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Giorgio Amico

I fuochi di San Giovanni


Aspetti di una festa millenaria

Con un studio storico di Nico Cassanello

Comune di Carcare

Centro Studi Anton Giulio Barrili


Giorgio Amico

I fuochi di San Giovanni


Aspetti di una festa millenaria

Con uno studio storico di Nico Cassanello

Comune di Carcare

Centro Studi Anton Giulio Barrili


A Luigi Sormano e Franco Pensiero perché ogni libro è
sempre testimonianza di un incontro.

Questo volume è stato realizzato grazie al Fondo Bolla


2015
INDICE

Prefazione dell'assessore Geom. Giorgia Ugdonne

Una notte cara ai poeti

I. Il Sole e la Luna

1. Una festa solstiziale


2. San Giovanni Evangelista e San Giovanni Battista
3. San Giovanni Decollato
4. Il culto di San Giovanni e l'Islam
5. I Mandei
6. San Giovanni e la Massoneria

II. Il Fuoco e l'Acqua

1. L'accensione dei falò


2. L'acqua simbolo di fertilità
3. Le erbe di San Giovanni
4. La notte delle streghe

E per concludere... Sibilla Aleramo

Note
Dizionario biografico

San Giovanni de Cario, un sito religioso tra viabilità


antica e medievale. Saggio storico di Nico Cassanello.
Prefazione

Leggendo questo libro si ha modo di approfondire il


significato di quella che è diventata la rappresentazione di un
culto religioso, i fuochi di San Giovanni, venendo a
conoscenza del carattere ambivalente di questo rito dalle
origini antichissime legato al solstizio d'estate.

I fuochi di San Giovanni, siano essi i fuochi d'artificio del 24


giugno o il tradizionale falò del 29 agosto, per Carcare
rappresentano infatti un modo per commemorare il santo
patrono del nostro paese.

È un'occasione di festa, di aggregazione, che porta con sé


anche il ricordo della nostra infanzia e di momenti leggeri,
ma senza dimenticarne l'antico significato legato alle
credenze dei nostri avi.

Ringrazio quindi Giorgio per il suo scritto, al quale abbiamo


dato con piacere il nostro contributo.

Giorgia Ugdonne
Assessore alla Cultura
Comune di Carcare
Una notte cara ai poeti

“Tersa per chiari fuochi


festosi, la notte odora
acre, di sugheri arsi
e di fumo”. (1)

Sono versi di Giorgio Caproni. Festa del fuoco e dell'acqua,


la notte di San Giovanni è da sempre cara ai poeti che ne
hanno cantato il prepotente simbolismo luminoso:

“Son Juon nou tup i quiar e pohuen sierne:


Beliere, arlusi, fiour di quiar, luzerne“.

[San Giovanni ci spegne la luce e possiamo scegliere: fuochi


notturni, lampi, fiori di luce, lucciole](2)

Così Antonio Bodrero, poeta occitano delle valli cuneesi,


esalta il carattere solstiziale della festa collocata nel momento
in cui il sole [la luce] lentamente inizia a declinare sulla linea
dell'orizzonte.

“Questo lungo giorno,


al sol che gioca tra i Gemelli e il Granchio” (3)

scrive ancora Bodrero in un'altra poesia, questa volta in


italiano, sempre dedicata a San Giovanni Battista, in cui con
poetica precisione individua le caratteristiche astronomiche e
astrologiche della festa.
Un lungo giorno, seguito dalla notte più corta dell'anno,
quella in cui «ci sono più falò che stelle» (4), la più magica
delle notti, in cui il tempo è sospeso e davvero tutto può
accadere. Lo sapeva bene Shakespeare, attivo partecipante
dei circoli esoterici e rosacruciani dell'Inghilterra
elisabettiana, che vi ambientò Sogno di una notte di mezza
estate, una delle sue commedie più belle e più complesse
quanto a riferimenti simbolici. (5)

Festa dai mille volti, solare e lunare, della luce e delle


tenebre, nata con l'agricoltura ai primordi della società
umana, da tempo immemorabile la festa di San Giovanni si
inserisce nel ciclo delle stagioni e dei lavori dei campi. Piena
ancora di echi pagani, la celebrazione cristiana dei due San
Giovanni riprende il mito antichissimo del Dio che nasce al
Solstizio d'inverno per morire una volta raccolte le messi al
Solstizio d'estate. Da queste antichissime credenze deriva
l’abitudine, ancora oggi praticata in tante parti d'Europa, di
bruciare le sterpaglie e i resti del raccolto per garantire nuova
fertilità alla terra.

Inizio di un ciclo cosmico, momento magico in cui il tempo è


sospeso, in quella notte gli elementi della natura acquistano
poteri del tutto straordinari e prodigiosi. L’acqua, il fuoco, le
erbe diventano veicolo di operazioni magiche. Il fuoco dei
falò rende puri i campi e i vigneti, feconda gli animali
domestici e le giovani coppie che ne attraversano le braci o
ne saltano le fiamme. Certe erbe, intrise della magica rugiada
di quella notte, acquisiscono il potere di proteggere la casa da
ogni influenza negativa e dai malefici delle streghe, oltre che
arrecare prosperità e gioia a chi la abita. In quella notte fatata
tutto è davvero possibile. Ce lo ricorda la gioiosa canzone di
Oberon, il Re della Fate, che chiude la commedia scespiriana:

“E così di stanza in stanza


ogni spirito si aggiri
fino allo spuntar dell'alba.
A ogni talamo nuziale
recheremo buoni auspici,
che la prole generata
sia felice e fortunata,
e le tre coppie di amanti
sempre ai voti sian costanti.
Nessun scherzo di natura
tocchi i figli di costoro:
siano immuni da ogni neo,
labbro leporino, sfregio,
da ogni voglia mostruosa
aborrita dalla nascita.
Ogni spirito rechi con sé
la rugiada consacrata
che diffonda dolce pace
del palazzo in ogni stanza:
e sicuro sia il riposo
del signore della casa.
Presto, su, non indugiate,
ed all'alba a me tornate”. (6)

Una notte incentrata sugli elementi primordiali del fuoco e


dell'acqua, che esalta la forza generativa della natura e una
sessualità libera e gioiosa vista come manifestazione diretta
del sacro. Abituati come siamo a relegare il dato religioso in
un ambito asettico estraneo alla vita quotidiana, questa libertà
assoluta che assume spontaneamente la forma del rito ci
sconcerta. Ci pare una mescolanza innaturale di sacro e
profano, una mancanza di misura se non di rispetto verso
realtà che esigono il silenzio e l'ordine del luogo consacrato.

Preoccupazioni che sarebbero risultate incomprensibili per gli


uomini e le donne del Medioevo, abituati ad attribuire
valenza religiosa ai più ordinari gesti quotidiani (lavorare,
cibarsi, riposare) e a convivere con il sacro. E' il motivo per
cui facciamo fatica a comprendere il senso profondo delle
rappresentazioni erotiche scolpite sui capitelli delle chiese
romaniche.

Un capitello della chiesa romanica di Notre Dame a Payroux,


Poitou-Charente, Francia.
C'è chi addirittura si ritrae infastidito davanti a quegli
accoppiamenti esibiti senza timore o a quegli organi sessuali
ipertrofici posti orgogliosamente in bella vista in luoghi
dedicati alla preghiera, ritenendoli mera pornografia che
contamina uno spazio sacro. In realtà si tratta di ben altro.

Quelle coppie avvinghiate e quei falli non rappresentano,


come qualcuno sempre prova a dire, la condanna severa dei
peccati e della carne, ma esattamente il contrario. Contro i
divieti e i tabù che la Chiesa tenta di introdurre in un mondo
fisicamente molto libero e che non ha (ancora) il senso del
peccato, quelle pietre scolpite, espressione di una religiosità
popolare primordiale, esaltano la sessualità naturale e non
peccaminosa delle piante, degli animali, degli uomini,
manifestazione prima della forza generatrice che muove il
cosmo. C'è gioia e non vergogna alla base di quelle figure. Ce
lo racconta Risus paschalis, piccolo grande libro della teologa
e antropologa Maria Caterina Jacobelli:

“Quando l'ombra collettiva della chiesa ufficiale respinge la


bontà, la sacralità della sessualità e del piacere, ecco la prassi
popolare mantenere accesa questa verità attraverso i secoli, a
modo suo, cioè spesso in modo impertinente. (…) Il piacere
sessuale che non trova spazio nella dottrina ufficiale della
chiesa, persiste tenacemente nell'ambito del sacro, osteggiato
e protetto, condannato e portato in auge, adombrato da
fragorose risate o scolpito nei capitelli o dipinto negli
affreschi”. (7)

Tutti questi elementi li troviamo presenti nella festa di San


Giovanni ad esaltare il fluire eterno e multiforme della vita
di contro alla vittoria apparente della morte. Tra i moderni un
giovanissimo Giorgio Caproni alle sue prime prove poetiche
ne ha saputo meglio di tutti trasmettere in una manciata di
versi di grande freschezza la spontanea e innocente carica
erotica:

“Voci e canzoni cancella


la brezza: fra poco il fuoco
si spenge. Ma io sento ancora
fresco sulla mia pelle il vento
d'una fanciulla passatami a fianco
di corsa”. (8)
I. Il Sole e la Luna

1. Una festa solstiziale

“Al solstizio d'estate, quando il sole raggiunge la sua


massima declinazione positiva rispetto all'equatore celeste
per poi riprendere il cammino inverso, comincia l'estate.
Questo giorno, la cui data ha variato secondo i calendari fra il
19 e il 25 di giugno, era considerato nelle tradizioni
precristiane un tempo sacro, ancor oggi celebrato dalla
religiosità popolare con una festa che cade qualche giorno
dopo il solstizio, il 24 giugno, quando nel calendario liturgico
della Chiesa latina si ricorda la Natività di san Giovanni
Battista. una festa molto antica se già Agostino la ricorda
nella Chiesa africana latina”. (9)

Così Alfredo Cattabiani, studioso di storia delle religioni, di


simbolismo e di tradizioni popolari, introduce in un libro
dedicato alle feste, i miti, le leggende e i riti dell'anno, il tema
delle «nozze del sole e della luna», che è l'autentico cuore
della festa di San Giovanni. In questo giorno infatti il Sole,
simbolo del fuoco, entra nel segno del Cancro, segno d’acqua
dominato dalla Luna. Secondo il pensiero tradizionale in
questa notte il Sole e la Luna, di cui la figura del Re e della
Regina sono rappresentazioni simboliche, si fondono in una
ierogamia, un matrimonio sacro generatore di vita. Una
immagine ripresa poi in innumerevoli rappresentazioni
alchemiche a simboleggiare l'unione dei contrari che
ricompone per un attimo l'unità primordiale.
Per comprendere meglio l'importanza del giorno lasciamo per
un attimo il linguaggio sfuggente dei simboli tanto caro agli
esoteristi e ai poeti e scendiamo sul terreno solido della
scienza. Solstizio, dal latino sol-sistere il fermarsi del moto
solare, è termine astronomico e indica quel momento
fondamentale dell'anno in cui il Sole raggiunge, nel suo moto
apparente lungo l'eclittica, il punto di declinazione massima
(21 giugno) o minima (21 dicembre). Nel nostro emisfero i
due solstizi segnano rispettivamente l'inizio dell'estate e
dell'inverno. Il 21 giugno il giorno raggiunge la sua massima
durata. Dopo tre giorni di stasi, a partire dal 24, le ore di luce
si riducono, il sole sembra essere sempre più basso
sull'orizzonte. Inizia un ciclo di sei mesi destinato a
concludersi il 21 dicembre, il giorno più corto. Da questo
momento ricomincia il secondo ciclo che si concluderà a
giugno: il sole progressivamente si alza sull'orizzonte, i
giorni si allungano, la luce diventa più intensa. E così tutti gli
anni, in una circolarità che va al di là del tempo e assume agli
occhi dell'uomo perennemente prigioniero del presente il
senso dell'eterno e della libertà da ogni genere di costrizione.
Atemporalità e libertà che sono, da sempre, caratteristiche
primarie del sacro.

Tornando al linguaggio fiorito del simbolo, in tutte culture i


solstizi (le due porte del cielo) rappresentano il dramma
cosmico della morte e della rinascita del Sole, ovvero
l'avvicendarsi nel corso dell'anno delle stagioni e del ciclo
della vegetazione. Una concezione antichissima, risalente
almeno ai primordi della cultura greca e simboleggiata dalla
caverna cosmica, tanto che la ritroviamo in Omero che così
ne parla nel XIII libro dell'Odissea: “Vi sono fonti di acqua
perenne e la grotta ha due entrate, una per i mortali verso
occidente, l'altra ad oriente, per gli immortali: da questa non
passano gli uomini; è la via riservata agli dei.” (10)

L’Albero della Vita nell’affresco dell’abbazia di Sesto al Reghena.


Cristo è crocifisso sul melograno, simbolo di vita e di fecondità

Nel mondo greco-romano i solstizi segnavano una ciclica


sospensione del tempo e la rottura di ogni separazione fra il
mondo celeste, il mondo infero e mondo terreno. In quelle
notti si aprono le porte che mettono in comunicazione i regni
dei morti, dei vivi e degli dei, collegati fra loro dall'albero
sacro o albero della vita di cui la croce rappresenta con
l'intersecarsi delle sue due linee, quella verticale della vita e
quella orizzontale della morte, il simbolo più diffuso. Il
solstizio d'inverno rappresenta la «Ianua Coeli» o «porta
degli dei» , attraverso cui gli dei si manifestano agli uomini e
il solstizio d'estate, la «Ianua inferi» o «porta degli uomini»,
attraverso cui gli uomini entrano in contatto con il numinoso,
ma anche si manifestano le potenze oscure che abitano i
mondi inferiori. Da qui il carattere ambiguo, benefico, ma
anche potenzialmente pericoloso, della festa.

La fabbrica del mito

Riflettendo su questo simbolismo, che resta profondamente


omogeneo pur nel succedersi delle culture, si comprende
come per passaggi successivi, tra cui l'incontro con il folklore
celtico e la mitologia germanica, la notte del 24 giugno
diventi la notte delle streghe o, come nell'opera scespiriana,
delle fate e dei folletti. In quelle ore cariche di pathos le porte
dei regni oscuri sono spalancate e nulla separa più gli uomini
dalle potenze che vi abitano. Secondo la tradizione germanica
i morti usciti dalle tombe si riuniscono per la caccia, e non di
rado si uniscono agli elfi. Questi fantasmi formano un
pauroso esercito che vaga per montagne e vallate. Lo ricorda
il poeta romantico Heinrich Heine nel suo poemetto Atta
Troll:

“E' la notte di San Gianni


Luna piena l'aere irraggia
L'ora è questa in cui gli spirti
Fan la lor caccia selvaggia”. (11)

Fate, folletti, morti che ritornano a tormentare i vivi: tutti


elementi che ritroviamo nella festa di Halloween, tipica del
mondo anglosassone ma da qualche tempo di moda anche fra
i nostri giovani. Considerata a torto completamente estranea
alla nostra tradizione e dunque spesso vissuta con un certo
fastidio, ad un esame più attento, che non si limiti all'attuale
degenerazione consumistica di ciò che resta di tutte le feste
tradizionali (Natale incluso), si scopre come la notte di
Halloween abbia molti aspetti in comune con la nostra festa
di San Giovanni, a partire proprio dall'accensione dei falò e
dall'irrompere nel mondo dei vivi di forze “altre”. Entrambe
le ricorrenze fanno parte della grande famiglia delle feste del
fuoco e sacralizzano l'alternarsi ciclico delle stagioni scandito
dai solstizi (in estate e in inverno) e dagli equinozi (in
autunno e in primavera). Entrambe celebrano con la danza, il
riso, il canto e il consumo collettivo e gioioso del cibo la
vittoria della luce sulla oscurità e della vita sulla morte.

Per noi, figli della tecnica e di uno scientismo spesso


altrettanto “superstizioso” delle credenze di un tempo, si
tratta di un mondo difficile da cogliere appieno. L'avvento del
mondo moderno con il suo razionalismo che offre risposte a
tutto, ha relegato ogni visione tradizionale della vita nella
riserva indiana del folklore o per i più colti della letteratura e
dell'arte. Una perdita emotiva enorme per l'umanità, almeno
secondo il pensiero di Jung, con Sigmund Freud, uno dei
padri della psicoanalisi:

“Quanto più si è sviluppata la coscienza scientifica – annota


Jung in uno dei suoi ultimi scritti – tanto più il mondo si è
disumanizzato. L'uomo si sente isolato nel cosmo, perché non
è più inserito nella natura e ha perduto la sua «identità
inconscia» emotiva con i fenomeni naturali (…) Nessuna
voce giunge più all'uomo da pietre, piante o animali, né
l'uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il suo
contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno
quella profonda energia emotiva che questo contatto
simbolico sprigionava. Questa perdita enorme è compensata
solo dai simboli dei sogni. Essi ci ripropongono la nostra
natura originaria, con i suoi istinti e il suo particolare
pensiero.” (12)

Forse non tutto di quel mondo mitico è perduto. L'umanità


continua a coltivare quella visione primordiale nei sogni e nel
linguaggio degli archetipi e del mito. Perché sognare è
proprio dell'uomo e nell'attività onirica si cela quella fabbrica
del mito che, come ci ricorda il grande storico delle religioni
Mircea Eliade, non cessa mai, anche in un'epoca
desacralizzata come la nostra, di produrre sempre nuove
suggestioni. Appunta Eliade:

“A livello dell'esperienza individuale, il mito non è mai


completamente scomparso: è vivo nei sogni, nelle fantasie e
nelle nostalgie dell'uomo moderno (…). Sembra che un mito,
al pari dei simboli che ne nascono, non scompaia mai
dall'attualità psichica: cambia soltanto aspetto e traveste le
sue funzioni. (…) Il mito non è più dominante nei settori
essenziali della vita, è stato «rimosso» sia nelle zone oscure
della psiche, sia in attività secondarie o anche irresponsabili
della società”. (13)
Una di queste zone grige è la letteratura. L'arte – scrive lo
scrittore messicano Octavio Paz- è la porta che da accesso
all'altra faccia della realtà. Il volo mistico dello sciamano è
diventato nel nostro mondo senza più anima l'agire libero
dell'artista che spezza con la sua opera le catene di un tempo
lineare che uccide il sogno di un'infinità di mondi paralleli e
intercomunicanti. Sospeso tra sogno e realtà, il regno della
poesia è un mondo immateriale e dunque magico. Il perché è
ancora Octavio Paz a spiegarcelo:

“Entre lo que veo y digo,


entre lo que digo y callo,
entre lo que callo y sueño,
entre lo que sueño y olvido,
la poesía”.

