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Indice

Copertina
Frontespizio
Colophon
1. Diane
Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi,
media ed episodi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice
o sono utilizzati in modo fittizio. L’ autore riconosce lo status del marchio
di fabbrica e i proprietari del marchio dei vari prodotti, band e/o ristoranti
menzionati in questo romanzo, che sono stati usati senza permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o
sponsorizzata dai proprietari del marchio. Qualsiasi somiglianza con
persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è puramente causale.

Titolo originale: Beard in waiting

Copyright © 2016 by Penny Reid

Traduzione dall’inglese di Francesco Rossini

© 2019 Always Publishing s.r.l. - Salerno

Published by arrangement with Bookcase Literary Agency,

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and certain other noncommercial uses permitted by copyright law.
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locales or events is entirely coincidental.

ISBN 978-88-85603-738

Immagine © Zamurovic Photography/Shutterstock.com


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the moral rights of the author have been asserted
«Sai cos’è difficile?» L’attrice che brillava nello schermo della mia
televisione tirò su col naso, sbatté le palpebre per scacciare le
lacrime e abbassò lo sguardo sul marciapiede innevato. «Amarti,
Carter.» Scosse la testa e il mio cuore si strinse per la malinconia.
Con un sospiro aggiunse: «Amarti».
La telecamera inquadrò il protagonista maschile. La mascella
contratta, gli occhi e la bocca tradivano un conflitto interiore. Alto,
moro e bellissimo, si lanciò in avanti e abbracciò il suo amore mentre
l’emozione mi saliva agli occhi. La musica crebbe. Lui le prese il
volto tra le mani. La baciò.
Sospirai.
Anche mia figlia sospirò.
Ah… l’amore immaginario.
Lanciai un’occhiata a Jennifer, lei la ricambiò e sospirammo
insieme.
«Questo è stato proprio bello.» Aveva gli occhi lucidi e un sorriso
dolce e lacrimevole.
Guardare film strappalacrime su Hallmark era una nostra
tradizione del periodo natalizio. Nonostante i cambiamenti – belli e
brutti – affrontati da entrambe nell’ultimo anno, non avevamo
interrotto questa consuetudine. Io amavo le belle, sentite e semplici
storie d’amore immaginarie. Le amavo da sempre.
E anche la mia Jennifer.
«Passami il telecomando.» Aprii e chiusi la mano e lei me lo
porse.
«Il secondo mi è piaciuto di più, quello con il rifugio per animali e il
veterinario.» Il sorriso di Jennifer era sognante e caloroso.
«Era bello. La produzione migliora di anno in anno» commentai,
spostandomi in avanti sul divano ed esaminando la confusione di
cioccolata calda, marshmallow e quanto rimaneva dei fantastici
biscotti di pan di zenzero di Jennifer.
Aveva usato la scorza d’arancia per i biscotti, l’estratto di
mandorla per la glassa e zenzero caramellato per le decorazioni. La
ricetta era tutta farina del suo sacco. Sorrisi, guardando la distesa di
zucchero davanti a me.
Tutto ciò che avevamo appena mangiato un tempo era proibito
sotto questo tetto. Mio marito – che sarebbe presto diventato il mio
ex marito – non aveva concesso di consumare dolci in casa per tutta
la durata del nostro matrimonio. In verità, il suo timore che
ingrassassi mi aveva spinto a trasferire su mia figlia la mia ansia
riguardo al mantenere la linea. Avrei dovuto vergognarmi.
In un anno, da quando avevo cacciato il bastardo da casa, avevo
preso sei chili e mi ero goduta ogni singolo morso di torta o biscotto
e ogni singolo sorso di vino o cocktail che mi avevano aiutato a
raggiungere il mio nuovo peso.
«Si sta facendo tardi e stasera è prevista una nevicata. Vuoi
ancora un po’ di omini di pan di zenzero?» Jennifer si sporse per
incartare i biscotti sapientemente decorati.
«Lasciali pure lì.» Mi alzai, facendole segno con la mano di
rinunciare a sistemare.
«Mamma, ti aiuto a pulire.»
«Non serve. Hai ragione, è tardi. Il tuo uomo sfonderà la porta da
un momento all’altro, se non ti mando a casa in tempo.»
Jennifer strinse le labbra con aria compiaciuta, ma anche per
trattenere una risata. Sapeva di cosa stessi parlando.
«Non ha sfondato la porta.»
«Sì, invece. E brandiva anche un’ascia.»
Jennifer rise. «Quella era parte del mio costume di Halloween.»
«Cappuccetto rosso e la boscaiola.» Alzai gli occhi al cielo.
«Cletus era un Cappuccetto Rosso davvero adorabile.» Jennifer
indossò la giacca e si voltò verso la porta. «Ammettilo.»
«Ma lui era vestito da Ferrari Testarossa. È uno svitato»
sentenziai, perché era pazzo. Mio genero era unico nel suo genere.
«Lo adori e lo sai» mi punzecchiò, alzando e abbassando le
sopracciglia.
«Certo. Ma vorrei che la smettesse di nascondere vischio ovunque
in casa mia. Se intende baciare sua moglie, la baciasse e basta.
