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Appendice. L’ideale della bellezza femminile nella letteratura classica russa. .............. 167
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Introduzione.
La storia della cultura come approccio specificamente russo.
1Uno dei massimi interpreti del metodo culturologico in Italia è senz’altro Umberto Eco; tra gli altri vale la
pena di ricordare illustri slavisti come Vittorio Strada e il francese George Nivat.
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particolarmente interessata alle tappe fondamentali del processo culturale russkij – proprio
dell’ethnos russo – e rossijskij – avvenuto cioè entro i confini dell’entità statuale russa).
L’oggetto di studio della culturologia è dunque anzitutto la cultura intesa come
universale rapporto dell’uomo con il mondo e con se stesso e ogni singola cultura come
creativa e concreta realizzazione di quel rapporto; un rapporto che, con il suo stesso
instaurarsi, produce senso, significa. E in questo rapporto di significazione, l’uomo fa suo
il mondo, se ne appropria, vi si accasa. Sembrano evidenti già in questa concezione
antropologica sottesa alla kul’turologija russa echi della cultura classica e biblica, in altre
parole delle due radici di cui è fatta l’Europa. La kul’turologija trova, infatti, nell’ancoraggio
alla tradizione culturale classica, umanistica e cristiana gli strumenti per evitare il
relativismo assiologico a cui sembrano invece destinati spesso gli studi culturali. Essa fa
precedere – classicamente, verrebbe da dire – allo studio delle diverse incarnazioni della
cultura la riflessione sulla cultura stessa e sull’uomo come produttore e prodotto della
cultura. Per questo motivo nella concezione pedagogica russa contemporanea la
kul’turologija ha occupato il posto di una disciplina fondante sia l’ambito umanistico, sia
quello scientifico-tecnologico.
Inoltre, attingendo a quelle stesse fonti, le uniche capaci storicamente di produrre
società aperte, essa rinnova e problematizza il pensiero europeo, spesso eurocentrico. Da un
lato, dunque, riprende la tradizione biblica sempre molto produttiva nella Russia
presovietica e ora riscoperta, se mai per il tramite di Martin Buber e soprattutto di Nikolaj
Berdjaev. Il compito culturale dell’uomo risponde qui al comando del Genesi di
“soggiogare la terra” (Gen 1,28), un compito adempiuto e umanizzato dall’opera
neotestamentaria del Verbo incarnato – la Parola che dà significato – che “pianta la sua
tenda” fra gli uomini (Gv 1,14). Dall’altro lato, facendo tesoro della distinzione moderna tra
la dimensione ideologica e quella sociale, la culturologia evita funesti complessi di
inferiorità e ancor più funesti imperialismi culturali e si sforza di intendere ogni cultura
come risposta collettiva di un gruppo all’interrogativo posto dal proprio destino e
dall’esistenza stessa. Qui, evidentemente, il rapporto di significazione è già la declinazione
di un significato particolare, sociale, che permea i fenomeni simbolici, ideologici, artistici,
religiosi e che viene analizzato sia da un punto di vista interno sia da quello comparativo.
Sotto quest’ultimo aspetto non di rado gli studiosi della cultura pervengono a
posizioni di indifferentismo assiologico, di relativismo culturale. Va invece riconosciuto ai
culturologi lo sforzo di cercare criteri di valutazione assoluta delle culture. “Questi criteri –
spiega Tsarov – derivano dal fatto che il valore primigenio è l’uomo, lo sviluppo della sua
personalità e libertà. Pertanto il grado di sviluppo di una cultura è determinato dal suo
atteggiamento nei confronti della libertà e della dignità dell’uomo e dalle possibilità che
essa offre all’autorealizzazione dell’uomo come persona” (Radugin 2001, p.17). su questa
base è possibile realizzare lo scopo operativo della culturologia, quel dialogo tra culture
che si rivolgono le une alle altre senza dissolversi le une nelle altre.
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Attenta in particolare al surplus di significazione che i prodotti dell’uomo portano in
sé, la culturologia adotta un metodo assai simile a quello dell’indagine filosofica, arricchito
però da quanto l’antropologia, la storiografia, la psicologia e la sociologia della conoscenza
hanno portato nel campo delle scienze umane. Albero dalle tante radici, la culturologia
russa denuncia esplicitamente i suoi debiti nei confronti di Hegel, Spengler, Berdjaev,
Freud, Jung, Toynbee, Sorokin, dello strutturalismo, di Huizinga, Ortega y Gasset, di
Veselovskij, ma soprattutto della semiotica lotmaniana e della poetica della cultura ideata da
D.S. Likhačev e S.S. Averintsev. Nella concezione della semiotica lotmaniana, infatti, il
materiale della semiotica non è costituito dalle parole, dalle frasi o dai testi isolati, ma
dalla cultura come tale. In tale prospettiva, i segni che costituiscono l’oggetto di studio
della semiotica sono dunque tutti i prodotti dell’informazione non genetica dell’uomo.
Gli studi di Likhačev e Averintsev, dedicati rispettivamente alla poetica della
letteratura russo-antica e antico-bizantina, indagano invece i legami tra la semiotica
sociale, la semiotica culturale e la semiotica del testo letterario, giungendo infine a
individuare l’ethos unitario – lo stile di un’epoca, come lo definisce Likhačev – che soggiace
e informa quelle specifiche culture. “Si può parlare di una letteratura russa antica come di
un qualcosa di unitario dal punto di vista della poetica storica?” si chiede Likhačev
proprio all’inizio della sua Poetika. Il termine poetica, infatti, viene qui utilizzato come
“sistema dei principi operativi di un qualunque autore, di una scuola letteraria o di
un’intera epoca letteraria”. Poetica pratica, dunque, e immanente alla stessa creazione
letteraria indagata con un’esigenza di sistematicità, di organicità tutt’altro che occasionale.
Ancora, come spiega lo stesso Averintsev, “la parola letteraria deve essere rapportata
alla storia, alle realtà sociali e politiche della storia, ma rapportata non altrimenti che
attraverso l’uomo”. Umanizzando e umanisticizzando la cultura russa in cui operavano,
questi autori si opposero – di fatto, e con argomenti di forte spessore intellettuale – alla
semplificazione sociologista sovietica; inserirono la parola letteraria nell’ambito della storia
culturale ma fecero perno sull’autore di quella stessa parola, l’uomo. L’uomo che dà voce
reale a quella letteratura e a quella cultura, la fa passare da uno stato potenziale a uno
stato attuale; l’uomo che si percepisce all’interno della storia, e che con una determinata
cultura risponde alla domanda sul suo “posto nell’universo”. Non a caso uno dei primi
grandi lavori di Likhačev è proprio dedicato all’uomo nella letteratura dell’antica Rus’.
Prendendo l’avvio da una possente analisi della produzione artistica russa antica, del suo
armamentario retorico e dei suoi generi, Likhačev affronta nella sua Poetika il problema
della collocazione della letteratura nell’ambito della cultura della Rus’. Problema che
investe inevitabilmente, date anche le particolarità del concetto stesse di testo in tale
ambito, il rapporto organico tra immagine (miniatura, icona ecc.) e parola scritta, tra
letteratura e folklore, tra comportamento sociale ed etichetta letteraria (norma di
comportamento letterario). Lungi dall’essere svincolata dalla vita sociale del tempo, nel
vasto affresco di Likhačev i generi letterari appaiono sullo sfondo dei loro usi
extraletterari, ma da essi distinti per una diversa concezione del tempo e dello spazio
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artistico. L’ulteriore sviluppo di questo metodo conduce Likhačev a studiare la semantica
degli stili dei giardini e dei parchi non “per una forma di elevato hobby”, ma per quella
che sembrerebbe quasi una necessità del metodo stesso. Il giardino come testo è il sottotitolo
di uno dei suoi ultimi libri, La poesia dei giardini.
L’analisi del sistema culturale antico-bizantino che, malgrado tutte le contraddizioni, anzi
proprio attraverso esse rivela una logica indiscutibile e permette ad Averintsev di
ipotizzare una serie di legami tra fenomeni sociali e fenomeni culturali normalmente
piuttosto distanziati. Accade così che all’ideologia politica dello stato bizantino venga
accostata la simbolica dello Pseudo-Dionigi Areopagita, e a questi due fenomeni
considerati insieme, l’uso della metafora nella poesia del tempo; che all’intento didascalico
degli innografi venga accostato il sistema di metrica e di allitterazione da loro stessi
elaborato; al mondo burocratico degli scribi di Costantinopoli, l’ipersensibilità verso la
grafica del testo letterario; alle antinomie presenti nella dottrina cristiana, la strofa di
Romano il Melode con la caratteristica contrapposizione di strofa e ritornello, e così via”2.
Gli autori citati da Ghini sono senz’altro esponenti di primo piano di una metodologia
tipicamente russa di comprensione della cultura nella sua dimensione storica e
interdisciplinare, in particolare della sua dimensione religiosa. Proprio Sergej Averintsev
(1937-2004), è stato l’ultimo erede di una “scuola” che risale agli inizi stessi del sistema
scolastico russo fin dal XVII secolo, quando a Kiev e Mosca cominciavano ad aggregarsi i
discepoli dei missionari gesuiti in Polonia, e la Russia ancora medievale cercava le
categorie per affermare la propria specificità nell’Europa cristiana divisa. Questa capacità
di non perdere il filo della propria identità e della propria vocazione culturale e religiosa è
stata per i russi il grande antidoto al dominio totalitario dell’ideologia nel periodo
sovietico, che solo apparentemente aveva cancellato ogni memoria del passato. Lo stesso
Averintsev, filologo bizantinista e poi teologo, fu il primo a proporre pubblicamente
tematiche religiose a cominciare dagli studi su Jung, raccogliendo ai suoi seminari in
università folle trabocchevoli di studenti, riuscendo a influenzare e formare la coscienza
delle generazioni più giovani contrastando “a mani nude” la potenza propagandistica dei
Queste intense e lapidarie citazioni, di cui si potrebbe comporre una ampia antologia,
ci impegnano a indagare l’universo della cultura spirituale russa senza tesi precostituite o
ipotesi da dimostrare, ma con spirito di reale apertura verso possibili significati anche
divergenti tra loro. La Russia è un grande enigma e un’immensa miniera, che impegna
dall’esterno e dall’interno di essa a una continua verifica sui confini dell’anima.
5 KONEVA Ljudmila, Antropologičeskye idei v russkoj religioznoj filosofii, Moskva 2004, p.13.
6 SINJAVSKIJ Andrej (Abram TERZ), Progulki s Puškinym, Moskva 2006, p. 24.
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Capitolo 1. Il paganesimo nella Slavia orientale.
Un’immagine efficace per descrivere gli elementi fondamentali della cultura religiosa
russa è offerta da un famoso film, Andrej Rublev del regista Andrej Tarkovskij, in cui la vita
romanzata del santo iconografo diventa un paradigma del percorso spirituale dell’intero
popolo russo. Il film si apre con un prologo emblematico: dalla cupola di una piccola
chiesa di campagna (la “Protezione della Madre di Dio” di Pokrov sul Nerl’, chiesa
simbolo dell’antica Rus’), un uomo cerca di lanciarsi in volo attaccato a un’improbabile
pallone aerostatico, per poi atterrare rovinosamente sul terreno. L’inquadratura successiva
alla caduta mostra l’agonia di un cavallo, immagine preferita dal regista per indicare
l’energia naturale dell’anima russa, costantemente frustrata nella sua aspirazione verso
l’infinito. “La sequenza dell’uomo che vola” – afferma lo stesso regista – “era il simbolo
dell’audacia, nel senso che la creazione esige da un uomo il dono integrale del suo essere.
Che voglia volare prima che la cosa sia diventata possibile, o fondere una campana senza
avere imparato a farlo, o dipingere un’icona, tutti questi atti esigono che come premio del
suo lavoro l’uomo muoia, si dissolva nella sua opera, si dia tutto intero”7.
La prima scena del film (Il buffone) offre, con la mirabile capacità di sintesi del regista
russo, un quadro che contiene tutti gli elementi della storia culturale della Russia. In una
piccola izba di campagna, in una giornata uggiosa di pioggia battente, è radunato un
gruppo di contadini, uomini (i mužiki), donne, bambini e anziani. Per ammazzare il tempo
assistono all’esibizione improvvisata di un buffone che prende i giro i potenti boiari
suonando sulla sua rozza cetra. Nell’antica Rus’ vi era una infatti una ricca tradizione di
giullari e suonatori ambulanti, o skomorokhi (rappresentati da Stravinskij nel balletto
Petruška), che vagabondavano per i villaggi con tamburelli e gusli (una sorta di salterio),
cercando di evitare i rappresentanti della Chiesa. Lo sviluppo di forme secolari d’arte era
impedito dalla Chiesa russa; la musica strumentale (come opposta al canto sacro) era
considerata un peccato ed era implacabilmente perseguitata dalle autorità ecclesiastiche.
Proprio nel bel mezzo della sceneggiata giungono all’izba tre monaci (riecheggiando
l’episodio biblico della visita trinitaria ad Abramo), tra cui il giovane Rublev, e chiedono
riparo dalla pioggia. Nel silenzio imbarazzato degli astanti, si confrontano il paganesimo
popolare russo, rappresentato dal giullare, e i gli austeri rappresentanti della Chiesa, dei
quali uno (Daniil, il maestro) si addormenta esausto, un altro (Rublev) osserva stupito
l’energia repressa della gente semplice che ha attorno, mentre il terzo (Kirill, il traditore)
osserva dalla finestra l’arrivo di alcuni soldati a cavallo (il potere statale), e senza dare
7 Tarkovskij Andrej, “L’artista nell’antica Russia e nella Russia moderna”, in Il dramma I (1970), cit. in
In realtà non abbiamo fonti scritte o testimoni oculari che ci aiutino a descrivere in
modo sufficiente le religioni slave precristiane. Esistono scritti degli avversari (il cronista
Nestor) impegnati nello sterminio del paganesimo, che ci fanno pensare a credenze
piuttosto dipendenti da influssi stranieri, assimilabili al paganesimo classico.
Nella loro espansione verso nord, i Balti prima e gli Slavi poi, trovarono un immenso
territorio popolato da genti di lingua ugrofinnica, giunte da oriente in tempi preistorici, la
cui religione si basava sullo sciamanesimo e sul patto animale. È difficile dire quanto
furono antichi e quanto profondi i rapporti tra Baltoslavi e Ugrofinni. Probabilmente i
Baltoslavi cominciarono a premere sui vasti territori degli Ugrofinni fin dal loro arrivo in
Europa centrale, e la loro lenta e costante infiltrazione fu favorita dalla bassa densità delle
8 Ibid., p. 27.
9 Dalla Synopsis di Innokentij GISEL’, Archimandrita della Lavra delle Grotte di Kiev, anno 1670 ca.
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popolazioni boreali. È ragionevole presumere che, colonizzando la regione della tajga,
Slavi e Balti abbiano assunto molti tratti culturali di coloro che vi abitavano da secoli, non
esclusi elementi religiosi e mitologici. Anche gli invasori variaghi, di origine germanica,
non mancarono di influenzare - ma è difficile stabilire fino a che punto - le credenze degli
slavi pagani10.
Nella fase pre-indoeuropea sembra dominare il culto della dea Madre (mokosh) e dei
defunti. Secondo il filosofo russo Grigorij Pomeranz “l’essenza della religione russa è la
maternità divina. Maria non è solo la Madre di Dio, è la madre universale, la madre di
tutta l’umanità. La fonte nazionale che ha alimentato la religione della Madre divina fu il
paganesimo russo. Il cristianesimo greco ortodosso non contiene fondamenti sufficienti
per quelle profonde e ricche forme di devozione della maternità divina che si sono
sviluppate sul terreno russo”11. Anche Orlando Figes, storico della cultura russa, afferma
che “nel cuore della fede russa c’è un’enfasi particolare sulla maternità, aspetto che in
Occidente non si è mai veramente radicato. Se la tradizione cattolica sottolineava la
purezza di Maria, la Chiesa russa ne metteva in evidenza la maternità divina, la
Bogoroditsa, che assumeva praticamente lo statuto della Trinità nella coscienza religiosa del
paese. Questo risale al culto pagano di Rožanitsa, dea della fertilità, e antico culto slavo
dell’umida Madre terra, conosciuta come Mokoš, da cui derivò il mito della “Madre
Russia”. Nella sua forma contadina più arcaica, la religione russa era una religione della
terra. Ciò era sottolineato dalla danza circolare pagana (khorovod) che si muoveva nella
direzione del sole per invocarne la magica influenza. La cupola a cipolla delle chiese russe
è ugualmente modellata sul sole. Il colore rosso aveva un particolare potere magico: era
riservato alle fasce e ai teli usati nei rituali sacri. Esso era anche il colore della fertilità,
considerata un dono divino. Non solo contadini: ortodosso e pagano, eppure razionalista –
un russo istruito poteva essere tutte queste cose”12. Un dipinto di Aleksej Venetsjanov, un
artista emblematico della rinascita culturale russa nel XIX secolo, presenta uno studio
simbolico di donna con bambino del 1827, Nel campo arato: primavera, in cui egli combina i
peculiari tratti russi della contadina con le proporzioni scultoree di un’eroina antica. La
donna nel campo è una divinità agreste. È la madre della terra russa.
Dall’influsso germanico proviene piuttosto il culto della natura, con diverse forme di
totemismo e animismo. Assai diffuso era il culto degli animali, tra cui l’orso (il medved,
letteralmente “colui che vede il miele”), raffigurato nel dio Perun di legno adorato dallo
stesso principe Vladimir di Kiev. Volos era il dio più grande, legato alla conquista e
10 In proposito vedi CONTE Francis, Les Slaves. Aux origines des civilisations d’Europe, Paris 1986 ; ed. it. Gli
Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, ed. Einaudi, Torino 1991.
11 POMERANZ Grigorij, “Proroki i lžeproroki. Ot mifologem k vekham real’nosti”, in Vestnik Evropy 25 (2009),
p.18.
12 FIGES Orlando, Natasha’s Dance. A Cultural History of Russia, 2002; ed. it. La danza di Nataša. Storia della
Il paganesimo rimane come sfondo della religiosità russa fino a produrre una vera
sovrapposizione di fedi, la cosiddetta dvoeverie o “doppia fede”, in cui molti tratti pagani
sopravvivono nel cristianesimo, e numerose superstizioni nella pratica quotidiana
dell’ortodossia. Il calendario pagano, come del resto anche nell’occidente latino, si integra
in quello cristiano: kaljada, svjatki (Natale), masljanitsa (primavera), rusalja (Pentecoste),
kupalja (raccolto), i rjaženy (celebrazioni orgiastiche con maschere animali legate al culto
della fertilità, analoghe al Carnevale latino). Il sočelnik (da sočetat’, radunare) con l’ultimo
folletto del grano (dedukh) e la kutja, il budino di frumento. L’estate con i tri spasa, i tre
salvatori, nel tempo della mietitura. La radonitsa pasquale, il banchetto con i defunti. I
bliny per i morti, crespelle a forma di sole. San Cassiano, santo negativo portatore di
malocchio. Cerimonie di contenuto pagano resistevano ancora nel Settecento, come attesta
la testimonianza del vescovo illuminatore Tikhon (Zadonskij), che racconta il funerale
dell’idolo Jarylo. La grande energia della religiosità pagana prenderà in tempi tardo-
medievali e moderni prevalentemente la forma del settarismo e dell’eresia, come nel caso
degli starovery (vecchio credenti).
Al novero di popoli con cui gli Slavi interagirono nel corso della loro storia, bisogna
ancora aggiungere i turchi o turanici, genti di origine uraloaltaica le cui invasioni, che si
sarebbero successe da oriente a occidente per più di un millennio, interessarono
profondamente la cultura russa. L'avanguardia delle invasioni turaniche, nel IV secolo, era
costituita dagli Unni e fu proprio del vuoto che questi lasciarono in Europa orientale che
gli Slavi approfittarono nella loro prima espansione. Per tutta la loro storia, gli Slavi
orientali subirono i contraccolpi di invasori provenienti dall'Asia centrale, quali i Pečenegi,
i Klobuki, i Polovesiani, fino ai Mongoli, la cui tempesta si abbatté sulla Russia nella prima
metà del XIII secolo. Buona parte della letteratura epica russa, dal Canto della schiera di Igor'
alle byliny, si incentra sul motivo della difesa della Santa Rus’ contro gli invasori nomadi
delle steppe. Senza dubbio molti elementi di origine turanica o altaica finirono con l'essere
conglobati nell'epica russa. Difficile però stabilire quanto profondamente questa presenza
turanica abbia influenzato la poesia epica degli Slavi orientali: al riguardo gli studiosi
hanno opinioni contrastanti, tra chi difende la «purezza russa» della letteratura epica e chi
ritiene che essa sia sorta in ambienti profondamente influenzati dalla cultura turanica.
Come sia, è comunque fuor di dubbio che gli elementi turanici e altaici non appartengono
al più antico strato mitologico slavo.
Come afferma Conte, “lo stesso termine “slavo” (da cui il latino sclavus) appare nella
composizione di molti nomi propri quali Jaroslav, Svjatoslav, Rostislav, Vladislav,
Vjačeslav e così via, il cui primo elemento evoca l’una o l’altra delle divinità appartenenti
14
all’antico panteon degli Slavi pagani – dei del sole, del nucleo familiare o dell’abbondanza
come Jarylo, Svjatovit, Rod o Vlas/Volos. Ciò starebbe a indicare che l’individuo con un
nome siffatto è “votato a questa o quella divinità, che gli assicura la propria protezione”,
sicché il vocabolo “slavo” andrebbe collegato con la dimensione religiosa, a testimonianza
di come la vita quotidiana s’impregnasse del divino e del senso del sacro tipico dei popoli
allo stato originario. Più a lungo di altri gli slavi avrebbero serbato questo sentimento, in
seno a società patriarcali rese tradizionaliste, e perciò stesso conservatrici, dalla vocazione
rurale”13.
A sud dello spazio slavo poi, così come lo immaginiamo prima della nostra era,
vivevano nomadi gli Sciti, ramo orientale del gruppo etnico iranico. Di origine
indoeuropea, essi rappresentarono la prima ondata orientale che, proveniente dall’Asia
nel secolo VII a.C., fluì per tutta l’Europa centrale e orientale distruggendo sul proprio
cammino nei secoli V e IV la “cultura lusaziana”. La cavalleria scita si spinse addirittura
fino alla Francia: non lontano da Chalon-sur-Saône sono state ritrovate delle punte di
freccia, episodio unico ma indicativo dell’ampiezza – e del limite ultimo – della loro
avanzata occidentale. Nel contesto della storia degli slavi potrebbe invece rivestire
un’importanza ragguardevole l’abbattimento della civiltà lusaziana, nella quale numerosi
studiosi – in maggioranza slavi, per la verità – vorrebbero individuare l’origine stessa di
quel popolo. Quest’ultimo, già bloccato nel proprio slancio dalla conquista scita del secolo
IV a.C. , sarebbe stato nuovamente fermato otto secoli più tardi dagli Unni per poi subire
dal secolo VIII i reiterati attacchi dei nomadi della steppa, culminati nel secolo XIII con le
invasioni tataro-mongoliche. Secondo Conte “tale sarebbe un possibile schema esplicativo
del ben noto “ritardo” accumulato nel corso dei secoli dall’Europa orientale rispetto a
un’Europa occidentale più “protetta”, cui avrebbe fatto da baluardo permanente”14. Gli
Slavi orientali, che solo all’alba della nostra era si faranno guerrieri, sulle orme degli Sciti
manifesteranno nei modi di vita gli stessi valori fondamentali. Tuttora sono la gente che
meglio ha saputo custodire il culto dei maggiori e la relativa simbologia, loro che sempre
si designano con nome, patronimico e cognome – quest’ultimo, peraltro, aggiunta assai
più tardiva. Se ancora si magnificano i doni musicali degli Slavi, ciò non dipende forse
dalla funzione sacrale che fece del bardo un profeta e un mago, ruolo poi riscoperto dai
romantici nel secolo XIX? Il bruciante desiderio di rinnovati valori, la volontà di
abbeverarsi alla fonte originaria, fresca, selvaggia e immune da ogni decadenza
civilizzatrice, sostenevano un’autentica sete di avventura, che si esprime all’inizio del
secolo XX sotto le specie di una volontà di potenza che ancor prima di darsi un progetto si
getta nella distruzione. Tale è, almeno, il motivo ispiratore del disegnatore della rivista
“Gli Sciti” (1917), nella quale furono pubblicati i famosi versi di Blok: “Voi siete
milioni/noi siamo nugoli … Provatevi dunque a combatterci/sì, noi siamo Sciti, barbari
13 CONTE Francis, Les Slaves. Aux origines des civilisations d’Europe, Paris 1986 ; ed. it. Torino 1991, p. 87.
14 Ibid., p. 283.
15
dell’Asia/dagli occhi avidi, dagli occhi a mandorla, pastori … Pensoso, l’arco e la freccia
nella mano/un barbaro contempla l’incendio del Colosseo …” La medesima volontà di
potenza trovò espressione sul farsi del secolo XX, in altre correnti di pensiero russe
“panmongolismo” e “eurasianesimo”, che a loro turno privilegiarono i legami della Russia
con l’Oriente se non con l’Asia vera e propria.
Secondo Venjamin Novik, “la religiosità pagana slava è legata alla mistica delle forze
della natura: soprattutto con la terra e l’acqua, che si trovano in un continuo movimento di
penetrazione reciproca. Questa mistica, per sua natura femminile, non è bilanciata da una
mistica celeste (maschile) della luce e della ragione. Il sole e le stelle nella mitologia pagana
rivestono un ruolo subalterno, il naturalismo mistico è legato tipologicamente al
panteismo e al sincretismo tipico di esso. Nella sfera etica questo conduce a una
insufficiente distinzione tra il bene e il male”15. Novik osserva che questa confusione
tipicamente slava ha le sue radici, come già accennavamo, nella stessa geografia della terra
russa. La Russia non è difesa dalle catene dell’Himalaya come il Tibet, e non ha potuto
concentrarsi sulle dottrine spirituali importate dalle grandi civiltà confinanti. I vicini della
Rus’, a parte la lontana Bisanzio, giungevano in Russia con la spada più che con i tesori
della propria cultura. Al drago invasore la Russia ha risposto esaltando i propri draghi,
creando così le premesse per l’adorazione quasi religiosa di despoti crudeli come Ivan il
Terribile, Pietro il Grande e Stalin.
La versione di Nestor.
15 Cit. in POMERANZ Grigorij, “Proroki i lžeproroki. Ot mifologem k vekham real’nosti”, in Vestnik Evropy 25
(2009), p.23.
16 Esistono diverse versioni e traduzione della Cronaca. La più recente traduzione italiana è a cura di Alda
Giambelluca KOSSOVA: NESTORE L’ANNALISTA, Cronaca degli anni passati (XI-XII secolo), ed. Paoline, Milano
2005. I brani qui citati sono tradotti dall’originale russo, pur facendo riferimento alla versione della Kossova.
16
Gli slavi, divisi tra tribù di pianura (poljani) e dei boschi (drevljani), godevano di un
grande canale di comunicazione con gli altri popoli, la “via dai Variaghi ai Greci”, che dai
mari del Nord arrivava tramite il Dnepr’ al mar Nero e quindi “a Roma e a
Costantinopoli”, e sfruttava anche le acque del Volga per giungere fino ai Bulgari, come
anticamente venivano chiamati i Khazari dell’oriente e del sud della Rus’. Il cronista non
manca di annotare come “dalle rive del Ponto” queste terre fossero state visitate
dall’apostolo Andrea nella prima, leggendaria evangelizzazione.
Prima però di commentare le modalità di cristianizzazione della Rus’, è interessante
ricordare brevemente la descrizione nestoriana della vita delle primitive tribù slave
orientali. Così, mentre i poljani erano “umili e pacifici” e coltivavano il “pudore” nei
rapporti sessuali, i drevljani erano piuttosto “simili alle bestie” dei boschi dove vivevano:
“si uccidevano gli uni gli altri, mangiavano ogni cibo impuro, non conoscevano il
matrimonio e rapivano le donne che si recavano al fiume”. Alcune tribù organizzavano
perfino dei festini in cui si lasciavano andare a giochi licenziosi, ballavano e cantavano e se
ne andavano portandosi via le donne, anche due o tre per ciascuno. Dopo una serie di
scontri con i Khazari, le tribù slave cominciano a organizzarsi in forma unitaria verso la
metà del IX secolo (secondo il cronista dall’852 si comincia a parlare della Rus’), quando
avviene la leggendaria “chiamata dei Variaghi”, a cui gli slavi stessi si sarebbero rivolti:
“La nostra terra è grande e ricca, ma in essa non vi è ordine. Venite a comandare e a
governarci”. Da qui avrebbe avuto origine la dinastia dei Rjurikidi, che regneranno in
Russia fino al XVII secolo. Non staremo qui ad elencare le varie teorie storiografiche
favorevoli e contrarie a questa narrazione; di fatto la dipendenza dalla stirpe
scandinava/germanica dei Variaghi fu considerata nella storia della cultura russa come
l’ipotesi privilegiata, non solo e non tanto per ragioni storico-politiche, ma in buona parte
per motivi epico-simbolici. I Variaghi rappresentano una forma secolarizzata degli dèi
discesi dal paradiso del Nord, dal Valalla, per dare ai popoli barbari una legge e una
disciplina civile e morale. Pur nel contesto di una narrazione mirata all’esaltazione della
Rus’ cristiana e ortodossa, questa leggenda ci conferma l’aspirazione dei russi a mostrare
una propria filiazione divina indipendente e originale, precedente perfino al cristianesimo
stesso.
All’anno 941 è datata la spedizione del principe Igor, successore di Oleg, contro i greci
nel Ponto e a Nicomedia, di cui viene raccontata la furia distruttrice delle razzie: “molte
sante chiese vennero date alle fiamme, i monasteri e i villaggi vennero incendiati”. La
campagna non ebbe successo, e i russi vennero fermati dal famigerato “fuoco greco”: “Era
come un fulmine del cielo – raccontavano i soldati – quello di cui dispongono i greci, e
accendendolo ci hanno bruciati tutti; per questo non abbiamo potuto superarli”. Qualche
anno dopo Igor tornò alla carica con il sostegno di mercenari variaghi e peceneghi,
costringendo l’imperatore di Costantinopoli a proporre un armistizio profumatamente
pagato. I bizantini si convinsero così della necessità di ammansire i selvaggi rossi per
poterli asservire alla difesa dei propri confini. Nei termini dell’accordo riportato dalla
Cronaca si avverte minacciosamente che “se qualcuno da parte russa penserà di
distruggere questa alleanza, chi di loro ha ricevuto il battesimo riceverà la punizione di
Dio onnipotente, il giudizio di perdizione per la vita eterna, mentre quelli che non sono
battezzati non avranno aiuto né da Dio, né da Perun … e saranno schiavi per tutta la vita
eterna”. Anche in altri punti del trattato sono previste condizioni e sanzioni per i russi
“cristiani e non cristiani”, rivelando quindi una certa penetrazione del cristianesimo quasi
cinquanta anni prima dello stesso Battesimo della Rus’, e l’indifferente compresenza delle
due fedi tra i sudditi dei principi russi. La conclusione dell’alleanza venne suggellata dallo
scambio degli ambasciatori inviati alle due parti a prestare giuramento: “Igor chiamò gli
ambasciatori e li condusse alla collina dove stava il Perun; essi deposero le loro armi, gli
scudi e l’oro e giurarono davanti a Igor e alla sua gente, a quanti tra i russi erano pagani. I
russi cristiani vennero invece condotti per il giuramento alla chiesa di S. Elia, che era una
cattedrale, poiché molti erano i variaghi cristiani”. Le tribù russe si avviano così a
diventare un’etnia in cui si fondono le diverse tradizioni dell’Europa nascente, come
osserva Conte a proposito dell’evoluzione dei popoli slavi: “Dal secolo VI un’era nuova si
apriva per gli Slavi, ormai a contatto diretto con i centri più civilizzati dell’epoca. Contatto
evidentemente assai brutale all’inizio, con distruzioni e saccheggi veicolanti
l’annientamento delle culture urbane quasi ovunque nella penisola balcanica. Ciò che per i
nuovi venuti era una migrazione di massa, per i Bizantini era un’invasione di proporzioni
catastrofiche. L’arrivo degli Slavi scompaginò i Balcani e scosse il potere imperiale dalle
sponde del Danubio all’estremo Sud della Grecia risparmiando solo poche città, specie
rivierasche. Ma in capo a due o tre secoli Bisanzio rivolterà la situazione a proprio
vantaggio, innanzitutto nelle regioni in cui riuscirà ad affermarsi per mezzo
18
dell’introduzione dei “temi” o territori amministrati. Nelle altre aree balcaniche gli Slavi si
aggregheranno man mano in compagini statuali indipendenti, in condizione di resistere
alla pressione politica e militare bizantina. Ma anche qui – in Bulgaria e in Serbia più che
in Croazia – non potranno evitare di essere trasformati dall’influenza spirituale, religiosa e
culturale di Bisanzio ché, anzi, assieme agli Slavi orientali, quelli del Sud ne avrebbero
rappresentato la più ingente e senza dubbio più bella delle conquiste. Diversamente dai
consanguinei inglobati nei domini imperiali, sfuggiranno all’ellenizzazione, ma
assimileranno in modo creativo l’apporto bizantino alla propria cultura discernendone
quanto di meglio converrà loro. Cosicché, caduto l’Impero sotto i colpi dei Turchi alla
metà del secolo XV, sarà soprattutto grazie agli Slavi che sopravvivrà una “Bisanzio dopo
Bisanzio” della quale avrebbero conservato e sviluppato il retaggio religioso, artistico e
perfino politico, specialmente dopo il colpo d’ala di Mosca, la “terza Roma”. Se furono gli
Slavi nel secolo VI ad abbattere il ponte che collegava l’Oriente e l’Occidente cristiani, si
può dire a grandi linee che dai secoli IX e X in poi il loro compito storico sarebbe stato
quello di ricostruirlo. Li attendeva il destino difficile dei popoli cerniera, la prospettiva di
partecipare, secondo le epoche e le circostanze, a riavvicinamenti e osmosi parziali o
viceversa a separazioni e incomprensioni fra l’Oriente ortodosso e l’Occidente cattolico, fra
due modi di concepire il mondo e le sue strutture, leggi e finalità, e il ruolo che l’uomo
viene chiamato a svolgervi volontariamente o suo malgrado”.
Il principe Igor infine venne ucciso, secondo la Cronaca, nel 945 a causa della sua
avidità, per essersi lanciato una volta di troppo in una razzia. Con la figlia, la principessa
Olga, la prima principessa cristiana russa, ha inizio la storia cristiana della Rus’.
A dire il vero esiste un altro testo russo antico, forse il più importante di tutta la
letteratura della Rus’ di Kiev per il suo valore letterario, che ci fornisce una straordinaria
testimonianza sulla religiosità naturale e pagana dei progenitori dei russi. Anch’esso parla
di un principe di nome Igor, vissuto un secolo dopo il suo omonimo, il padre di Olga. Si
tratta del Canto della schiera di Igor, un poema da tutti ritenuto della fine del XII secolo, che
narra della sconfitta di Igor, principe di Novgorod e figlio di Svjatoslav, nel 1185 in una
sfortunata campagna contro i polovtsy, tribù orientali da sempre in lotta con gli slavi. È
quindi un documento già del primo periodo cristiano della Rus’, anzi della sua fase
terminale, quando i principi, in perenne lite tra loro, stavano per essere annientati
dall’invasione mongola. Nel testo vengono ricordate sconfitte e vittorie antecedenti, e
appunto le guerre fratricide tra i vari principati; l’introduzione ricorda anche le narrazioni
popolari, i canti e le drammatizzazioni, ricostruendo così una tradizione orale di fatto
scomparsa, e di cui il Canto di Igor rappresenta l’unica vera testimonianza antica. Parla
19
anche di un famoso narratore, il “vate Bojan”, capace di esaltare le gesta degli eroi con
enfasi creativa:
Bojan sarebbe stato quindi un suonatore di gusli, dove “poneva le sue dita fatate” per
cantare inni certamente profani ai principi guerrieri. Il cantore deve giustificare una
tragica sconfitta, ma la mette in un contesto narrativo epico che riassume l’eroismo dei
russi fin dal tempo del fondatore Vladimir, vedendo alla fine nella disfatta una profezia di
grandezza ancora maggiore, misticamente anticipando la grande catastrofe della
scomparsa della Rus’ di Kiev sotto i tartari, e la sua rinascita come regno cristiano
nell’Europa medievale. Fin dalla presentazione si intuisce lo stile particolare del testo,
tutto giocato sulle analogie e i rimandi alla vitalità naturale degli animali, degli uccelli,
delle piante e dei fiori, insomma della terra russa come persona vivente e divina. I “dieci
falchi” lanciati come stormo sono metafora sublime dei pensieri e dei desideri spirituali;
pochi anni dopo il Canto di Igor, nel meridione dell’Italia mediterranea, l’imperatore
svevo Federico II (lo stupor mundi, grande nemico del papato romano) comporrà il suo
famoso trattato sulla caccia col falco, un trattato di filosofia e teologia esposto nell’analogia
dell’attività venatoria. I personaggi del poema assumono dunque le sembianze dei volatili
selvaggi, spiriti divini che attraversano i cieli della Rus’:
L’autore invoca nuovamente Bojan “figlio di Veles”, il dio pagano della prosperità e
del potere, per radunare sulla scena tutti i membri della famiglia del principe, nucleo
fondante dell’intera comunità di sangue dei russi. Igor avanza verso la terra dei polovtsy,
lasciandosi alle spalle la terra russa, sfidando gli dei stranieri e “l’idolo di Tmutorakan”,
località della disfatta. Il fiume divide le schiere nemiche, e l’intera natura partecipa alla
disfida dei popoli:
Le valorose schiere di Igor devono fronteggiare forze oscure e maligne, il “nero corvo
Cumano infedele” e i venti contrari “nipoti di Stribog”, il dio delle funzioni atmosferiche.
Così i polovtsy “figli del demonio” accerchiano i russi e tentano di annientarli, respinti
dall’eroismo del fratello di Igor, Vsevolod “Uro impetuoso”: “Dove balzella l’Uro,
splendente col suo aureo elmo, colà giacciono le pagane teste dei Polovtsy”. Questa
manifestazione del valore dei guerrieri russi fa ricordare al poeta con nostalgia la
grandezza degli avi, dissipata dalle insensate lotte tra i fratelli, figli degli antichi déi:
“Allora al tempo di Oleg Gorislavič si seminavano e crescevano le contese, languiva la
21
dovizia della progenie di Daždbog, nelle contese dei principi si raccorciava l’età degli
uomini”. L’incapacità di superare i propri dissidi rende i russi, ancora cristiani solo di
nome, troppo esposti alla furia pagana, e quindi destinati a soccombere:
Gli sfortunati fratelli Igor e Vsevolod non riuscirono dunque a rinnovare le glorie del
padre Svjatoslav, che aveva fatto gettare il pagano Kobjak nelle “segrete di Kiev”, tanto da
suscitare l’elogio ammirato di “Tedeschi e Veneziani, Greci e Moravi”. Il padre rimasto a
Kiev venne avvisato della sciagura da un lugubre sogno, che preannunciava il crollo della
sua felicità familiare, la desolazione del suo focolare domestico, il terem:
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“Questa notte, fin dalla sera, mi rivestirono – disse -
di un nero sudario su un letto di tasso;
mi mescevano azzurro vino ad ambasce mescolato,
con le vuote faretre dei saggi pagani mi gettavano
una grande perla sul petto
e m’accarezzavano.
Già le assi sono senza travi
nel mio terem dall’aurea cupola.
Sin dalla sera, per tutta la note,
gracchiarono le cornacchie grigie presso Plesensk,
nella palude di Kijan erano,
e verso il mare azzurro s’involarono”.
Viene invocata la vendetta da tutta la terra russa, gli eroi sono chiamati a ricostruire
l’onore, visto che Igor non può risorgere, e l’invasione pagana deve essere rigettata da un
popolo che di fatto si sente ugualmente convocato magicamente dagli antichi déi slavi e
variaghi che proteggevano il grande Vladimir delle origini, nonostante l’appello venga
ormai emanato dalle “campane di S. Sofia”:
In nome della gloria antica, la sconfitta assume in realtà i colori del trionfo: il sacrificio
di Igor diventa esaltazione della vera natura dei russi, che mai si faranno cancellare dai
nemici, tornando sempre alla loro origine e alla giovinezza del loro spirito. L’epopea della
sconfitta diventa elegia della terra-madre, della natura capace di rigenerare i propri figli
proteggendoli e cullandoli anche nel dolore e nella tragedia:
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“Igor disse:
“O Donec, a te non poca gloria,
per aver cullato il principe sulle onde,
steso per lui verde erba
sulle tue argentee rive,
averlo rivestito
di calde brume
sotto l'ombra di un albero verde,
per averlo vegliato
qual anatra sull'acqua,
con i gabbiani sui flutti
e con le nere anatre nei venti.
non allo stesso modo, disse, il fiume Stugna
che scarso flutto avendo
dopo aver inghiottito altri ruscelli e torrenti
allargatosi verso la foce il giovane
principe Rostislav nascose nel fondo.
Presso la buia riva
piange la madre di Rostislav
per il giovane principe Rostislav.
Appassirono attristati i fiori
e l’albero per l’afflizione verso terra s’era piegato”.
La conclusione del poema è quindi gioiosa e piena di fede nella vocazione divina della
terra russa, che nella Vergine Madre ritrova l’unione con la madre Mokoš, la fonte della
gloria e del coraggio, della vittoria cristiana sui pagani:
Nella storia della cultura russa la radice pagana riemergerà in varie forme e occasioni,
a partire soprattutto dalla riscoperta dell’anima “popolare” russa operata dal movimento
slavofilo dell’Ottocento, e in particolare dalle grandi composizioni musicali basate sul
ritorno alle suggestioni e alle melodie primordiali dei popoli slavi orientali. Nell’antica
favola russa dell’Uccello di fuoco, lo žar-ptitsa, la bellissima fanciulla rapita, trasformata in
uccello, lascia cadere le sue piume dorate al suolo, dove verranno conservate dalla neve
per poi riprendere vita agli occhi di uno stanco pellegrino, facendo risorgere la fanciulla
più bella di prima. “Reinventato per il palco, l’uccello di fuoco finì col simboleggiare molto
di più di quanto non significasse nelle fiabe. Esso fu trasformato nell’incarnazione di una
Russia contadina risorgente come la fenice, diventando l’emblema di una bellezza e di una
libertà primordiali nella mitologia pseudoslava dei simbolisti che giunse a dominare la
concezione del balletto (Blok lo immortalò come “uccello mitico” e, in quella stessa veste,
Léon Bakst ne fece una xilografia per la copertina della rivista Mir iskusstva)”17. La vera
innovazione dell'Uccello di fuoco (1910) fu realizzata da Stravinskij, con il suo uso
particolare della musica folclorica basata sulla impersonalità del corista e sulle forme
austere dell’arte barbarica. Fu la rivoluzione anche di Petruška (1911) e della Sagra della
primavera (1913) con la rievocazione della Kupala e dei sacrifici umani tra gli Sciti, con quei
ritmi esplosivi che anticipano la rivoluzione bolscevica, sottolineati dalla scandalosa
coreografia parigina di Nižinskij, in cui i ballerini sono mascherati da idoli di legno della
Russia scitica.
La ricerca delle radici originarie ispirò anche il movimento futurista, tra cui il pittore
Vasilij Kandinskij, autore della Religiosità nell’arte (1912)18 e tutta la generazione di artisti
russi che dettarono le regole dell’arte astratta agli inizi del Novecento. Come annota Figes,
commentando il viaggio di Kandinskij nella regione settentrionale di Komi, “da tempo gli
antropologi avevano indicato la regione dei komi come punto di intersezione tra il
cristianesimo e il vecchio paganesimo sciamanico delle tribù asiatiche: era un “paese delle
fate” dove “ogni atto è accompagnato da segreti rituali magici”. Il viaggio lasciò in
Kandinskij un’impressione indelebile. Lo sciamanismo che scoprì laggiù rappresentò una
delle principali fonti di ispirazione della sua arte astratta. … Il popolo komi era stato
convertito con la forza al cristianesimo da Stefano di Perm’, nel Trecento. Nella vita
privata, i komi credevano in un mostro della foresta di nome Vorša. Tutti loro avevano una
“anima vivente” (ort) che li seguiva come un'ombra e compariva davanti a ciascuno al
17 FIGES Orlando, Natasha’s Dance. A Cultural History of Russia, 2002; ed. it. La danza di Nataša. Storia della
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momento della morte. Pregavano gli spiriti dell'acqua e del vento; parlavano al fuoco
come se parlassero a un essere vivente; e la loro arte tradizionale mostrava ancora segni
della venerazione del sole. Alcuni komi raccontarono a Kandinskij che le stelle erano
inchiodate al cielo. Raschiando via lo strato superficiale della cultura komi, Kandinskij ne
aveva messo in luce le origini asiatiche”19.
19 FIGES Orlando, Natasha’s Dance. A Cultural History of Russia, 2002; ed. it. La danza di Nataša. Storia della
I principi variaghi e russi, ancora incerti sulla propria natura e sul proprio destino,
vengono inevitabilmente attratti dalla potenza e dallo splendore dell’impero bizantino,
che aveva già esteso il suo influsso sui popoli slavi a partire dalla missione di Cirillo e
Metodio, e in seguito alle spartizioni successive si era assicurato il controllo dell’area
balcanica e degli slavi meridionali. Sotto la guida impetuosa degli imperatori macedoni,
Bisanzio si presenta nel secolo X come “il vero impero universale, il cui influsso e le cui
ambizioni si estendono su quasi la totalità del mondo civile”20. La conquista araba aveva
in effetti messo in discussione la vera consistenza dell’impero, togliendogli di fatto tutto il
bacino mediterraneo, che era stata la culla della civiltà greca, romana e cristiana.
L’invasione repentina e incontrastata delle armate maomettane nel VII secolo era stata per
l’impero romano d’oriente un evento simile alle invasioni barbariche in occidente nel V
secolo, e solo grazie alle politiche di espansione nei Balcani, nell’Italia meridionale e nei
paesi slavi si era potuto compensare parzialmente questa riduzione dell’impero a
provincia assediata e confermare la pretesa universale di Costantinopoli.
