Sei sulla pagina 1di 306

Indice

Copertina
Frontespizio
Colophon
Prologo
1. Cuori infranti e vasetti di baci
2. Note musicali e fuochi di falò
3. Dune di sabbia e lacrime di sale
4. Silenzio
5. Antichi amanti e nuovi sconosciuti
6. Corridoi affollati e cuori trafitti
7. Labbra tradite e verità crudeli
8. Respiri interrotti e anime tormentate
9. Primi appuntamenti e sorrisi con le fossette
10. Mani intrecciate e sogni risvegliati
11. Ali che si librano e stelle che si spengono
12. Canzoni col cuore e bellezza riscoperta
13. Nuvole nere e cieli azzurri
14. Ciliegi fioriti e pace ritrovata
15. Raggi di luna nel cuore e soli splendenti nei sorrisi
16. Sogni promessi e momenti catturati
Epilogo
Questo libro è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi, marchi, media ed episodi descritti
sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono utilizzati in modo fittizio. L’ autore riconosce lo
status del marchio di fabbrica e i proprietari del marchio dei vari prodotti, band e/o ristoranti
menzionati in questo romanzo, che sono stati usati senza permesso.
La pubblicazione/uso di questi marchi non è autorizzata, associata o sponsorizzata dai proprietari del
marchio. Qualsiasi somiglianza con persone reali viventi o defunte, eventi o luoghi è puramente
causale.

Titolo originale: A thousand boy kisses

Copyright © 2016 by Tillie Cole


Published by arrangement with
The Italian Literary Agency and Mcintosh and Otis Inc

Traduzione dall’inglese di Monica Ricco

Traduzione dal norvegese di Gitte Doherty

Prima edizione: giusno 2018

© 2018 Always Publishing s.r.l. - Salerno

All rights reserved.


No Part of this publication may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic
or mechanical, including photography, recording, or any information storage and retrieval system
without the prior written consent from the publisher and author, except in the instance of quotes for
reviews.
No part of this book may be uploaded without the permission of the publisher and author, nor be
otherwise circulated in any form of binding or cover other than that in which it is originally
published.
This is a work of fiction and any resemblance to persons, living or dead, or places, actual events or
locales is purely coincidental.
The characters and names are products of the author’s imagination and used fictitiously.
The publisher and author acknowledge the trademark status and trademark ownership of all
trademarks, service marks and word marks mentioned in this book.

ISBN 978-88-85603-12-7

www.alwayspublishingeditore.com

Cover design © Hang Le

Stampato nel giugno 2018 da Grafica Metelliana s.p.a, Mercato San Severino (SA).
A thousand boy kisses
A chi crede nell’amore vero,
epico, quello che strazia l’anima.
Questo è per voi.
Rune

Ci sono stati esattamente quattro momenti che hanno segnato la mia vita.
Questo è stato il primo.

Blossom Grove, Georgia Stati Uniti d’America


Dodici anni fa
Età: cinque anni

«Jeg vil dra! Nå! Jeg vil reise hjem igjen!» Gridai più forte che potevo,
dicendo a mia madre che volevo andare via, ora! Volevo tornare a casa!
«Non torneremo a casa, Rune. E non partiamo. Questa è casa nostra
adesso» rispose in inglese. Si accovacciò e mi guardò dritto negli occhi.
«Rune» mi disse dolcemente, «so che non volevi andartene da Oslo, ma tuo
padre ha un nuovo lavoro qui in Georgia». La sua mano scivolò su e giù
lungo il mio braccio, ma non riuscì a farmi sentire meglio, nemmeno un
po’. Non volevo stare in questo posto, in America. Volevo tornare a casa.
«Slutt å snakke engelsk!» Risposi di scatto. Odiavo parlare inglese. Da
quando eravamo partiti per l’America dalla Norvegia, mamma e papà
volevano parlare con me esclusivamente in inglese. Dicevano che dovevo
fare pratica.
Io non volevo!
Mia madre si alzò e sollevò una scatola da terra. «Siamo in America,
Rune. Qui si parla inglese. Parli inglese sin da quando hai imparato il
norvegese. È ora che tu lo usi».
Non mi smossi, guardando di traverso mia madre mentre mi aggirava ed
entrava in casa. Poi mi guardai intorno, esaminando la piccola strada dove
vivevamo ora. C’erano otto case. Erano tutte grandi, ma apparivano una
diversa dall’altra. La nostra era dipinta di rosso, con le finestre bianche e
un ampio portico. La mia stanza era grande e si trovava al piano terra.
Questo credevo davvero che fosse fico. O qualcosa del genere. Non avevo
mai dormito di sotto prima, a Oslo la mia stanza era al piano di sopra.
Guardai le case. Erano tutte dipinte con colori brillanti: azzurri, gialli,
rosa… Poi guardai la casa accanto alla mia. Era proprio la porta accanto,
dividevamo un fazzoletto di erba. Entrambe le case erano grandi, e anche i
nostri cortili, ma non esisteva un recinto o un muro tra esse. Se avessi
voluto, avrei potuto correre nel loro cortile e niente mi avrebbe fermato. La
casa era di un bianco brillante, circondata da un porticato. Avevano delle
sedie a dondolo e una grande altalena sul davanti. Gli infissi delle finestre
erano dipinti di nero e c’era una finestra di fronte alla mia camera da letto.
Proprio di fronte! La cosa non mi piaceva. Non mi piaceva che potessi
spiare nella loro stanza da letto e loro nella mia.
C’era una pietra a terra. Le diedi un calcio, guardandola rotolare giù
per la strada. Mi girai per seguire mia mamma, ma poi sentii un rumore.
Veniva dalla casa accanto alla nostra. Guardai verso la loro porta
d’ingresso, ma non vidi nessuno uscire. Stavo salendo gli scalini del mio
portico quando vidi qualcosa muoversi sul lato della casa, dalla finestra
della stanza da letto della casa accanto, quella di fronte alla mia.
La mia mano si bloccò sulla ringhiera e vidi una bambina, con un
vestito azzurro, che stava scavalcando la finestra. Saltò giù sull’erba e si
pulì le mani sulle cosce.
Mi accigliai, con le sopracciglia curvate verso il basso, mentre
aspettavo che lei alzasse la testa. Aveva dei capelli castani, raccolti in alto
sulla testa come il nido di un uccello e di lato portava un grosso fiocco
bianco.
Quando guardò in su, guardò dritto verso di me. Poi sorrise. Mi fece un
sorriso enorme. Agitò la mano per salutarmi, veloce, poi di corsa si fermò
davanti a me.
Allungò la mano. «Ciao, mi chiamo Poppy Litchfield, ho cinque anni e
vivo alla porta accanto».
Guardai la bambina. Aveva un accento strano. Faceva assumere alle
parole in inglese un suono diverso da quello che avevo imparato in
Norvegia. La bambina, Poppy, aveva una macchia di fango sul viso e stivali
da pioggia di un giallo brillante, con un grosso pallone rosso disegnato sul
lato.
Aveva un aspetto strano.
La percorsi con lo sguardo dal basso verso l’alto e le fissai la mano. La
teneva ancora protesa verso di me. Non sapevo cosa fare. Non sapevo cosa
volesse.
Poppy sospirò. Scuotendo il capo, si allungò a prendere la mia mano e
la spinse nella sua. Le agitò insieme su e giù due volte e disse: «Una stretta
di mano. Mia nonna dice che si deve stringere la mano alla gente nuova
che si incontra». Indicò le nostre mani. «Questa era una stretta di mano. E
sono stata gentile perché non ti conosco».
Non dissi nulla, per qualche strana ragione la voce non mi uscì.
Guardando in basso, capii che era perché le nostre mani erano ancora
unite.
Aveva del fango anche sulle mani. A dire il vero, aveva fango
dappertutto.
«Come ti chiami?» Chiese Poppy. Aveva la testa inclinata di lato. Un
ramoscello le era rimasto impigliato nei capelli. «Ehi» mi richiamò, dando
uno strattone alle nostre mani. «Ti ho chiesto il tuo nome».
Mi schiarii la voce. «Mi chiamo Rune, Rune Erik Kristiansen».
Poppy fece una smorfia, le sue grosse labbra rosa protese all’infuori
comicamente. «Parli proprio strano» si lasciò sfuggire.
Ritrassi la mia mano di scatto.
«Nei det gjør jeg ikke!» Scattai. Il suo viso si imbronciò ancora di più.
«Cosa hai detto?» Chiese Poppy, mentre io mi giravo per rientrare in
casa. Non volevo più parlarle.
Arrabbiato, mi girai indietro. «Ho detto: ‘No, non è vero!’. Stavo
parlando norvegese!» Spiegai, in inglese questa volta. Gli occhi verdi di
Poppy si spalancarono.
Si avvicinò con dei piccoli passi, sempre più vicina, e chiese:
«Norvegese? Come i vichinghi? Mia nonna mi ha letto un libro sui
vichinghi. Diceva che venivano dalla Norvegia». I suoi occhi si fecero
ancora più grandi. «Rune, tu sei un vichingo?» La sua voce era diventata
tutta uno squittio. Mi fece sentire bene. Spinsi il petto in fuori. Mio padre
diceva sempre che ero un vichingo, come tutti gli uomini della mia famiglia.
Eravamo dei vichinghi grandi e forti.
«Ja», dissi. «Siamo veri vichinghi della Norvegia».
Sul viso di Poppy si aprì un enorme sorriso, e una sonora risatina da
bambina esplose dalla sua bocca. Sollevò la mano e mi toccò i capelli.
«Ecco perché hai lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri come cristalli.
Perché sei un vichingo. All’inizio pensavo somigliassi a una bambina...»
«Non sono una bambina!» La interruppi, ma a Poppy sembrava non
importare.
Passai la mano tra i miei lunghi capelli. Mi arrivavano fino alle spalle.
Tutti i ragazzi a Oslo avevano i capelli così.
«Ma ora so che è perché sei un vichingo vero. Come Thor. Anche lui
aveva lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri! Sei proprio uguale a Thor!»
«Ja» assentii. «Come Thor. E lui è il dio più forte di tutti».
Poppy annuì, e mi mise le mani sulle spalle. Si era fatta tutta seria in
viso e la sua voce si era ridotta a un sospiro. «Rune, questo non lo dico mai
a nessuno, ma io parto per delle avventure».
Feci una smorfia confusa. Non capivo. Poppy si avvicinò ancora e mi
guardò negli occhi. Strinse forte le mie braccia. Piegò la testa da un lato. Si
guardò bene intorno, poi si sporse verso di me per spiegare. «In genere non
porto persone con me nei miei viaggi, ma tu sei un vichingo, e tutti
sappiamo che i vichinghi crescono grandi e forti, e sono davvero tanto
bravi nelle avventure e le esplorazioni, nelle lunghe camminate e a
catturare i cattivi… E tutto questo genere di cose!»
Ero ancora confuso, ma poi Poppy fece qualche passo indietro e mi
porse nuovamente la mano. «Rune» disse, con voce seria e salda, «tu vivi
proprio alla porta accanto alla mia e sei un vichingo e io sono innamorata
dei vichinghi. Credo che dovremmo essere migliori amici».
«Migliori amici?» Chiesi.
Poppy annuì e spinse la mano ancora di più verso di me. Lentamente
allungai la mia, afferrai la sua mano e le diedi due strette, come mi aveva
mostrato.
Una stretta di mano.
«Quindi adesso siamo migliori amici?» Chiesi, quando Poppy ritirò la
sua.
«Sì!» Rispose con entusiasmo. «Poppy e Rune». Si portò un dito al
mento e guardò in alto. Nuovamente spinse le labbra in fuori, come se
stesse pensando intensamente. «Suona bene, non trovi? ‘Poppy e Rune,
migliori amici all’infinito!’»
Annuii, perché suonava davvero bene. Poppy mise la mano nella mia.
«Mostrami la tua stanza! Voglio raccontarti la prossima avventura per cui
partiremo». Iniziò a trascinarmi avanti e corremmo in casa.
Quando aprimmo la porta della mia camera, Poppy si precipitò
direttamente verso la mia finestra. «Questa è la stanza proprio di fronte
alla mia!»
Feci di sì col capo e lei squittì, correndo verso di me e prendendo
ancora una volta la mia mano nelle sue. «Rune!» Esclamò eccitata,
«possiamo parlare di notte, e fare dei walkie-talkie con lattine e corde.
Possiamo sussurrarci i nostri segreti mentre tutti gli altri stanno dormendo,
e possiamo fare dei piani, e giocare, e…»
Poppy continuava a parlare, ma non mi dispiaceva. Mi piaceva il suono
della sua voce. Mi piaceva la sua risata e mi piaceva il grosso fiocco
bianco che aveva in testa.
Forse la Georgia non sarebbe stata poi così male dopo tutto, pensai, non
se Poppy Litchfield fosse diventata la mia migliore amica.

E Poppy lo diventò, da quel giorno in poi.


Poppy e Rune.
Migliori amici all’infinito.
O così credevo.
Strano come cambiano le cose.
Poppy

Nove anni fa
Età: otto anni

«Dove stiamo andando, papà?» Chiesi mentre mi prendeva teneramente


la mano, guidandomi verso l’auto. Guardai indietro verso la mia scuola,
chiedendomi perché mi stesse portando via prima dalle lezioni. Eravamo
solo alla pausa pranzo. Non sarei dovuta uscire adesso.
Mio padre non disse nulla mentre camminavamo, mi strinse solo la
mano. Cercai con lo sguardo lungo i cancelli della scuola, una strana
sensazione mi premeva sullo stomaco. Mi piaceva la scuola, mi piaceva
imparare, e subito dopo avrei avuto storia. Era in assoluto la mia materia
preferita. Non volevo perdermela.
«Poppy!» Rune, il mio migliore amico, era davanti al cancello e mi
guardava andare via. Con le mani stringeva forte le sbarre di metallo.
«Dove stai andando?» Gridò. In classe, io mi sedevo accanto a Rune.
Stavamo sempre insieme. La scuola non era divertente se non c’era l’altro.
Sollevai la testa verso il viso di mio padre per avere delle risposte, ma
lui non mi guardava. Rimaneva in silenzio.
Girandomi verso Rune, urlai: «Non lo so!»
Rune continuò a guardarmi per tutto il tempo, fino alla macchina. Salii
dietro, mi arrampicai sul mio seggiolino, e mio padre mi agganciò.
Sentii la campanella risuonare nel cortile della scuola, a segnalare la fine
della pausa pranzo. Guardai dal finestrino e vidi tutti i bambini rientrare a
scuola, tutti tranne Rune. Rune rimase al cancello a guardarmi. I suoi lunghi
capelli biondi svolazzavano al vento mentre mimava la domanda, «Tutto
bene?». Ma mio padre entrò nella macchina e iniziò a guidare prima che
potessi rispondere.
Rune corse lungo la cancellata, seguendo la nostra auto, fino a che la
signora Davis arrivò e lo fece rientrare.
Quando non si vedeva più la scuola, mio padre cominciò. «Poppy?»
«Sì papà?» Replicai.
«Tu lo sai che la nonna vive con noi da un bel po’ ormai?»
Feci segno di sì con la testa. Mia nonna si era trasferita nella stanza di
fronte alla mia, un po’ più in fondo. Mia mamma aveva detto che era perché
aveva bisogno di aiuto. Ero nata da poco quando mio nonno era morto. Mia
nonna aveva vissuto per conto suo per anni, fino a quando non era venuta a
vivere da noi.
«Ti ricordi cosa ti abbiamo detto io e la mamma sul perché? Perché la
nonna non poteva più vivere per conto suo?»
Inspirai con il naso e sussurrai: «Sì. Perché aveva bisogno del nostro
aiuto. Perché è malata». Mentre parlavo, mi si rivoltò lo stomaco. La nonna
era la mia migliore amica. Be’, lei e Rune erano in parità in cima alla lista,
in assoluto. Mia nonna diceva che ero proprio come lei.
Prima che si ammalasse vivevamo insieme tante avventure. Ogni sera mi
leggeva le storie dei grandi esploratori del mondo. Mi raccontava tutto della
storia, di Alessandro Magno, dei Romani, e dei miei preferiti, i samurai
giapponesi. Erano anche i preferiti di nonna.
Sapevo che mia nonna era malata, ma non lo aveva mai dato a vedere.
Sorrideva sempre, mi abbracciava stretta e mi faceva ridere. Diceva sempre
che aveva i raggi di luna nel cuore e il sole splendente nel sorriso. La nonna
mi aveva spiegato che significava che era felice.
E rendeva felice anche me.
Ma nelle ultime settimane la nonna aveva dormito tanto. Era così stanca
da non riuscire a fare molto altro. Infatti, la maggior parte delle sere ero io
che adesso dovevo leggere per lei, mentre mi accarezzava i capelli e mi
sorrideva. Ed era bello, perché i sorrisi di nonna erano i migliori che si
potessero ricevere.
«Giusto, zucchetta, lei è malata. A dire il vero, è molto, molto malata.
Capisci?»
Corrugai la fronte ma annuii. «Sì».
«Ecco perché stiamo andando a casa presto» spiegò. «Ti sta aspettando.
Ti vuole vedere. Vuole vedere la sua piccola amica».
Non capivo perché mio padre volesse portarmi a casa subito per vedere
la nonna, quando la prima cosa che facevo ogni sera dopo la scuola era
andare nella sua stanza e chiacchierare con lei mentre era a letto. A lei
piaceva ascoltare tutto quello che avevo fatto durante il giorno.
Svoltammo per la nostra strada e parcheggiammo davanti al garage. Mio
padre non si mosse per alcuni secondi ma poi si voltò verso di me. «So che
hai solo otto anni, zucchetta, ma oggi devi fare la bimba grande e
coraggiosa, ok?» Feci di sì con la testa e papà mi rivolse un sorriso, uno
triste. «Così mi piaci».
Uscì dall’auto e mi raggiunse al sedile di dietro. Prendendomi per mano,
il mio papà mi fece uscire dall’auto e mi accompagnò verso casa. Mi
accorsi che c’erano più macchine del solito. Stavo giusto per aprire bocca e
chiedere di chi erano tutte quelle auto, quando la signora Kristiansen, la
mamma di Rune, attraversò il cortile tra le nostre case con un grosso piatto
di cose da mangiare in mano.
«James!» Chiamò, e mio padre si voltò per salutarla.
«Adelis, ehi» le rispose. La mamma di Rune si fermò di fronte a noi.
Quel giorno portava i suoi lunghi capelli biondi sciolti. Erano dello stesso
colore di quelli di Rune. La signora Kristiansen era davvero bella. Mi
piaceva tanto. Era gentile, e mi diceva che ero la figlia che non aveva mai
avuto.
«Ho fatto questo per voi. Per favore dì a Ivy che vi sto pensando tutti».
Mio padre mi lasciò la mano per prendere il piatto.
La signora Kristiansen si accovacciò e mi stampò un bacio sulla guancia.
«Farai la brava, Poppy, ok?»
«Sì, signora» le confermai, e la guardai attraversare il giardino per
rientrare in casa sua.
Mio padre sospirò, poi mi indicò col capo di seguirlo all’interno.
Appena attraversammo la porta d’ingresso, vidi le mie zie e i miei zii seduti
sui divani, e i miei cugini seduti sul pavimento del soggiorno, che
giocavano con i loro giocattoli. Mia zia Silvia era seduta con le mie sorelle,
Savannah e Ida. Erano più piccole di me, avevano solo quattro e due anni.
Quando mi videro mi fecero ciao con la mano, ma zia Silvia continuò a
tenerle sedute in braccio a lei. Nessuno parlava, ma molti si stavano
asciugando gli occhi. La maggior parte piangeva. Ero così confusa.
Mi appoggiai alla gamba di papà, aggrappandomi forte. C’era qualcuno
all’ingresso della cucina. Mia zia Della, DeeDee come la chiamavo sempre
io. Lei era in assoluto la mia zia preferita. Era giovane e divertente, e mi
faceva sempre ridere. Anche se mia madre era più grande della sorella, si
assomigliavano molto. Tutte e due avevano i capelli castani lunghi e gli
occhi verdi come me. Ma DeeDee era super bella. Un giorno avrei voluto
essere tale e quale a lei.
«Ehi, Pops!» Mi salutò, ma mi accorsi che aveva gli occhi rossi, e la sua
voce aveva un suono strano. Poi DeeDee guardò mio padre, gli prese il
piatto di cibo dalle mani e gli suggerì: «Vai con Poppy, James. È quasi ora».
Mi avviai con mio padre, ma mi guardai indietro quando vidi che
DeeDee non ci stava seguendo. Aprii la bocca per chiamarla, ma
improvvisamente lei si voltò, mise il piatto pieno sulla credenza e si prese la
testa tra le mani. Stava piangendo, piangeva così forte che degli strani
rumori le salivano dalla bocca.
«Papà?» Chiesi in un sussurro, sentendo una strana sensazione allo
stomaco. Mio padre mi mise un braccio intorno alle spalle e mi portò via da
lì. «Va tutto bene, zucchetta. DeeDee ha solo bisogno di stare un minuto da
sola».
Arrivammo davanti alla camera della nonna. «Dentro c’è mamma,
zucchetta, e Betty, c’è anche l’infermiera della nonna» mi spiegò papà,
proprio prima di aprire la porta.
Aggrottai la fronte. «Perché c’è un’infermiera?»
Papà spinse la porta della stanza di nonna, e mia madre si alzò dalla
sedia accanto al letto. Aveva gli occhi rossi e i capelli tutti scompigliati. Ma
i capelli di mamma non erano mai in disordine. In fondo alla stanza vidi
l’infermiera. Stava scrivendo qualcosa su un blocco. Quando entrai, mi
sorrise e mi salutò con la mano. Poi guardai verso il letto. La nonna era
stesa. Sentii lo stomaco sottosopra quando vidi che aveva un ago infilato nel
braccio, con un tubo trasparente che portava a una borsa appesa a un gancio
di metallo accanto a lei. Rimasi immobile, improvvisamente spaventata. Poi
mia madre mi si avvicinò e la nonna guardò nella mia direzione. Sembrava
diversa dalla sera precedente. La pelle era più pallida, gli occhi non così
pieni di luce.
«Dov’è la mia piccola amica?» La voce di nonna era bassa e strana, ma
il sorriso che mi rivolse mi riempì di calore.
Ridacchiando, corsi al fianco del letto della nonna. «Sono qui! Sono
tornata prima da scuola per vederti!»
La nonna sollevò un dito e tamburellò sulla punta del mio naso. «Ecco la
mia ragazza!»
Le risposi con un gran sorriso.
«Volevo solo stare un po’ con te. Mi sento sempre meglio quando la luce
della mia vita è seduta accanto a me e parliamo un po’».
Sorrisi di nuovo. Perché io ero la ‘luce della sua vita’, ‘la pupilla dei
suoi occhi’. Mi chiamava sempre così. La nonna mi aveva detto, in segreto,
che voleva dire che ero la sua preferita. Mi aveva raccomandato di tenerlo
per me così le mie sorelle e i miei cugini non si sarebbero dispiaciuti.
Era il nostro segreto.
Due mani improvvisamente mi strinsero per la vita, e mio padre mi
sollevò per farmi sedere accanto alla nonna sul letto. La nonna mi prese la
mano. Strinse forte le mie dita e mi accorsi solo di quanto le sue mani
fossero fredde. La nonna fece un sospiro profondo, ma era un suono strano,
come se qualcosa si stesse rompendo nel petto.
«Nonna, stai bene?» Chiesi e mi avvicinai a lei per darle un bacio
leggero sulla guancia. Normalmente lei odorava di tabacco, per tutte le
sigarette che fumava. Ma oggi non riuscivo a sentirle l’odore di fumo.
La nonna mi sorrise. «Sono stanca, ragazza mia. E…», ingoiò un altro
respiro e per un momento serrò gli occhi. Quando li riaprì, si aggiustò sul
letto e continuò. «E starò via per un po’».
Mi accigliai. «Dove vai nonna? Posso venire anche io?» Partivamo
sempre insieme per le nostre avventure.
La nonna sorrise ancora, ma scosse la testa. «No, bambina. Non puoi
venire nel posto dove sto andando. Non ancora. Ma un giorno, tra molti
anni, mi rivedrai di nuovo».
Mia madre, alle mie spalle singhiozzò, ma io fissavo mia nonna,
confusa. «Ma dove stai andando nonna? Non capisco».
«A casa, tesoro» rispose mia nonna. «Sto andando a casa».
«Ma tu sei a casa» ribattei.
«No», nonna scosse la testa, «questa non è la nostra vera casa bambina.
Questa vita… be’, è solo una meravigliosa grande avventura finché ce
l’abbiamo. Un’avventura da goderci e da amare con tutto il nostro cuore
prima di imbarcarci nella più grande avventura di tutte».
I miei occhi si spalancarono per l’entusiasmo, ma poi mi sentii triste.
Tanto triste.
Il labbro inferiore incominciò a tremarmi. «Ma nonna, noi siamo
migliori amiche. Partiamo sempre insieme per le avventure. Non ci puoi
andare senza di me».
Le lacrime avevano cominciato a scendermi lungo le guance. La nonna
sollevò la sua mano libera per asciugarmele. La mano era fredda proprio
come quella che stavo stringendo. «Lo so, partiamo sempre insieme per
avventure, ragazza mia, ma non questa volta».
«Non hai paura di andarci da sola?» Chiesi, ma la nonna sospirò
soltanto.
«No piccolina, non bisogna avere paura. Non sono per niente
spaventata».
«Ma io non voglio che tu vada» supplicai, con la gola che iniziava a
farmi male.
La mano della nonna rimase sulla mia guancia. «Mi vedrai ancora nei
tuoi sogni. Questo non è un addio».
Sbattei le palpebre una volta, poi ancora. «Come tu vedi il nonno? Dici
sempre che ti viene a trovare nei tuoi sogni. Lui ti parla e ti bacia la mano».
«Esattamente così» rispose. Mi asciugai via le lacrime e la nonna mi
strinse forte la mano poi guardò la mamma dietro di me. Quando tornò a
guardare me annunciò: «Per quando non ci sarò, ho una nuova avventura
per te».
Mi immobilizzai. «Davvero?»
Da dietro, mi arrivò il suono di qualcosa di vetro che veniva poggiato sul
comodino. Volevo voltarmi per guardarmi intorno, ma prima che potessi
farlo la nonna mi chiese: «Poppy, qual è quello che ti dico sempre essere il
ricordo più bello della mia vita? Quello che mi fa sempre sorridere?»
«I baci del nonno. I suoi dolci baci. Tutti i ricordi dei baci che hai mai
ricevuto da lui. Mi hai detto sono in assoluto i tuoi ricordi preferiti. Non i
soldi, non gli oggetti, ma i baci che hai ricevuto dal nonno. Perché erano
tutti speciali e ti facevano sorridere, ti facevano sentire amata, perché lui era
la tua anima gemella. Il tuo sempre e per sempre».
«Giusto, bambina» replicò lei. «Quindi, per la tua avventura…» La
nonna guardò nuovamente la mamma e questa volta, quando riuscii a
voltarmi, la vidi che reggeva un grosso vasetto riempito fino all’orlo di
tanti, tanti cuori di carta rosa.
«Wow! Cos’è?» Chiesi, sentendomi entusiasta.
Mamma lo mise tra le mie mani, e la nonna aprì il coperchio. «Sono
mille baci. O almeno, lo saranno quando li avrai riempiti tutti».
Mi si spalancarono gli occhi mentre cercavo di contare tutti i cuori. Ma
non ci riuscivo. Mille erano troppi!
«Poppy» mi chiamò la nonna, mentre alzavo lo sguardo per incontrare i
suoi occhi verdi che brillavano. «Questa è la tua avventura. Così voglio che
tu mi ricordi quando non ci sarò».
Guardai di nuovo il vasetto. «Ma non capisco».
La nonna allungò un braccio verso il comodino e prese una penna. Me la
passò e cominciò a spiegarmi. «Sono malata da un po’, bambina, ma i
ricordi che mi fanno sentire meglio sono quelli legati ai baci di tuo nonno.
Non semplicemente i baci di ogni giorno, ma quelli speciali, quelli che
quasi mi facevano scoppiare il cuore nel petto. Quelli che il nonno mi dava
perché non li dimenticassi mai. I baci sotto la pioggia, i baci al tramonto,
quelli che ci siamo scambiati al ballo della scuola… quelli con lui che mi
teneva stretta e mi sussurrava all’orecchio che ero la più bella ragazza della
sala».
Ascoltavo e ascoltavo e il mio cuore si riempiva.
La nonna indicò tutti i cuori nel vasetto. «Questo vasetto è perché tu
possa conservare tutti i baci che riceverai, Poppy. Tutti i baci che ti faranno
quasi scoppiare il cuore, i più speciali, quelli che vorrai ricordare quando
sarai vecchia e grigia come me. Quelli che, quando ti torneranno in mente,
ti faranno sorridere».
Continuò, dando dei colpetti con la penna. «Quando troverai un ragazzo
che sarà il tuo sempre e per sempre, ogni volta che riceverai da lui un bacio
davvero speciale, prendi un cuore. Scrivici dove eri quando sei stata
baciata. Poi, quando sarai anche tu una nonna, la tua nipotina, la tua
migliore amica, potrà ascoltare tutto di questi baci, proprio come ti ho
raccontato io dei miei. Avrai un tesoro nel vasetto di tutti i baci preziosi che
hanno fatto librare in aria il tuo cuore».
Fissai il vasetto con un lungo sospiro. «Mille sono tanti. Sono tanti baci,
nonna!»
La nonna rise. «Non sono così tanti come pensi, bambina. Soprattutto
quando incontri la tua anima gemella. Hai molti anni davanti a te».
La nonna risucchiò un respiro e la sua faccia si contorse come se
provasse dolore. «Nonna!» Chiamai, sentendomi molto spaventata
all’improvviso. La sua mano strinse forte la mia. La nonna aprì gli occhi, e
questa volta rotolò una lacrima lungo la sua guancia pallida. «Nonna?»
Chiamai di nuovo, questa volta più a bassa voce.
«Sono stanca, bambina. Sono stanca, ed è quasi giunto il momento di
andare. Volevo solo vederti un’ultima volta, per darti questo vasetto. Per
darti un bacio così da ricordarti ogni giorno in paradiso finché non ti rivedrò
ancora».
Il mio labbro inferiore incominciò di nuovo a tremare e la nonna scosse
la testa. «Niente lacrime, piccolina. Questa non è la fine. È solo una piccola
pausa tra le nostre vite. E io veglierò su di te, ogni singolo giorno. Sarò nel
tuo cuore. Sarò nel boschetto in fiore che amiamo così tanto, nel sole e nel
vento».
Negli occhi della nonna comparve una smorfia di dolore, e le mani della
mamma si posarono sulle mie spalle. «Poppy, dai alla nonna un grosso
bacio. È stanca adesso. Ha bisogno di riposare».
Feci un respiro profondo, mi piegai in avanti e posai un bacio sulla
guancia della nonna. «Ti voglio bene nonna» sussurrai. La nonna mi
accarezzò i capelli.
«Ti voglio bene anch’io, piccolina. Tu sei la luce della mia vita. Non
dimenticare che ti ho amata più di quanto una nonna potrà mai amare la sua
piccola nipotina».
Continuavo a tenerle la mano e non volevo lasciarla andare, ma mio
padre mi sollevò dal letto e la mia mano, alla fine, si separò dalla sua. Mi
aggrappai forte forte al mio vasetto, con le lacrime che cadevano sul
pavimento.
Mio padre mi mise giù e, mentre mi giravo per andare via, la nonna mi
chiamò. «Poppy?» Guardai indietro verso di lei, la nonna stava sorridendo.
«Ricorda, raggi di luna nei cuori e sole splendente nei sorrisi...»
«Lo ricorderò sempre» la rassicurai, ma non mi sentivo felice. Tutto ciò
che provavo era tristezza. Sentivo che la mamma stava piangendo dietro di
me. DeeDee ci passò davanti nel corridoio e mi strinse le spalle. Anche il
suo viso era triste.
Non volevo stare lì. Non volevo restare più in quella casa. Voltandomi,
mi rivolsi a mio padre. «Papà, posso andare nel boschetto?»
Papà sospirò. «Sì, tesoro. Verrò a vedere come stai più tardi. Stai
attenta». Vidi mio padre prendere il telefono e chiamare qualcuno. Chiese di
controllarmi mentre ero nel boschetto, ma scappai prima di scoprire con chi
stesse parlando. Raggiunsi la porta d’ingresso, stringendo sempre al petto il
mio vasetto di mille baci vuoti. Uscii dalla casa di corsa, superai il portico.
Correvo, correvo senza fermarmi mai.
Lacrime mi scorrevano sul viso. Sentii che qualcuno chiamava il mio
nome. «Poppy! Poppy, aspetta!»
Mi voltai e vidi Rune che mi stava guardando. Era sul suo portico, ma
iniziò immediatamente a seguirmi sul prato. Ma io non mi fermai,
nemmeno per Rune. Dovevo arrivare agli alberi di ciliegio in fiore. Era il
posto preferito di mia nonna. Volevo stare nel suo posto preferito. Perché
ero triste che lei stesse andando via. In paradiso.
La sua vera casa.
«Poppy, aspetta! Rallenta!» Urlò Rune mentre io giravo l’angolo per
arrivare al boschetto del parco.
Attraversai di corsa l’ingresso. I grandi ciliegi, che erano tutti in piena
fioritura, mi ricoprivano la testa come un arco. Sotto i miei piedi l’erba era
verde, e in alto, il cielo era azzurro. Petali di un rosa e bianco brillanti
ricoprivano gli alberi. Poi, nell’angolo più remoto del frutteto, c’era l’albero
più grande di tutti, i suoi rami pendevano verso il basso, il tronco era il più
spesso di tutto il boschetto.
Era, in assoluto, il preferito mio e di Rune.
Era anche quello della nonna.
Ero senza fiato.
Quando mi trovai sotto l’albero preferito di nonna, mi accasciai per
terra, tenendo stretto il mio vasetto, mentre le lacrime mi scendevano lungo
le guance. Sentii che Rune si era fermato accanto a me, ma non guardai in
alto.
«Poppymin?» Chiese Rune. Mi chiamava così. Significava ‘la mia
Poppy’ in norvegese. Adoravo quando mi parlava in norvegese.
«Poppymin, non piangere» sussurrò.
Ma non ci riuscivo. Non volevo che mia nonna mi lasciasse, pur sapendo
che doveva farlo. Sapevo che quando sarei ritornata a casa, la nonna non ci
sarebbe stata: non ora, né mai.
Rune si chinò a sedersi accanto a me e mi strinse in un abbraccio. Mi
accoccolai sul suo petto e piansi. Amavo gli abbracci di Rune, mi stringeva
sempre così forte. «Mia nonna, Rune, è malata e se ne sta andando».
«Lo so, la mamma me l’ha detto quando sono tornato da scuola».
Annuii con la testa contro il suo petto. Quando non riuscii più a
piangere, mi misi seduta, asciugandomi le guance. Guardai Rune, che mi
stava osservando. Provai a sorridere e quando lo feci, lui mi prese la mano,
la strinse e se la portò al petto.
«Mi spiace che sei triste» mi disse Rune, mentre mi teneva stretta la
mano. La sua t-shirt era calda di sole. «Non voglio che tu sia triste, mai e
poi mai. Sei la mia Poppymin, tu sorridi sempre. Tu sei sempre allegra».
Tirai su col naso e poggiai la testa sulla sua spalla. «Lo so. Ma nonna è
la mia migliore amica, Rune, e non l’avrò più».
Rune all’inizio rimase in silenzio, poi mi rispose: «Anche io sono il tuo
migliore amico. E non vado da nessuna parte. Promesso. Sempre e per
sempre».
Il petto, che mi faceva così tanto male, improvvisamente non faceva più
così male. Annuii. «Poppy e Rune all’infinito» gli dissi.
«All’infinito» ripeté lui.
Restammo in silenzio per un po’, fino a quando Rune non mi chiese: «A
che serve quel vasetto? Che c’è dentro?»
Ritrassi la mano, presi il vasetto e lo sollevai in aria. «Mia nonna mi ha
affidato una nuova avventura. Una che durerà tutta la mia vita».
Le sopracciglia di Rune si corrucciarono e i suoi lunghi capelli biondi gli
ricaddero sugli occhi. Glieli spostai indietro, e quando lo feci mi rivolse il
suo mezzo sorriso. Tutte le ragazze della scuola volevano che lui sorridesse
loro così, me lo avevano detto. Ma lui sorrideva sempre e solo a me. Avevo
detto loro che nessuna in ogni caso avrebbe avuto Rune, lui era il mio
migliore amico e non volevo dividerlo.
Rune indicò il vasetto. «Non capisco».
«Ti ricordi quali erano i ricordi preferiti in assoluto di mia nonna? Te ne
ho già parlato».
Mi accorsi che Rune ci stava pensando su intensamente, poi
improvvisamente si ricordò. «I baci di tuo nonno?»
Feci segno di sì col capo e staccai un petalo rosa pallido da un fiore di
ciliegio sul ramo che pendeva accanto a me. Fissai quel petalo. Erano i
preferiti della nonna. Le piacevano perché non duravano a lungo.
Mi aveva detto che le cose migliori, le più belle, non duravano mai a
lungo. Diceva che un ciliegio in fiore era troppo bello per durare un anno
intero. Era più speciale, perché la sua vita era breve.
Come i samurai, suprema bellezza, morte repentina. Non caprendevo
ancora bene cosa significasse, ma lei diceva che l’avrei capito meglio
quando fossi stata più grande.
Comunque, pensavo avesse ragione. Perché mia nonna non era tanto
vecchia e se ne stava andando via giovane, almeno questo è quello che
aveva detto papà. Forse era per questo che a lei piacevano così tanto i fiori
di ciliegio. Perché lei era esattamente come loro.
«Poppymin?»
La voce di Rune mi fece sollevare lo sguardo.
«Ho ragione? Erano i baci di tuo nonno i preferiti tra i ricordi di tua
nonna?»
«Sì» gli risposi, lasciando cadere il petalo. «Tutti i baci che ha ricevuto e
che le hanno fatto quasi scoppiare il cuore. La nonna diceva che i suoi baci
erano la cosa migliore del mondo. Perché significavano che lui la amava
tanto. Che lui ci teneva a lei. E a lui lei piaceva così com’era».
Rune guardò storto il vasetto e sbuffò. «Ancora non capisco,
Poppymin».
Risi quando sporse le labbra in un broncio e si accigliò in viso. Aveva
delle belle labbra, erano molto carnose e avevano un perfetto arco di
cupido. Aprii il vasetto e tirai fuori un cuore di carta rosa vuoto. Lo tenni
sollevato in aria tra me e Rune. «Questo è un bacio vuoto». Indicai il
vasetto. «La nonna me ne ha dati mille da collezionare nella mia vita».
Rimisi il cuore nel vasetto e gli presi la mano. «Una nuova avventura,
Rune. Collezionare mille baci della mia anima gemella prima di morire».
«Io… Cosa… Poppy? Sono confuso!» Esclamò, ma percepivo la rabbia
nella sua voce. Quando voleva, Rune poteva essere molto lunatico.
Tirai fuori la penna dalla tasca. «Quando il ragazzo che amo mi bacerà,
quando sentirò che sarà così speciale che il cuore potrebbe quasi
scoppiarmi, solo i baci super speciali, scriverò tutti i dettagli su uno di
questi cuori. È per quando sarò grigia e vecchia, e vorrò raccontare ai miei
nipotini tutto sui baci davvero speciali della mia vita. E sul dolce ragazzo
che me li ha dati». Saltai in piedi, in preda all’eccitazione. «Questo è quello
che nonna vuole per me, Rune. Quindi devo iniziare presto! Voglio farlo per
lei».
Anche Rune saltò in piedi. Proprio in quel momento una folata di vento
soffiò i petali dei fiori di ciliegio appena accanto a noi e sorrisi. Ma Rune
non stava sorridendo. Anzi, sembrava davvero arrabbiato.
«Hai intenzione di dare un bacio a un ragazzo, per il tuo vasetto? Uno
speciale? Uno che ami?» Chiese.
Annuii. «Mille baci, Rune! Mille!»
Rune scosse la testa e arricciò di nuovo le labbra. «NO!» Ruggì.
Il sorriso scomparve dal mio viso. «Cosa?» Domandai.
Rune fece un passo verso di me, continuando a scuotere la testa sempre
più forte. «No! Non voglio che baci un ragazzo per il tuo vasetto! Non lo
permetterò!»
«Ma...» Cercai di rispondere, ma Rune mi prese la mano.
«Tu sei la mia migliore amica» insisté, gonfiando il petto e tirando la
mia mano. «Non voglio che baci i ragazzi!»
«Ma devo farlo» spiegai, indicando il vasetto. «Devo farlo per la mia
avventura. Mille baci sono tanti, Rune. Tanti! E tu resterai ancora il mio
migliore amico. Per me, nessuno sarà mai più importante di te, stupidino».
Rune fissò intensamente me, poi il vasetto. Sentivo di nuovo il dolore
nel petto, dall’espressione che aveva in viso potevo vedere che non era
contento. Era di nuovo tornato di cattivo umore.
Mi avvicinai di un passo al mio migliore amico, gli occhi di Rune fissi
nei miei. «Poppymin» disse, e la sua voce si fece più profonda, salda e dura.
«Poppymin! Significa la mia Poppy. All’infinito, sempre e per sempre. Tu
sei la MIA Poppy!»
Aprii la bocca per urlargli contro anche io, per dirgli che si trattava di
un’avventura che dovevo incominciare. Ma appena lo feci, Rune si chinò
verso di me e improvvisamente premette le sue labbra sulle mie.
Rimasi paralizzata.
Non riuscivo a muovere un muscolo mentre sentivo le sue labbra contro
le mie. Erano calde. Lui sapeva di cannella. Il vento soffiò i suoi lunghi
capelli sulle mie guance e iniziarono a solleticarmi il naso.
Rune si tirò indietro, ma il suo viso rimase ancora vicino al mio. Feci per
respirare, ma avevo una strana sensazione nel petto, come se si fosse fatto
leggero e morbido. E il mio cuore batteva così veloce. Così veloce, che mi
posai la mano sul petto per sentirlo che galoppava. «Rune» sussurrai.
Sollevai la mano per posargli un dito sulle labbra. Rune batté le palpebre e
poi le batté ancora mentre mi guardava. Spinsi la mano e premetti le mie
dita sulle sue labbra. «Mi hai baciata» sussurrai, sbalordita.
Rune sollevò la sua mano per racchiudere la mia, poi si portò sul suo
fianco le nostre mani unite. «Io ti darò mille baci, Poppymin. Tutti. Nessuno
ti bacerà mai, tranne me».
Spalancai gli occhi ma il mio cuore non rallentava. «Sarebbe per
sempre, Rune. Non essere mai baciata da nessun altro significa che staremo
insieme sempre e per sempre!»
Rune fece di sì col capo, poi sorrise. Rune non sorrideva molto. Di solito
faceva un mezzo sorriso o un ghigno. Ma avrebbe dovuto sorridere. Era
veramente bello quando lo faceva. «Lo so. Perché noi siamo sempre e per
sempre. All’infinito, ricordi?»
Annuii anche io lentamente e poi inclinai il capo. «Mi darai tutti i miei
baci? Abbastanza per riempire tutto questo vasetto?» Chiesi.
Rune mi rivolse un altro piccolo sorriso. «Tutti. Riempiremo tutto il
vasetto e anche di più. Collezioneremo molto più di mille baci».
Restai a bocca aperta. Improvvisamente mi ricordai del vasetto. Ritirai la
mano così da prendere la penna e aprire il coperchio del vasetto. Tirai fuori
un cuore vuoto e mi sedetti per scrivere. Rune si inginocchiò davanti a me e
posò una mano sulla mia, impedendomi di scrivere.
Alzai lo sguardo, confusa. Lui deglutì, si sistemò i lunghi capelli dietro
l’orecchio, e chiese: «Il tuo… Quando io… Quando ti ho baciato… È
stato… Il tuo cuore è quasi scoppiato? È stato super speciale? Hai detto che
nel vasetto ci possono andare solo i baci super speciali». Le sue guance si
fecero scarlatte e abbassò gli occhi.
Senza pensarci, mi chinai e gettai le braccia intorno al collo del mio
migliore amico. Premetti la guancia contro il suo petto e ascoltai il suo
cuore. Batteva velocemente proprio quanto il mio. «Sì, Rune. È stato così
speciale come solo le cose speciali possono essere».
Sentii Rune che stava sorridendo contro la mia testa, poi mi staccai.
Incrociai le gambe e misi il cuore di carta sul coperchio del vasetto. Rune si
sedette, anche lui a gambe incrociate. «Cosa scriverai?» Mi chiese. Mi
battei la penna sulle labbra mentre ci pensavo intensamente. Mi misi a
sedere dritta e poi mi chinai in avanti, poggiando la penna sulla carta:
Quando finii di scrivere, misi il cuore nel vasetto e chiusi bene il
coperchio. Guardai verso Rune, che mi aveva osservata per tutto il tempo.
«Ecco qui. Il mio primo vero bacio!» Annunciai orgogliosamente.
Rune annuì, ma i suoi occhi si posarono sulle mie labbra. «Poppymin?»
«Sì?» Risposi in un sussurro.
Rune mi prese la mano. Iniziò a tracciare dei disegni sul dorso con la
punta del dito. «Posso… Posso baciarti di nuovo?»
Deglutii, sentendo le farfalle nello stomaco. «Vuoi baciarmi di nuovo…
di già?»
Rune fece segno di sì con la testa. «Già da tempo ti volevo baciare,
ormai. E poi tu sei mia, e mi è piaciuto. Mi è piaciuto baciarti. Sai di
zucchero».
«Ho mangiato un biscotto a pranzo. Al burro e noci pecan. Il preferito di
mia nonna» spiegai.
Rune prese un respiro profondo e si chinò verso di me. I suoi capelli
volarono davanti al viso. «Voglio farlo di nuovo».
«Ok».
E Rune mi baciò.
Mi baciò, mi baciò e mi baciò.
Alla fine della giornata, avevo altri quattro baci nel mio vasetto.
Quando tornai a casa, la mamma mi disse che la nonna era andata in
paradiso. Corsi nella mia stanza il più veloce che potevo. Volevo
immediatamente addormentarmi. Come promesso, la nonna era nei miei
sogni. Così le raccontai tutto dei cinque baci del mio Rune.
Mia nonna mi rivolse un grosso sorriso e mi baciò sulla guancia. Sapevo
che questa sarebbe stata la più grande avventura della mia vita.
Rune

Due anni fa
Età: quindici anni

Scese il silenzio mentre lei si sistemava sul palco. Be’, non c’era silenzio
assoluto, il sangue in tempesta che scorreva nelle mie vene mi rombava
nelle orecchie, mentre Poppy prendeva posto con calma.
Era bellissima, nel suo vestito nero senza maniche, con i lunghi capelli
castani raccolti indietro in uno chignon, con in cima un fiocco bianco.
Sollevando la macchina fotografica che portavo sempre al collo,
avvicinai l’obiettivo all’occhio proprio mentre lei posizionava l’archetto
sulla corda del violoncello.
Mi piaceva sempre catturarla in quel momento. Il momento in cui
chiudeva i suoi grandi occhi verdi. Quel momento in cui sul suo volto
scivolava un’espressione assolutamente perfetta, lo sguardo che aveva
proprio prima che la musica incominciasse. Quello sguardo di pura passione
per i suoni che sarebbero seguiti.
Scattai la foto cogliendo il momento perfetto, e poi la melodia iniziò.
Abbassando la macchina fotografica, mi concentrai solo su di lei. Non
riuscivo a farle delle foto mentre suonava. Non mi concedevo di perdere
nemmeno un minuto di Poppy su quel palco.
Il mio labbro restò sospeso in un piccolo sorriso mentre il suo corpo
iniziava a ondeggiare al suono della musica. Amava questo pezzo, lo
suonava sin da quando avevo memoria. Non aveva bisogno dello spartito,
Greensleeves si riversava fuori dalla sua anima, attraverso l’archetto.
Non potevo fare a meno di fissarla, il cuore che batteva forte come un
cavolo di tamburo, mentre le labbra di Poppy si contraevano. Le sue
profonde fossette spuntavano quando si concentrava sui passaggi difficili.
Continuava a tenere gli occhi chiusi, ma si capiva quali erano le parti della
musica che adorava. La testa le si inclinava da un lato, e un enorme sorriso
si apriva sul suo viso.
La gente non capiva che dopo tutto questo tempo lei era ancora mia.
Avevamo solo quindici anni, ma dal giorno in cui l’avevo baciata nel
boschetto, a otto anni, non c’era stata più nessun’altra. Era come se avessi i
paraocchi. Vedevo solo Poppy. Nel mio mondo, esisteva solo lei.
E lei era diversa da tutte le altre ragazze nella nostra scuola. Poppy era
originale, non popolare. Non le importava di quello che la gente pensava di
lei, non ci aveva mai dato peso. Suonava il violoncello perché lo amava.
Leggeva libri, studiava per piacere, si svegliava all’alba solo per vedere il
sorgere del sole.
Era per questo che lei era il mio tutto. Il mio sempre e per sempre.
Perché lei era unica. Unica in una città piena di bamboline in copia carbone.
Non voleva fare la cheerleader, sparlare o andare dietro ai ragazzi. Lei
sapeva che aveva me, proprio quanto io avevo lei.
Noi eravamo tutto quello di cui avevamo bisogno.
Mi mossi sulla sedia quando il suono del violoncello si fece più lieve,
Poppy stava concludendo il pezzo. Sollevai di nuovo la mia macchina
fotografica e scattai un’ultima foto, proprio mentre Poppy sollevava
l’archetto dalla corda con un’espressione soddisfatta che le ornava il viso
adorabile.
Al suono dell’applauso, abbassai la mia macchina. Poppy spinse via lo
strumento dal petto e si alzò in piedi. Fece un piccolo inchino, poi passò in
rassegna l’auditorium. I suoi occhi incontrarono i miei. Sorrise.
Credetti che il cuore potesse sfondarmi il petto.
Feci un sorrisetto in risposta, spostando via dal viso i miei lunghi capelli
biondi con le dita. Un rossore ricoprì le guance di Poppy, poi lei uscì dal
palco da sinistra, e l’auditorium fu inondato dalla luce. Poppy era stata
l’ultima a esibirsi. Era sempre lei che chiudeva lo spettacolo. Nel distretto,
era la migliore musicista della nostra età. Secondo me, lei offuscava persino
tutti quelli delle tre fasce d’età successive.
Una volta le avevo chiesto come faceva a suonare così. Lei mi aveva
risposto semplicemente che le melodie sgorgavano dal suo archetto con la
stessa facilità con cui respirava. Non riuscivo a immaginare cosa
significasse avere quel tipo di talento. Ma quella era Poppy, la ragazza più
straordinaria del mondo.
Mentre l’applauso si stava spegnendo, la gente cominciava a uscire
dall’auditorium. Una mano mi strinse il braccio. La signora Litchfield si
stava asciugando una lacrima, piangeva sempre quando Poppy si esibiva.
«Rune, tesoro, dobbiamo portare queste due a casa. Vai tu a cercare
Poppy?»
«Sì, signora» replicai e sorrisi dolcemente a Ida e Savannah, le sorelline
di nove e undici anni di Poppy che dormivano sulle sedie.
Non erano molto appassionate di musica, non come Poppy. Il signor
Litchfield roteò gli occhi e mi fece un piccolo gesto di saluto, poi si voltò
per svegliare le bambine e riportarle a casa. La signora Litchfield mi baciò
sulla testa, poi i quattro andarono via.
Mentre cercavo di uscire dal corridoio tra le sedie, sentii sussurri e
risatine provenire dalla mia destra. Lanciando uno sguardo alle poltrone,
individuai un gruppo di matricole che stavano guardando tutte dalla mia
parte. Chinai la testa, ignorando i loro sguardi. Succedeva spesso. Non
capivo perché così tante ragazze mi prestassero così tante attenzioni. Da
quando mi conoscevano, io ero sempre stato con Poppy. Non volevo
nessun’altra. Volevo che la smettessero di cercare di portarmi via dalla mia
ragazza, nessuno ci sarebbe mai riuscito.
Mi spinsi attraverso l’uscita e raggiunsi la porta del backstage. L’aria era
densa e umida, e per questo la mia t-shirt nera si incollò al petto.
Probabilmente i miei jeans neri e gli stivali neri erano troppo pesanti per il
caldo della primavera, ma questo era il mio modo di vestire, qualunque
fosse la temperatura.
I musicisti iniziavano ad affollarsi fuori dalla porta, e mi appoggiai al
muro dell’auditorium, con il piede puntato contro i mattoni dipinti di
bianco.
Incrociai le braccia al petto, liberandole solo per spostarmi i capelli dagli
occhi. Guardai i musicisti ricevere abbracci dai loro familiari, poi, quando
incrociai nuovamente le stesse ragazze di prima che mi stavano fissando,
abbassai gli occhi al suolo. Non volevo che si avvicinassero. Non avevo
nulla da dire loro.
I miei occhi erano rivolti ancora verso il basso quando udii dei passi
venire nella mia direzione. Guardai in su proprio mentre Poppy mi si gettò
al petto, le braccia intorno alla mia schiena, stringendomi forte. Abbozzai
una risatina e ricambiai all’istante l’abbraccio. Ero già alto un metro e
ottantatré, quindi torreggiavo completamente sui centocinquantadue
centimetri di Poppy. Ma mi piaceva, mi piaceva come combaciava
perfettamente con me.
Inspirai profondamente e fui avvolto dalla dolcezza del suo profumo che
sapeva di zucchero e spinsi la guancia contro la sua testa. Dopo avermi
stretto ancora una volta, Poppy si allontanò e mi sorrise. I suoi occhi verdi
sembravano enormi con il mascara e il leggero trucco, le sue labbra rosa e
lucide per il burro cacao alla ciliegia.
Feci scivolare le mani lungo i suoi fianchi, fermandomi quando si
racchiusero sulle sue morbide guance. Un battito di ciglia e aveva un’aria
insopportabilmente dolce.
Incapace di resistere alla voglia di sentire le sue labbra sulle mie, mi
chinai verso di lei lentamente, quasi sorridendo quando sentii quel familiare
singhiozzo nel respiro che Poppy faceva ogni volta che la baciavo, nel
momento appena prima che le nostre labbra si toccassero.
Quando le nostre labbra si incontrarono, espirai attraverso il naso. Poppy
aveva sempre lo stesso sapore, di ciliegia, il sapore del suo burro cacao che
inondava la mia bocca. E Poppy mi baciò a sua volta, le sue piccole mani
aggrappate con forza ai lati della mia maglietta nera.
Muovevo la bocca contro la sua, lentamente e dolcemente, fino a che
alla fine non mi tirai indietro, posando tre brevi baci, leggeri come una
piuma sulla sua bocca gonfia. Presi un respiro profondo e guardai gli occhi
di Poppy fremere e aprirsi. Aveva le pupille dilatate. Si leccò il labbro
inferiore prima di stregarmi con un sorriso smagliante.
«Bacio trecentocinquantadue. Con il mio Rune, contro il muro
dell’auditorium». Trattenni il respiro, in attesa della frase successiva. Il
luccichio negli occhi di Poppy mi diceva che le parole che speravo
sarebbero presto uscite dalle sue labbra. «E il mio cuore è quasi scoppiato»
mi sussurrò sporgendosi più vicina, tentando di restare in equilibrio sulle
punte.
Lei segnava solo quei baci super speciali. Solo quelli che le riempivano
il cuore. Ogni volta che ci baciavamo, aspettavo quelle parole.
Quando arrivarono, mi rapì con il suo sorriso.
Poppy rise. E non potei evitare un grande sorriso al suono della felicità
che traspariva dalla sua voce. Impressi un altro bacio veloce sulle sue labbra
e feci un passo indietro per avvolgerle le spalle con il mio braccio. La
avvicinai a me e appoggiai la guancia contro la sua testa. Le braccia di
Poppy mi circondarono la schiena e la pancia, e la guidai via dal muro. In
quel momento, sentii Poppy bloccarsi.
Sollevai la testa e vidi le matricole che indicavano Poppy e si
sussurravano qualcosa l’una con l’altra. I loro occhi erano fissi su Poppy tra
le mie braccia. Mi si serrò la mascella.
Odiavo che la trattassero in questo modo, solo per gelosia. La maggior
parte delle ragazze non aveva mai dato una chance a Poppy perché loro
volevano quello che lei aveva. Poppy diceva che non le importava, ma mi
accorgevo che non era così. Il fatto che si fosse irrigidita tra le mie braccia
mi diceva che le importava, eccome.
Spostandomi davanti a Poppy, aspettai che lei alzasse il viso. «Ignorale»
le ordinai, appena lo fece.
Il mio stomaco precipitò quando la vidi sforzarsi di sorridere. «Le sto
ignorando, Rune. Non mi danno fastidio».
Inclinai la testa di lato e sollevai le sopracciglia. Poppy scosse la testa.
«Non ci bado. Promesso» provò a mentire. Lanciò uno sguardo oltre le mie
spalle e fece spallucce. «Ma lo capisco. Voglio dire, guardati Rune. Sei
stupendo. Alto, misterioso, esotico… Norvegese!» Riprese, quando i miei
occhi incontrarono i suoi. Rise e spinse il palmo contro il mio petto. «Hai
tutto questo aspetto da ragazzo cattivo, alternativo. Per forza tutte le ragazze
ti vogliono, non possono farne a meno. Tu sei tu. Tu sei perfetto».
Mi avvicinai di più e osservai i suoi occhi verdi spalancarsi. «E tuo»
aggiunsi, e la tensione che aveva nelle spalle si dissipò.
Infilai la mano nella sua, che era ancora sul mio petto. «E non sono
misterioso, Poppymin. Tu sai tutto quello che c’è da sapere su di me.
Nessun segreto, nessun mistero».
«Per me» ribatté incontrando ancora una volta i miei occhi. «Tu non sei
un mistero per me, ma lo sei per tutte le altre ragazze della nostra scuola. Ti
vogliono tutte».
Feci un sospiro, iniziavo a sentirmi nervoso. «E tutto quello che voglio
io sei tu». Poppy mi osservò, come a cercare di intuire qualcosa dalla mia
espressione. La cosa mi fece solo innervosire ancora di più. «All’infinito»
sussurrai, intrecciando le dita con le sue.
A queste parole, un sorriso sincero spuntò sulle labbra di Poppy.
«Sempre e per sempre» rispose infine, in un sussurro.
Abbassai la fronte per posarla contro la sua. Le mie mani avvolsero le
sue guance. «Voglio te e solo te. È così da quando avevo cinque anni e mi
hai stretto la mano. Nessun’altra ragazza potrà mai cambiare questa cosa»
la rassicurai.
«Sì?» Chiese Poppy, ma sentivo che era tornata l’ironia nella sua voce
dolce.
«Ja» risposi in norvegese, e sentì riversarsi nelle mie orecchie il dolce
suono della sua risatina. Adorava quando le parlavo nella mia lingua madre.
Le baciai la fronte, poi mi allontanai di un passo per prenderle le mani.
«Tua madre e tuo padre hanno portato le bambine a casa, mi hanno detto di
dirtelo».
Fece cenno di sì col capo, poi mi guardò nervosamente. «Che ne pensi di
stasera?»
Roteai gli occhi e arricciai il naso. «Terribile, come sempre» replicai
seccamente.
Poppy sorrise e mi colpì il braccio. «Rune Kristiansen! Non essere così
cattivo!» Mi rimproverò.
«È andata bene» dissi fingendo di essere ancora infastidito. Me la tirai al
petto, avvolgendo le braccia attorno a lei e imprigionandola contro di me.
Squittì quando iniziai a baciarla su e giù lungo la guancia, tenendole le
braccia bloccate lungo i fianchi. Lasciai cadere le labbra fino al suo collo e
colsi il sobbalzo nel suo respiro, le risate completamente dimenticate.
Spostai la bocca verso l’alto, fino a mordicchiarle il lobo. «Sei stata
fantastica» sussurrai dolcemente. «Come sempre. Eri perfetta, lassù.
Dominavi il palco. Hai conquistato tutti in quella stanza».
«Rune» mormorò. Sentii la nota allegra della sua voce.
Mi tirai indietro, senza liberarle ancora le braccia. «Non sono mai così
orgoglioso di te come quando ti vedo su quel palco» confessai.
Poppy arrossì. «Rune» cominciò timidamente, ma abbassai la testa per
mantenere il contatto con i suoi occhi mentre lei cercava di ritrarsi.
«Carnegie Hall, ricordatelo. Un giorno ti vedrò suonare alla Carnegie
Hall».
Poppy riuscì a liberare una mano e mi colpì dolcemente il braccio. «Ma
tu mi lusinghi!»
Scossi la testa. «Mai. Dico sempre e solo la verità».
Poppy premette le labbra sulle mie, e avvertii il suo bacio fino alla punta
dei piedi. Quando si staccò, la liberai e intrecciai le mie dita con le sue.
«Stiamo andando al campo?» Poppy mi chiese, mentre la guidavo
attraverso il parcheggio, tenendomela appena un po’ più stretta quando
passammo davanti al gruppo delle matricole.
«Preferirei stare da solo con te» dissi.
«Jorie ci ha chiesto di andare. Ci saranno tutti». Poppy mi guardò. Dal
breve movimento delle sue labbra, capii che mi stavo accigliando. «È
venerdì sera, Rune. Abbiamo quindici anni, e hai appena passato buona
parte della serata a guardarmi suonare il violoncello. Ci sono rimasti
novanta minuti prima del coprifuoco, dovremmo vedere i nostri amici come
fanno tutti gli adolescenti normali».
«Bene» acconsentii e le cinsi le spalle con il braccio. Mi sporsi verso il
basso e posai la bocca al suo orecchio. «Ma ti terrò tutta per me domani»
aggiunsi.
Poppy mi mise un braccio intorno alla vita e mi strinse forte.
«Promesso».
Sentimmo le ragazze dietro di noi pronunciare il mio nome. Sospirai per
la frustrazione, quando Poppy si irrigidì per un istante. «È perché sei
diverso, Rune» disse, senza sollevare lo sguardo. «Tu sei il tipo artistico,
appassionato di fotografia. Indossi abiti scuri». Rise e scosse la testa. Mi
spostai via i capelli dal viso, e Poppy li indicò. «Ma, soprattutto, è per
questo».
Corrugai la fronte. «Per questo, cosa?»
Allungò una mano e tirò una ciocca dei miei lunghi capelli. «Quando fai
così. Quando spingi i capelli all’indietro come fai tu». Alzai un
sopracciglio, perplesso, e Poppy scrollò le spalle. «È qualcosa di
irresistibile».
«Ja?» Chiesi, prima di fermarmi per mettermi di fronte a Poppy,
esagerando il gesto di portare indietro i capelli fino a che lei rise.
«Irresistibile, eh? Anche per te?»
Poppy fece una risatina e spostò la mia mano dai capelli per avvolgerla
alla sua. «In realtà non mi dà fastidio che le altre ragazze ti guardino, Rune.
Conosco quello che provi per me, perché è esattamente la stessa cosa che io
provo per te» mi disse Poppy, mentre seguivamo il sentiero fino al campo,
un fazzoletto di parco dove i ragazzi della nostra scuola si ritrovavano di
sera. Si risucchiò il labbro inferiore. Sapevo che significava che era nervosa
ma non seppi perché fin quando non disse: «L’unica ragazza che mi
preoccupa è Avery. Perché ti vuole da così tanto e sono sicura che farebbe
qualsiasi cosa pur di averti».
Scossi la testa.
Avery non mi piaceva nemmeno, ma dato che era nel nostro gruppo di
amici, era sempre intorno. Lei piaceva a tutti i miei amici, la ritenevano la
più carina in circolazione. Ma io non lo avevo mai notato e odiavo come si
comportava con me. Odiavo come faceva sentire Poppy.
«Lei non è niente, Poppymin» la rassicurai. «Niente».
Poppy si rintanò contro il mio petto e girammo a destra, per raggiungere
i nostri amici. Più ci avvicinavamo, più la tenevo stretta a me. Avery si tirò
su a sedere quando ci vide arrivare.
«Niente» ripetei, girando la testa verso Poppy.
La mano di Poppy si aggrappò alla mia maglietta, facendomi capire che
aveva sentito. Jorie, la sua migliore amica, saltò in piedi.
«Poppy!» Jorie chiamò con entusiasmo, raggiungendoci per abbracciare
Poppy. Mi piaceva Jorie. Era una svampita, raramente pensava prima di
parlare, ma voleva bene a Poppy e Poppy voleva bene a lei. Era una di
quelle poche persone di questa città che pensava che l’originalità di Poppy
fosse adorabile e non solamente strana.
«Come state, cari?» Chiese Jorie e si fece indietro. Guardò il vestito nero
che Poppy aveva indossato per lo spettacolo. «Stai così bene! Come sei
carina!»
Poppy chinò il capo in segno di ringraziamento. Le presi nuovamente la
mano per condurla intorno al piccolo falò che avevano acceso in una buca e
mi misi a sedere. Mi appoggiai contro una panca ricavata da un tronco,
attirando giù Poppy perché si sedesse tra le mie gambe. Mi rivolse un
sorriso luminoso non appena si mise a sedere con me, spingendo la schiena
contro il mio petto e infilandosi con la testa contro il mio collo.
«Allora, Pops, com’è andata?» Il mio migliore amico, Judson, chiese
dall’altra parte del fuoco. L’altro mio amico più stretto, Deacon, era seduto
accanto a lui. Mosse il mento in segno di saluto e anche la sua ragazza,
Ruby, ci fece un piccolo cenno con la mano.
Poppy alzò le spalle. «Bene, direi».
Guardai il mio amico dai capelli scuri «La stella dello show. Come
sempre» aggiunsi, circondandole il petto con il braccio e tenendola stretta.
«È solo un violoncello, Rune. Niente di così speciale» ribatté a bassa
voce Poppy.
Scossi la testa in segno di protesta. «Ha fatto venire giù il teatro».
Beccai Jorie che mi stava sorridendo. E colsi anche Avery, che roteava
gli occhi con aria di sufficienza. Poppy ignorò Avery e continuò a parlare
con Jorie della scuola. «Dai, Pops. Te lo giuro, il signor Millen è un dannato
alieno malvagio. O un demonio. Cavolo, deve venire da qualche posto che
va oltre ciò che conosciamo. Portato dal preside per torturare noi deboli,
piccoli umani con un’algebra difficilissima. È da lì che prende la sua forza
vitale, ne sono convinta. E credo che mi stia addosso. Sai per il fatto che so
che è un extra-terrestre perché, oddio! Quell’uomo continua a darmi il
tormento e a guardarmi storto!»
«Jorie!» Poppy rise, rise così forte che tutto il corpo sussultò. Sorrisi per
la sua allegria, poi mi estraniai. Mi appoggiai ancora più indietro contro il
tronco, mentre i nostri amici parlavano. Tracciavo pigramente dei disegni
sul braccio di Poppy, non desiderando nient’altro che andarmene. Non mi
dispiaceva starmene seduto con i miei amici, ma preferivo stare da solo con
lei. Morivo dalla voglia di stare in sua compagnia; l’unico posto in cui
desiderassi mai essere era con lei.
Poppy rise per un’altra cosa che disse Jorie. Rise così forte che sbatté la
testa contro la macchina fotografica che avevo appesa al collo, scagliandola
di lato. Poppy mi mandò un sorriso di scuse. Mi chinai, sollevai con un dito
il suo mento verso di me e la baciai sulle labbra. La mia intenzione era che
fosse un bacio leggero e veloce, ma quando la mano di Poppy si intrecciò
nei miei capelli, attirandomi più vicino, quel bacio divenne qualcosa di più.
Quando Poppy aprì le labbra, spinsi la mia lingua per incontrare la sua, e
nel farlo persi il respiro.
Le dita di Poppy si tesero nei miei capelli. Le avvolsi la guancia per
trattenerla il più a lungo possibile in questo bacio. Se non avessi dovuto
respirare, immaginavo che non avrei mai smesso di baciarla.
Completamente persi nel bacio, ci staccammo solo quando qualcuno si
schiarì la voce oltre il falò. Sollevai la testa e vidi che Judson stava
sogghignando. Quando guardai Poppy, le sue guance stavano andando a
fuoco. I nostri amici nascosero le risate, e io strinsi Poppy più forte. Non mi
sarei di certo sentito imbarazzato nel baciare la mia ragazza.
La conversazione riprese, e sollevai la macchina per controllare che
fosse a posto. La mia mamma e il mio papà me l’avevano comprata per il
giorno del mio tredicesimo compleanno, quando si erano accorti che la
fotografia stava diventando la mia passione. Era una Canon vintage degli
anni Sessanta. La portavo con me dovunque, facendo migliaia di foto. Non
sapevo perché, ma catturare i momenti mi affascinava.
Forse perché, alle volte, tutto ciò che avevamo erano i momenti. Non si
poteva mandare indietro la pellicola; qualsiasi cosa succedesse in un
momento segnava la vita, forse era la vita stessa. Ma catturare un momento
sulla pellicola manteneva quel momento in vita, per sempre. Per me, la
fotografia era magia.
Mentalmente ripassai le immagini nel rullino. Foto della natura e primi
piani dei ciliegi in fiore del boschetto avrebbero occupato gran parte della
pellicola. Poi ci sarebbero state le foto di stasera di Poppy. Il suo bel viso
mentre la musica la rapiva. Lei aveva quella stessa espressione sul viso solo
in un’altra occasione, quando guardava me. Per Poppy, io ero speciale come
lo era la musica. In entrambi i casi, un legame che nessuno avrebbe potuto
spezzare.
Presi il cellulare, lo sollevai di fronte a noi, con l’obiettivo della
fotocamera nella nostra direzione. Poppy non stava più partecipando alla
conversazione che si svolgeva intorno a noi. Silenziosamente faceva
scorrere la punta delle dita lungo il mio braccio. Cogliendola alla
sprovvista, scattai la foto, proprio mentre sollevava lo sguardo su di me. Mi
sfuggì una risata quando socchiuse gli occhi infastidita. Sapevo però che
non era arrabbiata, nonostante facesse di tutto per sembrarlo. Poppy
adorava qualsiasi foto di noi due che facessi, anche quelle scattate quando
lei meno se lo aspettava.
Quando guardai lo schermo del cellulare, il cuore iniziò immediatamente
a sbattermi contro le costole. Nella foto, mentre Poppy guardava in su verso
di me, era bella. Ma fu la sua espressione che mi mandò al tappeto. Lo
sguardo dei suoi occhi verdi. In questo momento, questo preciso momento
che avevo catturato, c’era quella espressione. Quella che regalava
generosamente solo a me e alla sua musica. Quella che mi diceva che io
avevo lei tanto quanto lei aveva me. Quella che confermava che eravamo
stati insieme per tutti quegli anni. Quella che diceva che, pur essendo
giovani, avevamo trovato una nell’altro la nostra anima gemella.
«Mi fai vedere?» La voce tranquilla di Poppy mi distolse dallo schermo.
Mi sorrideva e abbassai il telefono per mostrargliela.
Guardai Poppy, non la foto, mentre il suo sguardo si posava sullo
schermo. La guardai mentre i suoi occhi si addolcivano e il soffio di un
sorriso faceva capolino sulle sue labbra. «Rune» mormorò, allungandosi per
afferrare la mia mano libera, e io gliela strinsi forte. «Ne voglio una copia.
È perfetta» disse.
Annuii e le baciai la testa. Ed ecco perché amo la fotografia, pensai.
Riusciva a tirare fuori le emozioni, le emozioni nude, da un millesimo di
secondo.
Spegnendo la fotocamera del cellulare, vidi l’orario sullo schermo.
«Poppymin» la chiamai a bassa voce. «Dobbiamo andare a casa. Si sta
facendo tardi».
Poppy annuì. Mi misi in piedi e la tirai su.
«Ve ne state andando?» Chiese Judson.
Annuii. «Sì. Ci becchiamo lunedì». Feci a tutti un gesto di saluto e presi
la mano di Poppy.
Non parlammo molto, tornando a casa. Quando ci fermammo davanti
alla porta di Poppy, la presi tra le braccia e la attirai contro il mio petto. Le
posai la mano al lato del collo e Poppy guardò in su. «Sono così orgoglioso
di te, Poppymin. Non ci sono dubbi che andrai alla Julliard. Il tuo sogno di
suonare alla Carnegie Hall si avvererà».
Poppy mi fece un sorriso smagliante e tirò la tracolla della mia macchina
fotografica che avevo intorno al collo. «E tu sarai alla Tisch School of the
Arts alla NYU. Staremo insieme a New York, come abbiamo sempre detto.
Come abbiamo sempre pianificato».
Feci di sì col capo e strofinai le labbra lungo la sua guancia. «Allora non
ci saranno più coprifuochi» borbottai scherzosamente.
Poppy rise. Spostandomi sulle sue labbra, premetti un bacio delicato e
mi feci indietro. Mentre le lasciavo le mani, il signor Litchfield aprì la
porta. Mi vide allontanarmi dalla figlia e scosse la testa, ridendo. Sapeva
esattamente cosa stavamo facendo.
«Notte, Rune» disse seccamente.
«Notte, signor Litchfield» replicai, vedendo Poppy arrossire mentre il
padre le faceva segno di entrare.
Attraversai il prato e arrivai a casa mia. Aprii la porta, ed entrando in
soggiorno trovai i miei genitori seduti sul divano. Erano entrambi seduti
sulla punta, e sembravano tesi.
«Ehi» salutai, e la testa di mia madre scattò in su.
«Ehi, tesoro» disse.
Mi accigliai. «Che è successo?» Chiesi.
Mia madre lanciò uno sguardo a mio padre, poi scosse la testa. «Niente,
tesoro. Poppy ha suonato bene? Mi dispiace, non ce l’abbiamo fatta a
venire».
Fissai i miei genitori. Stavano nascondendo qualcosa, ne ero sicuro.
Quando rimasero in silenzio, lentamente feci di sì con la testa, per
rispondere alla domanda. «È stata perfetta, come al solito».
Credetti di aver visto delle lacrime negli occhi di mia madre ma
prontamente le ricacciò indietro. Volevo sottrarmi a quella strana atmosfera
così sollevai la mia macchina fotografica. «Sviluppo queste foto e poi vado
a letto».
«Facciamo un’uscita di famiglia domani, Rune» annunciò mio padre,
mentre mi voltavo per andare via.
Restai di sasso. «Non posso venire. Mi ero organizzato per passare la
giornata con Poppy».
Mio padre scosse la testa. «Non domani, Rune».
«Ma...» Obiettai, ma mio padre tagliò corto, con voce severa.
«Ho detto di no. Verrai con noi e basta. Puoi stare con Poppy quando
torniamo. Non staremo fuori tutto il giorno».
«Sul serio, cosa sta succedendo?»
Mio padre venne di fronte a me. Mi mise una mano sulla spalla.
«Niente, Rune. Semplicemente non vi vedo più, perché lavoro. Voglio
che questo cambi, quindi passeremo una giornata fuori in spiaggia».
«Bene, allora Poppy può venire con noi? Lei adora la spiaggia. È il suo
secondo posto preferito».
«Non domani, figlio mio».
Restai in silenzio, mi stavo irritando, ma vidi che lui non aveva
intenzione di negoziare. Papà fece un sospiro. «Vai a sviluppare le tue foto,
Rune, e smettila di preoccuparti».
Feci quello che mi disse, scesi in cantina e mi diressi verso la piccola
stanza che mio padre aveva trasformato per me in una camera oscura.
Sviluppavo le pellicole ancora nella vecchia maniera invece di utilizzare
una macchina digitale. Ero convinto di ottenere un risultato migliore.
Dopo venti minuti, feci un passo indietro di fronte alla fila delle nuove
foto. Avevo stampato anche la foto fatta col cellulare, quella mia e di Poppy
al campo. La presi e la portai nella mia camera. Infilai la testa nella stanza
di Alton passando, per controllare che mio fratello di due anni stesse
dormendo. Era lì, tutto raggomitolato insieme al suo orsacchiotto marrone,
con tutti i capelli biondi sparpagliati sul cuscino.
Spinsi la porta della mia stanza e accesi la lampada. Guardai l’orologio e
notai che era quasi mezzanotte. Passandomi la mano tra i capelli, raggiunsi
la finestra e sorrisi, quando vidi la casa dei Litchfield al buio a eccezione di
una debole luce che veniva dalla stanza di Poppy. Era il segnale di Poppy
per dirmi che il campo era libero e potevo intrufolarmi.
Chiusi a chiave la porta e spensi la lampada. La stanza piombò
nell’oscurità. Mi cambiai velocemente, mettendomi una maglietta e dei
pantaloni per dormire. In silenzio, tirai su la finestra e la scavalcai. Corsi
attraverso il prato tra le nostre due case e mi infilai nella stanza di Poppy,
richiudendo la finestra il più piano possibile.
Poppy era a letto, rannicchiata sotto le coperte. Aveva gli occhi chiusi e
il suo respiro era leggero e regolare. Sorrisi per quanto era carina con la
guancia appoggiata su una mano, mi avvicinai al letto mettendo il suo
regalo sul comodino e salii vicino a lei.
Mi distesi accanto a Poppy, abbassando la testa per dividere il suo
cuscino.
Facevamo la stessa cosa da anni. La prima notte che restai a dormire da
lei fu un errore: avevo dodici anni, mi arrampicai nella sua stanza, per
parlare, ma mi addormentai. Per fortuna, mi svegliai abbastanza presto il
mattino successivo da rientrare furtivamente nella mia stanza senza che
nessuno mi vedesse. Ma la notte successiva rimasi di proposito, e così
anche la notte dopo quella, e quasi tutte le notti da quel momento. Per
fortuna non ci avevano mai scoperti. Non ero così sicuro che sarei piaciuto
lo stesso al signor Litchfield se avesse saputo che dormivo nello stesso letto
della figlia. Ma restare accanto a Poppy nel letto stava diventando sempre
più difficile. Ora avevo quindici anni, e mi sentivo in modo diverso con lei
accanto a me. La vedevo in modo diverso. E sapevo che anche per lei era
diverso. Ci baciavamo sempre e sempre di più. I baci si stavano facendo più
profondi, e le nostre mani non avrebbero dovuto esplorare certi posti.
Diventava sempre più tremendamente difficile fermarsi. Io volevo di più.
Volevo la mia ragazza in tutti i modi possibili.
Solo che eravamo giovani. Ne ero consapevole.
Ma non per questo la cosa era meno difficile.
Poppy si risvegliò accanto a me. «Mi chiedevo se saresti venuto stanotte.
Ti ho aspettato ma non eri nella tua stanza» mi disse mezza addormentata,
mentre spostava i capelli via dalla mia faccia.
Catturai la sua mano, e le baciai il palmo. «Dovevo sviluppare il rullino,
e i miei genitori si stavano comportando in maniera strana».
«In che senso, in maniera strana?» Mi chiese, strisciando più vicina e
baciandomi la guancia.
Scossi la testa. «Solo… Strana. Penso che ci sia qualcosa sotto, ma mi
hanno detto di non preoccuparmi».
Pur nella luce fioca riuscivo a vedere Poppy che stava aggrottando le
sopracciglia preoccupata. Le strinsi la mano per rassicurarla.
Mi ricordai del regalo che le avevo portato, allora allungai un braccio
indietro e presi la foto dal comodino. L’avevo messa in una semplice
cornice d’argento. Accesi la torcia del telefonino e lo tenni in alto perché
Poppy potesse vedere meglio.
Lei fece un piccolo sospiro e io vidi un sorriso illuminarle tutto il viso.
Prese la cornice tra le mani e strofinò le dita sul vetro. «Amo questa foto,
Rune» sussurrò, poi la posò sul suo comodino. Rimase a fissarla per alcuni
attimi, poi si rigirò verso di me.
Poppy sollevò le coperte e le mantenne in alto così da potermici infilare
sotto. Posai il braccio intorno alla vita di Poppy e avvicinai il suo viso,
ricoprendo di leggeri baci le guance e il collo.
Quando baciai il punto proprio sotto l’orecchio, Poppy iniziò a
ridacchiare e mi spinse indietro. «Rune!» Mormorò. «Mi fai il solletico!»
Mi spostai e intrecciai la mano con la sua.
«Allora», cominciò Poppy e sollevò l’altra mano per giocare con un
ciuffo dei miei capelli. «Che facciamo domani?»
Roteai gli occhi. «Non ci vediamo, mio padre ci porta fuori per un’uscita
di famiglia. Alla spiaggia» replicai.
Poppy si mise a sedere tutta eccitata. «Davvero? Io adoro la spiaggia!»
Sentii un vuoto allo stomaco. «Dice che dobbiamo andarci da soli,
Poppymin. Solo la famiglia».
«Oh» disse Poppy, in tono deluso. Si stese di nuovo sul letto. «Ho fatto
qualcosa di sbagliato? Tuo padre mi invita sempre insieme a tutti voi».
«No» le assicurai. «Era quello che ti dicevo prima. Si stanno
comportando in maniera strana. Lui ha detto che vuole passare una giornata
in famiglia, ma io credo che ci sia dell’altro».
«Okay» disse Poppy, ma nel tono della sua voce avvertii una nota di
tristezza.
Le avvolsi la testa nella mano. «Sarò di ritorno per cena. Passeremo
domani sera insieme» promisi.
Lei mi prese il polso. «Bene».
Poppy mi stava guardando fisso, con i suoi grandi occhi verdi spalancati
nella luce fioca. Le accarezzai i capelli. «Sei così bella, Poppymin».
Non avevo bisogno della luce per vedere il rossore ricoprirle le guance.
Annullai il piccolo spazio tra di noi e schiacciai le labbra contro le sue.
Poppy sospirò mentre spingevo la lingua nella sua bocca, le sue mani si
spostarono per aggrapparsi ai miei capelli.
Era troppo piacevole, sentire le labbra di Poppy che si facevano sempre
più calde quanto più ci baciavamo, le mie mani scorrevano in basso lungo
le sue braccia e più giù, sulla sua vita.
Poppy si spostò sulla schiena e la mia mano scivolò a toccarle la gamba.
Seguii i suoi movimenti e mi misi sopra di lei, Poppy staccò la bocca dalla
mia con un sussulto sorpreso. Ma non smisi di baciarla. Feci scivolare le
labbra sulla sua mascella per baciarla lungo il collo, la mia mano che si
muoveva sotto la sua camicia da notte per accarezzare la pelle morbida
della sua vita.
Le dita di Poppy tirarono i miei capelli, e la sua gamba si sollevò per
avvinghiarsi dietro la mia coscia. Gemetti contro la sua gola, spostandomi
di nuovo in alto per catturare le sue labbra con la bocca. Quando la mia
lingua scivolò sulla sua, feci scorrere ancora più in alto le dita sul suo
corpo. Poppy interruppe il bacio. «Rune…»
Posai la testa nella sua piega tra il collo e la spalla, respirando
profondamente. La volevo così tanto da non resistere più. Inspiravo ed
espiravo, mentre Poppy abbassava la mano per accarezzarmi su e giù la
schiena. Mi concentrai sul ritmo delle sue dita, imponendomi di calmarmi.
Minuti e minuti passavano, ma non mi mossi. Ero contento di essere
disteso sopra Poppy, di inspirare il suo profumo delicato, la mia mano
premuta contro la sua pancia morbida.
«Rune?» Sussurrò Poppy.
Sollevai la testa. Immediatamente Poppy mi posò la mano sulla guancia.
«Tesoro?» Sospirò, e sentii la preoccupazione nella sua voce.
«Sto bene» le sussurrai in risposta, cercando di tenere la voce quanto più
bassa possibile per non svegliare i suoi genitori. La guardai intensamente
negli occhi. «È che ti voglio talmente tanto». Poggiai la fronte sulla sua e
aggiunsi: «Quando stiamo così, quando ci spingiamo così oltre, perdo un
po’ la testa».
Le dita di Poppy si infilarono nei miei capelli e io chiusi gli occhi,
godendomi il suo tocco. «Mi dispiace, io...»
«No» la interruppi con forza, alzando la voce un po’ più di quanto
volessi. Mi tirai indietro. Gli occhi di Poppy erano enormi. «No. Non
scusarti mai per questo, per avermi fermato. Non sarò mai qualcosa per cui
tu ti debba dispiacere».
Poppy aprì le labbra, gonfie di baci, e liberò un lungo sospiro. «Grazie»
sussurrò.
Spostai la mano e abbassai le dita per giungerle alle sue. Spostandomi
sul fianco, allargai un braccio e le feci cenno con la testa di venire da me.
Poggiò la testa sul mio petto, e io chiusi gli occhi e mi concentrai solo sul
respiro.
Alla fine, iniziai a sentire il sonno che arrivava. Le dita di Poppy
scorrevano su e giù lungo il mio stomaco. Stavo quasi per addormentarmi
quando Poppy sussurrò: «Tu sei il mio tutto, Rune Kristiansen, spero che tu
lo sappia».
Spalancai gli occhi di scatto alle sue parole, sentii il petto gonfiarsi. Le
posai un dito sotto il mento, e le sollevai la testa. La sua bocca stava
aspettando il mio bacio. La baciai gentilmente, lievemente e mi ritirai
piano. Mentre sorrideva, gli occhi di Poppy restarono chiusi. Mi sentii come
se il petto stesse per scoppiarmi nel vedere l’espressione soddisfatta sul suo
viso. «All’infinito» mormorai.
Poppy si accoccolò di nuovo contro il mio petto. «Sempre e per sempre»
sussurrò in risposta.
Ed entrambi ci addormentammo.
Rune

