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«Se la vita è un piano inclinato, sul quale la tua caduta si fa sempre più

veloce, dev’esserci un momento in cui invece di continuare a rotolare


puoi fare uno sforzo e spostarti di lato per cadere dal bordo, giù
nell’abisso che cancella ogni colpa»

Sergio Stokar era un buon poliziotto. Forse il migliore a Pista Prima,


degradata ma ancora grassa città del Nord-Est. Fino al giorno in cui, senza
saperlo, ha pestato i piedi alle persone sbagliate. Così qualcuno l’ha lasciato,
mezzo morto, sulla porta dell’ultimo posto in cui avrebbe voluto finire: le
Zattere, un complesso di edifici abbandonati dove si è insediata, dandosi
proprie leggi, una comunità di immigrati irregolari. Quel rifugio
dall’equilibrio fragile e precario – con la sua babele di lingue, razze e odori –
normalmente sarebbe un incubo per uno col credo politico di Sergio. Ma è
un incubo in cui è costretto a rimanere, adattandosi a nuove regole e a
convivere con una realtà che un tempo avrebbe rifiutato. Per poter stare al
sicuro, è diventato “lo sceriffo delle Zattere”: mantiene l’ordine, indaga su
piccoli reati. Finché un giorno il Consiglio che governa il complesso gli
affida un incarico speciale. Alcune ragazze delle Zattere sono state uccise in
modo orribile, c’è un assassino in agguato, e solo un poliziotto abile come
Sergio può scovarlo, con il suo fiuto e le sue conoscenze, ma soprattutto
grazie a un’ostinazione che lo trasforma in un autentico rullo compressore.
In un’Italia appena dietro l’angolo – l’Italia di dopodomani, che ci indica
con chiarezza dove sta andando il nostro paese – Sergio Stokar deve tornare
dal regno dei morti e rimettersi a indagare, frugando nel passato e negli
angoli più in ombra della sua città, per scoprire, alla fine, che forse
l’indagine è una sola, e che l’orrore si nasconde in luoghi e persone
insospettabili. Tutto è legato da un filo. Un filo nero come la notte, rosso
come il sangue. Perché in un mondo che ha fatto dell’avidità il suo credo
non esistono colpevoli e innocenti, ma solo infinite sfumature di male. Tullio
Avoledo esordisce nel noir con un romanzo vorticosamente appassionante e
di grande attualità, che non teme di calarsi nei recessi più oscuri di una
società rabbiosa e corrotta.

TULLIO AVOLEDO, nato a Valvasone in Friuli nel 1957, vive e lavora a


Pordenone. Ha pubblicato: L’elenco telefonico di Atlantide (Sironi 2003,
Einaudi 2003), Mare di Bering (Sironi 2003, Einaudi 2004), Lo stato
dell’unione (Sironi 2005, Marsilio 2020), Tre sono le cose misteriose
(Einaudi 2005), Breve storia di lunghi tradimenti (Einaudi 2007), La
ragazza di Vajont (Einaudi 2008), L’ultimo giorno felice (Edizioni Ambiente
2008, Einaudi 2011), L’anno dei dodici inverni (Einaudi 2009), Un buon
posto per morire (con Davide Boosta Dileo, Einaudi 2011), Le radici del
cielo (Multiplayer.it 2011), La crociata dei bambini (Multiplayer.it 2014) e
Furland® (chiarelettere 2018). Per Marsilio, nel 2016 ha pubblicato anche il
romanzo Chiedi alla luce.
Tullio Avoledo
Nero come la notte

Marsilio
Dello stesso autore nel catalogo Marsilio
Chiedi alla luce
Lo stato dell’unione

In copertina: illustrazione di ALE+ALE.


© 2020 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione digitale 2020
ISBN 978-88-297-0557-3
www.marsilioeditori.it
ebook@marsilioeditori.it
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Indice

Copertina
Abstract - Autore
Frontespizio
Dello stesso autore - Copyright
Esergo

Prologo
Un altro prologo, qualche anno dopo la fine del mondo
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Epilogo
NERO COME LA NOTTE

A chi resiste
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o fatti
realmente accaduti o che potrebbero accadere è puramente casuale.
Nous n’avons fait que fuir
Nous cogner dans les angles
Nous n’avons fait que fuir
Et sur la longue route
Des chiens resplendissants
Deviennent nos alliés.
BERTRAND CANTAT

Armiku më i tmerrshëm është


ai që harrohet.*
Proverbio albanese

*
Il nemico più temibile è quello che hai dimenticato.
Prologo

31 dicembre 1999
La sera prima della fine del mondo

Lo Zingaro spense il motore della Mercedes Classe S.


Ascoltò il ticchettio sotto il cofano.
A mano a mano che il rumore si smorzava, anche il suo cuore sembrava
calmarsi. La rabbia della telefonata c’era ancora, ma si manteneva sul
fondo, come una rana che fa spuntare solo gli occhi sul pelo dell’acqua.
Una rana velenosa.
C’era la nebbia, tutt’intorno all’auto. Lo Zingaro accese i fari. Alle sei di
sera la palude era già buia.
Tirò giù il finestrino e sputò fuori. Era una meraviglia, quel finestrino
elettrico. Preciso e silenzioso.
Lo sputo cadde nell’acqua, facendo proprio il rumore di una rana che
salta.
Lo Zingaro aguzzò l’orecchio, perché l’istinto gli diceva di fare così. Sua
madre gli aveva insegnato a non rilassarsi mai, e a lei l’aveva insegnato la
nonna, che l’aveva imparato sulla propria pelle, in Bucovina, prima della
grande guerra dei tedeschi. La nonna piaceva, allo Zingaro. La ricordava
bene. Diceva che era stata in uno di quei posti brutti all’Est dove i gagè
ammazzavano la gente col gas e la bruciavano in forni giganteschi. La
nonna mostrava ai nipoti e ai loro amici i numeri tatuati sul braccio. Aveva
sedici anni quando l’avevano deportata in quel posto chiamato Birkenau.
Raccontava che i tedeschi avevano chiuso la sua gente in un blocco del
campo e la tenevano lì a morire di fame. Poi, nel maggio del 1944, decisero
di disfarsene. Circondarono il settore dei Rom e ordinarono a tutti di uscire.
Ma i Rom non obbedirono. Si erano armati di pale e di altri attrezzi da
lavoro. Sapevano che chi usciva di lì sarebbe finito in fumo. I tedeschi li
credevano tanto sciocchi? Così i gagè decisero di non forzare la mano.
«Vedi, Ramko» gli diceva la nonna, «tu puoi dire con orgoglio che
neanche i tedeschi ci hanno piegato.»
La verità è che dei ventitremila Rom deportati ad Auschwitz ne
sopravvissero meno di quattromila.
Ma la nonna era una di loro.
Siamo semi portati dal vento, si disse lo Zingaro. Il vento che spezza gli
alberi trasporta i semi lontano.
Lentamente, come risalendo dalle profondità di un sogno, il rumore di
una moto smarmittata cominciò a levarsi dalla nebbia.
Lo Zingaro tirò su il finestrino e uscì dall’auto.
Faceva freddo. L’umidità della palude ti s’infilava nelle ossa. Terra
malata, terra senza padroni. Si era sempre chiesto perché i gagè ci tenessero
così tanto a comprare la terra. A possedere la terra, la stessa parola che
usavano riferendosi alle donne. Possedere. Come se fosse possibile, una
cosa del genere. Uno credeva di essere il padrone di un posto, ci costruiva
una casa, e cent’anni dopo nessuno sapeva più niente di lui, e la sua casa
era di altri, e poi passavano ancora cent’anni e della casa non rimaneva più
nulla, così un altro comprava la stessa terra e costruiva un’altra casa e
credeva di essere lui il padrone. In vita sua, fino a pochi giorni prima, lo
Zingaro non aveva mai posseduto niente, se non l’aria che respirava e
quello che era capace di prendersi. A cinquantasei anni aveva messo al
mondo dodici figli, tutti sani e forti, i maschi come le femmine, e altri ne
avrebbe seminati in futuro.
Si accese una sigaretta. Una di quelle americane, che piacevano a sua
madre. Chesterfield. L’aroma di tabacco scacciò i miasmi della palude, ma
non del tutto.
Fra i vortici di nebbia apparve il faro della moto, che procedeva a passo
d’uomo.
Si fermò a dieci metri dalla Mercedes.
Lo Zingaro sentì il rumore delle suole dell’uomo sceso dalla Honda, e
quello metallico delle fibbie del suo giubbotto. Lirosh l’Albanese emerse
lentamente dalla coltre grigia. Prima le spalle, larghe e squadrate. Poi la
vita sottile, infine le gambe strette in un paio di jeans a sigaretta. Gli
stivaletti di cuoio nero. Quel gadjo non gli piaceva. E meno ancora gli era
piaciuto il tono della sua telefonata. Non era mica un cameriere che chiami
con uno schiocco di dita, lui: era il Re.
Lo Zingaro tirò l’ultima boccata e buttò la cicca a terra, pestandola sotto
il tacco della scarpa.
«Ehi, Ramko!» fece l’altro, sollevando la mano in un gesto allegro di
saluto. «Come ti butta, amico?»
Lo Zingaro alzò le spalle. «Ciao, Albanese.»
Lirosh era alto, magro come un cane da corsa. Si muoveva, anche, con
un’eleganza animalesca. Un incrocio fra un levriero e un dobermann.
Elegante e letale. Fece due passi attorno all’uomo più vecchio, come se lo
stesse misurando. «Mi spiace, scusa, che ti ho fatto venire qui proprio
stasera. Anche voi zingari festeggiate il Capodanno, vero?»
«No.»
«Neanche questo? Guarda che è un Capodanno speciale. L’ultimo del
millennio. Non ne vedremo tanti altri così» ridacchiò.
«Hai portato i soldi?» tagliò corto lo Zingaro.
Lirosh sospirò, scuotendo la testa. «Sono un uomo di parola. Per chi mi
hai preso?»
«Fammeli vedere.»
Il ragazzo non sembrò offendersi. Infilò una mano nel giubbotto. Ramko
strinse le dita intorno all’arma che nascondeva in tasca. Era un coltello a
serramanico, perfettamente affilato e perfettamente bilanciato. E lui era un
maestro a maneggiarlo. Non si conquistava una donna bella come sua
moglie senza saperci fare col coltello. Era sempre all’erta.
Ma l’Albanese tirò fuori una busta color manilla. Una busta spessa,
gonfia. La sventolò per aria. «Sono tutti qui. Ma se vuoi puoi contarli. Non
mi offendo.»
«Sicuro che li conto.»
«Come vuoi. Ti ho già detto che non mi offendo.»
Lo Zingaro sospettava sempre della generosità degli altri. Non rientrava
nell’ordine naturale delle cose.
«Vorrei sapere cosa ve ne fate, di quel posto.»
Lirosh sgranò gli occhi. «Di quel posto? Niente. Potremmo anche
lasciarvelo. A noi interessava solo che voi compraste la Casa Sconta.
Quando siete arrivati e i vicini hanno visto che eravate zingari, il prezzo dei
terreni tutt’intorno è crollato praticamente a zero. No, vedi…»
Mentre parlava, il ragazzo lasciò distrattamente cadere la busta.
Ramko si chinò a raccoglierla.
Già a metà di quel movimento capì di aver commesso un errore fatale.
La sinistra dell’Albanese gli strinse l’avambraccio come una morsa,
mentre la destra scattava sotto il giubbotto di cuoio e, rapida come un
serpente, riappariva armata di un coltello a scatto. Il tempo sembrò
dilatarsi. Ogni secondo pareva infinito. Lo Zingaro si accorse che era un
coltello dozzinale, una robaccia cinese. Ma la lama era buona, e quando
penetrò i muscoli dell’addome arrivò fino alla spina dorsale e uscì fuori
senza fermarsi; poi tornò a colpire, una, due volte, sempre più in alto. Infine
l’Albanese indietreggiò, a guardare la sua opera.
Ramko fece per muovere un passo, ma poi si arrestò, concentrandosi nello
sforzo di restare in piedi. Si guardò la pancia prominente. Nella poca luce
che filtrava attraverso la nebbia gli sembrò che la camicia bianca, laggiù, si
fosse tinta di nero.
Sentì che la vista calava. Tutto sembrava farsi scuro. Il buio era come
un’acqua torbida che riempiva veloce una brocca, mentre il freddo saliva
dal basso a stringergli le gambe, lo stomaco.
Cadde in ginocchio.
L’Albanese, il ragazzo che aveva forse l’età del suo figlio più grande, gli
posò una mano sulla spalla, impedendogli di crollare in avanti. Poi si
accovacciò di fronte a lui.
I loro occhi erano allo stesso livello.
Quelli dell’Albanese luccicavano come perle scure.
«Sono solo affari, Ramko. Solo affari» sussurrò all’orecchio dell’uomo
agonizzante. «Niente di personale.»
Lo Zingaro avrebbe voluto dire qualcosa, ma il fiato non arrivava più alla
gola. Come se volesse aiutarlo, l’Albanese si rialzò, e tirando su di peso il
corpo dello Zingaro gli si mise alle spalle e gli squarciò la gola.
L’aria uscì, finalmente, quel poco che stagnava nei polmoni allagati di
sangue. La luce sparì di colpo, come premendo un interruttore.

L’Albanese consultò l’orologio, un Seiko da quattro soldi. A lui piaceva


l’Omega Speedmaster, quello degli astronauti delle missioni Apollo. Anche
se aveva visto una trasmissione che diceva che gli sbarchi sulla Luna non
c’erano mai stati, che era tutta una cosa girata in studio.
Il Seiko ammaccato segnava le 18.10.
L’Albanese recuperò la busta, che conteneva davvero i soldi per lo
Zingaro. I suoi clienti erano onesti, nel loro modo perverso. Lui no. Non
poteva permetterselo. Aveva dei progetti, anche se non grandi come i loro.
Infilò le mani sotto le ascelle del morto. Si mosse con sicurezza,
trascinandolo verso la Mercedes. Il bagagliaio era aperto, le chiavi infilate
nel blocchetto di accensione. Aveva calcolato con precisione i tempi, come
nei film. Stipò lo Zingaro nel baule dell’auto, mise in moto e percorse in
retromarcia il tratturo nascosto nel canneto, fino alla strada bianca che
portava alla cava, lontana meno di un chilometro. Là erano pronte le
taniche per dare fuoco alla macchina. Il corpo del vecchio, invece, avrebbe
avuto un altro trattamento, lungo la strada. La fossa era già stata allestita.
Una bella fossa profonda. Poi sarebbe tornato a recuperare la Honda. Per
le nove poteva essere a casa, per prepararsi con calma al Capodanno con la
famiglia.
Intorno a lui il mondo tratteneva il fiato, preparandosi all’Apocalisse del
Millennium Bug.
Alla fine del mondo.
Lirosh ne aveva sentito parlare in quel programma di cui non si perdeva
una puntata, La macchina del tempo. Dicevano che il mondo poteva persino
finire, per colpa di un difetto dei computer. Il primo secondo dell’anno 2000
avrebbe potuto coincidere con l’Apocalisse. Gli aerei sarebbero caduti dal
cielo come anatre morte, le centrali atomiche sarebbero saltate in aria. I
missili russi e americani sarebbero partiti da soli, scatenando la Terza
guerra mondiale. C’era gente che avrebbe atteso la mezzanotte barricata in
un rifugio sottoterra.
Lirosh ingranò la prima, imboccando la sterrata. Gli dispiaceva bruciare
una macchina così bella. D’altra parte non era una gran perdita, se il
mondo stava davvero per finire.
Vedremo, pensò, guidando con prudenza lungo la strada dissestata.
Vedremo.
Magari non finisce, e allora arriveranno tempi interessanti.
Un altro prologo, qualche anno dopo la fine del
mondo

Nel ricordo è tutto così chiaro: i colori, i dettagli.


E al tempo stesso è tutto così strano. Come in un sogno.
Sentivo la mia voce, ma come se provenisse dal fondo di un pozzo.
Sentivo anche il morbido della pelle della bambina, il fruscio della stoffa
del suo pigiamino di Peppa Pig sotto le mie dita che si muovevano quasi
sfogliassero un libro. Solo che il mio braccio sembrava lungo un milione di
chilometri.
Era come se la pelle di Maria Luz fosse e al tempo stesso non fosse lì.
«E allora il papà ha detto all’uomo cattivo: “Posa quel coltello, stronzo”,
ma l’uomo cattivo ha risposto: “Io non poso un cazzo di niente.” Allora il
tuo papà ha detto all’uomo nero: “Posalo, che è meglio per tutti.” Ma
l’uomo nero ha alzato il coltello e allora il tuo papà gli ha sparato dritto in
mezzo agli occhi…»
La voce di Dolores esplode nella stanza, mi fa scoppiare il cervello.
«CHE CAZZO STAI DICENDO?»
Non l’ho sentita tornare. Non ho sentito le chiavi girare. David Bowie
pompa Starman a palla dallo stereo.
«CHE CAZZO DICI A MIA FIGLIA?»
Maria Luz trema tra le mie braccia ma non urla. Però ha gli occhi
spalancati come quelli di un coniglio sulla strada un attimo prima che l’auto
lo falci.
«SEI UBRIACO! STRONZO! HAI BEVUTO!»
No che non ho bevuto, cerco di negare, ma le parole che mi nascono bene
nel cervello escono dalla bocca storte, biascicate.
Dolores raccoglie da terra la bottiglia di vodka aperta. Dev’essermi
caduta senza il tappo. Ma tanto era vuota.
La sua voce è il sibilo di un serpente. «Deja mi hija, pendejo. Metti giù le
mani. Vete! Allontanati da lei!»
Vorrei dirle di calmarsi, ma in quel momento la bambina che stringo tra
le braccia scoppia a piangere. La guardo senza capire. Gli occhi le si
riempiono di lacrime, è come vedere l’acqua che torna su all’improvviso dal
tubo di raccordo di una lavatrice intasata. Lacrime grosse, che escono a
fontana. Per un attimo vedo solo quelle lacrime, perfette come il cristallo,
come l’acqua di una sorgente di montagna. Poi vedo i lividi neri sul braccio
della bambina, dove la stringevo.
Dolores è una furia. Urla tra le lacrime anche lei, ma le sue sono lacrime
di rabbia. La faccia è un ghigno. La bottiglia impugnata per il manico mi
colpisce la spalla, e poi la fronte, aprendo uno squarcio di dolore puro.
Grido.
Gridiamo tutti.

SMIRNOFF, leggo sulla bottiglia, e quella parola rossa e nervosa diventa il


centro dell’universo e si fa gigantesca quando cala di nuovo sulla mia faccia
e mi butta giù a mazzate nel pozzo dove finiscono le urla, le urla, le urla,
CAZZO, fate smettere le urla…
«Dios mío, lo maté!»
«Jesús mío, lo maté…»

E poi il silenzio.

Un lungo, lunghissimo silenzio.


Chiamatemi Lazzaro.
Perché per raccontarvi questa storia sono tornato dal regno dei morti.
1

«Un giorno mi dirai come te le sei fatte, queste.»


«Queste cosa?»
Il dito del nero passa, senza toccarla, sulla mia guancia, il sopracciglio, la
fronte.
«Queste, amico.»
«Pensavo non si notassero.»
«Uh, hanno fatto un buon lavoro. Ma le ferite più profonde sono quelle
che non appaiono. I muscoli della tua faccia me le rivelano. Quando sorridi,
ad esempio.»
«L’ultima volta che ho sorriso, il papa era un polacco.»
Il barbiere ride, scuotendo la testa. Finisce d’insaponarmi le guance.
«Occhio con il rasoio» faccio, a denti stretti per non inghiottire schiuma.
Lui solleva la lama affilata col manico di madreperla. La muove,
catturando la luce. Il taglio è consumato dalle infinite affilature.
«Sicuro che lo sai usare?»
Tommy borbotta qualcosa nella sua lingua africana.
«Questo rasoio lo usava mio padre. E prima di lui mio nonno. Uh, siamo
barbieri da prima che esistesse il mondo.»
«Addirittura.»
Sfoglio uno dei vecchi quotidiani in lingue diverse posati sul tavolino
rotondo di vimini.
«Certo che se non ci foste voi, la cronaca nera sarebbe un deserto»
commento, girando le pagine senza andare più in là dei titoli.
«Considerato che ho un rasoio affilato che va su e giù lungo la tua gola, ti
sembra un commento da fare? E poi perché la chiamate cronaca nera?»
«Perché, voi come la chiamate?»
«Nella mia lingua non c’è una parola per questo. In francese, bien, cela
dépend. Faits divers, section du crime… chronique judiciaire… Sicuramente
non si fa riferimento a un colore. Così come i vostri gialli, in Francia si
chiamano polar.»
«E magari si offendono gli eschimesi.»
«Uh, sono così pochi, quelli. E poi sono lontani. Senti, io più di così non
te la taglio.»
«Fammela corta. Come i capelli. Più corta che puoi senza rasarla del
tutto.»
«Se vuoi sembrare un bodyguard russo, fai pure. A proposito, quando dici
“voi” parlando della cronaca giudiziaria, a chi ti riferisci? Perché mi sa
che…»
Sfoglia il giornale che tengo tra le mani. Torna indietro. Con la lama del
rasoio punta una notizia.
«Ecco qua. Rumeno. Moldavo. Rumeno. Un altro rumeno… Rissa tra
colombiani…»
«Per me siete tutti uguali.»
«Tutti uguali, dici. Uh, che idiota che sei. Un giorno o l’altro ti taglio la
gola.»
«E con questo puoi scordarti la mancia.»
Tommy finisce di radermi la barba, senza mai smettere di sorridere. Poi
mi asciuga le guance con una salvietta calda.
«Quanto sei macho così. Sembri quell’attore, come si chiama? Quello che
ha fatto Taboo. Tom Hardy. Preciso. Ti metto un po’ di dopobarba?»
«Non con quello» rispondo, indicando l’antiquato spruzzatore a pompetta
che ha in mano.
Con un gesto da prestigiatore, Tommy apre l’armadietto e mi mostra con
un inchino la fila di boccette colorate su un ripiano.
Ne indico una.
«Non sapevo fosse ancora in commercio.»
«Infatti non credo che lo sia» replica, versandosi sulle mani quattro gocce
di Tsar che poi mi applica sulla pelle, nelle parti rasate.
Brucia da matti, ma il profumo sembra proprio quello giusto, dritto dritto
dai magici anni Novanta. Guardare la bottiglietta verde di Van Cleef &
Arpels mi dà una botta assurda di nostalgia, come quando vedo un bassotto
per strada.
Mi alzo. Una poltrona da barbiere così non la vedevo da quando ero
bambino. Il cuoio rosso è un po’ rovinato, ma è un pezzo originale. È stata
restaurata con una cura maniacale. Sembra una di quelle auto americane
degli anni Cinquanta che ancora girano lungo il Malecón a L’Avana, ma
rimessa a nuovo da un team di meccanici senza badare a spese.
«Quanto ti devo?»
«Niente.»
«Come sarebbe, niente?»
«Non sei in debito con me. Decidi tu se vuoi darmi qualcosa, e quanto
vuoi darmi, per il lavoro che ho fatto.»
«Che stronzata.»
Tommy alza le spalle.
Infilo le mani in tasca, tirando fuori tre monete da due euro e una
manciata di spiccioli.
Il ragazzo nero sorride, ma non allunga la mano.
Così prendo il portafoglio e gli consegno un pezzo da dieci. L’ultima
banconota che mi è rimasta.
«Quanto devo darti di resto?» mi fa lui, con la banconota rossiccia in
mano.
«Niente. Tienili.»
«Non vuoi guardarti allo specchio?»
Mi passo la mano sui capelli corti. Qualcuno una volta mi ha detto che
toccarli era come carezzare la pelliccia di un orso.
«Anche no. Ci si vede, negro.»

Esco dalla bottega luminosa di Tommy e piombo nel buio e nel cozzare
d’odori del corridoio. I mucchi di coperte e di oggetti addossati ai muri – una
valigia malandata, una pila di libri, una bambola – dicono che siamo nel
girone peggiore delle Zattere, dove la gente si contende un angolo per
dormire, un bagno per cagare, un rubinetto che funzioni un giorno sì e uno
no. Chi arriva da fuori passa inevitabilmente di qui, finché non può
permettersi di scendere più in basso. In un posto dove gli ascensori non
funzionano, più stai in alto e più devi faticare per muoverti. Quindi chi vive
quassù è la fesch de la fesch, lo scolo dell’umanità. Era così nelle insulae
dell’antica Roma ed è così qui, oggi, nel quotidiano esperimento di
sopravvivenza che chiamano «le Zattere».
Tommy invece vive quassù per libera scelta: per l’aria e per la luce, dice,
come se fosse una stramaledetta pianta.
«Le scale sono la mia palestra, e ho come tetto il cielo.»
«Di chi è?» gli ho chiesto una volta.
«Cosa?»
«La poesia. È una poesia quella che hai citato, no?»
«Uh, no, è una cosa che ho detto, e basta.»

E le scale sono sul serio una specie di palestra, anche a farle in discesa.
Scendendole pratichi il salto, per scavalcare gente che dorme a tutte le ore, a
turno. E anche l’immersione in apnea, quando passi vicino agli urinali e ai
buglioli che ai piani alti sostituiscono i pochi bagni che più in basso
continuano, anche se non si sa per quanto, a funzionare. Jean-Mathieu, il
vecchio che si occupa delle pulizie nella nostra sezione del piano, dice che
anche a Versailles era così. «Facci caso, quando visìti un palasso antico.
Niente bagni. Lusso, fresques, letti dorati, mais pas de bains, niente bagni.»
L’analogia tra questo posto e una reggia finisce lì. Non sono certo teste
coronate i musi neri e ambrati che spuntano fra le coperte come torpidi
bruchi da una mela avvizzita. Sguardi mai troppo evidentemente curiosi,
rispettosi della distanza che dev’esserci tra esseri umani che condividono
uno spazio così problematico.
Se per molti di loro non fossi una presenza familiare, i vestiti che indosso
li metterebbero in agitazione. Non capita spesso che per queste scale
semibuie passi il fantasma di un bianco in abiti puliti e relativamente nuovi.
Mentre svolto l’angolo del pianerottolo e affronto un’altra rampa di scale-
dormitorio, dalla bottega del barbiere proviene una musica.
Tommy ha la passione per la lirica.
La voce di Natalie Dessay che canta l’aria della Regina della Notte dal
Flauto Magico invade lo spazio e spinge fuori dal mondo ogni cosa,
svuotandolo per riempirlo di bellezza. Non è la Callas, non è Joan
Sutherland, d’accordo, ma la limpidezza e la pulizia della sua esecuzione
non mancano mai di commuovermi.
Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen,
Tod und Verzweiflung flammet um mich her!*

Scavalco un corpo immobile, troppo profondamente addormentato, o forse


morto. Succede. Le scale sono fredde. Chissà quanto più fredde devono
sembrare a un uomo o una donna cresciuti al sole di Lagos o Dakar. Ma
almeno qui non ti succede come a certi vecchi del mondo esterno, che
vengono trovati morti dopo giorni o settimane. Qui alle Zattere non sei mai
solo.
Non puoi permettertelo.
Hört, Rachegötter, hört der Mutter Schwur!**

Un altro passo, un altro ancora. La musica non sembra calare di volume,


da un piano all’altro.
Io abito al terzo, esattamente a metà tra paradiso e inferno. Non è sempre
stato così. All’inizio, appena dimesso dalla clinica del dottor Chatterjee, ho
abitato anch’io lassù in alto, nella terra di confine tra la vita di prima e
l’inferno. Se sono sceso in zone più confortevoli non è perché potessi
permettermelo, ma grazie alle amicizie che mi sono fatto lassù, durante il
periodo della mia quarantena. Poi è venuto il lavoro, d’accordo, la scoperta
che anch’io potevo avere un’utilità nel complesso ecosistema del posto. Ma
prima c’è stata l’acclimatazione. È stato un rito di passaggio: conosciuto il
lato peggiore delle Zattere, scendendo ai piani bassi ho cominciato ad
apprezzare tante cose, piccole e meno piccole, che prima non avrei
nemmeno notato.
Tommy…
Tommy mi ha avvicinato con la sua musica come si userebbe una ciotola
di latte per attirare un gattino.
Ma questo è venuto dopo, quand’ero già guarito.
Prima ci sono stati i gironi del purgatorio.
Ci sono gironi, nel purgatorio? Come all’inferno? O si chiamano in un
altro modo?
Non lo ricordo più. La mia memoria è andata a puttane.
Da com’è finita, comunque, è stato un purgatorio. Qualcosa di non
definitivo. Una transizione.
Ma i gironi di sofferenza, quelli c’erano.
Chiamali come vuoi.
Un girone al giorno.
Ogni giorno.
Per più giorni di quanti un essere umano, anche quello più cattivo,
dovrebbe sopportare.

E io, mi dicono, sono stato un essere umano molto cattivo.


*
La vendetta dell’inferno ribolle nel mio cuore, morte e disperazione fiammeggiano intorno a me!
**
Ascoltate, dèi della vendetta, ascoltate il giuramento di una madre!
2

I primi giorni erano stati terribili.


Sudavo come una fontana. Rivoli di sudore puzzolente, mi sembra ancora
di sentirlo, il puzzo. E anche le coperte in cui mi avvolgevano odoravano di
morte. Coperte sopra coperte, a strati, eppure non riuscivo a scaldarmi. A
un certo punto ho smesso di lottare per raggiungere la bacinella o chiedere
aiuto. Ho cominciato a pisciare e a cagarmi addosso. A vomitare l’anima.
Mi sentivo bruciare. Di tanto in tanto una mano piccola e scura mi
posava sulla fronte una pezzuola bagnata, per calmarmi la febbre. Sembrava
che quella mano uscisse dal nulla.

Al sesto giorno cominciai a migliorare.


Mi svegliai con la sensazione che la testa fosse infilzata in cima a un
bastone alto cento metri. Ma non doleva più. Ogni cosa, ogni parola, ogni
movimento mi sembravano incredibilmente nitidi, come se mi trovassi in una
sala da concerti dall’acustica perfetta. Solo che non era una questione di
acustica: era tutto il mondo che mi pareva suonasse meglio. Anzi, era come
se l’ascoltassi per la prima volta. Tutto era perfettamente intonato. Il mondo
sembrava nuovo, ripulito da un diluvio. Guardavo affascinato la lenta danza
del pulviscolo in un raggio di sole; le pareti spoglie e bianche della stanza
mi ricordavano la mappa di un continente, un nuovo mondo che avrei voluto
esplorare per sempre.
Non ero più avvolto in mucchi di coperte. Il mio corpo nudo era pulito.
Ero disteso su un letto di ferro smaltato di bianco, con una costellazione di
ruggine sui montanti.
Mi passai una mano lungo le costole, la pancia, i fianchi. Non riconobbi
il mio corpo. Era magro, duro. Il corpo di un altro. Il corpo che avevo avuto
a trent’anni. Solo che il corpo nuovo mi tradì quando cercai di alzarmi
troppo in fretta e ricaddi giù a peso morto. Braccia forti mi risollevarono,
per poi rimettermi a giacere. Lo fecero con un’eleganza gentile, come se
riponessero una tovaglia di Fiandra in un armadio. Il vecchio aveva una
lunga barba bianca, di un bianco come quello del cotone.
Aveva anche una pelle scurissima e rugosa. Questo fu tutto ciò che
ricordai, svegliandomi qualche ora dopo. Adesso c’era una ragazza dalla
pelle scura, seduta accanto al mio letto. Aveva un libro malandato in mano.
Leggeva muovendo le labbra, come fanno i bambini. Vestiva all’occidentale,
ma al centro della fronte portava, come il vecchio, un segno rosso.
Provai di nuovo ad alzarmi, appoggiando il peso su un gomito. La
ragazza infilò un dito tra le pagine del libro per tenere il segno e con un
tocco leggero come una carezza mi spinse lentamente giù, disteso.
«Sei ancora troppo debole. Vado a chiamare il dottore.»
Si alzò, andando verso la porta. Non indossava un sari, ma un paio di
jeans e un maglione. Era tutt’altro che ben fatta, e il suo abbigliamento non
l’aiutava. Sembrava un rospo indeciso se trasformarsi in un essere umano.
«Aspetta lì» disse, facendo un gesto incomprensibile, prima di sparire.
Rimasi obbedientemente disteso, a guardare il soffitto dal quale pendeva
un cavo elettrico, e appeso al cavo il bulbo nudo di una lampadina.
Ricordava la copertina di un brutto libro anni Settanta, la biografia di un
pusher, o il backstage di Trainspotting.
Voltandomi verso sinistra riuscii a leggere autore e titolo del libro
rilegato in tela verde, che dimostrava almeno cinquant’anni: Werner
Heisenberg, Physikalischen Prinzipien der Quantentheorie.

La ragazza rientrò.
«Il dottore ti visiterà tra poco.»
«Dove sono? Cos’è questo posto?»
«Non c’è una risposta semplice.»
Bestemmiai.
«Non dovresti offendere Dio.»
«Cazzo ti importa? Non è il tuo Dio. È il mio.»
La giovane indiana sorrise divertita. «Tu hai un dio? Un dio tutto tuo?
Proprio tuo, solo tuo? Che fortunato che sei!»
Batté le mani come una bambina. Ma gli occhi erano adulti. Duri.
«Ti ho chiesto cos’è questo posto» gracchiò la voce che un tempo era la
mia.
«È un ospedale» rispose una voce maschile.
Sulla porta della stanza riapparve il vecchio con la lunga barba bianca
come quella di Babbo Natale, solo che invece di un berretto rosso indossava
un turbante arancione. Era piccolo, un metro e sessanta al massimo.
«Sono il dottor Kumar Chatterjee» sorrise.
«Che razza di ospedale è questo? Dove sono?»
«Se la cosa può tranquillizzarla, non siamo né in India né in Pakistan.»
«È già qualcosa, in effetti.»
«Come si sente?»
«Di merda. Cosa mi avete dato?»
«Niente. Quello che la fa star male era già tutto dentro di lei. Noi non
abbiamo fatto altro che darle un riparo e tenerla idratato e protetto mentre il
suo corpo guariva.»
«Protetto?»
Passai in rassegna con una smorfia sarcastica le pareti nude della stanza,
il letto da ospedale arrugginito, la flebo che sembrava uscita da un vecchio
episodio della serie televisiva M*A*S*H.
Il vecchio spostò una sedia vicino al letto. Ci si sedette.
Per un po’ non disse niente. Poi, con un sospiro e un sorriso, mi rivelò
dov’era caduta la mia astronave. Insomma, su quale pianeta sconosciuto mi
trovavo. Ma prima mi fece fare il giro completo della Tana del Bianconiglio.
«Da quanto tempo fa uso di droghe, signor…?»
«Il nome è scritto sui documenti. Immagino che mi abbiate frugato per
bene il portafoglio.»
«Lei non aveva documenti con sé. E nemmeno il portafoglio, signor…?»
«Stokar.»
L’indù aggrottò le sopracciglia. «Stoker? Come l’autore di Dracula?»
«No. Stokar. Con la a. Non l’ho scelto io.»
«Ha anche un nome, immagino.»
«Sergio. E anche quello non l’ho scelto io.»
«Ricominciamo da capo. Da quanto tempo fa uso di droghe, signor
Stokar?»
«Tecnicamente, da prima di nascere. Sa com’erano gli anni Sessanta.
Open your minds, open your imagination… I miei genitori erano aperti alle
esperienze. Hippy di merda.»
«Quanti anni ha?»
«Sono nato il 29 maggio 1967.»
«Dove?»
«Manchester.»
«Manchester… In Inghilterra?»
«Perché? Ce ne sono altre?»
«Sì. Come mai Manchester?»
«Mi fa male la testa. Possiamo smettere con le domande?»
«Tra poco. Ha sete?»
Annuii, immagino, perché quell’assurdo medico indù fece un cenno col
capo alla ragazza, che mi portò un bicchiere d’acqua. Per quanto possa
sembrare strano, giuro che non mi toglierò mai dalla testa il sapore di
quell’acqua. Aveva un bouquet, proprio come un vino. Sapeva leggermente
di metallo, con un ancor più sottile sentore vegetale. Lasciava un retrogusto
di linfa in bocca.
Non era esattamente la cosa che di solito chiamo acqua, ma in quel
momento l’avrei bevuta anche se fosse stato piscio di drago. Comunque quel
sapore era unico. Come ogni cosa dopo la mia resurrezione, se è per questo.
Ma che ogni cosa fosse unica, per il Lazzaro che ero diventato, l’avrei
scoperto solo in seguito.
«Ricominciamo, signor Stokar?»
«Se tocca.»
«Che cognome è, il suo?»
«Italiano.»
«Non si direbbe. Sembra più slavo.»
«È italiano.»
«Quando è nato?»
«Vuol farmi incazzare? Gliel’ho già detto.»
«La prego. Quando è nato, signor Stokar?»
«1967, 29 maggio. Segno dei Gemelli. A Manchester, Regno Unito. Al
Trafford General Hospital, lo stesso dove è nato Morrissey. Il cantante degli
Smiths.»
«Lo so. Ho vissuto a Manchester. E ovviamente so chi erano gli Smiths.»
«Chi sono, vuol dire.»
«Come preferisce. Cosa ci facevano i suoi genitori a Manchester?»
Alzai le spalle. Quel semplice gesto mi provocò una serie da record di
dolori in tutta la parte alta del corpo. Era come muovere un meccanismo
fatto d’ingranaggi di vetro arrugginito. So che il vetro non arrugginisce, ma
è tanto per rendere l’idea.
La ragazza mi avvicinò di nuovo il bicchiere alle labbra. Colsi una
qualche somiglianza col muso rugoso del vecchio ciarlatano. Forse era la
figlia. Un bel risparmio per la gestione del suo “ospedale”. Tutto in
famiglia.
«Immagino ci facessero quello che ci faceva lei» risposi.
«Studiavano per laurearsi in Medicina?»
«Ah, no. No. Non i miei. Erano più tipo dei farmacisti ambulanti, se
capisce cosa voglio dire.»
«Temo di sì. Come si sente, signor Stokar?»
«Come una merda pestata da un elefante.»
«Rende l’idea. Dolori?»
«Non s’immagina quanti.»
«Riesce a mettersi seduto?»
Ci provai. La risposta giusta sarebbe stata no, ma in qualche modo ce la
feci. Mi sentivo come se avessi il cervello in orbita intorno alla mia testa.
Orbite molto lente.
L’indù sfregò sulla manica lo stetoscopio che aveva al collo, penso per
scaldarlo, e poi me lo piazzò tra le scapole.
«Respiri a fondo. Così. Ancora. Ancora.»
Il vecchio stetoscopio percorse la mia schiena come un metal detector alla
ricerca di mine.
«Tossisca.»
Ci provai.
«Non così. Un bel colpo di tosse.»
Stavolta ci riuscii. Anche troppo. Una scatarrata da pensionato.
La brutta figlia del medico fece una risatina, nascondendo dietro la mano
scurissima i denti bianchi come chicchi di riso.
«Quanto mi resta da vivere, dottore?»
«È una domanda a cui nessun essere umano può rispondere.»
«Tranne un condannato a morte» obiettai.
«Anche per lui potrebbe arrivare la grazia. Oppure la sedia elettrica
potrebbe guastarsi. Vogliamo tornare alla domanda iniziale?»
Mi rimisi disteso. Ci volle il suo tempo, ma alla fine ci riuscii.
«Solo se mi ricorda che domanda era.»
«Le avevo chiesto, e lei non mi ha ancora risposto, da quanto tempo fa
uso di droghe.»
«Credevo di aver risposto. Da una vita. Anzi, da prima ancora. Da
quand’ero nella pancia di mia madre.»
«Cosa facevano, i suoi?»
«È una visita o un interrogatorio?»
«Tutt’e due. Rispondere le dà fastidio?»
«Un po’. Se non rispondo, cosa mi succede?»
«Non lo so. Non dipende da me.»
«Mi cacciate via dall’ospedale?»
«Non è un ospedale. Comunque sì, penso che dovremmo cacciarla via.»
«Non è che ho molti posti dove andare.»
«Lo immaginavo. Quella domanda gliel’avrei fatta dopo. Avevamo
supposto che fosse così, ma la cosa non ha molta importanza. Se rimarrà o
meno qui non dipende dalle sue necessità, ma dal grado di fiducia e di
simpatia che proveremo nei suoi confronti alla fine di questa visita.»
«Perché, non mi trova simpatico?»
«No. Ma questo non ha importanza. Lavoriamo sulla fiducia. Risponda
alle mie domande senza troppi fronzoli.»
Credo di essere scoppiato a ridere. O almeno, dalla mia orbita lunare, la
risata mi sembrò la mia.
«Sa che lei parla come un alieno, dottore? Tipo un extraterrestre che ha
imparato la nostra lingua su delle vecchie cassette.»
«Andiamo avanti, se non le spiace. Modifico leggermente la domanda:
quando è stata l’ultima volta che ha fatto uso di droghe? Droghe pesanti,
intendo.»
Mi sforzai di ricordare.
«Un anno fa. Forse qualcosa di più.»
«Il suo braccio racconta un’altra storia.»
Alzai il braccio destro.
«Non quello» fece l’indiano.
Guardai il mio braccio sinistro: era costellato di piccoli ematomi e segni
di punture.
Scossi la testa. «Non funziona» feci. «State cercando d’incastrarmi.»
«Perché dice questo?»
«Perché io sono mancino. Non mi sono sparato mai niente, in questo
braccio. Non in questo, nossignore.»
«L’avevo notato, che era mancino.»
«Da cosa?»
«Le domande le faccio io, se non le spiace. Lei dice che non fa uso di
droghe da più di un anno.»
«È così. Insomma, mese più, mese meno.»
«Ma, come dicevo, il suo braccio racconta un’altra storia. E anche il suo
quadro clinico, quando i suoi amici l’hanno portata qui, con tutti i sintomi di
un’overdose.»
«I miei amici? Che amici?»
«Questo è un dettaglio che personalmente non conosco. Perché si
meraviglia? Davvero pensa che sarebbe riuscito ad arrivare qui con le sue
gambe?»
Chiusi gli occhi.
Avevo un dannato bisogno di ricordare. Ma per ricordare avrei dovuto
pensare. E il mio cervello, anche se non era più in orbita, al momento era
comunque disperso sull’altra sponda di un fiume africano dalle acque
torbide e infestate da coccodrilli.
«Ero davvero così malconcio?»
«Lo è ancora, se è per questo. Avrebbe bisogno di un ospedale vero. Lei
parla inglese? Mi riuscirebbe più facile usare quella lingua.»
Prima che potessi rispondergli, il dottor Chatterjee aveva già cominciato
a esprimersi in un inglese speziato di vocali arrotondate à la Bengaline che
avrebbero reso razzista all’istante anche un volontario di Medici senza
frontiere.
«Partiamo dalle cose essenziali, d’accordo? Lei è un ospite, qui. In
quanto ospite, costituisce una grande responsabilità per tutti noi. Per me in
prima persona, ma per tutta la comunità in generale…»
«Di che comunità sta parlando?»
«Lei dovrà attenersi a certe regole, astenersi dal fare certe domande,
evitare di recare danno alla comunità…»
«DI CHE CAZZO DI COMUNITÀ STA PARLANDO?» urlai.
Il dottor Chatterjee mi fissò curioso da sopra le lenti da vista che
ingrandivano i suoi occhi facendoli sembrare quelli di un gufo.
«Delle Zattere. E ora si calmi o la faccio sedare.»
«E da chi? Da che esercito?»
«Da lei» rispose, indicando la ragazza, che con una mano impugnava
un’antiquata scatola di latta per sterilizzare le siringhe. L’altra – la destra –
era nascosta dietro la schiena, osservò qualcuno dentro di me, la voce di un
passante che ti fa notare qualcosa. Guarda che potrebbe avere qualcosa,
nascosto in quella mano.
«Non ha i coglioni per farlo da solo? Ha bisogno di sua figlia?»
«Non è mia figlia.»
«Mi sembrava, infatti, che non aveva il suo brutto muso. Brutta lo è, però
non le somiglia.»
«Non è mia figlia. È mia moglie.»
Un altro, una persona normale, al posto mio sarebbe sprofondato dalla
vergogna. Nel mio caso ci volle una siringa di salcazzo cosa, che mi colpì a
tradimento alla schiena, o meglio in fondo alla schiena, per inabissarmi in
un mare profondo e senza luce.

E quello fu il mio primo giorno di purgatorio alle Zattere.


3

Sono passati quasi otto mesi da quando il Consiglio delle Zattere ha


deciso di accogliermi.
Non hanno mai voluto dirmi quanti erano stati i voti a favore e quanti
quelli contro. Ciò che è certo è che i primi tempi passati qui non contano.
Non era come se stessi davvero in un posto. La mia testa viaggiava lontano,
e spesso si dimenticava di essere parte di un corpo. Passavo le mie giornate
avvolto nel bozzolo delle coperte, tremando e sudando un sudore freddo e
acre. Il tempo sembrava un quadro di Dalí. A volte sentivo i minuti scorrere
lenti come quando versi nella tazza un miele denso, e certe volte erano così
lenti che le parole dell’infermiera indiana senza nome sembravano gocce che
cadono da un rubinetto rotto, una sillaba al minuto.
«Nandini» disse, un giorno in cui il tempo era una banchisa polare deserta,
e le parole arrivavano dal bordo dell’orizzonte, spuntando da tutto quel
bianco e volando verso di me come una palla da tennis tesa, un colpo da
fondo campo degno di Guillermo Vilas. Solo su scala cosmica.
«Nandini cosa?» biascicarono le mie labbra secche. L’infermiera rospo
doveva bagnarmele spesso con uno straccio umido che sapeva di menta. Si
screpolavano come se avessi preso una brutta scottatura.
«Hai chiesto come mi chiamo. Il mio nome è Nandini.»
«Cazzo di nome» risposi. «Che cazzo sei, una fabbrica di trattori?»
La stanza intorno a me si dilatava, le pareti sembravano gonfiarsi come
uno stomaco. L’infermiera rospo si chinò di nuovo a inumidirmi le labbra
spaccate. L’odore lì dentro era tremendo, e la cosa più brutta è che
quell’odore era il mio. Ero diventato un gas che cercava di espandersi per
ridare forma alla stanza che ogni pulsare delle mie tempie gonfiava. Un gas,
che cazzo. Ero diventato un gas.
Per fortuna di tanto in tanto perdevo conoscenza.
Ho passato così, in quel buco grande quanto una cella, un tempo che
allora mi parve infinito, e invece non sarà durato più di due settimane, a
voler credere al calendario. Già, ma a quale calendario? Ce ne sono un
sacco, qui alle Zattere. Calendari di ogni tipo, scritti in una babele di lingue
diverse. Nemmeno l’anno è uguale per tutti. Per alcuni è il 2020, per altri, a
seconda della religione, il 5780, o il 1441. Le feste sono innumerevoli, una
ogni giorno, forse anche di più. Ricordo un tossico, io e Spadaro l’avevamo
arrestato senza un motivo preciso, tanto per giustificare l’uscita
dell’autopattuglia. Non si sa mai cosa può riservarti, un tossico. Sono come
quelle buste sorpresa che compravi in edicola, sono il Gratta e Vinci delle
informazioni. Solo che quello era proprio andato, veleggiava oltre ogni
latitudine conosciuta, parlava solo di Bali, un’isola dove c’era una festa
religiosa al giorno, con balli e processioni e cibo gratis, e «la droga era
buona, amico, buoooona». Cantava, più che parlare, disteso sul sedile
posteriore, una cantilena tossica, piena di voci e di colori. L’avremmo
ascoltato per tutta la notte, era come aver sintonizzato la radio sulle
frequenze di un altro pianeta. Ma il dovere chiama, ogni tanto. E quando
chiama il dovere, i sogni e i momenti magici scoppiano come bolle di
sapone.
L’avevamo scaricato sulla riva di un canale, nella zona industriale, a più di
due chilometri da dove l’avevamo preso su. Dormiva come un bambino.
C’era una buona possibilità che nel sonno rotolasse giù, nell’acqua, e
annegasse, considerando quant’era gelida, facendo così un regalo al mondo e
forse anche a se stesso. La roba che aveva in tasca, amfe e coca, era buona,
era davvero buoooona. Ce la dividemmo da bravi soci, io e il mio partner,
buttando in acqua il resto della merda e giocandoci i settanta euro del
tossico.
«In che mano è?»
Spadaro disse «la destra», e come al solito ci aveva azzeccato, il
maledetto. Gli passai il pezzo da cinquanta e intascai i venti. La chiamavamo
“tassa sulla merda”, tra di noi. Non perché pensassimo che i tossici fossero
merda. Ne avevamo, per così dire, il massimo rispetto. Non che sentissimo
una qualche affinità, malgrado spesso alla fine di una notte di servizio ci
ritrovassimo, probabilmente, molto più fatti di loro. Ma era tipo il rispetto
che nei film il soldato americano finisce per provare verso il nazi, o il
guerrigliero straccione con gli occhi a mandorla. Kameradschaft, tipo. La
chiamavamo “tassa sulla merda” perché quello che facevamo era una merda
di lavoro, mica una cosa seria. Difendevamo i cittadini. Così si dice. Sì,
come no. Li difendevamo da loro stessi, la maggior parte del tempo, mica da
qualcun altro. Certi politici ci vendono l’idea che noi siamo i buoni, come se
fossimo assediati in un fottuto fortino del Far West mentre tutto intorno ci
scorrazzano i pellerossa, bestemmiando e tirando frecce. E allora il grande
problema della sicurezza, secondo loro, consiste nel tenere fuori dal fortino i
cattivi, gli indiani. Io non avrei problemi a farlo. A sparare contro tutti quelli
a cui mi dicono di sparare. Solo che il male in realtà è anche dentro le mura,
e siamo tutti contagiati, e i buoni e i cattivi vivono insieme e non è facile
capire chi sono gli uni e gli altri. Adesso lo so, ma lo sapevo anche allora,
nella mia vita di prima, la mia vita a testa in giù, come la chiamo ora.

Quando mi hanno portato alle Zattere ero ridotto davvero male, stando a
quanto mi hanno detto. Ero pieno di merda, e non avevo idea di come fosse
possibile, dato che ero convinto di essermi ripulito. Non avevo più toccato
droga e alcol da quella notte di merda a casa di Dolores, la notte in cui mi
aveva sfasciato la testa a bottigliate. Era difficile dare una data precisa a
quella notte. Avrei dovuto chiedere all’ospedale, voglio dire l’ospedale vero,
quello in cui Dolores mi aveva portato per farmi ricucire e fermare tutto quel
sangue che mi usciva da dentro, persino dagli occhi. Ammesso che riuscissi
a capire che ospedale era, perché i ricordi di quella notte mi erano stati
estirpati dal cervello, a parte pochi, inutili dettagli. Avrei dovuto chiedere
loro che giorno era, quello in cui Dolores mi aveva scaricato dalla sua Micra
ed era andata a chiamare gli infermieri. L’auto era rosso fuoco, il mio sangue
invece era color porpora. Più nero che rosso, tranne che sul canovaccio da
cucina con cui mi tamponavo la fronte. Per tutto il tragitto a centoventi
all’ora tra casa sua e l’ospedale, Dolores aveva continuato a piangere e a
imprecare con gli occhi fissi sul volante ripetendo «diòsnonmorire
diòsnonmorire», il che era strano, perché in quel momento non era
assolutamente Dio che rischiava di non farcela, non era Dio che sanguinava
come un maiale sgozzato. Non era Dio a perdere continuamente conoscenza,
a oscillare tra il mondo dei vivi e quello dei morti, appeso al pendolo sottile
come un capello del respiro, del cuore sempre più debole.

Non ho nessun ricordo, invece, del giorno in cui mi hanno portato alle
Zattere. Il che la dice lunga su com’ero ridotto. Mi sono svegliato nella
stanza del dottor Chatterjee senza la minima idea di cosa mi fosse successo e
di come fossi finito lì, in quel posto che era onestamente un vero e proprio
incubo per uno come il sottoscritto. Sembrava che qualcuno mi avesse fatto
il ripristino del sistema operativo, resettandomi la memoria e cancellando gli
ultimi giorni. Non so di preciso quanti giorni, né cosa mi fosse accaduto. So
solo che il mondo fuori di qui è diventato un posto pericoloso per me. Molto
pericoloso. E, se lo è diventato, è a causa di quello che mi è successo in quei
giorni rimossi. Non c’è altra spiegazione.
La mia memoria è come una carta stradale fatta a pezzi, come un’agenda
dai fogli strappati e senza data.

La prima cosa che ho fatto, quando mi sono sentito meglio, è stato dare un
soprannome ai miei due angeli custodi dalla pelle scura. Nandini è diventata
la Donna Trattore, e il mio medico curante, a seconda dei giorni, l’Amante di
Lady Chatterjee o Gunga Din. Più spesso Gunga Din.
«Lei è un uomo dall’insolita cultura. Strano, per uno come lei.»
«Vuol dire per uno giovane come me?»
«No. Per uno stronzo razzista come lei. Guardi qui, adesso.»
«Il suo dito?»
«Ha qualcosa in contrario?»
«A parte il fatto che è scuro come se l’avesse infilato nel culo di qualcuno,
no. Mi fa un po’ schifo guardarlo, ma non credo di avere scelta.»
«Guardi il dito, allora. Segua il movimento.»
Gunga Din si era laureato in Medicina a Manchester, specializzandosi in
Psichiatria. Questo almeno dicevano gli elaborati diplomi appesi alla parete
di quella clinica fatta di una sola stanza, di cui, a quanto pareva, ero l’unico
paziente.
Aveva lavorato per dieci anni alla Tavistock Clinic, a Londra.
«E com’è che è finito qui? Qualche scandalo? Aborti clandestini?…»
«Ho seguito mia moglie.»
«Non dev’essere stato difficile. Pesante com’è deve aver lasciato delle
belle tracce.»
«Non mi riferivo a Nandini. Parlavo della mia prima moglie, Agatha.»
«Un nome poco indiano.»
«In realtà Agatha era ebrea.»
«E com’era?»
«Bella. Cosa aveva in mente, quando ha fatto questo disegno?»
«Svastiche. E in effetti è quello che ho disegnato.»
«Ma non è quello che aveva in mente, quando le ha disegnate. A cosa
stava pensando, signor Stokar?»
«Buio. Pensavo al buio» risposi, dimenticandomi di mentirgli.
Un giorno che era in vena di confidenze, o forse solo più triste del solito,
mi mostrò una foto della sua prima moglie. La tirò fuori dal portafoglio, e
l’immagine, piegata in quattro, sembrava uscita dalla cassaforte del Titanic.
Il tempo e l’umidità l’avevano rovinata, ma non abbastanza da nascondere il
fatto che la prima signora Chatterjee era stata bellissima. Occhi scuri come
i capelli, tagliati corti. E uno sguardo che ti faceva pensare: questa ragazza
prima o poi vincerà il Nobel.
O un Oscar.
«Cosa le è successo?»
«Cancro. È sopravvissuta a tante di quelle cose… Faceva parte di Medici
senza frontiere. È stata volontaria durante tante di quelle guerre ed
emergenze umanitarie… Più di una volta si è trovata una pistola alla
tempia. Ma è morta per un tumore fulminante al fegato. Aveva trentatré
anni. Oggi si sarebbe salvata.»
«Mi dispiace.»
Il dottor Chatterjee si era tolto gli occhiali.
«È la prima cosa umana che le sento dire. Forse c’è speranza anche per
lei, in fondo.»

Il medico non aveva idea di cosa mi fosse successo. Dubitava, mi disse,


che la mia perdita di memoria limitata a pochi giorni fosse una conseguenza
delle droghe che avevo assunto, o che mi avevano infilato in corpo, stando
alla mia versione. Ma non aveva una spiegazione alternativa.
«Posso ipotizzare un’amnesia dissociativa dovuta a un trauma.»
«In parole povere?»
«Lei ha vissuto un’esperienza che vuole dimenticare. Ha chiuso, per così
dire, a chiave quell’esperienza in una stanza della memoria in cui non può
più entrare. La sua mente ha deciso di amputare parte dei suoi ricordi per
salvare un nucleo sano di sé, che altrimenti sarebbe stato contaminato e
probabilmente distrutto da quei ricordi.»
«Come amputare un arto per arrestare la cancrena?»
«Qualcosa del genere. Lei non può permettersi di ricordare, qualunque
sia la cosa che le è successa.»

In realtà non è che mi manchino i brutti ricordi. Per non parlare delle
brutte esperienze. Ma con l’aiuto del dottor Chatterjee, il mio Gunga Din
laureato, ho imparato a metterle sotto chiave. Così nel mio cervello ora ci
sono tanti cassetti chiusi dove infilo le cose brutte che mi succedono, e poi
c’è questa porta blindata dietro cui si nasconde il ricordo di cosa mi ha
portato qui, quasi morto. È una porta d’acciaio lucente, liscia: anche se
avessi una chiave per aprirla, non riuscirei a vedere da nessuna parte la
serratura. E forse è meglio così. Forse dietro quella porta ci sono mostri più
grandi di me, mostri enormi e feroci, fatti di Male e di Buio.

O così almeno mi dice il dottor Chatterjee.


4

Vado a ricevere le mie istruzioni per la giornata al secondo piano


dell’edificio chiamato Paris, nella sala del Consiglio.
Non sempre è così.
Non c’è una regola precisa.
A volte mi tocca andare sul tetto, e allora è una cosa più drammatica, tipo
Bibbia, una cosa alla vedi, Mosè, un giorno tutto questo sarà tuo. Solo che
“tutto questo” è una merda, è un guazzabuglio di tetti in rovina che sfuma
per gradazioni di degrado verso il lontano centro della città, con l’ombra
nera dei pioppi che si allunga sui canali nebbiosi, strade dismesse e
discariche abusive. Questo posto che non si può nemmeno chiamare
quartiere è una terra di nessuno in cui città e campagna competono per il
primo premio allo squallore assoluto. Brutte fabbriche, quasi tutte chiuse,
s’intervallano a campi spogli, a viadotti incompiuti, a residui di un ostinato
mondo contadino. Camion della nettezza urbana e rari trattori agricoli
condividono lo stesso spazio esausto, che produce grigiore e tristezza. Se i
pittori impressionisti fossero vissuti in questo quartiere, il loro consumo di
grigio sarebbe stato a livello industriale. A tratti un guizzo di colore appare,
ma è solo un trucco. Quel rosso in mezzo alle case in costruzione sembra un
campo di papaveri, e per un attimo vederlo ti apre il cuore. Invece è una
recinzione di plastica mezza sfondata, il relitto di un cantiere. I cantieri, qui,
aprono continuamente ma non si chiudono mai. I mezzi arrugginiscono, o
vengono rubati. Tutto si deteriora. Questo posto che non so come chiamare è
un monumento all’entropia, come una volta ha detto Nandini, apparendo al
mio fianco e guardando come me fuori dalla finestra. Ha questo modo di
arrivarti vicino di soppiatto che potrebbe anche spaventarti, se lei non fosse
quella specie di grossa marmotta tutt’altro che minacciosa che è.
Qualche anno fa è stato fatto un tentativo di riqualificare questo posto.
Grossi interventi pubblici, sbandierati dall’appena insediata giunta di destra.
Il complesso delle Zattere, definito “ecomostro”, sarebbe stato abbattuto per
far posto a un complesso residenziale che dai rendering sembrava
un’enclave del futuro. Poi era arrivata la crisi del 2009, e gli sprechi delle
amministrazioni avevano lasciato il posto alla necessità di sopravvivere. Dai
sogni si era passati all’incubo di cui le Zattere, secondo alcuni, erano
l’emblema.

La sala del Consiglio di oggi è stata ricavata da uno dei negozi che nelle
intenzioni del progettista dovevano occupare i primi tre piani del complesso
residenziale. La stanza non è mai stata finita. I tubi dell’impianto di
condizionamento sono rimasti a vista, senza i controsoffitti. Le lampadine
pendono nude dai cavi. Non c’è un tavolo da riunioni, ma solo una dozzina
di sedie e poltroncine da ufficio di vario stile, tutte piuttosto malandate, e
assisi su tre di quelle sedie mi attendono i membri del Consiglio.
Ovviamente, se qualcuno lo chiedesse, nessuno ammetterebbe che il
Consiglio esiste. In un posto come questo, l’autorità non viene delegata e
non si fonda sul consenso. È piuttosto un assetto di fatto, che finisce per
darsi le sue regole, ma senza mai codificarle.
Non mi sorprende che a presiedere la riunione sia Aarif il siriano. Da
quando è arrivato alle Zattere, il pediatra cinquantenne di Aleppo ha scalato i
gradini del potere più velocemente dell’Uomo Ragno. Tutti gli stereotipi e i
pregiudizi sugli arabi gli sembrano cuciti addosso. Che sia lui a presiedere lo
dice il fatto che sta al centro della stanza, su una poltrona Frau di cuoio
rosso. Alla sua destra c’è Chimeze, un nigeriano di etnia Igbo alto quasi due
metri, che siede sulla sua finta Thonet da ipermercato con la cautela di un
mandriano in sella a un puledro ancora da domare. Il terzo consigliere è
Nadia Caragiale. A sessant’anni, ha un fisico che fa ancora voltare gli
uomini per strada. Arrivata dalla Romania, stando a certe voci, per salvarsi
la pelle ai tempi di Ceaușescu, nessuno aveva idea di cosa avesse fatto prima
di finire alle Zattere. Conoscendola, avrebbe potuto battere per strada come
insegnare all’università. O magari entrambe le cose contemporaneamente.
Qualcuno dice che era un giudice. Ci starebbe. Sembra fatta di ferro.
Lineamenti alteri, un naso da rapace e occhi che ti prendono le misure di
continuo. Mi piace, anche se cerco di non farglielo capire. Ho idea che i
complimenti potrebbero indisporla. Non so che cicatrice profonda si porti
dentro, ma quella cicatrice ora fa parte di una corazza impenetrabile.
Aarif mi fa cenno di sedermi di fronte a loro.
Con un gesto rifiuto e resto in piedi, in silenzio, le mani dietro la schiena,
in una perfetta posizione militare di riposo.
«È morta una ragazza, stanotte. Vogliamo sapere com’è successo» fa
Nadia, saltando i preamboli.
Ho imparato a non interrompere mai la Caragiale. Quello che deve dirti,
prima o poi lo dice. E niente la fa incazzare come quando viene interrotta.
Però stavolta, dopo quelle poche parole, rimane in silenzio. Anche gli altri
due sembra giochino alle belle statuine, gli sguardi che evitano
sdegnatamente il mio.
«Come si chiamava?» chiedo.
La Caragiale pronuncia il nome.
Incasso in silenzio.
«Viveva qui alle Zattere?» faccio, schiarendomi la voce.
«No.»
Allora cosa ve ne importa, dovrei dire. Invece resto zitto, col cervello che
gira a vuoto intorno a quel nome.
«Vogliamo sapere com’è morta» interviene Chimeze, con la sua voce
tranquilla, che però, uscendo da quel corpo enorme e muscoloso, sembra il
rombo di un treno della metropolitana.
«La conoscevi» sussurra la rumena, socchiudendo gli occhi. Non è una
domanda.
«La conoscevo» annuisco.
«Era una prostituta» commenta Aarif, con una smorfia di disprezzo.
Mi volto a guardarlo, direttamente, con un contatto visivo che è un braccio
di ferro. Nessuno dei due distoglie lo sguardo.
«Era molto giovane, quando l’ho conosciuta.»
«Sai dirci qualcosa di lei?»
Scrollo le spalle. «Il nome. L’età. Dove lavorava, almeno fino a un paio di
anni fa. Nient’altro. Non la vedo… Non la vedevo da tempo.»
«Non lavorava più» fa la Caragiale. «Erano mesi che aveva smesso, a
quanto si dice in giro.»
«Dov’è morta?»
In realtà è un’altra, la domanda che dovrei fare a questi tre: che cosa ve ne
frega, di Krystyna Nowak? perché volete sapere com’è morta?
Invece chiedo solo dov’è morta, e quando me lo dicono scopro che è un
posto che conosco fin troppo bene.
«Preferirei non occuparmi di questa cosa.»
«E noi invece preferiamo che tu te ne occupi» sorride Aarif. E poi
aggiunge: «Adesso.»
«Come ci arrivo?» sospiro.
«C’è un furgone che fa consegne in zona. Parte tra dieci minuti.»
«Mi serviranno dei soldi.»
«Perché?»
«Perché non ne ho. Ho pagato il barbiere, stamattina.»
Chimeze s’infila la mano in una tasca dei jeans. Tira fuori un portafoglio
sottile. Conta tre biglietti da cinque e me li mette in mano.
«Fatteli bastare. Adesso vai. E quando torni, vedi di non tornare a mani
vuote.»
5

Qualcuno ha scritto che aprile è il più crudele dei mesi.