La pressione araba aveva poi lasciato il segno non solo sui destini storico-geografici
dell’impero bizantino, ma addirittura sulla sua pur così elaborata coscienza religiosa e
teologica; dopo più di tre secoli di infinite diatribe dogmatiche sull’unione delle nature di
Cristo, l’assolutismo spirituale islamico si era inserito provocando una nuova variante
dell’eresia monofisita, l’iconoclastia. La proibizione delle immagini aveva messo
nuovamente alla prova la capacità di giustificare religiosamente l’intera concezione
imperiale bizantina, in cui le strutture del potere si modellavano sulle categorie
dell’incarnazione di Cristo, di cui l’imperatore era il tutore e la Chiesa il luogo memoriale;
con il concilio di Nicea del 787 era stata ribadita l’integrità dell’interpretazione dogmatica,
D’altra parte, alla potenza militare e allo splendore delle arti non corrispondeva una
eguale stabilità sociale ed economica. La debolezza strutturale dell’impero, pressato dagli
arabi e dagli stessi slavi, non permetteva di godere a lungo dei periodi di benessere; le
inquietudini attraversavano tutti gli strati sociali, e gli intrighi di palazzo erano la regola
della politica nella capitale. Anche i rapporti con la Chiesa erano ben lontani dall’ideale di
armonia “sinfonica” vagheggiata dal cesaropapismo bizantino. La crisi iconoclasta era
stata anche una dura contrapposizione tra il potere della Chiesa e dei suoi monasteri nei
confronti dell’autorità imperiale, da tempo in lotta contro le varie forme di aristocrazia
feudale. Nel secolo X una parte importante della proprietà fondiaria era ancora nelle mani
dei monaci, con grave danno del fisco e dell’esercito. Gli imperatori si sforzavano di
limitare lo sviluppo dei beni monastici; Niceforo Foca giunse al punto di interdire nel 964
qualsiasi fondazione di nuovi conventi, e qualunque donazione ai monasteri già esistenti,
ma nell’impero bizantino la Chiesa era troppo potente perché misure simili fossero
mantenute a lungo, e l’impero aveva troppo spesso bisogno di essa per non compiacerla.
Nel 988, l’anno del battesimo della Rus’, Basilio II abrogava il decreto di Foca, decretando
la vittoria del partito monastico. I patriarchi stessi erano personaggi potenti, ampiamente
invischiati nella politica interna (come saranno i papi del basso medioevo), spesso rosi
dall’ambizione e dal desiderio di essere riconosciuti superiori allo stesso imperatore. La
contrapposizione con il papato romano veniva spesso usata come argomento per sostenere
le scalate al palazzo imperiale, e così le conquiste missionarie nei territori degli slavi; in
questo clima avverrà la cristianizzazione dei russi, e si giungerà alla metà dell’XI secolo
alla rottura definitiva con Roma a causa delle ambizioni del patriarca Michele Cerulario.
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I russi entrano così nella storia cristiana attraverso il baratro dello scisma, di cui sono
spettatori passivi e inconsapevoli, giunti nel momento più critico della vita della Chiesa
universale senza poterne modificare i destini. Si aggiungono alla lista delle Chiese del
primo millennio, partecipi dell’unità cattolica del cristianesimo antico, ma di fatto sono
aggregati all’epoca successiva delle divisioni, dell’ortodossia militante (la Slavia Orthodoxa)
di un cristianesimo smarrito e in cerca di nuove definizioni. Questa oggettiva circostanza
storica è l’origine del sentimento di perenne incompiutezza del cristianesimo russo e della
sua missione storica: ultima delle Chiese antiche, o prima delle Chiese moderne? Erede del
cristianesimo originario, o portatrice di una nuova rivelazione? L’ambiguità storica si
aggiunge all’ambiguità geografica di una terra in bilico tra Oriente e Occidente, tra
universale e particolare, tra passato e futuro. La Russia si sentirà sempre un “terzo
elemento” della storia, della cultura e della fede: elemento imprevisto, indefinibile,
superfluo, ma anche sorprendente, creativo e assolutamente indispensabile. Non a caso la
fede russa si concentrerà più di ogni altra sul mistero della Santissima Trinità.
L’evangelizzazione della Rus’ avviene dunque in una forma molto particolare, che ha
poche analogie con la conversione degli altri popoli. Se l’impero romano era stato
penetrato dall’annuncio evangelico attraverso un lungo processo storico, passato per quasi
tre secoli di persecuzione e almeno un secolo di coesistenza con le strutture pubbliche del
paganesimo, le popolazioni barbariche di ceppo franco-germanico avevano potuto
inserirsi in un’area già ampiamente modellata dal cristianesimo, che seppe resistere al
crollo del sistema imperiale e alla disgregazione dei secoli feudali. La politica unificatrice
di Carlo Magno non fece che portare a compimento la nuova ristrutturazione dell’Europa,
che con il Sacro Romano Impero pretese subito di competere alla pari con lo stesso impero
bizantino anche sul piano della fede e della cultura. I vari rami dell’etnia slava si
innestarono sull’uno o sull’altro polo della cristianità medievale, ma sempre come unità
gregarie di insiemi già definiti. Anche le grandi conversioni missionarie dei secoli moderni
avverranno con la stessa impostazione, assimilando i popoli americani, africani e asiatici
agli standard europei delle nazioni colonizzatrici; solo di recente, dalla seconda metà del
XX secolo, ci si è posti il problema della “inculturazione” africana o asiatica del
cristianesimo come priorità delle giovani Chiese. La Russia invece fu chiamata a risolvere
una questione così moderna con rozzi strumenti medievali, rivelando un potenziale di
intuizione e creatività veramente sorprendenti.
21 CONTE Francis, Les Slaves. Aux origines des civilisations d’Europe, Paris 1986 ; ed. it. Torino 1991, p. 480.
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Cronaca di Nestor presenta la famosa versione della “scelta della fede” da parte del
principe Vladimir, con la decisione di aderire alla variante greca per la stupefacente
superiorità di essa rispetto ai latini, ai musulmani e agli ebrei. Un secondo documento
fondamentale è di natura agiografica: i primi santi russi non sono in realtà Vladimir e la
nonna Olga, protagonisti della conversione, ma i figli del principe, Boris e Gleb, martiri
strastoterptsy, “che soffrirono la passione”, dando alla sofferenza in sé un valore fondante
per la fede del popolo russo. Un altro testo di enorme significato è l’elogio del principe
Vladimir, il Discorso sulla Legge e sulla Grazia, fatto dal metropolita Ilarion, primo pastore
autoctono della Rus’, che mette in evidenza il ruolo particolare previsto da Dio per lo
stesso Vladimir e il suo popolo. Infine i racconti dei primi monaci della Rus’ aggiungono
alle categorie originarie del cristianesimo di Kiev le note dell’austerità, della rigida ascesi e
dell’obbedienza all’iniziativa di Dio. Bellezza, sofferenza, missione, obbedienza: questi
quattro elementi tra loro variamente e imprevedibilmente coordinati formano l’immagine
originaria del Cristo russo.
Ad ogni modo, dopo aver ricevuto il battesimo, Vladimir fa ritorno a Kiev e, secondo
il racconto di Nestor, si dedica anzitutto alla distruzione degli idoli e all’annientamento
delle forze diaboliche in essi contenute: “ordinò di gettare a terra gli idoli, alcuni di farli a
pezzi, altri di bruciarli. Comandò di legare il Perun alla coda di un cavallo e di portarlo in
giro dal colle, e mise dodici persone a batterlo con i bastoni. Questo si fece non perché il
legno possa provare qualcosa, ma per maledire il demone che aveva ingannato gli uomini
in quella forma, affinché ricevesse la giusta punizione degli uomini”. L’ingenua e
fragorosa vendetta sui diavoli di legno manifesta tutta la goliardica vitalità dello spirito
russo. Il principe fece dunque battezzare l’intero popolo nel Dnepr’, dove era stato infine
affogato il Perun, minacciando chi non avesse accettato: “lo riterrò un mio nemico”, ma il
popolo accolse la proposta, secondo la Cronaca, “con gioia”, perché “se non fosse stata una
cosa buona, il principe e i boiari non l’avrebbero accettata”. Dopo essersi immersi
comunitariamente nel fiume, i russi tornarono alle proprie case come alla fine di una festa
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paesana, e solo in seguito vennero erette le chiese e celebrate le liturgie. Il racconto
esprime quindi un senso di grande naturalezza e semplicità nel passaggio dal paganesimo
al cristianesimo, ben lontano dalle ansie antieretiche bizantine o dalle forzature feudali,
ancora caratterizzato dalla spontaneità tribale e da una religiosità esuberante e positiva.
L’unico elemento di costrizione riportato dalla Cronaca è la disposizione di Vladimir circa
i “migliori ragazzi” del popolo da mandare a studiare le fondamenta della nuova fede per
istruire il popolo: “le madri dei ragazzi piansero per essi, in quanto non erano ancora salde
nella fede e li piangevano come se fossero morti”.
La Cronaca riporta poi la morte di Vladimir nel 1015, inneggiando a lui come al
“nuovo Costantino della grande Roma”. Ma non sarà lui il primo santo cristiano della
Rus’.
La bellezza percepita nella liturgia greca si realizza nella terra russa attraverso una via
assolutamente speciale e drammatica, quella della sofferenza, esaltata nell’immagine
originaria della santità russa. I primi santi russi infatti sono i figli del principe Boris e Gleb,
canonizzati poco dopo la morte di Vladimir, intorno al 1020. La loro uccisione fu la
conseguenza del più classico conflitto politico-familiare: secondo le narrazioni il figlio
maggiore Svjatopolk, fratello di Boris e Gleb, dopo la morte del padre cerca di prendere
tutto il potere e inizia la guerra fratricida. Nasconde il corpo di Vladimir (è lui che assiste
alla sua morte) per appropriarsi dell’eredità ed escludere gli altri fratelli dal potere. Boris
si trova lontano da Kiev, impegnato in una campagna militare; ritorna alla notizia della
morte del padre e lo avvertono che il fratello vuole ucciderlo; viene allora circondato da
una družina, un gruppo di volontari armati che gli propongono di farlo fuori con un
contrattacco. Invece Boris licenzia la truppa, affermando di non voler fare la guerra al
fratello e non scappa, ma al contrario dichiara di considerare il fratello come la sua
autorità naturale dopo la morte del padre, e di volergli prestare obbedienza. Andando da
lui, viene preso dalle truppe che lo uccideranno. La narrazione si trova sia nella Cronaca,
sia nella Narrazione, passione e lode dei santi Boris e Gleb, entrambe attribuite a Nestor22.
22 Vedi la traduzione italiana in GIAMBELLUCA KOSSOVA Alda, Alle origini della santità russa. Studi e testi,
Milano 2007.
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ricorrerò, a chi lo sguardo volgerò, dove mi abbevererò di un sì pio insegnamento,
dell'ammonimento della tua saggezza?... Il cuor mi arde, l’intelletto l’animo mio confonde,
e non so a chi volgermi, né questo dolore straziante a chi confidare. Al fratello forse, che in
luogo di padre tenevo? Ma, penso, egli alle vanità terrene s’istruisce e il mio
annientamento trama. Se egli il sangue mio verserà e all’assassinio mio s’arrischierà, del
mio Signore martire diventerò. Non opporrò infatti io resistenza, poiché sta scritto: “Dio ai
superbi si oppone, ai sottomessi dona la grazia”. Il principio di non resistenza al male
(nieprotivlenčestvo) rimarrà molto radicato nella cultura russa. La non resistenza, o
resistenza passiva, sarà uno dei principi cardine della ideologia religiosa dello scrittore
Lev Tolstoj, che sia nei romanzi sia nei testi ideologico-religiosi esporrà questa tesi. Sarà la
proposta che affascinerà Gandhi, giovane attivista indiano per la difesa dei diritti umani e
della giustizia, che all’inizio del Novecento si trovava in Sud Africa per appoggiare le lotte
di emancipazione e diventò tolstojano. Scrisse a Tolstoj e aderì alle sue idee, per poi
tornare in India a fare la rivoluzione pacifica più importante del XX secolo. La religiosità
di Gandhi, come quella di Tolstoj, era una religiosità molto razionalista e illuminista, ma in
continuità con l’idea originaria russa del martirio volontario. Tolstoj in effetti non riuscì
mai ad aderire alla fede ortodossa, finendo addirittura per essere scomunicato come
eretico, ma nei suoi scritti afferma di essere stato salvato dalla disperazione grazie al
legame con la fede del popolo russo e con la sua capacità di sofferenza; si appellò spesso
alla fede del popolo, pur non riuscendo a farla propria.
Ma torniamo al racconto. Non vi è espressa solo l’idea della non resistenza, lo stesso
Boris riflette su questo principio: “Se vado nella casa di mio padre, molte lingue mi
pervertiranno il cuore, affinché scacci il fratello mio, come già mio padre – prima del santo
battesimo - per la gloria e il principato di questo mondo. Tutto ciò è perituro e [vale]
meno di una ragnatela, e alla mia dipartita da qui dove mai potrò ricoverarmi? Dove mai
sarò? Quale risposta mi sarà data? Dove andrò i molti miei peccati a celare? Negli anni
andati, il fratello di mio padre, oppure il padre mio stesso, cosa mai al fine rinvennero?
Dove è la loro vita? Dove è, anche, la loro gloria di questo mondo, e la porpora, e i
broccati, l’argento e l’oro, il vino e il miele, le pietanze squisite e gli alati cavalli e le belle
imponenti magioni e le grandi ricchezze e i tributi e gli onori illimitati e la fierezza che dai
loro boiari gliene derivava? Tutto questo è per loro come non fosse mai esistito, tutto
insieme a loro è svanito, né soccorso alcuno da queste cose potrà mai derivare: non dalle
ricchezze, né dai molti servi, né dalla gloria di questo mondo. Perciò anche Salomone,
sperimentata ogni cosa, visto tutto e tutto posseduto e accumulato, disse infine dopo lunga
ponderazione: Tutto è vanità e vanità delle vanità diverrà. Solo dalle buone azioni e dalla
retta fede e dall’amore sincero giunge il soccorso”. Per Boris il battesimo insegna il
disprezzo della gloria mondana: non si tratta solo di non fare il male, ma di non cedere
alla tentazione del potere e della gloria (Vladimir in effetti aveva a sua volta ucciso i suoi
fratelli). Lui ha ricevuto il battesimo, quindi la guerra fratricida non deve più esistere. Non
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è solo passiva remissione, ma anche giudizio ascetico sulla gloria del mondo; si vedono già
le radici del monachesimo. “Tutto è svanito” col battesimo.
Poi si realizza anche il vero e proprio martirio; più avanti, quando diventa chiaro che
Svjatopolk vuole ucciderlo, Boris inizia a pregare, e qui inizia la parte del racconto che ha
chiaramente un contenuto liturgico. Boris si prepara al battesimo del sangue come un
monaco che fa le veglie mattutine, secondo una scadenza liturgica. Mette il campo vicino a
Kiev, la družina di nuovo gli propone di opporsi, ma lui: “non sia mai che io la mano alzi
contro il mio stesso fratello e per di più a me maggiore, che stimo anzi qual padre mio!”,
per cui rimase solo con i suoi servi. Era sabato, e trascorse la giornata nel dolore. Venne
ucciso la domenica mattina: un sacrificio pasquale e liturgico preceduto dalla funzione
notturna, la vsenočnaja che unisce il vespro al mattutino. Comincia la litania, con
l’invocazione “O Signore, le lacrime mie non disprezzare; poiché in te confido, che il
destino dei servi tuoi condivida e di tutti i tuoi santi la sorte. Tu sei invero Dio
misericordioso e a te gloria rendiamo nei secoli. Amen”. Nella parte vespertina del sabato
il giovane liturgo fa memoria dei santi martiri, Niceta, Venceslao (apostolo della Boemia,
che nel 1015 era venerato ancora da tutta la Chiesa unita. Da notare che anche Boris e Gleb
sono santi riconosciuti dalla Chiesa cattolica, essendo stati canonizzati prima del 1054).
Ricorda i santi uccisi dai loro parenti, come S. Barbara uccisa dal padre. A quel punto “calò
poi l’imbrunire” e inizia il canto del vespro. Il principe versa le sue lacrime nella tenda
insieme alle preghiere; i servi fuori dalla tenda cantano, mentre lui dentro recita,
espletando la funzione sacerdotale come avviene nella liturgia bizantina, soprattutto nella
variante slava, dove l’alta iconostasi produce una completa separazione tra il sacerdote e il
popolo; il sacerdote rimane dietro l’iconostasi, e il popolo non sa neppure che cosa dica.
Non è qui la liturgia cosmica bizantina che “non si sa se si è in cielo o in terra”, ma
piuttosto l’interpretazione narrativa, per cui dietro l’iconostasi (in questo caso la tenda) vi
è il sepolcro di Cristo, e davanti il luogo della risurrezione; il santo rivive il mistero
liturgico pasquale nella sua persona. La liturgia riprende all’alba: “di buonora vide che era
mattino di domenica, e allora disse al confessore di preparare il mattutino”. Gli inviati di
Svjatopolk si avvicinano mentre canta i salmi delle lodi, proseguendo con la sequenza
della liturgia delle ore. Poi si immerse a contemplare l’icona, dicendo: “Signore Gesù
Cristo, che con questo sembiante sulla terra sei apparso, desideroso, per tua volontà, di
essere sulla croce inchiodato e il martirio per i nostri peccati accogliere, accorda anche a
me di subire la passione”. Questa preghiera ricorda la preghiera eucaristica: vi è
l’equiparazione del martirio all’eucaristia, un classico della liturgia cristiana. Fin dalle sue
radici ebraiche, infatti, la liturgia è preghiera di memoriale che attualizza l’evento
salvifico: “come tu hai fatto, ora fallo anche per me” (ricordiamo gli esempi dei testi
patristici del periodo delle persecuzioni, come quelli di Ignazio di Antiochia e Policarpo di
Smirne). Il momento dell’assassinio diventa il momento della consacrazione, o della
comunione. Colpiscono anche il servo ungherese Georgij (cattolico, nel senso di
appartenente alla tradizione latina occidentale) a cui Boris aveva conferito un collare d’oro
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(segno di comunione nel martirio). Lui stesso già ferito esce dalla tenda e supplica gli
assassini: “fratelli, concedetemi tempo per la preghiera”: deve concludere la liturgia.
L’ultima invocazione è il ringraziamento finale, che riassume tutti i motivi di questa
liturgia di martirio: “Signore mio Dio, grandemente misericordioso, misericordioso e
molto misericordioso, gloria a te per avermi concesso di sfuggire alle lusinghe di questa
vita mendace! Gloria a te, generosissimo donatore di vita, che i triboli dei santi martiri a
me hai riservato! Gloria a te, Signore, amante degli uomini, per avermi concesso di
adempiere il desiderio del mio cuore! Gloria a te, o Cristo, alla tua molta misericordia, che
sulla retta via del mondo, a correre verso di te senza tentazioni, i miei passi hai indirizzato!
Volgi lo sguardo alle altezze della tua santità, mira il dolore del cuore mio, che dal mio
consanguineo io ho accolto, e come in questo giorno per te io a morte vengo. Quale agnello
al sacrificio mi destinano. Tu, infatti, Signore mio, sappi che non opporrò resistenza, né
ostacolerò con la parola, ché, pur avendo al mio ordine del padre mio l'esercito tutto e
quanti da lui erano prediletti, nulla contro mio fratello ho premeditato. Ogni cosa in suo
potere egli contro di me ha suscitato. “Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato,
se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto”. Ma tu, Signore,
guarda e giudica fra me e mio fratello e “non ascrivere a costoro, o Signore, questo
peccato”, ma in pace accogli l'anima mia. Amen”. Al posto della benedizione e del
congedo liturgico il giovane invita i suoi assassini a compiere finalmente l’atto del
sacrificio finale. Non è una scelta particolarmente originale, quella di descrivere il martirio
come una liturgia, ma è importante che questo sia chiaramente espresso subito dopo la
conversione del 988: la liturgia si applica alla sofferenza del martire assunta
volontariamente, al disprezzo del mondo e alla ricerca della santità nel martirio. Non è
una ricerca classica del martirio “a causa della fede” di fronte alla persecuzione pagana,
ma un modo di considerare il proprio destino come occasione per assomigliare a Cristo e
imitarlo.
La sofferenza di Boris illumina anche quella di Gleb, adolescente che non ha la
maturità di fede del fratello, come un aspirante monaco che non avesse ancora fatto il
noviziato, e non fa altro che chiedere pietà. Il suo è il pianto dell’innocenza: “Non
contrastatemi fratelli miei cari e amati, non contrastatemi, ché nessun male a voi arrecai!
Non curatevi di me, fratelli e signori, passate oltre! Quale mai offesa ho arrecato al fratello
mio e a voi, fratelli miei e signori? Se qualche offesa vi è, dal vostro principe conducetemi,
dal fratello mio e signore! Abbiate pietà della mia giovinezza, abbiate pietà, signori miei!
Miei signori voi sarete, io a voi servo! Non falciate la vita mia ancora acerba, non falciate la
spiga ancora immatura e ricolma del latte dell'innocenza! Non potate i tralci ancora in
piena crescita, ma che già hanno frutto. Vi prego e da voi perdono imploro. Abbiate timore
di quanto dalle labbra dell’apostolo fu proferito: “non comportatevi da bambini nei
giudizi, siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto a giudizi. Fratelli,
io, sia quanto a malizia, che quanto a età, sono ancora bambino. Questo non è un
assassinio, ma il taglio di un frutto acerbo. Provatemi quale male io abbia commesso e non
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starò a dolermi. Se del mio sangue vi volete satollare, ormai sono nelle vostre mani e in
quelle di mio fratello, il vostro principe!”. Si rivolge al padre, chiamandolo con il nuovo
nome di battesimo: “Vasilij, Vasilij, padre mio e signore, tendi il tuo orecchio e ascolta la
mia voce e volgi lo sguardo e vedi quanto alla tua creatura accade, come senza colpa
vengono sgozzato! Ahimè, ahimè! “odi cielo e ascolta terra” e tu Boris, fratello mio,
ascolta la mia voce! Vasilij, il padre mio ho invocato, ma non mi ha udito; forse neanche tu
vorrai ascoltarmi? Guarda il dolore del mio cuore e la piaga dell’anima mia, guarda il
fluire qual fiume delle mie lacrime. E nessuno mi presta attenzione, tu però ricordati di me
e prega il Signore di tutto per me, poiché della sua fiducia godi e presso il suo scranno
siedi”. La sua preghiera si conclude con un appello straziante: “Grandemente generoso e
tanto clemente Signore, le lacrime mie non sprezzare, ma abbi pietà del mio dolore, vedi
lo strazio del mio cuore, ecco, vengo sgozzato, ma non conosco il perché o per quale
offesa, né mai lo saprò”. Il suo corpo venne abbandonato in un luogo deserto, tra due
tronchi. È in realtà una descrizione assai poco “bizantina”, ma molto drammatica e
passionale. Il martirio di Gleb si inserisce come immagine dell’agnello, illuminato dalla
scelta di Boris di viverla come una consacrazione al Signore, senza sapere il perché, ma
fidandosi completamente del Signore. Da notare che anche un altro fratello, Svjatoslav,
viene poi ucciso da Svjatopolk, ma non viene canonizzato, perché non si era associato allo
spirito di imitazione di Cristo di Boris, né aveva testimoniato la capacità di abbandono
innocente di Gleb; sono uccisioni identiche, ma le prime vennero considerate motivo di
santità e l’ultima no. È un esempio molto russo di drammaticità liturgica, di
trasformazione dell’avvenimento tragico in liturgia divina: si coglie la bellezza nella
sofferenza, nella purezza del martire di fronte a una inaudita e scandalosa violenza,
sempre sottolineata dalla cultura russa. L’elemento emotivo e violento viene ancora più
accentuato dall’elemento mongolo asiatico, che aggiunge crudeltà alla violenza stessa,
come se ci fosse sempre bisogno del sangue versato per ritrovare l’immagine di Cristo.
La categoria degli strastoterptsy comprende nella storia russa anche altri personaggi,
per lo più principi e re. Un secolo dopo Boris e Gleb, il principe Andrej Bogoljubskij venne
ucciso per motivi politici intorno al 1174 e canonizzato nel 1702. Ultimo Gran Principe di
Kiev a Vladimir-Suzdal’, prima dell’invasione tartara del 1240, Andrej aveva organizzato
una spedizione di 11 principi della Russia centrale contro la capitale Kiev, che venne
conquistata e saccheggiata per due giorni, con relativo massacro della popolazione. Lo
spostamento nella Russia centrale del principato fu l’ultima espressione della statualità
kievana, e testimoniano delle fortune di quest’ultima capitale della Rus’ le splendide
cattedrali di Vladimir, quella dell’Assunzione (che fu presa a modello in seguito per la
cattedrale del Cremlino di Mosca) e quella S. Dmitrij ripresa da Tarkovskij nell’Andrej
Rublev, e anche il monastero di Bogoljubovo con il palazzo di Andrej e la sua chiesa
suffraganea della Protezione della Madre di Dio sulla Nerl’, quella del volo del contadino
nel prologo dell’Andrej Rublev con relativa caduta sull’erba in mezzo alla terra, sul grande
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prato antistante alla chiesa. Questa chiesetta è un gioiello architettonico, e un vero e
proprio simbolo della Chiesa russa, molto ripreso nell’arte e nella memoria culturale.
L’immenso prato che si stende intorno all’ansa del fiume Nerl’, dove morì un figlio di
Andrej, per la cui memoria fu costruita la chiesa, nella fase dell’inverno è ricoperto dalla
neve, col disgelo primaverile viene invaso dall’acqua, tanto da diventare un lago, e in
estate splende nell’erba verde. Il principe Andrej venne poi ucciso dai suoi stessi complici
della guerra contro Kiev, dopo una sua strenua resistenza a mani nude, e solo alla fine la
resa alla volontà di Dio, consegna dosi agli assassini per il colpo di grazia. La sua fine
significò anche la rovina definitiva del principato di Kiev, la prima “Santa Rus’”, caduta in
mano asiatica anche per colpa delle guerre fratricide, i meždousobnija brani che i russi si
trascinavano ancora da prima della conversione al cristianesimo.
Anche se non venne canonizzato, è considerato strastoterpets lo zar Paolo I (+ 1804),
figlio di Caterina, una figura assai controversa. Regnò per pochi anni e venne molto odiato
dalla popolazione per lo spirito militaresco e oppressivo con cui aveva riorganizzato
l’amministrazione statale, e anche a causa delle sue simpatie cattoliche, che lo portarono a
diventar Gran Maestro dell’Ordine di Malta; come era avvenuto per i gesuiti con Caterina
II, Paolo salvò l’ordine dallo scioglimento napoleonico, e si autonominò Gran Maestro, pur
senza passare al cattolicesimo, ma inserendo lo stemma dell’ordine nella simbolica
imperiale. Un altro zar, Alessandro II, venne ucciso con un atto terroristico nel 1881, alla
fine dell’epoca delle riforme (è ricordato come lo “zar liberatore” per aver soppresso la
schiavitù della gleba), nel periodo in cui imperversavano l’anarchismo e il terrorismo
russo, come descritto nel romanzo di Fedor Dostoevskij I demoni. A San Pietroburgo in sua
memoria venne costruita una chiesa molto simile alla cattedrale di S. Basilio sulla piazza
Rossa di Mosca, dedicata al “Salvatore sul sangue” (Spas na krovi), quasi a riassumere tutto
il filone della devozione russa alla passione di Cristo. Quando furono presi gli assassini si
accese nella società russa una grande discussione sulla pena di morte, ripresa da
Dostoevskij anche per via dell’esperienza personale, avendo scampato per un pelo
all’esecuzione capitale (il romanzo L’Idiota si apre con una riflessione sulla condanna di
Cristo e la necessità della pena di morte). Il giovane filosofo Vladimir Solov’ev si espresse
pubblicamente in favore del perdono, e per questo fu a lungo emarginato. Tolstoj prese
spunto da questo dibattito per sostenere la non necessità della pena di morte e proporre la
sua teoria della non resistenza al male. Infine anche l’ultimo zar, Nicola II, fu assassinato
con tutta la famiglia dai bolscevichi nel 1918 a Ekaterinenburg nella “Casa Ipatiev”,
anch’egli quindi per motivi politici. Venne canonizzato ancora nel periodo sovietico dalla
Chiesa Zarubežnaja, quella parte della Chiesa Ortodossa Russa formatasi in esilio in
opposizione al regime comunista, poi nel 2000 anche il Sinodo moscovita ha proclamato la
santità dello zar strastoterpets, dei suoi familiari e dei servi tra cui vi era un cattolico, come
per Boris. La canonizzazione venne approvata per il modo con cui lo zar, pur macchiatosi
del sangue del popolo (aveva fatto sparare alla folla durante una manifestazione, nel 1905)
aveva accettato cristianamente la morte, mostrando anch’egli la capacità di vivere la
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passione a imitazione di Cristo. Dopo il comunismo, Nicola II è diventato uno dei simboli
della rinascita della Russia, anche se fu una figura politicamente debole e contraddittoria,
culturalmente nulla e religiosamente anche peggiore, perché con la moglie era succube del
settario Rasputin. Non aveva niente di positivo, di santo, di profondo; e non aveva
neppure sangue russo, essendo un tipico prodotto degli incroci della nobiltà europea, ma
il destino lo ha consegnato alla tipologia più originaria della santità russa. Si ricordano
altri santi strastoterptsy, come Vasilij di Mangaz nel 1602, un servo di un mercante ucciso
dal padrone. Poi alcuni bambini, come Dmitrij di Uglič nel 1591 (figlio di Ivan il Terribile),
Gavriil di Slutsk nel 1690, ucciso con un delitto rituale ebraico, considerato martire e quasi
campione dell’antisemitismo, e un certo Ivan di Uglič nel 1663, ucciso da un operaio della
ditta del padre per vendetta contro il padre stesso. Tutti quindi morti per motivi molto
umani, diventati nella comprensione russa rivelazioni della vera fede.
La canonizzazione di singoli politici e uomini morti per motivi “laici”, del resto, è solo
un aspetto della grande capacità russa di soffrire, che ha avuto momenti storici
particolarmente significativi: su tutti nel 1812 la vittoria contro Napoleone, e nel 1940-41
quella contro i nazisti, con la battaglia di Stalingrado e l’assedio di Leningrado. La
modalità con cui avvenne la vittoria contro Napoleone è particolarmente significativa, e
vale la pena di ricordarla: Napoleone venne attirato dall’esercito in fuga all’interno della
Russia, e per la via distrusse tutto quello che trovava, come la città di Smolensk, infine
entra a Mosca e i russi stessi distruggono Mosca, il governatore Rastopčin fa incendiare la
capitale. Napoleone si trova quindi senza approvvigionamenti, tentenna dopo l’invasione,
l’esercito saccheggia la città ormai abbandonata, i francesi perdono l’attimo e sono costretti
a ritirarsi. Nella ritirata l’esercito francese (che radunava tutta l’Europa occidentale) da
ottocentomila uomini viene ridotto a meno di duecentomila, e i russi si limitano ad
accompagnarli fuori dal paese, senza ingaggiare battaglia. Prima dell’invasione di Mosca,
però, vi era stata l’epica battaglia di Borodino, la classica vittoria di Pirro dove muoiono
tutti, un massacro conclusosi con un pareggio delle forze e la dimostrazione dei russi di
essere in grado di non farsi sconfiggere, di saper sopportare anche gli attacchi più
tremendi. La vittoria contro Napoleone diventerà l’esaltazione della grandezza russa in
Europa: Alessandro I entrò nel 1812 a Parigi, occupandola simbolicamente con i cosacchi
accampati sul Bois de Boulogne e proclamando una specie di superiorità dei “barbari” russi
sull’Europa. È un esempio di vittoria strastoterpnaja, ottenuta distruggendo se stessi, con il
totale sacrificio di sé. Così avvenne poi a Stalingrado, con il solito “generale inverno” che
gioca il ruolo di alleato della Russia; anche i russi subiscono il gelo, ma lo sanno
sopportare. La vittoria sul nazismo è ancora oggi la più grande festa nazionale russa, in cui
viene evocato anche l’eroismo della città di Leningrado (oggi di nuovo San Pietroburgo),
che rimase tre anni sotto l’assedio dei tedeschi e riuscì a non cedere. La santità sofferente,
la passività ardente, la resistenza strenua sono diventate così un tratto costante della storia
cristiana e umana della Russia, il paese dove il cristianesimo è “iniziato di nuovo”.
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Il nuovo inizio della storia cristiana.
Tutta la storia della salvezza prima di Cristo, ricorda Ilarion, ha una funzione
preparatoria alla redenzione cristiana. La legge era necessaria per superare l’idolatria, di
cui lo stesso Vladimir era un esponente formidabile: “Egli ha posto la legge per preparare
gli uomini a ricevere la verità e la grazia; affinché la natura umana retta dalla legge,
rifuggendo il politeismo idolatrico, imparasse a credere nell’unico Dio; affinché l’umanità,
come un vaso contaminato, dopo essere stata lavata dalla legge e dalla circoncisione come
dall’acqua, potesse accogliere il latte della grazia e del battesimo”. Il linguaggio patristico
usato dall’oratore rivela una grande conoscenza delle fonti teologiche; la scelta del dittico
soteriologico di "verità e grazia" non è infatti solo un rafforzativo retorico, ma una precisa
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indicazione dell'autentica ortodossia, la verità-istina su cui si concentrerà la migliore
teologia russa (come ad esempio quella di P. Florenskij), e la grazia-blagodat’ intesa come
quell’ulteriore manifestazione dell’amore di Dio che si svela nella chiamata alla fede dei
russi, il popolo "superfluo" che non era necessario alla logica terrena della diffusione della
religione cristiana, e che entra invece con una forza dirompente ed escatologica a dare alla
storia una direzione imprevista, spostando l’asse della vita della Chiesa universale verso
un nuovo baricentro, quello in realtà da tutti atteso.
Ilarion precisa infatti che il suo elogio è rivolto a una categoria precisa di ascoltatori,
sintonizzati sulla particolare manifestazione dell’iniziativa divina che si ha davanti agli
occhi: “Sarebbe superfluo e fonte di vanagloria esporre in questo scritto la predicazione
profetica su Cristo e l’insegnamento degli apostoli sul mondo futuro. Ciò infatti è stato
scritto in altri libri ed è già noto a voi, e riproporlo in questo luogo sarebbe indice di
protervia e vanità. Noi non scriviamo per gli incolti, ma per coloro che nutrono un
profondo diletto per i libri; non scriviamo per i nemici di Dio, gli eterodossi, ma per i figli
suoi; non per gli estranei, ma per gli eredi del regno dei cieli”. Gli “estranei” sono coloro a
cui non è destinato il messaggio evangelico, ma sembra sottintendere che solo i russi,
raggiunti da questa speciale benevolenza, possono comprendere di che cosa si stia
veramente parlando. Qui si innesta l’interpretazione teologica del tema scelto, in cui
l’autore riprende l’allegoria paolina della legge intesa come “figlia della schiavitù”, nella
persona di Ismaele figlio di Agar, e della grazia come compimento della promessa,
simboleggiata dal figlio Isacco, il figlio della donna libera. Si sottolinea che la nascita di
Isacco è il frutto della visita dei tre pellegrini alle querce di Mamre, luogo in cui Mosè
entrò in comunione con la Santissima Trinità, come rappresentato nelle icone bizantine. La
nascita di Isacco da Sara viene messa direttamente in relazione con la nascita di Gesù
stesso, con un ardito accostamento che rende contemporanei i due inizi della storia
salvifica, quello dell’Antico e del Nuovo Testamento, quasi a dire che questa stessa storia
si ricapitola continuamente riproponendo continuamente l’unico evento dell’incarnazione
divina: Isacco e Gesù, Costantino e Vladimir, la Chiesa apostolica e la Rus’.
Del resto, anche questa sfumatura del Discorso non è completamente originale, ma
piuttosto mutuata da una intuizione storico-teologica simile, elaborata un secolo e mezzo
prima nel contesto della prima evangelizzazione degli slavi. Dopo la missione di Cirillo e
Metodio e la successiva spartizione della giurisdizione ecclesiastica tra slavi occidentali e
orientali, nei Balcani emerge la voglia di protagonismo del popolo bulgaro, che riuscendo
a ottenere una serie di successi politico-militari nel confronto con lo stesso impero
bizantino, si pone come alfiere dell’orgoglio slavo cristiano. Come nota la Kossova, “Il
mecenatismo colto di Simeone I, sovrano accorto e politicamente lungimirante, assicurò le
condizioni che avrebbero poi sublimato l’eccellenza del retaggio di Cirillo e Metodio”23.
Determinato a giovarsi del provvidenziale dono della salvezza offertogli dalle circostanze,
lo zar di Bulgaria, appassionato cultore egli stesso della civiltà bizantina, nonché fiero
difensore dell’indipendenza del suo stato, predispose, per la prosecuzione dell’attività dei
discepoli dei fratelli tessalonicesi scacciati dalla Moravia, delle condizioni ottimali. Le
litterae slave conobbero un prodigioso fiorire. Trionfatore, a breve, sulle milizie bizantine,
Simeone I proclamò l’indipendenza della Chiesa nazionale elevando l’arcivescovo di
Bulgaria al rango di patriarca. Le due scuole scrittorie da lui propiziate – la palatina in
quel di Preslav e l’altra a Ocrida – veri e propri centri di filologia sacra, in un irripetibile
fervore creativo, autoctono e di traduzioni dal greco, che vide peraltro il sovrano
tenacemente impegnato in prima persona, diedero vita al filone apologetico della
letteratura cirillo-metodiana. Con determinazione vennero rigettate le accuse di inferiorità
spirituale che bollavano i “ritardatari” della conversione. Clemente, vescovo di Ocrida e
fondatore della omonima scuola scrittoria, espresse nel mirabile encomio per Costantino-
Cirillo la ineccepibile giustificazione dottrinale all’autocefalia della Chiesa bulgara. La
negatività apparente dell’innegabile ritardo storico-cronologico della conversione divenne
il segno distintivo della benevolenza suprema con dovizia elargita dall’Alto. L’epoca di
Simeone I, il cosiddetto “Secolo d’oro della letteratura paleobulgara”, creò un patrimonio
librario di sorprendente ricchezza e varietà. Conclude Alda Kossova: “A distanza di circa
centocinquanta anni la sua translatio ad Russos sarà seguita dalla rapida assimilazione della
“conoscenza della verità” da parte degli slavi orientali. L’humus indispensabile perché in
23 KOSSOVA GIAMBELLUCA Alda, Alle origini della santità russa. Studi e testi, San Paolo, Alba 2007, p. 12.
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terra di Rus’ si concretizzasse una ulteriore tessera dell’universale volontà salvifica di Dio
era pronto per assecondare la maturazione dei suoi primi frutti”24.
24 Ibid., p. 13.
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L’ortodossia “nazionale” del resto è un’idea moderna, derivata dal concetto
illuministico europeo di stato e di nazione, impostasi tra Ottocento e Novecento in
sostituzione delle grandi concezioni imperiali medievali. È un’idea talmente estranea alla
tradizione ortodossa da essere stata a un certo punto condannata addirittura come eresia
di “filetismo”, cioè di sciovinismo nazionalista. Le idee della Rivoluzione francese, i
movimenti nazionalisti e la memoria sempre viva degli imperi cristiani passati avevano
portato nell’800 alla graduale disintegrazione della dominazione turca nei Balcani. La
nascita di stati nazionali fu seguita dalla fondazione di chiese ortodosse indipendenti,
autocefale. Così il collasso del dominio ottomano fu accompagnato dalla rapida
diminuzione del potere effettivo esercitato dal patriarca di Costantinopoli.
Paradossalmente i greci, per i quali - più che per ogni altro - il patriarcato rappresentava
una speranza per il futuro, furono i primi a organizzare una chiesa indipendente nel loro
nuovo stato. Nel 1821 la Rivoluzione greca contro i turchi fu proclamata ufficialmente dal
metropolita della vecchia Patrasso, Germanos. Il patriarcato, anche per dimostrare la
propria lealtà alla Sublime Porta, proclamò condanne e perfino anatemi dei rivoluzionari,
dichiarandoli appunto eretici. Queste dichiarazioni, tuttavia, non riuscirono a convincere
nessuno, meno di tutti il governo turco, che il giorno di Pasqua del 1821 fece impiccare il
patriarca ecumenico (di Costantinopoli) Gregorio V al portone principale della residenza
patriarcale come esempio pubblico. Numerosi altri membri del clero greco furono messi a
morte nelle province. Dopo questa tragedia, la lealtà ufficiale del patriarcato fu,
naturalmente, doppiamente sicura. Incapaci sia di comunicare con il patriarcato o di
riconoscere le sue scomuniche, i vescovi della Grecia liberata si radunarono a Návplion e
posero se stessi come sinodo di una chiesa autocefala (1833). Il regime ecclesiastico
adottato in Grecia era modellato su quello della Russia: un corpo statale collettivo, il Santo
Sinodo, a capo del quale venne posto l’arcivescovo di Atene, doveva governare la Chiesa
sotto stretto controllo governativo. Nel 1850 il patriarcato fu forzato a riconoscere quello
che era ormai un fatto compiuto, e accordò un decreto (tómos) di autocefalia alla nuova
Chiesa di Grecia. Nel corso dei moti irredentisti ottocenteschi, anche altre nazioni a
maggioranza ortodossa si staccarono seguendo l’esempio dei greci, e nacquero così il
patriarcato di Serbia nel 1879 e di Romania nel 1885; gli stessi turchi arrivarono a creare
una Chiesa nazionale bulgara, che fu istituita da un firman (decreto) di un sultano nel 1870.
La nuova chiesa doveva essere governata dal proprio esarca bulgaro, che risiedeva nella
stessa Costantinopoli e governava tutti i bulgari che lo riconoscevano. La nuova situazione
non era chiaramente canonica, poiché sanzionava l'esistenza di due strutture ecclesiastiche
separate sullo stesso territorio. Il Patriarca Ecumenico Antimo VI radunò un sinodo a
Costantinopoli, che includeva anche i patriarchi greci di Alessandria e Gerusalemme
(1872). Il concilio condannò formalmente il “filetismo” - il principio nazionale o etnico
nell'organizzazione della chiesa - e scomunicava i bulgari, che certamente non erano gli
unici colpevoli di filetismo. Questo scisma durò fino al 1945, quando ebbe luogo una
riconciliazione con pieno riconoscimento dell’autocefalia bulgara entro i limiti dello stato
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bulgaro, ma la questione del filetismo rimase in sospeso nell’ecclesiologia ortodossa. I
russi, in effetti, non avevano posto la questione in termini nazionali, in quanto l’impero
russo, come vedremo, nacque sulla base dell’antica ecclesiologia universale, adattata alla
Russia, che avrebbe dovuto assumere un ruolo ben più ampio dell’autonomia nazionale,
cioè la salvezza del mondo.
È questa la missione affidata al “popolo nuovo”, afferma infatti Ilarion nel suo
Discorso, quella di rifondare la storia della salvezza: “Ed era cosa degna che la grazia e la
verità risplendessero sugli uomini nuovi, infatti, come ha detto il Signore: Né si mette vino
nuovo in otri vecchi, — ossia la dottrina della grazia – in otri vecchi, che sono invecchiati
nel giudaismo, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa (Mt 9,17). Giacché i giudei
non avevano saputo conservare neppure la lettera della legge, ma più volte avevano
adorato gli idoli, come avrebbero potuto osservare l’insegnamento della grazia e della
verità? Per un nuovo insegnamento sono necessari otri nuovi, un nuovo popolo, così
entrambi si conserveranno. E così è stato: la fede apportatrice di grazia si è diffusa su tutta
la terra ed è giunta fino al nostro popolo russo. Le paludi della legge si sono prosciugate,
ma la fonte del Vangelo si è gonfiata d’acqua e ha ricoperto la terra, dilagando fino a noi.
Anche noi, dunque, con tutti i cristiani glorifichiamo la santa Trinità, mentre la Giudea
tace”. I russi dunque costituiscono il popolo della grazia “con tutti i cristiani”, con cui si
trovano in una condizione di assoluta parità e dignità condivisa, quasi sincronica, perché
l’unica fonte della misericordia divina non conosce scansioni temporali. Così la santità di
Vladimir può essere paragonata a quella degli stessi apostoli, come sottolinea la
significativa “lista” ecclesiologica del metropolita di Kiev che apre l’ultima parte del
Discorso, quella dedicata propriamente all’elogio del principe: “Roma eleva lodi a Pietro e
Paolo, per mezzo dei quali ha acquistato la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio; l’Asia, Efeso
e Patmos lodano san Giovanni il Teologo; l’India loda san Tommaso; l’Egitto san Marco;
ogni terra, città e popolo onora e glorifica i suoi maestri, che hanno insegnato la fede
ortodossa. Anche noi, dunque, per quanto ne siamo capaci, renderemo una lode, ancorché
piccola, al nostro maestro e precettore, che compì gesta grandi e magnifiche, il grande
principe della terra nostra Vladimir”. Nella sequenza, più che la roboante similitudine di
Vladimir con Pietro e Paolo, stupisce la mancata citazione di Costantinopoli e della sua
fondazione ad opera di S. Andrea. Se da un lato si può presumere che essa venga data per
scontata, dall’altro non si può non rimarcare che la lode intende mettere Vladimir proprio
sul livello degli apostoli, prima ancora dell’imperatore Costantino (a sua volta glorificato
dalla Chiesa Ortodossa come esapostolos, “uguale agli apostoli”) che viene menzionato più
avanti. Per quanto riguarda poi la leggenda della fondazione della capitale bizantina ad
opera dell’apostolo Andrea, estesa fino alla narrazione del viaggio dello stesso in Russia,
sulle colline di Kiev e perfino a Novgorod, Ilarion doveva certamente conoscerla (è
accennata nell’introduzione della Cronaca di Nestor), ma non la richiama, né si preoccupa
di applicarla alla laudatio del principe che chiude la sua omelia.
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In realtà la leggenda già circolava nel mondo bizantino, ed era appunto certamente
conosciuta anche dai neofiti russi, ma la sua elaborazione era ancora incerta e parziale,
tanto da renderla poco utilizzabile per l’elogio del battezzatore di Kiev. Alle origini della
tradizione andreana bizantina sta la Vita di S. Andrea, scritta dal “monaco e presbitero
Epifanio”, fuggito da Costantinopoli attorno all’815 come tanti altri per evitare la
persecuzione iconoclasta25. Alla base del racconto sta il viaggio intrapreso da Epifanio con
il pretesto del rifiuto di comunicare con il patriarca iconoclasta, al cui scopo sarebbe
bastato allontanarsi di quaranta-cinquanta chilometri dalla capitale26. Invece il nostro
autore, insieme al monaco Jakov, visita Nicea, Nicomedia, Dafnusia, Eraclea Pontica,
Amastride, Daripia, Karusa, Sinope, Amis, Trebisonda, Khimar, Nikopsia, Vospor,
Feodosia e Kherson, percorrendo in questo modo tre coste del Mar Nero, meridionale,
orientale e settentrionale. Tale itinerario si dimostrò particolarmente opportuno per gli
inserimenti successivi, sia su base greca, sia nelle tradizioni georgiana (della Georgia
occidentale) e slava (Kiev, Novgorod ecc.). In questo forse sta il segreto della popolarità
della vita di Epifanio, che divenne il fondamento di tutta la tradizione successiva; ma la
vera diffusione della leggenda e il suo uso apologetico vanno piuttosto ascritti al periodo
medievale e alle nuove polemiche antiromane sorte dopo la IV Crociata del 1204, o
addirittura dopo la caduta di Costantinopoli del 1453. In Russia la leggenda della
fondazione andreana in effetti non gioca alcun ruolo nella definizione della fede
battesimale, e la vera popolarità russa di S. Andrea è piuttosto moderna, legata alla scelta
dello zar Pietro I, al ritorno dal lungo viaggio della sua Grande Delegazione in Europa
occidentale nel 1698, di istituire l’Ordine di S. Andrea come massima onorificenza
dell’impero russo, e proclamare l’apostolo “primo chiamato” come protettore della
neonata Marina militare russa.