«Rune, ti dobbiamo parlare» cominciò mio padre, dopo che avevamo


finito di pranzare, al ristorante con vista sulla spiaggia.
«State per divorziare?»
Mio padre sbiancò. «Oh Dio, no Rune» mi rassicurò in fretta e afferrò la
mano della mamma per convincermi ancora di più. La mamma mi sorrise,
ma mi accorsi che le si stavano riempiendo gli occhi di lacrime.
«E allora?» Chiesi. Mio padre si appoggiò indietro sulla sedia
lentamente.
«Tua mamma è arrabbiata per via del mio lavoro, Rune, non con me».
Ero completamente confuso, finché non continuò a spiegare. «Mi
trasferiscono di nuovo a Oslo, Rune. La società ha incontrato un problema
tecnico e verrò mandato lì per risolverlo».
«Per quanto tempo?» Chiesi. «Quando tornerai?»
Mio padre si fece scorrere la mano attraverso i folti capelli biondi corti,
proprio come facevo io. «Questo è il punto, Rune» disse con cautela.
«Potrebbero essere anni. Potrebbero essere mesi». Sospirò.
«Realisticamente, qualcosa come da uno a tre anni».
Spalancai gli occhi. «Ci lasci qui in Georgia così a lungo?»
Mia madre allungò la mano a coprire la mia. La fissai senza espressione.
Poi, le reali conseguenze di quello che stava dicendo mio padre iniziarono a
farsi strada nella mia mente. «No» dissi con un filo di voce, sapendo che
non mi avrebbero fatto una cosa del genere. Non potevano fare questo a me.
Lo guardai. Vidi il senso di colpa inondare il suo viso.
Sapevo che era vero.
Adesso capivo. Perché eravamo venuti alla spiaggia. Perché voleva che
fossimo da soli. Perché aveva rifiutato la compagnia di Poppy.
Il cuore stava impazzendo, mentre le mie mani si agitavano sul tavolo.
La mia mente vorticava in circolo… Loro non avrebbero… Lui non
avrebbe… Io non l’avrei fatto!
«No!» Sbottai ad alta voce, attirando sguardi dai tavoli vicini. «Non
vengo. Non la lascerò». Mi girai verso mia madre in cerca d’aiuto, ma lei
abbassò la testa. Di scatto, tolsi la mano da sotto alla sua. «Mamma?»
Supplicai, ma lei scosse lentamente la testa.
«Siamo una famiglia, Rune. Non ci separeremo per così tanto tempo.
Dobbiamo andare. Siamo una famiglia».
«No!» Questa volta urlai, spingendo indietro la sedia dal tavolo. Mi alzai
in piedi, con i pugni serrati lungo i fianchi. «Non la lascerò! Non potete
obbligarmi! Questa è casa nostra. Qui! Non voglio tornare a Oslo!»
«Rune» intervenne mio padre pacatamente, alzandosi dal tavolo e
tendendo le mani avanti. Ma non potevo restare lì, in quello spazio chiuso
con lui. Girandomi sui talloni, corsi via dal ristorante più veloce che potevo
per dirigermi verso la spiaggia. Il sole era scomparso dietro spesse coltri di
nubi, portando un vento freddo che sollevava folate di sabbia. Continuai a
correre, verso le dune, i ruvidi granelli di sabbia mi colpivano il viso.
Mentre correvo, cercavo di combattere contro la rabbia che mi stava
squarciando dentro.
Come potevano farmi questo? Sapevano quanto avessi bisogno di
Poppy.
La rabbia mi faceva tremare, mentre risalivo sulla duna più alta e mi
lasciavo ricadere seduto sulla cima. Mi appoggiai indietro, a fissare il cielo
che diventava più grigio e immaginai la mia vita di nuovo in Norvegia
senza di lei. Mi sentii male. Male al solo pensiero di non avere lei al mio
fianco, che mi teneva la mano, che mi baciava le labbra…
Riuscivo a malapena a respirare.
La mia mente galoppava, in cerca di idee su come fare a restare. Pensai e
ripensai a ogni possibilità, ma conoscevo mio padre. Quando decideva
qualcosa, niente poteva fargli cambiare idea. Sarei andato via, l’espressione
sul suo viso mi aveva fatto capire chiaramente che non c’era via di scampo.
Mi stavano portando via dalla mia ragazza, dalla mia anima. E non c’era
nemmeno una dannata cosa che potessi fare.
Sentii qualcuno che scavalcava la duna dietro di me, sapevo che era mio
padre. Si sedette accanto a me, e io distolsi lo sguardo, fissando il mare in
lontananza. Non volevo riconoscere la sua presenza.
Restammo in silenzio, fino a che alla fine non esplosi e gli chiesi:
«Quando partiamo?» Sentii mio padre irrigidirsi accanto a me, il che mi
portò a guardare nella sua direzione. Lui mi stava già guardando in viso, e
aveva un’espressione di compassione. Lo stomaco mi si rivoltò ancora di
più. «Quando?» Incalzai.
Papà abbassò la testa. «Domani».
Tutto tacque.
«Cosa?» Mormorai sotto shock. «Come è possibile?»
«Tua madre e io lo sappiamo ormai da circa un mese. Abbiamo deciso di
non dirti niente fino all’ultimo minuto perché sapevamo come ti saresti
sentito. Hanno bisogno di me in ufficio per lunedì, Rune. Abbiamo
organizzato tutto con la tua scuola e trasferito i tuoi documenti. Tuo zio sta
preparando la casa a Oslo per il nostro ritorno. La mia compagnia ha dato
incarico a dei traslocatori di svuotare la nostra casa a Blossom Grove e
spedire le nostre cose in Norvegia. Arrivano domani, subito dopo che
saremo partiti».
Lanciai un’occhiataccia a mio padre. Per la prima volta nella mia vita, lo
odiavo. Digrignai i denti e guardai dall’altra parte. Mi sentivo male tanta
era la rabbia che mi scorreva nelle vene.
«Rune» mi chiamò dolcemente mio padre, mettendomi una mano sulla
spalla.
Mi liberai del suo tocco. «No» sibilai. «Non toccarmi e non parlarmi mai
più». Voltai di scatto la testa. «Non ti perdonerò mai» gli giurai. «Non ti
perdonerò mai per avermi portato via da lei».
«Rune, capisco...» Cercò di parlarmi, ma io lo interruppi.
«No, non capisci. Tu non hai nessuna idea di come mi sento, di quello
che Poppy significa per me. Nessuna dannata idea. Perché se ce l’avessi,
non mi porteresti lontano da lei. Avresti detto alla tua azienda che non ti
saresti trasferito. Che dovevamo restare».
Papà sospirò. «Sono il responsabile tecnico, Rune, devo andare dove c’è
bisogno, e adesso è a Oslo».
Non dissi nulla. Non mi importava che fosse un dannato responsabile
tecnico di una qualche compagnia in difficoltà. Ero incavolato perché me lo
diceva solo adesso. Ero incavolato perché stavamo partendo, punto.
Quando rimasi in silenzio, mio padre continuò. «Vado a prendere le
nostre cose, figliolo. Vieni alla macchina tra cinque minuti. Voglio che passi
la serata con Poppy. Voglio darti almeno questo».
Lacrime bollenti stavano iniziando a salirmi negli occhi. Girai la testa
così che non mi potesse vedere. Ero arrabbiato, così arrabbiato che non
riuscivo a frenare quelle cavolo di lacrime. Non piangevo mai quando ero
triste, solo quando ero arrabbiato. E al momento, ero così incavolato che
potevo a malapena respirare.
«Non sarà per sempre, Rune. Qualche anno al massimo, poi torneremo,
promesso. Il mio lavoro, la nostra vita, è qui in Georgia. Ma devo andare
dove l’azienda ha bisogno di me» disse mio padre. «Oslo non sarà così
male, è il posto da dove veniamo. So che a tua madre farà piacere essere di
nuovo vicina alla famiglia. E ho pensato che anche a te potrebbe fare
piacere».
Non risposi. Perché qualche anno senza Poppy era una vita intera. Non
mi importava della mia famiglia.
Mi persi osservando il ritmo delle onde, e aspettai più a lungo che
potevo prima di alzarmi. Volevo andare da Poppy, ma allo stesso tempo non
sapevo come dirle che me ne stavo andando. Non sopportavo l’idea di
spezzarle il cuore.
Il clacson suonò, e corsi verso la macchina, dove la mia famiglia stava
aspettando. Mamma provò a sorridermi, ma la ignorai e mi infilai sul sedile
di dietro. Mentre ci allontanavamo dalla costa, guardavo storto fuori dal
finestrino.
Sentendo una mano sul mio braccio, mi girai per trovare Alton che si
aggrappava alla manica della mia maglietta, con la testa inclinata da un lato.
Scossi i suoi capelli biondi selvaggi. Alton rise, ma il sorriso svanì, e
continuò a guardare nella mia direzione per tutto il viaggio verso casa. Mi
sembrava paradossale che il mio fratellino sembrasse comprendere quanto
dolore provassi, molto di più di quanto facessero i miei genitori.
Il viaggio sembrò durare un’eternità. Quando ci fermammo nel vialetto
di casa, mi tuffai letteralmente fuori dalla macchina e corsi verso la casa dei
Litchfield.
Bussai alla porta d’ingresso e la signora Litchfield aprì dopo solo
qualche secondo. Non appena mi guardò in viso, vidi i suoi occhi riempirsi
di compassione. Guardò attraverso il cortile nella direzione di mio padre e
mia madre, che stavano svuotando la macchina e fece loro un piccolo cenno
di saluto. Lo sapeva anche lei.
«C’è Poppy?» Riuscii a chiedere, spingendo a fatica le parole attraverso
la mia gola serrata.
La signora Litchfield mi strinse in un abbraccio. «È nel boschetto, caro.
È stata lì tutto il pomeriggio a leggere». La signora Litchfield mi diede un
bacio sulla testa. «Mi dispiace tanto, Rune. A mia figlia si spezzerà il cuore
quando partirai. Tu sei tutta la sua vita».
Anche lei è tutta la mia vita, volevo aggiungere, ma non mi riusciva di
pronunciare neanche una parola.
La signora Litchfield mi sciolse dall’abbraccio e io mi feci indietro,
saltai giù dal portico e mi misi a correre a perdifiato fino al boschetto di
ciliegi.
Arrivai in qualche minuto, e immediatamente individuai Poppy sotto il
nostro ciliegio in fiore preferito. Mi fermai, attento a non farmi vedere
mentre la guardavo leggere il suo libro, con le cuffiette viola sulla testa.
Rami colmi dei petali di fiori di ciliegio rosa le ricadevano intorno come
uno scudo protettivo, riparandola dal sole splendente. Indossava un abito
bianco, corto e senza maniche, e un fiocco bianco appuntato al lato dei suoi
lunghi capelli castani. Mi sembrava di essere entrato in un sogno.
Il mio cuore si chiuse in una morsa. Avevo visto Poppy ogni giorno, da
quando avevo cinque anni. Dormito accanto a lei quasi ogni notte, da
quando avevo dodici anni. L’avevo baciata tutti i giorni da quando avevo
otto anni, e l’avevo amata con tutto ciò che avevo da così tanti giorni che
avevo smesso di contarli.
Non avevo idea di come vivere un solo giorno senza lei accanto a me. Di
come respirare, senza lei al mio fianco.
Come se avesse avvertito la mia presenza, alzò lo sguardo dalla pagina
del suo libro. Quando scesi sull’erba, mi illuminò col più bello dei suoi
sorrisi. Era il sorriso che riservava solo a me.
Cercai di ricambiarlo, ma non ci riuscivo.
Mi trascinai sui fiori di ciliegio caduti per terra, il sentiero era così
cosparso di petali caduti che sembrava un fiume di rosa e di bianco sotto i
miei piedi. Vidi il sorriso di Poppy spegnersi man mano che mi avvicinavo.
Non potevo nasconderle niente. Mi conosceva bene tanto quanto io
conoscevo me stesso. Riusciva a vedere che ero sconvolto.
Glielo avevo già detto, con me non c’erano misteri. Non con lei. Lei era
l’unica persona a conoscermi completamente.
Poppy rimase immobile, si mosse solo per togliere le cuffie, posò il libro
per terra accanto a sé, poi si circondò le ginocchia tra le braccia e aspettò e
basta.
Deglutendo, crollai in ginocchio davanti a lei e abbassai la testa,
sconfitto. Cercavo di combattere contro la tensione nel mio petto. Alla fine
alzai la testa. Negli occhi di Poppy c’era un’apprensione lampante, come se
sapesse che qualsiasi cosa fosse uscita dalla mia bocca, avrebbe cambiato
tutto.
Cambiato noi.
Cambiato tutta la nostra vita.
Distrutto il nostro mondo.
«Ce ne stiamo andando» riuscii finalmente a tirare fuori, con voce
strozzata.
Vidi il suo viso impallidire.
Distolsi lo sguardo e riuscii a inalare un altro breve respiro, «Domani,
Poppymin. Di nuovo a Oslo. Papà mi porta via da te. Non ha nemmeno
provato a restare» aggiunsi.
«No» sussurrò in risposta. Si piegò in avanti. «Deve esserci qualcosa che
possiamo fare». Il respiro di Poppy accelerò. «Forse puoi stare da noi?
Trasferirti da noi? Possiamo inventarci qualcosa. Possiamo...»
«No» la interruppi. «Lo sai che mio padre non lo permetterebbe. Lo
sapevano da settimane, mi hanno già trasferito da scuola. Non me l’hanno
detto solo perché sapevano come avrei reagito. Devo andare, Poppymin.
Non ho altra scelta. Devo andare».
Osservai il singolo petalo di un fiore che si staccava da un ramo che
pendeva basso. Fluttuò al suolo come una piuma. Sapevo che, da quel
momento in poi, ogni volta che avrei visto un fiore di ciliegio avrei pensato
a Poppy. Lei trascorreva tutto il tempo qui, in questo boschetto, con me
accanto. Era il posto che amava di più.
Serrai gli occhi immaginandola tra questi alberi tutta sola,
dall’indomani, nessuno che partisse per un’avventura con lei, nessuno che
ascoltasse la sua risata. Nessuno che le desse baci da far scoppiare il cuore
per il suo vasetto.
Sentii un dolore acuto irradiarsi nel mio petto, e tornai a girarmi verso
Poppy. Il mio cuore si strappò in due. Era ancora immobile, nella sua posa
contro l’albero, ma il suo viso adorabile era inondato da fiumi e fiumi di
lacrime silenziose, le sue piccole mani strette in pugni che tremavano
intorno alle sue ginocchia. «Poppymin» la chiamai con voce roca, lasciando
finalmente sfogo a tutto il mio dolore. Corsi al suo fianco e la accolsi tra le
mie braccia.
Poppy si fuse contro il mio corpo, piangeva contro il mio petto. Chiusi
gli occhi, provavo ogni briciola del suo dolore. Questo dolore era anche il
mio.
Restammo così per un po’ di tempo, finché Poppy, infine, non sollevò la
testa e premette un palmo tremante sulla mia guancia. «Rune» mi disse con
voce spezzata, «cosa… Cosa farò senza di te?»
Scossi la testa per dirle silenziosamente che non lo sapevo. Non riuscivo
a parlare, le parole erano intrappolate dietro il nodo che avevo in gola.
Poppy si distese contro il mio petto, le sue braccia avvolte come una morsa
intorno alla mia vita. Non parlammo, mentre le ore passavano. Il sole svanì,
lasciandosi alle spalle un cielo di un arancio bruciato. Non molto tempo
dopo, apparvero le stelle e anche la luna, splendente e piena.
Una brezza fredda sferzava il frutteto, spingendo i petali a danzare
intorno a noi. Quando sentii Poppy iniziare a tremare tra le mie braccia,
capii che era arrivato il momento di andarcene.
Sollevando le mani, feci scorrere le dita attraverso i folti capelli di
Poppy. «Poppymin, dobbiamo andare» le sussurrai.
In risposta, lei semplicemente si aggrappò a me con più forza.
«Poppy?» Riprovai.
«Non voglio andare» rispose in un soffio a malapena udibile, la sua
dolce voce adesso rauca. Abbassai lo sguardo proprio mentre i suoi occhi
verdi si sollevavano e si fissavano nei miei. «Se lasciamo questo frutteto,
significa che per te sarà quasi ora di lasciare anche me».
Feci scorrere il dorso della mano lungo le sue guance arrossate. Erano
gelate sotto il mio tocco. «Niente addii, ricordi?» Le rammentai. «Tu dici
sempre che non esistono gli addii. Perché ci vedremo sempre nei nostri
sogni. Come con tua nonna». Altre lacrime scesero dagli occhi di Poppy, e
io asciugai quelle gocce con la punta del pollice. «E hai freddo» continuai
dolcemente. «È molto tardi, e devo portarti a casa così non ti metterai nei
guai per aver violato il coprifuoco».
Poppy tentò di accennare un piccolo sorriso. «Credevo che i veri
vichinghi non giocassero seguendo le regole».
Mi concessi una sola risata e premetti la fronte sulla sua. Le posai due
baci leggeri all’angolo della bocca. «Ti accompagnerò alla porta, e quando i
tuoi genitori si saranno addormentati, scavalcherò la finestra della tua
stanza per un’ultima notte. Che ne pensi di questo per infrangere le regole?
È abbastanza da vichinghi?»
Poppy fece una risatina. «Sì» rispose, spingendo via i miei lunghi capelli
da davanti agli occhi. «Per me non esiste nessuno più vichingo di te».
Le strinsi le mani e le baciai la punta di ogni dito, poi mi costrinsi ad
alzarmi. Aiutai Poppy a mettersi in piedi e la tirai contro il mio petto. La
circondai con le mie braccia, tenendola vicino. Il suo dolce profumo mi
penetrava nel naso. Giurai a me stesso che avrei ricordato l’esatta
sensazione che Poppy mi dava in questo momento.
Il vento si alzò più forte. Mi staccai dall’abbraccio e presi per mano
Poppy. In silenzio, iniziammo a percorrere il sentiero disseminato di petali.
Poppy appoggiò la testa sul mio braccio, inclinandola indietro per guardare
il cielo notturno. Le posai un bacio in cima alla testa e la sentii sospirare
profondamente.
«Hai mai notato quanto è scuro il cielo sopra questo frutteto? Come se
fosse più scuro che in qualsiasi altro posto della città. Sembra nero corvino,
tranne per la luna che splende e le stelle che luccicano. Contro il rosa dei
fiori di ciliegio, sembra uscito da un sogno». Piegai all’indietro la testa per
guardare il cielo, e un sorrisetto mi comparve all’angolo della bocca. Aveva
ragione. Sembrava quasi surreale.
«Solo tu potevi notare una cosa del genere» dissi, abbassando
nuovamente la testa. «Tu vedi sempre il mondo in maniera differente da
chiunque altro. È una delle cose che amo di te. È l’avventuriera che c’è in
te, che ho incontrato quando avevo cinque anni».
Poppy strinse la presa della mia mano. «Mia nonna diceva sempre che il
paradiso ha qualunque aspetto tu voglia, sai». La tristezza nella sua voce mi
fece bloccare il respiro in gola.
Sospirò. «Il posto preferito di mia nonna era sotto il nostro albero di
ciliegio. Quando mi siedo lì e guardo lontano i filari e filari di alberi, poi
guardo in su il cielo nero corvino, a volte mi chiedo se lei sia seduta sotto lo
stesso identico albero su in paradiso, a guardare gli alberi di ciliegio in
lontananza come facciamo noi, a fissare il cielo nero su di noi proprio come
sto facendo io adesso».
«Ne sono sicuro, Poppymin. E ti starà sorridendo, come aveva promesso
di fare».
Poppy allungò un braccio e colse tra le mani un fiore di ciliegio di un
rosa brillante. Lo tenne davanti a sé, fissando i petali nel suo palmo.
«Nonna diceva anche che le migliori cose della vita muoiono presto,
come i fiori di ciliegio. Perché qualcosa di così bello non potrà mai durare
per sempre, non deve durare per sempre. Resta per un breve momento nel
tempo, per ricordarci di quanto sia preziosa la vita prima di svanire così
velocemente com’è arrivato. Diceva che insegna di più nella sua breve vita
di qualsiasi altra cosa che resta per sempre con te». Al suono della sua voce
piena di dolore, la gola iniziò a chiudermisi. Poppy sollevò lo sguardo su di
me. «Perché nulla di così perfetto può durare un’eternità, non è vero? Come
le stelle cadenti. Ogni notte vediamo le normali stelle sopra di noi. La
maggior parte della gente le dà per scontate, persino si dimenticano che
sono lì. Ma se una persona vede una stella cadente, ricorderà per sempre
quel momento, esprimerà persino un desiderio». Inspirò profondamente.
«Cadono così velocemente che le persone assaporano quel breve tempo che
gli è concesso con esse». Sentii una lacrima cadere sulle nostre mani
intrecciate. Ero confuso, non capivo perché stesse parlando di cose così
tristi. «Perché qualcosa di così assolutamente perfetto e speciale è destinato
a svanire. Alla fine, dovrà volare via con il vento». Poppy sollevò il fiore
che conservava ancora tra le sue mani. «Come questo fiore». Lo lanciò in
aria proprio quando arrivò una folata di vento. La forte raffica portò via con
sé i petali in cielo, in alto oltre gli alberi.
Il fiore scomparve, lontano dalla nostra vista.
«Poppy... » Provai a parlare, ma lei mi bloccò.
«Forse noi siamo come i fiori di ciliegio, Rune. Come le stelle cadenti.
Forse ci siamo amati troppo e siamo troppo giovani e l’amore ci ha fatto
brillare così intensamente che ora dobbiamo spegnerci». Indicò un punto
dietro di noi, verso il frutteto. «Estrema bellezza, morte repentina. Abbiamo
vissuto questo amore abbastanza a lungo perché ci insegnasse una lezione.
Perché ci mostrasse quanto siamo capaci di amare davvero».
Sentii il cuore precipitarmi nello stomaco. Feci girare Poppy, per averla
di fronte a me. L’espressione distrutta sul suo bel viso mi bloccò dove ero.
«Ascoltami» dissi, mi sentivo nel panico. Posai le mani su entrambi i lati
del viso di Poppy, e le feci una promessa. «Tornerò per te. Questo
trasferimento a Oslo non sarà per sempre. Parleremo tutti i giorni, ci
scriveremo. Saremo ancora Poppy e Rune. Nessuno può distruggerci,
Poppymin. Tu sarai sempre mia, possiederai sempre la metà della mia
anima. Questa non è la fine».
Poppy tirò su con il naso e ricacciò indietro le lacrime. Il mio battito
accelerò per paura che lei rinunciasse a noi. Perché un pensiero del genere
non mi era mai nemmeno passato per la testa. Nulla stava finendo tra noi.
Mi avvicinai di un passo. «Non è finita» dissi con impeto. «All’infinito,
Poppymin. Sempre e per sempre. Mai finita. Non puoi pensarla in questo
modo. Non su di noi».
Poppy si alzò sulle punte e imitò la mia posa, mettendomi le mani sul
viso. «Me lo prometti, Rune? Perché ho ancora centinaia di baci che ho
bisogno che tu mi dia». La sua voce era timida e titubante. E tormentata
dalla paura.
Risi, sentendo il terrore scivolarmi via dalle ossa e il sollievo prendere il
suo posto. «Sempre. E te ne darò più di mille. Te ne darò due, o tre, o
persino quattromila».
Il sorriso gioioso di Poppy mi placò. La baciai lentamente e
delicatamente, stringendola a me il più vicino che potevo. Quando ci
separammo, Poppy spalancò gli occhi e, sbattendo le palpebre, annunciò:
«Bacio numero trecentocinquantaquattro. Con il mio Rune, nel frutteto… E
il mio cuore è quasi scoppiato».
Poi Poppy mi fece una promessa. «I miei baci sono tutti tuoi, Rune.
Nessun altro avrà mai queste labbra tranne te».
Strofinai le labbra contro le sue ancora una volta e feci eco alle sue
parole. «I miei baci sono tutti tuoi. Nessun’altra avrà mai queste labbra
tranne te».
Le presi la mano e ci dirigemmo verso le nostre case. Nella mia, tutte le
luci erano ancora accese. Quando raggiungemmo la porta di Poppy mi
abbassai e le baciai la punta del naso. «Dammi un’ora e vengo da te» le
sussurrai, spostando la bocca al suo orecchio.
«Okay» sussurrò di rimando Poppy. Poi feci un balzo quando il suo
palmo si posò delicatamente sul mio petto. Poppy si avvicinò di un passo.
L’espressione seria sul suo viso mi rese nervoso, all’improvviso. Fissava la
sua mano, poi mi fece scorrere le dita lentamente sul petto e giù sullo
stomaco.
«Poppymin?» Chiesi, incerto di quello che stava succedendo.
Senza dire una parola, tirò via la mano e andò verso la porta. Aspettavo
che si girasse e mi spiegasse, ma non lo fece. Attraversò la porta aperta,
lasciandomi incollato in piedi nel suo vialetto. Sentivo ancora il calore della
sua mano sul mio petto. Quando si accese la luce nella cucina dei
Litchfield, mi costrinsi a tornare indietro a casa mia. Appena entrai, vidi
all’ingresso una montagna di scatoloni. Dovevano essere stati impacchettati
e poi messi da parte così che non li vedessi prima.
Mi feci strada a passo pesante tra le scatole e vidi mia madre e mio
padre nel soggiorno. Mio padre mi chiamò, ma non mi fermai. Entrai nella
mia stanza proprio mentre lui arrivava dietro di me. Raggiunsi il comodino
e iniziai a raccogliere tutto ciò che volevo portare con me, specialmente la
foto incorniciata mia e di Poppy che avevo scattato la sera precedente.
Mentre osservavo la foto ebbi una fitta allo stomaco. Se era possibile, già
sentivo la sua mancanza. Mi mancava la mia casa.
Mi mancava la mia ragazza.
«Ti odio perché mi stai facendo questo» dissi con calma, avvertendo la
presenza di mio padre dietro di me. Lo sentii inspirare bruscamente. Mi
voltai, e vidi mia madre che gli stava accanto. Il suo volto era scioccato
quanto quello di mio padre. Non li avevo mai trattati così male. Mi
piacevano i miei genitori. Non avevo mai capito come mai agli altri
adolescenti non piacessero i propri.
Ma adesso sì.
Li odiavo.
Non avevo mai provato prima un tale odio nei confronti di qualcuno.
«Rune...» Incominciò mia mamma, ma mi feci avanti e la bloccai.
«Non vi perdonerò mai, nessuno di voi due, per avermi fatto questo. Vi
odio entrambi così tanto in questo momento che non riesco a sopportare di
starvi vicino».
Ero sorpreso di quanto suonasse dura la mia voce. Era bassa e piena di
tutta la rabbia che stava montando dentro di me. Una rabbia che non
credevo fosse possibile provare. Sapevo che a molta gente sembravo
lunatico, cupo, ma in realtà raramente provavo rabbia. Adesso mi sentivo
come se fossi fatto di rabbia. Solo odio scorreva nelle mie vene.
Furia.
Gli occhi di mia madre si riempirono di lacrime, ma per una volta non
mi importava. Volevo che stessero male come mi sentivo io in questo
momento.
«Rune...» Disse mio padre, ma gli voltai le spalle.
«A che ora partiamo?» Abbaiai, interrompendo qualsiasi cosa stesse
cercando di dirmi.
«Usciamo alle sette di mattina» mi informò quietamente.
Chiusi gli occhi; adesso non mi rimanevano che solo ore con Poppy. Tra
otto ore l’avrei abbandonata. Avrei abbandonato tutto tranne questa furia.
Avrei fatto in modo di portarla in viaggio con me.
«Non sarà per sempre, Rune. Dopo un po’, diventerà più facile. Alla fine
incontrerai qualcun’altra. Andrai avanti».
«No!» Ruggii voltandomi di scatto, e lanciai la lampada del comodino
attraverso la stanza. La lampadina si frantumò per l’impatto. Respirai a
fondo, il cuore che mi galoppava nel petto, mentre guardavo mio padre.
«Non provare mai più a dire una cosa del genere! Non dimenticherò Poppy.
La amo! Non lo capisci? Lei è il mio tutto e tu ci stai strappando via l’uno
dall’altra». Guardai il suo volto sbiancare.
Mi feci avanti.
Le mie mani tremavano.
«Non ho altra scelta che venire con voi, lo so. Ho solo quindici anni, non
sono così stupido da credere di poter restare qui da solo». Serrai le mani in
un pugno. «Ma io ti odierò. Vi odierò tutti e due per ogni singolo giorno
finché non ritorneremo. Puoi anche credere che solo perché ho quindici
anni dimenticherò Poppy non appena una sciacquetta qualsiasi di Oslo si
metterà a flirtare con me. Ma questo non accadrà mai. E io vi odierò, per
ogni secondo che mi separerà dal rivederla ancora». Feci una pausa per
riprendere fiato, poi aggiunsi: «E anche allora, vi odierò per avermi portato
via da lei, una volta. Per causa vostra, mi perderò anni che passerei con la
mia ragazza. Non crediate che solo perché sono giovane non capisca quello
che c’è tra me e Poppy. Io la amo. La amo più di quanto possiate
immaginare. E voi mi state portando via, senza nemmeno prendere in
considerazione come mi sarei sentito». Diedi loro le spalle, andai verso
l’armadio e iniziai a buttare giù i miei vestiti. «Quindi, da adesso in poi, non
me ne frega niente di come vi sentirete. Non vi perdonerò mai per questo.
Nessuno dei due. Specialmente te, papà».
Iniziai a riempire la valigia che mia madre doveva avermi messo sul
letto. Papà rimase dov’era, guardando in silenzio il pavimento. Alla fine, si
voltò per andare via. «Dormi un po’, Rune. Ci dobbiamo alzare presto».
Mi si rizzò ogni capello sulla nuca per quanto mi infastidì la sua
noncuranza nell’ignorare quello che avevo da dire fino a che non aggiunse a
bassa voce: «Mi dispiace tanto, figliolo. Io so quanto conta Poppy per te.
Ho cercato di evitare di dirtelo fino a ora per risparmiarti settimane di
sofferenza. È chiaro che non ha funzionato. Ma questa è la vita vera, ed è il
mio lavoro. Un giorno capirai».
Si chiuse la porta dietro di sé, e io mi lasciai cadere sul letto. Mi
trascinai con forza le mani sul viso, e le spalle mi crollarono quando
guardai il mio armadio vuoto. Ma la rabbia era ancora lì, che mi bruciava
nello stomaco. Se possibile, bruciava ancora più di prima.
Ero convinto che fosse lì per restare.
Gettai le ultime magliette dentro la valigia, senza badare di spiegazzarle
tutte. Arrivai alla finestra e vidi che la casa di Poppy era completamente al
buio, tranne la fioca luce notturna che mi segnalava che il campo era libero.
Dopo aver chiuso a chiave la porta della mia stanza, sgattaiolai fuori
della finestra e corsi attraverso il prato. La finestra era leggermente aperta,
come se mi aspettasse. Mi infilai dentro e la chiusi bene dietro di me.
Poppy sedeva al centro del letto, i capelli sciolti e il viso lavato di fresco.
Deglutii quando vidi come era bella nella sua camicia da notte bianca, le
gambe e le braccia nude, la sua pelle così morbida e vellutata.
Mi avvicinai con un passo al letto e vidi che aveva la cornice nella
mano. Quando alzò lo sguardo, mi accorsi che aveva pianto.
«Poppymin» le dissi dolcemente, con voce rotta nel vederla così
sconvolta.
Poppy mise la cornice sul letto e poggiò la testa sul cuscino, battendo sul
materasso sotto di lei. Mi distesi accanto a lei il più veloce possibile,
spostandomi fino a che solo pochi centimetri ci separavano.
Appena vidi gli occhi di Poppy iniettati di sangue, la rabbia che avevo
dentro sembrò divampare di nuovo. «Piccola» le dissi, coprendo la mia
mano con la sua, «per favore, non piangere. Non sopporto vederti
piangere».
Poppy deglutì. «Mia mamma mi ha detto che partirete molto presto
domani mattina».
Abbassai gli occhi e annuii lentamente.
Le dita di Poppy mi sfiorarono la fronte. «Quindi ci rimane solo
stanotte» disse. Sentii un pugnale trafiggermi il cuore.
«Ja» replicai. La guardai sbattendo le palpebre.
Lei mi stava fissando in modo strano.
«Che c’è?» Chiesi.
Poppy si spostò col corpo ancora più vicino. Così vicino che i nostri
toraci si toccavano e le sue labbra erano sospese a un soffio dalla mia
bocca. Potevo sentire nel suo respiro il profumo del dentifricio alla menta.
Mi leccai le labbra, il cuore mi iniziò a martellare con forza. Le dita di
Poppy scesero sul mio viso, sul collo e sul petto fino a che raggiunsero
l’orlo della mia maglietta. Mi spostai sul letto, sentendo il bisogno di un po’
di spazio, ma prima che potessi allontanarmi, Poppy chiuse la distanza tra
noi e premette la bocca sulla mia. Non appena sentii il suo sapore sulle
labbra, mi sporsi per starle più vicino, e la sua lingua si fece largo per
incontrare la mia.
Mi baciò lentamente, profondamente, come non aveva mai fatto prima.
Quando la sua mano sollevò la maglietta e si posò sulla mia pancia nuda,
gettai la testa all’indietro di scatto e deglutii violentemente. Riuscivo a
sentire la mano di Poppy tremare contro la mia pelle. La guardai negli occhi
e il mio cuore perse un battito.
«Poppymin» sussurrai, e feci scorrere la mano sul suo braccio nudo.
«Che stai facendo?»
Poppy spostò la mano in su fino a toccare il mio petto, e la voce mi si
bloccò per il nodo che avevo in gola.
«Rune?» Mi chiamò Poppy in un sussurro, abbassando la testa per
posare con delicatezza un solo bacio alla base del mio collo. Gli occhi mi si
chiusero quando la sua bocca calda toccò la mia pelle. Poppy parlò contro il
mio collo. «Io… Io ti voglio…».
Il tempo si fermò. I miei occhi si spalancarono all’istante. Poppy si fece
indietro appena e inclinò la testa fino a che i suoi occhi verdi non
incontrarono i miei.
«Poppy, no» protestai, scuotendo la testa, ma lei mi posò le dita sulle
labbra.
«Non posso…» Si interruppe, poi si ricompose e continuò. «Non posso
lasciarti andare senza sapere com’è stare con te». Fece una pausa. «Ti amo,
Rune. Così tanto. Spero che tu lo sappia».
Il ritmo del mio cuore cambiò violentemente in un nuovo battito, il
battito di cuore che sa di avere l’amore della sua altra metà. Un battito più
forte e più veloce. Infinitamente più potente di quanto era prima. «Poppy»
sussurrai, completamente folgorato dalle sue parole. Sapevo che mi amava,
perché io l’amavo. Ma era la prima volta che ce lo dicevamo ad alta voce.
Lei mi ama…
Poppy aspettava in silenzio. Non sapendo in che altro modo risponderle,
feci scorrere la punta del naso giù lungo la sua guancia, tirandomi indietro
di una frazione appena, per guardarla negli occhi. «Jeg elsker deg».
Poppy deglutì, poi sorrise.
Sorrisi anch’io. «Ti amo». Lo tradussi in inglese giusto per essere certo
che lo capisse appieno.
Ancora una volta il suo viso si fece serio, e lei si spostò per mettersi a
sedere al centro del letto. Si allungò a prendermi la mano, e mi tirò a sedere
di fronte a lei. Le sue mani si abbassarono all’orlo della mia maglietta. Con
un respiro tremante, la sollevò e poi la tirò sopra la mia testa. Chiusi gli
occhi, e sentii un bacio caldo sul mio petto. Allora li aprii di nuovo per
vedere che Poppy mi rivolgeva un timido sorriso. Mi sciolsi davanti
all’espressione nervosa sul suo viso. Non era mai stata così bella.
Cercando di combattere i miei stessi nervi tesi, le posai la mano sulla
guancia. «Non lo dobbiamo fare, Poppy. Solo perché me ne sto andando,
non devi fare questo per me. Tornerò, te lo assicuro. Voglio aspettare finché
tu non sarai pronta».
«Sono pronta, Rune» rispose con voce chiara e ferma.
«Ma tu pensi che siamo troppo giovani...»
«Presto avremo sedici anni».
Sorrisi sentendo il suo tono accalorato. «La maggior parte della gente
pensa che sia comunque troppo presto».
«Romeo e Giulietta avevano più o meno la nostra età» argomentò lei.
Non riuscii a non ridere. Smisi quando si fece appena più vicina e lasciò
scorrere la mano giù lungo il mio petto. «Rune» mormorò, «sono pronta già
da un po’, ma ero contenta di aspettare perché avevamo tutto il tempo del
mondo. Non c’era fretta. Adesso non possiamo permetterci questo lusso. Il
nostro tempo, questo tempo, è limitato. Ci rimangono solo delle ore. Ti
amo. Ti amo più di quanto chiunque possa immaginare. E… E credo che tu
provi lo stesso per me».
«Ja» risposi all’istante. «Ti amo».
«Sempre e per sempre» aggiunse Poppy con un sospiro, poi si allontanò
da me. Senza distogliere gli occhi dai miei, sollevò la mano fino alla
spallina della sua camicia da notte e la spinse giù. Fece lo stesso con l’altra
spallina, e la camicia le ricadde sui fianchi.
Restai paralizzato. Non riuscivo a muovermi mentre Poppy era seduta di
fronte a me, nuda per me.
«Poppymin» mormorai, convinto di non meritare questa ragazza…
Questo momento.
Mi spostai più vicino finché non torreggiai su di lei. Cercai i suoi occhi e
le chiesi: «Sei sicura, Poppymin?»
Poppy intrecciò una mano con la mia, e poi si portò le nostre mani unite
sulla sua pelle nuda. «Sì, Rune. Ne sono sicura. Lo voglio».
Non riuscivo a trattenermi ancora, così mi lasciai andare e le baciai le
labbra. Avevamo solo ore. E le avrei trascorse stando con la mia ragazza, in
qualsiasi modo possibile.
Poppy allontanò la mano dalla mia ed esplorò il mio petto con le dita,
senza mai smettere di baciarmi. Io feci scorrere le dita lungo la sua schiena,
spingendola più vicina a me. Tremò sotto il mio tocco. Raggiunsi con la
mano l’orlo della sua camicia da notte, sulle sue cosce. La mia mano allora
viaggiò in alto, fino a che mi preoccupai di essermi spinto troppo oltre.
Poppy si staccò da me e posò la fronte sulla mia spalla. «Continua» mi
ordinò, senza fiato. Feci come mi disse, ingoiando il nervosismo che mi
saliva alla gola.
«Rune» mormorò lei.
Chiusi gli occhi al suono della sua voce dolce. La amavo così tanto,
cavolo. E per questo non volevo ferirla. Non volevo essere responsabile di
averla spinta troppo oltre. Volevo che si sentisse speciale. Volevo che lei
capisse che era il mio mondo.
Restammo così per un minuto, prigionieri di quel momento, respirando,
aspettando qualsiasi cosa sarebbe venuta dopo. Poi le mani di Poppy si
spinsero fino al bottone dei miei jeans e io aprii gli occhi. Mi stava
studiando attentamente. «Così… Così va bene?» Chiese timorosa. Io annuii,
senza parole. Con la mano libera prese la mia e mi guidò a spogliarla, fino a
che tutti i nostri vestiti furono sul pavimento.
Poppy sedeva in silenzio davanti a me, con le mani giocherellava sul suo
ventre. I suoi lunghi capelli castani le ricadevano su una spalla, le sue
guance erano accese di rosso.
Non l’avevo mai vista così nervosa.
Io non ero mai stato così nervoso.
Allungai una mano e feci scorrere un dito lungo la sua guancia bollente.
Al mio tocco, gli occhi di Poppy si aprirono con un battito di ciglia, e un
timido sorriso le incurvò le labbra. «Ti amo, Poppymin» sussurrai.
Un debole sospiro sfuggì dalla sua bocca. «Anche io ti amo, Rune».
Le dita di Poppy si avvolsero intorno al mio polso e cautamente lei si
ridistese sul letto, guidandomi in avanti fino a che non fui al suo fianco, il
mio torace si spostò a coprire il suo.
Mi sporsi su di lei, ricoprii di dolci baci le sue guance in fiamme e la
fronte, per finire in un lungo bacio sulla sua bocca calda. La mano tremante
di Poppy si spinse nei miei capelli e mi attirò a lei.
Sembrò fossero passati solo pochi secondi quando Poppy si spostò sotto
di me, interrompendo il bacio. Mise il palmo sulla mia guancia e disse:
«Sono pronta».
Strofinando il viso contro la sua mano, baciai le dita adagiate sulla mia
guancia e assorbii le sue parole. Poppy si allungò di lato e prese qualcosa
dal cassetto del suo comodino. Quando mi porse il pacchetto che aveva
preso, lottai di nuovo con un’improvvisa ondata di nervosismo.
Fissai Poppy e le sue guance si infiammarono per l’imbarazzo. «Sapevo
che questo giorno sarebbe arrivato presto, Rune. Volevo essere sicura che
fossimo preparati».
Baciai la mia ragazza finché non raccolsi il coraggio per andare avanti.
Con le carezze di Poppy a calmare la tempesta che avevo dentro, non ci
volle molto perché capissi di essere pronto.
Poppy aprì le braccia, attirandomi su di lei. La mia bocca si fuse con la
sua e, per un tempo lunghissimo, la baciai semplicemente. Assaporai il
burro cacao alla ciliegia sulle sue labbra, adorando la sensazione della sua
calda pelle nuda premuta contro la mia.
Mi tirai indietro per prendere aria. Incontrai lo sguardo di Poppy e lei
annuì col capo. Potevo vedere dalla sua espressione quanto mi volesse,
tanto quanto io volevo lei. Tenni gli occhi incatenati ai suoi, e non li distolsi
nemmeno una volta.
Nemmeno per un solo secondo…

Dopo, la tenni fra le mie braccia. Rimanemmo a guardarci, uno di fronte


all’altra, distesi sotto le coperte. La pelle di Poppy era calda sotto il mio
tocco e il suo respiro stava rallentando al suo ritmo normale. Le nostre dita
erano unite sul cuscino che adesso condividevamo, in una stretta forte, le
mani ci tremavano leggermente.
Nessuno dei due aveva ancora parlato. Mentre studiavo Poppy che
osservava ogni mio movimento, pregai che non si stesse pentendo di quello
che avevamo fatto.
La vidi deglutire profondamente e prendere un respiro lento. Quando
espirò, il suo sguardo scese sulle nostre mani che si stringevano. Il più
lentamente possibile, fece scorrere le labbra sulle nostre dita incrociate.
Mi immobilizzai.
«Poppymin» dissi, e i suoi occhi si sollevarono. Un lungo ciuffo di
capelli le era caduto sulla guancia e delicatamente glielo spinsi indietro,
infilandolo dietro l’orecchio. Lei non aveva ancora detto nulla. Ma avevo
bisogno di farle sapere che cosa significava per me quello che avevamo
condiviso. «Ti amo così tanto. Quello che abbiamo appena fatto… Stare
con te così…» Mi morì la voce, non ero sicuro di come poter esprimere
quello che volevo dirle.
Lei non rispose, e il mio stomaco si contorse per la paura di aver fatto
qualcosa di sbagliato. Quando chiusi gli occhi in preda alla frustrazione,
sentii la fronte di Poppy contro la mia e le sue labbra sussurrare baci sulla
mia bocca. Mi spostai fino a che non fummo vicini quanto più possibile.
«Mi ricorderò questa notte per il resto della mia vita» mi confidò, e
questo spazzò via dalla mia testa la paura che provavo.
Con un battito di palpebre, aprii gli occhi e strinsi la presa intorno alla
sua vita. «È… è stato speciale per te, Poppymin? Così speciale come lo è
stato per me?»
Poppy mi fece un sorriso così grande che quella vista mi rubò il fiato.
«Così speciale come solo le cose speciali possono essere» replicò
dolcemente, ripetendo le parole che mi aveva detto quando avevamo otto
anni e l’avevo baciata per la prima volta.
Incapace di fare qualsiasi altra cosa, la baciai con tutto quello che avevo,
infondendo in quel bacio tutto il mio amore.
Quando ci staccammo, Poppy strinse la mia mano e i suoi occhi
iniziarono a riempirsi di lacrime. «Bacio trecentocinquantacinque, con il
mio Rune, nella mia camera… Dopo aver fatto l’amore per la prima volta».
Prese la mia mano e se la posò sul petto, proprio sopra il cuore. Riuscivo a
sentirne i battiti possenti sotto il palmo. Sorrisi. Sapevo che le sue erano
lacrime di gioia, non di tristezza.
«È stato così speciale che il cuore mi è quasi scoppiato» aggiunse con un
sorriso.
«Poppy» sospirai, sentendo che il petto mi si chiudeva.
Il sorriso di Poppy svanì, e vidi le lacrime iniziare a cadere sul suo
cuscino. «Non voglio che mi lasci» disse, con la voce spezzata.
Non potevo sopportare il dolore nella sua voce. O il fatto che queste
lacrime fossero di quelle tristi.
«Io non voglio andare» replicai, sinceramente.
Non dicemmo nient’altro. Perché non c’era nient’altro da dire.
Pettinavo i capelli di Poppy con le dita, mentre lei faceva scorrere su e
giù lungo il mio petto la punta delle sue. Non passò molto tempo prima che
il respiro di Poppy si facesse regolare e la sua mano si fermasse sulla mia
pelle.
Il ritmo del suo respiro regolare mi cullò fino a che non mi si chiusero
gli occhi. Cercai di restare sveglio il più a lungo possibile, per godere del
tempo che mi restava. Ma dopo poco, scivolai nel sonno, con un miscuglio
dolce amaro di felicità e tristezza a scorrermi nelle vene.
Mi sembrava di avere appena chiuso gli occhi, quando sentii il calore del
sole che nasceva baciarmi il viso. Sbattei le ciglia fino ad aprire gli occhi, e
vidi la luce di un nuovo giorno attraversare la finestra di Poppy. Il giorno
della mia partenza.
Le viscere mi si strinsero in una morsa quando vidi l’orario. Dovevo
partire tra un’ora. Quando guardai Poppy, che dormiva sul mio petto, pensai
che non era mai stata così bella. La pelle era arrossata per il calore dei
nostri corpi, e sorrisi quando vidi le nostre mani ancora unite sopra la mia
pancia.
Improvvisamente fui invaso dal nervosismo al pensiero della notte
precedente. Sembrava così soddisfatta mentre dormiva. La mia paura più
grande era che si svegliasse e si pentisse di quello che avevamo fatto.
Desideravo così tanto che lei avesse amato quello che avevamo fatto quanto
lo avevo amato io. Volevo che l’immagine di noi insieme si scolpisse nella
sua memoria, come lo sarebbe stata nella mia.
Come se avesse avvertito il mio sguardo intenso, Poppy aprì lentamente
gli occhi. Vidi come il ricordo della notte precedente le accese il volto, gli
occhi le si spalancarono quando notò i nostri corpi, le nostre mani. Il mio
cuore saltò un battito, in trepidazione, ma poi un bellissimo lento sorriso le
si aprì in volto. Davanti a quel sorriso, mi spostai per starle più vicino e
Poppy seppellì la testa nel mio collo mentre io la avvolgevo tra le braccia.
La trattenni vicino a me il più a lungo che potevo.
Quando alla fine sollevai la testa e guardai l’orologio, la rabbia del
giorno prima ritornò in uno schianto.
«Poppymin» sussurrai, e sentii la rabbia repressa nella mia voce roca.
«Io… Io devo andare».
Poppy si irrigidì tra le mie braccia. Quando si tirò indietro, le sue guance
erano bagnate. «Lo so».
Sentii delle lacrime cadere anche sulle mie guance. Poppy le asciugò via
con gentilezza. Le presi la mano e stampai un singolo bacio al centro del
palmo. Restai ancora per un paio di minuti, assorbendo ogni centimetro del
volto di Poppy, prima di costringermi ad alzarmi dal letto e a vestirmi.
Senza guardarmi indietro, scivolai dalla finestra e corsi per il prato, a ogni
passo sentii il mio cuore lacerarsi di più.
Scavalcai la mia finestra. La porta della mia camera era stata aperta
dall’esterno. Mio padre era accanto al letto. Per un breve momento sentii
una stretta allo stomaco all’idea di essere stato beccato. Ma poi la furia si
infiammò dentro di me e sollevai il mento, sfidandolo a dirmi qualcosa,
qualsiasi cosa.
Ero lieto di litigare.
Non gli avrei permesso di farmi sentire in colpa per aver trascorso la
notte con la ragazza che amavo. Quella da cui lui mi stava strappando via.
Lui si giro e andò via senza dire una parola.
In un lampo, passarono trenta minuti. Lanciai uno sguardo alla mia
stanza, per l’ultima volta. Sollevai lo zaino, me lo sistemai sulla spalla e
uscii, la mia macchina fotografica appesa al collo.
Il signore e la signora Litchfield erano già davanti al nostro garage, con
Ida e Savannah, e stavano abbracciando i miei genitori per dare loro
l’addio. Vedendomi uscire dalla porta, mi vennero incontro alla fine degli
scalini e abbracciarono anche me, per salutarmi.
Ida e Savannah mi corsero incontro e mi si gettarono alla vita. Io
scompigliai i loro capelli. Quando si allontanarono, sentii una porta aprirsi.
Sollevai gli occhi e vidi Poppy correre. Aveva i capelli bagnati, era chiaro
che si era appena fatta la doccia, ma appariva più bella che mai, mentre con
uno scatto ci raggiungeva tutti, ma aveva occhi solo per me.
Quando arrivò davanti al nostro vialetto, si fermò brevemente per
abbracciare i miei genitori e dare un bacio di addio ad Alton. Poi si girò
verso di me.
I miei genitori entrarono in macchina e i genitori e le sorelle di Poppy si
avviarono verso casa loro, lasciandoci un po’ di spazio per noi. Non persi
tempo ad aprire le braccia e Poppy corse incontro al mio petto. La strinsi
forte, inalando il dolce profumo dei suoi capelli.
Posai un dito sotto il suo mento, le sollevai la testa, e poi la baciai.
Per l’ultima volta.
La baciai con tutto l’amore che riuscii a trovare nel mio cuore.
Quando interruppi quel bacio, Poppy mi parlò in un fiume di lacrime.
«Bacio trecentocinquantasei. Con il mio Rune sul suo vialetto… Quando mi
ha lasciato». Chiusi gli occhi. Non potevo sopportare il dolore che lei stava
provando, che io stavo provando.
«Figliolo?» Guardai mio padre, oltre la spalla di Poppy. «Dobbiamo
andare» disse in tono di scuse.
Le mani di Poppy si aggrapparono forte alla mia maglietta. I suoi grandi
occhi verdi erano lucidi di lacrime, sembrava che lei stesse cercando di
memorizzare ogni centimetro del mio viso. Infine, la liberai dalla mia presa,
sollevai la macchina fotografica e premetti il bottone.
Catturai questo momento raro, il momento esatto in cui il cuore di
qualcuno si spezza.
Mi diressi all’auto, i miei piedi sembravano pesare tonnellate. Appena
salii dietro, non provai nemmeno a fermare le lacrime. Guardai Poppy, in
piedi a lato della nostra macchina, con i capelli umidi che svolazzavano
nella brezza, guardandomi andar via, agitando la mano in saluto.
Mio padre accese il motore. Aprii il finestrino. Allungai fuori la mano e
Poppy la prese. Fissai il suo viso per un’ultima volta.
«Ti vedrò nei tuoi sogni» mi disse.
«Ti vedrò nei miei sogni» le sussurrai e con riluttanza le lasciai andare la
mano, mentre mio padre cominciava a guidare. Continuai a fissare Poppy
attraverso il finestrino, guardandola agitare la mano fino a che non
scomparve dalla mia vista.
Mi aggrappai al ricordo di quella mano che mi salutava.
Giurai a me stesso di restarci aggrappato finché quel saluto non mi
avesse accolto di nuovo a casa.
Fino a che non fosse stato di nuovo un ‘bentornato’.
Rune

Oslo
Norvegia

Il giorno dopo ero di nuovo a Oslo, separato da Poppy da un oceano.


Parlammo ogni giorno per due mesi. Cercavo di essere felice di avere
almeno questo. Ma ogni giorno che finiva senza lei al mio fianco, la rabbia
dentro di me montava. L’odio per mio padre aumentava, fino a che non
ruppe qualcosa dentro di me, e tutto ciò che riuscivo a sentire era il vuoto.
Facevo resistenza nel farmi degli amici a scuola, facevo resistenza nel fare
qualunque cosa che avrebbe reso di nuovo questo posto casa mia.
Casa mia era in Georgia. Con Poppy.
Poppy non disse nulla del mio cambio d’umore, ammesso che se ne
fosse accorta. Speravo di essere riuscito a nasconderlo bene. Non volevo
che si preoccupasse per me.
Poi, un giorno, Poppy non rispose alle mie telefonate, alle email o ai
messaggi.
E nemmeno il giorno dopo, o quello successivo ancora.
Era uscita dalla mia vita.
Poppy semplicemente svanì. Non una parola, non una traccia.
Lasciò la scuola. Lasciò la città.
Tutta la famiglia all’improvviso prese e se ne andò senza una
spiegazione.
Per due anni, mi lasciò completamente da solo dall’altra parte
dell’Atlantico, a chiedermi dove fosse. A chiedermi cosa fosse successo. A
chiedermi se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Facendomi pensare che
l’avevo spinta troppo oltre la notte prima di partire.
Fu il secondo momento che segnò la mia vita.

Una vita senza Poppy.


Niente infinito.
Niente sempre e per sempre.
Solo… il nulla.
Poppy

Blossom Grove, Georgia


Oggi
Età: Diciassette anni

«Sta tornando».
Due parole. Due parole che mandarono la mia vita al collasso. Due
parole che mi terrorizzavano. Sta tornando.
Fissai Jorie, la mia più cara amica, stringendomi forte i libri al petto. Il
cuore fece fuoco come un cannone e l’ansia mi sommerse.
«Che hai detto?» Sussurrai, ignorando gli studenti intorno nel corridoio
che si stavano affrettando tutti verso le loro classi.
Jorie mi posò la mano sul braccio. «Poppy, stai bene?»
«Sì» risposi debolmente.
«Sei sicura? Sei diventata pallida. Non sembra che tu stia bene».
Annuii, cercando di essere convincente. «Chi… Chi ti ha detto che sta
tornando?» Le chiesi.
«Judson e Deacon» rispose. «Avevo lezione con loro prima e stavano
giusto dicendo che suo padre è stato rispedito qui dalla sua azienda». Si
strinse nelle spalle. «Questa volta, per sempre».
Deglutii. «Nella stessa casa?»
Jorie fece una smorfia, ma annuì. «Mi dispiace, Pops».
Chiusi gli occhi e cercai di prendere respiro per calmarmi. Sarebbe stato
di nuovo alla porta accanto… Di nuovo nella sua stanza proprio di fronte
alla mia.
«Poppy?» Mi chiamò Jorie, e aprii gli occhi. Il suo sguardo era colmo di
comprensione. «Sei sicura di stare bene? Tu stessa sei tornata solo da
qualche settimana. E so che cosa significherà vedere Rune».
Mi sforzai di sorridere. «Starò bene, Jor. Ormai non lo conosco più. Due
anni sono tanti, e non abbiamo parlato nemmeno una sola volta in tutto
questo tempo».
Jorie si accigliò. «Pop...»
«Starò bene» insistetti, sollevando una mano. «Devo andare a lezione».
Mi stavo allontanando da Jorie quando una domanda si fece largo nella
mia testa. Guardai indietro da sopra una spalla la mia amica, l’unica amica
con cui avevo mantenuto i contatti negli ultimi due anni. Tutti sapevano che
la mia famiglia aveva lasciato la città per prendersi cura della zia malata di
mamma, Jorie era l’unica a conoscere la verità. «Quando?» Racimolai il
coraggio di chiedere.
Il viso di Jorie si addolcì quando capì cosa intendessi. «Stasera, Pops.
Arriva stasera. Judson e Deacon stanno spargendo la voce di andare tutti al
campo questa sera per dargli il bentornato. Ci vanno tutti».
Le sue parole ebbero l’effetto di una pugnalata al cuore. Non ero stata
invitata. Ma non lo sarei stata in ogni caso. Me n’ero andata da Blossom
Grove senza una parola. Quando ero tornata in questa scuola, senza essere
più al braccio di Rune, ero diventata la ragazza che avrei sempre dovuto
essere... Invisibile alla massa dei più popolari. La ragazza strana che
indossava fiocchi nei capelli e suonava il violoncello.
A nessuno, a eccezione di Jorie e Ruby, era minimamente importato che
me ne fossi andata.
«Poppy?» Jorie mi chiamò di nuovo.
Sbattendo le palpebre, ritornai alla realtà e notai che i corridoi erano
quasi vuoti. «Meglio che vai in classe, Jor».
Lei fece un passo verso di me. «Starai bene, Pops? Sono preoccupata per
te».
Risi, una risata senza gioia. «Ne ho passate di peggio».
Abbassai la testa e mi affrettai verso la mia classe prima di poter
scorgere sul viso di Jorie pietà e compassione. Entrai nell’aula di
matematica, infilandomi al mio posto proprio quando l’insegnante stava
incominciando la lezione.
Se più tardi qualcuno mi avesse chiesto su cosa fosse la lezione, non
sarei stata in grado di rispondere. Per cinquanta minuti tutto quello a cui ero
riuscita a pensare era l’ultima volta che avevo visto Rune. L’ultima volta
che mi aveva tenuto tra le sue braccia. L’ultima volta che aveva premuto le
sue labbra contro le mie. L’ultima volta che avevamo fatto l’amore, e
l’espressione sul suo bellissimo viso quando era stato portato via dalla mia
vita.
Senza scopo, mi chiedevo che aspetto avesse adesso. Era sempre stato
alto, con spalle ampie e una corporatura possente. Ma, per tutto il resto, alla
nostra età due anni erano un tempo abbastanza lungo perché una persona
potesse cambiare. Lo sapevo meglio di chiunque altro.
Mi chiedevo se i suoi occhi sembrassero ancora cristalli blu sotto la luce
forte del sole. Mi chiedevo se portasse ancora i capelli lunghi, e mi
chiedevo se ancora se li portasse all’indietro ogni manciata di minuti, con
quella mossa irresistibile che faceva impazzire tutte le ragazze. E per un
breve momento mi permisi di chiedermi, se ancora pensasse a me, la
ragazza della porta accanto. Se si fosse mai chiesto cosa stessi facendo in
un preciso istante. Se avesse mai ripensato a quella notte. La nostra notte.
La notte più incredibile della mia vita.
Poi dei pensieri cupi mi colpirono con forza e rapidità. Una domanda
che mi faceva salire fisicamente la nausea. Aveva baciato qualcun’altra
negli ultimi due anni? Aveva concesso a qualcuno le sue labbra, quando le
aveva promesse a me per sempre? O peggio, aveva fatto l’amore con
un’altra ragazza?
Il suono acuto della campanella mi strappò dai miei pensieri. Mi alzai
dal banco, dirigendomi verso il corridoio. Ero contenta di essere alla fine
della giornata di scuola.
Ero stanca e avevo dei dolori. Ma più di tutto, mi faceva male il cuore.
Perché sapevo che Rune da stasera sarebbe tornato nella casa accanto alla
mia, a scuola dal giorno successivo, e io non avrei avuto la possibilità di
parlargli. Non avrei avuto la possibilità di toccarlo o di sorridergli, come
avevo sognato di fare sin dal giorno in cui non avevo più risposto alle sue
chiamate.
E non avrei avuto la possibilità di baciarlo dolcemente.
Dovevo stare lontana.
Mi si strinse lo stomaco quando realizzai che probabilmente a lui non
importava più di me. Non dopo il modo in cui avevo tagliato i ponti con lui.
Senza una spiegazione, niente.
Mi precipitai fuori dalla porta, nell’aria fresca e frizzante e inspirai
profondamente. Mi sentii immediatamente meglio, sistemai i capelli dietro
le orecchie. Adesso che li portavo in un caschetto corto, mi sembrava
sempre strano. Mi mancavano i miei capelli lunghi.
Cominciai a incamminarmi verso casa e sorrisi al cielo azzurro e agli
uccellini che svolazzavano intorno alle cime degli alberi. La natura mi
calmava, mi aveva sempre fatto questo effetto.
Avevo percorso giusto qualche centinaio di metri quando vidi la
macchina di Judson, circondata dai vecchi amici di Rune. Avery era l’unica
ragazza in un gruppo di ragazzi. Abbassai la testa e cercai di sorpassarli
velocemente, ma lei mi chiamò per nome. Mi fermai di malavoglia e mi
sforzai di girarmi nella sua direzione. Avery si staccò dalla macchina su cui
era appoggiata e venne verso di me. Deacon cercò di trattenerla, ma lei si
scrollò via il suo braccio. Capii, dalla sua espressione compiaciuta, che non
sarebbe stata carina con me.
«Hai sentito?» Chiese, con un sorriso sulle sue labbra rosa. Avery era
bellissima. Quando ero tornata in città, non riuscivo a credere a quanto
fosse diventata bella. Il suo trucco sempre perfetto e i suoi lunghi capelli
biondi sempre acconciati alla perfezione. Lei era tutto ciò che un ragazzo
potesse desiderare da una ragazza, e tutto ciò che la maggior parte delle
ragazze voleva essere.
Spinsi i capelli dietro l’orecchio, un’abitudine che tradiva il mio
nervosismo. «Sentito cosa?» Chiesi, sapendo perfettamente cosa intendesse.
«Di Rune. Sta tornando a Blossom Grove».
Riuscivo a vedere lo scintillio di gioia nei suoi occhi blu. Distolsi lo
sguardo, decisa a mantenere la mia compostezza, e scossi la testa. «No,
Avery, non l’ho sentito. Io stessa non sono tornata da tanto».
Vidi Ruby, la ragazza di Deacon, avvicinarsi alla macchina, con Jorie
che le camminava accanto. Quando si accorsero che Avery stava parlando
con me, si affrettarono a raggiungerci. Volevo bene a entrambe per questo.
Solo Jorie sapeva dove ero stata negli ultimi due anni, perché me ne ero
andata. Ma dal momento stesso in cui ero ritornata, Ruby si era comportata
come se non fossi mai partita. Mi ero resa conto che erano delle vere
amiche.
«Che si dice qui?» Chiese Ruby con indifferenza, ma riuscivo ad
avvertire la nota protettiva nella sua voce.
«Chiedevo a Poppy se sapeva chi torna stasera a Blossom Grove» Avery
replicò acida. Ruby mi guardò con curiosità.
«Non lo sapevo» le dissi, e Ruby mi sorrise tristemente.
Deacon arrivò dietro alla sua ragazza e le mise un braccio intorno alle
spalle. Mi fece un cenno col mento in segno di saluto. «Ehi, Pops».
«Ehi» replicai.
Deacon si giro verso Avery. «Ave, Rune non parla con Poppy da anni, te
l’ho detto. Lei non lo conosce neanche più. È chiaro che non sappia che lui
sta tornando. Perché lui avrebbe dovuto dirglielo, poi?»
Ascoltavo Deacon e sapevo che non voleva essere crudele nei miei
confronti. Ma questo non significava che le sue parole non mi avessero
trafitto il cuore più a fondo di una lancia. E ora lo sapevo, sapevo che Rune
non aveva mai parlato di me. Era ovvio che lui e Deacon erano rimasti
vicini. Era ovvio ai miei occhi che non ero nulla ai suoi. Che non mi aveva
mai neppure nominata.
Avery alzò le spalle. «Me lo stavo solo chiedendo, ecco tutto. Lei e Rune
erano inseparabili finché lui non è partito».
Cogliendo quest’ultima frase come il mio segnale per andarmene, salutai
con la mano. «Devo andare». Mi girai velocemente e mi avviai verso casa.
Decisi di prendere una scorciatoia attraverso il parco che passava per il
boschetto di ciliegi. Ma mentre attraversavo il frutteto spoglio, con i ciliegi
privi delle loro belle foglie, fui sopraffatta dalla tristezza.
Quei rami nudi erano vuoti quanto mi sentivo io. Bramavano quell’unica
cosa che li avrebbe resi completi, ma sapevano che non importava quanto la
desiderassero, non avrebbero potuto averla indietro prima della primavera.
Semplicemente, il mondo non funzionava così.
Quando tornai a casa, mia madre era in cucina. Ida e Savannah erano
sedute al tavolo, a fare i loro compiti.
«Ehi, tesoro» Mi salutò la mamma. Attraversai la stanza per darle un
abbraccio, stringendola alla vita appena un po’ più forte del solito.
Mia mamma mi fece sollevare la testa, c’era uno sguardo preoccupato
nei suoi occhi stanchi. «Che succede?»
«Sono solo stanca, mamma. Vado a stendermi un po’».
Mia madre non mi lasciò andare. «Sei sicura?» Chiese, poggiando il
palmo sulla mia fronte per controllarmi la temperatura.
«Sì» la rassicurai, spostando la sua mano e baciandole la guancia.
Mi diressi nella mia stanza. Dalla finestra, osservai la casa dei
Kristiansen. Era rimasta immutata. Senza alcuna differenza dal giorno in cui
erano partiti per ritornare a Oslo.
Non l’avevano venduta. La signora Kristiansen aveva detto a mia madre
che sapevano che a un certo punto sarebbero tornati, quindi l’avevano
tenuta. Amavano il vicinato e amavano la casa. Un custode l’aveva pulita e
aveva curato la manutenzione di tanto in tanto per due anni, per far sì che la
casa fosse pronta per il loro ritorno.
Quel giorno tutte le tende e le finestre erano aperte, per far entrare aria
fresca. Il custode stava chiaramente preparando la casa per il loro
imminente arrivo. Un ritorno a casa che mi terrorizzava.
Tirando le tendine che mio padre aveva appeso per me quando ero
ritornata a casa qualche settimana fa, mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi.
Odiavo sentirmi affaticata tutto il tempo. Per natura, ero una persona attiva,
che vedeva il sonno come una perdita di tempo che invece poteva essere
trascorso in giro, esplorando e costruendo ricordi.
Ma adesso, non avevo scelta.
Con gli occhi della mente mi immaginai Rune e il suo volto rimase con
me fino a quando non scivolai in un sogno. Era il sogno che facevo la
maggior parte delle notti, Rune che mi teneva tra le sue braccia, mi baciava
le labbra e mi diceva che mi amava.
Non seppi quanto tempo avevo dormito, ma quando mi svegliai, fu per il
suono dei camion che arrivavano. Fragorosi rumori e voci familiari
provenivano dall’altra parte del cortile.
Mettendomi seduta, cercai di scacciare via dagli occhi gli ultimi residui
del sonno. La consapevolezza mi investì.
Lui era qui.
Il cuore iniziò a battermi all’impazzata. Batteva così veloce che mi
strinsi il petto per paura che balzasse fuori.
Lui era qui.
Lui era qui.
Scesi dal letto e mi misi in piedi di fronte alle tende tirate. Mi sporsi
vicino alla finestra tanto da riuscire a sentire quello che stava succedendo.
Riconobbi le voci di mia madre e di mio padre nel frastuono, insieme al
tono familiare del signore e della signora Kristiansen.
Sorridendo, mi tesi per spostare la tendina. Poi mi fermai; non volevo
che mi vedessero. Indietreggiai e corsi al piano di sopra, nell’ufficio di mio
padre. Era l’unica altra finestra che dava direttamente sulla loro casa, una
finestra da dove potevo rimanere nascosta e avere una piena vista grazie
alla lieve sfumatura del vetro per schermarla dal sole splendente.
Mi spostai sul lato sinistro della finestra, in caso qualcuno avesse
guardato verso l’alto. Sorrisi di nuovo quando i miei occhi si posarono sui
genitori di Rune. Non sembravano cambiati quasi per niente. La signora
Kristiansen era ancora bella come sempre. Aveva tagliato i capelli più corti,
ma a parte questo era esattamente la stessa. Il signor Kristiansen aveva i
capelli un po’ più grigi, e sembrava aver perso peso ma la differenza era
minima.
Un bambino biondo corse fuori dalla porta d’ingresso e la mano mi volò
alla bocca quando capii che era il piccolo Alton. Doveva avere quattro anni
adesso, calcolai. Era cresciuto così tanto. E i suoi capelli erano proprio
come quelli di suo fratello, lunghi e lisci. Ebbi una stretta al cuore. Era
perfettamente identico a Rune da piccolo.
Guardai i trasportatori che riempivano la casa con i mobili a una velocità
incredibile. Ma non c’era traccia di Rune.
Alla fine, i miei genitori rientrarono in casa, ma io rimasi a vigilare alla
finestra, in paziente attesa del ragazzo che era stato il mio mondo così a
lungo da non distinguere più dove iniziava lui e finivo io.
Passò oltre un’ora. Calò la notte e io stavo abbandonando del tutto la
speranza di vederlo. Quando stavo per lasciare lo studio, scorsi un
movimento alle spalle della casa dei Kristiansen.
Ogni singolo muscolo mi si tese non appena colsi un piccolo bagliore di
luce brillare nel buio. Una nuvola bianca di fumo si diffuse nell’aria sopra il
fazzoletto di erba tra le nostre case. All’inizio, non ero sicura di cosa stessi
vedendo, fino a che una figura alta, vestita tutta di nero, emerse dall’ombra.
I miei polmoni smisero di funzionare mentre la figura si spostava sotto il
bagliore di un lampione e rimase lì, inchiodata. Giacca di pelle da
motociclista, maglietta nera, jeans stretti neri, stivali di camoscio neri. E
lunghi, luminosi capelli biondi.
Fissavo e fissavo, un nodo che mi serrava la gola, mentre il ragazzo
dalle spalle ampie e un’altezza impressionante sollevava la mano e se la
passava attraverso i lunghi capelli.
Il mio cuore perse un battito. Perché conoscevo quel movimento.
Conoscevo quella mascella decisa. Conoscevo lui. Lo conoscevo bene
quanto conoscevo me stessa.
Rune.
Era il mio Rune.
Una nuvola di fumo soffiò di nuovo dalla sua bocca, e mi ci vollero
alcuni secondi per realizzare cosa stessi effettivamente vedendo.
Fumo.
Rune stava fumando. Rune non fumava; non avrebbe mai toccato una
sigaretta. Mia nonna aveva fumato per tutta la vita ed era morta troppo
giovane per un cancro ai polmoni. Ci eravamo sempre promessi di non
provarci nemmeno.
Era chiaro che Rune aveva infranto quella promessa.
Mentre lo guardavo prendere un’altra boccata e spingersi indietro i
capelli, per la terza volta in pochi minuti, il mio stomaco cadde in picchiata.
Il viso di Rune si inclinò verso l’alto, nel bagliore della luce mentre
espirava una colonna di fumo nella fredda aria della notte.
Ed eccolo lì. Rune Kristiansen a diciassette anni, ed era più bello di
quanto avrei mai potuto immaginare. I suoi occhi blu come cristalli erano
vividi come erano sempre stati. Il suo viso, un tempo da ragazzino, ora si
era fatto marcato e da togliere completamente il fiato. Tante volte avevo
scherzato sul fatto che fosse bello come un dio norvegese. Ma mentre
studiavo ogni centimetro del suo viso, mi convinsi che la sua bellezza fosse
addirittura superiore.
Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.
Rune finì la sua sigaretta e la gettò per terra, la luce del mozzicone
svaniva lentamente nell’oscurità dell’erba corta. Aspettai col fiato sospeso
per vedere cosa avrebbe fatto dopo. Poi suo padre arrivò al limitare del
portico e disse qualcosa a suo figlio.
Vidi le spalle di Rune irrigidirsi e la sua testa voltarsi di scatto in
direzione del padre. Non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo, ma udii
distintamente le loro voci alzarsi, sentii Rune che rispondeva in maniera
aggressiva al padre nella sua lingua madre, il norvegese. Suo padre abbassò
la testa in segno di sconfitta e si diresse in casa, palesemente turbato per
qualcosa che aveva detto Rune. Mentre il signor Kristiansen si allontanava,
Rune alzò il dito medio in direzione della sua schiena, abbassandolo
soltanto quando la porta di casa loro si chiuse sbattendo.
Osservai, irrigidita dallo shock. Osservai questo ragazzo, un ragazzo che
un tempo conoscevo così profondamente, trasformarsi in un estraneo
davanti ai miei occhi.
Fui investita da un’onda di delusione e di tristezza, mentre Rune iniziava
a camminare avanti e indietro nel cortile tra le nostre due case. Aveva le
spalle tese. Potevo quasi avvertire la rabbia che si irradiava da lui, persino
dal mio nascondiglio.
Le mie peggiori paure erano diventate realtà: il ragazzo che conoscevo
non esisteva più.
Poi mi gelai, immobile come una statua, quando Rune smise di
camminare e guardò verso la finestra della mia stanza, proprio sotto il punto
dove mi trovavo io. Una folata di vento sferzò il cortile, sollevando i suoi
lunghi capelli biondi dal suo viso e per un secondo riuscii a vedere un
incredibile dolore e un’acuta nostalgia nei suoi occhi. L’immagine del suo
volto provato, mentre fissava la mia finestra, mi colpì più violenta di un
treno. In quell’espressione persa, c’era il mio Rune.
Questo ragazzo, lo riconoscevo.
Rune si avvicinò di un passo alla mia finestra, e per un momento pensai
che volesse provare a scavalcarla, nello stesso modo in cui aveva fatto per
tutti quegli anni. Ma si fermò bruscamente, le mani serrate in un pugno
lungo i fianchi. Teneva gli occhi chiusi e digrignava i denti con così tanta
forza che riuscivo a vedere la tensione della sua mascella da dove mi
trovavo.
Poi, evidentemente cambiando idea, Rune si girò sui tacchi e si diresse
verso casa a passo pesante. Restai alla finestra dello studio, nell’ombra.
Non riuscivo a muovermi per lo shock di ciò a cui avevo appena assistito.
La stanza da letto di Rune si illuminò. Lo vidi camminare per la camera,
spostarsi alla finestra e poi sedersi sull’ampio davanzale. La aprì di poco,
accese un’altra sigaretta e soffiò il fumo attraverso lo spiraglio che aveva
aperto.
Scossi la testa, incredula. Poi qualcuno entrò nello studio, e mia madre
arrivò al mio fianco. Quando si mise a scrutare dalla finestra, sapevo che
avrebbe capito cosa stavo facendo. Sentii le guance infiammarsi per il
rossore, al pensiero che ero stata beccata. Infine, mia mamma parlò. «Adelis
ha detto che non è più il ragazzo che conoscevamo. Ha detto che non ha
fatto altro che creargli problemi da quando sono andati a Oslo. Erik si sente
impotente e non ha idea di cosa fare. Sono davvero contenti che lui sia stato
trasferito nuovamente qui. Volevano allontanare Rune dai brutti giri in cui
era finito in Norvegia».
Il mio sguardo cadde di nuovo su Rune. Gettò la sigaretta dalla finestra e
voltò la testa per appoggiarsi contro il vetro. I suoi occhi erano fissi su
un’unica e sola cosa. La finestra della mia camera.
Quando mia madre fece per lasciare lo studio, mi posò una mano sulla
spalla. «Forse è stato un bene che tu abbia interrotto tutti i contatti, tesoro.
Non sono davvero sicura che avrebbe saputo come gestire tutto quello che
hai affrontato, da quello che mi ha raccontato sua mamma».
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, mi chiedevo che cosa l’avesse
trasformato così. Trasformato in questo ragazzo che non conoscevo. Mi ero
deliberatamente tagliata fuori da tutto il mio mondo negli ultimi due anni,
per risparmiargli il dolore. Così che avesse potuto vivere una bella vita.
Perché sapere che lontano, in Novergia, c’era un ragazzo il cui cuore era
ancora pieno di luce rendeva sopportabile tutto quello che io stavo
passando.
Ma quella fantasia era stata infranta, mentre studiavo questo sosia di
Rune. La luce di questo Rune era fioca, niente in lui brillava luminoso. Era
stata oscurata dall’ombra, era sprofondata nell’oscurità. Era come se il
ragazzo che avevo amato fosse stato abbandonato in Norvegia.
La macchina di Deacon si fermò davanti al garage della casa di Rune.
Vidi il cellulare illuminarsi nella sua mano, e lui con calma lasciò la stanza
e con passo rilassato uscì sul portico. Raggiunse con un’andatura piena di
boria Deacon e Judson, che saltarono fuori dall’auto, e diede a entrambi una
pacca sulla spalla per salutarli.
Poi il mio cuore si spezzò in due.
Avery scivolò fuori dal sedile posteriore e abbracciò con slancio Rune.
Indossava una minigonna e un top corto, che mettevano in risalto il suo
fisico perfetto. Ma Rune non ricambiò l’abbracciò, anche se questo non
servì a nulla per alleviare il mio dolore. Perché Avery e Rune, in piedi uno
accanto all’altra, sembravano perfetti. Entrambi alti e biondi. Entrambi
bellissimi.
Si infilarono tutti in auto. Rune entrò per ultimo, prendendo il posto
davanti, poi lasciarono la nostra strada e sparirono dalla vista.
Sospirai, vedendo i fanali posteriori svanire nella notte. Quando guardai
di nuovo la casa dei Kristiansen, vidi il papà di Rune in piedi al limitare del
portico, aggrappato alla ringhiera, gli occhi fissi nella direzione in cui il
figlio se n’era appena andato. Poi alzò lo sguardo verso la finestra dello
studio, e sul suo volto si allargò un triste sorriso.
Mi aveva vista.
Il signor Kristiansen sollevò la mano e mi fece un piccolo cenno di
saluto. Quando risposi a quel saluto, vidi incisa sul suo viso un’espressione
di totale tristezza.
Sembrava stanco.
Sembrava che avesse il cuore spezzato.
Sembrava che gli mancasse suo figlio.
Ritornai in camera mia, mi distesi sul letto e presi in mano la mia foto
incorniciata preferita. Mentre fissavo quel bel ragazzo e quella ragazza
follemente innamorata che fissava lui, entrambi così innamorati, mi chiesi
cosa fosse successo negli ultimi due anni per aver reso Rune così
tormentato e ribelle come sembrava essere.
Poi piansi.
Piansi per il ragazzo che era stato il mio sole.
Piansi la scomparsa del ragazzo che un tempo avevo amato con tutto
quello che avevo.
Piansi la scomparsa di Poppy e Rune, una coppia di estrema bellezza e
morte ancor più repentina.
Poppy

«Sei sicura di star bene?» Mi chiese mia madre mentre mi accarezzava il


braccio. L’auto si fermò piano.
Sorrisi e feci segno di sì col capo. «Sì mamma, sto bene».
I suoi occhi erano cerchiati di rosso e incominciarono a riempirsi di
lacrime. «Poppy. Tesoro. Non devi andare a scuola oggi, se non vuoi».
«Mamma, mi piace la scuola. Ci voglio andare». Scrollai le spalle. «In
più, ho storia alla quinta ora e sai quanto mi piace. È la mia materia
preferita».
Un riluttante sorriso le spuntò sulle labbra e rise, asciugandosi gli occhi.
«Sei proprio come tua nonna. Cocciuta come un mulo e che vede sempre il
sole dietro ogni nuvola. Vedo il suo spirito brillare nei tuoi occhi ogni
singolo giorno».
Un senso di calore mi sbocciò nel petto. «Questo mi rende davvero
felice, mamma. Ma sto bene, dico sul serio» le ripetei sinceramente.
Quando gli occhi di mamma si riempirono di nuovo di lacrime, mi fece
cenno di uscire dalla macchina, piazzandomi in mano il certificato medico.
«Ecco, mi raccomando consegnalo».
Presi il foglio, ma prima di chiudere lo sportello dell’auto, mi chinai per
dirle: «Mamma, ti voglio bene. Con tutto il mio cuore».
Mia mamma si fermò e sul suo viso vidi dilagare una felicità
dolceamara. «Anche io ti voglio bene, Pops. Con tutto il mio cuore».
Chiusi lo sportello e mi girai per entrare a scuola. Avevo sempre pensato
che era strano arrivare a scuola in ritardo. C’erano tranquillità e silenzio, un
che di apocalittico, e diametralmente opposto alla turbolenza dell’ora di
pranzo o al folle viavai degli studenti al cambio dell’ora.
Raggiunsi gli uffici della scuola per cercare la signora Greenway, la
segretaria, e consegnarle il certificato del mio medico.
Porgendomi il pass per l’edificio, lei chiese: «Come stai cara? Tieni alta
quella bella testolina?»
«Sì, signora» replicai, sorridendo al suo sguardo gentile.
Mi strizzò l’occhio, facendomi ridere. «Ecco la mia ragazza».
Controllai l’orologio e vidi che la mia lezione successiva era cominciata
da solo quindici minuti. Muovendomi più in fretta che potevo per evitare di
perdere altro tempo, mi precipitai ad attraversare due doppie porte fino ad
arrivare al mio armadietto. Lo spalancai subito e tirai fuori la pila di libri di
letteratura inglese che mi servivano per la mia lezione.
Alla fine del breve corridoio sentii aprirsi una porta, ma non ci feci caso.
Una volta preso tutto quello di cui avevo bisogno, richiusi l’armadietto con
il gomito e mi diressi verso la classe, destreggiandomi con i miei tanti libri.
Quando sollevai lo sguardo, mi fermai di colpo.
Ero certa che il mio cuore e i miei polmoni avessero smesso di
funzionare. In piedi, a circa due metri da me, in apparenza inchiodato sul
posto come lo ero io, c’era Rune. Un Rune altissimo e completamente
sviluppato.
E mi stava fissando. I suoi occhi blu cristallino mi avevano preso nella
loro trappola. Non mi sarei potuta girare e andar via neppure se avessi
voluto.
Alla fine, riuscii a ritrovare il fiato e a riempire d’aria i polmoni. Come
una scarica elettrica, la cosa fece iniziare a battere il mio cuore, a farlo
battere furiosamente sotto lo sguardo fisso di questo ragazzo. Quello che, se
dovevo essere onesta con me stessa, ancora amavo più di qualsiasi altra
cosa al mondo.
Rune era vestito come era sempre stato, t-shirt nera aderente, jeans
attillati neri e stivali neri di camoscio. Solo che adesso, le sue braccia erano
più massicce, l’addome era scolpito, più slanciato, e si assottigliava sui
fianchi.
I miei occhi viaggiarono fino al suo viso e il mio stomaco fece una
capriola. Credevo di aver visto tutta la sua bellezza quando era in piedi
sotto quel lampione la notte precedente, ma non era così.
Più grande e più maturo, era molto probabilmente la più bella creatura
che avessi mai visto. La mascella decisa delineava perfettamente il suo
volto scandinavo. Gli zigomi erano prominenti, in nessun modo femminili,
e una lieve spolverata di barba bionda gli incorniciava il mento e le guance.
Il suo elemento costante scoprii essere quelle sopracciglia biondo scuro
corrucciate sui suoi luminosi occhi azzurri a mandorla. Occhi che persino
una distanza di seimila chilometri, e una separazione di due anni, non
potevano cancellare dalla mia memoria.
Ma quello sguardo, lo sguardo che adesso stava perforando il mio, non
apparteneva al Rune che conoscevo. Perché questo era pieno di accuse e di
odio. Quegli occhi mi stavano fissando con aperto disprezzo.
Ricacciai indietro il dolore che, come un artiglio, mi stava serrando la
gola, il dolore di essere la destinataria di uno sguardo così duro. Essere
amati da Rune portava un’inebriante sensazione di calore. Essere odiati da
Rune era come restare immobili su una lastra di ghiaccio polare.
I minuti passavano e nessuno dei due si muoveva di un centimetro.
L’aria sembrava crepitare intorno a noi. Osservai il pugno di Rune serrarsi
al lato del suo corpo. Sembrava che nella sua testa stesse portando avanti
una guerra. Mi chiedevo contro cosa stesse combattendo. L’espressione sul
suo viso si fece ancora più tetra. Poi, dietro di lui si aprì una porta e ne uscì
William, il sorvegliante della scuola.
Guardò Rune e guardò me, fornendomi la scusa che mi serviva per
liberarmi da quel momento troppo intenso. Avevo bisogno di ricomporre le
idee.
William si schiarì la gola. «Posso vedere i vostri pass per l’edificio?»
Annuii, e poggiando i libri in equilibrio su un ginocchio sollevato, feci
per porgergli il mio, ma Rune spinse il suo davanti.
Non reagii di fronte a tanta manifesta maleducazione.
William controllò prima il suo pass. Rune era andato a ritirare gli orari
del suo programma, ecco perché era in ritardo. William restituì il pass a
Rune, ma Rune ancora non si muoveva. Poi prese il mio e mi guardò.
«Spero che starai meglio presto, Poppy» mi augurò.
Sbiancai, chiedendomi come lo sapesse, poi mi resi conto che il pass
diceva che ero stata dal mio dottore. Voleva solo essere gentile. Non lo
sapeva. «Grazie» risposi nervosamente e mi arrischiai ad alzare lo sguardo.
Rune mi stava osservando, solo che questa volta la sua fronte appariva
segnata da una linea. Riconobbi la sua espressione di preoccupazione.
Appena Rune si accorse che lo stavo fissando, interpretando il suo viso, la
preoccupazione fu subito sostituita dal cipiglio che aveva prima. Rune
Kristiansen era davvero troppo bello per avere quell’espressione
corrucciata. Un viso così bello avrebbe dovuto sempre sfoggiare un sorriso.
«Forza voi due, andate in classe». Il tono severo di William distolse la
mia attenzione da Rune. Superai entrambi, e mi affrettai verso le porte più
lontane. Non appena entrai nel corridoio successivo, lanciai uno sguardo
indietro, solo per trovare Rune che mi fissava attraverso i grandi pannelli di
vetro.
Le mani incominciarono a tremarmi per l’intensità del suo sguardo, ma
poi lui all’improvviso si mosse, come se stesse costringendo se stesso a
lasciarmi perdere.
Mi ci vollero parecchi secondi per ritrovare un po’ di padronanza di me,
e poi mi affrettai verso la mia classe.
Un’ora dopo, stavo ancora tremando.

