti volete avvelenarmi! Tutti quanti volete uccidermi! L’ho
ben visto, il veleno nella minestra!
Entrarono due gendarmi e lo portarono a viva forza all’ospedale.
Dopo ventiquattr’ore era nuovamente calmo, e discuteva della faccenda
col dottor Rey. Lavorava ogni giorno un poco, usciva a far passeggiate per
la campagna, rientrava nell’ospedale, cenava e andava a dormire. Aveva
talvolta accessi di indescrivibile angoscia, in cui gli pareva si squarciasse
per un attimo il velo del tempo, lasciandogli travedere inevitabili catastrofi.
Il dottor Rey gli permetteva nuovamente di lavorare. Dipinse un orto di
peschi lungo una strada, con in fondo le Alpi; un boschetto d’olivi dalle
foglie d’argento verdognolo contro l’azzurro del cielo, e ai piedi degli alberi
il terreno d’un colore arancione.
Venne dimesso dopo una ventina di giorni. Ma ormai in città, e
specialmente nei paraggi della Place Lamartine, spirava per lui vento
cattivo. La storia dell’orecchia tagliata e l’episodio della minestra
avvelenata erano più di quanto questa gente potesse tollerare con una certa
equanimità. Gli arlesiani erano ormai giunti alla ferma convinzione che la
pittura conducesse alla pazzia. Al suo passare lo fissavano intensamente,
pronunciavano commenti ostili, talvolta attraversavano perfino la strada per
evitarlo.
In tutta la città non c’era più un ristorante dove gli si permettesse
d’entrare.
I ragazzini di Arles si radunavano davanti alla casa gialla e si
divertivano a tormentarlo.
— Fou-rou! Fou-rou! Tagliati l’altra orecchia! Vincent chiudeva le
finestre. Ma le grida e le risa penetravano ugualmente.
— Fou-rou! Fou-rou!
— Matto! Matto!
Avevano composto una strofetta e gliela cantavano a squarciagola sotto
le finestre:

Fou-rou era un bel pazzo


che si tagliò l’orecchia.
Ora hai un bel gridare:
fou-rou non sente più.

Vincent provò ad uscire di casa per sfuggire ai loro motteggi. Inutile.


Lo seguivano per le strade, per la campagna, tutta un’allegra frotta di
monelli che cantilenavano e ridevano.
Di giorno in giorno, le loro adunanze dinanzi alla casa gialla
diventavano sempre più numerose. Vincent si tappò le orecchie con
dell’ovatta. Eseguiva copie dei propri quadri. Le grida dei monelli
filtravano attraverso i muri, gli si incidevano a fuoco nel cervello.
I ragazzini si fecero più audaci e sfrontati. S’arrampicavano come
scimmiette su per i tubi delle gronde, si sedevano sui davanzali delle
finestre, spiavano nella stanza e urlavano motteggi.
— Fou-rou, tagliati l’altra orecchia!
— Vogliamo l’altra orecchia!
La Place Lamartine diventò un vero pandemonio. I monelli
improvvisarono una specie d’impalcatura che consentisse loro
d’arrampicarsi fino al piano superiore. Rompevano i vetri, cacciavano
dentro la testa, tiravano a Vincent sassi ed altri oggetti. Di sotto, la gente li
incoraggiava facendo eco ai loro lazzi e alle loro grida.
— Gettaci l’altra orecchia! Vogliamo anche l’altra!
— Fou-rou! Vuoi una pasta dolce? Guarda che è avvelenata!
— Fou-rou! Vuoi un piatto di minestra? Guarda che è avvelenata!

Fou-rou era un bel pazzo


che si tagliò l’orecchia.
Ora hai un bel gridare:
fou-rou non sente più.

I monelli appollaiati sul davanzale della finestra dirigevano dall’alto il


coro. E cantavano tutti quanti, con un poderoso crescendo.
— Gettaci l’altra orecchia, fou-rou, gettaci l’altra orecchia!
— GETTACI L’ALTRA ORECCHIA, fou-rou, GETTACI L’ALTRA ORECCHIA!
Vincent si staccò di scatto dal cavalletto, avventandosi contro tre
ragazzini che urlavano sul davanzale. Essi ridiscesero a precipizio. Dalla
folla sottostante si levò un mugghio minaccioso. Vincent rimase immobile
davanti alla finestra, guardando giù.
Uno stormo enorme di merli sbucò dal cielo, migliaia di uccelli neri che
fischiavano e battevano le ali. Ottenebrando tutta la Place Lamartine, gli
piombarono addosso con un urto violento, riempirono la stanza, lo
sommersero, gli volarono tra i capelli, nel naso, nella bocca, negli occhi,
avvolgendolo in un denso nero soffocante turbine d’ali frenetiche.
Vincent balzò sul davanzale della finestra.
— Andatevene via! Lasciatemi in pace! Sentite, sì o no, vigliacchi?
Lasciatemi in pace, per amor di Dio!
— GETTACI L’ALTRA ORECCHIA, fou-rou, GETTACI L’ALTRA ORECCHIA!
— Andatevene via! Lasciatemi in pace! Sentite, sì o no? Lasciatemi in
pace!
Afferrò la bacinella che si trovava sul tavolo e la scagliò contro la folla.
La bacinella si fracassò sul selciato. Si diede a correre furiosamente per la
stanza, agguantando tutto ciò che gli capitava sotto mano e scaraventandolo
dalla finestra. Sedie, cavalletto, specchio, tavolino, coperte, quadri di
girasoli, tutto venne rovesciato come una gragnuola sulla piazza. E ad
ognuno di questi oggetti era legato un ricordo dei giorni trascorsi nella casa
gialla, dei sacrifici compiuti per acquistare, ad uno ad uno, queste
suppellettili che dovevano arredare la casa dove egli s’era proposto di
trascorrere il resto dei suoi giorni.
Quando vide la stanza completamente spoglia, si piantò davanti alla
finestra, i nervi agitati da fremiti spasmodici. E cadde bocconi sul
davanzale, con la testa spenzolante sulla piazza.

10.

Immediatamente venne fatta circolare una petizione, che raccolse le


firme d’una novantina di persone tra uomini e donne.

«Al sindaco Tardieu:


«Noi sottoscritti cittadini di Arles siamo fermamente convinti che
Vincent Van Gogh, residente in Place Lamartine 2, è un pazzo pericoloso,
da non lasciare in circolazione.
«Vi chiediamo pertanto di voler provvedere, nella vostra qualità di
sindaco, a farlo ricoverare».

S’era nell’imminenza delle elezioni comunali, e il sindaco Tardieu non


desiderava affatto perdere dei voti. Ordinò quindi al commissario di polizia
di arrestare Vincent.
I gendarmes lo trovarono disteso sul pavimento, svenuto, sotto la
finestra. Lo portarono nelle carceri. Venne rinchiuso in una cella, con
chiave e catenaccio, e una guardia alla porta.
Quando rinvenne, Vincent chiese di parlare col dottor Rey. Non gli fu
concesso. Chiese un foglio e una matita per scrivere a Theo. Non gli fu
concesso.
Finalmente il dottor Rey riuscì ad ottenere il permesso di vederlo.
— Cercate di reprimere l’indignazione, Vincent; altrimenti si
convinceranno davvero che siete un pazzo pericoloso, e sarà la fine per voi.
D’altronde ogni emozione troppo forte non farebbe che aggravare le vostre
condizioni. Io scriverò a vostro fratello, e tra tutti e due, vedremo di cavarvi
di qua.
— Vi supplico, dottore, non lasciate venir qui Theo. Deve sposarsi in
questi giorni. Gli rovinerei tutto quanto.
— Gli dirò di non venire. Credo d’aver trovato un buon progetto per
voi.
Il dottor Rey tornò due giorni dopo. La porta della cella era ancora
sorvegliata dalla guardia carceraria.
— Sentite, Vincent. Proprio ora ho assistito al vostro sfratto dalla casa
gialla. Il padrone ha fatto immagazzinare i vostri mobili nelle cantine d’un
suo caffè, e ha messo sotto chiave i vostri quadri. Dice che non vi restituirà
nulla fino a quando non abbiate pagato l’affitto.
Vincent taceva.
— Dal momento che là non potrete più tornare — riprese il dottor Rey
— vi consiglio di aderire al mio progetto. Nessuno può dire quante volte
potrete ancora andar soggetto a questi attacchi epilettici. Molto potranno
giovarvi la calma e la tranquillità, un ambiente piacevole, la mancanza
d’ogni occasione d’eccitazione; ma non è da escludere che possiate essere
ancora ripreso da accessi saltuari, a intervalli d’un mese o due. E quindi, per
il vostro bene e per il bene altrui, ritengo che vi converrebbe… entrare in
una…
— Una casa di salute?
— Appunto.
— Allora credete che io sia…
— No, caro Vincent, non lo siete. Vedete voi stesso che siete sano di
mente quanto me. Ma questi attacchi epilettici sono come qualsiasi altro
stato febbrile: fanno perdere l’uso della ragione. E quando sopravviene una
crisi nervosa, naturalmente si compiono azioni irragionevoli. Ecco perché vi
conviene farvi ricoverare in un ospedale, dove ci sia qualcuno che vi curi e
vi sorvegli.
— Capisco.
— Conosco un buon istituto a Saint-Remy, ad appena venticinque
chilometri di qua. Si chiama St.-Paul de Mausole. La retta mensile è di tre
categorie. La più bassa s’aggira sui cento franchi: una cifra a cui potete
arrivare. Si tratta di un ex monastero, situato ai piedi delle colline. Un bel
posto, Vincent, e tranquillo, tanto tranquillo. Avrete un medico per
consigliarvi, delle suore che vi assisteranno. Un vitto semplice e sano. Vi
rimetterete in salute.
— Mi si permetterà di dipingere?
— Ma certo, vecchio mio! Vi si permetterà tutto ciò che vorrete…
purché si tratti di cosa che non vi faccia del male. Vi sembrerà di trovarvi in
un grande ospedale. In capo a un anno, se saprete mantenervi calmo, sarete
completamente guarito.
— Ma come posso uscire di qua?
— Ho parlato col commissario di polizia, il quale acconsente a lasciarvi
andare a St.-Paul de Mausole, purché vi ci porti io.
— E dite che è davvero un bel posto?
— Oh, incantevole, Vincent. Troverete materia per una quantità di
quadri.
— Magnifico, allora. Cento franchi al mese, non è poi molto. Forse io
ho proprio bisogno di trascorrere un anno in assoluta tranquillità.
— Appunto. Ho già scritto a vostro fratello, esponendogli quest’idea, e
gli ho fatto presente che nelle vostre condizioni attuali non sarebbe
consigliabile farvi intraprendere un lungo viaggio, e tanto meno rimandarvi
a Parigi. Gli ho detto che secondo me St.-Paul è proprio il posto che fa per
voi.
— Be’, se Theo è d’accordo… Io sono disposto a qualunque cosa, pur
di non causargli altri grattacapi.
— Aspetto la sua risposta da un momento all’altro. Appena l’avrò
ricevuta, verrò a riferirvela.
Theo non aveva altre possibilità di scelta, e comunicò il proprio assenso,
inviando in pari tempo il denaro necessario per pagare i debiti del fratello. Il
dottor Rey condusse Vincent in carrozza fino alla stazione, dove presero il
treno per Tarascona e, quindi, il trenino locale che risalendo una verde e
fertile vallata portava a Saint-Remy.
Per arrivare a St.-Paul de Mausole bisognava attraversare la città e
percorrere due chilometri di strada su per un’erta collina. Vincent e il dottor
Rey noleggiarono una vettura. La strada s’inerpicava risolutamente verso
una dorsale nera, spoglia. Vincent non tardò a scorgere, annidate là in
fondo, le mura scure dell’antico monastero.
La vettura si fermò. Vincent e il dottor Rey scesero. A destra della
strada s’apriva uno spiazzo circolare con un tempio di Vesta e un arco di
trionfo.
— Come si spiega la presenza di questi monumenti da queste parti? —
domandò Vincent.
— Un tempo, c’era qui un’importante colonia romana. Il fiume, che
vedete laggiù, occupava anticamente l’intera vallata. Le sue acque
arrivavano fin qui. A mano a mano che il fiume si ritrasse, la città prese a
scendere sempre più in basso lungo il fianco della collina. Attualmente non
ne resta più nulla, all’infuori di questi monumenti e del monastero.
— Interessante.
— Andiamo, Vincent. Il dottor Peyron ci aspetta.
Si staccarono dalla strada e infilarono un viale di pini che conduceva
all’ingresso dell’edificio. Il dottor Rey tirò il pomo di metallo d’uno
squillante campanello. Pochi istanti dopo la porta s’aprì e apparve il dottor
Peyron.
— Come state, dottor Peyron? Vi ho portato il mio amico Vincent Van
Gogh, come già vi avevo scritto. So di affidarlo in buone mani.
— Potete esserne sicuro, dottor Rey. Avremo cura di lui.
— Mi scuserete, ma devo scappar subito. Mi resta appena il tempo di
tornare a prendere il treno per Tarascona.
— Ma certo, dottor Rey. Capisco.
— Addio, Vincent. State di buon animo, e vi troverete bene. Verrò a
trovarvi il più spesso possibile. Sono certo che tra un anno sarete
completamente ristabilito.
— Grazie, dottore. Siete stato molto buono con me. Addio.
— Addio, Vincent.
Il dottor Rey si volse e s’allontanò lungo il viale di pini.
— Volete accomodarvi, Vincent? — disse il dottor Peyron, scansandosi.
Vincent entrò.
La porta del manicomio si chiuse alle sue spalle.
PARTE SETTIMA

SAINT-REMY

1.

