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In questo suo primo romanzo, Antonia Arslan attinge alle memorie familiari per raccontare la

tragedia di un popolo "mite e fantasticante", gli armeni, e la struggente nostalgia per una patria e
una felicità perdute. Yerwant ha lasciato, appena tredicenne, la casa paterna per studiare nel collegio
armeno di Venezia. Ora, dopo quasi quarant'anni, sta ultimando i preparativi per il viaggio che lo
ricondurrà alla Masseria delle Allodole, tra le colline dell'Anatolia, dove potrà finalmente
riabbracciare i suoi cari. La notizia diffonde nella cittadina natale, inebriata dai gelsomini in fiore e
dai dolci preparati per la Pasqua, un'euforica frenesia che pervade lo scorrere quieto dei giorni.
Giorni in tessuti delle pigre partite a tric-trac nella farmacia del fratello Sempad, giorni colorati dai
sogni d'amore delle sorelle, Azniv e Veron, e dalla festosa confusione dei bambini, su cui vigila la
mamma Shushanig. Si sta organizzando la festa di benvenuto e tutti, parenti e amici, sono invitati a
prendervi parte. La Masseria è rimessa a nuovo, per completare l'opera è stato perfino ordinato da
Vienna un pianoforte a mezza coda. Ma siamo nel maggio del 1915. L'Italia è entrata in guerra e ha
chiuso le frontiere mentre il partito dei Giovani Turchi insegue il mito di una Grande Turchia, in cui
non c'è posto per le minoranze. Yerwant non verrà, e non ci sarà nessuna festa. Al suo posto, solo
orrore e morte. È qui che comincia, per le donne armene della città, un'odissea segnata da marce
forzate e campi di prigionia, fame e sete, umiliazioni e crudeltà.
Nel loro cammino verso il nulla, madri figlie e sorelle si aggrappano disperatamente all'esistenza e
tengono accesa la fiamma della speranza. Sarà grazie alla loro tenacia, al loro sacrificio e all'aiuto
disinteressato di chi rifiuta di farsi complice della violenza che tre bambine e un "maschietto-
vestito-da-donna", dopo una serie di rocambolesche avventure, riusciranno a salvarsi e a
raggiungere Yerwant in Italia. E sarà lui a garantire per loro un futuro e a custodire le "memorie
oscure" che oggi la nipote Antonia ha trasfuso in un romanzo dolce e straziante come una fiaba.
ANTONIA ARSLAN

La masseria delle allodole.

Rizzoli.

Romanzo.

Proprietà letteraria riservata (c) 2004 RCS Libri S.p. A., Milano ISBN 88-17-00144-9
Prima edizione: aprile 2004
Il Prologo, originariamente apparso nel libro il mandorlo e la locusta (1998) con il titolo "Il nido e il
sogno dell'Oriente", viene qui ripubblicato per gentile concessione delle Edizioni Messaggero
Padova.
Impaginazione: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)

Indice
ANTONIA ARSLAN La masseria delle allodole.......2
PROLOGO ..........................................................................................................................................2
PARTE PRIMA ....................................................................................................................................5
PARTE SECONDA ...........................................................................................................................40
RINGRAZIAMENTI ........................................................................................................................84

A Enrica Henriette, la bambina che non crebbe

PROLOGO

Prendemmo la strada sotto i portici per andare al Santo. Era il 13 di giugno, il giorno del mio
onomastico.
Pioveva, e io non volevo muovermi, ma il nonno Yerwant, il patriarca a cui nessuno disobbediva,
aveva detto: "È ora che la bambina conosca il suo santo. È già quasi troppo tardi, ha cinque anni.
Non sta bene far aspettare i santi. E dovete portarcela a piedi". Lui ci avrebbe raggiunto con la sua
automobile Lancia, e con Antonio, l'autista.
Così, percorsi con la zia le due lunghe strade porticate che conducono alla basilica, con la zia Hen
riette, piccola piccola, dal gran naso armeno e dai lucidi capelli neri a caschetto, che aveva molti
segreti e se li teneva stretti, non portava mai tacchi bassi e non permetteva che aprissi la sua
borsetta. Neppure lei era contenta dell'ordine del nonno: aveva caldo, aveva "quasi" mal di testa,
pensava che andare alla basilica nel giorno del Santo fosse poco fine, cosa da provinciali e da
turisti, temeva di perdermi, si angosciava per nulla, come sempre.
Zia Henriette era una sopravvissuta al genocidio del 1915. Creatura della diaspora, non aveva più
una lingua madre. Parlava molte lingue, compresa la sua, l'armeno, in modo legnoso, innaturale:
come una straniera.
In tutte faceva patetici sbagli, e non volle mai raccontare la storia della sua sopravvivenza. Aveva
dimenticato anche la sua età (in Italia, quando sbarcò, era così minuta e patita che le tolsero due o
tre anni) Ma ogni sera, a casa nostra, veniva a cena portando vassoi di biscotti alla moda austriaca,
enormi vasi di yogurt fatto in casa, paklavà colmo di noci e di miele: e la sua presenza riempiva la
casa di memorie oscure.
Io l'amavo moltissimo, e mi facevo viziare. A casa sua i dischi di Edith Piaf andavano tutto il
giorno, e si poteva ballare con le scarpette di panno. Sicché mi facevo trascinare verso il Santo con
pigra curiosità, sperando in un gelato, o in una medaglietta, o in un libro colorato, chissà. Per me,
ero aperta a tutti i doni - e mi aspettavo un dono, fiduciosamente.
E quando arrivammo allo sbocco della via del Santo nella immensa piazza, ebbi il mio dono. La
pioggia era cessata da qualche minuto, e improvvisamente le nuvole si spostarono, come un sipario,
e un raggio caldo di luce e di sole fece della piazza un teatro, dove innumerevoli figurine colorate
cominciarono a sgrullarsi e a chiudere gli ombrelli, affrettandosi verso l'ingresso.
Tante Aide, Nives, Esterine, Gigie si chiamavano allegre e urgenti, accompagnate da bambini
compunti vestiti da piccoli frati, e da uomini atticciati, seri, addobbati di nero; nel centro, un gruppo
solenne e ieratico si faceva notare per i chiassosi costumi, le gonne lunghe e i fieri capelli delle
donne, i mustacchi erti degli uomini. Fermi, fissavano concentrati il grande portone socchiuso della
basilica.
"Vedi? Ci sono anche gli zingari" disse preoccupata la zia. "Tienimi stretta la mano." Io non
pensavo a sciogliermi. Mi bastavano gli occhi. Ero incantata e confusa. Erano quelli, gli zingari?
Quelli che andavano sempre, e non si fermavano in nessun luogo; quelli che abitavano i carrozzoni
sgargianti, che erano come case piccolissime, con dentro tutto quello che serve? Anche noi armeni
siamo andati in tutti i paesi ma, giunti in un posto, ci fermiamo; e così abbiamo parenti in tutte le
parti del mondo. E cominciai a ripetermi l'elenco delle città dove avevamo parenti, e i loro nomi,
rigirandomeli in bocca come una caramella.
La zia lo ripeteva sempre: "Quando sarò proprio stanca di stare con voi, quando sarete stati troppo
cattivi, io me ne andrò. A Beirut da Arussiag, ad Aleppo da zio Zareh, a Boston da Philip e Mildred,
a Fresno da mia sorella Nevart, a New York da Ani, 1 o anche a Copacabana dal cugino Michel. Lui
però per ultimo, perché ha sposato un'assira". Io ero affascinata dalla signora zia assira. Avevo visto
in un libro illustrato i costumi degli antichi assiri e le loro barbe, mi avevano raccontato la storia di
Nabucodonosor e delle grandi città di Babilonia e di Ninive, e mi figuravo questa zia incedere,
avvolta in stoffe sontuose, su e giù per i giardini pensili di Babilonia (che suonava abbastanza
simile a Copacabana) Altro che lasciarli per ultimi, come voleva zia Henriette; lo splendore di
questa parentela brasiliana a mio parere doveva avere il primo posto. Ma nessuno in verità chiedeva
il mio parere…
Continuando a stringermi nervosamente la mano, la zia si guardava intorno. Era piccola, patetica e
subito sperduta, e cercava la rassicurante presenza del nonno, che infatti arrivò in quel momento.
Con una curva impeccabile, l'auto argentea scivolò lungo il perimetro della piazza e si fermò
silenziosamente proprio accanto a noi. L'autista Antonio scese e corse ad aprire la portiera al
vecchio, piccolissimo anche lui, ma quanto più autorevole della zia! Dalla testa completamente
calva, che veniva rasata ogni giorno accuratamente, al breve pizzetto imperioso, agli stivaletti lucidi
con le ghette abbottonate con precisione, il nonno emanava sicurezza di sé e una grande forza
interiore, non disgiunta però da una capricciosa autorità, che nessuno metteva in discussione e che
deliziava noi bambini, proprio perché spesso contraddiceva, in modo del tutto incomprensibile, le

1 La lingua armena, come il francese, porta l'accento sull'ultima sillaba. Dunque tutti i nomi propri vanno pronunciati
con l'accento spostato sulla vocale finale (Anì, Arussiàg, Sempàd, Shu8shanìg eccetera). Analogamente vanno
pronunciati i nomi turchi. La lettera “h” iniziale va pronunciata.
assennate decisioni degli altri adulti di casa.
Il nonno afferrò subito la situazione, compresa l'inquietante presenza degli zingari, e si pronunciò:
"Tu Henriette entra in basilica per la porta laterale, prendi una sedia e mettiti a pregare. Un rosario,
magari, perché ci vorrà del tempo. Passeremo a prenderti dopo. La bambina viene con me. Tu
Antonio fai un giro dentro: è il giorno del Santo, che è anche il tuo santo. Avrai bene da chiedergli
qualche cosa. Una bella preghiera farà bene anche a te. Poi vai a sederti dietro la signorina, e mi
aspetterete insieme"
Mi prese per mano e mi portò diritta verso gli zingari, ancora immobili al centro della piazza. Il loro
capo era in prima fila, era grande e bello. Ma quando vide il nonno, così piccolo e rotondetto, con la
luccicante catena dell'orologio tesa attraverso il panciotto, lo salutò e subito disse, voltandosi al suo
gruppo, altrettanto bello ai miei occhi incantati: "C'è il professore. È lui che ha salvato il bambino.
Viene in basilica con noi, viene a pregare con noi" E il nonno disse: "Questa è la mia nipotina. Si
chiama Antonia".
In quel momento il portone centrale si spalancava pian piano. Dietro i due pesanti drappi laterali si
aprì l'immensa cavità oscura, da cui si sprigionava un profumo forassimo oli incenso, il brusio
indistinto di una grande folla rispettosa e - a tratti - folate di canto. Il nonno mi prese una mano, il
capo degli zingari l'altra, e procedemmo insieme, con passo lento e grave, alla testa del gruppo,
verso l'ingresso. La gente si scostava intorno a noi, sussurrando. Il gruppo aveva un odore
particolare, che si è fissato per sempre nella mia memoria, come il profumo del nido dell'anima, a
cui tutti ritorneremo: di cavallo e di cuoio, di pelle abbronzata e di polvere delle strade.
Gli zingari cantavano, nella loro lingua misteriosa.
Ed ecco che anche il nonno cantava, nella sua lingua misteriosa, parole così dolci che non sembrava
nemmeno lui a pronunciarle, con voce profonda, come rivolto a se stesso; e io dal basso, vicina a
lui, ascoltavo, ascoltavo: e mi pareva di essere a casa, mi pareva proprio di rientrare in un nido
caldo. "Signore perdonami " diceva il nonno nell'antica lingua; "Signore pietà; Gesù Salvatore, abbi
pietà di noi. O Santissima Trinità, concedi la pace al mondo, splendore alla Chiesa; alla nostra
nazione armena amore e unità; guarigione ai malati e il regno ai dormienti." In quel momento si udì
una voce forte e risoluta, che disse (e a me pareva che venisse da un misterioso Ognidove, ma era
un predicatore dal pulpito, che io non vedevo): "Parola del santo frate Antonio. Cristo si paragona
alla chioccia: "Come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali…". Osserva che la chioccia si
ammala quando i pulcini sono ammalati; li chiama a mangiare fin tanto che diventa rauca; li
protegge sotto le ali e resiste al nibbio con le penne irte per difenderli.
Così Cristo, Sapienza di Dio, per noi infermi si è fatto infermo, come dice Isaia: "Lo abbiamo
osservato: è disprezzato e l'ultimo degli uomini, cioè il più reietto; uomo dei dolori che ben conosce
il patire"".
Mi piaceva l'idea della chioccia. Conoscevo le chiocce, sapevo come si comportano; e avevo anche
avuto un pulcino. Anche se mia mamma, riflettevo, la mia giovane mamma baldanzosa, di sicuro
non è una chioccia… E nella mia testa la guarigione dei malati della preghiera del nonno, la sede
dell'Armenia, le premure del materno Dio-chioccia di cui parlava la voce, l'odore degli zingari e
l'immensa cavità protettiva del cielo della basilica si fusero in una sensazione di sicurezza totale, di
felicità così intensa che cominciai a piangere.
Allora il nonno mi prese una mano fra le sue e disse:
"Questa chiesa è come una nave, ed è il tuo Santo che la guida. Questa chiesa è un porto, ed è il tuo
Santo che ci accoglie qui dentro, e detta le parole che hai sentito, e il male resta fuori dal portone"
(guardai il grande ingresso: luccicava di luce esterna, e non sembrava un guardiano. Ma il nonno
sapeva tutto…). "Questa è la casa visibile che conduce alla casa invisibile. Qui tu sarai sempre a
casa. Hai sentito quello che ha detto il Santo: Dio è consolazione e conoscenza, è vicinanza nella
malattia, cuore caldo che batte vicino al tuo. Qui ci sono tutti i nostri morti: la nonna Antonietta, la
mia mamma giovinetta (il nonno aveva una mamma, scoprii con intensa meraviglia), tutti i miei
fratelli scomparsi nella deportazione…"
"Ma adesso" proseguì "andiamo a salutarlo. Non sta bene trascurare il padrone di casa." Così
lasciammo gli zingari, dopo esserci salutati con molte feste, e andammo a metterci in fila nella folla
sudata e accalcata che voleva toccare la lastra nera, dietro la quale, mi spiegò il nonno, stava il
corpo di sant'Antonio. "Ma lui c'è veramente, e ci sente davvero?" domandai. "E capisce anche i
pensieri?"
"Devi mettere la mano sul marmo" rispose "e dire una preghiera, quella che sai meglio, o che ti
viene in mente per prima. Lui vede nel tuo cuore." Non ero molto sicura che nel mio cuore ci fosse
molto da vedere, tutto riempito com'era di cose da bambini. Non mi pareva che ci fosse niente di
interessante per un santo. Fui molto attratta invece dai cuori d'argento, fini trine di metallo
luccicante appese dappertutto, insieme a gambine e braccini d'argento, a quadretti colorati
piccolissimi. Ma non c'era tempo di fermarsi su niente. La folla compatta premeva dappertutto,
intorno al nonno e a me, sballottandoci, confondendoci.
Infine un uomo grosso dietro di noi si accorse del vecchio e della bambina: protesse lui, sollevò me,
schiacciandomi contro la lastra nera per un istante. Io pensai in fretta: "Prima di tutto, mi chiamo
Antonia. Ti dico subito il mio nome, con tutta questa gente altrimenti come potrai poi ricordarti di
me?" Ma lui non rispose. "Troppa gente" pensai, "forse dovevo parlare forte." Ma avevo fatto il mio
dovere, mi ero comportata educatamente; e poi, probabilmente, lui sapeva già chi ero. Glielo aveva
detto il nonno.
E la felicità ritornò, impetuosa, come una corrente a trascinarmi insieme alla folla in movimento.
Non ricordo il resto della visita, solo che il nonno mi teneva saldamente per mano, come se
condividessimo una segreta emozione; e che a un certo punto (forse nel buio relativamente
tranquillo dietro l'altar maggiore) si sedette su un gradino, lui di solito così schizzinoso, come
accasciato da un pensiero che lo isolava; e io rimasi, quieta e piena di gioia, in piedi davanti a lui ad
aspettarlo. Oggi so che fu in quel momento che i suoi morti lo raggiunsero, ed egli subito sembrò un
vecchio mercante stanco, che aveva invano sognato di ritornare a concludere i suoi giorni nella natia
terra d'Oriente; e ora si rassegnava a morire qui, in un esilio che però non era più esilio poiché era il
luogo di tutte le genti, l'antica patria perduta.
Ricordo invece benissimo come si riprese. Improvvisamente allegro e di nuovo pieno di energia, mi
disse: "Adesso andiamo a salutare il padre provinciale. La zia e Antonio possono pregare ancora un
po. Ti daranno certo un'aranciata e un biscotto" Invece mi diedero, col biscotto, un piccolissimo
bicchierino di un ghiotto rosolio di colore amaranto, il cui gusto dolcissimo di rosa mi parve
sublime, tutto da raccontare, a casa, ai fratelli invidiosi; e una Storia di Giuseppe a fumetti, per
quando avrei saputo leggere. Ma io preferivo ascoltare, e guardare il tavolo ricoperto di un tappeto
spesso, i ritratti di santi uomini alle pareti, i due uomini vecchi che conversavano in amicizia, il
nonno con la pelle opaca e giallina che si lisciava calmo il pizzetto, e il frate dalla carnagione rosea,
con la grande barba grigia che ogni tanto metteva a posto con le mani, calmo anche lui, poderoso.
Mi disse: "Devi tornare presto a trovarmi, con il tuo nonno, un giorno che sia più tranquillo di
questo della festa del Santo. Tu, poiché ti chiami come lui, e sei donna, hai degli speciali doveri. Ci
sono tanti Antonii, ma poche Antonie ". Di questo, fui subito molto lusingata.
Tutte queste cose assorbii in quel pomeriggio di giugno, come una spugna curiosa, una bambina
ardente.

Il nonno morì alcuni mesi dopo. Non andammo più insieme dal vecchio frate, non seppi mai quali
fossero gli "speciali doveri" di chiamarsi Antonia. Dopo tanti anni, però, non ho dimenticato.
Ancora oggi per me le grandi cupole della basilica sono come navi possenti, e veleggiano maestose
da Occidente a Oriente, seguendo la profezia, posate come in bilico sulla città tanto più piccola.
Ancora mi commuove, ogni volta che entro dal grande portone, l'odore di incenso, il canto delle
litanie lauretane (o il loro ricordo), l'eco presente dello scalpiccio dei milioni e milioni di passi dei
pellegrini che, come un mare, vengono e vanno, e dell'anima di ognuno si prende cura il grande
Santo, di cui porto il nome.
Dopo tanti anni, è nell'odoroso interno brulicante di gente che mi sento a casa, nel caldo nido di una
volta: non estranea, non ospite, ma passeggera in attesa di un treno di cui non conosco l'orario. So
soltanto che da qui passerà, da questa grande stazione dove nessuno è straniero, e un grande cuore
ancora batte per segnarci il cammino. Qui vorrei finire il mio tempo, appoggiata a un gradino
consumato dai passi degli uomini, perché Qualcuno mi accetti, per non svanire nel nulla, e transitare
verso la luce, con la mano nella mano del mio amico Antonio il portoghese, detto Antonio di
Padova, il Santo col fiore di giglio in mano.

PARTE PRIMA
Lo zio Sempad

Zio Sempad è solo una leggenda, per noi: ma una leggenda su cui abbiamo tutti pianto. Era l'unico
fratello uterino del nonno, il minore; la loro madre, Iskuhi la principessina, morì diciannovenne
dandolo alla luce.
Il bisnonno poi si risposò con una "matrigna cattiva", che gli diede molti altri figli; nonno Yerwant
non la sopportava, così a tredici anni chiese e ottenne di andarsene dalla piccola città a Venezia, a
studiare al Moorat-Raphael, il collegio per i ragazzi armeni.
Ma zio Sempad era molto più dolce, accomodante e tranquillo del fratello; e amava la sua tranquilla
città, la sua provincia neghittosa e sonnolenta, le chiacchiere al caffè con gli amici, la partita
accanita di tric-trac, la caccia. Studiò da farmacista a Costantino poli, ma pensando di ritornare a
casa. All'università lesse i giornali, si iscrisse a un partito, sognò anche lui la rinascita dell'antica
patria armena, si sfogò un poco, s'illuse. Trovò un compromesso con la matrigna, si divertiva a
coccolare i fratellini, a tirare le trecce alle sorelle, pensava a sposarsi.
Ogni tanto partiva a cavallo, con un amico del paese dei Lazi. Insieme si sentivano crociati e
cavalieri, pensavano di guerreggiare incontro al sole, come Alessandro, liberi uomini con la spada al
fianco.
Niente più le estenuanti trattative per ogni permesso, la burocrazia imperiale, l'ossequio
necessariamente servile dell'armeno, del mercante, che chiede a chi può negare, e non ha armi che
non siano le astuzie del suddito. E però: cavalcare verso Oriente, la conquista; ma essere uomini
dell'Occidente, il dominio. Parlare francese, abbonarsi alla "Revue des deux mon des", visitare
Parigi…
Spesso parlavano di Parigi, o dell'Italia, paese amico, dove il fratello Yerwant stava facendo fortuna.
Ma Sempad non aveva voglia, nonostante le promesse, di andarlo a trovare: era timido e orientale.
Tornasse il fratello, portasse la moglie franca* 2 con sé, e i figli Yetwart e Khayel, a farsi riconoscere
dalla grande famiglia.
Con onore se n'era andato, con onore sarebbe stato accolto. Ma Sempad nel fondo del suo semplice
cuore temeva che questo non sarebbe mai avvenuto: Yerwant era andato via per sempre, e i suoi
figli - nonostante i loro nomi - non conoscevano la lingua dei padri e venivano educati in collegi
tedeschi o italiani. UAnatolia era per loro una favola lontana.
Forse - pensava Sempad - un mio figliolo potrà recarsi da lui, e forse un po alla volta potremo andar
via tutti, e non avremo più paura. Ma non lo voleva veramente. Molti partivano, è vero. Dalle zone
più a rischio, i giovani più audaci, gli intelligenti, gli avventurosi, quelli che esplodevano negli
stretti confini permessi alla ermenì millet all'interno dell'Impero, come un rivolo continuo,
incessantemente partivano.
Verso l'Europa, verso la cultura sognata: a fare i medici, i dentisti, gli architetti, i poeti - o verso
l'America, per essere del tutto nuovi, per dimenticare.
A Boston viveva un fratellastro, Rupen, ed era abbastanza contento. Ma Sempad, nel suo semplice
cuore, conosceva la sua solitudine, e gli mandò una scatola di tric-trac molto bella, di legno inciso,
con tutto intorno un'iscrizione in caratteri armeni solidamente affettuosa, uguale a quella che aveva
in casa. Mai avrebbe immaginato che quella scatola - relitto o icona di un atroce naufragio - sarebbe
stata per due dei suoi figli l'unico segno della viva esistenza del padre, insieme a una solenne
fotografia cerimoniale.
Sempad amava la sua farmacia. Era un uomo un po lento, poco spiritoso, buonissimo. Da ragazzo,

2 Del paese dei "franchi": termine usuale per "occidentali"


proteggeva le sorelle minori, Veron e Azniv, dai dispetti dei tumultuosi fratelli, Rupen e Zareh;
amava anche moltissimo mandare telegrammi.
"Il farmacista" usava dire "dovrebbe essere attrezzato per inviare e ricevere telegrammi. Potrebbe
esserci un'urgenza." Tutti ridevano di Sempad, in famiglia e alla farmacia, per il voluttuoso rotolio
che riceveva nella sua bocca la parola "urgenza" Come tintinnava nella sua bocca questo
occidentalissimo sintomo di progresso, simbolo del fare in fretta, dello scuotersi di dosso
l'indolenza orientale.
"La gente" usava dire "non aspetta mica che finiamo la partita per morire. Noi intellettuali armeni
dobbiamo dare l'esempio, di precisione, aggiornamento, puntualità: agli armeni semplici, e ai turchi
semplici. Se no, perché abbiamo studiato?" Ma lui stesso non studiava più niente; rispettava le feste
e si lisciava i baffi - contando i suoi sette figli. Sfogliava appena il giornale con le notizie di
Costantino poli, fiero però che lassù gli armeni cominciassero a essere rispettati, perfino deputati
erano, e Krikor Zohrab, poeta e deputato, giocava ogni settimana a tavlì3 con il potentissimo
ministro degli Interni, Talaat Pascià.
Il tavlì di Zohrab! La sua familiarità con Talaat era divenuta, per il mite e fantasticante popolo
armeno, arra di buona fortuna e simbolo della nuova era di prosperità e di progresso che stava per
aprirsi con la collaborazione politica fra Giovani Turchi e millet armena.
Simbolo potente, che disarmava: "Va in casa sua, è ricevuto come uno di famiglia, bevono il tè
insieme" Sempad, e tutti gli altri come lui, non potevano letteralmente concepire che si potesse
ingannare - e uccidere, poi - uno con cui prendi il tè in casa tua: un ospite!
L'uso di mondo di Sempad - e degli altri come lui - non si estendeva alla doppiezza né all'inganno;
si basava piuttosto sull'applicazione di un accurato cerimoniale mercantile di guadagni, profitti e
perdite, calcolati con larghezza e con il rispetto dovuto ai poveri della comunità. E in più, il
farmacista aveva un codice morale da rispettare. Era quasi un medico, quasi un letterato; il custode
della salute, il custode dei veleni, il recapito dei giornali, l'uomo dei telegrammi: una colonna della
comunità.
Tutti sapevano che Shushanig, la moglie feconda e chiassosa, che proclamava di non occuparsi
delle faccende del marito, dominava lietamente Sempad fino all'ultimo pelo della sua barba, come
dice il proverbio.
E lui lietamente si faceva dominare, anche quando con il tacito assenso di lei scappava in calzonacci
di cuoio a fare una cavalcata con l'amico dei Lazi, fucile a tracolla, portando a casa fieramente un
paio di lepri. Qualche volta, un figlio l'accompagnava.
Il maggiore, il taciturno Suren, sognava l'Europa, e stava per partire; ma adorava il suo semplice
padre, e non avrebbe voluto lasciarlo. Questo desiderio sarà perversamente rispettato dal suo
destino.
Suren leggeva molto, e molto rifletteva; sentiva odor di sangue nell'aria, fiutava il male nell'aria: ma
chi crede a un ragazzo di quattordici anni, che parla poco e malvolentieri, e di notte piange solo,
sognando un grembo di donna, un materno rifugio dove scomparire e ritrarsi?
Garo, il secondo, anche lui parlava poco, ma ancor meno pensava. Agiva per istinto d'amore, senza
riflettere, con perfetta economia di gesti. Sapeva calmare ogni pianto infantile, ogni lagno, ogni
strillo; sapeva cullare e quietare con la sua sola fuggitiva presenza le ansie terribili di un popolo
inerme e insicuro, a cui ogni giorno può volgersi in male, dove i vecchi non raccontano di maghe e
di orchi, ma ricordano gli eccidi di vent'anni prima, o di dieci, e sgranano come un rosario l'elenco
dei parenti massacrati o scomparsi.
Il terzo figlio era Leslie l'inglese. "Concepito in una notte di tempesta" sosteneva Sempad ("In una
quieta notte di luna piena" irrideva Shushanig), i genitori dicevano di non sapere perché l'avevano
subito chiamato l'inglese. "È venuto prima il nome o l'epiteto?" chiedevano maligni gli amici,
ricordando l'epica sbornia di Sempad, abitualmente abbastanza morigerato o al massimo di alcol un
po' triste, quando un missionario americano regalò alla farmacia una bottiglia di whisky medicinale,
e l'inseguimento di Shushanig attorno al cortile che ne era seguito. E che finì indecorosamente nel
pollaio, ma con un risultato certo, appunto Leslie.

3 Nome turco del popolarissimo gioco della tavola reale o tric-trac (backgammon)
Piacque il liquido-sibilante nome esotico, scritto a chiare lettere sulla bottiglia che i genitori contriti
tennero per ricordo (e un vecchio soldato delle guerre balcaniche vi costruì dentro un magnifico
veliero, dotandolo anche di un cartiglio nostalgico che ricordava le battaglie di Nelson e il suo
personale sogno di andar libero per i mari: ma morirà fra i primi nel maggio 1915, in mezzo ai suoi
velieri frantumati) la bottiglia sopra l'armadio - quel bel noce italiano che il cognato Yerwant mandò
dall'Italia alla nascita del primo nipote - e Leslie sotto l'armadio. Leslie crebbe da solo, dapprima
conteso come una bambola fra i due maggiori, poi subito dimenticato alla nascita, dieci mesi dopo,
di una bambina gradevole e carina, normalissima: la zia di Fresno di tanti anni dopo, zia Nevart, che
non amava i bambini… Leslie rideva sempre, chiedeva di giocare; e non si offendeva se lo
rifiutavano, ma andava sotto l'armadio, nella sua tana segreta.
Poi gli altri: Arussiag, Henriette, Nubar, due femmine e un maschietto-vestito-da-donna, i torpidi
sopravvissuti, coloro che verranno a Occidente, gli scampati di Aleppo… Questi bambini ora mi
guardano da una fotografia scattata ad Aleppo un anno dopo, nel 1916, subito prima di imbarcarsi
per l'Italia: e sono gravi occhi infantili misteriosamente ravvolti in se stessi, opachi e glaciali, che
hanno accettato - dopo troppi perché senza risposta - la cieca selezione che li ha lasciati
sopravvivere. Portano decorosi abitini da orfani, ma sembrano vestiti di stracci regolamentari di
uniforme, e l'occhio ci vede le righe dei forzati. Gli scuri occhi orientali, con le sopracciglia
foltissime che disegnano un tratto unico sulla fronte, ripetono per quattro volte, inesprimibilmente,
la paura di un futuro che sarà inesorabile, e il nucleo nascosto di una colpa segreta.
È scoppiata la guerra in Europa. L'angoscia balcanica colpisce di nuovo. L'Impero si allinea con le
Potenze centrali, Germania e Austria-Ungheria. Si spera questa volta di aver indovinato: ma non è
mai un bene agire sulla scia di vecchi rancori, di un sentimento di umiliazione nazionale così forte
da diventare una bandiera. La piccola città è tutta in fermento. Molti vanno a consultarsi dal
missionario americano, quello che ha aperto il collegio protestante, con molto successo. Piace
questo modo nuovo di interpretare l'antica fede, senza l'eccesso di sentimento e di emotività delle
lunghe funzioni tradizionali, consolanti, ma dove non cambia mai niente. Piace questo Dio austero
che esige autocontrollo e puntualità, una devozione responsabile, una preghiera moderna. I sensi di
colpa degli armeni ne escono purificati, il mito dell'America rafforzato.
Forse, pensa nel fondo del suo semplice cuore zia Veron, che si è convertita sollecitamente ed è
molto attiva come patronessa, è anche un Dio più potente, saprà difendere gli armeni la prossima
volta… Veron è bassina e grassoccia, con un naso curiosamente parigino, retroussé dice lei, di cui è
molto fiera; nutre qualche velleità emancipazionista, e anche della cappella protestante, dove va da
sola la domenica con un cappelline veramente francese, va molto fiera. La trova di un gusto
eccellente, con arredi squisiti e all'ultima moda; ma la sua anima, rimasta a sua insaputa
cordialmente retrograda, incontra qualche difficoltà emotiva, e non riesce a piangere liberamente
lontano dallo sguardo solenne della Madre di Dio.
Perché qualche volta Veron piange, la sera. Vorrebbe un fidanzato vero, che non trovi il suo nome
ridicolo ("Veron, Veron, vrai pompon" cantano i nipoti per farla arrabbiare, e nessuno sa più chi ha
inventato l'infame ritornello). Magari un americano, sogna Veron. Se andasse a trovare Rupen a
Boston e si fermasse da lui? Potrebbe lavorare, fare la commessa o la modista, disegnare
cappellini…
In uno scatolotto segreto, sotto i guanti di pelle gialla che proprio Rupen le ha mandato a Natale,
Veron mette via soldini per il matrimonio americano; ma non vorrebbe partire da sola, e ogni tanto
si confida con la sorella minore, zia Azniv dalla bocca di rosa, che le vuoi bene ma le ride un po'
dietro. Azniv ama portare la treccia giù per le spalle e mettere un geranio fresco dietro l'orecchio
ogni mattina ("dobbiamo riscoprire la tradizione delle donne armene" ha letto in un giornalino del
partito socialrivoluzionario; e anche ha letto un servizio sull' "Illustration Parisienne", con la storia
di Carmen la gitana e dei suoi tragici amori). Azniv non ha nessuna intenzione di andare via. La
piccola città le va a pennello, ci si sente importante, ci si rannicchia femminilmente sicura del futuro
che tocca a una bella e brava ragazza. Parla benino il francese, e ha un ragazzo armeno con cui balla
di gran lena a tutte le feste; ma ha anche uno spasimante turco, un giovane ufficiale che la segue con
lo sguardo quando la incontra, mitemente, con occhi innamorati. Le ha mandato più volte poesie,
che lei saggiamente non ha mostrato a nessuno. Ma il cuore le palpita un po quando lo incontra, per
il fascino della sfida che compie anche soltanto lasciando che egli le scriva. È un giovane coltivato e
romantico, che a lei pare anche molto bello.
Ma mai Azniv farebbe sul serio con lui. Capuleti e Montecchi sono niente in confronto a ciò che li
separa; ma soprattutto, soprattutto: solo nel mondo della letteratura, nel mondo di carta dei romanzi
occidentali una simile liaison sarebbe possibile, e anche entusiasmante: fingere di credere alla
passione cieca, negare il domani…
Azniv è troppo pratica nella sua esuberanza carnale; poi si sente superiore alle donne musulmane
che possono dover condividere il marito con altre. Azniv deciderà liberamente di sé, e le piace
pensare che lo farà davvero, e che suo padre ascolterà il suo parere.
Così è sempre stato nella sua famiglia. Quando Yerwant ha voluto andare in Italia, aveva tredici
anni; e pochi di più Rupen, quando è partito per l'America; se Veron riuscirà a pagarsi il viaggio,
nessuno la fermerà. Il vecchio Hamparzum non si sente di negare ai suoi figli una scelta, che magari
vuol dire salvezza; e un armeno c'è dovunque nel vasto mondo, cui appoggiare un figlio, o una
figlia giovinetta.
Ma là nel deserto striano Azniv e Veron si stringeranno l'una all'altra, cullandosi gentilmente a
vicenda e cantandosi a voce quasi spenta: "Ov sirun sirun", la loro canzone, e "Veron, pompon",
divenuto il loro duro gioco segreto durante la deportazione: non animali che cercano l'ultimo
boccone di pane, ma donne, ancora, con un'ultima forza nel cuore: riuscire a salvare i bambini…
Zareh invece vive ad Aleppo. Anche lui medico. Colto, scettico, fiero, Zareh sa giocare a tric-trac,
come tutti, ma è un appassionato di bridge. Giocano di sera, alla legazione francese. Ci sono sempre
un paio di tavoli, circolano solleciti camerieri arabi con i liquori, e soprattutto, soprattutto
partecipano anche le signore.
Zareh ha ventisei anni, folti baffi e una piccola barba a punta, copiata da Yerwant, il fratello
maggiore, anche lui medico, quello che vive in Italia e che sta facendo fortuna. Gli piace credere di
assomigliargli, ma la sua struttura fisica è più robusta, un poco più rozza forse (sua madre non era
Iskuhi la principessina, ma una solida figlia di commercianti: per le seconde nozze, Hamparzum
aveva scelto secondo ragione e ceto sociale…). Guardando le giocatrici nei loro abiti colorati, nella
loro gaiezza tutta artificiale (ma quanto riposante), Zareh pensa di essere perdonato, di non essere
forse più armeno: e quanto sarebbe bello avere dietro di sé due distinti genitori francesi,
un'educazione di solida provincia occidentale: essere occidentale, non sembrarlo soltanto.
Ma tu povero Zareh con quella carnagione olivastra, e le forti dita a spatola, il grande naso e i
liquidi occhi castani, cosa sembreresti in Occidente se non un altro affamato figlio d'Oriente?
Zareh crede invece di essersi distaccato con eleganza, assentandosi ogni giorno un poco di più
dall'ingombrante famigliona lontana, dall'ingombrante femminilità orientale: le zie massicce, le
sorelle scioccherelle, ingenue e troppo curiose, che non hanno ancora trovato marito, le nipoti
vanitose che accontenti con un nastro… Manda a tutte loro una valigia di broccati d'Aleppo, due
volte all'anno. Il padrone della manifattura aleppina è suo paziente, e gli da bei tagli di seta pesante
appena un po difettati, a ottimo prezzo. Nell'ultimo invio egli ha aggiunto per Azniv, la sua
preferita, la sorellina quasi gemella minore a lui solo di undici mesi, una pezza di seta rosso granata
con rose di velluto a fili d'oro zecchino in rilievo, perfetta, uno splendore.
Questa seta finirà nel deserto, servirà da coperta, e Azniv riderà mostrando i denti ingialliti nel viso
disseccato quando Veron le dirà, ogni sera, ogni sera - raggomitolandosi affamata: "Ti prepari per il
tuo principe, colombella, ti vesti di seta e d'oro?" Ma non esiterà a barattarla, alla fine, per un po'
d'acqua e di pane.
Zareh diventa molto importante, in questa storia. Ma non per la sua vita, né per la sua morte.
Sposerà una brava ragazza assira, zia Alice, il suo francese divenuto quasi perfetto gli servirà negli
anni del protettorato francese in Libano e in Siria. Vivrà sereno in una bella casa coi balconi interni,
in vista della Cittadella, in un tranquillo quartiere ottocentesco. Avrà un'unica figlia, di nome
Juliette, che morirà giovane sposa, di un male misterioso, subito dopo il marito, assiro anche lui, un
ragazzo di Damasco dagli occhi scuri e quieti.
Ma sarà Zareh lo scettico, l'europeo, a salvare il retaggio familiare: i nipoti e le fotografie, quattro
corpi umani denutriti, uccellini moribondi, piccoli teschi tutt'occhi raggomitolati insieme, e il
pacchetto prezioso dei ritratti di famiglia, cuciti con il Libro di Gregario di Narek in uno straccetto
di velluto, e passati di mano in mano, dai morenti ai sopravvissuti. Aridi asciutti scheletri memoriali
di una vita che fu cordiale e rumorosa, ricca d'acque, ricca di ospitalità e festevolezze…
È scoppiata dunque la guerra in Europa. Agosto 1914. Il vecchio Hamparzum sta per morire. Ha
visto tutto, ha amato tutto; ha lavorato tanto e ha pensato con larghezza alla sua famiglia e alla
Chiesa. Adesso, con fedeltà e con onore, benedice tutti e si accomiata da tutti. Affida ai suoi figli
l'ottima moglie, la saggia e bisbetica Nevart Alexanian.
Ora può raccogliersi e spogliarsi della grave età, dei suoi crucci e dei suoi beni. Ora può tornare
dalla sua bella principessina, Iskuhi Kardiashian dalle gote di pesca e dal vestito di fuoco, che lo
sedusse per sempre in un pomeriggio di luglio del 1865. Quando vede Azniv col geranio alla
tempia, allora pensa a lei; ma Iskuhi, quant'era più bella! Come avvolta dal sole, come calata nella
fiamma, ancora gli sorride con i liquidi nebbiosi occhi neri e la bocca imbronciata, nella sua nuvola
d'oro alla presenza di Dio.
Sa, il vecchio Hamparzum, che lei lo aspetta, e si affaccia già verso di lui dai balconi del cielo,
tendendogli le belle braccia rotonde; perciò può assaporare i suoi ultimi giorni. Non soffre; solo un
indicibile, grato languore gli si diffonde un po alla volta per le ossa. Sorbisce con gusto un po' di
yogurt coi cetrioli, succhia un pezzo di pane; e sente la mente farsi di ora in ora più acuta, profetica,
affilata.
"Nonno, vuoi l'uva?" entra Nubar, traballante, affaccendato a camminare, a mostrare i suoi primi
passi: l'ultimo nipote, l'ultimo figlio di Sempad e Shushanig, il buffo, tondo Nubar dal nome sonoro.
L'uva dei vigneti dei villaggi intorno alla piccola città è grossa e dolce; il vecchio prende un grano e
annusa l'odore compatto della carne di Iskuhi, la sua cerva radiosa.
"Riunirsi a lei nella patria perduta, a lei che non muore più" pensa - e poi: Ancora qualche
giorno…".
Ed ecco che d'improvviso la mente gli trasmette una cristallina, lucida visione d'orrore e di
disperazione: il cuore si mette a battere disordinatamente, l'angoscia con dita d'acciaio gli stringe la
gola, e la vita comincia a tramutarsi, a defluire veloce nella disperazione.
La visione certa dell'amata scompare; e al suo posto si affacciano i neri cavalieri dell'Apocalisse,
suggerendo infauste immagini di annichilimento, nell'assenza oscura di un Dio.
Hamparzum in quel momento comprende che sta vedendo il futuro; che tutte queste vite luminose
che sono discese da lui saranno annientate; e a lui solo, il vecchio tronco, per irrisione suprema del
male è permesso di morire nel suo letto, sapendo ciò che avverrà.
Nel cielo altissimo, che si è fatto metallico e vuoto, Dio non esiste; chi muore, scompare per
sempre; e Iskuhi non è mai esistita, né ricomparirà al suo cuore fedele. Abbandonarsi al panico, e
poi morire. Nient'altro gli resta da fare.
Ma Nubar è ancora nella stanza, irretito dal gioco di luci che il sole crea sull'impiantito di
mattonelle blu, rosa e verdi. Danzano le ombre, e lui le guarda incantato. Tiene ancora in mano il
grappolo d'uva. Il nonno e lui sono soli nella stanza. Improvvisamente, un rumore soffice lo fa
voltare. È il grano d'uva che ha dato al nonno, rotolato giù dalla mano aperta. C'è in quella mano
qualche cosa di inerme e di supplichevole, e il nonno non è assopito, come quasi sempre negli
ultimi giorni, ma guarda un punto altrove, con gli occhi aperti, paurosi.
Allora Nubar improvvisamente sa cosa fare: decide di non chiamare nessuno e che sarà lui ad
aiutare il nonno. Sa di essere il solo a poterlo aiutare, subito; e si sente molto bravo. Corre verso il
letto, vi si arrampica, e si sdraia sul corpo immobile del nonno, frugandogli il viso con le mani, col
suo grappolo appiccicoso e i grani schiacciati.
Non parla, agisce. Col calore del piccolo corpo e delle mani bagnate trasmette al vecchio l'odore
dell'uva che è l'odore della vita, e il calore di giovani mani e di un viso di pesca. Così combatte; e
non sa di combattere.
E attraverso di lui ecco ritorna Iskuhi la bella, dai campi del cielo sulla terra bagnata, viene nella
stanza greve di malattia e di odori, sconfigge disfacimento e follia. E lo consola.
Cullandosi nelle sue braccia, il vecchio ora sa. È l'ultimo dovere, l'ultima fatica; ma bisogna
avvertire.
"Sempad, Nevart" chiama affannosa la sua mente, ma la bocca non forma parole, solo un
minaccioso borbottio.
Spaventato, Nubar scivola giù dal letto e rimane a guardare il nonno negli occhi foschi e fissi, che si
vanno coprendo di un velo. E finalmente il grido "Fuggite!" si articola sulle labbra estenuate; la
mano pende, stringendo con un'estrema energia la manina appiccicosa del piccolo.
"Fuggite, fuggite!" ripete Hamparzum al bambino, ma la sua voce diventa uno stridulo rantolo, un
doloroso separarsi.
Ah, la morte non può essere felicità… "Sia salva almeno la vita di questo piccolo" chiede con
l'ultimo pensiero Hamparzum; e Iskuhi, e Maria annuiscono. Nel loro grembo tenero il vecchio
rimette allora il suo spirito. Nubar fermo e zitto lo contempla, e continua a stringere la sua mano.
Li trovarono così, nonno e nipote. Immobili in reciproca silenziosa comunione, in bilico tra passato
e futuro in un presente miracolosamente dilatato: una rossa sera che non scendeva, un'epifania
misteriosa.
La Vergine aveva camminato sulla terra, tra i papaveri e il grano dorato, e aveva gradito il grappolo
d'uva.

"Dentro, fuori, dentro, fuori": piselli e lenticchie vengono separati velocemente dai bambini.
Domani è il funerale del nonno. Suonano le ore al campanile della chiesa, tutto è pace e silenziosa
attività: sul grande tavolo di marmo si allineano le teglie, preparate per la cena funebre, i bambini
ridono basso e piluccano uvetta e semi di girasole.
Non c'è tristezza in giro, ma ripartizione precisa di compiti e di doveri svolti, e un pizzico di
arroganza.
La famiglia è importante, ha tanti parenti all'estero, che fanno fortuna: sarà un bel funerale. Verrà il
vescovo a celebrare, è stato prenotato il coro dei chierici della cattedrale e le donne delle
lamentazioni già sono all'opera - e vengono di continuo in cucina per rinfrescarsi la gola. Amano
Shushanig e la sua generosità, temono Sempad e la sua scienza, per cui si danno da fare.
Tutto il quartiere (tutta la città) parla della morte di Hamparzum come di un fatto prodigioso: e di
come è stato accompagnato dal più piccolo dei suoi nipoti, e di come nonno e bambino erano
immobili tutti e due, e sereni, si guardavano negli occhi e si tenevano per mano.
Presto fanno le donne delle lamentazioni a impadronirsi della cosa, e Nubar diventa un predestinato,
che è stato ritrovato circonfuso di luce, e - aggiunge Ismene la greca - un angelo certo era stato là,
perché si sentiva profumo d'ambrosia… Ismene viene da Chio, e ha sempre in bocca una cicca di
masticha, e nelle profonde tasche della veste misteriosi fazzoletti colorati, che a volte annoda e
snoda velocemente in un gioco di destrezza mirabile. Folti baffetti grigi le ornano il labbro
superiore.
Ismene piace agli armeni, ma anche ai turchi, che la invitano spesso a cerimonie e funerali, perché
conosce lamenti e canzoni in tante lingue esotiche, e da giovane è stata in America: ha partecipato
alla corsa all'oro nel selvaggio Klondike, ha conosciuto gli indiani ed è vissuta con uno di loro.
"Come una moglie, una vera moglie" dice sempre, "e come mi rispettava! " (chi potrebbe non
rispettare Ismene?), e pronuncia parole misteriose, e le si accendono gli occhi furbi.
Ma non bisogna toccarle la famiglia. Nutre una devozione canina per Sempad e Shushanig, che
estende a tutti i loro figli, ma non a zii e zie - né alla vedova del vecchio, che chiama con irrisione
Madame Nevart.
In questa speciale occasione del funerale, Ismene supererà se stessa, perché Sempad diventa lui il
capofamiglia, dato che Yerwant non rientrerà certo in Anatolia. Appena informato ha mandato
telegrammi, Yerwant, e ha anche scritto al fratello una lettera-testamento di investitura, che arriverà
due mesi dopo il funerale, in cui gli da ampia delega su ogni questione familiare: dal matrimonio
delle sorelle alla loro dote, dalla pensione per il vecchio servo di casa Hagop al destino della
Masseria delle Allodole, la loro casa antica sulle colline.
Medita Sempad di farne una casa di villeggiatura come tanto s'usa in Occidente, e poi di invitarci
Yerwant e la sua famiglia italiana. Dietro la costruzione principale, con la torre crociata e la Grande
Colombaia, c'è uno spiazzo circondato da siepi di biancospino, ideale per un lawn-tennis alla moda
inglese; e là c'è spazio per la baracca degli attrezzi e per un bel gazebo circolare per il tè
pomeridiano… Da anni lui e il fratello stanno progettando questo viaggio e questa visita,
impossibili finché era vivo il vecchio, che mai avrebbe accettato le novità di Sempad, e che
d'altronde Yerwant non voleva rivedere.
In un suo oscuro modo, nel fondo del suo carattere imperioso e competitivo, Yerwant serbava una
venerazione quasi involontaria per il padre che - da patriarca a primogenito - aveva accondisceso al
suo litigioso desiderio di tredicenne, e lo aveva lasciato espatriare da solo, mantenendolo però
soltanto fino ai di ciott'anni. Ma non si sono più rivisti; e del figlio lontano Hamparzum non parlava
mai, solo assentiva all'orgoglio fraterno di Sempad, all'entusiasmo degli altri figli, per cui Yerwant
era icona, vivente leggenda.
Ma la guerra non permise a Sempad che ai spianare il terreno per il tennis; e in quella bella buca
rettangolare, fresca di terra appena scavata, lui e i suoi figli riposeranno per sempre.

