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FORME DELL’ESPRESSIONE

INTRODUZIONE
Partire, viaggiare, migrare - Il racconto della letteratura
[Immagini di statue, slides] Il tema centrale del corso è il viaggio ed il migrare. Simbolo esemplare di questo
tema è Ulisse, il personaggio curioso per antonomasia, protagonista dell’Odissea e del XXVI canto
dell’inferno dantesco. Ulisse si impone come l’eroe che non sa stare fermo e che, anche quando sta fermo
fisicamente, viaggia con la mente. La figura di Ulisse è stata approfondita da tantissimi autori perché è una
figura che affascina in quanto è il simbolo dell’uomo che vuole scoprire la realtà che lo circonda.
Anche Mose è il simbolo dell’uomo che ha un compito, il quale lo porta a vagare: egli deve portare il suo
popolo al di fuori dell’Egitto e alla ricerca della terra promessa. Per questo anche lui è diventato un uomo
che viaggia, che scopre e che è sempre in balia di varie difficoltà: ma, a differenza di Ulisse, lo è diventato in
quanto costretto da cause terze.

Noi affronteremo il viaggio sia quando è voluto e ricercato, sia quando è necessario e si svolge per motivi
“negativi”. Infatti, sono diverse le ragioni che portano l’uomo ad andare in viaggio: ci sono i motivi
personali, lavorativi, di amicizia (quando l’uomo è spinto dal desiderio); o motivi involontari, improvvisi,
come la guerra (quando l’uomo è costretto). Ma ciò che accomuna tutti i viaggi, indipendentemente dalle
cause che ne danno inizio, è il fatto che si va verso l’ignoto in quanto non si sa cosa si raggiunge.

Coordinate propedeutiche sulla letteratura


• Metodo: ci vuole un metodo/esodo/strada per leggere i libri
• Ragione: affinché ci sia un metodo, serve anche una ragione
• Scopo: qual è lo scopo, il fine

Per affrontare un testo, serve un metodo, una ragione e uno scopo. Il testo è fatto di tante parole: esso è
tutto il nostro bene (Cesare Segre), in quanto attraverso queste parole arriviamo alla verità. Qualcuno
prima di noi ce l’ha messo davanti ed esso deve essere interpretato, ripulito dalle correzioni (la sua
comprensione non è semplice né immediata): di questo si occupa il filologo, che svolge proprio il compito di
consegnarci un testo pulito.
Il primo step, dunque, è ricercare la centralità del testo, il suo fulcro: si tratta di un’indicazione
metodologica (metodo, ragione e scopo appartengono a questa macrocategoria); ma al tempo stesso di
una motivazione deontologica, perché bisogna capire la morale del testo: un autore scrive di ciò che vede,
osserva e sente.

La persona
Alessandro Manzoni, all’interno del testo “Materiali estetici” (1818-1819), affermò: “Allora le belle lettere
saranno trattate a proposito quando le si riguarderanno come un ramo delle scienze morali”. Ovvero disse
che la letteratura è uno strumento che ci permette di conoscere e capire la morale, la verità, la realtà. Ogni
disciplina è nobile, ma la letteratura ha questo grande potere e compito. Quelli della letteratura sono tutti
studi che richiamano la persona perché riguardano l’uomo.

Il filosofo Marsilio Ficino, invece, disse: ‘Litteris servabitur orbis’, cioè il mondo sarà salvato dalle lettere—>
con questa frase, l’autore vuole dire che la parola ha un grande potere perché veicola delle verità e ci dice
come è la realtà.

Perché dobbiamo, dunque, leggere i classici? Italo Calvino affermò che è necessario leggere i classici perché
non finiscono mai di dirci qualcosa e rimangono sempre attuali (non tutti i testi sono classici).

La parola
Il testo è fatto da tante parole, che insieme costruiscono un senso, e la parola stessa indica:
• La facoltà della parola
• Il discorso articolato: sa parlare chi si fa capire.
• La parola come segmento dotato di significato, come vocabolo: la parola non è mai messa a caso
all’interno della sintassi perché le parole impiegate sono collegate ed il loro compito è quello di
trasmettere una verità (un senso).

Aristotele sulla parola disse:


“Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la
parola: la voce indica quel che è doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali, ma la
parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e
l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la
percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori”. (Politica 1253)
Ovvero egli sostenne che il suono/la voce dice ed esprime qualcosa, si fa capire, ma che è la parola ad
essere usata per dire tutto (il male, il bene, la sofferenza,…). Quindi la parola è uno strumento necessario
per farsi capire e costruire qualcosa: per questo motivo, la parola è definibile come l’architettura del
pensiero.

Anche nella Bibbia viene sottolineata l’importanza della parola, come qualcosa che viene prima di tutto –
Dio viene identificato con il verbo, una parola che, poi, diventa carne e che dona tutto –, viene prima
dell’esistenza umana (potremmo quasi dire anche prima della nostra stessa nascita= i genitori scelgono il
nome del nascituro prima della sua nascita):
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano
l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. (Genesi 1, 1-3)

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era
la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno
accolta. [...] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
(Vangelo secondo Giovanni – Prologo 1, 1-5, 14)

La parola implica una relazione ed un dialogo: attraverso la parola, i gesti, gli sguardi, noi ci rapportiamo
con gli altri e alimentiamo questo rapporto; è la parola stessa che ci permette di generare ed instaurare una
relazione. Ma, immediatamente, la parola genera e crea anche un giudizio: attraverso le parole, io giudico
la realtà e, al tempo stesso, chi mi ascolta, giudica le mie parole. Il concetto di giudizio è pervaso da un
senso negativo, anche se potrebbe diventare anche qualcosa di positivo: il giudicare porta a dare un nome
alle cose e alla realtà, ci fa capire davvero dove posizionare la morale. A questo proposito, nella Bibbia, vi è
scritto che è Adamo a dare un nome alle cose, per simboleggiare il fatto che è l’uomo ad attribuire un nome
alle cose che Dio ha creato: ogni uomo è, dunque, un nuovo Abramo, e, attraverso le sue parole, può
giudicare e, in un certo senso, anche CREARE qualcosa di nuovo. L’ultimo aspetto importante in questo
nostro discorso sulla parola è il silenzio come luogo generatore di parole: esso può essere considerato a
suo modo parola perché comunica sempre qualcosa (es: Ungaretti e il suo ritrovare parole nel silenzio).

Le parole non sono chiacchiere: esse devono sempre essere legate in modo da consegnarci una verità.
Bisogna, dunque, stare molto attenti a come generare le parole perché queste possono fare tanto bene
quanto male (Carlo Levi = le parole possono essere pietre): ciò dimostra ancora una volta la loro centralità.
In questo senso, Sant’Agostino nella sua opera “La vera religione” disse che nell’uomo risiede la verità.

UGO FOSCOLO: IL COMPITO DEL LETTERATO


Biografia
Per definire bene il compito del letterato, ci rifacciamo a Foscolo: egli visse tra il 1778 ed il 1827, nel
periodo letterario del pre-romanticismo. Nacque a Zante, isola greca del mar Ionio, e la sua infanzia –
tranquilla e felice – si svolse nella zona di Spalato (in seguito alla morte del padre e, dunque, ad alcuni
problemi economici, la sua famiglia fu poi costretta a trasferirsi a Venezia, dove Foscolo entrò in contatto
con quegli ambienti politici e di centro di idee che lo spingeranno a partire: un moto fisico e costante, ma
anche una partenza del cuore, interiore). Da ragazzino si capiva già che aveva una forte personalità e delle
grandi doti: infatti, compie i suoi primi esercizi poetici a 15 anni. Inoltre, si intuiva che aveva anche una
grande attenzione nei confronti di ciò che capitava, anche politicamente, intorno a lui: non rimase sordo a
nessun dibattito, né ai dibattiti letterari – sull’uso del greco e del latino –, né al desiderio di costruire quel
piano di studi e quell’idea di letteratura che lui aveva in mente – idea che progettò ma che non fece mai in
tempo a costruire. Il suo maestro di letteratura fu Melchiorre Cesarotti e studiò a Padova. Già si capiva che
la sua idea di letteratura era una letteratura cosmopolita, ovvero non chiusa in un ambiente ma aperta
all’Europa e alle tradizioni – non a caso Foscolo e chi gravitò intorno a lui (coloro che costituiranno il circolo
dei conciliatori) furono coloro che si impegnarono nella battaglia romantica per far sì che la nostra lingua si
svecchiasse e andasse al di là dell’Italia. Da un lato, c’era in lui il desiderio di costruire questa idea di
letteratura e, dall’altro, voleva un cambiamento politico e, infatti, fu entusiasta dell’arrivo dell’esercito
napoleonico nel Nord d’Italia: per lui Napoleone incarnava – almeno all’inizio – l’arrivo della libertà e della
democrazia, in sostituzione al governo oligarchico che sussisteva nella zona dove abitava. Non si tirò,
dunque, indietro dalla guerra e decise di arruolarsi a Bologna come volontario (la sua speranza era che
effettivamente si andasse a costituire la Repubblica Cispadana promessa da Napoleone): in questo periodo
pubblicò l’ode “A Bonaparte liberatore”. Ma il 17 ottobre del 1797, venne firmato il trattato di
Campoformio, attraverso il quale lo stato veneziano venne tripartito tra Francia, Austria e Rep. Cisalpina e
Venezia venne ceduta all’Austria. Foscolo ne rimase deluso perché lui era convinto di poter vedere riunite
tutte le città venete. Allora lasciò Venezia per andare a Milano, dove iniziò a costruire quel terreno che sarà
utile a coloro che costruiranno il programma del romanticismo e nel quale Foscolo sarà colui che vuole dare
l’idea di cosa sia la letteratura e di chi sia effettivamente il letterato – in contrapposizione con l’idea (per
Foscolo sbagliata) che veniva veicolata presso la corte napoleonica.

Le esperienze che Foscolo sperimenta sulla sua pelle, insomma, lo portano ad intuire quanto l’uso della
letteratura e della parola sia fondamentale, quanto le idee possano fare molto. Se da una parte,
inizialmente, c’è la volontà di azione, di partecipare e lottare per i propri ideali come volontario; dall’altra,
egli arriva, alla fine, a capire quanto stare accanto a chi governa sia importante: chi governa deve avere al
suo fianco, al governo, qualcuno che sappia usare le parole.

Foscolo si ritrova a Milano, che, in futuro, diventerà anche capitale del regno e che avrà un ruolo trainante
per la cultura dell’epoca. E Foscolo, subito, collabora con il direttore di un giornale, “Il Monitore italiano”,
con un forte orientamento politico-ideologico. Ma poi i giornali iniziano ad essere censurati: fu il primo
segno dell’opprimente potere napoleonico. Allora, si sposta e va a Bologna, dove incontra letterati come
Parini e Monti; un incontro che aumenta il suo desiderio di libertà e sovranità. Nello stesso tempo, inizia
una produzione letteraria molto solida: siamo nel 1798 e vengono gettate le basi del primo Ortis. Una
caratteristica di Foscolo, che è propria anche di Pascoli, è quella, infatti, di lavorare su più fronti: non avere
solo un obiettivo, quello politico, ma affiancare a questa una produzione letteraria intensa. Tutta la sua
produzione letteraria è, infatti, continuamente frammentata da incontri, articoli e discorsi che possono
portare avanti il ruolo che la politica può avere nella cultura. Addirittura, ancora una volta, chiede di
raggiungere la divisione italiana per partecipare al tentativo di invadere l’Inghilterra: non sta fermo su un
tavolino a scrivere, ma si butta a capofitto.

Tra il 1806 e il 1814 ci sono, molti eventi importanti nella vita di Foscolo come nella storia italiana. In tutti
questi spostamenti che lui fa da “uomo viator”, arriva nel 1806 ad incontrare Alessandro Manzoni.
All’epoca, Manzoni è ancora agli esordi e ha appena dato in stampa “In morte di Carlo Imbonati”
(importante è il verso: Sentir e meditar): Foscolo, nonostante non lo conosca come autore dei “Promessi
Sposi”, si accorge già di come sia importante stare vicino a qualcuno che abbia idee di questo tipo.
Foscolo prosegue la sua produzione letteraria e nel 1807 dà in stampa “Dei Sepolcri”.
Il 18 marzo del 1808, inoltre, viene nominato professore di eloquenza italiana e latina nell’Università di
Pavia (allora considerata capitale della cultura: a Milano non vi erano ancora università di rilievo) – ciò
dimostrava l’importanza che si dava alla cultura –, ma prima ancora che in quell’anno iniziassero i corsi, a
novembre, questa cattedra viene soppressa: lo stato, infatti, non voleva permettere che venissero veicolate
delle idee contrarie a quelle che lui trasmetteva. Foscolo, sulla questione, scrisse ad un amico e disse che il
rettore gli aveva dato comunque la possibilità di tenere alcune lezioni, anche senza cattedra – ovviamente
non sarebbe stato pagato. E Foscolo si dichiarò disposto a donare tutto se stesso a queste lezioni: intelletto,
corpo e cuore.

Ciclo di conferenze universitarie (Pavia 1808-1809)


Le lezioni che tenne all’università di Pavia furono poche.
- La prima lezione (22 gennaio 1809) fu una prolusione – introduzione solenne al corso – intitolata
“Dell’origine e dell’ufficio della letteratura”, a cui Foscolo donò tutto se stesso. Con questa lezione,
egli voleva far capire l’importanza della letteratura e indagarne l’origine
- Ci saranno, poi, altre lezioni: “Dei principi della letteratura” tenuta il 2 febbraio e incentrata sul
capire come è strutturata questa parola/letteratura;
- “Della lingua italiana considerata storicamente e letterariamente” tenuta il 5 febbraio: presenta un
affondo sulla nostra lingua, sulla nostra identità.

Dopo gli eventi difficili e tragici, dal pdv culturale e politico, del 1814 (grandi tumulti a Milano; 1813
Napoleone sconfitto a Lipsia; linciaggio del ministro Prina; le truppe austriache invadono la Lombardia), i
cosiddetti “conciliatori” – gruppo di intellettuali costituito da futuri grandi “maestri” nell’ambito letterario,
tra cui Foscolo stesso – prenderanno in mano la cultura e diranno la loro, e lo faranno attraverso l’arma
della penna, con il giornale “Il conciliatore” – da cui prenderanno il nome. Il giornale nasce con l’inganno
(sotto gli austriaci il regime è ancora più stringente e la censura aumenta): usano apposta un titolo non
bellico e apparentemente “conciliante”, affinché non venga soppresso; volevano dare l’impressione che il
giornale si ponesse come obiettivo quello di conciliare idee diverse e non di promuovere idee contrastanti
rispetto a quelle del regime. Esso era enciclopedico (anche se durò solo un anno) e ancora attualissimo.
Questo ciclo di lezioni a Pavia fu quindi molto importante – anche per “formare” questi giovani che
daranno vita al gruppo dei conciliatori.

Il ciclo fu seguito da un altro di tre lezioni dal titolo: “Della morale letteraria” e i cui sottotitoli furono: “La
letteratura rivolta unicamente al lucro” (18 maggio 1809); “La letteratura rivolta unicamente alla gloria” (5
giugno); “La letteratura rivolta all’esercizio delle facoltà intellettuali” (6 giugno).
Da tutte queste lezioni (6 in tutto), si evince come veramente esercitare il ruolo di letterato e intellettuale
(che non può ridursi ad essere svolto solo allo scopo di lucro o gloria). Foscolo avrebbe voluto continuare
con queste lezioni, ma i temi che toccava erano delicati e questo creava problemi. Ma già con quelle che
tenne, attirò tantissimi studenti e giovani: Foscolo può, dunque, essere considerato come uno dei primi
grandi educatori dell’Ottocento in quanto aveva a cuore l’educazione dei giovani.

Letture dal ciclo


Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (ultimi mesi 1808 - Pavia, 22 gennaio 1809)
E appunto nell'origine della letteratura [...] vediamo contemporanee al potere dello scettro e degli
oracoli, la filosofia che esplora tacita il vero, la ragione politica che intende a valersene
sapientemente, e la poesia che lo riscalda cogli affetti modulati dalla parola, che lo idoleggia coi
fantasmi coloriti dalla parola, e che lo insinua con la musica della parola. [...]

In questo passaggio, Foscolo si chiede cosa ci sia all’origine della letteratura, intesa come pensiero o parola.
Egli individua la filosofia in quanto disciplina che deve scoprire il vero; la ragione (l’azione); e la poesia che
usa le parole in un modo piacevole, colorato, musicale. Dunque, è la parola ciò che noi usiamo per scoprire
il vero, il reale. Notiamo come Foscolo si ponga delle domande: quella dell’interrogativo è una modalità che
usa spesso all’interno delle sue lezioni.

Se dunque l'eloquenza (ciò che noi usiamo per parlare) è facoltà di persuadere, come mai potrà
dipartirsi dalle umane passioni, e come la ragione e la verità staranno disgiunte dall'eloquenza?
Però questa distinzione d'illuminare e di dilettare fu a principio pretesto di scienziati che non
sapeano rendere amabile la parola, e di letterati che non sapeano pensare. La filosofia morale e
politica ha rinunziata la sua preponderanza su la prosperità degli Stati da che, abbandonando
l'eloquenza, si smarrì nella metafisica; e l'eloquenza ha perduta la sua virtù e la sua dignità da che
fu abbandonata dalla filosofia e manomessa dai retori [...] e la facoltà della parola si ridusse a
musica senza pensiero.[...]

Foscolo, in seguito, si chiede come sia possibile scrivere senza far intervenire il proprio pensiero o, ancora
meglio, i propri sentimenti. Mantenere l’obbiettività risulta difficile; quando si parla non è facile
allontanarsi dalle passioni umane e allora come può la realtà essere congiunta con la verità, se a veicolarla
è un qualcuno che vuole persuadere?

Ma, in fondo alla questione di cercare di capire come si può coordinare la ragione con la verità , la
letteratura con la realtà, ci sono tanti scienziati che non sanno scrivere con le parole abbellendo e molti
letterati che non sanno pensare, ma solo dilettare. Qui si insinua, dunque, la denuncia politica di Foscolo: la
soppressione della cattedra era stato il primo richiamo/indizio del fatto che alla corte napoleonica
dovevano esserci intellettuali esclusivamente concordi con quello che veniva detto in corte, letterati che
non pensassero e che usassero la parola solo per colorare.

Foscolo sottolinea, quindi, che senza l’arte del dire, la parola, ci si smarrisce, non si comunica nulla, non si
possono far avanzare delle idee e, nello stesso tempo, se l’eloquenza non pensa, non usa le parole o le usa
senza quel sentir meditar, diventa solo abbellimento e musica.

Dai mezzi con che gli egregi letterati di tutte le età ottennero fama ed amore nel mondo, appare
omai l’ufficio della letteratura; appare che la natura, creando alcuni ingegni alle lettere, li confida
all’esperienza delle passioni, all’inestinguibile desiderio del vero, allo studio dei sommi esemplari,
all’amor della gloria, alla indipendenza dalla fortuna ed alla santa carità della patria. Qualunque
manchi di queste proprietà negli uomini letterati, niun’arte mai, niun istituto d’università o
d’accademia, niuna munificenza di principe farà che le lettere non declinino, e che anzi non cadano
nell’abbiezione ove tutte o in gran parte mancassero queste doti.

Qui, Foscolo dice che chi ha l’arte dello scrivere e l’ingegno delle lettere può arrivare a descrivere il vero
nella sua totalità, in tutte le sue sfumature; e quindi può far comprendere l’amore per la patria, per la
gloria; può veicolare un pensiero. Insomma, tutto quello che accade, se non ci fosse la parola scritta o
orale, noi non lo sapremmo (in particolare se pensiamo ad eventi storici). Foscolo, allora, esprimeva la
necessità di formare giovani che hanno a cuore quel cammino dell’intelligenza che può farci capire che cosa
è il vero.

O Italiani! qual popolo più di noi può lodarsi de’ benefizii della natura? ma chi più di noi (né
dissimulerò ciò che sembrami vero quando l’occasione mi comanda di palesano), chi più di noi
trascura o profonde que’ benefizii? A che vi querelate se i germi dell’italiano sapere sono coltivati
dagli stranieri che ve gli usurpano? meritamente ne colgono il frutto: la letteratura che illumina il
vero, fa sovente obbliare gli scopritori e lodare con gratitudine chiunque sa renderlo amabile a chi Io
cerca.

Foscolo esorta alle storie: “O italiani” → termine che torna, nonostante non ci sia ancora un’unità d’Italia.
Foscolo, infatti, dimostra un’attenzione particolare a quell’idea di identità nazionale che, per lui, va
custodita. È un’attenzione da riportare alla polemica classico-romantica, che scoppiò proprio perché
vennero pubblicati alcuni testi, in modo particolare da Madame de Stael, che sottolineavano quanto
fossero importanti le traduzioni e, più in generale, capire quello che accadeva attorno a ognuno di noi. In
questo contesto, intervenne anche il paladino Ludovico di Breme, che dette ragione a Madame de Stael, e
ribadì come bisognasse svecchiare la nostra corte, che di fatto puntava all'abbellimento, alla musica, al
cortigiano.

Foscolo prosegue e afferma che, nel nostro guardare all’esterno, non dobbiamo però essere saccheggiati
delle nostre idee, dobbiamo mantenere un’identità. Infine, ribadisce che la letteratura, la parola, rivela il
vero. In seguito, fa una serie di esempi sulla storia latino-greca e su autori che riprendono questo concetto
di verità e di veicolazione dell’identità (Galileo, Machiavelli, Beccaria, Senofonte, Tacito, Plutarco).

“Volgetevi alle vostre biblioteche” → Foscolo usa un numero di interrogativi elevato quanto quello degli
esortativi/imperativi. “Andate a leggere”: bisogna documentarsi, ritornare ai testi, non bastano le
chiacchiere. Foscolo si presenta, dunque, come una sorta di maestro che accende passioni e dà consigli; sta
poi agli “allievi” decidere se seguirli o meno.

O Italiani, io vi esorto alle storie perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da
compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime
degne di essere liberate dalla obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed
onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri ed a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri.
lo vi esorto alle storie, perché angusta è l’arena degli oratori; e chi omai può contendervi la
poetica palma? Ma nelle storie tutta si spiega la nobiltà dello stile, tutti gli affetti delle virtù, tutto
l’incanto della poesia, tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i benemeriti dell’italiano
sapere.

Storie: quello che è accaduto in passato → solo tornando a leggere storie possiamo capire le calamità, gli
errori e non ripeterli più. La storia è magistra vitae: le testimonianze ci dicono quello che è accaduto per
farne memoria, in modo che non accada più (es. della Shoah, della deportazione).

Non è facile, però, buttarsi nella mischia: l’arena è angusta. È difficile orientarsi: ognuno dice quello che
pensa → bisogna avere, dunque, una coscienza, essere informati per poter discernere le informazioni in
modo efficace e valido.

Nella storia, in quello che è accaduto, possiamo trovare tutto: questa è la grande fortuna del letterato.

Chi di noi non ha figlio, fratello od amico che spenda il sangue e la gioventù nelle guerre? e che
speranze, che ricompense gli apparecchiate? e come nell’agonia della morte Io consolerà il pensiero
di rivivere almeno nel petto de’ suoi cittadini, se vede che la storia in Italia non tramandi i nobili
fatti alla fede delle venture generazioni? Forse la sola poesia e la magnificenza del panegirico
potranno rimunerar degnamente il principe che vi dà leggi e milizia e compiacenza del nome
italiano?

Chi, avendo un fratello o un amico che è andato a combattere o avendo subito una qualsiasi ingiustizia, non
sente la necessità di raccontare quello che è successo (oralmente e per iscritto)? È qualcosa di cui si ha
bisogno: è insito in noi il desiderio di tramandare, raccontare, dire con la parola.
Foscolo, poi, si domanda come la parola possa combinarsi con quello che dice un principe, un reggente o
un’autorità.

Secondate i cuori palpitanti de’ giovanetti e delle fanciulle, assuefateli, finché son creduli ed
innocenti, a compiangere gli uomini, a conoscere i loro difetti ne’ libri, a cercare il bello ed il vero
morale: le illusioni de’ vostri racconti svaniranno dalla fantasia con l’età; ma il calore con cui
cominciarono ad istruire, spirerà continuo ne’ petti.
Foscolo parla con i giovani e per i giovani. Sottolinea che ciò che rimane di un insegnamento è quello che è
vero, quello che è reale. La parola, ovvero, si può servire di tutte le arti che vuole per far passare dei
concetti ed è un bene che la parola usi anche delle armi per incantare, per sedurre, per convincere; ma se
non c'è l'intelletto, il pensiero svanisce, non rimane nulla. Se non c’è intelletto/pensiero da accompagnare
al bello, il messaggio non trasmette nulla.

Prima di questo paragrafo, Foscolo aveva fatto una sorta di nota bene:

[…] la natura e i costumi non concedono di preservare la gioventù e la bellezza dalle passioni, la
letteratura deve, se non altro, nutrire le meno nocive, dipingere le opinioni, gli usi e le sembianze de’
giorni presenti, ed ammaestrare con la storia delle famiglie.

Il giovane insegue spesso una passione, un desiderio; e bisogna stare attenti a non lasciarlo incappare nelle
tendenze. Non deve seguire quello che succede senza pensare. Bisogna insegnargli ad usare la mente per
far in modo che il morale e il vero vengano veicolati. Ed ecco perché poi continua, dicendo:

Offerite spontanei que’ libri che se non saranno procacciati utilmente da voi, il bisogno, l’esempio, la
seduzione li procacceranno in secreto. Già i sogni e le ipocrite virtù di mille romanzi inondano le
nostre case; gli allettamenti del loro stile fanno quasi abborrire come pedantesca ed inetta la nostra
lingua; la oscenità di mille altri sfiora negli adolescenti il più gentile ornamento de’ loro labbri, il
pudore. […].

È qualcosa di attualissimo: il libro, e quindi la parola scritta, ha un grande potere. Ciò che leggiamo ci nutre
e ci definisce: esistono libri che sono solo un ornamento e altri che sono necessario nutrimento.

Visitate l’Italia! o amabile terra! o tempio di Venere e delle Muse! e come ti dipingono i viaggiatori
che ostentano di celebrarti! come t’umiliano gli stranieri che presumono d’ammaestrarti! Ma chi
può meglio descriverti di chi è nato per vedere fino ch’ei vive la tua beltà?

Ma non bisogna solo leggere: per imparare è necessario anche viaggiare, spostarsi. Il viaggio ci porta alla
curiosità e a seguire le tracce del passato.

Della morale letteraria: 1^ Lezione, 2^ Ciclo – La letteratura rivolta unicamente al lucro (18 maggio 1809)
Quindi la parola non è una retorica vuota. La poesia – intesa sia in senso letterale che come prosa – è uno
strumento che riscalda il vero e lo abbellisce, lo riscalda con l'affetto e il sentimento. Ancora una volta
torna quel programma cui Foscolo si attiene – il sentir e meditar di Manzoni – e che prevede l’uso costante
del cuore e della ragione. E proprio perché l’eloquenza non è una retorica vuota, essa può convincere, cioè
legare a sé. Ma non costringere (anche se a volte è arrivata a costringere – il confine con il convincere è
infatti molto sottile – ; come nel caso della propaganda hitleriana o mussoliniana): si fa sempre una
proposta e poi si vede cosa dice l'altro. Ecco allora ancora il concetto di relazione e di dialogo. Solo così,
l'eloquenza, la parola, la letteratura, la poesia e la facoltà di persuadere può arrivare alla verità, una verità
trovata dalla ragione ma scaldata dal cuore. Questo binomio cuore e ragione è inscindibile.

Consideriamo, in questa direzione, un passaggio dalla prima lezione del secondo ciclo tenuta da Foscolo:
La letteratura è, come io credo di avere dimostrato, altamente inerente ai bisogni e alle facoltà
dell'umana società; ed io la definirei la facoltà di diffondere e di perpetuare il pensiero. E quanto
questa diffusione e questa perpetuità, eccitando le passioni e l'ingegno degli uomini, riesca a riunirli
sempre più in società, ad alimentare l'operosa attività del loro intelletto, a propagare le poche
verità che possiamo conoscere, a far abborrire i vizi ed amar le virtù della umana natura, eccitando
le più generose passioni e rintuzzando le più maligne, non fa d'uopo ch'io proceda a dimostrarvelo
da che parla la cosa stessa.
Come sottolinea lo stesso titolo della lezione, non si può fare la letteratura solo per guadagnare: essa è
inerente alle facoltà della società umana, risponde ai nostri bisogni più profondi. Perché descrive ciò che è
accaduto, che c’è stato, e, quindi, aiuta a diffondere un pensiero.

La letteratura deve essere morale, deve insegnare qualcosa. Non sarà sempre così nella storia della
letteratura: con D’Annunzio, per esempio, la parola sarà eteronoma, non vorrà richiamare dei valori, ma
puntare all’arte per l’arte, alla passione, al desiderio. Come anche nel futurismo, quando la vita diventa
sregolata, veloce, passionale e la parola verrà distrutta; occorrerà, dunque, per riscoprire la parola arrivare
ad Ungaretti. La letteratura, insomma, riflette la storia, gli avvenimenti storici, e segue l’emancipazione
dell’uomo:

[...] i due doni, l'uno della ragione non l'abbiamo dalla natura se non per discernere il vero e l'utile;
e l'altro dell'eloquenza non l'abbiamo se non per comunicare con gli altri e procacciare ad essi
diletto e utilità [...] tutti hanno nel cuore e nell'intelletto i germi e il desiderio del vero, e perciò solo
il letterato che lo palesa e che lo rende certo e caro con l'eloquenza, si procaccia la fede e l'amore
degli uomini.

Infine, Foscolo parla di due doni: la ragione che la natura ci dà per discernere, scegliere il vero e l’utile
(come in Manzoni); l’altro dono è l’eloquenza, cioè il parlare, che serve per comunicare con gli altri e
trasmettergli diletto e utilità; essere piacevoli oltre che utili. Così riuscendo, si può persuadere. Tutti hanno
nel cuore e nell’intelletto il desiderio del vero, capire chi siamo e cosa facciamo; ma solo il letterato lo
palesa, rendendolo chiaro e caro con l’arte della parola e arrivando così alla verità: solo un uso così
mirato della parola può spingere l’altro a desiderare di andare fino in fondo.

NB: Di cosa parleremo in seguito? Saranno quattro i momenti che metteremo in evidenza:
- L'immigrazione dei primi del Novecento, momento dal quale nasce tutta la letteratura della
migrazione ed emigrazione.
- Un tema sui generis del partire per motivi obbligati:
o quando arriva quella cartolina per partire per la Prima guerra mondiale;
o oppure quella partenza di strappo e di costrizione dovuta al fatto di essere ebrei e quindi il
partire in questi viaggi forzati durante la Seconda guerra mondiale, che porteranno
all'internamento nei campi di concentramento.
- L'esodo giuliano-dalmata.

GIOVANNI PASCOLI (1855-1912)


Introduzione: brevi cenni di vita
Un altro autore che ci introduce alla tematica del viaggio, del partire, del migrare – argomento trattato da
quasi tutti gli intellettuali – è Pascoli.

- Nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre del 1855 e le sue radici, i luoghi nei quali vive, le
sue dinamiche familiari sono tutti elementi molto significativi per la sua produzione letteraria
successiva. Egli può subito entrare in contatto con la natura, con quelle cose delle quali inizia
immediatamente a stupirsi.
- I genitori ci tenevano molto che i figli avessero una buona istruzione e, infatti, lui – come anche i
suoi fratelli – studia presso i Padri Scolopi. Pascoli, quindi, riceve una buona base, una buona
formazione. È importante considerare l'itinerario scolastico, in quanto esso è sempre all'origine di
quello che poi i diversi autori andranno a scrivere: nel caso di Pascoli, i suoi studi umanistici e
classici saranno determinanti.
- L'evento però centrale della sua vita è la morte del padre che avviene il 10 agosto 1867, quella che
poi viene raccontata in una famosissima poesia. E questo fatto, per lui, fu terribile per più ragioni:
1. Perché, appunto, perde il padre.
2. Perché non si riuscì mai a scoprirne la ragione: il padre fu ucciso ma non furono mai trovati
coloro che lo portarono alla morte. Pascoli cercò in ogni caso di fare delle ricerche, ma non riuscì
mai a scoprire la verità. Quindi, questo evento rappresentò un'ingiustizia alla quale non riusciva a
dare volto e nome.
3. Inoltre, da quel momento in poi, ci furono moltissimi altri lutti. Questo evento, infatti, è
all'origine di quello che in Pascoli viene considerato un nido che è stato infranto, distrutto; delle
radici che si sfaldano. E tutte queste morti rimarranno sempre dentro di lui; così come questo
desiderio di vendetta, di giustizia per il padre.
- E questo desiderio di giustizia porta Pascoli a trasformarsi pian piano in uno studente sovversivo.
Egli, nel frattempo, si iscrive alla facoltà di Lettere a Bologna. Ma subito si scontra con quel
desiderio di giustizia che anche lì, in quei luoghi, vede fra lui e i suoi compagni; e anche nei
lavoratori, in quei circoli socialisti che frequentava proprio a Bologna da giovanissimo. Addirittura,
si scontrò con il ministro della Pubblica Istruzione, che all'epoca era Ruggero Bonghi. E questo fece
sì addirittura che, proprio perché era un sovversivo, gli venisse tolta una borsa di studio. E per un
momento dovette interrompere gli studi perché la famiglia d'origine non poteva più aiutarlo
economicamente, visto che ormai erano rimasti solo loro figli. Ma come ogni distacco dalle cose,
questo fa sì che, anche in questo caso, Pascoli prenda proprio la decisione di rimboccarsi le
maniche. E, infatti, poi, in breve tempo, trovò qualche lavoro e riuscì a iscriversi all'università e a
continuare gli studi.
- Alla fine, nel 1882 si laureò con una tesi classicista su Alceo, sulla metrica. Questa formazione
classicista così precisa, così puntuale, con l'andare quasi nel mondo antico, gli servirà.
- Si apre, poi, per lui un’Odissea di professore itinerante: viene chiamato per essere insegnante
prima a Matera, poi a Massa, poi a Livorno (fa gavetta, non ha fissa dimora, come poi succede a
tutti i professori agli inizi). Infine, torna a Bologna, dove inizia la sua carriera accademica.
- Nel momento in cui forma la sua persona e capisce che il suo compito è quello di educare, nello
stesso tempo, inizia anche a voler ricomporre il nido familiare, quel nido che di fatto non c'è più. E
lo farà insieme, in modo particolare, alle sorelle. Poi quella che rimarrà più vicino a lui è proprio
Mariù. E questo nido lo ricostruirà a Castelvecchio di Barga, in Garfagnana. Ancora una volta è un
luogo dove è a contatto con la natura, con la campagna.
- Muore a Bologna

Cenni sulla poetica e sulla composizione


Guardando la natura e grazie/a causa dei numerosi strappi/lutti subiti, nasce quella che è la poetica
pascoliana. Per capire tale poetica, dobbiamo, infatti, tenere sempre presenti le sue vicende personali.

