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Graciela Sheines, Giochi innocenti, giochi terribili, Errandonea, Roma, 2010

I pedagoghi si avvicinano a passo di marcia (pp. 57-61)

Il corpo pedagogico, che potere!


Witold Gombrowicz, Ferdidurke

Spazi di potere

Il tema della violenza, come l’ecologia e il femminismo, rientra in quel


che io chiamo culture di consumo. Sono questioni della scienza pura o
spiccia che si divulgano attraverso programmi televisivi, riviste di
intrattenimento, decalcomanie con slogan da attaccare sul vetro della
macchina, eccetera. Hanno molta presa sulla classe media che aspira ad
essere sempre informata ed aggiornata. Il male di queste culture di
consumo è che i problemi si semplificano al punto da essere ridotti a
pochi tratti grossolani. Impoveriti, si convertono in dogmi che si
impongono e si difendono come verità rivelate. I loro difensori ad
oltranza sanno abbastanza poco dell’argomento, possiedono un’idea
generale di ciò che si tratta e la concentrano in quattro o cinque frasi
fatte che sfoderano come la spada del crociato o la legge
dell’inquisitore. Le culture di consumo sono solite mascherare
inclinazioni fasciste. Il loro affascinante involucro nasconde veri e propri
nazisti, falsi redentori totalitari e razzisti: lupi sotto innocenti pelli di
agnello.
Insisto. E’ bene prendere coscienza del fatto che dobbiamo aver cura del
nostro pianeta, sapere cosa sia l’equilibrio ecologico e conoscere e
combattere le forme di contaminazione ed esaurimento delle riserve
naturali. Così come è bene essere per la pace nel mondo e contro la
violenza e appoggiare la lotta delle donne per i loro diritti. Il male è la
superficialità con cui si sfoderano queste importanti questioni, la
disattenzione e la leggerezza con cui si persegue, si discrimina e si
giudica in nome di questi principi. La conseguenza è nefasta: si confonde
il vero con il falso, ciò che appare con ciò che è, l’importante con il
superfluo. Più che culture di consumo dovrebbero chiamarsi ignoranze di
consumo.

Giochi minacciati ovvero il pericolo pedagogico

Giochi e giocattoli non sfuggono alla sua influenza. In nome della pace e
per preservare i più piccoli dagli effetti nocivi della violenza, gli adulti si
intromettono nell’ambito magico dei giochi infantili. Invadono questa
torre di libertà, l’unica che possiedono i bambini per proteggersi dal
mondo grande e sconosciuto.
Graciela Sheines, Giochi innocenti, giochi terribili, Errandonea, Roma, 2010

Quando i più grandi parlano del “paradiso” dell’infanzia è perché


associano questa tappa precoce della vita con i giochi. Hanno nostalgia
per le ore felici dei loro giochi più che per alcun’altra cosa. La vita dei
bambini non è facile né piacevole. Come al Pollicino di Grimm, tutto per
loro è grande: le maniglie delle porte, i gradini delle scale, i tavoli, le
sedie. Devono chiedere permesso ogni volta, e maestri e genitori li
sfiniscono con indicazioni e divieti. Questa sensazione di assoluta
impotenza si allevia solo giocando. Il mondo dei giochi è il loro unico
spazio di potere. Ed è necessario, perché, se non esistesse, i bambini
impazzirebbero o si suiciderebbero. Questa è la sua grande importanza.
Per questo motivo è gravissimo, a mio avviso, che psicopedagoghi e
docenti, con la scusa di educare e proteggere i bambini, s’intromettano
nell’ambito dei loro giochi. L’unica legittima intromissione dei più grandi
in questa attività è quella dei limiti temporali. Il bambino deve abituarsi
ad alternare compiti e doveri con i momenti destinati a giocare. Il gioco
è sempre un viaggio di andata e ritorno, entrata e uscita. Un bambino
sano è colui che percepisce la soglia che separa l’ambito dei suoi giochi
dal mondo reale.
Attualmente avviene questo paradosso: da un lato, mai prima d’ora il
gioco fu preso tanto sul serio né mai fu apprezzato tanto. I Diritti dei
Bambini a Giocare e le numerose istituzioni che lottano per questo
diritto sono una realtà abbastanza recente. Allo stesso tempo, mai prima
d’ora il gioco infantile è stato più minacciato. Perché, fino ad una buona
parte del XX secolo, i più grandi dominavano i bambini soltanto dal di
fuori dei giochi. E’ la prima volta nella storia che questo potere si
esercita anche dentro al gioco medesimo. E così i giocattoli educativi e
le ludoteche scolastiche si usano spesso come una delle tante maniere
di esercitare questo potere.
È necessario far attenzione a non abusare del repertorio di giochi e
attività ludiche in aula. Il gioco non deve più ridursi a una risorsa
didattica in più. Non è questione di sostituire “l'abc si impara con la
bacchetta” con “l'abc si impara con il gioco”, come se bastasse
cambiare le illustrazioni alle pareti o una tecnologia con un’altra. Il gioco
come strumento educativo (come imbuto grazie al quale entrano più
facilmente le conoscenze) è un’idea reazionaria e conservatrice, perché
trova radici nella premessa del secolo decimonono per la quale i bambini
sono bottigliette da riempire e non persone che bisogna formare.

