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Copertina
Frontespizio
Colophon
Prologo
1. Cuori infranti e vasetti di baci
2. Note musicali e fuochi di falò
3. Dune di sabbia e lacrime di sale
4. Silenzio
5. Antichi amanti e nuovi sconosciuti
6. Corridoi affollati e cuori trafitti
7. Labbra tradite e verità crudeli
8. Respiri interrotti e anime tormentate
9. Primi appuntamenti e sorrisi con le fossette
10. Mani intrecciate e sogni risvegliati
11. Ali che si librano e stelle che si spengono
12. Canzoni col cuore e bellezza riscoperta
13. Nuvole nere e cieli azzurri
14. Ciliegi fioriti e pace ritrovata
15. Raggi di luna nel cuore e soli splendenti nei sorrisi
16. Sogni promessi e momenti catturati
Epilogo
Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi, media ed episodi descritti
sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono utilizzati in modo fittizio. L’ autore riconosce lo
status del marchio di fabbrica e i proprietari del marchio dei vari prodotti, band e/o ristoranti
menzionati in questo romanzo, che sono stati usati senza permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o sponsorizzata dai proprietari del
marchio. Qualsiasi somiglianza con persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è puramente
causale.
ISBN 978-88-85603-12-7
www.alwayspublishingeditore.com
Stampato nel giugno 2018 da Grafica Metelliana s.p.a, Mercato San Severino (SA).
A thousand boy kisses
A chi crede nell’amore vero,
epico, quello che strazia l’anima.
Questo è per voi.
Rune
Ci sono stati esattamente quattro momenti che hanno segnato la mia vita.
Questo è stato il primo.
«Jeg vil dra! Nå! Jeg vil reise hjem igjen!» Gridai più forte che potevo,
dicendo a mia madre che volevo andare via, ora! Volevo tornare a casa!
«Non torneremo a casa, Rune. E non partiamo. Questa è casa nostra
adesso» rispose in inglese. Si accovacciò e mi guardò dritto negli occhi.
«Rune» mi disse dolcemente, «so che non volevi andartene da Oslo, ma tuo
padre ha un nuovo lavoro qui in Georgia». La sua mano scivolò su e giù
lungo il mio braccio, ma non riuscì a farmi sentire meglio, nemmeno un
po’. Non volevo stare in questo posto, in America. Volevo tornare a casa.
«Slutt å snakke engelsk!» Risposi di scatto. Odiavo parlare inglese. Da
quando eravamo partiti per l’America dalla Norvegia, mamma e papà
volevano parlare con me esclusivamente in inglese. Dicevano che dovevo
fare pratica.
Io non volevo!
Mia madre si alzò e sollevò una scatola da terra. «Siamo in America,
Rune. Qui si parla inglese. Parli inglese sin da quando hai imparato il
norvegese. È ora che tu lo usi».
Non mi smossi, guardando di traverso mia madre mentre mi aggirava ed
entrava in casa. Poi mi guardai intorno, esaminando la piccola strada dove
vivevamo ora. C’erano otto case. Erano tutte grandi, ma apparivano una
diversa dall’altra. La nostra era dipinta di rosso, con le finestre bianche e
un ampio portico. La mia stanza era grande e si trovava al piano terra.
Questo credevo davvero che fosse fico. O qualcosa del genere. Non avevo
mai dormito di sotto prima, a Oslo la mia stanza era al piano di sopra.
Guardai le case. Erano tutte dipinte con colori brillanti: azzurri, gialli,
rosa… Poi guardai la casa accanto alla mia. Era proprio la porta accanto,
dividevamo un fazzoletto di erba. Entrambe le case erano grandi, e anche i
nostri cortili, ma non esisteva un recinto o un muro tra esse. Se avessi
voluto, avrei potuto correre nel loro cortile e niente mi avrebbe fermato. La
casa era di un bianco brillante, circondata da un porticato. Avevano delle
sedie a dondolo e una grande altalena sul davanti. Gli infissi delle finestre
erano dipinti di nero e c’era una finestra di fronte alla mia camera da letto.
Proprio di fronte! La cosa non mi piaceva. Non mi piaceva che potessi
spiare nella loro stanza da letto e loro nella mia.
C’era una pietra a terra. Le diedi un calcio, guardandola rotolare giù
per la strada. Mi girai per seguire mia mamma, ma poi sentii un rumore.
Veniva dalla casa accanto alla nostra. Guardai verso la loro porta
d’ingresso, ma non vidi nessuno uscire. Stavo salendo gli scalini del mio
portico quando vidi qualcosa muoversi sul lato della casa, dalla finestra
della stanza da letto della casa accanto, quella di fronte alla mia.
La mia mano si bloccò sulla ringhiera e vidi una bambina, con un
vestito azzurro, che stava scavalcando la finestra. Saltò giù sull’erba e si
pulì le mani sulle cosce.
Mi accigliai, con le sopracciglia curvate verso il basso, mentre
aspettavo che lei alzasse la testa. Aveva dei capelli castani, raccolti in alto
sulla testa come il nido di un uccello e di lato portava un grosso fiocco
bianco.
Quando guardò in su, guardò dritto verso di me. Poi sorrise. Mi fece un
sorriso enorme. Agitò la mano per salutarmi, veloce, poi di corsa si fermò
davanti a me.
Allungò la mano. «Ciao, mi chiamo Poppy Litchfield, ho cinque anni e
vivo alla porta accanto».
Guardai la bambina. Aveva un accento strano. Faceva assumere alle
parole in inglese un suono diverso da quello che avevo imparato in
Norvegia. La bambina, Poppy, aveva una macchia di fango sul viso e stivali
da pioggia di un giallo brillante, con un grosso pallone rosso disegnato sul
lato.
Aveva un aspetto strano.
La percorsi con lo sguardo dal basso verso l’alto e le fissai la mano. La
teneva ancora protesa verso di me. Non sapevo cosa fare. Non sapevo cosa
volesse.
Poppy sospirò. Scuotendo il capo, si allungò a prendere la mia mano e
la spinse nella sua. Le agitò insieme su e giù due volte e disse: «Una stretta
di mano. Mia nonna dice che si deve stringere la mano alla gente nuova
che si incontra». Indicò le nostre mani. «Questa era una stretta di mano. E
sono stata gentile perché non ti conosco».
Non dissi nulla, per qualche strana ragione la voce non mi uscì.
Guardando in basso, capii che era perché le nostre mani erano ancora
unite.
Aveva del fango anche sulle mani. A dire il vero, aveva fango
dappertutto.
«Come ti chiami?» Chiese Poppy. Aveva la testa inclinata di lato. Un
ramoscello le era rimasto impigliato nei capelli. «Ehi» mi richiamò, dando
uno strattone alle nostre mani. «Ti ho chiesto il tuo nome».
Mi schiarii la voce. «Mi chiamo Rune, Rune Erik Kristiansen».
Poppy fece una smorfia, le sue grosse labbra rosa protese all’infuori
comicamente. «Parli proprio strano» si lasciò sfuggire.
Ritrassi la mia mano di scatto.
«Nei det gjør jeg ikke!» Scattai. Il suo viso si imbronciò ancora di più.
«Cosa hai detto?» Chiese Poppy, mentre io mi giravo per rientrare in
casa. Non volevo più parlarle.
Arrabbiato, mi girai indietro. «Ho detto: ‘No, non è vero!’. Stavo
parlando norvegese!» Spiegai, in inglese questa volta. Gli occhi verdi di
Poppy si spalancarono.
Si avvicinò con dei piccoli passi, sempre più vicina, e chiese:
«Norvegese? Come i vichinghi? Mia nonna mi ha letto un libro sui
vichinghi. Diceva che venivano dalla Norvegia». I suoi occhi si fecero
ancora più grandi. «Rune, tu sei un vichingo?» La sua voce era diventata
tutta uno squittio. Mi fece sentire bene. Spinsi il petto in fuori. Mio padre
diceva sempre che ero un vichingo, come tutti gli uomini della mia famiglia.
Eravamo dei vichinghi grandi e forti.
«Ja», dissi. «Siamo veri vichinghi della Norvegia».
Sul viso di Poppy si aprì un enorme sorriso, e una sonora risatina da
bambina esplose dalla sua bocca. Sollevò la mano e mi toccò i capelli.
«Ecco perché hai lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri come cristalli.
Perché sei un vichingo. All’inizio pensavo somigliassi a una bambina...»
«Non sono una bambina!» La interruppi, ma a Poppy sembrava non
importare.
Passai la mano tra i miei lunghi capelli. Mi arrivavano fino alle spalle.
Tutti i ragazzi a Oslo avevano i capelli così.
«Ma ora so che è perché sei un vichingo vero. Come Thor. Anche lui
aveva lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri! Sei proprio uguale a Thor!»
«Ja» assentii. «Come Thor. E lui è il dio più forte di tutti».
Poppy annuì, e mi mise le mani sulle spalle. Si era fatta tutta seria in
viso e la sua voce si era ridotta a un sospiro. «Rune, questo non lo dico mai
a nessuno, ma io parto per delle avventure».
Feci una smorfia confusa. Non capivo. Poppy si avvicinò ancora e mi
guardò negli occhi. Strinse forte le mie braccia. Piegò la testa da un lato. Si
guardò bene intorno, poi si sporse verso di me per spiegare. «In genere non
porto persone con me nei miei viaggi, ma tu sei un vichingo, e tutti
sappiamo che i vichinghi crescono grandi e forti, e sono davvero tanto
bravi nelle avventure e le esplorazioni, nelle lunghe camminate e a
catturare i cattivi… E tutto questo genere di cose!»
Ero ancora confuso, ma poi Poppy fece qualche passo indietro e mi
porse nuovamente la mano. «Rune» disse, con voce seria e salda, «tu vivi
proprio alla porta accanto alla mia e sei un vichingo e io sono innamorata
dei vichinghi. Credo che dovremmo essere migliori amici».
«Migliori amici?» Chiesi.
Poppy annuì e spinse la mano ancora di più verso di me. Lentamente
allungai la mia, afferrai la sua mano e le diedi due strette, come mi aveva
mostrato.
Una stretta di mano.
«Quindi adesso siamo migliori amici?» Chiesi, quando Poppy ritirò la
sua.
«Sì!» Rispose con entusiasmo. «Poppy e Rune». Si portò un dito al
mento e guardò in alto. Nuovamente spinse le labbra in fuori, come se
stesse pensando intensamente. «Suona bene, non trovi? ‘Poppy e Rune,
migliori amici all’infinito!’»
Annuii, perché suonava davvero bene. Poppy mise la mano nella mia.
«Mostrami la tua stanza! Voglio raccontarti la prossima avventura per cui
partiremo». Iniziò a trascinarmi avanti e corremmo in casa.
Quando aprimmo la porta della mia camera, Poppy si precipitò
direttamente verso la mia finestra. «Questa è la stanza proprio di fronte
alla mia!»
Feci di sì col capo e lei squittì, correndo verso di me e prendendo
ancora una volta la mia mano nelle sue. «Rune!» Esclamò eccitata,
«possiamo parlare di notte, e fare dei walkie-talkie con lattine e corde.
Possiamo sussurrarci i nostri segreti mentre tutti gli altri stanno dormendo,
e possiamo fare dei piani, e giocare, e…»
Poppy continuava a parlare, ma non mi dispiaceva. Mi piaceva il suono
della sua voce. Mi piaceva la sua risata e mi piaceva il grosso fiocco
bianco che aveva in testa.
Forse la Georgia non sarebbe stata poi così male dopo tutto, pensai, non
se Poppy Litchfield fosse diventata la mia migliore amica.
Nove anni fa
Età: otto anni
Due anni fa
Età: quindici anni
Scese il silenzio mentre lei si sistemava sul palco. Be’, non c’era silenzio
assoluto, il sangue in tempesta che scorreva nelle mie vene mi rombava
nelle orecchie, mentre Poppy prendeva posto con calma.
Era bellissima, nel suo vestito nero senza maniche, con i lunghi capelli
castani raccolti indietro in uno chignon, con in cima un fiocco bianco.
Sollevando la macchina fotografica che portavo sempre al collo,
avvicinai l’obiettivo all’occhio proprio mentre lei posizionava l’archetto
sulla corda del violoncello.
Mi piaceva sempre catturarla in quel momento. Il momento in cui
chiudeva i suoi grandi occhi verdi. Quel momento in cui sul suo volto
scivolava un’espressione assolutamente perfetta, lo sguardo che aveva
proprio prima che la musica incominciasse. Quello sguardo di pura passione
per i suoni che sarebbero seguiti.
Scattai la foto cogliendo il momento perfetto, e poi la melodia iniziò.
Abbassando la macchina fotografica, mi concentrai solo su di lei. Non
riuscivo a farle delle foto mentre suonava. Non mi concedevo di perdere
nemmeno un minuto di Poppy su quel palco.
Il mio labbro restò sospeso in un piccolo sorriso mentre il suo corpo
iniziava a ondeggiare al suono della musica. Amava questo pezzo, lo
suonava sin da quando avevo memoria. Non aveva bisogno dello spartito,
Greensleeves si riversava fuori dalla sua anima, attraverso l’archetto.
Non potevo fare a meno di fissarla, il cuore che batteva forte come un
cavolo di tamburo, mentre le labbra di Poppy si contraevano. Le sue
profonde fossette spuntavano quando si concentrava sui passaggi difficili.
Continuava a tenere gli occhi chiusi, ma si capiva quali erano le parti della
musica che adorava. La testa le si inclinava da un lato, e un enorme sorriso
si apriva sul suo viso.
La gente non capiva che dopo tutto questo tempo lei era ancora mia.
Avevamo solo quindici anni, ma dal giorno in cui l’avevo baciata nel
boschetto, a otto anni, non c’era stata più nessun’altra. Era come se avessi i
paraocchi. Vedevo solo Poppy. Nel mio mondo, esisteva solo lei.
E lei era diversa da tutte le altre ragazze nella nostra scuola. Poppy era
originale, non popolare. Non le importava di quello che la gente pensava di
lei, non ci aveva mai dato peso. Suonava il violoncello perché lo amava.
Leggeva libri, studiava per piacere, si svegliava all’alba solo per vedere il
sorgere del sole.
Era per questo che lei era il mio tutto. Il mio sempre e per sempre.
Perché lei era unica. Unica in una città piena di bamboline in copia carbone.
Non voleva fare la cheerleader, sparlare o andare dietro ai ragazzi. Lei
sapeva che aveva me, proprio quanto io avevo lei.
Noi eravamo tutto quello di cui avevamo bisogno.
Mi mossi sulla sedia quando il suono del violoncello si fece più lieve,
Poppy stava concludendo il pezzo. Sollevai di nuovo la mia macchina
fotografica e scattai un’ultima foto, proprio mentre Poppy sollevava
l’archetto dalla corda con un’espressione soddisfatta che le ornava il viso
adorabile.
Al suono dell’applauso, abbassai la mia macchina. Poppy spinse via lo
strumento dal petto e si alzò in piedi. Fece un piccolo inchino, poi passò in
rassegna l’auditorium. I suoi occhi incontrarono i miei. Sorrise.
Credetti che il cuore potesse sfondarmi il petto.
Feci un sorrisetto in risposta, spostando via dal viso i miei lunghi capelli
biondi con le dita. Un rossore ricoprì le guance di Poppy, poi lei uscì dal
palco da sinistra, e l’auditorium fu inondato dalla luce. Poppy era stata
l’ultima a esibirsi. Era sempre lei che chiudeva lo spettacolo. Nel distretto,
era la migliore musicista della nostra età. Secondo me, lei offuscava persino
tutti quelli delle tre fasce d’età successive.
Una volta le avevo chiesto come faceva a suonare così. Lei mi aveva
risposto semplicemente che le melodie sgorgavano dal suo archetto con la
stessa facilità con cui respirava. Non riuscivo a immaginare cosa
significasse avere quel tipo di talento. Ma quella era Poppy, la ragazza più
straordinaria del mondo.
Mentre l’applauso si stava spegnendo, la gente cominciava a uscire
dall’auditorium. Una mano mi strinse il braccio. La signora Litchfield si
stava asciugando una lacrima, piangeva sempre quando Poppy si esibiva.
«Rune, tesoro, dobbiamo portare queste due a casa. Vai tu a cercare
Poppy?»
«Sì, signora» replicai e sorrisi dolcemente a Ida e Savannah, le sorelline
di nove e undici anni di Poppy che dormivano sulle sedie.
Non erano molto appassionate di musica, non come Poppy. Il signor
Litchfield roteò gli occhi e mi fece un piccolo gesto di saluto, poi si voltò
per svegliare le bambine e riportarle a casa. La signora Litchfield mi baciò
sulla testa, poi i quattro andarono via.
Mentre cercavo di uscire dal corridoio tra le sedie, sentii sussurri e
risatine provenire dalla mia destra. Lanciando uno sguardo alle poltrone,
individuai un gruppo di matricole che stavano guardando tutte dalla mia
parte. Chinai la testa, ignorando i loro sguardi. Succedeva spesso. Non
capivo perché così tante ragazze mi prestassero così tante attenzioni. Da
quando mi conoscevano, io ero sempre stato con Poppy. Non volevo
nessun’altra. Volevo che la smettessero di cercare di portarmi via dalla mia
ragazza, nessuno ci sarebbe mai riuscito.
Mi spinsi attraverso l’uscita e raggiunsi la porta del backstage. L’aria era
densa e umida, e per questo la mia t-shirt nera si incollò al petto.
Probabilmente i miei jeans neri e gli stivali neri erano troppo pesanti per il
caldo della primavera, ma questo era il mio modo di vestire, qualunque
fosse la temperatura.
I musicisti iniziavano ad affollarsi fuori dalla porta, e mi appoggiai al
muro dell’auditorium, con il piede puntato contro i mattoni dipinti di
bianco.
Incrociai le braccia al petto, liberandole solo per spostarmi i capelli dagli
occhi. Guardai i musicisti ricevere abbracci dai loro familiari, poi, quando
incrociai nuovamente le stesse ragazze di prima che mi stavano fissando,
abbassai gli occhi al suolo. Non volevo che si avvicinassero. Non avevo
nulla da dire loro.
I miei occhi erano rivolti ancora verso il basso quando udii dei passi
venire nella mia direzione. Guardai in su proprio mentre Poppy mi si gettò
al petto, le braccia intorno alla mia schiena, stringendomi forte. Abbozzai
una risatina e ricambiai all’istante l’abbraccio. Ero già alto un metro e
ottantatré, quindi torreggiavo completamente sui centocinquantadue
centimetri di Poppy. Ma mi piaceva, mi piaceva come combaciava
perfettamente con me.
Inspirai profondamente e fui avvolto dalla dolcezza del suo profumo che
sapeva di zucchero e spinsi la guancia contro la sua testa. Dopo avermi
stretto ancora una volta, Poppy si allontanò e mi sorrise. I suoi occhi verdi
sembravano enormi con il mascara e il leggero trucco, le sue labbra rosa e
lucide per il burro cacao alla ciliegia.
Feci scivolare le mani lungo i suoi fianchi, fermandomi quando si
racchiusero sulle sue morbide guance. Un battito di ciglia e aveva un’aria
insopportabilmente dolce.
Incapace di resistere alla voglia di sentire le sue labbra sulle mie, mi
chinai verso di lei lentamente, quasi sorridendo quando sentii quel familiare
singhiozzo nel respiro che Poppy faceva ogni volta che la baciavo, nel
momento appena prima che le nostre labbra si toccassero.
Quando le nostre labbra si incontrarono, espirai attraverso il naso. Poppy
aveva sempre lo stesso sapore, di ciliegia, il sapore del suo burro cacao che
inondava la mia bocca. E Poppy mi baciò a sua volta, le sue piccole mani
aggrappate con forza ai lati della mia maglietta nera.
Muovevo la bocca contro la sua, lentamente e dolcemente, fino a che
alla fine non mi tirai indietro, posando tre brevi baci, leggeri come una
piuma sulla sua bocca gonfia. Presi un respiro profondo e guardai gli occhi
di Poppy fremere e aprirsi. Aveva le pupille dilatate. Si leccò il labbro
inferiore prima di stregarmi con un sorriso smagliante.
«Bacio trecentocinquantadue. Con il mio Rune, contro il muro
dell’auditorium». Trattenni il respiro, in attesa della frase successiva. Il
luccichio negli occhi di Poppy mi diceva che le parole che speravo
sarebbero presto uscite dalle sue labbra. «E il mio cuore è quasi scoppiato»
mi sussurrò sporgendosi più vicina, tentando di restare in equilibrio sulle
punte.
Lei segnava solo quei baci super speciali. Solo quelli che le riempivano
il cuore. Ogni volta che ci baciavamo, aspettavo quelle parole.
Quando arrivarono, mi rapì con il suo sorriso.
Poppy rise. E non potei evitare un grande sorriso al suono della felicità
che traspariva dalla sua voce. Impressi un altro bacio veloce sulle sue labbra
e feci un passo indietro per avvolgerle le spalle con il mio braccio. La
avvicinai a me e appoggiai la guancia contro la sua testa. Le braccia di
Poppy mi circondarono la schiena e la pancia, e la guidai via dal muro. In
quel momento, sentii Poppy bloccarsi.
Sollevai la testa e vidi le matricole che indicavano Poppy e si
sussurravano qualcosa l’una con l’altra. I loro occhi erano fissi su Poppy tra
le mie braccia. Mi si serrò la mascella.
Odiavo che la trattassero in questo modo, solo per gelosia. La maggior
parte delle ragazze non aveva mai dato una chance a Poppy perché loro
volevano quello che lei aveva. Poppy diceva che non le importava, ma mi
accorgevo che non era così. Il fatto che si fosse irrigidita tra le mie braccia
mi diceva che le importava, eccome.
Spostandomi davanti a Poppy, aspettai che lei alzasse il viso. «Ignorale»
le ordinai, appena lo fece.
Il mio stomaco precipitò quando la vidi sforzarsi di sorridere. «Le sto
ignorando, Rune. Non mi danno fastidio».
Inclinai la testa di lato e sollevai le sopracciglia. Poppy scosse la testa.
«Non ci bado. Promesso» provò a mentire. Lanciò uno sguardo oltre le mie
spalle e fece spallucce. «Ma lo capisco. Voglio dire, guardati Rune. Sei
stupendo. Alto, misterioso, esotico… Norvegese!» Riprese, quando i miei
occhi incontrarono i suoi. Rise e spinse il palmo contro il mio petto. «Hai
tutto questo aspetto da ragazzo cattivo, alternativo. Per forza tutte le ragazze
ti vogliono, non possono farne a meno. Tu sei tu. Tu sei perfetto».
Mi avvicinai di più e osservai i suoi occhi verdi spalancarsi. «E tuo»
aggiunsi, e la tensione che aveva nelle spalle si dissipò.
Infilai la mano nella sua, che era ancora sul mio petto. «E non sono
misterioso, Poppymin. Tu sai tutto quello che c’è da sapere su di me.
Nessun segreto, nessun mistero».
«Per me» ribatté incontrando ancora una volta i miei occhi. «Tu non sei
un mistero per me, ma lo sei per tutte le altre ragazze della nostra scuola. Ti
vogliono tutte».
Feci un sospiro, iniziavo a sentirmi nervoso. «E tutto quello che voglio
io sei tu». Poppy mi osservò, come a cercare di intuire qualcosa dalla mia
espressione. La cosa mi fece solo innervosire ancora di più. «All’infinito»
sussurrai, intrecciando le dita con le sue.
A queste parole, un sorriso sincero spuntò sulle labbra di Poppy.
«Sempre e per sempre» rispose infine, in un sussurro.
Abbassai la fronte per posarla contro la sua. Le mie mani avvolsero le
sue guance. «Voglio te e solo te. È così da quando avevo cinque anni e mi
hai stretto la mano. Nessun’altra ragazza potrà mai cambiare questa cosa»
la rassicurai.
«Sì?» Chiese Poppy, ma sentivo che era tornata l’ironia nella sua voce
dolce.
«Ja» risposi in norvegese, e sentì riversarsi nelle mie orecchie il dolce
suono della sua risatina. Adorava quando le parlavo nella mia lingua madre.
Le baciai la fronte, poi mi allontanai di un passo per prenderle le mani.
«Tua madre e tuo padre hanno portato le bambine a casa, mi hanno detto di
dirtelo».
Fece cenno di sì col capo, poi mi guardò nervosamente. «Che ne pensi di
stasera?»
Roteai gli occhi e arricciai il naso. «Terribile, come sempre» replicai
seccamente.
Poppy sorrise e mi colpì il braccio. «Rune Kristiansen! Non essere così
cattivo!» Mi rimproverò.
«È andata bene» dissi fingendo di essere ancora infastidito. Me la tirai al
petto, avvolgendo le braccia attorno a lei e imprigionandola contro di me.
Squittì quando iniziai a baciarla su e giù lungo la guancia, tenendole le
braccia bloccate lungo i fianchi. Lasciai cadere le labbra fino al suo collo e
colsi il sobbalzo nel suo respiro, le risate completamente dimenticate.
Spostai la bocca verso l’alto, fino a mordicchiarle il lobo. «Sei stata
fantastica» sussurrai dolcemente. «Come sempre. Eri perfetta, lassù.
Dominavi il palco. Hai conquistato tutti in quella stanza».
«Rune» mormorò. Sentii la nota allegra della sua voce.
Mi tirai indietro, senza liberarle ancora le braccia. «Non sono mai così
orgoglioso di te come quando ti vedo su quel palco» confessai.
Poppy arrossì. «Rune» cominciò timidamente, ma abbassai la testa per
mantenere il contatto con i suoi occhi mentre lei cercava di ritrarsi.
«Carnegie Hall, ricordatelo. Un giorno ti vedrò suonare alla Carnegie
Hall».
Poppy riuscì a liberare una mano e mi colpì dolcemente il braccio. «Ma
tu mi lusinghi!»
Scossi la testa. «Mai. Dico sempre e solo la verità».
Poppy premette le labbra sulle mie, e avvertii il suo bacio fino alla punta
dei piedi. Quando si staccò, la liberai e intrecciai le mie dita con le sue.
«Stiamo andando al campo?» Poppy mi chiese, mentre la guidavo
attraverso il parcheggio, tenendomela appena un po’ più stretta quando
passammo davanti al gruppo delle matricole.
«Preferirei stare da solo con te» dissi.
«Jorie ci ha chiesto di andare. Ci saranno tutti». Poppy mi guardò. Dal
breve movimento delle sue labbra, capii che mi stavo accigliando. «È
venerdì sera, Rune. Abbiamo quindici anni, e hai appena passato buona
parte della serata a guardarmi suonare il violoncello. Ci sono rimasti
novanta minuti prima del coprifuoco, dovremmo vedere i nostri amici come
fanno tutti gli adolescenti normali».
«Bene» acconsentii e le cinsi le spalle con il braccio. Mi sporsi verso il
basso e posai la bocca al suo orecchio. «Ma ti terrò tutta per me domani»
aggiunsi.
Poppy mi mise un braccio intorno alla vita e mi strinse forte.
«Promesso».
Sentimmo le ragazze dietro di noi pronunciare il mio nome. Sospirai per
la frustrazione, quando Poppy si irrigidì per un istante. «È perché sei
diverso, Rune» disse, senza sollevare lo sguardo. «Tu sei il tipo artistico,
appassionato di fotografia. Indossi abiti scuri». Rise e scosse la testa. Mi
spostai via i capelli dal viso, e Poppy li indicò. «Ma, soprattutto, è per
questo».
Corrugai la fronte. «Per questo, cosa?»
Allungò una mano e tirò una ciocca dei miei lunghi capelli. «Quando fai
così. Quando spingi i capelli all’indietro come fai tu». Alzai un
sopracciglio, perplesso, e Poppy scrollò le spalle. «È qualcosa di
irresistibile».
«Ja?» Chiesi, prima di fermarmi per mettermi di fronte a Poppy,
esagerando il gesto di portare indietro i capelli fino a che lei rise.
«Irresistibile, eh? Anche per te?»
Poppy fece una risatina e spostò la mia mano dai capelli per avvolgerla
alla sua. «In realtà non mi dà fastidio che le altre ragazze ti guardino, Rune.
Conosco quello che provi per me, perché è esattamente la stessa cosa che io
provo per te» mi disse Poppy, mentre seguivamo il sentiero fino al campo,
un fazzoletto di parco dove i ragazzi della nostra scuola si ritrovavano di
sera. Si risucchiò il labbro inferiore. Sapevo che significava che era nervosa
ma non seppi perché fin quando non disse: «L’unica ragazza che mi
preoccupa è Avery. Perché ti vuole da così tanto e sono sicura che farebbe
qualsiasi cosa pur di averti».
Scossi la testa.
Avery non mi piaceva nemmeno, ma dato che era nel nostro gruppo di
amici, era sempre intorno. Lei piaceva a tutti i miei amici, la ritenevano la
più carina in circolazione. Ma io non lo avevo mai notato e odiavo come si
comportava con me. Odiavo come faceva sentire Poppy.
«Lei non è niente, Poppymin» la rassicurai. «Niente».
Poppy si rintanò contro il mio petto e girammo a destra, per raggiungere
i nostri amici. Più ci avvicinavamo, più la tenevo stretta a me. Avery si tirò
su a sedere quando ci vide arrivare.
«Niente» ripetei, girando la testa verso Poppy.
La mano di Poppy si aggrappò alla mia maglietta, facendomi capire che
aveva sentito. Jorie, la sua migliore amica, saltò in piedi.
«Poppy!» Jorie chiamò con entusiasmo, raggiungendoci per abbracciare
Poppy. Mi piaceva Jorie. Era una svampita, raramente pensava prima di
parlare, ma voleva bene a Poppy e Poppy voleva bene a lei. Era una di
quelle poche persone di questa città che pensava che l’originalità di Poppy
fosse adorabile e non solamente strana.
«Come state, cari?» Chiese Jorie e si fece indietro. Guardò il vestito nero
che Poppy aveva indossato per lo spettacolo. «Stai così bene! Come sei
carina!»
Poppy chinò il capo in segno di ringraziamento. Le presi nuovamente la
mano per condurla intorno al piccolo falò che avevano acceso in una buca e
mi misi a sedere. Mi appoggiai contro una panca ricavata da un tronco,
attirando giù Poppy perché si sedesse tra le mie gambe. Mi rivolse un
sorriso luminoso non appena si mise a sedere con me, spingendo la schiena
contro il mio petto e infilandosi con la testa contro il mio collo.
«Allora, Pops, com’è andata?» Il mio migliore amico, Judson, chiese
dall’altra parte del fuoco. L’altro mio amico più stretto, Deacon, era seduto
accanto a lui. Mosse il mento in segno di saluto e anche la sua ragazza,
Ruby, ci fece un piccolo cenno con la mano.
Poppy alzò le spalle. «Bene, direi».
Guardai il mio amico dai capelli scuri «La stella dello show. Come
sempre» aggiunsi, circondandole il petto con il braccio e tenendola stretta.
«È solo un violoncello, Rune. Niente di così speciale» ribatté a bassa
voce Poppy.
Scossi la testa in segno di protesta. «Ha fatto venire giù il teatro».
Beccai Jorie che mi stava sorridendo. E colsi anche Avery, che roteava
gli occhi con aria di sufficienza. Poppy ignorò Avery e continuò a parlare
con Jorie della scuola. «Dai, Pops. Te lo giuro, il signor Millen è un dannato
alieno malvagio. O un demonio. Cavolo, deve venire da qualche posto che
va oltre ciò che conosciamo. Portato dal preside per torturare noi deboli,
piccoli umani con un’algebra difficilissima. È da lì che prende la sua forza
vitale, ne sono convinta. E credo che mi stia addosso. Sai per il fatto che so
che è un extra-terrestre perché, oddio! Quell’uomo continua a darmi il
tormento e a guardarmi storto!»
«Jorie!» Poppy rise, rise così forte che tutto il corpo sussultò. Sorrisi per
la sua allegria, poi mi estraniai. Mi appoggiai ancora più indietro contro il
tronco, mentre i nostri amici parlavano. Tracciavo pigramente dei disegni
sul braccio di Poppy, non desiderando nient’altro che andarmene. Non mi
dispiaceva starmene seduto con i miei amici, ma preferivo stare da solo con
lei. Morivo dalla voglia di stare in sua compagnia; l’unico posto in cui
desiderassi mai essere era con lei.
Poppy rise per un’altra cosa che disse Jorie. Rise così forte che sbatté la
testa contro la macchina fotografica che avevo appesa al collo, scagliandola
di lato. Poppy mi mandò un sorriso di scuse. Mi chinai, sollevai con un dito
il suo mento verso di me e la baciai sulle labbra. La mia intenzione era che
fosse un bacio leggero e veloce, ma quando la mano di Poppy si intrecciò
nei miei capelli, attirandomi più vicino, quel bacio divenne qualcosa di più.
Quando Poppy aprì le labbra, spinsi la mia lingua per incontrare la sua, e
nel farlo persi il respiro.
Le dita di Poppy si tesero nei miei capelli. Le avvolsi la guancia per
trattenerla il più a lungo possibile in questo bacio. Se non avessi dovuto
respirare, immaginavo che non avrei mai smesso di baciarla.
Completamente persi nel bacio, ci staccammo solo quando qualcuno si
schiarì la voce oltre il falò. Sollevai la testa e vidi che Judson stava
sogghignando. Quando guardai Poppy, le sue guance stavano andando a
fuoco. I nostri amici nascosero le risate, e io strinsi Poppy più forte. Non mi
sarei di certo sentito imbarazzato nel baciare la mia ragazza.
La conversazione riprese, e sollevai la macchina per controllare che
fosse a posto. La mia mamma e il mio papà me l’avevano comprata per il
giorno del mio tredicesimo compleanno, quando si erano accorti che la
fotografia stava diventando la mia passione. Era una Canon vintage degli
anni Sessanta. La portavo con me dovunque, facendo migliaia di foto. Non
sapevo perché, ma catturare i momenti mi affascinava.
Forse perché, alle volte, tutto ciò che avevamo erano i momenti. Non si
poteva mandare indietro la pellicola; qualsiasi cosa succedesse in un
momento segnava la vita, forse era la vita stessa. Ma catturare un momento
sulla pellicola manteneva quel momento in vita, per sempre. Per me, la
fotografia era magia.
Mentalmente ripassai le immagini nel rullino. Foto della natura e primi
piani dei ciliegi in fiore del boschetto avrebbero occupato gran parte della
pellicola. Poi ci sarebbero state le foto di stasera di Poppy. Il suo bel viso
mentre la musica la rapiva. Lei aveva quella stessa espressione sul viso solo
in un’altra occasione, quando guardava me. Per Poppy, io ero speciale come
lo era la musica. In entrambi i casi, un legame che nessuno avrebbe potuto
spezzare.
Presi il cellulare, lo sollevai di fronte a noi, con l’obiettivo della
fotocamera nella nostra direzione. Poppy non stava più partecipando alla
conversazione che si svolgeva intorno a noi. Silenziosamente faceva
scorrere la punta delle dita lungo il mio braccio. Cogliendola alla
sprovvista, scattai la foto, proprio mentre sollevava lo sguardo su di me. Mi
sfuggì una risata quando socchiuse gli occhi infastidita. Sapevo però che
non era arrabbiata, nonostante facesse di tutto per sembrarlo. Poppy
adorava qualsiasi foto di noi due che facessi, anche quelle scattate quando
lei meno se lo aspettava.
Quando guardai lo schermo del cellulare, il cuore iniziò immediatamente
a sbattermi contro le costole. Nella foto, mentre Poppy guardava in su verso
di me, era bella. Ma fu la sua espressione che mi mandò al tappeto. Lo
sguardo dei suoi occhi verdi. In questo momento, questo preciso momento
che avevo catturato, c’era quella espressione. Quella che regalava
generosamente solo a me e alla sua musica. Quella che mi diceva che io
avevo lei tanto quanto lei aveva me. Quella che confermava che eravamo
stati insieme per tutti quegli anni. Quella che diceva che, pur essendo
giovani, avevamo trovato una nell’altro la nostra anima gemella.
«Mi fai vedere?» La voce tranquilla di Poppy mi distolse dallo schermo.
Mi sorrideva e abbassai il telefono per mostrargliela.
Guardai Poppy, non la foto, mentre il suo sguardo si posava sullo
schermo. La guardai mentre i suoi occhi si addolcivano e il soffio di un
sorriso faceva capolino sulle sue labbra. «Rune» mormorò, allungandosi per
afferrare la mia mano libera, e io gliela strinsi forte. «Ne voglio una copia.
È perfetta» disse.
Annuii e le baciai la testa. Ed ecco perché amo la fotografia, pensai.
Riusciva a tirare fuori le emozioni, le emozioni nude, da un millesimo di
secondo.
Spegnendo la fotocamera del cellulare, vidi l’orario sullo schermo.
«Poppymin» la chiamai a bassa voce. «Dobbiamo andare a casa. Si sta
facendo tardi».
Poppy annuì. Mi misi in piedi e la tirai su.
«Ve ne state andando?» Chiese Judson.
Annuii. «Sì. Ci becchiamo lunedì». Feci a tutti un gesto di saluto e presi
la mano di Poppy.
Non parlammo molto, tornando a casa. Quando ci fermammo davanti
alla porta di Poppy, la presi tra le braccia e la attirai contro il mio petto. Le
posai la mano al lato del collo e Poppy guardò in su. «Sono così orgoglioso
di te, Poppymin. Non ci sono dubbi che andrai alla Julliard. Il tuo sogno di
suonare alla Carnegie Hall si avvererà».
Poppy mi fece un sorriso smagliante e tirò la tracolla della mia macchina
fotografica che avevo intorno al collo. «E tu sarai alla Tisch School of the
Arts alla NYU. Staremo insieme a New York, come abbiamo sempre detto.
Come abbiamo sempre pianificato».
Feci di sì col capo e strofinai le labbra lungo la sua guancia. «Allora non
ci saranno più coprifuochi» borbottai scherzosamente.
Poppy rise. Spostandomi sulle sue labbra, premetti un bacio delicato e
mi feci indietro. Mentre le lasciavo le mani, il signor Litchfield aprì la
porta. Mi vide allontanarmi dalla figlia e scosse la testa, ridendo. Sapeva
esattamente cosa stavamo facendo.