Pascoli aveva un modo di lavorare che era molto particolare. Noi abbiamo in mente che un autore, di solito,
prima fa un'opera, poi ne fa un'altra, poi un'altra ancora; in seguito, se mai, torna su quella precedente, ma
c'è sempre il costituirsi di un itinerario poetico. Invece, Pascoli lavorava avendo in una stanza tre scrivanie,
perché su queste tre scrivanie c'erano tre tipi di lavoro: c'era quello sulla poesia italiana, quello sulla
letteratura latina e quello della critica dantesca (per Pascoli, il padre Dante è fondamentale). Di questi tre
tavoli, Pascoli racconta nei suoi carteggi (nei suoi appunti e nelle sue lettere): “Oggi mi sono messo sul
tavolo di sinistra, poi dopo poche ore su quello al centro, poi ancora su quello a destra”. Cioè, lui, a
differenza di molti altri autori, porta avanti in continuazione più lavori. Quindi è un lavoro che è sincronico,
non diacronico: come se all’inizio della sua poetica fosse già contenuto tutto quel percorso che lui, pian
piano, vuole sviluppare. I registri sui quali lavora sono comunque infiniti: c'è quello lirico, elegiaco, epico,
bucolico, celebrativo. Quindi la forma stilistica che usa è molto varia.
L’inno a la poesia (Rimini, 1872)
“L’inno a la poesia” è il primissimo testo che Pascoli scrive, quando aveva soltanto 17 anni, durante la
scuola superiore. È un testo sobrio ed importante perché dimostra come, già a quell’età, egli avesse l'idea
di cercare di capire come si guarda la realtà e quindi l'importanza della natura. Nel testo, Pascoli svela
anche l'importanza che per lui ha la poesia, il poeta; egli indaga ed esplicita il compito che ha colui che usa
la parola. E lo fa attraverso un inno che è anche un dialogo (con la poesia, con la personificazione della
figura del poeta in Orfeo; Orfeo= poeta).

Per capire e farci capire come si può innalzare l'importanza della poesia e del poeta, Pascoli parte dal mito
di Orfeo, l'inventore del canto, o meglio, della poesia. Orfeo è colui che riesce ad ammansire le bestie
feroci, che riesce a commuovere con la sua cetra, con la dolcezza del suo canto – “che smuove le pietre” – ,
anche il dio degli inferi. La moglie di Orfeo, Euridice, è infatti morta e lui vuole rivederla: egli ottiene, grazie
appunto al suo canto, di poterla far uscire dagli inferi a patto che lui non si giri prima di essere uscito con lei
dalle tenebre; lui, però, si gira prima del tempo e la perde per sempre.

[1-5 righe] È un esordio molto polemico di come si è persa la poesia, in modo particolare quella tedesca.
Parafrasi: “Fra quella confusione, fra quel rumore, mi rivolgo a te poesia”.
[5-8] Sta proprio dicendo: “Io mi rivolgo a te; facciamo venir fuori questa favilla, questa scintilla, che può far
rivalutare quella che è la parola”. Ma che cosa fa la parola?
[Da “Era la terra..” a “…perpetui ululati”] Allitterazione -r e -l: dà l’idea di quel rumore, di quel caos che c'è
quando non c'è la luce, quando non c’è un ordine. In mezzo quindi a quelle oscure nenie – emerge la
polemicità con una poesia che viene dopo il periodo romantico –, pare che si sia persa la via. Chi può far
tornare l'umano? Dice Pascoli che noi eravamo “l'umano gregge” che errava: eravamo animali senza
ragione, senza cuore, senza ordine. Come si può far tornare l'umanità in questa situazione? Attraverso una
poesia che sia immortale.
[Da “O poesia …” a “tintinnir di cetra”] Pascoli afferma che ci serve uno come Orfeo; che ci serve qualcuno
che davvero possa ri-illuminare.
[L’eco… Rasserenarsi.] Solo il sentire una melodia, solo avere chi può usare la parola, rende anche gli
animali più temibili meno spettrali, più umani.
[Umane genti… O vate, ascolta.] Ritorna la parola “vate” (anafora): lo si invoca e lo si cerca poiché è colui
che deve aiutarci a trovare la via per risollevarci.
[Va dunque…da le belve] La parola può far tornare l’umano, può creare una bella fratellanza, può far
tornare un legame pacifico. Questa è la missione del poeta.
[Lode a te, Poesia!] È come se, ora, Orfeo si personificasse, diventando la poesia stessa.
[Chi mai… tuo poter?] Ribadisce quanto detto in precedenza: il potere della parola è ciò che riunisce gli
umani in un socievole patto; un patto che è sociale. Per Pascoli, infatti, la societas è molto importante: lui
s’impegna politicamente, è molto attivo, non si tira indietro e cerca di promuovere sempre dei valori anche
nella praticità.
[Qual nume… fu licito?] Abbiamo una serie di domande persuasive che Pascoli si permette di chiederci e
che rimandano tutte allo stesso concetto: non è forse così che la poesia è immortale?
[All’alto suon della guerresca lira.] La lira diventa quasi guerresca perché porta avanti una battaglia, dei
pensieri.
[Lode a te, Poesia] Torna l’invocazione al poeta – Orfeo – così come torna la lode alla poesia.
[Tu de’ sepolcri…immortal vita vivi] Si tratta di una chiara eco foscoliana: tu, poesia, esci dai sepolcri, vinci
il silenzio, sei immortale, vivrai per sempre, non morirai mai. La parola è, infatti, sempre rivivificata da chi la
legge, da chi la fa, da chi la ripete.

In questa poesia così giovanile, troviamo già tutti gli elementi tipicamente pascoliani: la missione del poeta,
l’importanza della parola, il suo potere, e si affaccia anche l’importanza della natura (ci sono continui
rimandi al mondo animale e ai suoni). La poesia di Pascoli si può sentire, ascoltare e vedere.
Il fanciullino
(in Miei pensieri di varia umanità, Messina, 1903; ma prima, parzialmente, col titolo Pensieri
sull'Arte poetica, nel “Marzocco”, Firenze, gennaio-aprile 1897)

Oltre all’inno appena trattato – che può essere visto come manifesto poetico –, c’è un altro scritto
pascoliano che è visto come il suo manifesto per eccellenza: si tratta del Fanciullino. Esso è il
proseguimento del concetto di Orfeo e della definizione di poesia appena accennata.

È un testo di circa 20 capitoli, di cui solo 8 furono resi noti e vennero, infatti, pubblicati nel “Marzocco”
sotto il titolo di “Pensieri sull’arte poetica”. Successivamente, poiché questo era un testo a lui molto caro, li
intitolò “Miei pensieri di varia umanità”: se li fa suoi – miei pensieri – e sottolinea come la sua volontà sia
quella di parlare dell’uomo (infatti a tema c’è il concetto del Fanciullino e del poeta).

La visione legata al fanciullino è estremamente profonda e si lega alla necessità di riscoprire la parola, di
rivedere le cose in un modo totalmente nuovo. Pascoli sottolinea come tutti noi abbiamo nella nostra
interiorità un fanciullo; poi, cresciamo e una volta diventati adulti, possediamo ancora questo bambino
dentro di noi, solo che è più nascosto. Egli è ciò che porta a vedere la realtà con occhi curiosi, sinceri, pieni
di stupore e voglia di scoprire, capacità di meravigliarsi.

[Punto III] Fanciullo musico: il fanciullo che può far musica (ritorna l’idea di musica di Orfeo, una
musica/poesia che ci tira fuori dal caos).
In alcuni, questo fanciullino sembra non esserci: non è semplice dire che dentro di noi ci sia un fanciullo, in
quanto sembra quasi sminuire noi stessi come adulti. Alcuni pensano che, poiché non mostra segni di
esistenza (si aspettano che il fanciullino si manifesti), esso non ci sia in loro. Ma non è facile trovare i segni
della sua esistenza perché essi sono umili e semplici, difficili da percepire (l’assiuolo, il bucato). Il fanciullino
è quello che ha paura al buio: Pascoli descrive in modo preciso com’è il bambino. Egli è il nuovo Adamo:
dare nome alle cose è significativo, è dare identità. Egli scopre: è la cosa forse più importante. Ovviamente,
per Pascoli, il fanciullo corrisponde al poeta: il poeta sa fare tutto quanto descritto da Pascoli – o meglio
dovrebbe saperlo fare. Ed è un compito che anche noi dovremmo riscoprire: ritornare a stupirci e non
abbandonarci alla routine.

[Punto IV] Guardare e scoprire ti fa capire l’ontologia e la moralità della cosa osservata. Fanciullo non come
rintanarsi in un divertimento che non ha senso, ma come scoperta dell’utile e del vero, del sentir e meditar.
Il linguaggio del fanciullo è semplice, vero, ingenuo: anche Pascoli adotta un tipo di poetica allo stesso
modo semplice e di facile comprensione.

[Punto V] Il fanciullo è eterno: non muore mai. Quel modo di guardare la realtà del fanciullino rimane
sempre: è un modo di guardare con “maraviglia” (non con oggettività verghiana). Tutto è visto come la
prima volta: è intonso, intoccato, vergine e pulito. Noi, persone comune, ci dimentichiamo di vedere le cose
in questo modo e il compito del poeta è di rieducarci a questa modalità. Anche qui (come nell’inno), Pascoli
continua ad incalzare il poeta: occorre qualcuno che tiri fuori la maraviglia dagli uomini comuni.
La parola aiuta a meravigliarsi: ma c’è difficoltà nell’usarla in modo adeguato.

[Punto VI] Nelle cose, occorre vedere la novità, il nuovo. Non bisogna inventare per essere poeta, ma
bisogna scoprire: il nuovo è insito nelle cose che ci circondano, non dobbiamo fabbricarlo noi.

[Punto VII] Una poesia senza aggettivo; non nel senso di sgrammaticata, quanto una poesia senza fronzoli,
senza eccessi: la poesia deve mirare ad avere un’utilità morale; ci deve insegnare qualcosa e, per farlo, deve
essere semplice.
Talvolta, si può commettere l’errore di non guardare perché ci sembra di non poter trovare nella realtà
quello che cercavamo. Così, ci chiudiamo a sognare, ad immaginare: ma in realtà, quello che cercavamo era
nelle cose vicine; solo che non eravamo in grado di vederlo. Questo perché, molto spesso, ci fermiamo
all’apparenza e non indaghiamo la verità profonda. La poesia è da ritrovare nella realtà che mi circonda:
non devo inventare nulla.

[Punto X] Il poeta deve portarsi dentro un lume che illumini quello che vede. La poesia è socialista (ritorna
la societas), nel senso di umana. Ciò che non è poetico è il male, che si presenta come difficile da tradurre.
Si pone la questione di come guardare quello che è male, quello che è cattivo – che Pascoli riconduce ai
numerosi lutti che ha subito: bisogna andare in profondità e vedere il vero, ciò che è utile e morale. Bisogna
scegliere ciò di cui parlare e preferire il buono, il poetico.

[Punto XI] Un poeta che ha un fanciullo dentro di sé può ispirare a dei buoni principi. Per questo, ha un
grande potere. Ma i propositi che ispira, non sono voluti (non è un filosofo, …). Se prima Pascoli sottolinea
la missione del poeta – che può anche discernere ciò di cui può parlare – aprendo la possibilità che il poeta
possa svolgere diversi ruoli/missioni (quelle di oratore, maestro, storico, …), ora, egli precisa che il poeta
non deve, però, cadere in questo tranello e deve svolgere solo il suo primo compito, quello di guardare la
realtà, la verità. Deve fare poesia come se parlasse tra sé e non a un pubblico: usare la parola, getta la
parola e crea una relazione. E il pubblico, automaticamente, si riconosce in quello che dice: sono gli altri che
fanno diventare il poeta un maestro, e non lui che riveste deliberatamente questo compito. E sempre del
pubblico è anche la colpa di non sentire più la poesia, di non percepire la meraviglia della poetica: il
pubblico, molto, spesso, non ascolta bene e travisa il senso delle poesie, vanifica la parola e la rende
pseudopoesia. Pascoli, dunque, dà un giudizio molto forte e sottolinea come in Italia ci sia tanta di questa
pseudopoesia.

[Punto XII] In Italia, addirittura, questa pseudopoesia è desiderata. La parola, infatti, se non è usata in
modo adeguato, diventa una poesia che è chiusa per un determinato settore e viene mal utilizzata. Un uso
sconsiderato che ci fa dimenticare la sua bellezza, quanto può far stupire. Una poesia che punta alla
meraviglia è eterna: non cambierà mai nella storia, diventerà classica e non esaurirà mai la sua bellezza.

[Punto XIII] La poesia è di imitazione e di collezione. Inizia ad emergere una polemica alla poesia romantica,
ad un autore come Leopardi (che mette insieme le rose e le viole): bisogna saper studiare bene, uno studio
finalizzato a scoprire, a togliere, a rendere chiaro.

[Punto XIV] Per Pascoli, gli italiani copiano troppo. Non basta descrivere la realtà così com’è, ma bisogna
scoprirla: i poeti veri vanno oltre le etichette e rimandano al vero.

[Punto XX] Una poesia fatta in questo modo, che si trova e non si fa, è utile, è civile, è utile per l’uomo e per
la patria: permette di capire il ruolo di ciascuno di noi. È proprio una scoperta della parola, del poeta e di sé.

L’itinerario della parola poetica

Il grafico illustra come, nella storia della letteratura, si vada sempre di più verso una perdita di significato
della parola. Nel periodo dell’illuminismo – con la rivista Il Caffè che diceva “Cose non parole” –, si
sottolineava l’importanza dell’agire, del fare. L’uomo e la ragione erano i protagonisti. Questo gruppo di
giornalisti, che gestivano la rivista citata, ritenevano che la parola, il discorso tout court fosse inutile.
Dobbiamo aspettare il romanticismo affinché la parola inizi ad essere rivalutata – il sentir meditar di
Manzoni –, compresa, capita da tutti (anche dal pdv linguistico → es: Manzoni e le diverse edizioni dei
Promessi Sposi). Il sentimento dell’uomo, la passione che ci rende mutevoli e non sterili, con la parola può
essere compreso. Manzoni, nei materiali estetici, parla propria della letteratura come scienza morale, che
insegna qualcosa. La parola (anche con Foscolo), in questo periodo, è eternatrice.

Ma il periodo come il verismo, dove si punta all’impersonalità, la parola riproduce semplicemente la realtà.
Il poeta deve costruire questa realtà ma senza aggiungere nulla: è come se fosse lontano da questa realtà.
Immediatamente, questo uso della parola pone le basi del “Positivismo”, dove tutto incomincia di nuovo a
entrare in crisi: la parola è avvolta nel mistero, è come se non costruisse più nulla, perché tutto è basato
sulla scienza, su ciò che si può verificare. La parola, quindi, non ci aiuta a capire e a spiegare.

È proprio Pascoli, anche se la sua lezione fa fatica ad emergere (è quasi un caso isolato nel contesto storico
di riferimento), che porta la parola a riemergere: il poeta è un vate . il che non significa che la parola sia di
facile interpretazione. Nell’ultimo Viaggio dei Poemi Conviviali, la parola si scontra con ciò che fa sognare
l’uomo: la parola può ingannare e questo ci sprona a ricercare il concetto di realtà, di verità. I poemi
Conviviali, infatti, terminano con La Buona Novella (diversa da tutti gli altri libri).

Storicamente, più che verso la crisi della parola, si va verso la crisi dell’uomo: è una crisi dell’uomo che è
data dagli eventi storici della Prima e della Seconda guerra mondiale. Ma l’uomo dotato di ragione e
sentimenti pensa di essere infallibile, invincibile – pensiamo a D’Annunzio e al suo ruolo anche a livello di
fatti “storici” (spinge per l’entrata in guerra; partecipa; occupa Fiume). La guerra, allora, pare l’unico modo
per sentirsi uomini. L’uomo è un vate ma che punta alla musicalità, all’aspetto estetico. E allora quel modo
di descrivere la natura nella poetica dannunziana deve mettere al primo posto non il contenuto – il
significato –, ma il come; si punta al bello, al senso estetico (non al bello romantico – il vero); e la poetica
diventa, quasi, qualcosa di mistico, di incomprensibile (si rimane sulla percezione sensoriale, sulla
superficie, sulla fisicità della parola). Nel Piacere, il protagonista – Andrea Sperelli – dice: “Il verso è tutto”,
espressione che può essere considerata come il breviario dell’estetismo.

Sempre di più, si va verso l’irrazionale, non si comprende più la parola; un momento questo che coincide
con la crisi novecentesca dell’uomo e di tutti i suoi valori. Il poeta non ha più un ruolo (vate) e ci sono
molti autori che fanno parte delle cosiddette avanguardie (futurismo, crepuscolari, …). Es: Corazzini,
crepuscolare, scrive il “Piccolo Mondo inutile”: c’è proprio una desolazione del poeta.
I futuristi, invece, mettono la parola in libertà, esortano l’uomo alla velocità, a possedere la realtà (tutto ciò
è ritrovabile nei loro manifesti; è un movimento vicino a coloro che vogliono entrare in guerra). Essi
generano una frattura con il passato: si vuole rovesciare le regole ottocentesche, si aderisce alla modernità.
Questo modo di vedere la parola, la realtà, sconvolge la vita e la parola è come se toccasse il punto più
basso: siamo davanti a delle macerie, dalle quali si riemergerà grazie ad Ungaretti.
Con Ungaretti, la parola torna ad essere vera, ad elevarsi, ad essere eterna, preziosa. Dopo gli eventi delle
guerre mondiali, la parola ritorna ad essere importante anche se faticosa (es: Montale, Ossi di Seppia).

La poetica pascoliana è un punto cardine dell’Ottocento, a cui anche Ungaretti riguarderà. È un percorso
che quasi delinea un itinerario della parola, con continui sali e scendi – come dimostrano i continui
rimaneggi delle raccolte poetiche.

Myricae
Il modo di produrre e pensare di Pascoli è sincronico, anche se noi lo presentiamo come diacronico. L’inno
alla poesia era un esercizio giovanile. Ma il libro più importante – che lui definisce come il libro della vita – è
Myricae, che presenta una gestazione lunghissima. È nel 1890 che compare il primo nucleo, che poi lui
rimaneggia. Nel 1891, abbiamo la prima stampa che è di sole 22 liriche, che lui dona come regalo di nozze
al suo amico Raffaele Marcovigi. Nel 1892, abbiamo una nuova edizione che ha 72 liriche. Nel 1894,
abbiamo un’edizione con 116. Nel 1897, ce ne sono 152. Nel 1900, ce ne sono 156. Non sono mai ristampe,
ma sono edizioni altamente rimaneggiate (anche le prime liriche cambiano). I filologi hanno fatto un
percorso di ricostruzione lunghissimo. Quindi, è veramente il libro della vita: in lui è forte il desiderio di far
capire quanto importante è la parola. [Differenza dai Carmine Latina]

Il titolo: è una forma latina. Questo titolo deriva dai primi versi dell’Ecloga IV delle Bucoliche di Virgilio
(Sicelides Musae, paulo maiora canamus. Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae): le myricae sono
un arbusto, un cespuglio. Pascoli utilizza apposta un termine colto e raffinato perché le cose di cui andrà
parlare sono umili (semplici e basse come le tamerici), ma anche utili (in questo senso elevate). La
semplicità, insomma, gli è utile per andare nella profondità: le sue poesie sono un cespuglio che, un
pochino, si alza da terra. Anche qui, emerge l’idea pascoliana che è nella natura che possiamo scoprire chi
siamo [natura e famiglia sono, infatti, i punti fondamentali di Pascoli perché lo aiutano a capire se stesso,
chi è lui in quanto uomo e, molto spesso, nelle poesie, lui fa riferimento a questi nuclei].

Questa raccolta ha, poi, più sezioni che hanno tutte comunque in comune un argomento/motivo bucolico.
Le prime poesie hanno come data il 10 agosto – non perché le abbia scritte veramente tutte in quel giorno,
ma perché è ciò che le ha ispirate. In tutte queste poesie, dunque, lui ha in mente quella realtà che è fatta
di cose semplici e vere, ma anche tutte quelle tragedie che ha vissuto. C’è un tema bucolico, ma anche un
tema che è quasi funerario.

Il piccolo bucato (Il Marzocco) [sez. In Campagna]


Pascoli è sempre molto preciso nella metrica: in questo caso, si tratta di una sorta di madrigale, di soli
endecasillabi. C’è una cura, un ritorno alla poesia pura. Un’attenzione anche dal pdv delle rime: ABA CBC
DEDE (mette in evidenza la sonorità).
Il motivo di questa poesia è pascoliano: si parla di una casa colpita dal lutto, dove comunque ci si prende
cura di un bambino che è in fasce; mentre fuori, invece, irrompe la tramontana, il vento che non perdona,
che è simbolo di una violenza della vita.

Analisi:
Prima terzina
Come è fastidioso il vento che combatte → verso quasi militare, lessico bellico
Si sente il rumore dei rami che sono secchi e schiocchiano
Fratte = siepi
Già dalla prima terzina si vede e si sente il rumore: l’uso della r è preponderante (come nell’Inno alla
poesia).

Seconda terzina
Su una siepe, forse c’ un qualcosa di bianco. C’è un indumento da bambino: un corredino ride in quel
marame = tra tutto ciò che viene spazzato via dal vento. Il piccolo bucato (il corredino) ride →
personificazione, ride nel senso che si muove.

Quartina
Rovaio = il vento, tramontana che romba, che fa rumore
Fasce= ciò che avvolge il bambino, in modo anche stretto
E da un ambiente triste perché c’è stato un lutto (ed è quindi come una tomba perché non c’è più la
persona cara), giunge una melodia (la ninna nanna per il bambino) che è lunga (il bambino non si vuole
addormentare) ed è paziente.

In queste strofe, due terzine e una quartina, Pascoli riesce a mettere tutto quello che è la sua poetica: la
natura che è una forza rumorosa, fatta di rami secchi che rendono l’idea di qualcosa di caduco, morto. Ma
poi c’è anche la natura forte, simbolo del male: il vento che travolge, spazza via. Il nido familiare è stato
travolto da un male, di cui non è facile capire le ragioni: è una poesia autobiografica.
Già da qui, possiamo vedere il suo modo di usare la parola per farcela capire: la sua è una parola che
illumina. L’uso dell’onomatopea – che non è la sola possibilità che lui ha per mostrare dei suoni –, per
Pascoli, è come un’orchestra: deve seguire il maestro, è guidata, non va da sé, non è una foresta di simboli
come lo era per Baudelaire (idea più confusionaria, casuale).

L’assiuolo (“Il Marzocco”, 3 genn. 1897) [sez. In Campagna]


Il contesto: in una notte che è chiara, illuminata dalla luna, si sente il verso dell’assiuolo (un uccello simile al
gufo). Qui, Pascoli avvalla un po’ la credenza popolare che questi suoni inquietanti siano dei cattivi auspici,
di morte.

Lo schema metrico è preciso: tre strofe di doppie quartine; i versi sono tutti novenari, ad eccezione
dell’ultimo verso onomatopeico, costituito da una sola parola “chiù”, che riproduce il verso dell’assiuolo.

Analisi:
Prima strofa
Dov’è la luna? → La luna è colei alla quale ci si rivolge: i poeti, solitamente, pongono domande alla luna
(Excursus… Anche i futuristi avevano chiamato in causa la luna e dicevano “Uccidiamo il chiarore della
luna”; no alla luna, no a colei che mi fa pensare = sì alla modernità, alle luci artificiali, al progresso).
Un cielo senza luna è buio. Con la luna, è come se si fosse in compagnia o osservati.

Il cielo nuota in un’alba: c’è un bagliore → la luna non è una luna piena , la si cerca. Evidentemente, siamo
anche verso la fine di questa notte, inizia ad esserci l’alba. Sono gli alberi, alti, a vedere bene – non le
tamerici – la luna; più che io uomo.

Venivano soffi di lampi…: iniziano ad esserci delle nuvole, ci sono lampi in lontananza. Queste nubi sono
nere in contrapposizione con la sorta di bagliore, chiarore percepito. In lontananza, si sente dai campi un
suono, che è quello dell’assiuolo.
NB: Pascoli mette il suono “chiù” da solo, non lo spiega: il lettore sa già cosa significa in quanto può ricavare
il senso dell’onomatopea dal titolo. Questa poesia si presenta proprio come il trionfo dei suoni – o del
singolo suono protagonista. C’è la creatura ma solo attraverso la sua voce: l’assiuolo parla. Il fatto che ci
metta queste lettere che creano questo suono non è perché vuole riprodurre il suono come la realtà: non
vuole essere poeta realista, ma vuole tradurre quel suono con parole umane, con un insieme di lettere che
possano farmi capire com’è quel suono, in modo da non doverlo specificare. Questo è il concetto di
linguaggio pregrammaticale, così come l’ha definito Gianfranco Contini (critico): un linguaggio in cui si
sottolinea la posizione che è al confine tra il puro suono, asemantico, e la parola che è munita di un senso. Il
suono viene prima; si va in fondo alla verità ontologica della cosa.

“Pascoli o trascende il modulo di lingua che ci è noto dalla tradizione letteraria, o resta al di qua: a
ogni modo siamo di fronte a un fenomeno che esorbita dalla norma. Riconosciamo anzitutto la
presenza di onomatopee, «videvitt», «scilp», «trrtrrtrrterittirit», presenza dunque di un linguaggio
fonosimbolico – che evoca oggetti o significati tramite il suono. Questo linguaggio non ha niente a
che vedere in quanto tale con la grammatica; è un linguaggio agrammaticale o pregrammaticale,
estraneo alla lingua come istituto”.

Seconda strofa
Le stelle si illuminano raramente, ma ci sono e c’è una nebbia che quasi assomiglia al latte: è un chiaro
riferimento al mondo umano, del bambino. Poi, c’è un movimento come quando si culla un bimbo ed è
proprio così che si muovono le onde: è il dondolio del bambino. Sentivo questo fruscio tra le siepi:
onomatopea. Questa anafora del sentivo incalza e dà una melodia. Questo suono crea una specie di
singhiozzo che ricorda un dolore antico che si ridesta, che è quello della tragicità della sua famiglia.
Terza strofa
Lucide: si vedono, è limpida la vista.
Il vento trema.
Sibilo creato dalle cavallette che è simile al sistro, strumento degli egiziani, e che sono ciò di cui si ciba
l’assiuolo. Questo suono del sistro e dei tintinnii ci introduce al regno dell’oltretomba.
Pianto di morte= riferimento al dolore.
Quel suono onomatopeico del chiù risveglia una verità, un dolore ma è un dolore che ha una sua dignità,
una sua bellezza e che nelle piccole cose scopre la verità.

Questo ci dimostra come Pascoli intende la sua poesia e il suo ruolo. Sempre Contini individuava le varie
componenti del lessico poetico di Pascoli: da una parte, appunto, gli elementi del linguaggio fonosimbolico,
come le onomatopee; dall'altra, però, elementi fortemente codificati, appartenenti alle cosiddette lingue
speciali (linguaggio postgrammaticale), come il linguaggio impastato di italo-americano parlato dagli
emigranti del poemetto Italy, i termini del vernacolo della Garfagnana, i nomi propri strani ed esotici, i
termini arcaici dei volgari del Duecento.
E allora, anche in questa poesia, notiamo l’uso di determinati termini precisi e puntuali, tecnici, esatti, a
volte dialettali/locali, altre volte dal lessico contadino. C’è dunque una conoscenza ricca di Pascoli nei
diversi ambiti (come qui in quello egiziano dell’oltretomba).
La parola, per avere valore e per arrivare al cuore, deve, dunque, seguire una strada, un metodo. Per
esempio, qui, il poeta, per farci capire il dolore, passa attraverso l’assiuolo (termine specifico e studiato): la
poesia ha il compito di puntare alla moralità e all’ontologia, di essere eterna.

L’ultimo viaggio [dai Poemi Conviviali, 1905] (unica opera meno sincronica alle altre: è scritta un pochino dopo)
I Poemi Conviviali sono stati scritti tra il 1904 e il 1905. Si tratta di una raccolta molto significativa: per tanto
tempo si è pensato che questi poemi e il titolo alludessero al “Convito”, una rivista così chiamata, dove essi
compaiono nel 1905. Di fatto, comunque, questi componimenti sono dedicati ad Alfonso de Bosis, l’editore
che possedeva questa rivista. Essa si opponeva molto alla scienza positivista, alla letteratura che vedeva
l’uomo come documenti umani (argomento caro a Pascoli). Ma, in realtà, il termine “poema conviviale”
deriva dalla Carmina Convivalia [ancora una volta abbiamo un titolo italiano che però nasconde una
ragione latina (rifacimento al mondo classico, greco e latino, che lui conosceva benissimo per la sua
formazione: una ripresa innovativa)]. Questi carmina, nell’antichità, erano dei canti che venivano musicati
durante i banchetti; canti che allietavano il banchetto (ed è in queste occasioni di incontro che, per Pascoli,
nasce la poesia --> suggestione del Simposio platonico o del Convivio dantesco). Quindi, si introduce
proprio un’idea di unità, di compagnia, di festa e di condivisione. È proprio attraverso questa modalità di
stare insieme che Pascoli illumina in questi poemi alcune figure per lui importanti. L’ultimo Viaggio parla,
per esempio, di Ulisse – non lo intitola Ulisse, perché ci parla di tutto il suo viaggio, che è anche quello
dell’uomo. Invece, l’ultimo poema conviviale, Buona novella, sarà diverso dagli altri diciannove (totale 20
canti) con un rinvio alla novella evangelica. Ci presenterà tanti personaggi – Solon, il cieco di Chio, … – che ci
faranno riflettere su quale sia il compito dell’aedo e su chi sia l’eroe, su come guardare all’eroe.

Pascoli si rivolge al passato, guarda indietro per cercare il bello, il vero. Nel momento in cui uno siede a
tavola con un altro amico, infatti, si crea una convivenza, uno stare insieme. La tavola fa gruppo, allegria,
compagnia. Ed è in quei particolari che, per Pascoli, nasce il nuovo poetico. Ciascuno di noi ama rievocare
le cose fatte, accadute, ma nel raccontarle spesso esse vengono amplificate. Il ricordo, a volte, può essere
ammantato di vero: non è semplice ricordare tutto. E la distanza che separa i ricordi dal presente fa
assumere una sorta di patina che rende il passato poetizzabile. Rimane ai nostri occhi ciò che è migliore, ed
è lì che devo capire bene qual è il vero. Il poeta, dunque, è colui che riesce a togliere quella patina, quello
che è eccessivamente amplificato. Dai carmina convivalia, prendiamo l’idea, dunque, di un canto che nasce
in virtù del mio poeta (il vero poeta, il cantore, l’aedo, il rapsodo).
Ciò che troviamo nei poemi, inoltre, non è lontano da quanto detto nell’inno della Poesia, dove Orfeo è
colui che riesce a fare poesia, a trovare la parola (“mutava l’alpestre in culta razza” = cambiava
l’animalesco, il barbarico in uomo); così come quanto letto nella poetica del Fanciullino (che è la prosa
teorica da ritrovare nella poesia dei Poemi Conviviali). Il poeta è raffigurato come l’unico che possiede la
divina capacità di vedere e sentire al di là delle apparenze. È una sorta di veggente che riesce a percepire il
mistero, che evoca il mistero. E lo fa attraverso la potenza e la forza della parola. Colui che vede nel già
saputo, qualcosa di nuovo: per Pascoli, l’antico è nuovo. Per questo, diciannove canti su venti hanno per
protagonisti uomini dell’antico mondo greco e latino: il poeta riesce ad attualizzare l’antico, prendendo i
miti del passato per attingervi il bello, per risanare gli animi dei nuovi barbari (rivisitazione dell’antico, di cui
Pascoli aveva una grandissima conoscenza). E lo fa con il canto, con la poesia, riuscendo ad elevare il
mondo barbaro alla dignità di essere uomini, cioè coloro che cercano il vero e la conoscenza. Il canto fa fare
un salto qualitativo all’uomo, lo fa entrare nell’era nuova: è il passaggio dall’homo sapiens all’homo
humanos. Però c’è un problema di fondo: i valori dell’uomo vacillano, vengono meno. E Pascoli ci aiuterà a
scoprire come superare anche questi momenti di crisi.

Il compito della poesia è quello di celebrare il vero: Pascoli si mette in gioco per cercare i controluce, per
cercare se nel tutto c’è la vanità. E, nel farlo, parte dalle sue conoscenze sul passato: la base dei poemi
conviviali è sicuramente Omero (Iliade e Odissea), Esiodo (la Teogonia, Le opere e i giorni), il Fedone di
Platone, Apuleio e l’Asino d’Oro (o anche conosciuto come La Metamorfosi). Il risultato che Pascoli ottiene
è quello di una poesia colta, classica, che è intessuta di moltissime citazioni, dove non è sempre facile
capire se è una traduzione di un passo o se è una sua immedesimazione totale nei testi antichi. A volte, c’è
anche una mescolanza di termini tecnici. In generale, c’è un tentativo di nobilitare quella che è la materia.
Da quelle umili tamerici, è come se pian piano Pascoli iniziasse ad alzarsi.

Tra le varie figure che incontriamo c’è proprio la figura di Ulisse, che è colui che ripercorre le antiche rotte,
che va in ricerca, che è destinato al naufragio, al nulla. E Pascoli, mostrandoci questo viaggio difficoltoso, ci
vuole far capire che non c’è solo il bello – e qui entra in gioco la sua storia familiare, con tutti i lutti e le
difficoltà del caso –, c’è il male, c’è il dolore.
Ci concentriamo sulla parte finale dell’Ultimo Viaggio. In totale, sono 24 canti di endecasillabi sciolti, dove il
personaggio è Ulisse. Ma questa volta, a differenza di quanto fatto in canti precedenti, non intitola il canto
con il nome del protagonista: Pascoli mette piuttosto l’accento sul tema del viaggio. Ulisse, infatti, è il
viaggiatore per eccellenza: il termine greco che più lo caratterizza è “polytropon” = multiforme, in quanto è
un personaggio che ha tanti volti. E questa sua qualità, la si vede ancora di più tra 800 e 900 perché diventa
un personaggio trattato da numerosissimi autori (D’Annunzio, Graf, …) nella modernità letteraria – periodo
dal quale emerge un nuovo modo di guardare ai modelli, con l’insorgere di molte problematicità
(emigrazione, …); un nuovo modo di essere di fronte all’uomo e ai suoi problemi –, per toccare il tema
dell’identità dell’uomo: l’uomo che deve cercare di comprendere se stesso (Ulisse può essere visto anche
come modello di Uno, nessuno e centomila). E i due autori con i quali, però, nella modernità letteraria si
cerca di fare i conti sono Omero e Dante (XXVI canto → Ulisse è all’Inferno per le frodi che ha commesso,
non per essere andato oltre le colonne d’Ercole). La lezione dantesca, in particolare, forgia un nuovo
archetipo, dando vita a un’inquietudine, a quel cercare di capire come si può andare oltre.

Pascoli ci presenta Ulisse come “eroe navigatore”. Ma anche come eroe stanco. Tendenzialmente, infatti,
gli scrittori ci presentano un Ulisse che è vecchio, stanco, che ha fatto la sua strada, che aspetta il momento
della morte. All’inizio, dunque, Ulisse ci viene presentato nel suo appoggiare il remo come se fosse una
pala, una pala con cui vangare, coltivare – emerge ancora il mondo bucolico e georgico. Ma, poi, Ulisse
decide di ripartire, provocato dal capire e dal voler ricordare, andare a rivedere tutti i posti che ha visitato,
tutte le rotte, tutte le peripezie, vuole andare verso la conoscenza, non verso l’ignoto – come l’Ulisse
dantesco –, si rivolge al passato, all’antico. Vuole verificare – ovvero rendere vero – quello che ha vissuto:
nella tranquillità c’è l’andare a vedere ciò che è accaduto. In questo viaggio lunghissimo e statico – perché
per 12 canti si descrive la preparazione al viaggio (è il poema più lungo della raccolta) –, ci sono tre passaggi
importanti: la gloria (Ciclope), le sirene e il vero (Calipso).