Mezza città è sulla strada. Dignitari della Chiesa armena, il vescovo e molti preti sono in solenne
attesa in cima alla scalinata della cattedrale, quasi disponendosi per una fotografia (che infatti, con
la sua modernis sima macchina tedesca, scatterà Levon Yakovlian l'ispettore, fedele postino del
quartiere armeno e padre orgoglioso del donatore, emigrato da tanti anni a Monaco di Baviera, dove
gestisce una rispettata birreria) Contemporaneamente, un'altra fotografia viene scattata. Intorno al
corpo di Hamparzum placidamente disteso nella bara, tutti i figli e i nipoti presenti si dispongono
silenziosamente, come per un rito nuovo. C'è una litografia ottocentesca appesa nel grande corridoio
del primo piano, La morte del buon padre di famiglia, che condensa in un interno borghese l'antica
ritualità della morte pubblica dei re, con tutti i parenti inginocchiati intorno al solenne letto a
colonnine dove giace il morente, che sta ricevendo l'Estrema Unzione.
Forse Sempad ha pensato a quel quadro: ma per contrasto. Non è per un'immagine didascalica che
ha chiamato il fotografo, ma per una testimonianza che modernità e progresso sono arrivati anche
nella piccola città. Gli pare cosa elegante e di occidentale buon gusto costruire così un inedito
santino familiare.
Perché oggigiorno ci sono moderne macchine fotografiche, e bisogna mandare un ricordo ai fratelli
lontani.
Così il fotografo mette in posa tutti, alternando bambini e adulti, donne e uomini, ma senza separare
mariti e mogli. Nessuno, ovviamente, sorride apertamente, ma tutti hanno occhi vividi e allegri.
Nubar è stato messo seduto vicino alla testa del nonno.
Quante paia di occhi, quante scarpette irrequiete! Sopra la tavola allungata che sorregge la bara, un
drappo di velluto nero ricade fino a terra. E là sotto si sfoga l'impazienza della lunga posa. I
bambini calciano le bambine, piedi e mani si toccano e si danno pizzicotti dolorosi: il gioco è che i
visi non devono lasciar trasparire nulla, tranne la seria compostezza dell'occasione luttuosa.
E finalmente la posa è finita. Zie inseguono dappertutto bambini per portarli in bagno e sistemarli
per la cerimonia. In cucina il fotografo beve il suo caffè, e mangia anche un dolcetto, di quelli
preparati per la cena funebre. Si chiama Krikor, e non guadagna molto: così si mette in tasca un po
di biscotti, per addolcire il racconto che farà più tardi ai suoi figli.
Entrano gli zii. Issano sulle spalle la bara aperta, che esce lentamente dalla porta grande spalancata.
Hanno vestiti scuri, pomata sui capelli e cravatte imponenti, e non guardano nessuno.
Nubar sente che il suo momento di gloria è terminato, ma non vuole restare a casa, come gli hanno
detto. Non sono troppo piccolo, pensa; ma gli ci vuole un protettore, per non perdersi nella città.
Dietro la bara, che è stata messa su un carro sontuoso, tirato da quattro cavalloni impennacchiati, gli
zii portatori fanno ora ala alla vedova e a Sempad, il figlio maggiore. Dietro, in lunga fila, altri zii e
zie e cugini, parenti, amici, autorità, i poveri della famiglia, fra i quali Nazim lo zoppo, il
mendicante turco. Fra gli spettatori, due ufficiali turchi: il corteggiatore di Azniv si è fatto
accompagnare da un amico, per non trovarsi da solo.
Azniv passa, serissima, con un bel velo nero, e sembra non averlo visto. Ma tutti in realtà lo hanno
visto, e un brusio serpeggia nella lunga coda di gente.
In fondo, avanzano con liturgica dignità le lamentatrici.
Ismene è al centro, avvolta nei suoi stracci variopinti, agitando un grande scialle nero, che tende fra
le mani distese come una bandiera. La scienza del lutto va rispettata: tutti lo sanno; e va maneggiata
con cautela, da persone esperte. Ogni dettaglio del clamore che fanno queste donne ha un senso; e i
pianti, le urla, le esclamazioni formano insieme la lacerante armonia del lutto, ricomponendo
l'umana pazienza, la fiducia nel Dio nascosto che queste sacerdotesse sole sono autorizzate a
chiamare, con provocante familiarità.
Dal loro clamore la famiglia è sostenuta e accompagnata verso la strada del futuro, verso l'ignoto:
perché non c'è più chi la protegge dal male, la rappresenta e l'assolve.
Nubar è con Ismene, dietro lo scialle nero. Oscilla come le donne e si perde nel loro urlo metallico e
scandito. È felice, ebbro di rumore e di movimento.
E questo resterà il suo primo ricordo: della veglia col nonno già non sa più nulla.
L'uva di agosto! Ricordava Yerwant nei suoi anni più tardi, quando con inflessibile autorità
sorvegliava la convalescenza della bambina, che da piccolo con i cugini Ohannes e Vahan aiutava
nella vendemmiai e dalla vigna sulla collina riportavano a casa i grappoli enormi appesi a un
bastone, portato in due sulle spalle. Freddo, asciutto, autoritario è questo nonno (una naturale
autorità che incanta i più piccoli) Ma la bambina ricorderà quella commozione velata di ironia, sotto
il denso pergolato di glicini dell'Albergo Alpino Fratelli Doglioni: "Questa non è uva vera, è pallida,
sa di poco; nel mio paese lontano fiorivano i grappoli immensi, e latte e miele avevano il sapore
dell'arca d'Oriente"
"Non fermarlo mentre racconta" si dice la bambina - e per fortuna il vecchio signore come fra sé
prosegue: "Nessun sapore è come quello; con zia Mariam facevamo lo yogurt, ed ero così bravo che
mi lasciava aiutare a preparare il paklavà" Così la bambina si affaccia per la prima volta alla
finestra che si apre sul Paese Perduto, attraverso il dolce senso del gusto, il sogno del sapore
lontano.
Certo conosce lukùm, paklavà, kourabiè, shakarlokmà, la torta ricciolina, i kipfel viennesi, tutti i
dolci d'Oriente e d'Occidente che zia Henriette porta alla sera, traversando la strada con la fida
Maria; ma il nonno le ha dato un'altra cosa: l'eco vivente di odori e sapori, un nutrimento vero, la
nascita della nostalgia (per un paese che non esiste più, per le colonne dei deportati, per una
famiglia morente sotto il sole velenoso, per le tombe sconosciute lungo le polverose strade e i
sentieri d'Anatolia… ma anche per tutto ciò che scomparve con loro di vivo e odoroso, di fatica e di
gioia, di pena e di consolazione: l'anima del paese) "Poi mi mandarono un invito…"
"Sì, nonno, ti mandarono l'invito, ma perché non ci sei andato?" Il perché la bambina lo seppe solo
molti anni dopo…
Nel suo semplice cuore Sempad, ora capo della famiglia, pensa con gioia che finalmente Yerwant
non potrà più rifiutarsi di tornare. Per una visita, s'intende; la prossima estate: e la Masseria delle
Allodole sarà pronta a riceverlo.
Yerwant, che dialoga solo con se stesso, e di se stesso soltanto si fida, riflette da parte sua su questo
viaggio. Prova un nuovo piacere a pensarci. È stato tra i primi, nella città che è ormai la sua, a
comprare un'automobile, e a inaugurare il costume delle gite domenicali, tutta la famiglia e due
autisti a Recoaro, a Thiene, sui Colli Berici, sulle Prealpi. La moglie accampa emicranie, la
domenica mattina, e i figli doveri di studio: ma non è facile disobbedirgli, sicché le gite si fanno, e il
malumore scorre sotterraneo.
Sulle portiere, lo stemma d'argento reca una Y e una A intrecciate.
C'è una misteriosa zona di oscurità fra Yerwant e i suoi figli, come una paura reciproca, un
circospetto guardarsi che non diventa mai fiducia. Il primo figlio ha sedici anni: è sempre in
collegio, è stato sempre in collegio, dall'infanzia; il secondo, undicenne, è figlio di madre, prende le
parti di lei, così indifesa, crede, di fronte al marito tiranno, despota orientale.
Yerwant non dice dove va quando esce, ogni tanto sparisce per qualche giorno, riceve amici armeni,
parla quella lingua barbarica e oscura che non ha chiesto alla moglie di imparare. Lei difende i figli
da quel sangue, da quei modi, da quei riti; e i figli crescendo cambieranno anche il nome.
Ma lei, Teresa dei conti Sartena, non sa che in verità adempie il volere profondo del marito;
s'incarica lei, senza saperlo, di ciò che lui non può fare, lo straniamento emotivo dei suoi figli,
l'annichilimento di ogni curiosità per il Paese Lontano (solo da vecchio a bocce ferme - Yerwant
aprirà con la bambina la teca della nostalgia) Estranei, del tutto stranieri sono per Yetwart e Khayel i
cugini della loro età, i figli di Sempad; e lo stesso Sempad è un parente di cui vergognarsi un poco,
folti baffoni e un'aria semplice, e il fez in testa (come risero di quelle fotografie i cugini Sartena,
dietro le spalle di Yerwant e della sua fresca ricchezza).
Lui intanto, meticolosamente, sta facendo progetti.
Vuole ritornare alla grande. Reimmergersi, per un poco, nel caldo ventre del paese, godersi
l'ammirazione, la stima e - perché no? - l'invidia della gente di cui si proibisce la nostalgia. Spera
che l'Italia non entrerà in guerra (nel suo cuore segreto, lui è in verità del tutto neutrale) Diffida
delle folle dagli umori eccitati, dai fumosi impeti nazionalisti: sa bene, da sempre, che ogni folla
può uccidere, e ogni folla cerca una vittima sacrificale, e gode del sangue.
Non da opinioni, comunque, a chi gliele chiede, se non molto blande, pronto a cambiare idea, a
seguire l'interlocutore, a mimetizzarsi, a sparire. L'Italia è il paese che lo ha accolto, e gli ha dato
successo e rispetto; la sua lealtà è fuori discussione. Ma, con diffidenza molto orientale, Yerwant
non si sente ancora altro che suddito, italiano invece che ottomano. E un suddito non ha diritti che
non siano revocabili, ed è salutare per lui evitare la politica. E libero solo in un suo ristretto cerchio,
invisibile ma palpabile: qui egli esercita la sua autorità, ma guai a uscirne. Così è per Yerwant la
medicina, dove tutti gli obbediscono.
Per il resto, nasconde bene la sua debolezza, che nessuno conosce. Ma ai suoi figli egli cerca perciò
di dare quello che gli pare il dono più grande, l'appartenenza totale al nuovo paese, senza peso di
ricordi, senza carico di nostalgia, con forti radici materne in una accogliente realtà provinciale: una
società ristretta, un liquido parlar veneto in cui tutti si riconoscono, nobiluomini e nobildonne,
ecclesiastici, funzionali, avvocati…
Ma i figli, i figli: a questo punto, cresciuti da signori, a chi riveleranno le inquietanti debolezze, gli
strani attacchi di bontà che li devastano? Quella timidezza selvaggia davanti alle ragazze, quel non
sentirsi, mai, accettati fino in fondo?

Alla metà di ottobre, Yerwant finalmente decide. Ordina una Isotta Fraschini rossa, con il suo
monogramma in argento sulle portiere.
Dentro, sei posti, strapuntini di cuoio e velluto, tendine, una piccola ghiacciaia con le bottigliette di
liquore e i bicchierini di cristallo molato, posate d'argento e un servizio di piatti con le sue cifre.
Ben celata, una piccola cassaforte incrostata di madreperla, con combinazione inglese (l'elaborata
chiave di quello splendore pendeva, durante la seconda guerra mondiale, nel corridoio parato di
seta azzurra, allusione e misterioso accesso alle automobili murate nel granaio) Per la grande visita
familiare, Yerwant si reimmerge nell'elaborata cortesia orientale: fare sfoggio è necessario, fare
troppo sarebbe mortalmente offensivo.
Ordina perciò un gran numero di piccoli oggetti d'oro e d'argento a un'ottima ditta di Londra:
tagliasigari, accendini, portasigarette, tagliabaffi, con piccoli smalti geometrici in verde e oro, per
gli uomini e i ragazzi; portacipria di smalto e oro, forbicine a forma di airone o di gru, borsette da
sera e trousses in maglia d'argento con i fermagli di pietre dure (onice, ambra, crisopazi, tormaline,
lapislazzuli), per le signore; spille e piccoli anelli d'oro per le bambine, con la scritta "Remember" o
"Souvenir" in smalto blu.
Ne ordina molti di più del numero dei componenti della famiglia, che si è fatto scrivere da Sempad;
chi sa quanti saranno gli amici di suo padre o della famiglia che lo hanno conosciuto in quei
luminosi anni lontani?
Yerwant ricomincia a pensare all'infanzia, e questo lo indebolisce e lo rende perplesso. Ma insieme,
che fiore di memorie e di gioie, che serenità antica ritorna: e colma un vuoto immenso che adesso
soltanto lui scopre.
Con il 1915 Yerwant entra nel suo cinquantesimo anno, ed è soddisfatto - e solo. Sornioni, casuali, i
ricordi compaiono, si affollano nella sua mente, mai troppo urgenti, fluidi, fra una visita e l'altra, fra
un'operazione e l'altra. "Ormai sono cittadino italiano, nell'Impero nessuno mi può più toccare"
pensa; e "Perché non comprarmi una casa, vicino alla Masseria, vicino alle cascate?" Un'infinita
pace lo pervade in quel momento, e tutto gli sembra possibile, che la moglie accetti di tornare
laggiù con lui, quando saranno vecchi, che i figli imparino l'antica lingua, che esisterà una nazione
armena…
"Forse" riflette Yerwant tra sé e sé "proprio la guerra sarà l'occasione giusta; probabilmente
vinceranno i tedeschi, e gli armeni stanno combattendo vigorosamente, al fronte e in Parlamento,
sostenendo il governo; i nostri hanno fatto la rivoluzione insieme agli unionisti 4,* ed Enver in
persona ha ringraziato il patriarca per la lealtà della nazione armena… e Talaat poi gioca a tavlì con
Zohrab…" Un medico suo amico, che è anche un lontano cugino da parte della sua mamma Iskuhi,
Aram Kardiashian, gli ha spedito dalla Capitale un almanacco per il 1915, con una lettera molto
ottimista, in cui racconta l'entusiasmo con cui gli armeni stanno riscoprendo se stessi, il rispetto e
l'amicizia che molti capi unionisti dimostrano loro, il fervore intellettuale con cui poeti, artisti,
scrittori riscoprono l'antica cultura, esplorano la maestosa lingua dei padri, studiano, pubblicano,
s'incontrano. "I vecchi tempi del Sultano Rosso sono passati" scrive Aram "finalmente anche noi
avremo un futuro. Quando finirà la guerra avremo conquistato il diritto di essere cittadini a pieno
titolo, con autonomia e lealtà insieme." La diffidenza di Yerwant si acquieta un poco. Sfoglia
l'almanacco, sorride alle scenette di vita quotidiana descritte da una giovane giornalista vivace; ma
gli piace infinitamente (di solito è troppo occupato per andare oltre la lettura del giornale) una breve
poesia, una specie di ninnananna, Antasdan, la Benedizione per i campi dei quattro angoli del
mondo, che un poeta di gran successo, Daniel Varujan, ha dedicato ai bambini. È un canto di pace e
di armonia che seduce misteriosamente il suo cuore turbato; lo ritaglia e lo piega in uno scomparto
del portafoglio, come un auspicio, come una promessa ("Nelle plaghe dell'Oriente / sia pace sulla
terra… / Non più sangue, ma sudore / irrori le vene dei campi, / e al tocco della campana di ogni
paese/ sia un canto di benedizione"5). Là lo troverà la bambina alla sua morte, nel maggio 1949.
Così avvenne che il carteggio fra i due fratelli si fece molto fitto, fra l'ottobre del 1914 e il marzo
del '15; e così avvenne che entrambi, come immersi in un gorgo struggente di reciproco
riconoscimento, lasciassero in quel periodo parlare troppo la memoria del cuore, e troppo poco
l'intelligenza della mente e dei tempi. Al naturale ottimismo di Sempad la vita aveva sempre sorriso,
e in quei mesi tutto veramente gli dava gioia: il suo lustro viso tondo irradiava soddisfazione e
attesa.
Nella farmacia, i consueti scherzi ora riguardavano anche Yerwant, e le congetture sul prossimo
incontro fra le due cognate, la festosa autoritaria Shushanig e la piccola contessa italiana che vestiva
sempre di viola.
Volano le scommesse nella farmacia, insieme ai ritmici colpi di dadi per il tric-trac. Armenag
Mardirossian, amico fraterno da sempre, stuzzica Sempad:
"Che diranno le due signore, quando s'incontreranno?
E la contessa, mangerà il nostro cibo?"
"Sputerà, sputerà tutto" interviene Krikor, medico, ostetrico, confidente, arrotolandosi una sigaretta.
"Dovrai chiedere i miei servigi, e non saranno gratuiti: il nostro cibo le farà male, soffrirà di
emicranie, ci guarderà dall'alto in basso, avrà caldo, e mica la puoi far dormire sul tetto" (tutti sanno
che Sempad e Shushanig proprio quello fanno, come tutti, nelle notti d'estate: e non si limita solo a
dormire, la coppia serena e svergognata…).
All'idea del tetto, molto perfida, Sempad ha un tuffo al cuore. Ma si riprende subito: "Alla Masseria
ho già preparato il disegno della balconata aperta sulla valle delle cascate, e in mezzo farò un
bovindo all'inglese, coi vetri colorati e la struttura di ghisa. E poi ho ordinato in Francia dei

4 "Unionisti" o "ittihadisti" (e anche Giovani Turchi) venivano chiamati gli aderenti al partito
"Unione e Progresso" (Ittihad we Terakkf), che nel 1908 aveva preso il potere nell'Impero
Ottomano, esautorando il Sultano.
Enver Pascià e Talaat Pascià, ministri rispettivamente della Guerra e degli Interni, furono i
principali organizzatori dello sterminio degli armeni.
5 Da Daniel Varujan, // Canto del Pane, a cura di Antonia Arslan, traduzione di Antonia Arslan e
Chiara Haiganush Megighian, Guerini e Associati, Milano 1992.
ventilatori nuovissimi"
"Ma lei avrà caldo lo stesso, scommettiamo?" ride Krikor, fregandosi le mani. E immediatamente
parte una scommessa "a nove mesi", con grosse risate: "A fine settembre, quando "loro" saranno
ripartiti, pagherai a tutti, salato" Sempad è troppo felice per prendersela. "Loro" sono la sua
personale icona dorata, il suo legame con il Novecento e il Progresso. "Non vedrò Parigi, ma ho un
fratello importante" pensa; e comincia, come re tropensiero da assaporare, a pensare che l'anno
successivo sarà Yerwant a ricambiare l'invito, come gli ha già scritto, e lui forse troverà il coraggio
di andare. Il suo figlio maggiore, il serio Suren, sarà già in Italia, perché dal settembre 1915 andrà a
studiare al Moo rat-Raphael, il Collegio armeno di Venezia, sotto l'occhio attento dello zio.
Sempad ha scelto Venezia proprio per la vicinanza alla città dove abita Yerwant: lo preoccupa un
poco questo ragazzo triste che lo segue dappertutto, si fa raccontare dagli anziani dei massacri del
1894-96, legge i giornali, ma non è combattivo. Capirebbe di più, Sempad, anche se ne sarebbe più
preoccupato, se - come tanti altri giovani della città e del distretto - Suren si legasse a un partito,
partecipasse alle infinite discussioni politiche che a tarda sera si prolungano davanti all'ennesima
tazza di caffè, ai dolcetti, ai liquori.
Ma Suren sta a casa a leggere, o meglio, da un po di tempo segue dappertutto suo padre, come se
non si stancasse mai di vederlo. "O di giudicarmi?" pensa Sempad lievemente impacciato da questa
concentrata attenzione che gli impedisce i soliti scherzi e lo fa un po vergognate delle bambinate
con gli amici.
"Io non partirò" gli dice Suren in una ventosa giornata di febbraio, mentre accompagna il padre a
cavallo alla Masseria. I lavori sono cominciati, e l'esperto Ohannes, uomo di fiducia del padre,
sovrintende alla costruzione dell'elegante balconata e del bovindo. Sono arrivate le vetrate colorate
dall'Inghilterra, con due personaggi romantici, un Cavaliere e la sua Dama, a figura piena, e per
contorno, da montare/* sui finestrini laterali, graziosi disegni di fiori sconosciuti, erica e convolvolo
inglese.
"Mai viste queste cose da noi" ripete Ohannes orgogliosissimo; e Sempad pensa che l'esile piccola
cognata vestita di viola non potrà non trovarsi a suo agio.
"Io non potrò partire" ripete improvvisamente Suren come spiegandosi, ma non spiegandosi affatto.
"Non vuoi partire?" Sempad è un pochino seccato, disturbato nel suo ingenuo contemplare quelle
meraviglie sconosciute che il suo lavoro e il suo denaro hanno potuto procurare. Sta giusto
pensando a una festa inaugurale con tutta la famiglia, gli amici, i dipendenti, i parenti lontani, anche
quelli meno simpatici: e magari invitare anche Khalil Effendi, il kaymakam, e il capo della polizia,
suo cliente e buon amico. Qualche volta viene in farmacia per una partita, e lo lasciano vincere
sempre.
Ma alla fine, strappandosi ai suoi sogni e progetti, Sempad prende Suren per un braccio,
affettuosamente, e si mette a sedere con lui in un angolo del giardino, là dove è già pronto lo scavo
per il tennis. Ci sono due poltroncine di ferro battuto bianco, che hanno visto giorni migliori
("Bisogna ordinare un salotto di paglia di Vienna" pensa velocemente Sempad) "Perché hai detto
che non partirai?" chiede, ponendo finalmente la domanda in modo diretto. Suren allora guarda per
terra, e impallidisce vistosamente; poi alza lentamente il viso, e lo fissa con un dolore così cocente
negli occhi, occhi di vergogna e di pianto, che il padre distoglie i suoi, sentendo come un
improvviso vuoto interiore, un freddo spazio interno che si dilata paurosamente.
Non c'è panico, né furia: solo vuoto e dolore. E Sempad soffre per il figlio, e soffre di non sapere,
proprio come davanti a un velo fitto che nasconda un incubo mai visto, la Bestia delle Bestie,
l'Apocalisse. È in questo momento che potrebbe coagularsi la visione interiore, potrebbero
comparire agli occhi della sua mente le immagini di un futuro veridico. Ma il suo semplice cuore
non regge ai presagi nefasti, si rifiuta di leggere ciò che la mente già vede, ciò che gli viene rivelato
attraverso il figlio inconsapevole.
Sempad si passa una mano sugli occhi, una mano che trema un poco, e dimentica.
Guarda il figlio con occhi di nuovo allegri e pieni di speranza, e dimentica. Alzandosi gli dice,
riprendendolo per il braccio: "Non aver paura, vedrai com'è bella Venezia, e il collegio; e poi lo zio
ti inviterà sempre a pranzo la domenica…". Suren a sua volta lo guarda, con miti occhi d'affetto, e
tace.

Scrive Yerwant febbrilmente, racconta dell'automobile, dei preparativi, dei figli, dei regali da
portare.
Tace invece del broncio della moglie Teresa, le cui emicranie si stanno accentuando
prodigiosamente.
La data della partenza è fissata per la fine di maggio: perdere qualche giorno di scuola non può
nuocere né al sedicenne Yetwart, alunno brillante e studiosissimo del collegio svizzero di
Einsiedeln, dei padri benedettini del cantone di Schwyz, né a Khayél, undici anni vivaci e affettuosi,
che è avanti di un anno ed è anche lui molto bravo, tranne in certi giorni bui, in cui lo assale una
malinconia precoce e irrimediabile. Allora si apparta e piange, vergognandosi della sua debolezza.
Partiranno con due autisti e una macchina di scorta, carica di regali, gomme e pezzi di ricambio.
"Passeremo per Trieste" legge Sempad agli amici "e proseguiremo per Atene. Poi Salonicco,
Kavala, Alexandroupolis, Costantinopoli… Perché non ci vieni incontro con Shushanig?" Un
brivido percorre gli astanti all'idea che l'incontro tra le due cognate avvenga fuori sede; e poi
Shushanig è regina a casa sua, ma non si muove mai, e non vorrebbe certo perdere il suo vantaggio
in questa occasione.
"Vengo io con te a incontrarli" gli suggerisce Veron, entrata in quel momento. "Potremmo andare
col treno" L'idea piace subito a Sempad, entusiasta di ogni modernità: con la nuova ferrovia si parte
e si arriva con un orario, c'è una carta stampata con le ore, non più come quando se n'è andato
Yerwant, che i treni partivano quando erano pieni. (La leggenda di casa dice che suo padre lo aveva
affidato a dei banditi di sua fiducia, a cui diede le banconote del compenso tagliate a metà. L'altra
metà arrivò "a collo consegnato", quando Yerwant scrisse la prima lettera da Venezia.) Poi è un
mezzo sicuro, ci si sente in famiglia, perché molti dei ferrovieri sono armeni. Veron già pensa al
colore del cappello, con la veletta in tinta.
Quella sera è alla Pharmacie Hayastane anche il capo della polizia, per una delle solite partite
amichevoli.
Si sente improvvisamente la sua voce sottile, che si alza in mezzo al frastuono; ma tutti lo
ascoltano: "Quello non sarà forse un buon momento per mettersi in viaggio verso il Nord" dice
pacatamente; e tutti percepiscono come un annuncio lontano di tuono, un fastidioso pensiero,
chissà; e a casa, poi, s'interrogheranno a lungo con le mogli, nei segreti, caldi, conciliaboli del letto,
quando tutto ciò che è aldilà delle coltri sembra insieme familiare e straniero.
E, come sempre, non ne faranno niente: non ascolteranno la voce remota del cuore, ma solo, ad
esorcizzarla, faranno un ampio segno di croce.

Intanto, la guerra non va molto bene sul fronte orientale.


Sussurri e strani proclami attraversano quella fredda fine d'inverno; la primavera sembra tardare.
Ma l'oro della cupola della cattedrale rifulge di fresco fulgore: Armen e Hrayr Sarkissian, i gemelli
carpentieri, hanno fatto un voto, l'anno scorso. Se il loro padre, Haroutiun, scriverà dall'America che
gli ha trovato un lavoro (che sia uguale, per entrambi; i gemelli vogliono stare sempre insieme, e
hanno sposato apposta due sorelle: ma fra le due, una comanda e l'altra obbedisce), ripasseranno i
punti appannati con oro fresco e lucente.
Così è successo. E ora la gente li osserva, appollaiati nel loro cesto altissimo, su un punto o su un
altro della vasta superficie dorata, e si domanda se finiranno in tempo, visto che il padre ha spedito
loro anche il biglietto per New York, e la data è il primo di giugno. Tre mesi sono pochi, un voto è
un voto: fioriscono le scommesse, tanto più che i gemelli devono farcela da soli. Sempad, che ha
scommesso una discreta cifra in loro favore, barerebbe volentieri un pochino per aiutarli: ma non c'è
verso, un voto è un voto. I gemelli accettano soltanto il sostanzioso cestino di cibarie che - quando
scendono per la siesta - Shushanig gli fa trovare nell'ombra quieta della casa del sagrestano, che si
chiama Garo come il secondo figlio di Sempad, ed è un semplice uomo di Dio.
Con Dio infatti Garo parla ogni giorno: ed è sorpreso che gli altri non facciano altrettanto. I verdi
campi del cielo gli sono familiari come i verdi campi della terra; la sua infanzia protratta gioca con
uguale serenità lassù come qua, e angeli colorati sono sempre presenti. Garo vede i colori attraverso
gli angeli: tutti lo sanno.
"Uno verde mi ha detto" informa seriamente il suo pubblico in un fresco mezzogiorno di aprile "che
presto tutti giocheremo con lui, e che stanno inventando nuovi divertimenti apposta per noi." Il suo
pubblico, sono il solito terzetto: i gemelli discesi dall'impalcatura, che così vicini alla volta del cielo
vedono angeli anche loro, e Garo il piccolo, che ha portato il cestino. Lui non dubita mai di nulla, e
ama ogni creatura vivente.
"Come saranno i profumi del cielo?" si domanda Armen. E subito Hrayr risponde (i gemelli sono
perfettamente autosufficienti, nella loro conversazione perenne): "Come quelli di qua, ma più
intensi. E non avremo più voglia di andare via"
"Ma voi, perché ve ne andate?" domanda Garo il piccolo. "Da nessuna parte troverete un cielo come
questo." Ma Garo il grande lo corregge: "Tutti i cieli sono abitati da angeli, anche nell'altra metà del
mondo. Forse hanno solo un colore diverso" La discussione sul colore degli angeli americani si fa
accesa e vivace. Ognuno aggiunge particolari a sostenere la sua opinione, e il tempo passa
festosamente.
Poi i gemelli tornano a dipingere, e il sagrestano va a fare una passeggiata con Garo. Hanno una
loro meta segreta, il belvedere sulla cascata, che un emigrato tornato al paese ha fatto costruire
tempo fa, tutto di legno intagliato, in stile chalet svizzero.
Un tavolo di pietra a forma di grosso fungo e due sedili, sempre di pietra, a forma di funghi più
piccoli, reclamano tutta l'ammirazione dei due, che si siedono posatamente, appoggiando le mani
sulle ginocchia, e tacciono insieme. Garo grande e Garo piccolo si farebbero ammazzare l'uno per
l'altro. Condividono un tempo sospeso che è tutto loro, e le visioni colorate e concrete di
affaccendate schiere di angeli, che non possono comunicare quasi a nessuno.
Il piccolo Garo ha gli occhi tondi e una grande testa piena di capelli selvaggi. Coccola tutti,
indiscriminatamente, con un vocione stupefacente in un corpo così piccolo, in un linguaggio poco
articolato che trasmette sensazioni di pace e pensieri di oblio. Tutte le mamme gli affidano bambini;
ma il suo cruccio segreto è che proprio la sua, mamma Shushanig, non si fida più tanto di lui da
quando ha perso al mercato la piccola Henriette, che è stata ritrovata misteriosamente addormentata
in una delle botteghe di Samuelson, il gioielliere ebreo che non riesce ad avere bambini.
Nessuno sa come Henriette - che ha tre anni, cammina barcollando, frigna volentieri e ha un naso
grandissimo - sia arrivata laggiù. La bottega era chiusa, la bambina dormiva pacificamente
all'interno. Elia Samuelson, che è un uomo coltivato e dotto, l'ha presa in braccio e riportata a casa
sua, da Sempad, piangendo.
"È comparsa nella mia bottega chiusa. Un angelo di Dio me l'ha portata. Se voi me la lasciaste,
l'alleverei con onore" sussurra timidamente, e la bambina gli tende le braccia e gli sorride pacifica -
e poi, con voce ancora più bassa: "Voi ne avete sette, di bambini, in questi tempi pericolosi…
l'alleverei da cristiana".
Shushanig, col respiro affannoso, neppure gli risponde.
Sempad sente, nel suo semplice cuore, un altro brusco rintocco di campana, e improvvisamente si
sorprende a pensare: "Dovrei farlo", e non sa perché. Ma presto, di nuovo, dimentica.

Sabato Santo. La paziente trappola, lucida di filo spinato e di sangue rappreso, sta per scattare. Ma
la vita impassibile scorre in superficie.
Djelal Djemin, il giovane ufficiale che fa la corte a zia Azniv, è scomparso da due settimane, e
Azniv sente un piccolo stringimento di cuore, perché si era abituata alla sua presenza sollecita e
taciturna, al fuoco di quegli occhi vellutati che la seguivano con rispettosa insistenza. Ma non può
chiedere in giro, e sua sorella Veron è troppo occupata con i preparativi del viaggio a Costantinopoli
per discuterne con lei.
D'altronde, Azniv non ne sente veramente la mancanza; solo una piccola puntura di vanità.
L'ufficialetto sarebbe un bel fiore all'occhiello per qualsiasi ragazza: figurarsi per un'armena.
Così riflette vagamente Azniv, canterellando, mentre tira con la vecchia Serpuhi la pasta per il
paklavà. A lei riesce bene, sua sorella in questo non ha pazienza; ma nessuno ha mani come le sue
per dosare il ripieno dei berek.
Di casa in casa, nel quartiere armeno della piccola città, si trasmette la gioia della Pasqua che viene,
la festa più grande dell'anno. Su ogni tavola cominciano ad allinearsi le uova sode, colorate con le
erbe, e poi dipinte a mano con pazienza, la sera, di nascosto dai bambini. Nelle scatole, è già pronto
lo shakarlokmà dal gusto friabile e intenso di mandorle e burro.
Di casa in casa vanno le ragazze coi freschi grembiuli, a prendere e riportare un po di zucchero o di
sale, di farina, di uva di Smirne o di acqua di mandorle; di casa in casa si rincorrono i bambini, a
torme comparendo qua e là, eccitatissimi, per becchettare piccoli avanzi, ritagli di pasta, biscottini
riusciti male.
Gli adulti sarebbero in digiuno pasquale, che le donne osservano rigorosamente; alcuni spiriti forti,
come Krikor il medico, ostentatamente ordinano ragù di carne il venerdì Santo, o un paio di bei
piccioni arrosto: piccola colpa, che Dio quasi non vede e che Krikor sapientemente amministra per
rafforzare il suo prestigio occidentalizzante e la sua non più fresca laurea a Berlino.
Dietro la grande casa del vecchio Hamparzum (ora divisa in due, per la famiglia di Sempad e per la
vedova Nevart che abita con le figlie Azniv e Veron: ma il giardino è comune, e la porta di
comunicazione tra le due cucine è sempre aperta), si estende, folto di bisbigli serali e dell'eccitata
tranquillità che precede il giorno di festa, il grande ortofruttetogiardino.
L'orto è stranamente confinato in una fascia di terreno scoperto, in fondo, a ridosso dell'alto muro di
cinta. Da tutte le stanze lo si vede chiaramente: possente, molto più antico della casa, recinge e
protegge severamente tutto lo spazio intorno ad essa. File di alberi da frutta - meli, peschi, peri a
spalliera - si alternano con i grandi platani e i rosai rampicanti importati trent'anni prima
dall'Inghilterra, che si intrecciano nell'elegante promenade che porta al bersò circolare, opera di alta
ingegneria vegetale, capolavoro del giardiniere Nerses. Non un raggio filtra direttamente giù dalla
volta profumata, da cui pendono le grandi rose rossosangue, che fioriscono una volta l'anno, proprio
alla fine di aprile.
Ed è solo dagli alberi del bersò che è nascosto per qualche metro il muro di cinta: e là si trova,
protetta e seminascosta dalla vegetazione ricadente, anche una piccola porta di uscita, che da
direttamente sulla strada detta dei Santi Apostoli, lo stretto vicolo che fiancheggia la cattedrale.
Nella leggera, riposante malinconia della sera primaverile, mentre i bambini corrono come le
rondini, e gridi e strida rimbalzano dall'alto in basso e viceversa, Azniv si siede sulla panchina di
legno in fondo al bersò, con un romanzo francese. È una storia un po' audace che tutte le ragazze si
stanno scambiando.
Leggono con candore appassionato, e si struggono per la fiaba crudele dell'amore parigino.
Azniv tuttavia stasera è distratta. Non ha fiori nei capelli, e le mani un po umide sanno di cannella e
di noci. E in quel momento sente chiaramente una voce di là dal muro, che chiama con urgenza,
parlando in fretta: "Signorina Azniv, so che è lì. L'ho vista. Prego, prego, mi faccia entrare un
momento. Mi ascolti" Tutta l'inquietudine della giornata si coagula in lei in un unico movimento
veloce. Ha capito che è l'ufficiale turco e - contrariamente a tutte le regole - corre alla porta, sposta
il rosaio ricadente e apre (la chiave è sempre nella toppa, per chi vuole andare veloce alla Messa,
per chi è in ritardo, per chiunque debba sfuggire ai vigili occhi di Shushanig e di Nevart). L'uomo
entra in fretta, un po' furtivo, come se volesse nascondersi a qualcuno di fuori. Poi le afferra le mani
e si inginocchia solennemente: "Prego, signorina Azniv, prego, non si turbi, non abbia paura. Mi
ascolti" Azniv non è spaventata. Domani è Pasqua, e lei sta nello spazio incantato del suo giardino,
sotto la cupola verde e le rose profumate. Il giovanotto le sembra entrare in un suo sogno privato, e
le sembra naturale che lui stia in ginocchio. Si risiede con grazia sulla panchina, e abbandona
delicatamente le mani alla stretta nervosa di lui. Si aspetta un grande momento romantico. Ognuno
ha diritto di averne almeno uno nella vita: serve per i tempi bui, per riscaldare i ricordi…
Ma Djelal continua a stringerle le mani e a ripetere:
"Mi ascolti, non abbia paura" Azniv non ha paura, ma comincia un pochino ad irritarsi. Perché lui
non si spiega? Perché è venuto?
"Per favore, rosa di maggio" si decide infine il giovane "mi ascolti, ascolti il mio piano. Venga via
con me, subito. Prometto di non avere altre spose, e che non la costringerò a convertirsi. Andremo
insieme in Europa, lavorerò, vivremo a Parigi…" Azniv non capisce. Di quest'uomo sa appena il
nome, che le amiche curiose hanno scovato, e ha ricevuto da lui qualche lettera fiorita; non gli ha
mai parlato, né lui ha mai cercato di parlarle, meno che meno di dichiararle il suo amore. E neanche
adesso lo fa, come se un'urgenza sconosciuta lo spingesse oltre, come se tra loro tutto fosse già
stabilito.
Azniv tace, involontariamente costretta al silenzio dalla sorpresa. Più lui si affanna, scomodamente
in ginocchio sulla ghiaia minuta, meno lei capisce, né i discorsi successivi del giovane le danno
lumi: "Non voglio che lei soffra, mia rosa di maggio, mia piccola principessa. Io la salverò.
Andremo a Parigi, o a Londra, o a Vienna, dove lei vuole. Io lavorerò…".
Queste frasi, come un ritornello, si fissano nella mente di Azniv e la immergono in un torpore
stranito.
Per lunghi, lunghi minuti il giovane continua a parlare, finché Azniv si riscuote improvvisamente e
gli lancia un "Perché?" squillante che lo sconcerta.
Intanto la sera è calata, i bambini sono scomparsi, il cielo è viola e nero; ai bordi lampeggia.
"Perché mi dice queste cose?" ripete Azniv. "Neppure ci conosciamo…"
"Perché voglio salvarla" prorompe l'uomo, e poi si guarda intorno furtivo: "Lei, bambina cara, mi
deve credere. Io posso, io devo salvarla. Venga via con me, subito. Abbandono anch'io l'esercito. Ho
due veloci cavalli…" e, chinandosi ancora di più, si preme le mani di lei intorno al viso, e le bacia le
ginocchia.
Mentre un brivido disperato la scuote tutta, Azniv improvvisamente comprende un pericolo, un
orrore incombente, e il suo giovane sangue da un balzo di voluttuosa speranza. Un cieco istinto la
spinge ad andare via da quel luogo, dove le rose sembrano adesso profumare di morte, e il muro del
giardino nasconde tombe sconosciute. Si alza in piedi, e allora lui (che non ha compreso nulla) si
alza con lei e la stringe a sé per baciarla. Il bacio è appena uno sfiorarsi, ma rimbalza in lei
cupamente: vergogna, disonore, follia, nella casa stessa del padre…
Azniv si stringe le braccia sul seno, arrossisce, e con la stessa velocità con cui lo ha fatto entrare,
riapre la porticina nel muro e spinge fuori il giovane, con furia silenziosa. Il corpo le ha detto ciò
che la mente non aveva ancora afferrato: il mare di differenza che diventa sempre più rosso, dove
lei sta su una sponda e lui sull'altra, il mare che divide i due popoli.
"La prego, ci pensi; tornerò domani" egli riesce tuttavia a sussurrare, affannato, da dietro la porta;
ma Azniv continua a piangere desolatamente, accarezzandosi le guance scottanti. Fino ad allora
sognava, bambina fra i bambini. In quel momento diventa donna.
Ma poi rientra in casa, nel buio, sale veloce le scale e corre a guardarsi allo specchio. Si inumidisce
con la saliva ciglia e sopracciglia, si passa davanti al viso un velo di garza rossa, lasciando scoperti
solo gli occhi, e si contempla, ammirandosi.
"Ecco si avanza la figlia d'Armenia dallo sguardo fiero" dice la canzone popolare. Le grevi
sopracciglia foltissime si congiungono quasi sul naso, forte e diritto.
Sotto, gli occhi le appaiono così belli, innaturalmente lucenti, eccitati dall'avventura. Azniv muore
dalla voglia di raccontarla a qualcuno. A Veron no, forse a Sempad? Il fratello maggiore ha l'autorità
ma non la esercita, e ha un debole per lei. "Così, così farò", decide. Poi, mentre una grande
stanchezza la pervade, con un sospiro di felicità alla fine va a letto, dopo il suo primo bacio; e si
addormenta quieta e contenta nella notte velenosa.
L'indomani è Pasqua. Azniv, che si è già assolta del suo quasi-peccato (solo un'imprudenza, dice a
se stessa), si sente un po inquieta, un po' in colpa, soprattutto perché lui ha detto che ritornerà
stasera. Ma presto si immerge in mille gradevoli occupazioni festive, e dimentica.
D'altronde, non c'è più tempo di parlare a Sempad, che è uscito a cavallo, prestissimo, per dare
un'occhiata alla Masseria, che tutto sia pronto per il pranzo pasquale, nella sala a pianterreno appena
ridecorata con ghirlande di fiori, putti rotondi e cesti di frutta, da Melkon il pittore, che dice di aver
imparato il mestiere a Parigi (su quei putti i getti di sangue sembreranno allegri festoni nuziali, e le
nuvole rosa, sopra, qualcuno cercherà di cancellarle con grossi segni tracciati col carbone). Il giorno
della Resurrezione si annuncia bellissimo.
Ismene, come ogni anno, è venuta per prima, con un cestino di lattuga fresca, in cui sono adagiate le
uova consacrate. Ha portato anche un pane, benedetto dal pope greco Elias Isacco Kristoiannis. Il
poveruomo ha nella piccola città pochi fedeli, e gira sempre con un grembiule blu pieno di macchie,
i pochi capelli raccolti strettamente nel codino.
Sua moglie fa la sarta a giornata, e il loro unico figliolo è morto di polmonite due anni fa,
nonostante le medicine e l'assistenza prodigate da Sempad. Ma Isacco, sua moglie Katerina e
Ismene non hanno dimenticato le cure portate al bambino, né come Garo il piccolo gli ha tenuto la
mano per tutta la notte ultima, senza dormire, fissandolo.
"Cristo è risorto. Che tu sia benedetta!" dice Ismene. "Davvero, è risorto!" risponde fresca Azniv, e
la fa entrare in casa. Poi si dirige alla pettiniera, canterellando a labbra chiuse, la bocca piena di
forcine: "Ovsirun, sirun…".
Ma Ismene non si ferma per i complimenti di rito: "Bocca di rosa, come hai dormito?" o "Possa il
cuscino su cui appoggi il capo raccontare i tuoi pensieri…".
Ismene appoggia il cestino in cucina, saluta bruscamente Nevart che la osserva dalla finestra di
fronte, e corre dall'amata Shushanig. Il suo capo è pieno di pensieri di morte, si sente blasfema in
questo giorno di Resurrezione. "Cristo, oh Cristo morto, come risorgerai quest'anno?" Sull'aria di
una delle sue melo pee di lamentatrice questa frase le saetta nel cranio, come un'irosa bestemmia.
Non sa molto, Ismene: ma avverte i pensieri. Ieri, mentre componeva le vesti della zia del
kaymakam, morta da poco di vecchiaia, le intrecciava i capelli radi e pregava Maria anche per lei (a
voce bassa: non le può far male), il nipote venne un momento a vedere il cadavere. I suoi occhi
opachi non hanno detto nulla; ma Ismene ha sentito i pensieri. Morte, morte da dare; bottino,
bottino da fare. Ma a chi, su chi?
Molti sono i popoli della piccola città. Ismene vuol consigliarsi con la saggezza serena di
Shushanig, che sempre sa cosa dirle, e le toglie la nebbia d'intorno al capo.
"Ah Shushanig, se tu fossi saggia davvero…" Ma Shushanig ha la testa alla sua festa pasquale e poi
sa che Ismene sente i pensieri, e quante volte l'ha consolata.
Così fa anche questa volta, e per darle gioia la invita alla festa, con padre Isacco e la sua sposa triste
("ma fagli cambiare la tonaca, mi raccomando, c'è gente importante, non lasciare che faccia brutta
figura") Riportata a un più femminile e consueto operare, Ismene dimentica. E quel giorno sarà
completamente felice, trattata come una pari, accolta nel grembo accogliente della grande famiglia,
al suo posto, contribuendo a comporre come un trittico dorato, con i clienti e gli amici sugli sportelli
laterali a far da contorno, tutti inquadrati in un ordine sacro e così antico che niente, sembra, lo
potrà mai spezzare.
Il pomeriggio porta buonumore a Veron, che è andata come al solito da sola alla sua funzione
anglicana, e ha raggiunto gli altri più tardi alla Masseria, sul calesse del medico Krikor, che la
corteggia da sempre.
Arrivare così, come una signora, col cappelline nuovo con la veletta viola e un uomo che s'inchina
nel darle il braccio per farla scendere, ha rasserenato il suo visetto imbronciato; e vedendo l'umore
della sorella peggiorare nel corso del pomeriggio, il suo barometro personale tende a salire.
Non sa cosa stia rimuginando , Azniv, che non le dice mai nulla, e non la rispetta come sorella
maggiore, ed è più bella di lei. Ma qualcosa è successo, e a Veron piacerebbe poter dare consigli…
Improvvisamente, Azniv chiede a Ohannes se la può riaccompagnare in città. Ma Sempad a questo
s'immalinconisce, anche se lei ha una scusa pronta; e dice di aver bisogno di lui. È arrivato Gerard il
violinista francese, che si alterna con qualche pezzo romantico al consueto, virtuosistico duduk di
Hrant Agopian, il pastore.
Bisogna offrire i rinfreschi del pomeriggio e il tè per le signore, coi pasticcini della Confisene
Viennoise, che ha introdotto in città da un paio d'anni le delizie della pasticceria occidentale.
Ohannes deve far aspettare Azniv per un'oretta; ma lei, di solito così viva e scattante, questa volta
non insiste.
E tuttavia, contrariamente al solito, non si unisce ai musicanti, non prova passi di danza, non
accenna a cantare, con la sua melodiosa, robusta voce di contralto, una delle tante canzoni che
danno gioia al cuore, e voglia di ballare. Sta seduta, come leggermente infreddolita, guardando il
sole calante, e tace. Il suo volto rotondo ed espressivo appare muto, la musica scivola sopra di lei, la
rinchiude.
Azniv sembra assente, e siede in posa un po stanca; ma nel suo cuore febbrile si ripete: "Chissà se
oggi verrà. Io ho fatto quello che ho potuto; forse è meglio così. Ma davvero lui vorrebbe sposarmi,
mi permetterebbe di non convertirmi, e verrebbe con me in Europa? E se fosse lui, a convertirsi?
Cadrebbe allora ogni ostacolo…". Azniv si vede già come una donna importante, quella che ha
convertito un ufficiale, nei circoli armeni (o turchi progressisti) di Londra o di Parigi.
Non ha mai pensato di andar via; è una ragazza serena, che vuol bene a tutti. Ma questo sì che
sarebbe un motivo valido; non è così ingenua da pensare che per una coppia mista del genere le
cose nell'Impero sarebbero facili. Sarebbe più o meno la prima volta che non è il turco a rapire e
portare nel suo harem la ragazza cristiana, ma la vergine armena (sorride fra sé) ad essere così forte
e così bella da non lasciare scampo al turco.
Vaghe immagini le danzano intorno, dei racconti terribili tante volte sentiti, delle raccomandazioni,
dell'onnipresente atmosfera di attenzione e di ansiosa vigilanza che circonda le ragazze in fiore; e
una leggera apprensione, come la sensazione che tutto questo non sia che un sogno. E insieme,
improvviso, lo scherzo dell'innamorarsi, quando di una persona vedi ancora i difetti, ma comincia a
non importartene più, e un languore ti invade.
Non è più così urgente tornare in città. Azniv ora è convinta che, se lui ha bussato oggi pomeriggio
e non l'ha trovata, certo tornerà. Non può non farlo, dopo l'appassionata scena d'amore di ieri.
Ma Djelal è già tornato, e ha bussato invano alla porticina del giardino. Nessuno lo ha visto, tranne
Nazim lo zoppo, il mendicante turco che nei giorni di Pasqua si passa tutte le case degli armeni,
riempiendo la saccoccia di buone cose e di mance più sostanziose del solito.
Nevart lo tratta bene, e così Shushanig: ma oggi sono tutti via: lui non sa che festeggiano Pasqua
alla Masseria, crede che siano da qualche famiglia amica a scambiare gli auguri, così attende, nella
rientranza del portone. Vede Djelal arrivare furtivo, lo sente chiamare Azniv, con voce
supplichevole e poi brusca, tenera e poi veemente. Mezz'ora resta Djelal a bussare, e Nazim
comprende molto di più di quanto sia detto, ma tace e si appiattisce contro il muro. Non conviene a
un mendicante parlare, ma tacere e far tesoro. Ogni briciola può servire.
Così, quando Azniv arriva, Djelal se n'è già andato, e Nazim, colmo di notizie, pure, per completare
il suo giro. Invano Azniv, col suo romanzo in mano, si siede sotto i rosai, al posto di ieri; invano si
convince che è meglio così, e che comunque lui ritenterà l'indomani, perché sa pure che è Pasqua.
Un sordo sgomento, una paura senza nome serpeggia da tutto il giardino, e si chiude intorno al suo
cuore semplice. Non riesce a leggere, e allora aspetta la notte, presa dalla nostalgia delle occasioni
perdute, così severa e pur così familiare nei cuori di donna.