«Notte, Rune» disse seccamente.
«Notte, signor Litchfield» replicai, vedendo Poppy arrossire mentre il
padre le faceva segno di entrare.
Attraversai il prato e arrivai a casa mia. Aprii la porta, ed entrando in
soggiorno trovai i miei genitori seduti sul divano. Erano entrambi seduti
sulla punta, e sembravano tesi.
«Ehi» salutai, e la testa di mia madre scattò in su.
«Ehi, tesoro» disse.
Mi accigliai. «Che è successo?» Chiesi.
Mia madre lanciò uno sguardo a mio padre, poi scosse la testa. «Niente,
tesoro. Poppy ha suonato bene? Mi dispiace, non ce l’abbiamo fatta a
venire».
Fissai i miei genitori. Stavano nascondendo qualcosa, ne ero sicuro.
Quando rimasero in silenzio, lentamente feci di sì con la testa, per
rispondere alla domanda. «È stata perfetta, come al solito».
Credetti di aver visto delle lacrime negli occhi di mia madre ma
prontamente le ricacciò indietro. Volevo sottrarmi a quella strana atmosfera
così sollevai la mia macchina fotografica. «Sviluppo queste foto e poi vado
a letto».
«Facciamo un’uscita di famiglia domani, Rune» annunciò mio padre,
mentre mi voltavo per andare via.
Restai di sasso. «Non posso venire. Mi ero organizzato per passare la
giornata con Poppy».
Mio padre scosse la testa. «Non domani, Rune».
«Ma...» Obiettai, ma mio padre tagliò corto, con voce severa.
«Ho detto di no. Verrai con noi e basta. Puoi stare con Poppy quando
torniamo. Non staremo fuori tutto il giorno».
«Sul serio, cosa sta succedendo?»
Mio padre venne di fronte a me. Mi mise una mano sulla spalla.
«Niente, Rune. Semplicemente non vi vedo più, perché lavoro. Voglio
che questo cambi, quindi passeremo una giornata fuori in spiaggia».
«Bene, allora Poppy può venire con noi? Lei adora la spiaggia. È il suo
secondo posto preferito».
«Non domani, figlio mio».
Restai in silenzio, mi stavo irritando, ma vidi che lui non aveva
intenzione di negoziare. Papà fece un sospiro. «Vai a sviluppare le tue foto,
Rune, e smettila di preoccuparti».
Feci quello che mi disse, scesi in cantina e mi diressi verso la piccola
stanza che mio padre aveva trasformato per me in una camera oscura.
Sviluppavo le pellicole ancora nella vecchia maniera invece di utilizzare
una macchina digitale. Ero convinto di ottenere un risultato migliore.
Dopo venti minuti, feci un passo indietro di fronte alla fila delle nuove
foto. Avevo stampato anche la foto fatta col cellulare, quella mia e di Poppy
al campo. La presi e la portai nella mia camera. Infilai la testa nella stanza
di Alton passando, per controllare che mio fratello di due anni stesse
dormendo. Era lì, tutto raggomitolato insieme al suo orsacchiotto marrone,
con tutti i capelli biondi sparpagliati sul cuscino.
Spinsi la porta della mia stanza e accesi la lampada. Guardai l’orologio e
notai che era quasi mezzanotte. Passandomi la mano tra i capelli, raggiunsi
la finestra e sorrisi, quando vidi la casa dei Litchfield al buio a eccezione di
una debole luce che veniva dalla stanza di Poppy. Era il segnale di Poppy
per dirmi che il campo era libero e potevo intrufolarmi.
Chiusi a chiave la porta e spensi la lampada. La stanza piombò
nell’oscurità. Mi cambiai velocemente, mettendomi una maglietta e dei
pantaloni per dormire. In silenzio, tirai su la finestra e la scavalcai. Corsi
attraverso il prato tra le nostre due case e mi infilai nella stanza di Poppy,
richiudendo la finestra il più piano possibile.
Poppy era a letto, rannicchiata sotto le coperte. Aveva gli occhi chiusi e
il suo respiro era leggero e regolare. Sorrisi per quanto era carina con la
guancia appoggiata su una mano, mi avvicinai al letto mettendo il suo
regalo sul comodino e salii vicino a lei.
Mi distesi accanto a Poppy, abbassando la testa per dividere il suo
cuscino.
Facevamo la stessa cosa da anni. La prima notte che restai a dormire da
lei fu un errore: avevo dodici anni, mi arrampicai nella sua stanza, per
parlare, ma mi addormentai. Per fortuna, mi svegliai abbastanza presto il
mattino successivo da rientrare furtivamente nella mia stanza senza che
nessuno mi vedesse. Ma la notte successiva rimasi di proposito, e così
anche la notte dopo quella, e quasi tutte le notti da quel momento. Per
fortuna non ci avevano mai scoperti. Non ero così sicuro che sarei piaciuto
lo stesso al signor Litchfield se avesse saputo che dormivo nello stesso letto
della figlia. Ma restare accanto a Poppy nel letto stava diventando sempre
più difficile. Ora avevo quindici anni, e mi sentivo in modo diverso con lei
accanto a me. La vedevo in modo diverso. E sapevo che anche per lei era
diverso. Ci baciavamo sempre e sempre di più. I baci si stavano facendo più
profondi, e le nostre mani non avrebbero dovuto esplorare certi posti.
Diventava sempre più tremendamente difficile fermarsi. Io volevo di più.
Volevo la mia ragazza in tutti i modi possibili.
Solo che eravamo giovani. Ne ero consapevole.
Ma non per questo la cosa era meno difficile.
Poppy si risvegliò accanto a me. «Mi chiedevo se saresti venuto stanotte.
Ti ho aspettato ma non eri nella tua stanza» mi disse mezza addormentata,
mentre spostava i capelli via dalla mia faccia.
Catturai la sua mano, e le baciai il palmo. «Dovevo sviluppare il rullino,
e i miei genitori si stavano comportando in maniera strana».
«In che senso, in maniera strana?» Mi chiese, strisciando più vicina e
baciandomi la guancia.
Scossi la testa. «Solo… Strana. Penso che ci sia qualcosa sotto, ma mi
hanno detto di non preoccuparmi».
Pur nella luce fioca riuscivo a vedere Poppy che stava aggrottando le
sopracciglia preoccupata. Le strinsi la mano per rassicurarla.
Mi ricordai del regalo che le avevo portato, allora allungai un braccio
indietro e presi la foto dal comodino. L’avevo messa in una semplice
cornice d’argento. Accesi la torcia del telefonino e lo tenni in alto perché
Poppy potesse vedere meglio.
Lei fece un piccolo sospiro e io vidi un sorriso illuminarle tutto il viso.
Prese la cornice tra le mani e strofinò le dita sul vetro. «Amo questa foto,
Rune» sussurrò, poi la posò sul suo comodino. Rimase a fissarla per alcuni
attimi, poi si rigirò verso di me.
Poppy sollevò le coperte e le mantenne in alto così da potermici infilare
sotto. Posai il braccio intorno alla vita di Poppy e avvicinai il suo viso,
ricoprendo di leggeri baci le guance e il collo.
Quando baciai il punto proprio sotto l’orecchio, Poppy iniziò a
ridacchiare e mi spinse indietro. «Rune!» Mormorò. «Mi fai il solletico!»
Mi spostai e intrecciai la mano con la sua.
«Allora», cominciò Poppy e sollevò l’altra mano per giocare con un
ciuffo dei miei capelli. «Che facciamo domani?»
Roteai gli occhi. «Non ci vediamo, mio padre ci porta fuori per un’uscita
di famiglia. Alla spiaggia» replicai.
Poppy si mise a sedere tutta eccitata. «Davvero? Io adoro la spiaggia!»
Sentii un vuoto allo stomaco. «Dice che dobbiamo andarci da soli,
Poppymin. Solo la famiglia».
«Oh» disse Poppy, in tono deluso. Si stese di nuovo sul letto. «Ho fatto
qualcosa di sbagliato? Tuo padre mi invita sempre insieme a tutti voi».
«No» le assicurai. «Era quello che ti dicevo prima. Si stanno
comportando in maniera strana. Lui ha detto che vuole passare una giornata
in famiglia, ma io credo che ci sia dell’altro».
«Okay» disse Poppy, ma nel tono della sua voce avvertii una nota di
tristezza.
Le avvolsi la testa nella mano. «Sarò di ritorno per cena. Passeremo
domani sera insieme» promisi.
Lei mi prese il polso. «Bene».
Poppy mi stava guardando fisso, con i suoi grandi occhi verdi spalancati
nella luce fioca. Le accarezzai i capelli. «Sei così bella, Poppymin».
Non avevo bisogno della luce per vedere il rossore ricoprirle le guance.
Annullai il piccolo spazio tra di noi e schiacciai le labbra contro le sue.
Poppy sospirò mentre spingevo la lingua nella sua bocca, le sue mani si
spostarono per aggrapparsi ai miei capelli.
Era troppo piacevole, sentire le labbra di Poppy che si facevano sempre
più calde quanto più ci baciavamo, le mie mani scorrevano in basso lungo
le sue braccia e più giù, sulla sua vita.
Poppy si spostò sulla schiena e la mia mano scivolò a toccarle la gamba.
Seguii i suoi movimenti e mi misi sopra di lei, Poppy staccò la bocca dalla
mia con un sussulto sorpreso. Ma non smisi di baciarla. Feci scivolare le
labbra sulla sua mascella per baciarla lungo il collo, la mia mano che si
muoveva sotto la sua camicia da notte per accarezzare la pelle morbida
della sua vita.
Le dita di Poppy tirarono i miei capelli, e la sua gamba si sollevò per
avvinghiarsi dietro la mia coscia. Gemetti contro la sua gola, spostandomi
di nuovo in alto per catturare le sue labbra con la bocca. Quando la mia
lingua scivolò sulla sua, feci scorrere ancora più in alto le dita sul suo
corpo. Poppy interruppe il bacio. «Rune…»
Posai la testa nella sua piega tra il collo e la spalla, respirando
profondamente. La volevo così tanto da non resistere più. Inspiravo ed
espiravo, mentre Poppy abbassava la mano per accarezzarmi su e giù la
schiena. Mi concentrai sul ritmo delle sue dita, imponendomi di calmarmi.
Minuti e minuti passavano, ma non mi mossi. Ero contento di essere
disteso sopra Poppy, di inspirare il suo profumo delicato, la mia mano
premuta contro la sua pancia morbida.
«Rune?» Sussurrò Poppy.
Sollevai la testa. Immediatamente Poppy mi posò la mano sulla guancia.
«Tesoro?» Sospirò, e sentii la preoccupazione nella sua voce.
«Sto bene» le sussurrai in risposta, cercando di tenere la voce quanto più
bassa possibile per non svegliare i suoi genitori. La guardai intensamente
negli occhi. «È che ti voglio talmente tanto». Poggiai la fronte sulla sua e
aggiunsi: «Quando stiamo così, quando ci spingiamo così oltre, perdo un
po’ la testa».
Le dita di Poppy si infilarono nei miei capelli e io chiusi gli occhi,
godendomi il suo tocco. «Mi dispiace, io...»
«No» la interruppi con forza, alzando la voce un po’ più di quanto
volessi. Mi tirai indietro. Gli occhi di Poppy erano enormi. «No. Non
scusarti mai per questo, per avermi fermato. Non sarò mai qualcosa per cui
tu ti debba dispiacere».
Poppy aprì le labbra, gonfie di baci, e liberò un lungo sospiro. «Grazie»
sussurrò.
Spostai la mano e abbassai le dita per giungerle alle sue. Spostandomi
sul fianco, allargai un braccio e le feci cenno con la testa di venire da me.
Poggiò la testa sul mio petto, e io chiusi gli occhi e mi concentrai solo sul
respiro.
Alla fine, iniziai a sentire il sonno che arrivava. Le dita di Poppy
scorrevano su e giù lungo il mio stomaco. Stavo quasi per addormentarmi
quando Poppy sussurrò: «Tu sei il mio tutto, Rune Kristiansen, spero che tu
lo sappia».
Spalancai gli occhi di scatto alle sue parole, sentii il petto gonfiarsi. Le
posai un dito sotto il mento, e le sollevai la testa. La sua bocca stava
aspettando il mio bacio. La baciai gentilmente, lievemente e mi ritirai
piano. Mentre sorrideva, gli occhi di Poppy restarono chiusi. Mi sentii come
se il petto stesse per scoppiarmi nel vedere l’espressione soddisfatta sul suo
viso. «All’infinito» mormorai.
Poppy si accoccolò di nuovo contro il mio petto. «Sempre e per sempre»
sussurrò in risposta.
Ed entrambi ci addormentammo.
Rune
Oslo
Norvegia
«Sta tornando».
Due parole. Due parole che mandarono la mia vita al collasso. Due
parole che mi terrorizzavano. Sta tornando.
Fissai Jorie, la mia più cara amica, stringendomi forte i libri al petto. Il
cuore fece fuoco come un cannone e l’ansia mi sommerse.
«Che hai detto?» Sussurrai, ignorando gli studenti intorno nel corridoio
che si stavano affrettando tutti verso le loro classi.
Jorie mi posò la mano sul braccio. «Poppy, stai bene?»
«Sì» risposi debolmente.
«Sei sicura? Sei diventata pallida. Non sembra che tu stia bene».
Annuii, cercando di essere convincente. «Chi… Chi ti ha detto che sta
tornando?» Le chiesi.
«Judson e Deacon» rispose. «Avevo lezione con loro prima e stavano
giusto dicendo che suo padre è stato rispedito qui dalla sua azienda». Si
strinse nelle spalle. «Questa volta, per sempre».
Deglutii. «Nella stessa casa?»
Jorie fece una smorfia, ma annuì. «Mi dispiace, Pops».
Chiusi gli occhi e cercai di prendere respiro per calmarmi. Sarebbe stato
di nuovo alla porta accanto… Di nuovo nella sua stanza proprio di fronte
alla mia.
«Poppy?» Mi chiamò Jorie, e aprii gli occhi. Il suo sguardo era colmo di
comprensione. «Sei sicura di stare bene? Tu stessa sei tornata solo da
qualche settimana. E so che cosa significherà vedere Rune».
Mi sforzai di sorridere. «Starò bene, Jor. Ormai non lo conosco più. Due
anni sono tanti, e non abbiamo parlato nemmeno una sola volta in tutto
questo tempo».
Jorie si accigliò. «Pop...»
«Starò bene» insistetti, sollevando una mano. «Devo andare a lezione».
Mi stavo allontanando da Jorie quando una domanda si fece largo nella
mia testa. Guardai indietro da sopra una spalla la mia amica, l’unica amica
con cui avevo mantenuto i contatti negli ultimi due anni. Tutti sapevano che
la mia famiglia aveva lasciato la città per prendersi cura della zia malata di
mamma, Jorie era l’unica a conoscere la verità. «Quando?» Racimolai il
coraggio di chiedere.
Il viso di Jorie si addolcì quando capì cosa intendessi. «Stasera, Pops.
Arriva stasera. Judson e Deacon stanno spargendo la voce di andare tutti al
campo questa sera per dargli il bentornato. Ci vanno tutti».
Le sue parole ebbero l’effetto di una pugnalata al cuore. Non ero stata
invitata. Ma non lo sarei stata in ogni caso. Me n’ero andata da Blossom
Grove senza una parola. Quando ero tornata in questa scuola, senza essere
più al braccio di Rune, ero diventata la ragazza che avrei sempre dovuto
essere... Invisibile alla massa dei più popolari. La ragazza strana che
indossava fiocchi nei capelli e suonava il violoncello.
A nessuno, a eccezione di Jorie e Ruby, era minimamente importato che
me ne fossi andata.
«Poppy?» Jorie mi chiamò di nuovo.
Sbattendo le palpebre, ritornai alla realtà e notai che i corridoi erano
quasi vuoti. «Meglio che vai in classe, Jor».
Lei fece un passo verso di me. «Starai bene, Pops? Sono preoccupata per
te».
Risi, una risata senza gioia. «Ne ho passate di peggio».
Abbassai la testa e mi affrettai verso la mia classe prima di poter
scorgere sul viso di Jorie pietà e compassione. Entrai nell’aula di
matematica, infilandomi al mio posto proprio quando l’insegnante stava
incominciando la lezione.
Se più tardi qualcuno mi avesse chiesto su cosa fosse la lezione, non
sarei stata in grado di rispondere. Per cinquanta minuti tutto quello a cui ero
riuscita a pensare era l’ultima volta che avevo visto Rune. L’ultima volta
che mi aveva tenuto tra le sue braccia. L’ultima volta che aveva premuto le
sue labbra contro le mie. L’ultima volta che avevamo fatto l’amore, e
l’espressione sul suo bellissimo viso quando era stato portato via dalla mia
vita.
Senza scopo, mi chiedevo che aspetto avesse adesso. Era sempre stato
alto, con spalle ampie e una corporatura possente. Ma, per tutto il resto, alla
nostra età due anni erano un tempo abbastanza lungo perché una persona
potesse cambiare. Lo sapevo meglio di chiunque altro.
Mi chiedevo se i suoi occhi sembrassero ancora cristalli blu sotto la luce
forte del sole. Mi chiedevo se portasse ancora i capelli lunghi, e mi
chiedevo se ancora se li portasse all’indietro ogni manciata di minuti, con
quella mossa irresistibile che faceva impazzire tutte le ragazze. E per un
breve momento mi permisi di chiedermi, se ancora pensasse a me, la
ragazza della porta accanto. Se si fosse mai chiesto cosa stessi facendo in
un preciso istante. Se avesse mai ripensato a quella notte. La nostra notte.
La notte più incredibile della mia vita.
Poi dei pensieri cupi mi colpirono con forza e rapidità. Una domanda
che mi faceva salire fisicamente la nausea. Aveva baciato qualcun’altra
negli ultimi due anni? Aveva concesso a qualcuno le sue labbra, quando le
aveva promesse a me per sempre? O peggio, aveva fatto l’amore con
un’altra ragazza?
Il suono acuto della campanella mi strappò dai miei pensieri. Mi alzai
dal banco, dirigendomi verso il corridoio. Ero contenta di essere alla fine
della giornata di scuola.
Ero stanca e avevo dei dolori. Ma più di tutto, mi faceva male il cuore.
Perché sapevo che Rune da stasera sarebbe tornato nella casa accanto alla
mia, a scuola dal giorno successivo, e io non avrei avuto la possibilità di
parlargli. Non avrei avuto la possibilità di toccarlo o di sorridergli, come
avevo sognato di fare sin dal giorno in cui non avevo più risposto alle sue
chiamate.
E non avrei avuto la possibilità di baciarlo dolcemente.
Dovevo stare lontana.
Mi si strinse lo stomaco quando realizzai che probabilmente a lui non
importava più di me. Non dopo il modo in cui avevo tagliato i ponti con lui.
Senza una spiegazione, niente.
Mi precipitai fuori dalla porta, nell’aria fresca e frizzante e inspirai
profondamente. Mi sentii immediatamente meglio, sistemai i capelli dietro
le orecchie. Adesso che li portavo in un caschetto corto, mi sembrava
sempre strano. Mi mancavano i miei capelli lunghi.
Cominciai a incamminarmi verso casa e sorrisi al cielo azzurro e agli
uccellini che svolazzavano intorno alle cime degli alberi. La natura mi
calmava, mi aveva sempre fatto questo effetto.
Avevo percorso giusto qualche centinaio di metri quando vidi la
macchina di Judson, circondata dai vecchi amici di Rune. Avery era l’unica
ragazza in un gruppo di ragazzi. Abbassai la testa e cercai di sorpassarli
velocemente, ma lei mi chiamò per nome. Mi fermai di malavoglia e mi
sforzai di girarmi nella sua direzione. Avery si staccò dalla macchina su cui
era appoggiata e venne verso di me. Deacon cercò di trattenerla, ma lei si
scrollò via il suo braccio. Capii, dalla sua espressione compiaciuta, che non
sarebbe stata carina con me.
«Hai sentito?» Chiese, con un sorriso sulle sue labbra rosa. Avery era
bellissima. Quando ero tornata in città, non riuscivo a credere a quanto
fosse diventata bella. Il suo trucco sempre perfetto e i suoi lunghi capelli
biondi sempre acconciati alla perfezione. Lei era tutto ciò che un ragazzo
potesse desiderare da una ragazza, e tutto ciò che la maggior parte delle
ragazze voleva essere.
Spinsi i capelli dietro l’orecchio, un’abitudine che tradiva il mio
nervosismo. «Sentito cosa?» Chiesi, sapendo perfettamente cosa intendesse.
«Di Rune. Sta tornando a Blossom Grove».
Riuscivo a vedere lo scintillio di gioia nei suoi occhi blu. Distolsi lo
sguardo, decisa a mantenere la mia compostezza, e scossi la testa. «No,
Avery, non l’ho sentito. Io stessa non sono tornata da tanto».
Vidi Ruby, la ragazza di Deacon, avvicinarsi alla macchina, con Jorie
che le camminava accanto. Quando si accorsero che Avery stava parlando
con me, si affrettarono a raggiungerci. Volevo bene a entrambe per questo.
Solo Jorie sapeva dove ero stata negli ultimi due anni, perché me ne ero
andata. Ma dal momento stesso in cui ero ritornata, Ruby si era comportata
come se non fossi mai partita. Mi ero resa conto che erano delle vere
amiche.
«Che si dice qui?» Chiese Ruby con indifferenza, ma riuscivo ad
avvertire la nota protettiva nella sua voce.
«Chiedevo a Poppy se sapeva chi torna stasera a Blossom Grove» Avery
replicò acida. Ruby mi guardò con curiosità.
«Non lo sapevo» le dissi, e Ruby mi sorrise tristemente.
Deacon arrivò dietro alla sua ragazza e le mise un braccio intorno alle
spalle. Mi fece un cenno col mento in segno di saluto. «Ehi, Pops».
«Ehi» replicai.
Deacon si giro verso Avery. «Ave, Rune non parla con Poppy da anni, te
l’ho detto. Lei non lo conosce neanche più. È chiaro che non sappia che lui
sta tornando. Perché lui avrebbe dovuto dirglielo, poi?»
Ascoltavo Deacon e sapevo che non voleva essere crudele nei miei
confronti. Ma questo non significava che le sue parole non mi avessero
trafitto il cuore più a fondo di una lancia. E ora lo sapevo, sapevo che Rune
non aveva mai parlato di me. Era ovvio che lui e Deacon erano rimasti
vicini. Era ovvio ai miei occhi che non ero nulla ai suoi. Che non mi aveva
mai neppure nominata.
Avery alzò le spalle. «Me lo stavo solo chiedendo, ecco tutto. Lei e Rune
erano inseparabili finché lui non è partito».
Cogliendo quest’ultima frase come il mio segnale per andarmene, salutai
con la mano. «Devo andare». Mi girai velocemente e mi avviai verso casa.
Decisi di prendere una scorciatoia attraverso il parco che passava per il
boschetto di ciliegi. Ma mentre attraversavo il frutteto spoglio, con i ciliegi
privi delle loro belle foglie, fui sopraffatta dalla tristezza.
Quei rami nudi erano vuoti quanto mi sentivo io. Bramavano quell’unica
cosa che li avrebbe resi completi, ma sapevano che non importava quanto la
desiderassero, non avrebbero potuto averla indietro prima della primavera.
Semplicemente, il mondo non funzionava così.
Quando tornai a casa, mia madre era in cucina. Ida e Savannah erano
sedute al tavolo, a fare i loro compiti.
«Ehi, tesoro» Mi salutò la mamma. Attraversai la stanza per darle un
abbraccio, stringendola alla vita appena un po’ più forte del solito.
Mia mamma mi fece sollevare la testa, c’era uno sguardo preoccupato
nei suoi occhi stanchi. «Che succede?»
«Sono solo stanca, mamma. Vado a stendermi un po’».
Mia madre non mi lasciò andare. «Sei sicura?» Chiese, poggiando il
palmo sulla mia fronte per controllarmi la temperatura.
«Sì» la rassicurai, spostando la sua mano e baciandole la guancia.
Mi diressi nella mia stanza. Dalla finestra, osservai la casa dei
Kristiansen. Era rimasta immutata. Senza alcuna differenza dal giorno in cui
erano partiti per ritornare a Oslo.
Non l’avevano venduta. La signora Kristiansen aveva detto a mia madre
che sapevano che a un certo punto sarebbero tornati, quindi l’avevano
tenuta. Amavano il vicinato e amavano la casa. Un custode l’aveva pulita e
aveva curato la manutenzione di tanto in tanto per due anni, per far sì che la
casa fosse pronta per il loro ritorno.
Quel giorno tutte le tende e le finestre erano aperte, per far entrare aria
fresca. Il custode stava chiaramente preparando la casa per il loro
imminente arrivo. Un ritorno a casa che mi terrorizzava.
Tirando le tendine che mio padre aveva appeso per me quando ero
ritornata a casa qualche settimana fa, mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi.
Odiavo sentirmi affaticata tutto il tempo. Per natura, ero una persona attiva,
che vedeva il sonno come una perdita di tempo che invece poteva essere
trascorso in giro, esplorando e costruendo ricordi.
Ma adesso, non avevo scelta.
Con gli occhi della mente mi immaginai Rune e il suo volto rimase con
me fino a quando non scivolai in un sogno. Era il sogno che facevo la
maggior parte delle notti, Rune che mi teneva tra le sue braccia, mi baciava
le labbra e mi diceva che mi amava.
Non seppi quanto tempo avevo dormito, ma quando mi svegliai, fu per il
suono dei camion che arrivavano. Fragorosi rumori e voci familiari
provenivano dall’altra parte del cortile.
Mettendomi seduta, cercai di scacciare via dagli occhi gli ultimi residui
del sonno. La consapevolezza mi investì.
Lui era qui.
Il cuore iniziò a battermi all’impazzata. Batteva così veloce che mi
strinsi il petto per paura che balzasse fuori.
Lui era qui.
Lui era qui.
Scesi dal letto e mi misi in piedi di fronte alle tende tirate. Mi sporsi
vicino alla finestra tanto da riuscire a sentire quello che stava succedendo.
Riconobbi le voci di mia madre e di mio padre nel frastuono, insieme al
tono familiare del signore e della signora Kristiansen.
Sorridendo, mi tesi per spostare la tendina. Poi mi fermai; non volevo
che mi vedessero. Indietreggiai e corsi al piano di sopra, nell’ufficio di mio
padre. Era l’unica altra finestra che dava direttamente sulla loro casa, una
finestra da dove potevo rimanere nascosta e avere una piena vista grazie
alla lieve sfumatura del vetro per schermarla dal sole splendente.
Mi spostai sul lato sinistro della finestra, in caso qualcuno avesse
guardato verso l’alto. Sorrisi di nuovo quando i miei occhi si posarono sui
genitori di Rune. Non sembravano cambiati quasi per niente. La signora
Kristiansen era ancora bella come sempre. Aveva tagliato i capelli più corti,
ma a parte questo era esattamente la stessa. Il signor Kristiansen aveva i
capelli un po’ più grigi, e sembrava aver perso peso ma la differenza era
minima.
Un bambino biondo corse fuori dalla porta d’ingresso e la mano mi volò
alla bocca quando capii che era il piccolo Alton. Doveva avere quattro anni
adesso, calcolai. Era cresciuto così tanto. E i suoi capelli erano proprio
come quelli di suo fratello, lunghi e lisci. Ebbi una stretta al cuore. Era
perfettamente identico a Rune da piccolo.
Guardai i trasportatori che riempivano la casa con i mobili a una velocità
incredibile. Ma non c’era traccia di Rune.
Alla fine, i miei genitori rientrarono in casa, ma io rimasi a vigilare alla
finestra, in paziente attesa del ragazzo che era stato il mio mondo così a
lungo da non distinguere più dove iniziava lui e finivo io.
Passò oltre un’ora. Calò la notte e io stavo abbandonando del tutto la
speranza di vederlo. Quando stavo per lasciare lo studio, scorsi un
movimento alle spalle della casa dei Kristiansen.
Ogni singolo muscolo mi si tese non appena colsi un piccolo bagliore di
luce brillare nel buio. Una nuvola bianca di fumo si diffuse nell’aria sopra il
fazzoletto di erba tra le nostre case. All’inizio, non ero sicura di cosa stessi
vedendo, fino a che una figura alta, vestita tutta di nero, emerse dall’ombra.
I miei polmoni smisero di funzionare mentre la figura si spostava sotto il
bagliore di un lampione e rimase lì, inchiodata. Giacca di pelle da
motociclista, maglietta nera, jeans stretti neri, stivali di camoscio neri. E
lunghi, luminosi capelli biondi.
Fissavo e fissavo, un nodo che mi serrava la gola, mentre il ragazzo
dalle spalle ampie e un’altezza impressionante sollevava la mano e se la
passava attraverso i lunghi capelli.
Il mio cuore perse un battito. Perché conoscevo quel movimento.
Conoscevo quella mascella decisa. Conoscevo lui. Lo conoscevo bene
quanto conoscevo me stessa.
Rune.
Era il mio Rune.
Una nuvola di fumo soffiò di nuovo dalla sua bocca, e mi ci vollero
alcuni secondi per realizzare cosa stessi effettivamente vedendo.
Fumo.
Rune stava fumando. Rune non fumava; non avrebbe mai toccato una
sigaretta. Mia nonna aveva fumato per tutta la vita ed era morta troppo
giovane per un cancro ai polmoni. Ci eravamo sempre promessi di non
provarci nemmeno.
Era chiaro che Rune aveva infranto quella promessa.
Mentre lo guardavo prendere un’altra boccata e spingersi indietro i
capelli, per la terza volta in pochi minuti, il mio stomaco cadde in picchiata.
Il viso di Rune si inclinò verso l’alto, nel bagliore della luce mentre
espirava una colonna di fumo nella fredda aria della notte.
Ed eccolo lì. Rune Kristiansen a diciassette anni, ed era più bello di
quanto avrei mai potuto immaginare. I suoi occhi blu come cristalli erano
vividi come erano sempre stati. Il suo viso, un tempo da ragazzino, ora si
era fatto marcato e da togliere completamente il fiato. Tante volte avevo
scherzato sul fatto che fosse bello come un dio norvegese. Ma mentre
studiavo ogni centimetro del suo viso, mi convinsi che la sua bellezza fosse
addirittura superiore.
Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.
Rune finì la sua sigaretta e la gettò per terra, la luce del mozzicone
svaniva lentamente nell’oscurità dell’erba corta. Aspettai col fiato sospeso
per vedere cosa avrebbe fatto dopo. Poi suo padre arrivò al limitare del
portico e disse qualcosa a suo figlio.
Vidi le spalle di Rune irrigidirsi e la sua testa voltarsi di scatto in
direzione del padre. Non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo, ma udii
distintamente le loro voci alzarsi, sentii Rune che rispondeva in maniera
aggressiva al padre nella sua lingua madre, il norvegese. Suo padre abbassò
la testa in segno di sconfitta e si diresse in casa, palesemente turbato per
qualcosa che aveva detto Rune. Mentre il signor Kristiansen si allontanava,
Rune alzò il dito medio in direzione della sua schiena, abbassandolo
soltanto quando la porta di casa loro si chiuse sbattendo.
Osservai, irrigidita dallo shock. Osservai questo ragazzo, un ragazzo che
un tempo conoscevo così profondamente, trasformarsi in un estraneo
davanti ai miei occhi.
Fui investita da un’onda di delusione e di tristezza, mentre Rune iniziava
a camminare avanti e indietro nel cortile tra le nostre due case. Aveva le
spalle tese. Potevo quasi avvertire la rabbia che si irradiava da lui, persino
dal mio nascondiglio.
Le mie peggiori paure erano diventate realtà: il ragazzo che conoscevo
non esisteva più.
Poi mi gelai, immobile come una statua, quando Rune smise di
camminare e guardò verso la finestra della mia stanza, proprio sotto il punto
dove mi trovavo io. Una folata di vento sferzò il cortile, sollevando i suoi
lunghi capelli biondi dal suo viso e per un secondo riuscii a vedere un
incredibile dolore e un’acuta nostalgia nei suoi occhi. L’immagine del suo
volto provato, mentre fissava la mia finestra, mi colpì più violenta di un
treno. In quell’espressione persa, c’era il mio Rune.
Questo ragazzo, lo riconoscevo.
Rune si avvicinò di un passo alla mia finestra, e per un momento pensai
che volesse provare a scavalcarla, nello stesso modo in cui aveva fatto per
tutti quegli anni. Ma si fermò bruscamente, le mani serrate in un pugno
lungo i fianchi. Teneva gli occhi chiusi e digrignava i denti con così tanta
forza che riuscivo a vedere la tensione della sua mascella da dove mi
trovavo.
Poi, evidentemente cambiando idea, Rune si girò sui tacchi e si diresse
verso casa a passo pesante. Restai alla finestra dello studio, nell’ombra.
Non riuscivo a muovermi per lo shock di ciò a cui avevo appena assistito.
La stanza da letto di Rune si illuminò. Lo vidi camminare per la camera,
spostarsi alla finestra e poi sedersi sull’ampio davanzale. La aprì di poco,
accese un’altra sigaretta e soffiò il fumo attraverso lo spiraglio che aveva
aperto.
Scossi la testa, incredula. Poi qualcuno entrò nello studio, e mia madre
arrivò al mio fianco. Quando si mise a scrutare dalla finestra, sapevo che
avrebbe capito cosa stavo facendo. Sentii le guance infiammarsi per il
rossore, al pensiero che ero stata beccata. Infine, mia mamma parlò. «Adelis
ha detto che non è più il ragazzo che conoscevamo. Ha detto che non ha
fatto altro che creargli problemi da quando sono andati a Oslo. Erik si sente
impotente e non ha idea di cosa fare. Sono davvero contenti che lui sia stato
trasferito nuovamente qui. Volevano allontanare Rune dai brutti giri in cui
era finito in Norvegia».
Il mio sguardo cadde di nuovo su Rune. Gettò la sigaretta dalla finestra e
voltò la testa per appoggiarsi contro il vetro. I suoi occhi erano fissi su
un’unica e sola cosa. La finestra della mia camera.
Quando mia madre fece per lasciare lo studio, mi posò una mano sulla
spalla. «Forse è stato un bene che tu abbia interrotto tutti i contatti, tesoro.
Non sono davvero sicura che avrebbe saputo come gestire tutto quello che
hai affrontato, da quello che mi ha raccontato sua mamma».
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, mi chiedevo che cosa l’avesse
trasformato così. Trasformato in questo ragazzo che non conoscevo. Mi ero
deliberatamente tagliata fuori da tutto il mio mondo negli ultimi due anni,
per risparmiargli il dolore. Così che avesse potuto vivere una bella vita.
Perché sapere che lontano, in Novergia, c’era un ragazzo il cui cuore era
ancora pieno di luce rendeva sopportabile tutto quello che io stavo
passando.
Ma quella fantasia era stata infranta, mentre studiavo questo sosia di
Rune. La luce di questo Rune era fioca, niente in lui brillava luminoso. Era
stata oscurata dall’ombra, era sprofondata nell’oscurità. Era come se il
ragazzo che avevo amato fosse stato abbandonato in Norvegia.
La macchina di Deacon si fermò davanti al garage della casa di Rune.
Vidi il cellulare illuminarsi nella sua mano, e lui con calma lasciò la stanza
e con passo rilassato uscì sul portico. Raggiunse con un’andatura piena di
boria Deacon e Judson, che saltarono fuori dall’auto, e diede a entrambi una
pacca sulla spalla per salutarli.
Poi il mio cuore si spezzò in due.
Avery scivolò fuori dal sedile posteriore e abbracciò con slancio Rune.
Indossava una minigonna e un top corto, che mettevano in risalto il suo
fisico perfetto. Ma Rune non ricambiò l’abbracciò, anche se questo non
servì a nulla per alleviare il mio dolore. Perché Avery e Rune, in piedi uno
accanto all’altra, sembravano perfetti. Entrambi alti e biondi. Entrambi
bellissimi.
Si infilarono tutti in auto. Rune entrò per ultimo, prendendo il posto
davanti, poi lasciarono la nostra strada e sparirono dalla vista.
Sospirai, vedendo i fanali posteriori svanire nella notte. Quando guardai
di nuovo la casa dei Kristiansen, vidi il papà di Rune in piedi al limitare del
portico, aggrappato alla ringhiera, gli occhi fissi nella direzione in cui il
figlio se n’era appena andato. Poi alzò lo sguardo verso la finestra dello
studio, e sul suo volto si allargò un triste sorriso.
Mi aveva vista.
Il signor Kristiansen sollevò la mano e mi fece un piccolo cenno di
saluto. Quando risposi a quel saluto, vidi incisa sul suo viso un’espressione
di totale tristezza.
Sembrava stanco.
Sembrava che avesse il cuore spezzato.
Sembrava che gli mancasse suo figlio.
Ritornai in camera mia, mi distesi sul letto e presi in mano la mia foto
incorniciata preferita. Mentre fissavo quel bel ragazzo e quella ragazza
follemente innamorata che fissava lui, entrambi così innamorati, mi chiesi
cosa fosse successo negli ultimi due anni per aver reso Rune così
tormentato e ribelle come sembrava essere.
Poi piansi.
Piansi per il ragazzo che era stato il mio sole.
Piansi la scomparsa del ragazzo che un tempo avevo amato con tutto
quello che avevo.
Piansi la scomparsa di Poppy e Rune, una coppia di estrema bellezza e
morte ancor più repentina.
Poppy
Passò una settimana. Una settimana in cui evitavo Rune a tutti i costi.
Restavo nella mia stanza fino a che non sapevo che lui non era in casa,
tenevo le tendine tirate e la finestra chiusa, non che Rune avrebbe mai
cercato di entrare. Le poche volte che lo avevo visto a scuola mi aveva o
ignorata o guardata di traverso come se fossi il suo peggior nemico.
Entrambe facevano male allo stesso modo.
Durante la pausa pranzo, mi tenevo lontana dalla caffetteria. Mangiavo il
mio pranzo nell’aula di musica e passavo il resto del tempo a esercitarmi al
violoncello. La musica era ancora il mio porto sicuro, l’unico posto dove
rifugiarmi dal mondo.