Analisi XX. La Gloria


All’inizio del canto, siamo di fronte ad una scena bucolica – solo il titolo del canto precedente “Il Ciclope” ci
fa capire che siamo sull’isola dove abitava Polifemo, per il resto, Pascoli, inizialmente, tace sul ciclope.
Notiamo che quasi sempre si inizia con la congiunzione “E”: uso grammaticalmente scorretto che, però, dà
l’idea di un discorso continuativo, che non si arresta, così come non si arresta mai la conoscenza.
Subito dai primi versi c’è il colore, il movimento, il suono (ancora una volta linguaggio pregrammaticale).

Si crea il silenzio, la magia e la sazietà dell’uomo: tutti questi piccoli ovini iniziano a succhiare il latte dalla
mamma. In questo modo, Pascoli ci prepara a quella mancanza di conoscenza che Ulisse ha.

L’uomo, il pastore, vede il Vecchio Eroe: ripetutamente, Ulisse viene chiamato Eroe vecchio, e non più
navigatore. Ulisse è meravigliato di quell’uomo: gli parla con parole “alate”, con una nobiltà di pensiero.
Notiamo l’ospitalità: nel mondo greco, l’ospite era venerato, onorato, rispettato.

Ulisse chiede a quest’uomo se conosceva/ sapeva – verbi, insieme a “vivere” e “vedere”, che tornano
spesso in questi canti – di un uomo gigante con un occhio tondo – rimando al mito, all’antico. Ma il pastore
dice di non sapere nulla, che lui viene dalla terra, dal di dentro, e quindi non conosce nessuno.

Ancora una volta usa la parola “Eroe”, come se cercasse di tornare a quell’idea mitologica di eroe – questa
volta senza aggettivo.

I fanciulli – figli del pastore – sono in silenzio, in ascolto, tutti attenti ad Ulisse, all’eroe, e al suo racconto.
Allora, Ulisse prende parola e racconta le sue vicende passate.

Inizia ad esserci sovrapposizione tra quello che è il mito – Ulisse che acceca Polifemo – e quello che è la
verità. Quello che secondo l’Ulisse è il ciclope, per il pastore non è altro che un vulcano: sovrapposizione di
quel modo nuovo che Pascoli ha di guardare al passato. L’occhio del ciclope altro non è che il buco da cui
fuoriesce la lava del vulcano.

Ecco che abbiamo la verità (scopriamo qual è la realtà tra le due sovrapposizioni: la versione omerica e
quella pascoliana): il pastore si rivolge a sua moglie e le dice “Ricordi quel Telemaco Euripide che ci aveva
raccontato che c'era un grande vulcano che eruttava lava e che creava un grande rimbombo e che era
tondo occhio di fuoco?”. Quello che dice il pastore alla moglie è la stessa descrizione fatta da Ulisse, ma
riferita ad un soggetto diverso (Ciclope <> Vulcano).

Ulisse diventa “Moltaccorto”: epiteto usato, forse, in maniera ironica (Ulisse non riesce a capire o a credere
a quello che sta sentendo).

“Odisseo”: Pascoli, alla fine, lo chiama per nome perché siamo alla resa dei conti, siamo di fronte alla verità.

“Nessuno”: torna il mito, Omero e lo stratagemma di Ulisse (“Mi chiamo Nessuno”). Pascoli, in questo caso,
però, lo fa per far capire che non è accaduto nulla → non si vede niente, non si sente nulla. Il pastore dice
che, in quel luogo, non succede nulla, non è mai arrivato nulla. L’incontro si conclude in questo dialogo.

Il canto si chiude con uno dei compagni di Ulisse che prende la parola: vuole rimanere lì, con il pastore, in
quella terra. Come se trovasse veramente il suo posto: un eroe che non è più eroe. Pascoli, attraverso la
scelta del compagno, mette lo stesso Ulisse davanti ad una scelta: il suo compagno resta, Ulisse, invece,
non si ferma e prosegue nel suo cammino della conoscenza.

Analisi XXI. Le Sirene


Le sirene sono creature molto usate in letteratura – metà pesce/uccello, metà umane. Nell’Odissea, le
sirene, con il loro canto ammaliante, attirano i navigatori e li portano verso la morte. Ulisse, invece,
secondo il mito, si fa legare all’albero senza tappi perché vuole ascoltare il loro canto senza morire (anche
in questo è eroe). Ma Pascoli ce lo presenta diverso.

Il viaggio continua ed Ulisse è triste per quello che non ha visto: la sua conoscenza è diversa da quella che
lui aveva in mente, è una verità diversa. Ma non è ancora convinto (da con-vicio): non è legato a quel vero.

Ulisse guarda indietro e vede quel fumo che è proprio del vulcano quasi spento: è vero che quello non era il
ciclope, non era Polifemo. In questa descrizione, emergono ancora una volta i colori, l’alba – la notte, i
suoni. A coloro che remano, però, rimane il dubbio: allontanandosi, nell’ombra, quella sembra ancora
l’isola dei ciclopi.

Odisseo capisce che è stato un sogno il suo: gli “squittisce” dentro – mondo animale e suoni.
Contrapposizione di concezione: lui è affranto perché ha vissuto un sogno, un’illusione – il passato può
essere tale –, ma quel vero oltre il sogno è il buono – non devo rimanerci male per la scoperta. Ed è il
poeta, il cantore a farmi trovare quel buono.

Anche se ha capito che il ciclope era un sogno, Ulisse non ha ancora scoperto/compreso tutto. E, quindi,
ripensa alle Sirene – sperando che non siano state anch’esse un’illusione. Ulisse si ricorda che, vicino al
mare, c’era un prato: è quello il luogo in cui aveva visto le sirene. Arrivato lì, è certo di sentirle cantare.
Esorta i suoi compagni ad andare avanti nella conoscenza, ad ascoltare il canto.

Ulisse, poi, si ricorda che Circe l’aveva fermato, gli aveva impedito di sapere le cose, di conoscere: si ricorda
che l’aveva trattenuto con l’inganno e che l’aveva ammonito sulle sirene. Ma l’uomo che è eretto, che è
diverso dalle belve perché ha un pensiero, una ragione, usa il cuore, va avanti e non si ferma, con tutto se
stesso. Sente in lui forte la necessità di conoscere anche a costo di morire e non tornare dalla moglie –
come in precedenza, invece, aveva fatto, dimostrandosi più cauto e accorto.

I suoi compagni sono diventati “vecchi curvi”: torna il tempo che è passato. Ulisse li esorta ad andare verso
ciò che è bene – il sapere – e quindi ad udire il canto delle Sirene. All’inizio del canto, lui le ha sentite già,
ma le vuole sentire meglio. Ma se nell’Odissea era stato legato per sentirle, adesso vuole ascoltarle da
uomo libero.

Funi ignave: dagli ignavi di Dante, coloro che non hanno preso una posizione. Ulisse non vuole essere come
loro, lui vuole la libertà, vuole sbilanciarsi.

Testa bianca: è vecchio. I suoi capelli sono bianchi come la vela, che è pulita perché non ha più navigato.

E Ulisse pensa che tutto quello che sentirà dalle labbra delle Sirene gli potranno permettere di essere di
nuovo l’eroe di un tempo.

Se il canto di prima, “La Gloria”, è terminato con il compagno che decide di stare con il pastore, questo
termina quasi in ugual modo, con il riecheggiare di come è la vita del pastore (il pensiero della moglie, del
raccolto), che per Ulisse, però, non è abbastanza. Lui continua il cammino (il canto successivo s’intitola
infatti “In cammino”).

Analisi XXIII. Il vero


Il prato fiorito era nel mare: il prato che lui pensa di vedere nel mare, non lo trova, non lo vede più, è più
lontano.

Uso del futuro: prima dice di aver sentito le voci delle Sirene, ma adesso non le sente più e quindi parla al
futuro; le sentiremo.

“E la corrente … la nave.” : è una sorta di ritornello/leitmotiv che torna ben tre volte. È come la ninna
nanna che ci culla nel silenzio sordo.
“Divino”: è nel momento in cui deve ancora scoprire la verità.

Odisseo dice di vedere le sirene: vede il capo, che sono appoggiate sui gomiti, guardando il mare davanti a
sé. Ma non le sente (Dormite?).
Fa loro un appello: io sono quello di prima, di tanto tempo prima. È importante che dica “Io sono” (per lui,
inizialmente, è una certezza: lui è eroe, è mortale, ma…): da qui fino alla fine del canto inizia a sorgere la
domanda “Chi sono? Chi ero?”, perché lui deve cercare se stesso, deve conoscere il vero (la certezza si
muta in dubbio).

Lui pensa di vedere queste Sirene e cerca di richiamare la loro attenzione: “Sono io che torno per sapere”.
Anche qui il motivo della conoscenza , del capire, del sapere, ritorna.

Ulisse si domanda chi è. C’è una ricerca dell’io che è insita a quello che sta vivendo l’uomo novecentesco. E
Pascoli lo sa bene: scrive un testo che è la ricerca dell’identità dell’uomo in generale, non solo del suo
Ulisse.

Le due sirene non sono altro che i due scogli. E le ossa che vede sono ossa di uomini e navi che sono andate
a sbattere contro quegli scogli.

Notiamo che le frasi sono coincise, brevi. Solo il verbo è parola.

Lui non si rassegna, vuole che parlino. Vuole sapere da loro chi è lui. Vuole capire cosa gli è accaduto in
passato. Quando fa queste domande e grandi affermazioni, torna sempre il ritornello.

Quel desiderio di conoscenza e verità non ha più il punto interrogativo. Diventa quasi una frase
affermativa, un’esclamativa.

Infine, la nave si spezza tra gli scogli.

Analisi XXIV. Calypso


Il mare è quello che in fondo ha amato Ulisse: lui è l’eroe navigatore ed è per questo amato dal mare. Ed è
proprio il mare che, nel racconto, sospinge il corpo dell’eroe senza vita verso l’isola di Ogigia, dove c’è
Calipso. Un’isola rigogliosa, dove c’è tanta uva, foglie, alberi, natura, falchi, gufi, cornacchie (uccelli che
sono preludio di qualcosa di negativo, ma che hanno lì il loro nido – un nido che Ulisse non ha più). Ma oltre
alla natura, nessuno di vivo abita più quell’isola.

Appare una donna che nota come questi uccelli, abitanti dell’isola, siano agitati e si chiede che abbiano
visto, perché si agitino tanto.

Gli dei odiano Calipso perché è colei che ha trattenuto Ulisse nell’Odissea – Calypso da “calypto” vuol dire
nascondere.

Facendolo andar via, Calipso riconosce di aver lasciato l’uomo al suo dolore: Ulisse è ripartito e ha seguito
una sua strada, un suo metodo.

Calipso esce e vede un uomo disteso: era Odisseo, lo riportava il mare alla sua dea. Colei che l’aveva
nascosto, che era rimasta da sola nell’isola deserta – un’isola al centro del mare, al centro della conoscenza,
alla verità che ha voluto capire Ulisse.

Ulisse è rimasto senza nulla, è andato al di là delle sue colonne d’Ercole – Pascoli sovrappone l’Ulisse
omerico a quello dantesco. Nell’andare all’al di là della comprensione di chi era, Ulisse ha trovato la morte.

Nessuno più lo sente – chiara allusione a quel nessuno che può essere anche il suo nome.

Il canto termina con una frase forte e pessimista: “Sarebbe meglio esser non nati, piuttosto di morire
così” = morire schiantati contro dei sassi. È anche curioso che questa fine avvenga contro qualcosa che
dovrebbe cantare: ci sta dietro tutto quello che è il compito del poeta, quello di far catare, tirare fuori la
melodia, la parola. Ulisse sacrifica la sua vita per conoscere quel vero che Pascoli dice che è buono. L’uomo
non può vivere senza conoscere il vero – come viene anche sottolineato nel canto dantesco.

Questi versi tragici indagano sul senso della vita dell’uomo. Quel vero che l’uomo cerca fa i conti con i
propri limiti. E qui, Pascoli sembra abbandonare l’Ulisse omerico per quello dantesco: la fine che fa
assomiglia più a quest’ultimo. Ma questo non elimina l’idea che il vero possa essere buono.
Infatti, l’ultimo poema della raccolta è proprio la buona novella, di cui abbiamo già parlato: inizia ad esserci
un nuovo messaggio che è civile, umano. Pascoli proietta in avanti, riguarda all’antico in un modo nuovo e
diverso, che noi non ci aspetteremmo, guarda a un nuovo umanesimo. E qualcosa di nuovo lo porta la
poesia.

Riassunto
Ulisse ha girato il mondo, ha visto tante cose, è stato un grande eroe. Non gli basta quello che ha visto, non
gli basta la scienza. Quello che vive Pascoli è un cammino da includere nella sua vita personale e nel
contesto a cui appartiene: siamo verso una crisi dei valori, verso il positivismo. Il concetto di Pascoli si
inserisce in questo contesto: Pascoli insegue quel mistero, indaga la composizione, il funzionamento, cerca
la sua identità (non è proprio d’accordo con la direzione positivista in cui si sta andando). Più volte torna la
domanda “Chi sono?”. E, in fondo, Ulisse si porta nella tomba questa domanda, che rimane senza risposta.
Cinicamente la conclusione è solo la morte. Ma di fatto non dipende dall’uomo: Ulisse non va
intenzionalmente contro la morte, lui vuole capire e conoscere; esattamente come l’Ulisse dantesco che
vuole andare al di là delle Colonne d’Ercole.

Se la produzione pascoliana si fermasse qui, rimarrebbe un vero e proprio interrogativo. Ma c’è un


passaggio, che non affrontiamo, che è la produzione successiva che inizia a parlare della Buona Novella,
l’annuncio di colui che è considerato il salvatore. Con questo testo, però, non dobbiamo pensare solo
all’arrivo di un cristianesimo che risponde alla Domanda. Nella produzione successiva, c’è questo desiderio
di umanità, socialità che è quel desiderio di bene comune tipico dei suoi ultimi anni, anni in cui si impegna e
indaga su ciò che fa del popolo, popolo italiano, patria d’Italia. Infatti, negli ultimi periodi della sua vita, è
attento ai ceti sociali a tal punto da essere considerato il poeta ufficiale della patria, che ricerca questo
impeto di Pace – parola che ritorna tante volte nella Buona Novella.

Ma questa sua attenzione alla società, al mondo, a ciò che ci circonda, lo si inizia già ad intravedere nei
poemetti (oltre che nella sua ultima produzione: nei poemi del Risorgimento, nelle canzoni di Renzo, …).

I poemetti - Italy
I poemetti sono un’opera suddivisa in due parti, tra primi e nuovi poemetti. In particolare, nel poemetto
Italy, inizia ad entrare nella sua poetica e nella letteratura italiana il concetto dell’emigrazione.

La prima edizione dei poemetti è del 1897. La seconda edizione è del 1900 e siccome il disegno della
raccolta aumenta, alla fine, decide di sdoppiare i poemetti: i primi poemetti che escono nel 1904 e i nuovi
poemetti che escono nel 1909. Essi formano una sorta di dittico, dove su entrambe le raccolte fa scrivere
un’epigrafe: “Paolo maiora” che vuol dire cose un po’ più grandi. C’entra con Myricae, il cui titolo deriva,
appunto, dalle Bucoliche virgiliane: il verso precedente a quello di Myricae, infatti, dice “Sicelides Musae,
paulo maiora canamus”. Ancora una volta, con questa frase, Pascoli vuole far intendere che la sua poesia
parte da un mondo che è agreste e bucolico, ma un po’ più alto, più georgico. Il clima è più arioso, solenne,
si vuol fare un passettino di più, un passettino che si ritrova in quella società, in quell’idea di buono e bene
che Pascoli inizia a voler trasmettere. Ma, ancora una volta, rimane molto ancorato alla vita quotidiana, ai
lavori agricoli, alle faccende domestiche e al cambio delle stagioni. L’attenzione maggiore è proprio
quest’ultima: Pascoli è attento a come ci sia un ordine ciclico che regoli la nostra vita, legato alla natura e
alla sua capacità di renderci nutrimento in diversi momenti. Ecco perché intitola alcuni poemetti la
Vendemmia, La fiorita: per esaminare questi cambiamenti. Ci presenta sempre anche una vita quotidiana,
una civiltà che è semplice, laboriosa, che segue i ritmi della natura; una civiltà contadina. C’è una
celebrazione, più che in Myricae e nei Canti, di questa civiltà rurale e la celebra sempre in modo quasi
omerico perché attinge sempre dalla classicità e da Omero. Si esalta uno stile di vita, ciò che possiedono i
piccoli proprietari terrieri, che quindi sono padroni di quello che hanno: possiedono perché lo coltivano
loro, non devono rendere conto a nessuno; vivono in pace e tranquillità. Un componimento, addirittura, si
intitola Pietole che è un omaggio a Virgilio: Pietole è un piccolo paesino di Mantova, dove Virgilio nasce.
Pascoli, dunque, fa proprio intendere quali sono i suoi modelli e qual è la sua linea poetica. Questo
concetto di attaccamento alla terra e al proprio nido familiare ci aiuta a capire il dramma che si vive alla
fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento in Italia: quello di tanti italiani che purtroppo emigrano oltre
oceano perché non riescono più a far fronte a tutti i disagi economici a cui stanno andando incontro.
Quindi, partono, lasciano tutto quello che hanno, per andare a far fortuna, soprattutto in America. E c’è
uno, l’ultimo dei primi poemetti di Pascoli che s’intitola Italy.

[Video sull’emigrazione e governo giolittiano]: molta gente povera, semplice va a cercar fortuna
altrove → c’è chi la trova e chi, invece, torna indietro. La drammaticità del staccarsi dai loro affetti,
dal loro nido familiare è forte. Da qui, ha origine una letteratura che prosegue fino all’esodo
Giuliano-Dalmata. Tutti i racconti di coloro che partono, anche per nave, sono tragici per il modo di
partenza, le condizioni (quasi da essere paragonati a quelli dei deportati). All’epoca, Giolitti sulla
questione dice alla figlia: “La politica è per l’uomo, ma è fatta da uomini – è difficile dare giudizi e
prendere decisioni”.

Parentesi su… Edmondo De Amicis: (anch’egli parla di questa emigrazione di fine secolo) Nel 1861 c’è
l’unità d’Italia, ma mancano gli italiani: c’è un grandissimo analfabetismo, più del 75%. Si vuole che la gente,
oltre a leggere e scrivere, abbia una mentalità e una cultura: senza di esse è difficile farsi capire/seguire dal
pdv economico o politico. Il desiderio è che il concetto di patria possa arrivare a tutti, puntando sulle
poche persone che sanno leggere e scrivere, attraverso i mezzi di comunicazione. Gli articoli di giornale
sono quelli che vanno per la maggiore perché possono comunicare qualsiasi cosa. Anche perché, il mondo
editoriale va un po’ a rilento; occorreva un modo di scrittura semplice ma chiara.

E uno scrittore fondamentale sarà De Amicis, egli nasce ad Orelia nel 1846, si sposterà a Torino e a
Modena, dove frequenta un’accademia militare. Nel 1865 è sottotenente militare e partecipa alla Terza
Guerra d’Indipendenza nella battaglia di Custoza (anche qui non siamo di fronte ad un uomo chiuso nella
scrittura, ma che si impasta con la realtà). Nel frattempo, Firenze diventa capitale ma anche la sede di
molte riviste su cui scrive De Amicis. In particolare, c’è una rivista che si chiama Italia militare. E De Amicis è
il primo ad esaltare la patria, l’esercito, il servizio militare. Ed è importante perché comunicare quanto un
servizio militare sia importante, valorizzarne le conseguenze, è in contrasto con i poveri contadini che non
vorrebbero privarsi delle forze dei giovani. Per convincerli, bisogna spiegare cosa ci sta dietro ad un
servizio militare e a servire la patria. De Amicis è uno dei primi che ha lui stesso servito la patria e che si
mette al servizio della cultura/nazione. E tutti questi articoli che scrive li riunisce poi in una sorta di libro
che s’intitola “Vita Militare” del 1868. La fama di De Amicis inizia a crescere e iniziano a chiamarlo delle
riviste molto prestigiose come la Nuova Antologia o La Nazione. La rivista La Nazione (quasi tutti i grandi
scrittori hanno precedentemente una carriera nel mondo del giornalismo e delle riviste: si tratta di una
scrittura più immediata e sintetica) invia De Amicis in Spagna come reporter, grande novità per l’epoca:
mandare qualcuno veramente a vedere che cosa succedeva in un luogo. De Amicis diventa uno scrittore di
viaggio e dà il via a questa letteratura di viaggio. Lui si definiva un “ripetitore accattivante del già noto”: lui
non va per scoprire, ma a vedere ciò che è già accaduto e per trovare dei particolari gustosi. Un grande
critico della letteratura italiana, Carlo Dossi, dice di lui che “descrive non osserva”, cioè non ha una scrittura
problematica, ma una scrittura sentimentale, poetica. È, quindi, non un “verista”, ma cerca di rendere la
realtà piacevole e coinvolgente – anche se non inventa nulla. Sono racconti dove usa l’arte del bel stile. In
ogni caso, è considerato un reporter, un inviato e inizia proprio a scrivere tantissimi racconti che poi escono
in volume: Olanda del 1874, nello stesso anno Ricordi di Londra, nel 1876 Marocco, Costantinopoli nel
1878-1879, Ricordi di Parigi nel 1879. Tutti questi titoli di opere sono luoghi: ha viaggiato molto e per tanto
tempo. Diventa una sorta di lavoro per lui: in breve tempo, diventa un autore di consumo → è una lettura
commerciale perché tutti vogliono sapere.

L’editore Trebes, importantissimo all’epoca, gli chiede espressamente un libro patriottico, un libro che vada
ancora più a fondo sulla questione dell’emigrazione. Ma rimane lì l’idea perché De Amicis non è di
quell’avviso: c’è in lui una vena sentimentale-poetica, non vuole essere un reporter freddo. Quello che lo
colpisce di più è il ritratto dell’uomo, di qualsiasi uomo che incontra nei suoi viaggi. Tanto che nel 1883,
scriverà il libro “Amici” → mix di ritratti, a lui interessa l’uomo. tutte queste richieste che vengono dalle
riviste sono ben retribuite: farà dei compromessi per il suo sostentamento. Nel 1884, scrive “Alle porte
d’Italia” che aveva come argomento proprio la celebrazione della patria. Avendo però ormai il ruolo di
scrittore di viaggi e di consumo. L’editore lo convince e gli dice di andare dove vanno tutti e cioè in America.
Lui, all’inizio, non vuole ma poi cambia idea e annuncia all’editore che lo farà con i suoi tempi e, forse,
scriverà un romanzo “Sull’Oceano”. Il 16 marzo del 1884 parte per l’Argentina da Genova e con lui ci sono
1100 migranti. È un viaggio che gli viene ben retribuito ma dove lui inizia proprio ad impastarsi con questo
grande problema migratorio e capisce che questa è una condizione umana molto complessa, che lui vuole
conoscere, capire attraverso l’incontro con chi viaggia. Questo è, dunque, un viaggio fondamentale per lui,
più importante che vedere cosa succede là in America: si rende conto che la calamità di quel periodo è
quella che la popolazione italiana lascia tutto, un nido familiare.

Col tempo, chi come lui inizia a scrivere di questi viaggi, cadeva in una scrittura intimistica ed
eccessivamente ripiegata su di sé, si dava poco valore al dramma politico ed economico dietro alle
condizioni. In contemporanea, però, quando De Amicis torna dal viaggio, non ha il desiderio di scriverlo
subito: ci deve pensare bene. Un altro problema saliente dell’epoca è legato al mondo della scuola,
all’analfabetismo eccessivo che aveva portato alla Legge Coppino. Come ogni editore che insegue i
fenomeni, quando De Amicis torna, l’editore chiede un libro sul problema dell’istruzione, un libro che non
avrà molto successo ma che getterà le basi per il suo grande libro “Cuore”. Quest’ultima opera smuove le
coscienze: De Amicis sottolinea come occorre che la gente impari a leggere e a scrivere; che la scuola va al
di là delle differenze di classe. E questo libro Cuore esce il 15 ottobre del 1886 e serve per “fare gli italiani”.
Una settimana prima esce anche un suo racconto che è Dagli Appennini alle Ande e che racconta di questo
bambino Marco che va in Argentina e, dopo varie peripezie, trova la madre che è partita anni prima per
andare a lavorare: De Amicis fotografa in modo esemplare il dramma di tanti italiani.

Nel 1887 verrà chiamato per tenere una conferenza dal titolo “I nostri contadini in America”: titolo che fa
capire bene chi partiva. De Amicis si documenta molto su queste tematiche ma continua a dire che per fare
veramente un libro intero, lui non è in grado perché non vive sulla propria pelle quella condizione di DOVER
lasciare la sua terra, non riesce ad immedesimarsi. Nel 1902 scrive un altro libro “La mia officina” che è una
sorta di autobiografia dove inizia ad accennare a quel viaggio che aveva fatto tempo fa. Dagli esiti positivi
sia degli Appennini sia di questo suo nuovo libro, si convince e scrive il libro Sull’oceano che racconta i 22
giorni di viaggio per raggiungere le Americhe. Non racconta quello che accade in America, ma il viaggio per
arrivarci. Un viaggio dove non si vede nulla al di fuori, solo mare. Non c’è la scoperta, ma quello che vede
sono ritratti di uomini, storie. De Amicis è un viaggiatore, un cronista e si sente protagonista in quel modo:
osserva il micro-cosmo umano, è il pedagogo dell’unità nazionale. Rimane per lui difficile dare un giudizio
sulla partenza.

Una risposta a questa emigrazione, ce la può dare proprio Pascoli con il pdv che esprime in Italy. È un
poemetto molto lungo per la raccolta e che viene diviso in due canti, composti ciascuno da 225 versi (tot.
450; forma: terzine dantesche). È molto preciso nei numeri: nulla al caso. Questo poemetto è subito pronto
nel 1904. Si tratta di una voce importante per l’epoca (è letto anche da De Amicis). Qui, Pascoli affronta il
tema doloroso dell’emigrazione e racconta di due personaggi che si chiamano Beppe e Ghita, Giuseppe e
Margherita, due giovani (fratelli) – storia basata su un fatto veramente accaduto (Pascoli è cronista) che
Pascoli verseggia, mette in poesia – che hanno lasciato la Garfagnana, loro paese di origine, per andare ad
Ohio in America. Ad un certo punto, però, i giovani tornano a casa perché la loro nipotina Maria, detta
Molly – figlia di Cecco, l’altro fratello che è rimasto in America –, è malata di tisi (e sperano che l’aria
mediterranea possa farle bene). E allora c’è subito uno spaccato di un’Italia che è povera, che ha bisogno di
nuovi orizzonti.

Quindi, in questo poemetto si celebra il ritorno in patria – non è un viaggio.

La scena si apre a Caprona, vicino a Castelvecchio ed è una scena statica. È febbraio e fa freddo: Pascoli
inizia descrivendo il luogo, la natura, la stagione, il silenzio. È deserto, piove.

Analisi Italy
Parte I: Molly non è loro figlia. È malata e piccolina, magrolina. Dopo un lungo viaggio, le tre persone
tornano all’antico focolare, a casa. Ci sono due figure a casa, il nonno e la nonna di Maria.

Parte II: Entrano nella casa che è vecchia e brutta, dove c’è una scala rotta. Tornano da dove son venuti, ma
non sappiamo cosa abbiano trovato là, in America – certo è che questa bambina è malata. La natura è
immutata, è sempre stato lì: aveva sempre avuto il ruolo di tener fermo l’uscio. Cercano la nonna della
bambina.

Si descrive la scena di dov’è questa mamma: è al buio – bisogna risparmiare --> povertà –, sta facendo dei
lavori. Tutto è come immobile. È l’incarnazione di quello che è il nido familiare. Anticipazione: la bimba
Maria, nel periodo in cui sta in questa casa, vorrebbe andarsene, non le piace, non si trova a suo agio. È
tutto troppo povero, arretrato. Ma poco a poco, tutto cambia: inizia ad affezionarsi a quel luogo, a quella
nonna. Nel corso dei versi, la nonna morirà mentre Molly guarisce completamente. Non stava bene là
dov’era e, solo con la buona aria e la campagna, ritrova la salute. Questa bambina e questi giovani, poi,
torneranno in America, ma è un ritorno molto nostalgico.
Questo poemetto si chiuderò addirittura con la bimba che esprime il desiderio di tornare nuovamente in
Italia. Pascoli ci dice una cosa forte rispetto all’emigrazione: il vero nido è solo dove si è nati. C’è una forte
connotazione ideologica, lui è contrario alle partenze; bisogna rimanere dove si è.
Dobbiamo essere come le rondini che partono ma ritornano sempre. Le rondini sono migranti come noi.

Parte VII: trionfo della poetica pascoliana che tiene insieme molte cose: linguaggio onomatopeico →
“Sweet Sweet”: è Molly che nell’ascoltare il suono delle rondini intende che queste rondini tornano al loro
nido, dove si trovano bene. È un suono, quello delle rondini, ma anche una parola che significa dolce.

Tutto il poemetto è intriso di sperimentalismi: esso si chiude con dei nota bene di come si pronunciano
alcune parole fatte da Pascoli e perché usa determinati termini. Vi sono parole italiane, inglesi, neologismi
di un italiano inglesizzato e di un inglese italianizzato. È un plurilinguismo che ci fa capire come è l’italiano
del periodo. C’è una continua contaminazione che porta con sé un collegamento tra il dolore delle classi
contadine che sono costrette a migrare e la certezza che il nido familiare è quello a cui l’uomo deve
tendere. Questa di Pascoli è una risposta politica a quello che sta accadendo: Pascoli sa che la sua poesia è
una poesia per l’uomo; il ritorno è il vero bene per quelle persone come per l’uomo.

DEPORTAZIONE DEGLI EBREI


Otto Adolf Eichmann
Costui fu un tenente-colonnello delle SS, il principale organizzatore della DEPORTAZIONE DEGLI EBREI e il
braccio destro di Hitler. Il momento in cui viene arrestato è molto forte: lui è colui che aveva organizzato a
tavolino, a mente fredda e lucida, il trasporto e gli spostamenti degli ebrei. Il suo processo fu rilevante in
quanto venne mostrato a tutto il mondo sulle reti televisive: fu una delle prime volte nella storia.
Se tracciassimo la storia editoriale dei libri sulla deportazione, troveremmo che negli anni 60, nel 62, ci fu
un’impennata di pubblicazioni di questi testi, in quanto questo argomento era stato svelato a tutto il
mondo, anche grazie a questo processo. Non che prima non si conoscesse la Shoah, ma ci fu tutta una
questione di difficoltà di parlare, di paura di parlare per chi aveva vissuto sulla propria pelle l’esperienza
della deportazione e, anche nel mondo editoriale, si evita di parlare di questi argomenti. Il caso più
emblematico è proprio la pubblicazione di “Se questo è un uomo”: nel 1946 il libro è già pronto ma viene
rifiutato; un rifiuto che porta la firma di Natalia Ginzburg, un’ebrea. Dunque, si voleva guardare oltre: altri
libri ebbero lo stesso fato di quello di Primo Levi e furono poche le pubblicazioni che riuscirono a vedere
luce. Poi, Primo Levi non si arrese e nel 1947 riuscì a pubblicarlo con una casa editrice piccola, De Silva.

• 11 maggio 1960 viene arrestato a Buenos Aires e trasportato in Israele


• 11 aprile 1961 viene condotto dinnanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme per rispondere a
numerosi crimini
• 15 dicembre 1961 è pronunciata la condanna a morte
• 22 maggio 1962 inizia il processo d’appello
• 31 maggio 1962 viene impiccato

Noi prendiamo in considerazione Eichmann soprattutto in relazione al lavoro di una famosissima filosofa,
Hannah Arendt, che nelle sue opere “Le origini del totalitarismo” e “La banalità del male” parte
dall’osservazione di quest’uomo durante tutto il suo processo per trattare, poi, tematiche più ampie.

Hannah Arendt: una vita intrecciata alla storia (Hannover 1906- New York 1975)
Ebrea tedesca, filosofa, allieva di Heidegger e Jaspers, Hannah Arendt conosceva bene quello che aveva
vissuto il suo popolo. Ella riuscì a migrare, a fuggire lontano, a sfuggire dalla deportazione; ma rimane una
delle pensatrici più lucide ed importanti sull’argomento.

- Emigra nel 1933 dalla Germania in Francia e poi negli Stati Uniti
- Insegna nelle università più prestigiose
- Tra le sue opere più importanti: Le origini del totalitarismo; Vita activa - La condizione umana; La
banalità del male.

[Video su Hannah Arendt, dal film omonimo]: https://www.youtube.com/watch?v=PEFP73paZ-I


Gli argomenti che tratteremo d’ora in poi sono legati al “male”, a come è possibile che il male accada. E
Hannah Arendt sarà in grado di sottolineare come ciò che l’uomo può arrivare a fare sia davvero banale.
Una cosa banale sembra una cosa da nulla, ma, in realtà, siamo di fronte a decisioni importanti, mortali,
prese in modo freddo: il termine è usato in modo provocatorio. Banale come per descrivere qualcuno che
non possiede quella ragione o quel cuore che fa dell’uomo tale. Eichmann, descritto in tal modo, appare,
dunque, come un inetto.

«Da Socrate e Platone in poi, definiamo come “pensiero” il silenzioso dialogo che avviene all’interno
dell’io. Essendosi rifiutato di essere persona, Eichmann ha rinunciato alla capacità fondamentale
che caratterizza un uomo, e cioè la capacità di pensare da sè. Ed in seguito a ciò non è stato più in
grado di esprimere giudizi morali. Questa incapacità di pensare ha rappresentato la condizione
preliminare affinché molti uomini del tutto comuni, compissero i misfatti più terribili in proporzioni
tali, che non si erano mai viste prima di allora. Mai prima di allora». (discorso del film)

«Il male è come un fungo che devasta tutto, è estremo ma non profondo, non è radicale, sfida il
pensiero, cerca di andare alle radici ma non ci riesce. Solo il bene è profondo ed è radicale» (Le
origini del totalitarismo)
Saggio “La banalità del male”
“Egli non capì mai che cosa stava facendo”= Eichmann stesso riconosce di essere “uomo che non pensa”,
un’affermazione che creò molto scalpore, in quanto ci si aspettava che egli, per le cose che aveva fatto,
fosse un uomo terribile. Terribile fu, ma a guardarlo come veniva inquadrato, tutto il mondo rimase colpito
dal suo apparire comune.
Un uomo che non ha idee: non l’uomo mostruoso che noi abbiamo in mente – ma che comunque ha fatto
quel che ha fatto in modo freddo.

Saggio “Le origini del totalitarismo”: prosegue il discorso dell’altro saggio e, in più, riprende il concetto di
totalitarismo.
È vero che siamo di fronte al male dispiegato in tutte le sue forme; ma c’è sempre la possibilità di un
inizio, anche nelle situazioni più tragiche [non da intendere come il lieto fine che dobbiamo per forza
imporre: nemmeno i Promessi sposi hanno un lieto fine]. Anche solo il fatto che noi siamo qui a discutere
su questi temi ci porta a dire che è vero che si verifica l’inizio di una promessa, data proprio dalla libertà
umana che non si è abbruttita. Noi facciamo esperienza di questo.