Ditelo ai due sfigati che a metà febbraio, con la temperatura che scende
fino a sei gradi sotto zero, cercano di difendersi dal freddo nascondendosi
sotto infiniti strati di coperte e un tetto di cartone in un garage semibruciato
del Bronx.
Lo chiamano Bronx da quando gli anni Settanta l’hanno cagato dal cielo,
questo quartiere un tempo dirigenziale e ora ridotto a un mezzo ghetto di
vetrine vuote, lampioni rotti e insegne avvolte nel nylon come mummie.
L’angolo di una di quelle insegne a volte emerge dalla plastica slabbrata, con
nomi di aziende e banche morte o inglobate o fuse in agglomerati produttivi
più grandi, lontani da questa città come la Luna o la Fascia degli Asteroidi.
Mi dico che in questo momento dovrei starmene da qualche parte al caldo,
invece di essere qui a fare domande a due bengalesi col naso che cola e un
inglese da asilo, fuori da un ricovero di cartone che puzza di piscio.
Hanno dormito qui stanotte, però non hanno visto la ragazza, dicono.
In compenso hanno visto due uomini che correvano, poi hanno sentito le
portiere di un’auto che è ripartita sgommando. Mi fanno segno con le dita
che erano le tre del mattino. «Non avete l’orologio» gli faccio notare. Loro
ridono e mi mostrano gli smartphone di ultima generazione, ’fanculo loro e
gli stronzi che li fanno salire sui barconi.
La ragazza di cui parliamo è morta a cento metri da qui, praticamente
dietro l’angolo.
I due dicono di non averla sentita cadere, anche se deve aver fatto un
tonfo bello forte. Sono come certi animali che vedono solo ciò che può
rivelarsi un pericolo, o una preda. Hanno notato i due uomini in corsa, e
l’auto, perché quelli potevano rappresentare una minaccia. Il tonfo della
ragazza no. Quello no. Forse dalle parti loro è normale buttare giù la gente
dal sesto piano, e i rumori come quello che ha fatto Krystyna Nowak
cadendo sono come il verso dei grilli o delle rane per noi. Krystyna Nowak,
trentun anni, bionda naturale, piccola, neanche un metro e settanta. Nata a
Cracovia e morta qui troppo giovane, troppo male.
«Urla, nemmeno quelle avete sentito?»
Scuotono la testa.
«Com’erano, questi due uomini che correvano?»
«Buio, vedi poco, non sa come sono fatti. Sono due, corrono veloce.»
«Alti, bassi?…»
I due si consultano nella loro lingua. Poi il più vecchio risponde: «Come
te.»
Quindi alti, mi segno mentalmente.
Sto per fare un’altra domanda quando avverto un rumore alle mie spalle.
Mi giro lento, ma solo di quarantacinque gradi, in modo da tenere
d’occhio di sguincio anche i miei due nuovi amici.
Sono in tre, i nuovi arrivati, anch’essi dalla pelle color cioccolato al latte,
armati di tubi metallici che impugnano come spade, ma con l’aria innocente,
come fosse una cosa normale. Sorridono, persino.
Sorrido anch’io, slacciandomi il trench in modo che vedano la fondina
sbottonata e la pistola che c’è infilata dentro, un’Olympic 38. È solo una
scacciacani, ma loro non lo possono sapere.
«Avete perso qualcosa, ragazzi?» faccio, tirando fuori l’arma, che fa
subito effetto, perché i tre scuotono la testa, abbassano le mani e si
allontanano camminando all’indietro, lo sguardo verso terra.
«Li avete chiamati voi» dico ai due bengalesi. Non lo sto chiedendo,
perché è evidente che è così. Non tentano neppure di negare.
«Li avete chiamati con un messaggino?»
«WhatsApp» rispondono, all’unisono. Non sembrano preoccupati. Anche
se ancora non lo sanno, perché non hanno accesso alle informazioni
dell’intelligence delle Zattere, tra due giorni il loro rifugio precario verrà
smantellato nel corso di un’operazione coordinata interforze, in un rapporto
di uno a dieci tra sgomberati e sgomberanti. Non so perché ma la cosa non
mi fa star male.
«Aspettate qualche altro amico?»
Scuotono la testa.
«Vi va di parlare in un posto dove non si gela?»
Annuiscono così in fretta che sembrano impegnati nel rush finale di una
sega.

Il locale è squallido ma caldo. Metà bar e metà edicola e tabaccheria,


vende quello che serve agli impiegati degli uffici qui intorno per uso
ricreativo, escluse le droghe, per le quali devi spostarti nei vicoli tra il Bronx
e il centro.
In questo momento è deserto, a parte un pensionato terrone che si è
sistemato davanti una pila di tutti i quotidiani locali normalmente lasciati
alla libera lettura dei clienti. Legge Il Gazzettino, tenendo una mano sugli
altri giornali in un gesto possessivo.
Il padrone fa una smorfia infastidita, vedendo i due seduti al tavolino con
me.
«Guardi che quel tavolo è occupato.»
«Non vedo nessun cartellino con la prenotazione.»
«Glielo dico io, che è come se ci fosse, okay? Potete sedervi fuori. Tutti i
tavolini esterni sono liberi.»
«Fuori però fa freddo.»
Il padrone alza le spalle, fissando un punto del muro che non ha niente di
speciale.
«Okay, andiamo» faccio ai miei nuovi amici, che dentro di me decido di
chiamare Bibì e Bibò.
I due mi guardano storto.
Ma come?, sembrano dire con gli occhi. Ci fai sedere al caldo e poi ci
lasci sbattere fuori da questo stronzo?
Esattamente, ragazzi. È proprio quello che sto facendo.
Nei miei cinquant’anni di vita nessuno, tranne che alla frontiera o in un
albergo, mi ha mai chiesto un documento d’identità. Non vorrei cominciare
adesso, soprattutto perché i documenti non li ho più. Attaccare briga con un
barista stronzo presenta troppi rischi, da questo punto di vista.
Un’autopattuglia ci mette cinque minuti ad arrivare, ora che il nuovo
ministro dell’Interno e i suoi discepoli locali hanno stabilito che è meglio
reprimere che prevenire.
Così ce ne usciamo buoni buoni, e il caldo viene fuori con noi ma ci lascia
subito, un folletto ridente che evapora nel cielo lasciandoci alle prese con i
suoi amici bulli, il Freddo e il Gelo.
Posare il culo sulla sedia metallica è già uno shock, e dalle loro facce vedo
che è lo stesso anche per Bibì e Bibò.
Trattenermi dallo spaccare il muso al barista quando esce e ci chiede
sorridendo cosa prendiamo è un’impresa da maestro zen.
I miei due nuovi amici si consultano con gli occhi, prima di dire
all’unisono: «Un tè caldo.»
«E per lei?»
«Un caffè.»
«Brioche? Cornetti? Niente?»
«Niente. Anzi, aspetta.»
Chiedo in inglese ai due bengalesi se vogliono mangiare qualcosa. Poi
riferisco al barista.
«Panini al prosciutto? Ma questi qua mangiano prosciutto?»
«Si vede di sì.»
L’uomo torna nel suo rifugio antistranieri brontolando qualcosa fra i denti.
Mentre aspettiamo che ci serva non apriamo bocca. Se lo facessimo,
aliteremmo vapore come tre draghi. Una cosa che questi mediorientali
conoscono abbastanza bene da poterla insegnare è la pazienza.
Il barista torna e piazza sul tavolino, con la delicatezza di una ruspa, il
vassoio con le nostre ordinazioni. Bibì scruta il suo panino come un falco,
mentre Bibò alza lo sguardo verso di me chiedendo il permesso.
Faccio un gesto magnanimo e i due cominciano a mangiare, in modo,
devo dire, molto composto e civile. La teiera in mezzo a loro emana vapore
come il calderone di una strega. Chissà cosa facevano per vivere, dalle loro
parti.
Potrei partire da lì. Perché no?
Bibò è un ingegnere idraulico, addirittura. Almeno così mi racconta.
Non sapevo che aveste l’acqua, dalle vostre parti, avrei detto un tempo,
giusto per rendermi simpatico.
Bibì è una specie di non meglio precisato “commerciante”.
«I’m in some business», per usare le sue esatte parole.
«Sicché non sapete descrivermi i due uomini.»
Bibì e Bibò praticamente si alternano nelle risposte.
«No.»
«Come te. Alti come te, ti ho già detto.»
«Bianchi?»
«Bianchi, sì.»
«E correvano.»
«Sì.»
«Fammi vedere come correvano.»
Bibò posa il resto del panino sul piattino sbreccato. Si alza e sorride, come
se stesse per fare qualcosa di molto divertente. Dopo uno scambio di sguardi
con il compare scende dal marciapiede e comincia a correre in maniera
buffa. Tiene le braccia distese lungo i fianchi, la testa buttata all’indietro. La
sua andatura ha qualcosa di animalesco. Di scimmiesco.
Bibò, che in realtà si chiama Naim, torna indietro come un cagnolino, solo
che invece di un legnetto o di una palla ha in bocca un sorriso di denti
bianchi. Tanti denti, all’apparenza perfetti. Alla faccia del Terzo mondo.
Bibì, il businessman, si alza a sua volta e mi fa un cenno che vuol dire:
ora ti faccio io l’altro.
L’uomo di cui imita la corsa deve avere qualche problema a un piede, o a
una gamba. La destra. La trascina, mentre tenta, immagino, di star dietro al
suo socio.
«Fatelo assieme» dico.
Non capiscono.
«Insieme. Correte insieme. Fatemi vedere come correvano insieme, quei
due.»
Bibì torna indietro.
Il barista esce a guardare i due stranieri matti che corrono per strada. O
forse vuole solo essere sicuro che anch’io non mi metta a correre prendendo
il volo senza pagare.
«Insieme» ripeto.
I due parlottano un attimo e poi ripartono allo stesso tempo, con l’aria di
pensare: facciamo quest’ultima cosa, per questo italiano matto, e poi
godiamoci il nostro tè.
Bibò presto distacca l’altro, che, per quanto si sforzi, facendo finta di
trascinare la gamba non riesce a stargli dietro. Corrono comunque a una
discreta velocità, e non ci mettono molto a sparire dietro l’angolo.
Tornano indietro camminando normalmente, per nulla affaticati dalla
corsa. Si siedono, afferrano i loro panini e ricominciano a masticare.
Io finisco il caffè ormai freddo. Tanto avrebbe fatto schifo comunque.
«Avete fame.»
«Sì, molta fame.»
«Sì» conferma Bibò.
«Non avete bisogno di dormire per strada.»
Mi guardano con diffidenza.
Alzo le mani. «No, no, no. Frenate la fantasia. Non siete il mio tipo. I
vostri culi sporchi non m’interessano. Dicevo solo che c’è un posto dove
potreste dormire al caldo e avere dei pasti regolari.»
«Noi non andiamo a caserma.»
«Non parlavo della caserma, ma di un altro posto. Mai sentito parlare
delle Zattere?»
Bibì, il commerciante, annuisce. «Facci altra domanda. Una sola. Dopo
dobbiamo andare» dice, in italiano.
«Cosa avrete mai da fare…»
«Io sono uomo molto impegnato. Businessman. Commercio è per chi si
alza presto al mattino e va a dormire tardi.»
«I commercianti che conosco io non dormono per strada.»
«Qui no. Ma questo posto non è tutto il mondo. Forse dovresti viaggiare.
Farti una cultura, amico.»
Una parte del mio cervello calcola quanto lontano volerebbero via i suoi
denti se li colpissi con un pugno. Un’altra parte, invece, conta fino a cento.
Anche se faccio il tifo per la prima, di solito è alla seconda che mi affido per
tenermi fuori dai guai.
«Un’ultima domanda. Mica facile. È una cosa tipo i tre desideri di
Aladino» faccio, massaggiandomi pensieroso il mento.
«Facciamo due, se ci paghi altro panino.»
La mia mano infilata nella tasca destra dei calzoni sfiora le tre banconote
e i pochi spiccioli che ho. Devo pensare anche a come ritornare alle Zattere.
«Una domanda mi basta. Che auto era, quella su cui sono scappati?»
Mi aspetto una descrizione sommaria, tipo grande, nera.
Invece Bibì sorride e fa: «Audi A4 allroad quattro, grigio lava
metallizzato. Motore già acceso. Uno uomo al volante.»
«Con le auto vai forte. Sei un dépliant vivente. Bravo. Dell’uomo al
volante cosa mi dici?»
«Questa è altra domanda. Noi ora andiamo.»
E si alza, imitato dal suo amico.
Sorrido.
Poi la mia mano scatta e afferra Bibì per il collo. Il ragazzo allarga le
braccia, mulinandole come se volesse spiccare il volo. Poi la sua testa si
abbatte sul piano metallico del tavolino.
Il barista fa capolino oltre l’ingresso del locale. Ma basta che io alzi
l’indice e gli faccia segno di rientrare e farsi i cazzi suoi, che lui rientra a
farsi i cazzi suoi.
Sono bravo, a farmi capire a gesti. Alle Zattere è indispensabile.
La guancia destra di Bibì è schiacciata contro il piano del tavolino. Un
rivolo di tè scivola dalla tazza rovesciata, scorrendo verso le sue labbra.
«Dell’uomo al volante cosa mi dici?» ripeto, calmo.
«On i’tto ’ene.»
«Pardon?» faccio, allentando la presa sul suo collo.
«No visto bene.»
«Uomo? Donna?»
Bibì sembra schifato da quella domanda evidentemente stupida.
«Uomo. Vestito di nero. Magro. Occhi come…»
«Come?…»
Bibì si tira giù la pelle delle palpebre.
L’autista aveva delle borse sotto gli occhi, interpreto.
«I capelli?»
«Come te. Corti.»
«Quando i due uomini sono arrivati all’auto, cos’è successo? No, non
occorre che mi fate ancora il teatrino.»
Bibì annuisce. Gli restituisco la libertà di muovere il collo.
«Autista dice qualcosa ai due uomini che arriva.»
«E cosa dice?»
«Io non capisco. Parla lingua strana. Come russo, ma diversa.»
«Fammi un po’ sentire.»
Il ragazzo pronuncia una frase svelta e incomprensibile, con accenti che
sembrano colpi di pistola, o tacchi sull’asfalto.
«Era così. Autista sembra arrabbiato con i due. Lui grida come ti ho
gridato io. Poi fa salire loro in auto e vanno via.»
«In che direzione?»
Il bengalese capisce.
«Di là» risponde, indicando il centro. «Possiamo andare, adesso?»
Mollo la presa. «Andate. Ah, un’ultima cosa: anche se potreste pensarla
diversamente, non siete al sicuro, qui al Bronx.»
«Loro non ci hanno visti.»
«Può darsi, ma io non ci conterei troppo. Da come me li avete descritti
sembrano dei perfezionisti.»
Bibì alza le spalle. Bibò lo imita.
«Tu ti chiami Naim» faccio a Bibò. «E tu, invece?»
Bibì alza di nuovo le spalle. «Io non mi chiamo. Mi chiamano gli altri.»
«E come ti chiamano?»
«Non lo so. Io quando chiamano non sento, sono già andato via.»
E ridendo sparisce dietro l’angolo.

Rimango seduto al tavolino. Aspetto che il barista metta fuori il muso per
ordinargli un altro caffè.
Intanto dentro di me canto Redemption Song di Bob Marley, nella
versione di Joe Strummer.
Old pirates, yes, they rob I
Sold I to the merchant ships
Minutes after they took I
From the bottomless pit

Lo stronzo si prende il suo tempo, ma alla fine arriva.


«Non stia fuori al freddo, su. Venga dentro.»
«Non dirmi che si è liberato un tavolino.»
«Basta storie, dai. Sa benissimo che non era per lei.»
Mi alzo.
Vorrei essere alto due metri, per sovrastarlo. Ma lui è più alto di me, anche
se solo di un paio di centimetri.
«Ho visto come l’ha trattato, quello là. Bene. Così si fa. Ti offro da bere.»
Siamo passati dal lei al tu in meno di un minuto. La cosa non mi fa per
niente piacere.
«Entro a bere un altro caffè, però lo pago.»

La macchina dell’espresso fa un sibilo serpentino. Un rivolo nero e denso


come petrolio borbotta e cola nella tazzina. Penso che l’anima del barista
non dev’essere tanto diversa. Ha stampato in faccia un sorriso che mi
disgusta.
Sorrido anch’io, accettando il suo caffè di merda.
Siamo soli, nel bar.
«Niente zucchero?»
«No.»
«Come gli uomini veri. Mi è piaciuto, quando gli hai sbattuto la faccia sul
tavolino.»
Lo guardo.
Mi guarda.
«Questa gente rovina il quartiere.»
«Il Bronx, vuoi dire?»
«Il Centro direzionale.»
«Ah, già. Vero. Nei progetti si chiamava così.»
Prima che il tempo ritrasformasse il principe in rospo.
«Non deve essere facile, convivere con quelli» butto lì, in tono poco
impegnativo.
«Con quelli lì? Facile? Ma hai sentito l’odore che c’è, giù nei parcheggi?
Il tanfo? Come in una discarica. Pisciano e cagano dappertutto. Buttano la
roba dove capita. E sono tutti maschi, hai visto? Anche se li capisco, visto le
donne di merda che si ritrovano. Devo ancora vederne una bella. Se le
becchi in giro è perché sono troppo vecchie o troppo incinte. Grasse, nane,
vestite come uovi di Pasqua, con quegli stracci colorati da quattro soldi.»
«Slavi se ne vedono, in giro?»
Di colpo, a quella domanda, il barista cambia espressione, come se gli
avessi infilato una palata di ghiaccio nelle mutande.
«Che slavi?» balbetta.
«Russi, tipo. Gente in completo nero elegante alle due di pomeriggio, ma
con le scarpe sbagliate. Auto di lusso, ma troppo di lusso. Mance esagerate,
facce alla Bruce Willis…»
«So mica, io. Se ci sono, non sono mai passati di qua. Mance esagerate,
qui, non ne ho mai viste. Se mai ho il problema contrario: di farmi pagare.»
«Quanto ti devo, a proposito?»
«Ma niente. Offre la ditta. Finalmente ho visto un poliziotto fare il suo
dovere.»
«Come lo sai, che sono un poliziotto?»
L’uomo alza le spalle. «Be’, ma queste cose si vedono, dai. Si capisce un
po’ da tutto. Perché, non dirmi che non sei un poliziotto?…»
Tiro fuori tutte le monete che ho in tasca e le poso sul bancone, senza
contarle.
«Poliziotto o non poliziotto, adesso facciamo una cosa. Facciamo che se
dovessi notare dei tipi slavi che girano qui attorno tu mi avvisi.»
«Ti avviso come?»
Apro la mano.
Lui capisce al volo, dev’essere una specie di genio mancato. Mi posa sulla
mano un blocchetto di Post-it e una penna della Reale Mutua.
Scarabocchio un numero di cellulare. Non è il mio, io non ho più un
telefono. È quello di Tommy.
«Lascia detto che hai un messaggio per me. Vengo io qui.»
«Va bene. Se si può collaborare con le autorità, lo faccio volentieri.» Poi,
dopo un attimo, mi fa, imbarazzato: «Ci guadagno qualcosa, se ti chiamo per
via dei russi?»
Lo guardo in faccia e sorrido.
Però è un sorriso di quelli che ti sogni la notte, e che speri di non vedere
mai su una faccia vera. Il trucco sta tutto negli occhi. Anche se ovviamente
non me li posso vedere, so che in questo momento sono freddi come lame
gelate.
Intasco la penna e mi alzo dallo sgabello.
«Ci guadagni la mia stima e la mia gratitudine.»
Poso l’indice sul Post-it e lo spingo lentamente verso di lui.
«La ragazza la conoscevi?» gli chiedo, gli occhi a trenta centimetri dai
suoi.
«Quale ragazza?»
«Quella morta. Quella che dicono si sia suicidata.»
Alza le spalle. «Può darsi. Non è che bado a tutti quelli che entrano nel
mio locale.»
Krystyna Nowak te la ricorderesti, stronzo.
«La ragazza non era di quelle che non si notano. Bella, giovane, di solito
vestita in modo elegante. Capelli biondi molto corti. Occhi verdi.»
So già che i quotidiani non le renderanno giustizia. Nessuna immagine
potrebbe mostrare quanto vivi fossero i suoi occhi, e come scintillavano,
diamanti grezzi, stelle intelligenti. Probabilmente useranno le foto
segnaletiche che le hanno scattato anni fa, al suo arrivo in città. C’ero, il
giorno in cui gliele hanno fatte. Ricordo le risate di scherno, l’aria pesante di
battute e sguardi maschili. E non solo maschili. Certe tele antiche che
mostrano la Passione di Cristo raffigurano volti e gesti che ho visto tante,
troppe volte in questura. Sguardi avidi di desiderio, mani rapaci, disprezzo…
Certi filosofi convinti che esista una cosa come il progresso dell’umanità
dovrebbero frequentare i commissariati di polizia. Ci troverebbero Barabba e
il centurione, uguali ai loro omologhi di duemila anni fa.
Anche se ero fatto fin qui di roba, riconobbi nell’arrivo in questura di
Krystyna il rivelarsi di una magia. Fu come se nel vociare di una folla si
fosse fatto di colpo silenzio. Come se una gran luce fosse entrata di forza in
una stanza buia. Tipo in un quadro del Caravaggio.
Era giovane, e sembrava ancora più giovane di quanto fosse in realtà.
Sedeva composta sulla panca accanto a un rudere umano, uno fermato alla
rotonda di Fiume Veneto alle due del mattino con più alcol che sangue nelle
vene mentre guidava contromano una vecchia Lancia Beta da rally.
L’uomo continuava a ricadere sulla spalla della ragazza. Un filo di bava
gli colava dall’angolo della bocca. Aveva lo sguardo impallato di uno zombi,
e puzzava di orina e merda.
Una mia sberla sull’orecchio convinse la sua testa ad appoggiarsi
definitivamente al muro anziché alla ragazza.
«Ciao» le feci.
Lei non rispose.
«Sei nuova. Non ti ho mai vista qui.»
Alzò le spalle.
«Da dove vieni?»
Krystyna mi guardò, per la prima volta.
«Cracovia» sussurrò.
A Cracovia c’ero stato con la scuola, da ragazzo. Visita ad Auschwitz, le
solite cose. Tre di noi persero la verginità con una professionista polacca,
durante quel viaggio, di cui mi rimase l’impressione di uno squallore
abissale. Avevo anche litigato con un guardiano, al campo, per via della mia
maglietta dei Metallica.
Molte puttane mentono, un po’ su tutto. Soprattutto sul posto da dove
vengono. Ma lei non mi diede l’idea che se la fosse inventata, Cracovia.
«Ci sono stato. Un bel po’ di anni fa.»
«Cosa mi faranno?»
«Cosa ti faranno? Dipende. È la prima volta che ti fermano?»
«Sì.»
«Allora ti faranno una foto. Anzi, più di una, di fronte e di profilo. Non
verranno benissimo, te lo dico subito. Poi ti prenderanno le generalità e le
impronte…»
«Generalità?…»
«Il nome, quando sei nata, dove vivi…»
«Tutto qui?»
«Sì. È tanto che fai la vita?»
«Che mi vendo, vuoi dire? No, non è tanto. E tu?»
«Io cosa?»
«È tanto che ti fai?»
Sul momento la prima reazione istintiva sarebbe stata quella di darle un
pugno. Non una sberla, che lascia tracce. Un pugno al plesso solare, quando
nessuno guarda.
Invece le risposi.
«Mia moglie mi ha lasciato.»
Lei continuò a guardarmi, con la faccia di una ragazzina che mastica un
chewing gum, anche se non lo stava facendo.
«Un anno e mezzo. Forse due.»
«Ci sei dentro, insomma. Forse dovresti fartela anche tu una foto, come
dite, davanti e di profilo?»
«Di fronte e di profilo.»
«Di fronte e di profilo. Forse dovrebbero fotografare anche te, non credi?»
Parlava con una cantilena deliziosa.

«L’avresti notata, se fosse stata qui» dico al barista.


Esco senza un saluto dal locale e sento che il freddo ha una qualità nuova.
È un freddo silenzioso, come in attesa di qualcosa. E poi il primo fiocco di
neve mi cade sulla guancia col fruscio di un sipario e si scioglie come una
lacrima. Il cielo sembra un’orchestra pronta a suonare una sinfonia. C’è
silenzio, ma è un silenzio gonfio d’attesa. Il Bronx, con i suoi palazzacci
grigi e marroni, sembra pregare perché la neve lo copra. Prima che sia
arrivato alla pensilina dell’autobus la neve cade di brutto, fiocchi bianchi che
si posano sul mio cappotto e ci restano, tentando inutilmente di trasformarmi
in una statua.
Dev’essere stato più di dieci anni fa che ho letto su un giornale la storia di
un ragazzino russo che viveva per strada ed era stato allevato dai cani. Vanja
Mishukov, si chiamava.
Ho una buona memoria per i nomi.
L’avevo.
In quell’articolo, una frase mi aveva colpito così tanto che l’avevo
imparata a memoria: «È diventato così strano il mondo, ed è difficile esser
certi di qualcosa, fra tante meraviglie.»
Così anche una nevicata può diventare una meraviglia, una cosa di un
momento che catturi con gli occhi e ti porti dentro, forse per tutta la vita.
Non passo per la strada dove hanno trovato il corpo. La neve ha già
formato un velo grigio sull’asfalto. Le prime tracce di ruote disegnano i
binari di tram che non ci sono, che portano verso posti che non esistono,
come per questa gente che mi cammina intorno non esiste il posto da cui
vengo e in cui adesso devo tornare. La fermata della linea rossa, per questi
babbani, è come il binario 9 e ¾ per Hogwarts.
Si vede ancora un sacco di pubblicità natalizia, per strada, manifesti di
biancheria intima e profumi con ragazze bellissime.
Ma nessuna di loro ha gli occhi di Krystyna Nowak.
6

Sull’autobus, calcolo in base all’esperienza, sì e no un sesto dei dodici


passeggeri avrà pagato il biglietto: la vecchia, che in sedia a rotelle sgrida la
badante, le strappa di mano i due biglietti e li timbra – anzi, li oblitera – lei,
con le dita che danzano il ballo della demenza senile e uno sguardo cattivo
da ufficiale nazista. Le altre anime perse, quasi tutte di colore, assumono
l’aria svagata, o, al contrario, troppo concentrata, che segnalano entrambe un
senso di colpa ben gestito. Io il biglietto ce l’ho. Sempre quello, da mesi. Lo
tengo in tasca, stretto tra l’indice e il medio, pronto a estrarlo e infilarlo nella
macchinetta all’arrivo di un controllore. Sinora, e ho fatto almeno trenta
viaggi, non ne ho mai visto uno. Il biglietto, a furia di tenerlo in mano, è
gualcito e in certi punti quasi trasparente, ma tecnicamente è ancora buono.
Solo che non lo oblitero mai.
James Bond girava in Aston Martin o su una Lotus Esprit anfibia, io
viaggio in autobus senza biglietto. Passeggerei, se potessi. Ma il mio piede
sinistro ha smesso di funzionare bene. Da quando mi sono svegliato alle
Zattere, nell’ospedale del dottor Chatterjee, ho un dolore terribile all’arco del
piede. Basta che lo poggi a terra e vedo le stelle. Cammino come uno zoppo.
Le ho provate tutte – pomate, solette, massaggi – ma non riesco a rimediare
al problema. Gunga Din dice che non ho niente. Che è tutto nella mia testa.
Che la zoppia è il modo in cui manifesto al mondo la mia difficoltà
nell’attraversarlo.
«Fa tutto parte del processo di guarigione.»
«Un giorno ti sarai tolto dalle spalle il peso che ti opprime e sarai di
nuovo libero di camminare normalmente.»
Tutto, a sentire lui, fa parte di una specie di terapia cosmica. Facendo del
bene al mondo lo faccio a me stesso, e viceversa. «Guarisci il mondo e
guarirai anche tu.»
Cazzate.
Per come la vedo io, la mia stessa esistenza genera il male, senza volerlo.
Le cose che mangio, l’acqua che bevo, le tolgo dalla bocca di uno che muore
di fame, o di sete, in qualche altra parte del mondo o magari anche solo
dietro l’angolo. Senza contare le creature che sacrifico per i miei pranzi e le
mie cene. Una volta ho visto su un giornale un disegno che mostrava la pila
di cibo che un europeo consuma nel corso di una vita. Era una piramide
enorme, tipo quella di Cheope. Raramente mi sono sentito male come
vedendo quel disegno.
E gli americani sono anche peggio.
Scendo alla fermata di fronte al parco Volta. L’edificio del museo d’arte
moderna assomiglia a una nave, la prua che emerge bianca tra gli alberi
scuri. Sembra disabitato da anni. Hanno cercato di riciclarlo in museo della
musica popolare, e poi del fumetto, ma non ha funzionato. Resta un bel
guscio vuoto, sempre meno bello col passare del tempo.
Le suole dei miei scarponi fanno un rumore sordo schiacciando neve e
ghiaia. Il vialetto che porta al museo è intonso. Anche i suoni sono come
cancellati dalla neve che adesso cade fitta come in un racconto di Dickens.
«Solo tu potevi darmi appuntamento qui» brontola una voce da dietro un
albero.
«Che ne sapevo che arrivava la neve?»
Lorenzo Vidal è infagottato in un Woolrich blu molto vissuto che gli
arriva ai piedi. Siede sulla panchina come un bambino abbandonato dai
genitori.
«Che ti sei fatto alla faccia? Ti sei pettinato con una falciatrice?»
«Dovresti vedere l’altro» rispondo.
«È vecchia, la battuta. Sul serio, che cazzo ti è successo?»
«È una storia lunga, e non la conosco nemmeno tutta. Lasciamo perdere.»
Il giornalista scuote la testa.
«Si gela qua fuori» brontola. «La prossima volta trova un posto migliore
per incontrarci.»
Alzo le spalle. «Mi aspettavo un’accoglienza più calorosa, dopo tutto
questo tempo.»
«Sbuchi fuori dopo un secolo e cosa ti aspetti? La fanfara della Brigata
Julia? E questo freddo, cazzo… Maledetto te…»
«Se vuoi possiamo entrare.»
«È chiuso, testa di cazzo. Da mesi. E comunque qui all’aperto è più
sicuro. Solo cerchiamo di fare alla svelta. Cosa ti serve?»
«Krystyna Nowak.»
Sussurro il nome a bassa voce, come una preghiera.
Scuote la testa. «Immaginavo che fosse per lei. Non ti sei fatto vivo per
mesi. Sparito dai radar. Pensavo fossi scappato all’estero. Se mi chiama, ho
pensato, dev’essere per un buon motivo. E Krystyna è la prima cosa che mi è
venuta in mente. Che vuoi che ti dica? Ne sai più tu di me. Eravate intimi,
stando a quanto si dice.»
«Storia passata. M’interessa com’è morta.»
Lorenzo si accende una sigaretta. Fuma delle cose pestilenziali che si fa
mandare dalla Bulgaria.
«Vuoi?»
«Non fumo più.»
«Non fumi… Scopare scopi ancora?»
Alzo di nuovo le spalle.
Dietro le lenti spesse degli occhiali da vista, lo sguardo di Lorenzo è
curioso, ma di una curiosità che nasce dall’affetto che prova nei miei
confronti. Se io avessi amici, lui sarebbe uno di loro. Forse l’unico.
«Anche questa è una lunga storia» faccio.
Allora lui annuisce, in fondo contento che l’argomento sia stato messo da
parte. E mi racconta quello che sa di Krystyna.
Certo, la polizia sarebbe una fonte d’informazioni migliore, ma a quella
fonte ho perso da tempo il diritto di abbeverarmi. Lorenzo, in un’epoca che
sta vedendo l’estinzione dei giornalisti veri, è uno dei pochi rimasti. Un
segugio della cronaca nera, che deve alle sue inchieste sulla casta politica
regionale sia la sua fama che la fine della carriera. Non so dove peschi le
informazioni, ma so che sono sempre accurate. Nei suoi articoli non c’è
spazio per sospetti o illazioni. Si potrebbe dire che valgono tanto oro quanto
pesano, se la carta da giornale non fosse così leggera.
«Ho l’impressione che il suo suicidio sia stato una messinscena» fa
sottovoce, come se avesse paura degli alberi. O di me.
Mi guarda con l’aria di aspettare un segnale.
«Ho anch’io lo stesso sospetto» sussurro.
«Non ho visto i risultati dell’autopsia, però conosco uno che è amico della
moglie dell’anatomopatologo. Anzi, non è la moglie, è l’amante, una storia
incredibile, pensa che ogni anno facevano le vacanze insieme…»
«Stai divagando.»
«Scusami. Volevo dire che i risultati li avrò tra qualche giorno, ma avevo
già raccolto qualche notizia in giro, e mi sono fatto un’idea.»
«Ti ascolto.»
«La ragazza era già morta quando è volata giù dal tetto del palazzo.»
«Sembri sicuro di questo.»
Lorenzo alza le spalle. «Esperienza. Quello che le carte non dicono.
Quello che manca, nelle carte.»
Annuisco.
«Qualche idea sul perché?»
Si gratta la testa. «Aveva mollato il giro. Non so se avesse un protettore,
ma lo do quasi per scontato. Sai come si dice: la verità è come una mela, non
cade mai troppo lontana dall’albero dei fatti.»
«Chi lo dice?»
«Io.»
«Magari dovresti limarla un po’.»
«Ho fatto anche un altro pensiero. Che forse aveva una relazione stabile, e
magari il tipo con cui l’aveva la trovava fastidiosa e ha deciso di
liberarsene.»
Lo fisso. «Se tu avessi l’esclusiva di Krystyna, penseresti mai di
liberartene?»
Lorenzo scuote la testa. Dopo aver tirato una lunga boccata lancia il
mozzicone fumante nella neve. «No.»
«E allora restiamo sull’ipotesi del protettore. Hai qualche idea, in
proposito?»
Il suo sguardo si perde nel vuoto, per un attimo. Poi torna a mettersi a
fuoco su di me.
«Ultimamente ci sono facce nuove, in giro. Brutta gente, dell’Est.»
«L’ho sentito dire.»
«Con tutti gli stranieri che arrivano in città, ultimamente, se cerchi
delinquenti hai solo l’imbarazzo della scelta. Che mafia vuoi? Cinese?
Nigeriana? Eccola, prendi.»
«Ti ho chiesto se hai un’idea tua, Lorenzo.»
Il giornalista si accende un’altra sigaretta.
«L’Albanese.»
«Quell’Albanese?»
«Ne conosci altri?»
«Non sapevo fosse nel giro della carne. Pensavo fosse storia antica.»
«Quello è nel giro di tutto. Puttane, politica, ammesso che ci sia
differenza. Droga, forniture per pizzerie e per cliniche private, fa lo stesso.
Champagne Mumm fatto a Napoli con le polverine. In poche parole,
qualsiasi roba che passi per un buco o per l’altro. Qualsiasi porcheria tu
possa immaginare, Lirosh c’è dentro. Fa il crawl in una piscina di merda, e
ne esce sempre immacolato. Chiediti perché.»
Il giornalista lancia lontano il secondo mozzicone. Lo lancia in direzione
del laghetto, dove due anatre mezze coperte di neve tengono la testa sotto
l’ala.
Fa una cosa a metà tra un sorriso e una smorfia.
«Perché ha fatto tanti favori. Perché continua a farne. Perché è
l’equivalente di un principe medievale, nel mondo storto in cui viviamo.
Protegge artisti, sostiene cooperative di recupero dei tossici, finanzia
alberghi per i senzatetto. Con una mano prende e con l’altra dà. Ma quello
che dà è una percentuale minima di quello che prende. È come un cancro,
per questa città. Ma è un cancro che si è infilato nei centri del piacere. Il
cervello muore ma è felice, la morte lo stimola. E messo dov’è, al punto cui
è arrivato, quel tumore non è più operabile. Fa ormai parte di questa città.»
Mi siedo accanto a lui. Il legno della panchina è freddo e umido.
La neve ora cade soffice, silenziosa, con un’ostinazione che mi fa
incazzare. La ghiaia sotto la panchina, al riparo del cedro secolare, è un’isola
sporca, grigia e nera. Presto la neve la coprirà. Quando ci alzeremo da qui
stringerà d’assedio quell’isola sporca e la coprirà, centimetro dopo
centimetro, partendo dall’esterno, finché il bianco non dominerà tutto.
«Non sto dicendo che l’abbia uccisa l’Albanese. Solo che per una puttana,
in questa città, è impossibile uscire dal giro e mettersi in proprio senza
l’avallo di quell’uomo. E allora forse quello che ha ucciso Krystyna è uno a
cui l’Albanese stava sul culo. Uno che ha voluto fargli un dispetto,
mandargli un messaggio. Conosci la storia di Bruno Schulz? Era uno
scrittore ebreo. Uno bravo. Dopo l’occupazione della Galizia un ufficiale
delle SS lo prese sotto la sua protezione. Ma non gli servì a molto. Nel 1942
uno della Gestapo lo uccise per strada come un cane. Pare che il padrone di
Schulz gli avesse ucciso il suo ebreo. “Tu hai fatto fuori il mio ebreo, e io ho
fatto fuori il tuo” disse l’uomo della Gestapo. Può darsi che per Krystyna sia
stata la stessa cosa. Uno che pensava di aver subito un torto dall’Albanese
gli ha fatto avere un messaggio. Solo che invece di una lettera ha usato il
corpo di una ragazza polacca.»
Poi abbassa gli occhi e sussurra qualcosa.
Gli dico che non ho sentito.
«Ho detto che ci sono stato a letto.»
Lo guardo a lungo, incerto se credere a quello che ha appena detto. Non
mi è mai sembrato uno troppo interessato alle donne. Poi mi torna in mente,
come un rigurgito acido, una cosa che mi diceva sempre Carla, la mia ex
moglie, quando la conversazione riguardava qualche tradimento o tresca, o
comunque storie di cazzo e figa: «Sai, Sergio, la città è piccola. Prima o poi,
almeno in certi giri, tutti finiscono a letto con tutti.»
Sorrido. «Non è da te.»
«No, è vero. Non sono tipo da puttane. E all’epoca lei non lo era. Ti parlo
di quando era appena arrivata in città, e lavorava al Bar Linus. In pausa
pranzo andavo con dei colleghi a mangiare un tramezzino lì, perché erano
buoni. Poi un giorno è arrivata lei. Dovevi vederla. Erano in due, entrambe
dell’Est, vestite uguali, jeans attillati e camicette stile cameriere di Happy
Days. Anche l’altra ragazza era bella, ma Krystyna le dava dieci a zero. Era
di un altro mondo, giocava in un’altra categoria. Insomma, non te la faccio
lunga con la storia, ma ho cominciato a corteggiarla.»
«Che anno era?»
«2007? No, 2008. L’anno in cui il mondo ha cominciato ad andare in
malora. L’anno di Viva la vida. Andavo lì tre, quattro volte al giorno. Le
chiedevo di lei, del posto da cui veniva. Ma lei niente. Chiusa come
un’ostrica. Avevo raccolto delle informazioni, sapevo che aveva avuto storie
con alcuni uomini da quando era arrivata in città, ma nessuna relazione
stabile.»
«Tu invece eri sposato.»
«Sì. Ma credimi, anche se fossi stato un eunuco l’avrei voluta lo stesso per
me. Mia moglie, le mie figlie, semplicemente non esistevano, in quei
momenti, quando ero con lei. Anche in mezzo alla folla del bar, in certe ore,
c’era solo lei, per me. Sai cosa scrive Marguerite Yourcenar in quel libro,
Memorie di Adriano? Ero una moneta coniata da lei, da Krystyna.»
«E lei?»
Lorenzo sbuffa. Guarda la neve, poi non guarda più nulla. Qualcosa
luccica in un angolo del suo occhio.
«Non penso si sia mai innamorata di me. Le poche volte che siamo stati a
letto assieme, penso sia stato solo un modo per ricambiare le mie patetiche
attenzioni. Il suo corpo era l’unica cosa che poteva darmi. Io almeno la vedo
così. Ma chi può dire di sapere davvero cosa pensa una donna?»
A giudicare dalle foto che avevo visto a casa sua, Krystyna a vent’anni
non era più bella della donna che avevo conosciuto. Anzi, per certi aspetti la
sua bellezza era ancora grezza, immatura. Ma questo non m’impedisce di
provare una punta di gelosia, pensando che Lorenzo l’ha avuta quando lei
era ancora così giovane. Dei nostri furiosi accoppiamenti ho un ricordo
annebbiato dalla droga e dall’alcol. I suoi ricordi, invece, devono essere puri.
I miei sono come quest’isola sporca di terra su cui stiamo, mentre il bianco
della neve ci assedia, ed è lo stesso bianco dell’amore che sento nella voce
del giornalista, un bianco che copre le brutture, che nasconde ogni cosa tu
non voglia vedere.
Quando alza la testa e mi guarda ha gli occhi gonfi di lacrime che non
vogliono uscire.
Ma riesce lo stesso a fingere un sorriso.
«Non porti più il tuo anello?» mi fa.
«No.»
«Bene. Ti stava malissimo. Secondo me, un uomo che gira con una
patacca del genere al dito ha dei seri problemi.»
«È solo che sono dimagrito. Cadeva.»

In realtà non è quello il motivo.


Quando Chatterjee mi ha salvato dalle acque del Lete, mi ha chiesto cosa
significasse per me l’anello che avevo all’indice della mano destra. Quello
che rappresenta uno stemma diviso a metà: da una parte l’aquila
germanica, dall’altra i gigli di Francia.
«È uno stemma militare.»
«L’avevo immaginato. Di che reparto?»
«Trentatreesima Waffen-Grenadier-Division der SS “Charlemagne”.»
«Mi sembra troppo giovane per aver fatto il militare in quel reparto.»
«Non era un reparto. Era una divisione. Volontari francesi. Gli ultimi
difensori di Berlino.»
«Capisco. E cosa rappresenta, per lei, quell’anello?»
Ci avevo pensato meno di un attimo prima di rispondere: «Fedeltà.»
«Fedeltà… Capisco… Ma erano nazisti. Anche lei è un nazista, signor
Stokar? Perché in tal caso avrebbe anche il monogramma perfetto per le sue
camicie…»

La neve adesso è quasi un muro compatto. Il museo è sparito, come se non


ci fosse mai stato. Il fruscio che fa la neve cadendo è strano, è un rumore ma
al tempo stesso non lo è, è come una gomma che cancella i suoni. E adesso
fa freddo per davvero. La temperatura è calata di almeno cinque gradi da
quando sono entrato nel parco.
«Ti ricordi quando mi hai chiesto della fine del mondo? Eri ubriaco sfatto,
e io più di te. Mi hai chiesto se pensavo che stesse arrivando la fine del
mondo.»
Alzo le spalle. «Se ne dicono, di cose idiote. Anche senza essere fatti.»
«No, ma lascia stare. Quella cosa che hai detto era forte. Quella domanda
mi ha lavorato dentro. Ogni volta che mi capitava di vedere qualcosa di
proprio brutto, o di davvero idiota, mi dicevo: ecco, forse adesso Sergio
direbbe che sta arrivando la fine del mondo.»
«Robe brutte e stronzate non mancano.»
«Sai quando l’ho pensato davvero? Quando i giornali hanno intervistato
Desmond Morris su quella canzone scema che ha vinto Sanremo, qualche
anno fa. Occidentali’s Karma, non so se hai presente.»
«No.»
«Meglio per te. È stato il tormentone di quell’estate. Non potevi andare da
nessuna parte senza sentirla. Piaceva persino a quella stronza di mia moglie,
cazzo.»
«Era così brutta?»
«Ma che c’entra? Non so se hai capito: sono andati a rompere i coglioni a
Desmond Morris, per quella canzone. Desmond Morris. Dico, ma per i versi
di Battiato chi dovevano intervistare? Dio?»
«Dio è meno di Battiato. Per Battiato, almeno.»
«Dio Cristo, Sergio, ma ti rendi conto? Ti ricordi quando Guccini cantava
“se le canzonette me le recensisse Roland Barthes”?»
«Mai piaciuto Guccini.»
«Ovvio. Tu eri sull’altra sponda. Ascolti ancora i Rammstein?»
«No.»
«Ti ricordi il concerto a Verona? È lì che ci siamo conosciuti.»
Sorrido anch’io. «Ti è andata di culo che c’ero.»
Lorenzo era andato al concerto vestito come si vestiva di solito: giacca
tattica verde oliva, cargo pants mimetici, scarponi antinfortunistica e una
maglietta rossa con la faccia del Che. Gli stavano bene, anche perché
all’epoca era molto più magro, ma non era esattamente l’abbigliamento
giusto per un concerto dei Rammstein. L’avevo adocchiato subito dalla mia
postazione accanto al palco. A quei tempi facevo servizio d’ordine
volontario ai concerti italiani del gruppo. Un po’ per tirar su qualche extra, e
non mi riferisco solo ai soldi, ma soprattutto per andare a quei concerti gratis
e per essere al centro dell’azione, casomai dovesse capitare. E quella notte il
centro dell’azione fu Lorenzo. Till Lindemann aveva appena intonato Pussy
e il pubblico si era scatenato più degli orchi a un comizio di Saruman,
quando avevo colto il movimento anomalo ai margini della folla accalcata
sotto il palco. Mi ero lanciato giù, infilandomi i guanti da lavoro e
raggiungendo con quattro falcate alla Asafa Powell il branco di imbecilli che
stava prendendo a calci e cazzotti il mio amico, anche se allora non lo
conoscevo, e soprattutto non sapevo che era un giornalista, altrimenti me la
sarei presa calma prima di salvarlo con la tecnica che poi lui definì «uragano
Stokar», vale a dire una serie di colpi e mosse sleali, condite con ogni
possibile astuzia utile a coniugare il massimo risultato con il minimo rischio.
Erano quei momenti, altro che i soldi e i fringe benefits, a motivarmi. I
momenti in cui potevi addomesticare a calci e pugni stronzi di ogni etnia e
provenienza. Mi dava particolare soddisfazione pestare i tedeschi, ma anche
quei testa di cazzo che si erano coraggiosamente messi in cinque contro uno
andavano bene. Eccome. Furono due minuti di puro piacere. Alla fine,
mentre i cinque idioti andavano a cercare un pronto soccorso o la mamma, io
avevo tirato su da terra gli occhiali e li avevo allungati al trentenne sfigato
con Che Guevara sul petto.
«Tutto bene?» gli avevo chiesto, urlandogli nell’orecchio per sovrastare la
musica e il casino.
«Tutto bene? No, cazzo, no che non va tutto bene. Hai visto cosa mi
hanno fatto?»
«È passato. Torna a goderti la musica, compagno. Hasta la vista!»
Mi sono voltato per andarmene.
È stato allora che Lorenzo ha gridato: «Ehi, io ti conosco!»
E mi ha messo una mano sulla spalla.
Una cosa non si deve mai fare, quando mi volto. Mai mettermi una mano
sulla schiena. Verboten toccarmi. Un secondo e la mano dello sfigato era
stretta nel mio pugno, pronta a fare la fine di un’oliva nel frantoio.
«Sei matto? Lasciala! Mi fai male!»
«Goditi la musica» gli ho detto. E lui, invece di obbedire al mio trucco
mentale Jedi, ha continuato come se niente fosse. «Sei un poliziotto. Ti ho
visto alla conferenza stampa del questore, un mese fa, quando avete preso
quei due spacciatori.»
Ho scosso la testa. «Goditi la musica» ho ripetuto per la terza volta, come
ogni brava formula magica. «E vedi di buttare quella maglietta del cazzo.»
«Quando torniamo a casa voglio offrirti da bere» ha detto lui, puntandomi
l’indice contro il petto e ricominciando a pogare. I suoi amici (begli
amici…) che si erano dileguati all’arrivo dei cattivi avevano fatto cerchio di
nuovo intorno a lui e saltavano su e giù come tanti guerrieri Masai, o
canguri, o vili creature aliene scese dal pianeta Sballo.
Me ne andai via con la faccia disgustata.
Senza immaginare che Lorenzo Vidal potesse mai entrare a far parte,
anche di striscio, della mia vita.

«Allora come te la passi, herr Hauptmann Stokar?»


Mi scuoto di dosso i ricordi. Lo guardo.
«Considerato che ho perso il lavoro, che hanno appena ucciso una mia
vecchia amica, vecchia si fa per dire, e considerato che sono stato cacciato di
casa dall’ultima donna che mi sopportava, direi che non c’è male.»
«Qualche speranza di riallacciare il rapporto?»
«Visto che mi ha preso a bottigliate in faccia, e che è stato un sacco di
tempo fa, francamente non credo.»
«Cosa fai per vivere?»
«Top secret.»
«Dove vivi, almeno questo puoi dirmelo?»
«Top secret.»
«Sembri in forma, però.»
Alzo le spalle. «Mi tengo in esercizio. E, come ti ho già detto, non bevo e
non fumo più. Ho cambiato stile di vita, come dicono i dottori. Straight
edge, tipo.»
«Beato te.»
Beato un cazzo, dovrei rispondergli. Ma resto zitto.
Vidal sospira.
«Io sto per separarmi. Ecco, l’ho detto. Non l’ho ancora detto a nessuno, e
adesso lo dico a te.»
«Che c’è di strano?»
«Di strano c’è che non ti vedo da un secolo, tanto che mi ero fatto l’idea
che fossi morto o andato a fare il pizzaiolo alle Canarie, e poi sul cellulare
appare un numero che non ho in rubrica, rispondo, un tizio che dalla voce
sembra un nero mi fa “aspetti in linea”, e poi la tua voce arriva
dall’oltretomba e mi invita qui, per questo incontro del cazzo.»
«O dalle Canarie.»
«Come dici?»
«La mia voce. Poteva arrivare dall’oltretomba, ma poteva anche arrivare
dalle Canarie.»
Lorenzo mi squadra con un’espressione indecifrabile. Poi scuote la testa.
«Certo che sei strano.»
Sorrido e mi alzo. «Strano è la parola giusta. A volte mi faccio paura da
solo. Allora, mi fai sapere qualcosa, quando hai i risultati dell’autopsia?»
«Certo.»
Allungo la mano. La stretta di Lorenzo è leggera, quasi femminile. Il suo
Woolrich lungo fino ai piedi accentua l’impressione. Non ho mai sopportato
la pelliccia, in un cappotto da uomo. Secondo me chi indossa senza
vergognarsi un capo del genere ha dei seri problemi. Altro che un anello
d’onore delle SS.
«Auguri per la tua separazione» faccio, infilzandolo al cuore.
«Ti sembra una cosa da dire?»
«Non mi viene in mente altro.»
«Magari potevi dire: auguri per il tuo rapporto.»
«Nah. Quando una cosa si rompe, si rompe. Io la vedo così.»
«Chi è il nero che mi ha passato la telefonata? Quello che mi ha
chiamato?»
«Cazzo ti frega?»
«Da quando in qua frequenti gente di colore?»
«Da quando il mondo si è capovolto.»
Sorride, imbarazzato per il prolungarsi della mia stretta di mano.
«Da tanto, allora.»
«Da pochissimo, in realtà. Di’, le bambine a chi restano? A mammina?»
«Sei proprio un bastardo.»
«Lo so. Allora aspetto una telefonata, okay?»
«Okay, stronzo di un fascista.»
Gli lascio libera la mano.
Mi giro e me ne vado, cercando di capire dove sia il sentiero, sotto quel
manto bianco.
Ma è ancora abbastanza facile capirlo.
Presto non sarà più così.
7

La neve è una cosa strana.


In fondo non è che acqua.
Eppure ha una sua magia.
Le auto che passano per strada quasi non fanno rumore. I palazzi più alti
sono invisibili. I lampioni si sono accesi, aumentando la confusione:
dovrebbe essere solo mattina, ma sembra sera. Come se la neve si fosse
mangiata il tempo, digerendolo e trasformandolo in silenzio.
Cammino spedito, grazie alle suole in vibram che lasciano sul bianco
impronte profonde quanto effimere. Percorro una strada verso il centro ma è
come se mi addentrassi in un territorio sconosciuto, presumibilmente ostile.
Non ho fretta di tornare alle Zattere. Ho troppe cose che mi lavorano in
mente. Camminare mi aiuta a pensare. E poi è piacevole, quasi bello,
muoversi come se avessi addosso il mantello dell’invisibilità. Un tempo, in
un’altra era, nella magica Milano da bere, e poi nella Roma dei potenti, al
seguito del mio Magistrato Onesto diventato Onorevole, ero un cavaliere
senza macchia e senza paura. Mi piaceva, mostrarmi agli altri. Fresco di
studi, pulito e scintillante come un vetro appena uscito dalla fornace. Pieno
di idee su come andava il mondo e su come avrebbe dovuto andare.
Soprattutto su come avrebbe dovuto andare. Io e le mie grandi utopie.
Tutti mi adoravano.
Tutti non aspettavano altro che vedermi cadere.
Perché in fondo è questo che ci spinge a guardare chi sta in alto:
aspettiamo che prima o poi la forza di gravità, o l’avidità, o semplicemente il
tempo, li facciano cadere dal piedistallo, rigettandoli giù fra gli umani, dove
la colpa è la regola e le aureole autentiche sono estremamente rare, mentre
pullulano le loro imitazioni di latta o cartone dorato.
Quando successe il fattaccio con la Presidente, e prima ancora quello con
la Scimmia, non trovai uno che fosse uno disposto a difendermi. Nemmeno
uno. E la caduta fu dura. Oh, se fu dura. Perché non caddi da un’altezza
relativamente bassa: caddi giù proprio dall’alto dei cieli, come Lucifero.
Persi il lavoro, ovvio. Dai sindacati non ci andai. Se siamo nella merda fin
qui è anche per colpa loro. Rimasi a casa a bere, a farmi, a rimuginare
possibili vendette, neanche fossi il fottuto Conte di Montecristo. Il Tfr si
sciolse come neve al sole. Un mucchio di neve scintillante, che mi sparavo
nel cervello condividendola come un signore rinascimentale, con una
generosità senza limiti. Un giorno che stavo a rota alzai la voce con mia
moglie, e poi le misi le mani addosso. Insomma, per dirla con le parole del
suo avvocato, ho firmato coi calci e i pugni la mia sentenza di divorzio con
addebito di colpa. Lui ovviamente, da quello stronzo che era, la portò in
tribunale con le ecchimosi evidenziate dal trucco e il collare, e a quel punto,
signori della giuria, chi di voi, sia pur colmo di umana bontà, chi di voi
avrebbe preso le parti del maschio dallo sguardo allucinato e la cravatta
storta che tirava su col naso una pista invisibile? Seduto sulla panca scomoda
accanto al mio difensore d’ufficio semiadolescente sapevo di non avere
speranze di fronte al diluvio oratorio dell’avvocato Sebastiano Corona,
principe del foro con tre Ferrari in garage che difendeva la Vergine Maria
Reincarnata, vittima di un maschio brutale e fascista. La giudice che
pronunciò la sentenza di divorzio non faceva niente per nascondere che
avrebbe preferito leggere la mia condanna a morte. Il disprezzo colava dal
frantoio delle parole, attraverso la macina degli articoli del codice civile che
dichiaravano che otto anni di matrimonio non contavano più un cazzo, come
se non ci fossero mai stati. Tana, liberi tutti.
E dopo il divorzio il processo per aggressione. Gli avvoltoi della stampa ci
andarono a nozze, prima di cercarsi un’altra carogna da spolpare.
Mi lasciò povero in canna, la stronza. Anche se non è giusto chiamarla
così. Lei fece quello che sentiva di dover fare, punto e basta. Non ce l’ho con
lei. I primi tempi, quando ancora avevo un’auto, per quanto scassata, le due
o tre volte che incrociai la mia ex, o magari anche solo credetti di averla
incrociata, ammetto che la tentazione di metterla sotto fu forte, soprattutto
quando la vidi rifiorire, darsi al jogging e al teatro, frequentare di nuovo le
sue amiche e anche qualche amico, con uno dei quali, neanche due anni
dopo, andò a convivere more uxorio.
Indovinate chi era.
Esatto. Il suo avvocato. Il ferrarista e principe del foro Sebastiano Corona.
Ma ha ragione chi dice che il tempo guarisce tutto.
Il tempo, o una bottigliata in testa, come quella con cui Dolores siglò la
nostra definitiva separazione.
Dolores, la piccola colombiana bruna con gli occhi da cerbiatta, è stata
l’ultima delle relazioni semistabili (intendendo con questo i rapporti in cui
riconoscevo la mia partner, al mattino, e ci andavo a letto per almeno una
settimana) con cui mi sono bevuto gli ultimi… fammi un po’ contare, gli
ultimi tre o quattro anni.
Quante volte ho desiderato essere morto, da quando Carla, la mia prima e
unica moglie, mi ha lasciato? Praticamente ogni giorno. Ma più ancora
vorrei non essere mai nato. C’è stato un terrorista, diverso tempo fa, il figlio
di un politico democristiano. Aveva fatto parte di un gruppo di fuoco delle
Brigate Rosse. Si era fatto i suoi anni di galera, senza sconti. Poi era uscito,
faceva volontariato. Era morto in autostrada, travolto da un’auto mentre
cercava di prestare soccorso alle vittime di un incidente. Le parole che un
suo amico lesse al funerale, dicendo che il defunto le avrebbe sentite come
sue, erano state più o meno queste: «Signore, che io sia liberato
dall’angoscia, sia cancellato dalla faccia della terra e giudicato da te.
Piuttosto che vivere ed essere calunniato è meglio raggiungere la tua
volontà.»
Quante volte, anche se in forma diversa, mi sono detto anch’io le stesse
cose. Se la vita è un piano inclinato, sul quale la tua caduta si fa sempre più
veloce, dev’esserci un momento in cui invece di continuare a rotolare puoi
fare uno sforzo e spostarti di lato per cadere dal bordo, giù nell’abisso che
cancella ogni colpa.
A un certo punto, complice la neve che m’illudo mi nasconda, passo
davanti a casa mia. A quella che un tempo era casa mia, nostra, insomma,
quello che era. Okay, più sua che mia già quella volta, dato che il mutuo lo
pagava lei.
Sta in un vicolo proprio a ridosso del corso, in pieno centro storico. È una
strada in salita, che un tempo dai moli sul fiume portava alla piazza del
castello. I moli non ci sono più da un secolo e mezzo, e il castello è diventato
un carcere, ma la strada c’è ancora, e c’è ancora anche questo casermone del
Cinquecento restaurato e diviso in appartamenti. Casa nostra era al terzo
piano. C’è una luce accesa, nella penombra di questo mattino di neve. Brilla
alla piccola finestra di quello che teoricamente era il mio studio, anche se
alla fine Carla, visto che non l’utilizzavo, aveva finito per usarlo come locale
di disbrigo.
Guardo la doppia fila di nomi sul citofono, ed eccolo lì, il suo da nubile.
C’è un altro cognome scritto sopra a penna, a caratteri eleganti.
CORONA.
Di colpo il sangue mi va alla testa. Non avrei dovuto passare di qua, ma
l’ho fatto, anche se non so il perché. Può essere stata la morte di Krystyna,
ma forse lei non c’entra, e il dolore che mi riporta qui come l’ago di una
bussola è un altro, più profondo e più acuto.
Appoggio una mano sopra la pulsantiera. Con l’altra mi sbottono la patta e
tiro fuori il cazzo.
Piscio a lungo sui gradini e sul portoncino verde blindato, prima di
disegnarvi sopra una firma ignobile. Le ultime gocce sembrano monetine
d’oro sparse sulla neve.
Sto ravanando per rinfoderare l’arma del delitto, quando il portone si
spalanca e mi ritrovo davanti, appoggiata a un deambulatore, la vecchia
Rondolini, la mia professoressa di greco del ginnasio. È diventata così
piccola che i suoi occhi mi arrivano all’altezza della pancia, o quasi. E infatti
è lì che guarda, prima di alzare i cannoni laser all’altezza della mia brutta
faccia.
«Stokar Sergio» scandisce, con la voce di quando faceva l’appello prima
di un’interrogazione. «Pezzo di merda culorotto infame, che cazzo stai
facendo, madonna mia inculata figlia di una troia?»
Quella sfilza di insulti viene pronunciata con un tono triste, quasi
remissivo.
«Mi scusi, professoressa. Mi scappava.»
«Ma guarda che cazzo di disastro stramaledetto hai combinato, poverino,
fascista di merda pompinaro. Ora chi cazzo pulisce questa merda?»
Da quando è stata colpita da un ictus, la Rondolini parla così.
Sindrome di Tourette, si chiama. La coprolalia, come si definisce
tecnicamente l’infilare una parola sconcia ogni due, è solo uno dei suoi
aspetti più evidenti.
Devi tradurre quello che dice come se fosse un’altra lingua.
E quindi:
Stokar, che cosa stai facendo?
Guarda che disastro hai combinato, poverino.
E adesso chi pulisce?
La coprolalia non è la cosa più tragica. Sono i tic. In questo momento il
viso rinsecchito della mia vecchia insegnante è attraversato da una serie di
movimenti autonomi contrastanti, come se i muscoli della sua faccia
avessero proclamato la rivoluzione ma non si fossero ancora accordati su
quali azioni intraprendere. L’occhio sinistro si apre e si chiude di continuo,
le labbra tremano a ritmo di qualche musica che sente solo lei.
«Pulisco io, professoressa. Non si preoccupi.»
«Chi cazzo si preoccupa» taglia corto lei, chinandosi a tirar su da terra tre
sacchetti di plastica. Uno azzurro, uno giallo, uno nero.
La raccolta differenziata era solo uno dei motivi di attrito fra me e mia
moglie, ma non un motivo da poco.
«Un uomo d’ordine dovrebbe apprezzarla» era la sua prima bordata di
routine. «Invece guarda come butti la roba. Questa cos’è?»
«Carta.»
«Carta e basta?»
«Ma che ne so? Ma sì. Carta e basta.»
«E invece non è solo carta. È sporca di pesce. Vedi? Quindi dove va?»
«Ma che cazzo ne so?»
«Con tutte le volte che te l’ho spiegato, ancora non sai qual è il sacchetto
della carta sporca?»
«Può darsi.»
E infatti ancora non lo so. Con tutte le sue magagne, invece, la Rondolini
evidentemente è in grado di fare la differenziata. Forse. Nei tre sacchetti, in
realtà, potrebbe esserci di tutto.
«Lasci che l’aiuti, professoressa» mi offro, allungando la mano verso il
sacchetto che mi pare più pesante.
Lei me lo tira via dalla mano. Gentilmente ma con fermezza.
«Grazie ma faccio io, cazzo. Non sono mica una stronza handicappata.»
Reggendo fiera i suoi sacchetti nella sinistra come tre teste di nemici,
muove il deambulatore in avanti e scende la rampa per disabili contro la cui
installazione mi ero battuto per tre o quattro assemblee condominiali, con
tale veemenza alcolica da suscitare un commento mordace
dell’amministratore.
«Mi scusi, dottor Stokar, ma non è che lei per caso è uno di quelli che
voterebbero per la reintroduzione della rupe Tarpea? Pensi se fosse capitata
a uno dei suoi familiari, una disgrazia così.»
Stronzo di merda, avrebbe chiosato la mia vecchia insegnante.
La guardo zampettare verso i bidoni piazzati all’angolo. La neve le fruscia
addosso, posandosi sul cappotto nero e sul foulard sbiadito di Hermès che i
suoi colleghi le hanno regalato quando è andata in pensione, secoli fa.
«Sei stato tu» mi gela una voce di donna.
Mi volto.
«Ciao, Carla.»
«Non negare. Hai ancora la bottega aperta.»
Tiro su la zip.
Una cosa per volta.
«Quando ho sentito la tua voce non ci credevo. Hai un bel coraggio.»
«Dopo pulisco.»
«Con le mani, immagino. Stronzo di merda.»
«Cos’è che siete, una specie di club?»
«Cosa vuoi dire?»
Gli occhi di Carla cambiano colore. A volte sono verdi come smeraldi,
come i prati d’Irlanda del nostro viaggio di nozze. Altre volte, come adesso,
assumono il colore grigio di un’arma.
«Niente. Mi dai qualcosa per pulire?»
«Usa le mani. Fallo subito, o chiamo i tuoi ex colleghi. Saranno contenti
di occuparsi di te.»
Mi chino. Prima su un ginocchio. Poi su due, come un penitente di fronte
alla statua di una santa armata di spada.
Mi tolgo i guanti per non rovinarli più di quanto non siano già. Con le
mani faccio una specie di palla di neve giallastra. E poi un’altra.
«Pulisci bene.»
Passo la mano di taglio sui due scalini e sulla rampa, come la lama di uno
spazzaneve.
«Anche la porta.»
Mi frugo in tasca. Trovo il solito viluppo di fazzoletti di carta in vari stadi
di decomposizione. Ne ricavo un tampone sfilacciato, che uso per pulire alla
buona il portone. Mi vengono in mente le foto degli ebrei che pulivano le
strade dopo la Kristallnacht. Solo che i ruoli sono invertiti. Adesso è il nazi
che pulisce. Ma è sempre il nazi che ha fatto il danno, quindi aspetta, i ruoli
non sono invertiti: si sono semplicemente confusi.
«Pulisci meglio. Lì nell’angolo.»
Sento la faccia che si scalda. Sto arrossendo. Tengo la testa china in modo
che Carla non se ne accorga. Lei non parla. Non mi chiede, per dire, dove
abito adesso, o cosa faccio per vivere.
«Seba mi aveva avvertito che era meglio far disporre un divieto di
avvicinamento. Ma pensavo che avresti avuto da solo il buonsenso di non
venire più qui.»
«Scusa.»
«La prossima volta che ti vedo ti rovino, è chiaro?»
«L’hai già fatto.»
«No, Sergio. No. L’hai fatto tu, tanto tempo fa. Ma stavolta ti rovino sul
serio. Più di quanto ti sei rovinato la faccia. E non voglio sapere come hai
fatto, a ridurtela così.»
Mi rialzo a fatica. Il ginocchio destro mi fa un male cane. Per tirarmi del
tutto in piedi devo appoggiarmi allo stipite della porta. Carla fissa disgustata
la mia mano.
«Dopo pulisco anche lì» faccio, evitando il suo sguardo.
«Lascia stare. Basta che te ne vai.»
«Ci metto un attimo.»
Lei rimane lì, a bloccare l’ingresso. Le braccia incrociate sul maglioncino
in cachemire.
«Vattene e basta.»
Giro sui tacchi.
La Rondolini, in piedi accanto ai cassonetti, mi fissa come se cercasse di
ricordarsi chi sono.
Poi alza un braccio, puntandomi l’indice contro.
La sua bocca si apre come un antro oscuro, rigurgitando un fiotto di
sillabe incomprensibili.
«Πειθουσών µεν τών Σειρήνων καταµενειν, ό δέ ήξίου λύεσθαι οί δέ
εταίροι εκείνον µάλλον έδέσµευον, και οΰτω παρέπλεον.»
«Mi dispiace» faccio, allargando le braccia. «L’ho dimenticato il greco.»
A braccia aperte, come i cristiani dipinti sui muri delle catacombe, mi
allontano a ritroso, sfuggendo alla Rondolini e alla mia ex moglie come
Ulisse sfuggì a Scilla e Cariddi. Presto i muri sghembi del vicolo
nascondono ai miei occhi il portone, e poi la casa dove non sono mai stato
felice. La voce che recita parole in una lingua morta continua invece a
seguirmi, fino a diventare quella di un fantasma attraverso la neve che cade
copiosa e lenta dal cielo.
8

Gli ultimi due chilometri fino alle Zattere li percorro a piedi, con gli
scarponi cinesi che affondano nella neve fresca e quando si sollevano fanno
un rumore di risucchio. Nessun autobus o altro mezzo pubblico arriva fin
qui, a questi scuri promontori di cemento il cui profilo s’intravede attraverso
la neve. È quasi mezzogiorno, ma potrebbe essere l’imbrunire, e questo
posto la Transilvania di Dracula o la location di un film di Tim Burton. Gli
alberi sembrano morti, nere matite su un foglio bianco. Fa freddo. Ho le dita
dei piedi congelate. E ho fame.
Ogni passo è una fatica. Gli edifici non sembrano avvicinarsi di un
millimetro, come se arretrassero davanti a me. Per non pensare alla mia ex
moglie, per non pensare a niente, conto da uno a mille e ricomincio da capo.
Le cifre si ripetono, una serie infinita, e ogni due numeri affondo un altro
passo nella neve.
Nei miei ricordi spezzati, un puzzle ricomposto a caso da un bambino, a
parte quelli del divorzio non ho ricordi brutti di Carla. È come se si fossero
cancellati, lasciando solo i bei momenti. E ce ne sono stati. I viaggi, i
progetti, le lunghe passeggiate in cui potevo sfogare l’anima, sapendo che
avrei sempre trovato un sorriso, un bacio, un abbraccio per farmi far pace col
mondo.
Fu tutto unico, e meraviglioso.
«Ma solo per i primi cinque minuti», come mi rinfacciò lei, al culmine di
un litigio ai confini del codice penale.
Per me sicuramente durò di più.
Ma non molto di più. Non è che io e Carla fossimo incompatibili. Ero io, a
esserlo. Con chiunque. Quando il suo perito di parte mi definì «un
sociopatico con tendenze autodistruttive», dentro di me non potei fare a
meno di concordare con la sua diagnosi. Anche se in quel momento le mie
tendenze distruttive erano più rivolte all’esterno.
Le Zattere sembrano sempre più lontane.
La neve è così pulita.
Da bambino ho fatto due anni delle medie in Italia, perché mio padre, be’,
mio padre era temporaneamente ospite nelle carceri di sua graziosa maestà
britannica, e mamma altrettanto temporaneamente aveva dovuto tornare in
Italia, impossibilitata a pagare da sola l’affitto dell’ultimo dei tanti tuguri in
cui ero cresciuto. Nel paesino friulano in cui eravamo finiti viaggiando col
Tardis del Dottor Who, quando uscivo da scuola e mamma non poteva
venire a prendermi, perché aveva un altro dei suoi inconcludenti colloqui di
lavoro, l’aspettavo parcheggiato a casa di una coppia di parenti di mio padre
– quale fosse il grado di parentela non sono mai riuscito a capirlo –, due
tartarughe rugose che odoravano di naftalina e caramelle alla menta. Lui
sembrava Franklin Delano Roosevelt, lei la nonna del canarino Titti. Erano
molto buoni con me. Avevano perso l’unico figlio in guerra, nella campagna
di Russia. C’erano sue foto in bianco e nero praticamente in ogni angolo
della casa: con la divisa da balilla, da giovane universitario fascista e infine
con quella da tenente degli alpini.
Un pomeriggio buio, in cui fuori montavano le nuvole di un temporale
estivo, stavo guardando una di quelle foto sul comò del soggiorno, quando
una voce di vecchio mi aveva fatto sobbalzare.
«Era bello, vero, il nostro Giovanìn?»
Barba Jacu, zio Giacomo, era quasi invisibile sullo sfondo della poltrona
imbottita. Era come se da quella poltrona spuntassero una faccia e quattro
arti esili, pallidi.
«Camminavano da sette giorni nella neve alta. I cosacchi a cavallo
attaccavano la colonna. Uccidevano chi restava indietro…»
Nella foto, il ragazzo portava un paio di baffetti alla Amedeo Nazzari, e
indossava una divisa mimetica. Alle sue spalle, una capanna di legno col
tetto carico di neve e tre alberi stenti.
«Giovanìn si ammalò di tifo. Un suo compagno di università lo
sorreggeva per aiutarlo a muoversi. Ogni volta che un camion di tedeschi
faceva spostare dalla strada i nostri soldati, l’amico di mio figlio implorava
che prendessero a bordo Giovanìn. Ma quelli li canzonavano, quando non li
minacciavano con i fucili… E intanto il peso di mio figlio li faceva restare
sempre più indietro, finché non si trovarono in fondo alla colonna.»
Fuori dalla finestra, oltre le tendine ricamate, il cielo stava assumendo un
colore denso, di un blu scuro come inchiostro. Le foglie degli alberi
tremavano, mutando da verdi in bianco-argentee come squame di pesci.
«Venne a trovarci, poco dopo la guerra, l’amico di mio figlio. Poi è
diventato un avvocato famoso, a Padova. Ma in quell’anno era solo un
reduce, magro da far paura e ancora spaventato. Si vergognava di quello
che era venuto a riferirci. Si vedeva che dircelo gli dava una gran pena.
S’inginocchiò proprio qui, davanti a questa poltrona, dove allora stava
seduta mia moglie, si inginocchiò e cominciò a raccontare a occhi chiusi.
Disse che Giovanìn stava morendo, e in uno dei sempre più rari momenti di
lucidità gli aveva ordinato, come suo superiore, di lasciarlo lì. “I russi
arriveranno presto” aveva detto. “Mi cureranno. Tu salvati. Torna a casa e
di’ ai miei che mi aspettino. Che tornerò. Di’ a mamma e papà che voglio
loro tanto bene, e che in un modo o nell’altro ci ritroveremo.”»
Zio Giacomo era rimasto in silenzio. Il vento faceva sbattere a ritmo
un’imposta, da qualche parte ai piani più alti. Si sentì mia zia che si alzava
per chiuderla. La luce nella stanza era calata, come se il pomeriggio avesse
deciso di diventare di colpo notte.
«Dicono che morire assiderati sia un’esperienza dolce, quasi bella. Che il
corpo si rilassa, non senti più dolore…»
Sarà.
A me sembra invece di bruciare, sulla faccia e sulle orecchie, e anche ai
piedi. L’acqua è filtrata attraverso i simil-Timberland cinesi, inzuppando i
calzettoni. Ogni passo è una fatica immane.
I miei prozii, o quello che erano, barba Jacu e agna Mitilde, sono morti
da tanti anni. Un giorno ero tornato da quelle parti per cambiare le M+S
dell’auto, da un gommista che faceva prezzi scontati. Mentre aspettavo che
mi montassero gli pneumatici nuovi mi ero accorto che l’autofficina era
proprio attaccata alla casa in cui era cresciuto il povero Giovanìn. Feci il giro
della costruzione, almeno fin dove si poteva. Le finestre del pianoterra erano
state murate. Alcune di quelle ai piani superiori avevano le imposte
scardinate. Mi stupì quanto fosse piccola, la casa che ricordavo grande come
un palazzo. Attraverso uno squarcio nel telo che copriva i cancelli vidi la
vecchia pompa a mano, un tempo verde e ora arrugginita, e il folto di rovi
che soffocava la piccola vigna del barba e i tre alberi di cachi.
Quomodo sedet sola civitas, pensai quel giorno, e quelle parole antiche
imparate a memoria mi tornano in mente anche adesso, mentre finalmente le
Zattere sembrano essersi decise a muoversi e venirmi incontro, per
strapparmi all’abbraccio confortante e assassino della neve.