La corsia dove dormivano i ricoverati pareva la sala d’aspetto di terza


classe d’una stazione ferroviaria in un villaggio di cadaveri viventi. I pazzi
andavano sempre bardati di tutto punto — cappello, occhiali, bastone,
soprabito — come se fossero continuamente in procinto di partire per ignota
destinazione.
Suor Deschanel guidò Vincent per la lunga camerata e gli indicò un
letto libero.
— Ecco il vostro letto, Monsieur. La sera tirerete le tende, per decenza.
Appena sistemato, il dottor Peyron vi aspetta nel suo studio.
Gli undici individui seduti intorno alla stufa spenta non mostrarono di
aver notato l’arrivo di Vincent, né fecero commenti. Suor Deschanel si
riallontanò lungo la corsia con la sua inamidata gonna bianca e il rigido
velo nero che dalla testa le scendeva per le spalle.
Vincent posò la valigia e si guardò intorno. Ai due lati della camerata
s’allineavano letti inclinati ad un angolo di cinque gradi, ognuno con le sue
bacchette da cui pendevano sudice tende color crema. Un soffitto di rozze
travi, pareti intonacate di bianco, al centro una stufa col tubo che usciva dal
fianco sinistro. Una sola lampada, appesa sopra la stufa.
Vincent si meravigliò del silenzio di quegli uomini. Non discorrevano.
Non leggevano. Non giocavano. Guardavano la stufa, curvi sui loro bastoni.
Alla testa del letto c’era un armadietto fissato al muro. Ma Vincent
preferì tenere le sue cose nella valigia. Mise nell’armadietto la pipa, il
tabacco e un libro, spinse la valigia sotto il letto e uscì in giardino, passando
dinanzi ad una fila di stanze scure, umide, chiuse e abbandonate.
Il giardino — ossia l’antico chiostro del monastero — era
completamente deserto. Sotto i grandi pini crescevano erbe alte, incolte, con
grovigli di piante rampicanti. Le mura racchiudevano un ristagnante
quadrato di sole. Vincent svoltò a sinistra e bussò alla porta della casa
privata dove abitava il dottor Peyron con la sua famiglia.
Il dottor Peyron aveva fatto il medico di Marina a Marsiglia, poi
l’oculista. Da ultimo, ammalatosi di gotta, s’era cercato questo posticino
tranquillo in piena campagna.
— Vedete, Vincent — disse, aggrappandosi con ambe le mani agli
angoli della scrivania — un tempo curavo la salute del corpo, adesso curo la
salute dell’anima. Ma è sempre lo stesso mestiere.
— Voi che avete visto tanti casi di malattie nervose, dottore, sapreste
spiegarmi perché mi sono tagliata l’orecchia?
— Si tratta di un fatto tutt’altro che eccezionale, tra gli epilettici. Ho
dovuto occuparmi di due casi analoghi. I nervi auricolari diventano
estremamente sensibili, e il malato crede di liberarsi dalle allucinazioni
recidendosi l’orecchia.
— Ah… capisco. E quali cure devo fare?
— Cure? Ebbene… sì, farete almeno due bagni caldi alla settimana. Su
questo, insisto. E dovreste stare due ore nell’acqua. Serviranno a calmarvi.
— E che altro, dottore?
— Mantenervi perfettamente calmo. Evitare ogni occasione
d’eccitazione. Non lavorare, non leggere, non discutere, non accalorarvi.
— Lo so, sono troppo debole per lavorare.
— Se non volete partecipare alle funzioni religiose di St.-Paul, dirò alle
suore di non farvi nessuna pressione. Quando vi occorresse qualcosa, venite
liberamente da me.
— Grazie, dottore.
— Si pranza alla cinque. Sentirete il segnale. Cercate di adattarvi il più
rapidamente possibile alle regole e alle consuetudini della vita
dell’ospedale. Anche questo contribuirà ad accelerare la vostra guarigione.
Vincent riattraversò il giardino incolto, cercò l’arcata del portico dalle
mura vetuste e screpolate, entrò nella sezione riservata ai ricoverati di terza
categoria e ripassò lungo quella fila di stanzucce scure e deserte. Tornato
nella camerata, si sedette sul letto. I suoi compagni erano sempre lì intorno
alla stufa, silenziosi. Ad un tratto udì un tramestio nel locale attiguo. Gli
undici uomini s’alzarono con un’aria di torva decisione e si precipitarono
rumorosamente fuor dalla camerata. Vincent li seguì.
Il refettorio consisteva in un locale senza finestre, con la nuda terra per
pavimento. Un’unica tavola, lunga e rozza, con alcune panche. Il servizio
era svolto dalle suore. Il cibo sapeva di muffa, come in una pensione
d’infimo ordine. Venne dapprima portata la minestra, con del pane nero;
venne poi servito un piatto di ceci, fagioli e lenticchie. I suoi compagni
mangiavano ingordamente, raccogliendo le briciole sul palmo della mano e
leccandole con la lingua.
Finito il pasto, tornarono ad occupare esattamente i posti di prima
intorno alla stufa, sprofondandosi con intensa concentrazione nelle delizie
della digestione. Terminata la quale, ad uno ad uno s’alzarono, si
svestirono, tirarono le tende e si misero a letto. Vincent non li aveva ancora
sentiti pronunciare una parola.
Il sole stava appena tramontando. Egli s’affacciò alla finestra e
contemplò la vallata verdeggiante. Contro un meraviglioso cielo color
limone pallido si profilavano i pini malinconici, con squisite trinature nere.
Questo spettacolo non suscitò in lui nessuna emozione, nemmeno il più
lieve desiderio di dipingerlo.
Rimase affacciato alla finestra fino a quando l’oscurità della densa sera
provenzale s’insinuò nel cielo assorbendone tutto il colore. Nessuno venne
ad accendere una lampada. Null’altro si poteva fare, in quest’oscurità, se
non pensare alla propria vita.
Vincent si svestì e si mise a letto. Rimase disteso ad occhi aperti,
fissando le travi del soffitto. L’inclinazione del letto lo faceva scivolare
verso il centro della camerata. S’era portato da Arles un libro di Delacroix.
Tastò nell’armadietto, trovò il volume e se ne premette la copertina in pelle
contro il cuore, nel buio. Questo contatto gli diede un senso di conforto: lo
rassicurò. Egli non apparteneva alla categoria di questi disgraziati che lo
circondavano, ma a quella cui apparteneva il grande maestro le cui parole
sapienti e consolanti gli penetravano, attraverso la solida rilegatura del
libro, nel cuore gonfio d’indicibile tormento.
Finalmente s’addormentò. Fu svegliato da gemiti sommessi che
provenivano dal letto vicino al suo. I gemiti si fecero sempre più forti,
finché si tramutarono in grida e in fiotti di parole veementi.
— Via, via! Smettetela d’inseguirmi! Perché m’inseguite? Non l’ho
ucciso io! Non crediate d’ingannarmi, di prendervi gioco di me. Vi conosco.
Siete quelli della polizia segreta. Ebbene, frugatemi pure, se volete! Non
sono stato io a derubarlo. S’è ucciso lui stesso, mercoledì! Via, via! Per
amor del cielo, lasciatemi in pace!
Vincent balzò giù dal letto, scostò la tenda e vide un giovane biondo, sui
ventitré anni, che si lacerava con i denti la camicia da notte. Scorgendo
Vincent, il poveretto cadde in ginocchio giungendo fervorosamente le mani.
— Monsieur Mounet-Sully, non portatemi via! Non sono stato io, ve lo
giuro! Io non sono un sodomita! Sono avvocato e mi occuperò delle vostre
cause, Monsieur Mounet-Sully; ma non arrestatemi! È assurdo che io
l’abbia ucciso, mercoledì. E il denaro non l’ho. Guardate! Vedete che non
c’è?
Buttò via le coperte e si diede a scompigliare convulsamente il letto, in
preda ad un parossismo di frenesia maniaca, seguitando ad apostrofare la
polizia segreta ed a scolparsi dalle pretese accuse. Vincent non sapeva che
fare. Sembrava che tutti gli altri compagni di camerata dormissero della
grossa.
Si precipitò verso il letto del vicino, tirò la tenda e scosse il compagno.
Questi aprì gli occhi e lo fissò con aria idiota.
— Alzatevi e aiutatemi a tenerlo fermo. Temo che si faccia del male.
L’individuo prese a sbavare dall’angolo destro della bocca,
barbugliando suoni inarticolati.
— Presto! — insisté Vincent. — Bisogna che ci mettiamo in due per
immobilizzarlo.
Si sentì una mano sulla spalla. Si voltò: era uno dei ricoverati più
anziani.
— Inutile perder tempo con costui. È un idiota. Da quando è qui, non ha
ancor detto una parola. Venite, vi aiuterò io a tranquillizzare quel ragazzo.
Il giovane biondo aveva scavato con le unghie un buco nel materasso e
vi stava rannicchiato sopra, in ginocchio, accanendosi a cavarne manciate di
crine. Quando vide nuovamente Vincent, si mise a gridare citazioni legali.
Poi gli picchiò con le mani sul petto.
— Sì, sì, sono io che l’ho ucciso! Sono io che l’ho ucciso! Ma non per
pederastia. Io non faccio di queste cose, Monsieur Mounet-Sully. E non è
stato mercoledì scorso. L’ho fatto per il denaro. Guardate. È qui. Ho
nascosto il portafogli nel materasso. Ve lo troverò! Ordinate soltanto alla
polizia segreta di non pedinarmi più! Ho il diritto d’esser lasciato a piede
libero, anche se l’ho ucciso. E vi citerò dei casi per dimostrarvelo…
Attenzione, adesso lo tiro fuori dal materasso.
— Prendetelo per l’altro braccio — disse l’anziano a Vincent.
Lo tennero disteso sul letto, ma egli continuò a vociare e a dimenarsi
per oltre un’ora. Infine, esausto, emise soltanto più un roco borbottìo e
s’addormentò d’un sonno febbrile. L’uomo anziano s’accostò a Vincent.
— Questo ragazzo studiava da avvocato, e s’affaticò troppo il cervello.
Circa ogni dieci giorni va soggetto ad attacchi di questo genere. Ma non fa
mai del male a nessuno. Buona notte, Monsieur.
Tornò a letto e si riaddormentò subito. Vincent s’avvicinò nuovamente
alla finestra che dava sulla vallata. L’alba era ancora lontana; non si vedeva
se non la stella del mattino. Ricordò il quadro in cui Daubigny aveva
appunto dipinto l’astro del mattino: un quadro che esprimeva tutta l’infinita
pace e maestà dell’universo… e l’angoscia del povero essere smarrito e
dolorante che, da quaggiù, alzava lo sguardo a quella stella solitaria.

2.

La mattina seguente, dopo colazione, i ricoverati uscirono in giardino.


Oltre il muro di fondo si scorgeva la nuda e desolata barriera di colline,
morta da quando i romani l’avevano attraversata per la prima volta. Vincent
stette a guardare i suoi compagni che giocavano fiaccamente alle bocce. Poi
si sedette su una panchina di pietra e osservò i folti alberi coperti d’edera, il
terreno rigato da strisce iridescenti di lumache. Le suore (dell’ordine di San
Giuseppe d’Aubenas) si avviavano verso l’antico tempietto romano,
figurine in bianco e nero, gli occhi profondamente infossati nella testa,
facendo scorrere tra le dita i grani dei loro rosari e mormorando le preghiere
mattutine.
Dopo aver giocato silenziosamente per un’ora, i ricoverati tornarono
nella camerata e si sedettero intorno alla stufa spenta. La loro completa
inerzia sgomentava Vincent, il quale non riusciva a comprendere come mai
non avessero nemmeno un vecchio giornale da leggere.
Quando non ne poté più, uscì nuovamente in giardino e s’aggirò
lentamente tra gli alberi. Anche il sole, a St.-Paul, sembrava moribondo.
Il vecchio monastero era stato costruito secondo il tradizionale schema
quadrangolare: a nord l’ala dei ricoverati di terza categoria; ad est
l’abitazione del dottor Peyron, la cappella e il chiostro del decimo secolo; a
sud il reparto dei ricoverati di prima e seconda categoria; ad ovest il cortile
dei pazzi pericolosi e un lungo muro di creta. Unica uscita, il portone chiuso
a chiave e sprangato. Le mura di cinta erano alte più di tre metri e mezzo,
tutte lisce, impossibili a scalarsi.
Vincent tornò a sedersi su una panca presso un cespuglio di rose
selvatiche. Cercò di riflettere, di farsi un’idea ben chiara delle cause per cui
si trovava a St.-Paul. Ma un senso agghiacciante di spavento e d’orrore gli
precluse la possibilità di ragionare. Il cuore era chiuso tanto alla speranza
quanto al desiderio.
Si diresse nuovamente, con passo pesante e incerto, verso la camerata.
Attraversando il portico, udì uno strano guaiolare canino. Prima che fosse
giunto alla porta della camerata, questo verso s’era mutato in un urlio di
lupo.
Vincent s’inoltrò per la camerata. Nell’angolo in fondo, vòlto verso il
muro, vide l’uomo anziano della notte precedente. Con la faccia alzata
verso il soffitto, i lineamenti stravolti in un’espressione bestiale, costui
urlava con tutta la forza dei suoi polmoni. Quel guaito da lupo pareva un
richiamo lanciato da una strana giungla. Tutta la stanza era invasa da quel
verso lamentoso.
«In quale recinto di bestie in gabbia sono mai capitato?», si domandò
Vincent.
Gli uomini raccolti intorno alla stufa non ci badavano nemmeno. L’urlio
bestiale del disgraziato, là nell’angolo, attinse una disperata veemenza.
— Bisogna far qualcosa per lui! — esclamò Vincent, lanciandosi in
quella direzione.
Il giovane biondo lo trattenne.
— Meglio lasciarlo stare. Se gli dite qualcosa, dà in smanie. Tra qualche
ora sarà tutto finito.
I muri del monastero erano molto spessi, ma anche a tavola, per tutta la
durata del desinare, Vincent udì le mutevoli grida dello sciagurato che
laceravano il vasto silenzio. Per tutto il pomeriggio rimase nell’angolo in
fondo al giardino, cercando di sottrarsi all’ossessione di quei guaiti
frenetici.
A cena quella stessa sera, un giovane che aveva il lato destro paralizzato
afferrò un coltello, scattò in piedi e si puntò la lama sul cuore.
— È venuto il momento! Ora mi uccido! L’individuo seduto alla sua
destra s’alzò stancamente e gli artigliò il braccio.
— Oggi no, Raymond. È domenica.
— Sì, sì, oggi! Non voglio più vivere! Mi rifiuto di vivere! Giù quelle
mani! Voglio uccidermi.
— Domani, Raymond, domani. Oggi non è la giornata adatta.
— Lasciami andare! Mi pianterò questo coltello nel cuore. Devo
uccidermi, ti dico!
— Lo so, lo so, ma non ora. Non ora.
Gli strappò di mano il coltello e lo ricondusse in camerata, piangente di
rabbiosa impotenza.
Vincent si rivolse all’uomo che gli sedeva accanto, un individuo che nel
portare il cucchiaio alla bocca fissava con gli occhi orlati di rosso le proprie
dita tremolanti.
— Che cos’ha quel tale?
Il sifilitico abbassò il cucchiaio. — Da un anno a questa parte, non è
passato un giorno senza che Raymond abbia tentato di uccidersi.
— E perché tenta di farlo proprio qui? Perché non si porta via il coltello,
per suicidarsi quando tutti siamo a letto?
— Forse non ha voglia di morire, Monsieur.
La mattina dopo, mentre Vincent li guardava giocare alle bocce, uno di
loro stramazzò improvvisamente a terra, in preda a convulsioni.
— Presto! — gridò qualcuno. — Ha un attacco d’epilessia.
— Tenetegli le braccia e le gambe!
Ci vollero quattro uomini per tenerlo. Si contorceva con una forza
incredibile. Il giovane biondo si frugò in tasca, ne tolse un cucchiaio e lo
conficcò a viva forza tra i denti dell’epilettico.
— Qua, tenetegli la testa! — gridò a Vincent.
L’epilettico ebbe una serie di convulsioni di crescente violenza. Gli
occhi roteavano nelle orbite, gli angoli della bocca si lordavano di schiuma.
— Perché gli tenete quel cucchiaio tra i denti? — domandò Vincent.
— Perché non si morda la lingua.
Dopo mezz’ora di contorcimenti e di spasimi, l’epilettico sprofondò in
uno stato di completo intontimento. Vincent e due altri lo portarono a letto.
E con questo fu tutto finito: nessuno ne parlò più.
In capo a quindici giorni Vincent aveva visto ognuno dei suoi compagni
rivelare la propria forma di pazzia o d’infermità: l’agitato che si strappava i
panni di dosso e fracassava tutto ciò che gli capitava sotto mano; l’uomo
che guaiva come una bestia; i due sifilitici; l’individuo affetto da mania
suicida; gli epilettici che andavano soggetti ad accessi di furia selvaggia e
d’esaltazione frenetica; quello che soffriva di mania di persecuzione; il
giovane biondo che si credeva pedinato dalla polizia segreta.
Non passava giorno che uno di loro non fosse còlto da un accesso del
proprio male; non passava giorno che Vincent non fosse chiamato a
soccorrere uno di questi disgraziati. I ricoverati di terza categoria dovevano
farsi reciprocamente da medici e da infermieri. Peyron si faceva vedere
appena una volta la settimana, i sorveglianti si occupavano esclusivamente
degli ospiti di prima e seconda categoria. Questi poveri diavoli stavano
sempre insieme, vicini; s’aiutavano vicendevolmente nei momenti penosi,
con infinita pazienza; ognuno di loro sapeva che da un momento all’altro
sarebbe venuto il suo turno e che allora avrebbe avuto bisogno dell’aiuto e
della sopportazione dei compagni.
Una fraternità di pazzi.
Vincent era contento d’esser venuto qui. Di fronte alla realtà quotidiana
della vita dei pazzi andava lentamente liberandosi da un vago senso di
paura: la paura della demenza. A poco a poco imparava a considerare la
pazzia come una malattia qualunque. Nel corso della terza settimana
s’accorse di non provar più di fronte ai suoi compagni di sventura
un’impressione diversa da quella che gli avrebbero ispirato individui malati
di tisi o di cancro.
Discorreva spesso con l’idiota. Questi sapeva rispondere soltanto con
barbugliamenti incoerenti, ma Vincent intuiva che il poveretto lo
comprendeva ed era lieto di dir qualcosa. Le suore non rivolgevano mai la
parola ai ricoverati, se non per impartire ordini. La porzione settimanale di
rapporti con persone sane di mente si riduceva per Vincent ai cinque minuti
di conversazione col dottor Peyron.
— Ditemi, dottore: perché i miei compagni non parlano mai tra loro?
Alcuni sembrano abbastanza intelligenti, quando stanno bene.
— Non possono conversare, Vincent, perché non appena cominciassero
a parlare litigherebbero, si ecciterebbero e ne seguirebbe inevitabilmente un
accesso di pazzia furiosa. Hanno imparato ormai che l’unico sistema per
tirare avanti è il silenzio, la calma assoluta.
— Tanto varrebbe che fossero morti, non vi pare? Peyron si strinse nelle
spalle. — Questione di punti di vista, mio caro Vincent.
— Ma perché non leggono almeno? Io penso che i libri…
— La lettura metterebbe in moto la loro fantasia, ecciterebbe il cervello,
e si può esser certi che avrebbero subito un violento attacco. No, amico
mio. Bisogna che non escano dal loro chiuso mondo personale. E non è
nemmeno il caso di rattristarsi per loro. Ricordate ciò che diceva Dryden?
«La pazzia è un piacere di cui nessun pazzo si rende conto».
Passò un mese. Vincent non provò mai il minimo desiderio di evasione.
Né ebbe occasione di notarlo negli altri. Comprese ch’essi avevano tutti
quanti la sensazione d’essere troppo in sfacelo per affrontare la vita fuori di
questo recinto.
Su tutta la camerata incombeva un fetore d’uomini in dissoluzione.
Vincent esercitava un rigido dominio su se stesso, in attesa del giorno in
cui si sentisse nuovamente nell’anima il desiderio e la forza di dipingere. I
suoi compagni vegetavano pigramente, pensando soltanto ai tre pasti
giornalieri. Per premunirsi contro il pericolo di quella resa alla tentazione
dell’arte, Vincent non toccava quasi cibo limitandosi a mangiare un po’ di
pane nero e di minestra. Theo gli mandò un volume di tragedie di
Shakespeare; egli lesse il Riccardo II, l’Enrico IV e l’Enrico V, vivendo col
pensiero in altre epoche e in altri luoghi.
E intanto conduceva una strenua battaglia per impedire al dolore di
invadergli il cuore come acque in una palude.
Theo s’era sposato. Lui e la moglie, Johanna, gli scrivevano spesso.
Sapendo che Theo non stava troppo bene, Vincent si preoccupava più per
lui che non per se stesso e scriveva a Johanna di preparargli sani e
sostanziosi piatti della cucina olandese, per rimediare agli effetti di dieci
anni di pasti al ristorante.
Sapeva che la miglior distrazione per lui sarebbe stato il lavoro e che, se
avesse potuto rimettersi a dipingere con tutte le sue energie, questo sarebbe
stato per lui il più valido rimedio. I suoi compagni non avevano nulla che
potesse salvarli da un lento disfacimento; egli aveva invece la sua arte, che
lo avrebbe tratto fuori di qua completamente rinnovato, sano e felice.
Al termine della sesta settimana, il dottor Peyron gli assegnò una
stanzetta come studio. Tappezzeria grigio-verdognola; due tende verde-
mare, con rose di tinta smorta. Queste tende e una poltrona coperta d’una
fodera tutta spruzzi di colore come una tela di Monticelli erano state
lasciate da un ricoverato facoltoso, morto recentemente. La finestra dava su
un campo in pendio, che si spingeva verso liberi orizzonti. Ma era munita
d’una robusta inferriata nera.
Vincent dipinse rapidamente il paesaggio che gli si parava dinanzi allo
sguardo. In primo piano, le messi del campo, flagellate e piegate in seguito
a una tempesta. Giù per il pendio correva un muro divisorio; oltre il grigio
fogliame di alcuni ulivi, si travedeva uno scenario di casette e colline. Sopra
tutto questo, Vincent dipinse una grande nuvola grigia e bianca, immersa
nell’azzurro.
All’ora di cena tornò nella camerata, esultante. Non aveva perduto
l’antica forza. Ancora una volta s’era trovato a faccia a faccia con la natura.
La passione del lavoro s’era nuovamente impossessata di lui,
costringendolo a creare.
Ora le mura del manicomio non potevano più soffocarlo. Era sulla via
della guarigione; tra pochi mesi sarebbe uscito, sarebbe stato libero di
tornare a Parigi, dai suoi vecchi amici. La vita ricominciava. Scrisse a Theo
una lunga lettera tumultuosa, con richieste di colori, tela, pennelli e libri
interessanti.
La mattina dopo, quando spuntò un sole caldo e dorato, le cicale del
giardino cominciarono a frinire forte, dieci volte più forte di quanto
avevano cantato i grilli durante la notte. Vincent portò fuori il cavalletto e
dipinse i pini, i cespugli, le mura. I suoi compagni vennero a guardarlo
lavorare, allungando il collo sulle sue spalle, ma osservando un rispettoso
silenzio.
«Sono più educati della brava gente di Arles», pensò Vincent.
Nel tardo pomeriggio, si recò dal dottor Peyron.
— Ora sto benissimo, dottore, e vorrei che mi permetteste di andare a
lavorare all’aperto.
— Sì, avete indubbiamente una cera migliore. I bagni e il riposo vi
hanno giovato. Ma non credete che sia un po’ pericoloso uscire così presto?
— Pericoloso? Ma no. Perché?
— E… se vi prendesse un attacco in piena campagna?
Vincent rise. — Gli attacchi sono finiti per me, dottore. Non hanno più
niente a che vedere con me. Mi sento meglio di prima della malattia.
— No, Vincent. Temo che…
— Vi prego, dottore. Non capite quale felicità sarà per me il poter
andare dove voglio a dipingere le cose che amo?
— E sia. Se proprio sentite tanto il bisogno di lavorare…
E così si riaprirono per Vincent le porte del manicomio. Cavalletto in
spalle, egli andò in cerca di angoli pittoreschi. Passò tutta la giornata sulle
colline dietro l’antico monastero. I cipressi intorno a Saint-Remy presero ad
occupare tutti i suoi pensieri. Voleva dipingerne alcuni, come aveva fatto
con i girasoli. Si stupiva che nessuno li avesse mai dipinti come li vedeva
lui. Trovava nelle loro linee e nelle loro proporzioni una bellezza non
inferiore a quella degli obelischi egiziani: sprazzi di nero in un paesaggio
intriso di sole.
Tornò alle vecchie abitudini dei tempi di Arles. Partiva ogni mattina
all’alba, con una tela bianca; al cader del sole, sulla tela era stato fissato un
aspetto della natura. Se la sua vigoria e la sua abilità non erano più quelli
d’un tempo, egli non se ne accorgeva. Si sentiva ogni giorno più forte, più
vibrante, più sicuro di sé.
Adesso ch’era nuovamente padrone del proprio destino, non si
preoccupava più di mangiar poco. Divorava avidamente tutto. Aveva
bisogno di nutrirsi abbondantemente per poter lavorare. Non aveva più
nulla da temere. Godeva d’una perfetta lucidità di spirito.
Era da tre mesi ricoverato nel manicomio, quando trovò un motivo di
cipressi che gli fece dimenticare tutti i suoi guai, tutte le sofferenze passate.
Alberi massicci. Un primo piano irto di bassi rovi a cespugli. In fondo,
alcune colline violacee; in alto, un cielo verde e rosa con una falce di luna
calante. I cespugli erano molto folti, con tocchi di giallo, di violetto e di
verde. A sera, guardando questa tela, comprese d’essere finalmente uscito
dalla fossa e di trovarsi di nuovo sulla solida terra, con la faccia rivolta al
sole.
Nella gioia soverchiante del momento, si rivide libero, perfettamente
libero.
Ricevuto un invio di denaro da Theo, chiese ed ottenne il permesso di
recarsi ad Arles per ricuperare i suoi quadri. Gli abitanti della Place
Lamartine lo trattarono con gentilezza, ma la vista della sua casa gialla gli
fece molto male. Temette di svenire. Invece di andare a trovare Roulin e il
dottor Rey, come aveva progettato, si recò direttamente dal padrone di casa
che deteneva i suoi quadri.
Quella sera non fece ritorno al manicomio come aveva promesso. Lo
trovarono il giorno dopo fra Tarascona e Saint-Remy, lungo disteso per
terra, con la faccia in un fosso.