Quando il mio archetto colpiva la corda, venivo trasportata via in un
mare di suoni e note. Il dolore e la pena degli ultimi due anni scomparivano.
La solitudine, le lacrime e la rabbia, tutto evaporava, lasciando una pace che
non potevo trovare da nessun’altra parte.
La settimana precedente, dopo il terribile incontro nel corridoio con
Rune, avevo sentito il bisogno di scappare via da tutto. Il bisogno di
dimenticare l’espressione nei suoi occhi mentre mi guardava torvo, con così
tanto astio. La musica, in genere, era la mia medicina, quindi mi gettai in
sessioni di intenso esercizio.
L’unico problema? Ogni volta che terminava un pezzo, non appena
l’ultima nota svaniva e abbassavo l’archetto, la devastazione tornava a
dilaniarmi dieci volte di più. E restava.
Oggi, dopo aver finito di suonare all’ora di pranzo, ero rimasta in preda
all’angoscia per il resto del pomeriggio. Un’angoscia che pesava come un
macigno nella mia mente, mentre uscivo da scuola.
Il cortile pullulava di studenti che si avviavano verso casa. Tenni la testa
bassa e mi feci largo tra la folla, solo per girare l’angolo e vedere Rune
seduto al campo, nel parco. C’erano anche Jorie e Ruby. E Avery.
Cercai di non guardare Avery sedersi accanto a Rune, che si stava
accendendo una sigaretta. Cercai di non guardare Rune che iniziava a
fumare, il suo gomito poggiato con naturalezza sul ginocchio mentre si
appoggiava con la schiena contro un albero. E cercai di ignorare il sussulto
allo stomaco mentre mi allontanavo in fretta e Rune, con gli occhi stretti,
incrociava brevemente il mio sguardo.
Distolsi immediatamente gli occhi. Jorie saltò in piedi e venne dietro di
me di corsa. Riuscii ad arrivare lontano abbastanza da Rune e i suoi amici
perché non sentissero quello che Jorie aveva da dirmi.
«Poppy» mi chiamò, fermandosi dietro di me. Mi voltai ad affrontarla,
avvertendo lo sguardo attento di Rune che si posava su di me. Lo ignorai.
«Come stai?» Chiese.
«Bene» replicai. Persino io avvertii il leggero tremolio nella mia voce.
Jorie sospirò. «Ci hai già parlato? È tornato da oltre una settimana».
Le guance mi andarono a fuoco. Scossi la testa. «No. Non sono del tutto
sicura che sia una buona idea». Presi un bel respiro. «Non avrei idea di cosa
dirgli, comunque. Non sembra sia più il ragazzo che ho conosciuto e amato
per tutti quegli anni. Sembra diverso. Mi sembra cambiato» le confidai.
Gli occhi di Jorie si illuminarono. «Lo so! Ma penso che tu sia l’unica
ragazza che la vede come una brutta cosa, Pops».
«Che vuoi dire?» La gelosia mi si incendiò nel petto.
Jorie indicò le ragazze che si raccoglievano intorno a lui mentre era
seduto, cercando di assumere un’aria disinvolta, ma fallendo rovinosamente
nel tentativo. «Tutti non fanno che parlare di lui, e sono sicura che qualsiasi
ragazza della scuola, tranne te, me e Ruby, venderebbe l’anima al diavolo
solo perché lui si accorgesse di lei. È sempre stato desiderato Pops, ma be’,
lui aveva te e tutti sapevamo che non ti avrebbe lasciata per niente e per
nessuna. Ma adesso…» Le si spense la voce, e sentii il mio cuore che si
sgonfiava.
«Ma ora non ha me» terminai la frase al posto suo. «Adesso è libero di
stare con chiunque voglia».
Gli occhi di Jorie si spalancarono quando realizzò che ancora una volta
non ne aveva detta una giusta.
Per consolarmi, mi strinse il braccio con una smorfia di scuse. Ma non
potevo arrabbiarmi con lei, da sempre parlava prima di pensare. E
oltretutto, ciò che aveva detto era vero.
Trascorse un momento di silenzio imbarazzante, finché lei non mi
chiese: «Che fai domani sera?»
«Niente» risposi. Fremevo dal bisogno di andare via.
Il viso di Jorie si illuminò. «Bene! Puoi venire alla festa a casa di
Deacon. Non voglio che resti da sola a casa un altro sabato sera».
Io risi.
Jorie aggrottò la fronte.
«Jorie, io non vado alle feste. In ogni caso, nessuno mi inviterebbe».
«Ti sto invitando io. Ci verrai con me».
Il mio umore precipitò. «Non posso, Jor». Feci una pausa. «Non posso
stare lì, dove c’è Rune. Non dopo tutto questo».
Jorie si fece più vicina. «Non ci sarà» mi confidò a bassa voce. «Ha
detto a Deacon che non verrà, che andrà da qualche altra parte».
«Dove?» Chiesi, senza riuscire a nascondere la mia curiosità.
Alzò le spalle. «Se solo lo sapessi! Rune non parla molto. E questo non
fa altro che unirsi ai motivi per cui attrae ammiratrici come se non ci fosse
un domani». Jorie spinse in fuori il labbro inferiore e mi punzecchiò il
braccio. «Per favore, Pops! Sei stata via così tanto tempo, e mi sei mancata.
Voglio passare con te quanto più tempo possibile, ma tu continui a
nasconderti. Abbiamo anni da recuperare! Ci sarà anche Ruby. Lo sai che
non ti lascerei mai da sola».
I miei occhi ispezionavano il terreno, cercando disperatamente di
pensare a una scusa. Poi guardai Jorie e mi accorsi che il mio rifiuto la stava
ferendo. Scacciando via le fitte di dubbio dal mio petto, cedetti. «Okay,
verrò con te».
Il viso di Jorie si aprì in un sorriso enorme. «Perfetto!» Esclamò. Risi
quando mi attirò in un abbraccio veloce.
«Devo andare a casa» le dissi, quando mi lasciò. «Ho uno spettacolo
stasera».
«Okay, ti vengo a prendere alle sette domani sera. Va bene?»
La salutai con la mano e ripresi a camminare verso casa. Dopo appena
un centinaio di metri, mi accorsi che qualcuno camminava dietro di me nel
boschetto di ciliegi. Quando mi voltai per guardare oltre una spalla, c’era
Rune.
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata quando il mio sguardo
incontrò il suo. Lui non abbassò gli occhi, ma io lo feci. Avevo il terrore che
volesse cercare di parlare con me.
Cosa avrei fatto se avesse voluto che gli spiegassi tutto? O peggio, cosa
avrei fatto se avesse voluto dirmi che quello che c’era stato tra noi non
contava niente?
Una cosa simile mi avrebbe distrutta.
Aumentando il passo, continuai a tenere la testa bassa e mi precipitai in
fretta fino a casa. Lo sentii inseguirmi per tutto il tragitto, ma non fece
alcun tentativo di raggiungermi.
Mentre correvo su per le scale del portico, guardai di lato e lo vidi
appoggiarsi sul fianco della sua casa, vicino alla sua finestra. Il mio cuore
ebbe un balzo quando si spinse indietro i capelli. Dovetti tenere i piedi
incollati a terra, in caso mi fosse venuta voglia di gettare per terra la borsa e
correre da lui, a spiegargli perché l’avevo lasciato andare, perché lo avevo
tagliato fuori in maniera così orrenda, perché avrei dato qualsiasi cosa
perché lui mi baciasse solo un’altra volta. Invece mi feci forza, ed entrai in
casa.
Le parole di mia mamma mi riecheggiavano insistenti in testa mentre
entravo nella mia camera per stendermi… Forse è stato un bene che tu
abbia interrotto tutti i contatti, tesoro. Non sono davvero sicura che
avrebbe saputo come gestire tutto quello che hai affrontato, da quello che
mi ha raccontato sua mamma.
Chiusi gli occhi e promisi a me stessa di lasciarlo stare. Non sarei stata
un fardello per lui. L’avrei protetto dal dolore.
Perché lo amavo ancora così tanto, come avevo sempre fatto.
Persino se il ragazzo che amavo non mi amava più.
Poppy
Un fruscio mi risvegliò.
Mi strofinai via il sonno dagli occhi. La figura silenziosa di Poppy stava
scivolando verso la finestra. «Poppymin?»
Poppy si fermò e finalmente si voltò a guardarmi. Deglutii, spingendo
giù le lame affilate che mi sentivo in gola, mentre Poppy veniva a mettersi
di fronte a me. Indossava un parka pesante sopra pantaloni sportivi e una
felpa. C’era uno zaino poggiato davanti ai suoi piedi.
Mi accigliai. Era ancora buio. «Che stai facendo?»
Poppy si avviò di nuovo alla finestra, guardandosi indietro allegramente
e chiese: «Vieni?»
Mi fece un sorriso enorme e il cuore mi si spaccò. Si frantumò per
quanto era bella. Le mie labbra si curvarono all’insù per la sua felicità
contagiosa. «Dove diavolo stai andando?» Chiesi di nuovo.
Poppy tirò la tenda e indicò il cielo. «A vedere il sorgere del sole».
Piegò la testa da un lato e mi osservò. «So che è passato un po’ di tempo,
ma avevi dimenticato che lo facevo?»
Un’ondata di calore mi sommerse. Non l’avevo dimenticato.
Alzandomi, mi concessi una piccola risata imbronciata. Mi fermai
immediatamente. Poppy lo notò e, sospirando tristemente, venne di nuovo
verso di me.
Guardai in basso verso di lei, non desiderando altro che avvolgere la
mano intorno alla sua nuca e prendere la sua bocca con la mia.
Poppy studiò il mio viso, poi mi prese la mano. Colto di sorpresa, fissai
le sue dita, intrecciate alle mie. Sembravano così piccole mentre
stringevano delicatamente la mia mano.
«Va bene, sai?» Disse.
«Cosa?» Chiesi, avvicinandomi pian piano.
La presa di Poppy rimase alla mia mano mentre l’altra si sollevava verso
il mio viso. Si alzò sulle punte e appoggiò la punta delle dita sulle mie
labbra. Il mio cuore cominciò a battere un po’ più veloce.
«Va bene ridere» disse, la sua voce delicata come il tocco di una piuma.
«Va bene sorridere. Va bene sentirsi felice. O quale sarebbe il senso della
vita?» Quello che stava dicendo mi colpì con violenza. Perché non volevo
né fare né provare quelle cose. Mi sentivo in colpa solo al pensiero di essere
felice.
«Rune» mi chiamò Poppy. La sua mano scivolò in basso per posarsi al
lato del mio collo. «Immagino come devi sentirti. Ci ho dovuto combattere
per un bel po’ anch’io. Ma so anche come mi fa sentire vedere le mie
persone preferite al mondo, quelle che amo con tutto il mio cuore, feriti e
sconvolti».
Gli occhi di Poppy brillavano, e la cosa mi fece sentire ancora peggio.
«Poppy…» Provai a dire, coprendo la sua mano con la mia.
«È peggio di qualsiasi dolore. È peggio che affrontare la morte. Vedere
la mia malattia che prosciuga la gioia da quelli che amo è la cosa peggiore
di tutte». Deglutì, prese un lieve respiro, poi continuò. «Il mio tempo è
limitato. Lo sappiamo tutti. Quindi voglio che questo tempo sia speciale…»
Poppy sorrise. E fu uno dei suoi sorrisi ampi e splendenti. Del tipo che
riusciva a far vedere anche a un ragazzo arrabbiato come me uno spiraglio
di luce. «Così speciale come solo le cose speciali possono essere».
E così, sorrisi. Le lasciai vedere la felicità che mi aveva donato. Le
lasciai vedere che quelle parole, le parole della nostra infanzia, si erano
fatte strada attraverso il buio. Almeno per un momento.
«Fermo!» Esclamò Poppy all’improvviso. Io lo feci e una piccola
risatina le risalì dalla gola.
«Cosa c’è?» Chiesi, tenendo ancora la sua mano.
«Il tuo sorriso» replicò e scherzando spalancò la bocca, come se fosse
sotto shock. «È ancora lì!» Sussurrò in modo teatrale. «Credevo fosse una
leggenda mitologica come lo Yeti o il mostro di Loch Ness. Ma è lì! L’ho
visto con i miei occhi!»
Poppy si incorniciò il viso tra le mani e sbatté le ciglia con fare
esagerato. Scossi la testa, cercando di reprimere una vera risata questa
volta. Quando la mia risata si fu calmata, Poppy mi stava ancora sorridendo.
«Solo tu» le dissi. Il suo sorriso si addolcì. Inclinandomi appena, sistemai il
colletto del suo giubbotto avvicinandolo di più al collo. «Solo tu riesci a
farmi sorridere».
Poppy chiuse gli occhi, solo per un momento. «Allora è questo quello
che farò quanto più potrò». Mi guardò negli occhi. «Ti farò sorridere». Si
alzò più in alto sulle punte, fino a che i nostri visi non si stavano quasi
toccando. «E sarò molto determinata».
Fuori un uccello cinguettò, e lo sguardo di Poppy scivolò alla finestra.
«Dobbiamo andare, se vogliamo fare in tempo» mi esortò, poi fece un passo
indietro, interrompendo il nostro momento.
«Allora andiamo» replicai e, dopo essermi infilato gli stivali, la seguii.
Presi la sua borsa e me la gettai sulla spalla; Poppy sorrise tra sé a quel
gesto. Aprii la finestra, ma Poppy si precipitò verso il letto. Quando tornò,
stava reggendo una coperta tra le braccia. Mi rivolse un’occhiata. «Fa
freddo così presto».
«Il giubbotto non ti terrà calda abbastanza?» Chiesi.
Poppy teneva la coperta al petto. «Questa è per te». Indicò la mia t-shirt.
«Avrai freddo nel frutteto».
«Lo sai che sono norvegese, vero?» Chiesi in tono secco.
Poppy annuì. «Tu sei un vichingo in carne e ossa». Si sporse verso di
me. «E detto tra noi, sei davvero bravo nelle avventure, come avevo
previsto».
Scossi la testa, divertito. Lei continuò a tenere la mano sul mio braccio.
«Ma, Rune?»
«Sì?»
«Anche i vichinghi prendono il raffreddore».
Indicai con la testa la finestra aperta. «Andiamo o ci perderemo il
sorgere del sole».
Poppy scivolò attraverso la finestra, ancora sorridendo, e io la seguii. Il
mattino era freddo, il vento più forte della notte precedente.
I capelli di Poppy le sferzarono il viso. Preoccupato che potesse avere
freddo e che potessi farla ammalare, mi allungai a prendere il suo braccio e
la feci girare verso di me.
Poppy sembrò sorpresa, fino a che non sollevai il suo pesante cappuccio
e glielo spinsi sopra la testa. Strinsi i lacci per assicurarlo al suo posto.
Poppy mi osservò per tutto il tempo. Le mie azioni erano rallentate sotto il
suo sguardo attento, rapito. Quando il fiocco fu allacciato, le mie mani si
immobilizzarono e la guardai negli occhi intensamente.
«Rune» disse lei, dopo alcuni secondi di silenzio teso. Sollevai appena il
mento, attendendo che continuasse senza parlare. «Riesco ancora a vedere
la tua luce. Sotto la rabbia, tu sei ancora lì».
Le sue parole mi spinsero a fare un passo indietro per la sorpresa.
Sollevai lo sguardo in alto, al cielo. Stava iniziando ad albeggiare, e io
ripresi a camminare. «Vieni?»
Poppy sospirò e si affrettò a raggiungermi. Mi feci scivolare le mani
nelle tasche mentre, in silenzio, ci facevamo strada verso il frutteto. Poppy
si guardò tutto intorno durante il tragitto. Cercavo di seguire il suo sguardo,
ma ciò che guardava sembravano essere solo uccelli o alberi o erba che
ondeggiava al vento. Mi accigliai, chiedendomi cosa la colpisse così tanto.
Ma questa era Poppy, aveva sempre danzato a un ritmo tutto suo. Aveva
sempre visto di più nel mondo di chiunque altro conoscessi.
Lei vedeva la luce che trapassava il buio. Vedeva il bene attraverso il
male.
Era l’unica spiegazione che avevo del perché non mi avesse chiesto di
lasciarla in pace. Sapevo che mi vedeva diverso, cambiato. Anche se non
me lo avesse detto, lo avrei visto nel modo in cui mi osservava. A volte il
suo sguardo era guardingo.
Prima non mi avrebbe mai guardato in questo modo.
Quando entrammo nel frutteto, sapevo dove ci saremmo seduti.
Camminammo fino all’albero più grande, il nostro albero, e Poppy aprì il
suo zaino. Tirò fuori una coperta su cui sederci. Quando l’ebbe distesa, mi
fece segno di accomodarmi. Lo feci, appoggiando la schiena contro il
massiccio tronco dell’albero. Poppy si sedette al centro della coperta e si
appoggiò sulle mani. Sembrava che il vento fosse calato. Slacciandosi il
fiocco del cappuccio, lo fece ricadere all’indietro, scoprendo il viso.
L’attenzione di Poppy si concentrò sull’orizzonte che si illuminava, il cielo
adesso grigio, con sfumature di rosso e arancio che si facevano strada.
Ficcando una mano in tasca, tirai fuori le mie sigarette e ne portai una
alla bocca. Feci scattare l’accendino, accesi la sigaretta e feci un tiro,
avvertendo all’istante il suo colpo nei polmoni.
Il fumo fluttuò intorno a me quando espirai lentamente. Mi accorsi che
Poppy mi stava osservando attentamente. Con il braccio poggiato sul
ginocchio piegato, ricambiai il suo sguardo fisso.
«Tu fumi».
«Ja».
«Non vuoi smettere?» Chiese. Riuscii ad avvertire, dal tono della sua
voce, che questa era una richiesta. E riuscii a vedere, dal guizzo di sorriso
sulle sue labbra, che lei sapeva che l’avevo scoperta.
Scossi la testa. Mi calmava. Non avrei smesso presto.
Sedemmo in silenzio, fino a che Poppy non tornò a guardare l’alba che
saliva e chiese: «Hai mai assistito al sorgere del sole, a Oslo?»
Seguii il suo sguardo sull’orizzonte, che adesso era rosa. Le stelle
stavano cominciando a sparire in un ventaglio di luce. «No».
«Perché no?» Chiese Poppy, spostandosi col corpo per mettersi di fronte
a me.
Presi un’altra boccata della mia sigaretta e gettai la testa indietro per
espirare. Abbassai la testa e scrollai le spalle. «Non mi è venuto in mente».
Poppy sospirò e si voltò ancora una volta. «Che opportunità sprecata»
osservò, agitando il braccio verso il cielo. «Non sono mai stata fuori dagli
Stati Uniti, non ho mai visto l’alba in nessun altro posto, e tu eri lì, in
Norvegia, e non ti sei mai alzato presto per vedere arrivare un nuovo
giorno».
«Una volta che hai visto un’alba, le hai viste tutte» replicai.
Poppy scosse tristemente la testa. Quando alzò lo sguardo su di me,
c’era pietà nei suoi occhi. Mi fece torcere lo stomaco. «Non è vero» mi
contraddì. «Ogni giorno è diverso. I colori, le sfumature, l’impatto che ha
sulla tua anima». Sospirò e proseguì. «Ogni giorno è un dono, Rune. Se ho
imparato qualcosa dagli ultimi due anni, è questo».
Rimasi in silenzio.
Poppy piegò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. «Come questo vento.
È freddo perché siamo agli inizi dell’inverno, e la gente lo evita. Restano in
casa per tenersi al caldo. Ma per me è il benvenuto. Adoro la sensazione del
vento sul mio viso, il calore del sole sulle guance in estate. Voglio ballare
sotto la pioggia. Sogno di sdraiarmi nella neve, sentirne il freddo nelle
ossa». Aprì gli occhi. La corona del sole iniziò ad affacciarsi nel cielo.
«Quando ero in cura, quando ero confinata nel mio letto d’ospedale, quando
ero in preda al dolore e stavo impazzendo sotto ogni aspetto della mia vita,
chiedevo alle infermiere di girare il letto verso la finestra. Ogni giorno, il
sorgere del sole mi calmava. Mi faceva ritrovare le forze. Mi riempiva di
speranza».
Una scia di cenere cadde per terra accanto a me. Mi resi conto che non
mi ero mosso sin da quando aveva iniziato a parlare. Si voltò a guardarmi.
«Quando guardavo fuori da quella finestra, quando mi mancavi così tanto
che faceva più male della chemio, fissavo l’arrivo dell’alba e pensavo a te.
Pensavo a te che guardavi il sorgere del sole in Norvegia e questo mi dava
pace».
Non dissi niente.
«Sei stato felice almeno una volta? C’è stato un qualsiasi momento negli
ultimi due anni in cui non sei stato triste o arrabbiato?»
Il fuoco della rabbia che covava nel mio stomaco si infiammò a nuova
vita. Scossi la testa. «No» replicai, mentre gettavo la sigaretta per terra.
«Rune» sussurrò Poppy. Vidi il senso di colpa nei suoi occhi. «Credevo
che l’avresti superata, alla fine». Abbassò gli occhi, ma quando sollevò di
nuovo lo sguardo, mi spezzò completamente il cuore. «L’ho fatto perché
non avremmo mai pensato che sarei vissuta così a lungo». Un sorriso
debole, eppure stranamente pieno di forza, le si dipinse sul viso. «Mi è stato
donato del tempo in più. Mi è stata donata la vita», trasse un profondo
respiro, «e adesso, ad aggiungersi ai miracoli che continuo a ricevere, tu sei
ritornato».
Voltai la testa, incapace di restare calmo, incapace di affrontare come
Poppy parlasse con così tanta indifferenza della sua morte e con così tanta
felicità del mio ritorno. La sentii muoversi per sedersi accanto a me. Il suo
dolce profumo mi investì e chiusi gli occhi, respirando con forza quando
sentii il suo braccio premuto contro il mio.
Un silenzio rimase sospeso tra di noi, rendendo l’aria più pesante. Poi
Poppy posò una mano sopra la mia. Aprii gli occhi proprio mentre lei
indicava il sole, che adesso si muoveva velocemente, facendo strada al
nuovo giorno. Poggiai la testa contro la dura corteccia dell’albero,
guardando un velo di luce rosa inondare il frutteto spoglio. Brividi mi
affiorarono sulla pelle per il freddo. Poppy sollevò la coperta accanto a sé
per coprirci entrambi.
Non appena la coperta di lana spessa ci ebbe avvolto nel suo calore, le
sue dita si intrecciarono alle mie, unendo le nostre mani. Guardammo il
sole, fino a che non fu giorno pieno.
Sentivo il bisogno di essere sincero. Così, misi da parte il mio orgoglio e
confessai: «Mi hai fatto del male». La mia voce era bassa e sforzata.
Poppy si irrigidì.
Non la guardai negli occhi, non potevo. «Mi hai completamente
spezzato il cuore» aggiunsi poi.
Appena le nuvole dense lo sgombrarono, il cielo rosa virò al blu. E
mentre il mattino cominciava, sentii Poppy muoversi, si stava asciugando
una lacrima.
Trasalii, odiando il fatto che l’avessi turbata. Ma lei voleva sapere
perché ero incavolato ad ogni ora del giorno. Voleva sapere perché non
avevo mai visto una cavolo di alba. Voleva sapere perché ero cambiato.
Quella era la verità. E stavo imparando davvero in fretta che a volte la
verità era una schifezza.
Poppy ricacciò indietro un singhiozzo, e io sollevai un braccio per
avvolgerlo attorno alle sue spalle. Mi aspettavo che facesse resistenza, ma
invece ricadde dolcemente contro il mio fianco. Lasciò che la stringessi
forte, vicino a me.
Ancorai la mia attenzione al cielo, serrando la mascella, mentre i miei
occhi si velavano di lacrime. Le trattenni.
«Rune», mi chiamò Poppy.
Scossi la testa. «Non importa».
Poppy sollevò la testa e voltò il mio viso verso il suo, la sua mano sulla
mia guancia. «Certo che importa, Rune. Ti ho ferito». Ingoiò le lacrime.
«Non è mai stata mia intenzione. Volevo disperatamente salvarti».
Cercai nei suoi occhi e lo capii. Per quanto mi avesse fatto del male, per
quanto il suo improvviso silenzio mi avesse distrutto, precipitandomi
rovinosamente in un posto da cui non sapevo più come scappare, riuscii a
capire che lo aveva fatto perché mi amava. Perché voleva che io andassi
avanti.
«Lo so» dissi, stringendola più vicino.
«Non ha funzionato».
«No» concordai, poi le premetti un bacio sulla testa. Quando mi guardò,
spazzai via dal suo viso le lacrime con una carezza.
«E ora?» Mi chiese.
«Cosa vuoi che succeda ora?»
Poppy sospirò e guardò in alto verso di me con la determinazione negli
occhi. «Rivoglio il mio vecchio Rune».
Il mio stomaco sprofondò e mi spostai piano indietro. «Rune...», Poppy
mi fermò.
«Non sono il vecchio Rune. Non sono certo che lo sarò mai più».
Lasciai cadere la testa, ma poi mi costrinsi a guardarla in viso. «Ti voglio
ancora nella stessa maniera, Poppymin, anche se tu non mi vuoi».
«Rune» sussurrò lei, «ti ho appena riavuto. Non conosco questo nuovo
te. La mia mente è annebbiata. Non mi sarei mai aspettata di averti al mio
fianco in tutto questo. Sono… sono confusa». Mi strizzò la mano. «Ma allo
stesso tempo, mi sento piena di nuova vita. Della promessa di noi due, di
nuovo. Della consapevolezza che, almeno per il tempo che mi rimane,
posso avere te». Le sue parole danzarono nell’aria, mentre nervosamente
chiedeva: «Vero?»
Feci scorrere il mio dito lungo la sua guancia. «Poppymin, tu hai me. Tu
avrai sempre me». Mi schiarii il nodo che avevo in gola e continuai. «Potrò
essere diverso dal ragazzo che conoscevi, ma sono tuo». Feci un piccolo
sorrisetto, senza gioia. «Sempre e per sempre».
Gli occhi di Poppy si addolcirono. Mi diede una piccola spinta sulla
spalla e poi vi poggiò la testa. «Mi dispiace» sussurrò.
La tenni vicina, più stretta che potevo. «Cristo, dispiace a me, Poppy. Io
non…» Non riuscii a finire la frase. Ma Poppy attese pazientemente, fino a
che non abbassai la testa e continuai. «Non so come fai a non perdere la
testa con tutto questo. Non so come fai a non…» Sospirai. «Semplicemente
non riesco a capire dove trovi la forza per continuare ad andare avanti».
«Perché amo la vita». Scrollò le spalle. «L’ho sempre amata».
Mi sembrò che stessi vedendo un nuovo lato di Poppy. O forse mi
veniva ricordata la ragazza che avevo sempre saputo sarebbe diventata.
Poppy indicò il cielo. «Sono la ragazza che si sveglia presto per vedere il
sole sorgere. Sono la ragazza che vuole vedere il buono in ognuno, quella
che si lascia trasportare via da una canzone, ispirare dall’arte». Girandosi
verso di me, sorrise. «Sono quella ragazza, Rune. Quella che aspetta la
tempesta solo per scorgere un lampo di arcobaleno. Perché essere tristi se si
può essere felici? Si tratta di una scelta ovvia per me».
Portai la sua mano alla mia bocca e ne baciai il dorso. Il suo respiro
cambiò, il ritmo accelerò al doppio della sua velocità. Poi Poppy si portò le
nostre mani giunte alla bocca, voltandole così da potermi baciare la mano.
Le abbassò sul suo grembo, tracciando dei piccoli disegni sulla mia pelle
con l’indice della mano libera. Il mio cuore si sciolse quando mi resi conto
di quello che stava tracciando, il simbolo dell’infinito. Dei perfetti otto
rovesciati.
«So cosa c’è ad attendermi, Rune. Non sono un’ingenua. Ma ho anche
un’incrollabile fede che ci sia più nella vita di ciò che abbiamo adesso, qui,
su questa terra. Credo che ci sia il paradiso ad aspettarmi. Credo che quando
prenderò il mio ultimo respiro e chiuderò gli occhi in questa vita, mi
risveglierò nella prossima, in salute e in pace. Credo in questo con tutto il
mio cuore».
«Poppy» dissi con voce spezzata, crollando a pezzi al pensiero di
perderla, ma così dannatamente orgoglioso della sua forza. Mi lasciava
stupefatto.
Il dito di Poppy abbandonò le nostre mani e lei mi sorrise, nemmeno una
traccia di paura sul suo bellissimo viso. «Andrà tutto bene, Rune. Lo
prometto».
«Non sono sicuro che starò bene senza di te». Non volevo farla star
male, ma questa era la mia verità.
«Starai bene» mi disse, sicura di sé. «Perché io ho fede in te».
Non risposi niente. Cosa potevo dire?
Poppy guardò gli alberi spogli intorno a noi. «Non vedo l’ora che
rifioriscano. Mi manca la vista di quei bellissimi petali rosa. Mi manca
passeggiare in questo frutteto e sentirmi come se fossi entrata in un sogno».
Sollevò la mano e la fece scorrere lungo il ramo che pendeva basso.
Poppy mi rivolse un sorriso entusiasta, poi saltò in piedi, i suoi capelli
svolazzavano liberi al vento. Scese sull’erba e distese le braccia in aria.
Gettò indietro la testa e rise. Una risata che nasceva dalla sua gola con puro
entusiasmo sfrenato.
Non mi mossi. Non potevo. Ero pietrificato.
I miei occhi si rifiutavano di staccarsi da Poppy che iniziava a girare, a
piroettare mentre il vento soffiava nel frutteto, trascinando via la sua risata.
Un sogno, pensai. Aveva ragione. Poppy, infagottata nel suo giubbotto,
che piroettava di mattina presto nel frutteto, sembrava esattamente un
sogno. Era come un uccello: al culmine della sua bellezza quando volava
libero.
«Riesci a sentirla, Rune?» Chiese, gli occhi ancora chiusi mentre
assorbiva il sole che si stava scaldando.
«Cosa?» Chiesi, ritrovando la voce.
«La vita!» Urlò ridendo più forte, mentre il vento cambiava direzione,
quasi sbalzandola a terra. «Vita», ripeté a voce bassa, mentre si
immobilizzava, piantando i piedi nell’erba secca. La sua pelle era arrossata
e le guance irritate dal vento. Eppure, non era mai stata così bella.
Le mie dita ebbero uno spasmo. Quando guardai in basso, compresi
immediatamente il perché. L’urgenza di catturare Poppy sulla pellicola mi
stava divorando dentro. Un bisogno naturale. Poppy una volta mi aveva
detto che ci ero nato, con quel bisogno.
«Vorrei, Rune» cominciò Poppy, facendomi sollevare lo sguardo, «vorrei
che la gente si rendesse conto della sensazione che dà la vita ogni giorno.
Perché ci vuole una vita che finisce per imparare come celebrare ogni
giorno? Perché dobbiamo aspettare fino a che non c’è più tempo per
incominciare a realizzare tutti i nostri sogni, quando prima avevamo tutto il
tempo del mondo? Perché non guardiamo le persone che amiamo come se
fosse l’ultima volta che le vedremo mai? Se lo facessimo, la vita sarebbe
così vibrante. La vita sarebbe così vera e vissuta appieno».
La testa di Poppy scivolò lentamente in avanti. Si girò a lanciarmi
un’occhiata oltre la sua spalla e mi ricompensò con uno dei suoi sorrisi più
devastanti. Guardai la ragazza che amavo di più come se fosse realmente
l’ultima volta che la vedevo, e questo mi fece sentire vivo.
Mi fece sentire la persona più fortunata del pianeta, perché avevo lei.
Anche se, in questo momento, le cose erano ancora strane e nuove, sapevo
che avevo lei.
E senza dubbio lei aveva me.
Le mie gambe si alzarono di propria volontà, lasciando cadere la coperta
sul tappeto di erba verde del frutteto. Lentamente, camminai verso Poppy,
assorbendo con gli occhi ogni aspetto di lei.
Poppy mi guardò avvicinarmi. Appena fui di fronte a lei, chinò la testa,
un’ondata di rossore le si arrampicò lungo collo per fermarsi sulla sommità
delle sue guance. Mentre il vento soffiava intorno a noi, chiese: «Lo senti,
Rune? Davvero?»
Sapevo che si stava riferendo al vento sul mio viso e ai raggi del sole
che brillavano su di noi.
Vivi. Vibranti.
Annuii, rispondendo a una domanda completamente differente. «Lo
sento, Poppymin. Davvero».
E fu in quel momento che qualcosa dentro di me si smosse. Non potevo
pensare che avesse solo alcuni mesi da vivere.
Dovevo concentrarmi sul momento.
Dovevo aiutarla a sentirsi il più viva possibile, mentre l’avevo di nuovo
al mio fianco.
Dovevo riconquistare la sua fiducia. La sua anima. Il suo amore.
Poppy si fece più vicina a me, mi accarezzò con la mano il braccio nudo.
«Hai freddo» affermò.
Non mi importava se stavo andando in ipotermia. Spingendo la mia
mano sulla sua nuca, mi chinai su di lei, osservando il suo viso in cerca di
un qualche segno che il mio gesto non fosse il benvenuto. I suoi occhi verdi
si accesero, ma non per resistenza.
Spronato nel vedere le sue labbra aprirsi e i suoi occhi chiudersi in un
battito di palpebre, inclinai la testa da un lato, sorpassando la sua bocca per
far scorrere la punta del mio naso sulla sua guancia. Poppy ansimò, ma io
continuai. Continuai fino a raggiungere il punto dove c’era il battito sul suo
collo. Correva all’impazzata.
La sua pelle era calda per la sua danza nel vento, eppure tremava nel
contempo. Sapevo che era dovuto a me.
Chiudendo il resto dello spazio tra di noi, premetti le labbra sul suo
battito galoppante, assaggiando la sua dolcezza, sentendo il mio cuore
galoppare allo stesso passo.
Vivo.
Una vita così vera e vissuta appieno.
Un lieve gemito sfuggì dalle labbra di Poppy e mi allontanai, ritrovando
pian piano il suo sguardo. Le sue iridi verdi erano luminose, le labbra piene
e rosa. Abbassando la mano, mi allontanai di un passo. «Andiamo» le dissi.
«Hai bisogno di dormire».
Poppy aveva un’aria adorabilmente frastornata. La lasciai al suo posto,
mentre raccoglievo le nostre cose. Quando finii, la ritrovai esattamente
dove l’avevo lasciata.
Mossi la testa in direzione delle nostre case, e Poppy si incamminò a
fianco a me. A ogni passo, riflettevo sulle ultime dodici ore. Su quelle
montagne russe di emozioni, sul fatto che avevo riavuto indietro la metà del
mio cuore, solo per scoprire che sarebbe stato temporaneo.
Pensavo che avevo baciato il viso di Poppy, che ero stato disteso nel
letto accanto a lei. Poi pensai al vasetto. Il vasetto mezzo vuoto dei mille
baci. Per qualche ragione l’immagine dei cuori di carta vuoti era ciò che mi
turbava di più. Poppy amava quel vasetto. Era una sfida che le aveva
lanciato sua nonna. Una sfida che si era arrestata a causa dei miei due anni
di assenza.
Lanciai uno sguardo a Poppy, che stava fissando un uccello su un albero,
sorridendo mentre quello cantava dal ramo più alto. Percependo il mio
sguardo, si voltò verso di me e io chiesi: «Ti piacciono ancora le
avventure?»
Il sorriso che andava da un orecchio all’altro sul viso di Poppy rispose
prontamente alla mia domanda. «Sì» replicò. «Ultimamente, ogni giorno è
un’avventura». Abbassò gli occhi. «So che i prossimi mesi saranno una
sfida interessante, ma sono pronta ad accoglierla. Sto provando a vivere
ogni giorno al massimo».
Ignorando il dolore che questo commento aveva riacceso in me, nella
mia mente prese forma un piano. Poppy si fermò, avevamo raggiunto il
fazzoletto di erba tra le nostre due case.
Lei si girò verso di me, quando ci trovammo di fronte alla sua finestra. E
aspettò, aspettava quello che avrei fatto dopo. Avvicinandomi a dove stava,
posai per terra la borsa e la coperta e poi mi rialzai, le braccia lungo i
fianchi.
«Quindi?» Chiese Poppy, con una punta di umorismo nella sua voce.
«Quindi...» Replicai. Non riuscii a non sorridere di fronte al luccichio
nei suoi occhi. «Ascolta, Poppy» iniziai, dondolando sui talloni. «Tu credi
di non conoscere il ragazzo che sono adesso». Scrollai le spalle. «Allora
dammi una possibilità. Lascia che te lo mostri. Iniziamo una nuova
avventura».
Sentii le mie guance infiammarsi per l’imbarazzo, ma immediatamente
Poppy mi afferrò la mano e la piazzò nella sua. Perplesso, guardai le nostre
mani, poi Poppy le scosse su e giù per due volte. Con il sorriso più grande
di sempre in volto, le fossette profonde e orgogliose, dichiarò: «Sono Poppy
Litchfield e tu sei Rune Kristiansen. Questa è una stretta di mano. Mia
nonna mi ha detto che si deve stringere la mano alla gente nuova che si
incontra. Adesso siamo amici. Migliori amici».
Poppy mi guardò da sotto le ciglia e io risi. Risi nel ricordare il giorno in
cui l’avevo incontrata. Quando avevamo cinque anni, e l’avevo vista
scavalcare la sua finestra, con l’abito azzurro coperto di fango e un grosso
fiocco bianco tra i capelli.
Poppy si spostò per ritirare la mano, ma io la trattenni e la strinsi. «Esci
con me stasera».
Poppy si immobilizzò.
«Per un appuntamento» continuai, imbarazzato. «Un vero
appuntamento».
Poppy scosse la testa incredula. «Non siamo mai usciti per un vero
appuntamento prima, Rune. Siamo sempre stati solo… noi».
«Allora incominceremo adesso. Ti vengo a prendere alle sei. Fatti
trovare pronta».
