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RUSSIA: FEDE E CULTURA

INDICE DEI CAPITOLI.

Introduzione. La storia della cultura come approccio specificamente russo .................. 3

Estensione geografica e culturale della Russia ........................................................................ 3


Culturologia come approccio all’esperienza ............................................................................ 4
Alcuni esempi russi di sintesi culturologica ............................................................................. 7

Capitolo 1. Il paganesimo nella Slavia orientale .................................................................. 10

Il filo rosso di Tarkovskij ............................................................................................................ 10


Elementi storici del paganesimo russo ..................................................................................... 12
La versione di Nestor .................................................................................................................. 16
Il pianto pagano per il principe sconfitto ................................................................................. 19
Il paganesimo come ispirazione dell’arte russa ...................................................................... 25

Capitolo 2. La conversione della Russia ................................................................................. 27

La Rus’ di Kiev tra Commonwealth bizantino e Slavia Orthodoxa ............................................ 27


La missione della bellezza e della sofferenza ........................................................................... 29
La scelta del principe e lo splendore della liturgia .................................................................. 31
La purezza della sofferenza ........................................................................................................ 37
Il nuovo inizio della storia cristiana .......................................................................................... 44
Le Grotte dei miracoli e dell’obbedienza .................................................................................. 52

Capitolo 3. Dal giogo al trono: la fede che salva il mondo .................................................. 57

La lunga notte orientale dell’anima asiatica ............................................................................. 57


La campana della nuova Russia ................................................................................................. 65
La Russia universale: Mosca terza Roma .................................................................................. 72

Capitolo 4. La Russia e l’Europa: nuove dimensioni dello spirito ..................................... 78

La mistica del terzo elemento ...................................................................................................... 78


La Russia entra in Europa, l’Europa in Russia .......................................................................... 86
1
Il cappello di Monomaco sulla Chiesa-Stato ............................................................................. 92
Il “torbido” miscuglio di russicità e modernità ........................................................................ 99
La corte illuminata degli zar senza barba ................................................................................. 107

Capitolo 5. La cultura universale della grande Russia ......................................................... 115

La vittoria come affermazione dell’autocoscienza ................................................................... 115


Viaggio nelle favole e nelle anime .............................................................................................. 116
La rivoluzione come desiderio di rinascita ............................................................................... 118
L’apostolato dell’Intelligentsija .................................................................................................... 122
Divinità di bronzo sulle rive della storia ................................................................................... 133
Le questioni eterne di Dostoevskij e Tolstoj ............................................................................. 137
Dalla realtà dell’immagine all’astrattezza della realtà ............................................................ 149
L’espansione musicale dell’anima .............................................................................................. 161

Appendice. L’ideale della bellezza femminile nella letteratura classica russa. .............. 167

2
Introduzione.
La storia della cultura come approccio specificamente russo.

È sempre difficile trovare il punto di partenza più adeguato a descrivere il percorso


storico-culturale della religiosità russa e delle sue espressioni confessionali, a partire da
quella predominante dell’Ortodossia cristiana. Mentre il Cattolicesimo, il Protestantesimo
e la stessa Ortodossia greca si definiscono in base alle loro origini, agli sviluppi che hanno
subito nelle varie epoche e alle loro condizioni attuali, ben poco di tutto questo si può
applicare alla fede ortodossa russa e alla sua Chiesa patriarcale, men che meno alle
espressioni minoritarie del cristianesimo russo cattolico, protestante, ereticale o settario, e
alle varianti russe dell’Ebraismo, dell’Islam, del Buddismo e perfino del Paganesimo. E
questo nonostante la Russia sia un paese con una data di battesimo, il 988, anno in cui il
gran principe Vladimir di Kiev fece immergere i suoi sudditi nelle rive del Dnepr,
sostituendo con la fede cristiana il pantheon pagano di cui egli stesso era stato il
rappresentante e la guida. Eppure, neanche una data così storicamente evidente permette
di individuare un itinerario coerente e originale.
Le interruzioni di una storia che si è sempre svolta a singhiozzo, le dipendenze
incrociate che in ogni epoca hanno creato inattese sovrapposizioni e scambi di prospettiva,
l’allergia slava all’elaborazione sistematica delle proprie intuizioni, tutto questo ha fatto sì
che in Russia la fede si mescolasse perennemente con la politica, la teologia e la filosofia
con l’arte e la scienza, la liturgia e la devozione con la geografia e la storia. Non che queste
contaminazione siano mancate nella storia religiosa degli altri popoli, ma mentre negli
altri si tratta per lo più di definizione dei contorni, per i russi nella contaminazione si
identifica il cuore stesso della propria fede e della propria cultura.
L’approccio sistematico appare in effetti inadeguato per descrivere una storia così
ricca e al tempo stesso incompiuta. È estremamente arduo parlare di “filosofia russa”,
“teologia russa”, “arte russa” o “musica russa”, ma se ci si apre alla ricerca della filosofia,
della teologia, dell’arte o della musica “in Russia”, ecco che si spalancano orizzonti che
appaiono immediatamente così ampi, originali e multiformi da ritenere le altre culture in
qualche modo inferiori, povere e limitate. In parte è solo un’illusione, evidentemente; ma
forse in questo orizzonte non mancano davvero territori da nessuno raggiunti.

Estensione geografica e culturale della Russia.

La Russia chiede dunque di essere indagata a tutto campo, ed è un campo sterminato


come il suo territorio senza veri confini. Anche oggi che ha perso il dominio sulle
repubbliche asservite ai tempi dell’Unione Sovietica (che peraltro coprono parte dei
territori storicamente russi), la Russia occupa un sesto delle terre emerse dell’intero globo,
pur avendo una popolazione di poco superiore a quelle di lingua tedesca. Al di là
3
dell’effettiva capacità di accoglienza di queste terre nordiche, in gran parte gelide e
impossibili da abitare (in questo l’unica analogia con la Russia è la distesa nordamericana
del Canada), la dimensione geografica rimane uno dei riferimenti principali dell’anima
russa, che si sente chiamata a raggiungere spazi infiniti, non conosce limiti e confini, ma
allo stesso tempo rimane frustrata dalla mancanza di sbocchi naturali e canali di
comunicazione con il resto del mondo, angosciata dal continuo terrore dell’invasione
straniera e delle distruzioni che ne possono derivare, e che realmente sono derivate,
provenienti da tutti e quattro i punti cardinali. Le tribù slave orientali conobbero infatti la
conquista “civilizzatrice” dei Variaghi calati dal nord scandinavo, per poi diventare uno
stato cristiano dipendente dagli imperatori bizantini del sud mediterraneo, a sua volta
invaso dalla ferocia dei cavalieri mongoli provenienti dall’oriente, per poi essere
sottoposto nella sua storia moderna ai tentativi di conquista dell’occidente europeo. Oggi
la Russia post-sovietica si divincola nel calderone dell’economia globalizzata, cercando il
proprio ruolo tra le spinte contrastanti dell’Ovest americano ed europeo, del Sud indo-
persiano e dell’Est cino-giapponese, mentre il Nord si è trasferito negli spazi al di sopra
dell’atmosfera terrestre.

Culturologia come approccio all’esperienza.

Per tentare di orientarsi in questo spazio continuamente sottoposto a movimenti di


estensione e compressione, in questo tentativo mai concluso di sintesi degli opposti e degli
estremi che è la Russia, tentiamo quindi un approccio diverso, che sia analitico e intuitivo
allo stesso tempo, sistematico nei dettagli e flessibile nelle definizioni generali. È un
approccio in realtà molto frequentato dal mondo intellettuale e accademico della Russia
stessa, uno dei pochi paesi che inserisce regolarmente nei corsi universitari la storia della
cultura, la kul’turologija. Si tratta di una disciplina ormai assestata in diverse parti del
mondo, con uno statuto scientifico ad essa assegnato dal sociologo americano Leslie A.
White negli anni Cinquanta, che conosce peraltro anche interpreti europei1.
Prendiamo in prestito un’ampia definizione di Giuseppe Ghini, slavista italiano che ha
dedicato studi molto approfonditi e dettagliati alla storia della cultura russa: “Per
culturologia si intende una disciplina cui spetta anzitutto la comprensione e la spiegazione
del fenomeno della cultura in generale, del suo ruolo nell’esistenza umana, dei processi di
acquisizione, conservazione e trasmissione della cultura stessa. Ancora, è di pertinenza di
questa disciplina l’analisi delle diverse forme e tipi culturali, dei principali centri e delle
aree di produzione culturale (nel caso specifico, ovviamente, la culturologia russa è

1Uno dei massimi interpreti del metodo culturologico in Italia è senz’altro Umberto Eco; tra gli altri vale la
pena di ricordare illustri slavisti come Vittorio Strada e il francese George Nivat.
4
particolarmente interessata alle tappe fondamentali del processo culturale russkij – proprio
dell’ethnos russo – e rossijskij – avvenuto cioè entro i confini dell’entità statuale russa).
L’oggetto di studio della culturologia è dunque anzitutto la cultura intesa come
universale rapporto dell’uomo con il mondo e con se stesso e ogni singola cultura come
creativa e concreta realizzazione di quel rapporto; un rapporto che, con il suo stesso
instaurarsi, produce senso, significa. E in questo rapporto di significazione, l’uomo fa suo
il mondo, se ne appropria, vi si accasa. Sembrano evidenti già in questa concezione
antropologica sottesa alla kul’turologija russa echi della cultura classica e biblica, in altre
parole delle due radici di cui è fatta l’Europa. La kul’turologija trova, infatti, nell’ancoraggio
alla tradizione culturale classica, umanistica e cristiana gli strumenti per evitare il
relativismo assiologico a cui sembrano invece destinati spesso gli studi culturali. Essa fa
precedere – classicamente, verrebbe da dire – allo studio delle diverse incarnazioni della
cultura la riflessione sulla cultura stessa e sull’uomo come produttore e prodotto della
cultura. Per questo motivo nella concezione pedagogica russa contemporanea la
kul’turologija ha occupato il posto di una disciplina fondante sia l’ambito umanistico, sia
quello scientifico-tecnologico.
Inoltre, attingendo a quelle stesse fonti, le uniche capaci storicamente di produrre
società aperte, essa rinnova e problematizza il pensiero europeo, spesso eurocentrico. Da un
lato, dunque, riprende la tradizione biblica sempre molto produttiva nella Russia
presovietica e ora riscoperta, se mai per il tramite di Martin Buber e soprattutto di Nikolaj
Berdjaev. Il compito culturale dell’uomo risponde qui al comando del Genesi di
“soggiogare la terra” (Gen 1,28), un compito adempiuto e umanizzato dall’opera
neotestamentaria del Verbo incarnato – la Parola che dà significato – che “pianta la sua
tenda” fra gli uomini (Gv 1,14). Dall’altro lato, facendo tesoro della distinzione moderna tra
la dimensione ideologica e quella sociale, la culturologia evita funesti complessi di
inferiorità e ancor più funesti imperialismi culturali e si sforza di intendere ogni cultura
come risposta collettiva di un gruppo all’interrogativo posto dal proprio destino e
dall’esistenza stessa. Qui, evidentemente, il rapporto di significazione è già la declinazione
di un significato particolare, sociale, che permea i fenomeni simbolici, ideologici, artistici,
religiosi e che viene analizzato sia da un punto di vista interno sia da quello comparativo.
Sotto quest’ultimo aspetto non di rado gli studiosi della cultura pervengono a
posizioni di indifferentismo assiologico, di relativismo culturale. Va invece riconosciuto ai
culturologi lo sforzo di cercare criteri di valutazione assoluta delle culture. “Questi criteri –
spiega Tsarov – derivano dal fatto che il valore primigenio è l’uomo, lo sviluppo della sua
personalità e libertà. Pertanto il grado di sviluppo di una cultura è determinato dal suo
atteggiamento nei confronti della libertà e della dignità dell’uomo e dalle possibilità che
essa offre all’autorealizzazione dell’uomo come persona” (Radugin 2001, p.17). su questa
base è possibile realizzare lo scopo operativo della culturologia, quel dialogo tra culture
che si rivolgono le une alle altre senza dissolversi le une nelle altre.

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Attenta in particolare al surplus di significazione che i prodotti dell’uomo portano in
sé, la culturologia adotta un metodo assai simile a quello dell’indagine filosofica, arricchito
però da quanto l’antropologia, la storiografia, la psicologia e la sociologia della conoscenza
hanno portato nel campo delle scienze umane. Albero dalle tante radici, la culturologia
russa denuncia esplicitamente i suoi debiti nei confronti di Hegel, Spengler, Berdjaev,
Freud, Jung, Toynbee, Sorokin, dello strutturalismo, di Huizinga, Ortega y Gasset, di
Veselovskij, ma soprattutto della semiotica lotmaniana e della poetica della cultura ideata da
D.S. Likhačev e S.S. Averintsev. Nella concezione della semiotica lotmaniana, infatti, il
materiale della semiotica non è costituito dalle parole, dalle frasi o dai testi isolati, ma
dalla cultura come tale. In tale prospettiva, i segni che costituiscono l’oggetto di studio
della semiotica sono dunque tutti i prodotti dell’informazione non genetica dell’uomo.
Gli studi di Likhačev e Averintsev, dedicati rispettivamente alla poetica della
letteratura russo-antica e antico-bizantina, indagano invece i legami tra la semiotica
sociale, la semiotica culturale e la semiotica del testo letterario, giungendo infine a
individuare l’ethos unitario – lo stile di un’epoca, come lo definisce Likhačev – che soggiace
e informa quelle specifiche culture. “Si può parlare di una letteratura russa antica come di
un qualcosa di unitario dal punto di vista della poetica storica?” si chiede Likhačev
proprio all’inizio della sua Poetika. Il termine poetica, infatti, viene qui utilizzato come
“sistema dei principi operativi di un qualunque autore, di una scuola letteraria o di
un’intera epoca letteraria”. Poetica pratica, dunque, e immanente alla stessa creazione
letteraria indagata con un’esigenza di sistematicità, di organicità tutt’altro che occasionale.
Ancora, come spiega lo stesso Averintsev, “la parola letteraria deve essere rapportata
alla storia, alle realtà sociali e politiche della storia, ma rapportata non altrimenti che
attraverso l’uomo”. Umanizzando e umanisticizzando la cultura russa in cui operavano,
questi autori si opposero – di fatto, e con argomenti di forte spessore intellettuale – alla
semplificazione sociologista sovietica; inserirono la parola letteraria nell’ambito della storia
culturale ma fecero perno sull’autore di quella stessa parola, l’uomo. L’uomo che dà voce
reale a quella letteratura e a quella cultura, la fa passare da uno stato potenziale a uno
stato attuale; l’uomo che si percepisce all’interno della storia, e che con una determinata
cultura risponde alla domanda sul suo “posto nell’universo”. Non a caso uno dei primi
grandi lavori di Likhačev è proprio dedicato all’uomo nella letteratura dell’antica Rus’.
Prendendo l’avvio da una possente analisi della produzione artistica russa antica, del suo
armamentario retorico e dei suoi generi, Likhačev affronta nella sua Poetika il problema
della collocazione della letteratura nell’ambito della cultura della Rus’. Problema che
investe inevitabilmente, date anche le particolarità del concetto stesse di testo in tale
ambito, il rapporto organico tra immagine (miniatura, icona ecc.) e parola scritta, tra
letteratura e folklore, tra comportamento sociale ed etichetta letteraria (norma di
comportamento letterario). Lungi dall’essere svincolata dalla vita sociale del tempo, nel
vasto affresco di Likhačev i generi letterari appaiono sullo sfondo dei loro usi
extraletterari, ma da essi distinti per una diversa concezione del tempo e dello spazio
6
artistico. L’ulteriore sviluppo di questo metodo conduce Likhačev a studiare la semantica
degli stili dei giardini e dei parchi non “per una forma di elevato hobby”, ma per quella
che sembrerebbe quasi una necessità del metodo stesso. Il giardino come testo è il sottotitolo
di uno dei suoi ultimi libri, La poesia dei giardini.
L’analisi del sistema culturale antico-bizantino che, malgrado tutte le contraddizioni, anzi
proprio attraverso esse rivela una logica indiscutibile e permette ad Averintsev di
ipotizzare una serie di legami tra fenomeni sociali e fenomeni culturali normalmente
piuttosto distanziati. Accade così che all’ideologia politica dello stato bizantino venga
accostata la simbolica dello Pseudo-Dionigi Areopagita, e a questi due fenomeni
considerati insieme, l’uso della metafora nella poesia del tempo; che all’intento didascalico
degli innografi venga accostato il sistema di metrica e di allitterazione da loro stessi
elaborato; al mondo burocratico degli scribi di Costantinopoli, l’ipersensibilità verso la
grafica del testo letterario; alle antinomie presenti nella dottrina cristiana, la strofa di
Romano il Melode con la caratteristica contrapposizione di strofa e ritornello, e così via”2.

Alcuni esempi russi di sintesi culturologica.

Gli autori citati da Ghini sono senz’altro esponenti di primo piano di una metodologia
tipicamente russa di comprensione della cultura nella sua dimensione storica e
interdisciplinare, in particolare della sua dimensione religiosa. Proprio Sergej Averintsev
(1937-2004), è stato l’ultimo erede di una “scuola” che risale agli inizi stessi del sistema
scolastico russo fin dal XVII secolo, quando a Kiev e Mosca cominciavano ad aggregarsi i
discepoli dei missionari gesuiti in Polonia, e la Russia ancora medievale cercava le
categorie per affermare la propria specificità nell’Europa cristiana divisa. Questa capacità
di non perdere il filo della propria identità e della propria vocazione culturale e religiosa è
stata per i russi il grande antidoto al dominio totalitario dell’ideologia nel periodo
sovietico, che solo apparentemente aveva cancellato ogni memoria del passato. Lo stesso
Averintsev, filologo bizantinista e poi teologo, fu il primo a proporre pubblicamente
tematiche religiose a cominciare dagli studi su Jung, raccogliendo ai suoi seminari in
università folle trabocchevoli di studenti, riuscendo a influenzare e formare la coscienza
delle generazioni più giovani contrastando “a mani nude” la potenza propagandistica dei

2GHINI Giuseppe, Culturologia, in http://www.unipa.it/~articom/studiculturali/. Dello stesso autore vedi


anche, tra gli altri: La Scrittura e la steppa. Esegesi figurale e cultura russa, Urbino, Quattroventi, 1999.
7
corsi sistematici e obbligatori di ateismo e dottrina marxista, inutilmente propinati agli
studenti russi di ogni ordine e grado.
La straordinaria autorità morale e intellettuale di Averintsev non nasceva peraltro dal
nulla. Emblematico al riguardo era stato il destino di una personalità come quella di
Aleksej Losev (1893-1988), pensatore antimarxista e filosofo del simbolismo o “ideal-
realismo” (secondo la definizione di Nikolaj Losskij), autore di molte opere significative
soprattutto nel campo dell’estetica antica e rinascimentale, come Filosofia del nome, Cosmo
antico e scienza contemporanea, Dialettica della forma artistica e Musica come oggetto della logica,
tutte del 1927 e molte altre successive, tra cui una monumentale e incompiuta Storia
dell’estetica a partire dagli anni ‘30, in cui le riflessioni sulla filosofia antica e il
neoplatonismo erano una forma velata di riflessione teologica (era un seguace segreto
dell’onomatodossia, teoria ascetica dei monaci russi del Monte Athos). Losev rimase
sempre piuttosto isolato, a parte il contributo della moglie Valentina, che con lui si era
consacrata al monachesimo, e dopo la sua morte della compagna Aza Takho-Godij,
filologo classico e custode della sua eredità. La sua opera verrà poi pubblicata sotto la cura
di Jurij Borodaj, storico della filosofia con la moglie Pjama Gajdenko; in essa si ritrovano
influssi di Richard Wagner, V. Ivanov, Skrjabin, e anche Husserl, Rozanov, Karsavin e di
Vladimir Solov’ev, “progenitore del filosofare simbolico”. Tra gli innumerevoli lettori di
Losev si creò un circolo di giovani ricercatori, che a partire dagli studi filologici
diventeranno i padri della cultura post-marxista come appunto Averintsev, il filosofo
Vladimir Bibikhin (1938-2004) e altri ancora viventi.

Un altro pensatore di rilievo rimasto in Russia anche sotto il comunismo fu Mikhail


Bakhtin (1895-1975), critico letterario “antirealista” e filosofo del dialogo “relativista” con i
vari aspetti della realtà, che espresse in un famoso saggio sulla teoria “polifonica” della
realtà in Dostoevskij. Nel 1919 egli aveva pubblicato il testo “Arte e responsabilità”, sulla
relazione tra arte e vita, in cui aveva esaltato il ruolo della coscienza individuale. Bakhtin
riprendeva temi della famosa raccolta Vekhi, il manifesto degli intellettuali che già prima
della rivoluzione avevano abbandonato il marxismo per ritornare all’ispirazione religiosa
e liberale della cultura russa. Molte consonanze si trovano anche con il pensiero di Pavel
Florenskij, il grande scienziato teologo morto martire nel 1937, sulla Trinità divina e i suoi
riflessi nella trinità della coscienza e l’unità di scienza, arte e vita. Bakhtin si esprime in
favore di una “filosofia dell'atto”, che superi la contrapposizione tra il mondo della cultura
e il mondo della vita, anticipando temi tipici dell’esistenzialismo e proponendo una
concezione dell'unità modulata sulla formulazione del dogma calcedoniano sulle due
nature di Cristo. Riprendendo da Berdjaev la riflessione sull’“idea russa”, Bakhtin
esprimeva la convinzione che i valori spirituali naturali della Russia e le sue strutture
comunitarie la destinassero a guidare il mondo e costruire la nuova Gerusalemme, una
comunità fondata sull'amore fraterno e una fede condivisa: il grande ideale di tutta la
cultura russa.
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La filosofia di Nikolaj Berdjaev (1874-1948) è un vero condensato di originalità,
intuizione e capacità di sintesi tipiche della tradizione russa. Nel 1946 egli aveva
pubblicato a Parigi il saggio intitolato appunto L’idea russa, in cui condensava riflessioni
precedentemente espresse in saggi sull’ “anima russa” e sul “destino della Russia”.
Berdjaev cercava di individuare la “tipologia nazionale”, affermando che “il popolo russo
è polarizzato al massimo grado, è un insieme di contraddizioni. Per esso ci si può
entusiasmare e deludere, da esso ci si può sempre attendere qualcosa di inatteso … in
Russia si scontrano e giungono a collaborare due direzioni della storia universale,
l’Oriente e l’Occidente”3. Praticamente tutti i pensatori russi sottolineano l’ambivalenza e
la “contraddittorietà” dell’anima russa, quella che Florenskij elabora nella teoria della
“antinomia”, in cui i due termini della verità non si annullano, ma si confermano a
vicenda in una logica “paradossale” e legata all’esperienza vivente più che alle definizioni
formali. Il culturologo Mikhail Epštein propone la categoria del “rovesciamento” come
chiave per la comprensione della cultura russa: “Per la cultura russa è caratteristico un
certo tipo di gesto ingannevole, di forzatura, di sostituzione, quando qualcosa di visibile,
mostrandosi nel suo opposto, presuppone qualcosa di contraddittorio a ciò che mostra.
Nella sua modalità più comune questo meccanismo di forzatura si può descrivere come
ironia o beffa, ma è importante sottolineare che si tratta di un’ironia oggettiva più che
soggettiva, quando le circostanze si fanno beffe dell’uomo, quando tutto quanto da lui
intrapreso si rivolta contro di lui, si rovescia nel suo contrario. Le categorie occidentali di
“ironia” (del genere dell’ironia romantica, quando il soggetto stesso prevale
continuamente su di sé) o di “alienazione”, quando ciò che l’uomo realizza si distacca da
lui stesso in forza di un lungo e oggettivo processo storico, e assume un potere autonomo
su di lui, qui non funzionano del tutto. Si tratta piuttosto dell’effetto del darsi la zappa sui
piedi, quando ci si crea un problema da soli. L’esperienza della storia russa riassume
questo effetto in una frase rozza ma efficace: za čto borolis, na to i naporolis (per quello per
cui abbiamo lottato, in quello ci siamo ficcati)”4.
Afferma inoltre una storica della filosofia, Ljudmila Koneva: “La filosofia russa è
sempre stata una filosofia della cultura. In tutto il corso del suo sviluppo la filosofia russa
è stata caratterizzata dall’interesse all’uomo vivente, concreto, alle forme e alle possibilità
del suo essere. Per questo Berdjaev ha chiamato la filosofia russa un “idealismo concreto”,
una “filosofia concreta dello spirito integrale”, Ern un “logismo” e V. Solov’ev una
“filosofia dell’unitotalità”. A noi pare corretto evidenziare il paradigma antropologico
come paradigma specifico del pensiero filosofico nella filosofia russa. Per questo
paradigma è tipica la valorizzazione filosofica della conoscenza integrale, che si sviluppa a
partire dall’esperienza viva della persona, dalla concretezza della verità, equivalente alla

3 BERDJAEV Nikolaj, Russkaja ideja, Paris 1946, pp. 5-6.


4 EPŠTEIN Mikhail, Russkaja kul’tura na rasput’e, Sankt-Peterburg 2000, p. 76.
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verità della vita; in esso si manifesta il simbolismo del pensiero e la percezione estetica
della realtà, in cui il principio dell’amore universale, comunitario (sobornoe) si fonde con il
particolare, l’individuale, dando all’integralità dell’individuo il valore più alto … La
comprensione dell’uomo come divinità e nullità nell’ambito del paradigma antropologico
era e rimane il grande compito della filosofia russa”5. Il poeta dissidente Andrej Sinjavskij
riteneva che “la religione dello Spirito Santo risponde in qualche modo alle nostre
caratteristiche fisionomiche: la naturale assenza di forme (bezformennost’), che dall’esterno
confondono erroneamente con la selvaticità o la giovinezza della nazione, l’instabilità, la
passività, la disponibilità a entrare in qualunque forma (venite e dominateci), il nostro
vizio o talento di pensare e vivere artisticamente a fronte di una incapacità di organizzare
la vita quotidiana in modo veramente serio … in questo senso la Russia è il terreno più
favorevole per l’esperienza e la fantasia dell’artista, anche se il suo destino vitale spesso
appare come un incubo”6.

Queste intense e lapidarie citazioni, di cui si potrebbe comporre una ampia antologia,
ci impegnano a indagare l’universo della cultura spirituale russa senza tesi precostituite o
ipotesi da dimostrare, ma con spirito di reale apertura verso possibili significati anche
divergenti tra loro. La Russia è un grande enigma e un’immensa miniera, che impegna
dall’esterno e dall’interno di essa a una continua verifica sui confini dell’anima.

5 KONEVA Ljudmila, Antropologičeskye idei v russkoj religioznoj filosofii, Moskva 2004, p.13.
6 SINJAVSKIJ Andrej (Abram TERZ), Progulki s Puškinym, Moskva 2006, p. 24.
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Capitolo 1. Il paganesimo nella Slavia orientale.

Il filo rosso di Tarkovskij.

Un’immagine efficace per descrivere gli elementi fondamentali della cultura religiosa
russa è offerta da un famoso film, Andrej Rublev del regista Andrej Tarkovskij, in cui la vita
romanzata del santo iconografo diventa un paradigma del percorso spirituale dell’intero
popolo russo. Il film si apre con un prologo emblematico: dalla cupola di una piccola
chiesa di campagna (la “Protezione della Madre di Dio” di Pokrov sul Nerl’, chiesa
simbolo dell’antica Rus’), un uomo cerca di lanciarsi in volo attaccato a un’improbabile
pallone aerostatico, per poi atterrare rovinosamente sul terreno. L’inquadratura successiva
alla caduta mostra l’agonia di un cavallo, immagine preferita dal regista per indicare
l’energia naturale dell’anima russa, costantemente frustrata nella sua aspirazione verso
l’infinito. “La sequenza dell’uomo che vola” – afferma lo stesso regista – “era il simbolo
dell’audacia, nel senso che la creazione esige da un uomo il dono integrale del suo essere.
Che voglia volare prima che la cosa sia diventata possibile, o fondere una campana senza
avere imparato a farlo, o dipingere un’icona, tutti questi atti esigono che come premio del
suo lavoro l’uomo muoia, si dissolva nella sua opera, si dia tutto intero”7.
La prima scena del film (Il buffone) offre, con la mirabile capacità di sintesi del regista
russo, un quadro che contiene tutti gli elementi della storia culturale della Russia. In una
piccola izba di campagna, in una giornata uggiosa di pioggia battente, è radunato un
gruppo di contadini, uomini (i mužiki), donne, bambini e anziani. Per ammazzare il tempo
assistono all’esibizione improvvisata di un buffone che prende i giro i potenti boiari
suonando sulla sua rozza cetra. Nell’antica Rus’ vi era una infatti una ricca tradizione di
giullari e suonatori ambulanti, o skomorokhi (rappresentati da Stravinskij nel balletto
Petruška), che vagabondavano per i villaggi con tamburelli e gusli (una sorta di salterio),
cercando di evitare i rappresentanti della Chiesa. Lo sviluppo di forme secolari d’arte era
impedito dalla Chiesa russa; la musica strumentale (come opposta al canto sacro) era
considerata un peccato ed era implacabilmente perseguitata dalle autorità ecclesiastiche.
Proprio nel bel mezzo della sceneggiata giungono all’izba tre monaci (riecheggiando
l’episodio biblico della visita trinitaria ad Abramo), tra cui il giovane Rublev, e chiedono
riparo dalla pioggia. Nel silenzio imbarazzato degli astanti, si confrontano il paganesimo
popolare russo, rappresentato dal giullare, e i gli austeri rappresentanti della Chiesa, dei
quali uno (Daniil, il maestro) si addormenta esausto, un altro (Rublev) osserva stupito
l’energia repressa della gente semplice che ha attorno, mentre il terzo (Kirill, il traditore)
osserva dalla finestra l’arrivo di alcuni soldati a cavallo (il potere statale), e senza dare

7 Tarkovskij Andrej, “L’artista nell’antica Russia e nella Russia moderna”, in Il dramma I (1970), cit. in

Salvestroni Simonetta, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Magnano 2005, p. 17.


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nell’occhio esce a denunciare il buffone, che verrà poi severamente punito con il taglio
della lingua e la distruzione del gusli. La sottomissione passiva del popolo alla religione
rivela una adesione di facciata, mentre l’anima soffocata dalla violenza istituzionale
rimane desiderosa di una espressione più spontanea e libera da vincoli. Il giovane monaco
intuisce questo desiderio, la cui manifestazione diventerà la sua missione nella vita; come
afferma Salvestroni, “il percorso che il pittore dovrà compiere per “arrivare a dare agli
uomini una gioia” infinitamente più grande è un cammino interiore che nel corso degli
anni vedrà cadere tutte le sue illusioni”8.

Nell’episodio immaginato da Tarkovskij la religiosità naturale pagana dei russi non è


altro che una forza interiore inespressa, che poi lo stesso regista mostrerà anche nella sua
modalità cultuale e orgiastica in un altro episodio del film, La festa, che riecheggia le feste
estive della Kupala, festa del Solstizio d’estate, così descritta da un testo russo antico: “Alla
vigilia della festa per la nascita di San Giovanni Battista [24 giugno] si raccolgono i
giovani, maschi e femmine, e si intrecciano ghirlande di rami e di fiori e se le pongono
sulla testa e intorno alla vita. Ed ancora in questo rito demoniaco mettono su un falò e
attraverso il fuoco tenendosi per mano disonoratamente saltano e cantano canzoni oscene
su questo Kupala e ripetono spesso questi salti”9. Tarkovskij immagina il monaco Andrej
nel bel mezzo di questo sabba, imprigionato e tentato carnalmente da una donna in preda
all’estasi pagana. La mattina dopo Rublev viene liberato, e la donna fugge dalle guardie
intervenute a reprimere la festa proibita, scappando nuda nel fiume sotto gli occhi del
monaco, a cui lancia uno sguardo che, paradossalmente, esprime insieme la rassegnazione
e la sfida.

Elementi storici del paganesimo russo.

In realtà non abbiamo fonti scritte o testimoni oculari che ci aiutino a descrivere in
modo sufficiente le religioni slave precristiane. Esistono scritti degli avversari (il cronista
Nestor) impegnati nello sterminio del paganesimo, che ci fanno pensare a credenze
piuttosto dipendenti da influssi stranieri, assimilabili al paganesimo classico.
Nella loro espansione verso nord, i Balti prima e gli Slavi poi, trovarono un immenso
territorio popolato da genti di lingua ugrofinnica, giunte da oriente in tempi preistorici, la
cui religione si basava sullo sciamanesimo e sul patto animale. È difficile dire quanto
furono antichi e quanto profondi i rapporti tra Baltoslavi e Ugrofinni. Probabilmente i
Baltoslavi cominciarono a premere sui vasti territori degli Ugrofinni fin dal loro arrivo in
Europa centrale, e la loro lenta e costante infiltrazione fu favorita dalla bassa densità delle

8 Ibid., p. 27.
9 Dalla Synopsis di Innokentij GISEL’, Archimandrita della Lavra delle Grotte di Kiev, anno 1670 ca.
12
popolazioni boreali. È ragionevole presumere che, colonizzando la regione della tajga,
Slavi e Balti abbiano assunto molti tratti culturali di coloro che vi abitavano da secoli, non
esclusi elementi religiosi e mitologici. Anche gli invasori variaghi, di origine germanica,
non mancarono di influenzare - ma è difficile stabilire fino a che punto - le credenze degli
slavi pagani10.
Nella fase pre-indoeuropea sembra dominare il culto della dea Madre (mokosh) e dei
defunti. Secondo il filosofo russo Grigorij Pomeranz “l’essenza della religione russa è la
maternità divina. Maria non è solo la Madre di Dio, è la madre universale, la madre di
tutta l’umanità. La fonte nazionale che ha alimentato la religione della Madre divina fu il
paganesimo russo. Il cristianesimo greco ortodosso non contiene fondamenti sufficienti
per quelle profonde e ricche forme di devozione della maternità divina che si sono
sviluppate sul terreno russo”11. Anche Orlando Figes, storico della cultura russa, afferma
che “nel cuore della fede russa c’è un’enfasi particolare sulla maternità, aspetto che in
Occidente non si è mai veramente radicato. Se la tradizione cattolica sottolineava la
purezza di Maria, la Chiesa russa ne metteva in evidenza la maternità divina, la
Bogoroditsa, che assumeva praticamente lo statuto della Trinità nella coscienza religiosa del
paese. Questo risale al culto pagano di Rožanitsa, dea della fertilità, e antico culto slavo
dell’umida Madre terra, conosciuta come Mokoš, da cui derivò il mito della “Madre
Russia”. Nella sua forma contadina più arcaica, la religione russa era una religione della
terra. Ciò era sottolineato dalla danza circolare pagana (khorovod) che si muoveva nella
direzione del sole per invocarne la magica influenza. La cupola a cipolla delle chiese russe
è ugualmente modellata sul sole. Il colore rosso aveva un particolare potere magico: era
riservato alle fasce e ai teli usati nei rituali sacri. Esso era anche il colore della fertilità,
considerata un dono divino. Non solo contadini: ortodosso e pagano, eppure razionalista –
un russo istruito poteva essere tutte queste cose”12. Un dipinto di Aleksej Venetsjanov, un
artista emblematico della rinascita culturale russa nel XIX secolo, presenta uno studio
simbolico di donna con bambino del 1827, Nel campo arato: primavera, in cui egli combina i
peculiari tratti russi della contadina con le proporzioni scultoree di un’eroina antica. La
donna nel campo è una divinità agreste. È la madre della terra russa.

Dall’influsso germanico proviene piuttosto il culto della natura, con diverse forme di
totemismo e animismo. Assai diffuso era il culto degli animali, tra cui l’orso (il medved,
letteralmente “colui che vede il miele”), raffigurato nel dio Perun di legno adorato dallo
stesso principe Vladimir di Kiev. Volos era il dio più grande, legato alla conquista e

10 In proposito vedi CONTE Francis, Les Slaves. Aux origines des civilisations d’Europe, Paris 1986 ; ed. it. Gli
Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, ed. Einaudi, Torino 1991.
11 POMERANZ Grigorij, “Proroki i lžeproroki. Ot mifologem k vekham real’nosti”, in Vestnik Evropy 25 (2009),

p.18.
12 FIGES Orlando, Natasha’s Dance. A Cultural History of Russia, 2002; ed. it. La danza di Nataša. Storia della

cultura russa (XVIII-XX secolo), Torino 2004, p. 274.


13
all’uccisione del bestiame (Wal-Hal). Il dio Rod era legato alla generazione, le parole volkv
(mago) o zhrets (sacrificatore) si applicavano al sacerdote.

Il paganesimo rimane come sfondo della religiosità russa fino a produrre una vera
sovrapposizione di fedi, la cosiddetta dvoeverie o “doppia fede”, in cui molti tratti pagani
sopravvivono nel cristianesimo, e numerose superstizioni nella pratica quotidiana
dell’ortodossia. Il calendario pagano, come del resto anche nell’occidente latino, si integra
in quello cristiano: kaljada, svjatki (Natale), masljanitsa (primavera), rusalja (Pentecoste),
kupalja (raccolto), i rjaženy (celebrazioni orgiastiche con maschere animali legate al culto
della fertilità, analoghe al Carnevale latino). Il sočelnik (da sočetat’, radunare) con l’ultimo
folletto del grano (dedukh) e la kutja, il budino di frumento. L’estate con i tri spasa, i tre
salvatori, nel tempo della mietitura. La radonitsa pasquale, il banchetto con i defunti. I
bliny per i morti, crespelle a forma di sole. San Cassiano, santo negativo portatore di
malocchio. Cerimonie di contenuto pagano resistevano ancora nel Settecento, come attesta
la testimonianza del vescovo illuminatore Tikhon (Zadonskij), che racconta il funerale
dell’idolo Jarylo. La grande energia della religiosità pagana prenderà in tempi tardo-
medievali e moderni prevalentemente la forma del settarismo e dell’eresia, come nel caso
degli starovery (vecchio credenti).

Al novero di popoli con cui gli Slavi interagirono nel corso della loro storia, bisogna
ancora aggiungere i turchi o turanici, genti di origine uraloaltaica le cui invasioni, che si
sarebbero successe da oriente a occidente per più di un millennio, interessarono
profondamente la cultura russa. L'avanguardia delle invasioni turaniche, nel IV secolo, era
costituita dagli Unni e fu proprio del vuoto che questi lasciarono in Europa orientale che
gli Slavi approfittarono nella loro prima espansione. Per tutta la loro storia, gli Slavi
orientali subirono i contraccolpi di invasori provenienti dall'Asia centrale, quali i Pečenegi,
i Klobuki, i Polovesiani, fino ai Mongoli, la cui tempesta si abbatté sulla Russia nella prima
metà del XIII secolo. Buona parte della letteratura epica russa, dal Canto della schiera di Igor'
alle byliny, si incentra sul motivo della difesa della Santa Rus’ contro gli invasori nomadi
delle steppe. Senza dubbio molti elementi di origine turanica o altaica finirono con l'essere
conglobati nell'epica russa. Difficile però stabilire quanto profondamente questa presenza
turanica abbia influenzato la poesia epica degli Slavi orientali: al riguardo gli studiosi
hanno opinioni contrastanti, tra chi difende la «purezza russa» della letteratura epica e chi
ritiene che essa sia sorta in ambienti profondamente influenzati dalla cultura turanica.
Come sia, è comunque fuor di dubbio che gli elementi turanici e altaici non appartengono
al più antico strato mitologico slavo.

Come afferma Conte, “lo stesso termine “slavo” (da cui il latino sclavus) appare nella
composizione di molti nomi propri quali Jaroslav, Svjatoslav, Rostislav, Vladislav,
Vjačeslav e così via, il cui primo elemento evoca l’una o l’altra delle divinità appartenenti
14
all’antico panteon degli Slavi pagani – dei del sole, del nucleo familiare o dell’abbondanza
come Jarylo, Svjatovit, Rod o Vlas/Volos. Ciò starebbe a indicare che l’individuo con un
nome siffatto è “votato a questa o quella divinità, che gli assicura la propria protezione”,
sicché il vocabolo “slavo” andrebbe collegato con la dimensione religiosa, a testimonianza
di come la vita quotidiana s’impregnasse del divino e del senso del sacro tipico dei popoli
allo stato originario. Più a lungo di altri gli slavi avrebbero serbato questo sentimento, in
seno a società patriarcali rese tradizionaliste, e perciò stesso conservatrici, dalla vocazione
rurale”13.
A sud dello spazio slavo poi, così come lo immaginiamo prima della nostra era,
vivevano nomadi gli Sciti, ramo orientale del gruppo etnico iranico. Di origine
indoeuropea, essi rappresentarono la prima ondata orientale che, proveniente dall’Asia
nel secolo VII a.C., fluì per tutta l’Europa centrale e orientale distruggendo sul proprio
cammino nei secoli V e IV la “cultura lusaziana”. La cavalleria scita si spinse addirittura
fino alla Francia: non lontano da Chalon-sur-Saône sono state ritrovate delle punte di
freccia, episodio unico ma indicativo dell’ampiezza – e del limite ultimo – della loro
avanzata occidentale. Nel contesto della storia degli slavi potrebbe invece rivestire
un’importanza ragguardevole l’abbattimento della civiltà lusaziana, nella quale numerosi
studiosi – in maggioranza slavi, per la verità – vorrebbero individuare l’origine stessa di
quel popolo. Quest’ultimo, già bloccato nel proprio slancio dalla conquista scita del secolo
IV a.C. , sarebbe stato nuovamente fermato otto secoli più tardi dagli Unni per poi subire
dal secolo VIII i reiterati attacchi dei nomadi della steppa, culminati nel secolo XIII con le
invasioni tataro-mongoliche. Secondo Conte “tale sarebbe un possibile schema esplicativo
del ben noto “ritardo” accumulato nel corso dei secoli dall’Europa orientale rispetto a
un’Europa occidentale più “protetta”, cui avrebbe fatto da baluardo permanente”14. Gli
Slavi orientali, che solo all’alba della nostra era si faranno guerrieri, sulle orme degli Sciti
manifesteranno nei modi di vita gli stessi valori fondamentali. Tuttora sono la gente che
meglio ha saputo custodire il culto dei maggiori e la relativa simbologia, loro che sempre
si designano con nome, patronimico e cognome – quest’ultimo, peraltro, aggiunta assai
più tardiva. Se ancora si magnificano i doni musicali degli Slavi, ciò non dipende forse
dalla funzione sacrale che fece del bardo un profeta e un mago, ruolo poi riscoperto dai
romantici nel secolo XIX? Il bruciante desiderio di rinnovati valori, la volontà di
abbeverarsi alla fonte originaria, fresca, selvaggia e immune da ogni decadenza
civilizzatrice, sostenevano un’autentica sete di avventura, che si esprime all’inizio del
secolo XX sotto le specie di una volontà di potenza che ancor prima di darsi un progetto si
getta nella distruzione. Tale è, almeno, il motivo ispiratore del disegnatore della rivista
“Gli Sciti” (1917), nella quale furono pubblicati i famosi versi di Blok: “Voi siete
milioni/noi siamo nugoli … Provatevi dunque a combatterci/sì, noi siamo Sciti, barbari

13 CONTE Francis, Les Slaves. Aux origines des civilisations d’Europe, Paris 1986 ; ed. it. Torino 1991, p. 87.
14 Ibid., p. 283.
15
dell’Asia/dagli occhi avidi, dagli occhi a mandorla, pastori … Pensoso, l’arco e la freccia
nella mano/un barbaro contempla l’incendio del Colosseo …” La medesima volontà di
potenza trovò espressione sul farsi del secolo XX, in altre correnti di pensiero russe
“panmongolismo” e “eurasianesimo”, che a loro turno privilegiarono i legami della Russia
con l’Oriente se non con l’Asia vera e propria.

Secondo Venjamin Novik, “la religiosità pagana slava è legata alla mistica delle forze
della natura: soprattutto con la terra e l’acqua, che si trovano in un continuo movimento di
penetrazione reciproca. Questa mistica, per sua natura femminile, non è bilanciata da una
mistica celeste (maschile) della luce e della ragione. Il sole e le stelle nella mitologia pagana
rivestono un ruolo subalterno, il naturalismo mistico è legato tipologicamente al
panteismo e al sincretismo tipico di esso. Nella sfera etica questo conduce a una
insufficiente distinzione tra il bene e il male”15. Novik osserva che questa confusione
tipicamente slava ha le sue radici, come già accennavamo, nella stessa geografia della terra
russa. La Russia non è difesa dalle catene dell’Himalaya come il Tibet, e non ha potuto
concentrarsi sulle dottrine spirituali importate dalle grandi civiltà confinanti. I vicini della
Rus’, a parte la lontana Bisanzio, giungevano in Russia con la spada più che con i tesori
della propria cultura. Al drago invasore la Russia ha risposto esaltando i propri draghi,
creando così le premesse per l’adorazione quasi religiosa di despoti crudeli come Ivan il
Terribile, Pietro il Grande e Stalin.

La versione di Nestor.

Come sopra ricordato, la principale documentazione sul paganesimo nella Rus’ ci è


fornita dalla letteratura polemica del cristianesimo russo primitivo e anzitutto dalla
Cronaca di Nestor16, la grande narrazione del monaco kievano cantore della conversione
della Russia. La Cronaca è la più antica delle raccolte annalistiche russe giunte fino a noi, e
risale agli inizi del XII secolo. Di essa esistono varie versioni; la sua composizione
comprende materiali di diversa natura, leggende, racconti, tradizioni poetiche ed epiche
orali su diversi personaggi e avvenimenti storici. Anticipando tematiche che saranno
proprie di tutta la cultura russa, la Cronaca propone una visione della storia universale,
per collocare in essa la Rus’ ed esaltarne la missione specifica. Inizia dalla divisione del
mondo tra i figli di Noè dopo il diluvio universale, assegnando alla discendenza di Jafet i
popoli del Nord tra cui gli slavi e i russi, che si collocano tra i variaghi e i prussiani.

15 Cit. in POMERANZ Grigorij, “Proroki i lžeproroki. Ot mifologem k vekham real’nosti”, in Vestnik Evropy 25
(2009), p.23.
16 Esistono diverse versioni e traduzione della Cronaca. La più recente traduzione italiana è a cura di Alda

Giambelluca KOSSOVA: NESTORE L’ANNALISTA, Cronaca degli anni passati (XI-XII secolo), ed. Paoline, Milano
2005. I brani qui citati sono tradotti dall’originale russo, pur facendo riferimento alla versione della Kossova.
16
Gli slavi, divisi tra tribù di pianura (poljani) e dei boschi (drevljani), godevano di un
grande canale di comunicazione con gli altri popoli, la “via dai Variaghi ai Greci”, che dai
mari del Nord arrivava tramite il Dnepr’ al mar Nero e quindi “a Roma e a
Costantinopoli”, e sfruttava anche le acque del Volga per giungere fino ai Bulgari, come
anticamente venivano chiamati i Khazari dell’oriente e del sud della Rus’. Il cronista non
manca di annotare come “dalle rive del Ponto” queste terre fossero state visitate
dall’apostolo Andrea nella prima, leggendaria evangelizzazione.
Prima però di commentare le modalità di cristianizzazione della Rus’, è interessante
ricordare brevemente la descrizione nestoriana della vita delle primitive tribù slave
orientali. Così, mentre i poljani erano “umili e pacifici” e coltivavano il “pudore” nei
rapporti sessuali, i drevljani erano piuttosto “simili alle bestie” dei boschi dove vivevano:
“si uccidevano gli uni gli altri, mangiavano ogni cibo impuro, non conoscevano il
matrimonio e rapivano le donne che si recavano al fiume”. Alcune tribù organizzavano
perfino dei festini in cui si lasciavano andare a giochi licenziosi, ballavano e cantavano e se
ne andavano portandosi via le donne, anche due o tre per ciascuno. Dopo una serie di
scontri con i Khazari, le tribù slave cominciano a organizzarsi in forma unitaria verso la
metà del IX secolo (secondo il cronista dall’852 si comincia a parlare della Rus’), quando
avviene la leggendaria “chiamata dei Variaghi”, a cui gli slavi stessi si sarebbero rivolti:
“La nostra terra è grande e ricca, ma in essa non vi è ordine. Venite a comandare e a
governarci”. Da qui avrebbe avuto origine la dinastia dei Rjurikidi, che regneranno in
Russia fino al XVII secolo. Non staremo qui ad elencare le varie teorie storiografiche
favorevoli e contrarie a questa narrazione; di fatto la dipendenza dalla stirpe
scandinava/germanica dei Variaghi fu considerata nella storia della cultura russa come
l’ipotesi privilegiata, non solo e non tanto per ragioni storico-politiche, ma in buona parte
per motivi epico-simbolici. I Variaghi rappresentano una forma secolarizzata degli dèi
discesi dal paradiso del Nord, dal Valalla, per dare ai popoli barbari una legge e una
disciplina civile e morale. Pur nel contesto di una narrazione mirata all’esaltazione della
Rus’ cristiana e ortodossa, questa leggenda ci conferma l’aspirazione dei russi a mostrare
una propria filiazione divina indipendente e originale, precedente perfino al cristianesimo
stesso.

La Cronaca raccoglie molta documentazione relativa al processo storico che portò al


battesimo cristiano: campagne militari, trattati economici e fiscali, alleanze e scontri, il
lungo e ondivago rapporto con i greci che importeranno alla fine il cristianesimo. Viene
narrata la missione di Cirillo e Metodio, “maestri degli slavi” nella fede e nelle lettere. In
questa complessa fase di transizione le tradizioni pagane rimangono sullo sfondo della
narrazione, emergendo solo in episodi particolari, come quello della morte del principe
Oleg predetta dai maghi a cui egli non aveva voluto credere, rimanendo fulminato da una
vipera uscita dal cranio del cavallo morto, che secondo gli stregoni avrebbe dovuto
condurlo a una fine prematura. Nel commentare l’episodio, il cronista osserva che “non c’è
17
da stupirsi che dalla magia scaturisca l’incantesimo”, e collega a questa sentenza una
elaborata narrazione delle facoltà taumaturgiche dei maghi nell’antichità romana e
bizantina, per concludere con l’esortazione a non farsi ingannare da queste “tentazioni del
diavolo alla nostra fede ortodossa”. Questo tema della “lotta col diavolo”, molto presente
nell’antica letteratura monastica, riemergerà poi nelle memorie degli asceti delle Grotte di
Kiev, assumendo sempre forme molto elaborate e fantastiche.

All’anno 941 è datata la spedizione del principe Igor, successore di Oleg, contro i greci
nel Ponto e a Nicomedia, di cui viene raccontata la furia distruttrice delle razzie: “molte
sante chiese vennero date alle fiamme, i monasteri e i villaggi vennero incendiati”. La
campagna non ebbe successo, e i russi vennero fermati dal famigerato “fuoco greco”: “Era
come un fulmine del cielo – raccontavano i soldati – quello di cui dispongono i greci, e
accendendolo ci hanno bruciati tutti; per questo non abbiamo potuto superarli”. Qualche
anno dopo Igor tornò alla carica con il sostegno di mercenari variaghi e peceneghi,
costringendo l’imperatore di Costantinopoli a proporre un armistizio profumatamente
pagato. I bizantini si convinsero così della necessità di ammansire i selvaggi rossi per
poterli asservire alla difesa dei propri confini. Nei termini dell’accordo riportato dalla
Cronaca si avverte minacciosamente che “se qualcuno da parte russa penserà di
distruggere questa alleanza, chi di loro ha ricevuto il battesimo riceverà la punizione di
Dio onnipotente, il giudizio di perdizione per la vita eterna, mentre quelli che non sono
battezzati non avranno aiuto né da Dio, né da Perun … e saranno schiavi per tutta la vita
eterna”. Anche in altri punti del trattato sono previste condizioni e sanzioni per i russi
“cristiani e non cristiani”, rivelando quindi una certa penetrazione del cristianesimo quasi
cinquanta anni prima dello stesso Battesimo della Rus’, e l’indifferente compresenza delle
due fedi tra i sudditi dei principi russi. La conclusione dell’alleanza venne suggellata dallo
scambio degli ambasciatori inviati alle due parti a prestare giuramento: “Igor chiamò gli
ambasciatori e li condusse alla collina dove stava il Perun; essi deposero le loro armi, gli
scudi e l’oro e giurarono davanti a Igor e alla sua gente, a quanti tra i russi erano pagani. I
russi cristiani vennero invece condotti per il giuramento alla chiesa di S. Elia, che era una
cattedrale, poiché molti erano i variaghi cristiani”. Le tribù russe si avviano così a
diventare un’etnia in cui si fondono le diverse tradizioni dell’Europa nascente, come
osserva Conte a proposito dell’evoluzione dei popoli slavi: “Dal secolo VI un’era nuova si
apriva per gli Slavi, ormai a contatto diretto con i centri più civilizzati dell’epoca. Contatto
evidentemente assai brutale all’inizio, con distruzioni e saccheggi veicolanti
l’annientamento delle culture urbane quasi ovunque nella penisola balcanica. Ciò che per i
nuovi venuti era una migrazione di massa, per i Bizantini era un’invasione di proporzioni
catastrofiche. L’arrivo degli Slavi scompaginò i Balcani e scosse il potere imperiale dalle
sponde del Danubio all’estremo Sud della Grecia risparmiando solo poche città, specie
rivierasche. Ma in capo a due o tre secoli Bisanzio rivolterà la situazione a proprio
vantaggio, innanzitutto nelle regioni in cui riuscirà ad affermarsi per mezzo
18
dell’introduzione dei “temi” o territori amministrati. Nelle altre aree balcaniche gli Slavi si
aggregheranno man mano in compagini statuali indipendenti, in condizione di resistere
alla pressione politica e militare bizantina. Ma anche qui – in Bulgaria e in Serbia più che
in Croazia – non potranno evitare di essere trasformati dall’influenza spirituale, religiosa e
culturale di Bisanzio ché, anzi, assieme agli Slavi orientali, quelli del Sud ne avrebbero
rappresentato la più ingente e senza dubbio più bella delle conquiste. Diversamente dai
consanguinei inglobati nei domini imperiali, sfuggiranno all’ellenizzazione, ma
assimileranno in modo creativo l’apporto bizantino alla propria cultura discernendone
quanto di meglio converrà loro. Cosicché, caduto l’Impero sotto i colpi dei Turchi alla
metà del secolo XV, sarà soprattutto grazie agli Slavi che sopravvivrà una “Bisanzio dopo
Bisanzio” della quale avrebbero conservato e sviluppato il retaggio religioso, artistico e
perfino politico, specialmente dopo il colpo d’ala di Mosca, la “terza Roma”. Se furono gli
Slavi nel secolo VI ad abbattere il ponte che collegava l’Oriente e l’Occidente cristiani, si
può dire a grandi linee che dai secoli IX e X in poi il loro compito storico sarebbe stato
quello di ricostruirlo. Li attendeva il destino difficile dei popoli cerniera, la prospettiva di
partecipare, secondo le epoche e le circostanze, a riavvicinamenti e osmosi parziali o
viceversa a separazioni e incomprensioni fra l’Oriente ortodosso e l’Occidente cattolico, fra
due modi di concepire il mondo e le sue strutture, leggi e finalità, e il ruolo che l’uomo
viene chiamato a svolgervi volontariamente o suo malgrado”.
Il principe Igor infine venne ucciso, secondo la Cronaca, nel 945 a causa della sua
avidità, per essersi lanciato una volta di troppo in una razzia. Con la figlia, la principessa
Olga, la prima principessa cristiana russa, ha inizio la storia cristiana della Rus’.

Il pianto pagano per il principe sconfitto.

A dire il vero esiste un altro testo russo antico, forse il più importante di tutta la
letteratura della Rus’ di Kiev per il suo valore letterario, che ci fornisce una straordinaria
testimonianza sulla religiosità naturale e pagana dei progenitori dei russi. Anch’esso parla
di un principe di nome Igor, vissuto un secolo dopo il suo omonimo, il padre di Olga. Si
tratta del Canto della schiera di Igor, un poema da tutti ritenuto della fine del XII secolo, che
narra della sconfitta di Igor, principe di Novgorod e figlio di Svjatoslav, nel 1185 in una
sfortunata campagna contro i polovtsy, tribù orientali da sempre in lotta con gli slavi. È
quindi un documento già del primo periodo cristiano della Rus’, anzi della sua fase
terminale, quando i principi, in perenne lite tra loro, stavano per essere annientati
dall’invasione mongola. Nel testo vengono ricordate sconfitte e vittorie antecedenti, e
appunto le guerre fratricide tra i vari principati; l’introduzione ricorda anche le narrazioni
popolari, i canti e le drammatizzazioni, ricostruendo così una tradizione orale di fatto
scomparsa, e di cui il Canto di Igor rappresenta l’unica vera testimonianza antica. Parla

19
anche di un famoso narratore, il “vate Bojan”, capace di esaltare le gesta degli eroi con
enfasi creativa:

“S'incominci questo canto


secondo gli avvenimenti di questo tempo,
e non secondo la fantasia di Bojan!
Il vate Bojan, infatti,
se per qualcuno voleva comporre un canto,
col pensiero s'effondeva su per un albero,
grigio lupo in terra,
cerula aquila sotto le nubi.
Rimembrava, infatti, dicono, dei tempi primieri le contese.
Allora lanciava dieci falchi contro uno stormo di cigni;
quale arrivava a segno quello per prima intonava [un canto]
all'antico Jaroslav, al prode Mstislav
che sgozzò Rededja dinanzi alle schiere circasse,
al bel Roman Svjatoslavič.
Bojan, invero, o fratelli,
non dieci falchi su uno stormo di cigni lanciava,
ma le sue dita fatate sulle vive corde poneva,
ed esse da sole ai principi inni di lode cominciavano a suonare”.

Bojan sarebbe stato quindi un suonatore di gusli, dove “poneva le sue dita fatate” per
cantare inni certamente profani ai principi guerrieri. Il cantore deve giustificare una
tragica sconfitta, ma la mette in un contesto narrativo epico che riassume l’eroismo dei
russi fin dal tempo del fondatore Vladimir, vedendo alla fine nella disfatta una profezia di
grandezza ancora maggiore, misticamente anticipando la grande catastrofe della
scomparsa della Rus’ di Kiev sotto i tartari, e la sua rinascita come regno cristiano
nell’Europa medievale. Fin dalla presentazione si intuisce lo stile particolare del testo,
tutto giocato sulle analogie e i rimandi alla vitalità naturale degli animali, degli uccelli,
delle piante e dei fiori, insomma della terra russa come persona vivente e divina. I “dieci
falchi” lanciati come stormo sono metafora sublime dei pensieri e dei desideri spirituali;
pochi anni dopo il Canto di Igor, nel meridione dell’Italia mediterranea, l’imperatore
svevo Federico II (lo stupor mundi, grande nemico del papato romano) comporrà il suo
famoso trattato sulla caccia col falco, un trattato di filosofia e teologia esposto nell’analogia
dell’attività venatoria. I personaggi del poema assumono dunque le sembianze dei volatili
selvaggi, spiriti divini che attraversano i cieli della Rus’:

O Bojan, usignolo del tempo antico!


O, fossi stato tu a cantare queste imprese
20
saltando, o usignolo, sull'albero del pensiero,
volando con la mente sotto le nubi,
intrecciando inni di gloria ad entrambe le metà di tal tempo
percorrendo il sentiero di Trojan
attraverso i campi sino ai monti.
Si canti una canzone ad Igor, il di lui nipote.
“Non la tempesta ha condotto i falchi
attraverso i campi ampli,
stormi di cornacchie fuggono
verso il Grande Don”.

L’autore invoca nuovamente Bojan “figlio di Veles”, il dio pagano della prosperità e
del potere, per radunare sulla scena tutti i membri della famiglia del principe, nucleo
fondante dell’intera comunità di sangue dei russi. Igor avanza verso la terra dei polovtsy,
lasciandosi alle spalle la terra russa, sfidando gli dei stranieri e “l’idolo di Tmutorakan”,
località della disfatta. Il fiume divide le schiere nemiche, e l’intera natura partecipa alla
disfida dei popoli:

Igor conduce i soldati al Don.


Gli uccelli sugli alberi già pascolano le sue sciagure,
nei dirupi ululano alla tempesta i lupi,
le aquile con grida le fiere alle ossa chiamano,
contro i rossi scudi le volpi ganniscono.
O terra russa! Sei ormai di là dalle colline!
Ben lungo fu l’imbrunar della notte,
l'alba la luce accese,
la nebbia i campi avvolse,
il trillo degli usignoli ammutì,
il chiacchiericcio delle cornacchie si ridestò.
I Russi i campi immensi con rossi scudi ostruirono,
cercando per sé onore e per il principe gloria.

Le valorose schiere di Igor devono fronteggiare forze oscure e maligne, il “nero corvo
Cumano infedele” e i venti contrari “nipoti di Stribog”, il dio delle funzioni atmosferiche.
Così i polovtsy “figli del demonio” accerchiano i russi e tentano di annientarli, respinti
dall’eroismo del fratello di Igor, Vsevolod “Uro impetuoso”: “Dove balzella l’Uro,
splendente col suo aureo elmo, colà giacciono le pagane teste dei Polovtsy”. Questa
manifestazione del valore dei guerrieri russi fa ricordare al poeta con nostalgia la
grandezza degli avi, dissipata dalle insensate lotte tra i fratelli, figli degli antichi déi:
“Allora al tempo di Oleg Gorislavič si seminavano e crescevano le contese, languiva la
21
dovizia della progenie di Daždbog, nelle contese dei principi si raccorciava l’età degli
uomini”. L’incapacità di superare i propri dissidi rende i russi, ancora cristiani solo di
nome, troppo esposti alla furia pagana, e quindi destinati a soccombere:

“Qui si disgiunsero i fratelli


in riva alla rapida Kajala.
Qui il vino di sangue bastevole non fu,
qui il banchetto terminarono!
I valorosi figli della Rus’
ubriacarono i compari
mentre giacquero essi per la terra russa.
Si piega l’erba per la compassione,
mentre l’albero in pena a terra è chino.
Oramai, o fratelli, una mesta stagione è sorta
oramai il deserto ha sopraffatto l'esercito.
Insorse l’Offesa fra le schiere dell’esercito di Daždbog,
qual vergine nella terra di Trojan è entrata,
le sue ali di cigno sopra il mare azzurro ha agitato,
presso il Don battendo le ali
scacciò i tempi dell'abbondanza.
S’estinse la guerra dei principi ai pagani,
ché disse infatti fratello a fratello:
“Questo è mio, e pure questo è mio!”;
e presero a dire i principi per ogni piccolezza: “è grande!”
e da sé, fra di loro, a forgiar fazioni,
intanto che i pagani da ogni dove giungevano
vittoriosi in terra Russa.
O, lontano s’involò il falco
uccelli sterminando verso il mare,
ma la schiera del valoroso Igor non risorgerà,
per essa lai elevò Afflizione
e Compianto corse per la terra russa
lanciando fuoco fra gli uomini
in corni ardenti”.

Gli sfortunati fratelli Igor e Vsevolod non riuscirono dunque a rinnovare le glorie del
padre Svjatoslav, che aveva fatto gettare il pagano Kobjak nelle “segrete di Kiev”, tanto da
suscitare l’elogio ammirato di “Tedeschi e Veneziani, Greci e Moravi”. Il padre rimasto a
Kiev venne avvisato della sciagura da un lugubre sogno, che preannunciava il crollo della
sua felicità familiare, la desolazione del suo focolare domestico, il terem:
22
“Questa notte, fin dalla sera, mi rivestirono – disse -
di un nero sudario su un letto di tasso;
mi mescevano azzurro vino ad ambasce mescolato,
con le vuote faretre dei saggi pagani mi gettavano
una grande perla sul petto
e m’accarezzavano.
Già le assi sono senza travi
nel mio terem dall’aurea cupola.
Sin dalla sera, per tutta la note,
gracchiarono le cornacchie grigie presso Plesensk,
nella palude di Kijan erano,
e verso il mare azzurro s’involarono”.

Viene invocata la vendetta da tutta la terra russa, gli eroi sono chiamati a ricostruire
l’onore, visto che Igor non può risorgere, e l’invasione pagana deve essere rigettata da un
popolo che di fatto si sente ugualmente convocato magicamente dagli antichi déi slavi e
variaghi che proteggevano il grande Vladimir delle origini, nonostante l’appello venga
ormai emanato dalle “campane di S. Sofia”:

Per lui a Polotsk suonarono per il mattutino


di buon’ora le campane di Santa Sofia
ed egli a Kiev udì il suono.
Anche se un’anima di mago aveva in quel doppio [corpo]
nondimeno spesso patì sventure.
Per lui il vate Bojan primiero
una massima saggia avea proferito:
“Né allo scaltro, né all’abile, né all’uccello agile
fuggire il giudizio divino è dato”.
Oh, si gema per la terra russa
rimemorando i primi tempi ed i primi principi!
Quell’antico Vladimir
impossibile era inchiodarlo ai monti di Kiev”.

In nome della gloria antica, la sconfitta assume in realtà i colori del trionfo: il sacrificio
di Igor diventa esaltazione della vera natura dei russi, che mai si faranno cancellare dai
nemici, tornando sempre alla loro origine e alla giovinezza del loro spirito. L’epopea della
sconfitta diventa elegia della terra-madre, della natura capace di rigenerare i propri figli
proteggendoli e cullandoli anche nel dolore e nella tragedia:

23
“Igor disse:
“O Donec, a te non poca gloria,
per aver cullato il principe sulle onde,
steso per lui verde erba
sulle tue argentee rive,
averlo rivestito
di calde brume
sotto l'ombra di un albero verde,
per averlo vegliato
qual anatra sull'acqua,
con i gabbiani sui flutti
e con le nere anatre nei venti.
non allo stesso modo, disse, il fiume Stugna
che scarso flutto avendo
dopo aver inghiottito altri ruscelli e torrenti
allargatosi verso la foce il giovane
principe Rostislav nascose nel fondo.
Presso la buia riva
piange la madre di Rostislav
per il giovane principe Rostislav.
Appassirono attristati i fiori
e l’albero per l’afflizione verso terra s’era piegato”.

La conclusione del poema è quindi gioiosa e piena di fede nella vocazione divina della
terra russa, che nella Vergine Madre ritrova l’unione con la madre Mokoš, la fonte della
gloria e del coraggio, della vittoria cristiana sui pagani:

“Il sole splende in cielo,


il principe Igor è nella terra Russa,
le fanciulle cantano sul Danubio
intrecciano le voci al di là del mare fino a Kiev.
Igor sale a Boričev
alla Santa Madre di Dio della Torre.
Le province sono felici, le città liete.
Cantato un cantico ai vecchi principi,
ai giovani s’ha da cantare!
Gloria a Igor Svjatoslavič,
a Vsevolod Uro impetuoso, a Vladimir Igorevič!
Salute ai principi e alla družina
che si sono battuti per i Cristiani contro le schiere pagane.
24
Gloria ai principi e alla družina”. Amen”.

Il paganesimo come ispirazione dell’arte russa.

Nella storia della cultura russa la radice pagana riemergerà in varie forme e occasioni,
a partire soprattutto dalla riscoperta dell’anima “popolare” russa operata dal movimento
slavofilo dell’Ottocento, e in particolare dalle grandi composizioni musicali basate sul
ritorno alle suggestioni e alle melodie primordiali dei popoli slavi orientali. Nell’antica
favola russa dell’Uccello di fuoco, lo žar-ptitsa, la bellissima fanciulla rapita, trasformata in
uccello, lascia cadere le sue piume dorate al suolo, dove verranno conservate dalla neve
per poi riprendere vita agli occhi di uno stanco pellegrino, facendo risorgere la fanciulla
più bella di prima. “Reinventato per il palco, l’uccello di fuoco finì col simboleggiare molto
di più di quanto non significasse nelle fiabe. Esso fu trasformato nell’incarnazione di una
Russia contadina risorgente come la fenice, diventando l’emblema di una bellezza e di una
libertà primordiali nella mitologia pseudoslava dei simbolisti che giunse a dominare la
concezione del balletto (Blok lo immortalò come “uccello mitico” e, in quella stessa veste,
Léon Bakst ne fece una xilografia per la copertina della rivista Mir iskusstva)”17. La vera
innovazione dell'Uccello di fuoco (1910) fu realizzata da Stravinskij, con il suo uso
particolare della musica folclorica basata sulla impersonalità del corista e sulle forme
austere dell’arte barbarica. Fu la rivoluzione anche di Petruška (1911) e della Sagra della
primavera (1913) con la rievocazione della Kupala e dei sacrifici umani tra gli Sciti, con quei
ritmi esplosivi che anticipano la rivoluzione bolscevica, sottolineati dalla scandalosa
coreografia parigina di Nižinskij, in cui i ballerini sono mascherati da idoli di legno della
Russia scitica.
La ricerca delle radici originarie ispirò anche il movimento futurista, tra cui il pittore
Vasilij Kandinskij, autore della Religiosità nell’arte (1912)18 e tutta la generazione di artisti
russi che dettarono le regole dell’arte astratta agli inizi del Novecento. Come annota Figes,
commentando il viaggio di Kandinskij nella regione settentrionale di Komi, “da tempo gli
antropologi avevano indicato la regione dei komi come punto di intersezione tra il
cristianesimo e il vecchio paganesimo sciamanico delle tribù asiatiche: era un “paese delle
fate” dove “ogni atto è accompagnato da segreti rituali magici”. Il viaggio lasciò in
Kandinskij un’impressione indelebile. Lo sciamanismo che scoprì laggiù rappresentò una
delle principali fonti di ispirazione della sua arte astratta. … Il popolo komi era stato
convertito con la forza al cristianesimo da Stefano di Perm’, nel Trecento. Nella vita
privata, i komi credevano in un mostro della foresta di nome Vorša. Tutti loro avevano una
“anima vivente” (ort) che li seguiva come un'ombra e compariva davanti a ciascuno al

17 FIGES Orlando, Natasha’s Dance. A Cultural History of Russia, 2002; ed. it. La danza di Nataša. Storia della

cultura russa (XVIII-XX secolo), Torino 2004, p. 241.