Nell’atrio in penombra, un ragazzino nero si stacca dal muro come un


poster strappato dal vento e vola verso di me, reggendo fra le dita un
foglietto di carta che m’infila in mano, prima di volar via di nuovo.
Leggo il biglietto. Ci sono scritti solo un’ora e un posto.
Il posto è qui. L’atrio del Paris. Fra meno di mezz’ora.
Appallottolo il biglietto e lo spingo in fondo alla tasca.

Prima di presentarmi a far rapporto al Consiglio mi lascio guidare


dall’aroma verso la caffetteria. Al pianoterra, ogni edificio abitato delle
Zattere ha una struttura diversa. Il complesso principale, che gli indigeni
hanno ribattezzato Paris, ospita l’amministrazione e i servizi condivisi, come
la mensa e l’ospedale. London, quello in cui vivo, è il palazzo più fittamente
abitato, e il pianoterra è occupato da negozi e piccoli laboratori artigianali. Il
terzo edificio, che chiamano Jerusalem, non è abitato, ed è destinato a quelle
che il Consiglio chiama Esigenze Ulteriori. Qualunque cosa voglia dire. Non
ci sono mai andato, e non conosco nessuno che l’abbia fatto.
Come del resto non ho mai incontrato qualcuno che venisse da lì.
Il Caffè Impero, un nome presumibilmente ironico, è gestito da una
coppia di maschi somali di età indefinita. Non so dove abbiano recuperato
l’arredamento scombinato del locale, ma la macchina da caffè è una
vecchissima e aristocratica Faema Ariete capace di autentici miracoli con
l’infinita varietà di chicchi tostati che i proprietari si procurano in modi su
cui sarebbe scortese far troppe domande. In questo momento, stando a quello
che mi viene detto, il caffè che servono viene dalla Giamaica.
«Ti preparo un Blue Mountain?» fa Abdu, sorridendo con la bocca
sdentata.
«Addirittura. Un Blue Mountain? Ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai
assaggiato. Quanto costa, una tazzina?»
Alza le spalle. «Prima bevilo, poi fai tu.»
Sento il freddo di fuori nei piedi e nelle gambe, ma soprattutto nello
stomaco. Mi arrendo. Faccio segno di sì con la testa.
La macchina cromata fischia e sbuffa, e all’istante quello stanzone spoglio
s’illumina di un aroma celestiale.
Abdu posa la tazzina sul piattino scompagnato e allunga il tutto verso di
me sul piano del bancone.
Rimane a studiarmi mentre sorseggio religiosamente il caffè migliore che
abbia mai bevuto.
«Allora?» fa, quando appoggio la tazzina.
«Buono.»
«Solo buono?»
«Il caffè più buono che abbia mai bevuto. Sai come si dice? Il caffè, per
essere buono, dev’essere nero come la notte, dolce come l’amore e caldo
come l’inferno. Quanto ti devo?»
«La prima tazzina è gratis.»
«Come la prima dose di eroina. Ottima strategia di marketing. Bravo.
Allora fammene un’altra.»
Abdu ridacchia, mettendo in macchina un altro caffè.
«Sei stato fuori al freddo?» mi chiede, dandomi le spalle.
«A quanto pare.»
«Dicono che sarà il febbraio più freddo dal 1901.»
«Chissà se è vero» commento, annusando la tazzina che ho davanti. La
stessa di prima, perché al Caffè Impero non si sprecano l’acqua e il detersivo
per niente.
«Per ora sembra di sì. Guarda quanta neve.»
Fuori dalla finestra pare scorra un fiume verticale. Un fiume bianco, che
scivola giù lento. Non è neanche mezzogiorno e le luci sono già accese.
«Non ha nevicato per tutto l’inverno, e adesso guarda lì» brontolo, come
se commentassi un brutto risultato sportivo.
Abdu fissa la finestra con aria trasognata.
«Vent’anni che sono in questo paese e ancora non mi sono abituato alla
neve.»
«Quanto ti devo?»
«Dieci euro.»
«Stai scherzando?»
«Sì! Dammi un euro, valà.»
Conto sei monetine e le appoggio sul bancone. In mezzo ci sono filamenti
e briciole dei fazzoletti di carta a cui erano mischiate.
«Quando si dice argent de poche…» commenta una voce allegra alle mie
spalle.
Mi volto, sforzandomi di farlo lentamente.
Gli occhi di Elena sono grigi come le nuvole, grigi come il ferro. Come il
mare d’inverno. Le labbra piene sorridono.
Indossa un parka militare imbottito, e ai piedi ha un paio di anfibi da
combattimento. La kefiah attorno al collo accentua l’impressione che sia
reduce da un corteo di Black Bloc.
«Tempo da lupi. Ho dovuto parcheggiare in tanta malora e arrivare qui a
piedi» sbuffa.
«Non ti aspetterai che mandino gli spazzaneve fino alle Zattere, bella
signorina» fa Abdu.
«Se è per questo, non li hanno nemmeno fatti uscire. La città è un casino.
E sì che le previsioni l’avevano detto. Non hanno neanche buttato il sale.
Hanno spazzato giusto in centro, forse un raggio di cento metri dal Minigolf
del Diavolo. Mi sa che non riesco a tornare a casa, stanotte. Mi ospiti tu?»
Arrossisco.
«Scherzavo, dai» fa lei.
Non si dovrebbe arrossire, alla mia età.
Ma con lei mi succede.
La prima e ultima volta che siamo finiti a letto assieme, noi due, è stato tre
mesi fa.
Ma, come tutte le cose che riguardano Elena, non è andata come si
potrebbe pensare.

Era la fine d’ottobre. Forse inizio novembre.


C’eravamo incontrati alla mensa, in fila con in mano i vassoi per la cena.
«Giornata dura, sceriffo?»
«Il solito» avevo risposto, buttando un occhio alle pentole fumanti e alle
ciotole dei contorni. «Una rissa ai piani alti, più un nuovo arrivato che ha
dato di matto con un machete al mercato. E tu?»
Elena aveva sbuffato.
Un ciuffo di capelli biondi le si spostava da davanti al naso e per un
attimo mi era sembrato che lo facesse al ralenti, come nella vecchia
pubblicità di uno shampoo.
«Un casino. Hanno cambiato ancora i regolamenti per ottenere il visto.
Ho dovuto rifare le domande per dieci richiedenti. A volte mi sembra di
dover svuotare l’oceano con un secchio.»
«Che oceano?»
Mi aveva guardato socchiudendo gli occhi. «Ha importanza?»
«Probabilmente no. In fondo tutti gli oceani sono un oceano solo. Però
pensaci bene. Se uno dice che deve svuotare l’oceano Pacifico fa più
impressione che se dicesse, per dire, l’oceano Indiano.»
Aveva scosso la testa. «Me l’avevano detto che eri matto.»
«Per uno tornato dal regno dei morti non sono neanche messo troppo
male.»
«Anche questo mi avevano detto. Della tua storia. Quello che se ne sa,
almeno. Che non è molto. Davvero non ti ricordi niente?»
Avevo alzato le spalle.
Lei mi aveva sorriso.
«Ti hanno mai detto che quando sorridi è come se accendessi una luce da
mille watt?» le avevo detto, incapace di fermare la lingua.
«Qualche volta. Tu cosa prendi?»
Avevo allungato il collo. «Verdura cotta. Un frutto. Le banane non
sembrano male.»
«Allora prendo anch’io lo stesso. Posso chiederti una cosa?»
«Dimmi.»
«Possiamo andare a mangiare su da te?»

Immagino che avrei dovuto dirle che la mia stanza era in disordine, che
era bruciata, invasa dalle termiti, dagli alieni, distrutta da un tornado.
Che non avevo una stanza mia.
Invece come un idiota grugnii un «sì». Dalla prima volta che ci eravamo
presentati avevamo cenato assieme tre o quattro volte, tutto qui. Grazie alla
cura di Gunga Din, comunque, non potevo puntare più in alto. O più in
basso. Ciò nonostante non potevo impedirmi di provare per lei la stessa
attrazione provata da una falena per la fiamma di una candela.

«È un po’ in disordine» mi ero scusato, pateticamente.


«Dovresti vedere la mia.»
«Come vedi non ho nemmeno un tavolo.»
«Per terra va benissimo.»
Ci eravamo seduti sul tappeto afghano.
L’aveva fatto con un movimento fluido ed elegante, che parlava di corsi di
danza, o di ginnastica ritmica, una di quelle cose che trasformano qualsiasi
movimento di una bella ragazza di buona famiglia in un passo di danza.
«Vino ne hai?»
«Non bevo.»
«Uno straight edge. Che culo che ho.»
Le posate sul vassoio erano spaiate, di forme e materiali diversi. Una
volta la lotteria delle posate mi aveva fatto finire sul piatto una forchetta del
ristorante della Camera.
«Ho capito…»
«Capito cosa?» le avevo chiesto, in tono seccato.
«Ti sei convertito…»
«Ho solo cambiato stile di vita. Il mio medico di prima me lo diceva
sempre, che dovevo farlo. Diciamo che ho colto l’occasione.»
«Acqua ne hai?»
Avevo aperto il frigo portatile. Dentro c’erano tre bottiglie di plastica che
praticamente lo riempivano. Non erano fresche. Il frigo, d’inverno, mi
serviva da armadio.
Elena si era versata da bere. Sotto il maglione, la scollatura della
camicetta etnica rivelava l’attaccatura dei seni, liberi da costrizioni.
«Conoscevo una ragazza, una volta, che aveva una camicia come la tua.»
«Ti piace? Ho visto che la guardavi. L’ho comprata in Ungheria. Mi passi
il sale?»
Avevamo masticato per un po’ in silenzio. Un grande silenzio. Il rumore
che in quel silenzio da chiesa faceva il cibo sotto i nostri denti a un certo
punto ci aveva fatto ridere.
«Non è che hai della musica?»
Avevo indicato il tablet sulla pila di libri.
«Ti facevo più audiofilo. Si dice così, no? Ho sentito che tu e Tommy siete
appassionati di lirica.»
«L’appassionato è lui. Io mi limito a imparare.»
Lo schermo del tablet cinese si era illuminato.
Lei aveva riso. «Mi Pad» aveva letto. «Cioè tipo l’imitazione di un iPad?»
«È la stessa fabbrica che produce gli schermi per la Apple» avevo
risposto, continuando a masticare. Anche una cosa apparentemente semplice
come una foglia d’insalata, se masticata con attenzione, rivela sapori
notevoli.
«Chiede la password. Com’è?»
Lì per lì non avevo risposto.
Mi aveva guardato. «E dai. Non voglio mica rubarti niente. Non sono
un’hacker.»
«Faccio io.»
Sulle labbra le era apparso un sorriso da gatta. Aveva allontanato il
tablet dalla mia portata.
«Fammi indovinare, dai. Lasciami provare.»
«Non ci riuscirai mai.»
«Scommetti che ce la faccio, invece?»

Rimasi a osservarla, mentre faceva i suoi tentativi. Ogni tanto mi


guardava, come se cercasse di leggere nei miei occhi un indizio.
Ci provò per un buon quarto d’ora, dimenticandosi di mangiare. Poi
rinunciò.

«Mi arrendo. Allora, qual è?»


Le avevo sfilato dalle mani il mio tablet. Anche se mio forse non è la
parola giusta. L’avevo trovato nella mia stanza alla clinica di Chatterjee,
quando mi ero svegliato dal coma, ma non me lo ricordavo. Mi era
completamente estraneo. Eppure mi ricordavo la password per entrare,
come mi fece notare Gunga Din, che quel giorno prese un sacco di appunti
sul suo taccuinetto rilegato in pelle.
Tenendolo inclinato in modo che lei non potesse sbirciare, avevo digitato
sulla tastiera virtuale la password e le avevo ridato l’apparecchio.
«Hai la memoria quasi piena. Ah ah. Sei uno scaricone.»
«In che senso?»
«Scarichi un sacco di roba. Come un ragazzino.»
Il wi-fi delle Zattere era stato messo in piedi da un ingegnere russo.
Ufficialmente non esisteva, dall’esterno era invisibile come un camaleonte
ninja. Eppure tutti ci si collegavano. Aveva una velocità assurda e sembrava
non ci fossero limiti alla quantità di dati che potevi scaricare. Il nome della
rete cambiava continuamente, ma c’era un programma, sempre russo, che
reimpostava i dati per la connessione in modo che chi la usava neanche se
ne accorgeva.
«Cos’è questa cartella? Fa’ un po’ vedere…»
«La musica è nella sottocartella MUSICA.»
«Ma pensa un po’. Però, chissà perché, mi sembra più interessante
questa.»
La cartella si era aperta, mostrando una serie di file video dai nomi
incasinati. L’unica costante erano le parole ANAL, SEX, TEEN.
Lei aveva selezionato un file, aveva premuto PLAY. Poi si era stesa di
pancia sul tappeto, appoggiando il tablet al muro.
Le immagini erano partite. Tra tutti i video della cartella, mi era andata
bene. Era partita la sigla, Nubile Films, e poi il titolo, Bathe in My Love,
con due giovani attrici in una vasca da bagno. Elena sembrava concentrata.
Lo schermo tra di noi era diventato il centro del mondo, guardavamo solo
quello, gemiti e ansiti sembravano gridare nel silenzio contratto della
stanza. Avevo percepito il suo imbarazzo da come deglutiva, quando la
tenerezza aveva lasciato il posto al sesso e lingue e mani si erano fatte
frenetiche. Poi spostando lo sguardo dal tablet alla ragazza mi ero reso
conto che agli ansimi della coppia filmata si erano aggiunti i suoi. La mano
destra della ragazza si muoveva sotto il suo bacino, che s’inarcava sempre
di più, un movimento sensuale, serpentino. Ero rimasto a bocca aperta, il
respiro mozzato. Non sapevo dove guardare. Mi era sembrato che la
temperatura della stanza si fosse alzata di venti gradi. Alla fine il corpo di
Elena, dopo un ultimo, lunghissimo fremito che l’aveva sferzata, si era
abbattuto sul tappeto.
Quando aveva rialzato la faccia, il viso era tutto arrossato, gli occhi
lustri. Mi aveva guardato con un’aria di sfida.
«Ho avuto una giornata di merda. Dovevo allentare un po’ la tensione.
Puoi farlo anche tu, se ti va.»
«No.»
«Non dirmi che all’università non l’hai mai fatto, masturbarti insieme ai
tuoi compagni di stanza.»
«Non ho fatto l’università.»
«Non c’è niente di male. Non è una cosa impegnativa come fare sesso. È
solo una questione di educazione, quando lo spazio è quello che è.»
Elena si era rovesciata sul dorso. I jeans erano sbottonati, gli slip
abbassati. Slip neri, con l’orlo di pizzo, così in contrasto col suo modo
sgraziato di vestirsi. Il triangolo di peluria bionda faceva capolino oltre
quell’orlo. Con un gesto di elegante noncuranza si era tirata su la zip dei
pantaloni.
Poi aveva raccolto il tablet.
«Non ne hai abbastanza?» le avevo chiesto.
«Questo sembra interessante. Young Russian Teen Hardly Fucked In The
Ass. Wow.»

Le immagini sullo schermo non avevano niente in comune con quelle di


prima. Niente titoli, niente raffinatezze. La stanza del film era squallida e
spoglia come la tecnica di ripresa.
Le inquadrature erano maldestre, evidentemente amatoriali. Una ragazza
molto giovane e piuttosto bella, forse a malapena diciottenne, sorrideva alla
macchina da presa, nuda tranne che per i reggicalze bianchi. Poi un
energumeno dai capelli rasati e dal torso nudo coperto di tatuaggi entrò in
scena ghignando. Prese la ragazza per il collo e tenendola così la mise giù
carponi, sopra un tappeto logoro. Poi si tolse calzoni e mutande, liberando
un cazzo enorme, che si muoveva in primo piano come se fosse un animale
selvatico.
L’uomo, magro ma molto muscoloso, si appoggiò di peso alla schiena
della ragazza infilandole dentro il cazzo e cominciando a cavalcarla; non
c’era altro modo per definire la cosa. Si muoveva pesante e veloce,
penetrandola a fondo, incurante delle grida di dolore che la ragazza
cominciò a emettere quando l’uomo prese a spingere troppo.
La pelle della ragazza era molto chiara, quasi bianca. Le sberle che
l’uomo le dava lasciavano i segni rossi della mano sul suo culo.
La macchina da presa sembrava seguire la coppia come s’inseguirebbe un
animale nel sottobosco, a volte con effetti disastrosi. Non c’era la minima
attenzione all’estetica. Ciò che veniva mostrato sullo schermo era un atto di
violenza, che raggiunse il suo culmine quando l’uomo, gridando alla
telecamera e poi alla ragazza delle parole in russo, le infilò il pollice
nell’ano, muovendolo in tondo per dilatarne l’apertura. Le sberle sul sedere
si susseguivano sempre più rapide e violente, senza che ce ne fosse alcun
bisogno, perché ora l’ano della ragazza era dilatato, aperto per quasi due
centimetri.
L’uomo tatuato raccolse in bocca la saliva e sputò, per lubrificare il buco.
Poi si buttò giù di peso, schiacciando la ragazza sul tappeto. Per almeno un
minuto, grazie all’incompetenza del regista, si videro solo i due corpi
muoversi sfocati, due amebe pallide, quello dell’uomo sopra, rimesso a
fuoco, che si muoveva avanti e indietro come se stesse facendo ginnastica.
Di tanto in tanto la ragazza inarcava la schiena. L’uomo la tirò su in
ginocchio, e allora si vide il cazzo entrare e uscire con colpi brutali dal culo
della sua vittima, perché non c’era altro modo di definirla: non era certo un
atto d’amore e forse nemmeno di sesso, quello che avveniva sotto gli occhi
sbarrati di Elena e miei. Era un atto di forza bruta, di sottomissione
animale, che si concluse con il maschio che uscì dalla ragazza e la tirò su di
peso, per infilarle il cazzo in bocca.
Incredibilmente, la ragazza cominciò a leccarlo, a succhiarlo, quel cazzo
appena uscito dal suo sedere. I colpi dell’uccello le battevano in fondo alla
gola, facendole male. Quando l’uomo finalmente le uscì dalla bocca e
venne, i fiotti di sperma sembrarono frustare il viso della giovane.
Il film finiva con un primo piano dei globuli biancastri appiccicati a una
guancia come diafane zecche. Un primo piano così mal girato che la scena
divenne di un rosa uniforme, prima d’interrompersi di colpo.

La stanza a quel punto sembrava diversa.


Prima di tutto c’era questo grande silenzio. Come se il mondo fuori da
qui non esistesse più.
E poi gli occhi di Elena. Aveva pianto. Stava piangendo ancora, ma
guardandola bene vidi che gli occhi brillavano di una luce eccitata.
Accorgendosi che la stavo guardando li aveva chiusi, e il suo viso bellissimo
era ritornato a farsi tutto innocenza, tanto che mi ero dato del coglione per
averle lasciato guardare quelle cose.
La testa di Elena si muoveva, gli occhi chiusi. Le sue labbra, a sorpresa,
si erano offerte verso l’alto come un fiore aperto. L’avevo baciata. Le avevo
accarezzato il viso, che quasi scottava. Posandole le mani sulle spalle avevo
sentito che il suo corpo tremava.
«Non farmi niente» aveva sussurrato, con nella voce una dolcezza che mi
eccitò oltre ogni immaginazione. «Non farmi niente. Non dire niente.
Abbracciami e basta. Tienimi stretta.»

Ero io ad abbracciarla, o era lei? Mie erano le braccia che la stringevano,


ma suo il desiderio che in qualche modo abbracciava il mio abbraccio.

«Non fare nulla» mi sussurrò all’orecchio, la voce dolce come una piuma.
«So che non puoi fare nulla, ma io sì» sospirò, accarezzandomi il collo, le
spalle, e poi scendendo più giù, infilando la mano sotto la mia cintura e
accarezzandomi il pene inerte, piccolo come quello di un bambino.
«Sai che sei proprio un ragazzo fortunato» sussurrò la sua voce, prima
che cominciasse a leccare, e poi a mordicchiarmi, il lobo dell’orecchio, e
poi più giù.
9

Uscendo con Elena dal Caffè Impero, ricambio col medio alzato il
sorrisetto furbo di Abdu.
«Pranziamo assieme?» sorride anche la ragazza. Non le è sfuggito il mio
gesto.
Scuoto la testa. «Ho da fare.»
«Rapporto ai capi, immagino.»
«Rapporto ai capi» annuisco, commentando con una smorfia il suo tono
canzonatorio.
«Che poi, chi saranno mai, questi capi…» cantilena lei.
«È un bel mistero, eh?» sorrido.
«Tranne che per te. Almeno a quanto si dice.»
Quanti anni ha, questa ragazza? Quanto giovane è?
Magari gliel’ho anche chiesto.
Magari me l’ha anche detto.
La mia memoria a breve termine è un groviera.
Quella a lungo termine un hard disk fulminato.
«Allora ci vediamo» faccio, poco convinto.
«Ci vediamo, sceriffo» fa lei, imitando la mia voce. Alzandosi in punta di
piedi mi stampa un bacio sulla guancia. Poi si allontana col suo passo da
ragazzina, per niente sexy eppure dolorosamente bello.

Essere un uomo a metà, con desideri ancora intatti ma il corpo incapace di


soddisfarli, ha i suoi vantaggi. Rende la mia relazione con Elena più
semplice, ad esempio. Tecnicamente io e lei non siamo amanti, e, a ben
vedere, nemmeno amici. Non siamo niente di agevolmente classificabile.
Non siamo innamorati. Non scopiamo. Non viviamo assieme. C’incontriamo
di tanto in tanto, parliamo, anche se mai del nostro passato, o di quello che
facciamo fuori di qui. Siamo due estranei che decisamente si piacciono, e
che si incontrano negli interstizi della vita, come dentro a un muro che
sembra solido e impenetrabile e invece ospita tante forme minuscole di vita.
E di amore, a quanto pare.
La guardo con una nostalgia vecchia di un attimo ma profonda. Se l’avessi
conosciuta quand’ero ancora a man in full, e lei mi avesse dato spago, cosa
tutt’altro che scontata, l’avrei usata come usavo tutte, per poi liberarmene
prima che la cosa diventasse troppo impegnativa. Ero un predatore sessuale,
credo che il termine sia questo. Così mi definì la Presidente, chiedendo la
mia testa. Non che ci avessi mai provato, con quella. La santità non mi
attizza, e tantomeno l’ipocrisia. Però va detto che ci aveva visto giusto.
Predatore sessuale.
Suona bene.
Quando guardi un vecchio, uno di quelli che nella bella stagione si
sfaldano sulle panchine o ciondolano attorno ai necrologi appesi, non ti
verrebbe mai in mente che quei corpi sfasciati e lenti come zombi un tempo
hanno ospitato la fiamma del desiderio, hanno scopato e goduto e fatto
godere donne giovani e belle, finite ormai come in quella poesia di Villon.
Così sfido chiunque, guardandomi, a individuare in me il terribile
predatore sessuale che ero. Il mio apparato genitale è intatto. Non sono un
eunuco. È tutto nella mia testa. È lì, il blocco.
E so chi ce l’ha messo.

«Rimetterle in sesto il corpo non sarebbe un gran risultato» aveva


pontificato Chatterjee, puntandomi nell’occhio il raggio pulsante di una
torcia. «Noi dobbiamo ricostruirla dentro.»
La luce mi feriva la pupilla.
«Dobbiamo fare di lei un uomo nuovo. Un uomo migliore. Non sarà
facile. E sarà doloroso. Ma ne vale la pena.
«Come dice?
«Ah, no. Non posso spegnere la luce. Mi spiace. Fa parte della cura. Ha
mai visto il film Arancia meccanica? No? Peccato. Comunque in quel film
c’è un cattivo soggetto, un giovane teppista, che viene rieducato per
diventare una persona migliore. È tratto da uno straordinario romanzo di
Anthony Burgess, ma immagino che lei non l’abbia letto. Non chiuda gli
occhi, la prego. Tra un attimo la spengo. In quel film la terapia, chiamata
Cura Ludovico, consiste nel mostrare al paziente fotogrammi di filmati
terribili, in modo da vaccinarlo, per così dire, contro il Male. Ovviamente è
solo un film. Noi useremo un metodo diverso. Non vogliamo coartare la sua
volontà, o mettere fuori gioco il suo libero arbitrio. Ci limiteremo a offrirle
il modo di valutare e riesaminare la sua vita, perché lei possa decidere da
solo la svolta più opportuna da darle. Le regaleremo il tempo necessario per
meditare, senza impicci legati ad alcol, droghe o sesso.»
La luce si era spenta, misericordiosamente.
Il dottor Chatterjee aveva allungato una mano sul tavolo.
La siringa era di plastica. Non brillava sotto i neon. Non rifletteva i miei
occhi spaventati.
«Le farò due iniezioni. Fra una settimana, altre due. E lei prenderà le
pillole che le darò, tre al giorno. Senza saltarne una. I primi giorni soffrirà
di nausea e forse di qualche occasionale cefalea. Tutto qui. Quando il suo
corpo si sarà stabilizzato sulla cura, non proverà più alcun fastidio. Solo
che non potrà più bere. Anche un piccolo sorso d’alcol la farebbe star male.
«Come dice?
«Il sesso?
«Il sesso, be’…
«Quello per lei non sarà più un problema. Questa iniezione la priverà
della possibilità di fare sesso, a meno che non si orienti su quello passivo.
«E nemmeno la droga sarà più un problema.
«Semplicemente perché non avrà i soldi per comprarsela. Inoltre, noi non
glielo permetteremo. Qui alle Zattere nuoterà in un mare invisibile di droga,
perché nessuna comunità è perfetta, ma non potrà averne. Perché il
Consiglio vieterà a chiunque di vendergliela.
«E adesso fissi di nuovo la luce, la prego. Ora pronuncerò una frase che
lei non ricorda a livello conscio, ma che la sua mente riconoscerà. Una
frase magica che le ho insegnato quando l’hanno portata qui mezzo morto.
Quando sentirà quella frase, lei chiuderà gli occhi e si addormenterà, e al
suo risveglio si sentirà un uomo nuovo.
«E adesso ascolti.
«Ascolti la frase magica…»

Nadia Caragiale mi aspetta in fondo all’atrio, sulla prima rampa di scale.


Appoggiata al muro scrostato, ha in mano una ciotola fumante, da cui pesca
spaghetti di riso con i bastoncini. La solleva mostrandomela.
«Ramen. Appena fatti.»
«Abbiamo anche giapponesi, alle Zattere?»
«No. Ne vuoi?»
«Ho appena preso un caffè.»
«Ti perdi qualcosa. Com’è andata, in città? Hai scoperto niente di utile?»
«Qualcosa. Riferisco al Consiglio o ne parliamo qui sulle scale?»
«Riferisci al Consiglio. Fammi finire i ramen.»
«Comunque oggi il Consiglio sono io» mi fa quando ha finito di
mangiare, battendomi una mano sulla spalla. Posa la ciotola per terra.
Qualcuno la raccoglierà. Un ragazzino, probabilmente, come quello che mi
ha consegnato il biglietto con l’ora e il luogo della convocazione. I bambini
si danno un sacco da fare, alle Zattere. Chi non lavora non mangia è uno
slogan che qui non è mai passato di moda.
«Non saliamo?» chiedo.
«No.»
La Caragiale si tira su il cappuccio della felpa, si abbottona il lungo
cappotto nero.
«Oggi il Consiglio lo facciamo all’aperto. Tu e io da soli. Versione
unplugged» sorride, enigmatica.
E senza lasciarmi il tempo di reagire tira il battente dell’enorme portone
vetrato e mi precede fuori, in quella che è diventata una tormenta.
Non sono esattamente vestito per uscire, ma Nadia non ci fa caso.
Inciampando a ogni passo nella neve alta ormai venti centimetri,
raggiungiamo l’edificio di servizio che serve a custodire le biciclette. È una
lunga tettoia, chiusa con una robusta rete metallica. Dubito che anche solo
una delle bici custodite lì dentro sia stata regolarmente acquistata, ma una
volta entrata nel parco veicoli delle Zattere viene mantenuta e protetta con
amore e con cura.
I lucchetti che chiudono il cancello sono nuovi di zecca, grossi come
mattoni. Dietro le grate, le bici appese ai ganci sembrano quarti di animali
macellati in una cella frigorifera. O pappagalli colorati su un trespolo, mi
sussurra al cervello la voce di Nandini.
Passiamo oltre la tettoia, diretti in mezzo al nulla. La neve limita la
visibilità a pochi metri, mi sferza il volto, entrandomi negli occhi.
«Dove stiamo andando?» alzo la voce, per farmi sentire attraverso il
vento. La rumena continua a camminare, pestando a ogni passo la neve come
se fosse un animale ribelle.
Non si volta.
Non sono mai stato in questa zona.
In realtà non conosco quasi niente delle Zattere, tranne una piccola parte
dell’edificio in cui vivo. Ho visto delle foto, delle planimetrie. E nell’atrio di
ogni palazzo c’è un disegno colorato che rappresenta l’area come avrebbe
dovuto essere, nelle intenzioni dei progettisti.
Prima che la ditta appaltatrice fallisse, per fortuna quasi alla fine dei
lavori.
E prima che le diverse amministrazioni pubbliche coinvolte nel progetto
alzassero le mani, ognuna protestando che non era sua la responsabilità.
Il comune preferì dimenticarsi completamente del complesso. Come se
non ci fosse mai stato, o come se sorgesse su un altro pianeta. Tipo su Marte,
o ancora più lontano. Non venne realizzata nessuna infrastruttura. Nessuna
strada, fognatura, impianto di depurazione, linea elettrica o telefonica. Le
Zattere andarono lentamente alla deriva. Atti vandalici, occupazioni abusive
che per difficoltà logistiche non superavano mai l’inverno, e un incendio che
distrusse uno dei quattro edifici, spostarono le Zattere nella zona oscura della
memoria collettiva, da cui emergevano solo occasionalmente, nella cronaca
nera e negli elzeviri politici dei due superstiti quotidiani locali.
Facebook era un altro discorso.
Su Facebook le Zattere non passavano mai di moda.
Le proposte di soluzione del problema (o della piaga, del bubbone, della
pustola, a seconda dei post) non sarebbero dispiaciute a un sovrano assiro, o
al comandante nazista di Schindler’s List.
Passiamo oltre lo stagno ghiacciato e l’enorme scavo di quella che sulla
carta avrebbe dovuto essere una piscina all’aperto. I miei scarponi sono, se
possibile, ancora più zuppi d’acqua. Pesano tipo un quintale l’uno.
«Ne abbiamo ancora per molto?» faccio, ansando. È incredibile l’energia
di questa stronza. Magra come un filo di ferro, dinamica come una molla. I
suoi capelli sono tinti di una tonalità di rosso che li fa sembrare una matassa
di fili di rame, come quelli che escono fuori quando spelli un cavo elettrico.
Comincio a provare un po’ d’inquietudine. Il mio status alle Zattere è così
indefinito da non lasciarmi troppo tranquillo. È come se fossi finito in un
universo parallelo le cui leggi mi sfuggono. Tutto sembra funzionare, ma
come sia possibile non mi è assolutamente chiaro. La stessa mia condizione
è indecifrabile. Che cosa sono? Un ospite? Uno schiavo? Un prigioniero in
semilibertà?
Quando mi rendo conto di dove stiamo andando, il livello della mia ansia
sale di un’altra tacca.
Il guscio vuoto e annerito del quarto edificio delle Zattere, uno senza
nome, è lì davanti a noi. Si avvicina a ogni nostro passo. Gli alberi, e una
serie di basse collinette artificiali, lo nascondono alla vista dei tre edifici
superstiti. Ma ora eccolo lì: uno spettro minaccioso, un incubo in cemento.
Un teschio nero dalle orbite vuote. È lì, e la sua presenza proclama quello
che tutti sappiamo ma non vogliamo prendere in considerazione: la vita alle
Zattere è rischiosa, legata com’è all’interazione tra centinaia di persone che
convivono in uno stato di estrema precarietà. Basterebbe un fornello mal
custodito, e il fuoco divorerebbe il palazzo in un attimo. Non c’è un solo
estintore che funzioni, alle Zattere. C’è una squadra di addetti alla sicurezza
in ogni edificio, ma sinora la sua utilità non è mai stata testata sul campo.
Del resto ogni azienda, al giorno d’oggi, funziona in questo modo. Si fanno
corsi sulla sicurezza, si nomina un responsabile, si compilano mucchi alti
così di manuali e questionari, ma alla resa dei conti nulla regge alla prova
della realtà.
Ecco cos’è, il quarto palazzo delle Zattere, il Palazzo Senza Nome: un
monumento alla Realtà.
Non avendo alternative, seguo la Caragiale sugli scalini dell’edificio,
passando attraverso la bocca nera dell’ingresso.
L’atrio completamente vuoto sembra molto più grande di quelli dei tre
edifici ancora intatti, ma è solo un’illusione: i quattro palazzi sono stati
progettati assolutamente uguali l’uno all’altro.
Almeno qui dentro non nevica. Anche se il gelo ti penetra nelle ossa. La
Caragiale si toglie di tasca una torcia elettrica e mi fa strada sulle scale che
portano ai piani superiori.
L’odore di bruciato prende alla gola. È strano percorrere gli stessi corridoi
che a London e Paris conosco benissimo. Potrei muovermi a occhi chiusi e
illudermi di avere intorno la vita del mio palazzo. È una sensazione strana.
In un certo senso anch’io sono un guscio vuoto.
«Entra.»
La stanza è completamente spoglia. La finestra senza vetri sembra un
quadro bianco. Le pareti sono nere, ma alcune zone sono più chiare.
Realizzo con un attimo di ritardo che quelle che sembrano macchie più
chiare sono ciò che è rimasto dei mobili che un tempo arredavano questo
spazio.
La donna mi fissa con i suoi occhi color acciaio.
Non credo di averla mai vista sorridere. Penso sia sempre stata così, e che
la responsabilità di gestire le Zattere abbia solo aggiunto un po’ di serietà e
durezza a un carico già pieno.
«Se ti stai chiedendo perché ho voluto parlarti qui, ti rispondo subito. Non
mi fido di nessuno. E di nessun posto. Sai cos’è questa?»
Toglie la mano di tasca.
Apre il palmo.
«È una vite» faccio.
Scuote la testa. «Guarda meglio.»
Prendo la vite. È più leggera del dovuto. Avvicinandola agli occhi mi
accorgo che in mezzo al taglio a croce della testa c’è un minuscolo forellino
nero.
«È una microcamera» sussurra la Caragiale.
«Scherzi?»
«No.»
«Dove l’avete trovata?»
«L’ha trovata Albert. Era nella mia stanza. Se n’è accorto perché voleva
farmi vedere uno dei suoi nuovi gadget miracolosi, non chiedermi a cosa
doveva servire questo, so solo che per caso l’ha avvicinato al muro e quello
ha cominciato a ronzare e a fare un rumore… sai come fanno i telefoni fissi
quando gli avvicini un cellulare? Quel rumore lì. È così che si è accorto che
questa vite non era una vite.»
«Chi pensi ce l’abbia messa?»
«Non ne ho idea. Comunque adesso sai perché tu e io ci incontriamo qui
al freddo e al gelo.»
«Mi sa che a Paris non si sta molto meglio.»
«Abbiamo appena dato disposizione di alzare il riscaldamento di due
gradi. È rischioso, ma non potevamo evitarlo. Salvo imprevisti, anche
stanotte dormirai al caldo. Be’, abbastanza al caldo. A proposito, come stai,
Sergio?»
Una domanda del genere è l’ultima cosa che mi aspettavo da lei. Mi coglie
alla sprovvista.
«Sto bene. Cioè, bene per come sono messo. Gunga Din…»
«Il dottor Chatterjee ha agito per il tuo bene. La sua cura sta funzionando,
mi pare.»
«Non sempre.»
Le racconto dell’incontro con la mia ex moglie.
Quando finisco di parlare, lei scuote la testa.
«Non sei ancora pronto per tornare nel mondo. Questo è un fatto. Inoltre il
tuo debito non è stato ancora saldato. Dovrai restare con noi ancora un po’.
Rassegnati. E adesso dimmi cos’hai scoperto stamattina.»
«Molto poco. Qualche traccia, niente di definitivo. È caduta dal tetto di un
palazzo del Bronx. Presto potrò avere i risultati dell’autopsia.»
«Perché? Se è caduta da un tetto, a cosa ti servono?»
«Esami tossicologici. E poi non sono per niente sicuro che si sia uccisa.
Penso che qualcuno l’abbia buttata giù, da quel tetto.»
«Pensi a qualcuno in particolare?»
«Ho qualche idea, ma è ancora presto per parlarne. Adesso puoi
rispondere alla mia domanda?»
«Non hai fatto domande.»
«Perché v’interessa la morte di una puttana?»
«La chiami così? Puttana? Non la chiami per nome?»
Alzo le spalle. «Per lei ormai non fa nessuna differenza.»
«La fa per me. Per noi. E penso anche per te.»
«Krystyna era in un giro pericoloso. Le cose brutte succedono, quando fai
quel mestiere. E il giro diventa ancora più pericoloso quando pensi di
uscirne.»
«Hai sentito qualcosa in proposito? Che voleva uscire dal giro?»
«Come ho detto, è ancora presto per fare delle ipotesi. Datemi qualche
giorno.»
«Due.»
«Due giorni… Che cazzo di fretta avete?»
La Caragiale si stringe nelle spalle. Come se solo adesso avesse
cominciato a sentire freddo.
Da quelle sue tasche che sembrano senza fondo tira fuori un pacchetto di
sigarette di una marca che non conosco, e un accendino d’oro.
«Krystyna Nowak non è la prima che muore.»
Tira una lunga boccata di fumo. Lo espira subito, nervosa.
«Sono sparite delle ragazze, dalle Zattere. Tre. Due da maggio a oggi.
Ragazze normali, non prostitute. Non sbandate. Non tossiche. Ragazze
perbene.»
«Non ne ho sentito parlare.»
«L’abbiamo tenuto nascosto. Pensavamo di poter gestire la situazione.»
«Sparite non vuol dire uccise.»
La Caragiale sogghigna. Mi porge una busta.
Dentro ci sono una dozzina di foto in bianco e nero.
Le sfoglio lentamente.
All’inizio non capisco cosa sto guardando. Poi metto a fuoco gli oggetti
grigiastri.
«È quello che abbiamo trovato, di una di loro.»
«Dove?»
«Nella cantina di una casa abbandonata, non lontano da qui. Abbiamo
usato un cane da caccia. Ha annusato la biancheria dell’ultima ragazza e ci
ha portati alla casa.»
«Perché non ero con voi? Perché non sapevo nulla, di tutto questo? Tre
ragazze, diocristo…»
«Non volevamo sottoporti a uno stress del genere.»
«Perché? Adesso cosa stai facendo?»
«Le priorità sono cambiate.»
«Non avete avvisato la polizia.»
La mia non è una domanda.
Nadia sbuffa. «Per cosa? Pensi che avrebbero trovato i colpevoli? Pensi
che li avrebbero anche solo cercati?»
«Magari sì. Ogni tanto succede.»
«C’è un’altra considerazione da fare, che a quanto pare non ti è venuta in
mente. Come ne avrebbero parlato i giornali? Come avrebbe reagito la gente
cosiddetta normale?»
Pronuncia l’ultima parola come se la sputasse.
Tira un’ultima boccata, poi lancia la cicca della sigaretta fuori dalla
finestra.
«C’era un frigo, in quella casa. Un congelatore. Nella cantina. Quando
l’abbiamo aperto…»
La smorfia mi fa capire che anche lei era presente sulla scena.
«Dentro abbiamo trovato le altre due ragazze. Una parte di loro. I gruppi
sanguigni coincidono.»
«Siete meglio della Csi.»
«Non è mica magia. Fin lì ci arriviamo. Mancando le teste e le mani ed
essendo i corpi ridotti com’erano abbiamo per forza dovuto tentare un’altra
strada.»
«Avete determinato anche la causa della morte?»
Nadia chiude gli occhi. «Squartamento.»
Penso ci sia di mezzo un gap linguistico. «Lo squartamento l’ho visto
nelle foto. Ma come sono morte?»
Lei fissa su di me gli occhi, stavolta vuoti come quelli di un pesce.
«Sono morte squartate. Le hanno squartate vive.»
Il silenzio è così assoluto, o i miei sensi si sono talmente acuiti, che riesco
a sentire il fruscio della neve, fuori dalla finestra. Il vento è cessato di colpo,
come se il mondo trattenesse il respiro per ascoltare meglio quello che si sta
dicendo in questa stanza dalle pareti bruciate.
«Non ha senso. Non si è mai sentito niente del genere, da queste parti.»
«Ora l’hai sentito. È successo. L’ho visto con i miei occhi.»
«Dovevate avvisare la polizia.»
«Sì? E cos’avremmo ottenuto? Non te l’immagini? Avrebbero puntato il
dito su di noi. Avrebbero detto, come hai appena fatto tu, che cose del genere
non erano mai successe in questa città così tranquilla. E poco importa se le
vittime appartenevano alla nostra comunità. Sarebbe finita come nei film di
vampiri, con la gente armata di fiaccole che viene a finire il lavoro e a
bruciare le tre Zattere rimaste. Nella migliore delle ipotesi, il sindaco
avrebbe preteso la bonifica di questo posto. Le chiamano bonifiche, questo
genere di operazioni. Come quando il vostro duce faceva bonificare le
paludi.»
«Mettila come credi, ma io non sono in grado di affrontare un caso del
genere. Non da solo. Non disarmato. I sospetti della morte di Krystyna sono
andati via con un’Audi da cinquantamila euro. Io come li inseguivo?
Correndogli dietro a piedi?»
La Caragiale si accende un’altra sigaretta.
«Dobbiamo fermarli. Impedire che uccidano un’altra delle nostre ragazze.
Tu sei l’unico che ha esperienza di queste cose. Vuoi un’arma? Vedrò di
procurartela. Una macchina? Si può fare. Chiedi e vedremo di trovarti quello
che ti serve. Ma non dirmi di no. Dimmi che ti occuperai di questo caso.»
Rifletto a lungo. Tutto ciò che voglio, in questo momento, sono una
doccia bollente e un cambio di vestiti. Anche una bottiglia di whisky non
sarebbe sgradita, ma quella, purtroppo, è fuori dalla mia portata.
«Ho alternative?» chiedo.
Lei si morde le labbra.
«Ho alternative?» ripeto, alzando la voce.
«Detesto affrontare l’argomento, ma il Consiglio ritiene che se non accetti
di aiutarci dovremo sbatterti fuori.»
«Il Consiglio… Aarif e Chimeze, quindi.»
«E anch’io.»
«Cosa…?»
«Anch’io la penso così. Tu non sei uno di noi, Sergio. Non appartieni a
questo posto.»
Le volto le spalle. Fisso la zona più chiara del muro dove un tempo c’era
un mobile alto, probabilmente un armadio.
«Se vi aiuto… Se riesco a trovare l’assassino, o gli assassini… il mio
debito con voi sarà saldato?»
«Completamente. Ti aiuteremo ad andare via da qui, e ti daremo
abbastanza soldi perché tu possa rifarti una vita da un’altra parte.»
Sorrido. «Mi sembra un affare.»
«Lo è. Per tutti. Ah, un’ultima cosa: riferirai delle tue indagini solo a me.
Non devi parlarne con gli altri due membri del Consiglio.»
«Perché?»
«Lascia perdere il perché. Tu fallo e basta. A Chimeze e Aarif dirai che
non hai scoperto nulla sulla morte di Krystyna, e tornerai a fare lo sceriffo
delle Zattere senza raccontare niente a nessuno. Questa indagine rimarrà un
segreto fra me e te.»
«E da dove li tirerai fuori, i soldi per finanziare le mie indagini? Romperai
il tuo salvadanaio?»
«Abbiamo fondi segreti, per casi come questo. Per questioni di estrema
necessità. Ci vorrà del tempo perché si accorgano che li sto usando.»
«Potrebbe non essere una cosa rapida.»
«Sarà meglio che lo sia. Non voglio perdere altre ragazze. Una di loro…»
La voce le si spezza.
«Una di loro aveva solo sedici anni.»
Il vento ha ripreso a soffiare forte. Forse si è stancato di spiarci, di
ascoltare le storie terribili che ci stiamo raccontando. Il vento, il cielo, le
stelle, sono spettatori distratti dei nostri drammi. Ci sono sempre alberi
pronti a crescere sulle fosse comuni, sabbie e fiumi disposti a cancellare il
ricordo di intere città.
Ho la vescica piena.
Sento un bisogno irrefrenabile di pisciare.
«Vi aiuterò» annuisco, allungando la mano. Lei la stringe, tenendola fra le
sue a lungo, senza pronunciare parola.
«Grazie, Sergio…» dice poi.
La sua voce mi sembra sinceramente commossa.
«Vi farò avere la lista di quello che mi serve.»
«D’accordo.»
«Non spaventatevi: non mi serve un’Audi o una Mercedes. Non mi
ricordo neanche più come si guida, un’auto.»
«Troveremo chi lo farà per te.»
«Mi serve invece una scheda per ognuna delle ragazze scomparse. Voglio
una loro foto, sapere in che parte delle Zattere vivevano, chi frequentavano.
Un dossier su ognuna di loro, insomma.»
«Me ne occupo subito.»
«E mi servirà un aiutante. Uno sveglio.»
«Hai già in mente qualcuno?»
«Pensavo ad Albert.»
«Lui ci serve a tempo pieno. La comunità…»
«Pensavo ad Albert» ripeto.
Nadia riflette un attimo. Poi annuisce. «Lo avviso.»
«No. Meglio se gli parlo io. Digli solo di venire da me stasera.»
«Perché?»
«Perché voglio dargli quello che a me avete negato. La possibilità di
rifiutare.»
«Va bene. Ah, quando te lo chiederà, digli che il tuo livello di accesso ai
dati è Seraphim.»
«Seraphim?»
«Sì.»
M’infilo le mani in tasca. In qualche modo la neve è arrivata fin lì. I
fazzoletti di carta sono ridotti a una poltiglia viscida.
«Sergio…» fa lei, quando sto per uscire dalla stanza.
«Sì?»
«Parlami dell’altra ragazza.»
«Quale?»
«Quella con cui ti vedi. Elena. Non negare. Vi hanno visti insieme.»
«È solo un’amica.»
«Lo so. Non può essere altro, al momento.»
«Grazie per la precisazione. Perché t’interessa?»
«Non è una di noi.»
«Neanch’io.»
«Può avere le migliori intenzioni, e non possiamo tenerla fuori dalle
Zattere. Perché sta facendo davvero un buon lavoro, con le nostre ragazze.
Però non la conosciamo. Lasciala fuori da questa storia. Non dirle niente.»
Scuoto la testa. «Davvero pensi che voglia dirle qualcosa? Non so, tipo
che voglia mostrarle le foto di quei corpi squartati e decomposti? Non so
cosa cazzo avete in testa…»
«Non intendevo questo. Volevo solo dirti di tenerla lontana dalle tue
indagini.»
«Sissignora» rispondo, facendo un accenno di saluto militare e scattando
sull’attenti. Batterei i tacchi, se i miei scarponi non fossero ridotti poco
meglio dei Kleenex che ho in tasca.
Poi esco di scena senza pronunciare altre battute memorabili. Scendo le
scale, attraverso l’atrio cupo, e la bufera di neve mi avvolge con il suo
rumore, simile a quello di uno sciame di cavallette. Il gelo mi punge la pelle,
mi spazza di nuovo via dalla mente quello che ho visto e sentito fra quelle
mura carbonizzate.
O forse lo spinge solo più in basso, più all’interno, incistandolo dentro di
me come un cancro.
10

C’è stato un tempo in cui ero potente e rispettato, il primo della classe,
l’uomo dell’anno. Anzi, di tutti gli anni. Passati, presenti e futuri. Ci fosse
stato un Nobel per i poliziotti, l’avrei vinto a mani basse. Avrei ricevuto
anche un Oscar, se è per quello. La mia vita era tutta una recita, una serie di
performance applauditissime.
C’è stato un tempo in cui Roma, madre puttana, mi aveva aperto le
braccia, e le gambe, come in passato le aveva aperte ai gladiatori e ai papi.
«Peccato che non hai la laurea» mi dicevano spesso, «perché se ce l’avevi,
chissà che carriera ti aspettava. Chissà quanto in alto arrivavi.»
C’è stato un tempo in cui facevo da scorta alla presidente del Senato.
Quella stronza mi adorava, persino. Sergio di qua, Sergio di là…
L’Oscar me lo sarei meritato già solo per il sorriso che mi stampavo in
faccia, quando in realtà avrei avuto voglia di torcerle il collo. A lei e alla sua
amica nera del cazzo.

I ricordi esplodono come fiori rossi su uno sfondo di velluto nero, rose
fatte di spine, esplodono come razzi rossi in un cielo senza luna.
Mi blocco in mezzo alla neve.
Non riesco più a muovermi.
Paralizzato da quella luce rossa che nessuna pillola e nessun medico
riescono a spegnere.
Il passato irrompe, la diga del presente cede.

La confusione nel cortile è grande. Auto di servizio partono e arrivano,


sembra d’essere sul ponte di una portaerei durante un raid nemico.
Funzionari e questurini corrono con gli ombrelli neri aperti, sotto la pioggia
battente, tenendo per il braccio i ministri e caricandoli quasi di peso sulle
berline blindate in attesa, i gas di scarico che avvelenano l’aria. I fotografi
sono immobili, le loro macchine inerti, come appese alle braccia. Qualcuno
ascolta le notizie al cellulare. La pioggia cade a secchi, scaricata da un
cielo basso come un coperchio.
Passi fatti di corsa dentro le pozzanghere, sbattere di portiere, grida. È un
caos totale che si cerca in qualche modo di gestire. Una Caporetto romana.
Il fronte ha ceduto, e non c’è una seconda linea su cui ripiegare. Solo questa
fuga disordinata e vociante.
Le nuvole basse e la pioggia impediscono la visione della colonna di fumo
che si leva dal colonnato del Bernini, un chilometro e mezzo a ovest di qui.
Abbiamo visto le immagini sui nostri telefonini, immagini girate da altri
cellulari, perché nessuna troupe televisiva ha ancora potuto avvicinarsi al
luogo dell’attentato.
Una mano mi colpisce sulla spalla. Quasi un pugno.
«Ahó! Che fai, dormi? Monta in auto!»
Qualcuno spalanca lo sportello del passeggero. Mi sento spingere dentro.
Le due portiere posteriori si aprono e si chiudono, lasciando entrare umido
e un profumo pesante.
L’autista parte, sgommando e frenando e suonando il clacson per farsi
strada in mezzo alla massa di gente frastornata che staziona di fronte a
Palazzo Chigi. Sembrano morti viventi. Se guidassi io, mi verrebbe l’istinto
di travolgerli, di metterli sotto, quegli zombi.
«Può andare più veloce?» fa una donna dall’accento francese, da dietro.
Mi volto. La vip a cui devo fare da scorta ricambia il mio sguardo con
fastidio, mentre traffica sullo schermo di uno smartphone.
«Non riesco a mettermi in contatto con mio marito. Il telefono è scarico.
Lo chiami lei, le do il numero.»
Me lo detta. Butta il suo iPhone sul sedile accanto al suo.
Io non mi muovo, continuando a fissarla.
«Non resti lì impalato. Chiami. Chiami!»
Con gesti meccanici tiro fuori dalla tasca il Samsung. Compongo il
numero che lei mi ridetta, ma non premo invio.
«Non risponde» mento.
Lei mi strappa il telefono dalla mano.
«Dia qui. Imbecil. Non ha dato l’invio.»
L’autista bestemmia fra i denti. L’auto scivola in mezzo a una massa
compatta di gente attonita che vaga senza meta, invadendo la carreggiata.
Mani battono o si posano sui finestrini, come meduse, lasciando impronte
che la pioggia cancella subito.
La ministra per l’Integrazione Anne Marie Diop parla velocemente in
qualche lingua africana, una lunga tirata che non lascia all’interlocutore il
modo di replicare. Poi, senza chiedermi il permesso, compone un altro
numero e comincia a parlare nel suo italiano dall’accento di merda.
«Prepara subito un comunicato stampa che prenda le distanse dalla
violensa terrorista» sbraita, in crescendo, come se stesse parlando in mezzo
a un uragano e non nell’elegante abitacolo di una Bmw. «L’etnia o la
proveniensa degli attentatori, ammesso che sia stato davvero un attentato,
non è un fattòr rilevante…»
«Ma perché cazzo urlano sempre così…» mi esce dalle labbra, sottovoce
ma evidentemente non abbastanza, perché la ministra e l’autista mi
guardano entrambi a bocca aperta.
«Come ha detto, scusi?» fa lei, mettendo giù il cellulare.
Gli occhi bianchissimi, la lingua rossa, la pelle nera. I colori degli
stendardi nazisti.
L’auto è bloccata tra la gente all’incrocio tra via del Corso e via dei
Sabini. È una calca così fitta che mi ricorda un banco di pesci visto durante
un’immersione a Sharm el-Sheikh, una massa compatta e amorfa di corpi
senza volontà né direzione. Mi monta dentro una gran rabbia.
«Come ha detto? Lo ripeta, se ha coraggio.»
Chiudo gli occhi.
«Ho detto “perché cazzo urlano sempre così”.»
«Chi urla? Chi è che urla?»
«Tu, negra!» esplodo, spruzzandola di saliva. «Tu e le altre scimmie come
te!»
L’autista scuote la testa come un pupazzo a molla. Gli occhi della
ministra si sono fatti ancora più bianchi e grandi.
«Ridammi il mio telefono, brutta stronza di merda. E tu, falle tu da scorta,
se ti va. Io ne ho pieni i coglioni! Basta!»
Afferro il cellulare, spalanco la portiera e mi mescolo alla folla stravolta
dalle notizie che arrivano dalla rete, dalla conta dei morti che sta
assumendo proporzioni sempre più assurde. La pioggia mi lava da capo a
piedi, mi entra negli occhi, mescolandosi alle lacrime. Lacrime di rabbia e
di dolore. La gente intorno a me urla più della negra, ma è la mia gente, è il
mio urlo, la mia tribù sconvolta che vaga per Roma come un branco di
animali spaventati.

Venni sospeso dal servizio e dallo stipendio per un mese.


La presidente mi convocò personalmente per dirmi che potevo
considerarmi fortunato.
«Solo il gran cuore della ministra ha impedito che la cosa venisse portata
fino alle sue naturali conseguenze. Oltre a chiederle scusa dovresti
ringraziarla. Mi aspetto che al tuo rientro in servizio tu lo faccia, con tutta la
sincerità possibile.»
Solo che, dopo aver passato ogni ora da sveglio di quel mese di
sospensione a bere e farmi, oltre che a indebitarmi con metà degli spacciatori
della capitale, al mio rientro non ero dello spirito adatto per chiedere scusa o,
peggio ancora, per ringraziare la merda nera che mi aveva messo nei casini.
Quanto fatto fossi, quel giorno, lo prova ciò che feci.
Scassinai la portiera dell’auto blu addetta al servizio della presidente e
accovacciandomi felice su quel cuoio che sapeva di nuovo le cagai sul sedile
posteriore.
Avrei voluto esserci, quando dieci minuti dopo lei salì in macchina,
mentre l’autista le teneva sussiegosamente aperta la portiera, e posò il culo
sul sedile e su quello che ci stava sopra.
E in un certo senso c’ero, quando successe, perché mi fecero vedere più
volte le registrazioni delle quattro telecamere che avevano immortalato la
mia impresa.
La faccia che aveva fatto la stronza valeva da sola il biglietto.
Così come vedere le sue labbra immacolate aprirsi a pronunciare
distintamente una bestemmia rivolta alla Madonna.
Certe cose, diceva quella pubblicità, non hanno prezzo.
Mica vero, però.
Tutto ha un prezzo.
Il mio fu la perdita definitiva del lavoro. Rinunciarono a scuoiarmi vivo
solo per via della bestemmia presidenziale, immagino, che m’impegnai
solennemente a dimenticare, in cambio della sua clemenza.
«Posso avere il cd?» chiesi, indicando il monitor, ai miei ex colleghi ed ex
superiori, prima che mi sbattessero fuori.