Non c’è bisogno di portare piante semiparassite in casa o inventare
storie su quanto porti fortuna.»
«Non ha detto che avrebbe portato fortuna. Ha detto che...»
«“Che mi avrebbe garantito un Natale molto felice”. Sì, ricordo la
sua scelta di parole.» Rigettai la predizione di Cletus e guardai mia
figlia con affetto caloroso. «Credo di aver trovato tutti i rametti che
aveva attaccato al soffitto, per fortuna. Chiaramente ti ama. A dire il
vero, è chiaro che si tratti più di semplice amore. Lui ti adora. E ne
sono felice, perché non dovresti accontentarti di niente di meno.»
Lei mi rivolse un sorriso tirato, ma non disse una parola. Sapevo
perché. Non voleva che continuassi, non voleva che le riferissi quel
che pensavo. Ma io non potevo restare in silenzio.
«E un’altra cosa...»
«Oh, buon Dio, ti prego, non dirlo!»
«Spero proprio che si assicuri che tu abbia raggiunto un orgasmo,
prima di seguirti a sua volta. Ogni. Singola. Volta. Mi hai sentito? Un
uomo degno di questo nome può riuscirci. Può farlo ancora e
ancora, prima, durante e dopo aver goduto della sua parte.»
Parlavo per esperienza.
Per esperienza recente, d’accordo, ma era comunque
un’esperienza di vita vera. Kip, il mio ex, era abile quanto un eunuco
senza mani e senza lingua, ma ora io sapevo per certo, PER
CERTO, che non tutti gli uomini erano terribili tra le lenzuola. Al
contrario, alcuni erano davvero, davvero bravi tra le lenzuola.
O sopra le lenzuola.
O sopra un tavolo.
O sul pavimento.
«Mamma...» Jennifer nascose il volto tra le mani e scosse la testa.
«Possiamo evitare di parlarne?»
«Se un uomo ti ama davvero, continuerà a soddisfarti. Non
importa quante volte dovrò ripeterlo, non voglio che tu...»
«Non vuoi che io sprechi ventisei anni senza avere un solo
orgasmo e quindici senza fare sesso. Sì. Lo so.» Finì la frase per
me, la sua dolce voce aveva una punta di esausta mortificazione.
Ma non mi importava che fosse imbarazzata dalla conversazione.
«Devi farti rispettare sin dall’inizio in una relazione, altrimenti gli
uomini ti tratteranno come uno zerbino e ti ruberanno il tuo potere
femminile.»
Le mani le caddero dal volto e allargò le braccia con
un’espressione esasperata sul suo bel viso. «Devo andare.»
«Ti dico queste cose perché mi preoccupo per te e per il tuo
potere femminile, lo sai.» La abbracciai, stringendola forte mentre lei
gemeva desolata. Ignorai il suo verso e continuai. «Mi vergogno di
non averti mai parlato di queste cose, di aver aperto gli occhi solo
dopo il tradimento di tuo padre. Ho iniziato a guardare dei video e a
leggere quel blog, quello sulla guarigione sessuale, e credo dovresti
farlo anche tu.»
«Non guarderò i tuoi video, mamma.»
«Dovresti, invece. Quella donna sa di cosa parla e ti insegnerà
come darti piacere da sola...»
«ORA DEVO PROPRIO ANDARE!»
Forse l’avevo stretta troppo a lungo, troppo forte ma... mi
mancava. E mi mancavano i suoi abbracci. Il mio ex era sempre
stato un quasi completo buono a nulla, tuttavia, non appena i miei
affari avevano iniziato a dare frutti, almeno si era dimostrato
generoso nel concedere abbracci. Ma avaro in tutto il resto. Di
recente avevo provato a ricordare quando fosse stata l’ultima volta
che mi aveva baciata. Non ci ero riuscita.
Ripensandoci, conoscendo tutti i fatti, avrei dovuto capire che il
suo aborrire il buon cibo fosse il primo indizio di un’anima nera come
la mezzanotte.
Avrei potuto dare la colpa alla mia cecità, all’essermi sposata
troppo giovane, ma non intendevo farlo. Non mi sarei sottratta alle
mie responsabilità. Avevo accettato quanto successo, avevo
imparato da questo e avevo voltato pagina.
Quando ci eravamo sposati, avevo diciassette anni e lui ventisette.
Per tanti anni l’avevo seguito ovunque decidesse di condurmi. Poi,
finalmente, avevo trovato la mia strada con i miei affari, avevo
mostrato le mie qualità con l’hotel e la pasticceria. Avevo affrontato
le pene dell’inferno cercando di arrivare al successo, provando a
renderlo felice, fiero di me. Ero riuscita a fare soldi, ma lui aveva
mantenuto il controllo su tutti gli altri aspetti importanti della mia vita.
Il secondo indizio del suo cuore nero come la pece era stato la
sua avversione nel soddisfarmi a letto. Non gli importava che venissi
o no durante il sesso, non gli era mai importato. Per quanto mi
riguardava, questo bastava a fare di lui il diavolo in persona.
Il terzo indizio era stato il modo in cui aveva trattato i nostri figli.