18 KANDINSKIJ Vasilij, O dukhovnom v iskusstve, Moskva 1912; ed. it. Lo spirituale nell’arte, Milano 1989.

25
momento della morte. Pregavano gli spiriti dell'acqua e del vento; parlavano al fuoco
come se parlassero a un essere vivente; e la loro arte tradizionale mostrava ancora segni
della venerazione del sole. Alcuni komi raccontarono a Kandinskij che le stelle erano
inchiodate al cielo. Raschiando via lo strato superficiale della cultura komi, Kandinskij ne
aveva messo in luce le origini asiatiche”19.

19 FIGES Orlando, Natasha’s Dance. A Cultural History of Russia, 2002; ed. it. La danza di Nataša. Storia della

cultura russa (XVIII-XX secolo), Torino 2004, p. 306.


26
Capitolo 2. La conversione della Russia.

La Rus’ di Kiev tra Commonwealth bizantino e Slavia Orthodoxa.

Il principato di Kiev si presenta a metà del X secolo come un agglomerato ancora


piuttosto frammentario di insediamenti tribali, con due centri urbani prevalenti (Kiev e
Novgorod) che presidiano a nord e sud la via commerciale “dai Variaghi ai Greci”. La
direzione storica dello sviluppo economico e politico porta verso Costantinopoli, ma non
mancano i tentativi di penetrazione da occidente, dove l’impero germanico prova ad
assemblare una continuità politico-culturale europea, e i pericoli di invasione da oriente,
da dove a turno premono le popolazioni dei vari ceppi asiatici. Saranno queste tre
alternative – Bisanzio, Europa e Asia – a condizionare la nascita del nuovo stato, e
formarne la complessa identità anche nei secoli successivi.

I principi variaghi e russi, ancora incerti sulla propria natura e sul proprio destino,
vengono inevitabilmente attratti dalla potenza e dallo splendore dell’impero bizantino,
che aveva già esteso il suo influsso sui popoli slavi a partire dalla missione di Cirillo e
Metodio, e in seguito alle spartizioni successive si era assicurato il controllo dell’area
balcanica e degli slavi meridionali. Sotto la guida impetuosa degli imperatori macedoni,
Bisanzio si presenta nel secolo X come “il vero impero universale, il cui influsso e le cui
ambizioni si estendono su quasi la totalità del mondo civile”20. La conquista araba aveva
in effetti messo in discussione la vera consistenza dell’impero, togliendogli di fatto tutto il
bacino mediterraneo, che era stata la culla della civiltà greca, romana e cristiana.
L’invasione repentina e incontrastata delle armate maomettane nel VII secolo era stata per
l’impero romano d’oriente un evento simile alle invasioni barbariche in occidente nel V
secolo, e solo grazie alle politiche di espansione nei Balcani, nell’Italia meridionale e nei
paesi slavi si era potuto compensare parzialmente questa riduzione dell’impero a
provincia assediata e confermare la pretesa universale di Costantinopoli.
La pressione araba aveva poi lasciato il segno non solo sui destini storico-geografici
dell’impero bizantino, ma addirittura sulla sua pur così elaborata coscienza religiosa e
teologica; dopo più di tre secoli di infinite diatribe dogmatiche sull’unione delle nature di
Cristo, l’assolutismo spirituale islamico si era inserito provocando una nuova variante
dell’eresia monofisita, l’iconoclastia. La proibizione delle immagini aveva messo
nuovamente alla prova la capacità di giustificare religiosamente l’intera concezione
imperiale bizantina, in cui le strutture del potere si modellavano sulle categorie
dell’incarnazione di Cristo, di cui l’imperatore era il tutore e la Chiesa il luogo memoriale;
con il concilio di Nicea del 787 era stata ribadita l’integrità dell’interpretazione dogmatica,

20 DIEHL Charles, Storia dell’impero bizantino, Roma 1977, p. 62.


27
rivestendola di un’armatura artistico-culturale particolarmente innovativa, di cui l’icona
era l’arma suprema. Un secolo dopo la fine della crisi iconoclasta, effettivamente
Costantinopoli conosce una vera e propria rinascita culturale; sarà in effetti l’ultimo
periodo di assoluta supremazia culturale bizantina, prima dei secoli di lenta e inesorabile
decadenza. È il secolo delle enciclopedie storiche, giuridiche, amministrative,
grammaticali, scientifiche, agiografiche. Anche per l’arte l’epoca dei macedoni segna una
nuova età d’oro. Basilio I e i suoi successori furono, come Giustiniano, grandi costruttori e
gli architetti di cui si servirono seppero con fantasia ingegnosa e creatrice rinnovare in una
serie di chiese affascinanti il tipo creato a Santa Sofia, come avverrà anche a Kiev e
Novgorod. Come la letteratura, l’arte di quest’epoca è tutta dominata dagli influssi della
tradizione antica e profana riscoperta. Bisanzio ritorna alle concezioni ellenistiche, agli
ordini semplificati, agli atteggiamenti scultori, coi quali la conoscenza più intima del
mondo musulmano mescola il gusto dell’ornamentazione sontuosa e delicata, e la ricerca
dei colori smaglianti. Non a caso, come vedremo, i russi rimarranno estasiati per la bellezza
che si presentò ai loro occhi quando si recarono a Costantinopoli.

D’altra parte, alla potenza militare e allo splendore delle arti non corrispondeva una
eguale stabilità sociale ed economica. La debolezza strutturale dell’impero, pressato dagli
arabi e dagli stessi slavi, non permetteva di godere a lungo dei periodi di benessere; le
inquietudini attraversavano tutti gli strati sociali, e gli intrighi di palazzo erano la regola
della politica nella capitale. Anche i rapporti con la Chiesa erano ben lontani dall’ideale di
armonia “sinfonica” vagheggiata dal cesaropapismo bizantino. La crisi iconoclasta era
stata anche una dura contrapposizione tra il potere della Chiesa e dei suoi monasteri nei
confronti dell’autorità imperiale, da tempo in lotta contro le varie forme di aristocrazia
feudale. Nel secolo X una parte importante della proprietà fondiaria era ancora nelle mani
dei monaci, con grave danno del fisco e dell’esercito. Gli imperatori si sforzavano di
limitare lo sviluppo dei beni monastici; Niceforo Foca giunse al punto di interdire nel 964
qualsiasi fondazione di nuovi conventi, e qualunque donazione ai monasteri già esistenti,
ma nell’impero bizantino la Chiesa era troppo potente perché misure simili fossero
mantenute a lungo, e l’impero aveva troppo spesso bisogno di essa per non compiacerla.
Nel 988, l’anno del battesimo della Rus’, Basilio II abrogava il decreto di Foca, decretando
la vittoria del partito monastico. I patriarchi stessi erano personaggi potenti, ampiamente
invischiati nella politica interna (come saranno i papi del basso medioevo), spesso rosi
dall’ambizione e dal desiderio di essere riconosciuti superiori allo stesso imperatore. La
contrapposizione con il papato romano veniva spesso usata come argomento per sostenere
le scalate al palazzo imperiale, e così le conquiste missionarie nei territori degli slavi; in
questo clima avverrà la cristianizzazione dei russi, e si giungerà alla metà dell’XI secolo
alla rottura definitiva con Roma a causa delle ambizioni del patriarca Michele Cerulario.

28
I russi entrano così nella storia cristiana attraverso il baratro dello scisma, di cui sono
spettatori passivi e inconsapevoli, giunti nel momento più critico della vita della Chiesa
universale senza poterne modificare i destini. Si aggiungono alla lista delle Chiese del
primo millennio, partecipi dell’unità cattolica del cristianesimo antico, ma di fatto sono
aggregati all’epoca successiva delle divisioni, dell’ortodossia militante (la Slavia Orthodoxa)
di un cristianesimo smarrito e in cerca di nuove definizioni. Questa oggettiva circostanza
storica è l’origine del sentimento di perenne incompiutezza del cristianesimo russo e della
sua missione storica: ultima delle Chiese antiche, o prima delle Chiese moderne? Erede del
cristianesimo originario, o portatrice di una nuova rivelazione? L’ambiguità storica si
aggiunge all’ambiguità geografica di una terra in bilico tra Oriente e Occidente, tra
universale e particolare, tra passato e futuro. La Russia si sentirà sempre un “terzo
elemento” della storia, della cultura e della fede: elemento imprevisto, indefinibile,
superfluo, ma anche sorprendente, creativo e assolutamente indispensabile. Non a caso la
fede russa si concentrerà più di ogni altra sul mistero della Santissima Trinità.

La missione della bellezza e della sofferenza.

L’evangelizzazione della Rus’ avviene dunque in una forma molto particolare, che ha
poche analogie con la conversione degli altri popoli. Se l’impero romano era stato
penetrato dall’annuncio evangelico attraverso un lungo processo storico, passato per quasi
tre secoli di persecuzione e almeno un secolo di coesistenza con le strutture pubbliche del
paganesimo, le popolazioni barbariche di ceppo franco-germanico avevano potuto
inserirsi in un’area già ampiamente modellata dal cristianesimo, che seppe resistere al
crollo del sistema imperiale e alla disgregazione dei secoli feudali. La politica unificatrice
di Carlo Magno non fece che portare a compimento la nuova ristrutturazione dell’Europa,
che con il Sacro Romano Impero pretese subito di competere alla pari con lo stesso impero
bizantino anche sul piano della fede e della cultura. I vari rami dell’etnia slava si
innestarono sull’uno o sull’altro polo della cristianità medievale, ma sempre come unità
gregarie di insiemi già definiti. Anche le grandi conversioni missionarie dei secoli moderni
avverranno con la stessa impostazione, assimilando i popoli americani, africani e asiatici
agli standard europei delle nazioni colonizzatrici; solo di recente, dalla seconda metà del
XX secolo, ci si è posti il problema della “inculturazione” africana o asiatica del
cristianesimo come priorità delle giovani Chiese. La Russia invece fu chiamata a risolvere
una questione così moderna con rozzi strumenti medievali, rivelando un potenziale di
intuizione e creatività veramente sorprendenti.

La ricezione approssimativa della cultura bizantina, avvenuta in un contesto di


instabilità sociale e politica, non permise ai popoli slavi e alla Russia stessa di godere
appieno del patrimonio classico che costituiva la base del cristianesimo greco.
29
L’accentuato carattere confessionale della civiltà letteraria sviluppatasi nelle terre slave
ortodosse, influenzato dal predominio della cultura monastica, determinò l’impossibilità
di una ricezione puramente estetica (o storica) dell’eredità classica, dove tanta parte aveva
il politeismo. Da questa premessa discende l’assenza nei Balcani come nella Slavia
orientale del maggior canale attraverso il quale Bisanzio continuò ad attingere alle fonti
classiche, quella scuola di stampo ellenistico che il mondo bizantino non avrebbe mai
rinnegato lungo tutto il corso della propria storia. Nonostante il conseguente tacito divieto
elevato contro una conoscenza diretta dell’eredità greco-romana, diversi suoi elementi
penetrarono ugualmente nella cultura slava ecclesiastica. Come ricorda Conte, “a far data
dal secolo X s’impiantarono dapprima nei Balcani e poi a Kiev colonie di letterati greci e
slavi responsabili delle strutture scolastiche, delle scuole dei traduttori, delle botteghe dei
pittori, degli artigiani e degli architetti che avrebbero operato con l’aiuto dei giovani
discepoli da esse stesse formati. In quegli anni i rapporti culturali presero il sopravvento
sugli scambi commerciali che tanto avevano segnato il periodo precedente. Fu allora che
vennero a costituirsi dei poli di interazione bizantino-slava con conseguente impulso a
scambi di un nuovo tipo”21. Averintsev sosteneva la particolare genialità del bizantinismo
russo, soprattutto nella sua forma tardo-medievale, mentre il teologo Georgij Florovskij
avanzò negli anni ’30 del secolo scorso la teoria della “pseudomorfosi” dell’eredità
bizantina in Russia, corrotta da una serie di elementi estranei, proponendo un ritorno alle
fonti patristiche; ma su questo torneremo più avanti.
In ogni caso, per quanto la Russia sia chiaramente una “figlia diletta” della Chiesa
bizantina, come amano spesso sottolineare i patriarchi di Costantinopoli, essa non
riproduce semplicemente le categorie del cristianesimo greco, e fin dall’inizio non si è
limitata ad assorbirne i contenuti e gli stili, pur essendo ad esso affine. Dalla forma delle
cupole o dall’intensità dei colori delle icone noi oggi distinguiamo immediatamente una
chiesa russa da una greca, e la perenne tensione tra i gerarchi delle due chiese sottolinea a
volte in modo drammatico questa differenza. I russi non si sentono figli dei greci, non
sopportano l’idea di dover dipendere da loro né storicamente, né culturalmente, anzi
spesso sottolineano la propria specificità di fronte al resto del mondo ortodosso con toni
non meno decisi di quanto non succeda nel confronto con il cristianesimo latino, verso il
quale del resto sono spesso attratti per una serie di caratteristiche tra loro affini. La
principale espressione di questa identità specifica si evidenzierà nel periodo cruciale della
storia russa con l’ascesa di Mosca e la sua aspirazione a essere la “Terza Roma”, luogo
della sintesi escatologica dell’intera storia cristiana, ma i semi di questa ideologia vanno
ricercati nelle radici stesse dell’evangelizzazione della Rus’.

I documenti antichi, risalenti al periodo di Jaroslav il Saggio (pochi decenni dopo il


battesimo) ci riportano in effetti un quadro decisamente insolito. La narrazione della

21 CONTE Francis, Les Slaves. Aux origines des civilisations d’Europe, Paris 1986 ; ed. it. Torino 1991, p. 480.
30
Cronaca di Nestor presenta la famosa versione della “scelta della fede” da parte del
principe Vladimir, con la decisione di aderire alla variante greca per la stupefacente
superiorità di essa rispetto ai latini, ai musulmani e agli ebrei. Un secondo documento
fondamentale è di natura agiografica: i primi santi russi non sono in realtà Vladimir e la
nonna Olga, protagonisti della conversione, ma i figli del principe, Boris e Gleb, martiri
strastoterptsy, “che soffrirono la passione”, dando alla sofferenza in sé un valore fondante
per la fede del popolo russo. Un altro testo di enorme significato è l’elogio del principe
Vladimir, il Discorso sulla Legge e sulla Grazia, fatto dal metropolita Ilarion, primo pastore
autoctono della Rus’, che mette in evidenza il ruolo particolare previsto da Dio per lo
stesso Vladimir e il suo popolo. Infine i racconti dei primi monaci della Rus’ aggiungono
alle categorie originarie del cristianesimo di Kiev le note dell’austerità, della rigida ascesi e
dell’obbedienza all’iniziativa di Dio. Bellezza, sofferenza, missione, obbedienza: questi
quattro elementi tra loro variamente e imprevedibilmente coordinati formano l’immagine
originaria del Cristo russo.

La scelta del principe e lo splendore della liturgia.

Secondo Nestore l’annalista, la prima accoglienza del cristianesimo avvenne con la


principessa Olga, nonna di Vladimir, nell’anno 955. Questa antenata della “santa Rus’” si
era fatta strada con grande determinazione, prima soffocando senza scrupoli le rivolte
delle tribù concorrenti, poi tenendo testa allo stesso imperatore bizantino. Si era infatti
liberata dalle mire degli avversari drevljani con crudele astuzia, seppellendone vivi alcuni,
altri soffocandoli nella sauna e infine massacrandone cinquemila dopo averli fatti
ubriacare al banchetto funebre indetto per commemorare il marito ucciso. Con l’autorità
guadagnata sul campo venne infine ricevuta con tutti gli onori dall’imperatore Costantino
VII, che le propose di suggellare l’alleanza diventandone la moglie; proprio questa
richiesta condusse Olga al battesimo cristiano, che fu peraltro sfruttato dall’abile
principessa come stratagemma per sfuggire al matrimonio. Secondo Nestor infatti Olga
venne “istruita nella fede” dallo stesso patriarca, e l’imperatore le fece da padrino per
volere della stessa Olga, la qual cosa permise alla neoconvertita di rifiutare le nozze:
“Come fai a volermi, quando mi hai tu stesso battezzata e chiamata figlia? Tu sai che
questo non è permesso ai cristiani”. Olga rientrò a Kiev con la benedizione del patriarca e
l’ammirazione dell’imperatore, ma i suoi tentativi di condurre al battesimo anche il figlio
Svjatoslav non ebbero successo: “la madre lo preparava ad accogliere il battesimo, ma egli
non pensava neanche di obbedirle”, trasmettendo il suo scetticismo al popolo: “Se
qualcuno desiderava battezzarsi, egli non lo ostacolava, ma non mancava di
sbeffeggiarlo”. La madre cristiana della Rus’ non volle che alla sua morte si organizzasse il
classico banchetto pagano, la trizna, e il funerale fu celebrato dal sacerdote greco. La
Cronaca la esalta come “precorritrice della terra cristiana, come la stella mattutina precorre
31
il sole, oppure l'alba precorre la luce. Riluceva ella come la luna nella notte. Anche fra gli
uomini infedeli rifulgeva qual perla nel fango: erano essi inzaccherati di peccati, non
ancora lavati dal santo battesimo”.

Il cristianesimo di Olga era chiaramente condizionato dalle convenienze politiche,


nonostante gli elogi del cronista, e faticava ad imporsi in terra di Kiev. La figura del nipote
Vladimir viene tratteggiata inizialmente come quella di un campione del paganesimo, che
compie sacrifici umani agli idoli di legno dopo le vittoriose campagne di conquista,
schiacciando anche le pur flebili resistenze dei pochi sudditi che già si erano convertiti.
Dopo la sua definitiva vittoria sugli avversari, racconta Nestor, “Vladimir cominciò a
regnare in Kiev da solo, ed elevò idoli sulla collina dietro al suo palazzo; il Perun di legno
con la testa d’argento e i baffi d’oro, e poi Khors, Dazhbog, Stribog, Simargl e Mokoš. Ad
essi si compivano dei sacrifici, chiamandoli déi, e portavano i propri figli e le proprie figlie
per offrirli ai demoni, e con questi sacrilegi inondavano di sangue la terra russa”. Nelle
intenzioni di Nestor questi racconti devono far risaltare la potenza della grazia di fronte
all’instancabile opposizione di satana: “Dio non volle la rovina dei peccatori, e su quella
collina ora si erge la chiesa di san Basilio”. Vladimir era inoltre “posseduto dalla
concupiscenza”: aveva quattro mogli, tra cui una greca (da cui ebbe il figlio traditore
Svjatopolk) e una bulgara, che generò i due santi rampolli Boris e Gleb, mentre il suo
successore Jaroslav era figlio della prima moglie. Confiscava inoltre una quantità enorme
di ragazze in ogni villaggio, essendo “instancabile nella lussuria”, non negandosi neanche
la voglia di possedere donne sposate e di violentare le vergini. Il cronista annota che
Vladimir era “donnaiolo quanto Salomone, e altrettanto saggio”. Sotto Vladimir l’identità
russa si rafforza, e le campagne di conquista non si rivolgono più alle tribù sparse dei
drevljani ormai sottomessi, ma contro etnie ben più specifiche di slavi di pianura come i
polacchi a ovest (nel 983) o di asiatici come i protobulgari a est (986).
Secondo la Cronaca furono proprio questi ultimi, di religione musulmana, a stimolare
Vladimir sulla necessità di scegliere una fede “regolare”: “Nell’anno 6494 (986) vennero i
Bulgari di fede maomettana dicendo così: “Tu, o principe, sei saggio e assennato, però
ignori la legge; convertiti alla nostra legge e prosternati a Maometto”. Rispose Vladimir:
“Quale è la vostra fede?”. Essi di rimando: “Crediamo in Dio, mentre Maometto ci
insegna, dicendo: compite la circoncisione, non mangiate carne di maiale e non bevete
vino, così dopo la morte, disse, potrete fornicare con le donne; Maometto ha assegnato a
ciascuno settanta belle donne e la facoltà di scegliere la più bella, sulla quale riporre la
bellezza di tutte le altre, e di prenderla in moglie. Quaggiù, egli disse, conviene
abbandonarsi ad ogni godimento. In questo mondo chi é povero, lo sarà anche nell'aldilà;
se, viceversa, è ricco qui, anche nell’aldilà lo sarà”. La promessa dell’abbondanza dei
piaceri carnali attrasse il principe e la sua natura lussuriosa (l’elemento istintivo e
incontinente, sempre presente nel carattere russo), ma la proibizione del maiale e del vino,
tipica dei paesi desertici meridionali, incontrò la sua netta disapprovazione: “Nella Rus’
32
proviamo gioia nel bere, non possiamo starne senza”. Ai rappresentanti dell’Islam si
alternarono “gli stranieri venuti da Roma, mandati dal papa”, che si rivolsero a Vladimir
con un appello alla vicinanza etnica, che richiede una comunanza di fede: “La tua terra è
proprio come la nostra, mentre la tua fede non le assomiglia”. Al superamento
dell’idolatria i cattolici aggiungono “il digiuno secondo le proprie forze”, in cui bere e
mangiare sono graditi a Dio, secondo le parole di san Paolo. La risposta del principe è
incerta e generica, “i nostri padri non avevano questi costumi”, anticipando l’obiezione
classica ortodossa della deviazione latina dalla tradizione patristica, ma senza negare una
certa sensazione di vicinanza. Alle proposte degli ebrei caucasici (khazari) Vladimir
obietta che gli ebrei dovrebbero stare nella loro terra, e se sono dispersi evidentemente Dio
li ha abbandonati. Le tre obiezioni nel loro complesso esprimono atteggiamenti
riconducibili alle caratteristiche naturali del popolo russo: la carne, la terra e l’uso della
propria volontà, che il principe rivendica come sottoposte a una propria dimensione
esclusiva, non regolabile secondo le abitudini di altri popoli; i russi sono insomma “altro”,
sono uomini dalla natura originale ancora tutta da svelare.
Solo con i greci la questione si pone a livello di fede e di categorie culturali, come
poteva spettare nel X secolo solo a Bisanzio; non dimentichiamo che l’occidente latino,
nonostante i limitati tentativi dei carolingi e i tesori di sapienza ben custoditi dai
monasteri benedettini, si trova a quel tempo in uno stadio di evoluzione teoretica e
spirituale non molto più avanzato di quello degli slavi. Infatti “i greci inviarono a
Vladimir un filosofo”, che intrattiene il capo dei russi in una lunghissima catechesi biblica
e teologica. Dopo aver passato in rassegna la Genesi, con spiegazioni dettagliate del piano
di Dio nella creazione e della vittoria protologica sul diavolo, il missionario greco espone
in ammirevole ordine teologico la storia dei Patriarchi, dell’Esodo, dei Profeti maggiori e
minori, mettendo in evidenza la natura escatologica della storia della salvezza, tutta
protesa alla realizzazione definitiva del regno divino passando attraverso i destini
provvidenziali dei vari popoli della terra. La qualità esegetica delle citazioni e dei
commenti ad esse è da sottolineare come espressione decisamente raffinata di teologia
biblica. L’ansia di conoscere i misteri divini del principe, che incalza il catechista come i
fanciulli ebrei nel Deuteronomio, rivela l’intenzione di applicare a sé le categorie
salvifiche: “Quando questo si è compiuto? E si è compiuto veramente? O si sta ancora
compiendo proprio ora?”. A conclusione della catechesi il greco mostra a Vladimir un
dipinto su tela con la raffigurazione del Giudizio Universale, che “gli toccò il cuore” e lo
convinse della necessità di approfondire la questione: “Attenderò ancora un poco”,
aggiunge il cronista “desiderando conoscere bene tutte le fedi”.
L’anno successivo (987) il cammino di conversione secondo la Cronaca diventa
comunitario. Vladimir raduna i boiari e gli anziani, e li mette al corrente delle proposte
ricevute, chiedendo il loro consiglio. Il risultato di questo primo “concilio” russo
precristiano è la decisione di inviare degli ambasciatori presso i veri centri religiosi, per
rendersi conto di persona della situazione, perché “come ben sai, principe, nessuno
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denigra il proprio, anzi lo loda. Se proprio vuoi sapere la verità di ogni cosa, non ti
mancano gli uomini necessari: inviandoli potrai conoscere quali sono i riti di ciascuno, e
come ciascuno serve Dio”, e vengono così scelti dieci rappresentanti. Questo approccio
comunitario (in russo sobornyj, conciliare) verrà rivendicato come tipico della religiosità
russa, soprattutto dagli slavofili del XIX secolo. La missione informativa si concentra
sull’aspetto celebrativo: i messaggeri videro le “turpi azioni e l’adorazione della Mecca”
dei bulgari, assistettero un po’ annoiati alle “liturgie ecclesiastiche” dei cattolici (i nemtsy,
stranieri “muti”) e giunsero infine a Costantinopoli, dove l’imperatore stesso, per
accogliere degnamente gli inviati, convocò lo stesso patriarca per organizzare una degna
cerimonia: “Sono giunti i russi per conoscere la nostra fede; appronta la chiesa e il clero e
tu stesso indossa i sacri paramenti, perché vedano la gloria del nostro Dio”. Secondo il
racconto “il patriarca, senza por tempo in mezzo, ordinò di convocare il clero e, secondo
l'usanza, celebrarono l'ufficio festivo e accesero le candele e canti corali intonarono.
L'imperatore si recò in chiesa insieme a loro; collocati gli ospiti in un posto centrale,
mostrarono loro lo splendore della chiesa, il canto e la solennità episcopale del rito,
l’assistenza dei diaconi e illustrarono loro il culto del proprio Dio. Essi vinti
dall'ammirazione stupivano e lodavano il loro servizio”. Non vi è in questa descrizione
soltanto un senso estetico della bellezza del rito, quanto piuttosto una dimensione
esperienziale e comunitaria: in pratica i russi vengono inseriti in una liturgia episcopale
come protagonisti di un evento conciliare, reso splendido da elementi decorativi e
celebrativi (candele, canti, paramenti solenni, l’interno stesso della chiesa), in cui non vi è
accenno ad aspetti propriamente figurativi o puramente esteriori e non funzionali alla
dinamica liturgica vera e propria.
La relazione dei messi di ritorno a Kiev rende ancora più evidente il prevalere delle
categorie eminentemente ecclesiali su quelle meramente esteriori. I musulmani vengono
scartati per la mancanza di compostezza e di partecipazione interiore: “quando pregano
nella moschea, stanno lì privi di cintura; dopo essersi inginocchiati, si siedono e guardano
da tutte le parti come stolti, e non vi è traccia in loro di gioia, ma solo tristezza e un grande
fetore”. I nemtsy cattolici compiono invero diverse celebrazioni, che sembrerebbero
formalmente corrette, “ma non abbiamo visto alcuna bellezza” in loro, come se il rito fosse
troppo povero e insignificante. La definizione della liturgia bizantina è invece memorabile:
“Non sapevamo se ci si trovava in cielo o in terra, poiché non v'è sulla terra un simile
spettacolo, né una tale bellezza; siamo incapace di narrare, ma solo questo sappiamo, che
in quel luogo Iddio convive con gli uomini e che il loro ufficio è superiore a quello di tutte
le altre nazioni. Non è possibile per noi dimenticare tale bellezza; ogni uomo che
assaporato la dolcezza l'amaro di poi disdegna; similmente anche noi qui non possiamo
più vivere”. Il termine bellezza (krasota) ricorre ben tre volte, ed in esso si trova la chiave
della decisione favorevole al battesimo bizantino. Essa si riferisce propriamente all’aspetto
liturgico-celebrativo, non a quello estetico e decorativo; la stessa osservazione sulla
dimensione mistica del “trovarsi in cielo o in terra” corrisponde pienamente alla teologia
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liturgica bizantina, a partire da Dionigi lo Pseudo-Areopagita nel IV secolo passando per
la “liturgia cosmica” di Massimo il Confessore, che applica al rito il valore simbolico della
separazione/comunicazione tra la sfera umana e la sfera divina, unite dal mistero
dell’incarnazione e della risurrezione di Cristo stesso. La cattedrale di S. Sofia a
Costantinopoli era stata pensata proprio per realizzare questa simbologia liturgica
specifica; era una chiesa aperta da tutte le parti, luminosissima, in cui c’erano solo mosaici,
non c’erano icone, anche se Bisanzio aveva già fatto dell’icona già uno strumento culturale
diverso, legato ad altre interpretazioni della liturgia stessa più “narrative” e storiche.
Quindi c’è una certa ambiguità nell’espressione della bellezza che i russi colgono a
Costantinopoli, una bellezza da decifrare: è la bellezza della liturgia cosmica, è la bellezza
della conciliarità, della sobornost’; è una bellezza che in seguito verrà espressa anche con
l’icona, che però è un’altra categoria, che in questo momento ancora non gioca un fattore
decisivo. La giocherà decisamente dopo il giogo tartaro; l’icona russa nasce dopo
l’occupazione tartara. Fino al Duecento è solo importazione di icona greca, non c’era una
vera e propria iconografia russa precedente al Quattrocento. Questo per dire che quel testo
della Cronaca (non ci interessa tanto la critica storico-letteraria, ma la categoria storico-
culturale che esprime) è una teologia della bellezza, che nasce dall’eredità bizantina, ma
che va ancora molto rielaborata e decifrata. È la bellezza dell’intero piano divino vissuto
nella sua piena dimensione ecclesiale, non una stimolazione dei sensi rispetto a una
rappresentazione statica e distante. Sono piuttosto coinvolti i sensi interiori dell’anima: i
messaggeri insistono sulla bellezza tanto quanto sulla letizia, la soddisfazione spirituale
del cuore per la presenza di Dio, la sua Gloria che investe la realtà intera.

La decisione di accettare il battesimo matura infine nel principe Vladimir, secondo la


Cronaca, in seguito a vicende belliche e convenienze politiche. La conquista della città di
Kherson sul Mar Nero spinge Vladimir a proporre all’imperatore di Costantinopoli
un’alleanza da suggellare con il matrimonio con la sorella Anna, che viene concesso a
condizione di accogliere la fede cristiana. Il principe accetta di buon grado, spinto dagli
incoraggianti esiti della precedente indagine socio-religiosa. Il battesimo viene compiuto a
Kherson dal vescovo locale insieme ai sacerdoti giunti da Bisanzio con la riluttante
principessa, non senza una vera “illuminazione” miracolosa che guarisce Vladimir da una
improvvisa cecità, sottolineando così la trasformazione totale della persona. Al
neobattezzato viene proposto un Simbolo di fede particolarmente articolato e
dogmaticamente dettagliato, espressione della “ortodossia militante” in perenne guerra
con gli eretici; oltre ai particolari del dogma trinitario e cristologico, vengono enumerati i
sette concili ecumenici del periodo patristico con le relative definizioni, il numero dei
vescovi partecipanti e la lista delle persone colpite da anatema. In particolare, Vladimir
viene messo in guardia dagli errori dei cattolici, che peraltro non riguardano i dogmi, ma
le devozioni: “Non accogliere gli insegnamenti dei latini, in quanto la loro dottrina è
distorta: entrando in chiesa, essi non venerano le icone, ma rimangono in piedi e fanno un
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inchino tracciando per terra una croce, la baciano e rialzandosi si dispongono su di essa
con i piedi, cosicché quando si stendono la baciano, e rialzandosi la calpestano. Gli
apostoli non hanno insegnato questo, ma hanno insegnato a baciare la croce che viene
posta davanti e a venerare le icone”. In questa disposizione si può vedere tutta la distanza
tra la teologia patristica, innalzata come bandiera formale, ma decisamente astratta e
lontana dalla pratica della fede, e la tarda spiritualità monastica bizantina, concentrata
sulle minuzie devozionali e sulla materialità degli oggetti di culto. L’eco delle crisi
iconoclaste risuona in questi ammonimenti, che fanno emergere la devozione all’icona
come elemento primario, senza alcun raccordo né con lo splendore liturgico che aveva
rapito i messi di Kiev, né con il rigore dogmatico che viene imposto prioritariamente al
nuovo rappresentante di una grande etnia ortodossa, che finirà per diventare la parte
preponderante di tutta la comunità cristiana di tradizione bizantina. La polemica
antilatina, generata dalle differenze di sensibilità devozionale, si chiude con altri
rimproveri non meno estemporanei, come il fatto che dai cattolici “alcuni sacerdoti hanno
una sola moglie, altri fino a sette mogli” e durante la Messa “si assolvono i peccati durante
la consacrazione dei doni”, ignorando di fatto tutti i motivi classici di polemica teologica
ed ecclesiastica (il Filioque, l’epiclesi, gli azzimi, il purgatorio, il celibato sacerdotale), che
prima e dopo il battesimo di Vladimir verranno continuamente riproposti nei trattati
bizantini sull’argomento. La Rus’ viene così arruolata in una guerra di religione di cui non
vengono spiegate le ragioni storiche e ideologiche, che infatti tarderanno a evidenziarsi
nella letteratura religiosa russa; si può anzi affermare che i sentimenti dei russi nei
confronti del cristianesimo occidentale rimarranno piuttosto indifferenti almeno fino alla
metà del XV secolo, dopo il concilio di Firenze e la presa di Costantinopoli. Lo stesso
scisma del 1054 non verrà recepito in modo apodittico nella Rus’, che ad esempio si
entusiasmerà per la “traslazione delle reliquie” di san Nicola di Myra a Bari nel 1073, che
per i greci costituisce un vero e proprio furto e un’insanabile offesa.

Ad ogni modo, dopo aver ricevuto il battesimo, Vladimir fa ritorno a Kiev e, secondo
il racconto di Nestor, si dedica anzitutto alla distruzione degli idoli e all’annientamento
delle forze diaboliche in essi contenute: “ordinò di gettare a terra gli idoli, alcuni di farli a
pezzi, altri di bruciarli. Comandò di legare il Perun alla coda di un cavallo e di portarlo in
giro dal colle, e mise dodici persone a batterlo con i bastoni. Questo si fece non perché il
legno possa provare qualcosa, ma per maledire il demone che aveva ingannato gli uomini
in quella forma, affinché ricevesse la giusta punizione degli uomini”. L’ingenua e
fragorosa vendetta sui diavoli di legno manifesta tutta la goliardica vitalità dello spirito
russo. Il principe fece dunque battezzare l’intero popolo nel Dnepr’, dove era stato infine
affogato il Perun, minacciando chi non avesse accettato: “lo riterrò un mio nemico”, ma il
popolo accolse la proposta, secondo la Cronaca, “con gioia”, perché “se non fosse stata una
cosa buona, il principe e i boiari non l’avrebbero accettata”. Dopo essersi immersi
comunitariamente nel fiume, i russi tornarono alle proprie case come alla fine di una festa
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paesana, e solo in seguito vennero erette le chiese e celebrate le liturgie. Il racconto
esprime quindi un senso di grande naturalezza e semplicità nel passaggio dal paganesimo
al cristianesimo, ben lontano dalle ansie antieretiche bizantine o dalle forzature feudali,
ancora caratterizzato dalla spontaneità tribale e da una religiosità esuberante e positiva.
L’unico elemento di costrizione riportato dalla Cronaca è la disposizione di Vladimir circa
i “migliori ragazzi” del popolo da mandare a studiare le fondamenta della nuova fede per
istruire il popolo: “le madri dei ragazzi piansero per essi, in quanto non erano ancora salde
nella fede e li piangevano come se fossero morti”.

La Cronaca riporta poi la morte di Vladimir nel 1015, inneggiando a lui come al
“nuovo Costantino della grande Roma”. Ma non sarà lui il primo santo cristiano della
Rus’.

La purezza della sofferenza.

La bellezza percepita nella liturgia greca si realizza nella terra russa attraverso una via
assolutamente speciale e drammatica, quella della sofferenza, esaltata nell’immagine
originaria della santità russa. I primi santi russi infatti sono i figli del principe Boris e Gleb,
canonizzati poco dopo la morte di Vladimir, intorno al 1020. La loro uccisione fu la
conseguenza del più classico conflitto politico-familiare: secondo le narrazioni il figlio
maggiore Svjatopolk, fratello di Boris e Gleb, dopo la morte del padre cerca di prendere
tutto il potere e inizia la guerra fratricida. Nasconde il corpo di Vladimir (è lui che assiste
alla sua morte) per appropriarsi dell’eredità ed escludere gli altri fratelli dal potere. Boris
si trova lontano da Kiev, impegnato in una campagna militare; ritorna alla notizia della
morte del padre e lo avvertono che il fratello vuole ucciderlo; viene allora circondato da
una družina, un gruppo di volontari armati che gli propongono di farlo fuori con un
contrattacco. Invece Boris licenzia la truppa, affermando di non voler fare la guerra al
fratello e non scappa, ma al contrario dichiara di considerare il fratello come la sua
autorità naturale dopo la morte del padre, e di volergli prestare obbedienza. Andando da
lui, viene preso dalle truppe che lo uccideranno. La narrazione si trova sia nella Cronaca,
sia nella Narrazione, passione e lode dei santi Boris e Gleb, entrambe attribuite a Nestor22.

Nella narrazione troviamo espressa proprio la tesi della sofferenza volontaria.


Piangendo il padre morto, il giovane principe prende la decisione di non opporsi al
fratello: “Ahimè! Luce degli occhi miei, del volto mio splendore e aurora, briglia alla mia
giovinezza, ammaestramento alla mia insipienza! Ahimè! O padre e signore mio, a chi

22 Vedi la traduzione italiana in GIAMBELLUCA KOSSOVA Alda, Alle origini della santità russa. Studi e testi,

Milano 2007.
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ricorrerò, a chi lo sguardo volgerò, dove mi abbevererò di un sì pio insegnamento,
dell'ammonimento della tua saggezza?... Il cuor mi arde, l’intelletto l’animo mio confonde,
e non so a chi volgermi, né questo dolore straziante a chi confidare. Al fratello forse, che in
luogo di padre tenevo? Ma, penso, egli alle vanità terrene s’istruisce e il mio
annientamento trama. Se egli il sangue mio verserà e all’assassinio mio s’arrischierà, del
mio Signore martire diventerò. Non opporrò infatti io resistenza, poiché sta scritto: “Dio ai
superbi si oppone, ai sottomessi dona la grazia”. Il principio di non resistenza al male
(nieprotivlenčestvo) rimarrà molto radicato nella cultura russa. La non resistenza, o
resistenza passiva, sarà uno dei principi cardine della ideologia religiosa dello scrittore
Lev Tolstoj, che sia nei romanzi sia nei testi ideologico-religiosi esporrà questa tesi. Sarà la
proposta che affascinerà Gandhi, giovane attivista indiano per la difesa dei diritti umani e
della giustizia, che all’inizio del Novecento si trovava in Sud Africa per appoggiare le lotte
di emancipazione e diventò tolstojano. Scrisse a Tolstoj e aderì alle sue idee, per poi
tornare in India a fare la rivoluzione pacifica più importante del XX secolo. La religiosità
di Gandhi, come quella di Tolstoj, era una religiosità molto razionalista e illuminista, ma in
continuità con l’idea originaria russa del martirio volontario. Tolstoj in effetti non riuscì
mai ad aderire alla fede ortodossa, finendo addirittura per essere scomunicato come
eretico, ma nei suoi scritti afferma di essere stato salvato dalla disperazione grazie al
legame con la fede del popolo russo e con la sua capacità di sofferenza; si appellò spesso
alla fede del popolo, pur non riuscendo a farla propria.

Ma torniamo al racconto. Non vi è espressa solo l’idea della non resistenza, lo stesso
Boris riflette su questo principio: “Se vado nella casa di mio padre, molte lingue mi
pervertiranno il cuore, affinché scacci il fratello mio, come già mio padre – prima del santo
battesimo - per la gloria e il principato di questo mondo. Tutto ciò è perituro e [vale]
meno di una ragnatela, e alla mia dipartita da qui dove mai potrò ricoverarmi? Dove mai
sarò? Quale risposta mi sarà data? Dove andrò i molti miei peccati a celare? Negli anni
andati, il fratello di mio padre, oppure il padre mio stesso, cosa mai al fine rinvennero?
Dove è la loro vita? Dove è, anche, la loro gloria di questo mondo, e la porpora, e i
broccati, l’argento e l’oro, il vino e il miele, le pietanze squisite e gli alati cavalli e le belle
imponenti magioni e le grandi ricchezze e i tributi e gli onori illimitati e la fierezza che dai
loro boiari gliene derivava? Tutto questo è per loro come non fosse mai esistito, tutto
insieme a loro è svanito, né soccorso alcuno da queste cose potrà mai derivare: non dalle
ricchezze, né dai molti servi, né dalla gloria di questo mondo. Perciò anche Salomone,
sperimentata ogni cosa, visto tutto e tutto posseduto e accumulato, disse infine dopo lunga
ponderazione: Tutto è vanità e vanità delle vanità diverrà. Solo dalle buone azioni e dalla
retta fede e dall’amore sincero giunge il soccorso”. Per Boris il battesimo insegna il
disprezzo della gloria mondana: non si tratta solo di non fare il male, ma di non cedere
alla tentazione del potere e della gloria (Vladimir in effetti aveva a sua volta ucciso i suoi
fratelli). Lui ha ricevuto il battesimo, quindi la guerra fratricida non deve più esistere. Non
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è solo passiva remissione, ma anche giudizio ascetico sulla gloria del mondo; si vedono già
le radici del monachesimo. “Tutto è svanito” col battesimo.
Poi si realizza anche il vero e proprio martirio; più avanti, quando diventa chiaro che
Svjatopolk vuole ucciderlo, Boris inizia a pregare, e qui inizia la parte del racconto che ha
chiaramente un contenuto liturgico. Boris si prepara al battesimo del sangue come un
monaco che fa le veglie mattutine, secondo una scadenza liturgica. Mette il campo vicino a
Kiev, la družina di nuovo gli propone di opporsi, ma lui: “non sia mai che io la mano alzi
contro il mio stesso fratello e per di più a me maggiore, che stimo anzi qual padre mio!”,
per cui rimase solo con i suoi servi. Era sabato, e trascorse la giornata nel dolore. Venne
ucciso la domenica mattina: un sacrificio pasquale e liturgico preceduto dalla funzione
notturna, la vsenočnaja che unisce il vespro al mattutino. Comincia la litania, con
l’invocazione “O Signore, le lacrime mie non disprezzare; poiché in te confido, che il
destino dei servi tuoi condivida e di tutti i tuoi santi la sorte. Tu sei invero Dio
misericordioso e a te gloria rendiamo nei secoli. Amen”. Nella parte vespertina del sabato
il giovane liturgo fa memoria dei santi martiri, Niceta, Venceslao (apostolo della Boemia,
che nel 1015 era venerato ancora da tutta la Chiesa unita. Da notare che anche Boris e Gleb
sono santi riconosciuti dalla Chiesa cattolica, essendo stati canonizzati prima del 1054).
Ricorda i santi uccisi dai loro parenti, come S. Barbara uccisa dal padre. A quel punto “calò
poi l’imbrunire” e inizia il canto del vespro. Il principe versa le sue lacrime nella tenda
insieme alle preghiere; i servi fuori dalla tenda cantano, mentre lui dentro recita,
espletando la funzione sacerdotale come avviene nella liturgia bizantina, soprattutto nella
variante slava, dove l’alta iconostasi produce una completa separazione tra il sacerdote e il
popolo; il sacerdote rimane dietro l’iconostasi, e il popolo non sa neppure che cosa dica.
Non è qui la liturgia cosmica bizantina che “non si sa se si è in cielo o in terra”, ma
piuttosto l’interpretazione narrativa, per cui dietro l’iconostasi (in questo caso la tenda) vi
è il sepolcro di Cristo, e davanti il luogo della risurrezione; il santo rivive il mistero
liturgico pasquale nella sua persona. La liturgia riprende all’alba: “di buonora vide che era
mattino di domenica, e allora disse al confessore di preparare il mattutino”. Gli inviati di
Svjatopolk si avvicinano mentre canta i salmi delle lodi, proseguendo con la sequenza
della liturgia delle ore. Poi si immerse a contemplare l’icona, dicendo: “Signore Gesù
Cristo, che con questo sembiante sulla terra sei apparso, desideroso, per tua volontà, di
essere sulla croce inchiodato e il martirio per i nostri peccati accogliere, accorda anche a
me di subire la passione”. Questa preghiera ricorda la preghiera eucaristica: vi è
l’equiparazione del martirio all’eucaristia, un classico della liturgia cristiana. Fin dalle sue
radici ebraiche, infatti, la liturgia è preghiera di memoriale che attualizza l’evento
salvifico: “come tu hai fatto, ora fallo anche per me” (ricordiamo gli esempi dei testi
patristici del periodo delle persecuzioni, come quelli di Ignazio di Antiochia e Policarpo di
Smirne). Il momento dell’assassinio diventa il momento della consacrazione, o della
comunione. Colpiscono anche il servo ungherese Georgij (cattolico, nel senso di
appartenente alla tradizione latina occidentale) a cui Boris aveva conferito un collare d’oro
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(segno di comunione nel martirio). Lui stesso già ferito esce dalla tenda e supplica gli
assassini: “fratelli, concedetemi tempo per la preghiera”: deve concludere la liturgia.
L’ultima invocazione è il ringraziamento finale, che riassume tutti i motivi di questa
liturgia di martirio: “Signore mio Dio, grandemente misericordioso, misericordioso e
molto misericordioso, gloria a te per avermi concesso di sfuggire alle lusinghe di questa
vita mendace! Gloria a te, generosissimo donatore di vita, che i triboli dei santi martiri a
me hai riservato! Gloria a te, Signore, amante degli uomini, per avermi concesso di
adempiere il desiderio del mio cuore! Gloria a te, o Cristo, alla tua molta misericordia, che
sulla retta via del mondo, a correre verso di te senza tentazioni, i miei passi hai indirizzato!
Volgi lo sguardo alle altezze della tua santità, mira il dolore del cuore mio, che dal mio
consanguineo io ho accolto, e come in questo giorno per te io a morte vengo. Quale agnello
al sacrificio mi destinano. Tu, infatti, Signore mio, sappi che non opporrò resistenza, né
ostacolerò con la parola, ché, pur avendo al mio ordine del padre mio l'esercito tutto e
quanti da lui erano prediletti, nulla contro mio fratello ho premeditato. Ogni cosa in suo
potere egli contro di me ha suscitato. “Se mi avesse insultato un nemico, l'avrei sopportato,
se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto”. Ma tu, Signore,
guarda e giudica fra me e mio fratello e “non ascrivere a costoro, o Signore, questo
peccato”, ma in pace accogli l'anima mia. Amen”. Al posto della benedizione e del
congedo liturgico il giovane invita i suoi assassini a compiere finalmente l’atto del
sacrificio finale. Non è una scelta particolarmente originale, quella di descrivere il martirio
come una liturgia, ma è importante che questo sia chiaramente espresso subito dopo la
conversione del 988: la liturgia si applica alla sofferenza del martire assunta
volontariamente, al disprezzo del mondo e alla ricerca della santità nel martirio. Non è
una ricerca classica del martirio “a causa della fede” di fronte alla persecuzione pagana,
ma un modo di considerare il proprio destino come occasione per assomigliare a Cristo e
imitarlo.
La sofferenza di Boris illumina anche quella di Gleb, adolescente che non ha la
maturità di fede del fratello, come un aspirante monaco che non avesse ancora fatto il
noviziato, e non fa altro che chiedere pietà. Il suo è il pianto dell’innocenza: “Non
contrastatemi fratelli miei cari e amati, non contrastatemi, ché nessun male a voi arrecai!
Non curatevi di me, fratelli e signori, passate oltre! Quale mai offesa ho arrecato al fratello
mio e a voi, fratelli miei e signori? Se qualche offesa vi è, dal vostro principe conducetemi,
dal fratello mio e signore! Abbiate pietà della mia giovinezza, abbiate pietà, signori miei!
Miei signori voi sarete, io a voi servo! Non falciate la vita mia ancora acerba, non falciate la
spiga ancora immatura e ricolma del latte dell'innocenza! Non potate i tralci ancora in
piena crescita, ma che già hanno frutto. Vi prego e da voi perdono imploro. Abbiate timore
di quanto dalle labbra dell’apostolo fu proferito: “non comportatevi da bambini nei
giudizi, siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto a giudizi. Fratelli,
io, sia quanto a malizia, che quanto a età, sono ancora bambino. Questo non è un
assassinio, ma il taglio di un frutto acerbo. Provatemi quale male io abbia commesso e non
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starò a dolermi. Se del mio sangue vi volete satollare, ormai sono nelle vostre mani e in
quelle di mio fratello, il vostro principe!”. Si rivolge al padre, chiamandolo con il nuovo
nome di battesimo: “Vasilij, Vasilij, padre mio e signore, tendi il tuo orecchio e ascolta la
mia voce e volgi lo sguardo e vedi quanto alla tua creatura accade, come senza colpa
vengono sgozzato! Ahimè, ahimè! “odi cielo e ascolta terra” e tu Boris, fratello mio,
ascolta la mia voce! Vasilij, il padre mio ho invocato, ma non mi ha udito; forse neanche tu
vorrai ascoltarmi? Guarda il dolore del mio cuore e la piaga dell’anima mia, guarda il
fluire qual fiume delle mie lacrime. E nessuno mi presta attenzione, tu però ricordati di me
e prega il Signore di tutto per me, poiché della sua fiducia godi e presso il suo scranno
siedi”. La sua preghiera si conclude con un appello straziante: “Grandemente generoso e
tanto clemente Signore, le lacrime mie non sprezzare, ma abbi pietà del mio dolore, vedi
lo strazio del mio cuore, ecco, vengo sgozzato, ma non conosco il perché o per quale
offesa, né mai lo saprò”. Il suo corpo venne abbandonato in un luogo deserto, tra due
tronchi. È in realtà una descrizione assai poco “bizantina”, ma molto drammatica e
passionale. Il martirio di Gleb si inserisce come immagine dell’agnello, illuminato dalla
scelta di Boris di viverla come una consacrazione al Signore, senza sapere il perché, ma
fidandosi completamente del Signore. Da notare che anche un altro fratello, Svjatoslav,
viene poi ucciso da Svjatopolk, ma non viene canonizzato, perché non si era associato allo
spirito di imitazione di Cristo di Boris, né aveva testimoniato la capacità di abbandono
innocente di Gleb; sono uccisioni identiche, ma le prime vennero considerate motivo di
santità e l’ultima no. È un esempio molto russo di drammaticità liturgica, di
trasformazione dell’avvenimento tragico in liturgia divina: si coglie la bellezza nella
sofferenza, nella purezza del martire di fronte a una inaudita e scandalosa violenza,
sempre sottolineata dalla cultura russa. L’elemento emotivo e violento viene ancora più
accentuato dall’elemento mongolo asiatico, che aggiunge crudeltà alla violenza stessa,
come se ci fosse sempre bisogno del sangue versato per ritrovare l’immagine di Cristo.

La categoria degli strastoterptsy comprende nella storia russa anche altri personaggi,
per lo più principi e re. Un secolo dopo Boris e Gleb, il principe Andrej Bogoljubskij venne
ucciso per motivi politici intorno al 1174 e canonizzato nel 1702. Ultimo Gran Principe di
Kiev a Vladimir-Suzdal’, prima dell’invasione tartara del 1240, Andrej aveva organizzato
una spedizione di 11 principi della Russia centrale contro la capitale Kiev, che venne
conquistata e saccheggiata per due giorni, con relativo massacro della popolazione. Lo
spostamento nella Russia centrale del principato fu l’ultima espressione della statualità
kievana, e testimoniano delle fortune di quest’ultima capitale della Rus’ le splendide
cattedrali di Vladimir, quella dell’Assunzione (che fu presa a modello in seguito per la
cattedrale del Cremlino di Mosca) e quella S. Dmitrij ripresa da Tarkovskij nell’Andrej
Rublev, e anche il monastero di Bogoljubovo con il palazzo di Andrej e la sua chiesa
suffraganea della Protezione della Madre di Dio sulla Nerl’, quella del volo del contadino
nel prologo dell’Andrej Rublev con relativa caduta sull’erba in mezzo alla terra, sul grande
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prato antistante alla chiesa. Questa chiesetta è un gioiello architettonico, e un vero e
proprio simbolo della Chiesa russa, molto ripreso nell’arte e nella memoria culturale.
L’immenso prato che si stende intorno all’ansa del fiume Nerl’, dove morì un figlio di
Andrej, per la cui memoria fu costruita la chiesa, nella fase dell’inverno è ricoperto dalla
neve, col disgelo primaverile viene invaso dall’acqua, tanto da diventare un lago, e in
estate splende nell’erba verde. Il principe Andrej venne poi ucciso dai suoi stessi complici
della guerra contro Kiev, dopo una sua strenua resistenza a mani nude, e solo alla fine la
resa alla volontà di Dio, consegna dosi agli assassini per il colpo di grazia. La sua fine
significò anche la rovina definitiva del principato di Kiev, la prima “Santa Rus’”, caduta in
mano asiatica anche per colpa delle guerre fratricide, i meždousobnija brani che i russi si
trascinavano ancora da prima della conversione al cristianesimo.
Anche se non venne canonizzato, è considerato strastoterpets lo zar Paolo I (+ 1804),
figlio di Caterina, una figura assai controversa. Regnò per pochi anni e venne molto odiato
dalla popolazione per lo spirito militaresco e oppressivo con cui aveva riorganizzato
l’amministrazione statale, e anche a causa delle sue simpatie cattoliche, che lo portarono a
diventar Gran Maestro dell’Ordine di Malta; come era avvenuto per i gesuiti con Caterina
II, Paolo salvò l’ordine dallo scioglimento napoleonico, e si autonominò Gran Maestro, pur
senza passare al cattolicesimo, ma inserendo lo stemma dell’ordine nella simbolica
imperiale. Un altro zar, Alessandro II, venne ucciso con un atto terroristico nel 1881, alla
fine dell’epoca delle riforme (è ricordato come lo “zar liberatore” per aver soppresso la
schiavitù della gleba), nel periodo in cui imperversavano l’anarchismo e il terrorismo
russo, come descritto nel romanzo di Fedor Dostoevskij I demoni. A San Pietroburgo in sua
memoria venne costruita una chiesa molto simile alla cattedrale di S. Basilio sulla piazza
Rossa di Mosca, dedicata al “Salvatore sul sangue” (Spas na krovi), quasi a riassumere tutto
il filone della devozione russa alla passione di Cristo. Quando furono presi gli assassini si
accese nella società russa una grande discussione sulla pena di morte, ripresa da
Dostoevskij anche per via dell’esperienza personale, avendo scampato per un pelo
all’esecuzione capitale (il romanzo L’Idiota si apre con una riflessione sulla condanna di
Cristo e la necessità della pena di morte). Il giovane filosofo Vladimir Solov’ev si espresse
pubblicamente in favore del perdono, e per questo fu a lungo emarginato. Tolstoj prese
spunto da questo dibattito per sostenere la non necessità della pena di morte e proporre la
sua teoria della non resistenza al male. Infine anche l’ultimo zar, Nicola II, fu assassinato
con tutta la famiglia dai bolscevichi nel 1918 a Ekaterinenburg nella “Casa Ipatiev”,
anch’egli quindi per motivi politici. Venne canonizzato ancora nel periodo sovietico dalla
Chiesa Zarubežnaja, quella parte della Chiesa Ortodossa Russa formatasi in esilio in
opposizione al regime comunista, poi nel 2000 anche il Sinodo moscovita ha proclamato la
santità dello zar strastoterpets, dei suoi familiari e dei servi tra cui vi era un cattolico, come
per Boris. La canonizzazione venne approvata per il modo con cui lo zar, pur macchiatosi
del sangue del popolo (aveva fatto sparare alla folla durante una manifestazione, nel 1905)
aveva accettato cristianamente la morte, mostrando anch’egli la capacità di vivere la
42
passione a imitazione di Cristo. Dopo il comunismo, Nicola II è diventato uno dei simboli
della rinascita della Russia, anche se fu una figura politicamente debole e contraddittoria,
culturalmente nulla e religiosamente anche peggiore, perché con la moglie era succube del
settario Rasputin. Non aveva niente di positivo, di santo, di profondo; e non aveva
neppure sangue russo, essendo un tipico prodotto degli incroci della nobiltà europea, ma
il destino lo ha consegnato alla tipologia più originaria della santità russa. Si ricordano
altri santi strastoterptsy, come Vasilij di Mangaz nel 1602, un servo di un mercante ucciso
dal padrone. Poi alcuni bambini, come Dmitrij di Uglič nel 1591 (figlio di Ivan il Terribile),
Gavriil di Slutsk nel 1690, ucciso con un delitto rituale ebraico, considerato martire e quasi
campione dell’antisemitismo, e un certo Ivan di Uglič nel 1663, ucciso da un operaio della
ditta del padre per vendetta contro il padre stesso. Tutti quindi morti per motivi molto
umani, diventati nella comprensione russa rivelazioni della vera fede.

La canonizzazione di singoli politici e uomini morti per motivi “laici”, del resto, è solo
un aspetto della grande capacità russa di soffrire, che ha avuto momenti storici
particolarmente significativi: su tutti nel 1812 la vittoria contro Napoleone, e nel 1940-41
quella contro i nazisti, con la battaglia di Stalingrado e l’assedio di Leningrado. La
modalità con cui avvenne la vittoria contro Napoleone è particolarmente significativa, e
vale la pena di ricordarla: Napoleone venne attirato dall’esercito in fuga all’interno della
Russia, e per la via distrusse tutto quello che trovava, come la città di Smolensk, infine
entra a Mosca e i russi stessi distruggono Mosca, il governatore Rastopčin fa incendiare la
capitale. Napoleone si trova quindi senza approvvigionamenti, tentenna dopo l’invasione,
l’esercito saccheggia la città ormai abbandonata, i francesi perdono l’attimo e sono costretti
a ritirarsi. Nella ritirata l’esercito francese (che radunava tutta l’Europa occidentale) da
ottocentomila uomini viene ridotto a meno di duecentomila, e i russi si limitano ad
accompagnarli fuori dal paese, senza ingaggiare battaglia. Prima dell’invasione di Mosca,
però, vi era stata l’epica battaglia di Borodino, la classica vittoria di Pirro dove muoiono
tutti, un massacro conclusosi con un pareggio delle forze e la dimostrazione dei russi di
essere in grado di non farsi sconfiggere, di saper sopportare anche gli attacchi più
tremendi. La vittoria contro Napoleone diventerà l’esaltazione della grandezza russa in
Europa: Alessandro I entrò nel 1812 a Parigi, occupandola simbolicamente con i cosacchi
accampati sul Bois de Boulogne e proclamando una specie di superiorità dei “barbari” russi
sull’Europa. È un esempio di vittoria strastoterpnaja, ottenuta distruggendo se stessi, con il
totale sacrificio di sé. Così avvenne poi a Stalingrado, con il solito “generale inverno” che
gioca il ruolo di alleato della Russia; anche i russi subiscono il gelo, ma lo sanno
sopportare. La vittoria sul nazismo è ancora oggi la più grande festa nazionale russa, in cui
viene evocato anche l’eroismo della città di Leningrado (oggi di nuovo San Pietroburgo),
che rimase tre anni sotto l’assedio dei tedeschi e riuscì a non cedere. La santità sofferente,
la passività ardente, la resistenza strenua sono diventate così un tratto costante della storia
cristiana e umana della Russia, il paese dove il cristianesimo è “iniziato di nuovo”.
43
Il nuovo inizio della storia cristiana.

Un terzo importante documento che ci aiuta a comprendere il significato del battesimo


della Rus’, e in generale lo spirito del cristianesimo russo primitivo, è il Discorso sulla legge
e sulla grazia del metropolita Ilarion di Kiev, scritto verso la metà dell’XI secolo. L'autore fu
il primo vescovo autoctono di Kiev, dove rimase in carica per circa tre anni, dopo essere
stato insediato per volere del principe Jaroslav il saggio, figlio di Vladimir, in un momento
di distacco dalla sede patriarcale di Costantinopoli, che rimarrà comunque fino al XVI
secolo la Chiesa madre da cui provenivano i vescovi per la Russia. All’inizio, con il
battesimo, Kiev era in realtà stata istituita come diocesi suffraganea di Kherson sul Mar
Nero, e proprio Jaroslav era riuscito a farla innalzare a metropolia, a capo della quale era
stato nominato il vescovo greco Feotempt, di cui Ilarion fu uno degli immediati successori,
il primo appunto di etnia russa. Il suo Discorso costituisce un elogio del principe
battezzatore, di alto e raffinato contenuto teologico, in cui emerge chiaramente la tesi
fondamentale che informa tutta l'interpretazione russa della fede cristiana: il disegno di
Dio sulla storia dell'uomo è un disegno di salvezza, che giunge alla sua pienezza proprio
nella Rus’, chiamata quindi a una missione speciale nella realizzazione di questo disegno
stesso.
Così si annuncia nell’incipit del Discorso, “Ove si narra della legge, data per mezzo di
Mosè, nonché della grazia e della verità, che sono venute per mezzo di Gesù Cristo. Vi si
dice altresì che la legge è passata, ma la grazia e la verità hanno colmato tutta la terra, e la
fede si è diffusa tra tutte le nazioni, fino alla nostra nazione russa. Vi è poi la lode al
principe nostro Vladimir, dal quale siamo stati battezzati, e la preghiera a Dio da parte di
tutta la terra nostra”. La classica contrapposizione paolina tra la legge e la Grazia viene
usata dall’autore come chiave di lettura della sua teologia della storia; se la “legge”
rappresenta l’ipocrisia giudaica condannata da Cristo stesso, la “grazia” suggerisce non
solo la novità dell'annuncio cristiano, ma più specificamente la sua definitiva
manifestazione in terra di Rus’.

Tutta la storia della salvezza prima di Cristo, ricorda Ilarion, ha una funzione
preparatoria alla redenzione cristiana. La legge era necessaria per superare l’idolatria, di
cui lo stesso Vladimir era un esponente formidabile: “Egli ha posto la legge per preparare
gli uomini a ricevere la verità e la grazia; affinché la natura umana retta dalla legge,
rifuggendo il politeismo idolatrico, imparasse a credere nell’unico Dio; affinché l’umanità,
come un vaso contaminato, dopo essere stata lavata dalla legge e dalla circoncisione come
dall’acqua, potesse accogliere il latte della grazia e del battesimo”. Il linguaggio patristico
usato dall’oratore rivela una grande conoscenza delle fonti teologiche; la scelta del dittico
soteriologico di "verità e grazia" non è infatti solo un rafforzativo retorico, ma una precisa
44
indicazione dell'autentica ortodossia, la verità-istina su cui si concentrerà la migliore
teologia russa (come ad esempio quella di P. Florenskij), e la grazia-blagodat’ intesa come
quell’ulteriore manifestazione dell’amore di Dio che si svela nella chiamata alla fede dei
russi, il popolo "superfluo" che non era necessario alla logica terrena della diffusione della
religione cristiana, e che entra invece con una forza dirompente ed escatologica a dare alla
storia una direzione imprevista, spostando l’asse della vita della Chiesa universale verso
un nuovo baricentro, quello in realtà da tutti atteso.

Ilarion precisa infatti che il suo elogio è rivolto a una categoria precisa di ascoltatori,
sintonizzati sulla particolare manifestazione dell’iniziativa divina che si ha davanti agli
occhi: “Sarebbe superfluo e fonte di vanagloria esporre in questo scritto la predicazione
profetica su Cristo e l’insegnamento degli apostoli sul mondo futuro. Ciò infatti è stato
scritto in altri libri ed è già noto a voi, e riproporlo in questo luogo sarebbe indice di
protervia e vanità. Noi non scriviamo per gli incolti, ma per coloro che nutrono un
profondo diletto per i libri; non scriviamo per i nemici di Dio, gli eterodossi, ma per i figli
suoi; non per gli estranei, ma per gli eredi del regno dei cieli”. Gli “estranei” sono coloro a
cui non è destinato il messaggio evangelico, ma sembra sottintendere che solo i russi,
raggiunti da questa speciale benevolenza, possono comprendere di che cosa si stia
veramente parlando. Qui si innesta l’interpretazione teologica del tema scelto, in cui
l’autore riprende l’allegoria paolina della legge intesa come “figlia della schiavitù”, nella
persona di Ismaele figlio di Agar, e della grazia come compimento della promessa,
simboleggiata dal figlio Isacco, il figlio della donna libera. Si sottolinea che la nascita di
Isacco è il frutto della visita dei tre pellegrini alle querce di Mamre, luogo in cui Mosè
entrò in comunione con la Santissima Trinità, come rappresentato nelle icone bizantine. La
nascita di Isacco da Sara viene messa direttamente in relazione con la nascita di Gesù
stesso, con un ardito accostamento che rende contemporanei i due inizi della storia
salvifica, quello dell’Antico e del Nuovo Testamento, quasi a dire che questa stessa storia
si ricapitola continuamente riproponendo continuamente l’unico evento dell’incarnazione
divina: Isacco e Gesù, Costantino e Vladimir, la Chiesa apostolica e la Rus’.

Significativo a proposito un ulteriore passaggio della stessa allegoria, quando si


ricorda la cacciata di Ismaele da parte di Abramo, che viene collegata addirittura alla
rottura tra la Chiesa primitiva e la sinagoga: “Dopo l’ascensione del Signore Gesù, quando
oltre ai discepoli, a Gerusalemme, c’erano anche altri credenti in Cristo e i giudei erano
confusi con i cristiani, i battezzati nella grazia dovettero sopportare offese dai circoncisi
nella legge, e la Chiesa di Cristo, a Gerusalemme, non accettava vescovi dai non
circoncisi”. La divisione all’interno della Chiesa apostolica tra gli ebrei osservanti e i “figli
della grazia”, con il particolare della nomina dei vescovi aggiunto ad arte alla narrazione
degli Atti degli Apostoli, non può non far venire in mente la situazione dell’episcopato
russo nominato dai greci, da cui per la prima volta si distingue un vescovo “libero”
45
appartenente al popolo russo stesso. Il metropolita sviluppa poi il tema della superiorità
dei cristiani rispetto ai “giudei”, dando al testo un tono pesantemente antisemita. Non vi è
dubbio che questo sia l’argomento effettivo dell’autore, né vi sono espliciti riferimenti a
una possibile interpretazione in senso anti-greco, o più in generale nel senso di una
pretesa di superiorità dei russi nei confronti degli altri cristiani, ma si fornisce comunque
la strumentazione teologica iniziale di questa evoluzione “slavofila” della teologia della
storia.

Del resto, anche questa sfumatura del Discorso non è completamente originale, ma
piuttosto mutuata da una intuizione storico-teologica simile, elaborata un secolo e mezzo
prima nel contesto della prima evangelizzazione degli slavi. Dopo la missione di Cirillo e
Metodio e la successiva spartizione della giurisdizione ecclesiastica tra slavi occidentali e
orientali, nei Balcani emerge la voglia di protagonismo del popolo bulgaro, che riuscendo
a ottenere una serie di successi politico-militari nel confronto con lo stesso impero
bizantino, si pone come alfiere dell’orgoglio slavo cristiano. Come nota la Kossova, “Il
mecenatismo colto di Simeone I, sovrano accorto e politicamente lungimirante, assicurò le
condizioni che avrebbero poi sublimato l’eccellenza del retaggio di Cirillo e Metodio”23.
Determinato a giovarsi del provvidenziale dono della salvezza offertogli dalle circostanze,
lo zar di Bulgaria, appassionato cultore egli stesso della civiltà bizantina, nonché fiero
difensore dell’indipendenza del suo stato, predispose, per la prosecuzione dell’attività dei
discepoli dei fratelli tessalonicesi scacciati dalla Moravia, delle condizioni ottimali. Le
litterae slave conobbero un prodigioso fiorire. Trionfatore, a breve, sulle milizie bizantine,
Simeone I proclamò l’indipendenza della Chiesa nazionale elevando l’arcivescovo di
Bulgaria al rango di patriarca. Le due scuole scrittorie da lui propiziate – la palatina in
quel di Preslav e l’altra a Ocrida – veri e propri centri di filologia sacra, in un irripetibile
fervore creativo, autoctono e di traduzioni dal greco, che vide peraltro il sovrano
tenacemente impegnato in prima persona, diedero vita al filone apologetico della
letteratura cirillo-metodiana. Con determinazione vennero rigettate le accuse di inferiorità
spirituale che bollavano i “ritardatari” della conversione. Clemente, vescovo di Ocrida e
fondatore della omonima scuola scrittoria, espresse nel mirabile encomio per Costantino-
Cirillo la ineccepibile giustificazione dottrinale all’autocefalia della Chiesa bulgara. La
negatività apparente dell’innegabile ritardo storico-cronologico della conversione divenne
il segno distintivo della benevolenza suprema con dovizia elargita dall’Alto. L’epoca di
Simeone I, il cosiddetto “Secolo d’oro della letteratura paleobulgara”, creò un patrimonio
librario di sorprendente ricchezza e varietà. Conclude Alda Kossova: “A distanza di circa
centocinquanta anni la sua translatio ad Russos sarà seguita dalla rapida assimilazione della
“conoscenza della verità” da parte degli slavi orientali. L’humus indispensabile perché in

23 KOSSOVA GIAMBELLUCA Alda, Alle origini della santità russa. Studi e testi, San Paolo, Alba 2007, p. 12.
46
terra di Rus’ si concretizzasse una ulteriore tessera dell’universale volontà salvifica di Dio
era pronto per assecondare la maturazione dei suoi primi frutti”24.