3.

Per tre settimane la febbre gli ottenebrò la mente. I compagni della


camerata, che egli aveva saputo compatire per i loro attacchi
periodicamente ricorrenti, si dimostrarono assai pazienti con lui. Quando fu
in condizione di rendersi conto di quanto era accaduto, non cessava di
ripetere: — È una cosa abbominevole…
Verso la fine della terza settimana, quando cominciava a potersi
muovere per la lunga e nuda corsia, le suore portarono un nuovo ospite.
Costui si lasciò docilmente condurre fino al letto assegnatogli; ma non
appena le suore se ne furono andate, diede in uno scoppio di collera
selvaggia. Si strappò di dosso i vestiti e li ridusse in brandelli, urlando come
un ossesso. Affondò gli artigli nelle coperte, nel materasso, e ne fece
scempio; strappò le tende; ruppe le bacchette dell’intelaiatura che le
sosteneva e pestò la valigia fino a ridurla in una massa informe.
I ricoverati non toccavano mai un nuovo arrivato. Giunsero infine due
infermieri e lo trascinarono via. Il maniaco venne rinchiuso in una delle
stanzette allineate lungo il corridoio. Per due settimane urlò come una belva
ferita. Vincent lo udiva giorno e notte. Poi le urla cessarono completamente.
Vincent vide gli infermieri seppellirlo nel piccolo cimitero dietro la
cappella.
Vincent fu preso da una terribile crisi di depressione. Più le sue
condizioni di salute si rifacevano normali, più il cervello ricuperava la
capacità di ragionare a sangue freddo, e più gli sembrava assurdo, idiota e
pazzesco continuare a dipingere, dal momento che gli costava così caro e
non gli rendeva un bel nulla. Eppure, se non lavorava non poteva vivere.
Il dottor Peyron gli dava carne e vino della propria tavola, ma non gli
permetteva più di metter piede nello studio che gli aveva precedentemente
assegnato. Finché durò la convalescenza, Vincent non se ne risentì troppo;
ma col tornar delle forze, nel vedersi condannato all’insopportabile inerzia
dei suoi compagni, si ribellò.
— Dottor Peyron, per guarire ho assolutamente bisogno di lavorare. Se
mi fate poltrire come quei pazzi, impazzirò anch’io.
— Capisco, Vincent. Ma è stato l’eccesso di lavoro a causarvi
quell’attacco. Io ho il dovere di tenervi lontano da ogni occasione di
turbamento.
— No, dottore, non è stato il lavoro. È stato il viaggio ad Arles. Non
appena ho visto la Place Lamartine e la mia casa gialla, mi sono sentito
male. Ma basterà che non ci torni più, e il pericolo sarà eliminato. Vi prego,
fatemi riaprire il mio studio!
— Non voglio assumermi questa responsabilità. Scriverò a vostro
fratello. Se acconsente, non avrò più nulla in contrario.
La lettera di risposta di Theo, oltre al consenso tanto atteso da Vincent,
recò una notizia meravigliosa: egli stava per diventar padre. Questa notizia
restituì a Vincent la felicità e la forza di cui aveva goduto prima dell’ultimo
attacco del male. Scrisse immediatamente al fratello una lettera riboccante
di giubilo.
«Sai che cosa ti auguro, Theo? Che la famiglia sia per te ciò che la
natura, le zolle di terra, l’erba, le messi biondeggianti e i contadini sono
per me, la creaturina che Johanna sta per dare alla luce ti darà modo di far
presa sulla realtà, come altrimenti ti sarebbe impossibile in una grande
città. Indubbiamente, ora sei anche tu profondamente radicato nella natura,
dal momento che mi scrivi che Johanna già sente il bambino agitarsi e
premere per venire al mondo».
Nel suo studio, dipinse ancora una volta il paesaggio che si scorgeva
attraverso l’inferriata della finestra: il campo con una piccola figura di
mietitore e un gran sole. Tutta una fiumana di giallo, rotta soltanto dal muro
che correva giù per lo scosceso pendio e dallo sfondo di colline violette.
Arrendendosi al desiderio espresso da Theo, il dottor Peyron gli permise
di andare a lavorare all’aperto. Vincent dipinse i cipressi che s’alzavano
ondeggiando dal terreno fino a toccare la gialla volta del cielo inondato di
sole. Ritrasse le raccoglitrici d’olive, con gli alberi dal fusto bronzeo e dal
fogliame verde-grigio, il cielo e le tre figure di donne in color rosa intenso.
Per istrada si fermava a chiacchierare con i contadini. In cuor suo si
riteneva inferiore a loro.
— Vedete — disse un giorno ad uno di essi — io fatico sulle mie tele
come voi faticate sui vostri campi.
Il tardo autunno provenzale raggiunse il punto focale della sua bellezza.
La terra s’ornò di tutti i suoi violetti; le erbe riarse fiammeggiavano intorno
ai piccoli rosai del giardino; i cieli verdi contrastavano suggestivamente con
le cangianti sfumature del fogliame ingiallito.
E col tardo autunno giunse per Vincent un periodo di pieno vigore. Vide
che il suo lavoro progrediva stupendamente. Nella sua mente era tutto un
germogliare di buone idee, ed egli godeva di lasciare che si sviluppassero.
Grazie al lungo soggiorno fatto in questa regione, cominciava a sentirla
profondamente. Una regione, questa, assai diversa da quella di Arles. La
violenza del mistral era notevolmente attenuata dalle alture che dominavano
la vallata. Il sole era assai meno accecante. Ora ch’era giunto a
comprendere questo lembo di terra, non provava più nessun desiderio di
andarsene dal manicomio, sebbene nei primi mesi fosse vissuto nel costante
terrore di dover impazzire. Immerso nel suo lavoro, non sapeva nemmeno
più se si trovasse in un manicomio o in un albergo. Pur sentendosi
benissimo gli pareva una sciocchezza trasferirsi in un posto ignoto, con la
prospettiva di dover passare altri sei mesi prima di comprenderne e
assimilarne lo spirito.
Le lettere da Parigi contribuivano anch’esse a tenergli alto il morale.
Theo, ben curato e ben nutrito dalla moglie, andava rapidamente
riprendendosi. La gravidanza di Johanna procedeva felicemente. E ogni
settimana Theo gli mandava tabacco, cioccolato, colori, libri e un biglietto
da dieci o da venti franchi.
Il ricordo dell’attacco da cui era stato colpito tornando da Arles si
dileguava sempre più. E sempre più si convinceva che, evitando di tornare
in quella maledetta città, avrebbe potuto contare su sei mesi di perfetta
salute. Quando i suoi quadri di cipressi e di ulivi furono asciutti, li lavò con
acqua e un po’ di vino per toglier loro la patina oleosa e li mandò al fratello.
Theo gli annunciò che stava esponendo parecchi suoi quadri alla Galleria
degli Indipendenti; ma egli ne provò una certa scontentezza, perché sentiva
di non aver ancora raggiunto il punto più alto delle sue possibilità. Avrebbe
preferito aspettare ancora, finché la sua tecnica si fosse perfezionata.
Theo l’assicurava invece che la sua produzione rivelava un costante e
intenso affinamento. Vincent formulò una decisione: terminato l’anno di
reclusione nel manicomio, avrebbe preso in affitto una casetta a Saint-
Remy, per continuare a lavorare nel Mezzogiorno. Provava nuovamente la
fervida e gioiosa ebbrezza creativa già conosciuta ad Arles prima
dell’arrivo di Gauguin, quando dipingeva i quadri di girasoli.
Un pomeriggio, mentre lavorava tranquillamente in piena campagna, si
sentì offuscare il cervello. A tarda sera gli infermieri del manicomio lo
trovarono a parecchi chilometri di distanza dal cavalletto, col corpo tutto
contorto intorno al tronco d’un cipresso.

4.