A dire il vero, non era stato un indizio. Il modo in cui trattava i miei
tesori era un’enorme insegna luminosa, ma io ero stata troppo
stupida e testarda e…
«Mamma, per favore. Devo andare.»
Sospirando, liberai mia figlia, il respiro reso difficoltoso da una fitta
di sensi di colpa, poi annuii. «Va bene. Ma guida piano.»
Jennifer mi rivolse un altro sorriso e ammirai la mia bellissima
figlia, bella dentro e fuori, e malgrado ciò mi rattristò il pensiero che
era stata costretta a essere forte per colpa di suo padre, non grazie
a lui.
Lei si girò verso l’ingresso e io la seguii. «Sei coperta abbastanza?
Posso darti qualcosa da portare a casa?»
«No. Sto bene. Grazie, mamma.»
«Okay.» Iniziai ad agitarmi. Vedere Jennifer andar via non era
diventato più facile. Desideravo con tutta me stessa di poter tornare
ai giorni della sua infanzia. C’erano così tante cose che avrei fatto
diversamente.
Così tante…
Prima che potessi accorgermene, la mia bambina era uscita dalla
porta, entrata in macchina e mi salutava da dietro il volante. Io
ricambiai il saluto, stringendomi il cardigan attorno alle spalle e
strofinandomi le braccia come per cacciare un brivido.
Era freddo. La temperatura si aggirava intorno ai meno due gradi
e il cielo prometteva neve. Era meglio che partisse ora, prima che le
strade diventassero sdrucciolevoli.
Quando i fanali posteriori della sua auto sparirono oltre il vialetto,
chiusi la porta e girai la chiave, concedendomi un altro sospiro
nostalgico prima di voltarmi verso il salotto, lanciare un’occhiata
all’albero di Natale e raggiungere il divano.
Ero sola.
Per cui presi un biscotto e mi avviai verso la mia camera da letto.
Vilma, la life coach che seguivo sui social dalla mia separazione,
aveva detto che dovevo riappropriarmi del mio potere femminile.
L’avevo perduto durante il mio pessimo matrimonio, cedendolo a mio
marito ogni giorno in cui non avevo preteso il suo rispetto e il suo
supporto, che si comportasse come un marito di fatto, e non solo di
nome.
Certo, mi aveva portato all’orgasmo per la prima volta dopo il liceo
(il mio secondo in assoluto). E la stessa notte mi aveva fatto godere
anche per la terza, la quarta e la quinta volta. Ma lui non era… noi
non eravamo fatti l’uno per l’altra. E questo era quanto.
Vilma sosteneva che non c’era cosa peggiore, dopo la fine di un
matrimonio, di buttarsi a capofitto nel letto di qualcun altro, cercare di
riempire il vuoto con un’altra persona, ed era esattamente quello che
avevo fatto. Ma ora avevo imparato.
Pertanto, lui e le notti trascorse insieme erano ormai storia antica.
Come parte del processo di guarigione, avevo cercato il piacere in
me stessa ogni qualvolta mi ero accorta di sentirmi sola. Era una
delle lezioni necessarie per imparare ad amare la persona che ero.
Non dovevo accontentarmi di chi ero, ma essere molto di più. Ero la
mia migliore amica, la mia migliore partner, la mia migliore amante.
Seguivo seriamente quel consiglio e lo ritenevo la ragione del
sorriso permanente e soddisfatto che avevo in volto la maggior parte
del tempo.
Ancora riscaldata dai sentimenti che si agitavano nel mio ventre
dopo cinque ore di film strappalacrime, andai alla cassettiera e presi
la camicia da notte nera ornata di pizzo rosso, mi spogliai e la
indossai con calma.
Poi mi sciolsi i capelli, guardandomi nello specchio e chiedendomi
forse per la centesima volta da quando mi ero separata da Kip se
fosse il caso di tingerli di rosso.
Avevo sempre voluto una chioma rossa. Ne avevo parlato per
anni, ma Kip aveva asserito che nessuno mi avrebbe preso sul serio,
se l’avessi fatto.
Kip poteva anche andarsene al diavolo.
Decisi su due piedi che avrei preso un appuntamento con Darla
dopo Natale e mi sarei tinta i capelli di rosso, rosso come le ali di un
cardinale. Uscii dalla camera da letto con addosso solo la camicia da
notte – perché non avrei dovuto? Ero da sola ed erano passati
quattro giorni dal Natale. Mi ero presa una settimana di vacanza. Se
avessi voluto, sarei potuta andare in giro per casa nuda come un
opossum non sarebbe importato a nessuno, né nessuno mi avrebbe
vista.
Raggiunsi il salotto in punta di piedi e afferrai un altro biscotto,
accompagnandolo con una tazza di liquore allo zabaione – di quello
buono, preparato con generose dosi di rum e brandy, non
l’imitazione per battisti e avventisti del settimo giorno che si trovava
nei negozi – poi misi via i resti del nostro picnic.
Agguantai, però, la bottiglia di brandy e un bicchierino da cocktail.
Subito dopo aver finito di pulire il salotto, mi sedetti vicino al
caminetto a gas, mi accoccolai sotto una coperta, mi versai due dita
di brandy e presi il mio eReader.