Passò una settimana. Una settimana in cui evitavo Rune a tutti i costi.
Restavo nella mia stanza fino a che non sapevo che lui non era in casa,
tenevo le tendine tirate e la finestra chiusa, non che Rune avrebbe mai
cercato di entrare. Le poche volte che lo avevo visto a scuola mi aveva o
ignorata o guardata di traverso come se fossi il suo peggior nemico.
Entrambe facevano male allo stesso modo.
Durante la pausa pranzo, mi tenevo lontana dalla caffetteria. Mangiavo il
mio pranzo nell’aula di musica e passavo il resto del tempo a esercitarmi al
violoncello. La musica era ancora il mio porto sicuro, l’unico posto dove
rifugiarmi dal mondo.
Quando il mio archetto colpiva la corda, venivo trasportata via in un
mare di suoni e note. Il dolore e la pena degli ultimi due anni scomparivano.
La solitudine, le lacrime e la rabbia, tutto evaporava, lasciando una pace che
non potevo trovare da nessun’altra parte.
La settimana precedente, dopo il terribile incontro nel corridoio con
Rune, avevo sentito il bisogno di scappare via da tutto. Il bisogno di
dimenticare l’espressione nei suoi occhi mentre mi guardava torvo, con così
tanto astio. La musica, in genere, era la mia medicina, quindi mi gettai in
sessioni di intenso esercizio.
L’unico problema? Ogni volta che terminava un pezzo, non appena
l’ultima nota svaniva e abbassavo l’archetto, la devastazione tornava a
dilaniarmi dieci volte di più. E restava.
Oggi, dopo aver finito di suonare all’ora di pranzo, ero rimasta in preda
all’angoscia per il resto del pomeriggio. Un’angoscia che pesava come un
macigno nella mia mente, mentre uscivo da scuola.
Il cortile pullulava di studenti che si avviavano verso casa. Tenni la testa
bassa e mi feci largo tra la folla, solo per girare l’angolo e vedere Rune
seduto al campo, nel parco. C’erano anche Jorie e Ruby. E Avery.
Cercai di non guardare Avery sedersi accanto a Rune, che si stava
accendendo una sigaretta. Cercai di non guardare Rune che iniziava a
fumare, il suo gomito poggiato con naturalezza sul ginocchio mentre si
appoggiava con la schiena contro un albero. E cercai di ignorare il sussulto
allo stomaco mentre mi allontanavo in fretta e Rune, con gli occhi stretti,
incrociava brevemente il mio sguardo.
Distolsi immediatamente gli occhi. Jorie saltò in piedi e venne dietro di
me di corsa. Riuscii ad arrivare lontano abbastanza da Rune e i suoi amici
perché non sentissero quello che Jorie aveva da dirmi.
«Poppy» mi chiamò, fermandosi dietro di me. Mi voltai ad affrontarla,
avvertendo lo sguardo attento di Rune che si posava su di me. Lo ignorai.
«Come stai?» Chiese.
«Bene» replicai. Persino io avvertii il leggero tremolio nella mia voce.
Jorie sospirò. «Ci hai già parlato? È tornato da oltre una settimana».
Le guance mi andarono a fuoco. Scossi la testa. «No. Non sono del tutto
sicura che sia una buona idea». Presi un bel respiro. «Non avrei idea di cosa
dirgli, comunque. Non sembra sia più il ragazzo che ho conosciuto e amato
per tutti quegli anni. Sembra diverso. Mi sembra cambiato» le confidai.
Gli occhi di Jorie si illuminarono. «Lo so! Ma penso che tu sia l’unica
ragazza che la vede come una brutta cosa, Pops».
«Che vuoi dire?» La gelosia mi si incendiò nel petto.
Jorie indicò le ragazze che si raccoglievano intorno a lui mentre era
seduto, cercando di assumere un’aria disinvolta, ma fallendo rovinosamente
nel tentativo. «Tutti non fanno che parlare di lui, e sono sicura che qualsiasi
ragazza della scuola, tranne te, me e Ruby, venderebbe l’anima al diavolo
solo perché lui si accorgesse di lei. È sempre stato desiderato Pops, ma be’,
lui aveva te e tutti sapevamo che non ti avrebbe lasciata per niente e per
nessuna. Ma adesso…» Le si spense la voce, e sentii il mio cuore che si
sgonfiava.
«Ma ora non ha me» terminai la frase al posto suo. «Adesso è libero di
stare con chiunque voglia».
Gli occhi di Jorie si spalancarono quando realizzò che ancora una volta
non ne aveva detta una giusta.
Per consolarmi, mi strinse il braccio con una smorfia di scuse. Ma non
potevo arrabbiarmi con lei, da sempre parlava prima di pensare. E
oltretutto, ciò che aveva detto era vero.
Trascorse un momento di silenzio imbarazzante, finché lei non mi
chiese: «Che fai domani sera?»
«Niente» risposi. Fremevo dal bisogno di andare via.
Il viso di Jorie si illuminò. «Bene! Puoi venire alla festa a casa di
Deacon. Non voglio che resti da sola a casa un altro sabato sera».
Io risi.
Jorie aggrottò la fronte.
«Jorie, io non vado alle feste. In ogni caso, nessuno mi inviterebbe».
«Ti sto invitando io. Ci verrai con me».
Il mio umore precipitò. «Non posso, Jor». Feci una pausa. «Non posso
stare lì, dove c’è Rune. Non dopo tutto questo».
Jorie si fece più vicina. «Non ci sarà» mi confidò a bassa voce. «Ha
detto a Deacon che non verrà, che andrà da qualche altra parte».
«Dove?» Chiesi, senza riuscire a nascondere la mia curiosità.
Alzò le spalle. «Se solo lo sapessi! Rune non parla molto. E questo non
fa altro che unirsi ai motivi per cui attrae ammiratrici come se non ci fosse
un domani». Jorie spinse in fuori il labbro inferiore e mi punzecchiò il
braccio. «Per favore, Pops! Sei stata via così tanto tempo, e mi sei mancata.
Voglio passare con te quanto più tempo possibile, ma tu continui a
nasconderti. Abbiamo anni da recuperare! Ci sarà anche Ruby. Lo sai che
non ti lascerei mai da sola».
I miei occhi ispezionavano il terreno, cercando disperatamente di
pensare a una scusa. Poi guardai Jorie e mi accorsi che il mio rifiuto la stava
ferendo. Scacciando via le fitte di dubbio dal mio petto, cedetti. «Okay,
verrò con te».
Il viso di Jorie si aprì in un sorriso enorme. «Perfetto!» Esclamò. Risi
quando mi attirò in un abbraccio veloce.
«Devo andare a casa» le dissi, quando mi lasciò. «Ho uno spettacolo
stasera».
«Okay, ti vengo a prendere alle sette domani sera. Va bene?»
La salutai con la mano e ripresi a camminare verso casa. Dopo appena
un centinaio di metri, mi accorsi che qualcuno camminava dietro di me nel
boschetto di ciliegi. Quando mi voltai per guardare oltre una spalla, c’era
Rune.
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata quando il mio sguardo
incontrò il suo. Lui non abbassò gli occhi, ma io lo feci. Avevo il terrore che
volesse cercare di parlare con me.
Cosa avrei fatto se avesse voluto che gli spiegassi tutto? O peggio, cosa
avrei fatto se avesse voluto dirmi che quello che c’era stato tra noi non
contava niente?
Una cosa simile mi avrebbe distrutta.
Aumentando il passo, continuai a tenere la testa bassa e mi precipitai in
fretta fino a casa. Lo sentii inseguirmi per tutto il tragitto, ma non fece
alcun tentativo di raggiungermi.
Mentre correvo su per le scale del portico, guardai di lato e lo vidi
appoggiarsi sul fianco della sua casa, vicino alla sua finestra. Il mio cuore
ebbe un balzo quando si spinse indietro i capelli. Dovetti tenere i piedi
incollati a terra, in caso mi fosse venuta voglia di gettare per terra la borsa e
correre da lui, a spiegargli perché l’avevo lasciato andare, perché lo avevo
tagliato fuori in maniera così orrenda, perché avrei dato qualsiasi cosa
perché lui mi baciasse solo un’altra volta. Invece mi feci forza, ed entrai in
casa.
Le parole di mia mamma mi riecheggiavano insistenti in testa mentre
entravo nella mia camera per stendermi… Forse è stato un bene che tu
abbia interrotto tutti i contatti, tesoro. Non sono davvero sicura che
avrebbe saputo come gestire tutto quello che hai affrontato, da quello che
mi ha raccontato sua mamma.
Chiusi gli occhi e promisi a me stessa di lasciarlo stare. Non sarei stata
un fardello per lui. L’avrei protetto dal dolore.
Perché lo amavo ancora così tanto, come avevo sempre fatto.
Persino se il ragazzo che amavo non mi amava più.
Poppy

Flessi la mano, tenendo in equilibrio il violoncello e l’arco nell’altra.


Ogni tanto, le dita mi diventavano insensibili e dovevo aspettare di poter
tornare a suonare di nuovo. Ma quando Michael Brown terminò il suo
assolo di violino, sapevo che niente mi avrebbe impedito stasera di sedermi
al centro del palco. Avrei suonato il mio pezzo. E avrei assaporato ogni
secondo in cui creavo la musica che amavo così tanto.
Michael ritrasse il suo archetto, e il pubblico scoppiò in un applauso
caloroso. Fece un rapido inchino e uscì dall’altro lato del palco.
Poi, il presentatore prese il microfono e annunciò il mio nome. Quando
il pubblico sentì che stavo facendo il mio ritorno tanto atteso, l’applauso
crebbe più fragoroso, dandomi il bentornato nel mondo della musica.
Il mio cuore accelerò per l’eccitazione ai fischi e agli incoraggiamenti di
genitori e amici nell’auditorium. Quando molti miei compagni
dell’orchestra vennero dietro le quinte per darmi una pacca sulla schiena e
augurarmi parole di incoraggiamento, dovetti ricacciare indietro il groppo
che avevo in gola.
Tirando su le spalle, mi sforzai di respingere quell’assalto di emozioni
che minacciava di sopraffarmi. Feci un cenno col capo al pubblico, mentre
andavo ad accomodarmi al mio posto. Il riflettore sospeso in alto diffondeva
una cascata di luce brillante su di me.
Mi posizionai in modo perfetto, attendendo che l’applauso finisse. Come
sempre, guardai verso il pubblico e vidi la mia famiglia orgogliosamente
seduta in terza fila. Mia madre e mio padre stavano sorridendo felici. Le
mie due sorelle mi fecero piccoli cenni di saluto.
Risposi al loro sorriso per fargli capire che li avevo visti, e scacciai il
lieve dolore che palpitò nel mio petto quando scorsi il signore e la signora
Kristiansen seduti accanto a loro, con Alton che mi salutava.
L’unica persona che mancava era Rune.
Non suonavo in pubblico da due anni. E prima di allora, lui non si era
mai perso uno dei miei spettacoli. Anche se doveva spostarsi e viaggiare,
era stato presente a ogni singola esibizione, con la macchina fotografica in
mano, a rivolgermi il suo mezzo sorriso sbilenco quando i nostri occhi si
incontravano nel buio.
Schiarendomi la gola, chiusi gli occhi, posai le dita sulla tastiera del
violoncello e portai l’archetto alla corda. Contai in mente fino a quattro e
incominciai l’arduo Preludio dalla Suite per Violoncello di Bach. Era uno
dei pezzi che preferivo suonare, la melodia intricata, il ritmo veloce che
l’arco doveva sostenere, il perfetto suono tenorile che echeggiava
nell’auditorium.
Ogni volta che mi sedevo su questa sedia, lasciavo che la musica mi
fluisse nelle vene. Lasciavo che la melodia sgorgasse dal mio cuore, e mi
immaginavo seduta al centro del palco alla Carnegie Hall, il mio sogno più
grande. Immaginavo il pubblico seduto davanti a me: persone che, come
me, vivevano per il suono di una singola nota perfetta, che erano elettrizzate
dal lasciarsi trasportare via, in un viaggio di suoni. Persone che sentivano la
musica nei loro cuori e la sua magia nelle loro anime.
Il mio corpo iniziò a oscillare al ritmo del pezzo, al cambio di tempo e al
crescendo finale. Ma meglio di ogni altra cosa, avevo dimenticato
l’insensibilità nella punta delle dita. Per un breve momento, avevo
dimenticato tutto.
Quando in aria risuonò l’ultima nota, sollevai l’archetto dalla corda che
vibrava e, inclinando la testa indietro lentamente aprii gli occhi. Sbattei le
palpebre contro la luce abbagliante, un sorriso si faceva strada sulle mie
labbra nella beatitudine di quel momento di silenzio, in cui la nota svaniva
nel nulla, prima che l’applauso del pubblico iniziasse. Quel dolce,
dolcissimo momento in cui l’adrenalina della musica ti faceva sentire così
viva che sentivi di poter conquistare il mondo, che sentivi di aver raggiunto
la serenità nella sua forma più pura.
E poi, l’applauso partì, rompendo l’incantesimo. Abbassai la testa e
sorrisi mentre mi alzavo dalla sedia, inchinandomi in segno di
ringraziamento.
Tenevo stretto il manico del mio violoncello e i miei occhi cercarono
automaticamente la mia famiglia. Poi il mio sguardo viaggiò sui miei
entusiasti sostenitori, per finire lungo il muro sul fondo della sala. All’inizio
non riuscii a realizzare cosa stessi vedendo. Ma mentre il mio cuore
martellava contro le costole, i miei occhi furono attirati da qualcosa in
fondo, all’estrema sinistra. Intravidi lunghi capelli biondi scomparire
attraverso la porta di uscita, la figura di un ragazzo alto, muscoloso, tutto
vestito di nero, che scompariva dalla vista. Ma non senza prima essersi
lanciato un ultimo sguardo oltre una spalla, e io colsi in un lampo occhi blu
come cristalli. Schiusi le labbra per lo shock, ma prima che potessi essere
sicura di ciò a cui avevo assistito, il ragazzo se n’era andato, lasciandosi
dietro una porta che si stava chiudendo lentamente.
Era…? Poteva essere…?
No, cercai di convincermi con decisione. Non poteva essere Rune. Non
c’era alcuna speranza che fosse venuto qui.
Mi odiava.
Il ricordo dello sguardo gelido nei suoi occhi blu, nel corridoio della
scuola, confermava il mio pensiero, mi stavo semplicemente illudendo di
cose che non potevano essere reali in alcun modo.
Con un inchino finale, uscii dal palcoscenico. Ascoltai gli ultimi tre
musicisti esibirsi, poi uscii dalla porta del backstage, solo per trovare la mia
famiglia e quella di Rune che mi aspettavano.
Mia sorella di tredici anni, Savannah, fu la prima a vedermi. «Pops!»
Urlò e corse verso di me, avvolgendomi le braccia alla vita.
«Salve a tutti» replicai, e la strinsi forte. Un secondo dopo, Ida, che
adesso aveva undici anni, mi stava abbracciando anche lei. Le strinsi più
forte che potevo e quando si tirarono indietro, avevano gli occhi lucidi.
Chinai la testa con allegria. «Ehi! Non si piange, ricordate?»
Savannah rise e Ida fece di sì con la testa, poi mi liberarono. Mia madre
e mio padre fecero a turno per dirmi quanto fossero orgogliosi di me.
Infine, mi voltai verso il signore e la signora Kristiansen. Fui investita da
un’improvvisa ondata di ansia. Questa sarebbe stata la prima volta che
parlavo con loro da quando erano ritornati da Oslo.
«Poppy» mi salutò la signora Kristiansen dolcemente e aprì le braccia.
Mi avviai verso la donna che era stata una seconda madre per me e mi
lasciai andare al suo abbraccio. Mi strinse forte e mi diede un bacio sulla
testa. «Mi sei mancata, cara» disse, il suo accento era più forte di quello che
ricordavo.
Il mio pensiero corse a Rune. Mi chiesi se anche il suo accento fosse più
forte. Quando la signora Kristiansen si staccò da me, scacciai questo
pensiero inutile. Il signor Kristiansen mi abbracciò anche lui. Quando mi
staccai, vidi il piccolo Alton che si aggrappava con forza alle gambe del
signor Kristiansen. Mi chinai. Alton abbassò la testa timidamente,
guardandomi di sottecchi attraverso le folte ciocche dei suoi lunghi capelli.
«Ehi, piccolo» gli dissi, solleticandogli un fianco. «Ti ricordi di me?»
Alton mi fissò per un tempo lunghissimo, prima di scuotere la testa.
Risi. «Vivevi proprio alla porta accanto alla mia. A volte venivi al parco
con me e Rune o, se c’era bel tempo, al frutteto!»
Avevo fatto il nome di Rune senza rifletterci, ma questo ricordò a me e a
tutti quelli intorno che io e Rune un tempo eravamo stati inseparabili. Il
silenzio scese sul gruppo.
Con un dolore al petto, quello stesso dolore che sentivo quando mi
mancava tremendamente la nonna, mi rialzai e distolsi gli occhi dai loro
sguardi di compassione. Stavo per cambiare argomento, quando sentii
qualcuno tirarmi l’orlo del vestito.
Quando guardai in basso, i grandi occhi blu di Alton erano fissi sul mio
viso. Passai una mano sui suoi soffici capelli. «Ehi, Alton, tutto bene?»
Alton arrossì, ma con la sua vocina dolce, mi chiese: «Sei amica di
Rune?»
Quello stesso dolore di un momento prima divampò, e guardai nel
panico le nostre due famiglie. La mamma di Rune ebbe un sussulto, io non
sapevo cosa dire. Alton tirò nuovamente il mio vestito, in attesa di una
risposta.
Sospirando, mi inginocchiai. «Lui era il migliore amico che avessi in
assoluto al mondo» gli dissi con tristezza. Mi premetti una mano sul petto.
«E gli volevo bene con tutto il cuore, con ogni singolo frammento del mio
cuore». Avvicinandomi di più, gli sussurrai con voce strozzata. «E gli vorrò
sempre bene».
Ebbi un vuoto allo stomaco. Quelle parole erano pura verità che
sgorgava dalla mia anima e non aveva importanza quello che io e Rune
adesso eravamo, lo avrei per sempre portato nel mio cuore.
«Rune…» Alton, all’improvviso parlò di nuovo. «Rune… ti parlava?»
Risi. «Certo, tesoro. Parlava con me tutto il tempo. Di tutti i suoi segreti.
Parlavamo di tutto».
Alton guardò indietro verso il suo papà e le sue piccole sopracciglia si
unirono, dipingendo sul suo viso carino un’espressione corrucciata.
«Parlava con Poppy, papà?»
Il papà di Rune annuì. «Sì, Alton. Poppy era la sua migliore amica. La
amava totalmente».
Alton sgranò incredibilmente gli occhi e si rivolse nuovamente a me. Il
labbro inferiore gli tremava.
«Che succede, tesoro?» Chiesi strofinandogli il braccio.
Tirò su col naso. «Rune non mi parla».
Il mio cuore sprofondò. Perché Rune adorava Alton, si era sempre preso
cura di lui, aveva sempre giocato con lui. E Alton adorava Rune. Ammirava
tantissimo il suo fratello maggiore.
«Mi ignora» mi disse Alton, e la sua voce tremante mi spezzò il cuore.
Alton mi osservava. Mi osservava con un’intensità che avevo sperimentato
unicamente con un’altra persona, il fratello più grande che lo ignorava.
Mi mise la mano sul braccio. «Puoi parlare con lui? Gli puoi chiedere di
parlare con me? Se tu sei la sua migliore amica, lui ti ascolterà».
Il mio cuore andò in pezzi. Guardai oltre la testa di Alton, verso sua
madre e suo padre, poi verso i miei genitori. Sembravano tutti sconvolti
dall’amara rivelazione di Alton.
Quando mi voltai di nuovo verso lui, mi stava ancora fissando, in cerca
di aiuto. «Lo farei, tesoro» gli risposi dolcemente, «ma ora non parla
nemmeno con me».
Vidi la speranza di Alton sgonfiarsi come un palloncino. Gli baciai la
testa, e lui corse indietro dalla sua mamma. Notando la mia chiara
sofferenza, mio padre cambiò velocemente argomento. Si girò verso il
signor Kristiansen e invitò la sua famiglia a bere qualcosa a casa nostra
l’indomani sera. Mi allontanai da tutti loro, tirando un bel respiro profondo
mentre i miei occhi percorrevano il parcheggio senza vederlo.
Il suono del motore di una macchina che rombava mi strappò dalla mia
trance. Mi girai in quella direzione. Tutto il fiato svanì dai miei polmoni
quando, in lontananza, vidi un ragazzo dai lunghi capelli biondi saltare sul
sedile davanti di una Ford Camaro nera.
La Camaro nera che apparteneva a Deacon Jacobs, il migliore amico di
Rune.

Mi guardai nello specchio e ammirai l’abbigliamento che avevo scelto.


Il vestitino svasato celeste mi arrivava a metà coscia, il caschetto castano
era tenuto su da un lato da un fiocco bianco, e ai piedi portavo un paio di
ballerine nere.
Presi il portagioie, tirai fuori i miei orecchini d’argento preferiti e li
infilai ai lobi. Erano a forma di infinito. Rune me li aveva regalati per il mio
quattordicesimo compleanno.
Li indossavo a ogni occasione.
Recuperai una corta giacchetta di jeans e corsi fuori dalla stanza, nella
serata fresca. Jorie mi aveva scritto che era là fuori. Appena salii sul sedile
davanti del pick-up della mamma di Jorie, mi voltai verso la mia migliore
amica. Lei mi stava sorridendo.
«Poppy, sei incredibilmente carina!» Osservò. Feci scivolare le mani sul
vestito, lisciandomi la gonna.
«Va bene?» Chiesi preoccupata. «Non sapevo davvero cosa mettermi».
Jorie si agitò una mano davanti al viso mentre usciva dal mio vialetto.
«Va bene».
Diedi un’occhiata a quello che indossava lei. Jorie aveva un abito nero
senza maniche e stivali da motociclista. Era sicuramente più aggressiva di
me, ma ero contenta che i nostri outfit non fossero proprio ai poli opposti.
«Quindi» incominciò quando lasciammo la mia strada, «come è andato
lo spettacolo?»
«Bene» risposi in maniera evasiva.
Jorie mi lanciò uno sguardo acuto. «E come ti senti?»
Roteai gli occhi. «Jorie, sto bene. Per favore, lasciami stare. Sei proprio
come mia madre».
Jorie, che sembrava rimasta per una volta senza parole, cacciò fuori la
lingua. E solo per quello, mi fece ridere di nuovo.
Per il resto del viaggio, mi aggiornò su tutti i gossip che erano circolati a
scuola sul perché me ne fossi andata. Sorrisi tutte le volte che la situazione
lo richiedeva e annuii quando lei se lo aspettava, ma non ero proprio
interessata. Non mi era mai importato davvero di tutti i drammi che
avvenivano a scuola.
Sentii il party prima di vederlo. Urla e musica ad alto volume
esplodevano da casa di Deacon arrivando fin giù per la strada. I suoi
genitori erano andati via per una breve vacanza, e questo nella piccola
cittadina di Blossom Grove significava una sola cosa: una festa in casa.
Mentre parcheggiavamo vicino all’abitazione, si vedevano già ragazzini
riversarsi nel cortile davanti. Ricacciai indietro il nervosismo. Rimasi
attaccata dietro a Jorie mentre attraversavamo la strada.
Aggrappandomi al suo braccio, le chiesi: «Le feste in casa sono tutte
così folli?»
Jorie rise. «Sì!» Poi mi prese sottobraccio e mi spinse in avanti.
Quando entrammo in casa, sussultai per quanto era alta la musica. Ci
facemmo largo tra le stanze per andare in cucina, gli studenti ubriachi e
barcollanti mi spinsero ad aggrapparmi sempre più a Jorie, finché non mi
convinsi che le stavo facendo fisicamente male. Jorie guardò indietro verso
di me e rise. Quando alla fine raggiungemmo la cucina, mi rilassai
immediatamente vedendo Ruby in piedi con Deacon. La cucina era molto
più tranquilla delle altre stanze che avevamo attraversato a fatica.
«Poppy!» Esclamò Ruby e attraversò la cucina per attirarmi tra le sue
braccia. «Vuoi bere qualcosa?»
«Solo una soda» replicai.
Ruby si accigliò. «Poppy!» Mi rimproverò. «Tu hai bisogno di un vero
drink».
Risi alla sua espressione orripilata. «Ruby, grazie, ma mi limiterò alla
soda».
«Buuh!» Gridò Ruby, ma mi lanciò un braccio al collo e mi guidò verso
tutte le bevande.
«Pops» mi salutò Deacon, proprio mentre gli arrivava un messaggio sul
cellulare.
«Ehi, Deek» lo salutai di rimando e presi la soda dietetica che Ruby mi
aveva versato. Ruby e Jorie mi portarono nel giardino sul retro, dove c’era
un falò che ardeva al centro del prato. Sorprendentemente, qui fuori non
c’era molta gente, e la cosa mi andava assolutamente bene.
Non passò molto tempo prima che Deacon venisse a riportare Ruby al
party all’interno, lasciandomi sola con Jorie. Stavo fissando le fiamme
quando Jorie disse: «Scusami per non aver tenuto la mia boccaccia chiusa,
ieri parlando di Rune. Ti ho ferita, l’ho visto. Mio Dio! È solo che non
penso mai prima di aprire questo grosso forno! Mio padre minaccia di
chiudermela facendomela cucire!» Jorie si spinse le mani sopra la bocca
mimando una finta lotta. «Non ci riesco, Pops! Questa bocca, per quanto
senza controllo, è tutto quello che ho!»
Ridendo, scossi la testa. «È tutto a posto, Jor. Lo so che non volevi. Non
mi feriresti mai».
Jorie abbassò le mani dalla bocca, la testa inclinata di lato. «Davvero
però, Pops. Che ne pensi di Rune? Sai, da quando è tornato?»
Jorie mi guardava con curiosità. Io scrollai le spalle e lei roteò gli occhi.
«Mi stai dicendo che non ti sei fatta nessuna opinione sull’aspetto che ha
adesso il grande amore della tua vita, più grande e, se senti me, follemente,
totalmente sexy!»
Lo stomaco mi si contorse e mi misi a giocare con il bicchiere di plastica
rossa che avevo in mano. «È semplicemente bello come lo è sempre stato»
replicai, facendo spallucce.
Jorie fece un sorrisetto dietro il suo bicchiere mentre beveva un sorso,
poi fece una smorfia quando sentimmo la voce di Avery arrivare
dall’interno della casa. Jorie abbassò il bicchiere. «Ughh, a quanto pare la
sgualdrina è a casa».
Sorrisi all’espressione di palese disgusto sulla faccia di Jorie. «È
davvero così male?» Chiesi. «È davvero una sgualdrina?»
Jorie sospirò. «Non proprio, solo che odio come si mette a flirtare con
tutti i ragazzi».
Ah, pensai, sapevo esattamente a chi si stava riferendo. «Qualcuno in
particolare?» La provocai, e vidi Jorie accigliarsi in risposta. «Judson,
forse?» Aggiunsi, spingendo Jorie a scagliarmi addosso il suo bicchiere
vuoto.
Quello mi mancò, volando nella direzione totalmente opposta e risi.
Quando le risate poi morirono, Jorie osservò: «Almeno adesso che Rune è
tornato sembra aver lasciato perdere Jud, comunque». Il mio buon umore
svanì. Quando Jorie realizzò quello che aveva appena detto, le sfuggì un
lamento di esasperazione per se stessa, e prontamente si spostò per sedersi
accanto a me e stringermi la mano. «Cavolo, Pops. Mi dispiace tanto. L’ho
fatto di nuovo! Non volevo...»
«Non fa niente» la interruppi.
Ma Jorie mi strinse la mano ancora più forte. Per alcuni momenti cadde
il silenzio. «Te ne penti, Pops? Ti sei mai pentita di aver rotto con lui in
quella maniera?»
Fissai il fuoco, persa tra il crepitio delle fiamme. E risposi onestamente.
«Ogni singolo giorno».
«Poppy» mi sussurrò Jorie tristemente.
Le rivolsi un debole sorriso. «Mi manca, Jor. Non hai idea quanto. Ma
non potevo dirgli quello che stava succedendo. Non potevo fargli questo.
Meglio fargli credere che non fossi più interessata, che dirgli la terribile
verità». Jorie poggiò la testa sulla mia spalla e io sospirai. «Se l’avesse
saputo avrebbe provato qualsiasi cosa in suo potere per tornare. Ma non
sarebbe stato possibile. Il lavoro di suo padre era lì, a Oslo. E io…»
risucchiai un respiro. «E io volevo che lui fosse felice. Sapevo che, col
tempo, avrebbe superato il fatto di non sentirmi più. Ma conosco Rune, Jor;
non avrebbe mai superato l’alternativa».
Jorie sollevò il capo e mi baciò sulla guancia, un gesto che mi fece
ridere. Ma riuscivo a scorgere lo stesso la tristezza sul suo viso. «E adesso?
Adesso che è tornato cosa farai? Alla fine, tutti gli altri lo scopriranno».
Inspirai a fondo. «Spero di no, Jor. Non sono così popolare a scuola
come te, Ruby e Rune. Se semplicemente scompaio di nuovo, nessuno se ne
accorgerà». Scossi la testa. «E dubito che al Rune che è tornato a casa
importerebbe più. Ieri l’ho visto di nuovo nel corridoio, e lo sguardo che mi
ha lanciato mi ha fatto capire quali siano i suoi sentimenti. Non sono niente
per lui adesso».
Seguì un silenzio imbarazzante, fino a che la mia migliore amica non si
spinse a chiedere: «Ma tu lo ami esattamente come allora. Mi sbaglio?»
Non risposi. Ma la mancanza della mia risposta era assordante quanto un
grido.
Sì. Lo amavo ancora, allo stesso modo di sempre.
Il rumore di uno schianto fragoroso giunse dal giardino davanti,
infrangendo l’intensità della nostra conversazione. Mi resi conto che
dovevano essere passate un paio d’ore da quando eravamo arrivate. Jorie si
alzò in piedi e fece una smorfia. «Pops, devo fare pipì! Vieni dentro?»
Risi vedendo Jorie che ballava sul posto e la seguii all’interno. Lei si
fece largo verso il bagno sul retro della casa e io l’aspettai nel corridoio,
fino a che non sentii le voci di Ruby e Deacon provenire dal soggiorno.
Decisi di andare lì e di sedermi con loro mentre aspettavo Jorie, e così
aprii la porta ed entrai. Avevo fatto appena tre passi quando mi pentii di
essere mai venuta a questo party.
Tre divani dominavano la piccola stanza. Ruby e Deacon ne occupavano
uno, Judson e alcuni ragazzi della squadra di football erano spaparanzati
sopra un altro. Ma era dal terzo divano che non riuscivo a staccare gli occhi.
Non importava con quanta forza ordinassi ai miei piedi di muoversi,
semplicemente si rifiutavano.
C’era Avery seduta sul divano, che beveva dal suo bicchiere. C’era un
braccio intorno alle sue spalle. Avery tracciava dei disegnini sulla mano che
pendeva sopra il suo petto.
Conoscevo la sensazione di quella mano.
Conoscevo la sensazione di trovarsi sotto il rifugio protettivo di quel
braccio.
E sentii il mio cuore frantumarsi, mentre spostavo lo sguardo sul ragazzo
seduto accanto a lei. Come se avvertisse il grave peso del mio sguardo, lui
sollevò gli occhi. La sua mano si bloccò, il bicchiere a mezz’aria davanti
alla sua bocca.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
La consapevolezza che Rune mi aveva dimenticato era già abbastanza
dura da sopportare; vederlo così portò il mio dolore a un nuovo livello
d’intensità che non avrei mai creduto fosse possibile.
«Poppy? Stai bene?» La voce preoccupata di Ruby risuonò
improvvisamente attraverso la stanza, costringendomi a strappare gli occhi
dal disastro a cui stavo assistendo.
Forzai un sorriso verso di lei. «Sì. Sto bene» sussurrai.
Sentivo le gambe tremare a causa dell’attenzione indesiderata da parte di
tutti nella stanza, ma riuscii a muovere qualche passo verso la porta. Ma in
quel mentre, vidi Avery voltarsi verso Rune.
Voltarsi per un bacio.
L’ultimo frammento del mio cuore si spezzò, mi girai e scappai via dalla
stanza prima che potessi assistere a quel bacio. Mi spinsi nel corridoio e
corsi in direzione dalla stanza più vicina che riuscii a trovare. Girando
freneticamente la maniglia, irruppi nella semi oscurità di una lavanderia.
Sbattei la porta e mi appoggiai contro la lavatrice, incapace di evitare di
piegarmi in due e lasciare fluire le lacrime. Cercai di trattenere il conato di
vomito che mi risaliva per la gola, mentre lottavo disperatamente per
cancellare quell’immagine rivoltante dalla mia testa.
Durante questi ultimi due anni, pensavo di aver sopportato il dolore in
ogni sua sfaccettatura. Ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo così tanto. Perché
nulla poteva essere paragonato al dolore del vedere la persona che ami tra le
braccia di un’altra. Nulla poteva essere paragonato al tradimento di un
bacio dalle labbra che ti erano state promesse.
Mi afferrai lo stomaco tra le mani. Mi sforzai di prendere il respiro di cui
avevo tanto bisogno, e la maniglia della stanza iniziò a girare.
«No! Va’ via...» Avevo iniziato a urlare, ma prima che potessi voltarmi e
richiudere la porta con la forza, qualcuno entrò, sbattendo la porta.
Il mio cuore accelerò quando realizzai che ero intrappolata in questa
stanza con qualcun altro.
Quando mi girai e vidi chi era entrato, tutto il sangue defluì via dal mio
viso. Barcollai all’indietro fino a che la mia schiena non colpì il muro
accanto alla lavatrice.
Le fiamme provenienti dal falò all’esterno illuminavano la stanza buia,
abbastanza da poter vedere chiaramente chi aveva violato il mio momento
di debolezza.
Lo stesso ragazzo che l’aveva causata.
Rune stava in piedi di fronte a me, accanto alla porta chiusa. Allungò un
braccio e girò il lucchetto della porta. Deglutii quando girò di nuovo il viso,
per guardarmi. La sua mascella era tesa e i suoi occhi blu erano fermi e fissi
nei miei. Il suo sguardo era freddo come il ghiaccio.
La bocca mi si seccò. Rune fece un passo in avanti, la sua figura alta e
possente si richiudeva su di me. Il martellare del mio cuore sospingeva il
sangue nelle mie vene, il suo rumore impetuoso mi rombava nelle orecchie.
Mentre lui si avvicinava, i miei occhi si abbassarono a notare le braccia
quasi completamente scoperte di Rune: i suoi muscoli tonici e slanciati
erano tirati per la tensione dei suoi pugni serrati. La sua t-shirt nera metteva
in risalto l’addome scolpito, la sua pelle liscia ancora conservava una
sfumatura dell’abbronzatura che svaniva. Con quella sua mossa che lo
contraddistingueva, quella che mi aveva sempre messo in ginocchio,
sollevò una mano e si tirò indietro i capelli dal viso.
Deglutendo con forza, cercai di trovare il coraggio di spingerlo via e
correre fuori. Ma Rune continuò ad avanzare fino a che non ci fu più via
d’uscita per me. Ero in trappola.
Avevo gli occhi sbarrati, mentre lui si concentrava su di me. Rune si fece
avanti fino a che non ci separarono che pochi centimetri. Così da vicino,
potevo sentire il calore che si irradiava dal suo corpo. Così da vicino,
potevo sentire il suo fresco profumo: quello che sempre mi aveva arrecato
conforto, quello che mi riportava indietro alle pigre giornate estive trascorse
nel frutteto. Quello che mi riportava, come in un film a colori, all’ultima
notte, quando avevamo fatto l’amore.
Sentii le guance infiammarsi per il calore, mentre lui si sporgeva su di
me. Colsi la leggera traccia di tabacco sui suoi vestiti, e la punta di menta
nel suo respiro caldo. Le mie dita, lungo i fianchi, ebbero uno spasmo,
mentre guardavo quell’ombra di barba corta sulla sua mascella e il mento.
Volevo allungare la mano e toccarla. In verità, agognavo poter sollevare una
mano e far scorrere un dito lungo la sua fronte, giù per le sue guance, lungo
le sue labbra perfette.
Ma non appena pensai a quelle labbra, ritornò il dolore a fendermi il
cuore. Girai la testa, chiusi gli occhi. Con quelle labbra, lui aveva toccato
Avery.
Mi aveva distrutta dando via quelle labbra, quelle labbra che dovevano
essere mie per sempre.
Lo sentii richiudersi su di me, fino a che i nostri busti quasi si
sfiorarono. Sentii il suo braccio alzarsi sopra la mia testa, e atterrare sulla
parete sopra di me, accerchiandomi in ogni centimetro del mio spazio
vitale. E sentii ciocche dei suoi lunghi capelli sfiorarmi la guancia.
Rune aveva il respiro affannoso, il suo fiato che sapeva di menta
aleggiava sul mio viso. Strinsi gli occhi ancora più forte. Lo sentivo così
insostenibilmente vicino. Ma fu inutile; per propria volontà, comandati dal
mio cuore, i miei occhi si aprirono lentamente e voltai la testa, e i nostri
sguardi si scontrarono.
Il respiro mi si bloccò in gola, mentre le ombre del fuoco all’esterno
danzavano sul suo viso. Poi sembrò che il respiro mi si fermasse
completamente quando la sua mano si mosse da sopra la mia testa, e con
esitazione, viaggiò in basso e iniziò ad accarezzarmi i capelli. Quando lo
sentii prendere una ciocca tra le dita, brividi affiorarono lungo tutto il mio
corpo e uno sfarfallio mi si librò nello stomaco.
Avvertivo che lui non se la stava cavando meglio, la profondità dei suoi
respiri, la tensione nella sua mascella erano chiari segnali rivelatori. Fissavo
il suo bellissimo viso mentre lui osservava il mio, entrambi assorbivamo gli
effetti degli ultimi due anni: i cambiamenti, ma ancora di più, quegli aspetti
che ci erano assolutamente familiari.
Poi, quando non ero certa che il mio cuore potesse sopportare altro, il
suo tocco gentile abbandonò la sicurezza dei miei capelli per scivolare sul
mio viso, e accarezzare con dita lievi come piume la sommità dei miei
zigomi. Le sue dita si fermarono mentre lui sussurrava una parola, una
parola intrisa di emozioni, con la voce dolorosamente disperata e rauca più
che mai: «Poppymin».
Una lacrima sfuggì dai miei occhi e si infranse sulla sua mano.
Poppymin.
Il perfetto nome di Rune, per me.
La mia Poppy.
La sua ragazza. All’infinito.
Sempre e per sempre.
Un groppo mi risalì rapido con i suoi artigli per la gola, mentre quella
dolce parola navigava alle mie orecchie, trafiggendomi l’anima. Cercai in
ogni modo di scacciarla e confinarla con il resto del dolore degli ultimi due
anni, ma, completamente sopraffatta e totalmente sconfitta, non ci riuscii. E
un singhiozzo, da lungo tempo imprigionato, mi scappò.
Con Rune così vicino, non avevo mai avuto una possibilità di farcela.
Quando quel lamento disperato mi sfuggì dalle labbra, il gelo dagli occhi
di Rune svanì e si addolcirono, illuminandosi di lacrime non versate. Rune
inclinò la testa in avanti, e premette la fronte sulla mia, portando le dita in
basso a premersi contro le mie labbra.
Respirai.
Respirò.
E, contro ogni logica, permisi a me stessa di fingere che gli ultimi due
anni non ci fossero mai stati. Finsi che non se ne fosse andato via. Finsi che
anch’io non me ne fossi andata via. Che tutto il dolore e la sofferenza non
fossero mai stati sperimentati. E che quella nera voragine senza fondo che
aveva preso il posto del mio cuore fosse piena di luce, la luce più
splendente che si potesse immaginare.
L’amore di Rune. Il suo tocco e i suoi baci.
Ma questa non era la nostra realtà. Qualcuno bussò con forza alla porta
della lavanderia e la realtà si schiantò su di noi come l’onda di una
tempesta, che si abbatteva su una spiaggia sferzata dalla pioggia.
«Rune? Sei lì dentro?» Chiamò una voce femminile, una voce che
riconobbi essere quella di Avery.
Rune aprì gli occhi di scatto, mentre Avery bussava sempre più forte. Si
staccò immediatamente, osservandomi.
Sollevai la mano e mi asciugai le lacrime. «Per favore, lasciami andare».
Cercai di apparire decisa. Volevo dire di più. Ma dentro, non mi era
rimasto più niente. Non avevo più la forza di portare avanti questa finzione.
Ero ferita.
Era scritto sul mio viso e tutti potevano vederlo.
Posai la mano sul petto muscoloso di Rune e lo spinsi via, avevo
bisogno di uscire. Lui lasciò che lo spostassi, ma solo per racchiudere la
mia mano stretta nella sua, appena prima che raggiungessi la porta. Chiusi
gli occhi, cercando di racimolare le forze per voltarmi verso di lui di nuovo.
E quando lo feci, altre lacrime caddero.
Rune stava fissando le nostre mani unite, le sue lunghe ciglia biondo
scuro quasi nere per le lacrime che tratteneva.
«Rune» sussurrai. I suoi occhi scattarono in su al suono della mia voce.
«Per favore» lo pregai, mentre Avery bussava di nuovo.
Lui si aggrappò più forte.
«Rune?» Avery chiamò a voce più alta. «So che sei lì».
Mi avvicinai a Rune di un passo. Osservava ogni mia mossa con
profonda concentrazione. Quando raggiunsi il suo petto, guardai in alto,
lasciando che la sua mano mantenesse la presa sulla mia. Incontrai i suoi
occhi e riconobbi la confusione nella sua espressione, allora mi alzai sulle
punte.
Portai la mia mano libera sulla sua bocca e feci scorrere i polpastrelli
lungo il suo carnoso labbro inferiore. Sorrisi tristemente, ricordando la
sensazione che mi davano, premute contro le mie. Tracciai il suo marcato
arco di cupido, lasciando scorrere le lacrime, mentre dicevo: «Mi ha ucciso
tagliare i contatti con te, Rune. Mi ha ucciso non sapere cosa facessi
dall’altra parte dell’Atlantico». Inspirai, tremando. «Ma niente mi ha mai
fatto del male come vederti baciare quella ragazza».
Rune sbiancò, le sue guance si fecero cineree. Scossi la testa. «Non ho
diritto di essere gelosa. È tutta colpa mia. Di tutto, lo so. Ma sono lo stesso
così gelosa, così ferita, che penso potrei morire di questo dolore». Abbassai
la mano dalle sue labbra. Sollevai lo sguardo su di lui, implorandolo con gli
occhi. «Quindi, ti prego… Ti prego lasciami andare. Non posso stare qui,
non adesso».
Rune non si mosse, riuscivo a vedere lo shock sul suo viso. Sfruttandolo
a mio vantaggio, tirai via la mano dalla sua e immediatamente aprii la porta.
Senza voltarmi indietro, o prendermi un attimo di tempo, la oltrepassai
superando con una spinta Avery, che aspettava arrabbiata nel corridoio.
E corsi. Corsi oltre Ruby e Jorie, oltre Deacon e Judson, che si erano
tutti riuniti nel corridoio per assistere al dramma che si stava consumando.
Corsi oltre tutti gli studenti ubriachi che ancora si reggevano in piedi. Corsi
finché non mi precipitai fuori della porta, all’aria fresca. E poi corsi ancora.
Semplicemente corsi il più veloce che potevo, il più lontano possibile da
Rune.
«Rune!» Sentii una voce stridula gridare in lontananza, seguita da una
voce maschile che aggiungeva: «Amico, dove stai andando? Rune!» Ma
non mi lasciai dissuadere. Presi una brusca svolta a destra, vidi l’entrata del
parco. Era buio e il parco non era ben illuminato, ma tagliava dritto verso
casa.
In quel momento avrei dato qualsiasi cosa per essere a casa.
Il cancello era aperto. Mi lasciai guidare dai miei piedi lungo il sentiero
scuro costeggiato dagli alberi, che mi conduceva sempre più all’interno, al
centro del parco. Avevo il fiato corto. I piedi mi facevano male per le suole
sottili delle ballerine che pestavano sull’asfalto duro. Girai a sinistra, verso
il boschetto di ciliegi, quando sentii rumore di passi dietro di me.
All’improvviso terrorizzata, girai la testa. Rune stava correndo veloce
dietro di me. Il mio cuore accelerò, ma questa volta non aveva niente a che
fare con lo sforzo, e tutto con quell’espressione di determinazione sul volto
di Rune. Rune stava guadagnando terreno su di me, rapidamente.
Corsi ancora per qualche centinaio di metri e poi mi resi conto che era
inutile. Quando entrai nel frutteto, un posto che conoscevo così bene, un
posto che lui conosceva così bene, rallentai fino a camminare e, alla fine, a
fermarmi del tutto.
Un momento più tardi, sentii Rune entrare nel boschetto di alberi spogli.
Sentii il suo pesante respiro martellare l’aria fredda.
Lo sentii muoversi dietro di me.
Lentamente, mi girai sui talloni e affrontai Rune. Si teneva entrambe le
mani nei capelli, aggrappandosi alle ciocche. I suoi occhi blu erano
ossessionati, torturati. L’aria intorno a noi crepitava per la tensione mentre
ci fissavamo l’un l’altro, in silenzio, i nostri petti che si alzavano e si
abbassavano pesanti, le nostre guance in fiamme.
Poi lo sguardo di Rune cadde sulle mie labbra e lui si spinse in avanti
piano. Fece due passi e sputò un’unica, aspra domanda: «Perché?»
Digrignò i denti, in attesa della mia risposta. Io abbassai lo sguardo, gli
occhi mi si riempirono di lacrime. Scossi la testa. «Per favore, no» lo
implorai.
Rune si strofinò le mani sul viso. Quell’espressione testarda che
conoscevo così bene si disegnò sul suo viso. «No! Dio, Poppy. Perché?
Perché l’hai fatto?»
Fui distratta per un attimo da quanto pesante fosse il suo accento,
un’impronta più ruvida nella sua voce già bassa e arrochita.
Da bambino, con gli anni trascorsi qui, il suo accento norvegese si era
attenuato in parte. Ma ora, il suo inglese era avvolto da una pesante nota
nordica. Mi ricordò del giorno in cui ci conoscemmo fuori da casa sua, a
cinque anni.
Ma quando vidi il suo volto diventare rosso per la rabbia, rammentai
subito che ora tutto ciò non importava. Non avevamo più cinque anni.
Niente era più innocente. Troppo era successo.
E comunque io non potevo dirglielo.
«Poppy» insistette lui, la sua voce si alzò di tono, e si avvicinò ancora di
un passo. «Perché diavolo l’hai fatto? Perché non mi hai più richiamato?
Perché vi siete trasferiti tutti? Dove diavolo siete stati? Cosa diavolo è
successo?»
Rune cominciò a camminare avanti e indietro, i suoi muscoli che si
gonfiavano sotto la t-shirt. Un vento freddo soffiò attraverso il frutteto e lui
si tirò indietro i capelli. All’improvviso si bloccò, si mise di fronte a me.
«Avevi promesso!» Sputò. «Mi avevi promesso che avresti aspettato che
tornassi. Tutto andava bene, finché un giorno ti ho chiamata e tu non hai
risposto. Ho chiamato e richiamato, ma tu non hai mai risposto. Non un
messaggio, niente!»
Si mosse fino a che i suoi piedi, coperti dagli stivali, non furono incollati
ai miei, torreggiava su di me. «Dimmelo! Dimmelo subito». La sua pelle
era chiazzata dal rossore provocato dalla rabbia. «Merito di saperlo,
maledizione!»
Sobbalzai per l’aggressività nella sua voce. Sobbalzai per il veleno nelle
sue parole. Sobbalzai per lo sconosciuto in piedi di fronte a me.
Il Rune di un tempo non mi avrebbe mai parlato in questo modo. Ma
ricordai a me stessa che questo non era il Rune di quel tempo.
«Io, io non posso» balbettai, in un sussurro appena udibile. Sollevai gli
occhi, vidi un’espressione incredula sul suo viso. «Per favore, Rune» lo
implorai. «Non insistere. Lascia perdere e basta». Deglutii, poi mi sforzai di
proseguire. «Lasciaci… Lasciaci nel passato. Dobbiamo andare avanti».
La testa di Rune scattò all’indietro come se gli avessi scagliato un
pugno.
Poi lui rise. Rise, ma in quel suono non c’era alcun divertimento. Era
avvolto dalla furia, intriso di rabbia.
Rune si spostò indietro con una falcata. Le mani gli tremavano lungo i
fianchi e ancora una volta rise. Poi, gelido, mi ordinò: «Dimmelo».
Scossi la testa, cercando di oppormi. Si portò la mano ai capelli per la
frustrazione. «Dimmelo» ripeté. La sua voce si era abbassata di un’ottava e
sprizzava minacce.
Questa volta non scossi la testa. La tristezza mi aveva resa incapace di
muovermi. La tristezza di vedere Rune così. Era sempre stato silenzioso e
introverso. Sua mamma mi aveva detto in più di un’occasione che Rune era
sempre stato un bambino cupo. Aveva sempre avuto paura che le avrebbe
causato problemi. Mi aveva sempre detto che aveva un’innata
predisposizione ad aggredire le persone e a starsene per conto suo. Anche
da bambino lei aveva notato una certa aria lunatica in lui, la sua
inclinazione a essere negativo, invece che positivo.
Ma poi ha trovato te, aveva detto. Ha trovato te. Tu gli hai insegnato,
con le tue parole e le tue azioni, che non sempre la vita deve essere così
seria. Che la vita va vissuta. Che la vita è una grande avventura, da vivere
al meglio e da vivere appieno.
Sua mamma aveva avuto ragione su tutto.
Mi resi conto, mentre guardavo l’oscurità che trasudava da questo
ragazzo, che questo era il Rune che la signora Kristiansen si aspettava, no,
che temeva, sarebbe diventato. Questa era l’innata lunaticità che lei sapeva
annidarsi sotto la superficie, in suo figlio.
Una predilezione per l’oscurità, non per la luce.
Restando in silenzio, decisi di voltargli le spalle. Per lasciare Rune da
solo con la sua rabbia.
Raggi di luna nei cuori e sole splendente nei sorrisi, mi ripetevo in
mente il mantra di mia nonna. Serrai gli occhi e mi sforzai di respingere il
dolore che cercava di dilagarmi dentro. Cercavo di sottrarmi a quel male al
petto, il male che diceva quello a cui non volevo credere.
Che io avevo fatto questo a Rune.
Feci per muovere un passo avanti, per andarmene, l’istinto di
autoconservazione che acquisiva il controllo. E non appena lo feci, sentii
delle dita disperate avvolgersi attorno al polso e farmi voltare su me stessa.
Le pupille dilatate, negli occhi di Rune, quasi avevano consumato le sue
iridi blu come cristalli. «No! Resta dove sei. Resta esattamente dove sei e
dimmelo». Prese un lungo respiro e, perdendo ogni controllo, si mise a
urlare. «Dimmi perché cavolo mi hai lasciato completamente solo!»
Questa volta la sua rabbia era senza freni. Questa volta le sue parole
dure avevano la forza di uno schiaffo in faccia.
Davanti a me, il frutteto iniziò ad annebbiarsi; mi ci volle un secondo
per capire che erano le mie lacrime a offuscarmi la vista.
Una lacrima scivolò sulla mia guancia. Lo sguardo oscuro di Rune non
vacillò.
«Ma tu chi sei?» Sussurrai. Scossi la testa, mentre Rune continuava a
fissarmi, un lieve incresparsi al lato dei suoi occhi fu l’unica prova che le
mie parole avessero avuto un qualche effetto. «Chi sei tu, adesso?» Guardai
giù alle sue dita, ancora intorno al mio polso. «Dov’è il ragazzo che amo?»
Chiesi, sentendo la gola serrarsi. Arrischiando un altro sguardo al suo viso,
sussurrai: «Dov’è il mio Rune?»
Improvvisamente, Rune strappò le dita dal mio braccio come se la mia
pelle bruciasse al tocco. Una risata sgradevole sgorgò dalle sue labbra,
mentre mi fissava dall’alto in basso. La sua mano si sollevò ad
accarezzarmi delicatamente i capelli, una contraddittoria dolcezza in quel
gesto se paragonata alla cattiveria con cui parlò. «Vuoi sapere dov’è andato
quel ragazzo?»
Deglutii, mentre lui scandagliava ogni parte del mio viso, ogni
lineamento a parte i miei occhi.
«Vuoi sapere dove è andato il tuo Rune?»
Il suo labbro si arricciò per il disgusto. Come se il mio Rune fosse
qualcuno di indegno. Come se il mio Rune non valesse tutto l’amore che
avevo provato per lui.
Sporgendosi verso di me, incontrò i miei occhi, con uno sguardo così
severo che brividi mi sfrecciarono lungo la spina dorsale. Sussurrò con
asprezza: «Quel Rune è morto quando tu l’hai lasciato completamente
solo». Cercai di girarmi e andarmene, ma Rune balzò sulla mia strada,
rendendomi impossibile scappare dalla sua feroce crudeltà. Risucchiai un
respiro sofferente, ma Rune non aveva finito. Lo vedevo dai suoi occhi che
era ben lontano dall’aver finito.
«Ti ho aspettata» mi disse. «Ho aspettato e aspettato che tu mi
chiamassi, per spiegarmi. Ho chiamato chiunque conoscevo qui giù, per
cercare di trovarti. Ma eri svanita. Partita per prenderti cura di una qualche
zia malata che sapevo non esistere. Tuo padre non ha voluto parlare con me
quando ci ho provato. Mi avete chiuso fuori tutti». Le sue labbra si tesero
mentre riviveva quel dolore. Lo vedevo. Lo vedevo in ogni suo gesto, in
ogni sua parola; era tornato indietro in quel posto colmo di dolore.
«Mi dicevo di avere pazienza, che col tempo mi avresti spiegato tutto.
Ma i giorni sono diventati settimane e le settimane mesi, e ho smesso di
attendere con la speranza. Al suo posto, ho lasciato entrare il dolore. Ho
lasciato entrare il buio che tu hai creato. Quando un anno intero è arrivato e
passato, senza alcuna risposta alle mie lettere e ai miei messaggi, ho
lasciato che il dolore si appropriasse di me fino a che non è rimasto più
niente del vecchio Rune. Perché non potevo guardarmi allo specchio un
giorno di più, non potevo più vestire i panni di quel Rune un maledetto
giorno di più. Perché quello era il Rune che aveva te. Quel Rune era il Rune
che aveva Poppymin. Quel Rune aveva un cuore intero. La tua metà e la
mia. Ma la tua metà mi ha abbandonato. Se n’è andata e ha permesso a
quello che ho adesso di mettere le sue radici. Buio. Dolore. Una tonnellata
di maledetta rabbia».
Rune si chinò fino a che il suo respiro non investì il mio viso. «Tu mi hai
reso così, Poppy. Il Rune che conoscevi è morto quando ti sei trasformata in
una stronza e hai infranto ogni promessa che avevi fatto».
Inciampai all’indietro, sbilanciata dalle sue parole. Quelle parole che
erano come proiettili al cuore. Rune mi osservava senza segno di
pentimento. Nel suo sguardo, non vedevo nessuna compassione. Solo una
fredda, dura verità.
Intendeva davvero ogni parola.
Allora, prendendo spunto da lui, lasciai la rabbia prendere il
sopravvento. Cedetti le redini a tutta quella rabbia che provavo. Mi slanciai
in avanti e spinsi forte contro il petto solido di Rune. Non mi aspettavo che
si sarebbe smosso, e rimasi sorpresa quando ricadde indietro di un passo,
prima di riconquistare velocemente la sua posizione.
Ma non mi fermai.
Gli volai nuovamente contro, il viso che grondava di lacrime bollenti.
Spingevo e spingevo contro il suo petto. Ben saldo a terra, Rune non si
muoveva di un millimetro. Così, gli tirai un pugno. Dalla mia bocca sfuggì
un singhiozzo, mentre gli colpivo il busto, i suoi muscoli che si tendevano
sotto la t-shirt, mentre io lasciavo libero sfogo a tutto quello che si era
accumulato dentro di me.
«Ti odio!» Gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni. «Ti odio per
questo! Odio questo ragazzo che sei adesso! Odio lui, odio te!» Soffocavo
per le mie urla e inciampai all’indietro, esausta.
Vedendo il suo sguardo torvo ancora fermamente puntato su di me, usai
l’ultimissima briciola di energia per gridare «Ti stavo salvando!»
Respirai profondamente per alcuni istanti, poi aggiunsi piano: «Ti stavo
salvando, Rune! Ti stavo salvando dal dolore. Ti stavo salvando dalla
sensazione di impotenza di tutti quelli a cui volevo bene».
Le sopracciglia biondo scuro di Rune si trasformarono in un’unica linea
marcata sopra i suoi occhi. La confusione distorceva i suoi bei lineamenti.
Ancora una volta, feci un passo indietro. «Perché non potevo vederti,
non potevo sopportare il pensiero che tu vedessi cosa mi stava per
succedere. Non potevo sopportare di farti una cosa del genere quando tu eri
così lontano». I singhiozzi mi risalivano dalla gola. Così tanti singhiozzi
che iniziai ad ansimare per lo sforzo.
Tossii, mi schiarii la gola e mi feci avanti, dove Rune era rimasto in
piedi immobile come una statua. Mi posai la mano sul cuore, e continuai
con voce rotta. «Ho dovuto combattere. Ho dovuto metterci tutto quello che
avevo. Dovevo provare. E ti volevo accanto più di quanto tu potresti mai
immaginare». Le mie ciglia bagnate cominciarono ad asciugarsi nella
fredda brezza. «Tu avresti mollato tutto per provare a tornare da me. Già
odiavi i tuoi genitori, odiavi la tua vita a Oslo; Riuscivo ad avvertirlo ogni
volta che parlavamo. Eri diventato così risentito. Come avresti mai potuto
sopportarlo?»
La mia testa pulsava, un lancinante mal di testa si stava facendo strada.
Dovevo andarmene.
Dovevo andarmene e lasciare tutto. Indietreggiai. Rune rimase
mortalmente immobile. Non ero nemmeno sicura che avesse sbattuto le
palpebre.
«Devo andare, Rune». Mi strinsi il petto, sapendo che l’ultimo pezzo del
mio cuore si sarebbe infranto per quello che stavo per dire in seguito.
«Lasciamo semplicemente tutto questo qui, nel frutteto che amavamo così
tanto. Lasciamo finire qui qualsiasi cosa noi avevamo. Qualsiasi cosa noi
eravamo». La mia voce si era affievolita quasi del tutto, ma con uno slancio,
sussurrai: «Io starò lontana da te. Tu starai lontano da me. Finalmente
troveremo pace. Perché è così che deve essere». Abbassai gli occhi, non
volevo vedere la sofferenza negli occhi di Rune. «Non posso sopportare
tutto il dolore». Risi debolmente.
«Ho bisogno di raggi di luna nei cuori e sole splendente nei sorrisi».
Sorrisi tra me. «È quello che mi fa andare avanti. Non smetterò di credere
nella bellezza del mondo. Non mi farò spezzare». Mi sforzai di guardare
Rune. «E non sarò la causa di altro dolore per te».
Quando voltai la testa, vidi una crepa di agonia spaccare l’espressione di
Rune. Ma non mi trattenni lì. Corsi. Corsi veloce, ero appena riuscita a
sorpassare il mio albero preferito quando Rune mi afferrò il braccio e
ancora una volta, mi fece girare.
«Cosa?» Pretese di sapere. «Di che diavolo stai parlando?» Respirava a
fatica. «Non hai spiegato niente! Continui a parlare di salvarmi e di
risparmiarmi. Ma da cosa? Cosa pensavi che non avrei saputo gestire?»
«Rune, per favore» lo implorai e lo spinsi via. Fu di nuovo su di me in
un lampo, le mani sulle mie spalle a inchiodarmi sul posto.
«Rispondimi!» Urlò.
Lo spinsi via nuovamente. «Lasciami andare!» Il mio cuore batteva
all’impazzata per l’apprensione. Mi salì la pelle d’oca. Mi girai ancora una
volta per andarmene, ma le sue mani mi tenevano bloccata. Lottai e lottai,
cercando di scappare via, per una volta cercavo di fuggire dall’albero il cui
riparo mi aveva sempre offerto sollievo.
«Lasciami andare!» Gridai ancora.
Rune si sporse su di me. «No, dimmelo. Spiegati!» Mi gridò di rimando.
«Rune...»
«Spiega!» Urlò, mettendomi a tacere.
Scossi la testa più veloce, cercando senza successo di scappare. «Per
favore! Per favore!» Lo pregavo.
«Poppy!»
«NO!»
«SPIEGAMI!»
«STO MORENDO!» Urlai nel silenzio del frutteto, senza riuscire più a
sopportare tutto quello. «Sto morendo» aggiunsi senza fiato. «Sto…
Morendo…»
Mentre mi stringevo il petto, cercando di riprendere fiato, l’enormità di
quello che avevo fatto lentamente iniziava a filtrarmi nella mente. Il mio
cuore martellava. Martellava per l’assalto del panico. Martellava e
galoppava per la terrificante consapevolezza di quello che avevo appena
ammesso. Di quello che avevo appena confessato.
Continuai a fissare per terra. Da qualche parte nel mio cervello registrai
che le mani di Rune erano rimaste paralizzate sulle mie spalle. Sentivo il
calore dei suoi palmi, e mi resi anche conto che stavano tremando. Sentivo
il suo respiro, strascicato e affannoso.
Mi costrinsi ad alzare lo sguardo e a fissarlo in quello di Rune. I suoi
occhi erano spalancati e devastati dal dolore.
E in quel momento, odiai me stessa. Perché quello sguardo nei suoi
occhi, quello sguardo tormentato e straziante, era la ragione per cui io
avevo infranto la mia promessa di due anni prima.
Era il motivo per cui avevo dovuto lasciarlo libero.
Era finita che, invece, l’avevo solo imprigionato dietro sbarre di rabbia.
«Poppy…» sussurrò lui, il suo accento marcato, il viso impallidito,
bianco, bianchissimo.
«Ho il linfoma di Hodgkin. È avanzato. Ed è terminale». La mia voce
tremò, quando aggiunsi: «Non mi resta che qualche mese da vivere, Rune.
Non c’è niente che nessuno possa fare».
Aspettai. Aspettai di scoprire cosa avesse da dire Rune, ma lui non disse
nulla. Al contrario, indietreggiò. I suoi occhi viaggiarono sul mio viso, alla
ricerca di qualsiasi traccia di inganno. Quando non ne trovò alcuna, scosse
la testa. Un “no” senza suono uscì dalla sua bocca. Poi corse via. Mi diede
le spalle e corse via.
Fu molti minuti prima che io trovassi la forza di muovermi.
Fu dieci minuti dopo che varcai la porta di casa mia, dove mia madre e
mio padre erano seduti con i Kristiansen.
Ma fu solo una questione di secondi dopo avermi vista, che mia madre
corse da me, e io crollai tra le sue braccia.
Dove mi si spezzò il cuore, per il cuore che avevo appena spezzato.
Quello che avevo lottato strenuamente di salvare.
Rune

STO MORENDO… Sto morendo… Morendo… Ho il linfoma di


Hodgkin. È avanzato. Ed è terminale… Non mi resta che qualche mese da
vivere, Rune. Non c’è niente che nessuno possa fare.
Corsi veloce nell’oscurità del parco, mentre le parole di Poppy
vorticavano nella mia testa ancora e ancora. STO MORENDO… Sto
morendo… Morendo… Non mi resta che qualche mese da vivere, Rune. Non
c’è niente che nessuno possa fare.
Un dolore, del tipo che non avrei mai creduto possibile, mi trafiggeva il
cuore. Fendeva, pugnalava e pulsava dentro di me fino a che i piedi non mi
si fermarono in una scivolata e caddi in ginocchio. Provai a respirare, ma il
dolore era appena cominciato, e si spostò a lacerarmi i polmoni fino a che
non vi rimase più nulla. Viaggiava alla velocità della luce attraverso il mio
corpo, prendendosi tutto, fino a che non restò che dolore.
Mi ero sbagliato. Mi ero sbagliato di grosso.
Credevo che quello causato da Poppy, allontanandomi per due anni,
fosse il più grande dolore che avrei mai dovuto sopportare. Mi aveva
cambiato, mi aveva cambiato profondamente. Essere spezzato,
semplicemente congelato dalla sofferenza… Ma questo, questo…
Cadendo in avanti, paralizzato dal dolore allo stomaco, ruggii
nell’oscurità del parco vuoto. Le mie mani grattavano contro la terra dura
sotto i miei palmi, i ramoscelli mi tagliavano le dita, mi spezzavano le
unghie.
Ma lo accoglievo. Questo era un dolore che potevo affrontare, ma il
dolore dentro…
Rividi il viso di Poppy nella mia mente all’improvviso. Il suo viso così
maledettamente perfetto quando era entrata nel soggiorno stasera. Il viso
sorridente nel vedere Ruby e Deacon, e quel sorriso svanire dalle sue labbra
quando i suoi occhi avevano incontrato i miei. Avevo scorto il lampo di
devastazione attraversare il viso quando aveva visto Avery seduta accanto a
me, col mio braccio intorno alle sue spalle.
Quel che non aveva visto era me, che la guardavo attraverso la finestra
della cucina, mentre era seduta fuori con Jorie. Non mi aveva visto arrivare,
anche perché non avevo mai messo in conto di andare lì, in primo luogo.
Quando Judson mi aveva mandato un messaggio per dirmi che Poppy era
arrivata, niente aveva potuto trattenermi.
Lei mi aveva ignorato. Dall’istante in cui l’avevo vista nel corridoio la
settimana prima, non mi aveva mai rivolto una parola.
E questo mi aveva distrutto.
Pensavo che quando sarei tornato a Blossom Grove ci sarebbero state
delle risposte. Pensavo che avrei scoperto perché si era distaccata da me.
Soffocai in un singhiozzo strozzato. Mai, mai, nemmeno nei miei sogni
più assurdi, avevo pensato che potesse trattarsi di una cosa simile. Perché
lei è Poppy. Poppymin. La mia Poppy.
Non poteva morire.
Non poteva lasciarmi.
Non poteva lasciare noi.
Niente aveva senso se non c’era lei. Aveva ancora tanta vita da vivere.
Era destinata a stare con me all’infinito.
Poppy e Rune all’infinito. Sempre e per sempre.
Mesi? Non potevo… Non poteva…
Il mio corpo ebbe un tremito, mentre un altro crudo rantolo mi dilaniò la
gola, la sensazione di questo dolore non era da meno che essere appesi,
tirati e squartati.
Le lacrime mi scorrevano senza freni sul viso, riversandosi sulla terra
secca sotto le mie mani. Il mio corpo era bloccato lì, le gambe si rifiutavano
di muoversi.
Non sapevo che fare. Cosa diavolo c’era da fare? Come si faceva a
superare il fatto di non essere in grado di aiutare?
Gettando la testa all’indietro verso il cielo pieno di stelle, chiusi gli
occhi. «Poppy» sussurrai, mentre il sale delle mie lacrime mi scivolava a
forza in bocca. «Poppymin» mormorai di nuovo, il mio vezzeggiativo che
svanì nel nulla, portato via dalla brezza.
Nella mia mente vidi gli occhi verdi di Poppy, tanto reali come se fosse
seduta accanto a me… Non mi resta che qualche mese da vivere, Rune. Non
c’è niente che nessuno possa fare.
Questa volta le urla non mi si bloccarono in gola. Si erano liberate ed
erano tante. Il mio corpo sussultava per la loro violenza, quando pensai a
cosa aveva dovuto passare. Senza me. Senza me accanto a lei, a tenerle la
mano. Senza me a baciarle la testa. Senza me a tenerla tra le braccia quando
era triste, quando il trattamento la rendeva debole. Pensai a lei che
affrontava tutto quel dolore solo con la metà del suo cuore. Metà della sua
anima che combatteva disperatamente senza la sua controparte.
La mia.
Non ero sicuro di quanto tempo fossi rimasto seduto nel parco. Mi
sembrò passare un’eternità fin quando non fui in grado di alzarmi. E mentre
camminavo, mi sentivo come un impostore nel mio stesso corpo. Come se
fossi intrappolato in un incubo, e quando mi sarei svegliato, avrei avuto di
nuovo quindici anni. Niente di tutto ciò sarebbe successo. Mi sarei svegliato
nel frutteto sotto il nostro albero preferito, con Poppymin tra le mie braccia.
Avrebbe riso di me quando mi fossi svegliato, stringendosi di più il mio
braccio intorno alla sua vita. Avrebbe inclinato in su la testa e io avrei
abbassato la mia per un bacio.
E ci saremmo baciati.
Ci saremmo baciati e ancora baciati. E quando mi sarei tirato indietro,
con la luce del sole sul suo viso, lei mi avrebbe sorriso con gli occhi ancora
chiusi e sussurrato: «Bacio duemilacinquantatré. Nel frutteto, sotto il nostro
albero preferito. Con il mio Rune… E il mio cuore è quasi scoppiato». Io
avrei impugnato la macchina fotografica e avrei aspettato, il mio occhio
pronto dietro l’obiettivo in attesa del momento in cui avrebbe aperto gli
occhi. Quel momento. Quel momento magico da catturare, in cui avrei visto
nei suoi occhi quanto mi amava. E le avrei detto che l’amavo anch’io,
accarezzando dolcemente la guancia con il dorso della mano. Poi, più tardi,
avrei appeso quella foto alla parete della mia stanza, così da poterla vedere
ogni giorno.
Il suono del verso di un gufo mi scosse dal mio annebbiamento. Quando
sbattei le palpebre e mi ridestai dalla fantasia, fu come se un camion mi
avesse investito. Era esattamente quello: una fantasia. Poi il dolore tornò a
impennarsi e mi pugnalò con la verità. Non riuscivo a convincermi a
credere che lei stesse morendo.
La vista mi si annebbiò con nuove lacrime, e mi ci volle un momento
per realizzare che mi trovavo a quell’albero che avevo immaginato nei miei
sogni. Quello sotto cui ci sedevamo sempre. Ma quando alzai lo sguardo
nell’oscurità, con il vento freddo che sferzava attraverso i suoi rami, il mio
stomaco si capovolse. I rami, spogli delle foglie, le sue braccia lunghe e
sottili che si torcevano e si giravano, tutto rifletteva questo momento nel
tempo.
Il momento in cui seppi che la mia ragazza se ne stava andando.
Mi sforzai di camminare; in qualche modo, i miei piedi mi portarono a
casa. Ma mentre camminavo, la mia mente era un insieme confuso
d’incertezza e pensieri sparsi, si rifiutava di fissare qualsiasi cosa. Non
sapevo cosa fare, dove andare. Le lacrime si riversavano dai miei occhi
senza tregua; il dolore dentro il mio corpo si stava sistemando in una nuova
dimora. Non c’era parte di me che fosse stata risparmiata.
L’ho fatto per salvarti…
Niente mi poteva salvare da questo. Il pensiero di lei così malata, che
lottava per evitare che la luce così splendente che irradiava si spegnesse, mi
distruggeva.
Arrivato a casa mia, fissai lo sguardo sulla finestra che mi aveva
ammaliato per dodici anni. Sapevo che lei era dal lato opposto. La casa era
immersa nel buio. Ma quando mossi un piede avanti, lentamente mi trovai a
fermarmi.
Non potevo… Non potevo affrontarla… Non potevo...
Mi girai su due piedi, corsi su per i gradini di casa mia e mi precipitai
attraverso la porta. Lacrime di rabbia e di tristezza mi stavano squassando,
entrambe le emozioni che cercavano di avere la meglio sull’altra. Mi
stavano dilaniando dall’interno.
Superai il soggiorno. «Rune!» Chiamò mia mamma. Colsi all’istante
l’esitazione nella sua voce.
I miei piedi si bloccarono. Quando mi girai a guardare mia madre, che si
stava alzando dal divano, vidi delle lacrime che le segnavano le guance.
Mi colpì come una martellata.
Lei sapeva.
Mamma avanzò di un passo, protendendo la mano. Fissai quella mano,
ma non potevo prenderla. Non potevo…
Corsi nella mia stanza. Irruppi attraverso la porta e poi rimasi lì e basta.
Rimasi pietrificato, al centro della camera, e mi guardai intorno in cerca di
un’idea su cosa fare dopo.
Ma non lo sapevo. Le mani mi salirono ai capelli e afferrai le ciocche.
Mi strozzavo per i suoni che mi salivano alla bocca. Soffocavo in quelle
maledette lacrime che si susseguivano sulle mie guance, perché non sapevo
cosa diavolo fare.
Feci un passo in avanti, ma poi mi fermai. Andai verso il letto, ma poi
mi fermai. Il mio cuore pompava un battito lento e vacillante. Lottavo per
risucchiare aria attraverso i polmoni ostruiti. Lottavo per non cadere sul
pavimento.
E poi scoppiai.
Lasciai la rabbia, lì in attesa, libera. La lasciai penetrarmi dentro e
sospingermi avanti. Raggiunsi il letto, mi chinai per afferrare l’intelaiatura,
e con un potente urlo, la sollevai con tutta la mia forza, capovolgendo il
materasso e il solido telaio di legno. Mi spostai verso la mia scrivania. Con
una sola manata spazzai via tutto. Afferrai il laptop prima che colpisse il
pavimento, mi girai dov’ero e lo scagliai violentemente contro il muro. Lo
sentii farsi a pezzi, ma non mi fu d’aiuto. Niente era d’aiuto. Il dolore era
ancora lì. La verità che mi torceva le budella.
Quelle maledette lacrime.
Stringendo i pugni, buttai indietro la testa e urlai. Urlai e urlai fino a che
la mia voce non si fece roca e la gola mi si scorticò.
Caddi in ginocchio e mi lasciai annegare in questo dolore.
Poi sentii la porta aprirsi e guardai in su. Era entrata mia madre. Io
scossi la testa, alzai la mano per mandarla via. Ma lei continuò ad
avvicinarsi.
«No» le dissi in tono aspro, cercando di spostarmi via da lei. Ma lei non
mi ascoltò, e invece si abbassò sul pavimento accanto a me. «No!» Sputai
fuori, ancora più forte, ma lei tese le braccia e mi cinse il collo. «No!» Mi
opponevo, ma lei mi tirò verso di sé, e persi del tutto quella battaglia.
Crollai tra le sue braccia e piansi. Gridai e piansi tra le braccia della donna a
cui avevo a malapena parlato per due anni. Ma in questo momento, avevo
bisogno di lei. Avevo bisogno di qualcuno che capisse.
Che capisse cosa volesse dire perdere Poppy.
Quindi lasciai uscire fuori tutto. Mi aggrappai a lei così forte che
pensavo le avrei procurato un livido. Ma mia madre non si spostò mai;
piangeva con me. Sedeva in silenzio, cullando la mia testa quando persi
tutte le forze.
Poi sentii un movimento provenire dalla porta della mia stanza.
Mio padre ci stava guardando, con le lacrime agli occhi, la tristezza
dipinta sul volto. E questo riattizzò le fiamme nel mio stomaco. Vedere
l’uomo che mi aveva portato via, che mi aveva costretto ad allontanarmi da
Poppy proprio quando aveva bisogno di me più che mai, mi fece scattare
qualcosa dentro.
Spingendomi via da mia madre, in un sibilo gli dissi: «Va’ fuori».
Mia madre si irrigidì e io la spinsi ancora più indietro, guardando mio
padre in cagnesco. Lui alzò le mani, adesso il suo viso era segnato dallo
shock.
«Rune…» Disse, con voce calma.
Questo non fece altro che ravvivare le fiamme.
«Ho detto esci!» Barcollai in piedi.
Mio padre guardò mia madre. Quando tornò a guardare me, avevo le
mani serrate. Stavo abbracciando la furia che bruciava dentro di me.
«Rune, figlio mio. Sei sotto shock, stai soffrendo...»
«Soffrendo? Soffrendo? Tu non ne hai una dannata idea!» Ruggii e mi
avvicinai appena al punto in cui era lui.
Mia madre saltò in piedi. La ignorai mentre cercava di mettersi sulla mia
strada. Mio padre allungò un braccio e la spinse dietro di lui, fuori in
corridoio. Socchiuse la porta, lasciandola bloccata fuori.
«Esci, per la miseria!» Intimai un’ultima volta, sentendo tutto l’odio che
nutrivo per quest’uomo salire e ribollire in superficie.
«Mi dispiace, figliolo» sussurrò, e si lasciò sfuggire una lacrima, che gli
cadde sulla guancia. Ebbe il coraggio di starsene davanti a me e versare una
lacrima.
Non ne aveva alcun maledetto diritto!
«No» lo misi in guardia, la mia voce secca e tirata. «Non ti azzardare a
stare qui e piangere. Non ti azzardare a stare qui e dirmi che ti dispiace. Tu
non ne hai nessun maledetto diritto, quando sei stato tu quello che mi ha
portato via. Mi hai portato via da lei quando non volevo andarmene. Mi hai
portato via da lei mentre lei si ammalava. E adesso, adesso lei sta mo...»
Non riuscii a finire la frase. Non riuscii a trovare la forza di pronunciare
quella parola. Invece, corsi. Corsi incontro a mio padre e lo colpii con le
mani contro il petto ampio.
Lui inciampò all’indietro e andò a sbattere contro il muro. «Rune!»
Sentii mia madre urlare dal corridoio. Ignorai la sua preghiera, afferrai il
colletto di mio padre nei pugni e tenni la faccia sospesa direttamente sulla
sua.
«Mi hai portato via per due anni. E perché non c’ero, lei mi ha tagliato
fuori per salvarmi. Me. Salvarmi dal dolore di essere così lontano e di non
essere in grado di confortarla o abbracciarla quando soffriva. Tu hai fatto sì
che non potessi essere con lei mentre combatteva». Deglutii, ma riuscii ad
aggiungere: «E adesso è troppo tardi. Non le sono rimasti che mesi…» Mi
si ruppe la voce. «Mesi…». Abbandonai le mani e feci un passo indietro,
altre lacrime e dolore stavano prendendo il sopravvento. Gli diedi le spalle.
«Non si può tornare indietro da tutto questo. Non ti perdonerò mai per
avermi portato via da lei. Mai. Noi due abbiamo chiuso».
«Rune…»
«Va’ fuori» ringhiai. «Esci da questa cavolo di stanza ed esci dalla mia
cavolo di vita. Hai chiuso con me. Chiuso, maledizione».
Qualche secondo più tardi sentii la porta chiudersi, e la casa piombò nel
silenzio. Ma a me, in questo momento, sembrava che la mia casa stesse
urlando.
Spingendo via i capelli dal mio viso, mi accasciai sul materasso
capovolto, e mi poggiai al muro. Per alcuni minuti, o avrebbero potuto
anche essere delle ore, fissai il nulla. La mia stanza era al buio, fatta
eccezione per la piccola lampada nell’angolo, che in qualche modo era
sopravvissuta alla mia furia.
Sollevai gli occhi, e questi si posarono su una foto appesa al muro. Mi
accigliai, sapendo che non ero stato io a mettercela. Mia madre doveva
averla appesa oggi, quando aveva spacchettato le cose della mia stanza.
E guardai.
Guardai Poppy, solo qualche giorno prima che partissimo, che ballava
nel frutteto, i fiori di ciliegio che amava così tanto in piena fioritura intorno
a lei. Le sue braccia tese verso il cielo mentre faceva una piroetta, la testa
gettata all’indietro mentre rideva.
Nel vederla così, mi si serrò il cuore in una morsa. Perché questa era
Poppymin. La ragazza che mi faceva sorridere. La ragazza che correva al
frutteto, ridendo e danzando per tutta la strada.
La stessa che mi aveva detto di stare lontano da lei. Io starò lontana da
te. Tu starai lontano da me. Finalmente troveremo pace…
Ma non potevo. Non potevo abbandonarla. Non mi poteva abbandonare.
Lei aveva bisogno di me e io avevo bisogno di lei. Non mi importava di
quello che aveva detto. Non c’era verso che l’avrei lasciata a sopportare
tutto questo da sola. Pur provandoci, non avrei potuto.
Prima che potessi pensarci su, saltai in piedi e corsi verso la finestra,
lanciai uno sguardo a quella direttamente di fronte alla mia e lasciai che
l’istinto prendesse il controllo. Il più silenziosamente possibile, aprii la
finestra e saltai giù. Il mio cuore batteva al ritmo dei miei passi, che
cadevano pesanti sull’erba. Mi fermai di colpo. Poi, con un profondo
respiro, posai la mano sotto la finestra e spinsi. Si muoveva.
Non era chiusa.
Fu come se il tempo non fosse mai passato. Mi arrampicai dentro e con
delicatezza chiusi la finestra. Mi trovai davanti una tendina, qualcosa che
prima non c’era. Silenziosamente la spinsi da un lato, e mi feci avanti,
fermandomi mentre assorbivo la vista della stanza così familiare.
Il dolce profumo di Poppy, quello che aveva sempre portato, per primo
mi colpì il naso. Chiusi gli occhi, scacciando via il peso sul mio petto.
Quando li riaprii, caddero su Poppy nel suo letto. Il suo respiro era leggero
mentre dormiva, era voltata di fronte a me, il suo corpo illuminato solo dal
fioco bagliore della luce notturna.
Poi il mio stomaco precipitò. Come diavolo poteva pensare che le sarei
stato lontano? Persino se non mi avesse detto perché mi aveva tagliato
fuori, avrei ritrovato una strada per tornare da lei. Anche con tutta la
sofferenza, il dolore e la rabbia, sarei stato attirato di nuovo a lei, come una
falena attirata dalla fiamma.
Non avrei mai potuto starle lontano.
Ma mentre mi nutrivo della sua immagine, le sue labbra rosa si strinsero
nel sonno, il suo viso si arrossò, e io sentii come se una lancia mi si fosse
conficcata nel petto. L’avrei persa.
Avrei perso la mia unica ragione di vita.
Vacillai sui piedi. Combattei per far fronte a questo pensiero. Le lacrime
mi ricadevano lungo le guance, proprio quando un vecchio asse del
pavimento scricchiolò sotto di me. Serrai gli occhi. Quando li riaprii, fu per
trovare Poppy che mi stava fissando dal letto, i suoi occhi pesanti per il
sonno. Poi, chiaramente dopo aver visto il mio viso, le lacrime sulle mie
guance, il tormento nei miei occhi, la sua espressione si trasformò in una
maschera di dolore, e lentamente, aprì le braccia.
Fu un gesto istintivo. Un potere primordiale che solo Poppy esercitava
su di me. I piedi mi sospinsero in avanti, alla vista di quelle braccia; le mie
gambe alla fine crollarono quando raggiunsi il letto, le mie ginocchia
sbatterono contro il pavimento, la mia testa crollò sul ventre di Poppy. E
come una diga, cedetti. Le lacrime arrivarono copiose e veloci, mentre
Poppy avvolgeva le braccia attorno alla mia testa.
Sollevando le braccia, mi aggrappai con una stretta d’acciaio alla sua
vita. Le dita di Poppy mi accarezzavano i capelli mentre, tremando, cadevo
a pezzi sul suo grembo, le mie lacrime che inzuppavano la camicia da notte
che le copriva le cosce.
«Shh» sussurrò Poppy, cullandomi avanti e indietro. Quel suono dolce
era il paradiso per le mie orecchie. «Va tutto bene» aggiunse. Mi colpì con
forza il pensiero che lei stesse consolando me. Ma non riuscivo a fermare il
dolore. Non riuscivo a fermare il tormento.
E la strinsi. La strinsi così forte che pensavo mi avrebbe chiesto di
lasciarla andare. Ma non lo fece, né io lo avrei fatto. Non osavo lasciarla
andare, nel timore che se avessi sollevato il capo, lei non sarebbe stata lì.
Avevo bisogno che lei fosse qui.
Avevo bisogno che lei restasse.
«Va tutto bene» mi consolò ancora Poppy. Questa volta, alzai la testa
fino a che i nostri occhi si incontrarono.
«No» dissi con voce rauca. «Non va bene niente».
Gli occhi di Poppy erano lucidi, ma non c’erano lacrime. Invece mi fece
sollevare la testa, un dito sotto il mio mento, e accarezzò la mia guancia
bagnata con un altro dito. Guardai, senza respirare, un piccolo sorriso farsi
strada sulle sue labbra.
Il mio stomaco ebbe un sobbalzo, la prima sensazione che provai nel
mio corpo da quando il torpore che aveva seguito la sua rivelazione si era
impadronito di me.
«Eccoti» disse, così a bassa voce che quasi non riuscii a sentirla. «Il mio
Rune».
Il mio cuore smise di battere.
Sul suo viso si dipinse pura gioia, mentre spingeva via i miei capelli
dalla fronte e faceva scorrere la punta del dito giù sul mio naso e lungo il
profilo della mia mascella. Restai completamente immobile, cercando di
cristallizzare questo momento nella mia memoria, una foto nella mia mente.
Le sue mani sul mio viso. Quello sguardo di felicità, quella luce che le
brillava da dentro.
«Mi chiedevo sempre che aspetto avresti avuto, più grande. Mi chiedevo
se ti fossi tagliato i capelli. Mi chiedevo se fossi diventato più alto, se avessi
cambiato corporatura. Mi chiedevo se i tuoi occhi fossero rimasti gli stessi».
Un angolo delle sue labbra si contrasse. «Mi chiedevo se fossi diventato più
bello, cosa che mi sembrava impossibile».
Il suo sorriso si spense. «E vedo che lo sei diventato. Quando la scorsa
settimana ti ho visto nel corridoio, non potevo credere che tu fossi lì, in
piedi di fronte a me, più bello di quanto avrei mai potuto immaginare». Tirò
scherzosamente una ciocca dei miei capelli. «Con i tuoi splendidi capelli
biondi ancora più lunghi. Con i tuoi occhi del blu vibrante di sempre. E così
alto e imponente». Gli occhi di Poppy incontrarono i miei e lei concluse
dolcemente: «il mio vichingo».
Chiusi gli occhi cercando di mandar giù il nodo che avevo in gola.
Quando li riaprii, Poppy mi stava guardando come aveva sempre fatto, in
totale adorazione.
Sollevandomi sulle ginocchia, mi sporsi più vicino, e vidi gli occhi di
Poppy addolcirsi mentre premevo la fronte sulla sua, con delicatezza, come
se fosse una bambola di porcellana. Non appena la nostra pelle si toccò,
presi un lungo sospiro e sussurrai: «Poppymin».
Questa volta furono le lacrime di Poppy a cadere sul suo grembo. Infilai
la mano nei suoi capelli e la strinsi, vicina a me. «Non piangere, Poppymin.
Non posso sopportare di vedere le tue lacrime».
«Tu fraintendi il loro significato» mi rispose in un sussurro.
Inclinai la testa all’indietro leggermente, cercando i suoi occhi. Lo
sguardo di Poppy incontrò il mio e lei sorrise. Riuscivo a vedere la
contentezza sul suo adorabile viso, poi mi spiegò. «Non avrei mai pensato
che ti avrei sentito di nuovo dirmi quella parola». Deglutì con forza. «Non
avrei mai pensato che ti avrei sentito di nuovo così vicino. Non avrei mai
sognato di potermi sentire così di nuovo».
«Sentire come?» Chiesi.
«Così» disse e portò la mia mano sul suo petto. Proprio sopra il suo
cuore. Stava battendo all’impazzata. Rimasi immobile, sentendo qualcosa
nel mio stesso petto risvegliarsi e tornare alla vita. «Non avrei mai pensato
che mi sarei sentita totalmente completa, di nuovo» disse.
Una lacrima precipitò dal suo occhio sulla mia mano, si infranse sulla
mia pelle. «Non avrei mai pensato che avrei riconquistato la mia metà del
cuore prima di…» la sua voce si spense, ma entrambi sapevamo cosa
voleva dire. Il suo sorriso cadde e il suo sguardo trafisse il mio. «Poppy e
Rune. Due metà dello stesso intero. Riuniti alla fine. Nel momento che
conta di più».
«Poppy…» Dissi, ma non riuscii a respingere la sferzata di dolore che
mi squarciò dentro, in profondità.
Poppy sbatté le palpebre, e le sbatté ancora, fino a che tutte le lacrime
non furono sparite. Mi fissò, inclinò la testa da un lato come se stesse
cercando di risolvere un puzzle intricato.
«Poppy» dissi, la mia voce fioca e ruvida. «Lasciami restare un po’. Non
posso… Non… Non so cosa fare».
Il caldo palmo di Poppy si posò delicatamente sulla mia guancia. «Non
c’è niente da fare, Rune. Nient’altro se non superare la tempesta».
Le parole mi rimasero intrappolate in gola e chiusi gli occhi. Quando li
riaprii, lei mi stava guardando.
«Non ho paura» mi rassicurò con convinzione, e riuscivo a vedere che
diceva sul serio. Era seria al cento per cento. La mia Poppy. Piccola di
statura ma piena di coraggio e di luce.
Non ero mai stato così orgoglioso di amarla di quanto in questo
momento. La mia attenzione cadde sul suo letto, un letto che era più grande
di quello che aveva due anni prima. Mi sembrava troppo piccola per quel
grande materasso. Mentre si sedeva al centro, sembrava una bambina
piccola.
Accorgendosi chiaramente che guardavo il letto, Poppy strisciò più
indietro. Riuscivo a intravedere una punta di cautela nella sua espressione, e
non potevo biasimarla. Sapevo di non essere il ragazzo che aveva salutato
con la mano due anni prima. Ero cambiato.
Non ero sicuro che sarei stato mai più il suo Rune.
Poppy deglutì, e dopo un momento di esitazione, batté la mano sul
materasso accanto a lei. Il mio cuore accelerò. Mi lasciava restare. Dopo
tutto. Dopo tutto quello che avevo fatto da quando ero tornato, mi lasciava
restare.
Feci per alzarmi, mi sentivo malfermo sulle gambe. Le lacrime mi
avevano segnato le guance, seccato la gola fino a indolenzirla, e la
sofferenza, la surreale rivelazione del dolore per la malattia di Poppy…
Tutto aveva lasciato un residuo di torpore nel mio corpo. Ogni centimetro di
me si era rotto, e poi era stato rimesso insieme con dei cerotti, cerotti su
ferite aperte.
Temporanei.
Futili.
Inutili.
Mi tolsi gli stivali, e mi arrampicai sul letto. Poppy si spostò per
distendersi sul suo abituale lato del letto e io, impacciato, mi adagiai sul
mio. In un movimento così familiare per entrambi, ci girammo sul fianco
per metterci uno di fronte all’altra.
Ma non era familiare come lo era stato un tempo. Poppy era cambiata. Io
ero cambiato. Tutto era cambiato.
E non sapevo come porvi rimedio.
Minuti e minuti di silenzio scorrevano. Poppy sembrava soddisfatta di
restare a guardarmi. Ma io avevo una domanda. Quella domanda che volevo
farle da quando si erano interrotti i contatti. Il pensiero che si era scavato un
covo dentro di me, e si era fatto sempre più oscuro per il bisogno di una
risposta. Quel pensiero che mi faceva salire la nausea. Quell’unica domanda
che aveva ancora il potere di ridurmi a brandelli. Persino adesso che il mio
mondo non poteva cadere più a pezzi di così.
«Chiedimelo» disse Poppy all’improvviso, tenendo la voce bassa per
non svegliare i genitori. La sorpresa doveva essersi dipinta chiaramente sul
mio volto, perché lei scrollò le spalle, con un’aria così incredibilmente
carina. «Posso anche non conoscere il ragazzo che sei adesso, ma riconosco
quell’espressione. Quella che si tradurrà in una domanda».
Feci scorrere il dito sul lenzuolo tra noi, la mia attenzione focalizzata sui
movimenti che stavo facendo. «Mi conosci davvero» sussurrai di rimando,
desiderando di crederci più ogni altra cosa. Perché Poppy era l’unica che
avesse mai realmente conosciuto il vero me. Anche adesso, seppellito sotto
tutta la rabbia e la furia, dopo una lontananza di due anni di silenzio,
conosceva ancora il cuore che c’era sotto.
Le dita di Poppy si spostarono vicine nel territorio neutrale tra noi. Una
terra di nessuno che separava i nostri corpi. Mentre osservavo le nostre due
mani, che strenuamente tendevano l’una verso l’altra, ma senza
raggiungersi del tutto, fui sommerso dall’urgenza di prendere la mia
macchina fotografica, un bisogno che non avvertivo da lungo tempo.
Volevo che questo momento venisse catturato.
Volevo questa immagine. Volevo fermare questo momento nel tempo, e
aggrapparmici per sempre.
«Conosco alcune delle tue domande, credo» disse Poppy, strappandomi
ai miei pensieri. Le si arrossarono le guance, un rosa deciso si diffuse sulla
sua pelle chiara. «Sarò onesta, da quando sei ritornato, non ti riconosco
molto. Ma ci sono delle volte in cui appaiono degli sprazzi del ragazzo che
amo. Abbastanza da infondermi la speranza che lui sia ancora in attesa,
sotto la superficie».
Sul suo volto apparve la determinazione. «Credo, sopra ogni cosa, di
volerlo vedere combattere contro ciò che lo ha spinto a nascondersi. Credo
che vederlo di nuovo sia il mio più grande desiderio, prima di andarmene».
Voltai la testa, non volevo sentirla parlare di andar via, di quanto l’avessi
delusa, del suo tempo che stava finendo. Poi, come in un atto di coraggio da
soldato, la sua mano fece breccia nella distanza tra di noi e la punta del dito
sfiorò la mia. Tornai a voltare la testa. Le mie dita si aprirono al suo tocco.
Poppy fece scorrere la punta delle dita contro la pelle del mio palmo,
tracciando delle linee.
L’accenno di sorriso le comparve sulle sue labbra. E il mio stomaco
sprofondò, chiedendomi quante altre volte avrei visto quel sorriso.
Chiedendomi come trovasse la forza di sorridermi, innanzitutto. Poi,
ritraendosi lentamente fin dove era poggiata prima, la mano di Poppy si
immobilizzò. Mi guardò, aspettando pazientemente la domanda che non
avevo ancora posto.
Il mio cuore batteva forte per la trepidazione, aprii la bocca e chiesi: «Il
silenzio è… È stato solo per… la tua malattia, o è stato… È stato perché...».
Immagini della nostra ultima notte apparvero come lampi nel mio cervello.
Io adagiato sopra il suo corpo, le nostre bocche premute una contro l’altra
in baci dolci e lenti. Poppy che mi diceva di essere pronta. Noi che ci
liberavamo dei vestiti, io che guardavo il suo viso mentre spingevo in
avanti, e anche dopo, quando lei giaceva tra le mie braccia. Addormentarmi
accanto a lei, senza lasciare nulla di non detto tra di noi.
«Cosa?» Chiese Poppy, con gli occhi spalancati.
Presi un rapido respiro. «È stato perché mi sono spinto troppo in là? Ti
ho forzato? Ti ho messo pressione?» Mi lasciai sfuggire le domande e poi,
facendomi forza, continuai. «Te ne sei pentita?»
Poppy si irrigidì, i suoi occhi si fecero lucidi. Mi chiesi per un momento
se non stesse per piangere, confessandomi che quello che avevo temuto in
questi due anni fosse vero. Che l’avevo ferita. Che aveva riposto fiducia in
me e io l’avevo ferita. Invece, Poppy si alzò dal letto e si abbassò sulle
ginocchia. La sentii tirare fuori qualcosa da sotto di esso. Quando si alzò di
nuovo in piedi, nella sua mano c’era un vasetto di vetro familiare. Un
vasetto pieno di centinaia di cuori rosa di carta. Mille baci.
Poppy si mise piano in ginocchio sul letto, e inclinando il vasetto nella
direzione del bagliore della luce notturna, aprì il coperchio e iniziò a
cercare. Mentre la sua mano rovistava tra i cuori di carta, tenni traccia di
quelli che si spostavano lungo il vetro dalla mia parte. La maggior parte
erano vuoti. Il vasetto era ricoperto di polvere, segno che non era stato
aperto per lungo tempo.
Un misto di tristezza e di speranza si agitò dentro di me.
Speranza che nessun altro ragazzo avesse toccato le sue labbra.
Tristezza che la più grande avventura della sua vita fosse giunta a uno
stallo. Niente più baci.
Poi quella tristezza forò un buco dritto dentro di me.
Mesi. Le erano rimasti solo mesi, non tutta una vita, per riempire questo
vasetto. Non avrebbe mai scritto il messaggio sul cuore nel giorno del suo
matrimonio, come voleva. Non sarebbe mai diventata nonna, per leggere
questi baci ai suoi nipoti. Non avrebbe nemmeno vissuto la sua
adolescenza.
«Rune?» Chiamò Poppy quando altre lacrime caddero lungo le mie
guance. Usai il dorso della mia mano per asciugarle via. Esitai, prima di
incontrare gli occhi di Poppy. Non volevo farla sentire triste. Invece quando
alzai lo sguardo, tutto quello che trovai sul viso di Poppy era comprensione,
una comprensione che velocemente si trasformò in timidezza.
Agitazione.
Nella sua mano, protesa in avanti, c’era un cuore rosa. Solo che questo
cuore non era vuoto. Era scritto su entrambi i lati. L’inchiostro su questo
cuore era rosa, praticamente ne camuffava il messaggio.
Poppy spinse più in avanti la mano. «Prendilo» insisté. Feci come aveva
chiesto. Mettendomi a sedere, mi spostai in corrispondenza della luce. Mi
concentrai a fondo sull’inchiostro leggero, fino a quando non riuscii a
distinguere le parole.
Bacio trecentocinquantacinque. Nella mia stanza.
Dopo aver fatto l’amore con il mio Rune.
Il mio cuore è quasi scoppiato.