Se rimanessi qui…
Se lasciassi che la neve, sussurrandomi una ninna nanna russa, mi
coprisse…
Diventerei il pupazzo fatto da un bambino con le sue mani intirizzite.
Sarei una cosa bianca e gelata, pura come un diamante, sterile e
irraggiungibile. Al sicuro da tutto il male del mondo. Perché in fondo cosa
sono, i diamanti, se non immondi grumi di carbone trasformati dal calore e
dalla pressione nella cosa più preziosa che ci sia?
Come si comincia, a lasciarsi morire? Magari smettendo di controllare il
tuo corpo, rilasciando la vescica e pisciandoti addosso, godendoti la
sensazione del caldo che ti scivola lungo la coscia. Chiudendo la mente ai
cattivi pensieri, e poi a tutti i pensieri, e concentrandoti su qualcosa di
concreto, come quel ramo scuro che la neve ha coperto sulla parte superiore
e lì dove s’innesta al tronco, così che sembra nascere dal nulla, sospeso a
mezz’aria come per magia.
Sarebbe così facile, morire.
Durante uno dei nostri primi colloqui, Chatterjee me l’aveva chiesto.
«Se il mondo le fa così schifo, perché si ostina a vivere? Se la vita le è
così insopportabile, perché non preferire la morte?»
Avrei potuto rispondergli, come faccio ora, con i versi di Robert Frost.
Perché ho promesse da mantenere, e miglia da percorrere, prima di
riposare.
Muovere il primo passo, controllare la vescica, affrontare il freddo.
Il secondo passo.
Il terzo.
Tutto questo è dolore. Ma il dolore serve a farti capire che sei vivo.
Il quarto passo ti riporta sul sentiero invisibile. I piedi non affondano più
nella neve. Sotto c’è un sostegno solido. Puoi camminare spedito. L’ingresso
è a meno di cinque minuti da qui, se mantieni questo passo. C’è un bagno
comune al pianoterra. Puoi arrivarci senza problemi. Stringi i denti e
cammina. È stata una giornata lunga, ma il tuo letto è vicino. Un altro passo.
Solo un altro passo. Vedi come il ramo si attacca al tronco? Non galleggia a
mezz’aria. Era solo un’illusione ottica.
Non esistono miracoli.
Se non quelli che facciamo accadere noi.
Come il miracolo di camminare. Il miracolo di respirare.
Il miracolo crudele di essere vivi, giorno dopo fottuto giorno.
11

Albert sembra a disagio. Sposta il suo scarso peso da una gamba magra
all’altra. Si gratta la testa, le orecchie, il naso.
Non è a disagio per me. Fa così sempre.
«Un sociopatico altamente funzionale» l’ha definito Tommy, precisando
di aver preso la definizione da una serie televisiva.
Non l’ho mai visto indossare qualcosa di diverso da questi jeans diventati
quasi bianchi a forza di lavaggi, abbinati a una maglietta di qualche gruppo
rock o heavy metal. Una gliel’ho regalata io, ma non quella dei Kiss che
porta oggi. Ai piedi ha un paio di antiquate scarpe da basket Converse in
pelle con lo stemma dei Boston Celtics. Devono avere più di trent’anni,
perché ne avevo un paio anch’io da ragazzo, ma con il logo dei Los Angeles
Lakers.
«Togliti quel dito dal naso» gli ordino.
Lui mi guarda spaventato. Sembra una cavia da laboratorio scappata dalla
gabbia.
«Siediti» faccio, indicando lo sgabello.
Lui preferisce accoccolarsi sul tappeto, di fronte a me, incrociando le
gambe come un maestro yoga.
«Bevi qualcosa?»
Scuote la testa.
«Ti hanno detto perché sei qui?»
Un cenno di diniego. Gli occhi fuori fuoco. O forse immersi nella visione
di una galassia lontana lontana.
«Smettila di toccarti il naso, ti ho detto.»
Obbedisce.
S’infila le mani sotto il sedere.
«Ti ho fatto venire qui perché ho bisogno di te. Del tuo talento.»
Bofonchia qualcosa. Le prime parole che pronuncia da quando è entrato
nella mia stanza.
«La Caragiale mi dice che ti sei accorto tu di questa» faccio, aprendo il
palmo della mano.
La microspia camuffata da vite attira finalmente l’attenzione del ragazzo
di colore, che allunga le dita magre come zampe di ragno e sembra
accarezzare il minuscolo oggetto posato sul mio palmo aperto. La cosa che
mi dà veramente i brividi è che in realtà non lo sfiora nemmeno. È come se
le dita avessero dei sensori in grado di mantenere la distanza di una frazione
di millimetro dalla microspia.
«Sì. L’ho trovata io.»
«Hai qualche idea sulla sua provenienza?»
«Ho fatto ricerche» sussurra, con una voce monotona che sembra un
pessimo doppiaggio. «Le fanno in Cina, queste cose qui. Non costano niente.
Le trovi anche su eBay.» Scuote la testa. «Ma non questa. Qui siamo in
un’altra categoria. Questa non la trovi mica, su eBay. È un prodotto military
grade. Sai cosa voglio dire.»
Tira su con il naso. Sta per infilarsi di nuovo l’indice nella narice, ma lo
blocco con un’occhiataccia.
«Così ho fatto altre ricerche. Ho messo sotto un paio di amici. Questo è
quello che mi hanno riferito: al 99,9 per cento questa cosa qui viene dal
Giappone. È una tecnologia così avanzata che non dovrebbe venire immessa
sul mercato prima di almeno altri due anni. È un miracolo. Connessione
satellitare. Si autoalimenta in tre modi diversi: luce ambiente, ma anche
differenziali minimi della temperatura ambiente e variazioni infinitesimali
della pressione atmosferica, nel caso la stanza resti a lungo al buio. E a
lungo vuol dire più di una settimana. È fantastica, semplicemente fantastica.
Al momento è roba da élite dello spionaggio.»
«E allora come ha fatto a finire in questo pulciaio?»
Albert scrolla le spalle.
«Ni puta idea» risponde in spagnolo.
Di colpo realizzo una cosa che mi manda il cuore sotto i tacchi.
«Aspetta. Questa cosa sta ancora trasmettendo? Ha registrato ogni parola
che ci siamo detti io e la Caragiale?»
Albert mi fissa a lungo con i suoi occhi da pesce in un acquario.
Poi, mortalmente serio, scuote la testa. «Registrato, sì. Comunicato, no.
Ho incasinato i protocolli di comunicazione dati. Penseranno a un guasto. È
così che Nadia mi ha detto di fare.»
Si morde le labbra. Le dita della mano destra sfarfallano a mezz’aria,
come se suonassero un brano complesso su una tastiera invisibile.
«Nadia pensa che chi l’ha messa, questa cosa qui, tornerà a sistemarla»
sussurra.
Poi mi fissa, strabuzzando gli occhi dietro le lenti spesse e sporche. «Ehi,
aspetta. Che livello di accesso ai dati hai?»
Ci metto un po’ prima di mettere a fuoco la domanda.
Poi rispondo.
«Seraphim.»
«Ah. Okay.»
Stavolta non faccio in tempo a impedirgli di ficcarsi l’indice nel naso,
dove comincia a scavare come un ragno minatore. Anche se un animale del
genere non dovesse esistere, è a quello che assomiglia.
«Nadia mi ha fatto preparare una trappola coi fiocchi. Chiunque verrà a
sostituire la microspia dovrà fare i conti con quattro diversi tipi di rilevatore
silenzioso, e con sei telecamere nascoste. Roba che i documentaristi del
National Geographic usano per fotografare i predatori notturni.»
Si fissa assorto la caccola scura sull’unghia dell’indice, come fa Amleto
col teschio del povero Yorick. Poi la getta, sovrappensiero, sul battiscopa del
muro alle sue spalle.
«Una cosa come questa qui varrà almeno ottocento euro, dice un mio
amico russo. Se riesci a trovarla.»
«Ti stai chiedendo perché l’abbiano sprecata nella stanza della
Caragiale?»
«No. Non è affar mio. Io l’ho solo scoperta, a dire la verità per puro caso.
Non spetta a me scoprire chi l’ha messa.»
Mi guarda e sorride.
«Quello mi sa che tocca a te, poliziotto.»
Lo fisso abbastanza a lungo perché cominci a sentirsi a disagio.
«Non pensare di essere fuori da questa storia, ragazzino. Avrò bisogno di
te. Quindi nei prossimi giorni devi essere reperibile.»
Albert alza le spalle. «Ho un cellulare.»
«Ma io no. Facciamo così: ti trasferisci subito da Paris a London. La
stanza qui accanto è libera.»
Il ragazzo fa segno di no con le mani. «Non se ne parla! Ho il mio
laboratorio, hombre. Non posso lasciarlo. È la mia Area 51. Top secret,
eingang verboten. Non me ne vado da lì.»
Accenna ad alzarsi.
«Sbagliato» faccio, afferrandolo per la spalla e rimettendolo di forza col
culo sul tappeto.
«Ahi!»
«La Caragiale ti ha venduto a me, caro il mio negretto. Sei cosa mia.
Cerca di rigare dritto o assaggerai la frusta.»
«Non fare lo stronzo!»
«Non mi hai ancora visto fare lo stronzo. Ma se ti ostini a dirmi di no lo
vedrai.»
«Non posso lasciare Paris.»
«E invece devi. Da questo momento, per ogni cosa, tu fai riferimento a
me. Fai quello che ti dico, mi riferisci quello che scopri. A me e a nessun
altro.»
«La Caragiale…»
«La Caragiale c’est moi. Non avrai altro Dio all’infuori di me.»
«Mi avevano detto che eri matto…»
«E infatti è vero.»
«Pazzo di un bianco…»
«Non fare così. Vedrai che ci divertiremo insieme.»
«Sì, come no.»
«Vai a raccogliere la tua roba e torna qui. La tua nuova camera ti aspetta.»
Si alza scuotendo la testa, tenendosi lontano come se temesse un mio
gesto inconsulto.
«Com’è che è libera, la camera? Pensavo foste alle strette con lo spazio, a
London.»
«Diciamo che si è liberata da poco. Il precedente inquilino forse ha deciso
di fare stretching con un nodo scorsoio. O quello, oppure è stato un
esperimento di tecniche autoerotiche estreme.»
«Non ti capisco.»
«L’hanno trovato impiccato al lampadario. Nudo, con un’erezione lunga
così.»
«Che schifo.»
«Purtroppo per tirarlo giù hanno divelto il lampadario. Portati una torcia.»
«Da quant’è che è morto?»
«Un paio di mesi.»
«E come mai la stanza è ancora libera? A parte la tua presenza come
vicino, voglio dire.»
«Ci hanno provato, a starci.»
«Ma…?»
«Pare ci siano i fantasmi, nella stanza.»
«Fantasmi.»
«Già.»
«E io dovrei dormire in una camera infestata?»
«Penso che a un ragazzo moderno e dalla mentalità scientifica come te
non faranno né caldo né freddo, queste voci.»
Ci vuole un po’ prima che Albert dica: «No, infatti.»
Ma il tono è tutt’altro che convincente.
Socchiude gli occhi, come per prendere la mira. Ma più probabilmente
perché ha la vista di una talpa.
«Perché dici fantasmi al plurale? Avevo capito che il morto era uno.»
«Il morto recente.»
«Ce ne sono stati altri?»
Non rispondo.
Lui mi guarda.
Io lo guardo.
Alla fine fa un gesto per mandarmi affanculo e se ne va, sbattendo la
porta.
Io resto lì per cinque minuti – una piccola eternità – a guardare la neve
scendere dal cielo, lenta e bellissima.
Lascio che i pensieri scivolino via, attraverso la ginnastica mentale che mi
ha insegnato Nandini. Quando le ho chiesto se era una tecnica indiana, mi ha
risposto scuotendo la testa che era una cosa inventata dalla Cia per
rimuovere dalla memoria i traumi.
«L’hanno usata per i sopravvissuti dell’11 settembre. Sta alle tecniche di
meditazione tradizionali come una torcia elettrica al sole.»
Comunque sia e chiunque l’abbia inventata, funziona davvero. Alla
grande.
La faccio semplice, anche se non lo è.
Prendo i ricordi cattivi della mattinata: la notizia della morte di Krystyna,
l’umiliazione del mio incontro con Carla sugli scalini di quella che un tempo
era casa nostra. Li allineo sulla neve, costringendoli a star fermi, a diventare
immobili. Poi li guardo come se si facessero sempre più lontani, finché non
diventano piccoli come fototessere, e poi allontano lo sguardo, come se
salissi sempre più in alto, e le foto nella distanza diventano puntini, e poi
spariscono nel bianco.
Chiudo gli occhi, e li tengo chiusi a lungo. I miei sensi si fanno più vigili,
più percettivi, finché non riesco a sentire l’odore di ogni singola cosa in
questa stanza: il pezzo di pane sul piatto per terra, l’inchiostro di un
quotidiano vecchio di un mese, la polvere sul davanzale. I rumori del
palazzo sembrano aumentare di intensità: il pianto lontano di un bambino,
una radio che trasmette musica da ballo, un tango su cui una coppia sta
danzando, due o tre piani sopra di me, perché ora sento i loro passi. Dei due
è la donna a muoversi meglio, a stare a tempo. Il ballerino è più goffo, è lei
che lo accompagna sulle note di Por una cabeza.
Sento altri rumori, più vicini.
Quando Albert mi ha chiesto dei fantasmi, avrei dovuto essere sincero.
No, non ci sono fantasmi, nella stanza qui vicino.
Solo voci. Ma forse non sono là. Forse sono soltanto nella mia testa.
Forse stanotte la voce di Krystyna Nowak si unirà alle loro.
Per il momento la tecnica di Nandini le tiene lontane. Mi lascia pulito e
lucido, e quando apro di nuovo gli occhi fuori fa buio, e la neve è uno
schermo su cui si proiettano le luci del palazzo, lo spettacolo muto della vita.
Da tutte le stanze, tranne la mia e quella accanto, che restano oscure e
proiettano sul mondo solo buio, ombra.
12

«Sappi che ho dormito di merda» sono le prime parole che Albert


sussurra, quando lo incontro in corridoio, il mattino dopo. Camminiamo
entrambi verso i bagni. Lui infagottato in una tuta felpata, portandosi
sottobraccio un beauty-case, io nudo, un asciugamano stretto intorno ai
fianchi e una saponetta in mano, come in un film carcerario americano.
«Ma non hai freddo?» fa, con una smorfia, affiancandomi.
«Sì.»
«Hai sentito cosa ti ho detto? Non ho dormito, stanotte.»
«Deciditi.»
«Cosa?»
«Hai dormito di merda o non hai dormito? Sono due cose molto diverse.»
«Ho sentito rumori per tutta la notte.»
«Saranno i topi nei muri.»
«Anche una voce, a un certo punto…»
«È un edificio vecchio. L’acustica fa strani scherzi.»
«Ah, sì? Be’, la voce sembrava accanto a me. Come se ci fosse stata una
donna nel mio letto.»
«Hai provato a guardare? Era figa?»
«Sei scemo? Ho chiuso gli occhi ancora di più.»
«E cosa ti diceva, la donna?»
Albert si stringe nelle spalle. «Affari miei.»
Arrivati nel bagno comune abbiamo la piacevole sorpresa di trovarlo
vuoto, e caldo. Il vapore appanna la fila di specchi sui lavabi. Acqua bollente
gocciola giù dal tubo di un soffione.
Mimo il lancio della saponetta in uno dei sei box doccia aperti.
«Me la raccogli?» sorrido.
«Spiritoso.»
«Prima io o prima tu?»
«Io non mi faccio la doccia. Non qui. Non con te.»
Mi slaccio l’asciugamano dai fianchi ed entro nel box al centro.
Apro il rubinetto dell’acqua fredda.
Il gelo mi toglie per un attimo il fiato. I testicoli mi si riducono a due
noccioline.
«Sei un esibizionista» brontola Albert.
Il sapone è fatto in casa qui alle Zattere. Grigiastro, inodore, ruvido come
la pomice. Perfetto per togliere via lo sporco.
«Dimmi qualcosa che già non so» ribatto, strofinandomi il petto e
pensando che ha ragione. Il mio corpo mi piace, sicuramente più della mia
testa. Non sono uno di quelli che pensano sia un tempio, ma comunque so
che è casa mia e che devo averne cura.
L’avessi imparato prima.
Mi volto. Albert si lava le ascelle, spruzzando con le dita piccole quantità
d’acqua, come se fosse razionata, o fosse un acido in grado di corrodere la
pelle.
Mi fissa. «Cosa vuoi che ti dica?»
«Potresti cominciare da quello che sai sulle ragazze scomparse.»
«Le ragazze morte, vuoi dire. Non sono più scomparse. Purtroppo le
abbiamo trovate.»
«Voglio i dettagli.»
«Non le ho trovate io. Non so niente di niente. Posso farti avere i dossier,
ma non ci ricaverai molto, senza un interprete.»
«Perché? In che lingua sono scritti?»
«Nella lingua del Profeta.»
«In arabo?»
«Non quel Profeta. Il nostro.»
«E chi cazzo sarebbe?»
«Joachim. Ti porto da lui.»
«Voi siete matti» sibilo, quando il getto d’acqua gelata mi colpisce la
schiena, lavando via il sapone assieme alla sporcizia di tre giorni.
Albert allarga le braccia. «Senti chi parla. Comunque io in quella stanza
non ci dormo più.»
«Puoi trasferirti da me. Lo spazio c’è. Ma non farti venire strane idee.»

I nostri passi risuonano lungo il corridoio sotterraneo da London a Paris.


Gli edifici abitati delle Zattere sono uniti da questi lunghi tunnel rivestiti
di piastrelle verdi. Probabilmente erano stati pensati come accessi di
servizio, ma ora sono occupati dal mercato. A quest’ora del mattino i
commercianti sono ancora intenti a disporre sui banchi la loro mercanzia: la
carne, il pesce, la verdura, i vestiti, i libri. Una babele di lingue discute,
contratta, litiga, ma tutto sottovoce: il mercato deve attirare la gente, e non
farla scappare perché si sente minacciata, o anche solo infastidita, dal
rumore. L’illuminazione è assicurata da lunghi tubi al neon fissati al soffitto.
La luce fredda che si diffonde da lassù mortifica i colori della mercanzia
esposta sui banconi. Ma chi viene a fare la spesa qui bada al sodo, e sa
distinguere la freschezza della merce grazie a fattori diversi dal colore. Di
alcuni frutti, e di certi pesci, non so nemmeno il nome. Non ho mai visto, per
dire, queste creature marine che sembrano un nastro piatto e argenteo, con
occhi enormi. So che ci sono vasche, ai livelli ancora più in basso, scavati a
furia di pala e piccone nel corso degli anni, in cui queste creature esotiche
vengono allevate, accanto alle serre idroponiche dove si coltivano ganja e
frutti tropicali.
È strano come mi sia assuefatto a questo caos di voci, agli odori. Gli
odori, soprattutto. Una volta non riuscivo a passare vicino a un kebabbaro
senza provare l’impulso di raderlo al suolo con dentro il gestore e tutti i suoi
clienti. Il puzzo di spezie etniche mi mandava in bestia. Per non dire
dell’aspetto delle loro donne per strada, nanerottole vestite di stracci in
poliestere con al seguito una nidiata di merdine scure, e un altro nella
carrozzina e magari ancora uno in pancia. Guardare quelle inchiavabili
stronze baffute e pensare che qualcuno di quei topi mediorientali amanti del
Corano ci infilava il cazzo mi dava il voltastomaco. Ora cammino in mezzo
a loro, vivo in mezzo a loro e non mi danno quasi più fastidio. Come se non
li vedessi. Mi chiedo se non sia per via di qualche altro magheggio di Gunga
Din. Ma no. Penso piuttosto sia una specie di imprinting. Mangi con loro,
caghi in un cesso in fila con altri dieci, ti fai la doccia in mezzo a loro. Dopo
un po’ ti appare normale. Non te ne accorgi più, di essere finito in quello che
per te, normalmente, dovrebbe essere l’inferno.
Eppure non è passato un cazzo di tempo, solo una manciata di anni, da
quando ho dato di matto per molto meno. Eravamo in vacanza a Monaco.
Monaco di Baviera. C’ero stato anni prima, nel 2001, per un concerto degli
Aerosmith al Babylon, e c’ero stato bene, così a Pasqua di non mi ricordo
più che anno avevo caricato Carla sulla Porsche e la voce di Steven Tyler a
palla ci aveva accompagnato lungo l’autostrada deserta, ed era stato come
volare su un tappeto magico.
L’aria era fresca, la neve imbiancava le cime, ma la città era bellissima,
malgrado la peste dei turisti asiatici. Avevamo visto le cose solite, i musei e i
palazzi, ma poi, un pomeriggio, avevo chiesto a mia moglie di lasciarmi fare
un mio particolare tour a tema della città.
Per prima cosa eravamo stati sulla Königsplatz, quell’enorme spiazzo
surreale che Dario Argento aveva usato per sa il cazzo quale dei suoi film.
Sapevo che da qualche parte, lì intorno, c’era stato il sacrario dei sedici
camerati morti nel Putsch del 1923. Ma di quel monumento fatto saltare in
aria dai cosiddetti liberatori erano rimaste giusto le fondamenta, nascoste
dalla vegetazione. Soltanto la foto di Google Maps le rivelava.
Mi era andata meglio con il Deutsches Museum, il museo della scienza e
della tecnologia che occupava un isolotto in mezzo all’Isar: l’edificio più a
nord era inconfondibilmente nazista, con grandi aquile di pietra a
sormontare ogni angolo.
«Casa…» aveva sorriso mia moglie, vedendo come dal ponte mi spostavo
per vedere meglio quell’edificio.
«Fotografalo. Così puoi guardartelo quando ti senti triste» aveva
ironizzato. Quel giorno aveva le sue cose, e comunque la città le era
piaciuta meno di quanto mi aspettassi.
Quando le avevo chiesto se potevamo andare alla birreria del Putsch, che
era lì vicino, mi aveva fulminato con lo sguardo.
Mi aspettò in un bar mentre rendevo omaggio da solo alle architetture
spoglie e severe della Haus der Kunst, in fondo a Prinzregentenstraße.
Dall’esterno, perché dentro c’era una mostra sui kibbutz israeliani. Come
per contrappasso, il museo voluto da Hitler per celebrare l’arte
nazionalsocialista ospitava infatti, stando alla guida illustrata che avevo in
tasca, solo mostre temporanee di opere che ai vecchi tempi si sarebbero
definite “arte degenerata”.
Avevo le palle che mi vorticavano a mille, quando ero entrato nel bar per
recuperare Carla, che seduta a un tavolino rotondo beveva cioccolata calda
sfogliando un libro della Ferrante.
«Finito il tour nel paradiso nazista?» mi aveva chiesto, con un sorriso da
schiaffi.
Io non le avevo risposto.
Il bar era frequentato da studenti, probabilmente di qualche istituto d’arte
a giudicare dalle cartelle che avevano sottobraccio o posate per terra, e
anche dalle facce insolenti, tipiche di chi pensa di essere sempre e
comunque dalla parte della ragione per il solo fatto che è giovane.
Dentro di me sentivo salire una pressione da vulcano.
Mi ero seduto, apparentemente tranquillo, ma dentro pronto a prendere
fuoco. Bastò un sorriso che non mi piacque del cameriere di colore venuto a
prendere l’ordinazione.
«Cosa le porto?» aveva chiesto, in inglese.
«Una birra.»
«Non serviamo alcolici, in questo locale.»
«Niente birra… Un whisky doppio, allora.»
E qui il ragazzo aveva sorriso.
E io mi ero alzato di scatto, spaventandolo. Il vassoio vuoto che aveva in
mano era caduto rumorosamente a terra, facendo voltare tutti nel locale.
«Cazzo hai da sorridere?» avevo ringhiato al cameriere, i miei denti a un
centimetro dalla sua faccia.
Il ragazzo era sbiancato.
Io avevo raddrizzato la schiena e battuto i tacchi, il braccio teso in un
perfetto saluto nazista.
Una mano si era posata sul mio braccio sinistro, e io l’avevo spinta di
lato con forza, prima di accorgermi che era di Carla.
Come instupidito avevo guardato mia moglie stringersi incredula la
destra e poi massaggiarla. Una smorfia di dolore le segnava il viso.
Ero uscito come una furia. Lei mi aveva seguito, varcando la porta senza
nemmeno abbottonarsi il cappotto. Muta come una statua mi aveva
preceduto verso il nostro albergo nel quartiere di Maxvorstadt. Appena
entrata in camera aveva cominciato a togliere le sue cose dall’armadio e dal
bagno per metterle ordinatamente in valigia.
Non aveva risposto alle mie domande, se non per dire che tornava in
Italia col primo treno, e che per andare in stazione avrebbe preso un taxi.
Quando la porta si era chiusa alle sue spalle mi ero disteso sul letto, e
avevo guardato il soffitto per un tempo lunghissimo, aspettando che
tornasse. Ma lei non era tornata.
Così, dopo aver svuotato le bottigliette del minibar, ero uscito, le strade
bagnate di pioggia rese magiche da luci in movimento e insegne colorate. La
strada sembrava un acquario che ospitava strane creature fatte di luce.
Avevo portato avanti un interminabile giro di locali, con tenacia e notevole
dispendio di denaro, senza fare distinzioni fra gay bar, ritrovi per anziani
nostalgici e club etnici da cui usciva a palla una musica rimbombante e
stonata.
Alle prime luci dell’alba mi ero svegliato in un letto sfatto che non era
quello del mio albergo. Il mio braccio bianco giaceva su una schiena
scurissima, come un naufrago su una spiaggia deserta. Voltandomi a
sinistra trovai dei capelli biondi, una frangia scomposta che rivelava
giovani palpebre immerse nel sonno. Il mio corpo era nudo, pallido, segnato
da lividi. Puzzavo.
Mi alzai tra le due donne profondamente addormentate. La stanza era
pulita, arredata con mobili Ikea. I tocchi femminili – una bambola di
porcellana, dei papaveri di pezza in un vaso – mi fecero venire voglia di
vomitare. Non avevo idea di chi fossero le due ragazze, né di quando e come
fossimo finiti nello stesso letto. Le scie collose che avevo sull’addome,
bianche come bava secca di lumaca, avrei voluto lavarle, ma al tempo stesso
ciò che davvero volevo era uscire da quella camera. Raccolsi i miei vestiti
dal pavimento e dallo schienale di una sedia e mi rivestii in corridoio,
cercando di non far rumore.
Fuori, la strada era fredda e spoglia, le luci spente, tranne quelle
lampeggianti su un camion della nettezza urbana.
Non avrei saputo dire se quella notte avevo attraversato l’inferno o il
paradiso. So che all’alba mi ritrovai di nuovo incarnato nel mio corpo di
sempre, e che mentre passavo il confine incustodito a Salisburgo la neve
aveva cominciato a cadere fitta, e la musica che usciva dalla radio dell’auto
era Moon River distorta dalla voce di Morrissey.

Forse la mia caduta dal paradiso è cominciata quel giorno.


Agli odori, al rumore, alle voci strane ci si abitua. La perdita, invece, ti
scava dentro un buco che non si rimargina, un cratere che si aggiunge agli
altri che rendono la mia anima un paesaggio lunare.

Non ci sono ancora clienti: il mercato apre alle sette, e mancano una
ventina di minuti. Non tutti mi salutano, come fanno con Albert. Come
diceva qualcuno, forse quel comunistone di Brecht, all’origine di ogni
grande fortuna c’è un delitto. Alcuni di questi mercanti li ho pizzicati, in
un’occasione o in un’altra, a violare le leggi della comunità, e non posso
pretendere che si scappellino o mi facciano le feste quando passo. Sono il
loro sceriffo, come dice sempre Elena. Non posso pretendere che mi amino,
ma sanno di aver bisogno di me, e quindi mi rispettano, anche se a volte gli
sono costato una multa o un ammonimento formale. Detta così sembra una
cosa all’acqua di rose, ma non saltate subito alle conclusioni. Considerate
intanto che alle Zattere non ci sono prigioni, e nemmeno tribunali. In un
corso all’accademia ci avevano spiegato che neanche l’Impero romano
aveva le prigioni. Non esisteva semplicemente il concetto di chiudere uno in
una cella per un certo periodo di tempo, come punizione. Non mi ricordo
tutte le condanne, ma qualcuna sì: ad bestias, ad crucem. Ad metalla, che
voleva dire i lavori forzati in miniera. La prigione non era prevista. Sarebbe
stato uno spreco di risorse, in un mondo in cui la principale fonte di energia
erano i muscoli umani.
La comunità che mi ha accolto segue leggi non scritte, un canone
complesso chiaro solo a chi le applica e a chi le trasgredisce, ma a questi
ultimi solo dopo che le hanno trasgredite, quando la mazza della Legge li
colpisce. Non esiste alcun codice penale. Di certo si sa che ci sono linee che
non vanno oltrepassate, e nel dubbio, sul punto dove sono tracciate di
preciso, è meglio tenersi bene a distanza. È così che si ragiona, qui. Se non
sai dov’è il limite, te ne starai ancora più lontano. Quanto ai tribunali, per i
reati più gravi c’è il Consiglio, ma nessuno ha mai visto un processo, o letto
una sentenza. Nei casi peggiori i trasgressori spariscono, e nessuno sente più
parlare di loro. Nei casi meno gravi viene applicata una multa, o una
punizione corporale non invalidante. Non esiste l’amputazione di un arto,
per dire. Ma una severa bastonata è una forma di punizione piuttosto usuale.
Occhio per occhio, dente per dente, più o meno. Ma nulla di permanente.
Verso la fine della galleria, quasi all’ingresso del nucleo di Paris, i banchi
e i venditori si fanno più fitti, e muoversi è più difficoltoso, obbliga a uno
slalom fra casse e ceste, e gente che contratta il posto migliore per il
prossimo mercato. A Paris, il centro amministrativo delle Zattere, girano più
soldi ed è più facile combinare buoni affari: per questo i banchi vicino
all’entrata del palazzo espongono la merce più pregiata: libri e gioielli
tribali, e specialità gastronomiche di tutti i continenti, non tutte gradevoli
alla vista o all’olfatto. L’aroma delle spezie e del caffè appena macinato si
confonde con il profumo delle candele e dei bastoncini d’incenso. Immagini
sacre e poster di un presidente a vita africano, dashiki sgargianti e cd di
musica zouk formano un tappeto olfattivo e sonoro fin sulle scale che
portano al pianoterra dell’edificio.
Io e Albert non apriamo bocca, salendo quelle rampe e sbucando nell’atrio
gelato del palazzo. Il ragazzo apre il pugno, sollevando tre dita. Terzo piano.
Saliamo ancora, io a piccoli passi veloci, lui ansimando a ogni pianerottolo,
ma comunque riuscendo a starmi dietro. Entriamo nella zona adibita a
ospedale. Non la cosiddetta clinica di Chatterjee, ma l’ospedale vero e
proprio. L’odore qui è un misto di malattia e di cure, ma su tutto domina un
sentore acre di disinfettante industriale.
Attraversiamo stanze e corridoi adattati a corsie, dove una massa di malati
occupa due file parallele di letti e stuoie sul pavimento. Al nostro passaggio
alzano gli occhi e poi li riabbassano subito, come se si vergognassero. Occhi
bianchi ed enormi, dilatati dal male di cui soffrono. Dai loro infiniti mali.
Le diverse zone dell’ospedale – chirurgia, medicina, infettivi – sono
separate l’una dall’altra da pesanti teli di plastica semitrasparente che
scendono dal soffitto.
«Dov’è?»
Albert indica un punto più avanti lungo il corridoio.
«Non facciamo colazione, prima?» mi fa.
«No.»

Il reparto psichiatrico è molto piccolo. Qui alle Zattere le famiglie


preferiscono prendersi cura da sole dei loro malati. Sono solo tre camere, un
piccolo magazzino e lo studio del medico di guardia, in questo momento
vuoto.
Albert prosegue oltre, aprendo la porta di un corridoio laterale
all’apparenza abbandonato. Invece, in fondo, ci sono due stanze chiuse da
porte metalliche, pesanti come quelle di una sala caldaie. Il ragazzo prende
un mazzo di chiavi da una rastrelliera a muro.
Infila la chiave più lunga nella serratura della porta.
«Ricordati sempre che non è stata un’idea mia.»

Joachim, detto il Profeta, è appollaiato su una sedia, l’unico arredo della


stanza a parte un materasso sul pavimento. Indossa un pigiama a righe. Le
ginocchia piegate, la testa china, sembra un marabù addormentato. Non si
muove di un millimetro al nostro ingresso.
«Ciao, Joachim» sussurra Albert.
L’altro ripete, con voce gracchiante: «Ciao, Joachim.»
«Come stai?»
«Io sto bene. E tu come stai?»
«Anch’io sto bene. Ti ho portato un amico.»
«Un amico. Lui sta bene?»
«Sì, grazie» rispondo.
E lui ripete sottovoce: «Sì, grazie.»
La sua voce sembra quella di un uccello che imita una voce umana…
«Ti va di leggere qualcosa per noi, Joachim?» fa Albert.
«No.»
«Per favore, Joachim.»
Lentamente, la testa si solleva dalle ginocchia, le gambe si allungano.
Sembra l’apertura di un coltello a serramanico.
Un sospiro.
«Cosa devo leggere?»
Albert s’infila una mano nella tasca del giubbotto, tira fuori un taccuino
con la copertina nera. Sfoglia le pagine fino a trovare quella che cerca.
Joachim annusa il taccuino, percorre con lo sguardo le righe di caratteri
indecifrabili che attraversano la pagina.
«Questo l’ho scritto io» annuisce, soddisfatto.
«Per questo vorrei che ci leggessi quello che hai scritto.»
Joachim annuisce di nuovo. «Solo io può leggerlo.»
«Solo tu» conferma Albert, solennemente.
Joachim ha i capelli bianchi e lunghi, ma il viso da ragazzo, con occhi di
un azzurro quasi irreale, a tratti vivaci ma per la maggior parte del tempo
chiusi, ostili: gli occhi di un animale che ha paura dell’uomo. Quelli, e la
lunga barba incolta, lo fanno sembrare un eremita medievale.
Allunga la mano dalle dita affusolate, che sembrano avere il doppio di
giunture rispetto a quelle di una mano normale.
Lungo il tragitto per arrivare qui, Albert mi ha raccontato la sua storia.
Quel poco che si sa di lui. È arrivato alle Zattere un anno e mezzo fa, nudo
come un verme, balbettando in una lingua che nessuno capiva. La comunità
l’ha accolto, anche se i pareri erano discordi. Chiaramente non veniva da
nessun paese del Terzo mondo… Aveva tratti somatici scandinavi. Ma la sua
lingua era un mistero. Avevano provato a registrarla e a farla ascoltare a
degli esperti, ma senza risultato, se non quello di escludere che fosse una
lingua parlata nel Nord Europa. Quando poi aveva cominciato a scrivere, il
mistero si era infittito, perché i caratteri dell’alfabeto che usava erano
assolutamente misteriosi. Che fosse un linguaggio coerente lo affermò con
sicurezza un linguista dell’università di Venezia, studiando la frequenza dei
simboli e la corrispondenza di questi con i fonemi durante la lettura ad alta
voce di una pagina. Apparentemente, Joachim parlava e scriveva in una
lingua sconosciuta agli altri esseri umani. Questa era la conclusione
provvisoria a cui si era giunti.
Col tempo Joachim aveva imparato anche l’inglese e l’italiano, ma con
una certa fatica, come se le lingue non fossero il suo forte. Aveva un accento
stranissimo, difficile dire di dove.
«Puoi leggere per questo signore la storia delle ragazze scomparse?»
chiede Albert sottovoce.
Joachim scuote la testa, due volte. «Non mi piace, quella storia.»
«Non piace neanche a noi, ma dobbiamo conoscerla. Non vogliamo che
altre ragazze si facciano male, vero?»
«No.»
Con un sospiro, Joachim punta l’indice su una riga e comincia a leggere,
muovendo il dito da destra a sinistra.
Un ruscello di sillabe argentee esce dalla sua bocca: sillabe ritmate,
musicali.
«Aspetta, Joachim. In italiano, per favore.»
«Capito. Va bene.»
Chiude gli occhi e li tiene così per una manciata di secondi, prima di
iniziare la lettura, traducendo all’impronta senza esitazioni, tanto che mi
chiedo se davvero stia leggendo o se non abbia imparato quelle frasi a
memoria.
«La ragazza nella cantina era morta da almeno sette giorni, stando al
dottor Chatterjee che aveva svolto l’esame autoptico. Mani e testa
mancavano, così come la gamba destra, trovata poi nella boscaglia a poche
centinaia di metri dal luogo di ritrovamento del corpo. Probabilmente portata
lì da un animale selvatico, dato che era stata quasi interamente divorata.
Identificata dai genitori grazie a un neo sulla schiena come Amina al-Masri,
sedici anni, siriana, scomparsa da Paris otto giorni prima. Il corpo non
presentava tracce di malnutrizione. Era stato lavato e recava residui di un
unguento profumato. Anche i capelli erano stati lavati poco prima della
morte…»
«Ehi, fermo un attimo» faccio, voltandomi verso Albert. «Se mancava la
testa, come…?»
«C’erano ciuffi di capelli accanto al corpo. Ciuffi strappati. Vai avanti,
Joachim.»
«A parte le amputazioni, il corpo di Amina non presentava tracce di altre
violenze, né sessuali né di altro tipo. C’erano i segni di un’iniezione, peraltro
molto maldestra, sull’avambraccio sinistro. Prima di ucciderla… Prima di
squartarla viva… le hanno somministrato una dose di anestetico che avrebbe
potuto stordire un cavallo.
«Nel congelatore, non funzionante, marca Westinghouse risalente agli
anni Ottanta, c’erano i resti di due corpi in avanzatissimo stato di
decomposizione. Fatumata També, ventidue anni, del Mali, scomparsa da
otto mesi, era stata riconosciuta tramite esame del dna. Le ossa recavano i
segni di uno smembramento praticato con un attrezzo da taglio,
presumibilmente una mannaia. Tracce di materiale sconosciuto trovate sulle
ossa, identificato poi come bitume bruciato. Sotto i suoi resti c’erano quelli
di Biljana Bequiri, una ragazza macedone di ventun anni scomparsa da Paris
da oltre un anno. L’esame delle ossa delle due ragazze nel congelatore aveva
confermato l’amputazione di testa e mani.»
L’elencazione degli orrori di quei ritrovamenti prosegue a lungo, in un
affastellarsi di dettagli che a mano a mano si fanno più tecnici e quindi meno
terribili, come se il linguaggio specialistico allargasse lo spazio tra noi e
l’orrore di quel resoconto, tra noi e quel giorno di maggio in cui il cane da
caccia, annusando la biancheria intima di Amina, li aveva portati al luogo
del suo massacro.
Ammesso che fosse quello.
Perché c’è un dettaglio, nel resoconto, confermato dalle foto.
Sotto il corpo di Amina non c’era sangue.
Avrebbe dovuto essercene a secchi.
Quando Joachim finisce di leggere, il silenzio nella stanza che è la sua
cella è denso come il vetro. Un silenzio in cui il ronzio di una mosca stride
come una minuscola risata.
Una mosca in inverno?
Impossibile, mi dico, scacciando quell’idea dalla testa.
I pensieri tornano a scorrere, come l’acqua di un ruscello al disgelo.
Mi guardo intorno, ed è come se vedessi la stanza per la prima volta.
E subito rimpiango di averla vista.
Le magie di Nandini servono anche a questo: a proteggermi dalle
immagini cattive. Ma se l’immagine mi coglie di sorpresa, non ho difese.
Ci sono disegni su tutte le pareti.
Le coprono come un cupo tatuaggio.
Disegni a matita grassa, e infinite scritte in quella lingua misteriosa che
solo Joachim conosce. Le immagini raffigurano corpi e zampe e code di
lucertola, ritratte con una perizia maniacale. Ogni scaglia risalta vivida e in
rilievo, come se l’animale disegnato decine, centinaia di volte sulle pareti
potesse staccarsi e caderti addosso.
Al centro di tutto spicca una trinità di teste di rettile. Non sono teste di
lucertola, ma di uno strano ibrido tra un rettile e un umano, disposte ai
vertici di un triangolo rovesciato. I loro musi finiscono, incongruamente, in
pungiglioni di insetto. Gli enormi occhi delle tre creature sembrano fissarmi.
Le loro pupille verticali sono state disegnate con così tanti segni di matita da
sembrare in rilievo. Se mi avvicinassi abbastanza, mi dice una parte del
cervello sepolta sotto strati e strati di logica e buonsenso, ma non così tanto
sepolta da non uscire allo scoperto in questo momento, se guardassi da
vicino il nero di quelle pupille, verrei trascinato in fondo al buio, affonderei
in un incubo senza fine. E i rettili disegnati sulle pareti comincerebbero a
muoversi, strisciando verso di me.
Joachim intercetta il mio sguardo e si rannicchia su se stesso. Le gambe
lentamente si ripiegano, la testa si china, finché il vecchio ragazzo non si è
chiuso in una posizione quasi fetale. È un movimento inumano, come quello
di un meccanismo. Dalle labbra semichiuse del pazzo esce un filo di voce,
un sussurro che modula quattro sillabe, ripetendole come un mantra.
Qualcosa dentro di me capisce.
L’uomo sembra sentire che ho capito.
Le sue labbra si chiudono.

Quando vedo Albert rimettersi nella tasca del giubbotto il taccuino nero,
provo una sensazione di ribrezzo all’idea che si porti addosso tutto
quell’orrore, scritto in una lingua che ora mi dà i brividi.
Usciamo dalla stanza. Albert richiude la porta con la chiave, che poi
appende di nuovo alla rastrelliera a muro.
Mi chiedo se ha capito che il luogo da cui siamo usciti è una cella, ma non
di un carcere.
È la cella del seguace di un culto sconosciuto.

«Fate spesso questa cazzata?»


«Cosa vuoi dire?»
«Far scrivere le cose a Joachim. In quella lingua che poi solo lui sa
leggere.»
«Mica tutte le cose. Solo quelle più delicate.»
«E se poi un bel giorno lui se ne va? Se muore?»
Albert alza le spalle. «Karma.»
«Posso chiederti perché lo chiamate Joachim?»
«Dovevano dargli un nome, immagino. Quello con cui si chiamava non
riusciresti a pronunciarlo.»
«Io invece credo di aver capito come si chiama.»
«Ah sì? E come hai fatto?»
«Me l’ha detto lui.»
«Ah sì? E perché l’avrebbe detto proprio a te?»
«Chi lo sa? Forse perché mi ha riconosciuto come uno ancora più pazzo di
lui.»
«E come si chiama, allora?»
«Non adesso. Abbiamo una cosa più urgente da fare.»
«Cosa?»
«Portami dove avete trovato i corpi.»
13

Mi viene più facile pensare i corpi piuttosto che le ragazze.


Una volta ho letto un articolo, su una delle riviste femminili di Carla
dimenticate in bagno. Era la storia di una giovane dottoressa americana, una
nera, che lavorava come anatomopatologa per il tribunale dell’Aja sui
crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. Diceva che si era così abituata a
ispezionare corpi riesumati, che ormai li vedeva e li manipolava come se
fossero pezzi di legno. Poi un giorno successe una cosa. Dalle tasche marce
dei jeans di una delle vittime caddero a terra tre biglie. Solo in quel
momento la donna si rese conto che quello che stava toccando era il corpo di
un ragazzino. E scoppiò a piangere.
Mi è più facile ridurre tutto al mestiere che facevo, in cui ero bravo: il
mestiere del poliziotto. Evitando ogni coinvolgimento emotivo. Così dentro
di me penso i corpi e non le ragazze.
Albert ha protestato per tutta la strada, incespicando sul sentiero coperto
dalla neve, che riuscivi a seguire solo perché era più basso rispetto al terreno
circostante.
«È lontano da qui?» gli avevo chiesto.
«Sì.»
«Quanto? Un chilometro? Due?»
«Meno.»

In realtà non molto meno.


La casa abbandonata, pur non essendo lontana, è invisibile dalle Zattere,
nascosta com’è dal fitto di un pioppeto e da vecchi fabbricati industriali in
disuso. Non è grande, il tetto è sfondato in più parti, le finestre murate o
sprangate con assi. A mano a mano che ci avviciniamo, e il solo rumore è
quello dei nostri scarponi che affondano e riemergono dalla neve, un suono
come di pagine strappate, la costruzione sembra emanare cupezza. Un lato
della casa pare scavato nel fianco di una collinetta. Solo avvicinandoci
realizzo che non è terra o roccia, a coprire quella parete dell’edificio, ma un
mucchio enorme di sacchi d’immondizia, seminascosti dalla neve e che a
tratti rivelano i colori della plastica. Il giallo, il blu, il marchio sgargiante di
qualche supermercato, emergono dal bianco come le bandierine degli stupa
tibetani lungo la salita all’Everest. E per quanto mi riguarda questo viaggio
di poche centinaia di metri non è meno faticoso di una scalata alla montagna
più alta del mondo. I piedi si schiodano a fatica dalla morchia di neve e
fango, ma non è solo questo: è il mio spirito a non voler muovere un altro
passo sul sentiero.
Ha smesso di nevicare. Le nuvole sono più rade, lacerate d’azzurro. Presto
potrebbe persino uscire il sole. Chissà se allora questo posto sembrerà meno
orribile, meno minaccioso. Non credo. C’è così tanta tristezza, così tanto
buio intorno a queste mura, e non è un buio fisico. È un buio dell’anima. È
come se la luce stesse volutamente lontana dalla casa abbandonata. I dintorni
della città sono pieni di edifici così, a testimonianza del fatto che qui, un
tempo, prima che piovessero dal cielo le fabbriche, era aperta campagna. E
ora le fabbriche non ci sono più, e questo rudere non sembra né più vecchio
né messo peggio dei capannoni vuoti che cadono a pezzi tutto intorno, e che
un tempo sembravano l’emblema della modernità, del futuro.
Mi fermo a guardare la casa.
«C’eri, quando le hanno trovate?» faccio.
«Sei matto? Non è roba per me. Però ho parlato con chi c’era.»
«E hai una buona memoria?»
«Totale.»
«Parlami di come le hanno trovate.»

Era l’inizio dell’autunno.


Un ottobre secco, senza una goccia di pioggia. Per questo il cane aveva
trovato subito la traccia.
Amina e i suoi erano sopravvissuti all’assedio di Aleppo e a un viaggio di
più di duemila chilometri, prima su un gommone e poi nel doppiofondo di un
camion, per arrivare qui. Padre ingegnere edile, madre insegnante. «Come
va?» aveva chiesto imbarazzato ai genitori il padrone del cane, uno slavo di
etnia imprecisata che sembrava molto più vecchio dei suoi cinquant’anni.
Era il maestro di caccia delle Zattere.
La carne costa, e in giro ce n’è un sacco gratis, che vaga senza senso nei
campi e nei boschi di questi italiani troppo grassi e pigri per farsene
qualcosa. Arco e frecce, coltelli, machete. Trappole. L’Età della Pietra,
cacciatori e raccoglitori che si muovono guardinghi nella boscaglia prima
dell’alba, sotto le scie dei jet americani che si levano in volo dalla base di
Aviano. Due mondi paralleli che s’ignorano a vicenda. «Come si chiama il
tuo cane?» aveva chiesto un ragazzino dell’età di Amina.
«È una femmina. Si chiama Alexa.»
«Troverà Amina?»
Il maestro di caccia non aveva risposto.
Nell’atrio di Paris, la cagna aveva annusato le mutandine di Amina, prese
dal cesto della biancheria sporca. La madre della ragazzina non avrebbe
voluto. Nadia Caragiale aveva dovuto imporle con la forza di consegnare gli
slip ai cercatori. Lo slavo era arrossito, mentre teneva in mano
quell’indumento sporco di tracce organiche. Aveva visto troppe volte
ricerche del genere, nel suo paese. Aveva visto e fatto cose orribili, durante
la guerra. Sapeva come vanno a finire, di solito, queste cose. La femmina di
pointer aveva annusato le mutandine e si era subito agitata, tirando il
guinzaglio verso l’uscita dell’edificio.
La squadra di ricerca era guidata dalla Caragiale. La donna era
tormentata dal pensiero che avrebbe dovuto muoversi prima, quando la
madre della ragazzina era andata da lei a dirle della sua scomparsa. Ma
avevano aspettato troppo, perdendo tempo a perlustrare le Zattere e la
comunità di immigrati irregolari che viveva in città. Senza documenti, i
genitori non potevano certo andare a denunciare la scomparsa alla polizia.
Così erano passati ormai otto giorni quando la madre di Amina era
andata a parlare con la rappresentante del Consiglio.
«Otto giorni» scosse la testa lo slavo, trottando impacciato dietro Alexa,
che puntava decisa prima verso il parcheggio dell’edificio e poi sulla strada
dissestata che portava in città.
La cagna si fermò due volte, lungo il percorso. La prima a una pensilina
che un tempo aveva servito da fermata degli autobus, quando ancora
passavano di lì per raggiungere la zona industriale di Vallegrande. La
seconda poche centinaia di metri più in là, dove la strada faceva una curva
e diventava impossibile da vedere dalle Zattere. C’era uno spiazzo, lì, dove
la gente cosiddetta “normale” veniva a buttare sacchi dell’immondizia,
vecchi elettrodomestici, interi salotti. I ragazzini delle Zattere ci andavano
spesso a giocare, in mezzo allo squallore di quella discarica abusiva. A volte
trovavano qualcosa di recuperabile: vecchi cd con film e musica, giocattoli
ancora buoni.
La cagna annusò a lungo un divano, e poi un sacco di plastica nero,
gonfio come se fosse un dirigibile arenato.
Lo slavo tirò fuori di tasca un coltello e tagliò il sacco. Il padre di Amina
si mise una mano sulla bocca. Ma dal sacco uscirono solo vestiti. Fu come
aprire la pancia di un serbo, pensò lo slavo, vedendo il fiotto di stracci
colorati che sgorgava dalla plastica lacerata.
La madre della ragazzina gemette, e poi fece un verso da animale ferito,
chinandosi sul sacco e raccogliendo fra le mani tremanti un giubbino
azzurro e un foulard con disegni di papaveri rossi.
Lo slavo annusò i due indumenti. C’erano un sacco di odori e profumi, ma
uno prevaleva sugli altri.
Cloroformio.
Avevano seguito la cagna impaziente su un sentiero praticamente
invisibile che costeggiando la discarica abusiva deviava dalla strada,
incuneandosi nel sottobosco e poi in un pioppeto abbandonato, che
attraversarono in fila indiana, in un silenzio quasi cerimoniale, ciascuno
immerso nei suoi pensieri mentre passavano tra gli alberi immoti con la
sensazione di muoversi in uno spazio minaccioso, come se quel pioppeto
fosse il tempio abbandonato di una divinità maligna, o come se qualcosa
fosse in agguato. Quando finalmente ne uscirono, un’eternità dopo, la casa
era davanti a loro.

«La cagna sembrava impazzita. Grattava con le unghie sulla porta come se
volesse scavarsi un passaggio nel legno.»
Passo le dita sul legno dipinto di verde. La vernice è scrostata, sembra la
corteccia dell’albero da cui la porta è stata ricavata, chissà quanto tempo
prima. Sessant’anni? Settanta?

La vecchia serratura era stata forzata senza difficoltà. Una volta le porte
delle case contadine non venivano mai chiuse a chiave. Erano tempi così.
Serrature del genere, alle Zattere, le avrebbe aperte un neonato.
La Caragiale era stata la prima a entrare. Si era messa un fazzoletto a
coprire bocca e naso.
La casa era stata usata come un’altra discarica abusiva, ma era molto
peggio dello spiazzo da cui erano partiti. Sacchi gialli e neri e azzurri si
ammucchiavano contro il muro a nord dell’abitazione fino a un’altezza di
più di tre metri. Il tanfo era nauseabondo. La gente arrivava lì in auto e
scaricava la sua merda dal cofano, o magari lanciava il sacco direttamente
dal finestrino, senza nemmeno fermarsi. E al Comune non importava.
Difficile che non ne sapesse nulla. Ma la vita (e, se è per questo, anche la
morte, che ne è una conseguenza) al giorno d’oggi è più che mai una
semplice questione di competenze.

«Dentro, mi hanno detto, il puzzo era indescrivibile. Era ottobre, ma il


ronzio delle mosche era qualcosa di assurdo. Ti martellava il cranio. Il corpo
era nella terza stanza, quella che un tempo era la cantina. Ci arrivavi
scendendo una ripida rampa di scale…»

A ogni passo ti chiedi perché fai questo, perché ti presti a servire gente
che ti manda in posti così, per risolvere casi che quand’eri nella polizia
avresti liquidato semplicemente mettendoci sopra l’etichetta giusta, il sigillo
dell’oblio che chiude i casi irrisolti. Cosa vuole, da me, questa gente? Vuole
che mi penta? Okay, guardatemi: sono pentito. Sono diverso dall’uomo che
ero. Sono cambiato.
O davvero pensano che faccia qualche differenza, risolvere questo caso?
C’era un libro che Carla mi aveva passato, una volta, dicendomi: «Dovrebbe
piacerti, parla di un poliziotto nazista.» E in effetti mi era piaciuto, anche se
l’autore si dilungava un po’ troppo nelle descrizioni. C’era questo poliziotto
nazi che indagava in Repubblica Ceca, solo che a quei tempi non si
chiamava così, si chiamava Protettorato di Boemia, o qualcosa del genere, e
questo investigatore nazi, che di suo era anche una brava persona, deve
indagare su un serial killer di vedove. Per il suo lavoro lo aiuta un poliziotto
boemo. E a un certo punto succedono due fatti. Il primo è una cosa che dice
il tedesco, da cui capisci che da un momento all’altro potrebbe dire ai suoi
superiori: sentite, questo poliziotto boemo che mi avete dato non mi va mica
tanto bene, mi fate la cortesia di cambiarmelo? Ah, sì, ovviamente, gli sparo
io. E poi c’è la scena in cui passano vicino a Terezín, un campo di
concentramento a Praga dove mettevano gli ebrei di riguardo, tipo scrittori e
compositori, prima di mandarli ad Auschwitz col primo treno disponibile.
Era uno specchietto per le allodole per la Croce Rossa: gli ispettori
arrivavano, si guardavano attorno, vedevano che gli ebrei non venivano
uccisi per strada e avevano addirittura negozi, scuole, asili e sale da
concerto, e se ne tornavano felici a Stoccolma o a Zurigo, o dove cazzo
stavano, a riferire che le voci sullo sterminio degli ebrei erano evidentemente
esagerate. Appena gli ispettori della Croce Rossa se n’erano andati, alé, via:
le SS imbarcavano tutti, adulti e bambini, sul primo treno per la Polonia, e
chi si è visto si è visto.
In uno dei suoi generosi tentativi di redimermi, Carla mi aveva portato a
un concerto di musica composta a Terezín, o Theresienstadt, come la
chiamavano i tedeschi. Gli spartiti si erano salvati solo perché erano stati
chiusi in una bottiglia e sepolti sotto la pavimentazione del cortile, da cui
erano emersi molti decenni dopo. Era musica singolare. A me non piaceva,
ma devo ammettere che era strano sentire musica composta in quelle
condizioni, per cori di bambini che dopo averla cantata una volta,
quell’opera, che si chiamava Brundibar, erano diventati cenere. Ricordo che
Carla mi accusò persino di essermi commosso, e per riabilitarmi dovetti
scoparmela a sangue per due ore, tenendomi addosso l’anello della
Charlemagne e tutto quello che rappresentava.
Carla…

Dov’è finita la mia vita, mi chiedo, spingendo la porta della cantina. Il


fantasma di tutti gli orrori passati e quello degli orrori che verranno mi
saltano addosso appena varco la soglia e guardo il pavimento di terra battuta,
e l’enorme congelatore, una cosa brutta com’erano brutte le cose degli anni
Ottanta.
Ha tutta l’aria di essere una cantina e invece è una tomba, mi dico.
Sembra tutto così normale, e invece non lo è.
Scendo i cinque scalini, e alla misera luce che passa da una finestrella
rotta posta più o meno all’altezza degli occhi esamino la scena del crimine.
E capisco subito che non lo è.
Non è affatto la scena del crimine.
Non è qui che è successo.
Me lo dice l’istinto.
A parte l’assenza di sangue, è l’aura della stanza, non so in che altro
modo metterla, che mi dice che qui non è successo niente.
Che questa è solo una tomba, o una discarica, come quella che sta là fuori.
«La Caragiale dice che per poco non è svenuta, guardando quello che
c’era sul pavimento» sussurra Albert.
«E i genitori della ragazzina?»
«Quelli non sono scesi. Sono rimasti su.»
«Come mai?»
«La Caragiale non ha voluto. Aveva capito prima ancora di aprire la porta
della cantina.»
«Come mai?» ripeto, anche se la domanda adesso è un’altra.
«Pare fosse un giudice, nella Romania di Ceaușescu. Certi dicono che
abbia indagato sul cosiddetto massacro di Timișoara.»
«Se ne dicono tante, sulla Caragiale» faccio.
Non ho idea di cosa sia, questo massacro di cui parla. Vedo solo che
Albert si è irrigidito, sulla soglia della cantina, e che è sceso giù soltanto
perché lo spingevo davanti a me, ma col passo di un automa.
Sarà anche solo suggestione, perché tutti i corpi sono stati portati via, ma
mi sembra di sentirlo lo stesso, l’odore di morte, anche senza aprire il
vecchio congelatore, grande come un sarcofago per elefanti. Anche sopra il
tanfo delle immondizie al piano di sopra.
Devo mettermi anch’io un fazzoletto su naso e bocca. Ma non serve a
niente.
«Cosa ne avete fatto, dei resti?» chiedo, ma faccio fatica a capire cosa
dico, per il fazzoletto ma soprattutto per i conati di vomito cui resisto a
fatica.
«Li abbiamo cremati.»
Non dico niente. Che senso ha preoccuparsi delle prove, mi chiedo, e la
domanda dentro di me la fa il poliziotto boemo del romanzo. Che senso ha,
quando la gente muore a milioni in cambio di una manciata di secondi nei
telegiornali?
«Dov’era la ragazzina siriana?»
Albert, pur non essendo mai stato lì, non ha esitazioni nell’indicarmi un
punto del terreno. M’inginocchio, con un movimento che mi dà piacere,
perché è reso fluido da un ostinato esercizio quotidiano e dal non volermi
arrendere alla prevedibile curva dell’età. Poso la mano sulla terra calpestata
milioni di volte da piedi di contadini che ora sono a loro volta terra, e
polvere. Su questa terra hanno camminato gli assassini, mi dico, chiudendo
gli occhi e cercando di assimilare in me quel concetto. Poi lo isolo, ed è
come se pulissi una ragnatela intorno a un bozzolo, recido i fili e quando il
bozzolo è finalmente pulito lo incido con un bisturi affilato, e dentro…
Dentro…
Apro gli occhi, ed è come se prima fossi stato miope e ora mi avessero
fatto provare il mio primo paio di occhiali.
Quello che faccio non è più guardare: è vedere.
Se fossi stato il primo a scendere quaggiù, la mia visione sarebbe stata
molto più chiara. Così, invece, ho solo dei frammenti residui
d’informazione. La parte conscia del mio cervello lascia libero il campo a
qualcosa che non so definire se non come l’istinto, che mi apre strade prima
invisibili. È come se un foglio fitto di scarabocchi incomprensibili si
rivelasse di colpo una mappa. È stata Nandini a insegnarmi la tecnica, che
consiste nel ritrarsi in se stessi.
«Hai mai fatto il bagno in un torrente di montagna? Conosci la
sensazione che provi quando ti tuffi nell’acqua gelida e i tuoi testicoli si
riducono a due noccioline?»
«No» mentii. «E tu?»
Nandini rise. «Io sì. Molte volte» fece, nel suo inglese altolocato. Al
telefono, senza poterla vedere, l’avresti presa per un’aristocratica,
giudicando solo dall’accento. Niente a che vedere con quello di Gunga Din.
«I testicoli ti si sono trasformati in noccioline?» le chiesi.
«Non fare lo stupido, Sergio. Ascolta. Quando ti tuffi in quell’acqua
realizzi che è gelata.»
«Grazie al cazzo…»
«Ma se tu ignori il gelo, se tu cancelli dalla tua mente l’idea stessa di
gelo, come potrebbe fare un indigeno nato e vissuto ai Tropici, che non ha
mai visto la neve o il ghiaccio e non ha nessuna idea di cosa sia il gelo,
rimuovi un velo dagli occhi. Allo stesso modo, quando osservi qualcosa…»

«… lascia da parte i pregiudizi, lascia da parte quello che ti aspetti di


vedere, e guarda.»
Quando ho riaperto gli occhi è stato come se vedessi la stanza per la prima
volta.
Come se quella cantina non avesse più segreti per me.
Ho affondato le mani nella terra.
Le mie mani fisiche non avrebbero potuto farlo, perché la terra compatta
non si lasciava penetrare. Ma la mia mente ha visto che c’era qualcosa, sotto
la terra.
Poi ho alzato lo sguardo.
Ho indicato il muro, un punto accanto al congelatore.
«Illumina» ho ordinato.
Albert ha tirato fuori lo smartphone dalla tasca e, dopo aver trafficato con
i comandi, ha fatto spuntare un raggio di luce potente come una torcia. L’ha
puntato là dove gli ho detto.
Mi sono avvicinato alla parete, strisciando sulle ginocchia.
«Dammi il telefono.»
Lui ha obbedito.
L’ho inclinato, spostando la luce di lato per ottenere un’illuminazione di
taglio.
«Oh» ha fatto Albert.

Il disegno è quasi invisibile. Non è stato fatto con colori, o con una matita.
È stato fatto graffiando il muro, al buio. Come lo so? Lo so e basta.
È un triangolo rovesciato.
A ogni vertice del triangolo c’è un ovale con dentro dei segni.
Un volto stilizzato. Gli occhi sono raffigurati con due trattini orizzontali
leggermente inclinati, e sotto c’è un segno verticale. Una bocca.
Se sposti appena la luce della torcia, il disegno non si vede più.
Chiudo gli occhi. Svuoto la mente, come mi hanno insegnato. Cerco di
ascoltare la stanza.
L’aria, entrando dalla porta in alto, sussurra sillabe slegate che non
riescono a unirsi per formare parole. È una voce flebile, la sua, una voce
appena percepibile.
«Hai una pala?» chiedo, sottovoce, come se mi trovassi in una chiesa.
«No.»
«Un coltello?»
«No.»
Mi guardo intorno. C’è una bottiglia per terra, in un angolo, mezza
nascosta dalle ragnatele. Una bottiglia di vetro verde, vecchia e impolverata.
La prendo e la spezzo su una delle travi di legno che reggono il soffitto. Poi
m’inginocchio di nuovo e con la bottiglia rotta comincio a scavare quella
terra battuta che sembra così dura e che invece, almeno in un punto, si lascia
mordere e portar via senza opporre resistenza.
C’è un nodo, lì, un nodo in cui il tempo non sembra scorrere ma
intrecciarsi in una forma pulsante, rossa. Getto da parte la bottiglia rotta e
rimuovo la terra con le dita.
Quello che trovo, alla fine, quello che ho in mano, è un fazzoletto di stoffa
azzurra. Avviluppato tra le pieghe della stoffa c’è un piccolo oggetto, che al
tatto sembra una moneta. Svolgo delicatamente la stoffa e l’oggetto appare
per ciò che è.
È un disco di vetro colorato: blu, bianco, azzurro e nero.
Un occhio stilizzato.
È rotto, ne manca una grossa scheggia. Sul bordo il vetro è tagliente.
L’occhio di un gufo, penso, o comunque di un uccello. Nero dentro
l’azzurro, dentro il bianco, dentro il cerchio più esterno color blu cobalto.
Il padre di un mio compagno del liceo impagliava animali. Il suo
laboratorio sembrava l’antro di uno stregone. Era una stanza buia come
questa cantina. C’erano animali impagliati dappertutto: uccelli, una volpe, un
tasso. Il mio amico mi fece vedere gli attrezzi di suo padre, una varietà di
scalpelli e lame dall’aspetto feroce. Poi mi mostrò uno strano mobile, un
comò con una ventina di cassetti lunghi e bassi. Ne tirò fuori uno: disposti
nei tanti scomparti quadrati del cassetto, come pedine su una scacchiera,
c’erano dozzine di occhi, di diversi colori e dimensioni. Erano occhi di
vetro, ma sembravano veri. Era come se decine di animali ti fissassero da
quel cassetto.
Albert si china accanto a me. «Cos’è?» sussurra.
«È un Occhio di Allah. Un portafortuna. Ne avevo uno anch’io, preso a
Istanbul. Serve a contrastare il malocchio. Quando si rompe, come questo,
devi sostituirlo subito con un altro, e il malocchio resta dentro l’amuleto
rotto.»
«Allora forse non dovresti prenderlo.»
«Ormai l’ho fatto. Hai un fazzoletto?»
«Di carta.»
«Dammelo.»
Avvolgo di nuovo l’amuleto nel fazzoletto di stoffa azzurra, e metto il
tutto dentro quello di carta.
«Faccio una foto del disegno sul muro?» mi chiede.
«Se ci riesci.»
Ci prova. Da diverse angolazioni. Con il flash, senza. Le immagini
vengono tutte male: o sovraesposte o sottoesposte. Il disegno non si vede in
nessuna delle decine di foto che il ragazzo scatta, finché non si decide a fare
un filmato. Quando ha finito mi mostra il risultato. In qualche fotogramma il
disegno si vede, prima sfocato, poi perfettamente visibile.
«Salva questo fermo immagine. Puoi?»
«Certo» risponde. «Fatto. Dove te lo spedisco?»
«Da nessuna parte. Lo tieni sul tuo telefono. Quando mi serve te lo chiedo
e tu me lo fai vedere, o me lo stampi.»
«Ma non ce l’hai, un telefono tuo?»
«Quello che è tuo è mio. Andiamo.»
Albert scuote la testa, incredulo. «Ma come? Tutto qui?»
«Tutto qui. Ma se vuoi puoi restare. Ormai conosco la strada.»
«Non guardi nemmeno nel freezer?»
«No.»
«Bel poliziotto che sei.»
Mi volto come a sfidarlo, i miei occhi a venti centimetri dai suoi. «Ero
uno dei migliori. È solo che ora i miei metodi sono cambiati. Non prendo più
impronte, uno perché non ho l’attrezzatura, due perché immagino le abbiate
già prese, tre perché con tutta la gente che dev’essere scesa quaggiù, la scena
del crimine è più compromessa del culo di Kimberly Brix.»
«Di chi? È una che sta alle Zattere? Non l’ho mai sentita.»
Lo spingo da parte. Non rudemente ma con decisione. Anni di servizio
d’ordine ai concerti mi hanno insegnato come si fa. La giusta misura.
Senza voltarmi indietro comincio a risalire le scale, lottando contro la
forza che vorrebbe trattenermi laggiù e che rende lenti e impacciati i miei
passi. È come se i miei piedi fossero immersi nella fanghiglia che ci attende
là fuori. Mi manca l’aria.
Sento i passi veloci di Albert dietro di me.
«Aspettami!»
14

Non è facile, star seduto su questo divano. E non è solo per le molle
sfasciate, o per l’odore di muffa, percepibile anche sotto il profumo di
deodorante. È che non so come mettermi. Sprofondo nella seduta. Le mie
ginocchia sono quasi all’altezza del viso. È come essere al volante di una
Ferrari, solo che davanti a me non c’è un’autostrada deserta, ma una coppia
disperata.
Il cielo azzurro non fa che accentuare la miseria del paesaggio, lo sporco
dei muri, il bianco della neve che già comincia a decomporsi in fango.
Il padre di Amina, seduto di fronte a me, sembra avere il doppio degli anni
di sua moglie, in piedi alle sue spalle con un’espressione indecifrabile sul
volto. L’ingegner Husseini ha i capelli grigi rasati corti, e dei baffi come
quelli di mio nonno, con le punte arricciate. Gli tremano le mani, mentre mi
offre del tè che poi sua moglie, a un mio cenno di conferma, mi versa.
Il suo inglese è peggiore del mio. E io non parlo siriano. Ho chiesto se
potevo avere un interprete, ma la Caragiale, la madre di tutte le risorse, era
irraggiungibile e Aarif, quello stronzo, ha detto che era impegnato. Così
devo starmene qui, in questa stanza che puzza di deodorante e degli odori
che il deodorante dovrebbe coprire, davanti ai genitori di una ragazzina
squartata, ad ascoltare l’ingegnere siriano raccontarmi esattamente quello
che mi aspettavo di sentirgli dire: che Amina era brava, che non frequentava
nessuno, che era tutta casa e moschea, che non aveva grilli per la testa.
Insomma, una santa. Amici maschi? Figurarsi! Amiche femmine? Nessuna.
Voleva diventare maestra elementare, maestra per bambini piccoli, mi dice, e
sua moglie scoppia a piangere.
«Posso vedere la sua stanza?» chiedo.
L’uomo s’irrigidisce.
«Non c’è niente da vedere.»
«Lasci che sia io a dirlo.»
L’ingegner Husseini fa un gesto brusco alla moglie, pronuncia una frase
veloce in quello che immagino sia siriano, o arabo, o qualsiasi cosa parlino
dalle loro parti. La donna arretra di un passo e mi fa segno di andare con lei.