Soltanto dopo cinque giorni la mente gli si snebbiò. La cosa che lo ferì
più profondamente fu il constatare che i suoi compagni consideravano
quell’attacco come naturale e inevitabile.
Sopravvenne l’inverno. Vincent non sapeva decidersi ad alzarsi. La
stufa al centro della camerata diffondeva ora un bel calore; intorno
sedevano taciturni da mattino a sera i ricoverati. Le finestre piccole e
praticate molto in alto lasciavano entrare poca luce. La stufa accesa
mandava un odore denso, pesante. Le suore, ancor più raggrinzite nei loro
veli neri, s’aggiravano biascicando preghiere e stringendo tra le dita i loro
piccoli crocefissi. In lontananza le colline spoglie si profilavano come teste
di morti.
Vincent giaceva sveglio nel suo lettuccio inclinato. Che cosa gli aveva
insegnato quel quadro di Mauve? «Savoir souffrir sans se plaindre».
Imparare a soffrire senza lamentarsi, saper contemplare il dolore senza
ripugnanza… Sì, ma era un concetto morale che a lungo andare lo
trascinava sull’orlo d’una vertigine, d’uno smarrimento. A furia di
immergersi nel suo dolore, nella sua desolazione, più nulla di vivo sarebbe
rimasto in lui. Nella vita d’ognuno viene un momento in cui è necessario
buttar via la sofferenza come un indumento sporco.
I giorni si susseguivano, l’uno eguale all’altro. Nella sua anima, né idee
né speranze. Udiva le suore discutere sui suoi quadri: si domandavano se
dipingesse perché era pazzo, o se fosse pazzo perché dipingeva.
Seduto accanto al suo letto, l’idiota gli barbugliava per ore ed ore
discorsi incoerenti. Vincent ritraeva dalla vicinanza e dall’amicizia di
questo sventurato un senso di confortante calore, e non lo cacciava via.
Anzi discorreva spesso con lui, non avendo nessun altro a cui rivolgere la
parola.
— Credono che la pittura mi abbia fatto impazzire — gli disse un
giorno, vedendo passare due suore. — Riconosco anch’io che, in fin dei
conti, un pittore si lascia troppo assorbire da ciò che vedono i suoi occhi e
non è sufficientemente padrone di tutto il resto della sua vita. Ma forse che
ciò lo rende inadatto a vivere in questo mondo?
L’idiota si limitò a ridacchiare.
Fu una frase letta nel libro di Delacroix a dargli finalmente la forza
d’alzarsi: «Ho scoperto la pittura — diceva Delacroix — quando non avevo
più denti né fiato».
Per parecchie settimane non provò nemmeno il desiderio di andare in
giardino. Stava seduto accanto alla stufa, leggendo i libri che Theo gli
mandava da Parigi. Quando un suo compagno era preso da un attacco, non
si muoveva, non alzava nemmeno gli occhi. L’infermità era diventata sanità,
l’anormalità era diventata una cosa normale. A furia di vivere isolato dalla
gente sana di mente, era giunto ai punto di non considerare più come pazzi i
suoi compagni.
— Mi dispiace, Vincent — gli disse il dottor Peyron — ma non posso
darvi il permesso di uscire dall’ospedale. D’ora in avanti dovrete star qui
dentro.
— Mi permetterete almeno di lavorare nel mio studio?
— Non ve lo consiglio.
— Preferite che io mi uccida, dottore?
— Be’, vuol dire che vi farò riaprire lo studio. Ma soltanto poche ore al
giorno.
Nemmeno la vista del cavalletto e dei pennelli valse a scuotere la
letargica apatia di Vincent. Si sedeva sulla poltrona e fissava attraverso le
sbarre dell’inferriata il campo spoglio.
Alcuni giorni dopo fu chiamato nell’ufficio del dottor Peyron, per
firmare la ricevuta d’una assicurata. Aprendo la busta, trovò un assegno di
quattrocento franchi intestato al suo nome. Era la somma più alta che avesse
mai posseduto in una volta sola; e si domandò come mai Theo gli avesse
mandato tanto denaro.

«Mio caro Vincent,


«finalmente! Un tuo quadro è stato venduto per quattrocento franchi! Si
tratta della Vigna rossa, che hai dipinto ad Arles la primavera scorsa. Il
quadro è stato acquistato da Anna Bock, sorella del pittore olandese.
«Congratulazioni, vecchio mio! Presto venderemo le tue opere in tutta
Europa! Sérviti di questo denaro per far ritorno a Parigi, se il dottor
Peyron è d’accordo.
«Ho recentemente incontrato un uomo simpaticissimo, il dottor Gachet,
che ha una casa ad Auvers-sur-l’Oise, ad un’ora da Parigi. In quella sua
residenza hanno lavorato tutti i più importanti pittori, cominciando da
Daubigny. Egli asserisce d’aver compreso a fondo il tuo caso e che in
qualunque momento tu voglia recarti ad Auvers, sarà lieto di dedicarti le
sue cure.
«Ti riscriverò domani.
Theo».

Vincent mostrò la lettera al dottor Peyron e alla signora. Peyron la lesse


con seria concentrazione, poi palpeggiò l’assegno e si rallegrò con Vincent
per questo bel successo. Vincent uscì in giardino. Una vera metamorfosi
s’era operata in lui: l’anima ribalzava incontro alla vita con un fervido
slancio. A metà del viale s’accorse d’aver preso l’assegno, ma d’aver
lasciato la lettera di Theo nell’ufficio del dottor Peyron. Tornò rapidamente
sui suoi passi.
Stava per bussare alla porta, quando udì pronunciare il suo nome dentro
l’ufficio. Esitò un momento, indeciso.
— E allora perché l’avrebbe fatto? — domandò la signora Peyron.
— Forse ha pensato che questo avrebbe giovato a sollevare il morale di
suo fratello.
— Ma per lui dev’essere stato un sacrificio non indifferente!
— Avrà ritenuto che valesse la pena di compierlo, pur di affrettare la
guarigione di Vincent.
— Escludi dunque che quanto gli scrive possa essere la semplice verità?
— Ma, cara Marie, rifletti un momento! L’acquirente del quadro
dovrebbe essere la sorella d’un pittore. Ora, come può una persona dotata
d’una certa competenza e d’una certa capacità di percezione…
Vincent s’allontanò lentamente.
Verso l’ora di cena ricevette un telegramma di Theo:
«Dato al bambino il tuo nome. Johanna e Vincent godono ottima
salute».
Le due notizie — la vendita del quadro e la nascita del bimbo — lo
colmarono d’una meravigliosa felicità: quella sera fu un altro uomo. La
mattina dopo di buon’ora andò nel suo studio, ripulì i pennelli, passò in
rassegna i quadri e gli studi appoggiati contro le pareti.
«Se Delacroix ha scoperto la pittura quando non aveva più denti né
fiato, posso scoprirla anch’io che non ho più denti né cervello».
E si buttò al lavoro con impeto furioso. Copiò Il buon samaritano di
Delacroix, Il seminatore e Il vangatore di Millet. Era deciso a prendere la
sua disgrazia con una specie di flemma nordica. La vita dell’artista è
rovinosa: l’aveva saputo fin da principio. E allora, perché avrebbe dovuto
lamentarsi ora ch’era troppo tardi?
Esattamente due settimane dopo l’arrivo dell’assegno di quattrocento
franchi, ricevette un esemplare del Mercure de France di gennaio. Sulla
copertina, Theo aveva sottolineato il titolo di un articolo: «Les Isolés».
«Ciò che caratterizza tutta l’arte di Vincent Van Gogh — scriveva
l’autore dell’articolo — è l’eccesso di forza, e la violenza dell’espressione.
Nella sua categorica affermazione del carattere essenziale delle cose, nella
sua spesso temeraria semplificazione delle forme, nel suo insolente
desiderio di guardare il sole a faccia a faccia, nella passionalità del suo
disegno e del suo colore, si rivela un artista possente, maschio, audace,
talvolta brutale e talvolta ingenuamente delicato.
«Vincent Van Gogh è della sublime tempra di un Frans Hals. Il suo
realismo si spinge oltre il verismo di quei grandi «piccoli maestri» olandesi
così riboccanti di salute fisica e di equilibrio mentale, da cui discende. Ciò
che balza evidente dai suoi quadri è il coscienzioso approfondimento dei
caratteri individuali, la continua ricerca della quintessenza delle cose, il
profondo e quasi infantile amore della natura e della verità.
«Questo robusto e schietto artista dall’anima illuminata conoscerà mai
la gioia di vedersi adeguatamente apprezzato dal pubblico? Non lo credo. È
troppo semplice, e nello stesso tempo troppo fine, per lo spirito borghese
della nostra epoca. Non sarà mai adeguatamente compreso se non dai suoi
compagni d’arte.
G. ALBERT AURIER».

Vincent non fece leggere questo articolo al dottor Peyron.


Aveva ormai ricuperato tutta l’antica forza, tutta l’antica brama di
vivere. Dipinse un quadro prendendo a soggetto la camerata in cui dormiva,
ritrasse il sovrintendente dell’ospedale e poi la moglie, eseguì copie d’altre
opere di Millet e Delacroix, saturò le sue notti e le sue giornate d’un
tumultuoso lavorio mentale.
Esaminando accuratamente il decorso della propria infermità, constatò
che gli attacchi a cui andava soggetto avevano un carattere ciclico, in
quanto si verificavano ad intervalli di tre mesi l’uno dall’altro. Benissimo:
sapendo quando dovevano prodursi, sarebbe stato in grado di prendere le
proprie precauzioni. Giunto nell’imminenza del prossimo attacco, avrebbe
interrotto il lavoro e si sarebbe messo a letto per un breve periodo di
indisposizione. Dopo alcuni giorni sarebbe stato nuovamente in piedi, come
avesse avuto un semplice raffreddore.
L’unica cosa che ora lo turbava, era l’intensa atmosfera religiosa
dell’ambiente. Gli sembrava che al venir dell’inverno le suore fossero state
prese da un accesso d’isterismo. A volte, guardandole bisbigliare le loro
preghiere, baciare i loro crocefissi, sgranare rosari, camminare con gli occhi
immersi in libri di chiesa, entrare nella cappella cinque o sei volte al giorno
per pregare e partecipare a funzioni, quasi non avrebbe saputo dire se
fossero più pazzi i ricoverati o quelle religiose. Fin dall’epoca del soggiorno
nel Borinage aveva contratto un vero orrore per le esagerazioni di questo
genere. In certi momenti le aberrazioni mistiche delle suore gli
deprimevano la mente. S’immerse più appassionatamente nel proprio
lavoro, cercando di allontanare dal pensiero l’immagine di quelle creature
dagli svolazzanti veli neri.
Quarantotto ore prima della fine del terzo mese, pur trovandosi in
perfette condizioni fisiche e mentali, si mise a letto e tirò le tende per non
essere turbato dalla vista delle suore in preda alla loro sempre crescente
esaltazione religiosa.
Giunse il giorno in cui avrebbe dovuto verificarsi l’attacco. Vincent lo
attese con viva impazienza, quasi con desiderio. Le ore scorrevano
lentamente. Non accadde nulla. Egli ne fu sorpreso, quasi deluso. Passò il
secondo giorno. Nulla di nuovo. Spirato il terzo giorno, dovette ridere di se
stesso.
«Sono stato un idiota. La faccenda degli attacchi è liquidata. Il dottor
Peyron s’è ingannato. D’ora in avanti non ho più motivo di temere. Ho
sprecato il tempo, a starmene a letto. Domani mattina mi alzo e riprendo il
lavoro».
Nel silenzio della notte, mentre tutti dormivano, s’alzò senza far
rumore; attraversò a piedi scalzi la camerata dal pavimento di pietra; scese
tastoni nella cantina dove veniva tenuto il carbone. Cadde in ginocchio,
raccolse una manciata di polvere di carbone e s’imbrattò la faccia.
— Vedete, Madame Denis? Adesso mi accettano, adesso sanno che
sono uno dei loro. Prima non si fidavano di me, ora sono anch’io una
gueule noire. I minatori mi consentiranno di portar loro la parola di Dio…
Lì lo trovarono gli infermieri, poco dopo l’alba. Stava mormorando
caotiche preghiere, alternandole con brani della Sacra Scrittura e
rispondendo alle voci che gli sussurravano strane cose all’orecchio.
Le allucinazioni religiose si protrassero per diversi giorni. Quando tornò
in se stesso, pregò una suora di mandare a chiamare il dottor Peyron.
— Credo che avrei evitato questo attacco, dottore, se non avessi dovuto
assistere a tutte queste manifestazioni d’isterismo religioso.
Il dottor Peyron si strinse nelle spalle, s’appoggiò al letto e tirò le tende.
— Che cosa posso farci, Vincent? Succede sempre così, l’inverno. Io
non approvo, ma non ho nemmeno la facoltà di oppormi. In fin dei conti, le
suore svolgono un lavoro veramente prezioso.
— Comunque sia, è già abbastanza difficile vivere in mezzo ai pazzi e
non uscir di senno, senza dover respirare per giunta quest’atmosfera di
follia religiosa. La data prevista per la mia crisi era ormai passata…
— Non fatevi illusioni, Vincent, non cercate d’ingannarvi: quell’attacco
era inevitabile. Il vostro sistema nervoso è esposto ogni tre mesi ad un
collasso. Se le vostre allucinazioni non fossero state d’indole religiosa,
avrebbero assunto un altro aspetto.
— Se il fatto si ripete ancora, scriverò a mio fratello di portarmi via di
qua.
— Come volete, Vincent.
Tornò al lavoro nel suo studio: era il primo giorno in cui si sentisse
veramente la primavera. Dipinse ancora una volta il paesaggio che si
vedeva dalla finestra: il campo di stoppie durante l’aratura. Mise in
evidenza il contrasto del color violetto della terra smossa e rivoltata col
giallo delle strisce dove le stoppie erano ancora intatte. Nello sfondo, le
colline. Dappertutto i mandorli cominciavano a fiorire e al tramonto il cielo
s’avvivava nuovamente d’una pallida tinta di limone.
L’eterno risorgere della natura infondeva anche in lui nuova vita. Per la
prima volta nel corso della sua convivenza con i compagni di camerata i
loro sconclusionati barbugliamenti e i loro periodici accessi lo
sconvolgevano e gli straziavano i nervi. Né c’era modo di sfuggire alla vista
di quelle creature oranti in bianco e nero, la cui sola presenza gli dava
brividi d’inquietudine.
«Theo — scrisse al fratello — partirei veramente a malincuore da
Saint-Remy, dove ci sono ancora tante possibilità di lavorare
proficuamente. Ma se dovessi ancora avere un attacco d’indole religiosa, la
colpa sarà da attribuirsi a questo ambiente, non ai miei nervi. Basterebbero
due o tre altre crisi di questo genere per uccidermi.
«Sii preparato. Se mi prenderà un’altra crisi d’allucinazioni religiose,
non appena in condizione d’alzarmi partirò per Parigi. Forse sarà la
miglior cosa, per me, tornare nel settentrione, dove si può essere certi di
trovare un’atmosfera di maggior equilibrio mentale.
«Che mi sai dire di quel tuo dottor Gachet? Si vorrà interessare del mio
caso?».
Theo gli rispose che aveva nuovamente parlato col dottor Gachet, al
quale aveva mostrato alcune tele del fratello. Gachet non vedeva l’ora che
Vincent si trasferisse ad Auvers, per lavorare in casa sua.
«È un autentico specialista non soltanto nel campo delle malattie
nervose, ma anche in quello della pittura e dei pittori. Sono convinto che
non potresti trovarti in mani migliori. In qualunque momento tu ti decida a
partire da costì, non avrai che da telegrafarmi e io mi metterò
immediatamente in treno per Saint-Remy».
La primavera si faceva sempre più calda. In giardino, si cominciò a
sentire il canto delle cicale. Vincent dipinse ancora alcuni quadri: il
porticato dell’ala dei ricoverati di terza categoria, le mura e gli alberi del
giardino, un suo autoritratto. Lavorava, per così dire, con un occhio alla tela
e l’altro al calendario.
Il prossimo attacco avrebbe dovuto avvenire in maggio.
Udì voci e grida rivolte a lui, dai corridoi vuoti. Rispose: e l’eco della
sua voce gli risuonò all’orecchio come un crudele richiamo del destino.
Questa volta lo trovarono, svenuto, nella cappella. Soltanto verso la metà di
maggio si riebbe dalle allucinazioni religiose che gli ossessionavano la
mente.
Theo voleva venire a prenderlo a Saint-Remy. Ma Vincent preferì farsi
accompagnare fino alla stazione di Tarascona da un infermiere, e proseguire
quindi il viaggio da solo.

«Caro Theo,
«non sono un invalido, né una bestia pericolosa. Consentimi di
dimostrare a te e a me stesso che sono un essere normale. Se riesco a
strapparmi con le mie proprie forze da questo manicomio, e incominciare
una nuova vita ad Auvers, riuscirò fors’anche a domare questa mia
malattia.
«Voglio provare. Lontano da questa maison des fous, spero di poter
ridiventare una persona ragionevole. A quanto mi scrivi, Auvers è un posto
calmo e bello. Ho la convinzione che conducendo una vita ben regolata,
sotto gli occhi del dottor Gachet, potrò guarire.
«Ti telegraferò l’ora della partenza del treno da Tarascona. Vieni ad
aspettarmi alla Gare de Lyon. Ho intenzione di partire sabato, in modo da
passar la domenica in casa con te, Johanna e il bambino.
PARTE OTTAVA

AUVERS

1.