Giochi di guerra

In nome della non violenza e a favore di una società solidale e pacifica,


certi educatori censurano i giochi di competitività e di guerra. E tuttavia
sono questi giochi, più che altri, quelli che funzionano come modelli di
convivenza sociale. Da che mondo e mondo, i bambini di tutte le culture
Graciela Sheines, Giochi innocenti, giochi terribili, Errandonea, Roma, 2010

e di qualunque epoca hanno giocato alla guerra immaginandosi che sono


samurai, indios, gladiatori o soldati, maneggiando pezzi di legno che
imitavano spade, lance e fucili. Guillermo Magrassi, antropologo
argentino che ha fatto dell’indigenismo la sua bandiera, ha descritto con
gusto i giochi competitivi e anche violenti tra gli aborigeni d’America.
Sosteneva che la storia ha nelle sue viscere l’allontanamento e l’oblio
dalle comunità primitive, più sagge delle società moderne perché
armonizzavano uomini e natura, individuo e comunità, gioco e lavoro, dei
ed umani. In queste comunità idilliache, secondo Magrassi, i bambini e
gli adulti competevano ludicamente tra loro, e non senza violenza. I
mapuche, per esempio, giocavano al palìn o viñu, molto simile al hockey.
Ogni giocatore, armato di un bastone arcuato di legno resistente,
spingeva la palla con vero ardore. «Raramente questi divertimenti si
concludono senza che ci siano gambe e braccia rotte e anche teste
ferite», scriveva Guinnard in Tre anni di prigionia tra i patagoni. Il
lancoteo, giocato dagli araucani, consisteva nel prendersi per i capelli e
darsi forti spintoni. Le puñetas sono simili alla boxe. I bambini imitavano
i giochi dei più grandi ed avevano anche i propri, come per esempio, il
trentrikatum: calzavano trampoli e giocavano a farsi cadere a terra a
vicenda. Tutti questi svaghi più o meno violenti, avevano ognuno delle
regole precise1.
Questi giochi, grazie ai quali i giocatori scaricavano l'aggressività,
formavano parte della vita della tribù e funzionavano come poderosi
meccanismi di legame, inzuppando i partecipanti dello spirito della
propria comunità. E ripeto: non generavano mistici della violenza né
scatenavano istinti bestiali, perché osservavano le condizioni dei giochi
civili: le regole come uniche sovrane, il trattamento rispettoso tra rivali
che si considerano pari e la libertà individuale di scegliere di giocare o
non giocare. Se si rispettano questi requisiti, i giochi di competizione e
rivalità sono portatori di civiltà, nel senso che rendono i giocatori civili e
cittadini. Giocando e competendo in modo ludico, i bambini apprendono
a integrarsi nella comunità, a convivere con chi porta con orgoglio un
colore differente o esprime differenti idee, a rispettarli come uguali. Se
si fanno proprie le regole, la lotta e l’imitazione della guerra, anche se
lasciano il saldo di alcuni ammaccati, sono positivi.

