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La matematica, una scienza esatta?

Michael Segre

Generalmente la matematica è considerata il paradigma dell’esattezza. È

poi veramente così?

Propongo di affrontare la questione da vari punti di vista: quello filosofico,

o meglio metafisico, quello storico e, non ultimo, quello semantico.

Vedremo che parlare di esattezza in certi campi della matematica può

diventare un argomento delicato. In quello che vi racconto non c’è nulla di

nuovo, anzi sono cose elementari, ma credo sia opportuno tenerne conto.

Esattamente come molto spesso non si tiene conto del fatto che la scienza

non è verità, non dà certezza e in essa nulla può essere provato.

Che cosa è l’esattezza? Ho consultato vari dizionari e trovato diverse

definizioni. L’etimologia del termine latino exactus ci riporta al termine

“exìgere” nel senso di 'misurare o pesare con precisione'. Ciò implica che

l’esattezza andrebbe determinata in rapporto a uno schema di riferimento.

Da questo ne scaturisce una scaletta di possibilità.

La prima, che chiamerei ESATTEZZA ASSOLUTA, indica una precisione in

piena corrispondenza con lo schema.2 Prendiamo l’esempio del tiro a segno:

il punto di riferimento è il centro e se lo colpiamo con precisione possiamo

dire che il tiro sia esatto in assoluto.

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Se invece ci avviciniamo il più possibile al centro possiamo sempre dire di

aver colpito con una certa esattezza, ma abbiamo un risultato più debole,

quello di un’ESATTEZZA RELATIVA.

Una3 terza possibilità si riferisce più alla precisione durante lo svolgimento

dell’operazione che alla corrispondenza con lo schema. Se il tiratore ha

eseguito con precisione, senza alcun errore, tutte le procedure richieste,

anche se non colpisce il centro non potrà essere accusato d’inesattezza.

Chiamerei questo caso ESATTEZZA SOGGETTIVA o semplicemente

RIGORE nell’operazione.

Infine ci sarebbe un grado ancora più debole di rigore, quello condizionato,

per esempio, dai nostri sensi. Nel nostro caso, si riferirebbe più alle

scienze che richiedono un controllo empirico: negli esperimenti in fisica,

per esempio, si lascia sempre dello spazio per gli errori. La matematica

vertendo su oggetti astratti, ottenuti attraverso un puro ragionamento,

non ne sarebbe condizionata.

Sicuramente, gran parte della matematica può essere considerata di

esattezza assoluta. 2 più 2, per esempio, fa esattamente 4 e gran parte

della geometria euclidea offre risultati assolutamente precisi.

Vedremo, tuttavia, come già gli antichi avevano notato delle inesattezze

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nella matematica e come i tentativi di superarle non fecero che portare a

gradi maggiori di inesattezza man mano che si raggiungevano livelli

concettuali più alti.

Già nell’era presocratica, Pitagora e i suoi discepoli avevano notato Una

deviazione dall’esattezza assoluta quando scoprirono le grandezze

irrazionali. I numeri razionali sono quei numeri che possono essere

espressi come frazioni di numeri interi e i pitagorei scoprirono che NON

tutte le grandezze possono essere espresse razionalmente. La radice di

due4, per esempio, è un numero irrazionale o, per usare la formulazione di

Euclide, una grandezza incommensurabile. Secondo il teorema di Pitagora,

un triangolo rettangolo isoscele con cateti pari a 1, avrà necessariamente

un’ipotenusa pari alla radice di 2. Qualunque unità di misura di grandezza

razionale che riesca a misurare i cateti con esattezza assoluta non riuscirà

a misurare l’ipotenusa con esattezza assoluta e viceversa. Le fonti antiche

non specificano come Pitagora e i suoi discepoli giunsero a questo risultato,

ma ci narrano che la scoperta di questa inesattezza fece precipitare la

scuola in una crisi. Evidentemente, a livello metafisico, per Pitagora e i

suoi discepoli la matematica doveva essere di esattezza assoluta e non si

poteva concepire una deviazione.

Poi vennero i famosi paradossi di Zenone5 che andrebbero considerati nel

loro contesto filosofico, più che matematico. Ma Zenone aveva notato, tra

l’altro, che nello stesso numero di unità di tempo, Achille attraversa un

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numero diverso di unità di percorso dalla tartaruga. I paradossi

rappresentano uno dei primi confronti con l’infinito e cioè con la questione

della continuità di una linea che contiene un’infinità di punti infinitamente

piccoli. Presto diventerà una maggiore sfida per la matematica.