Theo non riuscì a chiuder occhio, quella notte. Partì per la Gare de Lyon
due ore prima dell’arrivo del treno di Vincent. Johanna dovette stare in casa
col bambino: uscì sul terrazzino del loro appartamento al quarto piano,
situato nella Cité Pigalle, e fissò ansiosamente lo sguardo attraverso il
fogliame del maestoso albero nero che sorgeva dirimpetto alla facciata della
casa, aspettando l’arrivo di una carrozza che svoltasse dalla Rue Pigalle.
Dall’abitazione di Theo alla Gare de Lyon il tragitto era lungo. A
Johanna, l’attesa parve interminabile. Cominciava a temere che in treno
fosse successo qualcosa al cognato. Finalmente dalla Rue Pigalle svoltò un
fiacre aperto, due facce allegre le lanciarono un cenno di saluto, due mani si
agitarono in aria. Ella aguzzò lo sguardo per scrutare, sia pure
fuggevolmente, la fisionomia di Vincent.
La Cité Pigalle era una rue impasse, chiusa in fondo da un giardino e
dall’angolo d’una casa in pietra. Una via dall’aspetto signorile, che aveva
soltanto due lunghi edifici per parte. I Van Gogh abitavano al n. 8, la casa
più vicina all’impasse, un po’ scostata all’indietro per far posto ad un
piccolo giardino, e provvista d’un suo trottoir privato. Nello spazio di pochi
istanti, il fiacre passò dinanzi al grande albero e si fermò davanti
all’ingresso.
Vincent si lanciò su per le scale, con Theo alle calcagna. Johanna
s’aspettava di vedere un infermo; ma l’uomo che le gettò le braccia al collo
aveva un bel colore di salute, un sorriso sulla faccia e un’espressione di
risoluta energia.
«Ha l’aria di star benissimo. Sembra molto più forte di Theo», fu il suo
primo pensiero.
Ma non ebbe il coraggio di guardargli l’orecchia.
— Complimenti, Theo! — esclamò Vincent, tenendo fra le sue le mani
di Johanna e guardandola con aria d’approvazione. — Ti sei proprio scelta
una bella moglie.
— Grazie, Vincent — rise Theo.
La sua scelta era stata ispirata al ricordo della madre. Johanna aveva gli
stessi occhi castani di Anna Cornelia, gli stessi modi dolci, pieni di simpatia
e di compassione. Sebbene il suo bambino contasse ancora pochi mesi, già
s’avvertiva in lei qualcosa di matronale. Lineamenti piacevoli, ma comuni;
un viso ovale dall’espressione serena, quasi imperturbabile; una massa di
capelli color castano chiaro pettinati con molta semplicità all’indietro, su
un’alta fronte di stampo olandese. Il suo affetto per Theo comprendeva
anche Vincent.
Theo condusse il fratello nella stanza da letto, dove il piccino stava
dormendo nella sua cuna. I due uomini stettero a guardarlo in silenzio, con
le lacrime agli occhi. Johanna intuì che desideravano restar soli un
momento, e in punta di piedi mosse verso la porta. Proprio mentre faceva
per girare la maniglia, Vincent si volse verso di lei con un sorriso e,
indicandole la coperta della culla fatta all’uncinetto, le disse: — Non
coprirlo troppo di trine, cognatina!
Johanna si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. Tornando a
contemplare il bimbo dormente, Vincent provò l’indicibile pena degli
uomini senza figli, la cui vita non si perpetua nella vita d’altri esseri, la cui
morte è una morte eterna.
Theo gli lesse nel pensiero.
— Hai ancora tempo, Vincent. Un giorno troverai anche tu una moglie
che ti vorrà bene e che condividerà i dolori e le lotte della tua esistenza.
— Ah, no, Theo! È troppo tardi.
— Soltanto l’altro giorno ho trovato una donna che farebbe proprio per
te.
— Davvero? E chi era?
— La ragazza di Terra vergine di Turghenieff. La ricordi?
— Quella che lavora con i nichilisti e porta oltre frontiera i documenti
compromettenti?
— Precisamente. La donna che tu sposerai dovrebbe essere un tipo di
quel genere, Vincent: una creatura che abbia provato tutte le amarezze della
vita.
— E che cosa potrebbe trovar di bello in me? Un uomo con un’orecchia
sola…
Il piccolo Vincent si svegliò, li guardò con gli occhi spalancati, sorrise.
Theo lo tolse dalla culla e lo mise tra le braccia del fratello.
— Come è morbido e caldo! Sembra un cucciolo — disse Vincent,
stringendoselo al cuore.
— Ehi, maldestro, non è mica così che si tiene un bambino!
— Già, credo di trovarmi più a mio agio con un pennello in mano.
Theo si riprese il bambino e lo tenne appoggiato alla spalla, sfiorando
con la testa i suoi riccioli castani. Vincent ebbe l’impressione che fossero
due figure scolpite nello stesso blocco di marmo.
— Ebbene, ragazzo mio — sospirò con tono di rassegnazione — ad
ognuno la sua arte e il suo mezzo di espressione. Tu crei in carne viva… e
io creerò con i colori.
— Proprio così, Vincent, proprio così.
Quella sera, parecchi amici di Vincent vennero a salutarlo. Il primo ad
arrivare fu Aurier, un bel giovane dai capelli ondulati e fluenti, con due
ciuffi di barba che gli crescevano ai due lati del mento senza riuscire a
congiungersi in mezzo. Vincent lo condusse nella stanza da letto, dove Theo
teneva appeso un quadro di Monticelli: un mazzo di fiori.
— Avete detto nel vostro articolo, Monsieur Aurier, che io sono l’unico
pittore capace di percepire il cromatismo delle cose e di interpretarlo con
toni metallici gemmati. Guardate questo Monticelli. «Fada» l’ha dipinto
parecchi anni prima che io venissi a Parigi.
In capo a un’ora Vincent rinunciò a cercare di persuadere Aurier, e gli
fece omaggio di uno dei suoi quadri di cipressi dipinti a Saint-Remy, come
attestazione di gratitudine per l’articolo apparso sul Mercure de France.
Ed ecco arrivare Toulouse-Lautrec, senza fiato per tutte quelle rampe di
scale, ma gaio e scanzonato come sempre.
— Vincent — esclamò, stringendogli la mano — per le scale ho
incontrato un impresario di pompe funebri. Cercava te o me?
— Cercava te, Lautrec! Con me, avrebbe poco da guadagnare…
— Voglio lanciarti una sfida, Vincent. Sono disposto a scommettere che
il tuo nome figurerà prima del mio, sul suo taccuino.
— Ci sto. E che cosa scommettiamo?
— Un pranzo al Caffè Athènes e una serata all’Opera.
— Be’, potreste anche trovare degli scherzi meno macabri — protestò
Theo, con un pallido sorriso.
In quel momento entrò uno strano individuo, rivolse un’occhiata a
Lautrec e si lasciò cadere su una sedia, in un angolo. Tutti s’aspettavano che
Lautrec lo presentasse, ma egli continuò tranquillamente a discorrere.
— Non ci presenti il tuo amico? — domandò Vincent.
— Ma costui non è un mio amico! — rise Lautrec. — È il mio custode.
Successe un momento di penoso silenzio.
— Non ne hai sentito parlare, Vincent? Sono stato non compos mentis
per un paio di mesi. E allora hanno detto ch’era una conseguenza dell’abuso
di liquori. Così, ora bevo latte. Ti inviterò al mio prossimo ricevimento. Sul
biglietto d’invito c’è un disegno dove mi si vede in atto di mungere una
mucca dalla parte sbagliata.
Johanna servì i rinfreschi. Parlavano tutti insieme, l’aria diventava
satura di fumo. Un’atmosfera che ricordava a Vincent le belle serate d’un
tempo, qui a Parigi.
— Che ne è di Georges Seurat? — domandò a Lautrec.
— Georges! Vuoi dirmi che non sai in che condizioni si trova?
— Theo non mi ha mai scritto niente. Che cos’ha?
— Sta morendo di consunzione. Il medico dice che non supererà i
trentun anni.
— Consunzione! Ma come! Lui che era così forte, così pieno di
salute… Che diavolo…
— Eccesso di lavoro, Vincent — spiegò Theo. — Son due anni che tu
non lo vedi, vero? Ha lavorato come un ossesso. Dormiva due ore o tre ore
e si strapazzava maledettamente per tutto il resto della giornata e della
notte. Nemmeno quella santa donna di sua madre riuscirà a salvarlo.
— Sicché Georges se ne andrà presto — mormorò Vincent, con cupa
tristezza.
Giunse Rousseau, con un canestrino di pasticcini casalinghi
espressamente preparati da lui per Vincent. Venne poi il Père Tanguy,
sempre con lo stesso cappello di paglia, e gli offrì una stampa giapponese,
accompagnando il dono con un affettuoso discorsetto sulla gioia che
provavano tutti quanti nel rivederlo a Parigi.
Alle dieci, Vincent volle a tutti i costi scendere a comprare un chilo di
olive e ne fece mangiare a tutti i presenti, compreso il guardiano di Lautrec.
— Se vedeste almeno una volta quei boschetti d’ulivi verde-argento che
ci sono in Provenza, mangereste olive per tutto il resto della vostra vita.
— A proposito di boschetti d’ulivi, Vincent — disse Lautrec — come
hai trovato le arlesiane?
La mattina dopo, Vincent portò giù la carrozzella perché il piccino
potesse godersi la sua ora di sole sul marciapiede privato, sotto gli occhi
della mamma. Risalì nell’appartamento e prese ad aggirarsi per le stanze in
maniche di camicia, osservando le pareti coperte dei suoi quadri. In sala da
pranzo, sopra la cappa del camino c’erano i Mangiatori di patate, nella
stanza di soggiorno il Paesaggio di Arles e la Veduta notturna del Rodano,
nella stanza da letto Gli orti in fiore. Grosse pile di tele senza cornice
occupavano, a disperazione della donna di servizio di Johanna, lo spazio
sotto i letti, sotto il sofà, sopra l’armadio, ed ogni angolo libero.
Mentre stava cercando qualcosa nella scrivania di Theo, gli capitarono
tra le mani voluminosi pacchi di lettere legate con grosso spago. Fu stupito
di constatare che si trattava di lettere sue. Theo aveva gelosamente
conservato tutta la corrispondenza del fratello, fin dal giorno in cui,
vent’anni addietro, Vincent era partito da Zundert per andare a lavorare
nella Galleria Goupil all’Aia. Complessivamente, non meno di settecento
lettere. Vincent si domandò perché mai Theo le avesse conservate.
In un altro cassetto della scrivania trovò i disegni mandati a Theo nel
corso degli ultimi dieci anni, suddivisi per periodi: i minatori e le loro mogli
curve sui cumuli di terril, laggiù nel Borinage; i vecchi e le vecchie
dell’Aia, i lavoratori del Geest e i pescatori di Scheveningen; i mangiatori
di patate e i tessitori di Nuenen; i ristoranti e le vie di Parigi; i primi disegni
di girasoli e di orti eseguiti ad Arles; il giardino del manicomio di Saint-
Remy.
— Ora allestisco una mostra personale! — esclamò. Staccò tutti i quadri
dalle pareti, tirò fuori i pacchi di disegni, radunò dai diversi angoli le pile di
tele senza cornice. Suddivise scrupolosamente tutti i suoi lavori in base ai
vari periodi della propria attività, quindi scelse i disegni e le pitture che
meglio rivelavano lo spirito dei luoghi in cui erano stati eseguiti.
Nel salotto, cui si accedeva dal corridoio d’ingresso, appese una trentina
dei suoi primi studi: tipi del Borinage che uscivano dalle miniere, altri curvi
sulle loro stufe ovali, altri ancora intenti a cenare nelle loro catapecchie.
«Ecco allestita la sala dei disegni a carboncino».
Data un’occhiata agli altri locali dell’appartamento, fissò la propria
attenzione sulla stanza da bagno. Salito su una sedia, attaccò tutt’intorno, su
un’unica fila, gli studi di Etten: contadini del Brabante.
«E questa, come si vede, è la sala dei disegni a matita».
Si diresse quindi verso la cucina, dove espose i dipinti dell’Aia e di
Scheveningen: il deposito di legname visto dalla sua finestra, le dune di
sabbia, i battelli da pesca trascinati sulla spiaggia.
«Terza sala: acquerelli».
Nello stanzino adiacente appese il quadro in cui aveva ritratto i suoi
amici De Groot, i Mangiatori di patate: il primo quadro a olio in cui aveva
espresso pienamente se stesso. Tutt’intorno, alcune dozzine di studi:
tessitori di Nuenen, contadini in abito da lutto, il cimitero dietro la chiesa
del babbo, l’esile e affilato campanile.
Nella propria stanza da letto dispose i quadri a olio del periodo parigino,
quelli che aveva attaccato alle pareti dell’appartamento di Theo in Rue
Lepic, prima di partire per Arles. Nella stanza di soggiorno stipò tutte le
sfolgoranti tele di Arles che le pareti potevano contenere. Nella stanza da
letto di Theo, i quadri dipinti nel corso del doloroso soggiorno a Saint-
Remy.
Finito questo lavoro, ripulì i pavimenti, si mise giacca e cappello, scese
in istrada e fece andar su e giù il nipotino per la via piena di sole, mentre
Johanna gli camminava accanto tenendolo a braccetto e chiacchierando con
lui in olandese.
Theo sbucò dalla Rue Pigalle poco dopo mezzogiorno, lanciò loro un
allegro cenno di saluto, giunse di corsa e sollevò il piccino dalla carrozzella,
prendendolo tra le braccia con gesto pieno di tenerezza. Lasciata poi la
carrozzella al portinaio, salirono le scale discorrendo animatamente. Giunti
davanti alla porta dell’appartamento, Vincent li fermò.
— Ora vi conduco a vedere una mostra personale di Vincent Van Gogh.
Preparatevi dunque al fiero colpo.
— Una mostra personale? E dove?
— Chiudete gli occhi.
Aprì la porta, e tutti e tre infilarono il corridoio, entrarono in salotto.
Theo e Johanna si guardarono intorno, sbalorditi.
— Quando abitavo a Etten — disse Vincent — il babbo mi fece
osservare un giorno che dal male non può mai venir fuori il bene, né dal
brutto il bello. Io gli risposi che nel campo dell’arte una cosa simile non
soltanto può, ma deve accadere. Se volete seguirmi, miei cari, vi presenterò
la storia di un individuo che cominciò con impaccio e con stento, come un
bambino maldestro, e che dopo dieci anni di tenace applicazione giunse a…
Ma su questo giudicherete voi stessi.
E li guidò, in ordine cronologico, di stanza in stanza. Come tre visitatori
in una galleria d’arte, passarono in rassegna quelle opere che
rappresentavano tutta una vita d’uomo. Sentirono e compresero il lento e
tormentato sviluppo dell’artista, il faticoso procedere verso una maturità
d’espressione, il poderoso progresso realizzato durante il soggiorno a
Parigi, l’appassionato e travolgente sfogo lirico di Arles in cui confluivano
tutti i risultati delle esperienze e delle ricerche condotte in anni ed anni di
lavoro, e poi il crollo, la catastrofe, le tele di Saint-Remy, lo sforzo
affannoso per tener viva ancora e divampante la grande fiamma della
creazione, e infine i bagliori sempre più fiochi, sempre più fiochi…
Guardarono quella mostra con occhi d’estranei: ed ebbero davanti allo
sguardo, nello spazio d’una breve mezz’ora, la ricapitolazione di tutta
l’avventura terrena d’un uomo.
Johanna servì una tipica colazione all’uso del Brabante. Vincent fu lieto
di gustare nuovamente la cucina olandese. Quando Johanna ebbe
sparecchiato, i due fratelli accesero la pipa e si misero a chiacchierare.
— Dovrai cercare scrupolosamente di fare tutto ciò che il dottor Gachet
ti dirà, Vincent.
— D’accordo.
— Perché, vedi, è uno specialista in fatto di malattie nervose. Se ti
attieni alle sue prescrizioni, sei sicuro di guarire.
— Te lo prometto.
— Gachet dipinge anche lui. Espone ogni anno agli «Indipendenti», con
lo pseudonimo di P. Van Ryssel.
— È un buon pittore?
— No, non direi. Ma è uno di quegli uomini che hanno il genio di saper
riconoscere il genio. Venuto a Parigi all’età di vent’anni per studiare
medicina, strinse amicizia con Courbet, Murger, Champfleury e Proudhon.
Frequentava il caffè «La Nouvelle Athènes» e ben presto divenne intimo
amico di Manet, Renoir, Degas, Durante e Claude Monet. Daubigny e
Daumier hanno lavorato in casa sua parecchi anni prima che si parlasse di
impressionismo.
— Interessante!
— Quasi tutti i quadri che ha sono stati dipinti nel suo giardino o nella
sua stanza di soggiorno. Pissarro, Guillaumin, Sisley, Delacroix sono andati
tutti a lavorare con Gachet ad Auvers. Troverai anche tele di Cézanne,
Lautrec e Seurat. Ti dico, Vincent, che dalla metà del secolo ad oggi non c’è
stato pittore importante che non sia stato amico e ospite del dottor Gachet.
— Perbacco! Un momento, Theo, tu mi spaventi. Io sono ben lontano
dall’appartenere a quella illustre schiera. Il dottor Gachet ha visto qualcuno
dei miei lavori?
— Idiota! Per quale motivo credi che sia così impaziente di averti ad
Auvers?
— Il diavolo mi porti, se lo so.
— In occasione dell’ultima mostra agli «Indipendenti», ha giudicato i
tuoi lavori arlesiani come i più bei quadri che vi fossero esposti. Ti giuro:
quando gli ho fatto vedere i quadri di girasoli dipinti per Gauguin nella casa
gialla, gli sono venute le lacrime agli occhi. S’è voltato verso di me e mi ha
detto: «Monsieur Van Gogh, vostro fratello è un grande artista. In tutta la
storia dell’arte non s’è mai visto nulla di simile al giallo di questi girasoli.
Basteranno queste pitture, Monsieur, a rendere immortale vostro fratello».
Vincent si grattò la testa, con una smorfia allegra.
— Bene, se il dottor Gachet ha provato una tale impressione di fronte ai
miei girasoli, andremo perfettamente d’accordo.