L’amore e la furia

Il film neozelandese L’amore e la furia chiarisce questa teoria. Racconta


una storia durissima, i cui protagonisti sono i maori contemporanei,

1 Sulla vita ed i divertimenti indigeni americani c’è un’ampia bibliografia dispersa in


articoli pubblicati su giornali e riviste. Alfred Métraux, George Chaworth Musters, Raùl
Martìnez Crovetto, Maximo Schijman, Armando Vivante, sono alcuni degli studiosi
importanti. Un classico sono i tre volumi di Guillermo Furlong su vilelas, abipones e
mocobies. Come anche il libro di Guinnard già citato.
Graciela Sheines, Giochi innocenti, giochi terribili, Errandonea, Roma, 2010

allontanati dalle riserve indigene, inseriti nelle grandi città in quartieri


che costituiscono dei veri e propri ghetti. La furia, la prepotenza, la
banda temibile, l’aggressione, l’odio unisce dei giovani maori in specie di
tribù urbane punk, sette di morte. Vanno in giro sempre in bande, su auto
vecchie, rasati e tatuati, vestiti di pelle nera, muniti di catene,
manganelli ed armi, per rapinare, rubare e scontrarsi con altre bande
ugualmente temibili. Non è facile entrare in uno di questi gruppi. Bisogna
passare la prova del fuoco, sanguinosa cerimonia di iniziazione,
resistendo a colpi e coltellate senza farsela nei pantaloni.
Il riformatorio, il carcere minorile - che in questo caso è eccezionale -
non rovina irrimediabilmente il protagonista del film. Un educatore maori
si occupa dei delinquenti della sua etnia e li allena nelle antiche arti
marziali del suo popolo. Inculcando loro forza e disciplina, volontà e
valore, poco a poco riesce a far riemergere la memoria millenaria
conservata nei geni dei suoi allievi, il valore e l’orgoglio che ha distinto i
maori ancestrali.
L’istruttore insegna loro l’uso della lancia sacra, a temprare il corpo, a
concentrare l’energia e trasmetterla, potenziata, all’arma di guerra. “Con
più forza" - grida - "Dovete incorporare la forza di tutto il vostro
popolo ...! Quando gridate, in ogni grido deve esserci il grido di guerra di
tutto il nostro popolo, dei nostri antenati!».
La disciplina marziale li salva. La furia, la voglia di strozzare qualcuno
per qualsiasi motivo, si volatilizzano e lasciano spazio allo spirito
guerriero che lega ciascun ragazzo maori con tutti i maori morti e sepolti
per secoli e con i maori sradicati nella città, e con quelli delle riserve.
Invece dell’odio, l’orgoglio. Invece dell’aggressione, il coraggio di
difendere ciò che è giusto e lottare contro gli abusi di potere. In cambio
della banda prepotente, un gruppo imbevuto del nobile spirito dei
guerrieri.
Alle abituali e false opposizioni “violenza-pacifismo” e “competizione-
cooperazione” preferisco questa: “aggressività-spirito guerriero”.
Censurare sistematicamente la violenza e la competizione dai giochi e
dalle esperienze infantili implica la repressione dell’impulso naturale e
nobile della specie umana a lottare per gli ideali, combattere per la
giustizia, difendersi dalle aggressioni, ribellarsi contro situazioni
disprezzabili e inumane. Questo significa esser civile, far parte di una
società. Questo è vivere. Il nobile spirito guerriero dà alla vita una
dimensione eroica, un sentire, una ragion d’essere.

Traduzione a cura di Tina Nastasi e Valentina Pescetti, dell'associazione "Le barbe della Gioconda".
Il testo originale è il capitolo intitolato "Los pedagogos vienen marchando" contenuto nel libro di
Graciela Scheines "Juegos inocentes, juegos terribles", edito a Buenos Aires da Eudeba enl 1998.

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