L’idea dell’autocefalia, cioè dell’indipendenza dalla Chiesa-madre costantinopolitana,


rimase in Bulgaria soltanto una breve suggestione, presto rientrata nella visione generale
della ecumene ortodossa, ma che verrà poi ripresa alla grande dai russi nel Medioevo, fino
a diventare poi la chiave di tutta l’ecclesiologia ortodossa moderna. Oggi l’Ortodossia è un
insieme di Chiese autocefale (circa quattordici, a seconda dei riconoscimenti reciproci),
guidate da patriarchi o arcivescovi “nazionali”, in cui il patriarca di Costantinopoli svolge
un ruolo poco più che evocativo e onorifico, salvo poi amministrare una vasta diaspora
mondiale del tutto slegata ormai dalle radici territoriali. In realtà l’Ortodossia originaria
non è affatto nazionale, ma, appunto, “ecumenica” e universale, “cattolica” in senso
letterale. Il patriarcato bizantino non si giustificava su elementi etnici, ma tradizionali e
storici, inserendosi al secondo posto della “pentarchia” dei patriarcati antichi con Roma,
Gerusalemme, Alessandria e Antiochia, cioè le sedi episcopali protagoniste
dell’evangelizzazione del mondo cristiano antico, dell’impero romano d’oriente e
occidente, oltre che del mondo siriaco ed egiziano, e di parte dell’impero persiano, fino a
alle propaggini indiane e asiatiche orientali. La pentarchia era come la mano di Dio dalle
cinque dita, per governare l’unica Chiesa universale che si radunava attorno ad ogni
celebrazione dell’Eucaristia, ovunque essa avvenisse canonicamente, cioè attorno a un
vescovo di cui venisse riconosciuta la successione apostolica. Non vi era un concetto
definito nei dettagli di “territorio” canonico, tantomeno di territorio ecclesiastico
nazionale, e quindi non esisteva alcuna “autonomia etnica” nella Chiesa antica e patristica,
tantomeno in quella propriamente bizantina. L’autocefalia fu raggiunta da Mosca tra
Quattrocento e Cinquecento in circostanze molto particolari, come vedremo, in un
momento in cui tutto il resto del mondo ortodosso era rimasto assoggettato al dominio
della Sublime Porta ottomana; e perfino all’interno dell’impero turco gli ortodossi non si
concepivano come una realtà etnica separata, ma come l’insieme ecumenico dei “romani”,
i “romei”. L’amministrazione ottomana riconosceva infatti al patriarca di Costantinopoli la
giurisdizione civile e religiosa su tutti gli ortodossi, riuniti nel millet a rum, il
“dipartimento dei romani”. Lo zar russo era in effetti l’unico sovrano ortodosso
indipendente, e l’autocefalia moscovita si resse per secoli su questo quadro politico
europeo, più che su motivazioni teologiche. Eppure la coscienza dell’autonomia sussisteva
nell’animo russo fin dalle origini, fin dall’anticipazione profetica della nomina di Ilarion e
dalle sue riflessioni sul battesimo della Rus’, e rimase sempre latente, emergendo solo in
circostanze particolari. Così è fino ad oggi; le tensioni tra Mosca e Costantinopoli
riemergono regolarmente, pur non giungendo mai a una vera e propria rottura.

24 Ibid., p. 13.
47
L’ortodossia “nazionale” del resto è un’idea moderna, derivata dal concetto
illuministico europeo di stato e di nazione, impostasi tra Ottocento e Novecento in
sostituzione delle grandi concezioni imperiali medievali. È un’idea talmente estranea alla
tradizione ortodossa da essere stata a un certo punto condannata addirittura come eresia
di “filetismo”, cioè di sciovinismo nazionalista. Le idee della Rivoluzione francese, i
movimenti nazionalisti e la memoria sempre viva degli imperi cristiani passati avevano
portato nell’800 alla graduale disintegrazione della dominazione turca nei Balcani. La
nascita di stati nazionali fu seguita dalla fondazione di chiese ortodosse indipendenti,
autocefale. Così il collasso del dominio ottomano fu accompagnato dalla rapida
diminuzione del potere effettivo esercitato dal patriarca di Costantinopoli.
Paradossalmente i greci, per i quali - più che per ogni altro - il patriarcato rappresentava
una speranza per il futuro, furono i primi a organizzare una chiesa indipendente nel loro
nuovo stato. Nel 1821 la Rivoluzione greca contro i turchi fu proclamata ufficialmente dal
metropolita della vecchia Patrasso, Germanos. Il patriarcato, anche per dimostrare la
propria lealtà alla Sublime Porta, proclamò condanne e perfino anatemi dei rivoluzionari,
dichiarandoli appunto eretici. Queste dichiarazioni, tuttavia, non riuscirono a convincere
nessuno, meno di tutti il governo turco, che il giorno di Pasqua del 1821 fece impiccare il
patriarca ecumenico (di Costantinopoli) Gregorio V al portone principale della residenza
patriarcale come esempio pubblico. Numerosi altri membri del clero greco furono messi a
morte nelle province. Dopo questa tragedia, la lealtà ufficiale del patriarcato fu,
naturalmente, doppiamente sicura. Incapaci sia di comunicare con il patriarcato o di
riconoscere le sue scomuniche, i vescovi della Grecia liberata si radunarono a Návplion e
posero se stessi come sinodo di una chiesa autocefala (1833). Il regime ecclesiastico
adottato in Grecia era modellato su quello della Russia: un corpo statale collettivo, il Santo
Sinodo, a capo del quale venne posto l’arcivescovo di Atene, doveva governare la Chiesa
sotto stretto controllo governativo. Nel 1850 il patriarcato fu forzato a riconoscere quello
che era ormai un fatto compiuto, e accordò un decreto (tómos) di autocefalia alla nuova
Chiesa di Grecia. Nel corso dei moti irredentisti ottocenteschi, anche altre nazioni a
maggioranza ortodossa si staccarono seguendo l’esempio dei greci, e nacquero così il
patriarcato di Serbia nel 1879 e di Romania nel 1885; gli stessi turchi arrivarono a creare
una Chiesa nazionale bulgara, che fu istituita da un firman (decreto) di un sultano nel 1870.
La nuova chiesa doveva essere governata dal proprio esarca bulgaro, che risiedeva nella
stessa Costantinopoli e governava tutti i bulgari che lo riconoscevano. La nuova situazione
non era chiaramente canonica, poiché sanzionava l'esistenza di due strutture ecclesiastiche
separate sullo stesso territorio. Il Patriarca Ecumenico Antimo VI radunò un sinodo a
Costantinopoli, che includeva anche i patriarchi greci di Alessandria e Gerusalemme
(1872). Il concilio condannò formalmente il “filetismo” - il principio nazionale o etnico
nell'organizzazione della chiesa - e scomunicava i bulgari, che certamente non erano gli
unici colpevoli di filetismo. Questo scisma durò fino al 1945, quando ebbe luogo una
riconciliazione con pieno riconoscimento dell’autocefalia bulgara entro i limiti dello stato
48
bulgaro, ma la questione del filetismo rimase in sospeso nell’ecclesiologia ortodossa. I
russi, in effetti, non avevano posto la questione in termini nazionali, in quanto l’impero
russo, come vedremo, nacque sulla base dell’antica ecclesiologia universale, adattata alla
Russia, che avrebbe dovuto assumere un ruolo ben più ampio dell’autonomia nazionale,
cioè la salvezza del mondo.

È questa la missione affidata al “popolo nuovo”, afferma infatti Ilarion nel suo
Discorso, quella di rifondare la storia della salvezza: “Ed era cosa degna che la grazia e la
verità risplendessero sugli uomini nuovi, infatti, come ha detto il Signore: Né si mette vino
nuovo in otri vecchi, — ossia la dottrina della grazia – in otri vecchi, che sono invecchiati
nel giudaismo, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa (Mt 9,17). Giacché i giudei
non avevano saputo conservare neppure la lettera della legge, ma più volte avevano
adorato gli idoli, come avrebbero potuto osservare l’insegnamento della grazia e della
verità? Per un nuovo insegnamento sono necessari otri nuovi, un nuovo popolo, così
entrambi si conserveranno. E così è stato: la fede apportatrice di grazia si è diffusa su tutta
la terra ed è giunta fino al nostro popolo russo. Le paludi della legge si sono prosciugate,
ma la fonte del Vangelo si è gonfiata d’acqua e ha ricoperto la terra, dilagando fino a noi.
Anche noi, dunque, con tutti i cristiani glorifichiamo la santa Trinità, mentre la Giudea
tace”. I russi dunque costituiscono il popolo della grazia “con tutti i cristiani”, con cui si
trovano in una condizione di assoluta parità e dignità condivisa, quasi sincronica, perché
l’unica fonte della misericordia divina non conosce scansioni temporali. Così la santità di
Vladimir può essere paragonata a quella degli stessi apostoli, come sottolinea la
significativa “lista” ecclesiologica del metropolita di Kiev che apre l’ultima parte del
Discorso, quella dedicata propriamente all’elogio del principe: “Roma eleva lodi a Pietro e
Paolo, per mezzo dei quali ha acquistato la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio; l’Asia, Efeso
e Patmos lodano san Giovanni il Teologo; l’India loda san Tommaso; l’Egitto san Marco;
ogni terra, città e popolo onora e glorifica i suoi maestri, che hanno insegnato la fede
ortodossa. Anche noi, dunque, per quanto ne siamo capaci, renderemo una lode, ancorché
piccola, al nostro maestro e precettore, che compì gesta grandi e magnifiche, il grande
principe della terra nostra Vladimir”. Nella sequenza, più che la roboante similitudine di
Vladimir con Pietro e Paolo, stupisce la mancata citazione di Costantinopoli e della sua
fondazione ad opera di S. Andrea. Se da un lato si può presumere che essa venga data per
scontata, dall’altro non si può non rimarcare che la lode intende mettere Vladimir proprio
sul livello degli apostoli, prima ancora dell’imperatore Costantino (a sua volta glorificato
dalla Chiesa Ortodossa come esapostolos, “uguale agli apostoli”) che viene menzionato più
avanti. Per quanto riguarda poi la leggenda della fondazione della capitale bizantina ad
opera dell’apostolo Andrea, estesa fino alla narrazione del viaggio dello stesso in Russia,
sulle colline di Kiev e perfino a Novgorod, Ilarion doveva certamente conoscerla (è
accennata nell’introduzione della Cronaca di Nestor), ma non la richiama, né si preoccupa
di applicarla alla laudatio del principe che chiude la sua omelia.
49
In realtà la leggenda già circolava nel mondo bizantino, ed era appunto certamente
conosciuta anche dai neofiti russi, ma la sua elaborazione era ancora incerta e parziale,
tanto da renderla poco utilizzabile per l’elogio del battezzatore di Kiev. Alle origini della
tradizione andreana bizantina sta la Vita di S. Andrea, scritta dal “monaco e presbitero
Epifanio”, fuggito da Costantinopoli attorno all’815 come tanti altri per evitare la
persecuzione iconoclasta25. Alla base del racconto sta il viaggio intrapreso da Epifanio con
il pretesto del rifiuto di comunicare con il patriarca iconoclasta, al cui scopo sarebbe
bastato allontanarsi di quaranta-cinquanta chilometri dalla capitale26. Invece il nostro
autore, insieme al monaco Jakov, visita Nicea, Nicomedia, Dafnusia, Eraclea Pontica,
Amastride, Daripia, Karusa, Sinope, Amis, Trebisonda, Khimar, Nikopsia, Vospor,
Feodosia e Kherson, percorrendo in questo modo tre coste del Mar Nero, meridionale,
orientale e settentrionale. Tale itinerario si dimostrò particolarmente opportuno per gli
inserimenti successivi, sia su base greca, sia nelle tradizioni georgiana (della Georgia
occidentale) e slava (Kiev, Novgorod ecc.). In questo forse sta il segreto della popolarità
della vita di Epifanio, che divenne il fondamento di tutta la tradizione successiva; ma la
vera diffusione della leggenda e il suo uso apologetico vanno piuttosto ascritti al periodo
medievale e alle nuove polemiche antiromane sorte dopo la IV Crociata del 1204, o
addirittura dopo la caduta di Costantinopoli del 1453. In Russia la leggenda della
fondazione andreana in effetti non gioca alcun ruolo nella definizione della fede
battesimale, e la vera popolarità russa di S. Andrea è piuttosto moderna, legata alla scelta
dello zar Pietro I, al ritorno dal lungo viaggio della sua Grande Delegazione in Europa
occidentale nel 1698, di istituire l’Ordine di S. Andrea come massima onorificenza
dell’impero russo, e proclamare l’apostolo “primo chiamato” come protettore della
neonata Marina militare russa.

Il Discorso di Ilarion non cancella comunque la memoria dell’eredità ortodossa greca,


ma la attribuisce piuttosto a una capacità intuitiva di Vladimir stesso nel cogliere la
superiorità della fede ortodossa: “egli comprese dunque la vanità dell'idolatria e ricercò
l'unico Dio, che ha creato tutte le cose visibili e invisibili. Ma soprattutto egli aveva sempre
udito narrare della terra greca e della sua fede ortodossa, amante del Cristo e incrollabile;
e di come in quel luogo venisse onorato e adorato un unico Dio nella Trinità; di come in
quel luogo si verificassero meraviglie, miracoli e segni; di come le chiese vi fossero affollate;
di come nei villaggi e nelle città ortodosse tutti fossero assidui nella preghiera, tutti stessero
alla presenza di Dio. Udito tutto ciò, egli si accese nell'animo e desiderò col cuore d'essere
cristiano e di convertire tutta la terra sua al cristianesimo”. Risuona nuovamente in questa
descrizione l’attrazione della liturgia “popolare” e partecipata, quella propria della

25 Vedi: DVORNIK F. The idea of apostolity in Byzantium and the legend of the apostle Andrew,

Сambridge/Massachussets 1958.
26 Vedi: AFINOGENOV D., Konstantinopol’skij patriarkhat i ikonoborčeskij krizis, Moskva 1998.

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cattedrale di S. Sofia, più che l’estetica e l’ascetica monastica; Vladimir comprende la forza
di una fede che coinvolge l’intera comunità. A questa intuizione si unisce l’intera
popolazione con entusiasmo e volontà concorde, sempre secondo Ilarion, anche per il
timore dell’autorità del principe: “ordinò a tutto il suo popolo di farsi battezzare nel nome
del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, affinché in tutte le città fosse glorificato
apertamente e ad alta voce il nome della santa Trinità, e tutti fossero cristiani, grandi e
piccoli, servi e liberi, giovani e vecchi, nobili e semplici, ricchi e miseri. E neppure un uomo si
oppose al suo pio volere. E se qualcuno non si fece battezzare per amore, lo fece per timore
verso colui che lo ordinava, poiché in lui la vera fede si univa all’autorità”. Anche nella
Rus’ cominciò dunque a essere celebrata la liturgia in tutto il suo splendore e con tutto il
trasporto emotivo, assorbendo anche le energie della religiosità pagana: “I templi pagani
vennero distrutti e vennero edificate le chiese; gli idoli vennero abbattuti e apparvero le
icone dei Santi; fuggirono i demoni e la croce purificò la città; i pastori delle pecore
spirituali di Cristo, vescovi, presbiteri e diaconi, incominciarono a offrire la vittima
incruenta; il clero tutto adornava e rivestiva di magnificenza le sante chiese. La tromba
degli apostoli e il tuono del Vangelo echeggiarono in tutte le città; l’incenso offerto a Dio
purificò l’aria. Sui monti furono posti i monasteri; apparvero i monaci; uomini e donne,
piccoli e grandi, tutti riempivano le sante chiese e glorificavano il Signore esclamando: uno
solo è il Santo, uno solo è il Signore, Gesù Cristo, nella gloria di Dio Padre”.
Il passaggio alla vera fede è quindi sottolineato come un’esperienza unica e personale
del principe, che si trasmette al popolo per osmosi, come un miracolo voluto da Dio
specificamente per questo luogo e questo tempo, superando la distanza storica dall’origine
apostolica. Il predicatore si appella in questo alla promessa pasquale fatta da Cristo agli
apostoli riuniti nel cenacolo: “Come dunque potremo esaltarti, padre nostro Vasilij, degno
di onore e di gloria, insigne per coraggio tra i signori della terra? Oppure, come dovremo
chiamarti? Amante del Cristo, amico della giustizia, sede della sapienza, fonte di
elemosina? Come hai acquistato la fede? Come ti sei acceso d'amore per Cristo? Come ha
allignato in te un'intelligenza superiore all'intelligenza dei sapienti della terra, per amare
ciò che è invisibile e tendere alle cose celesti? Come hai trovato Cristo? Come ti sei
abbandonato a Lui? Dì a noi tuoi servi, dì a noi, maestro nostro: donde è spirato sino a te il
profumo dello Spirito Santo? Chi ti ha concesso di bere il dolce calice della memoria della
vita futura? Chi ti ha concesso di gustare e vedere com’è buono il Signore? Tu non vedesti
il Cristo e non camminasti con Lui, come dunque sei divenuto suo discepolo? Altri,
avendolo veduto, non credettero, tu invece, non avendolo veduto, credesti. Veramente su
di te si è adempiuto ciò che il Signore Gesù disse a Tommaso sulla beatitudine: beati quelli
che pur non avendo visto crederanno Gv 20,29)”. La Russia ha “trovato” Cristo, non lo ha
semplicemente ricevuto da altri. Vladimir è quindi il “nuovo Costantino”, perché ha
saputo ripetere la sua stessa esperienza di conversione, che ha determinato tutta la storia
cristiana: “Imitatore del grande Costantino, pari a lui per intelletto, pari per l’amore verso
Cristo e per la venerazione verso i suoi ministri! Quello, insieme ai santi Padri del Concilio
51
di Nicea, stabilì la legge per gli uomini, e tu, radunandoti spesso con i nuovi padri, i nostri
nuovi vescovi, con grande umiltà chiedevi loro consiglio come fissare questa legge tra
uomini che da poco conoscevano il Signore. Quello sottomise a Dio il regno ellenico e
romano, e tu, beato, hai fatto lo stesso nella Rus’, infatti tra quelli, come tra noi, Cristo
ormai è chiamato Re. Quello, con la madre sua Elena, consolidò la fede quando riportò la
croce da Gerusalemme e ne diffuse i frammenti per tutto il mondo; tu hai consolidato la fede
con la nonna tua Olga riportando la croce dalla nuova Gerusalemme, la città di
Costantino, e innalzandola sulla terra tua”.

E ora la fede risplende sulla terra russa, che prospera come nuova Gerusalemme sotto
la guida del figlio Jaroslav (Georgij secondo il battesimo), in una speciale successione
apostolica della terra di Kiev: “Sorgi dalla tua tomba, degno sovrano, sorgi, scuoti via il
sonno! Non sei morto, ma dormi fino alla resurrezione di tutti. Sorgi! Tu non sei morto.
Non è da te morire, poiché hai creduto in Cristo, vita del mondo. Scuoti via il sonno, alza
gli occhi e guarda: il Signore, dopo averti reso degno di onore nei cieli, nel tuo figlio non ti
lasciato privo di memoria sulla terra. Sorgi, guarda tuo figlio Georgij, guarda alla carne
della tua carne, guarda al tuo prediletto, guarda a colui che il Signore ha tratto dai tuoi
fianchi, guarda a colui che adorna il trono della tua terra; gioisci e rallegrati! Guarda anche
alla nuora tua fedele, Irina; guarda anche ai nipoti e pronipoti tuoi, come vivono, come il
Signore li preserva; come conservano la vera fede da te consegnata; come frequentano le
sante chiese, come glorificano Cristo, come adorano il suo nome. Guarda anche alla città,
che splende di grandezza, guarda alle chiese che prosperano, guarda al cristianesimo che
germoglia; guarda a questa città, resa santa e risplendente dalle icone dei santi, profumata
d'incenso, che risuona delle sante lodi e delle salmodie divine. E avendo visto tutto ciò,
rallegrati, gioisci e loda il Dio clemente, che ha edificato tutto questo”. D’ora in poi la
protezione di Vladimir, e della Madre di Dio a cui egli ha affidato la terra russa, saprà
preservare il popolo dal peccato e da ogni miseria, e moltiplicare il miracolo della santità;
il vescovo e monaco Ilarion consegna così ai posteri il suo quadro ideale della “Santa
Rus’”, terra speciale di un cristianesimo forte e inedito, come quello che verrà subito
sperimentato dai primi monaci delle Grotte di Kiev.

Le Grotte dei miracoli e dell’obbedienza.

Ultimo elemento del cristianesimo russo primitivo è l’elemento monastico, legato


soprattutto alla fondazione del monastero delle Grotte di Kiev, raccontata sia dalla
Cronaca sia dalla Vita di Feodosij Pečerskij. Feodosij appartiene sempre alla metà dell’XI
secolo, morì poco più tardi di Ilarion, nel 1074, e fu il grande fondatore del monachesimo
russo dopo lo stesso metropolita, a cui la leggenda attribuisce la prima intuizione della
vita ascetica nelle Grotte, e insieme ad Antonij Pečerskij, figura meno evidente (di lui si
52
narra solo nella Cronaca), contemporaneo di Feodosij che muore nel 1075. Il loro rapporto
riproduce i canoni originari della storia monastica: Antonio è l’anacoreta, a cui succederà
Feodosij il cenobita. La figura di Antonij è però importante per la descrizione della sua
ricerca della verità della fede nel monachesimo bizantino, un pellegrinaggio che si
conclude al Monte Athos, da dove viene rimandato in Russia. Questo conferisce al
monachesimo russo la dignità del monachesimo athonita, insieme alla caratteristica dello
stranničestvo, la dimensione del monaco-pellegrino (strannik) che vive nella continua
ricerca e nella consapevolezza che non esista un luogo definitivo se non nei cieli,
dimensione che verrà più volte ripresa nei periodi di rinascita religiosa della storia russa
fino alla grande fortuna moderna dei Racconti di un pellegrino russo. Il monachesimo russo
si ritiene dunque benedetto dall’Athos, e tornerà spesso verso la Santa Montagna della
Calcidica come al suo principale punto di riferimento, anche se Feodosij applicherà alla
vita monastica di Kiev non la regola athonita “esicasta” e tutta dedicata alla preghiera e
alla liturgia, bensì la regola studita, particolarmente rigida e organizzata nel ritmo di
preghiera e lavoro, di tipo palestinese, che aveva dato allo stesso monachesimo bizantino
un’impronta molto più pesante e strutturata. Dalla lievità della bellezza celeste originaria
si giunse così alla densità, alla intensità dell’ascetismo bizantino che raggiunge nella sua
espressione russa un livello ancora più radicale27.

Anche nell’espressione monastica troviamo dunque un certo dualismo, che


approfondisce la sensazione di ambiguità prodotta dallo stesso racconto del battesimo e
confermata dal paragone tra l’eroismo epico di Vladimir e l’eroismo tragico dei suoi figli
Boris e Gleb. Antonij rappresenta, come abbiamo notato, la vita eremitica, mentre Feodosij
la vita comunitaria; e questo schema in sé ricalca le origini del monachesimo cristiano, cioè
la storia del monachesimo egiziano, con Antonio il Grande e Pacomio della Tebaide. Gli
sviluppi kievani ampliano di molto questa dicotomia classica, mettendo in evidenza
aspetti molto specifici. La regola studita scelta da Feodosij è quella del monastero di
Studion a Costantinopoli, baluardo della vittoria sull’iconoclasmo, che proponeva una
regola molto rigida fondata sull’assoluta obbedienza all’igumeno, e non tanto sulla varietà
delle forme di vita monastica. È una forma di ascesi molto irreggimentata, frutto
dell’influsso palestinese sul monachesimo bizantino proveniente dal monastero di San
Saba, il cui fondatore (Savva in lingua slava) sarà una figura di riferimento molto
importante del monachesimo russo. Tale influsso provocò una vera e propria riforma e
una particolare interpretazione del cristianesimo bizantino, che dalla sua magnificenza e
splendore dei secoli VI-VIII giungerà all’austerità militante dei secoli IX-X, passando dalla
Chiesa patriarcale e popolare alla Chiesa monastica. La severità ascetica rimarrà una delle
caratteristiche del cristianesimo russo, centrato sulla rinuncia al mondo, l’obbedienza

27 Per una storia ragionata del monachesimo russo vedi l’ottima sintesi di Piovano Adalberto, Santità e
monachesimo in Russia, ed. La Casa di Matriona, Milano 1990.
53
assoluta e minuziosa al padre spirituale, il digiuno, così come spesso viene imposto ai
fedeli ancora oggi in Russia. Questo fa sì che la fede russa rimanga spesso confinata nei
limiti della ritualità e dell’ascesi, come nota lo storico italiano Giovanni Codevilla: “Questo
stretto vincolo che lega la religiosità popolare russa alla mistica bellezza e al fasto della
ritualità bizantino-slava non è sostenuto da una elaborazione dogmatica, bensì dall’ideale
monastico che pervade la società della Rus’ nei primi tempi dell’introduzione al
cristianesimo … Anche i monaci non sono attratti dall’elaborazione dottrinale, ma
perseguono un ideale ascetico quasi inaccessibile, il quale suscita profonda ammirazione
nel popolo che a essi si rivolge per chiedere conforto e assistenza spirituale. I monaci,
pertanto, prendono su di sé il compito dell’educazione morale della popolazione,
educazione che non si basa tanto sullo studio quanto sull’esempio di vita”28.

Feodosij Pečerskij fu in realtà un uomo di grande prudenza e moderazione, come


attesta la Vita fin dalle prime notizie: “Allora il beato padre nostro Feodosij fu consacrato
sacerdote per ordine del venerabile Antonij e tutti i giorni, con ogni umiltà, diceva la santa
messa, essendo mite di indole, pacato di pensiero e semplice d’intelletto e ricolmo di tutta
la saggezza spirituale, animato di amore casto verso tutti i fratelli”. Oltre alla disciplina
spirituale, egli era il classico esempio della realizzazione integrale della regola dell’ora et
labora, “per umiltà, saggezza e ubbidienza tutti superava; e anche per fatica, sofferenza e
impegni fisici: era infatti col corpo docile e forte e con ogni diligenza serviva, portando
acqua e legna sulle spalle dal bosco, vegliando tutte le notti in orazioni divine”. Fu lui a
organizzare e costruire il Monastero delle Grotte, che ancora viene ammirato come luogo
di massima concentrazione della santità originaria del cristianesimo russo, vicino alle rive
del Dnepr e non lontano dalla cattedrale di S. Sofia di Kiev. Viene ricordato dalla Vita per
la dolcezza amorevole della sua guida, pur nella fermezza dell’osservanza della regola
studita. Caratteristico l’episodio in cui il santo fece rimanere perfino il principe Izjaslav in
attesa davanti al portone chiuso del monastero, per non turbare il riposo quotidiano dei
monaci ed evitare inutili frenesie nel ritmo della vita quotidiana. Sotto la sua autorità
illuminata il monachesimo fiorì, moltiplicando i conventi senza peraltro venir meno allo
spirito di vera ascesi e vera povertà, come osserva la narrazione: “Il venerabile padre
nostro Feodosij, che in verità era colmo di Spirito Santo, moltiplicò i talenti di Dio: quel
luogo, che prima era deserto, popolò di molti monaci e creò un glorioso monastero e in
esso non voleva fare nessuna imposizione, ma con la fede e con la speranza era rivolto a
Dio. Andava spesso nelle celle dei suoi discepoli, ché poco confidava nell’osservanza del
voto di povertà e quello che trovava in loro possesso, fosse qualcosa di commestibile,
oppure un abito in più dell'abito consentito dal regolamento, o un qualsiasi oggetto
personale, prendeva tutto e lo gettava nel fuoco, reputandolo proprietà del demonio e

28CODEVILLA Giovanni, Lo zar e il patriarca. I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri, ed.
La Casa di Matriona, Milano 2008, , p. 20.
54
cedimento al peccato. E così parlava loro: “Non è degno di noi, o fratelli, che siamo monaci
e che abbiamo rinunciato alle cose terrene, accumulare ugualmente nelle nostre celle.
Come potremo rivolgere a Dio una giusta preghiera, se teniamo nella nostra cella dei
tesori personali?”. In proposito ascoltava il Signore che disse: “Poiché dove è il vostro
tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. A sua imitazione rimase nella storia della santità
russa questo tratto di grande capacità di accoglienza e di misericordia, sereno e gioioso,
come massimamente si realizzerà nel più famoso santo russo moderno, lo starets
ottocentesco Serafino di Sarov. Eppure, accanto a questo esempio luminoso, rileviamo uno
sviluppo quasi contrapposto ad esso, che pure tanta influenza avrà nella storia della
spiritualità monastica russa.

Infatti la Vita di Feodosij si trova in chiaro dualismo con un altro documento un po’
più tardivo, il Paterik dei monaci delle grotte di Kiev, una raccolta simile agli antichi
Apophtegmata Patrum che riporta storie relative a monaci kievani del XII – inizio XIII
secolo, quindi molto vicini alle origini, che sembrano essere di tutt’altra scuola: invece di
presentare monaci che crescono ordinatamente nell’obbedienza della regola, troviamo
monaci eremiti che vivono esperienze straordinarie, imprevedibili, taumaturgiche e molto
poco strutturate, tra reclusi, pittori e anacoreti in perenne lotta con il maligno. Famoso
l’esempio di S. Isacco il recluso, ingannato dal diavolo che lo aveva lasciato mezzo morto,
reinserito nella comunità per una lenta riabilitazione e poi di nuovo in guerra col diavolo
con le armi della santa follia dello jurodivyj, capace di spegnere le fiamme con i piedi nudi,
di resistere a folle di demoni venuti con zappe e vanghe per sotterrarlo e senza spaventarsi
quando “gli apparivano sotto forma di orsi, leoni e altri animali selvaggi, o gli si
avvicinavano sotto forma di serpenti, rane, topi e altri rettili, senza mai potergli fare
niente”. Isacco fu da allora venerato come protettore del popolo contro gli inganni del
diavolo. Il santo iconografo Alipio invece, mentre componeva un mosaico per l’altare, vide
che “dalla bocca della Purissima Madre di Dio volò una colomba bianca che si diresse
verso l’immagine del Salvatore e vi si nascose”, e in seguito le sue icone divennero
continua occasione di eventi miracolosi, guarigioni, interventi angelici e simili. Anche la
taumaturgia iconica è rimasta molto tradizionale nella spiritualità russa, che venera l’icona
come un essere divino vivente, e facilmente si attende da esso qualche prodigio. Non è
difficile vedere in questi esempi il segno di una religiosità popolare ancora molto
spontanea e paganeggiante, che rimarrà sempre molto attuale nella spiritualità russa,
soprattutto nella figura appunto dello jurodivyj, il santo folle che spesso assume i caratteri
dello starets taumaturgo e veggente, e assorbirà anche diverse particolarità tipiche degli
sciamani asiatici che la Russia conoscerà nel periodo della sua espansione in Oriente.

Dalle origini cristiane della Rus’ si sviluppa quindi un doppio binario della spiritualità
monastica, uno più istituzionale e uno più carismatico, che si ritroverà moltissimo nella
grande rinascita monastica successiva ai secoli bui del giogo tartaro: l’episodio più famoso
55
è quello relativo alla contrapposizione tra S. Nilo di Sora (Nil Sorskij, 1433-1508), fondatore
dei non-possidenti (nestjažateli) e S. Giuseppe di Volokolamsk (Iosif Volotskij, 1439-1515), i
cui seguaci furono chiamati iosifljane. Nilo fu un luminoso esponente dell’esicasmo russo,
il monachesimo carismatico di tipo athonita, privo di conventi e proprietà, simile al
francescanesimo, mentre Giuseppe era fautore di un monachesimo “possidente”
istituzionalizzato che addirittura dà forma allo stato e alla politica. I suoi insegnamenti
vennero applicati da Ivan IV il Terribile, che diede all’esercito una forma monastica, quella
degli opričniki, i “pretoriani”. La opričnina era infatti quella forma di organizzazione statale,
voluta da Ivan IV, che imitava lo stile monastico, imponendo di fatto al popolo un
durissimo regime dittatoriale e poliziesco. Nel XV secolo i monasteri non solo
possedevano di fatto i due terzi delle terre russe, ma amministravano e punivano con
severità i servi della gleba. Insieme a grandi esperienze di ascesi (il podvig in russo) e vette
di vita contemplativa, abbiamo quindi un’eredità di cristianesimo totalizzante e piegato
alle esigenze del controllo statale, tanto che la opričnina diventerà il paradigma di uno
strumento usato molto di frequente nei sistemi di governo della Russia, quello della
polizia politica, quella che sotto gli zar era la Okhrana e in tempo sovietico (con una
religiosità “negativa” e ateista, ma non meno ascetica) divenne la Čeka, poi GPU, NKVD,
KGB, oggi FSB, secondo le rispettive sigle di definizione. Questo strumento di
oppressione, basato sulla forza e sull’ideologia, fu perfezionato dall’aggiunta della
crudeltà asiatica, sperimentata dai russi sotto il dominio dei mongoli.

56
Capitolo 3. Dal giogo al trono: la fede che salva il mondo.

La lunga notte orientale dell’anima asiatica.

Dopo duecentocinquanta anni di cristianesimo “neofita”, vissuto con intensa creatività


e grande capacità di esplorazione di forme di vita comunitaria e individuale, la Rus’ di
Kiev si spegne, e viene spazzata via dalla storia universale a causa dell’invasione dei
tartari29 venuti dalla Mongolia, rimanendo una specie di leggenda, di paese onirico
sprofondato nelle acque scure del lago dei ricordi primordiali. E in effetti una simile
leggenda verrà composta qualche secolo più tardi, nel contesto di un altro grave episodio
di frattura della storia russa, quello del raskol’ o scisma: la leggenda della città invisibile di
Kitež. Nella Cronaca di Kitež del XVI secolo si narra delle vicende del principe Georgij di
Vladimir, santo martire strastoterpets della battaglia contro il khan Batu, che sarebbe stato
ucciso dai mongoli proprio a Kitež (che sarebbe dovuta essere quindi una città tra Rjazan’
e Vladimir, dove i mongoli irruppero nel 1239, ma di cui non vi è alcuna evidenza storica).
Dopo la battaglia, il corpo del principe viene portato via per essere poi sepolto nella
cattedrale dell’Assunzione a Vladimir, mentre la città scompare nel nulla, e secondo la
Cronaca “riapparirà alla seconda venuta di Cristo, dopo la sconfitta dell’Anticristo”. La
sensibilità apocalittica dei russi, già stimolata dalla conversione avvenuta alla fine del
primo millennio cristiano, ricevette da qui un impulso formidabile, che rimarrà sempre, e
rimane ancora oggi, una delle principali categorie che definiscono la religiosità russa,
sempre in attesa della “fine del mondo”, sia essa una rivoluzione o una guerra
sterminatrice, a imitazione dell’antica Rus’, per cui il mondo finì nel 1240.

I tartari infatti invadono la Russia all’inizio del Duecento e rimangono fino al


Quattrocento inoltrato, per un periodo quindi cronologicamente parallelo al tempo della
Rus’ di Kiev. Nel 1238 il khan Batu, nipote di Gengis Khan, invade tutte le terre russe, e
nel 1240 rade al suolo la stessa Kiev. I tartari erano già entrati con lo stesso Gengis Khan
nella Russia meridionale intorno al 1220, e si erano organizzati per invadere l’intera
Europa, cosa che sarebbe anche potuta avvenire se non fosse sopravvenuta la morte del
Gran Khan nel 1227, dopo aver dato vita, seppure per breve tempo, all’impero più esteso
dell’intera storia umana. Gengis Khan era stato l’unico grande capo capace di unificare le
tribù mongole e di portarle in occidente, conquistando Cina, Asia Centrale, Caucaso e
Anatolia. L’aspetto più straordinario della personalità di Gengis Khan fu il genio in
campo militare, dalla formidabile tattica: le armate mongole, forti di arcieri a cavallo,
attaccavano nel più completo silenzio, guidate solo da bandiere di diverso colore,

29La lettura corretta del termine sarebbe “tatari”, che venne però modificata dalla letteratura romantica
russa dell’Ottocento in “tartari” per indicare il tartaros, il demonio asiatico, e in questa forma si trova più
comunemente nella letteratura di traduzione.
57
compiendo manovre complesse in assoluta simmetria e coordinazione, il che incuteva una
soprannaturale paura nel nemico. Alla sua morte le tribù dividono il territorio conquistato
in varie zone; il nipote Batu le riunificherà qualche anno dopo per andare alla conquista
dell’Europa centrale passando da Russia, Polonia e Ungheria.
La Russia rimase annichilita dalla violenza della distruzione mongola; rialzerà la testa
per la prima volta solo un secolo e mezzo dopo, nel 1380, con la vittoria del principe
Dmitrij Donskoj nella battaglia del Campo delle Beccacce (Kulikovo), ma solo intorno al
1470-80 si raggiungerà una certa indipendenza dal giogo tartaro. Kulikovo fu solo un
primo momento in cui si riuscì a dimostrare che i tartari non erano invincibili.
L’occupazione durò quindi nel suo complesso oltre duecentocinquanta anni, e solo alla
metà del Cinquecento la Russia potrà sottomettere definitivamente i khanati rimasti. È
vero che questa occupazione non fu particolarmente oppressiva, dopo l’invasione iniziale,
in cui tartari distrussero le antiche città russe, compresa Kiev, che scompare di fatto dalla
storia russa. La prima capitale verrà poi ricostruita e avrà sempre un ruolo evocativo, ma
non più un ruolo centrale e attivo nella storia russa, mai più. Diventerà la capitale della
periferia, la kraina: u-kraina significa infatti “al margine”, in periferia. In effetti è difficile
dire quando nacque storicamente l’Ucraina, come nazione indipendente, o anche solo
come regione: gli storici ucraini propongono varie teorie, ma l’Ucraina in realtà non ha
una data di nascita. Dovremmo dire che l’Ucraina nasce nel 1240, quando viene posta fine
alla Rus’ di Kiev, che smette di essere capitale (non lo era già prima, sovrastata da
Novgorod, Vladimir-Suzdal’ e altri, ma era pur sempre il principato di Kiev). Qui finisce la
prima fase della storia russa, la fase kievana. Kiev da questo momento sarà la sede della
memoria del primo periodo, e la capitale, o la principale città di una zona periferica che
pian piano diventerà una nazione indipendente, appunto l’Ucraina, che però è
strettamente intrecciata con la storia della nazione russa, così come, per altre vicende, lo
sarà la Bielorussia. È una questione storica molto complessa e delicata, che ancora oggi
suscita passioni contrapposte, ma in ogni caso, dal punto di vista russo, Kiev non ha più
un ruolo attivo a partire dal 1240.
In questa lunga fase quindi non esiste più niente dell’antico stato, i principi russi
(quelli che rimangono) sono sottomessi ai khan, i vari khanati. La sede iniziale dei
tartari sul Volga era la città di Saraj; in seguito i vari khanati si coordineranno
nell’amministrazione detta “dell’Orda d’Oro”, da cui nasceranno i principali khanati di
Kazan’, Astrakhan e Crimea. I primi due verranno conquistati nel Cinquecento dai russi,
la Crimea fino al Settecento rimarrà indipendente. I principi dovevano andare dai khan
non solo a dare atto di sottomissione, ma a chiedere propriamente di essere nominati, cioè
a ricevere il sigillo, lo jarlyk (parola rimasta in russo col significato di simbolo, marchio). A
volte non lo ricevevano nemmeno, andavano dal khan e venivano uccisi, altre volte
venivano mandati a combattere per le armate mongole in qualunque punto dell’impero,
perfino in Cina. Abbiamo notizie di principi che combattono per i mongoli ai confini del
mar della Cina. L’unica città che gode di una certa indipendenza è Novgorod, che esprime
58
infatti l’unica figura di cultura religiosa e di santità del periodo dei tartari, cioè S.
Aleksandr Nevskij.

Aleksandr fu gran principe di Novgorod dal 1219 al 1263, da prima a dopo l’invasione.
La sua figura è sintomatica di questo periodo; da un lato è il difensore della fede
ortodossa, dall’altro è colui che salva il principato sottomettendosi ai tartari. Divenne
santo anzitutto grazie a due vittorie militari, che difesero l’Ortodossia russa dagli invasori
occidentali (e quindi cattolici): la prima nello stesso 1240, l’anno dell’invasione tartara,
contro gli svedesi e la seconda nel 1242 contro i Cavalieri Teutonici, una variante sassone
dei Templari, presso il lago Peipus. Questa ultima vittoria è stata celebrata in molti modi
dalla cultura russa, fino al film di Ejzenštein Massacro sui ghiacci: le armate di Aleksandr
erano di gran lunga inferiori ai Cavalieri Teutonici, ma il principe li attirò in battaglia sul
lago ghiacciato con le loro pesanti armature, sapendo che il ghiaccio non avrebbe retto il
peso. Il suo soprannome Nevskij risaliva alla prima vittoria, ottenuta combattendo gli
svedesi sulla foce della Neva, dove quasi cinquecento anni dopo sarebbe sorta la città di
San Pietroburgo. Per difendersi dai mongoli – che furono gli unici guerrieri capaci di
vincere in Russia d’inverno, sfruttando proprio i fiumi e i laghi ghiacciati che
attraversavano con i cavalli – Aleksandr si rese conto che doveva accettare il
compromesso. Dopo avere difeso l’ultimo baluardo della Rus’ di Kiev dagli invasori
occidentali “eretici”, si sottomise per primo volontariamente ai tartari, salvando il
principato fino alla fine della sua vita e per questo infine verrà canonizzato, questo sarà il
motivo principale: la difesa tramite il compromesso, dopo che aveva saputo difendere
anche con la vittoria. Aleksandr Nevskij fu poi il nesso tra le antiche dinastie dei principi
di Kiev e le nuove generazioni che faranno rinascere la Russia; il nipote di Aleksandr fu
Jurij Dolgorukij, il vero fondatore di Mosca, nominata per la prima volta nel 1147 come
stazione di posta dei principi di Suzdal’ e Rostov. Da Novgorod, passando da Vladimir, si
arriverà infine a Mosca già durante il periodo tartaro; anche la giurisdizione ecclesiastica
segue il percorso dei principi, e nel 1299 la sede del metropolita di Kiev viene trasferita a
Vladimir, per poi stabilirsi a Mosca agli inizi del XIV secolo.

Questi gli elementi storici relativi all’invasione mongola, e a parte la figura solitaria di
Aleksandr Nevskij, l’elemento religioso quasi sembra scomparire, o meglio congelarsi, nel
senso che i tartari non impediscono ai russi di vivere la propria fede, ma li privano della
maggior parte dei mezzi, avendo distrutto le chiese, i monasteri e quasi tutta la civiltà
cristiana di Kiev. La Rus’ comunque mantiene in questo periodo la tradizione ortodossa
originaria in una forma più o meno incorrotta, ma molto ridotta, cosa che si ripeterà in
altri periodi della storia russa, periodi di congelamento culturale e religioso. Quello più
vicino a noi, e più evidente, è il periodo sovietico, oltre settanta anni nel XX secolo, che
valgono anche più di duecentocinquanta nel Medioevo. Sotto i sovietici ci fu una
durissima persecuzione della Chiesa, che però sopravvisse sotto la cappa dell’oppressione,
59
bloccandosi laddove si era fermata al momento della rivoluzione. Dopo il Duemila la vita
della Chiesa Ortodossa Russa si è effettivamente rimessa in moto, ma negli anni
immediatamente dopo la fine del comunismo l’unica iniziativa cultural-religiosa è stata la
riedizione sistematica dei libri di prima della rivoluzione. La diaspora russa del Novecento
in realtà non ha avuto alcun influsso sulla vita interna della Russia, è da considerarsi un
fenomeno della vita religiosa dell’occidente. Un esempio sintomatico è quello delle
strutture del patriarcato di Mosca nel Regno Unito, a capo delle quali per tanti anni è
rimasto il vescovo Antonij di Surož, noto con il nome inglese di Anthony Bloom, maestro
di vita spirituale molto apprezzato in tutto il mondo, e praticamente sconosciuto in Russia
durante il comunismo. Le sue opere hanno cominciato a diffondersi in Russia solo negli
anni duemila, dopo la sua morte, mentre in Inghilterra è stato inviato al suo posto un
vescovo con lo scopo di distruggere tutto quello che Antonij aveva costruito, cioè una
efficace variante britannica dell’ortodossia russa. Così in tutto il mondo, l’esperienza dei
russi esiliati in occidente durante il secolo XX è stata quasi completamente cancellata, e i
russi odierni anche fuori dal paese vivono secondo i canoni religiosi di inizio Novecento.
Un’altra analogia con il periodo mongolo, e quello sovietico, è costituito dalla
sconvolgente riforma dello stato e della Chiesa operata da Pietro il Grande nel Settecento,
che abolì la struttura patriarcale e separata della Chiesa Ortodossa e stabilì una forma di
amministrazione ecclesiastica modellata su quella degli stati protestanti, in cui la religione
dipendeva dal singolo regnante. Allo stesso tempo lo zar impose una completa revisione
degli stili di vita, degli usi e dei costumi russi, trasformando il paese a imitazione dei
grandi regni europei. Anche in quel caso la tradizione religiosa russa di fatto rimase
congelata per tutto il secolo, sbloccandosi di fatto solo nell’Ottocento. Questo movimento
di interruzione e ripresa, di stagnazione e disgelo, è molto in sintonia con i ritmi stessi
della natura nella Russia, che conosce lunghe pause invernali e brevi disgeli; su dodici
mesi ve ne sono otto di freddo, due di disgelo e due di caldo. In qualche modo la storia
russa assomiglia al ciclo della natura, in cui però la Russia stessa non scompare; si congela,
ma non scompare, riemerge continuamente dal disgelo, riprendendo il discorso da dove si
era interrotto. Questo fenomeno è anch’esso simbolizzato dalla già ricordata leggenda
russa dell’Uccello di fuoco che rinasce dalle sue penne dorate sparse sul terreno ghiacciato,
che infine rivivono con il nuovo sole.

Dal punto di vista religioso, i tartari arrivarono in Russia senza una particolare fede da
propagandare, con una religione naturale asiatica, neanche buddista, ma quando poi si
trasformarono in Orda d’Oro con i grandi khanati, a poco a poco divennero musulmani,
subendo l’influsso delle popolazioni turche da loro stessi sottomesse in Asia Centrale e nel
Caucaso, poi riunite sotto l’impero ottomano. Rimase in effetti una curiosa enclave
buddista, sopravvissuta perfino durante il periodo sovietico, che ancora oggi sussiste
come regione federale autonoma a maggioranza buddista all’interno della Russia europea,
la Kalmykia (o Calmucchia, come veniva chiamata in italiano), costituita da una
60
popolazione di origine ancora più mongola degli stessi tartari. Vi sono mongoli buddisti
nella parte asiatica della Russia, ma sostanzialmente i tartari anche oggi sono musulmani.
Si tratta però di una variante dell’Islam piuttosto moderata, che non si diffuse come Islam
missionario e di conquista: quando i tartari invasero la Russia non erano musulmani, e
non avevano finalità di conversione. Lo diventeranno quando si trasformeranno piuttosto
in popolazioni stanziali e nella fase discendente del loro dominio, venendo sempre più
soffocati dai russi stessi. Anche oggi la Russia si vanta di poter mostrare un modello
pacifico di convivenza con l’Islam, nonostante le sacche di fanatismo e terrorismo di
alcune zone del Caucaso. La principale città tartara di Russia è Kazan’, capitale della
repubblica autonoma di Tataria, dove il presidente della repubblica ha fatto costruire una
grande moschea nel Cremlino di Kazan, ma ha ricostruito anche tutte le chiese cristiane,
perfino quella cattolica, per offrire un esempio dell’armonia delle fedi.

A parte il fattore religioso, non esiste consenso tra gli storici sulla valutazione da dare
all’influsso prodotto dai tartari sullo sviluppo della Russia. Esiste anzi una vera
polarizzazione di opinioni: per alcuni i tartari non avrebbero lasciato nessun segno, per
altri la vera anima russa è in realtà quella tartara. È indubbio che i tartari abbiano segnato
profondamente l’organizzazione statale russa, soprattutto nello sviluppo dell’economia,
tanto è vero che i termini relativi alle attività finanziarie sono espressi in parole di origine
tartara: i soldi sono i dengi, mentre la dogana è la tamožnja. Nonostante abbiano dato un
impulso decisivo allo sviluppo del mercato e dell’amministrazione, alcuni storici
ritengono che si trattasse di effetti piuttosto relativi, in quanto i sistemi sociali dei tartari si
disgregavano presto, e infatti dopo la grande campagna di conquista sono presto
scomparsi nel nulla. Tornati in Mongolia, dei mongoli non abbiamo più nessuna evidenza
di protagonismo nella storia. Senza voler entrare in questa diatriba, dobbiamo peraltro
ammettere che culturalmente il segno lasciato dai tartari è impalpabile, quasi una
sfumatura di sottofondo, che non si riesce a identificare positivamente. “Dall’Asia –
affermava Dmitrij Likhačev, il principale storico contemporaneo della cultura russa –
abbiamo ricevuto straordinariamente poco”. Nella lingua russa vi sono molte parole di
origine tartara, soprattutto nel gergo volgare e popolare. Nell’Ottocento Napoleone arrivò
in Russia e rimase scioccato (prima della sconfitta e della disastrosa ritirata), non riusciva a
capire se si trovava in oriente o in occidente, e pronunciò una frase che divenne famosa in
tutta Europa: “gratti il russo, e viene fuori il tartaro”.
Al di là delle discussioni storiografiche, va ricordato che a un certo punto, verso la
metà dell’Ottocento fino all’inizio del Novecento, da un rifiuto della radice tartara si è
passati in Russia a una certa attrazione, fino addirittura a un movimento che sosteneva che
la vera natura dei russi è quella asiatica, il movimento degli “eurasisti”. Il fascino
dell’oriente si diffuse nella cultura ottocentesca russa con un percorso che andava dalla
riscoperta della cultura popolare russa, delle sue tradizioni orali e pagane, alla riscoperta
dello stesso cristianesimo russo, fino al legame con l’Asia. Una parte del sangue russo di
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fatto è sangue asiatico, e all’inizio del Novecento i poeti simbolisti trovarono espressioni
sorprendenti per sottolinearlo, come è ben rappresentato nella già citata poesia di
Aleksandr Blok Gli Sciti, scritta nel 1917, al divampare della rivoluzione bolscevica. Qui la
riscoperta risale addirittura oltre i tartari: in realtà i russi non deriverebbero dai variaghi
scandinavi, ma dagli sciti asiatici. Riportiamo di nuovo più in esteso le parole di Blok, che
sintetizzano in modo assai efficace questi sentimenti:

“Voi siete milioni. Noi nugoli e nugoli e nugoli.


Provatevi a combattere con noi!
Si, gli Sciti noi siamo! Noi siamo gli Asiatici
Dagli occhi guerci e cupidi!
Per voi i secoli, per noi una sola ora.
Noi, come servi obbedienti,
facemmo da scudo tra due razze ostili-
i Mongoli e l’Europa!
Per secoli e secoli la vostra fucina ha foggiato,
coprendo il rombo delle valanghe,
e una fiaba selvaggia fu per voi il cataclisma
di Lisbona, e quello di Messina!

Per cento e cento anni guardaste ad Oriente,


accumulando e fondendo i nostri gioielli,
e aspettavate con scherno il momento
di puntare le bocche dei cannoni!
E l‘ora è giunta. Batte le ali la sciagura,
e ogni giorno moltiplica le offese,
e verrà il giorno in cui dei vostri Paestum
forse non resteranno più vestigia!

Oh, vecchio mondo! Prima di soccombere,


finché ti struggi d’un dolce tormento,
fermati, sapientissimo come Edipo,
dinanzi alla Sfinge dell’antico enigma….
La Russia è la Sfinge. Esultando e affliggendosi,
e irrorandosi di sangue nero,
essa ti guarda, ti guarda, ti guarda
con esecrazione e con amore!
Di amar così come ama il nostro sangue
ormai tra voi nessuno è più capace!

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Avete obliato che esiste un amore,
che brucia e che distrugge!”

Il poeta scopre il tratto asiatico nello sguardo, come segno di uno spirito travolgente
come le tribù di Gengis Khan. L’accenno al terremoto di Messina del 1910, e a quello
storico di Lisbona nel 1755, sarebbero simboli dell’Asia che sta travolgendo l’Europa. È la
forza della rivoluzione, di cui lo scitismo è ispirazione, il mondo nuovo che travolge il
vecchio, la tremenda forza asiatica che finalmente ha ragione del vecchio mondo europeo.
Quindi la vicenda storica del giogo tartaro, in qualche modo, non è mai uscita dalla
coscienza dei russi; pur non avendo avuto un effetto culturale diretto, ha lasciato un segno
profondissimo. È vero che il russo morfologicamente è un europeo con un taglio degli
occhi un po’ asiatico, ma al di là di questo rimane una evocazione particolare dell’Asia
nella cultura russa dopo i tartari. L’elemento asiatico dell’anima russa recupera in parte
l’aspetto pagano; l’energia distruttrice e apocalittica dello scitismo riporta alla radice
precristiana della Russia, al suo aspetto carismatico, spontaneo, anche violento: uno dei
tratti che rimarranno nello spirito russo dall’invasione tartara è proprio la violenza della
distruzione, che si riprodurrà in forme di ferocia nelle dittature di Ivan il Terribile, Pietro il
Grande, Lenin e Stalin. La regione del Caucaso venne aggregata a questo concetto di
oriente nell’Ottocento, da Puškin (autore del romanzo Il prigioniero del Caucaso nel 1821) in
poi.

Volendo già trarre qualche conclusione interlocutoria, dobbiamo rilevare che anche
qui troviamo un fattore che sottolinea quanto l’anima russa e la sua religiosità emergano
dal contrasto, non abbiano mai un aspetto univoco. È Bisanzio, ma non è Bisanzio, è
istituzione, ma è anche carisma, è la grazia, ma anche il ripristino della legge, è
misericordia cristiana e violenza asiatica insieme. È il contrasto tra la sofferenza e la
bellezza, o la bellezza che nasce dalla sofferenza, o la sofferenza che genera una bellezza
più profonda. È un tema più letterario che teologico, ma abbiamo l’esempio storico del
battesimo, che è un’esperienza estetica profonda (prodotta dal fascino di Costantinopoli)
accanto al martirio di Boris e Gleb provocato dal tradimento e dalla crudeltà. Da che cosa
nasce principalmente il cristianesimo russo, dallo stupore della liturgia di Costantinopoli o
dalla volontarietà del martirio di Boris e Gleb? In realtà nasce dal contrasto tra i due, o
dalla sintesi tra i due fattori. Potremmo parlare di contrasto tra libertà e tradizione; il
martirio è scelta di libertà, la sofferenza volontaria è un’espressione di grande libertà, in
fondo questa forza asiatica, che riesce a sopportare la distruzione, è un esempio di grande
libertà, la rivoluzione stessa lo è. Ma è anche tradizione, intesa nel senso dell’obbedienza
rigorosa di Feodosij Pečerskij con il suo regime monastico molto dettagliato, ed è frequente
vedere nella religiosità russa un insieme di assoluta creatività e di rigidissima
sottomissione alla tradizione. Non che manchi nell’occidente cristiano il contrasto tra
spirito e istituzione, ma in Russia lo troviamo in una forma più estremizzata. Possiamo
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ricordare il contrasto tra il metropolita Filippo di Mosca e lo zar Ivan il Terribile, che si
risolse con il martirio del metropolita che si opponeva all’ideologia pseudo-religiosa dello
zar. Il metropolita è il campione della libertà, mentre lo zar impone la violenza per
difendere la tradizione religiosa, con uno stupefacente scambio di ruoli. Un altro episodio
è quello dello scisma della metà del Seicento: il campione dei raskol’niki, il protopop
Avvakum, difende la fede popolare russa di fronte al patriarca Nikon, che impone la
riforma liturgica per ristabilire la tradizione greca, la bellezza greca, usando anche la
violenza della dittatura e prevaricando perfino l’autorità statale dello zar. Avvakum
difende la tradizione popolare e ignorante dell’Ortodossia che si caratterizza con il segno
della croce fatto con le due dita, e diventa martire della libertà. Per certi aspetti, potremmo
ricordare anche lo stesso Pietro il Grande, un occidentalista estremo che impose un canone
di bellezza eccezionale: San Pietroburgo, da lui edificata, è senza dubbio la città più bella
della Russia, una bellezza imposta rigidamente dall’alto, considerata da subito estranea
allo spirito originario russo. Pietro avrà due teologi di stato, uno filo-cattolico (Stefan
Javorskij) e uno filo-protestante (Feofan Prokopovič), e si appoggerà su entrambi.
Possiamo dire che la religiosità di Pietro è filo-protestante? Non solo, è anche filo-cattolica,
è l’insieme dei due. Qualche decennio dopo Pietro, la zarina di origine tedesca, Caterina II,
libera la cultura russa e la fa risorgere, proteggendo allo stesso tempo la sopravvivenza
dell’ordine dei gesuiti e la rinascita religiosa della Russia ortodossa. Il “gendarme
d’Europa” Nicola I nell’Ottocento mette ordine dopo il periodo liberale di Alessandro I.
Dove possiamo collocare gli slavofili e gli occidentalisti, dalla parte della libertà o della
tradizione? Gli slavofili sono tradizionalisti, ma propongono la teoria della sobornost’
ecclesiastica come libertà da ogni forma di autorità, gli occidentalisti invece, campioni del
dissenso e precursori della rivoluzione, vogliono imporre alla Russia un sistema nazionale
e razionale. È difficilissimo dividere veramente gli slavofili dagli occidentalisti, le loro
posizioni spesso si sovrappongono e si confondono; difendere l’occidentalismo vuol dire
anche affermare la capacità della Russia di essere un paese occidentale, e viceversa. La
posizioni delle due tendenze mutano nell’Ottocento a seconda del decennio, del periodo.
Poi abbiamo Dostoevskij e Tolstoj, il primo è la creatività, il secondo la razionalità,
nell’Ottocento troviamo Serafino di Sarov, un santo molto carismatico, e all’inizio del
Novecento si staglia la figura di san Giovanni di Kronštadt, istitutore di una monarchia
ortodossa poi spazzata dalla rivoluzione. Potremmo dire che ogni aspetto della cultura
religiosa russa vada considerato insieme al suo contrario.

Questo aspetto della composizione dei contrasti è proprio il tema su cui si costruisce la
trama del film di Tarkovskij, Andrej Rublev, che abbiamo scelto come vademecum
dell’anima russa. Infatti Rublev, simbolo della rinascita della Russia, viene posto di fronte
alla sofferenza del popolo, al conflitto tra la cultura popolare e l’istituzione, non sa cosa
fare, e lì si trova a fronteggiare l’esplosione della violenza tartara. Nell’episodio Il
saccheggio il pittore viene anzitutto mostrato all’interno della cattedrale di Vladimir, dove il
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suo contratto prevede la composizione di un grande affresco del Giudizio Universale (che
ancora oggi è conservato). La Russia è da tempo sottomessa al giogo tartaro, e nelle
intenzioni di Rublev l’affresco deve indicare la Chiesa che deve rinascere, bianca e pura
come la parete da dipingere. Ma l’iconografo non riesce a dipingere, non riesce a mettere
nel Giudizio la violenza del giudizio stesso, a mettere insieme il giudizio con la
misericordia: ha un blocco creativo. Il principe preme, ma il lavoro non va avanti. Le
ragioni di Rublev sono incomprensibili, poiché la pittura era considerata semplicemente
come una copia; prima di Rublev l’icona era solo una riproduzione, non difficile da
realizzare per chi conosce la tecnica. L’apprendista di Rublev infatti si stanca di aspettare e
se ne va, a dipingere lo stesso affresco in un’altra chiesa, visto che ha imparato la tecnica:
ha la tradizione, ma non ha la bellezza. Nel film questo aspetto viene esaltato dal contrasto
con un altro giovane apprendista, il costruttore di campane, che non conosce la tecnica, ma
intuisce il segreto della bellezza. Che cosa veramente va messo su quel muro bianco? Serve
la bellezza che passa dalla sofferenza. Nella scena rumoreggiano dei bambini (un richiamo
del regista a Dostoevskij, il narratore dell’infanzia) con la loro innocenza, spontaneità e
gioia accolta da Rublev, ma non dagli altri. Ci sono gli operai marmisti, rappresentanti
della cultura popolare (sanno tirare fuori l’anima dalla pietra), che verranno poi trucidati.
Dopo questa strage Rublev rimane scioccato, i marmisti verranno uccisi dai tartari in
combutta col fratello del principe. Sulla pietra bianca viene schizzato il sangue, la
sofferenza, il dolore. Il capo tartaro si reca poi insieme al traditore a Vladimir, nella stessa
cattedrale della Dormizione, e dopo il dolore della strage c’è il momento della distruzione:
è l’anima russa che sta cercando di esprimersi, e viene schiacciata. La città viene messa a
ferro e fuoco, il tartaro a cavallo entra in chiesa e si prende gioco della fede cristiana. È il
luogo dove avviene veramente il giudizio universale, il tradimento, l’uccisione di un servo
per farsi dire dov’è l’oro, cioè la vera fede, la verità. La drammaticità della scena viene
sottolineata dalle musiche del compositore Ovčinnikov, un insieme di musica popolare e
liturgica. Viene mostrato il bacio del traditore al fratello principe, in una sovrapposizione
della violenza asiatica e della fede cristiana nella persona dei due fratelli. Lo stesso Rublev
si macchia di un grave peccato, che lo costringe al silenzio. La Russia diventa muta, come
appunto avviene nei periodi di stagnazione, accanto al pittore rimane solo una donna
folle, simbolo della santità russa, unica compagnia di Rublev muto. Si diffonde la carestia,
la Russia sta morendo. Ricompare il primo traditore, il monaco Kirill, che ora rientra nel
momento della tragedia come un vagabondo quasi morto e rincontra Rublev. In qualche
modo ritorna all’origine della sua angoscia, e comincia a cercare la via d’uscita.
Nell’ultima parte del film, Tarkovskij indica proprio la strada della rinascita.

La campana della nuova Russia.

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Dopo undici anni di silenzio, che rievocano la lunga “traversata del deserto” della
cultura russa, i destini di Andrej Rublev si incrociano, secondo la ricostruzione di
Tarkovskij, con l’eroe di una nuova giovane Russia. Si tratta di un ragazzo, figlio del più
famoso costruttore di campane russo, l’unico che conoscesse il vero segreto della fusione
delle campane. I messi del principe sono costretti ad accettare l’autocandidatura del
ragazzo, essendo il padre ormai morto. È questo il momento della rinascita: la Russia è
rimasta senza niente, e dal nulla emerge un eletto, un autocandidato (samozvanets), che
sarà una figura ricorrente nella storia russa. Il ragazzo, Boriska, sostiene di aver conosciuto
il segreto dalla bocca del padre, cioè di aver ricevuto la tradizione, e riuscirà a realizzare la
campana in modo miracoloso, ma alla fine si scoprirà che non conosceva affatto il segreto.
La campana è la ricostruzione della Russia: l’antica cultura popolare ormai sterile,
rappresentata dagli uomini esperti che affiancano il ragazzo, non riescono a venire a capo
della sua continua insoddisfazione. Egli continuerà a cercare finchè troverà la giusta
argilla per le campane, la vera terra russa, con incoscienza e imprevedibilità. Si riproduce
qui l’angoscia di Rublev di fronte al Giudizio Universale, si tirano all’infinito i lavori. È un
tratto tipicamente russo quello di non riuscire a far niente fino all’ultimo, poi di fare tutto
benissimo in un attimo: esprime il rifiuto di una tradizione ricevuta meccanicamente. Il
ragazzo è erede di una tradizione, ma il segreto ce l’ha dentro di sè, è una sua intuizione
originaria. È la fede ricevuta, ma è una cosa nuova. La trova con la sofferenza,
immergendosi nel fango, nella realtà, e in quel momento ritrova Rublev, muto senza
speranza, che si trova a passare accanto al luogo dove Boriska ha trovato l’argilla che
voleva. Da quel momento il pittore comincerà ad osservarlo da lontano, a osservare il
ragazzo che ha trovato l’anima russa. Il ragazzo dà tutto senza risparmiarsi, mostrando
una incredibile capacità di sacrificio. La fusione avviene nel grande fuoco purificatore
della campana da cui rinasce la Russia, è l’anima russa che finalmente si sprigiona ed
emana uno straordinario calore. Arriva il momento della benedizione, con i rappresentanti
della Chiesa e i principi. Il ragazzo incrocia il sacerdote benedicente: sembra il quadro di
Nesterov La Santa Russia, in cui un ragazzino saltella accanto ai preti, solennemente
avvolti nei loro paramenti bizantini. Si fondono i contrasti e rinasce la Russia: il risultato
sarà l’icona della Trinità.

Con Rublev dunque la Russia comincia a emergere dal giogo, cerca le coordinate per
una nuova sintesi. Il quadro è cambiato, Bisanzio è ormai decadente, vicina al crollo
dell’impero, con una forte identità monastica, con l’esicasmo del monte Athos ormai
temprato dopo le polemiche del XIV secolo tra il suo fondatore, San Gregorio Palamas, e i
teologi di tendenza tomista. Bisanzio si chiude nel recinto del Sacro Monte come in una
cittadella escatologica, fuori dal mondo e con disprezzo per il mondo, incapace ormai di
comunicare all’esterno. La Bisanzio dei Paleologi politicamente è debolissima, mentre
l’Occidente, che nel X sec era all’inizio del suo sviluppo, durante il periodo del giogo
tartaro in Russia aveva già prodotto una sua efficace sintesi: la riforma gregoriana, il
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secolo d’oro della teologia latina, i santi, il tomismo, il francescanesimo. Sono linee di
sviluppo che si proiettano per tutto il Medioevo fino all’epoca moderna, e anche questo
conterà per i suoi influssi sullo sviluppo della cultura russa; ma la sintesi iniziale del
Medioevo russo non sarà in grado di accogliere l’elaborazione teoretica e avrà come
elemento distintivo quello figurativo, l’icona. La Russia riparte dall’icona, che nel
Quattrocento assume in Russia delle caratteristiche proprie. Nel periodo premongolico,
infatti, l’icona è ancora bizantina, è copia di un modello estraneo, anche nelle sue varianti
più elaborate ed efficaci: troviamo copie dei modelli artistici bizantini anche
nell’architettura, soprattutto come imitazioni della cattedrale imperiale di Santa Sofia,
anzitutto a Kiev, ma anche a Novgorod. Sono imitazioni fedeli, ma dalle dimensioni
ampliate e moltiplicate (a Kiev troviamo una chiesa a cinque navate, anzi otto con le
colonne e i corridoi), che riproducono la maggiore complessità e grandiosità dello spazio
russo. Non c’è ancora un modello di icona russa; c’è l'architettura, l’affresco, il mosaico e
numerose icone riportate direttamente da Bisanzio. Il simbolo della iconografia russa
premongolica è la “Madonna della Tenerezza” (Umilenie) che sovrastava le Porte d’Oro
della città di Vladimir, un’icona importata dalla Grecia (secondo la leggenda, dipinta dallo
stesso S. Luca evangelista), mentre il simbolo dell’icona russa per antonomasia sarà la
Trinità di Rublev.
Abbiamo visto nel film di Tarkovskij la rielaborazione di questa problematica, secondo
cui Rublev coglie l’esigenza di questa sintesi: un episodio in particolare fa da premessa a
questa evoluzione, quando il regista immagina un dialogo tra il giovane Andrej e il suo
maestro Teofane il Greco, il grande iconografo che aveva trasmesso al geniale apprendista
i segreti della sacra arte pittorica. I due commentano il contesto di massacri e violenza che
li circonda, e Teofane esprime appunto tutto il suo pessimismo, il disprezzo per un mondo
incapace di accogliere la redenzione cristiana, e quindi condannato a perire. È lo spirito
crudele del Giudizio Universale rifiutato da Rublev, l’atteggiamento altero e sprezzante
dei monaci del monte Athos, la vecchia Grecia cinica di fronte alla nuova Russia che cerca
la misericordia di Dio. Come il giovane costruttore di campane, Rublev si trova a fare i
conti con una tradizione ormai sterile e inutilizzabile, che lo costringe a ricominciare tutto
daccapo. Egli si blocca per la violenza dei mongoli, che distruggono tutto proprio nella sua
chiesa, la sua reazione è scomposta, lui stesso si macchia con l'omicidio e si chiude nel
silenzio. Gli undici anni di silenzio rappresentano il periodo muto della cultura russa,
quando la Russia è oppressa e non può esprimersi. Il finale del film è la nascita della
nuova Russia, la costruzione della campana, il giovane che conosce il segreto, ma nessuno
può verificarlo, sapere se lui è davvero l’erede e conosce davvero la tradizione. Gli viene
affidato l’incarico in nome della tradizione, ma lui la tradizione non la conosce, se non in
termini molto generici. Cerca il segreto dentro di sé, nel suo cuore, ascolta la terra russa.
Rublev lo trova mentre si rotola sotto la pioggia, simbolo di una nuova e speciale grazia, e
su questa scommessa si costruisce la campana. Tutto il popolo si affolla intorno, arriva
l’establishment civile ed ecclesiastico, e la campana suona, il miracolo avviene. Rublev è lì
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accanto, e vede il ragazzo in lacrime. Il contorno è solo terra russa e fango. In quel
momento lui riprende a parlare, e il ragazzo gli confessa di non sapere il segreto. Chiama
il padre, portatore della tradizione, “maledetto spilorcio”. Rublev si rivolge al ragazzo con
le parole di Gesù nel Vangelo: “Non devi più piangere”, la Russia ha trovato il segreto
della gioia. Si mostra un cavallo che se ne va, la Russia si rimette in moto. Lui stesso
abbraccia il ragazzo imitando il gesto di Maria nell’icona di Vladimir, la vera tradizione
antica che rappresenta la misericordia di Dio. Si vede allora l'icona che nasce dal fuoco,
dalla terra. Il film passa dal bianco e nero al colore, per mostrare una straordinaria
sequenza di icone di Rublev.

L’icona russa è il colore, questa infatti è la differenza più evidente con l’icona greca: ha
un colore più forte, più vivo, viene dalla terra russa. È la fusione dei contrasti, una nuova
armonia. La sequenza mostra i dettagli, la corrispondenza dei soggetti rappresentati con
tutti gli elementi della terra (sottolineata di nuovo dalla musica “sintetica” di Ovčinnikov).
La Chiesa è l’albero, il cavallo è la forza della natura, la Russia selvaggia e pagana.
Secondo i critici d’arte, Rublev riesce a esprimere nel suo stile una particolare umanità
delle icone, le sue icone sono più umane pur senza perdere la sacralità e la solennità dei
canoni tradizionali, anzi quasi rafforzandoli. Nei personaggi delle icone si rivedono i
personaggi del film, che erano stati pensati apposta dal regista per riprodurli. Questo film
è praticamente l’unico esempio di sguardo cinematografico all’icona, partendo dai dettagli
e dalla composizione. Vi si trova l’armonia, l’umanità, la comunione muta ma intensa:
questa è la vera sobornost’, plasticamente rappresentata dalla mensa dei tre pellegrini di
Mamre, che sembrano invitare lo spettatore a sedersi a tavola con la Trinità divina. Anche
la musica drammatica diventa armonica. C’è la perfezione, ma c’è anche la drammaticità.
Non sarà neanche l’icona della Trinità, l’ultima parola di Tarkovskij: dopo una lunga
contemplazione del colore, l’acqua della pioggia si riversa sull’icona stessa, e appare il
volto del Salvatore, altra icona di Rublev conservatasi in forma felicemente danneggiata,
che sembra far emergere il volto di Cristo direttamente dal legno e dalla terra, a comporre
un tutt’uno con la terra russa bagnata dalla Grazia. Da questo momento Cristo crea con la
Russia una comunione totale: il film si chiude con un’ultima immagine di cavalli liberi
(senza il peso delle guardie armate) che si abbeverano al fiume, una specie di Trinità in
forma equina, a cui si aggiunge un quarto cavallo, simbolo della Russia, dell’umanità
redenta.