25 Vedi: DVORNIK F. The idea of apostolity in Byzantium and the legend of the apostle Andrew,
Сambridge/Massachussets 1958.
26 Vedi: AFINOGENOV D., Konstantinopol’skij patriarkhat i ikonoborčeskij krizis, Moskva 1998.
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cattedrale di S. Sofia, più che l’estetica e l’ascetica monastica; Vladimir comprende la forza
di una fede che coinvolge l’intera comunità. A questa intuizione si unisce l’intera
popolazione con entusiasmo e volontà concorde, sempre secondo Ilarion, anche per il
timore dell’autorità del principe: “ordinò a tutto il suo popolo di farsi battezzare nel nome
del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, affinché in tutte le città fosse glorificato
apertamente e ad alta voce il nome della santa Trinità, e tutti fossero cristiani, grandi e
piccoli, servi e liberi, giovani e vecchi, nobili e semplici, ricchi e miseri. E neppure un uomo si
oppose al suo pio volere. E se qualcuno non si fece battezzare per amore, lo fece per timore
verso colui che lo ordinava, poiché in lui la vera fede si univa all’autorità”. Anche nella
Rus’ cominciò dunque a essere celebrata la liturgia in tutto il suo splendore e con tutto il
trasporto emotivo, assorbendo anche le energie della religiosità pagana: “I templi pagani
vennero distrutti e vennero edificate le chiese; gli idoli vennero abbattuti e apparvero le
icone dei Santi; fuggirono i demoni e la croce purificò la città; i pastori delle pecore
spirituali di Cristo, vescovi, presbiteri e diaconi, incominciarono a offrire la vittima
incruenta; il clero tutto adornava e rivestiva di magnificenza le sante chiese. La tromba
degli apostoli e il tuono del Vangelo echeggiarono in tutte le città; l’incenso offerto a Dio
purificò l’aria. Sui monti furono posti i monasteri; apparvero i monaci; uomini e donne,
piccoli e grandi, tutti riempivano le sante chiese e glorificavano il Signore esclamando: uno
solo è il Santo, uno solo è il Signore, Gesù Cristo, nella gloria di Dio Padre”.
Il passaggio alla vera fede è quindi sottolineato come un’esperienza unica e personale
del principe, che si trasmette al popolo per osmosi, come un miracolo voluto da Dio
specificamente per questo luogo e questo tempo, superando la distanza storica dall’origine
apostolica. Il predicatore si appella in questo alla promessa pasquale fatta da Cristo agli
apostoli riuniti nel cenacolo: “Come dunque potremo esaltarti, padre nostro Vasilij, degno
di onore e di gloria, insigne per coraggio tra i signori della terra? Oppure, come dovremo
chiamarti? Amante del Cristo, amico della giustizia, sede della sapienza, fonte di
elemosina? Come hai acquistato la fede? Come ti sei acceso d'amore per Cristo? Come ha
allignato in te un'intelligenza superiore all'intelligenza dei sapienti della terra, per amare
ciò che è invisibile e tendere alle cose celesti? Come hai trovato Cristo? Come ti sei
abbandonato a Lui? Dì a noi tuoi servi, dì a noi, maestro nostro: donde è spirato sino a te il
profumo dello Spirito Santo? Chi ti ha concesso di bere il dolce calice della memoria della
vita futura? Chi ti ha concesso di gustare e vedere com’è buono il Signore? Tu non vedesti
il Cristo e non camminasti con Lui, come dunque sei divenuto suo discepolo? Altri,
avendolo veduto, non credettero, tu invece, non avendolo veduto, credesti. Veramente su
di te si è adempiuto ciò che il Signore Gesù disse a Tommaso sulla beatitudine: beati quelli
che pur non avendo visto crederanno Gv 20,29)”. La Russia ha “trovato” Cristo, non lo ha
semplicemente ricevuto da altri. Vladimir è quindi il “nuovo Costantino”, perché ha
saputo ripetere la sua stessa esperienza di conversione, che ha determinato tutta la storia
cristiana: “Imitatore del grande Costantino, pari a lui per intelletto, pari per l’amore verso
Cristo e per la venerazione verso i suoi ministri! Quello, insieme ai santi Padri del Concilio
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di Nicea, stabilì la legge per gli uomini, e tu, radunandoti spesso con i nuovi padri, i nostri
nuovi vescovi, con grande umiltà chiedevi loro consiglio come fissare questa legge tra
uomini che da poco conoscevano il Signore. Quello sottomise a Dio il regno ellenico e
romano, e tu, beato, hai fatto lo stesso nella Rus’, infatti tra quelli, come tra noi, Cristo
ormai è chiamato Re. Quello, con la madre sua Elena, consolidò la fede quando riportò la
croce da Gerusalemme e ne diffuse i frammenti per tutto il mondo; tu hai consolidato la fede
con la nonna tua Olga riportando la croce dalla nuova Gerusalemme, la città di
Costantino, e innalzandola sulla terra tua”.
E ora la fede risplende sulla terra russa, che prospera come nuova Gerusalemme sotto
la guida del figlio Jaroslav (Georgij secondo il battesimo), in una speciale successione
apostolica della terra di Kiev: “Sorgi dalla tua tomba, degno sovrano, sorgi, scuoti via il
sonno! Non sei morto, ma dormi fino alla resurrezione di tutti. Sorgi! Tu non sei morto.
Non è da te morire, poiché hai creduto in Cristo, vita del mondo. Scuoti via il sonno, alza
gli occhi e guarda: il Signore, dopo averti reso degno di onore nei cieli, nel tuo figlio non ti
lasciato privo di memoria sulla terra. Sorgi, guarda tuo figlio Georgij, guarda alla carne
della tua carne, guarda al tuo prediletto, guarda a colui che il Signore ha tratto dai tuoi
fianchi, guarda a colui che adorna il trono della tua terra; gioisci e rallegrati! Guarda anche
alla nuora tua fedele, Irina; guarda anche ai nipoti e pronipoti tuoi, come vivono, come il
Signore li preserva; come conservano la vera fede da te consegnata; come frequentano le
sante chiese, come glorificano Cristo, come adorano il suo nome. Guarda anche alla città,
che splende di grandezza, guarda alle chiese che prosperano, guarda al cristianesimo che
germoglia; guarda a questa città, resa santa e risplendente dalle icone dei santi, profumata
d'incenso, che risuona delle sante lodi e delle salmodie divine. E avendo visto tutto ciò,
rallegrati, gioisci e loda il Dio clemente, che ha edificato tutto questo”. D’ora in poi la
protezione di Vladimir, e della Madre di Dio a cui egli ha affidato la terra russa, saprà
preservare il popolo dal peccato e da ogni miseria, e moltiplicare il miracolo della santità;
il vescovo e monaco Ilarion consegna così ai posteri il suo quadro ideale della “Santa
Rus’”, terra speciale di un cristianesimo forte e inedito, come quello che verrà subito
sperimentato dai primi monaci delle Grotte di Kiev.
27 Per una storia ragionata del monachesimo russo vedi l’ottima sintesi di Piovano Adalberto, Santità e
monachesimo in Russia, ed. La Casa di Matriona, Milano 1990.
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assoluta e minuziosa al padre spirituale, il digiuno, così come spesso viene imposto ai
fedeli ancora oggi in Russia. Questo fa sì che la fede russa rimanga spesso confinata nei
limiti della ritualità e dell’ascesi, come nota lo storico italiano Giovanni Codevilla: “Questo
stretto vincolo che lega la religiosità popolare russa alla mistica bellezza e al fasto della
ritualità bizantino-slava non è sostenuto da una elaborazione dogmatica, bensì dall’ideale
monastico che pervade la società della Rus’ nei primi tempi dell’introduzione al
cristianesimo … Anche i monaci non sono attratti dall’elaborazione dottrinale, ma
perseguono un ideale ascetico quasi inaccessibile, il quale suscita profonda ammirazione
nel popolo che a essi si rivolge per chiedere conforto e assistenza spirituale. I monaci,
pertanto, prendono su di sé il compito dell’educazione morale della popolazione,
educazione che non si basa tanto sullo studio quanto sull’esempio di vita”28.
28CODEVILLA Giovanni, Lo zar e il patriarca. I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri, ed.
La Casa di Matriona, Milano 2008, , p. 20.
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cedimento al peccato. E così parlava loro: “Non è degno di noi, o fratelli, che siamo monaci
e che abbiamo rinunciato alle cose terrene, accumulare ugualmente nelle nostre celle.
Come potremo rivolgere a Dio una giusta preghiera, se teniamo nella nostra cella dei
tesori personali?”. In proposito ascoltava il Signore che disse: “Poiché dove è il vostro
tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. A sua imitazione rimase nella storia della santità
russa questo tratto di grande capacità di accoglienza e di misericordia, sereno e gioioso,
come massimamente si realizzerà nel più famoso santo russo moderno, lo starets
ottocentesco Serafino di Sarov. Eppure, accanto a questo esempio luminoso, rileviamo uno
sviluppo quasi contrapposto ad esso, che pure tanta influenza avrà nella storia della
spiritualità monastica russa.
Infatti la Vita di Feodosij si trova in chiaro dualismo con un altro documento un po’
più tardivo, il Paterik dei monaci delle grotte di Kiev, una raccolta simile agli antichi
Apophtegmata Patrum che riporta storie relative a monaci kievani del XII – inizio XIII
secolo, quindi molto vicini alle origini, che sembrano essere di tutt’altra scuola: invece di
presentare monaci che crescono ordinatamente nell’obbedienza della regola, troviamo
monaci eremiti che vivono esperienze straordinarie, imprevedibili, taumaturgiche e molto
poco strutturate, tra reclusi, pittori e anacoreti in perenne lotta con il maligno. Famoso
l’esempio di S. Isacco il recluso, ingannato dal diavolo che lo aveva lasciato mezzo morto,
reinserito nella comunità per una lenta riabilitazione e poi di nuovo in guerra col diavolo
con le armi della santa follia dello jurodivyj, capace di spegnere le fiamme con i piedi nudi,
di resistere a folle di demoni venuti con zappe e vanghe per sotterrarlo e senza spaventarsi
quando “gli apparivano sotto forma di orsi, leoni e altri animali selvaggi, o gli si
avvicinavano sotto forma di serpenti, rane, topi e altri rettili, senza mai potergli fare
niente”. Isacco fu da allora venerato come protettore del popolo contro gli inganni del
diavolo. Il santo iconografo Alipio invece, mentre componeva un mosaico per l’altare, vide
che “dalla bocca della Purissima Madre di Dio volò una colomba bianca che si diresse
verso l’immagine del Salvatore e vi si nascose”, e in seguito le sue icone divennero
continua occasione di eventi miracolosi, guarigioni, interventi angelici e simili. Anche la
taumaturgia iconica è rimasta molto tradizionale nella spiritualità russa, che venera l’icona
come un essere divino vivente, e facilmente si attende da esso qualche prodigio. Non è
difficile vedere in questi esempi il segno di una religiosità popolare ancora molto
spontanea e paganeggiante, che rimarrà sempre molto attuale nella spiritualità russa,
soprattutto nella figura appunto dello jurodivyj, il santo folle che spesso assume i caratteri
dello starets taumaturgo e veggente, e assorbirà anche diverse particolarità tipiche degli
sciamani asiatici che la Russia conoscerà nel periodo della sua espansione in Oriente.
Dalle origini cristiane della Rus’ si sviluppa quindi un doppio binario della spiritualità
monastica, uno più istituzionale e uno più carismatico, che si ritroverà moltissimo nella
grande rinascita monastica successiva ai secoli bui del giogo tartaro: l’episodio più famoso
55
è quello relativo alla contrapposizione tra S. Nilo di Sora (Nil Sorskij, 1433-1508), fondatore
dei non-possidenti (nestjažateli) e S. Giuseppe di Volokolamsk (Iosif Volotskij, 1439-1515), i
cui seguaci furono chiamati iosifljane. Nilo fu un luminoso esponente dell’esicasmo russo,
il monachesimo carismatico di tipo athonita, privo di conventi e proprietà, simile al
francescanesimo, mentre Giuseppe era fautore di un monachesimo “possidente”
istituzionalizzato che addirittura dà forma allo stato e alla politica. I suoi insegnamenti
vennero applicati da Ivan IV il Terribile, che diede all’esercito una forma monastica, quella
degli opričniki, i “pretoriani”. La opričnina era infatti quella forma di organizzazione statale,
voluta da Ivan IV, che imitava lo stile monastico, imponendo di fatto al popolo un
durissimo regime dittatoriale e poliziesco. Nel XV secolo i monasteri non solo
possedevano di fatto i due terzi delle terre russe, ma amministravano e punivano con
severità i servi della gleba. Insieme a grandi esperienze di ascesi (il podvig in russo) e vette
di vita contemplativa, abbiamo quindi un’eredità di cristianesimo totalizzante e piegato
alle esigenze del controllo statale, tanto che la opričnina diventerà il paradigma di uno
strumento usato molto di frequente nei sistemi di governo della Russia, quello della
polizia politica, quella che sotto gli zar era la Okhrana e in tempo sovietico (con una
religiosità “negativa” e ateista, ma non meno ascetica) divenne la Čeka, poi GPU, NKVD,
KGB, oggi FSB, secondo le rispettive sigle di definizione. Questo strumento di
oppressione, basato sulla forza e sull’ideologia, fu perfezionato dall’aggiunta della
crudeltà asiatica, sperimentata dai russi sotto il dominio dei mongoli.
56
Capitolo 3. Dal giogo al trono: la fede che salva il mondo.
29La lettura corretta del termine sarebbe “tatari”, che venne però modificata dalla letteratura romantica
russa dell’Ottocento in “tartari” per indicare il tartaros, il demonio asiatico, e in questa forma si trova più
comunemente nella letteratura di traduzione.
57
compiendo manovre complesse in assoluta simmetria e coordinazione, il che incuteva una
soprannaturale paura nel nemico. Alla sua morte le tribù dividono il territorio conquistato
in varie zone; il nipote Batu le riunificherà qualche anno dopo per andare alla conquista
dell’Europa centrale passando da Russia, Polonia e Ungheria.
La Russia rimase annichilita dalla violenza della distruzione mongola; rialzerà la testa
per la prima volta solo un secolo e mezzo dopo, nel 1380, con la vittoria del principe
Dmitrij Donskoj nella battaglia del Campo delle Beccacce (Kulikovo), ma solo intorno al
1470-80 si raggiungerà una certa indipendenza dal giogo tartaro. Kulikovo fu solo un
primo momento in cui si riuscì a dimostrare che i tartari non erano invincibili.
L’occupazione durò quindi nel suo complesso oltre duecentocinquanta anni, e solo alla
metà del Cinquecento la Russia potrà sottomettere definitivamente i khanati rimasti. È
vero che questa occupazione non fu particolarmente oppressiva, dopo l’invasione iniziale,
in cui tartari distrussero le antiche città russe, compresa Kiev, che scompare di fatto dalla
storia russa. La prima capitale verrà poi ricostruita e avrà sempre un ruolo evocativo, ma
non più un ruolo centrale e attivo nella storia russa, mai più. Diventerà la capitale della
periferia, la kraina: u-kraina significa infatti “al margine”, in periferia. In effetti è difficile
dire quando nacque storicamente l’Ucraina, come nazione indipendente, o anche solo
come regione: gli storici ucraini propongono varie teorie, ma l’Ucraina in realtà non ha
una data di nascita. Dovremmo dire che l’Ucraina nasce nel 1240, quando viene posta fine
alla Rus’ di Kiev, che smette di essere capitale (non lo era già prima, sovrastata da
Novgorod, Vladimir-Suzdal’ e altri, ma era pur sempre il principato di Kiev). Qui finisce la
prima fase della storia russa, la fase kievana. Kiev da questo momento sarà la sede della
memoria del primo periodo, e la capitale, o la principale città di una zona periferica che
pian piano diventerà una nazione indipendente, appunto l’Ucraina, che però è
strettamente intrecciata con la storia della nazione russa, così come, per altre vicende, lo
sarà la Bielorussia. È una questione storica molto complessa e delicata, che ancora oggi
suscita passioni contrapposte, ma in ogni caso, dal punto di vista russo, Kiev non ha più
un ruolo attivo a partire dal 1240.
In questa lunga fase quindi non esiste più niente dell’antico stato, i principi russi
(quelli che rimangono) sono sottomessi ai khan, i vari khanati. La sede iniziale dei
tartari sul Volga era la città di Saraj; in seguito i vari khanati si coordineranno
nell’amministrazione detta “dell’Orda d’Oro”, da cui nasceranno i principali khanati di
Kazan’, Astrakhan e Crimea. I primi due verranno conquistati nel Cinquecento dai russi,
la Crimea fino al Settecento rimarrà indipendente. I principi dovevano andare dai khan
non solo a dare atto di sottomissione, ma a chiedere propriamente di essere nominati, cioè
a ricevere il sigillo, lo jarlyk (parola rimasta in russo col significato di simbolo, marchio). A
volte non lo ricevevano nemmeno, andavano dal khan e venivano uccisi, altre volte
venivano mandati a combattere per le armate mongole in qualunque punto dell’impero,
perfino in Cina. Abbiamo notizie di principi che combattono per i mongoli ai confini del
mar della Cina. L’unica città che gode di una certa indipendenza è Novgorod, che esprime
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infatti l’unica figura di cultura religiosa e di santità del periodo dei tartari, cioè S.
Aleksandr Nevskij.
Aleksandr fu gran principe di Novgorod dal 1219 al 1263, da prima a dopo l’invasione.
La sua figura è sintomatica di questo periodo; da un lato è il difensore della fede
ortodossa, dall’altro è colui che salva il principato sottomettendosi ai tartari. Divenne
santo anzitutto grazie a due vittorie militari, che difesero l’Ortodossia russa dagli invasori
occidentali (e quindi cattolici): la prima nello stesso 1240, l’anno dell’invasione tartara,
contro gli svedesi e la seconda nel 1242 contro i Cavalieri Teutonici, una variante sassone
dei Templari, presso il lago Peipus. Questa ultima vittoria è stata celebrata in molti modi
dalla cultura russa, fino al film di Ejzenštein Massacro sui ghiacci: le armate di Aleksandr
erano di gran lunga inferiori ai Cavalieri Teutonici, ma il principe li attirò in battaglia sul
lago ghiacciato con le loro pesanti armature, sapendo che il ghiaccio non avrebbe retto il
peso. Il suo soprannome Nevskij risaliva alla prima vittoria, ottenuta combattendo gli
svedesi sulla foce della Neva, dove quasi cinquecento anni dopo sarebbe sorta la città di
San Pietroburgo. Per difendersi dai mongoli – che furono gli unici guerrieri capaci di
vincere in Russia d’inverno, sfruttando proprio i fiumi e i laghi ghiacciati che
attraversavano con i cavalli – Aleksandr si rese conto che doveva accettare il
compromesso. Dopo avere difeso l’ultimo baluardo della Rus’ di Kiev dagli invasori
occidentali “eretici”, si sottomise per primo volontariamente ai tartari, salvando il
principato fino alla fine della sua vita e per questo infine verrà canonizzato, questo sarà il
motivo principale: la difesa tramite il compromesso, dopo che aveva saputo difendere
anche con la vittoria. Aleksandr Nevskij fu poi il nesso tra le antiche dinastie dei principi
di Kiev e le nuove generazioni che faranno rinascere la Russia; il nipote di Aleksandr fu
Jurij Dolgorukij, il vero fondatore di Mosca, nominata per la prima volta nel 1147 come
stazione di posta dei principi di Suzdal’ e Rostov. Da Novgorod, passando da Vladimir, si
arriverà infine a Mosca già durante il periodo tartaro; anche la giurisdizione ecclesiastica
segue il percorso dei principi, e nel 1299 la sede del metropolita di Kiev viene trasferita a
Vladimir, per poi stabilirsi a Mosca agli inizi del XIV secolo.
Questi gli elementi storici relativi all’invasione mongola, e a parte la figura solitaria di
Aleksandr Nevskij, l’elemento religioso quasi sembra scomparire, o meglio congelarsi, nel
senso che i tartari non impediscono ai russi di vivere la propria fede, ma li privano della
maggior parte dei mezzi, avendo distrutto le chiese, i monasteri e quasi tutta la civiltà
cristiana di Kiev. La Rus’ comunque mantiene in questo periodo la tradizione ortodossa
originaria in una forma più o meno incorrotta, ma molto ridotta, cosa che si ripeterà in
altri periodi della storia russa, periodi di congelamento culturale e religioso. Quello più
vicino a noi, e più evidente, è il periodo sovietico, oltre settanta anni nel XX secolo, che
valgono anche più di duecentocinquanta nel Medioevo. Sotto i sovietici ci fu una
durissima persecuzione della Chiesa, che però sopravvisse sotto la cappa dell’oppressione,
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bloccandosi laddove si era fermata al momento della rivoluzione. Dopo il Duemila la vita
della Chiesa Ortodossa Russa si è effettivamente rimessa in moto, ma negli anni
immediatamente dopo la fine del comunismo l’unica iniziativa cultural-religiosa è stata la
riedizione sistematica dei libri di prima della rivoluzione. La diaspora russa del Novecento
in realtà non ha avuto alcun influsso sulla vita interna della Russia, è da considerarsi un
fenomeno della vita religiosa dell’occidente. Un esempio sintomatico è quello delle
strutture del patriarcato di Mosca nel Regno Unito, a capo delle quali per tanti anni è
rimasto il vescovo Antonij di Surož, noto con il nome inglese di Anthony Bloom, maestro
di vita spirituale molto apprezzato in tutto il mondo, e praticamente sconosciuto in Russia
durante il comunismo. Le sue opere hanno cominciato a diffondersi in Russia solo negli
anni duemila, dopo la sua morte, mentre in Inghilterra è stato inviato al suo posto un
vescovo con lo scopo di distruggere tutto quello che Antonij aveva costruito, cioè una
efficace variante britannica dell’ortodossia russa. Così in tutto il mondo, l’esperienza dei
russi esiliati in occidente durante il secolo XX è stata quasi completamente cancellata, e i
russi odierni anche fuori dal paese vivono secondo i canoni religiosi di inizio Novecento.
Un’altra analogia con il periodo mongolo, e quello sovietico, è costituito dalla
sconvolgente riforma dello stato e della Chiesa operata da Pietro il Grande nel Settecento,
che abolì la struttura patriarcale e separata della Chiesa Ortodossa e stabilì una forma di
amministrazione ecclesiastica modellata su quella degli stati protestanti, in cui la religione
dipendeva dal singolo regnante. Allo stesso tempo lo zar impose una completa revisione
degli stili di vita, degli usi e dei costumi russi, trasformando il paese a imitazione dei
grandi regni europei. Anche in quel caso la tradizione religiosa russa di fatto rimase
congelata per tutto il secolo, sbloccandosi di fatto solo nell’Ottocento. Questo movimento
di interruzione e ripresa, di stagnazione e disgelo, è molto in sintonia con i ritmi stessi
della natura nella Russia, che conosce lunghe pause invernali e brevi disgeli; su dodici
mesi ve ne sono otto di freddo, due di disgelo e due di caldo. In qualche modo la storia
russa assomiglia al ciclo della natura, in cui però la Russia stessa non scompare; si congela,
ma non scompare, riemerge continuamente dal disgelo, riprendendo il discorso da dove si
era interrotto. Questo fenomeno è anch’esso simbolizzato dalla già ricordata leggenda
russa dell’Uccello di fuoco che rinasce dalle sue penne dorate sparse sul terreno ghiacciato,
che infine rivivono con il nuovo sole.
Dal punto di vista religioso, i tartari arrivarono in Russia senza una particolare fede da
propagandare, con una religione naturale asiatica, neanche buddista, ma quando poi si
trasformarono in Orda d’Oro con i grandi khanati, a poco a poco divennero musulmani,
subendo l’influsso delle popolazioni turche da loro stessi sottomesse in Asia Centrale e nel
Caucaso, poi riunite sotto l’impero ottomano. Rimase in effetti una curiosa enclave
buddista, sopravvissuta perfino durante il periodo sovietico, che ancora oggi sussiste
come regione federale autonoma a maggioranza buddista all’interno della Russia europea,
la Kalmykia (o Calmucchia, come veniva chiamata in italiano), costituita da una
60
popolazione di origine ancora più mongola degli stessi tartari. Vi sono mongoli buddisti
nella parte asiatica della Russia, ma sostanzialmente i tartari anche oggi sono musulmani.
Si tratta però di una variante dell’Islam piuttosto moderata, che non si diffuse come Islam
missionario e di conquista: quando i tartari invasero la Russia non erano musulmani, e
non avevano finalità di conversione. Lo diventeranno quando si trasformeranno piuttosto
in popolazioni stanziali e nella fase discendente del loro dominio, venendo sempre più
soffocati dai russi stessi. Anche oggi la Russia si vanta di poter mostrare un modello
pacifico di convivenza con l’Islam, nonostante le sacche di fanatismo e terrorismo di
alcune zone del Caucaso. La principale città tartara di Russia è Kazan’, capitale della
repubblica autonoma di Tataria, dove il presidente della repubblica ha fatto costruire una
grande moschea nel Cremlino di Kazan, ma ha ricostruito anche tutte le chiese cristiane,
perfino quella cattolica, per offrire un esempio dell’armonia delle fedi.
A parte il fattore religioso, non esiste consenso tra gli storici sulla valutazione da dare
all’influsso prodotto dai tartari sullo sviluppo della Russia. Esiste anzi una vera
polarizzazione di opinioni: per alcuni i tartari non avrebbero lasciato nessun segno, per
altri la vera anima russa è in realtà quella tartara. È indubbio che i tartari abbiano segnato
profondamente l’organizzazione statale russa, soprattutto nello sviluppo dell’economia,
tanto è vero che i termini relativi alle attività finanziarie sono espressi in parole di origine
tartara: i soldi sono i dengi, mentre la dogana è la tamožnja. Nonostante abbiano dato un
impulso decisivo allo sviluppo del mercato e dell’amministrazione, alcuni storici
ritengono che si trattasse di effetti piuttosto relativi, in quanto i sistemi sociali dei tartari si
disgregavano presto, e infatti dopo la grande campagna di conquista sono presto
scomparsi nel nulla. Tornati in Mongolia, dei mongoli non abbiamo più nessuna evidenza
di protagonismo nella storia. Senza voler entrare in questa diatriba, dobbiamo peraltro
ammettere che culturalmente il segno lasciato dai tartari è impalpabile, quasi una
sfumatura di sottofondo, che non si riesce a identificare positivamente. “Dall’Asia –
affermava Dmitrij Likhačev, il principale storico contemporaneo della cultura russa –
abbiamo ricevuto straordinariamente poco”. Nella lingua russa vi sono molte parole di
origine tartara, soprattutto nel gergo volgare e popolare. Nell’Ottocento Napoleone arrivò
in Russia e rimase scioccato (prima della sconfitta e della disastrosa ritirata), non riusciva a
capire se si trovava in oriente o in occidente, e pronunciò una frase che divenne famosa in
tutta Europa: “gratti il russo, e viene fuori il tartaro”.
Al di là delle discussioni storiografiche, va ricordato che a un certo punto, verso la
metà dell’Ottocento fino all’inizio del Novecento, da un rifiuto della radice tartara si è
passati in Russia a una certa attrazione, fino addirittura a un movimento che sosteneva che
la vera natura dei russi è quella asiatica, il movimento degli “eurasisti”. Il fascino
dell’oriente si diffuse nella cultura ottocentesca russa con un percorso che andava dalla
riscoperta della cultura popolare russa, delle sue tradizioni orali e pagane, alla riscoperta
dello stesso cristianesimo russo, fino al legame con l’Asia. Una parte del sangue russo di
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fatto è sangue asiatico, e all’inizio del Novecento i poeti simbolisti trovarono espressioni
sorprendenti per sottolinearlo, come è ben rappresentato nella già citata poesia di
Aleksandr Blok Gli Sciti, scritta nel 1917, al divampare della rivoluzione bolscevica. Qui la
riscoperta risale addirittura oltre i tartari: in realtà i russi non deriverebbero dai variaghi
scandinavi, ma dagli sciti asiatici. Riportiamo di nuovo più in esteso le parole di Blok, che
sintetizzano in modo assai efficace questi sentimenti:
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Avete obliato che esiste un amore,
che brucia e che distrugge!”
Il poeta scopre il tratto asiatico nello sguardo, come segno di uno spirito travolgente
come le tribù di Gengis Khan. L’accenno al terremoto di Messina del 1910, e a quello
storico di Lisbona nel 1755, sarebbero simboli dell’Asia che sta travolgendo l’Europa. È la
forza della rivoluzione, di cui lo scitismo è ispirazione, il mondo nuovo che travolge il
vecchio, la tremenda forza asiatica che finalmente ha ragione del vecchio mondo europeo.
Quindi la vicenda storica del giogo tartaro, in qualche modo, non è mai uscita dalla
coscienza dei russi; pur non avendo avuto un effetto culturale diretto, ha lasciato un segno
profondissimo. È vero che il russo morfologicamente è un europeo con un taglio degli
occhi un po’ asiatico, ma al di là di questo rimane una evocazione particolare dell’Asia
nella cultura russa dopo i tartari. L’elemento asiatico dell’anima russa recupera in parte
l’aspetto pagano; l’energia distruttrice e apocalittica dello scitismo riporta alla radice
precristiana della Russia, al suo aspetto carismatico, spontaneo, anche violento: uno dei
tratti che rimarranno nello spirito russo dall’invasione tartara è proprio la violenza della
distruzione, che si riprodurrà in forme di ferocia nelle dittature di Ivan il Terribile, Pietro il
Grande, Lenin e Stalin. La regione del Caucaso venne aggregata a questo concetto di
oriente nell’Ottocento, da Puškin (autore del romanzo Il prigioniero del Caucaso nel 1821) in
poi.
Volendo già trarre qualche conclusione interlocutoria, dobbiamo rilevare che anche
qui troviamo un fattore che sottolinea quanto l’anima russa e la sua religiosità emergano
dal contrasto, non abbiano mai un aspetto univoco. È Bisanzio, ma non è Bisanzio, è
istituzione, ma è anche carisma, è la grazia, ma anche il ripristino della legge, è
misericordia cristiana e violenza asiatica insieme. È il contrasto tra la sofferenza e la
bellezza, o la bellezza che nasce dalla sofferenza, o la sofferenza che genera una bellezza
più profonda. È un tema più letterario che teologico, ma abbiamo l’esempio storico del
battesimo, che è un’esperienza estetica profonda (prodotta dal fascino di Costantinopoli)
accanto al martirio di Boris e Gleb provocato dal tradimento e dalla crudeltà. Da che cosa
nasce principalmente il cristianesimo russo, dallo stupore della liturgia di Costantinopoli o
dalla volontarietà del martirio di Boris e Gleb? In realtà nasce dal contrasto tra i due, o
dalla sintesi tra i due fattori. Potremmo parlare di contrasto tra libertà e tradizione; il
martirio è scelta di libertà, la sofferenza volontaria è un’espressione di grande libertà, in
fondo questa forza asiatica, che riesce a sopportare la distruzione, è un esempio di grande
libertà, la rivoluzione stessa lo è. Ma è anche tradizione, intesa nel senso dell’obbedienza
rigorosa di Feodosij Pečerskij con il suo regime monastico molto dettagliato, ed è frequente
vedere nella religiosità russa un insieme di assoluta creatività e di rigidissima
sottomissione alla tradizione. Non che manchi nell’occidente cristiano il contrasto tra
spirito e istituzione, ma in Russia lo troviamo in una forma più estremizzata. Possiamo
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ricordare il contrasto tra il metropolita Filippo di Mosca e lo zar Ivan il Terribile, che si
risolse con il martirio del metropolita che si opponeva all’ideologia pseudo-religiosa dello
zar. Il metropolita è il campione della libertà, mentre lo zar impone la violenza per
difendere la tradizione religiosa, con uno stupefacente scambio di ruoli. Un altro episodio
è quello dello scisma della metà del Seicento: il campione dei raskol’niki, il protopop
Avvakum, difende la fede popolare russa di fronte al patriarca Nikon, che impone la
riforma liturgica per ristabilire la tradizione greca, la bellezza greca, usando anche la
violenza della dittatura e prevaricando perfino l’autorità statale dello zar. Avvakum
difende la tradizione popolare e ignorante dell’Ortodossia che si caratterizza con il segno
della croce fatto con le due dita, e diventa martire della libertà. Per certi aspetti, potremmo
ricordare anche lo stesso Pietro il Grande, un occidentalista estremo che impose un canone
di bellezza eccezionale: San Pietroburgo, da lui edificata, è senza dubbio la città più bella
della Russia, una bellezza imposta rigidamente dall’alto, considerata da subito estranea
allo spirito originario russo. Pietro avrà due teologi di stato, uno filo-cattolico (Stefan
Javorskij) e uno filo-protestante (Feofan Prokopovič), e si appoggerà su entrambi.
Possiamo dire che la religiosità di Pietro è filo-protestante? Non solo, è anche filo-cattolica,
è l’insieme dei due. Qualche decennio dopo Pietro, la zarina di origine tedesca, Caterina II,
libera la cultura russa e la fa risorgere, proteggendo allo stesso tempo la sopravvivenza
dell’ordine dei gesuiti e la rinascita religiosa della Russia ortodossa. Il “gendarme
d’Europa” Nicola I nell’Ottocento mette ordine dopo il periodo liberale di Alessandro I.
Dove possiamo collocare gli slavofili e gli occidentalisti, dalla parte della libertà o della
tradizione? Gli slavofili sono tradizionalisti, ma propongono la teoria della sobornost’
ecclesiastica come libertà da ogni forma di autorità, gli occidentalisti invece, campioni del
dissenso e precursori della rivoluzione, vogliono imporre alla Russia un sistema nazionale
e razionale. È difficilissimo dividere veramente gli slavofili dagli occidentalisti, le loro
posizioni spesso si sovrappongono e si confondono; difendere l’occidentalismo vuol dire
anche affermare la capacità della Russia di essere un paese occidentale, e viceversa. La
posizioni delle due tendenze mutano nell’Ottocento a seconda del decennio, del periodo.
Poi abbiamo Dostoevskij e Tolstoj, il primo è la creatività, il secondo la razionalità,
nell’Ottocento troviamo Serafino di Sarov, un santo molto carismatico, e all’inizio del
Novecento si staglia la figura di san Giovanni di Kronštadt, istitutore di una monarchia
ortodossa poi spazzata dalla rivoluzione. Potremmo dire che ogni aspetto della cultura
religiosa russa vada considerato insieme al suo contrario.
Questo aspetto della composizione dei contrasti è proprio il tema su cui si costruisce la
trama del film di Tarkovskij, Andrej Rublev, che abbiamo scelto come vademecum
dell’anima russa. Infatti Rublev, simbolo della rinascita della Russia, viene posto di fronte
alla sofferenza del popolo, al conflitto tra la cultura popolare e l’istituzione, non sa cosa
fare, e lì si trova a fronteggiare l’esplosione della violenza tartara. Nell’episodio Il
saccheggio il pittore viene anzitutto mostrato all’interno della cattedrale di Vladimir, dove il
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suo contratto prevede la composizione di un grande affresco del Giudizio Universale (che
ancora oggi è conservato). La Russia è da tempo sottomessa al giogo tartaro, e nelle
intenzioni di Rublev l’affresco deve indicare la Chiesa che deve rinascere, bianca e pura
come la parete da dipingere. Ma l’iconografo non riesce a dipingere, non riesce a mettere
nel Giudizio la violenza del giudizio stesso, a mettere insieme il giudizio con la
misericordia: ha un blocco creativo. Il principe preme, ma il lavoro non va avanti. Le
ragioni di Rublev sono incomprensibili, poiché la pittura era considerata semplicemente
come una copia; prima di Rublev l’icona era solo una riproduzione, non difficile da
realizzare per chi conosce la tecnica. L’apprendista di Rublev infatti si stanca di aspettare e
se ne va, a dipingere lo stesso affresco in un’altra chiesa, visto che ha imparato la tecnica:
ha la tradizione, ma non ha la bellezza. Nel film questo aspetto viene esaltato dal contrasto
con un altro giovane apprendista, il costruttore di campane, che non conosce la tecnica, ma
intuisce il segreto della bellezza. Che cosa veramente va messo su quel muro bianco? Serve
la bellezza che passa dalla sofferenza. Nella scena rumoreggiano dei bambini (un richiamo
del regista a Dostoevskij, il narratore dell’infanzia) con la loro innocenza, spontaneità e
gioia accolta da Rublev, ma non dagli altri. Ci sono gli operai marmisti, rappresentanti
della cultura popolare (sanno tirare fuori l’anima dalla pietra), che verranno poi trucidati.
Dopo questa strage Rublev rimane scioccato, i marmisti verranno uccisi dai tartari in
combutta col fratello del principe. Sulla pietra bianca viene schizzato il sangue, la
sofferenza, il dolore. Il capo tartaro si reca poi insieme al traditore a Vladimir, nella stessa
cattedrale della Dormizione, e dopo il dolore della strage c’è il momento della distruzione:
è l’anima russa che sta cercando di esprimersi, e viene schiacciata. La città viene messa a
ferro e fuoco, il tartaro a cavallo entra in chiesa e si prende gioco della fede cristiana. È il
luogo dove avviene veramente il giudizio universale, il tradimento, l’uccisione di un servo
per farsi dire dov’è l’oro, cioè la vera fede, la verità. La drammaticità della scena viene
sottolineata dalle musiche del compositore Ovčinnikov, un insieme di musica popolare e
liturgica. Viene mostrato il bacio del traditore al fratello principe, in una sovrapposizione
della violenza asiatica e della fede cristiana nella persona dei due fratelli. Lo stesso Rublev
si macchia di un grave peccato, che lo costringe al silenzio. La Russia diventa muta, come
appunto avviene nei periodi di stagnazione, accanto al pittore rimane solo una donna
folle, simbolo della santità russa, unica compagnia di Rublev muto. Si diffonde la carestia,
la Russia sta morendo. Ricompare il primo traditore, il monaco Kirill, che ora rientra nel
momento della tragedia come un vagabondo quasi morto e rincontra Rublev. In qualche
modo ritorna all’origine della sua angoscia, e comincia a cercare la via d’uscita.
Nell’ultima parte del film, Tarkovskij indica proprio la strada della rinascita.
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Dopo undici anni di silenzio, che rievocano la lunga “traversata del deserto” della
cultura russa, i destini di Andrej Rublev si incrociano, secondo la ricostruzione di
Tarkovskij, con l’eroe di una nuova giovane Russia. Si tratta di un ragazzo, figlio del più
famoso costruttore di campane russo, l’unico che conoscesse il vero segreto della fusione
delle campane. I messi del principe sono costretti ad accettare l’autocandidatura del
ragazzo, essendo il padre ormai morto. È questo il momento della rinascita: la Russia è
rimasta senza niente, e dal nulla emerge un eletto, un autocandidato (samozvanets), che
sarà una figura ricorrente nella storia russa. Il ragazzo, Boriska, sostiene di aver conosciuto
il segreto dalla bocca del padre, cioè di aver ricevuto la tradizione, e riuscirà a realizzare la
campana in modo miracoloso, ma alla fine si scoprirà che non conosceva affatto il segreto.
La campana è la ricostruzione della Russia: l’antica cultura popolare ormai sterile,
rappresentata dagli uomini esperti che affiancano il ragazzo, non riescono a venire a capo
della sua continua insoddisfazione. Egli continuerà a cercare finchè troverà la giusta
argilla per le campane, la vera terra russa, con incoscienza e imprevedibilità. Si riproduce
qui l’angoscia di Rublev di fronte al Giudizio Universale, si tirano all’infinito i lavori. È un
tratto tipicamente russo quello di non riuscire a far niente fino all’ultimo, poi di fare tutto
benissimo in un attimo: esprime il rifiuto di una tradizione ricevuta meccanicamente. Il
ragazzo è erede di una tradizione, ma il segreto ce l’ha dentro di sè, è una sua intuizione
originaria. È la fede ricevuta, ma è una cosa nuova. La trova con la sofferenza,
immergendosi nel fango, nella realtà, e in quel momento ritrova Rublev, muto senza
speranza, che si trova a passare accanto al luogo dove Boriska ha trovato l’argilla che
voleva. Da quel momento il pittore comincerà ad osservarlo da lontano, a osservare il
ragazzo che ha trovato l’anima russa. Il ragazzo dà tutto senza risparmiarsi, mostrando
una incredibile capacità di sacrificio. La fusione avviene nel grande fuoco purificatore
della campana da cui rinasce la Russia, è l’anima russa che finalmente si sprigiona ed
emana uno straordinario calore. Arriva il momento della benedizione, con i rappresentanti
della Chiesa e i principi. Il ragazzo incrocia il sacerdote benedicente: sembra il quadro di
Nesterov La Santa Russia, in cui un ragazzino saltella accanto ai preti, solennemente
avvolti nei loro paramenti bizantini. Si fondono i contrasti e rinasce la Russia: il risultato
sarà l’icona della Trinità.
Con Rublev dunque la Russia comincia a emergere dal giogo, cerca le coordinate per
una nuova sintesi. Il quadro è cambiato, Bisanzio è ormai decadente, vicina al crollo
dell’impero, con una forte identità monastica, con l’esicasmo del monte Athos ormai
temprato dopo le polemiche del XIV secolo tra il suo fondatore, San Gregorio Palamas, e i
teologi di tendenza tomista. Bisanzio si chiude nel recinto del Sacro Monte come in una
cittadella escatologica, fuori dal mondo e con disprezzo per il mondo, incapace ormai di
comunicare all’esterno. La Bisanzio dei Paleologi politicamente è debolissima, mentre
l’Occidente, che nel X sec era all’inizio del suo sviluppo, durante il periodo del giogo
tartaro in Russia aveva già prodotto una sua efficace sintesi: la riforma gregoriana, il
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secolo d’oro della teologia latina, i santi, il tomismo, il francescanesimo. Sono linee di
sviluppo che si proiettano per tutto il Medioevo fino all’epoca moderna, e anche questo
conterà per i suoi influssi sullo sviluppo della cultura russa; ma la sintesi iniziale del
Medioevo russo non sarà in grado di accogliere l’elaborazione teoretica e avrà come
elemento distintivo quello figurativo, l’icona. La Russia riparte dall’icona, che nel
Quattrocento assume in Russia delle caratteristiche proprie. Nel periodo premongolico,
infatti, l’icona è ancora bizantina, è copia di un modello estraneo, anche nelle sue varianti
più elaborate ed efficaci: troviamo copie dei modelli artistici bizantini anche
nell’architettura, soprattutto come imitazioni della cattedrale imperiale di Santa Sofia,
anzitutto a Kiev, ma anche a Novgorod. Sono imitazioni fedeli, ma dalle dimensioni
ampliate e moltiplicate (a Kiev troviamo una chiesa a cinque navate, anzi otto con le
colonne e i corridoi), che riproducono la maggiore complessità e grandiosità dello spazio
russo. Non c’è ancora un modello di icona russa; c’è l'architettura, l’affresco, il mosaico e
numerose icone riportate direttamente da Bisanzio. Il simbolo della iconografia russa
premongolica è la “Madonna della Tenerezza” (Umilenie) che sovrastava le Porte d’Oro
della città di Vladimir, un’icona importata dalla Grecia (secondo la leggenda, dipinta dallo
stesso S. Luca evangelista), mentre il simbolo dell’icona russa per antonomasia sarà la
Trinità di Rublev.
Abbiamo visto nel film di Tarkovskij la rielaborazione di questa problematica, secondo
cui Rublev coglie l’esigenza di questa sintesi: un episodio in particolare fa da premessa a
questa evoluzione, quando il regista immagina un dialogo tra il giovane Andrej e il suo
maestro Teofane il Greco, il grande iconografo che aveva trasmesso al geniale apprendista
i segreti della sacra arte pittorica. I due commentano il contesto di massacri e violenza che
li circonda, e Teofane esprime appunto tutto il suo pessimismo, il disprezzo per un mondo
incapace di accogliere la redenzione cristiana, e quindi condannato a perire. È lo spirito
crudele del Giudizio Universale rifiutato da Rublev, l’atteggiamento altero e sprezzante
dei monaci del monte Athos, la vecchia Grecia cinica di fronte alla nuova Russia che cerca
la misericordia di Dio. Come il giovane costruttore di campane, Rublev si trova a fare i
conti con una tradizione ormai sterile e inutilizzabile, che lo costringe a ricominciare tutto
daccapo. Egli si blocca per la violenza dei mongoli, che distruggono tutto proprio nella sua
chiesa, la sua reazione è scomposta, lui stesso si macchia con l'omicidio e si chiude nel
silenzio. Gli undici anni di silenzio rappresentano il periodo muto della cultura russa,
quando la Russia è oppressa e non può esprimersi. Il finale del film è la nascita della
nuova Russia, la costruzione della campana, il giovane che conosce il segreto, ma nessuno
può verificarlo, sapere se lui è davvero l’erede e conosce davvero la tradizione. Gli viene
affidato l’incarico in nome della tradizione, ma lui la tradizione non la conosce, se non in
termini molto generici. Cerca il segreto dentro di sé, nel suo cuore, ascolta la terra russa.