[“Tra ciò che vedo e dico, tra ciò che dico e taccio, tra ciò che
taccio e sogno, tra ciò che sogno e scordo, la poesia”.]
(14)

Festa agraria e pagana

Abituati da sempre a considerare le nostre feste sotto il segno


cristiano, ricostruirne le radici pagane è operazione che
richiede grande attenzione. Il sacro, in tutte le sue forme, è un
materiale che va maneggiato con cura. Appoggiandoci
sull'approccio psicanalitico di Jung e su quello storico di
Eliade pensiamo che nel corso del tempo mutino le religioni,
elemento storico e per ciò stesso transitorio, ma non le
immagini profonde del sacro che l'uomo custodisce dentro di
sé, quegli archetipi che reggono come pilastri l'inconscio
collettivo della specie. Già i primi evangelizzatori, che pure
non furono teneri verso i culti preesistenti, lo avevano capito.

Bretagna. Menhir di Saint Uzec (4000-2500 a.C.) con simboli cristiani


scolpiti nel medioevo.
Il Venerabile Beda annota nelle sue cronache come Gregorio
Magno consigliasse ai monaci, che si accingevano a
evangelizzare Anglia e Irlanda, di distruggere gli idoli, ma
preservare i fana. I luoghi, cioè, dove il sacro si manifesta in
tutta la sua potenza numinosa. Proprio lì, sui luoghi degli
antichi altari pagani, dovevano essere eretti i simboli della
nuova fede. Nel caso della festa di San Giovanni questa
continuità fra paganesimo e cristianesimo è stata evidenziata
con grande precisione da Vittorio Lanternari:

“Nel calendario romano il dì 24 giugno, che segna la


celebrazione di Fors Fortuna, è indicato anche come
«Solstitium», «Lampas», o addirittura come «dies
lampadarum». Se da un lato ciò pone inequivocabilmente la
giornata sotto il segno del culto solare («Lampas» era
designazione del «solstizio») d'altro canto rimanda ad
un'usanza che vedremo attestata fino a tempi recenti,
consistente nel portare fiaccole accese (lampades) per i campi
nel dì di San Giovanni. Onde è chiaro che il culto di San
Giovanni formalmente ha assunto in sé la religione romana
del Sole coi suoi riti connessi. Che poi il culto solare avesse,
almeno in quest'occasione, un fondamentale contenuto
agrario risulta – oltre che dalla celebrazione di Fors Fortuna,
divinità originariamente solare e agraria – dal fatto che
proprio in questo giorno (dies lampadarum) religiosamente si
inaugurava la mietitura, e Cerere era perciò – a quanto pare –
l'altra dea dedicataria. Il rito col quale fiaccole accese erano
portate attraverso i campi ripeteva forse, come a Eleusi, il
mito nel quale Demetra (Cerere), dea della terra madre,
andava, al lume di fiaccole, alla ricerca della figlia Persefone
– dea del grano – rapita e tratta sotterra da Plutone: mito che
adombra la scomparsa della vegetazione dopo il raccolto”.
(15)
Dunque ci troviamo in presenza di un culto agrario,
strettamente connesso alle fasi dell'anno e all'alternarsi delle
stagioni e dei cicli della natura. Una tradizione che si perde
nella notte dei tempi e che ripropone sostanzialmente sempre
gli stessi elementi simbolici. Un'ipotesi già avanzata agli inizi
del Novecento dall'inglese James Frazer, autore di un'opera,
Il Ramo d'oro, oggi in parte superata ma che ha segnato una
svolta negli studi etnologici. Scrive Frazer:

“Su un tale sostrato poteva ben svilupparsi la festa di San


Giovanni, la quale ha infatti diffusione pressoché universale
entro il mondo occidentale, e particolarmente tra le plebi
rustiche si presenta con un rituale pagano complesso e tuttora
vivace, attestante anche oggi con tutta chiarezza le sue origini
precristiane, che in certe località almeno si possono far
risalire fino ad epoca preistorica”. (16)

I due San Giovanni e Giano bifronte

Festa complessa, la definisce Lanternari ed in effetti l'insieme


dei miti e dei riti legati a San Giovanni presenta una
molteplicità di significati. Una festa carica di ambiguità a
partire proprio dal fatto che i solstizi sono due e che le figure
che vi si riferiscono hanno di conseguenza un duplice volto.

Man mano che luoghi, riti, feste vengono cristianizzati San


Giovanni viene ad assumere nel Cristianesimo, il posto che
occupavano nella ripartizione delle feste della Roma
Imperiale altre figure sacre, come il Dio Giano di cui una
faccia guardava il passato, l’altra l’avvenire. Di nuovo
troviamo il simbolismo delle porte cosmiche:
Giano, dio bifronte del principio e della fine, è il guardiano
delle porte e dei confini. “Io solo custodisco il vasto universo
e il potere di volgerlo sui suoi cardini [e] con le miti ore
presiedo alle porte del cielo”. Così Ovidio nei Fasti presenta
il dio misterioso. (17)

Duomo di Ferrara. Maestro dei Mesi, Giano (1225-1230 ca)


Giano è colui che conduce da uno stato all’altro dell'esistere,
dal regno dei morti attraverso la Ianua Inferi a quello degli
dei attraverso la Ianua Coeli. E' l'entità superiore che presiede
alle iniziazioni. Come due sono i solstizi, così due sono le
facce visibili di Giano e due i San Giovanni, quello invernale,
l’evangelista, e quello estivo, il Battista. In passato si
sottolineava spesso la somiglianza fonetica fra Ianus e
Iohannes, quasi a trovare nel nome il collegamento fra le due
figure. Oggi gli studiosi rifiutano questa tesi semplicistica. E'
sul piano più complesso del simbolico e non su quello
meramente fonetico che la funzione di Giano «chiave» delle
due porte viene ripresa ed esaltata nella figura dei due
Giovanni che annunziano e svelano il misterioso avvento del
Cristo. E' la posizione dei due Santi alla data dei solstizi a
conferire loro una doppia natura, spirituale e cosmologica ad
un tempo.

Il San Giovanni di René Guénon

Il cristianesimo fin dai primi secoli farà propria questa


tradizione, troppo radicata nell'anima popolare per essere
cancellata, cercando di attenuarne gli elementi pagani. Giano
lascerà il posto di custode delle porte solstiziali ai due San
Giovanni, ma in molti luoghi le antiche credenze
conviveranno con le nuove quasi fino ai giorni nostri. Nella
tradizione cristiana il solstizio d’inverno apre la fase
ascendente del ciclo annuale e coincide con la nascita di
Cristo, mentre quello estivo apre la fase discendente e
coincide con la nascita del Battista che del Salvatore è il
precursore.

Un valido aiuto nell'analisi del mito giovanneo ci viene da


René Guénon, il maggiore studioso del pensiero tradizionale,
le cui opere hanno segnato in profondità momenti non
marginali della cultura del Novecento. (18) Un autore molto
conosciuto e apprezzato anche in Italia soprattutto dopo la
pubblicazione delle sue opere principali a cura della
prestigiosa casa editrice Adelphi. In una serie di scritti degli
anni Venti riuniti dopo la sua morte in volume egli tratta
approfonditamente della questione:

“Per quanto l'estate sia in genere considerata una stagione


gioiosa e l'inverno una stagione triste, per il fatto stesso che la
prima rappresenta in certo modo il trionfo della luce e il
secondo quello dell'oscurità, i due solstizi corrispondenti
hanno nondimeno, in realtà, un carattere esattamente opposto;
può sembrare un paradosso abbastanza strano, ma è facile
capire perché sia così purché si abbia una qualche conoscenza
dei dati tradizionali riguardo al cammino del ciclo annuale.
Infatti, ciò che ha raggiunto il suo massimo può ormai solo
decrescere, e ciò che è giunto al suo minimo può invece solo
cominciare a crescere ; per questo il solstizio d'estate segna
l'inizio della metà discendente dell'anno, mentre il solstizio
d'inverno, all'opposto, segna quello della sua metà
ascendente; e ciò spiega pure, dal punto di vista del
significato cosmico, l'espressione di San Giovanni Battista, la
cui nascita coincide con il solstizio d'estate: «Bisogna che
egli cresca (Cristo nato al solstizio d'inverno) e che io
diminuisca». (19)
2. San Giovanni Evangelista e San Giovanni
Battista

San Giovanni l'Evangelista (festeggiato il 27 dicembre) ha un


ruolo particolare fra i discepoli: egli è non solo «quello che
Gesù amava» (20) – frase difficile da comprendere su cui
l'interesse degli esegeti non cessa di esercitarsi (21) - ma è
soprattutto l'autore di un testo dai forti connotati gnostici che
già nell'incipit pone come centrale il tema della luce come
vita:

“In principio era il Verbo


e il Verbo era presso Dio
e Dio era il verbo.
Questi era in principio presso Dio.
Tutto per mezzo di lui fu fatto
e senza di lui non fu fatto
assolutamente nulla
di ciò che è stato fatto.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce nelle tenebre brilla
e le tenebre non la compresero.” (22)

Un linguaggio difficile, quasi per iniziati. Non è per caso – lo


vedremo – che San Giovanni Evangelista, simbolo
dell'avvento della Luce, sia anche diventato il santo della
Massoneria e che dal Settecento le logge regolari di tutto il
mondo aprano i loro lavori proprio su questa pagina dei
Vangeli. Ma Giovanni non è solo l'unico dei sinottici a
narrarci il tempo prima del tempo, egli è anche l'annunciatore
dei tempi ultimi e della Gerusalemme messianica. Più di ogni
altro egli è indissolubilmente legato al Cristo di cui profetizza
nell'Apocalisse la gloria futura. Simbolo egli stesso di luce,
l'Evangelista appare nei giorni in cui la luce inizia a crescere,
così come luminosi sono i segni di colui «i cui occhi sono
come fiamma ardente»,(23) il Verbo di Dio di cui nelle
pagine dell'Apocalisse profetizza l'avvento finale.
Giovanni Battista precursore del Cristo

San Giovanni il Battista (festeggiato il 24 giugno nel pieno


del solstizio d'estate) è invece il precursore di Cristo, colui
che è venuto prima a preparare la via. Nel suo operare il
simbolismo dell'acqua si unisce a quello del fuoco. Giovanni
battezza con l'acqua, ma colui che viene battezzerà col fuoco.
E' lui stesso ad affermarlo: “Io vi battezzo con acqua; ma
viene uno che è più forte di me, al quale non sono degno di
sciogliere neppure i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in
Spirito Santo e fuoco.” (24)

Figura solstiziale, il Battista nasce nel giorno in cui il sole,


raggiunto il suo punto più alto, inizia lentamente a declinare.
Annunciatore di luce, egli deve cedere il passo a una Luce
più grande: “Non sono io il Cristo, ma sono colui che è stato
mandato davanti a lui. (…) Questa gioia, che è la mia, ora è
perfetta. Egli deve crescere, io invece diminuire.” (25)
L'elemento solare diventa qui metafora spirituale, simbolo di
vita eterna. In Giovanni possiamo vedere il Sole che decresce
dopo il Solstizio estivo, nel Cristo il Sole che cresce nel
semestre successivo al Solstizio invernale e conduce alla
dolce stagione degli alberi in fiore e poi delle messi.

La ricorrenza della nascita del Santo è dunque un momento di


gioia in quanto, pur dando inizio alla fase oscura dell'anno,
annuncia e prepara la via al prossimo avvento della Luce.
Proprio come profetizzato da Zaccaria:

“E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo


perché andrai innanzi al Signore a preparargli la via,
per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza
per la remissione dei loro peccati,
grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio,
per cui verrà a visitarci un sole dall'alto
per illuminare quelli che stanno nelle tenebre
e nell'ombra di morte
per guidare i nostri passi sulla via della pace.” (26)

Colpisce in queste versetti la molteplicità dei simboli evocati.


Personaggio polisemico, il Battista si presenta qui soprattutto
come una rappresentazione solare, araldo e precursore
dell'avvento della Luce, figura mercuriale di guida delle
anime nel viaggio che conduce alla salvezza.

La Chiesa Gioannita

Il Vangelo di Giovanni e poi l'Apocalisse non smisero mai


proprio per la voluta oscurità del testo di solleticare la
curiosità di chi voleva andare oltre l'interpretazione canonica
per decifrarne «l'autentico» significato. I libri di Giovanni
furono sempre cari agli esoteristi che vi dedicarono studi
innumerevoli e qualche volta anche bizzarri. Una Chiesa
sotterranea, rivolta a pochi illuminati capace di comprenderne
il messaggio, dall'esistenza parallela a quella ufficiale (la
Chiesa di Pietro) destinata a masse incolte. Questa Chiesa
segreta, incentrata su di un insegnamento rivolto ad un
ristretto numero di eletti, si sarebbe tramandata nei secoli
coinvolgendo direttamente prima l'Ordine del Tempio, poi le
corporazioni dei liberi muratori costruttori delle cattedrali e
infine la moderna Massoneria.

Il dibattito fu vivace e talvolta anche aspro come spesso


accade nel mondo delle sette. Altri sostenevano infatti che la
continuità storica dei giovannei era da tempo scomparsa, ma
che il filo iniziatico non si era interrotto perché ben celati
agli occhi dei profani continuavano ad essere tramandati di
generazione in generazione dei «vangeli segreti» sulla base
dei quali sarebbe stato possibile «risvegliare» l'autentica
Chiesa del Cristo. Era questa la tesi della Chiesa Gioannita,
fondata agli inizi del XIX secolo da Bernard-Raymond
Fabré-Palaprat (1773-1838), il quale asseriva di essere venuto
in possesso di due documenti dell'antica Chiesa di San
Giovanni, l'Evangelicon e il Leviticon, conservati per secoli
in totale segretezza all'interno dalle famiglie più illustri della
antica nobiltà francese.

Questi due testi, che si era creduto fossero per sempre


scomparsi nella tempesta della grande rivoluzione che aveva
spazzato via la vecchia aristocrazia, erano invece stati
miracolosamente preservati e erano giunti per vie non meglio
precisate nelle mani del Fabré-Palaprat che ora,
contravvenendo al vincolo del segreto, li rendeva pubblici.
Una storia dagli aspetti romanzeschi che, come era logico
attendersi, suscitò entusiastiche reazioni ma anche feroci
rifiuti e che da più di un secolo coinvolge visionari di ogni
tipo e scrittori popolari, buon ultimo l'americano Dan Brown
che su questi temi ha costruito le sue fortune di autore di best
sellers.

Lacerata da contrasti e scissioni, la Chiesa Gioannita non


sopravvisse alla morte del suo fondatore, ma ciò non
significò l'abbandono della credenza nell'esistenza di un
cristianesimo segreto. Dopo molte peripezie ciò che restava
dei gruppi gioanniti confluì nel magmatico calderone delle
chiese gnostiche e delle organizzazioni neo templari, per
riapparire infine alla luce in vesti rock nei movimenti New
Age degli anni Sessanta del secolo scorso. (27)
Semplici fantasie o autentiche sopravvivenze di un antico
sapere segreto? Non ci pronunciamo. Eppure, in qualunque
modo la si pensi, San Giovanni resta una figura misteriosa,
due volte doppia, perché allo sdoppiamento solstiziale di San
Giovanni (L'Evangelista e il Battista ) si unisce poi una
ulteriore duplicità: unico fra tutti i santi San Giovanni Battista
viene festeggiato sia al momento della nascita (24 giugno)
che al momento della morte (29 agosto), in questa occasione
come San Giovanni Decollato. E' un privilegio che condivide
solo con la Madonna e che ne testimonia l'importanza. Un
caso unico e tanto straordinario da costringere S. Agostino, il
massimo pensatore cristiano del primo millennio, a dedicare
ben sei sermoni all'argomento.

Si capisce bene perché fin dai primi secoli cristiani una figura
carica di così tante valenze sia divenuta oggetto di un grande
culto liturgico e popolare che dura ancora oggi. Nel
festeggiarlo la devozione popolare ha mantenuto le antiche
credenze e pratiche pagane della festa del solstizio: i bagni
nella rugiada, la raccolta delle erbe, l'accensione dei falò, la
danza, il canto, il riso.