Qualche giorno dopo. Mattina del 24 aprile. È arrivata una lettera di Yerwant. Levon Yakovlian il
postino subito l'ha consegnata a Sempad, la mattina presto.
I progetti di Yerwant crescono: adesso ha pensato anche a un pianoforte, un Heizmann a mezza coda
con finlture in mogano e bronzo dorato, che vuol collocare nella sala di ricevimento della Masseria.
Approva, dice, tutti i piani di rinnovamento di Sempad, il bovindo e le vetrate, il lawn-tennis e il
salotto viennese; e aggiunge il pianoforte, per le serate in famiglia, per essere ricordato dalle sorelle.
Come gli piace, ha fatto mettere sul coperchio le loro iniziali in argento.
Yerwant ha pensato a tutto. Poiché l'Austria-Ungheria nella guerra è alleata dell'Impero, per non
aver problemi ha scelto uno strumento viennese. Il pianoforte verrà spedito direttamente dalla ditta,
che manderà un telegramma a Sempad perché tutto sia pronto alla Masseria; e arriverà con un
accompagnatore, un tecnico per l'installazione, che si fermerà fino all'arrivo di Yerwant, il quale
disporrà il pagamento solo dopo aver visto tutto con i suoi occhi. Può Sempad garantire l'ospitalità a
questo austriaco?
Certo, Sempad può e vuole. Non vede l'ora. Pieno di gioia, corre a leggere la lettera a Krikor,
l'amico diffidente.
Nel suo gabinetto di consultazione, che odora di tabacco e di varia umanità, questo medico di cui ci
si fida proprio perché non prende nessuno sul serio, usa poche, brusche parole, e così il male che gli
viene affidato diventa più lieve, sorride invece indulgente all'amico. Più che diffidente o ironico,
Krikor è saggio, di quella saggezza tutta orientale che hanno solo gli orientali che hanno studiato in
Europa, e capisce bene Yerwant.
La sua laurea a Berlino fu meritata e piena. Gli avevano proposto di restare, e di far carriera. Ma
Krikor aveva una vecchia madre e tre sorelle da sposare, e un'invincibile timidezza. Così è tornato
nella piccola città, e ora cura tutti, imparziale e scettico; è abbonato a molti giornali, e si farebbe
uccidere per Sempad, di cui ama la spensierata affettuosità.
"Guarda il post-scriptum" lo sgrida, mentre finisce di leggere; "forse la tua contessa-cognata non
viene più." Sempad legge con un tuffo al cuore: "Carissimo fratello, penso che mi piacerebbe
comprare una villa accanto alla Masseria, o farmela costruire. Tu e Ohannes potreste seguire i
lavori…".
Per molti anni Yerwant ricorderà quella frase, con un suo pianto segreto e una lenta, lenta preghiera:
"Non ho costruito quella casa nella terra della mia patria perduta… così tu, o Signore Dio dei miei
padri, t?"* supplico, dammela nell'antica patria celeste…". E invecchiando, soffrirà tremendamente
di una chiusa nostalgia che non può comunicare a nessuno, senza un colloquio d'amore con nessuno
dei nipoti, con la dolce lingua materna compressa in sé e come morente: ricco e colpevole di essere
sopravvissuto.
Ma Sempad è solo felice. Saluta in fretta Krikor, corre fuori e prende il calessino. Manda Veron a
sostituirlo alla farmacia, lui è troppo eccitato per non correre a vedere (anche se conosce il posto
come la sua mano) dove potrebbe sorgere la villa di Yerwant. Ha già deciso il luogo. Sarà tutta
nuova; vicino alla Masseria ci sono vecchie costruzioni, ma nessuna gli appare degna del fratello.
Già pensa a un terreno poco lontano, il piccolo pianoro con le antiche grotte, dove le vecchie
raccolgono l'aneto e la valeriana, che si interrompe a un certo punto per digradare bruscamente
verso le cascate.
Là in fondo potrebbe sorgere un padiglione estivo, come quello di Marienbad di cui ha visto
l'illustrazione, tutto in ghisa traforata bianca. E davanti una balconata su cui si arrampicherà un
denso glicine, viola e bianco.
La casa sarà più arretrata, con la facciata verso il panorama delle cascate e la parte posteriore sulla
strada, in stile moderno, alla giusta distanza dal grande platano che ombreggia il prato, quello che è
chiamato l'Albero dei Cavalieri. Alla sua ombra, già gigantesca in quegli antichi tempi, un principe
armeno teneva corte estiva, e là ricevette e nutrì un gruppo di cavalieri erranti, crociati che avevano
perso la strada, e a cui l'Anatolia ospitale delle piccole corti ricche d'acque e di belle fanciulle
piaceva più dei loro tristi paesi lontani del Nord.
Il sole di quella terra benedetta li catturò, e la possibilità di fare fortuna.
Dimenticarono le mogli e i piccoli feudi freddi di Champagne e di Normandia, e vissero quaggiù, e
qui sono sepolti e hanno discendenza.
Dalle grotte ogni tanto le donne portano fuori un osso o un oggetto non prezioso (sono tombe
saccheggiate da talmente tante mani): un fregio di pietra, una borchia di metallo.
I bambini ci giocano, ma Krikor tiene a queste reliquie, e paga anche qualcosa. Le vecchie
raccoglitrici d'erba e i bambini si sono passati parola.
Sempad guida veloce il calessino. Adora i cavalli, e quando è montato si trasforma. Il suo viso
diventa risoluto e fiero, le sue spalle si raddrizzano orgogliose ed evocano tempi lontani. Vedendolo
passare in un lampo sull'acciottolato davanti alla prefettura, il kaymakam, che sta sul poggiolo a
fumare il suo sigaro dopo il caffè, mastica fra i denti: "Che provocazione! Sembra lui il padrone qui.
Ma tutto ciò avrà presto un termine"

Tutto ciò sta già avendo un termine. Colloqui riservati sono in corso a Costantinopoli fra Talaat,
Enver, il capo della polizia, un gruppo ristretto di fedelissimi del partito e i responsabili
dell'Organizzazione speciale.
Non tutti i membri del Comitato Unione e Progresso sono al corrente del progetto, e comunque
sono invitati solo i più determinati, fra cui un paio di alti burocrati. C'è anche il colonnello
Hauptmann, delle forze alleate tedesche.
Il disarmo dei soldati e la messa a disposizione degli ufficiali armeni dell'esercito sono stati
completati.
I soldati sono stati eliminati; gli ufficiali, si è curato che non avessero sospetti.
"Il passaporto interno, il teskerè, è stato già ritirato a molti, ma si deve procedere con una certa
precauzione " dice Selim Effendi, laureato alla Sorbona e capogabinetto del ministero degli Interni.
"Oggi", è Talaat che parla, "oggi è il giorno qui, nella Capitale. Le feste di Pasqua li hanno snervati
e distratti. Stasera li preleverete nelle loro case, negli ospedali, nelle redazioni dei giornali.
Distruggete le macchine da stampa, devastate le redazioni delle riviste e delle case editrici. Ogni
impiegato non armeno deve essere minacciato severamente e mandato a casa. Se sapranno tacere,
avranno un premio dal governo.
"Non usate le prigioni, ma le caserme. Non permettete contatti, sequestrate i libri, soprattutto non
rispondete, mai, a nessuna domanda.
"Portate via solo gli uomini. Non toccate le donne." Enver, che ha continuato ad assentire
gravemente, a questa frase rialza la testa sorpreso. "C'è tempo, per loro" sorride finemente Talaat.
"Ci sono tutte le donne delle Sette Province. Con quelle di Costantinopoli, queste giaurre libertine
che frequentano le ambasciate e scrivono perfino sui giornali, bisogna avere per il momento la
mano leggera. I loro uomini vengono imprigionati per cospirazione contro lo stato, non perché sono
armeni."
"E Zohrab, cosa ne facciamo?" chiede ancora Enver, con un filo di ironia per il celebre amico
armeno di Talaat.
"Oggi appunto lo vedrò alle quattro: è il nostro giorno del tavlì. È sempre precisissimo, un vero
signore, e una testa fine di politico e di poeta. Lui va ignorato. Non dovete toccarlo: ma se mi cerca,
assicurategli che mi porterete i messaggi, lasciateglieli scrivere. E poi gettate le lettere, e fate in
modo che lui se ne accorga." È Enver che sorride a questo punto, ammirato.
Non aveva pensato in termini così raffinati.

Costantinopoli, sera del 24 aprile 1915. La grande retata ha inizio. Davanti ai suoi bambini e alla
moglie incinta, Daniel Varujan, il poeta, mostra coraggio, sorride: "È una misura di sicurezza. C'è la
guerra. Siamo al centro dell'attenzione internazionale, non possono più ripetere gli orrori degli anni
del Sultano Rosso" (ma un'ala nera gli disturba la vista, all'angolo dell'occhio, e un brivido fondo lo
scuote). Maria gli prepara in fretta una borsa di roba e nasconde sotto un pane, un cucchiaio, un
vasetto di marmellata. "Non ne avrete bisogno" dice l'ufficiale di polizia che comanda il gruppetto,
"è solo per pochissimo tempo." Ma alla sua voce educata Daniel si riscuote improvvisamente, lo
fissa negli occhi e vi legge la morte.
Allora con fredda serenità abbraccia Maria come se fosse un commiato qualsiasi, afferra al volo un
libro, una penna e il quaderno del poema che sta scrivendo: "Ci saranno ore vuote, scommetto; mi
porto via Il Canto del Pane. Se si fa vivo Alessio, raccontagli un po' tu" (con questa frase spera che
Maria comprenda di rivolgersi ad Alessio Semionovich Burkin, funzionario dell'Ambasciata
imperiale russa e poeta, collaboratore della sua rivista, per chiedergli asilo, se necessario. In realtà
recentemente hanno litigato, per una questione di mode poetiche, che Daniel improvvisamente non
comprende più. Gli sembra una lingua straniera). Maria lo guarda un po arrabbiata. Si sente stanca,
la terza gravidanza improvvisamente le pesa, le pare di portarla sulle spalle da sola. Perché lui se ne
va così docilmente? si chiede; poi sente l'assenza del corpo di lui al suo fianco, ed ecco, se n'è già
andato, e l'aria è così pesante, e non ha più nessun profumo. E non lo avrà mai più.
Nella piccola città, Djelal si aggira furioso. Lui sa: e vuoi salvare Azniv a tutti i costi. Tornerà oggi
pomeriggio, e la porterà via con sé, in un modo o nell'altro.
Come convincerla, se non con la forza? (Lui non sa i pensieri di lei…) Djelal non vuole salvare la
famiglia. Solo Azniv lo interessa, e salvare lei significa assolversi del compito orrendo che lo
aspetta. Djelal non è un ufficiale qualsiasi; è giovane, e ha aderito entusiasticamente al programma
del Comitato Unione e Progresso per svecchiare la Turchia, eliminare il sultanato, modernizzare.
Nel concetto di modernizzazione è implicito l'assioma - la Turchia ai turchi. Eliminare questi popoli
inferiori, che cospirano sempre col nemico occidentale e hanno aiutato a fare in pezzi l'Impero.
Fuori, fuori armeni, greci, assiri, siriani - marmaglia.
Ogni paese il suo popolo, come nelle guerre d'indipendenza europee. La Grecia è dei greci, perché
la Turchia non dovrebbe essere solo dei turchi?
Ha la testa piena di queste idee, Djelal, e non gli passa per la mente che gli armeni e gli altri sono su
questa terra d'Anatolia da millenni, che l'hanno coltivata e resa feconda, che è quello il loro sogno di
patria, non ne hanno un'altra: e volentieri, miti e fantasticanti come sono, e poiché è una terra
grande e generosa, ci si potrebbe stare insieme (così ha cantato il poeta, nella poesia che Yerwant
tiene nel portafoglio) Ma Azniv, Azniv: è la donna per lui. Djelal l'ha vista per caso, passando a
cavallo, danzare in un frutteto, a una festa campestre, e la sua grazia lo ha preso per sempre. Per lei
ha riscoperto le fiorite poesie d'amore della tradizione, ha sfidato la blanda ironia degli amici, e si è
accontentato per mesi di sognarla e di seguirla.
Ora, risolutamente, prende da parte Dediaev, il suo migliore amico, e gli racconta febbrilmente il
suo piano disperato.
Dediaev è di origine russa, nipote di un cosacco che abbandonò molti anni fa la terra nera d'Ucraina,
si è convertito e ha saputo farsi strada. È ufficiale anche lui, gode di molti agi, ma di natura è
tollerante e sognatore. Ha accompagnato Djelal ai funerali del vecchio Hamparzum, conosce la sua
infatuazione, che ha sempre visto come un gioco, appena un po romantico, per non annoiarsi in
provincia.
Ora scopre un Djelal furioso e - come dire? - appassionato e offeso insieme, in cui la vernice di
rispettoso corteggiamento si scrosta di più a ogni parola, e la naturale educazione di predatore
prende il sopravvento.
Ancora ieri, e Azniv così lo ricorda e rivive, stava in ginocchio; oggi la vuol portar via a tutti i costi,
anche forzandola; se lo ha fatto entrare, vuol dire che anche lei lo ha scelto, e non sarebbe violenza,
ma persuasione, oltrepassare gli scrupoli: perché non c'è più tempo. Ma devono andar via: sa bene
che, dopo, lei non sarebbe donna da velare e nascondere, ma piuttosto da esibire, come un prezioso
frutto proibito.
Dediaev si diverte. Non capisce bene la fretta, ma assicura il suo appoggio, e arriva a promettere
carrozza e cavalli di suo padre. Consiglia la fuga immediata, lontano dal teatro di guerra che si sta
pericolosamente avvicinando, e un imbarco veloce a Smirne. Dediaev non è nel partito, e del
Progetto armeno non ha sentito che qualche sussurro (Djelal sa bene che le teorie panturchiste non
trovano in lui nessuna eco) Ma è giovane e avventuroso, e salvare questa ragazza gli piace; ecco che
salta fuori che conosce qualcuno a Smirne che è amico di un capitano greco che fa il contrabbando,
e per un bel numero di piastre… Che, non c'è problema, fornirà lui. Tutto, pur di giocare un bel tiro
al sonnacchioso e cretino kaymakam da un lato, e alla famiglia di Azniv, così compunta e potente,
dall'altro. E che sarà mai, questo professore diventato italiano che arriva con un'automobile sportiva
e un pianoforte (le voci corrono, povero Yerwant)? "Un nuovo raid ParigiPechino, che si ferma in
piena Anatolia, fra i polli e le capre del villaggio…" sbuffa Dediaev.

Ma in quegli stessi momenti, il kaymakam agisce.


Verso mezzogiorno, Nazim lo zoppo è stato da lui: Nazim arrotonda sempre i profitti della
mendicità con un po di ben pagato spionaggio: è attraverso di lui, che conosce tutti gli armeni, che
ogni loro mossa viene annotata e riferita. Tutti parlano davanti a Nazim, è come un mobile,
silenzioso, ossequioso e sempre presente.
Solo a Ismene non piace, perché non fa mai favori: "Li prendi i soldi, no? Mai che tu ricambi in
qualche modo" Ma Sempad dice che il povero è benedetto da Dio, e: "Chi saremmo noi, se nel fare
l'elemosina facessimo distinzioni tra cristiani e musulmani? E poi, siamo nel ventesimo secolo,
anche la religione si modernizza" Ride sotto i baffi, Sempad. Si diverte a scandalizzare blandamente
le donne, e non vede Nazim che, in disparte, sputa sprezzante.

"C'è una tresca fra l'ufficiale Djelal e la sorella del farmacista. E lui vuole sposarla, e convertirsi" ha
sussurrato Nazim. È una notizia ghiotta, ma davvero strana: un ufficiale può rapire una ragazza,
forse farla scomparire in casa sua, anche sposarla - ma convertirsi! non s'è mai visto. E in questi
giorni, poi.
Il kaymakam tuttavia pensa che è opportuno procedere con prudenza. Nazim è furbo e avveduto, ma
qui non si tratta di angariare i soliti armeni, questi sono turchi, ufficiali dell'esercito, e non vuole
giocare da solo. Passerà la patata al bellicoso colonnello Hikmet, che morde il freno in questa
sperduta provincia: gli dirà che Djelal ha compromesso una giovane curda, che i parenti di lei lo
stanno cercando e che Dediaev lo ha aiutato. Il colonnello, che è della vecchia scuola e ha in
antipatia i quadri del partito, prende al volo l'occasione.
Dediaev, poi, è un rompiscatole miscredente.
Un dispaccio avverte Djelal e l'inseparabile Dediaev che in due ore devono essere in viaggio per
Damasco.
Vengono mandati al fronte, agli ordini di Dje mal Pascià, il "terzo uomo" del triumvirato al potere,
con Enver e Talaat. E non c'è scampo, perché un gruppetto di soldati comandati da un sottufficiale è
lì per sorvegliarli, mentre il colonnello è scomparso.
Djelal è pietrificato, disperato. Dediaev sorride, e s'inchina. Già pensa a come avvertire suo padre, a
come giocare la partita. Ma in verità al momento non c'è tempo che di chiamare l'attendente, fare le
valigie, abbracciare la madre.
La prima notte dormiranno per la strada. Djelal è come stordito, e Dediaev pensa romanticamente a
una galoppata all'indietro, di notte, a come farsi aprire dal farmacista, e se disertare insieme
all'amico.
Se andassero poi insieme in America? E magari c'è un'altra ragazza per lui…
Ma quando arrivano a destinazione, improvvisamente Djelal flette le mani, stanche per la cavalcata,
e dice: "Io ho fame, e tu?" Muto, Dediaev lo fissa, e Djelal: "Era comunque un'idea scombinata, non
trovi? Dicono che Damasco è una splendida città, piena di tentazioni" Allora Dediaev, come
sollevato da un peso, gli batte una mano sulla spalla; ed entrano insieme nel caravanserraglio.

Di tutto questo Azniv non sa nulla. Passano i giorni, Djelal non è più ricomparso. Tutti hanno notato
che Azniv va tutte le sere nel bersò, e che è diventata nervosa e tende sempre l'orecchio, come a una
voce lontana.
Veron pensa che sia un po gelosa del suo viaggio a Costantinopoli; e lei lo lascia credere. La rode,
dentro, una sensazione di dubbio crescente, di sorda angoscia che non ha nome.
Eppure, si va dicendo, è meglio così, che follia sarebbe stata! E poi, davvero, sarei scappata con un
uomo, io Azniv? Avrei ingannato e offeso Sempad e gli altri, tutta la famiglia, la comunità armena,
perché tutti ridessero di noi?
Certo che no; ma pure, come avrei voluto dirgli di no personalmente, piangendo, che ammirasse il
mio piccolo teatro (oppure, oppure: si fosse davvero convertito? Come le persone moderne possono
anche fare?) Il mese di maggio culmina, la seconda domenica, con la spettacolare cerimonia dei
Fiori alla Vergine.
Tutte le ragazze armene vestite a festa vanno alla cattedrale con i fasci di rose per infiorare gli altari,
e poi, con i cestini colmi di petali sfogliati, si dispongono su due file e coprono di un tappeto
odoroso la strada che deve percorrere la processione della Vergine.
Ma quest'anno c'è qualcosa di nuovo. Il colonnello del reggimento di stanza nella piccola città,
quello che ha mandato via Djelal, ha ricevuto da suo cugino, attaché al ministero degli Esteri, una
telefonata misteriosa, che annuncia un dispaccio urgente e personale (non un telegramma, che troppi
possono leggere). Il cugino informa che qualcosa bolle in pentola riguardo agli armeni. Da un
giorno all'altro, i loro portavoce, i membri più autorevoli della comunità di Costantinopoli, medici,
professori, giornalisti, risultano tutti scomparsi; i giornali tacciono, i deputati armeni non si vedono
più in giro. Il patriarca è invisibile, e molti diplomatici si stanno informando con cautela.
"Se conosci qualche armeno di buona borsa, a cui tieni, avvisalo che c'è pericolo" consiglia il
cugino; "puoi farti pagare bene una protezione, un salvacondotto. " Così si è sempre usato nel
paese, quando scoppiano i massacri.
Il colonnello infatti chiama Sempad, e lo avvisa. Lo stesso fa il capo della polizia, a cui Sempad ha
prestato una bella somma per sposare le due figlie, Zinaida e Zelmira, con larghezza e decoro. È il
10 maggio: ma Sempad ha ricevuto un'altra lettera da Yerwant, che fissa l'appuntamento nella
Capitale per il 10 giugno, al famoso Pera Palace del quartiere di Calata, l'albergo nuovissimo che
tutto il bel mondo internazionale conosce. E gli pare che il fratello italiano rappresenti da solo una
potente difesa; ma forse, per mostrare deferenza al capo della polizia e al colonnello, sarà bene
promettere una bella cifra per la protezione, e forse non fare la processione, anche perché Ohannes
ha riferito di movimenti sospetti delle tribù curde che vivono sulle montagne dietro la Masseria, alle
quali non è mai bene far vedere le ragazze.
Sempad si consiglia con monsignor Kuyumdjan, e con altri esponenti della comunità. Tutti sanno
bene che, decidendo di non tenere la processione all'aperto - è la seconda grande uscita primaverile
dopo Pasqua, molti matrimoni si combinano in queste occasioni - susciteranno ansia e dispetto. Le
donne e i vecchi daranno aria alla bocca, e si fa presto a diffondere un panico, che poi le teste calde
e gli stupidi possono affrontare in molti modi maldestri.
Perciò, alla fine, la processione si farà; e sotto il sole innocente, nello splendido smalto di una
giornata perfettamente luminosa, per l'ultima volta tutti quei corpi e quei volti danzeranno
armoniosi, quelle corolle viventi palpiteranno, leggere della gioia e delle attese di sempre. Solo,
verso sera, dalla parte delle cascate rompe un acquazzone torrenziale: sono le lagrime dei loro
angeli in lutto.

Nella villa del Dolo, Yerwant ha raccolto minuziosamente tutto ciò che gli serve per il viaggio.
Mappe, binocoli, occhiali da sole, spolverini in tinta con la carrozzeria, galosce, torce di tutti i tipi,
fiaschette, una ben provvista piccola farmacia, con sieri e siringhe, bollitori, depuratori, filtri;
stivali, ghette (si è fatto fare anche due paia di ghette damascate, una follia che ha ben nascosto in
fondo alla valigetta da medico con il monogramma, nel doppio fondo dove ha stivato talleri
austriaci, monete d'oro di Vittoria Regina e del Kaiser, e un po di gemme sciolte) I due autisti che ha
scelto sono Antonio Boscarini e Pino Vianello, due esperti; uno di loro è andato in Russia (e ritorno)
col principe Demidoff. Con molta serietà i tre uomini si consultano sui pezzi di ricambio, la
benzina, i serbatoi, pompe, manovelle ed ogni altro strumento che la fantasia di un meccanico può
escogitare; ma Yerwant conta anche molto sulla sua conoscenza dei paesi e delle lingue che, unita ai
soldi e al sangue freddo di cui si sente ben provvisto, dovrebbe evitargli impicci troppo gravi.
Non chiede - né da - consigli ai figli, considerati come pacchi (preziosi pacchi) che non possono
essere di nessun aiuto, delicati signorini figli della Contessa.
In questo momento sono in posizione di stallo: lei ha mosso tutti i suoi parenti per impedire questo
viaggio pernicioso, lui le ha detto seccamente che allora andrà solo con i figlie lei si torce le mani.
Li ama, davvero. Ama questo marito così esotico e virile, ama i suoi figli…
I figli tacciono. O meglio, la verità è che, accaniti interventisti quali sono, l'uno perché è un
ragazzo, e condivide i sogni bellicosi e patriottici dei suoi professori e dei suoi compagni, l'altro per
semplice enfasi infantile e per spirito di contraddizione, non credono sul serio che la lotta contro il
tempo che il padre ha ingaggiato senza saperlo, lui possa davvero vincerla.
Con tutti i pori, i due ragazzi sentono che l'Italia sta per entrare in guerra; e assistono quasi con
pietà al progressivo immergersi del padre in un ritorno alle origini, a un passato oscuro di cui si
vergognano un, poco, a quel parlare senza articoli che lo rende subito straniero, anche a orecchie
inesperte o benevole. Ce la farà Yerwant a partire prima che le frontiere con l'Austria-Ungheria si
chiudano? Ma come può pensare di farcela? si chiedono i due ragazzi stizziti, perché anche a loro
toccano delle sedute di preparazione.
E come può pensare di trascinare in quei posti da leoni nostra madre, così delicata e sensibile?
Yerwant non sente e non vede. Scrive continuamente a Sempad, ma non dice a Teresa e ai figli del
suo progetto di comprare casa laggiù. Verserà una caparra, e poi manderà i soldi dall'Italia - decide.
Per tutto il resto della sua vita Yerwant ricorderà quei mesi come il culmine del suo tempo,
l'assoluta felicità: la gioia di potersi concedere una perfetta organizzazione, il senso di un riposo
finalmente senza minacce, il gusto dell'uva di luglio, il viso sfocato, lontano, bellissimo della
mamma, Iskuhi. E reimmergersi nelle cascate, purificarsi infine, risorgere.
Una rinascita.
Tutti i suoi muscoli si tendono, tutta la sua lunga pazienza si stempera in una pace nuova. Ce l'ha
fatta, e questa è la sua ricompensa. Le notti in bianco, lo studio accanito di Padova e Parigi, i mesi a
mangiare albicocche secche e la minestra dei poveri, l'assistenza ai colerosi, l'affanno dei primi
malati, l'ambulatorio per i bambini a Venezia, i tubercolotici al Lido, il bisturi sempre in mano:
lindo, efficiente, autorevole.
Tutto turbina nel suo cuore e finalmente si acquieta.
Ricorda improvvisamente il bersò nel giardino, il profumo delle rose ricadenti, e il mese di aprile, e
la processione delle ragazze a maggio. Aveva tredici anni quando se n'è andato, che faccia avrà oggi
Madame Nevart, la matrigna a cui deve la sua fuga - e tutto quello che ne è seguito? Finalmente si
sente disposto a perdonarla.
Le cose sono andate così bene; e poi, Iskuhi e Hamparzum sono adesso riuniti - in cielo, pensa
Yerwant, che sente la religione in modo abbastanza semplice: tornare a casa, la casa dove nessuno si
diverte a perseguitare gli armeni, dove i bambini di otto anni non perdono la mamma. E ora, la
piccola città, e le cascate, e Sempad: come reggere a tanta felicità?

È il pomeriggio di domenica 23 maggio, al Dolo. I titoli dei giornali non lasciano dubbi. Nella
fresca stanza del biliardo, ancora coperto per l'inverno, Yetwart e Khayel si consultano
febbrilmente. Non è probabile che papà li raggiunga lì; è uscito per andare al Caffè Commercio,
sosta tradizionale della domenica, a ricevere gli omaggi e le richieste dei paesani.
Sono molte settimane che non ci va, e ha pensato che fosse opportuno farlo prima della partenza.
L'Italia entra in guerra, a fianco di Francia, Inghilterra e Russia, denunciando il trattato della
Triplice Alleanza. D'Annunzio e Mussolini battono le piazze, rullano i tamburi nell'immaginazione
eccitata del paese, convinto che pochi mesi basteranno (l'eterna illusione della "guerra facile") per
riportare la nazione ai suoi confini naturali, al Brennero e alle Alpi.
Una febbre percorre il paese, molti partono volontari.
"Come parlare a papà?" si chiede Yetwart a cui, come maggiore, spetta l'ingrato compito; e
d'altronde Khayél ha undici anni, può fornire al massimo il sostegno di un ascoltatore attento, ma
pieno di paure.
La mamma, che sa già tutto dai suoi fratelli Sartena (Andrea è stato a trovarla nel pomeriggio), tace
e prega, pronta a svenire. Yetwart non sa proprio come rigirare la notizia, e detesta l'ira fredda del
padre, il suo ritrarsi in se stesso, offeso dal mondo, straniero.
Ed ecco, in quel momento si sente squillare violentemente il campanello, e i passi di Letizia, la
cuoca, che va ad aprire all'ingresso principale. La villa, bassa e lunga costruzione ottocentesca, da
sulla strada, di fronte alla ferrovia; e ha dietro un parco immenso, antico, che scende fino all'ansa
del fiume. Alberi centenari vi fanno un'ombra densa. Le due automobili, pronte per il viaggio, sono
allineate vicino al pozzo, davanti alle scuderie.
I due ragazzi percepiscono, più che sentire, i passi del padre. Come in punta di piedi, Yerwant
attraversa la casa, evitando il salotto dove Teresa sta in trepidante attesa. I ragazzi sentono il suo
respiro aldilà della porta del salone che comunica con la stanza del biliardo; sentono che si ferma,
per un lungo momento pensano che entrerà, e li troverà al buio, zitti, quieti, impauriti.
Ma i passi riprendono lentamente fino alla porta posteriore, che si apre sul lastricato interno, e sul
prato intorno al pozzo. Su quella soffice erba i suoi passi si spengono piano piano. I ragazzi si
accostano alla finestra, spiano fra le imposte verdi, accostate: e vedono il padre di spalle, già
lontano, che cammina col suo solito passo riflessivo, appena, forse, un poco più stanco.
"Sa tutto", intuisce, e respira di sollievo, Yetwart; e "Sa tutto" ripete al fratello. Li invade un
sollievo opaco, come di chi si rannicchia nella protezione di un odore familiare; e poi un'esultanza
cattiva, che nascondono l'uno all'altro.
Senza guardarsi, sfiorandosi appena, escono dalla sala del biliardo, rifugiandosi Yetwart, col suo
violino, negli ottusi esercizi di Kreutzer, e Khayel dalla mamma, che lo interroga ansiosamente.
Ma nessuno di loro vedrà più Yerwant quella sera e la notte che segue. Nel buio che aumenta la casa
esplode di luci. È l'ora di cena, e Teresa manda in giro Antonio e Pino, che - disarmati dalla notizia -
ciondolano in cucina: "Trovate il professore, forse avrà bisogno di voi" Echeggiano le voci,
intimorite, pesanti, per il grande giardino. La sera squisita di maggio si attarda nell'aria, carica del
profumo delle rose rosse rampicanti, le stesse del bersò di laggiù.
Alla fine, Teresa fa servire la cena. Fosca si aggira coi piatti, Letizia guarda, appoggiata alla porta.
Con tutto il cuore lei vorrebbe che non fosse successo niente. Odia la guerra, detesta l'entusiasmo di
suo figlio, che ha vent'anni e vuoi partire soldato. Ha solo lui; questo padrone buono l'ha aiutata con
il bambino, le da un salario onesto, la cura e ogni tanto la sogguarda riflessivo e le chiede come
vanno le cose. O le racconta, ultimamente, del suo viaggio e del paese lontano.
Letizia ha un fratello in America, e capisce. Capisce così bene che in questo momento il cuore
vorrebbe spezzarsi, e per non piangere si morde la mano e va a fare i piatti.
I ragazzi silenziosi e la madre terminano di cenare.
"El xe fora, de note, co l'umido" sospira Teresa; poi tace anche lei. "El xe cussi strambo" conclude.
Mai più si parlerà in casa dell'impresa d'Oriente.
Yerwant è uscito dalla porticina in fondo al parco, nella curva del muro alto che da sul fiume e sul
piccolo, argenteo ponte che ha fatto costruire per Teresa. Si addossa al muro nella rientranza della
porta, con la chiave in mano. Sente le voci e i passi, e per non piangere si morde la mano e si
accascia per terra, come un mendicante, come uno straniero. La guerra non durerà poco. Lui e la
famiglia sono sui due fronti opposti; la visita è annullata, il paese perduto arretra e ritorna nella sua
cornice lontana.
"Oh Sempad, fratello" singhiozza Yerwant, "mandami almeno i tuoi figli." Così passa tutta la notte.
Non parlerà mai più del suo viaggio.

Con cautela, verso sera, Sempad nello stesso giorno si reca dal colonnello. Hanno un appuntamento
nel confortevole alloggio di Madame Sesostris, la chiromante egiziana che è notoriamente l'amica
fissa dell'alto ufficiale. Non si sa se sia davvero egiziana, se davvero la sua chiromanzia è efficace:
certo è una bella donna bruna, piuttosto magra, con il fuoco nello sguardo.
Sempad sa di lei molte cose, ma Sempad (anche se non sembra) sa tacere. Lei da consolazione e
conforto ai miseri, ai privi di speranza; e poi folleggia col colonnello, e lo tiene nelle sue belle mani.
Sempad ha sentito voci allarmate, sussurri. Un ferroviere armeno che fa la tratta di Costantinopoli
ha portato notizie di massacri a est, dove c'è la linea del fronte. I russi, pare, si avvicinano. La
strategia di contenimento dei generali turchi non sta avendo molto successo.
Tutti cominciano a ricordare le stragi del '96. Ma Abdul Hamid è morto ("terra da far vasi e
pignatte" direbbe Ismene), e il nuovo governo - pensano ragionevolmente gli amici della farmacia,
fra un sigaro e un caffè - ha altre gatte da pelare che perseguitare gli armeni.
E poi ci sono i deputati là nella Capitale, il patriarca, i giornali… E i nostri soldati si fanno onore,
siamo sudditi leali.
"Quieti, quieti. Basta star quieti" dice il medico Krikor. "Dovremmo arrestare noi stessi i membri
dei partiti, chi fa politica, chi si agita. Ecco la nostra insegna: Pharmacie Hayastane. Hayastan è il
nome che gli armeni danno alla loro patria perduta, la terra di Hayg: e la farmacia e Sempad sono
rispettati e conosciuti da tutti, come un'istituzione. Quante medicine nuove ha portato nella piccola
città… L'aspirina, è stato fra i primi a procurarla.
"Come un faro di progresso e di civilizzazione" intona improvvisamente Levon Toumanian,
chiamato il botanico perché sta componendo da anni un atlante della flora di Anatolia. Tutti ridono,
perché Levon non parla mai; ma oggi è felice perché ha scoperto un fiore nuovo, una piccola
primula purpurea, nei prati sopra le cascate.
Tuttavia, Sempad è un po inquieto, e si confida col colonnello, dopo aver consegnato nelle mani di
Madame Sesostris, che lo darà poi a lui, un libro elegantemente impacchettato, con le pagine
foderate di banconote.
Il colonnello, benevolo e rilassato, dice quello che sa. Alcune teste calde sono state arrestate a
Costantinopoli, qualche soldato sul fronte orientale ha disertato per unirsi ai russi ("e questo, Lei lo
sa bene, è molto grave"). Sempad si dichiara pienamente d'accordo. L'ufficiale pensa fra sé che chi
comanda quelle truppe doveva essere ben poco abile; lui saprebbe fare altrimenti.
I suoi soldati armeni non gli hanno mai dato, fastidio, e ha obbedito malvolentieri all'ordine di
disarmarli e di mandarli tutti nei battaglioni di lavoro sul fronte orientale.
Sospetta però qualche cosa. Se sapesse scendere dentro di sé, capirebbe che sa - più che sospettare -
che sono stati mandati là per poterli eliminare più facilmente; ma la verità ultima del Progetto
armeno gli sfugge comunque, non riesce a immaginarla; e non sa che è proprio questo a rendere
sospetto lui agli alti gradi del partito e del governo, è questa la ragione vera per cui è confinato nelle
retrovie.
Sesostris, che capisce molto più di lui, vorrebbe mettere in guardia Sempad; ma lui la guarda con
occhi così fiduciosi e placidi che lei rimanda (a un altro giorno, a un'altra ora): e poi sarà troppo
tardi.
Madame Sesostris non dimenticherà più quegli occhi: e tanti anni dopo, ad Alessandria, nel
sonnolento Egitto di re Faruk, sposa amata e rispettata di un notabile copto, sarà lei la benefattrice
anonima che contribuisce ogni anno con un dono cospicuo all'Orfanotrofio armeno del quartiere del
Porto fluviale, ben truccata, laccata, mentendo per la gola al marito sulle sue supposte perdite al
gioco.

Il 24 maggio l'Italia entra in guerra, fra uno sventolio di bandiere e di inni patriottici. Il giorno
prima, Yerwant ha mandato al fratello un telegramma di disperata impotenza. Ma Sempad, l'uomo
dei telegrammi, non lo riceverà mai; perché è proprio nella notte del 24 maggio che il kaymakam ha
ricevuto finalmente il suo telegramma, quello ufficiale. Tutti i membri del partito sono già allertati,
nella piccola città. Gli alleati tedeschi hanno raccomandato silenzio fino al momento decisivo,
ordine, organizzazione.
Di casa in casa si è tessuta una rete precisa. Tutti i nodi sono a posto, i capi delle tribù curde sono
stati avvertiti, ma con l'ordine tassativo di non farsi vedere per il momento in città, se vogliono poi
avere il promesso diritto di saccheggio, e la scelta delle ragazze.
Come un ragno grasso, il kaymakam sta al centro della tela. È un uomo del passato regime
ottomano, con nessun merito, e molto da farsi perdonare dai nuovi padroni; ma appunto perciò è
zelante quanto ottuso, e ben deciso a cogliere l'occasione.
Il mattino del 25, l'uomo del latte ritarda. È il pastore virtuoso del duduk, Hrant Agopian, che porta
il latte ogni mattina alla famiglia di Sempad, che è il suo padrone, e ad alcune altre della stessa
strada. Un pentolino viene regalato quotidianamente alla vecchia Irene Zingirian, che ha ottant'anni
ed è un po' tocca, da quando suo figlio non ha più scritto dall'America.
Ogni volta che arriva una lettera di Rupen, misteriosamente avvertita, viene a vedere se ci sono
notizie del suo Boghos.
Quando il pastore arriva, chiede di parlare col padrone.
Sempad esce in cortile, stranamente inospitale.
Non offre pane, non offre vino. Tace, come stordito dal sonno, da un sogno.
Il pastore racconta che ha visto un curdo che conosce, che oggi non ha voluto comprargli il latte
perché "Da domani le tue bestie saranno mie"
"Non sono mie" ha risposto il pastore, "io le ho in custodia per conto del farmacista."
"Chiamalo piuttosto l'uomo dei veleni. Ci vuole uccidere tutti, con quelle sue medicine" ha sibilato
il curdo.
"Io vado da mio fratello, a Van, padrone" dice il pastore composto e deciso, col berretto in mano,
saltando - " di argomento, apparentemente. "Stanotte l'ho sognato, e so che mi aspetta." Ma non dice
che nel sogno ha visto il fratello come l'arcangelo dipinto nell'abside della chiesa, con una spada in
mano, circondato da un alone di fuoco maligno, che lui ha attraversato con un balzo prima che il
cerchio di fuoco si chiudesse (e che gli pare di annusare su di sé un odore di vestiti strinati) Sempad
lo lascia andare. Sa che quel vecchio ha perso i figli e la moglie nel '96, e che da allora vive solo e
parla con gli angeli e col mitico fratello Thoma che nessuno ha mai più visto da allora.
"Hrant, devi seguire la strada di Dio" gli dice; ma in quel mattino tutto sole, per la prima volta sente
un peso immenso abbattersi sulle sue spalle, e si domanda (oh, per un attimo) se rivedrà più queste
albe e questi tramonti, e Yerwant.

"Bisogna sostituire il vecchio Agopian" dice Sempad a Shushanig il giorno dopo, a colazione. Poi si
immergono in un loro complicato gioco, in cui si divertono pazzamente, sceneggiando episodi del
ritorno di Yerwant. Nel suo candore assolutista, Shushanig non è neppure sfiorata dai dubbi sulla
cognata che invece nutre Sempad, e che vengono alimentati ogni sera alla farmacia: e lui le è grato
per questo.
In quel momento preciso Leslie emerge da sotto l'armadio - il suo armadio. Tutti hanno accettato da
sempre che quello è il suo territorio, e solo le donne ogni tanto ci passano la scopa.
Ha in mano un fischietto e un rasoio. Si avvicina solennemente ai genitori seduti, e sorride. Ma
Leslie sorride sempre, con candida furbizia, da sotto il naso importante che si ritrova.
"Leslie fra voi ha il nome più esotico e la faccia più armena" dice sempre Sempad ai figli; e il
nomignolo è rimasto. Leslie l'armeno sorride sempre e sempre raccoglie qualcosa. Ha nove anni.
Zia Veron gli ha foderato di stoffa due grandi scatole da scarpe, dove lui allinea, in un ordine
metafisico tutto suo, bottoni e rotelline, viti e fischietti, brandelli di stoffa e di nastri, un paio di
immagini di santi greci che gli ha dato Ismene ("Tanto io non ho un santo preciso" pensa il bambino
"quindi tutti i santi sono miei, posso pregarli tutti"), un proiettile di rivoltella che gli ha regalato
Krikor, e il suo libro di lettura.
Ma oggi Leslie si spiega ancora meno del solito. Da il fischietto in mano al padre, il piccolo rasoio
arrugginito alla madre: "Tu chiami, lei uccide" proclama categoricamente. Poi si volta e torna sotto
l'armadio, spingendo le due scatole a filo delle tozze colonnine che lo sostengono, finendo in due
poderosi artigli da Icone ai lati esterni. Questo è il segno, conosciuto e rispettato da tutti, che Leslie
non vuole essere disturbato.
Uscirà quando avrà fame, e sicuramente all'ora di pranzo, momento solenne in cui non sono
ammessi ritardi per nessuno.
Ma oggi anche il pranzo ritarda. Stranamente, i ragazzi ci sono tutti, e si tengono in piedi, diritti,
dietro le loro sedie; c'è Sempad a capotavola, e Madame Nevart seduta alla sua destra; ci sono
Veron e Azniv. Chi manca è proprio Shushanig, che è in cucina, e parla con qualcuno a voce bassa.
Per Henriette, che ha tre anni, da quel momento il mondo si ferma. Il profumo dei granoni pani
ovali fatti in casa, ricoperti di sesamo e di croccante papavero; - l'odore agretto delle tre colme
ciotole di yogurt coi, cetrioli affettati; quello intenso delle melanzane e del capretto, le caraffe di
acqua-di-cascata e di sidro frizzante: tutto si coagulerà in lei in un'unica, perenne sensazione di
colpa, di offesa, di inadeguatezza. In quella lontana solare giornata di maggio lei e i suoi familiari,
piccoli e grandi, tutti sono stati giudicati, e trovati colpevoli - di esistere: e Dio si è velato.

Appare sulla porta, concitato, Krikor il medico. L'orologio di sghimbescio, il solino fuori posto,
corre da Sempad, si china su di lui, quasi s'inginocchia, e sussurra:
"Ci arrestano tutti, corriamo!"
"Dove, come? E poi perché? Farmacista e medico servono sempre" risponde giudiziosamente
Sempad.
"Partiamo tutti per la Masseria."
"E poi?" In quel momento Ismene appare sull'altra porta che da in cucina, e si torce le mani; ma
Shushanig dietro di lei porta alta, a braccia tese, la zuppiera francese. Nel suo modo rotondo e
sgargiante, Shushanig trae voluttuoso conforto dal caldo contatto della porcellana di Parigi; e oggi
si aggrappa ai manici elaborati, e la depone quasi con rammarico.
Araxy, la giovane cuoca, la segue col mestolo d'argento in mano: e per un momento l'ordine è
ripristinato, e tutti, soggiogati, si siedono a mangiare il morbido semolino.
"C'è l'ordine del kaymakam a tutti i capofamiglia armeni di recarsi alla prefettura, oggi alle tre. Il
banditore sta girando per le strade" sussurra Krikor a Sempad dopo la minestra. "Io non mi fido. Se
noi due ci muoviamo velocemente con il tuo calessino, dicendo ad Azniv di attaccare il cavallo e di
portarlo nel vicolo dietro casa tua, possiamo uscire per la porticina del giardino e scivolare via
dietro la cattedrale: facciamo il giro largo, andiamo alla Masseria e poi stiamo lì fino a domani. Se
non abbiamo saputo nulla, non siamo colpevoli di niente, e intanto Azniv e Veron possono
informarsi un po in giro." Sempad si convince facilmente: nella sua umiltà, non crede mai di essere
indispensabile. Pensa che la convocazione significhi una cosa sola, la solita: un'altra richiesta di
"tasse speciali", perché il kaymakam faccia bella figura con le truppe, per "sostenere i nostri
soldati", per qualsiasi altro capriccioso motivo.
Per fortuna, pensa, la gente ha sempre bisogno di medicine, o dei cosmetici francesi che da qualche
mese vende su un bancone, nel retro, affidato alle sagge manine di Veron.
Partiti i due uomini, la famiglia resta seduta, come se avesse paura di muoversi. Shushanig termina
di mangiare in silenzio, poi si apparta di nuovo con Ismene. Le notizie di Ismene sono frammentarie
e paurose. Shushanig ha taciuto con Sempad, e con una stretta al cuore lo ha lasciato andar via.
Ora deve agire, da sola. Suo padre David Zacharian, il leggendario mercante che aveva percorso
tutte le strade, l'aveva avvertita, il giorno delle sue nozze:
"C'è un momento, nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle
sue spalle. Noi moriremmo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e
infatti moriamo" Shushanig si intenerisce un attimo, velocemente dice la sua preghiera: "Dio padre,
e padre mio David, che sei con lui e siedi nel grembo di Abramo, abbellite per noi la nostra patria
celeste; e rendete a tutti noi dolce la via misteriosa che porta lassù" (Anche per Shushanig il
paradiso è un giardino, di melograni.) Poi conduce Ismene al piano superiore, nella sua grande
stanza di sposa. Là apre la scatola francese di cartone traforato dove tiene i suoi guanti, e dal dito
mignolo del guantino da sposa che portava diciotto anni fa, rovesciandolo, fa cadere una minuscola
chiave a forma di mano di Fatima, con una piccola turchese incastonata.
Dentro l'armadio massiccio con la grande specchiera, eredità di sua madre Haiganush, la pallida
giovinetta che non ha mai conosciuto, la forte Shushanig si immerge ed estrae un cofanetto piatto di
metallo, come una cassetta di sicurezza, dove tiene il suo patrimonio personale di oro e gioielli. Con
muta tenacia, sorda alle prese in giro del marito progressista e degli amici, Shushanig non ha voluto
titoli o banche; ha convertito in monete d'oro e in pietre sciolte ogni rendita sua personale, ogni
dono, ogni piccolo guadagno: e adesso contempla pensierosa, con Ismene, il piccolo tesoro.
Si fanno il segno della croce, e poi Shushanig tira fuori da un altro ripostiglio alcuni sacchetti di
spessa tela comune, e fa due parti del suo tesoro.
Ad Ismene affida il sacchetto più grosso. "Vai ora, Ismene" le dice. "Guarda, ascolta, osserva tutto
quello che puoi. Se se la prendono con noi, forse poi attaccheranno anche i greci; ma tu sei Ismene,
nessuno oserebbe far del male alle lamentatrici. Tu, in caso, pensa ai bambini prima di tutto. Io ho
vissuto bene." Come una bambina allontanata, Ismene piange, il viso appoggiato alle mani di
Shushanig. Niente, apparentemente, è ancora realmente successo; ma ecco che Shushanig le asciuga
gli occhi con le mani, e dice: "Vecchia amica, proprio tu, che accompagni i morti. Nessuno ci ha
promesso che sarebbe durato per sempre" In quel momento uno zaptié scuote la porta d'ingresso,
entra, si affaccia in sala da pranzo. È imbarazzato e aggressivo, ma tace, aspettando un compagno, e
guardando avidamente i resti del pasto. "Sono qui." Di tutte le cose da dirsi, di tutti i pensieri
affettuosi, Shushanig e Ismene non sanno più che farsene. Ciascuna farà il suo lavoro, come un
bravo soldato. I sacchetti sono scomparsi in tasche capaci. La cassaforte è al suo posto, con un po di
denaro dentro.
Scendono in posizione rituale, come padrona e serva, come svolgendo una loro antica danza
femminile.
"Se cerchi il padrone, è partito stamattina" dice calmissima Shushanig ai due gendarmi, che le
notificano l'ingiunzione, per il marito, di recarsi alla riunione in prefettura. "Glielo dirò appena
torna." I due si guardano, molto divertiti, e uno dice: "Fa lo stesso, arriva in tempo anche domani"; e
poi con un gesto lento e preciso, allunga la mano verso la zuppiera che è ancora al centro della
tavola. Per un momento, sembra accarezzarla; poi il movimento si accelera e la zuppiera finisce per
terra, con un rumore stridente. "Oh" fa l'uomo, e sorride di nuovo; e poi esce, con il suo compagno.

Da quel momento il tempo si muove a scatti, accelera; e si distende in pause ingannevoli. Ismene è
sgattaiolata fuori dietro ai due zaptié. Seguendo il suo istinto felino, spera di ripercorrere a ritroso la
rete, di trovare il ragno. La sua polverosa veste nera si confonde con gli angoli della strada.
Canticchia maledizioni per farsi coraggio. Intanto, un silenzio mortale sale, come una nebbia
maligna, ad avviluppare il quartiere armeno. Non è solo Ismene a muoversi sui passi dei due
gendarmi; e come lei, uno sciame intero di vecchie donne colori della terra, serve di casa,
mendicanti, vedove povere, si acquattano dietro ogni angolo, guardando i due uomini che entrano
ridendo in una casa dietro l'altra, lasciandosi dietro ogni volta il silenzio.
È uno stupore ovattato, denso. Cento gridi di angoscia vengono sigillati su labbra ridenti, cento
pensieri di morte si levano, fluttuano incerti, si uniscono a intessere una buia danza. I bambini si
riempiono le tasche di dolci, e si nascondono. L'odore acido della paura si diffonde come un
miasma.
Per la prima volta in tanti anni, la farmacia chiude.
Veron è stata avvertita. I compagni della sera, gli stessi uomini spavaldi che ieri la corteggiavano
amabilmente, ora compaiono come spettri uno dietro l'altro, scivolando lungo i muri, e sussurrano:
"Ci hanno convocati… verranno a saccheggiare i negozi… sarà come nel Novantasei… dov'è
Sempad?…". Veron si sforza di rispondere con calma, ma quelli non la ascoltano, e tornano a
scivolare fuori, con gli occhi vitrei e folli. Nessun cliente si presenta. Nello spiazzo deserto, si sente
la città trattenere il respiro.
Veron sa che Krikor il medico è con Sempad alla Masseria, e si convince che la loro è stata la
decisione giusta, e che la cosa più necessaria da fare è raggiungerli, con il resto della famiglia.
"Purché i ragazzi non siano andati in giro" riflette preoccupata. Poi non regge più al silenzio
crescente, ai sussurri, e come se fosse sera chiude diligentemente i flaconi appoggiati sul banco, li
sistema attenta nelle scansie, con ordine, tira giù la tenda avvolgibile che protegge l'andito interno,
la stanza dei veleni, e chiude a chiave oppio e morfina, laudano e ioscina. Prende l'incasso della
mattina, riallinea i cosmetici sul bancone, riavvita L'Eau de Coty, l'ultimo profumo di Parigi, e fa
per uscire.
Si sforza di restare calma, e ha preparato anche una scusa tranquillizzante per chi dovesse
domandarle perché se ne va. Ma in giro non c'è nessuno. La pesante chiave della porta esterna
scivola d'improvviso dalle sue mani sudate, e cade in terra con un tintinnio come di monete.
Allora Veron, con un gesto improvviso, come ricordandosi, rientra in fretta in farmacia. Dal
cassettino nascosto (si fa per dire, tutti conoscono i segreti di Sempad) trae la chiave della piccola
modernissima cassaforte americana, che Sempad ha fatto installare l'anno scorso da un fabbro
specializzato venuto da Londra. Come in un sogno febbrile, apre con facilità la complessa serratura
che non ha mai toccato prima, e intasca velocemente i bei rotoli di monete d'oro, i sacchetti
d'argento, le banconote.
Lavora in fretta, come un ladro esperto. Quando ha finito, chiude e ripone la chiave; poi esce,
appesantita, e se ne va senza voltarsi. Non rivedrà più la Pharmacie Hayastane. Saccheggiata,
devastata, negli anni successivi un gruppo di poveri turchi prenderà l'abitudine di sistemarsi nel
pomeriggio sotto l'insegna sbilenca e sbiadita, ricordando senza bisogno di parlarne la bontà di
Sempad, e la sua allegria; e Veron ogni sera, nel deserto, ricorderà quella chiave caduta. È grazie a
quell'oro, a quelle monete, inghiottite a più riprese per sottrarle alle continue perquisizioni, che i
bambini riusciranno a sopravvivere, a raggiungere Aleppo, a salvarsi.

