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LONDRA
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Theodorus Van Gogh andò a prendere il figlio alla stazione di Breda con
una carrozza. Indossava l’austero abito nero della sua professione di
ministro del culto, un panciotto dagli ampi risvolti, una camicia bianca
inamidata, con una cravatta dal grosso nodo nero, che lasciava scoperta
soltanto una striscia sottile del colletto alto. Con una rapida occhiata,
Vincent colse i due elementi più caratteristici della fisionomia paterna: la
palpebra destra più bassa della sinistra, sì da coprire in gran parte l’occhio;
la bocca che all’angolo sinistro formava una linea esile e fine, mentre
all’angolo destro era carnosa e sensuale. Gli occhi avevano un’espressione,
per così dire, passiva, che significava semplicemente: «Questo sono io».
Gli abitanti di Zundert notavano spesso che il reverendo Theodorus
andava in giro a far del bene con un imponente cappello di seta in testa.
Fino all’ultimo dei suoi giorni, non comprese mai perché non gli
arridesse maggiormente il successo. Si riteneva meritevole d’esser chiamato
da tempo a reggere una importante parrocchia ad Amsterdam o all’Aia. I
suoi parrocchiani lo chiamavano: «Il bel pastore». Era un uomo
d’educazione compita, di temperamento affettuoso, dotato di belle qualità
intellettuali e spirituali, infaticabile nel servizio di Dio. Eppure da
venticinque anni viveva sepolto e dimenticato in quel paesuccio di Zundert.
Era l’unico dei sei fratelli Van Gogh che non avesse raggiunto, con la sua
posizione, una notorietà nazionale.
La casa parrocchiale di Zundert, dov’era nato Vincent, consisteva in un
edificio di legno situato sulla via del mercato e dello stadhuis. Dietro la
cucina s’apriva un giardino con acacie e tanti piccoli sentieri che correvano
tra aiuole di fiori assai curati. Anche la chiesetta era un piccolo edificio di
legno, nascosto tra gli alberi proprio dietro il giardino, con due finestrelle
gotiche per parte, forse una dozzina di banchi sul pavimento di assi e una
quantità di scaldini che rimanevano lì in permanenza. In fondo, una scala
che dava accesso all’organo. In complesso, un austero e semplice luogo di
preghiere, dove dominava lo spirito di Calvino e della sua riforma.
Anna Cornelia, la mamma di Vincent, stava in attesa alla finestra della
facciata e, prima che la carrozza si fermasse, s’era già precipitata fuori dalla
porta. Mentre si stringeva il figlio all’ampio seno, s’accorse che c’era in lui
qualcosa che lo affliggeva.
— Myn lieve zoon! — mormorò. — Vincent mio!
I suoi occhi, ora azzurri ora verdi, sempre completamente aperti,
dolcemente interrogativi, vedevano in cuore alle persone, sempre con
indulgente comprensione. Le due rughe sottili che dai lati delle narici
scendevano verso gli angoli della bocca andavano approfondendosi con gli
anni: ma più si accentuavano, più davano l’impressione di una faccia
increspata da un lieve sorriso.
Anna Cornelia Carbentus era dell’Aia, dove suo padre rivestiva la carica
di «Legatore di libri della Real Casa». Gli affari di Guglielmo Carbentus
andavano a gonfie vele; l’incarico di rilegare la prima Costituzione
olandese lo aveva reso noto da un capo all’altro della nazione. Le sue figlie
— una delle quali aveva sposato lo zio Vincent Van Gogh e una terza il ben
noto reverendo Stricker di Amsterdam — erano davvero bien élevées.
Anna Cornelia era inoltre una gran brava donna. Ignorava il male, non
lo vedeva mai in nulla. Sapeva soltanto che le creature umane vanno
soggette alla debolezza, alla tentazione, alle sofferenze e al dolore. Anche
Theodorus Van Gogh era un brav’uomo, ma comprendeva a fondo il male e
ne condannava inesorabilmente anche i più lievi indizi.
La sala da pranzo era situata al centro dell’abitazione dei Van Gogh e la
grande tavola, una volta sparecchiata, diventava il centro della vita
familiare, dove tutti si raccoglievano a passar la sera intorno all’amichevole
lampada a petrolio. Anna Cornelia era preoccupata per Vincent: lo trovava
smagrito, ravvisava nei suoi modi un che di nervoso.
— C’è qualcosa che non va, Vincent? — gli domandò quella sera, dopo
cena. — Non ti trovo bene.
Vincent lanciò un’occhiata intorno alla tavola, dove sedevano Anna,
Elisabetta e Willemien, quelle tre strane ragazze ch’erano le sue sorelle.
— No, va tutto bene.
— Ti piace Londra? — domandò Theodorus. — Se non ti va, ne parlerò
con lo zio Vincent. Credo che non avrebbe difficoltà a trasferirti in una delle
gallerie di Parigi.
Vincent si agitò. — No, no, non devi! — proruppe. — Non voglio venir
via da Londra, io… — Si calmò. — Quando lo zio Vincent vorrà farmi
cambiar posto, sono certo che ci penserà da solo.
— Come vuoi — disse Theodorus.
«È per quella ragazza — pensò Anna Cornelia. — Adesso capisco ciò
che c’era nelle sue lettere».
La landa nelle vicinanze di Zundert era cosparsa di boschi di pini e di
ciuffi di querce. Vincent passava ora le giornate a camminar solo per i
campi, soffermandosi a fissare le acque degli stagni di cui era disseminata
la brughiera. L’unica sua distrazione consisteva nel disegnare: eseguì una
quantità di schizzi ritraendo il giardino, il mercato del sabato pomeriggio
visto dalla finestra della casa parrocchiale, l’ingresso dell’abitazione. Di
tanto in tanto gli riusciva di dimenticare per qualche momento Ursula.
Theodorus aveva sempre trovato un motivo di delusione nel fatto che il
figlio maggiore non seguisse le sue orme. Andavano talvolta insieme a
visitare un contadino ammalato; tornando poi attraverso la landa,
scendevano dalla carrozza e camminavano un poco. Il sole tramontava tra
rossi bagliori dietro i pini, il cielo serale si specchiava negli stagni, nella
brughiera e sulle sabbie dorate regnava un immenso respiro d’armonia.
— Mio padre era parroco, Vincent, ed io ho sempre sperato che tu
tenessi viva la tradizione.
— Che cosa ti fa pensare che io desideri cambiar mestiere?
— Dicevo così, qualora tu volessi… Potresti abitare presso lo zio Jan ad
Amsterdam, mentre fai gli studi all’università. Il reverendo Stricker sarebbe
ben disposto ad occuparsi di te.
— Mi consigli di piantare Goupil?
— No, no di certo. Ma se là non ti trovi bene… A volte sopravvengono
in noi dei cambiamenti…
— Capisco. Ma non ho nessuna intenzione di venir via dalla ditta.
I genitori lo accompagnarono fino a Breda, quando dovette ripartire per
Londra.
— Dobbiamo sempre scriverti allo stesso indirizzo, Vincent? — gli
domandò Anna Cornelia.
— No. Mi trasferisco.
— Sono contento che te ne vada dalla casa delle Loyer — osservò suo
padre. — Non mi sono mai piaciute. Hanno troppi segreti.
Vincent s’irrigidì. La mamma gli mise una mano sulla sua e aggiunse
sottovoce, perché Theodorus non udisse: — Non essere triste, caro. Col
tempo, quando avrai una posizione più solida, ti troverai molto meglio con
una bella olandesina. Quell’Ursula non farebbe per te. È troppo diversa.
Egli si domandò come sua madre potesse sapere.
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La scuola del signor Stokes sorgeva in una piazza, in mezzo alla quale si
stendeva una vasta radura erbosa circondata da una cancellata di ferro.
Ventiquattro alunni, dai dieci ai quattordici anni d’età. Vincent doveva
insegnare francese, tedesco e olandese, tener d’occhio i ragazzi dopo le
lezioni, sorvegliarli durante il bagno del sabato sera. Compenso: vitto e
alloggio; nessuno stipendio.
Ramsgate era una località malinconica, ma che ben s’adattava al suo
umore. Senza avvedersene, egli aveva imparato ad amare la propria
sofferenza come una compagna cara: grazie ad essa, Ursula gli restava
sempre vicina. Del resto, che cosa gl’importava di trovarsi qua o là, dal
momento che non poteva essere con la fanciulla amata? S’accontentava che
nessuno s’interponesse tra lui e la pesante malinconia di cui il pensiero di
Ursula gli saturava anima e corpo.
— Non potreste corrispondermi almeno un piccolo stipendio? — chiese
al signor Stokes. — Quanto basta per il tabacco e i vestiti…
— Impossibile. Con vitto e alloggio, insegnanti ne trovo a volontà.
Il primo sabato, di buon mattino, Vincent partì da Ramsgate per Londra.
Una ben lunga passeggiata, con un caldo che durò fino a sera. Giunse
finalmente a Canterbury. Riprese a camminare, finché arrivò ad un
boschetto di grandi faggi ed olmi presso un piccolo stagno. Lì dormì fino
alle quattro del mattino; lo svegliò all’alba il canto degli uccelli. Nel
pomeriggio giunse a Chatham, dove vide in lontananza, tra bassi prati in
parte sommersi, il Tamigi solcato da battelli e bastimenti. Verso sera entrava
nei noti sobborghi di Londra. Nonostante la stanchezza, si precipitò verso la
casa delle Loyer.
Lo scopo per cui era tornato in Inghilterra fu raggiunto nell’istante in
cui gli si presentò allo sguardo quel villino. In Inghilterra, ella era ancora
sua, perché poteva sentirla, essere a contatto con lei.
Non riusciva a calmare i battiti del cuore. S’appoggiò ad un albero,
lacerato da uno spasimo che nessuna parola avrebbe potuto esprimere.
Infine la luce si spense nel salotto di Ursula, quindi anche nella sua stanza
da letto. Tutta la casa sprofondò nel buio. Vincent si strappò da là e riprese
la strada di Clapham, con passo stanco e barcollante. Quando non vide più
quella casa, sentì di averla riperduta.
Se pensava al suo matrimonio con Ursula, non la immaginava più come
la moglie di un fortunato commerciante d’arte. Vedeva in lei la fedele e
coraggiosa compagna di un predicatore, che con lui lavorava nei quartieri
più miserabili, a sollievo del povero.
Quasi ad ogni fine di settimana cercava di trascinarsi fino a Londra, ma
era poi difficile tornare a Ramsgate in tempo per le lezioni del lunedì
mattina. A volte camminava tutta la notte del sabato, per arrivare appena in
tempo a vedere Ursula uscir di casa la domenica mattina e avviarsi alla
chiesa. Non aveva denaro per comprarsi da mangiare né pagarsi una stanza,
e al venir dell’inverno patì il freddo. Quando all’alba del lunedì tornava a
Ramsgate, era tutto scosso da brividi, esausto e affamato. Gli ci voleva tutta
la settimana per rimettersi.
Pochi mesi dopo, trovò un impiego migliore, presso la scuola metodista
del signor Jones, a Isleworth. Il signor Jones era ministro del culto, con una
parrocchia assai vasta. Assunse Vincent come insegnante, ma ben presto lo
trasformò in un curato di campagna.
Ancora una volta, Vincent dovette procedere ad una radicale
sostituzione di immagini. Ursula non doveva più essere la compagna di un
predicatore che lavorava nei più miserabili quartieri, ma bensì la moglie di
un curato di campagna, ed aiutare il marito nel lavoro della parrocchia come
faceva la mamma col babbo. Gli pareva che Ursula lo guardasse
approvando, lieta che avesse abbandonato la meschina attività commerciale
di Goupil per dedicarsi al servizio dell’umanità.
Non permetteva a se stesso di pensare che il giorno delle nozze di
Ursula andava facendosi sempre più vicino. Nella sua mente, quell’altro
non era mai realmente esistito. Il rifiuto di Ursula era dovuto ad un qualche
errore da parte sua, errore a cui doveva in qualche modo rimediare. E quale
via migliore che dedicarsi al servizio di Dio?
I poveri studenti del signor Jones venivano da Londra. Egli diede a
Vincent gli indirizzi delle famiglie e lo mandò in città, a piedi, a raccogliere
le rette. Vincent trovò questi poveracci nel cuore di Whitechapel. Viuzze
impregnate di fetori, famiglie numerose stipate in stanze nude e fredde,
occhi dilatati dalla fame e dalla malattia. Parecchi trafficavano in carne di
bestie malate, che il governo proibiva di vendere nei normali mercati.
Vincent capitò in mezzo a famiglie che, rabbrividendo nei loro cenci,
stavano ingoiando brodaglia, tozzi di pan secco, carne avariata. Fino al
venir della notte stette ad ascoltare i loro racconti di miseria e di sofferenze.
Aveva accolto con gioia quell’occasione di recarsi a Londra, perché al
ritorno avrebbe potuto passare davanti alla casa di Ursula. Ma le
stamberghe di Whitechapel gliela cancellarono dalla mente, e si dimenticò
di passare per Clapham. Tornò ad Isleworth senza il becco d’un quattrino
per il signor Jones.
Un giovedì sera, durante la funzione religiosa, l’ecclesiastico si
appoggiò a lui, fingendosi stanco morto. — Stasera non mi reggo più,
Vincent. Tu hai già scritto sermoni, vero? Bene, allora faccene sentire uno.
Voglio un po’ vedere se hai la stoffa del predicatore.
Vincent salì sul pulpito, tremando. Aveva il volto in fiamme, non sapeva
che fare delle mani. La voce gli usciva rauca, spezzata. Non poté far altro
che cercare tastoni nella memoria quelle frasi ben cadenzate che aveva
messo così bellamente in carta. Ma, pur attraverso le parole mozze e i gesti
impacciati, si sentiva l’anima in fiamme.
— Molto bene, Vincent! — lo complimentò il signor Jones. — La
settimana prossima ti manderò a Richmond.
In quella chiara giornata autunnale, fu molto piacevole camminare da
Isleworth a Richmond lungo il corso del Tamigi, nelle cui acque si
specchiavano il cielo azzurro e i grandi castagni. Gli abitanti di Richmond
scrissero al signor Jones che avevano assai apprezzato il giovine predicatore
olandese, cosicché il brav’uomo decise di fornirgli l’occasione di
distinguersi. La sua chiesa a Turnham Green era molto importante; vi si
raccoglievano fedeli numerosi e di gusti difficili. Superando bene quella
prova, Vincent avrebbe poi potuto predicare da qualsiasi pulpito.
Vincent prese lo spunto dal versetto 19 del Salmo 119: «Sono uno
straniero sulla terra: non nascondermi i Tuoi comandamenti». Parlò con
semplicità e fervore. La sua giovinezza, il suo fuoco, il gesto possente delle
sue mani, la sua testa massiccia e i suoi occhi penetranti operarono sui
fedeli un effetto strepitoso.
Molti di essi vennero a ringraziarlo. Stringeva loro la mano e sorrideva
con occhi imbambolati e sperduti in una specie di nebbia luminosa. Non
appena tutti se ne furono andati, sgattaiolò fuori dalla porticina in fondo alla
chiesa e prese la strada di Londra.
Scoppiò un temporale. Egli aveva dimenticato il cappello e il soprabito.
Le acque del Tamigi erano giallognole, specialmente in prossimità della
sponda. All’orizzonte si stendeva una striscia palpitante di luce, sormontata
da immense nubi grigie che rovesciavano diluvi di pioggia. Inzuppato fin
nelle ossa, procedeva tuttavia con passo svelto e allegro.
Aveva finalmente conseguito il successo! Aveva trovato se stesso. Ecco
un trionfo da deporre ai piedi di Ursula, da condividere con lei.
La pioggia intrideva la polvere del piccolo sentiero bianco,
trasformandola in melma; scoteva e piegava i cespugli di biancospino. In
lontananza si profilava una città che pareva un’incisione di Durer, con le
sue torri, le sue fabbriche, i tetti d’ardesia e le case in stile gotico.
Sfangando nelle pozzanghere, lottando contro la pioggia, arrivò a
Londra con l’acqua che gli scorreva per il viso e gli ciangottava nelle
scarpe. Era pomeriggio inoltrato, quando giunse dinanzi alla casa delle
Loyer. Cadeva un crepuscolo grigio, fosco. Musica, note di violino. Che
succedeva? Tutte le stanze del villino erano illuminate. All’ingresso, una
quantità di carrozze ferme sotto la pioggia. Scorse figure di gente che
ballava in salotto. Un vecchio cocchiere sedeva a cassetta, al riparo di un
enorme ombrello, tenendosi tutto raggomitolato.
— Che cosa succede lì dentro? — gli domandò.
— Matrimonio, credo.
Vincent s’appoggiò alla carrozza, mentre rivoli d’acqua gli scorrevano
dai capelli rossi sulla faccia. A un certo momento, la porta d’ingresso
s’aprì: la figura di Ursula si presentò sulla soglia, accanto a quella di un
uomo alto e snello. La folla degli invitati si riversò nell’atrio, ridendo,
gridando, lanciando manciate di riso.
Vincent balzò dalla parte in ombra della carrozza. Ursula e suo marito vi
salirono. Il cocchiere sfiorò con la frusta i cavalli, che s’avviarono
lentamente. Vincent seguì per alcuni passi la vettura: Ursula era tra le
braccia dello sposo, con la bocca sulla sua. La carrozza s’allontanò.
Qualcosa di sottile si spezzò dentro Vincent, si spezzò con un colpo
netto e secco. L’incantesimo era rotto. Non avrebbe mai immaginato che
fosse così facile.
Tornò faticosamente a Isleworth sotto l’imperversare della pioggia,
radunò le sue cose e lasciò l’Inghilterra per sempre.
PARTE PRIMA
ILBORINAGE
1.
2.
4.
Mendes da Costa sapeva che a Vincent piaceva discorrere con lui sugli
argomenti generali della vita e quindi, diverse volte la settimana, inventava
un pretesto per riaccompagnarlo in città dopo la lezione.
Un giorno condusse l’allievo in un’interessante zona della città: il
quartiere periferico che si stende dal Leidsche Poort, vicino al Vondel Park,
alla stazione ferroviaria. Segherie, casette d’operai con i loro giardinetti,
intensa animazione. Il quartiere era intersecato da una quantità di piccoli
canali.
— Dev’essere una cosa magnifica, avere cura d’anime in un quartiere
come questo — osservò Vincent.
— Sì — rispose Mendes, caricando la pipa e passando all’allievo la
borsa conica del tabacco. — Questa gente ha più bisogno di Dio e di
religione, che non i nostri amici della città alta.
Stavano attraversando un ponticello di legno che dava quasi l’idea di
trovarsi in Giappone. Vincent si soffermò. — Che cosa volete dire
Mijnheer?
— Questi lavoratori — spiegò Mendes, con un moderato gesto del
braccio — hanno una vita dura. Quando s’ammalano, non sono in grado di
pagarsi un medico. Lavorano oggi per mangiare domani; e la loro è una
fatica improba, per giunta. Abitano, come vedi, in povere casette; sfiorano
continuamente l’indigenza e le privazioni. Un brutto affare, per loro, la vita.
Hanno bisogno di trovare conforto nel pensiero di Dio.
Vincent accese la pipa e lasciò cadere il fiammifero nel canale
sottostante. — E quegli altri lassù? — domandò.
— Quelli hanno bei vestiti, posizioni sicure, denaro da parte per ogni
eventuale avversità. Quando pensano a Dio, lo concepiscono come un
vecchio ricco signore, abbastanza soddisfatto di come vanno le cose a
questo mondo.
— Insomma, sono gente gretta e alquanto odiosa — concluse Vincent.
— Oh, io non ho mai detto questo! — esclamò Mendes.
— No. Lo dico io.
Quella sera, aprì i libri di greco, ma rimase a lungo con lo sguardo fisso
sulla parete di fronte. Ricordava gli slums di Londra, la sordida miseria, le
inenarrabili sofferenze; ricordava l’antico desiderio di dedicarsi alla
diffusione del Vangelo e di soccorrere quei disgraziati.
Pensò quindi alla chiesa dello zio Stricker. Una congregazione di
persone ricche, colte, sensibili alle cose belle della vita e capaci di
procurarsele. Le prediche dello zio Stricker erano belle e consolanti: ma chi,
tra i suoi fedeli, aveva bisogno di consolazione?
Sei mesi erano trascorsi dal suo arrivo ad Amsterdam. Cominciava
finalmente a capire che la fatica è un meschino surrogato dell’abilità. Mise
da parte le grammatiche e pose mano all’algebra. A mezzanotte entrò lo zio
Jan.
— Ho visto dallo spiraglio della porta che avevi ancora la luce accesa,
Vincent — disse il viceammiraglio — e il guardiano mi ha riferito di averti
visto passeggiare per il cantiere alle quattro di stamattina. Quante ore al
giorno lavori?
— Secondo. Dalle diciotto alle venti.
— Venti! — Lo zio Jan scosse la testa; la sua fisionomia rivelò
un’inquietudine più evidente. Gli riusciva difficile adattarsi al pensiero che i
Van Gogh non sapessero cavarsela senza troppi sforzi. — Non dovresti aver
bisogno di sgobbar tanto.
— Devo portare a termine il lavoro della giornata, zio Jan.
Lo zio aggrottò le sopracciglia cespugliose. — Comunque sia, ho
promesso ai tuoi genitori di aver cura di te. Mi farai quindi il piacere di
andare a letto e di non star più su fino a quest’ora, d’ora in avanti.
Vincent si staccò dai suoi esercizi. Non aveva desiderio di dormire; non
aveva desiderio d’amore, né di simpatia, né di divertimenti. Una cosa sola
gli stava a cuore: imparar bene il latino e il greco, l’algebra e la
grammatica, in modo da superare gli esami, entrare all’università, diventare
ministro del culto e lavorare al servizio di Dio sulla terra.
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8.
Via via che il treno correva verso il Sud, un gruppo di montagne
apparve all’orizzonte. Vincent le guardò con gioia e sollievo, dopo la
monotona pianura delle Fiandre. Da pochi minuti stava osservandole,
quando notò che si trattava di montagne ben strane. Ognuna sorgeva isolata
e scoscesa da una campagna pianeggiante.
«Egitto nero…», mormorò tra sé, contemplando dal finestrino quella
lunga linea di fantastiche piramidi. E rivolgendosi al vicino: — Sapete
spiegarmi come abbiano fatto a sorgere quelle montagne laggiù?
— Sì — rispose il viaggiatore. — Sono composte di terril, ossia dai
detriti che vengono scavati e portati alla superficie della terra col carbone.
Vedete quel carretto che sta per raggiungere la cima della collina?
Osservatelo un momento.
Mentre così diceva, il carretto si rovesciò su un fianco, facendo rotolare
giù per il pendio una nuvola nera. — Ecco come si formano — concluse il
vicino. — Da cinquant’anni io le vedo salire ogni giorno di qualche
centimetro.
Il treno si fermò a Wasmes e Vincent scese. Wasmes era situata in fondo
ad una fredda vallata; i raggi anemici e obliqui del sole non riuscivano a
dissipare uno strato di fumo che si stendeva a mezz’aria. Wasmes si
sforzava d’inerpicarsi su per il fianco della collina con due file tortuose di
case d’un rosso sudicio; ma prima che fosse giunta a toccarne la vetta si
disperdeva, e appariva Petit Wasmes.
Avanzando per la strada in salita, Vincent si domandava come mai il
paese fosse così deserto. Non si vedeva un uomo; ci s’imbatteva ogni tanto
in una donna ferma sulla soglia con un’espressione cupa e istupidita.
Petit Wasmes era il villaggio dei minatori. Vantava un unico edificio in
mattoni, la casa del panettiere Jean-Baptiste Denis, che sorgeva proprio
sulla cresta della collina. Verso di essa si diresse Vincent, perché Denis
aveva scritto al reverendo Pietersen di tenere a pensione il predicatore che
doveva arrivare.
La signora Denis accolse cordialmente Vincent e, facendolo passare
attraverso il locale dov’era il forno, tutto odoroso di pane in cottura, lo
condusse nella sua stanza: una cameretta situata proprio sotto l’orlo del
tetto, con una finestra che dava sulla Rue Petit Wasmes e travi che
scendevano verso il fondo con un angolo assai pronunciato. Le mani forti
ed esperte della signora Denis avevano fatto una buona pulizia. A Vincent
la stanza piacque immediatamente. Era così eccitato dall’entusiasmo, che
non aprì nemmeno le valige, ma discese a precipizio i pochi e rozzi scalini
di legno che conducevano in cucina, per informare la padrona di casa che
sarebbe uscito.
— Non vi dimenticherete mica di venire a cena? — gli domandò la
signora Denis. — Mangiamo alle cinque.
Vincent la trovava simpatica. Intuiva in lei una di quelle persone che
comprendono le cose senza doversi prendere la briga di pensarci su.
— Non mancherò, signora — rispose. — Voglio soltanto dare
un’occhiata in giro.
— Stasera viene da noi un amico che dovete conoscere. È a capo dei
minatori di Marcasse e potrà darvi molte indicazioni utili per il vostro
lavoro.
Aveva nevicato molto. Camminando lungo la strada, Vincent osservava
le siepi spinose intorno ai giardini e ai campi anneriti dal fumo delle
ciminiere. A levante della casa di Denis un pendio scosceso dove stavano
ammucchiate la maggior parte delle casupole dei minatori; dalla parte
opposta si stendeva una vasta zona di campagna con una montagna nera di
terril e le ciminiere del charbonnage di Marcasse, dove lavoravano in gran
numero i minatori di Petit Wasmes. Tale zona era attraversata da una strada
incassata, disseminata qua e là di cespugli e di affioranti radici d’alberi
nodosi.
Pur essendo soltanto una delle sette miniere di proprietà dei
«Charbonnages Belgique», quella di Marcasse vantava il doppio primato di
essere la più antica e la più pericolosa di tutto il Borinage. Aveva una
cattiva fama: molti uomini vi erano periti, scendendo o risalendo, per
esalazioni velenose o per esplosioni, per inondazioni o per il crollo di
vecchie gallerie. Ci si scorgevano due piatte e basse costruzioni in mattoni,
dove veniva azionato il macchinario per tirar su il carbone, oltre che per
lavarlo e caricarlo sugli appositi carri. Le alte ciminiere, un tempo di color
giallo-mattone, spandevano sulla regione per tutte le ventiquattr’ore del
giorno un denso fumo nero. Intorno agli stabilimenti di Marcasse sorgevano
catapecchie di minatori, con pochi alberi stenti o morti, neri, siepi di spini,
letamai, mucchi d’immondizie o di carbone inservibile: e su tutto
torreggiava la montagna nera. Un posto squallido e tetro, che subito
produsse su Vincent un’impressione molto triste.
«Non c’è da stupirsi che questo posto venga chiamato il paese nero»,
pensò.
Dopo un po’ di tempo, i minatori cominciarono ad uscire dal cancello.
Indossavano rozzi panni cenciosi e avevano in testa cappelli di cuoio; le
donne vestivano come gli uomini. Erano tutti completamente neri, come
spazzacamini; il bianco degli occhi spiccava stranamente sui volti coperti di
polvere di carbone. Non senza ragione li chiamavano gueules noires. Dopo
aver lavorato per tante ore nelle viscere buie della terra, iniziando prima
dell’alba, la pallida luce del pomeriggio feriva loro gli occhi. Uscivano con
passo incerto, quasi incespicando come ciechi, parlando tra loro in un
dialetto veloce e inintelligibile. Gente piccola, smilza e ringobbita, ossuta.
Ora Vincent capiva perché nel pomeriggio il villaggio fosse così
deserto: il vero Petit Wasmes non era già il piccolo gruppo di catapecchie
sulla ripida falda della collina, bensì la labirintica città sotterranea scavata
ad una profondità di settecento metri, dove quasi l’intera popolazione
trascorreva la maggior parte delle ore non dedicate al sonno.
9.
Si gettò bocconi sul letto, folle di gioia, stringendo forte la lettera tra le
dita. Finalmente era riuscito! Aveva trovato il suo posto nel mondo! Ecco
ciò che aveva sempre voluto; ma gli erano mancati il coraggio e la forza per
giungervi direttamente. Avrebbe ricevuto cinquanta franchi al mese: più che
sufficienti per pagare il vitto e l’alloggio. E non avrebbe più dovuto
dipendere da nessuno.
Si sedette al tavolino e scrisse a suo padre una lettera tumultuosa,
trionfale, dicendogli che non aveva più bisogno del suo aiuto e che da quel
momento si riprometteva di far onore alla famiglia, di procurarle gioia e
soddisfazione. Quando finì di scrivere, era quasi l’ora del crepuscolo; su
Marcasse era un continuo guizzar di lampi e scrosciar di tuoni. Scese
impetuosamente, attraversò di corsa la cucina e si lanciò allegramente in
mezzo al diluvio.
La signora Denis gli corse dietro fin sulla soglia. — Monsieur Vincent!
Dove andate? Avete dimenticato il cappello e il soprabito!
Vincent non si fermò nemmeno a rispondere. Raggiunse di corsa un
poggio vicino, da cui l’occhio spaziava su un vasto tratto del Borinage.
Ciminiere, mucchi enormi di carbone, casette di minatori, figure nere che
uscivano dalle houillères e che andavano e venivano come formiche. In
lontananza un oscuro bosco di pini sul cui sfondo si stagliavano villini
bianchi, più lontano ancora la guglia d’una chiesa e una vecchia fabbrica.
Su tutto questo scenario, uno strato di nebbia. Le ombre delle nubi creavano
un fantastico effetto di chiaroscuro. Per la prima volta da quando si trovava
nel Borinage, quella visione gli richiamò alla mente certi quadri di Michel e
di Ruysdael.
11.
Ora che aveva ricevuto la nomina, gli occorreva un luogo fisso dove
tenere le riunioni. Dopo molte ricerche, scoprì in fondo al pendio, lungo una
stradicciola tra i boschi di pini, un locale abbastanza ampio, detto il «Salon
du Bébé», dove un tempo s’insegnava ai ragazzi della comunità a ballare.
Quando Vincent vi ebbe attaccato tutte le sue incisioni, il locale assunse un
aspetto attraente. Qui radunava ogni pomeriggio i bambini dai quattro agli
otto anni, insegnava loro a leggere e narrava loro gli episodi più semplici
della Bibbia. La maggior parte di essi non avrebbe ricevuto in tutta la vita
altra istruzione.
— Come troveremo il carbone per riscaldare il locale? — domandò a
Jacques Verney, che l’aveva aiutato ad ottenere la concessione di quella
casetta. — I bambini devono stare al caldo e le riunioni serali potrebbero
prolungarsi maggiormente se ci fosse una stufa.
Jacques rifletté un momento. — Trovatevi qui domani a mezzogiorno
— gli disse poi — e vi dirò come si può fare.
Il giorno dopo, arrivando al «Salon», Vincent trovò un gruppo di donne,
mogli e figlie di minatori, che lo aspettavano. Camiciotti neri, sottane nere,
un fazzoletto azzurro in testa. Ognuna aveva un sacchetto.
— Monsieur Vincent, ho portato un sacchetto anche per voi — gli disse
la figlia di Verney. — Anche voi dovete riempirne uno.
Inerpicandosi per il dedalo di viuzze formato dalle abitazioni dei
minatori, passarono accanto alla casa del fornaio Denis in cima alla collina,
si slanciarono per la campagna in mezzo a cui sorgevano gli stabilimenti di
Marcasse, li oltrepassarono, finché giunsero alla nera piramide di terril
situata dietro i fabbricati. Qui si sparsero in varie direzioni, dando l’assalto
alla montagna da punti diversi, arrampicandosi sui suoi fianchi come insetti
sul tronco d’un albero morto.
— Dovete salire fin sulla cima, Monsieur Vincent, se volete trovare
carbone — gli disse la signorina Verney — Qui in fondo, sono anni che
abbiamo già fatto piazza pulita. Venite su, io vi farò vedere qual è il carbone
che serve.
Balzò su come una capretta, mentre Vincent doveva aiutarsi con le
ginocchia e con le mani perché il terril gli franava continuamente sotto i
piedi. La signorina Verney lo precedeva, s’accoccolava e gli tirava
scherzosamente pezzetti di carbone. Era una bella ragazzina dalle guance
colorite e dai modi vivaci, irrequieti: aveva sette anni quando suo padre era
stato nominato dirigente del personale e non era mai scesa in una miniera.
— Su, forza, Monsieur Vincent! — gli gridava. — Altrimenti, sarete
l’ultimo a riempire il sacco! — Questa era per lei una gita. La Compagnia
vendeva ottimo carbone a Verney a prezzo ridotto.
Non poterono giungere fin sulla cima perché i carretti rovesciarono il
loro carico di rifiuti prima da un lato, poi dall’altro, con meccanica
regolarità. Non era un’impresa facile trovare carbone su quella piramide. La
signorina Verney insegnò come bisognava fare: raccogliere il terril facendo
coppa con le mani e lasciar cadere tra le dita il terriccio, i sassolini e le altre
sostanze estranee. La quantità di carbone che la Compagnia si lasciava
sfuggire era davvero trascurabile. Tutto ciò che le mogli dei minatori
potevano trovare era una specie di argilla scistosa, eterogenea, che non
poteva essere assolutamente lanciata sul mercato. Il terril era inzuppato
dalle piogge e dalla neve, e ben presto Vincent ebbe le mani graffiate e
tagliuzzate; ma quando le donne ebbero i sacchetti pieni si trovò ad aver
riempito una quarta parte del suo d’un qualcosa che sperava fosse carbone.
Le donne lasciarono i sacchi al «Salon» e corsero a casa a preparar la
cena, non senza aver promesso di venire alla funzione della sera
accompagnate da tutta la famiglia. La signorina Verney invitò Vincent a
pranzo, ed egli accettò senza farsi pregare. La casa dei Verney aveva ben
due stanze: nella prima, la stufa, il necessario per la cucina e la tavola per
mangiare; nella seconda, i letti. Nonostante il fatto che Jacques se la
passasse benino, in casa non c’era sapone: come Vincent aveva appreso, il
sapone rappresentava per gli abitanti del Borinage un lusso impossibile. Dal
giorno in cui i ragazzi cominciano a scendere nelle gallerie delle miniere e
le bambine a salire su per le montagnole di terril fino al giorno in cui
muoiono, non riescono mai a ripulirsi completamente la faccia dalla polvere
di carbone.
La signorina Verney portò fuori, per Vincent, un recipiente d’acqua
fredda. In piena strada. Egli si lavò meglio che poté. Non aveva idea del
risultato ottenuto con quell’abluzione, ma quando si trovò seduto di fronte
alla ragazza e le vide la faccia tuttora rigata di strisce nere, pensò che anche
lui doveva trovarsi nelle stesse condizioni. Per tutta la durata del pasto la
signorina Verney chiacchierò allegramente.
— Vi trovate qui a Petit Wasmes da quasi due mesi, Monsieur Vincent
— gli disse Jacques — e ancora non conoscete bene il Borinage.
— Verissimo, signor Verney — rispose umilmente Vincent. — Ma
credo di aver cominciato pian piano a comprendere questa gente.
— Non è questo che voglio dire — spiegò Jacques tirandosi fuori dalla
narice una lunga antenna e guardandola con interesse. — Voglio dire che
avete soltanto visto la nostra vita fuori dal sottosuolo. Non è essa che conta.
Qui alla superficie, dormiamo soltanto. Se volete farvi un’idea precisa della
nostra vita, dovete calarvi in una miniera e vedere come lavoriamo dalle tre
del mattino alle quattro del pomeriggio.
— Non chiedo di meglio. Ma come posso ottenere il permesso dalla
Compagnia?
— L’ho già chiesto io per voi — rispose Jacques, tenendo in bocca una
zolletta di zucchero e lasciandosi filtrare in gola, attraverso di essa, il caffè
tiepido, nero e amaro. — Domani scendo per un’ispezione nelle miniere di
Marcasse. Trovatevi davanti alla casa di Denis domani mattina alle tre
meno un quarto e vi condurrò con me.
Tutta la famiglia accompagnò Vincent al «Salon»; ma per istrada
Jacques, che nel tepore della sua casa era sembrato così pieno di benessere
fisico e di animazione, fu colto da una violenta crisi di tosse, e dovette
tornare indietro. Henri Decrucq era già al «Salon» e s’aggirava
meditabondo intorno alla stufa trascinando la sua gamba rotta.
— Oh, buona sera, Monsieur Vincent! — esclamò col più largo sorriso
consentitogli dal suo viso duro e tozzo. — Sono io l’unico in tutto Petit
Wasmes che sappia accendere questa stufa. La conosco da vecchia data,
quando venivamo qui a divertirci. È una stufa méchante, ma io so i trucchi.
Il contenuto dei sacchi era umido e solo in parte carbone, ma Decrucq
fu così abile che la stufa panciuta non tardò a diffondere un buon calore.
Mentre zoppicando si dava da fare, il sangue affluiva alla scalvatura del
cranio dando alla pelle increspata un color rosso sporco di barbabietola.
Quasi tutte le famiglie di Petit Wasmes vennero quella sera al «Salon»
per sentire la prima predica di Vincent nella sua chiesa. Esaurite le panche,
dalle case più vicine furono portate casse e sedie. Più di trecento anime
erano lì, in attesa. Commosso dalla generosità che gli avevano dimostrata
nel pomeriggio le mogli dei minatori e dal fatto di parlare finalmente nel
«suo» tempio, Vincent predicò con tanto slancio e tanta fede, che i volti di
quella povera gente persero la loro abituale espressione triste.
— È un’antica e consolante convinzione — disse al suo uditorio dalle
facce nere — quella che sulla terra siamo stranieri. Ma non siamo soli,
perché il nostro Padre è con noi. Siamo pellegrini; la nostra vita è un lungo
viaggio dalla terra al Cielo. Il dolore val meglio della gioia: ed anche
nell’allegrezza il cuore è triste. Meglio andare alla casa del pianto che non
alla casa dei banchetti e delle feste, poiché la sofferenza affina il cuore. Per
coloro che credono in Gesù Cristo, non v’è dolore che non sia pervaso di
speranza. È un continuo rinascere, è un continuo andare dalle tenebre alla
luce. Padre, noi Ti preghiamo di tenerci lontani dal male. Non ti chiediamo
la povertà né la ricchezza, ma soltanto quel pane che ci è necessario. Amen.
La moglie di Decrucq fu la prima a farglisi accanto. Aveva gli occhi
annebbiati di lacrime e un tremito agli angoli della bocca. — Monsieur
Vincent — gli disse — la mia vita era così dura che avevo perduto Dio. Ma
voi me lo avete ridato. Ed io vi ringrazio per questo.
Quando tutti se ne furono andati, Vincent chiuse il «Salon» e s’avviò
pensosamente su per la collina. L’accoglienza avuta quella sera gli
dimostrava che ogni resto di riserbo era scomparso dall’atteggiamento di
questa gente nei suoi confronti e che finalmente si fidavano di lui. Ora era
pienamente accetto alle «facce nere» nella sua qualità di ministro di Dio. A
che cosa era dovuto quel cambiamento? Non era certo al fatto che adesso
disponeva di una chiesa: a queste cose i minatori non davano nessun peso.
Né sapevano della sua nomina, perché arrivando aveva taciuto sul fatto di
non avere nessuna designazione ufficiale. Aveva fatto una bella predica,
piena di calore: ma ne aveva fatte altre non meno efficaci nelle squallide
casupole e nella stalla abbandonata.
I Denis erano già andati a dormire nel loro stambugio attiguo alla
cucina, ma nel forno si respirava ancora un gradevole profumo di pane
fresco. Vincent attinse un secchio d’acqua dal pozzo situato in cucina, ne
versò in una catinella e salì in camera sua a prendere specchio e sapone.
Appoggiò lo specchio contro il muro e si guardò. Sì, il suo sospetto era ben
fondato: dai Verney s’era pulito molto male la faccia dalla polvere di
carbone. Le palpebre, le guance erano ancora sporche di nero. Sorrise tra sé
al pensiero di aver inaugurato il nuovo tempio con la faccia sudicia di
carbone: chissà come sarebbero inorriditi suo padre e lo zio Stricker, se lo
avessero visto!