Da quando Jennifer aveva iniziato la sua relazione con Cletus
Winston, l’anno precedente, mi ero avvicinata alla sua unica sorella,
Ashley. E ad Ashley piaceva leggere. E Ashley mi aveva fornito un
elenco dei migliori romanzi erotici da leggere durante i momenti di
solitudine.
Naturalmente, Ashley Winston-Runous era diventata una delle
persone che preferivo di più al mondo. Il vento iniziò a soffiare con
più forza, ululando tra gli alberi e le finestre. Prima di immergermi nel
mio libro, notai che ora nevicava. Dopo una mezz’oretta le luci
iniziarono ad andare e venire, finendo per spegnersi del tutto. Mi
guardai attorno e capii che non si sarebbero riaccese. Non
importava, a tenermi calda c’erano la coperta, il camino e il brandy. Il
mio eReader aveva la batteria carica ed era retroilluminato. Nella
peggiore delle ipotesi, avrei dormito vicino al caminetto.
Passò un’ora. Poi un’altra. Poi, forse, un’altra ancora. Non potevo
saperlo, avevo perso la cognizione del tempo. Era un libro davvero
bello. La trama era migliore delle scene di sesso, per cui continuai a
leggere. Stavo per arrivare al penultimo capitolo – quello in cui
succedono le cose interessanti – quando sentii bussare alla mia
porta.
Sorpresa, lanciai un’occhiata all’orologio sopra il caminetto. Era
mezzanotte passata.
Ora, chi mai diavolo…
Sentii bussare di nuovo con più forza e più a lungo.
Accigliandomi, posai a malincuore il mio eReader e mi avvolsi
nella grande coperta. Lo sconosciuto bussò una terza volta con
ancora più insistenza.
«Ti sento, ti sento. Non c’è bisogno di sfondare la porta» borbottai,
accertandomi che la coperta mi avvolgesse dal collo fino alle
caviglie, poi sbirciai dallo spioncino.
Oh, mio Dio…
Era buio e non riuscivo a vedere il suo volto, ma sapevo chi fosse.
Lo sapevo.
Sbigottita, mi irrigidii e la testa scattò all’indietro, mentre il cuore mi
saltava in gola.
«Diane?» chiamò, e il suo accento texano mi sciolse le ossa.
Sbattei le palpebre nell’oscurità, trattenendo il fiato, incerta sul da
farsi.
«Apri la porta, bellezza,» disse, «fa freddo qui fuori.»
Ricacciando nella gola il mio shock e la mia ansia, risposi: «Hai
bussato alla porta sbagliata, signor Repo. Ti prego di abbandonare il
mio portico».
Mi morsi il labbro, aguzzai le orecchie e attesi. Mi rispose solo il
silenzio.
Sbirciai di nuovo dallo spioncino e vidi che lui era davvero andato
via dal portico. La sua sagoma si attardava lì vicino. Era chiaro, dalla
sua posizione, che aveva veramente freddo. Vedendolo, mi si strinse
il cuore.
Lo guardai sospirare, il suo respiro formò una nuvoletta appena
visibile nella luce della luna piena. La neve continuava a scendere a
mucchi, e il suo giubbotto di pelle nero era punteggiato di fiocchi.
«Diane, la mia moto è sotto un albero appena fuori dalla strada
principale vicino al tuo vialetto.» Alzò la voce, spiegandosi, e lo
guardai strofinarsi la fronte con le dita inguantate. Il grosso biker
sembrava esausto. «Sono scivolato sul ghiaccio e sono andato a
sbattere. Non mi sono fatto male, ma il mio cellulare non funziona.
La moto non riparte. La città e il club sono troppo lontani per tentare
di raggiungerli a piedi. Qui intorno ci sono solo altre due case: quella
dello sceriffo e quella dei Winston, e non intendo bussare alla porta
di nessuna delle due a quest’ora. Mi sparerebbero. O peggio.»
Premetti il palmo sul cuore, imponendogli di rallentare. Mi
allontanai dallo spioncino, mentre l’altra mia mano si sollevava
automaticamente verso la serratura di sicurezza. Ma non l’aprii. Ero
combattuta.
Da un lato, era un uomo pericoloso. Il comandante in seconda
degli Iron Wraiths. Sapevo che aveva con sé una pistola, se non più
di una. Aveva fatto delle brutte cose e aveva ordinato ad altri di fare
brutte cose. E non se ne era mai pentito. A quell’uomo piaceva
vivere senza regole.
Ma sapevo anche che faceva l’amore dolcemente e senza fretta.
E che poi faceva l’amore senza regole. E le volte successive
accettava richieste su come fare l’amore.
«Ora, bellezza, ti sto chiedendo gentilmente di farmi entrare.
Perché qua fuori fa un freddo cane e potrei veramente morire
congelato.»
Dannazione.
Aveva ragione e questo mi spinse a prendere una decisione. Non
potevo lasciarlo là fuori a morire congelato.
Stringendomi la coperta attorno alla gola con una mano, feci
scattare la serratura, inspirai profondamente e aprii la porta.