A casa, tutto appare quieto. Nevart è andata a trovare un'amica, Zabel la mercantessa di stoffe, e
tutti sono sollevati di non dover affrontare il suo nervosismo, il suo petulante domandare. Veron
cerca Azniv, che è uscita anche lei, in cerca di notizie, e poi Shushanig, che trova al mezzanino,
immersa nei grandi armadi della biancheria, a contare le lenzuola dopo il grande bucato primaverile.
Una fila di sacchetti di lavanda è appoggiata sul tavolo di sinistra, le forbici e una serie di nastri di
raso colorato su quello di destra.
"Ho tutto il tempo del mondo" dicono le spalle di Shushanig, lievemente curvate in avanti, "sono
qui nella mia bella casa, a contare e riporre le mie belle lenzuola." Nubar gioca con un nastro ai suoi
piedi.
Minaccia, turbamento, rassegnazione invadono Veron, e un senso acuto di rispetto verso quelle
spalle forti, che improvvisamente sembrano reggere il peso del mondo. "Ah Shushanig, cognata
mia, amica" prorompe la ragazza, consapevole che solo lei, e non suo fratello Sempad, può dare un
senso a quello che succede, e più ancora a quello che sta per succedere, alla paura che stringe alla
gola (perché niente è ancora successo, quasi niente: quale giovinetta armena non sa di massacri e
minacce?) "Shushanig, perdonami. Ho chiuso la farmacia…" (e non parla di ciò che ha preso nella
cassaforte, come Shushanig non dice a lei del piccolo tesoro diviso con Ismene: ciò che non si sa
non può far danno…) "Hai fatto bene" dice posatamente Shushanig "adesso dobbiamo aspettare che
la gente ritorni dalla prefettura. E prepararci, noi donne, a quello…" e qui la voce le si fa svagata e
lontana, come incerta se proseguire o no, se fidarsi. Infine, Veron è una giovane donna inesperta.
Ma in quel momento all'ingresso di casa si odono voci e scalpicii. Parecchia gente. Shushanig e
Veron si alzano insieme e insieme scendono le scale, tenendosi per mano come sorelle.
Nell'atrio, in piedi o seduti sulla pesante cassapanca di quercia con colonnine, orgoglio di Sempad,
ci sono i due Sarkissian, i fratelli carpentieri, con Garo il sagrestano che tiene per mano Garo il
piccolo, e l'altro sagrestano, quello cattolico, Vartan Arakelian, con il figlio James dall'ambizioso
nome occidentale.
C'è anche il postino-fotografo, Isacco il prete greco (che non è stato convocato, ma ha paura lo
stesso), Hagop il servo di casa e un suo amico, chiamato il Mancino. E Nerses il giardiniere.
Tutta questa gente si rivolge a Shushanig con la speranza negli occhi. Lei saprà cosa fare. Tutti
naturalmente sanno ormai che Sempad è alla Masseria, e in loro agisce un istinto foltissimo, una
feudale richiesta di protezione, che sanno di dover rivolgere a Shushanig. Tutto questo piccolo
popolo ha fede in lei, e attende, con rispettosa pazienza. I miti occhi armeni la seguono mentre
scende, illuminandosi.
"Mayrig, i miei amici ti cercavano" dice Garo con la sua voce squillante. Mayrig, mamma:
Shushanig si scuote, Garo ha parlato a nome di tutti. Ma non solo il piccolo popolo di semplici
dipende da lei, come i suoi stessi figli. Anche Sempad, là alla Masseria. Un irrefrenabile desiderio
di rivederlo la invade improvvisamente, un turbine offusca i suoi occhi sereni.
Shushanig dimentica la casa, gli armadi, la biancheria.
Ecco, è l'angelo della morte che ha scelto, i suoi gravi occhi la stanno fissando: e mentre Shushanig
si convince di avere (come sempre) elaborato una delle sue buone strategie femminili, questa volta
sarà lei a essere lo strumento del destino dei suoi.

"Andiamo tutti alla Masseria" decide Shushanig "là nessuno oserà mettere piede. Vi troverete tutti
nel vicolo dietro casa, alla porticina del giardino, fra un'ora. Faremo un picnic stasera, alla faccia di
chi ci vuol male. E mangeremo insieme in allegria. Le giornate sono lunghe, l'aria tiepida ormai.
Portate anche le vostre donne, mi aiuteranno." Crucci e ansie si dileguano in una contentezza rapita.
Tutti corrono via a riempire canestri: l'ospitalità di Shushanig è proverbiale, ma l'ospite non deve
arrivare a mani vuote.
Shushanig con Araxy la cuoca e Azniv, che è rientrata dopo un inutile giro per il quartiere, e non ha
avuto coraggio di andare più lontano, veste i bambini.
A Nubar, capricciosamente, mette una vestina da bambina, con le gale di picchè insaldato e una
cuffietta rosa di una sorellina: lui va matto per il frusciare dei vestiti delle sorelle, e questo lo fa star
buono. Nel suo cuore affettuoso verso tutto il mondo, Garo è pazzo di gioia: una sera con tutti, tutti
gli amici, e Mayrig, e le zie, e papà… Ballare alla Masseria, e correre sui prati sotto le cascate. Con
un sospiro di felicità, Garo promette al suo angelo di essere molto buono.
Leslie e Suren invece si imbronciano. Non vogliono essere disturbati, Leslie perché ha già fatto la
sua uscita da sotto l'armadio, prima di pranzo, Suren perché è percorso da un tremito irrefrenabile di
paura e di fuga, e sente l'immensa ragnatela che si sta tendendo. Vorrebbe, vorrebbe: montare a
cavallo, brandire una sciabola, essere uno dei grandi eroi, David di Sassun, Vartan Mamikonian…
Vorrebbe anche, nel fondo del cuore, fuggire da solo, da questo piccolo mondo che non capisce
niente e non vede le ombre sui muri…
Ma Shushanig è come un turbine stasera. Perfino Madame Nevart si acconcia alla sua fretta, sale
svelta nella carrozza grande con i ragazzi, Azniv e Veron.
Shushanig segue sull'altra con i viveri, Araxy e tutti gli altri. Padre Isacco ha lasciato a casa la
moglie Katerina: teme di disturbare. Fanno da cocchieri i due fratelli carpentieri, che hanno finito di
dipingere la cupola e partiranno fra due giorni per gli Stati Uniti.
Questa sarà la loro festa di addio, hanno portato una bottiglia di vecchio cognac e gli strumenti per
ballare.
Nel silenzio opprimente del quartiere armeno, la lieta comitiva si avvia e passa al gran trotto, con
pensieri di festa, davanti alla prefettura.
Nessuno dei passeggeri è infatti interessato alla convocazione: non ci sono fra loro capifamiglia,
tranne i due carpentieri, che però si considerano ormai quasi stranieri, e il prete Isacco, che non è
coinvolto perché è greco. I soldati più numerosi del solito di guardia alla prefettura non credono ai
loro occhi.
Due corrono dal tenente Ismail Kizilgik, un ufficiale arrivato da poco dalla Capitale, che comanda il
distaccamento: sono della città, hanno riconosciuto i cocchieri e le carrozze, hanno indovinato
facilmente dove il gruppo è diretto, e sanno dove trovarlo.
"Questi cani provocano!"
"Vanno a far festa alla loro villa di campagna!"
"Traditori e svergognati!" I due si montano uno con l'altro, con uno zelo molto sospetto. È balenata
alla loro mente di poveracci la casa incustodita da saccheggiare, e poi gli occhi ridenti delle
ragazze… E tuttavia, da soli non saprebbero prendere l'iniziativa.
Ma il tenente è un ittihadista fervente, un uomo colto, di città, che vuol far carriera e mettersi in
luce.
La convocazione degli armeni è in corso, e lui sa bene come andrà necessariamente a finire. Dove
va questa famiglia, che cosa trama? Chi è questa gente? E dov'è che vanno le carrozze?
Voci eccitate danno spiegazioni. "La Masseria delle Allodole? vicino alle cascate? " Gli pare
l'occasione giusta, da cogliere al volo senza dividerla con nessuno. Un po' di fantasia nell'agire, un
po di iniziativa… tanto, fra poco avranno mano libera, e questa gente così arrogante è già res
nullius, cosa di nessuno e di tutti… Intervenire in questo caso sarà una lezione e uno svago.
Così Ismail prende la sua decisione. Affida il distaccamento al suo sottoposto, un brav'uomo un po
rozzo che non fa domande, e corre con i due soldati che lo hanno avvertito alla caserma, dove
chiede altri dieci volontari per far la festa a un gruppo di ribelli, e promette un compenso. Poi, col
suo gruppetto, si arma e monta a cavallo.
"Venite con me" dice asciutto, "ci divertiremo. Ma fate piano nell'uscire dalla città. Non vogliamo
allarmare nessuno." Così, un'ora dopo l'allegro passaggio delle carrozze, vanno per la stessa strada i
tredici raffazzonati cavalieri, silenziosi, mortali.

Arsine, la vecchissima rivenditrice di stracci, però sta osservando. Ha visto Ismene, due ore fa, e si
sono sussurrate qualcosa. Ora sta in un angolo della scuderia del reggimento, immersa in certi suoi
traffici con uno stalliere; ma vede e sente, e capisce. D'altronde lo stalliere, Hiisnù, per la prima
volta, invece di venderle gli avanzi di stoffa degli ufficiali che rubacchia qua e là, glieli regala, e un
sussurro "Poveretta anche te!" si perde fra i folti baffi nella poca luce.
Arsine afferra gli stracci e corre via zoppicando. Sa dove trovare Ismene, e le altre donne: al
vecchio caravanserraglio abbandonato, sulla via di Marash.
Intanto gli uomini armeni sono tuttora alla prefettura.
Sono entrati alle tre, uno dopo l'altro, salutandosi con mani frettolose, negando la paura che aleggia
come una nube acida, cercando di ricondurre il fatto a qualche precedente rassicurante. "Quanto
vorranno?" domanda concitato Hagop il merciaio ad Arshag il fabbro; e "Eccellenza, che ne dite?"
chiede Melkon il pittore di icone al vecchio, ricchissimo Ashod Mendikian, con umiltà e fiducia.
Nessuno vuole pensare a qualcosa di peggio: c'è la guerra, dobbiamo tutti fare sacrifici. E tutti
fanno febbrilmente i loro conti in testa: tanto a questo, tanto a quello… il colonnello, il kaymakam,
il gendarme della mia strada… Una tassa è una tassa, sopravvivremo ancora una volta, e poi forse la
guerra finirà…
In mezzo a questi uomini filosoficamente rassegnati, che già si rassicurano e si consolano pensando
alla cena familiare dopo il salasso, alle mogli, ai bambini, al calore delle case, spiccano gli
industriali venuti dall'America: i quattro fratelli Fabrikanian, imponenti nelle loro finanziere, che
faticano ad accettare di nuovo questa, che credono solo una delle solite, lente contrattazioni
orientali.
Ma dietro le loro spalle, gli zaptié del kaymakam chiudono con insolita diligenza le porte, e ci si
piazzano davanti. L'assenza del farmacista viene notata, ma non desta allarme: Sempad è fatto così,
starà alla Masseria per gli ultimi ritocchi prima dell'arrivo di Yerwant, e non avranno fatto in tempo
ad avvisarlo. La sua distrazione per tutto ciò che non riguardi le sue pozioni e la sua Shushanig è
leggendaria: arriverà in ritardo ma nessuno, come al solito, se la prenderà con lui. È troppo
innocente, troppo spensieratamente generoso, troppo benvoluto.
Sempad nel suo semplice cuore in quel momento è lontanissimo da tutto ciò, è tornato felice. La
sorpresa di Shushanig arrivata con gli amici, la festa d'addio ai fratelli carpentieri, le sorelle con le
guance scintillanti per la corsa, tutti i figli insieme, il buffo travestimento di Nubar: tutto ciò lo
rassicura. Shushanig è il suo albero frondoso, se lei ha deciso che va bene così, lui scoppia di gioia.
Domani penseremo alla nuova tassa, sentiremo cosa voleva il kaymakam, e forse arriverà un ultimo
messaggio di Yerwant prima del nostro incontro pensa vagamente, e già si abbandona al piacere di
inaugurare la Masseria rinnovata con una privata festa a sorpresa, prima di quella solenne, prevista
dopo l'arrivo di Yerwant.
Manca solo di completare il lawn-tennis; ma una splendida serie di mazze da croquet è arrivata la
settimana scorsa dall'Inghilterra, e il prato è pronto, il bovindo, i vetri colorati, le seggioline
austriache di canna ricurva e paglia intrecciata, con un motivo di crocette blu e rosse alternate in
ogni riquadro. Luccicano le credenze a vetri, e le pentole in cucina. Si aspetta anche l'uomo col
pianoforte, da Vienna, che è partito dalla Capitale due giorni fa. Il suo telegramma è arrivato ieri.
Si aprono i cesti, si dispone la grande tavola sul prato.
Il pomeriggio è accecante di colori e di profumi. In cucina, Shushanig sovrintende al lieto
faccendare delle donne, ordina, risponde, consola. È nel suo ruolo: ma dopo l'effimera eccitazione
della corsa, ora il suo cuore si fa greve, le punte delle dita si intorpidiscono, un battito lieve alle
tempie le da il capogiro.
Si siede in un angolo della cucina; e in quel momento percepisce, nella tasca profonda, il peso dei
gioielli e delle monete che vi ha riposto qualche ora prima.
"Quanto tempo fa, e perché?" si chiede, come svagata.
In quel momento Sempad entra in cucina cercandola, la vede e le posa una lieve mano sui capelli:
"Ah, moglie mia, che sai sempre come rallegrarmi" dice festoso; e aggiunge un loro antico scherzo
segreto, dimenticato da tanti anni: "Se i tuoi capelli fossero perle, e le tue mani diamanti, come sarei
ricco, anima mia… potremmo fuggire lontano".
Per tutta la strada infame Shushanig rigirerà in bocca queste parole, e ne trarrà conforto. Non può
vincere, il male, se il bene esiste: neghiamo questo presente, neghiamo che esista, e tornerà la voce
di Sempad, in quella infinita di Dio…
In quel preciso momento il drappello di cavalieri si arresta davanti alla Masseria. Il cancello è
aperto. Per un attimo luci, suoni, colori li bloccano, e un disagio imprevisto li prende. "Domani,
domani" bofonchia uno dei due soldati che hanno denunciato il passaggio delle carrozze, e si
strofina le mani sui pantaloni, incerto e intimidito.
Ma l'ufficiale sceglie un opportuno furore: "Fanno festa, i cani, sulle nostre sconfitte" esclama.
"Aspettano i russi…" E poi, ecco, nel crepuscolo che si sta infittendo, compare la stella della sera. E
allora, mentre il profumo delle rose rosse e dei gelsomini rampicanti si diffonde nell'aria con
inebriante malinconia, si sente Hrant che accorda il duduk sul piccolo palco per i suonatori, sotto i
tre grandi platani al bordo del prato, e prova una nota lunga, prolungata, tenerissima.
Ma la nota si spegne con un sordo singhiozzo. Silenziosi, gli uomini si sono sparpagliati all'interno,
nel giardino: e un coltello ben maneggiato ha tagliato la gola di Hrant da un orecchio all'altro.
Levon Yakovlian, l'ispettore-postino, che sta preparando la sua macchina per una foto-ricordo, a
giusta distanza dalla tavola, fa la stessa fine, e si accascia senza una parola, con i miti occhi
rovesciati, bianchi sull'erba che si inzuppa pian piano di sangue.
Come avviene una strage? Quale liquore diventa il sangue, come sale alla testa? Come si diventa
assetati di sangue? Chi lo gusta, si dice, non lo dimentica. In pochi istanti, il gruppo si è trasformato
in una banda da preda, e con felina scioltezza si è avvicinato a tutte le porte: la porta grande di
ingresso, quella della cucina sul retro, le due portefinestre del salotto, col bovindo e i nuovi vetri a
piombo inglesi. La casa si offre all'ospite, senza difese, innocente come Sempad, il suo padrone.
Sempad e Shushanig sono ancora in cucina. Lei è seduta, lui in piedi dietro di lei. In quel momento,
tutti si accorgono di tutto: i soldati con le lame scintillanti compaiono su tutte le porte come demoni
troppo reali; il tenente dietro di loro entra in casa, attraversa il salotto, si fa sulla porta della cucina,
guarda in giro con un odio così netto che tutti lo sentono come uno schiaffo, e ordina:
"Voi traditori, cani, rinnegati. Avete disubbidito all'ordine del kaymakam, ma io vi ho trovato, e ora
sarete puniti". Sempad lo guarda, e non capisce; Shushanig capisce morte, e strage. Tenta di alzarsi,
per fare un gesto di ospitalità che disarmi l'ufficiale; non sa ancora che Hrant e il fotografo sono già
morti, fuori.
Ma Ismail l'ufficiale non la guarda neppure. Secco, riprende, rivolto ai suoi: "Prendete tutti i
maschi, e portateli nell'altra stanza" Come pesci nella rete, incapaci di uscirne, Sempad e l'attonito
Krikor (che grida invano: "Sono medico, e il dottore qui è farmacista: non potete toccarci…")
vengono spinti in salotto, con i gemelli carpentieri, Isacco il prete greco e tutti gli altri. Suren, che
era al piano superiore, malinconico, a contemplare il tramonto, sente il baccano e scende, composto,
silenzioso.
Si mette al fianco del padre e attende. Anche gli altri bambini maschi, Leslie, Garo, James figlio di
Vartan il sagrestano, Rupen il figlio del giardiniere, vengono condotti nel salotto, allineati in piedi
sotto la festosa decorazione della tappezzeria a motivi floreali appena completata.
Le donne, e le bambine, vengono spinte brutalmente a ridosso della parete di fronte. Shushanig è
immobile, e guarda i suoi cari. I suoi occhi dilatati non esprimono niente, le mani sono sprofondate
nelle tasche e tengono stretto il piccolo tesoro. Veron e Azniv le stanno a fianco, stringendo forte le
bambine e appoggiandosi a lei in un gruppo apparentemente composto. Niente gesti eccessivi, o
lamenti: si direbbe che le donne cercano di scomparire nella tappezzeria.
Solo Nevart, accasciata in un angolo, sola, si lamenta sommessamente; e stringe Nubar, vezzoso
nella sua vestina rosa.
E così si compì il destino di Sempad e dei suoi.
Lame balenarono, urla si alzarono, sangue scoppiò dappertutto, un fiore rosso sulla gonna di
Shushanig: è la testa del marito, decapitata, che le viene lanciata in grembo.
Nella sua gonna, sotto il grembiule da cucina a crocette con motivi pasquali di cui Shushanig è
assurdamente orgogliosa, si nasconde Henriette, che solo da qualche mese ha cominciato a parlare
veramente, e chiacchiera sempre, raccontandosi storie e nascondendosi dappertutto, come un
topolino canoro. Ora un getto di sangue caldo schizzato fuori dalla testa del padre la bagna tutta,
attraverso il grembiule, inondando la calda oscurità del rifugio materno. Un odore foltissimo
cancella tutti gli altri, la bocca aperta della piccola si riempie di liquido, più caldo della mamma,
come un fiume orrendo che circonda nero il suo piccolo cuore, e lo travolge.
Henriette non parlerà mai più la sua lingua materna, e in ogni altra lingua, come in ogni paese del
mondo, si sentirà per sempre straniera: qualcuno che ruba il pane, fuori posto dovunque, senza
famiglia, invidiando i figli degli altri. Arrotolata su se stessa nel buio, piangerà ogni notte, ogni
notte, sopravvivendo: finché si rifugerà in una quieta ebetudine, tronco vivente che attende passivo
il ritorno della patria perduta, con la luce di Dio e lo sguardo innocente del padre.
Garo giace composto col suo bel sorriso, tenendosi con le manine il ventre squarciato. Leslie, a
quattro zampe, velocissimo, cerca di rifugiarsi sotto la credenza scintillante di cristallerie, ma viene
tirato fuori per i piedi e scagliato contro il muro, dove la sua testolina rotonda si schiaccia come un
cocomero maturo, spargendo sangue e cervello sui delicati motivi floreali. Così nascono i fiori di
sangue del calvario armeno.
Suren, ferito a morte anche lui, non ha che un'idea nel cuore: coprire la vergogna del padre
decapitato, che continua a fiottare sangue dal tronco scivolato contro il muro. Quanto sangue c'è in
un essere umano… Le piccole mani operose, assurdamente bianche, del farmacista giacciono a
palme in su, come in una Deposizione, chiedendo invano pietà, pietà di essere esistite. Ma il
ragazzo riesce infine ad avvicinarsi al padre e a ripiegarsi su di lui per morire, coprendo col suo
corpo il tronco decapitato, quasi a domandargli perdono.
Krikor il medico, che ha tentato di protestare, viene lasciato per ultimo. C'è una logica nei carnefici.
Così egli riesce a dire anche, indicando Isacco: "Lui non c'entra. Non è armeno". (Ormai tutti hanno
capito che non si tratta di una banda di predoni, che alla gente alla prefettura non andrà meglio, che
è proprio per gli armeni che Dio si è velato e le nubi sanguigne galoppano per il cielo.). E infatti il
tenente, che in mezzo al carnaio che si sta compiendo continua, lucidissimo ed esaltato, a dare
ordini e a indicare con la punta della sciabola le vittime, lo tira fuori dall'angolo in cui si era
cacciato e con un calcio lo spedisce fuori, incolume. Ogni giorno della sua vita Isacco chiederà
perdono di non aver condiviso la sorte dei suoi amici armeni, di non essersi almeno fermato a
benedirli, com'era suo dovere; e le sue preghiere ogni giorno saliranno al trono di Dio per questo,
finché nel 1923, nell'incendio di Smirne, sarà il suo destino di greco a compiersi, con onore,
insieme a quello di Ismene. Spogliato, a Krikor vengono tagliati i testicoli, con grande divertimento.
"Era il tuo amante?" irride il tenente quando Shushanig e le altre donne lanciano un grido; ma l'urlo
di agonia di Krikor si interrompe bruscamente quando glieli ficcano in bocca. Quegli occhi un
tempo così ironici e saggi ora si dilatano spaventosamente, e Shushanig nella sua concentrata
agonia pensa che vorrebbe avere uno spillone per ucciderlo pietosamente.
Ma Krikor - vivo! - e i morti vengono trascinati fuori e gettati nella buca scavata per il tennis, fresca
e odorosa di terra appena smossa. Anche le donne vengono spinte all'esterno, alla rinfusa, perché
assistano.
Il tenente sorridendo dice: "Fate sedere la signora della casa, e toglietele quella testa dal grembiule"
(Lei nel frattempo ha chiuso delicatamente gli innocenti occhi spalancati di Sempad.) "Non siamo
selvaggi, le abbiamo liberate. Ora ci sbarazziamo dei corpi e poi potremo cenare. I maschi della
vostra infame razza sono colpevoli e vanno eliminati perché, se ne sopravvivesse anche uno solo,
poi vorrebbe vendicarsi. Ma voi siete donne…" Sotto, giace Sempad, con la testa malamente
riaccostata al corpo, premuta a faccia in giù nella terra.
Sopra, con gli occhi invetriati di un gelo di morte, giacciono uno sull'altro i due gemelli, che non
vedranno mai l'America dei loro sogni; e il padre per anni scriverà a tutti i sopravvissuti, sperando,
paziente, perché nessuno li ha visti morire. Con gli occhi chiusi giace Garo il grande, abbracciato a
Garo il piccolo che non è riuscito a proteggere, stringendolo in una morsa disperata con le forti
braccia inutili, che la morte non ha dissuggellato. Sopra di lui nella buca viene gettato Vartan il
sagrestano cattolico, e con lui, col petto squarciato, il figlio, che il nome esotico - patetico scongiuro
alla sorte - non ha preservato.
Febbrilmente, ma con ordine, vengono accatastati i cadaveri; e lavorando, uno dei soldati osserva -
ma è l'impressione di tutti, compreso il tenente: "Però, si trattano bene, questi infedeli!" Il suo
compagno replica, ridendo forte: "Si trattavano, grazie a noi; e ora, le loro donne profumate sono
tutte nostre" La banda pregusta la violenza che seguirà, occhieggia imparzialmente donne, ragazze e
bambine, pensando che ce n'è per tutti. E poi, le butteranno via, alla fine. La notte è lunga. Intanto,
cominciano con lo sfasciare imparzialmente i vetri del bovindo e le cristallerie.
Invano il Cavaliere e la sua Dama dalle vetrate diffondono esotica bellezza: sono presi di mira con
odio, sfregiati a sassate. E i delicati fiori inglesi dei finestrini laterali vengono perforati con le
sciabole, sistematicamente, oppure colpiti a pistolettate, in una gara improvvisa, che scoppia in
mezzo a un tripudio di chiassosi rumori.
Ma in città, lontano dalla villa contaminata, Arsine, Ismene e le altre si danno da fare come
formiche operaie.
Ismene ha saputo da Arsine della spedizione alla Masseria, e ha capito che la villa è diventata una
trappola mortale. Vorrebbe correre là, con le altre, invocare vituperi e maledizioni sugli aggressori,
spaventarli, da quei vigliacchi che sono (è assioma di Ismene che gli uomini, in generale, presi uno
alla volta sono davvero tutti poco coraggiosi) Ma poi riflette che probabilmente il tenente farebbe il
miscredente e l'uomo forte, per mantenere la sua autorità; non sottovaluta l'avidità della truppa, la
facile crudeltà verso gli inermi, e indovina il suo vero movente, l'esibizione di zelo antiarmeno, e di
iniziativa personale, rivolti al potente triumvirato che comanda nella Capitale.
Allora manda alla Masseria tutte le altre donne, lamentatrici, vedove, le vecchie dei cimiteri, a far
chiasso. L'idea - disperata - è che arrivino in massa, per sconcertare, dar fastidio, testimoniare. Lei,
Ismene, corre dal colonnello, che la conosce, come tutti. Lo prende da parte con un sussurro, gli
mette in mano una bella pietra, un lapislazzulo, del tesoretto di Shushanig, e lo avverte che un suo
subordinato, il tenente Ismail, quel forestiero, ha abbandonato il posto alla prefettura ed è corso con
un gruppo di volontari alla Masseria delle Allodole, proprio dal suo amico, il farmacista Sempad.
"È gente ricca, quella, Effendi" sibila Ismene "sarebbe un vero peccato…" Non ci vuole molto di
più per mettere in furore il colonnello, che giusto stava pensando di mandare a cercare Sempad per
portare avanti il lucroso discorso impostato qualche giorno prima. "Il messaggio del cugino era
tempestivo" pensa il colonnello; "adesso Sempad sarà davvero spaventato, e quindi più facile da
mungere…" Ormai egli ha saputo che una strage di armeni è in programma; ma, da uomo all'antica,
che ragiona come ai tempi del Sultano Rosso, non ne ha capito le implicazioni e la dimensione, e
crede ancora che, nel mazzo dei poveri cristi armeni convocati ed eliminati, di cui non importa nulla
a nessuno, si potrà scegliere di salvare qualche pollo bello grasso: una privata assicurazione sulla
vita… L'entità delle fortune armene non sfugge al suo occhio acuto, aiutato dalle sue spie ben
pagate, come Nazim lo zoppo. Sa perciò dove e quanto può bussare a denari.
Ma se quel cretino zelante di Ismail ha preso Sempad?
Il colonnello da un ordine, e monta a cavallo.
Lo segue un nutrito drappello di cavalieri, tutti uomini di cui si fida. Siamo in tempi pericolosi,
bisogna coprirsi le spalle.
E fu così che - nel bel mezzo della loro furiosa ebbrezza - Ismail e i suoi dodici seguaci furono
sorpresi da un ordine secco, pronunciato con una terribile, gelida voce dal colonnello, appena un
tono più su del normale, ma appoggiato da una furibonda scarica di fucileria.
Sulle stesse porte in cui erano comparsi gli assassini, si stagliano ora, non più rassicuranti alla vista
ma infinitamente benvenuti, armi in pugno, gli uomini del colonnello, il quale fa disarmare Ismail e
il suo gruppo. "Con l'accusa di insubordinazione" pensa "li spedirò tutti a Damasco, a tenere
compagnia a quel l'altro imbecille di tenente seduttore. Qui comando ancora io."
"Ma dove sono questi altri imbecilli di armeni?" Si guarda in giro, e non vede nessuno. Ma fiuta il
sangue.
Allora esce per la porta posteriore, e trova Shushanig, seduta rigidamente su una delle nuove,
eleganti seggioline di paglia di Vienna; e intorno a lei le altre donne della famiglia, solo donne, che
lo guardano con occhi immobili. È un quadro di tragica, inerme compostezza femminile che fa
capire immediatamente l'accaduto all'ufficiale. "Gli uomini non ci sono, dunque li hanno già
uccisi…" La sua prima reazione è di puro dispetto. Poi lo sguardo gli corre alla buca del tennis, ai
corpi scomposti; e una zaffata dolciastra lo colpisce. In superficie; col volto sfigurato da un colpo,
un buco al posto del naso, il mite, gentile, correttissimo Levon Toumanian, che tante volte gli ha
illustrato le sue scoperte sulla flora d'Anatolia, guarda il cielo a braccia aperte, la camicia fuori dai
pantaloni; gli occhiali assurdamente intatti, scivolati fra i capelli, riflettono la luce del crepuscolo.
Il colonnello è un uomo ragionevolmente onesto, ragionevolmente umano, mediamente corrotto. Il
suo mestiere è la guerra, ma non ama le stragi. È abbastanza avido, e perciò non fanatico: il fanatico
uccide per suo piacere, o per culto di un'idea, il sangue lo trascina ad altro sangue…
E poi il colonnello si vergogna di fronte a Madame Sesostris, a cui Sempad è simpatico, e che lo
accuserà certo di inettitudine:
"Fra le tue truppe, dietro le tue spalle…". In fondo al cuore, e anche di questo si vergogna come di
un'inefficienza militare, il colonnello conosce i vantaggi della tolleranza, capisce che è il giorno più
funesto per un paese quello in cui, per sentirsi unito, sente il bisogno di eliminare una parte dei suoi
cittadini, inermi.
Shushanig pietrificata, con intorno le sue bambine, le cognate, la vecchia Nevart e la cuoca Araxy,
sollecita poi il suo onore maschile di gentiluomo di fronte a una gentildonna, e il disprezzo per il
rozzo tenente con le sue idee "modernizzanti". Si sente uomo del vecchio regime, del vecchio
Impero: capisce che la sua carriera è finita a questo capolinea di orrore, che il suo cuore non sarà
mai più lo stesso, e accetta. Accetta infine di schierarsi, di rischiare, perché non tutto sia perduto,
perché il suo popolo non debba vergognarsi di tutti i suoi capi.
E così, con un gesto di antica nobiltà, porge il braccio a Shushanig, la solleva benigno. Con un
cenno imperioso, fa ricondurre le carrozze e le sussurra paterno di ritornare in città, che la farà
scortare.
Poi, con rispetto, le dice: "Confidate in me. Li farò seppellire io, chiamerò un prete, me ne occuperò
personalmente. Ma voi tornate a casa, sono tempi calamitosi" Shushanig, spezzata, lo segue fino
alla carrozza.
Non piangerà che in quell'ora, tornando indietro; e poi, mai più. Durante la deportazione, sarà dura
come una leonessa.
Rimasto solo, il colonnello si avvicina al tenente Ismail e, pistola in pugno, lo costringe con i suoi a
tirare fuori personalmente i cadaveri dalla buca, a disporli sul bordo in fila, a chiuder loro gli occhi.
Quando scopre Krikor, lo scettico, leale amico di tutti, e vede che si muove ancora, la sua ira
diventa plumbea tristezza, e pesante dovere. Con mano ferma taglia il legaccio infame che gli
comprime la bocca, gli chiude gli occhi con la sinistra e sussurrando:
"Vecchio amico, perdona" gli spara un colpo di pistola alla tempia.
E dice ad Ismene, che lo ha raggiunto con le altre donne: "Piangete, voi che sapete farlo. E che Dio
abbia pietà di noi".

PARTE SECONDA

Shushanig

Appena fuori dalla Masseria, le carrozze vengono circondate dalle donne di Ismene, che non sanno
bene cosa fare, se non esercitare il loro mestiere: la compassione nel lutto.
L'aura nera che avvolge le donne di Sempad non lespaventa ancora: offrono grida, lamenti, spalle su
cui piangere. Cenciose, sempre evitate da tutti, le vecchie dei cimiteri si schierano un po a distanza,
in un cerchio irregolare, in riguardoso silenzio. Il loro momento verrà, e così, pensano, i doverosi
banchetti funerari, il momento di riempirsi per bene la pancia. È l'orizzonte limitato del povero.
Tutti guardano Shushanig, ma Shushanig non vede nessuno: piange come Niobe, immobile, senza
muovere il viso, ghiacciata, inarrestabile. Allora è Azniv che si scuote, Azniv maturata in un'ora,
che conta febbrilmente i superstiti, che qualcuno non sia rimasto dentro la villa: e scopre dietro
Henriette singhiozzante, orrendamente impiastrata di sangue, il visetto attonito di Nubar-vestito-da-
donna, con il suo abitino di seta frusciante, la bambina graziosa che è l'unico maschio
sopravvissuto. Azniv giura a se stessa che lui, lo farà sopravvivere; ci riuscirà, con quell'energia che
scopre vibrare dentro di sé, e tendersi inflessibile, indomabile.
Prende le redini del cavallino, si guarda intorno. In quel momento, vede Ismene vicina al calesse di
suo nipote Georghios, con cui è arrivata. "Entra in carrozza, consola Shushanig" le ordina Azniv, e
Ismene, che ha capito al volo, risponde con rispetto: "Subito. Ma prima lasciami mandare dentro le
donne. I vostri poveri cari devono avere una sepoltura cristiana, o io non sono più Ismene".
Contente di essere impiegate, le vecchie dei cimiteri e le lamentatrici iniziano la loro lugubre nenia,
e si avviano in fila indiana verso l'ingresso della Masseria.
Nel crepuscolo che si offusca di colori notturni, esse accendono le loro lampade antiche e sfilano,
cantando imparziali per tutti i membri dell'oscura razza umana.
Un gruppo di luci circonda Hrant il suonatore, che giace sull'erba, un altro, Levon il postino-
fotografo: i corpi vengono ricomposti, gli occhi chiusi; poi, con efficienza e brusca familiarità sono
portati in casa e allineati insieme agli altri sul bordo della buca del lawn-tennis.
Là le donne circondano i massacrati, ognuna con la sua lampada, si prendono per mano e
cominciano solennemente il rito intangibile. Ancora per questa volta: Sempad e i suoi avranno
sepoltura cristiana. A tutti gli altri armeni che perderanno la vita in quei mesi funesti, trucidati,
torturati, morti di sete e di fame lungo le strade anatoliche, con scherno coerente sarà negato anche
ogni funebre rito. O meglio: non ce ne sarà bisogno. Un singolo morto era prima un essere che
respirava, era vivo, e la sua spoglia è un cadavere che può essere onorato: centomila morti sono un
mucchio di carne in putrefazione, un cumulo di letame, più nulla del nulla, un'immonda realtà
negativa di cui disfarsi. r Ma là, alla Masseria, fa presto Ismene ad accorgersi con la coda
dell'occhio di un'ombra che scivola negli angoli oscuri della terrazza, e va a colpo sicuro:
"Vieni fuori, prete Isacco. Come mai tu sei vivo?" lo apostrofa bruscamente.
E Isacco folgorato risponde: "Mi ha salvato il dottore, Krikor. Ha detto che non ero armeno". Poi la
vergogna lo accascia in ginocchio.
Ismene non ha tempo per i suoi turbamenti: "Sei vivo, sei prete. Cosa aspetti?" prorompe; e poi lo
guarda negli occhi ciechi, pieni di miseria e di sottomissione, e lo prende per la mano, facendolo
rialzare: "Vai dentro, Isacco. Dio ci vede tutti; ma tu sei prete, e li devi benedire. Che almeno siano
sepolti in pace, e le loro anime benedicano noi. Il colonnello ti aspetta".
Racconsolato, Isacco si unisce alle lamentatrici, e la sua bella voce presto si innalza, forte e sicura,
nella liturgia dei defunti: "Che siano benedetti coloro che ritornano a Te con le anime purificate,
attraverso il rosso velo del martirio… coloro che hai creato con mani immacolate… Gustate e
vedete che il Signore è soave… benedite il Signore nei cieli, voi che ora lo vedete, voi che Egli ha
creato con mani immacolate…".
Il controcanto delle donne riempie la notte di strida e urla laceranti, che man mano si acquietano di
fronte alla melodia ritmica, ipnotica della voce di Isacco, fino ad armonizzarsi in quel possente
mormorio scandito che da sempre avverte tutti in città del sopraggiungere del corteo delle
lamentatrici.
Ma qui solo la notte ascolta; e le luttuose creature che si stringono nelle carrozze, come un blocco di
carne tremante che da e riceve quel po di calore per riuscire a sopravvivere. Al centro, murata fra i
corpi caldi che la circondano, Shushanig continua a lacrimare immobile, emanando gelo.
Nell'angolo, Henriette è dimenticata - e dimentica. Il suo piccolo cuore inondato di sangue si è
perso nel buio.
Ora Ismene arriva. Il colonnello le ha ben volentieri affidato le incombenze funebri, e ha lasciato
due soldati per seppellire i morti, al più presto, nella buca del lawn-tennis appena scavata, che
sembra fatta apposta.
Il prete Isacco, che è greco e non armeno, ma che sempre cristiano è, viene giusto al caso, e
frettolosamente si è deciso che può lui stesso benedire la terra, e farla diventare terra consacrata, e
occuparsi dei corpi.
Perché tutti hanno fretta di andarsene. Il colonnello vuole usare la sua autorità, finché ce l'ha, e
pròcessare il tenente, o almeno allontanarlo. Ma che fare con il gruppetto che l'ha accompagnato?
Quelli sono soldati suoi, non conviene metterseli contro, bisognerà perdonarli e far finta di niente;
impiccarli, come si dovrebbe, è fuori discussione.
Ismene vuole salvare ciò che resta della famiglia.
Febbrilmente, fa e disfa piani chimerici, sempre più consapevole che l'ora dei cristiani di Turchia,
non solo degli armeni, è suonata. Intanto, monta a cassetta sulla carrozza grande, Azniv sull'altra, e
lentamente ritornano in città.

Nel quartiere, sussurri e sussurri. Gli uomini non sono ancora tornati; qualcuna delle vecchie ha
detto che sono stati visti, in colonna, e accompagnati da soldati con le baionette inastate, davanti
alla porta del Magazzino del Sale, un vecchio edificio vuoto da tanti anni. L'arrivo delle carrozze
non desta particolare curiosità, ma subito qualcuno arriva a cercare Shushanig, per consigliarsi, e
viene informato. La rete di sussurri e di orrore si infittisce, e scuote tutto il quartiere: ma nessuno sa
bene cosa fare.
Senza i loro uomini, con il peso dei vecchi e dei bambini, le donne inclinano al panico, ma sono
pronte a credere a qualsiasi voce rassicurante, e soprattutto a non cedere alla disperata verità - se
pure gli venisse in mente.
È per questo che il piano procede senza intoppi, senza vere ribellioni da parte di questo popolo così
docilmente sciocco. A tarda sera appaiono le solite guardie, in compagnia di un banditore che
proclama che le famiglie armene hanno trentasei ore per lasciare la città e i loro beni, con tutti i
membri delle loro famiglie, senza eccezione. "Il governo vi sposta per proteggervi meglio; le vostre
case, i vostri negozi saranno affidati all'esercito."
"E gli uomini? Dove sono gli uomini?" grida un gruppo di donne affannate (e già si pentono del
tono minaccioso) "Buone, buone; vi raggiungeranno fuori città, perché se foste insieme, furbi come
siete voi armeni, potreste tentare di imbrogliarci, di nascondere i vostri soldi invece di affidarli al
padre di noi tutti, il kaymakam." Questo è infatti precisamente quello che ogni famiglia si mette a
fare. I soldi possono essere la salvezza, sono sempre salvezza. In ogni casa, in ogni cucina, dalle
scatole di latta, dai vecchi portafogli, da tasche segrete escono biglietti di banca, monete d'oro e
d'argento, talleri di Maria Teresa e sterline di Vittoria Regina, perfino antichi fiorini e rari, rotondi
zecchini veneziani; escono pietre preziose di tutti i colori, sassolini luminosi che riscaldano,
illuminano un po' le affaticate mani femminili che li maneggiano.
In quella frenetica nottata i bambini - che vedono per la prima volta gli adulti persi, confusi, agitati,
tanto che discutono di cose importanti senza mandarli via - contemplano attoniti lo scintillio delle
pietre, dell'oro, dell'argento, e capiscono, di colpo, mentre una sorda paura gli stringe il cuore.
Vorrebbero parlarne con i loro padri.
Ma i padri non tornano. È notte fonda ormai, e nessuno pensa a dormire. Svogliatamente i bambini
vengono messi a letto; ma, tranne i più piccoli, si alzano subito di nuovo, silenziosi, senza piangere,
per stare vicini alle madri, alle nonne, di cui percepiscono lo sgomento, la disperazione. Svelte mani
femminili cuciono tasche segrete, sacchetti misteriosi, dove sprofondano le pietre luminose, gli
zecchini dorati.
Altre mani impastano, scelgono, radunano cibo e pane, mele rotonde e pere secche, fichi e biscotti;
ma non c'è niente di allegro in questo affaccendarsi, e i bambini non si ingannano, fiutano la paura,
la minaccia, la morte.
Azniv prende il comando. Loro non aspettano nessuno, i loro uomini se ne sono già andati.
Shushanig e Veron, abbracciate, siedono inerti di fronte al fuoco, fissando nelle fiamme i volti vivi
dei loro amati, e cercando riposo per le menti disperate.
Azniv sorride di se stessa e del tenente Djelal che l'amava, e che è scomparso così
improvvisamente; adesso capisce i discorsi di lui, la frenesia di portarla lontano. Ora, provvida,
combattiva, dispone per il piccolo gruppo dei familiari viventi. Non c'è che la cuoca, Araxy, per
aiutarla; e Madame Nevart che piagnucola sottovoce in un angolo. Le fiamme danzano nel suo
cuore, che diventa più forte a ogni minuto che passa, nutrendosi della debolezza degli altri. Si sente
la figlia d'Armenia, l'eroina delle leggende. Lei li salverà, ha la forza e il coraggio per farlo.
Ora tu, ragazza Azniv, tu lascerai le tue ossa danzare al vento dei morti per salvare i bambini, e
Shushanig; tu ti offrirai al soldato, e al cavaliere curdo, tu riderai follemente, drappeggiata nella
pezza di seta rossa con le rose di velluto e fili d'oro zecchino, quella che ti mandò Zareh per la festa
di Pasqua… tu eroica, generosa creatura che ti lascerai infine morire, contaminata, ad Aleppo, con
la pesante treccia ancora viva giù per le spalle, avendo compiuto la tua missione…

La notte è passata, e degli uomini non c'è traccia.


Nessuna famiglia li rivedrà più. Molti anni dopo, finita la passione degli armeni e la guerra
mondiale, nella Turchia disfatta dalla sconfitta sarà scoperto il loro destino: fatti uscire di notte dal
Magazzino del Sale, dove qualche donna si era avventurata a portare del pane, ed era tornata
tranquillizzata, vennero uccisi l'uno sull'altro nella Valle delle Cascate, dove i cadaveri insepolti
rimasero a fissare il cielo con le orbite vuote, nudi e privati di tutto, anche della maestà della morte.
E così l'indomani mattina il Magazzino era vuoto, come constatò Ismene che era corsa là all'alba,
dopo aver perlustrato tutto il quartiere e sguinzagliato le sue donne dappertutto. Solo, infilato su un
paletto di legno che serviva anticamente per agganciare i carri del sale, un foglietto intestato alla
ditta Andonian Frères. Robinetteries et Pompes oscillava nell'aria, e quasi Ismene non se
n'accorgeva, finché un refolo di vento lo sollevò gentilmente e lo depose proprio ai suoi piedi. Là,
frettolosamente vergato a matita, il messaggio: "Sono venuti a prenderci. È notte buia. Ci portano a
morire. Chi trova questo foglio, in nome di Dio Misericordioso, avverta le nostre famiglie e preghi
per le nostre anime". Ma Ismene non leggeva l'armeno; si infilò il foglietto in tasca per farlo vedere
ad Azniv, e poi se ne dimenticò. Ismene non era donna da parola scritta. E tuttavia subito seppe,
anche senza leggere, che tutti gli uomini erano scomparsi: e decise di non parlarne con nessuno, e di
tornare da Shushanig. Nel Magazzino l'aria era livida, e aveva l'odore acido della paura mortale.
Con l'arrivo dell'alba livida e sanguigna, pare per un poco che nelle case del quartiere armeno
subentri una torpida apatia. Monete e gioielli sono scomparsi col finir della notte, occultati in mille
ingegnose patetiche forme: cuciti come bottoni sui vestiti, divisi e suddivisi in modo che la scoperta
di parte del gruzzolo non implichi perderlo tutto, fissati dentro l'orlo delle vestine dei bambini o in
sacchettini nelle folte trecce delle bambine.
Intanto, bambini e bambine si sono appisolati, stanchi, dove capitava; e gli adulti si riposano un
momento, si riuniscono a prendere un caffè e un bicchiere di dolce-del-cucchiaio, scambiano
opinioni e cercano di combattere il panico organizzando le carovane.
Molto ascoltati sono i vecchi, che dovranno partire anche loro ("senza eccezione" ha detto il
banditore) e che possono dare testimonianza sui massacri del 1894-96, aiutare coi ricordi, limitare
lo spaventoso vuoto che circonda il futuro, dare consigli, suggerire norme; tutti pensano ancora che
la tradizionale cortesia ottomana verso la saggezza degli anziani li risparmierà, magari saranno loro
che potranno impetrare rispetto e conforto per donne e bambini, finché le famiglie non si riuniranno
con i loro uomini, giù verso Aleppo. Una meta.
Ci si divide i compiti, si fanno inventarii di risorse.