Un’altra sfida della geometria antica era la “quadratura del cerchio” e più

in generale la misurazione dell’area di una superfice qualunque non

direttamente misurabile come si può fare nel caso, per esempio, di molti

poligoni. In antichità si applicava il metodo di esaustione,6 attribuito a

Eudosso di Cnido vissuto nel quarto secolo avanti cristo. Si tratta di una

procedura che ambisce a dimostrare l'uguaglianza tra due aree, una

sconosciuta e difficile da misurare e l’altra facilmente misurabile. Nel

caso del cerchio iscriviamogli dentro un poligono, per esempio un esagono, il

cui lato è uguale al raggio del cerchio. Possiamo facilmente calcolarne

l'area, che sarà inferiore a quella del cerchio. Raddoppiamo il numero dei

lati dell’esagono e inscriviamo nel cerchio un dodecagono; anche l'area,

facilmente misurabile, del dodecagono sarà inferiore a quella del cerchio,

ma più vicina al valore dell’area del cerchio di quanto non fosse quella

dell'esagono. Raddoppiamo ripetutamente il numero dei lati del poligono.

Le aree dei poligoni ottenuti si avvicineranno sempre più a quella (ancora

sconosciuta) del cerchio. Ripetiamo lo stesso procedimento questa volta

inserendo il cerchio in un esagono e raddoppiando i lati. Di nuovo avremo

un avvicinamento alla stessa area. Spingendo il procedimento all'infinito

giungeremo all’area del cerchio. Ciò, tuttavia è materialmente

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IMPOSSIBILE e pertanto non possiamo essere sicuri con esattezza

assoluta che il nostro risultato esprima l’area del cerchio. Il metodo

dell’esaustione produce solo un risultato intuitivo e approssimativo:

abbiamo un’esattezza del secondo tipo, solo relativa. Nonostante ciò, con

buona pace di Pitagora, questo metodo era ormai accettato come

sufficientemente rigoroso e preciso in antichità.

Il grande Archimede, tra l’altro, nel terzo secolo AC, sviluppò un metodo

spiccio per misurare le superfici, precursore del calcolo integrale, il

cosiddetto “metodo meccanico”. Fortunatamente un manoscritto

archimedeo che lo illustra è stato scoperto all’inizio del secolo scorso in

una biblioteca di Istambul.7 Trattasi di una procedura geniale, tutt’altro

che semplice, basata sul principio della leva e del calcolo dei baricentri, un

calcolo che oggi normalmente viene assegnato come esercizio agli studenti

del primo anno di fisica. L’esattezza di questo metodo è, di nuovo, solo

relativa, e Archimede, la considerava solo una procedura euristica per

indicare l’area. Raccomandava di controllare il risultato attraverso

all’esaustione, considerandola più esatta. Abbiamo quindi due gradi di

esattezza relativa, di cui UNO SOLO soddisfacente per i criteri della

geometria di quel periodo.

Passiamo ora al calcolo infinitesimale moderno formulato inizialmente e

indipendentemente da Newton e da Leibniz.

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Consideriamo il caso newtoniano. Il calcolo infinitesimale newtoniano era in

funzione della fisica del movimento e Newton lo battezza come “metodo

delle flussioni”.8 “Flussione” sarebbe il tasso di variazione di una quantità

variabile nel tempo detta fluente, ciò che noi chiameremmo oggi

semplicemente derivata, anche se si deve stare attenti nel considerare

concetti storici dal nostro punto di vista. Nella cinematica, Il tasso di

variazione di una distanza percorsa da un oggetto in rapporto al tempo è la

velocità, e il tasso di variazione della velocità, sempre in rapporto al tempo

è l’accelerazione. Consideriamo un fluente f in funzione del tempo t,

incrementiamo t di una piccola quantità 𝚫t. La flussione in un punto

specifico di t viene data dal rapporto tra i valori del fluente prima e dopo

l’incremento e l’incremento stesso 𝚫t quando questo tende a zero. Per

usare le parole di Newton, sarebbe l’”ultimo rapporto di quantità

evanescenti”.

“Si può obiettare9 - scrive Newton - che l’ultimo rapporto di due quantità

evanescenti non è nulla, perché prima che esse svaniscano il loro rapporto

non è l’ultimo, e allorché sono svanite non ne hanno più alcuno. Ma è facile

rispondere: [..] l’ultimo rapporto delle quantità evanescenti deve essere

inteso come il rapporto fra dette quantità non prima che siano svanite, e

nemmeno dopo, ma nell’istante stesso in cui svaniscono”. Con questa

affermazione un po’ confusa, Newton si accontenta, anche se a malincuore

(diciamolo pure) di un’esattezza relativa del proprio metodo. L’ideale

rimaneva, dopotutto, l’esattezza assoluta.