Rublev lo trova mentre si rotola sotto la pioggia, simbolo di una nuova e speciale grazia, e
su questa scommessa si costruisce la campana. Tutto il popolo si affolla intorno, arriva
l’establishment civile ed ecclesiastico, e la campana suona, il miracolo avviene. Rublev è lì
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accanto, e vede il ragazzo in lacrime. Il contorno è solo terra russa e fango. In quel
momento lui riprende a parlare, e il ragazzo gli confessa di non sapere il segreto. Chiama
il padre, portatore della tradizione, “maledetto spilorcio”. Rublev si rivolge al ragazzo con
le parole di Gesù nel Vangelo: “Non devi più piangere”, la Russia ha trovato il segreto
della gioia. Si mostra un cavallo che se ne va, la Russia si rimette in moto. Lui stesso
abbraccia il ragazzo imitando il gesto di Maria nell’icona di Vladimir, la vera tradizione
antica che rappresenta la misericordia di Dio. Si vede allora l'icona che nasce dal fuoco,
dalla terra. Il film passa dal bianco e nero al colore, per mostrare una straordinaria
sequenza di icone di Rublev.
L’icona russa è il colore, questa infatti è la differenza più evidente con l’icona greca: ha
un colore più forte, più vivo, viene dalla terra russa. È la fusione dei contrasti, una nuova
armonia. La sequenza mostra i dettagli, la corrispondenza dei soggetti rappresentati con
tutti gli elementi della terra (sottolineata di nuovo dalla musica “sintetica” di Ovčinnikov).
La Chiesa è l’albero, il cavallo è la forza della natura, la Russia selvaggia e pagana.
Secondo i critici d’arte, Rublev riesce a esprimere nel suo stile una particolare umanità
delle icone, le sue icone sono più umane pur senza perdere la sacralità e la solennità dei
canoni tradizionali, anzi quasi rafforzandoli. Nei personaggi delle icone si rivedono i
personaggi del film, che erano stati pensati apposta dal regista per riprodurli. Questo film
è praticamente l’unico esempio di sguardo cinematografico all’icona, partendo dai dettagli
e dalla composizione. Vi si trova l’armonia, l’umanità, la comunione muta ma intensa:
questa è la vera sobornost’, plasticamente rappresentata dalla mensa dei tre pellegrini di
Mamre, che sembrano invitare lo spettatore a sedersi a tavola con la Trinità divina. Anche
la musica drammatica diventa armonica. C’è la perfezione, ma c’è anche la drammaticità.
Non sarà neanche l’icona della Trinità, l’ultima parola di Tarkovskij: dopo una lunga
contemplazione del colore, l’acqua della pioggia si riversa sull’icona stessa, e appare il
volto del Salvatore, altra icona di Rublev conservatasi in forma felicemente danneggiata,
che sembra far emergere il volto di Cristo direttamente dal legno e dalla terra, a comporre
un tutt’uno con la terra russa bagnata dalla Grazia. Da questo momento Cristo crea con la
Russia una comunione totale: il film si chiude con un’ultima immagine di cavalli liberi
(senza il peso delle guardie armate) che si abbeverano al fiume, una specie di Trinità in
forma equina, a cui si aggiunge un quarto cavallo, simbolo della Russia, dell’umanità
redenta.
Esistono infatti due tesi contrapposte per descrivere questo passaggio nella sintesi
religiosa del cristianesimo russo. La prima tesi afferma che si tratta di un tradimento della
tradizione bizantina, l’altra che rappresenta invece la sua piena realizzazione. La prima è
la tesi del protoierej Georgij Florovskij, un teologo esiliato dai comunisti, che all’inizio del
XX secolo ha scritto un libro tradotto anche in italiano, Vie della teologia russa30. È una storia
della teologia quasi romanzata, molto ben scritta, ed è un po’ l’unico manuale di storia
della teologia russa, in cui sostanzialmente si vuole dimostrare la tesi della
“pseudomorfosi”31, cioè un fenomeno per cui il cristianesimo bizantino in Russia si
trasforma in qualcosa d’altro, che è in fondo un tradimento della vera teologia bizantina.
Questo sarebbe avvenuto per due ragioni: anzitutto per il distacco creato dal periodo
mongolo, che ha impedito alla Russia di rimanere collegata alla propria fonte, per cui una
volta ha ripreso il cammino storico, avrebbe reinventato il bizantinismo in modo
completamente diverso, che è quello che abbiamo osservato in Rublev. In secondo luogo,
ciò che avrebbe aggravato la situazione sarebbe stato l’influsso occidentale, che avrebbe
inquinato totalmente la teologia russa. Per cui, propone Florovskij, bisogna ritornare alle
fonti, cioè alla letteratura patristica. La sua linea viene chiamata infatti “neopatristica”, a
partire dalle teorie che egli espose al congresso di teologia ortodossa di Atene nel 1936.
Tornare alle fonti per affermare che la vera teologia, anche quella russa, sarebbe solo
quella che viene dai padri, cosa in realtà difficile da inquadrare nella storia culturale russa,
perché oltre a quello che i russi ricevettero all’inizio della loro evangelizzazione, in seguito
non ebbero mai grande accesso alle fonti patristiche, se non nel periodo moderno. Mentre
nel Quattrocento, quando si forma decisamente l’anima russa, non c’è più un rapporto con
la patristica, non è sicuramente quello l’elemento decisivo. Oggi la neopatristica in Russia
viene ulteriormente rilanciata da chi della patristica riprende soprattutto la linea
monastica e contemplativa, per cui oggi la teologia russa riparte dal “neoesicasmo”, cioè
30 FLOROVSKIJ Prot. Georgij, Puti russkago bogoslovija, Paris 1937; ed. it, Vie della teologia russa, Torino (Marietti)
1973.
31 Vedi: WENDEBOURG Dorothea, „«Pseudomorphosis» — ein theologisches Urteil als Axiom der Kirchen-
Questa seconda linea più di recente va attribuita a Sergej Averintsev, in modo più
specifico rispetto agli stessi filosofi religiosi degli anni Trenta33. Averintsev divenne il faro
della nuova cultura russa proprio negli anni di Tarkovskij, nei Sessanta e Settanta.
Secondo Averintsev, la Russia presenterebbe un bizantinismo più vero, più
“compassionevole”. Egli cerca di dimostrare sotto vari aspetti come la variante russa sia
più amorosa, più capace di misericordia. Averintsev era un filologo, e mostra questo
aspetto, ad esempio, nel modo russo di pronunciare il nome di Gesù, Iisus, che secondo lui
sarebbe più dolce che non lo Iesus greco. La Santa Russia per lui è il vero concetto
complessivo, perché corrisponderebbe nel modo con cui è concepita alla christianitas latina,
cioè a un universo cristiano, un mondo che tiene dentro tutto, una cosa che la Russia ha sì
ereditato da Bisanzio, ma che avrebbe poi riprodotto nella sua esperienza laddove
Bisanzio non ha potuto portarla a termine, perché Bisanzio nel Medioevo si è disciolta.
Quindi la Santa Russia per Averintsev non è un concetto etnico, ma una categoria religiosa
universale, teologica. Averintsev è un bizantinista raffinato, e svolge puntualmente questo
parallelo, dandogli una dignità che altri fanno solo a spanne. Negli anni in cui Tarkovskij
era bloccato dalla censura, Averintsev teneva seminari all’università di Mosca, ai quali la
gente arrivava la sera prima per prendere posto; gli concedevano infatti solo delle piccole
aule, mentre accorrevano migliaia di persone. Lui arrivava con una pila di libri in mano,
calpestando la gente assiepata, e per sei-sette ore di fila parlava seduto su un angolo della
cattedra. Questi seminari erano tollerati per il loro alto livello scientifico, e per la scelta di
parlare dell’antichità (come prima di lui faceva Vladimir Losev), mentre spiegava tutto, la
storia, la teologia, il Vangelo. Tutta la cultura religiosa russa odierna proviene da
personaggi come Averintsev: uno simile a lui era il padre Aleksandr Men’, un sacerdote e
predicatore, che non era un professore, ma un carismatico divulgatore e viveva confinato
nella sua chiesa di campagna tra Mosca e Zagorsk. Padre Men’ venne ucciso nel 1990,
subito dopo la caduta del muro di Berlino. Anch’egli teneva conferenze del genere dei
seminari di Averintsev, con folle oceaniche, soprattutto negli ultimi anni.
32 Vedi: KHORUŽIJ Sergej, Posle pereryva: puti russkoj filosofii, Sankt-Petrburg 1994; Filosofija i askeza, New York
1999; O starom i novom, Sankt-Peterburg 2000; Opyty iz russkoj dukhovnoj traditsii, Moskva 2005.
33 Vedi in proposito AVERINTSEV Sergej, Poetika rannevizantiiskoj literatury, Moskva 1977; ed. it. L’anima e lo
34 AVERINTSEV Sergej, “Vizantija i Rus’: dva tipa dukhovnosti”, Novyj Mir 7, 9 (1988) p. 320.
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la zona dei komi e dei russi settentrionali. È una evangelizzazione per certi aspetti analoga
a quella dei monaci benedettini dell'Europa centro-settentrionale, a partire dal VI-VII
secolo. È lì che la Chiesa russa attraverso il monachesimo riesce a diventare l’elemento
fondamentale della struttura statale. Inizialmente i metropoliti di Kiev erano poco più che
un’appendice religiosa del gran principe, in un arcipelago di principati slegati tra loro, che
per questo divennero facile preda dei mongoli. La Rus’ di Kiev non aveva una statualità
definita, infatti una delle tesi degli storici è che i mongoli abbiano dato una struttura
all’amministrazione. Ma la struttura intesa come idea dello stato, del popolo, della Santa
Russia (direbbe Averintsev), verrà dato dai monaci. Non si sa in quale monastero Rublev
si fece monaco, ma è probabile che fosse uno dei primissimi discepoli di Sergij, e poi finirà
al monastero della SS. Trinità, chiamata poi per esteso la “Lavra di San Sergij della
Santissima Trinità”, nel paese di Sergievo (Zagorsk dal tempo sovietico), situato a settanta
km a nord di Mosca, dove è custodito il corpo di San Sergij, meta principale di
pellegrinaggio in Russia. Lì si va per unirsi fisicamente all’anima russa, inchinandosi a
baciare la teca che conserva le reliquie di San Sergij. Perfino nel periodo sovietico quello
era il luogo dell’identità ortodossa russa, la residenza del Patriarca, il “Vaticano russo”,
molto più anche del Cremlino o di altre chiese. L’affresco sul portale rappresenta proprio
l’icona della Trinità, lì infatti era situata l’icona originale di Rublev, che ora sta a Mosca,
nel museo della Galleria Tretjakov. San Sergij oltre a evangelizzare aveva anche ispirato la
prima vittoria sui mongoli, la battaglia di Kulikovo nel 1380, guidata dal principe di
Mosca Dmitrij Donskoj, (“del Don”, presso il quale aveva ottenuto le prime vittorie)
benedetto da Sergij a fare la battaglia, e non solo in senso spirituale: Sergij gli aveva messo
a fianco alcuni monaci guerrieri, in una specie di crociata russa, con analogie russe dei
Cavalieri Templari. Dmitrij viene riprodotto spesso nelle raffigurazioni con i monaci a
fianco, un’immagine ripresa poi da Ivan nella sua opričnina. Questo è l’inizio
dell’autocoscienza nazionale russa vera e propria; Kiev è la preistoria, con un’aura
leggendaria, mentre la Santa Russia che viene da Kiev si afferma nella vittoria contro i
tartari, che verrà completata solo un secolo dopo. Il khan Mamaj venne sconfitto a
Kulikovo, ma il suo successore venti anni dopo raderà al suolo Mosca. Nella memoria
russa, peraltro, Kulikovo è la prima vera vittoria.
Oltre alla rinascita monastica, che è un elemento di religiosità militante, sia in senso
missionario, sia di guerra con il nemico della fede e della Russia, abbiamo anche la lotta
con le eresie vere e proprie, le prime eresie russe, sempre nella seconda metà del XIV -
inizio XV secolo. Troviamo in quel periodo infatti alcune eresie che adesso sono un po’
difficili da ricostruire, quelle dei “giudaizzanti” (židovstvujuščye) e dei “tonsurati”
(strigol’niki) che si diffusero nei paesi di Pskov e Novgorod, rimasti più liberi e un po’ più
occidentali. Entrambi i movimenti vengono accusati di vicinanza alla religione ebraica, in
senso particolarmente negativo e offensivo. In realtà non c’entrano quasi nulla con
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l’ebraismo, come dimostrato dagli studi dello slavista Cesare De Michelis35: i
židovstvujuščye sarebbero dei “valdesi russi”, rappresentano l’arrivo in Russia della prima
ondata di riforma medievale, quel movimento riformatore che parte da Pietro Valdo e
dagli “umiliati” e si incontra nel centro Europa con i movimenti di Jan Hus, sono una
specie di valdesi-hussiti in salsa russa. Usano infatti la stessa terminologia dei valdesi,
secondo l’analisi di De Michelis. Ancor di più gli strigol’niki, quelli “tonsurati” alla
maniera latina (i monaci bizantini infatti portano capelli e barba incolti), anche loro un
movimento riformatore a cui si associano addirittura i bogomili, che in occidente avevano
prodotto il fenomeno del catarismo. Sono tutti movimenti che aspirano a una Chiesa pura,
senza gerarchia, senza oppressione, evangelica. Per questo vennero chiamati in senso
spregiativo “giudaizzanti”, per la loro insistenza sulla Bibbia, sulla Scrittura. Vi sono
effettivamente anche influssi giudaici, come la filosofia di Mosè Maimonide, filosofia
ebraica del centro Europa. Non secondario è l’elemento del pauperismo, la ricerca della
povertà evangelica.
Un aspetto interessante di tutto questo movimento riformatore è che se la prendeva
anche con le icone, esprimendo una specie di iconoclastia, anticipando i luterani
“aniconici”, e in particolare criticavano l’icona della Trinità, che secondo loro era un vero
tradimento della Bibbia, rifiutando l’applicazione teologica dell’episodio di Mamre. Si
tratta in realtà di sviluppi secondari della storia culturale russa, che peraltro costrinse i
russi a dare risposte teologiche vere e proprie alle critiche formulate, cominciando a
organizzare sinodi e concili. Dagli inizi del Quattrocento fino alla metà del Cinquecento si
tennero una serie di Sinodi russi, fino al 1552 con il Concilio moscovita detto dei Cento
Capitoli (Stoglav), che per la Russia è importante come il Concilio di Trento per la Chiesa
Cattolica. Si ha anche in questa circostanza una ripresa della teologia patristica, ma non la
patristica vera e propria, piuttosto di alcuni argomenti della teologia dogmatica, mutuati
dai padri per rispondere agli eretici.
A questo primo momento di disorientamento, dovuto al diffondersi delle prime eresie,
seguirà la grande polemica teologica-spirituale tra S. Nil Sorskij e S. Iosif Volotskij, in cui
queste stesse istanze verranno riprese in modo analogo al modo con cui in occidente le
teorie dei valdesi e dei catari verranno poi salvate e corrette da San Francesco. Il Francesco
russo è Nil Sorskij, rappresentante dei poveri “non-possidenti” contro gli iosifliani
istituzionali e “proprietari”. Qui la contesa è proprio sulla povertà. Nil Sorskij è contro le
proprietà monastiche, Josif Volotskij sostiene che le proprietà dei monasteri garantiscano
l’unità del popolo e dello stato (come già ricordato, i monasteri possedevano i due terzi
delle terre russe). È anche una discussione di contenuto prettamente religioso: Nil è l’erede
dell’esicasmo, esponente della linea spiritualista, creativa, mentre Iosif è proprio l’ideologo
35 Vedi: DE MICHELIS Cesare, La Valdesia di Novgorod. “Giudaizzanti” e prima riforma, secolo XV, ed. Claudiana,
Torino 1993.
74
del monachesimo di Sergij di Radonež, del monachesimo “che costruisce lo stato”
(gosustanavitel’nij, termine molto amato dall’attuale patriarca di Mosca Kirill).
In questo contesto di rinascita monastica e rinascita spirituale, di lotta con gli eretici e
quindi di rafforzamento dell’identità teologica ed ecclesiastica, di affermazione del
rapporto costitutivo tra la Chiesa e lo stato nel dibattito interno, quindi di una forte
coscienza ortodossa russa che ha al suo interno anche un’anima ribelle, in parte eretica e in
larga parte monastica che fa da contraltare, qui nasce l’idea che Mosca sia la “Terza
Roma”. Tutti questi elementi si condensano infatti dalla fine del XIV alla metà del XV
secolo, e accompagnano la dissoluzione dell’impero bizantino. Nel 1453 Costantinopoli
crolla; prima, nel 1439, c’era stato il Concilio di Firenze, il Concilio unionistico, a cui
avevano partecipato anche due vescovi russi. Il loro destino è sintomatico: erano un
vescovo greco, Isidoro di Kiev, e uno russo, Avraamij di Mosca. Tornando da Firenze i
greci accettano l’Unione, tutti tranne il metropolita di Efeso, Marco Eugenico, ma si
trovano di fronte alle armate ottomane, che impediscono all’Unione di affermarsi, insieme
alla propaganda contraria organizzata dallo stesso Marco di Efeso. In Russia il metropolita
Isidoro è un sostenitore entusiasta dell’Unione, mentre Avraamij si sottomette alla ragion
di stato: aveva firmato l’Unione, ma viene bloccato dal Gran Principe, che gli farà cambiare
opinione. Isidoro viene invece imprigionato e poi espulso, rimandato in Occidente, dove
andrà a vivere al monastero cattolico greco di Grottaferrata, alle porte di Roma, e
diventerà cardinale assieme a un altro vescovo ortodosso unionista, Bessarione di Nicea.
Isidoro si dedicherà quindi alla propaganda dell’unione nei territori della Russia
occidentale, cioè dell’Ucraina, dove nel 1596 l’Unione di Firenze verrà infine accettata a
Brest dalla “metropolia di Kiev-Halyč e di tutta la Rus’”. In realtà anche i cattolici latini
polacchi erano contro l’Unione, per non far entrare gli ortodossi ucraini nel Senato
polacco. L’Unione ebbe quindi contro sia i russi che i polacchi. Abbiamo allora la linea
unionistica da una parte, mentre a Mosca si affermerà la linea della autocefalia russa,
anche per il fatto che il patriarca di Costantinopoli, che avrebbe dovuto nominare i
metropoliti di Kiev, sarà sempre meno presente, impedito dalla invasione ottomana. I
russi si prendono da soli l’autocefalia, che poi si trasformerà in piena indipendenza. Dal
1453 poi Costantinopoli cade, e in Russia questo viene preso come un segnale che è
scoccato il momento storico per la realizzazione del suo destino storico. Infatti la
cosiddetta dottrina di “Mosca-Terza Roma” comincia a diffondersi alla fine del
Quattrocento, e verrà espressa in modo esplicito dall’igumeno Filofej di Pskov in una
lettera al diacono Munekhin, segretario della corte di Mosca, verso la fine del XV secolo
(+1542). Lettera che farà il giro di tutta la Russia, dando voce all’impressione diffusa
soprattutto nella comunità monastica che “la prima Roma è caduta, la seconda pure e una
quarta non ci sarà”. La terza sarebbe quella definitiva. Questa espressione di Mosca-Terza
Roma pare essere la base ideologica del nazionalismo russo; in realtà Averintsev dimostra
che è lì che si forma definitivamente la christianitas russa. Secondo Averintsev, infatti,
75
l’idea della “terza realtà” era un ideale globale e antico, precedente al cristianesimo stesso;
già Roma sarebbe stata la “terza Troia”. Secondo il racconto dell’Iliade poi ripreso da
Virgilio, Enea sarebbe scappato da Troia con la spada di Ettore, con la quale avrebbe
fondato prima il regno di Alba Julia, e poi la stessa Roma. Oppure si può applicare il
concetto al destino di Costantinopoli, sostituendo Alba Julia, per cui la “terza Troia”
sarebbe proprio la nuova capitale di Costantino. Troia era il regno che univa Asia e
Europa, la Grecia con i territori asiatici. Troia è l’impero che unisce i mondi, Roma era
l’impero che unisce i mondi. C’è anche la versione che inserisce Alessandria d’Egitto e
l’ideale “ecumenico” dell’impero macedone.
Risalendo dalle versioni antiche, la linea di Roma-Costantinopoli-Mosca esprime di
nuovo l’ideale dell’impero che unisce i mondi; nel Cinquecento Mosca è rimasto l’unico
impero cristiano bicontinentale libero da oppressioni. Nel 1453, tra l’altro, la Chiesa di
Roma è in piena crisi conciliarista: Firenze veniva dopo una lunga serie di
contrapposizioni tra papi e antipapi, in un momento di divisione dell’Europa, e infatti
cinquanta anni avverrà lo scisma di Lutero. Inoltre Roma è considerata eretica,
Costantinopoli è caduta, e tutti gli ortodossi sotto gli ottomani faranno l’amministrazione
dei romani. Quindi l’idea di Mosca-Terza Roma è molto più profonda e ampia di un
semplice ideale di orgoglio nazionale. Tra l’altro, anche nella stessa Russia questa idea non
era nata a Mosca, ma prima ancora a Novgorod, dove si era diffusa la strana storia del
klobuk bianco, la tiara bianca, una leggenda secondo cui il papa Silvestro (rappresentato nel
ciclo del frygium bianco nella chiesa romana dei Santi Quattro Coronati al Celio) avrebbe
ricevuto la tiara dall’imperatore Costantino guarito dalla lebbra, come segno del potere
concesso dall’imperatore alla Chiesa. Questa tiara sarebbe stata rifiutata dal papa a causa
dei propri peccati, donata agli ortodossi e arrivata fino a Novgorod, che sarebbe la vera
erede di Roma, di Costantino e del Papa. È una leggenda minore, che fa da premessa alla
teoria di Mosca-Terza Roma.
L’ultimo elemento, quello decisivo che fa da chiusura di questa fase dopo la lettera di
Filofej, si esprime nel regno di Ivan IV il Terribile. In esso l’autorità dello zar viene messa a
servizio della messianicità della Russia, un elemento originario della cultura religiosa
russa fin dal Discorso di Ilarion, che viene ripreso come “grazia speciale” della Russia nella
sua veste di Terza Roma, come popolo che salverà il mondo. È un tema che rimarrà
sempre nella coscienza russa, verrà ripreso anche da Vladimir Solov’ev nella sua Leggenda
dell’Anticristo. Ivan il Terribile è il sovrano che organizza lo stato forte e il concilio Stoglav
del 1552, ma soprattutto che si proclama Cesare, tsar, e pone le premesse per la
proclamazione del patriarcato, sottomettendo il metropolita di Mosca Filipp che si
contrapponeva al suo arbitrio. Soprattutto Ivan è colui che vince i tartari, conquistando
Kazan e Astrakhan. La Russia si rifarà delle umiliazioni del giogo tartaro andando alla
conquista dell’oriente, in cui si esprime la capacità russa di conquistare il mondo, di avere
dimensioni mondiali. Vi sono analogie moderne con la conquista della frontiera
76
statunitense. Nel quadro ottocentesco di Surikov, Ermak conquista la Siberia, i nativi
siberiani sono rappresentati come gli indiani d’America: i russi hanno i fucili, i siberiani
frecce e cerbottane, in una specie di “far west” russo, soltanto rivolto a oriente. Noi italiani
siamo cresciuti, come tutti gli occidentali, col mito del Far West, e in qualche modo
dobbiamo constatare che in realtà il western era già stato inventato dai russi; oggi è il
substrato ideologico con cui l’America e l’Occidente si sente in diritto di esportare il
proprio modello nel mondo, ma questa stessa mentalità era molto viva nei russi, che si
assumevano il compito di civilizzare l’Asia.
I russi si appropriarono delle divinità siberiane, trasformandole in eroi russi, i bogatiry,
soggetto di un altro quadro famoso di Vaznetsov, che rappresenta tre cavalieri russi
riportati all’epoca originaria (non si sa bene quale). Il loro capo è Il’ja Muromets, eroe
leggendario della preistoria che esprime la potenza russa, fieri sui loro poderosi cavalli
siberiani, forze della natura selvaggia dominata dai russi. Anche questa immagine è una
trinità, alla fine. Sono espressioni dell’autocoscienza russa, un tema molto sviluppato
nell’arte. Il cavallo selvaggio è sottomesso con la frusta, ma ha una espressione serena: è la
Russia che domina il mondo. Vrubel’ riproduce lo stesso soggetto, ma lo espande ancora
di più, mostrando un esempio di potere onnicomprensivo, di pienezza che occupa l’intero
spazio. Il tema della forza e della santità è anche il tema del film Zar del regista Pavel
Lungin (2010), un film storico su Ivan il Terribile che ha ottenuto grande successo in
Russia. Vi si rappresenta proprio l’idea della “santa violenza” costitutiva dello stato russo.
77
Capitolo 4. La Russia e l’Europa: nuove dimensioni dello spirito.
Anche grazie a Tarkovskij abbiamo dunque individuato l’immagine della Trinità come
espressione sintetica della religiosità russa. La Trinità è davvero un tema ricorrente fin
dalle origini della cultura, dell’arte e della fede russa. Tutti i film di Tarkovskij, in qualche
modo, sono film trinitari. Anche in Stalker c’è una terna, un trio di pellegrini analogo ai tre
monaci che aprono il Rublev, che si reca nella “zona” proibita (evocazione della “zona” dei
lager), di fatto alla ricerca di se stessi, una ricerca interiore, una forma di pellegrinaggio
trinitario. Un autore a cui abbiamo già accennato, Pavel Florenskij, grande filosofo e
teologo russo, considera la dimensione trinitaria l’unica vera dimensione in cui si può
esprimere la vita spirituale del cristiano e la vita ecclesiale, elemento centrale del suo
36 Per le riflessioni di questo paragrafo sono particolarmente grato alla professoressa di filosofia Kira
Preobraženskaja, dell’Istituto Pedagogico di San Pietroburgo, che le ha volute condividere in un incontro con
gli studenti al Pontificio Istituto Orientale di Roma nell’aprile 2010.
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pensiero37. Che cosa ha di speciale, oltre alla evidente importanza dogmatica, la
prospettiva trinitaria nel contesto della cultura russa? In un certo senso la trinitarietà
esprime proprio quella originalità della cultura religiosa russa, che abbiamo visto
emergere in modo spesso paradossale e contraddittorio. Perché in qualche modo la Russia
si presenta sempre come un “terzo elemento”, un elemento in più nella dimensione
spirituale, nella storia religiosa. Se pensiamo appunto alle categorie di oriente e occidente,
abbiamo visto che la Russia non può essere definita totalmente oriente, e non può essere
esclusa dal concetto di occidente; è quindi un terzo elemento, che non è una sintesi
hegeliana, non è solo la somma di oriente e occidente, ma è un qualcosa che aiuta a capire
meglio sia l’oriente che l’occidente. Potremmo parlare anche di paganesimo e
cristianesimo, che è una dicotomia presente in tutta la storia del cristianesimo, che ha
inglobato il paganesimo antico, lo ha rimodellato, ne ha usato tante categorie. Anche la
Russia lo ha fatto, ma in qualche modo ha mantenuto questa compresenza, questa doppia
anima. In essa vi è anche dicotomia tra cattolicesimo e protestantesimo, o tra cattolicesimo
e ortodossia, in entrambi i casi la Russia si propone come terzo elemento. Perché la Russia
è un paese ortodosso, ma che ha anche assimilato molti valori del cattolicesimo latino, e
nella sua storia ha mischiato un po’ anche le forme di cattolicesimo e protestantesimo;
tutta la organizzazione ecclesiastica data da Pietro il Grande è un’organizzazione di tipo
protestante, una Chiesa sottomessa allo stato alla maniera protestante più che ortodossa,
ma la dottrina che veniva insegnata era principalmente quella scolastica latina, con dei
correttivi ortodossi.
Anche a livello tematico, il cristianesimo russo nasce dal confronto tra la bellezza e la
sofferenza, cioè tra un elemento di totale positività e un elemento di totale negatività.
Possiamo citare un passaggio da uno dei principale romanzo russi e della letteratura
mondiale, i Fratelli Karamazov di Dostoevskij, che guarda caso è un romanzo trinitario, tre
fratelli, tre tipi umani e religiosi che si combinano e si sovrappongono in continuazione,
mischiando elementi positivi e negativi. Nella presentazione dei personaggi, che occupa
la prima parte del romanzo, Dostoevskij inserisce subito un accenno alla storia religiosa
russa, perché il terzo fratello, Aleša, è novizio in un monastero e discepolo del famoso
starets Zosima, e presentando la sua vicenda lo scrittore parla proprio del monachesimo
degli startsy, uno degli argomenti portanti del romanzo. Afferma Dostoevskij che gli
startsy, e l’istituzione dello starčestvo, “comparvero da noi solo in epoca recente, neanche
un secolo fa, mentre in tutto l’oriente ortodosso, specialmente sul Sinai e sull’Athos
esistevano da più di mille anni. È una tradizione antica, da noi apparsa di recente. Anche
da noi in Russia lo starčestvo esisteva, o doveva essere esistito nei tempi più remoti, ma in
seguito ai tartari, ai torbidi e all’interruzione dopo la caduta di Costantinopoli questa
istituzione finì nell’oblio e gli startsy scomparvero”. È proprio l’elemento che rende la
37 In proposito vedi: ŽA’K L’ubomir, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Roma 1988.
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Russia così “altra” rispetto agli altri paese, questo continuo cadere e risorgere. Anche il
periodo dei “torbidi” agli inizi del Seicento fu di nuovo una frattura, una interruzione,
come avvenuto nel XX secolo con l’Unione Sovietica, e ogni volta la religiosità russa
risorge in modo nuovo. “Questa tradizione – continua Dostoevskij - è stata resuscitata nel
nostro paese alla fine del secolo scorso, dal grande asceta Paisij Veličkovskij e dai monaci
di Optina Pustyn”, e racconta di questa rinascita di fine Settecento - inizio Ottocento. Ma
lo starčestvo in Russia prende un significato molto più estremo che nel resto del mondo
ortodosso, secondo la spiegazione di Dostoevskij: “che cosa è dunque uno starets? È colui
che prende la vostra anima, la vostra volontà e la assorbe nella sua anima e nella sua
volontà”. In questa forma non lo si trova neanche all’Athos, è una interpretazione russa, e
commenta ancora: “lo starčestvo non è teorico, ma si fonda su una pratica che in oriente è
ormai millenaria”, una tradizione antica ripresentata in modo mai visto. Raccontando
dello starets Zosima, per spiegare la sua autorevolezza l’autore fa l’esempio di un monaco
del monte Athos, a cui lo starets aveva ordinato di andarsene, mentre lui non voleva
lasciare il monastero ed è andato fin dal patriarca di Costantinopoli per ottenere la
correzione dell’ordine dello starets. Ma il patriarca afferma di non poterlo fare, e che “non
c’era sulla terra né ci poteva un’autorità capace di scioglierlo dall’obbligo impostogli dallo
starets, se non quella dello stesso starets che glielo aveva imposto”. L’autorità dello starets è
quindi superiore a quella del patriarca, della massima istituzione ecclesiastica: così è inteso
solo dai russi. C’è un po’ questa tendenza in generale nel monachesimo athonita, ma qui è
sviluppata al massimo. Insomma, esiste un cristianesimo orientale, un cristianesimo
occidentale, e c’è un cristianesimo russo, o almeno appare legittima la sua supposizione.
Nello schema trinitario che abbiamo immaginato, il terzo elemento, cioè la Russia,
andrebbe messo in cima, e non in fondo. I russi stessi infatti conoscono bene l’oriente e
l’occidente, ma non riescono a capire che cosa sia la Russia, la Santa Russia che in realtà
non appartiene alla città terrestre, ma di sicuro alla città celeste, e da qui nascono tutti i
problemi. Per natura ogni russo è mistico, non importante che sia cristiano o ateo;
probabilmente in Russia non sono mai esistiti atei, nemmeno nel periodo sovietico
dell’ateismo militante, che era a sua volta una ideologia misticheggiante. Questa
particolare condizione della Santa Russia si riscontra anche nel carattere particolare della
filosofia russa, che di solito si ritiene cominci dal XIX secolo, con il dibattito tra slavofili e
occidentalisti. Non c’è niente di realmente contrapposto tra i due movimenti. C’è una
citazione di Aleksej Khomjakov, leader degli slavofili, che esaurisce la discussione: “in
Russia non è possibile vivere, noi non conosciamo la Russia”. Gogol’ scrive a sua volta:
“non è grande la conoscenza della Russia tra i russi”. La differenza è solo nella direzione a
cui tendono i due movimenti: gli slavofili vogliono scoprire la Russia, gli occidentalisti la
vogliono riunire al mondo occidentale, ma il dibattito non ha fondamenta reali. Nel
passato della Russia era veramente difficile trovare le tracce della Santa Russia, e ancora
più difficile nel XIX secolo; gli slavofili in questo senso sono dei metafisici, eredi
80
dell’ideologia di Mosca-Terza Roma. La Terza Roma in realtà ancora non si è realizzata;
nonostante questa idea sia il fondamento della statualità russa, proprio essa è l’aspetto più
debole dell’organizzazione dello stato russo. In essa si richiede che lo stato abbia un alto
profilo spirituale, per governare sia la città celeste che la città terrestre, e nessun
governante russo si è mai avvicinato a questo ideale. L’ira dei raskol’niki si rivolge
soprattutto verso Pietro, piuttosto che contro il patriarca Nikon e la sua riforma liturgica. È
Pietro che ha rovinato con le sue azioni l’idea di Mosca-Terza Roma. È interessante notare
che i monarchici russi del XX secolo dopo il comunismo, nella discussione sulla strada da
prendere per ricostruire il paese, affermino che l’ultimo zar Nicola II fosse il più vicino allo
schema di Mosca-Terza Roma, sebbene dal punto di vista della comprensione generale
della storia russa, Nicola II risulti essere di gran lunga la figura più debole. L’idea di
Mosca-Terza Roma è la più metafisica o contemplativa delle definizioni della Russia, come
l’idea della Santa Russa in sé.
E dove mettere poi la capitale settentrionale, San Pietroburgo? I pietroburghesi amano
dire che la città sulla Neva, con i suoi spazi e i suoi edifici, è la mappa metafisica di tre
Rome: la cattedrale della Madonna di Kazan’ è un’imitazione di San Pietro a Roma, la
chiesa Spas na krovi fa il verso alla cattedrale di San Basilio a Mosca, l’isola Vassilevskij
ricorda il promontorio di Santa Sofia a Costantinopoli. San Pietroburgo non ha un posto
comprensibile nello schema russo, si trova in una nebbia metafisica. Gli scrittori russi
trattano spesso questo tema, Dostoevskij, Gogol’, Puškin: nessuno di loro dà un’immagine
positiva di San Pietroburgo. È una città che ti trascina nel fango, nella nebbia, nella palude.
È una città famosa perché i posti più belli sono quelli in cui ti perdi, e questo per gli
abitanti del posto è motivo di orgoglio. Con la sua natura metafisica San Pietroburgo
mostra, con la sua a-topia, l’impossibilità di unire oriente e occidente.
81
in un articolo del 1916 sostiene che tutta la filosofia di Solov’ev non ha un grande valore,
mentre la cosa importante sono le sue poesie.
Per tornare alle fonti della filosofia russa, guardiamo il carattere particolare della
mentalità russa: spesso si dice che alla cultura russa manca l’aspetto gnoseologico, la
conoscenza del mondo e della realtà spesso si presenta in essa come una questione morale,
più che un processo di conoscenza dei fenomeni. Qui troviamo in realtà una traccia
dell’impostazione classica della mistica dei filosofi neoplatonici, non estranea alla mistica
della via contemplativa occidentale: prendendo spunto dall’immagine dell’ascesa di Mosè
al monte Sinai, secondo la trattazione di Dionigi l’Areopagita, vediamo che “non senza
ragione il divino Mosè riceve innanzitutto l’ordine di purificarsi e poi quello di separarsi
da coloro che non sono puri; dopo essersi del tutto purificato, sente il molteplice suono
delle trombe, e vede molte luci, irradianti raggi puri e diffusi; quindi si separa dalla
moltitudine, ed assieme ai sacerdoti scelti procede verso la sommità della divina ascesa.
Ma anche a questo punto non si trova assieme a Dio: ciò che contempla, non è Lui (Egli è
incontemplabile), ma il luogo in cui si trova”38. Prima di acquisire l’esperienza di
comunione col divino, l’uomo si deve distanziare da ciò che è terreno. È interessante che
nella mistica monoteista, in cui Dio è visto come una persona, c’è l’idea che nella
profondità dell’anima dell’uomo vi sia uno spazio nascosto in cui l’uomo si incontra con
Dio. Agostino, Riccardo di San Vittore, Meister Eckhart riprendono questo tema, usando
termini come habitus mentis, habitus animae. Se la mistica occidentale si orienta
principalmente sull’intelletto, la tradizione orientale preferisce parlare di discesa
dell’intelletto nel cuore: dal cuore escono i pensieri, le intenzioni. Il cuore è il centro
dell’essere dell’uomo. Qui giungiamo alla particolarità della via orientale, esaltata nella
cultura russa: la conoscenza di Dio, la vera conoscenza, si raggiunge con un atto morale
all’interno della stessa vita spirituale dell’uomo. Lo slavofilo Ivan Kireevskij parla di
questo processo come della “raccolta delle forze dello spirito”39. Qui abbiamo di nuovo
una dimostrazione che la filosofia russa non può essere compresa in modo letterale, è
necessario premettere il contesto metafisico. Spesso questa frase di Kireevskij viene intesa
nel senso di un governo dello spirito sull’intelletto, suscitando la protesta dei filosofi,
mentre Kireevskij sta parlando d’altro: usa la parola russa pokajanie (pentimento), che è
affine al greco metanoia, e indica il cambiamento dell’intelletto, proprio ciò a cui si appella
Kireevskij. L’uomo che attraverso al penitenza si è avvicinato a Dio ha cambiato il proprio
modo di pensare, le potenzialità della propria riflessione. Ricordiamo un soggetto della
Genesi, quando Dio conduce all’uomo le bestie e i volatili, e l’uomo dà a loro il nome.
Questo significa che Adamo aveva una perfezione tale da conoscere perfettamente le
realtà che Dio gli metteva davanti. Richiamando alla conversione, Kireevskij auspica
proprio la ricostituzione di questa conoscenza. È un punto importante della dottrina sulla
Il tema della Chiesa e della sobornost’ in effetti è centrale nei pensatori russi. Si tratta di
una concezione che ha un aspetto particolare, che possiamo vedere particolarmente nella
dottrina di Solov’ev41. Nella sua concezione della Sofia, è importante capire che il processo
divino-umano in Solov’ev va compreso come processo divino-materiale. Questa è la
specificità della cultura russo-ortodossa: non è una cultura contemplativa, ma piuttosto
concreta e materiale. Per comprendere meglio questo aspetto, ricordiamo che in Solov’ev
bambino le cose avevano il loro nome, egli chiamava la cartella “Andrea” e la matita
“Gabriele”. L’uomo russo ortodosso vede se stesso come il governatore del creato; l’uomo
non salva semplicemente la sua anima, ma la salva solo nella Chiesa, nella sobornost’, e
salva attraverso di sé l’intera creazione. Questo è evidente nella Giustificazione del bene42 di
Solov’ev. Quando la cultura russa e ortodossa parla di universale, ha in mente proprio
l’unità di umano e materiale, con tutto il resto del mondo creato. Già a partire da questa
considerazione è più facile comprendere il cosmismo russo, che spesso parla di
risurrezione corporale nel futuro. Questo aspetto della risurrezione corporale è
importantissimo nella cultura russa. In questo la cultura russa prosegue la tradizione
dell’esicasmo, non lo riceve come eredità diretta attraverso una dottrina, ma come una
pratica. Ricordiamo l’esempio dello starčestvo: è quello che ci permette di conoscere la
tradizione dell’esicasmo russo nella sua espressione reale e quotidiana. Possiamo
richiamare in questo senso anche alcune espressioni del teologo Vladimir Losskij43, che
scrive di San Serafim di Sarov, il grande starets ottocentesco. Ci sono testimonianze dei
discepoli di Serafim, come il mercante Nikolaj Motovilov, che racconta della sua
conversazione sulla umiltà nello spirito avuta con Serafim di Sarov, e chiede: “come si
può dire che io ha già posseduto lo Spirito Santo?”. Serafim gli risponde: “io ti prendo per
le mani, e tu guarda”. Motovilov vede che il volto di Serafim brillava di luce divina, e
parte di questa luce si rifletteva su lui stesso. Questo è sintetizzato nella famosa frase di
Serafim, ripresa spesso anche dagli startsy di Optina Pustin’: “possiedi lo Spirito, e intorno
a te si salveranno a migliaia”. Secondo Losskij, Serafim non poteva conoscere la teoria
dell’esicasmo, che non era conosciuto in Russia in modo riflesso, ma la pratica che si
40 Khomjakov scrisse in diverse occasioni sulla Chiesa e la sua visione della comunione o sobornost’, ma solo
dopo la sua morte venne pubblicato nel 1864 il testo O Tserkvi, per la cui traduzione italiana vedi CAVAZZA
Antonella, “La Chiesa è una” di A.S. Chomjakov. Edizione documentario-interpretativa, ed. Il Mulino, Bologna
2006.
41 Nel 1887 Solov’ev scrisse una ponderosa opera sulla Chiesa e la “libera teocrazia”, la cui parte più
significativa fu pubblicata in francese col titolo La Russie et l’Eglise universelle, Paris 1889.
42 SOLOV’EV Vladimir, “Opravdanie Dobra”, in Voprosy filosofii i psikhologii 1889-1894.
43 Cfr. LOSSKIJ Vladimir, Essai sur la théologie mystique de l’Église d’Orient, Paris 1944.
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trasmetteva di generazione in generazione era arrivata fino alla cultura russa come
esperienza dell’esicasmo, la cui sostanza è la visione della luce taborica nella realtà.
Va inoltre ribadito il grande significato del percorso della moralità e della santità
raggiunta attraverso la sofferenza. L’uomo russo non percepisce l’essere se non soffre.
Nelle chiese ortodosse russe c’è un angolo in fondo alla chiesa, l’angolo della confessione,
dove le persone stanno in ginocchio e piangono, e poi, dopo aver ricevuto l’assoluzione, si
allontano radiose come angeli. Sempre Dostoevskij ha saputo trasmettere questo tratto
della cultura russa: vivere dalla caduta alla rinascita, di nuovo e di nuovo. In questo
processo l’anima soffre, ma è una sofferenza dolce. È un’altra modulazione della
particolare impostazione del pensiero filosofico russo, che ritrova la bellezza non separata
dall’atto di conoscenza, e la sofferenza è proprio il riflesso più acuto della conoscenza.
Non si può mettere da una parte la percezione della bellezza, dall’altra la conoscenza.
Bisogna mettere insieme bellezza, conoscenza e moralità o salvezza. La bellezza nella
cultura russa non è pensabile senza gli altri due elementi. Pensiamo all’esempio dei santi
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jurodivye, come Santa Ksenja di San Pietroburgo (1719-1803), una donna rimasta vedova e
che aveva assunto l’impegno spirituale di testimoniare la comunione con il marito
defunto: si faceva chiamare con il suo nome, Andrej Fedorovič, indossava i suoi vestiti e
girava per anni per le strade senza cambiarsi d’abito, né d’inverno né d’estate. Dopo anni
di questo girovagare, dal punto di vista dell’estetica non poteva certo essere una bellezza,
ma da un altro punto di vista nella spiritualità pietroburghese non c’è un’immagine più
bella, ogni donna di San Pietroburgo è molto devota a Santa Ksenja: è l’immagine della
bellezza spirituale e la protettrice della famiglia. Lo stesso si può dire di molti altri santi e
beati russi. Si può parlare della bellezza e dell’ordine, che è quanto di può contrario
all’ideale russo della bellezza, non si incontra mai con essa. Si può tornare alla santa
Russia: la Russia non è bella, in essa non si può vivere, ma in realtà non esiste una Santa
Russia in senso puramente esteriore, storico-geografico. Il luogo santo non è il posto dove
tutto è bello e buono, ma quello che eleva l’uomo: il deserto, la grotta, la palude sono una
serie di luoghi malsani, ma in essi l’uomo eleva la propria anima, e in questo senso la
Russia diventa la Santa Russia. Per i russi stessi è così difficile viverci, che il loro spirito è
sempre in elevazione; mentre quando l’uomo vive in condizioni agiate, non riflette più
tanto sulle proprie condizioni spirituali. In Russia si riflette sempre sullo spirito. Facciamo
l’esempio della giustizia, della pravda: solo nella lingua russa c’è differenza tra due termini
che indicano la verità e la giustizia, tra istina e pravda. È una dimostrazione che lo spirito
russo non vive seconde delle regole, e soprattutto non secondo le regole della logica; come
immaginare una verità che non sia una giustizia? Ma per il russo la verità della somma di
due più due potrebbe non essere una cosa giusta, la verità deve esprimere un profondo
senso morale, quindi due più due non è pravda, non ha questo significato morale. Spesso si
dice che i russi disprezzano le leggi, quelle del vivere sociale; nessuno si interessa delle
leggi, perché esse non servono, se nel proprio cuore si sa quale è la verità e la giustizia.
Quindi un atto negativo dal punto di vista della legge sociale spesso viene giustificato
attraverso la giustizia umana interiore. Per questo la cultura russa squalifica i difensori dei
diritti umani e gli intellettuali, le persone che pretendono di spiegare che cosa è cosa al
popolo, che di suo conosce già la verità. Non c’è un modo positivo nella mentalità russa di
definire l’intelligent, è una denominazione umiliante, si dice intelligent poršivyj, “lurido
intellettuale”. Ricordiamo i filosofi russi che sentono di dover esprimere la verità della
propria cultura “tornando al popolo”, come fonte della cultura. Per gli slavofili questo è
legato al concetto di obščina, e questo vale anche per gli occidentalisti. Circa il rapporto tra
popolo e intelligentsija, si deve ricordare che una persona istruita in Russia è considerata
ambigua, perché porta in sé due culture: quella occidentale per l’istruzione, mentre
nell’anima appartiene alla cultura russa. Leggendo le memorie dei viaggiatori stranieri in
Russia, spesso viene riportata la sorpresa di fronte alla duplicità di comportamento dei
russi, quando persone perbene e istruite si comportano dignitosamente in società, mentre
appena arrivati nella propria dacia di campagna cominciano a perdere ogni controllo del
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comportamento. Evidentemente questa ambiguità esiste nell’anima russa, è un dualismo
tra oriente e occidente non eliminabile.