Immerse le mani nell’acqua fredda, cominciò a sfregarsele col sapone
che s’era portato da Bruxelles e stava per portarsele al viso, quando gli
balenò un’idea. Rimase con le mani bagnate a mezz’aria. Si guardò
nuovamente nello specchio, scorse il nero del terril nelle rughe della fronte,
sulle palpebre, sulle guance, sul mento tondo e formidabile.
— Ah, ora capisco! — disse ad alta voce. — Ecco perché mi hanno
accolto così. Sono finalmente diventato uno dei loro.
Si risciacquò le mani e andò a letto senza toccarsi la faccia. Da allora in
poi, finché rimase nel Borinage, si sfregava ogni giorno la faccia con
polvere e carbone in modo da averla come tutti gli altri.
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Dai Denis, trovò parecchi fogli di carta bianca e una grossa matita. Posò
sul suo tavolo i due schizzi e si mise a copiarli. La mano era impacciata e
rigida: non riusciva a fissare sulla carta la linea che aveva in mente. Usava
molto più la gomma che non la matita, ma insisté con foga. Era così intento
al lavoro, da non accorgersi nemmeno che cominciava a far buio. Sobbalzò,
quando la signora Denis bussò alla porta.
— Monsieur Vincent, la cena è pronta.
— La cena! — esclamò Vincent. — Ma è impossibile che sia già così
tardi!
A tavola chiacchierò animatamente con i suoi ospiti; c’era nei suoi
occhi una luce insolitamente viva. I Denis si scambiarono uno sguardo
significativo. Dopo il pasto, Vincent si scusò e salì immediatamente nella
sua stanza. Accese la lampada e appese i due schizzi alla parete, tirandosi
indietro il più possibile per osservarne l’effetto.
«Brutti — disse a se stesso con una smorfia curiosa — molto brutti. Ma
forse domani riuscirò a fare di meglio».
Si coricò, posando la lampada a petrolio sul pavimento, accanto al letto.
Guardò ancora i due schizzi senza pensare a nulla di speciale; poi lo
sguardo gli cadde sulle stampe appese alle pareti. Era la prima volta che le
osservava deliberatamente dal giorno in cui, sette mesi addietro, le aveva
staccate dalle pareti del «Salon». Fu preso da un’improvvisa nostalgia per il
mondo della pittura. C’era stato un tempo in cui sapeva chi fossero
Rembrandt, Millet, Jules Dupré, Delacroix, Maris… Ripensò a tutte le belle
riproduzioni che aveva posseduto in diverse epoche, le litografie e le
incisioni che aveva mandato a Theo e ai genitori. Ripensò a tutte le
splendide tele che aveva visto nei musei di Londra e di Amsterdam: e in
questi pensieri dimenticò la propria infelicità, sprofondando poi in un sonno
ristoratore. La lampada a petrolio diede alcuni guizzi d’agonia, la sua
fiammella si tinse d’azzurro e si spense.
La mattina dopo si svegliò alle due e mezzo, fresco come una rosa.
Balzò agilmente fuor dal letto, si vestì, prese la matita e i fogli, trovò nel
forno un’assicella e s’avviò verso Marcasse. Si sedette sulla stessa ruota
rugginosa nel buio, e attese l’arrivo dei minatori.
Abbozzava con tocchi rapidissimi e approssimativi, semplicemente per
fissare la prima «impressione» d’ogni figura. Un’ora dopo, quando tutti i
minatori erano scesi nei pozzi, aveva tra le mani cinque figure senza faccia.
Riattraversò speditamente il campo, risalì in camera sua a bere una tazza di
caffè e quando finalmente si fece giorno copiò gli schizzi eseguiti, cercando
di insinuarvi tutti quegli elementi vivacemente caratteristici delle
fisionomie di quella gente: elementi che egli conosceva così bene, ma che
non aveva potuto cogliere nell’oscurità di quelle prime ore del mattino,
mentre i suoi modelli passavano e s’allontanavano.
L’anatomia era pessima, le proporzioni grottesche, il disegno così
strambo da riuscir comico. Eppure, quelle erano autentiche figure di abitanti
del Borinage, inconfondibili. Ridendo della propria inabilità e della propria
gaucherie, Vincent lacerò i cinque schizzi. Poi si sedette sulla sponda del
letto, di fronte alla riproduzione d’un quadro di Allebé rappresentante una
vecchietta che porta acqua e carbone su per una stradicciola sferzata dal
vento, e si provò a copiarla. Riuscì a dare un’idea abbastanza fedele della
donna, ma non a realizzare il rapporto tra questa figura, la viuzza e le case
in sfondo. Appallottolò il foglio, lo scaraventò in un angolo e andò a sedersi
davanti ad uno studio di Bosboom: un albero solitario contro un cielo
nuvoloso. Ma i valori formali dell’opera di Bosboom erano precisi e squisiti
e Vincent apprese che la più semplice opera d’arte rappresenta sempre il
risultato di un arduo e rigido processo di eliminazione, e che pertanto è
difficilissimo riprodurla.
Trascorse così la mattinata, fuori d’ogni nozione del tempo. Consumato
l’ultimo foglio di carta, Vincent frugò dappertutto per vedere quanto
possedeva. Trovò due franchi. Sperando di potersi procurare a Mons della
buona carta e fors’anche un bel carboncino, partì senz’altro per quella
passeggiata di dodici chilometri. Scendendo per la collina da Petit Wasmes
a Wasmes s’imbatté in alcune mogli di minatori ferme sulla soglia delle loro
case. Al solito e automatico «Bonjour» aggiunse un cordiale: «Comment ca
va?». A Paturages, paesello situato a metà strada per Mons, notò una bella
ragazza alla finestra d’una panetteria. Entrò a comprare un panino dolce da
cinque centesimi, soltanto per vederla da vicino.
Da Paturages a Cuesmes i campi erano tutta una verdeggiante distesa
ravvivata dalle piogge recenti. Decise di tornare a disegnarli, non appena
avesse potuto permettersi la spesa d’una matita verde. A Mons trovò un
blocco di carta gialla ben levigata, alcuni carboncini e una grossa matita.
Nel negozio di fronte c’era un banco di vecchie stampe. Vincent rimase per
ore curvo su di esse pur non potendo acquistarne nemmeno una. Il
proprietario gli venne vicino e le commentarono insieme una dopo l’altra,
proprio come due amici che visitassero un museo.
— Dovete scusarmi se non ho denaro per comprarne qualcuna — disse
Vincent dopo che ebbero passato molto tempo a guardarle.
Il proprietario alzò le mani e le spalle in un eloquente gesto gallico. —
Non importa, Monsieur! E ritornate ancora, anche se non avete denaro.
Vincent ripercorse i dodici chilometri di strada a suo agio. Il sole
splendeva alto sull’orizzonte frastagliato dalle piramidi nere, accendendo
gli orli delle nuvole vagabonde d’una delicata tinta rosea. Vincent osservò
come le casette in pietra di Cuesmes paressero ritagliate da un’incisione e,
quando giunse in cima a una collina, che senso di pace si sprigionasse dalla
vallata sottostante. Si sentiva felice e non ne sapeva il perché.
Il giorno dopo si recò ai depositi di terril dietro Marcasse e disegnò
figure di ragazze e di donne aggrappate sui pendii a frugare in cerca di
pezzetti d’oro nero. Dopo aver desinato disse ai padroni di casa: — Per
favore, state lì un momento. Voglio fare una cosa.
Corse su nella sua stanza, tornò col blocco di carta e il carboncino, e
abbozzò rapidamente un ritratto dei suoi amici. La signora Denis venne a
guardare il disegno al disopra della sua spalla ed esclamò: — Ma voi siete
un artista, Monsieur Vincent!
Rimase imbarazzato. — No, mi diverto semplicemente.
— Ma è carino! — protestò la signora Denis. — Mi somiglia quasi.
— Quasi! — rise Vincent. — Quasi, non proprio!
Ai suoi non scrisse nulla di questa sua attività, perché certamente
avrebbero detto, e con ragione: «Oh, un’altra delle sue! Quando mai farà
giudizio e si metterà a combinare qualcosa di buono?».
Eppoi, questa nuova attività aveva una prerogativa curiosa, speciale: era
una cosa sua, e di nessun altro. Gli ripugnava parlarne o scriverne. Provava
nei confronti dei suoi disegni un senso di reticenza che non aveva mai
provato in nessun’altra occasione, una invincibile ripugnanza a permettere
che occhi estranei vedessero i suoi lavori. In un certo inesplicabile senso,
erano sacri, anche se miseramente dilettanteschi fin nel minimo particolare.
Tornò ad entrare nelle casupole dei minatori, portando però, invece della
Bibbia, carta da disegno e matita. I minatori si rallegrarono ugualmente di
rivederlo. Disegnò bambini che giocavano sul pavimento, donne curve sulla
stufa, famiglie raccolte intorno alla tavola dopo la giornata di lavoro.
Ritrasse Marcasse con le sue alte ciminiere, i campi neri, i boschi di pini
dirimpetto alla scarpata, contadini intenti ad arare nei dintorni di Paturages.
Quando il tempo era cattivo, restava nella sua stanza a copiare le
riproduzioni appese alle pareti e i disegni eseguiti nella giornata precedente.
A sera, quando si metteva a letto, sentiva che alcuni degli schizzi fatti quel
giorno non erano poi tanto da disprezzare. Ma svegliandosi la mattina dopo
libero dai fumi euforici dello sforzo creativo, trovava che quei disegni erano
autentiche porcherie. Li buttava via, senza scrupoli e senza rimorsi.
Aveva domato la propria sofferenza: era felice perché non pensava più
alla propria infelicità. Avrebbe dovuto vergognarsi, lo sapeva, di continuare
a vivere alle spalle del padre e del fratello, senza fare il minimo sforzo per
guadagnarsi il pane: ma trovava che la cosa non aveva importanza e
continuava imperturbabilmente a disegnare.
Dopo alcune settimane, quando aveva ormai copiato e ricopiato più
volte la sua collezione di stampe, pensò che per far progressi aveva bisogno
di altre opere da copiare, opere di buoni maestri. A dispetto del fatto che
Theo non gli scriveva da un anno, nascose l’orgoglio e il puntiglio sotto una
pila di scadenti disegni e gli indirizzò una lettera.
«Caro Theo,
«se non sbaglio, devi ancora avere Les travaux des champs di Millet.
Vorresti avere la gentilezza di imprestarmeli per un po’ di tempo,
spedendomeli per posta?
«Devo dirti che sto copiando grandi riproduzioni di opere di Bosboom e
Allebé. Ebbene, se tu vedessi i miei tentativi, forse non ne rimarresti
completamente insoddisfatto.
«Mandami ciò che puoi e non stare in pensiero per me. Purché io possa
continuare a lavorare, questo mi aiuterà in un modo o in un altro a
riprendermi e a rimettermi in sesto.
«Ho smesso un momento di disegnare per scriverti e ho una premura
matta di rimettermi al lavoro. Quindi, buona notte, e mandami quella
raccolta il più presto possibile.
«Una cordiale stretta di mano.
Vincent».
20.
21.
In quel periodo Theo aveva fatto parecchi passi avanti. A ventitré anni
appena era già un mercante di quadri ottimamente piazzato a Parigi,
apprezzato dai colleghi e dalla famiglia. Conosceva e praticava tutte le
eccentricità in voga, nella foggia di vestire, nei modi, nella conversazione.
Indossava una giacca nera dagli ampi risvolti, abbottonata in alto con
cordoncini di raso, colletto duro, cravatta bianca dal nodo vistoso.
Aveva anche lui l’impressionante fronte dei Van Gogh. Capelli scuri,
lineamenti delicati, quasi femminili. Occhi dolci e spiritosi, viso fine ed
ovale.
Theo s’appoggiò contro la porta e guardò, inorridito, il fratello. Da
poche ore era partito da Parigi, dove possedeva un appartamento
ammobiliato alla Luigi Filippo con tutto l’occorrente per la toeletta
personale, tende alle finestre, tappeti sul pavimento, una scrivania, scaffali
pieni di libri, lampade dalla luce dolce e riposante, una tappezzeria
deliziosa. Ed ecco lì Vincent disteso su un sudicio coltrone, con addosso
una vecchia coperta. Pareti e pavimento di tavole scabre e, per tutta mobilia,
una tavolaccia scassata e una sedia. E lui: disordinato, la faccia da lavare,
l’irta barba rossiccia dilagante per le guance e il collo.
— Oh, Theo! — fece Vincent.
Theo si fece impetuosamente avanti, si curvò sul letto. — In nome di
Dio, Vincent, che ti succede? Che cosa hai fatto?
— Niente. Ora sto benone. Sono stato un po’ malato.
— Ma questo… questo tugurio! Non abiterai mica qui… Non sarà mica
questa la tua casa!
— Sicuro! Che ci trovi di strano? Mi serve come studio.
— Oh, Vincent! — Gli passò la mano sui capelli; un nodo alla gola gli
impediva di parlare.
— Mi fa piacere averti qui, Theo.
— Dimmi, Vincent, te ne prego: che cosa ti succede? Come mai ti sei
ammalato? Che cos’avevi?
Vincent gli narrò il suo viaggio a Courrières.
— Sei in una condizione d’esaurimento, ecco la verità. Ti sei nutrito
sufficientemente, da quando sei tornato? Hai avuto cura di te?
— Sono stato curato dalle donne dei minatori.
— Sì, ma che cosa mangiavi? — Theo si guardò intorno. — Dove tieni
le provviste? Non vedo niente.
— Le donne mi portano ogni giorno qualche cosa. Ciò che riescono ad
avanzare: pane, caffè, un po’ di formaggio o di carne di coniglio.
— Ma, Vincent, tu sai che non puoi rimetterti in forze soltanto con un
po’ di pane e di caffè. Perché non ti compri uova, verdura, carne?
— Per comprarle ci vogliono soldi, tanto qui nel Borinage quanto
altrove.
Theo si sedette sul letto.
— Vincent, perdonami, ti supplico. Non sapevo. Non mi rendevo conto.
— Lascia andare, caro, tu hai fatto tutto ciò che potevi. Ora va
benissimo. Tra qualche giorno potrò di nuovo alzarmi e andare in giro.
Theo si passò le mani sugli occhi, come per rimuovere qualcosa che gli
offuscava la vista. — No. Non mi rendevo conto. Credevo che tu… Non
capivo, Vincent, semplicemente non capivo.
— Oh, andiamo! Va benone, ti dico. Come te la passi a Parigi? Dove sei
diretto ora? Sei stato a Etten?
Theo balzò in piedi. — Ci sono negozi in questo paesaccio sperduto? Ci
si trova qualcosa da comprare?
— Sì, ci sono botteghe a Wasmes, in fondo alla collina. Ma prenditi una
sedia. Ho tanta voglia di chiacchierare un po’ con te. Buon Dio, sono quasi
due anni che non ci vediamo, Theo!
Theo sfiorò con le dita il viso del fratello. — Prima di tutto voglio
rimpinzarti con quanto si può trovar di meglio qui nel Belgio. Hai sofferto
la fame, ecco la tua malattia. Poi ti farò ingerire qualcosa contro la febbre e
vedrò di procurarti un buon guanciale. È stato un bene che io sia capitato
qui proprio oggi. Se avessi soltanto avuto la minima idea… Non muoverti
finché io non torni.
E corse fuori. Vincent prese la matita, fissò un momento lo sguardo su
Le four dans les landes e riprese a copiare. Mezz’ora dopo, Theo era di
ritorno, seguito da due ragazzini, con un paio di lenzuola, un guanciale,
pentole, piatti e pacchi di viveri. Rassettò il letto mettendovi le lenzuola
fresche e bianche, costrinse il fratello a distendersi.
— E adesso come si fa per accendere questa stufa? — domandò
sfilandosi l’elegantissima giacca e rimboccandosi le maniche.
— Guarda, lì ci sono rami e carta. Accendi prima la legna, poi metti il
carbone.
Theo diede un’occhiata al mucchietto di terril. — Carbone! Tu la
chiami carbone, quella roba?
— Così siamo abituati qui. Aspetta, ti faccio vedere io come bisogna
fare.
Tentò d’alzarsi, ma Theo gli fu addosso d’un balzo. — Stattene giù,
pezzo d’idiota! — gridò. — E non muoverti più, se non vuoi costringermi a
suonartele sode.
Vincent sorrise, per la prima volta dopo tanti mesi. Quel sorriso che gli
raggiava negli occhi parve quasi fugare la febbre. Theo mise due uova in un
pentolino d’acqua, una manciata di fagiolini in un altro, fece bollire un
tegamino di latte fresco e abbrustolire alcune fette di pane bianco. Vincent
guardava il fratello curvo sulla stufa, in maniche di camicia: quella
vicinanza gli faceva bene più di qualsiasi cibo.
Il pasto fu finalmente pronto. Theo trasse la tavola vicino al letto, vi
stese un asciugamani pulito prendendolo dalla propria valigia. Mise sui
fagiolini una bella fetta di burro, ruppe le due uova al guscio in un piatto e
prese un cucchiaio.
— Be’, adesso apri la bocca, marmocchio! Sarà il primo pasto decente
che fai da chissà quanto tempo.
— Ma smettila, Theo! So mangiare da me.
Theo prese una cucchiaiata d’uovo e gliel’avvicinò al viso. — Apri la
bocca, giovinotto, o ti caccio questa roba in un occhio.
Finito di mangiare, Vincent lasciò ricadere la testa sul guanciale con un
gran sospiro di soddisfazione. — Che buon gusto ha la roba! Non lo
ricordavo nemmeno più.
— Non lo dimenticherai più così facilmente.
— E ora raccontami tutto, Theo. Come vanno le faccende alla Galleria
Goupil? Ho una vera avidità di sapere che cosa accade fuori di qui.
— Allora dovrai rassegnarti a tenerti ancora per un po’ di tempo la tua
avidità. Ecco qui una medicina per farti dormire. Voglio che tu stia
tranquillo e lasci al cibo il tempo di fare il suo effetto.
— Ma io non ho voglia di dormire, Theo. Ho voglia di parlare. C’è
sempre tempo per dormire.
— Nessuno ti ha chiesto di che cosa hai voglia. Sei ai miei ordini.
Ingoia questa roba, da bravo. Quando ti sveglierai, troverai una bistecca con
patatine, che ti rimetterà di colpo in piedi.
Vincent dormì fino all’ora del tramonto e si svegliò ch’era un altro.
Theo, seduto presso la finestra, stava esaminando i disegni del fratello.
Vincent lo guardò a lungo prima di farsi sentire, col cuore invaso da un
delizioso senso di pace. Quando Theo vide che era sveglio, balzò su con un
gran sorriso.
— Benone! Come ti senti ora? Meglio? Hai dormito sul serio!
— Come li trovi, quei disegni? Ce n’è qualcuno che ti piace?
— Aspetta prima che metta al fuoco la bistecca. Ho già sbucciato le
patate, ora le faccio lessare.
S’affaccendò intorno alla stufa finché tutto fu pronto, poi s’accostò al
letto con una bacinella d’acqua calda. — Devo usare il mio rasoio, Vincent,
o il tuo?
— Non posso mangiare la bistecca senza che tu mi faccia la barba?
— Nossignore. Né senza che io ti lavi il collo e le orecchie e ti pettini
per benino. Su, mettiti davanti questo asciugamani.
Lo rase accuratamente, lo lavò come si deve, lo pettinò e gli fece
indossare una delle camicie nuove che aveva nella valigia.
— Ecco! — esclamò, tirandosi indietro per osservare l’effetto del
proprio lavoro. — Ora hai di nuovo l’aria di un Van Gogh.
— Svelto, Theo! La bistecca brucia!
Theo apparecchiò la tavola: patatine lesse, burro, una grossa e tenera
bistecca, latte.
— Perbacco, Theo, non t’aspetti certo che io mangi tutta questa
bistecca!
— No di certo. Mezza è per me. Be’, diamoci dentro. Ora basterebbe
che chiudessimo gli occhi, e ci sembrerebbe di essere a casa, a Etten.
Dopo il pasto, Theo riempì la pipa di Vincent con tabacco portato da
Parigi. — Fatti una fumatina. Non dovrei permettertela, ma penso che un
po’ di vero tabacco non ti farà male, anzi ti farà bene.
Vincent fumava con intensa soddisfazione, strofinandosi ogni tanto la
cannuccia calda e umidiccia della pipa contro la guancia liscia. Con lo
sguardo perso nel vuoto oltre le volute di fumo, oltre le rozze pareti d’assi,
Theo si rivedeva fanciullo là nel Brabante. Vincent era sempre stato per lui
la persona più importante della famiglia, molto più importante del babbo e
della mamma. Era stato Vincent a rendergli dolce e gaia la fanciullezza. Nel
corso di quest’ultimo anno, a Parigi, l’aveva dimenticato; ma ora non
doveva dimenticarlo mai più. Senza Vincent, la vita aveva per lui un che di
incompleto. Aveva l’impressione di far parte di Vincent, e che Vincent
facesse parte di lui. Insieme avevano sempre compreso il mondo; solo, il
mondo lo eludeva e gli sfuggiva. Insieme avevano trovato il senso e le
finalità della vita, e l’avevano apprezzata; solo, egli si domandava spesso
quale potesse essere lo scopo del suo lavoro e dei suoi successi. Aveva
bisogno di Vincent, per vivere intensamente. E Vincent aveva bisogno di
lui, perché davvero era semplicemente un bambino. Occorreva tirarlo fuori
da questa tana, rimetterlo in piedi. Occorreva fargli comprendere che finora
non aveva fatto altro che rovinarsi; occorreva fargli ritrovare uno slancio di
giovinezza.
— Vincent, ti lascerò qualche giorno di tempo per rimetterti in forze,
poi ti ricondurrò a Etten.
Vincent sbuffò in silenzio alcune boccate di fumo. Sapeva che tutta
questa faccenda doveva essere liquidata una volta per sempre, e che
purtroppo non avevano altro mezzo d’intendersi all’infuori delle parole.
Ebbene, avrebbe cercato di far capire a Theo come stavano le cose. Dopo,
tutto sarebbe andato a meraviglia.
— Theo, a che servirebbe che io tornassi a casa? Senza volerlo, sono
diventato per la famiglia una specie di tipo sospetto e impossibile, o per lo
meno un individuo di cui non si fidano. Ecco perché credo che il partito più
ragionevole sia per me quello di star lontano, in modo da cessare d’esistere
per loro. Io sono un uomo impulsivo, tutto scoppi di passione, capace di far
follie. Parlo ed agisco troppo prontamente, quando invece converrebbe
saper pazientemente aspettare. Così stando le cose, devo considerarmi un
individuo pericoloso e inetto su tutta la linea? Non lo credo. Il problema è
piuttosto un altro: come indirizzare a un buon fine queste mie inclinazioni.
Per esempio, ho un’irresistibile passione per la pittura e per i libri; ho fame
d’istruzione come ho fame di cibo. Tu certamente mi comprendi.
— Sì, ti comprendo, Vincent. Ma guardar quadri e legger libri, alla tua
età, è semplicemente un diversivo. Libri e quadri non hanno niente a che
vedere con i problemi essenziali della vita. Da quasi cinque anni sei senza
impiego e vagabondi di qua e di là. E in tutto questo periodo di tempo sei
caduto sempre più in basso, in una situazione rovinosa.
Vincent prese un pizzico di tabacco, lo stropicciò tra le palme delle
mani per ammorbidirlo e lo mise nella pipa. Poi si dimenticò di accenderla.
— È vero — disse — che a volte un tozzo di pane me lo sono
guadagnato e a volte l’ho avuto in carità da un amico. È vero che ho
perduto la fiducia di molte persone, che la mia situazione finanziaria è
deplorevole e che il mio avvenire è quanto mai oscuro. Ma è proprio
necessario parlare di rovina? Devo continuare per la strada che ho preso,
Theo. Se non studio, se non continuo a cercare, allora sì che son perduto.
— Tu vuoi evidentemente dirmi qualcosa, vecchio mio, ma ti giuro che
non riesco a farmene un’idea.
Vincent accese la pipa, soffiò sulla fiamma del fiammifero.
— Ricordo i tempi — disse — in cui passeggiavamo insieme nelle
vicinanze del vecchio mulino di Ryswyk. Allora ci intendevamo su tante
cose.
— Ma sei così cambiato, Vincent!
— Questo è vero fino a un certo punto. La mia esistenza era allora meno
difficile; ma quanto al modo di pensare e di vedere le cose sono sempre
quello.
— Vorrei poterlo credere, per il bene che ti voglio.
— Theo, non credere che io rinneghi niente. Nella mia infedeltà sono
fedele. E la mia unica ansia è questa: in che modo posso servire a qualcosa
nel mondo? Possibile che io non possa contribuire al raggiungimento di uno
scopo e fare qualcosa di utile?
Theo s’alzò, s’arrabattò intorno alla lampada a petrolio e finalmente
riuscì ad accenderla. Gli riempì il bicchiere di latte. — Su, bevilo. Non
voglio che ti stanchi troppo.
Vincent lo ingoiò troppo in fretta, tanto da averne quasi il respiro
mozzo. E, senza nemmeno aspettare d’essersi ripulite le labbra ingorde,
riprese: — Forse che i nostri più intimi pensieri possono sempre rivelarsi?
A volte c’è nella nostra anima un gran fuoco, e nessuno viene a
riscaldarvisi. Coloro che ci sfiorano non vedono che un filo di fumo uscir
dal camino, e tirano avanti. E allora dimmi, che cosa bisogna fare? Non
dobbiamo forse tener vivo quell’intimo fuoco, tener desto lo spirito,
aspettare pazientemente l’ora in cui qualcuno verrà a riscaldarsi alla nostra
fiamma?
Theo s’alzò, si sedette sulla sponda del letto. — Sai a che cosa pensavo
in questo momento?
— No.
— Al vecchio mulino di Ryswyk.
— Bello, vero?
— Sì.
— E anche la nostra fanciullezza è stata bella.
— Sei stato tu a rendermela bella, Vincent. I miei primi ricordi sono
tutti legati a te.
Un lungo silenzio.
— Vincent, ti renderai conto, spero, che l’accusa che ti ho mossa viene
dalla nostra famiglia e non da me. Sono stati loro a mandarmi qui, perché
vedessi di farti vergognare della tua situazione presente e d’indurti a tornare
in Olanda, a cercarti un impiego.
— Sta bene, Theo: tutto ciò che dicono è perfettamente vero. È naturale
che non comprendano le mie ragioni personali e non sappiano collegare la
mia situazione attuale con tutta la mia vita passata. Ma se io sono scaduto
nel mondo, tu invece ti sei messo in luce. Se io ho perduto la stima e la
simpatia della gente, tu invece te le sei conquistate. Ciò mi fa molto piacere.
Te lo dico con tutta sincerità: e sarà sempre così. Ma sarei tanto felice se tu
potessi vedere in me qualcosa di diverso da un poltrone della peggior
specie.
— Dimentichiamo quelle parole. Se sono stato un anno intero senza
scriverti, l’ho fatto per negligenza, non per un senso di disapprovazione. Ho
creduto in te, ho avuto fede in te fin dai giorni lontani in cui mi conducevi
per mano attraverso i folti prati di Zundert. E questa fede non è oggi meno
viva. Ho soltanto bisogno di esserti vicino, per non dover stare in ansia per
te.
Vincent sorrise: un largo, schietto e allegro sorriso brabantino. — Sei
molto buono, Theo.
Questi si trasformò bruscamente in un uomo d’azione.
— Ascolta, Vincent, mettiamo subito a posto le cose. Ho l’impressione
che sotto tutte queste idee astratte che hai enunciato ci sia qualcosa di ben
concreto che tu vuoi fare, qualcosa che ha per te un’importanza suprema e
decisiva, qualcosa che potrà darti felicità e successo. Ebbene, vecchio mio,
parla chiaro. «Goupil & C.» mi hanno raddoppiato lo stipendio nel corso di
quest’ultimo anno e mezzo, sicché ho più denaro di quanto sappia
spenderne. Dunque, se c’è qualcosa che ti sta a cuore e per iniziare hai
bisogno d’aiuto, dimmi soltanto che hai trovato finalmente il vero scopo
della tua vita e formeremo una specie di società. Tu fornirai il lavoro, io i
capitali. Quando la tua attività sarà ben avviata, potrà compensare
l’investimento con dei buoni dividendi. E adesso parla francamente: hai per
la testa qualcosa di preciso? Il tuo scopo, lo scopo da perseguire con tutte le
forze fino all’ultimo giorno della vita, non è forse già definito da lunga
data?
Vincent guardava il fascio di disegni che Theo aveva poc’anzi
esaminato presso la finestra. Un sorriso di stupore, d’incredulità e infine di
entusiastica gioia gli si schiuse sulle labbra, irraggiandogli tutto il viso.
Spalancò gli occhi, spalancò la bocca, tutto il suo essere pareva aprirsi
improvvisamente come la corolla d’un girasole investita dai caldi raggi
solari.
— Ah, finalmente! — mormorò. — È proprio ciò che volevo e che non
ho mai saputo dirti.
Anche gli occhi di Theo si posarono là, sui disegni. — L’ho ben pensato
— disse.
Vincent fremeva d’eccitazione e di gioia: sembrava si fosse
improvvisamente destato da un profondo sonno.
— Theo, tu lo sapevi prima ancora di me! Io non volevo pensarci.
Avevo paura. Ma sì che c’è qualcosa che devo assolutamente fare! Ho
sempre camminato in questa direzione, e non lo sospettavo nemmeno. Già
quando studiavo ad Amsterdam e a Bruxelles, provavo continuamente il
bisogno di disegnare, di fissare sulla carta ciò che vedevo. Ma non me lo
permettevo. Temevo che ciò mi distraesse dal mio vero compito. Il mio vero
compito! Com’ero cieco! In tutti questi anni c’era in me qualcosa che
cercava di venir fuori, di esprimersi: e io lo soffocavo. Lo ricacciavo
indietro. Eccomi qua, a ventisette anni, senza nulla di fatto. Che idiota, che
cieco e stupido idiota sono mai stato!
— Non importa, Vincent. Con la tua forza e la tua decisione, saprai
procedere mille volte più in fretta di qualsiasi altro principiante. E hai di
fronte a te tutta una lunga vita.
— Per lo meno dieci anni. In dieci anni, saprò combinare qualcosa di
buono.
— Ma certo! E potrai vivere dovunque ti piaccia: a Parigi, a Bruxelles,
ad Amsterdam, all’Aia. Non hai che da scegliere; io ti manderò ogni mese il
denaro necessario per vivere. Non m’importa se anche ti ci vorranno diversi
anni, Vincent. Finché tu non perdi la speranza, non la perderò nemmeno io.
— Oh, Theo, aver annaspato per tanti mesi amari per arrivare a
qualcosa, per scoprire il vero senso e il vero scopo della mia vita, e non aver
mai saputo che il mio destino era quello! Ma ora che lo so, non mi
scoraggerò mai più. Comprendi, Theo, che cosa significa? Dopo tanti anni
sciupati, ho finalmente trovato me stesso! Sarò pittore. Certo. Non potrei
essere altro. Ecco la ragione dei miei fallimenti in ogni altro campo: non era
quella la mia vocazione. Ma adesso ho davanti a me un campo d’attività in
cui non farò più cilecca. Oh, Theo, la prigione si è finalmente aperta, e sei
tu che me ne hai spalancato le porte!
— Nulla ci dividerà più! Siamo nuovamente insieme, vicini, non è vero,
Vincent?
— Sì, Theo, per tutta la vita.
— Adesso cerca soltanto di riposare e di star bene. Tra pochi giorni,
quando ti sarai completamente rimesso, io ti condurrò in Olanda, o a Parigi,
o dovunque tu voglia andare.
Con un balzo, Vincent saltò in mezzo alla stanza.
— Macché tra pochi giorni, per tutti i diavoli dell’inferno! — gridò. —
Partiamo immediatamente. Alle nove c’è un treno per Bruxelles.
E prese a vestirsi in fretta e furia.
— Ma, Vincent, non puoi metterti in viaggio, stasera. Sei ammalato.
— Ammalato? Frottole. In vita mia, non mi sono mai sentito così bene.
Andiamo, Theo, ragazzo mio; abbiamo dieci minuti per andare alla
stazione. Caccia nella valigia quelle belle lenzuola bianche, e corriamo!
PARTE SECONDA
ETTEN
1.
2.
3.
5.
6.
7.
«Caro Theo,
«ho urgente bisogno di denaro per recarmi ad Amsterdam. Se riesco a
trovare la somma strettamente necessaria ci vado senz’altro.
«Ti mando alcuni disegni, con preghiera di dirmi perché non trovano
acquirenti e come posso renderli tali da poterli smerciare. Devo a tutti i
costi guadagnar tanto da poter comprare il biglietto ferroviario e andare ad
assodare la consistenza di quel No, no, mai!».
Col passar dei giorni, sentì sorgere dentro di sé una nuova e sana
energia. L’amore lo rendeva risoluto e deciso. Aveva sgominato ogni
residuo di dubbio ed era convinto che se avesse potuto soltanto veder Kay,
aiutarla a comprendere quale realmente era nell’intimo dell’animo, avrebbe
potuto trasformare quel «No, no, mai!» in un «Sì, per sempre, per sempre!».
Si rimise al lavoro con nuova lena; pur sapendo di avere ancora la mano
indocile e pesante, nutriva la ferma fiducia di conseguire un giorno una
maggior facilità e scioltezza, allo stesso modo ch’era sicuro di vincere la
ripulsa di Kay.
La sera dopo scrisse una lettera al reverendo Stricker, per chiarire i
termini della situazione. Non stette a misurare le parole; l’idea dello
scoppio di collera in cui avrebbe dato lo zio lo riempiva di buon umore. Il
babbo gli aveva proibito di scrivere questa lettera: un vero conflitto si
preparava nella casa parrocchiale. Theodorus vedeva tutta la vita in termini
di rigorosa obbedienza e di rigoroso buon contegno; ignorava le
vicissitudini dell’animo umano. Se suo figlio non sapeva adattarsi al
modello prestabilito, era lui che aveva torto, non il modello.
— Tutta colpa di quei libri francesi che leggi — gli disse la sera, nella
stanza di soggiorno. — Se bazzichi in compagnia di ladri e di assassini,
come ci si può aspettare che ti comporti da figlio obbediente e da
gentiluomo?
Vincent sollevò gli occhi dalle pagine di Michelet, con una blanda
espressione di stupore.
— Ladri ed assassini? Tu chiami ladri Victor Hugo e Michelet?
— No, ma mi riferisco a ciò che scrivono. I loro libri sono pieni di cose
cattive.
— Sciocchezze, papà. Michelet è puro e incensurabile quanto la Bibbia.
— Non voglio che tu bestemmi qua dentro, giovanotto! — urlò
Theodorus, invaso da una legittima indignazione. — Quei libri sono
immorali. Sono state quelle idee francesi a rovinarti.
Vincent s’alzò, fece un mezzo giro intorno al tavolo e collocò davanti al
babbo L’amour et la femme.
— C’è un unico modo di convincerti. Leggi soltanto qualche pagina. Ne
rimarrai impressionato. Michelet vuole semplicemente aiutarci a risolvere i
nostri problemi e a sollevarci dalle nostre piccole miserie.
Theodorus scagliò L’amour et la femme sul pavimento col gesto di un
uomo retto che respinga il peccato.
— Non ho bisogno di leggerlo! — replicò furiosamente. — Abbiamo in
famiglia un prozio che si lasciò contagiare da idee francesi e si mise a bere!
— Mille pardons, babbo Michelet — mormorò Vincent, raccattando il
libro.
— E perché «babbo Michelet», se è lecito? — domandò gelidamente
Theodorus. — È forse per offendermi?
— Nemmeno per sogno. Ma devo francamente confessarti che se avessi
bisogno di consiglio mi rivolgerei piuttosto a Michelet che a te. Avrei
maggiori probabilità di capitar bene.
— Oh, Vincent — supplicò la mamma — perché parli così? Vuoi
rompere i legami con la famiglia?
— Sicuro, ecco quello che stai facendo! — esclamò Theodorus. — Vuoi
proprio rompere i legami con la famiglia. La tua condotta è imperdonabile.
Faresti meglio a lasciare questa casa e andartene a vivere altrove.
Vincent salì in camera sua e sedette sulla sponda del letto,
domandandosi perché mai, ogni qualvolta riceveva un colpo duro, provasse
il bisogno di sedersi lì anziché su una sedia. Passò in rassegna i disegni
appesi alle pareti: contadini che vangavano, contadini che seminavano,
garzoni, una donna che cuciva, una ragazza che faceva pulizia, boscaioli;
eppoi i disegni di Heike. Sì, aveva progredito. Andava avanti. Ma il suo
lavoro non era ancora finito. Mauve si trovava tuttora a Drenthe, dove
sarebbe rimasto ancora un mese. Non aveva nessun desiderio di andarsene
da Etten. Ci si trovava bene, godeva d’ogni comodità; vivere altrove, gli
sarebbe costato assai di più. Aveva ancora bisogno di tempo per vincere
l’impaccio dell’espressione e cogliere il vero spirito dei contadini del
Brabante, prima di partire per sempre. Suo padre gli aveva ingiunto di
lasciare questa casa, quasi maledicendolo. Ma si trattava d’uno scoppio
d’ira. Se i genitori gli avessero realmente detto «Vattene!», se si fosse
trattato di una seria ingiunzione… Era davvero un tal cattivo soggetto da
dover essere cacciato dalla casa paterna?
Con la posta della mattina dopo, gli arrivarono due lettere. La prima era
del reverendo Stricker, in risposta alla sua, con accluso un biglietto della
moglie dell’ecclesiastico. Gli riassumevano il suo passato in termini ben
chiari, lo informavano che Kay voleva bene ad un altro, ad un uomo
facoltoso, e lo invitavano ad astenersi definitivamente e subito da qualsiasi
tentativo con la loro figliola.
«Non ci sono proprio al mondo persone più prive di fede, dure di cuore
e attaccate ai beni terreni degli uomini di Chiesa», commentò tra sé
Vincent, schiacciando nel pugno la lettera di Amsterdam con un piacere
selvaggio, come se si trattasse del reverendo in persona.
La seconda lettera era di Theo.
«I disegni — diceva — sono eccellenti. Farò tutto il possibile per
venderli. Ti accludo intanto venti franchi per il viaggio ad Amsterdam.
Buona fortuna, vecchio mio!».
8.
L’ A I A
1.
3.
La posta del mattino gli recò una lettera di Theo, con acclusi i cento
franchi. Soltanto ora Theo aveva potuto mandarglieli. Uscito di casa, trovò
una vecchia che vangava nel giardinetto d’una casa vicina e le domandò se
volesse venire a posare per cinquanta centesimi. La vecchia accettò
volentieri.
Giunti nello studio la fece sedere contro uno sfondo sonnacchioso,
accanto alla stufa, con una piccola teiera vicino. Stava cercando
l’atmosfera; la testa della vecchia era piena di vita e di luce. Diede a tre
quarti dell’acquerello una tonalità verde. Trattò con tocco morbido, tenero,
ricco di sentimento l’angolo dov’era seduta la vecchia. Mentre negli ultimi
tempi il lavoro gli era riuscito faticoso, duro e secco, ora procedeva con
fluida facilità. L’idea trovava espressione adeguata, con linee precise e
sicure. Provò un sentimento di gratitudine verso Cristina, per quanto aveva
fatto per lui. La mancanza d’amore poteva farlo infinitamente soffrire, ma
non nuocergli; la mancanza di sfogo sessuale poteva invece disseccare le
sorgenti della potenza creativa e ucciderlo come artista.
«La soddisfazione sessuale è come un lubrificante — mormorò tra sé
mentre lavorava con tanta speditezza e facilità. — Mi domando perché
babbo Michelet non ha mai fatto cenno di questa verità».
Qualcuno bussò alla porta. Mijnheer Tersteeg, con un paio di pantaloni
a righe impeccabilmente stirati, scarpe marrone lucide come uno specchio,
la barba ben curata, i capelli con la scriminatura da una parte, il colletto
d’un bianco immacolato.