Mi girai e mi diressi alla mia finestra, dando per scontato che la sua
risposta fosse sì. La verità era che, in nessun modo, le avrei dato la
possibilità di dire di no. Avrei fatto questo per lei.
Avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per renderla felice.
L’avrei riconquistata.
L’avrei riconquistata come il Rune che ero ora.
Non c’era scelta.
Questi eravamo noi.
Questa era la nostra nuova avventura.
Quella che l’avrebbe fatta sentire viva.
Poppy
Ci volle un po’ per arrivare in città. Non parlammo molto. Avevo capito
che Rune era diventato più silenzioso di quanto era un tempo. Non che
fosse esattamente espansivo prima. Era sempre stato introverso e silenzioso.
Si sposava perfettamente all’immagine dell’artista tenebroso, sempre alla
ricerca di posti e paesaggi che voleva catturare sulla pellicola.
Momenti.
Avevamo percorso circa un chilometro di strada o giù di lì quando Rune
accese la radio. Mi disse di scegliere la stazione che volevo. E mentre
cantavo silenziosamente, le dita intrecciate alle mie si strinsero appena di
più.
Mi scappò uno sbadiglio dalla bocca quando cominciammo ad
avvicinarci alla periferia della città, ma combattei per tenere gli occhi
aperti. Volevo sapere dove mi stava portando.
Quando ci fermammo davanti al Dixon Theater, il mio battito prese il
volo. Questo era il teatro dove avevo sempre sognato di esibirmi. Era il
teatro dove avrei sempre voluto ritornare, da grande, come membro di
un’orchestra professionista. Nella mia città natale.
Rune spense il motore, e io ammirai l’impressionante facciata di pietra
del teatro. «Rune, che ci facciamo qui?»
Rune mi lasciò la mano e aprì il suo sportello. «Vieni con me».
Accigliata, ma con il cuore che batteva con una forza impossibile, aprii
il mio sportello per seguirlo. Rune mi prese la mano e mi guidò verso
l’ingresso principale.
Era tardi, di domenica sera, ma lui ci guidò dritti attraverso le porte
principali. Appena entrammo nel foyer in penombra, sentii le fievoli note di
Puccini che risuonavano in sottofondo.
La mia mano strinse di più quella di Rune. Lui mi lanciò uno sguardo,
un mezzo sorriso sulle sue labbra. «Rune» sussurrai, mentre mi guidava su
per la maestosa scalinata. «Dove stiamo andando?»
Rune premette un dito sulle mie labbra, per farmi segno di restare in
silenzio. Mi chiesi perché, ma poi mi condusse attraverso una porta… La
porta che portava ai palchi del teatro.
Rune la aprì, e la musica mi si riversò addosso come un’onda.
Annaspando per il volume puro del suono, seguii Rune verso la prima fila
di poltrone. Giù in basso c’era un’orchestra, e il direttore li stava dirigendo.
Li riconobbi all’istante: la Savannah Chamber Orchestra.
Ero estasiata, a fissare i musicisti così concentrati sui loro strumenti, che
ondeggiavano al tempo della musica. Di colpo, voltai la testa verso Rune.
«Come sei riuscito a farlo?» Chiesi.
Rune alzò le spalle. «Stavo cercando di portarti a vederli suonare in un
vero concerto, ma domani partono per andare all’estero. Quando ho
spiegato al direttore d’orchestra quanto li amassi, ha detto che potevamo
fare un salto a sentirli provare».
Non una parola mi salì alle labbra.
Ero senza parole. Completamente, del tutto, senza parole.
Nell’impossibilità di esprimere adeguatamente i miei sentimenti, la mia
pura gratitudine per questa sorpresa, posai la testa sulla sua spalla e mi
accoccolai nel suo braccio. Il profumo della pelle del giubbotto riempiva il
mio naso, mentre i miei occhi si concentravano sull’orchestra in basso.
Li osservavo ammirata. Guardavo come con destrezza il direttore
conduceva i musicisti nella loro prova: gli assolo, gli abbellimenti, le
complesse armonie.
Rune mi teneva stretta, mentre sedevo lì incantata. Di tanto in tanto,
sentivo i suoi occhi su di me: lui osservava me, che osservavo loro.
Ma non riuscivo a staccare gli occhi. Soprattutto dalla sezione dei
violoncelli. Quando il loro suono profondo riecheggiò puro e chiaro, mi
lasciai andare e chiusi gli occhi.
Era bello. Riuscivo a immaginarmi così distintamente, seduta insieme ai
colleghi musicisti, i miei amici, fissare questo teatro pieno di persone che
conoscevo e amavo. Rune seduto, che mi guardava con la sua macchina
fotografica intorno al collo.
Era il più perfetto dei sogni.
Era il mio più grande sogno da quando avevo memoria.
Il direttore diede indicazione all’orchestra di tacere.
Osservai il palco. Osservai tutti gli strumentisti abbassare gli strumenti
tranne il primo violoncello. La donna, che doveva essere sui trent’anni,
spinse la sua sedia al centro del palcoscenico. Non c’era alcuno spettatore a
ostacolarci la vista.
Si mise in posizione per cominciare, l’archetto sulla corda. Era
concentrata sul direttore. Quando lui alzò la bacchetta, dandole ordine di
incominciare, la sentii suonare la prima nota. E mi immobilizzai
completamente. Non osavo respirare. Non volevo sentire niente se non la
più perfetta melodia che fosse mai esistita.
Le note de «Il Cigno» dal Carnevale degli Animali risalirono fino ai
nostri posti. Vidi la violoncellista perdersi nella musica, l’espressione sul
suo viso che tradiva le sue emozioni a ogni nuova nota.
Volevo essere lei.
In quel momento, volevo essere la violoncellista che suonava questo
pezzo così meravigliosamente. Volevo che mi venisse concessa questa
fiducia, la fiducia di questa esibizione.
Tutto sparì mentre la guardavo. Poi chiusi gli occhi. Chiusi gli occhi
perché la musica si impadronisse dei miei sensi. Lasciai che mi portasse con
sé nel suo viaggio. Mentre il tempo del pezzo accelerava, il vibrato che
echeggiava meravigliosamente fra le mura del teatro, aprii gli occhi.
E arrivarono le lacrime.
Le lacrime, come la musica esigeva.
Rune mi strinse più forte la mano e avvertii il suo sguardo su di me.
Riuscivo a sentire che era preoccupato che fossi turbata. Ma non ero
turbata. Mi stavo librando in aria. Il mio cuore si librava in questa melodia
da sogno. Mi si bagnarono le guance, ma lasciai fluire le lacrime. Questo
era il motivo per cui la musica era la mia passione. Da legno, corda, e
archetto si poteva creare questa magica melodia, instillare la vita
nell’anima.
E rimasi così. Rimasi così fino a che l’ultima nota non scivolò al soffitto.
La violoncellista alzò il suo archetto. Solo allora aprì gli occhi, riportando il
suo spirito alla quiete dentro di lei. Perché era questo che sentiva, io lo
sapevo. La musica l’aveva trasportata in un posto lontano, un posto che solo
lei conosceva. L’aveva portata via.
Per qualche tempo, la musica le aveva fatto dono del suo potere.
Il direttore fece un cenno e l’orchestra si avviò nel backstage, lasciando
il silenzio ad occupare il palco adesso vuoto. Ma non girai la testa. Non fino
a che Rune si spostò in avanti, la sua mano dolcemente poggiata sulla mia
schiena. «Poppymin?» Sussurrò, il suo tono cauto e insicuro. «Mi dispiace»
disse sottovoce, «credevo che questo ti avrebbe resa fel...»
Mi voltai a guardarlo, afferrando entrambe le mani tra le mie. «No»
dissi, interrompendo le sue scuse. «No» ribadii. «Queste sono lacrime di
gioia, Rune. Gioia pura».
Lui si lasciò sfuggire un respiro, liberando una delle sue mani per
asciugarmi le guance. Risi, il suono echeggiò intorno a noi. Mi schiarii la
gola, scacciando via l’eccesso di emozioni, e gli spiegai. «Questo è il mio
pezzo preferito, Rune. ‘Il Cigno’, dal Carnevale degli Animali. Il primo
violoncellista, lei ha appena suonato il mio pezzo preferito.
Meravigliosamente. Perfettamente».
Presi un respiro profondo. «È il pezzo che pensavo di suonare per
l’audizione alla Julliard. È sempre stato il pezzo che immaginavo di suonare
alla Carnegie Hall. Lo conosco profondamente. Conosco ogni nota, ogni
cambio di tempo, ogni crescendo… Tutto». Tirai su col naso e mi asciugai
gli occhi. «Sentendolo stasera» continuai, strizzandogli la mano, «seduta
accanto a te… È stato un sogno che diventava realtà».
Rune, completamente a corto di parole, avvolse il suo braccio intorno
alle mie spalle e mi strinse a sé. Sentii il suo bacio sulla mia testa.
«Promettimelo, Rune» dissi. «Promettimi che quando sarai a New York,
quando starai studiando alla Tisch, andrai a vedere suonare la New York
Philharmonic. Promettimi che guarderai il primo violoncello suonare questo
pezzo. E promettimi che quando lo farai, penserai a me. Mi immaginerai
suonare su quel palco e coronare il mio sogno». Respirai a fondo,
soddisfatta da quella immagine. «Perché questo sarebbe abbastanza per me,
adesso» gli spiegai. «Solo sapere che alla fine potrò vivere quel sogno,
anche se sarà solo negli occhi della tua mente».
«Poppy» esclamò Rune, pieno di dolore. «Per favore, piccola…» Il mio
cuore fece un salto quando mi chiamò ‘piccola’. Suonava perfetto quanto la
musica alle mie orecchie.
Alzai la testa e sollevai il suo mento con un dito. «Promettimelo, Rune»
insistetti.
Lui allontanò lo sguardo da me. «Poppy, se tu non sarai a New York con
me, perché diavolo dovrei mai andarci?»
«Per la fotografia. Perché come questo sogno era il mio, il tuo era quello
di studiare fotografia alla NYU».
Fui assalita dalla preoccupazione quando vidi la mascella di Rune
serrarsi. «Rune?» Domandai. Dopo un lungo momento, si girò lentamente
ad affrontarmi di nuovo.
Cercai nel suo bel viso, e mi afflosciai indietro nel mio sedile per quello
che vidi nella sua espressione.
Rifiuto.
«Perché non scatti più fotografie, Rune?» Chiesi. Rune guardò da
un’altra parte. «Per favore, non mi ignorare».
Lui sospirò, sconfitto. «Perché senza di te non vedevo più il mondo nella
stessa maniera. Niente era più lo stesso. Lo so che eravamo dei ragazzini,
ma senza di te, niente aveva senso. Ero arrabbiato. Stavo annegando. Così
ho abbandonato la mia passione perché la passione dentro di me era morta».
Di tutto quello che avrebbe potuto dire o fare, questo mi rattristava più
di ogni altra cosa. Perché quella passione era così forte in lui. E le sue foto,
anche quando aveva quindici anni, erano qualcosa che non avevo mai visto
prima.
Fissai i lineamenti marcati di Rune, i suoi occhi persi mentre fissava con
sguardo assente il palco vuoto. Aveva rialzato il suo muro ed era tornata la
tensione nella sua mascella. Era ritornata quell’espressione astiosa.
Sentendo il bisogno di lasciarlo in pace, di non forzarlo troppo,
appoggiai di nuovo la testa contro la sua spalla e sorrisi. Sorrisi, sentendo
ancora quel pezzo riecheggiarmi nelle orecchie.
«Grazie» sussurrai, mentre le luci del palco si affievolivano.
Sollevai la testa, aspettavo che Rune mi guardasse. Alla fine lo fece.
«Solo tu avresti potuto sapere che questo», indicai l’auditorium,
«avrebbe significato così tanto per me. Solo il mio Rune».
Rune mi premette un bacio leggero sulla guancia.
«Eri tu al mio spettacolo l’altra sera, vero?»
Rune sospirò, e alla fine fece segno di sì con la testa. «Non mi sarei mai
perso una tua esibizione, Poppymin. Mai lo farò».
Si alzò in piedi. Rimase in silenzio mentre mi porgeva la mano. Rimase
in silenzio mentre gli davo la mia mano e mi conduceva alla macchina.
Rimase in silenzio mentre percorrevamo il tragitto verso casa.
Pensai di averlo ferito in qualche modo. Mi preoccupai di aver fatto
qualcosa di sbagliato.
Quando arrivammo a casa, Rune lasciò la macchina e girò intorno al
cofano per aprirmi lo sportello. Afferrai la mano che mi stava porgendo e
saltai giù. Tenni salda la presa mentre Rune mi accompagnava verso casa.
Mi aspettavo che mi portasse alla porta. Invece mi portò alla mia finestra.
Corrugai la fronte quando vidi l’espressione di frustrazione sul suo viso.
Col bisogno di sapere cosa c’era che non andava, feci scorrere la mano sul
suo viso. Ma quando il mio dito si posò sulla sua guancia, qualcosa sembrò
scattare dentro di lui. Mi fece indietreggiare contro il fianco della casa. Il
suo corpo si pressò contro il mio, mi racchiuse il viso tra le sue mani.
Mi mancava il respiro.
Mi mancava il respiro per la sua vicinanza. Mi mancava il respiro per
l’intensità della sua espressione scura. I suoi occhi blu scrutarono ogni parte
del mio viso. «Volevo farlo nel modo giusto» disse. «Volevo andarci piano.
Con questo appuntamento. Con noi. Con stasera». Scosse la testa, la fronte
increspata mentre combatteva una qualche battaglia che aveva dentro. «Ma
non posso. Non lo farò».
Aprii la bocca per rispondere, ma il suo pollice scivolò a strofinarmi il
labbro inferiore, la sua attenzione focalizzata sulle mie labbra. «Tu sei la
mia Poppy. Poppymin. Tu mi conosci. Solo tu mi conosci». Mi prese la
mano, l’appoggiò sopra il suo cuore. «Tu mi conosci, persino sotto questa
rabbia, tu mi conosci». Sospirò, arrivandomi così vicino che condividevamo
la stessa aria. «E io conosco te». Rune sbiancò. «E se abbiamo solo del
tempo limitato, non ho intenzione di sprecarlo. Tu sei mia. Io sono tuo. Al
diavolo tutto il resto».
Il cuore mi vibrò come in un arpeggio nel petto. «Rune», fu tutto quello
che riuscii a dire. Volevo gridare di sì, che ero sua. Che lui era mio.
Nient’altro contava. Ma mi mancò la voce. Ero troppo sopraffatta
dall’emozione.
«Dillo, Poppymin» ordinò. «Dì soltanto sì».
Rune fece un ultimo passo, intrappolandomi, il suo corpo incollato al
mio, il battito del suo cuore al ritmo col mio. Risucchiai un respiro. Le
labbra di Rune strusciarono contro le mie, sospese, in attesa, pronte a
possederle completamente.
Quando guardai negli occhi di Rune, le pupille nere quasi avevano
cancellato il blu, mi lasciai andare e sussurrai: «Sì».
Labbra calde improvvisamente precipitarono sulle mie, la bocca di Rune
così familiare che se ne appropriava con determinazione cieca.
Il suo calore e il suo sapore di menta soffocavano i miei sensi. Il suo
petto muscoloso mi teneva inchiodata al muro, in trappola, come se mi
possedesse attraverso quel bacio.
Rune mi stava mostrando a chi appartenevo. Non mi stava lasciando
altra scelta che sottomettermi a lui, ridarmi a lui dopo essermi sottratta per
troppi anni.
Le mani di Rune si intrecciarono nei miei capelli, tenendomi ferma.
Gemetti quando la sua lingua spinse per incontrare la mia, dolce, calda e
disperata.
Portai le mani in su, lungo la sua schiena ampia, per poi approdare nei
suoi capelli. Rune ringhiò nella mia bocca, baciandomi più a fondo,
portandomi lontano, sempre più lontano, da ogni paura o apprensione che
aveva dimorato in me dal suo ritorno. Mi baciò fino a che non ci fu più una
parte di me che non sapeva a chi appartenevo. Mi baciò finché nuovamente
il mio cuore si fuse con il suo, due metà di un intero.
Il mio corpo cominciò a cedere sotto il suo tocco. Sentendo che mi
arrendevo completamente a lui, il bacio di Rune rallentò in carezze più lente
e delicate. Poi si staccò, entrambi i nostri respiri pesanti, un arco di tensione
sospeso sopra di noi. Le labbra gonfie di Rune mi baciarono le guance, la
mascella, il collo. Quando alla fine si tirò indietro, i suoi respiri accelerati
soffiavano sul mio viso. Le sue mani allentarono la loro morsa su di me.
E aspettò.
Aspettò, osservandomi con il suo sguardo intenso.
Poi le mie labbra si schiusero in un sussurro. «Bacio
trecentocinquantasette. Contro il muro di casa mia… Quando Rune ha preso
il possesso del mio cuore». Rune si immobilizzò, le mani tese, e io conclusi
con: «E il mio cuore è quasi scoppiato».
Poi arrivò. Il puro sorriso di Rune. Era brillante, era ampio ed era vero.
Il mio cuore sfrecciò al cielo, a quella vista.
«Poppymin» sussurrò.
Aggrappata alla sua maglietta, risposi in un sussurro. «Il mio Rune».
Gli occhi di Rune si chiusero quando pronunciai queste parole, un
leggero sospiro salì alla sua bocca. Le sue mani pian piano lasciarono la
presa dai miei capelli e lui, con riluttanza, fece un passo indietro. «Meglio
che vada dentro» sussurrai.
«Ja» rispose lui. Ma non distolse lo sguardo. Invece, si premette contro
di me di nuovo, prendendo la mia bocca delicatamente e velocemente,
prima di farsi indietro. Poi si allontanò di diverse falcate, mettendo una
certa distanza tra di noi.
Sollevai le dita alle mie labbra e dissi: «Se continui a baciarmi così,
riempirò il mio vasetto in men che non si dica».
Rune si girò per rientrare in casa, ma si bloccò per guardare oltre la sua
spalla. «È questa l’idea, piccola. Mille baci da me».
Rune si affrettò in casa sua, lasciandomi lì a guardarlo andare via,
lasciandomi una sensazione di stordita leggerezza che scorreva dentro di me
come rapide. Quando i miei piedi finalmente si mossero, entrai in casa e
andai dritta nella mia stanza.
Tirai fuori il vasetto da sotto il letto e spazzai via la polvere. Aprendolo,
presi la penna dal mio comodino e scrissi del bacio di stanotte.
Un’ora più tardi, ero distesa sul letto quando sentii la finestra che si
apriva. Mi misi a sedere, e vidi la tendina che veniva spinta di lato. Il cuore
mi balzò in gola quando Rune entrò.
Sorrisi mentre camminava verso di me, liberandosi della maglietta e
gettandola sul pavimento. I miei occhi si spalancarono quando assorbii la
vista del suo petto nudo.
Poi il mio cuore quasi esplose quando si passò la mano tra i capelli,
spingendoli via dal viso.
Rune si avvicinò piano al mio letto, e rimase in piedi ad aspettare lì
accanto. Strisciando più indietro, sollevai la coperta e Rune salì sul letto,
cingendomi immediatamente la vita con le braccia.
La mia schiena si annidò perfettamente contro il suo petto, e sospirai di
soddisfazione. Chiusi gli occhi. Rune premette un bacio proprio sotto
l’orecchio e sussurrò: «Dormi, piccola. Ci sono io».
Ed era vero.
Era con me.
Proprio come io ero con lui.
Rune
Quando arrivammo sulla costa, la prima cosa che vidi fu il faro alto,
bianco, situato sul bordo della scogliera. La giornata era calda, l’ondata di
freddo sembrava essere passata, e il cielo era terso.
Quasi non c’era una nuvola in cielo mentre il sole si alzava, proiettando i
suoi raggi sull’acqua calma. Poppy parcheggiò l’auto e spense il motore.
«Sono d’accordo, è anche il mio secondo posto preferito» disse.
Annuii, guardando diverse famiglie sparpagliate sulla morbida sabbia.
C’erano dei bambini che giocavano; gabbiani che volavano in circolo, in
attesa del cibo avanzato. Alcuni adulti erano adagiati sulle dune a leggere.
Altri si rilassavano, ad occhi chiusi, nel godersi il calore.
«Ti ricordi quando venivamo qui in estate?» Chiese Poppy, la sua voce
dolce intrisa di gioia.
«Ja» risposi rauco.
Indicò sotto il molo. «E lì, bacio settantacinque». Si girò verso di me e
rise al ricordo. «Ce l’eravamo svignata dalle nostre famiglie per andare
sotto il molo, solo perché tu potessi baciarmi». Si toccò le labbra senza
guardare niente in particolare, persa tra i pensieri. «Sapevi di sale per
l’acqua del mare» disse. «Ti ricordi?»
«Ja» replicai. «Avevamo nove anni. Tu indossavi un costume giallo».
«Sì!» Disse lei, con una risatina.
Poppy aprì lo sportello. Si guardò indietro, col viso pervaso
dall’eccitazione, e chiese: «Sei pronto?»
Uscii dalla macchina. La calda brezza soffiava i capelli sulla mia faccia.
Presi un elastico dal polso, spinsi via le ciocche e li raccolsi in uno chignon
morbido, poi andai verso il portabagagli per aiutare Poppy con quello che si
era portata.
Quando guardai dentro l’ampio portabagagli, vidi che aveva portato un
cestino da picnic e un altro zaino. Non avevo idea di cosa ci tenesse dentro.
Quando cercò di portare tutto da sola, allungai un braccio per prenderle
tutto. Lei lasciò la presa dalle borse perché le reggessi io, poi si fermò,
senza fare più una mossa.
La sua immobilità mi portò ad alzare lo sguardo. Mi accigliai, vedendo
che mi stava studiando. «Cosa?» Chiesi.
«Rune» sussurrò, sfiorando il mio viso con la punta delle dita. Le fece
scivolare sulle mie guance e lungo la fronte. Finalmente, un enorme sorriso
si aprì sulle sue labbra. «Riesco a vedere il tuo viso».
Sollevandosi sulle punte, Poppy allungò un braccio e scherzosamente
picchiettò sui miei capelli, racchiusi nello chignon. «Mi piace questo»
dichiarò. Gli occhi di Poppy percorsero ancora una volta tutto il mio viso.
Poi sospirò. «Rune Erik Kristiansen, ti rendi conto di quanto sei
incredibilmente bello?»
Abbassai la testa. Due mani corsero giù sul mio petto. Quando sollevai
lo sguardo, lei aggiunse: «Ti rendi conto di quanto è profondo quello che
sento per te?»
Lentamente, scossi la testa, sentivo il bisogno che me lo dicesse. Adagiò
la mia mano sopra il suo cuore e la sua sopra il mio. Sentivo sotto il palmo
il suo battito regolare, quel battito che accelerò quando i miei occhi si
incatenarono ai suoi. «È come musica», spiegò. «Quando ti guardo, quando
mi tocchi, quando vedo il tuo viso… Quando ci baciamo, il mio cuore canta
una canzone. Canta che ha bisogno di te come io ho bisogno dell’aria.
Canta che io ti adoro. Canta che ho trovato la sua perfetta metà mancante».
«Poppymin» dissi dolcemente, mentre lei premeva un dito sulle mie
labbra.
«Ascolta, Rune» disse lei e chiuse gli occhi. Lo feci anch’io. E lo sentii.
Lo sentii così distintamente come se fosse accanto al mio orecchio. I battiti
regolari, il ritmo di noi due. «Quando mi sei vicino, il mio cuore non canta,
vola» sussurrò, come se non volesse disturbare quel suono. «Credo che i
cuori battano al ritmo di una canzone. Credo che, proprio come con la
musica, siamo attratti verso una particolare melodia. Io ho sentito la
canzone del tuo cuore, e il tuo ha sentito la mia».
Aprii gli occhi. Poppy era ferma in piedi, le sue fossette profonde mentre
sorrideva e si dondolava a ritmo. Quando aprì gli occhi, una dolce risatina
scivolò dalle sue labbra. Mi spinsi in avanti e schiacciai le nostre labbra le
une contro le altre.
Le mani di Poppy andarono alla mia vita, aggrappandosi forte alla mia t-
shirt mentre muovevo lentamente le mie labbra contro le sue, facendoci
indietreggiare fino a che lei non fu appoggiata contro la macchina, il mio
petto premuto contro il suo corpo.
Sentivo l’eco del battito del suo cuore nel mio petto. Poppy sospirò
quando io feci scivolare la lingua contro la sua. Le sue mani si
aggrapparono ancora più forte alla mia vita. Quando mi tirai indietro, lei
sussurrò: «Bacio quattrocentotrentadue. Alla spiaggia con il mio Rune... E
il mio cuore è quasi scoppiato».
Avevo il respiro pesante, mentre cercavo di ricompormi. Le guance di
Poppy erano arrossate e stava respirando affannosamente proprio come me.
Restammo così, a respirare semplicemente, fino a che Poppy non si spinse
via dal portabagagli e mi diede un bacio sulla guancia.
Voltandosi, sollevò lo zaino e se lo mise sulla spalla. Andai per
prenderglielo, ma lei si oppose. «Non sono ancora così debole, tesoro.
Posso ancora portare un po’ del peso».
Le sue parole contenevano un doppio significato. Sapevo che non stava
semplicemente parlando dello zaino, ma del mio cuore.
Delle tenebre che erano dentro di me, che lei senza sosta cercava di
combattere.
Poppy si spostò, consentendomi di prendere tutto il resto delle cose. La
seguii fino a un posto isolato alla fine della spiaggia, accanto al molo.
Quando ci fermammo, individuai il palo dove l’avevo baciata tutti
quegli anni prima. Una strana sensazione mi si allargò nel petto, e seppi che
prima di tornare a casa, l’avrei baciata lì di nuovo. L’avrei baciata da
diciassettenne.
Un altro bacio per il vasetto.
«Qui va bene?» Chiese Poppy.
«Ja» replicai, poggiando le cose sulla sabbia. Vedendo l’ombrellone, e
preoccupandomi che Poppy non avrebbe dovuto prendere troppo sole, lo
piantai velocemente nella sabbia e lo aprii per darle un po’ d’ombra.
Appena l’ombrellone fu dispiegato, e la coperta distesa sulla sabbia, feci
segno col mento a Poppy di spostarsi lì sotto. E lei lo fece, baciandomi
velocemente la mano mentre passava.
E il mio cuore non sospirò. Volò.
I miei occhi furono catturati dal quieto movimento dell’oceano. Poppy si
sedette e, con gli occhi chiusi, inalò profondamente.
Vedere Poppy che abbracciava la natura era come vedere una preghiera
esaudita. La gioia nella sua espressione sembrava senza limiti, la pace del
suo spirito induceva umiltà.
Mi abbassai anch’io sulla sabbia. Mi sedetti chinato in avanti, le braccia
avvolte intorno alle ginocchia piegate. Guardai il mare. Guardai le barche in
lontananza, chiedendomi dove stessero andando.
«Che avventura pensi stiano vivendo?» Chiese Poppy, leggendomi nel
pensiero.
«Non lo so» replicai sinceramente.
Poppy roteò gli occhi. «Penso che si stiano lasciando tutto alle spalle.
Penso che si siano svegliati un giorno e abbiano capito che c’era di più nella
vita. Penso che abbiano deciso, una coppia di innamorati, un ragazzo e una
ragazza, di voler esplorare il mondo. Hanno venduto tutto quello che
avevano e hanno comprato una barca». Sorrise e abbassò il mento,
reggendolo tra le mani, con i gomiti poggiati sulle ginocchia piegate. «A lei
piace suonare, e lui ama catturare momenti sulla pellicola».
Scossi la testa e la guardai con la coda dell’occhio.
Sembrò non farci caso. «E il mondo è bello. Viaggeranno in posti
lontani, creeranno musica, arte e immagini. E lungo la strada, si baceranno.
Si baceranno, si ameranno, saranno felici» aggiunse, invece.
Sbatté le palpebre e una dolce brezza soffiò sul nostro posto all’ombra.
Quando mi guardò di nuovo, mi chiese: «Non ti sembra che sia la più
perfetta delle avventure?»
Annuii. Non riuscivo a parlare.
Poppy guardò i miei piedi e, scuotendo la testa, scivolò sulla coperta
fino all’estremità delle mie gambe. Con aria interrogativa, sollevai un
sopracciglio.
«Hai ancora gli stivali, Rune! È un meraviglioso giorno di sole e tu hai
gli stivali». Poppy allora si mise ad aprire la cerniera e a sfilarmi gli stivali,
uno dopo l’altro. Mi arrotolò i jeans fino alle caviglie e fece di sì con la
testa. «Ecco» affermò orgogliosa. «Questo è un piccolo miglioramento».
Mi fu impossibile non trovare divertente che se ne stesse seduta lì, così
compiaciuta, e allora mi allungai in avanti e la tirai verso di me,
stendendomi così che lei si trovasse sopra di me.
«Ecco» ripetei. «Questo è un piccolo miglioramento».
Poppy ridacchiò, e mi regalò un bacio al volo. «E adesso?»
«Un grande miglioramento» scherzai, ironicamente. «Un miglioramento
enorme, grande quanto un asteroide».
Poppy rise più forte. La feci rotolare sul fianco per metterla accanto a
me. Il suo braccio rimase sulla mia vita, e io feci correre le dita lungo la
pelle morbida e nuda.
Guardai in silenzio il cielo. Anche Poppy era silenziosa, fino a che non
parlò all’improvviso. «Non era passato molto tempo da quando eri partito
che iniziai a sentirmi stanca, così stanca che non riuscivo ad alzarmi dal
letto».
Mi irrigidii. Alla fine, me lo stava dicendo. Mi stava raccontando quello
che era successo. Mi stava raccontando tutto.
«Mia madre mi portò dal dottore e mi fecero alcune analisi». Scosse la
testa. «A essere onesta, tutti quanti pensavano che mi stessi comportando in
quella maniera diversa perché tu eri partito». Chiusi gli occhi e presi un
respiro. «Anche io» aggiunse, stringendomi più forte. «Per i primi giorni,
cercavo di fingere con me stessa che tu fossi solo andato in vacanza. Ma
quando iniziarono a passare le settimane, il vuoto che avevi lasciato dentro
di me iniziò a fare troppo male. Il mio cuore era completamente spezzato.
In più, mi facevano male i muscoli. Dormivo troppo, ero incapace di trovare
un po’ di energia».
Poppy si fece silenziosa. Poi riprese. «Andò a finire che dovemmo
andare ad Atlanta per altre analisi. Siamo stati da zia DeeDee, mentre
cercavano di capire cosa non andasse».
Poppy sollevò la testa e, con una mano posata sulla mia guancia, mi
guidò per incontrare i suoi occhi. «Non te l’ho mai detto, Rune. Ho
continuato a fingere che stessi bene. Perché non potevo sopportare di farti
ancora più male. Mi accorgevo che tu non stavi per niente bene. Ogni volta
che chattavamo in video, vedevo che stavi diventando sempre più
arrabbiato, arrabbiato per essere tornato a Oslo. Le cose che dicevi
semplicemente non erano da te».
«Quindi, quella visita a tua zia DeeDee» la interruppi, «era perché eri
malata. Non era una semplice visita come mi avevi detto?»
Poppy annuì e vidi la colpa nei suoi occhi verdi. «Ti conoscevo, Rune. E
vedevo che stavi scivolando. Hai sempre avuto un atteggiamento astioso.
Sei sempre stato cupo, di natura. Ma quando eri con me, non lo eri. Potevo
solo immaginare cosa ti avrebbe fatto scoprire che ero malata».
La testa di Poppy ricadde dolcemente per riposare sul mio petto. «Dopo
non molto ricevetti la mia diagnosi: linfoma di Hodgkin avanzato.
Sconvolse la mia famiglia. All’inizio la cosa sconvolse anche me. Come
poteva non essere così?» La tenni più stretta, ma Poppy si spostò piano
indietro. «Rune, so che non ho mai visto il mondo come tutti gli altri. Ho
sempre vissuto pienamente ogni giorno. So di aver sempre colto aspetti del
mondo che nessun altro vedeva. Penso che, in qualche modo, era perché
sapevo che non avrei avuto il tempo di sperimentare come tutti gli altri.
Credo che, in fondo in fondo, il mio spirito lo sapesse. Perché quando il
dottore ci disse che mi sarebbero restati solo un paio di anni, anche con le
medicine e i trattamenti, stavo bene».
Gli occhi di Poppy erano lucidi di lacrime. Anche i miei.
«Restammo tutti ad Atlanta; vivevamo con zia DeeDee. Ida e Savannah
si iscrissero a delle nuove scuole. Papà viaggiava per andare al lavoro. Io
prendevo lezioni private a casa, o avevo un tutor in ospedale. Mia madre e
mio padre pregavano per un miracolo. Ma io sapevo che non ci sarebbe
stato. Stavo bene. Tenevo la testa alta. La chemio era dura. Perdere i capelli
è stato brutto». Poppy batté le palpebre, per schiarirsi la vista, poi mi
confidò: «Ma tagliare fuori te mi ha quasi uccisa. È stata una mia scelta. La
colpa rimane la mia. Io volevo solo salvarti, Rune. Salvarti dal vedermi in
quelle condizioni. Vedevo cosa stava succedendo ai miei genitori e alle mie
sorelle. Ma tu… Io ti potevo proteggere. Potevo darti quello che non aveva
avuto la mia famiglia. Vita. Libertà. La possibilità di andare avanti senza
dolore».
«Non ha funzionato» riuscii a dire.
Poppy abbassò lo sguardo. «Adesso lo so. Ma credimi, Rune. Ho
pensato a te ogni singolo giorno. Ti immaginavo, pregavo per te. Speravo
che le tenebre che avevo visto sbocciare dentro di te si sarebbero dissipate
con la mia assenza».
Poppy poggiò il mento sul mio petto ancora una volta. «Dimmi, Rune.
Dimmi che ti è successo».
Mi si serrò la mandibola, non volevo provare quello che avevo provato
allora. Ma non avrei mai potuto dire no alla mia ragazza. Era impossibile.
«Ero arrabbiato» dissi, spostandole i capelli dal suo bel viso. «Nessuno
sapeva dirmi dove eri andata. Perché avevi interrotto i contatti con me. I
miei genitori non la smettevano di starmi addosso. Mio padre mi rompeva
le scatole ventiquattr’ore al giorno. Davo a lui la colpa di tutto. Anche
adesso».
Poppy aprì la bocca per parlare, ma scossi la testa. «No» ringhiai. «Non
farlo».
Poppy chiuse la bocca e io chiusi gli occhi, e mi sforzai di continuare.
«Andavo a scuola, ma non ci volle molto per finire insieme a gente
incavolata con il mondo come me. Non ci volle molto perché iniziassi ad
andare alle feste. A bere, a fumare, a fare il contrario di qualsiasi cosa mi
dicesse mio padre».
«Rune» esclamò Poppy con tristezza. Non disse nient’altro.
«Quella diventò la mia vita. Gettai via la mia macchina fotografica. Poi
impacchettai tutto quello che mi ricordava te». Mi sfuggì una risata amara.
«Peccato che non potessi strapparmi il cuore e impacchettare anche quello.
Perché quel maledetto non lasciava che ti dimenticassi, non importava
quanto ci provassi. E poi siamo ritornati. Di nuovo qui. E ti ho vista nel
corridoio e tutta quella rabbia che ancora mi pompava nelle vene si è
trasformata in un’ondata di maremoto».
Mi girai sul fianco, aprii gli occhi e feci scorrere la mia mano lungo il
viso di Poppy. «Perché eri così bella. Qualsiasi immagine che avevo in
mente di come eri diventata a diciassette anni fu spazzata via in un attimo.
Nel momento in cui ho visto questi capelli castani, questi grandi occhi verdi
fissi nei miei, sapevo che qualsiasi sforzo avessi fatto negli ultimi due anni
per scacciarti via era stato annientato. Da un solo sguardo. Annientato».
Deglutii. «Poi quando mi hai detto della…» Mi morì la voce, e Poppy
scosse la testa.
«No» disse. «Basta adesso. Hai detto abbastanza».
«E tu?» Chiesi. «Perché sei ritornata?»
«Perché era finita» disse, con un sospiro. «Non stava funzionando
niente. Ogni nuova cura non faceva la minima differenza. L’oncologo ce lo
disse senza mezzi termini: niente avrebbe funzionato. Era tutto quello di cui
avevo bisogno per prendere una decisione. Volevo andare a casa. Volevo
vivere i giorni che mi rimanevano a casa, con una cura palliativa e con
coloro che amavo di più».
Poppy scivolò più vicina, baciandomi la guancia, la testa, e infine la
bocca. «E adesso io ho te. Come era destino, adesso lo so. È qui che
dovevamo essere in questo preciso momento della vita, a casa».
Sentii una lacrima errante sfuggirmi da un occhio. Poppy prontamente la
asciugò con il pollice. Si chinò sopra di me, contro il mio petto. «Sono
arrivata a capire che la morte, per i malati, non è così difficile da
sopportare. Per noi, alla fine, il dolore sparisce, andiamo in un posto
migliore. Ma per quelli che restano, il loro dolore potrà solo crescere» disse.
Poppy prese la mia mano e se la posò sulla guancia. «Credo davvero che
la storia di una perdita non sempre deve essere triste o penosa. Voglio che la
mia sia ricordata come una grande avventura che ho cercato di vivere al
meglio possibile. Come osiamo sprecare un solo fiato? Come osiamo
sprecare qualcosa di così prezioso? Dovremmo, invece, combattere perché
tutti quei preziosi respiri siano presi in altrettanti preziosi momenti,
collezionarne quanti più ne riusciamo nel breve tempo che abbiamo sulla
terra. Questo è il messaggio che voglio lasciare. E che bella eredità che è,
da lasciare a quelli che amo».
Se, come Poppy credeva, il battito del cuore era una canzone, allora
proprio adesso, in questo momento, il mio cuore avrebbe cantato
d’orgoglio… Per la completa ammirazione che avevo per la ragazza che
amavo, per il modo in cui vedeva la vita, per il modo in cui cercava di
farmelo credere, farmi credere che ci poteva essere una vita oltre lei.
Ero certo che non fosse questo il caso, ma vedevo che Poppy era
determinata. Quella determinazione non aveva mai fallito.