Abbiamo visto che la mistica russa è legata all’incarnazione, alla realtà della
sofferenza. Recentemente è uscito un film, L’Isola (2008) di Pavel Lungin, che affida il ruolo
principale allo stesso attore che impersona Ivan il Terribile in Zar, il musicista Petr
Mamonov, dall’aspetto molto rude e molto “russo”. È la storia di uno starets, padre
Anatolij, diventato monaco dopo un evento tragico della fine della guerra, quando si era
macchiato del sangue di un compagno ucciso, da lui tradito. Un altro compagno d’arme
viene a trovarlo dopo molti anni senza riconoscerlo, e gli presenta la figlia autistica
sperando in un miracolo. Lo starets si comporta da jurodivyj, e imitando la lingua degli
uccelli riesce a parlare con la ragazza, compie il miracolo, e viene riconosciuto come il
traditore. Si mette in evidenza come dal peccato rinasca la grazia, la bellezza purificata
dalla sofferenza e dal tradimento. In Zar il tema era l’identità nazionale, nell’Isola è proprio
la santità russa, che scaturisce dall’esperienza drammatica della storia. Quello dell’asceta
che si converte dopo il peccato, in realtà, non è un tema esclusivamente russo: nella
letteratura italiana abbiamo l’esempio del fra Cristoforo manzoniano dei Promessi Sposi. È
interessante che questo aspetto così russo trovi molti agganci nella spiritualità occidentale,
a volte più facilmente che nella tradizione dell’ortodossia greca, sia pure con dei parametri
diversi.
Questo anche per dire che esiste effettivamente un chiaro influsso occidentale sulla
spiritualità russa, che merita di essere approfondito. Quando parliamo di religiosità nella
cultura russa, abbiamo notato che esiste un continuo rimando tra estremi o poli opposti,
tra il polo orientale e il polo occidentale della spiritualità cristiana, che in Russia trovano,
secondo il principio della trinitarietà, un terzo elemento un po’ confuso, Florenskij direbbe
“antinomico”, che fa risaltare maggiormente la verità di entrambi. La penetrazione della
cultura occidentale in Russia inizia in effetti proprio quando il paese comincia ad
acquistare una sua identità autonoma, quando si diffonde la teoria di Mosca-Terza Roma,
e con essa inizia anche il paragone diretto con l’occidente. La Russia aveva iniziato il suo
cammino con il battesimo del 988 quasi “alla pari” con l’occidente latino, che alla fine del
primo millennio, prima della riforma gregoriana, era in una situazione di apertura di una
nuova fase, più o meno come la Russia. L’unico periodo di fulgore dell’occidente europeo,
dopo il crollo dell’impero romano nel V secolo, era stato fino allora il breve periodo
carolingio, ma di fatto non vi era uno scarto storico e culturale così grande tra la Russia e
l’Europa. Questa distanza si è formata negli oltre duecento anni di occupazione mongola,
perché nel XII e nel XIII secolo, fino agli inizi del XIV, l’occidente latino ha formulato e
organizzato la propria ideologia spirituale, l’ideologia papale, il primo grande spunto di
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riforma, e le grandi sintesi teologiche del tomismo, del francescanesimo, dello scotismo
con gli sviluppi successivi fino al nominalismo inglese. Quando la Russia esce dal giogo
tartaro, si trova a questo punto in grave ritardo, culturale, scientifico, tecnologico e anche
religioso nei confronti dell’occidente. Essa recupera in parte la propria tradizione religiosa
riprendendo l’ispirazione bizantina, soprattutto simboleggiata dall’icona, che con Andrej
Rublev fornisce appunto le categorie culturali per la rinascita della Russia, agli inizi del
Quattrocento.
Si arriva così a una data fatidica, il 1439, con il Concilio di Ferrara-Firenze. Questo
evento è nello stesso tempo un punto di partenza per la Russia, e un punto di arrivo per
l’occidente, perché l’Unione di Firenze è l’ultimo tentativo medievale di riunificare
ortodossia e cattolicesimo, in cui la Grecia bizantina cerca disperatamente di salvarsi
dall’invasione ottomana, che la costringe ad aprirsi a questa unione. Ma è anche il
momento in cui l’unione di fatto fallisce, perché i latini non riescono ad aiutare i greci a
salvarsi dai turchi ottomani, facendo mancare la possibile conferma storica della
riconciliazione ottenuta solo a livello teorico. I russi, come abbiamo visto, entrano nella
delegazione greca con il metropolita Isidoro di Kiev e il vescovo Avraamij di Mosca che
firmano l’Unione, ma per loro non è una questione così decisiva come per i greci.
Tornando in patria l’unione fallirà anche a Mosca, ma non per i motivi per cui è fallita in
Grecia, per la mancanza della sponda nella lotta per la sopravvivenza, ma al contrario,
perché Mosca in quel momento prende coscienza della propria autonomia. Ci sarà
comunque un effetto dell’Unione: Isidoro diventato cardinale organizza la propaganda
dell’Unione nei territori polacco-ucraini, e riuscirà a ispirare il movimento unionista
ucraino, che arriverà all’accettazione dell’Unione da parte degli ucraini alla fine del XVI
secolo. È l’origine degli “uniati”, fenomeno che interessa le provincie occidentali
dell’Ucraina, che fanno comunque parte del mondo russo. L’uniatismo è quindi un aspetto
della spiritualità russa: rifiutato ed esecrato a Mosca, ma non a caso condannato anche dai
cattolici latini polacchi, che ritenevano gli uniati estranei alla propria cultura e alla propria
organizzazione sociale. Se gli uniati ucraini dovessero scegliere tra lo stare con i cattolici
polacchi piuttosto che con gli ortodossi russi, probabilmente sceglierebbero questi ultimi.
Essi riconoscono il papa, non il “latinismo”, quindi di fatto l’uniatismo ucraino è sempre
stato parte della spiritualità russa, e come tale va compreso anche oggi. L’ideologia
fondamentale della Chiesa uniate prevede l’aspirazione al patriarcato con sede a Kiev; il
primate ucraino per i latini ha il titolo di arcivescovo maggiore, per gli uniati stessi è il
patriarca. Essi si sentono eredi del cristianesimo russo di Kiev, più che del cristianesimo
latino franco-germanico o slavo occidentale.
L’unione di Firenze è anche punto di arrivo della riforma medievale del papato,
iniziata con la riforma gregoriana, che intendeva mettere il papa al di sopra di ogni
autorità, sia ecclesiastica che civile. Questo processo si compie solo a Firenze, dopo la
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lunga “lotta per le investiture” e l’altalenante dialettica tra il papato e il movimento
conciliarista, il XIV secolo con l’esilio avignonese, i numerosi antipapi e una serie di
continue tensioni nella Chiesa Cattolica. Firenze è la conclusione del Concilio di Basilea,
poi spostato a Ferrara e concluso appunto a Firenze. Era iniziato come concilio
“conciliarista”, che doveva affermare la superiorità del concilio sul papa, uscendo dallo
scisma dei tre antipapi. Il papa Eugenio IV aveva formalmente accettato le posizioni
conciliariste, ma poi era riuscito a depotenziarle, lasciando a Basilea gli esponenti più
radicali di questa linea, e a Ferrara aveva potuto riportare la deriva conciliarista su una
linea più decisamente “papista”. L’unione con gli ortodossi dal punto di vista del papa
non era tanto motivata da un desiderio ecumenico, quanto dalla volontà di affermare la
capacità del papa di riunire tutti i cristiani, riuscendo a risottomettere in qualche modo gli
orientali ortodossi al primato papale. A differenza del II Concilio di Lione del 1274 (altro
concilio unionista), il Concilio di Firenze fu preparato come si deve, e furono discussi tutti
gli argomenti che dividevano le due Chiese, riunendo i migliori teologi cattolici e la
grande maggioranza dei vescovi ortodossi insieme al patriarca Giuseppe di
Costantinopoli, a quel tempo unico patriarca orientale. L’unica questione che non fu
discussa esplicitamente fu proprio quella del primato romano, che nelle intenzioni del
papa si risolveva con la firma stessa dell’Unione, che fu sottoscritta da tutti, prima dagli
armeni e poi dai greci, compresi i due russi. Alla metà del Quattrocento il papato aveva
dunque raggiunto il suo scopo, e si era in qualche modo trasformato non più in un centro
dinamico di ricerca dello statuto ecclesiale ideale, ma da un certo punto di vista in un
regno terreno come gli altri, pur conservando importanti caratteristiche teologiche. Lo
splendore della corte papale come massima potenza europea si estende dal Quattrocento
alla metà del Cinquecento, e non a caso in questo periodo avverrà la Riforma luterana, a
causa degli eccessi mondani dello stesso papato. È interessante che proprio nel momento
in cui Mosca si sente ormai l’erede di Costantinopoli, e acquisisce un’autocoscienza
religiosa e nazionale di potenza autonoma, il papato raggiunga la sua massima
espressione di supremazia ecclesiastica e politica; è uno dei paradossi che mostrano i nessi
cruciali della storia. Si ha così l’inizio non solo di un confronto a distanza tra Mosca e
Roma, ma anche di interscambio ideologico e politico tra le due corti.
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L’insieme della vicenda lascia comunque pensare che, in qualche modo, il principe
russo sia vicino al papa, anche se non unito. Da questo momento Ivan III assume l’aquila
bizantina come simbolo imperiale, diventa formalmente Gran Principe, il principato
diventa “regno di Mosca”. Anche se Ivan non ha l’ardire di proclamarsi imperatore,
comincia tuttavia ad appropriarsi della simbologia imperiale. Questo matrimonio così
strano evidenzia il paradosso della definitiva affermazione di Mosca come potenza
ortodossa, ma anche come sponda e punto di riferimento dello stesso papato. Per
affermare ancora di più questa sua identità, il metropolita viene spinto dal Gran Principe a
iniziare la costruzione di una degna cattedrale metropolitana, che sarà la cattedrale
dell’Assunzione al Cremlino. Dopo tre anni dall’inizio dei lavori (1469), proprio nel
periodo dell’arrivo di Zoe Paleologa, la cattedrale costruita dalle maestranze russe, e
arrivata ormai alla volta, crolla totalmente per debolezze strutturali. Il Gran Principe si
adira e fa di tutto per trovare una soluzione, invita altre maestranze da Pskov, città russa
più occidentale e ancora indipendente da Mosca, ma i maestri di Pskov si spaventano e
rifiutano l’invito. Nessuno in Russia sa come costruire una grande cattedrale, di nuovo la
“tradizione” si rivela arida e insufficiente. Zoe-Sofia Paleologa suggerisce allora di
chiamare un architetto italiano, Aristotile Fioravanti, che era piuttosto un ingegnere civile
capace di inventare geniali soluzioni urbanistiche a Bologna e Firenze, e che aveva
lavorato alcuni anni prima perfino in Ungheria per il re Mattia Corvino44. Nel 1474 viene
mandato appositamente in Italia un ambasciatore di Mosca, Semen Tolbuzin, con una
doppia missione: chiamare l’architetto e risolvere una situazione politica delicata. La
questione era legata alla delegazione di Zoe Paleologa di due anni prima, in cui si era
inserito il veneziano Trevisan, che intendeva passare da Mosca per raggiungere un khan
tartaro ancora non sottomesso e proporgli una alleanza anti-turca, aggirando gli interessi
di Mosca. Il principe, venuto a conoscenza di questo intrigo, lo fa incarcerare insieme a un
monsignore romano, finchè, dietro insistenze e offerte dei veneziani, invia Tolbuzin a
Venezia, dove Zoe-Sofia aveva suggerito di cercare Fioravanti, che si era rifugiato a
Venezia per evitare le accuse di corruzione lanciate contro di lui a Bologna. Fioravanti era
effettivamente un personaggio famoso al tempo, ma Tolbuzin lo esaltò in modo eccessivo,
affermando che il Doge non lo avrebbe mai fatto partire, essendo colui che ha costruito la
basilica di S. Marco. Questa era ben conosciuta dai vescovi ortodossi fin dalla loro
partecipazione al Concilio di Firenze: la delegazione greca era stata fatta appositamente
sbarcare a Venezia, anche per il consistente finanziamento che il Doge aveva accordato al
papa per concludere il Concilio, che a Ferrara si era interrotto per mancanza di fondi. Gli
ortodossi erano stati afferrati dallo stupore per la somiglianza della basilica veneziana con
la cattedrale di S. Sofia, quasi ripetendo l’esperienza dei primi ambasciatori russi di
44 Per le notizie su Fioravanti a Mosca ringrazio in modo particolare il prof. Mikhail TALALAY, autore di un
articolo su “Aristotile Fioravanti: un ideatore italiano dello stile russo”, in via di pubblicazione nel 2010.
90
Vladimir; S. Marco da allora rimase un mito nella coscienza ortodossa, come fosse una
“propria” chiesa.
Infine Tolbuzin riuscì a portare a Mosca Fioravanti, questo “costruttore di cattedrali”
che in realtà di suo era un ingegnere specializzato nella fusione dei cannoni. La sua figura
è emblematica del suo tempo: egli era un uomo poliedrico, esponente dell’umanesimo e
contemporaneo di Leonardo di Vinci, e in Russia divenne famoso semplicemente con il
nome proprio Aristotile, che richiamava l’antico genio greco. In lui divenne evidente tutto
lo scarto culturale tra la Russia e l’occidente. Fioravanti organizzò la ricostruzione della
cattedrale del Cremlino, secondo le cronache russe, copiando la chiesa della Dormizione di
Vladimir, che funse in effetti da modello, per non ammettere che l’architettura del
Cremlino è più occidentale che russa. In realtà Fioravanti gettò le fondamenta del nuovo
edificio immediatamente, prima di recarsi a Vladimir; da uomo esperto, visto il disastro
delle prime maestranze si era subito reso conto degli errori, e volle impostare i lavori in
modo appropriato alle tecniche moderne. In seguito si recò effettivamente a Vladimir,
motivato dal fatto che l’edilizia fatta per modelli era lo stile del tempo; non conoscendo
nulla della Russia, usò la miglior chiesa esistente come modello (del resto, la stessa
cattedrale di Vladimir era stata costruita nel XII secolo da maestranze inviate
dall’imperatore Federico Barbarossa). La tecnica edilizia peraltro era tutta veneziana, tolte
le cupole a cipolla tutte le chiese del Cremlino sono copie di palazzi veneziani del
Quattrocento; infatti Fioravanti si occupò della ristrutturazione dell’intera fortezza, che era
la sua vera specialità. In cinque anni, dal 1474 al 1479, fece costruire la nuova cattedrale
della Dormizione del Cremlino, che risultò un perfetto esempio di sintesi tra l’architettura
bizantina e quella occidentale: l’esterno è tipicamente veneziano, mentre l’interno è
risistemato in modo diverso; Fioravanti infatti non sapeva della necessità di elevare
l’iconostasi, tantomeno ne conosceva la tipica variante russa di parete intera fino al
soffitto, e dovette adattare l’interno in un secondo momento, come attestano i documenti
originali delle modifiche al progetto da lui apportato proprio per collocare l’iconostasi. Il
risultato è di una chiesa più spaziosa e ariosa delle solite chiese russe, come un grande
palazzo veneziano adattato. Dall’esterno, secondo i commenti riportati dalle cronache
russe, “sembra un’unica pietra compatta, mentre all’interno si ammira lo splendore del
paradiso”; di nuovo lo stupore per la bellezza dello spazio liturgico!
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Ci siamo soffermati sull’episodio della costruzione del Cremlino per il suo grande
valore simbolico, che illustra meglio di tanti discorsi la natura del rapporto della Russia
con l’occidente. La questione dell’influsso dell’occidente ha poi una serie di sviluppi molto
importanti, che in parte si analizzano meglio seguendo l’evoluzione del pensiero filosofico
russo; col tempo tale influsso diventò infatti sempre più un influsso ideologico e filosofico,
ma le sue radici non stanno nella riflessione teoretica, quanto piuttosto nelle stesse
circostanze storiche, in cui oriente e occidente hanno trovato nella Russia un loro punto di
incontro. Fu proprio uno di questi incroci di circostanze a portare a Mosca, poco dopo
Fioravanti, un altro personaggio particolarmente significativo come Maksim Grek (1470-
1556), anch’egli una figura di confine tra oriente e occidente. Maksim (al secolo Trivolis)
era un monaco greco, che alla fine del Quattrocento si era trovato a Firenze durante il
periodo di Girolamo Savonarola (1452-1498) e della repubblica di Firenze del 1494.
Savonarola aveva dato vita a una delle più eclatanti forme di riforma della vita monastica,
della Chiesa e dello stato secondo gli ideali domenicani e francescani della povertà e della
rinuncia al possesso, proponendo una Chiesa purificata da ogni forma di simonia e
corruzione (come quella della Curia romana di quegli anni, sotto il pontificato di
Alessandro VI Borgia), che fosse l’anima di una società altrettanto “pura”, di cui la
repubblica fiorentina doveva essere un modello. Maksim era un discepolo di Savonarola, e
dovette poi scappare da Firenze dopo l’impiccagione di Girolamo e compagni, i cui corpi
furono bruciati in piazza della Signoria, e le ceneri disperse nell’Arno. Nei primi anni del
Cinquecento egli venne accolto al Monte Athos, nel monastero Vatopedi, dove giunse la
richiesta dei russi di inviare in Moscovia un monaco istruito per insegnare la vera
spiritualità, e Maksim viene infine inviato a Mosca. Giunse così in Russia come autorità
della Santa Montagna, fonte dell’autentica ortodossia, ma insieme all’ortodossia egli
portava lo spirito riformatore ed egualitario dell’umanesimo occidentale. Una delle sue
prime iniziative fu la traduzione in russo del salterio, poi di altri testi, tra cui anche
Platone e altri classici della filosofia greca. Anche per questo Maksim Grek è da
considerare un po’ all’origine dello sviluppo filosofico russo, che non si fondava tanto
sulla spiritualità ortodossa, quanto sulla riscoperta del mondo classico tipica
dell’umanesimo, e infatti Maksim si guadagnò in Russia l’accusa di eresia. Egli si era nel
frattempo unito ai nestjažateli di Nil Sorskij, il monaco esicasta russo, molto vicino allo
spirito dei domenicani di Savonarola. Per il suo appoggio ai non-possidenti contro gli
iosifliani, e per aver tradotto testi religiosi in russo (era ammessa solo la lingua “sacra”
slavo-ecclesiastica), Maksim venne accusato di eresia e attentato allo stato ortodosso, di
aver corrotto i libri della Chiesa e inquinato l’autentica letteratura religiosa. Rimase
incarcerato per circa trent’anni in vari monasteri, in buona parte (soprattutto gli ultimi
quindici, che trascorse nella Lavra di San Sergij) in condizioni abbastanza favorevoli,
essendo stimato come starets dell’Athos, e potette dedicarsi al lavoro di traduzione di
molti testi patristici, filosofici, liturgici. Se Fioravanti aveva portato la tecnica, Maksim
Grek portò la cultura, con un approccio ortodosso greco, e quindi permettendo un
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effettivo riaggancio anche alla letteratura patristica, ma impregnato di umanesimo latino
occidentale. È insomma una figura russo-greco-italiana, il cui destino, pur non
concludendosi così tragicamente come quello del suo maestro Savonarola, tuttavia fu
segnato dalla vittoria dei suoi avversari iosifliani, ispiratori del regno ortodosso di uno dei
più crudeli e violenti autocrati della storia russa.
Nel corso del XVI secolo la Rus’ approda infatti al regno di Ivan IV il Terribile, durato
oltre cinquant’anni, dal 1533 al 1584, che ne segnò definitivamente gli sviluppi futuri. Ivan
divenne principe a soli tre anni dopo una convulsa fase di successione e nel 1547, a
diciassette anni, prese in mano la situazione instaurando una vera dittatura. Durante la
sua incoronazione, il cui rito fu predisposto dal metropolita di Mosca Makarij, per la
prima volta fu imposto al principe di Mosca il titolo di tsar, versione russificata per
“cesare”, imperatore. Il copricapo di foggia asiatica che dalla metà del Trecento si
tramandava ai principi di Mosca, probabilmente un dono di un khan tartaro a Jurij
Dolgorukij o Ivan Kalita, venne chiamato solennemente “il cappello di Monomaco”, šapka
Monomakha, grazie a una leggenda appositamente composta agli inizi del Cinquecento, che
ne attribuiva il possesso originario all’imperatore di Costantinopoli Costantino IX
Monomaco, il quale a sua volta l’avrebbe donato al nipote Vladimir II, principe di Kiev e
nipote anche di Jaroslav il Saggio. Di nuovo una leggenda di successione legata a un
copricapo, come la “tiara bianca” di Novgorod, per indicare un destino scritto per la
Russia dai tempi antichi, ma di fatto assunto in proprio come una nuova era che si apriva
per la Russia e per l’umanità. Ivan IV ricevette perfino le lettere gratulatorie di Maria
Tudor e di Filippo II di Spagna, che gli si rivolgevano con il titolo di “Augusto
Imperatore”.
45 Cit. in KOSSOVA GIAMBELLUCA Alda, Da Mosca all’impero degli zar. Letteratura e ortodossia nella Rus’ Moscovita
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tentativi di scalare il potere russo sono fissati nelle pagine delle sue Suppliche, nella
seconda delle quali inserì dei commenti storico-leggendari piuttosto significativi, come la
Narrazione su Costantino imperatore. In essa si delinea la figura del monarca con l’intento di
accreditarlo come nuovo imperatore cristiano, sullo sfondo di una denuncia delle
corruzioni e delle degradazioni dei greci, che li condussero alla completa disfatta contro
gli ottomani. Peresvetov propone quindi di evitare gli errori fatali dei bizantini, e di
organizzare uno stato efficiente, fondato sulla buona amministrazione e la fedeltà al
servizio statale da affidare ad una apposita schiera di nobili giustamente retribuiti. I
consigli del capitano, influenzati evidentemente dalla sua esperienza nei paesi europei,
furono di fatto ignorati dallo zar, che invece impostò il suo governo sul terrore e la
minaccia (groza, da cui l’appellativo groznyj, il terribile e minaccioso).
Con il nuovo zar si porta dunque a compimento il progetto che Ivan III aveva
prospettato nel matrimonio con Zoe-Sofia Paleologa. Ivan IV sottomette definitivamente i
tartari e porta a termine il processo di unificazione della Russia sotto Mosca, passando
quindi dalla Rus’ e dalla Moscovia alla Russia vera e propria, che assume definitivamente
le caratteristiche della grande potenza europea, giustificando in qualche modo l’ambizione
a rappresentare la “Terza Roma”. Ivan il Terribile, come abbiamo già ricordato, volle dare
un particolare contenuto religioso al suo regno istituendo la opričnina, quella particolare
forma di governo che sottolineava propriamente l’unione dell’ideologia nazionale con la
religiosità ortodossa. È la struttura centrale del potere, cuore dell’impero sottomesso
direttamente allo zar, ma anche la guardia imperiale: gli opričniki erano l’armata privata
dello zar, rivestita da una uniforme di tipo monastico, che univa l’addestramento militare
a quello ascetico e liturgico, con turni di preghiera mattutina insieme allo zar. L’ortodossia
assurta a ideologia del potere diventa una specie di ossessione fanatica: nel 1553 Ivan
conquista Kazan’ adottando la tipologia biblica della conquista di Gerico da parte del
popolo ebraico guidato da Giosuè (Gios 6), innalzando intorno alle mura della città una
corona di tende-cappelle con le icone e i sacerdoti che celebrano ininterrottamente la
liturgia. Come le mura di Gerico caddero al suono delle trombe di Jahvè di fronte all’Arca
dell’Alleanza, così Kazan’ cade nelle mani di Ivan per volere di Dio e della Madonna, che
verrà raffigurata nella icone come Madre di Dio Kazanskaja, che da allora venne
considerata un altro simbolo nazional-religioso (con lo stesso tipo di icona si celebra anche
la vittoria sui polacchi nel XVII secolo). A Kazan’ viene edificato, per celebrare la vittoria,
un Cremlino simile a quello di Mosca, con tanto di cattedrale, che oggi è affiancata da una
grande moschea, in una nuova simbolica sincretista del moderno stato autonomista
tartaro-russo.
Ivan il Terribile morì nel 1584, e nel 1586 viene eletto il nuovo metropolita Iov sotto il
regno dello zar Fedor, figlio di primo letto di Ivan, ma in realtà sotto il reggente Boris
Godunov. Cercando di arginare gli eccessi di cesaropapismo di Ivan, il disegno ortodosso-
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imperiale viene perfezionato istituendo la piena autocefalia ecclesiastica. Nello stesso 1586
viene invitato a Mosca il patriarca di Antiochia Ioakimos, uno degli alti gerarchi della
Chiesa bizantina costretto dall’esilio a girare l’Europa cristiana in cerca di aiuti materiali.
Godunov inizia così le trattative per il riconoscimento dell’indipendenza della Chiesa
moscovita, che giungeranno a conclusione due anni più tardi con la visita a Mosca dello
stesso patriarca di Costantinopoli Ieremias II, anch’egli in condizioni di estrema necessità e
di esilio, che lo avevano portato a rivolgersi anche a Roma, dove gli era stato proposto il
cardinalato. In Russia gli viene invece prospettata la possibilità di diventare patriarca della
nuova Chiesa russa autocefala, che egli rifiutò, dovendo poi accettare di nominare un
patriarca russo in seguito alle condizioni di cattività in cui venne trattenuto per diversi
mesi. Così nel 1589 venne formalmente istituita la prima forma di autocefalia all’interno
dell’Ortodossia, il patriarcato di Mosca, che andò a occupare il quinto posto nella “nuova
pentarchia” delle Chiese d’Oriente, sostituendo proprio la sede romana (che peraltro stava
al primo posto). Questo di fatto cambiava la natura dell’ecclesiologia ortodossa, da
ecumenica a etnica, e considerando che le altre Chiese ortodosse si trovano in condizioni
di sottomissione ai turchi ottomani, si capisce perché Mosca si sia da allora considerata
non semplicemente uno dei tanti patriarcati nazionali, ma la Chiesa più rappresentativa di
tutto il mondo ortodosso.
L’autocefalia moscovita diede anche la spinta decisiva al compimento dell’altra
soluzione ecclesiologica, quella unionista dei territori occidentali: per timore dell’arbitrio
moscovita, alcune diocesi della Galizia (Ucraina) proclamarono nel 1598 l’Unione di Brest,
sottomettendosi all’autorità del papa di Roma e realizzando in parte l’antico sogno del
cardinale-metropolita Isidoro. I due eventi sono quindi due facce dello stesso fenomeno:
l’autocefalia è la soluzione trovata dai russi dopo il processo di autocoscienza iniziato in
seguito al Concilio di Firenze e alla caduta di Costantinopoli, mentre l’Unione è l’esito
della tendenza, anch’essa presente nell’autocoscienza russa, a inserirsi nel mondo
occidentale. L’Unione in seguito verrà approvata anche in altri territori, da ungheresi,
slovacchi, romeni, bulgari, serbi, perfino in Grecia. In queste Unioni successive si realizzò
a volte una propaganda dell’unione fatta in modo un po’ artificioso, mentre il vero
uniatismo come concezione originale trovò la sua espressione effettiva nel mondo russo
come una variante dell’idea di Mosca-Terza Roma, vista non più come prevalenza di
Mosca su Roma, ma come una forma di sottomissione di Mosca-Kiev a Roma. Comunque
le due varianti si devono comprendere insieme, collegate e opposte tra di loro.
Dopo aver quindi raggiunto una definizione della propria identità politica, culturale e
religiosa, la Russia sprofonda con lo zar Boris (Godunov) nel periodo dei Torbidi, una fase
di lotte intestine di potere che nei primi decenni del Seicento porta di nuovo il paese in
uno stato di gravissima crisi, che crea una nuova frattura nella storia russa. È un periodo
difficilissimo, in cui il castello statale ideato da Ivan III prima e Ivan IV poi crolla
miseramente. Tre anni consecutivi di carestia (1601-1603) producono il dilagare di bande
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di predoni, contadini scacciati dai proprietari non più in grado di sfamarli; la loro
disperazione alimenta le prime rivolte contadine su larga scala, in seguito alle quali il
giovane stato russo subì anche un invasione da parte delle armate polacche del re
Sigismondo III. Per alcuni anni sembrò addirittura che la Russia fosse destinata alla
riunione forzata con il cattolicesimo latino, ma con la tipica capacità russa di abnegazione
questa eventualità venne respinta da un esercito spontaneo, guidato dagli eroi Kuz’ma
Minin e Dmitrij Požarskij, che nel 1612 scacciò le guarnigioni polacche che si erano già
insediate a Mosca. Questa vittoria chiuse il periodo dei Torbidi, aprendo la nuova era della
dinastia dei Romanov. Il seme della riunificazione di oriente e occidente era stato
comunque gettato, e troverà ancora diverse espressioni nella cultura russa.
Proprio nel Seicento, infatti, al di là delle brame di conquista, la cultura latina trovò la
via per una penetrazione profonda nella vita culturale russa. Dopo l’Unione di Brest del
1598, venne istituita agli inizi del secolo una Accademia teologica a Kiev, alimentata
principalmente dalla teologia dei gesuiti, che dalla fine del XVI secolo erano diventati la
grande arma della Controriforma cattolica e della nuova diffusione missionaria del
cattolicesimo. Proprio nel periodo dell’autocefalia e dell’uniatismo in Russia e Ucraina,
entrano in gioco anche i gesuiti, inviati in quei territori a contrastare la Riforma
protestante, che aveva quasi completamente allontanato la Polonia dal papato romano. I
vescovi uniati, ormai accreditati anche nel regno polacco come membri del Senato,
incontrano a loro volta i gesuiti impegnati nella riconquista cattolica della Polonia,
soprattutto il padre Petr Skarga (1536-1612), teologo e scrittore polacco, predicatore di
corte sotto Sigismondo III, fondatore dei collegi gesuiti di Poznan e Riga e grande
sostenitore dell’Unione di Brest. La rievangelizzazione cattolica avvenne soprattutto
attraverso la cultura scolastica e accademica, e lo studio della teologia impostato con il
materiale della seconda scolastica tomista del Concilio di Trento, che avrà il suo massimo
esponente in Roberto Bellarmino, il gesuita che nel Seicento divenne il principale maestro
di teologia di tutta l’Europa. La teologia di Bellarmino arrivò anche a Kiev, dove
l’insegnamento avveniva comunque in latino, ma fu anche tradotta in russo soprattutto
sotto il metropolita di Kiev Petr Mogila (1597-1647). Questi, profondendo a sua volta
grandi energie nella diffusione della cultura religiosa tra i suoi fedeli, scriverà la
Confessione Ortodossa, un manuale di teologia che non è altro che la rielaborazione di
Bellarmino, corretta nei punti da adattare alla teologia ortodossia sulle questioni
controverse del purgatorio, dell’eucaristia e del papato, ma tutto sommato molto fedele
all’ispirazione gesuita. Questo testo diventa il manuale ufficiale dell’accademia di Kiev,
luogo dove studia tutta la classe dirigente della Chiesa Ortodossa Russa; nel Seicento è
ancora Kiev il centro culturale, che conosce un nuovo periodo di relativo fulgore.
L’Ucraina, del resto, è ancora oggi la maggiore fonte della vita spirituale dell’ortodossia
russa, e il principale serbatoio delle vocazioni sacerdotali. Da Kiev entrò in Russia la
scolastica latina, che rimase la modalità fondamentale con cui i russi studiavano la teologia
98
fino alla metà dell’Ottocento. A San Pietroburgo il metropolita Stefan Javorskij, capo della
nuova amministrazione ecclesiastica creata da Pietro il Grande, agli inizi del Settecento
scriverà il Kamen very, la “Pietra della fede”, testo ufficiale della teologia russa per oltre un
secolo, di fatto una evoluzione della teologia di Mogila e Bellarmino. La radice del
rapporto con l’occidente si innesta quindi a fondo sul terreno russo, pur rimanendo la
Russia una realtà culturalmente autonoma, che assorbe a modo suo anche l’esperienza
occidentale.
Di solito si considera tutta la storia medievale russa come una premessa poco
significativa, prima degli splendori culturali che iniziano con il Settecento. Noi al contrario
abbiamo scavato alla ricerca delle radici, e dedicheremo alla grande Russia dei secoli XVIII
e XIX un’attenzione più sintetica; è inutile infatti analizzare a fondo la diatriba tra slavofili
e occidentalisti, se non si sa nemmeno a che cosa effettivamente si richiamassero i
contendenti.
Il contatto con l’occidente è lo spunto da cui nel Settecento inizia in Russia un percorso
culturale decisamente più sistematico. Lo sviluppo che non c’era stato nel periodo
medievale, quando l’occidente europeo invece “esplodeva” culturalmente nelle sue cento
università, mentre la Russia languiva sotto il dominio mongolo, riprende il suo corso
quando la Russia riacquista una identità nazionale uscendo dal giogo tartaro nel
Quattrocento, divenendo dopo la caduta di Costantinopoli la “Terza Roma”,
riagganciando in qualche modo l’influsso occidentale e i suoi sviluppi umanistici. Il
contributo tecnologico e progettuale portato da italiani come Fioravanti, insieme a tanti
altri porta una ventata di cultura laica, adoperata come strumento per esaltare la cultura
nazionale politico-religiosa della nuova Russia. Questo porterà poi ad assorbire anche lo
sviluppo culturale e teologico portato dalla scolastica e dai gesuiti, passando per timidi
tentativi di recupero della tradizione bizantina come quello di Maksim Grek, a sua volta
mescolato a categorie spirituali molto occidentali. Dopo la fondazione dell’Accademia
Teologica di Kiev e la sintesi dogmatica filo latina del metropolita Petr Mogila, la teologia
di ispirazione occidentale dominerà fino al XIX secolo anche nelle accademie teologiche
ortodosse che verranno progressivamente organizzate anche in Russia, a Mosca e San
Pietroburgo, fino a quella di Kazan’, dove l’insegnamento sarà comunque in latino, non
solo per i contenuti e i materiali, in parte tradotti in russo, ma per la metodologia didattica
e la lingua utilizzata nelle lezioni, perché quella era la lingua di tutte le università europee.
In latino veniva insegnata non solo la teologia e la filosofia, ma anche le materie
scientifiche e tecniche, e così avveniva anche all’università di Mosca, ancora oggi intitolata
al suo fondatore Mikhail Lomonosov (1711-1765). L’università, i cui primi tentativi di
apertura erano avvenuti a San Pietroburgo sotto Pietro il Grande, venne poi fondata a
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Mosca dalla zarina (tedesca) Caterina II nel 1755 importando docenti tedeschi, che erano
insieme ai francesi e gli inglesi i veri protagonisti della cultura accademica del tempo.
L’unico russo che si inserisce in questa squadra straniera è proprio Lomonosov, genio
della chimica che del resto aveva finito i suoi studi nell’università prussiana di Marburgo,
dove aveva anche sposato una moglie tedesca con rito luterano. Il filoso Herzen dirà in
seguito che “Lomonosov non fu il fondatore; egli “era” la nostra università”, impersonava
tutta la cultura tecnico-scientifica russa.
Facendo un breve passo indietro rispetto a Lomonosov, ricordiamo che nel Seicento,
oltre all’Accademia di Kiev nel 1612, nel 1687 era stata fondata a Mosca la prima
istituzione russa di tipo universitario, la cosiddetta “Accademia latino-greco-slava” dei
fratelli monaci Joannikij e Sofronij Likudy, con finalità umanistiche di recupero della
cultura classica. In essa agirono anche maestri di orientamento chiaramente latinizzante,
come il teologo Simeon Polotskij, mentre i Likudy, che erano greci, cercavano di spostare
l’orientamento più verso la cultura greca. In generale l’Accademia riportava la teologia di
Kiev, quindi l’impostazione scolastica, cercando peraltro di renderla un po’ più orientale e
slava, ma con risultati alquanto incerti. Polotskij era un convinto tomista, che cercava di
portare i testi di San Tommaso nella cultura russa, attraverso il filtro della seconda
scolastica. Verso la fine del Seicento emerse anche un personaggio interessante, il croato
Jurij Križanič (1617-1683), enciclopedista e sostenitore dell’unità slava, una specie di
ecumenista ante litteram che cercava di inserirsi in Russia per proporre, insieme all’unione
dei popoli slavi, anche l’unione culturale di cattolicesimo e ortodossia, anticipando
posizioni che verranno poi espresse a fine Ottocento dal filosofo Vladimir Solov’ev, che un
po’ si ispirava a lui. Questa posizione ecumenica di tipo slavofilo sostiene che la vera
ortodossia non è in contraddizione con il vero cattolicesimo, per cui gli ortodossi non
hanno bisogno di “riunirsi” al cattolicesimo, ma riconoscere naturalmente la propria unità
con i cattolici, ritrovando le radici della loro cultura cristiana, e questa sarebbe proprio la
vocazione dei russi e di tutti gli slavi. Dopo meno di un anno di permanenza a Mosca,
Križanič venne arrestato e spedito in esilio a Tobol’sk, in Siberia, dove comunque potette
scrivere alcuni trattati in cui esponeva le sue teorie, per essere poi espulso dal paese.
Venne infine ucciso a Vienna nella guerra con i turchi, dando la vita per difendere l’ideale
dell’Europa cristiana. Il suo destino è quello di un profetico insuccesso, dal significato
molto simile alla vicenda precedente di Maksim Grek.
Dal 1589 la Russia aveva dunque un proprio patriarca, mentre nel 1596 era stata
proclamata l’Unione di Brest, che ha iniziato la storia dei cattolici “uniati”. Uniati è un
termine che è diventato in seguito quasi spregiativo, a indicare una specie di ibrido
confessionale, mentre in realtà è molto tecnico e preciso: viene dalla Unio, l’Unione di
Firenze poi approvata a Brest. L’Unione va quindi messa in parallelo con l’autocefalia,
come due diverse realizzazioni dell’ideale di Mosca-Terza Roma. Mosca aveva deciso di
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rendersi autonoma sia ecclesiasticamente sia politicamente, mentre la Galizia di L’vov, e in
parte l’Ucraina stessa di Kiev si era messa con Roma, ma si tratta sempre di varie parti
della Rus’; nel 1596 nessuno a Kiev o a L’vov si riteneva “ucraino”, erano tutti russi. Si
tratta quindi di sovrapposizione di diverse soluzioni dell’unico problema della Russia, che
era poi il problema di tutto il mondo cristiano europeo, diviso tra le varie fazioni. Da qui
discende anche la nascita della nuova Russia in senso politico, con l’inizio della dinastia
dei Romanov. Nel frattempo che si elaborano queste grandi tendenze, la Russia subisce
una nuova frattura della sua storia, una frattura prima politica e poi religiosa, con la fase
dei “Torbidi”, lo smutnyj period. Dopo Ivan il terribile, l’ideologo di Mosca-Terza Roma
morto nel 1584, un trentennio di guerre civili porterà poi all’instaurazione della dinastia
dei Romanov. Il personaggio-chiave di questo periodo, poi glorificato dalla letteratura, fu
Boris Godunov, che svolse il ruolo di trait d’union tra la stirpe dei Rjurikidi e quella dei
Romanov, le due famiglie regali della storia moscovita. Dopo ultimo dei Rjurikidi, Fedor I
figlio di Ivan IV, Boris traghetta la Russia diventando egli stesso zar (1598-1606), eletto con
la collaborazione del primo patriarca russo Iov da una sessione dello Zemskij Sobor’, il
“concilio delle terre russe”, un’istituzione inventata sotto Ivan il Terribile come strumento
della stretta fusione tra trono e altare. Lo zar Boris emargina la famiglia Romanov, che era
una delle principali famiglie del gruppo dei boiari e capofila dei suoi oppositori. Questa
diventa la famiglia perseguitata, alcuni suoi membri vengono uccisi e altri esiliati, il
rappresentante più importante, Fedor Romanov, viene rinchiuso in monastero, dove
prende il nome di Filaret. Diventa igumeno, archimandrita e poi patriarca dopo la morte
di Godunov, assumendo di fatto il comando dello stato, nonostante fosse rimasto nove
anni in ostaggio del re di Polonia. A sua volta Filaret fa convocare nel 1612 lo Zemskij
Sobor’, in cui impone sul trono il figlio, Mikhail Romanov, che sarà il primo zar della
dinastia. Mikhail aveva allora sedici anni, e stava in monastero con la madre Ksenja,
moglie del patriarca. La madre costringe il figlio a diventare zar, ma il vero padrone del
trono è il patriarca Filaret; la dinastia dei Romanov nasce di fatto da un patriarca, dalla
Chiesa. Curiosa coincidenza anche il fatto che la dinastia che realizza l’ideale di Mosca-
Terza Roma si chiami Romanov, dinastia “dei romani”. Il nome in realtà non proviene da
Roma, ma dal capostipite Roman Zakharovič. Nel complesso il periodo dei Torbidi fu una
fase convulsa, ma molto creativa e interessante, per questo celebrata in vari modi dalla
letteratura russa. Lo Zemskij Sobor’ del 1612 ha anche come premessa la vittoria sui
polacchi, che negli anni precedenti avevano cercato di invadere la Russia, approfittando
dei dissidi interni. L’invasione fermata dagli eroi popolari Minin e Požarskij, grazie ai
quali viene affermata l’autonomia della vera Russia, che da questo momento in poi avrà
quasi sempre la Polonia come avversario principale, al di là della vera e propria
consistenza del pericolo polacco in sé. I nemici saranno i polacchi, ma anche gli svedesi,
fino al francese Napoleone, che peraltro nel 1812 entra in Russia con ottocentomila soldati
radunati da tutta Europa, più di metà dei quali reclutati in Polonia, per dare reale
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consistenza alla Grande Armée. Per tutto l’Ottocento fino al Novecento la Russia si troverà
in continua tensione bellica con i polacchi, e tramite loro con l’intero occidente.
Questo è il momento della frattura politica, che porta alla seconda dinastia, che è russa
nel senso proprio dell’unione tra Chiesa e stato. L’altra grande frattura del Seicento russo,
insieme politica e religiosa, ha luogo a metà del secolo, quando nel 1652 il sesto patriarca
di Mosca Nikon (al secolo Nikita Minin, 1605-1681) proclama la riforma liturgica. Il
patriarca, uomo vigoroso di origine contadina, manifestava chiaramente l’intenzione di
proseguire sulla linea iosifljana dei suoi predecessori, soprattutto di Filaret (Romanov) e
decise di farsi chiamare anche “Gran Signore”, Velikij Gospodin, con un lungo titolo regale:
“Per grazia di Dio Gran Signore e Sovrano, Arcivescovo regnante sulla città di Mosca e su
tutte le Russie, la grande, la piccola [l’Ucraina] e la bianca [la Bielorussia], di tutto il
settentrione del paese e delle terre sul mare e Patriarca di molti stati”. Il titolo sarà col
tempo semplificato, cristallizzandosi nella dizione attuale di “Patriarca di tutte le Russie”
secondo la flessione antico-russa, Patriarkh vseja Rusi, che rivendica quindi nel suo “plurale
maiestatis” le prerogative tutte temporali del potere patriarcale, non inferiori nella
ambizioni a quelle del papa di Roma. Al momento della sua intronizzazione, Nikon
costrinse lo zar Aleksej a “non intromettersi negli affari interni della Chiesa”, facendolo
giurare sulle reliquie del santo metropolita Filipp di Mosca, martire della dittatura di Ivan
il Terribile, che lui stesso aveva fatto solennemente portare a Mosca dal monastero delle
Solovki, il grande santuario dell’estremo nord in cui Filipp era stato assassinato, e dove lo
stesso Nikon aveva iniziato la sua carriera monastica. In realtà l’intenzione del patriarca
non era certo quella di garantire la separazione tra Chiesa e stato, ma piuttosto il
predominio della prima sul secondo.
La riforma liturgica patriarcale inizia con l’adeguamento dei testi della liturgia agli
originali greci, studiati negli anni precedenti dal “Circolo degli zelanti dell’antica
devozione”, un gruppo di riformatori ecclesiastici che si era formato a Mosca negli
ambienti vicini alla corte dello zar, e di cui Nikon era il principale esponente. Nelle
intenzioni è un tentativo di restaurare la forma originaria della liturgia bizantina. In realtà
Nikon riprese questa idea dalla consultazione non dei manoscritti liturgici bizantini (la
ricerca sui manoscritti, cioè sulle vere fonti, è un modo moderno di lavorare), ma dai libri
liturgici stampati a Venezia. Il libro nel Seicento era ancora una rarità, un oggetto di
grande prestigio e di costo astronomico, che si imponeva quindi per l’autorevolezza del
mezzo prima ancora per l’autenticità del contenuto, un po’ come lo strumento informatico
dei giorni nostri. I libri veneziani proponevano una versione tutt’altro che originaria della
liturgia. È vero che la versione antico-slava, che in buona parte è in vigore ancora oggi,
proveniva dall’evangelizzazione di Cirillo e Metodio del IX secolo e dalla scuola bulgara
del X e XI secolo, ed era molto imprecisa. Anche questo è un aspetto di una spiritualità
liturgica molto sui generis: i russi conoscevano le fonti attraverso lo slavo ecclesiastico, che
in realtà era molto lontano dalle fonti, molto più, ad esempio, della versione Vulgata
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rispetto alla Bibbia ebraica. In Russia e Ucraina, ma un po’ in tutto il mondo slavo
ortodosso, la questione dei testi e delle musiche liturgiche è sempre stata, ed è tuttora, un
aspetto molto delicato da trattare. L’inizio dell’azione riformatrice fu l’imposizione di
Nikon, durante la Quaresima del 1654, di ripetere tre volte l’esclamazione dell’alleluia alla
fine delle litanie, e di farsi il segno della croce con tre dita invece che con due, come
prescrivevano le regole del Concilio Stoglav. La decisione suscitò subito scalpore, e fu
necessaria la convocazione di un nuovo Concilio locale per sancire l’adeguamento dei
rituali alle prescrizioni dei libri greci. Le decisioni del Concilio portano alla divisione
scismatica, al raskol, in seguito al quale i seguaci del patriarca verranno chiamati nikoniani,
e gli scismatici “vecchio-credenti”, o “vecchio-ritualisti” (starovery o staroobrjadtsy).
L’avversario di Nikon fu il protopop Avvakum (Petrov, 1620-1682), un membro della
“commissione” che aveva studiato la riforma, in cui Avvakum sosteneva che i testi russi
andassero corretti secondo le più antiche versione slave, piuttosto che quelle greche,
difendendo la tesi che i testi russi riflettessero l’autentica spiritualità ortodossa, superiore a
quella dei greci e di tutti gli altri popoli ortodossi. Il patriarca decise di reprimerlo insieme
ai suoi sostenitori, interpreti dell’opinione più diffusa tra i fedeli russi, e Avvakum fu
incarcerato e deportato in Siberia per un decennio, prima di riconquistare la fiducia dello
zar, che nel frattempo aveva preso decisamente le distanze dagli eccessi di interventismo
nikoniano. Nel 1633 il protopop venne fatto tornare a Mosca, dove visse un momento di
gloria, fino al decisivo Concilio del 1666 in cui venne condannato come eretico, mentre a
sua volta lui stesso lanciava l’anatema contro il patriarca e tutto l’alto clero moscovita,
formalizzando così lo scisma. Avvakum fu incarcerato e torturato, ai suoi compagni venne
tagliata la lingua, facendoli diventare eroi del dissenso popolare contro l’arbitrio del
potere, per venire infine bruciati sul rogo. La sua autobiografia, la Vita dell’arciprete
Avvakum raccontata da lui stesso, la prima nel suo genere per la Russia, è considerata l’inizio
della letteratura russa moderna.