Tersteeg si compiacque schiettamente di vedere che Vincent possedeva
un vero studio d’artista e stava lavorando con impegno. Gli piaceva vedere i
giovani artisti conseguire il successo: non soltanto per un interesse
professionale, ma anche per un proprio gusto personale. Ma voleva che il
successo venisse raggiunto metodicamente, per vie prestabilite; riteneva
fosse meglio per un pittore attenersi ai sistemi tradizionali e fallire che non
ribellarsi contro tutte le regole e riuscire ad imporsi. Le regole del gioco
avevano per lui ben maggiore importanza della vittoria. Era un uomo onesto
e rispettabile, ed esigeva che anche gli altri lo fossero. Non ammetteva
assolutamente la possibilità che il male si mutasse in bene, che dal peccato
scaturisse la salvezza. I pittori che vendevano le loro tele alla galleria
Goupil sapevano di dover sorvegliare la propria condotta e le proprie
maniere. Sarebbe bastato che violassero le norme del contegno che s’addice
a gentiluomini perché Tersteeg rifiutasse di interessarsi dei loro quadri
anche nel caso che si trattasse di autentici capolavori.
— Bene, Vincent, sono lieto di sorprenderti al lavoro. È così che mi
piace trovare i miei pittori.
— Siete molto gentile a fare tanta strada per venire fin da me, Mijnheer
Tersteeg.
— Figurati! Fin da quando ti sei stabilito qui volevo venire a vedere il
tuo studio.
Vincent diede un’occhiata intorno: il letto, il tavolo, le sedie, la stufa e il
cavalletto.
— Non c’è molto da vedere!
— Non importa, sprofondati nel lavoro e ben presto potrai permetterti
qualcosa di più. Mi dice Mauve che hai cominciato a fare acquerelli. Sono
molto richiesti. Potrei vendertene qualcuno, e così pure tuo fratello.
— È appunto a questo che miro, Mijnheer.
— Mi sembri assai più di buon umore che ieri.
— Non stavo bene. Ma stanotte mi sono rimesso.
Ricordò i bicchieri di vino, di gin e bitter, Cristina; rabbrividì al
pensiero di ciò che avrebbe detto Tersteeg se avesse saputo. — Volete dare
un’occhiata a qualcuno dei miei lavori, Mijnheer? Il vostro parere mi
sarebbe veramente prezioso.
Tersteeg si piantò davanti alla figura della vecchia dal grembiule bianco
emergente dallo sfondo verde. Il suo silenzio non fu più così eloquente e
terribilmente significativo come quel giorno che Vincent s’era recato da lui.
S’appoggiò alcuni istanti al bastone da passeggio, poi se l’appese al braccio.
— Sì, sì, ti vai sviluppando. Mauve farà di te un buon acquarellista, a
quanto vedo. Ti ci vorrà un po’ di tempo, ma vi arriverai. Devi affrettarti,
Vincent, in modo da guadagnarti di che vivere. Per Theo è un vero sforzo
mandarti cento franchi al mese: me ne sono ben accorto durante la mia
permanenza a Parigi. Devi cercare di bastare quanto prima a te stesso.
Credo che molto presto potrò comprarti qualche quadretto.
— Grazie, Mijnheer. Siete molto buono ad interessarvi
— Voglio aiutarti a conquistare il successo, Vincent. Sarà tanto di
guadagnato anche per la galleria Goupil. Non appena comincerò a vendere i
tuoi quadri, potrai sistemarti in uno studio migliore, vestirti bene e
frequentare un poco la società. Anche questo è necessario, se vorrai più
tardi vendere le tue pitture a olio. Ora devo correre da Mauve. Voglio
vedere il quadro di Scheveningen che sta preparando per il Salon.
— Tornerete ancora, Mijnheer?
— S’intende! Tra qualche settimana. Bada di sgobbare e di farmi
trovare un po’ di progresso. Devi far rendere le mie visite, capisci!
Gli strinse la mano e se ne andò. Vincent s’immerse nuovamente nel
lavoro. Se almeno fosse riuscito a guadagnarsi la vita, la più modesta vita
del mondo! Non chiedeva di più. Essere indipendente. Non rappresentare
un peso per nessuno. E soprattutto non aver fretta: potersi permettere di
procedere lentamente, con passo sicuro, verso quella maturità artistica e
quella forma d’espressione che stava cercando.
Nel pomeriggio ricevette un biglietto di De Bock, su carta rosa.
Qualche sera dopo, Cristina bussò alla porta di Vincent. Indossava una
gonna nera con una camicetta turchina, aveva in testa un cappellino nero.
Aveva lavorato tutto il giorno in lavanderia. Teneva la bocca semiaperta,
come sempre quand’era estremamente stanca; le macchie della pelle erano
più accentuate di quanto gli fossero parse al primo incontro.
— Buona sera, Vincent. Ho pensato di venire a vedere dove abiti.
— Sei la prima donna che venga a trovarmi, Cristina. Benvenuta!
Dammi qua lo scialle.
La donna si sedette accanto alla stufa per scaldarsi. Poi osservò la
stanza.
— Mica male. Solo che è vuota.
— Lo so. Non ho soldi per comprare dei mobili.
— Be’, ce ne sarebbe proprio bisogno.
— Stavo per prepararmi un po’ di cena, Cristina. Resti con me?
— Perché non mi chiami Sien? Tutti mi chiamano così.
— D’accordo, Sien.
— Che cos’hai per cena?
— Patate e tè.
— Oggi ho guadagnato due franchi. Vado a comprare un po’ di carne.
— Ho soldi anch’io. Me ne ha mandati mio fratello. Quanto ti occorre?
— Credo che cinquanta centesimi possano bastare. Tornò poco dopo
con un involto di carne. Vincent lo prese e fece per mettersi all’opera.
— No, tu siediti. Non t’intendi di cucina. Io sono una donna.
China sulla stufa, con la guancia caldamente avvivata dal riflesso della
fiamma, sembrava carina. Era una cosa tanto naturale e dava un tale senso
di benessere casalingo vederla sbucciare e tagliare le patate, mettendole nel
tegame con la carne per fare lo stufato! Seduto contro il muro, Vincent
stava a guardarla con un caldo senso di gioia in cuore. Qui era a casa sua, e
aveva una donna che gli preparava la cena con mani affettuose. Quante
volte aveva sognato una scena simile, con Kay per compagna! Sien gli
lanciò un’occhiata e vide che la sedia su cui stava era rovesciata contro il
muro, in una posizione pericolosa.
— Ehi, pazzo che sei! Siediti per bene! Vuoi romperti l’osso del collo?
Vincent scoppiò in una risata. Tutte le donne con cui aveva vissuto nella
stessa casa — la mamma, le sorelle, le zie e le cugine — tutte gli dicevano
sempre: «Vincent, stai ben seduto! Vuoi romperti l’osso del collo?».
— Va bene, Sien. Starò come si deve.
Ma appena Sien ebbe voltato gli occhi, rovesciò nuovamente lo
schienale della sedia contro la parete e accese allegramente la pipa. Sien
apparecchiò. Aveva comprato anche due pagnotte. Finito di mangiare la
carne e le patate, intinsero il pane nel sugo.
— Che te ne pare? — disse Sien. — Scommetto che tu non sei così
bravo a far cucina.
— No, Sien. Quando faccio cucina io, non so mai se mangio pesce,
selvaggina o che diavolo altro.
Servito il tè, Sien accese uno dei suoi sigari neri. Presero a discorrere
animatamente. Vincent si sentiva più a suo agio con lei che con Mauve o De
Bock. C’era tra loro una certa fraternità, ch’egli non cercava nemmeno di
analizzare. Parlavano di cose banali, senza finzioni e senza dispute. Quando
parlava lui, Sien stava ad ascoltarlo con piacere, senza nessuna impazienza
che finisse per aprir bocca lei. Non aveva l’ambizione di far valere il
proprio «io». Nessuno dei due aspirava a far colpo sull’altro. Quando Sien
narrava della sua vita, dei suoi patimenti e delle sue miserie, Vincent
doveva soltanto cambiare qualche parola perché quel racconto si adattasse
anche a lui. Nessuna posa d’asprezza nei loro discorsi, nessuna affettazione
nei loro silenzi. L’incontro di due anime senza maschera, al di fuori d’ogni
pregiudizio di classe, d’ogni artificio e d’ogni ritegno d’orgoglio.
Vincent s’alzò.
— Che cosa vuoi fare? — gli domandò lei.
— Lavare i piatti.
— Stattene seduto. Non è il tuo mestiere. Io sono una donna.
Egli accostò la sedia alla stufa, si riempì la pipa, l’accese e si mise a
sbuffare beatamente boccate di fumo mentre lei si chinava sul catino. Belle
le sue mani intrise di schiuma di sapone, con le vene in risalto e le grinze
che parlavano di dure fatiche sostenute. Vincent prese carta e matita, e le
disegnò.
— Si sta bene qui — disse Sien, finito quel lavoro. — Se avessimo poi
un po’ di gin e bitter…
Andarono a comprarne e passarono la serata in casa, sorseggiando
tranquillamente, mentre Vincent ritraeva la figura dell’amica. Sien si
godeva quel calmo e riposante benessere, seduta presso la stufa con le mani
in grembo.
Il bagliore della fiamma e il piacere di poter parlare con qualcuno che la
comprendeva la riempivano di brio e di vivacità.
— Quando finisci il lavoro alla lavanderia?
— Domani, per fortuna. Non ce la faccio più.
— Sei stata male?
— No, ma il brutto s’avvicina, s’avvicina. Quest’accidente di
marmocchio mi si fa sentire ogni tanto.
— Allora la settimana prossima cominci a posare per me?
— Non avrò da far nient’altro che star seduta?
— Nient’altro. Qualche volta dovrai stare in piedi o posare nuda.
— Bellissimo! Tu lavori e io prendo i soldi. Guardò fuori dalla finestra.
Nevicava.
— Vorrei già essere a casa. Fa tanto freddo e ho soltanto lo scialle. C’è
da fare un bel pezzo di strada.
— Domani mattina devi tornare da queste parti?
— Sì. Alle sei, quand’è ancora buio.
— Se vuoi, Sien, puoi restare qui. Io ne sarei felicissimo.
— Non ti darei noia?
— Nemmeno per sogno. Il letto è grande.
— Ci si può dormire in due?
— Comodamente.
— Allora mi fermo.
— Bene.
— Sei stato molto gentile a invitarmi.
— E tu sei molto gentile a restare.
La mattina Sien gli preparò il caffè, rifece il letto e scopò lo studio. Poi
partì per andare alla lavanderia. La stanza gli sembrò tristemente vuota.
5.
Nel pomeriggio venne Tersteeg. Aveva gli occhi lucidi e le guance rosse
per quella camminata al freddo.
— Come va, Vincent?
— Benone, Mijnheer Tersteeg. La vostra visita mi fa piacere.
— Hai qualcosa di interessante da mostrarmi? Sono venuto per questo.
— Sì, ho qualcosa di nuovo. Sedete, prego.
Tersteeg diede una sbirciata alla sedia, prese il fazzoletto per
spolverarla, poi gli sembrò un gesto poco simpatico e se ne astenne.
Sedette. Vincent gli portò tre o quattro piccoli acquerelli. Tersteeg vi gettò
dapprima un’occhiata molto rapida, come uno che percorra rapidamente
una lunga lettera; poi tornò ad esaminare attentamente il primo.
— Andiamo bene — disse infine. — Non ci siamo ancora, si capisce;
questi acquerelli sono ancora un po’ crudi; ma si vede che fai progressi.
Devi presto darmi qualcosa che si possa vendere, Vincent.
— Sì, Mijnheer.
— Devi pensare a guadagnarti la vita, ragazzo mio. Non è bello vivere
del denaro altrui.
Vincent prese tra le mani gli acquerelli, li osservò. Ammetteva che
fossero ancora un po’ crudi, un po’ immaturi; ma, come tutti gli artisti, non
sapeva vedere i difetti del proprio lavoro.
— Non chiedo di meglio che riuscire a mantenermi, Mijnheer.
— Allora devi lavorare con più accanimento. Accelerare il passo. Vorrei
proprio che ti sbrigassi a darmi qualcosa di buono.
— Sì, Mijnheer.
— Comunque, sono lieto di vederti di buon umore e seriamente
impegnato. Theo mi ha pregato di tenerti d’occhio, di seguirti. Animo,
Vincent, fai qualcosa di bello; voglio importi alla galleria Goupil.
— Cercherò di fare del mio meglio. Ma non sempre la mano obbedisce
alla volontà. Però, Mauve mi ha lodato uno di questi lavori.
— Che cosa t’ha detto?
— «Comincia quasi ad aver l’aria di un acquerello». Tersteeg rise, e
s’avvolse intorno al collo la sciarpa di lana.
— Continua a sgobbare, Vincent, continua a sgobbare. È così che si
producono i grandi quadri.
E se ne andò.
Vincent aveva scritto allo zio Cor, informandolo che s’era stabilito
all’Aia e invitandolo a venirlo a trovare. Lo zio Cor si recava spesso all’Aia
per fare acquisti di quadri per il suo negozio d’arte, ch’era il più importante
di Amsterdam. Una domenica pomeriggio Vincent offriva una festicciola ad
alcuni bambini con cui aveva stretto conoscenza. Per trattenerli e divertirli
mentre li ritraeva, aveva comprato un pacco di dolciumi e ora, chino sulla
tavola da disegno, raccontava loro una favola dopo l’altra. Ad un tratto sentì
bussare alla porta e udì una voce profonda, rimbombante: quella dello zio.
Cornelius Marinus Van Gogh era un uomo che aveva conseguito la
notorietà, il successo e la ricchezza: eppure i suoi occhi grandi e scuri
esprimevano una profonda malinconia. La bocca era un po’ meno ampia
che negli altri Van Gogh. Era il più anziano della famiglia: fronte ampia e
squadrata, mascelle forti ed egualmente squadrate, mento fortemente
pronunciato e tondeggiante, naso possente.
Senz’averne l’aria, colse in un’occhiata indagatrice tutti i particolari
dello studio. In tutta Olanda non c’era probabilmente un altro individuo che
avesse visto tanti studi di pittore.
Vincent distribuì ai bambini i dolciumi rimasti e li rimandò a casa.
— Una tazza di tè, zio Cor? Fuori deve fare un freddo tremendo.
— Grazie, Vincent.
Servitogli il tè, Vincent si stupì nel vedere come lo zio sapeva tenere in
equilibrio la tazza sul ginocchio senza minimamente preoccuparsene,
chiacchierando intanto di questo e di quello.
— Dunque, Vincent, hai scelto la carriera del pittore. Era tempo che
nella famiglia Van Gogh ce ne fosse uno. Da trent’anni Hein, Vincent e io
compriamo quadri da estranei. Ora potremo finalmente tenere un po’ di
quel denaro in famiglia!
Vincent sorrise. — Non potrei avere un inizio più favorevole, con tre zii
ed un fratello che esercitano il commercio di quadri. Un po’ di pane e
formaggio, zio Cor? Avrai forse appetito.
Cornelius Marinus sapeva che ad un artista povero non si può far
peggiore offesa che rifiutare di mangiare un boccone in casa sua.
— Sì, grazie. Ho fatto colazione presto.
Vincent dispose parecchie fette di pane scuro e raffermo su un piatto
screpolato e trasse da un involto di carta un pezzo di formaggio a buon
mercato. Cornelius Marinus dovette fare uno sforzo per mangiare un poco.
— Mi dice Tersteeg che Theo ti manda cento franchi al mese.
— Sì.
— Theo è giovane e quel denaro potrebbe servire a lui. Dovresti saperti
guadagnare il pane.
A Vincent bruciavano ancora le parole dettegli soltanto il giorno prima
da Tersteeg sullo stesso argomento. La sua replica fu pronta e impulsiva.
— Guadagnare il pane, zio Cor? In che senso? Guadagnarmi il pane… o
meritarmelo? Non meritarsi il pane, ossia esserne indegno, è indubbiamente
una grave colpa, perché ogni uomo onesto si merita il pane che mangia. Ma
non poterselo guadagnare, pur essendone degno, è purtroppo una disgrazia,
una grande disgrazia. — Prese a giocherellare con un pezzo di mollica,
facendone una pallottolina nera e dura. — Se tu quindi, zio Cor, mi dici:
«Non meriti il pane che mangi», mi fai un insulto. Se invece vuoi dire che
non sempre me lo guadagno, hai pienamente ragione. Ma perché gettarmi in
faccia questa verità? A che serve? Non certamente a migliorare la mia
situazione e a facilitarmi la strada, se ti limiti a farmi questo appunto.
Cornelius Marinus non parlò più di guadagnarsi il pane. La
conversazione filò liscia fino a quando Vincent menzionò casualmente,
parlando di capacità espressiva, il nome di De Groux.
— Ma non sai, Vincent, che nella vita privata De Groux non gode di
buona reputazione?
Vincent non seppe star a sentire che cosa si diceva del bravo De Groux.
Sapeva che avrebbe fatto molto meglio a dar ragione allo zio, ma sembrava
davvero che gli riuscisse impossibile dar ragione a quelli della sua
parentela.
— Mi è sempre parso, zio Cor, che quando un artista presenta la propria
opera al pubblico abbia il diritto di tenere per sé gli intimi conflitti della sua
vita privata, che sono direttamente e fatalmente connessi con le difficoltà e
il tormento della fatica creativa.
— Ma il semplice fatto che un individuo lavori di pennello anziché fare
il contadino o il commerciante non gli conferisce il diritto di condurre una
vita licenziosa — ribatté lo zio Cor, sorseggiando il tè per il quale Vincent
non gli aveva offerto lo zucchero. — Io son d’avviso che non dovremmo
comprar quadri d’artisti che tengono una condotta sconveniente.
— Secondo me è più sconveniente ancora la condotta del critico che si
permette d’andare a frugare nella vita privata di un individuo la cui opera è
irreprensibile. Tra la vita privata di un artista e l’opera sua c’è lo stesso
rapporto che tra una donna in istato di gravidanza e il bambino che dà alla
luce. Avete il diritto di guardare il bambino, non di alzarle la camicia per
vedere se sia macchiata di sangue. Questo sì che sarebbe sconveniente.
Cornelius Marinus si era appena cacciato in bocca un pezzetto di pane e
formaggio, ma lo risputò immediatamente nel cavo della mano, s’alzò e
andò a gettarlo nella stufa.
— Bene, bene! — commentò. — Bene, bene, bene, bene!
Vincent temette che lo zio andasse in collera, ma per fortuna la
situazione si schiarì. Egli prese una cartella in cui teneva disegni e studi di
piccole proporzioni. Fece sedere lo zio in posizione esposta alla luce.
Cornelius Marinus dapprima non espresse nessun giudizio; ma quando
giunse ad un piccolo schizzo del Paddemoes visto dal mercato del carbone,
eseguito da Vincent una sera a mezzanotte mentre gironzolava in quei
paraggi con Breitner, s’arrestò.
— Buono, questo. Potresti farmi altri quadretti dello stesso genere?
— Sì. Li faccio talvolta tanto per cambiare, quando sono stanco di
lavorare con un modello. Ne ho altri ancora. Vuoi vederli?
Si chinò sulla spalla dello zio, cercando tra i fogli disuguali.
— Ecco il Vleersteeg… Ecco il Geest… Questo è il mercato del pesce.
— Me ne prepareresti una dozzina?
— Certo. Ma qui si tratta d’affari e dobbiamo quindi fissare un prezzo.
— Benissimo. Quanto vuoi?
— Ho fissato il prezzo di ogni quadretto di queste dimensioni, sia a
matita che a penna, in due franchi e mezzo. Lo trovi eccessivo?
Cornelius Marinus sorrise dentro di sé. La cifra era così modesta!
— No. Anzi, se riescono bene, ti pregherò di farmi anche dodici vedute
di Amsterdam. Il prezzo, poi, lo stabilirò io in modo da farti guadagnare un
poco di più.
— Zio Cor, questa è la prima ordinazione che ricevo! Non so dirti la
mia felicità.
— Siamo tutti disposti ad aiutarti, Vincent. Cerca soltanto di migliorare
sempre più il tuo lavoro, e noialtri ti compreremo tutto. — Prese il cappello
e i guanti. — Quando scriverai a Theo, mandagli i miei saluti.
Inebriato dal successo, Vincent afferrò quell’acquarello e corse da
Mauve. Venne Jet ad aprirgli, con aria preoccupata.
— Non ti consiglio di metter piede nello studio, Vincent. Anton è in uno
stato!
— Che cos’ha? È malato?
Jet sospirò. — Siamo alle solite.
— Allora immagino che preferisca non vedermi.
— Un’altra volta, Vincent. Gli dirò che sei stato qui. Appena calmatosi
un pochino, sarà lui a venire da te.
— Non ti dimenticherai di dirglielo?
— Non mi dimenticherò.
Vincent aspettò parecchi giorni, ma Mauve non si faceva vedere. Venne
invece Tersteeg, non una volta sola, ma due. Ed ogni volta il suo verdetto fu
identico.
— Già, già, un po’ di progresso c’è, forse. Ma non ci siamo ancora. Non
riuscirei a venderli, questi acquerelli. Temo che tu non lavori con sufficiente
impegno, che proceda troppo a rilento.
— Mio caro Mijnheer, mi alzo alle cinque del mattino e ci do dentro
fino alle undici di sera, spesso fino a mezzanotte. Mi fermo soltanto per
mandar giù un boccone.
Tersteeg scosse la testa, perplesso. Tornò a guardare gli acquerelli.
— Non capisco. I tuoi lavori presentano ancor sempre quel carattere di
durezza e di crudezza che vi ho riscontrato la prima volta che sei venuto da
me. Dovresti ormai aver superato questa fase d’immaturità. Un individuo
che abbia un po’ di attitudine riesce sempre a superarla, se lavora sul serio.
— Lavorare sul serio! — ripeté tristemente Vincent.
— Dio sa se vorrei comprare qualcosa da te. Non vedo il momento che
tu cominci a guadagnarti la vita. Non trovo giusto che Theo debba… Ma
non posso comprar niente fino a quando il tuo lavoro non abbia un reale
valore, ti pare? Tu non vuoi mica che ti si faccia la carità…
— No.
— Devi affrettarti, ecco, affrettarti. Hai bisogno di cominciare a vendere
e a guadagnarti la vita.
Quando Tersteeg ripeté per la quarta volta questo ritornello, Vincent si
domandò se volesse prenderlo in giro. «Devi guadagnarti la vita… ma io
non compro nulla da te!». Come, come poteva mai guadagnarsi la vita se
nessuno comprava da lui?
Un giorno incontrò Mauve per istrada. Mauve camminava furiosamente
a testa bassa, senza meta, spingendo avanti la spalla destra. Stentò a
riconoscere il cugino.
— Non ti vedo da tanto tempo, cugino Mauve.
— Ero occupato — rispose Mauve con voce fredda, indifferente.
— Lo so. Il tuo nuovo quadro. Come va il lavoro?
— Oh… — E abbozzò un gesto vago.
— Posso venire un giorno o l’altro nel tuo studio, per un momento solo?
Temo di non far progressi con i miei acquerelli.
— Adesso no! Sono occupato, ti ripeto. Non ho tempo da perdere.
— Non potresti passare una volta o l’altra da me quando esci di casa?
Mi basterebbe sentire qualche parola da te.
— Chissà, chissà, ma adesso ho da fare. Devo andare.
E tirò avanti con passo impetuoso e movimenti nervosi. Vincent lo seguì
con lo sguardo, sconcertato.
Che cos’era mai accaduto? L’aveva forse offeso? Se l’era in qualche
modo inimicato?
Provò un enorme stupore, alcuni giorni dopo, vedendo entrare nel suo
studio Weissenbruch. Weissenbruch non si prendeva mai il disturbo di
occuparsi di giovani artisti, e nemmeno di quelli già affermati, se non per
stroncarne di tanto in tanto qualcuno.
— Magnifico, magnifico! — fece, guardandosi intorno. — Questo è un
vero palazzo. Non andrà molto che farete i ritratti del re e della regina.
— Se non vi piace — grugnì Vincent — potete andarvene.
— Perché non mandate al diavolo la pittura, Van Gogh? È una vita da
cani.
— Che però, a quanto sembra, non v’impedisce di prosperare.
— Ma io ho raggiunto il successo. Voi non lo raggiungerete mai.
— Può darsi. Ma farò quadri infinitamente più belli dei vostri.
Weissenbruch rise. — Questo no, ma vi ci avvicinerete probabilmente
più di qualsiasi altro qui all’Aia. Se la vostra pittura rassomiglia alla vostra
personalità…
— Perché non me l’avete detto subito? — domandò Vincent, prendendo
la cartella degli acquerelli. — Sedete, prego.
— Da seduto non posso veder bene.
Guardati gli acquerelli, li scartò con un gesto della mano.
— Non è questo il mezzo d’espressione che fa per voi. Gli acquerelli
sono troppo insipidi, per le cose che avete da dire.
E concentrò la propria attenzione sui disegni a carboncino in cui erano
ritratti minatori del Borinage, contadini del Brabante, vecchi della città. E
man mano che passava da un foglio all’altro, ridacchiava allegramente tra
sé. Vincent si preparò a ricevere una gragnuola di scherni.
— Sapete che disegnate maledettamente bene, Vincent? — disse
Weissenbruch, con occhi scintillanti. — Sono disegni da cui potrei imparare
anch’io!
Fu un colpo così inaspettato, che Vincent si sentì piegar le ginocchia e
cadde di schianto sulla sedia.
— Avevo sentito dire che vi chiamano la «Spada spietata».
— Infatti. Se i vostri studi non valessero niente, ve lo direi chiaro e
tondo.
— Tersteeg me li ha criticati aspramente. Dice che sono troppo rozzi e
crudi.
— Stupidaggini! Appunto lì è la loro forza.
— Io vorrei continuare a far disegni a penna, ma Tersteeg ritiene che io
debba dipingere acquerelli.
— Per poterli vendere, vero? No, ragazzo mio. Se vedete le cose in
forma di disegni a penna e a carboncino, dovete disegnarle a penna e a
carboncino. E soprattutto, non dar retta a nessuno. Nemmeno a me. Andate
avanti, per la vostra strada.
— Credo che farò così.
— Quando Mauve ha detto che siete un pittore nato, Tersteeg l’ha
negato e allora Mauve ha preso le vostre parti. C’ero anch’io. Se questa
disputa dovesse ripetersi, vi sosterrò anch’io, ora che ho visto come
lavorate.
— Mauve ha detto che sono un pittore nato?
— Sì, ma non montatevi la testa. Accontentatevi di morir tale: ossia di
diventar vero pittore prima di andarvene da questo mondo. Sarà già una
bella fortuna.
— E allora, perché è stato così freddo con me?
— Lui tratta tutti allo stesso modo, quando sta per terminare un quadro.
Non vi preoccupate; finita quella tela tornerà a mostrarsi cordiale. Intanto
potete venire da me, se v’occorre qualcosa.
— Posso farvi una domanda, Weissenbruch?
— Certo.
— È stato Mauve a mandarvi qui?.
— Sì.
— E perché?
— Voleva sentire la mia opinione sulla vostra pittura.
— Ma per quale ragione? Se veramente ritiene che io sia un pittore
nato…
— Non so. Forse Tersteeg gli ha insinuato qualche dubbio sulle vostre
attitudini.
6.
7.
Circa una settimana dopo, si recò da Mauve. Suo cugino lo ricevette
nello studio, ma s’affrettò a gettare un pezzo di stoffa sul quadro di
Scheveningen senza lasciargli il tempo di vederlo.
— Che cosa vuoi? — gli domandò, come se non lo sapesse.
— Ho qui con me alcuni acquerelli. Ho pensato che tu potessi dedicarmi
qualche minuto.
Mauve stava lavando con gesti nervosi un mazzo di pennelli. Da tre
giorni non metteva piede nella stanza da letto. I brevi sonni sul divano dello
studio non gli avevano dato nessun ristoro.
— Non sempre posso essere in vena per insegnarti, Vincent. Certe volte
sono troppo stanco, e allora bisogna proprio che tu abbia pazienza e aspetti
un momento più adatto.
— Scusami, cugino Mauve — disse Vincent, avviandosi verso la porta.
— Non volevo disturbarti. Posso venire domani sera?
Mauve, che aveva nuovamente scoperto il quadro, non udì nemmeno
che cosa dicesse.
Tornando la sera dopo, Vincent trovò nello studio del cugino anche
Weissenbruch. Mauve, in preda ad un isterico esaurimento, approfittò
dell’apparizione di Vincent per divertire se stesso e l’amico.
— Guarda, Weissenbruch, che razza di faccia ha!
E improvvisò una delle sue abili imitazioni, raggrinzendo il viso e
protendendo duramente il mento alla maniera del cugino. Una caricatura
perfetta. Mosse verso l’amico, lo sbirciò attraverso le palpebre socchiuse a
spiraglio.
— Ora ti faccio sentire come parla.
E buttò fuori un diluvio di parole nervose, smozzicate, con quella voce
aspra con cui s’esprimeva spesso Vincent. Weissenbruch guaiolava e si
torceva dal ridere.
— Magnifico, magnifico! Ecco come vi vedono gli altri, Van Gogh.
Sapevate di essere un così bell’animale? Mauve, sporgi di nuovo il mento e
grattati la barba. È veramente divertentissimo!
Vincent rimase come intontito. Si ritrasse in un angolo. Poi un fiotto di
parole gli sgorgò dalla gola, con una voce che non gli sembrava più la sua.
— Se aveste passato delle notti di pioggia per le vie di Londra o delle notti
all’aperto, d’inverno, nel Borinage, affamati, senza una casa, con la febbre
nelle ossa, avreste anche voi delle brutte rughe sulla faccia e la voce rauca!
Weissenbruch se ne andò poco dopo. Appena fu uscito, Mauve mosse
con passo malcerto verso una sedia, debolissimo per naturale reazione a
quel piccolo sfogo d’allegria. Vincent se ne stava zitto e fermo nel suo
angolo. Mauve s’accorse infine della sua presenza.
— Oh, sei ancora lì?
— Cugino Mauve — disse impetuosamente Vincent, raggrinzendo la
faccia proprio come aveva fatto poc’anzi Mauve — che cos’è successo tra
noi due? Dimmi almeno che cosa ho fatto. Perché mi tratti così?
Mauve s’alzò con sforzo e si passò la mano tra i capelli,
scompigliandoli.
— Non mi va la tua condotta, Vincent. Dovresti ormai guadagnarti la
vita e non andare in giro a disonorare il nome dei Van Gogh chiedendo
denaro a tutti.
Vincent rifletté un momento. — È stato qui Tersteeg?
— No.
— Allora non vuoi insegnarmi?
— No.
— Benissimo. Stringiamoci la mano e lasciamoci senza amarezza né
rancore. Nulla mi impedirà mai di provare per te una sincera gratitudine.
Mauve tacque lungamente.
— Non prendertela, Vincent — disse poi. — Sono stanco, non mi sento
bene. Ti aiuterò quanto posso. Hai portato qualcosa?
— Sì. Ma non è il momento…
— Fammi vedere.
Esaminò quei fogli con occhi arrossati; quindi commentò: — Il disegno
non va. Non va assolutamente. Mi stupisco di non essermene accorto prima.
— Eppure mi hai detto un giorno che nel campo del disegno sono un
autentico artista.
— Confondevo la crudezza con la forza. Se vuoi davvero imparare, devi
ricominciare daccapo. In quell’angolo là vicino alla cassa del carbone, ci
sono alcuni modelli di gesso. Puoi servirtene, se credi.
Vincent mosse in quella direzione, come un sonnambulo. Sedette
davanti ad un bianco piede di gesso. Per un bel po’ di tempo non gli riuscì
di formulare un pensiero né di fare un movimento. Cavò di tasca qualche
foglio di carta da disegno. Non si sentì di tracciare una riga. Guardandosi
intorno, vide Mauve ritto davanti al cavalletto.
— È venuto bene il quadro, cugino Mauve? Mauve si buttò sul divano,
chiudendo gli occhi arrossati.
— Tersteeg mi ha detto oggi che è il più bel quadro ch’io abbia fatto
finora.
— Dunque, è stato proprio Tersteeg! — osservò Vincent, dopo alcuni
istanti.
Mauve non sentì nemmeno: già russava sommessamente.
A poco a poco il dolore si placò. Egli si diede a disegnare quel piede di
gesso. Alcune ore dopo, quando suo cugino si svegliò, Vincent aveva già
eseguito sette studi. Mauve balzò su come un gatto, come se non si fosse
nemmeno addormentato, e si precipitò verso di lui.
— Fai vedere. Fai vedere. — Ma, passati in rassegna i sette fogli, si
mise a tempestare: — No! No! No!
Li lacerò rabbiosamente e ne scagliò i pezzi sul pavimento.
— Sempre la stessa durezza, lo stesso piglio dilettantesco! Possibile che
tu non sappia disegnare questo piede com’è? Non sei proprio capace di
riprodurre fedelmente una linea? Non imparerai mai a copiare con esattezza
almeno una volta in vita tua?
— Parli come un professore dell’accademia, cugino Mauve.
— Se tu avessi frequentato un po’ di più le accademie, adesso sapresti
disegnare. Rifai ancora quel piede. E vedi se ti riesce di fare veramente un
piede!
Uscì in giardino e andò in cucina a mangiare un boccone. Poi tornò a
lavorare al suo quadro, al lume della lampada. Le ore passavano. Vincent
disegnava piedi su piedi. E più ne disegnava, più detestava quell’infame
pezzo di gesso che aveva davanti agli occhi. Quando i primi chiarori
dell’alba cominciarono a penetrare dalla finestra esposta a nord, aveva
eseguito un mucchio di copie. Si alzò, con i crampi alle giunture, invaso da
un senso di disgusto. Anche stavolta, data un’occhiata ai fogli, Mauve li
strizzò rabbiosamente tra le mani.
— Tutto sbagliato! Tu contravvieni alle più elementari regole del
disegno. Su, vai a casa e portati via questo piede. Disegnalo di nuovo e poi
di nuovo e poi di nuovo. E non tornare finché non l’abbia fatto come si
deve!
— Il diavolo mi porti se faccio una cosa simile! — urlò Vincent. E
afferrato quel piede lo scagliò nella cassetta del carbone, mandandolo in
cento pezzi. — Non parlarmi mai più di gessi, perché non ne voglio più
sapere. Prenderò per modelli i gessi quando non vi saranno più da disegnare
mani e piedi di creature vive!
— Come ti pare — replicò gelidamente Mauve.
— Cugino Mauve, io non sono disposto a lasciarmi imporre un sistema
di fredde regole, né da te né da altri. Devo esprimere le cose secondo il mio
temperamento e la mia sensibilità. Devo renderle come le vedo io, non
come le vedete voialtri!
— Ormai non mi interesserò più di te — disse Mauve col tono di un
medico che si rivolga ad un cadavere.
Svegliandosi a mezzogiorno, Vincent vide nello studio Cristina col
figlio più grandicello, Herman: un ragazzino pallido di dieci anni, con un
paio d’occhi verdi, spaventati, e un mento piccolo piccolo. Cristina gli
aveva dato un pezzo di carta e una matita perché stesse buono. Herman non
sapeva ancora leggere né scrivere. S’avvicinò timidamente a Vincent: gli
estranei gli incutevano soggezione. Vincent gli insegnò a tenere la matita e
a disegnare una mucca. Il ragazzino si diverti un mondo, e strinsero
rapidamente amicizia. Cristina mise sulla tavola un po’ di pane e
formaggio, e si sedettero tutti e tre a mangiare. Vincent pensava a Kay e a
Jan, il suo grazioso bambino. La gola gli si chiuse.
— Oggi non mi sento troppo bene — disse Cristina. — Così t’ho
portato Herman: puoi far posare lui.
— Che cos’hai, Sien?
— Non so. Mi sento tutta contorcere dentro.
— Ti succedeva anche nelle altre gravidanze?
— Stavo male, ma non così. Stavolta è peggio.
— Devi andare da un medico.
— È inutile che vada a farmi visitare dal medico dell’ospedale. Non fa
altro che darmi qualche medicina. Le medicine non servono a niente.
— Bisognerebbe che andassi all’ospedale di Leyden.
— Già, lo credo anch’io…
— In treno ci s’impiega poco. Domani mattina ti ci conduco. Vengono
da tutte le parti dell’Olanda per farsi visitare a quell’ospedale.
— Sì, dicono che ci sono medici molto bravi.
Cristina stette a letto tutto il giorno. Vincent fece posare il ragazzino.
Verso sera lo riportò a casa, dalla madre di Cristina. Il mattino dopo, di
buon’ora, presero il treno per Leyden.
— Sfido che vi sentite male — disse il medico, dopo averla visitata
rivolgendole una quantità di domande. — Il bambino non è nella posizione
giusta.
— Non si può far niente, dottore? — domandò Vincent?
— Oh, sì. Possiamo operarla.
— Sarà una cosa seria?
— Nel suo caso, no. Si tratta semplicemente di rettificare la posizione
del bambino col forcipe. Ma ci vuole un po’ di denaro. Non per
l’operazione, ma per le spese d’ospedale. — E rivolgendosi alla donna: —
Avete qualche soldo da parte?
— Nemmeno un franco.
Il medico sospirò tristemente. — Sempre così…
— Quanto costerebbe, dottore? — chiese Vincent.
— Non più di cinquanta franchi.
— E se non la operano?
— Nessuna probabilità di salvarla.
Vincent rifletté un momento. I dodici acquerelli ordinatigli dallo zio Cor
erano quasi finiti; ne avrebbe ricavato trenta franchi. Gli altri venti poteva
prenderli dall’assegno d’aprile del fratello Theo.
— Al pagamento penso io, dottore.
— Bene. Riportatela qui sabato mattina, la opererò io stesso. Ancora
una cosa. Io non so quali siano i vostri rapporti, né m’importa saperlo. Son
cose che non riguardano il medico. Ma dovete sapere che se questa povera
donna ritorna a battere i marciapiedi, se ne andrà all’altro mondo entro sei
mesi.
— Non farà mai più quella vita, dottore. Vi dò la mia parola.
— A meraviglia. Allora ci rivedremo sabato mattina.
Qualche giorno dopo, ecco arrivare Tersteeg.
— Vedo che ti ostini ancora.
— Sì, sto lavorando.
— Ho ricevuto i dieci franchi che mi hai restituito per posta. Avresti
almeno potuto venire a ringraziarmi personalmente.
— Abito così lontano, Mijnheer, e il tempo era brutto.
— La strada non ti è sembrata troppo lunga quando avevi bisogno di
quei soldi, vero?
Vincent non rispose.
— È appunto questa mancanza di educazione, Vincent, che mi
indispone nei tuoi confronti. Ecco perché non ho fiducia in te e non posso
comprare i tuoi lavori.
Vincent si sedette sulla sponda del tavolo, preparandosi a sostenere un
altro scontro.
— Credevo che nei vostri acquisti prescindeste completamente da ogni
questione personale — disse. — Avrei pensato che teneste conto non già
della mia persona, ma della qualità del lavoro. Non è affatto onesto che vi
lasciate influenzare da un sentimento d’antipatia nei vostri giudizi.
— No, certamente. Se tu sapessi far qualcosa di smerciabile, di
attraente, io sarei felicissimo d’acquistarlo.
— Mijnheer Tersteeg, i lavori a cui ci si è dedicati con tremendo
impegno infondendovi sentimento e originalità non sono affatto invendibili
né privi d’attrazione. Per ora è forse meglio che i miei quadri non si
sforzino di piacere a tutti.
Tersteeg sedette senza sbottonarsi il soprabito né sfilarsi i guanti,
tenendo ambedue le mani sul pomo del bastone da passeggio.
— Sai, Vincent, a volte penso addirittura che tu preferisca non vendere
e che ti piaccia assai di più vivere a modo tuo.
— Sarei felicissimo di vendere un mio disegno, ma sono più felice
ancora quando un vero artista come Weissenbruch mi dice, a proposito d’un
disegno che voi definite invendibile: «Ecco una cosa schietta. Autentica
natura. Qualcosa da cui potrei imparare anch’io». Benché il denaro abbia
una grande importanza per me, specialmente in questo momento, ciò che
più mi preme è far qualcosa di serio.
— È un discorso che starebbe bene in bocca ad un riccone come De
Bock, ma non certamente a te.
— L’arte, mio caro Mijnheer, ha ben poco a che vedere col guadagno.