Lui rimase vicino ai gradini del portico con le mani sui fianchi e il
mento alzato per guardarmi.
«Entra, allora. Non starebbe bene farti morire congelato sul mio
portico» dissi a denti stretti, per comunicargli chiaramente che gli
permettevo di entrare in casa mia solo perché era un’emergenza.
Ma il tono con cui l’avevo comunicato mi sembrò troppo scortese,
per cui aggiunsi: «Hai già cenato?»
Non vidi il suo sorriso. Lo sentii. Lo sentii nell’aria, nel modo in cui
cambiò, nel modo in cui la neve accelerò verso terra e
contemporaneamente cadde con calma e in silenzio. Per qualche
motivo il modo in cui la neve vorticava mi sembrò toccante, o
importante. Ma prima di poterci rimuginare troppo sopra, Repo iniziò
a salire i gradini del mio portico.
I suoi stivali da motociclista non fecero quasi rumore e in un attimo
fu vicino alla soglia. Io arretrai di due passi, tenendo la porta aperta
e lasciandolo entrare.
Ora, non ero una donna alta. Ero una donna bassa. Con i miei
centocinquanta centimetri esatti di altezza, avevo accettato e mi ero
abituata da tutta la vita a portare tacchi di dieci centimetri. Il mio ex
era alto poco più di un metro e settanta, era esile e aveva lavorato
per tutta la vita in un ufficio – e a me la cosa era andata benissimo.
Mi era piaciuto che non mi avesse mai dominata fisicamente.
L’ultima volta che avevo visto Repo indossavo i tacchi di cui sopra.
Ed ero alticcia, ubriaca di vodka e rabbia. In quel momento, non
indossavo scarpe. Per cui un uomo di centottantadue centimetri,
tarchiato, dalle spalle larghe e chiaramente abituato al lavoro
manuale mi sembrava un gigante.
Ciononostante, mi rifiutavo di sentirmi intimidita. Io ero Diane
Donner. Ero la persona più di successo e influente nel campo
immobiliare e degli affari di tutto il Tennessee Orientale – giudice
Payton a parte. Ma lui non contava davvero, perché possedeva la
segheria e tutti sapevano che l’unica ragione per cui la segheria era
in attivo era la direzione di Billy Winston.
Repo si fermò quasi subito, guardandosi attorno nell’oscurità
come se vedesse senza problemi grazie alla luce della luna che
entrava dalle finestre. Chiusi la porta, impedendomi di rimuginare su
chi avevo appena fatto entrare in casa e cosa avevamo fatto l’ultima
volta che eravamo rimasti da soli.
No.
Non avrei pensato a quello. Non avrei pensato a come mi aveva
toccata, allo spettacolo delle sue mani grandi, abbronzate e ruvide
sul mio corpo. Non avrei pensato a come aveva gustato la mia pelle
e afferrato i miei seni e mi aveva piegata e…
«No» disse, cogliendomi di sorpresa.
Guardai Repo da sopra la spalla, sentendomi il volto avvampare.
«No?»
«No.» Eravamo molto vicini, e sentii i suoi occhi muoversi sul mio
volto mentre parlava. «No, non ho cenato» rispose piano.
«Oh» sospirai, realizzando all’improvviso che ero senza fiato.
«Allora vieni… dentro a mangiare.» Lo superai con passo deciso e
aggiunsi da sopra una spalla: «Togliti le scarpe, per favore. C’è del
brandy in salotto. Serviti pure».
In cucina misi il pilota automatico e preparai all’uomo un panino al
tacchino con gli avanzi di Natale. Jennifer aveva portato tre tipi di
torta, per cui gli tagliai una fetta di ciascuna – zucca e cannella, noci
pecan e rum e crema di cocco – e presi un tovagliolo e una forchetta
dal cassetto. Sistemai il tutto su un vassoio e lo portai in salotto.
Mi fermai di scatto e la mia bocca si seccò inspiegabilmente alla
vista della sua larga schiena. Repo si stava riscaldando di fronte al
fuoco e non si girò quando entrai, ma vidi che si era tolto le scarpe
come avevo chiesto. Si era anche tolto il giubbotto e i guanti,
rimanendo in jeans scuri, calzini scuri e una maglietta termica grigio
carbone che evidenziava quanto fossero larghe le sue spalle e il
modo in cui il suo tronco si stringesse in vita.
Era così… così… mascolino. Una mascolinità a cui ero stata
raramente esposta nel corso della mia vita regolare e stabile.
Il mio ex non era mascolino. Si teneva in forma, si esercitava e si
prendeva buona cura del suo corpo, questo sì. Io avevo creduto che
fosse brillante, che fosse sensibile, un sostenitore delle pari
opportunità e dei diritti delle donne, che fosse fiero di me per essere
diventata quella che guadagnava di più in famiglia e che fosse
contento di spendere i miei soldi. Ma non era così. Aveva usato la
scusa del femminismo per nascondere la sua debolezza, il suo
egoismo e la sua impotenza.
Mio padre era un ubriacone e una delusione totale. Era stato un
donnaiolo, rammollito e viziato, e aveva tradito mia mamma
innumerevoli volte. Non avevo mai pensato che fosse mascolino.