«Quindi ora lo sai» dichiarò Poppy e adagiò la testa sul mio petto.
«Adesso, non ne parliamo più. Abbiamo il nostro futuro da esplorare.
Non saremo schiavi del passato». Chiusi gli occhi, e lei mi implorò. «Me lo
prometti, Rune?»
Ritrovando la voce, sussurrai: «Lo prometto».
Ricacciai indietro le emozioni che mi stavano dilaniando dentro. Non le
avrei mostrato alcun segno che ero triste. Da oggi in poi avrebbe visto solo
la felicità in me.
Il respiro di Poppy ritornò regolare mentre le accarezzavo i capelli. La
calda brezza soffiava su di noi, portandosi via la pesantezza che ci aveva
avvolti.
Mi lasciai scivolare nel sonno, pensando che anche Poppy si fosse
addormentata, quando mormorò: «Come pensi che sarà il paradiso, Rune?»
Mi irrigidii, ma le mani di Poppy iniziarono a tracciarmi dei cerchi sul
petto, liberando il mio corpo dalla pesantezza che la sua domanda aveva
riportato indietro.
«Non lo so» dissi. Poppy non mi offrì alcun appiglio, semplicemente
rimase esattamente dov’era. Spostandomi leggermente per poterla stringere
di più tra le mie braccia, continuai. «Un bel posto. Un posto pieno di pace.
Dove un giorno ti rivedrò».
Sentii che Poppy sorrideva contro la mia maglietta. «Anche io»
concordò a bassa voce e si girò per baciarmi il petto.
Questa volta ero sicuro che Poppy dormisse. Guardai lungo la spiaggia e
vidi una vecchia coppia sedersi vicino a noi. Le loro mani erano intrecciate
con forza.
Prima che la donna si potesse sedere, l’uomo distese una coperta sulla
sabbia. Le baciò la guancia poi l’aiutò a mettersi giù.
Una fitta di gelosia mi attraversò. Perché noi non avremmo mai avuto
tutto questo.
Poppy ed io non saremmo mai diventati vecchi insieme. Non avremmo
mai avuto figli. Non avremmo mai avuto un matrimonio. Niente. Ma
guardando i folti capelli di Poppy e le sue mani delicate aperte sul mio
petto, mi concessi di essere grato perché almeno l’avevo adesso. Non
sapevo cosa ci aspettasse. Ma io avevo lei adesso.
Avevo lei da quando avevo cinque anni.
Realizzai ora perché l’avevo amata così tanto si da quando eravamo così
giovani, perché così avrei avuto questo tempo con lei. Poppy credeva che il
suo spirito avesse sempre saputo che sarebbe morta giovane. Iniziavo a
credere che anche il mio lo sapesse.
Passò oltre un’ora. Poppy stava ancora dormendo, la sollevai
delicatamente dal mio petto e mi sedetti. Il sole si era spostato; le onde
lambivano la spiaggia.
Avevo sete, così aprii il cestino da picnic e tirai fuori una delle bottiglie
d’acqua che Poppy aveva portato. Mentre bevevo, il mio sguardo si
soffermò sullo zaino che Poppy aveva preso dal portabagagli.
Chiedendomi cosa ci fosse dentro, me lo avvicinai e aprii delicatamente
la cerniera. All’inizio, vidi solo un’altra borsa nera. Questa borsa era
imbottita. La tirai fuori e il mio cuore iniziò di colpo a galoppare quando mi
resi conto di che contenesse.
Sospirai e chiusi gli occhi.
Abbassai la borsa sulla coperta e mi strofinai le mani sulla faccia.
Quando sollevai la testa, aprii gli occhi e guardai l’acqua con aria
assente. Vedevo le barche in lontananza, le parole di Poppy mi ritornarono
in mente…
Penso che si stiano lasciando tutto alle spalle. Penso che si siano
svegliati un giorno e abbiano capito che c’era di più nella vita. Penso che
abbiano deciso, una coppia di innamorati, un ragazzo e una ragazza, di
voler esplorare il mondo. Hanno venduto tutto quello che avevano e hanno
comprato una barca… A lei piace suonare, e lui ama catturare momenti
sulla pellicola …
I miei occhi si spostarono dalla custodia della macchina fotografica che
conoscevo così bene. Compresi da dove aveva preso la sua teoria sulle
barche.
A lui piace catturare momenti sulla pellicola…
Provai a essere arrabbiato con lei. Avevo rinunciato a fare foto due anni
addietro, quello non ero più io. Non era più il mio sogno. La NYU non
faceva parte dei miei piani. Non volevo riprendere in mano la macchina
fotografica. Ma le mie dita incominciarono a contrarsi e, nonostante fossi
arrabbiato con me stesso, sollevai il coperchio della custodia e guardai
all’interno.
La vecchia Canon vintage nera cromata, che avevo custodito
gelosamente un tempo, mi stava guardando. Mi sentii sbiancare, il sangue
mi affluiva veloce verso il cuore, che martellava contro le mie costole.
Avevo gettato via questa macchina. L’avevo abbandonata insieme a tutto
quello che significava.
Non avevo idea di come diavolo Poppy ne fosse venuta in possesso. Mi
chiedevo se ne avesse trovata una uguale e comprata. La sollevai dalla
borsa e la girai. Lì, intagliato sul retro, c’era il mio nome. L’avevo inciso il
giorno del mio tredicesimo compleanno, quando mia madre e mio padre mi
avevano regalato questa macchina.
Era esattamente quella.
Poppy aveva trovato la mia macchina.
Girandola, vidi che all’interno c’era un rullino intero. Nella borsa
c’erano gli obiettivi. Quelli che conoscevo così bene. Nonostante fossero
passati anni, sapevo ancora istintivamente quale funzionasse meglio per
qualsiasi scatto - panorami, ritratti, notturni, luce del giorno, luce naturale,
interni…
Sentendo un leggero fruscio dietro di me, gettai uno sguardo oltre la mia
spalla. Poppy era seduta e mi stava guardando. I suoi occhi caddero sulla
macchina fotografica. Si fece avanti piano, nervosamente. «Ho chiesto a tuo
padre della macchina, dove fosse finita. Mi ha detto che l’avevi gettata via».
La testa di Poppy si inclinò da un lato. «Non l’hai mai saputo, e lui non te
l’ha mai detto, ma l’ha trovata. Aveva visto che l’avevi buttata via. Ne avevi
rotto alcune parti. Gli obiettivi erano spaccati, e anche altro». La mia
mascella era così serrata che mi faceva male.
Il dito di Poppy tracciò il dorso della mia mano, poggiata sulla coperta.
«L’ha riparata senza fartelo sapere. L’ha conservata negli ultimi due anni.
L’ha conservata nella speranza che avresti ritrovato la tua strada verso la
fotografia. Sapeva quanto l’amassi. Si dà la colpa del fatto che hai lasciato
la fotografia».
Il mio istinto fu di aprire la bocca e sibilare che era colpa sua.
Tutto lo era. Ma non lo feci.
Per una qualche ragione la fitta che sentivo allo stomaco mi fece tenere
la bocca chiusa.
Gli occhi di Poppy si fecero lucidi. «Avresti dovuto vederlo ieri sera,
quando gliel’ho chiesta. Era così emozionato, Rune. Persino tua madre non
sapeva che l’avesse conservata. Aveva anche dei rullini pronti. Nel caso tu
l’avessi mai voluta indietro».
Distolsi lo sguardo da quello di Poppy, e ritornai a concentrarmi sulla
macchina fotografica invece. Non sapevo cosa provare per tutto quello.
Provai con la rabbia. Ma con mia sorpresa, la rabbia si rifiutava di arrivare.
Per qualche ragione non riuscivo a liberarmi la mente dall’immagine di mio
padre che puliva la macchina fotografica e la aggiustava da solo.
«Ti ha anche preparato la camera oscura, è pronta ad aspettarti a casa
tua». Chiusi gli occhi quando Poppy aggiunse l’ultima parte.
Rimasi in silenzio. La mia risposta fu il totale silenzio. La mia testa era
piena di troppi pensieri, troppe immagini. E mi sentivo combattuto. Avevo
giurato di non scattare mai più foto.
Ma giurare era una cosa. Tenere in mano l’oggetto della mia dipendenza
comprometteva tutto quello che avevo giurato di combattere. Contro cui
avevo giurato di ribellarmi. Che avevo giurato di gettare via, proprio come
mio padre aveva gettato via i miei sentimenti quando aveva deciso di
ritornare a Oslo.
La voragine di furia nel mio stomaco iniziò ad allargarsi. Questa era la
rabbia che mi aspettavo. Questo era il divampare del fuoco che avevo
previsto.
Inalai a fondo, preparandomi al buio che stava per sopraffarmi, quando
improvvisamente Poppy saltò in piedi. «Vado in acqua» annunciò e passò
davanti a me senza dire altro.
La guardai allontanarsi. La guardai appoggiare i piedi nella sabbia
morbida, la brezza che sollevava i suoi capelli corti. Rimasi immobile,
incantato, mentre lei saltellava sul ciglio dell’acqua, lasciando che le onde
che si infrangevano lambissero i suoi piedi. Si alzò il vestito più su sulle
gambe per evitare gli schizzi.
Gettò la testa all’indietro per sentire il sole sul viso. Poi guardò indietro,
dove ero seduto io. Guardò indietro e rise. Libera, senza freni, come se non
avesse alcun pensiero al mondo.
Ero pietrificato, ancora di più quando un raggio di sole, riflesso dal
mare, inondò di una lucentezza dorata il lato del suo viso, i suoi occhi verdi
erano come smeraldi in questa nuova luce. Restai senza fiato, a dire il vero
dovevo combattere per respirare per quanto incredibilmente bella apparisse.
Prima di poterci anche solo pensare, mi trovai in mano la macchina
fotografica. Ne sentii il peso tra le mie mani, e chiudendo gli occhi, lasciai
che quel bisogno avesse la meglio. Aprii gli occhi, sollevai la macchina.
Scoperchiai l’obiettivo, e trovai l’inquadratura assolutamente perfetta della
mia ragazza che ballava tra le onde.
E premetti il bottone.
Premetti il bottone della macchina fotografica, il mio cuore che
sobbalzava a ogni scatto dell’otturatore, di certo nella consapevolezza che
stavo catturando Poppy in questo momento... Felice.
L’adrenalina risalì dentro di me al pensiero di come sarebbero state
queste foto sviluppate. Questo era il motivo per cui usavo una macchina
vintage. L’attesa nella camera oscura, la successiva gratificazione di vedere
la meraviglia che hai catturato. L’abilità necessaria per usare la macchina e
ottenere il risultato di uno scatto perfetto.
Una frazione di secondo di serenità. Un momento di magia.
Poppy, in modo tutto suo, correva lungo la spiaggia, le guance che si
tingevano di rosa per il calore del sole. Sollevando le braccia in aria, lasciò
cadere l’orlo del vestito, che si bagnò per gli schizzi dell’acqua.
Poi si girò a guardarmi.
Quando lo fece, rimase perfettamente immobile, come il cuore nel mio
petto. Il mio dito attese, posato sul bottone, in attesa dello scatto giusto. E
poi arrivò. Arrivò quando un’espressione di pura beatitudine si allargò sul
suo viso. Arrivò quando i suoi occhi si chiusero e la testa sin inclinò
all’indietro, come se fosse un sollievo, come se fosse posseduta da una
felicità incondizionata.
Abbassai la macchina. Poppy mi tese la mano. Esaltato dal brivido della
passione che era rinata dentro di me, saltai in piedi e camminai sulla sabbia.
Quando presi la mano di Poppy, lei mi tirò più vicino e mi stampò un
bacio sulle labbra. Mi lasciai guidare da lei. Le lasciai dimostrarmi quanto
questo contasse per lei. Questo momento. E lasciai che anch’io lo sentissi.
Mi concessi, per questo breve momento, di mettere da parte la cupezza che
mi portavo sempre come uno scudo. Mi concessi di perdermi in quel bacio,
sollevando in alto la macchina fotografica. Pur con gli occhi chiusi e senza
prendere la mira, ero convinto di aver scattato la più bella foto della
giornata.
Poppy si tirò indietro e silenziosamente mi guidò di nuovo alla coperta,
per sederci, e adagiò la testa sulla mia spalla. Sollevai il braccio sulle sue
spalle calde e baciate dal sole e me l’avvicinai al fianco. Poppy guardò in su
mentre pigramente le baciavo la testa. Quando incontrai i suoi occhi,
sospirai, sospirai e premetti la mia fronte contro la sua.
«Non c’è di che» sussurrò, mentre voltava lo sguardo per guardare il
mare.
Era da tanto che non mi sentivo così. Non avevo sentito questa pace
dentro da quando ci eravamo separati ed ero grato a Poppy. Più che grato.
Improvvisamente un timido sussulto meravigliato sfuggì dalla bocca di
Poppy. «Guarda, Rune» sussurrò, indicando qualcosa in lontananza. Mi
chiedevo cosa volesse farmi vedere quando proseguì. «Le nostre orme sulla
sabbia». Sollevò la testa e mi rivolse un sorriso raggiante. «Due paia.
Quattro orme. Proprio come la poesia».
Aggrottai le sopracciglia, confuso. La mano di Poppy era posata sul mio
ginocchio piegato. Con la testa ripiegata nella protezione del mio abbraccio,
mi spiegò. «È la mia poesia preferita, Rune. Era anche quella preferita da
mia nonna».
«Cosa dice?» Chiesi, sorridendo appena per la piccola dimensione delle
orme di Poppy accanto alle mie.
«È bella. Ed è spirituale, quindi non sono sicura di quello che ne
penserai». Poppy mi lanciò uno sguardo scherzoso.
«Dimmela lo stesso» la incitai, solo per sentire la sua voce. Solo per
sentire la riverenza nel suo tono quando condivideva qualcosa che adorava.
«Si tratta più di una storia, in realtà. Di qualcuno che fa un sogno. Nel
sogno lui è su una spiaggia proprio come questa. Ma cammina accanto al
Signore».
Socchiusi gli occhi e Poppy roteò i suoi. «Ti ho detto che era spirituale!»
Esclamò ridendo.
«Sì, l’hai detto» replicai, e le diedi un colpetto sulla testa col mento.
«Continua».
Poppy sospirò, con il dito tracciava pigramente disegni sulla sabbia. Il
mio cuore quasi si spaccò quando vidi che era un altro simbolo dell’infinito.
«Mentre camminavano sulla spiaggia, nel cielo scuro veniva raffigurata
la vita di quella persona perché loro la vedessero. Mentre ogni scena veniva
proiettata, come una pellicola cinematografica, la persona notava che due
paia di orme si formavano sulla sabbia dietro di loro. E mentre
proseguivano, ogni nuova scena portava con sé una scia delle loro
impronte».
L’attenzione di Poppy era concentrata sulle nostre orme. «Quando tutte
le scene gli furono state mostrate, quella persona guardò indietro alla scia di
orme e notò qualcosa di strano. Notò che durante i momenti più tristi, o più
disperati della sua vita, c’era una sola coppia di orme. Nei periodi più felici
ce n’erano sempre due».
Mi accigliai, chiedendomi dove avrebbe portato quella storia. Poppy
sollevò il mento e sbatté le palpebre nella luce abbagliante del sole. Con gli
occhi pieni di lacrime, mi guardò e continuò. «La persona rimase molto
sconvolta da questo fatto. Il Signore gli spiegò che, quando qualcuno dedica
la sua vita a Lui, Lui gli cammina accanto durante tutti gli alti e bassi della
vita. La persona chiese quindi al Signore: “Perché, allora, nei momenti
peggiori della vita, mi hai abbandonato? Perché te ne sei andato?”»
Sul volto di Poppy apparve un’espressione di profondo conforto. «E
allora?» Incalzai. «Cosa rispose il Signore?»
Una sola lacrima cadde dai suoi occhi. «Rispose che Lui aveva
camminato con lui durante tutta la sua vita. Ma, spiegò, nei momenti in cui
c’era solo una coppia di orme non erano quelli in cui Lui lo aveva lasciato
solo, ma quelli in cui Lui lo aveva portato in braccio».
Poppy tirò sul col naso e proseguì. «Non mi importa se non sei religioso,
Rune. La poesia non è solo per i credenti. Noi tutti abbiamo delle persone
che ci sollevano nei momenti più brutti, in quelli più tristi, i momenti da cui
sembra impossibile venire fuori. In un modo o nell’altro, se è grazie al
Signore o a una persona che amiamo, o a entrambi, quando sentiamo che
non riusciamo più a camminare, qualcuno interviene ad aiutarci… Ci
solleva e ci porta in braccio».
Poppy abbandonò la testa sul mio petto, avvolgendosi nelle mie braccia
che l’attendevano.
I miei occhi si persero in una nebbia sfocata mentre fissavo le nostre
impronte impresse nella sabbia. In quel momento, non ero sicuro di chi
stesse aiutando chi. Perché nonostante Poppy insisteva che fossi io che
stavo aiutando lei nei suoi ultimi mesi di vita, io iniziavo a credere che
fosse lei che, in qualche modo, mi stava salvando.
Un solo paio di orme sulla mia anima.
Poppy si spostò per guardarmi, le guance bagnate di lacrime. Lacrime di
felicità. Lacrime di commozione… Le lacrime di Poppy. «Non è bello,
Rune? Non è la cosa più bella che tu abbia mai sentito?»
Annuii semplicemente. Questo non era il momento per le parole. Non
potevo competere con quelle che aveva appena recitato, quindi perché
anche solo provarci?
Lasciai vagare lo sguardo sulla spiaggia. E mi domandai… Mi domandai
se qualcun altro avesse appena ascoltato qualcosa di così commovente da
scuoterlo fino all’anima. Mi domandai se la persona che amava più di
chiunque altro sul pianeta si fosse aperta a lui così puramente, con
un’emozione così reale.
«Rune?» Chiamò piano Poppy, accanto a me.
«Sì, piccola?» Replicai dolcemente. Voltò il suo bel viso verso di me e
mi rivolse un debole sorriso. «Stai bene?» Chiesi, passando la mano sul suo
viso.
«Mi sento stanca» ammise, malvolentieri. Il mio cuore andò in pezzi.
Nell’ultima settimana, avevo iniziato a notare la stanchezza che
gradualmente si insinuava sul suo viso quando faceva troppo.
E ancora peggio, vedevo quanto odiasse questa cosa. Perché le impediva
di godere di tutte le avventure della vita.
«Non c’è niente di male a essere stanchi, Poppymin. Non è una
debolezza».
Gli occhi di Poppy si abbassarono in segno di sconfitta. «Lo odio. Ho
sempre pensato che dormire fosse una perdita di tempo».
Risi per il broncio adorabile che le si era formato sulle labbra. Poppy mi
guardava, in attesa che parlassi. Tornai serio. «Per come la vedo io, se
dormi quando ne hai bisogno, significa che possiamo fare più cose quando
sei in forze». Strofinai la punta del mio naso contro il suo. «Le nostre
avventure saranno molto più speciali. E lo sai che mi piace vederti dormire
tra le mie braccia. Ho sempre pensato che tu sia perfetta lì».
Poppy sospirò, e con un ultimo sguardo al mare, sussurrò: «Solo tu,
Rune Kristiansen. Solo tu puoi trovare una giustificazione così bella per la
cosa che odio di più».
Con un bacio alla sua guancia calda, mi alzai in piedi e raccolsi le nostre
cose. Quando tutto fu messo a posto, guardai il molo oltre le mie spalle, poi
guardai Poppy. Le tesi la mano. «Vieni, dormigliona. In onore dei vecchi
tempi?»
Poppy guardò il molo e si lasciò scappare una risatina incontenibile. La
sollevai da terra e camminammo piano, mano nella mano, sotto il pontile. Il
suono ipnotico delle dolci onde che si infrangevano contro le travi di
vecchio legno ci avvolgeva.
Senza perdere tempo, spinsi Poppy contro il palo di legno, presi tra le
mani le sue guance e congiunsi le nostre labbra.
Chiusi gli occhi mentre la pelle calda delle sue guance si riscaldava sotto
i miei palmi. Il mio petto si alzava e si abbassava pesantemente, senza fiato,
mentre ci baciavamo lentamente e profondamente, e la fresca brezza
soffiava nei capelli di Poppy.
Distaccandomi, strofinai le mie labbra, per assaporare il sapore del sole
e delle ciliegie che mi esplodeva nella bocca.
Gli occhi di Poppy si aprirono in un battito di ciglia. Vedendo quanto
apparisse stanca, sussurrai al suo posto: «Bacio quattrocentotrentatré. Con
Poppymin sotto il molo». Poppy sorrise timidamente, in attesa di quello che
sarebbe venuto dopo. «E il mio cuore è quasi scoppiato». Il piccolo bagliore
dei denti che comparve sotto il suo sorriso quasi me lo fece scoppiare,
rendendo il momento perfetto per aggiungere: «Perché la amo. La amo più
di quello che potrei mai spiegare. Il mio unico paio di orme nella sabbia».
I bellissimi occhi verdi di Poppy si sgranarono alla mia confessione. Si
fecero lucidi immediatamente, e traboccarono delle lacrime che scesero
lungo le sue guance. Cercai di asciugarle con le dita, il cuore che mi batteva
poderosamente nel petto. Ma Poppy mi afferrò la mano, strofinando
dolcemente la sua guancia nel mio palmo. Continuando a tenere lì la mia
mano, lei incontrò il mio sguardo e rispose in un sussurro. «Anche io ti
amo, Rune Kristiansen. Non ho mai, mai smesso». Si alzò sulle punte e mi
portò il viso in basso perché fosse direttamente davanti al suo. «La mia
anima gemella. Il mio cuore…»
La calma si posò su di me. Una tale quiete, mentre Poppy ricadeva tra le
mie braccia, il suo leggero respiro che trapassava la mia maglietta.
La abbracciai. La abbracciai stretta, accogliendo questa nuova
sensazione, finché Poppy non sbadigliò. Le sollevai la testa verso la mia.
«Andiamo a casa, bellissima» dissi.
Poppy annuì, e adagiandosi contro il mio fianco, lasciò che la
riaccompagnassi dove avevamo lasciato le nostre cose, e poi verso l’auto.
Infilai la mano nella tasca della sua borsa, presi le chiavi della macchina e
aprii lo sportello del passeggero.
Le posai entrambe le mani sulla vita e la sollevai sul sedile, sporgendomi
su di lei per allacciarle la cintura di sicurezza. Quando mi ritirai, posai un
leggero bacio sulla testa di Poppy e sentii il suo respiro incespicare al mio
tocco. Feci per raddrizzarmi, quando Poppy strinse la mia mano, e con
grossi lacrimoni sulle guance, sussurrò: «Mi dispiace, Rune. Mi dispiace».
«Per cosa, piccola?» Chiesi con la voce rotta per quanto lei sembrava
triste.
Le spinsi via dal viso i capelli «Per averti tenuto lontano» disse lei.
Sentii una voragine aprirsi nello stomaco. Gli occhi di Poppy cercarono
qualcosa nei miei, prima che il suo viso si deformasse per il dolore. Grosse
lacrime scendevano senza sosta sul suo viso pallido e il suo petto tremava,
mentre si sforzava di calmare il suo respiro all’improvviso irregolare.
«Ehi» dissi, posandole le mani sulle guance.
Poppy mi guardò. «Avrebbe potuto essere così tra noi se non fossi stata
stupida. Avremmo potuto trovare una soluzione per farti ritornare. Avresti
potuto stare con me tutto il tempo. Con me. Stringendomi… amandomi. Tu
ad amare me e io ad amare te così appassionatamente». La sua voce si
ruppe, ma riuscì a concludere. «Sono una ladra. Ho rubato il nostro tempo
prezioso, due anni di te e me, per niente».
Sentii il mio cuore letteralmente lacerarsi mentre Poppy piangeva,
aggrappandosi con forza al mio braccio come se fosse terrorizzata che
potessi andarmene via. Come poteva non aver capito ancora adesso che
nulla poteva strapparmi via da lei?
«Shh» la calmai dolcemente, spostando la testa per poggiarla alla sua.
«Respira, piccola» dissi piano. Posai la mano di Poppy sul mio cuore,
mentre lei allacciava il suo sguardo con il mio. «Respira» ripetei e sorrisi,
quando lei seguì il ritmo del mio cuore per calmarsi.
Le asciugai con le mani le guance bagnate, sentendomi sciogliere
quando lei tirò su con il naso, il suo petto che sobbalzava di tanto in tanto
per i singhiozzi a cui si era lasciata andare. Vedendo che avevo la sua
attenzione, le dissi: «Non accetterò le scuse, perché non c’è niente per cui
scusarsi. Mi hai detto che il passato non conta più. Che sono questi
momenti che sono importanti adesso». Tenni a bada le mie emozioni per
continuare: «La nostra avventura finale. Io che devo darti baci che fanno
scoppiare il cuore per completare il tuo vasetto. E tu… Tu semplicemente
devi essere te stessa. Amandomi. E io, amando te. All’infinito…» La voce
mi morì.
Fissai con intensità e pazienza gli occhi di Poppy, facendo un sorriso
enorme quando lei aggiunse: «Sempre e per sempre».
Chiusi gli occhi, sapendo che mi ero aperto una breccia attraverso il suo
dolore. Poi, quando aprii gli occhi, Poppy ridacchiò con voce roca.
«Eccola qui». Posai un bacio sulla sommità di ciascuna delle sue
guance.
«Eccomi qui» ripeté lei, «così completamente innamorata di te».
Poppy sollevò la testa e mi diede un bacio. Quando si appoggiò sul
sedile, gli occhi le si chiusero, appesantiti dal sonno. La guardai per un
secondo, prima di spostarmi per chiudere lo sportello. Proprio quando si
chiudeva, colsi il sussurro di Poppy. «Bacio quattrocentotrentaquattro, con
il mio Rune alla spiaggia… Quando il suo amore è ritornato a casa».
Vedevo dal finestrino che Poppy era già scivolata nel sonno. Le sue
guance erano rosse per il pianto, ma anche nel sonno, aveva le labbra
curvate all’insù, dando l’impressione che stesse sorridendo.
Non riuscivo a credere che potesse esistere qualcuno di così perfetto.
Girando intorno al cofano dell’auto, tirai fuori le sigarette dalla tasca di
dietro dei miei jeans e feci scattare l’accendino. Inalai il tiro di cui avevo
tanto bisogno. Chiusi gli occhi mentre la dose di nicotina mi calmava.
Quando aprii gli occhi, fissai il tramonto. Il sole stava scomparendo
all’orizzonte, lampi di arancio e rosa nella sua scia. La spiaggia era quasi
vuota a eccezione della vecchia coppia che avevo visto prima.
Solo che questa volta, quando li guardai, così innamorati dopo così tanti
anni, non mi concessi di provare dolore. Guardando indietro verso Poppy
che dormiva nella macchina, io sentii una… Felicità. Io. Mi sentii felice. Mi
concessi di sentirmi felice anche attraverso tutta quella sofferenza. Perché…
Eccomi qui, così completamente innamorata di te…
Mi amava.
Poppymin. La mia ragazza. Mi amava.
«È abbastanza» dissi al vento. «È abbastanza, per adesso».
Gettai la sigaretta per terra, scivolai in silenzio al posto del guidatore e
girai la chiave. Il motore iniziò a ruggire e lasciai la spiaggia, sicuro che ci
saremmo ritornati.
E se così non fosse stato, come diceva Poppy, avevamo avuto questo
momento. Avevamo questo ricordo. Lei aveva il suo bacio.
E io avevo il suo amore.
«New York» dissi senza fiato, leggendo sullo schermo del nostro gate.
Rune fece un sorrisetto. «Avevamo sempre pianificato di andarci. Sarà
solo un soggiorno un po’ più breve di quanto avevamo sempre pensato».
Completamente senza parole, avvolsi tra le braccia la sua vita e gli posai
la testa sul petto.
Zia DeeDee ritornò dopo aver parlato con la signora al desk. «Venite,
voi due» ci disse, indicando con una mano l’entrata dell’aereo. «Salite a
bordo».
Seguimmo DeeDee. Rimasi a bocca aperta quando ci mostrò le due
poltrone davanti della prima classe. La guardai e lei scrollò le spalle. «A
che serve essere la responsabile di cabina della prima classe se non posso
usare questi privilegi per viziare la mia nipote preferita?»
Abbracciai DeeDee. Lei mi strinse un po’ più a lungo del solito. «Forza
adesso» mi disse, mi incitò a sedermi e poi sparì in fretta dietro la tendina
della zona degli assistenti di volo. Restai in piedi, guardandola andare via.
Rune mi prese la mano.
«Starà bene» mi consolò, poi mi indicò il sedile vicino al finestrino. «Per
te» aggiunse. Incapace di fermare delle risatine eccitate che mi risalivano
dalla gola, mi sedetti e guardai fuori dal finestrino le persone che
lavoravano sotto di noi.
Li osservai fino a che tutti i passeggeri non furono saliti a bordo e
l’aereo iniziò a scivolare sulla pista. Sospirai contenta e mi girai verso
Rune, che mi stava guardando. «Grazie» gli dissi, intrecciando le sue dita
con le mie.
«Volevo che vedessi New York». Alzò le spalle. «Volevo vederla con
te».
Rune si chinò per baciarmi. Fermai le sue labbra con le dita. «Baciamoci
a trentanovemila piedi. Baciami nel cielo. Baciami tra le nuvole».
Il respiro di Rune, che sapeva di menta, aleggiò sul mio viso. Poi
silenziosamente si riappoggiò a sedere. Risi quando l’aereo di colpo
acquistò velocità e ci sollevammo in aria.
L’aereo prese quota, e all’improvviso mi ritrovai con le labbra incollate
contro quelle di Rune. Le sue mani mi racchiusero la testa mentre mi
prendeva la bocca con la sua. Col bisogno di aggrapparmi a qualcosa per
rimanere con i piedi per terra, mi attaccai alla sua maglietta. Sospirai contro
la sua bocca, mentre la sua lingua dolcemente duellava con la mia.
Quando ci staccammo, il suo petto si alzava e si abbassava pesantemente
e la pelle era calda, sussurrai: «Bacio ottocentootto. A trentanove mila
piedi. Con il mio Rune… E il mio cuore è quasi scoppiato».
Per la fine del volo, avevo parecchi nuovi baci da aggiungere al mio
vasetto.
«Poppymin?»
La voce dolce di Rune mi risvegliò dal sonno. Battei le palpebre
nell’oscurità della stanza, solo per sentire il delicato dito di Rune che
scorreva sulla mia guancia.
«Ehi, piccola» mi salutò piano, quando mi girai sul fianco per mettermi
di fronte a lui. Allungando il braccio, accesi la lampada. Quando brillò la
luce, mi concentrai su Rune.
Un sorriso tese le mie labbra. Indossava una t-shirt bianca aderente sotto
una giacca elegante marrone, alle gambe i jeans neri attillati, e i familiari
stivali neri ai piedi. Tirai i baveri della sua giacca. «Sei davvero molto
elegante, tesoro».
Le labbra di Rune si atteggiarono a un mezzo sorriso. Si chinò in avanti
e prese gentilmente la mia bocca con la sua. Quando si staccò, notai che i
suoi capelli erano appena lavati e asciugati e, a differenza di qualsiasi altro
giorno, oggi doveva essersi pettinato, perché le ciocche dorate erano come
seta al tocco delle mie dita.
«Come ti senti?» Chiese. Mi stiracchiai, allungando braccia e gambe.
«Un po’ stanca e dolorante per tutto quel camminare, ma sto bene».
Sulla fronte di Rune si formò una ruga di preoccupazione. «Sei sicura?
Non dobbiamo uscire stasera se non te la senti».
Mi scostai un po’ più avanti sul mio cuscino, per fermarmi ad appena un
centimetro dal viso di Rune. «Niente potrebbe farmi rinunciare a stasera»
gli dissi. Feci scorrere la mia mano giù lungo la sua morbida giacca
marrone. «Specialmente con te che ti sei vestito tutto elegante. Non ho idea
di cosa tu abbia pianificato, ma se ti ha fatto rinunciare alla tua giacca di
pelle, deve essere qualcosa di veramente speciale».
«Credo di sì» replicò Rune, dopo una pausa densa di significato.
«Quindi, decisamente sto bene» dissi con sicurezza, consentendo a Rune
di aiutarmi a tirarmi su a sedere, quando questo semplice gesto si rivelò
costarmi uno sforzo troppo grande.
Quando rimasi curva, Rune cercò il mio viso. «Ti amo, Poppymin».
«Anche io ti amo, piccolo» replicai. Quando mi misi in piedi, con l’aiuto
di Rune, non riuscii a evitare di arrossire. Stava diventando più bello ogni
giorno che passava, ma vestito così, mi faceva galoppare il cuore nel petto.
«Come dovrei vestirmi?» Chiesi a Rune. Lui mi portò nel soggiorno
della suite. C’era una signora in attesa al centro della stanza, con tutto
l’occorrente per fare i capelli e il trucco sparso intorno a lei.
Sbalordita, guardai Rune. Lui si spinse nervosamente indietro i capelli
dal viso. «Tua zia ha organizzato tutto». Si strinse nelle spalle. «Così saresti
stata perfetta. Non che tu non lo sia in ogni caso».
La signora mi fece un gesto di saluto e toccò la sedia di fronte a lei,
invitandomi a raggiungerla. Rune sollevò la mia mano alla bocca e la baciò.
«Vai, dobbiamo uscire tra un’ora».
«Cosa mi metto?» Chiesi, senza fiato.
«Abbiamo organizzato anche per quello». Rune mi condusse alla sedia e
io mi sedetti, fermandomi brevemente per presentarmi alla stylist.
Rune si spostò per andarsi a sedere sul divano dall’altra parte della
stanza. Mi riempii di gioia quando lui prese la sua macchina fotografica
dalla borsa sul tavolino. Guardai Rune sollevare la macchina e portarsela
all’occhio mentre Jayne, la stylist, iniziò a lavorare sui miei capelli. E per i
successivi quaranta minuti, lui catturò questi momenti.
Non avrei potuto essere più felice neanche provandoci.
Jayne si chinò, controllando il mio viso, e con una finale pennellata sulle
guance si fece indietro e sorrise. «Ecco fatto, ragazza. Tutto a posto». Si
allontanò e iniziò a impacchettare le sue cose. Quando finì, mi baciò sulla
guancia. «Passa una bella serata, signorina».
«Grazie» replicai e l’accompagnai alla porta.
Quando mi girai, trovai Rune in piedi di fronte a me. Sollevò la mano ai
miei capelli, adesso ricci. «Poppymin», disse con voce rauca. «Sei
bellissima».
Piegai la testa. «Davvero?»
Rune sollevò la sua macchina e premette il bottone. Quando l’abbassò di
nuovo, annuì. «Perfetta».
Rune si piegò a prendermi la mano e mi guidò attraverso la stanza da
letto. Appeso alla porta, c’era un vestito nero a stile impero. Delle scarpe
con tacco basso erano poggiate sulla soffice moquette.
«Rune» sussurrai, facendo scorrere una mano lungo la stoffa delicata. «È
così bello».
Rune sollevò il vestito e lo posò sul letto. «Vestiti, piccola, e poi
dobbiamo andare».
Feci di sì col capo, ancora in preda allo stupore. Rune uscì dalla stanza e
chiuse la porta. In pochi minuti mi ero vestita e avevo indossato ai piedi le
scarpe.
Mi spostai allo specchio del bagno, e un verso stupefatto mi sfuggì dalla
bocca quando vidi la ragazza che mi guardava. I miei capelli erano ricci e
non c’era una ciocca fuori posto. Il mio trucco consisteva in un leggero
smokey, e la cosa migliore era che i miei orecchini dell’infinito brillavano.
Arrivò un colpo dalla porta del bagno. «Entra!» Urlai. Non riuscivo a
staccarmi dalla mia immagine riflessa nello specchio.
Rune si spostò dietro di me, e il mio cuore si sciolse quando vidi la sua
reazione nello specchio… Lo sguardo sbalordito sul suo bel viso.
Posò le mani sulle mie braccia. Mentre si chinava, una mano si alzò a
spostarmi indietro i capelli e lui baciò il punto proprio sotto il mio orecchio.
Mi sentii mancare il fiato al suo tocco, ai suoi occhi, ancora fissi nei miei
nello specchio.
Il mio vestito nero era leggermente scollato sul davanti, mostrava il mio
décolleté e il collo, le spalline ampie si poggiavano al limite delle mie
spalle.
Rune scese a baciarmi lungo il collo, prima di prendermi il mento in una
mano e girare la mia bocca verso la sua. Le sue labbra calde si sciolsero
contro le mie e io sospirai di pura felicità nella sua bocca.
Rune si allungò sul ripiano e sollevò il mio fiocco bianco tra le mani. Lo
fece scivolare nei miei capelli. Rivolgendomi un sorriso timido, disse:
«Adesso sei perfetta. Adesso sei la mia Poppy».
Sentii un balzo allo stomaco per quanto era roca la sua voce, poi mi
andò del tutto sottosopra quando lui mi prese per mano e mi fece uscire
dalla stanza. Un cappottino mi attendeva nell’altra stanza e, come un vero
gentiluomo, Rune lo tenne in alto e me lo adagiò sulle spalle.
Mi fece girare perché fossi di fronte a lui. «Sei pronta?» Mi domandò
Rune.
Annuii e lasciai che mi conducesse all’ascensore e poi fuori dall’hotel.
C’era una limousine ad aspettarci, e con l’autista vestito in modo elegante
che ci aprì lo sportello perché salissimo. Mi voltai verso Rune per
chiedergli come aveva fatto a organizzare tutto, ma prima ancora che
potessi farlo, lui mi rispose: «DeeDee».
L’autista chiuse lo sportello. Stringevo forte le mani di Rune mentre ci
avventuravamo per le strade pullulanti di persone. Vidi Manhattan scorrere
veloce dietro il finestrino, e poi ci fermammo.
Vidi l’edificio prima di lasciare la limousine, e il mio cuore martellava
per l’eccitazione. Girai di scatto la testa verso Rune, ma lui era già uscito.
Apparve al mio sportello, lo aprì per me, e mi tese la mano.