2.

Il dottor Gachet li aspettava alla stazione. Era un ometto nervoso,


irrequieto, tutto scatti, con occhi che esprimevano ansia e malinconia.
Strinse calorosamente la mano a Vincent.
— Già, già, vedrete che questo è un vero paese per pittori. Vi piacerà.
Vedo che vi siete portato il cavalletto. Siete ben fornito di colori? Dovete
mettervi immediatamente al lavoro. Oggi verrete a colazione da me, inteso?
Avete portato qualcuno dei vostri quadri più recenti? Qui non troverete
purtroppo quei gialli di Arles, ma ci sono altre cose, sicuro, sicuro, e voi le
saprete trovare. Dovete venire a dipingere a casa mia. Vi darò tavoli e vasi
che sono già stati dipinti da tutti quanti, cominciando da Daubigny e
arrivando fino a Lautrec. Come vi sentite? Avete bella cera. Credete che vi
piacerà star qui? Sicuro, sicuro, vi cureremo per bene. Vi rimetteremo in
perfette condizioni di salute.
Dal marciapiede della stazione, Vincent osservò una zona boschiva
lambita dalle verdi acque dell’Oise serpeggianti per la fertile vallata. Si
spostò per veder meglio quel lembo di paesaggio, e Theo ne approfittò per
parlare sottovoce col dottor Gachet.
— Vi prego di tener d’occhio mio fratello. Se notate qualche sintomo
del sopravvenire d’una delle sue crisi, telegrafatemi subito. Voglio essergli
vicino quando… Non bisogna lasciarlo in condizione di… Certa gente dice
che…
— Sss! Sss! — l’interruppe il dottor Gachet saltellando da un piede
all’altro e stropicciandosi vigorosamente con l’indice il pizzo. — Certo che
è pazzo. Ma che cosa volete? Tutti gli artisti sono pazzi. È la loro migliore
qualità. A me piacciono così. Certe volte vorrei essere pazzo anch’io.
«Nessuna grande anima va esente da una certa dose di follia». Sapete chi ha
detto questo? Nientemeno che Aristotele!
— Lo so dottore. Ma Vincent è giovane, ha soltanto trentasette anni. Ha
ancora davanti a sé il meglio della vita.
Il dottor Gachet si strappò di testa il buffo berretto bianco e si passò
parecchie volte la mano tra i capelli, senza nessuna apparente ragione.
— Lasciate fare a me. Io so come vanno trattati i pittori. Entro un mese
ne farò un uomo fisicamente e mentalmente a posto. Lo metto subito al
lavoro: questo lo guarirà. Gli farò dipingere il mio ritratto. Subito. Oggi
stesso. Gliela leverò dalla mente, vedrete, la sua malattia.
Vincent si riavvicinò, ingoiando grandi sorsate di quella pura aria di
campagna.
— Dovresti portar qui Jo e il bambino, Theo. È un delitto allevare i
bambini in città.
— Sicuro, sicuro, venite a passare una domenica con noi! — esclamò
Cachet.
— Grazie, accetto molto volentieri l’invito. Ma ecco qua il mio treno
che arriva. Arrivederci, dottor Gachet; grazie di quanto farete per mio
fratello. Vincent, scrivimi tutti i giorni.
Il dottor Gachet aveva l’abitudine di prendere le persone per il gomito e
spingerle nella direzione voluta. Così fece con Vincent, tra un profluvio di
parole, saltando da un argomento all’altro, rispondendo lui stesso alle
proprie domande, mitragliando Vincent con le frasi secche e nervose del
suo incessante monologo.
— Ecco laggiù la strada che conduce in paese. Quella strada lunga,
diritta. Ma venite, vi porterò su questa collina: c’è un paesaggio che merita
d’esser visto. Non vi affatica troppo camminare con codesto cavalletto in
ispalla? Ecco, quella lassù a sinistra è la chiesa cattolica. Avete notato che i
cattolici erigono sempre le loro chiese in un punto dominante, in modo che
la gente le possa vedere? Eh, povero me, comincio proprio a diventar
vecchio: questa salita mi sembra ogni anno più ripida. Belli quei campi,
vero? Auvers è tutta circondata da campi di grano. Un giorno o l’altro
dovete venire a dipingerli. Naturalmente non ci troverete quel giallo che si
vede in Provenza… Sì, quello lì a destra è il cimitero. L’hanno costruito
quassù in cima alla collina, con davanti la vista del fiume e della vallata.
Credete che ai morti importi molto essere sepolti in un posto anziché in un
altro? Noi abbiamo dato ai nostri morti il posto più incantevole di tutta la
vallata dell’Oise. Entriamo? Di dentro si gode una vista molto più ampia e
più nitida; lo sguardo arriva fin quasi a Pontoise… Sì, il cancello è aperto.
Spingete. Così… Non è proprio un panorama delizioso? Le mura sono state
costruite così alte per far riparo contro il vento. Seppelliamo qui tanto i
cattolici quanto i protestanti.
Vincent si sfilò di spalla il cavalletto e precedette di qualche passo il
dottor Gachet per sfuggire a quel profluvio di parole. Il cimitero, costruito
proprio sulla sommità della collina, aveva una netta forma rettangolare.
Parte di esso digradava per il pendio. Vincent si spinse fino al muro in
fondo, da dove poté contemplare tutta l’ondulata valle dell’Oise. Le fresche
e verdi acque del fiume snodavano graziosamente il loro corso tra rive
frondose. A destra i tetti delle case del paese; poco oltre, sulla cresta di
un’altra altura, un castello. Nel cimitero, pieno d’un bel sole di maggio,
ridevano ciuffi di fiori primaverili. In alto, la volta d’un cielo delicatamente
azzurro. Una quiete perfetta, stupenda, che pareva davvero una quiete
d’oltretomba.
— Sapete, dottor Gachet? Mi ha fatto bene, andare nel Mezzogiorno.
Ora so veder meglio il Nord. Guardate quanto violetto c’è su quella sponda
del fiume, dove il sole non batte ancora sul verde.
— Sicuro, sicuro, violetto, violetto, proprio così, viol…
— E che senso di sereno equilibrio! Una calma tanto riposante.
Ridiscesero la collina, passarono tra i campi, poi davanti alla chiesa, e
infilarono la strada a destra che conduceva in paese.
— Mi dispiace di non potervi ospitare in casa mia — disse il dottor
Gachet: — purtroppo non abbiamo posto. Vi condurrò in un buon albergo.
Ogni giorno verrete a dipingere da me, dove dovrete far conto d’essere a
casa vostra.
Lo prese per il gomito e lo spinse avanti. Oltrepassarono il palazzo
comunale, scesero fin quasi al fiume, entrarono in un albergo. Gachet parlò
col proprietario, che accettò di prendere Vincent a pensione — vitto e
alloggio — per sei franchi al giorno.
— Adesso vi lascio in libertà perché possiate sistemarvi — disse
Gachet. — Ma ricordatevi di venire a colazione, all’una. E portatevi il
cavalletto. Dovrete farmi il ritratto. Portate anche qualcuna delle vostre
ultime tele. Faremo una bella chiacchierata.
Non appena Gachet se ne fu andato, Vincent riprese i suoi bagagli e
mosse risolutamente verso la porta.
— Un momento! — gli gridò il proprietario. — Dove andate?
— Io sono un lavoratore, non un capitalista, e non posso pagare sei
franchi al giorno.
Tornò sulla piazza e trovò una piccola trattoria proprio di fronte al
palazzo municipale, gestita da un certo Ravoux, dove poté avere vitto e
alloggio per tre franchi e cinquanta centesimi al giorno.
La Trattoria Ravoux era il ritrovo dei contadini e degli operai che
lavoravano nei dintorni di Auvers. A destra, entrando, c’era un piccolo
banco dove si servivano vini e liquori; il locale, scuro e deprimente, aveva
rozzi tavoli e panche di legno. Dietro il banco, un tavolo da biliardo con una
lurida e lacera coperta verde, orgoglio e delizia di Ravoux. In fondo, una
porta che immetteva nella cucina; e appena varcata la soglia, una scala che
portava alle tre stanze da letto. Dalla sua finestra, Vincent poteva vedere il
campanile della chiesa cattolica e un piccolo tratto del muro del cimitero,
macchia scura che spiccava nitidamente nel blando sole d’Auvers.
Prese il cavalletto, i pennelli e i colori, un ritratto di donna arlesiana, e
s’avviò verso l’abitazione di Gachet. La stessa strada che scendeva dalla
stazione e passava davanti alla Trattoria Ravoux, si staccava nuovamente
dalla piazza in direzione ovest, salendo alquanto. Dopo un breve tratto,
Vincent giunse ad un punto in cui la strada formava tre diramazioni. Quella
a destra s’inerpicava su per la collina fin oltre il castello, mentre quella a
sinistra scendeva in riva al fiume passando attraverso campi di piselli.
Attenendosi all’indicazione datagli da Gachet prese per la strada centrale,
che proseguiva alle falde della collina. Camminava lentamente, pensando al
dottore cui era stato affidato. Le vecchie case dai tetti di paglia andavano
via via facendo posto a ricche ville, l’aspetto generale della campagna
mutava.
Vincent tirò un pomo d’ottone infisso in un alto muro di pietra. Gachet
accorse prontamente alla scampanellata. Vincent salì con lui tre rampe di
scale che conducevano su una terrazza tenuta a giardino. La casa, a tre
piani, era solida e ben costruita. Il dottor Gachet gli fece piegare il braccio,
lo prese per il gomito e lo condusse a vedere il cortile retrostante alla villa,
dove teneva anitre, galline, pavoni e tutto un campionario di gatti male
assortiti.
— Venite dentro, Vincent — gli disse poi, dopo avergli narrato vita e
miracoli d’ognuno di quegli animali.
La stanza di soggiorno, situata sul davanti della casa, era ampia e alta,
ma aveva due sole finestre che davano sul giardino. Nonostante la sua
ampiezza era così stipata di mobili, d’oggetti antichi e di cianfrusaglie da
collezionista, che avanzava appena appena lo spazio necessario perché i due
amici potessero muoversi intorno al tavolo centrale. In quella penombra,
tutti i mobili erano neri.
Gachet sgambettava di qua e di là, prendendo questo o quell’oggetto,
cacciandolo tra le mani di Vincent e riprendendoglielo prima che avesse
fatto in tempo a guardarlo.
— Guardate. Vedete quel quadro di fiori sulla parete? Opera di
Delacroix. Il vaso da lui dipinto è questo. Toccatelo. Non vi dà la stessa
sensazione di quello del quadro? Vedete quella sedia? Vi si è seduto
Courbet, quando ha dipinto il giardino. E questi piatti? Squisiti, vero? Me li
ha portati Desmoulins dal Giappone. Claude Monet si è servito di questo
qua per una sua natura morta. L’ho di sopra. Venite con me. Voglio farvela
vedere.
A tavola Vincent conobbe il figlio di Gachet, Paul, un bel ragazzo di
quindici anni, pieno di vivacità. Gachet, pur essendo di salute cagionevole e
digerendo male, aveva fatto preparare una colazione di cinque portate.
Vincent, abituato alle lenticchie e al pane nero di Saint-Remy, dopo la terza
si sentì talmente ingozzato da non poter più continuare.
— E adesso, al lavoro! — gridò il dottore. — Mi farete il ritratto,
Vincent. Poserò come sono qui, vero?
— Ma bisognerebbe prima che vi conoscessi un po’ meglio, dottore;
altrimenti rischio di fare un ritratto troppo superficiale.
— Forse avete ragione, forse avete ragione. Ma qualcosa dipingerete,
no? Non volete farmi vedere come lavorate? Ne ho un desiderio che non vi
dico.
— Ho visto in giardino un angolo che dipingerei proprio volentieri.
— Benone! Benone! Vi preparerò io il cavalletto. Paul, porta in giardino
il cavalletto di Monsieur Vincent. Ci indicherete dove volete metterlo, e io
vi dirò se già qualche altro pittore s’è collocato in quello stesso punto.
Mentre Vincent lavorava, Gachet gli correva intorno gesticolando con
rapido entusiasmo, con costernazione, con sbalordita meraviglia, e
rovesciandogli sulla spalla un fiotto continuo di suggerimenti e di consigli,
costellato di centinaia di vivacissime esclamazioni.
— Sì, sì, l’avete colto in pieno. Ci voleva proprio questo cremisi.
Attenzione! Quell’albero, finirete per guastarlo. Ah, sì, sì, ora l’avete
imbroccato. No, No. Basta col cobalto. Qui non siamo mica in Provenza.
Ah, adesso mi rendo conto. Sì, sì, è veramente épatant. Attento. Attento.
Vincent, mettete una macchiuzza di giallo in quel fiore. Sì, sì, proprio così.
Come sapete far vivere le cose! Il vostro pennello non fa nulla di inerte. No.
No. Vi prego. Fate attenzione. Non troppo. Ah, sì, sì, adesso vedo anch’io.
Merveilleux!
Vincent sopportò fino agli estremi limiti della pazienza le contorsioni e
il monologo del ballonzolante Gachet, poi si voltò.
— Amico mio, non credete che sia una cosa nociva per la vostra salute
eccitarvi e agitarvi così? Come medico, dovreste sapere quanta importanza
abbia il mantenersi calmi.
Ma Gachet non poteva star calmo né fermo, quando vedeva qualcuno
dipingere.
Terminato il quadro, Vincent rientrò in casa con Gachet e gli mostrò il
ritratto di donna arlesiana che aveva portato con sé. Il dottore trasse indietro
la testa e lo esaminò strizzando curiosamente un occhio. Dopo un lungo e
volubile dibattito tra sé e sé circa i pregi e i difetti del quadro, dichiarò: —
No, non posso accettarlo. Non posso accettarlo senza riserve. Non vedo che
cosa abbiate voluto dire.
— Non ho voluto dire niente. Questa donna è come la sintesi di tutte le
arlesiane, se così vi piace. Io ho semplicemente cercato di interpretare la
fisionomia mediante i colori.
— Ahimè! — fece tristemente il dottore. — Non posso proprio
accettarlo senza riserve.
— Mi permettete di dare uno sguardo alla vostra collezione?
— Ma certo, ma certo, girate e guardate a vostro piacimento. Io starò
qui con questa signora, per vedere se mi riesce d’accettarla com’è.
Vincent s’aggirò per un’ora di stanza in stanza, cortesemente guidato da
Paul. Trovò, abbandonato in un angolo, un Guillaumin: una donna nuda
stesa su un letto. Questa tela, evidentemente trascurata e tenuta in poco
conto, cominciava a screpolarsi. Mentre Vincent stava esaminandola,
sopraggiunse di corsa il dottor Gachet, tutto eccitato, e lo tempestò di
domande sull’arlesiana.
— Non vorrete dirmi che l’avete guardata finora! — si stupì Vincent.
— Sicuro, sicuro; e ci siamo, ci siamo. Comincio a sentirla.
— Scusate la mia presunzione, dottor Gachet. Ma questo è un magnifico
Guillaumin. E se non lo mettete al più presto in cornice, andrà in rovina.
Gachet non l’udì nemmeno.
— Dite che nel disegno avete seguito Gauguin. Non sono d’accordo.
Quell’urto chiassoso di colori soffoca la sua femminilità… No, non la
soffoca, ma… Insomma, insomma, vado ancora a guardarla meglio…
Comincio a capirla, pian piano, comincio a vederla… Si stacca dalla tela,
mi viene incontro…
Per tutto il resto del pomeriggio Gachet non fece altro che agitarsi
intorno al quadro dell’arlesiana, puntando il dito verso quella figura,
sbracciandosi, parlando da solo, formulando innumerevoli domande e
rispondendovi lui stesso, assumendo inavvertitamente mille pose diverse.
Verso l’imbrunire, quella donna gli aveva completamente conquistato il
cuore. Esultante, si diede per vinto e finalmente s’acquietò.
— Com’è difficile esser semplici! — osservò, contemplando ancora,
calmo ed esausto, il ritratto.
— Certo.
— È bella, bellissima. Non ho mai trovato nulla di così profondamente
originale.
— Se vi piace, dottore, è vostro. E così pure il quadro che ho fatto oggi
in giardino.
— Ma perché regalarmi questi quadri, Vincent? Hanno un grande
valore.
— Quanto prima, può darsi che dobbiate curarmi. E io non avrò denaro
per pagarvi. Così vi compenso con dei quadri.
— Ma io non vorrei nemmeno un soldo da voi, Vincent. Se dovessi
curarvi, lo farei per pura amicizia.
— Soit! E per pura amicizia io vi do questi quadri.