Girai il cuore e lessi l’altro lato.


Smisi di respirare.

È stata la più bella notte della mia vita.


Così speciale come solo le cose speciali possono essere.

Chiusi gli occhi, e ancora un’altra ondata di emozioni mi investì. Se


fossi stato in piedi, sono sicuro che mi avrebbe ridotto in ginocchio.
Perché l’aveva amata.
Quella notte, quello che avevamo fatto, era stato voluto. Non l’avevo
ferita.
Soffocai un verso che stava per sorgere dalla mia gola. La mano di
Poppy fu sul mio braccio. «Pensavo di averci distrutto» sussurrai,
guardandola negli occhi. «Pensavo che ti fossi pentita di noi».
«Non l’ho fatto» sussurrò in risposta. Con mano tremante, un gesto
arrugginito dal troppo tempo che avevamo trascorso separati, spinse
indietro le ciocche di capelli che mi erano cadute sul viso. Chiusi gli occhi
sotto il suo tocco, e poi li aprii al suono della sua voce.
«Quando è successo tutto» spiegò, «quando ero in cerca di una cura», le
lacrime questa volta scesero davvero lungo le sue guance, «quando quella
cura ha smesso di funzionare… Ho pensato spesso a quella notte».
Poppy chiuse gli occhi, le sue lunghe ciglia scure a baciarle le guance.
Poi sorrise. La sua mano nei miei capelli si fermò. «Pensavo a quanto
delicato eri stato con me. Alla sensazione che mi aveva dato... Stare con te,
così vicini. Come se fossimo le due metà del cuore che avevamo da sempre
considerato il nostro». Sospirò. «Era come essere a casa. Io e te, insieme,
eravamo l’infinito, eravamo uniti. In quel momento, quel momento in cui i
nostri respiri erano corti e tu mi stringevi così forte… È stato il momento
più bello della mia vita».
Riaprì gli occhi. «Era il momento che rivivevo quando soffrivo. Il
momento a cui pensavo quando scivolavo, quando iniziavo ad avere paura.
Il momento che mi ricordava che sono fortunata. Perché in quel momento
avevo assaporato l’amore che la nonna mi aveva mandato a cercare con
questa avventura dei mille baci. Il momento in cui sai che sei amata così
tanto, che sei il centro del mondo di qualcuno in maniera così meravigliosa,
che hai vissuto… anche se è stato solo per breve tempo».
Tenendo il cuore di carta in una mano, allungai l’altra e portai il polso di
Poppy alle mie labbra. Stampai un piccolo bacio sopra il punto dove c’era il
suo battito, sentendolo palpitare sotto le mie labbra.
Risucchiò un brusco respiro. «Nessun altro ha baciato le tue labbra
tranne me, vero?» Chiesi.
«No» disse lei. «Ti avevo promesso che non l’avrei fatto. Anche se non
ci parlavamo. Anche se non avrei pensato di rivederti ancora, non avrei mai
infranto la mia promessa. Queste labbra sono tue. Sono sempre state solo
tue».
Il mio cuore sussultò e, lasciandole il polso, sollevai le dita per premerle
contro le sue labbra, le labbra che mi aveva donato.
Il respiro di Poppy rallentò mentre toccavo la sua bocca. Le sue ciglia
sbatterono e il calore le salì sulle guance. Il mio respiro accelerò. Accelerò
perché avevo la proprietà di quelle labbra. Erano ancora mie.
Sempre e per sempre.
«Poppy» sussurrai, e mi chinai verso di lei. Poppy si immobilizzò, ma io
non la baciai. Non l’avrei fatto. Mi accorgevo che lei non riusciva ancora a
leggermi. Non mi conosceva.
Io stesso mi conoscevo a malapena in questi giorni.
Invece, posai le labbra sulle mie dita, ancora sopra le sue labbra a
formare una barriera tra le nostre due bocche, e semplicemente inspirai lei.
Inalai il suo profumo, di zucchero e vaniglia. Il mio corpo riacquistava
energia semplicemente stando vicino a lei.
Poi il mio cuore si crepò nel mezzo, quando mi tirai indietro e lei chiese,
con una voce distrutta: «Quante?»
Mi accigliai. Cercai sul suo viso un indizio per capire cosa stesse
chiedendo. Poppy deglutì e, questa volta, posò le sue dita sopra le mie
labbra. «Quante?» Ripeté.
Allora capii esattamente quello che stava chiedendo. Perché fissava le
mie labbra come se fossero delle traditrici. Le fissava come fossero
qualcosa che una volta aveva amato, perduto, e non avrebbe mai più potuto
riavere.
Un freddo glaciale mi percorse interamente quando Poppy tirò via la sua
mano tremante. Aveva un’espressione guardinga, tratteneva il fiato nel petto
come se volesse proteggersi da quello che avrei detto. Ma io non dissi nulla.
Non potevo, quell’espressione sul suo viso mi stava ammazzando.
Poppy espirò. «So di Avery, naturalmente, ma ce ne sono state altre a
Oslo? Voglio dire, so che ce ne saranno state, ma, sono state tante?» Mi
chiese.
«Ha importanza?» Chiesi, e tenni la voce bassa. Il cuore di carta di
Poppy era ancora nella mia mano, il suo significato quasi mi ustionava la
pelle.
La promessa delle nostre labbra.
La promessa dei nostri cuori a metà.
Sempre e per sempre.
Poppy lentamente iniziò a scuotere la testa, ma poi, abbandonando le
spalle, annuì una sola volta. «Sì» mormorò, «ha importanza. Non dovrebbe.
Ti ho lasciato libero». Lasciò cadere il capo. «Ma ha importanza. Conta più
di quanto tu non possa capire».
Aveva torto. Capivo perché aveva tanta importanza. L’aveva anche per
me. «Sono stato via per molto tempo» dissi. In quel momento, sapevo che
la rabbia che mi aveva tenuto prigioniero aveva acquistato nuovamente il
controllo. Una qualche parte malata di me voleva farle del male come lei ne
aveva fatto a me.
«Lo so» concordò Poppy, continuando a tenere la testa bassa.
«Ho diciassette anni» continuai. Gli occhi di Poppy scattarono nei miei.
Sbiancò in viso. «Oh» esclamò, e potei sentire ogni sfumatura di dolore
in quella piccola parola. «Quindi quello che temevo è vero. Sei stato con
altre, in maniera intima… Come sei stato con me. Io… Io solo…»
Poppy si spostò al bordo del letto, ma allungai il braccio e catturai il suo
polso che si ritraeva. «Perché ha importanza?» Domandai, e vidi i suoi
occhi brillare di lacrime.
La rabbia dentro di me si stemperò leggermente, ma poi ritornò quando
pensai a quegli anni persi. Anni passati a bere e ad andare alle feste per
scacciare il dolore, mentre Poppy era malata. Al pensiero, quasi tremavo
per la rabbia.
«Non lo so» disse Poppy, ma poi scosse la testa. «Questa era una bugia.
Perché lo so. È perché tu sei mio. E a dispetto di tutto, di tutte le cose che
sono successe tra noi, avevo conservato la vana speranza che avresti
mantenuto la tua promessa. Che significasse così tanto anche per te.
Nonostante tutto».
Lasciai cadere la mia mano dal suo polso, e Poppy si mise in piedi. Si
avviò verso la porta. E proprio quando stava allungando la mano sulla
maniglia, parlai a voce bassa. «È cosi».
Poppy si immobilizzò, la schiena contratta. «Cosa?»
Non si girò.
Invece, mi alzai io e la raggiunsi lì in piedi. Mi chinai su di lei, per
essere sicuro che sentisse la mia confessione. Il mio respiro soffiò via i
capelli dal suo orecchio mentre, così piano che a malapena riuscì a sentirmi,
le dissi: «La promessa significava così tanto anche per me. Tu significavi
così tanto per me, e ancora adesso. Da qualche parte, sotto tutta questa
rabbia... Ci sei tu e soltanto tu. Sarà sempre così per me». Poppy ancora non
si era mossa. Mi avvicinai di più. «Sempre e per sempre».
Si girò, finché i nostri busti si toccavano e i suoi occhi verdi non furono
fissi nei miei. «Tu... Non capisco» disse.
Sollevai lentamente una mano e la passai nei suoi capelli. Poppy sbatté
le ciglia e gli occhi le si chiusero quando feci questo gesto, ma poi si
riaprirono per osservarmi. «Ho mantenuto la mia promessa» ammisi, e vidi
lo shock attraversare il suo viso.
Scosse la testa. «Ma ho visto, hai baciato...»
«Ho mantenuto la mia promessa» la interruppi. «Sin dal giorno in cui ti
ho lasciata, non ho baciato nessun’altra. Le mie labbra sono ancora tue. Non
c’è mai stata nessun’altra. Mai ci sarà».
La bocca di Poppy si aprì e poi si chiuse. Quando si riaprì di nuovo, lei
disse: «Ma tu e Avery…»
Serrai la mascella. «Sapevo che eri nei dintorni. Ero incazzato. Volevo
ferirti come avevi ferito me». Poppy scosse la testa, incredula. Feci un
passo ancora più vicino. «Sapevo che vedermi con Avery ti avrebbe fatto
male. Così mi sono seduto vicino a lei e ho aspettato finché non sei
comparsa. Volevo farti credere che la stessi per baciare, fino a che non ho
visto il tuo viso. Fino a che non ti ho vista correre via dalla stanza. Fino a
che non ho più potuto sopportare di vedere il dolore che ti avevo
provocato».
Lacrime si riversavano sulle guance di Poppy. «Perché l’avresti fatto?
Rune, tu non avresti...»
«Sì, invece, e l’ho fatto» dissi seccamente.
«Perché?» Sussurrò.
Sorrisi senza divertimento. «Perché hai ragione tu. Non sono il ragazzo
che conoscevi. Ero pieno di così tanta rabbia quando mi hanno portato via
da te, che dopo un po’, era diventata l’unica cosa che riuscivo a sentire.
Cercavo di nasconderla quando parlavamo, la combattevo, sapendo che ti
avevo ancora con me anche se eravamo a migliaia di chilometri di distanza.
Ma tu mi hai tagliato fuori, e ha smesso di importamene. Ho lasciato che mi
consumasse. E mi ha consumato così tanto da allora che è diventata me».
Abbassai un braccio per prendere la mano di Poppy e me la portai al petto.
«Io sono un cuore a metà. Questo, chi sono ora, è a causa di una vita priva
di te. Questo buio, questa rabbia sono nati perché non eri al mio fianco.
Poppymin. La mia avventuriera. La mia ragazza». E poi il dolore ritornò.
Per quei brevi minuti, avevo dimenticato della nostra nuova realtà. «E
adesso» aggiunsi, con i denti digrignati, «adesso mi dici che mi stai
lasciando per sempre. Io…» soffocai con le mie stesse parole.
«Rune» mormorò Poppy, e si gettò tra le mie braccia, avvolgendo le sue
con forza alla mia vita.
All’istante le mie braccia si serrarono attorno a lei come una morsa. E,
mentre il suo corpo si fondeva col mio, respirai. Il primo respiro libero da
lungo tempo. Poi quel respiro divenne ostruito, strozzato, quando dissi:
«Non posso perderti, Poppymin. Non posso. Non posso lasciarti andare.
Non posso vivere senza di te. Tu sei il mio sempre e per sempre. Tu sei
destinata a percorrere accanto a me la strada di questa vita. Tu hai bisogno
di me e io ho bisogno di te. È così e basta». La sentii tremare tra le mie
braccia. «Non sarò in grado di lasciarti andare. Perché dovunque tu vada
devo andare anch’io. Ho provato a vivere senza di te, e non funziona».
Lentamente e quanto più delicatamente poté, Poppy sollevò la testa,
separando i nostri corpi appena da potermi guardare e sussurrare, con voce
rotta: «Non ti posso portare dove sto andando».
Quando le sue parole affondarono dentro di me, indietreggiai
inciampando, liberando le braccia dalla sua vita. Non mi fermai fino a che
non mi misi a sedere sul bordo del letto. Non potevo gestirlo. Come cavolo
potevo convivere con tutto questo?
Non riuscivo a capire come facesse Poppy a essere così forte.
Come faceva ad affrontare questa sentenza di morte con tale dignità?
Tutto quello che io volevo fare era imprecare contro il mondo intero,
distruggere tutto quello che trovavo sul mio cammino.
La testa mi ricadde in avanti. E piansi.
Piansi lacrime che non credevo mi fossero rimaste. Erano la mia riserva,
l’ultima ondata della devastazione che provavo. Le lacrime di accettazione
di una verità che io non volevo accettare.
Che Poppymin stava morendo.
Lei stava davvero, realmente morendo.
Sentii il letto sprofondare accanto a me. Avvertii il suo dolce profumo.
La seguii, mentre mi guidava per farmi distendere di nuovo sul letto. Seguii
il suo muto ordine di cadere tra le sue braccia. Lasciai andare tutto quello
che avevo represso dentro, mentre lei mi passava le mani tra i capelli. Le
avvolsi la vita tra le mie braccia e mi tenni stretto, cercando con tutto me
stesso di memorizzare la sensazione di tutto questo. La sensazione di
sentirla tra le mie braccia. Il battito del suo cuore potente e il suo corpo
caldo.
Non ero sicuro di quanto tempo fosse passato ma, alla fine, le lacrime si
asciugarono. Non mi mossi dalle braccia di Poppy. Lei non smise di
accarezzarmi la schiena con le dita.
Riuscii a inumidire a sufficienza la gola da chiederle: «Com’è successo,
Poppymin? Come l’hai scoperto?»
Poppy restò in silenzio per alcuni secondi, prima di sospirare. «Non ha
importanza, Rune».
Mi tirai su a sedere e la guardai negli occhi. «Lo voglio sapere».
Poppy fece scorrere il dorso della sua mano sulla mia guancia e annuì.
«Lo so. E lo saprai. Ma non stanotte. Questo, noi così, in questa maniera, è
tutto ciò che importa stanotte. Nulla di più».
Non distolsi lo sguardo dal suo, e non lo fece nemmeno lei. Una sorta di
pace ovattata era scesa tra noi. L’aria era densa quando mi chinai, non
desiderando altro che premere la mia bocca sulla sua. Per sentire le sue
labbra contro le mie. Per aggiungere un altro bacio al suo vasetto.
Quando la mia bocca fu appena a un soffio da quella di Poppy, mi
spostai per baciarle la guancia, invece. Fu un bacio gentile e delicato.
Ma non era abbastanza.
Spostandomi più su, le diedi un altro bacio, e un altro, su ogni
centimetro della sua guancia, sulla sua fronte e lungo il naso. Poppy si
mosse sotto di me. Quando mi tirai indietro, immaginai dalla sua
espressione comprensiva, che Poppy sapesse che non volevo affrettare le
cose.
Perché per quanto non volessi accettarlo, eravamo delle persone diverse
adesso. Il ragazzo e la ragazza che si baciavano così facilmente come
respiravano erano cambiati.
Un vero bacio sarebbe arrivato quando avremmo ritrovato la nostra
strada verso noi due.
Posai un altro bacio sulla punta del naso di Poppy, facendole risalire alle
labbra una lieve risatina. Sembrò che la rabbia si fosse fatta da parte solo
appena da permettere alla gioia di quel suono di mettere radici nel mio
cuore.
Premetti la fronte contro quella di Poppy. «Le mie labbra sono tue. Non
sono per nessun’altra» la rassicurai.
In risposta, Poppy sfiorò con un bacio la mia guancia. Sentii l’effetto di
questo bacio propagarsi per tutto il corpo. Mi rifugiai con la testa nella
piega del suo collo e mi concessi un piccolo sorriso, quando lei sussurrò nel
mio orecchio: «Anche le mie labbra sono tue».
Rotolai per attirare Poppy tra le mie braccia, e alla fine i nostri occhi
pian piano si chiusero. Mi addormentai più velocemente di quanto pensassi.
Stanco, con il cuore spezzato ed emotivamente segnato com’ero, il sonno
arrivò in fretta. Ma del resto, succedeva sempre così quando Poppy era al
mio fianco.
Fu il terzo momento che segnò la mia vita. La notte in cui scoprii che
avrei perso la ragazza che amavo. Sapendo che i nostri momenti insieme
erano contati, la tenni più stretta, rifiutandomi di lasciarla andare.
Lei si addormentò facendo esattamente la stessa cosa…
…Una potente eco di ciò che eravamo.

Un fruscio mi risvegliò.
Mi strofinai via il sonno dagli occhi. La figura silenziosa di Poppy stava
scivolando verso la finestra. «Poppymin?»
Poppy si fermò e finalmente si voltò a guardarmi. Deglutii, spingendo
giù le lame affilate che mi sentivo in gola, mentre Poppy veniva a mettersi
di fronte a me. Indossava un parka pesante sopra pantaloni sportivi e una
felpa. C’era uno zaino poggiato davanti ai suoi piedi.
Mi accigliai. Era ancora buio. «Che stai facendo?»
Poppy si avviò di nuovo alla finestra, guardandosi indietro allegramente
e chiese: «Vieni?»
Mi fece un sorriso enorme e il cuore mi si spaccò. Si frantumò per
quanto era bella. Le mie labbra si curvarono all’insù per la sua felicità
contagiosa. «Dove diavolo stai andando?» Chiesi di nuovo.
Poppy tirò la tenda e indicò il cielo. «A vedere il sorgere del sole».
Piegò la testa da un lato e mi osservò. «So che è passato un po’ di tempo,
ma avevi dimenticato che lo facevo?»
Un’ondata di calore mi sommerse. Non l’avevo dimenticato.
Alzandomi, mi concessi una piccola risata imbronciata. Mi fermai
immediatamente. Poppy lo notò e, sospirando tristemente, venne di nuovo
verso di me.
Guardai in basso verso di lei, non desiderando altro che avvolgere la
mano intorno alla sua nuca e prendere la sua bocca con la mia.
Poppy studiò il mio viso, poi mi prese la mano. Colto di sorpresa, fissai
le sue dita, intrecciate alle mie. Sembravano così piccole mentre
stringevano delicatamente la mia mano.
«Va bene, sai?» Disse.
«Cosa?» Chiesi, avvicinandomi pian piano.
La presa di Poppy rimase alla mia mano mentre l’altra si sollevava verso
il mio viso. Si alzò sulle punte e appoggiò la punta delle dita sulle mie
labbra. Il mio cuore cominciò a battere un po’ più veloce.
«Va bene ridere» disse, la sua voce delicata come il tocco di una piuma.
«Va bene sorridere. Va bene sentirsi felice. O quale sarebbe il senso della
vita?» Quello che stava dicendo mi colpì con violenza. Perché non volevo
né fare né provare quelle cose. Mi sentivo in colpa solo al pensiero di essere
felice.
«Rune» mi chiamò Poppy. La sua mano scivolò in basso per posarsi al
lato del mio collo. «Immagino come devi sentirti. Ci ho dovuto combattere
per un bel po’ anch’io. Ma so anche come mi fa sentire vedere le mie
persone preferite al mondo, quelle che amo con tutto il mio cuore, feriti e
sconvolti».
Gli occhi di Poppy brillavano, e la cosa mi fece sentire ancora peggio.
«Poppy…» Provai a dire, coprendo la sua mano con la mia.
«È peggio di qualsiasi dolore. È peggio che affrontare la morte. Vedere
la mia malattia che prosciuga la gioia da quelli che amo è la cosa peggiore
di tutte». Deglutì, prese un lieve respiro, poi continuò. «Il mio tempo è
limitato. Lo sappiamo tutti. Quindi voglio che questo tempo sia speciale…»
Poppy sorrise. E fu uno dei suoi sorrisi ampi e splendenti. Del tipo che
riusciva a far vedere anche a un ragazzo arrabbiato come me uno spiraglio
di luce. «Così speciale come solo le cose speciali possono essere».
E così, sorrisi. Le lasciai vedere la felicità che mi aveva donato. Le
lasciai vedere che quelle parole, le parole della nostra infanzia, si erano
fatte strada attraverso il buio. Almeno per un momento.
«Fermo!» Esclamò Poppy all’improvviso. Io lo feci e una piccola
risatina le risalì dalla gola.
«Cosa c’è?» Chiesi, tenendo ancora la sua mano.
«Il tuo sorriso» replicò e scherzando spalancò la bocca, come se fosse
sotto shock. «È ancora lì!» Sussurrò in modo teatrale. «Credevo fosse una
leggenda mitologica come lo Yeti o il mostro di Loch Ness. Ma è lì! L’ho
visto con i miei occhi!»
Poppy si incorniciò il viso tra le mani e sbatté le ciglia con fare
esagerato. Scossi la testa, cercando di reprimere una vera risata questa
volta. Quando la mia risata si fu calmata, Poppy mi stava ancora sorridendo.
«Solo tu» le dissi. Il suo sorriso si addolcì. Inclinandomi appena, sistemai il
colletto del suo giubbotto avvicinandolo di più al collo. «Solo tu riesci a
farmi sorridere».
Poppy chiuse gli occhi, solo per un momento. «Allora è questo quello
che farò quanto più potrò». Mi guardò negli occhi. «Ti farò sorridere». Si
alzò più in alto sulle punte, fino a che i nostri visi non si stavano quasi
toccando. «E sarò molto determinata».
Fuori un uccello cinguettò, e lo sguardo di Poppy scivolò alla finestra.
«Dobbiamo andare, se vogliamo fare in tempo» mi esortò, poi fece un passo
indietro, interrompendo il nostro momento.
«Allora andiamo» replicai e, dopo essermi infilato gli stivali, la seguii.
Presi la sua borsa e me la gettai sulla spalla; Poppy sorrise tra sé a quel
gesto. Aprii la finestra, ma Poppy si precipitò verso il letto. Quando tornò,
stava reggendo una coperta tra le braccia. Mi rivolse un’occhiata. «Fa
freddo così presto».
«Il giubbotto non ti terrà calda abbastanza?» Chiesi.
Poppy teneva la coperta al petto. «Questa è per te». Indicò la mia t-shirt.
«Avrai freddo nel frutteto».
«Lo sai che sono norvegese, vero?» Chiesi in tono secco.
Poppy annuì. «Tu sei un vichingo in carne e ossa». Si sporse verso di
me. «E detto tra noi, sei davvero bravo nelle avventure, come avevo
previsto».
Scossi la testa, divertito. Lei continuò a tenere la mano sul mio braccio.
«Ma, Rune?»
«Sì?»
«Anche i vichinghi prendono il raffreddore».
Indicai con la testa la finestra aperta. «Andiamo o ci perderemo il
sorgere del sole».
Poppy scivolò attraverso la finestra, ancora sorridendo, e io la seguii. Il
mattino era freddo, il vento più forte della notte precedente.
I capelli di Poppy le sferzarono il viso. Preoccupato che potesse avere
freddo e che potessi farla ammalare, mi allungai a prendere il suo braccio e
la feci girare verso di me.
Poppy sembrò sorpresa, fino a che non sollevai il suo pesante cappuccio
e glielo spinsi sopra la testa. Strinsi i lacci per assicurarlo al suo posto.
Poppy mi osservò per tutto il tempo. Le mie azioni erano rallentate sotto il
suo sguardo attento, rapito. Quando il fiocco fu allacciato, le mie mani si
immobilizzarono e la guardai negli occhi intensamente.
«Rune» disse lei, dopo alcuni secondi di silenzio teso. Sollevai appena il
mento, attendendo che continuasse senza parlare. «Riesco ancora a vedere
la tua luce. Sotto la rabbia, tu sei ancora lì».
Le sue parole mi spinsero a fare un passo indietro per la sorpresa.
Sollevai lo sguardo in alto, al cielo. Stava iniziando ad albeggiare, e io
ripresi a camminare. «Vieni?»
Poppy sospirò e si affrettò a raggiungermi. Mi feci scivolare le mani
nelle tasche mentre, in silenzio, ci facevamo strada verso il frutteto. Poppy
si guardò tutto intorno durante il tragitto. Cercavo di seguire il suo sguardo,
ma ciò che guardava sembravano essere solo uccelli o alberi o erba che
ondeggiava al vento. Mi accigliai, chiedendomi cosa la colpisse così tanto.
Ma questa era Poppy, aveva sempre danzato a un ritmo tutto suo. Aveva
sempre visto di più nel mondo di chiunque altro conoscessi.
Lei vedeva la luce che trapassava il buio. Vedeva il bene attraverso il
male.
Era l’unica spiegazione che avevo del perché non mi avesse chiesto di
lasciarla in pace. Sapevo che mi vedeva diverso, cambiato. Anche se non
me lo avesse detto, lo avrei visto nel modo in cui mi osservava. A volte il
suo sguardo era guardingo.
Prima non mi avrebbe mai guardato in questo modo.
Quando entrammo nel frutteto, sapevo dove ci saremmo seduti.
Camminammo fino all’albero più grande, il nostro albero, e Poppy aprì il
suo zaino. Tirò fuori una coperta su cui sederci. Quando l’ebbe distesa, mi
fece segno di accomodarmi. Lo feci, appoggiando la schiena contro il
massiccio tronco dell’albero. Poppy si sedette al centro della coperta e si
appoggiò sulle mani. Sembrava che il vento fosse calato. Slacciandosi il
fiocco del cappuccio, lo fece ricadere all’indietro, scoprendo il viso.
L’attenzione di Poppy si concentrò sull’orizzonte che si illuminava, il cielo
adesso grigio, con sfumature di rosso e arancio che si facevano strada.
Ficcando una mano in tasca, tirai fuori le mie sigarette e ne portai una
alla bocca. Feci scattare l’accendino, accesi la sigaretta e feci un tiro,
avvertendo all’istante il suo colpo nei polmoni.
Il fumo fluttuò intorno a me quando espirai lentamente. Mi accorsi che
Poppy mi stava osservando attentamente. Con il braccio poggiato sul
ginocchio piegato, ricambiai il suo sguardo fisso.
«Tu fumi».
«Ja».
«Non vuoi smettere?» Chiese. Riuscii ad avvertire, dal tono della sua
voce, che questa era una richiesta. E riuscii a vedere, dal guizzo di sorriso
sulle sue labbra, che lei sapeva che l’avevo scoperta.
Scossi la testa. Mi calmava. Non avrei smesso presto.
Sedemmo in silenzio, fino a che Poppy non tornò a guardare l’alba che
saliva e chiese: «Hai mai assistito al sorgere del sole, a Oslo?»
Seguii il suo sguardo sull’orizzonte, che adesso era rosa. Le stelle
stavano cominciando a sparire in un ventaglio di luce. «No».
«Perché no?» Chiese Poppy, spostandosi col corpo per mettersi di fronte
a me.
Presi un’altra boccata della mia sigaretta e gettai la testa indietro per
espirare. Abbassai la testa e scrollai le spalle. «Non mi è venuto in mente».
Poppy sospirò e si voltò ancora una volta. «Che opportunità sprecata»
osservò, agitando il braccio verso il cielo. «Non sono mai stata fuori dagli
Stati Uniti, non ho mai visto l’alba in nessun altro posto, e tu eri lì, in
Norvegia, e non ti sei mai alzato presto per vedere arrivare un nuovo
giorno».
«Una volta che hai visto un’alba, le hai viste tutte» replicai.
Poppy scosse tristemente la testa. Quando alzò lo sguardo su di me,
c’era pietà nei suoi occhi. Mi fece torcere lo stomaco. «Non è vero» mi
contraddì. «Ogni giorno è diverso. I colori, le sfumature, l’impatto che ha
sulla tua anima». Sospirò e proseguì. «Ogni giorno è un dono, Rune. Se ho
imparato qualcosa dagli ultimi due anni, è questo».
Rimasi in silenzio.
Poppy piegò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. «Come questo vento.
È freddo perché siamo agli inizi dell’inverno, e la gente lo evita. Restano in
casa per tenersi al caldo. Ma per me è il benvenuto. Adoro la sensazione del
vento sul mio viso, il calore del sole sulle guance in estate. Voglio ballare
sotto la pioggia. Sogno di sdraiarmi nella neve, sentirne il freddo nelle
ossa». Aprì gli occhi. La corona del sole iniziò ad affacciarsi nel cielo.
«Quando ero in cura, quando ero confinata nel mio letto d’ospedale, quando
ero in preda al dolore e stavo impazzendo sotto ogni aspetto della mia vita,
chiedevo alle infermiere di girare il letto verso la finestra. Ogni giorno, il
sorgere del sole mi calmava. Mi faceva ritrovare le forze. Mi riempiva di
speranza».
Una scia di cenere cadde per terra accanto a me. Mi resi conto che non
mi ero mosso sin da quando aveva iniziato a parlare. Si voltò a guardarmi.
«Quando guardavo fuori da quella finestra, quando mi mancavi così tanto
che faceva più male della chemio, fissavo l’arrivo dell’alba e pensavo a te.
Pensavo a te che guardavi il sorgere del sole in Norvegia e questo mi dava
pace».
Non dissi niente.
«Sei stato felice almeno una volta? C’è stato un qualsiasi momento negli
ultimi due anni in cui non sei stato triste o arrabbiato?»
Il fuoco della rabbia che covava nel mio stomaco si infiammò a nuova
vita. Scossi la testa. «No» replicai, mentre gettavo la sigaretta per terra.
«Rune» sussurrò Poppy. Vidi il senso di colpa nei suoi occhi. «Credevo
che l’avresti superata, alla fine». Abbassò gli occhi, ma quando sollevò di
nuovo lo sguardo, mi spezzò completamente il cuore. «L’ho fatto perché
non avremmo mai pensato che sarei vissuta così a lungo». Un sorriso
debole, eppure stranamente pieno di forza, le si dipinse sul viso. «Mi è stato
donato del tempo in più. Mi è stata donata la vita», trasse un profondo
respiro, «e adesso, ad aggiungersi ai miracoli che continuo a ricevere, tu sei
ritornato».
Voltai la testa, incapace di restare calmo, incapace di affrontare come
Poppy parlasse con così tanta indifferenza della sua morte e con così tanta
felicità del mio ritorno. La sentii muoversi per sedersi accanto a me. Il suo
dolce profumo mi investì e chiusi gli occhi, respirando con forza quando
sentii il suo braccio premuto contro il mio.
Un silenzio rimase sospeso tra di noi, rendendo l’aria più pesante. Poi
Poppy posò una mano sopra la mia. Aprii gli occhi proprio mentre lei
indicava il sole, che adesso si muoveva velocemente, facendo strada al
nuovo giorno. Poggiai la testa contro la dura corteccia dell’albero,
guardando un velo di luce rosa inondare il frutteto spoglio. Brividi mi
affiorarono sulla pelle per il freddo. Poppy sollevò la coperta accanto a sé
per coprirci entrambi.
Non appena la coperta di lana spessa ci ebbe avvolto nel suo calore, le
sue dita si intrecciarono alle mie, unendo le nostre mani. Guardammo il
sole, fino a che non fu giorno pieno.
Sentivo il bisogno di essere sincero. Così, misi da parte il mio orgoglio e
confessai: «Mi hai fatto del male». La mia voce era bassa e sforzata.
Poppy si irrigidì.
Non la guardai negli occhi, non potevo. «Mi hai completamente
spezzato il cuore» aggiunsi poi.
Appena le nuvole dense lo sgombrarono, il cielo rosa virò al blu. E
mentre il mattino cominciava, sentii Poppy muoversi, si stava asciugando
una lacrima.
Trasalii, odiando il fatto che l’avessi turbata. Ma lei voleva sapere
perché ero incavolato ad ogni ora del giorno. Voleva sapere perché non
avevo mai visto una cavolo di alba. Voleva sapere perché ero cambiato.
Quella era la verità. E stavo imparando davvero in fretta che a volte la
verità era una schifezza.
Poppy ricacciò indietro un singhiozzo, e io sollevai un braccio per
avvolgerlo attorno alle sue spalle. Mi aspettavo che facesse resistenza, ma
invece ricadde dolcemente contro il mio fianco. Lasciò che la stringessi
forte, vicino a me.
Ancorai la mia attenzione al cielo, serrando la mascella, mentre i miei
occhi si velavano di lacrime. Le trattenni.
«Rune», mi chiamò Poppy.
Scossi la testa. «Non importa».
Poppy sollevò la testa e voltò il mio viso verso il suo, la sua mano sulla
mia guancia. «Certo che importa, Rune. Ti ho ferito». Ingoiò le lacrime.
«Non è mai stata mia intenzione. Volevo disperatamente salvarti».
Cercai nei suoi occhi e lo capii. Per quanto mi avesse fatto del male, per
quanto il suo improvviso silenzio mi avesse distrutto, precipitandomi
rovinosamente in un posto da cui non sapevo più come scappare, riuscii a
capire che lo aveva fatto perché mi amava. Perché voleva che io andassi
avanti.
«Lo so» dissi, stringendola più vicino.
«Non ha funzionato».
«No» concordai, poi le premetti un bacio sulla testa. Quando mi guardò,
spazzai via dal suo viso le lacrime con una carezza.
«E ora?» Mi chiese.
«Cosa vuoi che succeda ora?»
Poppy sospirò e guardò in alto verso di me con la determinazione negli
occhi. «Rivoglio il mio vecchio Rune».
Il mio stomaco sprofondò e mi spostai piano indietro. «Rune...», Poppy
mi fermò.
«Non sono il vecchio Rune. Non sono certo che lo sarò mai più».
Lasciai cadere la testa, ma poi mi costrinsi a guardarla in viso. «Ti voglio
ancora nella stessa maniera, Poppymin, anche se tu non mi vuoi».
«Rune» sussurrò lei, «ti ho appena riavuto. Non conosco questo nuovo
te. La mia mente è annebbiata. Non mi sarei mai aspettata di averti al mio
fianco in tutto questo. Sono… sono confusa». Mi strizzò la mano. «Ma allo
stesso tempo, mi sento piena di nuova vita. Della promessa di noi due, di
nuovo. Della consapevolezza che, almeno per il tempo che mi rimane,
posso avere te». Le sue parole danzarono nell’aria, mentre nervosamente
chiedeva: «Vero?»
Feci scorrere il mio dito lungo la sua guancia. «Poppymin, tu hai me. Tu
avrai sempre me». Mi schiarii il nodo che avevo in gola e continuai. «Potrò
essere diverso dal ragazzo che conoscevi, ma sono tuo». Feci un piccolo
sorrisetto, senza gioia. «Sempre e per sempre».
Gli occhi di Poppy si addolcirono. Mi diede una piccola spinta sulla
spalla e poi vi poggiò la testa. «Mi dispiace» sussurrò.
La tenni vicina, più stretta che potevo. «Cristo, dispiace a me, Poppy. Io
non…» Non riuscii a finire la frase. Ma Poppy attese pazientemente, fino a
che non abbassai la testa e continuai. «Non so come fai a non perdere la
testa con tutto questo. Non so come fai a non…» Sospirai. «Semplicemente
non riesco a capire dove trovi la forza per continuare ad andare avanti».
«Perché amo la vita». Scrollò le spalle. «L’ho sempre amata».
Mi sembrò che stessi vedendo un nuovo lato di Poppy. O forse mi
veniva ricordata la ragazza che avevo sempre saputo sarebbe diventata.
Poppy indicò il cielo. «Sono la ragazza che si sveglia presto per vedere il
sole sorgere. Sono la ragazza che vuole vedere il buono in ognuno, quella
che si lascia trasportare via da una canzone, ispirare dall’arte». Girandosi
verso di me, sorrise. «Sono quella ragazza, Rune. Quella che aspetta la
tempesta solo per scorgere un lampo di arcobaleno. Perché essere tristi se si
può essere felici? Si tratta di una scelta ovvia per me».
Portai la sua mano alla mia bocca e ne baciai il dorso. Il suo respiro
cambiò, il ritmo accelerò al doppio della sua velocità. Poi Poppy si portò le
nostre mani giunte alla bocca, voltandole così da potermi baciare la mano.
Le abbassò sul suo grembo, tracciando dei piccoli disegni sulla mia pelle
con l’indice della mano libera. Il mio cuore si sciolse quando mi resi conto
di quello che stava tracciando, il simbolo dell’infinito. Dei perfetti otto
rovesciati.
«So cosa c’è ad attendermi, Rune. Non sono un’ingenua. Ma ho anche
un’incrollabile fede che ci sia più nella vita di ciò che abbiamo adesso, qui,
su questa terra. Credo che ci sia il paradiso ad aspettarmi. Credo che quando
prenderò il mio ultimo respiro e chiuderò gli occhi in questa vita, mi
risveglierò nella prossima, in salute e in pace. Credo in questo con tutto il
mio cuore».
«Poppy» dissi con voce spezzata, crollando a pezzi al pensiero di
perderla, ma così dannatamente orgoglioso della sua forza. Mi lasciava
stupefatto.
Il dito di Poppy abbandonò le nostre mani e lei mi sorrise, nemmeno una
traccia di paura sul suo bellissimo viso. «Andrà tutto bene, Rune. Lo
prometto».
«Non sono sicuro che starò bene senza di te». Non volevo farla star
male, ma questa era la mia verità.
«Starai bene» mi disse, sicura di sé. «Perché io ho fede in te».
Non risposi niente. Cosa potevo dire?
Poppy guardò gli alberi spogli intorno a noi. «Non vedo l’ora che
rifioriscano. Mi manca la vista di quei bellissimi petali rosa. Mi manca
passeggiare in questo frutteto e sentirmi come se fossi entrata in un sogno».
Sollevò la mano e la fece scorrere lungo il ramo che pendeva basso.
Poppy mi rivolse un sorriso entusiasta, poi saltò in piedi, i suoi capelli
svolazzavano liberi al vento. Scese sull’erba e distese le braccia in aria.
Gettò indietro la testa e rise. Una risata che nasceva dalla sua gola con puro
entusiasmo sfrenato.
Non mi mossi. Non potevo. Ero pietrificato.
I miei occhi si rifiutavano di staccarsi da Poppy che iniziava a girare, a
piroettare mentre il vento soffiava nel frutteto, trascinando via la sua risata.
Un sogno, pensai. Aveva ragione. Poppy, infagottata nel suo giubbotto,
che piroettava di mattina presto nel frutteto, sembrava esattamente un
sogno. Era come un uccello: al culmine della sua bellezza quando volava
libero.
«Riesci a sentirla, Rune?» Chiese, gli occhi ancora chiusi mentre
assorbiva il sole che si stava scaldando.
«Cosa?» Chiesi, ritrovando la voce.
«La vita!» Urlò ridendo più forte, mentre il vento cambiava direzione,
quasi sbalzandola a terra. «Vita», ripeté a voce bassa, mentre si
immobilizzava, piantando i piedi nell’erba secca. La sua pelle era arrossata
e le guance irritate dal vento. Eppure, non era mai stata così bella.
Le mie dita ebbero uno spasmo. Quando guardai in basso, compresi
immediatamente il perché. L’urgenza di catturare Poppy sulla pellicola mi
stava divorando dentro. Un bisogno naturale. Poppy una volta mi aveva
detto che ci ero nato, con quel bisogno.
«Vorrei, Rune» cominciò Poppy, facendomi sollevare lo sguardo, «vorrei
che la gente si rendesse conto della sensazione che dà la vita ogni giorno.
Perché ci vuole una vita che finisce per imparare come celebrare ogni
giorno? Perché dobbiamo aspettare fino a che non c’è più tempo per
incominciare a realizzare tutti i nostri sogni, quando prima avevamo tutto il
tempo del mondo? Perché non guardiamo le persone che amiamo come se
fosse l’ultima volta che le vedremo mai? Se lo facessimo, la vita sarebbe
così vibrante. La vita sarebbe così vera e vissuta appieno».
La testa di Poppy scivolò lentamente in avanti. Si girò a lanciarmi
un’occhiata oltre la sua spalla e mi ricompensò con uno dei suoi sorrisi più
devastanti. Guardai la ragazza che amavo di più come se fosse realmente
l’ultima volta che la vedevo, e questo mi fece sentire vivo.
Mi fece sentire la persona più fortunata del pianeta, perché avevo lei.
Anche se, in questo momento, le cose erano ancora strane e nuove, sapevo
che avevo lei.
E senza dubbio lei aveva me.
Le mie gambe si alzarono di propria volontà, lasciando cadere la coperta
sul tappeto di erba verde del frutteto. Lentamente, camminai verso Poppy,
assorbendo con gli occhi ogni aspetto di lei.
Poppy mi guardò avvicinarmi. Appena fui di fronte a lei, chinò la testa,
un’ondata di rossore le si arrampicò lungo collo per fermarsi sulla sommità
delle sue guance. Mentre il vento soffiava intorno a noi, chiese: «Lo senti,
Rune? Davvero?»
Sapevo che si stava riferendo al vento sul mio viso e ai raggi del sole
che brillavano su di noi.
Vivi. Vibranti.
Annuii, rispondendo a una domanda completamente differente. «Lo
sento, Poppymin. Davvero».
E fu in quel momento che qualcosa dentro di me si smosse. Non potevo
pensare che avesse solo alcuni mesi da vivere.
Dovevo concentrarmi sul momento.
Dovevo aiutarla a sentirsi il più viva possibile, mentre l’avevo di nuovo
al mio fianco.
Dovevo riconquistare la sua fiducia. La sua anima. Il suo amore.
Poppy si fece più vicina a me, mi accarezzò con la mano il braccio nudo.
«Hai freddo» affermò.
Non mi importava se stavo andando in ipotermia. Spingendo la mia
mano sulla sua nuca, mi chinai su di lei, osservando il suo viso in cerca di
un qualche segno che il mio gesto non fosse il benvenuto. I suoi occhi verdi
si accesero, ma non per resistenza.
Spronato nel vedere le sue labbra aprirsi e i suoi occhi chiudersi in un
battito di palpebre, inclinai la testa da un lato, sorpassando la sua bocca per
far scorrere la punta del mio naso sulla sua guancia. Poppy ansimò, ma io
continuai. Continuai fino a raggiungere il punto dove c’era il battito sul suo
collo. Correva all’impazzata.
La sua pelle era calda per la sua danza nel vento, eppure tremava nel
contempo. Sapevo che era dovuto a me.
Chiudendo il resto dello spazio tra di noi, premetti le labbra sul suo
battito galoppante, assaggiando la sua dolcezza, sentendo il mio cuore
galoppare allo stesso passo.
Vivo.
Una vita così vera e vissuta appieno.
Un lieve gemito sfuggì dalle labbra di Poppy e mi allontanai, ritrovando
pian piano il suo sguardo. Le sue iridi verdi erano luminose, le labbra piene
e rosa. Abbassando la mano, mi allontanai di un passo. «Andiamo» le dissi.
«Hai bisogno di dormire».
Poppy aveva un’aria adorabilmente frastornata. La lasciai al suo posto,
mentre raccoglievo le nostre cose. Quando finii, la ritrovai esattamente
dove l’avevo lasciata.
Mossi la testa in direzione delle nostre case, e Poppy si incamminò a
fianco a me. A ogni passo, riflettevo sulle ultime dodici ore. Su quelle
montagne russe di emozioni, sul fatto che avevo riavuto indietro la metà del
mio cuore, solo per scoprire che sarebbe stato temporaneo.
Pensavo che avevo baciato il viso di Poppy, che ero stato disteso nel
letto accanto a lei. Poi pensai al vasetto. Il vasetto mezzo vuoto dei mille
baci. Per qualche ragione l’immagine dei cuori di carta vuoti era ciò che mi
turbava di più. Poppy amava quel vasetto. Era una sfida che le aveva
lanciato sua nonna. Una sfida che si era arrestata a causa dei miei due anni
di assenza.
Lanciai uno sguardo a Poppy, che stava fissando un uccello su un albero,
sorridendo mentre quello cantava dal ramo più alto. Percependo il mio
sguardo, si voltò verso di me e io chiesi: «Ti piacciono ancora le
avventure?»
Il sorriso che andava da un orecchio all’altro sul viso di Poppy rispose
prontamente alla mia domanda. «Sì» replicò. «Ultimamente, ogni giorno è
un’avventura». Abbassò gli occhi. «So che i prossimi mesi saranno una
sfida interessante, ma sono pronta ad accoglierla. Sto provando a vivere
ogni giorno al massimo».
Ignorando il dolore che questo commento aveva riacceso in me, nella
mia mente prese forma un piano. Poppy si fermò, avevamo raggiunto il
fazzoletto di erba tra le nostre due case.
Lei si girò verso di me, quando ci trovammo di fronte alla sua finestra. E
aspettò, aspettava quello che avrei fatto dopo. Avvicinandomi a dove stava,
posai per terra la borsa e la coperta e poi mi rialzai, le braccia lungo i
fianchi.
«Quindi?» Chiese Poppy, con una punta di umorismo nella sua voce.
«Quindi...» Replicai. Non riuscii a non sorridere di fronte al luccichio
nei suoi occhi. «Ascolta, Poppy» iniziai, dondolando sui talloni. «Tu credi
di non conoscere il ragazzo che sono adesso». Scrollai le spalle. «Allora
dammi una possibilità. Lascia che te lo mostri. Iniziamo una nuova
avventura».
Sentii le mie guance infiammarsi per l’imbarazzo, ma immediatamente
Poppy mi afferrò la mano e la piazzò nella sua. Perplesso, guardai le nostre
mani, poi Poppy le scosse su e giù per due volte. Con il sorriso più grande
di sempre in volto, le fossette profonde e orgogliose, dichiarò: «Sono Poppy
Litchfield e tu sei Rune Kristiansen. Questa è una stretta di mano. Mia
nonna mi ha detto che si deve stringere la mano alla gente nuova che si
incontra. Adesso siamo amici. Migliori amici».
Poppy mi guardò da sotto le ciglia e io risi. Risi nel ricordare il giorno in
cui l’avevo incontrata. Quando avevamo cinque anni, e l’avevo vista
scavalcare la sua finestra, con l’abito azzurro coperto di fango e un grosso
fiocco bianco tra i capelli.
Poppy si spostò per ritirare la mano, ma io la trattenni e la strinsi. «Esci
con me stasera».
Poppy si immobilizzò.
«Per un appuntamento» continuai, imbarazzato. «Un vero
appuntamento».
Poppy scosse la testa incredula. «Non siamo mai usciti per un vero
appuntamento prima, Rune. Siamo sempre stati solo… noi».
«Allora incominceremo adesso. Ti vengo a prendere alle sei. Fatti
trovare pronta».
Mi girai e mi diressi alla mia finestra, dando per scontato che la sua
risposta fosse sì. La verità era che, in nessun modo, le avrei dato la
possibilità di dire di no. Avrei fatto questo per lei.
Avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per renderla felice.
L’avrei riconquistata.
L’avrei riconquistata come il Rune che ero ora.
Non c’era scelta.
Questi eravamo noi.
Questa era la nostra nuova avventura.
Quella che l’avrebbe fatta sentire viva.
Poppy

«Stai andando a un appuntamento?» Chiese Savannah, mentre lei e Ida


erano distese sul mio letto. Guardavano la mia immagine riflessa nello
specchio. Mi guardavano mentre infilavo gli orecchini a forma di infinito
alle orecchie. Mi guardavano mentre applicavo un ultimo strato di mascara.
«Sì, un appuntamento» replicai.
Ida e Savannah si scambiarono uno sguardo ad occhi sbarrati. Ida si
voltò per scrutarmi. «Con Rune? Rune Kristiansen?»
Questa volta, mi girai per affrontarle. La sorpresa sui loro visi mi
metteva a disagio. «Sì, con Rune. Perché siete tutte e due così sorprese?»
Savannah si alzò, con le mani puntate sul materasso. «Perché il Rune
Kristiansen di cui tutti continuano a parlare non andrebbe ad appuntamenti.
Il Rune che fuma e beve al campo. Quello che non parla, quello che ha
sempre un cipiglio invece di un sorriso. Il cattivo ragazzo che è tornato una
persona diversa dalla Norvegia. Quel Rune».
Fissai Savannah e colsi la preoccupazione sul suo viso. Il mio stomaco si
strinse, ascoltando quello che la gente stava ovviamente dicendo sul conto
di Rune.
«Sì, ma piace a tutte le ragazze» si intromise Ida, lanciandomi un
sorriso. «La gente era gelosa di te quando stavi con lui prima che partisse.
Schiatteranno di invidia, adesso!»
Mentre queste parole uscivano dalle sue labbra, vidi il sorriso di Ida
spegnersi lentamente. Guardò giù, poi alzò di nuovo gli occhi. «Lo sa?»
Savannah adesso aveva la stessa espressione triste. Così triste che
dovetti tornare a girarmi. Non potevo sopportare quell’espressione sui loro
volti.
«Poppy?» Chiese Savannah.
«Lo sa».
«Come l’ha presa?» Ida si informò, titubante.
Risi nonostante il guizzo di dolore nel mio cuore. Mi voltai ad affrontare
le mie sorelle, che mi stavano guardando come se potessi scomparire
davanti ai loro occhi da un momento all’altro. Alzai le spalle. «Non bene».
Gli occhi di Savannah iniziarono a diventare lucidi. «Mi dispiace,
Pops».
«Non avrei dovuto tagliare i ponti con lui» affermai. «È per questo che è
sempre così arrabbiato. È per questo che è così scostante. L’ho ferito
profondamente. Quando gliel’ho detto, ne è parso distrutto, ma poi mi ha
chiesto di uscire. Il mio Rune, che finalmente mi invita a uscire, dopo tutti
questi anni».
Ida si asciugò rapidamente le guance. «Mamma e papà lo sanno?»
Feci una smorfia, poi scossi la testa. Savannah e Ida si guardarono tra
loro, poi guardarono me, e nel giro di secondi stavamo ridendo tutte e tre.
Ida rotolò sulla schiena, reggendosi lo stomaco. «Oh mio Dio, Pops! Papà si
incavolerà! Tutto quello di cui parla da quando i Kristiansen sono tornati è
di quanto Rune sia cambiato in peggio, quanto è maleducato perché fuma e
urla contro suo padre». Si voltò e si sedette. «Non ti farà andare».
Smisi di ridere. Sapevo che mio padre e mia madre erano preoccupati
dall’atteggiamento di Rune, ma non sapevo quanto lo giudicassero male.
«Verrà alla porta?» Chiese Savannah.
Scossi la testa, anche se non ero certa di quello che avrebbe fatto.
All’improvviso, suonò il campanello.
Tutte e tre ci scambiammo uno sguardo, gli occhi sbarrati. Aggrottai la
fronte. «Questo non può essere Rune!» Esclamai sorpresa. Lui veniva
sempre alla mia finestra. Non era mai stato formale; semplicemente, non era
da noi. Di sicuro non era da lui.
Savannah guardò l’ora sul mio comodino. «Sono le sei. Non era a
quest’ora che doveva venire?»
Con un’ultima occhiata allo specchio, afferrai la mia giacca e uscii di
corsa dalla mia stanza, le mie sorelle subito alle mie calcagna. Appena
svoltai in corridoio, vidi mio padre aprire la porta, la sua espressione crollò
quando vide chiunque fosse.
Mi fermai con una scivolata.
Savannah e Ida si fermarono dietro di me. Ida afferrò la mia mano
quando sentimmo una voce familiare salutare: «Signor Litchfield».
Al suono della sua voce, il mio cuore incespicò a metà di un battito. Vidi
mio padre tirare indietro la testa per la confusione. «Rune?» Chiese. «Come
mai qui?»
Mio padre era come al solito educato, ma riuscivo a sentire la diffidenza
nella sua voce. Riuscivo a sentire una lieve punta di apprensione nel suo
tono, forse persino una preoccupazione più profonda.
«Sono qui per Poppy» disse Rune a mio padre. La mano di mio padre si
strinse con più forza sulla maniglia della porta.
«Per Poppy?» Chiarì. Io feci capolino da dietro il muro, sperando di
riuscire a scorgere Rune. Ida stritolò il mio braccio, e io mi voltai verso di
lei.
«Oh mio Dio!» Mimò in silenzio, teatralmente.
Scossi la testa, mentre ridevo silenziosamente. Lei riportò l’attenzione
su mio padre, ma osservai il suo viso eccitato per un altro secondo ancora.
Erano momenti come questo, quei momenti spensierati in cui eravamo solo
tre sorelle che spettegolavano sugli appuntamenti, che mi colpivano con più
forza. Sentendo un paio di occhi su di me, girai la testa verso Savannah.
Senza una parola, mi disse che aveva capito.
La mano di Savannah premette la mia spalla, mentre ascoltavo Rune
spiegare. «La sto portando fuori, signore». Fece una pausa. «Abbiamo un
appuntamento».
Il viso di mio padre sbiancò, e io mi feci avanti. Mentre mi spostavo
verso la porta per salvare Rune, Ida sussurrò nel mio orecchio: «Poppy, sei
il mio nuovo mito. Guarda la faccia di papà!»
Roteai gli occhi e risi. Savannah afferrò Ida e la spinse indietro, fuori
dalla vista. Ma avrebbero continuato ad assistere. Non si sarebbero perse
una cosa del genere per niente al mondo.
Una scarica di nervosismo mi attraversò mentre mi avvicinavo alla
porta. Vidi mio padre che iniziava a scuotere la testa. Poi il suo sguardo si
posò su di me.
I suoi occhi confusi passarono in rassegna il mio vestito, il fiocco nei
capelli e il trucco sul mio viso. Diventò ancora più bianco e pallido.
«Poppy?» Chiese mio padre. Tenni in alto la testa.
«Ehi, papà» replicai. La porta ancora nascondeva Rune, ma potevo
vedere la sua figura scura e indistinta attraverso il pannello di vetro
smerigliato. Potevo sentire il suo fresco profumo viaggiare nella fredda
brezza che penetrava in casa.
Il cuore batteva all’impazzata per la trepidazione.
Papà indicò Rune. «Rune, qui, dice che vorrebbe portarti fuori». Lo
disse come se si trattasse di una cosa assolutamente impossibile, ma sentii
l’ombra del dubbio nella sua voce.
«Sì» confermai.
Sentii i sussurri soffocati delle mie sorelle provenire da dietro di noi.
Vidi mia madre che ci osservava dal soggiorno in ombra.
«Poppy...» Mio padre cominciò a parlare, mi feci avanti e lo interruppi.
«Va tutto bene» lo rassicurai. «Starò bene». Sembrava che mio padre
non riuscisse a muoversi, e io approfittai di questo strano momento per
aggirare la porta e salutare Rune.
Sentii i polmoni stringersi e il mio cuore fermarsi di colpo.
Rune era tutto vestito di nero: t-shirt, jeans, stivali di camoscio e giacca
di pelle da motociclista. I suoi lunghi capelli erano sciolti. Mi gustai il
momento in cui sollevò la mano e se la spinse tra i capelli. Era appoggiato
allo stipite della porta d’ingresso, un’aria di arroganza si irradiava dalla sua
posa disinvolta.
Quando i suoi occhi, brillanti sotto le sue sopracciglia corrugate biondo
scuro, caddero su di me, vidi un lampo accendersi nel suo sguardo. I suoi
occhi percorsero lentamente il mio corpo, il mio vestito giallo a manica
lunga, giù lungo le mie gambe, e di nuovo su fino al fiocco bianco che mi
reggeva i capelli da un lato. Le sue narici che vibrarono e le pupille che si
dilatarono furono l’unico segno che gli piaceva ciò che vedeva.
Arrossendo sotto il suo sguardo intenso, risucchiai un respiro. L’aria era
densa e pesante. La tensione tra di noi era palpabile. Mi resi conto, in quel
momento, che era possibile sentire ferocemente la mancanza di qualcuno
anche se non erano passate che ore dall’ultima volta che ci eri stato insieme.
Il suono di mio padre che si schiariva la gola mi riportò bruscamente alla
realtà. Lo guardai di nuovo e gli misi una mano sul braccio per rassicurarlo.
«Torno più tardi papà, okay?»
Senza aspettare la sua risposta, passai da sotto il suo braccio, appoggiato
alla porta, e uscii sul portico. Rune lentamente spinse via il corpo dallo
stipite della porta e si girò per seguirmi.
Quando arrivammo alla fine del vialetto, mi voltai verso di lui. Il suo
sguardo profondo era già su di me, la mascella serrata mentre io aspettavo
che parlasse. Sbirciando oltre la sua spalla, vidi mio padre che ci stava
osservando mentre ce ne andavamo, quell’espressione preoccupata ancora a
segnargli il volto.
Anche Rune si voltò indietro, ma non reagì. Non disse una sola parola.
Infilò una mano nella tasca e tirò fuori un mazzo di chiavi. Indicò col mento
la Range Rover di sua mamma. «Ho la macchina» fu tutto quello che disse
mentre si avviava avanti.
Lo seguii, il cuore che batteva con un rumore sordo mentre mi
avvicinavo all’auto. Mi concentrai sul terreno per calmare i nervi. Quando
alzai lo sguardo, Rune aveva aperto la portiera del passeggero per me.
Improvvisamente, tutta la mia ansia svanì.
Era lì in piedi, come un angelo nero, che mi guardava in attesa che
salissi. Sorridendogli, passai davanti a lui e saltai nell’auto, arrossendo di
felicità quando chiuse delicatamente lo sportello e salì al posto di guida.
Rune mise in moto senza una parola, la sua attenzione fissa sulla mia
casa oltre il parabrezza. C’era mio padre, immobile come una statua, che ci
stava guardando andare via.
La mascella di Rune si contrasse ancora una volta.
«È semplicemente protettivo, ecco tutto» spiegai, la mia voce ruppe il
silenzio. Rune mi lanciò uno sguardo di traverso. Con un’occhiataccia tetra
a mio padre, uscì dalla strada, in un pesante silenzio che si intensificava
sempre più man mano che lui guidava.
Le mani di Rune stringevano il volante con forza, le sue nocche erano
bianche. Riuscivo ad avvertire la sua rabbia emanarsi da lui a ondate. Mi
fece sentire così triste. Mai avevo visto qualcuno prima covare tanta rabbia.
Non riuscivo a immaginare come fosse vivere così ogni giorno. Non
riuscivo a immaginare di sentire sempre quella spira di filo spinato attorno
allo stomaco, quel dolore nel cuore.
Inspirando, mi girai verso Rune e chiesi esitante: «Stai bene?»
Rune espirò bruscamente attraverso il naso. Fece segno di sì una volta
sola, poi si spinse indietro i capelli. I miei occhi si posarono sulla sua giacca
da motociclista e sorrisi.
Rune inarcò un sopracciglio. «Cosa?» Mi chiese, il suono della sua voce
profonda mi rimbombò nel petto.
«Tu, semplicemente» risposi evasiva.
Lo sguardo di Rune sfrecciò sulla strada e poi di nuovo su di me.
Quando continuò a farlo numerose altre volte, indovinai che era perché
voleva disperatamente sapere a cosa stessi pensando.
Allungando un braccio, feci scivolare la mano sulla pelle invecchiata
della manica della sua giacca. I muscoli di Rune si contrassero sotto il mio
palmo.
«Capisco perché tutte le ragazze della città hanno una cotta per te»,
dissi. «Ida me lo stava raccontando stasera, come tutte quante sarebbero
state gelose che fossi andata a un appuntamento con te».
Le sopracciglia di Rune si abbassarono. Risi, risi di cuore, per le linee
che si formarono sulla sua fronte. Strofinò le labbra una con l’altra mentre
io ridacchiavo ancora più forte, ma riuscivo a scorgere il luccichio nei suoi
occhi. Riuscivo a vederlo cercare di nascondere il divertimento.
Sospirando lievemente, mi strofinai gli occhi. Notai che le mani di Rune
avevano allentato un po’ la loro presa sul volante. La sua mascella non era
così tesa e suoi occhi non così assottigliati.
Cogliendo l’opportunità finché potevo, gli spiegai: «Da quando mi sono
ammalata, papà è diventato più protettivo. Non ti odia, Rune.
Semplicemente non conosce questo nuovo te. Non sapeva nemmeno che ci
parlavamo di nuovo».
Rune sedeva immobile, senza dire niente.
Questa volta non provai a parlare. Era chiaro che Rune fosse scivolato di
nuovo nel suo malumore. Ma ora come ora, non ero sicura di come fare a
tirarlo fuori di lì. Né di poterlo fare, persino. Mi girai per guardare il mondo
all’esterno, mentre viaggiavamo. Non avevo idea di dove stessimo andando,
e l’eccitazione mi rendeva impossibile restare seduta ferma.
Odiando improvvisamente la quiete della macchina, mi allungai verso la
radio e la accesi. Girai la manopola per cercare la mia stazione preferita; le
armonie della band femminile che adoravo riempirono l’auto.
«Adoro questa canzone!» Esclamai allegramente, riaggiustandomi sul
sedile mentre la lenta melodia del piano iniziava a riempire ogni angolo
dell’auto. Ascoltai gli accordi d’apertura, poi cantai a bassa voce sulla
ruvida versione acustica della canzone. La mia versione preferita.
Chiusi gli occhi, lasciando scorrere le parole del testo struggente nella
mia mente e attraverso le mie labbra. Sorrisi quando attaccarono in
sottofondo gli strumenti a corde, e resero l’emozione più intensa con il loro
suono melodioso.
Ecco perché amavo la musica.
Solo la musica aveva la capacità di rubarmi il fiato, e dare vita alla storia
della canzone in maniera così perfetta. Così profonda. Aprii gli occhi e
scoprii che dal viso di Rune era scomparsa tutta la rabbia. I suoi occhi blu
mi stavano osservando, per quanto potevano. Le sue mani erano più strette
attorno al volante, ma c’era qualcos’altro nella sua espressione.
La mia bocca si prosciugò quando mi guardò ancora, il suo volto
indecifrabile. «Parla di una ragazza che ama disperatamente un ragazzo,
con tutto il suo cuore. Tengono nascosto il loro amore, ma lei non vuole che
sia così. Vuole che il mondo sappia che lui è suo e che lei è sua».
E poi, con mia enorme sorpresa, Rune disse con voce roca: «Continua a
cantare».
Lo vidi sul suo viso; vidi il suo bisogno di ascoltarmi.
E così feci.
Non ero una cantante di talento. Quindi la cantai piano, la cantai con
sincerità. Cantai quel testo, abbracciandone ogni parola. Mentre intonavo la
canzone su un amore contraccambiato, stavo cantando con il cuore. Quelle
parole, quelle preghiere appassionate, io le avevo vissute.
Le vivevo ancora.
Eravamo Rune ed io. La nostra separazione. Il mio folle piano, tenerlo
fuori dalla mia vita, risparmiargli il dolore, ferendo inaspettatamente
entrambi nel tentativo. Amarlo da qui, dall’America, lui che mi amava da
Oslo, a sua volta, in segreto.
Quando l’ultima parola si spense, aprii gli occhi, il petto che mi faceva
male per la ferocia di quelle emozioni. Iniziò un’altra canzone, una che non
conoscevo. Riuscivo a sentire lo sguardo accorto di Rune trafiggermi,
eppure non riuscivo a sollevare la testa.
Qualcosa me lo rendeva impossibile.
Lasciai ruotare il capo contro il poggiatesta e guardai fuori dal
finestrino. «Amo la musica» dissi, quasi tra me e me.
«Lo so» rispose Rune. La sua voce era salda, potente e chiara. Ma in
quel tono, colsi un accenno di tenerezza. Di qualcosa di gentile.
Di affettuoso. Ruotai la testa per affrontarlo. Non dissi nulla quando i
nostri occhi si incontrarono.
Sorrisi semplicemente. Un sorriso piccolo, timido, ma Rune liberò un
lento sospiro quando lo feci.
Prendemmo una svolta a sinistra e poi ancora a sinistra, e arrivammo su
una buia stradina di campagna. Il mio sguardo non abbandonò mai Rune.
Pensavo a quanto fosse realmente bello. Mi concessi di immaginare che
aspetto avrebbe avuto tra dieci anni. Sarebbe stato più massiccio, ne ero
sicura. Mi chiedevo se i suoi capelli sarebbero stati ancora lunghi. Mi
chiedevo che cosa avrebbe fatto nella vita.
Pregavo che sarebbe stato qualcosa che avesse a che fare con la
fotografia.
La fotografia gli regalava la stessa esaltante pace dell’anima che a me
portava il violoncello. Da quando era tornato, però, non lo avevo visto
nemmeno una volta con la macchina fotografica. L’aveva detto lui stesso,
non faceva più foto. Quello mi aveva resa più triste di qualsiasi altra cosa.
E poi, feci l’unica cosa che avevo detto a me stessa, tanto tempo prima,
che non mi sarei mai concessa: immaginai come saremmo stati noi tra dieci
anni, insieme. Sposati, a vivere in un appartamento a Soho, New York.
Avrei cucinato nella nostra cucina minuscola. Avrei ballato con la musica
della radio in sottofondo. E Rune sarebbe stato seduto al bancone a
guardarmi, a scattare foto per documentare la nostra vita. E avrebbe
allungato una mano da dietro l’obiettivo per far scorrere un dito lungo la
mia guancia. Avrei scacciato via scherzosamente quella mano, avrei riso. E
quello sarebbe stato il momento in cui lui avrebbe premuto il bottone sulla
macchina. Quello sarebbe stato lo scatto che avrei trovato più tardi quella
sera, ad aspettarmi sul mio cuscino.
Il suo perfetto momento catturato nel tempo.
Il suo secondo perfetto.
L’amore in un fermo immagine.
Una lacrima precipitò dai miei occhi mentre rimanevo aggrappata a
questa immagine. L’immagine che non avrebbe mai potuto essere la nostra.
Mi concessi un momento per provare quel dolore, prima di nasconderlo in
profondità. Poi mi concessi di rallegrarmi per il fatto che lui avrebbe avuto
l’opportunità di seguire la sua passione e diventare un fotografo. Sarei stata
a guardare dalla mia nuova casa in paradiso, sorridendo insieme a lui.
Mentre Rune si concentrava sulla strada, mi lasciai sfuggire in un
sussurro: «Mi sei mancato… Mi sei mancato tanto tanto».
Rune si paralizzò, ogni parte del suo corpo divenne immobile. Poi mise
la freccia e accostò al ciglio della strada. Mi tirai su sul sedile, chiedendomi
che cosa stesse succedendo. Il motore ronzava sotto di noi, ma le mani di
Rune scivolarono via dal volante. Teneva gli occhi rivolti verso il basso, le
mani poggiate sulle cosce. Per un momento si afferrò i jeans, poi voltò il
viso per guardarmi. La sua espressione era tormentata.
Dilaniata.
Ma si addolcì quando posò lo sguardo su di me, e disse in un sussurro
roco: «Mi sei mancata anche tu. Così dannatamente tanto, Poppymin».
Il mio cuore schizzò, portando il mio battito con sé. Galoppavano
entrambi, entrambi mi facevano sentire la testa leggera mentre assorbivo
l’onestà nella sua voce arrochita. Il bellissimo sguardo sul suo viso.
Non sapendo cos’altro dire, posai la mano al centro, tra i sedili. Il palmo
era rivolto verso l’alto, le dita aperte. Dopo svariati secondi di silenzio,
Rune lentamente mise la sua mano nella mia e allacciò strette insieme le
nostre dita. Brividi attraversarono leggeri tutto il mio corpo alla sensazione
della sua grande mano che teneva la mia.
Il giorno precedente ci aveva confuso entrambi, nessuno dei due sapeva
cosa fare, dove andare, come ritrovare la strada verso noi due. Questo
appuntamento era il nostro inizio. Queste mani unite, un promemoria. Il
promemoria che noi eravamo Poppy e Rune. Da qualche parte, sotto tutta la
sofferenza e il dolore, sotto tutti i nuovi strati che avevamo acquisito,
eravamo ancora qui.
Innamorati.
Due metà di un solo cuore.
E non mi importava di quello che avrebbe detto chiunque altro. Il mio
tempo era prezioso ma, compresi, non così prezioso per me quanto Rune.
Senza separare le nostre mani, Rune ingranò la marcia e ritornammo sulla
strada. Dopo un momento, riuscii a vedere dove stavamo andando.
Il ruscello.
Feci un gran sorriso quando ci fermammo davanti al vecchio ristorante,
col pontile adornato da file di lucine blu, e grandi stufe per riscaldare i
tavoli esterni. L’auto si fermò piano e io mi voltai verso Rune. «Mi hai
portato al ruscello per il nostro appuntamento? Al Tony’s Shack?»
Mia nonna portava me e Rune qui quando eravamo bambini. Di
domenica sera. Proprio come stasera. Lei adorava i loro gamberi. Era felice
di farsi tutta quella strada per poterli gustare.
Rune annuì. Cercai di liberare la mia mano, e lui si accigliò. «Rune»
dissi scherzando, «a un certo punto dovremo uscire dall’auto. Per farlo,
dobbiamo separare le mani».
Rune con riluttanza la lasciò andare, spingendo giù le sopracciglia nel
farlo. Afferrai il mio giubbotto e scesi dall’auto. Non appena ebbi chiuso lo
sportello, Rune fu accanto a me.
Allungando una mano, senza chiedere permesso, afferrò la mia e la
spinse. Dalla sua presa, ero convinta che non l’avrebbe mai lasciata andare.
Una folata di vento si alzò dall’acqua mentre ci avviavamo verso
l’entrata. Rune si fermò. In silenzio, prese il giubbotto dalla mia mano e
liberò le nostre dita incrociate. Scosse il giubbotto e lo tenne su perché lo
indossassi.
Cercai di protestare, ma un’espressione scura attraversò il viso di Rune e
sospirai. Girandomi, infilai le braccia dentro il mio parka, tornando a
voltarmi quando Rune mi guidò davanti a sé con un braccio. Profondamente
concentrato sul compito, tirò su la cerniera del giubbotto fino a che la
fredda aria della notte non venne tenuta alla larga.
Aspettai che le mani di Rune si abbassassero dal mio colletto, ma
invece, indugiarono. Il suo respiro che sapeva di menta soffiò sulle mie
guance. Sollevò lo sguardo per un momento, catturando i miei occhi. Mi
venne la pelle d’oca a quel bagliore di timidezza che c’era nei suoi occhi.
Poi, allacciando lo sguardo nel mio, si avvicinò piano e in un soffio disse:
«Ti ho detto quanto sei bella stasera?»
Le dita dei piedi mi si arricciarono negli stivali per la pesantezza del suo
accento. Rune poteva apparire calmo e distaccato, ma io lo conoscevo.
Quando il suo accento diventava più marcato, significava che era nervoso.
Scossi la testa. «No» sussurrai, e Rune distolse lo sguardo.
Quando ritornò a guardare me, le sue mani si erano strette sul mio
colletto, attirandomi più vicina. Il suo viso rimase sospeso a un centimetro
dal mio. «Be’, lo sei. Straordinariamente bella» disse.
Il mio cuore fece un balzo, sfrecciò in alto. In risposta, riuscii solo a
sorridere. Ma questo sembrò bastare a Rune. Anzi, sembrò lasciarlo senza
parole.
Sporgendosi solo un poco di più, le labbra di Rune sfiorarono il mio
orecchio. «Devi stare al caldo, Poppymin. Non potrei sopportare che ti
ammalassi ancora di più».
Il suo gesto di mettermi il giubbotto immediatamente acquistò un senso.
Mi stava proteggendo. Mi voleva tenere al sicuro.
«Okay» sussurrai in risposta. «Lo faccio per te».
Lui inalò un breve respiro, chiudendo gli occhi solo per una frazione di
secondo troppo a lungo per poter essere un battito di ciglia.
Si fece indietro e mi prese la mano nella sua. Senza parlare, fece strada
al Tony’s Shack e chiese un tavolo per due. La hostess ci portò sul retro, sul
patio che dava sul ruscello. Non ci andavo da anni, ma non era cambiato
nemmeno di una virgola. L’acqua era calma e silenziosa, un pezzetto di
paradiso nascosto tra gli alberi.
La hostess si fermò a un tavolo in fondo al patio affollato. Sorrisi, e
stavo per sedermi quando Rune intervenne. «No». I miei occhi volarono su
Rune, come quelli della hostess. Lui indicò il tavolo più lontano sul pontile,
uno proprio sulla sponda dell’acqua. «Quello» richiese seccamente.
La hostess annuì. «Certamente» replicò, leggermente turbata. Poi ci
accompagnò al tavolo, attraversando il patio.
Rune si mise alla guida, la sua mano che stringeva ancora la mia. Mentre
ci facevamo largo attraverso i tavoli, notai delle ragazze che lo stavano
fissando. Piuttosto che essere infastidita dalla loro attenzione, seguii i loro
sguardi, cercando di vederlo con occhi nuovi. Lo trovavo difficile. Era così
radicato in ogni mio ricordo, inciso nel tessuto della persona che ero, che lo
rendeva quasi impossibile. Ma provai e riprovai, fino a che vidi quello che
dovevano aver visto loro.
Misterioso e cupo.
Un cattivo ragazzo tutto per me.
La hostess lasciò i menu sul tavolo di legno e si girò verso Rune. «Va
bene, signore?» Rune annuì, un cipiglio ancora impresso sul suo viso.
Arrossendo, l’hostess ci disse che il nostro cameriere sarebbe arrivato
presto, e si affrettò a lasciarci soli. Lanciai uno sguardo a Rune, ma i suoi
occhi erano puntati sul ruscello. Staccai la mia mano dalla sua, così da
potermi sedere ma, appena lo feci, lui voltò la testa di scatto e corrugò le
sopracciglia.
Sorrisi per la sua musoneria. Rune si lasciò cadere sulla sedia che
fronteggiava l’acqua, e io mi sedetti in quella di fronte. Non appena mi fui
seduta, Rune si allungò intorno al tavolo e afferrò il bracciolo della mia
sedia. Strillai mentre trascinava la sedia, tirandola verso di sé. Sobbalzavo
mentre la sedia si muoveva, aggrappandomi ai braccioli fino a che lui non
la riposizionò.
La riposizionò accanto a sé. Proprio accanto a sé, così anche la mia sedia
era di fronte al ruscello, adesso.
Rune non reagì al lieve rossore sulle mie guance, mentre mi scaldavo
dentro per quel semplice gesto. Difatti, non sembrò nemmeno notarlo. Era
troppo impegnato a riprendere possesso della mia mano. Troppo impegnato
a rintrecciare al loro posto le sue dita con le mie. Troppo impegnato a non
lasciarmi mai andare.
Spostandosi in avanti, Rune regolò al massimo la stufa sopra di noi, per
rilassarsi sulla sua sedia solo quando le fiamme ruggirono più alte dietro la
griglia di ferro. Il mio cuore si sciolse quando si portò le nostre mani unite
alla bocca, il dorso della mia mano che strusciava avanti e indietro contro le
sue labbra in un movimento ipnotico.
Gli occhi di Rune erano fissi sull’acqua. Anche se adoravo gli alberi che
sembravano racchiudere l’acqua in un abbraccio protettivo, così come
amavo guardare le anatre che affondavano la testa e si tuffavano, le gru che
scendevano in picchiata e sfrecciavano sulla superficie dell’acqua, riuscivo
a guardare solo Rune.
Qualcosa era cambiato in lui dalla scorsa notte. Non sapevo cosa. Era
ancora brusco e scontroso. C’era dell’oscurità nel suo temperamento; la sua
aura avvertiva quasi tutti di tenersi ben alla larga.
Ma adesso c’era una nuova sfumatura di possessività rispetto a me.
Potevo vedere la ferocia di quella possessività nel suo sguardo. La potevo
sentire nella sua stretta intorno alla mia mano.
E mi piaceva.
Per quanto mi mancasse il Rune che conoscevo, guardavo questo Rune
con un fascino rinnovato. In questo momento, seduta accanto a lui in un
posto che significava così tanto per noi, ero perfettamente soddisfatta di
essere in compagnia di questo Rune.
Più che soddisfatta. Mi faceva sentire viva.
Arrivò il cameriere, un ragazzo probabilmente sui vent’anni. La presa di
Rune si strinse sulla mia mano. Il mio cuore si gonfiò.
Era geloso.
«Ehi, ciao. Posso iniziare a portarvi da bere?» Chiese il cameriere.
«Posso avere un tè freddo, per favore?» Replicai, sentendo Rune che si
irrigidiva accanto a me.
«Root Beer» ringhiò lui, e il cameriere si allontanò velocemente.
Quando fu abbastanza lontano, Rune sbottò. «Non ti toglieva gli occhi di
dosso».
Scossi la testa e risi. «Tu sei pazzo».
La fronte di Rune si corrugò per la frustrazione. Questa volta fu il suo
turno di scuotere la testa. «Non ne hai idea».
«Di che cosa?» Chiesi, muovendo la mia mano libera per seguire con le
dita alcune nuove cicatrici sulle nocche di Rune. Mi chiedevo da dove
arrivassero. Sentii il suo respiro incespicare.
«Di quanto sei bella» replicò. Mentre lo diceva, osservava il mio dito.
Quando questo si fermò, lui alzò lo sguardo.
Lo fissai, a corto di parole.
Finalmente, le labbra di Rune si incurvarono in un angolo nel suo mezzo
sorriso sbilenco. Si spostò più vicino a me. «Vedo che bevi ancora tè
freddo».
Si ricordava.
Con una spintarella contro il suo fianco, dissi: «E tu ancora Root Beer,
vedo».
Rune alzò le spalle. «Non si trovava a Oslo. Adesso che sono tornato,
non ne ho mai abbastanza». Sorrisi e cominciai di nuovo a tracciare la sua
mano. «In realtà, sembra che non ne abbia mai abbastanza di diverse cose
che non si trovavano a Oslo».
Il mio dito smise di muoversi. Sapevo esattamente a cosa si stesse
riferendo: a me.
«Rune» cominciai, avvertendo dentro un gravoso senso di colpa.
Guardai in su e cercai di scusarmi di nuovo, ma in quel momento arrivò
il cameriere e posò le nostre bevande sul tavolo. «Siete pronti per
ordinare?»
Senza distogliere lo sguardo dal mio, Rune rispose: «Due bolliti di
gamberi di fiume».
Sentii il cameriere indugiare, ma dopo alcuni secondi di tensione, disse:
«Porto l’ordine in cucina, allora». Si allontanò lentamente.
Gli occhi di Rune si spostarono dal mio viso alle mie orecchie, quando
quel lampo di sorrisino riemerse. Mi chiesi cosa avesse provocato quel
momento di felicità in lui.
Rune si chinò in avanti e, con il dorso delle dita, spostò i capelli dal mio
viso per fermarli dietro l’orecchio.
Col polpastrello tracciò il profilo del mio orecchio, poi si lasciò andare a
un sospiro rasserenante. «Li porti ancora».
Gli orecchini.
I miei orecchini a forma di infinito.
«Sempre» confermai. Rune sollevò lo sguardo su di me, con occhi seri.
«Sempre e per sempre».
Rune fece ricadere la mano, ma catturò le punte dei miei capelli tra il
suo dito e il pollice. «Hai tagliato i capelli».
Suonava come un’affermazione, ma sapevo che si trattava di una
domanda.
«I capelli mi sono ricresciuti» dissi. Lo vidi irrigidirsi. Non volendo
rompere la magia di questa serata con discorsi su malattie o trattamenti,
cose a cui non pensavo in alcun modo mi chinai e premetti la mia fronte
sulla sua.
«Ho perso i capelli. Per fortuna, i capelli ricrescono». Tirandomi
indietro, agitai scherzosamente il mio caschetto. «In più, mi piacciono.
Penso mi stiano bene. Dio sa quanto sia più facile gestire questi che la
montagna di capelli crespi con cui ho combattuto per anni».
Vidi che aveva funzionato quando Rune sbuffò in una silenziosa risata.
Continuando a scherzare, aggiunsi: «In più, solo i vichinghi dovrebbero
portare i capelli lunghi. I vichinghi e i motociclisti». Arricciai il naso,
fingendo di studiare Rune. «Peccato che tu non hai una moto…» mi
interruppi, ridendo per l’espressione dura di Rune.
Stavo ancora ridendo quando mi strinse al suo petto e, con la bocca sul
mio orecchio, disse: «Potrei prendermi una moto, se è questo che vuoi. Se è
questo che servirebbe a riconquistare il tuo amore».
Lo disse come uno scherzo. Lo sapevo.
Mi fece bloccare di colpo. Così tanto che rimasi immobile, il buon
umore che mi abbandonava. Rune notò quel cambiamento. Il suo pomo di
Adamo si spostò su e giù e lui ingoiò qualsiasi cosa stesse per dire.
Lasciando che fosse il mio cuore a guidare le mie azioni, sollevai la
mano e feci ricadere il palmo a poggiarsi sul suo viso. Certa di avere la sua
totale attenzione, sussurrai: «Non ci vorrebbe una moto per farlo, Rune».
«No?» Domandò, la sua voce graffiante.
Scossi la testa.
«Perché?» Chiese nervosamente. Del rossore sbocciò sulle sue guance.
Potevo vedere quanto quella domanda fosse costata al suo orgoglio così
pesantemente radicato. Potevo vedere che Rune non chiedeva più mai
niente. Chiusi lo spazio tra noi due, e parlai con voce sottile. «Perché sono
certa che non l’hai mai perso».
Aspettai. Aspettai col fiato sospeso per vedere cosa avrebbe fatto dopo.
Non mi aspettavo qualcosa di tenero e dolce. Non mi aspettavo che il
mio cuore sospirasse e la mia anima si sciogliesse.
Rune, con il più delicato dei gesti, si fece avanti e mi baciò sulla
guancia, ritraendosi appena solo per trascinare le sue labbra sulle mie.
Trattenni il fiato in impaziente attesa di un bacio sulle labbra. Un vero
bacio. Il bacio che bramavo. Ma invece, passò oltre le mie labbra per
arrivare all’altra guancia, che ricevette il bacio che le mie labbra anelavano.
Quando Rune si tirò indietro, il mio cuore batteva come un tamburo.
Una rumorosa nota di basso nel mio petto. Rune si riappoggiò alla sedia ma
la sua mano, nella mia, si strinse di appena un po’.
In segreto, un sorriso trovò rifugio dietro le mie labbra.
Un suono proveniente dal ruscello catturò la mia attenzione, un’anatra
che stava prendendo il volo nel cielo nero. Quando spostai gli occhi su
Rune, vidi che anche lui la stava osservando. «Tu sei già un vichingo. Non
hai bisogno di una moto» lo presi in giro, quando guardò nella mia
direzione.
Questa volta Rune sorrise. Lasciò intravedere anche un minuscolo
accenno di denti. Mi illuminai d’orgoglio.
Il cameriere arrivò, portando i nostri gamberi, e mise i secchielli sul
tavolo ricoperto di carta. Rune con riluttanza mi lasciò la mano, e ci
tuffammo nella montagna di pesce. Chiusi gli occhi quando assaporai sulla
lingua la carne gustosa, con uno schizzo di limone che mi finì in gola.
Gemetti per quanto era buona.
Rune scosse la testa, ridendo di me. Gli lanciai addosso un pezzo di
guscio e si accigliò. Pulendomi la mano sul tovagliolo, gettai la testa
all’indietro verso il cielo notturno. Le stelle brillavano nel manto nero del
cielo senza nuvole.
«Hai mai visto niente di più bello di questa piccola insenatura?» Chiesi.
Rune guardò prima in su, poi lungo il placido ruscello, il riflesso dei fili di
lucette blu scintillava su di noi.
«Direi di sì» rispose come se si trattasse di un dato di fatto, poi indicò
me. «Ma capisco cosa vuoi dire. Anche quando ero di nuovo a Oslo, a volte
mi figuravo questo posto, chiedendomi se ci fossi tornata».
«No, questa è la prima volta. Mamma e papà non sono propriamente dei
fan dei gamberi di fiume, era una cosa della nonna». Sorrisi,
immaginandomela seduta accanto a noi a questo tavolo, dopo averci fatto
sgattaiolare via. «Ti ricordi», risi, «che si portava con lei la fiaschetta piena
di bourbon, per versarsela di nascosto nel suo tè freddo?» Risi più forte. «Ti
ricordi che si metteva il dito sulle labbra e diceva ‘ora non ve ne andate in
giro a raccontare ad altri questa cosa. Sono stata così buona da portarvi
qui, e venirvi a salvare dalla chiesa. Quindi bocche cucite!’ ?» Anche Rune
stava sorridendo, ma i suoi occhi seguivano me che ridevo.
«Ti manca» disse.
Annuii. «Ogni giorno. Mi chiedo quali altre avventure avremmo potuto
vivere insieme. Mi chiedo spesso se saremmo andate in Italia a vedere
Assisi, proprio come avevamo detto. Mi chiedo se saremmo andate in
Spagna, a correre con i tori». A quel pensiero risi di nuovo. Una pace scese
su di me, e poi aggiunsi: «Ma la cosa migliore di tutto questo è che la
rivedrò presto». Incontrai gli occhi di Rune. «Quando ritornerò a casa».
Come mia nonna mi aveva insegnato, non avevo mai pensato a quello
che mi sarebbe successo come a una morte. Una fine. Era l’inizio di
qualcosa di meraviglioso. La mia anima sarebbe ritornata a casa, al luogo a
cui apparteneva.
Non mi ero accorta di aver turbato Rune, fino a che non si alzò dalla
sedia e cominciò a camminare lungo il piccolo molo oltre il nostro tavolo,
quello che portava proprio nel mezzo del ruscello.
Arrivò il cameriere. Vidi che Rune si stava accendendo una sigaretta
mentre spariva nel buio, solo una nuvola di fumo rivelava dove fosse.
«Devo portare via, signorina?» Chiese il cameriere.
Sorrisi e annuii. «Sì, grazie». Mi alzai, e lui parve confuso, vedendo
Rune sul pontile. «Possiamo avere anche il conto, per favore?»
«Certo, signorina» replicò.
Mi incamminai sul pontile per andare incontro a Rune, seguendo le
piccole scintille della sua sigaretta. Quando arrivai al suo fianco, lui era
affacciato alla ringhiera, e fissava assente verso il nulla.
Una leggera ruga gli segnava la fronte. La sua schiena era tesa e si
irrigidì ancora di più quando mi fermai accanto a lui. Prese un lungo tiro
dalla sua sigaretta ed espirò nella dolce brezza.
«Non posso negare quello che mi sta succedendo, Rune» cominciai con
cautela. Lui restò in silenzio. «Non posso vivere in una fantasia. So quello
che mi aspetta. So come andranno le cose».
Il respiro di Rune era rotto e la testa gli ricadde in avanti. Quando
sollevò gli occhi, disse con voce spezzata: «Non è giusto».
Il mio cuore piangeva per il suo dolore. Riuscivo a vederlo nel tormento
sul suo viso, nella tensione dei suoi muscoli. Sporgendomi sulla ringhiera,
inalai l’aria fresca.
Quando il respiro di Rune si calmò, parlai. «Davvero ingiusto sarebbe
stato se non ci fossero stati donati i futuri preziosi mesi».
Lentamente la fronte di Rune ricadde fino a poggiarsi tra le sue mani.
«Non vedi un disegno più grande per entrambi, Rune? Tu sei tornato a
Blossom Grove solo dopo poche settimane che ero stata mandata a casa, per
vivere il tempo che mi resta. Per godermi quei pochi mesi contati che la
cura mi ha regalato». Guardai di nuovo le stelle, avvertendo la presenza di
qualcosa di più grande che ci sorrideva da lassù. «Secondo te non è giusto.
Io sono convinta del contrario. Siamo tornati insieme per una ragione. Forse
è una lezione che dobbiamo sforzarci di imparare fino a che non l’avremo
appresa».
Mi girai e spinsi indietro i lunghi capelli che gli coprivano il viso. Sotto
la luce della luna, sotto le stelle che brillavano, vidi una lacrima scendergli
lungo la guancia. La spazzai via con un bacio.
Rune si girò verso di me, nascondendo la testa nella piega del mio collo.
Gliela avvolsi in una mano e lo tenni vicino, stretto.
Rune raddrizzò la schiena con un profondo respiro. «Ti ho portato qui
stasera per ricordarti di quando eravamo felici. Quando eravamo
inseparabili, migliori amici e anche di più. Ma...» Si interruppe a metà
frase.
Dolcemente gli spinsi indietro la testa per poter vedere il suo viso.
«Cosa?» Chiesi. «Dimmelo, per piacere. Ti prometto che starò bene».
Cercò i miei occhi, poi fissò l’acqua immobile. Quando il suo sguardo si
posò di nuovo su di me, me lo chiese. «Ma se questa fosse l’ultima volta
che riuscissimo mai a farlo?»
Mi infilai tra lui e la ringhiera, presi la sigaretta dalla sua mano e la
gettai nel ruscello. Alzandomi sulle punte, gli presi entrambe le guance tra
le mani. «Allora avremo avuto stasera» affermai. Sul viso di Rune ci fu un
sussulto alle mie parole. «Avremo avuto questo ricordo. Avremo avuto
questo momento così prezioso». Inclinai la testa da un lato e un sorriso
nostalgico tese le mie labbra. «Conoscevo un ragazzo, un ragazzo che
amavo con tutto il cuore, che viveva per un singolo momento. Che mi
diceva che un singolo momento poteva cambiare il mondo. Che poteva
cambiare la vita di qualcuno. Quell’unico momento che poteva rendere la
vita di qualcuno, per un breve attimo, infinitamente migliore o
infinitamente peggiore».
Chiuse gli occhi, ma continuai a parlare. «Questo, questa serata, essere
di nuovo con te a questo ruscello» dissi, inondata da un senso di pace
nell’anima, «ricordare mia nonna e perché l’amavo così tanto… Questo ha
reso la mia vita infinitamente migliore. Questo momento, che mi hai donato
tu, lo ricorderò sempre. Lo porterò con me… Dovunque andrò».
Rune aprì gli occhi. Lo tirai ancora più in basso. «Mi hai regalato questa
sera. Sei ritornato. Non possiamo cambiare le cose, non possiamo cambiare
i nostri destini, ma possiamo ancora vivere. Possiamo vivere pienamente e
velocemente più che possiamo, mentre abbiamo questi giorni davanti a noi.
Possiamo essere di nuovo noi: Poppy e Rune».
Non credevo avrebbe detto qualcosa in risposta, quindi mi sorprese e mi
riempì di un’incredibile speranza quando disse: «La nostra avventura
finale».
Il modo perfetto per dirlo, pensai. «La nostra avventura finale» sussurrai
nella notte, e una gioia senza precedenti mi pervase il corpo. Le braccia di
Rune mi cinsero la vita. «Con una rettifica» dissi, e Rune aggrottò le
sopracciglia.
Appianando la linea sulla sua fronte, dissi: «L’avventura finale di questa
vita. Perché lo so, con fede incrollabile, che saremo di nuovo insieme.
Anche quando questa avventura sarà finita, un’avventura più grande ci
aspetterà dall’altra parte. E Rune, non ci sarebbe paradiso se tu un giorno
non tornassi tra le mie braccia».
Tutto il metro e novantatré di Rune Kristiansen si abbandonò contro di
me. E io lo tenni stretto. Lo tenni stretto finché si calmò. Quando si tirò
indietro, gli posi una domanda. «Quindi, Rune Kristiansen, vichingo della
Norvegia, sei con me?»
Suo malgrado, Rune rise. Rise quando tesi un braccio per una stretta di
mano. Rune, il mio cattivo ragazzo scandinavo con un viso disegnato dagli
angeli, fece scivolare la sua mano nella mia e sigillò la nostra promessa.
Due strette. Come la nonna mi aveva insegnato.
«Sono con te» mi disse. Sentii quel suo voto fin nella punta dei piedi.
«Signora, signore?» Guardai al di sopra delle spalle di Rune e vidi il
cameriere che aveva in mano il nostro conto. «Stiamo chiudendo» spiegò.
«Stai bene?» Chiesi a Rune, facendo segno al cameriere che stavamo
arrivando.
Rune annuì, le sue spesse sopracciglia riportarono sul viso il suo solito
familiare cipiglio.
Imitai la sua espressione, arricciando anche io la faccia. Rune, incapace
di resistere, mi rivolse il mezzo sorriso di quando era di buon umore. «Solo
tu» disse più a se stesso che a me, «Poppymin». Facendo scivolare la mano
di nuovo nella mia, mi guidò lentamente sul davanti del ristorante.
«Dobbiamo ancora andare in un posto» disse Rune accendendo il
motore, quando fummo di nuovo in macchina.
«Un altro momento memorabile?»
Quando ci mettemmo in strada, Rune prese la mia mano nella sua, tra i
sedili, e replicò: «Spero di sì, Poppymin. Spero di sì».