Era tutt’altro che mascolino. Era debole e rancoroso.
Mio nonno era mascolino. Certo, aveva settant’anni quando ero
nata, per cui l’avevo conosciuto solo nei suoi ultimi anni.
Lo sceriffo era mascolino in un modo che ora mi ricordava Repo, e
lo stesso valeva per il capo dei pompieri, il signor McClure. Ed
entrambi erano sposati felicemente con donne eccezionali.
Anche i ragazzi Winston erano mascolini. Ma erano giovani.
Troppo, troppo giovani.
Repo, invece… Non era né troppo vecchio, né troppo giovane, né
sposato. Come la zuppa di mamma Orsa, era proprio perfetto.
Tranne per il fatto che era, sapete, un criminale.
«Sembri una che ha altri cazzi per la testa.»
«Scusa?» Sbattei le palpebre, realizzando che ero rimasta
immobile sulla soglia, persa nelle mie riflessioni sulla mascolinità.
Lui mi rivolse un mezzo sorriso, i suoi occhi castano scuro si
mossero su di me con evidente divertimento. Il fuoco esaltava gli
angoli e le linee del suo bellissimo volto, lo facevano sembrare
raffinato invece di disdicevole.
L’attenzione di Repo si trattenne sul mio collo e sul mio petto, le
sue spalle si alzarono e ricaddero con un sospiro profondo, poi
replicò a bassa voce: «Non importa. Lascia che ti aiuti con il
vassoio».
«Oh. Oh, no. Ce la faccio.» Entrai e mi diressi al tavolino basso,
appoggiandoci sopra il vassoio, poi controllai il brandy sul tavolino di
fianco alla poltrona. Non l’aveva toccato. «Lascia che ti prenda un
bicchiere, vuoi una coperta?»
«No, grazie.» Si schiarì la gola, come se avesse voluto
aggiungere qualcosa ma si fosse trattenuto grazie al suo immenso
autocontrollo.
Sentii i suoi occhi su di me mentre andavo alla credenza per
prendere un bicchierino. La coperta mi era scivolata appena dalle
spalle. La strinsi attorno a me e poi versai un brandy doppio per il
mio ospite, quindi misi il bicchiere sul tavolino di fianco al vassoio.
«Accomodati, prego.» Indicai il sofà mentre tornavo a occupare il
mio posto sulla sedia di fianco al fuoco, portandomi le gambe sotto
al sedere. «Mangia.»
Il suo sguardo si mosse su di me per un altro lungo istante, e io
vidi il suo petto alzarsi e abbassarsi con un altro voluminoso sospiro,
infine lui si diresse al divano, si sedette e studiò il vassoio di cibo.
«Sembra proprio...» Deglutì, la sua lingua schizzò fuori per
leccargli le labbra. «Sembra delizioso. Grazie.»
«Di niente.» Lo esaminai, sorseggiando il brandy e sorridendo
internamente per le inaspettate buone maniere di quest’uomo
grezzo. L’ultima volta in cui eravamo stati insieme non si era
mostrato così educato. Anche se dovevo ammettere che io per
prima mi ero presentata in un bar di biker, vestita come una
ragazzina e in cerca di guai.
Nella mia casa distinta, circondata dalle mie cose distinte, era tutto
diverso.
Allora eravamo nel suo mondo, ora eravamo nel mio.
Mangiò in silenzio per un po’, mentre i suoi occhi studiavano la
stanza, quasi come se stessero catalogando tutti i miei averi. Una
volta finito il panino e le fette di torta, accennò col mento a un quadro
sopra la mia testa.
«È un Wyeth?»
Non avevo bisogno di girarmi a guardare il quadro per rispondere,
ma ero sorpresa che conoscesse l’artista. «Sì. Un Andrew Wyeth.»
Il suo sguardo fermo si abbassò su di me e un lato della sua
bocca, incorniciata da una barba sale e pepe, si curvò verso l’alto.
«Non essere tanto sorpresa, bellezza. Sono meno stupido di quanto
sembri.»
Mossi la testa avanti e indietro in modo riflessivo, guardandolo
dall’alto in basso. «Non sembri stupido, signor Repo.»
«Davvero?» Sorrise, mostrando un accenno di denti bianchi e un
luccichio negli occhi. La sua voce scese di un’ottava mentre
chiedeva: «E cosa sembro, allora?»
«Complicato» risposi senza pensarci troppo.
«Che buffo. Stavo pensando la stessa cosa di te.» Il suo sorriso si
allargò e un sopracciglio salì più in alto dell’altro.
Ignorai quell’affermazione e le sue implicazioni, perché non
avrebbero portato a niente di produttivo, quindi riportai il discorso
sull’arte. «Come mai conosci Andrew Wyeth?»
Il suo sorriso si rimpicciolì, appena appena, e si pulì la bocca con il
tovagliolo, appoggiandosi allo schienale.
Non mi aspettavo che rispondesse, per cui fui sorpresa quando
riportò lo sguardo sul fuoco e disse: «Una donna, non diversa da te,
credeva che mi servisse un po’ di cultura. Pensava… sì, pensava
che un’educazione che andasse oltre quanto avevo imparato
crescendo mi sarebbe stata utile.» Si guardò le mani, prorompendo
in una risata per niente divertita. «Pensava di potermi cambiare. Di
rendermi migliore.»