Uscii sulla strada e alzai lo sguardo sull’imponente edificio davanti a
noi. «Rune», sussurrai. «La Carnegie Hall!» Mi portai una mano davanti
alla bocca.
Rune chiuse lo sportello e la limousine ripartì, allontanandosi. Lui mi
attirò vicino a sé. «Vieni con me», disse.
Mentre avanzavamo verso l’ingresso, cercai di leggere tutti i cartelloni
per trovare una qualche indicazione sullo spettacolo. Ma per quanto
cercassi, non riuscii a scoprire chi avrebbe suonato quella sera.
Rune spinse le porte massicce, e un uomo ci accolse all’interno e ci
indicò la direzione in cui proseguire. Rune continuò a guidarmi finché non
attraversammo il foyer, e poi entrammo nell’auditorium principale. Se
prima ero senza fiato, quello era niente rispetto a come mi sentivo in questo
momento, in piedi nella sala che era stata il mio sogno da quando ero una
bambina.
Quando ebbi assorbito lo spettacolo di quel vasto, impressionante
spazio, con le sue balconate dorate, il morbido rivestimento rosso delle
sedie e i tappeti, mi accigliai, rendendomi conto che eravamo
completamente da soli. Non c’era pubblico. Non c’era orchestra.
«Rune?»
Rune dondolava nervosamente sui piedi e indicò il palco.
Seguii la sua mano. Al centro del grande palco c’era solo una sedia, con
un violoncello appoggiato di fianco e il suo archetto posato sopra.
Cercai di dare un senso a quello che stavo vedendo, ma non riuscivo a
comprendere. Questa era la Carnegie Hall. Una delle più famose sale
concerti di tutto il mondo.
Senza una parola, Rune mi condusse lungo il corridoio centrale, verso il
palco, fermandosi davanti a dei gradini amovibili. Mi voltai verso di lui, e
Rune incrociò il mio sguardo. «Poppymin, se le cose fossero state
diverse…» Risucchiò un respiro, ma riuscì a ricomporsi a sufficienza per
continuare. «Se le cose fossero state diverse, avresti suonato qui da
professionista un giorno. Avresti suonato qui come membro di un’orchestra,
l’orchestra di cui avevi sempre sognato di far parte». La mano di Rune
strizzò forte la mia. «Avresti suonato l’assolo in cui hai sempre voluto
esibirti su questo palco».
Una lacrima si riversò da un occhio di Rune. «Ma visto che questo non
potrà succedere, perché la vita è così dannatamente ingiusta… Voglio lo
stesso che tu abbia questo. Perché tu sappia cosa si prova a vivere quel
sogno. Voglio che tu abbia la tua occasione sotto i riflettori. Riflettori che,
secondo me, meriti non solo come persona che amo di più in tutto il mondo,
ma come la miglior violoncellista. La musicista più dotata».
La comprensione mi investì. L’enormità di quello che aveva fatto per me
iniziò a farsi strada dentro, scivolando lentamente fino a posarsi sul mio
cuore esposto. Sentendo i miei occhi riempirsi di lacrime, mi avvicinai di
un passo a Rune, allargando le mani sul suo petto. Battei le palpebre,
guardando in su verso di lui, cercando di liberarmi delle lacrime. Incapace
di frenare le mie emozioni, provai a chiedere: «Tu hai… Come hai… Fatto
questo…?»
Rune mi spinse in avanti e mi guidò su per gli scalini fino a che non fui
in piedi sul palco che era stato la più grande ambizione della mia vita. Rune
strizzò nuovamente la mia mano, invece di usare le parole.
«Stasera il palco è tuo, Poppymin. Mi dispiace che sarò l’unico ad
assistere alla tua performance, ma volevo solo che questo tuo sogno si
realizzasse. Volevo che suonassi in questa sala. Volevo che la tua musica
riempisse questo auditorium. Volevo che la tua eredità rimanesse impressa
in queste pareti».
Avvicinandosi ancora di un passo, Rune mi posò le mani sulle guance e
mi asciugò via le lacrime con i pollici.
Premendo la sua fronte contro la mia, sussurrò: «Tu meriti questo,
Poppy. Avresti dovuto avere più tempo per vedere questo sogno realizzarsi,
ma… Ma…»
Strinsi le mani intorno ai polsi di Rune mentre lui faticava a finire. I
miei occhi si serrarono con forza, spingendo fuori le ultime lacrime dai miei
occhi. «No» lo placai, e sollevai il polso di Rune per baciare il punto dove il
suo battito correva veloce. Posandolo sul mio petto, aggiunsi: «Va tutto
bene, piccolo». Inspirai, e sulle mie labbra si allargò un sorriso tremolante.
L’odore del legno mi riempiva le narici. Se chiudevo gli occhi abbastanza
stretti, mi sembrava di poter sentire gli echi di tutti i musicisti che avevano
calcato questo palco di legno, i maestri della musica che avevano onorato
questa sala con la loro passione e il loro genio.
«Adesso siamo qui» terminai e mi allontanai di un passo da Rune. Aprii
gli occhi, e sbattei le palpebre alla vista dell’auditorium dalla mia posizione
sopraelevata. Lo immaginai pieno di spettatori, tutti vestiti per un concerto.
Donne e uomini che amavano sentire la musica nei loro cuori. Sorrisi,
immaginandomi la scena così vivida nella mia mente.
Quando mi girai di nuovo verso il ragazzo che aveva creato questo
momento per me, ero senza parole. Non avevo parole per esprimere al
meglio che cosa questo gesto avesse fatto alla mia anima. Il regalo che
Rune mi aveva donato così puramente e dolcemente… Il mio più grande
sogno divenuto realtà.
Quindi non parlai. Non potevo.
Invece, lasciai il suo polso e camminai verso la sedia solitaria che mi
attendeva. Feci scorrere la mia mano sulla pelle nera, sentendone la
consistenza sotto la punta delle dita. Mi avvicinai al violoncello, lo
strumento che avevo sempre percepito come un’estensione del mio corpo.
Uno strumento che riusciva a riempirmi di una tale gioia che nessuno può
descrivere finché non l’ha provata davvero. Una gioia che investiva ogni
cosa e portava con sé una forma suprema di pace, di tranquillità, di serenità;
un amore delicato come nessun altro.
Sbottonandomi il cappotto, lo feci scivolare dalle braccia, solo perché
due mani familiari lo sollevassero e poi mi sfiorassero con gentilezza la
pelle. Lanciai uno sguardo indietro a Rune, che in silenzio posò un bacio
sulla mia spalla nuda per poi abbandonare il palco.
Non vidi dove andò a sedersi dato che, non appena lasciò il palco, un
riflettore che dall’alto puntava direttamente alla sedia, passò da luce soffusa
a una potente e brillante. Le luci della sala si abbassarono. Fissai la sedia
illuminata così intensamente con un inebriante misto di ansia ed
eccitazione.
Mossi un piede in avanti, i miei tacchi creavano un’eco che rimbalzava
tra le pareti. Il suono mi scosse fino alle ossa, innescando fiamme nei miei
deboli muscoli, ridonandogli la vita.
Chinandomi, sollevai il violoncello e ne sentii il manico nella mia presa.
Presi l’archetto nella mano destra, il legno sottile che combaciava
perfettamente con le mie dita.
Mi abbassai sulla sedia, picchiettai il violoncello per portare il puntale
all’altezza perfetta per me. Raddrizzai il violoncello, il più bello che avessi
mai visto, chiusi gli occhi e portai le mani alle corde, pizzicandole a una a
una per controllare che fossero accordate.
Naturalmente erano accordate alla perfezione.
Mi spinsi sul bordo della sedia, piantando bene i piedi sul pavimento di
legno fino a che non mi sentii pronta e carica.
Poi mi concessi di alzare lo sguardo. Sollevai il mento verso il riflettore
come se fosse il sole. Feci un profondo respiro, chiusi gli occhi, poi posai
l’archetto sulla corda.
E suonai.
Le prime note del Preludio di Bach scorrevano dall’archetto alle corde e
fuori, verso la sala, correndo per riempire tutto il grande spazio di suoni
paradisiaci. Ondeggiai quando la musica mi prese nel suo abbraccio,
riversandosi da dentro di me, svelando la mia anima per chiunque volesse
ascoltarla.
E nella mia mente, la sala era pienissima. Ogni poltrona occupata da
appassionati che mi sentivano suonare. Sentivano la musica che esigeva di
essere ascoltata. Suonare tali melodie fino a che non un occhio asciutto
potesse essere trovato in tutta la sala. Trasudare una tale passione che tutti i
cuori se ne sarebbero sentiti colmi e gli spiriti commossi.
Sorrisi sotto il calore della luce, che stava riscaldando i miei muscoli e
scacciando via il loro dolore. Il pezzo arrivò alla sua conclusione. Poi
attaccai con uno nuovo. Suonai e suonai finché non fu passato così tanto
tempo da sentire le dita che iniziavano a farmi male.
Sollevai l’archetto, un silenzio irreale ora avvolgeva la sala. Mi lasciai
sfuggire una lacrima pensando a che pezzo avrei eseguito dopo. A quello
che sapevo che avrei suonato dopo. A quello che dovevo suonare dopo.
Il pezzo musicale che avevo sognato di eseguire su questo palco
prestigioso. Il pezzo che parlava alla mia anima come nessun altro. Quel
pezzo che avrebbe lasciato la sua presenza qui a lungo, dopo che me ne
fossi andata. Quello che avrei suonato per dare l’addio alla mia passione.
Dopo aver sentito la sua eco perfetta in questa magnifica sala, non avrei
potuto, non avrei suonato mai più. Non ci sarebbe stato più il violoncello
per me.
Doveva essere qui che avrei lasciato questa parte del mio cuore. Sarebbe
stato qui che avrei detto addio alla passione che mi aveva mantenuta forte,
che era stata la mia salvezza nei momenti in cui mi sentivo persa e sola.
Doveva essere qui che le note sarebbero state lasciate a danzare in aria
per l’eternità.
Sentii un tremore nelle mani e feci una pausa prima di incominciare.
Sentii le lacrime che scorrevano copiose e veloci, ma non erano di tristezza.
Erano per due care amiche – la musica e la vita che l’aveva creata – che
dicevano l’una all’altra che avrebbero dovuto separarsi, ma che un giorno,
un giorno, sarebbero state insieme di nuovo.
Mi unii a loro due, posai l’archetto sulla corda e lasciai che “Il Cigno”
dal Carnevale degli Animali cominciasse. Adesso che le mie mani erano
ferme, iniziai a creare la musica che adoravo così tanto e sentii un nodo
chiudermi la gola. Ogni nota era una preghiera sussurrata, e ogni crescendo
era un inno cantato a piena voce, a Dio che mi aveva dato questo dono. Mi
aveva dato il dono di suonare la musica, di sentirla nella mia anima.
E queste note erano il mio ringraziamento pieno di riconoscenza a quello
strumento, per avermi permesso di suonarlo nella sua gloria, con tale grazia.
Che mi permetteva di amarlo così tanto che era diventato parte di me, la
vera essenza del mio essere.
E infine, le delicate battute che fluivano così dolcemente nella sala
manifestavano la mia eterna gratitudine al ragazzo che sedeva in silenzio
nell’oscurità. Il ragazzo con un dono per la fotografia come il mio per la
musica. Lui era il mio cuore. Il cuore che mi era stato donato liberamente
da bambina. Il cuore che costituiva la metà del mio stesso cuore. Il ragazzo
che, nonostante fosse distrutto dentro, mi amava così profondamente da
regalarmi questo addio. Mi aveva dato, nel presente, un sogno che il mio
futuro non avrebbe mai potuto darmi.
La mia anima gemella che catturava momenti.
La mia mano tremò quando risuonò la nota finale, le mie lacrime che si
infrangevano sul legno. Tenni la mano in aria, la fine del pezzo sospesa fino
a che l’ultima eco del sussurro della nota finale risalì al cielo, per prendere
il suo posto insieme alle stelle.
Mi fermai, lasciando che l’addio facesse presa in me.
Poi, più in silenzio possibile, mi alzai. E sorridendo, immaginai il
pubblico e il suo applauso. Mi inchinai con la testa e abbassai il violoncello
sul pavimento del palco, poggiando l’archetto in cima, proprio come
l’avevo trovato.
Inclinai la testa indietro verso il fascio di luce che arrivava dall’alto
un’ultima volta, poi mi spostai nell’ombra. I tacchi creavano un sordo
sottofondo di tamburi mentre lasciavo il palco. Quando arrivai all’ultimo
scalino, si riaccesero le luci della sala, scacciando via i residui del sogno.
Presi un profondo respiro mentre facevo correre lo sguardo lungo le
poltrone rosse vuote, poi lanciai uno sguardo indietro, al violoncello ancora
posizionato sul palco esattamente come prima, in paziente attesa del
prossimo giovane musicista che sarebbe stato benedetto dalla sua grazia.
Era finita.
Rune lentamente si alzò in piedi. Il mio stomaco ebbe un balzo quando
vidi le sue guance arrossate per l’emozione. Ma il mio cuore saltò un battito
di cui avevo tanto bisogno quando vidi l’espressione sul suo bellissimo
viso. Mi aveva capita. Aveva capito la mia verità.
Aveva capito che era l’ultima volta che avrei suonato. E riuscivo a
vedere, con chiarezza cristallina, il misto di sofferenza e orgoglio che
albergava nei suoi occhi.
Quando mi raggiunse, Rune non toccò le lacrime che macchiavano le
mie guance, come io non toccai le sue. Con gli occhi chiusi, Rune prese la
mia bocca in un bacio. E in questo bacio io sentii il traboccare del suo
amore. Sentii un amore che, a diciassette anni, era un dono per me poter
ricevere.
Un amore che non conosceva confini.
Quel tipo di amore che ispirava musica che perdurava nei secoli.
Un amore che dovrebbe essere provato, inteso e conservato come un
tesoro.
Quando Rune si tirò indietro per fissarmi negli occhi, seppi che questo
bacio sarebbe stato scritto su un cuore di carta rosa con più devozione di
qualunque altro che era venuto prima.
Bacio ottocentodiciannove, il bacio che aveva cambiato tutto. Il bacio
che aveva provato che un tenebroso ragazzo norvegese dai capelli lunghi e
una stravagante ragazza del profondo sud potevano trovare un amore che
rivaleggiava con i più grandi.
Dimostrava che l’amore era semplicemente la tenacia nel far sì che
l’altra metà del cuore sapesse che lui, o lei, erano adorati in ogni modo. In
ogni minuto di ogni giorno. L’amore che era tenerezza nella sua forma più
pura.
Rune inspirò profondamente, poi sussurrò: «Non ho parole in questo
momento… In nessuna delle mie lingue».
In risposta, gli offrii un debole sorriso. Perché neanche io ne avevo.
Questo silenzio era perfezione. Era di gran lunga meglio delle parole.
Prendendo la mano di Rune, lo guidai lungo il corridoio e fuori dal
foyer. Il freddo vento di New York a febbraio fu un sollievo benvenuto
dopo il calore dell’interno dell’edifico. La nostra limousine ci attendeva
accanto al marciapiede, Rune doveva aver chiamato l’autista.
Ci infilammo sul sedile posteriore. L’autista partì nel traffico e Rune mi
attirò contro il suo fianco. Io mi ci adagiai con piacere, respirando il fresco
profumo di lui sulla sua giacca. Ad ogni curva, le pulsazioni del mio cuore
aumentavano. Quando arrivammo all’hotel, presi la mano di Rune e mi
diressi dentro.
Durante il tragitto fino a qui non avevamo pronunciato neanche una
parola, non un solo suono mentre l’ascensore raggiungeva l’ultimo piano. Il
suono della carta che apriva la chiusura elettronica rimbombò come un
tuono nel corridoio silenzioso. Aprii la porta, i miei passi risuonavano sul
pavimento di legno, e attraversai il soggiorno. Senza fermarmi, proseguii
fino alla soglia della stanza da letto, lanciandomi solo uno sguardo indietro
per essere certa che Rune mi stesse seguendo. Era in piedi sulla porta, a
guardarmi mentre mi allontanavo. I nostri sguardi si scontrarono, e
sentendo il bisogno di lui più dell’aria, sollevai lentamente la mano.
Lo volevo.
Avevo bisogno di lui.
Dovevo amarlo.
Vidi Rune trarre un profondo respiro, poi fare un passo verso di me.
Avanzò con cautela fino al punto in cui io lo stavo aspettando. Fece
scivolare la sua mano nella mia, il suo tocco mandò vampate di amore e di
luce in tutto il mio corpo.
Gli occhi di Rune erano scuri, quasi neri, le sue pupille dilatate
cancellavano il blu. Il suo bisogno era potente quanto il mio, il suo amore
era stato dimostrato e la sua fiducia, totale.
Una calma rifluì come un fiume. La accolsi, portai Rune in camera da
letto e chiusi la porta. L’atmosfera intorno a noi si fece densa.
Lo sguardo intenso di Rune soppesava, osservava ogni mio movimento.
Sapendo di avere la sua incondizionata attenzione, gli liberai la mano e
mi feci indietro. Sollevando le mie dita tremanti, iniziai a slacciare i grandi
bottoni del mio cappotto, i nostri sguardi incatenati non vacillarono mentre
il cappotto si apriva e lo lasciavo cadere lentamente sul pavimento.
Mentre mi guardava, la mascella di Rune si indurì, le dita si aprivano e
chiudevano lungo i fianchi.
Mi liberai delle scarpe, i miei piedi nudi affondarono nel morbido
tappeto. Presi un respiro per farmi forza, attraversai il tappeto fino a dov’era
Rune, in attesa. Quando mi fermai di fronte a lui, sollevai gli occhi, le
palpebre pesanti per il furioso assalto di sentimenti dentro di me.
L’ampio petto di Rune si alzava e si abbassava, la t-shirt bianca attillata
sotto la giacca metteva in risalto il suo petto muscoloso. Sentii le mie
guance ricoprirsi di rossore, e delicatamente poggiai i palmi sopra il suo
petto. Rune si immobilizzò quando le mie mani calde lo sfiorarono. Poi,
mantenendo gli occhi allacciati ai suoi, feci scivolare le mie mani su, sulle
sue spalle, liberandolo dalla giacca. Quella cadde sul pavimento, ai suoi
piedi.
Inspirai tre volte, combattendo per controllare il nervosismo che
all’improvviso aveva preso ad attraversarmi. Rune non si mosse. Rimaneva
completamente fermo, lasciandomi esplorare; feci scorrere la mia mano giù,
lungo la sua pancia, verso il suo braccio, e presi la sua mano con la mia.
Portai le nostre mani intrecciate alla bocca, e in un gesto così familiare per
entrambi, baciai le nostre dita allacciate.
«È così che dovrebbero sempre stare» sussurrai, guardando le nostre dita
avviluppate.
Rune deglutì e annuì, in un silenzioso assenso.
Feci un passo indietro, poi ancora un altro. Ci dirigemmo verso il letto.
La trapunta era già scostata, piegata giù dalla cameriera dell’albergo. E
quanto più mi avvicinavo a quel letto, tanto più il mio nervosismo si
calmava e una pace si impadroniva di me.
Perché questo era giusto.
Niente, nessuno, poteva dirmi che era sbagliato.
Fermandomi davanti al bordo del letto, sciolsi le nostre mani. Sospinta
dal desiderio, strinsi il bordo della maglietta di Rune e piano lo feci
scivolare sopra la sua testa. Venendomi in aiuto, Rune gettò la t-shirt sul
pavimento, e rimase in piedi a torso nudo.
Rune dormiva così ogni notte, ma c’era qualcosa nella carica statica
dell’atmosfera tra noi e nel modo in cui mi aveva fatta sentire con la
sorpresa di stasera.
Era diverso.
Era toccante.
Era noi.
Sollevando le mani, spinsi i palmi sulla sua pelle e feci scorrere la punta
delle dita sulle creste e le vallate dei suoi addominali. Sulla pelle di Rune
affioravano brividi al mio passaggio, il suo respiro affannato sibilava
attraverso le sue labbra appena dischiuse. E le mie dita esplorarono il suo
ampio petto, mi chinai in avanti e premetti le mie labbra sul suo cuore.
Sfarfallava come le ali di un colibrì.
«Sei perfetto, Rune Kristiansen» sussurrai.
Le dita di Rune si sollevarono per intrecciarsi nei miei capelli. Guidò la
mia testa verso l’alto. Tenni gli occhi bassi fino all’ultimo secondo, quando
finalmente li sollevai e incontrai lo sguardo dei suoi occhi blu come
cristalli. Quegli occhi luccicavano.
Rune schiuse le labbra carnose e sussurrò: «Jeg elsker deg».
Mi amava.
Annuii per dimostrargli che avevo sentito. Ma la voce mi era stata
sottratta dal quel momento. Dalla preziosità del suo tocco. Mi feci indietro,
e gli occhi di Rune seguirono ogni movimento. Volevo che lo facessero.
Sollevando la mano alla spallina del mio abito, cercai di mantenere i
nervi saldi e la feci scivolare lungo il braccio. Il respiro di Rune iniziò a
farsi interrotto mentre mi liberavo dell’altra spallina, e il vestito di seta si
raccolse ai miei piedi. Abbandonai le braccia lungo i fianchi, gran parte del
mio corpo rivelato per il ragazzo che amavo al di sopra di ogni cosa al
mondo.
Ero nuda, e mostravo le cicatrici che mi ero procurata nell’arco di due
anni. Mostravo tutta me stessa, la ragazza che aveva sempre conosciuto, e le
cicatrici di battaglia della mia lotta incessante.
Lo sguardo di Rune scese, per scorrere su di me. Ma non c’era ombra di
disgusto nei suoi occhi. Vedevo solo la purezza del suo amore che
risplendeva in essi. Vedevo solo desiderio e bisogno, e più di ogni cosa… Il
suo cuore interamente a nudo.
Solo per i miei occhi.
Come sempre.
Rune si fece sempre più vicino, fino a che il suo caldo petto non fu
premuto contro il mio. Con un tocco leggero come una piuma, mi spostò i
capelli dietro l’orecchio, e poi fece scorrere la punta delle sue dita giù,
lungo il mio collo nudo e sul mio fianco.
Le mie palpebre sbattevano per la sensazione. Brividi mi correvano
lungo la schiena. L’aroma di menta del respiro di Rune mi riempiva il naso,
mentre lui si chinava per trascinare le sue labbra morbide lungo il mio
collo, ricoprendo la mia pelle scoperta di baci delicati.
Mi aggrappai alle sue spalle forti, per tenermi ancorata al suolo.
«Poppymin», Rune sussurrò con voce roca mentre la sua bocca lambiva il
mio orecchio.
Inspirando profondamente, sussurrai: «Fai l’amore con me, Rune».
Rune restò immobile per un momento poi, spostandosi fino a che il suo
viso non fu sospeso di fronte al mio, catturò brevemente i miei occhi prima
di adagiare le labbra sulle mie. Questo bacio era dolce quanto questa notte,
delicato quanto il suo tocco. Questo bacio era diverso, era la promessa di
quello che ci aspettava dopo, il giuramento di Rune di essere delicato… Il
suo giuramento di amarmi proprio come io amavo lui.
Le forti mani di Rune si posarono sulla mia nuca mentre la sua bocca si
muoveva lentamente contro la mia. Poi, quando fui rimasta senza fiato, le
sue mani caddero sulla mia vita e delicatamente mi sollevò per mettermi sul
letto.
La mia schiena colpì il soffice materasso e, dal centro del letto, osservai
Rune liberarsi dei vestiti che gli rimanevano, senza mai staccare gli occhi
dai miei mentre si arrampicava sul letto per stendersi accanto a me.
L’intensità dell’espressione sul bellissimo viso di Rune mi fece
sciogliere, fece rimbombare il mio cuore al ritmo di uno staccato.
Voltandomi sul fianco per trovarmi di fronte a lui, feci scorrere le mie dita
lungo la sua guancia. «Anche io ti amo» sussurrai.
Gli occhi di Rune si chiusero come se avesse avuto bisogno di sentire
quelle parole più del suo prossimo respiro.
Si spostò sopra di me, la sua bocca che prese la mia. Le mani
scivolavano lungo la sua schiena muscolosa e su, tra i suoi lunghi capelli.
Quelle di Rune corsero lungo i lati del mio corpo, e poi mi liberarono del
resto dei vestiti che mi erano rimasti, che finirono sul pavimento insieme
agli altri.
Ero senza fiato, mentre Rune torreggiava sopra di me. Senza fiato
quando incrociò i miei occhi, e chiese: «Sei sicura, Poppymin?»
Incapace di trattenere il sorriso, replicai: «Più di quanto lo sia stata di
ogni altra cosa nella vita».
I miei occhi si chiusero in un battito di ciglia mentre Rune mi baciava di
nuovo, le sue mani che esploravano il mio corpo, tutte quelle parti un tempo
familiari. E io feci lo stesso. Ad ogni tocco e ad ogni bacio, il mio
nervosismo si scioglieva, finché non fummo Poppy e Rune, noi, senza un
inizio né una fine.
L’aria diventava calda e pesante quanto più ci baciavamo ed
esploravamo, fino a che alla fine, Rune scivolò sopra di me. Senza
interrompere il contatto tra i nostri occhi una sola volta, mi fece di nuovo
sua.
Il mio corpo si riempì di vita e di luce mentre lui ci rendeva una cosa
sola. Il mio cuore era pieno di così tanto amore che avevo paura non potesse
contenere tutta la felicità che lo stava inondando.
Lo strinsi a me mentre tornavamo giù sulla terra, con forza tra le mie
braccia. La testa di Rune si appoggiò nella piega del mio collo, la sua pelle
era lucida e calda.
Tenni gli occhi chiusi, non volevo separarmi da questo momento. Questo
momento perfetto. Alla fine, Rune sollevò la testa. Vedendo l’espressione
vulnerabile sul suo viso, lo baciai delicatamente. Così delicatamente come
lui mi aveva presa. Così delicatamente come lui teneva in mano il mio
fragile cuore.
Le sue braccia salirono a racchiudere la mia testa, tenendomi al sicuro.
Quando mi staccai dal nostro bacio, vidi il suo sguardo amorevole e
sussurrai: «Bacio ottocentoventi. Con il mio Rune, nel giorno più
incredibile della mia vita. Dopo aver fatto l’amore… E il mio cuore è quasi
scoppiato».
Il respiro di Rune si incastrò nella sua gola. Con un ultimo breve bacio,
si spostò accanto a me e mi avvolse tra le sue braccia.
Chiusi gli occhi e scivolai in un sonno leggero. Così leggero che sentii
Rune baciarmi sulla testa e poi alzarsi dal letto. Quando la porta della
camera da letto si chiuse, aprii gli occhi nell’oscurità e colsi il rumore della
porta della terrazza che si apriva. Spingendo via la trapunta, indossai
l’accappatoio che era appeso dietro la porta e le ciabattine ordinatamente
posate sul pavimento. Mentre attraversavo la stanza sorrisi, sentendo ancora
il profumo di Rune sulla mia pelle.
Entrai nel soggiorno, diretta verso la porta che dava sul giardino, ma
immediatamente mi bloccai sui miei passi. Perché, attraverso l’ampia
finestra, potevo vedere Rune sul pavimento, seduto sulle ginocchia. Cadere
a pezzi.
Mi sentii come se il mio cuore si strappasse fisicamente in due mentre lo
guardavo, fuori nell’aria fredda della notte, vestito solo dei suoi jeans. Le
lacrime si riversavano a fiotti dai suoi occhi e la sua schiena tremava per il
dolore che gli squassava il corpo.
Mentre lo fissavo, le lacrime mi annebbiarono la vista. Il mio Rune. Così
distrutto e solo, mentre sedeva nella neve che cadeva leggera.
«Rune. Piccolo» sussurrai tra me, mentre obbligavo i miei piedi ad
arrivare alla porta, mentre obbligavo la mia mano a girare la maniglia,
ordinavo al mio cuore di prepararsi alla sofferenza che provocava questa
scena.
Il sottile strato di neve fresca crepitò sotto i miei passi. Rune non sembrò
sentirlo. Ma io sentivo lui. Sentivo il suo respiro fuori controllo. Ma ancora
peggio, sentivo i suoi singhiozzi strazianti. Sentivo il dolore sopraffarlo. Lo
vedevo nel modo in cui lui vacillava in avanti, i palmi piantati sul
pavimento sotto di sé.
Senza riuscire a trattenere i miei singhiozzi, mi slanciai in avanti e lo
avvolsi tra le braccia. La sua pelle nuda era gelata sotto il mio tocco. Senza
accorgersi del freddo, a quanto pareva, Rune collassò nel mio grembo, il
suo imponente busto slanciato che cercava disperatamente il conforto delle
mie braccia.
E crollò.
Rune crollò completamente in pezzi: fiumi di lacrime scorrevano,
inondando le sue guance, ruvidi respiri aleggiavano in bianche nuvolette di
fumo quando sferzavano l’aria gelida.
Lo cullavo avanti e indietro, tenendolo stretto, vicino a me. «Shh» lo
calmai, cercando in ogni modo di respirare e vincere il mio stesso dolore. Il
dolore di vedere il ragazzo che amavo cadere a pezzi. Il dolore di sapere che
presto me ne sarei dovuta andare, eppure volevo resistere con tutto il mio
cuore alla chiamata di casa.
Mi ero fatta una ragione della mia vita che si stava spegnendo. Adesso
volevo lottare per rimanere con Rune, per Rune, pur sapendo che era
inutile.
Non potevo controllare il mio destino.
«Rune» sussurrai, le mie lacrime che si perdevano nelle lunghe ciocche
dei suoi capelli sul mio grembo.
Rune sollevò gli occhi, la sua espressione devastata e chiese con voce
rotta: «Perché? Perché ti devo perdere?» Scosse la testa, il suo volto che si
contorceva di dolore. «Perché io non posso, Poppymin. Non posso vederti
andare via. Non posso sopportare il pensiero di non poterti avere più così
per il resto delle nostre vite». Soffocò per un singhiozzo, ma riuscì a
continuare. «Come può spezzarsi un amore come il nostro? Come puoi
venirmi portata via così giovane?»
«Non lo so, piccolo» sussurrai, spostando lo sguardo da un’altra parte,
nel tentativo di contenermi. Le luci di New York brillavano davanti alla mia
vista. Scacciai via il dolore che mi portava il fatto che lui ponesse queste
domande.
«È così e basta, Rune» risposi tristemente. «Ma non c’è una ragione per
cui è capitato a me. Perché non a me? Nessuno si merita questo, ma io devo
lo stesso …» Mi morì la voce, ma riuscii ad aggiungere: «Devo avere
fiducia che ci sia una ragione superiore o mi frantumerei per il dolore di
dovermi lasciare indietro tutto ciò che amo». Risucchiai un respiro. «Per il
dolore di lasciare te, specialmente dopo oggi. Specialmente dopo aver fatto
l’amore con te stanotte».
Rune fissò i miei occhi pieni di lacrime. Cercando di ritrovare un po’ di
compostezza, si rimise in piedi e mi sollevò tra le sue braccia. Ne ero lieta,
perché mi sentivo troppo debole per muovermi. Non ero sicura che sarei
riuscita ad alzarmi dal pavimento umido e freddo, se ci avessi provato.
Allacciando le mie braccia al collo di Rune, poggiai la testa sul suo petto
e chiusi gli occhi mentre mi portava in braccio dentro e di nuovo in camera
da letto.
Spingendo indietro la trapunta, mi sistemò sotto di essa, per poi seguirmi
e avvolgere le braccia intorno alla mia vita mentre stavamo uno di fronte
all’altra, sul mio cuscino.
Gli occhi di Rune erano rossi, i suoi lunghi capelli umidi per la neve e la
pelle chiazzata dalla profondità della sua tristezza. Sollevando una mano, la
feci scorrere lungo il suo viso. La sua pelle era gelata.
Rune voltò il viso contro il mio palmo. «Su quel palco stasera, sapevo
che stavi dicendo addio. E io…» La sua voce si bloccò, ma lui si schiarì e
finì. «Ha reso tutto troppo reale». I suoi occhi luccicarono di nuove lacrime.
«Mi ha fatto prendere coscienza che stava veramente accadendo». Rune
strinse la mia mano e se la portò al suo petto. La strizzò fortissimo. «E io
non riesco a respirare. Non riesco a respirare quando provo a immaginare di
vivere senza di te. Ci ho provato una volta, e non è andata bene. Ma…
Almeno tu eri viva, lì fuori, da qualche parte. Presto… Presto…» Le sue
parole morirono quando cominciarono a cadere le lacrime. Girò la testa per
evitare il mio sguardo.
Catturai la sua guancia che si ritirava via da me. Rune sbatté le palpebre.
«Sei spaventata, Poppymin? Perché io sono terrorizzato. Sono terrorizzato
di come diavolo sarà la mia vita senza di te».
Mi fermai.
Pensai seriamente alla sua domanda. E mi permisi di sentire la verità. Mi
permisi essere onesta. «Rune, non ho paura di morire». Chinai la testa, e il
dolore che non mi aveva mai invasa prima, improvvisamente riempì ogni
mia cellula. Lasciai ricadere la testa contro la sua e sussurrai: «Ma da
quando sei tornato, da quando il mio cuore ha ritrovato il suo ritmo, tu, sto
provando tutto il genere di sensazioni che non avevo mai sentito prima.
Prego di avere più tempo, solo per poter vivere più giorni tra le tue braccia.
Prego che i minuti durino di più solo perchè tu possa regalarmi più baci».
Presi un respiro di cui avevo tanto bisogno. «Ma la cosa peggiore è che
sto iniziando a provare paura» aggiunsi.
Rune si fece appena più vicino, il suo braccio mi si strinse di più intorno
alla vita. Sollevai la mia mano tremante al suo viso. «Provo paura a doverti
lasciare. Non sono spaventata della morte, Rune. Ma sono terrorizzata di
andare in un qualsiasi posto nuovo senza di te». Gli occhi di Rune si
serrarono e sibilò come se sentisse dolore.
«Io non mi conosco senza di te» dissi piano. «Anche quando tu eri a
Oslo, immaginavo il tuo viso, ricordavo la sensazione della tua mano che
teneva la mia. Ascoltavo le tue canzoni preferite e leggevo i baci del mio
vasetto. Proprio come mi aveva detto di fare mia nonna. Chiudevo gli occhi,
e sentivo le tue labbra sulle mie». Mi concessi di sorridere. «Ricordavo la
notte in cui avevamo fatto l’amore per la prima volta e la sensazione nel
mio cuore in quel momento, appagato… In pace».
Tirai su col naso e asciugai velocemente le mie guance umide. «Anche
se tu non eri con me, lo eri nel mio cuore. E questo era abbastanza per
sostenermi, anche se non ero felice». Baciai la bocca di Rune, solo per
assaporarne l’aroma. «Ma adesso, dopo questo tempo di nuovo insieme
sono piena di paura. Perché chi siamo noi, uno senza l’altra?»
«Poppy» mi chiamò Rune con voce arrochita.
Le mie lacrime cominciarono a cadere con trasporto sfrenato. «Ti ho
fatto del male ad amarti così tanto. E adesso devo andare incontro a
un’avventura senza di te. E non posso sopportare quanto questo ti faccia
soffrire. Non posso lasciarti così solo e addolorato».
Rune mi attirò al suo petto.
Io piansi. Lui pianse.
Condividemmo le nostre paure di perdita e d’amore. Le mie dita erano
posate sulla sua schiena e traevo conforto dal suo calore.
Quando le nostre lacrime si furono placate, Rune mi spinse indietro
dolcemente e cercò il mio viso. «Poppy» disse, con voce incrinata. «Com’è
il paradiso, secondo te?»
Mi accorsi, dal suo viso, che voleva saperlo disperatamente.
Recuperando un po’ di calma, affermai: «Un sogno».
«Un sogno» fece eco Rune, e vidi il suo labbro incurvarsi in un angolo.
«Ho letto una volta che quando sogni ogni notte, è in realtà una visita a
casa. Casa, Rune. Il paradiso». Iniziai a sentire il conforto che quella
visione mi portava, partire dalla punta dei piedi. Iniziò a viaggiare per tutto
il mio corpo. «Il mio paradiso sarà me e te nel frutteto. Come sempre. Per
sempre a diciassette anni».
Presi tra le dita una ciocca dei capelli di Rune, studiandone il colore
dorato. «Hai mai fatto un sogno talmente vivido che quando ti svegliavi
credevi che fosse reale? Ti sentivi come se fosse reale?»
«Ja» rispose Rune, silenziosamente.
«È perché lo era, Rune, in un certo senso. Così di notte, quando
chiuderai gli occhi, io sarò lì a incontrarti nel nostro frutteto».
Avvicinandomi ancora, aggiunsi: «E quando arriverà il momento anche
per te di tornare a casa, ci sarò io ad accoglierti. E non ci saranno
preoccupazione, né paura, né dolore. Solo amore». Sospirai felicemente.
«Immaginatelo, Rune. Un posto dove non c’è dolore o sofferenza». Chiusi
gli occhi e sorrisi. «Quando ci penso in questo modo, non ho più così
paura».
Le labbra di Rune si strofinarono contro le mie. «Sembra perfetto» disse,
il suo accento marcato, la voce rauca. «Voglio che tu abbia questo,
Poppymin».
Aprii gli occhi in un battito di ciglia e vidi la verità e l’accettazione sul
bel viso di Rune.
«Sarà così, Rune» dissi, con certezza incrollabile. «Noi non finiremo.
Non finiremo mai».
Rune mi fece rotolare fino a che non fui distesa sul suo petto. Chiusi gli
occhi, cullata dal ritmo ipnotico dei profondi respiri di Rune. Proprio
mentre stavo per cedere al sonno, Rune mi chiamò. «Poppymin?»
«Sì?»
«Cosa vuoi fare del tempo che ti resta?»
Pensai alla sua domanda, ma solo poche cose mi vennero in mente.
«Voglio vedere per un’ultima volta il frutteto di ciliegi in fiore». Sorrisi
contro il petto di Rune. «Voglio danzare al ballo di fine anno con te»,
inclinai la testa in alto e lo trovai che mi stava sorridendo, «tu in smoking e
con i capelli pettinati e via dal tuo viso». Rune scosse la testa divertito.