Entrare nella camera di una donna mi ha sempre messo a disagio. Quando


poi la donna è una ragazzina straniera ammazzata in quel modo orribile, la
sensazione che il mio trovarmi lì sia sbagliato è ancora più forte.
È una stanza molto piccola, con pochi mobili di recupero. Un letto
composto da una semplice rete metallica con sopra un materasso sottile, una
libreria in laminato vecchia di almeno quarant’anni, una piccola scrivania e
una sedia. Solo la coperta sul letto mi sembra possa avere un qualche valore:
fatta chiaramente a mano, è rossa, a disegni kashmir.
Mi avvicino alla libreria. Ci sono alcuni volumi in italiano: due romanzi di
Italo Calvino, una grammatica, un’antologia di lettura molto vissuta, con
l’etichetta di una biblioteca scolastica. Il resto dei libri sono in arabo. Anche
se non riesco a leggerne i titoli, li sposto in modo da poter vedere le
immagini sulla copertina. I primi tre sono testi di astronomia, altri quattro di
astronautica: la corsa allo spazio, la Luna, Marte. Un libro di Stephen
Hawking sui buchi neri, a giudicare dalle foto.
Il ripiano della scrivania è sgombro. Niente quaderni, niente penne o
matite.
Non ho idea di come si dica “zaino di scuola” in siriano. Guardandomi
intorno però lo vedo, accanto al letto.
Facendo un segno che spero possa essere compreso dalla madre di Amina
mi chino a raccoglierlo dal pavimento in linoleum. È molto leggero.
Dentro ci sono due quaderni e una penna, e un diario scolastico sul cui
frontespizio c’è scritto in alfabeto latino il nome AMINA. C’è un altro oggetto,
avvolto in un fazzoletto blu. Fra le sue pieghe c’è una piccola mela di una
varietà che non riconosco. La buccia è raggrinzita.
Infilo la mano in tasca.
Ne tiro fuori il fazzoletto trovato nella cantina e lo poso sulla scrivania,
accanto a quello che conteneva la mela. Sono uguali. Roba che compri in
stock in qualche discount. Con l’indice e il medio, lentamente, svolgo la
stoffa, rivelando l’oggetto che contiene.
Quando l’Occhio di Allah spezzato appare fra le pieghe del fazzoletto, la
madre di Amina si porta la mano alla bocca, trattenendo un singhiozzo.
Arretra di due passi, come se volesse scappare dalla stanza. Poi si muove
troppo in fretta perché io possa trattenerla. Allunga la mano sulla scrivania e
afferra l’amuleto, stringendolo fra le dita che sbiancano.
Cade in ginocchio, piangendo e lamentandosi, scuotendo la testa come
una pazza. Il suo pianto diventa un ululato.
Il marito, richiamato dal rumore, appare sulla soglia della cameretta e
grida qualcosa nella sua lingua.
La donna lo fissa a lungo. Poi scatta come una molla, lanciandosi su di lui,
graffiandogli la faccia, cercando di trascinarlo a terra col peso del suo corpo.
Urla invettive furibonde e strilla, mentre l’uomo tenta inutilmente di
difendersi. È una scena che non capisco. Ma sento che devo intervenire.
Separo la madre di Amina dall’uomo che ora si rotola per terra
lamentandosi, guardando incredulo il sangue che gli macchia le dita, il suo
sangue.
«Smettetela!» faccio, cercando di dividerli. Ma la donna è una furia. Il
sangue del siriano schizza dalle ferite al volto e alle braccia, macchiando il
pavimento. Ci vuole l’intervento di due vicini di appartamento della coppia,
per fermarli e separarli.
Uno dei vicini parla arabo e una specie di italiano.
«Chiedile perché l’ha aggredito» gli ordino.
Lo scambio di parole è rapidissimo, un abbaiare gutturale.
«Dice che non vuole dirtelo. Che non sono affari tuoi.»
«Dille che la morte di sua figlia è affar mio.»
«Non capisco.»
«Sua figlia è morta. Io cerco chi l’ha uccisa. Per punirlo. Per fermarlo.»
L’uomo traduce.
La donna scuote la testa. Pronuncia due frasi lunghe e agitate.
«Dice che lui l’ha venduta. Che l’ha data via per soldi. Dice che se c’è un
assassino è lui che non ha saputo proteggerla. Dice che non è il padre di
Amina.»
Il siriano si guarda intorno come se cercasse una via di fuga. Ci prova,
anche, a scattare verso la porta, ma ha sbagliato i suoi conti. Lo placco al
volo quando è ancora dentro la stanza, e il rumore che fa cadendo è quello di
qualcosa che si rompe. Pancia a terra, schiacciato sotto il mio peso, si dibatte
inutilmente, come un’anguilla nella rete. Riesce lo stesso, incredibilmente, a
girarsi, come un lottatore di wrestling, e a piazzarmi un pugno in fronte che
mi fa vedere le stelle. Le sue unghie mi graffiano il braccio. A suon di
cazzotti riesco a riportarlo nella posizione di prima, faccia sul pavimento. Mi
prendo anche la soddisfazione di sbatterglielo per terra un paio di volte, il
muso.
Vorrei avere delle manette, o del filo di ferro, qualcosa per legare questo
pazzo che ancora si divincola cercando di sfuggire alla mia presa.
«Hai della corda? Del nastro adesivo? Presto!»
L’interprete improvvisato esce dalla stanza annuendo.
«Pezzo di merda! Smettila di agitarti! È inutile!»
Quando l’uomo ritorna, pochi minuti dopo, ha in mano una cosa che mi fa
ridere dal sollievo. Un rotolo di nastro grigio da idraulico. Mi aiuta ad
aprirlo, tiene ferme le mani del siriano, in modo che io possa legarle con il
nastro, dando molti più giri del necessario. Alla fine blocco insieme anche le
caviglie del mio prigioniero.
La donna grida qualcosa.
«Cosa sta dicendo?»
«Dice che lui non è siriano. Dice che è iracheno, di Daesh. Di Isis, come
la chiamate voi.»
«Stai scherzando?»
«È quello che lei dice.»
«Va’ a cercare Nadia Caragiale! Dille che Sergio Stokar ha bisogno di
aiuto! Che venga qui!»
L’uomo esce. Ansimando, mi metto a sedere per terra, appoggiando la
schiena contro un angolo. Non sono solo fuori forma. Sono praticamente
morto. Sfinito, fatico a respirare. Il cuore mi batte alle tempie come un
tamburo.
Allungo un calcio alla coscia del prigioniero.
«Razza di bastardo» sibilo fra i denti.
Alzo lo sguardo e vedo che la madre di Amina mi sta guardando con
un’espressione indecifrabile.
«Che c’è? Perché mi guardi? Lo so che non mi capisci, e allora perché ti
parlo? Forse solo per sentirmi vivo. Perché se sento la mia voce vuol dire
che non sono morto…»
La donna continua a fissarmi.
«Hai detto che questo stronzo non è il padre di Amina. Che l’ha venduta
per soldi. A chi l’ha venduta? Quando?»
Tanto varrebbe che parlassi al muro.
Si sente un sacco di trambusto, nel corridoio.
Meglio se esco a vedere chi è, prima che invadano l’appartamento.
Mi alzo.
«Non ti muovere» faccio alla donna, con un gesto che anche un marziano
riuscirebbe a interpretare.
Esco dalla stanza.
Un gruppetto di maschi, in gran parte pakistani e africani, si affaccia nel
soggiorno dell’appartamento.
«Andatevene. Via. Non c’è niente da vedere, qui» gli intimo, ma senza
riuscire a convincerli. Anzi, uno di loro, un ragazzo magro, oltrepassa la
soglia prima ancora che io abbia pronunciato la parola qui.
«Ehi ehi ehi! NO, eh! Torna indietro! Esci subito da qui!»
L’africano m’ignora. Spingendomi di lato entra nella stanza. E si becca
una pallottola in piena faccia. Vedo la sua guancia destra esplodere,
schizzando di sangue le pareti e il soffitto. Il suono dello sparo sembra
arrivare molto dopo. L’africano scivola, come se stesse per fare un
piegamento sulle ginocchia. Invece cade di lato, abbattendosi sul pavimento
accanto al siriano legato.
La pistola che ha sparato è nelle mani della madre di Amina. La tiene
debolmente, come se il peso dell’arma fosse enorme. Per un attimo, che
sembra durare all’infinito, la canna della pistola punta contro il mio petto,
poi contro la mia faccia. Alla fine si abbassa.
«NO!» grido. Ma la donna esplode due colpi alla nuca dell’uomo legato a
terra. Poi continua a sparare, altri tre colpi, su quella carne che sussulta,
finché il cane non scatta a vuoto.
La madre di Amina mi fissa imbambolata. Poi lascia cadere la pistola e si
incammina come una zombi verso la portafinestra che dà su una terrazza
miserabile, una specie di discarica in cui si accumulano mobili vecchi,
bombole di gas e padelle colme d’olio utilizzato infinite volte.
Come in trance, la donna siriana raggiunge la terrazza, posando il piede su
una pila di scatole, che la sostiene, in modo che lei possa voltarsi e
guardarmi.
A che piano siamo?, chiede una voce dentro di me.
Al sesto, rispondo.
Perché so già cosa sta per succedere, e so che non posso evitarlo.
Il sangue mi cola sopra l’occhio destro, velandomi la vista, ma non
abbastanza.
La donna sale ancora, usando come appoggio quelle scatole. Quando è
quasi al livello del parapetto della terrazza, senza nessuna esitazione mette
un piede nel vuoto, e precipita.
Dovessi vivere altri cent’anni, non potrò mai togliermi dalla mente il suo
sguardo, un istante prima di cadere nel vuoto.
Lo sguardo di chi ha visto tutto e non vuole vedere più.
15

«Cazzo, Aarif, cos’è che non ti è chiaro? Dovete chiamare la polizia,


punto e basta. Questa storia è troppo grande per voi, per me, per le Zattere!»
Aarif tira una lunga boccata di fumo dalla sua sigaretta. Scuote la testa.
«Non possiamo chiamare nessuno. Non dopo quello che è successo.»
«La donna ha detto che quello stronzo era di Daesh. Che era iracheno.»
«Si dicono tante cose, quando si è arrabbiati. Non è il cervello che parla,
in quei momenti.»
«Cazzo, sono morte due persone. Senza contare le ragazze.»
Aarif sospira. È seduto di fronte a me nel piccolo soggiorno
dell’appartamento accanto a quello in cui è successo il casino. Sta a
cavalcioni della sedia, i gomiti appoggiati allo schienale, come un gangster o
lo sbirro di un film americano.
Attraverso le porte aperte vedo una squadra di operai con tute più o meno
bianche, che puliscono il pavimento e ridipingono le pareti. Immagino che
un’altra squadra stia facendo lo stesso di fuori, nel parcheggio dove il corpo
della madre di Amina si è sfracellato, in una replica di quello che è successo
a Krystyna.
Aarif sembra leggermi nel pensiero.
«Tutte le donne che incontri si buttano dalla finestra, italiano?»
«No. Alcune vengono buttate dal tetto, stronzo.»
«Capisci che la questione ormai non è più solo criminale. La questione è
politica. E solo noi possiamo risolverla. Con il tuo aiuto, se vuoi darcelo,
sennò senza.»
Cerco di non pensare alle implicazioni della parola “senza”.
«Devi farti entrare in testa, italiano, che noi e la città viviamo in un
equilibrio delicato. Dobbiamo renderci invisibili, se vogliamo che ci lascino
vivere. Un’indagine della polizia ci metterebbe sotto una lente
d’ingrandimento. Hai mai visto cosa può fare, una lente d’ingrandimento?
Ne avevamo una, a Damasco, quando ero bambino. Una vecchia lente.
Molto vecchia. Io e i miei fratelli la usavamo per dar fuoco alle foglie, o a
dei pezzi di carta. A volte bruciavamo anche degli insetti. Dovevi vedere
quelli più grandi. Le formiche, quando il raggio di luce le raggiungeva,
morivano subito. Invece gli insetti più grandi, quelli continuavano a
camminare, con il corpo che fumava, e ci mettevano un bel po’ a crepare.»
Un altro tiro di sigaretta.
«Io non voglio che il mio popolo finisca sotto quella lente.»
«Il tuo popolo… Lo stanno ammazzando, il tuo popolo. Pensi di riuscire a
fermare gli assassini da solo?»
«Ma io non sono solo. Ho una comunità con me. Persone dotate di una
grande forza d’animo e di svariati talenti. Cosa potrebbe fare più di loro, la
tua polizia italiana? Niente. Si muoverebbero, come si dice, come elefanti in
un negozio di cristalli. Invece noi ci muoviamo come pesci nell’acqua. Ora
hai molti fili in mano. Anche un cieco saprebbe metterli insieme per tessere
la trama di quanto è successo, di quello che sta succedendo. E tu non sei
cieco.»
«Quello che state facendo è un reato, lo sai, vero? Anzi, più di uno.»
Conto con le dita. «Occultamento di cadavere, ostacolo alle indagini…»
«Ma l’indagine la stai conducendo tu, Stokar. Anche se l’indagine, a dire
il vero, doveva essere sulla morte della puttana polacca. A quanto pare ti sei
allargato, e senza dirci nulla.»
Ricordo l’avvertimento di Nadia di non dire nulla a lui o a Chimeze.
Quindi incasso in silenzio. Che sia arrivato Aarif invece di Nadia, sul luogo
del delitto, è stata una brutta sorpresa. Ma uno deve giocare con le carte che
escono dal mazzo.
«Che ostacolo c’è? Non c’è nessun ostacolo. E i morti vanno seppelliti
subito, secondo la nostra religione. Non possiamo aspettare l’autopsia. E
comunque sappiamo già come sono deceduti. I loro corpi non hanno più
niente da dirci. Come non avevano niente da dirci i corpi di quelle ragazze. Il
dottor Chatterjee ha fatto le autopsie. Puoi chiedere a lui tutto quanto ti serve
sapere.»
«Non è così che si fa, Aarif.»
«È così che facciamo qui, italiano.»
«Cosa dice la Caragiale?»
«Nadia la pensa come me. E anche Chimeze. Unanimità.»
«Ti rendi conto che sono solo, in questa indagine? Che sono malato? Il
vostro stregone ha pasticciato con il mio cervello così tanto che a volte non
so se le cose le penso io o uno stramaledetto Alien che mi ha impiantato in
testa…»
Aarif lascia cadere a terra la cicca di sigaretta, la schiaccia sotto il tacco
della scarpa.
«Sei un italiano presuntuoso. Davvero pensi di essere il solo a indagare?
C’è un sacco di gente che lavora su questa cosa. Da molto tempo. Voi lo
chiamate Zattere, questo posto. Certi lo chiamano Rifugio, o Casa. Sai come
lo chiamiamo noi del Consiglio? Lo chiamiamo Marte. È stato Albert a
dargli quel nome, e ci è piaciuto. Aveva visto un film americano su un
astronauta che viene abbandonato su Marte e deve sopravvivere con il poco
che ha. Noi pensiamo di vivere su Marte, solo che non è un pianeta a milioni
di chilometri dalla Terra, è un posto vicinissimo alla città di voi italiani, ma
voi non ci vedete, come se fossimo distanti anni luce. Per quello che vi
riguarda potremmo essere davvero su Marte. E infatti avete paura
dell’invasione di noi marziani…»
«Perché dici voi italiani…? Io…»
«Tu sei esattamente come loro. Peggio. Sei come i peggiori di loro. Sei
razzista, intollerante, eri un poliziotto così cattivo che neanche i fascisti che
adesso vi governano potevano più sopportarti e ti hanno cacciato via.»
«È stato il vecchio governo. E comunque non è andata proprio così…»
«È la stessa cosa. Il vecchio, il nuovo… Tu riesci a distinguerli? Per noi la
musica non è cambiata. Cambiano i musicisti, ma lo spartito è sempre lo
stesso.»
«Nessuno vi obbliga a restare qui.»
Aarif mi guarda con interesse. Non ci siamo mai presi, io e lui. Ma non mi
aveva mai guardato così. Studiandomi. Pesando le parole prima di
pronunciarle.
«Hai ragione. Nessuno ci obbliga. Quando vogliamo, noi possiamo
andarcene. Ma tu, italiano? Questa è casa tua. Anche tu puoi andartene
senza problemi? Hai un altro posto dove andare, se qui le cose vanno male?»
Non rispondo.
Guardo un nero che passa veloce il rullo di pittura sulla parete
dell’appartamento in cui ha vissuto Amina.
«Vai a farti vedere da Chatterjee» fa Aarif. «Hai l’aspetto di uno che è
finito sotto un camion.»
«Va’ a farti fottere.»
«Brucia, eh, quello che ti ho detto? Per paura di noi stranieri, vi siete presi
dei cani da guardia che ora vi fanno paura.»
«Voglio parlare con la Caragiale.»
Sbatto per terra la scacciacani, l’Olympic 38 del cazzo che mi ha tratto
d’impaccio con i selvaggi del Bronx ma non mi servirebbe a nulla in uno
scontro vero.
«Com’è che io devo girare con questo giocattolo di merda, mentre qui
qualunque stronzo ha una pistola? Voglio anch’io un’arma vera, cazzo!»
«Nadia non è al momento raggiungibile» fa il siriano, imitando il
messaggio di una segreteria telefonica. «Quanto alla pistola, scordatela.
Intanto va’ a farti visitare da Chatterjee. E poi fatti una camminata fino in
centro. C’è uno che vuole vederti. Dice che ha della roba per te. O almeno
così ha detto a Tommy.»
«In centro dove?»
«Al Minigolf del Diavolo, ha detto.»
Annuisco. Mi premo il fazzoletto sul sopracciglio e poi lo guardo. È
zuppo di sangue.
Aarif scuote la testa, con una smorfia di disgusto.
«Passa a farti vedere da Chatterjee, prima. È un ordine.»
16

Il nome Minigolf del Diavolo l’ha inventato Lorenzo Vidal, per descrivere
questo esperimento sociale fortemente voluto dalla giunta di centrodestra per
«rivitalizzare», credo di citare le parole esatte del sindaco, «un ambito civico
depauperato della sua funzione, al quale va riassegnato un nuovo valore
riqualificante del tessuto urbano, affinché diventi un asse cartesiano della
legalità e del futuro».
In pratica, al posto di uno spiazzo pavimentato in pietra di mille metri
quadrati in pieno centro cittadino, si era realizzato un parchetto artificiale,
con erba e piante e decori di dubbio gusto, comprese alcune statue di gesso
colorato che qualche sabotatore, nottetempo, non mancava mai di rinforzare
polemicamente con dei nani da giardino.
Lorenzo l’aveva definito «il Minigolf del Diavolo» pensando ai romanzi
di Stephen King.
«Hai presente certi posti che King descrive? I circhi, i luna park, il
giardino dell’Overlook Hotel? Posti apparentemente normali ma inquietanti,
oltre che orribilmente kitsch? Be’, questo posto è diventato la stessa cosa,
cazzo. È una roba da Rimini, una specie di Minigolf del Diavolo che non
c’entra un cazzo con Pista Prima…»
Fra di noi chiamiamo questa città Pista Prima per via di un vecchio libro
scritto da uno tanti anni fa, che aveva rinominato così la sua città.
Uno che aveva avuto una botta di successo con il suo primo romanzo e poi
era praticamente sparito.
Quello a sua volta aveva preso il nome Pista Prima da uno scrittore
inglese, George Orwell.
È una lunga storia.
Lo vedo dall’alto, il mio amico, dal chiostro della biblioteca.
Seduto su una panchina del Minigolf del Diavolo, Lorenzo Vidal tiene in
mano un sacchetto del pane. Davanti e intorno a sé ha una dozzina di
piccioni intenti a zampettare in una danza elaborata e nervosa.
Scendo lentamente, attento a non scivolare sul ghiaccio che copre gli
scalini. Gli operai del comune hanno spazzato via la neve, senza pensare che
il freddo della notte avrebbe trasformato l’umidità rimasta in ghiaccio. Mi
appoggio alla balaustra, gelandomi la mano. Gunga Din è stato meno
cordiale del solito, impartendomi le sue istruzioni per l’uso.

«Io non so più cosa fare con lei, signor Stokar.»


La sua voce era una specie di cantilena accorata, mentre mi spennellava
di tintura di iodio l’avambraccio, e poi mi dava tre punti al sopracciglio
spaccato da un pugno del siriano.
«Dovrebbe vedere l’altro.»
«Oh, ma l’ho visto. Devo ancora fargli l’autopsia. Stamattina i morti
fanno la fila come al mercato, ma non è che ci siano molti dubbi sulla causa
della morte. È stato lei, signor Stokar? Non credo.»
«No, ha fatto tutto da solo. Alla voce “causa della morte” scriva pure:
suicidio.»
«Con due pallottole in testa e tre nella schiena, farei un torto alla mia
professionalità. Non le chiedo com’è andata, però lei sembra una vera e
propria calamita per le morti violente. Senza offesa. È solo una
constatazione.»
«Anche lei sembra una calamita per i malati. E i morti.»
«Non faccia il furbo, signor Stokar. Sa cosa voglio dire.»
«L’ha ucciso la moglie.»
«Ah, sì, ho visto anche lei. E il ragazzo del Mali?»
«Quale ragazzo?»
Chatterjee ha tenuto in alto l’ago per la sutura.
«Il ragazzo con la guancia squarciata. Per fortuna era più apparenza che
sostanza. Tanto sangue ma una ferita curabile anche con le mie miserabili
competenze e i miei ancor più miserabili mezzi.»
«Lui era solo un innocent bystander. Se la caverà?»
«Non vincerà mai un concorso di bellezza, e difficilmente potrà lavorare
come giornalista televisivo, ma a parte questo se la caverà, sì. Anche a lui
ha sparato la donna?»
«Già.»
«E lei? Chi le ha fatto questo?»
«Il suicida.»
«Il suicida maschio. O la donna è stata buttata dalla finestra?»
«Dalla terrazza, in realtà. No, nessuno l’ha buttata. Ha finito con le
domande?»
«Volevo solo distrarla. In realtà ho già le risposte. I corpi non mentono.
Ora le farò un po’ male.»
«Perché, finora cos’ha fatto?»
Ma poi, quando l’ago che assomigliava a un amo da pesca mi è entrato
nel sopracciglio, ho capito la differenza tra male e male.

Lorenzo sgrana gli occhi, vedendomi.


«Cristo, che cazzo hai fatto?»
«Un incidente di rasatura.»
«Da quando in qua ti radi le sopracciglia?»
Scrollo le spalle.
Lorenzo posa sulla panchina il sacchetto del pane. I piccioni si
avvicinano. Lui li respinge col piede.
«Via, luridi parassiti alati! Devo parlare col mio amico! Allora, via, vuoi
dirmi o no che cazzo ti è successo?»
«Se li chiami così, perché gli dai da mangiare?»
«Dopo lo vedi. Allora, cosa cazzo ti è successo? Ti sei rimesso nei guai?»
«Non ne sono mai uscito. Perché mi hai chiamato?»
Il giornalista infila una mano nel Woolrich e tira fuori dalla tasca interna
una cartella verde molto sottile. Me l’allunga sulla panchina.
«Non chiedermi quanto o cosa mi è costato, ottenerla.»
«Okay. Non lo farò.»
Mi siedo, raccogliendo la cartella e spostando il sacchetto del pane.
«L’hai già letta?» chiedo, sapendo già la risposta. Lorenzo sarà anche uno
dei migliori esemplari umani che conosco, ma resta comunque un
giornalista.
«Be’, sì.»
«Potresti riassumerla?»
Forse vorrebbe fare una battuta, ma dopo aver dato un’occhiata alla mia
faccia decide di soprassedere. Guardandomi allo specchio, prima di uscire
dalle Zattere, mi sono fatto impressione da solo. L’occhio destro sembra
quello di un panda, e il cerotto sul sopracciglio non aiuta sul piano estetico.
«Riassumerla, dici… Non sono un medico, ma da quello che ho capito la
causa della morte non è stata la caduta dal tetto di quel condominio del
Bronx. Krystyna è morta un paio d’ore prima. Sulle braccia aveva numerosi
segni di punture.»
«Krystyna non si faceva.»
«Non puoi esserne sicuro. Comunque la morte non è dovuta neanche a
quelle, stando agli esami tossicologici.»
«E allora di cosa è morta?»
Lorenzo si toglie gli occhiali, li pulisce con un fazzoletto di carta. Sospira.
«Soffocamento. Con un laccio intorno al collo.»
«Cristo.»
«Forse un gioco erotico finito male. C’erano segni di costrizione anche
attorno ai polsi e alle caviglie. E sulle guance. Legata e imbavagliata,
insomma. E strangolata. Succede, in questo genere di cose…»
«Ne hai mai fatte, con lei, cose del genere?» gli chiedo, brutalmente.
Ma non è con lui che ce l’ho, ovviamente.
Vidal fa tristemente segno di no. Si rimette gli occhiali. Mi guarda con
aria di sfida prima di chiedermi: «E tu?»
Scuoto la testa, quando in realtà dovrei annuire.
La voce del giornalista è sempre più roca, mentre prosegue il suo
resoconto.
«La cosa strana è che non ci sono impronte. Né sul corpo né sui vestiti.
Che fra l’altro, se n’è accorto l’anatomopatologo che ha preparato il corpo
per l’autopsia, erano stati indossati male. Come se glieli avessero rimessi
quando lei era già morta. Le calze erano anche strappate.»
«Krystyna era una maniaca per queste cose…» sussurro.
«Esatto. Non me la vedo proprio a indossare un paio di calze rotte. Perché
erano rotte tutte e due, non solo una. Io penso sia perché non è così facile
rimettere le calze a un cadavere. E poi c’è un’altra cosa.»
«Dimmela.»
«Kry usava lenti a contatto. Ma stando all’autopsia non le aveva quando è
morta.»
«Possono essere scivolate via durante la caduta.»
«È possibile, ma la polizia le avrebbe trovate. Stando al rapporto allegato
all’autopsia hanno delimitato il perimetro del ritrovamento e l’hanno passato
al setaccio. Le probabilità che due lenti si siano staccate sono minime. E che
la polizia non le abbia trovate sono ancora meno.»
«Segni di violenza?» chiedo. La voce mi esce meno ferma di quanto
vorrei. «Violenza sessuale, intendo.»
«Non si è trovato liquido seminale, né… be’, né dentro né sul corpo, o sui
vestiti. Però il rapporto dice che c’erano i segni di un rapporto sessuale.
Abrasioni sulla muscolatura interna. E l’ano…» Si passa una mano sulla
fronte, poi si massaggia le sopracciglia. «L’ano presentava evidenti segni di
violenza, ma niente tracce di dna estraneo. Chiunque sia stato deve aver
usato un preservativo.»
«Prima o dopo la morte?»
«Cosa?»
«I rapporti sessuali.»
«Entrambe le cose. Prima e anche… be’, anche dopo.»
È assurdo parlare di queste cose con tanta normalità, come se non
stessimo rievocando la passione e morte di un’amica. Anzi, di qualcosa di
più di un’amica.
Lorenzo alza lo sguardo sopra le mie spalle.
Sorprendendomi, sorride.
«Scusa un attimo.»
Prende il sacchetto del pane e comincia a distribuirlo ai piccioni,
chiamandoli persino, con dei versi stupidi che secondo me sarebbero giusti
per dei tacchini.
Una voce mi esplode a pochi centimetri dall’orecchio.
«Cosa state facendo?»
Mi volto troppo di scatto, suscitando una sequenza di messaggi dolorosi
da collo e spalle.
Sono due, in piedi accanto alla panchina. Indossano abiti civili, con sopra
una pettorina arancione vivo, del colore dei giubbotti di salvataggio. Sulla
pettorina ci sono i loghi e i nomi di alcuni negozi cittadini e la scritta CIVIC
GUARD.
Il biondo che ha parlato ha un fisico da palestra e uno sguardo azzurro da
cane cattivo, il petto in fuori come la polena di una nave vichinga. Il bomber
e i jeans che indossa sembrano sul punto di esplodere per la pressione dei
muscoli. È come uno pneumatico gonfiato troppo. Quello vicino a lui invece
è piccolo e bruno, e si tiene trenta centimetri buoni dietro il collega.
Lorenzo non alza lo sguardo. Continua a nutrire quelli che pochi minuti fa
ha definito sporchi parassiti alati, o qualcosa del genere. E ha sulle labbra
questo sorriso stupido che non promette niente di buono.
«Dico a lei! Cosa sta facendo, signore?»
Il mio amico non risponde.
«Lei sta violando l’ordinanza comunale numero 252 del 6 maggio 2017.»
«Non so di cosa si tratti.»
«Non è che uno è scusato se ignora la legge. L’ordinanza ha esteso dai
precedenti cinquanta a mille metri l’area di divieto di somministrazione di
cibo ai colombi nei dintorni di ospedali, scuole, case di cura, asili nido e aree
gioco per bambini, al fine di tutelarne gli utenti e di evitare la diffusione di
malattie. I colombi sono affetti da un’infezione batterica gastroenterica che
può trasmettersi all’uomo attraverso le feci.»
Dà l’impressione di aver imparato la formula magica a memoria.
«Mille metri mi sembrano esagerati» ribatte Lorenzo. «Praticamente vuol
dire ovunque e in ogni luogo sul territorio comunale. E comunque guardi che
questi non li ho mai visti cagare. Sono animali molto puliti. Inoltre non sono
colombi. Sono piccioni» ribatte Lorenzo, quando l’altro ha finito lo
spiegone.
«È la stessa cosa.»
«Ne è sicuro?»
«Colombi e piccioni sono la stessa cosa. La smetta di nutrirli! È vietato!»
Per tutta risposta il giornalista, sorridendo, lancia una manciata di briciole
di pane che potrebbe sfamare un villaggio africano.
La civic guard gli strappa di mano il sacchetto, che purtroppo si lacera al
volo, disperdendo un arco di briciole che scatena gli istinti peggiori dei
colombi, o piccioni che siano, producendo una scena degna del film Gli
uccelli di Hitchcock.
I pennuti si gettano con strepito d’ali e forza di becchi sul pane,
calpestandosi a vicenda e lordando scarpe e calzoni delle due guardie
attonite.
Prendo la cartella e mi alzo. Lorenzo invece rimane seduto, in mezzo al
frullare frenetico di penne e ai versi infuriati degli uccelli, godendosi
l’umiliazione delle due guardie, che pur volendo punire il trasgressore hanno
il timore di farlo, sia per la presenza di altre persone che stanno filmando e
forse condividendo con i cellulari il video dell’assalto piumato sia perché dal
fondo della piazza sta arrivando trafelato il comandante dei vigili urbani
locali, quello che la mia ex moglie chiamava «il contrammiraglio
Bruseghin» per via delle file di medaglie e nastrini che decorano la sua
uniforme di gala. Oggi indossa un outfit molto meno elegante, una specie di
tuta mimetica grigiastra perfetta per la guerra fra le macerie di una città
irachena. Le civic guard vedendolo arrivare si raggelano come topi davanti a
un serpente. Uno di loro scatta in un approssimativo attenti. Lorenzo ne
approfitta per squagliarsela, ma non prima di aver svuotato quel che resta del
pane sulla testa dei due, che così devono vedersela con gli attacchi diretti dei
pennuti.
«Corri!» grido, tirandolo per la manica del Woolrich verso il parcheggio
del Gentle Giant, il negozio di musica dove so che il contrammiraglio e i
suoi uomini non si addentrerebbero mai, perché gode dell’immunità dovuta
al fatto che okay, è vero che è frequentato da drogatelli e alternativi di
sinistra, ma è anche di proprietà del figlio, quantunque degenere anche in
quanto ricchione, dell’onorevole Augusto Manderioli, senatore di fresca
nomina in quota a Orgoglio civico nazionale, uno di quelli che si mette la
mano sul cuore e canta Giovinezza anche solo se deve pisciare,
rigorosamente in piedi. Lui e il contrammiraglio Bruseghin si sono distinti,
un anno fa, per un’operazione di pulizia arborea nell’area verde prospiciente
la stazione ferroviaria, che ha visto l’accerchiamento di numerosi cespugli
ed essenze vegetali degenerate, giudicate e poi sommariamente abbattute sul
posto da guardie forestali armate di motoseghe e machete. Il motivo ufficiale
era stato che gli alberi erano malati di un morbo imprecisato. In realtà i
parchi cittadini, a causa dell’ignavia del governo nazionale, giustamente
punito alle recenti elezioni politiche regionali che hanno visto il trionfo dei
partiti dell’ordine, erano divenuti ricettacolo dei più sordidi e non tassati
commerci, in forme e modi che turbavano la pace sociale e la reputazione
della città. Così, all’alba di un bel mattino d’estate, decine di uomini e donne
in divisa da fatica, supportati da ruspe e altre unità cingolate, avevano
circondato il piccolo parco e, a un segnale dato con tre decisi colpi di
fischietto, avevano dato l’assalto.
Qualche anziano che aveva ancora memoria della guerra e
dell’occupazione nazista si era lagnato sui quotidiani locali per le modalità
dell’operazione di bonifica del parco, definendola «uno stramaledetto
rastrellamento». Ne era seguita una serie di botta e risposta tra
l’amministrazione comunale e i sinistrorsi locali che, bla bla bla bla bla bla,
si erano arrampicati sugli specchi unti per giustificare la loro opposizione a
un benemerito e da lungo tempo atteso segnale di civiltà.
Visto dall’alto, mentre scappiamo, il Minigolf del Diavolo sembra un
formicaio scoperchiato. Gente che va, gente che viene, cercando di
contenere i danni ed evitare altri imprevisti.
Raggiungiamo trafelati la vetrina del Gentle Giant.
Da lì in poi si entra nella kasbah cittadina, dove vigono regole e leggi
diverse rispetto al resto del territorio urbano: dove gli esercizi commerciali,
per dire, possono restare aperti tutta la notte e scaricare le loro immondizie
direttamente in strada. Oltre le Colonne d’Ercole del Gentle Giant la forza
pubblica non si spinge se non in presenza della stampa o di qualche autorità
politica di fama nazionale. Non essendoci in campo né l’una né l’altra, le
forze dell’ordine si fermano di fronte al negozio di dischi, come formiche
davanti a una linea tracciata con la matita grossa.
«Ci stanno… dietro?» ansima Lorenzo, faticando a tenere il mio passo.
«Macché. Fermati. Respira.»
Si arresta e appoggia la schiena contro il muro.
«Non ho più… l’età… per queste cose…»
«Non è questione di età. Solo di forma.»
«Ma tu come cazzo… fai… a mantenerti così…?»
«Vado in palestra ogni giorno.»
Forse dovrei dirgli che la mia palestra è al piano più alto di Paris, e che il
primo esercizio è raggiungerla, facendo tutte quelle rampe di scale di corsa.
«Beato te. No: ritiro tutto… Beato un cazzo… Preferisco arrendermi…
all’età. È più comodo…»
«Riprendi fiato, dai. Qui non ci entrano.»
«È come quando… nei film… i cattivi non vengono a prenderti… e poi
scopri che è solo…»
«Ti ho detto di star zitto e riprendere fiato.»
«… perché i buoni… sono finiti nella tana… di un vampiro… o di un
ragno gigante…»
Sorrido.
Non è che ci sia andato troppo lontano.
Ci sono parti della città che per un borghese dal portafoglio pasciuto
rappresentano luoghi da incubo. Anche per questo, tre anni fa, i nostri
concittadini hanno eletto un’amministrazione di ultradestra, nella speranza di
vedere le ruspe e i blindati della polizia in azione in quartieri come questo,
dove i bianchi sono in minoranza.
Il fatto è che quei luoghi il cui nome incute timore non sono quasi mai più
pericolosi di altre parti della città. A giudicare dalle cronache giornalistiche
si rischia di più la vita lavorando in fabbrica nel turno di notte o in un
cantiere edile. Anche se di cantieri edili, da sei anni a questa parte, se ne
vedono davvero pochi, in città.
«Stai tranquillo. Nessuno ti farà del male.»
«Perché ci sei tu… a proteggermi?»
«Perché no? Gli amici servono, a volte. Vieni, ti offro qualcosa di forte.»
«Ma no…»
«Ne hai bisogno. Quindi zitto e cammina.»

Mettiamola così. Se questo quartiere è brutto, il locale in cui porto


Lorenzo lo fa sembrare Beverly Hills, al confronto. Gestito da cinesi, e
prima ancora da pakistani che l’hanno notevolmente massacrato, sia
economicamente che per quanto riguarda l’arredo, il Perla Bar & Grill sta a
un bar normale come un senzatetto a un milionario: sostanzialmente non c’è
differenza, liberté egalité fraternité, we are the world, we are the children, è
comunque un bar del centro. Ma fra un bicchiere con dentro pochi spiccioli e
una carta American Express Gold la differenza si coglie. E così quella fra un
bar vero e questo posto di merda, che credo serva a qualche pezzo grosso
della malavita cinese per riciclare denaro. What else?
«Portaci una grappa» faccio al barista, tirandomi dietro Lorenzo verso un
tavolo d’angolo. Siamo gli unici clienti nel locale.
«Una o due?»
«Una. Per me un bicchiere d’acqua.»
«Naturale o gassata?»
«Di rubinetto.»
«Che grappa vuoi, Candolini, Nonino, Pagura?»
«Quella che costa meno.»
«Costano tutte meno.»
«Quanto paraculo sei, Chen? Su una scala da uno a mille?»
«Non mi chiamo più Chen. Ora mi chiamo Osvaldo.»
«Osvaldo… Tra tutti i nomi che potevi sceglierti, come mai proprio
Osvaldo?»
«Era il nome del proprietario prima.»
«Il proprietario prima si chiamava Abdul. Era un inculacammelli piovuto
qui dal Bangladesh.»
«Quello prima ancora. L’ultimo bianco. A volte viene ancora qualche
signore anziano, guarda dentro e dice: “Dov’è Osvaldo?” Adesso io posso
dirgli: “Eccomi qui, sono io Osvaldo.”»
«Ti approfitti dell’Alzheimer.»
«Loro non vedono troppo bene. Sentono la mia voce e pensano che sono
italiano.»
«Oppure Homer Simpson.»
«Per via del giallo?» sorride.
«Sei un uomo intelligente, Chen.»
«Osvaldo.»
«Portaci quella maledetta grappa. E l’acqua.»
«Porto la grappa. Faccio io, poi voi indovinate cos’è.»
Seduto, Lorenzo ha ritrovato il suo colore naturale. Non ansima quasi più.
Ora rantola, a livelli da enfisema.
«Dovresti perdere peso» gli faccio, crudelmente. «E anche smettere di
fumare.»
«Vaffanculo.»
Chen viene al nostro tavolo, tenendo tra l’indice e il pollice delle mani due
bicchierini.
«Ho detto un bicchier d’acqua» faccio.
«Offre la casa. Poi ti porto anche l’acqua. Chi è il tuo amico?»
«Un amico.»
«Non vieni più qui da tanto tempo. Per fortuna ho una buona memoria.
Come ti va?»
«Splendidamente.»
«Un uccellino mi ha detto che non sei più in polizia. Che sei una specie di
come si dice… un investigatore privato.»
«Ti ha detto bene. Però anche se non sono in servizio non posso bere.
Grazie comunque.»
«Non discuto. Magari le beve tutte e due il tuo amico, cosa dici?»
Lorenzo non discute. Manda giù una dietro l’altra le due grappe.
«Nonino?» fa.
Il cinese sorride, misterioso come un cinese.
«Come vanno le cose?» gli chiedo.
Alza le spalle. «Così così. C’è crisi qui, e quando c’è crisi si fanno pochi
affari e la gente è cattiva. Non è che siete diversi. Va così in tutto il mondo.
Noi lo sappiamo. Se vedi che i cinesi vanno via da un posto vuol dire che le
cose lì stanno per andare molto, molto male.»
«Siete come i topi sulle navi, insomma.»
«Puoi anche metterla così. Non mi offendo. Ora è il momento dei cinesi di
andare in giro per il mondo. Domani toccherà a voi europei.»
«È un bel po’ che anche noi europei giriamo per il mondo» obietta
Lorenzo. La grappa gli ha ridato colore alle guance. E gli ha sciolto anche la
lingua.
Fa oscillare il bicchierino vuoto come se fosse un aeroplano, e poi una
nave che si muove su un mare in tempesta.
«I miei due nonni, tutti e due sono emigrati in America. Sono passati per
Staten Island. Mia moglie, presto la mia ex moglie, è nata e vissuta in
Francia, e questo signore qui…»
Se un altro uomo mi appoggiasse il braccio così sulla spalla, glielo
spezzerei. Ma Lorenzo è Lorenzo.
«… è nato a Liverpool.»
«Manchester» lo correggo.
«Quello che è. Tutti, in questa cazzo di regione, siamo emigrati o figli di
emigrati, o nipoti di emigrati. E allora perché cazzo ce l’abbiamo tanto con
quelli che dall’estero vengono qui a cercarsi una vita migliore? Al limite
possiamo trattarli come dei coglioni, perché dimmi tu che vita migliore puoi
trovare in questo cazzo di posto, ma dovremmo avere almeno un po’ di
compassione per loro…»
«Magari il rispetto sarebbe meglio della compassione» precisa Chen.
Guarda i due bicchierini vuoti davanti al giornalista.
«Ti offro un altro giro di grappa.»
«Ma no. No. Devo lavorare. Sono le tre… Le tre e mezza… Devo proprio
andare. Grazie, comunque. Devo andare… Questo coglione qui mi ha fatto
perdere già troppo tempo. Fa’ un piacere a uno che credi sia tuo amico e
cosa ci guadagni? Un arresto!»
«A parte che nessuno è stato arrestato» preciso, «sei tu che hai cercato
pegola con quei due scappati di casa della civic guard. Non hai capito che
sono solo dei poveracci? Cosa vai a mettere su la scenetta coi piccioni, che
poi scopro che neanche ti piacciono?»
«È una questione di resistenza civile, cazzo.»
Chen – Osvaldo – torna al tavolo con una bottiglia. L’etichetta sgargiante
è scritta in cinese.
«Oh, no, no. Niente grappa di rose» alza le mani Lorenzo.
«Questa non è grappa di rose. È una cosa buona. Così buona che noi
cinesi ce la teniamo per noi. Non la offriamo spesso a voi bianchi. Ma tu mi
sei simpatico. Anche lui» conclude, indicandomi. «Dove sei sparito,
poliziotto? Mi facevi comodo. Sai come ci siamo conosciuti, io e questo
qui?» chiede a Lorenzo, riempiendo i due bicchierini fino all’orlo.
«No» fa il mio amico.
«Qui siamo vicini al centro, è questo che ho pensato quando ho comprato
il bar. Ma non mi avevano detto che questa è zona di spaccio.»
«Dovevi vedere che razza di gente girava da queste parti. Già con il
bengalese era messo male, ma quando è arrivato Osvaldo…»
Il muso giallo sorride. «Una sera ho chiamato la polizia, perché stavano
facendo a botte qui dentro e avevo paura per mia figlia.»
«Come sta la piccola Anna, a proposito?»
«Bene, grazie. È a Princeton, si laurea alla fine di quest’anno.»
«Mi sembra ieri che era piccola così e serviva ai tavoli. In cosa si laurea?»
«Geologia. Avrei preferito Economia, ma dice che la Cina ha bisogno di
geologi. Comunque è ancora piccola.»
«Stavi dicendo che una sera hai chiamato Sergio» fa Lorenzo, attaccando
il secondo bicchierino e passando a un tu etilico.
«Non ho chiamato lui. Ho chiamato la polizia, ed è arrivato lui. È entrato
che stavano rompendo tutto, erano almeno dodici…»
«Sei» lo correggo.
«… e in due minuti li ha messi al tappeto. Tutti quanti.»
«Non avevo abbastanza manette.»
«Da allora siamo diventati amici.»
«È facile diventare amici di uno che ti offre da mangiare e bere gratis.»
E a quei tempi, dovrei aggiungere, la voce bevande rappresentava un
capitolo significativo del mio bilancio.
Il cinese mi fissa negli occhi. Uno sguardo duro come quella pietra nera,
come si chiama… l’ossidiana. Quella con cui gli uomini delle caverne
fabbricavano punte di frecce e asce.
«Sei un uomo con due facce, tu.»
«Ne ho una sola, e anche messa male.»
«Sai cosa voglio dire. Ti comporti e parli da razzista. Anzi, da nazista. Ma
dentro di te sei un uomo giusto.»
Alzo le spalle. «Nessuno è perfetto.»
Lorenzo finisce la sua grappa e si alza traballando.
«È molto buona, questa cosa che mi hai dato. Cos’è?»
Chen indica l’etichetta e pronuncia una serie di sillabe in cinese.
«Sì, ma in italiano come si chiama?»
«Non c’è un nome italiano.»
«L’Oriente misterioso… Sai che ti dico? Vi lascio, torno in redazione. Il
sindaco tiene una conferenza stampa alle quattro e quello stronzo del
vicedirettore manda me a coprirla. Sapendo cosa ne penso del nostro
Gauleiter…»
«Guarda che mancano solo dieci minuti alle quattro» faccio, indicando
l’orologio sulla parete.
Lorenzo guarda e sbianca, mormorando: «Cazzo.» Corre verso la porta a
vetri, salutandoci e ringraziando confusamente Chen al volo. Traffica un bel
po’ a vuoto con la maniglia prima di capire che la porta si apre verso
l’esterno.
Quando la porta si richiude, io e il cinese rimaniamo in silenzio, nel locale
vuoto.
«Come ti va, Sergio?»
«Normale.»
«Hai bisogno di qualcosa?»
«Te lo chiederei.»
«Non so se lo faresti. Sei un uomo orgoglioso. Però so che le cose non ti
vanno troppo bene.»
«Chi te l’ha detto?»
«I miei occhi, tanto per cominciare. A parte la ferita, vedo le scarpe.
Sembrano Timberland ma sono roba da poco. Imitazioni neanche fatte bene.
I vestiti… be’, sembrano usciti da un sacco della Caritas. E poi una volta
avevi un orologio brutto ma costoso e adesso non ce l’hai più.»
È vero. Quando mi sono svegliato, alle Zattere, il mio Omega X-33 non
c’era più. Nandini mi ha assicurato che non l’avevo al polso, quando mi
hanno trovato mezzo morto.
«Ho un tetto sulla testa. Mangio regolarmente. Mi tengo in esercizio.
Poteva andarmi peggio.»
«Hai un lavoro?»
«Più o meno» dico restando sul vago.
«Mi farebbe comodo, uno con la tua esperienza. Non sarebbe un lavoro
fisso, e nemmeno in regola…»
«Pensavo che voi cinesi neanche sapeste cosa vuol dire, essere in regola.»
«Ti stupirebbero, le cose che sappiamo. Allora, che ne dici?»
«Di cosa?»
«Della proposta che ti sto facendo.»
Sospiro. «Grazie, ma no. Non posso accettare. Se proprio vuoi farmi un
piacere, ti chiedo di rispondere con sincerità a una domanda.»
«Se posso.»
«So che tu hai i contatti giusti, in certi ambienti. Non voglio dire, con
questo, che tu sia implicato in niente. Solo che sai dove trovare certe
informazioni.»
«Qual è la domanda?»
«Cosa sai di Krystyna Nowak?»
Gli occhi del cinese si spalancano leggermente. Una reazione che non
riesce a evitare, anche se poi è rapido a riprendere il controllo.
«Non tanto. So che è morta» sussurra, guardingo.
«Per sapere questo basta prendere un giornale. Sono sicuro che non è tutto
lì, quello che sai.»
Lui abbassa lo sguardo. Poi muove la testa a destra e a sinistra, come un
metronomo. Tre volte.
«È una storia brutta, Sergio. Meglio se ne resti fuori.»
«Brutta in che senso?»
«Meglio se ne resti fuori» ripete.
«Non posso. Restarne fuori, voglio dire. Non posso.»
«Nell’ambiente si dice che è stato l’Albanese. Ma non è così. Lui è pulito,
da tanti anni. I soldi li ha fatti con cose cattive, ma col tempo li ha ripuliti.
Ora va a teatro, ai concerti. Sua figlia suona il violino nell’orchestra
cittadina. Dicono che è molto brava, anche se non sarà mai brava come Dan
Zhu.»
«E nessuno gioca a calcio come Dong Fangzhuo…»
«Ah! Sei crudele, tu.»
«È che non capisco tutto questo sciovinismo di voi cinesi. Quanti siete?
Un miliardo? Chiaro che un paio di violinisti bravi saltano fuori. O un
calciatore.»
«Non so cos’è, questo sciovinismo. Io lo chiamo orgoglio nazionale. E
guarda che sei rimasto agli anni Ottanta. Oggi siamo quasi un miliardo e
quattrocento milioni solo nella madrepatria.»
«Facile che di violinisti bravi ne tiriate fuori anche tre, allora.»
Chen sospira. «Non capisco perché devi fare sempre lo stronzo. Vuoi
sapere o no dell’Albanese?»
«Mi pareva avessi detto che non c’entra.»
Chen stappa la bottiglia e si versa un bicchierino raso di liquore. Accenna
al mio, ma io ci poso sopra la mano.
«No, grazie. Non bevo più.»
«Buon per te. Ti dicevo che Lirosh è pulito, ma ultimamente è molto,
molto nervoso.»
«Hai idea del perché?»
«No. E tu?»
«Si dice che Krystyna fosse nella sua scuderia di purosangue, e che
qualcuno l’abbia fatta fuori in segno di spregio per l’Albanese.»
Il cinese scuote la testa. Poi ingolla d’un fiato il contenuto del bicchierino.
«Lei non lavorava per lui. Non lavorava per nessuno. Si era sistemata.
Non batteva più. Penso avesse trovato un uomo molto ricco e molto potente
che la proteggeva. Ma non era Lirosh.»
«Ne sei sicuro?»
Chen si guarda intorno e poi fa segno di sì col capo.
«E chi era, allora?»
Alza le spalle. «Non lo so.»
«O non vuoi dirmelo…»
«Forse non posso. O forse è meglio per te se non sai.»
«Sono pronto a correre il rischio.»
«No. E adesso vai. Devo lavorare.»
«Ma se non c’è nessuno…»
«I miei clienti sono un po’ difficili. Non entrano, se vedono che dentro c’è
uno sconosciuto. Soprattutto se ha la tua faccia. Puzzi ancora di poliziotto,
Sergio. Senza offesa.»
Mi alzo. La schiena mi manda diversi distinti segnali di protesta. Dovrò
fare un bel po’ di ginnastica, stasera, se voglio riuscire a dormire. Non ho
più l’età in cui potevo finire sotto un camion, rialzarmi e passare la notte in
discoteca.
Fuori comincia già a fare buio. Che merda di stagione. I vecchi non fanno
altro che lamentarsi che non ci sono più le stagioni di una volta. L’hanno
sempre detto, immagino da che mondo è mondo, ma comincio a dar loro
ragione. Vuol dire che non ci sono davvero, o solo che sto diventando
vecchio anch’io?
Sono già sulla porta, quando Chen schiocca le dita.
Mi volto.
«Attento ai russi, Sergio.»
Vorrei chiedergli di essere più preciso, ma il cinese chiude gli occhi e fa
uno strano segno con le mani, passandole sopra il tavolo come se lisciasse
una tovaglia invisibile.
Uscendo, guardo il maneki neko sul bancone. La sua zampetta dorata si
muove su e giù, salutandomi.
«Grazie per le grappe, Chen.»
«Osvaldo, stupido bianco.»

Due ore dopo, sul terrazzo, faccio i miei esercizi all’aperto. È un terrazzo
enorme, che si estende per più di metà del tetto del palazzo. Solo chi ha una
chiave speciale può salire quassù, e solo una dozzina di persone alle Zattere
ce l’hanno. Una è la mia. Il Consiglio vuole che il suo cane da guardia sia in
forma.
La luce è una sottile striscia grigia a occidente.
Un vento freddo e teso soffia da est, piegando il fumo dei camini quasi in
orizzontale, così che il grande edificio sembra un transatlantico in viaggio su
un mare buio e gelido.
Dovrei sgombrare la mente e altre cazzate del genere, concentrarmi sugli
esercizi, ma preferisco fare il bilancio della giornata.
I tetti degli edifici delle Zattere sono coperti per il novanta per cento da
pannelli solari, recuperati quasi tutti in modo lecito. Alla luce del sole, visti
dall’alto, devono essere uno spettacolo. Anche se sono pannelli di recupero,
dall’efficienza tutt’altro che ottimale, sono comunque in grado di rendere
autosufficienti le Zattere. Off the grid, come direbbe Albert. Sui tetti sono
rimaste comunque calpestabili delle aree per consentire la manutenzione dei
pannelli, e un percorso perimetrale che uso come pista di atletica, per correre
i miei dieci chilometri al giorno, col sole o con la pioggia, lottando con il
dolore che vorrebbe azzopparmi, o mettermi in ginocchio.
Non sono certo di cosa ho raccolto, oggi. Non sempre le informazioni si
rivelano utili subito. A volte restano sepolte in un fascicolo, o nella tua
memoria, per riemergere magari anni dopo, permettendoti di risolvere un
caso che era già stato archiviato. C’è qualcosa che comincia a prendere
forma, nella mia testa, ma è come se lo vedessi attraverso un cannocchiale
rovesciato. È qualcosa d’indistinto, che si avvicina da lontano, anche se non
riesco ancora a distinguerlo bene. Ma è lì, si sta avvicinando. Presto lo vedrò
e saprò cos’è.
Con la sera è sceso il freddo. L’aria dell’Est ha un sentore quasi metallico.
Le immense nuvole trascorrono sulla terra buia, le luci della città lontana
tingono il loro ventre di arancione. Mi sento solo, qui in cima a Paris, con
davanti a me la prospettiva di una cena solitaria e di una notte probabilmente
insonne.
Ripenso a Krystyna, alla sua pelle dorata alla luce della lampada sul
comodino. Alle mie dita che accarezzano la sua giovane schiena che
s’inarca, le penetrano il sesso, vi entrano come animali felici, mentre la sua
bocca è un favo di dolcezza che la mia lingua esplora.
E poi di colpo il presente mi richiama a sé, nell’istante esatto in cui
quell’ultimo filo di luce svanisce e il giorno si fa definitivamente notte.
È un momento di una tristezza incredibile, al quale sento che non potrò
reggere a lungo.
Così lo isolo dentro di me, lo restringo, lo accartoccio in una palla,
cercando poi di spingerlo in fondo al pozzo, dove lo tengo giù con un lungo
bastone, e il bastone si allunga il doppio, il triplo, e anche il pozzo raddoppia
e poi triplica e quadruplica la sua profondità, finché la tristezza è sparita e la
sua voce non può più tormentarmi, e il grido da bestia ferita che emetto è
solo dentro di me, un grido che mi lacera il cuore ma non scalfisce il silenzio
della notte.
17

Mi dirigo con il vassoio in mano verso il tavolo nell’angolo più lontano


della mensa, quando sento dei piccoli passi di corsa dietro di me.
Non ho bisogno di voltarmi per sapere chi è.
«Ehi, bel tenebroso! Ma ti sei fatto un piercing?»
«Qualcosa del genere.»
«Fa’ un po’ vedere… Cristo… Scusa se ho scherzato… Deve fare un male
cane.»
«Solo quando rido.»
Non coglie la vecchia battuta. Le sue dita svelte sfiorano le cose che ho
sul vassoio. Il cibo, le posate.
«Posso farti compagnia?» chiede. «È che ho fame, e lì secondo me hai
roba per due.»

A quest’ora la mensa non è certo affollata. Gran parte degli abitanti delle
Zattere preferiscono comunque cucinare e consumare i pasti nei loro
appartamenti. Questo aveva comportato grossi problemi, agli albori della
comunità, quando regnava l’anarchia e molte famiglie usavano bombole di
gas riempite artigianalmente. Erano scoppiati alcuni piccoli incendi, e lo
scheletro annerito della quarta Zattera era lì a fare da monito perenne, anche
se molti sostengono che non c’entra niente e che quell’incendio era stato
provocato apposta dai proprietari del complesso abbandonato, per incassare
l’assicurazione. A ogni modo il Consiglio si era imposto, con le buone o con
le cattive, e fornelli a gas e fiamme libere erano stati definitivamente banditi.
Sostituire le vecchie attrezzature con le piastre elettriche aveva richiesto
tempo e capacità di persuasione, ma alla fine, grazie anche alla generosità di
qualche donatore esterno, non sempre volontario, l’operazione si era
conclusa con successo. Ora a ogni piano di ogni palazzo c’è una squadra per
le emergenze, addestrata e fornita di estintori e cassette del pronto soccorso.
Nessuno aggira le regole, anche perché la punizione per i trasgressori
sarebbe l’espulsione immediata dalle Zattere.
Andiamo a sederci al mio solito posto. Ogni tavolo qui è diverso
dall’altro. Quello a cui ci accomodiamo è molto vecchio, probabilmente
preso da una casa di campagna abbandonata. Può ospitare una dozzina di
commensali, ed è fatto di un legno robusto, praticamente inscalfibile, che il
tempo ha coperto di una patina nera. Anche le sedie sono una diversa
dall’altra.
Elena si siede di fronte a me.
Indossa un giaccone che deve aver preso in qualche surplus militare, con
una bandierina tedesca sulla spalla. Sotto ha un maglione nero a collo alto.
«Non hai caldo?» le faccio.
«Non ho mai abbastanza caldo. Cos’è quello?»
«Un piatto africano di merda.»
«E allora perché l’hai preso?»
«In realtà, a parte il nome e l’aspetto, non è poi così male.»
Si toglie di tasca un attrezzo che sembra un coltellino svizzero multiuso.
Ci traffica un po’, piegandolo e aprendolo, e alla fine ottiene una posata che
da una parte è cucchiaio e dall’altra forchetta. Infila il cucchiaio nel riso
speziato e assaggia.
«Avevi ragione. È buono. Ma allora perché dici che è di merda?»
«Programmazione obsoleta. Di solito si risolve con il restart della mattina.
Cos’è quell’aggeggio che usi?»
«Questo? È uno spork. Metà spoon e metà fork.»
«Che nome idiota.»
Lei rotea gli occhi. «Giornata pesante?»
«Puoi dirlo.»
«Posso dirlo… Sai cos’è che non mi piace, di te?»
«È una lista lunga?»
«Anche no. In realtà è una sola cosa. Sei un brontolone. Non vedi mai il
bicchiere mezzo pieno.»
La fisso. Prendo il mio bicchiere d’acqua e lo svuoto in un lungo sorso.
Poi lo riappoggio sul tavolo. Con le dita lo spingo verso di lei.
«Come lo vedi?» faccio.
La ragazza ride. «Mi ricordi mio padre.»
«Addirittura. È messo così male?»
«No, lui è molto peggio di te.»
Spezza il pane e lo annusa.
«Cumino?…»
«Sì. Oggi mi è andata bene.»
«In generale?»
«Solo col pane. Poteva essere un pane arabo di merda.»
Elena scuote la testa, ma lo fa sorridendo.
Quando sorride mi si muove qualcosa dentro. Come se un esserino
insopportabilmente dolce, da cartone animato, grattasse con le unghiette la
mia corazza pensando di farmi il solletico, senza sapere che invece mi sta
scavando un buco nel cuore.
«È morta una mia amica» dico sottovoce, contravvenendo agli ordini della
Caragiale.
Elena sgrana gli occhi. Poi fa una smorfietta infantile. «Cavoli, mi
dispiace. Dev’essere pesante. Quanti anni aveva?»
«Ha importanza?»
Alza le spalle. «Non so. Immagino di no. È che finora non ho mai perso
nessuno. Nessuno che conti, voglio dire. Cos’è stato, un incidente?»
«Sì» mento.
«Quando muore uno giovane, tipo in un incidente, tutti sono così tristi
perché pensano alle cose che avrebbe potuto fare: un lavoro, dei figli, dei
viaggi. A cosa poteva diventare. Se muore un vecchio, invece, fanno il
bilancio della sua vita e capiscono che non ne ha fatto granché: la pensione, i
figli che da grandi neanche l’hanno cagato, il massimo della vita il viaggio di
nozze a Parigi… Cos’è più triste allora, dico io, morire da giovani o da
vecchi? Per me morire da vecchi. Ma forse sto dicendo delle cazzate.»
Prende un’altra forchettata di riso. Tre chicchi unti cadono sul piano del
tavolo. Lei li raccoglie con la punta dell’indice e se li infila in bocca.
Scuoto la testa.
«Dal tuo punto di vista non fa una piega» sorrido, cercando di
concentrarmi su quello che ho nel piatto: metà della porzione di riso e un
mucchietto di taccole cucinate con spezie che mi fanno lacrimare anche solo
a guardarle, ma so già che saranno ottime. Il cuoco di stasera, se non mi
sbaglio a giudicare dai piatti serviti, è un ragazzo marocchino che lavora in
una mensa aziendale, quando avrebbe talento sufficiente per gestire un
ristorante stellato. Il Consiglio aveva pensato di iscriverlo a MasterChef, o a
un’altra di quelle cagate di programmi di cucina, ma Karim non ha i
documenti in regola. E non li avrà mai. La clandestinità è una malattia
cronica, un circolo vizioso. Ne sto imparando qualcosa girando per le strade
senza documenti e sudando freddo ogni volta che incrocio una divisa. Voglio
dire, una divisa seria. Le civic guard e il contrammiraglio Bruseghin non
contano. Il fatto è che se non hai i documenti non puoi avere una vita e un
lavoro regolari. Ma se non hai una vita e un lavoro regolari non potrai mai
ottenerli, i documenti. È un fottutissimo comma 22.
«Cos’è, un comma 22?» chiede Elena.
Alzo gli occhi dal piatto.
Mi rendo conto che, come mi capita a volte, devo aver pronunciato quelle
parole ad alta voce. A meno che lei non sia capace di leggere nel pensiero.
«È il libro di uno scrittore americano sulla guerra. La Seconda guerra
mondiale, quella contro i nazisti.»
«Guarda che ce l’ho presente.»
«Pensa che un tempo l’avrei chiamata crociata contro il bolscevismo…
Comunque, il romanzo è su una squadra di piloti americani costretti a fare
una missione dietro l’altra, dove muoiono come mosche. Ovviamente
cercano di schivarle, facendosi magari esonerare per problemi mentali, ma
c’è il comma 22 del regolamento, quello che dice più o meno che chiunque
sia pazzo può chiedere di essere esonerato dalle missioni di volo, ma
chiunque chieda di essere esonerato non può essere considerato pazzo.»
«Bella fregatura.»
Alzo le spalle.
«Senti, ma carne, tu, non ne mangi mai? Posso andare a prendere un paio
di piatti per me?» fa Elena.
«Certo.»
«È solo che non ho soldi.»
«Basta che fai il mio nome. Non c’è problema.»
«Wow. Sei meglio di una Visa Platinum.»
«È una magia che funziona solo qui.»
«Allora vado. Torno tra un minuto.»
La guardo alzarsi e andare verso il bancone, che un tempo apparteneva
alla mensa di una delle tante industrie che negli anni Sessanta avevano fatto
crescere l’economia di una sonnacchiosa cittadina di provincia fino a farla
diventare una delle locomotive del Nord-Est. Ora che la locomotiva del
progresso è arrugginita e i binari della sua ferrovia sembrano portare solo
verso il baratro, lo splendido bancone in vetro e acciaio cromato serve cibo
etnico a extracomunitari clandestini e a sbandati di ogni colore e razza, uniti
solo dal minimo comun denominatore della miseria. Un collante micidiale,
nel quale di questi tempi è molto facile restare invischiati.
È bella, Elena? Decisamente sì. Un tempo mi sarei fatto delle idee, su di
lei. Anzi, più che farmi delle idee sarei passato direttamente ai fatti. Prima
che Chatterjee e Nandini pasticciassero con il mio cervello ragionavo
esclusivamente col cazzo, ero un’efficiente macchina di muscoli e sangue
fatta solo per bere, drogarsi e fottere. Nutrirmi e lavorare erano attività
ausiliarie, create per alimentare il mio cervello rettiliano e il corpo che lo
serviva come uno schiavo. La guardo sporgersi in punta di piedi per vedere
meglio oltre il bancone, sorridere all’inserviente, puntare il dito a indicare
quello, e quell’altro, e mi sembra di poterla doppiare mentre s’informa e fa
domande. Ha una voce bella e gentile, da persona che ha studiato. Mi fa
strano pensare che l’ho vista masturbarsi in camera mia eppure non so nulla
di lei.
Torna al tavolo, si siede.
«Che c’è?» fa.
«Niente.»
«Ho visto che mi guardavi, sai?»
«Penso sia normale, per te.»
«Be’, non c’è molto da vedere. Non stasera, almeno» sorride complice,
strizzando l’occhio.
«Hai avuto difficoltà al banco?»
«No, è bastato sul serio fare il tuo nome ed è stata una cosa tipo
abracadabra. Sei un uomo importante, qui.»
«Più che altro utile. Come un martello. O un aratro.»
«Mi sembri più un tipo da martello. Forte, comunque. Vuoi assaggiare?»
Guardo i tre piatti che ha sul vassoio: un brasato tagliato a fette grosse,
una porzione di pilaf alle verdure, una ciotola di hummus.
«Hai un bel po’ di fame.»
«Devo crescere.»
«Nel posto in cui vivi non ti danno da mangiare?»
«Guarda, se è per i soldi, domani te li porto.»
«Non dire stupidaggini. È solo che non capisco. Ma dove vivi? Sotto un
ponte? Come fai a mangiare tanto e restare così snella?»
«È una questione di metabolismo. Però grazie per aver detto “snella”. È
una parola molto più bella di “magra”.»
«Dici?»
«Certo.»
«Non mi hai detto com’è stata la tua, di giornata.»
«Oh, be’, uh, come dire, il solito. Ho fatto un sacco di attività con i
bambini delle medie. Corsi di miglioramento dell’italiano. Autodifesa. E poi
nel pomeriggio mi sono occupata delle ragazze del corso di educazione
sessuale.»
«Educazione sessuale?»
«Perché? Ti sembra strano?»
«Sapevo che quei corsi erano stati sospesi. Che c’erano problemi con
l’imam.»
Elena sbuffa. Scrolla la testa. «Di quelli ce ne sono sempre. È una tale
testa di cazzo. Pensa di sapere tutto lui. Ma quando Aarif alza la voce, lui
abbassa le orecchie.»
«Mi chiedo come mai hanno scelto te per quelle lezioni.»
«Non sono mica l’unica. Ci diamo i turni. Volevano una del posto, che
riuscisse a entrare in intimità con le ragazze. A porte chiuse e con l’assoluta
libertà di dire e fare tutto quello che ci viene in mente. Non hai idea di
quanto compresse siano, alcune. Un corso come il nostro è utile sia a loro
che al Consiglio. Per questo l’imam può star zitto e prenderselo in culo. E se
gli servono suggerimenti su come godere prendendolo in quel posto,
possiamo organizzare un corso anche per maschi repressi come lui.»
Manda giù una forchettata di carne.
Mi guarda.
«Che c’è da ridere?»
«No, niente» dico. «È solo che sei incredibile. Hai un modo di
esprimerti…»
«Da teppista?»
«Sì. A volte sì.»
«Sono una donna libera.»
«Anche dal lavoro.»
«Cosa intendi?»
«Be’, se passi qui le tue giornate…»
«Guarda che studio, io. Sto per laurearmi in Psicologia, e quello che
faccio qui è il mio lavoro sul campo. Materiale per la mia tesi.»
«Ah.»
«Vedi quante cose non sai, di me?»
Mi guarda di sottecchi.
«Dopo possiamo salire da te? Non ho finito di vedere il film.»
«Scordatelo, quel film. E comunque non sono più solo. Divido la stanza
con un’altra persona.»
«Oh.»
«Non farti strane idee. È un ragazzo.»
«Oh…»
«Smettila, cazzo. Non è come pensi.»
«Io non penso proprio niente. Sicché niente film… Peccato. Mi piace, la
tua compagnia.»
«Infatti ti sto facendo compagnia.»
Lei non risponde subito. Le passa sul viso un’espressione strana, non
gradevole. Ma passa, appunto, come una nube leggera davanti al sole, che
subito riappare, sotto forma di un sorriso smagliante anche se falso.
Si alza di scatto, battendo le mani sul piano della tavola come per
schiaffeggiarla.
«Grazie per la cena, uomo importante. Me ne torno sotto il mio ponte.»
«Aspetta!»
«Ciao ciao.»
Con uno scatto mi alzo e la raggiungo. Le afferro il braccio. Lei abbassa
lo sguardo sulla mia mano, con cui la stringo con troppa forza.
Lascio la presa. Lei sorride. Torna a sedersi.
Mi guardo in giro. Nessuno sembra aver fatto caso alla scena. La regola,
alle Zattere, è di farsi gli affari propri. Dipende dal fatto di vivere in spazi
limitati, in una convivenza precaria e forzata con centinaia di estranei.
«Finisci la tua cena» dico a voce bassa.
«Sì, papà.»
«Non chiamarmi papà.»
«Okay. Però me lo ricordi. E non è un complimento» precisa, infilandosi
in bocca un’altra forchettata di brasato. Una goccia di sugo le scivola sul
mento. Svelta, la raccoglie con la punta della lingua. Una lingua lunga e
veloce, di un rosso sanissimo.
Elena si accorge che la sto fissando.
«Guarda che potrei essere tua figlia» mi rimprovera, prima di rifare,
volutamente, la scenetta della goccia di sugo.
«Smettila.»
«Tanto lo so che con te non corro pericoli. Che non ti piaccio.»
«Non è questo…»
«Senti, facciamo che non ti scusi, okay? Perché guarda, se ti scusi è anche
peggio. Comunque non farti strane idee, non girarti in testa un filmetto con
me, tipo quelli che ti scarichi. Mi piaci, siamo buoni amici, forse qualcosa di
più che amici. Facciamo che continui a essere così.»
Posa la forchetta sul piatto.
«Cambiamo argomento. Voglio farti sentire una cosa» mi fa, prendendomi
la mano e tirandomi via dalla tavola, e poi dalla mensa, ed è come se fossi
tornato bambino.
E per tutta la strada penso a quello che vorrei dirle.