3. San Giovanni Decollato

Ma Giovanni non è stato solo il precursore del Cristo, colui


che ha mostrato la strada, egli è anche il primo martire della
nuova fede. I Vangeli raccontano con abbondanza di dettagli
drammatici la prigionia e poi la decapitazione del Battista.
Matteo narra la morte del Profeta in un racconto ricco di
particolari e sfumature, psicologiche (l'indecisione di Erode)
e politiche (la paura di contrariare l'opinione pubblica):

“Ora Erode, dopo aver preso e messo in catene Giovanni,


l'aveva gettato in carcere a causa di Erodiade, la moglie di
suo fratello Filippo. Diceva infatti Giovanni: «Non ti è lecito
tenerla!». Pur volendo metterlo a morte, era trattenuto dal
timore del popolo che lo teneva per profeta. Una volta, in
occasione del compleanno di Erode, la figlia di Erodiade
danzò in pubblico e piacque tanto ad Erode che con
giuramento promise di darle qualunque cosa gli avesse
chiesto. Ella perciò, istigata da sua madre, chiese: « Dammi
qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». Il re ne fu
contristato, ma a causa del giuramento e per riguardo ai
commensali ordinò che fosse accolta la sua richiesta e mandò
ad uccidere Giovanni nel carcere. La sua testa fu portata su
un vassoio e consegnata alla fanciulla e questa la porse a sua
madre.” (28)

Una storia tanto romanzesca da parere inventata. E invece no.


Il Battista è figura storica e la sua predicazione e poi la sua
tragica fine si collocano interamente nella turbinosa (e
complessa) vita politica della Palestina del I secolo d.C.,
come conferma la ricostruzione che ne fa lo storico ebreo
Giuseppe Flavio nelle sue Antichità giudaiche: (29)

“Ma ad alcuni Giudei parve che la rovina dell'esercito di


Erode fosse una vendetta divina, e di certo una vendetta
giusta per la maniera con cui si era comportato verso
Giovanni soprannominato Battista. Erode infatti aveva ucciso
quest'uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta,
alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e
così facendo si disponessero al battesimo; a suo modo di
vedere questo rappresentava un preliminare necessario se il
battesimo doveva rendere gradito a Dio. Essi non dovevano
servirsene per guadagnare il perdono di qualsiasi peccato
commesso, ma come di una consacrazione del corpo
insinuando che l'anima fosse già purificata da una condotta
corretta. Quando altri si affollavano intorno a lui perché con i
suoi sermoni erano giunti al più alto grado, Erode si allarmò.
Una eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi,
poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva
che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa
facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto
meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua
attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare
uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile
da pentirsene. A motivo dei sospetti di Erode, (Giovanni) fu
portato in catene nel Macheronte, la fortezza che abbiamo
menzionato precedentemente, e quivi fu messo a morte. Ma il
verdetto dei Giudei fu che la rovina dell'esercito di Erode fu
una vendetta di Giovanni, nel senso che Dio giudicò bene
infliggere un tale rovescio a Erode.” (30)

Qualcuno ha messo in dubbio l'autenticità del passo,


ritenendola una aggiunta di un copista medievale. Non
entriamo nel merito della questione. Non è questa la sede.
Rileviamo invece come si tratti di un racconto che colpisce
l'immaginazione, ricco di quegli elementi (il sesso, il sangue,
l'odio, la vendetta) che, allora come oggi, affascinano il
grande pubblico. Non stupisce che, più di altre parti della
narrazione evangelica, questa storia sia stata ripresa dalla
tradizione, sia quella popolare che spesso ne ha enfatizzato
gli elementi più truculenti, sia quella colta tanto da diventare
un tema ricorrente della letteratura e dell'arte.

Particolare fortuna la storia della morte di Giovanni ebbe alla


fine del secolo XIX: a partire dal poema incompiuto
Hérodiade del poeta francese Stéphane Mallarmè e poi
dell'opera teatrale Salomè di Oscar Wilde, numerosissimi
scrittori si confronteranno con il tema. Altrettanto accadrà in
pittura. (31)
Salomè, la figlia adolescente di Erodiade, capostipite di tutte
le Lolite della letteratura contemporanea, diventerà così
«l'eroina del decadentismo», il simbolo stesso dell'orrore del
femminile di una società maschile in piena crisi di identità
come quella vittoriana. Un tema ripreso dal femminismo.
Salomè, annota sarcasticamente Julia Kristeva, rappresenta
“la castratrice sognata dal maschio che incontra qualche
difficoltà a godere, vale a dire più o meno tutti”. Una vera e
propria «Eva apocalittica». (32) Davvero, come è stato
scritto, la morte del Battista cela molti significati anche per
gli uomini di oggi.

Guercino (Giovanni Francesco Barbieri), Salomè riceve la testa del


Battista, 1637, Rennes, Musée des Beaux-Arts
Il mito salvifico della testa mozzata e del sangue

Fin dai primi secoli del cristianesimo si sviluppano una


moltitudine di credenze che hanno al loro centro il tema della
decapitazione del Battista. Un folklore che in parte recupera
ad una visione cristiana spesso solo superficiale
antichissime credenze legate al ciclo solare e rituali pagani
propiziatori della fertilità della terra. Sulla via aperta dagli
studi pionieristici di James G. Frazer, i ricercatori ne hanno
rinvenute tracce dappertutto. Molto significativa è la festa dei
“Muzzuni” ad Alcara Li Fusi, in provincia di Messina, una
festa in cui elementi pagani e cristiani si mescolano in un rito
che si ripete da secoli immutato. La festa si svolge la sera e
per tutta la notte del 24 giugno. All'imbrunire inizia la fase
preparatoria della festa le cui protagoniste sono
esclusivamente donne. Gli angoli più caratteristici del paese
vengono “preparati” per accogliere gli altarini su quali verrà
posto “U Muzzuni”. Attorno ad essi, sulle pareti, sui balconi e
sulla strada, vengono stese le “pizzare”: tappeti tessuti con
l'antico telaio a pedale utilizzando ritagli di stoffa. Sulle
“pizzare”, disposte intorno ed ai piedi dell'altarino, vengono
poggiati i piatti con i “Laureddi” (steli di grano fatto
germogliare al buio), spighe ed umili oggetti del mondo
contadino. Terminata questa fase, le donne rientrano in casa
per preparare “U Muzzuni”. Esso è costruito da una brocca
dal collo mozzo rivestita da un foulard di seta ed adorna di
ori appartenenti alle famiglie del quartiere. Dalla sommità
della brocca fuoriescono steli di orzo e grano fatti
germogliare al buio, lavanda, spighe di grano già maturato e
dei garofani. Completato l'allestimento del Muzzuni, una
giovinetta del quartiere lo porta fuori e lo colloca sull'altare
già pronto. Si entra così, nel vero e proprio clima della Festa:
ogni quartiere che ospita il “Muzzuni” viene animato con
musiche e canti popolari. Centrale nel rito il vaso dal collo
mozzato che rimanda alla testa del Battista e che diventa
simbolo di fertilità e di rinascita. (33)

Altrove questa simbologia è ancora più esplicita ed è


direttamente associata al sangue, l'elemento vitale per
eccellenza. E' il caso della leggenda abruzzese secondo la
quale le giovani donne da maritare all'alba del 24 giugno
avrebbero potuto, andando sulla riva del mare e guardando ad
oriente, veder apparire sul disco del sole il volto del santo e
il suo sangue ribollente. Chi l'avrebbe visto per prima si
sarebbe sposata entro l'anno. Una credenza viva ancora agli
inizi del Novecento, tanto che nel 1904 Gabriele D'Annunzio,
ambientando la sua tragedia più importante, La figlia di
Iorio, proprio "nella terra d'Abruzzi, or è molt'anni", riprese
in due passi dell'opera questa tradizione popolare dell'attesa
dell'alba sulla spiaggia. Una prima volta quando la
protagonista Ornella dice:

“E domani è San Giovanni, fratel caro;


è San Giovanni. Su la Plaia me ne vo' gire,
per vedere il capo mozzo dentro il sole all'apparire,
per vedere nel piatto d'oro tutto il sangue ribollire.” (34)

E poi nella quinta scena del primo atto con l'esclamazione


dell'altro protagonista, il pastore Aligi:

“E San Giovanni Battista Decollato


Vi mostri il capo suo nel sol levante,
se questa notte andate su la Plaia.” (35)
A questo punto si potrebbe aprire un lungo discorso sul
simbolismo della testa mozzata nell'arte e nel folklore
europeo, nei miti pagani e cristiani e nelle fiabe e leggende
popolari ( 36), ma la digressione sarebbe davvero troppo
lunga ed esulerebbe dall'ambito di questo lavoro. Può bastare
in questa sede ricordare il valore salvifico del capo tagliato o
del teschio)che in molti racconti indica a chi abbia cuore
coraggioso e puro la via per uscire da una situazione
pericolosa o il luogo in cui è sepolto un tesoro. Un
simbolismo presente già nei romanzi che narrano le
avventure dei cavalieri della tavola rotonda e la ricerca del
Sacro Graal. (37)

Perlesvaus e il castello del Re Pescatore

L'argomento sarebbe ampio. Ci limitiamo a fare cenno ad un


romanzo del ciclo arturiano, Perlesvaus, opera molto
complessa composta intorno al 1230 forse sotto l'influenza
cluniacense, allora assai forte nel nord della Francia da dove
il libro proviene. La storia narrata è totalmente incentrata sul
valore salvifico della testa del Battista che si trasferisce poi
alla spada usata per la decapitazione. Di autore anonimo, il
romanzo vuole essere un proseguimento dell'incompiuto
“Perceval o il racconto del Graal”di Chrétien de Troyes, libro
apparso alla fine del XII secolo e che da inizio alla serie di
romanzi cavallereschi incentrati sul mito della sacra coppa
in cui Giuseppe di Arimatea avrebbe raccolto il sangue di
Cristo.

L'opera inizia spiegando perché Perlesvaus (Perceval) non sia


riuscito a trovare il Graal. Narra quindi delle avventure di
diversi cavalieri fra cui Lancillotto che tentano senza esito di
recuperare la sacra reliquia.

La storia, molto confusa, non può essere riassunta in breve,


basti sapere che solo Galvano (Gawain) dopo infinite
peripezie riuscirà a compiere la missione. Egli, dopo essere
arrivato nella terra dove fu ucciso Giovanni Battista, riesce a
recuperare la spada con cui era stata mozzata la testa del
profeta. In possesso di questa potentissima reliquia, Galvano
riesce a penetrare nel castello del Re Pescatore dove il Graal
è custodito e dove Perlesvaus aveva fallito la sua impresa.
Qui egli avrà finalmente la visione del Graal in tutto il suo
splendore. (38)

Testo molto diverso dalle altre opere del ciclo arturiano,


Perlesvaus si caratterizza per un profondo sentimento
cristiano. Centrale è la figura del Battista e la simbologia
legata alla sua decapitazione. (39) Una simbologia potente
che colpisce tanto l'immaginazione di quegli uomini da far
diventare il capo mozzato del Battista l'emblema delle
confraternite della Misericordia, dette anche della «Buona
Morte», che si sviluppano nei secoli finali del Medioevo. Con
questo ulteriore passaggio la devozione popolare a San
Giovanni acquista un nuovo aspetto che si discosta in parte
da quelli fino a qui analizzati.

San Giovanni e le confraternite della Misericordia

Era uso che le confraternite dei penitenti accompagnassero i


condannati alla decapitazione o alla forca, tenendo in mano
tavolette devozionali che richiamavano la fede cristiana nella
redenzione e nel perdono. Quale santo poteva meglio del
Battista, morto sotto la scure del boia, svolgere la funzione di
protettore di questi disgraziati, colpevoli spesso solo di essere
poveri? Ed ecco, allora, che San Giovanni Decollato diventa
il protettore dei condannati a morte, colui che li accompagna
nel loro ultimo giorno di vita e intercede per loro. E non si
trattava solo di confidare nel perdono divino. In molti luoghi
il 29 agosto, festa di San Giovanni Decollato, veniva graziato
un condannato a morte che da quel momento viveva sotto la
protezione del santo. Davanti alla folla dei fedeli convenuti
anche dal contado si svolgeva una vera e propria sacra
rappresentazione tesa ad esaltare il ruolo della confraternita e
le possibilità di salvazione offerte da una sincera devozione a
San Giovanni. La liberazione del prigioniero avveniva dopo
una grande processione e la celebrazione di una Messa. Un
rito collettivo che serviva a rinsaldare i legami sociali e a
recuperare comportamenti considerati pericolosi per la tenuta
della collettività.
San Giovanni diventa così garante di un corretto passaggio
nell'aldilà soprattutto per i più poveri che non hanno nessuno
che possa pagare per offrire messe e preghiere in suffragio,
unico mezzo per accelerare l'uscita dai tormenti, attenuati
rispetto all'Inferno ma comunque penosi, del Purgatorio. Lo
storico francese Michel Vovelle ha dimostrato, in un celebre
studio sui riti funebri in Provenza fondato sull'analisi di oltre
ventimila testamenti, come nella Francia prerivoluzionaria la
pietà funebre si esercitasse secondo rigidissime linee di
classe. Nei lasciti per messe e preghiere, i nobili e i borghesi
facevano la parte del leone, mentre appaiono raramente
contadini e appartenenti al popolo minuto delle città, che
pure erano la stragrande maggioranza della popolazione ma
non possedevano quasi nulla e dunque non potevano lasciare
somme significative alla Chiesa. (40)
Da qui l'importanza religiosa e sociale delle Confraternite e
di quelle della Buona Morte in particolare. Esse garantivano
ai poveri la possibilità di sperare in una sorte migliore,
almeno nell'aldilà. Un fenomeno assai diffuso, che conoscerà
una grande espansione nel Cinquecento e poi con la grande
peste del Seicento, per tramontare assieme ad altri elementi
significativi della tradizione popolare con la rivoluzione
francese e la fine dell'Ancien Régime.
4. Il culto di San Giovanni e l'Islam

Il Battista non è figura di rilievo solo per la tradizione


cristiana, lo è anche per i musulmani. L'Islam venera Yaḥyā
ibn Zakarīyā (Giovanni figlio di Zaccaria) come uno dei
profeti precedenti a Maometto: un uomo di grande levatura
morale e spirituale, fedele ad Allah, al pari di Gesù e degli
altri profeti biblici. Tanto da essere citato ben cinque volte nel
Corano nelle Sure 3, 6, 19 e 20.

In particolare la Sura 3, quella de “La gente di 'Imran”, nel


versetto 39 lo definisce: “capo, casto, nabi [profeta],
apparterrà alla schiera dei pii", (40) mentre la Sura 19 o di
Maryam riprende quasi letteralmente il racconto di Luca sul
concepimento miracoloso del Battista da parte della moglie di
Zaccaria. (41)

Il Corano tace invece sull'assassinio di Giovanni da parte di


Erode Antipa, ma fra gli studiosi c'è chi ritiene che
un'allusione alla fine del Battista e alle nefaste conseguenze
che questa avrebbe avuto sul popolo ebraico sia contenuta
nei primi versetti della Sura 17 in cui si annuncia agli ebrei
che avendo per due volte «seminato lo scandalo sulla terra»,
essi saranno per due volte puniti da Dio e che la seconda
punizione comporterà la distruzione del Tempio di
Gerusalemme. Dove doppia colpa è relativa alle morti del
Battista e di Cristo. Forte è ancora oggi in parte del mondo
islamico la devozione nei confronti del Santo, considerato
uno dei precursori del Profeta Maometto. Nella Grande
Moschea degli Homayyadi a Damasco, costruita sui resti di
una antichissima chiesa bizantina dedicata a San Giovanni
Battista, si venera il reliquario del Profeta Yahya che si dice
contenga la testa del profeta ritrovata durante gli scavi per la
costruzione dell'edificio.