Il film di Tarkovskij è del 1966, in piena stagnazione brežneviana, e rimase bloccato


per otto anni, prima che venisse proiettato. In Italia fu mostrato negli anni Settanta. Si
capiva già allora che la Russia non era più comunista, ma al contrario c’era la coscienza
impressionante di dover recuperare tutta la tradizione. Vi fu un sistematico soffocamento
del dissenso nel periodo di Brežnev; poco prima, nel 1964, lo scrittore Aleksandr
Solženitsyn aveva già raccolto i materiali per il suo Arcipelago Gulag, la grande denuncia
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delle repressioni staliniane. Nel 1962 egli aveva scritto il romanzo Una giornata di Ivan
Denisovič, che aveva suscitato l'entusiasmo perfino del segretario del partito comunista
Nikita Khruščev, che in esso vedeva un’esaltazione del lavoro socialista. Il lavoro del
prigioniero nel lager, tema del romanzo, è l’occasione paradossale per la riscoperta
dell’anima. Nel breve disgelo seguito al XX Congresso del PCUS (1957), in cui erano stati
smascherati i crimini di Stalin, Solženitsyn aveva potuto rivolgere una richiesta pubblica
di testimonianze sui lager attraverso l’Unione degli scrittori. L’Arcipelago Gulag, risultato
di questa raccolta, è una documentazione della realtà dei campi di concentramento, in cui
emerge l’anima russa nel momento della massima miseria. È la tesi principale dello stesso
Solženitsyn: colui che è arrivato all’ultimo stadio, il dokhodjaga, il condannato per motivi
politici che in lager viene oppresso dai carcerati “comuni”, proprio in queste condizioni
estreme riscopre la sua dignità, che nessun potere gli può togliere. È una esperienza fatta
da Solženitsyn stesso, che lottando con il cancro in lager riscopre la fede, come egli narra
in un altro romanzo, Divisione Cancro. Un colloquio col medico carcerario fa scattare in lui
la scintilla della fede, e la mattina dopo si scopre che il dottore è stato fucilato. Ci sono
molti passi dell’Arcipelago in cui Solženitsyn racconta di preti, vescovi, ortodossi e cattolici,
credenti e non credenti, che rivelano come il popolo russo nel momento di massima
sofferenza riscopra la luce della Grazia. Tarkovskij fa la stessa operazione: uscendo dallo
stalinismo (il giogo mongolo) si riscopre l’anima russa. In realtà il comunismo in Russia
era già finito sotto Stalin, che non era comunista, ma stalinista, una forma di credenza
religiosa in cui si esaltava la divinità del dittatore stesso, il “culto della personalità”. Il
marxismo in Russia era finito già con la NEP, la nuova politica economica seguita alla
carestia degli anni Venti, in effetti non era mai stato veramente realizzato, se non come
patina ideologica.

L’icona russa è difficile da comprendere da un punto di vista culturologico, perché


normalmente la si commenta solo dal punto di vista estetico, come se fosse semplicemente
una evoluzione dell’icona greca, inserita in un percorso a parte. Quello che conta, e
Tarkovskij lo fa vedere, non è la novità estetica dell’icona russa, che in realtà non ha
espresso un grande contributo all’arte iconografica, i cui canoni rimangono fissi fin
dall’VIII secolo. È il significato storico-culturale della scuola di Pskov, di Novgorod e di
Andrej Rublev, che ha portato in quel momento alla riscoperta dei valori che hanno
generato la fede russa dal battesimo in poi. È difficile fare una storia della critica
iconografica in Russia, che è molto frammentaria. In realtà c’è un teologo russo non
tradotto in italiano, il prof. Nikolaj Gavrjušin, che insegna a Mosca, uno storico della
teologia russa, che ha scritto anche una storia della critica iconografica russa, mostrando
come dal Quattrocento al Settecento in Russia si discuta principalmente dell’icona della
Trinità. Viene messa in questione la canonicità dell’icona della Trinità, se sia giusto
dipingerla in quel modo, interpretando l’episodio di Mamre come rappresentazione della
Trinità. Si vanno a riprendere testi bizantini, principalmente quelli di San Giovanni
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Damasceno, non invece quelli di San Teodoro Studita che si riferiva a un altro contesto, e
si discute di questo in modo appassionato. È vero che l’icona della Trinità è una sintesi
teologica, non solo emozionale, perché è un modo per portare Dio sulla terra russa e farne
vedere la comunione fortissima con l’elemento carnale, che forse mancava almeno nella
percezione dell’estetica bizantina che avevano i russi. Tarkovskij mostra il confronto tra
l’esangue Teofane e il giovane e inquieto Rublev; indubbiamente questo nuovo modo di
dipingere l’icona, al di là delle questioni estetiche vere e proprie, vuole esprimere una
intensità del rapporto tra il divino e l’umano che i russi non trovavano nella tradizione
bizantina in quanto tale. Perlomeno questa è una questione globale, su cui anche in Russia
non c’è unanimità di valutazione.

Esistono infatti due tesi contrapposte per descrivere questo passaggio nella sintesi
religiosa del cristianesimo russo. La prima tesi afferma che si tratta di un tradimento della
tradizione bizantina, l’altra che rappresenta invece la sua piena realizzazione. La prima è
la tesi del protoierej Georgij Florovskij, un teologo esiliato dai comunisti, che all’inizio del
XX secolo ha scritto un libro tradotto anche in italiano, Vie della teologia russa30. È una storia
della teologia quasi romanzata, molto ben scritta, ed è un po’ l’unico manuale di storia
della teologia russa, in cui sostanzialmente si vuole dimostrare la tesi della
“pseudomorfosi”31, cioè un fenomeno per cui il cristianesimo bizantino in Russia si
trasforma in qualcosa d’altro, che è in fondo un tradimento della vera teologia bizantina.
Questo sarebbe avvenuto per due ragioni: anzitutto per il distacco creato dal periodo
mongolo, che ha impedito alla Russia di rimanere collegata alla propria fonte, per cui una
volta ha ripreso il cammino storico, avrebbe reinventato il bizantinismo in modo
completamente diverso, che è quello che abbiamo osservato in Rublev. In secondo luogo,
ciò che avrebbe aggravato la situazione sarebbe stato l’influsso occidentale, che avrebbe
inquinato totalmente la teologia russa. Per cui, propone Florovskij, bisogna ritornare alle
fonti, cioè alla letteratura patristica. La sua linea viene chiamata infatti “neopatristica”, a
partire dalle teorie che egli espose al congresso di teologia ortodossa di Atene nel 1936.
Tornare alle fonti per affermare che la vera teologia, anche quella russa, sarebbe solo
quella che viene dai padri, cosa in realtà difficile da inquadrare nella storia culturale russa,
perché oltre a quello che i russi ricevettero all’inizio della loro evangelizzazione, in seguito
non ebbero mai grande accesso alle fonti patristiche, se non nel periodo moderno. Mentre
nel Quattrocento, quando si forma decisamente l’anima russa, non c’è più un rapporto con
la patristica, non è sicuramente quello l’elemento decisivo. Oggi la neopatristica in Russia
viene ulteriormente rilanciata da chi della patristica riprende soprattutto la linea
monastica e contemplativa, per cui oggi la teologia russa riparte dal “neoesicasmo”, cioè

30 FLOROVSKIJ Prot. Georgij, Puti russkago bogoslovija, Paris 1937; ed. it, Vie della teologia russa, Torino (Marietti)
1973.
31 Vedi: WENDEBOURG Dorothea, „«Pseudomorphosis» — ein theologisches Urteil als Axiom der Kirchen-

und theologiegeschichtlichen Forschung“, OCA 251, pp. 565-589.


70
dal ritorno alle teorie dei padri esicasti del Medioevo. Il teologo più autorevole oggi in
Russia è Sergej Khoružij32, esponente della linea neoesicasta; è un personaggio tipicamente
russo, che vive un po’ in America un po’ in Russia, un matematico e fisico di mestiere che
unisce la tecnoscienza con l’esicasmo. Nella diaspora russa seguita alla rivoluzione
bolscevica, negli anni Venti-Trenta, si era creata una certa contrapposizione tra Florovskij e
gli esponenti della filosofia religiosa russa di quel periodo, che cercavano di esprimere un
pensiero anche teologico che fosse propriamente russo, come Sergej Bulgakov, Nikolaj
Berdjaev, Semen Frank e altri. È appunto un’altra posizione.

Questa seconda linea più di recente va attribuita a Sergej Averintsev, in modo più
specifico rispetto agli stessi filosofi religiosi degli anni Trenta33. Averintsev divenne il faro
della nuova cultura russa proprio negli anni di Tarkovskij, nei Sessanta e Settanta.
Secondo Averintsev, la Russia presenterebbe un bizantinismo più vero, più
“compassionevole”. Egli cerca di dimostrare sotto vari aspetti come la variante russa sia
più amorosa, più capace di misericordia. Averintsev era un filologo, e mostra questo
aspetto, ad esempio, nel modo russo di pronunciare il nome di Gesù, Iisus, che secondo lui
sarebbe più dolce che non lo Iesus greco. La Santa Russia per lui è il vero concetto
complessivo, perché corrisponderebbe nel modo con cui è concepita alla christianitas latina,
cioè a un universo cristiano, un mondo che tiene dentro tutto, una cosa che la Russia ha sì
ereditato da Bisanzio, ma che avrebbe poi riprodotto nella sua esperienza laddove
Bisanzio non ha potuto portarla a termine, perché Bisanzio nel Medioevo si è disciolta.
Quindi la Santa Russia per Averintsev non è un concetto etnico, ma una categoria religiosa
universale, teologica. Averintsev è un bizantinista raffinato, e svolge puntualmente questo
parallelo, dandogli una dignità che altri fanno solo a spanne. Negli anni in cui Tarkovskij
era bloccato dalla censura, Averintsev teneva seminari all’università di Mosca, ai quali la
gente arrivava la sera prima per prendere posto; gli concedevano infatti solo delle piccole
aule, mentre accorrevano migliaia di persone. Lui arrivava con una pila di libri in mano,
calpestando la gente assiepata, e per sei-sette ore di fila parlava seduto su un angolo della
cattedra. Questi seminari erano tollerati per il loro alto livello scientifico, e per la scelta di
parlare dell’antichità (come prima di lui faceva Vladimir Losev), mentre spiegava tutto, la
storia, la teologia, il Vangelo. Tutta la cultura religiosa russa odierna proviene da
personaggi come Averintsev: uno simile a lui era il padre Aleksandr Men’, un sacerdote e
predicatore, che non era un professore, ma un carismatico divulgatore e viveva confinato
nella sua chiesa di campagna tra Mosca e Zagorsk. Padre Men’ venne ucciso nel 1990,
subito dopo la caduta del muro di Berlino. Anch’egli teneva conferenze del genere dei
seminari di Averintsev, con folle oceaniche, soprattutto negli ultimi anni.

32 Vedi: KHORUŽIJ Sergej, Posle pereryva: puti russkoj filosofii, Sankt-Petrburg 1994; Filosofija i askeza, New York

1999; O starom i novom, Sankt-Peterburg 2000; Opyty iz russkoj dukhovnoj traditsii, Moskva 2005.
33 Vedi in proposito AVERINTSEV Sergej, Poetika rannevizantiiskoj literatury, Moskva 1977; ed. it. L’anima e lo

specchio. L’universo della poetica bizantina, Bologna 1988.


71
Le due tesi sul rapporto tra Bisanzio e la Russia sono entrambe un po’ troppo radicali:
affermare che la Russia fosse la vera christianitas slava è probabilmente eccessivo, ma è
comunque una tesi più fondata per le qualità delle dimostrazioni che la sostengono,
mentre la tesi della pseudomorfosi di Florovskij è decisamente più faziosa. Non va
peraltro dimenticato che quest’ultima venne formulata in un periodo duro, nel tentativo di
salvare la Russia dopo la rivoluzione. Comunque oggi di nuovo la Chiesa ortodossa
preferisce appoggiarsi alla linea neopatristica, mentre la vera anima russa si esprime
piuttosto in quella di Averintsev. Tutti sanno in Russia che la vera teologia non è quella
neoesicasta, però è quella ufficiale, a cui è più conveniente allinearsi. C’è una frase di
Averintsev che spiega bene questa difficoltà psicologica, secondo cui “ogni vero russo, se
soltanto non fa violenza alla sua vera natura, ha una paura mortale di lodarsi, e fa bene,
perché non gli si addice”. Secondo Averintsev “noi non abbiamo avuto il dono di
autoaffermarci, né individualmente, né a livello nazionale, con quella specie di ingenuità e
di buona coscienza, con quella assenza di dubbi e di problemi, come è avvenuto per lo più
agli altri ... Gli eccessi russi di autoironia, di “autofagia” (samoedstvo), sono ben noti da
tutte le esperienze della nostra cultura, e sono pure una grande tentazione. Come valutare
la verità? È difficile “avere sempre in mano i pesi del gioiello”, come disse una volta il
Vasari”34. Il russo si afferma sempre per negazione, deve in qualche modo distruggere
quello che ha creato, disprezzarlo e ridicolizzarlo, per riuscire poi ad affermarlo in modo
diverso e più vero.

La Russia universale: Mosca terza Roma.

Tornando al nostro percorso storico-culturale, possiamo dire allora che nel


Quattrocento Andrej Rublev esprime una sintesi efficace della cultura cristiana nell’icona
della Trinità, che diventa l’immagine dell’anima russa. Dovendo scegliere un oggetto
singolo come simbolo della cultura russa, l’icona della Trinità è veramente perfetta, non
solo per il film di Tarkovskij, che comunque lo ha capito in un modo molto geniale. Ma
anche a livello storico questo viene giustificato, Rublev non nasce dal nulla. Egli è un
esponente della rinascita monastica, che avviene tra XIV e XV secolo. Per essere più
precisi, la rinascita inizia con San Sergij di Radonež (1314-1392), colui che riorganizza il
monachesimo nel periodo in cui il principato, sempre sotto i mongoli, sta passando
decisamente verso Mosca. Agli inizi del Trecento il signore di Mosca, Ivan Kalita (1288-
1340), ricevette lo jarlyk dal Gran Khan, e Sergij a partire da Mosca e dintorni riorganizzò il
monachesimo come nuova opera di evangelizzazione della Russia. Qualche anno dopo si
unirà a lui un altro santo, Stefan di Perm’, che andrà ancora più a nord, per evangelizzare

34 AVERINTSEV Sergej, “Vizantija i Rus’: dva tipa dukhovnosti”, Novyj Mir 7, 9 (1988) p. 320.
72
la zona dei komi e dei russi settentrionali. È una evangelizzazione per certi aspetti analoga
a quella dei monaci benedettini dell'Europa centro-settentrionale, a partire dal VI-VII
secolo. È lì che la Chiesa russa attraverso il monachesimo riesce a diventare l’elemento
fondamentale della struttura statale. Inizialmente i metropoliti di Kiev erano poco più che
un’appendice religiosa del gran principe, in un arcipelago di principati slegati tra loro, che
per questo divennero facile preda dei mongoli. La Rus’ di Kiev non aveva una statualità
definita, infatti una delle tesi degli storici è che i mongoli abbiano dato una struttura
all’amministrazione. Ma la struttura intesa come idea dello stato, del popolo, della Santa
Russia (direbbe Averintsev), verrà dato dai monaci. Non si sa in quale monastero Rublev
si fece monaco, ma è probabile che fosse uno dei primissimi discepoli di Sergij, e poi finirà
al monastero della SS. Trinità, chiamata poi per esteso la “Lavra di San Sergij della
Santissima Trinità”, nel paese di Sergievo (Zagorsk dal tempo sovietico), situato a settanta
km a nord di Mosca, dove è custodito il corpo di San Sergij, meta principale di
pellegrinaggio in Russia. Lì si va per unirsi fisicamente all’anima russa, inchinandosi a
baciare la teca che conserva le reliquie di San Sergij. Perfino nel periodo sovietico quello
era il luogo dell’identità ortodossa russa, la residenza del Patriarca, il “Vaticano russo”,
molto più anche del Cremlino o di altre chiese. L’affresco sul portale rappresenta proprio
l’icona della Trinità, lì infatti era situata l’icona originale di Rublev, che ora sta a Mosca,
nel museo della Galleria Tretjakov. San Sergij oltre a evangelizzare aveva anche ispirato la
prima vittoria sui mongoli, la battaglia di Kulikovo nel 1380, guidata dal principe di
Mosca Dmitrij Donskoj, (“del Don”, presso il quale aveva ottenuto le prime vittorie)
benedetto da Sergij a fare la battaglia, e non solo in senso spirituale: Sergij gli aveva messo
a fianco alcuni monaci guerrieri, in una specie di crociata russa, con analogie russe dei
Cavalieri Templari. Dmitrij viene riprodotto spesso nelle raffigurazioni con i monaci a
fianco, un’immagine ripresa poi da Ivan nella sua opričnina. Questo è l’inizio
dell’autocoscienza nazionale russa vera e propria; Kiev è la preistoria, con un’aura
leggendaria, mentre la Santa Russia che viene da Kiev si afferma nella vittoria contro i
tartari, che verrà completata solo un secolo dopo. Il khan Mamaj venne sconfitto a
Kulikovo, ma il suo successore venti anni dopo raderà al suolo Mosca. Nella memoria
russa, peraltro, Kulikovo è la prima vera vittoria.

Oltre alla rinascita monastica, che è un elemento di religiosità militante, sia in senso
missionario, sia di guerra con il nemico della fede e della Russia, abbiamo anche la lotta
con le eresie vere e proprie, le prime eresie russe, sempre nella seconda metà del XIV -
inizio XV secolo. Troviamo in quel periodo infatti alcune eresie che adesso sono un po’
difficili da ricostruire, quelle dei “giudaizzanti” (židovstvujuščye) e dei “tonsurati”
(strigol’niki) che si diffusero nei paesi di Pskov e Novgorod, rimasti più liberi e un po’ più
occidentali. Entrambi i movimenti vengono accusati di vicinanza alla religione ebraica, in
senso particolarmente negativo e offensivo. In realtà non c’entrano quasi nulla con

73
l’ebraismo, come dimostrato dagli studi dello slavista Cesare De Michelis35: i
židovstvujuščye sarebbero dei “valdesi russi”, rappresentano l’arrivo in Russia della prima
ondata di riforma medievale, quel movimento riformatore che parte da Pietro Valdo e
dagli “umiliati” e si incontra nel centro Europa con i movimenti di Jan Hus, sono una
specie di valdesi-hussiti in salsa russa. Usano infatti la stessa terminologia dei valdesi,
secondo l’analisi di De Michelis. Ancor di più gli strigol’niki, quelli “tonsurati” alla
maniera latina (i monaci bizantini infatti portano capelli e barba incolti), anche loro un
movimento riformatore a cui si associano addirittura i bogomili, che in occidente avevano
prodotto il fenomeno del catarismo. Sono tutti movimenti che aspirano a una Chiesa pura,
senza gerarchia, senza oppressione, evangelica. Per questo vennero chiamati in senso
spregiativo “giudaizzanti”, per la loro insistenza sulla Bibbia, sulla Scrittura. Vi sono
effettivamente anche influssi giudaici, come la filosofia di Mosè Maimonide, filosofia
ebraica del centro Europa. Non secondario è l’elemento del pauperismo, la ricerca della
povertà evangelica.
Un aspetto interessante di tutto questo movimento riformatore è che se la prendeva
anche con le icone, esprimendo una specie di iconoclastia, anticipando i luterani
“aniconici”, e in particolare criticavano l’icona della Trinità, che secondo loro era un vero
tradimento della Bibbia, rifiutando l’applicazione teologica dell’episodio di Mamre. Si
tratta in realtà di sviluppi secondari della storia culturale russa, che peraltro costrinse i
russi a dare risposte teologiche vere e proprie alle critiche formulate, cominciando a
organizzare sinodi e concili. Dagli inizi del Quattrocento fino alla metà del Cinquecento si
tennero una serie di Sinodi russi, fino al 1552 con il Concilio moscovita detto dei Cento
Capitoli (Stoglav), che per la Russia è importante come il Concilio di Trento per la Chiesa
Cattolica. Si ha anche in questa circostanza una ripresa della teologia patristica, ma non la
patristica vera e propria, piuttosto di alcuni argomenti della teologia dogmatica, mutuati
dai padri per rispondere agli eretici.
A questo primo momento di disorientamento, dovuto al diffondersi delle prime eresie,
seguirà la grande polemica teologica-spirituale tra S. Nil Sorskij e S. Iosif Volotskij, in cui
queste stesse istanze verranno riprese in modo analogo al modo con cui in occidente le
teorie dei valdesi e dei catari verranno poi salvate e corrette da San Francesco. Il Francesco
russo è Nil Sorskij, rappresentante dei poveri “non-possidenti” contro gli iosifliani
istituzionali e “proprietari”. Qui la contesa è proprio sulla povertà. Nil Sorskij è contro le
proprietà monastiche, Josif Volotskij sostiene che le proprietà dei monasteri garantiscano
l’unità del popolo e dello stato (come già ricordato, i monasteri possedevano i due terzi
delle terre russe). È anche una discussione di contenuto prettamente religioso: Nil è l’erede
dell’esicasmo, esponente della linea spiritualista, creativa, mentre Iosif è proprio l’ideologo

35 Vedi: DE MICHELIS Cesare, La Valdesia di Novgorod. “Giudaizzanti” e prima riforma, secolo XV, ed. Claudiana,

Torino 1993.
74
del monachesimo di Sergij di Radonež, del monachesimo “che costruisce lo stato”
(gosustanavitel’nij, termine molto amato dall’attuale patriarca di Mosca Kirill).

In questo contesto di rinascita monastica e rinascita spirituale, di lotta con gli eretici e
quindi di rafforzamento dell’identità teologica ed ecclesiastica, di affermazione del
rapporto costitutivo tra la Chiesa e lo stato nel dibattito interno, quindi di una forte
coscienza ortodossa russa che ha al suo interno anche un’anima ribelle, in parte eretica e in
larga parte monastica che fa da contraltare, qui nasce l’idea che Mosca sia la “Terza
Roma”. Tutti questi elementi si condensano infatti dalla fine del XIV alla metà del XV
secolo, e accompagnano la dissoluzione dell’impero bizantino. Nel 1453 Costantinopoli
crolla; prima, nel 1439, c’era stato il Concilio di Firenze, il Concilio unionistico, a cui
avevano partecipato anche due vescovi russi. Il loro destino è sintomatico: erano un
vescovo greco, Isidoro di Kiev, e uno russo, Avraamij di Mosca. Tornando da Firenze i
greci accettano l’Unione, tutti tranne il metropolita di Efeso, Marco Eugenico, ma si
trovano di fronte alle armate ottomane, che impediscono all’Unione di affermarsi, insieme
alla propaganda contraria organizzata dallo stesso Marco di Efeso. In Russia il metropolita
Isidoro è un sostenitore entusiasta dell’Unione, mentre Avraamij si sottomette alla ragion
di stato: aveva firmato l’Unione, ma viene bloccato dal Gran Principe, che gli farà cambiare
opinione. Isidoro viene invece imprigionato e poi espulso, rimandato in Occidente, dove
andrà a vivere al monastero cattolico greco di Grottaferrata, alle porte di Roma, e
diventerà cardinale assieme a un altro vescovo ortodosso unionista, Bessarione di Nicea.
Isidoro si dedicherà quindi alla propaganda dell’unione nei territori della Russia
occidentale, cioè dell’Ucraina, dove nel 1596 l’Unione di Firenze verrà infine accettata a
Brest dalla “metropolia di Kiev-Halyč e di tutta la Rus’”. In realtà anche i cattolici latini
polacchi erano contro l’Unione, per non far entrare gli ortodossi ucraini nel Senato
polacco. L’Unione ebbe quindi contro sia i russi che i polacchi. Abbiamo allora la linea
unionistica da una parte, mentre a Mosca si affermerà la linea della autocefalia russa,
anche per il fatto che il patriarca di Costantinopoli, che avrebbe dovuto nominare i
metropoliti di Kiev, sarà sempre meno presente, impedito dalla invasione ottomana. I
russi si prendono da soli l’autocefalia, che poi si trasformerà in piena indipendenza. Dal
1453 poi Costantinopoli cade, e in Russia questo viene preso come un segnale che è
scoccato il momento storico per la realizzazione del suo destino storico. Infatti la
cosiddetta dottrina di “Mosca-Terza Roma” comincia a diffondersi alla fine del
Quattrocento, e verrà espressa in modo esplicito dall’igumeno Filofej di Pskov in una
lettera al diacono Munekhin, segretario della corte di Mosca, verso la fine del XV secolo
(+1542). Lettera che farà il giro di tutta la Russia, dando voce all’impressione diffusa
soprattutto nella comunità monastica che “la prima Roma è caduta, la seconda pure e una
quarta non ci sarà”. La terza sarebbe quella definitiva. Questa espressione di Mosca-Terza
Roma pare essere la base ideologica del nazionalismo russo; in realtà Averintsev dimostra
che è lì che si forma definitivamente la christianitas russa. Secondo Averintsev, infatti,
75
l’idea della “terza realtà” era un ideale globale e antico, precedente al cristianesimo stesso;
già Roma sarebbe stata la “terza Troia”. Secondo il racconto dell’Iliade poi ripreso da
Virgilio, Enea sarebbe scappato da Troia con la spada di Ettore, con la quale avrebbe
fondato prima il regno di Alba Julia, e poi la stessa Roma. Oppure si può applicare il
concetto al destino di Costantinopoli, sostituendo Alba Julia, per cui la “terza Troia”
sarebbe proprio la nuova capitale di Costantino. Troia era il regno che univa Asia e
Europa, la Grecia con i territori asiatici. Troia è l’impero che unisce i mondi, Roma era
l’impero che unisce i mondi. C’è anche la versione che inserisce Alessandria d’Egitto e
l’ideale “ecumenico” dell’impero macedone.
Risalendo dalle versioni antiche, la linea di Roma-Costantinopoli-Mosca esprime di
nuovo l’ideale dell’impero che unisce i mondi; nel Cinquecento Mosca è rimasto l’unico
impero cristiano bicontinentale libero da oppressioni. Nel 1453, tra l’altro, la Chiesa di
Roma è in piena crisi conciliarista: Firenze veniva dopo una lunga serie di
contrapposizioni tra papi e antipapi, in un momento di divisione dell’Europa, e infatti
cinquanta anni avverrà lo scisma di Lutero. Inoltre Roma è considerata eretica,
Costantinopoli è caduta, e tutti gli ortodossi sotto gli ottomani faranno l’amministrazione
dei romani. Quindi l’idea di Mosca-Terza Roma è molto più profonda e ampia di un
semplice ideale di orgoglio nazionale. Tra l’altro, anche nella stessa Russia questa idea non
era nata a Mosca, ma prima ancora a Novgorod, dove si era diffusa la strana storia del
klobuk bianco, la tiara bianca, una leggenda secondo cui il papa Silvestro (rappresentato nel
ciclo del frygium bianco nella chiesa romana dei Santi Quattro Coronati al Celio) avrebbe
ricevuto la tiara dall’imperatore Costantino guarito dalla lebbra, come segno del potere
concesso dall’imperatore alla Chiesa. Questa tiara sarebbe stata rifiutata dal papa a causa
dei propri peccati, donata agli ortodossi e arrivata fino a Novgorod, che sarebbe la vera
erede di Roma, di Costantino e del Papa. È una leggenda minore, che fa da premessa alla
teoria di Mosca-Terza Roma.

L’ultimo elemento, quello decisivo che fa da chiusura di questa fase dopo la lettera di
Filofej, si esprime nel regno di Ivan IV il Terribile. In esso l’autorità dello zar viene messa a
servizio della messianicità della Russia, un elemento originario della cultura religiosa
russa fin dal Discorso di Ilarion, che viene ripreso come “grazia speciale” della Russia nella
sua veste di Terza Roma, come popolo che salverà il mondo. È un tema che rimarrà
sempre nella coscienza russa, verrà ripreso anche da Vladimir Solov’ev nella sua Leggenda
dell’Anticristo. Ivan il Terribile è il sovrano che organizza lo stato forte e il concilio Stoglav
del 1552, ma soprattutto che si proclama Cesare, tsar, e pone le premesse per la
proclamazione del patriarcato, sottomettendo il metropolita di Mosca Filipp che si
contrapponeva al suo arbitrio. Soprattutto Ivan è colui che vince i tartari, conquistando
Kazan e Astrakhan. La Russia si rifarà delle umiliazioni del giogo tartaro andando alla
conquista dell’oriente, in cui si esprime la capacità russa di conquistare il mondo, di avere
dimensioni mondiali. Vi sono analogie moderne con la conquista della frontiera
76
statunitense. Nel quadro ottocentesco di Surikov, Ermak conquista la Siberia, i nativi
siberiani sono rappresentati come gli indiani d’America: i russi hanno i fucili, i siberiani
frecce e cerbottane, in una specie di “far west” russo, soltanto rivolto a oriente. Noi italiani
siamo cresciuti, come tutti gli occidentali, col mito del Far West, e in qualche modo
dobbiamo constatare che in realtà il western era già stato inventato dai russi; oggi è il
substrato ideologico con cui l’America e l’Occidente si sente in diritto di esportare il
proprio modello nel mondo, ma questa stessa mentalità era molto viva nei russi, che si
assumevano il compito di civilizzare l’Asia.
I russi si appropriarono delle divinità siberiane, trasformandole in eroi russi, i bogatiry,
soggetto di un altro quadro famoso di Vaznetsov, che rappresenta tre cavalieri russi
riportati all’epoca originaria (non si sa bene quale). Il loro capo è Il’ja Muromets, eroe
leggendario della preistoria che esprime la potenza russa, fieri sui loro poderosi cavalli
siberiani, forze della natura selvaggia dominata dai russi. Anche questa immagine è una
trinità, alla fine. Sono espressioni dell’autocoscienza russa, un tema molto sviluppato
nell’arte. Il cavallo selvaggio è sottomesso con la frusta, ma ha una espressione serena: è la
Russia che domina il mondo. Vrubel’ riproduce lo stesso soggetto, ma lo espande ancora
di più, mostrando un esempio di potere onnicomprensivo, di pienezza che occupa l’intero
spazio. Il tema della forza e della santità è anche il tema del film Zar del regista Pavel
Lungin (2010), un film storico su Ivan il Terribile che ha ottenuto grande successo in
Russia. Vi si rappresenta proprio l’idea della “santa violenza” costitutiva dello stato russo.

77
Capitolo 4. La Russia e l’Europa: nuove dimensioni dello spirito.

La mistica del terzo elemento.

Nei primi tre capitoli abbiamo in realtà commentato soltanto le premesse


dell’argomento generale di questo testo, in quanto di solito la storia della cultura russa
viene fatta iniziare dal Settecento e dalle riforme di Pietro il Grande, considerando i sette
secoli precedenti quasi completamente privi di interesse. Ritengo invece che le categorie
culturologiche fondamentali per comprendere la religiosità russa siano quelle che abbiamo
finora evidenziato, e che appartengono alla prima fase e alla fase medievale, meno
considerate a livello accademico. Credo invece sia necessario approfondirle il più
possibile, per giustificare dal legame con le vere radici gli sviluppi culturali eccezionali che
la Russia ha conosciuto a partire dall’Ottocento fino almeno ai primi decenni del
Novecento. Non è possibile esaurire in un breve testo sintetico tutta la ricchezza della
letteratura, arte e filosofia russa, ma si possono richiamare alcuni riferimenti, proprio per
riprendere le categorie caratteristiche di tutta la religiosità russa36. La stessa
cinematografia russa, un filone che nasce in realtà come espressione della Russia sovietica,
meriterebbe una trattazione a parte; l’Andrej Rublev di Tarkovskij è particolarmente adatto,
grazie alla particolare divisione delle scene proposta dal regista, a commentare alcuni temi
che si susseguono nella storia della cultura russa, ma tutta la filmografia di Tarkovskij
sarebbe una importante documentazione dello spirito religioso russo, e delle sue
espressioni più originali. Basterebbe citare un altro suo film, Stalker, uno dei film più
“mistici” di tutta la cinematografia mondiale, che al contrario del Rublev non è diviso in
scene, non ha una vera e propria unità narrativa, e andrebbe rivisto integralmente con un
vero spirito di contemplazione.

Anche grazie a Tarkovskij abbiamo dunque individuato l’immagine della Trinità come
espressione sintetica della religiosità russa. La Trinità è davvero un tema ricorrente fin
dalle origini della cultura, dell’arte e della fede russa. Tutti i film di Tarkovskij, in qualche
modo, sono film trinitari. Anche in Stalker c’è una terna, un trio di pellegrini analogo ai tre
monaci che aprono il Rublev, che si reca nella “zona” proibita (evocazione della “zona” dei
lager), di fatto alla ricerca di se stessi, una ricerca interiore, una forma di pellegrinaggio
trinitario. Un autore a cui abbiamo già accennato, Pavel Florenskij, grande filosofo e
teologo russo, considera la dimensione trinitaria l’unica vera dimensione in cui si può
esprimere la vita spirituale del cristiano e la vita ecclesiale, elemento centrale del suo

36 Per le riflessioni di questo paragrafo sono particolarmente grato alla professoressa di filosofia Kira
Preobraženskaja, dell’Istituto Pedagogico di San Pietroburgo, che le ha volute condividere in un incontro con
gli studenti al Pontificio Istituto Orientale di Roma nell’aprile 2010.
78
pensiero37. Che cosa ha di speciale, oltre alla evidente importanza dogmatica, la
prospettiva trinitaria nel contesto della cultura russa? In un certo senso la trinitarietà
esprime proprio quella originalità della cultura religiosa russa, che abbiamo visto
emergere in modo spesso paradossale e contraddittorio. Perché in qualche modo la Russia
si presenta sempre come un “terzo elemento”, un elemento in più nella dimensione
spirituale, nella storia religiosa. Se pensiamo appunto alle categorie di oriente e occidente,
abbiamo visto che la Russia non può essere definita totalmente oriente, e non può essere
esclusa dal concetto di occidente; è quindi un terzo elemento, che non è una sintesi
hegeliana, non è solo la somma di oriente e occidente, ma è un qualcosa che aiuta a capire
meglio sia l’oriente che l’occidente. Potremmo parlare anche di paganesimo e
cristianesimo, che è una dicotomia presente in tutta la storia del cristianesimo, che ha
inglobato il paganesimo antico, lo ha rimodellato, ne ha usato tante categorie. Anche la
Russia lo ha fatto, ma in qualche modo ha mantenuto questa compresenza, questa doppia
anima. In essa vi è anche dicotomia tra cattolicesimo e protestantesimo, o tra cattolicesimo
e ortodossia, in entrambi i casi la Russia si propone come terzo elemento. Perché la Russia
è un paese ortodosso, ma che ha anche assimilato molti valori del cattolicesimo latino, e
nella sua storia ha mischiato un po’ anche le forme di cattolicesimo e protestantesimo;
tutta la organizzazione ecclesiastica data da Pietro il Grande è un’organizzazione di tipo
protestante, una Chiesa sottomessa allo stato alla maniera protestante più che ortodossa,
ma la dottrina che veniva insegnata era principalmente quella scolastica latina, con dei
correttivi ortodossi.

Anche a livello tematico, il cristianesimo russo nasce dal confronto tra la bellezza e la
sofferenza, cioè tra un elemento di totale positività e un elemento di totale negatività.
Possiamo citare un passaggio da uno dei principale romanzo russi e della letteratura
mondiale, i Fratelli Karamazov di Dostoevskij, che guarda caso è un romanzo trinitario, tre
fratelli, tre tipi umani e religiosi che si combinano e si sovrappongono in continuazione,
mischiando elementi positivi e negativi. Nella presentazione dei personaggi, che occupa
la prima parte del romanzo, Dostoevskij inserisce subito un accenno alla storia religiosa
russa, perché il terzo fratello, Aleša, è novizio in un monastero e discepolo del famoso
starets Zosima, e presentando la sua vicenda lo scrittore parla proprio del monachesimo
degli startsy, uno degli argomenti portanti del romanzo. Afferma Dostoevskij che gli
startsy, e l’istituzione dello starčestvo, “comparvero da noi solo in epoca recente, neanche
un secolo fa, mentre in tutto l’oriente ortodosso, specialmente sul Sinai e sull’Athos
esistevano da più di mille anni. È una tradizione antica, da noi apparsa di recente. Anche
da noi in Russia lo starčestvo esisteva, o doveva essere esistito nei tempi più remoti, ma in
seguito ai tartari, ai torbidi e all’interruzione dopo la caduta di Costantinopoli questa
istituzione finì nell’oblio e gli startsy scomparvero”. È proprio l’elemento che rende la

37 In proposito vedi: ŽA’K L’ubomir, Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Roma 1988.
79
Russia così “altra” rispetto agli altri paese, questo continuo cadere e risorgere. Anche il
periodo dei “torbidi” agli inizi del Seicento fu di nuovo una frattura, una interruzione,
come avvenuto nel XX secolo con l’Unione Sovietica, e ogni volta la religiosità russa
risorge in modo nuovo. “Questa tradizione – continua Dostoevskij - è stata resuscitata nel
nostro paese alla fine del secolo scorso, dal grande asceta Paisij Veličkovskij e dai monaci
di Optina Pustyn”, e racconta di questa rinascita di fine Settecento - inizio Ottocento. Ma
lo starčestvo in Russia prende un significato molto più estremo che nel resto del mondo
ortodosso, secondo la spiegazione di Dostoevskij: “che cosa è dunque uno starets? È colui
che prende la vostra anima, la vostra volontà e la assorbe nella sua anima e nella sua
volontà”. In questa forma non lo si trova neanche all’Athos, è una interpretazione russa, e
commenta ancora: “lo starčestvo non è teorico, ma si fonda su una pratica che in oriente è
ormai millenaria”, una tradizione antica ripresentata in modo mai visto. Raccontando
dello starets Zosima, per spiegare la sua autorevolezza l’autore fa l’esempio di un monaco
del monte Athos, a cui lo starets aveva ordinato di andarsene, mentre lui non voleva
lasciare il monastero ed è andato fin dal patriarca di Costantinopoli per ottenere la
correzione dell’ordine dello starets. Ma il patriarca afferma di non poterlo fare, e che “non
c’era sulla terra né ci poteva un’autorità capace di scioglierlo dall’obbligo impostogli dallo
starets, se non quella dello stesso starets che glielo aveva imposto”. L’autorità dello starets è
quindi superiore a quella del patriarca, della massima istituzione ecclesiastica: così è inteso
solo dai russi. C’è un po’ questa tendenza in generale nel monachesimo athonita, ma qui è
sviluppata al massimo. Insomma, esiste un cristianesimo orientale, un cristianesimo
occidentale, e c’è un cristianesimo russo, o almeno appare legittima la sua supposizione.

Nello schema trinitario che abbiamo immaginato, il terzo elemento, cioè la Russia,
andrebbe messo in cima, e non in fondo. I russi stessi infatti conoscono bene l’oriente e
l’occidente, ma non riescono a capire che cosa sia la Russia, la Santa Russia che in realtà
non appartiene alla città terrestre, ma di sicuro alla città celeste, e da qui nascono tutti i
problemi. Per natura ogni russo è mistico, non importante che sia cristiano o ateo;
probabilmente in Russia non sono mai esistiti atei, nemmeno nel periodo sovietico
dell’ateismo militante, che era a sua volta una ideologia misticheggiante. Questa
particolare condizione della Santa Russia si riscontra anche nel carattere particolare della
filosofia russa, che di solito si ritiene cominci dal XIX secolo, con il dibattito tra slavofili e
occidentalisti. Non c’è niente di realmente contrapposto tra i due movimenti. C’è una
citazione di Aleksej Khomjakov, leader degli slavofili, che esaurisce la discussione: “in
Russia non è possibile vivere, noi non conosciamo la Russia”. Gogol’ scrive a sua volta:
“non è grande la conoscenza della Russia tra i russi”. La differenza è solo nella direzione a
cui tendono i due movimenti: gli slavofili vogliono scoprire la Russia, gli occidentalisti la
vogliono riunire al mondo occidentale, ma il dibattito non ha fondamenta reali. Nel
passato della Russia era veramente difficile trovare le tracce della Santa Russia, e ancora
più difficile nel XIX secolo; gli slavofili in questo senso sono dei metafisici, eredi
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dell’ideologia di Mosca-Terza Roma. La Terza Roma in realtà ancora non si è realizzata;
nonostante questa idea sia il fondamento della statualità russa, proprio essa è l’aspetto più
debole dell’organizzazione dello stato russo. In essa si richiede che lo stato abbia un alto
profilo spirituale, per governare sia la città celeste che la città terrestre, e nessun
governante russo si è mai avvicinato a questo ideale. L’ira dei raskol’niki si rivolge
soprattutto verso Pietro, piuttosto che contro il patriarca Nikon e la sua riforma liturgica. È
Pietro che ha rovinato con le sue azioni l’idea di Mosca-Terza Roma. È interessante notare
che i monarchici russi del XX secolo dopo il comunismo, nella discussione sulla strada da
prendere per ricostruire il paese, affermino che l’ultimo zar Nicola II fosse il più vicino allo
schema di Mosca-Terza Roma, sebbene dal punto di vista della comprensione generale
della storia russa, Nicola II risulti essere di gran lunga la figura più debole. L’idea di
Mosca-Terza Roma è la più metafisica o contemplativa delle definizioni della Russia, come
l’idea della Santa Russa in sé.
E dove mettere poi la capitale settentrionale, San Pietroburgo? I pietroburghesi amano
dire che la città sulla Neva, con i suoi spazi e i suoi edifici, è la mappa metafisica di tre
Rome: la cattedrale della Madonna di Kazan’ è un’imitazione di San Pietro a Roma, la
chiesa Spas na krovi fa il verso alla cattedrale di San Basilio a Mosca, l’isola Vassilevskij
ricorda il promontorio di Santa Sofia a Costantinopoli. San Pietroburgo non ha un posto
comprensibile nello schema russo, si trova in una nebbia metafisica. Gli scrittori russi
trattano spesso questo tema, Dostoevskij, Gogol’, Puškin: nessuno di loro dà un’immagine
positiva di San Pietroburgo. È una città che ti trascina nel fango, nella nebbia, nella palude.
È una città famosa perché i posti più belli sono quelli in cui ti perdi, e questo per gli
abitanti del posto è motivo di orgoglio. Con la sua natura metafisica San Pietroburgo
mostra, con la sua a-topia, l’impossibilità di unire oriente e occidente.

La stessa filosofia russa non ha un proprio linguaggio, è anch’essa a-topica e afasica.


Khomjakov ha cercato di introdurre un proprio linguaggio filosofico, usando ad esempio
un termine come živoznanie, la “conoscenza viva”, che per l’orecchio russo suona
grossolano, profano, poco efficace. La tradizione filosofica preferisce il termine più
immediato di “intuizione”. Oggi possiamo dire con certezza che comprendere la filosofia
russa con i termini della filosofia occidentale è impossibile, se non presupponendo per
ogni termine un contenuto diverso. Anche i russi spesso non capiscono i propri filosofi,
hanno il problema della espressione del pensiero in forma filosofica, è questo è tipico in
generale di tutti gli slavi. Spesso oggi i filosofi professionali affermano che gli slavi non
hanno filosofi, ma pubblicisti. Anche prendendo la massima espressione della filosofia
russa, quella di Vladimir Solov’ev, l’unico che ha un pensiero sistematico, la maggioranza
degli specialisti dirà che non si tratta di filosofia russa, perché in realtà non lo sanno
leggere. Nel suo caso vi è poi una assenza di successione riconosciuta: ricordiamo Sergej
Bulgakov, la cui sofiologia ricorda moltissimo l’insegnamento sulla Sofia di Solov’ev, ma

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in un articolo del 1916 sostiene che tutta la filosofia di Solov’ev non ha un grande valore,
mentre la cosa importante sono le sue poesie.
Per tornare alle fonti della filosofia russa, guardiamo il carattere particolare della
mentalità russa: spesso si dice che alla cultura russa manca l’aspetto gnoseologico, la
conoscenza del mondo e della realtà spesso si presenta in essa come una questione morale,
più che un processo di conoscenza dei fenomeni. Qui troviamo in realtà una traccia
dell’impostazione classica della mistica dei filosofi neoplatonici, non estranea alla mistica
della via contemplativa occidentale: prendendo spunto dall’immagine dell’ascesa di Mosè
al monte Sinai, secondo la trattazione di Dionigi l’Areopagita, vediamo che “non senza
ragione il divino Mosè riceve innanzitutto l’ordine di purificarsi e poi quello di separarsi
da coloro che non sono puri; dopo essersi del tutto purificato, sente il molteplice suono
delle trombe, e vede molte luci, irradianti raggi puri e diffusi; quindi si separa dalla
moltitudine, ed assieme ai sacerdoti scelti procede verso la sommità della divina ascesa.
Ma anche a questo punto non si trova assieme a Dio: ciò che contempla, non è Lui (Egli è
incontemplabile), ma il luogo in cui si trova”38. Prima di acquisire l’esperienza di
comunione col divino, l’uomo si deve distanziare da ciò che è terreno. È interessante che
nella mistica monoteista, in cui Dio è visto come una persona, c’è l’idea che nella
profondità dell’anima dell’uomo vi sia uno spazio nascosto in cui l’uomo si incontra con
Dio. Agostino, Riccardo di San Vittore, Meister Eckhart riprendono questo tema, usando
termini come habitus mentis, habitus animae. Se la mistica occidentale si orienta
principalmente sull’intelletto, la tradizione orientale preferisce parlare di discesa
dell’intelletto nel cuore: dal cuore escono i pensieri, le intenzioni. Il cuore è il centro
dell’essere dell’uomo. Qui giungiamo alla particolarità della via orientale, esaltata nella
cultura russa: la conoscenza di Dio, la vera conoscenza, si raggiunge con un atto morale
all’interno della stessa vita spirituale dell’uomo. Lo slavofilo Ivan Kireevskij parla di
questo processo come della “raccolta delle forze dello spirito”39. Qui abbiamo di nuovo
una dimostrazione che la filosofia russa non può essere compresa in modo letterale, è
necessario premettere il contesto metafisico. Spesso questa frase di Kireevskij viene intesa
nel senso di un governo dello spirito sull’intelletto, suscitando la protesta dei filosofi,
mentre Kireevskij sta parlando d’altro: usa la parola russa pokajanie (pentimento), che è
affine al greco metanoia, e indica il cambiamento dell’intelletto, proprio ciò a cui si appella
Kireevskij. L’uomo che attraverso al penitenza si è avvicinato a Dio ha cambiato il proprio
modo di pensare, le potenzialità della propria riflessione. Ricordiamo un soggetto della
Genesi, quando Dio conduce all’uomo le bestie e i volatili, e l’uomo dà a loro il nome.
Questo significa che Adamo aveva una perfezione tale da conoscere perfettamente le
realtà che Dio gli metteva davanti. Richiamando alla conversione, Kireevskij auspica
proprio la ricostituzione di questa conoscenza. È un punto importante della dottrina sulla

38PSEUDO-DIONIGI Areopagita, Teologia Mistica 1, III.


39Kireevskij espresse le sue tesi in vari scritti, tra cui un’opera sui “nuovi principi” da adottare in filosofia:
KIREEVSKIJ Ivan, O neobkhodimosti i vozmožnosti novikh načal dlja filosofii, Moskva 1856.
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Chiesa, uno dei momenti principali della riflessione slavofila, anche se il pensatore russo
non sta parlando di questo. Noi sappiamo che solo Khomjakov ha parlato della Chiesa
come sobornost’40, ma già in Kireevskij questo tema veniva presupposto.

Il tema della Chiesa e della sobornost’ in effetti è centrale nei pensatori russi. Si tratta di
una concezione che ha un aspetto particolare, che possiamo vedere particolarmente nella
dottrina di Solov’ev41. Nella sua concezione della Sofia, è importante capire che il processo
divino-umano in Solov’ev va compreso come processo divino-materiale. Questa è la
specificità della cultura russo-ortodossa: non è una cultura contemplativa, ma piuttosto
concreta e materiale. Per comprendere meglio questo aspetto, ricordiamo che in Solov’ev
bambino le cose avevano il loro nome, egli chiamava la cartella “Andrea” e la matita
“Gabriele”. L’uomo russo ortodosso vede se stesso come il governatore del creato; l’uomo
non salva semplicemente la sua anima, ma la salva solo nella Chiesa, nella sobornost’, e
salva attraverso di sé l’intera creazione. Questo è evidente nella Giustificazione del bene42 di
Solov’ev. Quando la cultura russa e ortodossa parla di universale, ha in mente proprio
l’unità di umano e materiale, con tutto il resto del mondo creato. Già a partire da questa
considerazione è più facile comprendere il cosmismo russo, che spesso parla di
risurrezione corporale nel futuro. Questo aspetto della risurrezione corporale è
importantissimo nella cultura russa. In questo la cultura russa prosegue la tradizione
dell’esicasmo, non lo riceve come eredità diretta attraverso una dottrina, ma come una
pratica. Ricordiamo l’esempio dello starčestvo: è quello che ci permette di conoscere la
tradizione dell’esicasmo russo nella sua espressione reale e quotidiana. Possiamo
richiamare in questo senso anche alcune espressioni del teologo Vladimir Losskij43, che
scrive di San Serafim di Sarov, il grande starets ottocentesco. Ci sono testimonianze dei
discepoli di Serafim, come il mercante Nikolaj Motovilov, che racconta della sua
conversazione sulla umiltà nello spirito avuta con Serafim di Sarov, e chiede: “come si
può dire che io ha già posseduto lo Spirito Santo?”. Serafim gli risponde: “io ti prendo per
le mani, e tu guarda”. Motovilov vede che il volto di Serafim brillava di luce divina, e
parte di questa luce si rifletteva su lui stesso. Questo è sintetizzato nella famosa frase di
Serafim, ripresa spesso anche dagli startsy di Optina Pustin’: “possiedi lo Spirito, e intorno
a te si salveranno a migliaia”. Secondo Losskij, Serafim non poteva conoscere la teoria
dell’esicasmo, che non era conosciuto in Russia in modo riflesso, ma la pratica che si

40 Khomjakov scrisse in diverse occasioni sulla Chiesa e la sua visione della comunione o sobornost’, ma solo
dopo la sua morte venne pubblicato nel 1864 il testo O Tserkvi, per la cui traduzione italiana vedi CAVAZZA
Antonella, “La Chiesa è una” di A.S. Chomjakov. Edizione documentario-interpretativa, ed. Il Mulino, Bologna
2006.
41 Nel 1887 Solov’ev scrisse una ponderosa opera sulla Chiesa e la “libera teocrazia”, la cui parte più

significativa fu pubblicata in francese col titolo La Russie et l’Eglise universelle, Paris 1889.
42 SOLOV’EV Vladimir, “Opravdanie Dobra”, in Voprosy filosofii i psikhologii 1889-1894.
43 Cfr. LOSSKIJ Vladimir, Essai sur la théologie mystique de l’Église d’Orient, Paris 1944.

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trasmetteva di generazione in generazione era arrivata fino alla cultura russa come
esperienza dell’esicasmo, la cui sostanza è la visione della luce taborica nella realtà.

Concludendo questa riflessione sulla conoscenza, la salvezza e la contemplazione


possiamo dire che il momento estetico, l’espressione della bellezza, non è scindibile
dall’atto morale e dall’atto di conoscenza. Al momento del battesimo, i messi di Vladimir
rimasero stupiti dalla bellezza dell’esperienza vissuta nella chiesa di Santa Sofia a
Costantinopoli; la bellezza per il russo ha un fondamento spirituale, proprio questo
permette a Dostoevskij nell’Idiota che “la bellezza salverà il mondo”. Quando parliamo di
esperienza mistica nella cultura russa, dobbiamo tenere a mente questa unione di moralità,
conoscenza e percezione estetica. La cultura russa, inoltre, è particolarmente sensibile alla
contrapposizione tra il bene e il male. A noi sembra assolutamente naturale non parlare
del male; è molto efficace invece la frase di Solov’ev nei Tre Discorsi sull’Anticristo, che egli
scrisse nel 1900 ormai in punto di morte, quando descrive il male in questi termini: “esso
non si è mai mostrato a voi apertamente, ma vive dietro a voi, dietro il confine
dell’incognito, non è altri che il dio di questo secolo”. Il male non si chiama mai per nome,
e la cultura russa ha cercato di completare questo camuffamento del male nel mondo.
Ricordiamo ancora Dostoevskij; a volte leggendolo si può giungere a conclusioni non
particolarmente positive. Ai suoi personaggi capita che per comprendersi compiano dei
delitti, che finchè non compiono il male non capiscano la differenza tra il bene e il male.
Solo compiendo direttamente il delitto, pare suggerire, ci si può rivolgere in modo
cosciente al bene e alla bontà. La contrapposizione tra bene e male accompagna sempre la
vita dell’uomo, ma Dostoevskij va capito anche in altro modo: per lui fondamentale non è
il ruolo del male del mondo, ma il fatto che l’uomo è il centro del mondo. Una frase
famosa dei padri spirituali afferma che il cuore dell’uomo è il campo di battaglia tra Dio e
il diavolo. L’aspetto morale della contrapposizione tra bene e male ha delle radici
profondamente personaliste.

Va inoltre ribadito il grande significato del percorso della moralità e della santità
raggiunta attraverso la sofferenza. L’uomo russo non percepisce l’essere se non soffre.
Nelle chiese ortodosse russe c’è un angolo in fondo alla chiesa, l’angolo della confessione,
dove le persone stanno in ginocchio e piangono, e poi, dopo aver ricevuto l’assoluzione, si
allontano radiose come angeli. Sempre Dostoevskij ha saputo trasmettere questo tratto
della cultura russa: vivere dalla caduta alla rinascita, di nuovo e di nuovo. In questo
processo l’anima soffre, ma è una sofferenza dolce. È un’altra modulazione della
particolare impostazione del pensiero filosofico russo, che ritrova la bellezza non separata
dall’atto di conoscenza, e la sofferenza è proprio il riflesso più acuto della conoscenza.
Non si può mettere da una parte la percezione della bellezza, dall’altra la conoscenza.
Bisogna mettere insieme bellezza, conoscenza e moralità o salvezza. La bellezza nella
cultura russa non è pensabile senza gli altri due elementi. Pensiamo all’esempio dei santi
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jurodivye, come Santa Ksenja di San Pietroburgo (1719-1803), una donna rimasta vedova e
che aveva assunto l’impegno spirituale di testimoniare la comunione con il marito
defunto: si faceva chiamare con il suo nome, Andrej Fedorovič, indossava i suoi vestiti e
girava per anni per le strade senza cambiarsi d’abito, né d’inverno né d’estate. Dopo anni
di questo girovagare, dal punto di vista dell’estetica non poteva certo essere una bellezza,
ma da un altro punto di vista nella spiritualità pietroburghese non c’è un’immagine più
bella, ogni donna di San Pietroburgo è molto devota a Santa Ksenja: è l’immagine della
bellezza spirituale e la protettrice della famiglia. Lo stesso si può dire di molti altri santi e
beati russi. Si può parlare della bellezza e dell’ordine, che è quanto di può contrario
all’ideale russo della bellezza, non si incontra mai con essa. Si può tornare alla santa
Russia: la Russia non è bella, in essa non si può vivere, ma in realtà non esiste una Santa
Russia in senso puramente esteriore, storico-geografico. Il luogo santo non è il posto dove
tutto è bello e buono, ma quello che eleva l’uomo: il deserto, la grotta, la palude sono una
serie di luoghi malsani, ma in essi l’uomo eleva la propria anima, e in questo senso la
Russia diventa la Santa Russia. Per i russi stessi è così difficile viverci, che il loro spirito è
sempre in elevazione; mentre quando l’uomo vive in condizioni agiate, non riflette più
tanto sulle proprie condizioni spirituali. In Russia si riflette sempre sullo spirito. Facciamo
l’esempio della giustizia, della pravda: solo nella lingua russa c’è differenza tra due termini
che indicano la verità e la giustizia, tra istina e pravda. È una dimostrazione che lo spirito
russo non vive seconde delle regole, e soprattutto non secondo le regole della logica; come
immaginare una verità che non sia una giustizia? Ma per il russo la verità della somma di
due più due potrebbe non essere una cosa giusta, la verità deve esprimere un profondo
senso morale, quindi due più due non è pravda, non ha questo significato morale. Spesso si
dice che i russi disprezzano le leggi, quelle del vivere sociale; nessuno si interessa delle
leggi, perché esse non servono, se nel proprio cuore si sa quale è la verità e la giustizia.
Quindi un atto negativo dal punto di vista della legge sociale spesso viene giustificato
attraverso la giustizia umana interiore. Per questo la cultura russa squalifica i difensori dei
diritti umani e gli intellettuali, le persone che pretendono di spiegare che cosa è cosa al
popolo, che di suo conosce già la verità. Non c’è un modo positivo nella mentalità russa di
definire l’intelligent, è una denominazione umiliante, si dice intelligent poršivyj, “lurido
intellettuale”. Ricordiamo i filosofi russi che sentono di dover esprimere la verità della
propria cultura “tornando al popolo”, come fonte della cultura. Per gli slavofili questo è
legato al concetto di obščina, e questo vale anche per gli occidentalisti. Circa il rapporto tra
popolo e intelligentsija, si deve ricordare che una persona istruita in Russia è considerata
ambigua, perché porta in sé due culture: quella occidentale per l’istruzione, mentre
nell’anima appartiene alla cultura russa. Leggendo le memorie dei viaggiatori stranieri in
Russia, spesso viene riportata la sorpresa di fronte alla duplicità di comportamento dei
russi, quando persone perbene e istruite si comportano dignitosamente in società, mentre
appena arrivati nella propria dacia di campagna cominciano a perdere ogni controllo del

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comportamento. Evidentemente questa ambiguità esiste nell’anima russa, è un dualismo
tra oriente e occidente non eliminabile.

La Russia entra in Europa, l’Europa in Russia.

Abbiamo visto che la mistica russa è legata all’incarnazione, alla realtà della
sofferenza. Recentemente è uscito un film, L’Isola (2008) di Pavel Lungin, che affida il ruolo
principale allo stesso attore che impersona Ivan il Terribile in Zar, il musicista Petr
Mamonov, dall’aspetto molto rude e molto “russo”. È la storia di uno starets, padre
Anatolij, diventato monaco dopo un evento tragico della fine della guerra, quando si era
macchiato del sangue di un compagno ucciso, da lui tradito. Un altro compagno d’arme
viene a trovarlo dopo molti anni senza riconoscerlo, e gli presenta la figlia autistica
sperando in un miracolo. Lo starets si comporta da jurodivyj, e imitando la lingua degli
uccelli riesce a parlare con la ragazza, compie il miracolo, e viene riconosciuto come il
traditore. Si mette in evidenza come dal peccato rinasca la grazia, la bellezza purificata
dalla sofferenza e dal tradimento. In Zar il tema era l’identità nazionale, nell’Isola è proprio
la santità russa, che scaturisce dall’esperienza drammatica della storia. Quello dell’asceta
che si converte dopo il peccato, in realtà, non è un tema esclusivamente russo: nella
letteratura italiana abbiamo l’esempio del fra Cristoforo manzoniano dei Promessi Sposi. È
interessante che questo aspetto così russo trovi molti agganci nella spiritualità occidentale,
a volte più facilmente che nella tradizione dell’ortodossia greca, sia pure con dei parametri
diversi.
Questo anche per dire che esiste effettivamente un chiaro influsso occidentale sulla
spiritualità russa, che merita di essere approfondito. Quando parliamo di religiosità nella
cultura russa, abbiamo notato che esiste un continuo rimando tra estremi o poli opposti,
tra il polo orientale e il polo occidentale della spiritualità cristiana, che in Russia trovano,
secondo il principio della trinitarietà, un terzo elemento un po’ confuso, Florenskij direbbe
“antinomico”, che fa risaltare maggiormente la verità di entrambi. La penetrazione della
cultura occidentale in Russia inizia in effetti proprio quando il paese comincia ad
acquistare una sua identità autonoma, quando si diffonde la teoria di Mosca-Terza Roma,
e con essa inizia anche il paragone diretto con l’occidente. La Russia aveva iniziato il suo
cammino con il battesimo del 988 quasi “alla pari” con l’occidente latino, che alla fine del
primo millennio, prima della riforma gregoriana, era in una situazione di apertura di una
nuova fase, più o meno come la Russia. L’unico periodo di fulgore dell’occidente europeo,
dopo il crollo dell’impero romano nel V secolo, era stato fino allora il breve periodo
carolingio, ma di fatto non vi era uno scarto storico e culturale così grande tra la Russia e
l’Europa. Questa distanza si è formata negli oltre duecento anni di occupazione mongola,
perché nel XII e nel XIII secolo, fino agli inizi del XIV, l’occidente latino ha formulato e
organizzato la propria ideologia spirituale, l’ideologia papale, il primo grande spunto di
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riforma, e le grandi sintesi teologiche del tomismo, del francescanesimo, dello scotismo
con gli sviluppi successivi fino al nominalismo inglese. Quando la Russia esce dal giogo
tartaro, si trova a questo punto in grave ritardo, culturale, scientifico, tecnologico e anche
religioso nei confronti dell’occidente. Essa recupera in parte la propria tradizione religiosa
riprendendo l’ispirazione bizantina, soprattutto simboleggiata dall’icona, che con Andrej
Rublev fornisce appunto le categorie culturali per la rinascita della Russia, agli inizi del
Quattrocento.

Si arriva così a una data fatidica, il 1439, con il Concilio di Ferrara-Firenze. Questo
evento è nello stesso tempo un punto di partenza per la Russia, e un punto di arrivo per
l’occidente, perché l’Unione di Firenze è l’ultimo tentativo medievale di riunificare
ortodossia e cattolicesimo, in cui la Grecia bizantina cerca disperatamente di salvarsi
dall’invasione ottomana, che la costringe ad aprirsi a questa unione. Ma è anche il
momento in cui l’unione di fatto fallisce, perché i latini non riescono ad aiutare i greci a
salvarsi dai turchi ottomani, facendo mancare la possibile conferma storica della
riconciliazione ottenuta solo a livello teorico. I russi, come abbiamo visto, entrano nella
delegazione greca con il metropolita Isidoro di Kiev e il vescovo Avraamij di Mosca che
firmano l’Unione, ma per loro non è una questione così decisiva come per i greci.
Tornando in patria l’unione fallirà anche a Mosca, ma non per i motivi per cui è fallita in
Grecia, per la mancanza della sponda nella lotta per la sopravvivenza, ma al contrario,
perché Mosca in quel momento prende coscienza della propria autonomia. Ci sarà
comunque un effetto dell’Unione: Isidoro diventato cardinale organizza la propaganda
dell’Unione nei territori polacco-ucraini, e riuscirà a ispirare il movimento unionista
ucraino, che arriverà all’accettazione dell’Unione da parte degli ucraini alla fine del XVI
secolo. È l’origine degli “uniati”, fenomeno che interessa le provincie occidentali
dell’Ucraina, che fanno comunque parte del mondo russo. L’uniatismo è quindi un aspetto
della spiritualità russa: rifiutato ed esecrato a Mosca, ma non a caso condannato anche dai
cattolici latini polacchi, che ritenevano gli uniati estranei alla propria cultura e alla propria
organizzazione sociale. Se gli uniati ucraini dovessero scegliere tra lo stare con i cattolici
polacchi piuttosto che con gli ortodossi russi, probabilmente sceglierebbero questi ultimi.
Essi riconoscono il papa, non il “latinismo”, quindi di fatto l’uniatismo ucraino è sempre
stato parte della spiritualità russa, e come tale va compreso anche oggi. L’ideologia
fondamentale della Chiesa uniate prevede l’aspirazione al patriarcato con sede a Kiev; il
primate ucraino per i latini ha il titolo di arcivescovo maggiore, per gli uniati stessi è il
patriarca. Essi si sentono eredi del cristianesimo russo di Kiev, più che del cristianesimo
latino franco-germanico o slavo occidentale.

L’unione di Firenze è anche punto di arrivo della riforma medievale del papato,
iniziata con la riforma gregoriana, che intendeva mettere il papa al di sopra di ogni
autorità, sia ecclesiastica che civile. Questo processo si compie solo a Firenze, dopo la
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lunga “lotta per le investiture” e l’altalenante dialettica tra il papato e il movimento
conciliarista, il XIV secolo con l’esilio avignonese, i numerosi antipapi e una serie di
continue tensioni nella Chiesa Cattolica. Firenze è la conclusione del Concilio di Basilea,
poi spostato a Ferrara e concluso appunto a Firenze. Era iniziato come concilio
“conciliarista”, che doveva affermare la superiorità del concilio sul papa, uscendo dallo
scisma dei tre antipapi. Il papa Eugenio IV aveva formalmente accettato le posizioni
conciliariste, ma poi era riuscito a depotenziarle, lasciando a Basilea gli esponenti più
radicali di questa linea, e a Ferrara aveva potuto riportare la deriva conciliarista su una
linea più decisamente “papista”. L’unione con gli ortodossi dal punto di vista del papa
non era tanto motivata da un desiderio ecumenico, quanto dalla volontà di affermare la
capacità del papa di riunire tutti i cristiani, riuscendo a risottomettere in qualche modo gli
orientali ortodossi al primato papale. A differenza del II Concilio di Lione del 1274 (altro
concilio unionista), il Concilio di Firenze fu preparato come si deve, e furono discussi tutti
gli argomenti che dividevano le due Chiese, riunendo i migliori teologi cattolici e la
grande maggioranza dei vescovi ortodossi insieme al patriarca Giuseppe di
Costantinopoli, a quel tempo unico patriarca orientale. L’unica questione che non fu
discussa esplicitamente fu proprio quella del primato romano, che nelle intenzioni del
papa si risolveva con la firma stessa dell’Unione, che fu sottoscritta da tutti, prima dagli
armeni e poi dai greci, compresi i due russi. Alla metà del Quattrocento il papato aveva
dunque raggiunto il suo scopo, e si era in qualche modo trasformato non più in un centro
dinamico di ricerca dello statuto ecclesiale ideale, ma da un certo punto di vista in un
regno terreno come gli altri, pur conservando importanti caratteristiche teologiche. Lo
splendore della corte papale come massima potenza europea si estende dal Quattrocento
alla metà del Cinquecento, e non a caso in questo periodo avverrà la Riforma luterana, a
causa degli eccessi mondani dello stesso papato. È interessante che proprio nel momento
in cui Mosca si sente ormai l’erede di Costantinopoli, e acquisisce un’autocoscienza
religiosa e nazionale di potenza autonoma, il papato raggiunga la sua massima
espressione di supremazia ecclesiastica e politica; è uno dei paradossi che mostrano i nessi
cruciali della storia. Si ha così l’inizio non solo di un confronto a distanza tra Mosca e
Roma, ma anche di interscambio ideologico e politico tra le due corti.

Il succedersi delle date nel Quattrocento è particolarmente importante: dopo il


Concilio di Firenze vi sarà nel 1453 la caduta di Costantinopoli, il crollo della “seconda
Roma”, così che rimangono in lizza solo la prima e la terza. Il principe di Mosca comincia
da questo momento a riformulare la propria ideologia e la propria simbolica politico-
religiosa. Ci sono due elementi che si intrecciano in questo passaggio, la modificazione
dell’immagine del principe, che assume sempre più le caratteristiche del signore imperiale,
e la costruzione di un centro urbano e religioso degno di questa nuova ambizione, e cioè il
Cremlino di Mosca. In questo processo si trova in qualche modo uno strascico del Concilio
di Firenze: nel 1468, quando ormai Costantinopoli non esiste più, il cardinal Bessarione,
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ex-metropolita di Nicea, un vescovo ortodosso unito, rimasto a Roma e nominato abate di
Grottaferrata, assume un’iniziativa che sarà gravida di conseguenze molto significative.
Egli si considerava in quegli anni il protettore dei greci in Italia, visto che dopo la caduta
di Costantinopoli si era verificata una fuga di greci per tutta l’Europa e soprattutto in
Italia, sotto la protezione del papa, che in quel momento li riteneva suoi sudditi grazie alla
firma dell’Unione. Così Bessarione si inventa un progetto particolare: invia una
delegazione a Mosca per proporre il matrimonio del principe locale con una sua protetta,
Zoe Paleologa, nipote di Costantino XI, ultimo imperatore bizantino. La delegazione di
Bessarione a Mosca è costituita da rappresentanti del papa, che presentano al Gran
Principe Ivan III la proposta di sposare la principessa imperiale. La delegazione viene
accolta con grande interesse, perché il matrimonio con una rampolla della famiglia
imperiale potrebbe dare al principe di Mosca l’opportunità di assumere una figura di
successione dell’imperatore di Costantinopoli. Nelle trattative sulle condizioni del
matrimonio, si palesa l’intrigo di Bessarione, che cerca di far credere allo zar che la
principessa rimarrà ortodossa, e al papa che rimarrà cattolica. Essendo a pochi anni dal
Concilio di Firenze, questa ambiguità è giustificata dalla mancanza di chiarezza circa la
consistenza dell’unione, sottoscritta ma non realizzata. La delegazione torna a Roma, e nel
1472 si tiene un concistoro di cardinali in cui viene approvato il matrimonio, dopo aver
discusso al lungo la questione confessionale, questione dirimente per la canonicità dello
stesso. Bessarione riesce a convincere il papa e i cardinali che in fondo questi cristiani della
Russia sono da ritenere uniti, spalleggiato da Isidoro, tornato da Mosca facendo credere
che i russi appoggiavano l’unione. I russi “cattolici” vengono chiamati alla latina ruteni,
nome già usato dai cronisti latini come aggettivo del nome Rus’; da qui il termine rimarrà
generalmente usato, dalla Russia meridionale fino ai Balcani, per indicare gli slavi orientali
considerati in qualche modo greco-cattolici o comunque più vicini al papa, come variante
dei russi legata all’unione. Nel giugno del 1472 viene solennemente celebrato dal papa in
S. Pietro il fidanzamento “in contumacia” di Zoe Paleologa, benedicendo le nozze da parte
cattolica. Zoe viene così inviata a Mosca, dove arriva nel novembre del 1472 e viene
chiamata Sofia, con una specie di “russificazione” del nome, che rimaneva comunque
greco (questa sì una vera “pseudomorfosi”!). Zoe-Sofia Paleologa è tenuta d’occhio da un
messo papale, il vescovo Bonumbre, che non la perde di vista per controllare che renda
testimonianza di fede cattolica. Il tutore papale pretende che il corteo con la principessa
entri a Mosca preceduto da una processione religiosa con a capo la croce latina, suscitando
la veemente reazione del metropolita di Mosca Filipp, che minaccia di andarsene. Alla fine
si dovrà rinunciare alla croce latina, e il 12 novembre viene infine celebrato il matrimonio,
che non riuscirà a realizzare l’unione sperata. Zoe Paleologa probabilmente non aveva mai
avuto intenzione di sottomettersi al papa come principessa di Mosca, forse istruita in
questo dallo stesso Bessarione, che voleva piuttosto favorire una prosecuzione della gloria
imperiale bizantina.