IL NOVECENTO: VERSO LA PRIMA GUERRA MONDIALE


Il Novecento è il secolo delle riviste e delle Avanguardie
Già con De Amicis abbiamo detto quanto sia fondamentale che le persone sappiano leggere, scrivere, che
sviluppino una cultura. E, nel fare ciò, i giornali e i mass media svolgono un ruolo fondamentale.

Qualsiasi tipo di rivista veicola un pensiero e non è un caso che molti scrittori passino prima dalla carriera
giornalistica e poi da quella letteraria: è un banco di prova significativo. È proprio da queste riviste,
soprattutto quelle che nascono dai primi del Novecento – tanto che è considerato come il secolo delle
riviste – che emergono degli spunti estremamente interessanti. Queste riviste hanno le seguenti
caratteristiche:

- Attitudine critica: pronte a giudicare diversi aspetti della realtà


- Disponibilità sperimentale alla ricerca e al confronto: si aspettava la nuova uscita di una rivista per
seguire dibattiti e risposte; c’è attenzione e voglia di confrontarsi
- Introducono linfa straniera alla cultura italiana
- Agitano le acque remando controcorrente: riflettono le agitazioni di un’epoca che sta cambiando,
di una società che evolve velocemente
- Brevi, antologiche, frammentarie, saggistiche, divulgative: queste riviste sono davvero un banco di
prova per quello che è il nuovo secolo

Allo stesso tempo, però, inizia una sorta di angoscia dell’influenza. È l’angoscia della concorrenza tra riviste
ma anche l’angoscia di scrollarsi di dosso tanti modelli appartenenti al passato e ritenuti ideali, in favore di
un’unicità (essere considerati dei nuovi maestri e non dipendere da quelli “vecchi”, antichi, superati): se da
una parte c’è un confronto attento, dall’altra c’è un assillo a quella che era la tradizione. Ci si chiede,
dunque, se il guardare al mito classico, all’Ottocento, sia ancora positivo. È per tutti questi atteggiamento
che il Novecento diventa il secolo dello sperimentalismo, delle AVANGUARDIE.

Si iniziano a celebrare dei nuovi canoni: per certi aspetti, si celebra il funerale della tradizione. Ed è proprio
dalle riviste che si veicoleranno le idee di drastica rottura con la tradizione (pensiero alla base del
programma avanguardistico) e di promozione, tra le varie cose, della Prima Guerra Mondiale (importante
capire lo sfondo in cui scoppia).

Cambia il modo di fare letteratura, arte e musica. Si vuole liberare la poesia dalla retorica. Se Manzoni
aveva dato il via ad una lingua compresa da tutti, viva, parlata, attraverso il suo labor limae; ora non si ha
più questo obiettivo: si vuole essere liberi, liberi di esprimersi, non importa essere capiti, ma essere
all’avanguardia. Verlaine, poeta francese, diceva: “Prendiamo la parola, ma occorre torcerle il collo”: frase
che riassume benissimo lo spirito di allora.

Si dilata il campo del poetabile: si includono parole, situazioni che prima non si usavano; si fa poesia sul
vecchio, sul povero, sul provinciale. Non c’è più una limitazione di argomenti. La poesia diventa prosastica
e la prosa diventa lirica: tutto diventa una forma ibrida. Si abbassa, dunque, il livello linguistico e questa
caratteristica porta al verso sciolto, libero da ogni rima e che, quindi, non ha nessun veicolo.

Qualche informazione in più…


In particolare, le avanguardie hanno origine in Europa nei primi decenni del Novecento e interessano tutti
gli ambiti. Coloro che aderiscono alle avanguardie sono quegli intellettuali europei che creano una rottura
forte col passato.

Le stagioni delle avanguardie vedono protagonisti quattro movimenti (anche se è difficile usare questo
termine in riferimento a questi gruppi eterogenei) [la distinzione non è netta: alcuni nomi di intellettuali
compaiono in più di un movimento]:

- Crepuscolarismo: non si definivano come un movimento o una scuola, non avevano manifesto né
rivista. Erano soggetti ad una dispersione geografica con una distinzione in due gruppi: quello
torinese (es: Guido Gozzano) e quello romano (Corazzini). Vengono chiamati così da Antonio
Borgese che sulla stampa del 1910 li denomina con questo termine, in quanto, per lui, il loro modo
di fare poesia era quasi spento, crepuscolare, rispetto a nomi come Carducci, Pascoli e D’Annunzio;
quasi una poesia al declino.
- Anarchici: (il nome per eccellenza è quello di Palazzeschi, anche se è considerato anche come
futurista) erano molto più trasgressivi, non volevano sottostare a niente e nessuno. Erano i
cosiddetti guastatori, incendiari.
- Futurismo: l’avanguardia per eccellenza nel campo letterario, artistico, politico, economico. Sono
loro che si fanno i portavoce di quello che è il nuovo modo di guardare all’Italia, di guardare alla
società; essi puntano ad un assalto della regola. C’è un’esaltazione dei simboli della
modernizzazione: l’automobile, la luce artificiale, la velocità, le industrie, l’estetica, il culto
agonistico, la guerra, la lotta, il disprezzo per la donna (considerata come colei che fa perdere
tempo) e l’abolizione dei sentimenti nei suoi confronti (quindi, l’amore e la tenerezza). Tutto deve
portare all’igiene del mondo. Sentono l’alba di un nuovo inizio e spazzano via il passato, la
tradizione. L’uomo è definito uomo macchina: deve essere veloce, anche nella scrittura, perché il
mondo corre e anche la pagina deve correre, anzi deve essere una pagina più da guardare che da
leggere → questa è la rivoluzione del pensiero del linguaggio. Le parole sono in libertà, si liberano
dalla prigione della frase: Marinetti (autore del manifesto del movimento) se la prende con gli
aggettivi, con gli avverbi – in quanto un “di più” che rallenta il ritmo, che aggiunge una superflua e
inutile sfumatura sentimentale –; il verbo deve essere all’infinito, un verbo che deve assomigliare
ad una sorta di sostantivo (potere, volere); non ci deve essere la punteggiatura. Le parole sono in
libertà perché devono trasmettere una sensazione e non un sentimento: non è il contenuto ma la
disposizione a trasmettere (spesso le parole creano forme e immagini). Il manifesto dei futuristi
(1909, poi pubblicato anche in Francia) riassume tutti questi concetti. Marinetti diventa il leader del
movimento e saranno in molti a seguire le sue idee. I futuristi si impastano con una realtà che sta
arrivando allo scoppio della Prima Guerra Mondiale e i primi ad essere chiamati a fare propaganda
sono proprio i futuristi.
- Vociani: danno voce in modo delicato a quello che sta accadendo e lo fanno attraverso la rivista “La
Voce” (da cui prendono il nome)
LA PRIMA GUERRA MONDIALE (1914-1918)
Un’errata previsione
C’è una grande aspettativa su questa Prima guerra mondiale che, per molti, sembra essere una quarta
guerra d’indipendenza – una guerra per la conquista del mondo.

Nel 1899, William Hearst fa un’errata previsione:


«Il XIX è stato un nuovo Rinascimento. La mente umana vi è stata stimolata a un grado di attività
così intenso quale mai si era raggiunto prima, se non nell’epoca di Pericle e in quella di
Michelangelo. È stata un’età tempestosa e difficile. Il XX secolo vedrà probabilmente la fine delle
guerre. Tutte le razze barbare del mondo saranno civilizzate… È certamente motivo di soddisfazione
l’aver vissuto i difficili anni che stanno per terminare, ma ce ne separeremo con gioia per accogliere
l’età dell’oro che è alle porte».
William Hearst, 31 decembre 1899

Quello che è avvenuto in seguito è stato proprio il contrario di quanto egli aveva previsto e, anzi, ancora
oggi, ci portiamo dietro le conseguenze delle due guerre mondiali.

L’inizio del Novecento: la Belle Époque


Ma quello di Hearst non è un caso isolato: all’epoca, erano in molti a credere che l’età dell’oro sarebbe
presto arrivata. Anche le stesse avanguardie (la maggior parte, non tutte) riflettevano quell’idea di periodo
storico, culturale e artistico rigoglioso, fondato sul divertimento e la bella vita (bei vestiti, balli, pranzi,
cene).

E in effetti, inizialmente, il Novecento si presentò come la “Belle Époque”, un’epoca bella, fondata su una
vera e propria accelerazione del progresso:
- costruzione e diffusione: aeroplano, automobile, radio, cinema
- scoperte scientifiche: concetto del quantum e concetto della relatività

Nonostante i trionfi della Belle Époque, sulle potenze europee si addensano spesso conflitti regionali tra il
1870 e il 1914. Nel mondo extra-europeo l’espansione coloniale occidentale non si ferma: anzi, quasi tutta
l’Africa e l’Asia, in forma diretta o indiretta, finiscono sotto il controllo dell’una o dell’altra grande potenza.
Il fatto nuovo è un controllo quasi integrale, dall’aspetto militare a quello politico, da quello sociale a quello
economico, dei territori conquistati.

Lo scoppio della Prima


Guerra Mondiale
ATTENTATO DI SARAJEVO,
28 GIUGNO 1914: Il
giovane serbo, Gavrilo
Princip, con una pistola
uccide l’arciduca d’Austria
Ferdinando e la consorte,
in visita ufficiale ai territori
annessi all’impero nel
1908
- ULTIMATUM
AUSTRIACO: 23 LUGLIO
1914
- DICHIARAZIONE DI
GUERRA: 28 LUGLIO 1914
Gli schieramenti vedono:
- Triplice intesa: Francia, Regno Unito, Impero Russo
- Triplice Alleanza: Germani, Austria-Ungheria, Italia

I PRINCIPALI AVVENIMENTI DELLA GRANDE GUERRA

FRONTE ORIENTALE E
FRONTE OCCIDENTALE FRONTE ITALIANO
GUERRA MARINA
I tedeschi attuano il Piano Vittorie tedesche sul fronte
1914 Schlieffen ma vengono orientale: Tannenberg, Laghi
fermati sulla Marna Masuri
Affondamento del Lusitania L’Italia entra in guerra (24
1915 (maggio) maggio)
Guerra sottomarina Battaglie dell’Isonzo
Offensiva tedesca: battaglia di
Strafexpedition (maggio-
Verdun (feb-lug) Battaglia navale dello Jutland
1916 giugno)
Controffensiva anglo-francese (maggio-giugno)
Nuove battaglie dell’Isonzo
della Somme (lug-nov)
Rivoluzioni russe (febbraio →
Caporetto (24 ottobre)
Gli USA entrano in guerra (in ottobre)
1917 Nuova linea difensiva sul
aprile) Successi tedeschi sul fronte
Piave
orientale
Ultima offensiva tedesca Controffensiva sul Piave
Pace di Brest-Litovsk (marzo
1918 (marzo) Battaglia di Vittorio Veneto
1918)
Controffensiva francese Armistizio Villa Giusti

18 gennaio – 21 gennaio 1920: Conferenza di pace di Parigi

L’Italia in guerra?
L’Italia, fra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915, è divisa tra:

La stampa dell’epoca e le varie riviste mostrano come i diversi esponenti letterari del periodo diano la loro
opinione sulla questione:
- Giovanni Papini, «Lacerba», 1914: «Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti
umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di
sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una
muraglia di svampate per i freschi di settembre.[…] Amiamo la guerra ed assaporiamola da
buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e
terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi».
- Giuseppe Prezzolini, «La Voce», 1914: «Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si
compie. Forze oscure scaturite dalla profondità dell’essere. Sono al travaglio, e il parto avviene tra
rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. Noi non guarderemo soltanto al dolore. Salute
al nuovo mondo! Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una
rivoluzione? L’animo è calmo di fronte alla totalità del fatto che si compie e non possiamo dubitar
del domani. La civiltà non muore! Indietreggia per prendere un nuovo slancio. Si tuffa nella barbarie
per rinvigorirsi».
Egli si pone il dubbio sulla legittimità della guerra, ma, alla fine, cede nel riconoscerne la necessità.
- Filippo Tommaso Marinetti, Guerra solo igiene del mondo, 1915: «Noi vogliamo glorificare la
guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le
belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna».
- Gabriele D’Annunzio, 5 maggio 1915, Quarto: «Accesa è tuttavia l’immensa chiusa fornace, o gente
nostra, o fratelli: e che accesa resti vuole il nostro Genio, e che il fuoco ansi e che il fuoco fatichi
sinché tutto il metallo si strugga, sinché la colata sia pronta, sinché l’urto del ferro apra il varco al
sangue rovente della resurrezione [...]».
L’idea è la stessa dei futuristi ma espressa da una voce più autorevole.

- [La Santa Sede] PIO X, Dum Europa, 2 agosto 1914 (nello stesso anno muore): «Mentre quasi tutta
l’Europa è trascinata nei vortici di una funestissima guerra, ai cui pericoli, alle cui stragi ed alle cui
conseguenze nessuno può pensare senza sentirsi opprimere dal dolore e dallo spavento, non
possiamo non preoccuparci anche Noi e non sentirci straziare l’animo dal più acerbo dolore, per la
salute e la vita di tanti cittadini e di tanti popoli che Ci stanno sommamente a cuore. In così gravi
angustie, sentiamo e comprendiamo bene che queste da Noi richiedono la carità di padre e
l’apostolico ministero: di far cioè innalzare gli animi a Colui da cui solo può venirci l’aiuto, a Cristo
principe della pace e mediatore potentissimo degli uomini presso Iddio. Esortiamo pertanto i
cattolici di tutto il mondo a ricorrere fiduciosi al suo trono di grazia e di misericordia».
- Benedetto XV, Ai capi dei popoli belligeranti, Vaticano 1 agosto 1917: «Il mondo civile dovrà
dunque ridursi a un campo di morte? E l'Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da
una follia universale, all'abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio? […] Esse sono tali da rendere
impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così
importante per l'avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel presentarle
pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla
cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa
lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d'altra parte,
che è salvo, nell'uno e nell'altro campo, l'onore delle armi; ascoltate dunque la Nostra preghiera,
accogliete l'invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino, Principe della pace.
Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre
risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la
felicità stessa dei popoli, che Voi avete l'assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni
conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell'età presente, vi
assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori».
- CESARE DE LOLLIS: è il primo che, scrivendo su alcuni giornali – Il Giornale d’Italia e L’Italia Nostra –,
si fa portabandiera della posizione neutralista (coloro che credevano che la guerra non fosse
l’opzione migliore). Egli dimostra un grande amore per la patria e, sebbene non fosse per la guerra
e nonostante la già anziana età (52 anni), nel momento dello scontro, decide comunque di
arruolarsi come volontario, convinto che bisognasse servire il proprio paese. Aveva alle spalle una
formazione molto solida e classica, tant’è che ebbe numerosi incarichi nel campo dell’istruzione, ed
era considerato da tutti un vero e proprio letterato. Prima di partire per la guerra, aveva pubblicato
il libro “Reisebilder”, nel quale descrive leva sue impressioni di viaggio: era una sorta di itinerario
geografico, della memoria e del cuore. Per lui, il mondo era imbarbarito, ma egli non smetteva mai
di pensare alla possibilità della crescita dell’uomo. Fra i suoi compagni al fronte, diventa un punto
di riferimento, un uomo al quale appoggiarsi per fare cultura. Quando partirà per la PGM, sarà così
grande il desiderio di continuare quel viaggio geografico che inizierà a segnarsi su un taccuino tutto
quello che vede, anche in maniera sintetica – il tempo per scrivere al fronte è poco – creando il
“Taccuino di guerra”, un’opera rimasta piuttosto sconosciuta. Nel Taccuino, egli racconta ciò che
vede dal 1916, quando parte, fino al 1918. È un libro molto scarno ma viene considerato come una
prima liberazione da quello che è l’abbruttimento della guerra. Quando tornerà a casa, sarà ancora
convinto che in fondo la guerra non era così necessaria; e sarà ancora più convinto che
l’imbarbarimento dell’uomo è possibile solo se non ci si lascia provocare da quello che si vede nella
realtà (nel libro metterà in luce i più minuscoli dettagli del paesaggio).

«E la nostra posizione è chiara e semplice, e anche, ci si consenta dirlo inattaccabile. Noi non siamo,
né per le potenze centrali, né per quelle della Triplice Intesa; non siamo, anzi, a priori, né per la pace
né per la guerra. Siamo per il nostro paese, pro Italia nostra».
(«Italia Nostra», Roma, 6 dicembre 1914)

«Ma torniamo a noi, per dire che ci si chiama «neutralisti» semplicemente perché abbiamo
propugnato la convenienza della guerra da una parte piuttosto che dall’altra…E l’irrazionalità di
codesta denominazione si spiega pel precoce fatale consenso della parte più rumorosa della nazione
alla predicazione dei pochi Incauti i quali, sin dal principio della guerra, vollero che dalla neutralità
non si potesse uscire se non in unica direzione… Mentre ecco. La guerra che noi siamo rimasti in
pochi a predicare sarebbe stata la vera «grande guerra», poiché non avremmo rischiato di andare
confusi in un troppo svariato sconcerto di nazioni e di eserciti, europei e coloniali… Sarebbe stata la
realizzazione di un grande sogno imperialistico…»
(«Italia Nostra», Roma, 25 aprile 1915)
- Renato Serra: «La guerra non mi riguarda. La guerra che altri fanno, la guerra che avremmo potuto
fare.... Se c’è uno che lo sappia, sono io, prima di tutti. È una vecchia lezione! La guerra è un fatto,
come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che
saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo.
Neanche la letteratura. Ripetiamo dunque, con tutta la semplicità possibile. La letteratura non
cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come
conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il
lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà,
continuerà di lì. È inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è
un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla
guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di più elementare e più semplice.
Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era. Ognuno ritorna — di quelli che tornano — al lavoro
che aveva lasciato; stanco forse, commosso, assorbito, come emergendo da una fiumana: ma con
l’animo, coi modi, con le facoltà e le qualità che aveva prima». (Esame di coscienza di un letterato)

Scene dal film “La Grande Guerra” e da alcuni documentari della Rai: sulla guerra. Spaccato di un esercito
fatto da persone comuni e, a volte, privi di un’istruzione. Alcuni partiti per costrizione, altri come volontari.
Vivono situazioni statiche: la prima guerra è fatta di attese e punti morti, in attesa di ordini. Si muore anche
in modo stupido: portando messaggi, impigliati nel filo spinato, …. È in questi momenti di stasi che c’è la
possibilità di iniziare ad annotarsi quello che stavano vivendo.
EMILIO LUSSU (1890-1975)
Brevi cenni di vita
Le sua opera “Un Anno sull’Altipiano” è considerata come l’esempio più significativo e completo dal pdv
storico sulla Prima Guerra mondiale.

- Nasce ad Armungia (Cagliari) nel 1890: è sardo


- Si laurea in giurisprudenza nel 1914: significativo per capire qual è il pdv – la ricerca di giustizia e
verità – dal quale lui cerca di capire gli avvenimenti che ha vissuto in prima persona
- Partecipa come ufficiale di fanteria della Brigata Sassari nella Prima Guerra Mondiale: si distingue
per il coraggio, l’umanità e il carisma.
- Nel 1919 è tra i Fondatori del Partito sardo d’azione (d’ispirazione socialista): il suo combattere
non finisce con la guerra, s’impasta con la realtà
- Si oppone al fascismo per cui si procura un anno di carcere e confino a Lipari: è uno dei
fondatori/promotori del movimento anti-fascista
- Evade di prigione nel 1929 con Carlo Rosselli e Fausto Nitti, altri due antifascisti
- Si sposta a Parigi, dove fonda il movimento “Giustizia e Libertà”
- Nel 1933 scrive “Marcia su Roma e dintorni”, in cui comincia ad analizzare le ragioni che hanno
portato al fascismo ed è in questo periodo che inizia a pensare e a mettere ordine ai ricordi che ha
vissuto durante la PGM. Lo fa in un momento particolare: contrae una malattia polmonare per il
periodo passato in carcere al freddo e viene ricoverato in un sanatorio. Quando riesce a stabilirsi
rientra in Italia nel 1943 e partecipa alla resistenza (tutta la sua vita mette in primo piano l’esp delle
due guerre).
- 1938 avvia la stesura di “Un anno Sull’Altipiano”
- Vive clandestino in Francia fino al 1941
- Rientra in Italia e partecipa alla Resistenza
- Deputato e poi senatore: nel 1949 fonda il Partito sardo d’Azione di cui viene eletto senatore
- Muore a Roma

Una vita per l’Italia, per la libertà umana. Il suo è un itinerario – di continue partenze e spostamenti – che lo
fa riflettere su come sia possibile fare letteratura a partire da queste tematiche belliche complesse.

Un anno sull’Altipiano
Scritto tra il 36 e il 37, quando Lussu si trova in questo sanatorio in Svizzera (precisamente a Clavadel). È
una scrittura non a caldo: il volume non è scritto immediatamente dopo la PGM, anzi è scritto a ridosso di
quella che è l’altra guerra, la SGM. Questo fa sì che Lussu possa meditare su quello che è accaduto.

Il libro viene pubblicato nel 1938 a Parigi (Edizione Italiane di Cultura), non in Italia – nel 38, in Italia,
vengono emanate le leggi raziali. Solo nel 1945, il volume verrà stampato anche in Italia (ristampato nel
1960, Einaudi, collana Saggi e poi nella collana Coralli): ancora una volta la storia editoriale legata ai libri
bellici è significativa. Fino al 45 non abbiamo, dunque, un libro completo e preciso sulla PGM.

Genere: non è un romanzo, non è una storia, sono ricordi personali limitati ad un solo anno, testimonianza,
cronaca. Lo stile non è semplicissimo: ci troviamo di fronte ad una sorta di saggio con cenni autobiografici/
diaristici.

Lussu scrive al suo amico Salvemini, 8 agosto 1935 (Lettera)


«Io penserei non già di scrivere un libro come sinora è stato fatto, dall’A alla Z, cioè dalla mobilitazione
generale all’armistizio, o quasi: ma un libro che sia limitato ad una zona d’operazione o a un gruppo
d’azioni; per es., l’Altipiano d’Asiago 1916-1917. A me pare che potrebbe venirne fuori un libro italiano di
interesse, anche perché io ho visto un’infinità di cose e fatto un’infinità di sondaggi psicologici. Il fatto poi
che io, che ho fatto la guerra, non parlo nè del Carso, né della Bainsizza, né del Piave ecc., ma mi limito solo
a un settore dove son stato pochi mesi, mi pare possa dare al lettore l’impressione esatta del fenomeno
durata immensa della guerra, che è stato l’incubo più tragico per tutti i combattenti».

In questa lettera, Lussu mette le mani avanti, dicendo: non voglio fare un libro che parli dei quattro anni
della guerra (anche perché qualcuno l’ha già scritto); voglio fare un libro italiano. Scriverà, infatti, solo su un
anno dei quattro vissuti in guerra – il particolare mostra già il tutto (le situazioni si ripetevano, è stata una
guerra ripetitiva e statica). Poi, sottolinea come lui sia testimone oculare e come abbia potuto informarsi e
riflettere, ragionare su di lui stesso prima di pubblicare il libro – il tempo magari fa sbiadire i ricordi, ma
aumenta la lucidità e la verità della narrazione. Infine, sottolinea come quell’anno raccontato possa dare
l’idea della continua attesa in cui si viveva e che era un dramma per lui e i soldati.

Titolo: Un anno sull’altipiano


Ma la scelta è stata meditata e pensata più volte. All’inizio, Lussu voleva intitolarlo “Feritoia 14”, per
indicare una vicenda legata a dove vi era stata una morte violenta e coente. Ma l’amico Salvemini e
l’editore non lo accettano: volevano far uscire il libro a tutti i costi e nel 45, periodo in cui il libro esce, non
si voleva ancora parlare della guerra, di nessuna guerra, si voleva, anzi, tornare alla vita piena e ordinaria
del pre-guerra; quindi quel titolo non andava bene (La smania tipica di Lussu e dell’epoca di raccontare ma
anche di tornare alla vita è ben descritto da Italo Calvino nella prefazione de “I sentieri dei nidi di ragno”,
1947, scritta nel 64 con il titolo di “Neorealismo”). È un clima difficile quello dell’epoca. Lussu, poi, propone
un altro titolo: “I miei generali”: attraverso il libro, cioè, lui voleva mostrare quali erano i responsabili di
quella terribile strage, ovvero i generali che avevano mandato al macello molti giovani. Un titolo del
genere, però, avrebbe fatto capire subito il problema – i generali –, una denuncia dell’Italia. Alla fine,
quindi, vi riprova con un altro titolo, non bellico o guerresco “Un anno sull’altipiano”: un titolo neutro che
non rimandasse a nessun genere particolare, non ostacolabile e che invitasse all’acquisto prima di capirne il
contenuto. Inoltre, quest’ultimo titolo esemplifica bene il dove (altipiano = non viene specificato quale
anche se si sa che parlerà di quello Vicentino) e il quando, la durata della narrazione.

Tematiche:
- Descrizione dei paesaggi
- Smarrimento dei soldati
- Attenzione alla realtà, a quello che accade, alla verità
- Politica: dà giudizi (legato ai suoi studi giuridici)
- Denuncia dei generali

Stile: asciutto, incisivo, orale//con molti dialoghi, non retorico

Struttura: XXX brevi capitoli senza titolo (una cosa importante dei libri è l’indice, esprime una scelta ben
precisa). Crea una struttura che non invogli il lettore a cercare e scegliere un capitolo che abbia un
determinato titolo: desidera che il lettore lo legga per intero. È una struttura razionale: il capitolo più
importante è il XV, quello dell’assalto, messo al centro perché il più significativo e vi dedica anche più
tempo.

Analisi di pezzi dal libro


“Tra i libri sulla Prima Guerra Mondiale Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu è, per me, il più bello. […] Mi
buttai a leggerlo come si butta l’orso sul miele, trascurando persino i doveri dell’ospitalità. La mia sorpresa
fu grande. Forse la più grande che ebbi come lettore: quelle pagine parlavano di fatti accaduti tra le mie
montagne durante la Grande Guerra e, in particolare, di un monte che conosco come l’orto di casa […]
Aveva scritto questo libro non come un diario, non come un saggio storico, non come prova letteraria: ha
solo segnato i fatti con parole come raccontasse ai suoi parenti”.
Mario Rigoni Stern, Introduzione
Prefazione: tutti gli autori dedicano alla prefazione lo spazio per una guida al lettore. Lussu, in particolare,
cura molto la prefazione, spiegando al suo interno quando scrive il libro, perché, come. Realizza addirittura
due prefazione, una del 37 e una del 60.

Lettura della prima prefazione:


Non alla fantasia ho fatto appello: L’unico intervento personale che Lussu ha fatto rispetto ai fatti è il
cambio di alcuni nomi.

Nello scrivere sulla PGM dopo la stessa, egli si è come spogliato delle esperienze successive: ha scritto la
storia cercando di non lasciarsi influenzare da quello che ha vissuto dopo la PGM.

È una testimonianza italiana: Insiste, ancora, su come in Italia non esista un libro di guerra (per i motivi già
detti)

Lettura della seconda prefazione:


In quella del 60, riprende alcuni pensieri precedenti.

Lussu, innanzitutto, dice che non avrebbe mai scritto questo libro se il suo amico Salvemini non avesse
insistito. All’inizio, addirittura, la sua idea era di scrivere un libro di tutt’altro genere, più simile a “Il
principe” di Machiavelli.

Poi, egli ripercorre l’uscita delle varie edizioni del libro: prima nel 38 in Francia e poi successivamente in
Italia.

L’esergo: una frase tratta dalla poesia “Spleen” di Baudelaire

« J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans »

Per quello che ha vissuto è come se avesse più ricordi che una persona di mille anni.

Non è un caso che scelga Baudelaire: quest’ultimo viene spesso citato insieme ad altri autori della classicità
all’interno del libro → si tratta di un libro pieno di letterarietà e letteratura (anche se non si limita a prova
letteraria).

Nel libro, addirittura, ad un certo punto, il protagonista trova in un vecchio capanno alcuni libri: li prende e
li mette nello zaino. Questo gesto viene considerato da molti critici e da Lussu stesso come ciò che dà inizio
ad una biblioteca ambulante: il protagonista si sposta portando con sé, tra le cose necessarie, tre/quattro
libri. È un attaccamento all’umano, alla cultura, a quello che non permette all’uomo di abbruttirsi. Fino alla
fine porta con sé questi libri.

Primo capitolo:
Notiamo sin dalla prima riga, la veridicità storica e, quindi, la precisione di tempo, luoghi e date.

È un inizio che rende l’idea che siamo davanti ad una distruzione dell’uomo, all’inutilità della guerra: in
primo piano, viene messa la morte e non le gesta.

Subito, Lussu racconta una sorta di dialogo che c’è con uno dei superiori, il duca d’Aosta, comandante
d’armata. Questi bellici sono, spesso, libri prosopografici: affollati, ricchi di volti e persone. Perché, in
guerra, non si è da soli.

Scarse capacità militari … : si inizia ad insinuare l’incapacità militare dei generale; è una presa in giro,
ironizza sulla passione letteraria “grande” del generale. Essa è, infatti, un imparare a memoria qualche
discorso che, però, non serve veramente lo scopo di incitare alla guerra – non è semplice dire che occorre
morire per la patria, pare quasi una sentenza classica.
Non è possibile letterariamente assaporare la bellezza della morte che, di fatto, non è gloriosa. Il libro,
dunque, non è una celebrazione della guerra, della sua importanza. Tutt’altro.
È un libro dove, se noi seguissimo i vari spostamenti dell’esercito, ci accorgeremmo che è un vero e proprio
viaggio quello che fanno i soldati, soprattutto interiore, dove l’unico attaccamento è lo stare insieme , il
condividere. Ecco perché nascono i grandi canti descritti nello stesso libro: per darsi forza e coraggio.

Secondo capitolo:
Si apre con una scena un po’ più allegra → i soldati sono affaticati ma il coro dà la forza e, così, arrivano
pian piano sull’altipiano. C’è un’attesa e un arrivo (finalmente!). Quando ci sono delle missioni, pure se
pericolose, c’è un’euforia del fare qualcosa.

I soldati pensano che finalmente andranno a combattere su quell’altipiano e pensano di vedere chissà che
paesaggio rigoglioso, dove riposare e poi combattere. Pensano di essersi liberati di quella vita terribile
d’attesa e uccisione.

Importanza descrizione: il paesaggio contribuisce a quello che stanno vivendo; Lussu come fotografo della
realtà.

Doline: ragione per cui si sprofondava e dove si nascondevano le mine. Un paesaggio che contribuisce alla
morte.

Senza odio: la cosa più terribile di ogni guerra è di uccidere qualcuno che non hai odiato, perché non l’hai
mai visto. Per Lussu è straziante: spera nella fine della guerra.

Pian piano stanno arrivando all’altopiano. Ma pian piano, la marcia si fa silenziosa, perché vedono davanti a
loro dei profughi, persone che stanno andando via, che stanno migrando altrove.

Contadini come naufraghi: coloro che sono in balia del mare, colui che arriva a riva ma che non ha più
terra, né casa. Bellissima immagine.

Lussu usa immagini, paragoni in modo splendido, anche se non è prosa letteraria.

Guardare: verbo molto utilizzato in Lussu come la parola occhi → Insistenza anaforica: lui ha visto e vissuto
queste cose sulla propria pelle e, ora, ce le fa vedere a noi.

XV capitolo: centrale; capitolo che descrive quali erano i sentimenti che si provavano durante questa azione,
in modo preciso.

In fondo, l’ordine dell’assalto non è fondamentale. Ma gli ordini vanno sempre eseguiti (altrimenti si finisce
in tribunale); non ci si può sottrarre. Il generale sa che siamo davanti ad un supplizio: tutti saranno
condannati, non c’è via di scampo.

Lussu, in questo capitolo, suscita l’ansia e che il momento sta arrivando.

Telaio: movimento continuo del telaio come il movimento delle borracce dalla cintura alla bocca, in un
modo quasi maniacale. Si beve per riuscire a sopportare la situazione difficile. Per narcotizzarsi. A volte
anche per scaldarsi e per divertirsi. Ma la maggior parte delle volte era per non pensare, per sopportare.

[…] l’orologio alla mano → Questa descrizione fa capire il passare del tempo: addirittura c’è l’orologio.
L’assalto deve avvenire in un momento preciso, né un minuto prima né un minuto dopo.

Questo capitolo è un continuo incrocio di sguardi. Non serve parola perché il silenzio è parola. È un grido
silenzioso.

C’è una continua incitazione all’assalto per infondere coraggio.

Di tutti momenti della guerra …. Frase lapidaria e coincisa. Non si sa se si sopravviverà. I momenti prima
sono decisivi.
Ci si prepara: c’è chi beve e c’è chi sistema per essere perfetto, per essere pronto all’assalto.

Savoia: incitazione che continua

[aprirono il fuoco …] È così forte il rimbombo che si è destabilizzati, non si capisce cosa sta accadendo. È
come se, dal silenzio pre-assalto al grande fragore, si facesse strada un altro tipo di silenzio.

È una scena in movimento che lui fotografa. Lussu si ricorda lo spaesamento degli assalti e cerca di
replicarlo.

Questo silenzio interiore di Lussu è, in realtà, rumore per tutto quello che c’è attorno: spari, …

Il capitolo si può suddividere dal pdv sonoro in: primi momenti di silenzio carico di paura e, poi, il grande
rumore. Serve udito e vista – più che le parole – per cogliere ciò che sta avvenendo.

Basta: In tutte le spedizioni c’è sempre un cappellano, figura che accompagna i soldati (nome più noto della
SGM, Don Carlo Gnocchi). Sono vicini all’uomo e intervengono nei momenti più delicati, di vicinanza alla
morte. Ma sono militari, non solo preti.

Al rumore delle sparatorie, c’è la voce che cerca di farsi strada, la voce dell’uomo che cerca di farsi sentire.

Lussu cerca di allontanarsi dalla via della feritoia e incrocia un soldato.

È un gioco di sguardi. Ma questa volta con un morto con gli occhi aperti. Quindi, diverso. Un gioco tra uno
sguardo e un non-sguardo. Lussu guarda la morte, il suo volto, quando si ritrova davanti a persone così.

Io ho impiegato […]: L’assalto si è svolto in molto meno tempo rispetto alla descrizione. In un istante ti può
essere tolta la vita. Il tempo sembra scorrere, ma, allo stesso tempo, Lussu fa un fermo immagine e lo dilata
per far vedere ciò che lui ha visto.

Anche dopo l’assalto, continua lo sguardo. Cosa rimane? Silenzio totale. Non si sente più nulla. C’è il sole
che prima non c’era.

Un attimo ed eternità: istante immobile; chiasmo.

Uno dei capitani, vedendo quanto subito, piange → è forte questa posizione che si sente addosso e che
ripetutamente i soldati vivono.

Testa leggera: dopo aver vissuto ciò, non è facile darsi risposte e trovare una ragione. Lussu prende fiato
con la testa per capire di più.

Occhi sono chiusi: fino adesso c’è stato un incrocio sguardi, ora non c’è più niente da guardare.

Bisogna uccidersi: piuttosto che andare incontro morte e distruzione in questo modo, si preferisce il
suicidio.

Quel cervello che sembra respirare lo sente sciaguattare: è come l’acqua che si muove, non riesce a trovare
ragione, perché una ragione non c’è nell’uccidere uomini come noi.

Capitolo XXV (come abbiamo visto, il libro avrebbe dovuto prendere nome da questo capitolo di denuncia ai generali)
È una prosa dialogica con nomi in maiuscolo, senza discorso indiretto, simile per struttura ad un testo
drammatico. Attraverso questi dialoghi, Lussu mostra tutte le sfumature di regionalità, tutti i dialetti che
caratterizzavano l’Italia dell’epoca, ancora non unita dal pdv linguistico.