«Migliore di cosa?» Avevo così tante domande, ma quella mi
sembrò la più urgente.
I suoi occhi guizzarono nei miei e io sentii immediatamente il loro
peso, come un tocco. Come se mi avesse afferrata con entrambe le
mani.
«Dai, Diane. Conosci già la risposta.» La sua voce da tenore era
bassa, roca. Con una mano indicò con impazienza la mia casa,
mentre la sua bocca si incurvava in un sorriso beffardo. «Sono lo
sporco sotto le tue unghie, bellezza. Non c’è bisogno di girarci
intorno.»
Mi accigliai dinanzi alla sua auto-valutazione. «Questa è una
semplificazione eccessivamente drammatica, Repo.»
«Come vuoi.» Si strinse nelle spalle, il suo tono era ancora
cortese, ma aveva una punta inconfondibile di amarezza.
Rimanemmo a fissarci per qualche tempo – io guardavo lui, lui si
prestava ai miei sguardi – nessuno di noi aveva voglia di parlare.
Che Dio mi aiutasse, ero curiosa. Solitamente, non ero una
persona curiosa, preferivo agire piuttosto che riflettere. Se un
compito richiedeva più di mezz’ora di riflessione, ero dell’idea che
dovesse essere delegato. Un esperto poteva occuparsi dei dettagli e
farmi un riassunto alla fine.
Ma non quella sera. Non con lui. Non al buio. Non dopo due
bicchieri di brandy, un libro sexy ancora fresco in mente e la seta
sulla mia pelle.
Era passato quasi un anno – precisamente – dal giorno in cui ero
entrata nella clubhouse degli Iron Wraiths. Il dicembre precedente
avevo definito quella decisione un regalo di Natale per me stessa.
Anche se nei successivi dodici mesi avevo adottato comportamenti
salutari, il ricordo dell’avventura che mi ero concessa con lui
continuava a tornarmi in mente.
E volevo sapere la verità su un migliaio di cose.
Per cui mi scappò: «Perché ci hai provato con me l’anno scorso?
Quando sono venuta al club?»
Le sue sopracciglia saltarono appena sulla sua fronte, mentre i
suoi occhi si spalancavano un poco. Tuttavia, il resto del suo volto si
rilassò, la tensione nelle sue spalle sparì. Nonostante la domanda
l’avesse sorpreso, sembrava anche averlo messo a proprio agio.
«Che domanda ridicola.» Mi sorrise e al tempo stesso si accigliò,
gli occhi che scivolavano in basso per poi risalire lungo il mio corpo.
«Perché?»
«Una donna bellissima entra nel mio club, vestita com’eri vestita
tu...»
«Com’ero vestita?»
«Come una che voleva farsi una scopata.»
«Immagino volessi davvero “farmi una scopata”» concordai, non
riuscendo a trattenermi dal sorridere e ridere, nonostante la sua
risposta volgare. O forse proprio per essa. «Okay, continua.»
Ridacchiò e il tonare della sua risata fece correre brividi di
piacevole consapevolezza femminile lungo la mia pelle.
«Cos’altro c’è da dire?»
«Cos’hai pensato, quando mi hai vista?»
«Ero sorpreso di vederti lì.» Fece una pausa e i suoi occhi si
strinsero, suggerendo che stava riflettendo su quali parole scegliere.
Si morse il labbro, lo mordicchiò, mentre il suo sguardo si faceva
lontano e sfocato, come se stesse ricordando quella sera di tanti
mesi prima.
Alla fine, disse: «E ho sperato che mi avresti permesso di toccarti.
Di farti stare bene».
Il mio sorriso si allargò. Un calore formicolante si accese nel mio
petto e si diffuse fino alla punta delle mie dita e in fondo al ventre. «E
te l’ho concesso.»
«Sì. Direi proprio di sì.» Il suo sorriso si affievolì, ma il suo
sguardo divenne ancora più incandescente. Repo mosse
rapidamente gli occhi su di me, o su quello che la coperta lasciava
intravedere. «E poi sei sparita.»
Piegai il capo, il suo sguardo mi sembrò nuovamente un tocco,
come se mi stesse afferrando con entrambe le mani. «Non sono
sparita. Viviamo nello stesso posto.»
Lui ridacchiò ancora, ma questa volta non era per niente divertito.
«No.»
«No?»
«No, Diane. Non viviamo nello stesso posto.» Si sporse in avanti, i
suoi gomiti si appoggiarono sulle ginocchia, e strinse le mani davanti
a sé.
Alzando un sopracciglio, lo contraddissi: «Invece è proprio così. In
realtà, ci sono meno di venti chilometri tra casa mia e il club».
«Sono due universi lontanissimi» ribatté con aria divertita.
Sbuffai, contrariata. «Stupidaggini.»
«No. Questa è la realtà, bellezza.»
«Allora è per questo che tu non… non mi hai mai cercata?