3.

Vincent ricominciò una vera vita di pittore. Andava a letto alle nove,
dopo aver guardato i clienti di Ravoux che giocavano a biliardo alla fosca
luce d’una lampada a gas. S’alzava alle cinque. Il tempo era magnifico: un
sole mite, un fresco verdeggiare per tutta la vallata. I periodi di malattia e di
forzata inattività nel manicomio di St.-Paul gli facevano sentire le loro
conseguenze: la mano gli s’era indurita.
Pregò Theo di mandargli sessanta studi a carboncino di Bargue, per
copiarli: temeva di trovarsi a mal partito, se non si fosse rimesso a studiare
proporzioni e nudo. Intanto cercava qua e là, se mai gli riuscisse di trovare
una casetta dove stabilirsi durevolmente. E si domandava se fosse vero
quanto gli aveva detto Theo, che in qualche angolo del mondo v’era
certamente una donna disposta a condividere la sua esistenza. Tirò fuori una
quantità di tele dipinte a Saint-Remy, con l’intenzione di ritoccarle e di
perfezionarle.
Ma questo improvviso sgorgo d’attività era semplicemente un fatto
momentaneo, riflesso di un organismo ancora troppo vigoroso per lasciarsi
distruggere.
Dopo la lunga reclusione nel manicomio, le giornate gli sembravano
settimane. Non sapeva come occuparle pienamente, non avendo più la forza
di dipingere da mattina a sera. E nemmeno il desiderio. Prima del grave
incidente occorsogli ad Arles le giornate non erano mai abbastanza lunghe
per appagare la sua sete di lavoro; ora gli sembravano interminabili.
Ad Auvers, il dottor Gachet restava il suo unico amico. Gachet, che
trascorreva la maggior parte delle giornate nel suo studio medico di Parigi,
la sera veniva spesso alla Trattoria Ravoux per vedere i suoi ultimi quadri.
Vincent s’era domandato molte volte perché negli occhi del dottore ci fosse
tanta tristezza.
— Che cosa vi rende infelice? — gli domandò una sera.
— Ah, Vincent, ho lavorato e faticato tanti anni, ed ho fatto ben poco di
buono. I medici non vedono altro che sofferenza, sofferenza, sofferenza.
I suoi occhi malinconici s’avvivarono d’una scintilla di luce.
— Eh, sì, Vincent, essere pittori è la più bella cosa del mondo. Per tutta
la mia vita ho desiderato e sognato d’essere un artista. Ma riesco appena a
trovare un’ora ogni tanto: ci sono tanti ammalati che hanno bisogno di
me…
Inginocchiatosi, tirò fuori una piccola catasta di tele di sotto il letto di
Vincent. Ne prese una tra le mani, se la tenne davanti agli occhi: un
raggiante girasole.
— Se avessi dipinto anche un solo quadro come questo, Vincent,
considererei pienamente giustificata la mia vita. Ho passato anni ed anni a
curare i dolori fisici della gente, ma a lungo andare la gente moriva lo
stesso; e allora, a che serve? Questi vostri girasoli, invece, allevieranno il
dolore che s’annida nei cuori, procureranno godimenti per secoli e secoli…
Ecco perché la vostra vita è pienamente riuscita, ecco perché dovreste
essere un uomo felice.
Alcuni giorni dopo, Vincent ritrasse il dottore col suo berretto bianco e
l’abito turchino, contro uno sfondo blu-cobalto. Dipinse il viso e le mani in
una tonalità leggera, luminosa; la figura appoggiata ad un tavolo rosso su
cui si vedevano un libro dalla copertina gialla e una pianta di fiori dalle
corolle purpuree. Terminato il quadro, constatò con una certa divertita
sorpresa che rassomigliava sotto certi aspetti ad un suo autoritratto eseguito
ad Arles prima dell’arrivo di Gauguin.
Gachet concepì per questo suo ritratto un vero fanatismo. Vincent non
aveva mai udito un simile diluvio di lodi e di entusiasmo. Gachet volle a
tutti i costi che gliene facesse una copia. Quando Vincent consentì, la sua
gioia non conobbe più limiti.
— Dovete servirvi liberamente della macchina da stampa che ho in
soffitta, Vincent. Andremo a Parigi, prenderemo tutti i vostri quadri e ne
faremo litografie. Non vi costerà un centesimo, non un centesimo. Venite,
voglio farvi vedere il mio laboratorio.
Per salire in soffitta dovettero arrampicarsi su una scala a pioli e alzare
il coperchio d’una botola. Il laboratorio di Gachet era così pieno di
fantastici e stravaganti arnesi, che a Vincent parve d’esser capitato nel
gabinetto di un alchimista medioevale.
Ridiscesi, notò che il nudo di Guillaumin era sempre abbandonato in
quell’angolo come un oggetto senza valore.
— Dottor Gachet, mi vedo costretto ad insistere che facciate
incorniciare questa tela. State rovinando un capolavoro.
— Sì, sì, lo farò incorniciare. Quando andiamo a Parigi a prendere i
vostri quadri? Ne farete tutte le litografie che vorrete. Provvederò io i
materiali.
I giorni trascorrevano serenamente: passò maggio, venne giugno.
Vincent dipinse la chiesa cattolica in vetta alla collina. Verso la metà del
pomeriggio si sentì stanco, e non si curò nemmeno di rifinire il quadro. Con
un grande sforzo di perseveranza riuscì a dipingere un campo di messi
standosene disteso per terra, con la testa quasi in mezzo al grano. Fece
alcuni altri quadri: la casa di Madame Daubigny; una casetta bianca in
mezzo agli alberi, sotto un cielo notturno, con le finestre illuminate, la
vegetazione d’un verde molto scuro e un tocco di rosa cupo; e infine
un’impressione serale: due peri decisamente neri contro un cielo
giallognolo.
Ma lavorava ormai senza passione e senza gusto. Per abitudine. Perché
non c’era altro da fare. Il tremendo slancio dei suoi dieci anni di colossale
lavoro lo spingeva ancora un poco avanti, quasi per forza d’inerzia. Quegli
aspetti della natura che in passato l’avevano tanto affascinato ed eccitato, lo
lasciavano ora indifferente.
«Ho già dipinto tante volte queste cose! — mormorava tra sé
camminando per le strade di campagna col cavalletto in ispalla e cercando
un soggetto. — Non ho nulla di nulla di nuovo da aggiungere. Perché
dovrei ripetermi? Aveva ragione il buon Millet. J’aimerais mieux ne rien
dire que de m’exprimer faiblement…».
Non già che il suo amore per la natura fosse morto: semplicemente, non
provava più quel disperato bisogno di buttarsi su una scena e ricrearla. Era
consumato dal suo stesso fuoco. In tutto il mese di giugno dipinse appena
cinque quadri. Stanco, indicibilmente stanco. Si sentiva vuoto, disseccato,
arido e dilavato come il greto d’un fiume: quasi che ognuno delle centinaia
e centinaia di disegni e quadri sgorgati dall’anima nel corso degli ultimi
dieci anni gli avesse portato via una favilla di vita.
Infine, continuò a lavorare soltanto per un senso di dovere verso Theo
che aveva investito tanto denaro nella sua arte. Ma quando gli accadeva di
pensare, nel bel mezzo d’un lavoro, che la casa di Theo era già stipata d’un
tal numero di tele quante non se ne sarebbero potute vendere nemmeno
vivendo dieci volte, si sentiva invadere da una nausea tale che spingeva via
il cavalletto con un gesto di disgusto.
S’aspettava un altro attacco in luglio, allo scadere del solito periodo
trimestrale, ed era continuamente tormentato dalla paura di commettere,
sotto l’influsso del male, qualche follia che lo mettesse al bando del paese.
Prima di lasciar Parigi non aveva concluso nessun preciso accordo
finanziario con Theo, e viveva quindi in una situazione inquietante. Anche
il continuo alternarsi di tristezze e di estatici rapimenti negli occhi di
Gachet contribuiva, giorno per giorno, ad alimentare in lui uno stato di
tensione.
A dargli il colpo di grazia, giunse la notizia che il bimbo di Theo s’era
ammalato.
L’ansia per il nipotino lo rendeva quasi frenetico. Resistette finché poté,
poi prese il treno per Parigi. Il suo improvviso arrivo aumentò la confusione
che già regnava in casa. Theo era pallido e sofferente. Vincent fece del suo
meglio per confortarlo.
— Non è soltanto per il bambino che sono preoccupato, Vincent — gli
confessò infine il fratello.
— Che c’è, Theo?
— Valadon mi ha minacciato di farmi licenziare.
— Ma come! Impossibile! Sono sedici anni che lavori per loro!
— Lo so. Ma Valadon mi accusa di aver trascurato gli interessi della
ditta per occuparmi degli impressionisti. Infatti li vendo abbastanza poco, e
a prezzi bassi. Valadon asserisce che nello scorso anno la galleria da me
diretta ha chiuso in passivo.
— Ma lui avrebbe la facoltà di metterti fuori?
— Perché no? I Van Gogh hanno venduto tutte le azioni già in loro
possesso.
— E in questo caso, che farai? Aprirai una galleria per conto tuo?
— Nemmeno da pensarci. Avevo dei risparmi, ma ho speso tutto per il
matrimonio e per il bambino.
— Ah, se non avessi buttato via quelle migliaia di franchi per me!
— Lascia andare, Vincent, ti prego. Questo non c’entra. Sai che io…
— Ma come te la caverai? C’è Jo, c’è il bambino…
— Già. Ebbene… Non so. In questo momento mi preoccupo soltanto
per il bambino.
Vincent si trattenne a Parigi alcuni giorni, cercando di star fuori di casa
il più possibile per non disturbare il piccino. Parigi e i suoi vecchi amici gli
causavano una crescente eccitazione: una specie di febbre che a poco a
poco gli accendeva il sangue. Non appena il piccolo Vincent accennò a
migliorare, si rimise in treno e tornò alla quiete di Auvers.
Ma nemmeno la quiete gli giovò. Le preoccupazioni non gli davano
tregua. Che cosa sarebbe accaduto, se Theo avesse perduto l’impiego?
L’avrebbero davvero gettato su una strada come un vile mendicante? E che
ne sarebbe stato di Jo e del bambino? E se il piccolo Vincent fosse morto?
Sapeva che la debole fibra di Theo non avrebbe retto a un colpo simile. Chi
avrebbe provveduto a tutti loro nel tempo in cui Theo avesse dovuto cercare
un altro impiego? E come avrebbe potuto Theo trovare la forza di mettersi a
cercar lavoro?
Sedeva per ore nello scuro locale a pianterreno della Trattoria Ravoux,
che gli ricordava il Caffè Lamartine col suo lezzo di birra d’infima qualità e
di fumo acre. Ciondolava intorno al biliardo con la stecca in mano, tentando
svogliatamente qualche colpo. Non aveva soldi per bere. Non aveva soldi
per comprare tela e colori. Non poteva chiedere nulla a Theo, in un
momento come questo. E aspettava la crisi di luglio con una paura
angosciosa di commettere qualche follia che dovesse causare al povero
Theo altri crucci e altre spese.
Cercò di lavorare. Ma a che scopo? Aveva ormai dipinto tutto ciò che
voleva dipingere. Aveva detto tutto ciò che gli premeva di dire. La natura
non aveva più il potere d’accendere in lui la passione creativa d’un tempo:
ed egli sapeva che la miglior parte di lui già era morta.
I giorni passavano. S’era ormai alla metà di luglio, alle soglie della
canicola. Theo, in preda all’incubo dell’imminente mazzata di Valadon,
divorato dalle preoccupazioni per la salute del bambino e per gli onorari
dovuti al medico, riuscì a spremere ancora cinquanta franchi da mandare al
fratello. Vincent non fece altro che passarli a Ravoux. Questo soccorso gli
avrebbe permesso di restare fino alla fine di luglio. E poi? Non poteva
aspettarsi altri aiuti da Theo.
Si stendeva supino nei campi intorno al piccolo cimitero, sotto il
dardeggiar del sole. Camminava lungo le rive dell’Oise, respirando la
freschezza dell’acqua e del fogliame. Andava a pranzo da Gachet,
rimpinzandosi di cibo che non poteva gustare né digerire. E mentre il
dottore s’infervorava a magnificare i suo quadri, egli si diceva: «Non è di
me che parla. Impossibile che quei quadri siano miei. Io non ho mai dipinto.
Non riconosco nemmeno la mia firma sulle tele. Non ricordo d’averci steso
una pennellata di colore. L’autore dev’essere certamente un altro…».
Rifletteva, steso sul letto nella sua stanza buia: «Supponiamo che Theo
non venga licenziato. Ammettiamo pure che possa continuare a mandarmi
centocinquanta franchi al mese. Che me ne faccio ormai della mia vita? Ho
seguitato a vivere in questi ultimi sciagurati anni perché dovevo dipingere,
perché dovevo dire le cose che mi bruciavano dentro. Ma oggigiorno non
c’è più nulla dentro di me. Sono ormai solo un guscio svuotato. Devo
ridurmi a vegetare come quei poveri diavoli di St.-Paul, in attesa che
qualche incidente mi spazzi via dalla terra?».
Altre volte si tormentava per il fratello, Johanna e il bambino.
«Immaginiamo che mi ritorni la forza e l’estro, che mi riprenda il desiderio
di dipingere. Come posso continuare ad accettare il denaro di Theo, dal
momento che gli è necessario per Jo e il piccino? È inammissibile che egli
spenda quel denaro per me. Deve servirsene per mandare in campagna il
bambino, perché cresca sano e robusto. Sono dieci lunghi anni che vivo alle
sue spalle. Non basta ancora? Non è forse tempo che mi levi di mezzo, a
vantaggio del piccolo Vincent? La mia parte in questo mondo è finita,
adesso comincia la sua».
Ma in fondo a tutto c’era l’opprimente paura delle possibili
conseguenze dell’epilessia. In questo momento era sano di mente; poteva
disporre della sua vita come voleva. Ma se il prossimo l’avesse trasformato
definitivamente in un maniaco furioso? Se il suo cervello non avesse retto
alla violenza della crisi? Se fosse diventato un idiota capace soltanto di
biascicare parole assurde e incoerenti? Che cosa avrebbe fatto allora il
povero Theo? L’avrebbe fatto rinchiudere per sempre in un manicomio?
Regalò due altri quadri al dottor Gachet e cercò di farsi dire la verità.
— No, Vincent — lo rassicurò il suo amico. — Non avrete più altri
attacchi. D’ora in poi godrete sempre buona salute. Ma non tutti gli
epilettici sono così fortunati.
— Che cosa può accadere loro?
— A volte, dopo un certo numero di crisi, finiscono per impazzire del
tutto.
— E non guariscono più?
— No. Sono spacciati. Possono magari vivacchiare ancora alcuni anni
in un manicomio, ma non rinsaviscono più.
— Come si può prevedere, dottore, se l’attacco imminente non lascerà
conseguenze o se schianterà per sempre il cervello?
— Impossibile fare una previsione di questo genere, Vincent. Ma
lasciamo perdere questo triste argomento. Andiamo su nel mio laboratorio a
fare qualche incisione.
Nei quattro giorni successivi Vincent non uscì più dalla sua stanza. Ogni
sera Madame Ravoux gli portava la cena.
«Ora sto bene, ora ragiono con perfetta lucidità — egli si ripeteva. —
Sono padrone del mio destino. Ma quando verrà il momento della crisi… se
la mia mente restasse per sempre sconvolta… non mi renderei più conto di
nulla e non saprei più prendere la decisione di uccidermi… E sarei perduto.
Oh, Theo, che cosa fare?».
Il quarto giorno, nel pomeriggio, andò da Gachet. Il dottore era nella
stanza di soggiorno. Vincent si diresse risolutamente verso il mobile dove
qualche tempo addietro aveva messo il nudo di Guillaumin, e lo tirò fuori.
— Vi avevo detto di farlo incorniciare!
Il dottor Gachet lo guardò sorpreso.
— Lo so, Vincent. La prossima settimana ordinerò una cornice al
falegname di Auvers.
— Non la prossima settimana, ma ora! Oggi! In questo momento!
— Ma, Vincent, adesso dite delle sciocchezze.
Vincent lo fissò per un istante con un’espressione terribile, avanzò
meccanicamente d’un passo e mise la mano nella tasca della giacca. Al
dottor Gachet parve di vederlo impugnare una rivoltella e puntarla contro di
lui, attraverso la stoffa.
— Vincent!
Vincent tremò. Abbassò gli occhi, tolse la mano di tasca e corse via.
Il giorno dopo prese i suoi arnesi, percorse la lunga strada che
conduceva alla stazione, salì per la collina, spingendosi fin oltre la chiesa
cattolica e sedendosi poi in un campo di fronte al cimitero.
Verso mezzogiorno, mentre più infieriva sul suo capo la sferza del sole,
uno stormo enorme di merli sbucò dal cielo. Riempirono tutto lo spazio,
oscurarono il sole, lo avvolsero in una densa nube tenebrosa, gli volarono
tra i capelli, negli occhi, nel naso, nella bocca, avviluppandolo in un nero e
soffocante turbine d’ali frenetiche.
Continuò a lavorare. Dipinse degli uccelli sopra un biondeggiante
campo di grano. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo maneggiasse i
pennelli. Finito il quadro ci scrisse: Corvi su un campo, prese il cavalletto e
la tela e tornò alla trattoria. Si gettò sul letto e s’addormentò.
Il pomeriggio seguente uscì di nuovo, ma giunto in Place de la Mairie
prese un’altra direzione. S’inerpicò fin oltre il castello. Un contadino lo
vide appollaiato su un albero.
— Impossibile! — sentì che diceva. — Impossibile!
A un certo momento ridiscese dall’albero e si mise a camminare
attraverso i solchi dietro il castello. Stavolta era veramente la fine. Già lo
sapeva fin dalla prima volta ch’era stramazzato sotto la violenza del male,
ad Arles; ma non aveva avuto la forza, allora, di fare il salto nel buio.
Ora voleva dire una parola d’addio. Nonostante tutto, il mondo in cui
era vissuto aveva qualcosa di buono e di bello. Come diceva Gauguin?
«Accanto al veleno c’è sempre l’antidoto». Ed ora, sul punto di lasciare
questo mondo, avrebbe voluto dargli l’addio, dar l’addio a tutti quegli amici
che lo avevano aiutato a foggiarsi la propria vita: Ursula, la cui ripulsa
l’aveva strappato da un’esistenza convenzionale e fatto di lui un reietto;
Mendes da Costa, il quale gli aveva infuso la persuasione che sarebbe
giunto infine ad esprimere se stesso e che questa espressione avrebbe
giustificato la sua vita; Kay Vos, il cui «No, mai mai!» s’era inciso
amaramente e indelebilmente nel suo cuore; Madame Denis, Jacques
Verney e Henri Decrucq, che gli avevano insegnato ad amare gli esseri più
disgraziati e conculcati della terra; il reverendo Pietersen, la cui bontà non
aveva badato ai suoi cenci miserabili e alle sue maniere sgraziate; il babbo e
la mamma, che gli avevano voluto bene come meglio sapevano; Cristina,
l’unica donna che il destino s’era compiaciuto di concedergli; Mauve,
ch’era stato il suo maestro per alcune indimenticabili settimane;
Weissenbruch e De Bock, i primi compagni d’arte con cui aveva stretto
amicizia; gli zii Vincent, Jan, Cornelius Marinus e Stricker, che l’avevano
bollato come la pecora nera della famiglia Van Gogh; Margot, l’unica donna
che l’avesse amato, e che per questo amore aveva tentato di togliersi la vita;
tutti i suoi amici di Parigi: Lautrec, ch’era stato nuovamente rinchiuso in un
manicomio, da cui non sarebbe uscito più; Georges Seurat, morto a trentun
anni per eccesso di lavoro; Paul Gauguin, ridotto a una condizione di
mendicante in Bretagna; Rousseau, che marciva nella sua topaia, nei pressi
della Bastiglia; Cézanne, che conduceva un’amara vita di recluso su una
collina di Aix; il Père Tanguy e Roulin, che gli avevano mostrato come i
cuori semplici siano il sale della terra; Rachel e il dottor Rey, che gli
avevano prodigato la bontà di cui aveva bisogno; Aurier e il dottor Gachet,
gli unici due uomini al mondo che l’avessero giudicato un grande pittore; e
infine il suo buon fratello Theo, il paziente, l’affettuoso, il fedele Theo, il
migliore e il più caro di tutti i fratelli.
Ma le parole non erano mai state il suo mezzo d’espressione. Avrebbe
dovuto dipingerlo, questo addio.
Non si può dipingere un addio.
Alzò il viso verso il sole. Si puntò la rivoltella contro il fianco. Premette
il grilletto. Crollò di schianto, con la faccia immersa nell’opulenta terra del
campo, terra lui stesso, ritornante nel grembo della grande madre.