Ci volle un po’ per arrivare in città. Non parlammo molto. Avevo capito
che Rune era diventato più silenzioso di quanto era un tempo. Non che
fosse esattamente espansivo prima. Era sempre stato introverso e silenzioso.
Si sposava perfettamente all’immagine dell’artista tenebroso, sempre alla
ricerca di posti e paesaggi che voleva catturare sulla pellicola.
Momenti.
Avevamo percorso circa un chilometro di strada o giù di lì quando Rune
accese la radio. Mi disse di scegliere la stazione che volevo. E mentre
cantavo silenziosamente, le dita intrecciate alle mie si strinsero appena di
più.
Mi scappò uno sbadiglio dalla bocca quando cominciammo ad
avvicinarci alla periferia della città, ma combattei per tenere gli occhi
aperti. Volevo sapere dove mi stava portando.
Quando ci fermammo davanti al Dixon Theater, il mio battito prese il
volo. Questo era il teatro dove avevo sempre sognato di esibirmi. Era il
teatro dove avrei sempre voluto ritornare, da grande, come membro di
un’orchestra professionista. Nella mia città natale.
Rune spense il motore, e io ammirai l’impressionante facciata di pietra
del teatro. «Rune, che ci facciamo qui?»
Rune mi lasciò la mano e aprì il suo sportello. «Vieni con me».
Accigliata, ma con il cuore che batteva con una forza impossibile, aprii
il mio sportello per seguirlo. Rune mi prese la mano e mi guidò verso
l’ingresso principale.
Era tardi, di domenica sera, ma lui ci guidò dritti attraverso le porte
principali. Appena entrammo nel foyer in penombra, sentii le fievoli note di
Puccini che risuonavano in sottofondo.
La mia mano strinse di più quella di Rune. Lui mi lanciò uno sguardo,
un mezzo sorriso sulle sue labbra. «Rune» sussurrai, mentre mi guidava su
per la maestosa scalinata. «Dove stiamo andando?»
Rune premette un dito sulle mie labbra, per farmi segno di restare in
silenzio. Mi chiesi perché, ma poi mi condusse attraverso una porta… La
porta che portava ai palchi del teatro.
Rune la aprì, e la musica mi si riversò addosso come un’onda.
Annaspando per il volume puro del suono, seguii Rune verso la prima fila
di poltrone. Giù in basso c’era un’orchestra, e il direttore li stava dirigendo.
Li riconobbi all’istante: la Savannah Chamber Orchestra.
Ero estasiata, a fissare i musicisti così concentrati sui loro strumenti, che
ondeggiavano al tempo della musica. Di colpo, voltai la testa verso Rune.
«Come sei riuscito a farlo?» Chiesi.
Rune alzò le spalle. «Stavo cercando di portarti a vederli suonare in un
vero concerto, ma domani partono per andare all’estero. Quando ho
spiegato al direttore d’orchestra quanto li amassi, ha detto che potevamo
fare un salto a sentirli provare».
Non una parola mi salì alle labbra.
Ero senza parole. Completamente, del tutto, senza parole.
Nell’impossibilità di esprimere adeguatamente i miei sentimenti, la mia
pura gratitudine per questa sorpresa, posai la testa sulla sua spalla e mi
accoccolai nel suo braccio. Il profumo della pelle del giubbotto riempiva il
mio naso, mentre i miei occhi si concentravano sull’orchestra in basso.
Li osservavo ammirata. Guardavo come con destrezza il direttore
conduceva i musicisti nella loro prova: gli assolo, gli abbellimenti, le
complesse armonie.
Rune mi teneva stretta, mentre sedevo lì incantata. Di tanto in tanto,
sentivo i suoi occhi su di me: lui osservava me, che osservavo loro.
Ma non riuscivo a staccare gli occhi. Soprattutto dalla sezione dei
violoncelli. Quando il loro suono profondo riecheggiò puro e chiaro, mi
lasciai andare e chiusi gli occhi.
Era bello. Riuscivo a immaginarmi così distintamente, seduta insieme ai
colleghi musicisti, i miei amici, fissare questo teatro pieno di persone che
conoscevo e amavo. Rune seduto, che mi guardava con la sua macchina
fotografica intorno al collo.
Era il più perfetto dei sogni.
Era il mio più grande sogno da quando avevo memoria.
Il direttore diede indicazione all’orchestra di tacere.
Osservai il palco. Osservai tutti gli strumentisti abbassare gli strumenti
tranne il primo violoncello. La donna, che doveva essere sui trent’anni,
spinse la sua sedia al centro del palcoscenico. Non c’era alcuno spettatore a
ostacolarci la vista.
Si mise in posizione per cominciare, l’archetto sulla corda. Era
concentrata sul direttore. Quando lui alzò la bacchetta, dandole ordine di
incominciare, la sentii suonare la prima nota. E mi immobilizzai
completamente. Non osavo respirare. Non volevo sentire niente se non la
più perfetta melodia che fosse mai esistita.
Le note de «Il Cigno» dal Carnevale degli Animali risalirono fino ai
nostri posti. Vidi la violoncellista perdersi nella musica, l’espressione sul
suo viso che tradiva le sue emozioni a ogni nuova nota.
Volevo essere lei.
In quel momento, volevo essere la violoncellista che suonava questo
pezzo così meravigliosamente. Volevo che mi venisse concessa questa
fiducia, la fiducia di questa esibizione.
Tutto sparì mentre la guardavo. Poi chiusi gli occhi. Chiusi gli occhi
perché la musica si impadronisse dei miei sensi. Lasciai che mi portasse con
sé nel suo viaggio. Mentre il tempo del pezzo accelerava, il vibrato che
echeggiava meravigliosamente fra le mura del teatro, aprii gli occhi.
E arrivarono le lacrime.
Le lacrime, come la musica esigeva.
Rune mi strinse più forte la mano e avvertii il suo sguardo su di me.
Riuscivo a sentire che era preoccupato che fossi turbata. Ma non ero
turbata. Mi stavo librando in aria. Il mio cuore si librava in questa melodia
da sogno. Mi si bagnarono le guance, ma lasciai fluire le lacrime. Questo
era il motivo per cui la musica era la mia passione. Da legno, corda, e
archetto si poteva creare questa magica melodia, instillare la vita
nell’anima.
E rimasi così. Rimasi così fino a che l’ultima nota non scivolò al soffitto.
La violoncellista alzò il suo archetto. Solo allora aprì gli occhi, riportando il
suo spirito alla quiete dentro di lei. Perché era questo che sentiva, io lo
sapevo. La musica l’aveva trasportata in un posto lontano, un posto che solo
lei conosceva. L’aveva portata via.
Per qualche tempo, la musica le aveva fatto dono del suo potere.
Il direttore fece un cenno e l’orchestra si avviò nel backstage, lasciando
il silenzio ad occupare il palco adesso vuoto. Ma non girai la testa. Non fino
a che Rune si spostò in avanti, la sua mano dolcemente poggiata sulla mia
schiena. «Poppymin?» Sussurrò, il suo tono cauto e insicuro. «Mi dispiace»
disse sottovoce, «credevo che questo ti avrebbe resa fel...»
Mi voltai a guardarlo, afferrando entrambe le mani tra le mie. «No»
dissi, interrompendo le sue scuse. «No» ribadii. «Queste sono lacrime di
gioia, Rune. Gioia pura».
Lui si lasciò sfuggire un respiro, liberando una delle sue mani per
asciugarmi le guance. Risi, il suono echeggiò intorno a noi. Mi schiarii la
gola, scacciando via l’eccesso di emozioni, e gli spiegai. «Questo è il mio
pezzo preferito, Rune. ‘Il Cigno’, dal Carnevale degli Animali. Il primo
violoncellista, lei ha appena suonato il mio pezzo preferito.
Meravigliosamente. Perfettamente».
Presi un respiro profondo. «È il pezzo che pensavo di suonare per
l’audizione alla Julliard. È sempre stato il pezzo che immaginavo di suonare
alla Carnegie Hall. Lo conosco profondamente. Conosco ogni nota, ogni
cambio di tempo, ogni crescendo… Tutto». Tirai su col naso e mi asciugai
gli occhi. «Sentendolo stasera» continuai, strizzandogli la mano, «seduta
accanto a te… È stato un sogno che diventava realtà».
Rune, completamente a corto di parole, avvolse il suo braccio intorno
alle mie spalle e mi strinse a sé. Sentii il suo bacio sulla mia testa.
«Promettimelo, Rune» dissi. «Promettimi che quando sarai a New York,
quando starai studiando alla Tisch, andrai a vedere suonare la New York
Philharmonic. Promettimi che guarderai il primo violoncello suonare questo
pezzo. E promettimi che quando lo farai, penserai a me. Mi immaginerai
suonare su quel palco e coronare il mio sogno». Respirai a fondo,
soddisfatta da quella immagine. «Perché questo sarebbe abbastanza per me,
adesso» gli spiegai. «Solo sapere che alla fine potrò vivere quel sogno,
anche se sarà solo negli occhi della tua mente».
«Poppy» esclamò Rune, pieno di dolore. «Per favore, piccola…» Il mio
cuore fece un salto quando mi chiamò ‘piccola’. Suonava perfetto quanto la
musica alle mie orecchie.
Alzai la testa e sollevai il suo mento con un dito. «Promettimelo, Rune»
insistetti.
Lui allontanò lo sguardo da me. «Poppy, se tu non sarai a New York con
me, perché diavolo dovrei mai andarci?»
«Per la fotografia. Perché come questo sogno era il mio, il tuo era quello
di studiare fotografia alla NYU».
Fui assalita dalla preoccupazione quando vidi la mascella di Rune
serrarsi. «Rune?» Domandai. Dopo un lungo momento, si girò lentamente
ad affrontarmi di nuovo.
Cercai nel suo bel viso, e mi afflosciai indietro nel mio sedile per quello
che vidi nella sua espressione.
Rifiuto.
«Perché non scatti più fotografie, Rune?» Chiesi. Rune guardò da
un’altra parte. «Per favore, non mi ignorare».
Lui sospirò, sconfitto. «Perché senza di te non vedevo più il mondo nella
stessa maniera. Niente era più lo stesso. Lo so che eravamo dei ragazzini,
ma senza di te, niente aveva senso. Ero arrabbiato. Stavo annegando. Così
ho abbandonato la mia passione perché la passione dentro di me era morta».
Di tutto quello che avrebbe potuto dire o fare, questo mi rattristava più
di ogni altra cosa. Perché quella passione era così forte in lui. E le sue foto,
anche quando aveva quindici anni, erano qualcosa che non avevo mai visto
prima.
Fissai i lineamenti marcati di Rune, i suoi occhi persi mentre fissava con
sguardo assente il palco vuoto. Aveva rialzato il suo muro ed era tornata la
tensione nella sua mascella. Era ritornata quell’espressione astiosa.
Sentendo il bisogno di lasciarlo in pace, di non forzarlo troppo,
appoggiai di nuovo la testa contro la sua spalla e sorrisi. Sorrisi, sentendo
ancora quel pezzo riecheggiarmi nelle orecchie.
«Grazie» sussurrai, mentre le luci del palco si affievolivano.
Sollevai la testa, aspettavo che Rune mi guardasse. Alla fine lo fece.
«Solo tu avresti potuto sapere che questo», indicai l’auditorium,
«avrebbe significato così tanto per me. Solo il mio Rune».
Rune mi premette un bacio leggero sulla guancia.
«Eri tu al mio spettacolo l’altra sera, vero?»
Rune sospirò, e alla fine fece segno di sì con la testa. «Non mi sarei mai
perso una tua esibizione, Poppymin. Mai lo farò».
Si alzò in piedi. Rimase in silenzio mentre mi porgeva la mano. Rimase
in silenzio mentre gli davo la mia mano e mi conduceva alla macchina.
Rimase in silenzio mentre percorrevamo il tragitto verso casa.
Pensai di averlo ferito in qualche modo. Mi preoccupai di aver fatto
qualcosa di sbagliato.
Quando arrivammo a casa, Rune lasciò la macchina e girò intorno al
cofano per aprirmi lo sportello. Afferrai la mano che mi stava porgendo e
saltai giù. Tenni salda la presa mentre Rune mi accompagnava verso casa.
Mi aspettavo che mi portasse alla porta. Invece mi portò alla mia finestra.
Corrugai la fronte quando vidi l’espressione di frustrazione sul suo viso.
Col bisogno di sapere cosa c’era che non andava, feci scorrere la mano sul
suo viso. Ma quando il mio dito si posò sulla sua guancia, qualcosa sembrò
scattare dentro di lui. Mi fece indietreggiare contro il fianco della casa. Il
suo corpo si pressò contro il mio, mi racchiuse il viso tra le sue mani.
Mi mancava il respiro.
Mi mancava il respiro per la sua vicinanza. Mi mancava il respiro per
l’intensità della sua espressione scura. I suoi occhi blu scrutarono ogni parte
del mio viso. «Volevo farlo nel modo giusto» disse. «Volevo andarci piano.
Con questo appuntamento. Con noi. Con stasera». Scosse la testa, la fronte
increspata mentre combatteva una qualche battaglia che aveva dentro. «Ma
non posso. Non lo farò».
Aprii la bocca per rispondere, ma il suo pollice scivolò a strofinarmi il
labbro inferiore, la sua attenzione focalizzata sulle mie labbra. «Tu sei la
mia Poppy. Poppymin. Tu mi conosci. Solo tu mi conosci». Mi prese la
mano, l’appoggiò sopra il suo cuore. «Tu mi conosci, persino sotto questa
rabbia, tu mi conosci». Sospirò, arrivandomi così vicino che condividevamo
la stessa aria. «E io conosco te». Rune sbiancò. «E se abbiamo solo del
tempo limitato, non ho intenzione di sprecarlo. Tu sei mia. Io sono tuo. Al
diavolo tutto il resto».
Il cuore mi vibrò come in un arpeggio nel petto. «Rune», fu tutto quello
che riuscii a dire. Volevo gridare di sì, che ero sua. Che lui era mio.
Nient’altro contava. Ma mi mancò la voce. Ero troppo sopraffatta
dall’emozione.
«Dillo, Poppymin» ordinò. «Dì soltanto sì».
Rune fece un ultimo passo, intrappolandomi, il suo corpo incollato al
mio, il battito del suo cuore al ritmo col mio. Risucchiai un respiro. Le
labbra di Rune strusciarono contro le mie, sospese, in attesa, pronte a
possederle completamente.
Quando guardai negli occhi di Rune, le pupille nere quasi avevano
cancellato il blu, mi lasciai andare e sussurrai: «Sì».
Labbra calde improvvisamente precipitarono sulle mie, la bocca di Rune
così familiare che se ne appropriava con determinazione cieca.
Il suo calore e il suo sapore di menta soffocavano i miei sensi. Il suo
petto muscoloso mi teneva inchiodata al muro, in trappola, come se mi
possedesse attraverso quel bacio.
Rune mi stava mostrando a chi appartenevo. Non mi stava lasciando
altra scelta che sottomettermi a lui, ridarmi a lui dopo essermi sottratta per
troppi anni.
Le mani di Rune si intrecciarono nei miei capelli, tenendomi ferma.
Gemetti quando la sua lingua spinse per incontrare la mia, dolce, calda e
disperata.
Portai le mani in su, lungo la sua schiena ampia, per poi approdare nei
suoi capelli. Rune ringhiò nella mia bocca, baciandomi più a fondo,
portandomi lontano, sempre più lontano, da ogni paura o apprensione che
aveva dimorato in me dal suo ritorno. Mi baciò fino a che non ci fu più una
parte di me che non sapeva a chi appartenevo. Mi baciò finché nuovamente
il mio cuore si fuse con il suo, due metà di un intero.
Il mio corpo cominciò a cedere sotto il suo tocco. Sentendo che mi
arrendevo completamente a lui, il bacio di Rune rallentò in carezze più lente
e delicate. Poi si staccò, entrambi i nostri respiri pesanti, un arco di tensione
sospeso sopra di noi. Le labbra gonfie di Rune mi baciarono le guance, la
mascella, il collo. Quando alla fine si tirò indietro, i suoi respiri accelerati
soffiavano sul mio viso. Le sue mani allentarono la loro morsa su di me.
E aspettò.
Aspettò, osservandomi con il suo sguardo intenso.
Poi le mie labbra si schiusero in un sussurro. «Bacio
trecentocinquantasette. Contro il muro di casa mia… Quando Rune ha preso
il possesso del mio cuore». Rune si immobilizzò, le mani tese, e io conclusi
con: «E il mio cuore è quasi scoppiato».
Poi arrivò. Il puro sorriso di Rune. Era brillante, era ampio ed era vero.
Il mio cuore sfrecciò al cielo, a quella vista.
«Poppymin» sussurrò.
Aggrappata alla sua maglietta, risposi in un sussurro. «Il mio Rune».
Gli occhi di Rune si chiusero quando pronunciai queste parole, un
leggero sospiro salì alla sua bocca. Le sue mani pian piano lasciarono la
presa dai miei capelli e lui, con riluttanza, fece un passo indietro. «Meglio
che vada dentro» sussurrai.
«Ja» rispose lui. Ma non distolse lo sguardo. Invece, si premette contro
di me di nuovo, prendendo la mia bocca delicatamente e velocemente,
prima di farsi indietro. Poi si allontanò di diverse falcate, mettendo una
certa distanza tra di noi.
Sollevai le dita alle mie labbra e dissi: «Se continui a baciarmi così,
riempirò il mio vasetto in men che non si dica».
Rune si girò per rientrare in casa, ma si bloccò per guardare oltre la sua
spalla. «È questa l’idea, piccola. Mille baci da me».
Rune si affrettò in casa sua, lasciandomi lì a guardarlo andare via,
lasciandomi una sensazione di stordita leggerezza che scorreva dentro di me
come rapide. Quando i miei piedi finalmente si mossero, entrai in casa e
andai dritta nella mia stanza.
Tirai fuori il vasetto da sotto il letto e spazzai via la polvere. Aprendolo,
presi la penna dal mio comodino e scrissi del bacio di stanotte.
Un’ora più tardi, ero distesa sul letto quando sentii la finestra che si
apriva. Mi misi a sedere, e vidi la tendina che veniva spinta di lato. Il cuore
mi balzò in gola quando Rune entrò.
Sorrisi mentre camminava verso di me, liberandosi della maglietta e
gettandola sul pavimento. I miei occhi si spalancarono quando assorbii la
vista del suo petto nudo.
Poi il mio cuore quasi esplose quando si passò la mano tra i capelli,
spingendoli via dal viso.
Rune si avvicinò piano al mio letto, e rimase in piedi ad aspettare lì
accanto. Strisciando più indietro, sollevai la coperta e Rune salì sul letto,
cingendomi immediatamente la vita con le braccia.
La mia schiena si annidò perfettamente contro il suo petto, e sospirai di
soddisfazione. Chiusi gli occhi. Rune premette un bacio proprio sotto
l’orecchio e sussurrò: «Dormi, piccola. Ci sono io».
Ed era vero.
Era con me.
Proprio come io ero con lui.
Rune

Mi svegliai con Poppy che mi stava fissando.


«Ehi» mi salutò Poppy. Sorrise e si rannicchiò ancora di più contro il
mio petto. Lasciai vagare le mani attraverso i suoi capelli, prima di infilarle
sotto le sue braccia, tirandola su fino a che non si trovò sopra di me, la sua
bocca davanti alla mia.
«Giorno» replicai, e premetti le labbra contro le sue.
Poppy sospirò nella mia bocca, mentre le sue labbra si separavano e si
modellavano sulle mie. Quando mi tirai indietro, lei guardò fuori dalla
finestra. «Ci siamo persi il sorgere del sole» osservò.
Annuii. Ma quando lei tornò a guardarmi, nella sua espressione non
c’era traccia di tristezza. Invece mi baciò la guancia, e ammise: «Credo che
scambierei tutte le albe se volesse dire potermi risvegliare in questo modo,
con te».
A queste parole, sentii il petto restringersi. Prendendola di sorpresa, la
rovesciai sulla schiena e rimasi sospeso su di lei, distesa. Poppy fece una
risatina mentre intrappolavo le sue mani sul cuscino sopra la sua testa. Mi
imbronciai. Poppy cercò, senza successo, di smettere di ridere.
Aveva le guance arrossate per il divertimento. Sentendo il bisogno di
baciarla più che quello di respirare, lo feci.
Liberai le mani di Poppy e lei afferrò i miei capelli. La sua risata
cominciò a sfumare man mano che il bacio diventava più profondo, e poi
qualcuno bussò forte alla porta. Rimanemmo paralizzati, le labbra ancora
unite e gli occhi sbarrati.
«Poppy! È ora di alzarsi, tesoro!» La voce del papà di Poppy penetrò
nella stanza.
Potevo sentire il cuore di Poppy battere all’impazzata, riecheggiare nel
mio petto, incollato al suo.
Poppy spostò la testa di lato, interrompendo il bacio. «Sono sveglia!»
Rispose urlando.
Non osammo muoverci fino a che non sentimmo suo padre allontanarsi
dalla porta. Gli occhi di Poppy erano enormi quando mi guardò di nuovo.
«Oh mio Dio!» Sussurrò, scoppiando in un nuovo attacco di risatine.
Scossi la testa, rotolai sul lato del letto, e afferrai la mia maglietta dal
pavimento. Mentre mi spingevo sulla testa la stoffa nera, le mani di Poppy
da dietro atterrarono sulle mie spalle. Sospirò. «Abbiamo dormito troppo
questa mattina. Siamo stati quasi beccati».
«Non succederà di nuovo» assicurai, non volendo che lei avesse alcuna
scusa per non farlo più. Dovevo stare con lei la notte. Dovevo. Non era
successo niente, ci eravamo baciati, avevamo dormito.
A me questo bastava.
Poppy annuì, d’accordo, ma quando si appoggiò col mento sulle mie
spalle e con le braccia cinse la mia vita, disse: «Mi è piaciuto».
Rise di nuovo e girai appena la testa, cogliendo l’espressione raggiante
sul suo viso. Lei annuì giocosamente. Poppy si spostò a sedere più indietro,
prese la mia mano e se la premette sul cuore. Stava battendo in fretta. «Mi
fa sentire viva».
Ridendo di lei, scossi la testa. «Tu sei pazza».
Mi alzai e mi infilai gli stivali. Poppy si risistemò seduta sul letto. «Sai,
non ho mai fatto niente di cattivo o di proibito prima, Rune. Credo di essere
una brava ragazza».
Mi accigliai al pensiero di poterla corrompere. Ma Poppy si tese in
avanti e disse: «È stato divertente». Spinsi via i capelli dalla faccia e mi
abbassai sul letto per darle un ultimo bacio, dolce e delicato.
«Rune Kristiansen, forse dopo tutto mi piacerà questo tuo lato da cattivo
ragazzo. Renderai di sicuro divertenti i prossimi mesi». Sospirò
teatralmente. «Dolci baci e bravate in cerca di guai… Ci sto!»
Mentre mi avviavo alla finestra, sentii Poppy muoversi dietro di me.
Proprio mentre stavo per sgattaiolare fuori, lanciai uno sguardo indietro.
Poppy stava riempendo due cuori vuoti del suo vasetto. Mi concessi di
guardarla. Guardarla mentre sorrideva per quello che stava scrivendo.
Era così bella.
Quando ebbe rimesso i cuori scritti di nuovo nel vasetto, si girò e si
bloccò. Mi aveva colto a guardarla. Il suo sguardo si addolcì. Aprì la bocca
per dire qualcosa, quando la maniglia della sua porta iniziò a girare. Le si
spalancarono gli occhi e agitò le mani facendomi segno di uscire.
Mentre saltavo dalla finestra e scappavo da casa sua, sentii la sua risata
dietro di me. Solo qualcosa di così puro poteva scacciare via le tenebre nel
mio cuore.
Ero appena riuscito a rientrare dalla finestra che subito dovetti buttarmi
sotto la doccia per andare a scuola. Mentre me ne stavo sotto il getto caldo,
il vapore avvolgeva il bagno.
Mi inclinai in avanti, i potenti fiotti d’acqua scrosciavano sulla testa. Le
mie mani erano appoggiate contro le mattonelle scivolose di fronte a me.
Ogni giorno, quando mi svegliavo, ero consumato dalla rabbia. Mi
consumava al punto che potevo quasi sentirne sulla lingua il sapore amaro,
sentire il suo calore scorrere nelle mie vene.
Ma questa mattina era diverso.
Era Poppy.
Sollevando la testa dall’acqua, chiusi il rubinetto e afferrai
l’asciugamano. Mi infilai i jeans e aprii la porta del bagno. Mio padre era
sulla soglia della porta della mia stanza. Quando mi sentì dietro di lui, si
voltò.
«Buongiorno, Rune» salutò. Gli passai davanti per andare al mio
armadio. Presi una t-shirt bianca e me la tirai sopra la testa. Quando mi
allungai a prendere gli stivali, vidi che mio padre era ancora in piedi sulla
soglia.
Fermandomi di colpo, incrociai i suoi occhi. «Che c’è?» Scattai.
Lui entrò lentamente nella stanza, con un caffè in mano. «Com’è andato
il tuo appuntamento con Poppy ieri sera?»
Non risposi. Non gli avevo detto nulla, il che significava che era stata
mia madre a dirglielo. Non gli avrei risposto. L’idiota non meritava di
saperlo.
Si schiarì la gola. «Rune, dopo che te ne sei andato ieri sera, il signor
Litchfield è venuto da noi».
Ed ecco che tornava, a fluirmi dentro come un torrente. La rabbia. Mi
ricordavo la faccia del signor Litchfield quando mi aveva aperto la porta la
sera precedente. Mentre ci stavamo allontanando in macchina. Era
incavolato. Mi ero accorto che non avrebbe voluto che Poppy venisse con
me. Diavolo, era sembrato essere a tanto così dal proibirle di seguirmi.
Ma quando Poppy era uscita di casa, avevo capito che non avrebbe detto
di no a qualsiasi cosa lei avesse voluto. Come poteva? Stava perdendo sua
figlia. Era l’unica cosa che mi aveva impedito di dirgli cosa pensavo
esattamente delle sue obiezioni sul fatto che lei stesse con me.
Mio padre avanzò per mettersi di fronte a me. Tenni gli occhi bassi sul
pavimento, mentre lui parlava. «È preoccupato, Rune. È preoccupato che se
tu e Poppy tornaste insieme potrebbe non essere una buona cosa».
Digrignai i denti. «Non buona per chi? Per lui?»
«Poppy, Rune. Lo sai… Lo sai che non ha molto...»
Alzai la testa di scatto, la furia che bruciava nel mio stomaco. «Sì, lo so
bene. Non è tanto facile da dimenticare. Sai, il fatto che la ragazza che amo
sta morendo».
Mio padre sbiancò. «James vuole solo che gli ultimi giorni di Poppy
siano liberi dai problemi. Di pace. Divertenti. Senza stress».
«E fammi indovinare, sono io il problema, giusto? Sono io lo stress?»
Lui sospirò. «Ha chiesto che tu stia lontano da lei. Di lasciarla andare e
basta, senza fare drammi».
«Non accadrà» sputai tra i denti, prendendo dal pavimento il mio zaino.
Mi infilai la giacca di pelle e gli girai intorno per uscire.
«Rune, pensa a Poppy» mio padre pregò.
Mi bloccai di colpo e mi girai di nuovo verso di lui. «Lei è tutto quello a
cui penso. Non hai idea di quello che c’è tra noi, quindi che ne dici di farti i
fattacci tuoi? E pure James Litchfield».
«È sua figlia!» Obiettò mio padre, il suo tono più severo di prima.
«Sì» obiettai di rimando, «e lei è l’amore della mia vita. Non mi
allontanerò da lei, nemmeno per un secondo. E nessuno dei due può farci
niente».
Mi precipitai fuori dalla mia stanza, mentre mio padre gridava: «Non sei
un bene per lei, Rune. Non come sei adesso. Non con tutto il fumo e il bere.
Non col tuo atteggiamento. Non quando ce l’hai col mondo intero per ogni
cosa della tua vita. Quella ragazza ti venera, l’ha sempre fatto. Ma è una
brava ragazza. Non essere la sua rovina».
Fermandomi sui miei passi, gli lanciai un’occhiata torva da sopra una
spalla. «Bene, so da fonte sicura che lei vuole un po’ più di cattivi ragazzi
nella sua vita».
Con questo, superai con passo pesante la cucina guardando solo per un
attimo mia madre e Alton, che mi salutarono con la mano mentre passavo.
Sbattei la porta d’ingresso e scesi gli scalini, accendendomi una sigaretta
non appena posai i piedi sull’erba. Mi appoggiai alla ringhiera del nostro
porticato. Il mio corpo era teso come un filo elettrico scoperto per quello
che aveva detto mio padre. Per quello che il signor Litchfield aveva fatto.
Intimarmi di stare lontano da sua figlia.
Cosa diavolo pensava che le avrei fatto?
Sapevo quello che tutti pensavano di me, ma non avrei mai fatto del
male a Poppy. Nemmeno tra un milione di anni.
La porta d’ingresso della casa di Poppy si aprì. Savannah e Ida uscirono
correndo, con Poppy che le seguiva subito dietro. Stavano parlando tutte
contemporaneamente. Poi, come se avesse avvertito il mio sguardo
insistente, gli occhi di Poppy scivolarono sul fianco di casa mia e si
concentrarono su di me.
Savannah e Ida guardarono cosa avesse attirato la sua attenzione.
Quando mi videro, Ida rise e fece un cenno di saluto. Savannah, come suo
padre, mi guardò in silenzio, preoccupata.
Alzai il mento verso Poppy, per farle segno di avvicinarsi. Poppy si
incamminò verso di me lentamente, Ida e Savannah dietro di lei. Era
bellissima, come sempre. La gonna rossa le arrivava fino a metà coscia,
delle calze nere le coprivano le gambe, e ai piedi indossava stivaletti bassi
di camoscio. Un cappottino blu le copriva il busto, ma sotto riuscivo a
intravedere una maglietta bianca e una cravatta nera intorno al collo.
Era così incredibilmente carina.
Le sorelle di Poppy rimasero indietro quando lei si mise di fronte a me.
Avvertendo il bisogno di rassicurarmi sul fatto che io avessi lei, che lei
avesse me, mi staccai dalla ringhiera, gettando la mia sigaretta per terra.
Avvolsi tra le mani le guance di Poppy, la tirai verso le mie labbra,
scontrando la mia bocca contro la sua. Questo bacio non fu delicato. Non
avevo pianificato che lo fosse. Le stavo lasciando un segno, marchiandola
come mia. E io, come suo.
Questo bacio era un deciso dito medio verso chiunque cercasse di
mettersi tra di noi. Quando mi staccai, le guance di Poppy erano accaldate e
le labbra umide. «Sarà meglio che questo bacio vada nel tuo vasetto» la
ammonii.
Poppy annuì, sbalordita. Da dietro di noi, arrivarono delle risatine. Mi
voltai e vidi che le sorelle di Poppy stavano ridendo. Almeno Ida stava
ridendo, Savannah invece era praticamente rimasta a bocca aperta.
Mi abbassai a prendere la mano di Poppy e la serrai nella mia. «Sei
pronta?»
Poppy fissò le nostre mani. «Andiamo a scuola così?»
Aggrottai le sopracciglia. «Sì. Perché?»
«Così lo sapranno tutti quanti. Parleranno tutti, e...»
Nuovamente spinsi le labbra contro le sue e, quando mi tirai indietro, le
dissi: «Allora lasciamoli parlare. Non te n’è mai importato prima. Non
incominciare adesso».
«Penseranno tutti che siamo di nuovo fidanzati».
Mi accigliai. «Lo siamo» risposi semplicemente. Poppy sbatté le
palpebre, e poi le sbatté ancora. Poi, spegnendo completamente la mia
rabbia, mi sorrise e si abbandonò contro il mio fianco, la testa poggiata sul
mio bicipite.
Alzando lo sguardo su di me, affermò: «Allora sì, sono pronta».
Mi concessi di reggere lo sguardo di Poppy per qualche secondo più del
solito. Il nostro bacio poteva essere stato un dito medio contro chiunque non
ci voleva insieme, ma il suo sorriso era un dito medio all’oscurità della mia
anima.
Le sorelle di Poppy corsero al nostro fianco e si unirono a noi quando
iniziammo a camminare verso le nostre rispettive scuole. Poco prima di
svoltare per il frutteto, gettai uno sguardo indietro da sopra una spalla. Il
signor Litchfield ci stava osservando andar via. Mi irrigidii quando vidi
l’espressione burrascosa sulla sua faccia. Ma strinsi i denti. Questa sarebbe
stata una battaglia che lui avrebbe perso di sicuro.
Ida chiacchierò per tutto il percorso verso la sua scuola, Poppy rideva
teneramente alla sua sorellina più piccola. Capivo il perché. Ida era una
Poppy in miniatura, persino per le fossette sulle guance.
Savannah aveva una personalità completamente diversa. Era più
introversa, più meditabonda. Ed evidentemente protettiva nei riguardi della
felicità di Poppy.
Con un veloce cenno di saluto, Savannah ci lasciò per entrare nella sua
scuola media. «È stata veramente silenziosa» osservò Poppy mentre lei si
allontanava.
«È per me» replicai. Poppy mi guardò, scioccata.
«No» controbatté. «Lei ti adora».
La mia mascella si tese. «Lei adorava chi ero un tempo». Scrollai le
spalle. «Lo capisco. Lei è preoccupata che ti spezzerò il cuore».
Poppy mi fece fermare sotto un albero vicino all’ingresso della nostra
scuola. Distolsi lo sguardo. «Che è successo?» Chiese lei.
«Niente» risposi.
Si spostò nella traiettoria del mio sguardo. «Non mi spezzerai il cuore»
affermò, convinta al cento per cento. «Il ragazzo che mi ha portato al
ruscello, e poi a sentire l’orchestra, non potrebbe mai spezzarmi il cuore».
Restai in silenzio.
«Inoltre, se il mio cuore si spezza, si spezza anche il tuo, ricordi?»
Sbuffai a quel promemoria. Poppy mi spinse con la schiena contro
l’albero. Vedevo gli studenti iniziare a entrare a scuola, la maggior parte di
loro ci stava guardando. I sussurri stavano già incominciando.
«Mi faresti del male, Rune?» Poppy domandò.
Sconfitto dalla sua tenacia, posai una mano alla base del suo collo e le
assicurai: «Mai».
«Allora al diavolo quello che pensano tutti gli altri».
Risi per il suo ardore. Lei sorrise e si piazzò la mano sul fianco. «Com’è
come atteggiamento? Abbastanza da cattiva ragazza?»
Cogliendola di sorpresa, la feci girare fino a che la sua schiena non fu
contro l’albero. Prima che avesse la possibilità di reagire, la intrappolai e la
baciai. Le nostre bocche si muovevano lentamente, il bacio era profondo, le
labbra di Poppy si dischiusero per lasciare entrare la mia lingua. Assaggiai
la dolcezza nella sua bocca, prima di staccarmi da lei.
Poppy era senza fiato. Mi passò le dita tra i capelli umidi, pettinandoli.
«Ti conosco, Rune. Non mi faresti del male». Arricciò il naso e scherzò, «ci
scommetterei la vita».
Un dolore cercò di sollevarsi nel mio petto. «Non è divertente».
Lei mimò un centimetro con l’indice e il pollice. «Lo era. Un pochino».
Scossi la testa. «Mi conosci, Poppymin. Solo tu. Per te. Per te solo».
Poppy mi studiò. «E forse questo è il problema» concluse. «Forse se
facessi entrare qualcun altro, forse se mostrassi a quelli che ami che sei
sempre tu sotto tutti i vestiti scuri e la malinconia, non ti giudicherebbero
così severamente. Ti amerebbero, chiunque tu scelga di essere, perché
vedrebbero la tua vera anima».
Rimasi in silenzio, e allora lei continuò. «Come Alton. Com’è il tuo
rapporto con Alton?»
«È un bambino» replicai, non capendo cosa volesse dire.
«È un bambino piccolo che ti venera. Un bambino piccolo che è
sconvolto che tu non gli parli, che non fai niente con lui». Sentii quelle
parole scavare una voragine nel mio stomaco.
«Come lo sai?»
«Perché me l’ha detto» rispose. «Sta male».
Mi immaginai Alton piangere, ma ricacciai subito indietro
quell’immagine. Non volevo pensarci. Magari non avevo molto a che fare
con lui, ma non volevo vederlo piangere.
«C’è una ragione per cui lui ha i capelli lunghi, lo sai? C’è una ragione
se li spinge via dalla faccia come fai tu. È adorabile».
«Ha i capelli lunghi perché è norvegese».
Poppy roteò gli occhi. «Non tutti i ragazzi norvegesi hanno i capelli
lunghi, Rune. Non fare lo stupido. Ha i capelli lunghi perché vuole essere
come te. Imita le tue abitudini, le tue particolarità, perché vuole essere come
te. Vuole che tu ti accorga di lui. Ti adora».
Abbassai la testa, guardai per terra. Poppy la guidò di nuovo su con le
mani. Cercò i miei occhi. «E tuo padre? Perché non...»
«Basta» esplosi con durezza, rifiutandomi di parlare di lui. Non l’avrei
mai perdonato per avermi portato via. Questo argomento era off-limits,
anche per Poppy. Lei non sembrava né ferita né offesa dal mio scatto d’ira.
Invece, tutto quello che trovai sul suo volto fu comprensione.
Non potevo sopportare nemmeno quella.
La presi per mano e, senza aggiungere un’altra parola, la tirai verso la
scuola. Poppy si aggrappò con più forza alla mia mano mentre gli altri
studenti smisero di guardare, e cominciarono a fissare. «Lasciali fare» dissi
a Poppy, mentre varcavamo i cancelli della scuola.
«Okay» replicò e si fece più vicina al mio fianco.
Quando entrammo nel corridoio vidi Deacon, Judson, Jorie, Avery e
Ruby tutti riuniti vicino ai loro armadietti. Non avevo parlato con nessuno
di loro dalla sera del party.
Nessuno di loro sapeva di questa evoluzione.
Fu Jorie che si girò per prima, i suoi occhi si spalancarono quando il suo
sguardo cadde sulle mani mie e di Poppy, unite. Doveva aver detto qualcosa
sottovoce, perché nel giro di pochi secondi, tutti i nostri amici si girarono a
guardarci. La confusione aleggiava sulle loro facce.
Girandomi verso Poppy, la incitai. «Forza, meglio che parliamo con
loro».
Feci per avviarmi, quando Poppy mi tirò indietro. «Loro non lo sanno
della…» sussurrò, in modo che solo io potessi sentirla. «Nessuno lo sa
tranne le nostre famiglie e gli insegnanti. E te».
Annuii lentamente. «E Jorie. Anche Jorie lo sa» aggiunse poi.
Quel piccolo dettaglio fu come un calcio nelle budella. Poppy doveva
aver visto la sofferenza sul mio viso, perché mi spiegò. «Avevo bisogno di
qualcuno, Rune. Era la mia amica più stretta, a parte te. Mi ha aiutato con i
compiti a casa e cose del genere».
«Ma l’hai detto a lei e non a me» dissi, combattendo contro il bisogno
improvviso di allontanarmi e prendere un po’ d’aria.
Poppy si aggrappò con forza a me. «Lei non mi amava come te. E io non
la amo quanto amo te».
Quando Poppy pronunciò queste parole, la mia rabbia svanì… e io non
la amo quanto amo te… Mi avvicinai di un passo e le avvolsi un braccio
intorno alle spalle. «A un certo punto lo scopriranno».
«Ma non ancora» rispose decisa.
Feci un sorrisetto davanti alla determinazione nei suoi occhi. «Ma non
ancora».
«Rune? Ti muovi a venire qui? Ci devi dare qualche spiegazione!» La
voce potente di Deacon ci richiamò superando la confusione del corridoio.
«Sei pronta?» Chiesi a Poppy.
Annuì e io ci avviammo verso il nostro gruppo di amici. Il braccio di
Poppy era avvolto stretto attorno alla mia vita. «Quindi state di nuovo
insieme?» Chiese Deacon.
Annuii, e le mie labbra si arricciarono con disgusto nel vedere la faccia
di Avery corrosa dalla gelosia. Accortasi chiaramente che l’avevo notato, in
fretta assunse di nuovo la sua solita maschera cinica. Non mi importava;
non era mai stata niente per me.
«Allora, Poppy e Rune, di nuovo insieme?» Chiarì ancora Ruby.
«Sì» confermò Poppy, sorridendo verso di me. Le baciai la fronte,
tenendola vicino.
«Bene, sembra che il mondo sia tornato a girare nel verso giusto»
annunciò Jorie, allungandosi a stringere forte il braccio di Poppy. «Non era
giusto, ragazzi, che voi non steste più insieme. L’universo non era… a
posto».
«Grazie, Jor» Poppy rispose, e si guardarono negli occhi per un secondo
più a lungo, comunicando in silenzio. Vidi gli occhi di Jorie riempirsi di
lacrime. In quel momento, esclamò: «Bene, devo entrare in classe. Ci
vediamo più tardi!»
Jorie se ne andò e Poppy si spostò al suo armadietto. Io ignorai tutti gli
sguardi. Quando Poppy ebbe preso i suoi libri, la spinsi contro l’armadietto.
«Visto? Non è andata così male» le dissi.
«Non così male» ripeté Poppy, ma vidi che mi guardava le labbra.
Chinandomi, spinsi il petto contro il suo e le presi la bocca con un bacio.
Poppy piagnucolò quando la mia mano atterrò nei suoi capelli e li strinsi
forte. Quando mi staccai, le brillavano gli occhi e le sue guance erano
arrossate.
«Bacio trecentosessanta. Contro l’anta dell’armadietto a scuola. Per
mostrare al mondo che siamo di nuovo insieme… E il mio cuore è quasi
scoppiato».
Mi allontanai, e lasciai Poppy a riprendere fiato.
«Rune?» Mi chiamò mentre mi dirigevo alla mia lezione di matematica.
Mi girai e le feci un cenno con il mento. «Avrò bisogno di più di questi
momenti per riempire il mio vasetto».
Fui invaso dal calore al pensiero di baciarla a ogni occasione. Poppy
arrossì davanti all’intensità del mio sguardo. Proprio mentre mi rigiravo di
nuovo, lei chiamò ancora: «E Rune?»
«Ja?» Risposi con un sorrisino.
«Qual è il tuo posto preferito qui in Georgia?» Non riuscivo a
interpretare bene l’espressione sul suo viso, ma qualcosa le frullava in
quella testolina. Stava pianificando qualcosa, lo sapevo e basta.
«Il frutteto, in primavera» replicai, sentendo il mio viso addolcirsi solo
al pensiero.
«E quando non è primavera?» Indagò ancora.
Scrollai le spalle. «Probabilmente la spiaggia. Perché?»
«Niente» trillò, poi si avviò nella direzione opposta.
«Ci vediamo per pranzo» gridai.
«Devo esercitarmi col violoncello» gridò di rimando.
Mi immobilizzai. «Allora starò a guardarti» le dissi.
Il viso di Poppy si illuminò. «Allora starai a guardarmi» ripeté con
dolcezza.
Restammo fermi in piedi, ai lati opposti del corridoio, semplicemente a
guardarci. «All’infinito» Poppy mimò con le labbra.
E mimai anch’io. «Sempre e per sempre».
La settimana passò in un soffio.
Prima non mi era mai importato del tempo, che andasse veloce oppure
piano. Adesso sì. Adesso volevo che un minuto durasse un’ora, un’ora un
giorno. Ma nonostante le mie silenziose implorazioni a chiunque diavolo ci
fosse lassù, il tempo scorreva via troppo veloce. Tutto si muoveva troppo
maledettamente in fretta.
A scuola, l’interesse generale per il fatto che io e Poppy fossimo tornati
insieme si acquietò dopo qualche giorno. La maggior parte della gente
ancora non se ne capacitava, ma non ci badavo. Nella nostra cittadina,
sapevo che la gente parlava. La maggior parte dei pettegolezzi riguardava il
come e il perché fossimo tornati insieme.
Neanche di quello me ne importava assolutamente niente.
Il campanello di casa suonò mentre stavo disteso sul letto, e rotolai per
alzarmi, prendendo la giacca dalla sedia. Poppy mi avrebbe portato fuori.
Lei portava fuori me.
La mattina, quando avevo lasciato il suo letto, mi aveva detto di farmi
trovare pronto per le dieci. Non mi aveva detto perché o quello che
avremmo fatto, ma feci come aveva chiesto.
E lei sapeva che l’avrei fatto.
Uscii dalla mia stanza e percorrendo il corridoio, sentii il suono della
voce di Poppy. «Ehi, ometto, come stai?»
«Bene» rispose Alton timidamente.
Svoltai l’angolo, mi fermai quando vidi Poppy accovacciarsi per
incontrare gli occhi di Alton. I lunghi capelli di Alton schermavano il suo
viso. Lo guardai spingersi nervosamente i capelli via dalla faccia con la
mano… Proprio come facevo io.
Le parole di Poppy della scorsa settimana mi esplosero nella testa… Ha
i capelli lunghi perché vuole essere come te. Imita le tue abitudini, le tue
particolarità, perché vuole essere come te. Vuole che tu ti accorga di lui. Ti
adora…
Vidi il mio fratellino dondolarsi timidamente sui piedi. Non riuscii a non
incurvare le labbra per il divertimento. Era troppo silenzioso, come me. In
realtà, quasi non parlava a meno che qualcuno non gli rivolgesse la parola
per primo.
«Che stai facendo oggi?» Chiese Poppy.
«Niente» replicò Alton, imbronciato.
Il sorriso di Poppy svanì.
«Stai uscendo di nuovo con Rune?» Alton le chiese.
«Sì, tesoro» rispose a bassa voce.
«Ti parla adesso?» Chiese Alton. E io sentii. Sentii quella traccia di
tristezza nella sua voce bassa, quella di cui Poppy mi aveva parlato.
«Sì, lo fa» disse Poppy e, come faceva con me, fece scorrere il dito
lungo la sua guancia. Alton abbassò la testa per l’imbarazzo, ma colsi un
piccolo sorrisetto attraverso le ciocche dei suoi capelli.
Poppy sollevò lo sguardo e mi vide appoggiato al muro, che li osservavo
attentamente. Lei si rimise in piedi lentamente e io avanzai, allungandomi a
prendere la sua mano e tirandola avanti per un bacio.
«Sei pronto?» Chiese.
Annuii, adocchiandola con sospetto. «Ancora non mi dici dove stiamo
andando?»
Poppy arricciò le labbra e scosse la testa, prendendosi gioco di me. Prese
la mia mano tra le sue e mi condusse fuori dalla porta. «Ciao, Alton!» Gridò
da sopra una spalla.
«Ciao, Poppymin» lo sentii dire in risposta silenziosamente. Mi bloccai
di colpo quando udii il nomignolo che avevo dato a Poppy lasciare le sue
labbra. Poppy sollevò una mano alla bocca, e la vidi praticamente
sciogliersi dove si trovava.
Mi guardò, e con quello sguardo sapevo che voleva che dicessi qualcosa
a mio fratello. Sospirando, mi girai verso Alton. «Ciao, Rune», mi disse lui.
La mano di Poppy strizzò la mia, incitandomi a rispondere. «Ciao, Alt»
risposi con imbarazzo. Alton sollevò la testa, e un sorriso enorme si aprì sul
suo viso. Solo perché gli avevo detto ciao.
Quel sorriso che illuminava il suo viso mi fece stringere qualcosa nel
petto. Condussi Poppy giù per gli scalini, verso l’auto della mamma di
Poppy.
Quando raggiungemmo la macchina, Poppy si rifiutò di lasciarmi la
mano finché non sollevai gli occhi su di lei. Quando lo feci, inclinò la testa
da un lato e dichiarò: «Rune Kristiansen, in questo momento sono
follemente orgogliosa di te».
Guardai da un’altra parte, non molto a mio agio con quel tipo di
apprezzamenti. Con un pesante sospiro, Poppy finalmente lasciò la mia
mano e salimmo in macchina. «Adesso mi dirai dove stiamo andando?»
Domandai.
«No». Poppy fece retromarcia per uscire dal vialetto. «Anche se lo
indovinerai presto, immagino».
Sintonizzai la radio sulla solita stazione di Poppy, e mi riappoggiai sul
sedile.
La dolce voce di Poppy iniziò a riempire la macchina, cantando un’altra
canzone pop che non conoscevo. Non passò molto tempo prima che
smettessi di osservare la strada per osservare semplicemente lei. Come
quando suonava il violoncello, le sue fossette si facevano più profonde
mentre cantava le sue canzoni preferite, sorridendo per le parole che amava.
La sua testa oscillava e il suo corpo si muoveva a ritmo di musica.
Il petto mi si serrò.
Era una battaglia costante. Vedere Poppy così serena e felice mi
riempiva della luce più splendente, ma sapere che questi momenti erano
limitati, finiti, che si stavano esaurendo, mi portava solo oscurità.
Squarci nero pece.
E rabbia. Quelle onnipresenti spire arrotolate di rabbia che aspettavano
per colpire. Come se si fosse accorta che stavo cedendo, Poppy allungò la
mano e la mise sul mio grembo. Quando guardai in basso, vidi la sua mano
col palmo rivolto verso l’alto, le dita pronte a intrecciarsi con le mie.
Liberai un lungo sospiro e feci scivolare la mano tra le sue dita, non
potevo guardarla. Non avrei potuto farle questo.
Sapevo come si sentiva Poppy. Anche se il cancro le stava prosciugando
la vita, era il dolore per i membri della sua famiglia e per quelli che
l’amavano che la stava uccidendo. Quando diventavo silenzioso, quando
diventavo turbato, erano le uniche volte che i suoi brillanti occhi verdi si
spegnevano. Quando lasciavo che la rabbia mi consumasse, riuscivo a
vedere la stanchezza sul suo viso.
La stanchezza di essere la causa di tutta quella sofferenza.
Tenendo la sua mano stretta nella mia, mi girai a guardare fuori dal
finestrino.
Guidavamo per le curve e le stradine fuori città. Portando le nostre mani
unite alla mia bocca, stampai un bacio sulla morbida pelle di Poppy.
Quando passammo un segnale che indicava la costa, sentii sollevarsi il peso
che avevo sul petto e mi voltai verso Poppy.
Stava già sorridendo.
«Mi stai portando alla spiaggia» affermai.
Poppy fece di sì col capo. «Sì! Il tuo secondo posto preferito».
Pensai ai ciliegi in piena fioritura nel frutteto. Immaginai noi seduti sotto
il nostro albero preferito. E, per quanto non fosse una cosa da me, chiesi in
una preghiera che resistesse così a lungo. Poppy doveva vedere gli alberi
pieni di fiori.
Semplicemente, doveva tenere duro fino ad allora.
«Lo farò» sussurrò Poppy improvvisamente. Incontrai i suoi occhi e lei
mi strinse la mano come se potesse sentire la mia implorazione silenziosa.
«Li vedrò. Sono determinata».
Il silenzio tra di noi si allungò. Un groppo prese dimora nella mia gola
mentre in silenzio contavo quanti mesi ci volevano perché gli alberi
fiorissero. Circa quattro mesi. Non molto tempo.
La mano di Poppy diventò rigida. Quando cercai il suo viso, vidi di
nuovo il dolore. Quel dolore che mi diceva silenziosamente che stava
soffrendo, perché io stavo soffrendo.
Spingendo via quel groppo, le dissi: «Allora li vedrai. Dio sa che è
meglio non mettersi sulla tua strada quando sei determinata».
E come un interruttore, il suo dolore scomparve e lei si illuminò di pura
felicità.
Mi risistemai sul sedile, guardando il mondo esterno scorrere in un
lampo sfocato. Ero perso nei miei pensieri quando la sentii dire: «Grazie».
Era un minuscolo suono, quasi una frazione di sussurro. Ma chiusi gli
occhi, sentendo la mano di Poppy che si rilassava.
Non risposi. Lei non avrebbe voluto.
Iniziò un’altra canzone alla radio, e come se niente fosse successo, la
voce delicata di Poppy riempì la macchina, e non smise mai. Per il resto del
viaggio, rimasi aggrappato alla sua mano mentre lei cantava.
Accertandomi di assaporare ogni nota.

Quando arrivammo sulla costa, la prima cosa che vidi fu il faro alto,
bianco, situato sul bordo della scogliera. La giornata era calda, l’ondata di
freddo sembrava essere passata, e il cielo era terso.
Quasi non c’era una nuvola in cielo mentre il sole si alzava, proiettando i
suoi raggi sull’acqua calma. Poppy parcheggiò l’auto e spense il motore.
«Sono d’accordo, è anche il mio secondo posto preferito» disse.
Annuii, guardando diverse famiglie sparpagliate sulla morbida sabbia.
C’erano dei bambini che giocavano; gabbiani che volavano in circolo, in
attesa del cibo avanzato. Alcuni adulti erano adagiati sulle dune a leggere.
Altri si rilassavano, ad occhi chiusi, nel godersi il calore.
«Ti ricordi quando venivamo qui in estate?» Chiese Poppy, la sua voce
dolce intrisa di gioia.
«Ja» risposi rauco.
Indicò sotto il molo. «E lì, bacio settantacinque». Si girò verso di me e
rise al ricordo. «Ce l’eravamo svignata dalle nostre famiglie per andare
sotto il molo, solo perché tu potessi baciarmi». Si toccò le labbra senza
guardare niente in particolare, persa tra i pensieri. «Sapevi di sale per
l’acqua del mare» disse. «Ti ricordi?»
«Ja» replicai. «Avevamo nove anni. Tu indossavi un costume giallo».
«Sì!» Disse lei, con una risatina.
Poppy aprì lo sportello. Si guardò indietro, col viso pervaso
dall’eccitazione, e chiese: «Sei pronto?»
Uscii dalla macchina. La calda brezza soffiava i capelli sulla mia faccia.
Presi un elastico dal polso, spinsi via le ciocche e li raccolsi in uno chignon
morbido, poi andai verso il portabagagli per aiutare Poppy con quello che si
era portata.
Quando guardai dentro l’ampio portabagagli, vidi che aveva portato un
cestino da picnic e un altro zaino. Non avevo idea di cosa ci tenesse dentro.
Quando cercò di portare tutto da sola, allungai un braccio per prenderle
tutto. Lei lasciò la presa dalle borse perché le reggessi io, poi si fermò,
senza fare più una mossa.
La sua immobilità mi portò ad alzare lo sguardo. Mi accigliai, vedendo
che mi stava studiando. «Cosa?» Chiesi.
«Rune» sussurrò, sfiorando il mio viso con la punta delle dita. Le fece
scivolare sulle mie guance e lungo la fronte. Finalmente, un enorme sorriso
si aprì sulle sue labbra. «Riesco a vedere il tuo viso».
Sollevandosi sulle punte, Poppy allungò un braccio e scherzosamente
picchiettò sui miei capelli, racchiusi nello chignon. «Mi piace questo»
dichiarò. Gli occhi di Poppy percorsero ancora una volta tutto il mio viso.
Poi sospirò. «Rune Erik Kristiansen, ti rendi conto di quanto sei
incredibilmente bello?»
Abbassai la testa. Due mani corsero giù sul mio petto. Quando sollevai
lo sguardo, lei aggiunse: «Ti rendi conto di quanto è profondo quello che
sento per te?»
Lentamente, scossi la testa, sentivo il bisogno che me lo dicesse. Adagiò
la mia mano sopra il suo cuore e la sua sopra il mio. Sentivo sotto il palmo
il suo battito regolare, quel battito che accelerò quando i miei occhi si
incatenarono ai suoi. «È come musica», spiegò. «Quando ti guardo, quando
mi tocchi, quando vedo il tuo viso… Quando ci baciamo, il mio cuore canta
una canzone. Canta che ha bisogno di te come io ho bisogno dell’aria.
Canta che io ti adoro. Canta che ho trovato la sua perfetta metà mancante».
«Poppymin» dissi dolcemente, mentre lei premeva un dito sulle mie
labbra.
«Ascolta, Rune» disse lei e chiuse gli occhi. Lo feci anch’io. E lo sentii.
Lo sentii così distintamente come se fosse accanto al mio orecchio. I battiti
regolari, il ritmo di noi due. «Quando mi sei vicino, il mio cuore non canta,
vola» sussurrò, come se non volesse disturbare quel suono. «Credo che i
cuori battano al ritmo di una canzone. Credo che, proprio come con la
musica, siamo attratti verso una particolare melodia. Io ho sentito la
canzone del tuo cuore, e il tuo ha sentito la mia».
Aprii gli occhi. Poppy era ferma in piedi, le sue fossette profonde mentre
sorrideva e si dondolava a ritmo. Quando aprì gli occhi, una dolce risatina
scivolò dalle sue labbra. Mi spinsi in avanti e schiacciai le nostre labbra le
une contro le altre.
Le mani di Poppy andarono alla mia vita, aggrappandosi forte alla mia t-
shirt mentre muovevo lentamente le mie labbra contro le sue, facendoci
indietreggiare fino a che lei non fu appoggiata contro la macchina, il mio
petto premuto contro il suo corpo.
Sentivo l’eco del battito del suo cuore nel mio petto. Poppy sospirò
quando io feci scivolare la lingua contro la sua. Le sue mani si
aggrapparono ancora più forte alla mia vita. Quando mi tirai indietro, lei
sussurrò: «Bacio quattrocentotrentadue. Alla spiaggia con il mio Rune... E
il mio cuore è quasi scoppiato».
Avevo il respiro pesante, mentre cercavo di ricompormi. Le guance di
Poppy erano arrossate e stava respirando affannosamente proprio come me.
Restammo così, a respirare semplicemente, fino a che Poppy non si spinse
via dal portabagagli e mi diede un bacio sulla guancia.
Voltandosi, sollevò lo zaino e se lo mise sulla spalla. Andai per
prenderglielo, ma lei si oppose. «Non sono ancora così debole, tesoro.
Posso ancora portare un po’ del peso».
Le sue parole contenevano un doppio significato. Sapevo che non stava
semplicemente parlando dello zaino, ma del mio cuore.
Delle tenebre che erano dentro di me, che lei senza sosta cercava di
combattere.
Poppy si spostò, consentendomi di prendere tutto il resto delle cose. La
seguii fino a un posto isolato alla fine della spiaggia, accanto al molo.
Quando ci fermammo, individuai il palo dove l’avevo baciata tutti
quegli anni prima. Una strana sensazione mi si allargò nel petto, e seppi che
prima di tornare a casa, l’avrei baciata lì di nuovo. L’avrei baciata da
diciassettenne.
Un altro bacio per il vasetto.
«Qui va bene?» Chiese Poppy.
«Ja» replicai, poggiando le cose sulla sabbia. Vedendo l’ombrellone, e
preoccupandomi che Poppy non avrebbe dovuto prendere troppo sole, lo
piantai velocemente nella sabbia e lo aprii per darle un po’ d’ombra.
Appena l’ombrellone fu dispiegato, e la coperta distesa sulla sabbia, feci
segno col mento a Poppy di spostarsi lì sotto. E lei lo fece, baciandomi
velocemente la mano mentre passava.
E il mio cuore non sospirò. Volò.
I miei occhi furono catturati dal quieto movimento dell’oceano. Poppy si
sedette e, con gli occhi chiusi, inalò profondamente.
Vedere Poppy che abbracciava la natura era come vedere una preghiera
esaudita. La gioia nella sua espressione sembrava senza limiti, la pace del
suo spirito induceva umiltà.
Mi abbassai anch’io sulla sabbia. Mi sedetti chinato in avanti, le braccia
avvolte intorno alle ginocchia piegate. Guardai il mare. Guardai le barche in
lontananza, chiedendomi dove stessero andando.
«Che avventura pensi stiano vivendo?» Chiese Poppy, leggendomi nel
pensiero.
«Non lo so» replicai sinceramente.
Poppy roteò gli occhi. «Penso che si stiano lasciando tutto alle spalle.
Penso che si siano svegliati un giorno e abbiano capito che c’era di più nella
vita. Penso che abbiano deciso, una coppia di innamorati, un ragazzo e una
ragazza, di voler esplorare il mondo. Hanno venduto tutto quello che
avevano e hanno comprato una barca». Sorrise e abbassò il mento,
reggendolo tra le mani, con i gomiti poggiati sulle ginocchia piegate. «A lei
piace suonare, e lui ama catturare momenti sulla pellicola».
Scossi la testa e la guardai con la coda dell’occhio.
Sembrò non farci caso. «E il mondo è bello. Viaggeranno in posti
lontani, creeranno musica, arte e immagini. E lungo la strada, si baceranno.
Si baceranno, si ameranno, saranno felici» aggiunse, invece.
Sbatté le palpebre e una dolce brezza soffiò sul nostro posto all’ombra.
Quando mi guardò di nuovo, mi chiese: «Non ti sembra che sia la più
perfetta delle avventure?»
Annuii. Non riuscivo a parlare.
Poppy guardò i miei piedi e, scuotendo la testa, scivolò sulla coperta
fino all’estremità delle mie gambe. Con aria interrogativa, sollevai un
sopracciglio.
«Hai ancora gli stivali, Rune! È un meraviglioso giorno di sole e tu hai
gli stivali». Poppy allora si mise ad aprire la cerniera e a sfilarmi gli stivali,
uno dopo l’altro. Mi arrotolò i jeans fino alle caviglie e fece di sì con la
testa. «Ecco» affermò orgogliosa. «Questo è un piccolo miglioramento».
Mi fu impossibile non trovare divertente che se ne stesse seduta lì, così
compiaciuta, e allora mi allungai in avanti e la tirai verso di me,
stendendomi così che lei si trovasse sopra di me.
«Ecco» ripetei. «Questo è un piccolo miglioramento».
Poppy ridacchiò, e mi regalò un bacio al volo. «E adesso?»
«Un grande miglioramento» scherzai, ironicamente. «Un miglioramento
enorme, grande quanto un asteroide».
Poppy rise più forte. La feci rotolare sul fianco per metterla accanto a
me. Il suo braccio rimase sulla mia vita, e io feci correre le dita lungo la
pelle morbida e nuda.
Guardai in silenzio il cielo. Anche Poppy era silenziosa, fino a che non
parlò all’improvviso. «Non era passato molto tempo da quando eri partito
che iniziai a sentirmi stanca, così stanca che non riuscivo ad alzarmi dal
letto».
Mi irrigidii. Alla fine, me lo stava dicendo. Mi stava raccontando quello
che era successo. Mi stava raccontando tutto.
«Mia madre mi portò dal dottore e mi fecero alcune analisi». Scosse la
testa. «A essere onesta, tutti quanti pensavano che mi stessi comportando in
quella maniera diversa perché tu eri partito». Chiusi gli occhi e presi un
respiro. «Anche io» aggiunse, stringendomi più forte. «Per i primi giorni,
cercavo di fingere con me stessa che tu fossi solo andato in vacanza. Ma
quando iniziarono a passare le settimane, il vuoto che avevi lasciato dentro
di me iniziò a fare troppo male. Il mio cuore era completamente spezzato.
In più, mi facevano male i muscoli. Dormivo troppo, ero incapace di trovare
un po’ di energia».
Poppy si fece silenziosa. Poi riprese. «Andò a finire che dovemmo
andare ad Atlanta per altre analisi. Siamo stati da zia DeeDee, mentre
cercavano di capire cosa non andasse».
Poppy sollevò la testa e, con una mano posata sulla mia guancia, mi
guidò per incontrare i suoi occhi. «Non te l’ho mai detto, Rune. Ho
continuato a fingere che stessi bene. Perché non potevo sopportare di farti
ancora più male. Mi accorgevo che tu non stavi per niente bene. Ogni volta
che chattavamo in video, vedevo che stavi diventando sempre più
arrabbiato, arrabbiato per essere tornato a Oslo. Le cose che dicevi
semplicemente non erano da te».
«Quindi, quella visita a tua zia DeeDee» la interruppi, «era perché eri
malata. Non era una semplice visita come mi avevi detto?»
Poppy annuì e vidi la colpa nei suoi occhi verdi. «Ti conoscevo, Rune. E
vedevo che stavi scivolando. Hai sempre avuto un atteggiamento astioso.
Sei sempre stato cupo, di natura. Ma quando eri con me, non lo eri. Potevo
solo immaginare cosa ti avrebbe fatto scoprire che ero malata».
La testa di Poppy ricadde dolcemente per riposare sul mio petto. «Dopo
non molto ricevetti la mia diagnosi: linfoma di Hodgkin avanzato.
Sconvolse la mia famiglia. All’inizio la cosa sconvolse anche me. Come
poteva non essere così?» La tenni più stretta, ma Poppy si spostò piano
indietro. «Rune, so che non ho mai visto il mondo come tutti gli altri. Ho
sempre vissuto pienamente ogni giorno. So di aver sempre colto aspetti del
mondo che nessun altro vedeva. Penso che, in qualche modo, era perché
sapevo che non avrei avuto il tempo di sperimentare come tutti gli altri.
Credo che, in fondo in fondo, il mio spirito lo sapesse. Perché quando il
dottore ci disse che mi sarebbero restati solo un paio di anni, anche con le
medicine e i trattamenti, stavo bene».
Gli occhi di Poppy erano lucidi di lacrime. Anche i miei.
«Restammo tutti ad Atlanta; vivevamo con zia DeeDee. Ida e Savannah
si iscrissero a delle nuove scuole. Papà viaggiava per andare al lavoro. Io
prendevo lezioni private a casa, o avevo un tutor in ospedale. Mia madre e
mio padre pregavano per un miracolo. Ma io sapevo che non ci sarebbe
stato. Stavo bene. Tenevo la testa alta. La chemio era dura. Perdere i capelli
è stato brutto». Poppy batté le palpebre, per schiarirsi la vista, poi mi
confidò: «Ma tagliare fuori te mi ha quasi uccisa. È stata una mia scelta. La
colpa rimane la mia. Io volevo solo salvarti, Rune. Salvarti dal vedermi in
quelle condizioni. Vedevo cosa stava succedendo ai miei genitori e alle mie
sorelle. Ma tu… Io ti potevo proteggere. Potevo darti quello che non aveva
avuto la mia famiglia. Vita. Libertà. La possibilità di andare avanti senza
dolore».
«Non ha funzionato» riuscii a dire.
Poppy abbassò lo sguardo. «Adesso lo so. Ma credimi, Rune. Ho
pensato a te ogni singolo giorno. Ti immaginavo, pregavo per te. Speravo
che le tenebre che avevo visto sbocciare dentro di te si sarebbero dissipate
con la mia assenza».
Poppy poggiò il mento sul mio petto ancora una volta. «Dimmi, Rune.
Dimmi che ti è successo».
Mi si serrò la mandibola, non volevo provare quello che avevo provato
allora. Ma non avrei mai potuto dire no alla mia ragazza. Era impossibile.
«Ero arrabbiato» dissi, spostandole i capelli dal suo bel viso. «Nessuno
sapeva dirmi dove eri andata. Perché avevi interrotto i contatti con me. I
miei genitori non la smettevano di starmi addosso. Mio padre mi rompeva
le scatole ventiquattr’ore al giorno. Davo a lui la colpa di tutto. Anche
adesso».
Poppy aprì la bocca per parlare, ma scossi la testa. «No» ringhiai. «Non
farlo».
Poppy chiuse la bocca e io chiusi gli occhi, e mi sforzai di continuare.
«Andavo a scuola, ma non ci volle molto per finire insieme a gente
incavolata con il mondo come me. Non ci volle molto perché iniziassi ad
andare alle feste. A bere, a fumare, a fare il contrario di qualsiasi cosa mi
dicesse mio padre».
«Rune» esclamò Poppy con tristezza. Non disse nient’altro.
«Quella diventò la mia vita. Gettai via la mia macchina fotografica. Poi
impacchettai tutto quello che mi ricordava te». Mi sfuggì una risata amara.
«Peccato che non potessi strapparmi il cuore e impacchettare anche quello.
Perché quel maledetto non lasciava che ti dimenticassi, non importava
quanto ci provassi. E poi siamo ritornati. Di nuovo qui. E ti ho vista nel
corridoio e tutta quella rabbia che ancora mi pompava nelle vene si è
trasformata in un’ondata di maremoto».
Mi girai sul fianco, aprii gli occhi e feci scorrere la mia mano lungo il
viso di Poppy. «Perché eri così bella. Qualsiasi immagine che avevo in
mente di come eri diventata a diciassette anni fu spazzata via in un attimo.
Nel momento in cui ho visto questi capelli castani, questi grandi occhi verdi
fissi nei miei, sapevo che qualsiasi sforzo avessi fatto negli ultimi due anni
per scacciarti via era stato annientato. Da un solo sguardo. Annientato».
Deglutii. «Poi quando mi hai detto della…» Mi morì la voce, e Poppy
scosse la testa.
«No» disse. «Basta adesso. Hai detto abbastanza».
«E tu?» Chiesi. «Perché sei ritornata?»
«Perché era finita» disse, con un sospiro. «Non stava funzionando
niente. Ogni nuova cura non faceva la minima differenza. L’oncologo ce lo
disse senza mezzi termini: niente avrebbe funzionato. Era tutto quello di cui
avevo bisogno per prendere una decisione. Volevo andare a casa. Volevo
vivere i giorni che mi rimanevano a casa, con una cura palliativa e con
coloro che amavo di più».
Poppy scivolò più vicina, baciandomi la guancia, la testa, e infine la
bocca. «E adesso io ho te. Come era destino, adesso lo so. È qui che
dovevamo essere in questo preciso momento della vita, a casa».
Sentii una lacrima errante sfuggirmi da un occhio. Poppy prontamente la
asciugò con il pollice. Si chinò sopra di me, contro il mio petto. «Sono
arrivata a capire che la morte, per i malati, non è così difficile da
sopportare. Per noi, alla fine, il dolore sparisce, andiamo in un posto
migliore. Ma per quelli che restano, il loro dolore potrà solo crescere» disse.
Poppy prese la mia mano e se la posò sulla guancia. «Credo davvero che
la storia di una perdita non sempre deve essere triste o penosa. Voglio che la
mia sia ricordata come una grande avventura che ho cercato di vivere al
meglio possibile. Come osiamo sprecare un solo fiato? Come osiamo
sprecare qualcosa di così prezioso? Dovremmo, invece, combattere perché
tutti quei preziosi respiri siano presi in altrettanti preziosi momenti,
collezionarne quanti più ne riusciamo nel breve tempo che abbiamo sulla
terra. Questo è il messaggio che voglio lasciare. E che bella eredità che è,
da lasciare a quelli che amo».
Se, come Poppy credeva, il battito del cuore era una canzone, allora
proprio adesso, in questo momento, il mio cuore avrebbe cantato
d’orgoglio… Per la completa ammirazione che avevo per la ragazza che
amavo, per il modo in cui vedeva la vita, per il modo in cui cercava di
farmelo credere, farmi credere che ci poteva essere una vita oltre lei.
Ero certo che non fosse questo il caso, ma vedevo che Poppy era
determinata. Quella determinazione non aveva mai fallito.
«Quindi ora lo sai» dichiarò Poppy e adagiò la testa sul mio petto.
«Adesso, non ne parliamo più. Abbiamo il nostro futuro da esplorare.
Non saremo schiavi del passato». Chiusi gli occhi, e lei mi implorò. «Me lo
prometti, Rune?»
Ritrovando la voce, sussurrai: «Lo prometto».
Ricacciai indietro le emozioni che mi stavano dilaniando dentro. Non le
avrei mostrato alcun segno che ero triste. Da oggi in poi avrebbe visto solo
la felicità in me.
Il respiro di Poppy ritornò regolare mentre le accarezzavo i capelli. La
calda brezza soffiava su di noi, portandosi via la pesantezza che ci aveva
avvolti.
Mi lasciai scivolare nel sonno, pensando che anche Poppy si fosse
addormentata, quando mormorò: «Come pensi che sarà il paradiso, Rune?»
Mi irrigidii, ma le mani di Poppy iniziarono a tracciarmi dei cerchi sul
petto, liberando il mio corpo dalla pesantezza che la sua domanda aveva
riportato indietro.
«Non lo so» dissi. Poppy non mi offrì alcun appiglio, semplicemente
rimase esattamente dov’era. Spostandomi leggermente per poterla stringere
di più tra le mie braccia, continuai. «Un bel posto. Un posto pieno di pace.
Dove un giorno ti rivedrò».
Sentii che Poppy sorrideva contro la mia maglietta. «Anche io»
concordò a bassa voce e si girò per baciarmi il petto.
Questa volta ero sicuro che Poppy dormisse. Guardai lungo la spiaggia e
vidi una vecchia coppia sedersi vicino a noi. Le loro mani erano intrecciate
con forza.
Prima che la donna si potesse sedere, l’uomo distese una coperta sulla
sabbia. Le baciò la guancia poi l’aiutò a mettersi giù.
Una fitta di gelosia mi attraversò. Perché noi non avremmo mai avuto
tutto questo.
Poppy ed io non saremmo mai diventati vecchi insieme. Non avremmo
mai avuto figli. Non avremmo mai avuto un matrimonio. Niente. Ma
guardando i folti capelli di Poppy e le sue mani delicate aperte sul mio
petto, mi concessi di essere grato perché almeno l’avevo adesso. Non
sapevo cosa ci aspettasse. Ma io avevo lei adesso.
Avevo lei da quando avevo cinque anni.
Realizzai ora perché l’avevo amata così tanto si da quando eravamo così
giovani, perché così avrei avuto questo tempo con lei. Poppy credeva che il
suo spirito avesse sempre saputo che sarebbe morta giovane. Iniziavo a
credere che anche il mio lo sapesse.
Passò oltre un’ora. Poppy stava ancora dormendo, la sollevai
delicatamente dal mio petto e mi sedetti. Il sole si era spostato; le onde
lambivano la spiaggia.
Avevo sete, così aprii il cestino da picnic e tirai fuori una delle bottiglie
d’acqua che Poppy aveva portato. Mentre bevevo, il mio sguardo si
soffermò sullo zaino che Poppy aveva preso dal portabagagli.
Chiedendomi cosa ci fosse dentro, me lo avvicinai e aprii delicatamente
la cerniera. All’inizio, vidi solo un’altra borsa nera. Questa borsa era
imbottita. La tirai fuori e il mio cuore iniziò di colpo a galoppare quando mi
resi conto di che contenesse.
Sospirai e chiusi gli occhi.
Abbassai la borsa sulla coperta e mi strofinai le mani sulla faccia.
Quando sollevai la testa, aprii gli occhi e guardai l’acqua con aria
assente. Vedevo le barche in lontananza, le parole di Poppy mi ritornarono
in mente…
Penso che si stiano lasciando tutto alle spalle. Penso che si siano
svegliati un giorno e abbiano capito che c’era di più nella vita. Penso che
abbiano deciso, una coppia di innamorati, un ragazzo e una ragazza, di
voler esplorare il mondo. Hanno venduto tutto quello che avevano e hanno
comprato una barca… A lei piace suonare, e lui ama catturare momenti
sulla pellicola …
I miei occhi si spostarono dalla custodia della macchina fotografica che
conoscevo così bene. Compresi da dove aveva preso la sua teoria sulle
barche.
A lui piace catturare momenti sulla pellicola…
Provai a essere arrabbiato con lei. Avevo rinunciato a fare foto due anni
addietro, quello non ero più io. Non era più il mio sogno. La NYU non
faceva parte dei miei piani. Non volevo riprendere in mano la macchina
fotografica. Ma le mie dita incominciarono a contrarsi e, nonostante fossi
arrabbiato con me stesso, sollevai il coperchio della custodia e guardai
all’interno.
La vecchia Canon vintage nera cromata, che avevo custodito
gelosamente un tempo, mi stava guardando. Mi sentii sbiancare, il sangue
mi affluiva veloce verso il cuore, che martellava contro le mie costole.
Avevo gettato via questa macchina. L’avevo abbandonata insieme a tutto
quello che significava.
Non avevo idea di come diavolo Poppy ne fosse venuta in possesso. Mi
chiedevo se ne avesse trovata una uguale e comprata. La sollevai dalla
borsa e la girai. Lì, intagliato sul retro, c’era il mio nome. L’avevo inciso il
giorno del mio tredicesimo compleanno, quando mia madre e mio padre mi
avevano regalato questa macchina.
Era esattamente quella.
Poppy aveva trovato la mia macchina.
Girandola, vidi che all’interno c’era un rullino intero. Nella borsa
c’erano gli obiettivi. Quelli che conoscevo così bene. Nonostante fossero
passati anni, sapevo ancora istintivamente quale funzionasse meglio per
qualsiasi scatto - panorami, ritratti, notturni, luce del giorno, luce naturale,
interni…
Sentendo un leggero fruscio dietro di me, gettai uno sguardo oltre la mia
spalla. Poppy era seduta e mi stava guardando. I suoi occhi caddero sulla
macchina fotografica. Si fece avanti piano, nervosamente. «Ho chiesto a tuo
padre della macchina, dove fosse finita. Mi ha detto che l’avevi gettata via».
La testa di Poppy si inclinò da un lato. «Non l’hai mai saputo, e lui non te
l’ha mai detto, ma l’ha trovata. Aveva visto che l’avevi buttata via. Ne avevi
rotto alcune parti. Gli obiettivi erano spaccati, e anche altro». La mia
mascella era così serrata che mi faceva male.
Il dito di Poppy tracciò il dorso della mia mano, poggiata sulla coperta.
«L’ha riparata senza fartelo sapere. L’ha conservata negli ultimi due anni.
L’ha conservata nella speranza che avresti ritrovato la tua strada verso la
fotografia. Sapeva quanto l’amassi. Si dà la colpa del fatto che hai lasciato
la fotografia».
Il mio istinto fu di aprire la bocca e sibilare che era colpa sua.
Tutto lo era. Ma non lo feci.
Per una qualche ragione la fitta che sentivo allo stomaco mi fece tenere
la bocca chiusa.
Gli occhi di Poppy si fecero lucidi. «Avresti dovuto vederlo ieri sera,
quando gliel’ho chiesta. Era così emozionato, Rune. Persino tua madre non
sapeva che l’avesse conservata. Aveva anche dei rullini pronti. Nel caso tu
l’avessi mai voluta indietro».
Distolsi lo sguardo da quello di Poppy, e ritornai a concentrarmi sulla
macchina fotografica invece. Non sapevo cosa provare per tutto quello.
Provai con la rabbia. Ma con mia sorpresa, la rabbia si rifiutava di arrivare.
Per qualche ragione non riuscivo a liberarmi la mente dall’immagine di mio
padre che puliva la macchina fotografica e la aggiustava da solo.
«Ti ha anche preparato la camera oscura, è pronta ad aspettarti a casa
tua». Chiusi gli occhi quando Poppy aggiunse l’ultima parte.
Rimasi in silenzio. La mia risposta fu il totale silenzio. La mia testa era
piena di troppi pensieri, troppe immagini. E mi sentivo combattuto. Avevo
giurato di non scattare mai più foto.
Ma giurare era una cosa. Tenere in mano l’oggetto della mia dipendenza
comprometteva tutto quello che avevo giurato di combattere. Contro cui
avevo giurato di ribellarmi. Che avevo giurato di gettare via, proprio come
mio padre aveva gettato via i miei sentimenti quando aveva deciso di
ritornare a Oslo.
La voragine di furia nel mio stomaco iniziò ad allargarsi. Questa era la
rabbia che mi aspettavo. Questo era il divampare del fuoco che avevo
previsto.
Inalai a fondo, preparandomi al buio che stava per sopraffarmi, quando
improvvisamente Poppy saltò in piedi. «Vado in acqua» annunciò e passò
davanti a me senza dire altro.
La guardai allontanarsi. La guardai appoggiare i piedi nella sabbia
morbida, la brezza che sollevava i suoi capelli corti. Rimasi immobile,
incantato, mentre lei saltellava sul ciglio dell’acqua, lasciando che le onde
che si infrangevano lambissero i suoi piedi. Si alzò il vestito più su sulle
gambe per evitare gli schizzi.
Gettò la testa all’indietro per sentire il sole sul viso. Poi guardò indietro,
dove ero seduto io. Guardò indietro e rise. Libera, senza freni, come se non
avesse alcun pensiero al mondo.
Ero pietrificato, ancora di più quando un raggio di sole, riflesso dal
mare, inondò di una lucentezza dorata il lato del suo viso, i suoi occhi verdi
erano come smeraldi in questa nuova luce. Restai senza fiato, a dire il vero
dovevo combattere per respirare per quanto incredibilmente bella apparisse.
Prima di poterci anche solo pensare, mi trovai in mano la macchina
fotografica. Ne sentii il peso tra le mie mani, e chiudendo gli occhi, lasciai
che quel bisogno avesse la meglio. Aprii gli occhi, sollevai la macchina.
Scoperchiai l’obiettivo, e trovai l’inquadratura assolutamente perfetta della
mia ragazza che ballava tra le onde.
E premetti il bottone.
Premetti il bottone della macchina fotografica, il mio cuore che
sobbalzava a ogni scatto dell’otturatore, di certo nella consapevolezza che
stavo catturando Poppy in questo momento... Felice.
L’adrenalina risalì dentro di me al pensiero di come sarebbero state
queste foto sviluppate. Questo era il motivo per cui usavo una macchina
vintage. L’attesa nella camera oscura, la successiva gratificazione di vedere
la meraviglia che hai catturato. L’abilità necessaria per usare la macchina e
ottenere il risultato di uno scatto perfetto.
Una frazione di secondo di serenità. Un momento di magia.
Poppy, in modo tutto suo, correva lungo la spiaggia, le guance che si
tingevano di rosa per il calore del sole. Sollevando le braccia in aria, lasciò
cadere l’orlo del vestito, che si bagnò per gli schizzi dell’acqua.
Poi si girò a guardarmi.
Quando lo fece, rimase perfettamente immobile, come il cuore nel mio
petto. Il mio dito attese, posato sul bottone, in attesa dello scatto giusto. E
poi arrivò. Arrivò quando un’espressione di pura beatitudine si allargò sul
suo viso. Arrivò quando i suoi occhi si chiusero e la testa sin inclinò
all’indietro, come se fosse un sollievo, come se fosse posseduta da una
felicità incondizionata.
Abbassai la macchina. Poppy mi tese la mano. Esaltato dal brivido della
passione che era rinata dentro di me, saltai in piedi e camminai sulla sabbia.
Quando presi la mano di Poppy, lei mi tirò più vicino e mi stampò un
bacio sulle labbra. Mi lasciai guidare da lei. Le lasciai dimostrarmi quanto
questo contasse per lei. Questo momento. E lasciai che anch’io lo sentissi.
Mi concessi, per questo breve momento, di mettere da parte la cupezza che
mi portavo sempre come uno scudo. Mi concessi di perdermi in quel bacio,
sollevando in alto la macchina fotografica. Pur con gli occhi chiusi e senza
prendere la mira, ero convinto di aver scattato la più bella foto della
giornata.
Poppy si tirò indietro e silenziosamente mi guidò di nuovo alla coperta,
per sederci, e adagiò la testa sulla mia spalla. Sollevai il braccio sulle sue
spalle calde e baciate dal sole e me l’avvicinai al fianco. Poppy guardò in su
mentre pigramente le baciavo la testa. Quando incontrai i suoi occhi,
sospirai, sospirai e premetti la mia fronte contro la sua.
«Non c’è di che» sussurrò, mentre voltava lo sguardo per guardare il
mare.
Era da tanto che non mi sentivo così. Non avevo sentito questa pace
dentro da quando ci eravamo separati ed ero grato a Poppy. Più che grato.
Improvvisamente un timido sussulto meravigliato sfuggì dalla bocca di
Poppy. «Guarda, Rune» sussurrò, indicando qualcosa in lontananza. Mi
chiedevo cosa volesse farmi vedere quando proseguì. «Le nostre orme sulla
sabbia». Sollevò la testa e mi rivolse un sorriso raggiante. «Due paia.
Quattro orme. Proprio come la poesia».
Aggrottai le sopracciglia, confuso. La mano di Poppy era posata sul mio
ginocchio piegato. Con la testa ripiegata nella protezione del mio abbraccio,
mi spiegò. «È la mia poesia preferita, Rune. Era anche quella preferita da
mia nonna».
«Cosa dice?» Chiesi, sorridendo appena per la piccola dimensione delle
orme di Poppy accanto alle mie.
«È bella. Ed è spirituale, quindi non sono sicura di quello che ne
penserai». Poppy mi lanciò uno sguardo scherzoso.
«Dimmela lo stesso» la incitai, solo per sentire la sua voce. Solo per
sentire la riverenza nel suo tono quando condivideva qualcosa che adorava.
«Si tratta più di una storia, in realtà. Di qualcuno che fa un sogno. Nel
sogno lui è su una spiaggia proprio come questa. Ma cammina accanto al
Signore».
Socchiusi gli occhi e Poppy roteò i suoi. «Ti ho detto che era spirituale!»
Esclamò ridendo.
«Sì, l’hai detto» replicai, e le diedi un colpetto sulla testa col mento.
«Continua».
Poppy sospirò, con il dito tracciava pigramente disegni sulla sabbia. Il
mio cuore quasi si spaccò quando vidi che era un altro simbolo dell’infinito.
«Mentre camminavano sulla spiaggia, nel cielo scuro veniva raffigurata
la vita di quella persona perché loro la vedessero. Mentre ogni scena veniva
proiettata, come una pellicola cinematografica, la persona notava che due
paia di orme si formavano sulla sabbia dietro di loro. E mentre
proseguivano, ogni nuova scena portava con sé una scia delle loro
impronte».
L’attenzione di Poppy era concentrata sulle nostre orme. «Quando tutte
le scene gli furono state mostrate, quella persona guardò indietro alla scia di
orme e notò qualcosa di strano. Notò che durante i momenti più tristi, o più
disperati della sua vita, c’era una sola coppia di orme. Nei periodi più felici
ce n’erano sempre due».
Mi accigliai, chiedendomi dove avrebbe portato quella storia. Poppy
sollevò il mento e sbatté le palpebre nella luce abbagliante del sole. Con gli
occhi pieni di lacrime, mi guardò e continuò. «La persona rimase molto
sconvolta da questo fatto. Il Signore gli spiegò che, quando qualcuno dedica
la sua vita a Lui, Lui gli cammina accanto durante tutti gli alti e bassi della
vita. La persona chiese quindi al Signore: “Perché, allora, nei momenti
peggiori della vita, mi hai abbandonato? Perché te ne sei andato?”»
Sul volto di Poppy apparve un’espressione di profondo conforto. «E
allora?» Incalzai. «Cosa rispose il Signore?»
Una sola lacrima cadde dai suoi occhi. «Rispose che Lui aveva
camminato con lui durante tutta la sua vita. Ma, spiegò, nei momenti in cui
c’era solo una coppia di orme non erano quelli in cui Lui lo aveva lasciato
solo, ma quelli in cui Lui lo aveva portato in braccio».
Poppy tirò sul col naso e proseguì. «Non mi importa se non sei religioso,
Rune. La poesia non è solo per i credenti. Noi tutti abbiamo delle persone
che ci sollevano nei momenti più brutti, in quelli più tristi, i momenti da cui
sembra impossibile venire fuori. In un modo o nell’altro, se è grazie al
Signore o a una persona che amiamo, o a entrambi, quando sentiamo che
non riusciamo più a camminare, qualcuno interviene ad aiutarci… Ci
solleva e ci porta in braccio».
Poppy abbandonò la testa sul mio petto, avvolgendosi nelle mie braccia
che l’attendevano.
I miei occhi si persero in una nebbia sfocata mentre fissavo le nostre
impronte impresse nella sabbia. In quel momento, non ero sicuro di chi
stesse aiutando chi. Perché nonostante Poppy insisteva che fossi io che
stavo aiutando lei nei suoi ultimi mesi di vita, io iniziavo a credere che
fosse lei che, in qualche modo, mi stava salvando.
Un solo paio di orme sulla mia anima.
Poppy si spostò per guardarmi, le guance bagnate di lacrime. Lacrime di
felicità. Lacrime di commozione… Le lacrime di Poppy. «Non è bello,
Rune? Non è la cosa più bella che tu abbia mai sentito?»
Annuii semplicemente. Questo non era il momento per le parole. Non
potevo competere con quelle che aveva appena recitato, quindi perché
anche solo provarci?
Lasciai vagare lo sguardo sulla spiaggia. E mi domandai… Mi domandai
se qualcun altro avesse appena ascoltato qualcosa di così commovente da
scuoterlo fino all’anima. Mi domandai se la persona che amava più di
chiunque altro sul pianeta si fosse aperta a lui così puramente, con
un’emozione così reale.
«Rune?» Chiamò piano Poppy, accanto a me.
«Sì, piccola?» Replicai dolcemente. Voltò il suo bel viso verso di me e
mi rivolse un debole sorriso. «Stai bene?» Chiesi, passando la mano sul suo
viso.
«Mi sento stanca» ammise, malvolentieri. Il mio cuore andò in pezzi.
Nell’ultima settimana, avevo iniziato a notare la stanchezza che
gradualmente si insinuava sul suo viso quando faceva troppo.
E ancora peggio, vedevo quanto odiasse questa cosa. Perché le impediva
di godere di tutte le avventure della vita.
«Non c’è niente di male a essere stanchi, Poppymin. Non è una
debolezza».
Gli occhi di Poppy si abbassarono in segno di sconfitta. «Lo odio. Ho
sempre pensato che dormire fosse una perdita di tempo».
Risi per il broncio adorabile che le si era formato sulle labbra. Poppy mi
guardava, in attesa che parlassi. Tornai serio. «Per come la vedo io, se
dormi quando ne hai bisogno, significa che possiamo fare più cose quando
sei in forze». Strofinai la punta del mio naso contro il suo. «Le nostre
avventure saranno molto più speciali. E lo sai che mi piace vederti dormire
tra le mie braccia. Ho sempre pensato che tu sia perfetta lì».
Poppy sospirò, e con un ultimo sguardo al mare, sussurrò: «Solo tu,
Rune Kristiansen. Solo tu puoi trovare una giustificazione così bella per la
cosa che odio di più».
Con un bacio alla sua guancia calda, mi alzai in piedi e raccolsi le nostre
cose. Quando tutto fu messo a posto, guardai il molo oltre le mie spalle, poi
guardai Poppy. Le tesi la mano. «Vieni, dormigliona. In onore dei vecchi
tempi?»
Poppy guardò il molo e si lasciò scappare una risatina incontenibile. La
sollevai da terra e camminammo piano, mano nella mano, sotto il pontile. Il
suono ipnotico delle dolci onde che si infrangevano contro le travi di
vecchio legno ci avvolgeva.
Senza perdere tempo, spinsi Poppy contro il palo di legno, presi tra le
mani le sue guance e congiunsi le nostre labbra.
Chiusi gli occhi mentre la pelle calda delle sue guance si riscaldava sotto
i miei palmi. Il mio petto si alzava e si abbassava pesantemente, senza fiato,
mentre ci baciavamo lentamente e profondamente, e la fresca brezza
soffiava nei capelli di Poppy.
Distaccandomi, strofinai le mie labbra, per assaporare il sapore del sole
e delle ciliegie che mi esplodeva nella bocca.
Gli occhi di Poppy si aprirono in un battito di ciglia. Vedendo quanto
apparisse stanca, sussurrai al suo posto: «Bacio quattrocentotrentatré. Con
Poppymin sotto il molo». Poppy sorrise timidamente, in attesa di quello che
sarebbe venuto dopo. «E il mio cuore è quasi scoppiato». Il piccolo bagliore
dei denti che comparve sotto il suo sorriso quasi me lo fece scoppiare,
rendendo il momento perfetto per aggiungere: «Perché la amo. La amo più
di quello che potrei mai spiegare. Il mio unico paio di orme nella sabbia».
I bellissimi occhi verdi di Poppy si sgranarono alla mia confessione. Si
fecero lucidi immediatamente, e traboccarono delle lacrime che scesero
lungo le sue guance. Cercai di asciugarle con le dita, il cuore che mi batteva
poderosamente nel petto. Ma Poppy mi afferrò la mano, strofinando
dolcemente la sua guancia nel mio palmo. Continuando a tenere lì la mia
mano, lei incontrò il mio sguardo e rispose in un sussurro. «Anche io ti
amo, Rune Kristiansen. Non ho mai, mai smesso». Si alzò sulle punte e mi
portò il viso in basso perché fosse direttamente davanti al suo. «La mia
anima gemella. Il mio cuore…»
La calma si posò su di me. Una tale quiete, mentre Poppy ricadeva tra le
mie braccia, il suo leggero respiro che trapassava la mia maglietta.
La abbracciai. La abbracciai stretta, accogliendo questa nuova
sensazione, finché Poppy non sbadigliò. Le sollevai la testa verso la mia.
«Andiamo a casa, bellissima» dissi.
Poppy annuì, e adagiandosi contro il mio fianco, lasciò che la
riaccompagnassi dove avevamo lasciato le nostre cose, e poi verso l’auto.
Infilai la mano nella tasca della sua borsa, presi le chiavi della macchina e
aprii lo sportello del passeggero.
Le posai entrambe le mani sulla vita e la sollevai sul sedile, sporgendomi
su di lei per allacciarle la cintura di sicurezza. Quando mi ritirai, posai un
leggero bacio sulla testa di Poppy e sentii il suo respiro incespicare al mio
tocco. Feci per raddrizzarmi, quando Poppy strinse la mia mano, e con
grossi lacrimoni sulle guance, sussurrò: «Mi dispiace, Rune. Mi dispiace».
«Per cosa, piccola?» Chiesi con la voce rotta per quanto lei sembrava
triste.
Le spinsi via dal viso i capelli «Per averti tenuto lontano» disse lei.
Sentii una voragine aprirsi nello stomaco. Gli occhi di Poppy cercarono
qualcosa nei miei, prima che il suo viso si deformasse per il dolore. Grosse
lacrime scendevano senza sosta sul suo viso pallido e il suo petto tremava,
mentre si sforzava di calmare il suo respiro all’improvviso irregolare.
«Ehi» dissi, posandole le mani sulle guance.
Poppy mi guardò. «Avrebbe potuto essere così tra noi se non fossi stata
stupida. Avremmo potuto trovare una soluzione per farti ritornare. Avresti
potuto stare con me tutto il tempo. Con me. Stringendomi… amandomi. Tu
ad amare me e io ad amare te così appassionatamente». La sua voce si
ruppe, ma riuscì a concludere. «Sono una ladra. Ho rubato il nostro tempo
prezioso, due anni di te e me, per niente».
Sentii il mio cuore letteralmente lacerarsi mentre Poppy piangeva,
aggrappandosi con forza al mio braccio come se fosse terrorizzata che
potessi andarmene via. Come poteva non aver capito ancora adesso che
nulla poteva strapparmi via da lei?
«Shh» la calmai dolcemente, spostando la testa per poggiarla alla sua.
«Respira, piccola» dissi piano. Posai la mano di Poppy sul mio cuore,
mentre lei allacciava il suo sguardo con il mio. «Respira» ripetei e sorrisi,
quando lei seguì il ritmo del mio cuore per calmarsi.
Le asciugai con le mani le guance bagnate, sentendomi sciogliere
quando lei tirò su con il naso, il suo petto che sobbalzava di tanto in tanto
per i singhiozzi a cui si era lasciata andare. Vedendo che avevo la sua
attenzione, le dissi: «Non accetterò le scuse, perché non c’è niente per cui
scusarsi. Mi hai detto che il passato non conta più. Che sono questi
momenti che sono importanti adesso». Tenni a bada le mie emozioni per
continuare: «La nostra avventura finale. Io che devo darti baci che fanno
scoppiare il cuore per completare il tuo vasetto. E tu… Tu semplicemente
devi essere te stessa. Amandomi. E io, amando te. All’infinito…» La voce
mi morì.
Fissai con intensità e pazienza gli occhi di Poppy, facendo un sorriso
enorme quando lei aggiunse: «Sempre e per sempre».
Chiusi gli occhi, sapendo che mi ero aperto una breccia attraverso il suo
dolore. Poi, quando aprii gli occhi, Poppy ridacchiò con voce roca.
«Eccola qui». Posai un bacio sulla sommità di ciascuna delle sue
guance.
«Eccomi qui» ripeté lei, «così completamente innamorata di te».
Poppy sollevò la testa e mi diede un bacio. Quando si appoggiò sul
sedile, gli occhi le si chiusero, appesantiti dal sonno. La guardai per un
secondo, prima di spostarmi per chiudere lo sportello. Proprio quando si
chiudeva, colsi il sussurro di Poppy. «Bacio quattrocentotrentaquattro, con
il mio Rune alla spiaggia… Quando il suo amore è ritornato a casa».
Vedevo dal finestrino che Poppy era già scivolata nel sonno. Le sue
guance erano rosse per il pianto, ma anche nel sonno, aveva le labbra
curvate all’insù, dando l’impressione che stesse sorridendo.
Non riuscivo a credere che potesse esistere qualcuno di così perfetto.
Girando intorno al cofano dell’auto, tirai fuori le sigarette dalla tasca di
dietro dei miei jeans e feci scattare l’accendino. Inalai il tiro di cui avevo
tanto bisogno. Chiusi gli occhi mentre la dose di nicotina mi calmava.
Quando aprii gli occhi, fissai il tramonto. Il sole stava scomparendo
all’orizzonte, lampi di arancio e rosa nella sua scia. La spiaggia era quasi
vuota a eccezione della vecchia coppia che avevo visto prima.
Solo che questa volta, quando li guardai, così innamorati dopo così tanti
anni, non mi concessi di provare dolore. Guardando indietro verso Poppy
che dormiva nella macchina, io sentii una… Felicità. Io. Mi sentii felice. Mi
concessi di sentirmi felice anche attraverso tutta quella sofferenza. Perché…
Eccomi qui, così completamente innamorata di te…
Mi amava.
Poppymin. La mia ragazza. Mi amava.
«È abbastanza» dissi al vento. «È abbastanza, per adesso».
Gettai la sigaretta per terra, scivolai in silenzio al posto del guidatore e
girai la chiave. Il motore iniziò a ruggire e lasciai la spiaggia, sicuro che ci
saremmo ritornati.
E se così non fosse stato, come diceva Poppy, avevamo avuto questo
momento. Avevamo questo ricordo. Lei aveva il suo bacio.
E io avevo il suo amore.