Sospirai per la felicità piena di pace che ora avevamo trovato. «Voglio
vedere un’ultima alba perfetta» dissi. Mi misi seduta, incrociai gli occhi di
Rune e conclusi. «Ma più di ogni altra cosa, voglio ritornare a casa con il
tuo bacio sulle mie labbra. Voglio passare a nuova vita sentendo ancora le
tue labbra calde sulle mie».
Riadagiandomi sul petto di Rune, chiusi gli occhi e sussurrai: «Questo è
quello per cui prego di più. Di vivere abbastanza per riuscire a fare queste
cose».
«Sono perfette, piccola» sussurrò Rune, accarezzandomi i capelli.
E fu così che mi addormentai, sotto la protezione di Rune.
Sognando che avrei visto realizzati tutti i miei desideri.
Felice.
Rune
«Ehi, Rune».
Alzai gli occhi dal compito che stavo scrivendo per vedere Jorie alla
porta della stanza di Poppy. Judson, Deacon e Ruby erano dietro di lei nel
corridoio. Feci un cenno col mento nella loro direzione ed entrarono tutti.
Poppy era ancora a letto, ancora in coma. Dopo alcuni giorni, i dottori
avevano detto che il peggio dell’infezione era passato e che erano ammessi
altri visitatori.
La mia Poppy ce l’aveva fatta. Proprio come aveva promesso, aveva
combattuto affinché l’infezione non avesse avuto la meglio su di lei. Sapevo
che l’avrebbe fatto. Mi aveva tenuto la mano quando mi aveva fatto quella
promessa. Mi aveva guardato negli occhi.
Era praticamente fatta.
I dottori avevano pianificato di riportarla lentamente fuori dal coma nei
giorni successivi. Avrebbero diminuito gradualmente il dosaggio di
anestetico, incominciando da stasera tardi. E io non vedevo l’ora. Questa
settimana era sembrata un’eternità senza di lei, tutto sembrava sbagliato e
fuori posto. Nel mio mondo, era cambiato così tanto con lei che se n’era
andata e, di contro, nel mondo esterno niente era cambiato davvero.
L’unico vero sviluppo era che, adesso, tutta la scuola sapeva che a Poppy
non era rimasto molto tempo. Da quello che avevo sentito, erano tutti
scioccati e tristi, com’era prevedibile. Eravamo andati a scuola con la
maggior parte di questi ragazzi sin dall’asilo. Anche se non conoscevano
bene Poppy come il nostro piccolo gruppo di amici, la notizia aveva
comunque scosso la città. La gente della sua chiesa si era riunita a pregare
per lei. Per mostrarle il suo amore. Sapevo che se Poppy l’avesse saputo, le
avrebbe scaldato il cuore.
I medici non erano sicuri di quanto sarebbe stata in forze una volta
sveglia. Erano restii a fare una stima di quanto le restasse, ma il suo dottore
ci aveva detto che quest’infezione l’aveva indebolita gravemente. Ci aveva
detto di essere preparati: quando finalmente si sarebbe svegliata, poteva
essere solo una questione di qualche settimana.
Per quanto fosse un duro colpo, per quanto mi strappasse il cuore dal
petto, cercavo di trarre gioia dalle piccole vittorie. Avrei avuto delle
settimane per aiutare Poppy a realizzare i suoi ultimi desideri. Avrei avuto il
tempo di cui avevo bisogno per dirle davvero addio, per ascoltare la sua
risata, vedere il suo sorriso e baciare le sue labbra morbide.
Jorie e Ruby entrarono per prime nella stanza, e andarono al lato
opposto del letto rispetto a dove ero seduto per stringere la mano di Poppy.
Deacon e Judson si fermarono accanto a me, poggiandomi le mani sulla
spalla in segno di supporto. Nell’attimo in cui si era diffusa la notizia di
Poppy, i miei amici avevano lasciato le lezioni per venire da me. Appena li
avevo visti sfrecciare lungo il corridoio, avevo capito che tutti lo sapevano.
Avevo capito che loro lo sapevano. Da quel momento, erano sempre stati al
mio fianco.
Erano sconvolti dal fatto che io e Poppy non avessimo detto niente a
nessuno di loro, ad eccezione di Jorie. Ma alla fine, avevano compreso il
perché Poppy non avesse voluto suscitare tanto clamore. Penso che
l’amarono ancora di più per questo. Avevano visto la sua vera forza.
Durante la settimana passata, quando non ero andato a scuola, erano stati
i miei amici a portarmi i compiti da parte degli insegnanti. Si prendevano
cura di me, come facevo io con Poppy. Deacon e Judson dissero di essere
determinati a non farmi bocciare, dato che eravamo arrivati all’ultimo anno
tutti insieme. Era la cosa più lontana dalla mia mente, ma apprezzai la loro
preoccupazione.
In effetti, questa settimana mi aveva dimostrato quanto contassero per
me. Anche se Poppy era tutta la mia vita, mi resi conto che l’amore era
anche in altri luoghi. Avevo amici che sarebbero saltati nel fuoco per me.
Anche la mia mamma veniva in visita ogni giorno. E così mio padre.
Sembrava non fare caso al fatto che io per lo più lo ignoravo. Né sembrava
importargli se restavamo seduti insieme in silenzio. Credo che per lui fosse
importante solo essere qui, essere accanto a me.
Non sapevo ancora cosa fare della sua vicinanza.
Jorie guardò su, catturando il mio sguardo. «Come sta oggi?»
Mi alzai dalla sedia e mi sedetti sul bordo del letto di Poppy. Incrociai le
sue dita tra le mie e le strinsi forte. Abbassandomi, le spostai i capelli dal
viso con una carezza e la baciai sulla fronte. «Diventa ogni giorno più
forte» dissi dolcemente e poi, solo per le orecchie di Poppy, sussurrai: «I
nostri amici sono qui, piccola. Sono venuti di nuovo a trovarti».
Il mio cuore sobbalzò quando pensai di aver visto una vibrazione delle
sue ciglia, ma quando la fissai più a lungo, realizzai che doveva essere stata
la mia immaginazione.
Ero disperato dalla voglia di rivederla, da troppe ore per riuscire a
tenerne il conto. Poi mi rilassai, sapendo che nei prossimi giorni vedere
queste cose non sarebbe stato solo il frutto della mia immaginazione.
Sarebbe stato reale.
I miei amici si sedettero sul divano vicino alla grande finestra. «I dottori
hanno deciso che stasera inizieranno a farla uscire gradualmente dal coma»
dissi. «Ci potranno volere un paio di giorni affinché sia completamente
cosciente, ma ritengono che farla risvegliare lentamente sia la cosa
migliore. Il suo sistema immunitario si è quanto si aspettavano. L’infezione
è passata. Lei è pronta per ritornare con noi». Espirai e aggiunsi
silenziosamente: «Finalmente. Finalmente potrò rivedere i suoi occhi».
«È un bene, Rune» replicò Jorie e mi rivolse un debole sorriso. C’era un
silenzio pieno d’attesa, nel quale i miei amici si guardavano tutti l’un
l’altro.
«Che c’è?» Chiesi, cercando di leggere le loro espressioni.
Fu Ruby a rispondere. «Come starà al suo risveglio?»
Mi si contrasse lo stomaco. «Sarà debole» sussurrai. Girandomi di
nuovo verso Poppy, le accarezzai la guancia. «Ma sarà di nuovo qui. Non
mi importa se la dovrò portare in braccio dovunque andremo. Voglio solo
vedere il suo sorriso. La riavrò di nuovo con me, al posto a cui appartiene…
Almeno per un poco».
Sentii tirare su col naso e vidi che Ruby stava piangendo, mentre Jorie la
stringeva a sé.
Feci un sospiro di solidarietà, ma dissi: «Lo so che le vuoi bene, Ruby.
Ma quando si sveglierà, quando scoprirà che tutti lo sanno, comportati
normalmente. Odia vedere le persone che ama sconvolte. Per lei è questa la
cosa peggiore di tutte». Strizzai le dita di Poppy. «Quando si sveglierà
dovremo renderla felice, come fa lei con tutti. Non possiamo mostrarle che
siamo tristi».
Ruby annuì, poi chiese: «Non tornerà più a scuola, vero?»
Scossi la testa. «Nemmeno io. Non fino…» Mi morì la voce, non volevo
concludere con quelle parole. Non ero ancora pronto per dirle. Non ero
pronto per affrontare tutto questo.
Non ancora.
«Rune» mi chiamò Deacon, con tono serio. «Che farai l’anno prossimo?
Per il college? Hai almeno fatto domanda da qualche parte?» Si stava
tormentando le mani. «Mi stai facendo preoccupare. Ce ne stiamo andando
tutti. E tu non hai mai fatto parola di niente. Siamo davvero preoccupati».
«Non sto nemmeno pensando così tanto in avanti» risposi. «La mia vita
è qui, ora, in questo momento. Tutto il resto verrà dopo. Poppy è il centro
della mia attenzione, lo è sempre stato, solo lei. Non me ne frega niente
dell’anno prossimo o di quello che farò».
Il silenzio calò nella stanza. Vidi dall’espressione di Deacon che voleva
dire di più, ma non si azzardò.
«Verrà al ballo?»
Il mio cuore sprofondò, mentre Jorie guardava con tristezza la sua
migliore amica. «Non lo so» risposi. «Lo desiderava così tanto, ma
mancano ancora sei settimane». Alzai le spalle. «I dottori non lo sanno». Mi
girai a guardare Jorie. «Era uno dei suoi ultimi desideri. Andare al ballo
dell’ultimo anno». Deglutii e mi girai di nuovo verso Poppy. «Alla fine,
tutto quello che vuole fare è essere baciata e poter andare al ballo. È tutto
quello che chiede. Niente di eccezionale, niente che cambierebbe una vita…
solo queste cose. Con me».
Diedi ai miei amici un momento, quando Jorie e Ruby iniziarono a
piangere in silenzio. Ma io non crollai. Semplicemente, contai in silenzio le
ore che mancavano al momento in cui sarebbe tornata da me. Immaginavo
l’attimo in cui l’avrei vista sorridere ancora una volta. Sollevare lo sguardo
su di me. Stringere la mano nella sua.
Dopo circa un’ora, i miei amici si alzarono. Judson lasciò cadere dei
fogli sul piccolo tavolino accanto al letto di Poppy che io usavo come
scrivania. «Matematica e geografia, amico. I professori hanno scritto tutto
per te. Date di consegna e cose del genere». Mi alzai e li salutai,
ringraziandoli per essere venuti. Quando se ne furono andati, mi misi al
tavolo per finire i compiti. Li avrei terminati, e poi mi sarei portato la mia
macchina fotografica fuori. La mia macchina, che non mi toglievo più dal
collo da settimane.
La macchina che era di nuovo parte di me.
Dovevano essere passate delle ore mentre andavo dentro e fuori dalla
stanza, per catturare la giornata all’esterno. Più tardi quella sera, la famiglia
di Poppy cominciò a riempire la stanza, seguita a breve distanza dai suoi
dottori. Saltai dalla sedia e stropicciai via la stanchezza dagli occhi. Erano
arrivati per iniziare a portarla fuori dal coma.
«Rune» mi salutò il signor Litchfield. Venne verso di me e mi abbracciò.
Tra di noi si era stabilita una tregua pacifica da quando Poppy era entrata in
coma. Lui mi aveva capito, e io avevo capito lui. Per questo motivo, anche
Savannah aveva iniziato a fidarsi che non avrei spezzato il cuore di sua
sorella.
E anche per il fatto che non mi ero mai mosso, nemmeno una volta, da
quando Poppy era stata ricoverata. Se Poppy era qui, c’ero anch’io. La mia
dedizione doveva aver dimostrato che l’amavo più di quanto ognuno di loro
avesse mai creduto.
Ida venne da me e mi gettò le braccia alla vita. La signora Litchfield mi
baciò sulla guancia.
Poi tutti aspettammo che il dottore finisse la visita.
«La conta dei globuli bianchi di Poppy è ai livelli che potevamo sperare
per questo stadio della malattia» ci disse il dottore, quando si voltò verso di
noi. «Ridurremo gradualmente l’anestetico e la riporteremo qui. Appena si
rafforzerà, saremo in grado di staccarla da alcuni dei macchinari». Il cuore
mi batteva veloce e strinsi le mani lungo i fianchi.
«Ora», continuò il dottore, «Poppy, inizialmente, alternerà momenti di
coscienza ad altri di incoscienza. Quando sarà vigile, potrebbe delirare o
essere fuori di sé. Questo sarà dovuto alle medicine ancora in circolo nel
suo organismo. Ma, alla fine, dovrebbe iniziare a svegliarsi per periodi più
lunghi di tempo e, se tutto va bene, in un paio di giorni, tornerà la solita
ragazza felice». Il dottore sollevò le mani. «Tuttavia, Poppy sarà debole.
Fino a che non potremo valutarla in stato di coscienza, non saremo in grado
di determinare quanto l’infezione l’abbia indebolita. Solo il tempo ce lo
dirà. Ma potrebbe avere limitate capacità di movimento e questo ridurrà le
cose che potrà fare. È molto improbabile che recuperi pienamente le forze».
Chiusi gli occhi, pregando Dio che stesse bene. E se così non fosse stato,
promisi che l’avrei aiutata attraverso tutto questo, qualsiasi cosa per avere
solo un po’ più di tempo. Non importava quello che avrebbe comportato,
avrei fatto di tutto.
I due giorni seguenti si trascinarono. Le mani di Poppy iniziavano a
muoversi leggermente, sbatteva le ciglia, e il secondo giorno, iniziò ad
aprire gli occhi. Pochi secondi alla volta, ma per me erano sufficienti a
riempirmi di un insieme di eccitazione e di speranza.
Il terzo giorno, un team di dottori e infermieri entrò nella stanza, e
iniziarono il procedimento per staccare Poppy da alcune delle macchine.
Guardai, con il cuore che martellava, mentre le toglievano dalla gola il tubo
per respirare; guardai mentre, una alla volta, le apparecchiature venivano
portate via, fino a che non rividi di nuovo la mia ragazza.
Mi si gonfiò il cuore.
La sua pelle era pallida e le labbra, di solito morbide, erano screpolate.
Ma nel vederla libera da tutti quei macchinari, ebbi la certezza che non mi
fosse mai sembrata così perfetta.
Mi sedetti pazientemente sulla sedia accanto al letto, tenendole la mano.
Tenevo la testa all’indietro, mentre guardavo in trance il soffitto, quando
sentii la mano di Poppy stringere debolmente la mia. Mi si bloccò il fiato.
Mi si congelarono i polmoni. I miei occhi sfrecciarono su Poppy, sul letto.
Le dita della sua mano libera si muovevano, torcendosi lievemente.
Raggiunsi la parete e suonai con forza il campanello per chiamare le
infermiere. «Penso che si stia svegliando» dissi, quando una di loro entrò.
Poppy aveva fatto dei lievi movimenti nelle ultime ventiquattro ore, ma mai
così tanti e mai così a lungo.
«Chiamo il dottore» replicò e lasciò la stanza.
I genitori di Poppy arrivarono di corsa poco dopo, erano appena arrivati
per la loro visita quotidiana. Dopo qualche secondo, entrò il dottore. Mentre
si avvicinava al letto, io arretrai per mettermi accanto ai genitori di Poppy,
lasciando che l’infermiera controllasse i parametri vitali.
Le palpebre di Poppy vibrarono sui suoi occhi e poi, molto lentamente,
si schiusero. Risucchiai un respiro quando i suoi occhi verdi, sonnolenti,
presero coscienza di quello che la circondava.
«Poppy? Poppy, stai bene?» Chiese il dottore dolcemente. Vidi Poppy
cercare di girare la testa verso di lui, ma i suoi occhi non riuscivano a
mettere a fuoco. Sentii uno strattone, da qualche parte dentro di me, quando
la sua mano si allungò a cercare qualcosa. Cercava me. Anche nel suo stato
di confusione, cercava la mia mano.
«Poppy, hai dormito per un po’. Stai bene, ma ti sentirai stanca. Voglio
solo che tu sappia che stai bene».
Poppy fece un suono come se stesse cercando di parlare. Il dottore si
rivolse all’infermiera. «Prendile del ghiaccio per le labbra».
Senza riuscire più a stare in disparte, mi slanciai in avanti, ignorando il
richiamo del signor Litchfield che mi diceva di fermarmi. Spostandomi
dall’altro lato del letto, mi chinai e avvolsi la mano intorno a quella di
Poppy. Nell’istante in cui lo feci, il suo corpo si calmò e la sua testa si girò
piano dalla mia parte. In un battito di ciglia, aprì gli occhi. Guardò dritto
verso di me.
«Ehi, Poppymin» sussurrai, combattendo la stretta che avevo in gola.
E poi sorrise. Era piccolo, appena un accenno, ma sorrise. Le sue dita
deboli strinsero le mie con tutta la forza di un moscerino, poi ritornò a
dormire.
Esalai un lungo respiro. Ma la mano di Poppy non lasciò mai la mia. E
così, rimasi dove ero. Seduto sulla sedia accanto a lei, rimasi esattamente
dov’ero.
Passò un altro giorno e i momenti di coscienza di Poppy aumentarono
sempre più. Quando era sveglia non era del tutto lucida, ma mi sorrideva
quando la sua attenzione si concentrava nella mia direzione. Sapevo che
una parte di lei, anche se confusa, era consapevole che io fossi lì con lei. I
suoi deboli sorrisi mi assicuravano che non c’era alcun altro posto in cui
sarei dovuto essere.
Più tardi, quello stesso giorno, quando entrò un’infermiera per farle i
controlli di ogni ora, chiesi: «Posso spostare il letto?»
L’infermiera interruppe quello che stava facendo e alzò il sopracciglio.
«Dove, caro?»
Mi spostai all’ampia finestra. «Qui» dissi. «Così quando si sveglierà del
tutto potrà guardare fuori». Sbuffai, con una risata silenziosamente. «Lei
ama guardare il sorgere del sole». Mi lanciai uno sguardo indietro. «Adesso
che è attaccata solo alla flebo credo che si potrebbe fare, giusto?»
L’infermiera mi fissò. Riuscivo a vedere la compassione nei suoi occhi.
Non volevo compassione. Volevo solo che mi aiutasse. Volevo che mi
aiutasse a fare questo regalo a Poppy.
«Certo» disse, alla fine. «Non credo ci siano problemi». Il mio corpo si
rilassò. Mi spostai su un lato del letto di Poppy, l’infermiera dall’altro, e lo
spingemmo fino a sistemarlo di fronte alla veduta sul giardino esterno
dell’oncologia pediatrica. Un giardino che si estendeva sotto un cielo
azzurro e sereno.
«Va bene?» Chiese l’infermiera e sistemò i freni.
«Perfetto» replicai e sorrisi.
Quando la famiglia di Poppy arrivò poco tempo dopo, sua madre mi
abbracciò. «Lo adorerà» mi disse. Mentre stavamo seduti intorno al letto,
Poppy si scuoteva di tanto in tanto, spostandosi col corpo da dove era
sdraiata, ma per non più di qualche secondo.
Negli ultimi due giorni, i suoi genitori avevano fatto a turno per passare
la notte nella sala per i familiari al di là del corridoio. L’altro stava a casa
con le ragazze. Il più delle volte era la mamma che si fermava in ospedale.
Io restavo nella stanza di Poppy. Mi distendevo accanto a lei nel suo
piccolo letto ogni notte. Dormivo con lei tra le mie braccia, attendendo il
momento in cui si sarebbe svegliata.
Sapevo che i suoi genitori non erano propriamente felici della cosa, ma
pensavo che me lo concedessero perché, perché no? Non avrebbero detto di
no. Non adesso. Non in queste circostanze.
E, sicuro come la morte, io non me ne sarei mai andato.
La mamma di Poppy stava raccontando a sua figlia, addormentata, delle
sue sorelle. Le stava dicendo di come andavano a scuola, cose di tutti i
giorni. Io me ne restavo seduto, ad ascoltarla in parte, quando ci fu un
leggero bussare alla porta.
Alzai lo sguardo, e vidi mio padre aprire la porta. Fece un piccolo saluto
alla signora Litchfield, e poi guardò me. «Rune? Posso parlarti per un
minuto?»
Mi irrigidii e corrucciai le sopracciglia. Mio padre aspettava alla porta,
senza distogliere lo sguardo dal mio. Cacciai fuori un respiro, e mi alzai
dalla sedia. Mio padre si allontanò dalla porta mentre mi avvicinavo.
Quando uscii dalla stanza, vidi che teneva qualcosa in mano.
Spostava nervosamente il peso da una gamba all’altra.
«So che non me l’hai chiesto, ma ho sviluppato i tuoi rullini».
Restai pietrificato.
«So che mi hai chiesto di portarli a casa. Ma ti ho visto, Rune. Ti ho
visto fare queste fotografie, e so che sono per Poppy». Alzò le spalle.
«Adesso che Poppy si sta svegliando sempre di più, ho pensato che tu
volessi averle con te, per mostrargliele».
Senza dire altro, mi porse un album fotografico. Era pieno, stampa dopo
stampa, di tutto ciò che avevo catturato mentre Poppy stava dormendo.
Erano tutti i momenti catturati che lei si era persa.
La mia gola iniziò a chiudersi. Non ero stato a casa. Non avevo potuto
sviluppare queste foto in tempo per lei… Ma mio padre…
«Grazie» gli dissi con voce roca, poi abbassai gli occhi a terra.
Al limite del mio campo visivo, vidi il corpo di mio padre rilassarsi,
lasciare andare tutta la tensione. Sollevò la mano, come per toccarmi la
spalla. Mi bloccai, mentre lo faceva. La mano di mio padre restò sospesa a
mezz’aria, ma decidendo senza esitazione di continuare, lui me la posò sulla
spalla e mi strinse.
Non appena la sentii su di me, chiusi gli occhi. E, per la prima volta in
una settimana, mi sentii come se riuscissi a respirare. Per un secondo,
mentre mio padre mi dimostrava che era con me, respirai sul serio.
Ma quanto più restavamo così, più io non sapevo cosa fare. Non ero
rimasto così con lui da tantissimo tempo. Non gli avevo mai permesso di
avvicinarsi tanto.
Col bisogno di allontanarmi, e incapace di affrontare questa cosa, annuii
e rientrai nella stanza. Chiusi la porta e mi sedetti di nuovo, tenendo
l’album sulle cosce. La signora Litchfield non mi chiese di che si trattasse e
io non glielo dissi. Continuò a raccontare le sue storie a Poppy fino a tardi.
Quando la signora Litchfield lasciò la stanza, mi liberai degli stivali e,
come facevo ogni notte, aprii le tendine e mi sdraiai accanto a Poppy.
Ricordo che un attimo prima stavo guardando le stelle, e quello
successivo mi sovvenne la sensazione di una mano che mi accarezzava il
braccio. Disorientato, sbattei le palpebre e aprii gli occhi, mentre i primi
raggi del nuovo giorno penetravano nella stanza.
Cercai di schiarirmi la testa dall’annebbiamento del sonno. Sentii dei
capelli che mi solleticavano il naso e un caldo respiro soffiarmi sul viso.
Guardando in su, sbattei le ciglia per scacciare via il sonno dagli occhi, e il
mio sguardo si scontrò con il più bel paio di occhi verdi che avessi mai
visto.
Il mio cuore saltò un battito e un sorriso si allargò sulle labbra di Poppy,
facendo affiorare le sue profonde fossette nelle guance pallide.
Sollevando la testa per la sorpresa, le strinsi la mano e sussurrai:
«Poppymin?»
Poppy aprì e chiuse gli occhi più volte, poi il suo sguardo vagò per la
stanza. Deglutì, sussultando per lo sforzo. Vedendo che aveva le labbra
asciutte, mi allungai per prendere il bicchiere d’acqua dal comodino. Le
portai la cannuccia alla bocca e Poppy bevve qualche piccolo sorso, poi
spinse il bicchiere di lato e sospirò di sollievo.
Prendendo il suo burro cacao preferito alla ciliegia dal tavolo, gliene
stesi un sottile strato sulle labbra. Poppy, lentamente, le strofinò tra loro.
Senza staccare lo sguardo dal mio, sorrise, di un sorriso ampio e bellissimo.
Sentii il mio petto espandersi di luce, mi chinai e le premetti un bacio sulle
labbra. Fu breve, a malapena il soffio di un bacio, ma quando mi staccai,
Poppy deglutì e sussurrò rocamente: «Bacio numero…» Aggrottò le
sopracciglia, mentre la confusione le compariva in viso.
«Novecentotré» terminai al posto suo.
Poppy annuì. «Quando sono ritornata da Rune» aggiunse, mantenendo il
mio sguardo e stringendo debolmente la mia mano. «Proprio come avevo
promesso di fare».
«Poppy» sussurrai in risposta, e abbassai la testa fino a rifugiarmi nella
piega del suo collo. Volevo tenerla stretta quanto più vicino possibile, ma lei
sembrava una fragile bambola, facile a rompersi.
Le dita di Poppy si posarono sui miei capelli, e con un gesto così
familiare quanto respirare, le passò attraverso le ciocche, mentre il suo
respiro leggero mi aleggiava sul viso.
Alzai la testa e fissai giù, verso di lei. Mi assicurai di assaporare ogni
parte del suo viso, dei suoi occhi. Mi assicurai di custodire questo
momento.
Il momento in cui era ritornata da me.
«Per quanto tempo?» Chiese.
Le accarezzai i capelli, spostandoli dal viso. «Sei stata in coma per una
settimana. Ti sei risvegliata gradualmente negli ultimi giorni».
Poppy chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì. «E quanto…
Rimane?»
Scossi la testa, orgoglioso della sua forza, e risposi con onestà. «Non lo
so».
Poppy annuì, un movimento appena intuibile. Avvertendo un calore
dietro il collo, mi girai e guardai fuori della finestra. Sorrisi. Poi tornai a
girarmi verso Poppy, e le dissi: «Ti sei svegliata insieme al sole, piccola».
Poppy aggrottò le sopracciglia, fino a che io non mi spostai. Quando lo
feci, la sentii prendere un respiro sorpreso. La guardai in viso, vidi i raggi
arancioni baciarle la pelle. Vidi i suoi occhi chiudersi, poi aprirsi di nuovo,
mentre un sorriso le incurvava le labbra.
«È bellissimo» sussurrò. Mi adagiai sul suo cuscino, accanto a lei,
guardando il cielo che si rischiarava con l’arrivo del nuovo giorno. Poppy
non disse niente mentre osservavamo il sole sorgere nel cielo, inondando la
stanza della sua luce e del suo calore.
La sua mano strinse la mia. «Mi sento debole».
Sentii un pugno allo stomaco. «L’infezione è stata molto forte. Ne stai
pagando il prezzo».
Poppy annuì, facendo segno di aver capito, poi si perse nuovamente alla
vista del mattino. «Mi sono mancate» disse, indicando col dito verso la
finestra.
«Ti ricordi qualcosa?»
«No» replicò dolcemente. «Ma so che mi sono mancate lo stesso». Si
guardò la mano e disse: «Ricordo di aver sentito la tua mano nella mia,
anche se… È strano. Non ricordo di nient’altro, ma ricordo questo».
«Ja?» Chiesi.
«Sì» rispose dolcemente. «Credo che ricorderò sempre la sensazione
della tua mano che tiene la mia».
Allungando una mano accanto a me, sollevai l’album di foto che mio
padre aveva portato, me lo sistemai sul grembo e lo aprii.
La prima foto era del sole, che sorgeva attraverso nuvole spesse. I raggi
attraversavano gli aghi sui rami di pino, catturando perfettamente le
sfumature di rosa.
«Rune» sussurrò Poppy e fece scorrere la mano sulla stampa.
«L’ho scattata la prima mattina che eri qui». Scrollai le spalle. «Non
volevo che ti perdessi la tua alba».
La testa di Poppy si mosse fino a poggiarsi sulla mia spalla. Allora seppi
che avevo fatto bene. Avvertii la felicità nel suo tocco. Era meglio delle
parole.
Sfogliai l’album. Le mostrai gli alberi che iniziavano a fiorire
all’esterno. Le gocce di pioggia contro la finestra il giorno in cui aveva
piovuto a dirotto. E le stelle nel cielo, la luna piena, gli uccelli che facevano
il nido negli alberi. Quando chiusi l’album, Poppy spostò la testa indietro e
mi fissò negli occhi. «Hai catturato i momenti che mi sono persa».
Sentendo le guance infiammarsi, abbassai la testa. «Naturalmente. Lo
farò sempre».
Poppy sospirò. «Anche quando io non ci sarò… devi catturare tutti
questi momenti». Il mio stomaco si contorse. Prima che potessi dire
qualsiasi cosa, sollevò la mano sulla mia guancia. Il suo tocco era così
leggero. «Promettimelo». Quando io non risposi, insisté: «Promettimelo,
Rune. Queste foto sono troppo preziose per non venire mai scattate».
Sorrise. «Pensa a quello che potrai catturare in futuro. Pensa solo alle
possibilità davanti a te».
«Te lo prometto» replicai piano. «Te lo prometto, Poppymin».
Espirò. «Grazie».
Chinandomi, le baciai la guancia. Quando mi staccai, mi girai sul fianco
per stare di fronte a lei. «Mi sei mancata, Poppymin».
Lei sorrise. «Anche tu mi sei mancato» mormorò in risposta.
«Abbiamo un sacco di cose da fare quando uscirai da questo posto» le
dissi, osservando l’eccitazione accendersi nei suoi occhi.
«Sì» rispose. Strofinò le labbra una contro l’altra e mi chiese: «Quanto
manca alla prima fioritura?»
Il mio cuore si strappò quando capii quello a cui stava pensando. Stava
cercando di valutare quanto tempo ancora le rimanesse. E se ce l’avrebbe
fatta. Se avesse vissuto per vedere diventare realtà gli ultimi desideri che le
rimanevano.
«Dovrebbe essere tra una settimana».
Questa volta, non ci fu nulla a mascherare la suprema felicità che si
irradiava dal suo ampio sorriso. Chiuse gli occhi. «Posso farcela fino ad
allora» affermò con sicurezza, e mi strinse appena un po’ più forte la mano.
«Resisterai di più» le promisi e la osservai annuire.
«Fino a mille baci» concordò.
Le accarezzai la guancia con la mano. «Allora li prolungherò» le dissi.
«Sì» sorrise Poppy. «All’infinito».
Ero seduta sulla mia sedia, nel bagno di mia madre, mentre lei mi
metteva uno strato di mascara sulle ciglia. La osservavo come non l’avevo
mai osservata prima. Lei sorrideva. La osservavo, assicurandomi di scolpire
ogni parte del suo viso nella memoria.
La verità era che mi stavo spegnendo. Lo sapevo. Penso che in fondo
tutti lo sapessimo. Ogni mattina che mi svegliavo, con Rune rannicchiato al
mio fianco, mi sentivo sempre un po’ più stanca, sempre un po’ più debole.
Ma nel cuore, mi sentivo forte. Riuscivo a sentire il richiamo verso casa
rafforzarsi. Riuscivo ad avvertire la pace di questo richiamo scorrere dentro
di me, minuto dopo minuto.
Ed ero quasi pronta.
Osservando la mia famiglia negli ultimi giorni, sapevo che sarebbero
stati bene. Le mie sorelle erano felici e forti e i miei genitori le amavano
immensamente, quindi sapevo che se la sarebbero cavata.
E Rune. Il mio Rune, la persona per me più difficile da lasciare… Era
cresciuto. Non si era ancora reso conto che non era più il ragazzo lunatico e
spezzato che era ritornato dalla Norvegia.
Era pieno di vita.
Sorrideva.
Faceva di nuovo le fotografie.
E meglio ancora, mi amava apertamente. Il ragazzo che era ritornato si
nascondeva dietro un muro di oscurità. Ora non più, il suo cuore era aperto.
E per questo, aveva lasciato entrare la luce nella sua anima.
Sarebbe stato bene.
Mamma andò verso l’armadio. Quando ritornò in bagno, reggeva un
bellissimo abito bianco. Allungando la mano, la feci scorrere lungo la
stoffa. «È bellissimo» dissi e le sorrisi.
«Proviamolo, d’accordo?»
Sbattei gli occhi, confusa. «Perché mamma? Che sta succedendo?»
La mamma batté le mani per chiudere la discussione. «Basta con le
domande, ragazzina». Mi aiutò a vestirmi e mi infilò delle scarpe bianche ai
piedi.
Il suono della porta del bagno che si apriva mi fece voltare. Quando lo
feci, c’era mia zia DeeDee sulla soglia della porta, con una mano sul petto.
«Poppy» disse, con le lacrime che le riempivano gli occhi. «Sei
bellissima».
DeeDee guardò mia madre e le porse la mano. La mamma abbracciò sua
sorella, e rimasero lì a guardarmi. Sorridendo per l’espressione sui loro
volti, chiesi: «Posso vedere?»
Mia madre spinse la mia sedia di fronte allo specchio, e mi immobilizzai
alla vista del mio riflesso. Il vestito mi stava così bene, ancora meglio di
quanto avrei potuto immaginare. E i miei capelli… Avevo i capelli raccolti
di lato, in uno chignon basso, e il mio fiocco bianco preferito era fissato
appena sopra.
Come sempre, i miei orecchini dell’infinito spiccavano, luminosi e fieri.
Feci scorrere le mani giù lungo il vestito. «Non capisco… Sembra che
mi sia vestita per il ballo…»
Nello specchio, i miei occhi guizzarono tra quelli di mia madre e di
DeeDee. Il mio cuore perse il controllo del suo battito. «Mamma?» Chiesi.
«Andrò al ballo? Ma ci vogliono ancora due settimane! Come…»
La mia domanda fu interrotta dal suono del campanello. Mamma e
DeeDee si guardarono a vicenda, e poi mia madre ordinò: «DeeDee, vai tu
ad aprire la porta».
DeeDee si mosse, ma la mamma tese una mano facendole cenno di
aspettare e poi la fermò poggiandogliela sul braccio. «No, aspetta, prendi tu
la sedia, io devo portare Poppy giù per le scale».
La mamma mi sollevò e mi mise sul suo letto. DeeDee lasciò la stanza, e
sentii arrivare da giù la voce di mio padre che si mescolava con altre. I
pensieri mi si accavallavano nella mente, ma non mi azzardavo a farmi
troppe speranze. Nonostante ciò, volevo tantissimo che quelle speranze
diventassero realtà.
«Sei pronta, tesoro?» Mi chiese mia madre.
«Sì» risposi senza fiato.
Mi aggrappai a mia madre mentre scendevamo giù per gli scalini, dirette
verso la porta d’ingresso. Appena girammo l’angolo, mio padre e le mie
sorelle, che erano tutti riuniti nell’ingresso, guardarono nella mia direzione.
Allora, nonostante mi sentissi debole, mia madre mi portò alla porta. Lì,
appoggiato allo stipite, c’era Rune. Teneva in mano un bouquet di
ramoscelli di fiori di ciliegio… E indossava uno smoking.
Il mio cuore si frantumò di luce.
Mi stava regalando il mio desiderio.
Non appena i nostri occhi si incontrarono, Rune si raddrizzò. Lo vidi
deglutire, mentre mia madre mi sistemava sulla sedia. Quando lei si
allontanò, Rune si abbassò, senza importarsene di chi altro ci fosse, e
sussurrò: «Poppymin». Il mio respiro rimase sospeso, quando aggiunse:
«Sei bellissima».
Allungando la mano, gli tirai le punte dei capelli biondi. «Li hai pettinati
all’indietro così posso vedere il tuo bel viso. E indossi uno smoking!».
Un sorriso sbilenco gli tese la bocca. «Ti ho detto che l’avrei fatto»
replicò.
Rune mi prese la mano, e più delicatamente che poté, mi mise un
mazzolino di fiori sul polso. Feci scorrere la mano sui petali dei boccioli,
senza riuscire a fare a meno di sorridere.
«È tutto vero?» Chiesi, alzando lo sguardo negli occhi blu di Rune.
Chinandosi, mi baciò e sussurrò: «Stai andando al ballo».
Mi sfuggì una lacrima da un occhio e mi si offuscò la vista. Vidi
l’espressione di Rune incupirsi, ma risi e gli assicurai: «Sono lacrime
buone, tesoro. Sono solo troppo felice».
Rune deglutì e io mi allungai a sfiorargli il viso. «Mi hai resa così
incredibilmente felice».
Sperai avesse sentito il significato più profondo di quelle parole. Perché
io non intendevo solo stasera. Volevo dire che mi aveva sempre resa la
ragazza più felice del pianeta. Doveva saperlo.
Doveva aver avvertito la verità di questa cosa. Rune mi sollevò la mano
e la baciò. «Anche tu mi hai reso così dannatamente felice».
E seppi che aveva capito.
Il suono della voce di mio padre fece separare i nostri sguardi. «Bene
ragazzi, è meglio che andiate». Colsi una sfumatura aspra nel tono di mio
padre. Sapevo che voleva che andassimo perché questo era davvero troppo
da gestire per lui.
Rune si alzò e si spostò dietro la mia sedia. «Sei pronta, piccola?»
«Sì» risposi sicura.
Tutta la stanchezza che avevo provato scomparve in un istante. Perché
Rune in qualche modo aveva fatto sì che questo sogno diventasse realtà.
Non ne avrei sprecato nemmeno un secondo.
Rune mi spinse fino alla macchina di mia madre. Mi sollevò dalla sedia
a rotelle e mi sistemò sul sedile davanti. Io avevo un sorriso enorme. A dire
il vero, non smisi mai di sorridere durante tutto il tragitto.
Quando arrivammo a scuola, sentii la musica che dall’interno si
diffondeva nella notte. Chiusi gli occhi, assaporando ogni immagine: la
parata di limousine che arrivavano una dopo l’altra, gli studenti vestiti tutti
in modo elegante, che entravano nella palestra della scuola.
Con immensa premura, come sempre, Rune mi sollevò, portandomi
fuori dalla macchina e mi adagiò sulla sedia. Poi si spostò davanti a me e mi
baciò. Mi baciò con sentimento, come se sapesse, proprio come lo sapevo
io, che questi baci erano limitati.