89
L’insieme della vicenda lascia comunque pensare che, in qualche modo, il principe
russo sia vicino al papa, anche se non unito. Da questo momento Ivan III assume l’aquila
bizantina come simbolo imperiale, diventa formalmente Gran Principe, il principato
diventa “regno di Mosca”. Anche se Ivan non ha l’ardire di proclamarsi imperatore,
comincia tuttavia ad appropriarsi della simbologia imperiale. Questo matrimonio così
strano evidenzia il paradosso della definitiva affermazione di Mosca come potenza
ortodossa, ma anche come sponda e punto di riferimento dello stesso papato. Per
affermare ancora di più questa sua identità, il metropolita viene spinto dal Gran Principe a
iniziare la costruzione di una degna cattedrale metropolitana, che sarà la cattedrale
dell’Assunzione al Cremlino. Dopo tre anni dall’inizio dei lavori (1469), proprio nel
periodo dell’arrivo di Zoe Paleologa, la cattedrale costruita dalle maestranze russe, e
arrivata ormai alla volta, crolla totalmente per debolezze strutturali. Il Gran Principe si
adira e fa di tutto per trovare una soluzione, invita altre maestranze da Pskov, città russa
più occidentale e ancora indipendente da Mosca, ma i maestri di Pskov si spaventano e
rifiutano l’invito. Nessuno in Russia sa come costruire una grande cattedrale, di nuovo la
“tradizione” si rivela arida e insufficiente. Zoe-Sofia Paleologa suggerisce allora di
chiamare un architetto italiano, Aristotile Fioravanti, che era piuttosto un ingegnere civile
capace di inventare geniali soluzioni urbanistiche a Bologna e Firenze, e che aveva
lavorato alcuni anni prima perfino in Ungheria per il re Mattia Corvino44. Nel 1474 viene
mandato appositamente in Italia un ambasciatore di Mosca, Semen Tolbuzin, con una
doppia missione: chiamare l’architetto e risolvere una situazione politica delicata. La
questione era legata alla delegazione di Zoe Paleologa di due anni prima, in cui si era
inserito il veneziano Trevisan, che intendeva passare da Mosca per raggiungere un khan
tartaro ancora non sottomesso e proporgli una alleanza anti-turca, aggirando gli interessi
di Mosca. Il principe, venuto a conoscenza di questo intrigo, lo fa incarcerare insieme a un
monsignore romano, finchè, dietro insistenze e offerte dei veneziani, invia Tolbuzin a
Venezia, dove Zoe-Sofia aveva suggerito di cercare Fioravanti, che si era rifugiato a
Venezia per evitare le accuse di corruzione lanciate contro di lui a Bologna. Fioravanti era
effettivamente un personaggio famoso al tempo, ma Tolbuzin lo esaltò in modo eccessivo,
affermando che il Doge non lo avrebbe mai fatto partire, essendo colui che ha costruito la
basilica di S. Marco. Questa era ben conosciuta dai vescovi ortodossi fin dalla loro
partecipazione al Concilio di Firenze: la delegazione greca era stata fatta appositamente
sbarcare a Venezia, anche per il consistente finanziamento che il Doge aveva accordato al
papa per concludere il Concilio, che a Ferrara si era interrotto per mancanza di fondi. Gli
ortodossi erano stati afferrati dallo stupore per la somiglianza della basilica veneziana con
la cattedrale di S. Sofia, quasi ripetendo l’esperienza dei primi ambasciatori russi di

44 Per le notizie su Fioravanti a Mosca ringrazio in modo particolare il prof. Mikhail TALALAY, autore di un

articolo su “Aristotile Fioravanti: un ideatore italiano dello stile russo”, in via di pubblicazione nel 2010.
90
Vladimir; S. Marco da allora rimase un mito nella coscienza ortodossa, come fosse una
“propria” chiesa.
Infine Tolbuzin riuscì a portare a Mosca Fioravanti, questo “costruttore di cattedrali”
che in realtà di suo era un ingegnere specializzato nella fusione dei cannoni. La sua figura
è emblematica del suo tempo: egli era un uomo poliedrico, esponente dell’umanesimo e
contemporaneo di Leonardo di Vinci, e in Russia divenne famoso semplicemente con il
nome proprio Aristotile, che richiamava l’antico genio greco. In lui divenne evidente tutto
lo scarto culturale tra la Russia e l’occidente. Fioravanti organizzò la ricostruzione della
cattedrale del Cremlino, secondo le cronache russe, copiando la chiesa della Dormizione di
Vladimir, che funse in effetti da modello, per non ammettere che l’architettura del
Cremlino è più occidentale che russa. In realtà Fioravanti gettò le fondamenta del nuovo
edificio immediatamente, prima di recarsi a Vladimir; da uomo esperto, visto il disastro
delle prime maestranze si era subito reso conto degli errori, e volle impostare i lavori in
modo appropriato alle tecniche moderne. In seguito si recò effettivamente a Vladimir,
motivato dal fatto che l’edilizia fatta per modelli era lo stile del tempo; non conoscendo
nulla della Russia, usò la miglior chiesa esistente come modello (del resto, la stessa
cattedrale di Vladimir era stata costruita nel XII secolo da maestranze inviate
dall’imperatore Federico Barbarossa). La tecnica edilizia peraltro era tutta veneziana, tolte
le cupole a cipolla tutte le chiese del Cremlino sono copie di palazzi veneziani del
Quattrocento; infatti Fioravanti si occupò della ristrutturazione dell’intera fortezza, che era
la sua vera specialità. In cinque anni, dal 1474 al 1479, fece costruire la nuova cattedrale
della Dormizione del Cremlino, che risultò un perfetto esempio di sintesi tra l’architettura
bizantina e quella occidentale: l’esterno è tipicamente veneziano, mentre l’interno è
risistemato in modo diverso; Fioravanti infatti non sapeva della necessità di elevare
l’iconostasi, tantomeno ne conosceva la tipica variante russa di parete intera fino al
soffitto, e dovette adattare l’interno in un secondo momento, come attestano i documenti
originali delle modifiche al progetto da lui apportato proprio per collocare l’iconostasi. Il
risultato è di una chiesa più spaziosa e ariosa delle solite chiese russe, come un grande
palazzo veneziano adattato. Dall’esterno, secondo i commenti riportati dalle cronache
russe, “sembra un’unica pietra compatta, mentre all’interno si ammira lo splendore del
paradiso”; di nuovo lo stupore per la bellezza dello spazio liturgico!

Lo stile di questa chiesa contribuirà a formare un elemento costante dell’architettura


russa, la reinvenzione dello spirito russo su un corpo occidentale. Questa è infatti la
caratteristica di tutta l’architettura di San Pietroburgo, il “barocco russo” introvabile
altrove: un barocco occidentale ortodosso e russificato. Il Cremlino a sua volta divenne il
simbolo della nuova Russia, e lo è tuttora, è il luogo che individua la sede del potere russo,
come il Vaticano, la Casa Bianca, l’Eliseo o Buckingham Palace negli altri paesi. Fioravanti
con il suo progetto ha determinato inoltre l’intero sviluppo della città di Mosca, che segue
uno schema centrato sulla fortificazione del Cremlino con la piazza Rossa antistante.
91
Mosca, la più russa delle città russe, “l’anima russa” dal punto di vista urbanistico, è
costruita su caratteri occidentali. Gli storici russi preferiscono parlare di un Fioravanti
“convertito alla russicità”, ma si può ugualmente parlare di una Russia erede del genio
italiano. Finita l’opera per cui era stato chiamato, Fioravanti desiderava tornare in patria,
ma il principe lo trattenne, incaricandolo di costruire i cannoni necessari alle guerre con i
tartari, i turchi e le stesse città russe non sottomesse, e in generale per organizzare l’intera
artiglieria russa; divenne infatti il comandante dell’artiglieria dell’esercito della Moscovia.
I documenti riportano la sua presenza nelle campagne militari contro le città di Pskov e
Novgorod, e contro l’Orda d’Oro. Oltre a questo incarico principale, Fioravanti organizzò
tutta una serie di funzioni sussidiarie, insegnando le tecniche di fusione, la costruzione dei
macchinari, insomma portando in Russia tutto il progresso tecnologico occidentale,
supportato da maestranze italiane. Esiste infatti un collegamento tra il Cremlino di Mosca
e il Castello Sforzesco di Milano, testimoniato dal grande numero di maestranze lombarde
portate da Fioravanti a Mosca. Iniziò con lui una vera e propria ondata di maestri italiani,
dagli anni Settanta del Quattrocento fino a Cinquecento inoltrato, una specie di “moda”
degli italiani, che in quel momento erano il meglio della cultura, dell’arte e della tecnica.

Fioravanti infine cercò di scappare da Mosca, ma fu fermato alla frontiera,


imprigionato e poi liberato per tornare a capo dell’artiglieria nell’ennesima campagna
contro i tartari di Kazan’, secondo l’ultima notizia storica che abbiamo di lui. Non si sa se
sia morto in battaglia, rimasto in Russia o fuggito dopo quella campagna del 1485. La sua
storia è un esempio molto calzante, che attesta come dalla seconda metà del Quattrocento
l’afflusso di tecnici, umanisti, uomini di cultura occidentale fosse diventato normale in
Russia, ma secondo un movimento a fisarmonica, con periodi di chiusura e di apertura tra
loro alternati. È come se la Russia avesse metabolizzato l’esperienza del giogo tartaro,
concedendosi brevi aperture per poi ripararsi dietro lunghe chiusure, voler rimettere
periodicamente tutto in gioco, e poi riposare nelle lunghe stagnazioni, dando a questo
movimento altalenante la caratteristica di elemento costante della storia russa. La “moda”
italiana di fine Quattrocento si esaurì nel corso del Cinquecento per il montare di una
nuova ondata di nazionalismo russo, che avrà il suo vertice nel regno di Ivan IV. Vi furono
anche episodi di xenofobia, con notizie riportate dalle cronache di italiani prima accettati,
e poi rifiutati dalla società russa, come un medico italiano che non era riuscito a guarire un
boiaro, e per questo venne ucciso esemplarmente sulla piazza Rossa. Agli inizi del
Settecento, il più occidentalista degli zar russi, Pietro il Grande, pronunciò una frase
fatidica: “noi ci dobbiamo aprire all’occidente per una trentina d’anni, poi gli mostreremo
le terga”, e così avvenne.

Il cappello di Monomaco sulla Chiesa-Stato.

92
Ci siamo soffermati sull’episodio della costruzione del Cremlino per il suo grande
valore simbolico, che illustra meglio di tanti discorsi la natura del rapporto della Russia
con l’occidente. La questione dell’influsso dell’occidente ha poi una serie di sviluppi molto
importanti, che in parte si analizzano meglio seguendo l’evoluzione del pensiero filosofico
russo; col tempo tale influsso diventò infatti sempre più un influsso ideologico e filosofico,
ma le sue radici non stanno nella riflessione teoretica, quanto piuttosto nelle stesse
circostanze storiche, in cui oriente e occidente hanno trovato nella Russia un loro punto di
incontro. Fu proprio uno di questi incroci di circostanze a portare a Mosca, poco dopo
Fioravanti, un altro personaggio particolarmente significativo come Maksim Grek (1470-
1556), anch’egli una figura di confine tra oriente e occidente. Maksim (al secolo Trivolis)
era un monaco greco, che alla fine del Quattrocento si era trovato a Firenze durante il
periodo di Girolamo Savonarola (1452-1498) e della repubblica di Firenze del 1494.
Savonarola aveva dato vita a una delle più eclatanti forme di riforma della vita monastica,
della Chiesa e dello stato secondo gli ideali domenicani e francescani della povertà e della
rinuncia al possesso, proponendo una Chiesa purificata da ogni forma di simonia e
corruzione (come quella della Curia romana di quegli anni, sotto il pontificato di
Alessandro VI Borgia), che fosse l’anima di una società altrettanto “pura”, di cui la
repubblica fiorentina doveva essere un modello. Maksim era un discepolo di Savonarola, e
dovette poi scappare da Firenze dopo l’impiccagione di Girolamo e compagni, i cui corpi
furono bruciati in piazza della Signoria, e le ceneri disperse nell’Arno. Nei primi anni del
Cinquecento egli venne accolto al Monte Athos, nel monastero Vatopedi, dove giunse la
richiesta dei russi di inviare in Moscovia un monaco istruito per insegnare la vera
spiritualità, e Maksim viene infine inviato a Mosca. Giunse così in Russia come autorità
della Santa Montagna, fonte dell’autentica ortodossia, ma insieme all’ortodossia egli
portava lo spirito riformatore ed egualitario dell’umanesimo occidentale. Una delle sue
prime iniziative fu la traduzione in russo del salterio, poi di altri testi, tra cui anche
Platone e altri classici della filosofia greca. Anche per questo Maksim Grek è da
considerare un po’ all’origine dello sviluppo filosofico russo, che non si fondava tanto
sulla spiritualità ortodossa, quanto sulla riscoperta del mondo classico tipica
dell’umanesimo, e infatti Maksim si guadagnò in Russia l’accusa di eresia. Egli si era nel
frattempo unito ai nestjažateli di Nil Sorskij, il monaco esicasta russo, molto vicino allo
spirito dei domenicani di Savonarola. Per il suo appoggio ai non-possidenti contro gli
iosifliani, e per aver tradotto testi religiosi in russo (era ammessa solo la lingua “sacra”
slavo-ecclesiastica), Maksim venne accusato di eresia e attentato allo stato ortodosso, di
aver corrotto i libri della Chiesa e inquinato l’autentica letteratura religiosa. Rimase
incarcerato per circa trent’anni in vari monasteri, in buona parte (soprattutto gli ultimi
quindici, che trascorse nella Lavra di San Sergij) in condizioni abbastanza favorevoli,
essendo stimato come starets dell’Athos, e potette dedicarsi al lavoro di traduzione di
molti testi patristici, filosofici, liturgici. Se Fioravanti aveva portato la tecnica, Maksim
Grek portò la cultura, con un approccio ortodosso greco, e quindi permettendo un
93
effettivo riaggancio anche alla letteratura patristica, ma impregnato di umanesimo latino
occidentale. È insomma una figura russo-greco-italiana, il cui destino, pur non
concludendosi così tragicamente come quello del suo maestro Savonarola, tuttavia fu
segnato dalla vittoria dei suoi avversari iosifliani, ispiratori del regno ortodosso di uno dei
più crudeli e violenti autocrati della storia russa.

Nel corso del XVI secolo la Rus’ approda infatti al regno di Ivan IV il Terribile, durato
oltre cinquant’anni, dal 1533 al 1584, che ne segnò definitivamente gli sviluppi futuri. Ivan
divenne principe a soli tre anni dopo una convulsa fase di successione e nel 1547, a
diciassette anni, prese in mano la situazione instaurando una vera dittatura. Durante la
sua incoronazione, il cui rito fu predisposto dal metropolita di Mosca Makarij, per la
prima volta fu imposto al principe di Mosca il titolo di tsar, versione russificata per
“cesare”, imperatore. Il copricapo di foggia asiatica che dalla metà del Trecento si
tramandava ai principi di Mosca, probabilmente un dono di un khan tartaro a Jurij
Dolgorukij o Ivan Kalita, venne chiamato solennemente “il cappello di Monomaco”, šapka
Monomakha, grazie a una leggenda appositamente composta agli inizi del Cinquecento, che
ne attribuiva il possesso originario all’imperatore di Costantinopoli Costantino IX
Monomaco, il quale a sua volta l’avrebbe donato al nipote Vladimir II, principe di Kiev e
nipote anche di Jaroslav il Saggio. Di nuovo una leggenda di successione legata a un
copricapo, come la “tiara bianca” di Novgorod, per indicare un destino scritto per la
Russia dai tempi antichi, ma di fatto assunto in proprio come una nuova era che si apriva
per la Russia e per l’umanità. Ivan IV ricevette perfino le lettere gratulatorie di Maria
Tudor e di Filippo II di Spagna, che gli si rivolgevano con il titolo di “Augusto
Imperatore”.

Il metropolita Makarij di Mosca (1482-1563) non si limitò a benedire e consacrare il


nuovo zar, ma ebbe su di lui e sulla sua politica un influsso notevole. Discepolo di Iosif
Volotskij e convinto sostenitore dello iosifljanstvo, l’ideologia monastica della Chiesa
“costitutiva dello stato”, Makarij è stato una delle più importanti personalità ecclesiastiche
della storia religiosa della Russia. Fu l’autore dei Velikye Čety-Minej, le “Grandi Letture
Mensili”, un’opera che per la sua importanza culturologica è paragonabile alla Cronaca di
Nestor. Si tratta del primo grande testo religioso della Russia medievale, dopo il giogo
tartaro, ed espresse in termini liturgico-storici quella sintesi neobizantina che nel
Quattrocento si era manifestata principalmente nell’iconografia. Uomo dall’intelligenza
brillante e dall’animo sensibile, in Makarij si ravvisa la persona più colta della Russia
prepetrina; pose i suoi talenti al servizio di un’impresa di notevoli dimensioni e colossale
difficoltà. Mosca, infatti, ormai capitale di un forte stato centralizzato, era priva di
tradizioni culturali e non aveva mai conosciuto il fiorire di una creazione letteraria
autoctona. L’unità statale andava garantita dalla fiera coscienza di una comune
appartenenza etnico-culturale e religiosa, ed egli cercò di infondere questi principi nelle
94
sue Letture, dodici volumi (uno per ogni mese dell’anno) a cui dedicò dodici anni di
lavoro, dal 1529 al 1541. L’opera, formalmente un calendario dei santi, inizia con le letture
del mese di Settembre, inizio del calendario liturgico ortodosso, e l’autore vi annuncia
l’intenzione di produrre insieme “tutti i libri da leggere”, “quelli raccolti e quelli scritti,
che si trovano in terra di Rus’”45. Per ogni giorno del mese vengono raccolti i testi che
celebrano la memoria del santo, le ricorrenze e gli avvenimenti della vita ecclesiastica e
altro, costituendo di fatto un insieme di documentazione di storia, teologia, politica e
cultura, simile appunto alla grande raccolta documentaria della Cronaca di Nestor per il
periodo primitivo della Rus’ di Kiev. Coadiuvato da collaboratori accuratamente scelti e
preparati, e seguendo la falsariga delle preesistenti raccolte menologiche greche, in uso
nella Rus’ in traduzione paleobulgara, Makarij “selezionò ed accolse, insieme alle Sacre
Scritture, le indispensabili letture liturgiche ed ecclesiastiche, i sermoni edificanti, gli
encomi, i componimenti agiografici che esaltavano le gesta dei santi, le opere dei padri
della Chiesa (primeggiano quelle di Basilio il Grande e di Gregorio di Nazianzo), trattati
polemici a carattere religioso, regole chiesastiche”46 e molto altro ancora. Con ogni sua
azione, a Mosca il metropolita fin dall’inizio perseguì la concentrazione del potere nelle
mani di un solo sovrano. Dedicò affettuose attenzioni al giovane Ivan, assicurandogli un
sostegno politico prezioso e incondizionato, divenendogli anche guida preziosa nella
scelta delle letture: Ivan sarà il primo monarca russo colto dopo Jaroslav il Saggio. Egli
stesso organizzò la secolarizzazione delle terre dei monasteri, dando un senso compiuto
all’ideologia politica dello iosifljanstvo, che in questo modo forniva allo stato non solo dei
principi teorici, ma anche i veri strumenti del governo del territorio. Makarij diede anche
un grande impulso alle canonizzazioni dei santi russi, convocando i due “concili
macariani” (makar’evskye sobory) del 1547 e 1549, aperti dalla solenne canonizzazione
ufficiale di S. Aleksandr Nevskij, e infine presiedette la celebrazione del grande Concilio
dei Cento Capitoli (Stoglavnyj Sobor’) nel 1551, voluto personalmente da Ivan IV e tenutosi
alla sua presenza. Il Concilio Stoglav approvò i nuovi regolamenti ecclesiastici proposti
dallo zar, che fissarono la tradizione canonica, disciplinare e liturgica fino al Concilio
locale del 1667, quello che provocò lo scisma dei vecchio-credenti. In esso vennero
attenuate le misure di secolarizzazione delle proprietà ecclesiastiche, che avevano
suscitato forti reazioni da parte dei monasteri, ma le limitò comunque alle aree rurali,
“laicizzando” gli insediamenti urbani.

La nuova ideologia imperiale di Ivan il Terribile è attestata anche da una


testimonianza piuttosto stravagante, quella del consigliere imperiale Ivan Peresvetov, un
capitano di ventura che aveva servito in diverse corti europee, cercando poi di accreditarsi
anche nel regno di Moscovia. Il suo destino non fu particolarmente fortunato, ma i suoi

45 Cit. in KOSSOVA GIAMBELLUCA Alda, Da Mosca all’impero degli zar. Letteratura e ortodossia nella Rus’ Moscovita

(1240-1700), ed. Studium, Roma 2001, p. 306.


46 Ibidem.

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tentativi di scalare il potere russo sono fissati nelle pagine delle sue Suppliche, nella
seconda delle quali inserì dei commenti storico-leggendari piuttosto significativi, come la
Narrazione su Costantino imperatore. In essa si delinea la figura del monarca con l’intento di
accreditarlo come nuovo imperatore cristiano, sullo sfondo di una denuncia delle
corruzioni e delle degradazioni dei greci, che li condussero alla completa disfatta contro
gli ottomani. Peresvetov propone quindi di evitare gli errori fatali dei bizantini, e di
organizzare uno stato efficiente, fondato sulla buona amministrazione e la fedeltà al
servizio statale da affidare ad una apposita schiera di nobili giustamente retribuiti. I
consigli del capitano, influenzati evidentemente dalla sua esperienza nei paesi europei,
furono di fatto ignorati dallo zar, che invece impostò il suo governo sul terrore e la
minaccia (groza, da cui l’appellativo groznyj, il terribile e minaccioso).

Con il nuovo zar si porta dunque a compimento il progetto che Ivan III aveva
prospettato nel matrimonio con Zoe-Sofia Paleologa. Ivan IV sottomette definitivamente i
tartari e porta a termine il processo di unificazione della Russia sotto Mosca, passando
quindi dalla Rus’ e dalla Moscovia alla Russia vera e propria, che assume definitivamente
le caratteristiche della grande potenza europea, giustificando in qualche modo l’ambizione
a rappresentare la “Terza Roma”. Ivan il Terribile, come abbiamo già ricordato, volle dare
un particolare contenuto religioso al suo regno istituendo la opričnina, quella particolare
forma di governo che sottolineava propriamente l’unione dell’ideologia nazionale con la
religiosità ortodossa. È la struttura centrale del potere, cuore dell’impero sottomesso
direttamente allo zar, ma anche la guardia imperiale: gli opričniki erano l’armata privata
dello zar, rivestita da una uniforme di tipo monastico, che univa l’addestramento militare
a quello ascetico e liturgico, con turni di preghiera mattutina insieme allo zar. L’ortodossia
assurta a ideologia del potere diventa una specie di ossessione fanatica: nel 1553 Ivan
conquista Kazan’ adottando la tipologia biblica della conquista di Gerico da parte del
popolo ebraico guidato da Giosuè (Gios 6), innalzando intorno alle mura della città una
corona di tende-cappelle con le icone e i sacerdoti che celebrano ininterrottamente la
liturgia. Come le mura di Gerico caddero al suono delle trombe di Jahvè di fronte all’Arca
dell’Alleanza, così Kazan’ cade nelle mani di Ivan per volere di Dio e della Madonna, che
verrà raffigurata nella icone come Madre di Dio Kazanskaja, che da allora venne
considerata un altro simbolo nazional-religioso (con lo stesso tipo di icona si celebra anche
la vittoria sui polacchi nel XVII secolo). A Kazan’ viene edificato, per celebrare la vittoria,
un Cremlino simile a quello di Mosca, con tanto di cattedrale, che oggi è affiancata da una
grande moschea, in una nuova simbolica sincretista del moderno stato autonomista
tartaro-russo.

Ivan il Terribile morì nel 1584, e nel 1586 viene eletto il nuovo metropolita Iov sotto il
regno dello zar Fedor, figlio di primo letto di Ivan, ma in realtà sotto il reggente Boris
Godunov. Cercando di arginare gli eccessi di cesaropapismo di Ivan, il disegno ortodosso-
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imperiale viene perfezionato istituendo la piena autocefalia ecclesiastica. Nello stesso 1586
viene invitato a Mosca il patriarca di Antiochia Ioakimos, uno degli alti gerarchi della
Chiesa bizantina costretto dall’esilio a girare l’Europa cristiana in cerca di aiuti materiali.
Godunov inizia così le trattative per il riconoscimento dell’indipendenza della Chiesa
moscovita, che giungeranno a conclusione due anni più tardi con la visita a Mosca dello
stesso patriarca di Costantinopoli Ieremias II, anch’egli in condizioni di estrema necessità e
di esilio, che lo avevano portato a rivolgersi anche a Roma, dove gli era stato proposto il
cardinalato. In Russia gli viene invece prospettata la possibilità di diventare patriarca della
nuova Chiesa russa autocefala, che egli rifiutò, dovendo poi accettare di nominare un
patriarca russo in seguito alle condizioni di cattività in cui venne trattenuto per diversi
mesi. Così nel 1589 venne formalmente istituita la prima forma di autocefalia all’interno
dell’Ortodossia, il patriarcato di Mosca, che andò a occupare il quinto posto nella “nuova
pentarchia” delle Chiese d’Oriente, sostituendo proprio la sede romana (che peraltro stava
al primo posto). Questo di fatto cambiava la natura dell’ecclesiologia ortodossa, da
ecumenica a etnica, e considerando che le altre Chiese ortodosse si trovano in condizioni
di sottomissione ai turchi ottomani, si capisce perché Mosca si sia da allora considerata
non semplicemente uno dei tanti patriarcati nazionali, ma la Chiesa più rappresentativa di
tutto il mondo ortodosso.
L’autocefalia moscovita diede anche la spinta decisiva al compimento dell’altra
soluzione ecclesiologica, quella unionista dei territori occidentali: per timore dell’arbitrio
moscovita, alcune diocesi della Galizia (Ucraina) proclamarono nel 1598 l’Unione di Brest,
sottomettendosi all’autorità del papa di Roma e realizzando in parte l’antico sogno del
cardinale-metropolita Isidoro. I due eventi sono quindi due facce dello stesso fenomeno:
l’autocefalia è la soluzione trovata dai russi dopo il processo di autocoscienza iniziato in
seguito al Concilio di Firenze e alla caduta di Costantinopoli, mentre l’Unione è l’esito
della tendenza, anch’essa presente nell’autocoscienza russa, a inserirsi nel mondo
occidentale. L’Unione in seguito verrà approvata anche in altri territori, da ungheresi,
slovacchi, romeni, bulgari, serbi, perfino in Grecia. In queste Unioni successive si realizzò
a volte una propaganda dell’unione fatta in modo un po’ artificioso, mentre il vero
uniatismo come concezione originale trovò la sua espressione effettiva nel mondo russo
come una variante dell’idea di Mosca-Terza Roma, vista non più come prevalenza di
Mosca su Roma, ma come una forma di sottomissione di Mosca-Kiev a Roma. Comunque
le due varianti si devono comprendere insieme, collegate e opposte tra di loro.

Dopo aver quindi raggiunto una definizione della propria identità politica, culturale e
religiosa, la Russia sprofonda con lo zar Boris (Godunov) nel periodo dei Torbidi, una fase
di lotte intestine di potere che nei primi decenni del Seicento porta di nuovo il paese in
uno stato di gravissima crisi, che crea una nuova frattura nella storia russa. È un periodo
difficilissimo, in cui il castello statale ideato da Ivan III prima e Ivan IV poi crolla
miseramente. Tre anni consecutivi di carestia (1601-1603) producono il dilagare di bande
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di predoni, contadini scacciati dai proprietari non più in grado di sfamarli; la loro
disperazione alimenta le prime rivolte contadine su larga scala, in seguito alle quali il
giovane stato russo subì anche un invasione da parte delle armate polacche del re
Sigismondo III. Per alcuni anni sembrò addirittura che la Russia fosse destinata alla
riunione forzata con il cattolicesimo latino, ma con la tipica capacità russa di abnegazione
questa eventualità venne respinta da un esercito spontaneo, guidato dagli eroi Kuz’ma
Minin e Dmitrij Požarskij, che nel 1612 scacciò le guarnigioni polacche che si erano già
insediate a Mosca. Questa vittoria chiuse il periodo dei Torbidi, aprendo la nuova era della
dinastia dei Romanov. Il seme della riunificazione di oriente e occidente era stato
comunque gettato, e troverà ancora diverse espressioni nella cultura russa.

Proprio nel Seicento, infatti, al di là delle brame di conquista, la cultura latina trovò la
via per una penetrazione profonda nella vita culturale russa. Dopo l’Unione di Brest del
1598, venne istituita agli inizi del secolo una Accademia teologica a Kiev, alimentata
principalmente dalla teologia dei gesuiti, che dalla fine del XVI secolo erano diventati la
grande arma della Controriforma cattolica e della nuova diffusione missionaria del
cattolicesimo. Proprio nel periodo dell’autocefalia e dell’uniatismo in Russia e Ucraina,
entrano in gioco anche i gesuiti, inviati in quei territori a contrastare la Riforma
protestante, che aveva quasi completamente allontanato la Polonia dal papato romano. I
vescovi uniati, ormai accreditati anche nel regno polacco come membri del Senato,
incontrano a loro volta i gesuiti impegnati nella riconquista cattolica della Polonia,
soprattutto il padre Petr Skarga (1536-1612), teologo e scrittore polacco, predicatore di
corte sotto Sigismondo III, fondatore dei collegi gesuiti di Poznan e Riga e grande
sostenitore dell’Unione di Brest. La rievangelizzazione cattolica avvenne soprattutto
attraverso la cultura scolastica e accademica, e lo studio della teologia impostato con il
materiale della seconda scolastica tomista del Concilio di Trento, che avrà il suo massimo
esponente in Roberto Bellarmino, il gesuita che nel Seicento divenne il principale maestro
di teologia di tutta l’Europa. La teologia di Bellarmino arrivò anche a Kiev, dove
l’insegnamento avveniva comunque in latino, ma fu anche tradotta in russo soprattutto
sotto il metropolita di Kiev Petr Mogila (1597-1647). Questi, profondendo a sua volta
grandi energie nella diffusione della cultura religiosa tra i suoi fedeli, scriverà la
Confessione Ortodossa, un manuale di teologia che non è altro che la rielaborazione di
Bellarmino, corretta nei punti da adattare alla teologia ortodossia sulle questioni
controverse del purgatorio, dell’eucaristia e del papato, ma tutto sommato molto fedele
all’ispirazione gesuita. Questo testo diventa il manuale ufficiale dell’accademia di Kiev,
luogo dove studia tutta la classe dirigente della Chiesa Ortodossa Russa; nel Seicento è
ancora Kiev il centro culturale, che conosce un nuovo periodo di relativo fulgore.
L’Ucraina, del resto, è ancora oggi la maggiore fonte della vita spirituale dell’ortodossia
russa, e il principale serbatoio delle vocazioni sacerdotali. Da Kiev entrò in Russia la
scolastica latina, che rimase la modalità fondamentale con cui i russi studiavano la teologia
98
fino alla metà dell’Ottocento. A San Pietroburgo il metropolita Stefan Javorskij, capo della
nuova amministrazione ecclesiastica creata da Pietro il Grande, agli inizi del Settecento
scriverà il Kamen very, la “Pietra della fede”, testo ufficiale della teologia russa per oltre un
secolo, di fatto una evoluzione della teologia di Mogila e Bellarmino. La radice del
rapporto con l’occidente si innesta quindi a fondo sul terreno russo, pur rimanendo la
Russia una realtà culturalmente autonoma, che assorbe a modo suo anche l’esperienza
occidentale.

Il “torbido” miscuglio di russicità e modernità.

Di solito si considera tutta la storia medievale russa come una premessa poco
significativa, prima degli splendori culturali che iniziano con il Settecento. Noi al contrario
abbiamo scavato alla ricerca delle radici, e dedicheremo alla grande Russia dei secoli XVIII
e XIX un’attenzione più sintetica; è inutile infatti analizzare a fondo la diatriba tra slavofili
e occidentalisti, se non si sa nemmeno a che cosa effettivamente si richiamassero i
contendenti.
Il contatto con l’occidente è lo spunto da cui nel Settecento inizia in Russia un percorso
culturale decisamente più sistematico. Lo sviluppo che non c’era stato nel periodo
medievale, quando l’occidente europeo invece “esplodeva” culturalmente nelle sue cento
università, mentre la Russia languiva sotto il dominio mongolo, riprende il suo corso
quando la Russia riacquista una identità nazionale uscendo dal giogo tartaro nel
Quattrocento, divenendo dopo la caduta di Costantinopoli la “Terza Roma”,
riagganciando in qualche modo l’influsso occidentale e i suoi sviluppi umanistici. Il
contributo tecnologico e progettuale portato da italiani come Fioravanti, insieme a tanti
altri porta una ventata di cultura laica, adoperata come strumento per esaltare la cultura
nazionale politico-religiosa della nuova Russia. Questo porterà poi ad assorbire anche lo
sviluppo culturale e teologico portato dalla scolastica e dai gesuiti, passando per timidi
tentativi di recupero della tradizione bizantina come quello di Maksim Grek, a sua volta
mescolato a categorie spirituali molto occidentali. Dopo la fondazione dell’Accademia
Teologica di Kiev e la sintesi dogmatica filo latina del metropolita Petr Mogila, la teologia
di ispirazione occidentale dominerà fino al XIX secolo anche nelle accademie teologiche
ortodosse che verranno progressivamente organizzate anche in Russia, a Mosca e San
Pietroburgo, fino a quella di Kazan’, dove l’insegnamento sarà comunque in latino, non
solo per i contenuti e i materiali, in parte tradotti in russo, ma per la metodologia didattica
e la lingua utilizzata nelle lezioni, perché quella era la lingua di tutte le università europee.
In latino veniva insegnata non solo la teologia e la filosofia, ma anche le materie
scientifiche e tecniche, e così avveniva anche all’università di Mosca, ancora oggi intitolata
al suo fondatore Mikhail Lomonosov (1711-1765). L’università, i cui primi tentativi di
apertura erano avvenuti a San Pietroburgo sotto Pietro il Grande, venne poi fondata a
99
Mosca dalla zarina (tedesca) Caterina II nel 1755 importando docenti tedeschi, che erano
insieme ai francesi e gli inglesi i veri protagonisti della cultura accademica del tempo.
L’unico russo che si inserisce in questa squadra straniera è proprio Lomonosov, genio
della chimica che del resto aveva finito i suoi studi nell’università prussiana di Marburgo,
dove aveva anche sposato una moglie tedesca con rito luterano. Il filoso Herzen dirà in
seguito che “Lomonosov non fu il fondatore; egli “era” la nostra università”, impersonava
tutta la cultura tecnico-scientifica russa.

Facendo un breve passo indietro rispetto a Lomonosov, ricordiamo che nel Seicento,
oltre all’Accademia di Kiev nel 1612, nel 1687 era stata fondata a Mosca la prima
istituzione russa di tipo universitario, la cosiddetta “Accademia latino-greco-slava” dei
fratelli monaci Joannikij e Sofronij Likudy, con finalità umanistiche di recupero della
cultura classica. In essa agirono anche maestri di orientamento chiaramente latinizzante,
come il teologo Simeon Polotskij, mentre i Likudy, che erano greci, cercavano di spostare
l’orientamento più verso la cultura greca. In generale l’Accademia riportava la teologia di
Kiev, quindi l’impostazione scolastica, cercando peraltro di renderla un po’ più orientale e
slava, ma con risultati alquanto incerti. Polotskij era un convinto tomista, che cercava di
portare i testi di San Tommaso nella cultura russa, attraverso il filtro della seconda
scolastica. Verso la fine del Seicento emerse anche un personaggio interessante, il croato
Jurij Križanič (1617-1683), enciclopedista e sostenitore dell’unità slava, una specie di
ecumenista ante litteram che cercava di inserirsi in Russia per proporre, insieme all’unione
dei popoli slavi, anche l’unione culturale di cattolicesimo e ortodossia, anticipando
posizioni che verranno poi espresse a fine Ottocento dal filosofo Vladimir Solov’ev, che un
po’ si ispirava a lui. Questa posizione ecumenica di tipo slavofilo sostiene che la vera
ortodossia non è in contraddizione con il vero cattolicesimo, per cui gli ortodossi non
hanno bisogno di “riunirsi” al cattolicesimo, ma riconoscere naturalmente la propria unità
con i cattolici, ritrovando le radici della loro cultura cristiana, e questa sarebbe proprio la
vocazione dei russi e di tutti gli slavi. Dopo meno di un anno di permanenza a Mosca,
Križanič venne arrestato e spedito in esilio a Tobol’sk, in Siberia, dove comunque potette
scrivere alcuni trattati in cui esponeva le sue teorie, per essere poi espulso dal paese.
Venne infine ucciso a Vienna nella guerra con i turchi, dando la vita per difendere l’ideale
dell’Europa cristiana. Il suo destino è quello di un profetico insuccesso, dal significato
molto simile alla vicenda precedente di Maksim Grek.

Dal 1589 la Russia aveva dunque un proprio patriarca, mentre nel 1596 era stata
proclamata l’Unione di Brest, che ha iniziato la storia dei cattolici “uniati”. Uniati è un
termine che è diventato in seguito quasi spregiativo, a indicare una specie di ibrido
confessionale, mentre in realtà è molto tecnico e preciso: viene dalla Unio, l’Unione di
Firenze poi approvata a Brest. L’Unione va quindi messa in parallelo con l’autocefalia,
come due diverse realizzazioni dell’ideale di Mosca-Terza Roma. Mosca aveva deciso di
100
rendersi autonoma sia ecclesiasticamente sia politicamente, mentre la Galizia di L’vov, e in
parte l’Ucraina stessa di Kiev si era messa con Roma, ma si tratta sempre di varie parti
della Rus’; nel 1596 nessuno a Kiev o a L’vov si riteneva “ucraino”, erano tutti russi. Si
tratta quindi di sovrapposizione di diverse soluzioni dell’unico problema della Russia, che
era poi il problema di tutto il mondo cristiano europeo, diviso tra le varie fazioni. Da qui
discende anche la nascita della nuova Russia in senso politico, con l’inizio della dinastia
dei Romanov. Nel frattempo che si elaborano queste grandi tendenze, la Russia subisce
una nuova frattura della sua storia, una frattura prima politica e poi religiosa, con la fase
dei “Torbidi”, lo smutnyj period. Dopo Ivan il terribile, l’ideologo di Mosca-Terza Roma
morto nel 1584, un trentennio di guerre civili porterà poi all’instaurazione della dinastia
dei Romanov. Il personaggio-chiave di questo periodo, poi glorificato dalla letteratura, fu
Boris Godunov, che svolse il ruolo di trait d’union tra la stirpe dei Rjurikidi e quella dei
Romanov, le due famiglie regali della storia moscovita. Dopo ultimo dei Rjurikidi, Fedor I
figlio di Ivan IV, Boris traghetta la Russia diventando egli stesso zar (1598-1606), eletto con
la collaborazione del primo patriarca russo Iov da una sessione dello Zemskij Sobor’, il
“concilio delle terre russe”, un’istituzione inventata sotto Ivan il Terribile come strumento
della stretta fusione tra trono e altare. Lo zar Boris emargina la famiglia Romanov, che era
una delle principali famiglie del gruppo dei boiari e capofila dei suoi oppositori. Questa
diventa la famiglia perseguitata, alcuni suoi membri vengono uccisi e altri esiliati, il
rappresentante più importante, Fedor Romanov, viene rinchiuso in monastero, dove
prende il nome di Filaret. Diventa igumeno, archimandrita e poi patriarca dopo la morte
di Godunov, assumendo di fatto il comando dello stato, nonostante fosse rimasto nove
anni in ostaggio del re di Polonia. A sua volta Filaret fa convocare nel 1612 lo Zemskij
Sobor’, in cui impone sul trono il figlio, Mikhail Romanov, che sarà il primo zar della
dinastia. Mikhail aveva allora sedici anni, e stava in monastero con la madre Ksenja,
moglie del patriarca. La madre costringe il figlio a diventare zar, ma il vero padrone del
trono è il patriarca Filaret; la dinastia dei Romanov nasce di fatto da un patriarca, dalla
Chiesa. Curiosa coincidenza anche il fatto che la dinastia che realizza l’ideale di Mosca-
Terza Roma si chiami Romanov, dinastia “dei romani”. Il nome in realtà non proviene da
Roma, ma dal capostipite Roman Zakharovič. Nel complesso il periodo dei Torbidi fu una
fase convulsa, ma molto creativa e interessante, per questo celebrata in vari modi dalla
letteratura russa. Lo Zemskij Sobor’ del 1612 ha anche come premessa la vittoria sui
polacchi, che negli anni precedenti avevano cercato di invadere la Russia, approfittando
dei dissidi interni. L’invasione fermata dagli eroi popolari Minin e Požarskij, grazie ai
quali viene affermata l’autonomia della vera Russia, che da questo momento in poi avrà
quasi sempre la Polonia come avversario principale, al di là della vera e propria
consistenza del pericolo polacco in sé. I nemici saranno i polacchi, ma anche gli svedesi,
fino al francese Napoleone, che peraltro nel 1812 entra in Russia con ottocentomila soldati
radunati da tutta Europa, più di metà dei quali reclutati in Polonia, per dare reale

101
consistenza alla Grande Armée. Per tutto l’Ottocento fino al Novecento la Russia si troverà
in continua tensione bellica con i polacchi, e tramite loro con l’intero occidente.

Questo è il momento della frattura politica, che porta alla seconda dinastia, che è russa
nel senso proprio dell’unione tra Chiesa e stato. L’altra grande frattura del Seicento russo,
insieme politica e religiosa, ha luogo a metà del secolo, quando nel 1652 il sesto patriarca
di Mosca Nikon (al secolo Nikita Minin, 1605-1681) proclama la riforma liturgica. Il
patriarca, uomo vigoroso di origine contadina, manifestava chiaramente l’intenzione di
proseguire sulla linea iosifljana dei suoi predecessori, soprattutto di Filaret (Romanov) e
decise di farsi chiamare anche “Gran Signore”, Velikij Gospodin, con un lungo titolo regale:
“Per grazia di Dio Gran Signore e Sovrano, Arcivescovo regnante sulla città di Mosca e su
tutte le Russie, la grande, la piccola [l’Ucraina] e la bianca [la Bielorussia], di tutto il
settentrione del paese e delle terre sul mare e Patriarca di molti stati”. Il titolo sarà col
tempo semplificato, cristallizzandosi nella dizione attuale di “Patriarca di tutte le Russie”
secondo la flessione antico-russa, Patriarkh vseja Rusi, che rivendica quindi nel suo “plurale
maiestatis” le prerogative tutte temporali del potere patriarcale, non inferiori nella
ambizioni a quelle del papa di Roma. Al momento della sua intronizzazione, Nikon
costrinse lo zar Aleksej a “non intromettersi negli affari interni della Chiesa”, facendolo
giurare sulle reliquie del santo metropolita Filipp di Mosca, martire della dittatura di Ivan
il Terribile, che lui stesso aveva fatto solennemente portare a Mosca dal monastero delle
Solovki, il grande santuario dell’estremo nord in cui Filipp era stato assassinato, e dove lo
stesso Nikon aveva iniziato la sua carriera monastica. In realtà l’intenzione del patriarca
non era certo quella di garantire la separazione tra Chiesa e stato, ma piuttosto il
predominio della prima sul secondo.
La riforma liturgica patriarcale inizia con l’adeguamento dei testi della liturgia agli
originali greci, studiati negli anni precedenti dal “Circolo degli zelanti dell’antica
devozione”, un gruppo di riformatori ecclesiastici che si era formato a Mosca negli
ambienti vicini alla corte dello zar, e di cui Nikon era il principale esponente. Nelle
intenzioni è un tentativo di restaurare la forma originaria della liturgia bizantina. In realtà
Nikon riprese questa idea dalla consultazione non dei manoscritti liturgici bizantini (la
ricerca sui manoscritti, cioè sulle vere fonti, è un modo moderno di lavorare), ma dai libri
liturgici stampati a Venezia. Il libro nel Seicento era ancora una rarità, un oggetto di
grande prestigio e di costo astronomico, che si imponeva quindi per l’autorevolezza del
mezzo prima ancora per l’autenticità del contenuto, un po’ come lo strumento informatico
dei giorni nostri. I libri veneziani proponevano una versione tutt’altro che originaria della
liturgia. È vero che la versione antico-slava, che in buona parte è in vigore ancora oggi,
proveniva dall’evangelizzazione di Cirillo e Metodio del IX secolo e dalla scuola bulgara
del X e XI secolo, ed era molto imprecisa. Anche questo è un aspetto di una spiritualità
liturgica molto sui generis: i russi conoscevano le fonti attraverso lo slavo ecclesiastico, che
in realtà era molto lontano dalle fonti, molto più, ad esempio, della versione Vulgata
102
rispetto alla Bibbia ebraica. In Russia e Ucraina, ma un po’ in tutto il mondo slavo
ortodosso, la questione dei testi e delle musiche liturgiche è sempre stata, ed è tuttora, un
aspetto molto delicato da trattare. L’inizio dell’azione riformatrice fu l’imposizione di
Nikon, durante la Quaresima del 1654, di ripetere tre volte l’esclamazione dell’alleluia alla
fine delle litanie, e di farsi il segno della croce con tre dita invece che con due, come
prescrivevano le regole del Concilio Stoglav. La decisione suscitò subito scalpore, e fu
necessaria la convocazione di un nuovo Concilio locale per sancire l’adeguamento dei
rituali alle prescrizioni dei libri greci. Le decisioni del Concilio portano alla divisione
scismatica, al raskol, in seguito al quale i seguaci del patriarca verranno chiamati nikoniani,
e gli scismatici “vecchio-credenti”, o “vecchio-ritualisti” (starovery o staroobrjadtsy).
L’avversario di Nikon fu il protopop Avvakum (Petrov, 1620-1682), un membro della
“commissione” che aveva studiato la riforma, in cui Avvakum sosteneva che i testi russi
andassero corretti secondo le più antiche versione slave, piuttosto che quelle greche,
difendendo la tesi che i testi russi riflettessero l’autentica spiritualità ortodossa, superiore a
quella dei greci e di tutti gli altri popoli ortodossi. Il patriarca decise di reprimerlo insieme
ai suoi sostenitori, interpreti dell’opinione più diffusa tra i fedeli russi, e Avvakum fu
incarcerato e deportato in Siberia per un decennio, prima di riconquistare la fiducia dello
zar, che nel frattempo aveva preso decisamente le distanze dagli eccessi di interventismo
nikoniano. Nel 1633 il protopop venne fatto tornare a Mosca, dove visse un momento di
gloria, fino al decisivo Concilio del 1666 in cui venne condannato come eretico, mentre a
sua volta lui stesso lanciava l’anatema contro il patriarca e tutto l’alto clero moscovita,
formalizzando così lo scisma. Avvakum fu incarcerato e torturato, ai suoi compagni venne
tagliata la lingua, facendoli diventare eroi del dissenso popolare contro l’arbitrio del
potere, per venire infine bruciati sul rogo. La sua autobiografia, la Vita dell’arciprete
Avvakum raccontata da lui stesso, la prima nel suo genere per la Russia, è considerata l’inizio
della letteratura russa moderna.

A noi può sembrare incomprensibile e persino ridicola una polemica così violenta,
basata sul numero delle dita o delle litanie. La posta in gioco, in realtà, era molto più alta:
addirittura il dogma stesso della Trinità divina. L’interpretazione del dogma trinitario è
infatti l’argomento della polemica di Avvakum, riportando a livello teologico il senso della
devozione popolare che si opponeva alla riforma liturgica. Tutta la vicenda ha delle
somiglianze con la recente riforma liturgica latina decisa dal Concilio Vaticano II, che ha
sostituito il rito tridentino, una Messa privata del sacerdote di origine tardo-medievale,
difesa dai tradizionalisti come espressione dell’autenticità liturgica, con un nuovo rito
romano, che nelle intenzioni dei riformatori doveva restaurare invece la purezza delle
radici originarie. Il Vetus Ordo Missae, come oggi è definito, era stato istituito nel 1570 (un
secolo prima di Nikon, in pieno Concilio di Trento) dal papa S. Pio V con la bolla Quo
primum tempore, sostituendo tutti quelli in uso nelle Chiese locali, negli ordini e nelle
confraternite, salvando solo i riti esistenti da più di duecento anni: in questo modo
103
passava un colpo di spugna sulla frammentaria e ingovernabile diversità delle varie
correnti cattoliche dei secoli più difficili, da metà del XIV al XVI inoltrato. Si estese a tutta
la Chiesa il modello liturgico in vigore nell’Urbe, sostenendo che i riti locali erano inficiati
da eccessi di devozionismo e superstizione; Nikon fece in fondo un’operazione analoga (di
nuovo un indiretto influsso occidentale), negando la dignità ecclesiastica alla tradizione
spontanea della fede del popolo. La decisione di S. Pio V si fondava sulla necessità di
recuperare versioni più lineari e “autentiche” della liturgia, che vennero individuate nei
modelli celebrativi dell’epoca di papa Gregorio VII (1020-1085), il grande iniziatore della
riforma della Chiesa nel Medioevo, fino al periodo di papa Innocenzo III (1160-1216), il
papa della IV Crociata e degli ordini mendicanti, che rilanciò l’ultima grande ondata
riformatrice all’inizio del XIII secolo, con il IV Concilio Lateranense (1215). Di fatto la
scelta tridentina era più ideologica che propriamente teologica, individuando nella liturgia
lo strumento culturale necessario ad imporre a tutta la Chiesa un modello ecclesiologico
complessivo, in cui risultasse evidente la centralità dell’autorità papale; non dissimili,
riportate a livello moscovita, furono le intenzioni del patriarca Nikon. La recente riforma
del Concilio Vaticano II, annunciata nel 1963 con la costituzione Sacrosanctum Concilium e
realizzata con i relativi decreti attuativi del 1969, intendeva ristabilire l’autentico senso
della tradizione: “per conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un
legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve sempre essere
preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale”47; Nikon avrebbe
probabilmente sottoscritto tale affermazione, anche se la problematica teologica era stata
da lui affrontata in modo decisamente superficiale.
Tornando infatti al significato simbolico dei dettagli rituali, va rilevata l’osservazione
di Avvakum circa il modo russo di proclamare l’alleluia, in cui le prime due esclamazioni
sarebbero in greco (sic!), mentre il terzo elemento viene riportato in slavo (slava tebe Bože),
a significare il dinamismo trinitario, in cui il Padre e lo Spirito Santo si uniscono alla
natura umana di Cristo. Il terzo alleluia deve essere quindi pronunciato nella lingua del
popolo, cioè dell’uomo, nella lingua dell’incarnazione. Lo stesso dinamismo si evidenzia
nel segno della croce, con le due dita a indicare la prima e la terza persona della SS. Trinità
che s uniscono al terzo elemento, la persona umana in cui Cristo si è incarnato. Il segno
triplice esclude dal circolo trinitario la natura umana e manifesta quindi una fede
monofisita, che esclude la vera unione di Dio con l’uomo (per non parlare ovviamente
della completa “degenerazione” dogmatica del segno a cinque dita dei latini). Anche l’ala
nikoniana, con altri argomenti, cercò di dare al segno a tre dita un valore simbolico
trinitario. Ritroviamo quindi la centralità del dogma della Trinità come elemento decisivo
della fede russa, il terzo elemento come necessario completamento della diversità divina.
La diatriba può essere variamente commentata; storicamente Nikon aveva delle buone
ragioni, come del resto le aveva Avvakum, che accusava i riformatori di non tener conto

47 Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 23.


104
della tradizione russa ormai vecchia di sette secoli, della comprensione russa della fede
cristiana.
La riforma modificò anche la vecchia versione del canto monodico introducendo la
polifonia, intesa dai vecchio-credenti come un’altra chiara degradazione occidentale. È
vero che il canto monodico del coro, indubbiamente più vicino all’originale greco, si
sovrapponeva al canto del sacerdote con il dvoeglasie, il “doppio tono” eseguito in
contemporanea. La riforma del resto non risolse del tutto il problema, ma si limitò a
scomporre i pezzi sovrapposti, come succede ancora oggi nella liturgia slava per la
preghiera eucaristica: il celebrante recita per conto suo diverse parti dell’anafora, mentre il
coro canta le risposte dell’assemblea con un ritmo proprio, salvo lasciare spazio ogni tanto
a singole esclamazioni sacerdotali, come la consacrazione dei doni o altri pezzi liturgici
isolati dal loro il contesto. La liturgia bizantino-slava rimane così soggetta a modalità di
celebrazione confuse e sovrapposte, che rendono impossibile ai fedeli la comprensione del
rito, visto anche l’uso della lingua paleoslava, a sua volta poco comprensibile. I tentativi di
spiegare questa cripticità rituale come valenza “mistica” della preghiera (meno si capisce,
meno si profana il mistero), sono in realtà solo delle pezze giustificative piuttosto
grossolane e improbabili: la natura mistica della liturgia, secondo l’eredità patristica e
bizantina, è legata a elementi forti chiaramente individuabili (divisione dello spazio
liturgico, movimenti processionali, sequenze testuali) e non certo alla frammentarietà di
parti scomposte secondo un criterio poco più che casuale. Abbiamo ragione di credere che,
qualora nel 988 i messi di Vladimir fossero capitati a una celebrazione liturgica slavo-
ortodossa moderna, la Rus’ di Kiev avrebbe piuttosto imboccato la strada dei latini, se non
addirittura quella dei maomettani.

La questione della riforma liturgica ha profondamente segnato la vita della Chiesa


Ortodossa Russa e lo sviluppo della cultura nazionale, tanto da riemergere periodicamente
a vari livelli. In campo strettamente ecclesiastico, nel Concilio del 1917, drammaticamente
segnato dalle vicende rivoluzionarie, la Chiesa russa ha approvato, insieme al ripristino
del patriarcato, anche una riforma liturgica che prevedeva addirittura l’introduzione della
lingua russa al posto dello slavo ecclesiastico. La riforma fu anche sperimentata in alcune
diocesi, ma venne subito bloccata, in quanto l’evoluzione della politica religiosa dei
rivoluzionari portò alla strumentalizzazione di essa da parte dei bolscevichi. Essi
istituirono nel 1922 la cosiddetta “Chiesa Viva” (Živaja Tserkov’), formata dai “rinnovatori”
o obnovlentsy, che facevano della liturgia in russo una bandiera anti-patriarcale, ragione
per cui la Chiesa ufficiale guidata dal nuovo patriarca Tikhon (Beljavin) si attestò sulla
difesa della liturgia antico-slava, anche come forma di contrapposizione agli stessi
bolscevichi, seppellendo così per tutto il XX secolo ogni velleità di rinnovamento della
liturgia russa. Da parte cattolica vi fu un interessante sviluppo legato proprio alla riforma
del Concilio Vaticano II; un gruppo di liturgisti legati al Pontificio Istituto Orientale,
spinto dagli stimoli riformatori dei liturgisti latini, formulò una proposta di riforma anche
105
per il rito bizantino, basandosi sui criteri di semplificazione e restaurazione originaria che
avevano guidato la stessa riforma del rito romano. La proposta non venne nemmeno presa
in considerazione dai patriarchi e dai vescovi orientali, soprattutto a causa del rischio
storico-politico che avrebbero corso riaprendo un dibattito già condizionato dai precedenti
di inizio secolo. In realtà nella Chiesa russa sono sempre esistiti filoni favorevoli alla
riforma liturgica e all’introduzione del russo moderno, pur minoritari, che lasciano
intravedere possibili revisioni della questione anche nei tempi futuri.

Lo scisma dei vecchio-credenti è dunque uno dei più importanti spartiacque della
storia culturale e religiosa della Russia. I raskol’niki divennero una componente essenziale
e ineliminabile dell’autocoscienza russa, trovando numerose espressioni nella cultura e
nell’arte, come il famoso personaggio del romanzo di Dostoevskij Delitto e Castigo, il
giovane assassino che espone il suo dramma di coscienza come metafora dell’affermazione
dell’identità della persona umana, a cui l’autore assegna proprio il cognome Raskol’nikov.
Dopo lo scisma del 1652 i vecchio-credenti si sono diffusi soprattutto nei villaggi e nelle
campagne della parte europea della Russia, le “viscere” del paese, crescendo in modo
significativo poi nel Settecento fino a tutto l’Ottocento, anche in reazione alla
protestantizzazione e alla occidentalizzazione operata da Pietro il Grande. I raskol’niki
subirono nel tempo diverse persecuzioni, rappresentando di fatto una vera opposizione
popolare agli arbitri del potere statale in nome della tradizione russa. Si può in qualche
modo sostenere che i raskol’niki siano stati una delle radici del movimento rivoluzionario
russo, ponendosi sempre in opposizione al potere zarista, sia dal punto di vista religioso
che sociale. Molti rivoluzionari e scrittori guardavano a loro come i depositari della vera
cultura russa popolare. Da fine Ottocento, grazie a diverse ristrutturazioni amministrative,
i vecchio-credenti potettero stabilizzarsi nei villaggi della zona del Volga e dintorni, finchè
nel 1905 la prima rivoluzione russa permise anche ad essi di aprire delle proprie chiese,
grazie all’editto di tolleranza religiosa allora approvato, che permise anche ad altre
confessioni religiose di svilupparsi nel paese. Prima di raggiungere questa condizione di
relativa libertà, il raskol’ si mantenne spesso in condizioni di semiclandestinità, tanto da
esprimere una variante dello stesso scisma caratterizzato dall’assenza di clero, i cosiddetti
bezpopovtsy, i “senza preti”. Queste comunità sono in un certo senso simili alle sette
protestanti più radicali, come gli herrnuti o i quaccheri; in generale non riconoscono nel
patriarca il potere legittimo, con un linguaggio moderno potremmo chiamarli
“sedevacantisti”, come i lefevriani cattolici più intransigenti. Essi sono ancora oggi molto
legati agli antichi rituali e alle forme di devozione popolare, e abitano i villaggi russi della
campagna profonda, conservando gelosamente gli antichi libri delle preghiere. Alla fine
del Settecento vi fu il tentativo di sommossa popolare di Emeljan Pugačev, un ufficiale
cosacco che nel 1790, nel periodo della rivoluzione francese, sollevò i contadini contro la
zarina Caterina II. È un episodio della storia russa molto ripreso dalla letteratura, come ad

106
esempio nel romanzo La figlia del capitano di Puškin (1836); la rivolta coinvolse soprattutto i
raskol’niki.

In conclusione della vicenda seicentesca, rileviamo che nel 1666 si arrivò alla condanna
dello stesso patriarca Nikon, quando era divenuto palese che le sue pretese riformatrici
nascondevano in realtà un’eccessiva ambizione politica inaccettabile per lo zar. A trenta
anni dalla nascita della dinastia dei Romanov come emanazione del patriarcato
ecclesiastico, Nikon aveva cercato di tornare allo stesso schema. Fu invece condannato,
ridotto allo stato sacerdotale semplice e rinchiuso in monastero, e morì nel 1681 pochi mesi
prima della esecuzione dello stesso Avvakum. In questo vorticoso scambio tra trono e
altare, sintomatico appare il fatto abbastanza noto che Nikon fosse il probabile padre
naturale di Pietro il Grande. Un gruppo di storici sovietici, ai tempi di Stalin, dimostrarono
che lo zar Aleksej Mikhailovič Romanov, padre ufficiale di Pietro, non poteva aver
concepito il figlio in quanto assente dalla sede dove era la moglie Natalja Naryškina, che
diede alla luce Pietro nel 1672; l’intenzione era quella di attribuire la paternità a un
principe georgiano che in quel periodo soggiornava a corte, in modo da compiacere il
dittatore. Stalin non volle appoggiare questa tesi, anche perché appariva abbastanza
evidente che l’unica ipotesi credibile indicava l’altro possibile membro della cerchia
imperiale che avesse accesso alla zarina, cioè proprio Nikon, da poco rinchiuso in
monastero dallo stesso Aleksej, ma ancora molto influente al Cremlino. Era l’unico uomo
atletico alto circa due metri in circolazione, proprio come il futuro zar che aprì la Russia
all’Europa.

La corte illuminata degli zar senza barba.

Pietro il Grande (1672-1725) attuò infatti la più grande rivoluzione culturale e di


costume di tutta la storia russa, insieme alla rivoluzione bolscevica del 1917. Cardine di
questa trasformazione radicale fu proprio la riforma ecclesiastica, che instaurò un nuovo
corso nella vita culturale del paese. Egli importò allo stesso tempo in Russia sia il
cattolicesimo che il protestantesimo. Dopo il turbolento inizio della storia patriarcale
russa, in cui dal 1596 si erano succeduti nove patriarchi, tutti coinvolti in modo
inestricabile nella politica statale, Pietro decise di abolire il patriarcato dopo la morte del
patriarca Adriano nell’anno 1700, e al suo posto istituì un struttura collegiale sotto lo
stretto controllo dello zar, che in seguito prenderà la denominazione di Santo Sinodo. Esso
era in realtà una specie di ministero del culto, e solo all’inizio per guidarlo lo zar pensò a
una personalità ecclesiastica, il metropolita di San Pietroburgo Stefan Javorskij (1658-1722),
che venne nominato “Luogotenente Patriarcale” (Patriaršij Mestobljustitel’). Come abbiamo
già accennato, questi era il “Mogila russo”, il vescovo e teologo che riscrisse in russo la
Confessione Ortodossa, cioè la sintesi kievana della scolastica di Bellarmino. La sua opera, il
107
Kamen’ very, fu il grande testo di teologia ortodossa, pubblicato dopo la morte di Pietro nel
1728, che fu assunto come testo principale della teologia russa, un manuale di scolastica
latina corretta in senso ortodosso. La teologia di Javorskij produsse di fatto una
introduzione massiccia di cattolicesimo teorico nella formazione ufficiale del clero
ortodosso, realizzando più di ogni altro quella “pseudomorfosi” lamentata da Florovskij.
Javorskij, pur essendo stato nominato Luogotenente, non andò mai alle riunioni del
Sinodo, rifiutandosi di fatto di guidare una Chiesa non tradizionale, assoggettata al potere
di Pietro. Pietro allora cancellò la figura del Luogotenente, che riemerse in circostanze
drammatiche solo nei primi anni sovietici, e mise al suo posto un ministro laico, a cui
impose la denominazione tedesca di oberprokuror.
Lo zar, che nel 1689 aveva soffocato nel sangue la rivolta dei soldati streltsy,
mostrando una crudeltà sanguinaria di tipo asiatico non inferiore al suo antico
predecessore Ivan il Terribile, decise in effetti di introdurre nella società russa lo stile di
vita europeo, e particolarmente tedesco, perfino nel modo di vestirsi e di acconciarsi,
usando personalmente l’accetta per accorciare le barbe dei più recalcitranti. Fino ad
Alessandro III, nel 1880, gli zar russi rimarranno senza barba, portando solo baffetti (come
lo stesso Pietro) o baffi con favoriti; Alessandro I, agli inizi dell’Ottocento, non portava
neanche quelli, così che il popolo non poteva riconoscere nell’immagine dello zar quella di
un fedele ortodosso. Anche nell’organizzazione sociale Pietro applicò i modelli tedeschi e
istituì il sistema dei “gradi”, i činy sociali, secondo il quale tutti i membri della società
erano dichiarati funzionari statali secondo il loro grado o livello. La Russia venne di fatto
irreggimentata come una caserma tedesca. Gli oberprokuror settecenteschi rimasero delle
figure minori, a differenza dei loro successori del XIX secolo. Il vero ideologo della
“protestantizzazione” della Chiesa e dello stato fu il vescovo Feofan Prokopovič (1681-
1736), che dopo la morte di Javorskij fu il vero capo del Sinodo. Egli scrisse il Dukhovnyj
Reglament, il testo istituzionale della nuova Chiesa russa, in cui di fatto disegnava un
sistema ecclesiastico di tipo protestante. Prokopovič aveva studiato a Roma presso il
Collegio Greco, dove da seminarista era addirittura passato al cattolicesimo. Tornato in
Russia era ovviamente tornato all’ortodossia, e per un periodo insegnò all’Accademia
teologica di Kiev, prendendo l’ispirazione principale dal teologo greco Kirillos Lukaris, un
teologo greco filo-protestante di inizio Seicento. Accanto al cattolicesimo teorico, in Russia
vi fu dunque una conformazione pratica al protestantesimo, riproponendo la dinamica di
contrapposizione tipica della storia culturale russa, ma questa volta sulla base di due
correnti occidentali.

Questa sarà la forma di governo ecclesiastico che durerà fino al 1917, quando nel pieno
della tempesta rivoluzionaria la Chiesa russa ripristinerà il patriarcato, nel corso del
Concilio iniziato ad agosto dello stesso anno, nel periodo del governo provvisorio di
Aleksandr Kerenskij (marzo-novembre 1917). Fu il primo Concilio locale della Chiesa
Ortodossa Russa dalla fine del XVII secolo, subito prima di Pietro il Grande. La questione
108
del patriarcato doveva essere discussa insieme ai vari schemi ecclesiologici presentati al
Concilio, ma i padri conciliari furono costretti dagli eventi a prendere sui due piedi tale
storica decisione: pochi giorni prima i bolscevichi avevano preso d’assalto il Palazzo
d’Inverno di Pietrogrado, rovesciando il governo provvisorio, unica parentesi di libertà
democratica di tutta la storia russa prima dei tempi più recenti. La restaurazione del
patriarcato fu vista come misura necessaria, con la speranza che potesse meglio garantire
la difesa della Chiesa e dei diritti dei credenti; non fu quindi accompagnata da una
discussione teologicamente elaborata. Il primo patriarca della nuova era, decimo della
storia russa, fu Tikhon (Beljavin), che in effetti si oppose al potere ateo finchè potette, cioè
fino al 1922, quando venne imprigionato e costretto a scrivere una lettera di appoggio al
governo sovietico. Dal 1922 fino al 1991 il patriarcato russo è sopravvissuto sotto il
comunismo come un mero strumento del potere statale. Anche il potere sovietico, come
avveniva sotto Pietro il Grande, sottomise la Chiesa al controllo del Ministero degli Affari
Religiosi, emanazione dell’onnipotente KGB; della Chiesa patriarcale era salva la forma,
ma di fatto tutto il clero veniva selezionato, controllato e diretto dallo stato, a partire
proprio dal patriarca e da tutto l’episcopato, senza alcuna eccezione. In definitiva il
patriarcato russo, questa novità ecclesiologica del Cinquecento, nella sua storia conobbe
dapprima un secolo di torbidi e lotte con il potere zarista, poi fu eliminato per due secoli e
infine rimase in piedi solo come strumento di controllo delle coscienze in uno stato
ufficialmente ateo; non può certo essere citato come esempio di autocefalia teologicamente
ben fondata, a partire dai fatti stessi. La Russia patriarcale ha vissuto un’esperienza di forti
contraddizioni, e deve ancora dimostrare l’efficacia del destino scelto.