Quando arrivai nel vialetto era sceso il buio, e le stelle iniziavano a


svegliarsi. Poppy aveva dormito per tutta la strada fino a casa, il suo respiro
leggero e ritmico, un suono confortevole mentre guidavo per le strade buie.
Parcheggiando la macchina, uscii e mi diressi al suo lato. Aprii lo
sportello più piano che potevo, slacciai la cintura e sollevai Poppy tra le mie
braccia.
Sembrava che non pesasse nulla quando si accoccolò istintivamente
contro il mio petto, il suo respiro caldo che soffiava sul mio collo.
La portai alla sua porta e appena raggiunsi l’ultimo gradino, quella si
aprì. Il signor Litchfield era in piedi nell’ingresso.
Continuai ad avanzare e lui si spostò dal mio tragitto, per lasciarmi
portare Poppy nella sua camera da letto. Vidi la mamma e le sorelle di
Poppy sedute nel soggiorno che guardavano la TV.
Sua madre si alzò in piedi. «Sta bene?» Sussurrò.
Annuii. «È solo stanca».
La signora Litchfield si chinò e posò un bacio sulla fronte di Poppy.
«Dormi bene, tesoro» sussurrò. Il mio petto si strinse a quella vista, poi lei
mi fece segno di portare Poppy nella sua stanza.
La portai lungo il corridoio e fino alla sua stanza. Più delicatamente che
potevo, la adagiai sul suo letto, sorridendo quando vidi il suo braccio
istintivamente cercarmi dal lato del letto dove dormivo.
Quando il respiro di Poppy diventò nuovamente regolare, mi sedetti sul
lato del letto e le accarezzai il viso. Chinandomi su di lei, le baciai la
guancia morbida. «Ti amo, Poppymin. Sempre e per sempre» sussurrai.
Quando mi alzai dal letto, restai di sasso nello scorgere il signor
Litchfield, era sulla soglia della porta, a guardare… Ad ascoltare.
Serrai la mandibola mentre lui mi fissava. Inspirai attraverso il naso per
calmarmi, lo sorpassai in silenzio, percorsi il corridoio e andai di nuovo
all’auto per prendere la mia macchina fotografica.
Ritornai in casa per lasciare le chiavi della macchina sul tavolo
dell’ingresso. Quando entrai, il signor Litchfield arrivò dal soggiorno. Mi
fermai, oscillando in imbarazzo sui piedi fino a che lui non mi porse la
mano per prendere le chiavi.
Le lasciai cadere nel suo palmo e feci per girarmi e andare via, ma prima
che potessi farlo, lui mi chiese: «Avete passato una bella giornata voi due?»
Sentii le spalle tendersi. Sforzandomi di rispondere, incontrai i suoi
occhi e annuii. Feci un cenno di saluto alla signora Litchfield, Ida e
Savannah, e uscii dalla porta e giù per i gradini. Arrivato alla fine delle
scale, lo sentii dirmi: «Anche lei ti ama, sai».
La voce del signor Litchfield mi bloccò sui miei passi, e senza
guardarmi indietro, replicai: «Lo so».
Attraversai il prato verso casa mia. Andai dritto nella mia stanza e gettai
la macchina fotografica sul letto. Avevo intenzione di aspettare per le
prossime ore, prima di andare da Poppy. Ma quanto più guardavo la
custodia della macchina fotografica, tanto più volevo vedere come erano
venute le foto. Le foto di Poppy che danzava nel mare. Senza darmi la
possibilità di cambiare idea, afferrai la macchina e sgattaiolai giù, nella
camera oscura in cantina. Allungai una mano verso la porta, girai la
maniglia, accesi l’interruttore. Sospirai, una strana sensazione si stava
impossessando di me.
Perché Poppy aveva avuto ragione. Mio padre aveva preparato questa
stanza per me. La mia attrezzatura era esattamente dove si sarebbe trovata
due anni prima. Le corde e le mollette erano pronte e in attesa.
Nel processo di sviluppare le foto mi sentii come se non avessi mai
smesso. Gustai la familiarità di ogni passaggio. Non avevo dimenticato
nulla, come se fossi nato con la capacità di farlo. Come se mi fosse stato
dato questo dono. Poppy aveva riconosciuto che avevo bisogno di questo
nella mia vita, quando io ero stato troppo accecato dal passato per vederlo.
L’odore delle sostanze chimiche mi arrivò direttamente al naso. Passò
un’ora e alla fine feci un passo indietro, le immagini attaccate alle mollette
che stavano prendendo forma, di attimo in attimo, rivelando il momento
catturato sulla pellicola. La luce rossa non mi impedì di vedere le
meraviglie che avevo catturato. Mentre camminavo lungo le file di
immagini appese della vita in tutta la sua gloria, non potei trattenere
l’eccitazione che mi bruciava nel petto. Non potei trattenere il sorriso, per il
lavoro fatto, sulle mie labbra.
Poi mi fermai. Mi fermai all’immagine che mi aveva preso prigioniero.
Poppy, che reggeva l’orlo del suo vestito, e danzava nell’acqua bassa.
Poppy, con un sorriso spensierato e i capelli scompigliati dal vento, che
rideva di tutto cuore. I suoi occhi brillanti e la pelle arrossata mentre
guardava oltre la sua spalla, dritto verso di me. Il sole che le illuminava il
viso da un’angolazione così pura e bella che era come se fosse un faro
puntato sulla sua felicità, attratto dalla sua gioia magnetica.
Sollevai la mano, tenendola a un centimetro dalla foto, e tracciai col dito
il suo viso luminoso, le sue labbra morbide e le guance rosee. E lo sentii.
Sentii la passione travolgente per quest’arte scoppiare di nuovo dentro di
me. Questa foto. Quest’unica foto cementava quello che sapevo in segreto
da tanto tempo.
Ero destinato a fare questo nella mia vita.
Aveva senso che questa immagine avesse portato il suo messaggio a
casa, era della ragazza che era la mia casa.
Qualcuno bussò alla porta, e senza staccare gli occhi dalla foto, risposi:
«Ja?» La porta si aprì lentamente. Sapevo chi fosse prima ancora di
guardare. Mio padre entrò nella camera oscura, ma fece solo pochi passi. Lo
guardai, ma dovetti tornare a girarmi per l’espressione che aveva in volto,
mentre il suo sguardo assorbiva tutte le immagini che erano appese alle
mollette intorno alla stanza.
Non avevo intenzione di confrontarmi col significato di quella
sensazione che avevo nello stomaco. Non ancora.
Trascorsero dei minuti di silenzio, prima che mio padre parlasse con
voce debole. «È incredibilmente bella, figlio mio». Mi si chiuse il petto
quando vidi i suoi occhi posati sulla foto di fronte alla quale ero ancora in
piedi.
Non risposi. Mio padre restò in imbarazzo sulla soglia della porta, senza
dire altro. Alla fine, si mosse per andarsene. Mentre stava per chiudere la
porta, mi sforzai di parlare. «Grazie… Per la macchina fotografica» dissi in
tono secco.
Con la coda dell’occhio, vidi mio padre fermarsi. Lo sentii prendere un
lento respiro irregolare. «Non hai niente di cui ringraziarmi, figlio mio.
Niente di niente» replicò poi.
Così dicendo, mi lasciò nella camera oscura.
Rimasi lì più di quanto avevo previsto, riascoltando nella mente la
risposta di mio padre.
Tenendo due fotografie in mano, salii le scale della cantina per andare in
camera. Quando passai davanti alla porta aperta della stanza di Alton, lo
vidi seduto sul letto che guardava la TV.
Non mi aveva visto lì sulla soglia, e io proseguii verso la mia stanza. Ma
quando lo sentii ridere per quello che stava vedendo, i miei piedi si
inchiodarono al pavimento e io mi obbligai a girarmi.
Quando entrai nella sua stanza, Alton si girò verso di me, e con un gesto
che mi fece aprire una crepa nel petto, mi regalò il più grande dei sorrisi sul
suo visino tenero.
«Ehi, Rune» disse piano, sedendosi meglio sul letto.
«Ehi» replicai. Mi avvicinai al letto e indicai la TV. «Che stai
guardando?»
Alton guardò la TV, poi me. «Swamp Monsters». Piegò la testa di lato, e
poi si spinse via dalla faccia i lunghi capelli.
Mentre lo faceva, qualcosa mi si smosse nello stomaco.
«Lo vuoi guardare con me per un po’?» Chiese nervosamente Alton, poi
abbassò la testa.
Avevo capito che pensava che dicessi di no. Sorprendendo entrambi, lui
e me stesso, replicai: «Certo».
Gli occhi blu di Alton si spalancarono, tanto da sembrare due piattini.
Rimase rigido sul suo letto. Quando mi avvicinai di un passo, scivolò sul
lato dello stretto materasso.
Mi stesi accanto a lui, sollevando i piedi. Allora Alton si appoggiò
contro il mio fianco e continuò a guardare il suo programma. Lo guardai
insieme a lui, distogliendo lo sguardo solo quando lo colsi a fissarmi.
Quando incontrai i suoi occhi, si fece rosso. «Mi piace che lo guardi con
me, Rune» disse.
Prendendo un respiro per la sensazione poco familiare che le sue parole
mi avevano provocato, scompigliai i suoi lunghi capelli. «Anche a me, Alt.
Piace anche a me» risposi.
Alton si appoggiò di nuovo contro il mio fianco. Restò steso fino a che
non si addormentò, e il timer della sua TV scattò, facendo piombare la
stanza nel buio.
Alzandomi dal letto, passai davanti a mia madre, che dal corridoio era
stata a guardare in silenzio. Le feci un cenno col capo mentre entravo nella
mia stanza, per poi girarmi e chiudere la porta dietro di me. Feci scattare la
serratura, posai una delle foto sulla scrivania, e scavalcai la mia finestra per
correre da Poppy.
Quando entrai nella sua stanza, Poppy stava ancora dormendo. Mi tolsi
la maglietta e girai intorno al letto per andare dal lato in cui dormiva lei.
Misi la foto di noi due che ci baciavamo vicino all’acqua sul suo cuscino,
così che la vedesse non appena sveglia.
Saltai nel suo letto, e Poppy al buio mi trovò automaticamente,
poggiando la testa sul mio petto e cingendomi la vita col suo braccio.
Quattro orme sulla sabbia.
Poppy

Tre mesi dopo

«Dov’è la mia piccola Poppy?»


Mi strofinai via il sonno dagli occhi sedendomi sul letto, l’entusiasmo
che mi attraversava al suono di una voce che amavo.
«Zia DeeDee?» Mormorai tra me. Cercai di ascoltare meglio, per
accertarmi che avessi sentito davvero la sua voce. Dal corridoio arrivavano
voci indistinte, poi improvvisamente la mia porta si spalancò. Mi alzai sulle
braccia, e le maledette mi tremarono per aver sollecitato troppo i muscoli
indeboliti.
Mi ridistesi quando zia DeeDee apparve sulla soglia. Aveva i capelli
scuri tirati su in uno chignon e indossava la sua uniforme da hostess.
Il suo trucco era perfetto, così come lo era il suo sorriso contagioso.
I suoi occhi verdi si addolcirono quando si posarono su di me. «Eccola»
disse teneramente, avvicinandosi al letto. Si sedette sul bordo del materasso
e si inchinò per avvolgermi nelle sue braccia.
«Che ci fai qui, DeeDee?»
Mia zia mi lisciò i capelli tutti scompigliati dal sonno. «Ti tiro fuori da
questa prigione» mi sussurrò con fare cospiratorio.
Confusa, aggrottai le sopracciglia. Zia DeeDee aveva trascorso il Natale
e il Capodanno da noi, e poi un’intera settimana, appena due settimane
prima. Sapevo che aveva un’agenda fitta di impegni per il mese successivo.
Ecco perché ero così confusa che lei fosse tornata adesso.
«Non capisco» le dissi, facendo dondolare le gambe fuori dal materasso.
Negli ultimi giorni ero stata per lo più bloccata a letto. Dal check-up in
ospedale all’inizio della settimana, avevano scoperto che la conta dei miei
globuli bianchi era troppo bassa. Mi era stata fatta una trasfusione e
prescritte delle medicine per riprendermi. E un po’ mi avevano aiutato, ma
mi avevano reso stanca negli ultimi giorni. Mi avevano tenuta al chiuso per
tenere alla larga le infezioni. I miei dottori volevano che mi trattenessi in
ospedale, però mi ero rifiutata. Non avrei perso un secondo della mia vita
per ritornare in quel posto. Non adesso che mi rendevo conto che il cancro
stava stringendo la sua morsa su di me. Ogni secondo diventava sempre più
prezioso.
Casa mia era il mio luogo felice.
Avere Rune accanto a me, che mi baciava dolcemente, era la mia
salvezza. Era tutto ciò di cui avevo bisogno.
Guardando l’orologio, vidi che erano quasi le quattro di pomeriggio.
Rune sarebbe arrivato presto. Gli avevo detto di frequentare le lezioni in
questi ultimi giorni. Lui non voleva andarci se io non potevo. Ma questo era
il suo ultimo anno. Aveva bisogno dei voti per entrare al college. Anche se
lui protestava che ora non gli importava.
E andava bene così. Perché sarebbe importato a me per entrambi. Non
avrei lasciato che mettesse in pausa la sua vita per me.
Zia DeeDee saltò in piedi. «Okay, piccola Poppy, salta nella doccia.
Abbiamo un’ora prima di metterci in viaggio». Guardò i miei capelli. «Non
preoccuparti di lavare i capelli, c’è una ragazza che se ne potrà occupare
quando arriveremo».
Scossi la testa, in procinto di fare altre domande, ma mia zia scivolò
fuori dalla stanza. Mi alzai in piedi, stiracchiando i muscoli. Presi un
profondo respiro, chiusi gli occhi e sorrisi. Mi sentivo meglio rispetto agli
ultimi giorni. Mi sentivo un po’ più forte.
Abbastanza forte da uscire di casa.
Presi l’asciugamano, e mi sbrigai a fare la doccia. Misi un leggero strato
di trucco, legai i capelli non lavati in uno chignon laterale, con il mio fiocco
bianco saldamente al suo posto. Indossai un vestito verde militare,
infilandoci sopra un maglioncino bianco.
Stavo facendo scivolare alle orecchie i miei orecchini a forma di infinito
quando la porta della mia stanza si aprì all’improvviso. Colsi un brusio di
voci alterate, quella di mio padre soprattutto.
Voltando la testa, sorrisi quando entrò Rune e i suoi occhi blu
immediatamente si allacciarono ai miei. A cercare, a controllare, prima di
illuminarsi di sollievo.
Rune attraversò la stanza in silenzio, fermandosi solo dopo aver
intrecciato le braccia intorno alle mie spalle e avermi attirata al suo petto.
Lasciai che le braccia salissero intorno alla sua vita e respirai il suo fresco
profumo.
«Sembra che tu stia meglio» disse Rune, che svettava su di me.
Lo strinsi più forte. «Mi sento meglio».
Rune fece un passo indietro e mi posò le mani sul viso. Cercò i miei
occhi, prima che le sue labbra si curvassero in su e mi premesse sulla bocca
il più dolce e lieve dei baci. Quando ci staccammo, sospirò. «Sono
contento. Ero preoccupato che non saremmo potuti andare».
«Dove?» Chiesi, col cuore che cominciava a battermi più in fretta.
Questa volta fu Rune a sorridere, e portando la bocca al mio orecchio,
annunciò: «Verso un’altra avventura».
Il battito del mio cuore ora galoppava. «Un’altra avventura?»
Senza altre spiegazioni, Rune mi guidò fuori dalla stanza. La sua mano,
che racchiudeva così stretta la mia, era l’unico segno che tradiva quanto
fosse stato preoccupato negli ultimi giorni.
Ma io lo sapevo. Vedevo la paura nei suoi occhi ogni volta che mi
muovevo nel letto e lui mi chiedeva se stavo bene. Ogni volta che si sedeva
con me dopo la scuola, osservandomi, studiandomi… aspettando.
Aspettando di vedere se fosse la fine.
Era impietrito.
L’avanzare del cancro non mi faceva paura. Il dolore e il prossimo futuro
non mi facevano paura. Ma vedere Rune che mi guardava in quel modo,
così desolato, così disperato, aveva iniziato a farmi sentire spaventata. Lo
amavo così tanto, e riuscivo ad accorgermi che lui mi amava oltre ogni
misura. Ma questo amore, questa connessione che suggellava le nostre
anime, aveva iniziato ad ancorare il cuore che avevo lasciato libero dal
legame di questa vita.
Non avevo mai avuto paura della morte. La mia fede era salda; sapevo
che c’era un’altra vita dopo questa. Ma adesso la paura aveva iniziato a
insinuarsi nella mia coscienza. La paura di lasciare Rune. La paura della sua
assenza… la paura di non sentire le sue braccia intorno a me e i suoi baci
sulle mie labbra.
Rune si lanciò uno sguardo indietro come se avesse avvertito il mio
cuore che iniziava a strapparsi. Annuii. Non ero sicura di essere stata
convincente, intravedevo ancora la preoccupazione nella sua espressione.
«Lei non ci andrà!» La potente voce di mio padre attraversò tutto il
corridoio.
Rune mi tirò al suo fianco, sollevando il suo braccio fino a che non fui al
sicuro sotto il suo riparo. Quando arrivammo sulla soglia della porta, mia
madre, mio padre e zia DeeDee erano davanti al soggiorno.
La faccia di mio padre era rossa. Mia zia teneva le braccia incrociate sul
petto. Mia mamma accarezzava la schiena di mio padre, nel tentativo di
calmarlo. Mio padre sollevò la testa. Si sforzò di sorridere. «Poppy» disse e
si fece più vicino. Rune non mi lasciò andare. Quando mio padre lo notò,
gli lanciò un’occhiataccia che avrebbe potuto polverizzarlo sul posto.
Rune neanche batté ciglio.
«Che succede?» Chiesi, allungandomi a prendere la mano di mio padre.
Il mio tocco sembrò ridurlo senza parole. Guardai mia madre.
«Mamma?»
Mamma si avvicinò di un passo. «Era una cosa pianificata sin da quando
tua zia è stata qui qualche settimana fa». Guardai zia DeeDee, che sorrideva
maliziosa.
«Rune aveva organizzato di portarti fuori. Ha chiesto aiuto a tua zia per
organizzare tutto». La mamma sospirò. «Non ci saremmo mai aspettati che i
tuoi valori crollassero così presto». La mamma posò una mano sul braccio
di mio padre. «Tuo padre pensa che tu non debba andarci».
«Andare dove?» Chiesi.
«È una sorpresa» annunciò Rune di fianco a me.
Papà indietreggiò piano e incontrò i miei occhi. «Poppy, i tuoi globuli
bianchi sono calati. Significa che il rischio di infezioni è alto. Col tuo
sistema immunitario a rischio, non penso che dovresti viaggiare in aereo…»
«Aereo?» Interruppi.
Guardai in su verso Rune. «Aereo?» Ripetei.
Lui annuì seccamente una sola volta, ma non spiegò altro.
Mamma mi mise la sua mano sul braccio. «Ho chiesto al tuo medico e
ha detto…», si schiarì la gola, «ha detto che a questo punto della tua
malattia, se vuoi andare, allora devi andare». Sentii il sottinteso nelle sue
parole. Vai prima che sia troppo tardi per alcun viaggio.
«Voglio andarci» dissi con incrollabile sicurezza, aggrappandomi alla
vita di Rune. Volevo che lui sapesse che io lo desideravo. Alzai lo sguardo
su di lui, lui incontrò i miei occhi. «Sono con te» gli dissi, sorridendo.
Rune, cogliendomi di sorpresa, ma allo stesso tempo non
sorprendendomi affatto, mi baciò. Mi baciò con passione e in fretta, proprio
di fronte alla mia famiglia. Rune si staccò da me e andò verso mia zia.
Accanto a DeeDee c’era una valigia. Senza una parola, lui portò il bagaglio
alla macchina. Il mio cuore batteva seguendo il ritmo di uno staccato per
l’eccitazione.
Papà strinse forte la mia mano. Il suo tocco mi riportò indietro alla sua
preoccupazione, alla sua paura. «Poppy» mi richiamò severamente.
Prima che potesse aggiungere altro, mi sporsi e lo baciai sulla guancia.
Lo guardai negli occhi. «Papà, capisco i rischi. Li ho combattuti a lungo. So
che sei preoccupato. So che non vuoi che io soffra. Ma restare intrappolata
nella mia stanza come un uccello in gabbia ancora per un altro giorno… è
questo che mi farebbe soffrire. Non sono mai stata un tipo da starmene
rinchiusa. Lo desidero, papà. Ne ho bisogno». Scossi la testa, sentendo un
lieve velo di lacrime riempirmi gli occhi. «Non posso passare il tempo che
mi è rimasto segregata, per paura di stare peggio. Ho bisogno di vivere…
ho bisogno di questa avventura».
Lui prese un respiro spezzato, ma alla fine annuì. Un leggero senso di
vertigine mi invase. Ci andavo!
Saltando sul posto, gettai le braccia intorno al collo di mio padre, e lui
ricambiò il mio abbraccio.
Baciai mia madre e poi guardai mia zia. Aveva la mano tesa in avanti. Io
gliela presi, proprio quando mio padre disse: «Mi fido di te. Prenditi cura di
lei, DeeDee».
Mia zia sospirò. «Lo sai che questa ragazza è tutto il mio cuore, James.
Pensi che lascerei che le succedesse qualcosa?»
«E loro stanno in stanze separate!» A questa affermazione, roteai gli
occhi.
Mio padre iniziò a parlare con mia zia. Ma io non ascoltai.
Non ascoltai mentre il mio sguardo scivolava fuori dalla porta aperta,
fino al ragazzo tutto vestito di nero che stava appoggiato contro la ringhiera
del nostro portico. Il ragazzo con la giacca di pelle che si stava portando
con disinvoltura alla bocca una sigaretta, guardandomi per tutto il tempo. I
suoi occhi blu come cristalli non si staccarono dai miei neanche una volta.
Rune soffiò una nuvola di fumo. Con noncuranza, gettò quel che
rimaneva della sigaretta per terra, mi fece cenno col mento e tese una mano.
Lasciai la presa di zia DeeDee, e chiusi gli occhi per un attimo, per
fissare nella memoria l’aspetto di Rune in quel preciso istante.
Il mio cattivo ragazzo norvegese.
Il mio cuore.
Aprendo gli occhi, oltrepassai di corsa la porta. Raggiunsi il primo
gradino e poi saltai tra le braccia spalancate di Rune. Lui mi avvolse nel suo
abbraccio. Feci una risatina, sentendo la brezza sul viso. Stringendomi
forte, senza rimettermi ancora con i piedi a terra, Rune mi chiese: «Sei
pronta per questa avventura, Poppymin?»
«Sì» risposi senza fiato.
Rune spinse la fronte contro la mia e chiuse gli occhi. «Ti amo»
sussurrò, dopo una lunga pausa di silenzio.
«Ti amo anch’io» dissi, altrettanto silenziosamente.
Fui ricompensata da un raro sorriso.
Lui mi mise giù con delicatezza, prese la mia mano e chiese di nuovo:
«Sei pronta?»
Annuii, poi mi girai verso i miei genitori, in piedi sul portico. Li salutai
con la mano.
«Forza ragazzi» ci chiamò DeeDee. «Abbiamo un volo da prendere».
Rune mi condusse alla macchina, come sempre tenendomi per mano.
Appena ci sistemammo sui sedili posteriori, guardai fuori dal finestrino
mentre ci allontanavamo. Fissai le nuvole nel cielo, sapendo che presto
avrei sfrecciato sopra di esse.
Verso un’avventura. Un’avventura con il mio Rune.

«New York» dissi senza fiato, leggendo sullo schermo del nostro gate.
Rune fece un sorrisetto. «Avevamo sempre pianificato di andarci. Sarà
solo un soggiorno un po’ più breve di quanto avevamo sempre pensato».
Completamente senza parole, avvolsi tra le braccia la sua vita e gli posai
la testa sul petto.
Zia DeeDee ritornò dopo aver parlato con la signora al desk. «Venite,
voi due» ci disse, indicando con una mano l’entrata dell’aereo. «Salite a
bordo».
Seguimmo DeeDee. Rimasi a bocca aperta quando ci mostrò le due
poltrone davanti della prima classe. La guardai e lei scrollò le spalle. «A
che serve essere la responsabile di cabina della prima classe se non posso
usare questi privilegi per viziare la mia nipote preferita?»
Abbracciai DeeDee. Lei mi strinse un po’ più a lungo del solito. «Forza
adesso» mi disse, mi incitò a sedermi e poi sparì in fretta dietro la tendina
della zona degli assistenti di volo. Restai in piedi, guardandola andare via.
Rune mi prese la mano.
«Starà bene» mi consolò, poi mi indicò il sedile vicino al finestrino. «Per
te» aggiunse. Incapace di fermare delle risatine eccitate che mi risalivano
dalla gola, mi sedetti e guardai fuori dal finestrino le persone che
lavoravano sotto di noi.
Li osservai fino a che tutti i passeggeri non furono saliti a bordo e
l’aereo iniziò a scivolare sulla pista. Sospirai contenta e mi girai verso
Rune, che mi stava guardando. «Grazie» gli dissi, intrecciando le sue dita
con le mie.
«Volevo che vedessi New York». Alzò le spalle. «Volevo vederla con
te».
Rune si chinò per baciarmi. Fermai le sue labbra con le dita. «Baciamoci
a trentanovemila piedi. Baciami nel cielo. Baciami tra le nuvole».
Il respiro di Rune, che sapeva di menta, aleggiò sul mio viso. Poi
silenziosamente si riappoggiò a sedere. Risi quando l’aereo di colpo
acquistò velocità e ci sollevammo in aria.
L’aereo prese quota, e all’improvviso mi ritrovai con le labbra incollate
contro quelle di Rune. Le sue mani mi racchiusero la testa mentre mi
prendeva la bocca con la sua. Col bisogno di aggrapparmi a qualcosa per
rimanere con i piedi per terra, mi attaccai alla sua maglietta. Sospirai contro
la sua bocca, mentre la sua lingua dolcemente duellava con la mia.
Quando ci staccammo, il suo petto si alzava e si abbassava pesantemente
e la pelle era calda, sussurrai: «Bacio ottocentootto. A trentanove mila
piedi. Con il mio Rune… E il mio cuore è quasi scoppiato».
Per la fine del volo, avevo parecchi nuovi baci da aggiungere al mio
vasetto.

«Questa è per noi?» Chiesi incredula. Guardai la suite dell’attico


dell’hotel spaventosamente costoso di Manhattan, dove ci aveva portato
mia zia.
Sollevai lo sguardo su Rune e mi accorsi, persino attraverso la sua solita
espressione neutra, che anche lui era sbalordito.
Zia DeeDee si fermò accanto a me. «Poppy, tua madre non lo sa ancora.
Ma vedi, io mi sto vedendo da un po’ di tempo con qualcuno». Un
adorabile sorriso le si allargò sulle labbra, mentre continuava. «Diciamo
solo che questa stanza è stato il suo regalo per voi due».
La fissai stupefatta. Ma poi il calore mi riempì. Mi ero sempre
preoccupata per zia DeeDee. Se ne stava spesso da sola, e potevo vederlo
dal suo viso quanto quest’uomo la rendesse felice.
«Ha pagato lui? Per noi? Per me?» Chiesi.
DeeDee fece una pausa, poi mi spiegò: «Tecnicamente, non deve
davvero pagare per questo. Lui è il proprietario di tutta la baracca».
Se possibile, la mia bocca si spalancò ancora di più, fino a che Rune per
scherzo non me la chiuse mettendomi un dito sotto il mento. Fissai il mio
ragazzo. «Tu lo sapevi?»
Fece spallucce. «Lei mi ha aiutato a organizzare tutto».
«Quindi lo sapevi?» Ripetei. Rune scosse la testa, poi portò le nostre
valigie nella camera da letto principale a destra. Stava chiaramente
ignorando le istruzioni di mio padre di stare in stanze separate.
«Quel ragazzo camminerebbe sui vetri rotti per te, Pops» disse mia zia,
mentre Rune spariva oltre la porta.
Il mio cuore si riempì di luce. «Lo so» sussurrai. Ma quella leggera
punta di paura che avevo iniziato a nutrire serpeggiò dentro di me.
Il braccio di zia DeeDee scivolò intorno al mio corpo. «Grazie» le dissi,
ricambiando la sua stretta.
Lei mi baciò la testa. «Non ho fatto niente, Pops. Ha fatto tutto Rune».
Fece una pausa. «Non credo, in tutta la mia vita, di aver mai visto due
ragazzi amarsi così appassionatamente da così piccoli, e anche di più da
adolescenti».
Zia DeeDee si tirò indietro per incontrare i miei occhi. «Goditi questo
tempo con lui, Pops. Quel ragazzo… Lui ti ama. Bisogna essere ciechi per
non vederlo».
«Lo farò» sussurrai.
DeeDee si avviò verso la porta. «Rimarremo qui per due notti. Io starò
con Tristan nella sua suite. Chiamami al cellulare se hai bisogno di qualsiasi
cosa. Sono solo a qualche minuto da te».
«Ok» replicai.
Mi girai e assorbii lo splendido spettacolo della stanza. I soffitti erano
così alti che dovevo piegare la testa solo per vedere le decorazioni
nell’intonaco bianco. La stanza era talmente grande da far apparire piccole
le case della maggior parte della gente. Mi avvicinai alla finestra e
contemplai la vista panoramica su New York.
E respirai.
Respirai mentre il mio sguardo si posava sulle immagini familiari che
avevo sempre visto solo in fotografia o nei film: l’Empire State Building,
Central Park, la Statua della Libertà, il Flatiron Building, la Freedom
Tower…
C’era così tanto da vedere che il mio cuore accelerò di aspettativa. Qui
era dove avrei dovuto vivere la mia vita. Mi sarei sentita a casa, qui.
Blossom Grove sarebbe stata le mie radici; New York sarebbe stata le mie
ali.
E Rune Kristiansen sarebbe stato per sempre il mio amore.
Accanto a me in ogni momento.
Notando una porta alla mia sinistra, mi avvicinai e spinsi la maniglia.
Annaspai quando una fredda brezza mi colpì, poi mi concessi davvero di
assorbire quella vista.
Un giardino.
Una terrazza esterna con fiori invernali, panchine, e soprattutto, il
panorama. Abbottonandomi il giubbotto per tenermi al caldo, uscii nell’aria
fresca. In un turbinio, leggeri fiocchi di neve si posarono sui miei capelli.
Avvertendo il bisogno di sentirli sul viso, gettai la testa indietro. I fiocchi
freddi si posarono sulle mie ciglia, solleticandomi gli occhi.
Risi quando il mio viso si fece umido. Poi avanzai ancora, facendo
scorrere le mani sui brillanti sempreverdi, fino a che non mi trovai di fronte
alla parete che mi offriva il panorama di Manhattan su un piatto d’argento.
Inspirai, lasciando che l’aria fredda mi riempisse le ossa.
All’improvviso, braccia calde furono intorno alla mia vita e il mento di
Rune mi si poggiò sulla spalla. «Ti piace, piccola?» Rune chiese con
dolcezza. La sua voce era poco più di un sospiro, per non disturbare il
nostro piccolo paradiso di tranquillità.
Scossi la testa incredula e mi girai appena per vedere il suo viso. «Non
posso credere che tu abbia fatto tutto questo» replicai. «Non posso credere
che tu mi abbia regalato questo». Indicai la città che si estendeva sotto di
noi. «Mi hai regalato New York».
Rune mi baciò la guancia. «È tardi, e abbiamo un sacco di cose da fare
domani. Voglio essere sicuro che tu sia riposata abbastanza per vedere tutto
quello che ho pianificato».
Un pensiero mi saltò in mente. «Rune?»
«Ja?»
«Posso portarti anch’io in un posto, domani?»
Lui si accigliò, aggrottando la fronte. «Ma certo» acconsentì. Lo vidi
cercare nei miei occhi, tentando di scoprire cosa avessi in testa. Ma non mi
fece domande. E ne fui contenta. Si sarebbe rifiutato, se l’avesse saputo
prima.
«Bene» dissi con orgoglio e sorrisi tra me. Sì, lui mi aveva regalato
questo viaggio. Sì, lui aveva pianificato tutto. Ma volevo mostrargli
qualcosa, per ricordargli dei suoi sogni. Sogni che poteva ancora realizzare,
anche dopo che io me ne fossi andata.
«Hai bisogno di dormire, Poppymin» disse Rune e abbassò la testa per
baciarmi il collo.
Intrecciai la mano nella sua. «Con te accanto a me, nel letto».
Lo sentii annuire contro il mio collo, prima che lo baciasse ancora una
volta. «Ti ho preparato la vasca e ho ordinato da mangiare. Fai il bagno, poi
mangeremo, poi dormiremo».
Mi girai tra le sue braccia e mi alzai sulle punte per posargli le mani
sulle guance. Erano fredde. «Ti amo, Rune» dissi piano. Lo dicevo spesso.
E lo sentivo sempre con tutto il mio cuore. Volevo che sapesse, in ogni
istante, quanto lo adorassi.
Rune sospirò e mi baciò lentamente. «Anche io ti amo, Poppymin» disse
contro le mie labbra, separandosene a stento.
Poi mi condusse dentro, dove feci il bagno. Mangiammo. E poi
dormimmo. Mi adagiai tra le sue braccia, al centro di un enorme letto a
baldacchino. Col suo respiro caldo che mi accarezzava il viso. I suoi
splendenti occhi blu che tenevano d’occhio ogni mia mossa.
Mi addormentai, cullata dal suo abbraccio, con un sorriso sul mio cuore
e sulle mie labbra.
Poppy

Credevo di aver già sentito la brezza nei capelli, prima. Ma niente


poteva essere paragonato alla brezza che sferzava tra le mie ciocche in cima
all’Empire State Building.
Pensavo di essere stata baciata in ogni modo che esisteva di baciarsi. Ma
niente poteva essere paragonato ai baci di Rune sotto il castello delle fiabe a
Central Park. Al bacio sulla corona della Statua della Libertà. Al centro di
Times Square, con le luci sfavillanti che brillavano e la gente che si
affrettava intorno a noi, come se non gli fosse rimasto più tempo al mondo.
Le persone andavano sempre di corsa, anche se avevano tutto il tempo a
disposizione. Nonostante io ne avessi molto poco, mi assicuravo di fare
tutto in modo lento. Misurato. Pieno di significato. Mi assicuravo di
assaporare fino in fondo ogni nuova esperienza. Di prendere un respiro
profondo e di assorbire ogni nuova immagine, odore e suono.
Di fermarmi, semplicemente. Respirare. Accogliere.
I baci di Rune variavano. Erano lenti e dolci, delicati e leggeri come una
piuma. Poi erano decisi, veloci e catturanti. Entrambi mi lasciavano senza
fiato. Entrambi sarebbero andati nel vasetto.
Più baci che si cucivano sul mio cuore.
Dopo un pranzo sul tardi allo Stardust Diner, un posto che avevo deciso
sarebbe proprio potuto diventare il mio terzo preferito sulla Terra, condussi
Rune all’esterno e svoltai l’angolo.
«È il mio turno, adesso?» Chiesi, mentre Rune mi prendeva il colletto e
lo sistemava meglio intorno al mio collo. Rune controllò l’orologio. Lo
guardai con curiosità, chiedendomi perché continuasse a controllare l’ora.
Rune mi vide che lo osservavo con sospetto.
Avvolgendo le braccia intorno a me, replicò: «Hai un paio d’ore, dopo si
torna al mio programma».
Arricciai il naso per il suo atteggiamento severo e, scherzando, gli feci la
linguaccia. Il calore si infiammò negli occhi di Rune, appena lo feci. Si
tuffò in avanti e premette la bocca sulle mie labbra, la sua lingua che
immediatamente accarezzò la mia. Con un gridolino, mi ressi forte mentre
lui mi faceva sprofondare indietro, prima di interrompere il bacio.
«Non tentarmi» mi disse, scherzosamente. Ma vedevo ancora il calore
nei suoi occhi. Il mio cuore saltò un battito. Da quando Rune era ritornato
nella mia vita, non avevamo fatto niente di più che baciarci. Baciarci e
parlare, e tenerci stretti l’un l’altra, più vicini che mai. Non aveva mai
insistito per andare oltre, ma man mano che le settimane si susseguivano,
avevo iniziato a desiderare di darmi di nuovo a lui.
I ricordi della nostra notte, due anni prima, mi scorrevano nella mente
come fotogrammi di un film. Le scene erano così vivide, così piene
d’amore, che mi si chiudevano i polmoni. Perché ricordavo ancora lo
sguardo che aveva negli occhi mentre si muoveva sopra di me. Ricordavo
ancora il modo in cui quegli occhi avevano guardato i miei. Il modo in cui il
calore mi aveva inondata mentre lo sentivo, così caldo, tra le mie braccia. E
ricordavo i suoi tocchi delicati sul mio viso, tra i capelli e sulle labbra. Ma
più di tutto, mi ricordavo il suo viso appagato. L’incomparabile espressione
di adorazione. Lo sguardo che mi diceva che, anche se eravamo giovani,
quello che avevamo fatto ci aveva cambiato per sempre.
Ci aveva unito nel corpo, nella mente e nell’anima.
Ci aveva reso realmente infiniti.
Sempre e per sempre.
«Dove stiamo andando, Poppymin?» Chiese Rune, strappandomi dalle
mie fantasticherie. Tenne il dorso della mano contro la mia guancia
accaldata. «Sei bollente» disse, con accento marcato, il suono perfetto che
mi attraversava come una fresca brezza.
«Sto bene» risposi timidamente. Prendendo la sua mano, cercai di
guidarlo lungo la strada. Rune mi tirò per la mano e mi costrinse a
guardarlo in faccia.
«Poppy…»
«Sto bene» lo interruppi, con le labbra strette per fargli capire che dicevo
sul serio.
Mugugnando per l’esasperazione, Rune mi passò un braccio intorno alla
spalla e mi guidò avanti. Cercai il nome della strada e dell’isolato, per
capire dove andare da lì.
«Hai intenzione di dirmi cosa stiamo facendo?» Chiese Rune.
Dopo essermi assicurata che ci stessimo dirigendo nella direzione giusta,
scossi la testa. Rune mi stampò un bacio sul lato della testa mentre si
accendeva una sigaretta. Mentre fumava, colsi l’opportunità di guardarmi
intorno. Amavo New York. Amavo tutto di essa. La gente eclettica, artisti,
tipi in giacca e cravatta, sognatori, tutti intessuti nel gigantesca trapunta
patchwork della vita. Le strade trafficate, i clacson delle auto e le urla, la
perfetta sinfonia per la colonna sonora della città che non dorme mai.
Inalai il fresco profumo della neve nell’aria fredda e frizzante e mi
strinsi più vicina al petto di Rune. «Faremmo questo» dissi e sorrisi,
chiudendo brevemente gli occhi.
«Cosa?» Chiese Rune, l’odore ormai familiare delle sue sigarette che si
levava intorno a noi.
«Questo» ripetei. «Noi che camminiamo per Broadway.
Cammineremmo per la city, per andare a incontrare amici, per andare alle
nostre scuole o al nostro appartamento». Diedi un colpetto sul suo braccio,
sopra la mia spalla. «Tu mi terresti proprio così e parleremmo. Tu mi
racconteresti della tua giornata e io della mia». Sorrisi per la normalità di
quella scena. Perché non avevo bisogno di gesti grandiosi o di favole; una
vita normale con il ragazzo che amavo sarebbe stato abbastanza, sempre.
Persino in questo momento, sarebbe valsa ogni cosa.
Rune non disse niente. Avevo imparato che quando parlavo così
candidamente delle cose che mai sarebbero successe, Rune riteneva che
fosse meglio non dire proprio niente. E andava bene. Capivo, perché
doveva proteggere il suo cuore che si stava già spezzando.
Se avessi potuto proteggerlo io per lui, l’avrei fatto, ma io ne ero la
causa.
Io pregavo solamente, tutto ciò che c’era di buono in cielo, che potessi
anche essere la cura. Quando vidi lo stendardo sull’antico edificio, guardai
Rune. «Ci siamo quasi» gli dissi.
Rune si guardò intorno confuso, e io ne ero lieta. Non volevo che si
accorgesse di dove eravamo. Non volevo che si arrabbiasse per un gesto
fatto col cuore. Non volevo ferirlo nel forzarlo a vedere il futuro che poteva
essere il suo.
Feci svoltare Rune a sinistra verso un edificio. Rune gettò il mozzicone
della sigaretta per terra e mi prese la mano. Arrivati alla cassa, chiesi due
biglietti.
Rune mi spinse via la mano dalla borsa quando cercai di pagare. Pagò
lui, senza ancora sapere dove eravamo. Mi allungai a dargli un bacio sulla
guancia.
«Che gentiluomo!» Scherzai, e lo vidi roteare gli occhi.
«Non sono sicuro che tuo padre la pensi così».
Non riuscii a trattenere la mia risata. Mentre ridacchiavo
incontenibilmente, Rune si fermò e mi guardò, tendendomi la mano. Posai
la mia nella sua e lasciai che mi attirasse a sé. La sua bocca atterrò proprio
sopra il mio orecchio. «Perché quando ridi così io sento un disperato
bisogno di farti una foto?»
Sollevai lo sguardo, la mia risata svanì. «Perché tu catturi tutti gli aspetti
della condizione umana, il buono, il cattivo, il vero». Alzai le spalle.
«Perché per quanto tu protesti e trasudi quest’aura di oscurità, tu aneli alla
felicità, vorresti essere felice».
«Poppy». Rune girò la testa.
Come sempre, non voleva accettare la verità, ma era lì, rinchiusa in
fondo al suo cuore. Tutto quello che aveva sempre voluto era essere felici,
solo lui ed io. Per quanto mi riguardava, io volevo che lui imparasse a
essere felice da solo. Anche se avrei camminato accanto a lui ogni giorno
nel suo cuore.
«Rune» lo esortai dolcemente. «Per favore, vieni con me».
Rune fissò la mia mano tesa, prima di cedere e di congiungere le nostre
mani con forza. Persino allora, fissava le nostre mani unite con una punta di
dolore dietro i suoi occhi guardinghi.
Sollevando quelle mani alle labbra, baciai il dorso della sua e me le
portai sulla guancia.
Rune espirò dal naso. Alla fine, mi attirò sotto la protezione del suo
braccio. Avvolgendo il mio intorno alla sua vita, lo condussi attraverso una
doppia porta, per rivelargli lo spettacolo dall’altro lato.
Fummo accolti da un vasto open space, con foto famose incorniciate
lungo le alte pareti. Rune si immobilizzò, e guardai in su appena in tempo
per cogliere la sua reazione sorpresa ma pur sempre impassibile nel vedere
il suo sogno messo in mostra davanti a lui.
Un’esposizione di fotografie che avevano segnato il nostro tempo.
Foto che avevano cambiato il mondo.
Frammenti di tempo catturati ad arte.
Perfetti momenti catturati nel tempo.
Il petto di Rune si allargò lentamente mentre lui inalava a fondo, poi
espirò con calma, circospetto. Guardò in basso verso di me e aprì le labbra.
Non venne fuori nemmeno un suono. Non una singola parola.
Strofinai la mano contro il suo petto, sotto la macchina fotografica che
teneva appesa al collo. «Ho scoperto ieri sera che c’era questa mostra e
volevo che la vedessi. Rimarrà per un anno, ma volevo essere qui, con te, in
questo momento. Io… Io volevo condividere questo con te» gli dissi.
Rune batté le palpebre, la sua espressione neutra. L’unica reazione che
diede a vedere fu di serrare la mascella. Non ero sicura se fosse una cosa
buona o cattiva.
Scivolando da sotto il suo braccio, gli presi mollemente le dita.
Consultando la guida, ci portammo alla prima foto della mostra. Sorrisi,
vedendo il marinaio al centro di Times Square che faceva piegare indietro
l’infermiera per baciarla sulle labbra. «New York City. 14 agosto 1945. Il
giorno della vittoria sul Giappone a Times Square di Alfred Eisenstaedt»,
lessi. E sentii la leggerezza e l’eccitazione del festeggiamento che traspariva
dall’immagine in mostra davanti a me. Mi sembrava di essere lì, a
condividere quel momento con tutti gli altri.
Guardai Rune, e lo vidi studiare l’immagine. La sua espressione non era
cambiata, ma vidi la sua mascella allentarsi e teneva la testa inclinata
leggermente da un lato.
Le sue dita ebbero uno spasmo, nelle mie.
Sorrisi di nuovo.
Non era immune.
E non importava quanto opponesse resistenza, amava tutto questo. Lo
sentivo tanto chiaramente quanto sentivo la neve colpire la mia pelle, fuori.
Lo guidai verso la seconda immagine. Spalancai gli occhi mentre
registravo quella vista drammatica. Carri armati che procedevano in fila, un
uomo in piedi, dritto sulla loro strada. Lessi velocemente la didascalia, col
cuore che batteva veloce. «Piazza Tienanmen, Pechino. 5 giugno 1989.
Questa immagine catturò la protesta di un uomo per fermare la
soppressione militare delle continue manifestazioni contro il governo
cinese».
Mi avvicinai all’immagine. Deglutii. «È triste» dissi a Rune, e lui annuì.
Ogni nuova foto sembrava evocare una diversa emozione. Guardando
questi momenti catturati sulla pellicola capii davvero perché Rune amasse
scattare fotografie.
Questa mostra era la prova di come aver catturato queste immagini
aveva avuto impatto sulla società. Mostravano l’umanità al suo meglio e al
suo peggio. Mettevano in luce la vita in tutta la sua nudità e in tutta la sua
purezza.
Quando ci fermammo all’immagine successiva distolsi immediatamente
lo sguardo, incapace di guardare attentamente. Un avvoltoio, pazientemente
in attesa, si librava sopra un bambino emaciato. L’immagine mi riempì
immediatamente di dolore.
Feci per passare oltre, ma Rune si avvicinò di un passo alla foto.
Sollevai la testa di scatto e lo osservai. Lo osservai studiare ogni parte della
fotografia. Osservai i suoi occhi infiammarsi e le sue mani serrarsi lungo i
fianchi. La sua passione era esplosa.
Finalmente.
«Questa foto è una delle più controverse mai scattate» mi spiegò con
calma, ancora concentrato sull’immagine. «Il fotografo stava facendo un
servizio sulla carestia in Africa. Mentre stava scattando le sue foto, vide
questo bambino camminare in cerca di aiuto, e questo avvoltoio in attesa,
che avvertiva la morte». Tirò un sospiro. «Questa foto mostrava, in una
singola immagine, l’entità del problema della carestia molto più di qualsiasi
altro precedente rapporto scritto…» Rune mi guardò. «Risvegliò le persone
e destò la loro attenzione. Mostrava loro, in tutta la sua brutale gravità, a
che stadio era arrivata la fame». Indicò di nuovo il bambino, accovacciato
sul terreno. «Grazie a questa foto, gli aiuti umanitari sono incrementati, la
stampa si è occupata di più degli stenti di quelle persone». Prese un respiro
profondo. «Ha cambiato il loro mondo».
Non volendo interrompere questo suo impeto, avanzammo verso la foto
successiva. «Sai questa di cosa tratta?»
Avevo difficoltà a guardare la maggior parte delle fotografie. Molte
erano di dolore, molte di sofferenza. Ma per un fotografo, sebbene difficili
da guardare per quanto erano strazianti e brutali, le foto avevano un che di
grazia poetica. Racchiudevano un messaggio profondo ed eterno, tutto
catturato con un unico scatto.
«È una protesta, durante la Guerra in Vietnam. Un monaco buddista si
diede fuoco». La testa di Rune si abbassò e si inclinò di lato, studiando le
angolazioni. «Non fece mai neanche un sussulto. Sopportò il dolore per
lasciare una dichiarazione, che la pace doveva essere raggiunta.
Sottolineava la piaga e la futilità di quella guerra».
E così proseguì la giornata, con Rune che mi spiegava quasi ogni foto.
Quando raggiungemmo lo scatto finale, si trattava di una foto in bianco e
nero di una giovane donna. Era una vecchia foto, i suoi capelli e il suo
trucco sembravano risalenti agli anni Sessanta. Doveva avere circa
venticinque anni nella foto. E sorrideva.
Fece sorridere anche me.
Guardai Rune. Lui alzò le spalle, facendomi capire in silenzio che
neanche lui conosceva l’immagine. Il titolo diceva semplicemente:
«Esther». Cercai delle informazioni nella guida, e gli occhi mi si colmarono
immediatamente di lacrime quando lessi a cosa era ispirata. Quando lessi il
perché quella foto era lì.
«Che c’è?» Chiese Rune, i suoi occhi accesi di preoccupazione.
«Esther Rubenstein. L’ultima moglie del mecenate di questa mostra».
Battei le ciglia, e alla fine riuscii a terminare. «Morta a ventisei anni, di
cancro». Ricacciai giù le emozioni dalla mia gola e mi avvicinai al ritratto
di Esther.
«Voluta in questa mostra da suo marito, che non si è mai risposato.
Aveva scattato lui questa foto e l’aveva esposta nella mostra. Dice che,
anche se questa immagine non ha cambiato il mondo, Esther ha cambiato il
suo».
Lacrime lente mi colavano sulle guance.
Il sentimento dietro tutto quello era meraviglioso, l’omaggio era da
togliere il fiato. Asciugandomi le lacrime, guardai di nuovo Rune, che
aveva voltato le spalle all’immagine.
Il mio cuore sprofondò. Mi spostai davanti a lui. Teneva la testa bassa, e
io gli spinsi via i capelli dal viso. L’espressione tormentata che vi trovai mi
spezzò a metà.
«Perché mi hai portato qui?» Chiese, con voce roca.
«Perché questo è quello che ami». Feci un gesto, indicando la stanza.
«Rune, questa è la NYU Tisch. Questa è la scuola che tu vuoi frequentare.
Volevo che tu vedessi cosa potresti raggiungere un giorno. Volevo che
vedessi cosa il tuo futuro può ancora riservare».
Rune chiuse gli occhi. Quando li aprì, colse lo sbadiglio che stavo
soffocando. «Sei stanca».
«Sto bene» obiettai, col desiderio di affrontare questa questione. Ma io
ero stanca. Non ero sicura di poter fare molto altro senza riposarmi un po’.
Rune intrecciò la sua mano con la mia. «Andiamo a riposarci prima di
stasera» disse.
«Rune» cercai di obiettare, per parlare di più dell’argomento, ma Rune si
voltò e disse a bassa voce: «Poppymin, per favore. Basta». Sentivo quanto
era tirata la sua voce. «New York era il nostro sogno. Non c’è New York
senza di te. Quindi per favore…» gli morirono le parole, poi sussurrò
tristemente: «Smettila».
Non desideravo vederlo così distrutto, così annuii. Rune mi baciò la
fronte. Questo bacio fu delicato. Pieno di gratitudine.
Lasciammo la mostra, e Rune fermò un taxi. In pochi minuti eravamo
sulla strada per l’hotel e, appena entrammo nella suite, Rune si distese sul
letto con me tra le sue braccia.
Non parlò mentre io scivolavo nel sonno. Mi addormentai con in mente
l’immagine di Esther, chiedendomi come avesse fatto suo marito a guarire
dopo che lei era ritornata a casa.
Chiedendomi se fosse mai guarito.

«Poppymin?»
La voce dolce di Rune mi risvegliò dal sonno. Battei le palpebre
nell’oscurità della stanza, solo per sentire il delicato dito di Rune che
scorreva sulla mia guancia.
«Ehi, piccola» mi salutò piano, quando mi girai sul fianco per mettermi
di fronte a lui. Allungando il braccio, accesi la lampada. Quando brillò la
luce, mi concentrai su Rune.
Un sorriso tese le mie labbra. Indossava una t-shirt bianca aderente sotto
una giacca elegante marrone, alle gambe i jeans neri attillati, e i familiari
stivali neri ai piedi. Tirai i baveri della sua giacca. «Sei davvero molto
elegante, tesoro».
Le labbra di Rune si atteggiarono a un mezzo sorriso. Si chinò in avanti
e prese gentilmente la mia bocca con la sua. Quando si staccò, notai che i
suoi capelli erano appena lavati e asciugati e, a differenza di qualsiasi altro
giorno, oggi doveva essersi pettinato, perché le ciocche dorate erano come
seta al tocco delle mie dita.
«Come ti senti?» Chiese. Mi stiracchiai, allungando braccia e gambe.
«Un po’ stanca e dolorante per tutto quel camminare, ma sto bene».
Sulla fronte di Rune si formò una ruga di preoccupazione. «Sei sicura?
Non dobbiamo uscire stasera se non te la senti».
Mi scostai un po’ più avanti sul mio cuscino, per fermarmi ad appena un
centimetro dal viso di Rune. «Niente potrebbe farmi rinunciare a stasera»
gli dissi. Feci scorrere la mia mano giù lungo la sua morbida giacca
marrone. «Specialmente con te che ti sei vestito tutto elegante. Non ho idea
di cosa tu abbia pianificato, ma se ti ha fatto rinunciare alla tua giacca di
pelle, deve essere qualcosa di veramente speciale».
«Credo di sì» replicò Rune, dopo una pausa densa di significato.
«Quindi, decisamente sto bene» dissi con sicurezza, consentendo a Rune
di aiutarmi a tirarmi su a sedere, quando questo semplice gesto si rivelò
costarmi uno sforzo troppo grande.
Quando rimasi curva, Rune cercò il mio viso. «Ti amo, Poppymin».
«Anche io ti amo, piccolo» replicai. Quando mi misi in piedi, con l’aiuto
di Rune, non riuscii a evitare di arrossire. Stava diventando più bello ogni
giorno che passava, ma vestito così, mi faceva galoppare il cuore nel petto.
«Come dovrei vestirmi?» Chiesi a Rune. Lui mi portò nel soggiorno
della suite. C’era una signora in attesa al centro della stanza, con tutto
l’occorrente per fare i capelli e il trucco sparso intorno a lei.
Sbalordita, guardai Rune. Lui si spinse nervosamente indietro i capelli
dal viso. «Tua zia ha organizzato tutto». Si strinse nelle spalle. «Così saresti
stata perfetta. Non che tu non lo sia in ogni caso».
La signora mi fece un gesto di saluto e toccò la sedia di fronte a lei,
invitandomi a raggiungerla. Rune sollevò la mia mano alla bocca e la baciò.
«Vai, dobbiamo uscire tra un’ora».
«Cosa mi metto?» Chiesi, senza fiato.
«Abbiamo organizzato anche per quello». Rune mi condusse alla sedia e
io mi sedetti, fermandomi brevemente per presentarmi alla stylist.
Rune si spostò per andarsi a sedere sul divano dall’altra parte della
stanza. Mi riempii di gioia quando lui prese la sua macchina fotografica
dalla borsa sul tavolino. Guardai Rune sollevare la macchina e portarsela
all’occhio mentre Jayne, la stylist, iniziò a lavorare sui miei capelli. E per i
successivi quaranta minuti, lui catturò questi momenti.
Non avrei potuto essere più felice neanche provandoci.