Questo rendeva ogni tocco, ogni assaggio tanto più speciale. Ci eravamo
baciati quasi mille volte, eppure gli ultimi pochi baci che ci stavamo
scambiando, quelli erano i più speciali. Quando sai che qualcosa ha una
fine, ciò la rende tanto più densa di significato.
Quando si staccò, gli circondai il suo bellissimo viso con le mani e gli
dissi: «Bacio novecentonovantaquattro. Al mio ballo di fine anno. Con il
mio Rune… E il mio cuore è quasi scoppiato».
Rune fece un profondo respiro e mi premette un ultimo bacio sulla
guancia. Iniziò a spingermi verso la palestra. Gli insegnanti che facevano da
chaperon ci videro arrivare, e le loro reazioni mi riscaldarono il cuore.
Sorrisero, mi abbracciarono, mi fecero sentire amata.
La musica arrivava a tutto volume da dentro la sala. Volevo
disperatamente scoprire che aspetto avesse la stanza. Rune allungò la mano
verso la porta e, quando la spalancò, si aprì davanti a me la vista della
palestra… Una visione ornata da toni bianchi e rosa pastello. Addobbata in
modo magnifico, perfettamente in tema col mio fiore preferito.
Una mano mi salì alla bocca. «È a tema di fiori di ciliegio» sussurrai,
quando la abbassai.
Guardai di nuovo Rune. Lui scrollò le spalle. «Che altro, se no?»
«Rune» sussurrai, mentre mi spingeva nella sala. I ragazzi che ballavano
nelle vicinanze si fermarono quando entrai. Per un minuto, quando incontrai
i loro sguardi, mi sentii in imbarazzo.
Era la prima volta che molti di loro mi vedevano da quando… Ma quella
sensazione imbarazzante fu velocemente dimenticata quando iniziarono a
venirmi incontro, salutandomi e augurandomi il meglio. Dopo un po’,
vedendo chiaramente che ero sopraffatta, Rune mi spinse verso un tavolo
affacciato sulla pista da ballo.
Sorrisi quando vidi tutti i nostri amici seduti lì. Jorie e Ruby mi videro
per prime. Saltarono in piedi e corsero verso di noi. Rune si fece indietro,
mentre le mie amiche mi abbracciavano.
«Porca miseria, Pops. Come sei bella!» Urlò Jorie. Sorrisi e indicai il
suo abito blu.
«Anche tu, tesoro». Jorie mi sorrise in risposta. Judson arrivò dietro di
lei, prendendola per mano. Mentre guardavo le loro mani, sorrisi di nuovo.
Jorie incontrò i miei occhi e scrollò le spalle. «Ho sempre pensato che
sarebbe successo, alla fine». Ero contenta per lei. Mi piaceva sapere che
stava insieme a qualcuno che adorava. Era stata un’amica eccezionale per
me. Judson e Deacon mi abbracciarono subito dopo, infine Ruby. Dopo che
tutti i nostri amici mi ebbero salutato, Rune si fece avanti per prendere
posto al tavolo. Naturalmente mi si sedette accanto, e mi prese
immediatamente la mano.
Lo vidi guardarmi, i suoi occhi non lasciavano mai il mio viso.
Voltandomi verso di lui, gli chiesi: «Stai bene, piccolo?»
Rune annuì, poi si inchinò «Non credo di averti mai visto così bella.
Non riesco a toglierti gli occhi di dosso» mi spiegò.
Inclinai la testa di lato mentre ammiravo il suo aspetto. «Mi piaci in
smoking» annunciai.
«È a posto, credo». Rune iniziò a giocherellare col suo papillon. «Questo
è stato quasi impossibile metterlo».
«Ma ce l’hai fatta» scherzai.
Rune distolse lo sguardo, poi tornò a guardarmi. «Mio padre mi ha
aiutato».
«Sì?» Chiesi piano.
Rune annuì seccamente.
«E gliel’hai lasciato fare?» Insistei, notando l’inclinazione cocciuta del
suo mento. Il mio cuore batteva forte, mentre aspettavo la risposta. Rune
non sapeva che il mio desiderio segreto era che ricucisse il rapporto con suo
padre.
Presto avrebbe avuto bisogno di lui.
E suo padre lo amava.
Era l’ultimo ostacolo che volevo che Rune superasse.
Lui sospirò. «Gliel’ho lasciato fare».
Non riuscii a fermare il sorriso che mi si stava disegnando sulle labbra.
Mi avvicinai e gli posai la testa sulla spalla. «Sono davvero orgogliosa di te,
Rune» dissi, guardando in su.
Rune serrò la mascella, ma non ebbe nulla da dire in risposta.
Sollevando la testa, esaminai la stanza e guardai i nostri compagni che
ballavano e si divertivano. E lo adoravo. Guardavo ogni persona con cui ero
cresciuta, chiedendomi cosa ne sarebbe stato di loro quando fossero
cresciuti. Chi avrebbero sposato, se avrebbero avuto dei figli.
Poi i miei occhi si soffermarono su un viso familiare, che mi guardava
attraverso la stanza. Avery era seduta con un altro gruppo di amici. Quando
incrociai i suoi occhi, alzai la mano e le feci un piccolo gesto di saluto.
Avery sorrise e rispose al saluto.
Quando ritornai a guardare il tavolo, Rune stava lanciando
un’occhiataccia ad Avery. La mia mano si posò sul suo braccio, e lui
sospirò e scosse la testa. «Solo tu» disse. «Solo tu».
Mentre la serata trascorreva, io stavo ad osservare totalmente soddisfatta
i nostri amici che ballavano e ballavano. Facevo tesoro di questo tempo.
Facevo tesoro di poter vedere tutti così felici.
Il braccio di Rune arrivò ad avvolgermi la spalla. «Come hai fatto?» Gli
chiesi.
Rune indicò Jorie e Ruby. «Sono state loro, Poppymin. Volevano che tu
vivessi questo. Hanno fatto tutto. Hanno anticipato la data. Il tema, tutto».
Lo adocchiai scettica. «Perché ho la sensazione che non siano state solo
loro?» Un rossore infiammò le guance di Rune, mentre alzava le spalle con
indifferenza. Sapevo che aveva fatto molto di più di quello che voleva
lasciar intendere.
Avvicinandomi piano, gli presi il viso tra le mani. «Ti amo, Rune
Kristiansen. Ti amo, tanto, tanto, tanto».
Gli occhi di Rune si chiusero per un secondo troppo lungo. Inspirò
profondamente attraverso il naso, poi li riaprì e dichiarò: «Ti amo anch’io,
Poppymin. Più di quanto credo tu saprai mai».
Lanciando uno sguardo alla palestra, sorrisi. «Lo so, Rune… Lo so».
Rune mi abbracciò più stretta. Mi chiese di ballare, ma non volevo
andare con la mia sedia sulla pista affollata. Ero felice di guardare tutti gli
altri ballare, quando vidi Jorie andare verso il DJ.
Guardò nella mia direzione. Non riuscivo a decifrare il suo sguardo, ma
poi sentii i primi accordi di If I Could Fly, degli One Direction, inondare la
stanza.
Mi immobilizzai. Una volta, avevo detto a Jorie che questa canzone mi
faceva pensare a Rune. Mi faceva pensare a quando Rune era lontano da
me, in Norvegia. E più di tutto, mi faceva pensare a come Rune era con me,
nell’intimità. Un tesoro. Solo per me. For my eyes only, solo per i miei
occhi. Quando diceva al mondo di essere cattivo, a me diceva sempre e solo
che era innamorato.
Era amato.
Immensamente.
Sognante, avevo confessato a Jorie che, se ci fossimo sposati, questa
sarebbe stata la nostra canzone. Il nostro primo ballo. Rune lentamente si
mise in piedi; sembrava che Jorie gliel’avesse detto.
Mentre Rune si abbassava, scossi la testa, perché non volevo andare con
la sedia sulla pista. Ma poi con mia sorpresa, in una mossa che mi rubò
totalmente il cuore, Rune mi prese tra le sue braccia e mi portò sulla pista.
«Rune» protestai debolmente, aggrappandomi al suo collo. Rune scosse
la testa, senza dire una sola parola, e iniziò a ballare con me tra le sue
braccia.
Rifiutandomi di guardare da qualsiasi altra parte, lo fissai negli occhi,
sapendo che poteva sentire ogni parola del testo della canzone. Lo vedevo
chiaramente nella sua espressione il perché sapeva che questa canzone era
per noi.
Mi tenne stretta, ondeggiando delicatamente al ritmo della musica. E,
come era sempre stato per me e Rune, il resto del mondo sparì, e restammo
solo noi due.
Danzando tra i fiori, così follemente innamorati.
Due metà di un intero.
Quando la canzone arrivò al suo crescendo, e lentamente giunse alla
fine, mi avvicinai e chiesi: «Rune?»
«Ja?» Rispose con voce roca.
«Mi porteresti in un posto?»
Le sue sopracciglia biondo scuro si aggrottarono, ma lui assentì col
capo. Quando finì la canzone, mi attirò verso di sé per un bacio. Le sue
labbra tremavano leggermente contro le mie. Anche io mi sentivo
sopraffatta dall’emozione, e mi concessi un’unica lacrima, prima di
prendere un respiro profondo e scacciarla via.
Quando Rune si tirò indietro, sussurrai: «Bacio
novecentonovantacinque. Con il mio Rune. Al ballo mentre danzavamo. E
il mio cuore è quasi scoppiato».
Rune appoggiò la fronte contro la mia.
Quando lui ci fece spostare per andarcene, lanciai uno sguardo al centro
della pista. Jorie era ferma in piedi, e mi guardava con le lacrime agli occhi.
Catturando il suo sguardo, mi misi una mano sul cuore e muovendo solo le
labbra mimai: «Grazie… Ti voglio bene… Mi mancherai».
Jorie chiuse gli occhi. Quando li riaprì, rispose mimando anche lei. «Ti
voglio bene e anche tu mi mancherai».
Alzò la mano in un piccolo saluto e Rune incontrò i miei occhi.
«Pronta?»
Annuii, e allora lui mi mise sulla sedia e mi portò fuori dalla sala. Dopo
che mi ebbe sistemato a sedere e fu entrato in macchina, mi guardò.
«Dove andiamo, Poppymin?»
Sospirando piena di gioia, svelai: «Alla spiaggia. Fammi vedere l’alba
dalla spiaggia».
«La nostra spiaggia?» Rune mi chiese, mentre metteva in moto l’auto.
«Ci vorrà un po’ di tempo per arrivarci ed è già tardi».
«Non mi importa» replicai. «L’importante è arrivare prima del sole». Mi
sistemai meglio sul sedile, e presi la mano di Rune mentre iniziammo la
nostra ultima avventura verso la costa.
Per quando arrivammo alla spiaggia, la notte era quasi volata via. L’alba
sarebbe apparsa tra un paio d’ore. Ed io ne ero contenta.
Volevo questo tempo con Rune.
Quando ci fermammo nel parcheggio, Rune mi lanciò uno sguardo.
«Vuoi sederti sulla sabbia?»
«Sì» risposi in fretta, fissando le stelle luminose nel cielo.
Lui restò in silenzio un attimo. «Potrebbe fare freddo per te».
«Ci sei tu» replicai e vidi la sua espressione addolcirsi.
«Aspetta qui». Rune scivolò fuori dall’auto e lo sentii prendere delle
cose dal portabagagli.
La spiaggia era buia, illuminata solo dalla luce della luna. Tra i raggi di
luna, vidi Rune distendere una coperta sulla sabbia e accanto a lui c’erano
altre coperte, prese dal bagagliaio.
Quando tornò indietro, si sciolse il papillon, poi aprì alcuni bottoni della
sua camicia. Mentre fissavo Rune, mi chiedevo come potevo essere stata
tanto fortunata. Ero amata da questo ragazzo, amata così
appassionatamente, che al confronto gli altri amori impallidivano.
Anche se la mia vita era stata breve, avevo amato a lungo. E alla fine,
questo bastava.
Rune aprì la portiera della macchina, e allungandosi all’interno, mi prese
tra le sue forti braccia. Feci un sorrisino mentre mi cullava. «Sono
pesante?» Chiesi mentre chiudeva lo sportello.
Rune incontrò i miei occhi. «Per niente, Poppymin. Ci sono io con te».
Sorridendo, gli premetti un bacio sulla guancia e poggiai la testa sul suo
petto, mentre ci avvicinavamo alla coperta. Il suono delle onde che si
infrangevano riempiva l’aria della notte, una brezza calda e delicata
soffiava tra i miei capelli.
Quando arrivammo alla coperta, Rune si mise in ginocchio e mi adagiò
giù gentilmente. Chiusi gli occhi e inalai l’aria salata, riempiendomene i
polmoni. La sensazione della lana che mi copriva le spalle me li fece
riaprire; Rune mi stava avvolgendo con delle coperte calde. Inclinai la testa
all’indietro, guardandolo dietro di me. Notando il mio sorriso, mi baciò la
punta del naso. Feci una risatina e all’improvviso mi trovai stretta
saldamente tra le braccia protettive di Rune.
Rune distese le gambe per racchiudermi. Lasciai cadere la testa
all’indietro per riposarmi contro il suo petto. E mi rilassai.
Rune mi posava dei baci sulla guancia. «Stai bene, Poppymin?» Chiese.
Annuii. «Perfettamente» replicai.
La mano di Rune spinse indietro i capelli che avevo davanti al viso. «Sei
stanca?»
Feci per scuotere la testa ma, nel desiderio di essere sincera, risposi: «Sì.
Sono stanca, Rune».
Avvertii e, insieme, udii il suo profondo sospiro. «Ce l’hai fatta, piccola»
disse con orgoglio. «Gli alberi in fiore, il ballo…»
«Tutto quello che resta sono i nostri baci» finii la frase al posto suo. Lo
sentii annuire contro di me. «Rune?» Lo chiamai, perché avevo bisogno che
mi ascoltasse.
«Ja?»
Chiusi gli occhi e sollevai la mano sulle mie labbra. «Ricorda, il
millesimo bacio deve essere quando andrò a casa». Rune si irrigidì contro di
me. Mi avvolsi di più il suo braccio intorno a me, e gli chiesi: «Va ancora
bene per te?»
«Qualsiasi cosa» replicò Rune. Ma da quanto era incrinata la sua voce,
riuscivo a capire che quella richiesta era stata un duro colpo.
«Non riesco ad immaginare un commiato più pacifico e più bello delle
tue labbra sulle mie. La fine della nostra avventura. L’avventura che stiamo
vivendo da nove anni». Guardandolo indietro verso di lui, sostenni i suoi
occhi intensi e sorrisi. «E voglio che tu sappia che non ho mai rimpianto un
singolo giorno, Rune. Tutto di te e me è stato perfetto». Afferrandogli la
mano, continuai: «Voglio che tu sappia quanto ti ho amato». Voltai la spalla,
così da fissarlo dritto negli occhi. «Promettimi che andrai in cerca di
avventure intorno al mondo. Che visiterai altri paesi e che farai esperienze
di vita».
Rune annuì. Io aspettai, attesi il suono della sua voce.
«Te lo prometto» replicò.
Annuendo, liberai un respiro che era rimasto sospeso e posai la testa
contro il suo petto.
Minuti e minuti trascorrevano in silenzio. Guardavo le stelle che
brillavano nel cielo. Vivendo il momento.
«Poppymin?»
«Sì, piccolo?» Replicai.
«Sei stata felice? Hai…» Si schiarì la gola. «Hai amato la tua vita?»
Rispondendo onestamente, al cento per cento, gli dissi: «Ho amato la
mia vita. Ogni cosa. E ho amato te. Per quanto possa suonare un cliché, è
sempre stato abbastanza. Tu sei sempre stato la parte migliore di ogni mio
giorno. Tu sei stato la ragione di ogni mio sorriso».
Chiusi gli occhi e rividi le nostre vite nella mente.
Ricordai le volte in cui lo abbracciavo e lui mi abbracciava più forte.
Ricordai di come lo baciavo e di come lui mi baciava più profondamente. E
la cosa migliore di tutte, ricordai come lo amavo e come lui si sforzava
sempre di amarmi di più.
«Sì, Rune» dissi, con assoluta certezza. «Ho amato la mia vita».
Rune liberò un respiro, come se la mia risposta gli avesse tolto un peso
dal cuore.
«Anche io» concordò Rune.
Aggrottai le sopracciglia. «Rune, la tua vita non è finita» gli dissi,
voltandomi indietro a guardarlo.
«Poppy, io…»
Interruppi qualsiasi cosa Rune stesse per dirmi con un gesto della mano.
«No, Rune. Ascoltami». Presi un respiro profondo. «Puoi sentirti come se
stessi per perdere metà del tuo cuore quando me ne andrò, ma questo non ti
dà il permesso di vivere una vita a metà. E metà del tuo cuore non sarà
andata via. Perché io camminerò sempre accanto a te. Ti terrò sempre la
mano. Sono intessuta nell’essenza di cui sei fatto, proprio come tu resterai
sempre attaccato alla mia anima. Amerai e riderai ed esplorerai… Per
entrambi».
Strinsi la mano di Rune, implorandolo di ascoltare. Lui si girò da
un’altra parte, poi si voltò per guardarmi negli occhi, come volevo io. «Dì
sempre di sì, Rune. Dì sempre di sì alle nuove avventure».
Il labbro di Rune si alzò in un angolo, mentre io lo fissavo con uno
sguardo assorto. Lui fece scorrere il dito sul mio viso. «Okay, Poppymin.
Lo farò».
Sorrisi per il suo divertimento, ma poi continuai, in tutta serietà. «Hai
così tanto da offrire al mondo, Rune. Tu sei il ragazzo che mi ha dato i baci,
che ha trasformato in realtà i miei ultimi desideri. Quel ragazzo non si
ferma perché soffre una perdita. Invece, risorge, proprio come è certo che
ogni giorno il sole sorgerà. Supera la tempesta, Rune. E poi, ricorda una
cosa». Sospirai.
«Cosa?» Chiese.
Liberandomi della mia frustrazione, sorrisi e gli dissi: «Raggi di luna nei
cuori e sole splendente nei sorrisi».
Non riuscendo a trattenere la sua risata, Rune si lasciò andare… E fu
bellissimo. Chiusi gli occhi mentre il profondo suono baritonale di essa mi
inondava. «Lo so, Poppymin. Lo so».
«Bene» dissi trionfante e mi appoggiai di nuovo a lui. Il mio cuore si
contrasse quando vidi l’alba iniziare ad infiammare l’orizzonte.
Spostandomi, presi silenziosamente la mano di Rune e la tenni nella mia.
Questo sorgere del sole non aveva bisogno di parole. Avevo detto a
Rune tutto quello che dovevo dirgli. Lo amavo. Volevo che lui vivesse. E
sapevo che l’avrei rivisto.
Ero in pace.
Ero pronta a lasciare andare tutto.
Come se accertasse la completezza della mia anima, Rune mi strinse
così incredibilmente forte, mentre la cresta del sole irrompeva sulle acque
blu, cacciando via le stelle.
Le palpebre iniziarono a diventare pesanti, mentre restavo tra le braccia
di Rune, perfettamente appagata. «Poppymin?»
«Mhmm?»
«Anche io sono stato abbastanza per te?» La nota rotta nella voce di
Rune mi fece spezzare il cuore, ma annuii dolcemente.
«Più di ogni altra cosa» confermai e, con un sorriso, aggiunsi solo per
lui: «Tu sei stato speciale come solo le cose speciali possono essere».
Rune risucchiò un respiro alla mia risposta.
Quando il sole si innalzò al suo posto, per vegliare sul cielo con fare
protettivo, dissi: «Rune, sono pronta ad andare a casa».
Rune mi strinse un’ultima volta, poi si mosse per alzarsi in piedi. Mentre
si spostava, sollevai debolmente la mano e gli presi il polso. Rune guardò in
giù verso di me, e scacciò indietro le lacrime, sbattendo le palpebre.
«Voglio dire… Che sono pronta ad andare a casa».
Gli occhi di Rune si chiusero per un momento. Si accovacciò e mi cullò
il viso tra le mani. Quando aprì gli occhi, annuì. «Lo so, piccola. L’ho
sentito nel momento in cui l’hai deciso».
Sorrisi.
Guardai un’ultima volta il panorama.
Era ora.
Rune mi sollevò tra le sue braccia, gentilmente, e io guardai il suo
bellissimo viso mentre lui camminava sulla sabbia. Sosteneva il mio
sguardo.
Voltandomi ancora una volta per guardare il sole, mi cadde lo sguardo
sulla sabbia dorata. E allora il mio cuore si colmò di una luce quasi
incredibile. «Guarda, Rune. Guarda le tue orme nella sabbia» sussurrai.
Gli occhi di Rune lasciarono i miei per osservare la spiaggia.
Trattenne il respiro e si girò di nuovo verso di me.
Con il labbro che mi tremava, sussurrai: «Tu mi hai portato in braccio.
Nei miei momenti peggiori, quando non potevo camminare… Tu mi hai
aiutata a superarli».
«Sempre» riuscì a dire Rune con un filo di voce. «Sempre e per
sempre».
Con un lungo respiro, poggiai la testa sul suo petto e sottovoce dissi:
«Portami a casa, piccolo».
Mentre Rune guidava, rincorrendo il giorno che avanzava, non staccai
nemmeno una volta gli occhi da lui. Volevo ricordarmelo proprio così.
Sempre.
Fino a che non fosse tornato per sempre tra le mie braccia.
Rune
Rune,
Lasciami iniziare col dirti quanto ti amo. So che lo sapevi; non credo
che esista una persona sul pianeta che non abbia visto quanto eravamo
perfetti l’uno per l’altra.
Tuttavia, se stai leggendo questa lettera, significa che sono a casa.
Anche adesso che scrivo questa lettera, sappi che non sono spaventata.
Immagino che l’ultima settimana sia stata dura per te. Immagino che sia
stato difficile anche prendere un respiro, alzarsi ogni giorno dal letto; lo so,
perché è come mi sentirei io in un mondo privo di te. Ma, anche se lo
capisco, mi addolora che sarà la mia assenza a provocarti questo dolore.
La parte più difficile è stata guardare quelli che amavo andare in pezzi.
La parte peggiore per me, con te, è stato guardare la rabbia che ti bruciava
dentro. Ti prego, non lasciare che questo avvenga più.
Anche se solo per me, continua a essere l’uomo che sei diventato.
L’uomo migliore che conosca.
Avrai visto che ti ho dato una scatola.
Ho chiesto a tuo padre di aiutarmi parecchie settimane fa. Gli ho chiesto
di aiutarmi e lui l’ha fatto senza pensarci un secondo. Perché ti ama così
tanto.
Spero che anche tu adesso lo sappia.
Nella scatola ci sarà un’altra busta grande. Per favore aprila adesso,
poi ti spiegherò.
Complimenti!
So che in questo momento sarai confuso. Quelle sopracciglia biondo
scuro che tanto adoro saranno piegate all’ingiù e quel cipiglio che ti sta
così bene sarà inciso sul tuo viso.
Ma va bene.
Mi aspetto che tu sia scioccato. Mi aspetto che tu faccia resistenza
all’inizio. Ma, Rune, non devi. Questa scuola era il tuo sogno da quando
eravamo bambini, e solo perché io non sono più lì a vivere il mio sogno
insieme a te, non significa che tu debba sacrificare i tuoi.
Dato che ti conosco così bene, so anche che nelle mie ultime settimane,
abbandonerai tutto per stare al mio fianco. Ti amo per questo più di quanto
potrai mai capire. Il modo in cui ti sei preso cura di me, mi hai protetta… il
modo in cui mi hai tenuta tra le braccia e baciata così dolcemente.
Non c’è niente che cambierei.
Ma so che il tuo amore sacrificherebbe anche il tuo futuro.
Non potevo lasciare che questo accadesse. Tu sei nato per catturare quei
momenti magici, Rune Kristiansen. Non ho mai visto un talento come il tuo.
Non ho neanche mai visto qualcuno appassionarsi così tanto a qualcosa. Tu
sei nato per fare questo.
Dovevo essere sicura che accadesse.
Questa volta, sono io che ho dovuto portarti in braccio.
Ma, prima di chiederti di guardare qualsiasi altra cosa, voglio che tu
sappia che è stato tuo padre che mi ha aiutata ad assemblare il tuo
portfolio per assicurarti un posto. Ha anche pagato la retta del primo
semestre e persino il tuo alloggio. Anche quando continuavi a ferirlo, l’ha
fatto in modo così altruistico da farmi piangere. L’ha fatto con così tanto
orgoglio negli occhi da lasciarmi attonita.
Ti ama.
Tu sei amato oltre ogni misura.
Adesso, apri la scatola numero uno.
Impressionante, eh? Sei dotato oltre ogni dire, Rune. Lo sapevo, quando
abbiamo spedito il tuo lavoro, che saresti stato ammesso. Posso non essere
un’esperta di fotografia, ma persino io riuscivo a vedere la bravura che hai
nel catturare immagini come nessun altro. Come il tuo stile sia
assolutamente unico.
Così speciale… come solo le cose speciali possono essere.
L’ultima foto è la mia preferita. Non perché ritrae me, ma perché
conoscevo la passione che quella foto aveva riacceso. Vidi, quel giorno
sulla spiaggia, la fiamma dentro di te che si riaccendeva e tornava in vita.
È stato il primo giorno in cui ho capito che saresti stato bene quando me
ne sarei andata. Perché iniziai a vedere il Rune che conosco e amo tornare
a riemergere. Il ragazzo che vivrà una vita per tutti e due. Il ragazzo ormai
guarito.
Questo mi porta alla mia ultima scatola, Rune. Quella che so ti farà
protestare di più, ma è qualcosa che dovrai seguire alla lettera.
So che adesso sei confuso, ma prima di lasciarti andare, ho bisogno che
tu sappia qualcosa.
Essere amata da te è stato il traguardo più grande della mia vita. Non
ho avuto molto tempo e non ho assolutamente avuto tempo a sufficienza per
stare con te come avrei voluto. Ma in questi anni, nei miei mesi finali, ho
conosciuto cosa fosse il vero amore. Tu me l’hai mostrato. Hai portato
sorrisi nel mio cuore e luce nella mia anima.
Ma soprattutto, mi hai portato i tuoi baci.
Mentre scrivo e rifletto sugli ultimi mesi, da quando sei ritornato nella
mia vita, non posso essere amareggiata. Non posso essere triste che il
nostro tempo sia stato limitato. Non posso essere triste del fatto che non
potrò vivere tutta la mia vita accanto a te. Perché ti ho avuto per tutto il
tempo che ho potuto, ed è stato perfetto. Essere amata così
appassionatamente, così intensamente, ancora una volta, è stato
abbastanza.
Ma non lo sarà per te. Perché tu meriti di essere amato, Rune.
Quando hai scoperto che ero malata, so che hai sofferto perché non eri
in grado di curarmi. Di salvarmi. Ma, più ci penso, più credo che non fossi
tu ad essere destinato a salvare me. Piuttosto, ero io destinata a salvare te.
Forse, attraverso la mia morte, attraverso il nostro viaggio insieme, tu
hai ritrovato la strada che ti ha riportato verso te. La più importante
avventura che io abbia mai vissuto.
Hai sconfitto le tenebre e hai lasciato entrare la luce.
E quella luce è così pura e così forte che ti sosterrà… ti condurrà
all’amore.
Mentre leggi, riesco a immaginarti mentre scuoti la testa. Ma, Rune, la
vita è breve. Tuttavia, ho imparato che l’amore è senza limiti e il cuore è
grande.
Quindi apri il tuo cuore, Rune. Tienilo aperto e permetti a te stesso di
amare e di lasciarti amare.
Tra pochi secondi, voglio che tu apra l’ultima scatola. Ma prima, voglio
semplicemente dirti grazie.
Grazie, Rune. Grazie per avermi amata così tanto da poterlo sentire
ogni minuto di ogni giorno. Grazie per i miei sorrisi, per la tua mano che
teneva sempre stretta la mia…
Per i miei baci. Tutti e mille. Ognuno è stato custodito. Ognuno è stato
adorato.
Come lo sei stato tu.
Sappi che, anche se sono andata via, tu, Rune, non sarai mai solo. Io
sarò la mano che stringerà per sempre la tua.
Sarò le orme che camminano accanto a te sulla sabbia.
Ti amo, Rune Kristiansen. Con tutto il mio cuore.
Non vedo l’ora di vederti nei tuoi sogni.
Fissai il grande vasetto che tenevo in mano. Fissai i tanti cuori di carta
blu raccolti all’interno. Cuori di carta vuoti, che spingevano contro il vetro.
L’etichetta diceva:
Mille baci
Un anno dopo
Blossom Grove, Georgia
Aprii gli occhi quando mi svegliai, col frutteto che iniziava ad apparire
distintamente davanti ai miei occhi. Sentivo il sole splendente sul viso, il
profumo ricco dei petali dei fiori mi riempiva i polmoni.
Presi un respiro profondo e sollevai la testa. Il cielo scuro svettava in
alto, un cielo pieno di luci. Mille lanterne cinesi, lanciate anni fa,
galleggiavano nell’aria, perfettamente ferme al loro posto.
Mettendomi seduto, guardai il frutteto per controllare che ogni fiore
fosse pienamente fiorito. Lo era. Ma del resto lo erano sempre. Qui, la
bellezza durava per sempre.
Come lei.
Il suono di una dolce canzone arrivò dall’entrata del frutteto e il mio
cuore iniziò a battere veloce. Mi alzai in piedi, con il fiato sospeso, in attesa
che lei apparisse.
E poi, lei lo fece.
Il mio corpo si riempì di luce non appena lei voltò l’angolo, con le mani
che si sollevavano per sfiorare delicatamente gli alberi in fiore. La vidi
sorridere ai fiori. Poi la vidi accorgersi di me, al centro del frutteto. Vidi un
sorriso enorme allargarsi sulle sue labbra.
«Rune!» Chiamò eccitata e corse dritta verso di me.
Sorridendole a mia volta, la sollevai tra le braccia e lei mi gettò le sue
al collo. «Mi sei mancato!» Mi sussurrò nell’orecchio e la strinsi ancora un
po’ più vicina a me. «Mi sei mancato tantissimo!»
Distaccandomi per assorbire lo spettacolo del suo bellissimo viso,
sussurrai: «Anche tu mi sei mancata, piccola».
Un rossore salì sulle guance di Poppy, le sue profonde fossette in bella
mostra. Allungai una mano, per prendere la sua nella mia. Poppy sospirò
quando lo feci, poi il suo sguardo scivolò nel mio. Guardai la mia mano
nella sua. La mia mano, a diciassette anni. Quando venivo qui, nei miei
sogni, avevo sempre diciassette anni. Proprio come Poppy aveva sempre
desiderato.
Eravamo esattamente come eravamo allora.
Poppy si sollevò sulle punte, portando la mia attenzione su di sé ancora
una volta. Dopo averle posato una mano sulla guancia, mi abbassai e unii
le sue labbra alle mie. Poppy sospirò contro la mia bocca e io la baciai
profondamente. La baciai dolcemente. Non volevo mai più lasciarla andare.
Quando alla fine mi staccai da lei, Poppy aprì gli occhi in un battito di
ciglia. Sorrisi, mentre mi guidava sotto il nostro albero preferito.
Quando ci sedemmo lì, la strinsi tra le braccia, con la sua schiena
premuta contro il mio petto. Le scostai i capelli via dal collo, e presi a
stamparle dei baci leggeri lungo tutta la pelle dolce. Quando ero qui,
quando lei era tra le mie braccia, la toccavo quanto più potevo, la
baciavo…
La stringevo, sapendo che presto l’avrei dovuta lasciare.
Poppy sospirò di felicità.
Quando sollevai lo sguardo, la vidi osservare le lanterne luminose nel
cielo. Sapevo che lo faceva spesso. Queste lanterne la rendevano felice.
Queste lanterne erano i nostri baci, un dono che era solo per lei.
Sistemandosi meglio contro di me, Poppy chiese: «Come stanno le mie
sorelle, Rune? Come sta Alton? I miei genitori? E i tuoi?»
La strinsi più forte. «Stanno tutti bene, piccola. Le tue sorelle e i tuoi
genitori sono felici.
E Alt è perfetto. Ha una ragazza che ama più della sua stessa vita e con
il baseball sta andando forte. Anche i miei genitori stanno molto bene. Tutti
stanno bene».
«Che bello!» Replicò, felice.
Poi si fece silenziosa.
Mi accigliai. Nei miei sogni, Poppy mi chiedeva sempre del mio lavoro,
tutti i posti che avevo visitato, quante delle mie foto erano state pubblicate
di recente, quali avevano aiutato a salvare il mondo. Ma quella sera non lo
fece. Se ne stava soddisfatta tra le mie braccia. La sentivo ancora più
serena, ammesso che fosse possibile.
Poppy si mosse da dove era seduta. «Ti sei mai pentito di non aver
trovato qualcun’altra da amare, Rune? Ti sei mai pentito, in tutto questo
tempo, di non aver baciato nessun’altra a parte me? Di non aver amato
nessun’altra? Di non aver mai riempito il vasetto che ti diedi?» Chiese,
curiosa.
«No» dissi, onestamente. «E io ho amato, piccola. Amo la mia famiglia.
Amo il mio lavoro. Amo i miei amici e tutta la gente che ho incontrato nelle
mie avventure. Ho una vita bella e felice, Poppymin. E io amo, e ho amato
con tutto il mio cuore… Te, piccola. Non ho mai smesso di amare te. Tu eri
abbastanza da durare una vita intera». Sospirai. «E il mio vasetto era
pieno… È stato riempito insieme al tuo. Non c’erano più baci da
raccogliere».
Con la mano sotto il suo mento, voltai il viso di Poppy perché mi
guardasse e le dissi: «Queste labbra sono tue, Poppymin. Ti sono state
promesse dieci anni fa, nulla è cambiato».
Sul viso di Poppy si aprì un sorriso appagato. «Proprio come queste
labbra sono tue, Rune. Sono sempre state tue e tue soltanto» sussurrò lei.
Mentre mi spostavo sul terreno morbido e posavo una mano per terra,
mi resi conto all’improvviso che l’erba sotto di me sembrava molto più
reale che in qualunque delle mie visite precedenti. Quando venivo da
Poppy, nei miei sogni, il frutteto era sempre sembrato immerso in un sogno.
Sentivo l’erba ma non i fili d’erba, sentivo la brezza ma non la
temperatura, sentivo gli alberi ma non la corteccia.
Quando sollevai la testa questa notte, in questo sogno, sentii la brezza
calda accarezzarmi il viso. Riuscivo ad avvertirla, reale come la avvertivo
da sveglio. Sentivo l’erba sotto le mie mani, i fili e la ruvidità del terreno. E
quando mi chinai per baciare la spalla di Poppy, sentii il calore della sua
pelle sulle mie labbra e vidi brividi affiorare sulla sua pelle al mio
passaggio.
Avvertendo lo sguardo intenso di Poppy su di me, sollevai gli occhi e la
vidi osservarmi con occhi sgranati, pieni di aspettativa.
E allora capii.
Compresi perché tutto questo mi sembrava così reale. Il mio cuore iniziò
ad accelerare nel petto. Perché se questo era reale… Se avevo afferrato
bene…
«Poppymin?» Chiesi e presi un respiro profondo. «Questo non è un
sogno… Vero?» Poppy si spostò, per mettersi in ginocchio davanti a me, e
mi posò le mani delicate sulle guance. «No, piccolo» sussurrò e cercò i miei
occhi.
«Come?» Mormorai, confuso.
Lo sguardo di Poppy si addolcì. «È successo rapidamente, serenamente,
Rune. La tua famiglia sta bene, e sono felici che tu sia in un posto migliore.
Hai vissuto una vita breve, ma piena. Una bella vita, quella che ho sempre
sognato che tu avessi».
Mi pietrificai. «Vuoi dire che…?» Le chiesi.
«Sì, piccolo» rispose Poppy. «Sei tornato a casa. Sei tornato a casa da
me».
Un sorriso enorme si allargò sulle mie labbra, e un’ondata di pura
felicità mi travolse. Incapace di resistere, mi precipitai con le labbra sulla
bocca di Poppy, lì in attesa. Nell’attimo in cui assaporai il suo dolce sapore
sulle labbra, provai una pace profonda che mi riempì dall’interno.
Tirandomi indietro, premetti la fronte contro la sua.
«Potrò stare qui con te? Per sempre?» Chiesi, pregando che fosse vero.
«Sì» rispose dolcemente Poppy, e riuscii ad avvertire la totale serenità
della sua voce. «La nostra prossima avventura».
Questo era reale.
Era reale.
La baciai di nuovo, lentamente e delicatamente. Dopo il bacio, gli occhi
di Poppy rimasero chiusi, e mentre un rossore ricopriva le sue bellissime
guance con le fossette, sussurrò: «Un bacio eterno col mio Rune… Nel
nostro frutteto… Quando alla fine è tornato a casa».
Sorrise.
Sorrisi.
E poi lei aggiunse: «…E il mio cuore è quasi scoppiato».
Ci sono state TANTE canzoni che mi hanno aiutato a scrivere questa
storia. Ma ci sono stati due gruppi musicali che hanno fondamentalmente
costituito l’intera colonna sonora.
Di solito, nelle mie colonne sonore, vario da un genere all’altro, ma
volevo restare fedele all’ispirazione, e mostrarvi le canzoni che mi hanno
aiutato a creare il racconto di Poppy e Rune.
One Direction
Infinity
If I Could Fly
Walking in the Wind
Don’t Forget Where You Belong
Strong
Fireproof
Happily
Something Great
Better Than Words
Last First Kiss
I Want to Write You a Song
Love You Goodbye
Little Mix
Secret Love Song Pt II
I Love You
Always Be Together
Love Me or Leave Me
Turn Your Face
Altri Artisti
Eyes Shut - Years & Years
Heal - Tom Odell
Can’t Take You With Me - Bahamas
Let The River In - Dotan
Are You With Me - Suzan & Freek
Stay Alive - José González
Beautiful World - Aiden Hawken
Il Cigno (Dal Carnevale degli Animali) - Camille Saint-Saëns
When We Were Young - Adele
Footprints - Sia
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Over and Over Again - Nathan Sykes
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