La prima volta che ti ho notata attraversavi l’atrio di Paris, seguita da un


gruppetto di adolescenti. Di tanto in tanto ti voltavi verso di loro e dicevi
qualcosa ridendo, ed era come se seminassi allegria in quelle ragazzine. Io
ti guardavo dall’alto, dalla balaustra del primo piano, da dietro il vetro. Tu
non potevi vedermi, perché dalla tua parte il vetro era uno specchio, come
nella stanza dei confronti in questura. Io potevo vederti e tu no. Eppure a un
certo punto hai alzato lo sguardo e mi hai fissato.
Mi sono chiesto quante volte ti avevo vista senza notarti, prima d’allora.
Se c’erano stati altri momenti in cui mi eri passata davanti, confusa tra la
folla, lì o altrove. Se magari ti avevo incrociata da piccola, per le strade
della città, o da adolescente, senza degnarti di un secondo sguardo.
Sei diventata qualcuno per me quel primo giorno, quando i nostri occhi si
sono incontrati, anche se era impossibile, anche se non può essere avvenuto.
Così com’era impossibile quella sensazione, fortissima e assurda, di
conoscerti già, di averti già incontrata. Forse in un’altra vita. Tra i miracoli
crudeli operati da Chatterjee e dalle sue stregonerie c’è anche questa, di
confondere la realtà e la fantasia, i tempi e le cose. Gli esseri umani
normali, non toccati dalla grazia velenosa di quei miracoli, attraversano la
realtà come se fosse un fiume dall’acqua bassa e calma. Io invece vivo in un
continuo tsunami, sono un surfista travolto dall’onda, sballottato fino a non
capire più dove sia l’alto e dove il basso. I ricordi emergono dal fango del
fondale, trascinati dalla forza dell’acqua, e brillano per un attimo alla luce:
abbastanza per poterli percepire ma non per poterli elaborare. E ai ricordi
si mescolano sogni, desideri, rimorsi, in una babele di voci e immagini che
mi confondono.
Eppure…
Eppure, se chiudo gli occhi, se mi concentro su quel singolo spezzone
cinematografico del passato, la tua evidenza è così vera che non posso
averti solo sognato. Se te lo chiedessi lo negheresti, che avevi i capelli
raccolti in una coda di cavallo, e che indossavi un montgomery blu scuro?
Negheresti di aver riso con quelle che allora pensavo fossero tue amiche, e
non le tue allieve?
La mia memoria a volte mi restituisce queste immagini, nitide come una
fotografia. Ma anche un fotomontaggio sarebbe altrettanto nitido.
Sia quel che sia, voglio credere a quell’immagine di te, voglio partire da
lì, da quel giorno imprecisato in cui ti ho vista per la prima volta, o meglio
in cui ho avuto coscienza di vederti.
Da allora ci siamo sfiorati in altre occasioni, e ogni volta mi sembrava
che tu mi guardassi con curiosità, come se quell’intreccio di sguardi
attraverso il vetro fosse stato realtà, e non un falso ricordo, una cosa
impossibile.
Incrociandomi lungo i corridoi, mi osservavi e non dicevi niente, anche se
nel tuo sguardo passava una luce divertita. Abbassavi gli occhi e proseguivi
oltre, senza mai dirmi nulla. Sono stato io a rivolgerti la parola per primo, il
giorno in cui ci siamo trovati sotto la pensilina del municipio, in città, e
guardavamo la pioggia scendere come un ruscello. Il suono dell’acqua nelle
grondaie era quasi una musica. C’era altra gente intorno a noi. Sconosciuti.
«E la chiamano estate» aveva fatto uno, dietro di noi. Di tanto in tanto la
pioggia si diradava, e qualcuno si staccava da sotto la pensilina e
attraversava la strada trasformata in un lago, raggiungendo i portici di
fronte.
Nessuno, alle Zattere, si comporta così. C’è fatalismo o c’è rabbia, ma
mai banalità. Mai ovvietà. C’è la gioia di chi non ha mai visto cadere così
tanta pioggia e la paura di chi conosce la furia distruttiva dei monsoni.
Come due nativi delle Zattere abbiamo atteso che la pioggia si diradasse.
Alla fine è cessata, e un arcobaleno intero è apparso sul fiume, a destra.
L’abbiamo guardato. Un arcobaleno intero è una cosa rara.
«Bello» hai detto, sorridendo come una bambina. Poi hai rimesso sul
volto l’espressione dura e chiusa che hanno tutti, in questa città, in questi
giorni. Io ti ho guardata. «Dovremmo andare a cercare la pentola d’oro» ho
fatto. E poi mi sono subito pentito di averti parlato. Mi sono sentito… non
so… “Imbarazzato” è la parola più semplice, ma non esprime davvero ciò
che sentivo, quello che provavo.
«Non è così facile, arrivare ai piedi dell’arcobaleno. Si può camminare
per sempre senza arrivarci» hai detto. E poi mi hai teso la mano. L’ho
stretta, anche se non subito. Prima l’ho guardata, come se non capissi
cos’era o non sapessi che farmene, della tua mano tesa. Devo aver avuto
l’aria di un perfetto idiota.
«Elena» hai detto.
«Sergio.»
«Lo so.»
«Come lo sai?»
«Le Zattere sono tipo un piccolo paese. E lì sei piuttosto famoso.»
«Non è poi così piccolo. Da che paese vieni?»
Hai inarcato il sopracciglio. «In che senso?»
«Da dove vieni. Da che paese.»
«Da qui. Sono nata qui. Sono italiana» hai riso.
E poi, davanti a una tazza di tè, nel caffè accanto al municipio, mi hai
spiegato che cosa ci facevi alle Zattere, e perché ogni volta che t’incontravo
avevi sempre delle ragazzine al seguito.
Io ti guardavo, ascoltavo la tua voce come si ascolta una musica. Senza
quasi badare alle parole, perché già il loro suono mi bastava.
Mi sentivo un po’ come Otello di fronte a Desdemona. Be’, un po’ più
chiaro di pelle. Ma la sensazione era quella. Di essere ammansito dal suono
della tua voce.
E se dovessi ricordare una sola cosa di te, se una sola cosa dovesse
rimanere, a parlarmi di te, non sarebbe il tuo corpo, ma il suono della tua
voce.

Le dita di Elena sono fresche e sottili. Mi muovo al guinzaglio di quelle


dita affusolate, che mi guidano lungo i corridoi attraverso una sinfonia di
odori che filtrano da sotto le porte: profumi, cibo speziato, fumo di sigaretta
o d’altro…
Le luci sono deboli, la moquette stesa sul cemento grezzo attutisce i suoni:
un patchwork di tessuti dai colori diversi, recuperata chissà dove e messa giù
ad arte, a comporre un mosaico variopinto.
«Manca molto?» chiedo.
«No.»
«Devo lavorare, Elena…»
«A quest’ora?» ride.
Ci fermiamo all’ultimo piano. Qui non ci abita nessuno. Non è zona
residenziale.
Elena mi posa le mani sugli occhi e mi accompagna, come se danzasse
con me, attraverso una soglia.
La sensazione uditiva di uno spazio enorme si rivela esatta, quando lei mi
scopre gli occhi.
Il soffitto dello stanzone è alto almeno cinque metri.
Nelle intenzioni dei progettisti avrebbe dovuto ospitare una palestra e una
piscina olimpionica. La grande vasca c’è, ma nessuno ci nuota. Serve alla
sicurezza dell’edificio, in caso di incendio. Faccio un calcolo a mente:
cinquanta metri di lunghezza, otto corsie, due metri di profondità: sono un
milione e seicentomila litri d’acqua, che in caso di incendio possono essere
fatti fuoriuscire dalla piscina per allagare i piani inferiori.
Le piastrelle azzurre riflettono la luce delle poche lampadine sul soffitto
come se fossero stelle.
«Bello, vero?» fa la ragazza. «Scommetto che non c’eri mai venuto.»
«Non scommettere. Hai già vinto.»
«Romanticamente pensavo che tu sapessi tutto e avessi visto tutto.»
«Non è così. Ci sono ancora cose che mi sorprendono.»
«Allora lasciati sorprendere. Stenditi a terra.»
«Elena…»
«Guarda che dico sul serio. Non ho secondi fini. Anche se non dovrei
essere io a dirlo. Stenditi e posa l’orecchio lì.»
Lì è il bordo metallico che costeggia la vasca della piscina.
Mi chino, mi distendo. Lei si sposta e poi fa lo stesso, in modo da avere la
testa vicina alla mia, anche se i nostri piedi divergono come le lancette di un
orologio che segna le nove e un quarto.
«Cosa devo fare?» chiedo.
«Zitto. Ascolta.»
Sul momento non sento nulla, se non il battito leggermente accelerato del
mio cuore per via della corsa fatta per arrivare quassù.
Poi, come se risalisse dal buio, una nota tremula, e un’altra…
Al mio orecchio posato sul freddo metallo giunge una fila di note, diafane
come perle sul filo di una collana. Un violino, come se suonasse sott’acqua,
nel buio della piscina.
«Lo chiamo il violino fantasma» mi sussurra Elena all’orecchio.
Non riconosco il brano, ma è musica classica. Tommy saprebbe senz’altro
identificarlo al volo, ma io non sono preparato come lui. So soltanto che è
una musica triste e solenne, che attraversa lo spazio della sala e dell’anima
come una freccia sonora.
«La prima volta l’ho sentita d’estate. Avevo portato qui le mie ragazze a
nuotare…»
«Ma è vietato.»
«Lo so, cosa ti credi? Ma faceva così caldo. E poi non è mica acqua
potabile. Non facciamo niente di male, a nuotarci. Comunque quando le
ragazze sono uscite io sono rimasta distesa sul bordo della piscina, e devo
essermi addormentata, perché le prime note è stato come se le sentissi in un
sogno. Poi ho aperto gli occhi e la musica c’era ancora…»
«Sempre questa canzone?»
«No. Sempre diversa. Ma sempre un violino. Penso sia qualcuno che si
esercita, sotto di noi, chissà dove. Suona sempre e solo a quest’ora.»
«Allora è facile scoprire chi è. Basta che tu scenda e cerchi da che piano e
da che stanza viene la musica.»
«Ci ho provato. L’ho fatto. Sono corsa giù, ma non ho sentito niente. Non
ridere, ma è come se la musica venisse dal fondo della vasca…»
«Per questo lo chiami il violino fantasma?»
«Eh, già. Dieci punti al Grifondoro.»
«Cosa…?»
«Niente. Una cosa da ragazzini. Penso che tu non abbia mai letto Harry
Potter ai tuoi bambini.»
Prima che possa replicare mi posa la mano sulle labbra, zittendomi. La
musica sembra crescere di volume, diventando al contempo più drammatica.
La distorsione prodotta dall’acqua rende la melodia strana. Quando andavo a
trovare barba Jacu, mi faceva ascoltare una sua vecchia radio, un affare
enorme in legno che aveva sul davanti, sulla scala delle frequenze, i nomi
delle città dalle quali veniva la trasmissione: Parigi, Mosca, Berlino, New
York…
La sera, per qualche motivo, la ricezione era migliore. Mi mettevo in
ascolto e sentivo musica e voci nelle più diverse lingue del mondo: quelle
che sembravano preghiere in arabo, una trasmissione di propaganda di Radio
Tirana, un vecchio tango argentino. La ricezione andava e veniva,
producendo un effetto come di onde marine.
Mi ricordava anche un’altra cosa, quella musica. Un giorno, al rientro da
un turno di lavoro particolarmente massacrante, avevo trovato Carla che si
vestiva in camera, davanti a quello che, non potendoci permettere lo spazio
per un armadio-guardaroba, ne era una specie di versione su scala ridotta.
Si stava infilando, con mosse che sembravano una danza seducente, in un
vestito attillato come una seconda pelle, che le avevo regalato per il suo
compleanno, esclusivamente per il piacere di vederglielo togliere.
«Vai da qualche parte?» le avevo chiesto, stropicciandomi gli occhi che
sembravano foderati di bambagia.
«Non vado: andiamo.»
«Dove?»
«È una sorpresa.»
«Non ho palle di andare da nessuna parte.»
«E invece sì.»
«Dov’è ’sto posto? È lontano?…»
«Venezia.»
«Cazzo, Carla… Venezia no… Sono stanchissimo…»
«Guido io. Dai, fatti una doccia veloce e andiamo.»
Il posto era una chiesa sconsacrata in una zona della città talmente brutta
che non sembrava nemmeno di essere a Venezia. Era come se un tassello di
Marghera si fosse incuneato fra i palazzi e i canali. Vecchi casermoni
dell’Ottocento abbandonati, le finestre sbarrate con assi. Uno squero per
gondole in rovina. Piccole fabbriche e laboratori artigianali fatiscenti, calli
strette che sembravano uscite da un romanzo di Lovecraft. Attraversavo
quella desolazione tirato per mano da Carla, e forse è stato questo ad
accendere il ricordo, l’associazione con il gesto di Elena che mi trascinava
per la mano nella piscina di Paris.
La chiesa sconsacrata in cui finimmo era uno spazio vuoto, senza nulla di
pregio, né affreschi né quadri né arredi. Un centinaio di sedie erano disposte
attorno a una cosa stranissima nel centro: un enorme serbatoio metallico,
arrugginito. Alcune casse Bang & Olufsen pendevano dal soffitto.
Pensavo di potermi addormentare, persino su quelle sedie di legno
scomodissime, perché durante il viaggio in auto non ero riuscito a dormire,
un po’ per la guida spericolata di Carla, ma soprattutto per il mix di coca e
alcol che avevo nelle vene, e che mi ballava la rumba nel cervello mentre
mia moglie mi trascinava dal parcheggio del Tronchetto alla chiesa. Mi
muovevo come uno zombi, al traino della sua mano.
Presto potrai dormire, era il mantra che il mio corpo cantava in tono
ipnotico.
Invece non mi addormentai. Manco per niente.
C’era un’orchestra, disposta su una ringhiera dentro il serbatoio, il cui
fondo era pieno d’acqua. La vedevamo su tre grandi schermi televisivi.
«Eseguiranno The Sinking of the Titanic di Gavin Bryars» mi sussurrò
all’orecchio Carla, eccitata, e il calore del suo respiro, unito alla visione
delle sue cosce, mi mandò un brivido lungo la schiena. Stavo per lanciarmi
in una fantasia erotica, incurante del pubblico di snobboni e snobbone
ultrarich che ci stava seduto intorno. Ma poi la musica è cominciata, e il
mondo intorno è sparito. Non so in che altro modo dirlo. È stato come se
quella musica strana, che sembrava salire dal fondo del mare, mi
avviluppasse, un groviglio di alghe sonore che mi rubava l’anima per
trascinarla in fondo a qualcosa di molto più grande di quel serbatoio, di
quella chiesa, della città che ci ospitava nel suo grembo malato.
«Ti è piaciuto?» mi aveva chiesto Carla, mentre facevamo l’amore, nel
letto dell’albergo in cui mi aveva portato dopo il concerto.

«Ti è piaciuto?» sussurra Elena, quando la musica finisce e l’unico suono


della grande piscina di Paris è il gocciolio dell’acqua da qualche parte nel
buio e il fruscio della neve sui vetri, la neve che sta cadendo di nuovo,
accarezzando l’edificio buio, scendendo da altezze vertiginose per coprire la
terra col suo silenzio bianco e ovattato.
«Sì» le rispondo, alzandomi.
«Ora mi porti tu da qualche parte?» sussurra lei, magicamente in piedi al
mio fianco, più piccola di me, più tenera e indifesa, qualcosa da proteggere e
carezzare.
Cosa potrei risponderle?
Nulla.
Le prendo la mano. È magra e fredda. Lei si solleva sulla punta dei piedi.
Le nostre labbra potrebbero incontrarsi, ma non lo fanno. Mi bacia sulla
guancia.
«Devi raderti» mormora, con una voce liquida come quella musica
fantasma.
«Sai che non faccio niente.»
«Ci penso io.»
18

«Io devo dormire» faccio, accendendo la luce regolabile della piantana.


«Anch’io. Sono stanchissima.»
Butta la sua sacca militare in un angolo, vicino al materasso a una piazza e
mezza che mi fa da letto.
«I tuoi non si preoccupano, se dormi fuori?»
Lei alza le spalle. Passa l’indice sui dorsi dei vecchi volumi rilegati in
pelle che tengo sui due scaffali che mi fanno da libreria.
«Forse un po’, ma gli fa bene. Dopo gli mando un WhatsApp.»
«Perché non adesso?»
«Dopo. Hai figli, tu?»
«Non che io sappia.»
«Uh uh. Non che io sappia… Che risposta da macho.»
Va alla finestra. Guarda fuori, anche se non c’è nulla da vedere, a parte le
luci di Paris, filtrate dalla neve che cade.
«Viene giù bene. Domani mattina sarà tutto bianco» sorride,
allontanandosi dalla finestra.
«Ai tuoi cosa dirai?»
«Mah, tipo che nevica e mi fermo da un’amica.»
«E loro ti crederanno?»
«Ma cosa vuoi che m’interessi? Comunque sì, certo che mi crederanno.»
«Perché, pensano che tu sia una brava ragazza?»
«Io sono una brava ragazza. Di questi tempi ci fanno così. Le vostre
ragazze, nel paleolitico, com’erano?»
«Uguali a ora. È come la moda. Cambia qualcosa, un dettaglio, un colore,
ma alla fine le cose belle prima o poi si rivedono. Almeno è così che diceva
mia moglie.»
Mi pento subito di aver evocato il fantasma di Carla in questa stanza.
Colpa della musica sott’acqua, che me l’ha riportata in mente senza l’odio e
la rabbia che di solito provo pensando a lei.
«Siete stati sposati per tanto?»
«Un’eternità. No, in realtà poco più di dieci anni.»
«Dieci anni sono tantissimi.»
«Un giorno non la penserai così.»
Lei mi fissa con rabbia. «Senti, non fare il vecchio saggio, con me. Non
attacca. Potrò anche essere giovane, ma non vuol dire che sono una cretina.»
«Non l’ho mai pensato.»
«Bene.»
«Non volevo offenderti.»
«E infatti non ci sei riuscito. Ci vuole altro, ci vuole.»
Una musichetta le esce dalla tasca. Lei strabuzza gli occhi, fa una smorfia.
Poi prende l’iPhone e risponde brusca.
«Sì? Cosa c’è? Lo vedo, che nevica… No, non torno a casa… Da Karen…
Sì, certo, ho tutto nello zaino, stai tranquilla… Certo che sua madre è
d’accordo… Perché, da quando in qua ti interessi alle mie amiche? No,
adesso non ho tempo di darti il suo numero. Te lo mando appena posso.
Devo mettere in carica il telefono… Ma no, ci spariamo un film e poi a
nanna… Certo… Ma figurati… Senti, mamma, adesso però buonanotte,
okay? Sì, certo. Anch’io. Buonanotte anche a te. Ciao ciao ciao.»
Spegne e butta il telefono sul materasso.
«Che palle…»
«Come mai hai la suoneria del Tempo delle mele?»
«Cosa? Ah, quella. È la suoneria che ho impostato per mia madre. Vuoi
sentire quella per mio padre?»
Traffica con lo schermo.
La Cavalcata delle Valchirie erompe dal piccolo ma potente altoparlante
del cellulare.
Elena fa una smorfia. «Non che l’abbia mai sentita suonare, ’sta suoneria.
Non mi chiama mai. Sai cosa mi ha detto una volta, quando sono tornata a
casa con un dieci in greco? Ha alzato gli occhi dal suo quotidiano del cazzo
e ha detto, serafico: “Ah, ma allora fai il classico?…”»
«Non hai un gran rapporto con i tuoi genitori.»
«Senti, sono venuta da te per dormire, mica per una seduta di psicoterapia.
Per quella ho già il mio analista.»
«Sei in analisi?»
«Come tutti. Perché?»
«Sei così giovane.»
«Sono in terapia da quando avevo quindici anni.»
«Hai cominciato molto prima di me, allora.»
Mi tolgo la giacca, anche se la stanza è tutt’altro che calda. Accendo la
stufetta elettrica. Lei si tiene addosso il parka militare e si accoccola per terra
in un angolo.
«Guarda che puoi usare una sedia.»
«No, va bene così. Allora, vuoi rispondermi?»
Mi gratto la testa.
«È una storia lunga e triste. Sicura di volerla sentire?»
Lei alza gli occhi al cielo. «E dai…»
«Okay» faccio. «L’hai voluto tu. Da dove cominciamo? Dal mio
matrimonio fallito? Da cosa l’ha fatto fallire? Sposi la più bella ragazza del
liceo, la tua carriera e la sua sono al top, ogni giorno è come pescare carte
delle probabilità del Monopoli a manetta, oggi una promozione tua, il mese
dopo una per lei, e poi un’indagine che ti fa finire sulle prime pagine dei
giornali, e poi in televisione… Muore suo padre e le lascia in eredità mezza
regione e abbastanza soldi perché lei possa regalarti l’auto che hai sempre
sognato…»
«Che auto?»
«Una Porsche Cayenne.»
«Ti facevo più fine.»
«A quei tempi mi piaceva. La coca scorreva a fiumi, neanche fosse gratis,
e a quel punto, be’, a quel punto mi domando se davvero era tutta colpa della
coca se ho cominciato a sbroccare, e lei a non sopportarmi più… Aggiungici
i figli che prima non li cerchi e poi non arrivano, e lei che comincia a
chiedersi ad alta voce di chi è la colpa… E poi le foto…»
«Che foto?»
«Ma niente. Una festa, una goliardata…»
«Una goliardata… A che età…?»
«Lascia perdere. Insomma, un coglione aveva fatto delle foto con lo
smartphone…»
«Oddio, ma davvero dici anche tu smartphone?»
«Perché? Tu come lo chiami?»
«Non lo chiamo. Lo uso. Se devo dargli un nome è telefono, o coso.»
«Per me i telefoni sono ancora quegli aggeggi ingombranti col disco
combinatore…»
«Con cosa?»
La fisso. «Mi prendi in giro?»
«Forse. Dai, va’ avanti con la tua storia.»
Sospiro.
«Insomma, per farla breve, quelle foto finiscono a un’amica di Carla, che
gliele gira.»
«Ahi. E lei ti ha messo alla porta.»
«Carla? Macché. Mi ha fatto ricoverare in una clinica per la
disintossicazione. E ci è venuta anche lei. Ti rendi conto? Ha passato con me
quasi due mesi d’inferno in mezzo al niente, in quella specie di incrocio tra
un carcere e un hotel a sei stelle dove io sudavo e urlavo e davo di matto, e
una volta l’ho persino presa a pugni.»
«Ma alla fine ha funzionato?»
«Sì. Sul momento, almeno. Mi sono ripulito dalla roba e ho fatto il mio
ritorno in società. Ufficialmente mi ero preso una breve aspettativa per
motivi di salute. Fatto sta che mentre ero in clinica c’era stata questa
richiesta della presidente del Senato… Mi aveva visto in televisione e aveva
deciso che dovevo essere io a farle da scorta.»
«Cazzo. Ma chi, la Veraldi?»
«No. Quella prima.»
«Quella che andava tutte le mattine in chiesa e guai se sentiva una
parolaccia? Quella che le facevano l’imitazione a Striscia?»
«Quella.»
«Cazzo. Mica facile, per uno con una boccaccia come la tua.»
«Be’, che tu ci creda o no, sono riuscito a farla franca fino al giorno in cui
mi hanno fatto sbroccare di brutto. Chiamala una congiunzione astrale, tipo
che mi sono ritrovato sotto un tiro incrociato di crisi di astinenza, orchite da
lavoro e una cosa che avevo saputo su mia moglie…»
Gli occhi di Elena scintillano.
Cazzo, pensa una parte di me sotto la cintola, sei qui con questa ragazza
bellissima e le stai raccontando la storia della tua sfigatissima vita e lei ti
guarda come se fosse innamorata di te…
Cazzo.
Se ci sei, batti un colpo.
«Cos’avevi saputo, di tua moglie? Dai, racconta.»
«Lascia stare. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Il fatto è che
intanto è successo un casino. Ho sbroccato di brutto e ho mandato a cagare
un ministro. Una ministra. Una negra.»
«“Negra” non si dice.»
«Ma è quello che era. E soprattutto era una stronza. Però mai stronza
come la presidente. Mi ha costretto a chiedere scusa alla negra. Alla fine mi
ci ha praticamente costretto, a fare quello che ho fatto.»
«E cos’è che hai fatto?»
«Le ho cagato sul sedile dell’auto.»
«Alla ministra di colore?»
«No. Alla presidente del Senato.»
«Urca.»
«Eh già. Urca. Sai come in certi film, dove di colpo al protagonista tutto
va male, ma proprio tutto nello stesso momento? Tipo Una poltrona per
due? Ho perso il lavoro, e due settimane dopo ho perso anche casa e moglie.
Scoprendo che quello che subodoravo da tempo era vero: mia moglie aveva
una storia con un mio compagno di classe. Un avvocato.»
«Cazzo, che classe…»
«Ma sì… Praticamente tutti scopavano con tutti, ma venivi a saperlo solo
vent’anni dopo.»
«Anche tu, Sergio?»
«Anche io cosa…?»
«Anche tu scopavi con tutti?»
Ci rifletto su, prima di rispondere.
Ricordando che tutto quello che dirò potrà essere usato contro di me
eccetera eccetera.
«Con i maschi no» rispondo, alla fine. «Tranne una volta.»
«Cazzo, ma dai…»
«Sei la prima a cui lo dico. E te lo dico solo per quello che… be’,
insomma, per quello che ti ho visto fare… in questa camera…»
Elena arrossisce. L’ultima reazione che mi sarei aspettato di vedere in lei.
«Vuoi raccontarmelo? Se vuoi…» sussurra.
«Tanto ormai mi sento come se avessi messo tutta la mia vita in vendita su
un banchetto del mercato. Mi resta solo questa cosa, da vendere. E invece te
la regalo. Senza motivo, okay? Allora, eravamo a una festa, in montagna,
potevo avere vent’anni, e c’era questo amico di Carla, di un paio d’anni più
giovane di noi…»
Eravamo usciti insieme, a fumare una sigaretta. Lui si era avvicinato, per
accendere la sua. Eravamo praticamente guancia contro guancia, e io ho
sentito una cosa dentro, non so come spiegartelo, ho sentito che la cosa più
naturale sarebbe stata spingersi un po’ più in là e baciarlo.
«Ti va di fumare qualcosa di più tosto?» mi chiese. E io gli risposi di sì.
Non volevo fare la figura del codero imbranato.
Cos’è un codero? Ma dai, tipo un contadino. E imbranato vuol dire
impacciato, goffo, inesperto…

Le racconto senza fermarmi quella storia morta e sepolta, ed è come se la


vivessi per la prima volta, con l’ansia e il batticuore, e il fiato corto mentre le
mie mani spogliano il ragazzo e sfiorano il suo corpo magro, senza sapere
come si accarezza, il corpo di un ragazzo. Senza sapere – ma pregustandolo
– come sarà il suo sapore, il gusto della sua pelle sudata, il suo seme nella
mia bocca…

«Cazzo.»
«Eh, già.»
«Scusami. Non volevo prenderti in giro.»
«Sono cose vecchie. Morte e sepolte.»
«Ma no. Mi piace che me ne hai parlato. È bello che ti sei aperto, che hai
buttato fuori questa cosa. Proprio bello. Vuol dire che ti fidi di me.»
Oh, sì.
Maledettamente vero.
Mi fido di una che potrebbe essere mia figlia.
Una a cui, senza quasi conoscerla, ho detto cose che non avrei mai avuto il
coraggio di raccontare alla donna con cui ho vissuto per più di dieci anni.
Che non ho detto nemmeno al dottor Chatterjee, o a Nandini.
«Cosa c’è, Sergio?»
«Niente.»
«Perché non dovresti star male. Mi dispiace che ti senti così, ma hai fatto
bene ad aprirti con me.»
Distende le braccia, e io prima mi inginocchio per terra e poi mi appoggio
a lei, mi abbandono fra le sue braccia magre, sicuro che mi sosterranno.
E scoppio a piangere.
19

Quando finalmente smetto, quando i singhiozzi hanno cessato di


squassarmi il corpo, domati dalle sue carezze, chiudo gli occhi e sputo fuori
il veleno che mi è rimasto dentro. Le racconto cosa si prova a essere cacciati
di casa, vedendo le tue cose – i vestiti, le scarpe, i dischi – buttate in strada, e
tu che non hai un posto dove metterle, un posto in cui andare. Anzi, con la
crudeltà educata di Carla, non l’ha buttata in strada, la tua roba. L’ha
disposta in ordine sul marciapiede, come se la strada fosse la mia nuova casa
e lei mi stesse aiutando ad arredarla.

«Mi ha sbattuto fuori, e io ho vissuto per mesi in un residence del cazzo,


dove avevo voglia di ammazzarmi un giorno sì e l’altro anche. E poi il
divorzio. Mi hanno tolto tutto. Tutto. Quando finalmente ho trovato di nuovo
una donna che si è presa cura di me, anche se non avevo più un lavoro o una
dignità, ho perso anche lei. Ero ubriaco, sfatto, e l’ho spaventata. Vedi, il
fatto è che aveva una bambina piccola. L’amavo, quella bambina. Non mi
ricordo come si chiama ma l’amavo. Una sera la mia donna è tornata a casa,
perché lei lavorava e mi lasciava la bambina, una sera è tornata e mi ha
trovato che dicevo delle cose brutte a sua figlia… Non fraintendermi… Non
è come potresti pensare… Le raccontavo delle storie brutte del mio passato,
del mio lavoro, e lei, la mia donna, si è spaventata e mi ha gridato di lasciare
in pace sua figlia, e poi mi ha preso a bottigliate in testa… Una bottiglia di
vodka… Una vodka di merda… Poi mi ha messo in macchina e mi ha
scaricato mezzo morto al pronto soccorso dell’ospedale.»
«Che stronza…»
«No. Era una donna in gamba. Proprio in gamba. Poteva essere la donna
della mia vita. Ma non sono riuscito a tenermi neanche lei.»
Vedo che Elena mi fissa, come se avesse una domanda che non osa farmi.
«Spara» faccio.
«La vodka… spero non fosse una Keglevich…»
«Era una Smirnoff.»
«Ah. Un po’ meglio.»
«Già. Mi ricordo la marca della vodka e non il nome di quella bambina. Ti
sembra normale?»
«No. Vieni qui e abbracciami, dai. Voglio solo tenerti stretto. Giuro. Solo
abbracciarti. Non aver paura» sussurra. «Non aver paura…»
20

Nadia Caragiale è una furia.


«E tu saresti un poliziotto? Sei un incompetente! Uno sbirro di merda,
ecco cosa sei!»
Cammina avanti e indietro lungo la sala del Consiglio, sotto lo sguardo
inespressivo di Aarif e Chimeze.
«Ti chiedo che risultati hai raggiunto con la tua indagine e tu non hai
niente da dirmi! Niente! Avrei voglia di sbatterti fuori di qui e di dire ai tuoi
vecchi amici dove trovarti!»
«Non mi avete dato abbastanza tempo.»
«Perché pensi che noi ne abbiamo, di tempo? Be’, non è così. Devi darci
dei risultati. E li vogliamo subito. Prima che un’altra ragazzina ci lasci la
pelle.»
«Se sapessi fare miracoli avrei una chiesa mia. Mi adorereste sugli altari,
invece di farmi andare in giro con quattro spiccioli in tasca e questi scarponi
di merda. Avete quello per cui pagate. Altrimenti andate a reclutare il fottuto
Sherlock Holmes del cazzo, se è libero e gli va di lavorare per voi.»
La Caragiale mi fissa come se fossi la cosa peggiore che abbia mai visto
in vita sua. Si guarda intorno rabbiosa. Poi senza preavviso afferra di scatto
un posacenere colmo di mozziconi dal tavolo e me lo lancia contro. È un
posacenere da bar, di vetro pesante, e mi prende di striscio sul sopracciglio
già ferito. I punti si rompono. Il sangue mi cola sull’occhio.
Io non mi alzo dalla sedia.
Non apro bocca.
Rimango lì, dignitosamente composto, mentre il sangue comincia a
scorrermi lungo la guancia.
La Caragiale stringe i pugni, fulminandomi con lo sguardo.
Poi esce dalla stanza, sbattendo la porta.
Aarif, la sigaretta all’angolo della bocca come in un film degli anni
Cinquanta, mi si avvicina. Esamina la ferita con occhio professionale. Si
toglie dalla tasca un pacchetto di fazzoletti di carta e me lo passa.
«Non è niente. Posso sistemartela io, dopo. Ora parliamo di affari,
italiano.»
Prende una sedia e la piazza davanti a me, per poi mettercisi a cavalcioni,
come al solito.
«Nadia ha avuto una reazione di merda, ma ha ragione. Ci hai deluso,
poliziotto. Ti chiamiamo qui per farci rapporto e tu che ci racconti? Niente!
E intanto il tempo passa e domani potrebbe sparire un’altra delle nostre
ragazze. E noi non possiamo permettercelo. Se gli italiani scoprono cos’è
successo, raderanno al suolo questo posto con le ruspe, magari con noi
dentro. Hai capito? Non abbiamo tempo. E tu vieni qui e ci racconti le
favole, e non hai niente da mostrarci, niente da dire: chi è stato, perché, dove
si nasconde… Niente. Un cazzo di niente.»
Scuoto la testa. «È tutto sbagliato. Non è così che si conduce un’indagine.
Intanto perché pensate che gli omicidi delle ragazzine siano collegati alla
morte di Krystyna? C’è qualcosa che sapete e che non mi avete detto?»
«Se ti è più facile, se può aiutarti a combinare qualcosa di buono,
concentrati solo sulle nostre ragazze. Altrimenti segui le due piste e vedi se ti
portano a un posto solo o a due. Oppure è troppo complicato per il tuo
cervello in pappa?»
«Ho una sola pista. Quella del finto padre di Amina. L’ingegner
Husseini.»
Aarif mi ride in faccia. «Il finto padre? Ma dove vivi?»
«È quello che ha detto sua moglie, prima di ucciderlo. E di uccidersi.»
«E tu vai dietro a quella? Era pazza. Non puoi credere a una pazza. La
morte di sua figlia l’aveva sconvolta.»
«Ma almeno avete indagato? Avete cercato di verificare se la sua storia
poteva avere qualche fondamento?»
Aarif china il capo. «Tutte stupidaggini» taglia corto.
«È uno dei tuoi, no?» insisto. «Un siriano. O è vero quello che ha detto
sua moglie prima di ammazzarlo? Era siriano o iracheno?»
Il pediatra fa un brusco gesto con la mano per dire che ne ha abbastanza.
Si alza. Raccoglie da terra il posacenere e ci schiaccia la sua sigaretta fumata
a metà.
«Non occuparti di cose che non ti riguardano, italiano. Soprattutto quando
sono cose più grandi di te, e forse anche di tutti noi. E ora va’ da Chatterjee a
farti sistemare quel taglio.»
«Avevi detto che me lo curavi tu.»
Aarif alza le spalle. «Ho cambiato idea.»
21

«Va’ da Chatterjee a farti sistemare quel taglio.»


Come se fossi una cazzo di macchina, cazzo. Come se fossi la vecchia
Jeep Patriot di seconda mano in cui per qualche notte ho anche dormito, al
nadir delle mie disgrazie. Cioè, un attimo, in quello che allora pensavo
sarebbe stato il punto più basso in cui potesse finire la mia vita di merda. Ma
era solo un’illusione. Ovviamente. Come diceva l’agente scelto De Corato,
imitando Homer Simpson: «È il giorno più brutto della tua vita… fino a
oggi.»
«Va’ a farla sistemare» mi diceva Dolores, quando mi lamentavo perché il
motore entrava continuamente in protezione e che, a duecentomila
chilometri passati, prima o poi avrei dovuto rifare la distribuzione, e non
avevo i soldi neanche per fare gasolio.
Dolores, si chiamava, la donna della bottiglia. Dolores.
E Maria Luz la sua bambina.
Come potevo averlo dimenticato?
Ci ho vissuto due anni, in quella casa. Eppure adesso non saprei ritrovarla.
Se cerco di concentrarmi mi vengono in mente solo immagini di un androne
malmesso, e di una porta di legno vecchio, chiusa con tre diverse serrature.
Una porta che il lupo cattivo avrebbe buttato giù con un soffio. Non ho più
idea di come fosse, l’appartamento. Come se fosse stato disegnato su una
lavagna e qualcuno ci avesse passato sopra una spugna, lasciando solo degli
aloni incerti.
«Quando passavi davanti al negozio guidavi una Porsche» mi rimprovera
la voce roca e carnale di Dolores, con la sua cantilena latina. Le sue unghie
lunghe mi graffiano la schiena, per dirmi di penetrarla più in profondità.
«Quando mi hai conosciuto avevi i denti rotti e non pagavi l’affitto da due
mesi» ribatto, aumentando le spinte.
«Quando io ti ho tirato su dalla strada, pendejo senza riconoscenza, avevi
già venduto la tua Porsche…»
«E con i soldi che mi erano rimasti ho preso una vecchia jeep di seconda
mano e dei semi di fagioli magici… e ti ho curato i denti… e ti ho pagato
l’affitto…»
«Ahhhh… Così, sì… Ay mi madre… Hijo de puta… Mi amòr… Ay
Diòs…»

Dolores.
Così si chiamava, la donna che mi ha spaccato la testa a bottigliate.
Un nome decisamente appropriato.

Il dottor Chatterjee canticchia, suturandomi la ferita.


«Over the moor, take me to the moor / Dig a shallow grave / And I’ll lay
me down…»
Suffer Little Children, degli Smiths.
«Complimenti per la delicatezza» ringhio, cercando di combattere il
dolore dell’ago.
«Perché? Non canto bene?»
«Vada a farsi fottere.»
«Oh, lo farò. Durante la pausa del pomeriggio. Io e Nandini ci diamo
dentro, cosa crede? E lei, a proposito? Come vanno le cose?»
«Lo sa benissimo, che là in basso non funziona più niente.»
«Oh, ma non è in basso che deve funzionare. Lassù ai piani alti, è lì che
m’interessa sapere cosa succede.»
«Cosa succede? Niente di niente. Tutto tace. Niente desiderio, niente
pensieri sporchi, niente di niente. Stanotte ho dormito con una ragazza di
vent’anni, nello stesso letto, lei era praticamente nuda a parte la biancheria
intima, e io ho dormito con lei e non mi è nemmeno venuta voglia di
accarezzarla. Ecco cosa succede.»
«Benissimo.»
«Benissimo un cazzo.»
Chatterjee depone l’ago insanguinato in una bacinella metallica che odora
di disinfettante.
«Lei sta guarendo, Sergio. Ma deve darsi tempo. Il sesso non deve
distoglierla dal suo percorso di guarigione. Inoltre, sul piano karmico, deve
fare un po’ di penitenza per come si è comportato nelle sue altre vite.»
«Quali altre vite?»
Il medico alza le dita della destra, a una a una: «Anche se non crede nella
reincarnazione, ha avuto comunque più vite: la sua vita da poliziotto, la sua
vita da marito e da padre…»
«Non ho figli.»
«Ma si è preso cura di una bambina. Vale lo stesso. Tre: la sua vita da
ragazzo, quando ha cominciato a uscire dai binari.»
«C’erano dei binari? Non me ne sono accorto.»
Chatterjee mi fissa con un’intensità assoluta. «Io posso vederla, la strada
che non ha preso. Quella della poesia di Frost. C’è ancora, quella strada.
Deve solo ritrovarla. Non potrà percorrerla dall’inizio, ma può ancora
ricongiungersi con quella che un tempo chiamavano la retta via. È così che si
dice nella sua lingua, no? Retta via?»
«Sì.»
Chatterjee riprende a cantare.
«Perché proprio quella canzone?»
«Perché è bella. E perché gli Smiths sono di Manchester, come noi.»
«Sì, va bene. Ma perché proprio una canzone su dei ragazzini scomparsi
nella brughiera?»
«Until the day you die / This is no easy ride / We will haunt you when you
laugh / Yes, you could say we’re a team / You may sleep / But you will never
dream…»
«Basta, adesso. Cosa sta cercando di dirmi?»
Chatterjee mi pulisce la sutura con un tampone disinfettante.
«Sto cercando di dirle che se vuole tornare sui binari giusti deve fare
questa cosa. Deve salvare quelle ragazze scomparse.»
«Sono già morte.»
«Sì, ma lei può ancora salvarle. Scopra cos’è successo, chi le ha uccise, e
le loro anime riposeranno in pace.»
«Non posso farlo! Non ne sono capace!»
«Mi dicono che era un buon poliziotto. Allora ripercorra i suoi passi
almeno fino al poliziotto in gamba che era. Poi potrà tornare ancora più
indietro. Ma per ora si accontenti di questo. Trovi l’assassino e lo fermi.
Troverà anche i suoi binari. In alternativa, ed è quello che come suo medico
curante le consiglierei, lasci perdere tutto. Non ha niente da guadagnare, a
farsi trattare come un segugio da questa gente. Continui a fare il loro cane da
guardia e basta. È già tanto. Non rischi la sua vita per niente.»
Raccolgo il giubbotto dalla sedia, mi alzo dal lettino dell’ambulatorio.
«La saluto, dottore.»
«Le do qualcosa per il dolore.»
«Non serve.»
«Aspetti a dirlo.»
Mi mette in mano un blister anonimo, capsule bianche.
«Una al bisogno, non più di una ogni dodici ore.»
Mi appoggio allo stipite della porta. Guardo il mio riflesso nel vetro
dell’armadietto dei medicinali.
Sembro uno che è stato calpestato da una mandria di bisonti.
«Ha idea di come muoversi?» chiede il dottore.
«No.»
Chatterjee scuote la testa. «Si sentono certe storie, qui.»
«Da chi?»
«Dai morti.»
«Dai morti…» sorrido.
«Sì. Ad esempio dai due morti che dovevano essere i genitori di Amina.»
«Cosa le hanno detto?»
«Oh, un sacco di cose. Ad esempio che mangiavano molto bene, e che
avevano i denti molto ben curati. Una capsula della donna era recente, fatta
dopo il loro arrivo qui, e dev’essere costata non meno di duemila euro.
L’ingegner Husseini si faceva fare anche la manicure. Ma le cose più
interessanti me le ha dette quella lì…» Indica un apparecchio che sembra
una vecchia stampante, in un angolo del laboratorio. «Sa cos’è quella? È una
macchina per il test del dna. Era di Agatha, la mia prima moglie. Sa cosa mi
ha detto?»
«No.»
«Avendo fatto le autopsie di Amina e dei suoi genitori, avevo i campioni
dei loro dna, li ho inseriti nella macchina e indovini un po’? L’ingegner
Husseini non era il padre di Amina.»
«Come sosteneva sua madre.»
Chatterjee scuote la testa. «Neanche lei era sua madre. Questo può
aiutarla, nelle sue indagini?»
Torno a sedermi sul lettino.
«La madre di Amina… Quella che diceva di essere sua madre… gridava
che lui l’aveva venduta.»
«E la cosa è attendibile. Soldi ne avevano. Quindi ora ha il venditore, o
meglio i venditori, e la merce venduta. Le manca solo un elemento.»
«Il compratore.»
«Esatto.»
«Ma come faccio a trovarlo?»
«Ragioni, Sergio. Se Amina è stata uccisa da chi ha ucciso le altre
ragazze, il rasoio di Occam cosa ti dice?»
«Che anche loro possono essere state comprate.»
«E quindi…?»
«Devo indagare sull’ambiente familiare delle altre ragazze scomparse.»
Chatterjee sorride. Poi riprende a canticchiare Suffer Little Children.
«Grazie, dottore.»
«Di niente. Magari, per non rendere il mio lavoro monotono, la prossima
volta cerchi di farsi ferire in qualche altro posto.»
Sto per uscire, quando mi viene in mente una cosa.
«Aspetti…»
«Mi dica.»
«Ha fatto dei test anche per le altre ragazze?»
«Sì.»
«Quando?»
«Dopo aver fatto quelli di Amina. Avevo tenuto anche i campioni di dna
delle altre autopsie.»
«E i risultati come sono stati?»
«Lei cosa dice?»
«Non erano i genitori…»
«Esatto.»
«Allora mi basterà interrogarli. Cosa aspettava a dirmelo?»
Chatterjee muove lentamente la testa, a destra e a sinistra, come un
pendolo.
«Non è così semplice» sospira. «Ho dovuto fare l’esame su dei campioni
biologici trovati nei loro appartamenti. Entrambe le coppie sono scappate
quando hanno saputo della morte degli Husseini. Sono fuggite così in fretta
che avevano ancora la cena in tavola.»
«Non possono essere andati lontano.»
«Dipende. Rifletta un attimo. Dove possono essere andati?»
Rifletto. In fondo è un ordine del mio medico.
Di colpo tutto diventa chiaro.
«Si saranno rivolti al compratore» sussurro.
Mando una staffetta a intercettare Albert perché venga immediatamente
nel mio ufficio.
«Quale ufficio?» chiede la staffetta, un ragazzino giordano magro come
un levriero e incredibilmente sveglio, di cui non ricordo il nome.
Lo uso, a volte, per compiti come questo. Al posto del cellulare che non
ho.
«Secondo piano di London, stanza 215. Digli che è urgente.»
«Volo, sir!»
«Ehi!» lo richiamo.
«Sì?»
«Come ti chiami?»
«Amir» sorride con i suoi denti bianchissimi, e corre via.

L’ultima volta che ho comprato un giornale, prima che il mondo


impazzisse, la nuova tendenza nell’organizzazione del lavoro erano lo smart
working e il coworking. In pratica non avevi più un ufficio stabile, ma ti
sedevi al primo computer libero, o lavoravi addirittura da casa.
Non so come si siano evolute le cose nel mondo là fuori, ma alle Zattere il
sistema funziona benissimo.
La stanza 215 dell’edificio London è arredata proprio come un ufficio:
con un computer, una stampante, e un sacco di libri che comprendono codici
legali e un’enciclopedia, per quanto vetusta. Mai vetusta come quella di
un’altra stanza, in cui c’è un’enciclopedia tedesca degli anni Trenta dove alla
voce HITLER, Adolf, si legge: «Agitatore politico austriaco arrestato dopo il
fallito colpo di stato a Monaco. Attualmente in carcere.»
Tutto, alle Zattere, è materiale recuperato altrove. Quello che il mondo là
fuori considera obsoleto, quello che viene gettato via, qui funziona
benissimo. È solo un po’ più brutto, un po’ più lento, un po’ meno alla
moda. Ma funziona. Vale per i vestiti come per i computer.
Sono seduto lì da meno di dieci minuti quando Amir entra nella stanza e
scatta sull’attenti, facendo una specie di saluto militare. Batte persino i
tacchi, ma le sue Adidas logore non producono un grande effetto.
«Sta arrivando, sir!»
«Grazie, Amir.»
Mi tolgo di tasca una manciata di spiccioli, ma lui scuote la testa. «È un
onore lavorare per lei, sir!»
«Prendile lo stesso. Insisto. Mi aiuti a liberarmi le tasche.»
Lui sorride e si avvicina alla scrivania, intascando le monetine. Poi fa un
piccolo inchino e se ne va.
Albert arriva pochi minuti dopo. L’orologio sulla parete direbbe che non è
passato neanche un attimo, ma solo perché è fermo chissà da quanto. Le
batterie sono merce rara, alle Zattere.
Il ragazzo di colore è trafelato.
«Spero per te che sia davvero urgente…»
Indico l’orologio a parete. «Dimmi che le videocamere di sorveglianza
non sono così.»
Albert fissa l’orologio il tempo necessario a capire che le lancette non si
muovono. Poi fa segno di no con il capo. «A parte qualche interruzione di
breve durata o qualche lavoro di manutenzione, tutte le videocamere delle
Zattere sono funzionanti.»
«E quanto durano le registrazioni?»
«Be’, sono apparecchiature vecchie. Da quarantotto a settantadue ore al
massimo.»
Gli allungo un foglietto sul piano della scrivania. «Allora sbrigati a farmi
avere i nastri delle videocamere che sorvegliano questi due appartamenti.
Più quelle che coprono il percorso da lì a ogni possibile uscita dell’edificio.»
«Nient’altro?» sbuffa.
«Perché? Sei senza lavoro?»
«No, ma…»
«Sei ancora qui?» urlo.
Albert raccoglie il foglio, lo esamina brevemente e lo rimette sulla
scrivania.
«Per quando ti serve, questa roba?»
«Facciamo per ieri?»
Lui scuote il capo ma non protesta.
«Devi chiedermi qualcosa?» faccio, vedendo che continua a fissarmi.
«Si sentono delle storie.»
«Tipo?»
«Tipo che si parla di Daesh…»
«Le solite storie. Daesh è come la mafia. Non esiste.»
Alza le spalle. «Okay.» Poi indica il foglietto. «Hai trovato una pista?»
«Sì, ho trovato una pista. E se ti muovi a fare quello che ti ho chiesto,
penso di poterla seguire mentre è ancora calda.»
«Vado.»
La neve aveva smesso di cadere durante la notte.
Al mattino, con l’alito che si congelava all’aria della stanza, mi sono
stupito per la presenza di un corpo caldo accanto al mio. Poi mi sono
ricordato.
Elena mi dava le spalle. Indossava solo un paio di slip e una canottiera.
Gli slip erano bianchi, semplici: mutande da bambina. I capelli raccolti in
una lunga treccia accentuavano quell’impressione. Il suo sonno sembrava
pacifico, il respiro regolare.
Quando mi sono mosso si è svegliata, con un leggero brontolio.
«Mmm. Che ore sono?»
«Le sei.»
«Le sei. Devo fare pipì.»
«Il bagno è fuori.»
«Lo so» ha risposto, alzandosi e infilando il maglione, i jeans, gli
scarponi antinfortunistica che sembravano poco più piccoli di lei.
«Non muoverti da qui» mi aveva ordinato.
Quand’è tornata, dieci minuti dopo, si è fatta precedere da un profumo di
caffè e di pane appena sfornato.
Mi sono alzato a sedere, guardando il vassoio colmo che reggeva in
mano.
«Caffè, succo d’arancia, brioche appena fatte.»
«Meglio che in hotel. Come ci sei riuscita?»
«Basta conoscere le persone giuste. Il cuoco ha un debole per me. E
anche il panettiere, mi sa.»
Abbiamo fatto colazione seduti a letto, con la stufetta accesa che emanava
un piacevole tepore.
«Giornata piena anche oggi?» mi ha chiesto, leccandosi via una briciola
dall’angolo del labbro.
«Mi sa di sì. E tu?»
«Oh, il solito. Stamattina all’università a lavorare alla mia tesi, e nel
pomeriggio, be’, nel pomeriggio mi sa che farò meglio a farmi viva coi miei,
se non voglio che subaffittino le mie stanze.»
«Le? Perché, ne hai più di una?»
«Hai voglia. Siamo gente ricca.»
«Mi fa piacere per voi.»
«Oh, non so. A volte penso che sia una fregatura. Uno: non hai stimolo a
fare niente di buono nella vita. Due: nel giro dei tuoi conosci solo ragazzi
che sono dei perfetti imbecilli, esattamente come i loro genitori. Tre: non
vieni scopata in modo decente finché non ti fai qualche conoscenza al di
fuori del giro.»
«Sembra un mestiere duro, essere ricchi.»
«Non hai idea.»
«È per questo che fai volontariato?»
«Che faccio cosa?»
«Volontariato. Qui alle Zattere.»
«Tipo che me ne sto qui a fare colazione a letto con uno sfigato?»
«No. Cioè, sì. Ma mi riferivo alle cose che fai con le ragazze…»
«Ah. Ma no. Quello, come si dice, è più una specie di ricerca sul campo.
Sto facendo una tesi sui traumi delle guerre civili. L’estate scorsa ho
intervistato un sacco di profughi, in Siria e in Libano. Poi mio padre, che
non è diventato ricco per caso, mi ha fatto sapere tramite mamma che era
una stronzata rischiare la vita in posti di merda come quelli quando i
profughi li avevi anche a casa tua.»
«In che senso, casa tua?»
«Ma sì, non lo sapevi? Le Zattere sono proprietà della banca di mio
padre.»
«Tuo padre ha una banca?»
«Non è che proprio proprio ha una banca, mio padre. Una volta sì, era la
banca di famiglia, si chiamava come noi. Ma poi hanno dovuto adattarsi ai
tempi, far entrare nuovi soci. È una cosa un po’ complicata. Qualcosa ha
dovuto cedere, qualcosa ha guadagnato negli scambi, non chiedermi cosa e
come perché a me dei soldi non interessa e non ci capisco niente, ma adesso
lui è il direttore generale, il… come si chiama, il ceo, ecco, di NeuBank. Si
scrive Neu come nuovo in tedesco, si legge noi come noi. Mi ricordo ancora
le risate che mi sono fatta quando hanno presentato il logo alla stampa e
c’era questo creativo con degli enormi occhiali tondi color fucsia e la
camicia con le punte all’insù, e insomma, questo cretino vestito come Elton
John sale sul palco accanto a mio padre e dice proprio queste precise
parole: “Si scrive NEU, si legge NOI.” E tutti giù ad applaudire quando
Tiziano Ferro appare sul palco e comincia a cantare la sigla della banca.»
«Hai detto che le Zattere sono proprietà della banca di tuo padre…?»
«Yes. L’affare peggiore mai fatto in vita sua, come dice sempre. Dovevano
diventare il nuovo polo direzionale della città, e invece si sono rivelate un
fiasco. Pare siano state costruite sopra una palude, con materiale scadente,
da un’impresa della camorra in subappalto. L’impresa partecipata dalla
banca è fallita, e questo è il risultato: tre palazzi occupati abusivamente e
uno bruciato. Tecnicamente è roba della mia famiglia, insomma, ma ve la
lascio volentieri.»
Sono rimasto in silenzio, rimuginando quelle informazioni. Erano come il
pezzo più importante di un puzzle, ma difficile da collocare. Troppo grosso
per incastrarsi con le altre tessere che avevo in mano. Del tutto
sproporzionato. Eppure…
Eppure in qualche modo quell’accenno a un’impresa in subappalto mi ha
fatto accendere una lampadina nel cervello. Era una lampadina lontana,
tipo in fondo a un lunghissimo corridoio o a una miniera, ma era lì.
Abbiamo finito di mangiare. Fino all’ultima briciola, fino all’ultima
goccia.
«Ci vediamo, stasera?» mi aveva chiesto sulla porta.
«Se vuoi.»
«Non c’è un modo più semplice, per contattarti, di spargere la voce in
giro? Non hai un telefono? Un telegrafo…?»
«No. Però se chiedi in giro, qualcuno ti dirà sempre dove trovarmi. Sono
una specie di sceriffo, qui.»
«Questo lo so. Buona giornata, sceriffo.»
«Grazie. Ho bisogno di auguri, oggi. Fra meno di mezz’ora devo fare
rapporto ai miei padroni.»
Elena si è alzata in punta di piedi per baciarmi sulla fronte.
«Vedrai che con i miei auguri ti andrà tutto bene!»

E infatti neanche un’ora dopo mi sono beccato un posacenere in fronte.

Quando Albert mi manda a chiamare perché lo raggiunga nel suo


laboratorio è quasi mezzogiorno, anche se la luce fuori è livida e
crepuscolare.
Mi chiedo se arriverà mai la primavera.
Il laboratorio è una cosa a metà fra lo studio di Archimede Pitagorico e
l’antro di Maga Magò, con maschere africane e animali impagliati appesi al
soffitto e appollaiati su macchinari dallo scopo incomprensibile.
«Prima che tu me lo chieda» esordisce il ragazzo alzando le mani, «ti ho
fatto venire qui perché è più pratico così. Le videocamere non sono tutte
uguali. Certe registrano su cd, altre in remoto. Ce ne sono un paio che
registrano su cassette vhs, e una addirittura, meraviglia delle meraviglie, su
Betamax, se hai idea di cosa sia.»
«Io sì. Mi meraviglio che lo sappia tu, cos’è un Betamax.»
«Ah, le vostre vecchie tecnologie sono affascinanti. Sai che per registrare
uso un minidisc Sony del 1993?»
«Non sono qui per una lezione di storia della tecnologia.»
«Come credi. Peccato. Comunque: su questo banco vedi cinque epoche
tecnologiche diverse, di cui ti risparmierò i dettagli. Se ci ho messo un po’ di
tempo a chiamarti è perché volevo offrirti uno spettacolo continuo, senza
saltare da apparecchio ad apparecchio.»
«Lo apprezzo molto.»
«Naturalmente ci saranno delle differenze di qualità nelle immagini, che
avrei potuto correggere, se avessi avuto il tempo di rielaborarle al
computer.»
«Andrà benissimo anche così.»
«Aspetta a dirlo. Okay, si parte. Comincia lo spettacolo.»
22

La porta sullo schermo si apre ed eccoli, i presunti genitori di Fatumata


També, ventidue anni, del Mali, scomparsa otto mesi fa dalle Zattere.
Guardali scappare come topi impauriti.
L’ennesimo nuovo governo ritiene che il primo passo per una corretta
gestione di quella che chiama «emergenza migrazionale» sia una «corretta e
puntuale identificazione soggettiva».
E allora ecco il test del dottor Chatterjee che certifica, al di là di ogni
possibile dubbio, che Fatumata potrà anche essere stata maliana, ma non era
certamente figlia di quelli che ufficialmente risulterebbero essere i suoi
genitori biologici e i suoi affidatari in Italia, due tizi che chissà da dove
vengono, separati o assieme, e chissà dove sono andati.
E un altro test conferma che la macedone Biljana Bequiri non ha niente da
spartire con quelli che per lo stato italiano sono i suoi genitori, e che per
inciso, stando alle informazioni raccolte da Albert, di macedone non hanno
in realtà un, virgola, beneamato, virgola, cazzo.
I due slavi hanno l’aria più sicura, quasi spavalda. Hanno trovato anche il
tempo di riempire due valigie. Un paio di volte l’uomo alza la testa a fissare
con aria di sfida la videocamera. La donna invece tenta inutilmente di
nascondersi il volto con una mano.
Le immagini si alternano in un patchwork di fotogrammi a bassa
risoluzione e altre immagini che sembrano venire dal futuro. Guardarle è
come usare una macchina del tempo che parte dai primi anni Ottanta e arriva
a oggi.
Ma l’oggi prevale, per fortuna, in questo streaming surreale dove
frammenti presi da spezzoni in vhs si alternano a immagini in alta
risoluzione.
Non che questi – o quelli – abbiano importanza.
È solo un fattore estetico. Non c’è molto da scoprire, in quelle immagini.
E penso che anche perquisire le stanze dei fuggiaschi non mi porterà molto
lontano.
Più confronto i dati degli esami del dna di Chatterjee con le immagini che
passano sullo schermo, più mi convinco che c’è del marcio nel regno di
Danimarca. Che una cosa del genere non la organizza uno sprovveduto.
Perché la somiglianza è indiscutibile, tra i finti genitori e le ragazze morte.
Quindi qualcuno si è dato la pena di cercare i soggetti giusti da abbinare a
ogni ragazzina e ha organizzato il viaggio della “famiglia” fin qui. Perché?
Qual era il valore delle ragazze, per loro? Prostituzione? Non ha senso. Non
le avrebbero uccise. Una prostituta rende da viva, non da morta.
«Non fare così» bela Albert.
«Così cosa?»
«Battere con il dito sulla scrivania. Mi dà il nervoso.»
«Ci sono anche immagini dell’esterno?»
«Sì, tra un minuto.»
Lo schermo ora è diviso in due parti: da un lato i due neri, dall’altro la
coppia slava. Percorrono lo stesso corridoio. Poi l’immagine cambia e
mostra l’atrio di Paris, scarsamente illuminato alle otto di sera. Un uomo
intercetta la coppia di colore. Lo riconosco. È Salomon Nkobe, uno dei
guardiani del turno serale. Si avvicina ai due, ci scambia qualche parola, poi
li saluta e li guarda uscire, un po’ perplesso. I due slavi invece sono usciti
un’ora e mezza dopo, quando di guardia c’era un altro custode grande e
grosso che non conosco. Sullo schermo in bianco e nero il guardiano alza la
mano per fermarli, ma i due tirano dritto, trascinandosi dietro i trolley. Senza
smettere di camminare, il maschio si volta a metà e grida qualcosa, facendo
un gesto minaccioso. Il custode torna dietro la sua scrivania, componendo un
numero sul cellulare.
«Ti va di giocare al poliziotto, Albert?»
«Perché, adesso cosa sto facendo?»
«Guarda» indico.
Sullo schermo diviso a metà, le due coppie – quella di colore più avanti di
trenta metri – sono nel piazzale davanti a Paris. Camminano verso un’auto
bianca. Non la stessa auto. La prima, quella dei neri, è una monovolume.
Quella verso cui vanno gli slavi un’ora e mezza dopo è una berlina.
«Puoi zoomare?» faccio.
«No.»
Fa uno strano effetto, vedere simultaneamente due scene riprese in tempi
diversi. Lo stesso cielo scuro, perché a febbraio e con la neve la luce alle
otto o alle nove e mezza di sera è più o meno la stessa, nel senso che non c’è.
Le due auto sono troppo lontane per intuirne il modello. Figurarsi per
leggerne la targa, si capisce solo che sono due taxi.
Le due coppie entrano. Le auto ripartono. La monovolume manda una
fumata bianca di gas di scarico.
Mi accorgo che le dita della mia mano destra hanno continuato a battere
sul piano del tavolo, e che Albert le fissa infastidito.
Muovo l’indice e il medio, imitando una persona che cammina.
Non so perché lo faccio.
No: lo so.
Lo facevo per far divertire Maria Luz. E per farle mangiare l’uva, che non
le piaceva. Intagliavo con il coltello i grossi acini di uva Regina ricavandone
una faccia. E Maria Luz doveva fare l’uvivoro, un feroce predatore che si
nutriva dei poveri acini indifesi.
Muovo le dita, che ora imitano un’andatura alla Lili Marlene, verso
Albert. Poi con l’indice e il pollice gli do un buffetto sulla guancia.
«Ma dai…» si schermisce.
«Caro il mio negretto supergenioso, c’è un’altra cosa che dovresti fare per
me, ma non so se ne sei capace.»
«Non mi piace quando mi chiami così…»
«Supergenioso?»
«Dai, che hai capito benissimo.»
«Ho bisogno che mi trovi altre immagini di quelle due auto.»
«Non ce ne sono.»
«Non qui. Ma un uccellino mi ha detto che con il tuo computer modificato
e un modem ad alta velocità sei più bravo di Harry Potter a fare magie.»
Alza le spalle. «Può darsi. A che magia pensavi?»
«Tipo, diciamo che quelle due auto possono aver preso una sola strada,
per andar via dalle Zattere. Ce l’hai lo smartphone?»
«Certo.»
«Tiralo fuori. Apri Google Maps e cerca le Zattere.»
«Non si chiamano mica così, su Google Maps.»
«Cerca Centro Direzionale.»
Guardo il telefono. Ha uno schermo grande quasi quanto quello del mio
tablet.
«Bello» faccio. «Ma riesci a reggerlo?»
Lui non si degna nemmeno di rispondermi.
Apre l’app, digita quattro parole sulla barra di ricerca, et voilà, il
complesso delle Zattere visto dall’alto, sotto forma di mappa e poi, su mia
richiesta, di visione dal satellite.
«Che marca è? Huawei?»
«OnePlus.»
«Mai sentito. Zooma ancora. Ecco, là, vedi?»
«È un benzinaio.»
«E lì c’è una farmacia. E lì su quel semaforo c’è una videocamera.»
Gli occhi di Albert s’illuminano.
«Capito.»
«Puoi farlo?»
«Claro que sí.»
Tira via da uno scaffale il suo famoso notebook personalizzato. L’ha fatto
placcare in bronzo, una cosa nerdissima, e poi l’ha personalizzato per
renderlo cyberpunk, con un orologio analogico e una serie di finti ingranaggi
fissati sul coperchio.
Lo prendo in mano, soppesandolo. «E questo di che marca è?»
«È un Ono Sendai. No, scherzo. L’ho fatto io. Assemblato a partire da un
Panasonic Toughbook CF-20, ma non è che sia rimasto molto della
macchina originale.»
«È veloce?»
«Mettiamola così: come potenza di calcolo è un cavallo da tiro, come
velocità un purosangue da corsa.»
«Senza cazzi. E se lo lascio cadere?»
Fingo di lasciarmelo sfuggire dalle mani. Albert non fa una piega.
«È un toughbook» sbuffa, alzando le spalle. «Puoi fargli praticamente
tutto quello che vuoi e continua a funzionare.»
«Non sfidarmi.»
«No che non ti sfido. Ti conosco.»
Avvia in pochi secondi il portatile, che si apre su una schermata nera.
Digita a velocità incredibile, le dita sembrano danzare sulla tastiera, altro che
il mio uvivoro e la mia Lili Marlene.
Albert alza il capo dalla tastiera e mi guarda.
«Ti spiace uscire?»
«Perché?»
«Mi innervosisci. E poi ci sono delle cose di cui sono piuttosto geloso.
Trucchi del mestiere, che non mi va di mostrare.»
«Tranquillo che non ti copio.»
Albert scuote la testa. «Preferirei che uscissi. Sul serio.»
Mi alzo.
Lo fisso a lungo negli occhi. Tra maschi alfa funziona così.
«Quando mi fai sapere qualcosa?»
«Non prima di stasera. È un lavoro lungo. Quando ho finito ti mando a
chiamare, okay?»
«Per me va bene. Ma se durante il lavoro riesci a scoprire le targhe di
quelle due auto, non aspettare di finire. Avvisami subito.»
«Okay.»
Poi mi guarda.
«Sei ancora qui?»