Una giornata fa presto a passare, domattina dobbiamo essere pronti per partire all'alba. E allora, una
frenesia di formiche: contare e riunire tutti i mezzi di trasporto, sistemare sui carri materassi e
coperte, le suppellettili, il cibo, i vestiti; non dimenticare nulla, provvedersi di disinfettante e di
medicine… Ma i medici non ci sono più, e la vecchia Serpuhi l'ostetrica fa quello che può.
Sentendo la sua voce in cucina, che parla con Azniv, Shushanig improvvisamente si raddrizza. Si
scioglie gentilmente dall'abbraccio molle di Veron, le liscia i capelli, poi si alza in piedi, si fa il
segno della croce, e dice: "Sono qui. Mettiamoci al lavoro. Dov'è Ismene? Date da mangiare ai
bambini. A che ora dobbiamo partire? Intanto, io vado a cambiarmi" Prende Henriette per mano, la
sua bambina che ha condiviso con lei l'orrenda esperienza del sangue di Sempad, e le cambia i
vestiti, delicatamente, toccandola per rassicurarla. Henriette lascia fare, inerte come una bambola.
Shushanig sospira, e la bacia in fronte; poi fa un mucchio dei loro vestiti e li va a gettare nella
capace stufa del pianterreno, che accende con composta lentezza. Un odore acre e dolciastro si
diffonde, lugubre, per l'intera casa.
Tutti annusano l'aria, capiscono e si segnano in fretta. Questo fu il commiato di Sempad e del suo
semplice cuore dalla casa che amava: un filo di fumo denso nell'aria, diritto come un dito a indicare
l'antica patria perduta, un odore a cui non si poteva sfuggire, che si attaccava alle pareti e rendeva
disgustoso il respiro, un ricordo da allontanare per sopravvivere.
Si affaccia in quel momento alla porta, ormai lasciata incustodita, violata, Nazim lo zoppo, il
mendicante spia del kaymakam, che è stato appena reclutato da Ismene per fare il doppio gioco.
Non è facile entrare nei suoi pensieri. "Saper parlare a tempo è la virtù dei mendicanti e dei re" ama
ripetere sentenziosamente, tabaccando dalla logora scatoletta di cuoio che gli ha regalato Sempad
tanto tempo fa.
"Era quasi nuova" ricorda improvvisamente Nazim; e sente vacillare il suo mondo, pensando che
Sempad non c'è più. Così, nella sua vecchia mente ossessiva, al calore nel fondo della tasca della
brillante pietra colorata che gli ha dato Ismene, promettendogliene altre, si aggiunge la sorda paura
di aver perso alcuni dei suoi protettori più assidui, e di non essere più libero come l'aria, con questo
segreto degli armeni addosso, con questo odore appiccicoso dappertutto.
Ismene gli ha parlato a tempo. Ora Nazim, a modo suo, prima di andare dal colonnello e in giro a
fiutar l'aria, è venuto a vedere Shushanig, la padrona: e la trova infatti in cucina, che da ordini. Tutta
la casa risponde alla sua voce imperiosa.
"Nazim, che Dio sia con te, eccoti del pane" dice Shushanig appena lo vede; e il cuore disseccato di
Nazim da un balzo improvviso, gli pare che Dio sia davvero vicino a lui in quel momento; prende la
mano fredda di lei e se la porta alla fronte, alle labbra, al cuore, e scandisce lentamente: "Da ora in
poi sono il tuo servo, Valide Hanum. Io sono polvere della strada, ma spero di essere su quella
strada che tu dovrai percorrere, e di rendertela più lieve". Nazim sa tutto del programma di
sterminio; non è facile vederlo quando ascolta.
Ma in questo momento si sente cavaliere di Harun-al-Rashid, leale combattente sotto le mura di
Gerusalemme; si raddrizza e sorride ampiamente dalla bocca sdentata.
Ah Shushanig, dolce parente, se tu gli avessi chiesto in prestito la sua capanna! (così si salvò il
bambino Nishan, il minore dei Tachdjian) Ah Veron, ragazza d'oro dal cappellino buffo, se ti fossi
nascosta fra le sue mogli! (perché Nazim aveva due mogli, grasse, sudice e indolenti, e una
capanna) Azniv, bruna bellezza, se tu fossi fuggita col tuo Djelalà (ma Djelal è al quartier generale
di Djemal Pascià, ad Aleppo, e si diverte parecchio). Intanto Nazim fruga in una delle sue saccocce,
e tira fuori una busta gialla, con molti timbri. "C'è una lettera, padrona, viene dalla città. Il postino
non c'è più." E qui s'imbroglia, non riesce a dire che è diretta a Sempad. È il telegramma di
Yerwant.
Shushanig prende la busta, e la fissa senza capire.
La apre accuratamente, con l'elaborato tagliacarte del nonno che è sempre pronto nell'ingresso. Le
parole di Yerwant danzano incomprensibili davanti ai suoi occhi stanchi: l'Italia entra in guerra…
Yerwant non viene… tutto per nulla… tutto per nulla… Poi ricorda il gioco che soltanto ieri faceva
con Sempad, e ha un singhiozzo secco, penoso. Il suo orizzonte si sta restringendo bruscamente,
come se la sua anima luminosa bruciasse dai margini, affondando piano piano in un'ombrosa
voragine nera.
Abbandonarsi a quella frescura, a quell'ombra - comincia a sognare Shushanig, mentre un sonno
insidioso sta in agguato, brucia gli occhi. Non le pare di aver più molto da fare. Non c'è più da
pensare ai vestiti e al baule di Suren che va in Europa, ai pacchi per Rupen da dare ai gemelli
carpentieri che vanno in America, alla scuola americana per Garo, a rivestire Leslie: tutti, tutti sono
finiti ora dentro quel bordo infiammato dell'anima che scotta a toccarlo.
Ora bisogna vestire le ragazze, preparare questo viaggio. La mente affaticata di Shushanig ora
guarda Nazim senza vederlo, infila il telegramma in una tasca del grembiule, poi ci ripensa e lo
consegna a Madame Nevart: "Infine, voi siete l'unica ad averlo conosciuto " dice; e poi: "Ci
toccasse andare da loro…
Dobbiamo cercare di avvisare Zareh" Svelta accorre Azniv, che la sorveglia senza parere, prende il
telegramma dalle mani di Nevart, lo legge e dice: "Lo terrò io" (Quasi un talismano, pensa,
qualcosa di sacro che viene da Occidente, che dimostra che altrove gli armeni esistono, sono liberi,
possono perfino mandare messaggi; una luce in fondo al buio orrore che le circonda.). Sperdute,
spaurite, arrivano intanto da Shushanig le altre donne del quartiere. Il fato che l'ha colpita ha
impresso un suggello di dolorosa autorità sul suo volto, da cui il gaio sorriso è scomparso, e dove si
sono accentuati i tratti pesanti, terrestri dei lineamenti.
Ma lei è Mayrig, la mamma, come diceva solo ieri (secoli fa) il dolce Garo. A chi rivolgersi per
sapere se ogni cosa è stata fatta bene, a chi chiedere approvazione?
E Shushanig, amorevolmente scortata da Azniv, vigile, un passo dietro di lei, fa fronte. Verifica i
carri, conta le persone, distribuisce i vecchi, le capre, i bambini, le scorte d'acqua, lo zucchero, le
coperte, perfino le gabbiette con gli uccellini.
È sua l'idea di saccheggiare la farmacia e la confetteria viennese: bonbons, scatole di profumate
dolcezze occidentali, lattine di biscotti inglesi, cioccolata svizzera, fondenti e pasticcini secchi
vengono contati e distribuiti.
Per i dolci freschi, è la festa dei bambini, e Shushanig per mamme e bambini, e per le sue stesse
figlie superstiti, ricompone un gentile sorriso, batte le mani, prepara le tavole ("non c'è più bisogno
di lavare i piatti" pensa intanto), e bruscamente apre la grande credenza e tira fuori le fini stoviglie
filettate d'oro di porcellana di Parigi, le posatine d'argento inglese, la teiera di Sheffield.
"Che i bambini abbiano questo ricordo" pensa; e Azniv capisce al volo, apre un tiretto e sventola la
grande tovaglia di fiandra ricamata da Iskuhi la bella, quella che morì di parto diciannovenne, per il
suo amato Hamparzum.
Tralci di vite e uva d'Anatolia in verde e rosso granato, con viticci d'oro che circondano un sole
centrale, grande e benevolo, con i raggi affilati perfettamente simmetrici, tutta im punturata di seta e
filo d'oro, con un grande alto bordo di taffetà marezzato, cangiante: la fantasia accesa di una
giovane donna felice lasciata in eredità alla famiglia.
Luccica il tesoro colorato, splendono i nitidi piatti, le tazze, i dolci fragranti, i bambini sono pazzi di
gioia, il sole di maggio ammicca benevolo attraverso i vetri, e si riflette nel centro della tavola.
"Che festa è oggi, Mayrig?" chiede il piccolo Sarkis lo zoppo, il figlio della vedova Andonian.
"La vostra festa, bambini" risponde Shushanig "per prepararvi al viaggio avventuroso che faremo,
per incontrarci con i vostri papà. Qui arriva la guerra, noi faremo come i pionieri in America."
Questo è un discorso che tutti capiscono, e che solleva entusiasmo. È arrivata anche Ismene, che
recita per l'ennesima volta la storia del suo incontro col capo indiano che poi sposò, e canta la
canzone dei cherokee. Ma non mangia niente, e Mayrig non mangia niente. Solo Azniv dimostra il
solito, robusto appetito.
I denti bianchi balenano, affondano in un bignè alla crema. E canta "Ov sirun sirun…", la sua
canzone.
Questa notte tutti dormono, sfiniti dai preparativi, sperando, con la loro sottomessa docilità, di aver
esorcizzato il destino. E ognuno sogna i parenti di là dal mare (tutti ne hanno) che tendono le
braccia e raccolgono i profughi.
"Lavorerò, farò di tutto" pensano i grandi; "crescerò in America" pensano i bambini.
Alle onde del mare che vengono e vanno già si affida questo popolo mite e laborioso. Nessuno in
verità pensa che ritornerà alla propria casa: tutti già sentono, intorno, l'avidità degli altri, i
compatrioti non segnati dal destino, quelli che sono della giusta razza e religione, e
s'impossesseranno dei loro beni, dei campi e delle case, delle botteghe e dei frutteti opulenti.
E tuttavia, dal cerchio maledetto riusciranno a sfuggire, ne sono certi; e le braccia salde, sostenute
dagli animi coraggiosi, ricostruiranno altrove.
Nessuno, nella piccola città, tranne le donne della famiglia, sospetta che ci sia dell'altro, percepisce
il gigantesco inganno, la trappola mortale, l'andare verso il nulla che sarà la vera meta del viaggio;
nessuno sa che gli uomini sono già stati cancellati.

Prima dell'alba i carri sono in fila, nel quartiere, condotti dai ragazzi giovani, quelli che non sono
stati convocati. Serpuhi l'ostetrica guida il suo, dove ha dovuto ricoverare una partoriente che non
ce l'ha fatta a dar fuori il bambino durante la notte; e la lavandaia Arsine, dalla pelle chiarissima e
dalle braccia poderose, il primo dei tre carri degli artigiani, dove sono stati stivati i più
indispensabili ferri del mestiere di ciascuno: chiodi, martelli, cacciaviti, ferri da cavallo, una piccola
fucina mobile (quella che d'estate veniva impiantata nella grotta sotto le cascate); e poi seghe,
seghetti, pale di varia grandezza, assi per lavare, sapone, ranno… tutto quello che può servire.
Arsine è orgogliosa della batteria di pentole d'alluminio, che le ha inviato dalla Francia il suo figlio
maggiore, che fa il carpentiere a Marsiglia, e le ha impacchettate tutte, coi loro coperchi e col lucido
mestolo di rame, anche se prendono un po troppo spazio. Sul pavimento del carro ci sono tutti i
bambini, i suoi, quelli del fabbro e del maniscalco, guardati dalle mogli, savie donne di casa. Sono
assonnati e frignano: ma le irose voci, fuori, degli zaptié, li fanno subito ammutolire.
Trovando i carri pronti e la gente pacificamente intenta a chiudere le case e ad assicurare le imposte,
i gendarmi non sanno con chi prendersela, e si aggirano torvi per le straducole del quartiere,
agitando le sciabole e borbottando vaghe minacce. Sbirciano dentro i carri, con malevola
soddisfazione, ma non compiono gesti di ostilità; anzi, sembrano più sobri e tranquilli del solito. Il
fatto è che sanno, che sono stati avvertiti.
La notizia della strage alla Masseria delle Allodole si è diffusa in un lampo. Il colonnello ha spedito
subito fuori dai piedi, in zona di guerra, il tenente Ismail; ma non sa che costui, inviperito, ha già
inviato un fazioso rapporto su di lui al potentissimo ministro della Guerra, Enver Pascià, principale
organizzatore dei rastrellamenti e delle deportazioni degli armeni, che sono in corso in tutta
l'Anatolia orientale, con un calendario strettissimo, controllato giorno per giorno dagli ittihadisti più
zelanti e dalla temibile Organizzazione speciale, messa in piedi proprio a questo scopo.
Il tenente parte, infatti, ma i soldati che erano con lui vengono solo sgridati paternamente, e
perdonati dal colonnello. Questo è forse un errore. I tempi sono cambiati. La bramosia per i beni
degli armeni appena intravisti e un certo sotterraneo disagio per gli eccessi commessi li induce a
gridare più forte, a far tacere ogni voce interiore. Perché il colonnello non li ha puniti? Significa che
in fondo hanno ragione… E parlano, parlano con i loro colleghi gendarmi, gli zaptié, raccontano le
meraviglie della villa, fantasticano sulle ricchezze nascoste in tutte le case degli armeni.
Gli zaptié, ingolositi, avrebbero infatti voluto cominciare subito. Uccidere, godersi le belle vergini
armene, frugare alla ricerca dei leggendari tesori nascosti.
Gli uomini sono morti: tutto è permesso. Nessuno sbarra loro la strada.
Ma hanno ordini precisi. L'operazione deve essere condotta in modo molto moderno, con precisione
chirurgica.
Bisogna evitare di allarmare o coinvolgere, con spettacoli pietosi, i vicini di casa degli armeni, i
loro amici turchi, i missionari americani, gli ebrei, i greci poi, che sono tanti. La partenza deve
svolgersi con fredda regolarità, nessuno deve ricordarsi delle scomposte cacce all'uomo dei tempi
del sultano, quando i cadaveri degli armeni morti venivano accatastati trionfalmente per le strade di
Erzerum o di Costantinopoli, e qualcuno si è fatto immortalare dai reporter occidentali in piedi sul
mucchio, appoggiato a un fucile.
Qui si incide un bubbone, hanno spiegato gli ittihadisti, senza rancori personali, per far guarire il
corpo ammalato della nazione, per fare pulizia. E a coloro che opereranno bene, molto sarà
perdonato, e dato il libero godimento di ciò che possono spremere da questa impura sottorazza di
preti e di trafficanti.
Solo, bisogna agire con ordine, muoversi nei giorni stabiliti, non fare troppo chiasso nelle città.
Fuori, prima di tutto: l'esodo deve svolgersi rigidamente, alla prussiana.
"Ci faremo ammirare dai nostri alleati, per l'impeccabile precisione con cui gestiamo la Questione
armena" pensa Enver; e una soddisfazione puntuta gli cresce dentro, a ogni telegramma che gli
annuncia l'avvio di un'altra carovana. Le segue nel suo studiolo foderato di cuoio bulgaro, come
lunghe righe, colle matite colorate, fissando piccoli segnacoli rossi su una privata carta dell'Impero
disegnata in blu e verde, finché le tante linee, assottigliandosi, convergeranno in una, che si perderà
infine - indistinguibile - nel deserto siriano.
L'idea della deportazione nel deserto appare dunque agli ideologi del partito come un rito di
purificazione, un sacrificio propiziatorio di animali macellati per l'onore e la gloria di un Dio laico,
impassibile e geloso. Così, questa volta, perfino gli zaptié riescono a dissimulare; la fiduciosa cecità
delle armene, lasciate sole, fa il resto. Ed è così che partono in pace.
Il colonnello, poveruomo, non capisce nulla di questi concetti moderni. Il suo Dio - egli non è un
fanatico, ma prega con regolarità - è il vero Dio, e lui compiange chi non è stato ancora illuminato.
Ma sente profondamente l'eco dell'antico orgoglio del padrone tollerante, che tratta bene i suoi
servi. Ecco cosa sono i cristiani: inferiori, ma utili. Gente che fa i mestieri per gli orgogliosi
guerrieri del sultano, gente servizievole, da proteggere benevolmente, isolando ed eliminando quelli
che "Dio protegga!" vogliono occuparsi di politica.
Lo spettacolo a cui ha assistito lo ha riempito di orrore. L'uomo pio e giusto che era suo padre,
sepolto ma non morto dentro di lui, e lui stesso, l'uomo che si trova a suo agio con Madame
Sesostris, si ribellano con un disgusto e un disagio che crescono, nelle ore successive al massacro,
pensando a quel gruppo di donne, alle sette paia di occhi scuri e immobili che si sono fissati nei
suoi, alla fine intollerabile del medico Krikor.
Le frasi che ha pronunciato lo impegnano. Si sente nobile, e dalla parte della giustizia. Perciò va a
passare la notte da Madame Sesostris, e con lei concepisce un progetto di salvezza - ben
remunerato, s'intende per Shushanig e per le sue figliole e parenti.
"Passeranno tutti per miei parenti egiziani, i cugini copti di Alessandria" dice fervidamente Sesostris
"e anche se nessuno li ha visti arrivare, sono sicura che con qualche buon pezzo d'argento ben
investito, tutti si ricorderanno del loro arrivo, ecco, dieci giorni fa. E adesso hanno paura della
guerra, e tu li fai accompagnare ad Aleppo da un drappello di soldati." Questa non sembra però, alla
fine, una buona idea.
"Qualcuno può fare la spia, bisognerà dividere gli utùi…" riflette il colonnello. Meglio nasconderli
in casa, finché passi la bufera. La prospettiva solletica la chiromante, che già intravede un buon
profitto, e un'amicizia fruttuosa, l'entratura sociale a cui aspira da sempre; e poi, ecco, anche gli
occhi di Sempad la perseguitano.
Passeranno i massacri, come sempre sono passati; e un'alleanza con la famiglia, un alone di
rispettabilità affettuosa per il suo nuovo benessere, acquistare meriti sonanti e insieme fare del bene,
che prospettiva seducente.
Magari ritirarsi insieme in campagna (alla Masseria, stava per pensare; ma poi l'orrore l'ha assalita:
certo Shushanig non tornerà più laggiù. Forse la venderà? A poco, a un'amica?).
I pensieri corrono, le deliziose speranze anche; e Sesostris (il cui vero nome è un banale Gabrielle)
già si da da fare per organizzare la sistemazione delle stanze. Poi si addormenta, felice, e il
colonnello al suo fianco, appoggiato sui cuscini di seta del grande letto da odalisca che gli piace
tanto, fuma tranquillo la sua pipa inglese, col cuore a posto, i progetti ben disegnati in mente.
Rasserenato, dormirà fino a tardi, la mattina seguente.
Ma le ore sono corse via troppo rapide, e il destino è beffardo. Delle reali misure della deportazione
il colonnello è stato volutamente tenuto all'oscuro.
Lui sta in caserma, e i suoi soldati ne sanno più di lui. Lui è già in sospetto, e i gesti che fa lo hanno
confermato come un uomo del vecchio regime: far seppellire i morti della Masseria, far scortare le
donne…
Nessuno gli ha detto che un distaccamento dell'Organizzazione speciale, comandato da un gruppo di
ufficiali ittihadisti ferventi, è arrivato da tre giorni, e ha conferito a lungo col kaymakam. Non ha
visto i telegrammi, gli ordini precisi. Sa solo della convocazione degli uomini (lui crede per una
delle solite ammonizioni) Non sa nulla di preciso sulla deportazione.

E così, quando il giorno dopo chiama un drappello dei suoi soldati più fedeli, guidati dal devoto
sergente Hakim, e gli da l'ordine di andare a prelevare Shushanig e le altre donne di casa, di stiparle
nelle carrozze e di portarle da Madame Sesostris, aggiungendo di mantenere il silenzio e un bel po
di monete per tutti, quelli si guardano, ammiccano e tacciono. E poi Hakim parla, per tutti.
"Ti parliamo come a un padre, Effendi" comincia, esitante. "Noi andiamo, se tu vuoi. Sei tu che
comandi. Ma girano brutte voci in città, e succedono brutte cose." Poi, di fronte alla faccia
aggrottata del colonnello, si butta: "Gli uomini armeni sono stati tutti uccisi, come il tuo amico, il
farmacista Sempad. E le donne, tutti gli altri, sono partiti questa mattina, all'alba. Gli hanno detto
che li spostano per ragioni militari, ma tutti sanno, vero?" e getta uno sguardo circolare: gli uomini
abbassano le teste, silenziosi "tutti sappiamo che vanno a morire. Nessuno, Effendi, ci hanno detto,
nessuno deve aiutare un armeno. Né donne né bambini né vecchi. C'è la pena di morte per chi aiuta
un armeno" Poi prosegue, nervoso, tutto d'un fiato: "Il loro vartabedy sai, il vecchio prete
Hovhannes, è partito con la croce d'oro della cattedrale e tutto vestito d'oro e d'argento, con le
pantofole della messa, camminando davanti ai carri: e mentre passava tutti si inginocchiavano, e
una donna ha gridato: "Non è colpa nostra, benedici, padre nostro", ma i soldati l'hanno fatta star
zitta. Lui è poi salito sul carro di Madame Shushanig". Il colonnello è pietrificato, e recupera a
stento la parola: "Anche il vecchio prete? Ma dove vanno? E quali soldati li scortano, che io non so
niente?" Misura, così parlando, l'entità della sua perdita di potere, ma ancora non capisce.
"Effendi, non sono i nostri soldati. Sono quelli dell'Organizzazione speciale, e prendono ordini dal
kaymakam direttamente. Noi, ci hanno detto, siamo buoni per la guerra degli uomini; questa, hanno
detto, è una caccia speciale, senza quartiere, ai più furbi degli animali, e c'è da guadagnare molto."
"Ma le case, chi ci bada alle loro case?" domanda ancora il colonnello, quasi spaurito nel suo intimo
cuore.
"Già arrivano, eccellenza, scendono dalle montagne.
I banditi curdi arrivano, per loro questa volta la bandiera gira giusta: gli hanno promesso le case
degli armeni; e chi primo s'insedia se la tiene" risponde un po crucciato il sergente (anche a lui
farebbe comodo una delle belle case armene, e non vede i curdi di buon occhio…). "E dove vanno
gli armeni non si sa: si dice ad Aleppo, ma da ogni vilayet stanno partendo le carovane dei deportati,
e come fanno a starci tutti ad Aleppo?" La larga faccia del sergente, adesso che ha parlato, si è
rischiarata. Se gli armeni sono andati via, d'ordine del governo, che male ci sarebbe a mettersi in
tasca qualche cosa di loro? E guarda, tutto il gruppo guarda speranzoso il colonnello. Capiscono che
non sapeva nulla, e questo significa che il suo prestigio non è più quello (in tempo di guerra, non
dovrebbe essere lui a decidere ogni cosa in città?) Tuttavia è sempre un'eccellenza, loro sono i suoi
soldati, i suoi figli…
Ma il colonnello Hikmet adesso ha davvero capito.
Senza rispondere, si gira e raddrizza le spalle. Entra nel suo ufficio, chiude accuratamente la porta,
tira fuori la sua pipa inglese e la osserva, meditando, aspettando. Non serve molta pazienza. Dieci
minuti dopo, uno zaptié arriva di corsa con un messaggio sigillato.
L'ufficiale lo apre, e legge senza sorpresa che è sollevato dal comando della guarnigione cittadina e
inviato sul fronte russo, insieme al suo battaglione. È accusato di favoreggiamento di personalità
nemiche sospette (povero Sempad decapitato…). L'ordine ha valore immediato: giusto il tempo di
ritirare la sua bella vestaglia di seta cinese da Madame Sesostris e di raccontarle velocemente
l'accaduto.
"Non ti chiedo di seguirmi" conclude avvilito; ma in fondo al suo semplice cuore, non è scontento
del tutto; gli pare, andandosene, di riscattare tante obbligate meschinità, tante miserie vigliacche,
una vita troppo comoda; e di sfuggire alla maledizione degli armeni.
Farà davvero il soldato, coraggioso come un tempo; tornerà a cavallo, fiero come quando con
Sempad e il suo amico dei Lazi andarono una volta a caccia in montagna; e ucciderà come un vero
guerriero ottomano, a viso aperto, in battaglia.
E in quel momento, lasciandosi, lui e Sesostris, questa strana coppia, hanno entrambi una visione:
lui vede suo padre, l'uomo giusto, che accenna gravemente e gli indica un deserto biancheggiante di
ossa; lei vede sua madre, l'avventuriera italiana amante del governatore di Alessandria, che le
impone di ritornare in Egitto.
"E io non ti ho chiesto di venire via da questo paese che Dio maledice e di seguire me" risponde lei,
già sollevata; e, poiché è buona, gli da un appassionato bacio di congedo, e gli porge il bel libro
rilegato, foderato di banconote, di Sempad, depositato sotto il suo cuscino. È buona davvero, ne ha
prese solo la metà.

In un'Italia imbandierata a festa, Yerwant cupo, cruccioso, infelice, per la prima volta non si sente
più arbitro del suo destino. Per la prima volta legge con avidità i giornali, sbuffa in modo
percettibile di fronte ai toni trionfali delle prime cronache dalla linea del fronte. Tutti sono concordi,
sarà una guerra breve, adesso che anche l'Italia, con un poderoso voltafaccia, si è aggiunta alle
Potenze dell'Intesa, aprendo un nuovo fronte.
"L'Austria crollerà subito" affermano spudorati i giornalisti, convinti, quarant'anni dopo, che quella
del 1866 fu una vittoria italiana, inebriati dall'aver strappato tre anni prima la Libia e il
Dodecanneso a quello stesso Impero Ottomano che ora si potrà legittimamente fare a pezzi.
"Francia, Inghilterra, Russia avevano bisogno di noi per vincere, e noi ci riprenderemo Trento e
Trieste" cantano i ragazzi per le strade, predicano infiammati conferenzieri alle signore che
affollano le Società irredentistiche. Molti giovani si iscrivono volontari, molti sognano le nuove
macchine aeree, i velivoli, l'eroismo nei cieli, la guerra bella, i nuovi cannoni e i veicoli semoventi,
la grande Berta, tutto un po alla rinfusa.
La guerra è una sbornia letale, dopo cinquant'anni di pace. Anche Yetwart e Khayel leggono, si
appassionano, trovano così noioso andare a scuola come prima, in un mondo improvvisamente così
giovane, pieno di vivacità, di colori che stridono e di fatti violenti.
Il viaggio in Anatolia, gli zii di laggiù, anche la nuova automobile che li aveva entusiasmati sono
scomparsi dalla loro attenzione, come al dissolversi di un incubo.
Ma Yetwart, che ha sedici anni e che avrebbe l'età per cominciare a guidare, ecco, si rifiuta e non
vorrà mai imparare; per tutta la vita la sua piccola, roton detta figura col mitico cappello in testa si
staglierà, arrivando, di fianco a un autista, spesso cambiato, perché Yetwart è capriccioso e
irascibile.
Khayél invece, in un giorno annoiato di luglio, riscopre la macchina, e se ne innamora. Il viaggio
verso; la famiglia lontana diventa una fiabesca avventura,'' tutta da inventare, di cui lui, non suo
padre, diventa l'eroe, e il domatore della potente Isotta Fraschini rossa, ora immobile nel fienile, che
gli pare una belva acquattata. Presto ne ruberà le chiavi e imparerà a metterla in moto: e per tutta la
vita sarà un guidatore attento ma audace e piuttosto sconsiderato, inebriato dalla velocità e dalle
sfide che le sue mani agili e sicure riescono a controllare.
Yerwant in quello splendido scorcio di maggio è come cieco, verso figli, moglie, parenti di lei.
Trasferisce tutti, per l'estate, alla villa del Dolo, e se ne va ogni mattina, dopo il caffellatte sorbito
col pane, in fretta, mentre Letizia in piedi lo osserva e lo accudisce silenziosamente. Prende il
trenino per la città, fino all'ospedale, si stordisce di lavoro, poi cerca avidamente notizie che non
trova.
Quasi nulla si sa del fronte orientale. I russi che avanzano, Enver che viene salvato in un'imboscata
dalle truppe armene, sono notizie vecchie. Un immenso silenzio si stende adesso su tutta l'Anatolia,
e neppure arriva un telegramma di Sempad che risponda al suo del 23 maggio. Questo è fuori di
dubbio il sintomo più inquietante.
Mai Sempad ha trascurato la possibilità di mandare telegrammi; e se il posto fosse improvvisamente
diventato zona di guerra - ma la piccola città è molto lontana dal fronte, e nessun dispaccio l'ha
nominata - sarebbe facile per lui "fare il giro", cioè appoggiare il messaggio a una delle ditte
farmaceutiche tedesche che riforniscono la farmacia, presso le loro sedi nella Capitale.
Pazzo d'angoscia, Yerwant si sente personalmente minacciato, e non sa perché. Riaffiorano informi
incubi alla sua coscienza turbata, e visioni imprecise di sangue, di cui la sua esperienza di vita quasi
tutta occidentale non gli ha dato nessuna reale cognizione: quindi lui non sa bene se queste nuvole
che lo offuscano ogni giorno di più sono veritiere o fantastiche, fantasie folli provocate da un
misterioso senso di colpa (e forse di desiderio non realizzato?), oppure percezioni reali di un male
immenso, acquattate con tentacoli d'ombra ai margini della sua coscienza.
Allora invia un altro telegramma, chiedendo notizie, a Zareh ad Aleppo: ma anche Zareh non
risponde; e Rupen da Boston non può che riecheggiare la sua stessa domanda, e condividere la sua
apprensione.

Così passano due settimane; e il destino di Sempad si è intanto compiuto. Poi arriva, da un trafiletto
breve fra tanti, la prima notizia, attraverso un giornale americano, imprecisa, ma carica di una verità
che le orecchie armene, anche quelle occidentalizzate, distinguono come rintocchi di campane di
morte:
"Nella città di *** il famoso Collegio Americano è stato chiuso a tempo indeterminato. L'edificio è
stato espropriato, i ragazzi mandati a casa o arruolati in battaglioni di lavoro. Il direttore e il console
americano si sono opposti, e vengono dichiarati persone non grate. L'ambasciatore Morgenthau
eleva formale protesta al governo turco, nella persona di Enver Pascià. Ma non ottiene
soddisfazione".
Da quel giorno, è un crescendo di informazioni frammentarie, dapprima casuali e isolate, in mezzo
a tutti i dispacci d'agenzia sullo svolgersi della guerra europea, poi man mano poste in maggior
rilievo, fino a un quadro che è impossibile ignorare. In quel buio inizio d'estate del 1915 Yerwant
non leggerà le notizie della guerra; ma, un pezzettino alla volta, le minime informazioni che
trapelano all'estero sulle stragi armene, poche righe per lui terribilmente eloquenti.
I giornali le pubblicano in appoggio ai tanti articoli sulla slealtà e la malvagità degli austro-
germanici; infine, l'Impero Ottomano è alleato delle Potenze centrali.
Ma Yerwant incomincia a intuire che non di occasionali massacri si tratta, né di episodi di disordine
bellico; comincia amaramente a sentire l'oscuro disegno, la rete di morte in cui certo Sempad si è
impigliato, poiché non ha scritto. E raggiunge presto la definitiva, intima certezza che quel mondo a
cui si è illuso di ritornare è finito, inghiottito; e pensa con nostalgia al tranquillo se stesso di un anno
fa, quando morì il vecchio Hamparzum, e lui scrisse sollevato la lettera di rinuncia alla
primogenitura, e ricominciò a pensare al Paese Perduto.
Ma allora Sempad era là. Sempad è sempre stato là, per Yerwant: Sempad e il suo semplice cuore,
Sempad e i suoi telegrammi, la farmacia, il tric-trac, i figli di cui ha davanti, sulla scrivania, un
ritratto com pito e composto, tutta la famiglia intorno al vecchio Hamparzum disteso nella bara, con
ricche volute floreali, ritoccate in argento, che circondano l'immagine centrale.

Sempad, il fratello, colui che teneva le chiavi. Il cuore di Yerwant si chiude, si sigilla per sempre.
Oppresso da un infinito senso di colpa - la colpa stessa di esistere come armeno, di sopravvivere, di
avere successo - Yerwant non scenderà mai più di sua volontà nelle radici della sua appartenenza,
nei musicali, colorati ricordi del Paese Perduto, mai più fino a quando li racconterà alla bambina
come fiabe lontane, forse inaccessibili, forse sognate.
Provvederà, certo, ai bambini di Aleppo: li farà arrivare in Italia, pagherà il viaggio, li alleverà: ma
poi li separerà di nuovo, crudelmente, anche se, tranne Henriette, li lascerà crescere come armeni.
Due in America, da Rupen a Boston; Nubar e Henriette con lui, in Italia. Ai suoi figli, invece,
l'antica patria sarà vietata per sempre, chiusa in una vaga memoria di ciò che è impossibile negare:
qualche fotografia, qualche nome. E nel 1924 chiederà al governo italiano il permesso di togliere
legalmente dal suo cognome quell'imbarazzante codina delle tre lettere finali "ian", che denunciano
inequivocabilmente l'origine armena. Il nome, amputato, può anche essere turco.
Le automobili gireranno il Veneto; dei regali, dimenticati in una cassettiera sotto il biliardo, un
accorto nipote Sartena farà più tardi oculato commercio.
L'unico spazio che Yerwant si riserva, e di cui non accetterà mai di discutere con nessuno, sarà il
frequentare, ogni tanto, i suoi amici di Zurigo, un gruppo di facoltosi commercianti di sigarette, con
i quali va a passare qualche giorno, che trascorre in lente fumate, accanite partite a tric-trac o a
carte, qualche caffè, qualche frase riflessiva.
Masraff è tra questi. Gli fornisce le sigarette egiziane, che arrivano a casa due volte all'anno, in una
splendida cassa di legno forata, perché il tabacco respiri.
Quando Yerwant decide di smettere di fumare, poco prima dello scoppio della seconda guerra
mondiale, lascerà l'ultima cassa, chiusa, per memento e auspicio in un angolo del guardaroba. Là,
polverosa e affascinante, con le sue etichette orientali, la scoprì la bambina nel dicembre 1945.

Uscendo dalla città, sul carro di Shushanig è salito il vecchio prete Hovhannes.
"Rinfrescati con un sorso di fan" gli dice Azniv pronta, che indossa, come Veron, un cappelline
contro il sole già bruciante; e annusa involontariamente l'odore di caldo e di sudore che emana dal
vecchio. Improvvisamente, pensa:
"Come ci laveremo?" e i minacciosi risvolti del viaggio cominciano ad affollarsi nella sua mente.
Niente alberghi, verso sud; solo strade e strade polverose, e lande deserte, e villaggi.
"Dove ci faranno fermare?" è l'altra, immediata domanda.
Azniv riflette intensamente, poi guarda Shushanig, i cui occhi di nuovo offuscati sembrano non
vedere niente, e decide, intanto, di tacere.
Il vecchio prete, affaticato, si addormenta. La sua maestosa barba si sparge fluente attorno al viso
largo, segnato di ansia, che si distende nel sonno.
"Dormi, padre nostro, dormi" sussurra Azniv, e poi il suo cuore gioioso, inevitabilmente, si
rasserena un poco. Il sole è così dolce, l'aria così tenera in quella fine di maggio; forse gli assassini
di Sempad erano una banda di irregolari, i terribili hamidié di cui ha sentito tante volte parlare; e le
donne armene sanno sopravvivere, devono saperlo fare. I ricordi dei racconti dei massacri del
Sultano Rosso curiosamente la calmano: la famiglia ha pagato così duramente che, forse, il debito
di esistere è ancora una volta scontato, e si può, di nuovo, pensare al futuro. I nomi di Zareh in Siria
e di Rupen a Boston crescono nella mente di Azniv, ora dopo ora, come fari nella nebbia: già pensa
a come avvertirli. Se Ismene, come ha promesso, li raggiunge…
La campagna intorno appare così invitante che, d'improvviso, Azniv e Veron, che siede accanto a lei
sul carro, guidando i cavalli lentamente, con perizia e cautela, pensano che è quasi l'ora di una
merenda, che ristorerà tutti e riporterà il sorriso nella lunga fila di facce da funerale che si snoda
lungo la strada.
C'è un prato all'ombra di un grande platano, accanto al quale una sorgente da tanti secoli canta in
una vasca ovale di marmo greco decorato con graziosi ornamenti, consumata dall'uso di
generazioni. I bambini ci fanno il bagno, i grandi buoi ci immergono il muso, le stelle vi si
riflettono. Sotto la cannella dell'acqua perenne, appena visibile a chi sa cercarla, qualcuno, tanto
tempo fa, ha inciso una piccola croce. Tutti gli armeni, e i greci, lo sanno, e per questo la chiamano
la fonte dell'Eremita. Sant'Ireneo, o santo Atanasio, si dice, fece sgorgare la fonte quando si ritirò a
vivere nelle rocce sovrastanti, in una caverna così piccola che ci sta appena un bambino. Oggi, là
dentro c'è sempre una candela, pronta per il viandante.
I carri si fermano lungo la strada. Già i bambini corrono dall'uno all'altro, e le donne s'interrogano.
Non ci sono più gli uomini, gli spiriti forti che ironizzavano sulle superstizioni, e sapevano cosa
decidere.
Le donne, inquiete, si consultano coi vecchi. Qualcuno va alla grotta, accende la candela santa.
I gendarmi, gli zaptié che hanno accompagnato la carovana all'uscita dalla città, intanto sono
scomparsi.
Le donne se ne accorgono un po' per volta, e invece di rallegrarsene, se ne sentono turbate.
Nell'ultimo carro, Serpuhi l'ostetrica ha messo una donna di guardia e bada alla partoriente, una
ragazza di diciassette anni, sposa da poco, il cui marito si trova per affari nella Capitale.
"Lui ti pensa, piccola rosa" sussurra Serpuhi, bagnandole le labbra con un panno imbevuto d'aceto
"e tu sei forte, giovane, non è niente. Il tuo torello.. non vuole lasciarti, sta troppo bene al caldo,
dentro di te. Ma ecco, ecco che ci siamo fermate, e questo è il momento, vero, piccola rosa?" La
ragazza chiude gli occhi, cinerea, e si raccoglie.
"Troppo dolore, semplicemente troppo" pensa, e sente come una palla di fuoco tra le gambe,
un'ustione violenta che percorre il bacino, e poi un grido rauco.
"Brava, brava, Hripsime. La tua santa ti ha benedetta… " dice Serpuhi accarezzandole una guancia
tutta accaldata. "Ora, tu benedici questo bambino, in nome del padre assente, e di il suo nome."
"Il suo nome è Vartan" sospira la ragazza, e si abbandona con infinito sollievo alle mani esperte.
Intanto arrivano tutti, tutti coloro che non hanno potuto salire su un carro, i più vecchi, i solitari, i
mendicanti: e tutti si rallegrano all'idea della sosta, della buona acqua della fonte, della benedizione
dell'Eremita che protegge coloro che bevono di quest'acqua, e pensano al cibo, al pane. Sono già
stanchi, e si abbandonano alla saggezza di chi li conduce.
Ma chi li conduce è in verità un gruppo di ragazze, poiché Shushanig sembra ancora così remota,
assente.
Sono le giovani, le più emancipate, quelle che hanno frequentato le scuole e conoscono un po' di
francese, di storia, di geografia. Le signorine. Si consultano febbrilmente. Non sul percorso, che è
obbligato: c'è un'unica strada che attraversa le colline che man mano si abbassano verso la pianura.
Ma sul dopo; e poi su come organizzare il viaggio, mettere in comune le risorse, governare questa
piccola comunità viaggiante.
I vecchi sono abbastanza inutili, propensi al lamento, profeti di sventure. Le donne con figli hanno
la testa ai figli; e possono preparare il cibo.
Ma Azniv, Veron, Haiganush la figlia del maestro, Vartuhi l'impiegata della posta, e quella che
lavorava alla ferrovia, sono convinte di farcela; e sentono in fondo al cuore un piccolo eccitante
stimolo di orgoglio: loro, sempre così protette, sapranno far vedere che anche le donne hanno un
cervello, e riusciranno a controllare questa emergenza. E prima di tutto, infervorate di idee
egualitarie, si promettono solennemente che in questo viaggio tutti saranno davvero uguali, e le
risorse saranno messe in comune, come predica sempre il maestro Kevork. Sarà come essere già
negli Stati Uniti - suggerisce Veron - come nella mia Chiesa. E tutte annuiscono convinte.
Così siedono nel grande prato, vecchi, donne, bambini, mendicanti; il vecchio prete Hovhannes
intona Orhnial è Der (Benedetto è il Signore) e si accomoda vicino a Shushanig, sempre chiusa
nella sua nuvola, a cui sussurra parole di pace.

E in quel preciso momento, mentre il sole scintilla meridiano, appaiono tutt'intorno, sulla cresta
delle colline, e subito si rovesciano giù i veloci cavalli di una delle tribù curde che stanno sulle
montagne sopra le cascate, cui è stato promesso il bottino armeno.
In pochi istanti, urla feroci riempiono l'aria, le spade e le carabine scintillano al sole, e l'innata
abilità scenografica dei guerrieri a cavallo li fa attraversare più volte l'accampamento quasi senza
ferire le persone, ma calpestando il pane, rovesciando le brocche, rompendo le stoviglie. Il capo
afferra per la barba il prete e lo trascina nella polvere dietro di sé.
Dietro i primi, altri arrivano, con urla di guerra, e subito abilmente circondano i carri. Immobili,
pietrificati, gli armeni trattengono il respiro. Per un infinito momento, la loro passione è sospesa, e
nel profondo del cielo una voce solitaria geme alto, supplicando, dentro il tempo di Dio.
Poi, tutto si compie. L'erba brillante e la fonte sacra si imbevono presto del sangue dei bambini
sgozzati, come esempio alle madri. Il prete viene spogliato e gli cavano gli occhi. Lui piange piano,
come un bambino. Poi dondola nudo, impiccato al ramo più basso del grande platano.
Su ogni carro è montato un guerriero, che incita i cavalli e tenta di metterli al galoppo, tenendo ben
salde le redini con una mano, e agitando il fucile con l'altra. Ma non c'è resistenza. Velocemente,
disordinatamente, i carri si mettono in movimento, e portano con sé cibi, stoviglie, medicine, tutte le
speranze di sopravvivenza. Un vecchio che tenta di opporsi all'interno di un carro viene trafitto di
spada e scaraventato giù; e la bionda Vartuhi, che ha sangue persiano nelle vene, e un fidanzato
greco, il quale ha promesso di raggiungerla stasera a cavallo, viene adocchiata dal capo dei curdi,
che le si avvicina per portarsela via. Grida, Vartuhi, con gli occhi fissi nell'uomo che incombe, e il
suo grido finalmente penetra nel torpore di Shushanig. "Ah, mia colomba, no" grida Shushanig, che
stava seduta attonita, balzando in piedi. "No": e in un momento mette la mano nella tasca profonda,
afferra una pietra e la porge al curdo.
Scintilla la pietra, rossa. È uno splendido rubino di Birmania, che Shushanig aveva destinato per le
nozze della prima delle sue figlie: rosso, ipnotico, balugina nella ferma mano, offerto. E il capo
curdo arresta netto il cavallo, scende e si inchina: questa offerta barbarica lo ha sedotto. Prende il
gioiello, lo alza verso il sole che lo illumina in pieno: e grida di felicità.
Poi, come in un contratto antico, si inchina di nuovo a Shushanig e fa un gesto largo con la mano,
affidandole la ragazza. Non tenta di carpire altro oro, risale a cavallo e grida ai suoi uomini che,
svelti, è ora di andarsene.
Scompaiono lungo la strada, uomini e carri.
Il gesto di Shushanig ha salvato Vartuhi la bionda, ma anche i carri degli artigiani e quello di
Serpuhi, che erano un po' più indietro sulla strada, e stavano per essere attaccati per ultimi. Al grido
del capo, tutti i cavalieri velocemente si sono mossi, tralasciando ogni cosa, e si sono schierati
intorno ai carri già in marcia, pungolando i cavalli. Così scompaiono le risorse degli armeni.
"Presto, presto" dice Shushanig "tiriamo giù il prete e seppelliamolo qui, che è terra consacrata."
Arsine la lavandaia e le sue figlie, insieme al vecchio Aram, zoppo ma ancora forte, scavano e
pregano.
Tutto il prato freme di preghiere; tutte si sentono ora orfane e sole, di una solitudine irrimediabile.
Piangono le madri, e mettono i corpicini dei figli fra le traccia del vecchio prete, e fra le sue mani
congiunte la sua consunta croce, recuperata col laccio di cuoio spezzato ai piedi del platano. Gli
hanno chiuso gli occhi, ricomposta la barba, rivestita la vecchia tonaca: ora Shushanig ordina a
Veron e Azniv di raccogliere i fiori blu e viola che crescono fitti intorno alla vasca dell'acqua, che
continua a fluire col suo quieto leggero rumore, e di spargerli sul vecchio, e sui bambini fra le sue
braccia, dopo averli bagnati nell'acqua benedetta.
E sopra la croce pone la candela della piccola grotta, che spegne con un soffio deciso: "Noi non ne
avremo più bisogno" spiega bruscamente; e aggiunge: "Niente croce sopra la tomba, la
strapperebbero via. "Dio vede dove sono i suoi servi". Gli zaptié sono ricomparsi, sogghignando. Il
contenuto dei carri, era l'accordo, è stato spartito coi curdi. Della pietra preziosa non sanno niente, il
capo curdo non gliene ha parlato certo: e così il tesoretto di Shushanig per questa volta è al sicuro.
Ora davvero comincia la lunga marcia, la strada senza ritorno. La lontananza dalla città è ormai
sufficiente: la carovana, abbandonata, è in completa balia dei gendarmi e del loro capriccio.
Sopravvivere diventerà un caso, un'astuzia ingegnosa, una prova di forza, uno schernevole gioco di
dadi che ha in palio la morte.
"Vecchi e bambini" ha ordinato Shushanig "montino sui carri rimasti, finché riusciremo a tenerli."
Spinta dagli zaptié a cavallo, la carovana s'allunga lungo la strada. Poca acqua hanno potuto portare
con sé: non ci sono più molti recipienti, e il sole picchia.
La pianura dell'Anatolia centrale, arida, implacabile, si spalanca davanti a loro.
Alla prima sosta concessa, quella sera, le forze si contano. La notte, fa freddo. Qualche tenda viene
montata, un po di latte distribuito. Che tu sia benedetta, Arsine dalle forti braccia, per aver stivato
con tanta previdenza i tuoi carri! Perfino tre belle capre si è portata appresso, ciascuna legata dietro
un carro. Ma se non ci fossero i vecchi e i bambini, adesso le donne forse si siederebbero e si
lascerebbero andare.
Dopo l'incursione, ormai tutte hanno capito che sono davvero sole - e per sempre. Fuggire, non si
può, ci sono sentinelle intorno al campo; e fuori, i curdi. E poi, dove, dove andare? La regione in cui
si stanno inoltrando, tutti lo sanno, è inospitale, per centinaia di chilometri. I pochi, miserabili
villaggi, non possono offrire riparo, se anche lo volessero. (E le donne non lo sanno, ma è stata
emanata una legge che proibisce di dare rifugio agli armeni, pena la morte.) Ha scritto Talaat, in un
messaggio telegrafico: "Nessuna pietà per donne, vecchi e bambini. Se anche un solo armeno
dovesse sopravvivere, poi vorrà vendicarsi" Allora, nella luce incerta dei quattro piccoli fuochi su
cui s'è riscaldato un po' di cibo, si contano le forze, e tutti quei semplici cuori chiedono a se stessi e
ai loro santi il coraggio di continuare a esistere.
Aram lo zoppo, meschino aspetto e gran pratica di turco, panettiere e occasionalmente verduriere,
viene eletto portavoce (dietro di lui, a dare suggerimenti, ci sono però Shushanig e Azniv). I ragazzi
adolescenti e le ragazze giovani stiano fuori dalla vista; devono apparire malridotti e miserabili. Le
vecchie in prima fila, coi bambini più piccoli: fanno sempre un po' paura ai turchi, e anche un po'
suscitano rispetto: e i bambini, di solito, inteneriscono. È più facile che rispondano all'umiltà
circospetta della donna anziana, così simile alla loro stessa madre, che a qualsiasi domanda diretta.
Piccole, miserabili astuzie di sopravvivenza…
"Ciascuno" suggerisce Azniv "si leghi addosso una coperta e qualche pentola, qualche provvista: se
dovessero portarci via anche gli ultimi carri, almeno non resteremmo completamente nudi." La
proposta appare sensata, e nella notte che si fa più fonda, come formiche diligenti, tutte si danno da
fare a spartire e dividere in fagotti il carico dei quattro carri rimasti, così provvidenzialmente stivato
due giorni prima.
Pochi preziosissimi sacchetti di caffè vengono legati ciascuno sulle spalle di un bambino, con mille
raccomandazioni.
Pesano poco, ma significano così tanto, E così, ora dopo ora, giorno dopo giorno, si attuò la
maledizione degli armeni, anche per le donne, i vecchi, i bambini della piccola città. Ogni giorno
portò il suo orrore quotidiano, e ogni giorno la pena si accrebbe per i sopravvissuti, che si
trascinavano avanti passo dopo passo, sempre più miserabili, sempre più macilenti, affrontando
ogni giorno la loro morte quotidiana.

Più e più volte scesero le tribù curde, predando, e la terza volta si portarono via le belle lavandaie
insieme ai loro carri, maledetti dalla vecchia Serpuhi a cui, per farla tacere, uno zaptié schiacciò la
testa con un sasso, sedendocisi sopra, all'ottavo giorno.
Ma questo tempo bastò perché Hripsime la giovane sposa riuscisse a risollevarsi dal parto e a veder
morire il suo bambino, infilzato su una baionetta tenuta a braccio teso come un trofeo del disprezzo
dei dominatori verso i sottomessi: ma Hripsime chiuse gli occhi, e vide l'anima gioiosa del suo
piccolo Vartan provare esitante le nuove ali. Allora lo pregò di proteggerla, dai vasti prati del cielo
dove non c'è fame né dolore, guardando giù sulla terra lebbrosa e desolata.
E sopravvivrà Hripsime, pensando al suo sposo; e lo ritroverà molti anni dopo, e avranno altri
bambini (questa è l'unica storia davvero a lieto fine che la bambina ricorda, insieme all'avventurosa
epopea del Mussa Dagh, letta d'un fiato nell'estate dei quattordici anni) 6* Più e più volte infierirono

6 Allude al celebre romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh (1933), storia della
sopravvivenza degli armeni di sette villaggi situati alle pendici del massiccio del Mussa Dagh
(monte di Mosè), a nord della baia di Antiochia, che riuscirono a organizzarsi e a resistere sulla
gli zaptié, frugando tutti, cercando il denaro e i gioielli celati (il mitico "oro degli armeni" di cui
ancora si favoleggia in Anatolia, e i pastori raccontano dei tesori nascosti) Si impadronirono del
caffè, e poi del denaro, dei gioielli; trovarono i nascondigli, tra le trecce, sotto le gonne, fra gli
stracci.
Uccisero bambini, stuprarono le donne, portarono via le ragazze e le bambine per i loro harem
lontani. I vecchi morirono un po' alla volta, di consunzione, di fame, di malinconia. E poi si presero
tutto, giorno dopo giorno: i tegami e le coperte, le povere capre che non davano più latte e i biscotti
inglesi di Veron, le stoffe delle tende e i cappelli.
Di tanto in tanto, un po' di pane gettato come ai cani, dall'alto; di tanto in tanto, una sorgente, un po'
d'acqua. Sempre gli armeni devono bere dopo i cavalli degli zaptié, a quattro zampe come animali,
fra i grossolani schiamazzi della truppa che si diverte, talvolta, a sparare a qualcuno alla nuca,
giusto per vedere l'acqua colorarsi di rosso.
Seminude, sporche, ammalate, affamate, abbacinate dal sole, con le trecce sudice legate alla meglio,
con i vestiti a brandelli e un cencio in testa, camminarono le madri armene, di paese in paese, come
lebbrose, come appestate: tenute fuori dalle città che attraversavano, giacevano per terra senza
sapere se avrebbero trovato la forza per rialzarsi, in quel fosco indomani senza speranza e senza
esito, stregate dalla sventura: camminando, avanti, senza più sapere perché, tranne il bisogno
primitivo, animale, di giacere, alla sera, accanto ai loro bambini.