Tersteeg posò il bastone sulle ginocchia e s’appoggiò allo schienale
della sedia. — I tuoi genitori mi hanno scritto pregandomi di far per te tutto
ciò che posso. Molto bene. Se non posso in coscienza comprare i tuoi
disegni, posso almeno darti un piccolo consiglio pratico. Tu ti rovini,
andando in giro così mal vestito. Devi comprarti qualche abito nuovo e
cercare di far bella figura. Dimentichi di essere un Van Gogh. Eppoi,
dovresti industriarti di frequentare la migliore società dell’Aia, e non farti
continuamente vedere con miserabili e individui d’infima qualità. Si
direbbe proprio che tu abbia la tendenza al sordido e al brutto; t’han visto
nei posti più discutibili e nelle più discutibili compagnie. Come speri
d’arrivare al successo, comportandoti così?
Vincent si staccò dal tavolo e andò a piantarsi davanti al visitatore. Se
c’era una possibilità di ricuperarne l’amicizia bisognava tentarla
immediatamente. Cercò di dare alla propria voce un’inflessione gradevole e
persuasiva.
— Mijnheer, è molto generoso da parte vostra questo desiderio di
aiutarmi. Vi risponderò con la massima sincerità. Come posso vestir meglio,
se non ho nemmeno un franco per procurarmi altri abiti e mi manca ogni
possibilità di guadagno? Aggirarsi sui moli, per i vicoli e i mercati, nelle
sale d’aspetto e nelle bettole, non è certo un piacevole passatempo, fuorché
per un artista! Come tale, uno si può sentire indotto a frequentare più
volentieri i posti più sordidi, dove c’è qualcosa di interessante da ritrarre,
che non i ricevimenti dove s’incontrano signore affascinanti. La ricerca di
soggetti e di spunti, la vita tra la gente del popolo, il disegno dal vero e sul
posto costituiscono un duro lavoro, a volte perfino sporco. A me non
interessano le maniere e il modo di vestire d’un commerciante; né possono
interessare chi non si trovi nella necessità di conversare con belle signore e
ricchi signori per vender loro a caro prezzo i suoi quadri e far denaro. Io
sono chiamato a ritrarre tipi di spalatori del Geest, come effettivamente ho
fatto tutto il giorno. Là, la mia brutta faccia e i miei panni luridi si
armonizzano perfettamente con l’ambiente: sono me stesso e lavoro con
gioia. Se vesto bene, i miserabili e i lavoratori che voglio ritrarre provano
nei miei confronti un senso di diffidenza e di paura. Io tendo a rivelare alla
gente cose meritevoli d’osservazione e che nessuno conosce. Se sacrifico
talvolta le convenienze sociali agli interessi del mio lavoro, non sono quindi
giustificato? Mi degrado forse vivendo in mezzo ai tipi che disegno? Mi
degrado entrando nelle abitazioni dei lavoratori e della povera gente, o
accogliendoli nel mio studio? È il mio mestiere che lo richiede. E voi dite
per questo che mi rovino?
— Tu sei tremendamente cocciuto, Vincent, e non dai retta ad uomini
più esperti che potrebbero aiutarti. Non hai fatto che accumulare fallimenti,
e fallirai anche questa volta. Sempre la stessa storia.
— Io ho polso d’artista, Mijnheer Tersteeg, e per quanti consigli mi
diate non cesserò di disegnare! Ditemi: dal giorno in cui mi sono messo per
questa strada, ho mai dubitato, esitato, vacillato? Dovrete saper benissimo
che sono andato avanti e che a poco a poco vado diventando sempre più
forte nella lotta.
— Sarà. Ma lotti per una causa perduta.
S’alzò, s’abbottonò un guanto sul polso e si mise in testa il cilindro.
— Mauve ed io faremo in modo che Theo non ti mandi più nulla. È
l’unico sistema per ridurti alla ragione.
Vincent provò un violento tuffo al cuore. Se lo colpivano attraverso
Theo, era perduto.
— Perdio! Perché mi volete fare una cosa simile? Che cosa vi ho fatto
io, perché mi roviniate? È una cosa onesta ammazzare un uomo per una
divergenza d’idee? Non potete lasciarmi andare per la mia strada? Vi
garantisco che non v’importunerò più. Mio fratello è l’unico essere che mi
rimanga al mondo. Come potete portarmelo via?
— È per il tuo bene, Vincent — rispose Tersteeg; e uscì.
Vincent afferrò il portafogli e corse in città a comprare un piede di
gesso. Venne Jet ad aprirgli, stupita di vederlo.
— Anton non è in casa. Ce l’ha terribilmente con te. Ha detto che non ti
vuole più vedere. Ah, Vincent, mi dispiace tanto una cosa simile!
Vincent le porse il piede di gesso. — Fammi il favore di dar questo ad
Anton e pregalo di scusarmi.
Si volse e stava per scendere i gradini dell’ingresso quando Jet, mossa
da un impulso di simpatia, gli posò una mano sulla spalla.
— Il quadro di Scheveningen è finito. Vuoi venire a vederlo?
Egli ristette in silenzio davanti alla grande tela di Mauve, dove si
vedeva un battello da pesca tirato a riva da cavalli. Sapeva di trovarsi
dinanzi ad un capolavoro. I cavalli erano delle povere bestie vecchie e
sfiancate, maltrattate, dal mantello nero, bianco o baio; stavano lì, pazienti e
sommessi, volonterosi, rassegnati e quieti. Ancora dovevano trascinare la
pesante imbarcazione su per l’ultimo tratto di spiaggia; il lavoro era quasi
finito. Ansavano, erano coperti di sudore, ma non si lamentavano. Da anni e
anni facevano quella vita. Ed erano rassegnati a continuare ancora a vivere
e a lavorare; ma se domani avessero dovuto esser condotti all’ammazzatoio
e scuoiati, ebbene, così sia, erano pronti.
Vincent scoprì in quel quadro una profonda filosofia pratica. E pensò:
«Savoir souffrir sans se plaindre, ça c’est la seule chose pratique, c’est la
grande science, la leçon à apprendre, la solution du problème de la vie».
Partì da quella casa moralmente più forte, sorridendo ironicamente al
pensiero che l’uomo da cui aveva ricevuto il colpo peggiore gli aveva
insegnato nello stesso tempo a sopportarlo con rassegnazione.
8.
9.
«Vincent,
«ho saputo or ora della tua condotta obbrobriosa. Ti «prego di
considerare annullata l’ordinazione dei sei disegni. Non mi interesserò più
della tua produzione.
Cornelius Marinus Van Gogh».
10.
Il nuovo studio aveva veramente l’aria d’uno studio, con la sua semplice
tappezzeria grigio scuro, il palchetto ben pulito, studi e quadri alle pareti, un
cavalletto ad ognuna delle due estremità e un grande tavolo bianco da
lavoro in abete. La madre di Cristina mise alle finestre delle tende di
mussola bianca. Attiguo allo studio v’era uno stanzino, dove Vincent
sistemò le tavolette da disegno, le cartelle, le incisioni in legno; in un
angolo c’era un armadio a muro, adatto a tenervi bottiglie, barattoli e libri.
Nella stanza di soggiorno, un tavolo, alcune sedie da cucina, un fornello a
petrolio e, accanto alla finestra, una poltroncina di vimini per Cristina.
Vicino alla poltroncina Vincent collocò una piccola culla di ferro con la
coperta verde e, sopra, l’incisione di Rembrandt in cui si vedono due donne
presso una culla, una delle quali legge la Bibbia al chiarore d’una candela.
Fornì la cucina di tutti gli oggetti necessari, sicché quando Cristina
fosse tornata, avrebbe potuto preparare il pranzo in dieci minuti. Comprò un
coltello, un cucchiaio, una forchetta e un piatto in più, per il giorno in cui
Theo venisse a trovarli. Su in soffitta mise un letto matrimoniale per sé e la
moglie e quello vecchio, completo di tutto l’occorrente, per Herman. Lui e
la madre di Cristina portarono su i sacconi di tela da materasso con la paglia
e le alghe secche per riempirli.
Quando Cristina lasciò l’ospedale, il medico curante, l’infermiera del
reparto e la capo-infermiera vennero a salutarla. Vincent comprese meglio
che mai come Cristina fosse una creatura per cui le persone più rispettabili
potevano provare affetto e simpatia. «Non ha mai conosciuto il bene —
pensò: — come potrebbe dunque esser buona?».
La madre di Cristina e il piccolo Herman vennero ad accoglierla nella
nuova casa. Fu un momento delizioso, perché Vincent non aveva detto nulla
del nido preparato per lei. Sien prese a correre di qua e di là, toccando tutto:
la culla, la poltroncina, il vaso di fiori ch’egli aveva collocato sul davanzale
esterno della finestra. Pazza di gioia.
— Che tipo buffo, il professore! «Ma come!», mi diceva. «Possibile che
vi piacciano davvero il gin e il bitter? che fumiate sigari?». E io: «Ma
certo». E lui: «Ve l’ho soltanto domandato per dirvi che non è necessario
che smettiate completamente. Ma non dovete più far uso d’aceto, né di
pepe, né di senape. E mangiate carne almeno una volta alla settimana».
La stanza da letto sembrava proprio la stiva d’una nave, rivestita
com’era di pannelli di legno. Ogni sera Vincent doveva portar su la culla,
ogni mattina riportarla giù nella stanza di soggiorno. In più doveva fare tutti
i lavori di casa per cui Cristina era ancora troppo debole: rassettare i letti,
accendere il fuoco, sollevare e spostare gli oggetti più pesanti, badare alla
pulizia. Aveva la sensazione di vivere con Cristina e i bambini da lungo
tempo; gli sembrava davvero di trovarsi nel proprio elemento. Pur
risentendo ancora le conseguenze dell’operazione, ella era come invasa da
un impeto di vita nuova: le pareva di rinascere.
Vincent si rimise al lavoro con in cuore un senso di pace finora ignoto.
Bello avere un proprio focolare, sentire intorno a sé l’animazione e
l’organizzazione d’una famiglia. La presenza di Cristina gli dava coraggio
ed energia per continuare la propria fatica. Purché Theo non lo
abbandonasse, era sicuro di poter diventare un artista di valore.
Nel Borinage aveva perdutamente lavorato per Dio: qui aveva una
nuova e più tangibile forma di divinità, una religione che si poteva
esprimere in poche parole: la figura d’un lavoratore, i solchi d’un campo,
un lembo di duna sabbiosa, di mare e di cielo rappresentavano soggetti
seriamente difficili, ma al tempo stesso così belli che valeva veramente la
pena di dedicare tutta la vita al compito di esprimerne la recondita poesia.
Un pomeriggio, tornando dalle dune, s’imbatté in Tersteeg davanti a
casa sua.
— Sono lieto di vederti, Vincent. Ho pensato di venire a vedere che
cosa combini di bello.
Vincent ebbe un moto di sgomento, prevedendo la tempesta che sarebbe
scoppiata non appena Tersteeg mettesse piede nell’appartamento. Si
trattenne per alcuni minuti a chiacchierare con lui in istrada, per farsi
animo. Tersteeg si mostrava simpatico e cordiale. Vincent rabbrividì.
Quando entrarono, Cristina, seduta sulla poltroncina, stava allattando il
bambino. Herman si trastullava vicino alla stufa. Tersteeg li guardò con
occhi dilatati dalla meraviglia: non finiva di guardarli.
— Come mai, quella donna e quel bambino? — domandò infine, in
inglese.
— Cristina è mia moglie. Il bambino è nostro.
— L’hai proprio sposata!
— Propriamente sposata, no: non siamo ancora stati uniti in
matrimonio, se è questo a cui intendete riferirvi.
— Ma come puoi convivere con una donna… e con dei bambini che…
— Quasi tutti si sposano, no?
— Ma tu non hai un soldo! Ti farai mantenere da tuo fratello.
— Niente affatto. Theo mi corrisponde uno stipendio. Tutta la mia
produzione appartiene a lui. Un giorno si rifarà del denaro che mi fornisce.
— Sei impazzito, Vincent? Questa è una condotta da persona a cui ha
dato di volta il cervello.
— La condotta umana, Mijnheer, rassomiglia molto al disegno. Tutta la
prospettiva cambia a seconda della posizione da cui si guarda e il fatto
dipende non già dall’oggetto, che non muta, ma da chi lo guarda.
— Scriverò a tuo padre, Vincent. E gli dirò tutto.
— Non trovate che sarebbe ridicolo se ricevessero da voi una lettera
piena d’indignazione e, subito dopo, una lettera in cui io li invitassi a
venirci a trovare qui a mie spese?
— Hai intenzione di scrivere, tu!
— E me lo domandate? Certo che scriverò. Ma dovete ammettere che
non è questo il momento indicato. Papà deve trasferirsi in questi giorni a
Nuenen, dove è stato nominato vicario. Mia moglie, poi, si trova in
condizioni che ogni emozione troppo forte potrebbe condurla alla tomba.
— Allora, naturalmente, non scriverò. Ragazzo mio, tu sei pazzo come
uno che voglia annegarsi. Io voglio soltanto salvarti da una brutta fine.
— Non dubito delle vostre buone intenzioni, Mijnheer Tersteeg, ed è
ben questo il motivo per cui cerco di sopportare senza arrabbiarmi quanto
mi dite. Ma questa conversazione mi riesce veramente sgradevole.
Tersteeg se ne andò con aria mogia e delusa. Fu Weissenbach ad
assestargli il colpo più duro. Se ne arrivò un pomeriggio con fare
indifferente, per vedere se Vincent fosse ancora vivo.
— Buon giorno. Vedo che ve la siete cavata benissimo anche senza quei
venticinque franchi.
— Infatti.
— Non siete contento, ora, che io vi abbia mandato via a becco
asciutto?
— Quella sera che c’incontrammo da Mauve, la prima cosa che vi dissi,
se non erro, fu: «Andate all’inferno!». Vi ripeto ora lo stesso invito.
— Continuando di questo passo, diventerete un altro Weissenbruch:
avete la stoffa d’un vero uomo. Ma perché non mi presentate alla vostra
amante? Non ho mai avuto quest’onore.
— Prendetevela con me fin che volete, Weissenbruch; ma lei, lasciatela
in pace.
Cristina stava dondolando la culla di ferro dalla copertina verde. Capiva
che quello sconosciuto stava facendosi beffe di lei, e alzò gli occhi verso
Vincent con un’espressione dolorosa sul volto. Vincent s’accostò
risolutamente a lei e al bambino, piantandosi accanto a loro in
atteggiamento di protezione. Weissenbruch sbirciò quel gruppetto, poi
l’incisione di Rembrandt appesa sopra la culla.
— Ma guarda che scena commovente! Mi piacerebbe dipingerla. La
chiamerei La Sacra Famiglia!
Vincent gli s’avventò contro lanciando un’imprecazione, ma
Weissenbruch se l’era già svignata. Si riaccostò alla donna e al bambino.
Sulla parete, accanto all’incisione di Rembrandt, era appeso un pezzo di
specchio. Vincent vi vide riflesse le loro tre figure: in un orribile,
sconvolgente attimo di lucidità mentale vide con gli occhi di Weissenbruch.
Il bastardo, la puttana e l’uomo della carità.
— Come ci ha chiamati? — domandò Cristina.
— La Sacra Famiglia.
— Come sarebbe a dire?
— Un quadro di Maria, Gesù e Giuseppe.
Gli occhi della donna si riempirono di lacrime; ella nascose la faccia tra
i panni del bambino. Vincent si inginocchiò accanto alla culla per
confortarla. Il crepuscolo penetrando dalla finestra, inondava la stanza di
un’ombra silenziosa e tranquilla. Ancora una volta Vincent riuscì a staccarsi
mentalmente dal gruppo e a vederlo come se egli non ne facesse parte. Ma
lo vedeva ora con gli occhi del cuore.
— Non piangere, Sien. Non piangere, cara. Rialza la testa e asciugati le
lacrime. Weissenbruch aveva ragione!
11.
12.
Ripartito Theo, Vincent iniziò i tentativi di pittura a olio. Fece tre studi:
una fila di salici dietro il ponte di Geest, un sentiero riarso, gli orti di
Meerdervoort con un uomo in camiciotto turchino che raccoglieva patate. Il
terreno era d’un bianco sabbioso, in parte smosso, ancora solcato di file di
piante risecchite tra cui spiccavano erbacce verdi. In lontananza, alberi d’un
verde scuro e alcuni tetti di case. Osservando questo quadro nel suo studio,
provò un senso di ottimismo e di soddisfazione; nessuno avrebbe detto che
fosse l’opera d’un principiante nella pittura a olio. Il disegno — spina
dorsale della pittura, ossatura che reggeva tutto il resto — era solido,
preciso, aderente alla realtà. Rimase alquanto stupito, perché aveva
immaginato che i primi tentativi potessero riuscire disastrosi.
Ora dipingeva un pendio nei boschi, coperto di foglie di faggio secche e
accartocciate. Il terreno era chiazzato di luci e di ombre scure, tendenti al
rossiccio, rese ancora più scure dalle ombre d’alberi che le attraversavano e
in certi punti quasi le annullavano con la loro tonalità più accentuata. Si
trattava di rendere la profondità e l’intensità del colore, l’enorme forza e
solidità del terreno. Dipingendo, notò per la prima volta quanta luce restasse
tuttora in quell’oscurità densa. Bisognava conservare quella luce, e
bisognava nello stesso tempo mantenere la robustezza e la ricchezza del
colore.
Il terreno era come un tappeto cupamente rosseggiante nei bagliori d’un
tramonto d’autunno, attenuati dagli alberi. Giovani betulle s’ergevano
svettando, con un lato in piena luce, d’un verde scintillante, mentre il lato in
ombra era d’un intenso e caldo colore verde nero. Dietro gli arboscelli,
dietro il rosseggiante pendio, un delicatissimo cielo grigiazzurro, quasi
azzurro, tutto ardente e luminoso, su cui spiccava il profilo di una vaporosa
barriera di verzura con un intrico di rametti e una sfrangiatura di foglie
giallicce. Alcune figure di raccoglitori di legna s’aggiravano per il bosco
come ombre misteriose. Il berretto bianco d’una donna china a raccogliere
un ramo secco spiccava bruscamente sullo sfondo del terreno. Una figura
d’uomo si profilava al disopra dei cespugli, risaltando contro il cielo chiaro
con un ampio e robusto respiro di poesia.
Seguitando a dipingere questo paesaggio, Vincent si disse: «Non devo
andar via di qua prima d’aver colto almeno in parte la sensazione di una
sera d’autunno, qualcosa di misterioso e di grave». Ma la luce s’attenuava
sempre più. Bisognava lavorare in fretta. Realizzò rapidamente le figure,
con pochi tocchi di pennello vigorosi e decisi. Fu colpito dalla solidità con
cui i piccoli tronchi d’albero apparivano radicati nel terreno. Volle introdurli
immediatamente nel quadro, ma il colore del terreno era già così vischioso
che le pennellate vi si perdevano. Tentò e ritentò più volte, disperatamente,
perché cominciava a far buio. Infine dovette darsi per vinto: il pennello non
riusciva a far presa su quel fondo denso. Ispirato da una cieca intuizione
buttò via il pennello, abbozzò le radici e i tronchi spremendo direttamente il
colore dai tubetti, prese un altro pennello e modellò le figure degli alberi col
manico.
«Ecco — concluse, mentre l’oscurità della sera si stendeva finalmente
sui boschi. — Ora eccoli lì che si ergono dal terreno, fortemente radicati nel
suolo. Ho espresso ciò che volevo esprimere!».
In serata passò da lui Weissenbruch. — Venite con me ai Pulchri.
Quadri viventi e sciarade, stasera.
Vincent non aveva dimenticato il loro ultimo incontro. — No, grazie.
Non voglio lasciar sola mia moglie.
Weissenbruch s’avvicinò a Cristina, le baciò la mano, s’informò della
sua salute e giocherellò allegramente col bambino. Evidentemente non
rammentava più la frase pronunciata recentemente sul loro conto.
— Fatemi un po’ vedere qualcuno dei vostri lavori più recenti, Van
Gogh.
Vincent accolse con gioia quell’invito. Weissenbruch mise da parte uno
studio del mercato, ritratto nel momento in cui venivano disfatti i banchi; un
altro in cui si vedeva una fila di miserabili che aspettavano il loro turno
davanti a una cucina popolare; un altro dov’erano raffigurati tre vecchi del
manicomio; una scena di Scheveningen dov’era rappresentato un battello da
pesca mentre si tirava su l’ancora; e infine uno schizzo che Vincent aveva
eseguito in ginocchio nel fango delle dune durante un furioso temporale.
— Siete disposto a venderli? Vorrei comprarli.
— È anche questo uno dei vostri scherzi di cattivo genere,
Weissenbruch?
— In fatto di pittura non scherzo mai. Questi studi sono superbi. Quanto
volete?
— Fissate voi il prezzo — rispose Vincent, stordito dalla sorpresa e
ancora posseduto dalla paura che tutto si risolvesse in una presa in giro.
— Benissimo. Facciamo cinque franchi l’uno? Venticinque in tutto.
Vincent spalancò tanto d’occhi. — Ma è troppo! Mio zio Cor me li
pagava soltanto due franchi e mezzo.
— Vi imbrogliava, ragazzo mio. I mercanti imbrogliano sempre. Un
giorno si venderanno a cinquemila franchi. Dunque, siamo d’accordo?
— Weissenbruch, certe volte siete un angelo e certe volte un demonio!
— È per variare: così i miei amici non si stufano di me.
Tirò fuori il portafogli e gli porse venticinque franchi.
— E adesso venite con me. Avete bisogno di distrarvi un poco. Ci sarà
una farsa con Tony Offermans. Vi farà bene ridere un poco.
Vincent l’accompagnò. Il salone del circolo era affollato di tipi che
fumavano tutti quanti tabacco forte e a buon mercato. Il primo quadro
vivente fu una riproduzione della Capanna di Betlemme di Nicholas Maes:
ottima in quanto a tono e colore, ma decisamente priva d’espressione.
L’altra fu una riproduzione dell’Isacco che benedice Giacobbe di
Rembrandt, con una splendida Rebecca che cercava d’accertarsi se faceva
colpo sugli spettatori. A furia di respirare in quell’ambiente chiuso, Vincent
fu preso dall’emicrania. Uscì prima della farsa e rincasò, componendo
mentalmente per istrada una lettera.
Scrisse a suo padre, narrandogli della storia di Cristina quel tanto che gli
sembrava conveniente; accluse i venticinque franchi avuti da Weissenbruch
e lo invitò a venire a trovarlo.
Il babbo arrivò una settimana dopo. L’azzurro dei suoi occhi s’era fatto
smorto, il passo più lento. L’ultima volta che s’erano trattenuti insieme,
Theodorus aveva cacciato di casa questo suo figlio peggiore. Poi si erano
scambiati lettere affettuose. Theodorus e Cornelia gli mandavano ogni tanto
qualche pacco: biancheria personale, abiti, sigari, paste fatte in casa e
talvolta un biglietto da dieci franchi. Vincent non sapeva immaginare come
suo padre avrebbe reagito alla faccenda di Cristina. Gli uomini sono talora
comprensivi e generosi, talora ciechi e cattivi.
Era persuaso che suo padre non avrebbe saputo mantenersi indifferente
o sollevare protesta, vicino ad una culla. Una culla è una cosa diversa da
tutte le altre; una culla è una cosa sacra. Il babbo avrebbe dovuto per forza
passar sopra a tutto ciò che poteva esserci stato nel passato di Cristina.
Theodorus arrivò con un voluminoso pacco sotto il braccio. Vincent
l’apri, ne tirò fuori un soprabito di lana destinato a Cristina e le sue
inquietudini svanirono immediatamente: tutto andava a meraviglia. Quando
ella si ritirò per andare a letto, Theodorus e il figlio passarono nello studio.
— Vincent, c’è una cosa di cui non hai fatto cenno nella lettera. Il
bambino è tuo?
— No. Cristina era incinta, quando l’ho conosciuta.
— E dov’è il padre del piccino?
— L’ha abbandonata. — Non ritenne necessario dirgli che il bambino
era di padre ignoto.
— Ma tu la sposerai, Vincent, nevvero? Non è lecito convivere in
questo modo.
— S’intende. Ci faremo unire in matrimonio appena possibile. Theo e io
abbiamo convenuto che è meglio aspettare fino a quando io guadagni col
mio lavoro di pittore un centocinquanta franchi al mese.
Theodorus sospirò: — Sì, forse è meglio… Vincent, tua madre vorrebbe
tanto che tu venissi un giorno o l’altro a trovarci. E anch’io. Nuenen ti
piacerà, figliuolo; è uno dei più simpatici paesetti di tutto il Brabante, con
una chiesa piccina e sembra un igloo d’eschimesi. Ci stanno meno di cento
persone, figurati! Intorno al vicariato c’è una siepe di biancospini, Vincent,
e dietro la chiesa un cimitero pieno di fiori con piccole tombe sabbiose e
vecchie croci di legno.
— Croci di legno! Bianche?
— Sì. I nomi erano scritti in nero, ma la pioggia li va cancellando.
— La chiesa ha un bel campanile alto, papà?
— Un campanile esile e delicato, Vincent, ma tanto tanto alto. A volte
mi sembra che debba arrivare fin quasi a Dio.
— E proietta la sua ombra sottile sul cimitero… — fece Vincent,
assorto, con occhi scintillanti. — Come vorrei dipingere quel paesaggio!
— Nelle vicinanze abbiamo un tratto di landa e dei boschi di pini; si
vedono i contadini che vangano nei campi. Devi venire presto, figlio mio.
— Sì, bisogna proprio che vada a vedere Nuenen. Le piccole croci, il
campanile, i contadini nei campi. Credo che ci sarà sempre in me qualcosa
del Brabante.
Theodorus tornò a casa a rassicurare la moglie: la situazione del loro
ragazzo non era così brutta come l’avevano immaginata. Vincent si rituffò
nel lavoro con rinnovato vigore. Sempre più spesso si sorprendeva a
ripetersi una frase di Millet: «L’art ç’est un combat; dans l’art il faut y
mettre sa peau». Theo credeva in lui, i suoi genitori non si opponevano al
suo legame con Cristina, nessuno all’Aia gli dava più noia. Ora poteva
liberamente lavorare e andare avanti.
Il padrone di casa gli mandava come modelli tutti i manovali che
venivano a chiedergli lavoro nella sua azienda di legnami e a cui non poteva
darne. Il taccuino da disegno si esauriva, le cartelle si riempivano. Ritrasse
più volte il bambino nella culla accanto alla stufa. Quando presero a cadere
le piogge autunnali, andava a dipingere fuor di casa, cogliendo tutti gli
effetti che voleva. Imparò rapidamente che un buon colorista è colui che,
vedendo un colore in natura, sa immediatamente analizzarlo e dire: «Quel
verde-grigio è formato di giallo e di nero, con una sfumatura d’azzurro».
Tanto nel disegnare una figura quanto un paesaggio, non aspirava ad
esprimere una malinconia sentimentale, bensì un serio dolore. Voleva
arrivare a un punto tale che s’avesse a dire di lui: «Sente profondamente,
sente teneramente».
Si rendeva conto d’essere, agli occhi del mondo, un buono a nulla, un
tipo eccentrico e sgradevole, un uomo senza posizione sociale. Ebbene, la
sua opera avrebbe mostrato che cosa c’era nel cuore di questo tipo
stravagante, di questa nullità. Nelle più miserabili catapecchie, negli angoli
più sozzi egli scopriva soggetti di disegni e di quadri. Più dipingeva e più le
altre attività perdevano interesse per lui. Più se ne sbarazzava e più i suoi
occhi coglievano prontamente gli aspetti pittorici della realtà. L’arte voleva
un’applicazione tenace, un ostinato lavoro e un instancabile spirito
d’osservazione.
L’unico guaio consisteva nell’alto costo dei colori ad olio, di cui egli
non faceva risparmio. Quando spremeva i tubetti sulla tela creando ricche
masse di colore, era come gettar franchi nello Zuider Zee. Dipingeva con
tale rapidità un quadro dopo l’altro, da spendere in tela cifre considerevoli:
faceva in un giorno solo un lavoro che a Mauve avrebbe portato via due
mesi. Che farci? Non sapeva dosare avaramente il colore, né poteva
lavorare con lentezza. Il denaro svaporava e lo studio si riempiva di quadri.
Appena ricevuto l’assegno di Theo (col quale aveva combinato di ripartire
la somma in tre invii mensili di cinquanta franchi l’uno, il primo, il dieci, il
venti d’ogni mese) correva a comprar grossi tubetti di ocra, cobalto e blu di
Prussia, e tubetti più piccoli di giallo di Napoli, terra di Siena, oltremare e
gommagutta. Poi lavorava gioiosamente fino al completo esaurimento dei
colori e dei franchi, vale a dire per cinque o sei giorni. Dopo,
ricominciavano i guai.
Non sapeva capacitarsi che si dovessero comprare tante cose per il
bambino; che Cristina avesse continuamente bisogno di medicine, di oggetti
di vestiario, di vitto speciale; che si dovesse spendere tanto in libri e
quaderni per mandare Herman a scuola; che la casa fosse un tal pozzo senza
fondo dove non si finiva mai di gettare lampade, stoviglie, coperte, legna e
carbone, tende, stuoie, candele, lenzuola, posate, mobili e un flusso
interminabile di roba da mangiare. Ardua impresa, ripartire i cinquanta
franchi tra la pittura e le tre persone a cui doveva provvedere!
— Sembri un manovale che appena riscossa la paga si precipita
all’osteria — osservò Cristina un giorno in cui Vincent, ghermiti i cinquanta
franchi nella busta, si dava a raccogliere i tubetti vuoti.
Si allestì un nuovo strumento per la prospettiva, munito di due lunghe
gambe da piantarsi nella sabbia delle dune, facendone rinforzare in ferro gli
angoli dal fabbro. Scheveningen, col mare, le dune sabbiose, i pescatori, le
barche, i cavalli e le reti, lo attraeva irresistibilmente. Ogni giorno lo si
vedeva sgambare per le dune, col suo pesante cavalletto e il suo strumento
in spalla, per andare a cogliere i mutevoli aspetti del mare e del cielo. Al
cominciar dell’inverno, quando gli altri pittori cominciavano a starsene al
calduccio nei loro studi, egli s’avventurava a dipingere all’aperto, sotto il
vento, la pioggia, la nebbia e la tempesta. Spesso, in mezzo all’infuriare del
vento, la tela, con i colori ancora freschi, gli si copriva di sabbia e di spruzzi
marini. Inzuppato dalla pioggia, raggelato dalla nebbia e dal vento, con gli
occhi e il naso pieni di sabbia, si sentiva indicibilmente felice. All’infuori
della morte, nulla avrebbe ormai potuto fermarlo.
Una sera mostrò a Cristina un nuovo quadro.
— Ma, Vincent, come riesci a far apparire tutto così vero?
Vincent si dimenticò d’aver a che fare con una ignorante donna del
popolo e le parlò come avrebbe fatto con Weissenbruch o Mauve.
— Non lo so nemmeno io. Mi siedo con una tavola bianca davanti al
lembo di paesaggio che mi ha colpito e mi dico: «Questa tavola bianca deve
diventare qualcosa!». Lavoro a lungo, torno a casa scontento e la metto
nell’armadio. Dopo essermi un po’ riposato, vado a guardarla con un senso
di paura. La scontentezza perdura, perché ho troppo chiaramente nella
memoria l’originale per ritenermi soddisfatto del modo con cui l’ho reso.
Ma dopo tutto ci trovo come un’eco di ciò che mi ha colpito. Vedo che la
natura mi ha detto qualcosa, che mi ha parlato, e che io ho trascritto in una
specie di stenografia ciò che mi diceva. Nella mia trascrizione ci sono forse
parole impossibili a decifrare, ci sono forse errori o lacune; ma c’è pur
sempre qualcosa di ciò che i boschi, la spiaggia o una figura umana hanno
saputo dirmi. Mi comprendi?
— No.
13.
14.
NUENEN
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Prima che Anna Cornelia si rompesse la gamba, gli abitanti del paese lo
trattavano freddamente perché diffidavano di lui e non potevano
comprendere il suo sistema di vita. Ma non l’avevano mai propriamente
detestato. Ora gli si volsero tutti contro, tanto che si sentiva sempre e
dovunque avvolto dal loro odio. Al suo avvicinarsi, voltavano la schiena.
Nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno mostrava di vederlo. Divenne un
paria.
Per sé, non gliene sarebbe importato un bel nulla (i tessitori e i contadini
continuavano ad accoglierlo nelle loro catapecchie come un amico); ma
quando la gente cessò di venire a trovare i suoi genitori nella casa
parrocchiale, si rese conto che avrebbe dovuto andarsene.
Sapeva che la cosa migliore che potesse fare era di staccarsi dal
Brabante e lasciare in pace i suoi genitori. Ma dove andare? Il Brabante era
la sua casa, la sua terra. Avrebbe voluto vivere sempre qui, disegnando
contadini e tessitori: era questa, per lui, l’unica giustificazione del proprio
lavoro. Com’era bello d’inverno trovarsi in mezzo a tutta quella neve,
d’autunno in mezzo a tutte quelle foglie ingiallite, d’estate passare tra i
campi di messi biondeggianti, di primavera per i prati folti d’erba! Com’era
bello stare con i contadini e le ragazze dei campi, d’estate con un grande
cielo azzurro sul capo, d’inverno accanto al fuoco, e sentire ch’era sempre
stato così e che così sarebbe sempre stato!
Per lui l’Angelus di Millet rappresentava quanto di più divino avesse
mai saputo creare un artista. Nella rozzezza della vita agreste ravvisava
l’unica vera ed eterna realtà. Sentiva il bisogno di andare a dipingere
all’aperto, sul posto. Là, è vero, doveva difendersi da nugoli di mosche,
subire la noia della polvere e della sabbia, e gli accadeva talvolta di fare
graffi alle tele portandole per ore attraverso campi e boscaglie. Ma tornando
a casa sapeva di essere stato a faccia a faccia con la realtà e di aver colto
qualcosa della sua elementare semplicità. Se i suoi quadri di contadini
sapevano odore di lardo, di fumo e di patate, nulla di male: era un odore
sano. Se una stalla puzzava di letame, nulla di più naturale: era una cosa che
s’addiceva perfettamente a una stalla. Se i campi diffondevano un odore di
grano maturo o di guano o di concime animale, anche questo era tanta
salute: specialmente per la gente di città.
Risolse il problema in un modo molto semplice. A poca distanza da casa
sua, lungo la strada principale, sorgeva la chiesa cattolica; accanto, la casa
del sagrestano Johannes Schafrath, che nelle ore libere faceva anche il sarto.
La moglie, Adriana, era una gran brava donna e ben volentieri affittò due
stanze a Vincent, lieta di poter far qualcosa per questo giovanotto osteggiato
da tutto il paese.
La casa era divisa per metà da un lungo atrio. A destra, entrando, le
camere dove viveva abitualmente la famiglia; a sinistra un ampio salotto
con le finestre che davano in istrada e, dietro, una stanza più piccola. Il
salotto diventò lo studio di Vincent, lo stanzino il suo ripostiglio. Dormiva
su in soffitta, metà della quale era utilizzata dagli Schafrath per stendervi la
biancheria, mentre nell’altra metà c’era un letto alto con un veeren bed ed
una sedia. La sera Vincent gettava i suoi panni sulla sedia, si metteva a
letto, fumava una pipata osservando la penombra che si trasformava in
oscurità e s’addormentava.
Nello studio attaccò alle pareti i suoi studi ad acquerello e i disegni a
carboncino: teste d’uomini e di donne che avevan qualcosa di negroide, nasi
all’insù, mascelle sporgenti e grosse orecchie. Tessitori e telai, donne con le
spole, contadini che seminavano patate. Strinse più cordiali rapporti con suo
fratello Cor: costruirono insieme un armadio e raccolsero almeno trenta
qualità diverse di nidi d’uccelli, ogni specie di muschio e piante della landa,
spole da telaio, aspi, scaldaletti, arnesi agricoli, vecchi berretti e cappelli,
zoccoli di legno, piatti e tanti altri oggetti attinenti alla vita dei campi.
Portarono perfino un piccolo albero e lo collocarono in un angolo.
Vincent si rimise al lavoro. Trovò che il bistro e il bitume, da cui la
maggior parte dei pittori s’andava distaccando, conferivano ai suoi colori un
che di morbido e di pastoso. Scoprì che doveva metter poco giallo, accanto
ad un violetto o ad un lilla, per farlo apparire molto giallo.
E imparò pure che l’isolamento è una specie di prigione.
Nel mese di marzo il babbo, di ritorno da una località molto lontana
della landa dove s’era recato per assistere un parrocchiano infermo,
stramazzò sulla gradinata di casa. Quando Anna Cornelia si precipitò in suo
soccorso, era già morto. Lo seppellirono nel giardino presso la vecchia
chiesa. Theo venne da Parigi per i funerali. La sera si trattennero nello
studio di Vincent, parlando dapprima d’affari di famiglia, poi del loro
lavoro.
— Mi sono stati offerti mille franchi al mese perché venga via dalla
ditta Goupil e passi ad un’altra, sorta di recente — disse Theo.
— Accetterai?
— Credo di no. Ho il sospetto che i padroni della nuova azienda
intendano ispirarsi a criteri puramente commerciali.
— Ma mi scrivevi che anche la ditta Goupil…
— Lo so, anche i «Messieurs» cercano i grossi guadagni. Ma io sono lì
da dodici anni. Perché dovrei cambiare per qualche franco di più? Non è da
escludere che un giorno o l’altro mi affidino un compito direttivo. In questo
caso, comincerò a vendere i quadri degli Impressionisti.
— Impressionisti? Non mi sembra d’aver mai letto questo nome. Chi
sono?
— Oh, semplicemente i nuovi pittori parigini: Edouard Manet, Degas,
Renoir, Claude Monet, Sisley, Courbet, Lautrec, Gauguin, Cézanne, Seurat.
— E dove hanno pescato quel nome?
— Fu alla mostra del 1874, da Nadar. Claude Monet aveva esposto un
quadro da lui intitolato «Impression: soleil levant». Il critico d’arte d’un
giornale, certo Louis Leroy, scrisse che quella era una mostra di
Impressionnistes: e il nome è rimasto.
— Lavorano a colori scuri o chiari?
— Oh, chiari! Detestano i colori scuri.
— Allora, credo che non potrei intendermela con loro. Ho intenzione di
cambiar le mie tonalità, ma nel senso di scurirle ancor di più.
— Quando verrai a Parigi, cambierai forse idea.
— Può darsi. Vendono, quei giovani pittori?
— Durand-Ruel riesce a smerciare ogni tanto qualche tela di Manet.
Tutto lì, si può quasi dire.
— Ma allora come vivono?
— Dio solo lo sa. D’espedienti, la maggior parte. Rousseau dà lezioni di
violino a ragazzi, Gauguin dà stoccate ai suoi ex colleghi dell’agenzia di
cambio, Seurat si fa mantenere dalla madre, Cézanne dal padre. Non saprei
proprio immaginare dove gli altri si procurano i mezzi per vivere.
— Li conosci tutti, Theo?
— Sì, a poco a poco vado facendo conoscenza con tutti. Ho tentato di
persuadere i «Messieurs» a riservar loro un cantuccio della Galleria Goupil,
ma essi non toccherebbero una tela impressionista nemmeno con un bastone
lungo tre metri.
— Ho idea che dovrei conoscerli anch’io. Senti, Theo. Perché non fai
assolutamente nulla per procurarmi un po’ di distrazione, dandomi modo
d’incontrarmi con altri pittori?
Theo andò alla finestra e si mise a guardare la sottile striscia erbosa che
separava la casa del sagrestano dalla strada d’Eindhoven.
— Vieni a stare con me a Parigi — disse. — Tanto finirai per venirci.
— Non è ancora il momento. Devo prima finire alcuni lavori qui.
— Se resti in provincia, non sperare di poter frequentare altri artisti.
— Può darsi che tu abbia ragione. Ma c’è una cosa che non riesco a
capire, Theo. Finora non hai mai venduto un mio disegno o un mio quadro.
Credo che tu non abbia nemmeno tentato. È vero?
— Infatti.
— E perché?