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Difatti, il calcolo infinitesimale di Newton, e anche quello di Leibniz,

furono subito criticati appunto su questo punto, Nota è la critica di due

illustri filosofi e matematici Bernard Nieuwentijt e George Berkeley.10 Va

tuttavia detto che il loro movente era più religioso che matematico o

metafisico. Entrambi erano teologi e volevano dare rilievo alla superiorità

della teologia sulla scienza e sulla matematica.

L’olandese Nieuwentijt ben ammettendo che il calcolo infinitesimale

newtoniano potesse dare dei buoni risultati, considerava le quantità

evanescenti di Newton un concetto troppo vago.

Ancora più incisive sono le critiche di Berkeley. Una delle sue critiche si

riferisce alle flussioni della funzione xn. Per semplicità prendiamo solo la

funzione x2.11 Il ragionamento di Newton sarebbe il seguente:

incrementiamo x di α e sottraiamo DA (x+α)2 x2. Il tasso di incremento

sarà dato da 2x+α. A questo punto Newton farebbe fluire l’α verso zero

per ottenere 2x. Berkeley chiede: se α è zero, allora è inutile prenderlo in

considerazione. Se invece è un valore, 2x+α non sarà più solo 2x. Una

critica banale ma sostanziale. Berkeley e altri critici evidenziano

l’inesattezza del calcolo infinitesimale.

Ci furono naturalmente tentativi di superare queste critiche. È

interessante notare come molti matematici pensavano che aumentando il

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rigore nelle dimostrazioni, ossia lavorando con un’esattezza del terzo tipo,

soggettiva, si potrebbe raggiungere l’esattezza totale.

Una risposta considerata soddisfacente, anche se in realtà non lo era, fu

data da Augustin Louis Cauchy12 —francese che insegnò per un certo

periodo a Torino—che formulò il calcolo infinitesimale in modo sistematico

e apparentemente rigoroso. Il calcolo infinitesimale di Cauchy si basa

sull’introduzione della definizione del concetto di limite: “Quando i valori

successivi attribuiti a una variabile si avvicinano indefinitamente a un

valore fissato così che finiscono con il differire da questo per una

differenza piccola quanto si vuole, quest'ultimo viene detto il limite di

tutti gli altri" Introducendo questo concetto, Cauchy rende

elegantemente chiare molte procedure, come quella della derivata, nella

speranza di aver superato le difficoltà accennate prima.

Ma anche le definizioni di Cauchy furono criticate come troppo intuitive e

non sufficientemente esatte. Sarebbero più esatte, si pensava, se

potessero avere una forma numerica. E furono rese formalmente più

esatte, soprattutto dal matematico Berlinese Karl Weierstrass che diede

loro una forma algebrica.13

Weierstrass introdusse i concetti di delta e epsilon dando al concetto di

limite la seguente forma algebrica:

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Se è possibile determinare un intorno tale δ che, per tutti i valori di h

minori in valore assoluto di δ, f(x+h)–f(x) sia minore in valore assoluto di

una quantità epsilon, piccola quanto si vuole, allora si dirà che si è fatto

corrispondere ad una variazione infinitamente piccola della variabile, una

variazione infinitamente piccola della funzione.

Ma anche qui emergono delle difficoltà. Prendiamo il caso della definizione

del numero irrazionale. Cauchy lo aveva definito come il limite di una serie

di numeri razionali. Weierstrass perfeziona Cauchy offrendo una

definizione numerica al concetto di limite. Il risultato è un un circolo

vizioso: per uscirne si dovrebbe definire il numero irrazionale

indipendentemente dal concetto di limite.

Tra parentesi, Weierstrass, a differenza di Cauchy pubblicò molto poco,

sviluppando la propria matematica durante le proprie lezioni universitarie.

Dobbiamo la divulgazione dei suoi contributi ai suoi allievi, compreso un

matematico italiano: Salvatore Pincherle (1853-1936). Nonostante si

chiamasse Salvatore, temo che anch’egli non riuscì a salvare l’esattezza

della matematica.

Un’interessante soluzione alla definizione di irrazionali fu proposta da

Richard Dedekind, attraverso i cosiddetti tagli di Dedekind.14 Per non

entrare troppo nel formalismo matematico, cerco di semplificare al

massimo riprendendo l’esempio della radice di 2 che deve necessariamente

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trovarsi tra l'1 e il 2. Dedekind considera tutti i numeri razionali, ossia

tutte le frazioni che si trovano alla sua sinistra più tutte quelle che si

trovano alla sua destra che sono infinite. Tra i due insiemi vi è un “taglio”

che sarebbe il numero ⎷2. Così si definisce numero irrazionale con l’ausilio

dei numeri razionali. Tutte queste definizioni cercano di essere più esatte

possibili, ma in realtà rimangono solo relativamente esatte.