La pista delle auto non è l’unica che voglio seguire. Ce n’è un’altra, anche
se quel po’ di buonsenso che mi è rimasto mi urla di scordarmela.
Di lasciar perdere Lirosh Roshi.
Ma si sa che tra il buonsenso e il mio istinto suicida, quello che ha il cazzo
più lungo è il secondo.

La strada che porta a Pista Prima è un fiume di fango. Un fronte


temporaneo d’aria più calda ha portato sulla città nuvole gonfie di pioggia
invidiosa, che non vedeva l’ora di rovinare l’effetto di purezza della neve. Se
mi avventurassi a piedi fino alla fermata dell’autobus i miei scarponi si
riempirebbero di melma dopo aver fatto neanche cento metri. In questi casi il
Consiglio organizza un servizio di trasporti navetta. Non sempre sono mezzi
confortevoli. Nel mio caso è un vecchio OM delle consegne con un carico di
funghi. Ci sono due posti liberi accanto all’autista e sei nel retro, fra le
cassette che emanano un odore sgradevole e intenso, destinato a restarmi
nelle narici per un bel po’, visto che devo prendere posto dietro.
«Dove devi andare?»
Gli dico l’indirizzo.
Lui fischia fra i denti. «Quartieri alti. Posso lasciarti a un chilometro da
lì.»
«Per me va bene.»
«Monta su. E non mangiare i funghi» mi fa, strizzando l’occhio.
I miei cinque compagni di viaggio nel cassone del camion sono cingalesi.
L’odore di curry che impregna i loro vestiti lotta con quello dei funghi, ma
alla fine soccombe. Pur non avendo nessuna lingua in comune, alla fine
credo di capire dalle loro spiegazioni a gesti che fanno i lavapiatti in due
pizzerie e un ristorante cino-giapponese del centro. Seduto sul pianale
sobbalzante del furgone, guardo attraverso il finestrino sporco le cime degli
alberi: prima i filari di pioppi, poi i cipressi del cimitero. C’era un pittore
fiammingo che piaceva a Carla, che dipingeva solo paesaggi invernali come
questo. Una volta, ad Amsterdam, avevamo passato mezza giornata nelle
sale di un museo per vedere quadri di contadini che si sbronzavano a una
festa di nozze e un’infinità di mulini e di barche sul mare in tempesta. Dopo
un po’ ne avevo i coglioni pieni, ma Carla era fatta così: metodica fino allo
sfinimento. Se in un museo c’erano 9999 quadri lei doveva vederli tutti,
nessuno escluso. Alla fine eravamo entrati nella sala dove c’erano i paesaggi
invernali di questo pittore, e lì ho finalmente ammesso che ne valeva la pena,
di entrare in quel museo. Soprattutto per una tela, scura e nemmeno troppo
grande. L’avevo già visto, quel quadro, in un vecchio film di fantascienza
russo. O se non era quello era un quadro che gli assomigliava.
Rappresentava un villaggio nel cuore dell’inverno, con dei paesani che
facevano festa. Anche se non so perché, quella scena mi dava i brividi, come
se la stessi guardando con un cannocchiale che invece di farti vedere a
distanza ti fa vedere indietro nel tempo. Di quei contadini è rimasta
l’impronta, in quel quadro, e sono ancora visibili, come un fossile nella
roccia. Di noi invece non resterà nulla. Verremo consumati dal tempo. Le
nostre cose più care finiranno su qualche bancarella, o in una discarica. Nella
migliore delle ipotesi, in mano a persone che non sapranno che farsene.
È con questi pensieri allegri come una marcia funebre suonata da
sordomuti che scendo dal furgone proprio alla fine del lunghissimo corso
cittadino, le invisibili Colonne d’Ercole oltre le quali la modernità scompare
e la città torna a essere quella che era fino agli anni Cinquanta, con le sue
case coloniche e gli orti ben curati e i pollai tirati su con materiale di
recupero. Un cartellone pubblicitario smangiato dalle intemperie annuncia il
nuovo complesso residenziale Le Cascine del Conte, a ottocento metri di
distanza. In realtà è almeno un chilometro e mezzo, ma non si devono
spaventare i potenziali acquirenti. Bisogna essere ottimisti. Questo devono
aver pensato, mettendo quel cartello ormai sbiadito e oltraggiato dal tempo.
La neve sui bordi mi costringe a camminare sulla carreggiata, minacciato
dal traffico assassino di tir e auto che vedendomi all’ultimo momento
sterzano e danno di clacson, forse temendo un mio raptus suicida. I numerosi
mazzi di fiori nel cellophane fissati ai pali della luce e ai paracarri
testimoniano la pericolosità di questa strada rimasta praticamente com’era
settant’anni fa. Ogni veicolo che passa solleva schizzi di neve e fango che
vanno a depositarsi sui miei scarponi e sugli abiti, trasformandoli in quadri
di Jackson Pollock dipinti con la merda. Cosa direbbe Nandini? Calma.
Respira. Un bel respiro profondo.
Gli edifici a due piani del complesso appaiono finalmente alla vista, oltre
il muro di cinta alto tre metri e coronato da spuntoni micidiali. Mi servono
altri venti minuti di lenta salita al Calvario per arrivare alla garitta di guardia,
mimetizzata dietro le siepi di alloro.
Il ragazzo magro in divisa esce dal suo sgabuzzino.
«Buongiorno» faccio.
Lui mi scruta con attenzione da capo a piedi, prima di rispondere con un
«’giorno» poco impegnativo.
Faccio per muovermi, ma lui mi si para davanti.
«Aspetti.»
«Devo entrare.»
«Chi deve vedere?»
«Non penso che la riguardi.»
L’uomo mostra un blocco per appunti che tiene in mano.
«Dimmi chi devi vedere e io deciderò se puoi entrare o meno» fa,
passando al tu.
«Devo vedere il signor Roshi.»
Sentendo quel nome, la guardia raddrizza la schiena. Scorre più volte il
primo foglio del blocco. Poi il secondo.
Scuote la testa.
«Non trovo visite per il signor Roshi, oggi.»
Una seconda guardia si avvicina.
«Qualche problema?» chiede, passandomi ai raggi X con i suoi occhi
venati da alcolista.
«Dice che deve vedere l’Albanese.»
«Addirittura. E perché non Madre Teresa di Calcutta?»
«Forse perché è morta» rispondo. «E comunque cerco un altro albanese,
maschio. Si chiama Lirosh Roshi, che è anche uno scioglilingua niente
male.»
«Aspetta qui e fa’ il bravo.»
«Perché, adesso cosa sto facendo?»
La guardia con gli occhi rossi trascina la sua pancia da bevitore fino alla
garitta. Mi sposto di qualche passo per vedere che fa.
Ha preso su un telefono portatile. Non so leggere il labiale, quindi non ho
idea di cosa dica, fra un sorrisetto e l’altro. A un certo punto mi fa segno di
andare da lui.
La garitta ha i vetri appannati, ed è impregnata di un forte odore di caffè
bruciato e sudore. La guardia mi passa il portatile.
La voce all’altro capo della linea ha la esse sibilante, e un modo di parlare
che non so in che altro modo definire se non gelido.
«Chi cerca il dottor Roshi?»
«Mi chiamo Sergio Stokar.»
L’interlocutore chiede qualcosa in una lingua che non conosco, a qualcuno
che dev’essere nella stessa stanza.
«Il dottor Roshi non l’ha mai sentita nominare.»
«Gli dica che abbiamo un’amica comune. Anzi, che l’avevamo: Krystyna
Nowak.»
Stavolta il silenzio è più lungo, prima che la voce serpentina si faccia
risentire.
«Mi passi di nuovo la guardia, signor Stokar.»
La guardia suda come una fontana, mentre ascolta quello che l’altro ha da
dirgli. Annuisce, borbotta «sì» e «certo».
Quando ha finito la conversazione, mi fissa con un’espressione di rabbia,
che poi si fa dubbiosa, e infine si trasforma in riluttante rispetto.
«Mi segua.»
Saliamo su una piccola auto elettrica blu, con lo stesso logo della
compagnia di sicurezza privata che spicca sulle divise delle due guardie.
«Posso guidare io?» faccio. «Non ho mai guidato uno di questi cosi.»
L’uomo s’infila a fatica dietro il volante e mette in moto. «No.»
Il vialetto è pulito così bene che l’asfalto pare appena steso. La vettura è
silenziosa e sembra scivolare sulla strada.
Gli alberi impediscono la visione degli edifici.
«Sicché sarebbero queste, le Cascine del Conte» faccio.
«Così dicono.»
«Più che cascine sembrano ville. E il Conte chi era? Uno famoso?»
«Non ne ho idea. Può darsi.»
«Ho visto un cartellone, venendo qui. Le case sembravano molte di più.
Almeno il doppio. Dove sono sparite?»
«Non deve chiederlo a me.»
L’auto elettrica incrocia una sola altra vettura, sul viale, ma è una Rolls-
Royce Cullinan dai vetri oscurati, un suv dal lusso esagerato, un Titanic
dell’asfalto che fa sembrare la nostra una scialuppa di terza classe.
«Cazzo. Mai visto, uno di quei mostri.»
«Ce ne sono tre. Piacciono ai russi.»
«Perché, ci sono russi, nel complesso?»
L’uomo sulle prime non risponde. Poi ringhia un «non deve chiederlo…».
«… a te. Lo so. E a chi potrei chiedere?»
«Non a me.»
Il parco sembra non finire mai. Le case, ognuna col suo giardino enorme e
ben curato, sono disposte in modo che la privacy sia massima, grazie a
boschetti e collinette piazzati ad arte. Chi abita in quelle magioni può godere
della sensazione illusoria che non ce ne siano altre, nel complesso chiamato,
chissà perché, Cascine del Conte.
«Siamo arrivati» borbotta la guardia, fermando l’auto davanti a un
monumentale cancello in ferro battuto. Una telecamera in alto sul muretto
punta la targa, poi l’abitacolo. Il cancello scivola di lato quasi senza rumore.
Più che un giardino sembra un piccolo parco, quello che circonda una
villa a un piano, dall’aria non particolarmente grande o lussuosa.
Centottanta-duecento metri quadrati, a occhio. Mi aspettavo qualcosa di più
vistoso.
Negli ultimi cento metri l’asfalto cede alla ghiaia. L’auto si ferma di
fianco a una fontana ornamentale che alimenta una vasca circolare. Sotto il
ghiaccio sottile, quattro grandi carpe si incrociano lente e solenni. Conto
almeno tre telecamere puntate sulla mia modesta persona. E sono solo quelle
che riesco a vedere.
La guardia riparte senza un saluto, attenta a non rovinare il tappeto di
ghiaia bianchissima, la stessa che scricchiola sotto i miei piedi mentre
attraverso lo spiazzo davanti alla casa e salgo i quattro scalini di marmo
bianco che portano all’entrata.
La porta si apre.
Come fanno di norma le porte.
23

Sulla soglia c’è un uomo piccolo e magro, che mi sembra di aver già visto
da qualche parte.
«Signor Stokar. Venga. Il dottor Roshi l’aspetta.»
Lo seguo nell’atrio dalle grandi vetrate e dal décor minimalista. Le pareti
sono blocchi di cemento grezzo. Alcune grandi foto in bianco e nero attirano
il mio sguardo.
«De Marco» sussurra l’uomo. Ora che lo vedo di profilo realizzo chi mi
ricorda: il defunto Joseph Goebbels, dottore in filosofia e ministro della
propaganda del Reich hitleriano.
«Pardon?» faccio.
«Le foto alle pareti. Sono di Danilo De Marco.»
«Belle» annuisco, passando davanti a due gigantografie che raffigurano i
volti seri e intensi di un giovane e di una ragazza africani. Nella pupilla dei
due si vede il riflesso del fotografo. Sto guardando dei ritratti che sono anche
un autoritratto.
«Il dottor Roshi non avrà molto tempo da dedicarle. Tra meno di un’ora
ha un impegno di lavoro.»
«Basterà molto meno.»
«Questo lo stabilirà il dottor Roshi.»
C’è profumo di cera, nella stanza. Viene sia dal pavimento di marmo tirato
a lucido che dalle grandi candele poste sui mobili e sul pianoforte Fazioli a
gran coda.
«Prego» fa il sosia di Goebbels, fermandosi davanti a una parete che,
come per magia, scivola di lato e rivela la porta di un ascensore grande come
quello di un ospedale.
Entro. Il Reichsminister mi segue in silenzio. La pulsantiera ha otto tasti.
Lui preme il penultimo verso il basso.
Quasi non si avverte la sensazione di scendere. Un minimo fruscio e basta.
Le luci dei pulsanti si accendono l’una dietro l’altra. La porta si apre.
Per un attimo resto senza parole. La vista dalla vetrata alle spalle
dell’enorme scrivania è uguale a quella del pianoterra.
«Un gioco di specchi» fa una voce. Lirosh Roshi si alza dalla poltrona in
pelle e mi tende la mano.
La trattiene nella sua un attimo di troppo per i miei gusti. Con diffidenza,
soppesandomi con gli occhi. Una volta ho conosciuto una donna albanese,
una bella donna, che mi guardava così, come un macellaio guarda il bue.
Come se mi stesse sezionando con lo sguardo pregustando i tagli migliori, o
il prezzo a cui potrebbe venderli. Ma Carla direbbe che ho dei pregiudizi.
Può darsi che abbia ragione.
«Si accomodi» sussurra l’Albanese. «Lasciaci soli, Amos.»
Davanti alla scrivania non c’è una sedia, né tantomeno una poltrona come
la sua. C’è uno sgabello da pianoforte, regolato troppo basso, immagino
volutamente. Lirosh me lo indica, con un gesto d’invito.
«Resto in piedi, grazie.»
Alza le spalle. «Come crede. Lei ha fatto un nome, per entrare qui.»
«Krystyna Nowak.»
«Cosa le fa pensare che fosse mia amica?»
«Diciamo perché se non lo fosse stata non avrebbe potuto fare quello che
faceva?»
«E cosa faceva, la sua amica? Così, tanto per parlare.»
«Vendeva il suo corpo.»
«Una prostituta.»
«Tecnicamente.»
«Non pensa che dovrei sentirmi offeso, quando mi attribuisce un’amicizia
con una prostituta?»
L’italiano di Lirosh è impeccabile, raffinato. Anche il suo aspetto è molto
curato. Indossa un completo grigio di taglio sartoriale, una camicia bianca
dalla morbidezza evidente già allo sguardo e una cravatta regimental in seta.
È più alto di quanto mi aspettassi. E meno magro. Sopra la cintura c’è un
accenno di pancetta, e i capelli sono più stempiati di com’erano nelle foto
segnaletiche che sono l’unico ricordo visivo che avessi di lui.
«Ho detto che era anche mia amica» faccio.
«Sono affari suoi. Ma io sono un cittadino responsabile, un pilastro della
comunità. Oltre che un esempio di integrazione di successo. Non posso
tollerare che il mio nome venga associato a persone o attività meno che
irreprensibili. Solo per questo ho accettato di incontrarla invece di farla
allontanare di peso dalle guardie.»
«Questo è ancora un paese libero, signor Roshi.»
«Dottor Roshi. Sarà anche un paese libero, ma lei è in una proprietà
privata.»
«Dottore in cosa, esattamente?»
«Ingegneria edile.»
«Complimenti.»
«Un titolo honoris causa, ma a cui tengo molto.»
«Posso capirla. Dato che è ingegnere, mi spiega come funziona, la sua
casa? Voglio dire, come fa a esserci la stessa vista al pianoterra e a questo?
E, fra parentesi, a che piano siamo?»
«Al meno cinque. Esattamente non so spiegarglielo, ma è una specie di
gioco di specchi. Ha presente il tunnel degli specchi al luna park? Ecco,
funziona più o meno così. Quello alle mie spalle non è uno schermo. È un
riflesso.»
«L’effetto è notevole.»
«L’idea me l’hanno data alcuni amici russi. Quasi tutti hanno comprato
casa nel centro di Londra, che per lo shopping natalizio è fantastica, mi
dicono. Il fatto è che sono case piccole per i loro standard, in quartieri storici
nei quali non si può sopraelevare, o modificare l’esterno. Così la soluzione è
andare in profondità, scavare piani sotterranei. In questo modo si possono
moltiplicare anche per dieci le cubature senza che il comune abbia niente da
ridire. Inoltre l’effetto esterno è più modesto e attira meno attenzioni
sgradevoli da parte del fisco o di altri malintenzionati.»
«Capisco. Da quanto tempo è in Italia, Lirosh? Posso chiamarla Lirosh,
vero?»
«Preferirei di no. Dottor Roshi è più adeguato.»
«Da quant’è in Italia, Lirosh? No, aspetti: glielo dico io. L’ho letto sul suo
dossier. Lei è in Italia dal 1998. Quando ha subito il suo primo arresto per
sfruttamento della prostituzione.»
L’Albanese non risponde.
Ha posato le mani sulla scrivania, e quelle mani sembrano molle pronte a
scattare.
«Lei sta abusando della mia pazienza, signor Stokar.»
«E tu mi stai facendo perdere tempo, Lirosh Roshi detto l’Albanese. Mi
racconti un mare di cazzate sulla tua laurea e su questa tana. Cose di cui, per
inciso, non me ne frega un beneamato cazzo. E allora sai che ti dico? Che mi
dispiace. Davvero. Mi dispiace di essere tornato dal tuo passato a ricordarti
la merda che eri, che sei. Hai fatto un bel lavoro per toglierti la puzza di
dosso, ma non ti è riuscito del tutto. Perché vedi, io ti annuso e sento ancora
quell’odore. Poi ti guardo in quegli occhietti da topo affamato che hai e mi
rendo conto che puzzi di merda perché sei una merda.»
Nonostante tutto il suo autocontrollo Lirosh sbianca. Sembra sul punto di
esplodere.
«Sono venuto qui solo per vederti» faccio. «Per sapere come sei adesso.
Stavi meglio nelle foto segnaletiche.»
«Anche tu non sei certo una meraviglia, poliziotto. Mi risulta che la tua
carriera è finita nel cesso.»
«Sì, e non solo quella. Da quando sono stato sbattuto fuori dal servizio
sono morto due volte. La prima quando una donna mi ha aperto il cranio con
una bottiglia di vodka, la seconda quando qualcuno mi ha drogato e torturato
lasciandomi mezzo morto. E forse ero morto davvero. Forse sto cercando di
battere il record di Cristo e di Lazzaro messi insieme. Però non dovresti
sottovalutarmi, e nemmeno prendermi per il culo. Perché vedi, Albanese,
quello che hai davanti a te è uno stramaledetto sopravvissuto del Ghetto di
Varsavia, una fottuta SS della divisione Charlemagne fra le rovine del
Reichstag, un lanciere polacco che carica a cavallo i tank, un legionario
francese che resiste a Dien Bien Phu. Io sono tutte queste cose e sono molto
di più. Sono un volontario delle cause impossibili. E sono incazzato come
una bestia con chi ha ucciso Krystyna. Non mi fermerò finché non l’avrò
trovato, e spianerò tutto e tutti quelli che cercheranno di ostacolarmi. Sono
stato chiaro? Se sei tu che l’hai ammazzata, o se sai chi è stato e non me lo
dici, puoi cominciare a cagarti addosso.»
L’Albanese non risponde. Freddo come un iceberg preme un pulsante
sotto la scrivania.
Il dottor Goebbels riappare come se fosse spuntato dal pavimento.
«Amos, sii cortese, accompagnalo alla porta. Chiama le guardie perché lo
sbattano fuori dal complesso e facciano in modo che non ci rimetta più
piede.»
«Provaci e te la stacco» ringhio, quando sento che il servo sta per posarmi
una mano sulla spalla.
Esco da quella stanza di lusso con tutta la spavalderia possibile, con ogni
singolo grammo di dignità che ancora mi resta. Cammino all’indietro, senza
mai distogliere lo sguardo da Lirosh l’Albanese. E giunto sulla soglia mi
congedo da lui alzando il dito medio.
24

«Lei dev’essere completamente pazzo, signor Stokar» sogghigna il servo


dell’Albanese, accompagnandomi fuori dalla casa. Dalla finestra vedo che
sulla ghiaia è già parcheggiata l’auto elettrica, e che la guardia corpulenta si
è dotata, per l’occasione, di un manganello e di un taser. Accanto a lui c’è
l’altra guardia, il ragazzo magro. Lui il manganello lo impugna, anche se lo
tiene in basso, lungo la coscia.
«Non è il primo che me lo dice. Quasi quasi comincio a crederci.»
«Il dottor Roshi è piuttosto suscettibile alle offese. Non è una questione
culturale quanto personale. Diciamo che ha una bassa soglia di
sopportazione degli insulti. E lei l’ha insultato davvero alla grande.»
«Mi dispiace.»
«Sul serio?»
«Sì. In effetti alla grande non è abbastanza.»
Anche senza voltarmi so che Goebbels sta sorridendo alle mie spalle.
«Lei dev’essere molto sicuro di sé. A volte è un bene, a volte è un male.»
«Bella frase. L’ha trovata in un biscottino della fortuna?»
«Diciamo che l’ho imparato con l’esperienza.»
La porta si apre da sola. I due guardiani muovono simultaneamente un
passo verso di me.
La ghiaia gelata sotto i loro piedi scricchiola.
La guardia grassa estrae dalla fondina il taser.
«Vedrà che l’esperienza aiuterà anche lei» fa Amos, tirandosi indietro.
Le due guardie si piazzano al mio fianco.
«Guardate che in tre non ci stiamo, in quella carrozzina da invalido»
faccio.
«A te servirà davvero una carrozzina da invalido, tra poco» ringhia il più
grosso, muovendosi di scatto verso di me e puntando il taser.
Cioè, di scatto per i suoi standard.
Io invece di tirarmi indietro o di lato mi lancio in avanti, veloce e
imprevedibile come un gatto. Quando sono alle spalle del grassone gli
afferro con entrambe le mani la sua che regge il taser, e lo punto verso
Amos. La faccia che fa il servo dell’Albanese quando costringo la mano
della guardia a premere il grilletto vale da sola il prezzo del biglietto.
I due dardi lo beccano in pieno petto, scaricandogli in corpo una dose di
corrente che lo fa stramazzare in ginocchio, e poi bocconi a terra.
Sfilo il manganello dalla cintura del grassone. Spingo via la guardia e la
colpisco ai gomiti e alle ginocchia, senza spezzare nulla ma facendogli un
bel po’ di male.
L’ho imparato con l’esperienza, Amos.
La guardia più giovane a questo punto ha una sola scelta, e la canna
clamorosamente. Invece di scappare punta nella mia direzione, brandendo il
manganello come se fosse una spada.
Mi chiedo dove li addestrino, questi idioti. Allo zoo?
Gli tiro addosso il mio manganello, prendendolo allo zigomo. Mentre lui
si piega gli afferro il polso e lo torco violentemente, lussandolo. Afferro al
volo la sua arma prima che cada e la uso per colpire anche lui al petto,
lasciandolo stordito.
Finalmente sono libero di fare, ansante ma nemmeno troppo, il bilancio di
venti secondi scarsi d’azione. I tre avversari sono a terra, paralizzati e intenti
solo ad ascoltare i messaggi di dolore dei loro corpi. Stacco i dardi del taser
dal petto di Amos, controllando che respiri ancora. M’infilo la pistola
elettrica in tasca.
Poi vado a prendermi la carrozzina da invalido.
In fondo hanno appena detto che era mia.
Prima di andarmene, però, pago il mio tributo allo stile voltandomi verso
la videocamera sopra la porta e rivolgendo a Lirosh l’Albanese, che
sicuramente ci sta guardando, un altro saluto con il medio alzato. Poi la mia
mano imita una pistola puntata.
«Alla prossima» scandiscono le mie labbra, volutamente lente, perché
possa leggerle bene.
Poi salgo sull’auto elettrica e la spingo al massimo lungo il vialetto,
facendo schizzare la ghiaia e scavandovi solchi profondi a suon di frenate e
accelerate.
Non è abbastanza veloce, questo coso, per fare un effetto adeguatamente
devastante.
Pazienza.
Alla fine del vialetto, quando sono riuscito a dargli tutta la velocità
possibile, lancio il trabiccolo verso la garitta delle guardie, un attimo prima
di buttarmi fuori, nella neve.
Il mio impatto col suolo è relativamente morbido. Tutt’altra cosa rispetto a
quello dell’auto contro la garitta, fra il rumore dei vetri e del plexiglas che
esplodono.
Mi rialzo in piedi, mi spazzolo la neve dal giaccone, fingendo d’ignorare
il dolore alla spalla sinistra.
Mi allontano dai cancelli delle Cascine del Conte a passo tranquillo, senza
voltarmi.
25

«Dobbiamo smetterla di vederci così» ironizza Chatterjee, osservando la


mia spalla nuda come se stesse prendendomi le misure.
«Ora le farà un po’ male» dice.
Ed è proprio così.
Cazzo se è così.

Mentre mi rivesto, Gunga Din mi guarda scuotendo la testa.


«Per quanto possa sembrare arduo accettare l’idea, lei non ha più l’età per
certe cose, Sergio.»
«Dovrebbe dirlo agli altri. Io cerco di tenermi lontano dai guai. Grazie a
lei e a sua moglie seguo anche uno stile di vita morigerato. Non è colpa mia
se tutti sembrano avercela con me.»
«Quindi è colpa del mondo. Non sua.»
«È evidente.»
Il medico sospira. «La sua indagine fa progressi?»
«La mia indagine non fa un bel niente, da sola. Sono io che la faccio
andare avanti.»
«Correggo la domanda, allora. Sta facendo andare avanti la sua
indagine?»
«Per tentativi.»
«Un po’ come la scienza. Ha trovato i Bequiri? O i També?»
«Non ancora. Ma li troverò.»
«E per la Nowak? Qualche sviluppo?»
Finisco di abbottonarmi la camicia. Poi mi accorgo di aver saltato
un’asola e devo ricominciare da capo. Non è solo la fretta, a far commettere
errori. È anche il dolore. E in questo momento la mia spalla riaggiustata sta
intonando il cantico dei cantici del dolore. È anche caldissima, come se da
un momento all’altro potesse prendere fuoco.
«Nessun progresso» ammetto.
«La Caragiale sarà furiosa.»
«Immagino di sì. Anche se non la vedo da un po’.»
«Nessuno la vede da qualche giorno. Dicono sia in viaggio.»
«Buon per lei. Spero sia in un posto caldo.»
«Oh, farà caldo anche qui, fra poche settimane. La neve si scioglierà e la
terra riprenderà a vivere. Ciò che ci sembra un grande telo bianco si rivelerà
per quello che è: un sudario provvisorio steso su mucchi di rifiuti. Su un
mondo malato.»
«E con questa botta d’allegria mi congedo da lei, dottore. Grazie per la
spalla.»
«Quando le manderò la mia parcella farà meglio a essere seduto.»
«Pensavo che le sue cure fossero gratuite.»
«Oh, niente è davvero gratis, nella vita. Pensavo lo sapesse. O crede
ancora a Babbo Natale?»
Mi alzo.
«Cosa sta succedendo, Sergio?» mi chiede, mentre m’infilo la giacca.
«Grande è il disordine sotto il cielo, dottore.»
«E la situazione?»
«Tutt’altro che eccellente.»
26

Quando Amir mi raggiunge con il messaggio di Albert sto discutendo da


dieci minuti con il maghrebino dai denti sporgenti che gestisce il magazzino
del Consiglio.
«No, ti ho già detto che non ce l’ho l’ordine scritto. Chiama Aarif e ti
confermerà tutto» insisto, per la terza volta.
«È tardi. Aarif non è in ufficio.»
«Lo so che è tardi. E pensa che non ho ancora mangiato. Potrei divorare
un magazziniere idiota, con la fame che ho.»
«Stai dicendo che sono un idiota?»
«Vedi tu. Sto dicendo che mi mangerei un magazziniere idiota. Intero.
Con le scarpe e tutto. E con il sorriso da scemo che pensa di contare
qualcosa più di un cazzo solo perché sta dietro una scrivania e ha in mano un
timbro.»
«Stai parlando di me, allora.»
Lo fisso, incredulo di tanta stupidità. Uno così è strano non sia al governo
del paese.
«Certo che no. Ti pare che sto parlando di te? Ma figurati. Mi riferivo a un
idiota a caso. Allora, te lo ripeto, per la quarta e spero ultima volta, quello
che mi serve. Mi serve un telefono cellulare. E mi serve anche un orologio.»
«Motivo della richiesta?»
«Il telefono mi serve per telefonare. E l’orologio per contare in quanti
secondi riesco a mangiare quel famoso magazziniere idiota.»
«Non serve offendere.»
«Dammi quello che ti ho chiesto e smetto subito.»
In quel momento sento una piccola mano tirarmi per la manica.
Abbasso lo sguardo.
Amir mi fa un saluto militare. «Ho un messaggio urgente per lei, sir. E
guardi che posso procurarglielo io l’orologio. Il telefono no, ma per
l’orologio non c’è problema.»
«Sul serio?»
«Certo.»
Punto il dito alla fronte del magazziniere. «Ti sei appena salvato la vita.»
Poi chiedo ad Amir di chi è il messaggio.
«Albert. Dice che deve andare da lui.»
«Nel suo laboratorio?»
«No, in mensa. La aspetta lì.»
«Okay. Tu vieni con me?»
Amir fa una smorfia. «Nah.»
«Non hai fame?»
«Non ho soldi.»
«Sul serio hai un orologio da prestarmi?»
Lui indica serio il suo finto G-Shock cinese. Se lo toglie solennemente e
me lo infila al polso.
«Vieni con me, allora. In cambio dell’orologio ti offro la cena.»

La mensa è più affollata del solito. Magari c’è l’happy hour sui cavoli
bolliti, il cui odore si potrebbe tagliare col coltello.
Albert è seduto al posto che di solito occupo io. Mi fa cenno di
avvicinarmi.
«Scegli quello che vuoi» faccio ad Amir. «Sai come si fa, vero?»
Il ragazzino annuisce, anche se dalla sua espressione capisco che non ha
mai mangiato alla mensa. Ma è parecchio sveglio, quindi non penso avrà
problemi.
«Prendi uno di quei vassoi e mettiti in fila, okay? Di’ che sei con me.»
E poi punto su Albert.

«Ce ne hai messo di tempo» faccio, tanto per non smentire la mia fama di
stronzo.
«Ci ho messo esattamente il tempo che serviva.»
«Pensavo che mi avresti convocato nel tuo laboratorio.»
«No. Tanto dovevo solo farti avere questo.»
Si toglie dal taschino della giacca militare M65 un biglietto, che mi
allunga sul tavolo.
Lo infilo nella tasca dei pantaloni, senza guardarlo.
«Davvero mangi quelle porcherie?» faccio, indicando la ciotola di riso e
verdure che ha davanti.
«Non sai cosa ti perdi.»
«L’importante è perderselo. Tutto qui? Un foglietto? Mi aspettavo
qualcuno dei tuoi effetti speciali.»
«Gli effetti speciali li ho usati per hackerare un paio di archivi. Ho perso
la giornata, per aiutarti, e Dio solo sa quanto sono in ritardo con le richieste
del Consiglio. In ogni caso è tutto lì. Numero dei taxi, nome degli autisti,
posto in cui puoi trovarli. Sono due, gli autisti, ma questo lo sapevi già. Ah,
una cosa che sicuramente non sai, perché è un’informazione a cui sono
risalito entrando in una sezione particolarmente ben protetta del server della
cooperativa di taxi, è che in realtà il suo vero proprietario sembra sia un
personaggio importante a livello locale. Un tale Lirosh Reshi.»
«Roshi.»
«Lo conosci?»
«Vagamente. Fa anche rima: conosci, Roshi. Sì, un po’ lo conosco. E
diciamo che da oggi lui conosce un po’ di più me.»
«Non mangi?»
«Ma sì. Anche sì. Ti scoccia se io e Amir ti facciamo compagnia?»
«Se mi scocciasse farebbe differenza?»
«No. Ma mi sembrava scortese non chiedertelo.»
«E se mi siedo anch’io con voi?» chiede allegra una voce femminile alle
mie spalle.
Elena ha le mani infilate nelle tasche del giaccone. Sorride.
Per certi sorrisi ci vorrebbe il porto d’armi.
Albert scuote la testa, con un’espressione ebete.
«Accomodati» faccio, indicandole il posto di fronte al ragazzo.
«Però non ho ancora preso niente.»
«Vieni. Offro io.»
Amir è lì, imbambolato col suo vassoio davanti ai contenitori della mensa
dove stanno le posate e il pane. Gli sorrido, gli insegno a mettere il vassoio
sul nastro a rulli e a passare davanti alle varie pietanze, chiedendo alle
inservienti di mettergli nel piatto questo o quello. Buttando l’occhio, mi
accorgo che Elena mi studia, incuriosita da quella mia attenzione quasi
paterna.
Amir, contrariamente a quanto mi aspettavo, si serve con parsimonia,
prendendo poche pietanze e in piccole quantità. Elena, in fila subito dopo di
lui, non ha di questi scrupoli e si riempie il vassoio come se prevedesse un
imminente assedio di una certa durata.
Quando torniamo al mio tavolo, che per l’occasione oggi è il tavolo di
Albert, anche il vassoio di Amir trabocca di cibo. Lui di tanto in tanto alza
gli occhi con un’espressione colpevole.
«Tranquillo» faccio. «Offre la casa.»
«Grazie, sir.»
Ci sediamo tutti insieme, l’allegra famigliola multietnica che non apparirà
mai nei manifesti del nuovo governo nazionale. Nel mondo ideale di quei
signori, un posto come questo non dovrebbe nemmeno esistere. Siamo una
distopia, un incubo, il peggiore dei mondi possibili. Ma il cibo ha un buon
odore, le risate e il caldo intorno a noi sono reali, e il rumore delle posate e
le chiacchiere sommesse in tutte le lingue del mondo hackerano la mia
programmazione, infrangono il mito in cui ho vissuto i primi quarant’anni
della mia vita. Guardo il viso intelligente di Albert, e non vedo più un negro,
non vedo più un pericolo. È come se i miei occhi avessero acquistato poteri
magici, che mi fanno vedere oltre le cose.
Poi di colpo realizzo che sto semplicemente guardando le cose come sono,
che sto vedendo la realtà, e che la mia non è una supervista, è una vista
normale: il problema è che prima non vedevo, o vedevo male.
«Non mangi pane?» chiede Elena ad Amir.
«Non mi piace molto.»
«Vuoi provare questo? È integrale. Fa bene.»
Il ragazzino ridacchia. «È brutto.»
Elena annuisce, sorridendo. «Sono d’accordo.»
«Però… Se dice che fa bene… Lo provo…»
Stacca un pezzetto di pane e se lo porta alla bocca. Mastica lentamente.
Alla fine fa una smorfia. Si vede benissimo che vorrebbe sputarlo, quel
boccone, ma si costringe a inghiottirlo.
«Adesso capisco…» fa.
Elena lo fissa, aspettando che finisca la frase.
«Adesso capisco perché voi europei avete invaso il mondo. Se questo era
il vostro cibo, avete fatto bene a cercare altri posti dove si mangia meglio.»
Non sentivo da tempo il suono della mia risata. È un bel suono.
Sono così stanco che potrei addormentarmi qui, la testa appoggiata sul
tavolo.
Albert mi racconta come ha fatto a trovare le targhe dei taxi. Si fa bello
come un pavone davanti a Elena, entrando nei dettagli della ricerca, degli
strumenti che ha usato, del tempo e della bravura che ci vuole per pulire il
segnale video, per interpolarlo. Qualunque cosa voglia dire. Guardo Elena,
intenta a non perdersi una parola del ragazzo, forse soltanto per cortesia,
perché Elena ha un’anima gentile. Ascolto con gli occhi la sua bellezza,
come se fosse una canzone.

Dopo cena, grazie ai poteri magici della mia chiave segreta, li porto in un
posto in cui nessuno di loro è mai stato, il terrazzo di Paris. Non so come mi
è venuta, l’idea. Sul momento, quando apro la porta metallica, non
capiscono dove siamo. Poi gli occhi si abituano al buio e la meraviglia del
cielo stellato che incombe su di noi li coglie, dando le vertigini. Lo so,
perché è l’effetto che ha fatto a me la prima volta.
«Oh…» bisbiglia Albert.
La Via Lattea è un fiume pallido che scorre attraverso il cielo. Le stelle
brillano fredde, e sembra che il vapore che esce dalle nostre bocche possa
raggiungerle, tanto paiono vicine.
La voce di Elena è un sussurro. «Dio, che meraviglia.»
Amir mormora qualcosa in arabo, con un tono colmo di meraviglia e
tremore.
«Ed è Lui che consacrò le stelle a voi affinché voi, in questo modo, poteste
essere guidati nell’oscurità della terra e del mare» traduce Albert. «È il
Corano. L’astrologia era importante, per la religione islamica.»
Per un attimo, a quelle parole, mi sembra che il tetto dell’edificio si
muova come una nave. Come se navigassimo sul mare della notte, guidati
dalle stelle.
Elena si stringe a me, il suo fiato caldo sul mio collo nudo. «È bellissimo.
Grazie, Sergio.»
Ci sediamo, la schiena appoggiata al parapetto. Fa freddo, quassù, ma non
ha importanza. Albert indica questa o quella stella e ne pronuncia il nome
arabo, che è uguale a quello con cui le chiamiamo noi, perché è stato il
popolo di Amir a dare alle stelle il nome che oggi usiamo.
Rimaniamo lì a lungo, seduti, immersi nel mistero del cielo stellato. Ci
raccontiamo storie, ci apriamo, ed è come se spaccassi una melagrana
estraendone la polpa. Le parole sono rosse, e tonde, e calde, raccontano la
storia della mia giornata, la storia del mio amore per una donna perduta
chiamata Krystyna Nowak, e solo io posso sapere se un dettaglio che
espongo appartiene davvero a quella storia o non è invece un detrito del mio
matrimonio, che forse non è un detrito ma una gemma purissima, solo che
avevo scordato quanto potesse luccicare, e ferire con i suoi bordi affilati.
Racconto di Lirosh, mostro il medio alzato e loro ridono, narro ai miei amici
i grandiosi dettagli della mia impresa, e mentre la racconto tutta l’epica si
sgonfia e si riduce all’aver steso al tappeto due sfigati e un servo e aver
schiantato contro un gabbiotto di plexiglas un’automobilina degna di Roger
Rabbit. Elena però ride, e Amir mi dà un cinque volante.
«Grande, capo!»
«Non sono il tuo capo.»
«Lei è un mito. Lo sceriffo di Al Qasr.»
«Di cosa?»
«Al Qasr! Al Qasr!» ripete il ragazzino, sempre più su di giri.
«Al Qasr vuol dire “la Fortezza”. È così che alcuni di noi chiamano questo
posto» spiega Albert. «Io lo chiamo Marte.»
«Bella fortezza. Siete a malapena tollerati. È come la casa di carta del
porcellino stupido. Basta un soffio e ciao ciao, viene giù tutto.»
«Siamo» mi corregge Albert.
«Eh?»
«Hai detto siete a malapena tollerati. Avresti dovuto dire siamo. Sei sulla
nostra stessa barca, vecchio.»
Amir annuisce, finendo di rollare un cannone.
«Ehi! Sei troppo piccolo per queste cose.»
Non mi ascolta nemmeno. Sorride, tira fuori di tasca uno Zippo. Una
lunga tirata, poi passa la canna a Elena. Nel buio, una stella rossa si accende.
Al suo riverbero, gli occhi della ragazza luccicano di una luce strana.
«Passa qua» fa Albert.
La mano di Elena gli allunga la canna e poi, sorprendendomi, s’infila nella
mia, stringendola forte. Il tocco delle sue dita, inatteso, mi apre una stella di
consapevolezza nella mano.
Il cielo si allarga, diventa una mappa.
Quando le sue labbra si avvicinano alle mie, apro la bocca e lascio che il
fumo della canna passi da lei a me. Le sue labbra sono calde, la sua lingua
incontra la mia. Che importa se il mio corpo, là in basso, non risponde? Le
nostre lingue giocano come cerbiatti giovani e impulsivi. C’è quel libro della
Bibbia, il Cantico dei Cantici. Carla una volta mi aveva portato a un festival
letterario, a Mantova. In una chiesa sconsacrata una ragazza leggeva brani di
quel libro, e io, sempre più stupito, l’ascoltavo parlare di animali e di
carezze, la sentivo tessere le lodi di un corpo di donna, e mi stupivo che cose
del genere fossero nella Bibbia, il libro su cui giurano i re e i dittatori.
Mia amata, sussurro dentro di me, mentre le mie mani accarezzano il viso
freddo della ragazza, incontrando sulla punta delle dita le sue lacrime, mia
amata, i tuoi occhi sono un pozzo di stelle. La tua bocca è un favo di miele
purissimo. Le tue gambe sono colonne d’alabastro che in altri tempi avrei
voluto solo allargare di forza per penetrarti, mentre ora, mia amata, mia
sconosciuta bellezza incontrata sotto il cielo stellato, tutto quello che voglio
è giacere con te in un letto, e attraversare con te la notte sulla barca del
sogno, attraversando questo mare di stelle.
Cazzo se è buona, questa roba, penso, quando Elena espira di nuovo
dentro di me, e la volta del cielo, già assurdamente enorme, sembra
allargarsi all’infinito.
27

L’urgenza dei nostri corpi è quasi una febbre. Le nostre labbra non
riescono a staccarsi se non per l’attimo indispensabile a respirare. Il mondo
fuori di noi cessa di esistere. I confini del mondo sono i nostri corpi che si
toccano, si incontrano. Per me è come il riaprirsi di una vecchia ferita, il
sangue che torna a scorrere.
«Elena, sai che non posso…» le sussurro, ma lei mi chiude di nuovo le
labbra con le sue, sigillando dentro di me il grumo di paura e vergogna che
ho dentro.
Mi prende per mano e mi fa alzare in piedi, come se stesse invitandomi a
ballare.
Arrossisco.
Lo sento, e non lo credevo possibile, alla mia età.
E poi è come quando voli in un sogno, quando ogni cosa si fa senza peso,
irreale. Attraversiamo i corridoi volando, non c’è altro modo d’esprimerlo, e
a ogni passo la forza di attrazione del suo corpo si fa più potente, lei è il nord
e io l’ago impazzito della bussola. Non siamo nemmeno entrati nella stanza
che divido con Albert e già i nostri corpi si gettano sul materasso. Chiudo la
porta con un calcio e lascio che lei mi spogli, e io spoglio lei, strappandole di
dosso il giaccone, sfilandola dai jeans stretti. Lei intanto fa lo stesso con me,
mi spoglia del tutto, mentre si tiene il maglione addosso, un maglione grigio
di una lana morbida, sotto il quale i capezzoli spuntano duri e netti. Le tolgo
gli slip e affondo il viso nel suo pube, bevendola, leccandola fino in fondo,
come se la mia lingua avesse preso il posto della cosa inutile e molle che mi
ritrovo tra le gambe. Le mie mani s’infilano sotto il maglione morbido e le
carezzano i capezzoli, li stringono. Sono cieco, il viso immerso fra le sue
cosce, vedo solo attraverso le mie dita e la lingua che comincia a darle
piacere: l’avverto attraverso i movimenti delle sue anche inarcate, sempre
più morbidi e lenti, e poi di colpo rapidi e potenti, finché il ritmo del suo
piacere non mi diventa chiaro e l’assecondo con mani e bocca, sentendola
infine esplodere sotto di me, come un’onda che unisce i nostri corpi
lanciandoli in alto e lontano.
Poi la tengo abbracciata, stretta a me, ascoltando il suo cuore battere
veloce. La copro, e copro anche la mia nudità, e sotto le coperte i nostri due
corpi compiono il miracolo incredibile di scaldarsi l’un l’altro. Non
parliamo. Non vedo il suo volto, perché mi dà le spalle. Accarezzo i capelli
sciolti, la guancia invisibile, le sue labbra. Lei mi mordicchia il dito, lo lecca,
lo tratta come farebbe con un pene eretto.
«Sicuro che?…» mormora, con una voce liquida e roca.
Io le prendo la destra e la poso sul mio grembo.
Lei accarezza il mio uccello, lo tiene fra le dita come un fiore.
«Mi dispiace.»
«Non dire niente» faccio, lasciando che le sue dita esplorino il mio cazzo,
lo scroto, il perineo.
«Ehi…» accenno una protesta, quando il suo indice s’infila nel mio ano e
penetra lentamente fino in fondo, cominciando a muoversi avanti e indietro.
Lei si volta verso di me, per continuare con più comodità quella manovra
che dopo il disagio iniziale comincia a procurarmi un’eco di piacere, anche
se misto a vergogna. Ma poi le sue carezze, e il calore della sua pelle, mi
fanno chiudere gli occhi, e mi abbandono a lei.
28

Mi sveglia un suono fastidioso. Spalanco di colpo gli occhi. La luce livida


e fredda dell’alba delinea i confini squallidi della stanza. Il suono viene dal
mio polso, dall’orologio cinese di Amir. In qualche modo riesco a disattivare
la suoneria. Mi guardo intorno.
Elena è seduta per terra. Mi dà le spalle.
È immobile, come se meditasse nella posizione del loto, come se non
avesse sentito la sveglia.
La raggiungo.
La luce del mio tablet le bagna la pelle nuda.
Fa freddo nella stanza, perché la finestra è aperta: ma lei non sembra
accorgersene.
Le immagini sul piccolo schermo sono un pugno allo stomaco.
Una ragazza è appesa a una specie di altalena, che è in realtà un elaborato
sistema di legacci fatti con nastri bianchi. La ragazza ha il volto coperto da
una maschera aderente di cuoio. In bocca le hanno cacciato una palla di
gomma. Respirare dev’essere quasi impossibile. Un’altra palla, ancora più
grande e irta di protuberanze, le è stata ficcata nella vagina, mentre dall’ano
le spunta la base di un dildo dalle dimensioni grottesche.
«Cosa fai?» urlo, strappandole il tablet dalle mani. Elena alza verso di me
uno sguardo vacuo, gli occhi privi di intelligenza come quelli di un pesce
morto.
Scaravento sul materasso il tablet, chiudo la finestra.
Il corpo pallido di Elena è coperto dalla pelle d’oca. Le butto sulle spalle
la coperta, accendo la stufetta elettrica.
«È roba tua…» sussurra la ragazza. Poi sembra riprendere il controllo.
Con un’espressione sdegnosa raccoglie dal letto e dal pavimento i suoi
vestiti, li indossa in fretta.
«Non ho mai visto quella merda» protesto.
«È sul tuo tablet.»
«Non ho niente a che fare con quella roba.»
Lei continua a vestirsi.
«Hai capito cosa ti ho detto?» grido.
Le afferro una spalla, con rabbia. Quel gesto inaspettato la spaventa.
«Lasciami!»
In quel momento mi rendo conto di essere nudo. La libero e cerco in giro i
miei vestiti.
«Tu sei malata» urlo, pentendomi subito di quelle parole.
«Senti chi parla…»
«Ci sono cose del mio passato che ho rimosso. Come se non mi
appartenessero. Non sono mie.»
«E invece sono parte di te. Quel tablet è tuo. E allora scusa se sono
curiosa dell’uomo con cui vado a letto. Scusa se voglio capire cos’è che ti ha
reso come sei…»
Mi fissa con un’intensità disarmante.
Lo sguardo è tornato limpido e vivo, velato di lacrime.
«Scusa se ti amo» sussurra, scuotendo la testa.
L’abbraccio. L’unico gesto che mi sembra appropriato, in quel momento.
Lei si stringe a me, lasciando che le mie braccia le cingano il corpo magro.
«Mi dispiace per quello che ti ho detto. E non so da dove vengano, quei
maledetti video. Te lo giuro.»
«Ti darei un calcio nelle palle…» sorride, e quel sorriso tra le lacrime è
come un arcobaleno. «Se ce le avessi…»
«Ce le ho, le palle. È solo il cazzo che non funziona più.»
«Neanche con una come me… Con quello che ti ho fatto… Hai davvero
un problema, tu…»
«Lo so. E non è neanche il più grave, dei miei problemi.»
«Ho sentito. In mensa, e sul tetto. Non so in cosa ti sei infilato, ma se
posso aiutarti…»
«Non è cosa per te.»
«Non tocca a te dirlo. Se ho capito, cerchi un taxi.»
«Due. In realtà cerco i tassisti, non i taxi.»
«Vengo con te.»
«No.»
«Una coppia dà meno nell’occhio di una persona sola…»
«E tu che ne sai?»
«Soprattutto se quella persona sei tu.»
«È troppo pericoloso.»
«Prendere un taxi?»
«Non fare la stupida.»
Questi suoi cambiamenti repentini d’umore mi fanno capire quanto è
giovane. Sembra un gatto che salta da un pensiero all’altro, incurante dei
pericoli. Non riesco a non abbracciarla. Se non altro per tenerla un attimo
ferma.
«Che ti piaccia o no, vengo con te» sussurra, battendomi sul petto il pugno
chiuso. «Voglio vederti in azione.»
«Che ci so fare con le mani l’hai già visto, mi pare.»
Quella battuta volgare sembra respingerla. Si stacca da me, per poi
guardarmi dritto negli occhi.
«È strano, sai? Quando ti guardo vedo tante persone nello stesso corpo. È
come se si sovrapponessero. A tratti prevale una, a tratti l’altra. Sei come un
flip-o-rama.»
«Un che?»
«Ma sì, dai, uno di quei libri in cui sfogli le pagine e vedi un’immagine in
movimento. In realtà è sempre la stessa figura, disegnata su ogni pagina, ma
leggermente diversa, così se sfogli le pagine in fretta sembra che si muova.
Ci sono molte persone in te. Alcune buone, belle. Altre meno.»
«Io non mi sento così.»
«Tu sei solo un’immagine disegnata su una pagina. Non hai coscienza
delle altre pagine. Delle altre immagini di te. Ma ci sono. Io le vedo. Anch’io
sono così, sai? Una volta si diceva Io diviso. Comunque adesso ho fame.
Portami a fare colazione.»
Uscendo dietro di lei, lancio uno sguardo al tablet sul materasso. Guardo il
letto sfatto, la lampada rovesciata nella furia del nostro strano amplesso. Mi
chiedo in che guaio mi sto cacciando, con questa ragazza. O in che guaio si
sta cacciando lei. Non può venire niente di buono da questa cosa, mi dico.
Per nessuno dei due. Ma quando lei chiama chiedendomi perché non esco,
chiudo la porta e mi lancio impaziente nel vuoto lasciato dai suoi passi.
29

«Scusa…»
«Fai il ruttino come i bambini?»
«Mi è rimasto il succo di frutta sullo stomaco. Comunque ho chiesto
scusa, no?»
I nostri passi suonano molli e liquidi nella neve che si disfa sotto un cielo
passabilmente azzurro. Un azzurro color uovo di pettirosso, una tregua
destinata forse a durare, nello squallore di questo febbraio.
«Hai detto che hai un’auto. Dov’è?»
«Non è lontana.»
«Perché non hai parcheggiato alle Zattere?»
Elena si stringe nelle spalle. «Magari non voglio che sappiano che ho
un’auto.»
«Ma perché?»
«Ma così. Perché mi va.»
«Sei matta…»
«Sì. Siamo proprio una bella coppia di matti, noi due. Eccola.»
«Dove?»
«Là.»
È una Fiat 500 rossa, con la targa non più vecchia di un anno. Le auto
nuove, ultimamente, sono rare in città.
«Mi aspettavo qualcosa di diverso.»
«Perché, non ti piace?» fa lei, sulla difensiva.
«Non so. Non la trovo intonata con la tua personalità.»
«Perché, che auto vedevi, adatta a me?»
«Una Porsche Carrera. O una moto. Una Harley-Davidson. Ecco: una
Harley.»
«Lo prendo come un complimento. Dai, sali.»
Batto più volte gli scarponi per terra, liberandoli da neve e fango.
«Ehi, non farti tante formalità. Non hai visto quant’è sporca dentro.»
Per farmi salire raccoglie un mucchio di riviste, carte e libri dal sedile del
passeggero e li lancia di dietro. Alcuni planano sul sedile posteriore, altri per
terra.
Mi appoggia la sua tracolla militare sulle ginocchia. «Tieni qui.»
L’auto mi sembra ridicola. Piccola e troppo colorata.
Ma è così che va il paese, di questi tempi.

Quante cose ho visto, nella mia sporca e non lunghissima vita.


Ma be’, ecco, niente mi ha preparato allo stile di guida di Elena. Ho fatto
la mia parte di inseguimenti stradali, ma la guida di questa ragazza è al di là
di ogni possibile descrizione. Potrebbe sembrare una pilota di rally, se non
sapessi che nessuna delle sterzate e derapate che fa è intenzionale, ed è
dovuta invece solo all’incapacità di mantenersi nella corsia giusta.
«Ce le hai le gomme da neve, vero?» le faccio, temendo già la risposta.
«E che ne so? Guarda, io so solo che quella lucetta lì mi dice quando
bisogna fare benzina.»
«Fantastico» dico, aggrappandomi al sedile mentre lei, per imboccare la
strada principale, slitta e sbanda per un paio di metri.
Lo so che dalle Zattere al parcheggio dei taxi sono solo quattro chilometri.
Ma so anche che il tempo può fare strani scherzi.
E infatti mi sembra sia passato un milione di anni prima che Elena,
pattinando sull’asfalto ghiacciato, si fermi davanti alla stazione ferroviaria.

La cosa incredibile, in una città piccola come questa, a parte lo stile di


guida di Elena, è che ci siano tre compagnie di taxi, e soprattutto che
nessuna di queste sia alla canna del gas. Quando ho letto il nome sul
biglietto di Albert ho pensato a un errore di scrittura. Invece il nome MITROPA
spicca in arancio fluo sulla fiancata delle tre vetture bianche parcheggiate
davanti alla stazione: due Volvo e una berlina Peugeot ultimo modello che
sembra uscita da un film di fantascienza.
Mentre Elena cerca parcheggio, scendo e punto verso i taxi. Gli autisti
sono riuniti accanto alla colonnina del telefono di servizio. Battono i piedi
per scaldarsi, chiacchierando a voce bassa. Si voltano verso di me, quando
mi avvicino. Sorridono. Sono tutti e tre ancora giovani, due magri e uno con
la pancia sporgente. È lui a salutarmi. «Serve un taxi, signore?»
«Forse sì.»
«Forse sì è una cosa abbastanza strana da dire, no?»
Ha un accento straniero, dell’Est. Se l’esperienza non m’inganna, è
bulgaro. C’è qualcosa di familiare, in lui, qualcosa che solletica la periferia
della mia memoria. Ma non riesco a collocare con più precisione quella
sensazione. Lui mi fissa a sua volta, in un modo che mi fa incazzare.
Anche i suoi colleghi mi guardano incuriositi.
«Diciamo che prima avrei bisogno di qualche informazione.»
L’uomo alza le spalle. «Noi siamo tassisti, signore. L’ufficio turistico è in
piazza Primo Maggio. Se ha bisogno di una corsa, invece, siamo qui per
servirla.»
«Le informazioni che mi servono non le trovo all’ufficio turistico.»
Lui si gratta l’orecchio. Uno spolverio di pellicine secche si deposita sul
collo del suo giubbotto troppo leggero. «Sei un poliziotto.»
«Indovinato.»
«Si capisce da come cammini. Allora, che cosa vuoi sapere da me,
poliziotto?»
Tocco la fiancata della Peugeot. «Questa macchina qui, e una di quelle
due, l’altro giorno hanno fatto una corsa.»
«Ne hanno fatte parecchie. È il nostro lavoro.»
«Ma queste due corse erano un po’ particolari. Erano alle Zattere.»
«Il nome non mi dice niente. Mi pare che c’è un posto che si chiama così
a Venezia, no?»
«Questo è in città.»
«Mai sentito. Se vuoi sapere dove noi ha fatto una corsa devi darci un
indirizzo. Funziona così.»
«Via Respighi 118» fa la voce di Elena. Si sente il sorriso, in quella voce,
come in un buon succo di frutta puoi sentirci l’estate. Avrei dovuto
accorgermi che stava arrivando dal modo in cui l’attenzione dei tre uomini si
era spostata di colpo alle mie spalle.
Per un attimo, nello sguardo del bulgaro è passata un’espressione strana.
Gli occhi si sono sgranati. Ma ha fatto in fretta a ricomporsi.
«Così va meglio» annuisce. «Se c’è un indirizzo è un’altra cosa. Dovrei
controllare con l’ufficio. Abbiamo un come si chiama, un registro elettronico
delle corse. Così nessuno imbroglia» ridacchia.
«A me però l’informazione serve adesso.»
«Adesso non è possibile. Lasciami il numero di telefono e ti richiamo,
poliziotto.»
«In quanti siete, nella vostra cooperativa?» insisto.
«Noi tre che vedi qui. Perché?»
«Perché se è così, due di voi hanno già l’informazione che cerco. E non
credo proprio che vi serva un cazzo di registro elettronico per ricordarvi di
essere stati alle Zattere, che, tanto per essere un po’ d’aiuto alla vostra
memoria, è il posto fuori città dove vivono un sacco di merdosi stranieri
come voi. Due di questi taxi sono andati là a prendere su due coppie cariche
di bagagli e che avevano una gran fretta. Come va la memoria? Migliora?»
«Non c’è bisogno di alzare la voce con questi signori» fa Elena. «Stanno
lavorando. Cosa ne dite di fare una corsa?»
«Con chi di noi tre?» fa quello con la pancia, che dev’essere il loro capo.
«Con chi sa dirmi qualcosa.»
«Allora venite con me» fa lui, spalancando la portiera della Peugeot
venuta dal futuro.
Salendo, batto con l’indice il logo sgargiante della compagnia.
«Perché Mitropa?»
«Perché mi piace il calcio. Mitropa Cup, sai? Conosci la Mitropa Cup?»
«No» mento, per il gusto di farlo. E salgo in auto.
Elena sale sul sedile posteriore, a destra. Io apro la portiera davanti,
accanto all’autista. Poi ci ripenso e salgo anch’io dietro. Dentro, la Peugeot
profuma di nuovo. Mi sa che vendono degli spray con questo odore.
«Dove vi porto?» fa il bulgaro, attivando il tassametro.
«Facci fare un giro turistico. Mostraci le bellezze della città.»
«Troppo corto. Anzi, già fatto. La tua amica è molto bella. Non ci sono
altre robe così belle, in città. Fine del giro.»
«Portaci dove vuoi, allora. E intanto mi racconti della famosa corsa. Anzi,
facciamo così. Cominciamo da dove avete lasciato le due coppie, e poi
facciamo la strada a ritroso fino alle Zattere.»
«A ritroso vuol dire…?»
«Al contrario.»
«Ah. Capito. Allora vi porto dove ho scaricato la mia coppia. Che
comunque è lo stesso posto dove si sono fatti lasciare gli altri due.»
«Bene.»
L’uomo avvia il motore. Si immette nel traffico della strada, senza aprire
bocca.

Potrei farla io al posto suo, la guida in questo tour della periferia.