— Ho fatto vedere i tuoi lavori a degli intenditori. Dicono…
— Oh, gli intenditori! — replicò Vincent, scrollando le spalle. —
Conosco le banalità che san dire, per lo più, costoro. Tu sai certamente che i
loro giudizi hanno ben poco a che fare col valore intrinseco di un quadro o
di un disegno.
— Io non direi. I tuoi lavori si potrebbero quasi vendere, ma…
— Queste, Theo, sono press’a poco le identiche parole che mi scrivevi a
proposito dei miei primissimi disegni, quand’ero a Etten.
— È la verità, Vincent. Tu sembri costantemente in procinto di
conseguire una splendida maturità. Io prendo avidamente tra le mani ogni
tuo nuovo lavoro che mi giunge, sperando che tu l’abbia finalmente
conseguita. Ma finora…
— Quanto al vendere o non vendere — l’interruppe Vincent, battendo la
pipa sulla stufa per svuotarla — è una vecchia storia che conta fino a un
certo punto.
— Dici che devi ancora lavorare qui. E allora spicciati a finire. Più
presto vieni a Parigi, e meglio sarà per te. Ma se vuoi che intanto io venda
qualcosa di tuo, mandami dei quadri e non degli studi, che nessuno vuole.
— Be’, è un po’ difficile fare una netta distinzione tra lo studio e il
quadro, dire dove termini l’uno e cominci l’altro. Cerchiamo di dipingere
quanto più possiamo, Theo, e di essere noi stessi con tutti i nostri pregi e i
nostri difetti. Parlo al plurale perché il denaro che mi mandi (e che ti costa
sacrifici e grattacapi, lo so) ti dà diritto di considerare i miei lavori come
una creatura per metà tua.
— Oh, quanto a questo…
Theo andò in fondo alla stanza e si mise a giocherellare con un vecchio
berretto appeso all’albero.
8.
Prima della morte del babbo, Vincent si recava solo di tanto in tanto alla
casa parrocchiale per pranzare con i suoi o passare un’ora con loro. Dopo i
funerali, la sorella Elisabetta gli fece chiaramente intendere che la sua
presenza non era gradita: la famiglia desiderava tenere un certo decoro. La
mamma ritenne di doversi schierare dalla parte delle figlie: Vincent era
responsabile delle proprie azioni e della propria situazione.
Ora si trovava completamente solo, a Nuenen. Alla compagnia della
gente sostituì lo studio della natura. Aveva cominciato con un disperato
sforzo di esattezza nel riprodurre la natura, e tutto gli veniva male; finì per
creare tranquillamente in base alle suggestioni della propria tavolozza, e la
natura rispose ai suoi estri con docile adesione. Quando più amaramente
provava la tristezza della solitudine, ripensava al colloquio avuto nello
studio di Weissenbruch e all’elogio della sofferenza fatto dal caustico
pittore. Il suo caro Millet aveva espresso in forma anche più persuasiva la
stessa filosofia di Weissenbruch: «Non aspiro ad abolire la sofferenza,
perché spesso è in grazia sua che l’artista attinge la più forte e intensa
espressione».
Strinse amicizia con una famiglia di contadini, certi De Groot. Il padre,
la madre, un figlio e due figlie. Tutti quanti lavoravano la campagna. Come
la maggior parte dei contadini del Brabante, si sarebbe potuto chiamarli
gueules noires, non meno dei minatori del Borinage. Facce di tipo negroide,
con larghe narici dilatate, nasi gibbosi, grosse labbra tumide, lunghe
orecchie sporgenti. La parte inferiore del viso si spingeva fortemente in
avanti; la testa era piccola, a punta. Abitavano in una casupola d’una stanza
sola, con le rientranze nei muri per dormirci. Una tavola in mezzo, due
sedie, una quantità di casse e una lampada appesa ad una trave del rozzo
soffitto.
I De Groot erano mangiatori di patate. La loro cena era rallegrata da una
tazza di caffè e, forse una volta la settimana, da una fetta di lardo.
Seminavano patate, raccoglievano patate e mangiavano patate: a questo si
riduceva la loro vita.
Stien De Groot era una simpatica ragazza sui diciassette anni. Un ampio
copricapo bianco e un colletto dello stesso colore su una giacchetta nera:
così lavorava nei campi. Vincent prese l’abitudine di andare da loro ogni
sera. Lui e Stien facevano un mucchio di risate.
— Perdinci che bella dama sono io! Mi fanno perfino il ritratto. Devo
mettermi la cuffia nuova, Mijnheer?
— No, Stien, sei bellissima così.
— Bellissima, addirittura.
E dava in scrosci di risa. Aveva un paio d’occhi allegri, un’espressione
briosa e vivace. Una fisionomia indigena allo stato puro. Quando si chinava
a raccogliere le patate nei campi, Vincent ravvisava nelle linee del suo
corpo una grazia più schietta di quella di Kay. Aveva appreso che
l’elemento essenziale nella figura è il movimento, l’azione, e che il grave
difetto delle figure ritratte dai vecchi maestri consiste nella loro inerzia.
Disegnò i De Groot in atto di zappare nei campi, di apparecchiar la tavola in
casa, di mangiare patate; Stien stava sempre a curiosare china sulla sua
spalla, scherzando con lui. A volte, di domenica, si metteva una cuffia e un
colletto di bucato e andava a fare una camminata con lui per la landa. Era
questo l’unico divertimento dei contadini.
— Margot Begeman ti voleva veramente bene? — gli domandò un
giorno.
— Sì.
— E allora perché ha tentato di uccidersi?
— Perché la sua famiglia non voleva che mi sposasse.
— Che sciocca. Sai che cosa avrei fatto io, invece di avvelenarmi?
Avrei semplicemente continuato ad amarti.
Gli lanciò in faccia una risata argentina e si diede a correre verso un
boschetto di pini. Per tutto il giorno risero e si divertirono tra gli alberi.
Altre coppie errabonde li videro. Stien aveva il dono del buon umore: la
minima osservazione di Vincent, il suo minimo gesto le strappavano risa
folli, incontenibili. Faceva la lotta con lui, sforzandosi di stenderlo a terra.
Quando, in casa, un suo disegno non le piaceva, ci versava sopra del caffè
oppure lo gettava nel fuoco. Veniva spesso a posare nel suo studio; quando
se ne andava, la stanza era in un disordine spaventoso.
Passò così l’estate, l’autunno e venne l’inverno. La neve costringeva
Vincent a lavorare tutto il giorno in casa. A quelli di Nuenen non piaceva
posare; non fosse stato per i soldi, nessuno sarebbe venuto nel suo studio.
All’Aia aveva disegnato quasi novanta figure di donne intente a cucire, per
ricavarne un gruppo di tre e farne un quadro. Avrebbe voluto dipingere i De
Groot mentre consumavano la loro cena di patate e caffè: ma perché il
quadro gli venisse bene doveva prima esercitarsi a ritrarre tutti i tipi di
contadini della zona.
Il prete cattolico non era mai stato entusiasta del fatto che nella casa del
sagrestano fosse venuto a stabilir dimora un individuo che aveva la duplice
prerogativa di essere un infedele e un artista; ma siccome Vincent non dava
noie e si mostrava cortese, non poteva trovare nessun pretesto per farlo
sloggiare. Un giorno Adriana Schafrath entrò nello studio tutta eccitata. —
Padre Pauwels desidera parlarvi immediatamente!
Il reverendo Andrea Pauwels era un uomo corpulento, rosso di faccia.
Diede una rapida sbirciata allo studio e ne concluse che non aveva mai visto
un disordine simile.
— In che posso servirvi, Padre? — domandò garbatamente Vincent.
— Voi non potete servirmi in niente! Ma io posso servirvi in qualcosa!
Vi sistemerò questa faccenda, purché facciate come vi dico io.
— Quale faccenda, Padre?
— Lei è cattolica e voi protestante, ma io otterrò una speciale dispensa
dal vescovo. Tenetevi pronto a sposarvi tra pochi giorni!
Vincent fece due passi avanti per veder meglio il reverendo Pauwels,
alla luce della finestra. — Temo di non capire, Padre.
— Ma sì che capite. Inutile che stiate a fingere. Stien De Groot è in
stato interessante! L’onore della famiglia esige che si corra ai ripari.
— In stato interessante? Ma che diavolo mi dite!
— Lasciate stare il diavolo. Sebbene in questa faccenda abbia avuto
anche lui la sua parte…
— Ma siete ben sicuro, Padre? Siete ben sicuro di non ingannarvi?
— Non vado in giro ad accusare una persona, se non ho prove positive.
— E Stien vi ha detto… vi hanno detto… che sono stato io?
— No. Si è rifiutata di dirci il nome del responsabile.
— E allora perché conferite a me quest’onore?
— Molte volte vi hanno visto insieme. Non viene forse spesso qui nel
vostro studio?
— Sì.
— Non facevate delle scampagnate con lei, la domenica?
— Sì.
— Ebbene, quali altre prove dovrei andare a cercare?
Vincent tacque un momento.
— È una notizia che mi rattrista, Padre — disse poi, calmo. — Mi
dispiace proprio tanto per la mia amica Stien. Ma vi assicuro che i miei
rapporti con lei sono stati i più innocenti del mondo.
— E pretendete di farmi credere una cosa simile?
— No, non lo pretendo affatto.
Quella sera, quando Stien tornò dalla campagna, egli l’aspettava sulla
soglia della casupola. Tutti gli altri della famiglia entrarono per cenare.
Stien sedette pesantemente accanto a lui.
— Presto ti procurerò un altro tipetto da disegnare.
— Dunque è proprio vero, Stien!
— Altroché! Vuoi sentire?
Gli prese la mano e se la mise sul ventre, facendogliene palpare la
protuberanza.
— Oggi Padre Pauwels mi ha informato che il bambino è mio.
— Fosse vero! — rise Stien. — Ma tu non hai mai voluto.
Vincent guardò la sua faccia scura, con quella patina di sudore rappreso,
i lineamenti risentiti, il naso largo, le labbra tumide. Stien gli sorrise.
— Anch’io vorrei che il bimbo fosse mio, Stien.
— Così Padre Pauwels dice che sei stato tu! C’è proprio da ridere.
— Perché?
— Manterrai il segreto?
— Te lo prometto.
— È stato il kerkmeester della sua chiesa!
Vincent lanciò un fischio di sorpresa. — E i tuoi lo sanno?
— Nemmeno per sogno. E non glielo dirò mai. Ma sanno benissimo che
non sei stato tu.
Vincent entrò nella catapecchia. L’atmosfera era quella solita: nulla di
mutato. I De Groot accettavano il fatto della gravidanza di Stien con lo
stesso spirito con cui avrebbero accolto quella della mucca. Lo trattarono
come sempre, ed egli comprese ch’erano pienamente convinti della sua
innocenza.
Ma in paese fu tutt’altra cosa. Adriana Schafrath, che aveva origliato
alla porta, s’era affrettata ad informare i vicini. Un’ora dopo, i
duemilaseicento abitanti di Nuenen sapevano che Stien De Groot era incinta
ad opera di Vincent e che Padre Pauwels li avrebbe costretti a sposarsi.
Novembre. L’inverno. Tempo di partire. Che ci stava a fare, ormai, a
Nuenen? Aveva dipinto tutto ciò che c’era da dipingere, imparato tutto ciò
che c’era da imparare sulla vita dei contadini. Eppoi l’ambiente s’era fatto
troppo ostile, con questa recrudescenza d’odio di villaggio. Tutto gli faceva
capire ch’era giunto il momento di levar le tende. Ma dove andare?
— Mijnheer Van Gogh — disse tristemente Adriana Schafrath, dopo
aver bussato alla porta — Padre Pauwels dice che dovete sloggiare
immediatamente di qui e andare a stabilirvi altrove.
— Benissimo. Sarà fatto.
S’aggirò per lo studio, passando in rassegna il lavoro compiuto. Due
anni di fatiche a ritmo sostenuto. Centinaia di studi: tessitori e mogli di
tessitori, telai, contadini nei campi, gli alberi del giardino parrocchiale, il
campanile della vecchia chiesa, angoli della landa, siepi e boscaglie sotto il
divampar del sole e nei desolati tramonti invernali.
S’accasciò sotto una pesante tristezza. Un lavoro troppo frammentario,
il suo. Brandelli e attimi isolati di certe fasi della vita agreste del Brabante:
non un quadro in cui ci fosse tutto il contadino, tutta l’atmosfera della sua
catapecchia e delle sue patate cotte. Dov’era il suo Angelus dei contadini
del Brabante? E come poteva partire senz’averlo dipinto?
Diede un’occhiata al calendario. Mancavano ancora dodici giorni al
primo del mese. Chiamò Adriana.
— Dite al Padre Pauwels che ho pagato fino al primo e che non me ne
andrò prima di tale data.
Prese cavalletto, colori, tela e pennelli; si diresse risolutamente verso
l’abitazione dei De Groot. Nessuno in casa. Abbozzò a matita l’interno
della stanza. Quando la famiglia tornò dai campi, lacerò il foglio. I De
Groot si misero a tavola. Patate, caffè e lardo. Vincent collocò la tela sul
cavalletto e lavorò furiosamente finché quella povera gente andò a dormire.
Tornato nel suo studio, seguitò a lavorare per tutta la notte. Passò parte della
giornata a letto. Quando si svegliò, gettò quella tela nel fuoco con selvaggio
disgusto e tornò dai De Groot.
I vecchi maestri olandesi gli avevano insegnato che disegno e colore
sono una cosa sola. I De Groot si misero a tavola nella stessa posizione e
negli stessi atteggiamenti d’ogni sera, di tutta la loro vita. Vincent voleva
rendere evidente come le mani che questa gente metteva nel piatto,
mangiando patate al lume della lampada, avevano lavorato e scavato la
terra; voleva dar loro la sensazione inconfondibile della fatica manuale;
voleva far capire che questa gente si era onestamente guadagnato il cibo che
mangiava.
La vecchia abitudine di buttarsi violentemente al lavoro gli tornò ora
utilissima. Dipinse con ritmo furioso, con tremenda energia. Non aveva
bisogno di rifletter troppo su ciò che faceva: già aveva disegnato centinaia
di contadini, di abituri, di famiglie sedute a mangiare.
— Oggi è venuto qui Padre Pauwels — disse la madre.
— A far che cosa?
— A offrirci dei soldi perché non posassimo più per voi.
— E che cosa gli avete detto?
— Che siete nostro amico.
— Ha fatto il giro di tutte le case qui intorno — s’intromise Stien. —
Ma tutti gli hanno risposto che preferivano guadagnare un soldo posando
per voi che accettare la sua carità.
La mattina dopo, Vincent distrusse anche questa seconda tela. Fu preso
da un senso di rabbia e di impotenza. Gli restavano appena dieci giorni.
Doveva andar via da Nuenen, dove la vita gli diventava impossibile. Ma
non poteva partire prima d’aver mantenuto la sua intima promessa a Millet.
Tornava ogni sera dai De Groot. Lavorava finché i suoi amici non ne
potevano più dalla stanchezza. Ogni notte tentava nuove combinazioni di
colori, di valori e di proporzioni. E sempre si rendeva conto di non aver
realizzato l’idea, di averle dato un’espressione inadeguata.
Venne l’ultimo giorno del mese. Vincent era stremato dalla frenetica
tensione, dalla mancanza di sonno e spesso di cibo. Viveva d’esasperazione
nervosa. Più s’indeboliva, più l’eccitazione cresceva. Adesso era
nuovamente lì ad aspettare nella casupola. I De Groot tornarono dalla
campagna. Vincent aveva già tutto pronto: cavalletto, tela, colori. Era
l’ultima possibilità. La mattina dopo avrebbe dovuto lasciare il Brabante,
per sempre.
Lavorò per ore e ore. I De Groot avevano compreso. Finito di mangiare,
rimasero ancora a tavola discorrendo a bassa voce nel loro dialetto. Vincent
non sapeva che cosa dipingesse. Buttava giù, senza nessuna interposizione
di pensieri tra la mano e la tela, quasi senza rendersi conto di ciò che
faceva. Verso le dieci, i De Groot cadevano dal sonno e lui non ne poteva
più. Aveva fatto tutto ciò che poteva. Raccolse le sue cose, diede un bacio a
Stien e disse addio a tutti quanti. Poi s’avviò a lunghi passi verso casa, nel
buio della notte, senza nemmeno accorgersi di camminare.
Giunto nello studio posò la tela su una sedia, accese la pipa e osservò il
lavoro compiuto. Una porcheria. Un altro tentativo mancato. L’atmosfera
non si sentiva. Un altro fallimento. I due anni di fatiche nel Brabante erano
stati sciupati.
Continuò a fumare fino all’ultimo residuo di tabacco in fondo alla pipa.
Preparò i bagagli. Radunò tutti gli studi appesi alle pareti o chiusi nei
cassetti, li mise in una cassa. Poi si buttò sul divano.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato. S’alzò, strappò via
quella tela dal cavalletto e ne collocò un’altra. Mischiò i colori sulla
tavolozza, si sedette e ricominciò daccapo.
Proprio come gli aveva detto Pietersen a Bruxelles: s’era tenuto troppo
vicino ai suoi modelli. Mancanza di prospettiva. S’era riversato nello
stampo della natura: ora riversava la natura nel suo proprio stampo.
Dipinse tutta la scena in una tonalità rispondente al colore di una patata
terrosa, da sbucciare. La sudicia tovaglia di tela sulla tavola, la parete
affumicata, la lampada appesa alle travi, Stien che serviva patate al padre, la
madre che versava il caffè, il fratello che alzava la tazza alle labbra: e su
tutti quei volti la calma e paziente accettazione di un immutabile ordine di
cose.
Si levò il sole, dalla finestra penetrò un barlume di luce. Vincent s’alzò
dallo sgabello. Un gran senso di pace, di calma. L’eccitazione di quei dodici
giorni era svanita. Osservò il quadro. Sapeva di lardo, di fumo, di patate
cotte. Sorrise. Aveva dipinto il suo Angelus. Aveva saputo cogliere, in ciò
che passa, ciò che non passa. Il contadino del Brabante non sarebbe mai
morto.
Lavò il quadro con bianco d’uovo. Portò alla casa parrocchiale la cassa
dei disegni e dei quadri, lasciandola in custodia alla madre; si congedò dai
suoi. Tornò allo studio, scrisse su quella tela: I mangiatori di patate; vi unì
alcuni dei suoi studi meglio riusciti e partì per Parigi.
PARTE QUINTA
PARIGI
1.
— Non hai dunque ricevuto la mia ultima lettera? — gli domandò Theo
la mattina dopo, a colazione.
— Credo di no. Che cosa mi scrivevi?
— Ti davo la notizia della mia promozione.
— Perbacco, Theo! E ieri non me ne hai detto niente.
— Eri troppo eccitato per darmi ascolto. Dirigo la galleria del
Boulevard Montmartre.
— Magnifico! Una galleria d’arte a tua disposizione!
— Fino a un certo punto, Vincent. Devo attenermi abbastanza
rigorosamente alle direttive dei padroni. Ma mi hanno permesso di esporre
gli impressionisti nell’entresol, cosicché…
— Quali sono gli impressionisti che presenti in questo momento?
— Monet, Degas, Pissarro e Manet.
— Tutta gente che non conosco.
— Allora, fai una cosa: vieni subito alla galleria e osserva per bene i
loro quadri.
— Perché fai quel sorrisetto malizioso, Theo?
— Oh, niente. Ancora una tazza di caffè? Ci resta poco tempo. Io vado
ogni mattina a piedi fin là.
— Grazie. No, no, solo una mezza tazza. Alla buon’ora, vecchio mio, fa
piacere ritrovarsi finalmente a tavola con te!
— Da tanto tempo aspettavo che tu venissi a Parigi. Certo, un bel giorno
saresti indubbiamente arrivato. Ma avrei preferito che tu aspettassi fino a
giugno, quando mi trasferirò in Rue Lepic. Là avremo tre stanze spaziose.
Qui, vedi, non puoi lavorar bene.
Vincent diede un’occhiata all’intorno, girandosi sulla sedia.
L’appartamento di Theo consisteva in una stanza da letto, una piccola
cucina e uno studiolo. La camera era elegantemente ammobiliata in
autentico stile Luigi Filippo, ma ci si moveva appena.
— Se ci metto ancora il mio cavalletto — disse Vincent — dovremo
sbatter via dalla finestra qualcuno dei tuoi mobili così belli.
— Già, qui c’è una vera sovrabbondanza di mobili; ma mi è capitata
l’occasione di comprarli ad una liquidazione e non me li sono lasciati
sfuggire, dato che per il mio nuovo appartamento volevo appunto roba di
questo genere. Andiamo, Vincent. Ti farò percorrere il mio itinerario
favorito, giù per la collina, fino al Boulevard. Non potrai mai dire di
conoscere Parigi, se non ne senti l’odore di buon mattino.
Indossò il soprabito nero, abbottonato alto fin sotto il nodo
dell’immacolata cravatta bianca, diede un ultimo colpettino di spazzola ai
riccioli che ornavano i due lati della scriminatura, si lisciò i baffi e il pizzo.
Si mise il cappello nero, prese guanti e bastone e si diresse verso la porta.
— Sei pronto, Vincent? Dio mio, sei uno spettacolo! Se andassi in giro
vestito a codesto modo in un’altra città che non fosse Parigi, ti
arresterebbero!
— Che ci trovi di speciale? — replicò Vincent, guardandosi. — Sono
quasi due anni che porto questo abito e nessuno mi ha mai detto niente.
— Non importa — rise Theo. — I parigini sono abituati a vedere tipi
come te. Stasera dopo la chiusura della galleria ti procurerò qualcosa da
vestire.
Scesero una rampa di scale a chiocciola, passarono davanti
all’abitazione del concierge e uscirono in Rue Laval: una via ampia, ricca e
dignitosa, fiancheggiata da grandi negozi: drogherie, botteghe di cornici e
oggetti antichi.
— Osserva quelle tre belle signore al terzo piano di casa nostra — disse
Theo.
Vincent alzò gli occhi. Le tre belle signore erano di gesso. Sotto la
prima si leggeva «Scultura»; sotto quella di mezzo «Architettura»; sotto la
terza «Pittura».
— Che cosa li ha autorizzati a credere che la pittura sia una così brutta
megera? — protestò Vincent.
— Non saprei. Comunque, vedi che sei proprio capitato nella casa che
fa per te.
Passarono dinanzi alla soglia del «Vieux Rouen», il negozio d’antichità
e oggetti d’arte dove Theo aveva acquistato i suoi mobili Luigi Filippo. In
un momento furono in Rue Montmartre, che aggirava graziosamente il
fianco della collina inerpicandosi verso il Boulevard de Clichy e la Butte
Montmartre, e scendeva verso il cuore della città. Sole mattutino, odor di
Parigi, esercizi affollati di gente che consumava caffè e croissants, spacci di
verdura, di carne e di formaggi che iniziavano la loro giornata di lavoro.
Una zona animatissima, prettamente borghese, piena di botteghe e
negozi. Operai che camminavano in mezzo alla strada. Massaie che
toccavano le merci esposte in cesti e cassette davanti alle botteghe
disputando accanitamente sui prezzi.
Vincent trasse un profondo respiro. — Questa è Parigi. Finalmente,
dopo tanti anni!
— Sì, Parigi. La capitale d’Europa. Specialmente per un artista.
Vincent si riempiva i polmoni di quell’intenso flusso di vita che
scorreva su e giù per la collina. I garçons dalle giacche a strisce rosse e
nere; le donne che portavano sotto il braccio lunghi bastoni di pane; i
carrettini a mano lungo il margine dei marciapiedi; le femmes de chambre in
pantofole; i ricchi uomini d’affari che si dirigevano verso i loro uffici. Dopo
una serie innumerevole di charcuteries, pâtisseries, boulangeries,
blanchisseries e piccoli caffè, la Rue Montmartre raggiungeva con una
curva il fondo della collina e si tuffava nella Place Châteaudun, un piccolo
circolo approssimativo formato dall’incontro di sei strade. L’attraversarono;
passarono dinanzi a Notre-Dame-de-Lorette, una chiesa rettangolare di
pietra annerita, con in cima tre angeli idillicamente volanti verso l’azzurro
empireo. Vincent si soffermò a leggere la scritta sopra la porta.
— Dànno ancora una seria importanza a questo «Liberté, Égalité,
Fraternité»?
— Credo. La Terza Repubblica sarà probabilmente duratura. I realisti
sono morti e sepolti, ora stanno facendosi avanti i socialisti. Émile Zola mi
diceva l’altra sera che la prossima rivoluzione sarà sferrata contro il
capitalismo anziché contro il principio monarchico.
— Zola! Tu lo conosci personalmente? Una bella fortuna.
— È stato Paul Cézanne a presentarmi. Ci raduniamo una volta alla
settimana al Caffè Batignolles. La prossima volta porterò anche te.
Staccandosi dalla Place Châteaudun, la Rue Montmartre perdeva il suo
carattere popolare e assumeva un’aria più sostenuta. Negozi più grandi,
caffè più imponenti, gente meglio vestita, edifici più ricchi. Lungo il
marciapiede s’allineavano ristoranti, caffè-concerto ed alberghi; invece dei
carretti si vedevano circolare eleganti carrozze.
I due fratelli procedevano a passo svelto. La fresca mattinata di sole
eccitava le energie, si respirava nell’aria un’atmosfera di febbrile e pulsante
attività.
— Dal momento che in casa non puoi lavorare, ti consiglierei di andare
alla scuola di pittura di Corman.
— Corman?
— Sì. È anche lui un pittore accademico come la maggior parte dei
maestri. Ma se le sue critiche non ti garbano, ti lascerà in pace.
— Costa molto?
Theo gli diede un colpetto sulla gamba col bastone da passeggio. —
Non ti ho detto forse che sono stato promosso direttore? Sto diventando uno
di quei plutocrati che Zola spazzerà via dalla terra con la sua imminente
rivoluzione!
La Rue Montmartre sfociava nell’ampio e imponente Boulevard
Montmartre, con i suoi grandi magazzini, le sue arcate, i suoi negozi di
lusso. Quest’arteria, che poco più avanti prendeva il nome di Boulevard des
Italiens e conduceva in Place de l’Opéra, era la più importante della città.
Benché a quest’ora del mattino fosse ancor quasi deserta, nell’interno dei
grandi negozi i commessi e gli impiegati si preparavano ad una giornata
operosa.
La galleria diretta da Theo era situata al n. 19, un isolato a destra della
Rue Montmartre. I due fratelli attraversarono il Boulevard, si soffermarono
presso un lampione per lasciar passare una carrozza e proseguirono verso la
galleria.
S’inoltrarono nella sala, tra commessi elegantemente vestiti che
s’inchinavano rispettosamente a Theo. Vincent ricordò come facesse anche
lui altrettanto, ai suoi tempi, all’apparire di Tersteeg e di Obach. Nell’aria,
quello stesso sentore di cultura e di raffinatezza: un odore che credeva di
aver dimenticato. Appesi alle pareti, quadri di Bouguereau, Henner e
Delaroche. In fondo alla sala principale c’era una balconata cui s’accedeva
per una rampa di scale.
— I dipinti che t’interessano sono lassù nell’ entresol — gli disse Theo.
— Quando li avrai guardati per bene, vieni a dirmi che cosa ne pensi.
— Perché mi fai quel mezzo sorriso?
Il mezzo sorriso di Theo si fece ancor più accentuato.
— À tout à l’heure! — E s’eclissò nel suo ufficio.
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Quando giunsero nei paraggi di Seurat erano quasi le due del mattino.
— Non hai paura che sia già a dormire? — domandò Vincent.
— Macché. Lavora tutta la notte. E la maggior parte del giorno. Credo
che non dorma mai. Ecco, la casa è questa. È della madre di Seurat. Un
giorno m’ha detto, quella donna: «Mio figlio s’è messo in testa di fare il
pittore. Bene, lasciamo che faccia il pittore. Io ho abbastanza denaro per
tutti e due. Purché ciò lo faccia contento». Georges è un vero figlio
modello. Non beve, non fuma, non bestemmia, non va fuori di notte, non
sta dietro alle donne, non spende un soldo se non per comprare tele e colori,
ha un unico vizio: quello della pittura. Ho sentito dire che ha un’amante e
un figlio che vivono molto vicino a lui; ma non ne parla mai.
— Sembra tutto buio. Come faremo a entrare senza svegliare tutta la
famiglia?
— Georges lavora in soffitta. Dall’altro lato della strada vedremo
probabilmente la finestra illuminata. Lanceremo un sassolino. Lascia fare a
me. Se non prendi bene la mira, colpisci la finestra del terzo piano e svegli
la madre.
Georges Seurat scese ad aprire, si mise un dito sulle labbra e li condusse
su. Poi si chiuse alle spalle la porta della soffitta.
— Georges — disse Gauguin — ho voluto farti conoscere Vincent Van
Gogh, fratello di Theo. Dipinge come un olandese, ma a parte questo è un
gran bravo ragazzo.
La soffitta di Seurat era di dimensioni imponenti: si stendeva quasi per
tutta la lunghezza della casa. Sui muri, enormi tele incompiute, con predelle
e impalcature davanti. Sotto la lampada a gas, un altro tavolo quadrato su
cui era distesa una tela non ancor asciutta.
— Lieto di conoscervi, Monsieur Van Gogh. Mi scuserete un momento,
vero? Devo dare alcune pennellate prima che il colore asciughi.
S’arrampicò su un alto sgabello e si curvò sulla tela. La lampada a gas
diffondeva un fermo chiarore giallognolo. Sulla tavola erano allineati una
ventina di piccoli barattoli di colori. Seurat immerse leggermente in uno di
essi la punta del più piccolo pennello che Vincent avesse mai visto e si
diede a segnare sulla tela minuscoli puntini di colore con matematica
precisione. Lavorava con calma, in silenzio, senza emozione. Un fare
freddo e impassibile, come quello d’un meccanico. Punto punto punto
punto. Alzò verticalmente il pennello, tornò a immergerlo
leggerissimamente nel vasetto di colore, e poi punto punto punto punto
sulla tela, centinaia e centinaia di puntini.
Vincent lo guardava sbalordito. Finalmente Seurat si girò sullo sgabello.
— Ecco. Ho riempito lo spazio vuoto.
— Ti dispiace di far vedere a Vincent? — gli domandò Gauguin. — Al
suo paese dipingono mucche e pecore. Fino a una settimana fa non sapeva
ancora che esiste un’arte moderna.
— Accomodatevi quassù, Monsieur Van Gogh.
Vincent salì e posò lo sguardo sulla tela che gli si stendeva dinanzi. Non
aveva mai visto nulla di simile, né nel campo dell’arte né in quello della
realtà. Il quadro rappresentava l’Ile de la Grande Jatte. Esseri umani
concepiti architettonicamente e realizzati con un’infinita gradazione di
puntini di colore si ergevano come pali in una cattedrale gotica. L’erba, il
fiume, le barche, gli alberi: tutto formava vaghe e astratte masse di puntini
luminosi. L’intero quadro era dipinto con i più chiari colori della tavolozza,
più chiari ancora di quelli che osavano adoperare Manet, Degas e perfino
Gauguin. Qui s’era nelle inaccessibili solitudini d’un regno di quasi astratta
armonia. Se c’era vita, si trattava d’una vita ben diversa da quella della
natura. Un’aria vibrante di scintillii e di riverberi, ma non un alito di brezza.
Una vita ferma, fissa, da cui era stato bandito per sempre qualsiasi
movimento.
Gauguin, ritto al fianco di Vincent, rise del suo sbalordimento.
— Niente di più legittimo del tuo stupore, Vincent. I quadri di Georges
fanno a tutti quest’effetto, la prima volta che li guardano. Ma adesso
riscuotiti! Che te ne pare?
Vincent si rivolse a Seurat con tono di scusa. — Mi perdonerete,
Monsieur, ma in questi ultimi giorni mi sono trovato di fronte a novità così
sconcertanti che non riesco ancora a raccapezzarmi. Io mi sono formato
nella tradizione olandese. Gli impressionisti, non sapevo nemmeno chi
fossero. Arrivo e trovo che non si tiene più nessun conto di ciò in cui ho
sempre creduto.
— Comprendo — rispose calmo Seurat. — Il mio metodo sta
rivoluzionando tutta l’arte della pittura; non si può quindi pretendere che
l’afferriate al primo colpo d’occhio. Vedete, Monsieur: fino ad oggi la
pittura è stata una questione d’esperienza personale. Io mi propongo di
trasformarla in una scienza astratta. Dobbiamo giungere a formarci una
mentalità lucida, precisa, matematica. Ogni sensazione umana può e deve
essere ridotta ad una oggettivazione astratta, fatta di colori, linee e tonalità.
Vedete questi puntini di colore?
— Sì, stavo appunto osservandoli.
— Ognuno di questi puntini, Monsieur Van Gogh, contiene una
specifica emozione umana. Con la mia formula, si possono fabbricare in
serie e vendere nei negozi. Basta con le arbitrarie e casuali misture di colori
sulla tavolozza: è un metodo che appartiene al passato. D’ora in poi il
pittore non farà altro che andare in un negozio, venire a casa e scoperchiare
i suoi vasetti. Siamo nell’epoca della scienza, ed io voglio fare della pittura
una scienza. La personalità deve scomparire, la pittura deve diventare un
lavoro di precisione come l’architettura. Mi seguite, Monsieur?
— No, temo di no.
Gauguin toccò Vincent col gomito.
— Senti un po’, Georges. Perché continui a chiamar tuo questo metodo?
L’aveva già inventato Pissarro prima che tu nascessi.
— È una menzogna!
Una vampata di rossore salì alla faccia di Seurat, che balzò giù dallo
sgabello, andò alla finestra, si mise a tamburellare sul davanzale con le
punte delle dita e poi si voltò furiosamente.
— Chi t’ha detto che l’ha inventato Pissarro? Ti ripeto che il metodo è
mio. Sono stato io il primo a concepirlo. Pissarro ha imparato da me questa
tecnica dei puntini. Ho percorso tutta la storia dell’arte, cominciando dai
primitivi italiani, e ti dico che nessuno ci aveva ancora pensato. Come osi…
Si morse rabbiosamente le labbra e andò a piantarsi davanti ad una delle
sue impalcature, curvo, voltando le spalle ai visitatori.
Vincent fu sconcertato da quel brusco cambiamento d’umore. Poc’anzi,
quando lavorava, aveva sul volto dai lineamenti perfetti la gelida
impassibilità di una statua. Occhi senza passione, il fare impersonale di uno
scienziato nel proprio laboratorio. Fredda, pedagogica, quasi, anche la sua
voce. Con lo stesso velo d’astrazione sugli occhi aveva osservato il proprio
lavoro. Ma ora, là in fondo alla soffitta, si mordeva il rosso e carnoso labbro
inferiore emergente tra i peli della barba, scompigliandosi nervosamente i
folti e ricciuti capelli castani, prima così ben pettinati.
— Suvvia, Georges! — fece Gauguin, strizzando l’occhio a Vincent. —
Lo sappiamo tutti che il metodo è tuo. Senza di te, sarebbe ancora da
inventare.
Rabbonito, Seurat tornò presso il tavolo. Nei suoi occhi si spense a poco
a poco il fuoco della collera.
— Monsieur Seurat — disse Vincent — come possiamo fare della
pittura una scienza impersonale, dal momento che ciò che più conta è
l’espressione dell’individuo?
— Guardate qui! Ora ve lo spiego.
Afferrò sul tavolo una scatola di pastelli e s’accoccolò sul pavimento di
legno. La lampada a gas continuava a spandere il suo chiarore un po’ fosco.
Intorno, la notte profondamente silenziosa. Vincent s’inginocchiò accanto a
lui, Gauguin s’accalcagnò dall’altra parte. Seurat, ancora eccitato, parlava
con animazione.
— Secondo la mia teoria, tutti gli effetti pittorici si possono ridurre a
formule. Supponiamo che io voglia disegnare una scena di circo. Qui c’è il
cavallo, qui l’acrobata, qui le gradinate e il pubblico. Voglio dare
un’impressione d’allegria. Quali sono i tre elementi della pittura? Linea,
tono e colore. Bene. Per dare un’impressione d’allegria, porto tutte le linee
sopra la orizzontale: così. Faccio dominare i colori luminosi: così. E i toni
caldi: così. Ecco fatto! Non rende evidente l’astrazione dell’allegria?
— Sta bene — replicò Vincent. — Renderà evidente l’astrazione
dell’allegria, ma non l’allegria stessa.
Seurat, sempre così accoccolato, lo guardò di sotto in su, con la faccia
in ombra. Vincent vide che bell’uomo fosse.
— Non m’interessa l’allegria. M’interessa l’essenza dell’allegria.
Conoscete Platone, amico mio?
— Sì.
— Ebbene, ciò che i pittori devono addestrarsi a raffigurare non è la
cosa, ma l’essenza della cosa. Quando un artista dipinge un cavallo, non
deve fare quel determinato cavallo, con quelle determinate caratteristiche,
che voi potreste riconoscere. Per fare fotografie abbiamo ormai la
macchina: noi dobbiamo spingerci oltre. Ciò che ci interessa cogliere
dipingendo un cavallo, Monsieur Van Gogh, è la «cavallinità» in senso
platonico, ossia l’eterna e astratta essenza del cavallo. E quando dipingiamo
un uomo, non dev’essere il portiere col suo porro sul naso, ma un’astratta
figura umana, spirito ed essenza di tutti gli uomini. Mi seguite, amico mio?
— Vi seguo, ma non sono d’accordo.
— Col tempo finiremo per intenderci. — Si sollevò un poco, si sfilò il
camice e se ne servì per cancellare il disegno fatto sul pavimento. — Ora
andiamo avanti con calma. Io sto facendo un quadro che ha per oggetto:
L’Ile de la Grande Jatte. Traccio tutte linee orizzontali: così. Quanto al
tono, mi servo tanto di una tonalità calda come di una tonalità fredda: così.
E quanto al colore, una giusta contemperanza di chiari e di scuri: così. Mi
capite?
— Vai avanti, Georges! — disse Gauguin. — Non far domande stupide.
— Adesso devo produrre un effetto di tristezza. Traccio tutte le linee in
direzione discendente: così. Faccio dominare i toni freddi: così. E i colori
scuri: così. Ecco resa l’essenza della tristezza! Anche un bambino saprebbe
farlo. In un libriccino fornirò le formule matematiche per la giusta
distribuzione degli spazi sulla tela. Già le ho fissate. Il pittore non ha da far
altro che leggere questo piccolo manuale, andare in un negozio a comprare i
vasetti di colori occorrenti per quel determinato soggetto e attenersi alle
regole. Sarà un perfetto pittore scientifico. Potrà lavorare alla luce del sole o
a quella della lampada a gas, condurre una vita da monaco o da Ubertino,
essere un ragazzino di sette anni o un vecchio di settanta: il quadro
raggiungerà sempre una impeccabile perfezione architettonica e
impersonale.
Vincent sbirciò Gauguin, che scoppiò in una risata.
— Ti prende per un pazzo, Georges.
Seurat finì accuratamente di cancellare il disegno, poi lanciò il camice
in un angolo scuro.
— Davvero, Monsieur Van Gogh?
— No, no — protestò Vincent. — Io stesso sono stato troppe volte
chiamato pazzo, perché possa piacermi questa parola. Ma devo ammettere
che trovo molto strane le vostre idee.
— È come se dicesse di sì, Georges — commentò Gauguin.
Si sentì bussare seccamente alla porta.
— Mon Dieu! — fece Gauguin. — Abbiamo di nuovo svegliato tua
madre! M’ha detto che se fossi ancora venuto qui di notte, m’avrebbe tirato
una spazzola.
Entrò infatti la madre di Seurat, avvolta in una pesante veste da camera,
con una cuffia da notte.
— Georges, mi avevi promesso di non star più su tutta la notte a
lavorare. Ah, siete voi, Paul? Perché non pagate l’affitto? Avreste almeno
un posto per dormire, la notte.
— Prendetemi in casa vostra, mamma Seurat; così non avrò nessun
affitto da pagare.
— Grazie tante, un pittore in famiglia è già più che sufficiente. Ecco,
Georges, ti ho portato un po’ di caffè e brioches. Se non puoi fare a meno di
lavorare, devi almeno mangiare. Adesso credo che dovrò scendere a
prendervi la solita bottiglia d’absinthe, Paul.