Il Battista è poi particolarmente caro all'Islam sciita che lo


collega alla figura di Huseyn, figlio del Califfo Alì, morto
nella battaglia di Kerbala combattendo in difesa della fede
sciita il giorno dell'Ashura nell'anno 61 dell'Egira,
corrispondente al 10 ottobre 680. Il martirio di Giovanni
assume in questa visione il ruolo di profetica prefigurazione
della morte di Huseyn la cui testa mozza era stata esposta
nella piazza di Damasco, proprio nel luogo dove oggi sorge la
Grande Moschea Homayyade. (42) Ancora al giorno d'oggi i
riti che si svolgono annualmente durante la commemorazione
dell'Ashura in segno di lutto collettivo prevedono i Ta' zieh,
manifestazione di cordoglio rituale, vere e proprie sacre
rappresentazioni, in cui uomini vestiti a lutto si battono il
petto al suono dei tamburi e si flagellano. In questo contesto
particolarmente interessanti sono i Rouzekhani, recite di
versetti coranici e poemi che trattano delle vicende degli
Imam sciiti. In alcuni di questi si racconta la storia della
decapitazione del Battista, testimone della vera fede, proprio
come Huseyn, il nipote del Profeta. (43)

5. I Mandei

Sempre più Giovanni Battista ci appare come una figura


universale, tanto da collocarsi all'incrocio di culture e
religioni diverse, come ben argomenta lo studioso francese
Michel Tardieu:

“I racconti sulla morte del Battista, che arrivano ai primi


commentatori del Corano, rimandano a tradizioni orali e
scritte che circolano nel Vicino Oriente e nella Mesopotamia
del I-V secolo. Cristiani, ebrei, gnostici, manichei,
musulmani, giudeo-cristiani, mandei hanno tutti qualcosa da
dire su questa morte, i suoi protagonisti, il suo significato, le
sue conseguenze. C'è più di un morto nella morte di Giovanni
Battista. La violenza di cui sono colmi i racconti arriva agli
arabi e serve a precisare delle identità religiose in un tempo in
cui giudaismo e cristianesimo sono ancora gomito a gomito.”
(44)

Significativo di questa realtà sincretica è il caso dei Mandei,


seguaci di una religione ancora praticata in Medio Oriente e
oggi ferocemente perseguitata dai fanatici integralisti
dell'Islamic State (ISIS). Seguaci di san Giovanni, così si
definiscono i Mandei, adepti di una setta gnostica che ancora
usa l'aramaico, la lingua parlata da Gesù duemila anni fa. Per
alcuni un'eresia cristiana del secondo secolo, per altri una
religione che raccoglie elementi di cristianesimo e
manicheismo, il mandeismo si presenta come una religione
monoteista, con forti tratti dualistici dove un Dio Supremo di
Luce si confronta con lo Spirito delle Tenebre e del Male. La
terra, luogo di illusione e sofferenza, è dove questo scontro
avviene. Centrale nella religione mandea è la figura di
Giovanni Battista (Drashia d-Yahia), l'ultimo dei Profeti, che
con l'introduzione del battesimo permette all'uomo di
incamminarsi verso il Regno di Luce. A lui vengono attribuiti
molti degli attributi che il cristianesimo attribuisce al Cristo.
(45)
6. San Giovanni e la Massoneria

Abbiamo già avuto modo di notare come il carattere


misterico della figura di San Giovanni abbia da sempre
attirato l'interesse degli esoteristi. In particolare si è
accennato al fatto che, allo stesso tempo custode di misteri e
portatore di luce, San Giovanni è anche il santo della Libera
Muratoria che accomuna in un'unica simbologia l'Evangelista
e il Battista e ciò da ben prima della nascita nell'Inghilterra
del Settecento della Massoneria moderna. La cosa può
stupire: abituati come siamo a pensare alla Massoneria come
a qualcosa di lontano, se non addirittura di avverso alla
religione, viene immediatamente da domandarsi cosa ci
faccia un santo cristiano in una loggia massonica.
La domanda è legittima, ma solo se ci si limita alla posizione
di condanna della Chiesa cattolica che nel 1738 con la bolla
papale detta In Eminenti Apostolatus Specula proibì ai fedeli
l'adesione senza peraltro spiegarne i motivi. (46) Ben diversa
la situazione del mondo protestante, tanto che uno dei padri
della Massoneria moderna, quel James Anderson autore nel
1723 delle Costituzioni massoniche ancora oggi in vigore,
risulta essere stato un importante esponente della chiesa
presbiteriana. E forse, come qualcuno ha ipotizzato, la
proibizione papale derivò proprio dal sospetto che la rapida
diffusione delle logge anche nel mondo cattolico fosse il
frutto di oscure manovre da parte della corte protestante
d'Inghilterra. Ma se si approfondisce la conoscenza dei
principi massonici svanisce ogni motivo di stupore. E'
sufficiente la lettura del primo articolo delle Costituzioni,
quello «Concernente Dio e la religione». Il testo è
chiarissimo:

“Un muratore è tenuto per la sua condizione a obbedire alla


legge morale; e se intende rettamente l’Arte non sarà mai un
ateo stupido né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi
antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere
della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi
peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella
Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando
loro le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e
sinceri o uomini di onore ed onestà, quali che siano le
denominazioni o le persuasioni che li possono distinguere;
per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il mezzo
per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero
rimaste ad una perpetua distanza.” (47)
La Massoneria e i Collegia Fabrorum

Dunque la Massoneria moderna, risposta all'intolleranza e al


fanatismo che avevano a lungo insanguinato l'Europa, non
nasce né antireligiosa né anticristiana. Essa si colloca in
diretta continuità con la Massoneria operativa medievale dei
Maestri costruttori delle grandi cattedrali gotiche, fiore e
vanto dell'Europa cristiana, devotissimi a San Giovanni come
già i loro predecessori romani lo erano stati nei confronti del
dio Giano. E' ancora una volta René Guénon a chiarire in uno
studio, apparso nel 1938 sulla rivista Études Traditionnelle,
questa continuità millenaria :

“Giano presiedeva i Collegia Fabrorum, depositari delle


iniziazioni che, come in tutte le civiltà tradizionali, erano
legate alla pratica dei mestieri; ed è molto notevole che si
tratti di qualcosa che, lungi dall'essere scomparso con l'antica
civiltà romana, si è prolungato senza soluzione di continuità
nel cristianesimo stesso (…). La successione degli antichi
Collegia Fabrorum è stata del resto singolarmente trasmessa
alle corporazioni le quali attraverso l'intero Medioevo, hanno
conservato lo stesso carattere iniziatico, e in particolare a
quella dei costruttori; essa ebbe dunque naturalmente per
patroni i due san Giovanni, e di qui viene la ben nota
espressione di 'Loggia di San Giovanni', conservata dalla
massoneria, che è anch'essa precisamente la continuazione,
per filiazione diretta, delle organizzazioni di cui abbiamo
parlato. Anche nella sua forma 'speculativa' moderna, la
massoneria ha comunque sempre conservato, come una delle
testimonianze più esplicite della sua origine, le feste
solstiziali, dedicate ai due San Giovanni dopo esserlo state
alle due facce di Giano; ed è così che il dato tradizionale
delle due porte solstiziali, con le sue connessioni iniziatiche,
si è mantenuto ancora vivo (…) fin nel mondo occidentale
moderno.” (48)

Questa filiazione diretta dalle corporazioni muratorie


medievali spiega perché tradizionalmente le logge
massoniche si chiamino “Logge di San Giovanni” e anche il
motivo per cui proprio sulla prima pagina del Vangelo di
Giovanni si aprano i lavori in grado di Apprendista con la
lettura del versetto che recita: “In principio era il Verbo. E il
Verbo era Dio. E il verbo era presso di Dio”. Coerentemente
con questa tradizione per secoli gli antichi Liberi muratori
tennero le loro più solenni riunioni nella giornata del 24
giugno, festa di San Giovanni, come attestato da documenti
inglesi del 1427, 1501 e 1561. E' dunque in assoluta fedeltà
alla tradizione dell'Arte che proprio il giorno 24 giugno fu
prescelto nel 1717 per la costituzione della nuova Gran
Loggia d'Inghilterra, “Loggia Madre” di tutte le associazioni
massoniche moderne.

San Giovanni e il percorso iniziatico massonico

In un lavoro dedicato proprio ai rapporti fra Massoneria e


mito giovanneo, Louis Trebuchet, alto esponente della
Massoneria francese e autore di importanti ricerche sulle
origini dei miti e dei riti massonici, mette l'accento più che
sulle motivazioni storiche su quelle iniziatiche. Secondo
questa interpretazione la figura di San Giovanni simboleggia
il cammino verso la Luce, obiettivo fondamentale di ogni
massone:

“Dai tempi più antichi, e ben prima del celebre San Giovanni
Battista del 1717, la vita dei Liberi Muratori è ritmata dalle
feste di San Giovanni: San Giovanni Battista , il San
Giovanni d'estate, il 24 giugno, e San Giovanni Evangelista,
il San Giovanni d'inverno, il 27 dicembre, solstizio d'inverno
e solstizio d'estate. Ancora oggi, oltre agli aspetti storici, il
nostro banchetto annuale e la nostra festa solstiziale, ritmi e
riti fondamentali del nostro anno massonico, sembrano
significare simbolicamente un ritmo fondamentale del nostro
lavoro massonico che giustifica pienamente il fatto che noi ci
ricolleghiamo alla Loggia di san Giovanni. I nostri due San
Giovanni, eredi del mito, antico come l'agricoltura, del Dio
che muore col grano al Solstizio d'inverno per rinascere con
le messi al Solstizio d'estate, ci indicano le due modalità del
nostro cammino verso la Luce, semenza e messi, morte e vita,
pensiero e azione. L'una, festa del Solstizio d'inverno, ci apre
la via del Gabinetto di Riflessione, dell'approfondimento
interiore, dello spogliarsi dei metalli, il lavoro silenzioso su
se stessi; l'altra, festa del Solstizio d'estate, ci porta a
testimoniare, a agire, a costruire la nostra opera. Ma come a
San Giovanni d'inverno i giorni cominciano a crescere
annunciando il San Giovanni d'estate che condurrà poi di
nuovo al San Giovanni d'inverno, la vita del Massone non è
probabilmente che una interazione perpetua
dell'approfondimento e dell'apertura, come una respirazione
fatta d'inspirazione e di espirazione quando si apre davanti a
lui il vasto ambito del pensiero e dell'azione.” (49)

La Massoneria, nelle forme in cui è oggi conosciuta e


praticata dai Corpi regolari, nasce dunque nel segno di San
Giovanni, riprendendo miti, simboli e riti delle antiche
corporazioni muratorie medievali. Esistono addirittura riti,
come lo Svedese (codificato fra il 1775 e il 1811 su basi
neotemplari), che prevedono un grado esplicitamente
gioannita, quello di Illuminato confidente di San Giovanni. Il
27 dicembre e il 24 giugno, feste solstiziali dei due San
Giovanni, rappresentano le principali ricorrenze massoniche,
celebrate con riti suggestivi riguardanti i temi archetipali del
fuoco e della luce. (50) Particolarmente significativo il rituale
utilizzato nella ricorrenza del solstizio d'estate che si
conclude con il dono ai convenuti di una rosa, immagine
della manifestazione dell'Uno che si dispiega nel molteplice,
simbolo del tempo che scorre, dell'eterno fluire della vita.
(51) Perché, come ha ben intuito il poeta Thomas Stearns
Eliot, il fuoco e la rosa sono manifestazioni dello stesso
Principio:

“E tutto sarà bene, e


ogni sorta di cose sarà bene
quando le lingue di fuoco s'incurvino
nel nodo di fuoco in corona
e il fuoco e la rosa sian uno.” (52)

Robert Fludd, Rosa mistica


II. Il Fuoco e l'Acqua

1. L'accensione dei falò

“Li hanno fatti quest'anno i falò? - chiesi a Cinto.


Noi li facevamo sempre. La notte di S. Giovanni tutta la
collina era accesa.
Poca roba, - disse lui. - Lo fanno grosso alla Stazione, ma di
qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano
delle fascine. (...)
Chi sà perché mai, - dissi, - si fanno questi fuochi.
Cinto stava a sentire.
Ai miei tempi – dissi – i vecchi dicevano che fa piovere...
Tuo padre l'ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia
quest'anno... Dappertutto accendono i falò.
Si vede che fa bene alle campagne, - disse Cinto, - le
ingrassa.” (53)

Non lasciamoci trarre in inganno dalla semplicità delle parole


di Cinto. Pavese conosce molto bene il significato dei fuochi
nella notte di San Giovanni (54) e la sintetica spiegazione che
il contadino langarolo dà dei falò va diritto alle radici di quel
rito antichissimo. Rito di fertilità, l'accensione dei fuochi
nella notte del solstizio d'estate ha un'origine che si perde
nella notte dei tempi. Riti della stessa natura si ritrovano in
tutta Europa dalla Scandinavia al Mediterraneo, sempre con
le stesse caratteristiche e lo stesso corredo di credenze
mitiche. Quello dell'accensione dei falò al solstizio d'estate è
un rito magico legato alla fertilità della terra, degli animali,
degli uomini, ma anche un rito di purificazione e di
protezione. Un uso così radicato nella cultura dell'Europa
occidentale che lo vediamo rispuntare ovunque, anche dove
meno ce lo aspetteremmo come nel caso di un romanzo
poliziesco di grande successo uscito in Francia qualche anno
fa. Il protagonista, un poliziotto non più giovane, porta la
famiglia in gita sul monte Canigou sui Pirenei alle spalle di
Perpignano:

“Di lassù la vista era splendida. Sullo stretto picco roccioso


erano almeno una ventina a fare un picnic intorno alle ceneri
di un gigantesco braciere. Da qualche anno la tradizione del
falò di San Giovanni era tornata in auge. Alcuni giorni prima
della cerimonia i più coraggiosi portavano fino in cima ceppi,
tronchi di vite e fascine di sarmenti. Li ammassavano a
piramide, quasi a voler ulteriormente innalzare la montagna.
La notte del 23 giugno la cima prendeva fuoco, e se le
condizioni atmosferiche lo permettevano la flama del Canigò
poteva essere vista in tutto il Roussillon”. (55)

Siamo in presenza di riti antichissimi, risalenti almeno al


Neolitico e alla grandiosa rivoluzione agraria che permise
agli uomini, fino ad allora cacciatori e raccoglitori, di
superare la fase del nomadismo e di costruire i primi
insediamenti stabili. Riti che non escludevano sacrifici anche
umani e che sono sopravvissuti per millenni nonostante le
trasformazioni della società. Riti contadini secondo Frazer
che per primo li studiò in modo sistematico:

“Da tempo immemorabile i contadini d'ogni parte d'Europa


hanno usato accendere dei falò, i cosiddetti fuochi di gioia, in
certi giorni dell'anno, ballarvi intorno e saltarvi sopra. Vi
sono testimonianze storiche del Medioevo sull'esistenza di
questi usi e forti prove intrinseche dimostrano che la loro
origine si deve cercare in un periodo molto anteriore alla
diffusione del Cristianesimo. Anzi le prime tracce o prove
della loro esistenza nell'Europa settentrionale ci vengon date
dai tentativi dei sinodi cristiani del secolo VIII di abolirli in
quanto riti pagani. Non è raro che in questi fuochi si ardano
dei fantocci o che si finga di ardervi una persona viva; e c'è
ragione di credere che anticamente vi fossero davvero
bruciati degli esseri umani.” (56)

Con il passare del tempo il rito divenne meno cruento e al


posto degli uomini vennero sacrificati animali. Secondo
Frazer un uso ancora vivo nella Francia del XVII secolo tanto
che “era l'uso nel passato, per i fuochi di S. Giovanni che si
accendevano nella Place de Grève a Parigi, di bruciare un
cesto, un barile, o un sacco pieno di gatti vivi sospeso da
un'antenna in mezzo al falò: qualche volta si bruciava una
volpe. Il popolo raccoglieva la cenere e la bragia del fuoco
credendo che portassero fortuna e le conservava in casa. I re
di Francia spesso assistevano allo spettacolo e talvolta
accendevano il fuoco con le loro mani. Nel 1648 Luigi XIV,
incoronato di rose e recandone in mano un mazzo, accese il
falò, gli ballò intorno e prese parte al banchetto nel palazzo
del Comune,” (57)

Un atto per noi orribile, ma che si spiega con il carattere della


festa. Abbiamo già visto come il solstizio rappresenti un
punto di svolta dell'anno, segnato dal progressivo declino del
sole sulla linea dell'orizzonte. L'astro sembra perdere forza e
deperire. Un fenomeno percepito come potenzialmente
pericoloso che deve essere contrastato con riti adeguati. I falò
devono servire a sostenere l'astro, ad aiutarlo a mantenere la
sua forza generativa, allontanando le forze avverse che ne
minano la potenza. Un rito protettivo che tramite la magica
forza del fuoco permette di espellere o tenere lontano tutto
ciò che può essere dannoso a uomini, luoghi, piante, animali.
Un rito di purificazione e di rigenerazione, di morte e
rinascita e dunque di fertilità.

Festa contadina dell'amore e della gioventù

Ancora una volta constatiamo come la festa di San Giovanni


abbia un carattere misterico e ambivalente. Si tratta della
principale festa della luce, ma ha il suo epicentro nella notte;
è una festa del fuoco (simbolo del principio maschile), ma
anche dell'acqua (simbolo del principio femminile). Nei riti i
due elementi, il maschile e il femminile, sono strettamente
congiunti. Durante la festa il sole (fuoco) si sposa con la luna
(acqua); da questa unione sacra derivano tutte le credenze
relative al potere vivificante dei falò e della rugiada
tramandate dalla tradizione contadina e popolare.

Che la festa di San Giovanni sia festa della luce lo scriveva


già, poggiandosi sull'autorità di Agostino, Jacopo da Varagine
nella sua Leggenda aurea, testo cardine della letteratura
religiosa medievale, che non parla di falò, ma di fiaccole
accese e portate in giro ricordo della consuetudine romana di
portare fiaccole accese nei campi e per le strade il Dies
Lamparum, cioè il 24 giugno:

“Portavasi anche le faccelline accese, perchè San Giovanni


fue lucerna ardente e rilucente; e la ruota del sole si volge
però che 'l sole scende allora nel cerchio a significare la
nominanza di san Giovanni, il quale era creduto che fosse
Cristo, secondo che elli medesimo ne diede testimonianza,
quando dice: “Me conviene menomare e lui crescere” Questo
fue significato, secondo che dice santo Agostino, ne li loro
nascimenti e ne le loro morti. Ne li loro nascimenti, però che
intorno a la natividade di santo Joanni cominciano i di a
minimare; intorno alla natividade di Cristo cominciano a
crescere, secondo che dice uno verso: “Solstitium decimo
Christum praecit atque Johannem”. Anche ne la loro morte,
però che il corpo di Cristo fu levato in alto e l'corpo di
Giovanni fu menomato il capo.” (58)

La funzione protettiva dei falò riguardava tutti gli aspetti


della vita di quelle comunità contadine. I fuochi di San
Giovanni servivano infatti a proteggere i raccolti, aumentare
la fertilità delle donne e agevolare la formazione delle coppie,
proteggere gli animali domestici, la salute dei contadini e le
case. Tante erano le credenze in merito al carattere benefico
dei falò: saltare tre volte le fiamme o correre in mezzo a due
falò assicurava un raccolto abbondante. Spargere le ceneri nei
campi preservava il raccolto dai parassiti. Far correre una
ruota in fiamme attraverso i campi o i vigneti li fertilizzava.
Passare attraverso il fuoco rendeva fertile una coppia senza
figli, così come agevolava il parto alle donne gravide. Quella
notte giovani dei due sessi ballavano attorno al fuoco
portando corone di artemisia e di verbena. Le ragazze
lanciavano corone di fiori attraverso il falò, gli innamorati
dovevano prenderle. Poi ogni coppia si prendeva per mano e
saltava per tre volte attraverso le braci. Da come saltavano si
prediceva se si sarebbero sposati presto o no. Il bestiame
veniva fatto passare attraverso il fumo o le ceneri per
immunizzarlo dalle malattie e dai malefici. Le ceneri poste
nei nidi garantivano che le galline avrebbero fatto molte
uova. Saltare il falò preservava il contadino dal mal di reni.
Gettando erbe particolari come la verbena nel fuoco si
allontana la malasorte. In casa veniva spento il fuoco e poi
riacceso con le braci del falò. Un tizzone spento veniva
messo sul tetto della casa per proteggerla dal fulmine e dagli
incendi.