A noi può sembrare incomprensibile e persino ridicola una polemica così violenta,
basata sul numero delle dita o delle litanie. La posta in gioco, in realtà, era molto più alta:
addirittura il dogma stesso della Trinità divina. L’interpretazione del dogma trinitario è
infatti l’argomento della polemica di Avvakum, riportando a livello teologico il senso della
devozione popolare che si opponeva alla riforma liturgica. Tutta la vicenda ha delle
somiglianze con la recente riforma liturgica latina decisa dal Concilio Vaticano II, che ha
sostituito il rito tridentino, una Messa privata del sacerdote di origine tardo-medievale,
difesa dai tradizionalisti come espressione dell’autenticità liturgica, con un nuovo rito
romano, che nelle intenzioni dei riformatori doveva restaurare invece la purezza delle
radici originarie. Il Vetus Ordo Missae, come oggi è definito, era stato istituito nel 1570 (un
secolo prima di Nikon, in pieno Concilio di Trento) dal papa S. Pio V con la bolla Quo
primum tempore, sostituendo tutti quelli in uso nelle Chiese locali, negli ordini e nelle
confraternite, salvando solo i riti esistenti da più di duecento anni: in questo modo
103
passava un colpo di spugna sulla frammentaria e ingovernabile diversità delle varie
correnti cattoliche dei secoli più difficili, da metà del XIV al XVI inoltrato. Si estese a tutta
la Chiesa il modello liturgico in vigore nell’Urbe, sostenendo che i riti locali erano inficiati
da eccessi di devozionismo e superstizione; Nikon fece in fondo un’operazione analoga (di
nuovo un indiretto influsso occidentale), negando la dignità ecclesiastica alla tradizione
spontanea della fede del popolo. La decisione di S. Pio V si fondava sulla necessità di
recuperare versioni più lineari e “autentiche” della liturgia, che vennero individuate nei
modelli celebrativi dell’epoca di papa Gregorio VII (1020-1085), il grande iniziatore della
riforma della Chiesa nel Medioevo, fino al periodo di papa Innocenzo III (1160-1216), il
papa della IV Crociata e degli ordini mendicanti, che rilanciò l’ultima grande ondata
riformatrice all’inizio del XIII secolo, con il IV Concilio Lateranense (1215). Di fatto la
scelta tridentina era più ideologica che propriamente teologica, individuando nella liturgia
lo strumento culturale necessario ad imporre a tutta la Chiesa un modello ecclesiologico
complessivo, in cui risultasse evidente la centralità dell’autorità papale; non dissimili,
riportate a livello moscovita, furono le intenzioni del patriarca Nikon. La recente riforma
del Concilio Vaticano II, annunciata nel 1963 con la costituzione Sacrosanctum Concilium e
realizzata con i relativi decreti attuativi del 1969, intendeva ristabilire l’autentico senso
della tradizione: “per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un
legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve sempre essere
preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale”47; Nikon avrebbe
probabilmente sottoscritto tale affermazione, anche se la problematica teologica era stata
da lui affrontata in modo decisamente superficiale.
Tornando infatti al significato simbolico dei dettagli rituali, va rilevata l’osservazione
di Avvakum circa il modo russo di proclamare l’alleluia, in cui le prime due esclamazioni
sarebbero in greco (sic!), mentre il terzo elemento viene riportato in slavo (slava tebe Bože),
a significare il dinamismo trinitario, in cui il Padre e lo Spirito Santo si uniscono alla
natura umana di Cristo. Il terzo alleluia deve essere quindi pronunciato nella lingua del
popolo, cioè dell’uomo, nella lingua dell’incarnazione. Lo stesso dinamismo si evidenzia
nel segno della croce, con le due dita a indicare la prima e la terza persona della SS. Trinità
che s uniscono al terzo elemento, la persona umana in cui Cristo si è incarnato. Il segno
triplice esclude dal circolo trinitario la natura umana e manifesta quindi una fede
monofisita, che esclude la vera unione di Dio con l’uomo (per non parlare ovviamente
della completa “degenerazione” dogmatica del segno a cinque dita dei latini). Anche l’ala
nikoniana, con altri argomenti, cercò di dare al segno a tre dita un valore simbolico
trinitario. Ritroviamo quindi la centralità del dogma della Trinità come elemento decisivo
della fede russa, il terzo elemento come necessario completamento della diversità divina.
La diatriba può essere variamente commentata; storicamente Nikon aveva delle buone
ragioni, come del resto le aveva Avvakum, che accusava i riformatori di non tener conto
Lo scisma dei vecchio-credenti è dunque uno dei più importanti spartiacque della
storia culturale e religiosa della Russia. I raskol’niki divennero una componente essenziale
e ineliminabile dell’autocoscienza russa, trovando numerose espressioni nella cultura e
nell’arte, come il famoso personaggio del romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo, il
giovane assassino che espone il suo dramma di coscienza come metafora dell’affermazione
dell’identità della persona umana, a cui l’autore assegna proprio il cognome Raskol’nikov.
Dopo lo scisma del 1652 i vecchio-credenti si sono diffusi soprattutto nei villaggi e nelle
campagne della parte europea della Russia, le “viscere” del paese, crescendo in modo
significativo poi nel Settecento fino a tutto l’Ottocento, anche in reazione alla
protestantizzazione e alla occidentalizzazione operata da Pietro il Grande. I raskol’niki
subirono nel tempo diverse persecuzioni, rappresentando di fatto una vera opposizione
popolare agli arbitri del potere statale in nome della tradizione russa. Si può in qualche
modo sostenere che i raskol’niki siano stati una delle radici del movimento rivoluzionario
russo, ponendosi sempre in opposizione al potere zarista, sia dal punto di vista religioso
che sociale. Molti rivoluzionari e scrittori guardavano a loro come i depositari della vera
cultura russa popolare. Da fine Ottocento, grazie a diverse ristrutturazioni amministrative,
i vecchio-credenti potettero stabilizzarsi nei villaggi della zona del Volga e dintorni, finchè
nel 1905 la prima rivoluzione russa permise anche ad essi di aprire delle proprie chiese,
grazie all’editto di tolleranza religiosa allora approvato, che permise anche ad altre
confessioni religiose di svilupparsi nel paese. Prima di raggiungere questa condizione di
relativa libertà, il raskol’ si mantenne spesso in condizioni di semiclandestinità, tanto da
esprimere una variante dello stesso scisma caratterizzato dall’assenza di clero, i cosiddetti
bezpopovtsy, i “senza preti”. Queste comunità sono in un certo senso simili alle sette
protestanti più radicali, come gli herrnuti o i quaccheri; in generale non riconoscono nel
patriarca il potere legittimo, con un linguaggio moderno potremmo chiamarli
“sedevacantisti”, come i lefevriani cattolici più intransigenti. Essi sono ancora oggi molto
legati agli antichi rituali e alle forme di devozione popolare, e abitano i villaggi russi della
campagna profonda, conservando gelosamente gli antichi libri delle preghiere. Alla fine
del Settecento vi fu il tentativo di sommossa popolare di Emeljan Pugačev, un ufficiale
cosacco che nel 1790, nel periodo della rivoluzione francese, sollevò i contadini contro la
zarina Caterina II. È un episodio della storia russa molto ripreso dalla letteratura, come ad
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esempio nel romanzo La figlia del capitano di Puškin (1836); la rivolta coinvolse soprattutto i
raskol’niki.
In conclusione della vicenda seicentesca, rileviamo che nel 1666 si arrivò alla condanna
dello stesso patriarca Nikon, quando era divenuto palese che le sue pretese riformatrici
nascondevano in realtà un’eccessiva ambizione politica inaccettabile per lo zar. A trenta
anni dalla nascita della dinastia dei Romanov come emanazione del patriarcato
ecclesiastico, Nikon aveva cercato di tornare allo stesso schema. Fu invece condannato,
ridotto allo stato sacerdotale semplice e rinchiuso in monastero, e morì nel 1681 pochi mesi
prima della esecuzione dello stesso Avvakum. In questo vorticoso scambio tra trono e
altare, sintomatico appare il fatto abbastanza noto che Nikon fosse il probabile padre
naturale di Pietro il Grande. Un gruppo di storici sovietici, ai tempi di Stalin, dimostrarono
che lo zar Aleksej Mikhailovič Romanov, padre ufficiale di Pietro, non poteva aver
concepito il figlio in quanto assente dalla sede dove era la moglie Natalja Naryškina, che
diede alla luce Pietro nel 1672; l’intenzione era quella di attribuire la paternità a un
principe georgiano che in quel periodo soggiornava a corte, in modo da compiacere il
dittatore. Stalin non volle appoggiare questa tesi, anche perché appariva abbastanza
evidente che l’unica ipotesi credibile indicava l’altro possibile membro della cerchia
imperiale che avesse accesso alla zarina, cioè proprio Nikon, da poco rinchiuso in
monastero dallo stesso Aleksej, ma ancora molto influente al Cremlino. Era l’unico uomo
atletico alto circa due metri in circolazione, proprio come il futuro zar che aprì la Russia
all’Europa.
Questa sarà la forma di governo ecclesiastico che durerà fino al 1917, quando nel pieno
della tempesta rivoluzionaria la Chiesa russa ripristinerà il patriarcato, nel corso del
Concilio iniziato ad agosto dello stesso anno, nel periodo del governo provvisorio di
Aleksandr Kerenskij (marzo-novembre 1917). Fu il primo Concilio locale della Chiesa
Ortodossa Russa dalla fine del XVII secolo, subito prima di Pietro il Grande. La questione
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del patriarcato doveva essere discussa insieme ai vari schemi ecclesiologici presentati al
Concilio, ma i padri conciliari furono costretti dagli eventi a prendere sui due piedi tale
storica decisione: pochi giorni prima i bolscevichi avevano preso d’assalto il Palazzo
d’Inverno di Pietrogrado, rovesciando il governo provvisorio, unica parentesi di libertà
democratica di tutta la storia russa prima dei tempi più recenti. La restaurazione del
patriarcato fu vista come misura necessaria, con la speranza che potesse meglio garantire
la difesa della Chiesa e dei diritti dei credenti; non fu quindi accompagnata da una
discussione teologicamente elaborata. Il primo patriarca della nuova era, decimo della
storia russa, fu Tikhon (Beljavin), che in effetti si oppose al potere ateo finchè potette, cioè
fino al 1922, quando venne imprigionato e costretto a scrivere una lettera di appoggio al
governo sovietico. Dal 1922 fino al 1991 il patriarcato russo è sopravvissuto sotto il
comunismo come un mero strumento del potere statale. Anche il potere sovietico, come
avveniva sotto Pietro il Grande, sottomise la Chiesa al controllo del Ministero degli Affari
Religiosi, emanazione dell’onnipotente KGB; della Chiesa patriarcale era salva la forma,
ma di fatto tutto il clero veniva selezionato, controllato e diretto dallo stato, a partire
proprio dal patriarca e da tutto l’episcopato, senza alcuna eccezione. In definitiva il
patriarcato russo, questa novità ecclesiologica del Cinquecento, nella sua storia conobbe
dapprima un secolo di torbidi e lotte con il potere zarista, poi fu eliminato per due secoli e
infine rimase in piedi solo come strumento di controllo delle coscienze in uno stato
ufficialmente ateo; non può certo essere citato come esempio di autocefalia teologicamente
ben fondata, a partire dai fatti stessi. La Russia patriarcale ha vissuto un’esperienza di forti
contraddizioni, e deve ancora dimostrare l’efficacia del destino scelto.
Il vero simbolo della riforma di Pietro il grande fu senz’altro la nuova capitale, che già
dal nome stesso si richiamava alla grandezza spirituale di Roma, come “città di San
Pietro”, e si proponeva come nascente metropoli europea, con il suo nome tedesco di
Sankt-Peterburg. In russo infatti il suo nome sarebbe dovuto essere “Svjatopetrograd”, come
infatti propose Solženitsyn nei primi anni Novanta del XX secolo, quando si tenne un
referendum per decidere come rinominare la città (che ripristinò invece il nome
originario). Essa infatti era già stata rinominata più semplicemente Petrograd tra il 1914 e il
1926, in segno di rigetto di fronte ai tedeschi invasori, per divenire Leningrad dopo la
morte della guida della rivoluzione e per tutto il periodo sovietico fino al 1991. Nel
linguaggio colloquiale russo, del resto, viene usualmente chiamata semplicemente Piter,
assimilando alla russa il nome inglese di Pietro; già a livello onomatopeico si presenta
come città-simbolo di una Russia che si concepisce universale. La nuova capitale diventò il
modello della contaminazione occidentale della Russia, la sua “finestra sull’Europa”. Lo
stesso Pietro aveva inaugurato il suo regno con un ampio viaggio in Europa, la cosiddetta
“Grande Ambasciata” (1697), dopo aver passato la prima giovinezza, a causa degli intrighi
di palazzo, lontano dalla corte in mezzo agli stranieri del quartiere occidentale di Mosca, la
Nemetskaja Sloboda, dove oltre a costumi europei si era appassionato a giocare con le barche
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sui fiumi cittadini della Jauza e della Moscova. Decise quindi di imparare sul serio sia i
“mestieri” occidentali sia l’arte della navigazione: volle edificare San Pietroburgo come
moderna città europea, con uno sbocco sul mare. Questo infatti era sempre stato il più
grande problema geopolitico della Russia, che ha solo sterminate e inutili coste
sull’Oceano Pacifico e su quello Artico, e uno stretto corridoio che si affaccia sul Golfo di
Finlandia, dove appunto nacque la nuova città. Durante il giro delle capitali europee,
Pietro faceva finta di nascondersi, per non perdere troppo tempo negli inutili ricevimenti
delle varie corti, e avvicinarsi alle tecniche e al lavoro delle popolazioni. Torna erudito di
tutta la cultura pratica di un occidente infinitamente più evoluto della Russia, vantandosi
poi di aver imparato trentatre mestieri, dal carpentiere all’odontoiatra. Al di là delle sue
personali smanie di protagonismo, Pietro fece venire in Russia una grande ondata di
ingegneri, architetti, mastri artigiani e operai dalle terre tedesche, olandesi, fiamminghe e
scandinave; in Russia verrà addirittura creata in seguito la “Libera Repubblica Tedesca del
Volga”, uno stato tedesco semiautonomo nel cuore dell’impero, capace di colonizzare una
serie di villaggi e città come Samara, Saratov e diverse altre fino agli Urali e oltre. Buona
parte dei tedeschi di quei territori verranno poi deportati da Stalin in Siberia e in
Kazakhstan, per cercare di indebolire la loro indipendenza etnico-culturale, ma anche
nelle nuove terre formeranno unità urbane e sociali di lingua e cultura tedesca, in cui si è
continuato fino a oggi a praticare anche il cristianesimo secondo le confessioni protestante
e cattolica. La cultura tedesca diventò da allora una componente essenziale della cultura
tecnico-produttiva russa, e contribuì anche alla diffusione della religiosità occidentale. Con
la fine del regime sovietico, molti tedeschi “asiatici” sono tornati in massa nella nuova
Germania unita, soprattutto quelli provenienti dal Kazakhstan.
Caterina II regnò sulla Russia dal 1762 al 1796, giusto nel periodo della rivoluzione
francese. Ella stessa era particolarmente impregnata della cultura illuminista francese e
tedesca, che venne rappresentata in Russia soprattutto dallo scrittore e pubblicista
Aleksandr Radiščev (1749-1802), l’unico vero illuminista russo, la cui opera più famosa,
considerata uno dei primi germogli della cultura filosofica russa, guarda caso si intitola
Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790). È la descrizione della Russia, dalla nuova
Pietroburgo alla vecchia Mosca, una critica dell’autocrazia e della proprietà terriera in cui
Radiščev propaganda con entusiasmo gli ideali della rivoluzione francese, la liberazione
dei contadini, l’abolizione della pena di morte e tutti i diritti dell’uomo. Egli adopera lo
strumento letterario del viaggio, che diventa lo spunto iniziale di questa nuova cultura;
famosi i ricordi di viaggio di Denis Fonvizin (1745-1792), un commediografo russo di
origine tedesca (Von Wiesen il suo cognome all’europea) che pubblicò le sue Lettere
dall’estero, che diffusero in Russia la moda del Grand Tour come necessaria esperienza di
vita e di formazione, colpendo peraltro con la sua satira l’atteggiamento dilagante
all’interno della nobiltà russa di seguire tutte le mode francesi, la cosiddetta “gallomania”.
Anche il primo grande storico russo, Nikolaj Karamzin (1766-1826) pubblicò le sue Lettere
di un viaggiatore russo, in cui commenta le impressioni del suo viaggio in Europa intrapreso
a partire dal 1789. Alla fine del Settecento l’intellettuale russo, il nobile russo “doveva”
visitare tutte le capitali d’Europa, e soprattutto Roma e Napoli, che nel Settecento era una
delle prime città d’Europa e che stupiva i russi per la somma delle sue contraddizioni,
quel miscuglio di “miseria e nobiltà” che tanto la faceva assomigliare alla Russia stessa. Il
Grand Tour divenne il terreno del continuo confronto con l’Europa, il modo di portare
l’Europa in Russia. I palazzi nobiliari del Nevskij Prospekt rispecchiano questo itinerario
culturale, con quattro chilometri e mezzo adornati da scenografici e magnifici palazzi,
dietro le grandi facciate dei quali c’erano ancora le campagne e i cortili, dove i nobili
vivevano alla russa, spogliandosi degli abiti sfarzosi indossati ai ricevimenti nei saloni di
gala. I nobili russi all’inizio del XVII secolo erano ancora boiari medievali, costretti da
Pietro il Grande a trasformarsi di colpo in notabili europei; per non parlare delle grandi
tenute di campagna e delle confortevoli magioni padronali di Mosca, dove gli stessi nobili,
che a San Pietroburgo tenevano la residenza ufficiale vicino alla corte, vivevano
praticamente alla maniera asiatica, senza nessuna regola e nessuna estetica obbligatoria.
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Capitolo 5. La cultura universale della grande Russia
Questa vittoria, che aveva lasciato sul campo circa un milione di morti, portò i russi
fino al cuore dell’Europa, e nel 1814 l’imperatore Alessandro I potette fare il suo ingresso
trionfale a Parigi in qualità di sovrano più potente dell’intero continente: la Russia aveva
conquistato l’Europa, imponendo ad essa la sua grandezza orientale. Nella Santa Alleanza
che fu poi proclamata nel 1815, al Congresso di Vienna, la nuova Europa “restaurata”
venne colorata di tonalità mistiche e romantiche, in cui non è difficile riconoscere i tratti
115
radicali e contraddittori dell’anima russa; come fu detto, in quel contesto “si identificò la
storia delle civiltà con la storia della religione”. L’idea ecumenica e “trinitaria” di
Alessandro I era quella di organizzare l’Europa grazie all’unione di tre imperi cristiani,
quello ortodosso russo, quello protestante prussiano e quello cattolico austriaco. Lo zar
russo doveva essere il capo di questa singolare unione dei popoli e delle Chiese, e per tutto
l’Ottocento si coltiverà in varie forme questo sogno romantico, appoggiato anche dal papa,
che ovviamente vedeva nella Sede romana il centro della stessa unione. Infatti nel 1848,
l’anno dei rivolgimenti irredentisti negli stati europei, il papa Pio IX inviò una lettera a
tutti i patriarchi ortodossi con un appello a riunirsi alla Chiesa Cattolica, che avrebbe fatto
da guida alla vera Europa cristiana; l’iniziativa ebbe ben scarso successo, e fu rigettata
senza neanche essere presa in considerazione, ma dimostrò quanto profondamente
l’utopia russa aveva influenzato le coscienze europee. L’ideale della “Santa Russia” non
era più confinato nei confini della Moscovia o nelle nebbie pietroburghesi, ma era
diventato un mito religioso circolante anche nell’occidente cristiano. L’autocoscienza russa
si era ormai affermata come un fattore ineliminabile del grande dibattito sui destini della
civiltà mondiale; proprio questo salto di qualità fu espresso magistralmente da Vladimir
Solov’ev nella sua teologia utopica sulla Russia e la Chiesa universale, in cui proponeva
l’idea della teocrazia spirituale come programma di riforma dell’Europa secondo il vero
spirito cristiano, da realizzare sotto il governo dello zar russo e l’autorità spirituale del
papa di Roma.
Dal 1812 nascono dunque anche tutti i grandi filoni culturali della Russia moderna. Il
primo e il più grande “figlio del 1812” è il poeta Aleksandr Puškin, formatosi come uomo
del Settecento e allevato nello spirito dell’illuminismo europeo, che diventò di fatto il
primo vero intellettuale russo. Egli infatti si affrancò dagli obblighi di servizio tipici della
Russia settecentesca, fu il primo a rifiutare la carriera civile per dedicarsi all’arte, cosa
allora ritenuta estremamente sconveniente; tutti gli artisti russi della prima metà
dell’Ottocento dovettero lottare con le proprie famiglie per poter realizzare la propria
vocazione artistica, evitando di rimanere imbrigliati nella burocrazia statale. Puškin prese
la sua ispirazione non tanto dalla cultura europea in cui era stato educato, ma piuttosto
dalla sapienza popolare della sua balia, la njanja, che gli raccontava le favole russe,
insegnandogli in questo modo la stessa lingua russa. I nobili russi del tempo quasi non
conoscevano il russo e non avevano interesse alla lingua del popolo, in quanto la lingua
dell’alta società russa era il francese. Puškin dovette di fatto inventare la lingua letteraria
russa, e in questo senso la letteratura russa vera e propria nasce tutta da lui. Egli morì
romanticamente, a trentotto anni, nel duello con il barone francese Georges d’Anthés; la
sua opera verrà continuata da Mikhail Lermontov (1814-1841), con cui forma la coppia
116
regina, il Dante e il Petrarca della letteratura russa. Ma la sua vera eredità verrà poi
assunta da Nikolaj Gogol’, il grande scrittore ucraino-russo. Gogol’ fu una personalità
estremamente tormentata, che scrisse vari racconti per descrivere veramente che cos’è la
Russia, come già aveva iniziato a fare Puškin. La sua opera principale, le Anime Morte
(1842), è il tentativo esplicito di far emergere appunto l’anima russa: è un romanzo satirico,
in cui lo scrittore immagina un imbroglione, Čičikov, che traffica contadini defunti
girando per le campagne russe per ottenere vantaggi fiscali e rivenderli, e viene infine
scoperto. Quando Puškin ascoltò da Gogol’ i primi capitoli del romanzo, che ebbe una
lunga gestazione, cadde nella disperazione, esclamando: “come è degradata la nostra
Russia!”; Gogol’ ci rimase male, pensando di aver composto un testo umoristico, e non la
realtà. Aveva invece fatto una descrizione così efficace della Russia e dei suoi difetti, che
tutti la presero alla lettera, come una denuncia dei veri mali del paese.
In realtà Gogol’ intendeva scrivere una specie di Divina Commedia in tre stadi, prima
il male, poi l’inizio della conversione, e infine il trionfo del bene. Il suo protagonista,
Čičikov, doveva svolgere la funzione di Dante, che passa per i tre livelli mostrandone i
misteri. L’impressione enorme della prima parte, corrispondente all’inferno della Russia,
portò alla sua messa al bando da parte della censura di stato per alcuni anni; venne infine
pubblicata, e tutta la Russia ne discusse per decenni, creando una così grande aspettativa
del seguito, ma Gogol’ non riuscì a portare avanti il progetto. Egli scrisse la seconda parte
del racconto già quasi senza ispirazione, bruciò due volte il manoscritto, la seconda volta
solo dieci giorni prima di morire. Di essa sono rimasti cinque capitoli, mentre la terza
parte non fu mai neanche abbozzata; il romanzo rimase incompiuto, e anche in questo esso
funge da simbolo un po’ di tutta la cultura russa. Da notare che Gogol’ scrisse il suo
capolavoro in buona parte durante i viaggi invernali in Italia, e quelli primaverili nelle
località termali della Germania, da cui tornava in Russia a raccontare come procedeva il
lavoro; quando terminò la prima parte del libro, dalla sua casa di Roma scese dalla vicina
Trinità dei Monti a piazza di Spagna, dove si mise a festeggiare ballando danze cosacche e
canzoni ucraine per tutta la notte. Quando poi tornò in Russia, celebrò l’evento
preparando per i suoi amici slavofili una solenne spaghettata all’italiana (era un grande
amante della cucina italiana). Gogol’ era un personaggio molto naturale e spontaneo, che
secondo Lev Tolstoj aveva “un enorme talento, ma poco cervello, e quando non pensava
scriveva cose magnifiche”, mentre quando voleva dimostrare qualcosa perdeva
l’ispirazione. In seguito alla crisi si buttò infine direttamente sulla religione, scrivendo testi
edificanti tra cui le Meditazioni sulla divina liturgia, in cui cercava di mostrare che la liturgia
ortodossa non è inferiore a quella cattolica. Gli intellettuali russi lo accusarono di aver
perso il lume della ragione, e di essersi ormai artisticamente inaridito. Per cercare di
arrivare infine all’anima russa, Gogol’ si rivolse alla liturgia e alla devozione, visto che non
riusciva con l’arte; in realtà il suo percorso esprime la vera ricerca dell’anima russa, un
itinerario dall’anima morta all’anima vivente, che prevedeva la conversione di Čičikov
117
grazie agli sforzi congiunti di sacerdoti cattolici e ortodossi, una conversione “ecumenica”,
insieme orientale e occidentale.
In questo periodo, tra Puškin e Gogol’, emerse proprio il dibattito sui destini ultimi
della Russia. L’episodio storicamente dirompente fu la pubblicazione da parte di Petr
Čaadaev nel 1836 di una lettera famosa a una signora immaginaria, in cui il filosofo
esprime tutto il suo scetticismo circa l’esistenza in Russia di una propria cultura, e accusa i
connazionali di aver copiato tutto dagli altri popoli. Herzen definì questa lettera uno
“sparo nella notte buia”, e proprio essa diede pubblicamente il via alla polemica tra
slavofili e occidentalisti, in quanto poneva in modo acuto il problema di fondo
dell’identità nazionale. La polemica si sviluppò comunque sotto l’influsso della filosofia
tedesca: gli occidentalisti erano tendenzialmente hegeliani, mentre gli slavofili erano
chiaramente schellinghiani. I principali termini adoperati dagli slavofili come la
“unitotalità” (vseedinstvo), la “conciliarità” (sobornost’), la “conoscenza integrale” (tsel’noe
znanie) provenivano tutti dalla filosofia di Schelling. Il grande critico teatrale Belinskij si
contrapponeva al pubblicista Khomjakov, che a sua volta aveva risposto a Čaadaev;
l’hegeliano Herzen dibatteva con il filosofo schellinghiano Kireevskij. Tutta la storia della
controversia è molto russa, molto ricca di scambi di posizione e aperte contraddizioni.
Herzen era il prototipo dell’intellettuale russo occidentalista, parlava sempre della Russia,
ma viveva costantemente in Europa, che considerava la sua vera patria, ritenendosi russo
per caso. Da questa contrapposizione nacque la cultura dell’Ottocento, che si concluse a
livello letterario con l’opera di Tolstoj da una parte e di Dostoevskij dall’altra. I due
massimi scrittori russi erano l’uno molto occidentalista, e l’altro espressione della vera
anima russa, colui che riuscì in qualche modo a realizzare quello che Gogol’ non era
riuscito a portare a compimento: partendo dal male della società russa, Dostoevskij
presenta in genere la parte più degradate della società, per giungere alla purezza e alla
santità rappresentata da diverse figure emblematiche, come il principe Myškin, l’idiota. La
cultura dell’Ottocento verrà poi rivisitata in modo drammatico agli inizi del Novecento, in
quel ventennio chiamato “secolo d’argento”, che segue al “secolo d’oro” ottocentesco. Vi
sarà la riscoperta della filosofia religiosa, a partire da Solov’ev, contro i rivoluzionari,
Lenin, Trotskij, Plekhanov ecc. Tutto questo è materiale della storia della filosofia e della
cultura russa nel suo complesso, che richiederebbe una analisi dettagliata; qui ci limitiamo
a commentare la tesi, per cui tutto questo materiale si capisce solo se si ritrovano tutte le
radici della cultura russa. Documentazione di questa tesi si può abbondantemente reperire
nella letteratura, nell’arte e nella musica russa.
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L’anima russa è divenuta famosa nel mondo universale della cultura in questo arco di
tempo, dal secolo d’oro dell’Ottocento al secolo d’argento degli inizi del Novecento.
Queste delimitazioni hanno comunque un valore relativo: anche nell’Ottocento russo vi
sono alti e bassi, non troviamo una assoluta continuità, ma sicuramente si evidenziano
delle vette eccelse, che hanno reso la Russia protagonista della cultura universale,
suscitando anche oggi tanto interesse in tutto il mondo. L’esplosione della cultura russa
nacque da un repentino movimento di assoluta apertura, e poi di totale rifiuto del mondo
occidentale. All’inizio dell’Ottocento la Russia diventa, con il regno di Alessandro I, una
delle grandi potenze nazionali del continente europeo, almeno come aspirazione. La
cultura dell’elite russa in quel periodo non aveva più niente di russo; come abbiamo già
ricordato, i nobili russi non parlavano la propria lingua, ma piuttosto il francese. I
viaggiatori come Fonvizin e Karamzin che raccontano l’Europa, ne parlano come della
vera patria russa. La rivoluzione francese aveva peraltro innescato un meccanismo di
confronto, tale per cui già sotto Caterina II lo zarismo assolutista aveva espresso una
reazione di distacco dalla rivoluzione. Vi era il giustificato timore che la rivoluzione
potesse scardinare anche i sistemi sociali russi, e in effetti il sogno della rivoluzione
rimarrà lo sfondo ideale di tutto il secolo. La reazione portò immediatamente a un rigetto
dell’influsso francese, tanto che l’illuminista russo più in vista, lo scrittore Radiščev, venne
incarcerato e spinto al suicidio.
Il problema è che, a livello politico, dall’ipotesi liberale dopo il 1812 si passa alla più
assoluta reazione. Nel 1825 ci sarà la rivolta dei decabristi, i “dicembrini”, il primo moto
rivoluzionario russo. I decabristi erano nobili, ufficiali dell’esercito che avevano fatto la
campagna contro Napoleone ed erano rimasti delusi dalla mancanza di riforme, dalla
cancellazione delle loro speranze, e organizzarono un colpo di stato contro Alessandro I
per cercare di spingerlo a realizzare il programma riformista, o addirittura per rovesciarlo.
Il piano decabrista fallì a causa della piega degli eventi, che impedirono di preparare un
piano adeguato per la rivolta: Alessandro I morì improvvisamente a Taganrog il primo
dicembre del 1825, e al suo posto si insediò il fratello minore Nicola I, che dovrà subito
fare i conti con il velleitario inizio dei moti: i decabristi, pur non essendo ancora pronti,
decisero di provarci, ma vennero subito soffocati. Nicola I ebbe così l’occasione per
imporre un regime di assoluta dittatura, mettendo fine non solo ai sogni liberali, ma anche
alla loro espressione più romantica, legata al progetto della Santa Alleanza del 1815.
Questa era la Yalta dell’Ottocento, la spartizione dell’Europa che si sosteneva sul sogno
romantico-religioso di unire tutti i cristiani per una nuova Europa, magari non proprio
liberale, ma che potesse in qualche modo soddisfare i desideri di tutti i popoli.
Si arrivò così alla più dura reazione, Nicola I venne soprannominato “il gendarme
d’Europa” in quanto monarca più duro e più potente, che faceva da puntello anche alle
altre autocrazie europee. Lo zar nel 1845 approfittò di un soggiorno a Palermo, dove la
zarina era in vacanza, per recarsi addirittura a Roma dal papa (fu la prima visita di un
120
regnante russo a Roma) per sostenere l’autocrazia papalina, che gli serviva come simbolo
del potere autocratico, perché fondata direttamente sul potere divino. La storica visita,
durata cinque giorni dal 13 al 17 dicembre 1845, era stata accompagnata da varie
perplessità nell’opinione pubblica, a causa delle persecuzioni dei cattolici uniati da parte
dello zar, ma si risolse in una conferma del ruolo carismatico che la monarchia russa
rivestiva in Europa in quel periodo. In una lettera di Gogol’, presente a Roma nei giorni
della visita di Nicola I, egli riferisce all’amico Aleksej Tolstoj (2 gennaio 1846): “Del
sovrano ho ben poco da dirvi. L’ho visto di sfuggita due o tre volte. Il suo aspetto era
eccellente, e ha fatto un enorme effetto sui romani. Dovunque andasse i popolani lo
chiamavano semplicemente Imperatore, senza aggiungere: di Russia, tanto che un forestiero
avrebbe potuto credere che si trattasse del legittimo sovrano di questa terra”.
La Russia aveva bisogno di un Vaticano forte, per paura dei moti liberali che in effetti
si faranno sentire anche a Roma nel 1848. Questo passaggio politico permise a Nicola I di
dare anche una sua risposta alla esigenza di identità culturale che animava la Russia.
secondo l’ideologia zarista, la samobytnost’ della Russia ovviamente triplice, trinitaria,
formata dai concetti di autocrazia, ortodossia e nazionalità (samoderžavie, pravoslavie,
narodnost’). Il terzo termine è quasi intraducibile: indica un miscuglio di nazionalismo,
populismo e spirito nazionale, spirito del popolo (narod), popolarismo. In italiano si usa il
termine “populismo”, che descrive l’atteggiamento del monarca o governante che cerca in
primo luogo di ottenere il favore del popolo. Sicuramente la narodnost’ russa non è questo,
anche se la figura dello zar è populista nel senso di amata dal popolo, ma non per la
personalità, quanto per la sua aura di sacralità. Nella narodnost’ russa sta tutto il contenuto
della samobytnost’, dell’ideale slavofilo. La triade ideologica venne propagandata dal
ministro della cultura Sergej Uvarov (1786-1855), uno dei grandi protagonisti della
restaurazione, anzi il vero simbolo della restaurazione culturale. In quale combinazione i
tre termini si richiamino tra di loro, è la grande domanda della coscienza culturale russa
applicata alla politica; ad essa verrà data anche una risposta antiautocratica, ma
ugualmente dittatoriale, quella del comunismo bolscevico. Il “potere dei soviet”
proclamato dalla rivoluzione del 1917 è infatti una forma di narodnost’, di potere del
popolo nella forma del potere socialista.
La religiosità di Pietro il grande, e del periodo a lui collegato, esprime una variante
dell'Ortodossia che nella mentalità russa non è semplicemente una parte della tradizione
cristiana, ma la versione propriamente russa del cristianesimo, non assimilabile neanche a
quella greca. Non è l’Ortodossia teologica, ma la pravoslavie russa, così come il marx-
leninismo è la versione russa del marxismo. Il puro pensiero di Marx venne infatti diffuso
nel mondo dal suo segretario, Karl Kautsky, e da Georgij Plekhanov, il fondatore dei
comunisti russi, che nell’esilio europeo si era assunto l’incarico (non assegnatogli da
nessuno, tantomeno dallo stesso Marx) di diffondere nel mondo il verbo marxista. In
121
analogia con i padri della Chiesa, il rapporto tra Lenin e Plekhanov rievoca poi il rapporto
tra la Chiesa russa e quella greca. Plekhanov è il “Teofane il Greco” del marxismo, un
vecchio marxista che non serviva alla rivoluzione, mentre il marxismo russo divenne
l'unico marxismo ad essere veramente realizzato, il cosiddetto “marxismo reale”. Questo
passaggio ha condizionato il marxismo in occidente, che ha dovuto fare i conti con una
versione non marxista del marxismo. Nemmeno Stalin, del resto, era marxista, in realtà era
convinto soltanto della bontà dello stalinismo, non del marxismo vero e proprio. Il
dittatore georgiano era in effetti convinto di una sua propria divinità, proponendo a sua
volta una versione “russa” di una tradizione composita. Il comunismo cinese, l’altra faccia
del marxismo reale, è un altro discorso ancora. Il comunismo si è così storicamente
realizzato dove non vi era nessuna premessa per la sua realizzazione, trovando in Marx
risposte adattate alla Russia, e in seguito alla Cina; anche il comunismo cinese, del resto, è
figlio di quello russo, solo in una fase successiva (la “rivoluzione culturale”) diventò
autoctono. Per tornare a Pietro il Grande, egli pose nell’imperatore, e nella struttura statale
a lui collegata, il principio supremo della religione e della Chiesa, contro la stessa
tradizione cristiana. Un’analogia con questo fenomeno si può trovare nell’Italia medievale
di Federico II, ma in realtà in questa forma è un fenomeno esclusivamente russo.
L’apostolato dell’intelligentsija.
La risposta culturale al trauma del 1812 suscita la fioritura di tutta la cultura russa,
presto schiacciata dalla repressione di Nicola I. Con la cultura nasce in Russia anche la
censura, e quindi la diffusione clandestina della cultura, che nel Novecento produsse lo
straordinario fenomeno del samizdat. Nasce nella cultura russa una figura di ricerca
tormentata e perseguitata, che si assume il compito di trovare l’autocoscienza, di spiegare
e diffondere i motivi dell’identità comune: la cosiddetta intelligentsija. Il termine proviene
dall’uso latino, si tratta di una semplice traslitterazione, senza nulla di slavo o di russo: è la
pronuncia russa del termine latino intelligentia. Non dimentichiamo che la cultura
universale, in Russia come in Europa, all’inizio dell’Ottocento si esprimeva ancora in
latino. L’intelligentsija si caratterizza per la decisione di assumersi questa missione, quella
di spiegare non tanto al popolo, che era poco più di una figura retorica, ma al mondo
intero il mistero della Russia, il suo segreto, quindi anche di “illuminare il popolo” alla
maniera illuminista. Pensiamo a Tolstoj, già alla fine dell'Ottocento, un nobile russo che
per tutta la vita avrà l’angoscia di illuminare i contadini, cerca di vivere in mezzo a loro, si
veste come loro, nella sua tenuta nobiliare di Jasnaja Poljana, ma tutti i tentativi finiscono
con un fiasco completo, rimanendo egli sempre un aristocratico pieno di vizi e capricci,
che spesso si reca in Europa a spendere, tra pentimenti e ritorni. Nessuno riuscirà ad
avvicinarsi veramente al popolo, fra tutti gli intellettuali russi. Infatti l’intelligentsija venne
poi criticata nel periodo prima della rivoluzione, da un gruppo, quello che nel 1909
122
pubblicò la rassegna Vekhi, che farà una ricerca sulla crisi dell’intelligentsija mostrando
quanto fosse in realtà lontana dal popolo. Alla fine la rivoluzione bolscevica fu un
tentativo di realizzazione dell’ideale dell’intelligentsija, con la pretesa di dare al popolo la
forma di vita comune che esalta la sua vera natura. Il termine intelligentsija si è diffuso
ovunque, per indicare l’elite culturale in tutti i paesi. Anche in occidente usiamo questo
termine latino russificato, senza ricordare la sua origine latina.
Il primo intelligent, il primo uomo che si dedicò anima e corpo a questo compito, è il
padre della cultura russa, il poeta Puškin, il primo che rifiuta la carriera civile per
dedicarsi alla poesia e alla cultura. È il primo prototipo dell’ ”uomo inutile” (la definizione
viene dal romanzo di Turgenev Padri e figli, il lišnij čelovek). È l’uomo superfluo, in
sovrappiù, perché non rientra nello schema della società rigidamente suddivisa in classi
creata da Pietro il grande. Non si sa quale sia il suo compito, di che cosa si occupi, quale
sia il suo mestiere; non è un professore universitario, perché in realtà gli accademici non
erano considerati ancora degli intelligenty. Per diventarlo dovevano anche mettersi a
frequentare l’alta società, discutere nei salotti letterari e filosofici, pubblicare su riviste
clandestine. In generale la cultura accademica non rientrava nel concetto originario di
intelligentsija. In seguito l’intelligentsija arrivò anche a esprimere un proprio livello
religioso nella cosiddetta “filosofia religiosa” russa, che è la definizione con cui noi
indichiamo la cultura religiosa russa più conosciuta, quella dei Solov’ev, Berdjaev,
Bulgakov, Florenskij, che si possono ritenere degli intelligenty religiosi. Solov’ev insegnò
forse per un semestre all’università di Mosca e circa due mesi all’Accademia teologica di
San Sergio, e per tutto il resto della vita rimase il beniamino delle dame dell’alta società di
Mosca e San Pietroburgo, non aveva un luogo proprio, un’inquadratura, niente di niente.
Infatti la filosofia religiosa non si definisce né filosofia né teologia, è difficile dire che tipo
di materia sia; rifiutata dai filosofi e dai teologi, tutti in realtà prendono ispirazione da
essa, sia i filosofi che i teologi. L’unica figura occidentale che si sia avvicinata alla “filosofia
religiosa” è quella del teologo Hans Urs Von Balthasar, che espresse un rifiuto della
teologia accademica, e si dedicò a stendere una sua sintesi originale, la “teologia estetica”
di Gloria-Herrlichkeit, una teologia fuori dall’accademia, ma pur sempre riciclata poi nei
circuiti teologici tradizionali.
La cultura russa parte dalla poesia, cioè dalla parola, dalla acquisizione vera e propria
della lingua russa. È discutibile definire Puškin soltanto un poeta; egli scrisse molto anche
in prosa, proprio per assolvere il compito che si era assegnato. Egli sosteneva che
bisognasse anche raccontare la realtà, non solo riprodurla creativamente, e sia lui che i
suoi successori rifiuteranno le definizioni ristrette di poesia o prosa. Il romanzo La Figlia
del capitano fu scritto da Puškin per raccontare romanticamente la rivolta di Pugačev, e allo
stesso tempo egli scrisse anche la storia della rivolta, un vero e proprio testo di
storiografia. È una cultura estremamente duttile, proprio alla maniera russa. Puškin
123
comunque dal punto di vista strettamente letterario fa capire che il genio russo non è
inferiore a quello delle altre culture europee, è una vetta eccelsa, lo Shakespeare russo.
Esprime un afflato universale fin da subito, scrive a partire dalla sua samobytnost’, dalla
sua percezione di se stesso della Russia, che gli viene da chissà dove. Le favole popolari,
come quelle della njanja di Puškin, divennero la maggiore fonte di ispirazione di tutta le
letteratura russa. Un esempio lampante è la Khovanščina. È la narodnost’ che viene dal
sangue, dal rod, dalla razza. Sarebbe ridicolo affermare che Puškin abbia trovato
un’ispirazione così elevata da far scaturire l’epica russa (nel Boris Godunov) e il
romanticismo russo (l’Evgenij Onegin) solo dalle favole della bambinaia. Il poeta non si
basò sopra una ricerca antropologica, come faranno altri dopo di lui, ad esempio
Stravinskij, che passava le giornate a trascrivere in musica i canti dei contadini e delle
massaie. Una delle parti più interessanti anche della cultura accademica russa del resto è
proprio la favolistica, l'interpretazione delle favole, un filone d’oro della cultura
universitaria in Russia, dove è molto più sviluppato che in occidente. Questo filone ha
espresso in Russia dei grandissimi nomi, che hanno per molti aspetti anticipato anche lo
strutturalismo. Puškin assume questa ispirazione dal sangue, e raggiunge
immediatamente in cima. È sufficiente leggere una delle sue poesie più famose, che
definisce la sua stessa missione, Il Profeta:
Il “Serafino sei volte alato” è una citazione biblica (Is 6), molto usata nella liturgia
bizantina. La Russia è descritta come un “triste deserto” oscuro, senza una lingua. Nel suo
complesso la poesia è una reminiscenza pagano-cristiana; Puškin stesso, parlando delle
sue convinzioni in materia religiosa, affermava di tendere all’ateismo, era a tutti gli effetti
un intellettuale illuminista, senza un’espressione religiosa esplicita. Il suo misticismo
piuttosto di stile massonico ha comunque un aggancio alla tradizione religiosa russa. Il
suo appello, “Sorgi profeta, con la parola infiamma i cuori degli uomini”, esprime la
missione del poeta, profeta suscitato da Dio per accendere i cuori. Si tratta di una
ambizione non da poco, un afflato epico che riesce a tirar fuori subito l’anima russa, che
spunta fuori quasi come una palla di fuoco. Egli per primo rilesse le vicende della storia
russa a lui contemporanee (quelle del 1812), si improvvisò storiografo, e fece parte anche
del gruppo dei decabristi, anche se non come membro attivo, e dopo il fallimento della
rivolta per un po’ dovette rimanere in disparte. Il gruppo dei decabristi continuò
comunque a fornire l'ispirazione anche dopo la sua sconfitta, in quanto gruppo di uomini
ardenti che avevano salvato l’Europa e sconfitto Napoleone, e dopo essere tornati in
Russia erano stati emarginati e perseguitati, poi confinati in Siberia (quelli sopravvissuti
alla fine del tentativo rivoluzionario). L’esilio dei decabristi in Siberia (che proprio in
questo periodo assunse i contorni di una terra onirica, luogo di incubi e metafore della
coscienza collettiva) divenne un confronto a distanza per tutta la cultura russa, con figure
leggendarie come il principe Volkonskij, rievocato da Tolstoj nella figura di Andrej
Bolkonskij in Guerra e Pace (e usato da Orlando Figes come figura simbolica della sua
storia della cultura russa), il principe contadino che scopre la vicinanza col popolo durante
la guerra, e proprio in Siberia diventa un uomo del popolo, realizzazione degli ideali
dell’intelligentsija. Puškin cerca di riprodurre questa epica del popolo. Un altro suo famoso
poema è il Cavaliere di Bronzo, dedicato alla famosa statua di Pietro il Grande a San
Pietroburgo, sulle rive della Neva, di cui pure vale la pena di riportare un brano:
48 Trad. M. Ricci in GARZONIO Stefano – CARPI Guido, Antologia della poesia russa, Firenze 2004, p.259.
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di alti pensieri egli stava, e guardava
lontano. Innanzi a lui largo correva
il fiume; solitaria vi arrancava
una povera imbarcazione. Lungo
muschiose, putride sponde, qua e là
si stagliavano nere capannucce,
asilo miserabile di finni,
e la foresta, sconosciuta ai raggi
di un sole avvoltosi nella caligine,
tutto intorno stormiva.
Ed egli meditava:
da qui minacceremo lo svedese,
qui fonderemo, a dispetto ed a danno
del superbo vicino, una città.
Qui ci fu decretato da natura
di aprire una finestra sull'Europa,
di rimanere sul mare a piè fermo.
Qui, solcando acque loro sconosciute,
giungerà ospite a noi ogni bandiera,
e in spazi liberi banchetteremo.