Il vero simbolo della riforma di Pietro il grande fu senz’altro la nuova capitale, che già
dal nome stesso si richiamava alla grandezza spirituale di Roma, come “città di San
Pietro”, e si proponeva come nascente metropoli europea, con il suo nome tedesco di
Sankt-Peterburg. In russo infatti il suo nome sarebbe dovuto essere “Svjatopetrograd”, come
infatti propose Solženitsyn nei primi anni Novanta del XX secolo, quando si tenne un
referendum per decidere come rinominare la città (che ripristinò invece il nome
originario). Essa infatti era già stata rinominata più semplicemente Petrograd tra il 1914 e il
1926, in segno di rigetto di fronte ai tedeschi invasori, per divenire Leningrad dopo la
morte della guida della rivoluzione e per tutto il periodo sovietico fino al 1991. Nel
linguaggio colloquiale russo, del resto, viene usualmente chiamata semplicemente Piter,
assimilando alla russa il nome inglese di Pietro; già a livello onomatopeico si presenta
come città-simbolo di una Russia che si concepisce universale. La nuova capitale diventò il
modello della contaminazione occidentale della Russia, la sua “finestra sull’Europa”. Lo
stesso Pietro aveva inaugurato il suo regno con un ampio viaggio in Europa, la cosiddetta
“Grande Ambasciata” (1697), dopo aver passato la prima giovinezza, a causa degli intrighi
di palazzo, lontano dalla corte in mezzo agli stranieri del quartiere occidentale di Mosca, la
Nemetskaja Sloboda, dove oltre a costumi europei si era appassionato a giocare con le barche
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sui fiumi cittadini della Jauza e della Moscova. Decise quindi di imparare sul serio sia i
“mestieri” occidentali sia l’arte della navigazione: volle edificare San Pietroburgo come
moderna città europea, con uno sbocco sul mare. Questo infatti era sempre stato il più
grande problema geopolitico della Russia, che ha solo sterminate e inutili coste
sull’Oceano Pacifico e su quello Artico, e uno stretto corridoio che si affaccia sul Golfo di
Finlandia, dove appunto nacque la nuova città. Durante il giro delle capitali europee,
Pietro faceva finta di nascondersi, per non perdere troppo tempo negli inutili ricevimenti
delle varie corti, e avvicinarsi alle tecniche e al lavoro delle popolazioni. Torna erudito di
tutta la cultura pratica di un occidente infinitamente più evoluto della Russia, vantandosi
poi di aver imparato trentatre mestieri, dal carpentiere all’odontoiatra. Al di là delle sue
personali smanie di protagonismo, Pietro fece venire in Russia una grande ondata di
ingegneri, architetti, mastri artigiani e operai dalle terre tedesche, olandesi, fiamminghe e
scandinave; in Russia verrà addirittura creata in seguito la “Libera Repubblica Tedesca del
Volga”, uno stato tedesco semiautonomo nel cuore dell’impero, capace di colonizzare una
serie di villaggi e città come Samara, Saratov e diverse altre fino agli Urali e oltre. Buona
parte dei tedeschi di quei territori verranno poi deportati da Stalin in Siberia e in
Kazakhstan, per cercare di indebolire la loro indipendenza etnico-culturale, ma anche
nelle nuove terre formeranno unità urbane e sociali di lingua e cultura tedesca, in cui si è
continuato fino a oggi a praticare anche il cristianesimo secondo le confessioni protestante
e cattolica. La cultura tedesca diventò da allora una componente essenziale della cultura
tecnico-produttiva russa, e contribuì anche alla diffusione della religiosità occidentale. Con
la fine del regime sovietico, molti tedeschi “asiatici” sono tornati in massa nella nuova
Germania unita, soprattutto quelli provenienti dal Kazakhstan.

San Pietroburgo diventò la capitale ideologica della nuova Russia occidentale,


edificata e abbellita grazie all’opera di architetti e artisti francesi, italiani e tedeschi come
Domenico Trezzini (1670-1734), Bartolomeo Rastrelli (1700-1771), Carlo Rossi (1775-1849),
Giacomo Quarenghi (1744-1817), August Monferrand (1786-1858) e altri. A una trentina di
chilometri dalla capitale, Pietro fece edificare dal 1714 una residenza estiva spettacolare a
cui diede il nome di Peterhof (dal 1944 russificato in Petrodvorets), inaugurata nel 1923. Il
palazzo estivo di Caterina, Tsarskoe Selo, fu edificata tra il 1717 e il 1723 dall’architetto
Braunstein, e perfezionata poi dal Rastrelli, con l’ambizione di fare concorrenza alla reggia
di Versailles. Dal 1764 fu cominciata la spettacolare costruzione dell’Ermitage, la reggia di
Caterina nel cuore della città, che fin da subito divenne una delle più importanti collezioni
d’arte del mondo. E tuttavia San Pietroburgo non riesce a sembrare fino in fondo una città
europea; ha molto di europeo, con i suoi canali che imitano Venezia e Amsterdam, con le
sue chiese di gusto occidentale e i sontuosi palazzi nobiliari che formano la scenografia del
corso principale, il Nevskij prospekt, ma ha anche decisamente qualcosa di orientale e di
russo, perfino in quel barocco russo inventato da architetti italiani e francesi per rendere
l’idea di una Russia europeizzata, ma che non è propriamente Europa. È una metropoli
110
molto affascinante anche e proprio perché ha molto in comune con tutto, ma rimane
comunque unica nel suo genere. È una realtà nuova, diversa anche da tutto il resto della
Russia per la sua particolare concezione architettonica, artistica e culturale pensata solo
per la capitale del nuovo impero. A Mosca ha sede Russia più antica, più tradizionale e
ortodossa, ancora erede della Rus’ di prima del Settecento. In realtà commentare la storia
della cultura russa partendo dal Settecento, come normalmente si fa nelle università anche
russe, non fa capire quasi nulla della Russia. San Pietroburgo peraltro è una città malsana,
costruita sotto il livello del mare, gravata da un terribile umidità e senza vere fondamenta:
Pietro la fece edificare su basi innalzate al di sopra della depressione alla foce della Neva.
È una città letteralmente costruita sul nulla, su una laguna ghiacciata vicino al Circolo
Polare Artico che si scioglie ogni anno, con un clima pessimo. Eppure è nata con
l’ambizione di essere non tanto la “Terza Roma”, ma di fatto una nuova Roma, una nuova
città di San Pietro. Rimarrà sempre in Russia la contrapposizione tra Mosca e San
Pietroburgo, la capitale antica e nuova, quella meridionale e quella settentrionale, del resto
tipica anche di altri paesi: Roma e Milano, Madrid e Barcellona, Monaco e Francoforte.Le
due capitali della Russia sono in definitiva due diverse varianti della “Terza Roma”.
Subito dopo il crollo del regime comunista è stata ricostruita Mosca, che nel 1997 ha
celebrato l’850simo anniversario della sua fondazione, dal 2000 invece, con l’avvento di un
leader settentrionale come Vladimir Putin, tutte le forze sono state convogliate su San
Pietroburgo, che ha sua volta ha festeggiato nel 2003 il suo terzo secolo di esistenza. Il
dualismo si è così riproposto all’inizio dell’era post-sovietica, con un decennio moscovita a
cui è seguito un decennio pietroburghese, ma con una tipica inversione russa: gli anni
Novanta sono stati decisamente aperti all’influsso occidentale, mentre gli anni duemila
hanno segnato il ritorno a una tradizione gelosamente difesa da questi stessi influssi. La
capitale del nord ha ispirato moltissimo i più grandi scrittori russi, che per lo più hanno
visto in San Pietroburgo il simbolo del male, il luogo dove si concentra il peccato, mentre
Mosca e provincia sono quasi sempre stati rappresentati come la patria della santità russa
a cui ritornare, da ritrovare dopo ogni degradazione.

Pietro il Grande fu di fatto l’ultimo maschio di sangue veramente russo, e veramente


Romanov, che diede alla storia russa un contributo rilevante. La sua eredità, dal punto di
vista politico e culturale, fu veramente raccolta e sviluppata quasi quaranta anni dopo la
sua morte da Caterina II (1729-1796), non a caso come lui chiamata “la Grande”. Caterina
era nata in Pomerania da Cristiano Augusto, principe di Anhalt-Zerbst, e da Giovanna di
Holstein-Gottorp; quando nel 1744 fu data in sposa allo zarevič Pietro III, che in seguito
essa stessa fece assassinare, cambiò il nome da Sofia (che non si considerava più un nome
russo, al contrario del XV secolo) in Caterina, che era altrettanto di origine greca. La sua
russificazione fu generosa e appassionata, ma il risultato in realtà fu quello di
europeizzare totalmente la Russia, o almeno la sua classe dirigente. Dopo di lei il sangue
russo rimase poco più che un rivolo insignificante nella dinastia dei Romanov, fino
111
all’ultimo zar Nicola II, che a essere generosi era russo per meno della ventesima parte dei
suoi geni. Caterina realizzò sistematicamente quella occidentalizzazione dello stato
iniziata da Pietro il grande.

Caterina II regnò sulla Russia dal 1762 al 1796, giusto nel periodo della rivoluzione
francese. Ella stessa era particolarmente impregnata della cultura illuminista francese e
tedesca, che venne rappresentata in Russia soprattutto dallo scrittore e pubblicista
Aleksandr Radiščev (1749-1802), l’unico vero illuminista russo, la cui opera più famosa,
considerata uno dei primi germogli della cultura filosofica russa, guarda caso si intitola
Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790). È la descrizione della Russia, dalla nuova
Pietroburgo alla vecchia Mosca, una critica dell’autocrazia e della proprietà terriera in cui
Radiščev propaganda con entusiasmo gli ideali della rivoluzione francese, la liberazione
dei contadini, l’abolizione della pena di morte e tutti i diritti dell’uomo. Egli adopera lo
strumento letterario del viaggio, che diventa lo spunto iniziale di questa nuova cultura;
famosi i ricordi di viaggio di Denis Fonvizin (1745-1792), un commediografo russo di
origine tedesca (Von Wiesen il suo cognome all’europea) che pubblicò le sue Lettere
dall’estero, che diffusero in Russia la moda del Grand Tour come necessaria esperienza di
vita e di formazione, colpendo peraltro con la sua satira l’atteggiamento dilagante
all’interno della nobiltà russa di seguire tutte le mode francesi, la cosiddetta “gallomania”.
Anche il primo grande storico russo, Nikolaj Karamzin (1766-1826) pubblicò le sue Lettere
di un viaggiatore russo, in cui commenta le impressioni del suo viaggio in Europa intrapreso
a partire dal 1789. Alla fine del Settecento l’intellettuale russo, il nobile russo “doveva”
visitare tutte le capitali d’Europa, e soprattutto Roma e Napoli, che nel Settecento era una
delle prime città d’Europa e che stupiva i russi per la somma delle sue contraddizioni,
quel miscuglio di “miseria e nobiltà” che tanto la faceva assomigliare alla Russia stessa. Il
Grand Tour divenne il terreno del continuo confronto con l’Europa, il modo di portare
l’Europa in Russia. I palazzi nobiliari del Nevskij Prospekt rispecchiano questo itinerario
culturale, con quattro chilometri e mezzo adornati da scenografici e magnifici palazzi,
dietro le grandi facciate dei quali c’erano ancora le campagne e i cortili, dove i nobili
vivevano alla russa, spogliandosi degli abiti sfarzosi indossati ai ricevimenti nei saloni di
gala. I nobili russi all’inizio del XVII secolo erano ancora boiari medievali, costretti da
Pietro il Grande a trasformarsi di colpo in notabili europei; per non parlare delle grandi
tenute di campagna e delle confortevoli magioni padronali di Mosca, dove gli stessi nobili,
che a San Pietroburgo tenevano la residenza ufficiale vicino alla corte, vivevano
praticamente alla maniera asiatica, senza nessuna regola e nessuna estetica obbligatoria.

Proprio lo storico Karamzin mostra perfettamente il culmine della metamorfosi


europea della Russia, insieme all’inizio di un nuovo riflusso della coscienza russa in
direzione dell’oriente. Dopo aver propagandato l’immersione europea nelle sue lettere di
viaggio, Karamzin diventò il primo storico della Russia nazionalista. Egli scrisse una
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grande storia della Russia in dodici volumi, che rimase fino al XX secolo la base indiscussa
della storiografia patria. È l’ennesima svolta, quando la Russia abbandona i sentimenti
troppo filoeuropei per assumere un atteggiamento decisamente antieuropeo, all’inizio del
XIX secolo. C’è da rilevare peraltro che proprio nel periodo in cui la Russia conosceva la
sua massima occidentalizzazione, paradossalmente erano emerse delle figure di
rinnovamento spirituale interessantissime, già impegnate, anche se in tono minore, nella
riscoperta della tradizione originale della Russia. Uno di esse fu il filosofo russo-ucraino
Grigorij Skovoroda (1722-1794), il “Diogene russo”, che visse come un pellegrino
aggirandosi per monasteri (a modo suo, anch’egli “in viaggio”, ma per tutt’altri itinerari
rispetto ai nobili pietroburghesi). Egli scrive di filosofia e teologia neoplatonica, della
tricotomia antropologica di corpo, anima e spirito, riporta la dottrina della Trinità a livello
antropologico in una sua particolarissima “teologia del cuore” basata sulla Bibbia e sui
padri della Chiesa, contro la scolastica e le “mascherate monacali”. È considerato il primo
filosofo russo; era un lontano antenato di Vladimir Solov’ev, che del resto che si ispirò
molto a lui. Un altro esempio è quello del vescovo Platon (Levšin, 1737-1812), il leader dei
“monaci scienziati”, che fu uno dei principali ispiratori delle Accademie teologiche che
nacquero alla fine del Settecento. Platon fu uno dei primi a cercare di superare la
dipendenza dalla scolastica latina e a propugnare un ritorno alla Sacra Scrittura, portando
la Bibbia al popolo, cosa nuovissima per la Russia di allora. Dal 1798 sostituì
l’insegnamento del latino con il greco. Era un vescovo illuminato e illuminista, amante
delle lettere e della cultura, che ebbe l’intelligenza di aprirsi alla riscoperta della tradizione
cristiana e patristica. Come vescovo nel 1792 benedì il nuovo cenobio di Optina Pustyn’,
sede del rinnovamento monastico e delle traduzioni delle opere dei padri. Uno dei
protagonisti di questo rinnovamento fu il monaco e vescovo Tikhon (Zadonskij, 1724-
1783), che nella sua diocesi di Voronež mostrò particolare cura nella predicazione,
richiamandosi molto ai padri della Chiesa, allo stesso tempo istituendo una cattedra di
filosofia in seminario. Tikhon seppe diffondere molto tra il popolo le tematiche
tipicamente monastiche della povertà e della carità, della direzione spirituale
(raccogliendo la tradizione degli starets e fondendola con quelle più occidentali). ha
lasciato una raccolta dei suoi scritti spirituali, dal titolo significativo Il vero cristianesimo,
che furono in parte lo spunto per la composizione di grandi raccolte di testi monastici e
spirituali. In questi testi, oltre agli insegnamenti dell’ascetismo orientale e bizantino,
trovarono posto anche trattazioni sul significato dei simboli e delle esperienze di
preghiera, tipiche del pietismo europeo. Insieme a Tikhon, il grande protagonista di questa
opera di formazione religiosa del popolo fu Paisij (Veličkovski, 1722-1794), monaco
moldavo-russo che dai territori meridionali occidentali porterà un inestimabile contributo
alla vita spirituale russa. Tikhon e Paisij comporranno la versione russa della Filocalia, la
Dobrotoljubie, che mette dentro la grande tradizione patristica insieme alla mistica tedesca
e al pietismo, presentando una antologia che va dal IV al XV secolo, completata in seguito
da importanti seguaci della spiritualità di Paisij come Feofan “il Recluso” (Zatvornyj, 1815-
113
1894) e Ignatij (Brjančaninov, 1807-1867). Paisij radunò nei monasteri moldavi di
Dragomirna e Njamets una importante scuola di traduttori dei padri, alimentando un
movimento di rinascita che diede vita a una grande catena di monasteri riformati, l’ultimo
dei quali fu proprio quello di Optina Pustyn’.
Optina si trova nella regione di Kaluga, poco più di duecento chilometri a sud-ovest di
Mosca. A fine Settecento era ormai ridotto quasi alla scomparsa, ma dopo l’innesto della
nuova corrente monastica rifiorì, fino a diventare l’eremo di riferimento di tutti gli scrittori
e filosofi russi, che cercheranno di andarci all’inizio o alla fine della vita, o durante i
periodi di crisi, per cercare ispirazione o apporre un suggello definitivo alla loro opera.
Perfino Lev Tolstoj, il più anticlericale dei grandi scrittori russi, morì nel tentativo di
raggiungere Optina. Tutta l’apertura dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij è costruita
sull’incontro dei protagonisti con lo starets Zosima di Optina, con il quale i fratelli Dmitrij,
Ivan e Aleša devono discutere dell’eredità del padre Fedor: solo il giudizio dello starets è
ritenuto in grado di dirimere le questioni familiari, anche se l’incontro si risolve in un
grave scandalo, con un vergognoso litigio davanti allo starets anziano e malato. Questo fa
sì che Zosima decida di rimandare Aleša, che era novizio nel monastero, a compiere la sua
missione di amore nel mondo, che è il vero significato del romanzo e di tutta l’attività
letteraria dello stesso Dostoevskij. Optina Pustyn’ è presentata quindi come il luogo da cui
parte la ricostruzione dell’autocoscienza russa, e dove prende corpo la prospettiva della
sua missione universale.

114
Capitolo 5. La cultura universale della grande Russia

La vittoria come affermazione dell’autocoscienza.

Nell’Ottocento le tante componenti dell’anima russa trovano finalmente la possibilità


di esprimersi pienamente, generando i frutti più maturi di una cultura che diventa
patrimonio dell’intera umanità. Dalla occidentalizzazione del Settecento si giunge alla crisi
generata dall’avvenimento epocale del 1812, l’invasione napoleonica e la vittoria sul
grande conquistatore francese, che scrive la fine della parabola rivoluzionaria e inaugura
in Europa l’era della restaurazione. Napoleone fu sconfitto dai russi grazie a una forma
particolarmente drammatica di suicidio collettivo: per cacciare gli invasori essi dovettero
distruggere la loro stessa città più significativa. I francesi avevano iniziato l’invasione il 23
giugno 1812, e la difesa russa fin dall’inizio fu basata sul ripiegamento e sulla tattica della
“terra bruciata”, per lasciare l’esercito della Grande Armée senza rifornimenti sul cammino.
I russi accettarono lo scontro frontale solo il 7 settembre a Borodino, dove ebbe luogo il più
sanguinoso giorno di guerra di tutte le battaglie intraprese da Napoleone. Il massacro fu
reciproco e si concluse senza vinti né vincitori, ma l’armata russa fu ridotta della metà e
costretta a ritirarsi, lasciando al nemico la strada libera verso l’antica capitale. Entrando a
Mosca, il conquistatore francese era convinto di avere ormai il diritto di ricevere la
capitolazione dello zar, ma la singolare presenza in Russia della “doppia capitale”, pensata
un secolo prima da Pietro il grande come trampolino della nuova Russia “europea”, si
rivelò nell’occasione una provvidenziale difesa dall’aggressiva penetrazione dell’Europa
in Russia. L’imperatore Alessandro I rimase al suo posto a San Pietroburgo, costringendo i
francesi a disporsi a una risalita verso il nord a cui non erano preparati. Le ambiguità
paradossali della Russia mostrarono anche nell’emergenza bellica un potenziale di risorse
a cui attingere, capace di stupire il resto del mondo, che era in quel momento soggiogato
dal carisma di comando del generale corso. I francesi non riuscirono a organizzare il
prosieguo della campagna, perché i russi decisero di compiere un estremo e folle sacrificio:
il governatore di Mosca, Fedor Rastopčin, ordinò di abbandonare e dare fuoco alla città,
lasciando l’esercito invasore senza la possibilità di approvvigionarsi e costringendolo a
tornare sui propri passi, incalzato dall’esercito russo guidato da Mikhail Kutuzov,
ennesimo eroe della non-resistenza intesa come forma superiore di potenza.

Questa vittoria, che aveva lasciato sul campo circa un milione di morti, portò i russi
fino al cuore dell’Europa, e nel 1814 l’imperatore Alessandro I potette fare il suo ingresso
trionfale a Parigi in qualità di sovrano più potente dell’intero continente: la Russia aveva
conquistato l’Europa, imponendo ad essa la sua grandezza orientale. Nella Santa Alleanza
che fu poi proclamata nel 1815, al Congresso di Vienna, la nuova Europa “restaurata”
venne colorata di tonalità mistiche e romantiche, in cui non è difficile riconoscere i tratti
115
radicali e contraddittori dell’anima russa; come fu detto, in quel contesto “si identificò la
storia delle civiltà con la storia della religione”. L’idea ecumenica e “trinitaria” di
Alessandro I era quella di organizzare l’Europa grazie all’unione di tre imperi cristiani,
quello ortodosso russo, quello protestante prussiano e quello cattolico austriaco. Lo zar
russo doveva essere il capo di questa singolare unione dei popoli e delle Chiese, e per tutto
l’Ottocento si coltiverà in varie forme questo sogno romantico, appoggiato anche dal papa,
che ovviamente vedeva nella Sede romana il centro della stessa unione. Infatti nel 1848,
l’anno dei rivolgimenti irredentisti negli stati europei, il papa Pio IX inviò una lettera a
tutti i patriarchi ortodossi con un appello a riunirsi alla Chiesa Cattolica, che avrebbe fatto
da guida alla vera Europa cristiana; l’iniziativa ebbe ben scarso successo, e fu rigettata
senza neanche essere presa in considerazione, ma dimostrò quanto profondamente
l’utopia russa aveva influenzato le coscienze europee. L’ideale della “Santa Russia” non
era più confinato nei confini della Moscovia o nelle nebbie pietroburghesi, ma era
diventato un mito religioso circolante anche nell’occidente cristiano. L’autocoscienza russa
si era ormai affermata come un fattore ineliminabile del grande dibattito sui destini della
civiltà mondiale; proprio questo salto di qualità fu espresso magistralmente da Vladimir
Solov’ev nella sua teologia utopica sulla Russia e la Chiesa universale, in cui proponeva
l’idea della teocrazia spirituale come programma di riforma dell’Europa secondo il vero
spirito cristiano, da realizzare sotto il governo dello zar russo e l’autorità spirituale del
papa di Roma.

Viaggio nelle favole e nelle anime.

Dal 1812 nascono dunque anche tutti i grandi filoni culturali della Russia moderna. Il
primo e il più grande “figlio del 1812” è il poeta Aleksandr Puškin, formatosi come uomo
del Settecento e allevato nello spirito dell’illuminismo europeo, che diventò di fatto il
primo vero intellettuale russo. Egli infatti si affrancò dagli obblighi di servizio tipici della
Russia settecentesca, fu il primo a rifiutare la carriera civile per dedicarsi all’arte, cosa
allora ritenuta estremamente sconveniente; tutti gli artisti russi della prima metà
dell’Ottocento dovettero lottare con le proprie famiglie per poter realizzare la propria
vocazione artistica, evitando di rimanere imbrigliati nella burocrazia statale. Puškin prese
la sua ispirazione non tanto dalla cultura europea in cui era stato educato, ma piuttosto
dalla sapienza popolare della sua balia, la njanja, che gli raccontava le favole russe,
insegnandogli in questo modo la stessa lingua russa. I nobili russi del tempo quasi non
conoscevano il russo e non avevano interesse alla lingua del popolo, in quanto la lingua
dell’alta società russa era il francese. Puškin dovette di fatto inventare la lingua letteraria
russa, e in questo senso la letteratura russa vera e propria nasce tutta da lui. Egli morì
romanticamente, a trentotto anni, nel duello con il barone francese Georges d’Anthés; la
sua opera verrà continuata da Mikhail Lermontov (1814-1841), con cui forma la coppia
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regina, il Dante e il Petrarca della letteratura russa. Ma la sua vera eredità verrà poi
assunta da Nikolaj Gogol’, il grande scrittore ucraino-russo. Gogol’ fu una personalità
estremamente tormentata, che scrisse vari racconti per descrivere veramente che cos’è la
Russia, come già aveva iniziato a fare Puškin. La sua opera principale, le Anime Morte
(1842), è il tentativo esplicito di far emergere appunto l’anima russa: è un romanzo satirico,
in cui lo scrittore immagina un imbroglione, Čičikov, che traffica contadini defunti
girando per le campagne russe per ottenere vantaggi fiscali e rivenderli, e viene infine
scoperto. Quando Puškin ascoltò da Gogol’ i primi capitoli del romanzo, che ebbe una
lunga gestazione, cadde nella disperazione, esclamando: “come è degradata la nostra
Russia!”; Gogol’ ci rimase male, pensando di aver composto un testo umoristico, e non la
realtà. Aveva invece fatto una descrizione così efficace della Russia e dei suoi difetti, che
tutti la presero alla lettera, come una denuncia dei veri mali del paese.

In realtà Gogol’ intendeva scrivere una specie di Divina Commedia in tre stadi, prima
il male, poi l’inizio della conversione, e infine il trionfo del bene. Il suo protagonista,
Čičikov, doveva svolgere la funzione di Dante, che passa per i tre livelli mostrandone i
misteri. L’impressione enorme della prima parte, corrispondente all’inferno della Russia,
portò alla sua messa al bando da parte della censura di stato per alcuni anni; venne infine
pubblicata, e tutta la Russia ne discusse per decenni, creando una così grande aspettativa
del seguito, ma Gogol’ non riuscì a portare avanti il progetto. Egli scrisse la seconda parte
del racconto già quasi senza ispirazione, bruciò due volte il manoscritto, la seconda volta
solo dieci giorni prima di morire. Di essa sono rimasti cinque capitoli, mentre la terza
parte non fu mai neanche abbozzata; il romanzo rimase incompiuto, e anche in questo esso
funge da simbolo un po’ di tutta la cultura russa. Da notare che Gogol’ scrisse il suo
capolavoro in buona parte durante i viaggi invernali in Italia, e quelli primaverili nelle
località termali della Germania, da cui tornava in Russia a raccontare come procedeva il
lavoro; quando terminò la prima parte del libro, dalla sua casa di Roma scese dalla vicina
Trinità dei Monti a piazza di Spagna, dove si mise a festeggiare ballando danze cosacche e
canzoni ucraine per tutta la notte. Quando poi tornò in Russia, celebrò l’evento
preparando per i suoi amici slavofili una solenne spaghettata all’italiana (era un grande
amante della cucina italiana). Gogol’ era un personaggio molto naturale e spontaneo, che
secondo Lev Tolstoj aveva “un enorme talento, ma poco cervello, e quando non pensava
scriveva cose magnifiche”, mentre quando voleva dimostrare qualcosa perdeva
l’ispirazione. In seguito alla crisi si buttò infine direttamente sulla religione, scrivendo testi
edificanti tra cui le Meditazioni sulla divina liturgia, in cui cercava di mostrare che la liturgia
ortodossa non è inferiore a quella cattolica. Gli intellettuali russi lo accusarono di aver
perso il lume della ragione, e di essersi ormai artisticamente inaridito. Per cercare di
arrivare infine all’anima russa, Gogol’ si rivolse alla liturgia e alla devozione, visto che non
riusciva con l’arte; in realtà il suo percorso esprime la vera ricerca dell’anima russa, un
itinerario dall’anima morta all’anima vivente, che prevedeva la conversione di Čičikov
117
grazie agli sforzi congiunti di sacerdoti cattolici e ortodossi, una conversione “ecumenica”,
insieme orientale e occidentale.

In questo periodo, tra Puškin e Gogol’, emerse proprio il dibattito sui destini ultimi
della Russia. L’episodio storicamente dirompente fu la pubblicazione da parte di Petr
Čaadaev nel 1836 di una lettera famosa a una signora immaginaria, in cui il filosofo
esprime tutto il suo scetticismo circa l’esistenza in Russia di una propria cultura, e accusa i
connazionali di aver copiato tutto dagli altri popoli. Herzen definì questa lettera uno
“sparo nella notte buia”, e proprio essa diede pubblicamente il via alla polemica tra
slavofili e occidentalisti, in quanto poneva in modo acuto il problema di fondo
dell’identità nazionale. La polemica si sviluppò comunque sotto l’influsso della filosofia
tedesca: gli occidentalisti erano tendenzialmente hegeliani, mentre gli slavofili erano
chiaramente schellinghiani. I principali termini adoperati dagli slavofili come la
“unitotalità” (vseedinstvo), la “conciliarità” (sobornost’), la “conoscenza integrale” (tsel’noe
znanie) provenivano tutti dalla filosofia di Schelling. Il grande critico teatrale Belinskij si
contrapponeva al pubblicista Khomjakov, che a sua volta aveva risposto a Čaadaev;
l’hegeliano Herzen dibatteva con il filosofo schellinghiano Kireevskij. Tutta la storia della
controversia è molto russa, molto ricca di scambi di posizione e aperte contraddizioni.
Herzen era il prototipo dell’intellettuale russo occidentalista, parlava sempre della Russia,
ma viveva costantemente in Europa, che considerava la sua vera patria, ritenendosi russo
per caso. Da questa contrapposizione nacque la cultura dell’Ottocento, che si concluse a
livello letterario con l’opera di Tolstoj da una parte e di Dostoevskij dall’altra. I due
massimi scrittori russi erano l’uno molto occidentalista, e l’altro espressione della vera
anima russa, colui che riuscì in qualche modo a realizzare quello che Gogol’ non era
riuscito a portare a compimento: partendo dal male della società russa, Dostoevskij
presenta in genere la parte più degradate della società, per giungere alla purezza e alla
santità rappresentata da diverse figure emblematiche, come il principe Myškin, l’idiota. La
cultura dell’Ottocento verrà poi rivisitata in modo drammatico agli inizi del Novecento, in
quel ventennio chiamato “secolo d’argento”, che segue al “secolo d’oro” ottocentesco. Vi
sarà la riscoperta della filosofia religiosa, a partire da Solov’ev, contro i rivoluzionari,
Lenin, Trotskij, Plekhanov ecc. Tutto questo è materiale della storia della filosofia e della
cultura russa nel suo complesso, che richiederebbe una analisi dettagliata; qui ci limitiamo
a commentare la tesi, per cui tutto questo materiale si capisce solo se si ritrovano tutte le
radici della cultura russa. Documentazione di questa tesi si può abbondantemente reperire
nella letteratura, nell’arte e nella musica russa.

La rivoluzione come desiderio di rinascita.

118
L’anima russa è divenuta famosa nel mondo universale della cultura in questo arco di
tempo, dal secolo d’oro dell’Ottocento al secolo d’argento degli inizi del Novecento.
Queste delimitazioni hanno comunque un valore relativo: anche nell’Ottocento russo vi
sono alti e bassi, non troviamo una assoluta continuità, ma sicuramente si evidenziano
delle vette eccelse, che hanno reso la Russia protagonista della cultura universale,
suscitando anche oggi tanto interesse in tutto il mondo. L’esplosione della cultura russa
nacque da un repentino movimento di assoluta apertura, e poi di totale rifiuto del mondo
occidentale. All’inizio dell’Ottocento la Russia diventa, con il regno di Alessandro I, una
delle grandi potenze nazionali del continente europeo, almeno come aspirazione. La
cultura dell’elite russa in quel periodo non aveva più niente di russo; come abbiamo già
ricordato, i nobili russi non parlavano la propria lingua, ma piuttosto il francese. I
viaggiatori come Fonvizin e Karamzin che raccontano l’Europa, ne parlano come della
vera patria russa. La rivoluzione francese aveva peraltro innescato un meccanismo di
confronto, tale per cui già sotto Caterina II lo zarismo assolutista aveva espresso una
reazione di distacco dalla rivoluzione. Vi era il giustificato timore che la rivoluzione
potesse scardinare anche i sistemi sociali russi, e in effetti il sogno della rivoluzione
rimarrà lo sfondo ideale di tutto il secolo. La reazione portò immediatamente a un rigetto
dell’influsso francese, tanto che l’illuminista russo più in vista, lo scrittore Radiščev, venne
incarcerato e spinto al suicidio.

In realtà, Alessandro I aveva iniziato il suo regno ancora in un clima di grande


apertura filooccidentale e liberale, potremmo dire perfino massonica. Il primo ministro di
Alessandro I, Mikhail Speranskij (1772-1839), progettava una Russia di tipo liberale e
iniziò a realizzare un programma politico che avrebbe dovuto portare a una monarchia
costituzionale illuminata. Lo stesso Alessandro I non soltanto sosteneva politicamente
questo progetto, ma anche dal punto di vista culturale si dimostrava molto aperto non solo
alle idee dell’illuminismo, ma anche a un certo misticismo di tipo massonico, sostenuto
soprattutto dal principe Aleksandr Golitsyn (1773-1844), suo ministro della cultura e della
religione. Sotto Speranskij si diede avvio alla Società Biblica, di cui proprio Golitsyn era
presidente, ed ebbe inizio la traduzione in russo della Bibbia, che fino allora esisteva solo
nella versione dell’antico slavo ecclesiastico. Insieme a ciò vennero intraprese anche altre
iniziative per promuovere una religiosità di tipo ecumenico e massonico, e di incontro tra
oriente e occidente sul piano della cultura e della religione. Tutto questo fervore in realtà
venne bloccato abbastanza presto, secondo il dinamismo tipico della Russia, fatto di brevi
aperture e lunghissime chiusure. L’apertura di Alessandro I, che era divenuto zar nel 1801,
durò solo una decina d’anni e poi si interruppe a causa dell’invasione napoleonica, che
rovesciò l’intero occidente contro la Russia e provocò in Russia una reazione di totale
rifiuto dell’occidente. Obbligata dalla vicenda militare, perché la Russia era costretta a
difendersi, questa diventerà una reazione anche culturale e perfino religiosa. La campagna
napoleonica durò dal 1801 al 1812, l’anno fatale. Attraverso il reciproco massacro di
119
Borodino, l’autodistruzione di Mosca e la successiva fuga di Napoleone, la Russia fa
arrivare il nemico occidentale fino alle proprie viscere, al cuore moscovita, per poi
letteralmente risputarlo fuori. Il 1812 contende al 1917 la palma di data maggiormente
sintomatica della storia russa, tanto è vero che la cultura russa nell’Ottocento sarà quasi
tutta una rilettura di quelle vicende. L’espressione più famosa è il romanzo per eccellenza
Guerra e Pace, di fatto una rilettura del 1812, che ha reso conosciuto nella letteratura
mondiale il punto di vista della Russia, il modo con cui la Russia ha vissuto il periodo di
Napoleone. In esso si esprime in particolare la visione della storia di Tolstoj, che è
certamente originale e isolata, ma l’autore riesce a dare voce all’intera sinfonia della storia
della cultura russa. Più profondamente essa è una riflessione sulla propria identità, sulla
propria autocoscienza o samobytnost’, la propria essenza o auto-essenza, provocata dalla
guerra di Napoleone ma che in generale condensa in sé tutta la storia delle relazioni, degli
influssi, delle pause e delle ricostruzioni, dei lunghi silenzi e delle grandi aspirazioni dello
spirito russo. Il termine samobytnost’ viene inventato proprio in quel periodo, quando dopo
il 1812 la autocoscienza comincia a formarsi nei primi circoli intellettuali, di cui uno dei
più significativi è quello degli schellinghiani, i ljubomudrye, che poi daranno vita agli
slavofili. Sono coloro che applicano il romanticismo tedesco, nei termini di Schelling, alla
realtà russa.

Il problema è che, a livello politico, dall’ipotesi liberale dopo il 1812 si passa alla più
assoluta reazione. Nel 1825 ci sarà la rivolta dei decabristi, i “dicembrini”, il primo moto
rivoluzionario russo. I decabristi erano nobili, ufficiali dell’esercito che avevano fatto la
campagna contro Napoleone ed erano rimasti delusi dalla mancanza di riforme, dalla
cancellazione delle loro speranze, e organizzarono un colpo di stato contro Alessandro I
per cercare di spingerlo a realizzare il programma riformista, o addirittura per rovesciarlo.
Il piano decabrista fallì a causa della piega degli eventi, che impedirono di preparare un
piano adeguato per la rivolta: Alessandro I morì improvvisamente a Taganrog il primo
dicembre del 1825, e al suo posto si insediò il fratello minore Nicola I, che dovrà subito
fare i conti con il velleitario inizio dei moti: i decabristi, pur non essendo ancora pronti,
decisero di provarci, ma vennero subito soffocati. Nicola I ebbe così l’occasione per
imporre un regime di assoluta dittatura, mettendo fine non solo ai sogni liberali, ma anche
alla loro espressione più romantica, legata al progetto della Santa Alleanza del 1815.
Questa era la Yalta dell’Ottocento, la spartizione dell’Europa che si sosteneva sul sogno
romantico-religioso di unire tutti i cristiani per una nuova Europa, magari non proprio
liberale, ma che potesse in qualche modo soddisfare i desideri di tutti i popoli.

Si arrivò così alla più dura reazione, Nicola I venne soprannominato “il gendarme
d’Europa” in quanto monarca più duro e più potente, che faceva da puntello anche alle
altre autocrazie europee. Lo zar nel 1845 approfittò di un soggiorno a Palermo, dove la
zarina era in vacanza, per recarsi addirittura a Roma dal papa (fu la prima visita di un
120
regnante russo a Roma) per sostenere l’autocrazia papalina, che gli serviva come simbolo
del potere autocratico, perché fondata direttamente sul potere divino. La storica visita,
durata cinque giorni dal 13 al 17 dicembre 1845, era stata accompagnata da varie
perplessità nell’opinione pubblica, a causa delle persecuzioni dei cattolici uniati da parte
dello zar, ma si risolse in una conferma del ruolo carismatico che la monarchia russa
rivestiva in Europa in quel periodo. In una lettera di Gogol’, presente a Roma nei giorni
della visita di Nicola I, egli riferisce all’amico Aleksej Tolstoj (2 gennaio 1846): “Del
sovrano ho ben poco da dirvi. L’ho visto di sfuggita due o tre volte. Il suo aspetto era
eccellente, e ha fatto un enorme effetto sui romani. Dovunque andasse i popolani lo
chiamavano semplicemente Imperatore, senza aggiungere: di Russia, tanto che un forestiero
avrebbe potuto credere che si trattasse del legittimo sovrano di questa terra”.

La Russia aveva bisogno di un Vaticano forte, per paura dei moti liberali che in effetti
si faranno sentire anche a Roma nel 1848. Questo passaggio politico permise a Nicola I di
dare anche una sua risposta alla esigenza di identità culturale che animava la Russia.
secondo l’ideologia zarista, la samobytnost’ della Russia ovviamente triplice, trinitaria,
formata dai concetti di autocrazia, ortodossia e nazionalità (samoderžavie, pravoslavie,
narodnost’). Il terzo termine è quasi intraducibile: indica un miscuglio di nazionalismo,
populismo e spirito nazionale, spirito del popolo (narod), popolarismo. In italiano si usa il
termine “populismo”, che descrive l’atteggiamento del monarca o governante che cerca in
primo luogo di ottenere il favore del popolo. Sicuramente la narodnost’ russa non è questo,
anche se la figura dello zar è populista nel senso di amata dal popolo, ma non per la
personalità, quanto per la sua aura di sacralità. Nella narodnost’ russa sta tutto il contenuto
della samobytnost’, dell’ideale slavofilo. La triade ideologica venne propagandata dal
ministro della cultura Sergej Uvarov (1786-1855), uno dei grandi protagonisti della
restaurazione, anzi il vero simbolo della restaurazione culturale. In quale combinazione i
tre termini si richiamino tra di loro, è la grande domanda della coscienza culturale russa
applicata alla politica; ad essa verrà data anche una risposta antiautocratica, ma
ugualmente dittatoriale, quella del comunismo bolscevico. Il “potere dei soviet”
proclamato dalla rivoluzione del 1917 è infatti una forma di narodnost’, di potere del
popolo nella forma del potere socialista.

La religiosità di Pietro il grande, e del periodo a lui collegato, esprime una variante
dell'Ortodossia che nella mentalità russa non è semplicemente una parte della tradizione
cristiana, ma la versione propriamente russa del cristianesimo, non assimilabile neanche a
quella greca. Non è l’Ortodossia teologica, ma la pravoslavie russa, così come il marx-
leninismo è la versione russa del marxismo. Il puro pensiero di Marx venne infatti diffuso
nel mondo dal suo segretario, Karl Kautsky, e da Georgij Plekhanov, il fondatore dei
comunisti russi, che nell’esilio europeo si era assunto l’incarico (non assegnatogli da
nessuno, tantomeno dallo stesso Marx) di diffondere nel mondo il verbo marxista. In
121
analogia con i padri della Chiesa, il rapporto tra Lenin e Plekhanov rievoca poi il rapporto
tra la Chiesa russa e quella greca. Plekhanov è il “Teofane il Greco” del marxismo, un
vecchio marxista che non serviva alla rivoluzione, mentre il marxismo russo divenne
l'unico marxismo ad essere veramente realizzato, il cosiddetto “marxismo reale”. Questo
passaggio ha condizionato il marxismo in occidente, che ha dovuto fare i conti con una
versione non marxista del marxismo. Nemmeno Stalin, del resto, era marxista, in realtà era
convinto soltanto della bontà dello stalinismo, non del marxismo vero e proprio. Il
dittatore georgiano era in effetti convinto di una sua propria divinità, proponendo a sua
volta una versione “russa” di una tradizione composita. Il comunismo cinese, l’altra faccia
del marxismo reale, è un altro discorso ancora. Il comunismo si è così storicamente
realizzato dove non vi era nessuna premessa per la sua realizzazione, trovando in Marx
risposte adattate alla Russia, e in seguito alla Cina; anche il comunismo cinese, del resto, è
figlio di quello russo, solo in una fase successiva (la “rivoluzione culturale”) diventò
autoctono. Per tornare a Pietro il Grande, egli pose nell’imperatore, e nella struttura statale
a lui collegata, il principio supremo della religione e della Chiesa, contro la stessa
tradizione cristiana. Un’analogia con questo fenomeno si può trovare nell’Italia medievale
di Federico II, ma in realtà in questa forma è un fenomeno esclusivamente russo.

L’apostolato dell’intelligentsija.

La risposta culturale al trauma del 1812 suscita la fioritura di tutta la cultura russa,
presto schiacciata dalla repressione di Nicola I. Con la cultura nasce in Russia anche la
censura, e quindi la diffusione clandestina della cultura, che nel Novecento produsse lo
straordinario fenomeno del samizdat. Nasce nella cultura russa una figura di ricerca
tormentata e perseguitata, che si assume il compito di trovare l’autocoscienza, di spiegare
e diffondere i motivi dell’identità comune: la cosiddetta intelligentsija. Il termine proviene
dall’uso latino, si tratta di una semplice traslitterazione, senza nulla di slavo o di russo: è la
pronuncia russa del termine latino intelligentia. Non dimentichiamo che la cultura
universale, in Russia come in Europa, all’inizio dell’Ottocento si esprimeva ancora in
latino. L’intelligentsija si caratterizza per la decisione di assumersi questa missione, quella
di spiegare non tanto al popolo, che era poco più di una figura retorica, ma al mondo
intero il mistero della Russia, il suo segreto, quindi anche di “illuminare il popolo” alla
maniera illuminista. Pensiamo a Tolstoj, già alla fine dell'Ottocento, un nobile russo che
per tutta la vita avrà l’angoscia di illuminare i contadini, cerca di vivere in mezzo a loro, si
veste come loro, nella sua tenuta nobiliare di Jasnaja Poljana, ma tutti i tentativi finiscono
con un fiasco completo, rimanendo egli sempre un aristocratico pieno di vizi e capricci,
che spesso si reca in Europa a spendere, tra pentimenti e ritorni. Nessuno riuscirà ad
avvicinarsi veramente al popolo, fra tutti gli intellettuali russi. Infatti l’intelligentsija venne
poi criticata nel periodo prima della rivoluzione, da un gruppo, quello che nel 1909
122
pubblicò la rassegna Vekhi, che farà una ricerca sulla crisi dell’intelligentsija mostrando
quanto fosse in realtà lontana dal popolo. Alla fine la rivoluzione bolscevica fu un
tentativo di realizzazione dell’ideale dell’intelligentsija, con la pretesa di dare al popolo la
forma di vita comune che esalta la sua vera natura. Il termine intelligentsija si è diffuso
ovunque, per indicare l’elite culturale in tutti i paesi. Anche in occidente usiamo questo
termine latino russificato, senza ricordare la sua origine latina.

Il primo intelligent, il primo uomo che si dedicò anima e corpo a questo compito, è il
padre della cultura russa, il poeta Puškin, il primo che rifiuta la carriera civile per
dedicarsi alla poesia e alla cultura. È il primo prototipo dell’ ”uomo inutile” (la definizione
viene dal romanzo di Turgenev Padri e figli, il lišnij čelovek). È l’uomo superfluo, in
sovrappiù, perché non rientra nello schema della società rigidamente suddivisa in classi
creata da Pietro il grande. Non si sa quale sia il suo compito, di che cosa si occupi, quale
sia il suo mestiere; non è un professore universitario, perché in realtà gli accademici non
erano considerati ancora degli intelligenty. Per diventarlo dovevano anche mettersi a
frequentare l’alta società, discutere nei salotti letterari e filosofici, pubblicare su riviste
clandestine. In generale la cultura accademica non rientrava nel concetto originario di
intelligentsija. In seguito l’intelligentsija arrivò anche a esprimere un proprio livello
religioso nella cosiddetta “filosofia religiosa” russa, che è la definizione con cui noi
indichiamo la cultura religiosa russa più conosciuta, quella dei Solov’ev, Berdjaev,
Bulgakov, Florenskij, che si possono ritenere degli intelligenty religiosi. Solov’ev insegnò
forse per un semestre all’università di Mosca e circa due mesi all’Accademia teologica di
San Sergio, e per tutto il resto della vita rimase il beniamino delle dame dell’alta società di
Mosca e San Pietroburgo, non aveva un luogo proprio, un’inquadratura, niente di niente.
Infatti la filosofia religiosa non si definisce né filosofia né teologia, è difficile dire che tipo
di materia sia; rifiutata dai filosofi e dai teologi, tutti in realtà prendono ispirazione da
essa, sia i filosofi che i teologi. L’unica figura occidentale che si sia avvicinata alla “filosofia
religiosa” è quella del teologo Hans Urs Von Balthasar, che espresse un rifiuto della
teologia accademica, e si dedicò a stendere una sua sintesi originale, la “teologia estetica”
di Gloria-Herrlichkeit, una teologia fuori dall’accademia, ma pur sempre riciclata poi nei
circuiti teologici tradizionali.

La cultura russa parte dalla poesia, cioè dalla parola, dalla acquisizione vera e propria
della lingua russa. È discutibile definire Puškin soltanto un poeta; egli scrisse molto anche
in prosa, proprio per assolvere il compito che si era assegnato. Egli sosteneva che
bisognasse anche raccontare la realtà, non solo riprodurla creativamente, e sia lui che i
suoi successori rifiuteranno le definizioni ristrette di poesia o prosa. Il romanzo La Figlia
del capitano fu scritto da Puškin per raccontare romanticamente la rivolta di Pugačev, e allo
stesso tempo egli scrisse anche la storia della rivolta, un vero e proprio testo di
storiografia. È una cultura estremamente duttile, proprio alla maniera russa. Puškin

123
comunque dal punto di vista strettamente letterario fa capire che il genio russo non è
inferiore a quello delle altre culture europee, è una vetta eccelsa, lo Shakespeare russo.
Esprime un afflato universale fin da subito, scrive a partire dalla sua samobytnost’, dalla
sua percezione di se stesso della Russia, che gli viene da chissà dove. Le favole popolari,
come quelle della njanja di Puškin, divennero la maggiore fonte di ispirazione di tutta le
letteratura russa. Un esempio lampante è la Khovanščina. È la narodnost’ che viene dal
sangue, dal rod, dalla razza. Sarebbe ridicolo affermare che Puškin abbia trovato
un’ispirazione così elevata da far scaturire l’epica russa (nel Boris Godunov) e il
romanticismo russo (l’Evgenij Onegin) solo dalle favole della bambinaia. Il poeta non si
basò sopra una ricerca antropologica, come faranno altri dopo di lui, ad esempio
Stravinskij, che passava le giornate a trascrivere in musica i canti dei contadini e delle
massaie. Una delle parti più interessanti anche della cultura accademica russa del resto è
proprio la favolistica, l'interpretazione delle favole, un filone d’oro della cultura
universitaria in Russia, dove è molto più sviluppato che in occidente. Questo filone ha
espresso in Russia dei grandissimi nomi, che hanno per molti aspetti anticipato anche lo
strutturalismo. Puškin assume questa ispirazione dal sangue, e raggiunge
immediatamente in cima. È sufficiente leggere una delle sue poesie più famose, che
definisce la sua stessa missione, Il Profeta:

Da spiritual sete tormentato


I’ mi traeva in un triste deserto
Allor che un Serafin sei volte alato
D’innanzi al guardo mio si fu offerto.
Lievi qual sogno, a fior de gli occhi miei
Passò sue dita, e, nel futur veggenti,
Spalancaronsi gli occhi, uguali a quei
D’aquila che sul nido si spaventi.
Egli di tanger le mie orecchie assunse,
E di suono riempielle, e di frastuono:
E fin de’ Cieli il fremito a me giunse;
E de gli Angioli l’olevato volo;
Fra l’acque e il gir del popolo marino;
E ne le valli il crescer de le piante.
Ed egli fèsi a le mie labbra chino,
E ne strappò la lingua mia peccante,
E menzognera, e frivola, e maligna;
Ed il dardo del savio serpente
Innestò con la destra sua sanguigna,
Ne le mie labbra assiderate, e spente.
Ed ei fendèmi, con la spada il petto,
124
E palpitante il cuor fuori n’emerse,
E de l’aperto vedono ricetto
Infuocato carbon nel vano immerse.
I’ nel deserto, qual cadaver, steso
Giacea, e la voce scossemi de l’Alto:
“Sorgi, o profeta, e vide, e audi, disse,
Adempi ciò che mia mente prefisse,
Ei mar scorrendo, e lo terrestre spalto
Ognunque cuor sia da tue verba acceso.” 48

Il “Serafino sei volte alato” è una citazione biblica (Is 6), molto usata nella liturgia
bizantina. La Russia è descritta come un “triste deserto” oscuro, senza una lingua. Nel suo
complesso la poesia è una reminiscenza pagano-cristiana; Puškin stesso, parlando delle
sue convinzioni in materia religiosa, affermava di tendere all’ateismo, era a tutti gli effetti
un intellettuale illuminista, senza un’espressione religiosa esplicita. Il suo misticismo
piuttosto di stile massonico ha comunque un aggancio alla tradizione religiosa russa. Il
suo appello, “Sorgi profeta, con la parola infiamma i cuori degli uomini”, esprime la
missione del poeta, profeta suscitato da Dio per accendere i cuori. Si tratta di una
ambizione non da poco, un afflato epico che riesce a tirar fuori subito l’anima russa, che
spunta fuori quasi come una palla di fuoco. Egli per primo rilesse le vicende della storia
russa a lui contemporanee (quelle del 1812), si improvvisò storiografo, e fece parte anche
del gruppo dei decabristi, anche se non come membro attivo, e dopo il fallimento della
rivolta per un po’ dovette rimanere in disparte. Il gruppo dei decabristi continuò
comunque a fornire l'ispirazione anche dopo la sua sconfitta, in quanto gruppo di uomini
ardenti che avevano salvato l’Europa e sconfitto Napoleone, e dopo essere tornati in
Russia erano stati emarginati e perseguitati, poi confinati in Siberia (quelli sopravvissuti
alla fine del tentativo rivoluzionario). L’esilio dei decabristi in Siberia (che proprio in
questo periodo assunse i contorni di una terra onirica, luogo di incubi e metafore della
coscienza collettiva) divenne un confronto a distanza per tutta la cultura russa, con figure
leggendarie come il principe Volkonskij, rievocato da Tolstoj nella figura di Andrej
Bolkonskij in Guerra e Pace (e usato da Orlando Figes come figura simbolica della sua
storia della cultura russa), il principe contadino che scopre la vicinanza col popolo durante
la guerra, e proprio in Siberia diventa un uomo del popolo, realizzazione degli ideali
dell’intelligentsija. Puškin cerca di riprodurre questa epica del popolo. Un altro suo famoso
poema è il Cavaliere di Bronzo, dedicato alla famosa statua di Pietro il Grande a San
Pietroburgo, sulle rive della Neva, di cui pure vale la pena di riportare un brano:

In riva ad onde spopolate, pieno

48 Trad. M. Ricci in GARZONIO Stefano – CARPI Guido, Antologia della poesia russa, Firenze 2004, p.259.
125
di alti pensieri egli stava, e guardava
lontano. Innanzi a lui largo correva
il fiume; solitaria vi arrancava
una povera imbarcazione. Lungo
muschiose, putride sponde, qua e là
si stagliavano nere capannucce,
asilo miserabile di finni,
e la foresta, sconosciuta ai raggi
di un sole avvoltosi nella caligine,
tutto intorno stormiva.

Ed egli meditava:
da qui minacceremo lo svedese,
qui fonderemo, a dispetto ed a danno
del superbo vicino, una città.
Qui ci fu decretato da natura
di aprire una finestra sull'Europa,
di rimanere sul mare a piè fermo.
Qui, solcando acque loro sconosciute,
giungerà ospite a noi ogni bandiera,
e in spazi liberi banchetteremo.

Cento anni passarono e la giovane


città, delle contrade del Nord vanto
e meraviglia, dal buio dei boschi,
dal fango degli stagni si elevò
sontuosa, fiera; là dove un tempo
il pescatore finnico, figliastro
triste della natura, solitario
su basse rive, gettava alle ignote
acque la sua vetusta rete, adesso
colmano sponde fervide di vita
moli armoniose di palazzi e torri;
dai quattro angoli della terra ai ricchi
scali si affrettano folle di legni;
la Nevà s’è vestita di granito;
sopra le acque si incurvano i ponti;
degli oscuri giardini verdeggianti
si sono ricoperte le sue isole,
e di fronte alla nuova capitale
126
la vecchia Mosca è impallidita
come innanzi alla giovane zarina
la porporata vedova reale.

Io ti amo, creazione di Pietro,


amo il severo ed armonioso tuo
sembiante, della Nevà la regale
ondata, il granito delle sponde,
delle tue cancellate l’arabesco
di ghisa, delle tue notti pensose
la diafana ombra, l’illune fulgore,
allorché nella mia camera io,
senza lampada alcuna, leggo, scrivo
e chiare sono le moli assopite
delle strade deserte, luminosa
svetta la guglia dell’Ammiragliato,
e, sbarrando alle tenebre notturne
l'ingresso agli aurei cieli, già si affretta
un’aurora ad avvicendare l’altra,
solo mezz’ora cedendo alla notte.
Amo del tuo crudele inverno il gelo
e l’aria immobile, le slitte in fuga
per la larga Nevà, delle fanciulle
i volti luminosi più di rose,
e lo splendore e il chiasso e il chiacchierio
dei balli, e alla cenetta fra scapoli
lo spumeggiante frizzare dei calici
e la fiamma azzurrognola del punch.
Amo dei Campi di Marte la bellica
animazione, la bellezza eguale
di cavalieri e fanti, e nell'armonico
ondeggiamento delle loro file,
quei resti di vessilli vittoriosi,
quegli elmi bronzi corruschi, da parte
a parte trapassati in battaglia...
Amo, guerriera capitale, il fumo
ed il rombare della tua fortezza
allorché la zarina boreale
nel palazzo del re ci dona un figlio,
o nuovamente celebra la Russia
127
una vittoria sul nemico, o, dopo
avere infranto azzurreggianti ghiacci,
la Nevà li sospinge fino ai mare
e, presaga di primavera, esulta.

Sii superba di te, città di Pietro,


e sta’ incrollabile, come la Russia,
e che si riconcilino con te
anche i vinti elementi; l’onda finnica
scordi l’odio, l’antica prigionia
e più non turbi la collera sua
sterile il sonno immortale di Pietro!

Vi fu un giorno terribile, ancora


ne dura fresca la memoria... di esso,
amici miei, per voi comincerò ora
a narrare. E sarà un triste racconto. 49

“Egli”, lo zar Pietro che non serve, e non si osa, neppure nominare, “stava e guardava
lontano”, il mondo, la storia. Il territorio della nuova città era un “asilo miserabile di
finni”, una vera espressione di razzismo russo, del suo complesso di superiorità nei
confronti del mondo intero. Prima di Pietro il mondo era una terra di poveri, dove c’era
solo un rifugio per disperati. “Minacceremo lo svedese”, il cattivo vicino: è proprio la
voglia della Russia non tanto di sentirsi superiore, ma di civilizzare il mondo, di dare al
mondo una vera anima. “Aprire una finestra sull’Europa”, compito dato dalla natura
stessa non tanto per “entrare in Europa”, come si usa dire oggi, ma per mostrare
all’Europa le meraviglie dell’anima russa. Infatti “giugnerà ospite a noi ogni bandiera, e in
spazi liberi banchetteremo”: la Russia è la terra escatologica, in cui si prepara il banchetto
di tutti i popoli. L’elevato tono romantico fa nascere la cultura russa moderna a partire da
un livello estremamente alto. Dalla grandiosa epica di Puškin si passa poi a una intera
serie di poeti, come ad esempio Žukovskij, mentre dopo la morte l’opera di Puškin verrà
portata avanti da Lermontov, che raggiunge la perfezione letteraria della poesia russa, la
classicità della lingua russa. Possiamo ricordare anche Fedor Tjutčev, nazionalista
esasperato, che immagina una Russia capace di distruggere e cancellare tutti gli altri
popoli, non in senso politico - non è questo che interessa, il potere politico -, ma in senso
spirituale, nella capacita di inglobare in sé tutte le culture. Infatti Tjutčev offre la
definizione più famosa della specificità culturale russa:

49 Trad. M. Colucci in GARZONIO Stefano – CARPI Guido, Antologia della poesia russa, Firenze 2004, pp.283-287.
128
La Russia non si intende con il senno,
né la misura con il comune metro:
la Russia è fatta a modo suo,
in essa si può credere soltanto. 50

Anche la musica e l'arte testimoniano la grandezza della cultura russa dell'Ottocento. I


musicisti che nascono da questa ispirazione scavarono nella cultura popolare per
trasmettere questo spirito; Musorgskij, Čajkovskij, Glinka, Rimskij-Korsakov, Stravinskij e
altri in questo danno il loro contributo alla musica universale, ancora più comprensibile e
universale della letteratura con i suoi grandi romanzi. Questa cultura riesce a esprimere
qualcosa che tocca l’animo di tutti gli uomini e tutti i popoli, nella samobytnost’ russa sta
qualcosa che appartiene a tutti. L’intelligentsija non voleva solo convincere se stessa, ma il
mondo intero, convinta di avere quel qualcosa in più che serve a tutti. Il problema della
Russia è che sembra avere quel qualcosa in più, ma essere priva di tutto il resto. L’uomo
che forse più di tutti incarna questa natura così particolare dell’intelligentsija russa,
strettamente legato al gruppo dei poeti, è proprio Nikolaj Gogol’. Quando giunse a San
Pietroburgo, Gogol’ era semplicemente un giovanotto ucraino di belle speranze; egli in
effetti proveniva dalla campagna ucraina, era un prodotto della cultura popolare.
Cresciuto in campagna, in mezzo al popolo semplice, ebbe nella madre una continua fonte
di ispirazione, a cui raccontava tutto ciò che gli accadeva. Dotato di un talento divino
senza pari, un talento irrefrenabile, che se avesse potuto esprimersi pienamente avrebbe
dato capolavori ancora più grandi, Gogol’ impersonava la samobytnost’ russa quasi senza
rendersene conto. Puškin e Žukovskij gli fecero da protettori, quando egli arrivò a San
Pietroburgo con grandi ambizioni subito dopo il 1812, e negli anni Venti cercò subito di
affermarsi, ma senza le condizioni necessarie, essendo privo di nobiltà e status sociale. Il
suo talento venne raccolto e lanciato dai due grandi poeti russi. Scrisse all’inizio dei
racconti, è difficile dire se fosse un romanziere, un novellista o un poeta: era
semplicemente uno scrittore. I racconti gli procurarono subito una grande fama, un sopra
tutti, Šinel’ (Il Cappotto). Si tratta di una breve novella all'interno della raccolta dei
Racconti di San Pietroburgo, in cui si evidenzia il disagio del ragazzo di campagna che
arriva nella grande città. Gogol’ con questo racconto diede inizio all’epica letteraria di San
Pietroburgo, descrivendo la città, la “Terza Roma” di Pietro il Grande, come la dimensione
in cui l’anima russa si perde, ma si può anche ritrovare. È un racconto di tipo
assolutamente nuovo rispetto alla storia precedente della letteratura russa, che del resto
era allora ancora acerba; parla dell’uomo umile, oppresso, che non riesce a trovare il suo
posto nella realtà, di cui tutta la realtà è nemica, e proprio questo divenne il tema
principale della letteratura russa. Il suo grande erede in questo è Dostoevskij; per molti in

50 Trad. T. Landolfi in GARZONIO Stefano – CARPI Guido, Antologia della poesia russa, Firenze 2004, p.381.

129
realtà dallo Šinel’ ha origine tutta la grande letteratura russa. Il racconto parla di un
funzionario che non ha niente che possa farlo amare da qualcuno, un uomo senza qualità
che sa soltanto copiare (evocando una cultura che non esiste) in bella calligrafia nei registri
dell’amministrazione. Non ha vestiti adeguati, porta sempre gli stessi a causa della sua
indigenza. Il clima di San Pietroburgo è particolarmente difficile da sopportare per via del
freddo e dell’umidità, ragion per cui il cappotto sbrindellato del protagonista va
continuamente aggiustato e rivoltato, il colletto rimpicciolito, finchè il sarto sentenzia che
non si può più riparare. Chiamato “la vestaglia” dai colleghi che lo umiliano, il cappotto
rappresenta la vecchia Russia, una vestaglia rattoppata che non riesce a dare all’uomo una
dignità, a rivestirlo di un immagine adeguata alla realtà in cui si trova. Il funzionario
reagisce imponendosi enormi sacrifici, digiuna e risparmia su ogni cosa, per un anno
intero si reca quotidianamente dal sarto a parlare del futuro cappotto, della stoffa e delle
misure. Dopo un anno di privazioni riesce a mettere insieme la somma, e il cappotto così a
lungo sognato riesce magnifico, perfetto, tanto che tutti i colleghi sono costretti a fargli i
complimenti, finalmente meravigliati da lui, che ha saputo conquistare la propria dignità,
è diventato un uomo degno della società in cui vive. Viene organizzata una festa in onore
del cappotto di Akakij Akakevič, il funzionario; una specialità di Gogol’ erano i nomi e i
cognomi, in questo caso la scelta è riferita al martire s. Acacio, in una rievocazione più
pagana che cristiana. D’altra parte si evidenziano le radici monastiche, l’influsso degli
eremiti russi, come si ritroverà in Dostoevskij che riempie i suoi romanzi di monaci e
starets. Akakij viene preso dall’esaltazione della festa, si concede al ballo, alla fine tutti se
ne vanno soddisfatti, anche se il cappotto viene gettato a terra nella ressa dell’uscita.
Akakij se lo rimette ed esce in piazza, dove alcuni energumeni lo aggrediscono e glielo
rubano, proprio davanti alla garitta della guardia che dormicchia. Il malcapitato protesta
con la guardia, e questi afferma di avere scambiato gli aggressori per amici di Akakij, e che
lo stessero abbracciando sotto gli effetti dell’alcool. Disperato, Akakij si reca da tutte le
istanze possibili, riesce a farsi ricevere da un altissimo funzionario, il quale con grande
alterigia (si evidenzia la polemica di Gogol’ contro la burocrazia) lo congeda senza dargli
ascolto. Akakij Akakevič cade infine in uno stato di delirio febbrile, finchè muore. Dopo la
sua morte, per un certo periodo a San Pietroburgo corre voce che per le strade si aggiri
uno spettro che assale la gente e strappa i cappotti, finchè riesce a trovare il procuratore
generale, proprio l’altissimo funzionario che aveva negato l’aiuto al pover’uomo, e gli
ruba il cappotto lasciandolo nella più totale prostrazione, spogliato dell’alterigia,
facendolo diventare a sua volta un uomo deriso e umiliato. Ogni tanto, si dice, lo spettro si
aggira ancora per le vie di San Pietroburgo. Questa la storia, che è la storia della Russia che
cerca la propria anima, la propria dignità, descritta nelle minuzie, nel dettaglio dei
bassifondi, della miseria che diventa l’occasione per proclamare la più alta dignità. Questo
è il segreto della letteratura russa, dei grandi romanzi di Dostoevskij: la descrizione
dell’uomo deriso e demente, dell’idiota, del povero, dell’uomo del sottosuolo, del

130
peccatore, del rivoluzionario, di quella realtà umana che dal negativo si mette in cerca
della vera anima, trovandola infine proprio nella negazione.

Dall’esperienza dei Racconti, Gogol’ venne ispirato alla necessità di fare “il” romanzo,
“la” storia dell’anima russa. Egli si immedesimò nella parte, credendosi il Dante russo e
non solo in senso metaforico: durante la sua permanenza in Italia, che complessivamente
durò una decina di anni, trascorsi per lo più a Roma e in giro per l’Europa, egli si sforzò di
impersonare il vate della cultura russa, dedicandosi alla stesura della sua “Divina
Commedia”. Per essa sceglierà appunto il titolo di Anime morte, centrato proprio sulla
ricerca dell’anima. In realtà il romanzo è ricco di anime vive: si tratta di un romanzo breve
incredibilmente ricco di personaggi vivissimi, dove anche le anime effettivamente defunte
e rimaste soltanto sui registri partecipano attivamente alla rassegna dei più disparati
caratteri dell’anima umana. Nel romanzo l’autore offre un caleidoscopio descrittivo di
possidenti, servi, funzionari, città e paesi russi, una grottesca imitazione dei gironi
dell’Inferno dantesco, che raccontano di una Russia paradossale, eppure assai veritiera. È
il romanzo più “russo” che esista, che illumina con abbaglianti squarci di luce la realtà
della Russia profonda, anche se in tono decisamente ironico e surreale. I difetti dei
personaggi gogoliani sono le indicazioni che servono a cercare le virtù. Come abbiamo già
ricordato, nell’intenzione dell’autore il romanzo doveva formare una specie di trilogia, che
dalla descrizione dei vizi doveva passare attraverso i tentativi di correzione, fino al
paradiso della redenzione di Čičikov, che doveva mostrare infine lo splendore della
perfezione morale. Gogol’ riuscì a scrivere solo la prima parte, l’ “Inferno”; nel momento
in cui raggiunse il vertice della popolarità perse l’ispirazione, crollando in una profonda
crisi. Nell’ultima fase della sua vita cercò di assumere toni da predicatore, non riuscendo
più a esprimersi nel romanzo. Dalla esposizione artistica passò alla predicazione
moralistica e misticheggiante, anch’egli come tanti scrittori e intellettuali russi cercò una
via d’uscita nel monachesimo, nel contatto con i santi startsy, proponendo alla Russia
intera di perseguire la conversione con la preghiera e l’ascesi. Venne stroncato
dall’intelligentsija, che si era illusa che Gogol’ avesse trovato la chiave per entrare nel
mistero della samobytnost’, e infine fosse uscito di testa. Rimase famosa una lettera del
critico Belinskij, che sentenziava la perdita di significato dell’opera di Gogol’; per aver
letto pubblicamente questa lettera al circolo Petraševskij, Dostoevskij verrà in seguito
arrestato e condannato a morte.

Senza rifare l’intera analisi delle Anime morte, è interessante rimarcare che, aldilà delle
descrizioni macchiettistiche dei personaggi, in essi si svelano dei tipi umani universali,
viene messa a nudo l’anima di tutti, pur nella prorompente “russicità” dei caratteri. Gogol’
riesce comunque a non scendere sotto il lirismo dello stesso Puškin, soprattutto nella
descrizione della famosa troika, la carrozza a tre cavalli che trasporta Čičikov da un luogo
all’altro della Russia. Anche la trojka è una piccola Trinità (in russo Troitsa), riflessa

131
doppiamente nel protagonista insieme ai due servi e ai tre cavalli in giro per la Russia. In
questo famoso brano Gogol’ descrive la natura russa, la terra, il paesaggio, raggiungendo
travolgenti livelli di lirismo, mai più toccati dallo stesso autore. Siamo alla fine della prima
parte, nel cuore di questo inferno russo: Čičikov è stato infine denunciato, dopo aver
raggiunto uno status elevato nella società locale, quando uno dei proprietari a cui aveva
proposto la sua truffa, il più violento (Nozdrev) lo smaschera facendolo diventare la
vergogna pubblica. Un attimo prima di essere arrestato, Čičikov scappa sulla sua trojka a
tutta velocità:

Ma quale russo non ama la velocità? È mai possibile che ad essa non aneli la sua
anima, quell’anima che desidera la vertigine, il pazzo godimento, e a cui talvolta piace
esclamare: “Vada tutto al diavolo!”. Come dunque potrebbe non amarla, dal momento
che essa ci dà una sensazione esaltante e meravigliosa? Sembra che una forza ignota ti
abbia afferrato e posato sulle sue ali, e tu voli, e tutto vola; volano le pietre miliari, ti
volano incontro i mercanti sui loro carri coperti, vola ai due lati il bosco con le cupe
file di pini e di abeti, con il risuonare dei colpi d’ascia e il gracchiare delle cornacchie;
vola tutta la strada perdendosi nella lontananza, non si sa dove, e un non so che di
pauroso spira da questo rapido balenare che ti lascia appena intravedere l’oggetto che
fugge via; solo il cielo sopra la testa, e le nubi leggere, tra le quali traspare la luna,
sembrano immobili. Ah, trojka, sei come un uccello! Chi ti ha inventata? Certo potevi
nascere solo tra un popolo ardito, in una terra che non ama scherzare, che si è adagiata
come un’immensa pianura per mezzo mondo, e puoi contarne di miglia ... finchè non
ti si abbagli la vista! E non se davvero un veicolo complicato, non sei tenuta insieme da
viti di ferro, ma rapidamente, munito soltanto di ascia e di scalpello, ti ha costruita e
montata alla svelta l’abile contadino di Jaroslavl’. Non calza stivaloni alla tedesca il
cocchiere; ha la barba e i guantoni e sta seduto lo sa il diavolo su che cosa; ma si
solleva appena, alza la frusta, intona una canzone, e i cavalli scattano, i raggi delle
ruote paiono fondersi in un unico, levigato cerchio, trema la strada, grida il pedone
che si ferma spaventato, e la trojka alata vola, vola! E ormai, in lontananza, si vede
soltanto qualcosa che solleva polvere e fora l’aria ...

Non è così, o Russia, che corri anche tu, come una trojka irraggiungibile? Sotto di te
fuma la strada, tremano i ponti, tutto rimane indietro e pare fermarsi. Si ferma,
stupefatto dal divino miracolo, lo spettatore: non è forse un fulmine lanciato dal cielo?
Che cosa significa questa travolgente corsa? E quale forza sconosciuta in quei cavalli,
ignoti al mondo? Ah, cavalli, cavalli ... che cavalli siete voi! Un turbine si nasconde
forse nella vostra criniera? Un sensibile orecchio arde forse in ogni vostra vena? Avete
udito scendere dall’alto la nota canzone, e tutti insieme, in accordo perfetto, avete
proteso i petti di bronzo e, quasi senza sfiorare con gli zoccoli la terra, apparite come

132
una linea distesa che vola nell’aria, e la trojka pare lanciata nello spazio da un anelito
divino! Russia, dove corri così? Rispondi!