— Non ve la siete ancora bevuta tutta, mamma Seurat?
— Paul, ricordatevi della spazzola…
Vincent venne fuori dall’ombra.
— Mamma — disse Seurat — ti presento un mio nuovo amico, Vincent
Van Gogh.
La signora gli strinse la mano.
— Ogni amico di mio figlio è sempre il benvenuto in questa casa, anche
se sono le quattro del mattino. Che cosa posso offrirvi, Monsieur?
— Se non vi dispiace, berrò anch’io un bicchierino dell’absinthe di
Gauguin.
— Guai a te! — protestò Gauguin. — La mamma di Seurat mi tiene a
razione. Mai più d’una bottiglia al mese. Prendi un’altra cosa. Il tuo palato
profano non sa nemmeno distinguere tra un absinthe e una chartreuse
jaune.
I tre amici e la mamma si Seurat rimasero a chiacchierare, bevendo
caffè e mangiando brioches, finché un esile triangolo di sole venne ad
illuminare la finestra esposta a settentrione.
— Ora tanto vale che mi vesta — disse la signora. — Venite una sera a
pranzo da noi, Monsieur Van Gogh. Ci farete veramente piacere.
Sul portone di casa, Seurat disse a Vincent: — Vi ho spiegato il mio
metodo in un modo troppo brusco, temo. Tornate da me quando e quanto
volete; lavoreremo insieme. Quando avrete compreso la mia teoria, vi
renderete conto che la pittura non sarà mai più quella d’un tempo. Ora devo
tornare al lavoro. Bisogna che riempia ancora un tratto di spazio, prima
d’andare a letto. Salutate per me vostro fratello.
Vincent e Gauguin ripercorsero un intrico di viuzze deserte e
s’inerpicarono verso Montmartre. Parigi non si era ancora svegliata.
Imposte chiuse, saracinesche abbassate. Carri agricoli che tornavano a casa,
dopo aver scaricato alle Halles verdura e frutta e fiori.
— Saliamo fino alla Butte, a vedere il sole che sveglia Parigi —
propose Gauguin.
— Volentieri.
Raggiunto il Boulevard de Clichy, infilarono la Rue Lepic che, aggirato
il Moulin de la Gaiette, saliva tortuosamente per la collina di Montmartre.
Le case si diradavano sempre più; apparivano squarci di verde con alberi e
fiori. La Rue Lepic finiva bruscamente. I due amici presero per un sentiero
serpeggiante attraverso i cespugli.
— Dimmi sinceramente, Gauguin: che cosa ne pensi, di Seurat?
— Di Georges? Immaginavo che m’avresti fatto questa domanda. Da
Delacroix in poi, non c’è più stato uno che abbia come lui il senso del
colore. Il guaio è che ha delle teorie intellettualistiche sull’arte. Un guaio
serio. I pittori non dovrebbero riflettere su ciò che fanno. Lasciare le teorie
ai critici. Georges darà un contributo decisivo alla tecnica del colore, e la
sua architettura gotica affretterà probabilmente la reazione del primitivismo
in arte. Ma è fou, completamente fou, come hai visto tu stesso.
La salita era ripida; ma quando furono in vetta alla collina, tutta Parigi
si stendeva sotto i loro occhi, oceano di tetti neri con le fitte guglie dei
campanili emergenti dalle nebbie notturne. La Senna tagliava in mezzo la
città come un nastro di luce. Le case digradavano giù per il pendio di
Montmartre fino alla valle della Senna, per inerpicarsi poi verso
Montparnasse. Il sole squarciò le nebbie e illuminò il Bois de Vincennes.
Dall’altra parte della città la massa verde del Bois de Boulogne era ancora
avvolta nell’oscurità e nel sonno. I tre punti di riferimento della città —
l’Opéra al centro, Notre-Dame ad est e l’Arco di Trionfo ad ovest — si
ergevano nel cielo come imponenti spalti di pietra.
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Dalle gallerie d’arte era svanito per sempre lo spirito del vecchio Goupil
e dello zio Vincent Van Gogh. Era subentrata una mentalità diversa: ora si
tendeva a vendere i quadri come un qualsiasi altro articolo commerciale,
scarpe o aringhe. Theo si sentiva continuamente incitare dai proprietari
della galleria a fare incassi più forti e a vendere pitture più dozzinali.
— Senti, Theo — gli diceva Vincent. — Perché non vieni via?
— Anche gli altri mercanti d’arte sono della stessa forza — rispondeva
stancamente Theo. — Eppoi è tanto tempo che sono lì. Meglio non
cambiare.
— Devi venir via. Devi, ti dico. Ogni giorno ti trovo più depresso. Non
preoccuparti di me. In qualche modo me la caverò. Di tutti i giovani che
lavorano in questo campo, tu sei il più quotato, il più noto. E godi tante
simpatie. Perché non apri una galleria tua?
— Oh, Dio, siamo daccapo?
— Ecco, ho un’idea meravigliosa. Apriremo una galleria d’arte
comunista. Noi tutti ti daremo i nostri quadri: il ricavo globale verrà diviso
in parti uguali. Con un po’ di buona volontà, tra tutti, possiamo
raggranellare la somma necessaria per aprire un piccolo negozio qui a
Parigi; nello stesso tempo affitteremo una casa in campagna, dove vivere e
lavorare tutti insieme. L’altro giorno Portier ha venduto un Lautrec, il Père
Tanguy ha smerciato parecchi Cézanne. Sono sicuro che attireremmo tutti
gli appassionati dell’arte nuova. Del resto, per mandare avanti la casa là in
campagna non ci vorrà tanto denaro. Si tratta semplicemente di abitare tutti
insieme, invece di tenere tanti alloggi qui a Parigi.
— Vincent, io ho la testa che scoppia. Mi lasci andare a dormire?
— No, dormirai domenica. Ascoltami… Ma dove vai? Bene, svestiti
pure, io continuerò a parlare. Ecco, mi siedo qui alla testa del letto…
Dunque, dal momento che in quella galleria ti rodi soltanto i pugni, mentre
tutti i giovani pittori di Parigi sono disposti ad attuare questo progetto e un
po’ di denaro si può facilmente trovare…
La sera dopo, insieme a Vincent arrivarono il Père Tanguy e Lautrec.
Theo aveva tanto sperato che Vincent passasse la serata fuor di casa. Gli
occhi del Père Tanguy saltellavano dall’eccitazione.
— Monsieur Van Gogh, Monsieur Van Gogh, è un’idea stupenda.
Dovete realizzarla. Io cedo il mio negozio e vengo in campagna con
voialtri. Preparerò i colori, tenderò le tele, costruirò i telai e le cornici. Mi
accontento del vitto e dell’alloggio.
Sospirando, Theo posò il libro che stava leggendo.
— Dove contate di trovare i fondi necessari per avviare un’impresa di
questo genere? I quattrini che ci vogliono per aprire un negozio, affittare
una casa e dar da mangiare a tutti?
— Ecco, li ho io! — esclamò trionfante il Père Tanguy. —
Duecentoventi franchi. Tutti i miei risparmi. Prendeteli, Monsieur Van
Gogh. Vi aiuteranno a dar l’avvio alla nostra colonia.
— Lautrec, tu sei un uomo di buonsenso. Che ne dici di tutta questa
assurdità?
— Per me è un’ottima idea. Allo stato attuale delle cose ci troviamo a
lottare non solo contro tutta Parigi, ma anche tra noi stessi. Formando
invece un fronte unito, compatto…
— Benissimo. Tu sei ricco. Ci aiuterai?
— Ah, no. Se la colonia venisse sussidiata, non avrebbe più scopo. Io
contribuirò con duecentoventi franchi, come Tanguy.
— Ma è una follia! Se voialtri v’intendeste un poco d’affari…
Il Père Tanguy balzò avanti, gli afferrò la mano. — Mio caro Monsieur
Van Gogh, vi scongiuro, non chiamatela una follia. È un’idea luminosa. E
voi avete il dovere, semplicemente il dovere…
— Ormai non ci scappi più, Theo — disse Vincent. — Sei nelle nostre
mani. Raccoglieremo i fondi e faremo di te il nostro capo. Ormai hai già
bell’e dato l’addio alla galleria. Tutto finito, con quei signori. Adesso sei il
direttore della Colonia Artistica Comunista.
Theo si passò una mano sugli occhi.
— Mi sembra già di vedermi, a dirigere un branco d’animali selvaggi
come voi!
Rincasando la sera dopo, Theo si trovò l’abitazione invasa da una
schiera di pittori smaniosi. In un’aria tutta azzurra di fumo di tabacco a
buon mercato si scontravano voci turbolente. Vincent sedeva su un fragile
tavolino in mezzo alla stanza, in funzione di maestro delle cerimonie.
— No, no! — gridava. — Nessuna paga, nessun stipendio.
Assolutamente niente denaro. Dal primo all’ultimo giorno dell’anno non
vedremo mai il becco d’un quattrino. Theo venderà la nostra produzione e
noi riceveremo vitto, alloggio e i materiali per lavorare.
— E che ne faremo di coloro i cui quadri non si vendessero mai? —
domandò Seurat. — Fino a quando continueremo a mantenerli?
— Finché vorranno restare a lavorare con noi.
— Magnifico — borbottò Gauguin. — Vedremo arrivarci tra i piedi tutti
i dilettanti d’Europa.
— Ecco Monsieur Van Gogh! — urlò il Père Tanguy, scorgendo Theo
appoggiato contro la porta. — Tre urrà al nostro direttore!
— Urrà! Urrà! Urrà!
Tutti erano in preda a un’eccitazione enorme. Rousseau voleva sapere se
nella colonia avrebbe potuto continuare a dar lezioni di violino. Anquetin
rivelò che doveva tre mesi d’affitto e che quindi avrebbero fatto bene a
sbrigarsi a trovare la casa in campagna. Cézanne insisteva sul fatto che ad
un individuo doveva essere permesso di spendere i suoi quattrini, se ne
aveva; mentre Vincent gridava: — No, sarebbe la fine del nostro
comunismo. Dobbiamo mettere tutto in comune, e dividercelo in parti
uguali. — Lautrec voleva sapere se si potessero portare donne in casa.
Gauguin pretendeva che ognuno avesse l’obbligo di dare almeno due quadri
al mese.
— Allora non vengo — protestò Seurat. — Io impiego un anno a
dipingere un quadro di grandi proporzioni.
— E per i materiali? — chiese Tanguy. — Dovrò dare a ciascuno ogni
settimana la stessa quantità di colori e di tela?
— Ma no! — gridò Vincent. — Ognuno avrà i materiali che gli
occorrono, né di più né di meno. Lo stesso che per il cibo.
— Sta bene, ma come si farà per il denaro che avanza, quando la nostra
produzione comincerà a rendere? A chi andranno i profitti?
— A nessuno. Appena messo un po’ di denaro da parte, prenderemo
una casa in Bretagna. Poi un’altra in Provenza. Ben presto avremo case in
tutta la Francia e potremo spostarci da una regione all’altra.
— E per i viaggi in ferrovia? Prenderemo i soldi dal fondo profitti?
— S’intende. Piuttosto, quanti viaggi potremo fare? Chi dovrà decidere
su questo punto?
— Supponiamo che a un certo momento ci troviamo in troppi. Chi
dovrà star fuori al freddo, me lo sapete dire?
— Theo, Theo, tu che sei l’impresario e il direttore di tutta la faccenda,
parla, spiegaci tutto. Potrà venire chiunque ad aggregarsi a noi? O la società
ha un organico limitato? Dovremo dipingere secondo un dato sistema?
Avremo dei modelli laggiù?
La riunione si sciolse all’alba. Gli inquilini dell’alloggio di sotto erano
sfiniti a furia di picchiare sul soffitto con manici di scopa. Theo si mise a
letto verso le quattro; ma Vincent, il Père Tanguy e alcuni dei più entusiasti
gli fecero cerchio intorno, sollecitandolo a licenziarsi per il primo del mese.
L’entusiasmo andò crescendo col passar delle settimane. Il mondo
artistico di Parigi si divise in due campi. I pittori affermati parlavano dei
fratelli Van Gogh come di due matti. Gli altri seguivano gli sviluppi di quel
nuovo esperimento con inesauribile interesse.
Vincent parlava e lavorava come un dannato, giorno e notte. C’erano
tanti e poi tanti particolari da fissare, tante questioni da risolvere: come
trovare i fondi, dove aprire il negozio, a quali criteri attenersi in materia di
prezzi, quali artisti accogliere nel gruppo, a chi affidare la direzione della
casa di campagna, quali regole stabilire per la convivenza. Quasi
controvoglia, Theo finiva per lasciarsi trascinare anche lui in
quell’atmosfera d’eccitazione febbrile. Nell’appartamento della Rue Lepic
c’era ressa ogni sera. Venivano giornalisti per trovar materia di piacevoli
articoli. Venivano critici per discutere il nuovo movimento. Da tutti gli
angoli della Francia, arrivavano pittori che chiedevano d’essere ammessi
nella nuova organizzazione.
Se Theo era il re, Vincent era il primo ministro. Redigeva innumerevoli
progetti, statuti, bilanci, richieste di fondi, codici e regolamenti, manifesti
per i giornali, opuscoli per informare l’Europa dei fini che si proponeva la
Colonia Artistica Comunista.
Aveva tanto da fare che non dipingeva più.
Quasi tremila franchi affluirono nelle casse dell’organizzazione. I pittori
davano fin l’ultimo franco che potevano mettere da parte. Venne
organizzata una fiera sul Boulevard Clichy, dove ogni pittore portò i suoi
quadri strillando a gran voce per trovare acquirenti. Giungevano lettere da
tutte le parti d’Europa, alcune con qualche piccolo biglietto di banca sudicio
e malconcio. I parigini amanti dell’arte salivano nell’appartamento dei
fratelli Van Gogh, si lasciavano contagiare dall’entusiasmo del nuovo
movimento e prima d’andarsene gettavano una banconota nella cassa
aperta. Vincent fungeva da segretario e da tesoriere.
Theo insisteva sul fatto che bisognava raccogliere almeno cinquemila
franchi prima di passare, all’attuazione del progetto. Già aveva adocchiato
un negozio in Rue Tronchet, molto ben situato a suo avviso, e Vincent
aveva scoperto una splendida vecchia casa nella foresta di St.-Germain-en-
Laye, che si poteva avere per un prezzo irrisorio. Nell’appartamento di Rue
Lepic arrivavano incessantemente quadri e quadri di pittori desiderosi di far
parte del sodalizio, finché si giunse al punto che non ci si poteva più
muovere. Era un continuo andare e venire di centinaia di persone che
discutevano, s’accapigliavano, bestemmiavano, mangiavano, bevevano e
gesticolavano furiosamente. Theo ricevette notifica di sfratto.
Alla fine del mese i bei mobili in stile Luigi Filippo erano a pezzi.
Vincent non trovava nemmeno più il tempo di pensare alla tavolozza.
Lettere da scrivere, gente da incontrare, case da andare a vedere, entusiasmi
da alimentare in tutti i pittori e i dilettanti di cui faceva la conoscenza. A
furia di parlare era diventato rauco. Negli occhi gli divampava un’energia
febbrile. Mangiava a strappi, non trovava quasi più il tempo di dormire.
Doveva continuamente muoversi, muoversi, muoversi.
Verso il principio della primavera, i cinquemila franchi erano stati
raccolti. Theo intendeva licenziarsi il primo del mese successivo. Aveva
deciso di aprire senz’altro il negozio in Rue Tronchet. Vincent depositò una
piccola caparra per la casa di St.-Germain. Theo, Vincent, Tanguy, Gauguin
e Lautrec stesero l’elenco degli artisti designati a far parte, inizialmente,
della colonia. Dalle pile di quadri accatastati nell’appartamento, Theo scelse
quelli che intendeva esporre nella prima mostra. Rousseau e Anquetin
litigarono aspramente per la questione di chi dovesse decorare l’interno
della galleria e chi la facciata. Theo non badava più al fatto che non lo
lasciavano dormire. Adesso era entusiasta come lo era stato Vincent agli
inizi. Lavorava accanitamente per organizzare tutto in modo che la colonia
potesse cominciare a funzionare in estate, e sosteneva interminabili
discussioni con Vincent per stabilire se la seconda casa dovesse essere presa
sulle coste dell’Atlantico o del Mediterraneo.
Una mattina Vincent si mise a letto verso le quattro, completamente
esausto. Theo non lo svegliò. Dormì fino a mezzogiorno e si svegliò fresco,
ristorato. Prese ad aggirarsi per lo studio. Sul cavalletto c’era una tela in
attesa da parecchie settimane. I colori sulla tavolozza, secchi, screpolati,
coperti di polvere. I tubetti, presi a calci, erano andati a finire negli angoli. I
pennelli erano sparpagliati da ogni parte, con i peli ridotti a croste.
Un’intima voce gli domandò sommessamente: «Un momento, Vincent.
Sei un pittore, o sei un organizzatore comunista?».
Afferrò bracciate di quadri male assortiti e li portò nella stanza di Theo,
accatastandoli sul letto. Nello studio lasciò soltanto le sue tele. Le fece
passare sul cavalletto una dopo l’altra, rosicchiandosi le unghie mentre le
esaminava con occhio critico.
Sì, aveva progredito. Pian piano, la sua tavolozza s’era schiarita,
aprendosi faticosamente la via ad una cristallina luminosità. E non si
scorgeva più traccia d’imitazione. Su queste tele non si potevano più
scoprire gli influssi dei suoi amici. S’accorse per la prima volta d’aver
conseguito una tecnica personalissima. La sua pittura non rassomigliava a
nessun’altra di quante ne conosceva. Nemmeno lui avrebbe saputo dire
come fosse giunto a questi risultati.
Aveva assimilato l’impressionismo attraverso il filtro del proprio
temperamento ed era quasi arrivato ad uno stranissimo modo d’espressione.
Poi, improvvisamente, s’era fermato.
Mise sul cavalletto le sue tele più recenti. A un certo punto per poco non
si lasciò sfuggire un grido. Aveva quasi, quasi afferrato qualcosa! I suoi
quadri cominciavano a rivelare un metodo ben definito, una specie di nuovo
balzo aggressivo, con le armi che s’era forgiate nel corso dell’inverno.
Quelle settimane di sosta gli consentivano ora di osservare la propria
produzione con un certo distacco, in una prospettiva limpida e chiara. Vide
che stava sviluppando una tecnica impressionistica tutta sua.
Si guardò attentamente allo specchio. Barba da sfrangiare, capelli da
tagliare, camicia sporca, pantaloni gualciti e spenzolanti come stracci. Si
stirò il vestito, indossò una camicia di Theo, prese dalla cassa della
comunità un biglietto da cinque franchi e andò dal barbiere. Quando fu ben
ravviato si diresse, cogitabondo, verso la Galleria Goupil, sul Boulevard
Montmartre.
— Theo, puoi uscire con me un momento?
— Che c’è?
— Prenditi il cappello. C’è da queste parti un caffè dove nessuno ci
possa scoprire?
Quando furono seduti in una saletta in fondo al caffé, in un angolo
appartato e tranquillo, Theo osservò: — Sai, Vincent, che da un mese a
questa parte è la prima volta che posso scambiare quattro parole con te a tu
per tu?
— Lo so. Temo d’aver fatto una sciocchezza madornale.
— Cioè?
— Dimmi francamente: sono un pittore? O sono un organizzatore
comunista?
— Spiegati meglio.
— Mi sono affaccendato tanto ad organizzare questa colonia, che non
ho più trovato il tempo di dipingere. E una volta occupata la casa di St.-
Germain, non avrò più un minuto per me.
— Capisco.
— Io voglio dipingere, Theo. Non ho affrontato questi sette anni di
fatiche e di sforzi per diventare il sovrintendente e l’amministratore d’una
comunità di pittori, tutto preso dell’ingranaggio delle faccende di casa.
Credimi, ho una nostalgia tremenda dei miei pennelli, una nostalgia tale che
quasi quasi partirei da Parigi col primo treno.
— Ma adesso, dopo tutto ciò che abbiamo…
— Ho fatto una sciocchezza madornale, ti ripeto. Posso farti una
confessione?
— Parla.
— La vista di altri pittori mi dà ormai una nausea maledetta. Sono
mortalmente stufo delle loro chiacchiere, delle loro teorie, delle loro eterne
dispute. Oh, non farmi quel sorriso, lo so che ho fatto anch’io la mia parte.
È appunto per questo. Che cosa diceva Mauve? O si fa il pittore, o si
chiacchiera di pittura; ma non si possono fare contemporaneamente le due
cose. Ebbene, Theo, mi hai mantenuto per sette anni semplicemente per
sentirmi esporre delle idee?
— Eppure, hai lavorato magnificamente per la colonia.
— Sì, ma adesso che siamo pronti a trasferirci laggiù m’accorgo che
non ho nessuna voglia d’andarci. Finirei per non far più niente. Non so se
riuscirò a farmi comprendere, Theo… Ma sì che mi comprenderai. Quando
ero solo, nel Brabante e all’Aia, avevo stima di me stesso. Ero un uomo allo
sbaraglio, in lotta con tutto il mondo. Ero un artista, l’unico artista vivente.
Tutto ciò che dipingevo, aveva valore. Mi riconoscevo un grande ingegno
ed ero persuaso che il mondo avrebbe detto un giorno: «Che stupendo
pittore!».
— E adesso?
— Adesso, ahimé, sono appena uno dei tanti. Vedo intorno a me
centinaia di pittori. Da qualunque parte mi volti, ravviso in un altro la mia
caricatura. Pensa a tutte quelle croste che ci sono nel nostro appartamento,
mandate da pittori che aspirano a far parte della colonia. Anch’essi si
ritengono destinati a diventare grandi artisti. Ebbene, forse sono anch’io
come loro. Come posso sapere? Con che cosa posso ora sostenere il mio
coraggio? Prima di venire a Parigi ignoravo che esistessero tanti pazzi i
quali s’illudevano per tutta la vita. Adesso lo so. Ed è una cosa che fa male.
— Ma personalmente non ti riguarda.
— Forse no. Ma non riuscirò mai a liberarmi completamente dal
dubbio. Quando sono solo, per la campagna, dimentico che ogni giorno si
dipingono migliaia di quadri. Immagino che il mio sia l’unico e che
rappresenti un bel dono al mondo. Continuerei a dipingere anche se sapessi
che la mia pittura non val niente: ma intanto questa… quest’illusione
d’artista mi sostiene, mi aiuta. Comprendi?
— Sì.
— Eppoi, io non sono un pittore di città. Non è questo il mio posto. Io
sono un pittore contadino. Voglio trovare un sole così ardente che bruci
tutto in me, fuorché il desiderio di dipingere.
— Vuoi dunque… lasciare Parigi?
— Sì. Devo farlo.
— E la colonia?
— Io mi ritiro. Ma tu devi andare avanti.
Theo scosse la testa. — Senza di te, no.
— Perché?
— Non so. Lo facevo soltanto per te. Perché tu volevi così.
Alcuni istanti di silenzio.
— Non ti sei ancora licenziato, Theo?
— No. Intendevo farlo il primo del mese.
— Potremo, immagino, restituire il denaro a chi ce l’ha dato.
— Certo. Quando ti proponi di partire?
— Non prima che la mia tavolozza si sia ben schiarita.
— Capisco.
— Allora me ne andrò. Verso il Sud, probabilmente. Non so dove. Mi
preme essere solo. E dipingere, dipingere, dipingere. Da solo.
Passò il braccio intorno alle spalle del fratello con un gesto di rude
affetto.
— Theo, dimmi che non mi disprezzi per il fatto di vedermi mandar
tutto al diavolo, così, dopo essermi tanto impegnato e agitato.
— Disprezzarti?
Theo sorrise con infinita tristezza. Batté un colpetto sulla mano posata
sulla sua spalla.
— No… no, figurati. Ti comprendo. E credo che tu abbia ragione. Be’,
vecchio mio… finisci tranquillamente di bere. Io devo tornare alla galleria.
13.
«Caro Theo,
«sono partito per Arles. Appena arrivato, ti scriverò.
«Ho attaccato alle pareti alcuni miei quadri, perché tu non mi
dimentichi.
«Con una affettuosa stretta di mano,
Vincent».
PARTE SESTA
ARLES
1.
Vincent aprì bruscamente gli occhi, colpiti dal sole arlesiano. Il sole era
una vorticosa e liquida sfera di fuoco d’un color giallo limone, che
esplodeva in un secco cielo azzurro e riempiva l’aria d’una luce accecante.
Il tremendo calore e l’intensa chiarità creavano un mondo nuovo,
inconsueto.
Balzato giù dalla carrozza di terza classe in quell’ora mattutina, Vincent
infilò la strada serpeggiante che dalla stazione conduceva alla Place
Lamartine: la piazza del mercato chiusa tra la sponda del Rodano e una fila
di caffè ed albergucci. Arles si stendeva dinanzi, strusciando contro il fianco
d’una collina come appiccicatavi dalla cazzuola d’un muratore,
sonnacchiosa e stordita nella vampa tropicale del sole.
Quando si trattava di cercarsi un alloggio, Vincent procedeva con la
massima indifferenza. Entrò nel primo albergo della Place Lamartine, l’
«Hotel de la Gare», e fissò una stanza. Un pretensioso e volgare letto
d’ottone, una catinella con una brocca screpolata, una sedia zoppicante. Il
proprietario vi aggiunse una tavola sverniciata. Mancava lo spazio per
sistemare il cavalletto, ma Vincent si riprometteva di lavorare tutto il giorno
all’aperto.
Gettò la valigia sul letto e s’avvicinò fuori per vedere la città. Dalla
Place Lamartine si poteva raggiungere per due vie diverse il centro di Arles.
A sinistra passava una strada circolare, riservata ai veicoli, che sfiorava
tutt’intorno la città e saliva pian piano verso la sommità della collina
rasentando nel suo percorso l’antico foro romano e l’anfiteatro. Vincent
scelse la via più breve: un labirinto di stradicciole che s’inerpicavano verso
l’assolata Place de la Mairie, sfiorando freschi cortili lastricati in pietra e
spiazzi quadrangolari che parevano rimasti tali e quali dall’epoca
dell’occupazione romana. Per tener lontana la sfera del sole, le viuzze si
restringevano a tal segno che Vincent, aprendo le braccia, arrivava a toccare
con le punte delle dita le case allineate ai due margini. E per non lasciarsi
prendere d’infilata dalle raffiche implacabili del mistral, queste viuzze si
snodavano su per il pendio di un dedalo sfibrante e tortuoso, senza mai
formare un rettilineo che superasse i dieci metri di lunghezza. Mucchi di
rifiuti e spazzature, bambini sudici sui portoni, dovunque un che di sinistro
e di opprimente.
Vincent uscì dalla Place de la Mairie, raggiunse attraverso una viuzza
breve lo stradone alle spalle della città, s’aggirò per il piccolo parco e prese
a scendere per il fianco della collina verso l’anfiteatro romano.
Arrampicandosi di gradinata in gradinata come una capra, ne raggiunse la
sommità. Si sedette su un blocco di pietra con le gambe spenzolanti su un
forte strapiombo, accese la pipa e lasciò spaziare lo sguardo sul dominio di
cui si sentiva padrone e signore.
La città sottostante si riversava bruscamente verso il Rodano come una
caleidoscopica cascata. I tetti delle case formavano un fitto e intricato
disegno. Originariamente coperti di tegole rosse, sotto i dardeggianti raggi
del sole avevano assunto una coloritura variegata, con macchie e strisce che
andavano da una tenuissima tinta limone ad un delicato rosa di conchiglia,
ad un mordente color lavanda, ad un’opaca e densa tinta terrigna.
L’ampio e rapido corso del Rodano disegnava una curva decisa in fondo
alla collina cui s’aggrappava la città, lanciandosi impetuosamente verso il
Mediterraneo. Le acque correvano tra due sponde di pietra. Dall’altra parte
del fiume, Trinquetaille splendeva come una città dipinta. Alle spalle di
Vincent, le montagne: imponenti masse profilate nella chiara luce bianca.
Davanti a lui, un disteso panorama di campi ben coltivati, orti in fiore, il
poggio di Montmajour, fertili valli percorse da migliaia di solchi che
convergevano concordemente verso un remoto punto dell’infinito.
Ma fu il colore della plaga a sbalordirlo, tanto che si passò una mano
sugli occhi. Un cielo così intensamente azzurro, di un’azzurrità così fonda,
ferma e costante, da non sembrar più affatto azzurro, ma senza colore. Il
verde delle campagne che si stendevano sotto i suoi occhi rappresentava
l’essenza del color verde: un verde impazzito. Il fiammeggiante giallo-
limone del sole, il rosso-sangue del terreno, l’urlante bianchezza di una
nuvola solitaria su Montmajour, il sempre rinascente rosa degli orti: un
campionario di colori incredibili. Come presumere di riprodurli? E quando
pure fosse riuscito a trasferirli sulla propria tavolozza, come avrebbe potuto
convincere gli altri che simili colori esistevano realmente? Giallo-limone,
azzurro, verde, rosso e rosa: cinque torturanti gradi di espressione e di
rivelazione per cui trascorreva impetuosamente la natura.
Vincent tornò per lo stradone in Place Lamartine; prese cavalletto tela e
colori, e s’avviò lungo la sponda del Rodano. Da ogni parte i mandorli
cominciavano a fiorire. I bianchi riverberi del sole sull’acqua gli facevano
male agli occhi. Aveva lasciato il cappello all’albergo. Il sole gli faceva
avvampare la testa rossa e gli penetrava nelle carni eliminandone tutto il
freddo di Parigi, tutta la stanchezza, Io scoraggiamento e il tedio che la vita
di città gli aveva lasciato nell’anima.
Dopo aver camminato per un chilometro lungo il corso del fiume trovò
una specie di ponte levatoio su cui passava in quel momento un piccolo
carro che si profilava nettamente contro il cielo sereno. Le acque erano
azzurre come quelle d’una fonte, le rive di color arancione con folte
macchie d’erba verdeggiante. Lavandaie in grembiuli e cuffie multicolori
sciacquavano panni all’ombra di un albero solitario.
Vincent piantò il cavalletto, trasse un lungo respiro e socchiuse gli
occhi. Impossibile afferrare quei colori tenendo gli occhi aperti. I discorsi di
Seurat sul suo puntinismo scientifico, le arringhe di Gauguin sul
decorativismo primitivo, le proposizioni di Cézanne sulle superfici solide,
le teorie di Lautrec sulle linee di colore e i suoi abbandoni ad uno splenetico
odio: tutto cadde di colpo, tutto si sfaldò.
Rimaneva soltanto lui, Vincent Van Gogh.
Rientrò all’albergo verso l’ora del pranzo. Sedette ad un tavolino del bar
e ordinò un assenzio. Era troppo eccitato, troppo sazio d’impressioni e di
sensazioni, per pensare a mangiare. Un signore che sedeva ad un tavolo
vicino osservò gli spruzzi di colore che gli costellavano le mani, la faccia e
il vestito, e attaccò discorso con lui.
— Sono un giornalista parigino. Ho trascorso qui tre mesi a raccogliere
materiale per un libro sulla lingua provenzale.
— Io invece sono arrivato da Parigi soltanto stamattina.
— Già. E avete intenzione di fermarvi parecchio?
— Sì, probabilmente.
— Ebbene, non ve lo consiglio. Arles è la più matta città del globo.
— Che cosa ve lo fa pensare?
— Non lo penso: lo so. Da tre mesi osservo questa gente e, ve lo dico
io, son tutti cervelli balzani. Guardateli negli occhi. In tutta questa zona di
Tarascona non c’è una persona normale, ragionevole, equilibrata!
— Mi sembra tanto strano.
— Tra una settimana sarete d’accordo con me. La zona di Arles è la più
sconquassata di tutta la Provenza. Siete stato in giro per la campagna, avete
visto che cos’è questo sole. Non immaginate quali effetti deve produrre su
questa gente soggetta ogni giorno ai suoi raggi accecanti? Dissecca e
volatizza i cervelli, credetemi. Eppoi il mistral. Non l’avete mai provato?
Ah, caro mio, aspettate d’averne fatto l’esperienza. In questa città
imperversa per duecento giorni all’anno. Se tentate d’uscire in istrada, vi
scaraventa contro i muri. Se siete in campagna, vi sbatte per terra e vi fa
roteare nella polvere. Vi torce i visceri in una maniera tale che vi pare di
non poter resistere un minuto di più. Ho visto quel vento infernale svellere
finestre, sradicare alberi, abbattere siepi, sferzare e sbatacchiare uomini e
bestie da farmi pensare che da un momento all’altro dovesse ridurli in
brandelli. Sono qui da appena tre mesi, e comincio anch’io a diventare un
po’ matto. Domani mattina me la svigno!
— Adesso esagerate, vero? Per quel poco che ho visto, gli arlesiani mi
sono parsi gente perfettamente a posto.
— Per quel poco che avete visto. Aspettate di conoscerli. Sapete qual è
la mia opinione personale?
— Quale? Accettate un absinthe?
— Grazie. Secondo il mio modesto parere, Arles è una città epilettica.
Si eccita, si eccita fino a una tale intensità di eccitazione nervosa da farvi
credere che finirà per dare in un accesso violento di furia, con la schiuma
alla bocca.
— E accade realmente così?
— No. Questo è il fatto più strano. L’esplosione pare sempre
imminente, e non si verifica mai. Da tre mesi m’aspettavo di vedere
scatenarsi una sommossa o spalancarsi un vulcano in Place de la Mairie.
Almeno una dozzina di volte ho avuto l’impressione che gli abitanti
stessero per diventare improvvisamente pazzi furiosi e si tagliassero la gola
l’un l’altro. Ma proprio quando s’è giunti a sfiorare questo punto critico, il
mistral si placa per un paio di giorni e il sole si nasconde dietro le nubi.
— Dunque, se Arles non arriva mai fino alla crisi conclusiva, non potete
chiamarla epilettica, vi pare?
— Infatti. Ma io la chiamo epilettoidale.
— Che significa?
— Sto scrivendo su questo argomento un articolo per il mio giornale di
Parigi. È stato questo studio d’un autore tedesco a suggerirmene l’idea. —
Cavò di tasca una rivista e la passò all’interlocutore. — Alcuni medici
hanno studiato diverse centinaia di casi relativi a persone affette da malattie
nervose che parevano epilessia ma che non si manifestavano mai in accessi
veri e propri. Ecco tracciata in questo grafico la curva dello sviluppo del
nervosismo e dell’eccitazione; ecco qui la spiegazione di ciò che i medici
chiamano tensione volatile. Ebbene, in ognuno di questi casi i soggetti
hanno sofferto di stati febbrili sempre più intensi fino all’età di trentacinque
o trentott’anni. A trentasei, in media, subiscono un violento accesso
epilettico. Poi, in qualche raro caso, ancora una mezza dozzina di
convulsioni; e infine, nello spazio di un anno o due, tutto è finito e non se
ne parla più.
— Infatti è un’età in cui s’è ancora troppo giovani per morire. Un
individuo comincia appena allora ad esercitare un vero dominio su se
stesso.
Il giornalista si rimise in tasca la rivista.
— Vi fermerete per un po’ di tempo in questo albergo? Il mio articolo è
quasi finito; appena sia pubblicato ve ne manderò una copia. In sostanza io
sostengo questo: Arles è una città epilettoidale. Il ritmo delle sue pulsazioni
va crescendo da secoli. La prima crisi s’avvicina. È inevitabile. E si
verificherà ben presto. Assisteremo allora ad una catastrofe orrenda.
Omicidi, incendi, violenze carnali, distruzioni d’ogni specie! Questo paese
non può continuare all’infinito a vivere in uno stato di torturante tensione.
Qualcosa dovrà accadere, e sicuramente accadrà. Io me la svigno prima di
dover vedere la gente con la schiuma alla bocca. E vi consiglierei di fare
altrettanto.
— Grazie, io qui mi trovo molto bene. Ora salgo in camera mia. Ci
vediamo domani mattina? No? Allora, buona fortuna. E non dimenticate di
mandarmi una copia del vostro articolo.
2.
3.
Cercò di trovare qualcuno che posasse per lui, ma gli abitanti di Arles
non ne volevano sapere. Pensavano che egli li avrebbe ritratti male e
temevano di incorrere nelle beffe degli amici. Vincent sapeva che, se avesse
dipinto con la grazia levigata e piacevole d’un Bouguereau, costoro non si
sarebbero adontati di lasciarsi ritrarre. Dovette rinunciare all’idea di trovar
modelli e applicarsi esclusivamente al paesaggio.
S’era ormai in piena estate. Il caldo si fece più forte, il vento s’acquetò e
si spense. Vincent lavorava in una luce che andava da un pallido giallo-
zolfo ad un pallido giallo-oro. Pensava spesso a Renoir, alla sua nitida
purezza di linea. Proprio così appariva ogni cosa nella chiara atmosfera
della Provenza: come nelle stampe giapponesi.
Una mattina s’imbattè in una ragazza dalla carnagione color caffè, con i
capelli biondo-cenere, occhi grigi, una camicetta d’un rosso pallido che
metteva in evidenza i seni acerbi, piccoli e sodi. Una creatura semplice
come i campi, virginea in ogni linea del corpo. La madre era invece una
sorprendente figura tutta giallo sporco e blu stinto, campeggiante in pieno
sole contro uno sfondo di sfolgoranti fiori bianchi e giallini. Per un tenue
compenso posarono diverse ore per lui.
Quella sera all’albergo, Vincent si sorprese a pensare alla ragazza dalla
carnagione color caffè. Non riusciva a prender sonno. Sapeva che ad Arles
c’erano dei postriboli; ma si trattava per lo più di posti da cinque franchi,
frequentati dagli zuavi, negri portati ad Arles per essere addestrati e
immessi nell’esercito francese.
Da mesi Vincent non parlava più con una donna, se non per chiedere
una tazza di caffè o un pacchetto di tabacco. Ricordava ora le parole
appassionate di Margot, risentiva sul volto la carezza delle sue dita e delle
sue labbra.
Balzò fuori dal letto, uscì dall’albergo e, attraversata precipitosamente
la Place Lamartine, s’addentrò in una viuzza tra scure masse di case. Dopo
un breve tratto di salita, gli giunse un rumore di voci e di trambusto. Si mise
a correre e giunse davanti alla porta d’una casa di tolleranza in Rue des
Ricolettes proprio al momento in cui i gendarmi portavano via due zuavi
uccisi da alcuni ubriachi. I fez rossi dei soldati giacevano in pozze di
sangue sul selciato. Una squadra di gendarmi trascinava verso le prigioni gli
uccisori, mentre si levavano grida di gente inferocita: — Impiccateli!
Impiccateli!
Vincent approfittò del trambusto per sgattaiolare dentro la casa di
tolleranza, situata al n. 1 di Rue des Ricolettes. Louis, il proprietario, gli si
fece incontro e lo introdusse in un salottino a sinistra dell’ingresso, dove già
alcune coppie stavano bevendo.
— Ho una ragazza che si chiama Rachel e che è veramente carina —
disse Louis. — Monsieur vuole provarla? Se non vi piace, potrete
sceglierne un’altra.
— Vorrei vederla.
Sedette a un tavolino e accese la pipa. S’udii dalla sala vicina il trillo
d’una risata, e una ragazza entrò a passo di danza. Si lasciò cadere sulla
sedia di fronte a Vincent e gli sorrise.
— Sono Rachel.
— Perbacco, ma sei ancora una bambina!
— Ho sedici anni — dichiarò fieramente Rachel.
— Da quanto tempo sei qui?
— Da Louis? È un anno.
— Lasciati guardare.
Ella volgeva le spalle alla lampada a gas, sicché la faccia restava in
ombra. Accostò la testa alla parete alzando il viso verso la luce, in modo
che Vincent potesse vederla bene.
Una faccia tonda e paffutella, grandi occhi cilestrini e spensierati, mento
e collo carnosi. I capelli neri tirati e ravvolti sulla sommità del capo
accentuavano la rotondità del viso. Indossava soltanto una veste di stoffa
leggera e un paio di sandali. Gli àpici dei seni tondi parevano due indici
puntati contro di lui in atteggiamento d’accusa.
— Sei davvero graziosa, Rachel.
Gli occhi le si avvivarono d’un brillante sorriso fanciullesco. Girò su se
stessa, gli prese la mano.