Matisse, La danza

Feste del fuoco e transumanza

Senza andare molto lontano in Europa, basta recarsi in


Piemonte, in alta Valle Susa, per trovare ancora riuniti
insieme tutti gli elementi magico-religiosi della festa. Come
leggiamo in una recente ricerca relativa alla zona di
Bardonecchia :

“Come per i riti di propiziazione e di ringraziamento, anche


per le celebrazioni legate ai trapassi stagionali, quali possono
essere le feste di inizio Estate, si assiste ad una
sovrapposizione dei rituali cristiani su antichi culti pagani
modificati. I passaggi di stagione rivestivano ovunque una
grandissima importanza poiché scandivano i ritmi della vita
dell’uomo nel corso dell’anno, ma erano ancor più importanti
soprattutto in una regione ad economia essenzialmente
agricola e pastorale come quella alpina, dove la
sopravvivenza stessa dipendeva dall’abbondanza e dalla
buona conservazione dei raccolti. Il passaggio dalla stagione
fredda alla breve stagione calda, coincidente con il solstizio
d’Estate e, a livello religioso, con la festa di San Giovanni
Battista, segnava in particolare uno dei momenti di maggiore
attività per la famiglia contadina: si procedeva infatti in quei
giorni all’avvio del bestiame verso gli alpeggi più elevati,
dove sarebbe rimasto sino alle soglie dell’autunno.

L’usanza più tipica legata alla pratica della monticazione e


all’inizio del periodo di permanenza in alpeggio, ancora oggi
in vigore, era quella dell’accensione dei fuochi sulle
montagne nella notte tra il 23 e il 24 giugno, vigilia della
festa di San Giovanni Battista, allo scopo di allontanare le
forze del male. Come per gli altri paesi, poi, la mattina della
festa del santo la cenere era fatta attraversare dagli animali
diretti a monte. Come affermato in precedenza, a rendere
taumaturgica la cenere prodotta dai falò era la sua
commistione con la rugiada del mattino: l’insieme di fuoco e
acqua, di cui la cenere e la rugiada erano considerati derivati,
poteva infatti simboleggiare una sorta di unione del Sole con
la Luna.

A queste credenze si collegava una serie di tradizioni molto


radicate in tutta la conca di Bardonecchia: per esempio, era
usanza della mattina di San Giovanni quella di bagnarsi gli
occhi con l’acqua delle fontane, ritenuta benedetta, o con la
rugiada, per preservare la vista. Allo stesso modo, vi era la
convinzione che le piante e le erbe irrorate dalla rugiada del
mattino di festa incrementassero il proprio potere curativo:
per questo motivo molte persone comuni, ma anche gli
erboristi, si dedicavano alla raccolta delle erbe all’alba di
questo giorno.” (59)

Non è un caso, dunque, che in molte realtà la festa di San


Giovanni Battista e poi quella di San Giovanni Decollato il
29 agosto siano collegate alla transumanza delle mandrie o
delle greggi, all'andata o al ritorno dagli alpeggi estivi. In
questi casi la festa era celebrata con la benedizione degli
animali e lo svolgimento di fiere, momento importantissimo
di incontro fra gli abitanti delle valli soprattutto nei periodi in
cui più accentuato è stato l'isolamento delle comunità alpine.

2. L'acqua simbolo di fertilità

Abbiamo visto come le feste solstiziali abbiano anche


carattere lunare, e dunque debbano considerarsi anche feste
acquatiche. Cerchiamo di approfondire la questione:

“Le acque di San Giovanni – afferma Cattabiani – sono


omologhe al segno del Cancro., domicilio della luna, al cui
inizio cade il solstizio. La relazione dell'astro con le acque è
nota e rappresenta il mondo della formazione o l'ambito di
elaborazione delle forme nello stato sottile, punto di partenza
dell'esistenza nel mondo individuale, ovvero nella caverna
cosmica. D'altronde tutto ciò che è connesso alla generazione
e alla fruttificazione subisce in quella notte un influsso
positivo: «La notte di San Giovanni entra il mosto nel
chicco» dice un proverbio diffuso in vari dialetti.” (60)

Che il solstizio d'estate sia anche una festa acquatica ce lo


conferma il calendario romano. Il 24 giugno il popolo
gremiva i due templi della dea Fors Fortuna posti sulle due
rive del Tevere. Il fiume veniva attraversato su barche
inghirlandate di fiori e illuminate da fiaccole. Ovidio ci
ricorda come festosi banchetti e grandi libagioni fossero
associati a quel rito di purificazione:
“Andate e celebrate lieti, o Quiriti la dea felice!
Accorrete a piedi o su celeri barche
e non vi vergognate di tornare poi ebbri a casa.” (61)

Una festa cara ai romani, soprattutto ai plebei e agli schiavi,


perché – è sempre Ovidio a ricordarcelo – istituita da Servio
Tullio che, secondo la leggenda, pur essendo figlio di
un'umile ancella, era riuscito a diventare re di Roma. E'
probabilmente da questa antichissima tradizione che deriva
l'usanza, ancora oggi vivissima a Roma, di festeggiare San
Giovanni con grandi mangiate fuori porta a base di lumache e
vino bianco dei castelli. Ma sulle credenze legate al consumo
delle lumache avremo modo di soffermarci più avanti, ora ci
interessa invece sottolineare l'importanza dei riti acquatici
nelle tradizioni religiose.

Da sempre l'attraversamento rituale delle acque o, cosa


sostanzialmente simile, l'immersione cela profondi
significati simbolici di purificazione o rinascita. Valga per
tutti la navigazione sulle acque di Noè o l'attraversamento del
Mar Rosso da parte degli ebrei in fuga dalla schiavitù
egiziana sotto la guida di Mosè. Per non parlare del bagno
purificatore nelle sacre acque del Gange per gli induisti o la
simbologia battesimale dei cristiani. E' proprio per questa
forte valenza simbolica dell'attraversamento rituale delle
acque che la Chiesa continuerà poi, nel momento in cui si
accinge a sostituire il paganesimo morente, questa festa
romana, dedicandola al Battista, il fondatore del rito
battesimale cristiano, connotato dagli stessi simboli
dell'acqua e del fuoco.
Il potere della rugiada

Il solstizio d'estate rappresenta dunque anche la


glorificazione dell'acqua, elemento femminile per eccellenza,
simbolo di fecondità e di purificazione, strumento di
rigenerazione. Da queste caratteristiche trae origine la
credenza nei poteri della rugiada della notte di San Giovanni
che consacra le erbe e le rende idonee ad un impiego
terapeutico o magico. Si credeva infatti (e in molti luoghi
ancora oggi si crede) che le erbe e i fiori raccolti all'alba della
notte di San Giovanni o lasciati durante la notte in una
bacinella all'esterno della casa, acquisissero poteri benefici e
protettivi. Rotolarsi nella rugiada guariva dalla rogna, dalle
emorroidi, dai calli, dalle malattie degli occhi. Ma soprattutto
dalla infertilità "perché di essa si bagnavano il sesso le
ragazze in cerca di marito". (62)

Largamente predominante in questi riti acquatici è l'aspetto


femminile. Sono sempre giovani donne ad esserne le
protagoniste. E' il caso della Sardegna:

“In varie altre località (Orune, Orriferi, Orrotelli, ecc.) le


ragazze vanno durante la notte a raccogliere in tutta solennità
e in silenzio assoluto dell'acqua dai pozzi e sempre in silenzio
tornano, spruzzandone tutte le acque del villaggio: l'acqua
«muta», così chiamata per il silenzio rituale che caratterizza
tutta la cerimonia, ha il potere di fugare animali nocivi e di
purificare le case da ogni spirito malefico. Con l'acqua
raccolta nella notte si lava anche il viso e la persona, fugando
in tal modo malanni e spiriti ossessivi. Accanto ai malanni di
casa, , e più di essi, interessa infatti liberare le persone da
morbi e impurità.” (63)
La credenza nei poteri taumaturgici della rugiada giovannea è
ancora viva in molte parti d'Italia. “La guazza di Santo
Gioanno fa guarì da ogni malanno”, si dice ancora oggi in
Umbria. Ne troviamo tracce anche in rete, prova evidente di
come la cosiddetta «post-modernità» possa inglobare anche
elementi mitici, propri di una tradizione plurimillenaria.

“Per festeggiare San Giovanni Battista non scordate di


preparare l’acqua di San Giovanni. A casa dei miei, fin da
bambina, il giorno della vigilia della festa, con la mamma, ci
recavamo in campagna a raccogliere fiori ed erbe di campo
poi, al tramonto, immergevamo i fiori in un bacile ricolmo
d’acqua che si lasciava fuori della finestra al magico effetto
della notte. Mi ricordo con grande emozione la gioia che
provavo al risveglio al pensiero di lavarmi con l’acqua
profumata. Questa tradizione, che da alcuni anni avevo
abbandonato, mi ha sempre profondamente affascinato. Così,
sia per il piacere di trasmetterla a mio marito e a mia figlia,
sia perché si dice che l’acqua speciale preservi dalle malattie
e porti fortuna, amore e felicità, ho pensato di riprenderla.”
(64)

Chi parla è una giovane donna che su di un sito web racconta


di come abbia appreso dalla madre questa antica usanza e
l'intenzione di trasmetterla a sua volta alla figlia bambina.
Una testimonianza della forza con cui il mito irrompe ancora
nel quotidiano dell'uomo, anche di quello moderno e ultra
tecnologico. Una ulteriore conferma, se mai ce ne fosse
bisogno, della validità delle tesi di Eliade sulla sopravvivenza
del pensiero mitico anche nel nostro mondo.
Francesco Petrarca e le fanciulle di Colonia

Testimone d'eccezione di questi riti acquatici fu Francesco


Petrarca che racconta anni dopo, ancora meravigliato e
stupito, di aver assistito nel 1334 a Colonia ad una folla di
ragazze ornate di erbe odorose e di fiori immergersi al
tramonto della vigilia di San Giovanni nelle acque del Reno.
Il poeta ricorda anche come gli fosse stato spiegato che si
trattava di un antichissimo rito popolare, specificatamente
femminile, per allontanare le calamità dell'anno e garantirsi
un'annata felice.

“Era la vigilia di San Giovanni, e il sole volgeva ormai al


tramonto. Su consiglio di amici mi sono recato al fiume
[Reno] per vedere uno spettacolo straordinario. Le rive del
fiume erano occupate da una folla di donne... Era uno
spettacolo incredibile, coronate di erbe profumate, con le
maniche rialzate fin sopra il gomito, lavavano le candide
mani e le braccia nella corrente del fiume. Stupito, poiché
non capivo il senso della cosa, chiesi agli amici che mi
accompagnavano. Mi risposero che si trattava di un rito
femminile antichissimo, fondato sulla convinzione che quelle
abluzioni fluviali in quel giorno purgassero le impurità,
proteggessero dalle calamità del fiume e garantissero
un'annata felice.” (65)

Nei confronti di questi riti, caratterizzati da una forte


promiscuità sessuale e spesso dalla esibizione senza pudori
del corpo, la Chiesa ebbe fin dai primi secoli un
atteggiamento di estrema diffidenza. Già Sant'Agostino
interviene contro l'uso il giorno di San Giovanni di bagnarsi
in mare per purificarsi, definendola una superstizione pagana
che toglieva valore al battesimo cristiano.

Nel decimo secolo Cesario di Arles denuncia la pratica del


«lavacro sacrilego» nelle fonti e nei fiumi in occasione della
notte di San Giovanni. Nello stesso periodo Attone di Vercelli
condanna in quanto «cose da meretrici» pernottare presso
fonti e fiumi, cantare e danzare tutta la notte, predire la sorte,
raccogliere erbe e foglie che «battezzate» nelle acque, sono
poi religiosamente conservate in casa, appese alle pareti, per
tutto l'anno. (66)

E' evidente anche da queste prese di posizione che la


dimensione ludico-erotica doveva essere una delle
componenti essenziali della festa, festa della fecondità dei
campi e della natura, ma anche degli uomini. La carica
liberatoria e di conseguenza radicalmente sovversiva di
quella magica notte, in cui tutto poteva accadere e dunque
tutto era lecito, non poteva che essere avvertita come
trasgressiva e pericolosa dal potere ecclesiastico e civile.
Una condanna destinata a durare a lungo e a seguire il
ripetersi della festa e dei suoi riti nel corso dei secoli fino
quasi alle soglie della mostra epoca. Così in un bando del
governo pontificio del 19 giugno 1753 riferendosi alla
credenza che la rugiada e per estensione l'acqua potesse
assicurare la fecondità, si decretava che:

"Con l'autorità del nostro ufficio, a qualsiasi persona dell'uno


o dell'altro sesso, proibiamo che in detta notte veruno ardisca
accostarsi alle vasche, ai rigagnoli, alle fontane, togliendosi le
brache e accucciandosi sull'erba, pena gli uomini tre tratti di
corda da darsi in pubblico e scudi 50 di multa, e per le donne
tre colpi di frusta a posteriori in pubblico, e sì per gli uni,
come per gli altri, senza alcuna remissione."
Pratiche che dovevano essere ben radicate e dunque difficili
da estirpare se, solo due anni dopo, il 18 giugno 1755,
proprio alla vigilia della festa, il cardinale Marco Antonio
Colonna ribadiva il divieto scrivendo: “La Santità di Nostro
Signore per impedire gl'inconvenienti, che sotto vano pretesto
di prendere la guazza. Sogliono commettersi nella notte
precedente alla Festa della Natività del glorioso precursore
S. Gio. Battista, ci ha comandato coll'Oracolo della sua viva
voce di rinnovare il presente Editto altre volte pubblicato, in
cui coll'autorità del Nostro Uffizio non solo in questo, ma in
ogni altro Anno avvenire espressamente proibiamo a
qualsivoglia persona dell'uno e l'altro sesso di portarsi in
detta notte fuori delle porte della Città, o in luoghi disabitati,
come a monte Testaccio, alle vigne, e giardini sotto
qualsivoglia pretesto che possa recar scandalo (…) E
comanda a tutti gli osti e bettolieri, che nella Vigilia di detto
santo debbano tenere serrate le loro osterie e bettole.” (67)

Seguiva poi l'elenco delle sanzioni pecuniarie e fisiche per


chi avesse ancora trasgredito alla norma. Sulla scarsa
efficacia di questi divieti bene testimonia un'opera coeva
dedicata al culto di San Giovanni di padre Paolo Maria
Paciaudi, primo conservatore della Biblioteca Palatina, che
riconosce il fallimento di ogni tentativo ecclesiastico di
estirpare queste usanze: “Se si proibiva di andare a bagnarsi
al fiume, la gente andava di notte sui prati e si rotolava
sull'erba rugiadosa, bagnandosi con l'umore della rugiada.”
(68)
3. Le erbe di San Giovanni

Secondo la tradizione il solstizio d'estate è il periodo in cui le


energie della terra sono al culmine, quindi la notte che lo
precede è il momento migliore per raccogliere erbe e fiori
che, grazie alla potenza magica assorbita, rappresentano un
sicuro antidoto contro le malattie, i sortilegi di diavoli e
streghe e in genere ogni tipo di sventura. Le piante, come i
fuochi di mezza estate, erano ritenute in grado di trasferire
agli uomini parte dei misteriosi poteri generativi della natura.
(69)
Le erbe raccolte la notte di San Giovanni, prima del sorgere
del sole quando le loro proprietà curative o magiche sono più
forti, erano considerate erbe benefiche, in grado di scacciare
ogni malattia, evitare il malocchio, proteggere la casa e gli
animali. Le più ricercate erano però le piante cosiddette della
buona salute, quelle che possedevano particolari poteri
curativi: l'artemisia, l'iperico, la verbena, la ruta.

L'artemisia

Secondo la tradizione è la pianta di Artemide (l'equivalente


della Diana romana), la dea protettrice della caccia e delle
piante medicinali che curano i disturbi tipici delle donne. Già
il nome porterebbe lontano, se solo pensiamo che dagli
inquisitori Diana era considerata la Signora delle streghe,
maestra delle guaritrici e delle levatrici. Ricordo di quando
nell'antichità la dea proteggeva le donne dai dolori del parto e
dalla febbre puerperale. E in effetti l'artemisia ha proprietà
emmenagogiche, contiene cioè sostanze che regolano il
flusso mestruale e ne riducono i disturbi avendo anche effetti
rilassanti del sistema nervoso e degli spasmi muscolari.