In questo periodo s’innesta il lavoro di un grande e influente matematico

italiano, Giuseppe Peano. 15


Peano inizia il proprio percorso di studio

correggendo errori che trova nei testi di matematica contemporanei che

ha sottomano. Diventa un cacciatore d’errori e si diverte a correggere i

testi matematici contemporanei. Sviluppa la propria visione — ingenua —

della matematica che si basa sulla supposizione metafisica che la

matematica è fondamentalmente totalmente esatta, basta che sia priva di

errori. Considera, almeno inizialmente, il numero un concetto assiomatico e

propone di costruire tutta la matematica rigorosamente in base agli

assiomi dell’aritmetica che lui stesso formula. Peano, dunque, è un esempio

di un sostenitore dell’esattezza di terzo tipo: basta essere rigorosi per

ottenere l’esattezza totale. La matematica in se è esatta, sono i

matematici a non esserlo di tanto in tanto. Ma se il matematico riesce a

evitare gli errori, tutta si metterà a posto. Capiremo subito perché questo

programma fallisce, ma basta dare uno sguardo alla diapositiva per

rendersene conto.

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Tornando a Weierestrass, Dedekind, e altri matematici, la sfida che questi

devono necessariamente affrontare sta nello studio della continuità della

linea, un campo problematico che implica lo studio dell’infinito; lo stesso

che già Zenone in antichità aveva evidenziato. Ciò impegna i matematici

nella ricerca della topologia della linea continua formata dai numeri reali,

ossia dai numeri razionali, irrazionali e trascendenti come p greco. Un

contributo importante in questo senso viene dato da Georg Cantor con lo

studio di insiemi infiniti che porta alla classificazione di diversi tipi di

infinito.16 Dal proprio punto di vista metafisico si potrebbe dire che

Cantor credeva di essere giunto a una formulazione attuale e non solo

potenziale della matematica, ossia a una matematica totalmente esatta.

Ma subito altri matematici, cosiddetti “intuizionisti” richiamano alla

cautela. Il matematico berlinese Leopold Kronecker (1823 - 1921),17 per

esempio, maestro e grande oppositore di Cantor, fa la famosa

affermazione “Dio ha creato i numeri naturali e matematici creano il resto”

invitando a partire da quei concetti che si è in grado di intendere

attraverso all’esperienza, come i numeri naturali, seguendo un numero

finito di deduzioni.

Ma che cosa è il numero? Si apre una nuova sfida che concerne i

fondamenti della matematica. Nel 1884 il logico Gottlob Frege18 pubblica

in tedesco un’opera sui fondamenti dell’aritmetica nella quale definisce il

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concetto di numero utilizzando concetti della logica. Vi risparmio la

definizione molto elaborata che poi viene sviluppata indipendentemente e

in modo più semplice da Bertrand Russell. Frege e Russell sono logicisti,

ossia sono, almeno inizialmente, convinti che la logica sia alla base della

matematica e che si potesse formulare tutta la matematica, partendo

dall’aritmetica, con i concetti della logica. La logica, tuttavia, è

strettamente collegata alla teoria degli insiemi e, ben presto, i logicisti

devono affrontare antinomie o paradossi.

Un paradosso è una conclusione logica e non contraddittoria che si scontra

con il nostro modo abituale di vedere le cose, mentre un'antinomia è una

proposizione che risulta autocontraddittoria sia nel caso sia vera, sia nel

caso sia falsa. Famoso è il Cosiddetto “paradosso di Russell”,19 che in

realtà è un’antinomia: “L'insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a

se stessi appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso”

L'antinomia di Russell può essere meglio capita attraverso al cosiddetto

paradosso del barbiere.20 In un paese vi è un solo barbiere, lui stesso ben

sbarbato, che rade solo gli uomini del villaggio che non si radono da soli. Chi

rade il barbiere?

La somiglianza con l’antinomia di Russell sta nel fatto che il villaggio del

barbiere si potrebbe considerare diviso in due parti:

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1. Coloro che si radono da soli (che è assimilabile alla categoria degli

insiemi che appartengono a sé stessi).

2. Coloro che, non radendosi da soli, vengono rasati dal barbiere (nella

versione originale, gli insiemi che non appartengono a sé stessi).