— Sono lieta di riuscirti simpatica. Mi piace tanto piacere agli uomini.
Così è una cosa più bella, non trovi?
— Certo. E io ti piaccio?
— Ti trovo un tipo buffo, four-rou.
— Fou-rou! Dunque, mi conosci?
— Ti ho visto in Place Lamartine. Perché corri sempre di qua e di là con
quell’affare in ispalla? E perché vai sempre a capo scoperto? Il sole non ti
dà noia? Hai gli occhi tutti rossi. Non ti fanno male?
Vincent rise di tanta ingenuità.
— Sei un vero amore, Rachel. Mi chiamerai col mio nome, se te lo
dico?
— Come ti chiami?
— Vincent.
— No, preferisco fou-rou. Non t’offendi mica? E mi fai portare
qualcosa da bere? Il vecchio Louis mi tiene gli occhi addosso, dall’atrio.
Si fece scorrere le dita sulla gola; Vincent le guardò affondarsi nella
morbidezza delle carni. Gli sorrise con i suoi spensierati e inespressivi
occhi azzurri; ed egli s’accorse che gli sorrideva per sembrar contenta,
affinché lo fosse anche lui. Aveva una dentatura regolare, ma scura; il
tumido e largo labbro inferiore si riversava quasi fino a sfiorare la profonda
fossetta orizzontale del mento.
— Ordina una bottiglia di vino — le disse Vincent. — Ma d’una qualità
non troppo costosa, perché ho pochi soldi.
Quando portarono il vino, Rachel gli propose: — Vuoi che andiamo a
bere nella mia camera? Ci si sta più tranquilli.
— Molto volentieri.
Salirono una rampa di scale in pietra ed entrarono nella stanzetta di
Rachel. Un lettino, un cassettone, una sedia e diversi medaglioni di Julien
appesi alle pareti bianche d’intonaco. Sul cassettone una bambola e un
bambolotto seduti, ormai laceri e ammaccati.
— Me li sono portati qui da casa mia. Tieni, fou-rou, prendili in mano.
Questo è Jacques e questa Catherine. Giocavo con loro a «papà e mamma».
Oh, fou-rou, non farmi quella faccia!
Vincent se ne stava lì sorridendo stupidamente con i due bambolotti in
braccio, uno per parte, aspettando che Rachel finisse di ridere. Ella glieli
riprese, li gettò sul cassettone, scalciò i sandali in un angolo e sgusciò fuori
dalla veste.
— Siediti, fou-rou, e mettiamoci a giocare. Tu farai il papà, e io la
mamma. Non ti piace questo gioco?
Era una ragazza bassa e atticciata, con grosse cosce convesse, una
profonda infossatura sotto i seni baldanzosamente sporgenti, e un ventre
morbido e tondeggiante che s’incurvava sul triangolo pelvico.
— Rachel, se continui a chiamarmi fou-rou, ho anch’io un nomignolo
che fa per te.
Rachel batté le mani e gli si gettò sulle ginocchia.
— Oh, dimmelo! Mi piace sentirmi chiamare con un nome nuovo!
— Ti chiamerò Le Pigeon.
Gli occhi cilestrini di Rachel espressero un senso di perplessità e
d’offesa.
— Perché Le Pigeon, papà?
Vincent le passò leggermente la mano sul ventre.
— Perché sembri proprio un piccione, con quegli occhi miti e questo
pancino grasso.
— Ed è una cosa simpatica essere un piccione?
— Certo. I piccioni sono assai graziosi: e anche tu lo sei.
Rachel lo baciò sull’orecchio, balzò giù dal letto e andò a prendere due
bicchieri.
— Che orecchie piccole hai, fou-rou! — esclamò tra due sorsi di vino.
Beveva come una bambina, col naso nel bicchiere.
— Ti piacciono?
— Tanto. Sono morbide e rotonde come quelle dei cuccioli.
— Allora prenditele.
Rachel rise forte. Si portò il bicchiere alle labbra. Ma ebbe un altro
accesso di ilarità, che le fece versare un po’ di vino. Un filo rosso le scese
sulla mammella sinistra, sgocciolò sul ventre e andò a perdersi,
serpeggiando, nel triangolo nero.
— Sei un bel tipo, fou-rou. Tutti parlano di te come d’un pazzo. Ma tu
non lo sei, vero?
— Solo un pochino — rispose Vincent con una smorfia.
— E sarai il mio amante? Da oltre un mese non ne ho più. Verrai a
trovarmi tutte le sere?
— Temo che non mi sia possibile, Pigeon. Rachel allungò le labbra
imbronciate. — Perché?
— Tra l’altro, perché non ho soldi.
Rachel gli tirò scherzosamente l’orecchio destro. — Se non avrai i
cinque franchi, fou-rou, ti taglierai l’orecchia e me la darai, no? Mi
piacerebbe tanto averla. La metterei sul cassettone e mi trastullerei con essa
tutte le sere.
— E me la ridarai, se più tardi troverò i cinque franchi?
— Oh, fou-rou, che simpaticone sei! Fossero tutti come te, quelli che
vengono qui!
— Ti trovi bene qua dentro?
— Oh, sì. Mi diverto un mondo e mi piace immensamente… Fuorché
quando vengono gli zuavi, s’intende.
Posò il bicchiere e gli gettò le braccia al collo. Vincent sentì la
morbidezza del suo ventre, e le punte dei seni tumidi che gli bruciavano
dentro. Rachel gli incollò la bocca sulla bocca. Egli si diede a suggere
avidamente la vellutata e umida dolcezza del labbro inferiore.
— Verrai ancora a trovarmi, fou-rou? Non mi dimenticherai, non andrai
da un’altra ragazza?
— Tornerò, Pigeon.
— E adesso vuoi che… giochiamo a «papà e mamma»? Vincent uscì di
là un’ora dopo, arso da una sete che riuscì a placare soltanto ingoiando uno
dopo l’altro tutta una serie di bicchieri d’acqua limpida e fresca.
4.
Era giunto alla conclusione che quanto più un colore viene tritato e
pestato fino a raggiungere un alto grado di finezza, tanto più si satura
d’olio. L’olio rappresentava soltanto un mezzo, in rapporto al colore; né egli
se ne preoccupava molto, dato che non gli dispiaceva affatto che i suoi
quadri avessero una certa impronta di rudezza. Invece di comprare colori
preparati a Parigi, pestati chissà quante ore, decise di allestirseli da sé. Theo
incaricò il Père Tanguy di mandargli i tre cromi, la malachite, il vermiglio,
l’arancione, il cobalto e l’oltremare. Vincent li tritò nella sua stanzetta
d’albergo. Constatò che così i colori non solo gli costavano meno, ma erano
più freschi e più duraturi.
Poi cominciò ad essere scontento della tela su cui dipingeva. Il tenue
strato di gesso che la ricopriva non assorbiva i suoi colori densi e ricchi. Si
fece mandare da Theo rotoli di tela non ancora preparata. La sera,
scioglieva il gesso in un piccolo recipiente e ne spalmava la tela su cui
doveva lavorare il giorno dopo.
Georges Seurat gli aveva inoculato la preoccupazione della cornice
destinata ad accogliere il dipinto. Mandando a Theo le sue prime tele
arlesiane, Vincent non mancò di spiegargli di che legno e di che colore
dovessero essere le varie cornici. Ma non si tenne pago finché non si mise
ad allestirle personalmente. Comprava semplici listelli di legno, li tagliava
della lunghezza voluta e li coloriva in accordo con la tonalità del quadro.
Faceva dunque tutto lui: si preparava i colori, spalmava e tendeva le
tele, le dipingeva, costruiva le cornici e le coloriva.
«Peccato che non possa anche comprare i miei quadri! — si
rammaricava. — Così sarei perfettamente autonomo!».
Riprese ad imperversare il mistral. Tutta la natura sembrava invasa da
un selvaggio furore. Nel cielo, non una nuvola. Ad un sole sfolgorante,
s’accompagnava un freddo secco e pungente. Vincent dipinse nella sua
stanza una natura morta: una tazzina da caffè smaltata di azzurro, una tazza
blu e oro, un boccale di maiolica azzurra con fregi in rosso, verde e
marrone, e infine due arance e tre limoni.
Acquetatosi il vento riprese ad uscire e dipinse una veduta del Rodano
— il ponte in ferro di Trinquetaille — dove il cielo e il fiume avevano il
colore dell’assenzio, gli argini erano d’un lillà sfumato, nere le figure curve
con i gomiti sul parapetto, d’un intenso turchino il ponte, con un cenno di
vivido arancione e un tocco di verde-malachite nello sfondo nereggiante.
Vincent tendeva a conseguire un accento angosciato e quindi angosciante.
Anziché industriarsi di riprodurre con esattezza il paesaggio che gli
stava dinanzi, usava arbitrariamente i colori per esprimere con maggior
forza se stesso. Si rendeva conto della verità di quanto gli aveva detto un
giorno, a Parigi, Pissarro: «Bisogna esagerare arditamente gli effetti
cromatici, tanto nel senso dell’armonia quanto nel senso dei contrasti».
Anche Maupassant aveva affermato qualcosa d’analogo nell’introduzione a
Pierre et Jean: «L’artista è libero di esagerare, di creare nella sua narrazione
un mondo più bello, più semplice, più consolante del nostro».
Lavorò un’intera giornata sotto un sole spietato, con ritmo febbrile, e
dipinse un campo arato di fresco: un vasto campo dalle zolle violacee che
saliva verso l’orizzonte, con un seminatore in blu e bianco. Verso la linea
dell’orizzonte una distesa di grano maturo. In alto un cielo giallo,
incendiato dal sole.
Sapeva che i critici parigini l’avrebbero accusato di lavorare troppo in
fretta. Quanto a lui, non era di quest’idea. Non obbediva forse all’impulso
costringente dell’emozione, di un sincero senso della natura? E se ora le
emozioni erano talvolta così forti ch’egli lavorava quasi senza rendersene
conto, se talvolta le pennellate si susseguivano rapide e coerenti come le
parole d’un discorso, sarebbe purtroppo venuto il tempo in cui avrebbe
nuovamente conosciuto giornate fiacche e pesanti, senza ispirazione.
Doveva battere il ferro mentre era caldo e mettere da parte i frutti di questa
eccezionale stagione creativa.
Si appese il cavalletto alla spalla e prese la strada che passava davanti a
Montmajour. Camminava così speditamente che non tardò a raggiungere un
uomo ed un ragazzo che lo precedevano. Riconobbe nell’uomo il vecchio
Roulin, il postino di Arles. L’aveva spesso avuto vicino al caffè e più d’una
volta avrebbe voluto attaccar discorso con lui, ma l’occasione non s’era mai
presentata.
— Buon giorno, Monsieur Roulin.
— Ah, siete voi, il pittore! Buon giorno. Oggi è domenica, e ho
condotto il mio ragazzo a fare una passeggiata.
— Splendida giornata, vero?
— Oh, sì, è una gran bella cosa quando non soffia il mistral! Avete
dipinto un quadro oggi, Monsieur?
— Sicuro.
— Io sono un ignorante, Monsieur, e di arte non mi intendo. Ma mi
fareste un onore e un piacere, se me lo lasciaste vedere.
— Volentieri!
Il ragazzo corse avanti, giocando. Vincent e Roulin camminavano
lentamente a fianco a fianco. Mentre Roulin guardava la tela, Vincent lo
osservava attentamente. Aveva in testa il suo berretto turchino di
portalettere. Due occhi dolci e curiosi; un lunga e ampia barba ondulata che
gli copriva completamente la gola e il colletto, scendendo fin sul bavero
della giacca blu. Dava la stessa impressione di bontà e di pensosa
malinconia che già aveva reso tanto simpatico a Vincent il Père Tanguy; la
sua faccia bonaria di contadino sembrava fuor di luogo in mezzo a quella
lussureggiante barba di filosofo greco.
— Sono un ignorante, Monsieur, e voi mi perdonerete se oso aprir
bocca. Ma questo vostro campo di grano è proprio vivo come quello dove
siamo passati, laggiù, quando vi ho visto lavorare.
— Sicché, vi piace?
— Ah, questo non lo saprei dire. Io so soltanto che mi fa sentire qualche
cosa, qui. — E si passò la mano sul petto.
Si soffermarono un momento sotto Montmajour. Il sole s’invermigliava
sopra l’antica abbazia, saettando i suoi raggi sui fusti e sul fogliame dei pini
che sorgevano tra le rocce e tingendoli di fiammanti bagliori, mentre in
lontananza altri pini color blu di Prussia si profilavano contro un cielo
tenero verde-cerulo. La sabbia bianca e le rocce ai piedi degli alberi
s’inazzurravano pallidamente.
— Anche qui è tutto vivo, Monsieur, vero?
— E lo sarà ancora quando noi non ci saremo più, Roulin.
Ripresero a camminare, discorrendo con tranquilla cordialità. La
conversazione di Roulin aveva un tono di calma serenità. Uomo semplice,
diceva cose semplici e profonde al tempo stesso. Manteneva se stesso, la
moglie e quattro figli col suo stipendio di centotrentacinque franchi mensili.
Faceva il postino da venticinque anni, senz’aver avuto mai una promozione,
ma soltanto alcuni lenti e irrisori aumenti di stipendio.
— Da giovane, Monsieur, pensavo molto a Dio. Ma mi sembra che con
l’andar degli anni Egli si sia sempre più allontanato. È ancora nel campo
che voi avete dipinto, è ancora nel tramontar del sole là su Montmajour; ma
quando penso agli uomini e allo stato in cui hanno ridotto il mondo…
— Capisco, Roulin. Ma io sento sempre più che non dobbiamo
giudicare Dio da questo mondo. Questo mondo è semplicemente un quadro
riuscito male. Che cosa fate davanti ad un brutto quadro, se amate ed
ammirate l’artista che l’ha eseguito? Rinunciate a criticare, tacete. Certo,
però, avete il diritto di chieder qualcosa di meglio.
— Ecco, proprio così! Un tantino, appena un tantino di meglio.
— Dovremmo vedere altri mondi creati dalla stessa mano, prima di
giudicarLo. Questo è stato evidentemente buttato giù in fretta e furia, in una
giornata senza ispirazione, quando l’artista non era in forma.
Sullo stradone tortuoso era caduto il crepuscolo. Lo scuro drappo di
cobalto della sera cominciava a punteggiarsi di pupille di stelle. Roulin alzò
in viso a Vincent i dolci occhi innocenti.
— Credete dunque che esistano altri mondi, Monsieur?
— Non so, Roulin. Da quando ho cominciato ad interessarmi di pittura,
ho lasciato da parte questi problemi. Ma la nostra vita mi sembra una cosa
tanto incompleta. Talvolta penso che come i treni e le carrozze sono mezzi
di locomozione per trasferirci da un punto all’altro di questa terra, così il
tifo e la tubercolosi siano mezzi di locomozione per trasferirci da un mondo
all’altro.
— Ah, ne avete delle idee, voialtri artisti!
— Roulin, volete farmi un favore? Lasciatemi dipingere il vostro
ritratto. Quelli di Arles non vogliono posare per me.
— Ne sarei onorato, Monsieur. Ma perché volete farmi il ritratto? Sono
così brutto!
— Se c’è un Dio, Roulin, io sono persuaso che deve avere una barba e
due occhi come i vostri.
— Volete prendermi in giro, Monsieur.
— Tutt’altro. Parlo seriamente.
— Volete venire a cena da noi stasera? Potremo offrirvi poco, ma
saremo felici di avervi con noi.
Madame Roulin, una contadina che gli ricordava un poco la signora
Denis, stese sulla tavola una tovaglia a quadretti bianchi e rossi.
Mangiarono un po’ di stufato con patate, pane cotto in casa, e bevvero una
bottiglia di vino acido. Dopo cena Vincent schizzò un ritratto di Madame
Roulin mentre chiacchierava col marito.
— Al tempo della rivoluzione ero repubblicano — disse Roulin — ma
ora vedo che non ci ho guadagnato niente. Sia che comandi un re, sia che
comandino i ministri, noialtri poveri siamo sempre allo stesso punto. Io
credevo che una volta stabilita la repubblica tutto sarebbe stato diviso in
parti uguali, e ognuno avrebbe avuto la sua.
— Illusione, Roulin.
— Per tutta la vita mi sono sforzato di capire, Monsieur, perché uno
debba avere più dell’altro, perché uno debba sudare come un dannato
mentre l’altro se ne sta seduto a far niente. Forse sono troppo ignorante per
capire. Credete che se fossi istruito, Monsieur, ci riuscirei?
Vincent gli lanciò un’occhiata. Roulin si metteva a fare il cinico? Ma
no: la sua fisionomia aveva sempre quell’aria d’innocente ingenuità.
— Sì, amico mio. Sembra che generalmente le persone istruite
comprendano benissimo i motivi di questo stato di cose. Ma anch’io sono
ignorante come voi, e non riuscirò mai a comprenderlo né ad accettarlo.
5.
S’alzava alle quattro del mattino, faceva tre o quattro ore di marcia per
giungere nel posto voluto e lavorava fino all’imbrunire. Non era affatto
piacevole ripercorrere poi quei dieci o dodici chilometri lungo lo stradone
deserto e solitario, ma egli trovava conforto nel sentirsi sotto il braccio il
quadro compiuto.
In sette giorni, sette grandi quadri. Al termine della settimana non si
reggeva quasi più. Era stata una magnifica estate, ma ormai non bisognava
più pensare a lavorare all’aperto. Si scatenò un violento mistral, che
sollevava turbini di polvere: gli alberi ne erano tutti bianchi. Vincent
dovette rassegnarsi alla reclusione. Fece una dormita di sedici ore
consecutive.
Si trovava in cattive acque. Era giovedì, e non aveva più un soldo. I
cinquanta franchi di Theo non sarebbero giunti fino al lunedì a
mezzogiorno. Theo non ne aveva colpa: oltre a tutto l’occorrente per
lavorare, continuava regolarmente a mandargli cinquanta franchi ogni dieci
giorni. La colpa era sua; impaziente di vedere incorniciati i suoi ultimi
quadri, aveva speso troppo in listelli per le cornici. Per quattro giorni visse
di ventitré tazze di caffè ed una pagnotta di pane lasciatagli a credito dal
fornaio.
Fu assalito da una reazione di disgusto contro i propri lavori, che
trovava immeritevoli della generosità di Theo. Avrebbe voluto tornare in
possesso del denaro speso, per restituirlo al fratello. Guardava ad uno ad
uno i suoi quadri, e si diceva amaramente che non valevano quanto erano
costati. Se anche da tutte le serie veniva fuori di tanto in tanto qualche tela
passabile, restava pur sempre il fatto che sarebbe costata molto meno,
comprandola da un altro artista.
Per tutta l’estate era vissuto in una vera frenesia di lavoro. Pur
conducendo un’esistenza solitaria, non aveva avuto il tempo di riflettere, di
abbandonarsi ai propri sentimenti. Era andato avanti come una macchina a
vapore. Ma ora si sentiva il cervello flaccido come una poltiglia, e non
aveva un soldo per procurarsi qualche distrazione e tirarsi su il morale, non
il becco d’un quattrino per comprarsi da mangiare o andare a trovare
Rachel. E trovava decisamente pessimi i quadri eseguiti durante l’estate.
«Comunque — si disse — una tela dipinta val sempre di più d’una tela
bianca. Le mie pretese non vanno più in là; ed è questa la mia
giustificazione, è questa la ragione per cui dipingo».
Aveva la convinzione che solo restando ad Arles sarebbe riuscito ad
affermare la propria libertà, la propria individualità. La vita era breve.
Fuggiva, si dissolveva rapidamente. Ebbene, essendo pittore doveva
continuare a dipingere.
«Queste dita mi si fanno sempre più abili al mestiere, anche se la
carcassa va in rovina».
Compilò un lungo elenco di colori da chiedere a Theo.
Improvvisamente gli venne fatto di constatare che di tutti questi colori non
uno si sarebbe potuto trovare sulla tavolozza degli olandesi, da Mauve a
Maris, a Weissenbruch. Arles gli aveva fatto spezzare i legami con l’intera
tradizione olandese.
Ricevuto finalmente l’assegno di Theo, il lunedì, trovò un posto dove si
poteva mangiare discretamente per un franco. Uno strano ristorante,
completamente grigio: pavimento grigio-bitume, muri rivestiti di
tappezzeria grigia. Persiane verdi sempre abbassate, una pesante tenda
verde alla porta per non lasciar entrare la polvere. Una sottile e vivida lama
di luce penetrava da uno spiraglio.
Dopo una settimana di riposo, decise di rimettersi al lavoro. Dipinse la
grigia sala del ristorante, con gli avventori a tavola e i camerieri che
andavano su e giù. Dipinse il denso e caldo cielo notturno, tempestato da
migliaia di stelle sfavillanti, visto dalla Place Lamartine. S’aggirò per le
campagne e dipinse nel chiarore lunare. Dipinse il «Café de Nuit», rifugio
di nottambuli troppo spiantati per avere una casa, o troppo ubriachi per
potervi esser condotti.
Ritrasse una sera l’esterno di questo caffè, la sera dopo l’interno. Cercò
di esprimere con rossi e verdi le terribili passioni dell’umanità. Eseguì
l’interno del locale in color rosso-sangue e giallo scuro. In mezzo, un
biliardo verde. Quattro lampade gialle che davano un bagliore tra
l’arancione e il verdognolo. In tutte quelle figure sonnacchiose o dormenti,
l’urto e il contrasto dei più stridenti rossi e verdi. Voleva far sentire in
questo caffè un luogo dove una creatura poteva rovinarsi, impazzire o
commettere un delitto.
Quelli di Arles si divertivano a vedere il loro fou-rou che di notte
dipingeva per le strade, mentre di giorno dormiva. Questo Vincent era
davvero un tipo spassoso.
Al primo del mese, il proprietario dell’albergo non solo aumentò
l’affitto della stanza, ma decise di farsi pagare un tanto al giorno per
l’armadio in cui Vincent teneva le sue tele. Vincent detestava l’albergo ed
era indignato dell’ingordigia del proprietario. Il ristorante grigio in cui
consumava i pasti gli andava invece perfettamente a genio; senonché le sue
finanze gli permettevano soltanto d’andarci due o tre giorni su dieci.
L’inverno si avvicinava: egli non aveva uno studio dove lavorare; la stanza
d’albergo era deprimente e avvilente. I pasti che si vedeva costretto a
consumare in osterie a buon mercato gli avvelenavano nuovamente lo
stomaco.
Doveva assolutamente trovarsi un’abitazione o uno studio indipendenti.
Una sera, mentre attraversava col buon Roulin la Place Lamartine, notò
su una casa gialla, non lontana dall’albergo, l’avviso: «Da affittare». Il
caseggiato, composto di due ali con un cortile in mezzo, dava sulla piazza e
verso la collina su cui sorge la città. Vincent si soffermò a guardarlo con
malinconica bramosia.
— Peccato che sia così grande. Mi piacerebbe abitare lì.
— Non occorre prendere in affitto tutta la casa, Monsieur! Potreste
prendere soltanto l’ala destra, ad esempio.
— Davvero? Quante stanze pensate che ci siano? Costerà molto?
— Tre o quattro stanze, direi. Costerà pochissimo, nemmeno la metà di
quanto spendete all’albergo. Domani dopo aver desinato andremo a darvi
un’occhiata, se credete. Forse potrò aiutarvi a farvi fare un buon prezzo.
La mattina dopo, Vincent non seppe far altro che andar su e giù per la
Place Lamartine, guardando da tutti i lati quella casa gialla, una costruzione
solida e massiccia che prendeva tutto il sole. Osservandola più da vicino
constatò che c’erano due ingressi distinti e che l’ala sinistra era già
occupata.
Roulin lo raggiunse, dopo il pasto di mezzogiorno. Entrarono insieme.
Un andito conduceva in una stanza spaziosa, comunicante a sua volta con
una stanza più piccola. I muri erano intonacati di bianco. Si saliva al piano
superiore per una scala in mattonelle rosse, come il pavimento del corridoio
d’ingresso. Quassù, un’altra camera grande e uno stanzino, pavimentati
anch’essi con mattonelle rosse. Pareti bianche, vividamente luminose.
Roulin aveva scritto un biglietto al proprietario, che già li aspettava al
piano superiore. Lui e Roulin ebbero una breve conversazione in
provenzale, di cui Vincent capì ben poco, data la rapidità con cui parlavano.
— Desidera sapere per quanto tempo affittereste la casa — spiegò
Roulin a Vincent.
— Per sempre, ditegli.
— Siete dunque d’accordo per un contratto della durata di almeno sei
mesi?
— Ma certo!
— Allora dice che ve la darà per quindici franchi al mese.
Quindici franchi! Tutta una casa! Appena un terzo di quanto spendeva
all’albergo. Meno ancora di quanto gli costava quello studio all’Aia. Una
casa, un domicilio fisso e sicuro per quindici franchi al mese. Si cacciò
frettolosamente la mano in tasca.
— Ecco qua i soldi. Presto, dateglieli subito. La casa è bell’e affittata.
— Vuole sapere quando avete intenzione di trasferirvi qui.
— Oggi. Subito.
— Ma vi manca il mobilio, Monsieur. Come farete?
— Comprerò per ora un materasso e una sedia. Voi non sapete, Roulin,
che cosa significhi passar la vita in una miserabile stanza d’albergo. Devo
trasferirmi qui immediatamente!
— Come volete, Monsieur.
Il proprietario se ne andò. Roulin tornò al lavoro. Vincent prese ad
andare da una stanza all’altra, risalendo e ridiscendendo le scale,
osservando e studiando minutamente a palmo a palmo il suo nuovo
domicilio. Proprio il giorno prima aveva ricevuto i cinquanta franchi da
Theo; gliene restavano in tasca una trentina. Corse in città, comprò un
materasso e una sedia a buon mercato e se li portò a casa. Decise di adibire
a camera da letto la stanza a pianterreno, a studio quella situata al primo
piano. Gettò il materasso sul pavimento di mattonelle, portò la sedia nello
studio e tornò per l’ultima volta all’albergo.
Il proprietario dell’albergo si valse d’un pretesto qualsiasi per
aggiungere al suo conto quaranta franchi, rifiutandosi di lasciargli portar via
i suoi quadri fino a quando non avesse pagato. Vincent dovette ricorrere alla
polizia per riaverli, e gli toccò versare metà della somma ingiustamente
addebitatagli dall’albergatore.
Nel tardo pomeriggio trovò un mercante disposto a lasciargli a credito
un fornello a gas, due pentolini e una lampada a petrolio. Vincent aveva
ancora tre franchi. Comprò caffè, pane, patate e un po’ di carne per la cena.
Rimase senza un centesimo. Giunto a casa, installò la cucina nello stanzino
a pianterreno.
Quando sulla Place Lamartine e sulla sua nuova abitazione scese
l’oscurità della sera, Vincent accese il fornello e si preparò da mangiare.
Non avendo nessun tavolo, distese un foglio di carta sul materasso, vi
imbandì la sua cena e mangiò seduto alla turca sul pavimento. E siccome
s’era dimenticato di comprare coltello e forchetta, si servì del manico d’un
pennello per infilzare i pezzetti di carne e le fette di patate. Sapevano un po’
di colore.
Terminato il pasto, impugnò la lampada a petrolio e salì al piano di
sopra. La stanza aveva un’aria squallida e solitaria, vuota com’era, col
cavalletto che si profilava contro il chiarore della finestra illuminata dalla
luna. Nello sfondo, il giardino scuro della Place Lamartine.
Ridiscese, s’allungò sul materasso. La mattina dopo, appena sveglio,
aprì le finestre e vide il giardino verdeggiante, il sole che nasceva, la strada
che saliva serpeggiando verso il centro della città. Guardò le linde
mattonelle rosse sul pavimento, le pareti d’un bianco immacolato; si
compiacque dell’ampiezza delle stanze. Fece scaldare il caffè e lo bevve dal
pentolino, andando su e giù ed elaborando progetti per l’arredamento della
casa, predisponendo mentalmente i posti per appendere ai muri i suoi quadri
e pensando alle ore felici che avrebbe trascorso in questa casa veramente
sua.
Il giorno dopo ricevette una lettera dell’amico Paul Gauguin, malato e
spiantatissimo, prigioniero in una osteriaccia di Pont-Aven in Bretagna.
«Non posso tirarmi fuori da questo buco — scriveva Gauguin — perché
non ho soldi per pagare il conto, e il proprietario ha messo sotto chiave
tutte le mie tele. Tra le varie e molteplici disgrazie che affliggono
l’umanità, nessuna mi fa così arrabbiare e impazzire come la mancanza di
quattrini. Eppure mi sento condannato ad un’eterna miseria d’accattone».
Vincent pensò a tutti i pittori della terra, angustiati, malati, indigenti,
scansati e derisi dal prossimo, affamati e tormentati fino al loro ultimo
respiro. Perché? Quale delitto avevano commesso? Per quale enorme colpa
erano ridotti alla condizione di reietti e di paria? Come potevano produrre
dei bei lavori questi poveri esseri perseguitati? Il pittore dell’avvenire, ah,
lui sì, sarebbe stato un artista e un uomo quale non s’era ancora mai visto.
Lui non avrebbe vissuto in osterie di infimo ordine, né sarebbe andato in
postriboli per zuavi.
Quel povero Gauguin, intanto. Costretto a marcire in quel sozzo buco
della Bretagna, troppo depresso e sofferente per lavorare, senza un amico
che gli venisse in aiuto, senza un franco in tasca per sfamarsi e farsi visitare
da un medico. Lui, un grande pittore, un grande uomo. E se fosse morto?
Quale tragedia per il mondo dell’arte.
Si cacciò la lettera in tasca, uscì di casa e s’avviò lungo la sponda del
Rodano. Un battello carico di carbone era ormeggiato alla banchina. Visto
dall’alto, appariva tutto lucente e intriso come se avesse preso una doccia.
L’acqua del fiume aveva un biancore giallognolo, con ombre grigio-perla. Il
cielo era d’un lillà striato d’arancione verso ponente; la città aveva un tinta
violetta. Sul battello, un andare e venire d’uomini vestiti di blu sporco e di
bianco, procedevano allo scarico del carbone.
Schietto e puro Hokusai. Per associazione di idee, Vincent ripensò a
Parigi, alle stampe giapponesi nel negozio del Père Tanguy… e a Paul
Gauguin, il più caro dei suoi amici.
Vide subito che cosa dovesse fare. Nella casa gialla c’era posto per
entrambi: una camera da letto e uno studio per ognuno di loro. Facendosi da
mangiare in casa, preparandosi personalmente i colori e attenendosi a un
criterio di saggia economia, avrebbero potuto vivere discretamente con i
centocinquanta franchi del suo assegno mensile. La spesa dell’affitto
sarebbe sempre stata la stessa, quella del vitto appena un po’ più alta. Che
cosa meravigliosa, avere di nuovo un amico, un compagno d’arte che
parlasse lo stesso suo linguaggio e gli fosse vicino con la sua comprensione
d’uomo del mestiere! E quante cose belle poteva insegnargli un Gauguin!
Non s’era ben reso conto, finora, della propria solitudine.
Eppoi, se non fosse stato assolutamente possibile vivere con
centocinquanta franchi al mese, Theo sarebbe stato forse disposto ad
aggiungere altri cinquanta franchi mensili, ricevendo in compenso una tela
di Gauguin.
Sì, sì, doveva far venire Gauguin qui ad Arles. Il caldo sole di Provenza
l’avrebbe guarito d’ogni malessere, come già aveva guarito lui. In poco
tempo la loro attività avrebbe assunto un ritmo sostenuto, travolgente. Il
loro sarebbe stato un primissimo studio del Mezzogiorno. Si trattava di
continuare la tradizione di Delacroix e Monticelli. Avrebbero immerso la
pittura nel sole e nell’opulenza del colore, avrebbero ridestato il mondo alla
gioia tumultuosa della natura.
Bisognava salvare Gauguin!
Invertì la rotta, corse in Place Lamartine, entrò in casa, s’avventò su per
le scale e con focoso entusiasmo si mise a studiare la ripartizione
dell’alloggio.
«Avremo ognuno la nostra stanza da letto quassù. Adibiremo a studio le
due camere a pianterreno. Comprerò due letti, materassi, lenzuola e coperte,
tavoli e sedie. Ci faremo una casa ammodo. La decorerò tutta quanta con
girasoli ed orti in fiore. Oh, Paul, Paul, come sarà bello riaverti con me!».
6.
8.
9.
10.
SAINT-REMY
1.
2.
3.
4.
Soltanto dopo cinque giorni la mente gli si snebbiò. La cosa che lo ferì
più profondamente fu il constatare che i suoi compagni consideravano
quell’attacco come naturale e inevitabile.
Sopravvenne l’inverno. Vincent non sapeva decidersi ad alzarsi. La
stufa al centro della camerata diffondeva ora un bel calore; intorno
sedevano taciturni da mattino a sera i ricoverati. Le finestre piccole e
praticate molto in alto lasciavano entrare poca luce. La stufa accesa
mandava un odore denso, pesante. Le suore, ancor più raggrinzite nei loro
veli neri, s’aggiravano biascicando preghiere e stringendo tra le dita i loro
piccoli crocefissi. In lontananza le colline spoglie si profilavano come teste
di morti.
Vincent giaceva sveglio nel suo lettuccio inclinato. Che cosa gli aveva
insegnato quel quadro di Mauve? «Savoir souffrir sans se plaindre».
Imparare a soffrire senza lamentarsi, saper contemplare il dolore senza
ripugnanza… Sì, ma era un concetto morale che a lungo andare lo
trascinava sull’orlo d’una vertigine, d’uno smarrimento. A furia di
immergersi nel suo dolore, nella sua desolazione, più nulla di vivo sarebbe
rimasto in lui. Nella vita d’ognuno viene un momento in cui è necessario
buttar via la sofferenza come un indumento sporco.
I giorni si susseguivano, l’uno eguale all’altro. Nella sua anima, né idee
né speranze. Udiva le suore discutere sui suoi quadri: si domandavano se
dipingesse perché era pazzo, o se fosse pazzo perché dipingeva.
Seduto accanto al suo letto, l’idiota gli barbugliava per ore ed ore
discorsi incoerenti. Vincent ritraeva dalla vicinanza e dall’amicizia di
questo sventurato un senso di confortante calore, e non lo cacciava via.
Anzi discorreva spesso con lui, non avendo nessun altro a cui rivolgere la
parola.
— Credono che la pittura mi abbia fatto impazzire — gli disse un
giorno, vedendo passare due suore. — Riconosco anch’io che, in fin dei
conti, un pittore si lascia troppo assorbire da ciò che vedono i suoi occhi e
non è sufficientemente padrone di tutto il resto della sua vita. Ma forse che
ciò lo rende inadatto a vivere in questo mondo?
L’idiota si limitò a ridacchiare.
Fu una frase letta nel libro di Delacroix a dargli finalmente la forza
d’alzarsi: «Ho scoperto la pittura — diceva Delacroix — quando non avevo
più denti né fiato».
Per parecchie settimane non provò nemmeno il desiderio di andare in
giardino. Stava seduto accanto alla stufa, leggendo i libri che Theo gli
mandava da Parigi. Quando un suo compagno era preso da un attacco, non
si muoveva, non alzava nemmeno gli occhi. L’infermità era diventata sanità,
l’anormalità era diventata una cosa normale. A furia di vivere isolato dalla
gente sana di mente, era giunto ai punto di non considerare più come pazzi i
suoi compagni.
— Mi dispiace, Vincent — gli disse il dottor Peyron — ma non posso
darvi il permesso di uscire dall’ospedale. D’ora in avanti dovrete star qui
dentro.
— Mi permetterete almeno di lavorare nel mio studio?
— Non ve lo consiglio.
— Preferite che io mi uccida, dottore?
— Be’, vuol dire che vi farò riaprire lo studio. Ma soltanto poche ore al
giorno.
Nemmeno la vista del cavalletto e dei pennelli valse a scuotere la
letargica apatia di Vincent. Si sedeva sulla poltrona e fissava attraverso le
sbarre dell’inferriata il campo spoglio.
Alcuni giorni dopo fu chiamato nell’ufficio del dottor Peyron, per
firmare la ricevuta d’una assicurata. Aprendo la busta, trovò un assegno di
quattrocento franchi intestato al suo nome. Era la somma più alta che avesse
mai posseduto in una volta sola; e si domandò come mai Theo gli avesse
mandato tanto denaro.
«Caro Theo,
«non sono un invalido, né una bestia pericolosa. Consentimi di
dimostrare a te e a me stesso che sono un essere normale. Se riesco a
strapparmi con le mie proprie forze da questo manicomio, e incominciare
una nuova vita ad Auvers, riuscirò fors’anche a domare questa mia
malattia.
«Voglio provare. Lontano da questa maison des fous, spero di poter
ridiventare una persona ragionevole. A quanto mi scrivi, Auvers è un posto
calmo e bello. Ho la convinzione che conducendo una vita ben regolata,
sotto gli occhi del dottor Gachet, potrò guarire.
«Ti telegraferò l’ora della partenza del treno da Tarascona. Vieni ad
aspettarmi alla Gare de Lyon. Ho intenzione di partire sabato, in modo da
passar la domenica in casa con te, Johanna e il bambino.
PARTE OTTAVA
AUVERS
1.
Theo non riuscì a chiuder occhio, quella notte. Partì per la Gare de Lyon
due ore prima dell’arrivo del treno di Vincent. Johanna dovette stare in casa
col bambino: uscì sul terrazzino del loro appartamento al quarto piano,
situato nella Cité Pigalle, e fissò ansiosamente lo sguardo attraverso il
fogliame del maestoso albero nero che sorgeva dirimpetto alla facciata della
casa, aspettando l’arrivo di una carrozza che svoltasse dalla Rue Pigalle.
Dall’abitazione di Theo alla Gare de Lyon il tragitto era lungo. A
Johanna, l’attesa parve interminabile. Cominciava a temere che in treno
fosse successo qualcosa al cognato. Finalmente dalla Rue Pigalle svoltò un
fiacre aperto, due facce allegre le lanciarono un cenno di saluto, due mani si
agitarono in aria. Ella aguzzò lo sguardo per scrutare, sia pure
fuggevolmente, la fisionomia di Vincent.
La Cité Pigalle era una rue impasse, chiusa in fondo da un giardino e
dall’angolo d’una casa in pietra. Una via dall’aspetto signorile, che aveva
soltanto due lunghi edifici per parte. I Van Gogh abitavano al n. 8, la casa
più vicina all’impasse, un po’ scostata all’indietro per far posto ad un
piccolo giardino, e provvista d’un suo trottoir privato. Nello spazio di pochi
istanti, il fiacre passò dinanzi al grande albero e si fermò davanti
all’ingresso.
Vincent si lanciò su per le scale, con Theo alle calcagna. Johanna
s’aspettava di vedere un infermo; ma l’uomo che le gettò le braccia al collo
aveva un bel colore di salute, un sorriso sulla faccia e un’espressione di
risoluta energia.
«Ha l’aria di star benissimo. Sembra molto più forte di Theo», fu il suo
primo pensiero.
Ma non ebbe il coraggio di guardargli l’orecchia.
— Complimenti, Theo! — esclamò Vincent, tenendo fra le sue le mani
di Johanna e guardandola con aria d’approvazione. — Ti sei proprio scelta
una bella moglie.
— Grazie, Vincent — rise Theo.
La sua scelta era stata ispirata al ricordo della madre. Johanna aveva gli
stessi occhi castani di Anna Cornelia, gli stessi modi dolci, pieni di simpatia
e di compassione. Sebbene il suo bambino contasse ancora pochi mesi, già
s’avvertiva in lei qualcosa di matronale. Lineamenti piacevoli, ma comuni;
un viso ovale dall’espressione serena, quasi imperturbabile; una massa di
capelli color castano chiaro pettinati con molta semplicità all’indietro, su
un’alta fronte di stampo olandese. Il suo affetto per Theo comprendeva
anche Vincent.
Theo condusse il fratello nella stanza da letto, dove il piccino stava
dormendo nella sua cuna. I due uomini stettero a guardarlo in silenzio, con
le lacrime agli occhi. Johanna intuì che desideravano restar soli un
momento, e in punta di piedi mosse verso la porta. Proprio mentre faceva
per girare la maniglia, Vincent si volse verso di lei con un sorriso e,
indicandole la coperta della culla fatta all’uncinetto, le disse: — Non
coprirlo troppo di trine, cognatina!