Dopo?» Non mi sentivo vulnerabile o insicura a causa della
mancanza di interazioni dopo quanto era successo. Ma ero curiosa.
Ero solo… curiosa.
Non rispose immediatamente. Mi guardò, invece, e notai che
aveva il fiato corto.
Insistetti: «Lo fai spesso?»
«Cosa?»
«Andare a letto con sconosciute? Fare del sesso incredibile con
una donna e poi passare a quella successiva?»
«Sesso incredibile?»
«Sì. Incredibile. Stupefacente. Da cambiare la vita.» Mi alzai,
agitando la mano in aria per dare enfasi alle mie parole, e raggiunsi
la credenza. Mi serviva altro brandy per affrontare quella
conversazione.
Anche lui si alzò, afferrando il suo bicchiere, che realizzai solo in
quel momento essere vuoto, e ripercorse i miei passi. Stappai il
liquore e mi girai, trovandomelo più vicino – e più alto – di quanto mi
aspettassi. Ma non persi un colpo. Riempii il suo bicchiere, poi il mio,
infine sollevai quest’ultimo in un brindisi e alzai il mento per poter
sbirciare gli occhi di Repo.
A quanto pareva, non avevo bisogno di sbirciare un bel niente. Lui
me li offriva di buon grado.
«Allora, dimmi, è questo il tuo modus operandi? Se è così,» feci
cozzare i nostri bicchieri in un secondo brindisi, «a nome di tutte le
donne insoddisfatte di questo mondo, permettimi di porgerti i più
sentiti ringraziamenti.»
Prima che potessi portare il bicchiere alle labbra, Repo posò il suo
bicchiere sul tavolino e avvolse la sua grande mano attorno al mio
polso, bloccando i miei movimenti. Si avvicinò di un passo e notai i
suoi occhi farsi più intensi mentre si spostavano dalle mie labbra ai
miei occhi.
«Diane» sussurrò. L’altra sua mano si spostò verso la coperta che
mi copriva la spalla. «Sei ubriaca?»
Scossi la testa e improvvisamente mi sentii il cuore in gola, un
peso leggero e insieme soffocante sul petto. «Non ancora.»
«Bene.» Annuì appena, guidando la mia mano verso il tavolino e
posando il mio bicchiere accanto al suo.
«Perché sto per dirti una cosa, e voglio che tu te ne ricordi,
domani.»
«Repo...»
«Il mio nome è Jason» disse, burbero. «Chiamami Jason.»
«Okay. Jason.» Deglutii e annuii velocemente mentre lui afferrava
la coperta e la tirava. La sentii scivolare via dalle mie spalle e cadere
per terra, ma non accennai a trattenerla. Ero in trappola, un
eccitante senso di dejà vu mi teneva in ostaggio.
«La risposta è no.»
«No?»
«No.» Pronunciò le parole lentamente, attentamente, come se
stesse rivelando con mille precauzioni una grande verità. «Non vado
spesso a letto con sconosciute. Sarebbe meglio dire mai. Non porto
donne nella mia stanza, non le persuado a spogliarsi con petting e
baci come se fossimo due adolescenti e non mi inginocchio davanti
a loro. Non lecco loro la figa – mai – e non aspetto che una donna
venga tre volte prima di venire a mia volta, soprattutto non
impazzisco dal desiderio di rifare tutto di nuovo. Tutto.»
Quando finì di parlare, avevo il fiatone.
Ed ero anche incredibilmente eccitata.
Mi chiesi se qualcuno, in tutta la storia del mondo, fosse mai stato
eccitato quanto lo ero io in quell’istante.
Probabilmente no.
Il fatto che Repo, cioè Jason, avesse rimesso la sua mano sulla
mia spalla non appena la coperta era caduta non era d’aiuto. Il suo
pollice spinse giù lungo il mio braccio la spallina della mia camicia da
notte, denudandomi il seno. Lo avvolse con la mano. Gemetti.
«Ora» iniziò, smettendo di sussurrare. La sua voce non era forte,
ma non era nemmeno dolce. «Ora ti bacerò. Ovunque. Ma non
perché non sono riuscito a smettere di pensare a te da quando sei
entrata nel mio club lo scorso Natale.»
Rabbrividii, le mie palpebre erano socchiuse e barcollai verso di
lui. «Allora, perché… perché mi bacerai?»
«Perché…» si chinò, girandomi, premendomi la schiena contro il
tavolino alto mentre le sue mani scivolavano lungo il mio corpo fino
alle mie cosce. «Perché siamo sotto il vischio.»
Lo fissai. Poi alzai lo sguardo e constatai che aveva ragione.
Il vischio. Il vischio di mio genero. Il vischio che aveva nascosto in
casa mia. Il vischio che non avevo trovato. Il vischio che aveva
predetto mi avrebbe assicurato un Natale molto felice.
Emisi un verso sorpreso appena prima che le labbra di Jason
trovassero le mie, appena prima che catturasse il mio gemito e il mio
bicchiere nuovamente colmo di brandy si schiantasse sul tappeto.
Ma non mi importò.
No.
Avrei potuto pensarci l’indomani.
Perché, in quel momento, ero troppo impegnata a godermi il mio
Natale molto felice.

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