“Egli”, lo zar Pietro che non serve, e non si osa, neppure nominare, “stava e guardava
lontano”, il mondo, la storia. Il territorio della nuova città era un “asilo miserabile di
finni”, una vera espressione di razzismo russo, del suo complesso di superiorità nei
confronti del mondo intero. Prima di Pietro il mondo era una terra di poveri, dove c’era
solo un rifugio per disperati. “Minacceremo lo svedese”, il cattivo vicino: è proprio la
voglia della Russia non tanto di sentirsi superiore, ma di civilizzare il mondo, di dare al
mondo una vera anima. “Aprire una finestra sull’Europa”, compito dato dalla natura
stessa non tanto per “entrare in Europa”, come si usa dire oggi, ma per mostrare
all’Europa le meraviglie dell’anima russa. Infatti “giugnerà ospite a noi ogni bandiera, e in
spazi liberi banchetteremo”: la Russia è la terra escatologica, in cui si prepara il banchetto
di tutti i popoli. L’elevato tono romantico fa nascere la cultura russa moderna a partire da
un livello estremamente alto. Dalla grandiosa epica di Puškin si passa poi a una intera
serie di poeti, come ad esempio Žukovskij, mentre dopo la morte l’opera di Puškin verrà
portata avanti da Lermontov, che raggiunge la perfezione letteraria della poesia russa, la
classicità della lingua russa. Possiamo ricordare anche Fedor Tjutčev, nazionalista
esasperato, che immagina una Russia capace di distruggere e cancellare tutti gli altri
popoli, non in senso politico - non è questo che interessa, il potere politico -, ma in senso
spirituale, nella capacita di inglobare in sé tutte le culture. Infatti Tjutčev offre la
definizione più famosa della specificità culturale russa:
49 Trad. M. Colucci in GARZONIO Stefano – CARPI Guido, Antologia della poesia russa, Firenze 2004, pp.283-287.
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La Russia non si intende con il senno,
né la misura con il comune metro:
la Russia è fatta a modo suo,
in essa si può credere soltanto. 50
50 Trad. T. Landolfi in GARZONIO Stefano – CARPI Guido, Antologia della poesia russa, Firenze 2004, p.381.
129
realtà dallo Šinel’ ha origine tutta la grande letteratura russa. Il racconto parla di un
funzionario che non ha niente che possa farlo amare da qualcuno, un uomo senza qualità
che sa soltanto copiare (evocando una cultura che non esiste) in bella calligrafia nei registri
dell’amministrazione. Non ha vestiti adeguati, porta sempre gli stessi a causa della sua
indigenza. Il clima di San Pietroburgo è particolarmente difficile da sopportare per via del
freddo e dell’umidità, ragion per cui il cappotto sbrindellato del protagonista va
continuamente aggiustato e rivoltato, il colletto rimpicciolito, finchè il sarto sentenzia che
non si può più riparare. Chiamato “la vestaglia” dai colleghi che lo umiliano, il cappotto
rappresenta la vecchia Russia, una vestaglia rattoppata che non riesce a dare all’uomo una
dignità, a rivestirlo di un immagine adeguata alla realtà in cui si trova. Il funzionario
reagisce imponendosi enormi sacrifici, digiuna e risparmia su ogni cosa, per un anno
intero si reca quotidianamente dal sarto a parlare del futuro cappotto, della stoffa e delle
misure. Dopo un anno di privazioni riesce a mettere insieme la somma, e il cappotto così a
lungo sognato riesce magnifico, perfetto, tanto che tutti i colleghi sono costretti a fargli i
complimenti, finalmente meravigliati da lui, che ha saputo conquistare la propria dignità,
è diventato un uomo degno della società in cui vive. Viene organizzata una festa in onore
del cappotto di Akakij Akakevič, il funzionario; una specialità di Gogol’ erano i nomi e i
cognomi, in questo caso la scelta è riferita al martire s. Acacio, in una rievocazione più
pagana che cristiana. D’altra parte si evidenziano le radici monastiche, l’influsso degli
eremiti russi, come si ritroverà in Dostoevskij che riempie i suoi romanzi di monaci e
starets. Akakij viene preso dall’esaltazione della festa, si concede al ballo, alla fine tutti se
ne vanno soddisfatti, anche se il cappotto viene gettato a terra nella ressa dell’uscita.
Akakij se lo rimette ed esce in piazza, dove alcuni energumeni lo aggrediscono e glielo
rubano, proprio davanti alla garitta della guardia che dormicchia. Il malcapitato protesta
con la guardia, e questi afferma di avere scambiato gli aggressori per amici di Akakij, e che
lo stessero abbracciando sotto gli effetti dell’alcool. Disperato, Akakij si reca da tutte le
istanze possibili, riesce a farsi ricevere da un altissimo funzionario, il quale con grande
alterigia (si evidenzia la polemica di Gogol’ contro la burocrazia) lo congeda senza dargli
ascolto. Akakij Akakevič cade infine in uno stato di delirio febbrile, finchè muore. Dopo la
sua morte, per un certo periodo a San Pietroburgo corre voce che per le strade si aggiri
uno spettro che assale la gente e strappa i cappotti, finchè riesce a trovare il procuratore
generale, proprio l’altissimo funzionario che aveva negato l’aiuto al pover’uomo, e gli
ruba il cappotto lasciandolo nella più totale prostrazione, spogliato dell’alterigia,
facendolo diventare a sua volta un uomo deriso e umiliato. Ogni tanto, si dice, lo spettro si
aggira ancora per le vie di San Pietroburgo. Questa la storia, che è la storia della Russia che
cerca la propria anima, la propria dignità, descritta nelle minuzie, nel dettaglio dei
bassifondi, della miseria che diventa l’occasione per proclamare la più alta dignità. Questo
è il segreto della letteratura russa, dei grandi romanzi di Dostoevskij: la descrizione
dell’uomo deriso e demente, dell’idiota, del povero, dell’uomo del sottosuolo, del
130
peccatore, del rivoluzionario, di quella realtà umana che dal negativo si mette in cerca
della vera anima, trovandola infine proprio nella negazione.
Dall’esperienza dei Racconti, Gogol’ venne ispirato alla necessità di fare “il” romanzo,
“la” storia dell’anima russa. Egli si immedesimò nella parte, credendosi il Dante russo e
non solo in senso metaforico: durante la sua permanenza in Italia, che complessivamente
durò una decina di anni, trascorsi per lo più a Roma e in giro per l’Europa, egli si sforzò di
impersonare il vate della cultura russa, dedicandosi alla stesura della sua “Divina
Commedia”. Per essa sceglierà appunto il titolo di Anime morte, centrato proprio sulla
ricerca dell’anima. In realtà il romanzo è ricco di anime vive: si tratta di un romanzo breve
incredibilmente ricco di personaggi vivissimi, dove anche le anime effettivamente defunte
e rimaste soltanto sui registri partecipano attivamente alla rassegna dei più disparati
caratteri dell’anima umana. Nel romanzo l’autore offre un caleidoscopio descrittivo di
possidenti, servi, funzionari, città e paesi russi, una grottesca imitazione dei gironi
dell’Inferno dantesco, che raccontano di una Russia paradossale, eppure assai veritiera. È
il romanzo più “russo” che esista, che illumina con abbaglianti squarci di luce la realtà
della Russia profonda, anche se in tono decisamente ironico e surreale. I difetti dei
personaggi gogoliani sono le indicazioni che servono a cercare le virtù. Come abbiamo già
ricordato, nell’intenzione dell’autore il romanzo doveva formare una specie di trilogia, che
dalla descrizione dei vizi doveva passare attraverso i tentativi di correzione, fino al
paradiso della redenzione di Čičikov, che doveva mostrare infine lo splendore della
perfezione morale. Gogol’ riuscì a scrivere solo la prima parte, l’ “Inferno”; nel momento
in cui raggiunse il vertice della popolarità perse l’ispirazione, crollando in una profonda
crisi. Nell’ultima fase della sua vita cercò di assumere toni da predicatore, non riuscendo
più a esprimersi nel romanzo. Dalla esposizione artistica passò alla predicazione
moralistica e misticheggiante, anch’egli come tanti scrittori e intellettuali russi cercò una
via d’uscita nel monachesimo, nel contatto con i santi startsy, proponendo alla Russia
intera di perseguire la conversione con la preghiera e l’ascesi. Venne stroncato
dall’intelligentsija, che si era illusa che Gogol’ avesse trovato la chiave per entrare nel
mistero della samobytnost’, e infine fosse uscito di testa. Rimase famosa una lettera del
critico Belinskij, che sentenziava la perdita di significato dell’opera di Gogol’; per aver
letto pubblicamente questa lettera al circolo Petraševskij, Dostoevskij verrà in seguito
arrestato e condannato a morte.
Senza rifare l’intera analisi delle Anime morte, è interessante rimarcare che, aldilà delle
descrizioni macchiettistiche dei personaggi, in essi si svelano dei tipi umani universali,
viene messa a nudo l’anima di tutti, pur nella prorompente “russicità” dei caratteri. Gogol’
riesce comunque a non scendere sotto il lirismo dello stesso Puškin, soprattutto nella
descrizione della famosa troika, la carrozza a tre cavalli che trasporta Čičikov da un luogo
all’altro della Russia. Anche la trojka è una piccola Trinità (in russo Troitsa), riflessa
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doppiamente nel protagonista insieme ai due servi e ai tre cavalli in giro per la Russia. In
questo famoso brano Gogol’ descrive la natura russa, la terra, il paesaggio, raggiungendo
travolgenti livelli di lirismo, mai più toccati dallo stesso autore. Siamo alla fine della prima
parte, nel cuore di questo inferno russo: Čičikov è stato infine denunciato, dopo aver
raggiunto uno status elevato nella società locale, quando uno dei proprietari a cui aveva
proposto la sua truffa, il più violento (Nozdrev) lo smaschera facendolo diventare la
vergogna pubblica. Un attimo prima di essere arrestato, Čičikov scappa sulla sua trojka a
tutta velocità:
Ma quale russo non ama la velocità? È mai possibile che ad essa non aneli la sua
anima, quell’anima che desidera la vertigine, il pazzo godimento, e a cui talvolta piace
esclamare: “Vada tutto al diavolo!”. Come dunque potrebbe non amarla, dal momento
che essa ci dà una sensazione esaltante e meravigliosa? Sembra che una forza ignota ti
abbia afferrato e posato sulle sue ali, e tu voli, e tutto vola; volano le pietre miliari, ti
volano incontro i mercanti sui loro carri coperti, vola ai due lati il bosco con le cupe
file di pini e di abeti, con il risuonare dei colpi d’ascia e il gracchiare delle cornacchie;
vola tutta la strada perdendosi nella lontananza, non si sa dove, e un non so che di
pauroso spira da questo rapido balenare che ti lascia appena intravedere l’oggetto che
fugge via; solo il cielo sopra la testa, e le nubi leggere, tra le quali traspare la luna,
sembrano immobili. Ah, trojka, sei come un uccello! Chi ti ha inventata? Certo potevi
nascere solo tra un popolo ardito, in una terra che non ama scherzare, che si è adagiata
come un’immensa pianura per mezzo mondo, e puoi contarne di miglia ... finchè non
ti si abbagli la vista! E non se davvero un veicolo complicato, non sei tenuta insieme da
viti di ferro, ma rapidamente, munito soltanto di ascia e di scalpello, ti ha costruita e
montata alla svelta l’abile contadino di Jaroslavl’. Non calza stivaloni alla tedesca il
cocchiere; ha la barba e i guantoni e sta seduto lo sa il diavolo su che cosa; ma si
solleva appena, alza la frusta, intona una canzone, e i cavalli scattano, i raggi delle
ruote paiono fondersi in un unico, levigato cerchio, trema la strada, grida il pedone
che si ferma spaventato, e la trojka alata vola, vola! E ormai, in lontananza, si vede
soltanto qualcosa che solleva polvere e fora l’aria ...
Non è così, o Russia, che corri anche tu, come una trojka irraggiungibile? Sotto di te
fuma la strada, tremano i ponti, tutto rimane indietro e pare fermarsi. Si ferma,
stupefatto dal divino miracolo, lo spettatore: non è forse un fulmine lanciato dal cielo?
Che cosa significa questa travolgente corsa? E quale forza sconosciuta in quei cavalli,
ignoti al mondo? Ah, cavalli, cavalli ... che cavalli siete voi! Un turbine si nasconde
forse nella vostra criniera? Un sensibile orecchio arde forse in ogni vostra vena? Avete
udito scendere dall’alto la nota canzone, e tutti insieme, in accordo perfetto, avete
proteso i petti di bronzo e, quasi senza sfiorare con gli zoccoli la terra, apparite come
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una linea distesa che vola nell’aria, e la trojka pare lanciata nello spazio da un anelito
divino! Russia, dove corri così? Rispondi!
Questa è l’anima russa, nessuna pagina la descrive in modo più intenso, una trojka
sfrenata che divora il mondo. Questa è solo un’ispirazione letteraria, ma certamente molto
elevata: la Russia è la novità che suscita la meraviglia del mondo, così come i russi erano
rimasti stupefatti dalla bellezza bizantina che li aveva indotti al battesimo.
Una caratteristica della letteratura e della cultura russa in generale è quella di dare
risposte banali a delle domande geniali. Prendiamo ad esempio lo stesso Puškin e un poeta
di inizio Novecento, Aleksandr Blok. Il Cavaliere di bronzo è probabilmente il testo poetico
russo più importante dell’Ottocento, così come il poema di Blok I dodici esprime in modo
superbo la coscienza russa del “Secolo d’argento”. Sia Puškin che Blok non arrivano a
dare delle risposte, ma forniscono tutti gli elementi per capire il dramma dell’anima russa.
I dodici è un testo geniale, capolavoro della poesia simbolista, dedicato al momento di
grande riflessione di inizio Novecento sui destini della Russia e dell’Europa. Nell’ode di
Puškin al monumento equestre dello zar, a sua volta, si evidenzia una fase critica della vita
dell’impero, sospesa tra forze negative e positive. Non è un poema, ma un racconto che
rievoca un evento capitato durante il diluvio del 1824, il più serio della storia della città,
ancora ricordato nel segno del livello raggiunto dalle acque. L’inondazione non era un
evento imprevedibile per San Pietroburgo, perché la città fu notoriamente costruita sul
posto sbagliato, troppo vicino al mare. Questo ispira il poeta a dare al testo un tono
paradossale e mitologico: “Egli stava”, e come per miracolo la città cresce, poiché lo zar era
un costruttore taumaturgico. La figura di Pietro viene divinizzata, perfino dalla Chiesa,
oltre che dall’ideologia statale; l’imperatore a cavallo si staglia sullo sfondo della chiesa
dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, la cui altezza raggiunge i 130 metri, che al tempo ne
facevano l’edificio più alto della Russia. La vecchia Mosca al confronto era “impallidita”. Il
poema riporta poi la cronaca dell’inondazione, in cui la natura si oppone all’orgoglio di
Pietro, dimostrandosi più forte della capacità dell’uomo. È una storia simile allo Šinel’
gogoliano, in cui si descrive la vicenda di un piccolo uomo, Evgenij, che abita vicino al
mare e cerca la moglie annegata. È l’uomo piccolo contro la città inumana dell’imperatore,
che si aggira per le strade e improvvisamente incontra l’incarnazione dello spirito russo, il
Cavaliere di bronzo, appunto la statua di Pietro che si erge sulla Neva. Al contrario della
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statua di Marco Aurelio a Roma sul Campidoglio, che esprime un ideale di forza
tranquilla, Pietro sembra sfidare le leggi della natura, il suo cavallo sembra imbizzarrito.
La statua sembra in effetti sfidare le leggi della statica, Pietro è in posizione verticale,
mentre il cavallo è disposto in orizzontale e si regge su una gamba sola. La poesia di
Puškin si prestava così ad essere letta almeno in due chiavi diverse, di esaltazione come di
esecrazione dello zar, tanto che Nicola I decise di non farla pubblicare. In essa si
adoperano termini elevati, ma anche ambigui, che evocano una tremenda oscurità, una
forza e un pensiero nascosto. Del resto, la censura aveva proibito anche la pubblicazione
delle Anime Morte, perché il titolo stesso metteva in dubbio l’immortalità dell’anima. In
questa suprema ambiguità il monumento è rimasto impresso nella coscienza dei
pietroburghesi come mito equestre, rappresentante di un potere assoluto e mistico; molti
sposi si recano dopo la cerimonia sotto il monumento, che assume perfino funzioni
liturgiche in relazione alla vicina cattedrale di S. Isacco (la cui cupola è un’imitazione di
quella di S. Pietro a Roma). Nell’Ottocento infatti i sacerdoti facevano passare la
processione pasquale non solo intorno alla chiesa, ma anche intorno la statua di Pietro. Nel
poema il povero Evgenij rivolge alla statua parole disperate e quasi senza senso: “Guai a
te, costruttore taumaturgo!”, quasi volesse sfidare Pietro. Tutta la popolazione si dà alla
fuga, mentre solo la statua si erge sopra la tempesta. Davanti alla forza della natura lo
zarismo rimane immobile, non accettando la provocazione rivolta all’uomo. La statua
allora prende vita e comincia a cavalcare sulle strade di San Pietroburgo, gettando nel
panico il misero Evgenij che finisce per perdere il senno. Non c’è una risposta, un senso
logico nel descrivere l’intento del mito pietroburghese voluto da Pietro. La nuova capitale
è una città bellissima, ma costruita sul nulla; in essa non c’è salvezza, è condannata. Si
vuole indicare la bellezza dell’idea imperiale, ma anche la sua assenza di umanità.
Figli di questa fase così complessa, nella seconda metà del XIX secolo, sono i più
grandi autori della letteratura russa: proprio nei romanzi di Dostoevskij (1821-1881) e
Tolstoj (1828-1910) si riflettono tutte queste tensioni culturali e sociali. Essi scrissero i loro
grandi romanzi principalmente nel ventennio degli anni Sessanta-Ottanta del XIX secolo.
In essi si raggiunge il vertice della letteratura russa, che grazie a loro acquista una vera
risonanza mondiale. Nella loro opera si riflettevano in qualche modo le due linee del
dibattito culturale russo: Dostoevskij a livello politico era decisamente panslavista, mentre
137
si può dire semplificando che Tolstoj fosse tendenzialmente socialista. Dostoevskij dal
punto di vista del pensiero politico era piuttosto grossolano, vie era una netta
sproporzione tra il Dostoevskij scrittore e il politico, a differenza di Tolstoj, che era una
grande personalità sia a livello letterario, sia a livello sociale. Essi interpretarono le due
anime del tempo nei loro romanzi di qualità eccelsa, e in effetti a partire dalla fine degli
anni Sessanta il dibattito riprese quota soprattutto grazie a loro. In questi romanzi la
questione dell’anima russa non è presentata solo come una questione di potenza politica
della Russia, che era la grande aspirazione ottocentesca, ma anche e soprattutto come una
questione spirituale e religiosa, in entrambi anche se in modalità opposte. In Dostoevskij è
l’espressione di quella religiosità viscerale e spontanea che emerge da tutta la storia della
religiosità russa: la religione è vista non tanto come una forma, ma proprio come
un’anima, un’esperienza che emerge sia nella versione ecclesiastica che in quella popolare
e pagana e addirittura nella variante atea. Anzi, per certi aspetti la religiosità di
Dostoevskij si comprende meglio nelle figure di atei da lui rappresentati, capaci di porre la
questione religiosa in modo particolarmente bruciante. Paradossalmente, è molto più
lineare e comprensibile la religiosità di Tolstoj, che pure si professava non credente, ma
sapeva esprimere uno spirito più razionale, e in questo senso anche più occidentale. Egli
cercava con la razionalità di ritrovare l’anima russa, quella che in Dostoevskij emergeva in
modo naturale, pur senza riuscire a trovare una forma. Tolstoj affermava di avere ricercato
in tutti i modi il segreto della religione e dei problemi dell’anima, ma di non essere rimasto
soddisfatto della risposta cristiana, nelle sue varie forme cattolica, ortodossa e protestante,
e neppure nella altre religioni. Tolstoj era anche teologo, studiava la Bibbia, era capace di
una esegesi raffinata e molto particolare (come mostrano gli studi di Pier Cesare Bori, che
osservando la Bibbia di Tolstoj al museo di Jasnaja Poljana ha trovato le note di Tolstoj a
fianco, soprattutto nei libri sapienziali che lo scrittore amava particolarmente). Egli nelle
Confessioni dichiarò di non essere riuscito ad accettare alcuna forma di credo religioso, e di
essere arrivato a ipotizzare la soluzione del suicidio come unica via d’uscita alla mancanza
di senso della vita. Lo scrittore attraversò un lungo periodo di crisi religiosa, e venne
salvato dalla tentazione del suicidio grazie all’accoglienza della fede semplice del popolo
russo, all’unità con l’anima russa che pure non riusciva ad accettare razionalmente, ma che
ugualmente lo attirava, anche se non riuscì mai a farne parte veramente, ma che di fatto
era l’unica risposta che egli accettava, lui così eretico e lontano dalla religione.
140
- In effetti, adesso le domande russe sono su Dio e sull’immortalità, o come
dici tu, le domande dalla parte opposta, certo le prime domande
innanzitutto, come è giusto che sia – borbottò Aleša, sempre osservando il
fratello con lo stesso sorriso silenzioso e indagatore.
- Ecco il problema, Aleša, essere un russo a volte non è molto intelligente,
ma non si può neanche immaginare qualcosa di più stupido, di ciò di cui
si occupano oggi i ragazzi russi. Ma c’è un unico ragazzo russo, il mio
Aleša, che io amo terribilmente.
La vera questione umana è quella della fede, giocata sul senso degli sguardi e delle
impressioni. Ivan parte dalla posizione dell’ateismo, Aleša difende l’Ortodossia, ma le
parti si confondono. Nello scetticismo di Ivan si rivela un desiderio che va ben più a fondo
delle risposte scontate del giovane monaco, che finisce per riconoscere nell’inquietudine
dell’ateo gli insegnamenti del suo stesso starets. La questione religiosa pone la vera
questione morale: il senso di responsabilità verso tutto e verso tutti, uno dei temi più
caratteristici di Dostoevskij. Il confronto “sulle questioni eterne” si risolve nell’apologo
raccontato da Ivan nella Leggenda del Grande Inquisitore. Questo celebre testo è il racconto
di una fede vista come libertà, in cui la Chiesa rappresenta la tradizione intesa come forza
che soffoca la libertà stessa in nome del potere, usando le tentazioni del demonio come
armi di oppressione. Gli esponenti del potere sono cattolici gesuiti, in particolare il
cardinale spagnolo inquisitore, che fissa l’immagine demoniaca dei gesuiti nella letteratura
e nella cultura russa. In realtà qui si tratta di una dimensione universale della fede e del
cristianesimo, che anche nell’anticattolico Dostoevskij supera la definizione confessionale
per esaltare la professione della fede come libertà, come si evidenzia nel drammatico
colloquio/soliloquio dell’Inquisitore con il Cristo tornato sulla terra, da lui fatto
prontamente arrestare:
Il potere che soffoca la libertà, afferma Dostoevskij per bocca di Ivan Karamazov, si
afferma proprio strumentalizzando l’anelito dell’uomo all’assoluto, come rivelato dalle
tentazioni diaboliche riportate dai Vangeli:
– Ma qui appunto sta l’essenza di ciò che il vecchio deve esprimere. “Lo spirito
intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il
vecchio, – il grande spirito. Ti parlò nel deserto, e nei libri ci è riferito come egli Ti
avesse “tentato”. Non è così? Ma si poteva mai dire qualcosa di più vero di quanto
egli Ti rivelò nelle tre domande che Tu respingesti e che nei libri sono dette
“tentazioni”? Tuttavia, se mai ci fu sulla terra un vero e clamoroso miracolo, fu in
quel giorno, nel giorno di quelle tre tentazioni. Precisamente nella formulazione di
quelle tre domande era racchiuso il miracolo. Se si potesse, soltanto a mo’ di esempio
e di ipotesi, immaginare che quelle tre domande dello spirito terribile fossero
scomparse dai libri senza lasciare traccia e che occorresse ricostruirle, pensarle e
formularle di nuovo, per rimetterle nei libri, e se per questo si riunissero tutti i
sapienti della terra – governanti, prelati, dotti, filosofi, poeti, – e si assegnasse loro
questo compito: immaginate, formulate tre domande tali da corrispondere
all’importanza dell’evento non solo, ma da esprimere per giunta in tre parole, in tre
proposizioni umane, tutta la futura storia del mondo e dell’umanità, – ebbene, credi
Tu che tutta la sapienza della terra, insieme raccolta, potrebbe concepire qualcosa di
simile per forza e profondità a quelle tre domande che Ti furono allora rivolte nel
deserto dallo spirito intelligente e possente? Già solo da quelle domande e dal
prodigio della loro formulazione si può capire che si ha da fare non con lo spirito
umano transitorio, ma con quello eterno ed assoluto. In quelle tre domande infatti è
come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre
archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche
dell’umana natura su tutta la terra.
142
Più avanti l’Inquisitore ribadisce che “Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci
di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro;
queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità”. Inchinarsi davanti al pane elargito
agli uomini affamati, usato come leva per affermare l’autorità (qui Dostoevskij prende di
mira perfino l’adorazione eucaristica latina, come simbolo dell’idolatria cattolica); sfidare
Dio gettandosi dalla torre, pretendendo il miracolo (“l’uomo cerca non tanto Dio quanto i
miracoli. E siccome l’uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, così si creerà dei
nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai sortilegi di una
fattucchiera, fosse egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo”, proclama l’Inquisitore);
infine il mistero della superiorità, del carisma universale del grande dittatore
(“Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò
che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in
qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde,
giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini”). Il
vecchio cardinale rivendica il diritto al dominio delle coscienze, ritenendolo il prezzo del
proprio sacrificio e della propria infelicità, addirittura del martirio dei pochi illuminati
chiamati a guidare le masse (“Ci saranno miliardi di pargoli felici e centomila martiri che
avranno preso su di sé la maledizione di discernere il bene dal male”). Le tre tentazioni
sono la variante stravolta del circolo trinitario dell’amore, sono la sintesi estrema dei “tre
elementi” dell’anima russa visti nel riflesso contrario: l’autorità del Padre, il miracolo del
Figlio e il mistero dello Spirito, diventati preda di un sistema di potere umano. Lo scrittore
oppone a questa religione del potere la semplicità sconvolgente dell’anima russa, del
Cristo russo, che non ha obiezione logiche da porre, ma risponde a livello esistenziale con
un gesto d’amore diretto, capace di affermare una libertà interiore superiore a qualunque
forma di dominio:
- Tu non credi in Dio, – soggiunse Aleša, ma ormai con profonda amarezza. Gli parve
inoltre che il fratello lo guardasse con fare canzonatorio. – E come termina il tuo
poema? – domandò a un tratto, con lo sguardo a terra, – o è già terminato?
– Io volevo finirlo così: l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo
che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero
l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo e penetrante e
non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa,
sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in
silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua
risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va
verso la porta, la spalanca e Gli dice: “Vattene e non venir più ... non venire mai più
... mai più!”. E Lo lascia andare per “le vie oscure della città”. Il Prigioniero si
allontana.
143
– E il vecchio?
– Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.
La scena finale è il modello a cui si ispira Tarkovskij nell’Andrej Rublev, per il dialogo
tra il giovane monaco e il vecchio Teofane: la Chiesa esangue del potere, di fronte
all’ingenuo desiderio di misericordia della Russia che non vuole arrendersi alla violenza e
al sopruso. Per Dostoevskij, la fede non può mai essere vissuta al di fuori dell’esistenza
concreta che è contraddizione, sofferenza, dolore, un impasto inscindibile di bene e di
male. Aleša Karamazov ripeterà il gesto di Cristo, accomiatandosi da Ivan baciandolo
sulla bocca, per ritradurre nell’esperienza l’intuizione del fratello. Nell’opera di
Dostoevskij questo modo di descrivere la realtà si riproduce in mille varianti: l’esperienza
semplice e sofferta prevale sulla teoria, e in questa esperienza l’uomo ritrova la sua
innocenza, la sua immagine originaria. I Fratelli Karamazov doveva essere, nell’intenzione
iniziale dell’autore, un romanzo sui bambini e la loro esperienza, come in effetti avviene
nell’ultima parte del romanzo, quando Aleša cerca di realizzare nel mondo la missione
affidatagli dallo starets diventando la guida di un gruppo di ragazzini. Questa
paradossalità esperienziale viene manifestata da Dostoevskij in espressioni radicali e
antinomiche, che ricordano il Credo quia absurdum di Tertulliano: “Se devo scegliere tra
Cristo e la verità, preferisco Cristo alla verità”. Amare la vita più che il senso della vita, in
analogia con i pensieri di un altro precursore dell’esistenzialismo come Søren Kierkegaard
(contemporaneo di Dostoevskij), secondo cui oltre l’estetica e l’etica c’è il “salto” della
fede, quel livello dell’anima che va oltre la ragione e le leggi.
51Per queste osservazioni sull’opera di Tolstoj, come anche per alcuni commenti sulla poetica di Puškin,
sono particolarmente grato al prof. Andrej Šiškin, docente di lingua e letteratura russa all’Università di
Salerno e direttore del Centro Vjačeslav Ivanov di Roma.
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un esempio del suo approccio scomodo e anticlericale, che denuncia anche i fanatismi e le
intolleranze interreligiose: un altro esempio è la storia da lui narrata di Haki Murad, tratta
dalla guerra del 1850 contro i guerriglieri ceceni del Caucaso, in cui descrive gli ufficiali
russi con le loro buone intenzioni di civilizzatori, ma guardandoli dal punto di vista dei
ceceni e mostrando sia gli atti di profanazione compiuti dai russi nelle moschee, sia la
violenza assassina degli stessi ceceni, più forte dello stesso istinto di sopravvivenza. Un
testo molto profetico, e pieno di verità scomode anche al giorno d’oggi.
Tolstoj del resto si rivolgeva anzitutto a se stesso come oggetto di analisi e ricerca della
verità. Egli teneva un diario in cui raccontava tutto di se stesso, le cose più alte come
quelle più basse, per tutta la vita; un diario segreto, che alla fine nascondeva negli stivali
per non farlo trovare alla moglie. Alcuni brani dei suoi diari ancora non sono stati
pubblicati, anche perché troppo scomodi. Il suo esordio letterario è la prosecuzione del
diario: egli scrive Infanzia, Adolescenza, Giovinezza e continua fino all’età avanzata. Il suo
tema principale sarà poi dedicato ai diversi tipi di comportamento dell’uomo di fronte alla
morte. Il suo eroe in ogni racconto è sempre la verità. Tolstoj visse per un periodo a
Sevastopoli, poi tornò alla sua residenza di Jasnaja Poljana e conobbe una prima crisi
spirituale, che tentò di risolvere avvicinandosi al popolo e cercando di sollevarne le
condizioni sociali: organizzò una scuola per i bambini dei contadini, insegnando loro a
scrivere. Raccolse i componimenti dei fanciulli, ritenendo che i loro scritti fossero più
autentici dei suoi scritti, aprì perfino una rivista di bambini dai nove ai dodici anni. Egli
era veramente un conte di altissimo lignaggio, di quelli che avevano accesso ai circoli più
elevati e parlare direttamente con l’imperatore, o prendere la parola in Senato. Dal 1868
Tolstoj si concentrò in cinque anni di lavoro continuo alla stesura del suo grande romanzo,
producendo più di diecimila pagine, dopo ben sette stesure. Il titolo, Voina i Mir, sfrutta la
polivalenza della parola mir, che in russo può essere scritto e inteso in due modi, nel senso
di “mondo” o di “pace”. Il senso completo del titolo sarebbe “Il mondo durante la guerra e
durante la pace”, il mondo e la giustizia umana e divina. Per capirlo bisognerebbe dare
l’interpretazione completa del termine mir. I protagonisti principali del romanzo, il
principe Andrej Bolkonskij e Pierre Bezukhov, interpretano la stessa ricerca spirituale di
Tolstoj, soprattutto il secondo, che è la personificazione dell’autore. Essi indagano il senso
del mondo e dei fenomeni, e si sforzano di trovare l’assoluto. Un’altra eroina, la giovane
Nataša, frequenta la chiesa e assiste alla liturgia russa, rimane colpita dalle parole della
litania Mirom Gospodu pomolimsja, “Preghiamo in pace il Signore”, intendendo l’avverbio
mirom non tanto come “in pace”, ma “insieme con tutto il mondo”, con tutta la nostra
comunità, la nostra obščina. Nataša non è una donna istruita, ma fornisce ugualmente la
sua interpretazione, esprimendo un’intuizione comune al sentimento di tutto il popolo
russo, quella di percepire se stessi insieme delle persone che si amano, nello spirito della
sobornost’. Nel romanzo vengono usate anche altre espressioni contenenti la parola mir, ad
esempio quando Pierre legge l’inizio del prologo del vangelo di Giovanni, in cui si parla
della Vita e del Mondo associandoli al Verbo. Nella vita di Pierre queste parole segnano
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un momento cruciale, quando egli si trova di fronte a una questione di vita o morte, legata
alla scelta pro o contro Napoleone. Già nella prima pagina del romanzo si parla (in
francese) di Napoleone come dell’Anticristo, che ha già conquistato Lucca e Genova e
minaccia di estendere il suo dominio a tutta la civiltà europea e mondiale. Pierre
inizialmente vuole imitare Napoleone, ma quando questi invade Mosca cerca di ucciderlo
con un attentato terroristico; all’improvviso viene catturato, e fa quindi un sogno
rivelatore:
Il Dio di Tolstoj non è il Dio cristiano. Egli scrive diversi libri su questioni
esplicitamente religiose, anche uno effettivamente teologico, una indagine sulla teologia
dogmatica. Egli ricerca un principio di unificazione dei vangeli, e propone anche una sua
versione della Bibbia molto significativa. Traduce il prologo di Giovanni, testo che
secondo lui dimostra il principio religioso fondamentale: all’origine di tutto sta la
“sapienza della vita”, razumenie žizni, quella ragionevolezza della vita che costituiva il
contenuto del sogno di Pierre. Ricevette la scomunica nel 1901 in quanto la sua grande
autorevolezza aveva veramente messo la Chiesa in crisi. Oggi i documenti della
scomunica sono stati pubblicati e analizzati ampiamente (Pro et Contra); vi si affermava
che Tolstoj non accettasse la dottrina cristiana, e per questo la Chiesa non lo poteva
considerare suo membro finchè non si fosse pentito, invitando tutti a pregare per i suoi
peccati. Un romanzo contemporaneo di Viktor Pelevin, uno degli autori più considerati
nella Russia di oggi, si intitola “T” (per Tolstoj) e parla proprio della sua scomunica, riletta
nello spirito del pensiero postmoderno. In esso viene messo in evidenza quanto la
scomunica fosse stata un gesto anche coraggioso, in contrasto con l’opinione pubblica
favorevole a Tolstoj. Oggi la Chiesa Ortodossa Russa continua a ritenere opportuna la
condanna del 1901; tentativi di revisioni vengono diffusi solo a beneficio dell’opinione
pubblica all’estero, non certo in Russia. Tolstoj era anche un ricco proprietario, a differenza
di Dostoevskij, che cercava di realizzare con i suoi beni il suo ideale di giustizia e
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razionalità; nel 1891 aveva firmato un testamento in favore dei contadini, a cui intendeva
lasciare la sua immensa tenuta. La sua fine è l’ultima testimonianza della sua angoscia
interiore; un giorno di ottobre del 1910 si sveglia e trova la moglie che fruga tra le sue
carte, magari proprio per cercare il testamento, e fugge dalla casa per raggiungere il
monastero di Optina Pustyn’, dove viveva una sorella monaca, ma un attacco di polmonite
lo costringe a fermarsi nella casa del capostazione del paesino di Astapovo, dove infine
muore. Fino alla fine rimase fedele alla continua ricerca della verità e di se stesso, e il suo
ultimo desiderio era quello di dire addio alla casa dove era nato, e dove erano nati i suoi
figli. Infatti il contesto da lui sempre evocato per descrivere la verità e l’amore, è proprio la
famiglia (che in Dostoevskij, al contrario, è una sventura da dimenticare); in Tolstoj c’è
anche la lotta contro la famiglia come istituzione (pensiamo a Anna Karenina), ma sempre
nel tentativo di rappresentare tutta la realtà all’interno di essa. Il suicidio di Anna
Karenina sotto il treno in movimento è il simbolo estremo della verità russa travolta da
una realtà impossibile da fermare, la trojka russa di Gogol’ che non riesce a raggiungere la
meta.
Questo passaggio venne sottolineato anche, e forse soprattutto a livello artistico nel XV
secolo dalla grande esplosione della iconografia russa. L’icona russa, cioè l’icona di Andrej
Rublev, della scuola di Novgorod, di Pskov e di Mosca diventa in quel periodo la carta di
presentazione, l’immagine di presentazione della Russia che si ritiene l’unica vera nazione
cristiana, e quindi l’unica vera icona, unica vera immagine di Cristo in terra. È
un’immagine di origine bizantina, perché l’icona è arte bizantina, e l’icona russa non ne
stravolge i canoni, ma opera in essa un rafforzamento identitario. L’icona russa si
differenzia a livello estetico da quella greca perché è molto più espressiva e carica di
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colore; la Russia aggiunge alla raffinata teologia bizantina anche una nota di umanità
sofferente, di intensità umana e di contraddizione presente nell’animo umano che erano
assenti dall’ideale bizantino, che rispetta maggiormente l‘ideale dell’armonia greca, per
dirla con una estrema semplificazione. A questo periodo del Quattrocento di Andrej
Rublev, fino al Cinquecento di Ivan IV, ben presto succede poi l’influsso occidentale, che
comincia già verso la fine del Quattrocento, come abbiamo visto nella vicenda
dell’architetto Fioravanti e della costruzione del Cremlino a immagine dei palazzi
veneziani e dei castelli italiani, da cui parte una ondata di architettura rinascimentale, un
innesto di umanesimo europeo che si insinua anche nella cultura russa. In effetti l’icona
russa nella sua espressione caratteristica è praticamente solo l’icona del Quattrocento, in
seguito troviamo solo icone di maniera, anche bellissime, o icone di gusto decisamente
occidentale mentre l’icona russa vera e propria è quasi solo quella di Rublev e dei suoi
immediati contemporanei o successori. Già dal Cinquecento, e sicuramente dal Seicento, si
perde l’originalità delle icone russe; quando poi a metà del Seicento, con l’Accademia di
Kiev dipendente dai gesuiti, la scolastica, cioè la cultura latina occidentale entra
prepotentemente nel corpo della vita russa, anche l’arte, che rimane sempre comunque
arte iconografica visto l’impostazione confessionale dello stato russo, diventa sempre più
decorativa o semplicemente didattica, e sempre più a imitazione dell’arte occidentale. Le
immagini delle icone russe perdono la loro forza espressiva, si raddolciscono non tanto
per tornare alla leggerezza greca, ma piuttosto per fare il verso al pietismo, al
sentimentalismo occidentale. Questa parabola diventa poi evidente nel Settecento, quando
ormai non si trova più una vera icona russo-bizantina, mentre con Pietro il Grande e la
fondazione di San Pietroburgo si diffonde l’arte di maniera e il barocco. Il barocco russo
domina l’architettura delle chiese e dei palazzi, ed ha una sua corrispettiva nell’arte
figurativa: anche le icone, dal Settecento fino all’Ottocento, sono sostanzialmente barocche,
senza peraltro raggiungere la grandezza del barocco italiano o europeo. In Russia non
arrivano Raffaello e Tiziano, Michelangelo e Caravaggio con le rispettive scuole; si
produce un barocco ripetitivo che si spinge fino al rococò. Dal punto di vista estetico anche
l’arte russa riflette il tipico andamento a scatti improvvisi della cultura russa, con grandi
intuizioni e lunghe paralisi espressive.
Un quadro quanto mai simbolico è quello già ricordato di Aleksej Venetsjanov (1780-
1847)53, Nel campo arato: Primavera (1827). In esso è raffigurata una donna russa che si
confonde con la terra, una perfetta immagine della Russia che si vuole riscoprire. Anche in
questo quadro troviamo una simbologia trinitaria: i due cavalli accanto alla donna
formano un trio, di cui la donna è l’elemento centrale, ciò che nei canoni iconografici
rimanda all’immagine di Cristo, il centro della Trinità divina. La donna in realtà evidenzia
il substrato psicologico della madre Russia, l’elemento umano di questa trinità, mentre i
cavalli sono uno degli elementi più frequenti usati per esprimere la forza e l’energia della
natura e della terra russa. In questo inizio di ricerca artistica comincia a essere presente
anche il paesaggio; la tradizione artistica ottocentesca russa sviluppa molto la
paesaggistica, poi anche ritrattistica e la pittura storica, con risultati notevoli. Il realismo
russo dell’Ottocento si modellò in buona parte sulla scuola paesaggistica italiana; dagli
anni Venti-Trenta del XIX secolo diventò praticamente obbligatorio trascorrere almeno
qualche mese in Italia, per ottenere la qualifica ufficiale di pittore e imparare a dipingere la
natura e la realtà. Un grande ritrattista fu Karl Brjullov (1799-1852), di cui possiamo
ricordare La merenda italiana, un quadro del 1827 evidentemente dipinto in Italia, in cui si
mostra una donna italiana che ha forti assonanze con la donna russa, con una emotività
giocosa diversa dalla solennità russa, ma con i tratti della donna aristocratica sotto le
spoglie della contadina. Esprime il desiderio di dare alla Russia ufficiale e aristocratica
un’anima russa popolare, pur nel formalismo delle figure femminili dell’epoca; in questa
chiave vanno viste le numerose rappresentazioni femminili di Brjullov, tra cui la
Cavallerizza, in cui è rappresentata una donna nobile di origine turca, la contessa
Samuilova, che a sua volta rivela una natura contadina. Brjullov inizia anche la serie dei
quadri a sfondo storico, come L’Assedio di Pskov in cui si ricorda l’aggressione del Re di
Polonia e Granduca di Lituania Stefan Bàthory nel 1581, uno degli episodi simbolo
dell’inizio dell’invasione occidentale in Russia. Nel quadro si vede un prete ortodosso con
la croce e le bandiere, che si oppone agli aggressori latini dipinti in colori foschi e
demoniaci. Molto noto anche il quadro sugli Ultimi giorni di Pompei, un altro tema italiano
ricorrente che esprime la tensione apocalittica dell’anima russa, la necessità di trovare un
nuovo significato della storia. Pompei fu eletto a teatro tipico della pittura russa e della
ricerca culturale dei russi in Europa, con la sua evidente suggestione del mondo antico
immobilizzato da ri-vivificare, come appunto la Russia intendeva fare nella sua stessa
autocoscienza.
Forse il più famoso dei quadri della prima metà dell’Ottocento in Russia è la
Apparizione di Cristo al popolo, di Aleksandr Ivanov (1806-1858), una tela gigantesca che
53 Vedi a p. 12.
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richiese un ventennio di lavoro (1836-1857) in cui è rappresentata la scena di Gv 1,29,
quando il profeta Giovanni Battista indica Gesù al popolo come il Messia che viene a
salvare l’umanità. Si tratta in realtà della rievocazione dello stesso battesimo della Russia,
della sua fede unica e autentica. La lavorazione di questo quadro, di notevoli dimensioni
(540x750 cm), procedette in parallelo alla composizione delle Anime Morte di Gogol’, con
cui il pittore Ivanov condivideva l’amicizia e la permanenza in Italia, come attesta lo
sfondo paesaggistico tipicamente italiano. Gogol’ stesso considerava l’opera di Ivanov
molto vicina all’ispirazione che lo sosteneva nella stesura del suo romanzo, la ricerca di
quella via di salvezza dal male che lui voleva indicare alla Russia; lo zar Nicola I, durante
il suo breve soggiorno a Roma alla fine del 1845, ebbe particolari parole di elogio per il
dipinto. Quando infine Ivanov portò il gigantesco quadro in Russia, per volere dello zar si
installò una mostra solo per esso a San Pietroburgo, mostrando insieme tutti gli studi e i
progetti. Esso divenne di fatto il quadro di riferimento per tutta la generazione del
“magnifico decennio”, in cui erano contenute tutte le tecniche della nuova pittura russa: la
ritrattistica e la paesaggistica, la scelta della tematica storica e biblica, e la grande
intuizione di un Cristo solitario che viene a evangelizzare il popolo radunato dal Battista,
immagine della Russia che sta rinascendo, riscoprendo le sue origini. Questo evento
consolidò la fama di Ivanov, che già si era affermata con la Apparizione di Cristo a Maria
Maddalena (1834-1836), l’episodio evangelico del Noli me tangere (Gv 20,17).
Ivan Aivazovskij (1817-1900) era invece specializzato nella pittura di paesaggi marini,
con grande intensità di colore che mette in risalto la forza delle onde e dei venti, altra
variazione sul tema dell’energia spontanea della natura. Di grande effetto la sua
rappresentazione delle battaglie marittime di Fedosija e Navarino, ma anche dell’incendio
di Mosca del 1812, il grande sacrificio vittorioso che segnò indelebilmente la coscienza
nazionale russa. Nikolaj Ge (1831-1894) è l’autore di numerose scene evangeliche di
grande efficacia, per lo più legate agli episodi della Passione di Cristo come L’Ultima Cena,
la Coscienza di Giuda, il Giardino del Getsemani, il Golgota, e sopra tutti il superbo Che cos’è la
verità? (1890), l’interrogazione di Cristo da parte di Pilato con un uso della luce che ricorda
il Caravaggio, una luce che taglia Cristo lasciato nell’ombra, per mettere più in evidenza
l’effetto della presenza di Cristo, il miracolo della verità che si staglia sul paganesimo
incapace di accettare il Messia. Suoi anche importanti quadri storici come Pietro interroga lo
zarevič Aleksej a Peterhof (1871), il drammatico confronto tra lo zar riformatore e il figlio
succube della madre e dei monaci ortodossi, che Pietro non riuscì a fare il suo erede: la
Russia occidentalizzata che cerca di ridurre a propria immagine la Russia più arcaica. Ge
ci ha lasciato tra gli altri anche un famoso ritratto de Lo scrittore Lev Tolstoj (1884), in cui il
grande romanziere è raffigurato all’opera, con un’espressione di grande concentrazione e
tormento. Vasilij Perov (1834-1882), uno dei massimi ritrattisti russi, fondatore del gruppo
dei realisti russi o peredvižniki, gli “ambulanti”, ha invece tramandato l’immagine più
famosa dell’altro grande scrittore, Fedor Dostoevskij, in un’opera del 1872, dove l’autore
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dei Fratelli Karamazov è invece seduto con le mani unite sopra le gambe accavallate, con
un’espressione che, più dell’ansia dello scrittore, comunica quasi una profonda pace
interiore, come di chi ha trovato la verità tanto desiderata, dopo tutte le prove e le
sofferenze. Molto significativa la scena dei Cacciatori durante la sosta (1871), scena trinitaria
di uomini russi in mezzo alla natura, in cui l’anima popolana e il censo nobiliare vengono
equiparati nel rapporto con la madre terra. Altre scene trinitarie peroviane sono il
Commiato dal defunto, mesta immagine di una trojka con un conducente e due ragazzi nella
pista innevata, e lo sforzo gioioso dei tre ragazzi Apprendisti con un carico d’acqua (1866).