Durante la marcia Shushanig continuamente, febbrilmente, pensa: in una circolare ossessione,


pensieri di sopravvivenza, limitati all'orizzonte di ogni giorno (e le sue mani ruvide, gonfie,
scivolano continuamente al sacchetto profondo delle gemme, lo palpano, frenetiche). Pochi,
ossessivi pensieri, che ricominciano sempre da capo. Contare e ricontare il suo piccolo popolo;
tenere le bambine in mezzo tra Azniv e Veron, e Araxy la cuoca; controllare Madame Nevart, che si
trascina in un muto stupore, come accusando tutti di questo imprevisto incredibile, lei, la moglie
saggia e provvida che ha dato ad Hamparzum ben nove figli, e avrebbe diritto a morire nel suo letto,
rispettata, e ad avere un funerale importante, quasi come quello del marito.
Di questo, del funerale maestoso che vorrebbe, con atroce involontaria ironia Nevart continua a
parlare tra sé e sé; e sembra non riconoscere più nessuno.
Un'energia indomabile, dispettosa e cupa, spinge avanti il suo corpo grasso, che crolla da tutte le
parti, quasi senza prendere cibo; e Veron è la sola che, alla sera, le si può accostare con un
fazzoletto inumidito d'acqua, e prendersi un po cura di lei.
I capelli bianchi, un tempo sempre ben pettinati, ondeggiano spaventosamente sciolti per le spalle,
frammisti a foglie, polvere, insetti; i denti digrignano scarsa saliva e parole smozzicate. Come
un'erinni, come una furia miserabile e guasta, Nevart, la buona donna un po' stupida un po' maligna,
dal cervellino contento, che faceva marmellate e cuoceva biscotti, si avanza instancabile e curva, gli
occhi semichiusi, spaventevoli, fissi sull'orizzonte, portando con sé tutta la polvere delle strade,
tutto il destino delle armene, inconsapevole simbolo di degradata paura.
Neppure gli zaptié la toccano, superstiziosamente.
Porta sfortuna, sussurrano. Nevart, scomparirà una notte, inavvertita, chiamata da un vento
misterioso, da un miraggio accecante, una cucina calda che le appare oltre l'altura spelacchiata ai
piedi della quale si sono rannicchiate, in una sera qualunque di quel giugno interminabile.
Solo Henriette la vede andar via; ma Henriette non parla. E poi anche lei ha visto una luce dietro
l'altura.
Cammina Nevart, e il suo piccolo, povero cuore si purifica a ogni passo. Sanguinano i suoi piedi
sotto la crosta di sudiciume, e lasciano una traccia ben visibile, che però non interessa a nessuno.
Ma a ogni passo il suo cuore si apre: e cosi alla fine proprio a Nevart, la donna senza qualità, sarà
affidata la forza immensa di un intero popolo che muore e il pianto di Dio che l'accompagna: e potrà

montagna e furono salvati da un incrociatore francese. Fu pubblicato con grande successo nella
Medusa di Mondadori nel 1935 (oggi è ristampato dalla casa editrice Corbaccio di Milano) Werfel,
ebreo, raccontò della strage degli armeni proprio mentre Hitler stava organizzando quella degli
ebrei.
riscattare se stessa, offerta per i bambini, per le sue figlie, per l'ammirata e invidiata Shushanig. Non
vedrà più i suoi figli, Rupen e Zareh, e le belle nuore, e i paesi lontani; non potrà mai più
riabbracciare Yerwant, il figlio di Iskuhi che se n'è andato per non accettarla come madre.
Ora però Dio l'ha perdonata; e Nevart cammina nella luce. Spera di ritrovare Hamparzum, ma
umilmente ormai le basta un posto di seconda fila; la moglie vera di lui, lo sa bene, è la raggiante
Iskuhi.
"Come posso competere con una diciannovenne?" si chiede, ragionevolmente. "Io sono vecchia e
così sporca, e così stanca…" Poi si abbatte, come un tronco fulminato, di traverso sul sentiero.
Un mulattiere del vicino villaggio la troverà all'alba. È un uomo pio; e siccome nessuno lo vede,
presto presto sormonta lo schifo del corpo grosso e già guasto, e la seppellisce presso un ruscello,
mormorando una preghiera al Dio vivente, che è sacro per tutti.
Come Nevart, tutti i vecchi e le vecchie un po' alla volta scompaiono, durante la marcia; si tolgono
di mezzo semplicemente fermandosi. Nessuno li cerca, nessuno gli chiede di continuare. Qualche
volta uno zaptiéli trafigge misericordiosamente sul posto, qualche volta sono semplicemente
abbandonati, da tutti, e nessuno si volta indietro. Stanno accovacciati lungo le strade, le miserabili
figure immobili, come i guardiani dell'eternità; e dietro ognuno di loro, invisibile, sta l'angelo con la
spada sguainata. A notte fonda, dalle miserabili capanne di ogni villaggio anatolico, si muovono,
ecco, uomini e donne. Loro li vedono, gli angeli corrucciati, e ne temono l'ira: allora raggiungono i
mucchietti di stracci lungo le strade, e li seppelliscono segretamente, con i piedi rivolti a Oriente,
perché possano sentire le trombe della Resurrezione dei corpi, la misteriosa anastasis fon nekron del
giudizio finale. Non possono aiutare i vivi, nemmeno con l'acqua e il pane del viandante; allora
seppelliscono i morti, e affidano a loro il riscatto dalla colpa oscura che li opprime. E poi tornano
alla fatica di sempre.

La notte dopo la scomparsa di Nevart, Shushanig, Azniv e Veron tengono consiglio insieme ad
Araxy, la cuoca. Ognuna ha in cuore il suo segreto: Shushanig, il desiderio di morte che non
l'abbandona, e si approfondisce nell'intimo colloquio con Sempad, cui giorno dopo giorno racconta
di sé, e le pare di riceverne conforto, di averlo vicino: "Sarà per poco, caro" prega; e "Perché non
sento i bambini? Perché non mi fai parlare con loro?" Capisce ora Shushanig, fino in fondo, il
mistero della forza che unisce l'uomo e la donna che si sono scelti, per sempre. "Dove sei tu, ci sono
anch'io." Nessuno può interrompere davvero il colloquio di due sposi amanti, né disciogliere le loro
viscere che si sono intrecciate.
Veron pensa che forse, se riuscirà a raggiungere Aleppo, potrà avvertire il pastore metodista Herbert
Lewis, che vive là e che è venuto a battezzarla quando si è convertita. Si immagina prostrata ai suoi
piedi, pecorella non smarrita ma tanto sporca e affamata, e lo vede, alto, asciutto, con gli occhi
infossati grigio ferro e la barbetta curata, chinarsi verso di lei, risollevarla, darle un caffellatte denso
con tanto pane… Le fantasie di Veron non osano andare più in là del sapore del caffellatte. Ogni
volta che arriva a questo punto, gli occhi le si inumidiscono e la gola si stringe.
Azniv, invece, non pensa che a tutti loro, e ad arrivare alla fine del giorno. Col suo folle sorriso, e
drappeggiandosi nella pezza di seta rossa di Zareh, si è offerta, la quinta sera di marcia, a uno zaptié
che si era avvicinato al loro piccolo gruppo. Costui è rimasto solleticato da una donna che, una volta
tanto, non è necessario prendere con la forza, e un po' lusingato dal sorriso speciale che lei gli ha
rivolto, dalla tenerezza sottomessa con cui lo ha accolto dentro di sé.
Si sente contento nel suo orgoglio di maschio: queste armene che si uccidono piuttosto che cedere
(fra tutti i gendarmi si è diffusa la storia del convoglio di Van, quello dove tutte le donne, insieme,
cantando, si sono gettate nell'Eufrate con le loro figlie), queste orgogliose infedeli che sanno
scrivere e tessono inganni, lui ne ha una tutta per sé, e che sembra contenta, e che fa bene l'amore.
Logico darle un po' del suo pane… Azniv non chiede nulla, sorride. E in quel disperato universo di
morte il suo sorriso appare al soldato come l'unica gioia di una vita così faticosa, la sua ricompensa.
Lui ha una moglie al paese, ma Azniv gli ha detto che si convertirà e lo sposerà, alla fine del viaggio
(ma lui non sa che Azniv non mangia il pane che lui le da, lo passa a Shushanig, a Veron e ai
bambini; e non si accorge che le sue guance fiorenti non brillano più che di febbre) Tutte abbassano
gli occhi di fronte ad Azniv, ma prendono avidamente il suo pane. La verità è che non c'è più niente
da mangiare.
Araxy, la cuoca, porta ancora legati sulle spalle un mestolo e una pentola; e una latta piena di acqua
torbida in bilico su un fianco; ma alla sera cuoce solo erba, e i bambini piangono.
Lei vorrebbe tagliarsi una mano, e dargliela; vorrebbe che la sua treccia fosse cibo, e si guarda
impotente le mani robuste e invano sapienti.
La sua ultima risorsa è un sacchetto di pistacchi, che è riuscita due notti prima a slegare dalla sella
del cavallo di uno zaptié che l'ha voluta per la notte. Ha gridato un poco, per la forma, poi ha
pregato febbrilmente, e mentre l'uomo grugniva su di lei, si è guardata intorno e ha adocchiato il
sacchetto. Non importa quel che c'è dentro: è cibo, e tanto basta. Finora, è il suo orgoglio, Nubar
sembra star bene, è ancora abbastanza vivace, le bambine non si sono ammalate, e nessuno le ha
adocchiate per divertircisi: sono troppo piccole, tranne Arussiag, che ha undici anni, ma per fortuna
è silenziosa e bruttina.
Nessun fuoco è acceso, e nessuno dorme veramente.
Ciascuno, ripiegato sulle sue povere cose, giace accovacciato nel buio. Chi sospira, chi si lamenta,
chi tenta di dar sollievo ai piedi martoriati.
Ombre furtive percorrono il campo: sono gli zaptié che cercano donne, e il mitico oro. Ogni tanto,
un coltello lampeggia, un grido più forte.
Shushanig e le altre sussurrano pianissimo, distese sopra i corpicini dei bambini. Come fare per
utilizzare il tesoretto? per non farselo portar via in un momento, e magari venire anche uccise per
averlo tenuto nascosto a tutte le requisizioni? Come fare per comprare del cibo? Bisogna riuscire a
raggiungere un villaggio, e poi riuscire a parlare coi contadini impauriti; e contrattare, e far vedere
le gemme e le monete una per volta. E tutto questo deve essere compiuto prima che faccia giorno.
Ma chi ha ancora la forza per farlo? Non bisogna presentarsi come mendicanti, far vedere le mani
che tremano, il sudore diaccio della fame mortale. Dei fantasmi degli armeni i poveri contadini di
quel desolato territorio hanno un infinito terrore, e si tengono lontani dalle file di pezzenti che,
come un fiume continuo, si trascinano lungo la strada.
Allora Araxy si raddrizza, si ravvia i capelli con un po di saliva, e dice:
"Vado io. È più logico che sia la cuoca a cercare il cibo, non è affare da signore" E ride, snudando i
denti rimasti bianchissimi nel viso affilato. E Shushanig estrae con mille precauzioni il famoso
sacchetto, toglie tre monete d'oro, poi ne aggiunge altre due, e dice: "Va, Araxy, e che Dio sia con
te. Ma ascolta: se vedi un solo modo di andartene, di sfuggire alla nostra sorte, vattene, non
ritornare indietro, salvati. Solo, non dimenticarci. Abbiamo diviso ogni cosa, e la sorte: Araxy, figlia
mia, se trovi un buco nella rete che ci uccide, vai. Io ti benedico. Segui il sentiero dei padri". La sa
agile, forte, leale: sa che, se potrà, ritornerà col cibo. Ma è una missione disperata: se anche riesce a
uscire dal cerchio di zaptié che li stringe, dovrà farsi ascoltare dai contadini, e poi tornare, prima
dell'alba.
E allora, una volta strisciata fuori, se ce la fa a orientarsi nei campi, forse, da sola, si salverà. Araxy
estrae il sacchetto di pistacchi dal solco dei seni, ne prende una manciata che fa scivolare in tasca, e
poi lo consegna solennemente a Shushanig, si fa il segno della croce e scivola via silenziosa, come
un'anguilletta furtiva in mezzo a un canneto.
Nessuno della famiglia la rivedrà più. Ma per il buon lettore, ecco: Araxy, lesta e facile al sorriso,
trascorrerà la vita, contenta, in un bordello di Alessandria.

Quella notte nessun contadino dei dintorni del campo aprì ai suoi sussurri; qualche cane abbaiò,
lugubre.
Le stelle incombevano, come trafitture.
La ragazza si spinse più lontano, e si perse, nel buio immenso, pieno di vita ostile e furtiva. Ma in
un fienile abbandonato trovò una gatta che aveva appena partorito: e come un animale terrorizzato,
ma troppo affamato per fermarsi, lottò con la gatta, s'impadronì di due gattini, li uccise col suo
coltelluccio, li scuiò e li mangiò ancora caldi, bevendone il sangue. Poi, sazia, si addormentò,
avvolta in una tela di sacco, in un angolo: e dormì, esausta, per il resto della notte, e per tutto il
giorno e la notte successivi.
Poi, sentendosi meglio fisicamente, ma sola come non era mai stata, e traditrice, e spergiura, vagò
notte dopo notte da un riparo provvisorio a un altro, bevendo agli abbeveratoi degli animali,
frugando tra la paglia in cerca di qualche seme, di qualche torsolo, svelta, lesta come un animale,
velocissima nel fuggire e nel nascondersi.
Una volta, a una donna, diede una moneta in cambio di una zuppa calda di intestini di agnello.
Come lei, altri fuggiaschi percorrevano i sentieri notturni: ragazzi, soprattutto, e bambini, che le
madri disperate avevano spinto via dalle carovane della morte, profittando di una distrazione dei
gendarmi, della notte, di un contadino impietosito: piccoli demoni affamati e accorti che si
dirigevano verso est, verso l'esercito russo in avanzata, o verso ovest, al mare, seguendo l'infallibile
bussola dell'istinto.
Qualche cane abbaiava, nella notte; qualcuno Araxy ne uccise, per impadronirsi del suo cibo. I
contadini, serrati in casa, non uscivano più di notte in quell'estate di orrori, evitavano di vedere, di
sentire.
Raccoglievano ogni tanto un cadavere, e lo spogliavano, cercando oro e gioielli; altri, di buon
cuore, mettevano fuori, ai crocevia, qualche pezzo di pane, qualche secchio d'acqua.
Infine, Araxy giunse al mare, a Smirne. Nessuno l'aveva avvistata, nessuno si accorse di lei. In
un'alba di agosto, scivolò inavvertita nella grande città, fra i cenciosi derelitti del porto, e si offrì
come cuoca in una taverna greca. La padrona, la grassa Elefteria, rise, guardandola; e anche Araxy
sorrise, e disse: "Lavami, signora. Ero la cuoca di una grande famiglia. So fare di tutto, anche i
souffles francesi" Ed Elefteria riconobbe l'armena, e disse bruscamente: "Proviamo. Là c'è il
mastello. Ma prima, ragazza, là, prendi un piatto". E le scodellò un mestolo di stufato di montone.
Araxy s'inginocchiò davanti al piatto ricolmo, e pianse.
Perché a Smirne gli armeni non venivano deportati.

Il generale Liman von Sanders, comandante tedesco della piazza e della città, non permise che ne
venisse toccato neppure uno. Il destino di Smirne si compirà più tardi.
Ma Araxy, quella volta, non era più là: si era innamorata di Stavros Anastasiopoulos, il fratello di
Elefteria, abile ruffiano di porto, coi baffi sottili e un sorriso veloce. Lo seguì volentieri ad
Alessandria, nel bordello di Madame Louloudaki, di cui lui possedeva una quota, e sarebbe andata
con lui in capo al mondo: Stavros divenne per lei padre, amante, signore, caldo rifugio, riempiendo
tutti i vuoti del suo docile cuore.
Una docile puttana dal cuore gentile, che non sapeva - e non voleva - dire di no a nessuno.
Solo, ogni tanto, Stavros doveva scrivere per lei una lettera, sempre la stessa, al dottore Yerwant
nella città italiana. Stavros scriveva con attenzione, ma non spediva mai quelle lettere; e Araxy, nel
buio più profondo della notte, quando non lavorava, piangeva, e metteva via i soldi per fare un
viaggio in Italia, e andare a vedere di persona: "Devo raccontargli tante cose, ci sono tante cose che
deve sapere" singhiozzava mordendo il cuscino, perché Stavros, che è tanto buono con lei, non
sopporta le lacrime "e devo restituirgli le monete di Madame Shushanig. E poi devo sapere di
Nubar" Ricorda bene le circostanze della morte del vecchio Hamparzum, Araxy: ed è convinta che,
come dicevano i presagi, Nubar è sopravvissuto.

Quando Shushanig non ha rivisto comparire Araxy, ha avuto un attimo di smarrimento totale.
Allora, davvero, non c'è proprio più nessuna speranza. Il sacchetto di pistacchi è l'ultimo cibo di cui
dispone: ne da tre a ciascuno dei bambini, se ne infila uno in bocca. Quando sarà finito, moriranno
tutti insieme, spera. E si avvia faticosamente nel grigiore dell'alba.
Qualche ora dopo le si accosta una delle vecchie sopravvissute, Berdjuhi, ai bei tempi ordinata
spazzina del Collegio degli americani. Berdjuhi mastica sempre tabacco, di cui ha ancora qualche
briciola in tasca, e lo mescola con erbe, a caso. "Fa comunque sempre schifo" è il suo ritornello,
prodromo di un'inarrestabile loquacità, in cui si mescolano bizzarramente passato e presente, i
pettegolezzi del tempo felice e le piccole, miserabili malignità della carovana.
"Attenta, Shushanig" le sussurra però questa volta "non mollare. Vedi, stiamo arrivando a Konya -
Kenya, la città santa, la città dei dervisci." E infatti gli zaptié sono nervosi, oggi: cavalcano più
vicini alla colonna dei deportati (di solito si tengono a una certa distanza, per via dell'odore),
sospingono avanti bruscamente gli ultimi della lunga fila, così assottigliata dall'epoca della
partenza. Un mese prima, la piccola città, la felicità… ma tutti si proibiscono di pensarci, anche solo
per un istante. Curvi verso terra, ogni gruppo silenziosamente ostile agli altri, i membri superstiti
delle varie famiglie si stringono insieme, privi di curiosità verso qualsiasi cosa che non sia il cibo,
qualsiasi resto di cibo, o di sostanza anche vagamente commestibile. I bambini frugano nello sterco
dei cavalli, alla ricerca dei semi non digeriti, acchiappano lucertole, divorano vermi. Il loro sguardo
è opaco, puntuto, ossessivo.
Ma oggi, anche i bambini per un momento dimenticano la fame che li brucia dentro. La strada che
la carovana percorre si va facendo animata: qualche carro, qualche casa vera appare; qualche oasi di
verde, qualche albero intorno.
Per un momento, tutti covano un'indistinta speranza: "' "Qualcuno ci vedrà, qualcuno capirà che
cosa ci stanno facendo" Ma la gente lungo la strada invece sembra non vederli, li attraversa con
occhi di vetro, o si scansa, con visibile disgusto. E intorno si fa il vuoto.
Gli zaptié in testa, caracollando minacciosamente, urlando, agitando le armi, dirigono il piccolo
convoglio verso una valletta appartata, a ridosso delle mura della città. È un pendio con un po di
erba disseccata, con due alberi stenti e una fontanella.
"Non muovetevi" impone il capo dei gendarmi, ordinando la sosta anche se non è ancora sera
"potete riposarvi qui. Fra poco vi sarà portato del pane." Evidentemente, si vuole evitare il contatto
con la gente della città, e anche la curiosità dei pochi stranieri che vi abitano. Ma non c'era modo di
aggirare come è stato fatto con altri luoghi abitati - questo passaggio obbligato della strada, e così il
capo ha deciso che è meglio dare un po di pane, fermare il con voglio vicino a una sorgente,
lasciandoli bere per una volta, indisturbati.
Il pane viene requisito senza tante storie nelle umili case dei contadini del sobborgo: e una fila di
donne si accosta ai miserabili della valletta, e depone per terra alcune grosse pagnotte.
Ma le armene gridano, vedendo le donne: gridano come pazze, alzando in alto i figli più piccoli
sopra le braccia macilente, gridano così forte che tutta l'aria si riempie dell'eco. Le colpiscono gli
zaptiécoi calci dei fucili, ma le donne gridano, gridano. E come per miracolo dalle antiche mura
fanno capolino gli abitanti, prima pochi ragazzi, poi gli uomini adulti, i vecchi drappeggiati nelle
loro vesti autorevoli, gli imam, i capi spirituali della santa città, quelli che portano il turbante degli
ulema; e poi le donne velate, il console di Germania, Herr Heinrich Mùller, i mercanti, gli artigiani,
perfino il fabbroferraio e il maniscalco con le tenaglie in spalla.
Circondate da una notte di gemiti, gridano le armene, piangono i loro bambini con ritrovata voce,
gemono sommessi i pochi vecchi superstiti. E gli abitanti di Konya capiscono tutto, anche la sorte
che toccherà ai loro armeni, deportati solo qualche giorno prima.
Ma improvvisamente il gran capo dei dervisci alza il suo bastone in aria, e grida, possente: "Questa
non è la volontà del Profeta, che il suo nome sia benedetto. Nutrite e alloggiate questa gente, perché
il suo grido ridiscende contro di noi dai cieli dell'Altissimo, e reca maledizioni" Così avvenne che la
sorte degli armeni superstiti della piccola città fu per un istante sospesa; e che Ismene ritrovò
Shushanig.

Ismene, il prete Isacco e sua moglie Katerina, aiutati dalle lamentatrici e da Nazim lo zoppo,
avevano orecchiato dappertutto, nei giorni successivi alla partenza del convoglio degli armeni. E gli
si era gelato il sangue.
Tutte le informazioni parlavano soltanto di morte. I brutti ceffi dell'Organizzazione speciale si erano
installati nelle case armene; non i curdi, che dopo un veloce ma sistematico saccheggio erano
ritornati alle loro montagne carichi di lenzuola ricamate, di tappeti, di tende, di suppellettili
doviziose e fantastiche. Ancora vent'anni dopo, presso Dyarbekir, il diploma di laurea tutto volute
floreali di Kevork Mendilian, chimico, campeggiava fra gli oggetti più pregiati nella tenda di un
capo curdo, nella sua intatta, elaborata cornice.
Negli orti armeni, le albicocche mature si spaccavano per terra, mentre ortiche e gramigne già alte
coprivano i vialetti ben tenuti del giardino della famiglia.
Nell'ampio salotto, i divani sventrati sbadigliavano alle cornici spezzate, alle cristallerie infrante.
Ma Ismene e i suoi origliavano e spiavano. In una notte senza luna, nella casa vuota ombre veloci si
materializzarono, raccolsero coperte e fotografie, frugarono sotto i mobili con una scopa sottile, e
trovarono le scatole di Leslie, e un ninnolo d'argento a forma di serpente arrotolato con gli occhi di
zaffiro, una scatoletta squisita che Shushanig aveva carissima, regalo viennese di Sempad.
Tutto ciò che si trovava di leggero e di prezioso finiva nelle capaci tasche di Ismene, nella bisaccia
bisunta di Nazim. Così i fazzolettini di bisso di Nevart, con le iniziali N e A graziosamente
intrecciate, così la bambola svizzera di Anahid, la cuginetta ultima nata, ancora intatta nelle sue
veline e nella sua scatola lillà. E la scatoletta di bosso portata a Veron da una zia di ritorno
dall'Italia, con una ghirlandina leggiadra di myosotis intagliata intorno alla scritta "Ricordo di
Pompei" e al volto un po imbambolato della Vergine.
Ismene trovò anche, nel doppio fondo di uno stipo, le cedole del grande prestito obbligazionario
dell'Impero, sottoscritte da Sempad in qualità di suddito fedele ("È una specie di tassa, angelo mio"
ricorda Ismene improvvisamente che Sempad spiegava a Shushanig "bisogna poter dimostrare di
averli comprati…").
Ismene caccia in tasca i titoli, poi indugia un attimo, e rivede il salotto abitato, Madame Nevart che
riordina matassine di seta da ricamo nel suo angolo - e nella sua poltrona - preferiti, Veron che
suona al piano, un Erhard verticale, un motivetto di Mozart, Shushanig che fa conti e Sempad che
pipa beato nuvolette azzurre, con Nubar sulle ginocchia.
La musica di Veron s'interrompe netta, perché Sempad si è alzato e ha girato la manovella del
nuovissimo fonografo, che gli è arrivato da poco, con una pila di dischi occidentali. La voce di
Caruso si diffonde, bizzarramente nasale eppure miracolosa, e Sempad si frega le mani tutto
contento.
Ismene raccoglie questi ricordi, e li depone accuratamente vicino al marito pellerossa e agli altri
quadretti della sua variopinta memoria. Ora raccoglie pietosamente anche il fonografo rotto (c'è
l'impronta sopra di uno scarpone). Finirà in mezzo a tutti i resti del suo passato, e a lei stessa, morta
per difenderli nell'incendio di Smirne.
Ma al momento Ismene con tutta la sua energia pensa a raggiungere il convoglio. Sa della legge che
impedisce di aiutare gli armeni, e quindi deve muoversi sott'acqua, ed è un po' bloccata dal fatto che
tutti conoscono, in città, la sua amicizia con la famiglia.
Di Nazim invece, nessuno sa molto; e niente del suo incontro con Shushanig. Così lo credono,
kaymakam in testa, uno spione fedele, che ha reso molti servigi; mentre lui si aggrappa
all'immagine di Shushanig e del suo mondo perduto, che ormai piange come suo.
Così un giorno, orecchiando all'arrivo un po affannoso di due zaptié a cavallo, sente alcune frasi
veloci, trasmesse al baffuto, rotondo All Suleyman, segretario del kaymakam: "Sono ancora
duecento, quei maledetti. Stanno per arrivare a Konya, e non sappiamo…" poi l'ufficiale abbassa la
voce, e Nazim si appiattisce contro il muro, chiudendo gli occhi.
I due gli passano vicino e, come al solito, non lo vedono neppure. Solo il segretario gli sibila,
impettito:
"Togliti dai piedi, pezzente", cosa di cui Nazim non si offende, essendo egli effettivamente un
pezzente; ma giustamente, All non lo è, e tuttavia non compie mai verso di lui il suo dovere di buon
credente.
Nazim scivola fuori, lascia la ciotola in mano a suo figlio (gli affari sono affari), che ha un vero
talento di mendicante, e si affretta da Ismene, che trova a sussurrare al mercato.
"Bisogna affittare una carrozza, e sparire senza dare l'allarme" dice Nazim.
"Impossibile: io e te in carrozza insieme? Come due signori? E che cosa raccontiamo? E dove
andiamo? Neanche abbiamo il teskerè, e c'è la guerra" risponde frenetica Ismene, che sente un
orologio di morte rimbombare nel suo cuore.
Poi ha un'idea. Prete Isacco. Lui sì che può prendere una carrozza in affitto, e può avere dei motivi
per andare in un'altra città. E così, presto presto, Isacco si inventa un cugino vescovo, sua moglie
dei vistosi parenti che arrivano insieme al vescovo. Il vero vescovo viene messo al corrente e, un po'
riluttante, accetta di collaborare: presta la carrozza della Chiesa, che viene stipata di cibo. Tutto si
compie di notte, tutto è trasportato dalle lamentatrici e dalle donne dei cimiteri, sotto le loro ampie
gabbane. Isacco tira fuori le due bottiglie di arak che aveva messo da parte alla nascita del figlio, e
al ricordo della morte del piccolo e della sollecitudine di Sempad s'inginocchia e si prostra per terra,
pregando fervidamente la Theotokos, la Madre di Dio, perché accompagni la spedizione.

Verso l'alba, con un barbuto monaco in serpa, che è in verità un esperto carrettiere, travestito e ben
pagato, la carrozza, con l'antico stemma vescovile sulle portiere, esce dalla città. Isacco ha assunto
l'aria più autorevole e indossato una veste pulita. Ismene è rincantucciata dentro, insieme a Nazim,
mentre Katerina, anche lei rivestita a festa, sta affacciata al finestrino con aria posata e tranquilla.
La parte più pericolosa del viaggio sarà quando devieranno dal cammino dichiarato per affrontare le
ripide salite del Tauro e raggiungere Konya per la via più breve.
Sulla strada, l'orrore li assale. In una valletta, dove il carrettiere ha detto che potranno ristorarsi a
una fonte perenne che ha davanti un piccolo lago, trovano il terreno completamente coperto di
migliaia di cadaveri imputriditi, e la fonte inquinata. Sfidano il puzzo atroce, nell'angoscia, per
guardare, ma i morti sono di un'altra carovana, non riconoscono nessuno, tranne il fatto, ovvio, che
sono tutti armeni. Giacciono, spogliati di tutto, in attesa delle trombe della Resurrezione, e nessuno
ha pregato per loro.
Isacco vorrebbe fermarsi, ma Ismene: "Matto di un prete! I banditi magari sono ancora nei dintorni.
Fa un segno di croce, e andiamo". Effettivamente, una carrozza isolata è tutt'altro che sicura, e i
giorni passano in un'ansia sempre più atroce, mentre i cadaveri abbandonati, e già guasti, diventano
più numerosi. L'unico tranquillo è Nazim, che prega il Profeta e si sente paladino di Harun-al
Rashid.
Lui sa che raggiungerà Shushanig, e che la sua salvezza è affidata a lui, pegno del Paradiso che lo
aspetta.
Viaggiando di notte compiono velocemente l'ultimo tratto di strada e raggiungono Konya sul far
dell'alba.
Hanno mascherato gli stemmi sulle portiere della carrozza, perché sono passati in territorio curdo, e
quelli non vanno tanto per il sottile. Ora si fermano in un posto tranquillo: non c'è in verità un
vescovo greco a Konya, e quindi ora sono nelle mani di Nazim.
Nazim scende e scompare velocemente, saltellando: la Confraternita dei Mendicanti ha compagni
dappertutto, e Nazim interpella un fornaio che gli da una pagnotta croccante per amor di Dio, poi si
affretta verso la città. I tre nella carrozza passano momenti di angoscia, e attingono frequentemente
alla bottiglia di arak.

Il giorno è ormai alto. Ismene decide di esibire il prete. Konya è una città molto religiosa, e i papas
greci vanno spesso in giro, sono anche abili uomini d'affari. Isacco si è seduto per terra nelle sue
vesti sacerdotali, col suo cappello in testa, e sta appoggiato alla carrozza come se dormisse (ma gli
occhi vigili spiano) È insolito come spettacolo, ma lui è pur sempre un religioso, e gli stemmi della
carrozza, ricomparsi, lo proteggono agli occhi dei paesani tranquilli che vanno per le loro faccende.
L'odore del pane fresco gli stuzzica le narici, ma Isacco, che non ha molta iniziativa, non osa
muoversi e sta silenzioso.
Passano così tre ore. Isacco e Ismene, impazienti, bisbigliano e stanno per muoversi, quando un
sussurro sommesso li raggiunge da un carro di fieno che si è accostato piano, tirato da due splendidi
bovi lunati.
Il carro si ferma quietamente un poco più in là.
Il contadino a cassetta fissa il vuoto, impassibile. Dal fieno emergono Nazim e un suo compare, più
lercio e laido di lui, con un solo occhio e cenci multicolori addosso.
"Gli armeni stanno arrivando" dice il nuovo venuto "saranno qui fra poche ore. Sono ridotti male,
peggio di un pidocchio nella barba di un mendicante. E aiutarli è proibito."
"Lo sappiamo, lo sappiamo" risponde Ismene "ma fra loro ci sono dei miei parenti, e se li trovo"
estrae due zecchini d'oro e li fa brillare per un momento "c'è del buono per tutti." Tarik, così si
chiama il monocolo, alza le mani con un gesto languido, educato: "Per farvi arrivare vicino a loro,
dovrò parlare con gli zaptié della guardia. E di questi tempi non si parla mai gratis". Ismene fa un
gesto stranamente vivace. Come un prestigiatore, estrae dalla tasca due o tre dei suoi famosi
fazzoletti colorati; e nell'angolo di uno, ecco, è contenuta una moneta d'oro.
"Con questa ne accontenti venti, di zaptié" dice "e ti rimane ancora qualcosa incollato alla mano. E
poi io pago, e bene, a lavoro finito." Dal fieno escono allora altri quattro cenciosi personaggi, che
svelti svelti scaricano il fieno che è tutto compattamente tenuto insieme da corde scorrevoli, e
mettono in luce le quattro solide casse sottostanti, sistemate dorso a dorso a formare un grosso cubo,
con tanti cassetti più piccoli rivolti verso l'esterno. Di fronte a questo prodigio dell'arte
contrabbandiera, i greci stanno in ammirato silenzio, ma Tarik, fierissimo, fa vedere: apre i capaci
cassetti, ognuno dei quali è destinato a contenere una merce diversa.
"Bisogna pur vivere" sospira "soprattutto in tempo di guerra. Così noi possiamo caricare e scaricare
velocissimi; e d'altronde nessuno guarda dalla nostra parte, quando lavoriamo. I gendarmi sono
pagati apposta. Il carro è lento, ma è sicuro; giunti a destinazione, scarichiamo i cassetti e ne
troviamo degli altri di ricambio, pronti." In un baleno il gruppo svuota la carrozza. Katerina si
stringe nel suo scialle, silenziosa, e scivola fuori perché molte cose sono sistemate sotto i sedili. Il
cibo per gli armeni riempie alcuni cassetti; in altri trovano posto utensili, coperte, pentole. Poi tutti
vengono richiusi in fretta, e le balle di fieno tornano al loro posto. Non si vede nulla, tranne un paio
di Corde. In appositi vani scavati nel fieno riscompaiono i quattro aiutanti, e il carro avanza un poco
e si ferma definitivamente sotto un grande platano, da cui sembra scaturire un esile filo d'acqua.
Il contadino stacca i buoi e li porta a bere; poi li lascia pascolare vicino, come se non avesse un
pensiero al mondo. Tira fuori una corta pipetta, si siede sotto il platano e si immerge in nuvole di
puzzolente fumo azzurrino. Sembra un pittoresco quadro di genere: di qua la carrozza nera del
Vescovado greco (con gli stemmi), il prete con la grande croce pettorale e il vistoso cappello e il
corto codino ben annodato, la moglie del prete, piccola, stretta nel suo scialle nero, Ismene con i
maestosi orecchini da zingara e gli occhi immensi e il naso puntuto, il mendicante zoppo in posa di
umiltà: tutti divorano il pane fresco con Jceta e olive. La bottiglia di arak circola lentamente.
Dall'altra parte, il carro del fieno e il suo pacifico contadino, che adesso mangia anche lui, con
calma, con Tarik, e beve la fresca acqua scintillante della fontanella.
E sotto, tutto ribolle, dietro ogni fronte strisciano pensieri e progetti di paura e di gloria, di avidità e
di morte. Dentro il fieno, gli altri, silenziosi come belve in agguato.
Mentre si dissetano, e Isacco si ricompone la barba, ecco arriva su un asinello un gendarme. E
Ismail Muzaffer, il capo della guardia dell'ulema, amico di un amico di Nazim. "Stanno arrivando"
dice "e li faranno sostare nella valletta delle Rondini, che è vicina alla città ma chiusa da tutti i lati
da prati digradanti, con una sola strada che vi penetra. E c'è anche abbondante acqua. Vogliono che
non facciano storie, qui; gli daranno del pane, li terranno tranquilli. Poi, li faranno ripartire
domattina all'alba" aggiunge "la strada per Aleppo è ancora lunga"; e sorride cupo, fischiando un po'
attraverso i denti radi.
Presto presto, la carrozza viene accostata al carro, dal dietro, e i cavalli staccati e impastoiati vicino
al platano.
Il contadino rimonta in serpa, spinge una leva nascosta sotto il sedile, e una parte del fieno scivola
in avanti, a ricoprire la parte superiore della carrozza, che ora sembra un altro carro qualsiasi. I
quattro mendicanti nascosti nel fieno, balzati fuori, con abili mosse aggiustano il travestimento e
risistemano il fieno rimasto sul carro. Agiscono con sincronia e velocità, e in pochi minuti tutto è a
posto.
Katerina resterà col contadino sotto il platano, figurando di essere sua moglie. Il carrettiere, che non
è stato pagato per questo, si stende anche lui a dormire sotto l'albero, nella grata frescura. Isacco è
rimasto in camicia: si è tolto la tonaca e il cappello, li ha gettati nella carrozza, e ora nasconde il
codino sotto un berretto basso. Nazim si sfila il lercio gilè che ha indosso e glielo drappeggia
cerimoniosamente sulle spalle.
Ismene non ha bisogno di travestimenti: ognuno, di qualsiasi razza, riconosce in lei una
lamentatrice, e nessuno oserebbe sbarrarle il passo.
Così Nazim si mette alla guida, e i grandi buoi si avvicinano lentamente. Troppo lentamente per
l'impazienza smaniosa dei soccorritori, ma il mulino di Dio macina giusto, e il carro arriva in vista
della vailetta, procedendo lungo le mura, all'esterno, proprio mentre la miserabile processione
sopravviene dal Nord, per la strada grande, in mezzo alla polvere e alle urla degli zaptié a cavallo.
Il carro, simile a cento altri, si blocca dietro un folto di cespugli spinosi. Ma la vista è eccellente.
Isacco, Ismene, Nazim scendono e guardano.
Guardano lo spettacolo miserabile delle donne che avanzano, strascicando i piedi, nudi nella
polvere che è dappertutto, con i volti reclinati verso terra e le spalle curve. Guardano i bambini
scheletrici, che fissano anche loro la strada, e improvvisamente capiscono che quelle poche creature
cenciose che cercano per terra un cibo inesistente sono tutto ciò che rimane delle migliaia che sono
partite un mese prima dalla città, sui grandi carri.
Isacco, Ismene, Nazim guardano e piangono silenziosamente.
Non riconoscono nessuno; ma improvvisamente capiscono che qui è in azione una malvagità più
grande di loro, che faticano a concepire; e con l'istintiva saggezza dei semplici sanno che dovranno
essere astuti e molto, molto prudenti.
Zitti, quasi non respirando, assistono agli ordini di sosta, vedono l'infinita stanchezza delle armene
che si accasciano, e i bambini dai visetti folli che si precipitano a bere. E poi vedono arrivare le
donne con il pane, e sentono l'urlo possente del piccolo popolo allo stremo, e l'intervento dell'ulema.
Subito Ismene si rende conto che quella è l'occasione che aspettava; ma come portar giù il cibo,
come scaricare il carro? In quel momento, vede Nubar, e lo riconosce prima di tutto con gli occhi
del cuore, il suo buffo ometto che ha cantato con lei al funerale di Hamparzum, mille anni fa.
Nubar non sembra star male; il suo piccolo viso è ancora rotondo, ma gli occhi si sono fatti
immensi, selvaggi. Se c'è lui, ci saranno anche gli altri della famiglia - sospirano insieme Ismene e
Isacco; e sussurrano qualcosa a Nazim, che, sveltissimo, ha già scaricato un po' di scatolette di
carne e di barattoli di latte in polvere.
Ma ecco, spinti dalla voce dell'uomo di Dio, gli abitanti di Konya stanno entrando nella piccola
valle, con ciotole di latte, con unguenti, con vino. Furiosi, gli zaptié vengono pacificamente ma con
decisione spinti da parte, e se ne stanno in gruppo, confabulando.
Finalmente uno si stacca, monta a cavallo e galoppa via, certo a chiedere ordini.
Allora Ismene, Isacco e Nazim con infinita attenzione - loro, nessuno li conosce - si mescolano alla
gente e cominciano a guardare in viso donne e bambini, e cercano di raggiungere Nubar. Ma,
all'arrivo del cibo, ogni gruppo si è istintivamente ricomposto, e così è Nazim a scorgere per primo,
da lontano, la testa di Shushanig.
Vola verso di lei, che è accasciata ai piedi di un albero e sta addentando quasi svogliatamente un
pezzo di pane, le si inginocchia davanti, e dice, in un soffio:
"Valide Hanum, sono qui. Sono io. Non ti preoccupare più"; e poi le bacia con trasporto le mani su
dice e gonfie.
" Shushanig lo guarda, attonita, e tace. Inorno a lei, Veron, Azniv, le bambine e Nubar, tutti
tacciono. Finché Shushanig si raddrizza un poco, e con il suo inimitabile gesto di benvenuto, che
riaffiora come da un'acqua tersa un'immagine, gli risponde:
"Nazim. Che tu sia il benvenuto. Non ti possiamo più accogliere come una volta".
Ma Ismene è già lì, e con un fazzoletto pulito imbevuto d'acqua le deterge la fronte, il viso, gli occhi
ingrommati di sudore. E sussurra: "Abbiamo cibo, siamo qui. C'è anche Isacco".
Poi si dedica con fervore a farle bere un po d'acqua, a darle un po' di cibo, a curarle i piedi scorticati
e gonfi. E Shushanig sprofonda in un torpore benefico e, per la prima volta da un mese, veramente
si addormenta.
Allora Ismene tiene consiglio con le ragazze, dopo aver recato conforto anche a loro. Isacco e
Nazim vanno e vengono con cibo, vino, vestiti, sgusciando attenti in mezzo alla confusione del
campo. Le bambine e Nubar hanno mangiato - non troppo, si è raccomandata Shushanig, che sa che
non c'è niente di peggio dopo un lungo digiuno - e ora dormono, sfiniti, un pietoso gruppetto
raggomitolato insieme (ormai sanno di dover fare sempre così, per un riflesso di difesa reciproca)
"Molta della roba che mi sono portata appresso non è trasportabile da gente che deve camminare a
piedi" pensa Ismene. Le scarpe, i vestiti si possono indossare: ma non si deve, mai, attirare
l'attenzione di un gendarme, quindi è meglio metterli sotto gli stracci puzzolenti, che non si possono
buttar via.
"Sono la nostra difesa ultima" sorride amara Azniv. "E trascinarsi dietro una valigia è impossibile,
per gente così debilitata" riflette Ismene fra sé "a parte che gliela porterebbero via domani." Mille
ipotesi assurde di salvataggio si confondono nella sua testa, e nessuna appare plausibile. E intanto il
tempo passa, e scende la sera. I deportati giacciono qua e là come bambole rotte, inerti e sfiniti.
Gli abitanti di Kenya nel frattempo se ne sono andati.
Hanno obbedito all'ulema, torneranno domani.
E arriva il console tedesco, Herr Mùller, con bende e medicine, accompagnato da una linda
crocerossina. È un uomo rigido e preciso, ma non disumano: ha orrore per questo fatto delle
deportazioni degli armeni, ma non riesce a pensare nei termini di un'iniziativa personale. Ora, segue
volentieri Vulema, e ha pensato, giustamente, che questa povera gente avrà anche bisogno di essere
curata.
Ma curare duecento persone con un po' di bendaggi e di iodio equivale a ben poco. Questi hanno
attraversato tutti gli orrori, hanno bevuto acqua inquinata, hanno frugato nello sterco dei cavalli, e
nel proprio. Azniv ride, selvaggia, a quella vista incongrua, e sibila:
"Sei venuto a vedere il recinto delle bestie? Guarda che siamo contagiosi…".
Herr Mùller, contegnoso, si inginocchia presso una vecchia che esibisce una piaga purulenta sopra il
ginocchio, e rapidamente pulisce la ferita e la benda.
Poi tira fuori una fiaschetta e l'accosta alle labbra bluastre della donna, che beve avidamente un
sorso e ricade, stecchita. È la povera Berdjuhi, che ha mangiato a sufficienza, dopo tanto tempo: e
poi si è sdraiata, e la piaga non le fa più male. E allora ha sentito un grande calore, e nel tremolio
del pomeriggio che finisce ha visto suo figlio Davit, morto da tanti anni, che le porge da bere. È
Mùller, in realtà, che lei vede come un angelo: a lui Berdjuhi si abbandona, fiduciosa, e muore in
pace. Isacco, che sopravviene, le chiude gli occhi: vede l'anima tenera che prova le ali, e finalmente
si perdona.
L'arrivo di Mùller ha offerto a Ismene e al suo gruppetto un utile diversivo. I deportati stavano
cominciando ad accorgersi di questa incongrua presenza, e ciò non è bene. Ma subito la loro ridotta
capacità di attenzione si è spostata su Mùller, e Ismene sa di avere ora un breve momento per
andarsene. Già gli zaptié cominciano a riavvicinarsi, minacciosi, e solo Mùller, che è un alleato, un
tedesco, li tiene in rispetto. Per fortuna il tedesco è un uomo preciso, e niente lo farà fermare prima
di aver finito medicine e bendaggi.
Ma la sua infermiera ha intuito qualcosa, e si accosta silenziosamente. Fa scivolare in mano a
Ismene un biglietto, sussurrando: "Stasera dopo le dieci venite a cercarmi qui". Poi si allontana in
fretta.
Ismene vorrebbe salutare Shushanig, ma Shushanig dorme profondamente, e i suoi lineamenti
affaticati sembrano così bisognosi di riposo. Allora sospira, abbraccia Veron (Azniv si tira indietro
in fretta) e Nubar, che dorme anche lui pacifico. Tutto sembra così quieto. Brilla nel tramonto la
stella della sera, e le mura antiche della città incombono protettrici.
Ismene ha dato alle ragazze i sacchetti di cibo da nascondere sotto le vesti, due bisacce con l'acqua,
un po' di soldi, e un pacchettino con le preziose fotografie di famiglia che ha recuperato, insieme
alla scatoletta con gli occhi di zaffiro di Shushanig.
"Questo è tutto, colombelle" sospira; e poi promette: "Si dice che vi porteranno ad Aleppo; io sarò
là ad aspettarvi, con il dottor Zareh. Troveremo il modo di farvi uscire dal campo" Poi ha un secco
singhiozzo e corre via infelice, spingendo davanti a sé Isacco. Non vede Nazim, ma non si
preoccupa: lui sa badare a se stesso.
E infatti Nazim è entrato in un fruttuoso colloquio con uno degli zaptié, che ha riconosciuto come
un vecchio compare, finito in galera qualche anno prima, poi uscito gloriosamente per l'occasione
della lotta contro gli armeni. È un aggregato dell'Organizzazione speciale, un esecutore diventato
piuttosto bravo a torturare e violentare. Ma Nazim ricorda bene l'avidità spietata dell'uomo.
Non può essere scomparsa.
E allora si finge quello che è, un mendicante bramoso e furbo; e gli sussurra di essere inviato da un
gran signore, un Aghà con illimitate possibilità di denaro, per salvare una famiglia con cui ha un
debito di onore. Ma non vuole esporsi, e ha mandato lui.
Luccicano gli occhi dello zaptié. Da questi miserabili non c'è da ottenere più nulla, a parte il piacere
di vederli morire; perché non guadagnarci sopra, se è possibile? Poi, se si riesce ad avere i soldi in
anticipo, si possono pure uccidere lo stesso, magari all'ultimo momento: quando già si credono in
salvo, si fa una denuncia al tenente…
Ma Nazim non è nato ieri, e ha passato una vita a fare la spia: segue benissimo i tortuosi pensieri
dell'altro, e sorride. Ma fa finta di niente. "Chi sono i tuoi protetti?" gli chiede l'uomo, falsamente
sollecito. "Lo saprai a tempo debito" risponde allusivo Nazim. "C'è in gioco un mucchio di soldi da
dividere fra noi due, vecchio compare. Tu cerca di non ucciderne nessuno; io ho la lingua sigillata,
per il momento. Ma seguirò la carovana da vicino. Intanto tieni" e gli porge una scintillante sovrana
di Vittoria Regina. L'altro tace, deglutendo, e nasconde velocemente la moneta. Davvero sono
diabolici gli armeni se rendono tanto, anche in questo stato…
Giunti al carro, Ismene e Isacco si guardano infine negli occhi, scoraggiati, avviliti. Che fare del
resto della roba? Che fare ancora per Shushanig e per i sopravvissuti della famiglia? Devono tornare
indietro, restituire la carrozza, al vescovo, e poi? Pochi giorni ancora, e tutto il convoglio non
esisterà più, quella povera gente sarà finita. Nessuno di loro sembra in grado di sopravvivere
all'ultima terribile parte del cammino. Ai loro occhi esperti non è sfuggito lo stato di estrema
prostrazione fisica, di disordine mentale in cui sono ridotti. E gli occhi selvaggi di Azniv li
perseguitano.
Nel buio sconosciuto che incombe, Isacco e Ismene piangono amaramente.
Ma un fruscio e un tonfo regolare li avverte dell'arrivo di Nazim. Ismene rabbrividisce. Ancora non
è capace di credergli del tutto (eppure non sa quello che lui ha fatto in quella sera di maggio col
corteggiatore di Azniv: cupo segreto che Nazim riveste di stracciati pensieri, e seppellisce ogni
giorno dentro di sé). Alla fioca luce Nazim vede i due greci seduti vicini, che piangono sconsolati, e
improvvisamente pensa: "Io sono più furbo di loro. Io salverò la Valide Hanum. Io non sono un
uomo da poco" e altrettanto improvvisamente sente la pietà vera dell'uomo, la pietà grande che ci
rende fratelli: si inginocchia vicino a loro, con fatica, piegando la gamba offesa, e li abbraccia. Sono
loro tre, così soli, contro il Grande Male.
Poi Nazim racconta, in fretta, e dice: "Io non tornerò indietro. Mio figlio può pensare a sua madre, e
all'altra moglie. Io ho visto il mio destino. Li salverò, e poi farò il mendicante ad Aleppo, o mi
trascinerò fino alla Mecca per morire". Ma prima bisogna riportare indietro il carro e ricuperare la
carrozza, e Katerina. Stranamente, nessuno si preoccupa di Katerina, sola da lunghe ore. Lei vive in
un mondo a parte, in colloquio continuo col figlio morto; e infatti la ritrovano ancora appoggiata
all'albero, nella stessa posizione in cui era quando se ne sono andati. Isacco le si avvicina, le pone
gentilmente una mano sulla guancia, per riscuoterla, come fa di solito, con delicatezza. Ma Katerina
non reagisce, e crolla da un lato. È fredda, stecchita.
Isacco non dice niente, le chiude gli occhi con la mano calda, la distende per terra e le intreccia le
mani sul petto. Poi si toglie la croce, che aveva nascosto sotto la camicia, e gliela infila al collo.
"Povera moglie apprensiva e timorosa, da quanti anni eri con me" pensa Isacco; e indovina che lei,
timida, non ha detto niente ma li ha seguiti di nascosto; e quando ha visto, dietro le loro spalle, il
convoglio degli armeni moribondi, con i bambini moribondi, ha pensato che il mondo era davvero
un luogo troppo duro, e che non ci voleva più stare. Così ha rifatto la strada, si è seduta di nuovo
sotto l'albero, ha mandato un piccolo patetico sorriso d'addio al suo caro Isacco, e ha permesso al
suo cuore di spezzarsi e di raggiungere Dimitraki, il suo bambino perduto.
Sente, Isacco, la sua piccola anima aleggiare intorno, e dirgli addio. "Non mi hai tradito, mia cara
Katerina, non aver timore" dice allora Isacco solennemente "ti affido a san Giorgio, che combatte il
drago, e che ti condurrà dal nostro piccolo, fra le rose del giardino di Dio. Là, aspettatemi con
fiducia, e pregate per me, miei carissimi. Ancora un poco devo stare qui, per via dei miei peccati,
della mia sciocca goffaggine. Ma se voi due mi aiutate, presto mi riscatterò." Ora, anche Isacco non
ha più nessuno, e Ismene è libera come l'aria. Il piano perciò è presto fatto, e Isacco lo espone a
parole.
"Seppelliamo Katerina sotto l'albero, questa notte stessa, e io la benedirò; tu Ismene dì una
lamentazione breve: a Katerina andrà bene così. Lei era di poche parole, e poi adesso è felice. Poi
vendiamo agli amici di Nazim, qui, che ci hanno aiutati, il resto del contenuto della carrozza, e
fingiamo di essere stati assaliti dopo Konya, in aperta campagna, sulla strada del ritorno. Questi
buoni amici di Nazim faranno anche questo, di portare indietro la carrozza, rovesciarla, e rubare i
cavalli.
"Noi tre scompariremo. Affitteremo due asinelli e ce ne andremo piano piano verso Aleppo, due
vecchi coniugi greci e un mendicante zoppo, compagni occasionali, diretti verso la grande città.
"Dividiamo il tesoretto che ancora custodisce Ismene, in modo che se uno di noi viene intercettato,
gli altri possano proseguire."
Ismene ha fatto una smorfia, ma sa che il concetto è giusto. Inoltre, si è fatta dare da Shushanig
quasi tutto quello che ancora aveva in tasca, per riuscire a difenderla dall'esterno, a vegliare su di
lei. Il fieno si riapre, la cassa viene svuotata, e il contenuto allineato per terra, sotto l'occhio vigile di
Nazim. Poi il carro, svuotato, si allontana lentamente, col suo guidatore impassibile, che tira
scintille dalla sua pipa. Ismene, accoccolata sulla tomba scavata in fretta per Katerina, le sussurra
parole di donne, le canta una ninnananna.
L'acqua della fonte vicina gorgoglia quietamente perdendosi fra l'erba: e Ismene dimentica
l'appuntamento con la crocerossina. Molti anni dopo, la ritroverà a Smirne, dove tanti destini si
incrociano. Ma questa è un'altra storia.
Nazim e Isacco si danno da fare: ma ormai Nazim comanda e Isacco, che ha gettato via con gli abiti
la dignità sacerdotale, fa l'ultimo sacrificio: corre da Ismene e si fa tagliare il codino rivelatore.
Potrà essere più utile così, come umile aiutante del mendicante.