Insopportabile strage: non c’è nulla di glorioso in questa guerra (molti avevano spinto per l’entrata in
guerra dell’Italia col pensiero che lo scontro avrebbe reso onore e gloria alla patria – cosa che poi non è
successa: la guerra si è rivelata una strage inutile e insopportabile). Anche per i suoi studi giuridici, Lussu ha
questa tendenza a ricercare il vero: non si può smentire l’incapacità dei capi che ci hanno spinti in guerra (i
vari comandanti e sottotenenti danno ragione alle critiche di Ottolenghi).

Non è un argomento per indurci a gettare le armi: è comunque nostro dovere combattere per la patria,
anche se siamo entrati in guerra impreparati = Anche chi non era per la guerra sente forte dentro di sé la
necessità di rispondere alla chiamata della patria.

Generali mandati dal nemico: sembrano mandati per rovinarci. Non sono nostri alleati. (anche in questo
caso l’esortazione di Ottolenghi è accolta con consenso dagli altri personaggi: lo schema è lo stesso)

Una banda di speculatori: sono i politici che stanno a Roma e che giocano con la vita dei soldati, con le
singole vite di ognuno e non solo con il destino dell’Italia.

Questa insopportabile strage è colpa dei capi politici: governo e militari erano impreparati per la guerra.
Serviva un’organizzazione migliore prima di entrare in guerra. C’è dialogo tra comandanti – alcuni senza
nome altri nominati apposta. Anche l’abbigliamento non è adeguato a combattere: a partire dalle scarpe –
argomento che ritorna in questi autori.

Così come su queste scarpe menzionate vi è la frase “Viva l’Italia”, è come se chi è al potere avesse scritto
sui soldati la stessa cosa: “Come quelle scarpe sono mal costruite, instabili e facilmente distruttibili, allo
stesso modo siamo noi soldati, mandati a morire come pecore al macello”.

Capitolo XXX
Il libro si conclude come è iniziato. Nel primo capitolo c’era questo battaglione che andava a combattere e
pian piano si spostava; nel XXX capitolo, Lussu riprende lo spostamento dei soldati, uno spostamento che
ha ormai negli occhi una continua angoscia.

PIERO JAHIER (1884-1966)


I vociani
Il nome deriva dalla rivista “La Voce”, una rivista nata all’inizio del 900 (1908) e molto importante per
l’epoca. La comunicazione veloce, come quella della stampa, era quella che veicolava le idee e, in questo, la
Voce si distingueva. È fondata da Giuseppe Prezzolini. All’inizio è un foglio settimanale che ha un impegno
civile e culturale, più sul versante politico: gli intellettuali si sentono chiamati a dare i loro giudizi su quello
che avviene, con la loro competenza e in modo molto onesto (vanno sul campo a scoprire quello che
succede, s’impastano con la realtà; non creano “fake news”). Fino al 1912, La Voce mantiene questo volto
di giornale politico-culturale (anche se vi scrivono già molti intellettuali). Tra il 1912 e il 1914, però, la rivista
cambia gestione e a dirigerla sarà Giuseppe De Robertis, che porta alla nascita di una nuova Voce: dal 1914
in poi, essa diventa una rivista letteraria. Un cambio che avviene inaspettatamente, proprio quando in
Italia ci sono vari problemi politici: primi movimenti femministi, problema dell’istruzione, problema del
Mezzogiorno. Ma nonostante questi cambiamenti, la Voce decide comunque per questo cambio di volto. Su
questa rivista, i Vociani volevano mettere – diversi da futuristi e anarchici che rompevano totalmente con la
tradizione – un linguaggio più nuovo, comprensibile, che puntava al lirismo e all’autobiografismo, cioè
volevano andare a fondo della loro vita, dei problemi esistenziali. I vociani si allontanano anche dal
crepuscolarismo (che presentava questo risvolto un po’ triste e pessimistico): i vociani vogliono guardarsi
dentro, fare un esame di coscienza, un bilancio esistenziale e cercare di comprendere quanto la vita può
insegnare.

I vociani erano tutti molto giovani e vi aderivano soprattutto coloro che erano costretti ad andare a
combattere in situazioni belliche. Quindi, la PGM rappresentò per tutti loro un grande argomento di
discussione.
Renato Serra: allievo di Carducci (anche qui, riprendono il passato e non lo eliminano), si distinse perché
diventò direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena. Muore sul monte Podgora, in combattimento
durante la PGM. Per questo, diventa un emblema e il suo testamento spirituale s’intitola “Esame di
coscienza di un letterato”.

Pubblicato sulla rivista la Voce il 30 aprile 1915, esso racchiude il problema di come guardare alla PGM, di
come porsi di fronte a questo evento.

«La guerra non mi riguarda. La guerra che altri fanno, la guerra che avremmo potuto fare.... Se c’è
uno che lo sappia, sono io, prima di tutti.
È una vecchia lezione! La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello
solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non
cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura.
Ripetiamo dunque, con tutta la semplicità possibile. La letteratura non cambia. Potrà avere qualche
interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e
coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e,
qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì. È inutile aspettare delle
trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i
letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in
ciò che ognuno ha di più elementare e più semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che
era. Ognuno ritorna — di quelli che tornano — al lavoro che aveva lasciato; stanco forse,
commosso, assorbito, come emergendo da una fiumana: ma con l’animo, coi modi, con le facoltà e
le qualità che aveva prima». (RENATO SERRA Esame di coscienza di un letterato)

La sua è una posizione molto particolare e contraddittoria. Si chiede cosa aggiunga una guerra: senza di
essa, la letteratura, la vita è invariata e prosegue il suo corso. Questo giudizio fece molto discutere sulla
rivista; tutti si interrogarono se esso fosse corretto o meno. È una domanda che rimane aperta; anche se
all’epoca ci furono diverse risposte sottoforma di articoli, racconti, …

In questo contesto, la letteratura diventa uno strumento per comprendere la realtà, proprio perché la
guerra mette in balia il destino di ognuno. Inoltre, questo argomento bellico permette ai vociani (Scipio
Slataper “Il mio Carso”, Giovanni Papini “Un uomo finito”; Jahier “Ragazzo) di perseguire l’idea di costruire
racconti e opere autobiografiche. Attraverso questi racconti, ricercano un loro modo di guardare al passato
per fare il punto della situazione, chiarire le idee (non rompere con il passato stesso), cercare di capire
come mescolare la letteratura alla vita, come costruire il programma dell’intellettuale – cosa gli intellettuali
possono dare a partire da quello che hanno vissuto. Ecco perché il primo modo che i vociani hanno per fare
emergere i loro pensieri è quello di un rinnovamento del linguaggio: ricercano scrittura molto
frammentaria, esprimono il vissuto ripulendolo di quelle parole che non sono chiare, quegli orpelli che sono
troppo magniloquenti; cercano di essere più semplici, sintetici; ricercano la dizione pura; espressioni
semplici per far emergere il sentimento; mescolanza tra prosa e poesia; non si vuole far storia in generale,
si mette dinnanzi l’io.

Brevi cenni di vita


• Nasce a Genova nel 1884
• Padre piemontese, pastore valdese (ha una relazione extraconiugale e, per questo, si uccide: fatto
che influisce sulla vita di Jahier → è il motivo per cui sarà un tenente molto paterno; cercherà
sempre di sostituirsi al padre, curando la propria famiglia); madre toscana
• Si trasferisce con la famiglia in Toscana (a Firenze): essendo il maggiore dei fratelli, si assume la
responsabilità della famiglia alla morte del padre.
• Lavora nelle ferrovie (è molto bravo, arriva ad essere un burocrate: per lui sarà un lavoro alienante
→ si troverà di fronte alla pura carta e inizia a capire come la vita può essere noiosa e ripetitiva);
• Inizia a studiare teologia valdese: tentò di seguire le orme del padre ma non aveva abbastanza
affinità religiosa
• Si laurea in Legge e poi in Lettere francesi: ha una formazione letteraria e giuridica
• Nel 1909 conosce Prezzolini; collabora alla «La Voce»
• [Primo libro] 1915 Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (una persona che
Jahier aveva conosciuto e che subiva la sua stessa condizione lavorativa alienante): l’argomento
dell’opera sarà una riflessione sulla ripetitività e la noia della vita (pensiero che Jahier matura
mentre, appunto, lavora in fabbrica).
• Volontario Interventista tra gli alpini 1915-1918: partecipa alla PGM come tenente degli Alpini (fu
un interventista democratico)
• Cura la pubblicazione del giornale di trincea «L’Astico»
• Nel 1918 esce Con me e con gli alpini (1919;1943): opera di formazione, cammino interiore,
partenza dell’anima (sebbene ambientato durante PGM)
• Nel 1919 escono Canti alpini e Ragazzo
• Antifascista, partecipa alla Resistenza: viene imprigionato e perseguitato
• Nel dopoguerra svolse attività di traduttore
• Muore a Firenze
• Ha ispirato molto due importanti autori francese: Paul Claudel e Charles Péguy.

Corrispondenza
➢ JAHIER SCRIVE ALL’AMICO CASATI, 18 AGOSTO 1915
«Non ho potuto resistere e ho fatto domanda di ufficiale volontario negli alpini; sto per ricevere il
decreto-per la patria e per me; tante debolezze e miserie da purificare nel fuoco di un grande sacrificio;
e chi non vuol aver collaborato e sostenuto l’umanità che gli è più vicina in questa orrenda prova?».

Parte per la patria e per se stesso. Ha tante debolezze da purificare: quelle della sua anima, della ricerca di
un senso della vita, del suo esistere. Quello che va a fare è un sacrificio (dal latino “sacrum facere” = fare
con qualcosa di sacro, di misterioso”, di ascetico).

➢ Mentre è al fronte: JAHIER SCRIVE ALL’AMICO CECCHI, 14 MARZO 1916


«7° Alpini - 2ª Comp.ia distaccata a Cavareno presso Belluno. Sto bene, sono felice nel fango, nevi e
fatiche. Tra gli uomini della mia razza. Sono nel mio dovere; per questo sto bene. Se persevero a
conquistare l‘anima, la bellezza mi sarà regalata. Sei molto bravo a servire da soldato e lavorare nello
spirito. Io non ci riesco per ora. Ma ho portato qui i miei pensieri. Forse potrò farli manovrare».

Parole cariche e dense di significato: lui porta la sua vita al fronte. Ha quasi invidia di quell’amico che è
soldato e sta anche lavorando su di sé. Vuole conquistare la sua anima: solo allora avrà una bellezza. Non
c’è niente di bellico in queste parole: è lì per una missione – in favore della patria e di sé.

Con me e con gli alpini


Titolo: non bellico (s’intuisce che parla di guerra solo per il riferimento agli alpini, che è comunque lieve).
C’è un concetto immediato: quello della compagnia → l’io (Jahier – per la sua laurea avrà una carica
militare più elevata) e il suo gruppo di soldati (gli alpini). Concepirsi con un gruppo significa voler vivere e
far vivere i soldati in un certo modo: non si concepisce da solo.

Genere: è un Prosimetro, un diario lirico di guerra (mescola poesia e prosa come fanno tutti i vociani). È un
canto e un cammino personale (non è classificato come un libro bellico della Prima guerra mondiale, ma
piuttosto parla di sentimenti; anche se mostra comunque questa inutile strage – non in modo lampante
come Lussu).

Scritto: quando? Tra il 1915-1917. Dove? In guerra. Manoscritto spedito durante la rotta di Caporetto. È
una scrittura a caldo.
Pubblicato: 1918 sul 1° fascicolo rivista «La Riviera Ligure»; 1919 pubblicato sul «La Voce»; 1943 da Einaudi
(in piena SGM); 1967 da Vallecchi.

Struttura: c’è una dichiarazione (poesia dedicatoria) + 45 brevi brani poesia/prosa (NON numerati) + Dedica
posta come epigrafe. Jahier non numera i brani perché lascia che il lettore legga i brani come vuole, in
maniera libera, in base al titolo da cui è attratto di più. Non impone un ordine.

Analisi dichiarazione
È scritta in corsivo e ha la struttura di una lapide, un commiato da scolpire nel cuore di tutti.
Primo verso continuamente ripetuto “Altri morirà…” come fosse un ritornello. Il testo appare, dunque,
come un canto, dove l’attenzione è posta sul motivo per cui si muore.

“Popolo”: parola ripetuta tantissime volte in questa dichiarazione (idea della patria). Questo popolo è un
popolo che è a digiuno, non solo perché ha fame ma perché è privato di qualcosa → “che non sa perché va
a morire”.

È un popolo che mi vuole bene: risponde a tutti i suoi ordini, lo ubbidisce. Jahier è responsabile per il
popolo.

Illetterato: che non capisce, che non sa. E che vive nella miseria.

Io sono a fianco di queste persone semplici, di questi poveretti, che sono qui solo perché hanno dovuto dire
di sì e ora sono io che ne faccio sublime materia, che ne sono responsabile. Io – Jahier – non sono da solo
ma accompagnato.

Jahier verrà molto criticato per la paternità che avrà nei confronti dei suoi soldati – i suoi “figlioli”. Jahier,
però, aveva compreso quanto un’autorità autorevole fosse significativa – grazie/a causa della morte del
padre. Anche al fronte, quindi, costruisce una sorta di famiglia, in un clima di grande fratellanza.

Analisi pezzi di libro


Struttura capitoli: titolo maiuscolo e prima parola minuscolo. Il titolo è parte integrante del testo.
[Questo per la maggior parte dei capitoli, in altri casi il titolo è a sé]

Primo capitolo: “arrivo”. Il suo arrivo che è l’arrivo di tutto.


Racconta l’arrivo al posto assegnato e la successiva consegna dell’uniforme. Si è tutti impacciati: nessuno sa
quello che deve fare, molti non hanno mai combattuto.

Triste e fiero di questo dono … : come se si è di fronte ad un tribunale: vita o morte.

Il primo momento, l’arrivo, è ben fissato nella mente di tutti (altri letterati ne parleranno).

Ci sono anche le risate di chi è lì e l’occasione di una nuova bevuta per i nuovi arrivati. Insieme all’impaccio
iniziale, c’è anche la goliardia.

Capitolo “Scarpe” → separato dal testo, argomento a sé. Spesso titoli con oggetti
Questo brano ricalca in modo uguale a quanto detto da Lussu, dove si pone l’attenzione su una patria che
dovrebbe essere potente e che avrebbe dovuto dare le scarpe del montanaro e che invece ha dato scarpe
che fanno bagnare piedi, scadenti. È una scarpa che la patria ci fa credere essere la migliore, ma che non lo
è.

Jahier introduce alcuni canti nel testo. Canti che fanno compagnia, canti di montagna.

Ritratto del soldato Somacal Luigi: uno dei brani più noti.
È conosciuto perché noi ci aspetteremmo di trovare il ritratto di un soldato di cui essere fieri – e Jahier è
fiero di questo soldato – ma il soldato che viene presentato non è il tipico soldato, emblema di forza e
sicurezza: quello descritto da Jahier è un anti-eroe, l’anti-soldato.
Dopo l’arrivo, c’è sempre la visita prima di essere arruolati definitivamente. Somacal è arrivato con delle
ossa già tribolate: non è il ritratto di qualcuno che può sparare e andare sul campo di battaglia (notiamo la
tendenza al biografismo: Jahier fa un ritratto vero e proprio di quest’uomo).

[…],invece. → dal pdv grammaticale ci aspetteremmo i due punti, invece c’è il punto che fa fare al lettore
una pausa.

La posizione di attenti è la negazione della sua vita: non riesce ad assumere la posizione tipica del soldato
per le sue malformazioni (la posizione che assume è antitetica rispetto a quella tipica dell’attenti).

Somacal è andato in guerra forse per avere anche un ruolo, qualcosa da mangiare, con cui vestirsi. Ma non
è adeguato.

È un burattino: dà idea di colui che si muove in un modo che fa sorridere. Infatti, tutti ridono di lui.

Si cerca comunque di fargli fare qualcosa.

Stacco visivo con asterisco: finora Jahier ha fatto un ritratto di Somacal, è entrato nella vita dell’uomo, ha
fotografato il suo animo (in maniera anche approfondita).

[…] che un soldato non conta per quel che ha fatto i suoi parenti, ma per quello che sa diventare.

Nella seconda parte, Somacal mette tutto se stesso per diventare soldato e per come ci riesce è già una
conquista, un successo. Il suo tentativo è già una gloria e questo suo sforzo totale fa sì che non si rida più
di lui, ma fa sì che si diventi suo amico. Muore in battaglia, ma muore da eroe perché ce l’ha messa tutta.
Jahier vuole mostrarci un percorso di redenzione di questo soldato. Prende lui come modello perché è
questo che lui vuole fare con tutti i suoi soldati e con la sua vita: oltre all’argomento bellico, Jahier ci
propone un cammino di formazione, educativo, dove serve qualcuno che aiuti l’altro a compiere questo
cammino.

Domanda angosciosa che torna: in questo cammino c’è però una domanda angosciosa che torna
(Titolo parte integrante del testo → denuncia alla guerra + cammino di formazione vissuto da Jahier e dai
suoi compagni e che lui ripropone al lettore): perché alcuni sono chiamati a lavorare e guadagnare sulla
guerra e altri a morire?

Il concetto del lavoro è affrontato in modo lucido: esso è un bisogno dell’uomo a cui è necessario
rispondere.

Jahier è molto attento al bisogno di colmare quella che è la difficoltà economica del suo popolo. È più vicino
ai contadini che non agli operai, a quelli che fanno fatica, a quelli che sono analfabeti, a quelli che sono i
primi a decidere di andare in guerra, anche volontari, per avere un piccolo salario. Allora, in tutto questo
prosimetro, anche il concetto del lavoro deve essere nobilitato: c'è il lavoro che si lascia a casa, quello del
contadino, ma poi c'è anche il lavoro del soldato e spesso sembra che questi due lavori si scambino.

Morire non ha equivalente di sacrificio; morire è un fatto assoluto: La guerra è strumento per capire cos’è la
vita, cos’è la morte.

Questa domanda angosciosa rimane aperta: il brano termina ancora con una domanda sul perché si debba
morire.

Regali
Il regalo più grande per Jahier è quello di trovare anche sul campo di battaglia l'amore, quindi la
fraternità, la comunione. Ecco perché addirittura c'è un brano che viene proprio intitolato proprio così:
“Regali”.
(i da capo, i corsivi sono fatti dall’autore: sono lasciti delle avanguardie → il testo va anche guardato e non
solo letto) Vuole mettere in risalto alcuni concetti; infatti, molti suoi titoli sono solo una parola per
esprimere questa importanza.

Fra i regali, Jahier mette quello tipico del soldato e cioè l’uniforme, le cose con cui coprirsi, un vestito che li
rende tutti uguali. Viene fuori ancora una volta (come in Lussu) che ad essere uccise sono persone come noi
– sebbene con alcune caratteristiche (colore della pelle, tratti somatici, …) diverse –, anche loro indossano
le uniformi.
Ma il regalo supremo è anche quello di vivere una comunione.

Consolazione militare
Jahier parla anche delle consolazioni del militari: le caratteristiche che un soldato deve avere tra le mani o
che scopre pian piano.

La privazione è la prima consolazione: quando si è in battaglia si è privati di tutto e bisogna imparare,


dunque, a godere di questo minimo indispensabile di cui si è forniti.

L’altra consolazione è la salute, perché in qualsiasi momento si potrebbe morire.

Terza consolazione è l’uguaglianza: con indosso un’uniforme siamo tutti uguali, abbiamo le stesse cose e
nessuno è più degli altri, non c’è ricco, non c’è povero, non c’è l’intelligente né il meschino.

L’obbedienza è un’altra consolazione, se si ubbidisce agli ordini si sta al sicuro – o quasi. Se si disubbidisce,
però, la morte è sicura, o è sicura la punizione – davanti al tribunale.

C’è anche la disciplina (unita all’obbedienza): bisogna saper seguire tutto quello che ci viene detto con un
certo rigore per essere capaci di affrontare tutte le avversità.

Altra consolazione è l’amore: viene ripreso il concetto del regalo e questa consolazione è proprio più
importante perché è solo per i soldati italiani. Viene ripreso anche il concetto del lavoro (quello del soldato
è una continuazione di quello che svolgevo in precedenza in patria), come quello del fucile che magari a noi
non farà bene ma ai nostri figli porterà cose buone. In Jahier, c’è questo continuo riconoscimento del
concetto di patria, di Italia che gli sta a cuore.
La vera risposta alla domanda angosciante è l’amore; esso è la massima riposta/consolazione; ma come ci si
arriva? Attraverso l’etica del montanaro.

Etica del montanaro


(Da leggere tutto) È uno dei testi più lunghi dell’opera. C’è sempre l’uso del prosimetro, quindi continuo uso
di versi poetici e poi ritorno alla prosa. Notiamo l’uso del dialetto, tipico del periodo.

Attraverso il cammino del montanaro si può arrivare all’amore, il montanaro è l’alpino, l’asceta perché la
montagna permette di creare un vero percorso interiore. Questa concezione di questo cammino dell’uomo,
Jahier lo fa di pari passo con il concetto di lavoro.

Nei primi versi c’è il riferimento a quegli italiani migrati all’estero per trovare lavoro (“i soldi guadagnati
nella terra nemica”). Questo testo potrebbe, dunque, ricollegarsi anche ad Italy di Pascoli perché come lui
anche Jahier si chiede se la migrazione sia giusta o meno e perché si migri. Il “perché” ritorna spesso co e
senza punto interrogativo.

A volte non si capisce se Jahier parli del soldato o del montanaro – le due figure si confondono –, ma di
certo si contrappongono con la figura del cittadino, che non sa fare quello che fa il contadino, che non ha
la pazienza, non conosce l’attesa. Il cittadino è abituato ad avere tutto, non conosce privazione, a differenza
del soldato/montanaro che invece sa la fatica del creare le cose e tenerle, conservarle (rispetto per le cose
create). Il cittadino, invece, conoscendo la fabbrica crede nelle cose che siano facili e che gli siano dovute. È
un giudizio forte della società: è una verità scottante che viene rivelata. Il problema economico come quello
bellico è molto importante per Jahier, che usa il giornale per affermare la propria opinione in modo molto
sottile, letterario e politico. L’uso delle parole permette di veicolare la verità: sono le lettere a salvare il
mondo.

Perché emigrano tutti


È sempre una domanda che ritorna a perseguitare il poeta.
Il montanaro/contadino è il personaggio preferito di Jahier, ma si sa che egli ha delle difficoltà poiché
d’inverno non si può coltivare la terra: ci sono momenti morti.
Il montanaro sulla montagna è padrone → Si torna sempre da dove si è partiti anche se i contadini vanno in
città – per fare fortuna –, poi essi ritorneranno a casa. Perché la montagna permette di essere vivi e veri, di
essere uomini, di fare un percorso interiore, di trovare delle virtù; malgrado la fatica, là i contadini sono
sempre felici. Jahier ci propone uno scontro: in montagna, si va incontro alla miseria ma il modo di vivere
da montanaro ti porta alla vera ricchezza, quella interiore, d’animo.

Perché si sacrificano volentieri


Il montanaro si sacrifica volentieri. Il cammino di un alpino ci permette di essere uomini, di scoprire tutte
quelle virtù nel cammino.

Quest’etica del montanaro porta a riflettere veramente Jahier e si inserisce nel grande dibattito
sull’importanza della parola, della letteratura, dell’uomo apertosi in quel periodo di scontro. Tra i numerosi
che intervengono in questo dibattitto dimostrando di aver vissuto in modo molto umano la Prima Guerra
Mondiale troviamo anche Ungaretti.

GIUSEPPE UNGARETTI (1888-1970)


Brevi cenni di vita
[Video: famosissima intervista che gli viene fatta, in cui interviene anche il poeta Sinisgalli, il quale ha avuto
un valore notevole nel Novecento, in modo particolare per quella che sarà la letteratura di fabbrica.]

L’intervista ci mostra chi è davvero Ungaretti, come uomo, come persona. Egli si è mosso in diversi ambiti –
giornalista, professore, scrittore – e stimava molto i giovani (“sono puri, istintivi, sinceri”). Egli rivela anche
qual è il fulcro della sua poetica: il concetto di segreto. Questa è una parola chiave per cercare di capire
Ungaretti, parola che ritroviamo anche nelle sue poesie.

- Nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888. I suoi genitori erano lucchesi ed erano andati fino in Egitto
perché erano migranti: avevano bisogno di lavoro e avevano saputo che si cercava personale che
lavorasse vicino al Canale di Suez e, quindi, avevano lasciato la loro terra e si erano stanziati lì.
- Morto il padre, rimane in Egitto fino al 1912: ricordi esotici, intense amicizie (Moammed Sceab),
studi. Nello stesso periodo conosce i fratelli Thuile che gli raccontano di questo porto sepolto
nascosto sotto Alessandria, dal quale Ungaretti rimane rapito: inizia a pensare che ci sia qualcosa di
segreto che bisogna svelare, scoprire.
- Nel 1912, si trasferisce a Parigi. Conosce: Apollinaire, Picasso, Boccioni, Soffici, Papini, Palazzeschi,
Marinetti. Entra in contatto con i cambiamenti che la letteratura stava vivendo: sono questi amici
che lo spingono a scrivere e che pubblicano i suoi primi versi (usciti sulla rivista Lacerba). Muore il
suo caro amico Moammed.
- 1914 si arruola volontario combatte sul Carso e sul fronte della Champagne. Evento determinante
per la sua scrittura: in battaglia dà origine a quel diario/ libro molto conosciuto “Il porto sepolto”.
- Dal 1918 al 1921 vive a Parigi, lavorando presso l’ambasciata italiana, poi si trasferisce a Roma,
impiegandosi presso Ministero degli Esteri.
- 1937-1942 insegna Letteratura Italiana presso l’università di San Paolo in Brasile (scrittore, ma
anche professore e giornalista). Nel 1939 muore il figlio Antonietto (9 anni) → evento tragico. Nel
1938, a Subiaco, Ungaretti si converte e inizia ad avere fede: la morte del figlio mette in crisi questa
sua fede rinnovata. Da questa tragedia – e da altri eventi –, scaturisce la sua raccolta “Il dolore”.
- Ottiene la cattedra di Letteratura Contemporanea a Roma.
- Muore a Milano

Tutta la sua vita è un cammino, lui è un girovago, è partito varie volte, è un lupo di mare, un uomo di
mondo, è stato un migrante. Lui cerca una casa dove restare per tutta la sua vita, ma si sentirà sempre uno
straniero, gli sembrerà di non trovarla mai.

Le opere
«poesia come inizio» Mario Petrucciani
- 1916: Porto sepolto; 1919 Allegria di naufragi; 1931, 1942 L’Allegria = l’esperienza della guerra
viene esternata. Compie un labor limae: la prima versione “Porto sepolto” non lo convince e quindi
realizza “Allegria di naufragi”, dove aggiunge delle poesie. Curioso è il titolo: naufragio rimanda al
suo essere lupo di mare, sempre in viaggio, in cerca di qualcosa; l’accostamento all’allegria crea una
sorta di chiasmo, ossimoro → il naufragio non è allegro. Poi, queste poesie, Ungaretti le sistemerà
nell’Allegria, la versione finale dell’opera (lui è un uomo solare, alla ricerca di qualcosa: questo lato
non lo perderà mai, neanche davanti alla morte e alla guerra).
- 1933: Sentimento del tempo = torna sul concetto di guerra ma mettendo in evidenza le sensazioni
dell’uomo.
- 1947: Il Dolore = scrive sulla morte del figlio. Il 1947 è un anno significativo: vengono pubblicati vari
libri sulla Seconda guerra mondiale; è un anno segnato da questo nuovo dolore.
- 1950: Terra promessa → Ungaretti è alla ricerca di una Terra Promessa: non è un testo biblico –
solo il titolo rimanda alla religione –, piuttosto è un testo che recupera l’antico, i personaggi
dell’Eneide. L’obiettivo è quello di trovare una terra dove accasarsi. Ma il tempo passa e lui cambia:
vuole annotare di questo suo cambiamento, del suo invecchiare, vuole commentare se stesso e lo
farà nel 1963.
- 1960: Il Taccuino del vecchio = scrive della sua vita e di quanto gli è accaduto fino a quel momento
- 1963: Ungaretti commenta Ungaretti
- 1969: Vita d’un uomo → Tutte le poesie (opera che va letta come un tutt’uno). Tutte le sue poesie,
Ungaretti le chiama/intitola “Vita d’un uomo” perché raccontano la sua intera esistenza, il viaggio
della sua vita, nella quale ogni uomo può identificarsi.

All’origine di tutto, del suo lavoro, ci sta la prima guerra mondiale: senza quel bagno di sangue non ci
sarebbe lui. È un passaggio obbligato.

Carteggi
UNGARETTI SCRIVE ALL’AMICO PREZZOLINI (fondatore della Voce), OTTOBRE 1915 “Spero di ristabilirmi
bene. Un po’ di esaurimento. È tanto che sono spossato. Spero di poter far domanda in gennaio di essere
rimandato al mio reggimento (era andato a casa per qualche giorno). Per me tutto è rischiare. Unica gioia,
unico modo di sentirmi in pienezza di vita. […] Ma, non poter mai fare quel che si vorrebbe! Non esser né
quaggiù, né lassù, languire in questa mediocrità. Se la vita mi riprendesse nel suo turbine, e anche mi
portasse via. Tanto sono stanco. Spero.”

Da queste poche frasi, si capisce come Ungaretti sia un uomo in ricerca, che vuole capire dove stare. Il suo
desiderio è di godersi la vita in modo pieno e di capire qual è la ragione per cui si vive.

UNGARETTI SCRIVE ALL’AMICO PAPINI, LUGLIO 1916


Riverrà quel tempo, anche per me? L’avrei pagato, in tanto tempo attanagliato alla morte; –e sai che allora
non s’è distratti –. No, nessun brrrr; chè poi, se madama morte arriva, è uno stiracchiamento di membra (–
diciamo, per esser sinceri: colle povere membra violentate e straziate – Dio, chiudiamo gli occhi! –; la buona
morte classica anche quella è una nostalgia –; ma morire, con coraggio, in un assalto, dev’essere un
supremo abbandono alla vita, un’estasi totale – ) uno stiracchaimento di membra, e un riposo definitivo e
amen; ma il permanente accorgersi che tutto è così perfettamente inutile…. [….]
Amo le mie ore d’allucinazione […] Anche le mie ore di randagio, d’immaginario perseguitato in esodo verso
una terra promessa.

Già nel 1916, Ungaretti esprimeva la necessità di cercare questa terra promessa. Si sente quasi un
perseguitato per tutto quel viaggio interiore che la madama Guerra gli pone davanti.

Riflessione
“Nella trincea, nella necessità di dire rapidamente perché il tempo non poteva aspettare, e di dire con
precisione e tutto come in un testamento […] trovai senza cercarla, quella mia forma d’allora nella quale il
più che mi fosse possibile volli resa intensa di sensi la parola intercalata di lunghi silenzi.” Le prime mie
poesie, 1933

Queste righe riassumono il suo modo di lavorare. Per lui scrivere in quelle difficili condizioni imposte dalla
guerra è come scrivere un testamento, dove bisogna essere chiari e brevi, non si può tirare per le lunghe
perché si ha poco tempo. Bisogna cercare la parola giusta, una parola fatta di silenzi dove anche il silenzio è
parola.

Il porto sepolto (diario di guerra)


Titolo:
- Non bellico per sua scelta: non è un testo puramente bellico, ma rappresenta un viaggio interiore
che Ungaretti fa
- Metafora
- Porto di Alessandria d’Egitto: prende ispirazione dal racconto dei fratelli Thuile
- Poeta palombaro

Struttura: 32 liriche composte in trincea (22 dicembre 1915 – 23 novembre 1916), che riportano sempre
luogo e giorno della stesura (si tratta di memorie raccolte come se l’opera fosse davvero un diario
personale)

Tematiche e contenuti: viaggio, scavo interiore, abissi dell’anima, memoria, rinascita, guerra

Stile: essenziale, fonico, simbolico, evocativo, nessuna punteggiatura, spazi bianchi.

Il porto sepolto o (da Il porto sepolto, 1916)


Mariano il 29 giugno 1916
È la poesia che dà il nome alla raccolta e che dentro tutta al chiave per comprendere Ungaretti.

Non presenta punteggiatura (pian piano la recupererà nel Sentimento del Tempo): sia per questioni di
vicinanza ai futuristi, sia perché quando scrive è in una situazione di urgenza, che richiede velocità di
scrittura.

È la prima e unica volta che Ungaretti usa il verbo “arrivare” nella sua poetica: preferisce il verbo partire.
Utilizzare il verbo arrivare, infatti, significa necessariamente indicare il luogo dove si vuole arrivare: dove
deve arrivare il poeta, l’uomo, lui? Nel porto sepolto → Deve scendere come un subacqueo, un palombaro,
per cercare questo porto sepolto. È il concetto di compito del poeta: deve scendere negli abissi per portare
alla luce la parola, i canti (si rifà a Leopardi ed è anche un riferimento a Pascoli). Ma il poeta scende, porta
alla luce la parola, con l’obbiettivo, poi, di disperderla, di farla conoscere.
Di questa parola, poesia, ad Ungaretti non resta che “quel nulla d’inesauribile segreto” = Non si riuscirà mai
a capire che cos’è la parola, il segreto; non si può davvero capire ma si può sempre cercare, partire alla
ricerca della verità e del mistero della parola.

Allora, questo è un viaggio che non è solo orizzontale come quello di Ulisse – che da Troia torna ad Itaca; il
viaggio del ritorno dell’eroe –; ma per Ungaretti è un viaggio verticale, come quello di Dante che scende e
poi risale ad “U”.

Commiato (da Il porto sepolto, 1916)


Locvizza il 2 ottobre 1916
Ultima poesia, tanto importante quanto quella appena letta. È un commiato, congedo, verso l’editore,
Ettore Serra, che è colui che spinge Ungaretti a far uscire queste poesie (già nel 1916, riesce a far uscire
un’edizione rarissima della raccolta, di cui vengono prodotte solo 80 copie: è incredibile perché lo fa
stampare ad Udine, in zona militare, quando ancora la guerra è in atto). Quest’ultimo riesce a convincere
che l’opera di Ungaretti non è un diario di morte, ma di vita e che per questo va diffusa.

Ungaretti sta dicendo che la poesia è tutta quella umanità che fa davvero rifiorire tutto, che la parola fa
nascere ogni cosa. E allora bisogna davvero scavare in se stessi per trovare la verità. La discesa nel porto
sepolto è personale: bisogna conoscere se stessi, fare silenzio, ascoltarsi. Questo cammino lo fa il poeta, ma
lo può fare ognuno di noi: è una continuazione della poesia “Il porto sepolto”, in quanto, entrambe con
semplicità (Ungaretti non è ermetico), esprimono la riconquista della parola, le modalità per far rifiorire la
parola dell’uomo (e quindi la letteratura), che è proprio l’opposto/una risposta a quella perdita di coscienza
che troviamo, invece, nel futurismo.

Fratelli (da Il porto sepolto, 1916)


Mariano il 15 luglio 1916
La raccolta contiene dentro di sé, descrive e mostra l’uomo, in tutte le sue sfumature, riscoperto nella sua
drammaticità.

Ripete più volte la parola “fratelli” (solitamente indicante coloro con cui si ha un legame di sangue), in
riferimento ai soldati. Quando parla di fratelli, in questo caso, non è rivolto ai propri soldati ma parla dei
soldati avversari: ancora una volta emerge il tema dell’uguaglianza, della fratellanza davanti alla guerra.