Non risponde. Il suono stupendo delle sonagliere si diffonde, l’aria freme e si


trasforma in vento; vola a ritroso tutto ciò che si trova sulla terra e, guardando
timorosi, si fanno da parte e le danno la strada gli altri popoli e le altre nazioni.

Questa è l’anima russa, nessuna pagina la descrive in modo più intenso, una trojka
sfrenata che divora il mondo. Questa è solo un’ispirazione letteraria, ma certamente molto
elevata: la Russia è la novità che suscita la meraviglia del mondo, così come i russi erano
rimasti stupefatti dalla bellezza bizantina che li aveva indotti al battesimo.

Divinità di bronzo sulle rive della storia.

Una caratteristica della letteratura e della cultura russa in generale è quella di dare
risposte banali a delle domande geniali. Prendiamo ad esempio lo stesso Puškin e un poeta
di inizio Novecento, Aleksandr Blok. Il Cavaliere di bronzo è probabilmente il testo poetico
russo più importante dell’Ottocento, così come il poema di Blok I dodici esprime in modo
superbo la coscienza russa del “Secolo d’argento”. Sia Puškin che Blok non arrivano a
dare delle risposte, ma forniscono tutti gli elementi per capire il dramma dell’anima russa.
I dodici è un testo geniale, capolavoro della poesia simbolista, dedicato al momento di
grande riflessione di inizio Novecento sui destini della Russia e dell’Europa. Nell’ode di
Puškin al monumento equestre dello zar, a sua volta, si evidenzia una fase critica della vita
dell’impero, sospesa tra forze negative e positive. Non è un poema, ma un racconto che
rievoca un evento capitato durante il diluvio del 1824, il più serio della storia della città,
ancora ricordato nel segno del livello raggiunto dalle acque. L’inondazione non era un
evento imprevedibile per San Pietroburgo, perché la città fu notoriamente costruita sul
posto sbagliato, troppo vicino al mare. Questo ispira il poeta a dare al testo un tono
paradossale e mitologico: “Egli stava”, e come per miracolo la città cresce, poiché lo zar era
un costruttore taumaturgico. La figura di Pietro viene divinizzata, perfino dalla Chiesa,
oltre che dall’ideologia statale; l’imperatore a cavallo si staglia sullo sfondo della chiesa
dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, la cui altezza raggiunge i 130 metri, che al tempo ne
facevano l’edificio più alto della Russia. La vecchia Mosca al confronto era “impallidita”. Il
poema riporta poi la cronaca dell’inondazione, in cui la natura si oppone all’orgoglio di
Pietro, dimostrandosi più forte della capacità dell’uomo. È una storia simile allo Šinel’
gogoliano, in cui si descrive la vicenda di un piccolo uomo, Evgenij, che abita vicino al
mare e cerca la moglie annegata. È l’uomo piccolo contro la città inumana dell’imperatore,
che si aggira per le strade e improvvisamente incontra l’incarnazione dello spirito russo, il
Cavaliere di bronzo, appunto la statua di Pietro che si erge sulla Neva. Al contrario della
133
statua di Marco Aurelio a Roma sul Campidoglio, che esprime un ideale di forza
tranquilla, Pietro sembra sfidare le leggi della natura, il suo cavallo sembra imbizzarrito.
La statua sembra in effetti sfidare le leggi della statica, Pietro è in posizione verticale,
mentre il cavallo è disposto in orizzontale e si regge su una gamba sola. La poesia di
Puškin si prestava così ad essere letta almeno in due chiavi diverse, di esaltazione come di
esecrazione dello zar, tanto che Nicola I decise di non farla pubblicare. In essa si
adoperano termini elevati, ma anche ambigui, che evocano una tremenda oscurità, una
forza e un pensiero nascosto. Del resto, la censura aveva proibito anche la pubblicazione
delle Anime Morte, perché il titolo stesso metteva in dubbio l’immortalità dell’anima. In
questa suprema ambiguità il monumento è rimasto impresso nella coscienza dei
pietroburghesi come mito equestre, rappresentante di un potere assoluto e mistico; molti
sposi si recano dopo la cerimonia sotto il monumento, che assume perfino funzioni
liturgiche in relazione alla vicina cattedrale di S. Isacco (la cui cupola è un’imitazione di
quella di S. Pietro a Roma). Nell’Ottocento infatti i sacerdoti facevano passare la
processione pasquale non solo intorno alla chiesa, ma anche intorno la statua di Pietro. Nel
poema il povero Evgenij rivolge alla statua parole disperate e quasi senza senso: “Guai a
te, costruttore taumaturgo!”, quasi volesse sfidare Pietro. Tutta la popolazione si dà alla
fuga, mentre solo la statua si erge sopra la tempesta. Davanti alla forza della natura lo
zarismo rimane immobile, non accettando la provocazione rivolta all’uomo. La statua
allora prende vita e comincia a cavalcare sulle strade di San Pietroburgo, gettando nel
panico il misero Evgenij che finisce per perdere il senno. Non c’è una risposta, un senso
logico nel descrivere l’intento del mito pietroburghese voluto da Pietro. La nuova capitale
è una città bellissima, ma costruita sul nulla; in essa non c’è salvezza, è condannata. Si
vuole indicare la bellezza dell’idea imperiale, ma anche la sua assenza di umanità.

La grande ispirazione di Puškin e Gogol’, così ricca di metafore e suggestioni, e così


desolatamente priva di risposte univoche alle grandi questioni dell’anima russa, ebbe
bisogno di un lungo periodo di elaborazione per offrire degli spunti maturi nella
riflessione filosofico-culturale dell’Ottocento russo. La descrizione vibrante della ptitsa-
trojka, la carrozza alata di Gogol’, nella sua sfrontatezza e nel suo esasperato lirismo
suscitò la reazione contrariata di Petr Čaadaev, colui che diede inizio alla grande diatriba
tra slavofili e occidentalisti. Negli stessi anni in cui Gogol’ scriveva le Anime Morte,
Čaadaev scrisse le sue Lettere Filosofiche, la prima delle quali pubblicata nel 1836, in cui
sosteneva che la Russia non avesse una propria cultura, ma avesse copiato tutto dagli altri,
fosse rimasta indietro e non possedesse nulla di proprio, rimanendo solo una cattiva
riedizione di quella che lui chiamava la misérable Byzance. Čaadaev faceva riferimento
proprio alla parte più deteriore dell’eredità bizantina, quella meno riflessa ed evoluta,
quell’impasto di devozione monastica e ideologia politica priva delle basi filosofiche che
da sola in effetti non era in grado di generare una vera cultura cristiana nel mondo slavo
orientale; abbiamo visto quanto sia stato in effetti complesso e problematico il rapporto tra
134
la Russia e Bisanzio nella sue varie fasi, ma certamente la semplificazione di non gli faceva
giustizia. In questo senso Čaadaev è giustamente considerato l’iniziatore
dell’occidentalismo; egli sosteneva quindi che la Russia avrebbe dovuto riconoscere la sua
dipendenza dall’Occidente, ed era incline anche a forme di riunione col papato romano,
sede della vera grandezza della Chiesa. Dopo la diffusione della lettera Čaadaev venne
ridotto al silenzio dalla censura e dichiarato malato di mente, tanto da scrivere la Apologia
di un pazzo, in cui peraltro conferiva alla sua tesi una versione più slavofila che
occidentalista, osservando che forse la Russia, proprio a causa della sua “nudità” culturale,
è il popolo più adatto per creare qualcosa di nuovo. È una interpretazione della tesi che
aveva suggerito lo stesso Puškin: la Russia, egli sosteneva, è una terra barbara, e proprio
per questo non la cambierei con nessun’altra, poiché da essa proviene una energia che
nessuno è in grado di dare. In realtà, quello che Čaadaev mal sopportava era proprio
l’esaltazione dell’energia barbarica russa, che pare emergere dalle pagine di Gogol’
(pensiamo ad esempio anche al romanzo Taras Bulba).

Il dibattito degli anni Quaranta, detto il “magnifico decennio”, si intrecciò su questi


argomenti; a Čaadaev rispose soprattutto Aleksej Khomjakov, il principale esponente della
corrente slavofila, almeno dal punto di vista dell’autorità morale. Khomjakov era un
pubblicista e un polemista, né filosofo né teologo, e neppure scrittore. Interveniva con
articoli, in pubbliche letture e dibattiti nei salotti frequentati dall’intelligentsija; cercherà a
modo suo di scrivere una storia dello spirito universale, la Semiramis, in cui divideva la
storia del mondo nel doppio principio contrapposto della libertà (iranstvo) e della necessità
(kušitstvo), una strana teoria molto “russa” e per niente tradizionale. Egli divenne famoso
piuttosto per il suo scritto Tserkov’ Odna, la “Chiesa Una”, una professione di fede
ecclesiologica che è considerata il fondamento della teoria della sobornost’. Si tratta di un
ideale di comunione o “conciliarità”, che Khomjakov spiegava in modo pseudofilosofico
richiamando non tanto la tradizione ecclesiastica e patristica, ma piuttosto la tradizione
russa intesa come tradizione popolare, la sobornost’ naturale della comunità russa di
campagna, la obščina, la comunità del villaggio (mir), dove tutte le decisioni venivano
prese di comune accordo: una costruzione sociale che in realtà esisteva solo nella mente
dello stesso Khomjakov. Si può trovare qualche legame con la tradizione popolare, ma più
che altro si tratta di un sogno romantico, che produsse comunque un notevole effetto, in
quanto si intrecciava con le teorie sociologiche che dal dibattito puramente letterario e
filosofico porteranno al socialismo russo, diventando un cavallo di battaglia anche degli
occidentalisti e dei socialisti. Nella obščina sognata da Khomjakov doveva esistere una
unità spontanea di libertà, di amore e di spirito senza alcuna sottomissione alle gerarchie.
Ovviamente una teoria del genere non avrebbe mai potuto essere accettata dalla teologia
ufficiale della Chiesa Ortodossa, pur rimanendo da allora una suggestione molto
frequentata dal pensiero religioso non solo ortodosso, ma anche cattolico. In essa si
evidenziano comunque delle radici paganeggianti, anche se Khomjakov era un ortodosso
135
molto fedele e tradizionalista, mostrando con la sua dirittura morale, l’attaccamento alla
famiglia e ai valori del cristianesimo tradizionale, di essere un vero campione
dell’Ortodossia. Egli si assunse questo ruolo non solo nel dibattito interno, ma anche nelle
controversie con gli occidentali; divenne famosa la sua corrispondenza con l’anglicano
Palmer su temi ecclesiologici, e si nota una forte corrispondenza del suo ideale della
sobornost’ con le teorie ecclesiologiche del teologo Möhler di Tubinga, che scriverà trattati
sulla Chiesa basandosi proprio sull’idea di comunione. Troviamo qui le radici di un
rinnovamento dell’ecclesiologia cristiana, che in campo cattolico arriverà fino al Concilio
Vaticano II con la sua Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, un filone teologico molto
fecondo che in Russia venne reinterpretato in modo magistrale dal filosofo Vladimir
Solov’ev. Nell’interpretazione di quest’ultimo la sobornost’ è molto più sviluppata
teologicamente, fino ad arrivare alla rivisitazione dell’idea del primato nella Chiesa: la
sobornost’ di Solov’ev è una comunione di amore di tutta la Chiesa universale, in cui un
ruolo fondamentale è svolto dal papa di Roma, il cui primato è garanzia della comunione
stessa. Solov’ev espose queste tesi nel suo La Russia e la Chiesa universale, una storia della
Chiesa e della ecclesiologia, scritta in francese e appoggiata anche da settori della Chiesa
Cattolica, come ad esempio quello in cui spiccava la figura dell’arcivescovo di Zagabria
Strossmayer; questi era un esponente del gruppo degli “anti-infallibilisti” al tempo del
Concilio Vaticano I, insieme ad alcuni vescovi orientali, che si opponeva alla
proclamazione della infallibilità papale proprio per evitare conseguenze ecumeniche
negative nei rapporti con le Chiese orientali. Il cammino della sobornost’, nato quindi dagli
slavofili per affermare l’originalità della fede russa, in realtà porta molto lontano.

Insieme a Khomjakov, l’altro massimo rappresentante della corrente slavofila fu il


filosofo Ivan Kireevskij, che in origine faceva parte del gruppo dei ljubomudrye, gli
schellinghiani russi. Egli sviluppò in modo molto più intenso il pensiero slavofilo di
quanto fece lo stesso Khomjakov, anche come evoluzione del pensiero di Schelling, nella
teoria della “conoscenza integrale” e della “unitotalità”, riprendendo la Alleinheit di
Schelling. Si tratta di contenuti filosofici rimeditati secondo la prospettiva slavofila, in cui
si evidenzia l’approccio russo alla conoscenza, un approccio integrale. Kireevskij più di
Khomjakov riprese molto l’eredità spirituale e teologica della patristica, non a caso morì
nel monastero di Optina Pustyn’, dove si era recato nel desiderio di ritrovare un legame
col monachesimo e con la vera tradizione ortodossa. Gli occidentalisti dal loro canto
andarono sempre più verso una alleanza con le teorie politico-filosofiche di discendenza
hegeliana, quella sinistra hegeliana che in occidente portava verso il socialismo e al
marxismo. Anche qui possiamo ricordare diversi protagonisti, come il critico letterario
Vissarion Belinskij, il campione dell’occidentalismo Aleksandr Herzen, fino al vero padre
del movimento rivoluzionario russo Černiševskij. Il grande dibattito continuò per tutto il
secolo, con la decisiva frattura provocata dalla guerra di Crimea nel 1855, in cui la Russia
conobbe la sconfitta interrompendo in qualche modo lo slancio provocato dalla vittoria del
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1812, quando la Russia si era sentita più forte dell’Europa intera. A questo punto lo slancio
romantico si trasformò piuttosto in una pressione socio-politica, e perfino lo slavofilismo
di Khomjakov e Kireevskij si trasformò in una tendenza nazionalista. Khomjakov morì nel
1861, dopo la guerra di Crimea, lasciando nel suo ultimo scritto, la lettera Ai Serbi (i veri
sconfitti della guerra) espressioni inneggianti al “panslavismo”, il figlio politico dello
slavofilismo, che invocava l’unione di tutti i popoli slavi per costruire una nuova società
fondata sullo spirito slavo, e ovviamente guidata dai russi, capace di dominare l’Europa
intera e riconquistare Costantinopoli, la capitale storica dell’Ortodossia. Va ricordata che
la guerra opponeva gli slavi ai turchi, che a loro volta erano appoggiati dalle potenze
occidentali, dalla Francia e dall’Inghilterra, una coalizione in cui si era abilmente inserito il
Regno di Sardegna, che ottenne così dei vantaggi politici che permisero infine di portare
all’unità d’Italia. I pensatori slavofili della seconda metà dell’Ottocento sono piuttosto
spinti su questa linea nazionalista. Si tratta di pensatori molto vari e diversi tra loro, che si
trovano a fronteggiare il periodo dei primi moti rivoluzionari e il fenomeno del cosiddetto
movimento “populista”, ben descritto nel 1862 dal romanzo di Turgenev Padri e figli, in cui
l’autore descrive il conflitto generazionale evidenziando la figura del protagonista
Bazarov, un anarchico definito “nichilista”. Il termine “nichilismo” non è inventato da
Turgenev, ma venne rilanciato dai russi; come il termine intelligentsija, esso deriva dal
latino, e si è diffuso soprattutto nella sua accezione russa in modo molto più specifico,
come origine del movimento rivoluzionario. La svolta sociale e rivoluzionaria venne
enormemente amplificata dalla riforma del 1861, che prevedeva la liberazione dalla
schiavitù della gleba per volere dello zar Alessandro II, detto per questo lo “zar-
liberatore”, che verrà assassinato venti anni più tardi da un attentato terroristico,
espressione proprio delle tensioni legate alle aspettative insoddisfatte di riforma sociale.
L’anarchismo e il nichilismo rivoluzionario erano collegati al più vasto movimento
populista, un movimento di giovani e intellettuali che desideravano ricongiungersi con il
popolo, sotto lo slogan “andare al popolo”, provocando addirittura un esodo dalle città
alle campagne da parte di intellettuali o presunti tali che cercavano di diventare veri
uomini russi del popolo.

Le questioni eterne di Dostoevskij e Tolstoj.

Figli di questa fase così complessa, nella seconda metà del XIX secolo, sono i più
grandi autori della letteratura russa: proprio nei romanzi di Dostoevskij (1821-1881) e
Tolstoj (1828-1910) si riflettono tutte queste tensioni culturali e sociali. Essi scrissero i loro
grandi romanzi principalmente nel ventennio degli anni Sessanta-Ottanta del XIX secolo.
In essi si raggiunge il vertice della letteratura russa, che grazie a loro acquista una vera
risonanza mondiale. Nella loro opera si riflettevano in qualche modo le due linee del
dibattito culturale russo: Dostoevskij a livello politico era decisamente panslavista, mentre
137
si può dire semplificando che Tolstoj fosse tendenzialmente socialista. Dostoevskij dal
punto di vista del pensiero politico era piuttosto grossolano, vie era una netta
sproporzione tra il Dostoevskij scrittore e il politico, a differenza di Tolstoj, che era una
grande personalità sia a livello letterario, sia a livello sociale. Essi interpretarono le due
anime del tempo nei loro romanzi di qualità eccelsa, e in effetti a partire dalla fine degli
anni Sessanta il dibattito riprese quota soprattutto grazie a loro. In questi romanzi la
questione dell’anima russa non è presentata solo come una questione di potenza politica
della Russia, che era la grande aspirazione ottocentesca, ma anche e soprattutto come una
questione spirituale e religiosa, in entrambi anche se in modalità opposte. In Dostoevskij è
l’espressione di quella religiosità viscerale e spontanea che emerge da tutta la storia della
religiosità russa: la religione è vista non tanto come una forma, ma proprio come
un’anima, un’esperienza che emerge sia nella versione ecclesiastica che in quella popolare
e pagana e addirittura nella variante atea. Anzi, per certi aspetti la religiosità di
Dostoevskij si comprende meglio nelle figure di atei da lui rappresentati, capaci di porre la
questione religiosa in modo particolarmente bruciante. Paradossalmente, è molto più
lineare e comprensibile la religiosità di Tolstoj, che pure si professava non credente, ma
sapeva esprimere uno spirito più razionale, e in questo senso anche più occidentale. Egli
cercava con la razionalità di ritrovare l’anima russa, quella che in Dostoevskij emergeva in
modo naturale, pur senza riuscire a trovare una forma. Tolstoj affermava di avere ricercato
in tutti i modi il segreto della religione e dei problemi dell’anima, ma di non essere rimasto
soddisfatto della risposta cristiana, nelle sue varie forme cattolica, ortodossa e protestante,
e neppure nella altre religioni. Tolstoj era anche teologo, studiava la Bibbia, era capace di
una esegesi raffinata e molto particolare (come mostrano gli studi di Pier Cesare Bori, che
osservando la Bibbia di Tolstoj al museo di Jasnaja Poljana ha trovato le note di Tolstoj a
fianco, soprattutto nei libri sapienziali che lo scrittore amava particolarmente). Egli nelle
Confessioni dichiarò di non essere riuscito ad accettare alcuna forma di credo religioso, e di
essere arrivato a ipotizzare la soluzione del suicidio come unica via d’uscita alla mancanza
di senso della vita. Lo scrittore attraversò un lungo periodo di crisi religiosa, e venne
salvato dalla tentazione del suicidio grazie all’accoglienza della fede semplice del popolo
russo, all’unità con l’anima russa che pure non riusciva ad accettare razionalmente, ma che
ugualmente lo attirava, anche se non riuscì mai a farne parte veramente, ma che di fatto
era l’unica risposta che egli accettava, lui così eretico e lontano dalla religione.

In Dostoevskij il punto di partenza è lo stesso di Gogol’, l’epopea dei cosiddetti


miserabili, degli umili. Gli Umiliati e Offesi richiamano il Cappotto di Gogol', l'uomo
sottoposto alla sofferenza ingiusta, che gli fa porre in modo particolarmente intenso il
problema del male, quindi il problema antropologico come base della sua riflessione.
Questo e' evidente sia nei suoi romanzi minori (dalle Notti Bianche, poi le Memorie da una
casa dei morti del 1860, il romanzo che gli diede il successo, in cui racconta dell'esperienza
carceraria, poi nel 1861 gli Umiliati e Offesi, nel 1862 le Memorie dal Sottosuolo e nel 1866 Il
138
Giocatore), sia nei grandi romanzi scritti tra il 1866 e il 1880: nel 1866 Delitto e Castigo,
l'avventura di Raskol’nikov, un’immagine ante Nietzsche del superuomo e della sua crisi,
quindi nel 1868 l’Idiota, l'immagine del Cristo deriso raffigurato dal principe Myškin,
affetto dalla malattia dell’epilessia, della perdita della coscienza. Il principe è l’uomo
umiliato nell’impotenza, che si esalta per la sua purezza e la capacità di amore e di
compassione; nell’impotenza della compassione sta il segreto del Cristo di Dostoevskij,
esaltato dalla sublimità del dolore. Nel 1869 egli scrisse I Demoni, con l’altra icona
nietzschiana del rivoluzionario Stavrogin, fino al grande romanzo in cui realizza il
desiderio frustrato di Gogol’ di fare la Divina Commedia russa, I Fratelli Karamazov del
1879. Si tratta di un romanzo modernissimo, che diede origine a diversi generi letterari,
dal giallo investigativo fino alla soap opera, con la storia di un padre con tre figli che si
contendono soldi e donne, in cui si fa fatica a distinguere i confini degli intrighi personali e
familiari. Il padre, Fedor, è innamorato di una donna di dubbia reputazione, a cui aspira
anche il primo figlio Dmitrij, che peraltro è fidanzato con una nobildonna insidiata dal
secondo figlio Ivan; e di mezzo c’è pure il terzo figlio, Aleša, che è monaco, ma di cui è
innamorata una ragazza che lavora nella casa della nobildonna, e a cui si confida la donna
di dubbia reputazione. Di fatto in questo intreccio di amori e di passioni vengono fuori i
vari tipi dell’anima russa: i tre fratelli sono la Trinità di Dostoevskij, Dmitrij esprime
emotività e passione, Ivan rappresenta l’ateo razionale, Aleša è la purezza religiosa. Tutti e
tre in modi diversi esprimono l’anima russa, che è queste tre cose insieme. L’evolversi del
romanzo sta proprio in questo intreccio delle caratteristiche psicologiche e spirituali dei
protagonisti, fino alla professione di fede esplicitamente russa che pone la questione
religiosa alla fine della prima parte del romanzo, dopo un iniziale turbinio di intrecci in
cui il primo figlio minaccia di uccidere il padre, una radice arida, uomo che vive solo per il
proprio egoismo e non dà niente ai figli, come l’immagine degradata della Russia che
nasce dal nulla e dal cinismo. Questa parte si chiude con Ivan che parte per Mosca e si
allontana, ma prima di partire discute in una taverna con Aleša dell’intenzione di Dmitrij
di uccidere il padre, che peraltro verrà poi ucciso da un quarto figlio illegittimo,
Smerdjakov. Nella discussione, Ivan si prende gioco di Aleša e della sua devozione
monastica, che ruota intorno all’autorità dello starets Zosima, il monaco di Optina Pustyn’
che rappresenta la religione nuova, il cristianesimo russo in realtà così poco tradizionale e
poco canonico. L’argomento religioso viene introdotto da Ivan con tono ironico, passando
dalle frivolezze degli amori delusi alla lode della libertà:

- Aleša, fammi ordinare dello champagne, beviamo alla mia libertà.


davvero, se tu sapessi quanto sono felice!
- Eh no, fratello, meglio non bere – disse all’improvviso Aleša – anche
perché mi sento un po’ triste.
- Già, è parecchio che sei triste, è un bel po’ che lo vedo.
- Allora te ne vai proprio domani mattina?
139
- Domani mattina? Io non ho detto che parto la mattina ... Del resto può
darsi che sia di mattina. Ci credi, io ho pranzato qui oggi soltanto per non
pranzare col vecchio, fino a questo punto mi è diventato insopportabile.
Fosse stato solo per lui, me ne sarei andato già da tempo. Ma tu perché ti
preoccupi tanto che io me ne vada? Noi due abbiamo sa Dio quanto tempo
ancora, prima della partenza. Una intera eternità, l’immortalità!
- Se tu parti domani, di quale eternità parli?
- E a noi che importa? – si mise a ridere Ivan – noi possiamo lo stesso
parlare delle nostre cose, le nostre, quelle per le quali siamo venuti qua, o
no? Perché mi guardi con quella espressione? Rispondimi: per che cosa
siamo venuti qua noi? Per parlare dell’amore per Katerina Ivanovna, del
vecchio e di Dmitrij? Della vita all’estero? Della fatale condizione della
Russia? Dell’imperatore Napoleone? Davvero per questo?
- No, non per questo.
- Tu stesso capisci per che cosa, quindi. Per gli altri è una cosa, per noi
sbarbatelli un’altra, noi anzitutto dobbiamo risolvere le questioni eterne,
questo è il nostro compito. Tutta la giovane Russia adesso discute solo e
unicamente delle questioni sempiterne. Proprio adesso, che i vecchi si
sono messi tutti a occuparsi all’improvviso delle questioni pratiche. Tu
perché da tre mesi ti sei messo a guardarmi in attesa? Per chiedermi: “a
che cosa credi, o forse non credi in niente”, a questo infatti puntavano i
vostri sguardi di questi tre mesi, Aleksej Fedorovič, non è così forse?
- Diciamo pure che sia così – sorrise Aleša. – Non mi stai prendendo in giro,
fratello?
- Io ti prendo in giro? Non voglio amareggiare il mio fratellino, che per tre
mesi mi ha guardato con questo desiderio. Aleša, guardami in faccia: lo
vedi che io sono proprio un ragazzino come te, solo non porto la veste da
novizio. E i ragazzini russi per che cosa si danno da fare? Ce ne sono altri?
Per esempio, guarda questa taverna puzzolente, vedi che si sono riuniti e
seduti nell’angolo. Per tutta la vita precedente non si conoscevano
neanche, e quando usciranno dalla taverna per quarant’anni non si
conosceranno più, e chi se ne importa, di che cosa si metteranno a
discutere, finchè dura questo minuto in trattoria? Di null’altro che
dell’esistenza di Dio e dell’immortalità. E quelli che non credono in Dio si
metteranno a parlare di socialismo e di anarchismo, di riorganizzare in
modo nuovo l’umanità intera, e così ne verrà fuori lo stesso diavolo, le
stesse domande, solo dalla parte opposta. E una moltitudine, una massa
degli stessi originali ragazzi russi da noi non fa altro che parlare delle
questioni eterne in questo periodo. Non è così forse?

140
- In effetti, adesso le domande russe sono su Dio e sull’immortalità, o come
dici tu, le domande dalla parte opposta, certo le prime domande
innanzitutto, come è giusto che sia – borbottò Aleša, sempre osservando il
fratello con lo stesso sorriso silenzioso e indagatore.
- Ecco il problema, Aleša, essere un russo a volte non è molto intelligente,
ma non si può neanche immaginare qualcosa di più stupido, di ciò di cui
si occupano oggi i ragazzi russi. Ma c’è un unico ragazzo russo, il mio
Aleša, che io amo terribilmente.

La vera questione umana è quella della fede, giocata sul senso degli sguardi e delle
impressioni. Ivan parte dalla posizione dell’ateismo, Aleša difende l’Ortodossia, ma le
parti si confondono. Nello scetticismo di Ivan si rivela un desiderio che va ben più a fondo
delle risposte scontate del giovane monaco, che finisce per riconoscere nell’inquietudine
dell’ateo gli insegnamenti del suo stesso starets. La questione religiosa pone la vera
questione morale: il senso di responsabilità verso tutto e verso tutti, uno dei temi più
caratteristici di Dostoevskij. Il confronto “sulle questioni eterne” si risolve nell’apologo
raccontato da Ivan nella Leggenda del Grande Inquisitore. Questo celebre testo è il racconto
di una fede vista come libertà, in cui la Chiesa rappresenta la tradizione intesa come forza
che soffoca la libertà stessa in nome del potere, usando le tentazioni del demonio come
armi di oppressione. Gli esponenti del potere sono cattolici gesuiti, in particolare il
cardinale spagnolo inquisitore, che fissa l’immagine demoniaca dei gesuiti nella letteratura
e nella cultura russa. In realtà qui si tratta di una dimensione universale della fede e del
cristianesimo, che anche nell’anticattolico Dostoevskij supera la definizione confessionale
per esaltare la professione della fede come libertà, come si evidenzia nel drammatico
colloquio/soliloquio dell’Inquisitore con il Cristo tornato sulla terra, da lui fatto
prontamente arrestare:

– E il Prigioniero rimane zitto? Lo guarda e non dice nemmeno una parola?


– Ma è così che deve essere, in ogni caso, – rise nuovamente Ivan. – Il vecchio
stesso Gli osserva che Egli non ha il diritto di aggiunger nulla a quanto già fu
detto. C’è appunto qui, se vuoi, il tratto più fondamentale del cattolicesimo
romano, come a dire: “Tutto è stato da Te trasmesso al papa, tutto quindi è ora
nelle mani del papa, e Tu non venirci a disturbare, quanto meno prima del
tempo”. In questo senso non solo parlano, ma anche scrivono i cattolici, i gesuiti
almeno. L’ho letto io stesso nelle opere dei loro teologi. “Hai Tu il diritto di
rivelarci anche un solo segreto del mondo da cui sei venuto?”. – Gli domanda il
mio vecchio e risponde egli stesso per Lui: – “No, Tu non l’hai, se non vuoi
aggiungere qualcosa a quello che già fu detto e togliere agli uomini quella libertà
che tanto difendesti quando eri sulla terra. Tutto ciò che di nuovo Tu ci rivelassi
attenterebbe alla libertà della fede umana, giacché apparirebbe come un
141
miracolo, mentre la libertà della fede già allora, millecinquecento anni or sono, Ti
era più cara di tutto. Non dicevi Tu allora spesso: “Voglio rendervi liberi?”.
Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini “liberi”, – aggiunge il vecchio con
un pensoso sorriso. – Sì, questa faccenda ci è costata cara, – continua,
guardandolo severo, – ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome
Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera
è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu
mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma
sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono più che mai convinti di essere
perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e
l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo,
ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà?”.

Il potere che soffoca la libertà, afferma Dostoevskij per bocca di Ivan Karamazov, si
afferma proprio strumentalizzando l’anelito dell’uomo all’assoluto, come rivelato dalle
tentazioni diaboliche riportate dai Vangeli:

– Ma qui appunto sta l’essenza di ciò che il vecchio deve esprimere. “Lo spirito
intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere, – continua il
vecchio, – il grande spirito. Ti parlò nel deserto, e nei libri ci è riferito come egli Ti
avesse “tentato”. Non è così? Ma si poteva mai dire qualcosa di più vero di quanto
egli Ti rivelò nelle tre domande che Tu respingesti e che nei libri sono dette
“tentazioni”? Tuttavia, se mai ci fu sulla terra un vero e clamoroso miracolo, fu in
quel giorno, nel giorno di quelle tre tentazioni. Precisamente nella formulazione di
quelle tre domande era racchiuso il miracolo. Se si potesse, soltanto a mo’ di esempio
e di ipotesi, immaginare che quelle tre domande dello spirito terribile fossero
scomparse dai libri senza lasciare traccia e che occorresse ricostruirle, pensarle e
formularle di nuovo, per rimetterle nei libri, e se per questo si riunissero tutti i
sapienti della terra – governanti, prelati, dotti, filosofi, poeti, – e si assegnasse loro
questo compito: immaginate, formulate tre domande tali da corrispondere
all’importanza dell’evento non solo, ma da esprimere per giunta in tre parole, in tre
proposizioni umane, tutta la futura storia del mondo e dell’umanità, – ebbene, credi
Tu che tutta la sapienza della terra, insieme raccolta, potrebbe concepire qualcosa di
simile per forza e profondità a quelle tre domande che Ti furono allora rivolte nel
deserto dallo spirito intelligente e possente? Già solo da quelle domande e dal
prodigio della loro formulazione si può capire che si ha da fare non con lo spirito
umano transitorio, ma con quello eterno ed assoluto. In quelle tre domande infatti è
come compendiata e predetta tutta la storia ulteriore dell’umanità, sono dati i tre
archetipi in cui si concreteranno tutte le insolubili, contraddizioni storiche
dell’umana natura su tutta la terra.
142
Più avanti l’Inquisitore ribadisce che “Ci sono sulla terra tre forze, tre sole forze capaci
di vincere e conquistare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli, per la felicità loro;
queste forze sono: il miracolo, il mistero e l’autorità”. Inchinarsi davanti al pane elargito
agli uomini affamati, usato come leva per affermare l’autorità (qui Dostoevskij prende di
mira perfino l’adorazione eucaristica latina, come simbolo dell’idolatria cattolica); sfidare
Dio gettandosi dalla torre, pretendendo il miracolo (“l’uomo cerca non tanto Dio quanto i
miracoli. E siccome l’uomo non ha la forza di rinunziare al miracolo, così si creerà dei
nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà al prodigio di un mago, ai sortilegi di una
fattucchiera, fosse egli anche cento volte ribelle, eretico ed ateo”, proclama l’Inquisitore);
infine il mistero della superiorità, del carisma universale del grande dittatore
(“Accogliendo questo terzo consiglio dello spirito possente, Tu avresti compiuto tutto ciò
che l’uomo cerca sulla terra, e cioè: a chi inchinarsi, a chi affidare la propria coscienza e in
qual modo, infine, unirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde,
giacché il bisogno di unione universale è il terzo e l’ultimo tormento degli uomini”). Il
vecchio cardinale rivendica il diritto al dominio delle coscienze, ritenendolo il prezzo del
proprio sacrificio e della propria infelicità, addirittura del martirio dei pochi illuminati
chiamati a guidare le masse (“Ci saranno miliardi di pargoli felici e centomila martiri che
avranno preso su di sé la maledizione di discernere il bene dal male”). Le tre tentazioni
sono la variante stravolta del circolo trinitario dell’amore, sono la sintesi estrema dei “tre
elementi” dell’anima russa visti nel riflesso contrario: l’autorità del Padre, il miracolo del
Figlio e il mistero dello Spirito, diventati preda di un sistema di potere umano. Lo scrittore
oppone a questa religione del potere la semplicità sconvolgente dell’anima russa, del
Cristo russo, che non ha obiezione logiche da porre, ma risponde a livello esistenziale con
un gesto d’amore diretto, capace di affermare una libertà interiore superiore a qualunque
forma di dominio:

- Tu non credi in Dio, – soggiunse Aleša, ma ormai con profonda amarezza. Gli parve
inoltre che il fratello lo guardasse con fare canzonatorio. – E come termina il tuo
poema? – domandò a un tratto, con lo sguardo a terra, – o è già terminato?
– Io volevo finirlo così: l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo
che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero
l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo e penetrante e
non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa,
sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in
silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua
risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va
verso la porta, la spalanca e Gli dice: “Vattene e non venir più ... non venire mai più
... mai più!”. E Lo lascia andare per “le vie oscure della città”. Il Prigioniero si
allontana.
143
– E il vecchio?
– Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.

La scena finale è il modello a cui si ispira Tarkovskij nell’Andrej Rublev, per il dialogo
tra il giovane monaco e il vecchio Teofane: la Chiesa esangue del potere, di fronte
all’ingenuo desiderio di misericordia della Russia che non vuole arrendersi alla violenza e
al sopruso. Per Dostoevskij, la fede non può mai essere vissuta al di fuori dell’esistenza
concreta che è contraddizione, sofferenza, dolore, un impasto inscindibile di bene e di
male. Aleša Karamazov ripeterà il gesto di Cristo, accomiatandosi da Ivan baciandolo
sulla bocca, per ritradurre nell’esperienza l’intuizione del fratello. Nell’opera di
Dostoevskij questo modo di descrivere la realtà si riproduce in mille varianti: l’esperienza
semplice e sofferta prevale sulla teoria, e in questa esperienza l’uomo ritrova la sua
innocenza, la sua immagine originaria. I Fratelli Karamazov doveva essere, nell’intenzione
iniziale dell’autore, un romanzo sui bambini e la loro esperienza, come in effetti avviene
nell’ultima parte del romanzo, quando Aleša cerca di realizzare nel mondo la missione
affidatagli dallo starets diventando la guida di un gruppo di ragazzini. Questa
paradossalità esperienziale viene manifestata da Dostoevskij in espressioni radicali e
antinomiche, che ricordano il Credo quia absurdum di Tertulliano: “Se devo scegliere tra
Cristo e la verità, preferisco Cristo alla verità”. Amare la vita più che il senso della vita, in
analogia con i pensieri di un altro precursore dell’esistenzialismo come Søren Kierkegaard
(contemporaneo di Dostoevskij), secondo cui oltre l’estetica e l’etica c’è il “salto” della
fede, quel livello dell’anima che va oltre la ragione e le leggi.

Le questioni eterne o “maledette” di Dostoevskij sono argomenti molto commentati


dalla filosofia religiosa russa. Nel 1880 Dostoevskij, poco prima di morire, pronunciò un
appassionato discorso a una commemorazione in onore di Puškin, in cui espresse il suo
testamento spirituale, tutto dedicato proprio alla religiosità dell’anima russa e alla sua
vocazione in ordine alla salvezza del mondo intero. Il discorso ebbe molta eco per il suo
spirito universale, non propriamente ecumenico, ma celebrativo della energia universale
della Russia stessa e della sua missione verso gli altri popoli. Questo ideale venne ripreso
dal giovane Solov’ev, che era diventato in quegli anni amico di Dostoevskij e aveva
assistito al discorso, da cui trasse l’intuizione principale della sua filosofia religiosa,
esposta ampiamente nel saggio La Russia e la Chiesa universale. Parallelamente a
Dostoevskij si sviluppa anche l’opera di Lev Tolstoj, che con Dostoevskij ebbe un rapporto
di grande rispetto, ma anche di distacco; i due non si incontrarono mai e non ebbero
praticamente niente in comune. Tolstoj riconosceva in Dostoevskij una grande ispirazione
religiosa, che egli però non riusciva assolutamente a fare propria; la teoria religiosa di
Tolstoj è piuttosto centrata su di un rigido moralismo, l’opposto dell’esistenzialismo
vitalistico di Dostoevskij. Il suo è invece un moralismo religioso laico, fondato sulla
144
assoluta purezza delle intenzioni e sul principio della non resistenza al male, (nieprotivliene
zlu), che abbiamo visto essere uno dei temi originari della cultura russa fin dai suoi primi
santi, i principi fratelli Boris e Gleb. Questo principio diventa il fondamento di una
“religione tolstoiana” (tolstovstvo) che è in qualche modo una religione laicizzata, di
ispirazione massonica, universalistica ed ecumenica. Nel 1908, poco prima di morire,
Tolstoj partecipò addirittura a Firenze a un convegno sull’unificazione di tutte le chiese.
Anche per queste sue teorie, egli venne scomunicato dalla Chiesa ortodossa russa nel 1901,
unico caso moderno di scomunica in vita. Nel momento in cui la Russia stava per aprirsi
alla tolleranza religiosa, con il decreto imperiale del 1905, si escludeva ufficialmente il più
grande intellettuale russo del tempo, con la sua fortissima proposta religiosa: uno dei tanti
paradossi della storia della cultura russa.

Per meglio comprendere i principi del tolstoianesimo, bisogna minimamente


richiamare l’opera del grande scrittore51. Lev Tolstoj è nato nel 1828 e morto nel 1910,
attraversando quasi tutta il passaggio dal secolo d’oro a quello d’argento della cultura
russa e riversando la sua influenza anche nel XX secolo. Ha scritto moltissimo: si
raccolgono ben centodieci volumi della sua opera omnia. Il suo romanzo più noto è
certamente Guerra e Pace, che si distende su duemila pagine, con la descrizione di 466
personaggi storici tutti autentici: la famiglia di Tolstoj, appartenente a uno dei rami più
antichi della nobiltà russa, partecipava direttamente a tutte le guerre, e conservava
memorie anche delle campagne degli anni Settanta del Settecento, degli scontri con i turchi
sotto Caterina II. Alcuni personaggi sono descritti in modo molto reale e preciso, come il
Conte di Colencourt o il teorico della guerra von Klausewitz, che egli fa intervenire
direttamente in tedesco nel quartier generale dell’ammiraglio Kutuzov, quasi citando
letteralmente la sua teoria della guerra tanto cara a Federico di Prussia, Stalin e Hitler. È
un romanzo veramente enorme, di cui poteva essere autore solo un russo o in tempi più
recenti un americano, in cui è descritta la storia in tutte le sue dimensioni. Fu l’unico
scrittore scomunicato in Europa nell’Ottocento, oggi amato in Russia e in tutto il mondo.
Certamente fu uno scrittore eccessivo, e anche scomodo, capace di esprimere verità
scomode per lo stato, per la società e per la Chiesa. Autore di grandi romanzi, ma anche di
piccoli racconti per il popolo, di quattro-cinque pagine al massimo, ricchi di personaggi
alla ricerca perenne della verità. Guerra e Pace non è solo un romanzo, ma anche un’opera
filosofica. La sua versatilità e capacità critica si estende per esempio anche alla conoscenza
della liturgia cristiana: nel romanzo Risurrezione egli offre una descrizione satirica ma
perfetta della liturgia ortodossa, dimostrando di conoscerla meglio di tanti altri fin nei
particolari, mostrando le storpiature di essa dovute alla falsa devozione; egli non esitava a
ridicolizzare anche la liturgia, qualora essa non fosse vissuta con vero spirito religioso. È

51Per queste osservazioni sull’opera di Tolstoj, come anche per alcuni commenti sulla poetica di Puškin,
sono particolarmente grato al prof. Andrej Šiškin, docente di lingua e letteratura russa all’Università di
Salerno e direttore del Centro Vjačeslav Ivanov di Roma.
145
un esempio del suo approccio scomodo e anticlericale, che denuncia anche i fanatismi e le
intolleranze interreligiose: un altro esempio è la storia da lui narrata di Haki Murad, tratta
dalla guerra del 1850 contro i guerriglieri ceceni del Caucaso, in cui descrive gli ufficiali
russi con le loro buone intenzioni di civilizzatori, ma guardandoli dal punto di vista dei
ceceni e mostrando sia gli atti di profanazione compiuti dai russi nelle moschee, sia la
violenza assassina degli stessi ceceni, più forte dello stesso istinto di sopravvivenza. Un
testo molto profetico, e pieno di verità scomode anche al giorno d’oggi.
Tolstoj del resto si rivolgeva anzitutto a se stesso come oggetto di analisi e ricerca della
verità. Egli teneva un diario in cui raccontava tutto di se stesso, le cose più alte come
quelle più basse, per tutta la vita; un diario segreto, che alla fine nascondeva negli stivali
per non farlo trovare alla moglie. Alcuni brani dei suoi diari ancora non sono stati
pubblicati, anche perché troppo scomodi. Il suo esordio letterario è la prosecuzione del
diario: egli scrive Infanzia, Adolescenza, Giovinezza e continua fino all’età avanzata. Il suo
tema principale sarà poi dedicato ai diversi tipi di comportamento dell’uomo di fronte alla
morte. Il suo eroe in ogni racconto è sempre la verità. Tolstoj visse per un periodo a
Sevastopoli, poi tornò alla sua residenza di Jasnaja Poljana e conobbe una prima crisi
spirituale, che tentò di risolvere avvicinandosi al popolo e cercando di sollevarne le
condizioni sociali: organizzò una scuola per i bambini dei contadini, insegnando loro a
scrivere. Raccolse i componimenti dei fanciulli, ritenendo che i loro scritti fossero più
autentici dei suoi scritti, aprì perfino una rivista di bambini dai nove ai dodici anni. Egli
era veramente un conte di altissimo lignaggio, di quelli che avevano accesso ai circoli più
elevati e parlare direttamente con l’imperatore, o prendere la parola in Senato. Dal 1868
Tolstoj si concentrò in cinque anni di lavoro continuo alla stesura del suo grande romanzo,
producendo più di diecimila pagine, dopo ben sette stesure. Il titolo, Voina i Mir, sfrutta la
polivalenza della parola mir, che in russo può essere scritto e inteso in due modi, nel senso
di “mondo” o di “pace”. Il senso completo del titolo sarebbe “Il mondo durante la guerra e
durante la pace”, il mondo e la giustizia umana e divina. Per capirlo bisognerebbe dare
l’interpretazione completa del termine mir. I protagonisti principali del romanzo, il
principe Andrej Bolkonskij e Pierre Bezukhov, interpretano la stessa ricerca spirituale di
Tolstoj, soprattutto il secondo, che è la personificazione dell’autore. Essi indagano il senso
del mondo e dei fenomeni, e si sforzano di trovare l’assoluto. Un’altra eroina, la giovane
Nataša, frequenta la chiesa e assiste alla liturgia russa, rimane colpita dalle parole della
litania Mirom Gospodu pomolimsja, “Preghiamo in pace il Signore”, intendendo l’avverbio
mirom non tanto come “in pace”, ma “insieme con tutto il mondo”, con tutta la nostra
comunità, la nostra obščina. Nataša non è una donna istruita, ma fornisce ugualmente la
sua interpretazione, esprimendo un’intuizione comune al sentimento di tutto il popolo
russo, quella di percepire se stessi insieme delle persone che si amano, nello spirito della
sobornost’. Nel romanzo vengono usate anche altre espressioni contenenti la parola mir, ad
esempio quando Pierre legge l’inizio del prologo del vangelo di Giovanni, in cui si parla
della Vita e del Mondo associandoli al Verbo. Nella vita di Pierre queste parole segnano
146
un momento cruciale, quando egli si trova di fronte a una questione di vita o morte, legata
alla scelta pro o contro Napoleone. Già nella prima pagina del romanzo si parla (in
francese) di Napoleone come dell’Anticristo, che ha già conquistato Lucca e Genova e
minaccia di estendere il suo dominio a tutta la civiltà europea e mondiale. Pierre
inizialmente vuole imitare Napoleone, ma quando questi invade Mosca cerca di ucciderlo
con un attentato terroristico; all’improvviso viene catturato, e fa quindi un sogno
rivelatore:

Pierre si avvicinò al fuoco, mangiò un pezzo di carne di cavallo arrostita, si


sdraiò voltando le spalle al fuoco e immediatamente si addormentò. Egli dormì di
quello stesso sonno, in cui era sprofondato a Možajsk dopo la battaglia di Borodino.
Di nuovo gli avvenimenti della realtà si confusero con le visioni, e di nuovo
qualcuno, non si capiva se lui stesso o un altro, gli suggeriva dei pensieri, e proprio
gli stessi pensieri che gli erano venuti a Možajsk.
“La vita è tutto. La vita è Dio. Tutto si mescola e si muove, e questo movimento è
Dio. E finchè c’è la vita, c’è il piacere della coscienza del divino. Amate la vita, amate
Dio. La cosa più difficile e più felice di tutto, è amare questa vita con le sue
sofferenze, con la sofferenza innocente”.
“Karataev!” – si ricordò Pierre all’improvviso.
E di colpo a Pierre tornò alla mente, come se fosse vivo, il vecchio e mite maestro,
da tempo dimenticato, che in Svizzera insegnava a Pierre la geografia. “Fermati”, gli
disse il vecchio. E mostrò a Pierre un mappamondo. Il globo in realtà era una sfera
vivente e smisurata, in continua oscillazione. Tutta la superficie della sfera era
composta da gocce che premevano l’una sull’altra. Le gocce si muovevano, si
spostavano fino a fondersi da molte in una, e da una si dividevano in molte. Ogni
goccia cercava di espandersi, di occupare quanto più spazio possibile, ma le altre,
facendo lo stesso, la stringevano fino a distruggerla, o a fondersi con essa.
- Questa è la vita – disse il vecchio maestro.
“Come è semplice e chiaro – pensò Pierre – Come ho fatto a non
accorgermene prima”.
- Al centro c’è Dio, e ogni goccia cerca di allargarsi per rifletterlo nella
misura maggiore possibile. Cresce, si fonde, spinge, scompare dalla
superficie per andare a fondo e infine riemergere. Ecco vedi Karataev, si è
fuso con gli altri ed è scomparso. – Vouz avez compris, mon enfant, - disse
il maestro.
- Vouz avez compris, sacré nom,
e Pierre si svegliò52.

52 (vol 4 parte 3, cap 16).


147
Il movimento è la guerra, ed è la vita stessa, in cui ognuno si allarga e lotta, per
diventare come Dio. Questa sarebbe la definizione di Dio di Pierre, l’unione “sobornica”
delle gocce di un tutto liquido e in perenne movimento. Nel film di Tarkovskij Stalker si
attinge molto a questa idea: la “zona” entro la quale si muovono i protagonisti è uno
spazio che continuamente si allarga e si restringe. Il romanzo è molto ricco di narrazioni
particolari e riflessioni sui grandi temi, evidenziando il suo orientamento decisamente
pacifista; Tolstoj entra anche in polemica con tutta la storiografia europea riguardo al
ruolo di Napoleone. Secondo lui, il grande condottiero non poteva da solo cambiare il
volto dell’umanità, è la guerra che provoca un totale disordine, in cui nessuno, neanche il
più valoroso e audace generale o dittatore, può sapere come andrà a finire; in questo
Tolstoj fa riferimento alla sua esperienza diretta. Nessuno, secondo lo scrittore russo, può
spiegare veramente perché i francesi abbiano invaso la Russia, e perché poi abbiano perso;
non si sa, ma è avvenuto così. Napoleone guidava la grande battaglia di Borodino, ma era
soltanto un piccolo uomo dentro una carrozza, legato alle cinghie, che pensava di guidare
la carrozza con l’ingenuità di un bambino. Nel testo si spendono centinaia di pagine
contro la storiografia francese. Al mondo, sostiene Tolstoj, non vi è razionalità, tutto è
affidato al caso, e solo il caso genera le enormi contraddizioni della storia. Non accetta il
valore eroico della battaglia, e per questo è così storicista, antivitalista e antislavofilo, pur
non negando il valore dell’uomo russo. Muore con i Fratelli Karamazov in mano, senza
essere riuscito ad accettarlo.

Il Dio di Tolstoj non è il Dio cristiano. Egli scrive diversi libri su questioni
esplicitamente religiose, anche uno effettivamente teologico, una indagine sulla teologia
dogmatica. Egli ricerca un principio di unificazione dei vangeli, e propone anche una sua
versione della Bibbia molto significativa. Traduce il prologo di Giovanni, testo che
secondo lui dimostra il principio religioso fondamentale: all’origine di tutto sta la
“sapienza della vita”, razumenie žizni, quella ragionevolezza della vita che costituiva il
contenuto del sogno di Pierre. Ricevette la scomunica nel 1901 in quanto la sua grande
autorevolezza aveva veramente messo la Chiesa in crisi. Oggi i documenti della
scomunica sono stati pubblicati e analizzati ampiamente (Pro et Contra); vi si affermava
che Tolstoj non accettasse la dottrina cristiana, e per questo la Chiesa non lo poteva
considerare suo membro finchè non si fosse pentito, invitando tutti a pregare per i suoi
peccati. Un romanzo contemporaneo di Viktor Pelevin, uno degli autori più considerati
nella Russia di oggi, si intitola “T” (per Tolstoj) e parla proprio della sua scomunica, riletta
nello spirito del pensiero postmoderno. In esso viene messo in evidenza quanto la
scomunica fosse stata un gesto anche coraggioso, in contrasto con l’opinione pubblica
favorevole a Tolstoj. Oggi la Chiesa Ortodossa Russa continua a ritenere opportuna la
condanna del 1901; tentativi di revisioni vengono diffusi solo a beneficio dell’opinione
pubblica all’estero, non certo in Russia. Tolstoj era anche un ricco proprietario, a differenza
di Dostoevskij, che cercava di realizzare con i suoi beni il suo ideale di giustizia e
148
razionalità; nel 1891 aveva firmato un testamento in favore dei contadini, a cui intendeva
lasciare la sua immensa tenuta. La sua fine è l’ultima testimonianza della sua angoscia
interiore; un giorno di ottobre del 1910 si sveglia e trova la moglie che fruga tra le sue
carte, magari proprio per cercare il testamento, e fugge dalla casa per raggiungere il
monastero di Optina Pustyn’, dove viveva una sorella monaca, ma un attacco di polmonite
lo costringe a fermarsi nella casa del capostazione del paesino di Astapovo, dove infine
muore. Fino alla fine rimase fedele alla continua ricerca della verità e di se stesso, e il suo
ultimo desiderio era quello di dire addio alla casa dove era nato, e dove erano nati i suoi
figli. Infatti il contesto da lui sempre evocato per descrivere la verità e l’amore, è proprio la
famiglia (che in Dostoevskij, al contrario, è una sventura da dimenticare); in Tolstoj c’è
anche la lotta contro la famiglia come istituzione (pensiamo a Anna Karenina), ma sempre
nel tentativo di rappresentare tutta la realtà all’interno di essa. Il suicidio di Anna
Karenina sotto il treno in movimento è il simbolo estremo della verità russa travolta da
una realtà impossibile da fermare, la trojka russa di Gogol’ che non riesce a raggiungere la
meta.

Dalla realtà dell’immagine all’astrattezza della realtà.

Anche nell’arte si riflettono i movimenti culturali e la ricerca dell’anima russa,


parallelamente alla filosofia e alla letteratura, in particolare da quando dopo il giogo
tartaro la Russia comincia a identificare i contenuti della propria autocoscienza,
riprendendo il cammino dopo l’interruzione bicentenaria e andando verso una autonomia
della propria identità anche rispetto a Bisanzio. Come già illustrato, la Russia del
Quattrocento ripartì dalla eredità bizantina diventando man mano sempre più autonoma,
anche perché Bisanzio stava crollando di fronte all’invasione ottomana, e quindi si andò
identificando una nuova realtà, la “Santa Russia”; non più la Rus’ di Kiev, ma la Russia
imperiale e patriarcale di Mosca, nel tentativo sempre incompiuto, ma continuamente
riproposto, di realizzare l’ideale di Mosca-Terza Roma, da Ivan il Terribile a Pietro il
Grande, poi con Caterina la Grande, Alessandro I e i suoi successori, per giungere
all’utopia sovietica di Lenin e Stalin, fino al neoimperialismo di Putin nel Duemila.

Questo passaggio venne sottolineato anche, e forse soprattutto a livello artistico nel XV
secolo dalla grande esplosione della iconografia russa. L’icona russa, cioè l’icona di Andrej
Rublev, della scuola di Novgorod, di Pskov e di Mosca diventa in quel periodo la carta di
presentazione, l’immagine di presentazione della Russia che si ritiene l’unica vera nazione
cristiana, e quindi l’unica vera icona, unica vera immagine di Cristo in terra. È
un’immagine di origine bizantina, perché l’icona è arte bizantina, e l’icona russa non ne
stravolge i canoni, ma opera in essa un rafforzamento identitario. L’icona russa si
differenzia a livello estetico da quella greca perché è molto più espressiva e carica di
149
colore; la Russia aggiunge alla raffinata teologia bizantina anche una nota di umanità
sofferente, di intensità umana e di contraddizione presente nell’animo umano che erano
assenti dall’ideale bizantino, che rispetta maggiormente l‘ideale dell’armonia greca, per
dirla con una estrema semplificazione. A questo periodo del Quattrocento di Andrej
Rublev, fino al Cinquecento di Ivan IV, ben presto succede poi l’influsso occidentale, che
comincia già verso la fine del Quattrocento, come abbiamo visto nella vicenda
dell’architetto Fioravanti e della costruzione del Cremlino a immagine dei palazzi
veneziani e dei castelli italiani, da cui parte una ondata di architettura rinascimentale, un
innesto di umanesimo europeo che si insinua anche nella cultura russa. In effetti l’icona
russa nella sua espressione caratteristica è praticamente solo l’icona del Quattrocento, in
seguito troviamo solo icone di maniera, anche bellissime, o icone di gusto decisamente
occidentale mentre l’icona russa vera e propria è quasi solo quella di Rublev e dei suoi
immediati contemporanei o successori. Già dal Cinquecento, e sicuramente dal Seicento, si
perde l’originalità delle icone russe; quando poi a metà del Seicento, con l’Accademia di
Kiev dipendente dai gesuiti, la scolastica, cioè la cultura latina occidentale entra
prepotentemente nel corpo della vita russa, anche l’arte, che rimane sempre comunque
arte iconografica visto l’impostazione confessionale dello stato russo, diventa sempre più
decorativa o semplicemente didattica, e sempre più a imitazione dell’arte occidentale. Le
immagini delle icone russe perdono la loro forza espressiva, si raddolciscono non tanto
per tornare alla leggerezza greca, ma piuttosto per fare il verso al pietismo, al
sentimentalismo occidentale. Questa parabola diventa poi evidente nel Settecento, quando
ormai non si trova più una vera icona russo-bizantina, mentre con Pietro il Grande e la
fondazione di San Pietroburgo si diffonde l’arte di maniera e il barocco. Il barocco russo
domina l’architettura delle chiese e dei palazzi, ed ha una sua corrispettiva nell’arte
figurativa: anche le icone, dal Settecento fino all’Ottocento, sono sostanzialmente barocche,
senza peraltro raggiungere la grandezza del barocco italiano o europeo. In Russia non
arrivano Raffaello e Tiziano, Michelangelo e Caravaggio con le rispettive scuole; si
produce un barocco ripetitivo che si spinge fino al rococò. Dal punto di vista estetico anche
l’arte russa riflette il tipico andamento a scatti improvvisi della cultura russa, con grandi
intuizioni e lunghe paralisi espressive.

Come nell’arte letteraria, nell’Ottocento dopo Napoleone e l’inizio della riflessione


slavofila, anche l’arte figurativa e la musica intraprendono un percorso autonomo e
raggiungono vette di grande qualità e di risonanza universale. A livello artistico, peraltro,
il vertice della cultura russa viene raggiunto agli inizi del Novecento, quando l’arte
astratta contemporanea prende proprio dai russi l’ispirazione principale. Di sicuro però c’è
un percorso ottocentesco molto importante e significativo, che parte proprio dalla
riscoperta della cultura russa popolare a imitazione di quanto andavano facendo Puškin,
Gogol’ e gli altri scrittori: la ricerca delle memorie dei contadini, il legame con la terra,
l’elemento etnico primordiale producono una modalità di espressione molto spontanea e
150
in qualche modo paganeggiante, unita alla rivalutazione della cultura cristiana ortodossa
tradizionale.

Un quadro quanto mai simbolico è quello già ricordato di Aleksej Venetsjanov (1780-
1847)53, Nel campo arato: Primavera (1827). In esso è raffigurata una donna russa che si
confonde con la terra, una perfetta immagine della Russia che si vuole riscoprire. Anche in
questo quadro troviamo una simbologia trinitaria: i due cavalli accanto alla donna
formano un trio, di cui la donna è l’elemento centrale, ciò che nei canoni iconografici
rimanda all’immagine di Cristo, il centro della Trinità divina. La donna in realtà evidenzia
il substrato psicologico della madre Russia, l’elemento umano di questa trinità, mentre i
cavalli sono uno degli elementi più frequenti usati per esprimere la forza e l’energia della
natura e della terra russa. In questo inizio di ricerca artistica comincia a essere presente
anche il paesaggio; la tradizione artistica ottocentesca russa sviluppa molto la
paesaggistica, poi anche ritrattistica e la pittura storica, con risultati notevoli. Il realismo
russo dell’Ottocento si modellò in buona parte sulla scuola paesaggistica italiana; dagli
anni Venti-Trenta del XIX secolo diventò praticamente obbligatorio trascorrere almeno
qualche mese in Italia, per ottenere la qualifica ufficiale di pittore e imparare a dipingere la
natura e la realtà. Un grande ritrattista fu Karl Brjullov (1799-1852), di cui possiamo
ricordare La merenda italiana, un quadro del 1827 evidentemente dipinto in Italia, in cui si
mostra una donna italiana che ha forti assonanze con la donna russa, con una emotività
giocosa diversa dalla solennità russa, ma con i tratti della donna aristocratica sotto le
spoglie della contadina. Esprime il desiderio di dare alla Russia ufficiale e aristocratica
un’anima russa popolare, pur nel formalismo delle figure femminili dell’epoca; in questa
chiave vanno viste le numerose rappresentazioni femminili di Brjullov, tra cui la
Cavallerizza, in cui è rappresentata una donna nobile di origine turca, la contessa
Samuilova, che a sua volta rivela una natura contadina. Brjullov inizia anche la serie dei
quadri a sfondo storico, come L’Assedio di Pskov in cui si ricorda l’aggressione del Re di
Polonia e Granduca di Lituania Stefan Bàthory nel 1581, uno degli episodi simbolo
dell’inizio dell’invasione occidentale in Russia. Nel quadro si vede un prete ortodosso con
la croce e le bandiere, che si oppone agli aggressori latini dipinti in colori foschi e
demoniaci. Molto noto anche il quadro sugli Ultimi giorni di Pompei, un altro tema italiano
ricorrente che esprime la tensione apocalittica dell’anima russa, la necessità di trovare un
nuovo significato della storia. Pompei fu eletto a teatro tipico della pittura russa e della
ricerca culturale dei russi in Europa, con la sua evidente suggestione del mondo antico
immobilizzato da ri-vivificare, come appunto la Russia intendeva fare nella sua stessa
autocoscienza.
Forse il più famoso dei quadri della prima metà dell’Ottocento in Russia è la
Apparizione di Cristo al popolo, di Aleksandr Ivanov (1806-1858), una tela gigantesca che

53 Vedi a p. 12.
151
richiese un ventennio di lavoro (1836-1857) in cui è rappresentata la scena di Gv 1,29,
quando il profeta Giovanni Battista indica Gesù al popolo come il Messia che viene a
salvare l’umanità. Si tratta in realtà della rievocazione dello stesso battesimo della Russia,
della sua fede unica e autentica. La lavorazione di questo quadro, di notevoli dimensioni
(540x750 cm), procedette in parallelo alla composizione delle Anime Morte di Gogol’, con
cui il pittore Ivanov condivideva l’amicizia e la permanenza in Italia, come attesta lo
sfondo paesaggistico tipicamente italiano. Gogol’ stesso considerava l’opera di Ivanov
molto vicina all’ispirazione che lo sosteneva nella stesura del suo romanzo, la ricerca di
quella via di salvezza dal male che lui voleva indicare alla Russia; lo zar Nicola I, durante
il suo breve soggiorno a Roma alla fine del 1845, ebbe particolari parole di elogio per il
dipinto. Quando infine Ivanov portò il gigantesco quadro in Russia, per volere dello zar si
installò una mostra solo per esso a San Pietroburgo, mostrando insieme tutti gli studi e i
progetti. Esso divenne di fatto il quadro di riferimento per tutta la generazione del
“magnifico decennio”, in cui erano contenute tutte le tecniche della nuova pittura russa: la
ritrattistica e la paesaggistica, la scelta della tematica storica e biblica, e la grande
intuizione di un Cristo solitario che viene a evangelizzare il popolo radunato dal Battista,
immagine della Russia che sta rinascendo, riscoprendo le sue origini. Questo evento
consolidò la fama di Ivanov, che già si era affermata con la Apparizione di Cristo a Maria
Maddalena (1834-1836), l’episodio evangelico del Noli me tangere (Gv 20,17).

Ivan Aivazovskij (1817-1900) era invece specializzato nella pittura di paesaggi marini,
con grande intensità di colore che mette in risalto la forza delle onde e dei venti, altra
variazione sul tema dell’energia spontanea della natura. Di grande effetto la sua
rappresentazione delle battaglie marittime di Fedosija e Navarino, ma anche dell’incendio
di Mosca del 1812, il grande sacrificio vittorioso che segnò indelebilmente la coscienza
nazionale russa. Nikolaj Ge (1831-1894) è l’autore di numerose scene evangeliche di
grande efficacia, per lo più legate agli episodi della Passione di Cristo come L’Ultima Cena,
la Coscienza di Giuda, il Giardino del Getsemani, il Golgota, e sopra tutti il superbo Che cos’è la
verità? (1890), l’interrogazione di Cristo da parte di Pilato con un uso della luce che ricorda
il Caravaggio, una luce che taglia Cristo lasciato nell’ombra, per mettere più in evidenza
l’effetto della presenza di Cristo, il miracolo della verità che si staglia sul paganesimo
incapace di accettare il Messia. Suoi anche importanti quadri storici come Pietro interroga lo
zarevič Aleksej a Peterhof (1871), il drammatico confronto tra lo zar riformatore e il figlio
succube della madre e dei monaci ortodossi, che Pietro non riuscì a fare il suo erede: la
Russia occidentalizzata che cerca di ridurre a propria immagine la Russia più arcaica. Ge
ci ha lasciato tra gli altri anche un famoso ritratto de Lo scrittore Lev Tolstoj (1884), in cui il
grande romanziere è raffigurato all’opera, con un’espressione di grande concentrazione e
tormento. Vasilij Perov (1834-1882), uno dei massimi ritrattisti russi, fondatore del gruppo
dei realisti russi o peredvižniki, gli “ambulanti”, ha invece tramandato l’immagine più
famosa dell’altro grande scrittore, Fedor Dostoevskij, in un’opera del 1872, dove l’autore
152
dei Fratelli Karamazov è invece seduto con le mani unite sopra le gambe accavallate, con
un’espressione che, più dell’ansia dello scrittore, comunica quasi una profonda pace
interiore, come di chi ha trovato la verità tanto desiderata, dopo tutte le prove e le
sofferenze. Molto significativa la scena dei Cacciatori durante la sosta (1871), scena trinitaria
di uomini russi in mezzo alla natura, in cui l’anima popolana e il censo nobiliare vengono
equiparati nel rapporto con la madre terra. Altre scene trinitarie peroviane sono il
Commiato dal defunto, mesta immagine di una trojka con un conducente e due ragazzi nella
pista innevata, e lo sforzo gioioso dei tre ragazzi Apprendisti con un carico d’acqua (1866).
Anche Perov ha lasciato molti soggetti biblici, come il Cristo sul Monte degli Ulivi,
un’immagine di Gesù sprofondato nella sofferenza, disteso a terra in preghiera, e scene
storiche, tra cui spicca una rievocazione del battesimo della Rus’ nei Primi cristiani di Kiev
(1880), un piccolo gruppo radunato attorno a una flebile luce nel buio, nella notte fonda
della Russia arcaica e pagana. Nella Deposizione dalla croce, un dipinto degli anni Settanta,
troviamo di nuovo una composizione trinitaria intorno al corpo morto di Cristo rigido e
freddo; invece la ricostruzione della Disputa sulla fede (1881) mostra una vivacissima
riunione di sacerdoti, monaci e popolo davanti alla zarina, alla ricerca della verità della
fede russa. Ricordiamo anche Ivan Kramskoj (1837-1887) e il suo Cristo nel deserto (1872),
splendida immagine di un Cristo russo solo e carico di sofferenza, simile al Cristo
dell’Andrej Rublev di Tarkovskij, nel contesto di un paesaggio lunare; o il pittore di origine
greca Arkhip Kuindži (1842-1910) con i suoi paesaggi notturni, le betulle delle sterminate
foreste russe, in particolare quella della isola monastica di Valaam e sulle rive
dell’immenso lago Ladoga, vicino a San Pietroburgo, in cui si misura la terra russa in tutte
le sue dimensioni. Vasilij Polenov (1844-1927) offre a sua volta temi biblici e storici, come il
Divertimento di Cesare che mostra la fossa della tigre che sta per mangiarsi una condannata,
con una crudezza molto russa. Diversi ritratti presentano volti di origine caucasica, con
suggestioni orientali. Soggetti evangelici molto efficaci si possono ammirare nel suo Cristo
e la peccatrice, un quadro del 1873 di enormi dimensioni o nella Guarigione della figlia di
Giairo (1871).

Uno dei più grandi ritrattisti russi fu senz’altro Il’ja Repin (1844-1930), capace forse
più di ogni altro di dipingere la Russia autentica. Nel 1885 ferma l’immagine della
Accoglienza dello zar Aleksandr III, icona moderna dello zarismo e della narodnost’ russa. Il
popolo russo in cammino sulla sua terra è magistralmente riprodotto nella Processione nel
governatorato di Kursk del 1883, con i contadini descritti in modo molto minuzioso, i
portatori della statua, i ragazzi, le donne e i sacerdoti. Nel 1903 gli venne commissionata la
riproduzione della Seduta del Consiglio di Stato, una solenne riunione del governo sotto la
presidenza dell’imperatore Nicola II. Il quadro forse più famoso e più importante di Repin
sono gli Alatori del Volga (1873), i burlaki dediti al duro mestiere di trascinare le barche, che
il pittore riteneva particolarmente adatti a mostrare la vera energia del popolo russo. Egli
infatti studiò a lungo e da vicino questi uomini di fatica, per riuscire a riprodurre i loro
153
sguardi rassegnati ma degni, inserendo nel gruppo un ragazzino che scompone la figura,
dando l’idea che dalla forza passiva nasca una nuova energia gioiosa. L’epopea dei
Cosacchi è riportata nei Zaporožtsi scrivono una lettera al Sultano turco (1891), quasi una
illustrazione della natura selvaggia e insieme determinata di questi uomini della steppa e
dei fiumi descritti già con sfrenato trasporto da Gogol’ nel Taras Bulba. I Cosacchi
occupano un posto significativo nella cultura e nella coscienza russa, come evidente
testimonianza della contaminazione europeo-asiatica del popolo russo. Essi non sono
asiatici, anche se si sono molto mescolati con i nemici tartari e turchi; non hanno gli occhi a
mandorla, sono europei, ma avendo scelto la libertà nelle terre non controllate dalla
amministrazione statale, vivono di fatto alla asiatica, si vestono e si confondono in parte
con l’Asia. Per alcuni i Cosacchi sono all’origine dell’intelligentsija russa, rappresentano
una realtà libera e sganciata dal potere. Molto noto il ritratto che Repin fece al musicista
Musorgskij, mostrandone i tratti smodati del grande bevitore, lui che sapeva interpretare
l’anima russa in musica forse più di tutti. Dentro la sua scompostezza si impone una forza
interiore notevole. Famosissimo poi il quadro L’inatteso (1885), un interno casalingo
sconvolto da una visita inattesa del padre (forse legato a situazioni personali legate alla
separazione dalla moglie), che propone l’idea dell’imbarazzo e della sorpresa, un’idea
molto feconda per descrivere l’intera cultura russa.