Nel mondo greco-romano Diana, oltre a proteggere le


partorienti, si curava anche della salute dei neonati e dei
bimbi piccoli. La pianta possiede infatti proprietà antisettiche
e depurative ben conosciute e dunque veniva usata come
vermifugo e nelle convulsioni dei bambini.

Moltissimi erano gli utilizzi dell'artemisia. Era tradizione


appenderla nelle stalle per tenere mosche e tafani lontani
dagli animali. Dipinta sulle fiancate dei carri e delle carrozze
proteggeva dagli incidenti stradali e garantiva ai trasportati
un viaggio senza pericoli. Le sue radici, se raccolte nella
notte di San Giovanni proteggevano dai fulmini e dalle
tempeste se cucita sugli abiti.

Pianta diffusissima, ne esistono circa 400 specie, è conosciuta


soprattutto come Artemisia absinthium, fin dai tempi più
antichi apprezzata per le sue proprietà terapeutiche: è infatti
antisettica,digestiva, stimolante, tonica e vermifuga. Dalle
foglie e dai fiori gialli della pianta si ottiene un olio che con
l’aggiunta di acqua diventa lattiginoso. Alla fine del
Settecento un medico francese, Pierre Ordinaire, riprendendo
vecchie ricette dell'erboristeria tradizionale, ne ricavò,
mescolandolo a anice, issopo, dittamo, acoro e melissa, una
bevanda dalla fortissima gradazione alcolica: l'Assenzio o
Fée Verte (la Fata Verde), la droga degli artisti bohèmiens
cantata da Baudelaire e Verlaine.

“Tout cela ne vaut pas le poison qui découle


De tes yeux, de tes yeux verts,
Lacs où mon âme tremble et se voit à l'envers...
Mes songes viennent en foule
Pour se désaltérer à ces gouffres amers.”

[Ma più veleno stillano i tuoi occhi, i tuoi verdi occhi, laghi
dove si specchia e capovolto trema il mio cuore, amari abissi
dove a frotte si dissetano i miei sogni] (70)

Così Baudelaire, rivolto alla sua amante, Marie Daubrun,


attrice nota per la bellezza dei suoi occhi verdi, ma anche
esplicito riferimento al potere inebriante della Fée Verte.
L'Iperico

L'iperico, detto anche erba di San Giovanni o scacciadiavoli,


è una pianta officinale con proprietà antidepressive e
antivirali. Cresce in grandi macchie e la sua densità di
fioritura è tale da risaltare come macchia di colore giallo oro
misto con rossiccio; infatti i fiori durano poco, dopo un
giorno sono già appassiti, si infeltriscono e assumono un
colore rosso ruggine.È ben riconoscibile anche quando non è
in fioritura perché ha le foglioline che in controluce appaiono
bucherellate. Da qui il nome di Hypericum perforatum.

Nel medioevo si diffuse la leggenda che l’iperico fosse nato


dal sangue di san Giovanni e che il diavolo volesse
distruggerla trafiggendola, ma l’unico risultato ottenuto era
stato quello di perforarle le foglie. Schiacciando le foglie se
ne ricava un pigmento rosso-bluastro che è il principio attivo
dell’iperico e ha un odore pungente. Detta, per il suo colore
«Sangue di San Giovanni», questa sostanza dona salute,
protezione, forza. Si dice anche che il nome di erba di San
Giovanni risalisse al fatto che all'epoca delle crociate l’ordine
dei cavalieri di San Giovanni utilizzasse questa pianta per
produrre un balsamo utilizzato per cicatrizzare le ferite
ricevute in battaglia dai suoi membri. (71)

Per le sue proprietà lenitive veniva usato per curare


bruciature, scottature, eritemi solari, ulcere, piaghe,
contusioni, slogature. Raccolto alla vigilia della festa di san
Giovanni e poi macerato nell'olio d'oliva veniva usato come
rimedio contro tutti i problemi dovuti al sole e al caldo, ma
anche per la cura dei reumatismi, sciatica ed in cosmesi per
dare tono alla pelle avvizzita. Si riteneva che avesse il potere
di mettere in fuga i diavoli, da qui il suo antico nome
«Fugademonum». Per questo veniva spesso posto sopra la
porta di casa, mentre sparso sul tetto proteggeva dai fulmini.
Chi si trovava per la strada nella notte della vigilia di San
Giovanni, si proteggeva dalle streghe infilandoselo sotto la
camicia. Bruciato produceva un fumo odoroso simile
all'incenso che proteggeva da spiriti e demoni. Era poi
convinzione comune che le foglie d'iperico messe sotto il
cuscino di un donna nubile le facessero apparire in sogno il
futuro marito.

Sembrano sciocche superstizioni, ma oggi sappiamo che


l’ipericina (il principio attivo dell’iperico) è un forte
antidepressivo e un efficace regolatore del tono dell’umore e
del ciclo sonno-veglia, tanto da essere ancora oggi
largamente usato nella produzione di farmaci. Non avevano
poi torto allora gli abitanti delle campagne nei secoli scorsi a
considerarlo un efficace antidoto contro i cattivi pensieri e i
disturbi del sonno.

La Verbena

E’ una pianta molto comune, infestante con, fiori piccoli,


molto profumati. Cresce spontanea nei prati, nei boschi e
lungo le strade di campagna. I Romani la consideravano una
pianta sacra. Negli altari dedicati a Giove, veniva bruciata
della Verbena per purificarli e venivano preparate delle
fascine di questa erba per spazzarli. Una leggenda medievale
narrava che la verbena era stata utilizzata sul Monte del
Calvario per cicatrizzare le ferite di Gesù crocifisso. Per
questo mentre la si coglieva si doveva recitare questa formula
propiziatoria:
“Tu sei santa, Verbena,
come cresci sulla terra,
perché in principio sul Calvario fosti trovata,
tu hai guarito il Redentore
e hai chiuso le sue piaghe sanguinanti,
in nome del Padre, del Figlio
e dello Spirito Santo ti colgo.” (72)

Ancora fino a non molti anni fa il giorno della festa


dell'Assunta in molte località rametti di verbena venivano
benedetti durante la messa per essere poi appesi nelle case e
nelle stalle. Per queste sue caratteristiche purificatrici in caso
di epidemie la verbena veniva bruciata per strada e nelle case
per disinfettarle.

La pianta era anche nota per le sue presunte proprietà


afrodisiache. Si credeva che profumarsi di verbena suscitasse
l'amore. Infusi di verbena venivano usati per risvegliare la
passione amorosa. In questo caso petali di verbena erano
messi a macerare con del miele in un recipiente contenente
del vino, dopo sette giorni si filtrava ed ecco pronto l'elisir
d'amore da offrire alla persona amata. Le giovani spose il
giorno delle nozze portavano con sé un mazzetto fiorito di
Verbena, che le avrebbe aiutate a superare felicemente la
prima notte. Echi di queste credenze sono sopravvissuti a
lungo. Ancora agli inizi del secolo scorso era uso recarsi agli
incontri con la persona amata muniti di confetti di verbena
con cui profumarsi l'alito.

La Ruta

Era una pianta molto usata per le sue caratteristiche, ma


necessitava di molta cautela per i suoi effetti irritanti e
velenosi. Per questo ne veniva sconsigliata la raccolta e l'uso
a chi non fosse particolarmente esperto. Possedeva proprietà
digestive e antispasmodiche. Come l'artemisia favoriva le
mestruazioni poiché aumentava la circolazione sanguigna
nell’utero, ma poteva anche avere effetti abortivi e anche a
questo scopo veniva utilizzata dalle guaritrici. Aveva poteri
sedanti, calmava il dolore, riduceva i sintomi dell’ansia e del
nervosismo. Per questo si usava come cura contro l'insonnia.
Per gli stessi motivi era ritenuta un rimedio efficace contro la
paura. Portata addosso o tenuta in tasca aiutava a superare
situazioni difficili o di pericolo.

Era convinzione diffusa che, ridotta in polvere, evitasse il


contagio della peste e curasse gli effetti dei veleni e dei morsi
di serpenti. Emana un odore sgradito agli insetti e ai roditori,
per questo veniva sparsa sui pavimenti come insetticida e per
tenere lontani i topi. Si credeva anche che la ruta fosse un
potente rimedio contro il malocchio. Una credenza non solo
europea. Nella Santeria cubana, frutto dell'incontro del
cristianesimo con i culti yoruba degli schiavi, la ruta è usata
per particolari cerimonie, veri e propri bagni di purificazione,
in cui si recita questa preghiera:

“Ruta benedetta, potente e miracolosa che sul Monte Calvario


alle lacrime della Maddalena unisti le tue lacrime, ottienimi
ciò che chiedo.
Per questo bagno dammi fortuna, e che l’uomo che desidero
possa sentire per me amore e tenerezza, e che il suo sguardo e
il suo pensiero siano solo per me.

Per le gocce di sangue che versò il Re dei Re, ti chiedo di


avere fortuna e l’ attenzione dei miei amici.
Per questo io chiedo, Ruta benedetta, di ottenermi tutto il
bene e che entri felicità, fortuna e amore nel mio corpo, nella
mia anima e nella mia casa”. (73)

La notte di san Giovanni è anche collegata al noce e ai suoi


frutti che in molte zone d’Italia si usa tuttora raccogliere
ancora acerbi in questa notte per preparare il nocino, liquore
ritenuto possedere particolari virtù benefiche.

4. La notte delle streghe

Come ogni momento di passaggio, la notte di San Giovanni è


densa di pericoli, popolata di forze malefiche. Da mezzanotte
all'alba spiriti dei morti, demoni e streghe sono protagonisti
di quel tempo sospeso. Nel Medioevo si pensava che in
quella notte tutte le streghe d'Europa, guidate da Erodiade,
Salomè e Diana, volassero nel buio per radunarsi a
Benevento sotto un grande noce. Un albero, il noce, che
godeva di una fama sinistra, perché considerato l’ultimo
rifugio delle streghe condannate al rogo. Esse potevano
salvarsi dal supplizio trasformandosi in spirito ed entrando
nel più vicino tronco di noce, per poi riacquistare la libertà al
momento dell’abbattimento dell’albero. Una credenza tanto
diffusa che in molti luoghi il taglio di un noce doveva essere
preceduto da particolari formule propiziatorie.

La leggenda aveva contorni molto sfumati. Ad esempio non


era chiaro neppure agli abitanti di Benevento in quale località
precisa sorgesse il noce plurisecolare attorno al quale le
fattucchiere intrecciavano le loro danze sfrenate durante il
solstizio d'estate. Ma tutti erano assolutamente certi che
esistesse veramente e che le streghe vi giungessero in volo.
Addirittura si conosceva la formula magica che queste
usavano per poter volare, dopo essersi cosparso il corpo di un
unguento magico:

“Unguento, unguento
mandame a la noce de Beneviento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne maltempo”.

Questa formula, universalmente conosciuta e che ritroviamo


in tutti i racconti sulle streghe di Benevento, ha finito col
rappresentare l'immagine di maggior potenza evocativa del
rituale preparatorio al volo notturno ed è ritenuta espressione
autentica del folklore popolare. (74) In realtà le cose stanno
in modo molto diverso e fanno pensare che le origini di
questa celebre formula siano da ricercare piuttosto negli
ambienti inquisitoriali ed in particolare in un processo per
stregoneria svoltosi a Todi nel 1428 nei cui atti si ritrova per
la prima volta. Un processo simile a tanti altri, istruito nei
confronti di una certa Matteuccia di Francesco, una contadina
di circa quarant'anni, herbaria (cioè guaritrice con le erbe),
nel corso del quale la poveretta rivelò sotto tortura ai giudici
di essersi recata più volte in volo al grande sabba di
Benevento e di averlo potuto fare proprio grazie a quella
formula. E' nelle carte di Todi che si ritrova per la prima
volta la celebre formula e dunque non nei cosiddetti «secoli
bui» di un Medioevo barbarico, ma solo pochi decenni prima
della scoperta dell'America. Esaminate con attenzione, quelle
carte e quelle procedure fanno pensare che le dichiarazioni
della disgraziata Matteuccia non fossero poi tanto spontanee.
In sostanza la donna si sarebbe limitata, come il più delle
volte accadeva in quel tipo di processo, ad ammettere ciò che
le veniva richiesto, sottoscrivendo quanto, episodi e formule,
gli inquisitori le sottoponevano. (75)

Qualunque sia stata la genesi della formula, essa si rivelò


subito popolarissima, anche perché andava a rafforzare la
credenza popolare, questa si davvero antichissima, che in
certi periodi dell'anno le streghe potessero introdursi nelle
case per fare dispetti o portare la malasorte. Proprio a
Benevento le streghe erano chiamate Janare a causa della loro
propensione a penetrare nelle case attraverso le porte
(«ianua» in latino) lasciate incustodite. È per questo motivo
che durante la notte di San Giovanni si usava mettere sale
grosso sui davanzali delle finestre o scope di saggina dietro le
porte. La strega, curiosa di conoscere il numero dei chicchi di
sale o dei fili di saggina, si sarebbe messa a contarli perdendo
così tempo finché la luce dell’alba non l'avesse costretta a
fuggire via. Una credenza diffusa anche in Liguria ancora nel
Novecento, tanto che il cantautore genovese Fabrizio De
Andrè la riprende nella canzone «A Cimma»:

“ti mettiàe ou brùgu rèdennu’nte ‘n cantùn


che se d’à cappa a sgùggia ‘n cuxin-a stria
a xeùa de cuntà ‘e pàgge che ghe sùn
‘a cimma a l’è za pinn-a a l’è za cùxia.”

[Metterai la scopa dritta in un angolo/ che se dalla cappa


scivola in cucina la strega/ a forza di contare le paglie che ci
sono la cima è già piena e già cucita]

Storie analoghe si trovano un po' in tutta Italia. Lo scrittore


ottocentesco Cesare Cantù narra in un suo racconto di
ambientazione medievale come nella notte di San Giovanni
le campane dei villaggi lombardi non smettessero di suonare
affinché le streghe "a cui, se nol sapeste, è spaventosissimo lo
scampanio, non potessero cogliere le erbe nocive, nè
impedire con loro malizie che fossero colte le profittevoli".
(76) Tanti erano i rimedi per proteggersi dalle streghe in
quella notte. A Roma si credeva che fosse sufficiente portare
dell'aglio sotto la camicia, insieme ad un mazzetto di iperico,
ruta ed artemisia. Un uso che troviamo citato in un sonetto
del Belli del 1834:

“Domani è San Giuvanni? Ebbè fio mio,


qua stanotte chi essercita er mestiere
de streghe, de stregoni e fattucchiere
pe la quale er demonio è er loro Dio,
se strasformeno in bestie; e te dich'io
ch'a la fisionomia de quelle fiere,
quantunque tutte-quante nere nere
ce pòi raffugrà più d'un giudio.
E accussì vanno tutti a San Giuvanni,
che lui è er loro santo protettore,
pe lo meno che sia, da un zeimillanni.
Ma a me, co 'no scopijo ar giustacore
e un capo-d'ajo o dua sott'a li panni,
m'hanno da rispettà come un zignore”. (77)

Non legato alle streghe, ma comunque connesso al carattere


magico della festa, e ancora oggi diffusissimo un po' in tutta
Italia, è l'uso di mangiare nel giorno di San Giovanni un
piatto di lumache ritenendo che porti fortuna. Una credenza
che si ricollega al simbolismo arcaico delle corna: “ Già si è
spiegato – scrive Cattabiani – che il Cancro, all'inizio del
quale cade il solstizio estivo, è un segno d'acqua a causa della
luna. La lumaca, a sua volta, è un simbolo lunare, che indica
la rigenerazione periodica con i suoi cornetti che mostra e
ritira alternativamente, così come la luna appare e scompare
nel suo ciclo perenne di morte e rinascita. Sicché la lumaca è
simbolo di movimento nella permanenza e di fertilità, dunque
di animale omologo alla porta solstiziale.” (78)

Un simbolismo che si perde nella notte dei tempi, ancora oggi


tanto popolare che portare un corno o fare il gesto delle corna
è considerato da molti la più efficace protezione contro la
sfortuna.
E per finire... Sibilla Aleramo

Come tutte le cose anche la festa di San Giovanni non è


passata indenne al vaglio del tempo. I falò continuano ad
illuminare le notti di giugno, ma hanno perso quasi
completamente la loro carica magica e sono diventati un
semplice spettacolo, vestigia di un passato di cui nessuno
comprende più l'autentico significato. E' una gioia
malinconica quella dei nostri falò, che ben si adatta ad una
umanità che ha perso la capacità di cogliere la magia
profonda insita nel cosmo. Non è un caso se nel corso di
questo nostro breve viaggio lungo i sentieri del mito abbiamo
incontrato tanti poeti. Forse davvero oggi per cogliere a
fondo la carica potentemente magica della festa di San
Giovanni occorre avere cuore e occhi d'artista, o forse di
bambino.