4.

Quattro ore dopo, varcava con passo barcollante la soglia della trattoria.
Madame Ravoux lo seguì nella sua stanza e, visto che aveva i vestiti
insanguinati, corse immediatamente a chiamare il dottor Gachet.
— Oh, Vincent, Vincent, che cosa avete mai fatto! — gemette Gachet,
entrando nella stanza.
— Devo essere stato un vero schiappino. Che ne dite? Gachet esaminò
la ferita.
— Ah, Vincent, mio povero amico, quanto dovevate essere infelice per
fare una cosa simile! Ma perché non ho saputo comprendere? Perché ci
volete lasciare, mentre vi vogliamo tanto bene? Pensate ai bei quadri che
dovete ancora dare all’umanità…
— Volete fare il favore di prendermi la pipa nella tasca del panciotto?
— Ma certo, amico mio.
Gachet gliela riempì di tabacco e gliela mise tra i denti.
— Ora accendetemela, per favore.
— Ma certo, amico mio.
Vincent tirò alcune boccate di fumo, in silenzio.
— Vincent, oggi è domenica e vostro fratello non è alla galleria. Qual è
il suo indirizzo di casa?
— Non ve lo dico.
— Ma dovete dirmelo, Vincent! Bisogna avvertirlo d’urgenza!
— No, non dovete rovinargli la domenica. È carico di stanchezza e di
preoccupazioni. Ha bisogno di riposare.
Per quanto insistesse e si sforzasse di persuaderlo, Gachet non riuscì a
strappargli l’indirizzo di Theo. Rimase al suo capezzale fino a tarda ora
della notte, medicandogli la ferita. Poi andò a casa per riposarsi un poco,
affidandolo alle cure di suo figlio.
Vincent rimase tutta la notte con gli occhi spalancati, senza mai
pronunciare una parola. Si faceva riempire la pipa e fumava continuamente.
La mattina dopo, arrivando all’ufficio, Theo trovò il telegramma di
Gachet. Prese il primo treno per Pontoise, noleggiò una carrozza e si
precipitò ad Auvers.
— Ciao, Theo — gli disse Vincent.
Theo cadde in ginocchio accanto al letto e strinse il fratello tra le
braccia come un bambino. Non poteva parlare.
Giunto il dottore, uscì con lui in corridoio. Gachet scosse tristemente la
testa.
— Non c’è nulla da sperare, amico mio. Non posso operarlo per estrarre
il proiettile, perché è troppo debole. Se non avesse una fibra d’acciaio,
sarebbe morto in piena campagna.
Per tutta l’interminabile giornata Theo rimase seduto al suo capezzale,
tenendogli la mano. Al cader della sera quando furono soli nella stanza, si
misero a parlare sommessamente della loro fanciullezza nel Brabante.
— Ricordi il mulino di Ryswyk, Vincent?
— Bello quel vecchio mulino, eh Theo?
— Camminavamo per il sentiero lungo l’acqua, facendo progetti per
l’avvenire.
— E quando giocavamo in mezzo alle messi, d’estate, tu mi tenevi per
mano, proprio come ora. Ricordi, Theo?
— Sì, Vincent.
— All’ospedale di Arles, ripensavo spesso ai tempi di Zundert. Che
bella fanciullezza è stata la nostra, Theo! Giocavamo nel giardino dietro la
cucina, all’ombra delle acace, e la mamma ci faceva i formaggini al forno
per merenda.
— Sembrano cose già tanto lontane…
— Già… Eh, sì, la vita è lunga. Theo, te ne scongiuro, riguardati molto.
Abbi cura della tua salute. Devi pensare a Jo e al piccino. Portali in
campagna, di modo che il bambino possa crescere sano e forte. E non stare
più alle Gallerie Goupil. Quella gente t’ha sfruttato e spremuto senza darti
nulla in compenso.
— Aprirò molto presto una piccola galleria per conto mio, Vincent. E la
mia prima mostra comprenderà le opere di un solo pittore. Le opere
complete di Vincent Van Gogh. Come le avevi disposte tu, con le tue mani,
nel nostro appartamento.
— Ah, sì, il mio lavoro… Ci ho rischiato la vita, e la mia ragione si è
quasi inabissata.
La profonda quiete della notte d’Auvers invase la stanza.
Poco dopo l’una del mattino, Vincent volse leggermente la testa e
sussurrò: — Vorrei morire ora, Theo.
Pochi minuti dopo chiudeva gli occhi.
Theo sentì suo fratello abbandonarlo per sempre.

5.

Rousseau, il Père Tanguy, Aurier ed Émile Bernard vennero da Parigi


per la sepoltura.
La Trattoria Ravoux aveva chiuso i battenti e gli scuri. Il piccolo carro
funebre tirato da cavalli neri aspettava davanti alla porta.
La bara di Vincent venne posata sul tavolo da biliardo.
Theo, il dottor Gachet, Rousseau, il Père Tanguy, Aurier, Bernard e
Ravoux fecero cerchio intorno, muti. Non avevano la forza di guardarsi l’un
l’altro.
Nessuno pensò a chiamare un ministro del culto.
Il cocchiere del carro funebre bussò alla porta.
— È tempo, signori.
— Ma per l’amor di Dio, non possiamo lasciarlo andare così! —
proruppe Gachet.
Salì nella stanza di Vincent, portò giù tutti i suoi quadri e mandò suo
figlio a prendere gli altri a casa sua, di corsa.
In sei, si diedero ad attaccarli alle pareti.
Theo rimase solo, immobile, presso la bara.
Le tele luminose di Vincent trasformarono la tetra stanza d’osteria in
una sfolgorante cattedrale.
I presenti tornarono a far cerchio intorno al tavolo da biliardo.
Solo Gachet riuscì a parlare.
— Non lasciamoci prendere dalla disperazione, noi che siamo gli amici
di Vincent. Egli non è morto. E non morrà mai. Il suo amore, il suo genio, le
cose grandi e belle da lui create sopravvivranno sempre e arricchiranno il
mondo. Non passa ora ch’io non guardi i suoi quadri e non vi attinga nuova
fede, e non vi scopra un nuovo senso della vita. Era un colosso. Un
formidabile pittore. Un grande filosofo. È caduto martire del suo amore per
l’arte.
Theo tentò di ringraziarlo.
— Io… Io…
Le lacrime e i singhiozzi gli serravano la gola. Non poté dir altro.
La bara venne chiusa.
I suoi sei amici la sollevarono, la portarono fuori dalla piccola trattoria e
la collocarono delicatamente sul carro.
Quindi s’avviarono dietro il nero convoglio, per la strada piena di sole.
Passarono dinanzi alle povere case dai tetti di paglia, passarono dinanzi alle
piccole ville.
Giunti davanti alla stazione, svoltarono a sinistra e presero a salire
lentamente su per il fianco della collina. Oltrepassarono la chiesa cattolica,
proseguirono lungo la stradicciola serpeggiante tra i campi.
Il carro nero si fermò dinanzi al cancello del cimitero. Theo camminò
dietro la bara, mentre i sei uomini la portavano verso la tomba.
Il dottor Gachet aveva scelto per l’ultima dimora di Vincent il punto
preciso dove s’erano soffermati il giorno del suo arrivo a contemplare la
verde e ridente vallata dell’Oise.
Theo volle nuovamente parlare. Non poté.
Gli affossatori calarono la bara nella tomba. Poi vi buttarono sopra
palate di terra, pestandola con i piedi.
Theo e gli amici di Vincent si allontanarono, uscirono dal cimitero,
ridiscesero la collina.
Pochi giorni dopo, il dottor Gachet tornò nel cimitero e piantò dei
girasoli tutt’intorno alla tomba.
Theo rientrò nel suo appartamento parigino. Il dolore per la perdita
subita non gli dava tregua: gli trafiggeva l’anima in ogni istante del giorno e
della notte, con implacabile crudeltà.
La sua mente non resse più.
Johanna lo condusse a Utrecht, nella stessa casa di salute dove prima di
lui era stata ricoverata Margot.
In capo a sei mesi, quasi nell’anniversario della morte di Vincent, si
spegneva. Venne sepolto a Utrecht.
Qualche tempo dopo, cercando conforto nella lettura della Bibbia,
Johanna s’imbatté in un versetto del Libro di Samuele:
«E non furono divisi nemmeno nella morte».

Portò ad Auvers la salma di Theo e la fece seppellire accanto a quella


del fratello.
Quando l’ardente sole di Auvers batte sul piccolo cimitero in mezzo ai
campi, Theo riposa dolcemente alla lussureggiante ombra dei girasoli di
Vincent.

FINE
NOTA

Per questo libro ho attinto principalmente ai tre volumi di lettere di


Vincent Van Gogh al fratello Theo (Houghton, Mifflin, 1927-1930). La
massima parte del materiale documentario, l’ho tratto in luce ripercorrendo
l’itinerario di Vincent attraverso l’Olanda, il Belgio e la Francia.
Peccherei d’ingratitudine se non mi riconoscessi debitore alla schiera
degli amici e degli ammiratori di Van Gogh, sparsi in varie parti d’Europa,
che mi sono stati generosamente prodighi del loro tempo e del materiale in
loro possesso: Colin Van Oss e Louis Bron della Haagshe Post; Johan
Tersteeg, delle Gallerie Goupil dell’Aia; la famiglia di Anton Mauve, di
Scheveningen; Jean-Baptiste Denis e signora, di Petit Wasmes; la famiglia
Hofkes, di Nuenen; J. Bart de la Faille, di Amsterdam; il dottor Felix Rey,
di Arles; il dottor Edgar Le Roy, di St-Paul-de-Mausole; Paul Gachet, di
Auvers-sur-l’Oise, che rimane il più fedele amico di Vincent in Europa.
Devo riconoscenza a Lona Mosk, Alice e Ray C. B. Brown e Jean
Factor, per la loro collaborazione editoriale. Desidero infine esprimere la
mia più profonda gratitudine a Ruth Aley, che per prima lesse questo libro
quand’era ancora manoscritto.
IRVING STONE
IRVING STONE
Uomo di lettere, come egli stesso amava definirsi, Irving Stone (1903-1989) è autore di affascinanti
ricostruzioni storiche e di avvincenti biografie romanzate. Con il rigore dello storico e la fantasia
dell’artista ha raccontato, oltre alla vita di Michelangelo nel celebre Il tormento e l’estasi, anche
quelle di Schliemann in Il tesoro greco, di Charles Darwin nell’Origine, di Sigmund Freud in Le
passioni della mente e degli Impressionisti in Vortici di gloria, tutti pubblicati con successo da
Corbaccio.

Potrebbero piacerti anche