Di che reggimento siete? = Questa domanda è fondamentale. Il punto interrogativo è necessario e


straordinario (nelle altre poesie primeggia l’assenza di punteggiatura).

Notte = Nella notte è quando succedono le cose tragiche, quando si è da soli con i propri pensieri. È un
momento dove si pensa, dove si è provocati nella nostra solitudine.

Questa parola nella notte trema, come una foglia appena nata, perché è piccola e potrebbe staccarsi da un
momento all’altro. Ma, proprio perché è appena nata, non è secca ma verde.

L’uomo è fragile. E colui che ho davanti è un fratello, è proprio come me. Ungaretti conclude la poesia
senza dire nient’altro, non c’è bisogno di aggiungere altro se non “Fratelli”: quelli che ha di fronte sono
fratelli e uomini e questa parola – tra l’altro isolata – dice già tutto, è la risposta alla domanda iniziale.

La poetica di Ungaretti: qualche informazione


[Video – Sempre l’intervista]: La parola avvicina il segreto della poesia, ma non lo esaudisce. La poesia di
Ungaretti è la ricerca della parola, di una parola. Una parola che è impotente, inesauribile, misteriosa,
impossibile da svelare. La sua ricerca è continua. È la scelta di una parola esatta, corretta (che contrasta
l’impoverimento della parola visibile nell’estetismo e nelle avanguardie). [Anche nella postura del poeta,
nel suo guardare al cielo, ritroviamo questa sua ricerca, a cui lui dà il nome di “Volto di Dio” → una
soluzione che però non gli basterà mai]
Nella poesia, l’orecchio deve seguire il suono, il significato. C’è una grande attenzione al recupero della
parola come senso e significato.

Una caratteristica di Ungaretti è proprio quella di utilizzare un linguaggio analogico (paragoni, esempi) e
questo metodo era stato sperimentato dai simbolisti, che lui aveva frequentato a Parigi. I suoi due autori
preferiti sono Leopardi e Mallarmé – Quest’ultimo era un simbolista.

Il linguaggio di Ungaretti è semplice, di facile comprensione. Ma in realtà c’è molto di più, c’è un lavoro
dietro. E spesso diventa un linguaggio cifrato, proprio perché deve alludere al segreto mediante delle
immagini. C’è qualcosa di profondo, da capire e scoprire.

In uno scritto in prosa, che lui comporrà, “Le ragioni di una poesia” (1969), cerca di dare attraverso la
poesia un giudizio a se stesso; Ungaretti che commenta Ungaretti: cerca di spiegare qual è la ragione della
sua poesia. Gli sta a cuore mostrare cos’è la poesia, come si fa poesia. E in questo testo dice che la poesia è
qualcosa di estremamente sintetico e diventa sintetica soprattutto quando si fa esperienza, l’esperienza
che è quello che ognuno prova, quel provare che ti penetra dentro – che è quello che lui ha vissuto sul
fronte di battaglia (da lì è scaturita la sua poesia – le prove/bozze che realizza prima non sono ancora piene
“di meraviglia”, di “segreto”).

Il segreto porta con sé dei non detti, una parola che diventa silenzio. Se è vero che quella prosa futurista
era tutta da vedere, Ungaretti riconquista la pagina, però lo fa pian piano: la parola non può dire tutto e
sulla parola bisogna meditare. Anche la sua pagina è da vedere (non c’è punteggiatura, versi liberi, continui
a capo), ma ha motivazioni diverse, contenuti differenti.

Ancora Porto Sepolto


In memoria (da Il porto sepolto, 1916)
Locvizza il 30 settembre 1916

Questa poesia parla di un suo amico carissimo dell’infanzia, egiziano, con cui condivideva tutto. Studiano
insieme a Parigi e condividono una stanza; eppure, a questo amico, succede qualcosa di grave: si suicida. È
uno dei primi lutti e lacerazioni che Ungaretti sente; ancora più profonda per il fatto che lui si sia suicidato.
Lui parla di questo evento mentre è in battaglia: quando dovrebbe pensare a tutt’altro, gli torna in mente
questo suo amico (ferma il tempo con i suoi versi liberi).

Mohammed: Chiama questo amico per nome → il lettore capisce subito di chi sta parlando. Questo amico
discende dal profeta Maometto, dai capi delle tribù e governatori degli Stati Arabi, nomadi.

Fissa dimora: parola chiave; anche Ungaretti non riconosce e non ricerca patria. Per lui, la vita è un
cammino e, quindi, Ungaretti si sente come questo suo amico.

Suicida: isola il verbo e va a capo → attira l’attenzione del lettore sull’evento scaturito da quella mancata
ricerca

Non aveva più patria: era insoddisfatto, cercava qualcosa che non ha trovato – anche se pensava di averlo
trovato in Francia, dove aveva cambiato nome, identità. Ma l’integrazione non è avvenuta.

Vivere: verbo isolato. Il desiderio dell’amico di vivere è proprio anche di Ungaretti.

Nella tenda: riprende le tradizioni del popolo dell’amico → egli non si riconosceva più neanche in quei riti

Il canto del suo abbandono: non sapeva più esprimere la sua parola. La parola “canto” è connessa con
l’idea di parola. Il suo amico non riusciva a capire il significato della parola e della vita, una vita che è un
mistero che a volte non dà risposte.
Camposanto: (Egli si è suicidato nel luogo dove vivevano insieme) ora riposa in un posto sfiorito, appassito.
C’è qualcosa di malinconico.

Questa poesia è una delle affezioni più chiare, un’affezione personificata di Ungaretti, che ha un volto ben
preciso. Per lui, la guerra è un punto fondamentale che lo fa riflettere sulla vita, ma anche su questa morte
e su tutte quelli morti che ha dovuto affrontare..

Altra poesia ‘Lindoro nel deserto” (titolo che si rifà ad una maschera veneziana, idea di cambiare
identità/volto senza però sfuggire dal nostro cammino e dalle sue sofferenze)
Sino alla morte siamo in balia del viaggio: è una spiegazione e una conferma di quanto detto nella poesia
precedente. Siamo in balia di un cammino e il momento in cui questo cammino si fa tragico è il momento in
cui dobbiamo capire chi siamo – non dobbiamo fuggire.

Veglia (Porto Sepolto, 1916);


Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Quarta poesia della raccolta, una delle prime scritte, tra le più conosciute.

Ungaretti, che si trova sul Carso, è costretto a vegliare tutta la notte vicino ad un uomo morto. C’è dunque
un impatto brutale con la morte. Eppure, in questa situazione terribile, lui si sente attaccato alla vita e lo è
grazie alle parole.

Struttura: Versi liberi, si oscillatra il bisillabismo e l’ottonario. Il verso è spesso fatto di una sola parola.

Suoni dentali + uso insistente della R: danno idea di qualcosa che fa rumore, che è un rombo. Le parole
sono selezionate, non scelte a caso.

Buttato, massacrato, … : participi collegati al compagno morto,

Di notte: momento della giornata in cui si pensa di più, si è predisposti alla riflessione.

È una morte destoricizzata: il compagno ha dato la vita per la patria ma lo scenario è tragico, fa ribrezzo
(non ci si concentra sull’onore del servizio, ma sulla scena brutale e macabra).

È un volto illuminato dalla luna: riferimenti a Leopardi. È una luna che è lì e ti guarda.

Congestionate: fredde, paonazze, sempre più bianche. Abbiamo il volto del macabro, davanti al quale c’è
Ungaretti, lui.

Silenzio: nel silenzio, Ungaretti riesce a portare alla luce delle parole piene d’amore. È la parola che gli dà
conforto. C’è un grande attaccamento alla vita: La parola permette all’uomo di stare in piedi, permette di
tirar fuori le proprie energie vitali.

Tanto: parola isolata per indicare queste energie vitali enormi di cui lui è dotato.

Allitterazione -t: non più legata alla brutalità, ma garanzia di pace e di bene.

I fiumi (da Il porto sepolto, 1916)


Cotici il 16 agosto 1916
Definita come la carta d’identità di Ungaretti. In questa poesia, l’acqua diventa per lui uno strumento che
gli permette un percorso. Lui si considera un lupo di mare, sempre pronto a partire. L’acqua, insieme al
deserto, rappresenta per lui un elemento ricorrente. L’acqua permette di spostarsi, di avere la vita, di
purificarci, di lavarci.

Sono versi liberi.


Albero mutilato: aggettivo metaforico che appartiene all’ambito bellico, lo si dice per un ferito (sarebbe più
corretto dire spoglio). Subito, Ungaretti ci fa capire che anche il paesaggio coincide, ci mostra la distruzione
(l’albero è stato dilaniato dalle bombe?); è una chiara allusione ai feriti.

Dolina: avvallamento naturale della zona del Carso

Abbandonato: termine legato all’albero come a se stesso. È come se Ungaretti fosse quell’albero: si sente
spoglio, gli manca qualcosa.

Languore: vuoto, abbandonato

Circo: scenario malinconico → ecco il linguaggio analogico (Ricorda la sera del dì di festa di Leopardi →
Durante il fronte ci sono molto momenti statici e si ha tempo di pensare e quindi di trovare questi
riferimenti).

… sulla luna: guarda le nuvole che passano sulla luna. La luna è presente e inizia un po’ a velarsi. Il velo
partecipa alla malinconia della coscienza del poeta.

Stamani: di notte ripensa a quanto fatto durante il giorno.

Urna d’acqua: conca naturale del fiume.

Reliquia: parola che ha a che fare con il mondo religioso. Usa questo termine come dire che è sacro per lui
questo momento che lui ha vissuto.

Disteso: ricorda il riposo, anche eterno (quindi, la morte → sono vari i riferimenti funebri, al cimitero).

L’Isonzo: l’acqua ha fatto con me come quello che fa con i sassi. Ha lavato via qualcosa, ha smussato
quello che sono io.

Quattr’ossa: si è alzato → Ritorna ambito del defunto.

Acrobata sull’acqua: (quando ti alzi dall’acqua, cerchi di mantenere l’equilibrio per non scivolare sui sassi).
Rimando all’analogia del circo e ad una sorta di gioia sottile.

Accoccolato: Accovacciato

Panni sudici: vestiti sporchi dalla guerra, per il fango, il sudore, il sangue. È un bagno quasi sacrale, quello
che viene descritto. Quasi una sorta di battesimo. Lui sta ripercorrendo la sua vita e lo fa attraverso i fiumi
che lo purificano, lo sostanziano.

Come un beduino … : richiamo al mondo dove lui viene, l’Egitto, il mondo degli arabi. È un ricordo della sua
affezione e un chiaro richiamo a questo gesto d’inchino, tipico della preghiere islamica.

Questo: aggettivo dimostrativo, ma usato anche per indicare l’affezione, qualcosa che gli è vicino. È una
vicinanza materiale e spirituale. Indica la sua appartenenza a quel fiume in quel momento.

Questo fiume, dove sta combattendo, per lui è fondamentale perché gli permette di riconoscere se stesso,
di capire chi è – la guerra gli permette di conoscere se stesso. Il cammino della parola, messo in atto lì in
guerra, gli consente di rispondere alle domande esistenziali che ha.

Docile fibra: profonda analogia. Ungaretti capisce che lui è una particella di tutto l’universo, dell’immensità
del creato. E usa il termine fibra, scientifico, per indicare questa parte per il tutto: è la cellula di un organo,
un filamento, un tessuto, una piccola unità in un universo infinito.

In armonia: soffro quando metto in dubbio di essere parte di questa armonia. È terribile quando non trova
dimora, il proprio posto nell’infinito universo.
Occulte mani: capisce che c’è un oltre – grazie alla tragicità della vita a cui è vicino – ma non lo identifica
ancora con un Essere Superiore, un Dio – non lo ha ancora scoperto. Ma sono queste mani che gli fanno
capire di essere parte di questo tutto, che gli regalano una certa felicità.

Epoche della mia vita: in quell’istante Ungaretti ripassa la sua vita. In fondo, sta facendo quell’autobiografia
tipica dei vociani.

Epoche: in quei pochi anni vissuti c’è già dentro tutta la sua vita

Ripassato: ripensa, lo sa già ma ci ripensa

I miei fiumi:
- Serchio: in Toscana, terra dove sono vissuti i suoi genitori. Lui viene da lì, è la sua origine.

Verbo attinto: hanno preso sostentamento per vivere. Acqua = Vita

Anafora di questo fino alla fine: crea melodia, suono

- Nilo: dove è nato e vissuto, dove ha passato la sua giovinezza (vitalità, passione, entusiasmo
giovanile).
- Senna: a Parigi, dove ha fatto i primi passi. Lì incontra un gruppo di amici che gli fa capire
l’importanza della parola. È un’acqua torbida perché è anche dove è morto il suo amico.

Tutti questi fiumi sono dentro l’Isonzo. L’Isonzo permette di comprendere il suo lascito, la sua tradizione, da
dove viene.

Nostalgia: il ricordo crea una malinconia. Ungaretti rimane un uomo inquieto – nonostante la rara felicità
precedentemente citata.

Notte (non limpida)

Corolla: allusione a quelle corone di fiori che vengono messe quando vi sono dei defunti. Però, nel fiore, c’è
comunque il sentimento della vita. Il fiore rimanda ad un grande simbolista, Baudelaire (Le fleur du mal) →
anche questa è un’analogia non facile da decifrare: c’è la vita ma anche l’ora delle tenebre, che pesa. Dalla
luna velata, non si vede più nulla.

Se questo momento per lui è un bagno che gli permette di prendere coscienza di chi è, di lavarsi, di
purificarsi, al tempo stesso, Ungaretti deve fare i conti anche con quello che lui vede quotidianamente in
guerra.

Sono una creatura (da Il porto sepolto, 1916)


Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

Paragone con una pietra: gli elementi della natura e gli oggetti ritornano nella sua poetica.

Ripetizione avverbio “così” crea una melodia, un suono, una cantilena.

La morte si sconta vivendo: più passa il tempo, più vivo e più mi avvicino alla morte. E questo è sempre
vero, ma ancora di più lo si vede dove lui si trova, in guerra. Continua contrapposizione tra vivere e morire.

Pellegrinaggio (da Il porto sepolto, 1916)


Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916

Titolo religioso: cammino con una meta. Parla di se stesso utilizzando dei termini del proprio corpo che
sono macerie (budella, …).

Macerie: analogia tra corpo e quello che si vede, le cose, le case


Ripetizione -s: sensazione del trascinarsi, spostarsi, muoversi a fatica, magari feriti in battaglia

Come una suola: come qualcosa che si appoggia sul bagnato, sullo sporco, sul fangoso

Spinalba: fiore

Ungaretti: cita se stesso per la prima volta (forse è anche l’unico ad usare il suo cognome in una poesia).

Uomo di pena: non capisce dove deve andare, qual è la sua casa

Illusione: basta qualcosa che lo fa andare avanti

Mare: acqua per lui fondamentale. È davvero un palombaro, un marinaio, un uomo viator.

Nebbia: il coraggio è sfuocato ma io lo seguo

Alterna poesie tragiche, macabre con poesie molto personali

San Martino del Carso (da Il porto sepolto, 1916)


Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
Descrizione di un paese raso al suolo dall’artiglieria nemica: di questo paese non è rimasto più nulla, vi sono
solo macerie, qualche brandello

Tanti: i suoi soldati, compagni, simili. Quelli con cui condivideva la vita (“che mi corrispondevano”), con cui
era in sintonia.

Tanto: non è rimasto più niente, sono stati uccisi.

Ma: dentro di me, non manca nessuna croce → mi ricordo di tutti, non mi dimentico nessuno. “Croce”: a
rimarcare il fatto che siano tutti morti

Tutta la poesia è un’analogia: è la fotografia della guerra (e dei suoi effetti devastanti sul paese di San
Martino) ma anche del cuore di Ungaretti. Il suo cuore è un paese straziato, fatto da tante croci. È
esattamente come il paesino che ha descritto. In modo analogico, il suo cuore è affollato di croci.

[Sentimento del tempo: in questa raccolta ritorna la punteggiatura]

Il dolore
Il titolo della raccolta ‘Il dolore’ è significativo: esso ha a che fare con il dolore che Ungaretti ha vissuto per i
lutti famigliari – in modo particolare quello del figlio –, ma anche per la distruzione che vede per lo scoppio
della seconda guerra mondiale (non solo delle città, delle case, ma anche dell’intero popolo ebraico).

Mio fiume anche tu (da Il dolore, 1947)


Continuo della poesia sui fiumi (anche se siamo in un’altra raccolta)

1947: Ungaretti ha subito altri lutti, quello del figlio.

Tevere: ultimo fiume importante per lui.

Questa poesia fa parte della sezione Roma Occupata, dove descrive gli orrori della guerra, in particolare
della Seconda Guerra Mondiale (è anello di congiunzione tra le raccolte).

Provocato da quello che vede, capisce l’importanza anche di questo fiume.

Di fronte al nuovo male, cresce una domanda di perché questo male continua ad esserci. Esplicitamente,
viene dichiarato questo Cristo, questo Dio (a cui Ungaretti nel Porto Sepolto aveva solo alluso).

A Roma è come se ci fosse stata la celebrazione del fascismo, a cui lo stesso Ungaretti aveva aderito –
perché gli pareva la cosa più giusta (Tevere Fatale).
Notte: il fiume scorre e turba, fa riflettere.

Gemito di agnelli: di quello che sta accadendo. Allusione a quello che accade agli uomini, smarriti per le
bombe, per l’occupazione. Scappano come agnelli che hanno paura e sono smarriti, ma che non hanno
fatto nessun male. Un male che rimane imprevedibile, che intralcia l’animo e il cammino (paralizza i miei
spostamenti).

Singhiozzi infiniti: davanti alla distruzione della Roma occupata, non si può che piangere.

Rantoli: verso che si fa prima di morire. La gente soffre, patisce.

C’è chi rimane nelle proprie case come fossero tane. Si temono i continui bombardamenti.

Millenni umani: Si ripensa a quello che è stato il patire dell’uomo.

Eppure, imparo: s’impara quanto si può patire. Pensava di aver visto tutto ma non è così. E dal dolore,
impara.

Mondo soffocato da questo male infernale.

Si sfrena: Rompe ogni freno ed esplode tra i fratelli → la parola ritorna

Di fronte a tutto questo male, che cosa si può dire? Non c’è una vera risposta. Quindi, si pone una
domanda che è la stessa fatta da Gesù sulla croce (Dio Mio, … ?): riferimento evangelico.

Blasfeme: non dovrebbe dirlo. Non dovrebbe fare questo riferimento.

Ripetizione “Ora”: hic et nunc.

Paragona uomini a pecorelle che sbandano per strade desolate.

Emigrazione: parla di popoli che hanno dovuto spostarsi (anche i suoi genitori erano migranti).
Un’emigrazione che continua nella forma di deportazione → è qualcosa di forte e di forzato.

E in questa spudoratezza, in questo cercare le ragioni, l’immagine divina, il cercare di capire il senso diventa
e si tramuta ancora in grido. Ed ecco che quel grido, che richiama il cristo sulla croce, ora lo deve dire
ancora più forte. Ma è un cuore il suo che è indurito, anche la parola cuore torna sempre in tutta la sua
produzione. È un grido triste, indurito, che pian piano, nella notte, cerca di avere una certezza. Perché ora,
in questa notte triste, capisce di iniziare a imparare.

‘So che l’inferno… alla purezza della tua passione’ —> forse mi sembra di aver capito davvero quanto
l’uomo sia folle. Ma forse inizio a capire anche come si sta di fronte a questa tragedia, a questa follia
umana.

Questa poesia è per Ungaretti un passo ulteriore che gli permette di fare un esame di coscienza sui mali
della guerra e al tempo stesso è una sorta di professione di fede: si domanda come sia possibile che Dio –
quel Dio che Ungaretti ha incontrato veramente solo nel 1928, quando durante la Settimana Santa è andato
a Subiaco – permetta una tragedia del genere. Allora, essa diventa un atto di fede, perché più la si legge,
più queste tre strofe di versi liberi diventano un crescendo: se all'inizio le labbra di Ungaretti sembrano
quasi blasfeme per mettere in dubbio che ci sia un dio (che eviti che questo popolo venga eliminato); con il
passare delle sue parole è come se Ungaretti davvero capisse che quel sacrificio, di Gesù sulla croce, anche
se non è comprensibile dall'uomo, gli dà una certa pace. Tant’è che riesce con più sicurezza a usare la
parola per fare una supplica, non con rabbia ma con la certezza di una redenzione umana. Questa poesia la
si può vedere come il punto di arrivo di una ricerca positiva.
Terra promessa
Tutta la sua vita è un viaggio: tutte le poesie di Ungaretti le racchiude come se fossero proprio la sua vita.
Dopo Il dolore, l’opera successiva si intitola ‘Terra promessa’, un titolo di ascendenza biblica (il popolo di
Israele che lascia l’Egitto per cercare la terra promessa). Anche se in quest’opera, per Ungaretti, è solo
l’idea del raggiungimento di una terra ad avere in sé questa ascendenza biblica, perché, in realtà, tutti i
personaggi sono perlopiù tratti dall’Eneide. Ma tutti inseguono una meta, ecco perché chiama l’opera terra
promessa. E in questi viaggi, i vari personaggi inseguono una terra promessa, ma in modo particolare
inseguono delle mete che sono ingannevoli, qualcosa che non si riesce mai a raggiungere davvero —> non
si raggiunge un obiettivo.

Taccuino del vecchio (1960)


L’ultimo punto dove si può intuire che Ungaretti concretizza quello che dice nella prima poesia del porto
sepolto, dove abbiamo visto che il poeta ‘arriva’ (l’unica volta che usa il verbo arrivare, nel senso di arrivare
in un punto, nel senso che quello è l’obiettivo); ecco, l’ultimo punto dove invece sembra che davvero si
veda questa meta è proprio una poesia contenuta nel Taccuino del vecchio (1960).

Caratteristico il titolo: è come se fossero piccoli appunti di una persona anziana, mentre parla di se stesso.
La poesia è “Ultimi cori per la terra promessa”, ed è chiaro che c’è un collegamento con l’opera precedente,
nel senso che il titolo richiama l’opera precedente.

Ultimi cori per la terra promessa


(Roma, 1952-1960)

Qui non c’è più la proiezione leggendaria di personaggi e vicende legate all’Eneide, ma lo scenario è proprio
il deserto del Sinai, il deserto dove ha vagato per 40 anni il popolo ebraico, e dove l’io di Ungaretti, che
diventa quasi un plurale ‘noi’, dice che forse davvero ha raggiunto una meta. Questo ci fa capire bene
come il suo sia un viaggio che discende e poi risale, un viaggio dantesco. La poesia è fatta di 27 strofe, ne
vediamo alcune rappresentative .

Agglutinati = uniti all’oggi. Tutto quello che è passato è come se


fosse unito a oggi, e in quest’oggi c’è il preludio di tutto quello che
verrà dopo, c’è la voglia di vivere il presente, l’istante.

Per tanti anni, per lunghi secoli, ogni istante di questa nostra vita è
una sorpresa, è una sorpresa il fatto che sappiamo di essere vivi. E
questa vita scorre (come lo scorrere del fiume), il vivere è
continuo, non si arresta.

Dono e pena: perché tutto quello che accade è un dono ed una


pena: c’è sempre qualcosa da scoprire, ma, al tempo stesso, ci sono le difficoltà, la guerra, i lutti. Un
turbinio causato da questi mutamenti continui che appaiono vani, inutili.

Io continuo il mio viaggio: torna a parlare di sé, dice “Questo è


il mio pensiero, Io sono un profugo, uno che non ha una fissa
dimora, come gli altri”.

Ultimi 2 versi fondamentali: ci fanno capire che Ungaretti


stesso forse si sta avvicinando a capire. La vita, l’obiettivo, il
punto di arrivo sfugge, ma forse si intravede. Però c’è una
domanda: chi conosce dove dobbiamo arrivare? Chi conosce il
nostro destino? Ed è una domanda alla quale, da questo
momento, lui cerca di dare una risposta.
Non si sogna l’Itaca perché il suo obiettivo non è
quello di tornare a casa, non è un viaggio
orizzontale.

Sono smarrito in questo mare ma il mio obiettivo


è quello di arrivare al Sinai, al cielo, al mistero (il
passaggio dal buio alla luce). Ma non è facile
arrivarci perché il Sinai è nel deserto e nelle sabbie, c’è una monotonia della vita che ci allontana
dall’obiettivo finale.

Noi non sappiamo qual è la nostra terra


promessa, il nostro destino, dove
dobbiamo andare, cosa ci deve accadere.
L’ignoto genera infatti paura, e così
anche il mistero, però c’è un anelito di un
oltre che ci aspetta. Questa è la posizione
di Ungaretti.

27esima strofa, ancora oggetto di studio dei critici, che cercano di capirla al meglio.

Torna, in quest’ultima strofa, la sua immagine


più cara, quella dell’uomo viator, dell’uomo che
è in mare, e spesso in balia di una tempesta.
Quella tempesta che accade mi impedisce di
vedere bene un faro. Non è semplice, mi
distoglie la vista, non mi fa dimenticare
l’obiettivo ma mi fa fare fatica. Ma io, nel
momento in cui non c’è più la tempesta, vedo
quel faro e se vedo quel faro (che ci indica la via,
ci mostra il mondo della terra promessa), allora
io come un vecchio capitano (quale lui è = figura
che indica colui capace di affrontare le difficoltà del mare → metafora per indicare Ungaretti stesso e la sua
capacità di affrontare le avversità della vita) vado tranquillo. Ora, può dire di arrivare tranquillamente a
quel porto sepolto, anche se dire ‘sono arrivato’ non sarà mai il suo obiettivo (è più importante come si
tende a quella meta).

Ungaretti, quindi, si può dire un Ulisse e anche un Mosè: tutta la sua opera è una possibilità per scoprire e
capire come il suo è un viaggio dell’anima che è accaduto anche a causa di quello che gli è capitato. È
stato testimone della Prima e della Seconda guerra mondiale. Da ricordare la grande conquista che fa e rifà
della parola (anche in quest’ultima poesia che abbiamo letto, la punteggiatura torna). In fondo, Ungaretti ci
permette di fare il passo successivo, di quelle partenze e costrizioni che abbiamo ancora di più nella
Seconda guerra mondiale.

PRIMO LEVI (1919-1987)


Seconda guerra mondiale (1938-1943)
Il passaggio dalla prima alla Seconda guerra mondiale è importante: finisce quella che è stata una grande
guerra con una pace (formale) senza pacificazione, che ha generato un grande malcontento, soprattutto in
Italia, e ha portato alla nascita di un forte nazionalismo tedesco (Durissime le condizioni imposte ai vinti).
Ciò che si vede pian piano
è un cambiamento
politico e territoriale: si
configura l’Europa come
l’abbiamo in mente ora.

Avvento del fascismo e


ascesa al potere di
Mussolini dal ’19 al ’39: è
un passaggio
fondamentale per noi,
perché questo genera
delle questioni che abbiamo ancora oggi (vittoria mutilata, questione fiumana, esodo giuliano-dalmata).
Siamo di fronte a un’Italia devastata, che deve risollevarsi e Mussolini sembra una possibilità.

Dal ’43 in poi la situazione diventa ancora più problematica, tra la deportazione e l’avere i nemici in casa.
16 ottobre ’43 a Roma: le deportazioni iniziano a essere più massicce. Ma anche tutta la nostra letteratura
cresce molto di più a partire dal 1943. Se guardiamo a quello che è la letteratura italiana, sulla Seconda
guerra mondiale, quali sono le tematiche che vengono raccontate? La resistenza, la deportazione, la
ritirata russa. Queste
sono le tre principali.
Tutta la letteratura che
parla della Shoah parte
dall’emanazione delle
leggi razziali (15 luglio
1938), quando sul
Giornale d’Italia viene
pubblicato il manifesto
della razza, un
documento che prende
gli italiani ebrei alla
sprovvista (molti non si
ricordavano nemmeno di essere ebrei, in quanto non-praticanti).

[Argomento razza: grande risonanza e portata → Video Mussolini]. Obiettivo: Distruzione dell’umano, non
solo conquista territori.

Dal lager nasce una letteratura


Dai tre principali aspetti – ritirata Russa, deportazione e resistenza – nasce una vera e propria letteratura.
Noi ci occupiamo proprio di quella sottosezione della letteratura italiana contemporanea chiamata
concentrazionaria, perché raccoglie tutti quei testi, romanzi, libri e opere che parlano di deportazione.
Concentrazionaria è un aggettivo coniato intorno al ’46, quando David Rousset scrisse l’universo
concentrazionario, nel quale raccontò quello che lui aveva vissuto a Buchenwald. In Italia, questo aggettivo
però inizia a essere introdotto solo negli anni ’60, e l’archetipo, l’autore che nella nostra letteratura
italiana dà il via a questa letteratura è Primo Levi.

Nei vecchi manuali, Primo Levi viene sempre inserito nella sottosezione del neorealismo, insieme a Calvino,
Fenoglio, tutti quegli autori che sono emersi nel secondo dopoguerra. Primo Levi lo possiamo, infatti,
collocare in quella corrente – del neorealismo –, però, è anche vero che da lui (e dall’esperienza della
guerra, della deportazione) nasce una letteratura che è enorme e ancora da studiare.

Brevi cenni di vita


- Nasce a Torino il 31 luglio 1919 (si dice che la scrivania sulla quale scriverà per tutta la vita è
posizionata nel punto esatto della casa dove egli è stato partorito: è simbolico il fatto che la sua
scrittura, la sua parola nasce sempre dove anche lui è nato; dove si è verificato il primo dramma
della sua vita). I suoi genitori erano entrambi ebrei (Cesare Levi e Ester Luzzati), discendenti a loro
volta da ebrei emigrati. I genitori non erano praticanti: questo ci fa intuire lo sgomento che proverà
Primo Levi nello scoprire che lui era ebreo.
- Primo Levi e le sue passioni: egli amava la scienza e la letteratura. Amava molto leggere.
- 1934 si scrive al Liceo D’Azelio. Andava bene nelle materie scientifiche ma non in italiano. Uno dei
suoi professori, per un po’, fu Cesare Pavese, il quale gli dava dei voti un po’ negativi in italiano
(apparentemente, non sapeva scrivere → anche se, successivamente, la critica elogerà il suo stile di
scrittura preciso, sintetico, scavato nella pagina).
- 1937 frequenta la facoltà di Scienze dell’Università di Torino → considerava la chimica “un’isola di
razione in mezzo alla non-ragione del fascismo, qualcosa di concreto, di preciso”; quella ricerca che
gli capiva di permettere di capire la realtà, in termini di causa-effetto.
- 1941 si laurea: «110 e lode, di razza ebraica» [Le leggi razziali erano già state emanate (era stato
concesso di terminare gli studi a chi si era già iscritto)]. Da quel momento capisce quanto la
situazione sia tragica.
- Trova lavoro in una fabbrica svizzera di medicinali (lavoro vicino ai suoi studi)
- Si iscrive al Partito d’Azione clandestino: vuole arrivare all’azione
- 1943 è arrestato a Brusson, incarcerato nella caserma di Aosta e poi portato nel campo di raccolta
di Fossoli (campo di transito: sistemazione provvisoria in visione della deportazione finale)
- Dal febbraio 1944 deportato ad Auschwitz fino al 27 gennaio 1945
- Lungo viaggio di ritorno: arriva a Torino il 19 ottobre 1945: trasformazione in un Ulisse (viaggio
raccontato nella sua opera “Tregua”)
- Ritorno alla vita: matrimonio, lavoro in una fabbrica di vernici. La sua vita post-campo è molto
difficile: è divorato dal pensiero delle numerosi morti a cui ha assistito.
- Scrittore a tempo pieno: già aveva scritto alcune righe nel lager. La sua vita, poi, sarà scandita da
continue stampe e opere.
- Si getta dalle trombe delle scale: muore l’11 aprile 1987. Non si è mai capita la ragione (peso della
guerra + questioni famigliari)

Opere
Scrive moltissimo. Tocca diversi generi; va oltre la tematica del lager.
- 1947, 1958 Se questo è un uomo
- 1963 La Tregua (continuazione dell’opera precedente)
- 1966 Storie Naturali
- 1971 Vizio di Forma
- 1975 Il Sistema periodico: autobiografia (parla delle sue passioni: letteratura, scienza-chimica, gite
in montagna, bicicletta).
- 1975 L’osteria di Brema
- 1978 La chiave a Stella
- 1981 Lillit e altri racconti
- 1982 Se non ora quando
- 1984 Ad ora incerta
- 1985 L’altrui mestiere
- 1986 I sommersi e i salvati (Dall’esperienza sul lager, torna dopo anni a riflettere su quella
tematica) → saggio bellissimo con riflessioni sulla deportazione

C’è un anello che lega tutta la sua opera, la sua è una produzione circolare. Levi inizia con “Se questo è un
uomo”; poi, c’è un allontanamento dagli argomenti concentrazionari, come per affrancarsi e costruirsi
come scrittore a tutto tondo e non essere considerato solo l’autore della deportazione – c’è questo
desiderio di sperimentare nuove vie anche dal pdv del genere delle opere –; per poi tornare su questo
argomento, sulla sua origine, con
I sommersi e i salvati
(consapevolezza diversa, più
sviluppata; indizio di
un’incapacità a superare
l’esperienza tragica).

Se questo è un uomo
Le prime venti righe le scrive nel
lager: è una cosa incredibile
perché nei lager non si hanno
carta e penna, non si può
scrivere, la parola è negata, non si può neanche pensare. Eppure, questo desiderio che lui ha – e che
avranno altri uomini – di fermare su carta quello che hanno vissuto, simile a quel desiderio impellente di
dire quello che è accaduto di Ungaretti, avrà la meglio; nel caso di Levi, perfino sfidando la sorte, rischiando
la vita (se si è sorpresi, si muore).

Nel 1946 (manoscritto pronto), Levi porta il dattiloscritto da Einaudi, ma gli viene rifiutato da Natalia
Ginzburg. Questo perché il mercato editoriale voleva andare avanti, andare oltre; non si voleva avere libri
che parlassero di guerra e, soprattutto, non si voleva aprire la strada ad argomenti su cui ci si chiedeva se
fossero veri o no (le testimonianze non erano ancora tutte credute). Per esempio, Liliana Segre, tra le tante
ex deportate, ha iniziato a raccontare la sua vicenda solo dieci anni fa, non prima, e come lei ci sono state
tante altre persone che non volevano parlare per la paura di non essere credute.

Primo Levi trova comunque il modo di pubblicare nel ’47 con De Silva a Torino. Casuale il fatto che nel ’47
esce anche “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino che tra l’altro, nella prefazione del ’64, racconta
benissimo il dopoguerra editoriale e ci parla del neorealismo. Ma il ’47 è anche l’anno di “I più non
ritornano”, di Eugenio Corti, che parla della ritirata in Russia. Ancora, sempre nel ’47, escono “Il fumo di
Birkenau” di Liliana Millu e “Mathausen, città ermetica” di Bizzarri. Certamente, il ’47 scuote le case editrici.

Nel ’58, Einaudi si accorge del guaio che ha fatto, dell’errore commesso nel non pubblicare il libro di Levi;
un libro che è splendido per la precisione con cui vengono trattati gli argomenti. Dal ’58 in poi, il libro
diventa un best-seller, un classico, come dice lo stesso Calvino, cioè un’opera che non ha mai finito di dirci
qualcosa e che rimane un punto fermo per questo tipo di letteratura, ma anche per la letteratura del
Novecento.