Matrimonio del Sole e della Luna, del Fuoco e dell'Acqua,


fusione degli elementi primordiali, la notte di San Giovanni
custodisce gelosamente il segreto stesso della vita e per
questo non smette di affascinare anche noi, abitanti
disincantati di un mondo senza più misteri. E' il fascino
dolcemente malinconico delle cose di un tempo che si
conservano con cura anche se non servono più. Ce lo ricorda
Sibilla Aleramo in suo appunto del 1938:

"Legna che arde. Crepitio nel silenzio. Alari. Bastan due tizzi,
spirito reduce, e un palpitar di fiamma azzurra. Riassunta
tutta la miracolosa vivacità degli elementi. Più fresca d'un
acqua corrente, più vicina del vento alla segreta gioia della
terra, cuore del tempo, rosso ganglio eterno. Due tizzi fra
alari anche di camino straniero, in una sosta anche di un'ora
sola. O un falò sotto fredde stelle, un rombo, una scossa han
destato minacciosi le case, s'esce al freddo aperto, i campi
s'accendono come in una notte di San Giovanni." (79)
Note

Una notte cara ai poeti

1. Giorgio Caproni, San Giovambattista, in Tutte le poesie,


Milano, Garzanti, 2004 (II ed.), p. 25.
2. Antonio Bodrero, Opera poetica occitana, Milano,
Bompiani, 2011, p. 382.
3. ivi., p. 383.
4. Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Milano, Mondadori,
1966, p. 99.
5. Cfr. Frances Yates, Gli ultimi drammi di Shakespeare: un
nuovo tentativo di approccio, Torino, Einaudi, 1979.
6. William Shakespeare, Sogno di una notte di mezz'estate,
Milano, Mondadori, 1998, p.171.
7. Maria Caterina Jacobelli, Il Risus paschalis e il
fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia,
Queriniana, 2004 (IV ed.), pp. 86-87.
8. Caproni, Tutte le poesie, cit., p. 25.

I.1. Una festa solstiziale

9. Alfredo Cattabiani, Calendario, Milano, Oscar Mondadori,


2008, p. 229.
10. Omero, Odissea, Libro XIII, vv. 111-112. Versione
italiana di Maria Grazia Ciani, Milano, Rizzoli, 2008, p. 437.
11. Heinrich Heine, Atta Troll, citato in: Maria Savi-Lopez,
Leggende delle Alpi, Torino, Loescher, 1889, p. 40.
12. Carl Gustav Jung, L'uomo e i suoi simboli, Milano,
Longanesi, 980, p.77.
13. Mircea Eliade, Miti sogni e misteri, Milano, Rusconi,
1976, pp. 19-20 e poi p. 30. Di Eliade si può vedere sul tema
anche Mito e realtà, Roma, Borla, 2007. In particolare il
capitolo nono: Sopravvivenze e travestimenti dei miti.
14. Octavio Paz, Arbol adentro, Barcelona, Seix Barral,
1987, p. 11.
15. Vittorio Lanternari, Cristianesimo e religioni etniche in
Occidente, Un caso concreto d'incontro: la festa di San
Giovanni, in: Occidente e Terzo Mondo, Bari, Dedalo, 1967,
pp. 330-331.
16. Ibidem.
17. Ovidio, Fasti, Libro I, Versi 119-120 e 125-126.
18. Primo di tutti il movimento surrealista e in particolare
l'opera di André Breton.
19. René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano,
Adelphi, 1975, p. 216.

I.2. San Giovanni Evangelista e San Giovanni Battista

20. Vangelo di Giovanni, 13,23. In: La Bibbia, Roma,


Edizioni Paoline, 1983, p. 1661.
21. Buon ultimo Gianfranco Ravasi, Il discepolo amato, Alba,
Edizioni San Paolo, 2013.
22. Vangelo di Giovanni, 1, 1-5. In: La Bibbia, cit., p. 1640.
23. Giovanni, Apocalisse, 19,12. In: La Bibbia, cit., p. 1901.
24. Vangelo di Luca, 3, 16. In: La Bibbia, cit., p. 1600.
25. Vangelo di Giovanni, 3, 29-30. In: La Bibbia, cit., p.
1644.
26. Vangelo di Luca, 1, 76-79. In: La Bibbia, cit., p. 1597.
27. Esemplificativo della letteratura in materia (e delle
conclusioni aberranti a cui questo tipo di interpretazione può
condurre) è il libro di Paul Le Cour, Il vangelo esoterico di
San Giovanni, Foggia, Bastogi, 2009. Sul fenomeno dei
gruppi neognostici è molto utile la lettura delle opere di
Massimo Introvigne ed in particolare de Il ritorno dello
gnosticismo, Milano, Sugarco, 1993. L'autore, presidente del
CESNUR (Centro Studi sulle Nuove Religioni), molto vicino
alle posizioni del gruppo integralista Alleanza Cattolica, vi
raccoglie una enorme quantità di materiali di grande
interesse.

I.3. San Giovanni Decollato

28. Vangelo di Matteo, 14, 3-11. In: La Bibbia, cit., p. 1539.


29. Scrittore romano di origine ebraica vissuto nel I sec. d.C..
Figura controversa: fra i capi della grande rivolta conosciuta
come prima guerra giudaica, si consegnò ai romani e dopo
varie peripezie fu liberato e adottato dalla famiglia imperiale.
Morì a Roma intorno all'anno 100. Scrisse opere di storia di
intonazione filo-romana, fondamentali per conoscere la
situazione della Palestina di quel periodo. Si può
approfondirne la conoscenza con il bel libro di Pierre Vidal-
Naquet, Il buon uso del tradimento. Flavio Giuseppe e la
guerra giudaica, Roma, Editori Riuniti, 1980.
30. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVIII, 116-119.
Edizione elettronica: http://www.alateus.it/Antichitait.pdf
31. Per una trattazione esaustiva della materia: Claudine
Gauthier, La décapitation de Saint-Jean en marge des
Evangiles, Paris, Publications de La Sorbonne, 2013.
32. Julia Kristeva, La testa senza il corpo. Il viso e l'invisibile
nell'immaginario dell'Occidente, Roma, Donzelli, 2009, p.
149.
33. Sui Muzzuni cfr: Maria Adele Di Leo, Feste popolari di
Sicilia, Roma, Newton Compton, 1997 e Ignazio Buttitta, Le
fiamme dei santi: usi rituali del fuoco nelle feste siciliane,
Roma, Meltemi, 1999.
34. Gabriele D'Annunzio, La figlia di Jorio, Edizione
elettronica, www.liberliber.it,, p. 8.
35. Ivi, p. 56.
36. Per l'uso simbolico delle teste mozzate nell'architettura
romanica e gotica cfr.: Fulvio Cervini, La pietra e la croce,
Ventimiglia, Philobiblon, 2005. Per il folklore: V.J. Propp, Le
radici storiche dei racconti di fate, Torino, Boringhieri, 1972,
pp. 242-44.
37. Sulle origini del mito del Graal cfr.: Robert De Boron, Il
racconto della storia del Graal, a cura di Angelo Terenzoni,
Genova, Alkaest, 1980.
38. Cfr.: Monika Hauf, La via del Sacro Graal, Roma,
Edizioni Archeios, 2005 e Luce del Graal, a cura di René
Nelli, Roma, Mediterranee, 2001.
39. Richard Barber, Graal, Milano, Il Giornale Biblioteca
storica, 2005, p. 137.
40. Michel Vovelle, Piété baroque et déchristianisation en
Provence au XVIIIe siècle. Les attitudes devant la mort
d'après les clauses de testaments, Paris, Seuil, 1973.

I.4. Il culto di San Giovanni e l'Islam

40. Il Corano, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1979,


Libro I, p. 133.
41. Ivi, pp. 428-434.
42. Glauco D'Agostino, Sulle vie dell'Islam, Roma, Gangemi
Editore, 2010, pp.50-53.
43. Tre di queste ta‘ziés sono state pubblicate in italiano. Cfr.:
A. Bausani, San Giovanni Battista e Zaccaria in tre drammi
popolari persiani inediti della collezione Cerulli. In: Problemi
attuali di scienze e di cultura, n.62, pp. 153-237.
44. Gauthier, La décapitation de Saint-Jean cit., p. 10.
45. Sui Mandei è di grande utilità: Edmondo Lupieri, I
mandei. Gli ultimi gnostici. Brescia, Paidea, 1993. Il volume
contiene una ricca raccolta di testi mandei.

I.5. San Giovanni e la Massoneria

46. “Per giusti e razionali motivi a Noi noti” è l'espressione


utilizzata da Benedetto XIV per motivare la promulgazione
della Bolla.
47. Le Costituzioni del 1723: http://lamelagrana.net
48. Guénon, Simboli della Scienza sacra, cit., pp. 213-215.
49. Louis Trebuchet, Les deux Saint Jean, un mythe pluri-
millenaire, in: “Les Mistères de Saint-Jean”, Points de Vue
Iniziatiques, n.134, Hiver 2004.
50. Per un approfondimento della materia: Paul Naudon,Le
Logge di San Giovanni e la filosofia esoterica della
conoscenza, Roma, Atanor, 1997.
51. Al simbolismo della rosa, fiore mistico per eccellenza,
Alfredo Cattabiani dedica l'apertura del suo libro sul
simbolismo dei fiori e delle piante. A. Cattabiani, Florario,
Milano,Oscar Mondadori, 998, pp. 15-42.
52. Thomas Stearns Eliot, Quattro quartetti, Milano,
Garzanti, 1994, p. 81.

II.1. L'accensione dei falò

53. Cesare Pavese, La luna e i falò, in Tutti i romanzi, II,


Torino, La Stampa, 2008, pp. 235-236.
54. Proprio mentre scriveva La luna e i falò, Cesare
Pavesecurava per Einaudi l'edizione italiana de Il ramo d'oro
a dimostrazione di un interesse per i temi antropologici e il
mito che troverà sbocco maturo negli scritti di Dialoghi con
Leucò. L'opera prediletta che Pavese portava sempre con sé,
rileggendola e annotandola, tanto che una copia del libro fu
trovato accanto al corpo dello scrittore nella stanza d'albergo
dove si era ucciso.
55. Philippe Georget, D'estate i gatti si annoiano, Roma,
Edizioni e/o, 2012, pag. 70.
56. James G. Frazer, Il ramo d'oro, Torino, Einaudi, 1950,
vol. II, pag. 325.
57. Ivi, p. 393
58. Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, Firenze, Libreria
Editrice Fiorentina, 1925, pag. 706.
59. V. Bonaiti - D. Ferrero - L. Gatto Monticone - A. Zonato,
Tempi del sacro tempi dell'uomo. Il calendario tradizionale
contadino nella conca di Bardonecchia, Susa, Jonas, 2007, pp
71-75.

II.2. L'acqua simbolo di fertilità

60. Alfredo Cattabiani, Calendario, Milano, Mondadori,


2008, p. 235.
61. Ovidio, I Fasti, VI, 771-84.
62. Annamaria Rivera, Il mago, il santo, la morte, la festa:
forme religiose nella cultura popolare, Bari, Dedalo, 1988, p.
139.
63. Lanternari, cit., p. 345.
64. http://www.umbriatakeaway.com/la-guazza-di-santo-
gioanno-fa-guari-da-ogni-malanno/
65. Francesco Petrarca, Rerum familiarum, I, 5:2-8.
Traduzione nostra dell'originale latino.
66. Rivera, cit., p.133.
67. Cattabiani, cit., p. 238.
68. P.M. Paciaudi, De cultu S. Joannis Baptistae antiquitates
Christianae, Roma 1755, p. 34, In: Rivera, cit., pp. 132-133.

II.3. Le erbe di San Giovanni

69. Un'esaustiva trattazione del tema in Le erbe e le piante di


San Giovanni in: Cattabiani, Florario, cit., pp.205-257.
70. Charles Baudelaire, Opere, Milano, Mondadori, 1996,
p.105.
71. Cattabiani, Florario, cit., p. 212.
72. Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino,
Boringhieri, 1976, p. 307.
73. Per un utile approccio alla santeria si rimanda a Giuliana
Muci, La santeria cubana. Aspetti teorici, mitologici e rituali,
Nardò, BESA, s.d..

II. 4. La notte delle streghe

74. Paolo Aldo Rossi, L'unguento per volare al sabba, in:


http://www.airesis.net/
75. Domenico Mammoli, Processo alla strega Matteuccia di
Francesco (Todi, 20 marzo 1428), CISAM (Centro Italiano
studi sul Basso Medioevo) 2013.
76. Cesare Cantù, Margherita Pusterla, Torino, Stabilimento
tipografico Fontana, 1843, p. 177.
77. Giuseppe Gioachino Belli, San Giuvan-de-giugno, in I
sonetti, Milano, Feltrinelli, 1976, Vol. II, p. 1159.
78. Cattabiani, Calendario, cit. p. 240.

E per concludere... Sibilla Aleramo

79. Sibilla Aleramo, Orsa Minore. Note di taccuino e altre


ancora, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 98.
Dizionario biografico

Agostino, Aurelio. (Tagaste 354 - Ippona 430). Vescovo di


Ippona e santo. Uno dei quattro grandi Dottori della Chiesa.

Aleramo, Sibilla. Pseudonimo di Rina Faccio. (Alessandria


1876 - Roma 1960). Poetessa e narratrice.

Al-Ḥusayn ibn ʿAlī ibn Abī Ṭālib. (Medina 626 - Kerbala


680) Nipote del profeta Maometto e terzo Imam dello
Sciismo.

Alì Ibn Abi Talib. (la Mecca 602 - al-Kufah 661). Cugino e
genero di Maometto. Il suo califfato fu segnato da lotte che
determinarono la scissione dell'Islam tra sciiti e sunniti.

Anderson, James. (Aberdeen 1679 - Exeter Court 1739)


Scrittore e pastore presbiteriano scozzese. Autore delle
Costituzioni della Gran Loggia d'Inghilterra.

Attone. Scrittore ecclesiastico. Vescovo di Vercelli dal 924.

Baudelaire, Charles. (Parigi 1821 - ivi 1867) Poeta e


prosatore francese.

Beda il Venerabile. (673 - 735) Storico e scrittore d'origine


anglosassone. Dottore della Chiesa e santo.

Belli, Giuseppe Gioachino. (Roma 1791 - ivi 1863).


Principale esponente della poesia dialettale romana.
Bodrero, Antonio. (Frassino 1921 - ivi 1999). Detto anche
«Barba Toni». Poeta occitano.

Brown, Dan. (Exeter 1964). Scrittore americano, autore del


best seller Il Codice Da Vinci.

Cantù, Cesare. (Brivio 1804 - Milano 1895). Storico e


critico letterario.

Caproni, Giorgio. (Livorno 1912 - Roma 1990). Poeta. Visse


a lungo a Genova che cantò in molte sue opere.

Cattabiani, Alfredo. (Torino 1937-Santa Marinella 2003).


Scrittore e giornalista.

Cesario di Arles. (Chalon-sur-Saône verso il 470 - Arles


542). Teologo. Vescovo di Arles e santo.

Chrétien de Troyes. Scrittore francese collocabile fra gli


anni '30-'40 e gli anni '80 del secolo XII. Autore di romanzi
cavallereschi in versi.

D'Annunzio, Gabriele. (Pescara 1863 - Gardone Riviera


1938). Poeta e prosatore.

Daubrun, Marie. (1827 - ?). Attrice francese. Nel 1847


amante e musa ispiratrice di Charles Baudelaire.

De Andrè, Fabrizio. (Genova 1940 - Milano 1999).


Cantautore, esponente della cosiddetta “scuola genovese”.

Eliade, Mircea. (Bucarest 1907 - Chicago 1986). Storico


rumeno delle religioni e scrittore.

Eliot, Thomas Stearns. (Saint Louis 1888 - Londra 1965).


Poeta, commediografo e critico letterario statunitense. Premio
Nobel per la letteratura nel 1948.

Erode Antipa. (Circa 20 a.C. - 40 d.C.). Re della Galilea e


della Perea ai tempi di Gesù.

Fabré-Palaprat, Bernard Raymond. (Cordes 1773 - Parigi


1838). Prima sacerdote, poi medico. Fondatore della Chiesa
Gioannita dei Cristiani Primitivi.

Frazer, James George. (Glasgow 1854 - Cambridge 1941).


Etnologo scozzese.

Gauthier, Claudine. Antropologa delle religioni.


Ricercatrice associata al Centre d’études interdisciplinaires
des faits religieux, insegnante a l’École des hautes études en
sciences sociales.

Giuseppe Flavio. (37 o 38 - 100 d.C.). Storico romano di


origine ebraica.

Gregorio I. (Roma circa 540- ivi 604). Detto G. Magno.


Papa, dottore della Chiesa e santo. Riformatore della liturgia.

Guénon, René. (Blois 1886 - Il Cairo 1951). Saggista ed


esoterista francese.

Heine, Heinrich. (Düsseldorf 1797 - Parigi 1856) Poeta


tedesco, protagonista del periodo di transizione tra il
romanticismo e il realismo.
Jacobelli, Maria Caterina. (Roma 1928). Antropologa e
teologa.

Jacopo da Varagine. (Varazze circa 1230 - Genova 1298).


Agiografo e scrittore ecclesiastico. Dal 1292 vescovo di
Genova. Beato.

Jung, Carl Gustav. (Kesswil 1875 - Küsnacht 1961).


Psicologo analista e psichiatra svizzero. Fondatore della
psicologia analitica o psicologia del profondo.

Kristeva, Julia. (Sofia 1941). Saggista francese di origine


bulgara. Filosofa della differenza.

Lanternari, Vittorio. (Ancona 1918 - Roma 2010).


Antropologo e storico delle religioni. Per molti anni
Ordinario di Etnologia presso l'Università di Roma.

Luigi XIV. (Saint-Germain-en-Laye 1638 - Versailles 1715).


Re di Francia detto il Re Sole.