Jayne si chinò, controllando il mio viso, e con una finale pennellata sulle
guance si fece indietro e sorrise. «Ecco fatto, ragazza. Tutto a posto». Si
allontanò e iniziò a impacchettare le sue cose. Quando finì, mi baciò sulla
guancia. «Passa una bella serata, signorina».
«Grazie» replicai e l’accompagnai alla porta.
Quando mi girai, trovai Rune in piedi di fronte a me. Sollevò la mano ai
miei capelli, adesso ricci. «Poppymin», disse con voce rauca. «Sei
bellissima».
Piegai la testa. «Davvero?»
Rune sollevò la sua macchina e premette il bottone. Quando l’abbassò di
nuovo, annuì. «Perfetta».
Rune si piegò a prendermi la mano e mi guidò attraverso la stanza da
letto. Appeso alla porta, c’era un vestito nero a stile impero. Delle scarpe
con tacco basso erano poggiate sulla soffice moquette.
«Rune» sussurrai, facendo scorrere una mano lungo la stoffa delicata. «È
così bello».
Rune sollevò il vestito e lo posò sul letto. «Vestiti, piccola, e poi
dobbiamo andare».
Feci di sì col capo, ancora in preda allo stupore. Rune uscì dalla stanza e
chiuse la porta. In pochi minuti mi ero vestita e avevo indossato ai piedi le
scarpe.
Mi spostai allo specchio del bagno, e un verso stupefatto mi sfuggì dalla
bocca quando vidi la ragazza che mi guardava. I miei capelli erano ricci e
non c’era una ciocca fuori posto. Il mio trucco consisteva in un leggero
smokey, e la cosa migliore era che i miei orecchini dell’infinito brillavano.
Arrivò un colpo dalla porta del bagno. «Entra!» Urlai. Non riuscivo a
staccarmi dalla mia immagine riflessa nello specchio.
Rune si spostò dietro di me, e il mio cuore si sciolse quando vidi la sua
reazione nello specchio… Lo sguardo sbalordito sul suo bel viso.
Posò le mani sulle mie braccia. Mentre si chinava, una mano si alzò a
spostarmi indietro i capelli e lui baciò il punto proprio sotto il mio orecchio.
Mi sentii mancare il fiato al suo tocco, ai suoi occhi, ancora fissi nei miei
nello specchio.
Il mio vestito nero era leggermente scollato sul davanti, mostrava il mio
décolleté e il collo, le spalline ampie si poggiavano al limite delle mie
spalle.
Rune scese a baciarmi lungo il collo, prima di prendermi il mento in una
mano e girare la mia bocca verso la sua. Le sue labbra calde si sciolsero
contro le mie e io sospirai di pura felicità nella sua bocca.
Rune si allungò sul ripiano e sollevò il mio fiocco bianco tra le mani. Lo
fece scivolare nei miei capelli. Rivolgendomi un sorriso timido, disse:
«Adesso sei perfetta. Adesso sei la mia Poppy».
Sentii un balzo allo stomaco per quanto era roca la sua voce, poi mi
andò del tutto sottosopra quando lui mi prese per mano e mi fece uscire
dalla stanza. Un cappottino mi attendeva nell’altra stanza e, come un vero
gentiluomo, Rune lo tenne in alto e me lo adagiò sulle spalle.
Mi fece girare perché fossi di fronte a lui. «Sei pronta?» Mi domandò
Rune.
Annuii e lasciai che mi conducesse all’ascensore e poi fuori dall’hotel.
C’era una limousine ad aspettarci, e con l’autista vestito in modo elegante
che ci aprì lo sportello perché salissimo. Mi voltai verso Rune per
chiedergli come aveva fatto a organizzare tutto, ma prima ancora che
potessi farlo, lui mi rispose: «DeeDee».
L’autista chiuse lo sportello. Stringevo forte le mani di Rune mentre ci
avventuravamo per le strade pullulanti di persone. Vidi Manhattan scorrere
veloce dietro il finestrino, e poi ci fermammo.
Vidi l’edificio prima di lasciare la limousine, e il mio cuore martellava
per l’eccitazione. Girai di scatto la testa verso Rune, ma lui era già uscito.
Apparve al mio sportello, lo aprì per me, e mi tese la mano.
Uscii sulla strada e alzai lo sguardo sull’imponente edificio davanti a
noi. «Rune», sussurrai. «La Carnegie Hall!» Mi portai una mano davanti
alla bocca.
Rune chiuse lo sportello e la limousine ripartì, allontanandosi. Lui mi
attirò vicino a sé. «Vieni con me», disse.
Mentre avanzavamo verso l’ingresso, cercai di leggere tutti i cartelloni
per trovare una qualche indicazione sullo spettacolo. Ma per quanto
cercassi, non riuscii a scoprire chi avrebbe suonato quella sera.
Rune spinse le porte massicce, e un uomo ci accolse all’interno e ci
indicò la direzione in cui proseguire. Rune continuò a guidarmi finché non
attraversammo il foyer, e poi entrammo nell’auditorium principale. Se
prima ero senza fiato, quello era niente rispetto a come mi sentivo in questo
momento, in piedi nella sala che era stata il mio sogno da quando ero una
bambina.
Quando ebbi assorbito lo spettacolo di quel vasto, impressionante
spazio, con le sue balconate dorate, il morbido rivestimento rosso delle
sedie e i tappeti, mi accigliai, rendendomi conto che eravamo
completamente da soli. Non c’era pubblico. Non c’era orchestra.
«Rune?»
Rune dondolava nervosamente sui piedi e indicò il palco.
Seguii la sua mano. Al centro del grande palco c’era solo una sedia, con
un violoncello appoggiato di fianco e il suo archetto posato sopra.
Cercai di dare un senso a quello che stavo vedendo, ma non riuscivo a
comprendere. Questa era la Carnegie Hall. Una delle più famose sale
concerti di tutto il mondo.
Senza una parola, Rune mi condusse lungo il corridoio centrale, verso il
palco, fermandosi davanti a dei gradini amovibili. Mi voltai verso di lui, e
Rune incrociò il mio sguardo. «Poppymin, se le cose fossero state
diverse…» Risucchiò un respiro, ma riuscì a ricomporsi a sufficienza per
continuare. «Se le cose fossero state diverse, avresti suonato qui da
professionista un giorno. Avresti suonato qui come membro di un’orchestra,
l’orchestra di cui avevi sempre sognato di far parte». La mano di Rune
strizzò forte la mia. «Avresti suonato l’assolo in cui hai sempre voluto
esibirti su questo palco».
Una lacrima si riversò da un occhio di Rune. «Ma visto che questo non
potrà succedere, perché la vita è così dannatamente ingiusta… Voglio lo
stesso che tu abbia questo. Perché tu sappia cosa si prova a vivere quel
sogno. Voglio che tu abbia la tua occasione sotto i riflettori. Riflettori che,
secondo me, meriti non solo come persona che amo di più in tutto il mondo,
ma come la miglior violoncellista. La musicista più dotata».
La comprensione mi investì. L’enormità di quello che aveva fatto per me
iniziò a farsi strada dentro, scivolando lentamente fino a posarsi sul mio
cuore esposto. Sentendo i miei occhi riempirsi di lacrime, mi avvicinai di
un passo a Rune, allargando le mani sul suo petto. Battei le palpebre,
guardando in su verso di lui, cercando di liberarmi delle lacrime. Incapace
di frenare le mie emozioni, provai a chiedere: «Tu hai… Come hai… Fatto
questo…?»
Rune mi spinse in avanti e mi guidò su per gli scalini fino a che non fui
in piedi sul palco che era stato la più grande ambizione della mia vita. Rune
strizzò nuovamente la mia mano, invece di usare le parole.
«Stasera il palco è tuo, Poppymin. Mi dispiace che sarò l’unico ad
assistere alla tua performance, ma volevo solo che questo tuo sogno si
realizzasse. Volevo che suonassi in questa sala. Volevo che la tua musica
riempisse questo auditorium. Volevo che la tua eredità rimanesse impressa
in queste pareti».
Avvicinandosi ancora di un passo, Rune mi posò le mani sulle guance e
mi asciugò via le lacrime con i pollici.
Premendo la sua fronte contro la mia, sussurrò: «Tu meriti questo,
Poppy. Avresti dovuto avere più tempo per vedere questo sogno realizzarsi,
ma… Ma…»
Strinsi le mani intorno ai polsi di Rune mentre lui faticava a finire. I
miei occhi si serrarono con forza, spingendo fuori le ultime lacrime dai miei
occhi. «No» lo placai, e sollevai il polso di Rune per baciare il punto dove il
suo battito correva veloce. Posandolo sul mio petto, aggiunsi: «Va tutto
bene, piccolo». Inspirai, e sulle mie labbra si allargò un sorriso tremolante.
L’odore del legno mi riempiva le narici. Se chiudevo gli occhi abbastanza
stretti, mi sembrava di poter sentire gli echi di tutti i musicisti che avevano
calcato questo palco di legno, i maestri della musica che avevano onorato
questa sala con la loro passione e il loro genio.
«Adesso siamo qui» terminai e mi allontanai di un passo da Rune. Aprii
gli occhi, e sbattei le palpebre alla vista dell’auditorium dalla mia posizione
sopraelevata. Lo immaginai pieno di spettatori, tutti vestiti per un concerto.
Donne e uomini che amavano sentire la musica nei loro cuori. Sorrisi,
immaginandomi la scena così vivida nella mia mente.
Quando mi girai di nuovo verso il ragazzo che aveva creato questo
momento per me, ero senza parole. Non avevo parole per esprimere al
meglio che cosa questo gesto avesse fatto alla mia anima. Il regalo che
Rune mi aveva donato così puramente e dolcemente… Il mio più grande
sogno divenuto realtà.
Quindi non parlai. Non potevo.
Invece, lasciai il suo polso e camminai verso la sedia solitaria che mi
attendeva. Feci scorrere la mia mano sulla pelle nera, sentendone la
consistenza sotto la punta delle dita. Mi avvicinai al violoncello, lo
strumento che avevo sempre percepito come un’estensione del mio corpo.
Uno strumento che riusciva a riempirmi di una tale gioia che nessuno può
descrivere finché non l’ha provata davvero. Una gioia che investiva ogni
cosa e portava con sé una forma suprema di pace, di tranquillità, di serenità;
un amore delicato come nessun altro.
Sbottonandomi il cappotto, lo feci scivolare dalle braccia, solo perché
due mani familiari lo sollevassero e poi mi sfiorassero con gentilezza la
pelle. Lanciai uno sguardo indietro a Rune, che in silenzio posò un bacio
sulla mia spalla nuda per poi abbandonare il palco.
Non vidi dove andò a sedersi dato che, non appena lasciò il palco, un
riflettore che dall’alto puntava direttamente alla sedia, passò da luce soffusa
a una potente e brillante. Le luci della sala si abbassarono. Fissai la sedia
illuminata così intensamente con un inebriante misto di ansia ed
eccitazione.
Mossi un piede in avanti, i miei tacchi creavano un’eco che rimbalzava
tra le pareti. Il suono mi scosse fino alle ossa, innescando fiamme nei miei
deboli muscoli, ridonandogli la vita.
Chinandomi, sollevai il violoncello e ne sentii il manico nella mia presa.
Presi l’archetto nella mano destra, il legno sottile che combaciava
perfettamente con le mie dita.
Mi abbassai sulla sedia, picchiettai il violoncello per portare il puntale
all’altezza perfetta per me. Raddrizzai il violoncello, il più bello che avessi
mai visto, chiusi gli occhi e portai le mani alle corde, pizzicandole a una a
una per controllare che fossero accordate.
Naturalmente erano accordate alla perfezione.
Mi spinsi sul bordo della sedia, piantando bene i piedi sul pavimento di
legno fino a che non mi sentii pronta e carica.
Poi mi concessi di alzare lo sguardo. Sollevai il mento verso il riflettore
come se fosse il sole. Feci un profondo respiro, chiusi gli occhi, poi posai
l’archetto sulla corda.
E suonai.
Le prime note del Preludio di Bach scorrevano dall’archetto alle corde e
fuori, verso la sala, correndo per riempire tutto il grande spazio di suoni
paradisiaci. Ondeggiai quando la musica mi prese nel suo abbraccio,
riversandosi da dentro di me, svelando la mia anima per chiunque volesse
ascoltarla.
E nella mia mente, la sala era pienissima. Ogni poltrona occupata da
appassionati che mi sentivano suonare. Sentivano la musica che esigeva di
essere ascoltata. Suonare tali melodie fino a che non un occhio asciutto
potesse essere trovato in tutta la sala. Trasudare una tale passione che tutti i
cuori se ne sarebbero sentiti colmi e gli spiriti commossi.
Sorrisi sotto il calore della luce, che stava riscaldando i miei muscoli e
scacciando via il loro dolore. Il pezzo arrivò alla sua conclusione. Poi
attaccai con uno nuovo. Suonai e suonai finché non fu passato così tanto
tempo da sentire le dita che iniziavano a farmi male.
Sollevai l’archetto, un silenzio irreale ora avvolgeva la sala. Mi lasciai
sfuggire una lacrima pensando a che pezzo avrei eseguito dopo. A quello
che sapevo che avrei suonato dopo. A quello che dovevo suonare dopo.
Il pezzo musicale che avevo sognato di eseguire su questo palco
prestigioso. Il pezzo che parlava alla mia anima come nessun altro. Quel
pezzo che avrebbe lasciato la sua presenza qui a lungo, dopo che me ne
fossi andata. Quello che avrei suonato per dare l’addio alla mia passione.
Dopo aver sentito la sua eco perfetta in questa magnifica sala, non avrei
potuto, non avrei suonato mai più. Non ci sarebbe stato più il violoncello
per me.
Doveva essere qui che avrei lasciato questa parte del mio cuore. Sarebbe
stato qui che avrei detto addio alla passione che mi aveva mantenuta forte,
che era stata la mia salvezza nei momenti in cui mi sentivo persa e sola.
Doveva essere qui che le note sarebbero state lasciate a danzare in aria
per l’eternità.
Sentii un tremore nelle mani e feci una pausa prima di incominciare.
Sentii le lacrime che scorrevano copiose e veloci, ma non erano di tristezza.
Erano per due care amiche – la musica e la vita che l’aveva creata – che
dicevano l’una all’altra che avrebbero dovuto separarsi, ma che un giorno,
un giorno, sarebbero state insieme di nuovo.
Mi unii a loro due, posai l’archetto sulla corda e lasciai che “Il Cigno”
dal Carnevale degli Animali cominciasse. Adesso che le mie mani erano
ferme, iniziai a creare la musica che adoravo così tanto e sentii un nodo
chiudermi la gola. Ogni nota era una preghiera sussurrata, e ogni crescendo
era un inno cantato a piena voce, a Dio che mi aveva dato questo dono. Mi
aveva dato il dono di suonare la musica, di sentirla nella mia anima.
E queste note erano il mio ringraziamento pieno di riconoscenza a quello
strumento, per avermi permesso di suonarlo nella sua gloria, con tale grazia.
Che mi permetteva di amarlo così tanto che era diventato parte di me, la
vera essenza del mio essere.
E infine, le delicate battute che fluivano così dolcemente nella sala
manifestavano la mia eterna gratitudine al ragazzo che sedeva in silenzio
nell’oscurità. Il ragazzo con un dono per la fotografia come il mio per la
musica. Lui era il mio cuore. Il cuore che mi era stato donato liberamente
da bambina. Il cuore che costituiva la metà del mio stesso cuore. Il ragazzo
che, nonostante fosse distrutto dentro, mi amava così profondamente da
regalarmi questo addio. Mi aveva dato, nel presente, un sogno che il mio
futuro non avrebbe mai potuto darmi.
La mia anima gemella che catturava momenti.
La mia mano tremò quando risuonò la nota finale, le mie lacrime che si
infrangevano sul legno. Tenni la mano in aria, la fine del pezzo sospesa fino
a che l’ultima eco del sussurro della nota finale risalì al cielo, per prendere
il suo posto insieme alle stelle.
Mi fermai, lasciando che l’addio facesse presa in me.
Poi, più in silenzio possibile, mi alzai. E sorridendo, immaginai il
pubblico e il suo applauso. Mi inchinai con la testa e abbassai il violoncello
sul pavimento del palco, poggiando l’archetto in cima, proprio come
l’avevo trovato.
Inclinai la testa indietro verso il fascio di luce che arrivava dall’alto
un’ultima volta, poi mi spostai nell’ombra. I tacchi creavano un sordo
sottofondo di tamburi mentre lasciavo il palco. Quando arrivai all’ultimo
scalino, si riaccesero le luci della sala, scacciando via i residui del sogno.
Presi un profondo respiro mentre facevo correre lo sguardo lungo le
poltrone rosse vuote, poi lanciai uno sguardo indietro, al violoncello ancora
posizionato sul palco esattamente come prima, in paziente attesa del
prossimo giovane musicista che sarebbe stato benedetto dalla sua grazia.
Era finita.
Rune lentamente si alzò in piedi. Il mio stomaco ebbe un balzo quando
vidi le sue guance arrossate per l’emozione. Ma il mio cuore saltò un battito
di cui avevo tanto bisogno quando vidi l’espressione sul suo bellissimo
viso. Mi aveva capita. Aveva capito la mia verità.
Aveva capito che era l’ultima volta che avrei suonato. E riuscivo a
vedere, con chiarezza cristallina, il misto di sofferenza e orgoglio che
albergava nei suoi occhi.
Quando mi raggiunse, Rune non toccò le lacrime che macchiavano le
mie guance, come io non toccai le sue. Con gli occhi chiusi, Rune prese la
mia bocca in un bacio. E in questo bacio io sentii il traboccare del suo
amore. Sentii un amore che, a diciassette anni, era un dono per me poter
ricevere.
Un amore che non conosceva confini.
Quel tipo di amore che ispirava musica che perdurava nei secoli.
Un amore che dovrebbe essere provato, inteso e conservato come un
tesoro.
Quando Rune si tirò indietro per fissarmi negli occhi, seppi che questo
bacio sarebbe stato scritto su un cuore di carta rosa con più devozione di
qualunque altro che era venuto prima.
Bacio ottocentodiciannove, il bacio che aveva cambiato tutto. Il bacio
che aveva provato che un tenebroso ragazzo norvegese dai capelli lunghi e
una stravagante ragazza del profondo sud potevano trovare un amore che
rivaleggiava con i più grandi.
Dimostrava che l’amore era semplicemente la tenacia nel far sì che
l’altra metà del cuore sapesse che lui, o lei, erano adorati in ogni modo. In
ogni minuto di ogni giorno. L’amore che era tenerezza nella sua forma più
pura.
Rune inspirò profondamente, poi sussurrò: «Non ho parole in questo
momento… In nessuna delle mie lingue».
In risposta, gli offrii un debole sorriso. Perché neanche io ne avevo.
Questo silenzio era perfezione. Era di gran lunga meglio delle parole.
Prendendo la mano di Rune, lo guidai lungo il corridoio e fuori dal
foyer. Il freddo vento di New York a febbraio fu un sollievo benvenuto
dopo il calore dell’interno dell’edifico. La nostra limousine ci attendeva
accanto al marciapiede, Rune doveva aver chiamato l’autista.
Ci infilammo sul sedile posteriore. L’autista partì nel traffico e Rune mi
attirò contro il suo fianco. Io mi ci adagiai con piacere, respirando il fresco
profumo di lui sulla sua giacca. Ad ogni curva, le pulsazioni del mio cuore
aumentavano. Quando arrivammo all’hotel, presi la mano di Rune e mi
diressi dentro.
Durante il tragitto fino a qui non avevamo pronunciato neanche una
parola, non un solo suono mentre l’ascensore raggiungeva l’ultimo piano. Il
suono della carta che apriva la chiusura elettronica rimbombò come un
tuono nel corridoio silenzioso. Aprii la porta, i miei passi risuonavano sul
pavimento di legno, e attraversai il soggiorno. Senza fermarmi, proseguii
fino alla soglia della stanza da letto, lanciandomi solo uno sguardo indietro
per essere certa che Rune mi stesse seguendo. Era in piedi sulla porta, a
guardarmi mentre mi allontanavo. I nostri sguardi si scontrarono, e
sentendo il bisogno di lui più dell’aria, sollevai lentamente la mano.
Lo volevo.
Avevo bisogno di lui.
Dovevo amarlo.
Vidi Rune trarre un profondo respiro, poi fare un passo verso di me.
Avanzò con cautela fino al punto in cui io lo stavo aspettando. Fece
scivolare la sua mano nella mia, il suo tocco mandò vampate di amore e di
luce in tutto il mio corpo.
Gli occhi di Rune erano scuri, quasi neri, le sue pupille dilatate
cancellavano il blu. Il suo bisogno era potente quanto il mio, il suo amore
era stato dimostrato e la sua fiducia, totale.
Una calma rifluì come un fiume. La accolsi, portai Rune in camera da
letto e chiusi la porta. L’atmosfera intorno a noi si fece densa.
Lo sguardo intenso di Rune soppesava, osservava ogni mio movimento.
Sapendo di avere la sua incondizionata attenzione, gli liberai la mano e
mi feci indietro. Sollevando le mie dita tremanti, iniziai a slacciare i grandi
bottoni del mio cappotto, i nostri sguardi incatenati non vacillarono mentre
il cappotto si apriva e lo lasciavo cadere lentamente sul pavimento.
Mentre mi guardava, la mascella di Rune si indurì, le dita si aprivano e
chiudevano lungo i fianchi.
Mi liberai delle scarpe, i miei piedi nudi affondarono nel morbido
tappeto. Presi un respiro per farmi forza, attraversai il tappeto fino a dov’era
Rune, in attesa. Quando mi fermai di fronte a lui, sollevai gli occhi, le
palpebre pesanti per il furioso assalto di sentimenti dentro di me.
L’ampio petto di Rune si alzava e si abbassava, la t-shirt bianca attillata
sotto la giacca metteva in risalto il suo petto muscoloso. Sentii le mie
guance ricoprirsi di rossore, e delicatamente poggiai i palmi sopra il suo
petto. Rune si immobilizzò quando le mie mani calde lo sfiorarono. Poi,
mantenendo gli occhi allacciati ai suoi, feci scivolare le mie mani su, sulle
sue spalle, liberandolo dalla giacca. Quella cadde sul pavimento, ai suoi
piedi.
Inspirai tre volte, combattendo per controllare il nervosismo che
all’improvviso aveva preso ad attraversarmi. Rune non si mosse. Rimaneva
completamente fermo, lasciandomi esplorare; feci scorrere la mia mano giù,
lungo la sua pancia, verso il suo braccio, e presi la sua mano con la mia.
Portai le nostre mani intrecciate alla bocca, e in un gesto così familiare per
entrambi, baciai le nostre dita allacciate.
«È così che dovrebbero sempre stare» sussurrai, guardando le nostre dita
avviluppate.
Rune deglutì e annuì, in un silenzioso assenso.
Feci un passo indietro, poi ancora un altro. Ci dirigemmo verso il letto.
La trapunta era già scostata, piegata giù dalla cameriera dell’albergo. E
quanto più mi avvicinavo a quel letto, tanto più il mio nervosismo si
calmava e una pace si impadroniva di me.
Perché questo era giusto.
Niente, nessuno, poteva dirmi che era sbagliato.
Fermandomi davanti al bordo del letto, sciolsi le nostre mani. Sospinta
dal desiderio, strinsi il bordo della maglietta di Rune e piano lo feci
scivolare sopra la sua testa. Venendomi in aiuto, Rune gettò la t-shirt sul
pavimento, e rimase in piedi a torso nudo.
Rune dormiva così ogni notte, ma c’era qualcosa nella carica statica
dell’atmosfera tra noi e nel modo in cui mi aveva fatta sentire con la
sorpresa di stasera.
Era diverso.
Era toccante.
Era noi.
Sollevando le mani, spinsi i palmi sulla sua pelle e feci scorrere la punta
delle dita sulle creste e le vallate dei suoi addominali. Sulla pelle di Rune
affioravano brividi al mio passaggio, il suo respiro affannato sibilava
attraverso le sue labbra appena dischiuse. E le mie dita esplorarono il suo
ampio petto, mi chinai in avanti e premetti le mie labbra sul suo cuore.
Sfarfallava come le ali di un colibrì.
«Sei perfetto, Rune Kristiansen» sussurrai.
Le dita di Rune si sollevarono per intrecciarsi nei miei capelli. Guidò la
mia testa verso l’alto. Tenni gli occhi bassi fino all’ultimo secondo, quando
finalmente li sollevai e incontrai lo sguardo dei suoi occhi blu come
cristalli. Quegli occhi luccicavano.
Rune schiuse le labbra carnose e sussurrò: «Jeg elsker deg».
Mi amava.
Annuii per dimostrargli che avevo sentito. Ma la voce mi era stata
sottratta dal quel momento. Dalla preziosità del suo tocco. Mi feci indietro,
e gli occhi di Rune seguirono ogni movimento. Volevo che lo facessero.
Sollevando la mano alla spallina del mio abito, cercai di mantenere i
nervi saldi e la feci scivolare lungo il braccio. Il respiro di Rune iniziò a
farsi interrotto mentre mi liberavo dell’altra spallina, e il vestito di seta si
raccolse ai miei piedi. Abbandonai le braccia lungo i fianchi, gran parte del
mio corpo rivelato per il ragazzo che amavo al di sopra di ogni cosa al
mondo.
Ero nuda, e mostravo le cicatrici che mi ero procurata nell’arco di due
anni. Mostravo tutta me stessa, la ragazza che aveva sempre conosciuto, e le
cicatrici di battaglia della mia lotta incessante.
Lo sguardo di Rune scese, per scorrere su di me. Ma non c’era ombra di
disgusto nei suoi occhi. Vedevo solo la purezza del suo amore che
risplendeva in essi. Vedevo solo desiderio e bisogno, e più di ogni cosa… Il
suo cuore interamente a nudo.
Solo per i miei occhi.
Come sempre.
Rune si fece sempre più vicino, fino a che il suo caldo petto non fu
premuto contro il mio. Con un tocco leggero come una piuma, mi spostò i
capelli dietro l’orecchio, e poi fece scorrere la punta delle sue dita giù,
lungo il mio collo nudo e sul mio fianco.
Le mie palpebre sbattevano per la sensazione. Brividi mi correvano
lungo la schiena. L’aroma di menta del respiro di Rune mi riempiva il naso,
mentre lui si chinava per trascinare le sue labbra morbide lungo il mio
collo, ricoprendo la mia pelle scoperta di baci delicati.
Mi aggrappai alle sue spalle forti, per tenermi ancorata al suolo.
«Poppymin», Rune sussurrò con voce roca mentre la sua bocca lambiva il
mio orecchio.
Inspirando profondamente, sussurrai: «Fai l’amore con me, Rune».
Rune restò immobile per un momento poi, spostandosi fino a che il suo
viso non fu sospeso di fronte al mio, catturò brevemente i miei occhi prima
di adagiare le labbra sulle mie. Questo bacio era dolce quanto questa notte,
delicato quanto il suo tocco. Questo bacio era diverso, era la promessa di
quello che ci aspettava dopo, il giuramento di Rune di essere delicato… Il
suo giuramento di amarmi proprio come io amavo lui.
Le forti mani di Rune si posarono sulla mia nuca mentre la sua bocca si
muoveva lentamente contro la mia. Poi, quando fui rimasta senza fiato, le
sue mani caddero sulla mia vita e delicatamente mi sollevò per mettermi sul
letto.
La mia schiena colpì il soffice materasso e, dal centro del letto, osservai
Rune liberarsi dei vestiti che gli rimanevano, senza mai staccare gli occhi
dai miei mentre si arrampicava sul letto per stendersi accanto a me.
L’intensità dell’espressione sul bellissimo viso di Rune mi fece
sciogliere, fece rimbombare il mio cuore al ritmo di uno staccato.
Voltandomi sul fianco per trovarmi di fronte a lui, feci scorrere le mie dita
lungo la sua guancia. «Anche io ti amo» sussurrai.
Gli occhi di Rune si chiusero come se avesse avuto bisogno di sentire
quelle parole più del suo prossimo respiro.
Si spostò sopra di me, la sua bocca che prese la mia. Le mani
scivolavano lungo la sua schiena muscolosa e su, tra i suoi lunghi capelli.
Quelle di Rune corsero lungo i lati del mio corpo, e poi mi liberarono del
resto dei vestiti che mi erano rimasti, che finirono sul pavimento insieme
agli altri.
Ero senza fiato, mentre Rune torreggiava sopra di me. Senza fiato
quando incrociò i miei occhi, e chiese: «Sei sicura, Poppymin?»
Incapace di trattenere il sorriso, replicai: «Più di quanto lo sia stata di
ogni altra cosa nella vita».
I miei occhi si chiusero in un battito di ciglia mentre Rune mi baciava di
nuovo, le sue mani che esploravano il mio corpo, tutte quelle parti un tempo
familiari. E io feci lo stesso. Ad ogni tocco e ad ogni bacio, il mio
nervosismo si scioglieva, finché non fummo Poppy e Rune, noi, senza un
inizio né una fine.
L’aria diventava calda e pesante quanto più ci baciavamo ed
esploravamo, fino a che alla fine, Rune scivolò sopra di me. Senza
interrompere il contatto tra i nostri occhi una sola volta, mi fece di nuovo
sua.
Il mio corpo si riempì di vita e di luce mentre lui ci rendeva una cosa
sola. Il mio cuore era pieno di così tanto amore che avevo paura non potesse
contenere tutta la felicità che lo stava inondando.
Lo strinsi a me mentre tornavamo giù sulla terra, con forza tra le mie
braccia. La testa di Rune si appoggiò nella piega del mio collo, la sua pelle
era lucida e calda.
Tenni gli occhi chiusi, non volevo separarmi da questo momento. Questo
momento perfetto. Alla fine, Rune sollevò la testa. Vedendo l’espressione
vulnerabile sul suo viso, lo baciai delicatamente. Così delicatamente come
lui mi aveva presa. Così delicatamente come lui teneva in mano il mio
fragile cuore.
Le sue braccia salirono a racchiudere la mia testa, tenendomi al sicuro.
Quando mi staccai dal nostro bacio, vidi il suo sguardo amorevole e
sussurrai: «Bacio ottocentoventi. Con il mio Rune, nel giorno più
incredibile della mia vita. Dopo aver fatto l’amore… E il mio cuore è quasi
scoppiato».
Il respiro di Rune si incastrò nella sua gola. Con un ultimo breve bacio,
si spostò accanto a me e mi avvolse tra le sue braccia.
Chiusi gli occhi e scivolai in un sonno leggero. Così leggero che sentii
Rune baciarmi sulla testa e poi alzarsi dal letto. Quando la porta della
camera da letto si chiuse, aprii gli occhi nell’oscurità e colsi il rumore della
porta della terrazza che si apriva. Spingendo via la trapunta, indossai
l’accappatoio che era appeso dietro la porta e le ciabattine ordinatamente
posate sul pavimento. Mentre attraversavo la stanza sorrisi, sentendo ancora
il profumo di Rune sulla mia pelle.
Entrai nel soggiorno, diretta verso la porta che dava sul giardino, ma
immediatamente mi bloccai sui miei passi. Perché, attraverso l’ampia
finestra, potevo vedere Rune sul pavimento, seduto sulle ginocchia. Cadere
a pezzi.
Mi sentii come se il mio cuore si strappasse fisicamente in due mentre lo
guardavo, fuori nell’aria fredda della notte, vestito solo dei suoi jeans. Le
lacrime si riversavano a fiotti dai suoi occhi e la sua schiena tremava per il
dolore che gli squassava il corpo.
Mentre lo fissavo, le lacrime mi annebbiarono la vista. Il mio Rune. Così
distrutto e solo, mentre sedeva nella neve che cadeva leggera.
«Rune. Piccolo» sussurrai tra me, mentre obbligavo i miei piedi ad
arrivare alla porta, mentre obbligavo la mia mano a girare la maniglia,
ordinavo al mio cuore di prepararsi alla sofferenza che provocava questa
scena.
Il sottile strato di neve fresca crepitò sotto i miei passi. Rune non sembrò
sentirlo. Ma io sentivo lui. Sentivo il suo respiro fuori controllo. Ma ancora
peggio, sentivo i suoi singhiozzi strazianti. Sentivo il dolore sopraffarlo. Lo
vedevo nel modo in cui lui vacillava in avanti, i palmi piantati sul
pavimento sotto di sé.
Senza riuscire a trattenere i miei singhiozzi, mi slanciai in avanti e lo
avvolsi tra le braccia. La sua pelle nuda era gelata sotto il mio tocco. Senza
accorgersi del freddo, a quanto pareva, Rune collassò nel mio grembo, il
suo imponente busto slanciato che cercava disperatamente il conforto delle
mie braccia.
E crollò.
Rune crollò completamente in pezzi: fiumi di lacrime scorrevano,
inondando le sue guance, ruvidi respiri aleggiavano in bianche nuvolette di
fumo quando sferzavano l’aria gelida.
Lo cullavo avanti e indietro, tenendolo stretto, vicino a me. «Shh» lo
calmai, cercando in ogni modo di respirare e vincere il mio stesso dolore. Il
dolore di vedere il ragazzo che amavo cadere a pezzi. Il dolore di sapere che
presto me ne sarei dovuta andare, eppure volevo resistere con tutto il mio
cuore alla chiamata di casa.
Mi ero fatta una ragione della mia vita che si stava spegnendo. Adesso
volevo lottare per rimanere con Rune, per Rune, pur sapendo che era
inutile.
Non potevo controllare il mio destino.
«Rune» sussurrai, le mie lacrime che si perdevano nelle lunghe ciocche
dei suoi capelli sul mio grembo.
Rune sollevò gli occhi, la sua espressione devastata e chiese con voce
rotta: «Perché? Perché ti devo perdere?» Scosse la testa, il suo volto che si
contorceva di dolore. «Perché io non posso, Poppymin. Non posso vederti
andare via. Non posso sopportare il pensiero di non poterti avere più così
per il resto delle nostre vite». Soffocò per un singhiozzo, ma riuscì a
continuare. «Come può spezzarsi un amore come il nostro? Come puoi
venirmi portata via così giovane?»
«Non lo so, piccolo» sussurrai, spostando lo sguardo da un’altra parte,
nel tentativo di contenermi. Le luci di New York brillavano davanti alla mia
vista. Scacciai via il dolore che mi portava il fatto che lui ponesse queste
domande.
«È così e basta, Rune» risposi tristemente. «Ma non c’è una ragione per
cui è capitato a me. Perché non a me? Nessuno si merita questo, ma io devo
lo stesso …» Mi morì la voce, ma riuscii ad aggiungere: «Devo avere
fiducia che ci sia una ragione superiore o mi frantumerei per il dolore di
dovermi lasciare indietro tutto ciò che amo». Risucchiai un respiro. «Per il
dolore di lasciare te, specialmente dopo oggi. Specialmente dopo aver fatto
l’amore con te stanotte».
Rune fissò i miei occhi pieni di lacrime. Cercando di ritrovare un po’ di
compostezza, si rimise in piedi e mi sollevò tra le sue braccia. Ne ero lieta,
perché mi sentivo troppo debole per muovermi. Non ero sicura che sarei
riuscita ad alzarmi dal pavimento umido e freddo, se ci avessi provato.
Allacciando le mie braccia al collo di Rune, poggiai la testa sul suo petto
e chiusi gli occhi mentre mi portava in braccio dentro e di nuovo in camera
da letto.
Spingendo indietro la trapunta, mi sistemò sotto di essa, per poi seguirmi
e avvolgere le braccia intorno alla mia vita mentre stavamo uno di fronte
all’altra, sul mio cuscino.
Gli occhi di Rune erano rossi, i suoi lunghi capelli umidi per la neve e la
pelle chiazzata dalla profondità della sua tristezza. Sollevando una mano, la
feci scorrere lungo il suo viso. La sua pelle era gelata.
Rune voltò il viso contro il mio palmo. «Su quel palco stasera, sapevo
che stavi dicendo addio. E io…» La sua voce si bloccò, ma lui si schiarì e
finì. «Ha reso tutto troppo reale». I suoi occhi luccicarono di nuove lacrime.
«Mi ha fatto prendere coscienza che stava veramente accadendo». Rune
strinse la mia mano e se la portò al suo petto. La strizzò fortissimo. «E io
non riesco a respirare. Non riesco a respirare quando provo a immaginare di
vivere senza di te. Ci ho provato una volta, e non è andata bene. Ma…
Almeno tu eri viva, lì fuori, da qualche parte. Presto… Presto…» Le sue
parole morirono quando cominciarono a cadere le lacrime. Girò la testa per
evitare il mio sguardo.
Catturai la sua guancia che si ritirava via da me. Rune sbatté le palpebre.
«Sei spaventata, Poppymin? Perché io sono terrorizzato. Sono terrorizzato
di come diavolo sarà la mia vita senza di te».
Mi fermai.
Pensai seriamente alla sua domanda. E mi permisi di sentire la verità. Mi
permisi essere onesta. «Rune, non ho paura di morire». Chinai la testa, e il
dolore che non mi aveva mai invasa prima, improvvisamente riempì ogni
mia cellula. Lasciai ricadere la testa contro la sua e sussurrai: «Ma da
quando sei tornato, da quando il mio cuore ha ritrovato il suo ritmo, tu, sto
provando tutto il genere di sensazioni che non avevo mai sentito prima.
Prego di avere più tempo, solo per poter vivere più giorni tra le tue braccia.
Prego che i minuti durino di più solo perchè tu possa regalarmi più baci».
Presi un respiro di cui avevo tanto bisogno. «Ma la cosa peggiore è che
sto iniziando a provare paura» aggiunsi.
Rune si fece appena più vicino, il suo braccio mi si strinse di più intorno
alla vita. Sollevai la mia mano tremante al suo viso. «Provo paura a doverti
lasciare. Non sono spaventata della morte, Rune. Ma sono terrorizzata di
andare in un qualsiasi posto nuovo senza di te». Gli occhi di Rune si
serrarono e sibilò come se sentisse dolore.
«Io non mi conosco senza di te» dissi piano. «Anche quando tu eri a
Oslo, immaginavo il tuo viso, ricordavo la sensazione della tua mano che
teneva la mia. Ascoltavo le tue canzoni preferite e leggevo i baci del mio
vasetto. Proprio come mi aveva detto di fare mia nonna. Chiudevo gli occhi,
e sentivo le tue labbra sulle mie». Mi concessi di sorridere. «Ricordavo la
notte in cui avevamo fatto l’amore per la prima volta e la sensazione nel
mio cuore in quel momento, appagato… In pace».
Tirai su col naso e asciugai velocemente le mie guance umide. «Anche
se tu non eri con me, lo eri nel mio cuore. E questo era abbastanza per
sostenermi, anche se non ero felice». Baciai la bocca di Rune, solo per
assaporarne l’aroma. «Ma adesso, dopo questo tempo di nuovo insieme
sono piena di paura. Perché chi siamo noi, uno senza l’altra?»
«Poppy» mi chiamò Rune con voce arrochita.
Le mie lacrime cominciarono a cadere con trasporto sfrenato. «Ti ho
fatto del male ad amarti così tanto. E adesso devo andare incontro a
un’avventura senza di te. E non posso sopportare quanto questo ti faccia
soffrire. Non posso lasciarti così solo e addolorato».
Rune mi attirò al suo petto.
Io piansi. Lui pianse.
Condividemmo le nostre paure di perdita e d’amore. Le mie dita erano
posate sulla sua schiena e traevo conforto dal suo calore.
Quando le nostre lacrime si furono placate, Rune mi spinse indietro
dolcemente e cercò il mio viso. «Poppy» disse, con voce incrinata. «Com’è
il paradiso, secondo te?»
Mi accorsi, dal suo viso, che voleva saperlo disperatamente.
Recuperando un po’ di calma, affermai: «Un sogno».
«Un sogno» fece eco Rune, e vidi il suo labbro incurvarsi in un angolo.
«Ho letto una volta che quando sogni ogni notte, è in realtà una visita a
casa. Casa, Rune. Il paradiso». Iniziai a sentire il conforto che quella
visione mi portava, partire dalla punta dei piedi. Iniziò a viaggiare per tutto
il mio corpo. «Il mio paradiso sarà me e te nel frutteto. Come sempre. Per
sempre a diciassette anni».
Presi tra le dita una ciocca dei capelli di Rune, studiandone il colore
dorato. «Hai mai fatto un sogno talmente vivido che quando ti svegliavi
credevi che fosse reale? Ti sentivi come se fosse reale?»
«Ja» rispose Rune, silenziosamente.
«È perché lo era, Rune, in un certo senso. Così di notte, quando
chiuderai gli occhi, io sarò lì a incontrarti nel nostro frutteto».
Avvicinandomi ancora, aggiunsi: «E quando arriverà il momento anche
per te di tornare a casa, ci sarò io ad accoglierti. E non ci saranno
preoccupazione, né paura, né dolore. Solo amore». Sospirai felicemente.
«Immaginatelo, Rune. Un posto dove non c’è dolore o sofferenza». Chiusi
gli occhi e sorrisi. «Quando ci penso in questo modo, non ho più così
paura».
Le labbra di Rune si strofinarono contro le mie. «Sembra perfetto» disse,
il suo accento marcato, la voce rauca. «Voglio che tu abbia questo,
Poppymin».
Aprii gli occhi in un battito di ciglia e vidi la verità e l’accettazione sul
bel viso di Rune.
«Sarà così, Rune» dissi, con certezza incrollabile. «Noi non finiremo.
Non finiremo mai».
Rune mi fece rotolare fino a che non fui distesa sul suo petto. Chiusi gli
occhi, cullata dal ritmo ipnotico dei profondi respiri di Rune. Proprio
mentre stavo per cedere al sonno, Rune mi chiamò. «Poppymin?»
«Sì?»
«Cosa vuoi fare del tempo che ti resta?»
Pensai alla sua domanda, ma solo poche cose mi vennero in mente.
«Voglio vedere per un’ultima volta il frutteto di ciliegi in fiore». Sorrisi
contro il petto di Rune. «Voglio danzare al ballo di fine anno con te»,
inclinai la testa in alto e lo trovai che mi stava sorridendo, «tu in smoking e
con i capelli pettinati e via dal tuo viso». Rune scosse la testa divertito.
Sospirai per la felicità piena di pace che ora avevamo trovato. «Voglio
vedere un’ultima alba perfetta» dissi. Mi misi seduta, incrociai gli occhi di
Rune e conclusi. «Ma più di ogni altra cosa, voglio ritornare a casa con il
tuo bacio sulle mie labbra. Voglio passare a nuova vita sentendo ancora le
tue labbra calde sulle mie».
Riadagiandomi sul petto di Rune, chiusi gli occhi e sussurrai: «Questo è
quello per cui prego di più. Di vivere abbastanza per riuscire a fare queste
cose».
«Sono perfette, piccola» sussurrò Rune, accarezzandomi i capelli.
E fu così che mi addormentai, sotto la protezione di Rune.
Sognando che avrei visto realizzati tutti i miei desideri.
Felice.
Rune

Disegnavo pigramente dei cerchi sulla carta mentre la professoressa


continuava a parlare di composti chimici. La mia mente era occupata dal
pensiero di Poppy. Lo era sempre, ma oggi era diverso. Eravamo già tornati
da quattro giorni da New York, e ogni giorno che passava lei diventava più
silenziosa.
Chiedevo in continuazione cosa ci fosse che non andava. Lei mi diceva
sempre che non era niente. Ma sapevo che c’era qualcosa. Questa mattina,
era stato peggio.
Sentivo la sua mano troppo debole nella mia, mentre camminavamo
verso la scuola. La sua pelle troppo calda sotto il mio tocco. Le avevo
chiesto se si sentiva male, ma lei aveva scosso semplicemente la testa e
sorriso.
Pensava che quel sorriso mi avrebbe fatto perdere il corso dei miei
pensieri.
Normalmente ci riusciva, ma non oggi.
Qualcosa non andava. Il mio cuore sprofondava ogni volta che ripensavo
al pranzo, quando ci eravamo seduti con i nostri amici e lei si era adagiata
tra le mie braccia. Non aveva mai parlato, invece aveva solo disegnato con
la punta delle dita sulla mia mano.
Il pomeriggio si era trascinato, e ogni minuto era stato riempito dalla
preoccupazione che lei non stesse bene. Che il tempo che le era rimasto
stesse giungendo alla fine. Tirandomi su a sedere all’improvviso, cercai di
tenere a bada l’ondata di panico che quell’immagine mi provocava. Ma era
inutile.
Quando suonò l’ultima campanella, che segnalava la fine della giornata
scolastica, saltai dalla mia sedia e mi precipitai nel corridoio, puntando
dritto all’armadietto di Poppy. Quando arrivai, trovai lì Jorie.
«Dov’è?» Chiesi bruscamente.
Jorie indietreggiò per la sorpresa e indicò la porta posteriore. Mentre mi
avviavo velocemente a quell’uscita, Jorie urlò: «Non sembrava stesse tanto
bene in classe, Rune. Sono davvero preoccupata».
I brividi corsero lungo la mia spina dorsale mentre irrompevo nell’aria
calda. I miei occhi scandagliarono il cortile fino a che non trovai Poppy in
piedi, appoggiata a un albero nel parco di fronte. Mi feci largo a forza tra gli
altri studenti e corsi da lei. Non mi aveva notato, dal momento che fissava
dritto davanti a sé, come fosse in trance. C’era un leggero velo di sudore
che le copriva il viso, e la pelle delle braccia e delle gambe appariva pallida.
Mi misi direttamente davanti a lei. Gli occhi spenti di Poppy erano inerti
mente lei sbatteva le palpebre e lentamente mi metteva a fuoco. Si sforzò di
fare un sorriso. «Rune» sussurrò, debolmente.
Premetti una mano contro la sua fronte, con le sopracciglia unite per la
preoccupazione. «Poppy? Cosa c’è che non va?»
«Niente» disse in modo poco convincente. «Sono solo stanca».
Il mio cuore martellava contro le costole mentre assorbivo quella bugia.
Consapevole che dovevo riportarla dai suoi genitori, la raccolsi sotto il mio
braccio. Quando la sua nuca quasi mi scottò il braccio, ricacciai indietro
un’imprecazione.
«Andiamo a casa, piccola» le dissi dolcemente. Poppy mi avvolse le
braccia intorno alla vita. La sua presa era debole, ma mi accorsi che stava
usando il mio corpo per sorreggersi in piedi. Sapevo che avrebbe protestato
se avessi provato a portarla in braccio.
Chiusi gli occhi per un secondo quando ci incamminammo sul sentiero
del parco. Cercai di domare la paura che si stava impossessando di me. La
paura che lei fosse ammalata. Che questa fosse…
Poppy era silenziosa, tranne per il suo respiro che diventava più
profondo e ansimante mano mano che camminavamo. Quando entrammo
nel frutteto, Poppy vacillò sui suoi passi. Guardai in giù, solo per sentire il
suo corpo che tutta la forza.
«Poppy!» Urlai, e la presi giusto in tempo prima che cadesse per terra.
Guardandola tra le mie braccia, le spostai i capelli umidi dal viso con una
carezza. «Poppy? Poppy, piccola, cos’hai?»
Gli occhi di Poppy iniziarono a roteare, perdendo il fuoco, ma sentii la
sua mano prendere la mia, e aggrapparsi con tutta la forza che aveva. Era a
malapena una stretta.
«Rune» cercò di dire, ma iniziò a respirare troppo velocemente; lottava
per trattenere abbastanza aria da spingere fuori la voce.
Frugai nella mia tasca, presi il cellulare e chiamai il 911. Appena
l’operatore rispose, dissi d’un fiato l’indirizzo di Poppy e li informai della
sua malattia.
Sollevando Poppy tra le mie braccia, stavo per iniziare a correre quando
il palmo della mano di Poppy si posò debole sul mio viso. Guardai in basso,
solo per vedere una lacrima che rotolava giù sulla guancia. «Io… Io… non
sono pronta…» Riuscì a dire, prima che la testa le ricadesse indietro e
iniziasse a lottare per non perdere conoscenza.
Nonostante lo strappo che mi stava lacerando il cuore nel vedere lo
spirito di Poppy distrutto e il suo corpo prostrato, iniziai a correre.
Spingendo il mio corpo più forte e più veloce di quanto avessi mai fatto
prima.
Passando davanti a casa mia, vidi mia madre e Alton nel vialetto.
«Rune?» Chiamò mia mamma, per poi sussurrare: «No!» Quando vide
Poppy accasciata inerme tra le mie braccia.
In lontananza ululava il suono della sirena dell’ambulanza. Senza
perdere tempo, irruppi con un calcio attraverso la porta d’ingresso di casa di
Poppy.
Corsi nel soggiorno, non c’era nessuno.
«Aiuto!» Urlai più forte che potevo, e a un tratto sentii dei passi
accorrere nella mia direzione.
«Poppy!» Sua madre si precipitò oltre l’angolo mentre abbassavo Poppy
sul divano. «Oh mio Dio! Poppy!» La signora Litchfield si accovacciò
accanto a me, spingendo la mano sulla fronte della figlia.
«Che è successo? Cosa c’è che non va?» Chiese.
Scossi la testa. «Non lo so. È solo collassata tra le mie braccia. Ho
chiamato l’ambulanza».
Appena finii di pronunciare queste parole, sentii il suono dell’ambulanza
che girava nella nostra strada. La mamma di Poppy corse fuori di casa. La
guardai andare, col sangue nelle mie vene che si stava trasformando in
ghiaccio. Mi passai le mani tra i capelli, non sapevo cosa fare. Una mano
fredda si poggiò sul mio polso.
Voltai di scatto gli occhi verso Poppy, e la vidi sforzarsi di prendere un
respiro. L’espressione sul mio viso crollò a quella vista. Abbassandomi per
avvicinarmi, le baciai la mano. «Starai bene, Poppymin. Te lo prometto»
sussurrai.
Poppy annaspò per respirare, ma riuscì a poggiarmi il palmo della sua
mano sul viso e disse, quasi impercettibilmente: «Non… Sto andando a
casa… Non ancora…»
Io annuii e le baciai la mano, stringendola forte nella mia.
Improvvisamente, giunse dalle mie spalle il suono dei paramedici che
entravano in casa e io mi alzai per farli passare. Ma quando lo feci, la mano
di Poppy strinse più forte la mia. Lacrime sgorgavano dai suoi occhi. «Sono
proprio qui, piccola» sussurrai. «Non ti lascio».
Gli occhi di Poppy mi mostrarono la sua gratitudine. Rumore di pianti
arrivò da dietro di me. Quando mi girai, vidi Ida e Savannah in piedi in
disparte che guardavano, piangendo una tra le braccia dell’altra. La signora
Litchfield si spostò dall’altro lato del divano e baciò la testa di Poppy.
«Starai bene, tesoro» le sussurrò, ma quando mi guardò, vidi che lei stessa
non credeva alle sue parole.
Anche lei pensava che fosse arrivato il momento.
I paramedici misero una maschera d’ossigeno sulla faccia di Poppy e la
issarono sulla barella. La mano di Poppy ancora tratteneva la mia, lei si
rifiutava di lasciarla andare. Mentre i paramedici la portavano fuori di casa,
lei non allentò mai la presa sulla mia mano, i suoi occhi non abbandonarono
mai i miei mentre lottava per tenerli aperti.
La signora Litchfield correva dietro di noi, ma quando vide la mano di
Poppy che stringeva la mia così forte, disse: «Vai tu con Poppy, Rune. Io vi
seguo con le bambine».
Vidi la sua espressione combattuta. Voleva stare con sua figlia.
«Le porto io, Ivy, tu vai con Poppy e Rune» sentii dire mia madre alle
mie spalle. Mi arrampicai nel retro dell’ambulanza e la signora Litchfield
mi raggiunse.
Anche quando gli occhi di Poppy si chiusero, sulla strada per l’ospedale,
lei non lasciò la mia mano. E, mentre crollava in lacrime accanto a me, tesi
l’altra mano alla signora Litchfield.
Rimasi accanto a Poppy mentre la portavano in barella nel reparto
oncologia. Il battito del mio cuore era rapido quanto i movimenti dei dottori
e degli infermieri, una macchia confusa, una moltitudine di attività.
Ricacciai indietro il nodo che mi ostruiva la gola. Tenevo a bada il
torpore che avevo dentro di me. Poppy veniva tastata e pungolata, prelievo
del sangue fatto, temperatura presa, troppe cose per poterle contare.
E la mia piccola combatteva.
Mentre il suo petto si alzava in modo irregolare nell’incapacità di
respirare bene, lei restava calma. Mentre lo stato di incoscienza cercava di
inghiottirla, lei obbligava i suoi occhi a rimanere aperti… Obbligava i suoi
occhi a restare fissi nei miei, mimando il mio nome con le labbra ogni volta
che stava per cedere.
Rimasi forte per Poppy. Non avrei lasciato che lei mi vedesse crollare.
Lei aveva bisogno che io fossi forte.
La signora Litchfield era accanto a me e mi teneva la mano. Il signor
Litchfield arrivò correndo, la valigetta nella mano, la cravatta in disordine.
«Ivy» chiamò con voce concitata. «Che è successo?»
La signora Litchfield scacciò le lacrime via dalle sue guance e prese la
mano di suo marito. «È svenuta addosso a Rune, tornando a casa da scuola.
I dottori credono che abbia un’infezione. Il suo sistema immunitario è così
debole che non può combatterla».
Il signor Litchfield mi lanciò uno sguardo, mentre la signora Litchfield
aggiungeva: «Rune ha portato Poppy in braccio per tutta la strada fino a
casa. Ha corso e ha chiamato un’ambulanza. L’ha salvata, James. Rune ha
salvato la nostra bambina».
Deglutii con forza quando sentii le parole della signora Litchfield. Il
signor Litchfield annuì, in segno di ringraziamento supposi, poi corse verso
sua figlia. Lo vidi stringerle forte la mano, ma i dottori subito lo
scacciarono via.
Passarono cinque minuti prima che un dottore venisse a parlare con noi.
Stava fermo in piedi, la faccia impassibile. «Signore e signora Litchfield, il
corpo di Poppy sta cercando di combattere un’infezione. Come sapete, il
suo sistema immunitario è gravemente compromesso».
«È la fine?» Si affrettò a chiedere la signora Litchfield, la voce stretta
dal dolore.
Le parole del dottore si insinuarono nel mio cervello. Distolsi lo sguardo
da lui quando sentii che un paio di occhi mi stavano guardando.
I dottori avevano liberato uno spazio, e attraverso quello spazio, vidi il
bel viso di Poppy coperto da una maschera, le flebo nelle sue braccia. Ma i
suoi occhi verdi, quegli occhi verdi che adoravo, erano su di me. La sua
mano pendeva fuori, sul lato.
«Faremo tutto il possibile. Le lasciamo qualche minuto prima di
sedarla».
Sentii il dottore dire che l’avrebbero messa in coma farmacologico per
aiutarla a cercare di combattere l’infezione. E che dovevamo incontrarla
prima che lo facessero. Ma i miei piedi si stavano già muovendo. La sua
mano era lì protesa per me.
Non appena presi la mano di Poppy, vidi i suoi occhi cercare i miei e la
sua testa scuotersi lentamente. Chiusi i miei per un attimo, ma quando li
riaprii non riuscii a fermare una lacrima che mi sfuggì sulla guancia. Poppy
fece un rumore da sotto la maschera d’ossigeno, e non avevo bisogno di
togliergliela per sapere cosa aveva detto. Lei non mi stava lasciando,
ancora. Riuscivo a vedere la promessa nei suoi occhi.
«Rune, figliolo» mi chiamò il signor Litchfield. «Possiamo stare un
momento con Poppy, per darle un bacio e parlare un po’ con lei?»
Annuii e feci per spostarmi di lato, quando Poppy emise un suono e
scosse di nuovo la testa. Strizzò di nuovo la mia mano. Perché non voleva
lasciarmi andare.
Chinandomi, le stampai un bacio sulla testa, sentendo il suo calore sulle
mie labbra, inalando il suo dolce profumo. «Vado solo laggiù, Poppymin.
Non ti lascio, te lo prometto».
Gli occhi di Poppy seguirono i miei passi mentre mi allontanavo. Vidi il
signore e la signora Litchfield parlare piano alla figlia, baciarla e stringerle
la mano.
Mi appoggiai al muro della piccola stanza, serrando i pugni mentre
combattevo per mantenere la compostezza. Dovevo essere forte per lei. Lei
odiava le lacrime. Odiava essere un peso per la famiglia.
Non mi avrebbe visto crollare.
La signora Litchfield sparì dalla stanza. Quando rientrò, Ida e Savannah
la seguivano. Dovetti distogliere lo sguardo quando vidi il dolore negli
occhi di Poppy. Lei adorava le sue sorelle, non avrebbe voluto che la
vedessero in quelle condizioni.
«Poppy» urlò Ida piangendo, e corse al suo fianco.
La debole mano di Poppy scivolò sul viso della sorella più piccola. Ida
diede a Poppy un bacio sulla guancia, e si andò a rifugiare tra le braccia
della signora Litchfield, che l’attendevano.
Poi venne la volta di Savannah, che crollò nel vedere sua sorella, il suo
eroe, in quella maniera. Poppy le tenne la mano e Savannah sussurrò: «Ti
voglio bene, PopPops. Per favore… Per favore non andartene, non ancora».
Poppy scosse la testa, poi tornò di nuovo a guardare verso di me, la sua
mano che lottava per muoversi nella mia direzione. Mi avvicinai, mi sentivo
come se ogni passo fosse lungo un miglio.
Dentro di me c’era una furiosa tempesta di oscurità, ma appena la mia
mano scivolò nella sua, la tempesta si placò. Poppy batté le palpebre, le
lunghe ciglia scure vibrarono sulle sue guance. Sedendomi sul bordo del
letto, mi chinai e le spinsi via i capelli dal viso.
«Ehi, Poppymin» dissi piano, con tutta la forza a cui potevo fare appello.
Gli occhi di Poppy si chiusero nel sentire le mie parole. Sapevo che, sotto la
maschera, stava sorridendo.
Quando i suoi occhi si fissarono nei miei, dissi: «Ti devono
addormentare per un po’, per aiutarti a combattere questa infezione». Fece
cenno con la testa che aveva capito. «Potrai sognare, piccola» dissi, e feci in
modo di sorridere. «Vai a trovare tua nonna per un po’, mentre recuperi le
forze per tornare da me». Poppy sospirò, una lacrima le sfuggì da un
occhio. «Abbiamo delle cose che tu vuoi fare prima di andare a casa,
ricordi?»
Poppy annuì lievemente e io le baciai la guancia. «Dormi, piccola. Io
rimarrò proprio qui, in attesa che ritorni da me» sussurrai, quando mi tirai
indietro.
Accarezzai i capelli di Poppy fino a che i suoi occhi non si chiusero e io
seppi che si era abbandonata al sonno.
Il dottore entrò un secondo dopo. «Se volete andare tutti ad attendere
nella sala per i familiari, verrò a comunicarvi un aggiornamento quando
l’avremo sistemata».
Sentii la sua famiglia uscire, ma io fissavo la sua mano nella mia, non
volevo lasciarla andare. Una mano atterrò sulla mia spalla e alzai lo sguardo
per trovare il dottore che mi stava guardando. «Ci prenderemo cura di lei
figliolo, lo prometto».
Le premetti un ultimo bacio sulla mano e mi costrinsi a lasciarla andare
e uscire dalla stanza. Quando le porte si chiusero dietro di me, alzai la testa
e vidi la stanza per i familiari di fronte. Ma non potevo entrare lì. Avevo
bisogno di aria. Avevo bisogno…
Corsi verso il piccolo giardino alla fine del corridoio e irruppi attraverso
la porta. Il vento caldo soffiò sul mio viso e, vedendo che ero solo, barcollai
fino alla panchina al centro del giardino. Mi lasciai cadere lì seduto e lasciai
che la tristezza avesse la meglio su di me.
La testa mi ricadde in avanti e atterrò tra le mie mani. Le lacrime mi
scorrevano giù lungo il viso. Sentii il suono della porta che si apriva.
Quando guardai in su, mio padre era sospeso vicino alla porta.
Aspettai che la solita rabbia mi colpisse, quando vidi il suo volto. Ma
doveva essere stata seppellita sotto una montagna di dolore. Mio padre non
disse nulla. Invece venne avanti e si sedette accanto a me. Non fece alcun
gesto per consolarmi. Sapeva che non avrei accettato il suo tocco. Rimase
solo seduto lì mentre io crollavo in pezzi.
Una parte di me gli era grata. Non glielo avrei mai detto. Ma per quanto
non lo avrei ammesso, non volevo stare da solo.
Non ero sicuro di quanto tempo fosse passato, ma alla fine mi raddrizzai
e spinsi via i capelli dalla faccia e l’asciugai, passandoci la mano.
«Rune, lei…»
«Starà bene» dissi, interrompendo qualsiasi cosa lui stesse cercando di
dire. Guardai la mano di mio padre poggiata sul suo ginocchio, che si
stringeva e poi si riapriva come se avesse il dubbio se allungarla e toccarmi.
La mia mascella si tese. Non volevo.
Il mio tempo con Poppy stava finendo ed era colpa sua se avrei soltanto
avuto… Il mio pensiero si perse. Non sapevo quanto tempo mi era rimasto
con la mia ragazza.
Prima che mio padre potesse fare qualsiasi cosa, la porta si aprì di nuovo
e questa volta ne uscì il signor Litchfield. Papà si alzò in piedi e gli strinse
la mano. «Mi dispiace così tanto, James» disse mio padre.
Il signor Litchfield gli diede una pacca sulla spalla, poi chiese: «Ti
dispiace se parlo un minuto con Rune?»
Mi irrigidii, ogni muscolo in me si preparò per la sua rabbia. Mio padre
mi lanciò uno sguardo, ma annuì. «Vi lascio da soli».
Papà lasciò il giardino, e il signor Litchfield si avvicinò lentamente al
punto dove ero seduto, poi si abbassò sulla panchina accanto a me.
Trattenni il fiato, in attesa che parlasse. Quando non lo fece, dissi: «Non la
lascerò. Non mi chieda nemmeno di andarmene, perché non vado da
nessuna parte».
Sapevo di sembrare arrabbiato e aggressivo, ma il cuore mi sbatteva
contro le costole al pensiero che mi dicesse che me ne dovevo andare. Se
non ero con Poppy, non avevo nessun posto in cui andare.
Il signor Litchfield si tese. «Perché?» Chiese poi.
Sorpreso dalla sua domanda, mi voltai verso di lui e cercai di leggere la
sua espressione. Stava guardando dritto verso di me. Voleva davvero
saperlo.
Senza distogliere lo sguardo dal suo, risposi. «Perché la amo. La amo
più di ogni altra persona al mondo», la voce mi fendette la gola serrata.
Facendo un profondo respiro, riuscii a continuare: «Le ho fatto una
promessa, che non avrei mai lasciato il suo fianco. E anche se non fosse
stato così, non sarei capace di andarmene. Il mio cuore, la mia anima, tutto,
è legato a Poppy». Le mie mani si serrarono in pugni lungo i fianchi. «Non
posso lasciarla adesso, non quando ha più bisogno di me. E non la lascerò
finché lei non mi costringerà».
Il signor Litchfield sospirò e si passò una mano sulla faccia. Si poggiò
indietro sulla panchina. «Quando sei tornato a Blossom Grove, Rune, ti ho
guardato una volta sola e non riuscivo a credere a quanto fossi cambiato. Mi
sentivo deluso», ammise. Il petto mi si strinse per quel colpo. Lui scosse la
testa. «Ti vedevo fumare, vedevo il tuo atteggiamento, e presumevo che non
ci fosse più alcuna somiglianza col ragazzo che eri prima. Quello che
amava mia figlia tanto quanto lei amava lui. Il ragazzo che, ci avrei
scommesso la vita, avrebbe camminato nel fuoco per la mia bambina. Ma
chi sei adesso, mai mi sarei aspettato che potessi amarla nel modo che
meritava». La voce del signor Litchfield si fece roca per il dolore.
Schiarendosi la gola, continuò. «Mi sono opposto a te. Quando ho visto
come voi due vi eravate riavvicinati, ho cercato di metterla in guardia. Ma
voi due siete sempre stati come calamite, attirati uno verso l’altra da una
forza sconosciuta». Sbuffò una risata. «La nonna di Poppy diceva che voi
due eravate stati spinti insieme da un disegno più grande. Uno che non
avremmo mai compreso, finché non si fosse svelato. Diceva che i grandi
amori erano sempre destinati a stare insieme per una ragione superiore».
Fece una pausa e poi, girandosi verso di me, affermò: «E adesso lo so».
Lo guardai dritto negli occhi.
La mano salda del signor Litchfield si poggiò sulla mia spalla. «Eravate
destinati a stare insieme, perché tu potessi essere la luce che l’avrebbe
guidata attraverso tutto questo. Tu sei stato creato perfettamente per lei, per
rendere il tempo della mia bambina speciale. Per far sì che i giorni che le
rimangono siano pieni di quelle cose che né io né sua madre avremmo
potuto mai darle».
Il dolore mi tagliò in due e chiusi gli occhi.
Quando li riaprii, il signor Litchfield abbassò la mano, ma continuò a
farmi rimanere davanti a lui. «Rune, ero contro di te. Ma riuscivo a vedere
quanto lei. Soltanto non ero sicuro che anche tu l’amassi».
«La amo» dissi con voce rotta. «Non ho mai smesso».
Lui annuì. «Non lo sapevo fino al viaggio a New York. Non volevo che
lei ci venisse». Inspirò e continuò: «Ma quando è tornata mi sono accorto
che c’era in lei una nuova pace. Poi mi ha detto che cosa hai fatto per lei.
Carnegie Hall?» Scosse la testa. «Hai regalato alla mia bambina il suo più
grande sogno, per nessuna ragione se non perché volevi che lei lo
realizzasse. Per farla felice… Perché la amavi».
«Lei mi dà di più» replicai, e abbassai la testa. «Solo con l’essere se
stessa, lei mi dà dieci volte quello».
«Rune, se Poppy uscirà da questo…»
«Quando» lo interruppi. «Quando uscirà».
Sollevai la testa per vedere il signor Litchfield che mi stava guardando.
«Quando» ripeté lui con un sospiro speranzoso. «Non mi metterò tra voi
due». Si chinò in avanti per appoggiare il viso tra le mani. «Non è mai stata
bene dopo che te ne sei andato, Rune. Lo so che hai fatto fatica senza averla
nella tua vita. E avrei dovuto essere uno stupido per non vedere che incolpi
tuo padre per tutto questo. Per essere partito. Ma a volte la vita non va come
ci si aspetta. Non mi sarei mai aspettato di perdere mia figlia prima di
andarmene io stesso. Ma Poppy mi ha insegnato che non posso essere
arrabbiato. Perché, figliolo…» mi disse, guardandomi dritto in faccia, «se
Poppy non è arrabbiata perché ha una vita breve, come osiamo noi essere
arrabbiati per lei?»
Ricambiai il suo sguardo in silenzio. Il mio cuore batteva più forte per le
sue parole. Immagini di Poppy che volteggiava nel frutteto riempivano la
mia mente, il suo ampio sorriso mentre respirava a fondo l’aria profumata.
Vidi lo stesso sorriso quando mi ricordai di lei che ballava nell’acqua bassa
alla spiaggia, con le mani in aria mentre il sole le baciava il viso.
Poppy era felice. Anche con questa diagnosi, anche con tutto il dolore e
la delusione della sua cura, era felice.
«Sono contento che tu sia tornato, figliolo. Stai rendendo gli ultimi
giorni di Poppy, come dice lei, ‘così speciali come solo le cose speciali
possono essere’». Il signor Litchfield si alzò in piedi. In un gesto che avevo
visto sempre e solo da sua figlia Poppy, alzò il viso verso il sole che
tramontava e chiuse gli occhi.
Quando riportò giù la testa, si incamminò verso la porta, guardandosi
indietro per dire: «Sei il benvenuto qui per tutto il tempo che vorrai, Rune.
Credo che, con te accanto, Poppy ne verrà fuori. Verrà fuori da tutto questo
solo per trascorrere dei giorni in più con te. Ho visto lo sguardo che aveva
negli occhi quando era su quel letto; non andrà da nessuna parte, ancora. Tu
lo sai bene come lo so io, se è determinata a portare a termine qualcosa,
allora senza dubbio la porterà a termine».
Le mie labbra si sollevarono in un piccolo sorriso. Il signor Litchfield mi
lasciò da solo nel giardino. Allungando una mano in tasca, tirai fuori le
sigarette. Quando andai per accenderne una, mi fermai. Mentre il sorriso di
Poppy mi riempiva la mente, il suo naso arricciato per la disapprovazione
ogni volta che fumavo, tirai fuori la sigaretta dalla bocca e la gettai per
terra.
«Basta così» dissi ad alta voce. «Non più».
Presi una lunga boccata d’aria fresca, mi alzai in piedi e tornai dentro.
Quando entrai nella sala, la famiglia di Poppy era seduta da un lato, mentre
dall’altro lato c’erano mia madre, mio padre e Alton. Appena il mio
fratellino mi vide, alzò la testa e mi salutò con la mano.
Facendo quello che Poppy avrebbe voluto, mi sedetti accanto a lui. «Ehi,
amico» lo salutai, e quasi mi commossi quando si arrampicò in braccio a
me e mi gettò le braccia al collo.
Sentivo la schiena di Alton tremare. Quando tirò indietro la testa, le sue
guance erano bagnate. «È malata, Poppymin?»
Schiarendomi la gola, annuii. Il suo labbro inferiore iniziò a tremare.
«Ma tu la ami» sussurrò, spezzandomi il cuore nel contempo. Annuii di
nuovo, e lui poggiò la testa sul mio petto. «Non voglio che Poppymin vada
da nessuna parte. Lei ti ha fatto parlare con me. Lei ci ha fatto diventare
migliori amici». Tirò su col naso. «Non voglio che ti arrabbi di nuovo».
Ognuna delle sue parole fu come una pugnalata nel petto. Ma quelle
pugnalate lasciarono solo entrare la luce quando pensai a come Poppy mi
aveva guidato verso Alton. Pensai a quanto ne sarebbe stata delusa se lo
avessi ignorato adesso.
Stringendo Alton più stretto, sussurrai: «Non ti ignorerò di nuovo,
amico. Lo prometto».
Alton sollevò la testa e si asciugò gli occhi. Quando si spostò i capelli
all’indietro, non riuscii a non fare un mezzo sorriso. Alton ricambiò il mio
sorriso e mi abbracciò più forte.
Non mi lasciò andare finché il dottore non entrò nella stanza. Ci disse
che potevamo entrare da lei e vederla in due alla volta.
Il signore e la signora Litchfield entrarono per primi, poi fu il mio turno.
Spinsi la porta e mi immobilizzai sui miei passi.
Poppy giaceva in un letto al centro della stanza. C’erano macchine
attaccate a lei tutto intorno. Il mio cuore si crepò. Sembrava così distrutta
mentre era distesa lì, così silenziosa.
Nessuna risata e nessun sorriso sul suo viso.
Mi feci avanti e mi sedetti sulla sedia accanto al suo letto. Le strinsi la
mano, la portai alle labbra e vi posai un bacio.
Non riuscivo a sopportare il silenzio. Così iniziai a raccontare a Poppy
della prima volta che l’avevo baciata. Le raccontai di ogni bacio che
riuscivo a ricordare da quando avevamo otto anni, come mi avevano fatto
sentire, come lei mi aveva fatto sentire, sapendo che se poteva udirmi,
avrebbe amato ogni parola di quello che avevo da dirle.
Rivivendo ogni singolo bacio che lei conservava così caramente.
Tutti i novecentodue a cui eravamo arrivati fino ad ora.
E i novantotto che ancora dovevamo collezionare.
Quando si sarebbe svegliata.
Perché si sarebbe svegliata.
Avevamo un giuramento da portare a compimento.
Rune

Una settimana dopo

«Ehi, Rune».
Alzai gli occhi dal compito che stavo scrivendo per vedere Jorie alla
porta della stanza di Poppy. Judson, Deacon e Ruby erano dietro di lei nel
corridoio. Feci un cenno col mento nella loro direzione ed entrarono tutti.
Poppy era ancora a letto, ancora in coma. Dopo alcuni giorni, i dottori
avevano detto che il peggio dell’infezione era passato e che erano ammessi
altri visitatori.
La mia Poppy ce l’aveva fatta. Proprio come aveva promesso, aveva
combattuto affinché l’infezione non avesse avuto la meglio su di lei. Sapevo
che l’avrebbe fatto. Mi aveva tenuto la mano quando mi aveva fatto quella
promessa. Mi aveva guardato negli occhi.
Era praticamente fatta.
I dottori avevano pianificato di riportarla lentamente fuori dal coma nei
giorni successivi. Avrebbero diminuito gradualmente il dosaggio di
anestetico, incominciando da stasera tardi. E io non vedevo l’ora. Questa
settimana era sembrata un’eternità senza di lei, tutto sembrava sbagliato e
fuori posto. Nel mio mondo, era cambiato così tanto con lei che se n’era
andata e, di contro, nel mondo esterno niente era cambiato davvero.
L’unico vero sviluppo era che, adesso, tutta la scuola sapeva che a Poppy
non era rimasto molto tempo. Da quello che avevo sentito, erano tutti
scioccati e tristi, com’era prevedibile. Eravamo andati a scuola con la
maggior parte di questi ragazzi sin dall’asilo. Anche se non conoscevano
bene Poppy come il nostro piccolo gruppo di amici, la notizia aveva
comunque scosso la città. La gente della sua chiesa si era riunita a pregare
per lei. Per mostrarle il suo amore. Sapevo che se Poppy l’avesse saputo, le
avrebbe scaldato il cuore.
I medici non erano sicuri di quanto sarebbe stata in forze una volta
sveglia. Erano restii a fare una stima di quanto le restasse, ma il suo dottore
ci aveva detto che quest’infezione l’aveva indebolita gravemente. Ci aveva
detto di essere preparati: quando finalmente si sarebbe svegliata, poteva
essere solo una questione di qualche settimana.
Per quanto fosse un duro colpo, per quanto mi strappasse il cuore dal
petto, cercavo di trarre gioia dalle piccole vittorie. Avrei avuto delle
settimane per aiutare Poppy a realizzare i suoi ultimi desideri. Avrei avuto il
tempo di cui avevo bisogno per dirle davvero addio, per ascoltare la sua
risata, vedere il suo sorriso e baciare le sue labbra morbide.
Jorie e Ruby entrarono per prime nella stanza, e andarono al lato
opposto del letto rispetto a dove ero seduto per stringere la mano di Poppy.
Deacon e Judson si fermarono accanto a me, poggiandomi le mani sulla
spalla in segno di supporto. Nell’attimo in cui si era diffusa la notizia di
Poppy, i miei amici avevano lasciato le lezioni per venire da me. Appena li
avevo visti sfrecciare lungo il corridoio, avevo capito che tutti lo sapevano.
Avevo capito che loro lo sapevano. Da quel momento, erano sempre stati al
mio fianco.
Erano sconvolti dal fatto che io e Poppy non avessimo detto niente a
nessuno di loro, ad eccezione di Jorie. Ma alla fine, avevano compreso il
perché Poppy non avesse voluto suscitare tanto clamore. Penso che
l’amarono ancora di più per questo. Avevano visto la sua vera forza.
Durante la settimana passata, quando non ero andato a scuola, erano stati
i miei amici a portarmi i compiti da parte degli insegnanti. Si prendevano
cura di me, come facevo io con Poppy. Deacon e Judson dissero di essere
determinati a non farmi bocciare, dato che eravamo arrivati all’ultimo anno
tutti insieme. Era la cosa più lontana dalla mia mente, ma apprezzai la loro
preoccupazione.
In effetti, questa settimana mi aveva dimostrato quanto contassero per
me. Anche se Poppy era tutta la mia vita, mi resi conto che l’amore era
anche in altri luoghi. Avevo amici che sarebbero saltati nel fuoco per me.
Anche la mia mamma veniva in visita ogni giorno. E così mio padre.
Sembrava non fare caso al fatto che io per lo più lo ignoravo. Né sembrava
importargli se restavamo seduti insieme in silenzio. Credo che per lui fosse
importante solo essere qui, essere accanto a me.
Non sapevo ancora cosa fare della sua vicinanza.
Jorie guardò su, catturando il mio sguardo. «Come sta oggi?»
Mi alzai dalla sedia e mi sedetti sul bordo del letto di Poppy. Incrociai le
sue dita tra le mie e le strinsi forte. Abbassandomi, le spostai i capelli dal
viso con una carezza e la baciai sulla fronte. «Diventa ogni giorno più
forte» dissi dolcemente e poi, solo per le orecchie di Poppy, sussurrai: «I
nostri amici sono qui, piccola. Sono venuti di nuovo a trovarti».
Il mio cuore sobbalzò quando pensai di aver visto una vibrazione delle
sue ciglia, ma quando la fissai più a lungo, realizzai che doveva essere stata
la mia immaginazione.
Ero disperato dalla voglia di rivederla, da troppe ore per riuscire a
tenerne il conto. Poi mi rilassai, sapendo che nei prossimi giorni vedere
queste cose non sarebbe stato solo il frutto della mia immaginazione.
Sarebbe stato reale.
I miei amici si sedettero sul divano vicino alla grande finestra. «I dottori
hanno deciso che stasera inizieranno a farla uscire gradualmente dal coma»
dissi. «Ci potranno volere un paio di giorni affinché sia completamente
cosciente, ma ritengono che farla risvegliare lentamente sia la cosa
migliore. Il suo sistema immunitario si è quanto si aspettavano. L’infezione
è passata. Lei è pronta per ritornare con noi». Espirai e aggiunsi
silenziosamente: «Finalmente. Finalmente potrò rivedere i suoi occhi».
«È un bene, Rune» replicò Jorie e mi rivolse un debole sorriso. C’era un
silenzio pieno d’attesa, nel quale i miei amici si guardavano tutti l’un
l’altro.
«Che c’è?» Chiesi, cercando di leggere le loro espressioni.
Fu Ruby a rispondere. «Come starà al suo risveglio?»
Mi si contrasse lo stomaco. «Sarà debole» sussurrai. Girandomi di
nuovo verso Poppy, le accarezzai la guancia. «Ma sarà di nuovo qui. Non
mi importa se la dovrò portare in braccio dovunque andremo. Voglio solo
vedere il suo sorriso. La riavrò di nuovo con me, al posto a cui appartiene…
Almeno per un poco».
Sentii tirare su col naso e vidi che Ruby stava piangendo, mentre Jorie la
stringeva a sé.
Feci un sospiro di solidarietà, ma dissi: «Lo so che le vuoi bene, Ruby.
Ma quando si sveglierà, quando scoprirà che tutti lo sanno, comportati
normalmente. Odia vedere le persone che ama sconvolte. Per lei è questa la
cosa peggiore di tutte». Strizzai le dita di Poppy. «Quando si sveglierà
dovremo renderla felice, come fa lei con tutti. Non possiamo mostrarle che
siamo tristi».
Ruby annuì, poi chiese: «Non tornerà più a scuola, vero?»
Scossi la testa. «Nemmeno io. Non fino…» Mi morì la voce, non volevo
concludere con quelle parole. Non ero ancora pronto per dirle. Non ero
pronto per affrontare tutto questo.
Non ancora.
«Rune» mi chiamò Deacon, con tono serio. «Che farai l’anno prossimo?
Per il college? Hai almeno fatto domanda da qualche parte?» Si stava
tormentando le mani. «Mi stai facendo preoccupare. Ce ne stiamo andando
tutti. E tu non hai mai fatto parola di niente. Siamo davvero preoccupati».
«Non sto nemmeno pensando così tanto in avanti» risposi. «La mia vita
è qui, ora, in questo momento. Tutto il resto verrà dopo. Poppy è il centro
della mia attenzione, lo è sempre stato, solo lei. Non me ne frega niente
dell’anno prossimo o di quello che farò».
Il silenzio calò nella stanza. Vidi dall’espressione di Deacon che voleva
dire di più, ma non si azzardò.
«Verrà al ballo?»
Il mio cuore sprofondò, mentre Jorie guardava con tristezza la sua
migliore amica. «Non lo so» risposi. «Lo desiderava così tanto, ma
mancano ancora sei settimane». Alzai le spalle. «I dottori non lo sanno». Mi
girai a guardare Jorie. «Era uno dei suoi ultimi desideri. Andare al ballo
dell’ultimo anno». Deglutii e mi girai di nuovo verso Poppy. «Alla fine,
tutto quello che vuole fare è essere baciata e poter andare al ballo. È tutto
quello che chiede. Niente di eccezionale, niente che cambierebbe una vita…
solo queste cose. Con me».
Diedi ai miei amici un momento, quando Jorie e Ruby iniziarono a
piangere in silenzio. Ma io non crollai. Semplicemente, contai in silenzio le
ore che mancavano al momento in cui sarebbe tornata da me. Immaginavo
l’attimo in cui l’avrei vista sorridere ancora una volta. Sollevare lo sguardo
su di me. Stringere la mano nella sua.
Dopo circa un’ora, i miei amici si alzarono. Judson lasciò cadere dei
fogli sul piccolo tavolino accanto al letto di Poppy che io usavo come
scrivania. «Matematica e geografia, amico. I professori hanno scritto tutto
per te. Date di consegna e cose del genere». Mi alzai e li salutai,
ringraziandoli per essere venuti. Quando se ne furono andati, mi misi al
tavolo per finire i compiti. Li avrei terminati, e poi mi sarei portato la mia
macchina fotografica fuori. La mia macchina, che non mi toglievo più dal
collo da settimane.
La macchina che era di nuovo parte di me.
Dovevano essere passate delle ore mentre andavo dentro e fuori dalla
stanza, per catturare la giornata all’esterno. Più tardi quella sera, la famiglia
di Poppy cominciò a riempire la stanza, seguita a breve distanza dai suoi
dottori. Saltai dalla sedia e stropicciai via la stanchezza dagli occhi. Erano
arrivati per iniziare a portarla fuori dal coma.
«Rune» mi salutò il signor Litchfield. Venne verso di me e mi abbracciò.
Tra di noi si era stabilita una tregua pacifica da quando Poppy era entrata in
coma. Lui mi aveva capito, e io avevo capito lui. Per questo motivo, anche
Savannah aveva iniziato a fidarsi che non avrei spezzato il cuore di sua
sorella.
E anche per il fatto che non mi ero mai mosso, nemmeno una volta, da
quando Poppy era stata ricoverata. Se Poppy era qui, c’ero anch’io. La mia
dedizione doveva aver dimostrato che l’amavo più di quanto ognuno di loro
avesse mai creduto.
Ida venne da me e mi gettò le braccia alla vita. La signora Litchfield mi
baciò sulla guancia.
Poi tutti aspettammo che il dottore finisse la visita.
«La conta dei globuli bianchi di Poppy è ai livelli che potevamo sperare
per questo stadio della malattia» ci disse il dottore, quando si voltò verso di
noi. «Ridurremo gradualmente l’anestetico e la riporteremo qui. Appena si
rafforzerà, saremo in grado di staccarla da alcuni dei macchinari». Il cuore
mi batteva veloce e strinsi le mani lungo i fianchi.
«Ora», continuò il dottore, «Poppy, inizialmente, alternerà momenti di
coscienza ad altri di incoscienza. Quando sarà vigile, potrebbe delirare o
essere fuori di sé. Questo sarà dovuto alle medicine ancora in circolo nel
suo organismo. Ma, alla fine, dovrebbe iniziare a svegliarsi per periodi più
lunghi di tempo e, se tutto va bene, in un paio di giorni, tornerà la solita
ragazza felice». Il dottore sollevò le mani. «Tuttavia, Poppy sarà debole.
Fino a che non potremo valutarla in stato di coscienza, non saremo in grado
di determinare quanto l’infezione l’abbia indebolita. Solo il tempo ce lo
dirà. Ma potrebbe avere limitate capacità di movimento e questo ridurrà le
cose che potrà fare. È molto improbabile che recuperi pienamente le forze».
Chiusi gli occhi, pregando Dio che stesse bene. E se così non fosse stato,
promisi che l’avrei aiutata attraverso tutto questo, qualsiasi cosa per avere
solo un po’ più di tempo. Non importava quello che avrebbe comportato,
avrei fatto di tutto.
I due giorni seguenti si trascinarono. Le mani di Poppy iniziavano a
muoversi leggermente, sbatteva le ciglia, e il secondo giorno, iniziò ad
aprire gli occhi. Pochi secondi alla volta, ma per me erano sufficienti a
riempirmi di un insieme di eccitazione e di speranza.
Il terzo giorno, un team di dottori e infermieri entrò nella stanza, e
iniziarono il procedimento per staccare Poppy da alcune delle macchine.
Guardai, con il cuore che martellava, mentre le toglievano dalla gola il tubo
per respirare; guardai mentre, una alla volta, le apparecchiature venivano
portate via, fino a che non rividi di nuovo la mia ragazza.
Mi si gonfiò il cuore.
La sua pelle era pallida e le labbra, di solito morbide, erano screpolate.
Ma nel vederla libera da tutti quei macchinari, ebbi la certezza che non mi
fosse mai sembrata così perfetta.
Mi sedetti pazientemente sulla sedia accanto al letto, tenendole la mano.
Tenevo la testa all’indietro, mentre guardavo in trance il soffitto, quando
sentii la mano di Poppy stringere debolmente la mia. Mi si bloccò il fiato.
Mi si congelarono i polmoni. I miei occhi sfrecciarono su Poppy, sul letto.
Le dita della sua mano libera si muovevano, torcendosi lievemente.
Raggiunsi la parete e suonai con forza il campanello per chiamare le
infermiere. «Penso che si stia svegliando» dissi, quando una di loro entrò.
Poppy aveva fatto dei lievi movimenti nelle ultime ventiquattro ore, ma mai
così tanti e mai così a lungo.
«Chiamo il dottore» replicò e lasciò la stanza.
I genitori di Poppy arrivarono di corsa poco dopo, erano appena arrivati
per la loro visita quotidiana. Dopo qualche secondo, entrò il dottore. Mentre
si avvicinava al letto, io arretrai per mettermi accanto ai genitori di Poppy,
lasciando che l’infermiera controllasse i parametri vitali.
Le palpebre di Poppy vibrarono sui suoi occhi e poi, molto lentamente,
si schiusero. Risucchiai un respiro quando i suoi occhi verdi, sonnolenti,
presero coscienza di quello che la circondava.
«Poppy? Poppy, stai bene?» Chiese il dottore dolcemente. Vidi Poppy
cercare di girare la testa verso di lui, ma i suoi occhi non riuscivano a
mettere a fuoco. Sentii uno strattone, da qualche parte dentro di me, quando
la sua mano si allungò a cercare qualcosa. Cercava me. Anche nel suo stato
di confusione, cercava la mia mano.
«Poppy, hai dormito per un po’. Stai bene, ma ti sentirai stanca. Voglio
solo che tu sappia che stai bene».
Poppy fece un suono come se stesse cercando di parlare. Il dottore si
rivolse all’infermiera. «Prendile del ghiaccio per le labbra».
Senza riuscire più a stare in disparte, mi slanciai in avanti, ignorando il
richiamo del signor Litchfield che mi diceva di fermarmi. Spostandomi
dall’altro lato del letto, mi chinai e avvolsi la mano intorno a quella di
Poppy. Nell’istante in cui lo feci, il suo corpo si calmò e la sua testa si girò
piano dalla mia parte. In un battito di ciglia, aprì gli occhi. Guardò dritto
verso di me.
«Ehi, Poppymin» sussurrai, combattendo la stretta che avevo in gola.
E poi sorrise. Era piccolo, appena un accenno, ma sorrise. Le sue dita
deboli strinsero le mie con tutta la forza di un moscerino, poi ritornò a
dormire.
Esalai un lungo respiro. Ma la mano di Poppy non lasciò mai la mia. E
così, rimasi dove ero. Seduto sulla sedia accanto a lei, rimasi esattamente
dov’ero.
Passò un altro giorno e i momenti di coscienza di Poppy aumentarono
sempre più. Quando era sveglia non era del tutto lucida, ma mi sorrideva
quando la sua attenzione si concentrava nella mia direzione. Sapevo che
una parte di lei, anche se confusa, era consapevole che io fossi lì con lei. I
suoi deboli sorrisi mi assicuravano che non c’era alcun altro posto in cui
sarei dovuto essere.
Più tardi, quello stesso giorno, quando entrò un’infermiera per farle i
controlli di ogni ora, chiesi: «Posso spostare il letto?»
L’infermiera interruppe quello che stava facendo e alzò il sopracciglio.
«Dove, caro?»
Mi spostai all’ampia finestra. «Qui» dissi. «Così quando si sveglierà del
tutto potrà guardare fuori». Sbuffai, con una risata silenziosamente. «Lei
ama guardare il sorgere del sole». Mi lanciai uno sguardo indietro. «Adesso
che è attaccata solo alla flebo credo che si potrebbe fare, giusto?»
L’infermiera mi fissò. Riuscivo a vedere la compassione nei suoi occhi.
Non volevo compassione. Volevo solo che mi aiutasse. Volevo che mi
aiutasse a fare questo regalo a Poppy.
«Certo» disse, alla fine. «Non credo ci siano problemi». Il mio corpo si
rilassò. Mi spostai su un lato del letto di Poppy, l’infermiera dall’altro, e lo
spingemmo fino a sistemarlo di fronte alla veduta sul giardino esterno
dell’oncologia pediatrica. Un giardino che si estendeva sotto un cielo
azzurro e sereno.
«Va bene?» Chiese l’infermiera e sistemò i freni.
«Perfetto» replicai e sorrisi.
Quando la famiglia di Poppy arrivò poco tempo dopo, sua madre mi
abbracciò. «Lo adorerà» mi disse. Mentre stavamo seduti intorno al letto,
Poppy si scuoteva di tanto in tanto, spostandosi col corpo da dove era
sdraiata, ma per non più di qualche secondo.
Negli ultimi due giorni, i suoi genitori avevano fatto a turno per passare
la notte nella sala per i familiari al di là del corridoio. L’altro stava a casa
con le ragazze. Il più delle volte era la mamma che si fermava in ospedale.
Io restavo nella stanza di Poppy. Mi distendevo accanto a lei nel suo
piccolo letto ogni notte. Dormivo con lei tra le mie braccia, attendendo il
momento in cui si sarebbe svegliata.
Sapevo che i suoi genitori non erano propriamente felici della cosa, ma
pensavo che me lo concedessero perché, perché no? Non avrebbero detto di
no. Non adesso. Non in queste circostanze.
E, sicuro come la morte, io non me ne sarei mai andato.
La mamma di Poppy stava raccontando a sua figlia, addormentata, delle
sue sorelle. Le stava dicendo di come andavano a scuola, cose di tutti i
giorni. Io me ne restavo seduto, ad ascoltarla in parte, quando ci fu un
leggero bussare alla porta.
Alzai lo sguardo, e vidi mio padre aprire la porta. Fece un piccolo saluto
alla signora Litchfield, e poi guardò me. «Rune? Posso parlarti per un
minuto?»
Mi irrigidii e corrucciai le sopracciglia. Mio padre aspettava alla porta,
senza distogliere lo sguardo dal mio. Cacciai fuori un respiro, e mi alzai
dalla sedia. Mio padre si allontanò dalla porta mentre mi avvicinavo.
Quando uscii dalla stanza, vidi che teneva qualcosa in mano.
Spostava nervosamente il peso da una gamba all’altra.
«So che non me l’hai chiesto, ma ho sviluppato i tuoi rullini».
Restai pietrificato.
«So che mi hai chiesto di portarli a casa. Ma ti ho visto, Rune. Ti ho
visto fare queste fotografie, e so che sono per Poppy». Alzò le spalle.
«Adesso che Poppy si sta svegliando sempre di più, ho pensato che tu
volessi averle con te, per mostrargliele».
Senza dire altro, mi porse un album fotografico. Era pieno, stampa dopo
stampa, di tutto ciò che avevo catturato mentre Poppy stava dormendo.
Erano tutti i momenti catturati che lei si era persa.
La mia gola iniziò a chiudersi. Non ero stato a casa. Non avevo potuto
sviluppare queste foto in tempo per lei… Ma mio padre…
«Grazie» gli dissi con voce roca, poi abbassai gli occhi a terra.
Al limite del mio campo visivo, vidi il corpo di mio padre rilassarsi,
lasciare andare tutta la tensione. Sollevò la mano, come per toccarmi la
spalla. Mi bloccai, mentre lo faceva. La mano di mio padre restò sospesa a
mezz’aria, ma decidendo senza esitazione di continuare, lui me la posò sulla
spalla e mi strinse.
Non appena la sentii su di me, chiusi gli occhi. E, per la prima volta in
una settimana, mi sentii come se riuscissi a respirare. Per un secondo,
mentre mio padre mi dimostrava che era con me, respirai sul serio.
Ma quanto più restavamo così, più io non sapevo cosa fare. Non ero
rimasto così con lui da tantissimo tempo. Non gli avevo mai permesso di
avvicinarsi tanto.
Col bisogno di allontanarmi, e incapace di affrontare questa cosa, annuii
e rientrai nella stanza. Chiusi la porta e mi sedetti di nuovo, tenendo
l’album sulle cosce. La signora Litchfield non mi chiese di che si trattasse e
io non glielo dissi. Continuò a raccontare le sue storie a Poppy fino a tardi.
Quando la signora Litchfield lasciò la stanza, mi liberai degli stivali e,
come facevo ogni notte, aprii le tendine e mi sdraiai accanto a Poppy.
Ricordo che un attimo prima stavo guardando le stelle, e quello
successivo mi sovvenne la sensazione di una mano che mi accarezzava il
braccio. Disorientato, sbattei le palpebre e aprii gli occhi, mentre i primi
raggi del nuovo giorno penetravano nella stanza.
Cercai di schiarirmi la testa dall’annebbiamento del sonno. Sentii dei
capelli che mi solleticavano il naso e un caldo respiro soffiarmi sul viso.
Guardando in su, sbattei le ciglia per scacciare via il sonno dagli occhi, e il
mio sguardo si scontrò con il più bel paio di occhi verdi che avessi mai
visto.
Il mio cuore saltò un battito e un sorriso si allargò sulle labbra di Poppy,
facendo affiorare le sue profonde fossette nelle guance pallide.
Sollevando la testa per la sorpresa, le strinsi la mano e sussurrai:
«Poppymin?»
Poppy aprì e chiuse gli occhi più volte, poi il suo sguardo vagò per la
stanza. Deglutì, sussultando per lo sforzo. Vedendo che aveva le labbra
asciutte, mi allungai per prendere il bicchiere d’acqua dal comodino. Le
portai la cannuccia alla bocca e Poppy bevve qualche piccolo sorso, poi
spinse il bicchiere di lato e sospirò di sollievo.
Prendendo il suo burro cacao preferito alla ciliegia dal tavolo, gliene
stesi un sottile strato sulle labbra. Poppy, lentamente, le strofinò tra loro.
Senza staccare lo sguardo dal mio, sorrise, di un sorriso ampio e bellissimo.
Sentii il mio petto espandersi di luce, mi chinai e le premetti un bacio sulle
labbra. Fu breve, a malapena il soffio di un bacio, ma quando mi staccai,
Poppy deglutì e sussurrò rocamente: «Bacio numero…» Aggrottò le
sopracciglia, mentre la confusione le compariva in viso.
«Novecentotré» terminai al posto suo.
Poppy annuì. «Quando sono ritornata da Rune» aggiunse, mantenendo il
mio sguardo e stringendo debolmente la mia mano. «Proprio come avevo
promesso di fare».
«Poppy» sussurrai in risposta, e abbassai la testa fino a rifugiarmi nella
piega del suo collo. Volevo tenerla stretta quanto più vicino possibile, ma lei
sembrava una fragile bambola, facile a rompersi.
Le dita di Poppy si posarono sui miei capelli, e con un gesto così
familiare quanto respirare, le passò attraverso le ciocche, mentre il suo
respiro leggero mi aleggiava sul viso.
Alzai la testa e fissai giù, verso di lei. Mi assicurai di assaporare ogni
parte del suo viso, dei suoi occhi. Mi assicurai di custodire questo
momento.
Il momento in cui era ritornata da me.
«Per quanto tempo?» Chiese.
Le accarezzai i capelli, spostandoli dal viso. «Sei stata in coma per una
settimana. Ti sei risvegliata gradualmente negli ultimi giorni».
Poppy chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì. «E quanto…
Rimane?»
Scossi la testa, orgoglioso della sua forza, e risposi con onestà. «Non lo
so».
Poppy annuì, un movimento appena intuibile. Avvertendo un calore
dietro il collo, mi girai e guardai fuori della finestra. Sorrisi. Poi tornai a
girarmi verso Poppy, e le dissi: «Ti sei svegliata insieme al sole, piccola».
Poppy aggrottò le sopracciglia, fino a che io non mi spostai. Quando lo
feci, la sentii prendere un respiro sorpreso. La guardai in viso, vidi i raggi
arancioni baciarle la pelle. Vidi i suoi occhi chiudersi, poi aprirsi di nuovo,
mentre un sorriso le incurvava le labbra.
«È bellissimo» sussurrò. Mi adagiai sul suo cuscino, accanto a lei,
guardando il cielo che si rischiarava con l’arrivo del nuovo giorno. Poppy
non disse niente mentre osservavamo il sole sorgere nel cielo, inondando la
stanza della sua luce e del suo calore.
La sua mano strinse la mia. «Mi sento debole».
Sentii un pugno allo stomaco. «L’infezione è stata molto forte. Ne stai
pagando il prezzo».
Poppy annuì, facendo segno di aver capito, poi si perse nuovamente alla
vista del mattino. «Mi sono mancate» disse, indicando col dito verso la
finestra.
«Ti ricordi qualcosa?»
«No» replicò dolcemente. «Ma so che mi sono mancate lo stesso». Si
guardò la mano e disse: «Ricordo di aver sentito la tua mano nella mia,
anche se… È strano. Non ricordo di nient’altro, ma ricordo questo».
«Ja?» Chiesi.
«Sì» rispose dolcemente. «Credo che ricorderò sempre la sensazione
della tua mano che tiene la mia».
Allungando una mano accanto a me, sollevai l’album di foto che mio
padre aveva portato, me lo sistemai sul grembo e lo aprii.
La prima foto era del sole, che sorgeva attraverso nuvole spesse. I raggi
attraversavano gli aghi sui rami di pino, catturando perfettamente le
sfumature di rosa.
«Rune» sussurrò Poppy e fece scorrere la mano sulla stampa.
«L’ho scattata la prima mattina che eri qui». Scrollai le spalle. «Non
volevo che ti perdessi la tua alba».
La testa di Poppy si mosse fino a poggiarsi sulla mia spalla. Allora seppi
che avevo fatto bene. Avvertii la felicità nel suo tocco. Era meglio delle
parole.
Sfogliai l’album. Le mostrai gli alberi che iniziavano a fiorire
all’esterno. Le gocce di pioggia contro la finestra il giorno in cui aveva
piovuto a dirotto. E le stelle nel cielo, la luna piena, gli uccelli che facevano
il nido negli alberi. Quando chiusi l’album, Poppy spostò la testa indietro e
mi fissò negli occhi. «Hai catturato i momenti che mi sono persa».
Sentendo le guance infiammarsi, abbassai la testa. «Naturalmente. Lo
farò sempre».
Poppy sospirò. «Anche quando io non ci sarò… devi catturare tutti
questi momenti». Il mio stomaco si contorse. Prima che potessi dire
qualsiasi cosa, sollevò la mano sulla mia guancia. Il suo tocco era così
leggero. «Promettimelo». Quando io non risposi, insisté: «Promettimelo,
Rune. Queste foto sono troppo preziose per non venire mai scattate».
Sorrise. «Pensa a quello che potrai catturare in futuro. Pensa solo alle
possibilità davanti a te».
«Te lo prometto» replicai piano. «Te lo prometto, Poppymin».
Espirò. «Grazie».
Chinandomi, le baciai la guancia. Quando mi staccai, mi girai sul fianco
per stare di fronte a lei. «Mi sei mancata, Poppymin».
Lei sorrise. «Anche tu mi sei mancato» mormorò in risposta.
«Abbiamo un sacco di cose da fare quando uscirai da questo posto» le
dissi, osservando l’eccitazione accendersi nei suoi occhi.
«Sì» rispose. Strofinò le labbra una contro l’altra e mi chiese: «Quanto
manca alla prima fioritura?»
Il mio cuore si strappò quando capii quello a cui stava pensando. Stava
cercando di valutare quanto tempo ancora le rimanesse. E se ce l’avrebbe
fatta. Se avesse vissuto per vedere diventare realtà gli ultimi desideri che le
rimanevano.
«Dovrebbe essere tra una settimana».
Questa volta, non ci fu nulla a mascherare la suprema felicità che si
irradiava dal suo ampio sorriso. Chiuse gli occhi. «Posso farcela fino ad
allora» affermò con sicurezza, e mi strinse appena un po’ più forte la mano.
«Resisterai di più» le promisi e la osservai annuire.
«Fino a mille baci» concordò.
Le accarezzai la guancia con la mano. «Allora li prolungherò» le dissi.
«Sì» sorrise Poppy. «All’infinito».