E così trascorre la notte. Ombre vanno, ombre vengono.


Fra sussurri e bisbigli, la Confraternita dei Mendicanti si occupa di tutto. Un tizio alto e agile afferra
le redini della carrozza, vi getta dentro in disordine gli abiti da prete di Isacco, e la porta via piano,
nel buio. Un altro uomo va con lui, per i cavalli.
Nazim conduce, nella notte appena rischiarata da due lanterne cieche, un'asta improvvisata di tutto
ciò che non può essere caricato sui due asini, che sono già arrivati, e attendono pazienti vicino al
grande platano.
Scatole di latte in polvere, salsicce, coperte, sacchetti di mele secche passano di mano in mano
velocemente; una quota è riservata alle guardie, che hanno visto durante il giorno il mitico carro di
fieno dei contrabbandieri sostare sotto il platano, e sanno di doversi tenere alla larga fino alla
mattina seguente.
Nell'ampia fascia che gli avvolge il ventre, Nazim stiva i denari che riceve, senza contarli: appena
una palpatina. I suoi polpastrelli sono sensibili come quelli di un pianista, e altrettanto esercitati. Poi
nessuno lo imbroglierebbe, qui: i suoi compagni non discutono la sua scelta, e più d'uno prova una
sorta di ruvida pietà per gli armeni, oggi divenuti più miserabili di loro: anche perché sono
perseguitati dai Senzadio del nuovo governo. Capiscono, i mendicanti, che in un mondo senza Dio
anche il loro mestiere diventa difficile, e la carità, rara. E poi, è tempo di guerra: non è meglio
combattere i nemici esterni, piuttosto che crearsene di interni? La secolare saggezza di mendicanti e
mercanti, in Oriente, si è sempre incontrata nell'ardua abilità del compromesso a metà strada.
Nelle Corti dei Miracoli della malavita, che fioriscono dovunque, e sono il rovescio del tessuto di
ogni società organizzata, le cose hanno una loro logica, per quanto capovolta; e vi trovano spazio
l'avidità, la crudeltà, l'astuzia, la fuga dalla fame: ma non il fanatismo.
Perché eliminare tutti gli armeni, che producono ricchezza e cospicue elemosine? (nell'Impero
Ottomano, come in ogni società religiosa, l'elemosina garantisce la ricchezza, e la giustifica…).
"La pecora si tosa, non si ammazza" così bronto lano fra loro i Fratelli mendicanti, che dal
selvaggio assalto ai beni degli armeni non hanno ricavato che briciole, mentre non ricevono più le
usuali, ricche elemosine alle porte delle chiese e delle case, e durante le grandi festività cristiane.
Nessuno di loro denuncerebbe Nazim; e poi, stanno avendo una nottata fortunata. Il capo, Hassan
Mustafa, si fa avanti solo alla fine. È un uomo grande e grosso, sul quale gli stracci variopinti,
insegna del suo mestiere, si dispongono con innata dignità.
"Fai attenzione a te e ai tuoi amici, Nazim; e che Allah sia con voi. Prendete queste bestie" e gli
consegna un bastone e una corda, dietro alla quale trotterellano due capre bene in carne. "Suona
meglio così, e poi, avrete il latte." Spunta il primo luccichio dell'alba. Nazim monta su un asino,
Ismene su un altro, e si vela la faccia.
Isacco afferra il bastone e la corda, e segue con le due capre. E così si allontanano nel chiarore
crescente verso sud, precedendo di poco il convoglio degli armeni, senza far piani, col cuore in
tumulto e l'anima in pace.

In quei giorni caldi di fine giugno, Yerwant riceve finalmente una lettera da Zareh, da Aleppo. La
lettera, curioso, è in francese. Zareh dice che la guerra va bene per l'Impero, ma che i bei giorni
sono finiti, i consolati chiudono, i lunghi pomeriggi di tè e di bridge sono ormai rari. Chiede notizie,
chiacchiera un poco di pettegolezzi familiari, poi tre righe sono cancellate, si intravede solo una S.
Forse, pensa Yerwant, l'iniziale di Sempad. I saluti finali sembrano casuali, benché affettuosi:
"Caro fratello, spero di sentirti o di rivederti presto, anche perché voglio che tu mi informi sugli
ultimi progressi della chirurgia dell'orecchio. Ho dei pazienti che potrebbero giovarsene". Yerwant
contempla la lettera sinistramente oscurata dalla censura, e febbrilmente tenta di vedere cosa c'era
scritto sotto, mettendola davanti a una lampada molto potente. Poi gratta, cincischia, finché fa un
buco nel foglio. E non ha capito niente.
Da quando in qua Zareh fa il chirurgo? Lui è un medico generico, al massimo incide un foruncolo.
Che senso ha quella chiusura così specifica? E perché scrive in francese? Cosa voleva veramente
dire Zareh? L'apparente leggerezza e il tono discorsivo della lettera non sono suoi; stridono,
suonano falsi; qualche cosa di angoscioso traspare da ogni riga.
Yerwant capisce che, anche mutilata, la lettera trasmette un messaggio: e chiuso nel suo studio
legge e rilegge freneticamente le poche righe del fratello.
Avrà ricevuto il suo telegramma? Perché non vi accenna?
E dov'è Sempad, dov'è finito, e la sua festosa Shushanig, e i figli, le sorelle, i cugini?
Sono giorni che Yerwant sente, appena si addormenta, dei passi rimbombare nel suo cervello; passi
sempre uguali, strascicati, interminabili. Appena apre gli occhi, i passi si fermano. Ha preso un po
di laudano, ha bevuto del vecchio cognac, è andato a trovare una donna accogliente che per lui ha
sempre tempo, e cuore e corpo ben disposti: ma niente è servito.
Ora prende una decisione, furiosamente. Afferra la lettera, suona il campanello. Appare il cameriere,
che gli infila svelto la giacca di lino bianco e gli da il bastone e il cappello. "Professore, torna per
cena?" domanda sommessamente. Sa benissimo che non avrà risposte precise, ma Teresa vuole così.
"Non so. Dite alla contessa di non aspettarmi" risponde brusco, come tante altre volte; ed esce di
casa velocemente.
Yerwant ha deciso di tornare dalla sua amica, che è l'unica che ha letto dentro di lui, lo ha visto
smarrito e turbato. A lei ha accennato qualcosa. Maria Ferronato è una vedova intelligente, che
arrotonda le sue scarse rendite con qualche frequentazione ben scelta; ed è molto brava ad ascoltare.
Ora, Yerwant non si era annunciato, ma lei capisce al volo e lo riceve lo stesso. Manda
discretamente la sua cuoca Ester a disdire un altro appuntamento, e sotto la lampada a perline
colorate lei e il professore leggono, con le teste accostate.
"Non capisco, non capisco niente" esplode Yerwant, e lacrime amare gli scendono
improvvisamente, violentemente giù per le guance. "Cosa devo fare?" Le si aggrappa come un
bambino. Nessuno l'ha mai visto così, spaurito e nudo nella sua ansia, che viene da generazioni di
lontane paure, di stermini, di cacce all'uomo. La sua austera giacca bianca si inumidisce di pianto.
Allora Maria gli prende le mani, lo attira sul suo petto, lo culla nella luce dolce dell'abat-jour a
perline.
E intanto gli sottrae la lettera dalle mani, la liscia attentamente, e legge lo scorrevole francese di
Zareh.
Le pare di essere entrata in un romanzo; ci deve essere un senso riposto. Il bridge, no; ma il
consolato, sì, ci siamo. E la parte finale suggerisce il modo.
Maria si sente una leonessa, e intelligente per di più. "Se no ghe fussimo noialtri veneti, sti orientali
no i capirla gnente" sussurra alla fida cuoca Ester, nel frattempo rientrata, che ha fatto capolino
dalla cucina, ordinandole di preparare un caffè bello forte per due, e un grande bicchiere d'acqua
con un cucchiaio di marmellata d'arance dentro, come piace al professore.
"Ora ti spiego" gli dice dopo aver bevuto il caffè "mi pare di aver capito. L'accenno al consolato è
molto importante: tuo fratello è medico del consolato francese, non è vero? Dunque ti suggerisce di
scrivergli là, non al suo indirizzo privato; e, possibilmente, penso che dovresti farlo per via
diplomatica: non conosci un ambasciatore?"
Yerwant appare perplesso, ma sollevato. Fare qualcosa, è questo di cui ha bisogno.
"E poi" soggiunge Maria "credo che ti suggerisca di scrivergli di nascosto. Mandagli qualche cosa
di insospettabile: un libro di medicina, a cui puoi sostituire qualche pagina. Si può fare, o in una
stamperia, o con le nuove macchine da scrivere."
Yerwant, che è sempre all'avanguardia per tutto ciò che è nuovo e segno di progresso, infatti ce l'ha
macchina da scrivere: una splendida Remington arrivata dall'Inghilterra. Ed è uno scherzo per lui
prendere un numero appena arrivato della "Revue de Otorhinolaryngologie", togliere due pagine
interne e sostituirle con una lettera in francese, composta in bei caratteri.
Presto presto, in due giorni la rivista manipolata è pronta, piena di domande nervose e urgenti (ma
in fondo Yerwant sa già molte risposte…).
La dolce Maria riceve un bouquet di meravigliose gardenie - un fiore che Yerwant ama molto - e in
mezzo ai fiori, in bella evidenza, c'è una scatolina dorata, e dentro un medaglione finissimo, con un
paesaggio alpino cesellato a smalto. Yerwant sa che lei ama la Svizzera, e una volta l'ha portata con
sé a Zurigo.
Il conte Giusto degli Adimari, ex ambasciatore a Berlino, a cui Yerwant ha salvato il figlio, che è
riuscito a operare con successo nonostante fosse dato per morto a causa di una mastoidite purulenta,
riceve una pressante telefonata, e si affretta ad aiutare l'illustre amico: sicché la rivista parte per
Aleppo in meno di una settimana.
Il conte poi, di suo, per fare cosa grata all'amico chirurgo, s'informa discretamente: e ciò che
apprende lo agghiaccia. Il console Gorrini da Trebisonda sta mandando al ministero lettere su
lettere, e racconta episodi terribili, con l'angoscia del testimone oculare che non può far niente. La
sua stessa incolumità è in pericolo, tuttavia Gorrini accoglie al consolato alcuni bambini armeni.
Tutti gli uomini armeni di Trebisonda, scrive Gorrini, sono stati eliminati annegandoli nel Mar
Nero.
Egli ha visto le barche cariche di uomini incatenati spinte al largo, e poi colate a picco dai gendarmi
che sparavano dalla riva; ha visto le miserabili processioni degli esiliati, le donne e i vecchi e i
bambini, passare sotto le finestre chiuse e presidiate del consolato d'Italia, gridando pietà. E di
notte, con suo grave rischio personale, Giacomo Gorrini è corso fuori dalla città sfidando il
coprifuoco, e ha cercato di portare qualche aiuto.
Tutto quello che ha potuto fare è accettare dalle madri disperate l'affidamento di alcuni bambini.
Ma, nei giorni successivi, il consolato è stato perquisito e tutti i bambini portati via, tranne due
piccolini, che sua moglie ha stretto fra le braccia, dichiarandoli figli suoi. L'ufficiale che comandava
la perquisizione gli ha strizzato l'occhio e se n'è andato. Infine, che contano due su tante migliaia? E
poi comunque, ha pensato, cresceranno come italiani: dunque, lo scopo è raggiunto lo stesso.
Giusto degli Adimari si muove velocemente. Bombarda di telegrammi il ministero, e presto è in
grado di dare a Yerwant notizie più precise, anche se orrende.
Con delicatezza, gli scrive un biglietto generico, e gli da appuntamento in una sala del Caffè
Pedrocchi. Poi, tenendogli le mani nelle sue, parla.
Da tutta l'Anatolia armena i convogli si sono messi in moto: da ogni luogo abitato, dalle città e dai
villaggi, colonne interminabili di armeni sono in movimento, verso sud attraverso l'aspra catena
montuosa del Tauro, diretti ad Aleppo.
La città siriana è sotto assedio. I consoli stranieri, bombardati di sussurri sinistri, chiedono ordini ai
loro ministeri: e nessuno sa bene cosa fare. L'armata del Slid è acquartierata appunto ad Aleppo,
agli ordini di Djemal Pascià, di cui nessuno riesce a capire a fondo le intenzioni. È nota la sua
rivalità con Enver e Talaat, i due dioscuri costantinopolitani del triumvirato, ma sulla questione
armena egli non si è dichiarato esplicitamente, forse per abilità, per lasciarsi un margine di manovra
in una città che è araba, che già di suo freme sotto l'occupazione turca, e dove ci sono tanti cristiani.
La piccola città, informa desolato Adimari, è uno dei crocevia delle deportazioni. Della famiglia,
ovviamente, non si sa niente: ma la città è stata svuotata dei suoi armeni. Al console italiano ad
Aleppo verrà richiesto di stare all'erta con sollecitudine. Yerwant ascolta impietrito. Un sudore
freddo gli scende dal collo giù per la schiena, e poco dopo è tutto in sudore, come se tutto il suo
corpo piangesse il fratello che, ormai egli è sicuro, non rivedrà mai più.
Ringrazia l'amico e se ne va, con le spalle erette, immerso nella sua solitudine.

A questo punto, tre strade, tre percorsi si intrecciano.


Parallele corrono le strade di Shushanig e di Ismene: la strada di morte è stata raggiunta dalla strada
di vita, ma l'esito è incerto. Molte imboscate sono possibili; molti enigmi offuscano la visione.
Isolata, solitaria è la terza strada, quella di Yerwant.
Lui, l'uomo impaziente, il chirurgo fulmineo, deve reimparare l'attesa orientale, dipendere dalle
notizie che arrivano, non potere niente, non fare niente. Non c'è altro che aspettare, e veder morire
un po' alla volta il suo orgoglio. Se tornasse, sarebbe un paria, un maledetto come gli altri… Ferito
dalla vacua baldanza dei lodatori della guerra, in quell'estate mortale Yerwant assapora fino in
fondo la sua intima diversità, e smette di amarsi.
Shushanig, i bambini, le ragazze percorrono la via dolorosa. Le montagne del Tauro si ergono
davanti a loro, agghiaccianti. I conforti portati miracolosamente dalla gente di Konya e da Ismene,
tesaurizzati al millesimo, permettono di sopravvivere un poco; ma è soprattutto la speranza che è
rinata. Fievole, ma tenace: arrivare ad Aleppo. "Là i nostri angeli ci aspettano, là mangeremo"
sussurra Shushanig ai bambini; e Nubar, solenne, si infila il pollice in bocca con gravità. "Non ho
fame" dice sempre; e non fa mai domande, non chiede niente, non si lamenta.
Nella grande piana ai piedi dei primi contrafforti del Tauro, confluiscono stremati i resti delle
carovane. Di quanti, di quante biancheggiano ormai le ossa sui sentieri, quanti gonfi cadaveri sono
trasportati dall'Eufrate; quanti bambini, quante ragazze sono scomparsi. Il gruppetto dei superstiti
della piccola città si attenda penosamente sotto due alberi scarni, mentre un falco alto gira nel cielo
limpidissimo. È luglio, chissà. Nessuno tiene più il conto dei giorni.
Dove sono i castelli di Cilicia, dove il regno crociato dei Lusignano? Nella nebbia, nel calore
accecante, fra i resti miserabili di quel popolo orgoglioso si aggirano i fantasmi degli arcieri
invincibili bagratidi, dei cavalieri con l'orifiamma al vento. E un delicato vento di morte soffia sulle
guance accaldate, sui volti riarsi, portando frescura, abbandonata inerzia, consolazione: e Shushanig
vede le belle forti angele guerriere che vengono a prenderla, insieme a Sempad a cavallo, bello
come quando andava a caccia con l'amico del paese dei Lazi.
Ma una mano ferma la scuote, impedendole di andarsene.
È Nazim, che non abbandona la sua Valide Hanum, come ha promesso. Miserabile tra i miserabili, è
strisciato, all'alba, nell'accampamento dei disperati: e ora nutre Shushanig, la allatta col latte fresco
della capra, le fascia i piedi sanguinanti. E poi le culla la testa fra le braccia, sussurrando le lodi del
Misericordioso…
Lo zaptié che ha corrotto finge di guardare altrove, mentre i bambini vengono rifocillati, poco e in
gran segreto, perché nessuno si accorga di nulla. È la terribile scelta fra i disperati. Ma la
destinazione è il nulla, tutta questa gente deve morire, prima o poi: qui o ad Aintab, ad Aleppo o a
Deir-es-Zor, che si sussurra essere la destinazione finale, che importa? È perfino crudele pensa lo
zaptié - prolungargli la vita. Ha la tentazione di denunciare il bizzarro mendicante zoppo che è
tornato per aiutare quella donna e la sua famiglia. Ma ecco, Nazim arriva e, sornione, gli fa
intravedere un'altra moneta: "Questa e altre dieci, se raggiungono Aleppo" gli fischia fra i denti, e il
compare è soggiogato.
Perché Nazim sa che durante la difficile salita della catena del Tauro Shushanig sarà di nuovo sola.
Lui è zoppo, e non si fida di esibire Ismene e Isacco. E così il terzetto andrà avanti, per la via più
diretta, non senza problemi: in una sera di luna, Ismene ha tentato di sedurre Isacco, ed è stata
respinta. Con poca convinzione, ma respinta. Questo ha creato qualche malumore. "Prete
impotente" ha sibilato Ismene, ma di tentare con Nazim non le viene neanche in mente.
Comunque, i tre in realtà si appassionano: eroi, per una volta, protagonisti di una storia grande e
terribile, sono loro a tirare le fila. E uno spirito d'avventura percorre il gruppetto, che appare
comunque abbastanza sospetto, e rischia perfino di finire in prigione, in un villaggio arabo, per le
canzoni poco ortodosse che hanno risvegliato l'intera comunità. Sono dovuti scappare alla lesta, ma
nessuno in verità li ha inseguiti: sono tempi calamitosi…
I troppi cadaveri insepolti stanno spargendo epidemie, e la guerra non va bene. "È la vendetta degli
armeni" sussurra fra sé Djemal, annidato proprio ad Aleppo, furioso perché il grande progetto di
Enver e Talaat sta scaricando su di lui la fiumana dei deportati, le schiere scheletrite che si
trascinano verso la città e la stanno accerchiando da tutti i lati.
Gli armeni di Aleppo, chiusi nelle loro belle case, sono inquieti e fanno sussurri. Tutti gli stranieri, i
consoli europei, i missionari, tutta la gente che sta all'Hotel Baron, tutti fanno sussurri. E Djemal si
sente accerchiato anche lui, ha mal di fegato e si sveglia con un peso sullo stomaco e la lingua
impastata.
Le linde infermiere dell'Ospedale *** nascondono armeni. Le missioni diplomatiche nascondono
armeni.
I beduini del deserto vanno a scegliersi le donne fra le deportate armene ("basta lavarle e nutrirle, e
sono tue"), come mai avrebbero immaginato nei loro sogni più audaci. I tenutari di bordelli anche,
vanno a scegliere, e le madri stesse gli affidano le ragazze, che tanto non sono più intatte. Nel suk,
all'ombra della Cittadella, si fanno affari di tutti i tipi. Nazim, Ismene e Isacco arrivano alla città sul
far della sera, e cercano un alloggio per sé e per le loro bestie. Trovano una stalla, abbastanza
confortevole.
Bisogna evitare di farsi notare, soprattutto dai greci, chiacchieroni e agitati, timorosi per se stessi e
inclini al doppio gioco: d'altronde denunciare gli armeni della città che cercassero di salvare i
deportati è un obbligo affisso a tutti gli incroci.
Subito Nazim si mette in contatto con la sua Confraternita.
Risulta che c'è grande fermento, e grande paura. C'è la guerra, problema non tanto lontano; ci sono
gli armeni, problema vicino. La città è sotto pressione. La situazione igienica dei deportati
accampati alla meglio fuori delle mura è spaventosa. Nessuno può entrare e uscire dai campi, in
teoria; in pratica, qualcuno può farlo, se occorre.
"C'è la peste, c'è il tifo - dicono; ma" gli sussurra il capo dei mendicanti "entro pochi giorni tutto
tornerà a posto. Gli armeni saranno sgomberati a forza e mandati lungo la linea ferroviaria, via nel
deserto, fino a Deir-es-Zor, o a Ras-ul-Ain, da dove" aggiunge "non faranno tornare indietro
nessuno.
"E tu, turco, che ci fai qui? E perché fai tante domande? " gli chiede poi senza simpatia, come
pentito di quello che ha detto. "Hai ancora qualche armeno da depredare?"
"Io sono qui per un voto" risponde solennemente Nazim "e degli armeni non mi interesso. Però non
si dovevano uccidere tutti."
"Per noi è un disastro" consente l'altro, e sospira. "Anche se al momento stiamo facendo buoni
affari. Gli armeni di qui dovrebbero essere mandati via subito dopo, ma io non credo" ghigna fra i
baffi "il fronte non è lontano, e gli arabi…" Poi guarda Nazim, e tace. La Confraternita è la
Confraternita, si sa, ma i turchi sono i turchi, e gli arabi, arabi.
Nazim capisce benissimo la ritrosia dell'altro, e tace a sua volta. Poi, in tono casuale, chiede:
"C'è ancora, qui ad Aleppo, un dottore armeno che si chiama Zareh Arslanian? La sua famiglia era
del mio paese, se gli do notizie fresche certo mi paga bene"
"Mi informerò" risponde asciutto l'altro. "Non lo conosco. Ma le notizie di morte non fanno fare
buoni affari" aggiunge pratico.
"Lavorava in un consolato" aggiunge Nazim; ed è davvero tutto quello che sa.
Poi si congeda in fretta. Ha paura che Ismene e Isacco, da soli, non riescano a cavarsela; ha paura
che Shushanig sia già arrivata, o non sia arrivata affatto, e giaccia moribonda da qualche parte, sulla
strada. Ha paura che le sue povere astuzie di mendicante questa volta non reggeranno, e si sente
nudo, colpevole di fronte all'Onnipotente. Sarebbe bello nascondersi da qualche parte, sparire… Ma
non tornare indietro, questo mai.
In quel momento un pungente profumo di pane gli arriva da dietro l'angolo di una viuzza stretta. Lo
segue, e vede in fondo le muraglie della Cittadella; a metà della strada, un fioco lumino segnala il
panettiere.
E in quel preciso momento si apre la porta, squilla lieve un campanello e sull'uscita si staglia Djelal,
il tenente, l'innamorato di Azniv, l'occasione del suo tradimento, che addenta con gusto un panino. E
Nazim capisce che è un segno. Dio gli ha risposto.
Si avvicina, obliquo ma veloce, e inscena un rituale di riconoscimento, con festoso stupore, richiesta
di aiuto, generici ricordi. Nuota nel suo mestiere come un uccello del Paradiso in una voliera di
pivieri dorati, disegnando nell'aria una fine rete di lusinghe e di inganni.
Djelal, ammaliato - ma anche educato al rispetto verso il mendicante, il Povero di Dio ("questo qui
è anche in pellegrinaggio verso la Mecca" dice), accetta l'incontro, vi si adagia, ricorda. Dona con
largo gesto e si volta per andarsene. Ma Nazim con un guizzo gli si fa incontro dall'altra parte: e
disegna nell'aria, magicamente, la bella ragazza che Djelal ha tanto inseguito, Azniv dalla bocca
ridente. Rivede il tenente improvvisamente il sorriso, il geranio alla tempia, le veloci movenze. Che
ne è stato di Azniv?
Fra il suo ricordo e il presente si stende il mare di orrori, tutto ciò che Djelal vede ogni giorno; il
nervosismo crescente di Djemal Pascià, il suo generale, i campi dei deportati, il fetore dei morti, i
cadaveri per le strade, gli editti, i telegrammi dalla Capitale, e la guerra che come per un fato
maligno non volge a favore dell'Impero. Djelal vede ogni giorno i bambini scheletrici che vagano
dappertutto, e neanche più chiedono pane, solo vagano e fissano gli altri, tutti coloro che hanno il
diritto di vivere. Perché tutto questo ormai fa parte della vita di Aleppo.
Mai a tutto questo egli ha davvero associato Azniv; anzi, è rimasto sempre un po' seccato con lei,
che l'ha respinto. Ora, di colpo, l'orrore lo sommerge, lo coinvolge, e si trova con lei nel deserto,
l'ha veramente perduta per sempre.
Nazim segue i suoi pensieri come su una lavagna, e gli getta un paio di frasi sulla morte di Sempad,
sull'angoscia delle sue donne, sui modi della deportazione.
"Chissà" conclude "se qualcuno di loro si è salvato, e ha raggiunto Aleppo? Quelli che non sono già
morti, ormai sono quasi tutti qui." A questo punto finalmente i due uomini si guardano, e si
comprendono. È la volontà di Dio che li ha fatti incontrare, ognuno con la sua sacra missione:
Djelal non chiede, Nazim non spiega, ma dice soltanto: "Dove abitate? Domani sera alle dieci sarò
da voi"

Resta da trovare Zareh, se è ancora in città. Molti armeni aleppini fuggono, finché possono farlo;
sono famiglie intere, gente che vive ad Aleppo da sempre.
Ma può Zareh disinteressarsi della sua famiglia? Avrà saputo qualcosa? Come si sta muovendo?
Nazim capisce che a questo punto occorre Ismene. Lei non appare immediatamente sospetta, ad
occhi armeni; e Zareh lo conosce, il fratello che mandava alle ragazze le pezze di seta di Damasco.
Alla locanda, Nazim trova Isacco e Ismene accovacciati vicino alle bestie, che si guardano in
cagnesco.
"Sei una bestia anche tu, prete impotente" borbotta Ismene, ma senza malizia. "Non mi dirai che
porti il lutto per la povera Katerina; tanto, fra pochi giorni la raggiungiamo." Ma intanto si prepara.
Giocoliera è anche, Ismene; e ben lo sapevano i ragazzi della famiglia, che adoravano la sua
destrezza coi fazzoletti multicolori. Ci vuol poco ad addobbarsi da zingara: ed ecco, gli orecchini a
cerchio donati dal marito americano escono da una tasca, i braccialetti scintillanti dall'altra; infine
compare una bottiglietta di brillantina, per far luccicare i capelli, ben ravviati in una grossa treccia,
col fiocco rosso alla fine.
Sembra più vecchia e più brutta, sembra disperata, Ismene, come indossasse una maschera tragica;
ma la gente che circola per Aleppo, in queste sere, è di bocca buona, e Nazim, lui, la bocca la
spalanca ammirato.
"Non hai mai visto le donne americane, tu, brutto cane spelacchiato" ride Ismene, e si prepara ad
andarsene.
Nazim, per nulla offeso, ride anche lui, e le ordina: "Cerca Zareh, cerca di parlargli. E poi torna
prima dell'alba, ti raccomando" Sa che Ismene è una donna notturna, di notte non le può accadere
niente; è del giorno, delle ronde, dei soldati che ha paura.
Isacco e Ismene sono lì senza documenti, e non sono protetti dalla Confraternita dei Mendicanti.
Ora va Ismene nella notte, e prega per un miracolo.
Chissà dove sarà Zareh, certo rintanato in casa: ma dove abita, in questa grande città? Ismene prega
con fervore, e lancia oscure minacce al Dio velato che non sembra ascoltarla: "Troppo, troppo.
Troppo male è su di loro. Non ti pare che sia abbastanza?" brontola, segnandosi tre volte. "Ascolta
almeno Isacco, che è un tuo prete. Vedi che ti sta pregando anche lui." Ma Isacco, solo e sfinito, si è
addormentato, mentre Nazim fuma silenzioso accanto alla porta, masticando un pezzo di pane.
E Ismene cammina nella notte, va da un caffè all'altro, sbircia dentro con poca speranza: vede
dappertutto uomini silenziosi che giocano a tric-trac, fumando e parlando posatamente.
Nessuno le pare armeno, ma è ovvio. Gli armeni non girano di notte, di questi tempi.
Eppure, c'è qualcosa che la tiene affascinata a guardare gli uomini che giocano, un ricordo che va e
che viene, l'eco di un discorso di Azniv che non riesce ad afferrare. Ha a che fare col gioco, ne è
sicura; ma perché?
Ai piedi della Cittadella, in un vicolo più illuminato degli altri, Ismene decide di entrare in una
taverna che ha l'aria un po' greca. E non si sbaglia: il padrone è di Methoni, e le indica un angolo
dove sedersi; le porta un piatto di montone col sugo denso.
E lì, mangiando, Ismene sente dietro le sue spalle gente che parla a frasi brevi, e dei tonfi regolari.
Si volta, ci sono quattro uomini che giocano a carte, forse russi, forse italiani: allora,
improvvisamente, ricorda, e mormora una benedizione alla santa Para skevì, l'ultima che ha
invocato.
Zareh gioca a carte; Zareh gioca a bridge, quel gioco inglese moderno: e Azniv raccontava, mille
anni fa, che voleva andare dal fratello ad Aleppo per imparare questo gioco raffinato e far morire
d'invidia le amiche in città.
"Bisogna cercare i francesi" pensa giustamente Ismene, e chiede all'oste dove stanno i francesi.
Da quel momento tutto sembra diventare facile.
Non ci sono molti posti dove trovare i francesi: ai ricevimenti della legazione, che ora sono
soppressi, per protesta, per via degli armeni; ma in questo periodo tutti gli stranieri si trovano al
nuovo albergo dei Mazloumian (finché glielo lasceranno, sono armeni), l'Hotel Baron, il più nuovo
e il più lussuoso di Aleppo.
Anche Djemal Pascià ci tiene i suoi ricevimenti.
"Vai là, è qui vicino, e passa dalle cucine: mio cugino Yorgos ti può dare una mano, ci lavora come
sguattero" sussurra l'oste.
E Ismene gli bacia la mano, ringrazia del cibo e si affretta ad andarsene. Nell'uscire, sente una
musica strana invadere il vicolo, un vispo motivetto occidentale.
Lo segue, svolta un angolo, poi un altro, ed ecco, nel suo trionfo barocco, con la scalinata
sfavillante di luci e il portiere in livrea, ecco il grande albergo in stile occidentale che fa sognare
tutto l'Oriente.
Ismene guarda, abbagliata, dal basso. "Com'è bello" pensa "dev'essere così il Paradiso" e sta bene
attenta a restare nell'ombra.
In quel momento un'automobile arriva; lo chauffeur ferma e apre la portiera inchinandosi. Un
ufficiale scende e tende la mano a una bella signora, con scarpini luccicanti di strass e le braccia
nude. Una nuvola di seta la ricopre, un'onda di profumo la avvolge. Salgono lentamente, offrendosi
all'ammirazione. "E il generale tedesco" dice una voce vicino a Ismene. "Inutile chiedergli
l'elemosina, credi a me. Non da niente a nessuno." Poi, l'ignoto mendicante si riaccomoda
sull'ultimo gradino.
Ismene è sedotta, come sempre, da tutto ciò che luccica e sfavilla, e per un momento vorrebbe
soltanto seguire l'apparizione. Ma poi, invece, segue l'automobile, che - intuisce - viene portata
nelle scuderie.
Si infila silenziosa fra i nobili cavalli e le carrozze; lo chauffeur in divisa saluta gli stallieri e i
cocchieri che fumano seduti in circolo, e getta sollecitamente sul motore una coperta, come si
farebbe con un cavallo sudato, dopo una galoppata.
Quell'automobile è mitica, in città, e la gente fa crocchio per ammirarla; il ragazzo la tiene come
una creatura vivente. C'è quasi buio, nelle scuderie, è Ismene appoggia timidamente una mano sulla
carrozzeria scintillante.
"Come ti permetti, vecchia zingara?" grida lo chauffeur, che l'ha vista; e Ismene ritrae la mano come
scottata.
"Non facevo niente di male" risponde, e la sua nativa fierezza le ritorna, aspramente. Fa un passo
avanti: "E conosco, attento, maledizioni di tutto il mondo" La sua tragica maschera appare allora in
piena luce, e gli uomini intorno sentono che la donna porta con sé il sigillo del male puro,
dell'orrore del mondo. E capiscono.
"Tu non sei armena" dice lo stalliere capo "ma tu li hai visti, gli armeni. Che vuoi da noi?" Ismene
decide, in un lampo. Deve fidarsi. E dice una parte della verità:
"Cerco un armeno di Aleppo, un medico che è parente della mia signora, e si chiama Zareh. Prima
della guerra, stava spesso con i francesi. Mi hanno detto che forse è qui, all'hotel" (pronuncia la
parola "hotel" con un voluttuoso strascichio della elle finale, come chi pensa a piaceri proibiti
occidentali, e invece nulla è più lontano, povera Ismene, dai suoi sentimenti in quel momento) "Per
chi lo trova, c'è un buon compenso. Io non ho più nessuno. Gli devo raccontare della sua famiglia,
di come sono morti, e consegnargli delle fotografie.
E poi, forse, mi prenderà lui a servizio. Non sono giovane, ma so fare di tutto."
"Sì, proprio di tutto" ride lo stalliere "non sei mica carne fresca! Però ti voglio aiutare. Tu sei greca
vero? Di dove?" E Ismene, che brucia d'impazienza, e sente febbrilmente i passi pesanti, sfiniti, di
Shushanig, delle ragazze, dei bambini della famiglia avvicinarsi, avvicinarsi, e ha una terribile
paura di arrivare tardi, che siano mandati via subito, oltre Aleppo, dove a nessuno sarebbe più
possibile raggiungerli, si costringe per l'ennesima volta a sorridere, a fare il suo piccolo spettacolo,
a ricordare il marito indiano e le sue canzoni, i suoi scongiuri e la sua passione. Incanta tutti, come
sempre: ma la voce è roca, e le lagrime sono vere.
Lo stalliere capo allora socchiude gli occhi soddisfatto, e poi da un breve ordine: "Manuk, vai a
vedere di sopra. Chiedi a Jannaki il portiere di questo Zareh" E a Ismene: "Dammi una moneta. Io ti
servirò per l'amor di Dio e per la tua bella storia, ma Jannaki non teme né Dio né Santi, e vuole
essere pagato in anticipo" Ismene consegna una moneta a Manuk. Manuk apre la porta di
comunicazione sopra la scaletta interna che conduce all'ufficio del direttore. Un'ondata di musica e
di luce si spande nella scuderia. Manuk richiude piano la porta e sguscia via.
"Adesso non ti resta che aspettare" dice l'uomo. "E pregare, se ne sei capace; o fare uno dei tuoi
incantesimi. " Ismene lo ringrazia e chiude gli occhi, affranta. Si addormenta, per un momento; e le
pare di vedere Sempad, sorridente, che tiene per mano Shushanig.
Ma la testa di Sempad è malamente riattaccata al collo, e Ismene, gelata dall'orrore, vede che piano
piano penzola da un lato, come se stesse per scollarsi - e Shushanig non se ne accorge, e continua a
parlare volubilmente. Nel sogno, Ismene li insegue, insieme a Isacco e Katerina, gridando - ma le
parole non le escono veramente di bocca, e non riesce a raggiungerli.
"Un incubo breve, di cattivo auspicio" pensa Ismene.
Le pare che sia trascorso un tempo infinito: si guarda intorno, gli uomini parlano a voce bassa, ma
lo chauffeur se n'è andato. A denunciarla? Ismene si pente di averlo trattato bruscamente, poi si
pente di essersi pentita, fa per alzarsi, farfuglia qualcosa: ha la testa pesante e un acuto dolore al
braccio sinistro. "Forse sto per morire" pensa: ma in quel momento la porta si apre e compare un
uomo seccato e inquieto, che sbircia dabbasso.
Ismene lo riconosce subito. È proprio Zareh: il testone inconfondibile della famiglia, il naso di
Sempad e le mani piccolissime e bianche, con le dita tondeggianti.
Ecco, lui saprà cosa fare, ecco, la lunga angoscia comincia ad allentarsi. Lui intanto è ancora libero.
Gli uomini intorno guardano, curiosissimi, pronti al racconto, poi, del misterioso incontro.
"Qualcuno di voi è malato, che mi voleva con urgenza?" chiede nervoso Zareh. "Una donna, mi
hanno detto."
Ismene con un balzo intanto gli si è avvicinata, e a voce alta gli dice: "Sono io, dottore, sono
Ismene. Vengo con notizie di vostro fratello Sempad, e della famiglia.
Sono sola, e sfinita: mi dareste per amor di Dio qualche cosa da mangiare?" Spera che Zareh
capisca, e non le faccia domande.
In contrasto con le parole umili, lo fissa negli occhi spavalda, cercando di rassicurarlo, che non
pensi a una trappola. L'uomo ha portato con sé un buon profumo di abiti puliti, di colonia costosa,
di buoni sigari, e a Ismene si stringe il cuore, ricordando. E anche Zareh ricorda, con timore (ha
ricevuto il giorno prima la rivista spedita da Yerwant, ed è pieno di angoscia, come lui)
La prende per il polso e sibila: "Non ti riconosco, ma se porti notizie, sei la benvenuta. Devo
congedarmi dai miei amici, aspettami all'entrata grande, in basso sotto la scalinata, e non ti far
vedere" Poi si guarda intorno, guarda le facce curiose che Pagina lo spiano dal basso, e con sforzo
dice, lanciando una moneta: "Eccovi qualcosa per bere alla mia salute", fa una smorfia e aggiunge:
"Ne vale la pena, di festeggiare, forse sono io l'unico sopravvissuto della mia famiglia. E se vi serve
qualcosa, se siete malati, ricordatemi di questo momento. Vi sono debitore". E sparisce. Anche
Ismene sparisce, più in fretta che può, non senza aver consegnato un'altra moneta al capo stalliere. È
angustiata dalla scomparsa dello chauffeur, per cui gli dice: "Tenete la bocca chiusa, voialtri. E
dov'è finito quello dell'automobile?". Lo stalliere si mette svelto un dito sulla bocca, e sussurra a lei
sola: "Ci penserò io, a lui. Vai tranquilla, con l'aiuto di Dio"
Velocemente, Ismene è tornata ai piedi della sfolgorante scalinata, e si rimette ad aspettare. Nessuno
bada a lei, una vecchia zingara, fra i tanti vagabondi di cui Aleppo è piena. Ma ha evitato il
mendicante che ha visto prima, per non dover chiacchierare con lui. In questo momento, tutto le fa
paura, e prega fervorosamente tutti i santi che conosce, e anche Allah, che male non può fare.
Ismene è profondamente convinta del male del mondo, ma crede con altrettanta fermezza al Mondo
Superiore, dove tutte le strade si incrociano, e gli Dei sorridono.
Quante volte, nel suo mestiere di lamentatrice, le è parso di vedere le maestose porte socchiudersi, e
ha sentito il bisogno improvviso di camminare verso quel laggiù senza tempo, colmo di sorprese?
Lo immagina pieno di sole, di polvere, di ristoro. Sole a picco e acque scintillanti, canto di allodole
e un bel cosciotto sugoso di agnello. E nel cielo di smalto e di vetro, impressi per sempre i volti
augusti di Cristo e della sua Madre paziente.
Così riconfortata, Ismene aspetta, e di nuovo si addormenta.
Sogna di nuovo Shushanig insieme a Sem pad, ma adesso sono nel Paradiso a cui pensava da
sveglia; e quando Zareh, arrivato, la scuote, capisce, con l'immediatezza dei momenti solenni, che
questo è un sogno veridico e che presto Shushanig andrà a raggiungere Sempad. Ma capisce anche,
nello stesso istante, che è viva e che è arrivata ad Aleppo.