Mallarmé, Stéphane. (Parigi 1842 - Valvins 1898). Poeta


francese, capofila della corrente simbolista.

Omero. Leggendario poeta greco. Autore dell'Iliade e


dell'Odissea.

Ordinaire, Pierre. (Quingey 1741 - 1821). Medico francese,


primo distillatore dell'assenzio.

Ovidio, Nasone Publio. (Sulmona 43 a.C. - Tomi 17 o 18


d.C.). Poeta latino.
Pavese, Cesare. (Santo Stefano Belbo 1908 - Torino 1950).
Scrittore e poeta.

Paz, Octavio. (Città del Messico 1914-1998). Diplomatico,


poeta e saggista. Premio Nobel per la letteratura nel 1990.

Petrarca, Francesco. (Arezzo 1304 - Arquà 1374). Poeta e


scrittore. Con Dante Alighieri uno dei padri della letteratura
italiana.

Servio Tullio. (578 - 535 a.C.) Sesto re di Roma.

Shakespeare, William. (Stratford-on-Avon 1564 - ivi 1616).


Massimo drammaturgo e poeta inglese.

Tardieu, Michel. (Mareuil-sur-Belle 1938). Storico delle


religioni e membro del Collegio di Francia.

Trebuchet, Louis. Gran Maestro Aggiunto della Gran Loggia


di Francia. Autore di una monumentale opera sulla storia del
Rito Scozzese Antico e Accettato.

Verlaine, Paul. (Metz 1844 – Parigi 1896). Poeta francese,


esponente del Decadentismo.

Vovelle, Michel. (Chartres 1933). Storico francese.

Wilde, Oscar. Pseudonimo di Oscar Fingal O'Flahertie Wills.


(Dublino 1854 - Parigi 1900). Scrittore irlandese.
Carcare San Giovanni al monte
Nico Cassanello

San Giovanni de Cario, un sito religioso tra


viabilità antica e medievale

Nei primi atti del Registro della Catena del Comune di


Savona sono annotati i possessi della chiesa savonese
nell'oltre giogo padano con edifici religiosi, decime e terre,
un dominio spirituale e temporale che alcuni studiosi tendono
a collegare alla crisi della diocesi di Alba per le scorrerie
saracene et vastaciones malorum hominum. Questa ipotesi, se
accolta integralmente, rende marginale la figura del vescovo
di Savona Nel processo di formazione delle strutture feudali e
nei rapporti di potere con i marchesi aleramici e l'autorità
imperiale. Lascia inoltre irrisolti i nodi legati non solo al
problema dell'estensione della diocesi savonese nelle valli del
Bormida, ma all’acquisizione o provenienza degli stessi beni
episcopali e alla conseguente funzione del vescovo come
autorità religiosa e politica, sfumando la figura a soggetto
marginale nelle vicende storiche dei secoli X e XI.

Il ruolo politico del vescovo di Savona sembra emergere con


chiarezza nei documenti dell’anno 1080 del 1° Registro della
Catena (n. 32 e 34) , quando alla sua presenza viene stipulata
una convenzione tra i savonesi e gli habitatores homines de
Cario sull'uso del pascolo nella grande selva che si estendeva
sulla dorsale appenninica con gli atti sottoscritti in domo
episcopi, il palazzo vescovile che rappresenta il simbolo di
questo potere e non nel castello aleramico. Il dominio
temporale dell'episcopato savonese sulle terre del Bormida, di
cui la crisi albese può essere una possibile concausa, sembra
risalire a una più antica origine e legata in primis ad una
funzione di controllo su quel sistema stradale che ricalcava
l'antica viabilità romana, come lascia trasparire il possesso
vescovile di Tiassano e Morosso, due antichi insediamenti nel
territorio di Quiliano posti come presidi sulla consolare
romana Aemilia Scauri.

Da questi indizi prende corpo l'ipotesi di una autorità


signorile di cui viene investito il vescovo di Savona, una sorta
di contea ecclesiastica di cui viene investito il vescovo di
Savona, dove la funzione di guida religiosa sembra coabitare
con compiti di natura feudale e l'incarico di sorveglianza sui
passaggi stradali dal litorale marittimo e sui traffici
commerciali, come il Malandra ha argomentato in modo
convincente nel suo studio sull'episcopato savonese tra il X e
il XIV secolo. Questa ipotesi trova riscontro nei primi
documenti del Registro della Catena, visti non come semplici
atti per il possesso di terre e edifici religiosi, ma conferme di
una dominazione territoriale di tipo signorile con privilegi
giurisdizionali su beni di natura e origine diversa che
l'imperatore, a seconda dei casi, conferma o conferisce alla
Chiesa di Savona come struttura religiosa e politica e del cui
uso investe il vescovo pro tempore.

E' quanto riporta il documento del 27 maggio 998 nel quale


vengono confermati (e il verbo indica con chiarezza il
contenuto e la natura dell'atto) dall’imperatore Ottone alla
chiesa madre di Santa Maria, sede episcopale posta sul
Priamar, per l'intervento del vescovo Bernardo possessiones
proprias adquisitas, beni già in suo possesso per una
conferma forse resa necessaria nella ridefinizione dei rapporti
di potere con i marchesi aleramici. Beni che comprendono la
chiesa di Santo Eugenio sull'isola di Bergeggi, erede del
primitivo edificio paleocristiano e sulla quale l'episcopio
conserva diritti anche con la fondazione del monastero poi
dato ai benedettini di Lerins per essere i custodi del corpo
santo e i promotori del culto ,quando ormai, come ricorda il
Settia, le incursioni saracene erano state debellate.

La dicotomia tra chiesa come edificio sacro aperto e


monastero, luogo riservato ai monaci, attesta una distinzione
presente nelle fondazioni religiose primitive e viene
confermata in modo chiaro nell’atto di donazione del 992,
quando il Vescovo concede il monastero ai monaci lerinesi e
tiene legata ai beni dell’ Episcopio la chiesa di S. Eugenio in
insula Liguriae con la nomina di Adamo, canonico del
capitolo savonese, a ministro di culto della stessa. Sono Sun
parte le modalità che troviamo per le chiese di San Giorgio di
Savona e di San Pietro di Carpignana in Quiliano duipendenti
dall'abbazia di Fruttuaria sulle quali il vwscovo di Savona
conserva ancora nell'anno 1386 diritti di cathedraticum.

L’atto potrebbe contenere una chiave di lettura sulla stessa


genesi storica di Bergeggi: il territorio terra del vescovo di
provenienza dal fisco regio longobardo o carolingio e l'isola,
dove sussiste l'antica chiesa di Sant'Eugenio, da una diversa
donazione di più antica origine. Il documento dell'8 settembre
999, con l'investitura di Giovanni a vescovo dell'episcopato
savonese da parte dell'imperatore, evidenzia il rituale di
trasmissione di un potere religioso e nel contempo civile con
il conferimento, attraverso una lunga elencazione, di beni
quali edifici religiosi, decime, corti e proprietà terriere. L'atto
non richiama a una realtà storica pregressa come il
documento precedente, ma con la formula del conferimento
imperiale attraverso l’investitura definisce i possessi sui quali
il vescovo di Savona va a esercitare la propria autorità.

E' a questo nuovo contesto che si lega il riferimento di una


terram de Ponte quanta ad Sanctum Eugenium pertinet, sulla
quale poi ritorneremo nel presente studio, citata come bene
episcopale e che non subentra a nessuna chiesa di
Sant'Eugenio in Altare, ma indica in modo evidente come già
per la chiesa sull’isola il diritto che il vescovo conserva su
una terra concessa in seguito ai monaci dell'isola di Bergeggi.
Il primo documento del 998 contiene un'altra annotazione
importante, motivo di queste brevi note, con l'indicazione tra
i possessi della chiesa savonese della pieve di San Giovanni
de Cario cum capella Sancti Donati, intitolazione a San
Giovanni non confermata nei documenti successivi che
riportano una pieve di San Donato, con il titolo della
primitiva cappella che sembra subentrare a quello della antica
chiesa matrice.

Il problema della localizzazione della pieve e del suo cambio


cultuale (affrontato dagli studiosi locali con varie ipotesi)
resta ancora aperto, ma rimane l'estrema importanza di questa
citazione. Nella costruzione in epoca medievale di un edificio
religioso la dedicazione segnava l'importanza della struttura,
seguendo una gerarchia santorale con ai vertici Maria, San
Pietro, San Giovanni e i primi martiri cristiani. Dal titolo
nasceva la sua autorità nel tessuto religioso e nel contesto
sociale: essere semplice cappella o edificio sacro cimiteriale,
chiesa con cura d'anime per le celebrazioni religiose e la
raccolta delle decime o pieve con fonte battesimale e punto di
riferimento ecclesiale per un vasto territorio. A questa ultima
funzione sembra rimandare l'indicazione di pieve che
compare nell'atto, sottolineata dall'intitolazione al Battista
che nel cristianesimo primitivo rappresentava una delle figure
più care e tra le più invocate nella prassi devozionale.

Giovanni è colui che apre la via a Gesù attraverso il


battesimo, e a questo rito fanno riferimento molte chiese a lui
dedicate e il discepolo che, attraverso una forte immagine
iconografica, indica la strada verso il Cristo. La figura di
indicatore è il motivo che porta prima in Oriente e poi nel
mondo occidentale a collocare, su antichi tracciati viari,
edifici sacri legati al suo culto con la duplice funzione di
segnacoli stradali e di strutture ospitaliere. La motivazione
simbolica si coglie nella costruzione di strutture religiose
legate al santo lungo un antico percorso altomedievale che
congiungeva il basso Piemonte al mare attraverso il San
Giovanni dello Zerbo di Mombasiglio, il San Giovanni della
Langa sopra Murialdo e il San Giovanni di Cairo.

Questa direttrice viaria sembra suggerire la nascita di un


cammino giovanneo o per la corona cultuale con i santi
Quirico e Giulitta a Bagnasco e i santi Quirico e Tecla a
Bergeggi, di un probabile corridoio devozionale bizantino e
lascia traccia nell'atto n. 584 del Registro della Catena del 4
ottobre 1389 che fissa la viabilità verso l’oltre giogo sul
posse Signi ( l’attuale Segno sopra Vado Ligure) per mezzo di
una strata, ad locum Mallarum, dove l'uso del termine di
derivazione classica sottolinea l'importanza del percorso e
conferma attraverso una continuità storica la sua antichità. Il
documento fotografa anche un sistema viario medievale che
utilizzava la rete stradale romana, per stratas romanas, sul
quale aveva vigilato il vescovo di Savona per gli antichi
diritti e la sua funzione di controllore fino all'anno 1385,
quando papa Urbano VI cede a Genova il patrimonio dei beni
dell'episcopato savonese e pone termine al dominio
territoriale vescovile.
La pieve di San Giovanni di Cairo, sorta su un reticolo di
antiche vie di comunicazione e legata al vescovo come luogo
per il controllo dell’importante nodo stradale, segnava in
modo simbolico con la sua presenza l'inizio dell'ultimo tratto
con un doppio itinerario. Il tracciato di crinale andava per
Bogile, la località Crocetta, il Bric Montà, Montefreddo,
Mallare a valicare la Colla di San Giacomo per poi scendere
all'approdo di Noli. L’altro seguendo il percorso della romana
Aemilia Scauri lungo la Val Quazzola (nel medioevo via
publica Trium Poncium) per la chiesa del San Salvatore di
Valleggia giungeva al San Giovanni di Vado con il suo
ospitale, lo scalo portuale e il mercato nel mondo feudale
centro di ogni attività commerciale, posto nella Braida sotto
Tiassano di proprietà dello stesso vescovo di Savona.

Per queste considerazioni di prassi cultuale e di viabilità la


pieve di San Giovanni potrebbe non identificarsi con una
struttura religiosa posta nel borgo di Cairo, ma con un
edificio viario extraurbano, dove in virtù di una posizione
centrale e strategica coprire il ruolo privilegiato per il rito
battesimale di coloro che abitavano il vasto territorio cairese.
Un territorio che nella prima metà del secolo XII giungeva
fino al iugum, la dorsale collinare che segna la divisione fra il
versante tirrenico e quello padano e non uno specifico valico
o colle come ipotizzato da alcuni recenti studi. La conferma
di questa estensione si ha nell'atto n. 43 del I° Registro della
Catena, datato1141-1142 secondo i diversi stili
dell'incarnazione con riferimento al documento o alla notula,
dove Anselmo de Aquiliano, cioè il castellano di Quiliano,
concede per ordine dei marchesi aleramici Manfredo e Ugo
una terra posta nella vallata del Consevola in loco e fundo
Carii alla chiesa di San Michele di Veirasca, odierna frazione
di Montagna nel comune di Quiliano.(1)

Il documento poco utlizzato, ma centrale per lo studio delle


dinamiche medievali dei confini e l'evoluzione degli assetti
territoriali, coglie l'importanza dell'ecclesiae Sancti
Michaelis de Viarasca e fissa la linea di confine fra la
castellania di Quiliano e la Comunità degli uomini di Cairo,
utilizzando come termine divisorio il giogo che con il flumen
Cosegule e la terra Sancti Eugeni definisce i lati della terra
concessa.(2) In quest'ultimo riferimento si legge una
continuità storica con quella terram de Ponte quanta ad
Sanctum Eugenium pertinet del documento del 999 e si viene
a segnare un limite del possesso dei monaci lerinesi, dove
apud Carcharas nei fini di Altare potrebbe essere collocato il
mulino del monastero citato nell'atto dell’anno 1252 (n.125)
del I° Registro della Catena.

Vorrei richiamare l'attenzione sul termine ponte da


identificarsi con quello della Volta, per l'importanza e il
ruolo della struttura, in parallelo con i ponti romani della Val
Quazzola e il ponte presso l'Abbazia di San Quintino di
Spigno su cui il vescovo di Savona aveva il pieno dominio e
giurisdizione, nella politica di quella sorveglianza viaria che
sembra essere il motivo dei possessi dell'episcopato savonese
nell’oltre giogo padano. Alla pieve di San Giovanni di Cairo
e per analogia anche al San Pietro de Meleseno nell'altra
vallata del Bormida era quindi demandata la cura d’anime di
un vasto distretto amministrativo, la prerogativa di sede dove
poter essere conferito il battesimo e il compito di controllo di
un luogo strategico del sistema viario verso Ceva, Alba e
Acqui.
Queste note sulla funzione delle strutture religiose medievali,
sulla viabilità e la figura del Battista non solo come colui che
battezza, ma il protettore che indica un cammino lungo
antichi percorsi devozionali e commerciali, portano ad
ipotizzare la localizzazione della pieve de Cario in quell'area
di strada che conserva traccia del termine Levata (3) e del
toponimo Canalicum come diverticolo stradale dall'arteria
della consolare romana Aemilia Scauri. L'area
comprendel'antica cappella di San Donato in prato de
Fornello (4), l'attuale edificio religioso della Madonna delle
Grazie di Cairo, posta sul nodo viario romano e la chiesa di
San Giovanni al Monte di Carcare, erede cultuale dell'antica e
effimera dedicazione pievana e sito in altura per il controllo
di un territorio forse già in epoca altomedievale sottoposto
all'autorità del vescovo di Savona.
Note

1. La Consevola è una lunga valle boscosa dove scorre il


torrente omonimo che dal monte Alto scende nella Bormida
di Mallare in località Acque o Peirano presso la cappella di S.
Lorenzo. Forma il bacino imbrifero più meridionale dell’arco
alpino tra gli attuali comuni di Quiliano, Altare e Mallare.
2. La rilevanza della struttura ecclesiale di S. Michele de
Viarasca deriva non tanto dall’intitolazione legata al mondo
longobardo con l'indicazione confermata dai numerosi
toponimi di origine germanica presenti nell’areale, ma per
essere il centro spirituale e sociale di un’antica terra
arimannie passata dal fisco regio al dominio vescovile. Il
luogo di culto, chiesa contrapposta all’edificio paleocristiano
del San Pietro de Carpiniana, svolge funzioni di diritti
pievani ( audiendum matutinas et misam et dantes decimam
et primiciam…) che lasciano intravedere una situazione
privilegiata tra le coeve fondazioni religiose.
3.Il toponimo Levata, di origine medievale, indica una
preesistente strada romana. Il termine si riferisce alla tecnica
di costruzione per strati sovrapposti che rendeva la sede
viaria rialzata dal terreno circostante.
4. La fornellata è una pratica millenaria di trasformazione
del bosco in prato con l’uso del fuoco.
Bibliografia

AA.VV., I Registri della Catena del Comune di Savona,


Società Savonese di Storia Patria, 1986.
AA.VV. Le strutture del territorio fra Piemonte e Liguria,
Cuneo 1992 ( in particolare L. Oliveri, L'organizzazione
pievana in alta Val Bormida)
AA.VV., Scritti in onore di Monsignor G.B. Parodi, Savona
2000 ( in particolare G. Malandra, Il vescovato savonese dal
X al XIV secolo).
G. Balbis, Val Bormida medievale, Cengio 1980.
N. Cassanello, Toponimi di Quiliano, Società Savonese di
Storia Patria 2011.
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Savonese di Storia Patria 2013.
N. Cassanello et alii, Toponimi di Cairo, Società Savonese di
Storia Patria 2014.
G. Coccoluto, Tra Liguria e Piemonte, in Viabilità in Liguria
tra il I e il VII secolo, Bordighera 2004.
S. Mallarini, Toponimi di Carcare, Società Savonese di Storia
Patria 2012.
R. Pavoni, Viabilità romana e medievale, Millesimo 2003.

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