Poppy fu dimessa dall’ospedale una settimana dopo. Le reali


conseguenze di quanto l’infezione l’avesse colpita divennero evidenti dopo
qualche giorno. Poppy non riusciva a camminare. Aveva perso tutta la forza
nelle gambe. Il suo dottore ci informò che se fosse stato possibile debellare
il cancro, nel tempo avrebbe recuperato quella forza. Ma, allo stato attuale
delle cose, non avrebbe più camminato.
Poppy era su una sedia a rotelle. E trattandosi di Poppy, non aveva
lasciato che la cosa la condizionasse neanche un po’. «Fino a che posso
ancora uscire e sentire il sole sul viso, sarò felice» disse, quando il dottore
le diede la cattiva notizia. Poi alzò lo sguardo su di me e aggiunse: «Fino a
che posso ancora stringere la mano di Rune, non mi importa davvero se
camminerò di nuovo».
E con quello, mi fece sciogliere sul posto.
Stringendo in mano delle nuove foto, corsi attraverso il prato tra le
nostre due case e andai alla finestra di Poppy. Quando scavalcai, la vidi che
stava dormendo nel suo letto.
Era tornata a casa proprio quel giorno. Era stanca, ma io le dovevo
mostrare questa cosa. Era la mia sorpresa. Il mio bentornata a casa.
Uno dei suoi desideri che diventava realtà.
Quando entrai, Poppy aprì gli occhi sbattendo le palpebre e mi regalò un
sorriso. «Il letto era freddo senza di te» disse e fece scorrere la mano sul
lato dove di solito mi stendevo io.
«Ho qualcosa per te» le dissi, sedendomi sul letto. Chinandomi, le baciai
le labbra. La baciai a fondo, sorridendo mentre le sue guance si facevano
rosse subito dopo. Sporgendosi, Poppy prese un cuore di carta vuoto dal
vasetto e scribacchiò qualcosa.
Fissai il vasetto quasi pieno mentre lei riponeva il cuore.
C’eravamo quasi.
Girandosi, Poppy si spostò e si mise seduta. «Che hai in mano?» Chiese
in tono eccitato.
«Delle foto» annunciai, e vidi il suo viso illuminarsi di gioia.
«Il mio regalo preferito» mi disse, e sapevo che pensava veramente ogni
parola. «I magici momenti che hai catturato».
Le passai la busta e Poppy l’aprì. Sussultò quando i suoi occhi si
posarono su ciò che vi era ritratto. Scrutò ogni foto con eccitazione, poi si
girò con gli occhi pieni di speranza. «La prima fioritura?»
Le sorrisi e annuii. Poppy si posò la mano sopra la bocca e i suoi occhi
brillarono di felicità. «Quando sono state scattate?»
«Qualche giorno fa» replicai e guardai la sua mano ricadere e le labbra
curvarsi in un sorriso.
«Rune» sussurrò e mi prese la mano, portandola al suo viso. «Questo
significa…»
Mi alzai.
Spostandomi dal suo lato del letto, la presi in braccio. Le mani di Poppy
mi si aggrapparono al collo e io abbassai le labbra sulle sue. Quando mi
staccai, le chiesi: «Sei con me?»
Sospirò felice. «Sono con te» replicò.
La posai delicatamente sulla sedia a rotelle, le stesi una coperta sulle
gambe e mi spostai all’impugnatura. Poppy inclinò la testa indietro, mentre
mi stavo accingendo a spingerla verso il corridoio. Guardai giù verso di lei.
«Grazie» sussurrò.
Le baciai le labbra sorridenti. «Andiamo».
Le risatine contagiose di Poppy echeggiavano per la casa mentre la
spingevo lungo il corridoio e fuori, all’aria aperta. La presi in braccio per
scendere gli scalini. Quando fu di nuovo al sicuro nella sua sedia, la spinsi
sul prato, verso il frutteto. Faceva caldo, il sole brillava nel cielo terso.
Poppy rovesciò la testa all’indietro per assorbire il calore del sole, le
guance che si riempivano di vita mentre lo faceva. Quando aprì gli occhi,
seppi che aveva sentito il profumo del frutteto ancor prima di averlo visto.
«Rune!» Esclamò, aggrappandosi ai braccioli della sedia a rotelle.
Il mio cuore iniziò a battere più veloce e più veloce, man mano che ci
avvicinavamo. Poi, appena girammo l’angolo e il frutteto apparve alla
nostra vista, trattenni il fiato.
Un sonoro verso di sorpresa sfuggì dalle labbra di Poppy. Presi la
macchina fotografica che avevo intorno al collo e camminai, per spostarmi
al suo fianco fino a che non ebbi la visuale perfetta del suo viso. Poppy non
si accorse nemmeno di me che continuavo a premere il bottone, era troppo
persa nella bellezza che aveva davanti agli occhi. Troppo incantata, mentre
sollevava una mano e accarezzava, con un tocco leggero come una piuma,
un petalo appena sbocciato. Poi abbandonò la testa all’indietro, con gli
occhi chiusi e le braccia in aria, e la sua risata risuonò in tutto il frutteto.
Sollevai la macchina, pronto sul bottone in attesa di quel momento che
pregavo sarebbe arrivato. E arrivò.
Poppy aprì gli occhi, completamente rapita da questo momento, e poi mi
guardò. Abbassai il dito: il suo viso sorridente era acceso di vita, sullo
sfondo c’era un mare di rosa e bianco.
Poppy portò giù lentamente le mani e il suo sorriso si addolcì mentre mi
fissava. Abbassai la macchina e ricambiai lo sguardo, con i fiori di ciliegio
pieni e vibranti intorno al luogo dove eravamo seduti, la sua simbolica aura.
Poi, all’improvviso, capii. Poppy, Poppymin, lei era il fiore di ciliegio.
Lei era il mio fiore di ciliegio.
Una bellezza senza pari, dalla vita limitata. Una bellezza così estrema
nella sua grazia, che non poteva durare. Restava per arricchire le nostre vite,
poi volava via col vento.
Mai dimenticata. Perché ci ricordava che dovevamo vivere. Che la vita
era fragile, eppure, nella sua fragilità, c’era la forza. C’era l’amore. C’era
un senso. Ci ricordava che la vita era breve, che i nostri respiri erano contati
e che il nostro destino era stabilito, non importava quanto strenuamente
combattessimo.
Ci ricordava di non sprecare un singolo secondo. Di vivere pienamente,
amare ancor più pienamente. Rincorrere i sogni, andare in cerca di
avventure… Catturare momenti.
Vivere nella bellezza.
Mentre questi pensieri mi turbinavano per la mente, deglutii. Poi Poppy
mi tese una mano. «Portami nel frutteto, piccolo» chiese dolcemente.
«Voglio vivere questa esperienza con te».
Lasciai la macchina fotografica appesa al collo, mi spostai dietro la sua
sedia a rotelle e la spinsi lungo il sentiero di terra asciutta. Poppy inspirava,
in modo lento e misurato. La ragazza che amavo stava assaporando ogni
cosa. La bellezza di questo momento. Un desiderio realizzato.
Arrivati al nostro albero, i suoi rami un tripudio di rosa pastello, presi
una coperta dal retro della sua sedia e la distesi per terra. Sollevai Poppy tra
le braccia e ci sistemammo tutti e due sotto il nostro albero, con la vista del
frutteto che si apriva davanti ai nostri occhi.
Poppy si appoggiò con la schiena contro il mio petto. Sospirò, mi strinse
la mano che era posata sopra la sua pancia. «Ce l’abbiamo fatta» sussurrò.
Spostandole i capelli dal collo, le posai un bacio sulla pelle calda. «Sì,
piccola».
Rimase in silenzio per un minuto. «È come un sogno… È come un
dipinto. Voglio che il paradiso abbia esattamente quest’aspetto».
Invece di sentirmi ferito o triste per il suo commento, mi ritrovai a
desiderarlo per Poppy. A desiderare così tanto che lei avesse questo, per
sempre.
Mi accorgevo di quanto era stanca. Mi accorgevo che provava dolore.
Non lo diceva mai, ma non c’era bisogno. Lei parlava con me senza parole.
E io lo sapevo. Sapevo che stava resistendo finché io non fossi stato pronto
a lasciarla andare.
«Rune?» La voce di Poppy mi fece girare. Appoggiandomi all’albero,
sollevai Poppy per farla sdraiare sulle mie gambe, in modo che potessi
vederla. Così avrei potuto incidere nella mia memoria ogni singolo secondo
di questa giornata.
«Ja?» Risposi e le feci scorrere le dita lungo il viso. La sua fronte era
segnata dalla preoccupazione. Mi misi a sedere un po’ più dritto.
Poppy prese un profondo respiro e chiese: «Che succede se dimentico?»
Il mio cuore si spaccò esattamente nel mezzo, mentre vedevo la paura
attraversarle il volto. Poppy non conosceva la paura. Ma di questo, aveva
paura.
«Dimenticare che cosa, piccola?»
«Tutto» mormorò, con voce quasi rotta. «Te, la mia famiglia… Tutti i
baci. I baci che voglio rivivere fino a che non ti riavrò di nuovo, un giorno».
«Non lo farai» le assicurai, sforzandomi di rimanere forte.
Poppy guardò da un’altra parte. «Una volta, ho letto che le anime
dimenticano la loro vita sulla terra quando si muore. Che devono
dimenticare, altrimenti non sarebbero mai in grado di andare oltre, di essere
in pace in paradiso». Il suo dito iniziò a tracciare dei disegni sulle mie dita.
«Ma io non voglio» aggiunse, quasi impercettibilmente. «Io voglio
ricordare tutto».
«Non voglio mai dimenticarmi di te» mi disse, sollevando lo sguardo su
di me con le lacrime agli occhi. «Ho bisogno che tu sia con me, sempre.
Voglio guardarti vivere la tua vita. La vita eccitante che so che avrai. Voglio
vedere le foto che scatterai». Deglutì. «Ma più di tutto, voglio i miei mille
baci. Non voglio mai dimenticare quello che abbiamo condiviso. Voglio
ricordarmeli per sempre».
«Allora troverò un modo perché tu li veda» le dissi, e con la brezza che
si avvolse intorno a noi, la tristezza di Poppy volò via.
«Lo farai?» Sussurrò, nella sua voce gentile si sentiva chiaramente la
speranza.
Annuii. «Lo prometto. Non so come, ma lo farò. Niente, nemmeno Dio,
mi fermerà».
«Mentre ti aspetterò nel nostro frutteto» disse, con un sorriso sognante e
distante.
«Ja».
Sistemandosi di nuovo tra le mie braccia, Poppy sussurrò: «Sarà bello».
Sollevò la testa. «Ma aspetta un anno» aggiunse.
«Un anno?»
Poppy fece di sì col capo. «Ho letto che ci vuole un anno perché
un’anima possa trapassare. Non lo so se è vero, ma in caso lo fosse, aspetta
un anno per ricordarmi dei nostri baci. Non voglio perdermeli… Qualsiasi
cosa farai».
«Okay» acconsentii, ma dovetti smettere di parlare. Non ero certo che ce
l’avrei fatta a non crollare.
Gli uccelli volavano di albero in albero, sparendo dalla vista in mezzo ai
fiori. Incrociando insieme le nostre mani, Poppy disse: «Tu mi hai dato
questo, Rune. Tu mi hai regalato questo desiderio».
Non riuscivo a rispondere. Mentre parlava, il mio respiro incespicò. La
avvolsi ancora più forte tra le braccia, poi con un dito sotto il suo mento, la
portai alla mia bocca. La dolcezza era ancora lì, sulle sue labbra morbide.
Quando mi staccai, lei continuò a tenere gli occhi chiusi, e disse: «Bacio
novecentotrentaquattro. Nel frutteto in piena fioritura. Con il mio Rune… E
il mio cuore è quasi scoppiato».
Sorrisi. E quando lo feci, sentii un dolore per la felicità della mia
ragazza. C’eravamo quasi. La fine della nostra avventura era in vista.
«Rune?» Chiamò Poppy.
«Mhmm?» Replicai.
«Hai smesso di fumare».
Con un sospiro, risposi: «Ja».
«Perché?»
Fermandomi un attimo per formulare la mia risposta, ammisi:
«Qualcuno che amo mi ha insegnato che la vita è preziosa. Mi ha insegnato
a non fare nulla che possa mettere in pericolo quest’avventura. E io l’ho
ascoltato».
«Rune» disse Poppy, la sua voce incrinata. «È preziosa» mormorò.
«Così tanto preziosa. Non sprecarne un solo secondo».
Poppy si adagiò pigramente contro di me, guardando la bellezza del
frutteto. Dopo aver inspirato profondamente, mi confidò con calma: «Non
credo che vedrò il ballo, Rune».
Il mio corpo si paralizzò.
«Mi sento davvero stanca». Cercò di aggrapparsi forte a me. «Davvero
stanca» ripeté.
Serrai gli occhi e la strinsi a me. «I miracoli possono succedere, piccola»
replicai.
«Sì» disse Poppy, senza fiato. «Possono». Portò la mia mano alla sua
bocca e mi baciò ogni dito. «Avrei adorato vederti in smoking. E avrei
adorato ballare con te, sotto le luci, una canzone che mi faceva pensare a
noi due».
Sentendo che Poppy iniziava a stancarsi tra le mie braccia, trattenni il
dolore che quest’immagine portava con sé e dissi: «Andiamo a casa,
piccola».
Feci per alzarmi e Poppy si allungò a prendermi la mano. Guardai giù.
«Starai al mio fianco, vero?»
Accovacciandomi, le avvolsi le guance. «Per sempre».
«Bene» sussurrò. «Non sono ancora del tutto pronta a lasciarti andare,
non ancora». Mentre la sospingevo verso casa, pregai silenziosamente Dio,
chiedendogli di darle solo due settimane in più. Poi poteva portarsi la mia
ragazza a casa; lei era pronta, io sarei stato pronto. Solo dopo averle
regalato tutti i suoi sogni.
Lasciami solo regalarle questo suo ultimo desiderio.
Dovevo.
Era il mio ringraziamento finale per tutto l’amore che mi aveva dato.
Era l’unico regalo che potessi donarle.
Poppy

Due settimane dopo

Ero seduta sulla mia sedia, nel bagno di mia madre, mentre lei mi
metteva uno strato di mascara sulle ciglia. La osservavo come non l’avevo
mai osservata prima. Lei sorrideva. La osservavo, assicurandomi di scolpire
ogni parte del suo viso nella memoria.
La verità era che mi stavo spegnendo. Lo sapevo. Penso che in fondo
tutti lo sapessimo. Ogni mattina che mi svegliavo, con Rune rannicchiato al
mio fianco, mi sentivo sempre un po’ più stanca, sempre un po’ più debole.
Ma nel cuore, mi sentivo forte. Riuscivo a sentire il richiamo verso casa
rafforzarsi. Riuscivo ad avvertire la pace di questo richiamo scorrere dentro
di me, minuto dopo minuto.
Ed ero quasi pronta.
Osservando la mia famiglia negli ultimi giorni, sapevo che sarebbero
stati bene. Le mie sorelle erano felici e forti e i miei genitori le amavano
immensamente, quindi sapevo che se la sarebbero cavata.
E Rune. Il mio Rune, la persona per me più difficile da lasciare… Era
cresciuto. Non si era ancora reso conto che non era più il ragazzo lunatico e
spezzato che era ritornato dalla Norvegia.
Era pieno di vita.
Sorrideva.
Faceva di nuovo le fotografie.
E meglio ancora, mi amava apertamente. Il ragazzo che era ritornato si
nascondeva dietro un muro di oscurità. Ora non più, il suo cuore era aperto.
E per questo, aveva lasciato entrare la luce nella sua anima.
Sarebbe stato bene.
Mamma andò verso l’armadio. Quando ritornò in bagno, reggeva un
bellissimo abito bianco. Allungando la mano, la feci scorrere lungo la
stoffa. «È bellissimo» dissi e le sorrisi.
«Proviamolo, d’accordo?»
Sbattei gli occhi, confusa. «Perché mamma? Che sta succedendo?»
La mamma batté le mani per chiudere la discussione. «Basta con le
domande, ragazzina». Mi aiutò a vestirmi e mi infilò delle scarpe bianche ai
piedi.
Il suono della porta del bagno che si apriva mi fece voltare. Quando lo
feci, c’era mia zia DeeDee sulla soglia della porta, con una mano sul petto.
«Poppy» disse, con le lacrime che le riempivano gli occhi. «Sei
bellissima».
DeeDee guardò mia madre e le porse la mano. La mamma abbracciò sua
sorella, e rimasero lì a guardarmi. Sorridendo per l’espressione sui loro
volti, chiesi: «Posso vedere?»
Mia madre spinse la mia sedia di fronte allo specchio, e mi immobilizzai
alla vista del mio riflesso. Il vestito mi stava così bene, ancora meglio di
quanto avrei potuto immaginare. E i miei capelli… Avevo i capelli raccolti
di lato, in uno chignon basso, e il mio fiocco bianco preferito era fissato
appena sopra.
Come sempre, i miei orecchini dell’infinito spiccavano, luminosi e fieri.
Feci scorrere le mani giù lungo il vestito. «Non capisco… Sembra che
mi sia vestita per il ballo…»
Nello specchio, i miei occhi guizzarono tra quelli di mia madre e di
DeeDee. Il mio cuore perse il controllo del suo battito. «Mamma?» Chiesi.
«Andrò al ballo? Ma ci vogliono ancora due settimane! Come…»
La mia domanda fu interrotta dal suono del campanello. Mamma e
DeeDee si guardarono a vicenda, e poi mia madre ordinò: «DeeDee, vai tu
ad aprire la porta».
DeeDee si mosse, ma la mamma tese una mano facendole cenno di
aspettare e poi la fermò poggiandogliela sul braccio. «No, aspetta, prendi tu
la sedia, io devo portare Poppy giù per le scale».
La mamma mi sollevò e mi mise sul suo letto. DeeDee lasciò la stanza, e
sentii arrivare da giù la voce di mio padre che si mescolava con altre. I
pensieri mi si accavallavano nella mente, ma non mi azzardavo a farmi
troppe speranze. Nonostante ciò, volevo tantissimo che quelle speranze
diventassero realtà.
«Sei pronta, tesoro?» Mi chiese mia madre.
«Sì» risposi senza fiato.
Mi aggrappai a mia madre mentre scendevamo giù per gli scalini, dirette
verso la porta d’ingresso. Appena girammo l’angolo, mio padre e le mie
sorelle, che erano tutti riuniti nell’ingresso, guardarono nella mia direzione.
Allora, nonostante mi sentissi debole, mia madre mi portò alla porta. Lì,
appoggiato allo stipite, c’era Rune. Teneva in mano un bouquet di
ramoscelli di fiori di ciliegio… E indossava uno smoking.
Il mio cuore si frantumò di luce.
Mi stava regalando il mio desiderio.
Non appena i nostri occhi si incontrarono, Rune si raddrizzò. Lo vidi
deglutire, mentre mia madre mi sistemava sulla sedia. Quando lei si
allontanò, Rune si abbassò, senza importarsene di chi altro ci fosse, e
sussurrò: «Poppymin». Il mio respiro rimase sospeso, quando aggiunse:
«Sei bellissima».
Allungando la mano, gli tirai le punte dei capelli biondi. «Li hai pettinati
all’indietro così posso vedere il tuo bel viso. E indossi uno smoking!».
Un sorriso sbilenco gli tese la bocca. «Ti ho detto che l’avrei fatto»
replicò.
Rune mi prese la mano, e più delicatamente che poté, mi mise un
mazzolino di fiori sul polso. Feci scorrere la mano sui petali dei boccioli,
senza riuscire a fare a meno di sorridere.
«È tutto vero?» Chiesi, alzando lo sguardo negli occhi blu di Rune.
Chinandosi, mi baciò e sussurrò: «Stai andando al ballo».
Mi sfuggì una lacrima da un occhio e mi si offuscò la vista. Vidi
l’espressione di Rune incupirsi, ma risi e gli assicurai: «Sono lacrime
buone, tesoro. Sono solo troppo felice».
Rune deglutì e io mi allungai a sfiorargli il viso. «Mi hai resa così
incredibilmente felice».
Sperai avesse sentito il significato più profondo di quelle parole. Perché
io non intendevo solo stasera. Volevo dire che mi aveva sempre resa la
ragazza più felice del pianeta. Doveva saperlo.
Doveva aver avvertito la verità di questa cosa. Rune mi sollevò la mano
e la baciò. «Anche tu mi hai reso così dannatamente felice».
E seppi che aveva capito.
Il suono della voce di mio padre fece separare i nostri sguardi. «Bene
ragazzi, è meglio che andiate». Colsi una sfumatura aspra nel tono di mio
padre. Sapevo che voleva che andassimo perché questo era davvero troppo
da gestire per lui.
Rune si alzò e si spostò dietro la mia sedia. «Sei pronta, piccola?»
«Sì» risposi sicura.
Tutta la stanchezza che avevo provato scomparve in un istante. Perché
Rune in qualche modo aveva fatto sì che questo sogno diventasse realtà.
Non ne avrei sprecato nemmeno un secondo.
Rune mi spinse fino alla macchina di mia madre. Mi sollevò dalla sedia
a rotelle e mi sistemò sul sedile davanti. Io avevo un sorriso enorme. A dire
il vero, non smisi mai di sorridere durante tutto il tragitto.
Quando arrivammo a scuola, sentii la musica che dall’interno si
diffondeva nella notte. Chiusi gli occhi, assaporando ogni immagine: la
parata di limousine che arrivavano una dopo l’altra, gli studenti vestiti tutti
in modo elegante, che entravano nella palestra della scuola.
Con immensa premura, come sempre, Rune mi sollevò, portandomi
fuori dalla macchina e mi adagiò sulla sedia. Poi si spostò davanti a me e mi
baciò. Mi baciò con sentimento, come se sapesse, proprio come lo sapevo
io, che questi baci erano limitati.
Questo rendeva ogni tocco, ogni assaggio tanto più speciale. Ci eravamo
baciati quasi mille volte, eppure gli ultimi pochi baci che ci stavamo
scambiando, quelli erano i più speciali. Quando sai che qualcosa ha una
fine, ciò la rende tanto più densa di significato.
Quando si staccò, gli circondai il suo bellissimo viso con le mani e gli
dissi: «Bacio novecentonovantaquattro. Al mio ballo di fine anno. Con il
mio Rune… E il mio cuore è quasi scoppiato».
Rune fece un profondo respiro e mi premette un ultimo bacio sulla
guancia. Iniziò a spingermi verso la palestra. Gli insegnanti che facevano da
chaperon ci videro arrivare, e le loro reazioni mi riscaldarono il cuore.
Sorrisero, mi abbracciarono, mi fecero sentire amata.
La musica arrivava a tutto volume da dentro la sala. Volevo
disperatamente scoprire che aspetto avesse la stanza. Rune allungò la mano
verso la porta e, quando la spalancò, si aprì davanti a me la vista della
palestra… Una visione ornata da toni bianchi e rosa pastello. Addobbata in
modo magnifico, perfettamente in tema col mio fiore preferito.
Una mano mi salì alla bocca. «È a tema di fiori di ciliegio» sussurrai,
quando la abbassai.
Guardai di nuovo Rune. Lui scrollò le spalle. «Che altro, se no?»
«Rune» sussurrai, mentre mi spingeva nella sala. I ragazzi che ballavano
nelle vicinanze si fermarono quando entrai. Per un minuto, quando incontrai
i loro sguardi, mi sentii in imbarazzo.
Era la prima volta che molti di loro mi vedevano da quando… Ma quella
sensazione imbarazzante fu velocemente dimenticata quando iniziarono a
venirmi incontro, salutandomi e augurandomi il meglio. Dopo un po’,
vedendo chiaramente che ero sopraffatta, Rune mi spinse verso un tavolo
affacciato sulla pista da ballo.
Sorrisi quando vidi tutti i nostri amici seduti lì. Jorie e Ruby mi videro
per prime. Saltarono in piedi e corsero verso di noi. Rune si fece indietro,
mentre le mie amiche mi abbracciavano.
«Porca miseria, Pops. Come sei bella!» Urlò Jorie. Sorrisi e indicai il
suo abito blu.
«Anche tu, tesoro». Jorie mi sorrise in risposta. Judson arrivò dietro di
lei, prendendola per mano. Mentre guardavo le loro mani, sorrisi di nuovo.
Jorie incontrò i miei occhi e scrollò le spalle. «Ho sempre pensato che
sarebbe successo, alla fine». Ero contenta per lei. Mi piaceva sapere che
stava insieme a qualcuno che adorava. Era stata un’amica eccezionale per
me. Judson e Deacon mi abbracciarono subito dopo, infine Ruby. Dopo che
tutti i nostri amici mi ebbero salutato, Rune si fece avanti per prendere
posto al tavolo. Naturalmente mi si sedette accanto, e mi prese
immediatamente la mano.
Lo vidi guardarmi, i suoi occhi non lasciavano mai il mio viso.
Voltandomi verso di lui, gli chiesi: «Stai bene, piccolo?»
Rune annuì, poi si inchinò «Non credo di averti mai visto così bella.
Non riesco a toglierti gli occhi di dosso» mi spiegò.
Inclinai la testa di lato mentre ammiravo il suo aspetto. «Mi piaci in
smoking» annunciai.
«È a posto, credo». Rune iniziò a giocherellare col suo papillon. «Questo
è stato quasi impossibile metterlo».
«Ma ce l’hai fatta» scherzai.
Rune distolse lo sguardo, poi tornò a guardarmi. «Mio padre mi ha
aiutato».
«Sì?» Chiesi piano.
Rune annuì seccamente.
«E gliel’hai lasciato fare?» Insistei, notando l’inclinazione cocciuta del
suo mento. Il mio cuore batteva forte, mentre aspettavo la risposta. Rune
non sapeva che il mio desiderio segreto era che ricucisse il rapporto con suo
padre.
Presto avrebbe avuto bisogno di lui.
E suo padre lo amava.
Era l’ultimo ostacolo che volevo che Rune superasse.
Lui sospirò. «Gliel’ho lasciato fare».
Non riuscii a fermare il sorriso che mi si stava disegnando sulle labbra.
Mi avvicinai e gli posai la testa sulla spalla. «Sono davvero orgogliosa di te,
Rune» dissi, guardando in su.
Rune serrò la mascella, ma non ebbe nulla da dire in risposta.
Sollevando la testa, esaminai la stanza e guardai i nostri compagni che
ballavano e si divertivano. E lo adoravo. Guardavo ogni persona con cui ero
cresciuta, chiedendomi cosa ne sarebbe stato di loro quando fossero
cresciuti. Chi avrebbero sposato, se avrebbero avuto dei figli.
Poi i miei occhi si soffermarono su un viso familiare, che mi guardava
attraverso la stanza. Avery era seduta con un altro gruppo di amici. Quando
incrociai i suoi occhi, alzai la mano e le feci un piccolo gesto di saluto.
Avery sorrise e rispose al saluto.
Quando ritornai a guardare il tavolo, Rune stava lanciando
un’occhiataccia ad Avery. La mia mano si posò sul suo braccio, e lui
sospirò e scosse la testa. «Solo tu» disse. «Solo tu».
Mentre la serata trascorreva, io stavo ad osservare totalmente soddisfatta
i nostri amici che ballavano e ballavano. Facevo tesoro di questo tempo.
Facevo tesoro di poter vedere tutti così felici.
Il braccio di Rune arrivò ad avvolgermi la spalla. «Come hai fatto?» Gli
chiesi.
Rune indicò Jorie e Ruby. «Sono state loro, Poppymin. Volevano che tu
vivessi questo. Hanno fatto tutto. Hanno anticipato la data. Il tema, tutto».
Lo adocchiai scettica. «Perché ho la sensazione che non siano state solo
loro?» Un rossore infiammò le guance di Rune, mentre alzava le spalle con
indifferenza. Sapevo che aveva fatto molto di più di quello che voleva
lasciar intendere.
Avvicinandomi piano, gli presi il viso tra le mani. «Ti amo, Rune
Kristiansen. Ti amo, tanto, tanto, tanto».
Gli occhi di Rune si chiusero per un secondo troppo lungo. Inspirò
profondamente attraverso il naso, poi li riaprì e dichiarò: «Ti amo anch’io,
Poppymin. Più di quanto credo tu saprai mai».
Lanciando uno sguardo alla palestra, sorrisi. «Lo so, Rune… Lo so».
Rune mi abbracciò più stretta. Mi chiese di ballare, ma non volevo
andare con la mia sedia sulla pista affollata. Ero felice di guardare tutti gli
altri ballare, quando vidi Jorie andare verso il DJ.
Guardò nella mia direzione. Non riuscivo a decifrare il suo sguardo, ma
poi sentii i primi accordi di If I Could Fly, degli One Direction, inondare la
stanza.
Mi immobilizzai. Una volta, avevo detto a Jorie che questa canzone mi
faceva pensare a Rune. Mi faceva pensare a quando Rune era lontano da
me, in Norvegia. E più di tutto, mi faceva pensare a come Rune era con me,
nell’intimità. Un tesoro. Solo per me. For my eyes only, solo per i miei
occhi. Quando diceva al mondo di essere cattivo, a me diceva sempre e solo
che era innamorato.
Era amato.
Immensamente.
Sognante, avevo confessato a Jorie che, se ci fossimo sposati, questa
sarebbe stata la nostra canzone. Il nostro primo ballo. Rune lentamente si
mise in piedi; sembrava che Jorie gliel’avesse detto.
Mentre Rune si abbassava, scossi la testa, perché non volevo andare con
la sedia sulla pista. Ma poi con mia sorpresa, in una mossa che mi rubò
totalmente il cuore, Rune mi prese tra le sue braccia e mi portò sulla pista.
«Rune» protestai debolmente, aggrappandomi al suo collo. Rune scosse
la testa, senza dire una sola parola, e iniziò a ballare con me tra le sue
braccia.
Rifiutandomi di guardare da qualsiasi altra parte, lo fissai negli occhi,
sapendo che poteva sentire ogni parola del testo della canzone. Lo vedevo
chiaramente nella sua espressione il perché sapeva che questa canzone era
per noi.
Mi tenne stretta, ondeggiando delicatamente al ritmo della musica. E,
come era sempre stato per me e Rune, il resto del mondo sparì, e restammo
solo noi due.
Danzando tra i fiori, così follemente innamorati.
Due metà di un intero.
Quando la canzone arrivò al suo crescendo, e lentamente giunse alla
fine, mi avvicinai e chiesi: «Rune?»
«Ja?» Rispose con voce roca.
«Mi porteresti in un posto?»
Le sue sopracciglia biondo scuro si aggrottarono, ma lui assentì col
capo. Quando finì la canzone, mi attirò verso di sé per un bacio. Le sue
labbra tremavano leggermente contro le mie. Anche io mi sentivo
sopraffatta dall’emozione, e mi concessi un’unica lacrima, prima di
prendere un respiro profondo e scacciarla via.
Quando Rune si tirò indietro, sussurrai: «Bacio
novecentonovantacinque. Con il mio Rune. Al ballo mentre danzavamo. E
il mio cuore è quasi scoppiato».
Rune appoggiò la fronte contro la mia.
Quando lui ci fece spostare per andarcene, lanciai uno sguardo al centro
della pista. Jorie era ferma in piedi, e mi guardava con le lacrime agli occhi.
Catturando il suo sguardo, mi misi una mano sul cuore e muovendo solo le
labbra mimai: «Grazie… Ti voglio bene… Mi mancherai».
Jorie chiuse gli occhi. Quando li riaprì, rispose mimando anche lei. «Ti
voglio bene e anche tu mi mancherai».
Alzò la mano in un piccolo saluto e Rune incontrò i miei occhi.
«Pronta?»
Annuii, e allora lui mi mise sulla sedia e mi portò fuori dalla sala. Dopo
che mi ebbe sistemato a sedere e fu entrato in macchina, mi guardò.
«Dove andiamo, Poppymin?»
Sospirando piena di gioia, svelai: «Alla spiaggia. Fammi vedere l’alba
dalla spiaggia».
«La nostra spiaggia?» Rune mi chiese, mentre metteva in moto l’auto.
«Ci vorrà un po’ di tempo per arrivarci ed è già tardi».
«Non mi importa» replicai. «L’importante è arrivare prima del sole». Mi
sistemai meglio sul sedile, e presi la mano di Rune mentre iniziammo la
nostra ultima avventura verso la costa.
Per quando arrivammo alla spiaggia, la notte era quasi volata via. L’alba
sarebbe apparsa tra un paio d’ore. Ed io ne ero contenta.
Volevo questo tempo con Rune.
Quando ci fermammo nel parcheggio, Rune mi lanciò uno sguardo.
«Vuoi sederti sulla sabbia?»
«Sì» risposi in fretta, fissando le stelle luminose nel cielo.
Lui restò in silenzio un attimo. «Potrebbe fare freddo per te».
«Ci sei tu» replicai e vidi la sua espressione addolcirsi.
«Aspetta qui». Rune scivolò fuori dall’auto e lo sentii prendere delle
cose dal portabagagli.
La spiaggia era buia, illuminata solo dalla luce della luna. Tra i raggi di
luna, vidi Rune distendere una coperta sulla sabbia e accanto a lui c’erano
altre coperte, prese dal bagagliaio.
Quando tornò indietro, si sciolse il papillon, poi aprì alcuni bottoni della
sua camicia. Mentre fissavo Rune, mi chiedevo come potevo essere stata
tanto fortunata. Ero amata da questo ragazzo, amata così
appassionatamente, che al confronto gli altri amori impallidivano.
Anche se la mia vita era stata breve, avevo amato a lungo. E alla fine,
questo bastava.
Rune aprì la portiera della macchina, e allungandosi all’interno, mi prese
tra le sue forti braccia. Feci un sorrisino mentre mi cullava. «Sono
pesante?» Chiesi mentre chiudeva lo sportello.
Rune incontrò i miei occhi. «Per niente, Poppymin. Ci sono io con te».
Sorridendo, gli premetti un bacio sulla guancia e poggiai la testa sul suo
petto, mentre ci avvicinavamo alla coperta. Il suono delle onde che si
infrangevano riempiva l’aria della notte, una brezza calda e delicata
soffiava tra i miei capelli.
Quando arrivammo alla coperta, Rune si mise in ginocchio e mi adagiò
giù gentilmente. Chiusi gli occhi e inalai l’aria salata, riempiendomene i
polmoni. La sensazione della lana che mi copriva le spalle me li fece
riaprire; Rune mi stava avvolgendo con delle coperte calde. Inclinai la testa
all’indietro, guardandolo dietro di me. Notando il mio sorriso, mi baciò la
punta del naso. Feci una risatina e all’improvviso mi trovai stretta
saldamente tra le braccia protettive di Rune.
Rune distese le gambe per racchiudermi. Lasciai cadere la testa
all’indietro per riposarmi contro il suo petto. E mi rilassai.
Rune mi posava dei baci sulla guancia. «Stai bene, Poppymin?» Chiese.
Annuii. «Perfettamente» replicai.
La mano di Rune spinse indietro i capelli che avevo davanti al viso. «Sei
stanca?»
Feci per scuotere la testa ma, nel desiderio di essere sincera, risposi: «Sì.
Sono stanca, Rune».
Avvertii e, insieme, udii il suo profondo sospiro. «Ce l’hai fatta, piccola»
disse con orgoglio. «Gli alberi in fiore, il ballo…»
«Tutto quello che resta sono i nostri baci» finii la frase al posto suo. Lo
sentii annuire contro di me. «Rune?» Lo chiamai, perché avevo bisogno che
mi ascoltasse.
«Ja?»
Chiusi gli occhi e sollevai la mano sulle mie labbra. «Ricorda, il
millesimo bacio deve essere quando andrò a casa». Rune si irrigidì contro di
me. Mi avvolsi di più il suo braccio intorno a me, e gli chiesi: «Va ancora
bene per te?»
«Qualsiasi cosa» replicò Rune. Ma da quanto era incrinata la sua voce,
riuscivo a capire che quella richiesta era stata un duro colpo.
«Non riesco ad immaginare un commiato più pacifico e più bello delle
tue labbra sulle mie. La fine della nostra avventura. L’avventura che stiamo
vivendo da nove anni». Guardandolo indietro verso di lui, sostenni i suoi
occhi intensi e sorrisi. «E voglio che tu sappia che non ho mai rimpianto un
singolo giorno, Rune. Tutto di te e me è stato perfetto». Afferrandogli la
mano, continuai: «Voglio che tu sappia quanto ti ho amato». Voltai la spalla,
così da fissarlo dritto negli occhi. «Promettimi che andrai in cerca di
avventure intorno al mondo. Che visiterai altri paesi e che farai esperienze
di vita».
Rune annuì. Io aspettai, attesi il suono della sua voce.
«Te lo prometto» replicò.
Annuendo, liberai un respiro che era rimasto sospeso e posai la testa
contro il suo petto.
Minuti e minuti trascorrevano in silenzio. Guardavo le stelle che
brillavano nel cielo. Vivendo il momento.
«Poppymin?»
«Sì, piccolo?» Replicai.
«Sei stata felice? Hai…» Si schiarì la gola. «Hai amato la tua vita?»
Rispondendo onestamente, al cento per cento, gli dissi: «Ho amato la
mia vita. Ogni cosa. E ho amato te. Per quanto possa suonare un cliché, è
sempre stato abbastanza. Tu sei sempre stato la parte migliore di ogni mio
giorno. Tu sei stato la ragione di ogni mio sorriso».
Chiusi gli occhi e rividi le nostre vite nella mente.
Ricordai le volte in cui lo abbracciavo e lui mi abbracciava più forte.
Ricordai di come lo baciavo e di come lui mi baciava più profondamente. E
la cosa migliore di tutte, ricordai come lo amavo e come lui si sforzava
sempre di amarmi di più.
«Sì, Rune» dissi, con assoluta certezza. «Ho amato la mia vita».
Rune liberò un respiro, come se la mia risposta gli avesse tolto un peso
dal cuore.
«Anche io» concordò Rune.
Aggrottai le sopracciglia. «Rune, la tua vita non è finita» gli dissi,
voltandomi indietro a guardarlo.
«Poppy, io…»
Interruppi qualsiasi cosa Rune stesse per dirmi con un gesto della mano.
«No, Rune. Ascoltami». Presi un respiro profondo. «Puoi sentirti come se
stessi per perdere metà del tuo cuore quando me ne andrò, ma questo non ti
dà il permesso di vivere una vita a metà. E metà del tuo cuore non sarà
andata via. Perché io camminerò sempre accanto a te. Ti terrò sempre la
mano. Sono intessuta nell’essenza di cui sei fatto, proprio come tu resterai
sempre attaccato alla mia anima. Amerai e riderai ed esplorerai… Per
entrambi».
Strinsi la mano di Rune, implorandolo di ascoltare. Lui si girò da
un’altra parte, poi si voltò per guardarmi negli occhi, come volevo io. «Dì
sempre di sì, Rune. Dì sempre di sì alle nuove avventure».
Il labbro di Rune si alzò in un angolo, mentre io lo fissavo con uno
sguardo assorto. Lui fece scorrere il dito sul mio viso. «Okay, Poppymin.
Lo farò».
Sorrisi per il suo divertimento, ma poi continuai, in tutta serietà. «Hai
così tanto da offrire al mondo, Rune. Tu sei il ragazzo che mi ha dato i baci,
che ha trasformato in realtà i miei ultimi desideri. Quel ragazzo non si
ferma perché soffre una perdita. Invece, risorge, proprio come è certo che
ogni giorno il sole sorgerà. Supera la tempesta, Rune. E poi, ricorda una
cosa». Sospirai.
«Cosa?» Chiese.
Liberandomi della mia frustrazione, sorrisi e gli dissi: «Raggi di luna nei
cuori e sole splendente nei sorrisi».
Non riuscendo a trattenere la sua risata, Rune si lasciò andare… E fu
bellissimo. Chiusi gli occhi mentre il profondo suono baritonale di essa mi
inondava. «Lo so, Poppymin. Lo so».
«Bene» dissi trionfante e mi appoggiai di nuovo a lui. Il mio cuore si
contrasse quando vidi l’alba iniziare ad infiammare l’orizzonte.
Spostandomi, presi silenziosamente la mano di Rune e la tenni nella mia.
Questo sorgere del sole non aveva bisogno di parole. Avevo detto a
Rune tutto quello che dovevo dirgli. Lo amavo. Volevo che lui vivesse. E
sapevo che l’avrei rivisto.
Ero in pace.
Ero pronta a lasciare andare tutto.
Come se accertasse la completezza della mia anima, Rune mi strinse
così incredibilmente forte, mentre la cresta del sole irrompeva sulle acque
blu, cacciando via le stelle.
Le palpebre iniziarono a diventare pesanti, mentre restavo tra le braccia
di Rune, perfettamente appagata. «Poppymin?»
«Mhmm?»
«Anche io sono stato abbastanza per te?» La nota rotta nella voce di
Rune mi fece spezzare il cuore, ma annuii dolcemente.
«Più di ogni altra cosa» confermai e, con un sorriso, aggiunsi solo per
lui: «Tu sei stato speciale come solo le cose speciali possono essere».
Rune risucchiò un respiro alla mia risposta.
Quando il sole si innalzò al suo posto, per vegliare sul cielo con fare
protettivo, dissi: «Rune, sono pronta ad andare a casa».
Rune mi strinse un’ultima volta, poi si mosse per alzarsi in piedi. Mentre
si spostava, sollevai debolmente la mano e gli presi il polso. Rune guardò in
giù verso di me, e scacciò indietro le lacrime, sbattendo le palpebre.
«Voglio dire… Che sono pronta ad andare a casa».
Gli occhi di Rune si chiusero per un momento. Si accovacciò e mi cullò
il viso tra le mani. Quando aprì gli occhi, annuì. «Lo so, piccola. L’ho
sentito nel momento in cui l’hai deciso».
Sorrisi.
Guardai un’ultima volta il panorama.
Era ora.
Rune mi sollevò tra le sue braccia, gentilmente, e io guardai il suo
bellissimo viso mentre lui camminava sulla sabbia. Sosteneva il mio
sguardo.
Voltandomi ancora una volta per guardare il sole, mi cadde lo sguardo
sulla sabbia dorata. E allora il mio cuore si colmò di una luce quasi
incredibile. «Guarda, Rune. Guarda le tue orme nella sabbia» sussurrai.
Gli occhi di Rune lasciarono i miei per osservare la spiaggia.
Trattenne il respiro e si girò di nuovo verso di me.
Con il labbro che mi tremava, sussurrai: «Tu mi hai portato in braccio.
Nei miei momenti peggiori, quando non potevo camminare… Tu mi hai
aiutata a superarli».
«Sempre» riuscì a dire Rune con un filo di voce. «Sempre e per
sempre».
Con un lungo respiro, poggiai la testa sul suo petto e sottovoce dissi:
«Portami a casa, piccolo».
Mentre Rune guidava, rincorrendo il giorno che avanzava, non staccai
nemmeno una volta gli occhi da lui. Volevo ricordarmelo proprio così.
Sempre.
Fino a che non fosse tornato per sempre tra le mie braccia.
Rune

Accadde due giorni dopo.


Due giorni che avevo trascorso sdraiato accanto a Poppy nel letto,
incidendo ogni suo lineamento nella mia memoria. Abbracciandola,
baciandola, fino a raggiungere il nostro novecentonovantanovesimo bacio.
Quando eravamo ritornati dalla spiaggia, il letto di Poppy era stato tirato
contro la finestra, proprio come in ospedale. Ad ogni ora che passava, si
indeboliva ma, visto che lei era Poppy, ogni minuto che passava si sentiva
colma di gioia. I suoi sorrisi ci rassicuravano tutti che stesse bene.
Ero così incredibilmente orgoglioso di lei.
In disparte in fondo alla stanza, osservai ognuno dei membri della sua
famiglia baciarla per darle l’addio. Stavo in ascolto, quando le sue sorelle e
DeeDee le dissero che si sarebbero riviste di nuovo. Rimanevo forte, mentre
i suoi genitori trattenevano le lacrime per la loro figlia.
Quando la sua mamma si fece da parte, vidi la mano di Poppy
protendersi. Stava cercando me. Inspirando profondamente, obbligai i miei
piedi pesanti come piombo a spingersi fino al letto.
Mi toglieva ancora il fiato, per quanto era bella. «Ehi, Poppymin», la
salutai e mi sedetti sul bordo del letto.
«Ehi, piccolo» rispose, con la voce che ora era appena più alta di un
sussurro. Portai la mia mano alle sue e le premetti un bacio sulle labbra.
Poppy sorrise e mi sciolse il cuore. Una rumorosa raffica di vento soffiò
attraverso la finestra, fischiando contro il vetro. Poppy inspirò bruscamente.
Mi girai per vedere cosa stesse guardando.
Una moltitudine di petali di fiori di ciliegio stava navigando nel vento.
«Stanno andando via…» disse.
Chiusi brevemente gli occhi. Era giusto che Poppy se ne andasse lo
stesso giorno che anche i fiori di ciliegio perdevano i loro petali.
Stavano guidando la sua anima a casa.
Il respiro di Poppy si era fatto più sottile e mi chinai su di lei, sapendo
che era il momento. Appoggiai la fronte contro la sua, solo per un’ultima
volta. Poppy sollevò la sua mano delicata fino ai miei capelli. «Ti amo»
sussurrò.
«Ti amo anch’io, Poppymin».
Quando mi allontanai, Poppy mi guardò negli occhi e disse: «Ti vedrò
nei tuoi sogni».
Cercando di frenare le mie emozioni, risposi, con voce arrochita: «Ti
vedrò nei miei sogni».
Lei sospirò, con un sorriso pacifico che le adornava il viso. Poi Poppy
chiuse gli occhi, sollevando il mento per il suo bacio finale, mentre la sua
mano stringeva la mia.
Abbassandomi sulla bocca, premetti il bacio più dolce e più colmo di
significato sulle sue morbide labbra. Poppy espirò dal naso, mentre il suo
profumo mi travolgeva… e, infine, non respirò più.
Ero riluttante a tirarmi indietro, e tuttavia aprii gli occhi per vedere che
Poppy, ora, era nel suo sonno eterno. In questo momento, era bella come lo
era sempre stata in vita.
Ma non riuscivo a staccarmi da lei, così le premetti un altro bacio sulla
guancia. «Mille e uno» sussurrai ad alta voce. Gliene diedi un altro, e un
altro. «Mille e due, mille e tre, mille e quattro». Sentendo una mano sul mio
braccio, guardai in alto. Il signor Litchfield stava tristemente scuotendo la
testa.
Fui sommerso di colpo da così tante emozioni da non sapere cosa fare.
La mano di Poppy, adesso immobile, rimaneva nella mia e io non volevo
lasciarla andare. Ma quando guardai in basso verso di lei, seppi che era
ritornata a casa.
«Poppymin» sussurrai e guardai fuori dalla finestra i petali caduti che si
rincorrevano. Quando rivolsi di nuovo lo sguardo indietro, vidi il suo
vasetto di baci sulla mensola, un solo cuore di carta vuoto e una penna
accanto ad esso. Mi misi in piedi, raccolsi tutto tra le braccia e corsi nel
portico. Appena l’aria colpì il mio viso, mi accasciai contro il muro,
cercando di allontanare le lacrime che scorrevano a fiotti lungo il mio viso.
Crollai a terra, appoggiai il cuore sul ginocchio e scrissi:

Aprendo il vasetto, misi dentro il cuore completato e lo sigillai. Poi…


Non sapevo cosa fare. Mi guardai tutto intorno, in cerca di qualcosa che
mi aiutasse, ma non c’era nulla. Posai il vasetto accanto a me e, con le
braccia intorno alle gambe, presi a cullarmi avanti e indietro.
Sentii lo scricchiolio di un gradino. Quando guardai in su, c’era mio
padre lì in piedi. Incontrai il suo sguardo. Gli bastò, per capire che Poppy se
n’era andata. I suoi occhi si riempirono immediatamente di lacrime.
Non riuscivo più a trattenere le mie lacrime, quindi le lasciai andare, con
tutta la loro violenza. Sentii delle braccia avvolgersi intorno a me. Mi
irrigidii, poi alzai lo sguardo per trovare mio padre che mi teneva tra le
braccia.
Ma questa volta ne avevo bisogno.
Avevo bisogno di lui.
Abbandonando le ultime tracce di rabbia che ancora covavo, ricaddi tra
le braccia di mio padre e diedi sfogo a tutte le emozioni che stavo
trattenendo. E mio padre me lo lasciò fare. Rimase con me su quel portico,
mentre il giorno cedeva il passo alla notte. Mi sorresse senza dire una sola
parola.
Questo fu il quarto e ultimo momento che segnò la mia vita: perdere la
mia ragazza. E, dato che lo sapeva, mio padre semplicemente mi sorresse.
Ero sicuro che se avessi ascoltato con attenzione il vento che ululava
soffiando intorno a noi, avrei sentito le labbra di Poppy schiudersi in un
ampio sorriso, mentre danzava sulla strada per andare a casa.
Poppy fu seppellita una settimana dopo.
Il funerale fu bello proprio come lei meritava. La chiesa era piccola, il
saluto perfetto per una ragazza che aveva amato la sua famiglia e i suoi
amici con tutto il cuore.
Dopo il funerale, decisi di non andare alla veglia per Poppy a casa dei
suoi genitori e ritornai nella mia stanza. Non erano passati nemmeno due
minuti, che sentii bussare alla porta e mia madre e mio padre entrarono.
Mio padre reggeva in mano una scatola. Mi accigliai quando la posò sul
mio letto. «Che cos’è?» Chiesi, confuso.
Mio padre si sedette accanto a me e mi appoggiò una mano sulla spalla.
«Lei ci ha chiesto di darti questo dopo il funerale, figliolo. L’ha preparato
poco prima di morire».
Il mio cuore mi rimbombò come un tuono nel petto. Mio padre
picchiettò la scatola sigillata. «C’è una lettera dentro, e lei mi ha detto di
dirti di leggerla per prima. Poi ci sono alcune scatole. Sono numerate
nell’ordine in cui devi aprirle».
Mio padre si alzò. Mentre stava per andare via, mi aggrappai alla sua
mano. «Grazie» dissi rocamente. Papà si abbassò e mi baciò la testa.
«Ti voglio bene, figlio mio» disse dolcemente.
«Anche io ti voglio bene» replicai, e intendevo davvero ogni parola.
Durante questa settimana, le cose erano state più facili tra di noi. Se la
breve vita di Poppy mi aveva insegnato qualcosa, era che dovevo imparare
a perdonare.
Dovevo amare e dovevo vivere.
Avevo colpevolizzato mio padre per così tante cose, per troppo tempo.
Alla fine, la mia rabbia mi aveva portato solo dolore.
Raggi di luna nei cuori e sole splendente nei sorrisi.
Mia mamma mi baciò sulla guancia. «Saremo qui fuori se avrai bisogno
di noi, okay?» Era preoccupata per me. Ma c’era anche una parte di lei che
si era tranquillizzata. Sapevo che era per la connessione che avevo costruito
con mio padre. Sapevo che era per tutta la mia rabbia accumulata che avevo
lasciato andare.
Annuii e aspettai che se ne fossero andati. Mi ci vollero quindici minuti
prima che riuscissi a convincermi ad aprire la scatola.
Immediatamente, vidi la lettera in cima.
Mi ci vollero altri dieci minuti per romperne il sigillo.

Rune,
Lasciami iniziare col dirti quanto ti amo. So che lo sapevi; non credo
che esista una persona sul pianeta che non abbia visto quanto eravamo
perfetti l’uno per l’altra.
Tuttavia, se stai leggendo questa lettera, significa che sono a casa.
Anche adesso che scrivo questa lettera, sappi che non sono spaventata.
Immagino che l’ultima settimana sia stata dura per te. Immagino che sia
stato difficile anche prendere un respiro, alzarsi ogni giorno dal letto; lo so,
perché è come mi sentirei io in un mondo privo di te. Ma, anche se lo
capisco, mi addolora che sarà la mia assenza a provocarti questo dolore.
La parte più difficile è stata guardare quelli che amavo andare in pezzi.
La parte peggiore per me, con te, è stato guardare la rabbia che ti bruciava
dentro. Ti prego, non lasciare che questo avvenga più.
Anche se solo per me, continua a essere l’uomo che sei diventato.
L’uomo migliore che conosca.
Avrai visto che ti ho dato una scatola.
Ho chiesto a tuo padre di aiutarmi parecchie settimane fa. Gli ho chiesto
di aiutarmi e lui l’ha fatto senza pensarci un secondo. Perché ti ama così
tanto.
Spero che anche tu adesso lo sappia.
Nella scatola ci sarà un’altra busta grande. Per favore aprila adesso,
poi ti spiegherò.

Il mio cuore accelerò, mentre posavo delicatamente la lettera di Poppy


sul mio letto. Con le mani che mi tremavano, mi allungai verso la scatola e
tirai fuori la busta grande. Col bisogno di vedere che cosa lei aveva fatto,
ruppi subito il sigillo. Ci infilai una mano, ne tirai fuori una lettera.
Aggrottai le sopracciglia per la confusione, poi vidi l’intestazione della
lettera, e il cuore mi si fermò completamente:
New York University. Tisch School of the Arts.
I miei occhi scorsero la pagina e lessi:
Signor Kristiansen, a nome del nostro comitato per le ammissioni, è mio
onore e privilegio comunicarle che è stato ammesso al nostro programma
di Fotografia & Produzione delle Immagini…
Lessi l’intera lettera. La lessi due volte.
Senza capire quello che stava succedendo, mi precipitai a cercare la
lettera di Poppy e a continuare a leggere.

Complimenti!
So che in questo momento sarai confuso. Quelle sopracciglia biondo
scuro che tanto adoro saranno piegate all’ingiù e quel cipiglio che ti sta
così bene sarà inciso sul tuo viso.
Ma va bene.
Mi aspetto che tu sia scioccato. Mi aspetto che tu faccia resistenza
all’inizio. Ma, Rune, non devi. Questa scuola era il tuo sogno da quando
eravamo bambini, e solo perché io non sono più lì a vivere il mio sogno
insieme a te, non significa che tu debba sacrificare i tuoi.
Dato che ti conosco così bene, so anche che nelle mie ultime settimane,
abbandonerai tutto per stare al mio fianco. Ti amo per questo più di quanto
potrai mai capire. Il modo in cui ti sei preso cura di me, mi hai protetta… il
modo in cui mi hai tenuta tra le braccia e baciata così dolcemente.
Non c’è niente che cambierei.
Ma so che il tuo amore sacrificherebbe anche il tuo futuro.
Non potevo lasciare che questo accadesse. Tu sei nato per catturare quei
momenti magici, Rune Kristiansen. Non ho mai visto un talento come il tuo.
Non ho neanche mai visto qualcuno appassionarsi così tanto a qualcosa. Tu
sei nato per fare questo.
Dovevo essere sicura che accadesse.
Questa volta, sono io che ho dovuto portarti in braccio.
Ma, prima di chiederti di guardare qualsiasi altra cosa, voglio che tu
sappia che è stato tuo padre che mi ha aiutata ad assemblare il tuo
portfolio per assicurarti un posto. Ha anche pagato la retta del primo
semestre e persino il tuo alloggio. Anche quando continuavi a ferirlo, l’ha
fatto in modo così altruistico da farmi piangere. L’ha fatto con così tanto
orgoglio negli occhi da lasciarmi attonita.
Ti ama.
Tu sei amato oltre ogni misura.
Adesso, apri la scatola numero uno.

Ricacciando giù il nervosismo logorante, presi la scatola con l’etichetta


e la aprii. Dentro c’era un portfolio. Scorsi velocemente le pagine. Poppy e
mio padre avevano messo insieme, fotografia dopo fotografia, paesaggi,
albe, tramonti. A dire il vero, il lavoro di cui ero più fiero.
Ma poi, quando raggiunsi l’ultima pagina, mi immobilizzai. Era Poppy.
Era la foto di Poppy sulla spiaggia con me tutti quei mesi prima. Quella in
cui si era girata verso di me nel momento di massima perfezione,
permettendomi di catturarla su pellicola; era un’immagine che parlava della
sua bellezza e grazia più di quanto ogni parola potesse fare.
La mia foto preferita di sempre.
Scacciando via le lacrime dagli occhi, feci scorrere il dito sul suo viso.
Era così perfetta per me.
Appoggiai lentamente il portfolio, ripresi la sua lettera e continuai.

Impressionante, eh? Sei dotato oltre ogni dire, Rune. Lo sapevo, quando
abbiamo spedito il tuo lavoro, che saresti stato ammesso. Posso non essere
un’esperta di fotografia, ma persino io riuscivo a vedere la bravura che hai
nel catturare immagini come nessun altro. Come il tuo stile sia
assolutamente unico.
Così speciale… come solo le cose speciali possono essere.
L’ultima foto è la mia preferita. Non perché ritrae me, ma perché
conoscevo la passione che quella foto aveva riacceso. Vidi, quel giorno
sulla spiaggia, la fiamma dentro di te che si riaccendeva e tornava in vita.
È stato il primo giorno in cui ho capito che saresti stato bene quando me
ne sarei andata. Perché iniziai a vedere il Rune che conosco e amo tornare
a riemergere. Il ragazzo che vivrà una vita per tutti e due. Il ragazzo ormai
guarito.

Osservando di nuovo il viso di Poppy, che mi guardava dalla foto, non


potei non pensare alla mostra alla NYU. Quel giorno doveva avere già
saputo che ero stato ammesso.
Allora pensai all’ultima foto. Esther. La foto che il mecenate aveva
esposto come pezzo finale. L’immagine della sua ultima moglie che era
morta troppo giovane. L’immagine che non aveva cambiato il mondo, ma
che mostrava la donna che aveva cambiato il suo.
Non c’era niente che descrivesse questa foto, che adesso mi stava
guardando, più di questa spiegazione. Poppy Litchfield era solo una ragazza
di diciassette anni che veniva da una piccola città della Georgia. Ma, dal
giorno in cui l’avevo incontrata, aveva capovolto il mio mondo. E anche
adesso, dopo la sua morte, lei continuava a cambiare il mio mondo.
Arricchendolo e riempendolo di una bellezza incondizionata che non
avrebbe mai avuto rivali.
Riprendendo la lettera, lessi:

Questo mi porta alla mia ultima scatola, Rune. Quella che so ti farà
protestare di più, ma è qualcosa che dovrai seguire alla lettera.
So che adesso sei confuso, ma prima di lasciarti andare, ho bisogno che
tu sappia qualcosa.
Essere amata da te è stato il traguardo più grande della mia vita. Non
ho avuto molto tempo e non ho assolutamente avuto tempo a sufficienza per
stare con te come avrei voluto. Ma in questi anni, nei miei mesi finali, ho
conosciuto cosa fosse il vero amore. Tu me l’hai mostrato. Hai portato
sorrisi nel mio cuore e luce nella mia anima.
Ma soprattutto, mi hai portato i tuoi baci.
Mentre scrivo e rifletto sugli ultimi mesi, da quando sei ritornato nella
mia vita, non posso essere amareggiata. Non posso essere triste che il
nostro tempo sia stato limitato. Non posso essere triste del fatto che non
potrò vivere tutta la mia vita accanto a te. Perché ti ho avuto per tutto il
tempo che ho potuto, ed è stato perfetto. Essere amata così
appassionatamente, così intensamente, ancora una volta, è stato
abbastanza.
Ma non lo sarà per te. Perché tu meriti di essere amato, Rune.
Quando hai scoperto che ero malata, so che hai sofferto perché non eri
in grado di curarmi. Di salvarmi. Ma, più ci penso, più credo che non fossi
tu ad essere destinato a salvare me. Piuttosto, ero io destinata a salvare te.
Forse, attraverso la mia morte, attraverso il nostro viaggio insieme, tu
hai ritrovato la strada che ti ha riportato verso te. La più importante
avventura che io abbia mai vissuto.
Hai sconfitto le tenebre e hai lasciato entrare la luce.
E quella luce è così pura e così forte che ti sosterrà… ti condurrà
all’amore.
Mentre leggi, riesco a immaginarti mentre scuoti la testa. Ma, Rune, la
vita è breve. Tuttavia, ho imparato che l’amore è senza limiti e il cuore è
grande.
Quindi apri il tuo cuore, Rune. Tienilo aperto e permetti a te stesso di
amare e di lasciarti amare.
Tra pochi secondi, voglio che tu apra l’ultima scatola. Ma prima, voglio
semplicemente dirti grazie.
Grazie, Rune. Grazie per avermi amata così tanto da poterlo sentire
ogni minuto di ogni giorno. Grazie per i miei sorrisi, per la tua mano che
teneva sempre stretta la mia…
Per i miei baci. Tutti e mille. Ognuno è stato custodito. Ognuno è stato
adorato.
Come lo sei stato tu.
Sappi che, anche se sono andata via, tu, Rune, non sarai mai solo. Io
sarò la mano che stringerà per sempre la tua.
Sarò le orme che camminano accanto a te sulla sabbia.
Ti amo, Rune Kristiansen. Con tutto il mio cuore.
Non vedo l’ora di vederti nei tuoi sogni.

Feci cadere a terra la lettera, sentii delle lacrime silenziose che mi


percorrevano il viso. Sollevando la mano, le spazzai via. Feci un respiro
profondo, prima di sollevare sul letto l’ultima scatola. Era più grande delle
altre.
Aprii il coperchio con attenzione e ne tirai fuori il contenuto. Gli occhi
mi si chiusero quando realizzai cosa fosse. Poi, lessi il messaggio di Poppy
scritto a mano e legato intorno al coperchio:

Dì sì alle nuove avventure.


Sempre e per sempre,
Poppy

Fissai il grande vasetto che tenevo in mano. Fissai i tanti cuori di carta
blu raccolti all’interno. Cuori di carta vuoti, che spingevano contro il vetro.
L’etichetta diceva:

Mille baci

Stringendo il vasetto al petto, mi distesi sul letto e respirai solamente.


Non so quanto rimasi così, guardando il soffitto, rivivendo ogni momento
che avevo passato con la mia ragazza.
Ma quando arrivò la notte e pensai a tutto quello che lei aveva fatto, un
sorriso di felicità mi si allargò sulle labbra.
Il cuore mi si riempì di pace.
Non ero sicuro del perché la sentii in quel momento. Ma ero sicuro che,
da qualche parte, là fuori nell’ignoto, Poppy mi stava guardando con un
sorriso, con le fossette sul suo bellissimo viso… E un grosso fiocco bianco
tra i capelli.

Un anno dopo
Blossom Grove, Georgia

«Sei pronto, amico?» Chiesi ad Alton mentre correva per il corridoio e


metteva la mano nella mia.
«Ja» disse e mi rivolse un sorrisetto senza denti.
«Bene, dovrebbero esserci tutti adesso».
Guidai mio fratello fuori dalla porta e ci dirigemmo a piedi verso il
frutteto. La notte era perfetta. Il cielo era limpido e pieno di stelle che
brillavano e, naturalmente, la luna.
Avevo la macchina fotografica intorno al collo. Sapevo che mi sarebbe
servita stasera. Sapevo che dovevo catturare quest’immagine per
conservarla per sempre.
Avevo fatto una promessa a Poppymin.
Dapprima, ci colpirono i suoni della gente riunita nel frutteto. Alton
guardò in su verso di me con gli occhi sgranati. «Sembrano un sacco di
persone» disse nervosamente.
«Mille» replicai, mentre svoltavamo nel frutteto. Sorrisi: i petali rosa e
bianchi erano in piena fioritura. Chiusi per un momento gli occhi,
ricordando l’ultima volta che ero stato qui. Poi li riaprii, sentendo un calore
pervadermi tutto il corpo, davanti alla vista della gente della città che si era
raccolta qui, tutti ammassati in questo piccolo spazio.
«Rune!» Il suono della voce squillante di Ida che mi chiamava mi
riportò al presente. Le sorrisi mentre correva attraverso la folla, fermandosi
solo quando affondò nel mio petto e mi cinse la vita con le braccia.
Risi quando mi guardò. Per un minuto, vidi Poppy nel suo giovane viso.
I suoi occhi verdi erano pieni di felicità mentre mi regalava un sorriso,
anche questo aveva le fossette. «Ci sei mancato così tanto!» Disse, e fece un
passo indietro.
Quando sollevai la testa, c’era Savannah di fronte a me, pronta ad
abbracciarmi delicatamente. Il signore e la signora Litchfield arrivarono
dopo, seguiti da mia madre e mio padre.
La signora Litchfield mi baciò sulla guancia, poi il signor Litchfield mi
strinse la mano, prima di attirarmi a sé per un abbraccio. Quando si spostò,
sorrise.
«Ti trovo bene, figliolo. Davvero bene».
Annuii. «Anche io, signore».
«Come è New York?» Chiese la signora Litchfield.
«Bella» dissi. Vedendo che si aspettavano qualcosa di più, confessai:
«La adoro. Amo tutto della città». Feci una pausa, poi aggiunsi con calma:
«Anche lei l’avrebbe amata».
Negli occhi della signora Litchfield brillarono delle lacrime, ma poi
indicò la folla dietro di noi. «Amerà questo, Rune». La signora Litchfield
annuì, e si asciugò le lacrime dalle guance. «E non ho dubbi che lo vedrà da
lassù nel cielo».
Non replicai. Non potevo.
Spostandosi per lasciarmi passare, i genitori e le sorelle di Poppy si
incamminarono dietro di me, mentre il mio papà mi appoggiava un braccio
attorno alle spalle. Alton si stava ancora aggrappando forte alla mia mano.
Si rifiutava di lasciarla andare da quando ero tornato a casa per questa
visita.
«Sono tutti pronti, figliolo» mi informò mio padre. Vidi un piccolo palco
al centro del frutteto e un microfono in attesa; Mi diressi lì, quando Deacon,
Judson, Jorie e Ruby mi vennero incontro.
«Rune!» Esclamò Jorie con un grosso sorriso e mi abbracciò. E così
fecero tutti gli altri.
Deacon mi diede una pacca sulla schiena. «Sono tutti pronti, aspettiamo
solo il tuo segnale. Non ci è voluto molto a diffondere la voce che stavi
organizzando questo. più volontari di quelli di cui avevamo bisogno».
Annuii e osservai la gente della città che attendeva con le lanterne cinesi
in mano. Su quelle lanterne, scritto in nero a grandi lettere, c’era ogni bacio
che avevo dato a Poppy. I miei occhi si concentrarono a leggere quelli più
vicini…
…Bacio duecentotré, sotto la pioggia per strada, il mio cuore è quasi
scoppiato… Bacio ventitré, nel mio cortile sotto la luna, con il mio Rune, il
mio cuore è quasi scoppiato… Bacio novecentouno, con Rune a letto, il mio
cuore è quasi scoppiato…
Ingoiando l’intensa ondata di emozione che mi era salita in gola, mi
fermai quando vidi una lanterna che mi aspettava al lato del palco. Mi
guardai intorno per cercare chi l’avesse lasciata. Quando la folla si aprì, vidi
mio padre che mi osservava attentamente. Incontrai il suo sguardo, poi lui
abbassò gli occhi prima di andare via.
Il millesimo bacio… Con la mia Poppy. Quando è tornata a casa…Il
mio cuore è scoppiato del tutto…
Era giusto che fossi io a mandare quello lì alla mia ragazza. Poppy
avrebbe voluto che fossi io a mandarglielo.
Salendo sul palco, con Alton al mio fianco, sollevai il microfono e scese
il silenzio sul frutteto. Chiusi gli occhi, cercando di raccogliere le forze per
farlo, e poi alzai la testa. Un mare di lanterne cinesi che erano tenute in alto,
pronte a volare, incontrarono il mio sguardo. Era perfetto. Più di quanto
avessi mai potuto sognare.
Sollevando il microfono, presi un profondo respiro e cominciai: «Non
parlerò molto. Non sono molto bravo a parlare in pubblico. Volevo solo
ringraziarvi tutti per essere venuti qui stasera…» mi interruppi.
Mi si era seccata la bocca. Mi passai la mano tra i capelli, cercando di
ricompormi, e riuscii a continuare. «Prima che morisse, la mia Poppy mi ha
chiesto di mandarle questi baci in modo che lei potesse vederli in paradiso.
So che molti di voi non la conoscevano, ma era la persona migliore che io
abbia mai conosciuto… E avrebbe fatto tesoro di questo momento». Le mie
labbra si sollevarono in un mezzo sorriso al pensiero della sua espressione
nel vedere queste persone.
L’avrebbe amato.
«Quindi, per favore, accendete le vostre lanterne e aiutatemi a far
arrivare i miei baci alla mia ragazza».
Abbassai il microfono. Alton sussultò, a bocca aperta, quando vide gli
accendini tutt’intorno al frutteto che accendevano le lanterne, per poi farle
librare nel cielo notturno. Una dopo l’altra, fluttuavano nell’oscurità, fino a
che tutto il cielo non brillò di luci che viaggiavano verso l’alto.
Abbassandomi, presi la lanterna accanto a noi e la tenni in aria.
Guardando Alton, gli dissi: «Sei pronto a mandarla a Poppymin, amico?»
Alton annuì, e io accesi la lanterna. Appena la fiamma si alzò,
liberammo il millesimo e ultimo bacio. Mi raddrizzai in piedi, e lo guardai
navigare nell’aria per raggiungere gli altri, affrettandosi a raggiungere la
sua nuova casa.
«Wow» sussurrò Alton e rimise la sua mano nella mia, stringendola
forte.
Chiusi gli occhi e mandai un messaggio silenzioso:
Ecco i tuoi baci, Poppymin.
Te l’avevo promesso che sarebbero arrivati a te.
Che avrei trovato un modo.
Non riuscivo a staccare gli occhi dallo spettacolo di luce sopra di me, ma
Alton mi tirò la mano. «Rune?» Mi chiamò e abbassai lo sguardo verso di
lui, che mi stava osservando.
«Ja?»
«Perché l’abbiamo dovuto fare qui? In questo frutteto?»
«Era il posto preferito di Poppymin» risposi dolcemente.
Alton annuì. «Ma perché abbiamo dovuto aspettare la fioritura dei
ciliegi prima?»
Feci un profondo respiro, e gli spiegai. «Perché Poppymin era proprio
come un fiore di ciliegio, Alt. Ha avuto solo una vita breve, come questi
fiori, ma la bellezza che ha portato in quel tempo non sarà mai dimenticata.
Perché niente di così bello può durare per sempre. Lei era il petalo di un
fiore di ciliegio, una farfalla… Una stella cadente… Lei era perfetta… la
sua vita è stata breve… Ma lei era mia».
Presi un respiro e infine sussurrai: «Proprio come io ero suo».
Rune
Dieci anni dopo

Aprii gli occhi quando mi svegliai, col frutteto che iniziava ad apparire
distintamente davanti ai miei occhi. Sentivo il sole splendente sul viso, il
profumo ricco dei petali dei fiori mi riempiva i polmoni.
Presi un respiro profondo e sollevai la testa. Il cielo scuro svettava in
alto, un cielo pieno di luci. Mille lanterne cinesi, lanciate anni fa,
galleggiavano nell’aria, perfettamente ferme al loro posto.
Mettendomi seduto, guardai il frutteto per controllare che ogni fiore
fosse pienamente fiorito. Lo era. Ma del resto lo erano sempre. Qui, la
bellezza durava per sempre.
Come lei.
Il suono di una dolce canzone arrivò dall’entrata del frutteto e il mio
cuore iniziò a battere veloce. Mi alzai in piedi, con il fiato sospeso, in attesa
che lei apparisse.
E poi, lei lo fece.
Il mio corpo si riempì di luce non appena lei voltò l’angolo, con le mani
che si sollevavano per sfiorare delicatamente gli alberi in fiore. La vidi
sorridere ai fiori. Poi la vidi accorgersi di me, al centro del frutteto. Vidi un
sorriso enorme allargarsi sulle sue labbra.
«Rune!» Chiamò eccitata e corse dritta verso di me.
Sorridendole a mia volta, la sollevai tra le braccia e lei mi gettò le sue
al collo. «Mi sei mancato!» Mi sussurrò nell’orecchio e la strinsi ancora un
po’ più vicina a me. «Mi sei mancato tantissimo!»
Distaccandomi per assorbire lo spettacolo del suo bellissimo viso,
sussurrai: «Anche tu mi sei mancata, piccola».
Un rossore salì sulle guance di Poppy, le sue profonde fossette in bella
mostra. Allungai una mano, per prendere la sua nella mia. Poppy sospirò
quando lo feci, poi il suo sguardo scivolò nel mio. Guardai la mia mano
nella sua. La mia mano, a diciassette anni. Quando venivo qui, nei miei
sogni, avevo sempre diciassette anni. Proprio come Poppy aveva sempre
desiderato.
Eravamo esattamente come eravamo allora.
Poppy si sollevò sulle punte, portando la mia attenzione su di sé ancora
una volta. Dopo averle posato una mano sulla guancia, mi abbassai e unii
le sue labbra alle mie. Poppy sospirò contro la mia bocca e io la baciai
profondamente. La baciai dolcemente. Non volevo mai più lasciarla andare.
Quando alla fine mi staccai da lei, Poppy aprì gli occhi in un battito di
ciglia. Sorrisi, mentre mi guidava sotto il nostro albero preferito.
Quando ci sedemmo lì, la strinsi tra le braccia, con la sua schiena
premuta contro il mio petto. Le scostai i capelli via dal collo, e presi a
stamparle dei baci leggeri lungo tutta la pelle dolce. Quando ero qui,
quando lei era tra le mie braccia, la toccavo quanto più potevo, la
baciavo…
La stringevo, sapendo che presto l’avrei dovuta lasciare.
Poppy sospirò di felicità.
Quando sollevai lo sguardo, la vidi osservare le lanterne luminose nel
cielo. Sapevo che lo faceva spesso. Queste lanterne la rendevano felice.
Queste lanterne erano i nostri baci, un dono che era solo per lei.
Sistemandosi meglio contro di me, Poppy chiese: «Come stanno le mie
sorelle, Rune? Come sta Alton? I miei genitori? E i tuoi?»
La strinsi più forte. «Stanno tutti bene, piccola. Le tue sorelle e i tuoi
genitori sono felici.
E Alt è perfetto. Ha una ragazza che ama più della sua stessa vita e con
il baseball sta andando forte. Anche i miei genitori stanno molto bene. Tutti
stanno bene».
«Che bello!» Replicò, felice.
Poi si fece silenziosa.
Mi accigliai. Nei miei sogni, Poppy mi chiedeva sempre del mio lavoro,
tutti i posti che avevo visitato, quante delle mie foto erano state pubblicate
di recente, quali avevano aiutato a salvare il mondo. Ma quella sera non lo
fece. Se ne stava soddisfatta tra le mie braccia. La sentivo ancora più
serena, ammesso che fosse possibile.
Poppy si mosse da dove era seduta. «Ti sei mai pentito di non aver
trovato qualcun’altra da amare, Rune? Ti sei mai pentito, in tutto questo
tempo, di non aver baciato nessun’altra a parte me? Di non aver amato
nessun’altra? Di non aver mai riempito il vasetto che ti diedi?» Chiese,
curiosa.
«No» dissi, onestamente. «E io ho amato, piccola. Amo la mia famiglia.
Amo il mio lavoro. Amo i miei amici e tutta la gente che ho incontrato nelle
mie avventure. Ho una vita bella e felice, Poppymin. E io amo, e ho amato
con tutto il mio cuore… Te, piccola. Non ho mai smesso di amare te. Tu eri
abbastanza da durare una vita intera». Sospirai. «E il mio vasetto era
pieno… È stato riempito insieme al tuo. Non c’erano più baci da
raccogliere».
Con la mano sotto il suo mento, voltai il viso di Poppy perché mi
guardasse e le dissi: «Queste labbra sono tue, Poppymin. Ti sono state
promesse dieci anni fa, nulla è cambiato».
Sul viso di Poppy si aprì un sorriso appagato. «Proprio come queste
labbra sono tue, Rune. Sono sempre state tue e tue soltanto» sussurrò lei.
Mentre mi spostavo sul terreno morbido e posavo una mano per terra,
mi resi conto all’improvviso che l’erba sotto di me sembrava molto più
reale che in qualunque delle mie visite precedenti. Quando venivo da
Poppy, nei miei sogni, il frutteto era sempre sembrato immerso in un sogno.
Sentivo l’erba ma non i fili d’erba, sentivo la brezza ma non la
temperatura, sentivo gli alberi ma non la corteccia.
Quando sollevai la testa questa notte, in questo sogno, sentii la brezza
calda accarezzarmi il viso. Riuscivo ad avvertirla, reale come la avvertivo
da sveglio. Sentivo l’erba sotto le mie mani, i fili e la ruvidità del terreno. E
quando mi chinai per baciare la spalla di Poppy, sentii il calore della sua
pelle sulle mie labbra e vidi brividi affiorare sulla sua pelle al mio
passaggio.
Avvertendo lo sguardo intenso di Poppy su di me, sollevai gli occhi e la
vidi osservarmi con occhi sgranati, pieni di aspettativa.
E allora capii.
Compresi perché tutto questo mi sembrava così reale. Il mio cuore iniziò
ad accelerare nel petto. Perché se questo era reale… Se avevo afferrato
bene…
«Poppymin?» Chiesi e presi un respiro profondo. «Questo non è un
sogno… Vero?» Poppy si spostò, per mettersi in ginocchio davanti a me, e
mi posò le mani delicate sulle guance. «No, piccolo» sussurrò e cercò i miei
occhi.
«Come?» Mormorai, confuso.
Lo sguardo di Poppy si addolcì. «È successo rapidamente, serenamente,
Rune. La tua famiglia sta bene, e sono felici che tu sia in un posto migliore.
Hai vissuto una vita breve, ma piena. Una bella vita, quella che ho sempre
sognato che tu avessi».
Mi pietrificai. «Vuoi dire che…?» Le chiesi.
«Sì, piccolo» rispose Poppy. «Sei tornato a casa. Sei tornato a casa da
me».
Un sorriso enorme si allargò sulle mie labbra, e un’ondata di pura
felicità mi travolse. Incapace di resistere, mi precipitai con le labbra sulla
bocca di Poppy, lì in attesa. Nell’attimo in cui assaporai il suo dolce sapore
sulle labbra, provai una pace profonda che mi riempì dall’interno.
Tirandomi indietro, premetti la fronte contro la sua.
«Potrò stare qui con te? Per sempre?» Chiesi, pregando che fosse vero.
«Sì» rispose dolcemente Poppy, e riuscii ad avvertire la totale serenità
della sua voce. «La nostra prossima avventura».
Questo era reale.
Era reale.
La baciai di nuovo, lentamente e delicatamente. Dopo il bacio, gli occhi
di Poppy rimasero chiusi, e mentre un rossore ricopriva le sue bellissime
guance con le fossette, sussurrò: «Un bacio eterno col mio Rune… Nel
nostro frutteto… Quando alla fine è tornato a casa».
Sorrise.
Sorrisi.
E poi lei aggiunse: «…E il mio cuore è quasi scoppiato».
Ci sono state TANTE canzoni che mi hanno aiutato a scrivere questa
storia. Ma ci sono stati due gruppi musicali che hanno fondamentalmente
costituito l’intera colonna sonora.
Di solito, nelle mie colonne sonore, vario da un genere all’altro, ma
volevo restare fedele all’ispirazione, e mostrarvi le canzoni che mi hanno
aiutato a creare il racconto di Poppy e Rune.

One Direction
Infinity
If I Could Fly
Walking in the Wind
Don’t Forget Where You Belong
Strong
Fireproof
Happily
Something Great
Better Than Words
Last First Kiss
I Want to Write You a Song
Love You Goodbye

Little Mix
Secret Love Song Pt II
I Love You
Always Be Together
Love Me or Leave Me
Turn Your Face

Altri Artisti
Eyes Shut - Years & Years
Heal - Tom Odell
Can’t Take You With Me - Bahamas
Let The River In - Dotan
Are You With Me - Suzan & Freek
Stay Alive - José González
Beautiful World - Aiden Hawken
Il Cigno (Dal Carnevale degli Animali) - Camille Saint-Saëns
When We Were Young - Adele
Footprints - Sia
Lonely Enough - Little Big Town
Over and Over Again - Nathan Sykes

Per ascoltare la colonna sonora, visitate la mia pagina, ‘Author Tillie


Cole’, su Spotify.
Mamma e Papà, grazie per il sostegno per questo libro. Le vostre
battaglie personali contro il cancro hanno cambiato non solo me, ma la
nostra piccola famiglia. Il vostro coraggio, ma ancora di più, la vostra
positività e l’esempio che avete dato nell’affrontare una cosa così difficile,
mi hanno fatto guardare alla vita in una maniera completamente diversa.
Anche se gli ultimi anni sono stati incredibilmente duri, ho apprezzato ogni
singolo respiro di ogni giorno. Vi ho apprezzato ogni oltre ogni misura—i
migliori genitori del mondo. Vi amo entrambi così tanto! Grazie per avermi
permesso di utilizzare la vostra esperienza in questa storia. L’ha resa vera.
L’ha resa reale.
Nonna. Tu sei stata portata via da noi troppo giovane. Tu eri la mia
migliore amica in assoluto, ti ho voluto un bene folle—anche adesso.
Facevi ridere, e la tua presenza portava sempre positività e luce. Quando ho
pensato alla nonna di Poppy, non c’era nessun’altra a cui mi sarei potuta
ispirare. Io ero ‘la luce dei tuoi occhi e la tua migliore amica’, e anche se te
ne sei andata, spero che questo libro ti renda orgogliosa di me! Spero che
lassù tu starai sorridendo con il nonno, nella tua piccola versione del
frutteto.
Jim, mio suocero. Sei stato così coraggioso fino alla fine, un uomo da
imitare. Un uomo di cui tuo figlio e sua moglie sono orgogliosi. Manchi
davvero tanto.
A mio marito. Grazie per avermi incoraggiato a scrivere un romanzo per
adolescenti. Tanto tempo fa ti ho raccontato l’idea di questa storia, e tu mi
hai spinto a scriverla, nonostante fosse così diversa dai generi a cui ero
abituata. Devo questo libro a te. Ti amo sempre. All’infinito.
Sam, Marc, Taylor, Isaac, Archie e Elias. Vi amo tutti.
Ai miei favolosi lettori beta: Thessa, Kia, Rebecca, Rachel e Lynn.
Come sempre un ENORME grazie. Questa è stata dura, ma siete rimasti
con me—anche se vi ho fatto piangere quasi tutti! Vi amo tutti.
Thessa, la mia star e la mia super assistente. Grazie per occuparti della
mia pagina Facebook e tenermi aggiornata. Grazie per tutte le correzioni
che mi fai. Ma soprattutto, grazie per avermi incoraggiato a mantenere
l’epilogo di questo romanzo—è stata una decisione molto difficile, vero?
Okay, MOLTISSIMO! Ma tu sei stata il mio sostegno principale. Ti amo
immensamente. Non hai mai ignorato i miei messaggi isterici a notte fonda.
Non potrei pretendere un’amica migliore.
Gitte, la mia adorabile vichinga norvegese! Grazie per esserti buttata in
questa avventura con me. Dal momento in cui ti ho raccontato quest’idea, di
una storia per adolescenti strappalacrime—oh, e che il ragazzo era
norvegese—tu mi hai incoraggiato a scriverla. Grazie per le tante
traduzioni. Grazie per essermi stata da musa—lui è il perfetto Rune! Ma più
di tutto, grazie per essere te stessa. Tu sei un’amica vera e favolosa. Mi hai
sostenuto per tutto il cammino. Ti voglio bene, Pus Pus!
Kia! Che squadra meravigliosa che siamo! Tu sei stata la MIGLIORE
curatrice correttrice di bozze che esista. Questa è la prima di tante nuove
storie! Grazie a tutti per il duro lavoro. Ha significato tutto per me. Oh, e
grazie per i suggerimenti sulla musica! Il mio amico Archetto D’oro
(insieme a Rachel). Chi l’avrebbe mai detto che tutti quegli anni a suonare
il violoncello sarebbero tornati utili per il libro?
Liz, la mia fantastica agente. Ti voglio bene. Sei stata tu le mie chiavi
d’accesso nel mondo della letteratura per adolescenti!
Gitte and Jenny (entrambe!) del TotallyBooked Book Blog. Ancora una
volta, non posso dire altro che grazie e che vi voglio bene. Mi incoraggiate
in tutto quello che faccio. Se cambio genere, siete
lì a sostenermi. Voi siete le migliori persone che io conosca. Sono grata
della vostra amicizia… è «così speciale come solo le cose speciali possono
essere».
E un grazie enorme ai tanti, tantissimi meravigliosi blog di libri che mi
sostengono e promuovono i miei libri. Celesha, Tiffany, Stacia, Milasy,
Neda, Kinky Girls, Vilma… Cavolo! Potrei andare avanti per sempre.
Tracey-Lee, Thessa e Kerri, un grande grazie per aver diretto il mio
street team: The Hangmen Harem. Vi amo tutti!
My @FlameWhores. Con me nel bene e nel male. Vi adoro ragazze! Ai
membri del mio street team—VI AMO!!!
Jodi e Alycia vi voglio bene ragazze. Voi siete delle amiche care. Le mie
Instagram Girls!!!! Vi adoro tutte!
E infine, i miei favolosi lettori. Voglio dirvi grazie per aver letto questo
romanzo. Immagino che adesso abbiate gli occhi gonfi e le guance rosse dal
pianto. Ma spero che abbiate amato Poppy e Rune quanto li ho amati io.
Spero che la loro storia resterà nei vostri cuori per sempre.
Non avrei potuto farlo senza di voi. Vi amo.
Sempre per sempre.
All’infinito.
COLLANA
Always romance

1. La partita vincente, Kristen Callihan


2. Sweet. Una dolce conquista, J. Daniels
3. La regola dell'amico, Kristen Callihan
4. Bandit, B.B. Reid
5. Per il mio amore, Whiskey, Kandi Steiner
6. Dammi mille baci, Tillie Cole
Segui Tillie Cole

https://www .facebook.com/tilliecoleauthor
https://www .facebook.com/groups/tilliecolestreetteam
https://twitter.com/tillie_cole
Instagram: @authortilliecole

Potrebbero piacerti anche