Con Viktor Vaznetsov (1848-1926) il realismo russo si mostra decisamente più


compiuto e in evoluzione verso l’impressionismo, che non è propriamente uno stile
caratteristico russo, ma piuttosto un momento di passaggio. Autore molto fecondo e
dedito ai soggetti storici e religiosi più legati alla spiritualità russa, dipinse il celebre Tre
Bogatiry (1898), una trinità composta da figure leggendarie di guerrieri a cavallo che
scrutano le terre russe da conquistare, in realtà una rielaborazione di divinità asiatiche
siberiane, che esalta la radice pagana della Russia. Accanto ai bogatyri troviamo il dipinto
ormai novecentesco di Il’ja Muromets (1914), eroe leggendario a cavallo, ideale della Russia
primitiva, e altri personaggi dell’epica e della storia russa come il vate Bojan, che con i
gusli canta la tragica ode al principe Igor, il principe Andrej Bogoljubskij, lo zar Ivan il
Terribile e San Sergio di Radonež. Lo stesso Vaznetsov dipinge anche parte della nuova
cattedrale di Kiev, in cui spicca l’immagine del principe “illuminatore” S. Vladimir. Egli
riprende l’iconografia russa di maniera, di ispirazione barocca, in cui non vi è nulla di
classico e bizantino, anche se non manca la bellezza e la maestria dell’autore; nell’arte
dell’Ottocento si rianima l’icona non per ritrovare un percorso veramente teologico e
iconografico, ma per esigenze ritrattistiche. Il Tappeto volante del 1880 anticipa la
dimensione onirica della memoria russa che sarà nel Novecento il marchio di Chagall, uno
degli esiti più definitivi della storia della cultura russa. Dalle fiabe proviene anche
Biancaneve del 1899, la Sneguročka russa che si fonde con la bianca purezza della terra
innevata.

154
Grande pittore temi storici fu Vasilij Surikov (1848-1916), autore della Boiarina
Morozova (1881), un quadro di grandi dimensioni che fece scalpore alla Mostra Itinerante
del 1887, in cui la boiarina condannata alza le due dita alla maniera dei vecchio-credenti
mentre viene condotta all’esecuzione in mezzo al popolo impressionato e solidale negli
sguardi; l’eretica incarna la vera Russia, l’anima dei semplici, espressa dal gesto di un
poverello che a sua volta benedice la donna con le due dita. La scena è imparentata con
quella della Mattina dell’Esecuzione degli Streltsy (1887), in cui è riprodotto il marito della
stessa Morozova, che rievoca i sanguinosi eventi che segnarono l’inizio del regno di Pietro
il Grande. Intorno alla pedana delle esecuzioni della piazza Rossa piange il popolo russo
immerso nell’orrore e nella terra fangosa, mentre lo zar a cavallo, vestito all’occidentale,
contempla l’alba della Russia moderna da lui vagheggiata. Un’altra grandiosa scena
storica presenta l’eroe Ermak Timofeevič conquista la Siberia (1891), la “frontiera” russa che
anticipa verso oriente l’epopea del Far West americano, mostrando i soldati russi con i
fucili che affrontano le frecce degli indigeni asiatici. All’inizio della sua fortunata carriera
Surikov aveva dipinto il celebre Cavaliere di Bronzo esaltato da Puškin, nel Monumento a
Pietro I sulla piazza del Senato a San Pietroburgo (1870), con la statua equestre in miracoloso
equilibrio che si staglia sullo sfondo della cattedrale di S. Isacco, quella da cui partivano le
processioni pasquali che raggiungevano il monumento quasi divinizzando Pietro,
“l’Anticristo” russo.

Il periodo impressionista costituisce comunque anche per la cultura russa un


importante momento di passaggio. Mikhail Vrubel’ (1856-1910) fu senza dubbio un
maestro di levatura mondiale, un impressionista particolarmente intenso. Il suo orizzonte
è la Terra, il mondo intero, sul quale proietta l’energia dell’anima russa. Anch’egli dipinge
a modo suo il Bogatyr’ (1898), che esprime una immensa forza, sopra il cavallo anch’esso
espanso nelle dimensioni. Come Vaznetsov, Vrubel’ dipinge icone a Kiev, rianimando
l’icona con la forza dell’impressionismo, anche se i suoi lavori non saranno ammessi nella
nuova cattedrale a motivo della sua “irreligiosità”. Troviamo il dio Pan (1899), un recupero
dell’anima pagana, insieme a figure angeliche e demoniache, leggendarie e fiabesche,
proponendo in diverse versioni il Serafino con le sei ali e l’incenso fumante, che sembra
provenire direttamente dal Profeta di Puškin a svolgere la missione della “parola che
infiamma i cuori”. In preda a forti crisi di nervi, Vrubel’ finì i suoi giorni in clinica
psichiatrica.
Altro autore di importanti ritratti storici fu Mikhail Nesterov (1862-1842), pittore russo
e sovietico, ancora dipendente dall’ispirazione impressionista e narratore per immagini
dell’anima religiosa della Rus’. I suoi quadri sono pieni di padri eremiti, starets e monache,
produsse vari soggetti dedicati a S. Sergij di Radonež. Nell’opera Nella Rus’. L’anima del
popolo (1916) presenta un insieme corale e “sobornico” della Chiesa russa, con lo spirito del
popolo rappresentato da un ragazzino che precede la folla sulla riva del fiume e seguito
dal santo jurodivyj, dal monaco con il megaloskhima, segno della più autorevole esperienza
155
monastica, lo zar, il vescovo, l’icona di Cristo, e ovviamente la terra e l’acqua. In
L’annuncio (1895) un anziano starets spiega il Vangelo a un giovane novizio. In altre opere
Nesterov propone l’ideale del silenzio, della meditazione e del monastero, con immagini
di monaci che camminano tra gli alberi, lavorano e pescano. La conversazione spirituale e
teologica è il contenuto del famoso quadro Filosofi (1917), che ritrae alla vigilia della
rivoluzione p. Pavel Florenskij e Sergij Bulgakov, ancora filosofo laico, impegnati in una
discussione con l’animo gravato da foschi pensieri; infatti di lì a poco saranno divisi dalla
furia degli eventi. Nella Santa Rus’ (1906) è Cristo stesso che visita la terra russa coperta di
neve, in un’aura di purezza e di santità.

Dopo la ricchezza espressiva dell’Ottocento russo, l’inizio del XX secolo vide una
ripresa della riflessione sull’estetica come via principale della ricerca di una specificità
russa, nell’ansia della costruzione di un mondo nuovo. È il secolo d’argento, il periodo
della filosofia religiosa russa che si affianca alle pressanti spinte rivoluzionare, che si
estende dall’ultimo decennio del XIX al primo ventennio del XX secolo. La forte riflessione
sull’arte di questi anni porta a due grandi linee di sviluppo: una è la riscoperta dell’icona,
e l’altra è la fondazione dell’arte astratta. Paradossalmente, alla maniera russa, le due
direttrici provengono dalla stessa radice, e per vie opposte perseguono medesimi obiettivi.
Tutti i principali filosofi religiosi del tempo hanno scritto di estetica: Solov’ev pose le
fondamenta della cosiddetta “sofiologia”, una via mistica della fede russa, che nell’idea
della Divino-umanità riscopre la dogmatica ortodosso-cattolica. In diverse opere, come
anche nella Russia e la Chiesa Universale, Solov’ev ripropone la sua percezione estetica come
radice di una fede più profonda, della riunificazione di tutti i cristiani nell’unica fede
percepita nei suoi fondamenti universali. Venne accusato di panteismo e gnosticismo, per
le sue visioni della Sofia come anima del mondo. La teologia di Solov’ev in realtà si
sviluppa in varie direzioni; egli scrisse di teologia trinitaria, cristologia, ecclesiologia e di
etica, lasciando testi anche letterariamente molto significativi come i Tre dialoghi sulla
guerra, la morale e la religione con il Breve racconto sull’Anticristo, scritti in punto di morte
all’alba del 1900. Solov’ev partiva sempre dalla percezione estetica, tanto da essere
considerato a volte più poeta che filosofo.

La sua ispirazione estetica e sofiologica fu molto sviluppata dai suoi discepoli e


successori, come lo stesso Pavel Florenskij, che muove dall’idea della istina, la percezione
del vero come una intuizione sofianica. La Sofia/Istina è la modalità con cui Dio agisce
sulla realtà, spiega Florenskij soprattutto nel suo testo fondamentale, la Colonna e il
Fondamento della Verità (1913), forse la maggiore opera teologica russa, in cui troviamo
l’analisi della “antinomia”, il paradosso antinomico di umanità e divinità che si rivelano in
modo trinitario attraverso la Sofia, come energia della Trinità nel creato. Florenskij si
concentra sulla dimensione trinitaria della persona, vedendola come un concetto estetico.
Usa il termine russo lik, una parola multifunzionale da cui deriva il termine moderno litso,
156
volto, ma anche persona. Lik è l’origine della persona, nello sguardo, nella percezione della
luce dell’energia trinitaria. Florenskij fu uno dei pochi intellettuali a rimanere in patria
sotto il novo potere bolscevico, che lo incarcerò nel lager delle Solovki e lo uccise durante le
purghe staliniane, ma negli anni Venti era stato arruolato dal governo per le sue
conoscenze tecniche e scientifiche come ingegnere; non potendo più scrivere di teologia, in
questi anni si dedicò alla storia dell’arte e alla conservazione dei monumenti, soprattutto
la Lavra di S. Sergio a Zagorsk. Insegnò dal 1920 al 1927 alla Scuola tecnico-artistica, dove
espresse le sue doti di teorico della scienza e dell’arte. Frutto di questi anni i saggi Analisi
della spazialità e del tempo nelle opere d’arte figurativa, di cui fu pubblicato solo nel 1967
l’estratto sulla Prospettiva inversa, Il rito ortodosso come sintesi delle arti, a difesa dell’arte
religiosa e dei beni culturali (proprio come membro della Commissione per la
salvaguardia della Lavra di Zagorsk), e anche Gli immaginari nella geometria e La simbologia
dei colori. Diversi saggi sono rimasti inediti, solo di recente sono stati ritrovati i saggi I nomi
(una ricerca di filosofia del nome, sotto l’influsso del dibattito sulla “onomatodossia”) e
Iconostasi sulla teologia iconica. Florenskij fu animatore dell’unione degli artisti moscoviti
Makovets e dell’omonima rivista col motto “Arte e vita”.

Anche il suo amico e teologo Sergij Bulgakov scrisse molto di estetica. A differenza di
Florenskij, egli dovette abbandonare la Russia nel 1922, espulso con tanti altri sulla “nave
dei filosofi”, e fu poi uno dei fondatori dell’Accademia Teologica Ortodossa di S. Sergio a
Parigi, dove rimase fino alla morte (1944) a scrivere e insegnare. Bulgakov riprese molte
categorie dell’estetica patristica, cercando le radici della teologia ortodossa russa nei padri
non in modo pedissequo, ma considerando la radice patristica come necessaria allo
sviluppo di una fede russa originale, che anch’egli espresse in una sua versione della
sofiologia. Per Bulgakov l’intuizione estetica è fondamentale, come egli espresse in diversi
studi sull’icona come fonte della vera estetica teologica, per arrivare a una teologia “neo-
iconofila”; il suo luogo teologico preferito è il paragone tra l’icona russa e l’arte sacra
occidentale, per lui simboleggiata principalmente dalla Madonna Sistina di Raffaello a
Dresda. In essa viene raffigurata la Vergine Assunta in sembianze di giovane donna che si
libra nei cieli in tutta la sua sensualità umana, in totale antitesi alla severa immagine della
Madre di Dio dell’icona dogmatica orientale. Questo paragone attraversa in varie
occasioni la storia della cultura russa; un’esperienza simile venne provata da Dostoevskij
rispetto alla Madonna del Cardellino di Raffaello a Firenze, che egli contemplava tutte le
mattine per almeno un’ora nel periodo in cui scriveva l’Idiota, per cercare di trovare la
propria risposta attraverso paragone, in uno spirito molto russo della distinzione nel
contrasto.

Vi furono anche autori che si concentrarono sulla riscoperta dell’icona in modo più
specifico, come Pavel Muratov che nel 1915 scrisse una storia della pittura russa fino alla
metà del XVI secolo, un testo che fece riscoprire l’icona russa del Quattrocento e
157
Cinquecento; Muratov ripropone l’icona specificamente russa come elemento classico
dell’iconografia bizantina, insieme alle icone antiche della Rus’ kievana e alle icone greche.
Anche un altro critico, Nikolaj Tarabukin, scrisse un testo sulla Filosofia dell’icona nel
periodo stesso della rivoluzione, anch’egli rilanciando la natura singolare dell’icona russa.
L’autore più famoso in questo campo fu il principe Evgenij Trubetskoj, che scrisse diversi
saggi come i Tre saggi sull’icona russa e Contemplazione nel colore. A Parigi con Bulgakov
insegnò e scrisse di teologia estetica Leonid Uspenskij, il suo Significato dell’icona divenne
anche in Occidente un testo fondamentale per la riscoperta del patrimonio spirituale ed
artistico della Russia cristiana. Colleghi e discepoli dell’Accademia di S. Sergio furono
Vladimir Losskij e Pavel Evdokimov, che a loro volta ripresero in molti scritti queste
riletture dell’icona. V. Losskij è in qualche modo l’erede di Georgij Florovskij nella
proposta di una teologia russa “neopatristica”, che cerca di purificare la fede russa da ogni
elemento “spurio” per riavvicinarla alle fonti dei padri.

Queste riflessioni estetico-religiose si avvicinano molto, specie quelle di Trubetskoj, al


famoso testo di Vasilij Kandinskij, Religiosità nell’arte (1912), in russo O dukhovnom v
isskustve, di solito tradotto come “lo spirituale nell’arte”, anche se il dukhovnoe russo indica
molto di più di una spiritualità generica e richiama direttamente la religione e la teologia.
Si tratta del “manifesto” dell’arte astratta, che Kandinskij teorizzò anche in altri studi,
nonostante egli fosse un pittore e non un filosofo estetico. In esso si parte dal principio che
l’arte è strumento dello spirito, e quindi deve essere slegata dalle forme. Similmente a
Trubetskoj, Kandinskij pone il colore al centro della creazione artistica; egli sostiene che la
forma serve molto relativamente, mentre più di tutto il colore esprime lo spirito, come il
suono che vibra e viene percepito dall’anima, suscitando sentimenti profondi. Immagina
così un’intera teoria dei colori, ma anche delle figure geometriche, linee, punti, cerchi, in
una ricerca formale veramente notevole. Il testo è interessante per il suo afflato puramente
religioso, sganciato da ogni dogmatismo:

Ogni opera d’arte è figlia del suo tempo, e spesso è madre dei nostri sentimenti.
Analogamente, ogni periodo culturale esprime una sua arte, che non si ripeterà mai
più. Lo sforzo di ridar vita a principi estetici del passato può creare al massimo delle
opere d'arte che sembrano bambini nati morti. Noi non possiamo, ad esempio, avere
la sensibilità e la vita interiore degli antichi Greci. E se in scultura tentassimo di
adottare i loro principi non faremmo che produrre forme simili alle loro, ma prive di
anima. Come le imitazioni delle scimmie. Esteriormente i movimenti delle scimmie
sono perfettamente uguali a quelli dell'uomo. Una scimmia sta seduta, tiene in mano
un libro, lo sfoglia, assume un atteggiamento pensieroso, ma ai suoi movimenti
manca un senso interiore.
C'è però, necessariamente, un’altra somiglianza tra le forme artistiche. La
somiglianza delle aspirazioni interiori e degli ideali (che un tempo erano stati
158
raggiunti e poi vennero dimenticati), la somiglianza cioè fra i climi culturali di due
epoche può portare alla ripresa di forme che erano già state utilizzate in passato per
esprimere le stesse tensioni. È nata così, per certi aspetti, la nostra simpatia e la nostra
capacità di comprensione per i primitivi, che sentiamo così vicini. Come noi, questi
artisti puri miravano all’essenziale e rinunciavano ai particolari esteriori.
Ma, per quanto importante, questo è solo un punto di contatto. La nostra anima si
sta risvegliando da un lungo periodo di materialismo, e racchiude in sé i germi di
quella disperazione che nasce dalla mancanza di una fede, di uno scopo, di una meta.
Non è ancora svanito l’incubo delle concezioni materialiste, che consideravano la vita
dell'universo come un gioco perverso e senza peso. L’anima si sta svegliando, ma si
sente ancora in preda all'incubo. Intravede solo una debole luce, come un punto in
un immenso cerchio nero.

Kandinskij vuole risvegliare la coscienza dall’incubo del materialismo, ridando una


prospettiva alla sua debole luce soffocata in un immenso cerchio nero. Nei suoi studi sui
punti, evidenzia la moderata tensione dei punti verso il centro all’interno di un cerchio, e
la loro progressiva dispersione man mano che se ne allontanano; in questo egli visualizza
antiche teorie ascetiche, in cui le anime quanto più sono vicine a Dio, tanto più tendono a
unirsi tra loro, come si afferma nelle opere di S. Isacco di Ninive. Queste ricerche sono
l’ABC dell’arte astratta, a volte difficile da decifrare, nella ricerca dell’espressione
attraverso complicate geometrie e grazie alla “cromoterapia”:

Chi ha sentito parlare di cromoterapia sa che la luce può avere effetti


sull’organismo. Più volte si è tentato di adoperare la forza del colore per curare varie
malattie nervose, e si è osservato che la luce rossa ha un effetto vivificante e
stimolante anche sul cuore, mentre la luce azzurra può portare ad una paralisi
temporanea. Questi fatti dimostrano comunque che il colore ha una forza, poco
studiata ma immensa, che può influenzare il corpo umano, come organismo fisico. In
generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il
tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la
mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia
dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo
fondamento si può definire principio della necessità interiore.

Sulla base di queste riflessioni, l’arte astratta rinuncia all’imitazione della natura, per
dare libertà alle forme, ai colori e ai suoni. L’elemento astratto, secondo Kandinskij, è stato
occultato dal materialismo. Egli si attribuisce, con uno zelo tipicamente russo, il ruolo del
S. Giorgio a cavallo che guida l’apocalisse pittorica, la rivoluzione del di-svelare. Si
considera un vero missionario, attingendo i contenuti dalla tradizione religiosa e dalle
scritture.
159
Nel futurismo e nell’avanguardia russa impegnata nella fondazione dell’arte astratta sta
l’origine di tutta l’arte contemporanea. Ancora più decisivo di Kandinskij fu Kazimir
Malevič (1879-1935), fondatore intorno al 1913 del movimento suprematista, teorizzato
dapprima sul manifesto del 1915 (scritto da Malevič in collaborazione con il poeta
Majakovskij), poi nel suo saggio del 1920 Il suprematismo, ovvero il mondo della non
rappresentazione. Il Suprematismo fu presentato pubblicamente per la prima volta a
Pietrogrado nel 1915, in occasione della mostra: “Seconda esposizione futurista di quadri
0,10 (Zero-dieci)”. Malevič sosteneva che l’artista moderno doveva guardare a un'arte
finalmente liberata da fini pratici ed estetici, e lavorare soltanto assecondando una pura
sensibilità plastica. Sosteneva quindi che la pittura fino a quel momento non fosse stata
altro che la rappresentazione estetica della realtà, e che invece il fine dell’artista doveva
essere quello di ricercare un percorso che conducesse all’essenza dell'arte: all’arte fine a se
stessa. La parola “suprematismo” deriva dal pensiero dell’autore: secondo Malevič infatti
l'arte astratta sarebbe superiore a quella figurativa dato che, anche se noi in un quadro
figurativo vediamo un qualsiasi oggetto o forma vivente, sull’opera non c’è che un solo
elemento: il colore, che viene espresso in modo migliore su un dipinto astratto. La totale
essenzialità del suprematismo è simboleggiata dal famoso Quadrato nero esposto a San
Pietroburgo nel 1915, vera icona dell’arte contemporanea: il nulla che fa risaltare tutto il
resto. Sia Kandinskij che Malevič vissero e operarono principalmente in occidente;
Kandinskij prese parte al movimento della Bauhaus, Malevič appoggiò con entusiasmo la
rivoluzione, che realizzava nei fatti i suoi ideali artistici.

Alla fine di questa rapida carrellata non possiamo non ricordare l’artista supremo
dell’astrattismo, che in realtà si pone fuori da tutte le definizioni, cioè Marc Chagall (1887-
1985). Erede dell’impressionismo, dell’astrattismo, della scomposizione dei colori e di
tante suggestioni, egli amava dipingere scene del suo paese nativo, il villaggio bielorusso
di Vitebsk, ritrovando nella creatività onirica il senso delle radici e le profondità
dell’anima. I suoi sogni angelici, i cerchi e triangoli, i colori e la pioggia formano tratti di
un’intensità che a questo livello si possono paragonare solo con quelli di Picasso. Il
villaggio russo con la slitta che lo sorvola sembra rievocare la trojka di Gogol’. Nell’arte
contemporanea russa, dopo il lungo inverno sovietico (peraltro non privo di espressioni
notevoli, pur nella dogmatica impostazione social-realista), si riparte dall’ispirazione
onirica e spiritualista dell’astrattismo di inizio Novecento, in una nuova ricerca della
religiosità che, ancora una volta, ritorna alle fonti dell’anima russa.

160
L’espansione musicale dell’anima54.

In un romanzo di Dostoevskij, Il giocatore, il protagonista a un certo punto afferma di


essere "una persona degna e rispettabile, ma non riesco a propormi in modo degno e
rispettabile. Tutti i russi sono così, hanno dei doni troppo ricchi e variegati per poterli in
qualche modo esprimere in una forma degna. Qui il problema è tutto nella forma, noi russi
siamo così dotati che per una forma decente ci serve avere una genialità, ma come spesso
succede la genialità è una cosa rara; forse soltanto i francesi e qualche altro europeo
definisce così bene la forma per essere assolutamente degno e rispettabile. Per questo la
forma per loro è così importante". Per i russi la forma è sempre troppo stretta, e la musica
può testimoniare questa qualità dell’anima russa così indefinita, priva di forma perché
proprio la musica prima di essere forma è espressione dello spirito.

Prendiamo la corrente musicale russa più significativa a livello storico, il cosiddetto


"Gruppo dei Cinque" o Mogučaja Kučka (il "poderoso gruppetto"), formato da personalità
veramente cruciali per la loro capacità di incontro con la cultura occidentale, che seppero
produrre una sintesi geniale, almeno da un certo punto di vista. Come si arrivò alla
formazione di tale gruppo? Possiamo evidenziare tre momenti importanti, non solo per la
musica, ma per lo sviluppo di tutta la cultura russa, della filosofia e della poesia allo stesso
livello della musica. Anzitutto una espressione molto forte, che incarna tutta la sensibilità
e la storia russa dentro il suono, che si può anche decifrare nella melodia; in secondo
luogo, una ricerca del ritmo e armonia dove si possa riscoprire qualcosa di sostanziale
dell'anima del popolo, e infine, come capita quando si suona in una grande orchestra
internazionale, la capacità di contaminazione reciproca e l'arricchimento del confronto con
altri paesi e altre tradizioni, soprattutto degli altri paesi slavi. La musica in tutti i paesi
slavi ha un’anima comune, e soprattutto nel XIX secolo la musica russa si lascia
influenzare dai vicini. Dimostrazioni di questo vengono offerte da vari musicologi, che
ricercano nella musica russa gli influssi degli altri paesi slavi, e spesso li trovano. Per
riassumere questo percorso di arricchimento reciproco, dobbiamo ricordare che la storia
dello spirito della musica russa si fa nel recupero dell'influsso degli altri slavi orientali e
occidentali, a partire dalla musica bizantina e nel paragone con la musica europea
occidentale, ma senza perdere il nocciolo della propria identità.

Distinguiamo dunque alcuni periodi dello sviluppo della musica russa. Anzitutto il
periodo originario, di solito definito nel passaggio tra IX e XIV secolo. In realtà non
abbiamo materiale sufficiente per analizzare questo periodo prima del XII sec, anche se da
fonti letterarie sappiamo che nella chiesa di S. Il’ja già nel 945 si adoperava un materiale

54Ringrazio per questo paragrafo il prof. Petar Dufka sj, teologo e musicologo del Pontificio Istituto
Orientale di Roma, che ha esposto queste note in un incontro con gli studenti nel maggio 2010.
161
musicale per la liturgia abbastanza sviluppato. La Cronaca di Nestor narra che nel 1124
esistevano già seicento chiese che celebravano con un proprio repertorio liturgico canoro.
Altre fonti testimoniano dell'esistenza di una musica russa antica abbastanza ricca e
funzionante. In questo primo periodo il centro era Kiev, quindi Novgorod. Era una musica
che adottava un altro sistema di notazione, che non conosciamo bene in Occidente, con i
numeri segnati sotto la nota, che componevano l'armonia detta dello znamennyj raspev con
otto toni modali di origine bizantina.

Il secondo periodo ha inizio dopo il giogo tartaro, nel XV secolo, e finisce con il XVII
secolo. In esso si crea una modificazione nella melodia che si può definire come melos
russo, che affonda le sue radici della Rus’ antica con il suo tesoro melodico ritmico, e si
apre ad altri influssi internazionali. Dal XVIII al XIX secolo il sistema modale si collega allo
sviluppo della musica occidentale, ma non perdendo la tipicità del melos russo. Anche dal
punto di vista ritmico lo znamennyj raspev non definisce bene il ritmo, ma si modella sul
metro che esisteva in Occidente. Molto forte qui è l’influsso della musica francese e
italiana, e in generale delle nuove tendenze occidentali, come l'opera buffa, che si possono
chiaramente vedere in Russia in questo periodo.

Il quarto periodo comincia nella prima metà del XIX con Mikhail Glinka (1804-
1857), che esercita una decisiva influenza su tutti gli altri, soprattutto sul Gruppo dei
Cinque che fu molto vicino a Glinka. Nel XX secolo abbiamo grandissime personalità
come Stravinskij, Skrjabin, Rakhmaninov, Prokof’ev, e un genere di musica molto legata
alla musica europea.

La Mogučaja Kučka era formata da Milij Balakirev (1837-1910), Aleksandr Borodin


(1833-1887), Tsezar Kjui (1835-1918), Modest Musorgskij (1839-1881) e Nikolaj Rimskij-
Korsakov (1844-1908). Portavoce e portatore ideologico del gruppo era il critico Vladimir
Stasov (1824-1906). Il Gruppo agisce a partire dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta
del XIX secolo. Esprime una estetica ben definita, una musica russa che deve essere
chiaramente russa e anche comprensibile per tutti, ma nello stesso tempo collegata con il
livello musicale occidentale. Questa loro idea si realizza a partire da una stretta
collaborazione tra loro; il motore del gruppo era Balakirev.
Nonostante questi fosse una personalità di grande talento, e anche un lavoratore
forsennato, che aveva cominciato prestissimo a studiare la musica, la sua importanza non
si nota molto nella parte compositiva, quanto piuttosto nel lavoro organizzativo, come
portatore delle idee forti del movimento. Nato nel 1837 da famiglia povera, Balakirev si è
formato musicalmente nell’incontro con Glinka. Le sue opere non sono tante, ma sono in
un certo senso anticipatrici del periodo, molto avanti nella concezione musicale. Egli ci
offre un esempio già abbastanza riuscito di creazione di una espressione musicale
autenticamente russa, con inserimenti occidentali. Un'opera molto conosciuta e
162
anticipatrice della ricerca di tutta la Mogučaja Kučka è Tamara; vi sono poi diversi esempi di
musica "programmatica", cioè definita e riconoscibile nella parte musicale. Questo è un
tratto comune a tutti e cinque i compositori, che si concentrano soprattutto sul programma
della scrittura musicale. Un poema sinfonico molto affascinante è In Boemia, insieme a
Tamara e ad alcuni Canti popolari. A un certo punto, già in età avanzata, Balakirev smise
di scrivere e si dedicò soltanto al lavoro organizzativo. Era una persona di carattere duro,
non sempre comprensibile, molto autoritario da una parte, dall’altra capace di stimolare
gli altri, da qui il suo ruolo di motore del gruppo. Il suo influsso su Musorgskij e Borodin è
molto evidente. Personaggio non semplice, normalmente piuttosto chiuso, ma
straordinariamente comunicativo in ciò che gli stava a cuore, per un periodo fu molto
affascinato dalla religione, abbandonando addirittura la scrittura della musica per
dedicarsi alle pratiche religiose dopo la conversione. Quando compose l'opera In Boemia
era già piuttosto conosciuto in Europa; nel 1866 venne invitato a Praga da Ljudmila
Šestakova, per eseguire Una vita per lo zar di Glinka, ed ebbe l'opportunità di ricercare
motivazioni originali a Praga girando le biblioteche. nella Biblioteca Nazionale di Praga
trovò tre melodie particolari, da lui poi inserite appunto nel poema sinfonico In Boemia. Si
possono distinguere nella ouverture dell'opera le tre melodie ceche; inizialmente l'oboe
rende la melodia presa a prestito, poi altri strumenti la sviluppano. Rivela un modo molto
sviluppato di scrivere la musica, in sintonia con l’occidente; gioca con il tema principale e
lo sviluppa in diverse direzioni. Un altro esempio lo troviamo nel Re Lear, versione
musicale dell'opera di Shakespeare, la cui introduzione fu scritta con la collaborazione
della moglie di Stasov. L'autore riassume tutta la storia shakespeariana nell’ouverture, con
una mirabile scelta dei tempi musicali e una strumentazione molto elaborata per
esprimere un’idea programmatica chiara. L'opera Spagna fu composta grazie alla amicizia
con Glinka, che era sì un promotore della nazionalità russa, ma era anche molto aperto ad
altri possibili influssi. In un viaggio in Spagna Glinka aveva acquistato della musica poi
regalata a Balakirev, che conteneva una melodia orientale, influsso dei mori musulmani
che avevano a lungo dominato il sud del paese. Colpito da questi suoni strani, trovati
senza conoscerne l’origine, Balakirev e Glinka operano una paradossale riscoperta delle
radici orientali della musica, riproponendola con grande maestria. Anche qui si nota la
tecnica della ripresa di un’unica melodia in varie modifiche. In altre opere si evidenzia il
rapporto con il polacco Chopin; l'amore per la patria di Chopin affascinava Balakirev, che
nutriva un sentimento simile per la Russia, lasciandosi influenzare anche dalle forme usate
da Chopin, come le mazurke, la polonaise, i balli e la musica popolare. Balakirev diresse una
suite di Chopin contenente una serie di balli di origine germanica, una sarabanda in forma
di suite scritta da Balakirev con influsso di Chopin.

Un secondo esponente del Gruppo dei Cinque fu Aleksandr Borodin, un altro tipo
di autore, un intellettuale a tutto campo, medico e chimico senza educazione musicale
sistematica, ma che componeva musica realizzando opere straordinarie. Tutta la Mogučaja
163
Kučka lo aiutava, soprattutto Balakirev, essendo egli molto impegnato nella professione. In
medicina fu il primo a inserire donne nella professione medica. Borodin presenta un altro
tipo di composizione. La sua opera maggiore fu il Principe Igor, in cui troviamo molte
danze di caccia e sinfonie d’amore molto conosciute, con ampio uso degli archi per
esprimere un’altra estensione musicale. Borodin fu molto criticato per la scarsa qualità del
contenuto del libretto, che in effetti non vale molto; la musica peraltro riprende i temi del
libretto in modo fantastico, con una capacità di elaborazione musicale veramente di alto
livello. La storia comunque riflette le tortuosità delle vicende russe. Nel prologo il popolo
onora il principe che si prepara per la guerra contro i tartari, scruta alcuni segni nel cielo,
presagi di una brutta fine, e cerca di trattenere il principe che decide di andare alla guerra:
“voglio combattere con gli assassini della Russia!” (Idu na boj s vragom Rusi!), espresso
musicalmente in modo stupendo. Un canto corale commenta la decisione del principe.
Segue un’altra scena con l’ennesimo segno nel cielo, e la domanda angosciosa, “Che cosa
significa?”. Una serie di movimenti musicali esprimono la richiesta di benedizione prima
di partire per la battaglia. Igor infine parte, e la regina rimane da sola con il popolo, e con
un figlio che vuole godersi la vita. Jaroslava, la regina, propone di recarsi in monastero a
pregare per il principe, ma il figlio preferisce divertirsi con le ragazze. Un altro movimento
musicale esprime l’atmosfera della casa in cui si festeggia, e un coro di ubriachi inneggia al
figlio gaudente, esprimendo indifferenza per la guerra del principe. È un altro tipo di
musica, molto più complesso ed elaborato di quella di Balakirev. In un altro brano
sentiamo la nostalgia di Jaroslava, che desidera incontrare il marito che sta combattendo.
Ella è rinchiusa in una stanza e piange, ha paura dei segni celesti. Una musica pacata e
fine, dimostra questo sentimento, che poi si trasforma in angoscia e tristezza. Nell’ultima
scena della prima parte tutti percepiscono il pericolo per la vita del popolo, lo esprimono
come timore che Dio punisca la città, si ha paura che Igor sia finito in prigione.
Si passa dunque alla situazione nel campo di prigionia. Jaroslava sente intuitivamente
che Igor sta male, egli col figlio Vladimir in effetti è in prigione dal khan Končak, ma non
si trova molto male, è rispettato dal khan e dalle sue tre figlie che offrono un ballo per i
prigionieri. Si crea un legame amoroso tra Vladimir e una delle tre figlie. A un certo punto
Igor ha la possibilità di scappare, ma egli la vede come una cosa non seria, che egli non
vuole usare, una scappatoia clandestina, mentre solo la forza può dare la libertà. Il
principe non sfrutta la situazione e non esce, rifiutando questa possibilità. In un brano si
dà la dimostrazione del rapporto tra Vladimir e la figlia del khan, una splendida
costruzione musicale per esprimere il rapporto sentimentale. Capita un’altra possibilità
per Igor di scappare, quando i custodi si ubriacano, il principe questa volta scappa e
Vladimir è diviso tra il dovere di seguire il padre e rimanere con la figlia di Končak.
Decide di rimanere, Končak gli offre una possibilità e lui sposa la ragazza. Nella quarta
scena Igor torna al suo paese, e tutti si abbracciano nel lieto fine. I nemici di Igor, che
speravano non tornasse, si pentono dei loro intrighi, e tutto finisce bene. In effetti non c’è
una logica in questa narrazione, ma forse anche questo è parte della cultura russa.
164
Modest Musorgskij è un altro artista della Mogučaja Kučka, vissuto solo 42 anni. Ebbe
una vita straordinaria, la famiglia aveva ereditato una bella terra, quindi crebbe in
condizioni agiate, venne instradato alla carriera militare, anche se la sua passione era per il
pianoforte, che studiava fin da bambino. Tutte le sue opere, anche i Quadri da
un’esposizione, erano originariamente scritti per piano, e solo in seguito strumentalizzati.
Ebbe la fortuna di conoscere tanti musicisti nell’infanzia, poi la sua storia personale si
complicò notevolmente, la famiglia fu costretta al trasferimento in campagna per motivi
economici, anche se questo diede a Musorgskij l’opportunità e il tempo di scrivere la
musica. La morte della madre lasciò un segno profondo, egli divenne alcolizzato, e anche
per questo non visse a lungo. Secondo i critici Musorgskij ha anticipato molto il periodo
successivo, trovando modalità di espressione assolutamente geniali. Morì nell’ospedale
militare di San Pietroburgo accanto agli amici, e rimase famosa la sua ultima frase: “tutto è
finito, il dolore sono io”. Si rendeva conto della sua rovina, ma non è riuscito a uscirne. La
sua musica è molto toccante, l’opera fantastica Boris Godunov è il simbolo della musica
russa per eccellenza. Aveva la capacità di scrivere piccoli pezzi in modo straordinario, ma
anche grandi opere, che duravano ore, con la stessa precisione. Sapeva avvicinarsi ai
bambini, come nell’opera La camera dei ragazzi, evidenziando un’anima fanciullesca. In lui
vediamo un altro modo di esprimere un contenuto molto variegato. Nel suo famosissimo
Quadri da un’esposizione, egli compone praticamente un dipinto musicale di una mostra
artistica, come un visitatore che viene e guarda un quadro, poi si sposta su un altro e si
lascia impressionare. Questi spostamenti si chiamano promenade, forma musicale simile al
rondò, il ritorno di un motivo che fa “vedere” lo spostamento fisico. Musorgskij è la
dimostrazione della genialità che non riesce a costringersi in una forma, anche nella sua
vita . Primo quadro si intitola Gnomus, e corrisponde all’immagine di un nano malvagio
che si agita nella foresta, un personaggio di fantasia che mostra un mondo di favola, il
mondo dei bambini espresso in piccoli brani e bruschi movimenti. Poi succede un’altra
promenade, con il tema leggermente modificato. Il secondo quadro è il Vecchio Castello,
un’immagine che viene dall’Italia e contiene un mistero di amore di un tempo lontano,
avvenuto nell’antico castello, avvolto in una atmosfera cupa e misteriosa. Quindi le
Tulieres, con giochi di bambini, e un’altra promenade in nuova versione. Si sentono i bimbi
che giocano e litigano, in un contesto di grande vivacità che fa contrasto con il quadro
successivo, il Carro dei contadini, reso con una elaborazione di grande ricchezza musicale.
Altra promenade, altro quadro, i Pulcini che escono dai loro gusci, piccole creature che ballano;
quindi due ebrei polacchi che si incontrano, Kolibe e Šulibe, uno ricco e uno povero, con il
secondo che chiede soldi al primo, esprimendo musicalmente la mentalità del mendicante
e dell’altro che rifiuta l’elemosina, con la ripetizione insistente della richiesta. Il brano
permette di immaginare facilmente il dialogo e la psichica dei personaggi, il superbo e
l’umile. I Quadri terminano con la solennità delle Grandi Porte di Kiev, la musica della
Russia che contiene tutte le sue anime e contraddizioni.
165
Anche negli altri autori del Gruppo dei Cinque si evidenzia la grande versatilità del
gruppo, capace di proporre una stessa anima in diverse soluzioni musicali, come ad
esempio nell’opera famosissima Sheherazade di Rimskij-Korsakov. Anche nella musica
russa, quindi, si riproduce il dialogo tra Oriente e Occidente; un altro grande compositore
estraneo al Gruppo, Petr Čajkovskij (1840-1893), prenderà la strada dello stile musicale
occidentale. Del resto, anche negli slavofili c’è dentro di tutto, c’è una sovrapposizione di
tutto nell’estremo anelito alla sintesi dell’anima russa.

166
APPENDICE.

L’ideale della bellezza femminile nella letteratura classica russa. (V. V. Filippovskaja)55

"La bellezza salverà il mondo", queste parole vengono ripetute abbastanza spesso
negli ultimi tempi. A pronunciare queste parole per la prima volta è il più ispirato degli
eroi di F. Dostoevskij, il principe Myškin nel romanzo L'Idiota, parlando della bellezza
femminile.

E dunque come appare questo ideale di bellezza femminile, espresso dalla letteratura
classica russa?

Ma su sé non attirava
Sguardi, come la sorella,
Per bellezza o esuberanza.
Schiva, triste, cheta, timida
Quale cerva alla foresta...56

Questo è “il caro ideale di Tatjana”, la protagonista preferita di Aleksandr Puškin. Nel
romanzo in versi Evgenij Onegin, per sottolineare quanto a lui una tale immagine di donna
fosse a lui cara e vicina, dove la bellezza consiste non nelle attrazioni esteriori, bensì nella
ricchezza e nella profondità del mondo interiore, Puškin paragona la “simpatica Tatjana”
con la sorella Olga:

Occhi azzurri come il cielo,


E il sorriso, e i biondi riccioli,...
C’è di certo il suo ritratto:
Uno schianto – anch’io l’ho amato,
Ma perdio se m’ha stufato... 57

Oppure con una fantastica bellezza mondana:

...siede a tavola
Con la splendida Voronskaja,
La Cleopatra della Neva;
E con me concorderete
Che, benché così abbagliante
Di marmorea bellezza,

55 Per la riflessione di questa Appendice ringrazio calorosamente l’autrice, Valentina Filippovskaja,


insegnante di letteratura russa nella città di Vladimir in Russia.
56 PUŠKIN A., Eugenio Onegin, a cura di Fiornando GABBRIELLI, Capitolo 2, XXV, p.49.
57 Ibid., p. 48.

167
Non potrebbe, la regina,
Oscurar la sua vicina58.

Così Puškin si compiace sempre della sua Tatjana, ella è sempre bellissima e infinitamente
gradita al cuore del poeta, anche quando è una “signorina di provincia”:

Con lo sguardo malinconico


E un romanzo fra le mani59.

oppure quando diventa signora di un salotto alla moda della capitale:

Lei cammina lentamente,


Non è fredda, né ciarliera,
Non dispensa occhiate a tutti,
Né ha pretesa di far colpo...
In lei tutto è calmo, semplice60.

Questa è la Tatjana di Puškin. Egli fu uno dei primi a esprimere nella letteratura russa un
modello di autentica bellezza femminile, di bellezza spirituale, bellezza di una donna
capace dei più nobili e profondi sentimenti. Tatjana amava Onegin con tutta se stessa, ma
preferiva sacrificare la propria felicità che tradire, non era capace di tradire il proprio
marito:

V’amo, non lo negherò,


Ma m’han data a un altro, e sempre
Io fedele a lui sarò61.

Proprio in queste parole, pronunciate da Tatjana nel finale del romanzo, si svela fino in
fondo un'immagine femminile veramente bellissima, creata dal grande poeta russo.

L'altro grande artista russo della parola, I. S. Turgenev, creò un'intera galleria di
immagini femminili, tanto da dare vita allo stereotipo russo della "ragazza di Turgenev".
Una di queste ragazze è la protagonista del romanzo Un nido di nobili, Liza Kalitina. Anche
qui, come nella Tatjana di Puškin, Liza si impone non tanto per la bellezza smagliante, non
per il fulgore, ma per la profondità del carattere, la serietà, la religiosità. Anche Turgenev
ricorre spesso ai confronti. Egli paragona e contrappone la bellezza di Liza alla bellezza

58 Ibid., p. 180.
59 Ibid., p. 175.
60 Ibid., p. 179.
61 Ibid., p. 198.

168
formosa ed evidente di Varvara Pavlovna, la moglie di Lavretskij, protagonista del
romanzo.

Così Turgenev descrive Liza: "Il viso fresco e pallido, gli occhi e le labbra così serie,
e lo sguardo onesto e innocente ... Si muove con tale leggerezza, e la voce è quieta ...
Ascolta con attenzione, senza sorridere". Inoltre, Turgenev sottolinea, come Puškin con la
sua Tatjana, la fedeltà di Liza alle sue origini nazionali: "ella si trovava a suo agio con i
russi; la rallegrava la disposizione d'animo dei russi; ella si intratteneva senza formalismi
per ore con il sovrintendente dei terreni materni ... e parlava con lui da pari a pari, senza
alcuna padronale alterigia".

Ecco invece la descrizione della superficiale, bugiarda e artificiosa Varvara


Pavlovna: “la giovinezza giocava con ogni tratto del suo viso scuro, tondo e accattivante,
l'intelletto sveglio si rifletteva nei bellissimi occhi ... nella facile ironia delle labbra
espressive, in tutto il suo corpo seducente spirava un’indefinibile attrazione, una voluttà,
un qualcosa che è difficile descrivere a parole, ma che toccava ed eccitava, naturalmente
non i sentimenti più discreti”. La bellezza vistosa e tentatrice di Varvara Pavlovna è un
antidoto alla bellezza di Liza Kalitina, nell'immagine della quale l'autore sottolinea non la
bellezza, ma piuttosto la purezza, la spiritualità, la profondità di carattere. Solo
nell'incontro con Liza, Lavretskij scopre in sé la capacità di provare un forte e purificante
sentimento amoroso, la possibilità di raggiungere la bellezza del mondo divino: "una
ragazza pura - disse egli a mezza voce - delle pure stelle".

“Frusciando leggermente con la sua roba bianca da ballo, guarnita di peluche e di


duvet, e scintillando col biancore delle spalle, col fulgore dei capelli e dei brillanti, passò
fra gli uomini che le facevano largo”62. “In lei tutto si illuminava di quel costante sorriso
così pieno di gioia di vivere, così contento di sé, così fresco e giovane, e dalla statuaria,
eccezionale bellezza del corpo”63. In questa posa da divinità antica, bella e marmorea, L.
N. Tolstoj descrive nel romanzo Guerra e Pace la sua protagonista non certo preferita, la
dissipata, sciocca, vuota e altezzosa bambola Helen. “Helen era così bella..., sembrava
quasi che si vergognasse di quella bellezza inoppugnabile che irraggiava da lei in maniera
troppo clamorosa e trionfante”64.

E se Helen era di una bellezza vittoriosa, nella sua protagonista preferita, Nataša
Rostova, Tolstoj sottolinea al contrario che essa si impone non per l'aspetto esteriore, ma
per il suo contenuto interiore, per il fatto di incarnare in sè tutta la pienezza della vita: la
sua natura, la generosità, la passionalità, la curiosità, l'impetuosità anzitutto, la bellezza
dell'anima e la bontà, e l'inusuale sincerità. Ecco come incontriamo Nataša per la prima

62 TOLSTOJ L., Guerra e Pace, vol. 1, parte I, cap. 3.


63 Ibidem.
64 Ibidem.

169
volta, da ragazza: “La ragazzina, con occhi neri e una bocca troppo grande, non era bella
ma era piena di vita”65. Ed ecco come la vide la prima volta il principe Andrej: “In testa a
tutte, più vicina alla carrozza, correva una ragazza nera d'occhi e di capelli molto snella, di
una snellezza strana; vestiva un abito giallo di cotonina ... La ragazza stava gridando
qualcosa, ma, accortasi dell'estraneo, corse indietro ridendo senza fermarsi a guardarlo”66.

Non con la bellezza e il portamento si impone Nataša, bensì con la capacità di gioire
della vita, di essere felice, di tuffarsi completamente nel flusso della vita, donandosi ai
familiari e ai vicini. Proprio questa forza d'amore, di semplicità, di insolita flessibilità e
sensibilità d'animo si può sentire nella voce di Nataša: “Nella sua voce c'era una
freschezza intatta e verginale, una inconsapevolezza delle proprie forze, una morbidezza
vellutata e ancora incolta, così fusi con le manchevolezze della sua tecnica canora, che
pareva non si potesse mutare alcunché in quella voce senza sciuparla”67. E nei momenti
più tragici della sua esistenza, quando Nataša si trova al capezzale del morente principe
Andrej, ella è bellissima nella sua mancanza di bellezza: “Il viso magro e pallido di Nataša,
con le labbra gonfie, era peggio che brutto, era orribile. Ma il principe Andrej non lo
vedeva; vedeva quegli occhi raggianti, che erano meravigliosi”68.
E così poi Nataša si mostra nelle vesti di donna, moglie, madre, la cui immagine ha
turbato e deluso più di una generazione di studenti delle classi superiori nelle scuole
russe. “Si era fatta florida e piena tanto che era difficile riconoscere in quella madre
robusta l'esile e irrequieta Nataša di un tempo. I lineamenti della faccia si erano definiti e
avevano un'espressione di tranquilla dolcezza e limpidezza. Sul suo volto non c'era più,
come una volta, quella fiamma di animazione che ardeva senza posa e che costituiva il suo
fascino... Si vedeva unicamente una femmina forte, bella e feconda”69.
Proprio in una donna simile Tolstoj vide la caparra di una vita felice e piena, la
garanzia dell'unione tra due persone che si amano, poiché queste persone si donano l'un
l'altra senza riserve. «Sentiva che quei mezzi di seduzione che l'istinto le aveva insegnato
ad usare prima, ora sarebbero risultati solo ridicoli agli occhi del marito a cui si era data
tutta sin dal primo momento, cioè con tutta l'anima, senza tenere per sé un solo cantuccio.
Sentiva che il legame con lui non si basava... su qualcosa d'altro, di non definibile, ma
forte, come il legame della sua anima con il corpo”70.

Dunque l'ideale del grande scrittore russo L. Tolstoj non è quello della bellezza
marmorea e invincibile, ma della donna bella spiritualmente, sincera in tutte le sue
aspirazioni e capace di donarsi fino in fondo alle persone che ama.

65 TOLSTOJ L., Guerra e Pace, vol. 1, parte I, cap. 8.


66 TOLSTOJ L., Guerra e Pace, vol. 2, parte III, cap. 2.
67 TOLSTOJ L., Guerra e Pace, vol. 2, parte I, cap. 15.
68 TOLSTOJ L., Guerra e Pace, vol. 3, parte III, cap. 32.
69 TOLSTOJ L., Guerra e Pace, Epilogo, parte I, cap. 10.
70 Ibidem.

170
Nell'altro sommo scrittore russo, F. M. Dostoevskij, la bellezza femminile e le belle
donne agitano passioni tormentate, che producono immani tragedie. Questo è evidente
soprattutto nei romanzi L'Idiota e I Fratelli Karamazov. Come si presentano queste bellezze
fatali, Nastasja Filippovna e Grušenka? Possiedono quella bellezza trionfante, vittoriosa su
ogni cosa, incolpevole?
Sì, in effetti la bellezza di Nastasja Filippovna impressiona, colpisce
l'immaginazione, è una bellezza "fantastica" e "demoniaca", ma allo stesso tempo non
soltanto la bellezza colpisce nel volto di Nastasja Filippovna: “il principe... s'avvicino’ alla
finestra ... e prese ad osservare il ritratto di Nastasja Filippovna. Incerto qual modo
avrebbe voluto decifrare qualcosa che si nascondeva in quel viso e che l'aveva colpito poco
prima ... Quel viso, straordinario per la bellezza e per qualcos'altro ancora, ora destava in
lui un'impressione ancora maggiore. In quel viso parevano esserci uno smisurato orgoglio
e un disprezzo che sconfinava nell'odio, e nello stesso tempo c'era un che di fiducioso, di
meravigliosamente ingenuo; queste due caratteristiche contrastanti suscitavano quasi un
senso di compassione in chi guardava quei lineamenti. Quell'abbagliante bellezza era
quasi insopportabile, la bellezza del viso pallido, delle guance quasi infossate e degli occhi
ardenti, una strana bellezza”71.

Non è dunque una bellezza trionfante e vittoriosa, ma particolare, e concentrandosi


sul quel volto il principe Myškin conclude: "In questo viso... c'è molta sofferenza". Sul
volto straordinariamente bello di Nastasja Filippovna è impresso il sigillo della sofferenza,
e non solo della sofferenza, ma anche dell'offesa. Nastasja Filippovna è la vergine offesa,
una bellezza umiliata, in cui la dignità della persona è umiliata e oppressa dal sentimento
di offesa. Secondo una osservazione di G. S. Pomerants, uno dei più interessanti studiosi
dell'opera di Dostoevskij, “nei tratti, ... negli occhi, capaci di produrre in Myškin una tale
impressione, vive un'anima che ha preso in se stessa qualcosa della bellezza divina, e della
divina sofferenza”. E così la bellezza colpisce l'immaginazione e sconvolge; la bellezza
capace di salvare il mondo porta in sè non il segno del trionfo e della vittoria, ma della
sofferenza.

E com’è quella bellezza capace di far uscire di testa quel vecchio pervertito e
molestatore di Fedor Pavlovic Karamazov, e allo stesso tempo capace di elevare ai vertici
di un amore puro e appassionato il disorientato Dmitrij Fedorovič Karamazov? “Eccola,
quella donna terribile, la “belva” ... eppure ... sembrava di primo acchito la più comune e
la più semplice delle creature — una donna buona, cara, bella se vogliamo, ma molto
simile a tutte le altre donne belle e “comuni”72. “Certo era bella, notevolmente bella, di
quella bellezza russa che tanti uomini amano fino alla frenesia ... Era bianchissima in viso,
con una delicata sfumatura rosa sugli zigomi. Il suo ovale, forse, era un po' troppo largo e

71 DOSTOEVSKIJ F., L’Idiota, parte I, cap. 7.


72 DOSTOEVSKIJ F., I fratelli Karamazov, Parte I, Libro III, Capitolo X, Biblioteca Economica Newton, pp.163-164.
171
la mascella inferiore sporgeva di un'inezia. Il labbro di sopra era sottile, mentre quello
inferiore, leggermente prominente, era due volte più carnoso, quasi gonfio. Ma i
meravigliosi, abbondantissimi capelli biondo cupo, le sopracciglia scure e vellutate, e gli
splendidi occhi grigio azzurro, incorniciati da lunghe ciglia, avrebbero senza dubbio
costretto anche il più indifferente e distratto degli uomini - per quanto in mezzo alla
gente, a passeggio, nella ressa – a fermarsi di colpo davanti a quel volto per trattenerlo a
lungo nella memoria”. (p. 164). Sembra di avere finalmente raggiunto il trionfo definitivo
della bellezza, ma più avanti Dostoevskij aggiunge: «i conoscitori della bellezza femminile
russa avrebbero potuto predire senza errore, guardando Grušenka, che quella fresca e
ancora giovane bellezza verso i trent'anni avrebbe perso la sua armonia, sformandosi; che
il volto sarebbe appassito, piccole rughe sarebbero apparse con straordinaria rapidità
intorno agli occhi e sulla fronte, il colorito avrebbe perso la sua delicatezza, e forse si
sarebbe arrossato: in breve, la sua era quella bellezza effimera, fugace, che si incontra così
spesso proprio nella donna russa.» (p. 164). Così anche Grušenka possiede una bellezza
non di statua marmorea, non di antica divinità, ma di un fiore che oggi è magnifico, ma
domani è già appassito.

Non vale la pena di toccare le opere del periodo del periodo della decadenza e in
particolare l'opera dei simbolisti, perché la loro visione artistica, come ad esempio
l'immagine della bellissima dama di Blok, si formò sotto l'influenza diretta della filosofia
di Vladimir Solov'ev, che costituisce un grande tema a parte. È opportuno rivolgersi ai due
maggiori romanzi della letteratura russa del XX secolo, Il Maestro e Margherita di Mikhail
Bulgakov e il Dottor Živago di Boris Pasternak.

La protagonista del romanzo di Bulgakov, Margherita, è una regina, una "regina


nera" al ballo di satana, ma ella è anche il simbolo dell'eterna femminilità, che era stata
decantata dal coro mistico del finale del Faust di Goethe:

Ciò che trapassa e muore -


Altro non è che simbolo e follia;
Del celeste, immortale
Soggiorno a chi men vale
Pentimento e dolor schiude la via;
L'inesplicabile
Compiuto fu;
L'inenarrabile...
La parte femmina eterna
Ci trae lassù.

“Dallo specchio una donna di circa vent'anni, coi capelli neri naturalmente ricciuti
... guardava la trentenne Margherita” “ ... le sopracciglia ... si erano infoltite e s'inarcavano
172
nere e perfette sugli occhi divenuti verdi ..., la pelle delle guance s'era colorita di un
incarnato uniforme, la fronte era diventata bianca e pura”73. Così si è trasformata
Margherita sotto l'effetto taumaturgico della magica crema di Azasello. Sotto questo
effetto ella ha perso la propria natura, e l'ha sostituita con un'altra, è diventata una strega e
una regina. Ma al primo incontro del Maestro con la nuova Margherita, “lo colpì non tanto
la sua bellezza quanto la straordinaria, indicibile solitudine nei suoi occhi!”74.
Dopo l'incontro con il Maestro la solitudine scompare e giunge l'amore, e con
l'amore appare il timore, la preoccupazione per la persona più cara e più vicina, così
vulnerabile in questo mondo crudele: “La mia compagna era molto mutata ... era
dimagrita e impallidita, aveva smesso di ridere ...”75. E Azasello nell'incontro con
Margherita le dice: “Lei è discretamente invecchiata per il dolore in questi ultimi sei
mesi”76.
Come vediamo, anche in Bulgakov la bellezza di Margherita porta il segno della
tristezza e della precarietà: dapprima per la solitudine accanto a un marito non amato, e
poi per la preoccupazione per l'uomo immensamente amato, il Maestro. Ella è
l'incarnazione dell'autentica femminilità, non può non amare e non preoccuparsi, e
neanche il fascino malvagio ed estraneo è in grado di sradicare da lei la capacità di amare,
di essere buona e misericordiosa. Infatti quando ella cerca di vendicare il Maestro,
mettendo tutto a soqquadro nella casa di Latunskij, vedendo alla finestra più lontana della
casa un piccolo ragazzino spaventato nel suo letto, ella interrompe la selvaggia
distruzione. E soltanto Margherita mostra comprensione all'infelice Frida, non Woland. La
Misericordia non ha posto nel mondo del male, essa sconvolge il suo signore: “parlo della
misericordia, - si spiegò Woland, - talvolta del tutto inaspettatamente e a tradimento essa
s'infiltra nelle più anguste fessure”77.
Nonostante il Maestro e l'amata Margherita passino attraverso le più mostruose e
sataniche circostanze della vita, ella non è una strega malvagia, non è una nera regina, ma
una donna amante, sofferente, buona e compassionevole, e tutto questo si riflette sul suo
bellissimo viso, rendendola ancora più bella. Solo in quelle terribili circostanze, in quella
opprimente atmosfera autoritaria e priva di libertà, nella quale sono finiti i protagonisti del
romanzo, Margherita è capace di qualunque sacrificio per la salvezza dell'uomo amato,
perfino un sacrificio terribile come l'unione col male, ma in questo non viene infettata dal
male, rimanendo sempre bellissima, saggia, ma sofferente.

E se gli eventi nel romanzo di Bulgakov cominciano e si svolgono, secondo alcuni


critici, nella Russia sovietica del 1929, nello stesso anno della "grande crisi" muore il

73 BULGAKOV M., Il Maestro e Margherita, Cap. XX, Garzanti 2008, p.247.


74 BULGAKOV M., Il Maestro e Margherita, Cap. XIII, Garzanti 2008, p.147.
75 BULGAKOV M., Il Maestro e Margherita, Cap. XIII, Garzanti 2008, p.155.
76 BULGAKOV M., Il Maestro e Margherita, Cap. XIX, Garzanti 2008, p.244.
77 BULGAKOV M., Il Maestro e Margherita, Cap. XXIV, Garzanti 2008, p.304.

173
protagonista del romanzo di B. Pasternak Il Dottor Živago, cioè appunto Jurij Živago.
Pasternak scrisse: "per noi russi è sempre stato più semplice sopportare e rigettare il giogo
tartaro, fare la guerra e ammalarsi di lebbra, che non vivere". Il giogo sovietico invece fu
rigettato da Pasternak nel suo romanzo; infatti il Dottor Živago affermava il diritto
dell'uomo alla piena libertà, cantava il principio creativo nell'uomo, rifiutava ogni specie
di totalitarismo e di uniformità di pensiero.

Lara, la protagonista principale del romanzo, secondo molti critici è l'immagine stessa
della Russia, ed è proprio così, quando l'autore parla del suo destino, della sua purezza e
perfezione originaria: “aveva un'intelligenza limpida, un carattere mite. Ed era molto
graziosa ... Lara era l'essere più puro al mondo”78. Ed ecco che questo essere così puro
viene distrutto, scalzato dal suo cammino, tentato, ridotto in schiavitù (quanto ricorda il
destino della Russia!). Ancora quasi bambina, ella conosce l'oppressione dell’oltraggio e
della prigionia: “diveniva sempre più schiava di un incubo dei sensi”. E in quello che
afferma il marito Antipov è evidente la coincidenza del destino di Larisa col destini della
Russia: “era una ragazza, una bambina, ma nel suo viso, nei suoi occhi già si leggeva un
pensiero ansioso, l'inquietudine del secolo. Tutti i motivi dell'epoca, le sue lacrime e le sue
offese, i suoi impulsi, la sua sete di vendetta accumulata da tempo e il suo orgoglio erano
scritti nel volto e nel portamento di lei, in quella sua mescolanza di timidezza verginale e
di grazia ardita. L'accusa al secolo si poteva rivolgere in nome di lei”79. La stessa Lara
afferma di sè: “Sono incrinata, ho una crepa per tutta la vita”. In effetti questa frattura è
evidente nell'immagine della Russia fino ad oggi.

Ma Larisa non è certo simbolo soltanto della Russia. Ella possiede una saggezza e
una preveggenza speciale. Molti personaggi del romanzo si rallegrano ingenuamente degli
eventi rivoluzionari del 1917 e della presa del potere da parte dei bolscevichi. "Ed ecco che
fra tutti coloro che sono in preda alla gioia, ho incontrato il vostro sguardo stranamente
infelice", ricorda Jurij Živago. Questa saggezza e preveggenza di Lara è la saggezza della
vita stessa, poiché Lara è il simbolo della vita, simbolo del trionfo dell'essere, ella stessa è
corona di una creazione fatta per la felicità e per l'armonia. Questo esclama, rendendosene
conto, Jurij Živago: “Come è dolce essere al mondo e amare la vita! Si vorrebbe dire grazie
alla vita per quello che è, dirglielo direttamente! Ecco, questo è Lara. Con queste cose non
è possibile comunicare: ma lei è loro simbolo, la loro espressione, il dono dell'udito e della
parola dato agli elementi muti dell'esistenza”80.

Lara è la vita stessa, che non si sottomette ad alcuno schema, a nessuna condizione,
tanto da far dire alla moglie di Živago, Antonina: «Io sono venuta al mondo per
semplificare la vita e cercare il giusto cammino, lei (Lara) per complicare la vita e far

78 PASTERNAK B., Il Dottor Živago, Parte I, Feltrinelli 2010, p.26.


79 PASTERNAK B., Il Dottor Živago, Parte II, Feltrinelli 2010, p.371.
80 PASTERNAK B., Il Dottor Živago, Parte II, Feltrinelli 2010, p.318.

174
sbagliare strada». In effetti Lara è complicata e imprevedibile, come lo è la stessa vita, che
si sottomette soltanto al potere del Creatore. E il senso dell'esistenza “si rivelava (a Lara).
Era lì per cercare di capire la frenetica bellezza del mondo, per dare un nome alle cose”.
Per Jurij Živago l'immagine di Larisa è legata inscindibilmente a Dio, al Creatore, alla fonte
primigenia della vita e dell'armonia: “Come era bella!.. Era quella linea inimitabilmente
semplice e netta, con cui in unico tratto, dall'alto al basso, l'aveva tracciata il creatore, e con
quel divino disegno l'aveva consegnata alla sua anima”81. Attraverso Larisa, il
protagonista partecipa alla pienezza divina e alla gioia di vivere perfino in circostanze
tragiche come quelle in cui si trovano i protagonisti del romanzo e la loro patria, la Russia:
«Lara!» - mormorava, chiudendo gli occhi e rivolgendosi mentalmente alla propria vita, a
tutta la terra di Dio, allo spazio illuminato dal sole che gli si apriva alla vista.» «Signore!
Signore! ... E tutto questo a me? Perché mi è dato tanto? Come mi hai lasciato venire a te,
concedendomi di camminare su questa terra impareggiabile, sotto queste tue stelle,
accanto a questa creatura avventata, senza rimpianti, sfortunata, adorata?»82. È un vero
inno al Creatore, alla sua creatura, all'amore e alla donna amata!

Dunque Lara è la Russia, la vita, l'amore. E come appare esternamente, questa


“donna, bella senza ricercatezza”?A questa titolare di una “grazia di bianco cigno” non
interessa piacere, essere attraente, legare a sè, ella disprezza questo lato dell'essenza
femminile, quasi volesse punirsi per la sua bellezza. Ella è meravigliosa nella sua
semplicità, nella naturalezza, nella mancanza di tentativi di apparire più bella, “arruffata,
con le maniche rimboccate e i lembi della gonna appuntati sui fianchi, intimidiva quasi,
toglieva il respiro con la sua regale bellezza, ancora più evidente che se Jurij Andreevič
l'avesse sorpresa abbigliata per un ballo”83. Ecco dunque questa donna bellissima senza
appariscenza, che incarna in sè la bellezza della vita donata agli uomini dal Creatore, che
condivide il destini tragico di milioni di figlie e figli della Russia: “Un giorno Larisa
Fedorovna uscì di casa e non ritornò più. Evidentemente fu arrestata per strada. E morì o
scomparve chissà dove, numero senza nome di qualche irrintracciabile elenco, in uno degli
innumerevoli campi di concentramento comuni, o femminili, del Nord”84. Questo è il
destino della Russia: incarnare il trionfo della vita e della libertà, per finire agli arresti. La
“grazia di bianco cigno”, i tratti divini, la predestinazione, il “dare un nome alle cose”, e
un numero anonimo in uno degli innumerevoli campi di concentramento.

Il risultato di questa disgregazione della Russia, di questa distruzione della natura


della vita e del destino dei suoi figli e delle sue figlie (proprio a questo periodo si addicono
più di tutto le parole di A. Blok: "Noi siamo figli degli anni terribili della Russia"), nella
Russia sovietica sulle vie della guerra il lettore lo incontra nel frutto dell'amore di Jurij

81 PASTERNAK B., Il Dottor Živago, Parte II, Feltrinelli 2010, p.299.


82 PASTERNAK B., Il Dottor Živago, Parte II, Feltrinelli 2010, p.352-353.
83 PASTERNAK B., Il Dottor Živago, Parte II, Feltrinelli 2010, p.329.
84 PASTERNAK B., Il Dottor Živago, Parte II, Feltrinelli 2010, p.404.

175
Živago e Larisa, Tanja Bezočeredovaja, una ragazza delle pulizie. È il nome che la strada
ha assegnato a questa ragazzina abbandonata, volgare e poco sviluppata, a cui la strada
stessa ha impresso un’educazione triviale, dopo che la tremenda realtà della Russia
bolscevica le ha tolto i genitori e l'infanzia. Tanja non è bella, è primitiva e rozza, e soltanto
quando sorride “per un istante non si notano più il naso camuso, gli zigomi angolosi;
diventa attraente, carina”. Così “quello che era stato concepito in modo nobile e alto, è
diventato rozza materia”, come la stessa realtà russa era divenuta rozza e materiale.

Questa rassegna, questo corteo di bellezze create dall'immaginazione creativa dei


grandi scrittori russi: Tatjana Larina, Liza Kalitina, Nataša Rostova, Nastasja Filippovna,
Grušenka, Margherita, Larisa, è composto da donne che si distinguono anzitutto per la
bellezza spirituale, che trasforma in meravigliosi anche i tratti esteriori talvolta imperfetti
dal punto di vista estetico, come può essere la bocca larga o l'eccessiva magrezza della
giovane Natasha Rostova, i tratti troppo marcati del viso di Grušenka o l'insignificanza
esteriore di Tatjana Larina.

La bellezza della donna russa è particolarmente fragile e transeunte. Essa viene


presto cancellata dagli anni, si rovina come la bellezza di Grušenka o di Margherita. E
qualora si tratti di una bellezza chiara, sconvolgente ed efficace, allora su di essa si stende
un sigillo di sofferenza, un segno del destino. Questo avviene a Nastasja Filippovna, a
Margherita e a Larisa.

Quale è il motivo che unisce tanti autori così diversi nella creazione di un unico
ideale di bellezza russa?

A nostro parere, l'ideale della bellezza si forma nell'uomo russo sullo sfondo della
natura russa, che colpisce senza affascinare. Le stagioni dell'anno si succedono molto in
fretta; l'inverno russo è rigido, ma anche splendido con le sue nevi e i suoi ghiacci, ed è
molto caro al cuore dell'uomo russo:

Tatiana (russa nell’anima,


Neanche lei lo sa perché)
Per la sua bellezza algida
L’inverno russo amava85.

Ma la bellezza dell'inverno in un certo senso si sacrifica per far fiorire la primavera,


muore e se ne va in ruscelli ai primi raggi del sole primaverile. La primavera passa
velocemente, e sopraggiunge l'estate russa, che assomiglia piuttosto a un inverno del sud,
ed è anch'essa assai breve. Al posto dell'inverno arriva il turno, anch'esso di breve durata,
del meraviglioso autunno dorato. Tutto nella natura russa è transitorio e destinato al

85 PUŠKIN A., Eugenio Onegin, a cura di Fiornando GABBRIELLI, Capitolo 5, p.104.


176
sacrificio, anche se infinitamente piacevole per l'anima russa. La non appariscenza, la
precarietà, il fascino e la severità della natura hanno formato l'ideale della bellezza, il
concetto del bello autentico:

Amo il ricco appassimento della natura


Essa mi piace,
Come (penso) a voi una tisica fanciulla
Talvolta può piacere. È destinata a morire ...86

Questo ideale di bellezza, questo canone della bellezza femminile, noi lo vediamo
negli scrittori russi, così diversi nelle loro visioni del mondo, nei loro stilemi letterari, di
epoche diverse. Osserviamo un ideale di bellezza non imponente, non tentatore, non
trionfante e vittorioso, ma piuttosto una bellezza capace di riflettere la spiritualità, di
suscitare sentimenti e portare in sè il segno della femminilità. Evidentemente per questo è
così cara l'immagine della Madre di Dio, l'icona della Madre di Dio, non della Regina del
cielo, non della Vergine, ma proprio della Madre di Dio, che si concede al sacrificio più
grande. E per questo in Russia l'immagine di Maria come madre che accarezza Cristo
fanciullo, con la sua profonda umanità, con una infinita tristezza nello sguardo, è
particolarmente vicina all'anima russa.

Per questo sono apparse nella letteratura russa le immagini di Tatjana Larina e
Natasha Rostova, Liza Kalitina e Grušenka, Nastasja Filippovna, Margherita e Larisa,
donne bellissime anzitutto per il fatto di essere capaci di sacrificare la propria felicità, la
bellezza esteriore, la propria anima e la stessa vita per la felicità e la vita delle persone a
loro vicine.

86 PUŠKIN A., L’autunno, VII.


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