Osservazioni tecniche
È un libro che ci fa fare un viaggio, dal momento dell’arresto di Primo Levi fino all’uscita dal lager. Un
viaggio interiore perché il movimento per eccellenza lo abbiamo solo nel primo capitolo, quello che si
intitola Il viaggio; poi, negli altri mesi, Levi rimane al campo (al massimo spostamenti da una baracca
all’altra). È un viaggio interiore, quindi, alla scoperta di chi è l’uomo e di cosa può diventare.

Il titolo: Il titolo “Se questo è un uomo” è una proposizione interrogativa indiretta, dove il punto di
domanda non è posto perché non è neanche una domanda: è assurdo chiedersi se quegli uomini e donne
che si incontrano nel lager siano davvero uomini e donne, esseri umani. È impossibile, è un viaggio
dell’assurdo, è come entrare in una città dove tutto è al rovescio.

“Arbeit macht frei” è la scritta all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz. Nella scritta la B è
rovesciata, perché l’ebreo al quale è stato commissionato il lavoro di forgiare la scritta ha pensato di
fondere la B al contrario (la pancia più grossa è in alto) e nessuno se n’è accorto. Questo per far capire a chi
sta per entrare in questa città che essa è davvero una città concentrazionaria rovesciata, è una città fatta e
finita, e qui sta l’assurdità di quello che viene costruito. A Hitler e ai suoi, non bastava rinchiudere gli ebrei
in un posto e farli morire, ma sono arrivati a progettare tutta una città dove non si vive ma si deve morire
(Tutto è progettato come se fosse una città dove vivere – con case “baracche”, tavolacci, bagni=latrine –,
ma tutto il tempo che si passa lì dentro scorre portando alla morte).
Perché farli vivere un determinato tempo (in una società) e non ucciderli subito (come fanno verso la fine o
con le persone considerate socialmente inutili – vecchi, bambini, donne incinta)? Per farli soffrire di più.
Nelle camere a gas entrava chi era per la società di fatto inutile, ma chi poteva lavorare veniva fatto vivere
per un po’: per dimostrare in qualche modo che quell’uomo, l’ebreo, non era un uomo. Veniva fatto
lavorare fino a farlo diventare senza vita, senza forze, in modo che andasse, poi, “naturalmente” verso la
morte: questa è la costruzione di una vita che non è una vita. Ecco che si motiva allora la scelta del titolo di
Levi, con quell’interrogativo mancato – ma che, assente nel titolo, è però presente nella struttura del libro
(sono numerosi gli interrogativi che Levi lascia nella narrazione).
Struttura del libro: 17 capitoli, non sono numerati, con titoli—> possiamo anche leggerlo
disordinatamente, veniamo attratti dai titoli, che spesso sono delle persone. Perché il libro di Levi è un
libro pieno di volti, di gente. L’ultimo titolo/capitolo ha più un andamento diaristico, è quello nel quale
sono conservate le prime venti righe che aveva scritto nel campo ed è anche l’ultimo che ha scritto perché
è quello che aveva più in mente.
È un libro che ha tanti spazi bianchi, non creati dagli editori, ma perché li ha voluti lui, perché ci sono
momenti in cui il lettore deve concentrarsi, deve prendere la forza per capire quello che sta per andare a
leggere. Quindi è un libro meditativo, dimesso, un libro che nel quale emerge anche tutta la letteratura che
aveva in mente Primo Levi.

Tematiche e contenuti:
- Modelli letterari:
o Il primo riferimento è a Dante, all’inferno dantesco. Tanti sono i riferimenti, tanti sono i
calchi, le parole, i verbi che Levi usa e che sono tratti da questa cantica. Ma vi è dentro
anche il paradiso di Dante: quindi la Divina Commedia la conosceva benissimo.
o E poi vi sono tanti rimandi anche addirittura ai Promessi Sposi di Manzoni —> è un libro che
scrive velocemente ma nel quale fa trasparire tutta la sua bravura.
- Inferno
- Deportazione
- denuncia
- prosopografico

Stile: Ha uno stile molto sintetico, essenziale, scarno, metaforico e orale. Il critico Pier Vincenzo Mengaldo,
che l’ha studiato a fondo, dice addirittura che il suo è un italiano buono per le lapidi: su una lapide non è
che puoi scriverci un tema, non hai tanto spazi, quindi significa che usi le parole adeguate —> ecco come
scrive Primo Levi.

“Se questo è un uomo” si apre con lo Shemà, una poesia che Levi scrive nel ’46, nella quale mette a tema la
domanda assurda del titolo: pensate se è possibile considerare un uomo veramente uomo e una donna
veramente donna. Ma è una poesia che mette anche in evidenza il suo non essere ebreo, prendendo,
comunque, a modello la Bibbia, che lui conosceva molto bene.

Prefazione (leggo da materiali)


Poi viene subito la prefazione: in tutti i libri l’autore confeziona al massimo e bene il suo libro; vuole dare le
motivazioni per le quali scrive la sua opera. Nella prefazione di “Se questo è un uomo”, Levi ci dice quando
è entrato nel lager, quando ha scritto il libro e che cos’è questo libro, l’oggetto, cioè lo studio dell’animo
umano; uno studio fatto per liberarsi e che, proprio come liberazione, è un viaggio un po’ sinuoso, che non
soddisfa gli eventi cronologici (anche se poi riordina tutto cronologicamente), ma che mostra quella
liberazione, quel viaggio, quello scorrere di parole che possono mettere in luce ciò che è accaduto; quello
che gli ha permesso di rimanere un uomo e che gli ha permesso di incominciare a scrivere. Quindi in fondo
c’è proprio una liberazione che porta alla nascita del suo lavoro.

Per fortuna: se fosse entrato prima non sarebbe sopravvissuto. In lager, il tempo massimo di sopravvivenza
è un anno.

Secondo Levi, il libro non aggiunge nulla rispetto a tanti altri sullo stesso argomento. Sottolinea di non voler
denunciare – anche se un po’ il suo obiettivo è quello – e ci dà tanto materiale per capire l’animo umano:
soddisfa un bisogno di racconto che è nato già nei lager.

Se questo è un uomo: Shemà


[Video: lettura di “Se questo è un uomo”] → colonna sonora di Schindler’s List
È come se questa poesia introduttiva fosse un avvertimento per il lettore che si accinge a leggere il libro –
per questo l’intonazione della lettura varia – , un libro che si presenta come un breviario di etica laica: ci
aiuta a capire chi è l’uomo; all’interno di questo libro si arriva a definire il “non-uomo”.

La poesia introduttiva di “Se questo è un uomo” (libro difficilmente definibile nel suo genere, ma che ha di
certo la verità in esso contenuta: Levi non inventa nulla) non ha titolo, noi la definiamo Shemà perché
segue la struttura di quella che è l’orazione degli ebrei, di una preghiera presente nel Deuteronomio
(capitolo 6, versetti 4-7), che viene recitata sempre mattina e sera. Levi, infatti, conosceva molto bene la
Bibbia – nonostante non fosse praticante – e, quindi, l’intero libri ha continui echi religiosi. Una preghiera
che però, nel suo ripetersi, non ha il significato di preghiera ma diventa quasi una maledizione, un monito.

La poesia è giocata su continui suoni, anafore, ripetizioni. Questo perché il messaggio deve essere
insistente e ben recepito; ma anche perché queste ripetizioni ci preparano ad andare a leggere una
condizione che sembra ripetersi, essere ridondante – quella del deportato. Levi calca la ripetizione
sull’assurdità di ciò che andremo leggere. Si rivolge ai lettori, dialoga con noi, instaura una relazione: “voi
che…”. È come se entrasse nella nostra vita, nella nostra casa, nella nostra tranquillità.

Dopo i versi iniziali, iniziano una serie di imperativi: la poesia diventa un comando.

La poesia è un riassunto di ciò che il lettore andrà a leggere nel libro. Ciò è necessario anche perché il titolo
non rimanda ai campi di concentramento, ma dice semplicemente “uomo” (questo per motivi di
pubblicazione). Con semplicità e precisione linguistica, Levi riesce a riassumere la condizione dei deportati,
la dinamica dell’uomo che vive nei lager.
L’allusione al fango ha a che fare con l’Inferno dantesco (dove il fango è elemento ricorrente): c’è questa
associazione → stiamo entrando nell’Inferno. Siamo di fronte ad uomini che fanno la fame e la cui vita è
sempre in balia di un sì e di un no che li porta alla morte. Ogni istante, si è davanti alla morte.

Per completezza, Levi descrive anche quella che è la donna: nella deportazione, la divisione tra uomini e
donne era rigidissima. I vissuti dei deportati, in base al sesso, si differenziano. Una delle differenze più
importanti riguarda la spersonalizzazione: la donna subiva un processo molto più rigido, violento → anche il
solo fatto di spogliarsi, di tagliare i capelli, era vissuto in modo più forte dalle donne.

[Campi di concentramento (si arrivava alla morte più lentamente) vs di sterminio (la morte era più
facile, si arrivava subito alle camere a gas)]

Nessuno più è un nome: si affibbiano dei numeri. Il fatto di togliere un nome fa sì che una persona non sia
più persona, ma si riduca a numero. (sia per gli uomini che per le donne)

Ricordare: le donne sono quelle che ricordano di più, sono più sentimentali. Eppure, tutto viene loro reciso.

Gli occhi non vedono più nulla e il grembo, dove si porta la vita, è vuoto. Una delle ex deportate, Giuliana
Tedeschi, intitola la sua opera “Questo Povero Corpo”, dove racconta che una sua amica deportata diede
alla luce un bambino mentre era nei lager (era riuscita a nascondere la gravidanza – era in attesa prima di
entrare nel lager –, anche se il bambino morì subito). Sono numerosi gli episodi simili a questo che si
verificavano nei lager: provocavano un dolore insopportabile alle donne. Anche se, solitamente, alle donne
che entravano nei campi veniva somministrata una sostanza velenosa per interrompere il ciclo (ed
evitare gravidanze indesiderate).
Nei campi di concentramento, se gli uomini dimostravano solidarietà reciproca, le donne erano in grado di
farsi compagnia (di essere presenti l’una per l’altra in modo ancora più forte), proprio per queste
caratteristiche esistenziali condivise.

La donna nel lager è come rana infreddolita dall’inverno.


Ultimi versi: lascito di Primo Levi → “Non dimenticatevi di ciò che stato, scolpitevelo nel vostro cuore
affinché non si dimentichi”. La Giornata della Memoria, istituita nel 2000, ha proprio questo intento.

Imprecazione finale/ Maledizione: è grande la rabbia di Primo Levi nei confronti di chi ha commesso
questa tragedia, non ancora chiusa.

Il viaggio
[17 capitoli tutti intitolati ma senza numero]

Primo capitolo: Primo Levi non racconta della sua vita prima della deportazione. Nei libri della letteratura
concentrazionaria, le tematiche sono simili (se non uguali) – se raccontano tutti la stessa cosa, ciò vuol dire,
però, che tal cosa è capitata (hanno valore storico) – , poi, si differenziano nei particolari (ognuno
approfondisce momenti diversi). Primo Levi, per esempio, non parla dei momenti prima, ma parte dalla sua
cattura.

Nel 1943, a 24 anni, viene catturato. Era un ragazzo come tutti. Da 4 anni erano in vigore le leggi razziali:
questo è il quadro fatto da Primo Levi. Dice anche di aver fatto parte di una banda partigiana.

Quello che impara nei lager è una scuola di vita, una dottrina dove ha capito come bisogna muoversi, come
si fa a stare da soli (difficile fare amicizia in lager) e come si viene puniti quando si sbaglia. È una tragica
lezione di vita. Proprio a causa delle punizioni, degli scontri, nei lager si è tutti contro tutti, c’è un odio che
è fomentato da chi ha pensato di costruire questi luoghi.

Ci informa del fatto che ha subito tanti interrogatori e che, alla fine, ha dichiarato lui stesso di essere
cittadino italiano di razza ebraica (altri, invece, preferivano non dichiararlo: nessuno poteva sapere se
fossero realmente ebrei, non c’erano caratteristiche somatiche comuni).

Viene portato a Fossoli vicino a Modena e alla fine del ’44, lui insieme a molti altri ebrei italiani vanno
incontro alla stessa sorte: il campo di concentramento. La narrazione di Levi oscilla tra l’io personale e il
noi; parla di sé ma anche degli altri. Si fa storico degli avvenimenti. Ecco perché non è solo il racconto di
una sua memoria, ma è uno dei primissimi libri che ci dice come sono avvenuti i fatti: non è un diario ma vi
sono indicazioni geografiche, temporali che possono circoscrivere l’azione e inscrivere quello che accaduto
in un hic e nunc preciso.

Levi è molto bravo a spiegare quali sono gli aspetti umani: ci mostra quello che passa nella mente e nel
cuore di sé e dei tanti volti che vede. Il suo è un libro prosopografico. Allora, ci fa capire questo
straniamento e l’impreparazione dell’animo di ognuno di loro: nessuno poteva immaginare ciò che sarebbe
accaduto.

Ci dice che il viaggio durerà 15 giorni: tanto tempo.

Ecco che si apre un quadro umano che, attraverso riferimenti biblici, descrive lo stato emotivo dei
deportati. Levi ferma la penna e ci fa tuffare in un quadro:
[E venne la notte …] Descrive cosa fanno i deportati, i vari comportamenti umani (chi prega, chi beve, chi
utilizza la passione carnale per allontanare i pensieri) e poi si concentra sulle madri, coloro che si curano
solo dei figli (pensano solo a loro anche davanti alla morte). La descrizione è dettagliata.

Poi si rivolge ai lettori facendo delle domande. La prosa di Levi è piena di domande. [E alla fine anche il
titolo stesso sembra essere una domanda – orfana del punto interrogativo]

Dal generale – uomini senza nome – , Levi si concentra su un personaggio, un vecchio (dipinge, nel corso
del romanzo, molti volti). Pone l’attenzione su quest’uomo – non conosciuto, non famoso. Il vecchio,
Gattegno, è stato messo nella baracca 6.
[Nella baracca … secolo rinnovato.] Descrive il sabato di un ebreo: c’è il riferimento biblico. È la descrizione
del rito di un ebreo: anche se deportati, non ci si tira indietro dai propri usi e costumi; è il modo per questa
famiglia – del vecchio – di affrontare ciò che stanno per vivere. In poche righe, Levi descrive la condizione
del popolo ebraico. Ecco la sinteticità del suo linguaggio: in poche parole riavvolge tutta la tragedia di
questo popolo che ora, con la deportazione, è arrivata al culmine.

[L’alba … cose.] Levi è molto attento ai cambiamenti della giornata, al colore del cielo; in modo particolare,
al volgere del nuovo giorno e alla notte. (nel lager si perdeva, spesso, il conto dei giorni a causa delle
attività ripetitive)

[Molte cose… senza collera.] Oltre allo straniamento e alla paura, i deportati iniziano a fare esperienza di
due parole, espressioni che non corrispondono alla propria lingua, né alla lingua straniera, il tedesco (il
tedesco era la lingua usata per comunicare anche se i deportati arrivano da diverse zone: per chi non
conosceva questa lingua, la situazione era problematica → non rispondere ai comandi significava morte
immediata, bisognava dunque sforzarsi). I deportati, quindi, intendono questa domanda: Wieviel Stuck? =
Quanti Pezzi (non quanti uomini). Loro non sono persone, ma cose: sono pezzi da trasportare. Alla lingua
straniera corrisponde un’altra lingua, quella della violenza, della de-personalizzazione. La parola diventa
un colpo, violenza: quello è il linguaggio dei lager. E rivolge nuovamente una domanda.

Poi, da bravo storico, Levi ci descrive cosa accade in modo esatto: numero vagoni, come si viaggia
(condizioni pietose, nel puzzo e nel sudiciume), …

[Tutti scoprono …] Il primo paragone che Levi fa è tra il viaggio e la discesa verso l’inferno: non c’è
possibilità di risalita (è un viaggio verticale, verso il basso; ma anche orizzontale: da Fossoli ad Auschwitz). E
la condizione è quella di un’infelicità perfetta: Primo Levi si fa quasi filosofo, ragiona molto. La sua è una
scrittura molto ragionata (anche se scrive “a caldo”, nel ‘47), c’è una grande lucidità nel suo modo di
raccontare.

[… la consapevolezza.] Il fatto che si deve continuare a raggiungere un altro traguardo per essere felici ci
mostra come la nostra condizione sia di infelicità. In questo passaggio, Levi descrive l’animo umano: esso
vorrebbe tutto e subito, ma noi uomini siamo nemici dell’infinito. Levi usa un sillogismo per spiegare cosa
desidera l’uomo. L’uomo non conosce il futuro e davanti ad esso può avere speranza o paura – il futuro è
incerto, ignoto. Ma qui, dove sono io Primo Levi, una certezza c’è, quella della morte che acquieta ogni
dolore e ogni gioia (non è molto lontano da quanto detto nello Zibaldone da Leopardi → la memoria non è
scritta a caso, ma è pensata, meditata; il libro intero è colmo di letteratura).

La destinazione è Auschwitz: un nome che non ha significato per i deportati, ma che è dove sicuramente
essi moriranno – un significato lo avrà.

Levi torna al presente storico: tra i deportati di quel vagone, solo 4 hanno rivisto casa. Anticipa alcuni
aspetti.

Insiste sulla fame, sul freddo, sulla fatica e su come quella piccola società che si instaura fra di loro
deportati su quel vagone non sia umana: subito si è rivali – innanzitutto per il poco spazio disponibile.

Dal momento che il vagone giunge a destinazione, diventa ancora più forte la presenza del linguaggio
straniero e del linguaggio della violenza – quello a cui non si può rispondere. Domande che sentivano
continuamente i deportati erano: “Quanti anni”, “Sano o malato”. Subito, infatti, veniva chiesta l’età: sopra
i 13 anni, i bambini non andavano subito alle camere (sotto i 13 era più probabile). Liliana Segre lo racconta
nelle sue opere. Anche la domanda “sano o malato” era fatta subito e molti cercavano di mentire per non
morire immediatamente – era difficile per chi non stava effettivamente bene, poi, continuare a lungo con la
sceneggiata.
Paragone: il silenzio del momento è come quello di un acquario o di un sogno. Quindi, di un qualcosa fuori
tempo, fuori dalla vita, fuori dalla ragione. E in questo silenzio, senza ragione, molti vengono inghiottiti –
muoiono.

Primo Levi descrive come in queste dinamiche, che avvengono in pochi secondi (anche se la descrizione è
lunga), loro ancora portavano/indossavano certi effetti personali. Erano ancora loro, persone con la
propria identità. Ma subito, davanti a loro, si presenta lo specchio di ciò che diventeranno (pezzi): Ad un
certo punto, vedono, infatti, degli strani individui che camminano in quadrati per tre, con lo sguardo
impacciato, vestiti in modo strano e silenziosi. I nuovi deportati si chiedono chi siano, perché, in un certo
senso, si specchiano in quelle figure (e si chiedono come avverrà per loro questa trasformazione). Levi
intercala il presente storico e compie delle osservazioni oggettive: i deportati sarebbero andati incontro ad
una metamorfosi che li avrebbe trasformati in quei volti anonimi che avevano appena incrociato.

Di questo viaggio, la meta è il fondo, non si può risalire. “Questo è l’inferno”: non serve aggiungere altro.
L’espressione è già eloquente.

C’è solo una sorta di risalita proprio nel Canto di Ulisse.

Il canto di Ulisse
Se la presenza di Dante nel libro è molto evidente, in questo capitolo, il riferimento è ancora più palese (rif.
al canto XXVI Inferno). Qui, si capiscono le analogie.

Primo Levi ci propone un viaggio che accade in questo capitolo ed è anche un viaggio di risalita, permesso e
concesso grazie alla parola, alla letteratura, che è anche la forza che ha fatto continuare Levi stesso ad
essere uomo. I libri concentrazionari parlano di morte, ma Levi è attento a tanti particolari, gesti umani
che lui registra, perché li ha vissuti su di sé – e sono stati per lui fondamentali per la sopravvivenza (parla
anche di vita, di speranza). Per esempio, in un momento difficile della sua deportazione ci sarà un suo
amico, Lorenzo Perrone, che gli darà un pezzo di pane – e che sarà considerato uno dei giusti, coloro che
hanno fatto di tutto per aiutare gli ebrei.

E un’altra persona importante per Levi è Jean Pikolo, che incontra nel campo e di cui parla in questo
capitolo.

Struttura: Il capitolo è suddiviso in tre parti.


Innanzitutto, c’è una premessa con inizio lento e
ripetitivo, dove si incontra il suo amico Pikolo e si
parla della sua vita precedente.

Premessa:
Levi si trova a raschiare e pulire una cisterna. È giorno e quel tipo di lavoro è un lavoro di lusso: non si è
bastonati né controllati rigidamente. Il caposquadra è un certo Pikolo, ragazzino di 24 anni. [In una città
concentrazionaria servono delle figure affinché funzioni, serve una suddivisione per mansioni (società
organizzata)]. Questo ragazzo è una persona affabile, buona, forse anche perché giovane. Non comanda in
modo negativo (come fanno molti Kapo, che diventano spesso anche peggio delle SS). Parlava benissimo il
francese e il tedesco – per questo era stato scelto. Ad un certo punto, Pikolo, che è considerato come un
fattorino scritturale, viene definito eccezionale da Levi, proprio perché ha delle caratteristiche diverse dagli
altri (mite, attento, …). Tanto che Levi dice che da una settimana erano amici: nei lager era difficile esserlo
(capiamo l’importanza di questo rapporto). Pikolo deve scegliere qualcuno per far andare a prendere la
zuppa e sceglie Primo Levi. Questa scelta voleva dire andare a prendere un pentolone che pesava
tantissimo, ma significa anche essere liberi: c’era un pezzo di strada che potevano fare in libertà, senza
esser controllati da nessuno. E nel camminare, Primo Levi inizia a descrivere la prima sensazione che ha. Se
l’inizio del capitolo pone l’attenzione sul fatto che la polvere di ruggine impastava la bocca con un sapore di
sangue (è un lavoro che fa male agli occhi, non fa vedere la luce); ora Levi guarda verso il cielo, la luce.
Quindi, non guarda più verso il fondo della cisterna, ma verso l’alto. E ha questo ricordo, un pensiero della
sua infanzia: quando si è una situazione tragica è difficile pensare al passato. Ma Primo Levi lo fa: pensa alle
sue montagne, si sente finalmente libero e leggero, riesce a respirare a pieni polmoni. Iniziano questa
camminata senza carico e per tanto tempo, circa un’ora, discorrono sul loro passato, sui paesaggi che
ricordano (Strasburgo per Pikolo) e anche su ciò che piace loro, mettono in comune i loro studi, le loro
letture e fanno un affondo sulle loro madri. Si calano in una vita precedente.

Svolgimento:
Ad un certo punto, Primo Levi pensa di insegnare l’italiano a Pikolo e si chiede se è possibile farlo. Levi
utilizza il “noi” per parlare dell’impresa: è una cosa comune, su cui ci si accorda, che bisogna fare insieme su
accordo comune per sentirsi uniti.

Così, Levi inizia una lezione di letteratura: il lager si trasforma quasi in una scuola e Levi non vuole perdere
nemmeno un istante per insegnare l’italiano. E parte, nel farlo, dal canto di Ulisse. Levi diventa come
Ulisse e Auschwitz è l’Inferno. Se l’inizio del capitolo è lento, in questa lezione, invece, Levi mette in campo
una fretta perché deve assolutamente spiegare a Pikolo (prima di ritornare) non tanto il canto, ma di come
un non-uomo può ridiventare un uomo. Il tempo è poco. Ha fretta.

Oggi mi sento da tanto: non è grammaticalmente corretto, ma rende l’idea di sentirsi vivi per la prima
volta dopo tanto tempo.

Levi cerca di organizzare un discorso ma non è facile spiegare la Divina Commedia. E capisce che il suo
interlocutore è molto attento (è volenteroso di capire). Così Levi recita la prima terzina del Canto.

Cerca di tradurre: Levi capisce che non è semplice raccontarlo, ma l’esperienza – non tanto quello che lui
sa, ma quello che sta vivendo in lager; inizia a capire che c’è una coincidenza tra Ulisse e lui – aiuta la
comprensione.

Ha dei buchi di memoria.

Mare aperto: Mettere me è diverso da mettermi. L’esperienza di Levi viene ancora fuori: solo allora, nel
lager, egli capisce veramente il significato di quel verso della Commedia – Ulisse sta spiegando che ha
messo tutti i suoi compagni in una situazione complessa per oltrepassare le colonne d’Ercole –, perché nel
lager può finalmente comprendere quell’impulso – proprio di Ulisse –, quella barriera, quel desiderio di
conoscere l’ignoto, di andare a fondo a quella felicità tipica dell’eroe. E anche Pikolo forse può capire
perché ha viaggiato molto come Ulisse.

I buchi continuano: Levi è triste di questa incapacità di far capire bene. Per lui è un sacrilegio raccontare la
Commedia in prosa.

“Si metta …” = uguale a metto me.


Ha fretta di dire la terzina più importante che è la fotocopia di quanto accade in lager. “Prendete
conoscenza della vostra condizione, …” Ulisse esorta i suoi compagni: non siete stati creati per vivere come
selvaggi ma per accrescere la vostra conoscenza. E Levi lo dice a Pikolo: non siamo fatti per morire in
lager, noi uomini siamo altro. Questa terzina è come uno squillo di trombe, come la voce di Dio. Dio viene
pronunciato per la prima e ultima volta: Levi riconosce come questa terzina sia un risveglio. Per un
momento si è dimenticato di dove si trovava – nei lager – e si è ricordato di essere uomo.

Pikolo glielo fa ripetere: Levi scrive che Pikolo forse si è reso conto di fargli del bene – Levi stesso beneficia
di quella lezione che sta tenendo – o forse ha compreso il messaggio, ha sentito che riguarda tutti gli
uomini, anche loro due e quindi vuole risentirlo. (I lager raschiano tutto ma non quello che hai dentro, la
tua voglia di vivere)

Nel frattempo, sono arrivati alla zuppa e stanno tornando indietro.

Levi si sforza di continuare a ricordare fino ad arrivare al verso “Li miei compagni…” ecc…

“Che mai veduta” : Levi si perde. I ruoli di allievo e maestro si invertono: Levi diventa allievo di se stesso,
ascolta la sua lezione per sé. Allora il monte di Ulisse ricorda a Levi le sue montagne. C’è un momento di
grande nostalgia. Vuole continuare a ricordare.

Levi dice che rinuncerebbe a mangiare pur di ricordare quel verso. È una rinuncia grandissima,
paradossale. La fame opprime la giornata e la notte di ogni deportato: la frase ha un valore molto forte.
Così forte è il desiderio di ricordare, perché sa benissimo che domani lui e Pikolo potrebbero essere morti.
Lui vuole descrivere il passaggio della barca di Ulisse che gira tre volte e non riuscirà più a vedere la luce.

Perché Levi, pur essendo tornato a casa e avendo a disposizione una divina Commedia, ha insisto nel dire
che qualcosa non se lo ricordava? E anzi ha messo degli errori nel suo discorso sul testo dantesco? Perché
lui voleva dare a tutti i costi l’impressione di descrivere ciò che effettivamente è accaduto. Voleva
dimostrare quanto la parola lo ha fatto andare al di là della sua condizione. Perciò non ha corretto nulla.
Tornando a casa, si è ricordato di questo fatto per lui fondamentale e lo ha raccontato così come è
avvenuto. (La letteratura che rende l’uomo uomo, desiderio di affermare la vita con la parola).

E allora ci potremmo chiedere: Ma Pikolo è esistito davvero? Sì.

Non molti anni fa è uscito il libro “Mi


chiamava Pikolo”, dove Jean racconta
dell’amicizia con Primo Levi e di quel
fatto – il canto di Ulisse – veramente
accaduto.

Entrambi hanno testimoniato che in


quel momento la parola, la letteratura
ha permesso loro un viaggio di risalita,
un viaggio interiore che ha permesso
loro di continuare a vivere, di essere uomini. Questa è la conferma che quell’episodio è stato un atto di vita,
di bellezza, in una situazione tragica.
EUGENIO CORTI (1921-2014)
Introduzione
La Seconda Guerra Mondiale ci pone davanti diversi argomenti: la deportazione, la resistenza, la ritirata di
Russia e anche l'esodo giuliano-dalmata. Tutti, o quasi, mantengono dentro di sé la tematica del
movimento, del cammino che noi stiamo indagando. Con il nostro prossimo autore, parleremo, in
particolare, della ritirata russa.

[Video]

Brevi cenni di vita


- Nasce a Besana in Brianza (il primo di dieci figli)
- Padre industriale (un grande uomo, molto importante per l’epoca) acquista la ditta tessile Nava a
Besana, che diede lavoro a tantissima gente in un momento cruciale per il paese (siamo nel periodo
tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, quando l’Italia soffriva delle perdite subite ed era tutta
da ricostruire). La sua era un’attenzione amorevole nei confronti dei lavoratori: voleva fare del
bene e cercava di dare lavoro a tutti. E questo fece sì che la sua ditta andò per molto tempo a
gonfie vele, tanto da arrivare ad avere quasi 1200 operai (un grande successo).
- Madre dedita al marito, ai figli (dieci) e ai poveri. Quando Eugenio Corti parla di lei se la ricorda
sempre come una donna che viveva per il prossimo. Tant'è che, nonostante a tavola fossero già in
tanti, c'era sempre posto per qualcun altro. Quindi, una casa davvero aperta con tutti coloro che
avevano bisogno.
- Frequenta il liceo classico al collegio San Carlo a Milano. Nelle sue memorie, ricorda di aver avuto
un’educazione molto rigida. In collegio, come anche nelle scuole precedenti, impara e capisce
quanto la figura di Omero fosse fondamentale per lui. Corti era già allora alla ricerca della bellezza.
- Si scrive alla facoltà di Giurisprudenza in Università Cattolica
- Chiamato alle armi (costretto ad abbondare l’università), nel febbraio del 1941 si presenta alla
caserma del 21º reggimento artiglieria divisionale a Piacenza, poi frequenta la Scuola allievi ufficiali
di Moncalieri, diventa sottotenente.
- Nel 1942 parte volontario per la Campagna di Russia. Dalla campagna di Russia o ritirata di Russia,
tornano a casa in pochissimi. Lui per fortuna riuscì a tornare a casa. Si porterà i segni del grande
freddo per tutta la vita (basti pensare che a molti vennero amputati degli arti a causa del freddo
glaciale che furono costretti a sopportare).
- Terminata la guerra, si laurea nel 1947. Dalle sue memorie e dal suo romanzo autobiografico,
emerge che egli non era affatto un grande studioso. Non amava studiare, ma gli piaceva molto
andare nell'aula di lettere e filosofia (all’epoca vietata ai fanciulli), dove dice che c'erano delle belle
ragazze e dove, poi, troverà la donna della sua vita, Wanda di Marsciano Corti (ancora in vita, 94-95
anni).
- Nel 1951 inizia a lavorare nella ditta del padre
- Scrittore a tempo pieno. Capisce che la scrittura è la sua vita. Dà alle stampe una tragedia molto
importante che s’intitola “Processo a Stalin”, scritta fra il 60 e il 61. Verrà rappresentata a Roma nel
62. Purtroppo, fu una tragedia molto malvista dalla cultura dell’epoca per il suo orientamento
anticomunista.
- Intorno agli anni 70, Eugenio Corti è pronto a scrivere il suo grande romanzo, Il cavallo rosso, un
romanzo storico molto importante.
- Muore a Besana

Con la chiamata alle armi, inizia la grande epopea di Eugenio Corti. È lui a desiderare di essere mandato in
Russia: chiamato al fronte, pretende di scegliere la propria destinazione in modo insistente. La scelta ricade
su quella destinazione che nessuno voleva raggiungere davvero, perché tutti già presagivano che quella
sarebbe stata davvero un’epopea; non soltanto per tutto il corpo dell’Esercito Italiano, ma anche per le
varie fasi della guerra. Eppure, lui vuole essere mandato lì perché vuole conoscere che cos'è il comunismo.
Siamo in presenza di uno scrittore che aveva una grande fede: lui, andando in Russia, voleva capire
l'attinenza che il comunismo poteva – o meno – avere con la fede. L'esperienza da lui fatta in Russia, dove
ha assistito anche alla ritirata dell’impero, è davvero importante per storici e studiosi.

Lettera di Eugenio Corti ai suoi genitori, 9 giugno 1942


«Vedo questa mia partenza per la guerra, come tutte le altre cose che capitano nella vita, inquadrata nei
piani superiori della Provvidenza. […] Ma c’è di più: domani a questa guerra, come a tutte le guerre,
seguiranno rivolgimenti e contrasti. Io non vorrò starmene neghittosamente fuori: parteciperò anch’io in
favore della Religione, della Famiglia, dello Spirito, di tutte quelle cose insomma in cui voi m’avete educato e
nelle quali fermamente credo. Quale maggior peso avrà allora la mia responsabilità, se potrò dire che al
momento del pericolo ero anch’io al mio posto. […] In terzo luogo in quanto riguarda me di fronte a me
stesso: la guerra non può non essere un immenso vantaggio. La guerra fa uomini. La guerra insegna
un’infinità di cose perché ci mostra i nostri simili tali quali essi sono: insegna a conoscere veramente gli
uomini. La guerra dà una grande responsabilità, una grande conoscenza di sé stessi. […] La guerra è
sofferenza e come tale purifica e innalza a Dio»

Lui non ci sta dicendo che la guerra – dalla quale non c’è via d’uscita: bisogna partire come volontari o per
coscrizione – sia una cosa straordinaria, ma sta semplicemente affermando che, se la affrontiamo in un
certo modo, ci permette di capire chi siamo, di capire che cos'è l'animo umano.
Ancora una volta siamo di fronte a un cammino personale, un cammino interiore. Un cammino che è
quello che vediamo nel suo libro “I più non ritornano”, che racconta della sua esperienza vissuta proprio
durante la campagna di Russia. Ecco, questo testo è proprio un cammino di formazione. E se abbiamo detto
che Primo Levi è diventato uno scrittore proprio a partire dal lager, allora, ugualmente, possiamo dire che
l'esperienza tragica in Russia ha fatto sì che Eugenio Corti diventasse davvero scrittore.

Opere: Cantastorie del regno


- 1947 (Data emblematica: coincidenza di pubblicazioni -> Il sentiero dei Nidi di Ragno, Se questo un
uomo, … tra l’altro, quest’opera di Corti si può paragonare stilisticamente a quella di Primo Levi) I
Più non ritornano
- 1962 Processo a Stalin: tragedia sull’evento omonimo.
- 1983 Il Cavallo rosso: romanzo storico, a tratti autobiografico.
- 1994 Gli ultimi soldati del re
- (1947-1951 I poveri cristi): Una volta tornato a casa dalla SGM, Corti riparte ancora una volta
seguendo gli ultimi soldati del re – quando le sorti della Seconda Guerra Mondiale non sono
ancora concluse. Racconterà quello che ha vissuto dopo la campagna in Russia, in un libro che si
intitola “I poveri cristi”, che parla proprio della liberazione dell'Italia. Questo libro verrà
rimaneggiato molte volte e, alla fine, verrà pubblicato con il titolo di “Gli ultimi soldati del re”.
- 1998 La terra dell’Indio
- 2000 L’isola del Paradiso
- 2005 Catone l’antico
- 2008 Il Medioevo e altri racconti

Le altre tre opere che Corti scrive sono particolari (e sconosciute): lui aveva intuito – con tristezza e
malinconia – che i giovani sono triturati dalla televisione e che continueranno sempre di più a subirne
l’influenza. Aveva capito, cioè, che i mass media sono la via per conoscere. Allora, aveva compreso che
forse la scrittura doveva avvicinarsi a essere un copione, sulla base del quale, poi, creare una
rappresentazione che facesse vedere ciò che lui raccontava. E allora “La terra dell'Indio”, “L'isola del
Paradiso” e “Catone l'antico” sono tre sceneggiature che ancora attendono che qualche regista voglia
costruirne dei film. Quindi, Corti è un autore che ha guardato avanti nella modalità della scrittura.
Il cavallo rosso
Sono più di 1200 pagine che costituiscono un libro enorme, considerato come l'Alessandro Manzoni del
Novecento. È un romanzo davvero avvincente, ricco di tantissime tematiche – amorose, avventurose, il
tema della giustizia, della fraternità, dell'innamoramento, della guerra.