Anche Perov ha lasciato molti soggetti biblici, come il Cristo sul Monte degli Ulivi,
un’immagine di Gesù sprofondato nella sofferenza, disteso a terra in preghiera, e scene
storiche, tra cui spicca una rievocazione del battesimo della Rus’ nei Primi cristiani di Kiev
(1880), un piccolo gruppo radunato attorno a una flebile luce nel buio, nella notte fonda
della Russia arcaica e pagana. Nella Deposizione dalla croce, un dipinto degli anni Settanta,
troviamo di nuovo una composizione trinitaria intorno al corpo morto di Cristo rigido e
freddo; invece la ricostruzione della Disputa sulla fede (1881) mostra una vivacissima
riunione di sacerdoti, monaci e popolo davanti alla zarina, alla ricerca della verità della
fede russa. Ricordiamo anche Ivan Kramskoj (1837-1887) e il suo Cristo nel deserto (1872),
splendida immagine di un Cristo russo solo e carico di sofferenza, simile al Cristo
dell’Andrej Rublev di Tarkovskij, nel contesto di un paesaggio lunare; o il pittore di origine
greca Arkhip Kuindži (1842-1910) con i suoi paesaggi notturni, le betulle delle sterminate
foreste russe, in particolare quella della isola monastica di Valaam e sulle rive
dell’immenso lago Ladoga, vicino a San Pietroburgo, in cui si misura la terra russa in tutte
le sue dimensioni. Vasilij Polenov (1844-1927) offre a sua volta temi biblici e storici, come il
Divertimento di Cesare che mostra la fossa della tigre che sta per mangiarsi una condannata,
con una crudezza molto russa. Diversi ritratti presentano volti di origine caucasica, con
suggestioni orientali. Soggetti evangelici molto efficaci si possono ammirare nel suo Cristo
e la peccatrice, un quadro del 1873 di enormi dimensioni o nella Guarigione della figlia di
Giairo (1871).
Uno dei più grandi ritrattisti russi fu senz’altro Il’ja Repin (1844-1930), capace forse
più di ogni altro di dipingere la Russia autentica. Nel 1885 ferma l’immagine della
Accoglienza dello zar Aleksandr III, icona moderna dello zarismo e della narodnost’ russa. Il
popolo russo in cammino sulla sua terra è magistralmente riprodotto nella Processione nel
governatorato di Kursk del 1883, con i contadini descritti in modo molto minuzioso, i
portatori della statua, i ragazzi, le donne e i sacerdoti. Nel 1903 gli venne commissionata la
riproduzione della Seduta del Consiglio di Stato, una solenne riunione del governo sotto la
presidenza dell’imperatore Nicola II. Il quadro forse più famoso e più importante di Repin
sono gli Alatori del Volga (1873), i burlaki dediti al duro mestiere di trascinare le barche, che
il pittore riteneva particolarmente adatti a mostrare la vera energia del popolo russo. Egli
infatti studiò a lungo e da vicino questi uomini di fatica, per riuscire a riprodurre i loro
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sguardi rassegnati ma degni, inserendo nel gruppo un ragazzino che scompone la figura,
dando l’idea che dalla forza passiva nasca una nuova energia gioiosa. L’epopea dei
Cosacchi è riportata nei Zaporožtsi scrivono una lettera al Sultano turco (1891), quasi una
illustrazione della natura selvaggia e insieme determinata di questi uomini della steppa e
dei fiumi descritti già con sfrenato trasporto da Gogol’ nel Taras Bulba. I Cosacchi
occupano un posto significativo nella cultura e nella coscienza russa, come evidente
testimonianza della contaminazione europeo-asiatica del popolo russo. Essi non sono
asiatici, anche se si sono molto mescolati con i nemici tartari e turchi; non hanno gli occhi a
mandorla, sono europei, ma avendo scelto la libertà nelle terre non controllate dalla
amministrazione statale, vivono di fatto alla asiatica, si vestono e si confondono in parte
con l’Asia. Per alcuni i Cosacchi sono all’origine dell’intelligentsija russa, rappresentano
una realtà libera e sganciata dal potere. Molto noto il ritratto che Repin fece al musicista
Musorgskij, mostrandone i tratti smodati del grande bevitore, lui che sapeva interpretare
l’anima russa in musica forse più di tutti. Dentro la sua scompostezza si impone una forza
interiore notevole. Famosissimo poi il quadro L’inatteso (1885), un interno casalingo
sconvolto da una visita inattesa del padre (forse legato a situazioni personali legate alla
separazione dalla moglie), che propone l’idea dell’imbarazzo e della sorpresa, un’idea
molto feconda per descrivere l’intera cultura russa.
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Grande pittore temi storici fu Vasilij Surikov (1848-1916), autore della Boiarina
Morozova (1881), un quadro di grandi dimensioni che fece scalpore alla Mostra Itinerante
del 1887, in cui la boiarina condannata alza le due dita alla maniera dei vecchio-credenti
mentre viene condotta all’esecuzione in mezzo al popolo impressionato e solidale negli
sguardi; l’eretica incarna la vera Russia, l’anima dei semplici, espressa dal gesto di un
poverello che a sua volta benedice la donna con le due dita. La scena è imparentata con
quella della Mattina dell’Esecuzione degli Streltsy (1887), in cui è riprodotto il marito della
stessa Morozova, che rievoca i sanguinosi eventi che segnarono l’inizio del regno di Pietro
il Grande. Intorno alla pedana delle esecuzioni della piazza Rossa piange il popolo russo
immerso nell’orrore e nella terra fangosa, mentre lo zar a cavallo, vestito all’occidentale,
contempla l’alba della Russia moderna da lui vagheggiata. Un’altra grandiosa scena
storica presenta l’eroe Ermak Timofeevič conquista la Siberia (1891), la “frontiera” russa che
anticipa verso oriente l’epopea del Far West americano, mostrando i soldati russi con i
fucili che affrontano le frecce degli indigeni asiatici. All’inizio della sua fortunata carriera
Surikov aveva dipinto il celebre Cavaliere di Bronzo esaltato da Puškin, nel Monumento a
Pietro I sulla piazza del Senato a San Pietroburgo (1870), con la statua equestre in miracoloso
equilibrio che si staglia sullo sfondo della cattedrale di S. Isacco, quella da cui partivano le
processioni pasquali che raggiungevano il monumento quasi divinizzando Pietro,
“l’Anticristo” russo.
Dopo la ricchezza espressiva dell’Ottocento russo, l’inizio del XX secolo vide una
ripresa della riflessione sull’estetica come via principale della ricerca di una specificità
russa, nell’ansia della costruzione di un mondo nuovo. È il secolo d’argento, il periodo
della filosofia religiosa russa che si affianca alle pressanti spinte rivoluzionare, che si
estende dall’ultimo decennio del XIX al primo ventennio del XX secolo. La forte riflessione
sull’arte di questi anni porta a due grandi linee di sviluppo: una è la riscoperta dell’icona,
e l’altra è la fondazione dell’arte astratta. Paradossalmente, alla maniera russa, le due
direttrici provengono dalla stessa radice, e per vie opposte perseguono medesimi obiettivi.
Tutti i principali filosofi religiosi del tempo hanno scritto di estetica: Solov’ev pose le
fondamenta della cosiddetta “sofiologia”, una via mistica della fede russa, che nell’idea
della Divino-umanità riscopre la dogmatica ortodosso-cattolica. In diverse opere, come
anche nella Russia e la Chiesa Universale, Solov’ev ripropone la sua percezione estetica come
radice di una fede più profonda, della riunificazione di tutti i cristiani nell’unica fede
percepita nei suoi fondamenti universali. Venne accusato di panteismo e gnosticismo, per
le sue visioni della Sofia come anima del mondo. La teologia di Solov’ev in realtà si
sviluppa in varie direzioni; egli scrisse di teologia trinitaria, cristologia, ecclesiologia e di
etica, lasciando testi anche letterariamente molto significativi come i Tre dialoghi sulla
guerra, la morale e la religione con il Breve racconto sull’Anticristo, scritti in punto di morte
all’alba del 1900. Solov’ev partiva sempre dalla percezione estetica, tanto da essere
considerato a volte più poeta che filosofo.
Anche il suo amico e teologo Sergij Bulgakov scrisse molto di estetica. A differenza di
Florenskij, egli dovette abbandonare la Russia nel 1922, espulso con tanti altri sulla “nave
dei filosofi”, e fu poi uno dei fondatori dell’Accademia Teologica Ortodossa di S. Sergio a
Parigi, dove rimase fino alla morte (1944) a scrivere e insegnare. Bulgakov riprese molte
categorie dell’estetica patristica, cercando le radici della teologia ortodossa russa nei padri
non in modo pedissequo, ma considerando la radice patristica come necessaria allo
sviluppo di una fede russa originale, che anch’egli espresse in una sua versione della
sofiologia. Per Bulgakov l’intuizione estetica è fondamentale, come egli espresse in diversi
studi sull’icona come fonte della vera estetica teologica, per arrivare a una teologia “neo-
iconofila”; il suo luogo teologico preferito è il paragone tra l’icona russa e l’arte sacra
occidentale, per lui simboleggiata principalmente dalla Madonna Sistina di Raffaello a
Dresda. In essa viene raffigurata la Vergine Assunta in sembianze di giovane donna che si
libra nei cieli in tutta la sua sensualità umana, in totale antitesi alla severa immagine della
Madre di Dio dell’icona dogmatica orientale. Questo paragone attraversa in varie
occasioni la storia della cultura russa; un’esperienza simile venne provata da Dostoevskij
rispetto alla Madonna del Cardellino di Raffaello a Firenze, che egli contemplava tutte le
mattine per almeno un’ora nel periodo in cui scriveva l’Idiota, per cercare di trovare la
propria risposta attraverso paragone, in uno spirito molto russo della distinzione nel
contrasto.
Vi furono anche autori che si concentrarono sulla riscoperta dell’icona in modo più
specifico, come Pavel Muratov che nel 1915 scrisse una storia della pittura russa fino alla
metà del XVI secolo, un testo che fece riscoprire l’icona russa del Quattrocento e
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Cinquecento; Muratov ripropone l’icona specificamente russa come elemento classico
dell’iconografia bizantina, insieme alle icone antiche della Rus’ kievana e alle icone greche.
Anche un altro critico, Nikolaj Tarabukin, scrisse un testo sulla Filosofia dell’icona nel
periodo stesso della rivoluzione, anch’egli rilanciando la natura singolare dell’icona russa.
L’autore più famoso in questo campo fu il principe Evgenij Trubetskoj, che scrisse diversi
saggi come i Tre saggi sull’icona russa e Contemplazione nel colore. A Parigi con Bulgakov
insegnò e scrisse di teologia estetica Leonid Uspenskij, il suo Significato dell’icona divenne
anche in Occidente un testo fondamentale per la riscoperta del patrimonio spirituale ed
artistico della Russia cristiana. Colleghi e discepoli dell’Accademia di S. Sergio furono
Vladimir Losskij e Pavel Evdokimov, che a loro volta ripresero in molti scritti queste
riletture dell’icona. V. Losskij è in qualche modo l’erede di Georgij Florovskij nella
proposta di una teologia russa “neopatristica”, che cerca di purificare la fede russa da ogni
elemento “spurio” per riavvicinarla alle fonti dei padri.
Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti.
Analogamente, ogni periodo culturale esprime una sua arte, che non si ripeterà mai
più. Lo sforzo di ridar vita a principi estetici del passato può creare al massimo delle
opere d'arte che sembrano bambini nati morti. Noi non possiamo, ad esempio, avere
la sensibilità e la vita interiore degli antichi Greci. E se in scultura tentassimo di
adottare i loro principi non faremmo che produrre forme simili alle loro, ma prive di
anima. Come le imitazioni delle scimmie. Esteriormente i movimenti delle scimmie
sono perfettamente uguali a quelli dell'uomo. Una scimmia sta seduta, tiene in mano
un libro, lo sfoglia, assume un atteggiamento pensieroso, ma ai suoi movimenti
manca un senso interiore.
C'è però, necessariamente, un’altra somiglianza tra le forme artistiche. La
somiglianza delle aspirazioni interiori e degli ideali (che un tempo erano stati
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raggiunti e poi vennero dimenticati), la somiglianza cioè fra i climi culturali di due
epoche può portare alla ripresa di forme che erano già state utilizzate in passato per
esprimere le stesse tensioni. È nata così, per certi aspetti, la nostra simpatia e la nostra
capacità di comprensione per i primitivi, che sentiamo così vicini. Come noi, questi
artisti puri miravano all’essenziale e rinunciavano ai particolari esteriori.
Ma, per quanto importante, questo è solo un punto di contatto. La nostra anima si
sta risvegliando da un lungo periodo di materialismo, e racchiude in sé i germi di
quella disperazione che nasce dalla mancanza di una fede, di uno scopo, di una meta.
Non è ancora svanito l’incubo delle concezioni materialiste, che consideravano la vita
dell'universo come un gioco perverso e senza peso. L’anima si sta svegliando, ma si
sente ancora in preda all'incubo. Intravede solo una debole luce, come un punto in
un immenso cerchio nero.
Sulla base di queste riflessioni, l’arte astratta rinuncia all’imitazione della natura, per
dare libertà alle forme, ai colori e ai suoni. L’elemento astratto, secondo Kandinskij, è stato
occultato dal materialismo. Egli si attribuisce, con uno zelo tipicamente russo, il ruolo del
S. Giorgio a cavallo che guida l’apocalisse pittorica, la rivoluzione del di-svelare. Si
considera un vero missionario, attingendo i contenuti dalla tradizione religiosa e dalle
scritture.
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Nel futurismo e nell’avanguardia russa impegnata nella fondazione dell’arte astratta sta
l’origine di tutta l’arte contemporanea. Ancora più decisivo di Kandinskij fu Kazimir
Malevič (1879-1935), fondatore intorno al 1913 del movimento suprematista, teorizzato
dapprima sul manifesto del 1915 (scritto da Malevič in collaborazione con il poeta
Majakovskij), poi nel suo saggio del 1920 Il suprematismo, ovvero il mondo della non
rappresentazione. Il Suprematismo fu presentato pubblicamente per la prima volta a
Pietrogrado nel 1915, in occasione della mostra: “Seconda esposizione futurista di quadri
0,10 (Zero-dieci)”. Malevič sosteneva che l’artista moderno doveva guardare a un'arte
finalmente liberata da fini pratici ed estetici, e lavorare soltanto assecondando una pura
sensibilità plastica. Sosteneva quindi che la pittura fino a quel momento non fosse stata
altro che la rappresentazione estetica della realtà, e che invece il fine dell’artista doveva
essere quello di ricercare un percorso che conducesse all’essenza dell'arte: all’arte fine a se
stessa. La parola “suprematismo” deriva dal pensiero dell’autore: secondo Malevič infatti
l'arte astratta sarebbe superiore a quella figurativa dato che, anche se noi in un quadro
figurativo vediamo un qualsiasi oggetto o forma vivente, sull’opera non c’è che un solo
elemento: il colore, che viene espresso in modo migliore su un dipinto astratto. La totale
essenzialità del suprematismo è simboleggiata dal famoso Quadrato nero esposto a San
Pietroburgo nel 1915, vera icona dell’arte contemporanea: il nulla che fa risaltare tutto il
resto. Sia Kandinskij che Malevič vissero e operarono principalmente in occidente;
Kandinskij prese parte al movimento della Bauhaus, Malevič appoggiò con entusiasmo la
rivoluzione, che realizzava nei fatti i suoi ideali artistici.
Alla fine di questa rapida carrellata non possiamo non ricordare l’artista supremo
dell’astrattismo, che in realtà si pone fuori da tutte le definizioni, cioè Marc Chagall (1887-
1985). Erede dell’impressionismo, dell’astrattismo, della scomposizione dei colori e di
tante suggestioni, egli amava dipingere scene del suo paese nativo, il villaggio bielorusso
di Vitebsk, ritrovando nella creatività onirica il senso delle radici e le profondità
dell’anima. I suoi sogni angelici, i cerchi e triangoli, i colori e la pioggia formano tratti di
un’intensità che a questo livello si possono paragonare solo con quelli di Picasso. Il
villaggio russo con la slitta che lo sorvola sembra rievocare la trojka di Gogol’. Nell’arte
contemporanea russa, dopo il lungo inverno sovietico (peraltro non privo di espressioni
notevoli, pur nella dogmatica impostazione social-realista), si riparte dall’ispirazione
onirica e spiritualista dell’astrattismo di inizio Novecento, in una nuova ricerca della
religiosità che, ancora una volta, ritorna alle fonti dell’anima russa.
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L’espansione musicale dell’anima54.
Distinguiamo dunque alcuni periodi dello sviluppo della musica russa. Anzitutto il
periodo originario, di solito definito nel passaggio tra IX e XIV secolo. In realtà non
abbiamo materiale sufficiente per analizzare questo periodo prima del XII sec, anche se da
fonti letterarie sappiamo che nella chiesa di S. Il’ja già nel 945 si adoperava un materiale
54Ringrazio per questo paragrafo il prof. Petar Dufka sj, teologo e musicologo del Pontificio Istituto
Orientale di Roma, che ha esposto queste note in un incontro con gli studenti nel maggio 2010.
161
musicale per la liturgia abbastanza sviluppato. La Cronaca di Nestor narra che nel 1124
esistevano già seicento chiese che celebravano con un proprio repertorio liturgico canoro.
Altre fonti testimoniano dell'esistenza di una musica russa antica abbastanza ricca e
funzionante. In questo primo periodo il centro era Kiev, quindi Novgorod. Era una musica
che adottava un altro sistema di notazione, che non conosciamo bene in Occidente, con i
numeri segnati sotto la nota, che componevano l'armonia detta dello znamennyj raspev con
otto toni modali di origine bizantina.
Il secondo periodo ha inizio dopo il giogo tartaro, nel XV secolo, e finisce con il XVII
secolo. In esso si crea una modificazione nella melodia che si può definire come melos
russo, che affonda le sue radici della Rus’ antica con il suo tesoro melodico ritmico, e si
apre ad altri influssi internazionali. Dal XVIII al XIX secolo il sistema modale si collega allo
sviluppo della musica occidentale, ma non perdendo la tipicità del melos russo. Anche dal
punto di vista ritmico lo znamennyj raspev non definisce bene il ritmo, ma si modella sul
metro che esisteva in Occidente. Molto forte qui è l’influsso della musica francese e
italiana, e in generale delle nuove tendenze occidentali, come l'opera buffa, che si possono
chiaramente vedere in Russia in questo periodo.
Il quarto periodo comincia nella prima metà del XIX con Mikhail Glinka (1804-
1857), che esercita una decisiva influenza su tutti gli altri, soprattutto sul Gruppo dei
Cinque che fu molto vicino a Glinka. Nel XX secolo abbiamo grandissime personalità
come Stravinskij, Skrjabin, Rakhmaninov, Prokof’ev, e un genere di musica molto legata
alla musica europea.
Un secondo esponente del Gruppo dei Cinque fu Aleksandr Borodin, un altro tipo
di autore, un intellettuale a tutto campo, medico e chimico senza educazione musicale
sistematica, ma che componeva musica realizzando opere straordinarie. Tutta la Mogučaja
163
Kučka lo aiutava, soprattutto Balakirev, essendo egli molto impegnato nella professione. In
medicina fu il primo a inserire donne nella professione medica. Borodin presenta un altro
tipo di composizione. La sua opera maggiore fu il Principe Igor, in cui troviamo molte
danze di caccia e sinfonie d’amore molto conosciute, con ampio uso degli archi per
esprimere un’altra estensione musicale. Borodin fu molto criticato per la scarsa qualità del
contenuto del libretto, che in effetti non vale molto; la musica peraltro riprende i temi del
libretto in modo fantastico, con una capacità di elaborazione musicale veramente di alto
livello. La storia comunque riflette le tortuosità delle vicende russe. Nel prologo il popolo
onora il principe che si prepara per la guerra contro i tartari, scruta alcuni segni nel cielo,
presagi di una brutta fine, e cerca di trattenere il principe che decide di andare alla guerra:
“voglio combattere con gli assassini della Russia!” (Idu na boj s vragom Rusi!), espresso
musicalmente in modo stupendo. Un canto corale commenta la decisione del principe.
Segue un’altra scena con l’ennesimo segno nel cielo, e la domanda angosciosa, “Che cosa
significa?”. Una serie di movimenti musicali esprimono la richiesta di benedizione prima
di partire per la battaglia. Igor infine parte, e la regina rimane da sola con il popolo, e con
un figlio che vuole godersi la vita. Jaroslava, la regina, propone di recarsi in monastero a
pregare per il principe, ma il figlio preferisce divertirsi con le ragazze. Un altro movimento
musicale esprime l’atmosfera della casa in cui si festeggia, e un coro di ubriachi inneggia al
figlio gaudente, esprimendo indifferenza per la guerra del principe. È un altro tipo di
musica, molto più complesso ed elaborato di quella di Balakirev. In un altro brano
sentiamo la nostalgia di Jaroslava, che desidera incontrare il marito che sta combattendo.
Ella è rinchiusa in una stanza e piange, ha paura dei segni celesti. Una musica pacata e
fine, dimostra questo sentimento, che poi si trasforma in angoscia e tristezza. Nell’ultima
scena della prima parte tutti percepiscono il pericolo per la vita del popolo, lo esprimono
come timore che Dio punisca la città, si ha paura che Igor sia finito in prigione.
Si passa dunque alla situazione nel campo di prigionia. Jaroslava sente intuitivamente
che Igor sta male, egli col figlio Vladimir in effetti è in prigione dal khan Končak, ma non
si trova molto male, è rispettato dal khan e dalle sue tre figlie che offrono un ballo per i
prigionieri. Si crea un legame amoroso tra Vladimir e una delle tre figlie. A un certo punto
Igor ha la possibilità di scappare, ma egli la vede come una cosa non seria, che egli non
vuole usare, una scappatoia clandestina, mentre solo la forza può dare la libertà. Il
principe non sfrutta la situazione e non esce, rifiutando questa possibilità. In un brano si
dà la dimostrazione del rapporto tra Vladimir e la figlia del khan, una splendida
costruzione musicale per esprimere il rapporto sentimentale. Capita un’altra possibilità
per Igor di scappare, quando i custodi si ubriacano, il principe questa volta scappa e
Vladimir è diviso tra il dovere di seguire il padre e rimanere con la figlia di Končak.
Decide di rimanere, Končak gli offre una possibilità e lui sposa la ragazza. Nella quarta
scena Igor torna al suo paese, e tutti si abbracciano nel lieto fine. I nemici di Igor, che
speravano non tornasse, si pentono dei loro intrighi, e tutto finisce bene. In effetti non c’è
una logica in questa narrazione, ma forse anche questo è parte della cultura russa.
164
Modest Musorgskij è un altro artista della Mogučaja Kučka, vissuto solo 42 anni. Ebbe
una vita straordinaria, la famiglia aveva ereditato una bella terra, quindi crebbe in
condizioni agiate, venne instradato alla carriera militare, anche se la sua passione era per il
pianoforte, che studiava fin da bambino. Tutte le sue opere, anche i Quadri da
un’esposizione, erano originariamente scritti per piano, e solo in seguito strumentalizzati.
Ebbe la fortuna di conoscere tanti musicisti nell’infanzia, poi la sua storia personale si
complicò notevolmente, la famiglia fu costretta al trasferimento in campagna per motivi
economici, anche se questo diede a Musorgskij l’opportunità e il tempo di scrivere la
musica. La morte della madre lasciò un segno profondo, egli divenne alcolizzato, e anche
per questo non visse a lungo. Secondo i critici Musorgskij ha anticipato molto il periodo
successivo, trovando modalità di espressione assolutamente geniali. Morì nell’ospedale
militare di San Pietroburgo accanto agli amici, e rimase famosa la sua ultima frase: “tutto è
finito, il dolore sono io”. Si rendeva conto della sua rovina, ma non è riuscito a uscirne. La
sua musica è molto toccante, l’opera fantastica Boris Godunov è il simbolo della musica
russa per eccellenza. Aveva la capacità di scrivere piccoli pezzi in modo straordinario, ma
anche grandi opere, che duravano ore, con la stessa precisione. Sapeva avvicinarsi ai
bambini, come nell’opera La camera dei ragazzi, evidenziando un’anima fanciullesca. In lui
vediamo un altro modo di esprimere un contenuto molto variegato. Nel suo famosissimo
Quadri da un’esposizione, egli compone praticamente un dipinto musicale di una mostra
artistica, come un visitatore che viene e guarda un quadro, poi si sposta su un altro e si
lascia impressionare. Questi spostamenti si chiamano promenade, forma musicale simile al
rondò, il ritorno di un motivo che fa “vedere” lo spostamento fisico. Musorgskij è la
dimostrazione della genialità che non riesce a costringersi in una forma, anche nella sua
vita . Primo quadro si intitola Gnomus, e corrisponde all’immagine di un nano malvagio
che si agita nella foresta, un personaggio di fantasia che mostra un mondo di favola, il
mondo dei bambini espresso in piccoli brani e bruschi movimenti. Poi succede un’altra
promenade, con il tema leggermente modificato. Il secondo quadro è il Vecchio Castello,
un’immagine che viene dall’Italia e contiene un mistero di amore di un tempo lontano,
avvenuto nell’antico castello, avvolto in una atmosfera cupa e misteriosa. Quindi le
Tulieres, con giochi di bambini, e un’altra promenade in nuova versione. Si sentono i bimbi
che giocano e litigano, in un contesto di grande vivacità che fa contrasto con il quadro
successivo, il Carro dei contadini, reso con una elaborazione di grande ricchezza musicale.
Altra promenade, altro quadro, i Pulcini che escono dai loro gusci, piccole creature che ballano;
quindi due ebrei polacchi che si incontrano, Kolibe e Šulibe, uno ricco e uno povero, con il
secondo che chiede soldi al primo, esprimendo musicalmente la mentalità del mendicante
e dell’altro che rifiuta l’elemosina, con la ripetizione insistente della richiesta. Il brano
permette di immaginare facilmente il dialogo e la psichica dei personaggi, il superbo e
l’umile. I Quadri terminano con la solennità delle Grandi Porte di Kiev, la musica della
Russia che contiene tutte le sue anime e contraddizioni.
165
Anche negli altri autori del Gruppo dei Cinque si evidenzia la grande versatilità del
gruppo, capace di proporre una stessa anima in diverse soluzioni musicali, come ad
esempio nell’opera famosissima Sheherazade di Rimskij-Korsakov. Anche nella musica
russa, quindi, si riproduce il dialogo tra Oriente e Occidente; un altro grande compositore
estraneo al Gruppo, Petr Čajkovskij (1840-1893), prenderà la strada dello stile musicale
occidentale. Del resto, anche negli slavofili c’è dentro di tutto, c’è una sovrapposizione di
tutto nell’estremo anelito alla sintesi dell’anima russa.
166
APPENDICE.
L’ideale della bellezza femminile nella letteratura classica russa. (V. V. Filippovskaja)55
"La bellezza salverà il mondo", queste parole vengono ripetute abbastanza spesso
negli ultimi tempi. A pronunciare queste parole per la prima volta è il più ispirato degli
eroi di F. Dostoevskij, il principe Myškin nel romanzo L'Idiota, parlando della bellezza
femminile.
E dunque come appare questo ideale di bellezza femminile, espresso dalla letteratura
classica russa?
Ma su sé non attirava
Sguardi, come la sorella,
Per bellezza o esuberanza.
Schiva, triste, cheta, timida
Quale cerva alla foresta...56
Questo è “il caro ideale di Tatjana”, la protagonista preferita di Aleksandr Puškin. Nel
romanzo in versi Evgenij Onegin, per sottolineare quanto a lui una tale immagine di donna
fosse a lui cara e vicina, dove la bellezza consiste non nelle attrazioni esteriori, bensì nella
ricchezza e nella profondità del mondo interiore, Puškin paragona la “simpatica Tatjana”
con la sorella Olga:
...siede a tavola
Con la splendida Voronskaja,
La Cleopatra della Neva;
E con me concorderete
Che, benché così abbagliante
Di marmorea bellezza,
167
Non potrebbe, la regina,
Oscurar la sua vicina58.
Così Puškin si compiace sempre della sua Tatjana, ella è sempre bellissima e infinitamente
gradita al cuore del poeta, anche quando è una “signorina di provincia”:
Questa è la Tatjana di Puškin. Egli fu uno dei primi a esprimere nella letteratura russa un
modello di autentica bellezza femminile, di bellezza spirituale, bellezza di una donna
capace dei più nobili e profondi sentimenti. Tatjana amava Onegin con tutta se stessa, ma
preferiva sacrificare la propria felicità che tradire, non era capace di tradire il proprio
marito:
Proprio in queste parole, pronunciate da Tatjana nel finale del romanzo, si svela fino in
fondo un'immagine femminile veramente bellissima, creata dal grande poeta russo.
L'altro grande artista russo della parola, I. S. Turgenev, creò un'intera galleria di
immagini femminili, tanto da dare vita allo stereotipo russo della "ragazza di Turgenev".
Una di queste ragazze è la protagonista del romanzo Un nido di nobili, Liza Kalitina. Anche
qui, come nella Tatjana di Puškin, Liza si impone non tanto per la bellezza smagliante, non
per il fulgore, ma per la profondità del carattere, la serietà, la religiosità. Anche Turgenev
ricorre spesso ai confronti. Egli paragona e contrappone la bellezza di Liza alla bellezza
58 Ibid., p. 180.
59 Ibid., p. 175.
60 Ibid., p. 179.
61 Ibid., p. 198.
168
formosa ed evidente di Varvara Pavlovna, la moglie di Lavretskij, protagonista del
romanzo.
Così Turgenev descrive Liza: "Il viso fresco e pallido, gli occhi e le labbra così serie,
e lo sguardo onesto e innocente ... Si muove con tale leggerezza, e la voce è quieta ...
Ascolta con attenzione, senza sorridere". Inoltre, Turgenev sottolinea, come Puškin con la
sua Tatjana, la fedeltà di Liza alle sue origini nazionali: "ella si trovava a suo agio con i
russi; la rallegrava la disposizione d'animo dei russi; ella si intratteneva senza formalismi
per ore con il sovrintendente dei terreni materni ... e parlava con lui da pari a pari, senza
alcuna padronale alterigia".
E se Helen era di una bellezza vittoriosa, nella sua protagonista preferita, Nataša
Rostova, Tolstoj sottolinea al contrario che essa si impone non per l'aspetto esteriore, ma
per il suo contenuto interiore, per il fatto di incarnare in sè tutta la pienezza della vita: la
sua natura, la generosità, la passionalità, la curiosità, l'impetuosità anzitutto, la bellezza
dell'anima e la bontà, e l'inusuale sincerità. Ecco come incontriamo Nataša per la prima
169
volta, da ragazza: “La ragazzina, con occhi neri e una bocca troppo grande, non era bella
ma era piena di vita”65. Ed ecco come la vide la prima volta il principe Andrej: “In testa a
tutte, più vicina alla carrozza, correva una ragazza nera d'occhi e di capelli molto snella, di
una snellezza strana; vestiva un abito giallo di cotonina ... La ragazza stava gridando
qualcosa, ma, accortasi dell'estraneo, corse indietro ridendo senza fermarsi a guardarlo”66.
Non con la bellezza e il portamento si impone Nataša, bensì con la capacità di gioire
della vita, di essere felice, di tuffarsi completamente nel flusso della vita, donandosi ai
familiari e ai vicini. Proprio questa forza d'amore, di semplicità, di insolita flessibilità e
sensibilità d'animo si può sentire nella voce di Nataša: “Nella sua voce c'era una
freschezza intatta e verginale, una inconsapevolezza delle proprie forze, una morbidezza
vellutata e ancora incolta, così fusi con le manchevolezze della sua tecnica canora, che
pareva non si potesse mutare alcunché in quella voce senza sciuparla”67. E nei momenti
più tragici della sua esistenza, quando Nataša si trova al capezzale del morente principe
Andrej, ella è bellissima nella sua mancanza di bellezza: “Il viso magro e pallido di Nataša,
con le labbra gonfie, era peggio che brutto, era orribile. Ma il principe Andrej non lo
vedeva; vedeva quegli occhi raggianti, che erano meravigliosi”68.
E così poi Nataša si mostra nelle vesti di donna, moglie, madre, la cui immagine ha
turbato e deluso più di una generazione di studenti delle classi superiori nelle scuole
russe. “Si era fatta florida e piena tanto che era difficile riconoscere in quella madre
robusta l'esile e irrequieta Nataša di un tempo. I lineamenti della faccia si erano definiti e
avevano un'espressione di tranquilla dolcezza e limpidezza. Sul suo volto non c'era più,
come una volta, quella fiamma di animazione che ardeva senza posa e che costituiva il suo
fascino... Si vedeva unicamente una femmina forte, bella e feconda”69.
Proprio in una donna simile Tolstoj vide la caparra di una vita felice e piena, la
garanzia dell'unione tra due persone che si amano, poiché queste persone si donano l'un
l'altra senza riserve. «Sentiva che quei mezzi di seduzione che l'istinto le aveva insegnato
ad usare prima, ora sarebbero risultati solo ridicoli agli occhi del marito a cui si era data
tutta sin dal primo momento, cioè con tutta l'anima, senza tenere per sé un solo cantuccio.
Sentiva che il legame con lui non si basava... su qualcosa d'altro, di non definibile, ma
forte, come il legame della sua anima con il corpo”70.
Dunque l'ideale del grande scrittore russo L. Tolstoj non è quello della bellezza
marmorea e invincibile, ma della donna bella spiritualmente, sincera in tutte le sue
aspirazioni e capace di donarsi fino in fondo alle persone che ama.
170
Nell'altro sommo scrittore russo, F. M. Dostoevskij, la bellezza femminile e le belle
donne agitano passioni tormentate, che producono immani tragedie. Questo è evidente
soprattutto nei romanzi L'Idiota e I Fratelli Karamazov. Come si presentano queste bellezze
fatali, Nastasja Filippovna e Grušenka? Possiedono quella bellezza trionfante, vittoriosa su
ogni cosa, incolpevole?
Sì, in effetti la bellezza di Nastasja Filippovna impressiona, colpisce
l'immaginazione, è una bellezza "fantastica" e "demoniaca", ma allo stesso tempo non
soltanto la bellezza colpisce nel volto di Nastasja Filippovna: “il principe... s'avvicino’ alla
finestra ... e prese ad osservare il ritratto di Nastasja Filippovna. Incerto qual modo
avrebbe voluto decifrare qualcosa che si nascondeva in quel viso e che l'aveva colpito poco
prima ... Quel viso, straordinario per la bellezza e per qualcos'altro ancora, ora destava in
lui un'impressione ancora maggiore. In quel viso parevano esserci uno smisurato orgoglio
e un disprezzo che sconfinava nell'odio, e nello stesso tempo c'era un che di fiducioso, di
meravigliosamente ingenuo; queste due caratteristiche contrastanti suscitavano quasi un
senso di compassione in chi guardava quei lineamenti. Quell'abbagliante bellezza era
quasi insopportabile, la bellezza del viso pallido, delle guance quasi infossate e degli occhi
ardenti, una strana bellezza”71.
E com’è quella bellezza capace di far uscire di testa quel vecchio pervertito e
molestatore di Fedor Pavlovic Karamazov, e allo stesso tempo capace di elevare ai vertici
di un amore puro e appassionato il disorientato Dmitrij Fedorovič Karamazov? “Eccola,
quella donna terribile, la “belva” ... eppure ... sembrava di primo acchito la più comune e
la più semplice delle creature — una donna buona, cara, bella se vogliamo, ma molto
simile a tutte le altre donne belle e “comuni”72. “Certo era bella, notevolmente bella, di
quella bellezza russa che tanti uomini amano fino alla frenesia ... Era bianchissima in viso,
con una delicata sfumatura rosa sugli zigomi. Il suo ovale, forse, era un po' troppo largo e
Non vale la pena di toccare le opere del periodo del periodo della decadenza e in
particolare l'opera dei simbolisti, perché la loro visione artistica, come ad esempio
l'immagine della bellissima dama di Blok, si formò sotto l'influenza diretta della filosofia
di Vladimir Solov'ev, che costituisce un grande tema a parte. È opportuno rivolgersi ai due
maggiori romanzi della letteratura russa del XX secolo, Il Maestro e Margherita di Mikhail
Bulgakov e il Dottor Živago di Boris Pasternak.
“Dallo specchio una donna di circa vent'anni, coi capelli neri naturalmente ricciuti
... guardava la trentenne Margherita” “ ... le sopracciglia ... si erano infoltite e s'inarcavano
172
nere e perfette sugli occhi divenuti verdi ..., la pelle delle guance s'era colorita di un
incarnato uniforme, la fronte era diventata bianca e pura”73. Così si è trasformata
Margherita sotto l'effetto taumaturgico della magica crema di Azasello. Sotto questo
effetto ella ha perso la propria natura, e l'ha sostituita con un'altra, è diventata una strega e
una regina. Ma al primo incontro del Maestro con la nuova Margherita, “lo colpì non tanto
la sua bellezza quanto la straordinaria, indicibile solitudine nei suoi occhi!”74.
Dopo l'incontro con il Maestro la solitudine scompare e giunge l'amore, e con
l'amore appare il timore, la preoccupazione per la persona più cara e più vicina, così
vulnerabile in questo mondo crudele: “La mia compagna era molto mutata ... era
dimagrita e impallidita, aveva smesso di ridere ...”75. E Azasello nell'incontro con
Margherita le dice: “Lei è discretamente invecchiata per il dolore in questi ultimi sei
mesi”76.
Come vediamo, anche in Bulgakov la bellezza di Margherita porta il segno della
tristezza e della precarietà: dapprima per la solitudine accanto a un marito non amato, e
poi per la preoccupazione per l'uomo immensamente amato, il Maestro. Ella è
l'incarnazione dell'autentica femminilità, non può non amare e non preoccuparsi, e
neanche il fascino malvagio ed estraneo è in grado di sradicare da lei la capacità di amare,
di essere buona e misericordiosa. Infatti quando ella cerca di vendicare il Maestro,
mettendo tutto a soqquadro nella casa di Latunskij, vedendo alla finestra più lontana della
casa un piccolo ragazzino spaventato nel suo letto, ella interrompe la selvaggia
distruzione. E soltanto Margherita mostra comprensione all'infelice Frida, non Woland. La
Misericordia non ha posto nel mondo del male, essa sconvolge il suo signore: “parlo della
misericordia, - si spiegò Woland, - talvolta del tutto inaspettatamente e a tradimento essa
s'infiltra nelle più anguste fessure”77.
Nonostante il Maestro e l'amata Margherita passino attraverso le più mostruose e
sataniche circostanze della vita, ella non è una strega malvagia, non è una nera regina, ma
una donna amante, sofferente, buona e compassionevole, e tutto questo si riflette sul suo
bellissimo viso, rendendola ancora più bella. Solo in quelle terribili circostanze, in quella
opprimente atmosfera autoritaria e priva di libertà, nella quale sono finiti i protagonisti del
romanzo, Margherita è capace di qualunque sacrificio per la salvezza dell'uomo amato,
perfino un sacrificio terribile come l'unione col male, ma in questo non viene infettata dal
male, rimanendo sempre bellissima, saggia, ma sofferente.
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protagonista del romanzo di B. Pasternak Il Dottor Živago, cioè appunto Jurij Živago.
Pasternak scrisse: "per noi russi è sempre stato più semplice sopportare e rigettare il giogo
tartaro, fare la guerra e ammalarsi di lebbra, che non vivere". Il giogo sovietico invece fu
rigettato da Pasternak nel suo romanzo; infatti il Dottor Živago affermava il diritto
dell'uomo alla piena libertà, cantava il principio creativo nell'uomo, rifiutava ogni specie
di totalitarismo e di uniformità di pensiero.
Lara, la protagonista principale del romanzo, secondo molti critici è l'immagine stessa
della Russia, ed è proprio così, quando l'autore parla del suo destino, della sua purezza e
perfezione originaria: “aveva un'intelligenza limpida, un carattere mite. Ed era molto
graziosa ... Lara era l'essere più puro al mondo”78. Ed ecco che questo essere così puro
viene distrutto, scalzato dal suo cammino, tentato, ridotto in schiavitù (quanto ricorda il
destino della Russia!). Ancora quasi bambina, ella conosce l'oppressione dell’oltraggio e
della prigionia: “diveniva sempre più schiava di un incubo dei sensi”. E in quello che
afferma il marito Antipov è evidente la coincidenza del destino di Larisa col destini della
Russia: “era una ragazza, una bambina, ma nel suo viso, nei suoi occhi già si leggeva un
pensiero ansioso, l'inquietudine del secolo. Tutti i motivi dell'epoca, le sue lacrime e le sue
offese, i suoi impulsi, la sua sete di vendetta accumulata da tempo e il suo orgoglio erano
scritti nel volto e nel portamento di lei, in quella sua mescolanza di timidezza verginale e
di grazia ardita. L'accusa al secolo si poteva rivolgere in nome di lei”79. La stessa Lara
afferma di sè: “Sono incrinata, ho una crepa per tutta la vita”. In effetti questa frattura è
evidente nell'immagine della Russia fino ad oggi.
Ma Larisa non è certo simbolo soltanto della Russia. Ella possiede una saggezza e
una preveggenza speciale. Molti personaggi del romanzo si rallegrano ingenuamente degli
eventi rivoluzionari del 1917 e della presa del potere da parte dei bolscevichi. "Ed ecco che
fra tutti coloro che sono in preda alla gioia, ho incontrato il vostro sguardo stranamente
infelice", ricorda Jurij Živago. Questa saggezza e preveggenza di Lara è la saggezza della
vita stessa, poiché Lara è il simbolo della vita, simbolo del trionfo dell'essere, ella stessa è
corona di una creazione fatta per la felicità e per l'armonia. Questo esclama, rendendosene
conto, Jurij Živago: “Come è dolce essere al mondo e amare la vita! Si vorrebbe dire grazie
alla vita per quello che è, dirglielo direttamente! Ecco, questo è Lara. Con queste cose non
è possibile comunicare: ma lei è loro simbolo, la loro espressione, il dono dell'udito e della
parola dato agli elementi muti dell'esistenza”80.
Lara è la vita stessa, che non si sottomette ad alcuno schema, a nessuna condizione,
tanto da far dire alla moglie di Živago, Antonina: «Io sono venuta al mondo per
semplificare la vita e cercare il giusto cammino, lei (Lara) per complicare la vita e far
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sbagliare strada». In effetti Lara è complicata e imprevedibile, come lo è la stessa vita, che
si sottomette soltanto al potere del Creatore. E il senso dell'esistenza “si rivelava (a Lara).
Era lì per cercare di capire la frenetica bellezza del mondo, per dare un nome alle cose”.
Per Jurij Živago l'immagine di Larisa è legata inscindibilmente a Dio, al Creatore, alla fonte
primigenia della vita e dell'armonia: “Come era bella!.. Era quella linea inimitabilmente
semplice e netta, con cui in unico tratto, dall'alto al basso, l'aveva tracciata il creatore, e con
quel divino disegno l'aveva consegnata alla sua anima”81. Attraverso Larisa, il
protagonista partecipa alla pienezza divina e alla gioia di vivere perfino in circostanze
tragiche come quelle in cui si trovano i protagonisti del romanzo e la loro patria, la Russia:
«Lara!» - mormorava, chiudendo gli occhi e rivolgendosi mentalmente alla propria vita, a
tutta la terra di Dio, allo spazio illuminato dal sole che gli si apriva alla vista.» «Signore!
Signore! ... E tutto questo a me? Perché mi è dato tanto? Come mi hai lasciato venire a te,
concedendomi di camminare su questa terra impareggiabile, sotto queste tue stelle,
accanto a questa creatura avventata, senza rimpianti, sfortunata, adorata?»82. È un vero
inno al Creatore, alla sua creatura, all'amore e alla donna amata!
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Živago e Larisa, Tanja Bezočeredovaja, una ragazza delle pulizie. È il nome che la strada
ha assegnato a questa ragazzina abbandonata, volgare e poco sviluppata, a cui la strada
stessa ha impresso un’educazione triviale, dopo che la tremenda realtà della Russia
bolscevica le ha tolto i genitori e l'infanzia. Tanja non è bella, è primitiva e rozza, e soltanto
quando sorride “per un istante non si notano più il naso camuso, gli zigomi angolosi;
diventa attraente, carina”. Così “quello che era stato concepito in modo nobile e alto, è
diventato rozza materia”, come la stessa realtà russa era divenuta rozza e materiale.
Quale è il motivo che unisce tanti autori così diversi nella creazione di un unico
ideale di bellezza russa?
A nostro parere, l'ideale della bellezza si forma nell'uomo russo sullo sfondo della
natura russa, che colpisce senza affascinare. Le stagioni dell'anno si succedono molto in
fretta; l'inverno russo è rigido, ma anche splendido con le sue nevi e i suoi ghiacci, ed è
molto caro al cuore dell'uomo russo:
Questo ideale di bellezza, questo canone della bellezza femminile, noi lo vediamo
negli scrittori russi, così diversi nelle loro visioni del mondo, nei loro stilemi letterari, di
epoche diverse. Osserviamo un ideale di bellezza non imponente, non tentatore, non
trionfante e vittorioso, ma piuttosto una bellezza capace di riflettere la spiritualità, di
suscitare sentimenti e portare in sè il segno della femminilità. Evidentemente per questo è
così cara l'immagine della Madre di Dio, l'icona della Madre di Dio, non della Regina del
cielo, non della Vergine, ma proprio della Madre di Dio, che si concede al sacrificio più
grande. E per questo in Russia l'immagine di Maria come madre che accarezza Cristo
fanciullo, con la sua profonda umanità, con una infinita tristezza nello sguardo, è
particolarmente vicina all'anima russa.
Per questo sono apparse nella letteratura russa le immagini di Tatjana Larina e
Natasha Rostova, Liza Kalitina e Grušenka, Nastasja Filippovna, Margherita e Larisa,
donne bellissime anzitutto per il fatto di essere capaci di sacrificare la propria felicità, la
bellezza esteriore, la propria anima e la stessa vita per la felicità e la vita delle persone a
loro vicine.