Queste cose, e molte altre, Ismene comunicherà febbrilmente a Zareh: e parla, parla, piange e
gesticola, nel sollievo di averlo trovato, di non essere più sola a portare la responsabilità di ciò che
resta della famiglia.
Ma prima, Zareh la porta a casa velocemente, per vicoli e stradine deserti, e la fa entrare da una
porticina posteriore. Benché gli armeni di Aleppo non siano ancora stati toccati, vige la proibizione
assoluta di accogliere forestieri, anche parenti, o di mostrare di accorgersi della fiumana umana che
sta lentamente circondando la città.
Neanche la sua professione di medico mette veramente al riparo Zareh: basterebbe un capriccio, un
ordine a caso, e lui raggiungerebbe quei miserabili. Così Ismene racconta in cucina, mangiando
voracemente qualche avanzo che Zareh ha tirato fuori. Ismene ha sempre fame. Alla luce quieta
della lampada ad acetilene, gli orrori di cui parla assumono quasi una fisica realtà, e i fantasmi del
fratello, degli amici, del popolo intero della piccola città si affollano, pietosi, ciascuno cercando di
narrare la sua storia.
Poi, Ismene racconta anche di Nazim e di Isacco, che aspettano nella stalla. È pericoloso per Zareh
andare da loro; i contatti devono essere tenuti da Ismene, che chiede ordini e guarda il medico con
lo sguardo da cane fedele che ha sempre riservato soltanto a Shushanig. Come entrare nel campo?
E come, soprattutto, trovarli e farli uscire, loro e non altri, sotto il naso delle guardie?
Presto presto, Zareh consegna un po' di denaro a Ismene, e le da appuntamento per l'indomani alla
stessa ora di stasera, nello stesso posto, sotto la scalinata d'onore dell'albergo. Deve andare lì per la
solita partita, non bisogna destare sospetti.
Zareh non è mai stato un uomo profondo. Ha sempre preso la vita con una certa superficiale
allegria.
Ma ora improvvisamente sa di essere diventato il capofamiglia.
Toccano a lui, morto Sempad e assente Yerwant, la responsabilità - e l'onore - di provvedere.
Si sente pieno di energia, determinato, capace: dorme un poco, e l'indomani presto va al consolato
francese, a consultarsi con una tenera amica, Madame Marie-Josephine, la moglie del console.
Marie-Josephine è davvero una tenera, bionda amica, e ha dato il suo cuore più profondo al giovane
medico armeno. Gli ha anche proposto di rifugiarsi al consolato; e Zareh, come medico di fiducia,
potrebbe farlo. Finora, in attesa di notizie della famiglia, non ha voluto; e poi, il suo orgoglio
orientale non glielo permette, non ancora.
Ma corre subito da lei per consiglio. Le spiega tutto: il terzetto di Ismene deve localizzare i
superstiti, portare qualche conforto; e questo si può fare anche indirettamente. Ma come entrare nel
campo, e poi uscirne? Per tutta la mattina Zareh e Marie-Josephine si divertono pazzamente a
inventare piani degni del Conte di Montecristo: assoldare un po di curdi ed entrare nel campo
sparando all'impazzata, sedurre (questo toccberebbe a Marie-Josephine) Djemal Pascià e farsi dare
un salvacondotto, convincere una tribù di beduini del deserto con oro sonante…
L'unico punto su cui i due sono d'accordo è il mezzo con cui entrare nel campo: bisognerà usare
senz'altro la carrozza blu, rossa e oro del consolato, con lo stemma di Francia in evidenza su
ambedue le portiere, e il cocchiere parigino che non dice una sola parola che non sia in francese, ma
è pronto, svelto, devotissimo. E ha due pistole. Per lui arabi curdi e turchi sono tutt'uno; e salvare le
sorelle e le nipoti di Monsieur, dice, sarà un piacere speciale.
Intanto nella stalla si fa quartier generale. Nazim e Ismene sono anch'essi a consulto; Isacco fa la
guardia.
Prima di tutto, occorre trovarli, fra i tanti armeni che continuano ad arrivare ad Aleppo, piccole
comitive decimate, bambini sperduti, qualche donna, qualche vecchio furibondo, che non si lascia
morire.
Isacco viene rifornito di pane, di un fiasco d'acqua, e rimane a fare la guardia: i due asini sono un
bene prezioso, e ci sono ancora parecchie provviste.
Nazim e Ismene partono insieme, all'alba. Escono fuori, e poi vanno in direzioni opposte, per girare
attorno alle mura e poi ritrovarsi. Hanno le saccocce piene, di soldi e di cibo, ma l'aspetto dimesso
dei loro pari.
L'odore di putrefazione e di morte ristagna come un fetido fiato tutto intorno alla città. È luglio, e
miasmi mortiferi sembrano alzarsi da quei corpi abbandonati, da quelle mani che neppure più si
tendono verso l'alto. Le guardie indifferenti vigilano di lontano, cercando di non avvicinarsi troppo.
Bambini cenciosi girano, stuporosi. Ismene va di gruppo in gruppo silenziosamente, tende
l'orecchio, porge qualche pezzo di pane, sente dappertutto le medesime storie: fame, sete, stupri,
violenze. Le facce che la guardano sono stupite di essere ancora vive.
Nazim invece si avvicina alle guardie, e chiede l'elemosina.
Poi s'informa, distrattamente, da dove arriva questo o quel gruppo. Il suo pellegrinaggio è lento e
infruttuoso. "Che vuoi da noi, vecchio?" gli chiede uno zaptié. "Vai da quelli a chiedere soldi.
Quei maledetti! Da qualche parte ne nascondono sempre."
In quel momento un vecchio nudo e scheletrico si tira su lentamente lungo il muro al quale stava
appoggiato e grida, in ottimo turco: "Venite, venite, benedetti da Dio. Il banchetto è pronto, ma Dio
è morto" e spalanca una bocca cavernosa e incrostata di sangue in un ghigno stridulo,
irriconoscibile: sembra di vedere i cani acherontei.
Nazim si avvicina, mosso da un sordo istinto. E sotto la barba selvaggia riconosce il viso devastato
del fornaio Setrak, un vecchio sempliciotto e chiacchierone, inoffensivo. La spietata legge della
sopravvivenza lo ha trasformato in un giocattolo dei soldati, che lo hanno lasciato vivo per
divertircisi, mollargli una pedata e cavargli un dente ogni tanto, e compiere qualche basso servizio
presso i deportati. Sarebbe un vice guardiano, una specie di kapò. Non ha più nulla di umano: solo
ogni tanto grida, come adesso…
Ma è il segno per Nazim che i superstiti della piccola città non sono lontani. Ecco infatti dietro il
vecchio apparire, per terra, una capigliatura selvaggia sotto un mucchio di stracci, e da sopra gli
stracci gli occhi tondi di Nubar, che conservano ancora una scintilla di curiosità. Nazim lo mette
subito tranquillo con una crosta di pane. Poi delicatamente tasta la massa di capelli scompigliati e
solleva la testa che c'è sotto, con pena; ma la testa ciondola di qua e di là, buffamente. È Veron,
morta. Nessuno più le ha cantato "Veron, Veron, vrai pompon" e il suo cappellino è caduto a pezzi
sulle alture del Tauro. Tutto è stato barattato o venduto, anche la famosa pezza di damasco rossa di
Azniv.
Veron è morta di fame. Ha ancora intorno alla bocca il verde dell'erba, unico cibo dei suoi ultimi
giorni, l'espressione deformata da uno spasimo, le dita contratte. Veron non ha più incontrato il suo
pastore protestante. Ora il pastore di tutti la conduce nei verdi pascoli, al lento amore che non ha
mai fretta. Nazim la scosta delicatamente, libera le mani di Nubar impigliate nei suoi capelli, le
chiude gli occhi e la distende in terra. Poi cerca per il campo i bambini e la madre, e Azniv.
Finalmente le trova in fondo all'accampamento, che litigano con altre donne, in modo vacuo e
casuale, per una patata che giace a terra. "È mia, mangiamo tutti, con quella" grida una Shushanig
paurosa e contraffatta, in preda a un tremito incontenibile; e vicino a lei le sue bambine premono,
silenziose e frenetiche.
Nazim interviene sussurrando: "Valide Hanum, sono qui, adesso hai finito. Adesso ti salviamo".
Non sa come farà poi, ma l'importante per il momento è tirarla da parte, darle un po di cibo,
cominciare a prepararla per la fuga. "Non vedo in giro il mio amico zapaté, ma solo facce di cui non
mi fido, pronte a tradire" sibila Nazim. D'altronde la ricompensa per la denuncia di chi tenta di
salvare un armeno è molto allettante.
Nazim vorrebbe aver vicino la quieta efficienza di Ismene, ma è costretto ad arrangiarsi. C'è molta
fretta, pochissimo tempo. L'odore nel campo è terribile e, si vede, tutti hanno i pidocchi. Intanto
distribuisce furtivamente un po di pane, poi si guarda intorno, tira fuori velocemente la borraccia da
una delle sue immense tasche e fa bere Shushanig e le bambine. Poi le copre in qualche modo e
ordina di stare insieme, quiete e in silenzio, tenendo Nubar in mezzo a loro.
Azniv è via a cercare il suo soldato, ma in quel momento ritorna, disperata, con la faccia gonfia di
botte.
Il soldato di Marash si è stancato di lei, anche se ogni notte la possiede; ma la picchia, e non le da
più neanche il pane, solo paura. Azniv ha gli occhi dilatati e il respiro affannoso. Nazim la tocca
gentilmente, la fa accoccolare, la ristora un poco e poi le sussurra di Djelal e di Zareh: che sono ad
Aleppo, che stasera li vedrà entrambi, che ormai ci vuole solo un poco di pazienza ancora.
Azniv sembra non ascoltare. Beve avidamente e nasconde subito il pane che le ha dato Nazim,
borbottando.
La sua fresca bellezza è appassita, e le mancano due denti davanti. Poi però lo fissa, lo riconosce, e
il peso della realtà improvvisamente la schiaccia.
"Chi sei tu, amico, che mi ricordi il paese dei morti?" domanda con subita chiarezza. "Dammi un
altro po' d'acqua." E poi sussurra, piano: "Non devi parlare a me di Zareh o dell'altro. Io non sono
più nessuno. Salva i bambini".
Nazim pensa allo spreco di quella giovinezza fiorente, di quel sorriso (meglio prendersela per
moglie, meglio moglie di un mendicante, sussurra una voce beffarda, molto a fondo dentro di lui),
agli infami che hanno così gettato al vento i beni e le vite di tanti buoni cittadini dell'Impero. Ma
non bisogna dir nulla di tutto ciò al tenente: solo rinfrescargli il suo sogno romantico e farlo agire.
Dall'altra parte del campo in quel momento succedono varie cose. Ismene compare, avendo finito il
suo giro, e in un momento capisce tutto. Ma vede anche che è arrivato un ufficiale a cavallo, e che
subito tutte le guardie si sono messe sull'attenti, e hanno cominciato a gridare ordini ai deportati.
Vede Nazim chino su una persona, con l'aria di confortarla, e gli occhi dell'ufficiale che l'hanno
individuato. E già volta il cavallo verso di lui, e alza il frustino, quando Ismene, velocissima, si
attacca alle briglie e comincia a gridare nel gergo delle lamentatrici, con qualche oscura parolaccia
cherokee usata come ritornello.
"Chi è questa pazza?" chiede l'ufficiale che - come tutti - non ama le maledizioni delle lamentatrici,
e nutre per il loro lavoro un superstizioso rispetto.
"Sono greca, e molto brava, Effendi" risponde audace Ismene. "Mi sembra che qui avete molto
bisogno di me e delle mie compagne, bisognerà pagarci di più" e ride, sfrontata.
"Non scherzare, donna" dice burbero l'ufficiale "potrebbe toccare anche a te." Ma lei si alza, dritta,
nei suoi cenci squillanti, e lo fissa negli occhi, e la maledizione non pronunciata aleggia viva fra i
due. Sicché l'uomo si sente improvvisamente sulla pelle l'alito e lo sguardo di tutti quei morti
viventi che lo circondano; non insiste, e chiede solo: "Cosa volevi qui?"
"Cercavo mio marito, quel morto di fame" grida Ismene trionfante, e svelta raggiunge Nazim.
Preme una moneta nella mano inerte di Shushanig e sussurra:
"Stanotte. Stanotte veniamo a portarvi via. State tutti insieme. Stanotte".
Ma l'ufficiale l'ha seguita vagamente insospettito "Voi, cacciateli dal campo, quei due" dice a due
zaptié. "Nessuno, ho detto nessuno, deve entrare qui, oggi. E quanto a questi" gira il frustino sul
campo "che tutti si preparino a partire per Deir-es-Zor. Li spediremo via al più presto." Buttati fuori
a spintoni, Nazim e Ismene si fermano dietro il platano maestoso, ben noto a tutti i viandanti, che da
sempre fa ombra agli oziosi e agli stanchi presso la porta Orientale. Con istintiva pazienza,
aspettano che l'ufficiale a cavallo se ne vada. Hanno già capito che quello è uno degli ittihadisti che
sorvegliano zelanti sulle deportazioni; ma di sicuro non è lui il comandante del campo.
Girano rumori di dissensi fra i militari, lì ad Aleppo. Dopo un momento, l'ufficiale arriva, non li
vede nell'ombra e sprona via veloce; Nazim e Ismene possono dedicarsi ai loro affari.
Ecco si affaccia una guardia, zoppa come Nazim, che saltella veloce verso di lui. È un mutilato di
guerra, messo a fare questo mestiere.
"Voi cercavate qualcuno, amici" li affronta subito. "Lo avete trovato?" Nazim chiede cosa ne è stato
del compare con cui aveva trattato prima dell'attraversamento del Tauro; ma il nuovo amico non ne
sa niente. "Forse è quello che è stato ucciso dai curdi per una spartizione di bottino" dice frettoloso
"ma ora dovete trattare con me. In quell'orrore, io sono l'unico, insieme al comandante del campo, il
maggiore Selim, che ancora sa distinguere e apprezzare il tintinnare di un bel paio di monete."
Ismene guarda Nazim, per una volta incerta. Tutto dipende da questo momento. Il mondo intorno
sospende il respiro. Nazim guarda in giro, in cerca di ispirazione: e vede due mendicanti, accosciati
sotto l'albero, che tendono incuriositi le orecchie a quel parlottare. E, fulmineo, decide:
"Noi ci fideremo di te, compare. E pagheremo te e il comandante del campo molto bene. Ma tu non
tentare il doppio gioco. Li vedi quei due mendicanti sotto l'albero? Sono mandati dalla
Confraternita. La Confraternita ha un debito d'onore con una famiglia, i cui sopravvissuti sono là
dentro. Noi li libereremo stanotte. Ma che Dio v'aiuti, se ci ingannate. Un mendicante e un coltello
si trovano dappertutto"
Nazim ha rischiato grosso. Ismene lo guarda, finalmente ammirata ("Ah come si vivrebbe in pace,
noi e voi, in questa terra benedetta" pensa. "Prima ci siamo noi greci, poi, tutti gli altri… Ma tutti
sono creature di Dio" concede)
La guardia zoppa dice: "Bisogna fare in fretta. Domani può essere troppo tardi. Questi, li
spediranno tutti nel deserto, fino a Deires Zor; e là " fa un gesto significativo con la mano " ci sono
le fosse che sboccano nell'Eufrate, se ne occuperanno solo Loro, quelli del partito. A noi ci
manderanno via, siamo di cuore troppo tenero"
La sua tenerezza è solo per il denaro, in effetti; "ma amare il denaro è sempre meglio che amare il
sangue" pensa Ismene.
Ismene, Nazim e la guardia si separano velocemente, dandosi appuntamento sotto il platano alle due
del pomeriggio, il momento in cui, nell'estate siriana, nessuno se non la morte si aggira per le
strade, come dice il proverbio.
La guardia deve ottenere il consenso del comandante, e avvisare segretamente Shushanig, che si
tenga pronta in un posto prefissato. Deve anche seppellire Veron, in qualche modo: e Ismene si leva
la croce dal collo, la bacia devotamente e la consegna all'uomo con mille raccomandazioni. "È solo
un'armena morta, non ti agitare" risponde la guardia, che si chiama Selciuk, ma poi legge negli
occhi di Ismene, e tace.
Ismene rivolta i suoi cenci per sembrare la moglie di Nazim, e insieme decidono di andare subito da
Zareh. Non è l'ora prevista per l'appuntamento, bisogna rischiare, ma ormai Nazim e Ismene devono
giocare il tutto per tutto: e quasi si dimenticano di Isacco, che è più che altro d'impaccio. Così lo
mettono a badare alle capre, e a pregare.
Intanto, Zareh e Marie-Josephine hanno già preparato la carrozza, e istruito il cocchiere. Marie-
Joséphine ha svuotato la cucina, e vite vite, lei e la cuoca normanna hanno portato un mucchio di
provviste a casa di Zareh, e un fornello. Bisognerà sistemare quei poveretti nella cantina,
provvedere letti, biancheria, suppellettili… Marie-Josephine è fervida di bontà e di eccitazione.
Ma, uscendo - presto presto - dal portoncino della casa di Zareh, quasi non si accorgerebbe dei due
mendicanti appartati nell'ombra, se uno di loro (e chi, se non Ismene?), con voce sommessa ma
autoritaria, non le chiedesse: "Madame, ci porti dal dottore. È urgente".
Quella voce trova un'eco in Marie-Josephine; le sembra di risentire la sua balia bretone, come una
nonna a cui non si può disobbedire. "Venite con me" risponde come in sogno, e li fa montare in
carrozza; con grande stupore del cocchiere, li porta con sé fino al consolato.
Zareh, solo, si è seduto nel patio, in un angolo, come un pupazzo senza carica. Attende, anche lui,
non può che attendere, come ogni armeno. "Ho fatto bene a confidarsi con Marie-Josephine" pensa;
e poi pensa a come dev'essere nascere francese, essere protetto dalla Marsigliese…
In quel momento la carrozza, lanciata, si precipita nella scuderia. Marie-Josephine balza giù, il volto
arrossato e intenso, e con un largo gesto ospitale porge la mano a qualcuno che sta nell'ombra,
dentro. Zareh guarda, preoccupato. Ed ecco scende a terra Ismene, e dietro di lei un individuo
lercio, zoppo, dall'aria vagamente ambigua. È il mendicante turco, intuisce Zareh, il famoso Nazim,
la chiave di volta di tutto il piano. Un'irrefrenabile diffidenza gli sale alla gola, come un rigurgito,
una nausea; ma si controlla.
Svelta, Marie-Josephine li porta tutti nel suo salottino e offre rinfreschi, come a grandi signori,
deliziata dal suo ruolo di cospiratrice, felice di essere protagonista in un complotto per aiutare la
virtù offesa, pestando qualche piede di quegli insopportabili turchi. La noia è scomparsa, qui si
tratta di vita o di morte. Ma appunto bisogna essere abili, e molto, molto veloci.
L'appuntamento al campo è per le due, ma il tempo passa, e nessuno ha le idee chiare. Prima di
tutto, è giusto contare le forze: Zareh, Marie-Josephine, la carrozza e il cocchiere costituiscono
l'indispensabile unità operativa di salvezza, ma come, come far uscire quei poveretti dal campo? E
solo loro?
Tutti discutono e fanno ipotesi, e intanto giunge il momento. ("E poi" pensa Nazim, "c'è Djelal, che
lo aspetta stasera alle dieci, e a cui bisognerà comunicare un piano preciso, e dire qualche cosa di
Azniv. L'idea sarebbe di affidargliela, che la nascondesse lui; e magari la sposasse, poi." Nazim
ricorda bene quella sera in cui Djelal bussava, bussava e cercava la sua colombella, disposto a tutto
per lei. Ma non ha detto niente, prudentemente, di questo suo progetto a Ismene e Zareh.) Intanto è
tempo di andare a incontrare la guardia.
Così è una coppia molto più stralunata e confusa di qualche ora prima che si trova alle due
all'ombra placida del platano presso la porta Orientale. Il sole picchia alto, il cuore di Ismene e
Nazim si stringe, fiutando la morte dovunque, non vedendo il gendarme.
Gli accampamenti dei deportati si stendono a perdita d'occhio, l'odore di morte ristagna, denso.
Fumi grevi si alzano qua e là.
Ed ecco qualcosa si muove, nel fondo. È lo zaptié zoppo, che arriva, furtivo, camminando obliquo.
Dietro di lui, come casualmente, viene avanti un ufficiale grasso e sciatto, che respira pesantemente.
È il comandante.
E finalmente tutto si mette in moto: sarà costui, un maturo ufficiale evidentemente disgustato dal
compito che gli è toccato, e desideroso di sfruttare l'occasione, ad avere l'idea migliore: semplice,
facile, attuabile, con un buon guadagno per tutti. Non appena Ismene gli accenna che c'è una
carrozza diplomatica pronta, perché la moglie del console di Francia è amica di un medico armeno,
parente dei deportati che devono essere salvati, il comandante si liscia il mento e decide:
"Il dottore verrà a curarmi. Il mal di fegato, infatti, non mi concede tregua. Il mio attendente, che è
un fervente ittihadista, verrà lui stesso a chiedere alla moglie del console, mia vecchia amica,
l'indirizzo di un buon medico, che dovrà visitarmi al campo stanotte, verso l'una.
"Voi arriverete con la carrozza del consolato, dove farete installare un doppio fondo; e mentre il
medico visiterà me, voi ci metterete dentro queste persone, non voglio sapere chi siano e quanti.
Non voglio rumori, allarmi, questioni, o ne andiamo di mezzo tutti.
Io ho mal di fegato, e voglio un bravo medico: so solo questo, e solo di questo m'importa.
"Domani, a cose fatte, voglio cinquecento sterline d'oro (come vedete sono a buon mercato, ma mi
sento vecchio ormai, e la merce è avariata), che consegnerete a mia moglie Leyla, che abita nella
villetta moderna a due piani presso il mercato del pesce. Tutti la conoscono. Io sarò in viaggio con il
resto di questi disgraziati.
Per ogni altro dettaglio, mettetevi d'accordo con Selciuk, qui. Per lui devono esserci dieci monete
d'oro"
Una fugace espressione di nausea (o malinconia? o colpa?) compare a questo punto sul viso
grassoccio dell'ufficiale, che sembra voler aggiungere qualcosa; ma poi subito si volta e se ne va,
svelto, accendendosi una sigaretta, come se avesse fatto due passi per digerire.
E infatti ha il viso giallastro, e si tiene premuto il fegato con la mano destra.
Forse, pensa Nazim, è davvero ammalato; e forse, pensa Ismene, si potrebbero discutere le
cinquecento sterline. Ma è tardi per qualsiasi ulteriore trattativa. Il tempo si è messo a correre.
Ismene, Nazim e Selciuk si guardano in giro, sospettosi, e poi siedono sotto l'albero. Previdente,
Ismene tira fuori due fichi, una pagnotta, una fiasca d'acqua. Mangiando, parlano: e cinque sterline
d'oro cambiano di mano ("Le altre cinque domani, amico" sussurra Nazim. "Vai dal capo della
Confraternita di Aleppo, e te le darà") Selciuk acconsente, grave. Leggendarie sono l'affidabilità e
la segretezza della Confraternita dei Mendicanti in tutto l'Impero. I loro affari possono essere oscuri,
ma la parola data è sempre chiarissima. Selciuk potrebbe tradire, e guadagnerebbe forse anche di
più. Ma oscuramente sente che Dio stesso gli sta affidando un incarico: a loro due zoppi, feccia del
mondo, lui e Nazim: l'ultimo soldato del campo, e il mendicante. Nazim poi gli fa paura, ma gli sta
anche simpatico, e in Ismene intuisce, sotto gli stracci variopinti, una determinazione ferrea.
Dice Ismene: "Fra tre ore trovati di nuovo qui. Un uomo ci sarà, di nome Isacco, che nessuno ha
visto al campo stamattina, ma che la Signora, Madame Shushanig, conosce bene. Tu lo prenderai
con te, dicendo che è un tuo cugino, e lo porterai dalla Signora. Lei sa chi è, e si fida di lui. Dalle un
po' d'acqua e un po' di pane, e anche ai bambini e a Mademoiselle Azniv, e nient'altro, che qualcuno
non si insospettisca. Isacco le porterà conforto, e ti aiuterà nel momento decisivo.
Di che è muto, o che ha fatto il Voto del Silenzio, ma non farlo parlare. Capirebbero tutti che è
greco".
Bisogna ora correre da Zareh, che aspetta, rincantucciato in un angolo della carrozza, due strade più
in là. È un po' pericoloso, e può destare sospetti, che la carrozza di Francia stia ferma al sole, vuota,
per tanto tempo, con il cocchiere apparentemente addormentato in serpa: ma non c'è niente da fare.
In nessun altro modo Zareh sarebbe al sicuro, e Marie-Josephine non può farsi vedere con lui in
pubblico: ne andrebbe della sua reputazione, ma non solo, del nome di Francia, che è una nazione in
guerra, e per l'appunto con la Turchia.
Sveglissimo, il cocchiere parigino, Jean-Philippe Aubert, di sotto il basco calato scruta tutt'intorno.
Non si sente tranquillo, benché tutto sembri tranquillo.
E appena vede Ismene svoltare l'angolo, seguita dall'ansimante Nazim, muove i cavalli
velocemente, senza darsi la pena di avvertire, dentro, Zareh. Si ferma di colpo davanti alla greca;
Zareh, riscosso dal suo cupo letargo, ha intuito che bisogna far presto e apre la portiera mentre
ancora è in movimento.
Ismene balza dentro, poi si sporge e lei e Zareh agguantano Nazim e lo tirano di peso sul
pavimento.
Appena in tempo. Mentre la carrozza svolta l'angolo, dall'altro capo della strada si affacciano tre
gendarmi, mandati a chiamare, dalla porta posteriore, da uno degli abitanti delle case intorno,
insospettito.
Per fortuna è l'ora della siesta, e il ragazzo che è stato inviato di nascosto alla prefettura ha fatto
fatica a trovare qualcuno, e soprattutto a farsi seguire dai gendarmi, che ora sentono solo il rumore
del veicolo che si allontana: ma niente li potrebbe indurre, alle tre del pomeriggio di un giorno di
luglio, in quella città soffocata da un calore malato, a rischio di pestilenze, a mettersi a correre.
Così Ismene e Nazim possono informare Zareh, e insieme correre da Marie-Josephine, affannati e
disperati.
E sarà lei a prendere il controllo della situazione. Vite vite, lei spiega a Jean-Philippe di cercare assi,
chiodi e martello per trasformare la carrozza. Vite vite, lei, Zareh, Jean-Philippe si provano a
costruire il doppio fondo, cosa non facile. Vite vite, Ismene e Nazim vengono spediti via insieme
alla cuoca, un donnone normanno che non ha paura di nessuno e conosce Aleppo come le sue
tasche, per preparare Isacco e portarlo al campo. La cuoca resterà a badare alle capre e agli asini,
munita di un coltellaccio da cucina e del grosso bastone da cui non si separa mai, che le serve
mentre fa la spesa e per allontanare i curiosi. Lo manovra con rimarchevole abilità.
Isacco si cala nella parte, felice di potersi finalmente rendere utile, e viene accompagnato da Ismene
al grande platano per l'ora fissata. Ma Nazim nel frattempo è tornato dal capo della Confraternita
dei Mendicanti. A lui adesso deve dire tutto, e pagare la sua protezione.
"Ho trovato il medico armeno" gli spiega, puntigliosamente. "Ma ieri non ti ho detto la verità."
"So che stai con due greci, amico" gli risponde l'altro "e certo hai avuto una ragione per mentirmi.
Ma ora, tu sai che devi dirmi tutto. Ti conviene." E così fu che Nazim raccontò davvero tutto, al
vecchio capo dei mendicanti di Aleppo; anche la sua colpa originaria, anche il suo mestiere di spia,
anche la sua devozione a Shushanig. E quando ebbe finito, l'altro tacque per un po', e poi disse:
"Va in pace, noi ti aiuteremo. Dammi cinque sterline per Selciuk, lo zaptié zoppo, e paga quello che
devi alla Confraternita, per l'aiuto. Dieci dei miei uomini saranno stanotte, da mezzanotte in poi,
intorno alla porta. Non cercarli, ci saranno; pronti a intervenire se necessario. Il mio uomo presso
Djemal Pascià sarà al suo posto, per avvertirmi se succede qualche cosa di imprevisto. Un esperto
falegname, coi suoi figli, verrà fra un'ora alla legazione francese"
"Amico, ancora un servizio" dice Nazim. "Ora bisogna trovare le cinquecento sterline da
consegnare alla moglie del comandante del campo. Puoi aiutarmi a far diventare sterline d'oro il
denaro, le pietre preziose e i gioielli che abbiamo portato con noi?"
"Posso, e voglio" risponde il capo dei mendicanti, che conosce tutti i cambiavalute della città "e ti
servirò bene. Questa storia deve andare a buon fine. E per dimostrarti la mia benevolenza,
comincerò a raccogliere le sterline prima ancora che tu mi porti il denaro e le pietre preziose."
Allora Nazim rovesciò le sue tasche, e consegnò il suo tesoretto senza contarlo; e poi, alleggerito,
condivise una pipa d'oppio con il vecchio, e si sentirono entrambi cavalieri di Harunal Rashid.
Poi, vite vite, la giornata infinita ricominciò a correre.
Il falegname e i suoi figli intervennero velocemente sul pasticciato lavoro iniziato da Marie-
Josephine, Zareh e Jean-Philippe.
Taciturni e capaci, in poche ore costruirono un doppio fondo solido, con un'entrata basculante sul
retro della carrozza, ben mascherata all'esterno da volute e viticci applicati sul legno. Numerosi fori
furono praticati sul nuovo pavimento, ciascuno ben mascherato da una losanghetta movibile di
legno più scuro, che Ismene, rincantucciata in un angolo, avrebbe dovuto aprire dall'interno appena
entrati i fuggiaschi.
Sopra furono risistemati i lussuosi sedili di cuoio, i leggiadri scialli del Kashmir con cui Marie-
Josephine usava rendere più francese la carrozza, il cofanetto con il servizio da tè da viaggio, con
dentro un thermos di cordiale, uno di caffè e una scatola di biscotti leggeri.
La valigetta da medico di Zareh, pretesto ufficiale, venne appoggiata su un sedile; ma poi parve
meglio che Zareh la portasse con sé al momento di rispondere alla chiamata di Marie-Josephine,
come è l'uso di ogni buon dottore.
Isacco e Ismene vennero debitamente accompagnati dal capo dei mendicanti a vuotare le tasche; ma
Ismene prudentemente tenne da parte un sacchetto di pietre e di oggetti preziosi, per il domani di
tutti. E con il capo dei mendicanti, che aveva capito tutto, si guardarono negli occhi, ed entrambi
tacquero.
Zareh e Marie-Josephine correvano dappertutto, stando vicini. Ricorderanno per sempre quel giorno
come il momento più alto della loro felicità. Credevano di non vedere, dietro l'angolo, che
l'angoscia e il disperato terrore di un eventuale fallimento, e il rischio di non fare a tempo ad
organizzare tutto; e non si accorgevano che da quei rischi, da quelle angosce il loro legame si
esaltava, la loro vita acquistava sapore: se Zareh diventava il cavaliere, Marie-Josephine era la
castellana, Jaufré e Melisenda dei racconti dei cantastorie.
Sarà il lento anno successivo a limare i loro cuori, a segnare le differenze fra la bella francese del
paese che vinceva la guerra e il piccolo dottore armeno segnato dalla sconfitta: nella razza, come
armeno; e nella nazione, come turco. E in più, improvvisamente caricato della responsabilità
terribile di una famiglia segreta.
Gli altri - Ismene, Nazim, Isacco, la cuoca normanna, l'autista francese, i mendicanti, lo zaptté
zoppo - badano ciascuno al proprio compito e s'intendono a meraviglia.
Verso le otto, tutto si acquieta. Ora, c'è solo da aspettare che il comandante del campo tenga fede
alla sua promessa. E quindi l'ufficiale che egli invierà deve trovare il consolato pieno di attività e di
festoso movimento, anche a notte tarda. Si improvvisa un bridge. Qualche invitato per fare due
tavoli, e il console che passeggia benigno.
Benoit de St. Lazare è molto più vecchio di Marie-Josephine, indulgente e sorridente con lei quanto
astuta volpe con i padroni turchi e gli abitanti arabi della città. Ha simpatia per Zareh, e lo stima
come medico. Arrivano le guantiere di gelati della Confisene Sicilienne, i migliori, con i pasticcini
orientali e le modernissime, friabili lingue di gatto che sono la moda del momento; i cubi di melone
candito, le anguriette di marzapane e, per la servitù, angurie e poponi freschi di pozzo.
Non c'è vergogna a mangiare quando si è contenti di sé. L'ansia e l'attesa per la notte imminente
stuzzicano l'appetito di tutti, e un piccolo vento di ottimismo comincia a soffiare.

Intanto Isacco, sotto il platano, attende. Attende umilmente di fare quello che Ismene gli ha
ordinato, e che gli riesce anche bene: portare consolazione. Si fruga nervosamente nelle tasche,
palpa la borraccia e i pezzi di pane. Spera di essere all'altezza. "Ma almeno" pensa "non dovendo
parlare non dirò sciocchezze." Nessuno è più lontano dal pensiero di far sermoni di questo prete
incerto che si sente acutamente colpevole, e vedovo. La vedovanza non fa per lui, pensa; e ormai si
è attaccato a Ismene. Può un prete sposare una lamentatrice? è il quesito che oziosamente rigira in
testa come una festuca fra i denti, mentre aspetta.
"Quando tutto questo sarà passato" (anche lui sente come un sospiro di ottimismo nell'aria, un
sussurro, pensa, che viene dalla buona Katerina e da Di mitraki, finalmente felici insieme) "e io sarò
perdonato, voglio tornare a mettermi la zimarra azzurra, farmi ricrescere il codino e tornare a fare il
prete. Ce ne sarà bisogno, di liturgie, dopo la guerra; e io almeno ho una bella voce, e so tutti i
canti." In quel momento arriva lo zapté zoppo, e gli porge una specie di lercia uniforme: "Vestiti,
che andiamo" sussurra "non c'è più molto tempo. I tuoi amici, devi dirgli di stare buoni e svegli fino
a stanotte. Per fortuna sono abbastanza isolati: ti porto da loro, ma devi fare molto in fretta. Tutto il
campo è in fermento, e l'ufficiale di stamattina può ritornare da un momento all'altro" Isacco
annuisce, già calato nella parte del muto.
"Gli armeni stanno ribellandosi" prosegue l'altro "ce ne hanno messo di tempo, quei bottegai
spilorci, a capire che non c'è scampo, che vanno a morire. Ma domani, prima che partano, mi
sceglierò un bel ragazzino, e me lo porto via. Adesso che ho un po' di soldi, voglio andarmene. E
così farò anche una buona azione." Isacco non replica circa la buona azione. Ha un'enorme paura,
come nella terribile sera alla Masseria; ma stavolta non è impreparato, e ha un'enorme paura anche
di Ismene. E poi, più a fondo, si ripete: "Non ho più niente da perdere", e cerca di convincersi che è
davvero così, e che, nonostante tutto, il piccolo san Michele Arcangelo che ha in tasca non
disdegnerà di proteggerlo.

La notte così si intesse di inganni di salvezza. Isacco trova Shushanig vigile e di nuovo all'erta,
semisdraiata sui bambini, a cui sussurra frenetici ordini.
Non sono più abituati a obbedire, ma solo a vagare per il campo nell'infinita ricerca infruttuosa di
un frammento di pane, di un seme, di una buccia dimenticata.
Il mondo si è richiuso su di loro, che sopravvivono perlustrando, scrutando ansiosamente per terra.
Non bisogna alzare gli occhi alla conca vuota del cielo, all'arsura immobile; non bisogna farsi
scorgere dal Dio feroce di lassù che pretende tutto il tuo cibo. (Per mesi, dopo la salvezza, i bambini
non si staccheranno mai dalla loro pagnotta, che Nubar e Henriette trasformeranno in bambola.)
L'aiuta la maggiore, Arussiag, una quieta adolescente bruttina, silenziosa davanti alle violenze che
ha subito, che non ha raccontato; ha dato poco piacere, evidentemente, al soldato che se l'era presa,
ma neppure irritazione. Così l'ha riportata indietro, dicendo che non serviva a niente.
Azniv è seduta in disparte, chiusa in se stessa, con gli occhi vuoti. Isacco va da lei per prima, le da
acqua e pane, che la ragazza afferra con un movimento veloce.
Non reagisce però in nessun modo alle sue parole.
Sospirando, Isacco corre da Shushanig, le da la borraccia e il resto del pane, e le dice in un sussurro:
"Mayrig, è per stanotte. Selciuk, qui, ed io vi tireremo fuori. Tuo cognato Zareh verrà con una
carrozza".
Shushanig ascolta, e un barlume dell'antico sorriso si posa su Isacco: "Tu sei fedele, Isacco. I
bambini e io ti ringraziamo; ma soprattutto, è Sempad che ti ringrazia, con gli altri miei figli"
Per ordine dell'ufficiale che organizza le partenze, le carovane sono adesso molto più sorvegliate.
La città di Aleppo è piena di scontento e di fermenti. Gli arabi sono inquieti e rissosi. Non piace a
nessuno essere circondato dalla sporca tragedia, toccare quegli orrori da vicino, annusare tutto
intorno la morte - e non poter far niente. Gli zaptié tengono lontani con uguale durezza i curiosi e i
compassionevoli.
Così Selciuk trascina via velocemente il "cugino" Isacco, e lo siede per terra a far la guardia al suo
asino. Isacco tace. Ormai è diventata un'abitudine, per lui, di passare giornate intere, muto, con gli
asini.
E non se ne trova male. Prega e sonnecchia.

Nel frattempo, Nazim ha avvisato Ismene - solo lei del suo appuntamento con Djelal. E Ismene,
perfino lei, non sa bene perché Nazim voglia incontrare Djelal; pensa solo che Nazim fosse uno dei
clienti fissi dell'ufficiale. E ormai si fida di lui. Nazim tornerà comunque in tempo al consolato; nel
frattempo pensa, giustamente, che facendogli incontrare Djelal Dio gli ha già indicato abbastanza la
strada. Così si fa prestare un mulo docile e si avvia, nella brulicante Aleppo notturna, a tessere un
altro filo di salvezza.
Ma cosa dire a Djelal? E quanto dire a Djelal?
Tutto si gioca, per Nazim, su quelle lontane suppliche d'amore che ha ascoltato di nascosto; ma un
fiume gonfio di tempo e di sangue è passato da allora…
Djelal è già sulla strada, in attesa. Da ieri, egli attende Nazim come un inviato del destino. È uno
spirito forte e moderno, Djelal, non è superstizioso; ma quando ha fissato il mendicante negli occhi,
ha visto e giudicato se stesso.
Come ha potuto abbandonare la sua colombella, quella a cui ha tenuto le mani sotto il bersò
profumato?
Immagini orrende e veridiche gli pesano sul cuore. Lei non lo aveva veramente respinto, era il suo
pudore di vergine che l'aveva fatta balzare in piedi e arretrare. Lei non gli ha veramente detto di no.
E lui, lui l'ha abbandonata, con la sua bellezza indifesa, a gendarmi, soldati, zaptié…
L'esatta coscienza di ciò che è senza dubbio accaduto gli stringe il cuore in una morsa di ferro. La
sua colomba, la sua rosa di maggio… Ricorda improvvisamente il cupo, vellutato colore, quasi un
presagio, e il profumo delle rose del bersò. Come ha potuto cancellare tutto, perdersi ad Aleppo? E
come sarà lei ora? È viva, prima di tutto?
"Sì, è viva" gli dice immediatamente Nazim arrivando. "Azniv è viva" ripete (e Djelal non pensa a
chiedergli com'è che sa tutto, con tanta confidenza) "E sono vive Madame Shushanig e le sue
figlie." (Del maschietto superstite, di Nubar, meglio non parlare, per ora)
"Li abbiamo trovati. Dalla piccola città sono arrivati fin qui solo in pochi." Nel cuore di Djelal si fa
strada un'immensa pietà per questa femmina contaminata, ma anche il nascosto sollievo che potrà
essere il suo salvatore, romanticamente portarla via al galoppo, nutrirla, curarla e poi averla tutta per
sé senza soprassalti di orgoglio, sottomessa e grata. Infine, è una donna. Non c'è niente e nessuno
ormai che gli impedisca di prendersela, anche se i sogni di sposarla e fuggire a Parigi ormai gli
appaiono indecenti, più che ingenui.
L'antico orgoglio del conquistatore verso le donne (come verso le città) sottomesse riaffiora intatto
sotto la vernice occidentale, e Djelal abbandona in fretta i brandelli del suo sogno romantico.
Nazim legge sul suo viso, e in verità è d'accordo.
La casa di Djelal gli sembra un buon rifugio, e tante armene si sono salvate così. Allora,
bruscamente, decide cosa dirgli: che i superstiti della famiglia saranno fatti uscire dal campo nella
notte, da un parente. Se vuole Azniv, si trovi con un paio di amici e di cavalli presso la porta
Orientale, vicino al grande platano, dopo la mezzanotte, con coperte e cordiali. Farà in modo di
avvisarlo al momento opportuno.
Senza dargli il tempo di rispondere, e con la coscienza un po' sporca, Nazim volta bruscamente il
mulo e corre via. Sente gli occhi immobili di Azniv che lo pesano, teme Ismene e i suoi occhi
indagatori, ma è anche fiero di come tutto si è andato organizzando, e della parte che ha avuto.

E così si concluse quella giornata infinita. La calda sera di luglio cadde velocemente. La carrozza
era pronta, con Nazim e Ismene accovacciati dietro, silenziosissimi, mentre Jean-Philippe si
ristorava con un buon pranzo. Custoditi e messi a nanna gli asini, la cuoca normanna è tornata in
tempo per imbandire prelibatezze.
Zareh e Marie-Josephine non si confidano col console, ma la loro aria di complicità gli fa capire che
c'è qualcosa in ballo. Benoit sorride appena, convinto che Marie-Josephine deve un poco svagarsi,
in quella città terribile, assediata dalla guerra e dall'orrore degli armeni, là fuori. È convinto tuttavia
che lei non farà mai nulla contro il prestigio suo o della Francia, e quindi - è meglio non sapere.
Pensa a qualche piccolo intrigo; non immagina neanche di lontano a cosa servirà la sua carrozza,
quella notte.

La partita iniziò. E tutti apparivano gai, e frivoli, ma non lo erano. Il puzzo di morte impestava la
città.
Mangiarono, e bevvero, e scherzarono. E un po' prima dell'ora fissata arrivò a cavallo l'ufficiale
turco, e chiese di Marie-Josephine, e le porse omaggi da parte del suo comandante ("che voi,
Madame, conoscete molto bene; e ora sta male, ha un attacco di fegato. Soffre molto, e confida in
voi, perché sa che conoscete i migliori medici di Aleppo") "Ecco il migliore, seduto giusto qui
vicino a me" disse Marie-Josephine; e aggiunse: "Non volete sedere con noi, e gustare un
rinfresco?"
L'ufficiale esitò, attratto, ma aveva ordini precisi; e infine la Francia è nazione in guerra con noi (e
un pensiero sottile gli attraversò la mente: "Come mai il comandante si rivolge a questa qui, per
aiuto?") Sicché declinò l'invito, e Zareh si alzò, prese la sua valigetta e disse: "Scusateci. Andiamo",
tremando, tremando, come fosse là fuori nel campo, come un armeno qualsiasi.
"Se venissi anch'io?" disse Marie-Josephine, come sovrappensiero. "Oh no, Madame; quei campi
non sono posti per voi" ribattè scandalizzato l'ufficiale, e Benoit le lanciò una breve occhiata, quasi
timida.
Zareh non può portarla con sé; c'è già la carrozza di Francia, amabilmente offerta.
Esce così da questa storia Marie-Josephine, dolce farfalla senza la quale nulla sarebbe potuto
accadere, ago del destino come sempre un po' inconscio.
Zareh, che la vorrebbe vicina, non pensa alla terribile umiliazione che sarebbe per Shushanig, Azniv
e le bambine la vista, come un'apparizione profumata, della bella occidentale insieme a lui; e una
francese, per di più.
Ora la carrozza parte veloce, e al consolato si finisce la partita iniziata. Per simpatia verso la moglie
delusa, Benoit si siede al posto di Zareh e le sorride.
Intanto, Ismene e Nazim si sono accovacciati dentro la carrozza. Jean-Philippe, che dice di vedere
nel buio come i gatti, è pronto a cassetta. "Che efficienza!" passa per la mente dell'ufficiale con un
lievissimo sospetto; ma poi ricorda la faccia giallastra del suo comandante, dimentica, e scivola in
pensieri piacevoli.
"Chissà che questo medico non gli prescriva quiete e riposo; così potrebbe assumere lui il
comando" pensa "e mettersi in buona luce nella Capitale. I vecchi ufficiali non amano questi
incarichi 'sporchi, vorrebbero combattere sul serio, con nemici veri"; lui pensa che finire gli armeni
è un'incombenza come un'altra, non occorre neppure agire direttamente, basta dare ordini.
Queste razze inferiori e imbelli devono scomparire, per il bene dell'Impero. E così sarà.
Vola la carrozza dietro il cavallo dell'ufficiale, ripercorrendo sentieri ormai noti. Ismene e Nazim
confabulano sommessamente, ma senza fare piani troppo precisi.
Vedranno al momento. "Ma Zareh" pensa Ismene "è troppo pallido; scuote la testa, agita le mani, sta
diventando velocemente un armeno qualsiasi, pronto per il macello."
"Dottor Zareh" dice allora Ismene, prendendogli le mani "loro sentono l'odore della paura. Lei non
ha paura, dottor Zareh, lei sta ad Aleppo. Ma è il capo della famiglia, adesso. Pensi a suo fratello
Rupen, che non sa ancora niente; pensi al professore in Italia.
Loro confidano in lei, e anche Madame. Lei è il cavaliere di Madame; ma anche, ora, di Mayrig
Shushanig e di sua sorella Azniv. E c'è anche il piccolo Nubar." E con un guizzo del suo spirito
indomabile, aggiunge: "Li prenderemo in giro tutti, quei cani maledetti. E Dio è con noi, io lo so"
Zareh la fissa, stralunato, e si affida. Le stringe convulsamente le mani, e smette di tremare. Anzi, si
raddrizza, e fa un cenno dal finestrino all'ufficiale che ha rallentato per indicargli la strada, un cenno
autorevole, spera. Un cenno da medico capace.
Ai cancelli del campo, l'ufficiale rallenta appena, e la carrozza dietro. Smonta l'ufficiale, scende
Zareh, che senza voltarsi indietro si avvia per il suo consulto.
La luce è fioca. Alcuni zaptié con una lanterna in mano perlustrano il campo per evitare fughe,
misura disposta in vista della partenza, prevista per l'indomani.
Il cocchiere Jean-Philippe scende dal suo seggiolino - come d'accordo - fingendo di chiudere lo
sportello della carrozza lasciato aperto da Zareh. All'ombra della sua alta figura Ismene e Nazim si
lasciano scivolare a terra e spariscono dietro la carrozza, non senza aver aperto la porta basculante
mimetizzata sul retro e averla delicatamente riappoggiata, pronta per l'uso. Isacco e Selciuk sono
pronti nell'ombra.
Il cocchiere si appoggia alla portiera indolentemente, cava di tasca le sigarette e si mette a fumare
con aria impassibile, guardandosi intorno di sotto il berretto e masticando maledizioni. Nella
semioscurità, tutto intorno, fievoli lamenti, passi, movimenti furtivi e ogni tanto un grido. L'odore di
morte e di corruzione prende alla gola.
Poi, tutto accelera. Un'ombra più spessa dietro la carrozza, che comincia a oscillare. Un breve
pianto infantile, un movimento improvvido. Dal fondo del campo due figure cominciano a correre,
una lanterna più forte viene accesa. E tutto sarebbe perduto se Azniv, la dolce sorella, che si stava
avviando per ultima verso la salvezza, comprendendo tutto, non avesse fulminea accentrato su di sé
l'attenzione.
"Oy sirun sirun" comincia a cantare, ergendosi fiera, ritrovando nel sacrificio improvviso tutta la
sua innocente, serena baldanza; "ov sirun sirun, maledetti, io vi sfido. Non riuscirete a ucciderci
tutti." Un vento di follia percorre il campo. Le altre donne cominciano tutte a gridare, le mani verso
il cielo, come fiori appassiti che chiedono vendetta. Gli zaptié, colti di sorpresa, si precipitano su
Azniv, illuminano solo lei, che continua a cantare finché un colpo di sciabola le tronca la testa.
Addio, dolce Azniv; addio, colomba d'Armenia.
Nel buio, Shushanig e i bambini vengono sospinti nel doppio fondo della carrozza. La porta ricavata
sul fondo si chiude con uno scatto; Ismene, Isacco, Nazim velocissimi si rintanano nella carrozza,
appiattiti sul fondo, e aprono i listelli di legno per far circolare l'aria, sussurrando poche parole di
conforto. Ed ecco, Zareh pallidissimo esce dalla baracca dove ha visitato il comandante, gli stringe
la mano, gli fa un'ultima raccomandazione e lentamente, come gli è stato ordinato, risale in
carrozza.
"Tutto a posto" gli sussurra pietoso Jean-Philippe, chiudendo cerimoniosamente lo sportello; d'un
balzo è in sella, frusta i cavalli ed esce velocemente dal campo.
Ma fuori, c'è Djelal che aspetta, con i suoi amici.
Nazim rabbrividisce, eppure sa che deve avvisarlo, anche perché gli ha parlato di questa fuga dal
campo.
Ma fermare la carrozza adesso è fuori discussione, parlarne con Ismene impossibile, e Jean-Philippe
va come il vento. Così semplicemente scivola vicino a Zareh, apre lo sportello e si lancia nel vuoto,
rannicchiandosi, mentre passano vicino alla porta della città. Zareh richiude automaticamente, e si
lascia andare sul sedile; ma Ismene gli si avvicina, gli prende di nuovo le mani e gli racconta la
morte di Azniv. E che dormiva nel deserto avvolta nella pezza di damasco che lui, Zareh, le aveva
donato, e che è morta ribelle, cantando la sua canzone.
"Ah sorellina" vorrebbe piangere Zareh, ma non c'è tempo. I poveretti nel doppio fondo della
carrozza esigono tutte le sue cure.

E così, paziente lettore, siamo giunti al termine di questo viaggio, e di questo racconto. Le figlie di
Sempad sopravvissero, e così Nubar, come era stato predetto.
Per un anno Zareh li tenne nascosti nella cantina della sua casa, e non li avrebbe potuti nutrire senza
il premuroso aiuto di Marie-Josephine e del tesoretto di Ismene, e la volontà concorde di aiutare gli
armeni del popolo di Aleppo e degli stranieri che vi abitavano.
Poi riuscì a imbarcarli per mare verso Venezia - e verso Yerwant che se ne prese cura. Shushanig
sopravvisse a se stessa per tutto quel lungo anno; ma si lasciò andare, e morì di crepacuore sulla
nave, la prima notte in cui, essendosi finalmente imbarcata per l'Italia con il suo piccolo popolo,
potè dismettere la paura e sorridere di nuovo a Sempad. Che avvenne poi dei suoi figli, e di
Yerwant, della sua contessa, di Yetwart e Khayel? Questa sarà un'altra storia.
Ismene e Isacco restarono ad Aleppo con Shushanig fino alla sua partenza; poi se ne andarono a
Smirne, insieme. E anche questa è un'altra storia.
Nazim rimase ad Aleppo con Zareh, rimandando la sua partenza; ma un giorno scomparve davvero,
forse per esercitare la sua professione alla Mecca. Di certo, non tornò più indietro.
Nazim trovò Djelal, nella notte famosa: e non si sa che cosa gli disse. Ma alcuni giorni dopo, come
per caso, Djelal e Zareh si incontrarono, e piansero insieme: cioè bevvero caffè e giocarono a tric-
trac. E fu poi Djelal che trovò la nave, e i passaporti tedeschi per il piccolo popolo di Shushanig; e
ancora lui testimoniò al processo per le stragi armene, a Costantino poli, nel 1919.
Nessuno, paziente lettore, è più tornato nella piccola città.

RINGRAZIAMENTI
Devo molto a tante persone. Ringrazierò per primi coloro che mi hanno parlato: Sempad e
Shushanig, Ismene e Isacco, Nazim il mendicante e Yerwant, col suo accurato pizzetto
pirandelliano. E poi Azniv e Veron, le zie che non ho conosciuto, Henriette piccola e buffa, che
sapeva viziarmi, Zareh e Rupen, gli zii leggendari.
Dirò grazie alla mia mamma spavalda e capricciosa, che mi ha cresciuta senza indulgenze, a
Khayél, papa serio e sornione, preoccupato di tutto, a zio Wart, a Yerwant, Ermanno, Teresa cugini,
a Carlo fratellino, agli altri miei stravaganti amati fratelli e nipoti.
A Siobhan Nash-Marshall, geniale amica, devo l'affettuosa spinta iniziale: a lei parlarono prima che
a me. A Boghos Levon Zekiyan, amico fraterno, la riscoperta delle radici e la gioia di farlo. A Paolo,
destinatario dei miei primi racconti, una vigile attenzione e un amore antico, a Cecilia la dolcezza e
l'intesa tempestosa di una figlia vera. A Dario GiangolzianAgopian, la condivisione dell'armenità, e
il nome della Pharmacie Hayastane\ a Chiara Haiganush Me gighian e Afò Hemmat Siraky, di
avermi saggiamente aiutato, parola per parola, a maneggiare l'incandescente poesia di Daniel
Varujan.
Ai tanti e alle tante a cui per lunghi anni ho raccontato le mie storie, grazie di avermi ascoltato:
l'unità di battaglia di Campel Alto (Marta Francesco Angelomarco Mariasilvia e Andrea), Anna
Folli, Tal ter ego, e Piersandro Vanzan, Mario e Fiorenza, Luisa uno e due (e Limpopo), Giovanna
La Pecora, Marina Carlo Francesco e Alessandro Piccolo, Mimina, Laura, Cesira e Natalia, Luigina
e Betti, Adriana e Marisa, Lina Stefania Sonja e Roberto, Gianna, Paolo Leo a Creta, Francis a Tolò,
Andrea al Lido, Luca a Capalbio; e poi Margherita Annalisa Manuela Donatella Flavio Elisa
Victoria, e tutti gli altri allievi carissimi, Alessandro Grande e Silvia, Fabio e Carla, Maria Teresa e
Giara - e quelli di cui non so il nome, gli amici dei treni, i compagni di corriera…
E poi i piccoli esseri del cuore: Vanana, Lefantino, Terso Lefante e Bambina Lefante, Terso Lefante
Bambino e Tenebroso Oscuro Junior, che traversa gli oceani raccogliendo semi, Quella Con Gli
Stivali, Andata Via, i Cavalieri, tutti quelli che vanno e vengono e non mi lasciano mai sola.
E grazie agli amici e compagni della Messa orientale e del piccolo coro armeno di Padova, con i
quali anch'io riesco a cantare a gola spiegata.
Grazie ad Angelo Guerini, fiducioso amico di sempre, a Roberta Brivio e Sandra Cossu, amiche e
complici, ad Annamaria e Piero Kuciukian, Fernanda Di Monte, Laura Pisanello e Beppe De Santis,
Gi.Lu., Armine e Anahid, che in varie formed mi fecero iniziare a scrivere questa storia; e grazie a
tutti gli armeni miti e fantasticanti che, a Milano-Italia, a Roma e ovunque nel vasto mondo, mi
hanno accolta e nutrita di immagini antiche e di impreviste parentele, e mi hanno regalato ricordi
preziosi.
Grazie anche ad Adele Saravalle, Renato Parenzo, Dario e Aida Foà, Achille Viterbo, per avermi
donato, in tanti modi, la loro preziosa saggezza ebraica; a Suren Zovighian e Aldo Ferrari, amici
colti e curiosi, sapientissimi di cose armene; a Vartuhi Pambakian, che mi ha fatto scoprire l'arte dei
pÌzzi e dei ricami armeni, a Ruth Thomasian, vestale delle fotografie della Patria Perduta, che ricrea
tempi, modi e atmosfere - e crea calendari - alle fantastiche visioni architettoniche di Lucy Der
Manuelian, a Haikaz Grigorian, psichiatra e misterioso fratello d'anima.
Ho un grande debito, infine, con i testimoni e gli storici del genocidio armeno, come Claude
Mutafian, Vahakn N. Dadrian, Robert Melson, Donald e Lorna Miller, Richard G. Hovanissian, che
mi hanno permesso di capire a fondo la trama terribile degli eventi su cui il tessuto del vero e del
verosimile ha potuto intrecciarsi.
E anche con Teodolinda Barolini, Timmie Vitz, Gwendolin Herderjoe Koterski, Mary e Tona, Maria
e Vito, Uxue, Gary, Sandy e Leora, amici aldilà del mare; e con le città aldilà del mare, dove i
personaggi di questa storia sono diventati veri: New York, l'amata, con la finestra sul fiume e le
chiatte e i grossi pezzi di ghiaccio scuro, Evanghelos e il suo ristorante Tudor Grill a Tudor City;
Grand Central Station, il Luogo Che Mi Protegge, e il succo d'arancia coi muffins di Zaros; e poi St.
Paul, Minnesota, dove l'edificio con su scritto Grane in bei caratteri ottocenteschi, nella piazza del
Partner's Market, mi ricordava sempre Grunk, la canzone della nostalgia degli emigrati armeni, e le
minestre saporite e dense del caffè The Black Dog.
Grazie agli amici del Minnesota, il mio paradiso lacustre:
Koko e Jeanne, Massis e Chaké, Kathie e Jaf far, i ritrovati cugini Kardashian, Lou Ann Matossian,
Manna Kerkinni l'assiro e il ciabattino maronita. E agli studenti della St. Thomas University: Aaron,
Jim, Rachel, Molly, Rougina, Beth, Kathryn.
A Marilisa Andretta e Vartan Mardirossian devo affetto e gratitudine. A Roberto Santachiara sono
grata per l'emozione di un ascolto meraviglioso; ad Ale, Laura, Cris, per il loro vigoroso sostegno, e
alla mensa della Rizzoli per il riso in bianco e la fenomenale frittata.
Un ultimo affettuoso ringraziamento vada alla signora Donatella Biffignandi, del Museo
dell'Automobile di Torino, per la preziosa e competente consulenza, che ha aiutato e confermato i
miei ricordi infantili, e a tutti quelli che mi stanno nel cuore e non mi affiorano nella mente.
Finito di stampare nel mese di marzo 2004 presso il Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche -
Bergamo

Laureata in archeologia, è stata professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea


all'Università di Padova. È autrice di saggi pionieristici sulla narrativa popolare e d'appendice
(Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento, nuova edizione
Unicopli 1986) e sulla "galassia sommersa" delle scrittrici italiane (Dame, galline e regine. La
scrittura femminile italiana fra '800 e '900, Guerini 1998).
Attraverso l'opera del grande poeta Daniel Varujan - del quale ha tradotto (con Chiara Haiganush
Megighian e Alfred Hemmat Siraky) le raccolte Il Canto del Pane (Guerini 1992) e Mari di grano
(Edizioni Paoline 1995)- ha riscoperto la sua profonda e inespressa identità armena. Ha curato un
libretto divulgativo sul genocidio (Metz Yeghern. Il genocidio degli Armeni, di Claude Mutafian) e
una raccolta di testimonianze di sopravvissuti rifugiatisi in Italia (Husher. La memoria. Voci italiane
di sopravvissuti armeni), editi da Guerini. Infine, ha scritto il suo primo romanzo, La Masseria delle
Allodole, perché non ha potuto farne a meno. Quei personaggi, quelle persone dal destino
incompiuto, erano lì, e l'hanno chiamata.
Hanno voluto essere ascoltati.

Per la foto in copertina (c) courtesy of Rev. Nerses Baboorian and Project SAVE Armenian
Photograph Archives, Watertown, Massachusetts, USA.
Progetto grafico di Andrea Brown per Mucca Design www.rizzoli.rcslibri.it infopoint@rcs.it ISBN
88-17-00144-9

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