Viene chiamato “Il Cavallo Rosso” perché prende le mosse da alcuni versetti dell'Apocalisse di San
Giovanni Evangelista. È suddiviso in tre parti: la prima si intitola “Il cavallo rosso”, la seconda “il cavallo
livido” e la terza “L'albero della vita”.

L’opera racconta il percorso, o meglio le avventure, di giovani briantei, un gruppo di amici, che partono per
combattere durante la Seconda guerra mondiale e, in modo particolare, sono diretti in Russia. Gli
avvenimenti vanno dal maggio 1940 fino al 1974 e terminano proprio con l'avvento del referendum sul
divorzio. Quindi, l'arco temporale riguarda la Seconda guerra mondiale e tutto il boom economico.

È una mescolanza di invenzioni – alcuni dei nomi presenti sono inventati da Eugenio Corti, lui stesso si
sdoppia addirittura in due personaggi Ambrogio e Michele (Proprio perché la sua vita è come se entrasse a
far parte di più personaggi) – e di avvenimenti reali, in quanto segue in modo preciso quello che avviene
durante la campagna di Russia e nella fase di ricostruzione della nostra Italia.

È un libro che lo impegna per ben dieci anni. Sono molte le correzioni che fa. È un libro che presenta più di
trenta edizioni e che è stato tradotto in quasi tutte le lingue del mondo (francese, inglese, spagnolo,
lituano, tedesco, russo, polacco, cinese) anche se, inizialmente, non è stato acclamato dalla critica.

Eugenio Corti non è ancora nei nostri libri di letteratura italiana: è stato il passaparola dei lettori a renderlo
famoso. I lettori hanno iniziato a leggere le sue opere e a dire all'amico dell'amico di iniziare a loro volta e,
quindi, pian piano, i suoi libri hanno venduto tantissimo (Tra l'altro, l'unica casa editrice che accolse subito
questo libro fu la casa editrice Ares – con il direttore Cesare Cavallieri –, che è rimasta la casa editrice che
ancora oggi edita tutti i libri di Eugenio Corti). [È il passaparola dei lettori che lo ha fatto diventare un caso
letterario, tanto da spingere i critici a paragonare le doti di questo autore brianzolo a quelle di
Alessandro Manzoni.]

Perché non è inserito nei volumi scolastici? Innanzitutto, perché è uno scrittore profondamente cristiano e
quindi ha una visione piuttosto forte degli avvenimenti (anche se noi studiamo Alessandro Manzoni che è
uno scrittore altrettanto credente – tuttavia, diverso è il tempo in cui hanno vissuto e scritto → per questo,
Corti sta facendo fatica ad affermarsi).

I più non ritornano


TITOLO: I più non ritornano. Diario di ventotto giorni in una sacca sul fronte russo (inverno 1942-43) → la
prima parte del titolo “I più non ritornano” rinvia al fatto che molti soldati non ritornavano dalla campagna
in Russia. Il sottotitolo, invece, richiama l’impostazione diaristica dell’opera. Anche questo titolo (come altri
di quegli stessi anni) non è esplicitamente bellico. Ed è proprio perché non richiama direttamente la guerra
che il libro riesce, dunque, ad avere la possibilità di entrare nelle librerie già nel 47.

SCRITTO? Corti conclude “I più non ritornano” già per il 1943. Oltre a dei piccoli problemi di salute legati al
freddo, egli, nel complesso, stava bene e, tornato dalla guerra, sentì subito il bisogno di raccontare.
Ricoverato all'ospedale di Merano (e prima a quello di Merate), inizia a mettere per iscritto la sua
esperienza già a metà febbraio del 1943, con l’aiuto di foglietti logori scritti durante l’assedio a Tcertkovo.
Per l’8 maggio 1943 il volume è pronto. In seguito, però, Corti riparte per combattere perché la guerra non
è ancora conclusa. Chiede, allora, alla sua famiglia di nascondere questo libro sotto terra, sotto il loro
giardino. Per quale motivo? Perché il volume è un diario, dove Corti dà dei giudizi molto pesanti e forti sui
comunisti e sui nazisti. Lui aveva già presagito quali sarebbero state le sorti della guerra e, in particolare,
l’armistizio delll'8 settembre 1943. In quel periodo, se per caso, a seguito di qualche perquisizioni, avessero
trovato quel libro, la famiglia sarebbe andata certamente nei guai, perché in quel libro c'erano delle verità
terribili. Per questo, lo nascondono sottoterra.

Una volta che Eugenio Corti torna a casa definitivamente nel 45, lo dissotterra insieme alla sorella.
Purtroppo, il libro è quasi illeggibile a causa dell'umidità, che ha cancellato la maggior parte delle sue parole
(E lui dice che il suo animo era ridotto davvero come quelle pagine, che il suo spirito ormai era a brandelli).
Nel giro di poco, però, riesce a ricostruirlo totalmente.

PUBBLICATO DA: 1947 Garzanti, 1990 Mursia, 2004 Rizzoli-Bur, 2014 Ares

GENERE: Diario

STRUTTURA:
- 31 capitoli numerati, senza titolo
- asterischi e spazi bianchi → pause riflessive
- Indice dettagliato con date e luoghi (alla fine del libro) → richiama impostazione diaristica

STILE: asciutto, crudo, scarno, telegrafico, idillico

Si tratta di un libro che ha la grande caratteristica di essere molto asciutto, molto telegrafico. È un libro
dove c'è già dentro lo scrittore Corti, ma non è facile riconoscerlo: non è semplice scovare quegli aspetti,
quelle pagine dove viene fuori l'animo del poeta, l'animo del narratore, perché quello che è messo in primo
piano è l'aspetto storico e soprattutto la grande fedeltà dei fatti. Questo libro di Corti, in fondo molto esile
perché non è grandissimo, ancora oggi non ha smesso di essere pubblicato.

TEMATICHE:
- morte, orrore → Guerra
- inutile strage
- realtà e verità (Tanto che alcuni punti sono estremamente noiosi, proprio perché lui riporta la
verità tale com’è, senza fare cesure)
- politica
- costruito per contrasti

MARIO APOLLONIO (docente e preside di lettere, Università Cattolica di Milano ), Campagna di Russia,
«L’Italia», luglio 1947
Quando esce, sciocca molto l'opinione pubblica perché non si era abituati a una così grande crudeltà
(soprattutto nella descrizione di scene di morte, di ferite): vi sono in modo macabro teste che rotolano,
proprio falcidiate dalle grandi katiuscia, che erano le grandi bombe dei russi. Mario Apollonio, che è stato il
preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della nostra Università, quando esce questo libro, nel 47, scrive
sul Giornale “L'Italia” questa affermazione:

La prima impressione che produce questo libro tremendo è che sia un libro di cronaca: così vera e
tetra da diventare selvaggia. E cronaca rimane, beninteso; ma c’è ben altro (c’è, dietro la realtà, la
verità). […] Letterariamente parlando, sarà un problema interessante misurare la potenza di questa
notazione immediata che capovolge in dramma il documento (cioè in fantasia: ma fantasia più vera
della realtà, intendo; guai a considerare questa cronaca alla stregua in un giuoco di trasfigurazione,
ad arbitrio dello scrittore: ogni più pesante pagina fra Steinbeck e Hemingway parrà uno svolazzo
calligrafico, un arabesco documentario, a paragone di questo romanzo-poema-dramma-storia).

Quindi siamo di fronte a un diario, dove si può fare esperienza di come davvero la letteratura può parlare di
questi argomenti. E, nello stesso tempo, è un'opera dove c'è l'alfa e l'omega di Corti: è da questo libro che
le sue doti verranno scoperte e lui diverrà uno scrittore a tutti gli effetti.
[Video sulla Ritirata di Russia] (Altro autore importante su questo evento: Giulio Bedeschi “100.000
gavette di ghiaccio”)

Analisi
Questo libro racconta quello che avviene in quei 28 giorni di campagna. Non si sapeva esattamente dove
sarebbe stato impiegato il 35º corpo d'armata.
Il libro è una lunga
riflessione: subito,
Corti ci dice la fine
che farà questo
corpo d'armata,
quali sono i
protagonisti della
campagna e come
verranno travolte le forze tedesche. In sei righe, Corti riassume quello che è la ritirata di Russia. In questo
passaggio, emerge la presenza proprio dello storico, dello scrittore storico: non c'è nessun aggettivo,
nessun orpello che possa dire che siamo in presenza di un'opera letteraria da gustare.

Però prima del racconto in sé, troviamo subito due cose (che rimandano alla letterarietà):

1) Una poesia, o meglio, una


preghiera, un esergo, che, in fondo,
ricorda un po’ “Con me e con gli alpini”
di Piero Jahier. È una preghiera che
Corti rivolge a quella Santa Vergine che
lui steso ha pregato durante la ritirata
di Russia, la notte di Natale, quando
era a -42° sottozero. E dove lui fa un
voto – legato alla sua grande fede: “se
sopravvivo, metterò la mia arma
preferita, che è la penna, al tuo servizio,
cioè, racconterò quello che è l'uomo”.
Quindi, il suo obiettivo è quello di fare
una ricerca su quello che è l'uomo
(nonostante la sua fede, non vuole
ridursi a scrivere un trattato di teologia). Questo è quello che lui mette al servizio della sua fede.

Questa preghiera, inoltre, la dedica a chi con lui ha condiviso il pane. Sente il bisogno di scrivere questo
libro non solo per sé, ma anche per chi è stato con lui. Allora, è vero che questo è un diario molto corale: è
un libro prosopografico, cioè affollatissimo di persone. Perché di fatto lui era un sottotenente e aveva
sotto di lui tanti soldati, ne incontrava davvero molti. Allora, li chiama tutti per nome: è come se lui li
guardasse in volto. Ecco che quindi, anche in questo senso, è davvero un libro dove si fa conoscenza di
quello che è l'uomo.

2) Oltre a questa preghiera, vi è una piccola frasetta che è tratta dal Vangelo Marco, XIII versetto. Sceglie
questa frase perché è un libro nel quale, se letto con una certa attenzione, si percepisce il freddo che
faceva. Leggendolo, Benedetto Croce disse “È un libro che fa venire freddo alle mani e ai piedi”. Il freddo,
infatti, è uno degli argomenti primari ed è una delle motivazioni per cui c'è stato questa distruzione e
questa disfatta durante la campagna di Russia. Perché, ancora una volta, come per la Prima guerra
mondiale, non eravamo pronti e attrezzati come i nostri avversari, come i russi. E Corti, come già Lussu
aveva fatto, se la prende con quelli che gli hanno dato delle scarpe inadeguate.
La scrittura di Corti oscilla fra la prima persona singolare – quindi il parlare di sé – e la prima persona
plurale, proprio perché Corti vuole parlare anche per chi è stato con lui.
Notiamo una scrittura molto sintetica, suddivisa per brevi paragrafi, chiamati da lui “Manelli”. Questa
lettura spezzettata – Parti, Capitoli, Manelli (che è ancora più forte nell’opera “Cavallo Rosso”) – è pensata
per aiutare il lettore, anche attraverso la brevità visiva, all'essere invogliato ad andare avanti nella lettura.
Con questa modalità, infatti, ci si ritrova a leggere un numero di pagine molto elevato senza nemmeno
accorgersene.

Corti, dunque, crea un progetto stilistico che possa andare incontro al lettore: scrive per sé, ma scrive per
noi, cioè riesce davvero a coinvolgere il lettore. Ecco perché in quest'opera emerge una scrittura che
include anche tante riflessioni al presente – esattamente come quelle incisioni o affermazioni che
Alessandro Manzoni fa nei Promessi Sposi. Corti è presente, palese nel romanzo e ci sta raccontando il suo
presente, quello che avviene fra il 42 e il 43, ma ci sono anche molti istanti nel quale è come se proietta la
scrittura al suo presente storico (dell’oggi, in cui è già salvo).

È una prosa, dove c'è una precisa puntualizzazione degli avvenimenti e tantissime informazioni specifiche.

Ma da che cosa si capisce che siamo davvero in presenza di uno scrittore che vuole mettere al centro la
bellezza? Corti è uno scrittore molto leopardiano, è uno scrittore che si sente scrittore e che, per quello che
ha vissuto, si sente di fronte ad una immensità, di fronte ad un infinito; e sta attento a tutti i particolari.
Allora la sua è una prosa che si sente: gli spari, le Katiuscia, il suono degli uccelli, delle quaglie. E sentiamo
la cosa più importante: la marcia, i loro calzari che vanno sulla neve (la scarpa sulla neve).
Ma è anche una prosa che è tutta da vedere: è bravissimo nel descrivere i colori ed è da qui che già si
capisce che diventerà un grande scrittore. I colori predominanti sono il bianco che è quello della neve, il
rosso con le sue varie gradazioni (perché il sangue, una volta diventato putrido, diventa quasi nero), l’altro
colore è il nero, di tutte quelle vettovaglie e di tutte quelle armi che vengono abbandonate nella neve
(Quando, infatti, arriva l'ordine di ritirata perché ormai sono chiusi dai russi in questa sacca, l'esercito
italiano e quello tedesco devono uscire da questa sacca e ovviamente non possono più portare nulla con sé
e quindi tutto viene abbandonato). Corti riesce a farci proprio innamorare di questi colori, tra cui anche
quello del cielo. Egli è attentissimo ai cambiamenti climatici, attentissimo alle ore del giorno, per cui l'alba,
il tramonto, la notte, le stelle, la luna vengono descritte in un modo davvero squisito. Bisogna però fare
attenzione nel leggere questi particolari, perché sono come protetti da questa scrittura che di fatto sembra
molto sintetica.

La grande fatica
che fa Corti nel
vivere questa
ritirata di Russia è
che deve tenere a
bada tantissimi
soldati che sono
sbandati. Per cui, in continuazione, troviamo simili frasi come questa (“la grande colonna lunga chilometri e
chilometri”), dove abbiamo proprio la percezione di vedere questa colonna che deve cercare di seguire una
via. Ed è una via che è difficile da tenere. E allora ecco un altro suono che si sente: quello delle grida, delle
urla di Corti e di tanti altri sottotenenti che devono tenere una linea in questa neve, che continua a
diventare quasi una bufera, e che quasi fa sì che non si riesca più a trovare una via.
C'è uno stato d'animo che insiste e persiste ed è quello della grande tristezza, che prende il sopravvento in
tantissimi suoi soldati. Corti, però, è anche molto attento. Perché se tutti abbandonano molte delle armi –
perché sono pesanti – , però, lui si tiene con sé una pistola, un fucile e un cannocchiale. Questi tre oggetti
gli fanno compagnia e in tutta la ritirata di Russia gli saranno utili.
Non molti riescono a
ubbidire allo stesso
Corti. E in questo
paragrafo, c'è il primo
che si allontana, o
meglio che non
ubbidisce, e Corti, in
qualità di sottotenente,
dovrebbe punirlo in
tribunale. Tuttavia,
questo soldato muore in
battaglia.
Delirio: il freddo è
spesso causa di questo
delirio.

Corti inizia ad inserire degli spazi vuoti affinché si abbia il tempo per rimuginare. Qui abbiamo il primissimo
idillio che inframezza qua e là tutta la sua memoria. È come se, spesso, quando scrive questi idilli la sua
diventa quasi una prosa poetica.

Camminavamo: un verbo di
movimento, perché in questo
libro c'è proprio il senso di
questi soldati che camminano.

Corti è molto legato all'angelo,


al suo angelo custode;
addirittura, sarà un argomento
presente nei racconti che lui
introdurrà in un'opera postuma
che si intitola “Il Medioevo e
altri racconti”.
È una figura, quella dell'angelo,
che a lui affascina molto, e, più
volte nel libro, costruisce la figura dell'angelo come se fosse personificata, perché tante volte ha come
l'impressione che ci sia davvero qualcuno che lo aiuti a prendere determinate scelte (nella ritirata di Russia,
nell'immensa vastità, spesso deve decidere se andare a sinistra o andare a destra. Non c'è alcuna
indicazione. Deve andare a caso).

La certezza di essere fuori dalla sacca: Cosa che non sarà vera perché siamo proprio all'inizio.

Ma in questo idillio, così come l'hanno chiamato i critici, è come se ci fosse un momento nel quale Corti,
oltre ad andare avanti nella sua descrizione di quello che sta accadendo a loro italiani (non hanno quasi più
nulla, i tedeschi non sono per niente collaborativi, …), incastona quelle che sono le affinità stilistiche che lo
caratterizzano. Una prosa che è tutta da vedere, che è tutta da sentire: è colorata e, al suo interno, c'è
questo suo essere di fronte all'infinito e di fronte all'immensità – alla quale lui non sempre dà il nome di
Dio. La fede ce l'aveva, ma in tantissimi punti del libro mette in crisi la presenza di Dio per il male che vede;
perché gli sembra folle che tanti suoi amici siano in situazioni così tragiche (e molti sono quelli che lui dovrà
abbandonare). La cosa che più lo terrorizza – esattamente come abbiamo visto per Lussu – , la cosa più
tragica, la cosa più misera, è che gli italiani a un certo punto uccidevano gli stessi italiani, cioè si sparava
disordinatamente. C’è davvero una bestialità dell'uomo: Corti vede fino a che punto arriva davvero l'uomo,
caratterizzato da un bestiale istinto. Ecco che è come se Corti avesse visto il male dispiegato in tutte le sue
forme (Per quelli che vede falcidiati, per quelli che vede morire; per scene terribili di soldati affamati che
addentano pezzi di carne). Terribile più di tutto è la notte dove arriva a -42°, nella cosiddetta Valle della
Morte, dove vedrà addirittura uomini che mangiano altri uomini. Si soffermerà molto anche nella
descrizione della mancanza delle scarpe, della mancanza delle calze e di come fra amici si diventa nemici.

Nel trentesimo capitolo (virtuoso), finalmente i soldati riescono ad uscire dalla sacca. Il diario, dunque,
potrebbe interrompersi anche al capitolo 30- 31. Di fatto, Corti racconta la sua grande gioia per essere
riuscito a uscire. Sono pagine belle, dove finalmente il lettore respira e sembra sentire il tepore di queste
case che riescono ad accogliere questi uomini che non sono quasi più uomini, che sono ormai tutti
decimati.

Ma Eugenio Corti non si ferma con l'uscita, con la ritirata di Russia: l'ultimo quadro, l'ultimo idillio è tutto
per un suo amico che si chiama Candela, che con lui ha vissuto tante vicissitudini e insieme sono riusciti a
salvare, o meglio ad aiutare, nei momenti del bisogno, chi era in mezzo al freddo, chi stava morendo
congelato, chi aveva sete. Ed è una scena davvero macabra quella che ci descrive Corti, cioè non fa
terminare il suo libro con un lieto fine. È come se facesse fare al lettore un ultimo passaggio, dicendo:
“Dopo la sacca ce ne saranno altri di guai” – simile a quanto fa Manzoni con i Promessi Sposi (Nell'ultimo
capitolo, è vero che Renzo e Lucia sono sposati e hanno una bambina di nome Maria; ma Manzoni dice “Ci
sono delle altre situazioni, delle altre vicissitudini”. La vita va avanti, di guai ce ne saranno diversi).

Non siamo più in


presenza di un uomo.
Quello che è mostrato è il
risultato della ritirata di
Russia, di quello che porta
la guerra. È una scena
macabra, una scena che
ha dentro un movimento, un movimento quasi senza senso. Così come è insensato che un uomo si sia
ridotto così per la guerra. Gli avverbi di modo sono molto usati da Corti – in queste pochissime righe, così
come in tutto il diario. Corti mette questa scena alla fine del romanzo per mostrare a che punto può
arrivare la malvagità dell'uomo, come la malvagità riduce l'uomo → Non si può abbassare la guardia.

Corti ha una grande responsabilità, quella di essere diventato uno scrittore epico, di essere esattamente
come Omero che si confronta con la storia, che si confronta con il reale. Il suo reale è stata la Russia. Il suo
reale è la realtà. Lo storico, per Corti, è colui che interpreta il reale, ma lo fa attraverso l'insegna della
bellezza. Questa prosa di corti è considerata una prosa ungarettiana, perché c'è uno scavo della parola
simile a quello presente nell'autore del Porto Sepolto. Corti, un artigiano brianzolo, è abituato a scalfire il
legno e, con la parola, fa la stessa cosa. Lo fa con precisione, come per renderla cristallina. A tema deve
esserci la tragicità di quello che ha vissuto, ma la deve consegnare con bellezza. E questo è, di fatto, il
compito che lo storico e letterato, e lui in particolare, ha.

ANNA MARIA MORI (1936-…)


Panorama storico: l’esodo
Quest’autrice non è molto conosciuta. È ancora vivente ed è una figura molto particolare. A partire da lei e
da tanti altri autori che hanno vissuto l'esodo giuliano-dalmata, come anche la tragica esperienza delle
foibe (sono pochi i racconti sull’argomento perché pochi sono i sopravvissuti), si apre una nuova
letteratura.
Vediamo una frase pronunciata da
Andrea Bianco, un ex deportato, nel
1946.

È una riflessione su quanto la parola


può davvero costruire e come ha il
potere di far fiorire una letteratura, nel
caso di Primo Levi concentrazionaria, e
così anche nel caso dell’esodo giuliano
dalmata.

Il periodo che segue una guerra è sempre


problematico.
I paesi italiani (come Trieste) al confine con la
Jugoslavia avevano dei problemi con i confini
già dal Medioevo. In modo particolare, dopo
l’uccisione di Mussolini, le truppe di Tito
entrarono a Trieste (1° maggio 1945) e
iniziarono così quei 40 giorni di occupazione
titina, che portarono a due grandi tragedie: le
foibe tra il 43 e il 45 e la difficile definizione
del confine tra Italia e Jugoslavia. Ed è una
situazione che addirittura si protrae dal ’45
fino al 1975, anche molto al di là
della fine della guerra.

In particolare, il 10 febbraio
1947 (10 febbraio diventa il
giorno del ricordo) —> entra in
vigore il trattato di pace con cui
le province di Pola, Fiume e
Zara, parte delle province di
Gorizia e Trieste, passano alla
Jugoslavia.
In quei territori c’erano degli
italiani —> qui inizia il grosso
problema: molti vengono
infoibati, buttati in queste cavità
carsiche (delle gruviere). Il male, anche qui, come dice Eugenio Corti, si sbizzarrisce in tutte le più perverse
manifestazioni, ed una delle cose che venivano fatte è che questi che erano gettati nelle foibe erano legati a
due a due con del filo spinato e uno dei due veniva ucciso subito e venivano buttati all’interno.
Molti (350.000) decidono così di abbandonare le terre istriane e andare verso le americane, l’Australia, la
Nuova Zelanda. Di fatto, è una diaspora forzata (pulizia etnica <> emigrazione), quella che ancora una volta
è chiamata dai giuliani, con una certa ascendenza biblica, ‘esodo’ —> parola che indica proprio il
movimento di un popolo. C’è chi rimane e chi parte: ma in entrambi i casi, sia che si allontanano dalla terra,
sia che rimangono, i triestini si sentono dei profughi, non appartengono più ad un popolo. Perfino ora c’è
uno sradicamento insito in questo popolo. [Intervista Gianni Oliva] L’emigrante è colui che va verso il
futuro, parte con un certo desiderio, con una bellezza in mente (che poi magari non corrisponde a ciò che si
trova). L’esule è colui che ha perso qualcosa, ha abbandonato la sua casa, la sua identità e non è più
riuscito a trovarla, in particolare chi ha vissuto una pagina così tragica della storia (le foibe).

Vita e opere
10 febbraio lascia la sua città.

Scrive tante opere: alcune hanno a che


fare con la storia, altre sono
psicologiche/ pedagogiche (ricerca e
attenzione particolare alla propria
identità femminile e alla distanza
dall’altro genere), e poi ci sono quelle
della letteratura dell’esodo giuliano
dalmata (quelle in rosso).

Nel 1993 realizza uno dei primi


documentari su quell’argomento (i
media aiutano la memoria).

Due documentari che ebbero


un grande successo —> da lì
inizia in lei ancora di più il
desiderio di raccontare per
iscritto quello che ha vissuto. E
ancora una volta il suo essere
scrittrice è come se nascesse
davvero da lì: è vero che il
primo libro su questo
argomento risale solo al ’98,
ma evidentemente, un po’
come per Primo Levi, la parola
per lei è stata fondamentale,
è stata una liberazione
interiore.
Sono opere, comunque, molto lontane dagli avvenimenti, non sono scritte a caldo ma ha avuto bisogno di
tempo affinché la sua memoria potesse ricostruire tutto quello che è accaduto.

La Mori si è sempre sentita una profuga, un trauma che ha fatto fatica a superare e lo ha iniziato a superare
anche grazie a un’amica, Nelida Milani, anche lei una scrittrice importante proprio sull’esodo giuliano
dalmata, che è però rimasta a vivere in quelle terre. Ed è proprio questa amica che convince Anna Maria
Mori a scrivere di quello che hanno vissuto e lo fa attraverso il genere della lettera con l’opera del ’98
‘Bora’ (il vento fortissimo di Trieste e di quelle terre) – che ha un titolo significativo, perché indica quello
sradicamento, qualcosa che ti porta via (è un vento fortissimo).

Bora
La sua amica Milani dice:
Questa prima ‘opera’, nella quale si utilizza proprio l’andamento della lettera, è costituita da 23 capitoli,
dove si capiscono i diversi interventi perché graficamente una delle due scrive in tondo e l’altra in corsivo,
ed è bello incrociare le loro esperienze, perché più che un andamento storico di quello che è accaduto, c’è
proprio un viaggio interiore. Sono opere che creano una sorta di autobiografia, pur essendo lettere,
terapeutica.

In un passo di Bora, la Mori scrive:

Tutto questo testo scritto a due mani mostra davvero questo sradicamento: sia per la Milani che rimane lì,
sia per la Mori che se n’è andata. Ed è davvero una sorta di viaggio, di partenza che lei ha fatto perché si è
dovuta allontanare dalla sua terra; ma è come se, sentendo in continuazione quel ‘sei jugoslava’, rifacesse
di nuovo questo viaggio così forte.

Nata in Istria
Fin quando la nostra Mori prende il coraggio e decide di fare un viaggio proprio ulidissico, ma omerico —>
tornando alla sua terra.
E infatti nel 2006 scrive Nata in Istria, che è una sua autobiografia. Fa davvero un viaggio più autobiografico
dell’opera precedente: è quel ritorno, nel quale recupera tutto ciò che ha perduto, quello che è il romanzo
infantile che ha dovuto lasciare lì. È anche un’opera costruita in modo particolare: c’è un capitolo
introduttivo ‘il luogo delle origini’, poi ci sono 48 capitoli che sono suddivisi in 8 sezioni, e infine una
conclusione dal titolo ‘post scriptum’, dove ci sono le ricette culinarie di quella terra.
Il libro si apre con una sorta di cartina che è molto sbiadita, voluta così dalla stessa scrittrice perché non è
facile leggere nel proprio passato, nelle proprie origini, si fa fatica.

È un ritorno alle origini ulidissico, ma non è facile guardare in volto quello che è accaduto. E allora sì che un
po’ ci aiuta l’Ulisse pascoliano dell’ultimo viaggio. Quasi come se la propria vita fosse un’illusione, o una
ricerca della verità (esattamente come Ulisse aveva capito in quel capitolo del libro intitolato ‘Il vero’, dove
dice che solo il vero è buono). Ecco così la Mori fatica a capire se quella verità che deve cercare è vera, non
è sempre velata da una sorta di dubbio.
Con Nata in Istria, tra l’altro, si scopre la bellezza di
questa terra. Ed è come se la Mori ci facesse vedere
tutto quello che scrive, per cui per certi aspetti è
considerato anche una sorta di vademecum per i
turisti.
È tutta da vedere questa pagina: gli aggettivi che
utilizza per descrivere i paesaggi sono molteplici,
toccano ogni sfumatura di colore.

Ma se è un libro da vedere, è anche un libro da


gustare: in alcuni passi è come se fossimo di
fronte non tanto a quelle ricette che si trovano
davvero in fondo al libro, ma la sua prosa ci fa
assaporare che tipo di terra è.

Anche solo in questa prosa non assaporiamo


solo quello che si mangia, ma dietro questo c’è
proprio l’affezione alle sue origini, alla sua
terra, una terra colpita dalla guerra e che l’ha
sradicata.

E poi, oltre ai colori, ai gusti, c’è anche quella


bellezza ‘artistica’, architettonica (descrizioni
dettagliatissime, come se la scrittrice facesse
un reportage: volesse far vedere quello che è
quel luogo, è il suo modo per fare capire il suo
attaccamento a quelle terre e il suo riscatto,
quel passo che la scrittura e la parola può farle
riconquistare). Se Bora si conclude con un
pianto (le ultime pagine sono un pianto di
disperazione per quello che ha vissuto), anche
Nata in Istria si conclude con un pianto, questa
volta di liberazione, perché è come se forse
stesse ritrovando davvero quella che è la sua
strada, come se ritrovasse la via, la sua
partenza, come se ritrovasse il suo ‘porto
sepolto’, quella che è la sua identità.

Il suo dramma è appunto capire davvero qual è la cosa più giusta. Torna a chiedersi se hanno fatto bene o
no a partire; ma questo suo coraggio di tornare indietro è davvero terapeutico, e questa terapia vera e
propria la si vede nell’ultima opera delle tre, L’anima altrove.
L’anima altrove
Un romanzo davvero particolare, anche abbastanza recente, del 2012.
Se prima c’era il genere della lettera, come una confidenza con un’altra persona, poi abbiamo il genere
dell’autobiografia, dove ripercorre la sua vita (nel suo caso, come i vociani, un particolare periodo di essa),
poi c’è l’ultimo, un romanzo, dove mette in campo tutte le doti che mostrano se è da considerare scrittrice
o no. Il contenuto del romanzo è come se esplicitasse davvero quella terapia di cui ha avuto bisogno e con
cui capiamo che la scrittura ha davvero questo potere.
Il romanzo è ambientato a Roma, nel 2011, e la protagonista è Irene, una donna che non è più molto
giovane e che si reca da uno psicanalista, perché è tormentata da un’ansia di non appartenere più a nulla o
a nessuno. Ed è chiaro che sotto questa protagonista c’è Anna Maria Mori.

Questa protagonista ripensa un po’ a tutta la sua vita, dallo psicanalista, è come se ci facesse rivedere
quello che ha raccontato in Bora, e ancora meglio in Nata in Istria. Dopo questa introduzione, nella quale il
lettore scopre appunto chi è questa protagonista, la scena cambia totalmente e abbiamo altri protagonisti.
Quindi il lettore si trova incanalato in tutte le loro vicende, dove si scopre chi è la protagonista (che è frutto
dell’amore di due di loro).

Ma la cosa più interessante è che non sono tanto i dialoghi a essere protagonisti, non tanto le parole, ma le
cose. Le cose diventano degli espedienti fondamentali per veicolare quello che è accaduto, le cose vengono
antropomorfizzate. È come se le sentissimo parlare, di cui una ad esempio è la casa, quella lasciata da chi
deve partire.

La struttura è quasi la medesima: prima ci sono le persone, che sono fatte di sentimenti, di parole, come se
la casa avesse una forza, una sua presenza, una sua fisionomia. La casa è veramente casa quando c’è
qualcuno che la abita, ecco allora la presenza dei vari organi —> senza le persone è come se non ci fosse
più il cuore, lo stomaco ecc…
Ma che cosa manca davvero? Manca la parola. Allora sì che è vero che è come se i protagonisti fossero le
cose —> ma alla fine per far sì che siano vivi occorre la persona, la sua fisicità. Sia che sia una parola
verbale, sia che sia silenzio tra persone.
 Dice la Mori

E allora se è vero che senza le parole è come se non


ci fosse un’anima, però ci sono delle cose

—> Le cose erano state della prima vita, quella che


ha preceduto l’esodo, l’abbandono

Le cose prendono forza, prendono vita, appunto


perché qualcuno le guarda, perché qualcuno le
sfoglia, se ci sono dei pezzi di carta, delle lettere,
delle fotografie —> cioè la forza della parola, della
persona, dell’umanità, fa sì che si possa
recuperare un percorso.

Ecco perché il titolo “L’anima altrove”, perché l’anima è quello che unisce un prima, che può essere pieno
di vita nel caso della Mori, quando era in quelle terre, a un dopo, che magari è triste e malinconico. E in
tutto questo romanzo, che anche questo è una sorta di reportage (ci sono tanti espedienti di informazioni
storiche, didattiche saggistiche), è un libro colmo di letteratura.

Questo romanzo allora lo si capisce ancora di più se si capisce quello che ci sta dietro Anna Maria Mori, cioè
se uno ha letto anche Bora e Nata in Istria. È un percorso, un intreccio, che poi ci permette anche di fare un
ulteriore passaggio, quello che fa all’interno non solo della sua esperienza personale, ma anche del suo
essere scrittrice. Il fatto di cimentarsi in questi 3 generi letterari ancora una volta ci mostra che da una
situazione tragica può nascere una letteratura sulla quale si può approfondire, si può fare
storia/testimonianza, ma si può anche costruire quella che è la bellezza dello scrivere, così come la
definisce per esempio Leopardi. Per cui davvero ci sono delle pagine belle, poetiche.

Allora tutto questo viaggio ulidissico che la Mori fa, da un lato, è un viaggio di ritorno alla sua Itaca;
dall’altro, è davvero un viaggio di rinascita, di una rinascita interiore. Un viaggio nella memoria e nel cuore,
un viaggio che lascia un’eredità.

Tutti questi autori che abbiamo affrontato insieme – il partire, viaggiare, migrare – permettono di costruire
questa eredità in base alle diverse epoche storiche che abbiamo visto, in base a chi ha mosso in loro la
ragione per cui si sono messi in moto (per curiosità, per costrizione, per esigenze) e che hanno comunque
visto nascere e costruire qualcosa di cui noi ora possiamo avere la testimonianza. Si vede come davvero c’è
una forma espressiva, sia artistica che letteraria, che nasce a partire da quello che colpisce l’uomo.
Anna Maria Mori, insieme a tanti altri autori, si affaccia alla letteratura dell’esodo giuliano dalmata, che è
ancora giovane, ancora tutta da ricostruire.
Se noi dovessimo riprendere quello che diceva Serra sull’esame di coscienza di un letterato,
possiamo dire che la letteratura non cambia l’uomo?
In realtà è vero che è meglio non aver a che fare con cose tragiche e cruente con come quelle che sono
accadute, ma abbiamo visto come la parola ha una grandissima forza, un grandissimo potere. Abbiamo una
grande responsabilità, e ancora possiamo dire che la parola ha una grande forza, una grande eredità (anche
di speranza) che ci lascia.

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