Johanna si chiuse silenziosamente la porta alle spalle. Tornando a
contemplare il bimbo dormente, Vincent provò l’indicibile pena degli
uomini senza figli, la cui vita non si perpetua nella vita d’altri esseri, la cui
morte è una morte eterna.
Theo gli lesse nel pensiero.
— Hai ancora tempo, Vincent. Un giorno troverai anche tu una moglie
che ti vorrà bene e che condividerà i dolori e le lotte della tua esistenza.
— Ah, no, Theo! È troppo tardi.
— Soltanto l’altro giorno ho trovato una donna che farebbe proprio per
te.
— Davvero? E chi era?
— La ragazza di Terra vergine di Turghenieff. La ricordi?
— Quella che lavora con i nichilisti e porta oltre frontiera i documenti
compromettenti?
— Precisamente. La donna che tu sposerai dovrebbe essere un tipo di
quel genere, Vincent: una creatura che abbia provato tutte le amarezze della
vita.
— E che cosa potrebbe trovar di bello in me? Un uomo con un’orecchia
sola…
Il piccolo Vincent si svegliò, li guardò con gli occhi spalancati, sorrise.
Theo lo tolse dalla culla e lo mise tra le braccia del fratello.
— Come è morbido e caldo! Sembra un cucciolo — disse Vincent,
stringendoselo al cuore.
— Ehi, maldestro, non è mica così che si tiene un bambino!
— Già, credo di trovarmi più a mio agio con un pennello in mano.
Theo si riprese il bambino e lo tenne appoggiato alla spalla, sfiorando
con la testa i suoi riccioli castani. Vincent ebbe l’impressione che fossero
due figure scolpite nello stesso blocco di marmo.
— Ebbene, ragazzo mio — sospirò con tono di rassegnazione — ad
ognuno la sua arte e il suo mezzo di espressione. Tu crei in carne viva… e
io creerò con i colori.
— Proprio così, Vincent, proprio così.
Quella sera, parecchi amici di Vincent vennero a salutarlo. Il primo ad
arrivare fu Aurier, un bel giovane dai capelli ondulati e fluenti, con due
ciuffi di barba che gli crescevano ai due lati del mento senza riuscire a
congiungersi in mezzo. Vincent lo condusse nella stanza da letto, dove Theo
teneva appeso un quadro di Monticelli: un mazzo di fiori.
— Avete detto nel vostro articolo, Monsieur Aurier, che io sono l’unico
pittore capace di percepire il cromatismo delle cose e di interpretarlo con
toni metallici gemmati. Guardate questo Monticelli. «Fada» l’ha dipinto
parecchi anni prima che io venissi a Parigi.
In capo a un’ora Vincent rinunciò a cercare di persuadere Aurier, e gli
fece omaggio di uno dei suoi quadri di cipressi dipinti a Saint-Remy, come
attestazione di gratitudine per l’articolo apparso sul Mercure de France.
Ed ecco arrivare Toulouse-Lautrec, senza fiato per tutte quelle rampe di
scale, ma gaio e scanzonato come sempre.
— Vincent — esclamò, stringendogli la mano — per le scale ho
incontrato un impresario di pompe funebri. Cercava te o me?
— Cercava te, Lautrec! Con me, avrebbe poco da guadagnare…
— Voglio lanciarti una sfida, Vincent. Sono disposto a scommettere che
il tuo nome figurerà prima del mio, sul suo taccuino.
— Ci sto. E che cosa scommettiamo?
— Un pranzo al Caffè Athènes e una serata all’Opera.
— Be’, potreste anche trovare degli scherzi meno macabri — protestò
Theo, con un pallido sorriso.
In quel momento entrò uno strano individuo, rivolse un’occhiata a
Lautrec e si lasciò cadere su una sedia, in un angolo. Tutti s’aspettavano che
Lautrec lo presentasse, ma egli continuò tranquillamente a discorrere.
— Non ci presenti il tuo amico? — domandò Vincent.
— Ma costui non è un mio amico! — rise Lautrec. — È il mio custode.
Successe un momento di penoso silenzio.
— Non ne hai sentito parlare, Vincent? Sono stato non compos mentis
per un paio di mesi. E allora hanno detto ch’era una conseguenza dell’abuso
di liquori. Così, ora bevo latte. Ti inviterò al mio prossimo ricevimento. Sul
biglietto d’invito c’è un disegno dove mi si vede in atto di mungere una
mucca dalla parte sbagliata.
Johanna servì i rinfreschi. Parlavano tutti insieme, l’aria diventava
satura di fumo. Un’atmosfera che ricordava a Vincent le belle serate d’un
tempo, qui a Parigi.
— Che ne è di Georges Seurat? — domandò a Lautrec.
— Georges! Vuoi dirmi che non sai in che condizioni si trova?
— Theo non mi ha mai scritto niente. Che cos’ha?
— Sta morendo di consunzione. Il medico dice che non supererà i
trentun anni.
— Consunzione! Ma come! Lui che era così forte, così pieno di
salute… Che diavolo…
— Eccesso di lavoro, Vincent — spiegò Theo. — Son due anni che tu
non lo vedi, vero? Ha lavorato come un ossesso. Dormiva due ore o tre ore
e si strapazzava maledettamente per tutto il resto della giornata e della
notte. Nemmeno quella santa donna di sua madre riuscirà a salvarlo.
— Sicché Georges se ne andrà presto — mormorò Vincent, con cupa
tristezza.
Giunse Rousseau, con un canestrino di pasticcini casalinghi
espressamente preparati da lui per Vincent. Venne poi il Père Tanguy,
sempre con lo stesso cappello di paglia, e gli offrì una stampa giapponese,
accompagnando il dono con un affettuoso discorsetto sulla gioia che
provavano tutti quanti nel rivederlo a Parigi.
Alle dieci, Vincent volle a tutti i costi scendere a comprare un chilo di
olive e ne fece mangiare a tutti i presenti, compreso il guardiano di Lautrec.
— Se vedeste almeno una volta quei boschetti d’ulivi verde-argento che
ci sono in Provenza, mangereste olive per tutto il resto della vostra vita.
— A proposito di boschetti d’ulivi, Vincent — disse Lautrec — come
hai trovato le arlesiane?
La mattina dopo, Vincent portò giù la carrozzella perché il piccino
potesse godersi la sua ora di sole sul marciapiede privato, sotto gli occhi
della mamma. Risalì nell’appartamento e prese ad aggirarsi per le stanze in
maniche di camicia, osservando le pareti coperte dei suoi quadri. In sala da
pranzo, sopra la cappa del camino c’erano i Mangiatori di patate, nella
stanza di soggiorno il Paesaggio di Arles e la Veduta notturna del Rodano,
nella stanza da letto Gli orti in fiore. Grosse pile di tele senza cornice
occupavano, a disperazione della donna di servizio di Johanna, lo spazio
sotto i letti, sotto il sofà, sopra l’armadio, ed ogni angolo libero.
Mentre stava cercando qualcosa nella scrivania di Theo, gli capitarono
tra le mani voluminosi pacchi di lettere legate con grosso spago. Fu stupito
di constatare che si trattava di lettere sue. Theo aveva gelosamente
conservato tutta la corrispondenza del fratello, fin dal giorno in cui,
vent’anni addietro, Vincent era partito da Zundert per andare a lavorare
nella Galleria Goupil all’Aia. Complessivamente, non meno di settecento
lettere. Vincent si domandò perché mai Theo le avesse conservate.
In un altro cassetto della scrivania trovò i disegni mandati a Theo nel
corso degli ultimi dieci anni, suddivisi per periodi: i minatori e le loro mogli
curve sui cumuli di terril, laggiù nel Borinage; i vecchi e le vecchie
dell’Aia, i lavoratori del Geest e i pescatori di Scheveningen; i mangiatori
di patate e i tessitori di Nuenen; i ristoranti e le vie di Parigi; i primi disegni
di girasoli e di orti eseguiti ad Arles; il giardino del manicomio di Saint-
Remy.
— Ora allestisco una mostra personale! — esclamò. Staccò tutti i quadri
dalle pareti, tirò fuori i pacchi di disegni, radunò dai diversi angoli le pile di
tele senza cornice. Suddivise scrupolosamente tutti i suoi lavori in base ai
vari periodi della propria attività, quindi scelse i disegni e le pitture che
meglio rivelavano lo spirito dei luoghi in cui erano stati eseguiti.
Nel salotto, cui si accedeva dal corridoio d’ingresso, appese una trentina
dei suoi primi studi: tipi del Borinage che uscivano dalle miniere, altri curvi
sulle loro stufe ovali, altri ancora intenti a cenare nelle loro catapecchie.
«Ecco allestita la sala dei disegni a carboncino».
Data un’occhiata agli altri locali dell’appartamento, fissò la propria
attenzione sulla stanza da bagno. Salito su una sedia, attaccò tutt’intorno, su
un’unica fila, gli studi di Etten: contadini del Brabante.
«E questa, come si vede, è la sala dei disegni a matita».
Si diresse quindi verso la cucina, dove espose i dipinti dell’Aia e di
Scheveningen: il deposito di legname visto dalla sua finestra, le dune di
sabbia, i battelli da pesca trascinati sulla spiaggia.
«Terza sala: acquerelli».
Nello stanzino adiacente appese il quadro in cui aveva ritratto i suoi
amici De Groot, i Mangiatori di patate: il primo quadro a olio in cui aveva
espresso pienamente se stesso. Tutt’intorno, alcune dozzine di studi:
tessitori di Nuenen, contadini in abito da lutto, il cimitero dietro la chiesa
del babbo, l’esile e affilato campanile.
Nella propria stanza da letto dispose i quadri a olio del periodo parigino,
quelli che aveva attaccato alle pareti dell’appartamento di Theo in Rue
Lepic, prima di partire per Arles. Nella stanza di soggiorno stipò tutte le
sfolgoranti tele di Arles che le pareti potevano contenere. Nella stanza da
letto di Theo, i quadri dipinti nel corso del doloroso soggiorno a Saint-
Remy.
Finito questo lavoro, ripulì i pavimenti, si mise giacca e cappello, scese
in istrada e fece andar su e giù il nipotino per la via piena di sole, mentre
Johanna gli camminava accanto tenendolo a braccetto e chiacchierando con
lui in olandese.
Theo sbucò dalla Rue Pigalle poco dopo mezzogiorno, lanciò loro un
allegro cenno di saluto, giunse di corsa e sollevò il piccino dalla carrozzella,
prendendolo tra le braccia con gesto pieno di tenerezza. Lasciata poi la
carrozzella al portinaio, salirono le scale discorrendo animatamente. Giunti
davanti alla porta dell’appartamento, Vincent li fermò.
— Ora vi conduco a vedere una mostra personale di Vincent Van Gogh.
Preparatevi dunque al fiero colpo.
— Una mostra personale? E dove?
— Chiudete gli occhi.
Aprì la porta, e tutti e tre infilarono il corridoio, entrarono in salotto.
Theo e Johanna si guardarono intorno, sbalorditi.
— Quando abitavo a Etten — disse Vincent — il babbo mi fece
osservare un giorno che dal male non può mai venir fuori il bene, né dal
brutto il bello. Io gli risposi che nel campo dell’arte una cosa simile non
soltanto può, ma deve accadere. Se volete seguirmi, miei cari, vi presenterò
la storia di un individuo che cominciò con impaccio e con stento, come un
bambino maldestro, e che dopo dieci anni di tenace applicazione giunse a…
Ma su questo giudicherete voi stessi.
E li guidò, in ordine cronologico, di stanza in stanza. Come tre visitatori
in una galleria d’arte, passarono in rassegna quelle opere che
rappresentavano tutta una vita d’uomo. Sentirono e compresero il lento e
tormentato sviluppo dell’artista, il faticoso procedere verso una maturità
d’espressione, il poderoso progresso realizzato durante il soggiorno a
Parigi, l’appassionato e travolgente sfogo lirico di Arles in cui confluivano
tutti i risultati delle esperienze e delle ricerche condotte in anni ed anni di
lavoro, e poi il crollo, la catastrofe, le tele di Saint-Remy, lo sforzo
affannoso per tener viva ancora e divampante la grande fiamma della
creazione, e infine i bagliori sempre più fiochi, sempre più fiochi…
Guardarono quella mostra con occhi d’estranei: ed ebbero davanti allo
sguardo, nello spazio d’una breve mezz’ora, la ricapitolazione di tutta
l’avventura terrena d’un uomo.
Johanna servì una tipica colazione all’uso del Brabante. Vincent fu lieto
di gustare nuovamente la cucina olandese. Quando Johanna ebbe
sparecchiato, i due fratelli accesero la pipa e si misero a chiacchierare.
— Dovrai cercare scrupolosamente di fare tutto ciò che il dottor Gachet
ti dirà, Vincent.
— D’accordo.
— Perché, vedi, è uno specialista in fatto di malattie nervose. Se ti
attieni alle sue prescrizioni, sei sicuro di guarire.
— Te lo prometto.
— Gachet dipinge anche lui. Espone ogni anno agli «Indipendenti», con
lo pseudonimo di P. Van Ryssel.
— È un buon pittore?
— No, non direi. Ma è uno di quegli uomini che hanno il genio di saper
riconoscere il genio. Venuto a Parigi all’età di vent’anni per studiare
medicina, strinse amicizia con Courbet, Murger, Champfleury e Proudhon.
Frequentava il caffè «La Nouvelle Athènes» e ben presto divenne intimo
amico di Manet, Renoir, Degas, Durante e Claude Monet. Daubigny e
Daumier hanno lavorato in casa sua parecchi anni prima che si parlasse di
impressionismo.
— Interessante!
— Quasi tutti i quadri che ha sono stati dipinti nel suo giardino o nella
sua stanza di soggiorno. Pissarro, Guillaumin, Sisley, Delacroix sono andati
tutti a lavorare con Gachet ad Auvers. Troverai anche tele di Cézanne,
Lautrec e Seurat. Ti dico, Vincent, che dalla metà del secolo ad oggi non c’è
stato pittore importante che non sia stato amico e ospite del dottor Gachet.
— Perbacco! Un momento, Theo, tu mi spaventi. Io sono ben lontano
dall’appartenere a quella illustre schiera. Il dottor Gachet ha visto qualcuno
dei miei lavori?
— Idiota! Per quale motivo credi che sia così impaziente di averti ad
Auvers?
— Il diavolo mi porti, se lo so.
— In occasione dell’ultima mostra agli «Indipendenti», ha giudicato i
tuoi lavori arlesiani come i più bei quadri che vi fossero esposti. Ti giuro:
quando gli ho fatto vedere i quadri di girasoli dipinti per Gauguin nella casa
gialla, gli sono venute le lacrime agli occhi. S’è voltato verso di me e mi ha
detto: «Monsieur Van Gogh, vostro fratello è un grande artista. In tutta la
storia dell’arte non s’è mai visto nulla di simile al giallo di questi girasoli.
Basteranno queste pitture, Monsieur, a rendere immortale vostro fratello».
Vincent si grattò la testa, con una smorfia allegra.
— Bene, se il dottor Gachet ha provato una tale impressione di fronte ai
miei girasoli, andremo perfettamente d’accordo.
2.
3.
Vincent ricominciò una vera vita di pittore. Andava a letto alle nove,
dopo aver guardato i clienti di Ravoux che giocavano a biliardo alla fosca
luce d’una lampada a gas. S’alzava alle cinque. Il tempo era magnifico: un
sole mite, un fresco verdeggiare per tutta la vallata. I periodi di malattia e di
forzata inattività nel manicomio di St.-Paul gli facevano sentire le loro
conseguenze: la mano gli s’era indurita.
Pregò Theo di mandargli sessanta studi a carboncino di Bargue, per
copiarli: temeva di trovarsi a mal partito, se non si fosse rimesso a studiare
proporzioni e nudo. Intanto cercava qua e là, se mai gli riuscisse di trovare
una casetta dove stabilirsi durevolmente. E si domandava se fosse vero
quanto gli aveva detto Theo, che in qualche angolo del mondo v’era
certamente una donna disposta a condividere la sua esistenza. Tirò fuori una
quantità di tele dipinte a Saint-Remy, con l’intenzione di ritoccarle e di
perfezionarle.
Ma questo improvviso sgorgo d’attività era semplicemente un fatto
momentaneo, riflesso di un organismo ancora troppo vigoroso per lasciarsi
distruggere.
Dopo la lunga reclusione nel manicomio, le giornate gli sembravano
settimane. Non sapeva come occuparle pienamente, non avendo più la forza
di dipingere da mattina a sera. E nemmeno il desiderio. Prima del grave
incidente occorsogli ad Arles le giornate non erano mai abbastanza lunghe
per appagare la sua sete di lavoro; ora gli sembravano interminabili.
Ad Auvers, il dottor Gachet restava il suo unico amico. Gachet, che
trascorreva la maggior parte delle giornate nel suo studio medico di Parigi,
la sera veniva spesso alla Trattoria Ravoux per vedere i suoi ultimi quadri.
Vincent s’era domandato molte volte perché negli occhi del dottore ci fosse
tanta tristezza.
— Che cosa vi rende infelice? — gli domandò una sera.
— Ah, Vincent, ho lavorato e faticato tanti anni, ed ho fatto ben poco di
buono. I medici non vedono altro che sofferenza, sofferenza, sofferenza.
I suoi occhi malinconici s’avvivarono d’una scintilla di luce.
— Eh, sì, Vincent, essere pittori è la più bella cosa del mondo. Per tutta
la mia vita ho desiderato e sognato d’essere un artista. Ma riesco appena a
trovare un’ora ogni tanto: ci sono tanti ammalati che hanno bisogno di
me…
Inginocchiatosi, tirò fuori una piccola catasta di tele di sotto il letto di
Vincent. Ne prese una tra le mani, se la tenne davanti agli occhi: un
raggiante girasole.
— Se avessi dipinto anche un solo quadro come questo, Vincent,
considererei pienamente giustificata la mia vita. Ho passato anni ed anni a
curare i dolori fisici della gente, ma a lungo andare la gente moriva lo
stesso; e allora, a che serve? Questi vostri girasoli, invece, allevieranno il
dolore che s’annida nei cuori, procureranno godimenti per secoli e secoli…
Ecco perché la vostra vita è pienamente riuscita, ecco perché dovreste
essere un uomo felice.
Alcuni giorni dopo, Vincent ritrasse il dottore col suo berretto bianco e
l’abito turchino, contro uno sfondo blu-cobalto. Dipinse il viso e le mani in
una tonalità leggera, luminosa; la figura appoggiata ad un tavolo rosso su
cui si vedevano un libro dalla copertina gialla e una pianta di fiori dalle
corolle purpuree. Terminato il quadro, constatò con una certa divertita
sorpresa che rassomigliava sotto certi aspetti ad un suo autoritratto eseguito
ad Arles prima dell’arrivo di Gauguin.
Gachet concepì per questo suo ritratto un vero fanatismo. Vincent non
aveva mai udito un simile diluvio di lodi e di entusiasmo. Gachet volle a
tutti i costi che gliene facesse una copia. Quando Vincent consentì, la sua
gioia non conobbe più limiti.
— Dovete servirvi liberamente della macchina da stampa che ho in
soffitta, Vincent. Andremo a Parigi, prenderemo tutti i vostri quadri e ne
faremo litografie. Non vi costerà un centesimo, non un centesimo. Venite,
voglio farvi vedere il mio laboratorio.
Per salire in soffitta dovettero arrampicarsi su una scala a pioli e alzare
il coperchio d’una botola. Il laboratorio di Gachet era così pieno di
fantastici e stravaganti arnesi, che a Vincent parve d’esser capitato nel
gabinetto di un alchimista medioevale.
Ridiscesi, notò che il nudo di Guillaumin era sempre abbandonato in
quell’angolo come un oggetto senza valore.
— Dottor Gachet, mi vedo costretto ad insistere che facciate
incorniciare questa tela. State rovinando un capolavoro.
— Sì, sì, lo farò incorniciare. Quando andiamo a Parigi a prendere i
vostri quadri? Ne farete tutte le litografie che vorrete. Provvederò io i
materiali.
I giorni trascorrevano serenamente: passò maggio, venne giugno.
Vincent dipinse la chiesa cattolica in vetta alla collina. Verso la metà del
pomeriggio si sentì stanco, e non si curò nemmeno di rifinire il quadro. Con
un grande sforzo di perseveranza riuscì a dipingere un campo di messi
standosene disteso per terra, con la testa quasi in mezzo al grano. Fece
alcuni altri quadri: la casa di Madame Daubigny; una casetta bianca in
mezzo agli alberi, sotto un cielo notturno, con le finestre illuminate, la
vegetazione d’un verde molto scuro e un tocco di rosa cupo; e infine
un’impressione serale: due peri decisamente neri contro un cielo
giallognolo.
Ma lavorava ormai senza passione e senza gusto. Per abitudine. Perché
non c’era altro da fare. Il tremendo slancio dei suoi dieci anni di colossale
lavoro lo spingeva ancora un poco avanti, quasi per forza d’inerzia. Quegli
aspetti della natura che in passato l’avevano tanto affascinato ed eccitato, lo
lasciavano ora indifferente.
«Ho già dipinto tante volte queste cose! — mormorava tra sé
camminando per le strade di campagna col cavalletto in ispalla e cercando
un soggetto. — Non ho nulla di nulla di nuovo da aggiungere. Perché
dovrei ripetermi? Aveva ragione il buon Millet. J’aimerais mieux ne rien
dire que de m’exprimer faiblement…».
Non già che il suo amore per la natura fosse morto: semplicemente, non
provava più quel disperato bisogno di buttarsi su una scena e ricrearla. Era
consumato dal suo stesso fuoco. In tutto il mese di giugno dipinse appena
cinque quadri. Stanco, indicibilmente stanco. Si sentiva vuoto, disseccato,
arido e dilavato come il greto d’un fiume: quasi che ognuno delle centinaia
e centinaia di disegni e quadri sgorgati dall’anima nel corso degli ultimi
dieci anni gli avesse portato via una favilla di vita.
Infine, continuò a lavorare soltanto per un senso di dovere verso Theo
che aveva investito tanto denaro nella sua arte. Ma quando gli accadeva di
pensare, nel bel mezzo d’un lavoro, che la casa di Theo era già stipata d’un
tal numero di tele quante non se ne sarebbero potute vendere nemmeno
vivendo dieci volte, si sentiva invadere da una nausea tale che spingeva via
il cavalletto con un gesto di disgusto.
S’aspettava un altro attacco in luglio, allo scadere del solito periodo
trimestrale, ed era continuamente tormentato dalla paura di commettere,
sotto l’influsso del male, qualche follia che lo mettesse al bando del paese.
Prima di lasciar Parigi non aveva concluso nessun preciso accordo
finanziario con Theo, e viveva quindi in una situazione inquietante. Anche
il continuo alternarsi di tristezze e di estatici rapimenti negli occhi di
Gachet contribuiva, giorno per giorno, ad alimentare in lui uno stato di
tensione.
A dargli il colpo di grazia, giunse la notizia che il bimbo di Theo s’era
ammalato.
L’ansia per il nipotino lo rendeva quasi frenetico. Resistette finché poté,
poi prese il treno per Parigi. Il suo improvviso arrivo aumentò la confusione
che già regnava in casa. Theo era pallido e sofferente. Vincent fece del suo
meglio per confortarlo.
— Non è soltanto per il bambino che sono preoccupato, Vincent — gli
confessò infine il fratello.
— Che c’è, Theo?
— Valadon mi ha minacciato di farmi licenziare.
— Ma come! Impossibile! Sono sedici anni che lavori per loro!
— Lo so. Ma Valadon mi accusa di aver trascurato gli interessi della
ditta per occuparmi degli impressionisti. Infatti li vendo abbastanza poco, e
a prezzi bassi. Valadon asserisce che nello scorso anno la galleria da me
diretta ha chiuso in passivo.
— Ma lui avrebbe la facoltà di metterti fuori?
— Perché no? I Van Gogh hanno venduto tutte le azioni già in loro
possesso.
— E in questo caso, che farai? Aprirai una galleria per conto tuo?
— Nemmeno da pensarci. Avevo dei risparmi, ma ho speso tutto per il
matrimonio e per il bambino.
— Ah, se non avessi buttato via quelle migliaia di franchi per me!
— Lascia andare, Vincent, ti prego. Questo non c’entra. Sai che io…
— Ma come te la caverai? C’è Jo, c’è il bambino…
— Già. Ebbene… Non so. In questo momento mi preoccupo soltanto
per il bambino.
Vincent si trattenne a Parigi alcuni giorni, cercando di star fuori di casa
il più possibile per non disturbare il piccino. Parigi e i suoi vecchi amici gli
causavano una crescente eccitazione: una specie di febbre che a poco a
poco gli accendeva il sangue. Non appena il piccolo Vincent accennò a
migliorare, si rimise in treno e tornò alla quiete di Auvers.
Ma nemmeno la quiete gli giovò. Le preoccupazioni non gli davano
tregua. Che cosa sarebbe accaduto, se Theo avesse perduto l’impiego?
L’avrebbero davvero gettato su una strada come un vile mendicante? E che
ne sarebbe stato di Jo e del bambino? E se il piccolo Vincent fosse morto?
Sapeva che la debole fibra di Theo non avrebbe retto a un colpo simile. Chi
avrebbe provveduto a tutti loro nel tempo in cui Theo avesse dovuto cercare
un altro impiego? E come avrebbe potuto Theo trovare la forza di mettersi a
cercar lavoro?
Sedeva per ore nello scuro locale a pianterreno della Trattoria Ravoux,
che gli ricordava il Caffè Lamartine col suo lezzo di birra d’infima qualità e
di fumo acre. Ciondolava intorno al biliardo con la stecca in mano, tentando
svogliatamente qualche colpo. Non aveva soldi per bere. Non aveva soldi
per comprare tela e colori. Non poteva chiedere nulla a Theo, in un
momento come questo. E aspettava la crisi di luglio con una paura
angosciosa di commettere qualche follia che dovesse causare al povero
Theo altri crucci e altre spese.
Cercò di lavorare. Ma a che scopo? Aveva ormai dipinto tutto ciò che
voleva dipingere. Aveva detto tutto ciò che gli premeva di dire. La natura
non aveva più il potere d’accendere in lui la passione creativa d’un tempo:
ed egli sapeva che la miglior parte di lui già era morta.
I giorni passavano. S’era ormai alla metà di luglio, alle soglie della
canicola. Theo, in preda all’incubo dell’imminente mazzata di Valadon,
divorato dalle preoccupazioni per la salute del bambino e per gli onorari
dovuti al medico, riuscì a spremere ancora cinquanta franchi da mandare al
fratello. Vincent non fece altro che passarli a Ravoux. Questo soccorso gli
avrebbe permesso di restare fino alla fine di luglio. E poi? Non poteva
aspettarsi altri aiuti da Theo.
Si stendeva supino nei campi intorno al piccolo cimitero, sotto il
dardeggiar del sole. Camminava lungo le rive dell’Oise, respirando la
freschezza dell’acqua e del fogliame. Andava a pranzo da Gachet,
rimpinzandosi di cibo che non poteva gustare né digerire. E mentre il
dottore s’infervorava a magnificare i suo quadri, egli si diceva: «Non è di
me che parla. Impossibile che quei quadri siano miei. Io non ho mai dipinto.
Non riconosco nemmeno la mia firma sulle tele. Non ricordo d’averci steso
una pennellata di colore. L’autore dev’essere certamente un altro…».
Rifletteva, steso sul letto nella sua stanza buia: «Supponiamo che Theo
non venga licenziato. Ammettiamo pure che possa continuare a mandarmi
centocinquanta franchi al mese. Che me ne faccio ormai della mia vita? Ho
seguitato a vivere in questi ultimi sciagurati anni perché dovevo dipingere,
perché dovevo dire le cose che mi bruciavano dentro. Ma oggigiorno non
c’è più nulla dentro di me. Sono ormai solo un guscio svuotato. Devo
ridurmi a vegetare come quei poveri diavoli di St.-Paul, in attesa che
qualche incidente mi spazzi via dalla terra?».
Altre volte si tormentava per il fratello, Johanna e il bambino.
«Immaginiamo che mi ritorni la forza e l’estro, che mi riprenda il desiderio
di dipingere. Come posso continuare ad accettare il denaro di Theo, dal
momento che gli è necessario per Jo e il piccino? È inammissibile che egli
spenda quel denaro per me. Deve servirsene per mandare in campagna il
bambino, perché cresca sano e robusto. Sono dieci lunghi anni che vivo alle
sue spalle. Non basta ancora? Non è forse tempo che mi levi di mezzo, a
vantaggio del piccolo Vincent? La mia parte in questo mondo è finita,
adesso comincia la sua».
Ma in fondo a tutto c’era l’opprimente paura delle possibili
conseguenze dell’epilessia. In questo momento era sano di mente; poteva
disporre della sua vita come voleva. Ma se il prossimo l’avesse trasformato
definitivamente in un maniaco furioso? Se il suo cervello non avesse retto
alla violenza della crisi? Se fosse diventato un idiota capace soltanto di
biascicare parole assurde e incoerenti? Che cosa avrebbe fatto allora il
povero Theo? L’avrebbe fatto rinchiudere per sempre in un manicomio?
Regalò due altri quadri al dottor Gachet e cercò di farsi dire la verità.
— No, Vincent — lo rassicurò il suo amico. — Non avrete più altri
attacchi. D’ora in poi godrete sempre buona salute. Ma non tutti gli
epilettici sono così fortunati.
— Che cosa può accadere loro?
— A volte, dopo un certo numero di crisi, finiscono per impazzire del
tutto.
— E non guariscono più?
— No. Sono spacciati. Possono magari vivacchiare ancora alcuni anni
in un manicomio, ma non rinsaviscono più.
— Come si può prevedere, dottore, se l’attacco imminente non lascerà
conseguenze o se schianterà per sempre il cervello?
— Impossibile fare una previsione di questo genere, Vincent. Ma
lasciamo perdere questo triste argomento. Andiamo su nel mio laboratorio a
fare qualche incisione.
Nei quattro giorni successivi Vincent non uscì più dalla sua stanza. Ogni
sera Madame Ravoux gli portava la cena.
«Ora sto bene, ora ragiono con perfetta lucidità — egli si ripeteva. —
Sono padrone del mio destino. Ma quando verrà il momento della crisi… se
la mia mente restasse per sempre sconvolta… non mi renderei più conto di
nulla e non saprei più prendere la decisione di uccidermi… E sarei perduto.
Oh, Theo, che cosa fare?».
Il quarto giorno, nel pomeriggio, andò da Gachet. Il dottore era nella
stanza di soggiorno. Vincent si diresse risolutamente verso il mobile dove
qualche tempo addietro aveva messo il nudo di Guillaumin, e lo tirò fuori.
— Vi avevo detto di farlo incorniciare!
Il dottor Gachet lo guardò sorpreso.
— Lo so, Vincent. La prossima settimana ordinerò una cornice al
falegname di Auvers.
— Non la prossima settimana, ma ora! Oggi! In questo momento!
— Ma, Vincent, adesso dite delle sciocchezze.
Vincent lo fissò per un istante con un’espressione terribile, avanzò
meccanicamente d’un passo e mise la mano nella tasca della giacca. Al
dottor Gachet parve di vederlo impugnare una rivoltella e puntarla contro di
lui, attraverso la stoffa.
— Vincent!
Vincent tremò. Abbassò gli occhi, tolse la mano di tasca e corse via.
Il giorno dopo prese i suoi arnesi, percorse la lunga strada che
conduceva alla stazione, salì per la collina, spingendosi fin oltre la chiesa
cattolica e sedendosi poi in un campo di fronte al cimitero.
Verso mezzogiorno, mentre più infieriva sul suo capo la sferza del sole,
uno stormo enorme di merli sbucò dal cielo. Riempirono tutto lo spazio,
oscurarono il sole, lo avvolsero in una densa nube tenebrosa, gli volarono
tra i capelli, negli occhi, nel naso, nella bocca, avviluppandolo in un nero e
soffocante turbine d’ali frenetiche.
Continuò a lavorare. Dipinse degli uccelli sopra un biondeggiante
campo di grano. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo maneggiasse i
pennelli. Finito il quadro ci scrisse: Corvi su un campo, prese il cavalletto e
la tela e tornò alla trattoria. Si gettò sul letto e s’addormentò.
Il pomeriggio seguente uscì di nuovo, ma giunto in Place de la Mairie
prese un’altra direzione. S’inerpicò fin oltre il castello. Un contadino lo
vide appollaiato su un albero.
— Impossibile! — sentì che diceva. — Impossibile!
A un certo momento ridiscese dall’albero e si mise a camminare
attraverso i solchi dietro il castello. Stavolta era veramente la fine. Già lo
sapeva fin dalla prima volta ch’era stramazzato sotto la violenza del male,
ad Arles; ma non aveva avuto la forza, allora, di fare il salto nel buio.
Ora voleva dire una parola d’addio. Nonostante tutto, il mondo in cui
era vissuto aveva qualcosa di buono e di bello. Come diceva Gauguin?
«Accanto al veleno c’è sempre l’antidoto». Ed ora, sul punto di lasciare
questo mondo, avrebbe voluto dargli l’addio, dar l’addio a tutti quegli amici
che lo avevano aiutato a foggiarsi la propria vita: Ursula, la cui ripulsa
l’aveva strappato da un’esistenza convenzionale e fatto di lui un reietto;
Mendes da Costa, il quale gli aveva infuso la persuasione che sarebbe
giunto infine ad esprimere se stesso e che questa espressione avrebbe
giustificato la sua vita; Kay Vos, il cui «No, mai mai!» s’era inciso
amaramente e indelebilmente nel suo cuore; Madame Denis, Jacques
Verney e Henri Decrucq, che gli avevano insegnato ad amare gli esseri più
disgraziati e conculcati della terra; il reverendo Pietersen, la cui bontà non
aveva badato ai suoi cenci miserabili e alle sue maniere sgraziate; il babbo e
la mamma, che gli avevano voluto bene come meglio sapevano; Cristina,
l’unica donna che il destino s’era compiaciuto di concedergli; Mauve,
ch’era stato il suo maestro per alcune indimenticabili settimane;
Weissenbruch e De Bock, i primi compagni d’arte con cui aveva stretto
amicizia; gli zii Vincent, Jan, Cornelius Marinus e Stricker, che l’avevano
bollato come la pecora nera della famiglia Van Gogh; Margot, l’unica donna
che l’avesse amato, e che per questo amore aveva tentato di togliersi la vita;
tutti i suoi amici di Parigi: Lautrec, ch’era stato nuovamente rinchiuso in un
manicomio, da cui non sarebbe uscito più; Georges Seurat, morto a trentun
anni per eccesso di lavoro; Paul Gauguin, ridotto a una condizione di
mendicante in Bretagna; Rousseau, che marciva nella sua topaia, nei pressi
della Bastiglia; Cézanne, che conduceva un’amara vita di recluso su una
collina di Aix; il Père Tanguy e Roulin, che gli avevano mostrato come i
cuori semplici siano il sale della terra; Rachel e il dottor Rey, che gli
avevano prodigato la bontà di cui aveva bisogno; Aurier e il dottor Gachet,
gli unici due uomini al mondo che l’avessero giudicato un grande pittore; e
infine il suo buon fratello Theo, il paziente, l’affettuoso, il fedele Theo, il
migliore e il più caro di tutti i fratelli.
Ma le parole non erano mai state il suo mezzo d’espressione. Avrebbe
dovuto dipingerlo, questo addio.
Non si può dipingere un addio.
Alzò il viso verso il sole. Si puntò la rivoltella contro il fianco. Premette
il grilletto. Crollò di schianto, con la faccia immersa nell’opulenta terra del
campo, terra lui stesso, ritornante nel grembo della grande madre.
4.
Quattro ore dopo, varcava con passo barcollante la soglia della trattoria.
Madame Ravoux lo seguì nella sua stanza e, visto che aveva i vestiti
insanguinati, corse immediatamente a chiamare il dottor Gachet.
— Oh, Vincent, Vincent, che cosa avete mai fatto! — gemette Gachet,
entrando nella stanza.
— Devo essere stato un vero schiappino. Che ne dite? Gachet esaminò
la ferita.
— Ah, Vincent, mio povero amico, quanto dovevate essere infelice per
fare una cosa simile! Ma perché non ho saputo comprendere? Perché ci
volete lasciare, mentre vi vogliamo tanto bene? Pensate ai bei quadri che
dovete ancora dare all’umanità…
— Volete fare il favore di prendermi la pipa nella tasca del panciotto?
— Ma certo, amico mio.
Gachet gliela riempì di tabacco e gliela mise tra i denti.
— Ora accendetemela, per favore.
— Ma certo, amico mio.
Vincent tirò alcune boccate di fumo, in silenzio.
— Vincent, oggi è domenica e vostro fratello non è alla galleria. Qual è
il suo indirizzo di casa?
— Non ve lo dico.
— Ma dovete dirmelo, Vincent! Bisogna avvertirlo d’urgenza!
— No, non dovete rovinargli la domenica. È carico di stanchezza e di
preoccupazioni. Ha bisogno di riposare.
Per quanto insistesse e si sforzasse di persuaderlo, Gachet non riuscì a
strappargli l’indirizzo di Theo. Rimase al suo capezzale fino a tarda ora
della notte, medicandogli la ferita. Poi andò a casa per riposarsi un poco,
affidandolo alle cure di suo figlio.
Vincent rimase tutta la notte con gli occhi spalancati, senza mai
pronunciare una parola. Si faceva riempire la pipa e fumava continuamente.
La mattina dopo, arrivando all’ufficio, Theo trovò il telegramma di
Gachet. Prese il primo treno per Pontoise, noleggiò una carrozza e si
precipitò ad Auvers.
— Ciao, Theo — gli disse Vincent.
Theo cadde in ginocchio accanto al letto e strinse il fratello tra le
braccia come un bambino. Non poteva parlare.
Giunto il dottore, uscì con lui in corridoio. Gachet scosse tristemente la
testa.
— Non c’è nulla da sperare, amico mio. Non posso operarlo per estrarre
il proiettile, perché è troppo debole. Se non avesse una fibra d’acciaio,
sarebbe morto in piena campagna.
Per tutta l’interminabile giornata Theo rimase seduto al suo capezzale,
tenendogli la mano. Al cader della sera quando furono soli nella stanza, si
misero a parlare sommessamente della loro fanciullezza nel Brabante.
— Ricordi il mulino di Ryswyk, Vincent?
— Bello quel vecchio mulino, eh Theo?
— Camminavamo per il sentiero lungo l’acqua, facendo progetti per
l’avvenire.
— E quando giocavamo in mezzo alle messi, d’estate, tu mi tenevi per
mano, proprio come ora. Ricordi, Theo?
— Sì, Vincent.
— All’ospedale di Arles, ripensavo spesso ai tempi di Zundert. Che
bella fanciullezza è stata la nostra, Theo! Giocavamo nel giardino dietro la
cucina, all’ombra delle acace, e la mamma ci faceva i formaggini al forno
per merenda.
— Sembrano cose già tanto lontane…
— Già… Eh, sì, la vita è lunga. Theo, te ne scongiuro, riguardati molto.
Abbi cura della tua salute. Devi pensare a Jo e al piccino. Portali in
campagna, di modo che il bambino possa crescere sano e forte. E non stare
più alle Gallerie Goupil. Quella gente t’ha sfruttato e spremuto senza darti
nulla in compenso.
— Aprirò molto presto una piccola galleria per conto mio, Vincent. E la
mia prima mostra comprenderà le opere di un solo pittore. Le opere
complete di Vincent Van Gogh. Come le avevi disposte tu, con le tue mani,
nel nostro appartamento.
— Ah, sì, il mio lavoro… Ci ho rischiato la vita, e la mia ragione si è
quasi inabissata.
La profonda quiete della notte d’Auvers invase la stanza.
Poco dopo l’una del mattino, Vincent volse leggermente la testa e
sussurrò: — Vorrei morire ora, Theo.
Pochi minuti dopo chiudeva gli occhi.
Theo sentì suo fratello abbandonarlo per sempre.
5.
FINE
NOTA