Il problema è in quale categoria si trova il barbiere: infatti, se venisse

incluso tra coloro che si radono da soli non si raderebbe da solo. Se invece

venisse incluso tra coloro che sono rasati dal barbiere, non sarebbe raso

dal barbiere. [il barbiere è assimilabile a un insieme che appartiene a se

stesso, se e solo se, non appartiene a se stesso. ]

Per semplificare ancora basta considerare l’antinomia classica del

bugiardo: Se un bugiardo dice, “io sono bugiardo” dice la verità o mente?

Quale sia la risposta data, ne consegue sempre e comunque l'opposto

rispetto ad essa. L’importante è notare che questi paradossi o antinomie

minano qualunque tentativo diretto di costruire rigorosamente una

matematica esatta su un fondamento logico e così il programma logicista

sale su un binario morto.

Un tentativo di uscire da questa crisi fu proposto da uno dei più grandi

matematici novecenteschi, David Hilbert,21 con un altro approccio

metafisico alla matematica. I numeri, secondo Hilbert, non sono altro che

segni di gesso su una lavagna o simboli che tracciamo con la penna e non

vanno considerati come entità vere e proprie. L’approccio di Hilbert è

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soprannominato “formalismo” e considera la matematica null’altro che una

specie di "gioco". Il programma di Hilbert consiste nel formalizzare tutte

le teorie matematiche esistenti attraverso un insieme finito di assiomi, e

dimostrare che questi assiomi non conducono a contraddizioni. In altre

parole, la matematica è un sistema completo e consistente e pertanto

esatto.

Ma anche il formalismo di Hilbert entra presto in crisi. Nel 1931 Kurt

Gödel dimostra che qualsiasi sistema che permetta di definire i numeri

naturali è necessariamente incompleto: esso contiene affermazioni delle

quali cui non si può dimostrare né la verità né la falsità. In parole povere:

non può essere allo stesso tempo completo e consistente. senza entrare

nei dettagli di questa dimostrazione, la limitazione messa in luce da Gödel,

anche se non riguarda direttamente la matematica, contraddice la

completezza auspicata da Hilbert.

Dunque la questione dei fondamenti della matematica rimane aperta e con

essa la questione della propria esattezza.

Come arrivare a una verità assoluta nella matematica? Vi è la corrente

cosiddetta “neointuizionista” che propone di escludere dalla matematica

quelle parti che non assicurano l’esattezza assoluta. Le radici di questa

corrente si possono rintracciare in Kant che sosteneva che le espressioni

matematiche fossero sintetiche apriori. Viene sostenuta da matematici

come Kroneker, ma il personaggio di spicco è Luitzen Brouwer (1881–

14
1966).22 Brouwer propone di partire da quei concetti con i quali si ha

accesso esperienziale, come i numeri naturali, e costruire la matematica

attraverso a un numero finito di operazioni. Viene esclusa dalla

matematica una fetta consistente di studi come quelli di Cantor o

Weierstrass. Viene escluso, in casi concernenti l’infinito, il principio del

terzo escluso o “tertium non datur”, ossia non è ammessa la prova

attraverso al rifiuto della non-esistenza. (Spesso in matematica per

dimostrare una qualsiasi proposizione A, si presume che si possano avere

solo due eventualità: o è vera A oppure è vera la propria negazione. Si

presume la verità di non A e si arriva a una contraddizione. A questo punto

A viene dichiarata vera. Per poter fare ciò bisogna supporre la non

esistenza di una terza possibilità. )

In questo caso forse avremmo una matematica totalmente esatta, ma

dovremo rinunciare a fette consistenti della matematica, cosa che non

vorremo di certo fare.

La questione dei fondamenti della matematica rimane una questione aperta.

Ci furono naturalmente altri tentativi di risolvere le difficoltà che vi ho

illustrato e nei quali non entrerò, ma la maggioranza dei matematici oggi

preferisce trascurare la questione dei fondamenti. Per citare Bertrand

Russell,23 “La matematica è la sola scienza esatta in cui non si sa mai di

cosa si sta parlando né se quello che si dice è vero”. Con buona pace di

Russell, la matematica non è totalmente esatta come si crede o si spera,

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ma, in gran parte, solo relativamente esatta. E forse non è nemmeno una

scienza. Secondo la definizione generalmente accettata oggi, la scienza è

un’attività razionale fatta di teorie controllabili empiricamente. Perfino gli

intuizionisti considerano la matematica una costruzione mentale non

controllabile empiricamente. In realtà se la matematica è una scienza o no

è una questione di minore importanza, poiché la matematica non ha bisogno

di essere etichettata.

Per concludere: così come la scienza non rappresenta la verità e non dà

sicurezz assoluta, anche la matematica rimane fino a prova contraria, meno

esatta di quanto si possa immaginare o sperare.

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