Facciamo che non siete di qui. Vi spiego la città. Basicamente non c’è un
cazzo da vedere, in questa città. Basicamente è un corso antico di trecento
metri circondato dal niente. Una volta c’erano industrie, c’era una grande
industria, fabbricavano tostapane e phon e altre cose che quella volta i cinesi
non si sognavano neanche di avere, figurarsi di produrre. Era il momento
giusto: i giapponesi erano diventati troppo ricchi per mettersi a fare robe di
merda come tostapane e phon, e i cinesi ancora non si erano svegliati. Così è
nata l’industria, e così è nata questa città. Poi il padrone è morto e gli
amministratori hanno venduto ai danesi. Volete che vi porti a vedere cosa è
rimasto di tutto? No, perché non è rimasto niente. Solo capannoni col tetto
crollato e le pareti mangiate dalla ruggine. Questo è rimasto. Ecco, adesso
stiamo passando vicino al cimitero comunale. Lì è sepolto il fondatore delle
industrie che hanno fatto crescere questa città da paesino di merda a
provincia in meno di vent’anni. È sepolto in un mausoleo di marmo, solo che
gli architetti non sono più quelli del tempo degli Egizi, così la sua tomba è
uno schifo, è pura merda di cemento e vetro, sembra un televisore lasciato
cadere dal terzo piano…

Guardo fuori dal finestrino. Guardo la strada, le case, i monconi degli


alberi morti, le ciclabili mal progettate che finiscono a cazzo in mezzo a una
strada a cui devono dare la precedenza. Guardo la mia città e attraverso gli
occhi e le parole di questo straniero del cazzo imparo a vedere la merda in
cui ho vissuto, la merda che pensavo fosse una città.
E ovviamente vedo l’inganno.
Mi rendo conto che l’uomo ci sta portando nella direzione sbagliata.
Stiamo andando sempre più in periferia, e non c’è motivo per cui i Bequiri, o
i També, o chi cazzo si mascherava dietro a quei nomi, si siano fatti portare
qui. Stiamo attraversando il quartiere di Vallegrande, quindi semmai stiamo
tornando verso il posto da cui le due coppie o finte coppie venivano, e non
quello in cui si sono fatte lasciare.
Tutti i miei sensi di poliziotto, che non diventeranno mai ex sensi, o di un
ex poliziotto, si stanno svegliando, si acuiscono, come se li stessi affilando
con la mola del dubbio.
Il tassista bulgaro continua a guidarci in silenzio sempre più verso la
periferia, verso il confine slabbrato e incognito delle mappe in cui un tempo
avrebbero scritto Hic sunt leones.
«Allora?» faccio. «Non mi racconti nulla? Per cosa ti pago, se non mi dici
niente?»
Lui alza le spalle. Indica un grappolo di condomini cresciuti come funghi
attorno alla cuspide di una chiesa moderna, un incrocio tra un garage e un
silos per il grano.
«Lì dietro ho il mio orto. Non è facile far crescere le verdure. Ci sono i
ghanesi che vengono a cuocere la carne e calpestano dappertutto, e poi ci
sono quei cazzo di pensionati che vengono a rubare le zucchine. Vecchi di
merda, dormono su materassi pieni di soldi. Questo è un paese di vecchi
ricchi che vivono di merda e di giovani senza soldi che vivono come se
fossero principi del cazzo» chiosa, svoltando dalla strada principale in una
carrareccia che mette a dura prova gli efficienti ammortizzatori del suv
Peugeot.
Il bulgaro ridacchia, come se si fosse raccontato una barzelletta da solo e
gli fosse piaciuta un sacco.
Poi guarda nello specchietto retrovisore. «Sai, signorina, tu sei troppo
giovane e bella. Tu non sei una poliziotta. Nooo… Non dirmi che stai con
lui.»
«Allora non lo dico.»
«Poliziotto fortunato, ti scopi una figa che potrebbe essere tua figlia…»
«Come le preferisci, le tue palle? In gola o su per il culo?» ringhio.
«Fai lo spavaldo con me davanti a lei? Lo fai perché così lei pensa: oh, ma
com’è coraggioso il mio uomo… E non pensa che sei solo un vecchio, che
magari non ti tira nemmeno più l’uccello…»
I suoi occhi gelidi e feroci mi guardano nello specchietto. Sono gli occhi
di uno che trae la sua crudeltà da un pozzo profondo dentro di lui. D’istinto
la mia mano scivola verso una fondina che non c’è, a cercare una pistola che
non porto più. E ho lasciato il taser alle Zattere, perché Albert lo mettesse in
carica.
«Oh, guarda guarda guarda… Non hai più la pistola… Scommetto che
non hai più nemmeno il distintivo… Anzi, che non sei più un poliziotto…
Questo spiegherebbe perché vesti così di merda… Sai che mi sembra di
conoscerti…? Dov’è che ci siamo già visti?…»
D’un tratto mi rendo conto che il suo guardare continuamente nel
retrovisore non ha solo lo scopo di fissarmi mentre mi parla.
Voltandomi, vedo due auto bianche in fila dietro di noi, a duecento metri
di distanza.
«Comunque anche come poliziotto devi essere stato di merda. Davvero
pensavi che non sapevamo? Lo sappiamo da ieri, che prima o poi venivi a
romperci il cazzo. È da ieri che ti aspetto, italiano di merda. Tu e la tua troia.
Di’, puttana, davvero il tuo uomo non ha più le palle, come si dice in giro?»
Il bulgaro si porta la mano ai genitali, li soppesa come se fossero un
sacchetto di monete d’oro.
«Quando ci fermiamo ti faccio provare com’è un vero uomo. Ti scopo
davanti e dietro, ti sborro in bocca, troia, ti faccio godere come ti meriti. E
oggi sei fortunata, perché dopo di me avrai altri due uomini pronti a
soddisfarti. Uomini veri. Sarà una cosa che non ti dimentichi per tutta la
vita.»
«Ce l’ho già un uomo. Ed è più uomo di quanto tu potrai mai esserlo
anche se ti scopassi ogni buco che trovi da qui all’eternità.»
Vedo la reazione violenta negli occhi del bulgaro.
Okay, ora ho capito che carta devo giocare.
«Senti, testa di cazzo» faccio, cercando di mettere nella voce un disprezzo
che non sento, perché in questo momento quello che ho dentro è al
novantotto per cento paura. «Con chi hai cominciato a scopare? Con tua
madre? Con le tue sorelle? Con una pecora? E quando sei finito in carcere,
l’hai infilato nel culo merdoso di qualcuno o l’hai preso? Sì, vero? L’hai
preso, te lo leggo negli occhi. E mentre lo prendevi nel culo godevi? Ti
piaceva?»
Il tassista frena di colpo. Elena, che non si è allacciata la cintura, sbatte la
fronte contro il poggiatesta davanti. Io che invece me la sono legata la
sgancio di scatto, mi sporgo in avanti e afferro alla gola lo stronzo. L’auto,
per quanto a meno di venti all’ora dopo la frenata, sbanda di lato. Il bulgaro
riesce a tenerla sulla strada e a fermarsi. Le sue gambe danzano e scalciano,
il volto si fa paonazzo. Se fossimo sul tatami di un incontro di judo starebbe
già battendo il palmo della mano per terra chiedendo tregua.
Solo che questo non è un cazzo di incontro di judo.
Solo che non puoi dirmi che non mi tira l’uccello e farla franca.
Solo che nessun bulgaro di merda, o se è per questo nessuno straniero di
merda, può trattarmi così e sperare di farla franca.
Allento la presa sulla trachea solo quando sono convinto che Elena,
nonostante il livido sulla fronte, stia bene, e che per lo stronzo bulgaro di
merda il confine tra la vita e la morte per soffocamento sia davvero a un
passo.
«Adesso chi fa lo spavaldo?» urlo, aumentando di nuovo la pressione sulla
sua gola. Il bulgaro ha gli occhi che quasi gli schizzano fuori dalle orbite.
Quegli occhi chiari che schiaccerei così volentieri sotto i tacchi, come
lumache bavose.
«Stai bene?» grido a Elena.
Lei annuisce. Sembra sotto shock, ma probabilmente è solo spaventata.
Molto spaventata.
Mi guardo intorno. Fuori dal finestrino ci sono solo capannoni
abbandonati, a vista d’occhio. Siamo su una strada secondaria, che non porta
a niente di vivo. Intorno a noi, circondandoci su ogni lato, stanno i resti di
una civiltà perduta, quella del boom economico. Le vetrine di un antico
ipermercato sono coperte di tetri graffiti: svastiche in 3D con la coda come
una stella cometa, strani animali con troppe zampe e troppi denti, aghi
ipodermici e spade fiammeggianti.
Le due Volvo bianche si sono fermate a cinquanta metri, come lupi in
attesa di ordini dal capobranco.
Niente e nessuno mi ha preparato a un’evenienza come questa.
Niente e nessuno mi ha insegnato come uscirne vivo, da una situazione
del genere. Disarmato, con una persona inerme da difendere, contro tre
avversari, due dei quali probabilmente armati.
Be’, fa una parte di me che non pensavo di rivedere, in realtà sono solo
due, gli avversari. L’uomo che tieni per le palle è un’arma.
Il mio maestro di arti marziali, nella palestra della scuola di polizia,
Feliciano, era un pugliese sui quarant’anni. Allora mi sembrava un vecchio.
La prima cosa che mi aveva insegnato, facendomi molto, ma davvero molto
male, è che non sempre conviene cercare una bella vittoria. «Sì, occhei,
come no, lo spirito sportivo, il rispetto delle regole… Però guarda, Sergio,
se vuoi la mia personalissima opinione, un calcio in bocca fa miracoli, come
diceva quello. Ci saranno situazioni in cui una bella vittoria non conterà un
cazzo, e tutto quello che dovrai cercare sarà di uscirne vivo. Allora adesso
facciamo che tutto quello che ti ho insegnato oggi va bene, e che se sei
impegnato in una gara devi seguire tutte quelle manfrine, il saluto e gli
inchini e via dicendo. Però adesso chiudiamo a chiave le porte e ti insegno
l’arte marziale della vita, quella che impari per le strade del quartiere di
Taranto in cui sono nato, occhei?»
«Okay.»
Mollo la presa sulla gola del bulgaro il tempo necessario per spalancare le
due portiere, la mia e la sua, e per tirarlo fuori dall’auto come un turacciolo.
Poi la mia mano destra si serra sulle sue palle, e il braccio sinistro torna a
stringergli il collo come una morsa.
«Mettiti al volante e chiuditi!» faccio a Elena.
Lei obbedisce, gli occhi sgranati per la paura.
«Se le cose si mettono male, schiaccia a tavoletta e scappa.»
«Cosa vuol dire a tavoletta?»
«Schiaccia l’acceleratore fino in fondo e fila via.»
«E tu?»
«Ti pare che non so cavarmela? Sto andando alla grande, no?»
Sento che il bulgaro scuote la testa, e mi sembra stia persino ridacchiando.
Io allora aumento la presa sulle sue palle. Lui mugola, e non di piacere.
«Chiuditi a chiave!»
Lo scatto della serratura mi raffredda i nervi.
Finalmente.
Ora che Elena è al sicuro, posso concentrarmi sui miei avversari.
Sono freddo e determinato. Una lama affilata e ben puntata al bersaglio,
come diceva il mio istruttore.
Tenendomi stretto il bulgaro e spingendolo davanti a me mi avvicino a
passo lento alle due auto dai vetri oscurati. Il vapore esce dai tubi di scarico
come il fiato di due bestie in agguato.
È pesante, lo stronzo. E zoppica. Muovermi così mi ricorda uno spettacolo
di tango a cui Carla mi aveva costretto ad andare. La ballerina danzava con
un manichino legato alle sue caviglie e ai polsi. La bravura, credo,
consisteva nel fatto di far sembrare che fosse il manichino a condurre la
danza.
Così mi muovo allo stesso modo con il bulgaro, facendomi scudo col suo
corpo perché mi ha dato l’aria di essere il capo del branco, e non penso che i
due maschi beta spareranno all’alfa.
Sono stufo di chiamarlo bulgaro.
«Ce l’hai un nome, stronzo?»
«Cosa cazzo ti frega?»
Aumento leggermente la stretta sulle palle.
Be’, non proprio leggermente.
«Nikolay…»
«Benissimo, Nicola. Scusami, ma non mi piacciono i nomi stranieri.
Adesso ascoltami bene, Nicola. I due dentro quelle auto, ammesso che siano
solo due, sono armati? E a proposito…» Senza voltarmi grido: «Elena,
controlla sotto il sedile, o nel cruscotto, se ci sono armi.»
Passa quasi un minuto.
«C’è uno spray al peperoncino!»
«E basta?»
«Non trovo altro.»
Il bulgaro ride. «Pensi che siamo stupidi? Pensi che ho voglia di farmi
rispedire in Bulgaria, o di finire in gabbia?»
«Quindi anche i tuoi amici sono disarmati?»
«Scoprilo tu da solo.»
«Va bene. Però prima tu scopri com’è cantare in un coro di voci bianche.»
Il gemito stavolta è così forte che devono averlo sentito anche dentro le
due Volvo.
Ma non c’è bisogno che mi risponda.
Perché i suoi due soci, o dipendenti, o quel cazzo che sono, aprono le
portiere praticamente in contemporanea ed escono, impugnando ciascuno
una mazza da baseball. Sono mazze corte, in alluminio, con una scritta
sgargiante. Sorrido. Una delle più dure lezioni di Feliciano, in palestra, era
stata proprio con una di quelle mazze. La marca era diversa, ma per il resto
lunghezza e materiale corrispondono. Due pistole sarebbero state un
problema. Due mazze… Be’, diciamo che ho un cinquanta per cento di
probabilità di uscirne vivo, se me la gioco bene e se questi due non sono più
tosti di quanto sembrino.
Ora che li sento imprecare fra i denti, posso concludere che sono davvero
bulgari. Da queste parti ce ne sono parecchi. I neri sono praticamente spariti,
gli zingari idem, ma questi stronzi si moltiplicano come le locuste. Li hanno
portati qui i coltivatori di barbatelle, facendoli lavorare come schiavi nei
campi e alloggiandoli in catapecchie del cazzo. Passavi in auto per certi
paesetti di campagna e vedevi solo queste facce da stronzi, e tutti maschi,
abbronzati e muscolosi a forza di lavorare nei campi sette giorni su sette,
tredici ore al giorno. Io avrei avuto voglia di mettere fuori dal finestrino
della volante la canna di un mitra come nella Chicago di Al Capone e
innaffiarli di piombo. Ora che si può fare, perché nessun tribunale ti
condannerebbe, dopo le nuove leggi sulla legittima difesa, mi trovo dalla
parte sbagliata della legge…
Dalle campagne si sono trasferiti in città, questi stronzi dell’Est, quando le
barbatelle vendute ai cinesi hanno cominciato a produrre prosecco lungo le
rive del Fiume Giallo, ed è arrivata la crisi.
Insegna a un cinese a prendere un pesce e lui ti svuoterà gli oceani, come
diceva quello.
Più o meno.
Vorrei decisamente essere in un altro posto. Perché so che ci sarà dolore,
fra poco. La mia schiena e il ginocchio destro già gridano, disegnando una
mappa di dolore che presto, lo so, annetterà altri territori.
Annetterà…
Ecco, forse la cosa che mi disturba di più, di questi tempi del cazzo, è che
la scuola mi ha dato una cultura superiore, e i miei geni sono quelli di una
razza padrona, e invece questi tempi meschini mi costringono a competere, e
spesso a perdere, contro del materiale umano di scarto, come queste tre
merde. E anche se faccio fatica ad ammetterlo sto diventando vecchio. Non
so per quanto ancora potrò competere con loro. E quelli che ho votato, quelli
che ho mandato al potere, sono diventati anch’essi miei nemici. Che
situazione di merda. Come diceva, il Gattopardo? «Se vogliamo che tutto
rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» Cazzo se aveva ragione. Per un
attimo è sembrato davvero che tutto potesse cambiare, dopo il voto che
aveva portato la mia gente e le mie idee al potere. Ma poi tutto è finito in una
bolla di sapone. Ed ecco, è così che finisce il mondo. Non con un bum ma
con il fruscio della ruggine sui capannoni abbandonati, e con il suono
fradicio che fanno i miei scarponi sulla strada, mentre mi muovo verso il
nemico fingendo una sicurezza che non ho, chiedendomi se avrò la forza per
uscirne vivo.
Lo dirà il tempo.
E il tempo è adesso.
I miei due avversari si sono abituati al mio passo lento e regolare. Così li
sorprendo accelerando e puntando dritto contro di loro.
Vedo le bocche aprirsi in due O simultanee di stupore quando piombo loro
addosso, usando Nikolay come ariete. Questa mia mossa li spiazza. Non
usano le mazze. Si limitano ad alzarle, e io lancio loro addosso il povero
Nikolay, che li sbilancia e li fa cadere. Afferro una delle due mazze
strappandola di forza dalla mano che l’impugna, con una torsione cattiva che
a giudicare dal rumore qualcosa spezza, probabilmente il polso. Mi muovo
per altri tre rapidi passi.
Un guaire da cani, un urlare ordini.
Mi volto.
Nikolay si è rialzato, togliendo la mazza al suo socio sano. L’altro, quello
a cui ho strappato di mano la mazza, si stringe il polso urlando dal dolore.
Non è un pericolo.
Pessima scelta, Nicola.
In questo modo hai tolto potenza al team.
Invece di muovermi verso di lui punto sugli altri due. Meno un colpo
dall’alto in basso alla spalla di quello ancora in piedi. La clavicola si spezza,
con un rumore disgustoso. L’uomo cade in ginocchio. So che è una crudeltà,
ma gli assesto un colpo di mazza anche sull’altra spalla. Non aspetto che
cada per dedicarmi a quello ferito al polso. Forse questo è anche peggio,
sulla scala della crudeltà, ma il mio addestramento mi ha insegnato che la
pietà è un lusso che non puoi permetterti, quando combatti per la
sopravvivenza.
La cosa più difficile è dosare la forza in modo da stordire e non uccidere.
È come con l’anestesia: devi trovare il punto giusto perché faccia effetto
senza fottere il paziente. Me lo diceva una dottoressa della Base,
un’americana del New Jersey con cui ero uscito un paio di mesi, ai bei tempi
andati. Più entrato che uscito, in realtà.
Così in un attimo valuto la potenza della mazza e quando assesto il colpo
alla testa lo faccio impartendo quella che penso sia la forza giusta.
L’avversario ferito crolla a terra come un mucchio di stracci.
«Oh, oh, oh! Resti solo tu, Nicola. Vieni avanti, che ti faccio la festa.»
«Stronzo italiano! Li hai ammazzati!»
«No. Però forse ammazzerò te. In fondo loro non mi avevano ancora fatto
niente.»
Non so se è qualcosa che ha visto in fondo ai miei occhi, ma il bulgaro
comincia a piagnucolare.
«Che cazzo ti ho fatto?…» mugola.
Io resto di stucco. Lo guardo allibito.
«Che cazzo mi hai fatto? Che cazzo mi hai fatto? E me lo chiedi? Hai il
coraggio di chiedermelo? Io vengo solo a fare due chiacchiere con te, a
chiederti civilmente un paio di cose alla luce del giorno, e tu prima insulti
me e la mia donna, e poi mi tendi un agguato. E sono io che ho fatto
qualcosa a te? Ma sei scemo?»
Il suo sguardo esprime uno stupore assoluto. «Non mi stai prendendo in
giro» fa. «Davvero non ti ricordi niente…»
«Non mi ricordo cosa?»
Il bulgaro scuote la testa. «Cosa vuoi sapere?»
Ci muoviamo in cerchio, come due granchi. Studiandoci, mentre
parliamo.
«Allora non ci sono dubbi, Nicola. Sei proprio scemo. Te l’ho già detto,
cosa voglio sapere. Dove avete portato quelle due coppie, dalle Zattere!»
«Ormai è tardi. Se te lo dico sono morto.»
«Forse. Ma se non me lo dici, è sicuro che sei morto.»
«Non sai contro chi ti sei messo.»
«Lo so benissimo. L’ho già incontrato, e come vedi sono ancora vivo.»
Il bulgaro mi guarda come se non capisse.
«Chi hai incontrato?»
«Il tuo capo. Lirosh.»
Nikolay è bravo a dissimulare, ma per un attimo gli è passata nello
sguardo un’espressione che ho colto.
Stupore.
Incomprensione, quando gli ho fatto il nome dell’Albanese.
«Ti ripeto per l’ultima volta la domanda: dove avete portato quei quattro
disgraziati?»
L’uomo sorride. Poi scuote la testa. Allarga le braccia a indicare tutto
attorno.
«Qui. Li ho portati esattamente qui, dove ho portato voi.»
Mi guardo intorno.
«Qui?» faccio, incredulo. «Qui dove, esattamente?»
Il bulgaro indica il posto in cui è parcheggiata la sua auto.
«E poi?»
«Poi cosa?»
«Dopo averli portati qui. Cos’è successo?»
Lui alza le spalle. Pronuncia alcune parole sottovoce, forse nella sua
lingua.
Poi indica con un cenno del mento il centro commerciale dalle vetrine
coperte di graffiti.
«La puttana che sta con te…» sibila.
«Non permetterti di chiamarla così.»
«Poliziotto, tu non sai un cazzo…»
In quel momento l’urlo di un animale preistorico echeggia fra gli edifici
cadenti. Faccio appena in tempo a tirarmi di lato quando il suv bianco centra
alla schiena il bulgaro, facendolo volare via per più di cinque metri. Quando
atterra sull’asfalto sembra un mucchio di terra macchiata di rosso.
L’auto, prima di distruggere Nikolay, è passata sugli altri due a terra. Una
testa è completamente spiaccicata, mentre l’altro uomo sembra spezzato a
metà. Le ruote del potente suv gli sono passate sopra la colonna vertebrale.
Alzo la testa dal macello e fisso incredulo la Peugeot ferma venti metri
più in là, col motore acceso.
Corro verso l’auto.
Elena ha lo sguardo fisso davanti a sé. Sembra in trance.
La chiamo per nome, batto i pugni sul vetro, finché lei, con movimenti da
zombi, alza la testa per guardarmi.
«Apri!»
Lei scuote la testa.
«Apri, cazzo!»
La serratura scatta. Spalanco la portiera e tiro fuori Elena, abbracciandola.
Il motore dell’auto fa un brutto rumore, un clang clang metallico. Dal
radiatore esce fumo.
«Stai bene?» le chiedo, accarezzandole i capelli.
Lei scuote la testa.
Poi sussurra: «Ti ho salvato la vita.»
Non ho cuore di dirle che non è esattamente così, che non c’era bisogno di
uccidere quelle persone. Il mio cervello sembra un topo in trappola, mentre
mi sforzo di tirar fuori un’idea, una qualunque, sul da farsi.
Il primo pensiero è chiamare la polizia. Solo che non posso farlo. Perché
non esisto più. Non ho documenti, non ho modo di provare chi sono, fuori
dal cono d’ombra delle Zattere.
Ich bin der Welt abhanden gekommen, come canterebbe Tommy, con la
sua voce tenorile.
E non può certo chiamarli Elena, i poliziotti.
Mi guardo attorno, come se la soluzione fosse un indizio nascosto negli
edifici, o in uno dei cespugli che si mangiano il cemento e l’asfalto.
Alla fine la trovo, ma non è quella che mi aspettavo da me stesso.
È la tipica soluzione del bambino che ha rotto qualcosa.
Cerco un tappeto sotto cui nascondere i pezzi.
30

L’interno del vecchio ipermercato è buio e puzza di muffa.


Non era chiuso a chiave, le porte erano solo accostate. Anche se l’ho
trovato strano, sono entrato lo stesso, facendo attenzione a non lasciare
impronte. In mancanza di guanti mi sono fasciato la destra nella sciarpa di
Elena, e uso quella per toccare le cose. L’ambiente enorme è completamente
vuoto. Niente di utile, qui dentro. Ma c’è un piccolo spazio cieco, dove forse
una volta c’era un magazzino. Dentro ci sono dei barili, alcune taniche di
plastica, dei pali da recinzione e una pompa per annaffiare. La plastica è
molto rigida e si crepa facilmente, ma dovrà bastare.
C’è un odore sgradevole, nello stanzino. Un odore di marcio. Lo stesso
che c’è nello stanzone enorme che una volta ospitava gli scaffali della merce,
e le casse alle quali commesse gentili – perché nel passato tutto era migliore
– battevano scontrini e dispensavano sorrisi ai clienti.
Alzando gli occhi vedo che i muri sono coperti di graffiti. I colori sono
cupi: nero, viola, porpora. Nella penombra non riesco a distinguere le figure,
ma so già che non mi piacerebbero.
Tornato all’auto apro il serbatoio e travaso la benzina nella tanica, finché
non è piena. Sollevo da terra il bulgaro e lo sistemo al posto di guida,
allacciandogli la cintura. Poi sistemo i suoi due compari sui posti dietro.
Cospargo i sedili e i tappetini di benzina. Tanica e pompa finiscono sul
sedile posteriore.
Per tutto il tempo in cui ho fatto queste manovre Elena è rimasta a
guardarmi, in piedi contro il muro dell’ipermercato abbandonato.
Ho lavorato in silenzio.
Solo il gracchiare di un corvo, di tanto in tanto, lo spezzava.
«Hai un accendino?» le ho chiesto, sentendomi stupido.
Lei mi ha fissato a lungo prima di riscuotersi e di svuotarsi le tasche del
giaccone. Alla fine l’accendino è saltato fuori e me l’ha dato.
«Comincia a muoverti» le ho detto.
«Dove?»
«Quella strada. Vai a sinistra. Le Zattere non sono lontane.»
«E tu?»
«Io finisco qui e ti raggiungo.»
Annuisce. Poi si dirige nella direzione che le ho indicato, anche se la sua
camminata è meccanica, il modo di muoversi di una persona sotto shock.
Le fiamme avvolgono l’abitacolo in un istante. La figura al volante appare
deformata dal calore, mentre si scurisce. La combustione produce strani
suoni: scricchiolii, sibili.
Mi allontano procedendo all’indietro, come se sorvegliassi qualcosa che
da un momento all’altro potrebbe muoversi e inseguirmi. La colonna di
fumo scuro e oleoso per fortuna si piega di lato senza salire in verticale.
Questo mi darà un minimo di vantaggio, così come il fatto che sta
cominciando a piovere. Conto su questo, per nascondere le nostre impronte,
come anche sul casino che faranno i pompieri e i mezzi di soccorso
arrivando qui, quando qualcuno si deciderà a chiamarli. Ma questi posti sono
deserti come una Černobyl’ non radioattiva. Quando arriveranno, noi saremo
lontani.
Mi volto, finalmente, guardando la strada davanti a me ed Elena,
cinquanta metri più in là, una figura che cammina a piccoli passi impacciati,
contratta come se avesse i crampi, o le gambe legate.
La cosa più sconvolgente è che non sono sconvolto per niente, mentre mi
lascio alle spalle tre cadaveri.
Cosa avrebbe detto, Feliciano?
Forse niente. O forse una delle sue memorabili frasi che me l’avevano
fatto battezzare scherzosamente Miyagi, come il maestro giapponese di arti
marziali del film Karate Kid.
Però non me ne viene in mente nessuna.
Feliciano è morto da quasi vent’anni, investito da un’auto pirata mentre
faceva jogging sulla strada di una città di mare nel Salento, due settimane
dopo essere andato in pensione.
Il parabrezza di una macchina, con i milioni d’insetti morti, e in un angolo
uno schizzo di sangue, mi sembra una metafora adeguata della vita.
Mi sento così stanco.
Avrei voglia di chiamare Elena e di gridarle di rallentare, di aspettarmi.
Ma la cosa più facile è allungare il passo.
Prima o poi riuscirò a raggiungerla.
Cammineremo insieme verso il nulla che abbiamo davanti.
31

L’ultima cosa che avrei voluto trovarmi davanti al mio rientro alle Zattere
è la faccia incazzata di Aarif che urla: «Dove cazzo sei stato? Nadia ti cerca
da ore!»
«Vaffanculo. Dove sono stato? Sono stato all’inferno, va bene? Tu non lo
vuoi sapere, dove sono stato! Okay, padrone?»
«Ehi, dove credi di andare?»
«A farmi una doccia! Sei un medico, no? Allora questa ragazza ha
bisogno di te.»
«Può andare in un ospedale per quelli come lei.»
Mi fermo. Tenendo sempre Elena sottobraccio mi volto verso il siriano.
Lui fa mezzo passo indietro, ma non basta. Lo spingo con violenza contro il
muro dell’atrio. La faccia a due millimetri dalla sua. Lo spazio di una barba
di tre giorni. Il mio alito lo infastidisce visibilmente. Perciò mi avvicino
ancora di più.
«Quelli come lei? Proprio tu hai il coraggio di dire una cosa del genere?
Sono più di vent’anni che accogliamo in questo paese quelli come te. Ci
avete rubato il lavoro, avete impestato i nostri quartieri, spacciato droga ai
nostri ragazzi. Per colpa vostra siamo tornati alle condizioni sindacali di
cinquant’anni fa. Quindi sai che ti dico, dottore? Prenditi cura di questa
ragazza oppure io mi prenderò cura di te. E non ti piacerà per niente.»
«Tu…»
«Non una parola di più. Lo dico nel tuo interesse.»
Aarif incassa senza replicare. Guarda Elena.
«Sei ferita?» le chiede.
Lei scuote il capo. «Devo vomitare.»
Il pediatra alza la testa, cercando in giro. «Chandra! Ghaati! Portate una
coperta! Questa ragazza è sotto shock!»
Lo guardo. Annuisco.
«Bene. Dov’è, la Caragiale?»
«Da Albert.»
«Prenditi cura della ragazza, Aarif. Io vado a farmi una doccia. E poi vado
dalla Caragiale.»

Albert sembra spaventato come un topo. E il gatto è Nadia Caragiale. In


piedi, si aggira impaziente per la stanza che sembra il laboratorio di uno
scienziato pazzo.
«Finalmente!» sbotta, vedendomi entrare.
Alzo la mano. «Ferma lì.»
«Cosa?…»
«Non dire niente. L’ho già detto ad Aarif e lo ripeto a te. Lasciatemi stare.
Ho avuto una giornata di merda.»
«Ha qualcosa a che fare con quello che è successo a Vallegrande?»
«Può darsi» rispondo, sulla difensiva. «Perché? Cos’è successo?»
«La polizia, al momento, sospetta un regolamento di conti fra mafie
dell’Est.»
«L’informazione come l’avete avuta? È successo meno di un’ora fa.»
La Caragiale, sorprendendomi, sorride. «Allora è proprio vero che sei
stanco. Hai commesso un errore. Come fai a sapere che è successo da così
poco? E adesso dammi la tua versione: cos’è successo a Vallegrande?»
«E io che ne so?»
La rumena indica l’attrezzatura sul bancone.
«Albert ha intercettato i rapporti delle volanti. Nella nostra posizione il
controspionaggio è importante. Se non altro per darci il tempo di scappare,
quando verrà il momento. Ci sono stati tre morti, nella vecchia zona
industriale. E tu eri là. Non negarlo.»
«Come fai a dirlo?»
Nadia mi si avvicina. Sorride, mentre mi passa la mano sul bavero della
giacca e sfila dall’occhiello un aggeggio nero non più grande di un chicco di
riso.
«Noi ci prendiamo cura dei nostri soldati.»
«Io non sono un soldato.»
«Oh, sì che lo sei. Ci sono stati tre morti, a Vallegrande. Tu eri lì e sei
vivo. Per questo lo chiedo a te, e te lo chiedo per l’ultima volta: cos’è
successo?»
Sospiro. Mi passo la mano tra i capelli ancora bagnati. Il phon del bagno
comune non funzionava.
«È successo un casino. Eravamo andati in stazione, per interrogare dei
tassisti…»
«Fermo un attimo. Eravate? Chi, eravate?»
Resto in silenzio per un attimo. Poi glielo dico.
La Caragiale scuote la testa. «Quella ragazza porta guai. Non dovevi
coinvolgerla. Ci sono possibilità che vi colleghino al luogo del delitto?»
«Ho ripulito le tracce. Però la sua auto è rimasta in stazione.»
«Che auto è?»
«Una 500 rossa.»
«Chi ha le chiavi?»
«Lei. È da Aarif, adesso. Sta male.»
Nadia si volta verso Albert. «Va’ a chiederle le chiavi, per favore. Poi di’
ad Aarif che mandi qualcuno a riprendere l’auto. Qualcuno che non dia
nell’occhio. Un bianco ben vestito, con la faccia e l’aspetto giusti per
quell’auto.»
Albert va. Giurerei che ha fatto un mezzo inchino, prima di uscire.
La Caragiale mi fa cenno di sedermi. Lei resta in piedi di fronte a me, le
braccia conserte.
«Hai l’aria stanca, Sergio.»
«Ho un lavoro che ti stende.»
Lei non commenta.
«Sei ferito?»
«Neanche un graffio, per una volta. Solo un po’ di male alla spalla.
Incredibile. Ma me la sono vista brutta.»
«Com’è che è andata?»
Le racconto come si sono svolti i fatti, con una o due piccolissime bugie.
Ad esempio su chi guidava l’auto che ha investito i corpi.
«Era proprio necessario ucciderli?»
«È capitato. Non sono andato a cercarmelo. Da solo contro tre, non avevo
altro modo di immobilizzarli. E poi sapevano che venivo da qui.»
«Allora hai fatto quello che era giusto. O necessario, almeno.»
«Quello che ti fa sentire meglio.»
«Visto che c’eri, potevi far fuori anche lei.»
Sul momento penso di aver capito male.
«La ragazza. Anche lei sa tutto. Anche lei è una testimone.»
«Lei non dirà niente.»
«Lo pensi tu.»
Mi alzo in piedi, fronteggiandola. «Lei sta con me.»
«Oh. E questo fa tutta la differenza, immagino. Quando ti deciderai a
crescere, Sergio?»
«Ho passato da un po’ l’età della crescita.»
«Torna a sederti, allora. E ascoltami. Hai fatto quello che potevi per
salvarti. Io ora devo fare quello che è necessario per salvare questa
comunità. Anche a costo di sacrificare delle vite. È già successo, in passato.
Anche se non ne vado fiera, a volte ho dovuto prendere decisioni dure. E ne
prenderò ancora, e tu non mi ostacolerai, o diventerai anche tu un problema
da risolvere. E adesso raccontami di nuovo cos’hai scoperto. Vediamo se
vale tre vite umane.»
«Il capo dei tassisti diceva che avevano portato le coppie a Vallegrande.
Ma non ha senso. Non c’è niente, lì.»
«Forse non c’era niente per loro. Forse non doveva esserci più niente, per
loro. Se non avessi combinato tutto quel casino laggiù, ora potremmo
cercare coi cani.»
«Se non avessi fatto tutto quel casino, come lo chiami, adesso sarei
morto.»
«Mmm. Hai ragione. Un punto per te.»
«Punto, set e partita, secondo me.»
«Ragioniamo, Sergio. Se tu avessi le mani libere, se potessi cercare cosa e
come vuoi… Se tu fossi ancora un poliziotto, insomma, che cosa cercheresti,
a Vallegrande?»
Scrollo le spalle. «I corpi degli scomparsi. I finti genitori delle ragazze.»
«Quindi dai per scontato che sono morti.»
«Se è vero quello che ha detto il bulgaro, se davvero li hanno portati in
quel posto di merda, non è certo perché lì ci sia un residence. O un terminal
aeroportuale.»
«E allora diamo per scontato che sono morti, e voltiamo pagina. Da morti
non ci servono a nulla se non per le statistiche di mortalità delle Zattere.»
«Come siamo messi, al momento? Com’è il nostro tasso di mortalità?»
La rumena sorride, suo malgrado. «Meglio del Bangladesh ma peggio
della Norvegia.» La Caragiale mi fissa con intensità. «Sai dove sono stata, in
questi giorni?»
«Ovviamente no.»
Albert rientra nella stanza. Va a sedersi.
«Fatto?» gli chiede Nadia.
«Fatto.»
La rumena si volta di nuovo verso di me.
«Sono stata a Istanbul.»
«Bella città.»
«Non ho avuto tempo per visitarla. Ci sono andata per incontrare delle
persone.»
«Ti ascolto.»
«Persone che speravo potessero dirmi qualcosa su un certo giro di cui si
sente spesso parlare ma che sinora avevo sempre considerato una… come
dite voi, una leggenda metropolitana.»
Sospira.
«Puoi lasciarci soli?» fa ad Albert.
Il ragazzo si alza dalla sua poltrona, una cosa in cuoio da dirigente
aziendale, anche se molto logora. È incredibile cosa si trova, nelle
discariche.
«Okay. Mi sa che torno a farmi un giro.»
«Già che ci sei, puoi controllare se Elena sta bene?»
«Sì. Certo. Come no. Già che ci sono.» Il ragazzo alza ironicamente i
pollici, uscendo con la sua andatura dinoccolata.
Quando siamo di nuovo soli, la Caragiale mi fissa con un’intensità da
inquisitrice.
Anche se è lei a parlare.
«Cominciamo dalle basi. Sei anni fa, questa città era ancora al trentesimo
posto nell’elenco delle città italiane considerate più vivibili dai loro abitanti.
Nel 2008 era al decimo, ma poi c’è stata la crisi. Anzi, due crisi successive.
Sai in che posizione è oggi? Dati non ufficiali ma attendibili?»
«Non ne ho idea.»
«Ottantaduesima. A livello, e a volte peggio, delle peggiori città campane
e calabresi. Eppure…»
Fa una pausa a effetto.
«Eppure, stando ai dati bancari, è una delle città più abbienti del paese. Ai
primi posti assoluti per ricchezza prodotta. Come te lo spieghi? Ti do un
altro indizio: il tasso di criminalità è apparentemente precipitato, negli ultimi
dieci anni.»
Ci penso su un po’. Scuoto la testa. «Dovrebbe essere il contrario. Se la
città è considerata meno vivibile i dati rilevanti dovrebbero essere
disoccupazione, criminalità, povertà.»
«Ti dico come leggo io i dati, ripeto, non ufficiali ma attendibili, che ho in
mano. È una città dove la disoccupazione è a livelli da Grande Depressione,
dove i negozi chiudono e i giovani devono emigrare. Una città che ha una
percezione drammatica della criminalità. Eppure, al tempo stesso, è una città
che produce ricchezza e in cui la microcriminalità è in netto calo. Una città
in cui l’anno scorso si sono immatricolate più auto di lusso che a Milano.»
«Ieri ho visto una… come si chiama, un suv della Rolls-Royce…»
«Una Cullinan? Ce ne sono cinque, in città. Di proprietà di varie società
che fanno capo ad altre società, che sono in mano a cittadini russi. Abbiamo
una forte quanto sospetta immigrazione di russi, diciamo, molto benestanti,
ma il governo nazionale e quello cittadino si preoccupano di noi pezzenti, e
non certo di chi vive nei compound di lusso, o nei nuovi grattacieli di
Lignano. Vedi, Sergio, le statistiche ci dicono che la città è divisa tra una
minoranza estremamente ricca e una maggioranza sempre più povera. Ci
dicono che la piccola criminalità è quasi sparita, ma che la gente ha sempre
più paura, si sente minacciata. Sai cosa mi ricorda? Il villaggio del conte
Dracula.»
«Se lo dici tu che sei rumena ti credo.»
«Qualcuno tiene in ordine questa città, ma non è la polizia. E tantomeno
quella macchietta di sindaco. Qualcuno produce ricchezza, ma da fonti
sospette. Per questo sono andata a Istanbul. E ho scoperto un paio di capitoli
della storia di questa città che non troverai in nessun libro, né sui giornali.»
«Ti ascolto.»

C’era una volta una città linda e ordinata, di cui per un po’, fra parentesi,
sono stato l’eroe. Le industrie tiravano, degli immigrati manco te
n’accorgevi, perché le linee di montaggio ne chiedevano più di quanti ne
arrivassero. Un comico locale aveva ribattezzato la città «Ghana padano».
Poi l’economia è entrata in crisi, i ghanesi sono migrati nel Regno Unito,
lasciandosi dietro mutui non pagati, appartamenti all’asta, e l’odio degli
italiani rimasti senza lavoro e costretti a subire la presenza di quelli che
l’amministrazione di sinistra dell’epoca definiva «nuovi vicini di casa».
Succede dai tempi dell’antico Egitto, quando i bravi e buoni contribuenti del
faraone si trovarono a convivere con dei pazzi che parlavano una lingua
orribile, avevano abitudini alimentari e tabù incomprensibili e credevano ci
fosse un solo Dio.
La città elesse un’amministrazione di estrema destra, ma la paura non
calò. Anzi. Veniva alimentata dalla stampa e dalla propaganda, finché la
destra populista non assunse il controllo del paese.
«Molti di noi erano pronti a scappare» prosegue la Caragiale. «Avevamo
le valigie già fatte. E poi sai cosa successe? Niente. Niente di niente. Oh, sì,
proclami quanti ne vuoi. Manifestazioni, cortei, piazzate: una testa di maiale
davanti a una casa di islamici, articoli di fuoco sui giornali contro la
convivenza forzata e il meticciato, Soros e i centri di accoglienza, i poteri
forti… Ma la situazione rimase uguale. Nessuno venne a prenderci per
portarci in un campo di concentramento, nessuno ci schedò o ci cacciò. La
gente che si definisce normale continuò ad avere paura e a guardare con
speranza a destra, ma la situazione non migliorò né peggiorò. E sai perché?
Perché per qualcuno era un equilibrio ottimale. Qualcuno molto in alto.»
«Parli di Lirosh?»
«Più in alto. Lui è soltanto un tirapiedi. Il suo padrone è molto più
potente, e tira i fili del suo impero usando società controllate, amministratori
di comodo, fondi d’investimento e società off-shore. Ricicla i proventi delle
attività illegali di Lirosh e degli altri come lui. Sorveglia i suoi vassalli e i
nuovi arrivati, come la mafia russa e quella cinese, in modo che ci sia
prosperità per tutti, ma soprattutto per lui. Lirosh è un burattino. Più grosso
degli altri burattini, ma chi manovra i suoi fili sta parecchio più in alto,
invisibile.»
«Ma tu sai chi è.»
«Diciamo che dopo questo viaggio ho le idee più chiare.»
Nadia sorride. Si massaggia leggermente il viso stanco.
«Gli ultimi giorni mi hanno aiutato a capirti. A capire come sei messo,
con la memoria, voglio dire. Il fatto che hai delle zone d’ombra, delle parti
del tuo passato che ti sfuggono. La confusione temporale di cui mi ha detto
Chatta…»
«Tu lo chiami così?»
«Sì. Perché?»
«Io lo chiamo Gunga Din. E sua moglie Nandini, la Donna Trattore.»
«Piuttosto irrispettoso. Il dottor Chatterjee dice che il tuo cervello è come
un hard disk rovinato, in cui certe partizioni di memoria sono integre, mentre
altre hanno attinto a falsi ricordi, ricostruendo una realtà immaginaria.
Perché il nostro cervello ha bisogno di credersi integro.»
«Interessante.»
«Dice ad esempio che la bottiglia di vodka con cui saresti stato colpito è
frutto della tua fantasia. Che ti sei inventato la donna che ti avrebbe ferito
con quella bottiglia. E anche sua figlia. Dice che non sono mai esistite.»
«L’ha letto nei fondi di caffè?»
«L’ha letto sul tuo corpo. Dice che la ferita alla testa era appena stata fatta
quando ti abbiamo trovato, fuori dalle Zattere. Dove ti avevano abbandonato
per incolparci della tua morte. Poliziotto eroe caduto in disgrazia e ucciso
dalla feccia immigrata, cose così. Scommetto che qualcuno aveva già
l’articolo pronto. Invece siamo riusciti a nasconderti meglio di Anne Frank.
E a curarti. Anche se non abbiamo potuto restituirti la pienezza della tua
memoria.»
«Se la mia memoria ha dovuto inventarsi una bottigliata in testa per
rimuovere qualcosa di peggiore, mi sa che la lascio com’è, senza frugare
troppo.»
«Quando hanno capito che la cosa non aveva funzionato, loro hanno
gironzolato per un po’ qui intorno…»
«Loro…?»
«Loro. Alla fine devono essersi convinti che eri morto ma che eravamo
stati abbastanza furbi da rendere introvabile il cadavere. E ci hanno lasciato
in pace. Aarif ha fatto l’impossibile, con i mezzi che abbiamo, per salvarti e
rimetterti in sesto. E poi è arrivato come un dono dal cielo il dottor
Chatterjee, e oltre che del tuo fisico ha potuto prendersi cura del tuo
cervello. Eri conciato davvero male.»
«Perché l’avete fatto? Avrete preso le vostre informazioni su di me.
Sapevate chi ero.»
«All’inizio no. Non avevi documenti. L’abbiamo scoperto solo quando
abbiamo visto la tua foto sui giornali. Anche se la bottigliata in testa ha reso
un po’ difficile il confronto.»
«Sono tanto cambiato?»
«Ora no. Chatta ha fatto miracoli, con l’attrezzatura che ha. Ma nei primi
mesi eri praticamente irriconoscibile.»
«Quindi secondo il buon Gunga Din io mi sarei inventato tutto: Dolores,
la bottiglia di vodka… Maria Luz…»
«Sì.»
«Che cazzo di fantasia.»
«Tu e questa città siete uguali. Non conoscete la vostra vera storia, l’avete
ricostruita in modo sbagliato, ma solo perché questo era funzionale alla
vostra esistenza. Perché per vivere dovevate prima sapere chi siete, e dove la
realtà mancava avete tappato i buchi con la fantasia. Tu hai dilatato la realtà,
inventandoti una storia con una donna sudamericana che non è mai esistita.
Non c’è mai stata nessuna Dolores. E non c’è traccia di un tuo ricovero in
ospedale per una ferita alla testa, dice Chatta. Ti sei inventato tutto.»
«Visto che c’ero, avrei potuto inventarmi una storia migliore.»
«Le nostre fantasie sono a volte una chiave di lettura della realtà. Secondo
Chatta è tutto legato al trauma che hai subito, il trauma che ti ha quasi
ucciso. Tu ne hai rimosso delle parti, forse perché per te erano troppo
dolorose, e non riesci più a recuperarle. O meglio…»
«O meglio…?»
«Chatta dice che potresti recuperarle di colpo, con un nuovo trauma.»
«Tipo un’altra bottiglia in testa?»
«Non scherzare, Sergio.»
«Quindi la storia che ho cagato sul sedile della presidente…»
Nadia scuote la testa.
«Non sono mai stato cacciato dalla polizia?»
«Sì. Ma per motivi disciplinari. Avevi problemi di droga e di alcol. Oltre
che una tendenza a mettere le mani addosso ai sospetti. E non intendo solo
che li picchiavi. Gli infilavi anche la mano nelle tasche.»
«Sì. Va bene, okay. Questo me lo ricordo.»
«Quindi tecnicamente non eri un poliziotto quando ti hanno ridotto in fin
di vita e poi ti hanno scaricato sul tappetino di casa nostra, per incastrarci.»
«Ma che ero sposato, almeno quello non me lo sono inventato. Carla
esiste. L’ho incontrata pochi giorni fa. Ho visto quella che era casa mia.»
«Sì. Carla esiste.»
«Non so se esserne contento.»
La Caragiale sorride ancora una volta. È raro che lo faccia. È che io faccio
sempre questo effetto, alle donne.
«Tornando al mio viaggio a Istanbul…»
«Okay.»
«Ci sono grandi movimenti, intorno a questa città. Grandi potenze del
crimine internazionale che navigano al largo in attesa di sbarcare, o che ci
hanno già piazzato le loro teste di ponte.»
«Scusami se non rido. Qui? Stiamo parlando di questa città? Hiroshima
alla fine della guerra, al confronto, era una ridente metropoli…»
«Eppure…»
«Eppure cosa?»
«Eppure interessa molto. A diversa gente.»
«Ma perché?»
Nadia scuote la testa. «Nu am idee. Non lo so. Ma qualcosa dev’esserci.
Vorrei che tu lo scoprissi. È per questo che ti paghiamo.»
«A parte che nessuno mi ha mai pagato, pensavo di dover scoprire chi
ammazza le vostre ragazze.»
«La gente con cui ho parlato a Istanbul pensa che le due cose siano
collegate. Che ci siano attività illecite che riguardano la scomparsa di quelle
poverette.»
«Prostituzione?»
«Qualcosa di peggio.»
«Io sospetto di Lirosh. Secondo il rasoio di Occam…»
«Oh, santo cielo. Il rasoio di Occam… Anche tu… Chatterjee lo nomina
sempre… Penso che siate gli ultimi rimasti a sapere cos’è… Lascia stare
Occam, per piacere. Pensa invece a Heisenberg. La realtà non è più quella di
una volta. È fluida, mutevole. Ciò che è vero oggi non lo sarà domani. E
forse non lo è già nemmeno oggi…»
«Al liceo odiavo la filosofia.»
«Ma citi Occam. Quindi potrai anche averla odiata, ma la trovavi
interessante.»
«Comunque Lirosh Roshi è il primo nella mia lista dei sospetti.»
«E quindi non hai trovato niente di meglio da fare che andare a fargli una
scenata.»
«E lui ha reagito a modo suo. Mandandomi contro tre suoi scagnozzi.»
Nadia Caragiale scuote lentamente la testa. «Deduzione ovvia ma
sbagliata.»
«Non dirmi che quei tre non erano sul libro paga dell’Albanese.»
«No, non lo erano per niente. Anzi. Aarif ha fatto le sue indagini. La
cooperativa di taxi Mitropa è una società di comodo della mafia russa. Cioè
dei nuovi nemici di Lirosh.»
«Ma com’è possibile? Vado a trovarlo e subito tre suoi compaesani
cercano di farmi respirare dal culo e tu dici…»
«Che le due cose sono scollegate. Che non te li ha mandati contro Lirosh.
Fra l’altro, se li chiami compaesani dell’Albanese sei un gran coglione, oltre
che un razzista, e questo pazienza, si sapeva. Ma sei anche coglione. Sai
benissimo che erano bulgari, quei tre.»
«Strano. Non avevano per niente l’aria dei gioiellieri.»
La battuta sembra stonata a me per primo. Se potessi, me la ricaccerei in
gola, vedendo la faccia della Caragiale. «Lo so che erano bulgari, ovvio»
sorrido, allargando le braccia come un impresario che si scusa per un
numero mal riuscito. «Era solo per sdrammatizzare.»
Nadia sbuffa. «La prossima volta che ti fai prendere a bottigliate, vedi di
farti azzerare il centro dell’umorismo.»
Scuoto la testa perché non si veda che sorrido.
«Sicché mi stai dicendo che mi sono cacciato al centro di una guerra di
malavita…»
«Il problema è che hai cacciato anche noi in quella guerra.»
«E come possono avermi collegato alle Zattere?»
«Forse non l’hanno ancora fatto, ma è solo questione di tempo, quando
disponi, come loro, di risorse illimitate.»
«Quindi cosa facciamo? Smetto di indagare?»
«Al contrario. Ma cominci a puntare nella direzione giusta.» Poi grida:
«Albert!»
Il ragazzo entra nella sua stanza-laboratorio.
«Che coincidenza. Stavo giusto arrivando.»
«Non dire stupidaggini» fa la rumena. «È da dieci minuti che origli da
dietro la porta.»
Il ragazzo fa una smorfia. Forse arrossisce, ma con il colore della sua pelle
tutto l’effetto si perde.
«Ho bisogno di te. C’è una cosa che voglio far vedere a Sergio. Quello
che hai trovato stamattina.»
«Ma…»
«Mostraglielo.»
«Sei sicura?»
«Sì.»

Come diceva il Replicante: «Io ne ho viste cose che voi umani non
potreste immaginarvi.»
Compresi i film che ho trovato sul tablet che era nella mia stanza, al mio
risveglio. Il tablet cinese che non ricordo di aver mai comprato, che non
riesco a dire mio, anche se solo io conosco la password per aprirlo, quindi
dev’essere per forza mio. Il tablet che è nella mia stanza. Ma se sono arrivato
qui alle Zattere metaforicamente nudo come Adamo, senza uno straccio di
documento e con più sangue sui vestiti che nelle vene, allora perché avevo
quel tablet nella tasca del giaccone?
Quei film che evidentemente avevo scaricato dalla rete mi avevano
sconvolto.
Ma non erano niente in confronto a quello che sto guardando ora.
Lo schermo Sony da non so quanti pollici mostra una scena girata con
grande professionalità. Le luci sono perfette, le riprese stabili. Niente a che
vedere con i film porno in vhs della mia adolescenza. Perché questo
dev’essere un film porno, non so cos’altro potrebbe essere, dato che la
ragazzina è nuda. Ma di solito nei film porno l’attrice sorride e fa mille
moine, anche quando si prepara a prenderlo nel culo o peggio ancora,
almeno secondo me, quando deve prendersi in bocca e succhiare un cazzo
appena uscito dal suo culo.
No.
Questa cosa è diversa.
La ragazzina non sorride. Per niente. Ha paura. Lo vedi, anche perché chi
manovra la macchina da presa sembra cercarla, quella paura, sembra volerla
accentuare.
E poi non parla. Di solito, in questi film, gli attori parlano, facendo i fighi,
e le donne cercano di essere sexy, o ingenue, sgranano gli occhioni
chiedendo «Really?» o «Oh my God, it hurts»…
Invece la ragazzina dalla pelle scura cerca di coprirsi i seni e la faccia, ma
i suoi movimenti sono goffi, sembra ubriaca. Gli occhi sgranati dalla paura.
Intorno a lei ci sono candelabri con lunghe candele nere e incensieri.
«Mando avanti?» fa Albert, a voce bassa come se fosse in chiesa.
«Sì» risponde la voce di Nadia Caragiale, da qualche parte nel buio della
stanza, dove l’unica luce proviene dallo schermo, ed è una luce crudele come
quella di una lampada fulminazanzare.
Le immagini accelerano, scorrono veloci, poi si fermano di nuovo. La
ragazzina è immobilizzata. Quattro paia di mani le tengono ferme le braccia
e le gambe, su una vecchia porta posata sul pavimento.
Poi in primo piano appaiono altre due mani, che reggono un martello da
muratore e un lungo chiodo arrugginito.
Non c’è audio. Se ci fosse, si sentirebbe la ragazzina mediorientale
gridare, chiamare aiuto nella sua lingua. Invece c’è una canzone. Wrecking
Ball, di Miley Cyrus.
Il chiodo viene puntato sul polso della ragazzina. Il martello vi si abbatte
sopra. Il corpo scuro s’inarca e ricade. Un rivolo di orina sgorga tra le cosce
martoriate, coperte di graffi e morsi. La telecamera lo cerca, quel rivolo,
insiste, zooma.
Un secondo chiodo.
Un colpo del martello sbaglia e spezza due dita della mano sinistra della
ragazza. Il martello cala di nuovo. Poi è il turno dei piedi. Il sangue schizza
sulla porta, sui candelabri, sulle candele nere.
Quando hanno finito di crocifiggere la ragazzina, la porta viene sollevata.
La ripresa ha qualche incertezza, tremola, va fuori fuoco per un paio di
secondi.
Non ci sono tagli, o stacchi. Tutto questo è un terribile piano sequenza.
«Potete spegnere?» chiede la mia voce, da qualche parte nel buio.
«No.»
Il corpo nudo è giovane, adolescente. Un corpo su cui schizzano getti di
sperma, prima che entrino di nuovo in azione le lame.
E poi, molto tempo dopo, troppo tempo dopo, una motosega, che stride
come l’urlo di caccia di un animale preistorico.

Quando la luce si riaccende mi copro il volto con le mani.


«Sai come si chiamano questi film? Snuff movie. È un tipo di film porno
estremo in cui gli attori muoiono davvero sul set.»
«Lo so cos’è. Ma non ne avevo mai visto uno.»
«Strano.»
«Perché dici strano?»
«Albert, vuoi dire al nostro amico poliziotto dove hai trovato questa cosa
immonda?»
«Io…»
«Diglielo.»
Albert si toglie gli occhiali. Li strofina nervosamente sulla sua felpa,
senza riuscire a pulirli del tutto.
Fa una smorfia.
«In una partizione protetta da password del tuo tablet.»
«Non è possibile…»
«La password era Charlemagne1945.»
32

L’aria pulita all’esterno è una benedizione.


Nadia fuma una sigaretta, appoggiata di schiena alla balaustra.
Non dice nulla. Aspetta che sia io a parlare.
Ma io non apro bocca, così alla fine tocca a lei.
«Ora non puoi più dire che non hai mai visto uno snuff movie.»
«È orribile.»
«È una cosa vecchia come il mondo. I sacrifici umani sono sempre stati un
po’ uno spettacolo, in fondo. E al tempo dell’antica Roma i condannati a
morte venivano uccisi sul palcoscenico durante certe esibizioni teatrali.
Squartati, bruciati. Impalati. Crocifissi. Non s’inventa mai nulla. Si riscopre
e basta.»
«Povera ragazza.»
«Già. Povera ragazza. Sai dirmi come mai avevi quel video sul tuo
stramaledetto tablet, Sergio?»
«Non ne ho idea.»
«Ma la password la conosci. Non negare. Ho visto la tua reazione, quando
Albert te l’ha detta.»
«Non sapevo di averla usata, ma la conosco, sì.»
«Ha qualche significato, per te?»
«La Charlemagne era una divisione delle Waffen-SS, composta da
volontari francesi. Sono stati tra gli ultimi difensori di Berlino.»
«Fascisti.»
«Eroi.»
Ci fissiamo negli occhi.
«È una password che avresti potuto usare, insomma.»
«Certo. Solo che non l’ho fatto. La conosco, ma non è mia. È difficile da
spiegare. Posso dirti solo questo: la conosco, è una password che avrei
potuto usare, ma non l’ho messa io in quel tablet.»
«Quel materiale era lì. In una sezione protetta. Ma c’erano altri film,
anche se meno… orribili… di questo… nella sezione non protetta
dell’apparecchio.»
Scuoto la testa. «Non so cosa dire. Non è mio, quel tablet. Cioè, so che
sembra assurdo, ma non ricordo di averlo comprato, o usato. So che è
difficile da credere.»
«Be’…»
«Cosa stai cercando di dirmi? A cos’è che giri intorno come un
avvoltoio?»
Finalmente Nadia si decide a parlare.
«Anche solo per entrare nel tablet ci vuole una password, giusto?»
«Sì.»
«E allora, se non era tuo, come mai ci entri?»
A questa domanda non so rispondere.
La Caragiale mi incalza. «Quel film non è stato scaricato da internet,
secondo Albert. Dice che ogni filmato ha una cosa tipo le impronte digitali, e
che lui non ha trovato tracce di quel film sul web. Quindi qualcuno l’ha
scaricato sul tuo tablet da un altro apparecchio elettronico. Se non l’hai fatto
tu, hai idea di chi possa essere stato?»
«Ovviamente no.»
«Ovviamente no… Sai cosa dice Aarif, di te? E per quanto sia un arabo,
credo che in questo caso sia sincero. Aarif dice che sei una specie di cavallo
di Troia che i nostri nemici hanno fatto entrare qui, alle Zattere, per
distruggerle. Dice che dovremmo legarti e consegnarti alla polizia. Oppure,
be’… disporre di te diversamente.»
«Che stronzo…»
«Mettiti al posto suo. Noi del Consiglio dobbiamo proteggere centinaia di
persone. Se qualcuno sta cercando di usarti come un’arma contro di noi,
magari come pretesto per distruggere la nostra comunità, abbiamo il dovere
morale di opporci. Con tutti i mezzi possibili.»
Le ultime cinque parole non mi lasciano tranquillo.
«Dovete farmi continuare con le indagini.»
«Ormai sei troppo esposto.»
«Sappiamo che il traffico di ragazzine immigrate potrebbe essere gestito
dalla mafia russa, o da suoi alleati.»
«Ecco, non dire “mafia russa”. Non è il termine corretto. Questi che
operano qui sono russi, o per meglio dire nativi dell’ex Unione Sovietica, ma
non sembrano far parte di bande russe già attive nella madrepatria. Non sono
una filiale estera di qualcosa di russo, insomma. È una cosa locale, nata qui
in città, o comunque in regione, fra immigrati russi.»
«E sappiamo che sono avversari dell’Albanese, ma che godono della
protezione di qualcuno di molto importante.»
«Sì. Io lo chiamo il Re nell’Ombra.»
«Molto bello, Nadia, ma non ci aiuta. Domanda: se il tuo Re è così
potente, come mai l’Albanese è ancora vivo?»
«Questo è un buon interrogativo.»
«Potrebbe trattarsi di simbiosi» si intromette Albert.
«Spiegati» faccio.
«Specie diverse non necessariamente devono combattersi l’un l’altra, per
sopravvivere. A volte possono allearsi e aiutarsi a vicenda con le loro
specifiche skills. Se il Re e l’Albanese operano in settori diversi della
criminalità, è più probabile che guadagnino qualcosa nel mettersi insieme,
nell’attuare sinergie, piuttosto che entrando in competizione.»
«Ne parli come se fossero delle aziende normali. Tipo delle
multinazionali.»
«Certe società commerciali sono peggio della mafia» commenta la
Caragiale.
«Comunque la pista dell’Albanese non è quella giusta.»
«Così sembra.»
Ci rifletto su.
«Resta il fatto che adesso abbiamo le mani legate. Non possiamo indagare
come vorremmo.»
Poi mi viene in mente un’idea.
«Forse una soluzione c’è.»
33

La tenerezza mi coglie sempre di sorpresa.


A Manchester, quand’ero un ragazzino di dodici anni, ero terrorizzato dal
portiere del Royal Dorchester Hotel in Granby Road, un albergo che
nonostante il nome altisonante era un’autentica topaia. Il portiere del Dorky
era un energumeno con il naso rotto di un pugile, le spalle come il Mostro di
Frankenstein e un’espressione altrettanto sinistra. Spesso io e i miei amici,
quando andavamo al parco, scappavamo al vederlo avvicinarsi, lento e
minaccioso come una corazzata, dall’altro lato della strada. Mentre ce la
davamo a gambe urlavamo frasi poco rispettose, accompagnandole con gesti
ancora più offensivi. Il gigante non rispondeva, né allungava il passo. Si
limitava a proseguire sulla sua rotta a velocità costante e mai e poi mai ci
avrebbe intercettato.
Il portiere del Dorky era entrato a far parte del folklore della nostra
gioventù. Poi, trasferendoci chi da una parte e chi dall’altra del mondo, ce
l’eravamo dimenticato. Almeno, io me l’ero dimenticato.
Finché anni dopo, tornato a Manchester per il funerale di un amico, non
mi ero ritrovato a passare per Granby Road. Il Royal Dorchester Hotel era
ancora aperto, se possibile più pulcioso e lurido che mai. E mentre passo
davanti a quella rovina incredibilmente ancora in attività, ecco che sento dei
passi dietro di me, ed è lui. Il portiere. I capelli sono tutti grigi, e non più
biondi come li ricordavo. Io sono cresciuto, ma lui sembra ancora un
gigante. Non ho modo di schivarlo, e non ho voglia di accelerare. Continuo a
camminare in direzione dell’assurda ed enorme scultura in legno di una
bottiglia del tonico che dà il nome a Vimto Park, finché non sento che i passi
del gigante si sono fermati. Sono ormai all’angolo del parco. Mi volto. Ed
eccolo lì, chino su un piattino, in cui versa del latte da una bottiglia che si è
tolto dalla tasca del cappotto marrone. Un giovane gatto tigrato esce da sotto
la siepe, un esserino magro dagli occhi enormi, che si mette a lappare il latte.
E lui, il portiere del Dorky, posa la mano sulla testa del gattino, con una
leggerezza e un’attenzione infinite, e gli accarezza il pelo, sussurrandogli
parole affettuose.
Così, allo stesso modo, mi stupisce la tenerezza con cui stringo Elena
quando corre a rifugiarsi tra le mie braccia.
«Come stai? Ti hanno visitata?»
«Sto bene. Sono solo spaventata.»
«Scusami. Non avrei dovuto portarti con me.»
Lei scrolla le spalle. «Stringimi» sussurra. «Non smettere di stringermi.»
Vorrei dirle che l’ospedale delle Zattere non è il posto per queste cose. Ma
non posso fare altro che abbracciarla. La gente intorno a noi non ci bada.
Una giovane asiatica allatta il suo piccolo, indifferente agli sguardi di
riprovazione delle tre indonesiane col velo in testa sedute di fronte a lei. Un
nero ferito alla mano resta seduto impassibile, il sangue che sgocciola sul
linoleum, incredibilmente rosso.
Dietro una porta si sente un bimbo piangere.
«Ti porto via di qui» le sussurro all’orecchio. Lei annuisce. Quel
movimento si trasmette al mio corpo. Abbracciati, ci muoviamo insieme,
come l’essere a quattro gambe descritto da Platone nel Simposio, l’entità
perfetta e indivisibile data dall’unità del maschio e della femmina in un
essere solo.
Quando capisce che la sto conducendo verso l’atrio del palazzo punta i
piedi, mi spinge contro il muro.
«Non voglio andare a casa» protesta.
«Ma non puoi stare qui» cerco di farla ragionare. «Se stai con me rischi la
vita.»
«Ho paura.»
«Anch’io ho paura. Soprattutto per te.»
«Fammi restare. Ti prego, fammi restare.»
La scosto da me quanto basta per poterla guardare negli occhi.
«Io sono pazzo» le dico. «E sono un mezzo uomo.»
«Non è vero.»
«Non voglio che tu sia in pericolo. E se stai con me lo sarai.»
«Non me ne importa niente.»
«Torna a casa.»
«No.»
Sospiro. «C’è una cosa che devi sapere, Elena.»
Mi rendo conto che è la prima volta che la chiamo per nome. O che ho
coscienza di farlo. È una cosa strana. Nel grande libro dei Giudei si
attribuisce un’enorme importanza al fatto di dare un nome alle cose. Dare un
nome a questa ragazza è un passaggio importante, anche se non so bene di
cosa.
«Elena, hanno trovato dei file nel mio tablet. C’erano video che non
sapevo di avere. Video con delle cose molto brutte.»
«Più brutte di quello che ci è successo stamattina?»
«Molto più brutte. C’è qualcosa che non va nella mia testa. Hai presente
Jekyll e Hyde?»
«Sì, ho visto il film.»
«Hai visto il film… D’accordo… Allora vedi, può darsi che la mia testa sia
messa come quella del dottor Jekyll, che pensa di essere un medico e uno
scienziato rispettato e invece nasconde dentro di sé una belva.»
«Io ti conosco, Sergio. Tu non sei Mr Hyde.»
«Non lo so, cosa sono. Sono tante cose. Il mio cervello è una specie di
frullato di cose mie e non mie. La mia testa non funziona come dovrebbe.
Ricordo avvenimenti che non sono mai successi. Mi sono persino inventato
una donna e una bambina inesistenti.»
Elena mi stringe la schiena fino a farmi male.
«Guardami» fa. «Guardami bene, Sergio. Io esisto. Io sono qui. Sono io. E
in questo momento tu sei tu. Non c’è confusione possibile. Posso aiutarti a
guarire.»
I suoi occhi per un attimo si appannano.
E tu puoi aiutare me a guarire, mi sembra sussurri.
Ma come di tante cose nella mia vita, non ne sono del tutto certo.

«Puoi sistemarti qui» faccio.


«E tu dove dormirai?»
«Non dormirò molto, mi sa.»
La mia stanza non è come la ricordavo.
Alle Zattere non chiudiamo mai le porte a chiave. Così, durante la mia
breve assenza, qualcuno è passato a prendersi quello che gli serviva. Gli
uomini del Consiglio hanno prelevato il mio tablet, questo lo sapevo già.
Non sapevo però che altri si erano portati via anche il comodino, la lampada,
la tenda.
Le stanze qui alle Zattere sono una specie di camera d’albergo o, meglio
ancora, un vagone-letto ferroviario. Solo che qui, quando l’ospite se ne va,
qualcuno si porta via tutto tranne il letto e quello che è fissato al muro.
Evidentemente dev’essersi sparsa la voce che non sarei tornato.
«Vedo di farti recuperare una lampada» le dico. «E una tenda.»
«Va bene così» sorride lei. E poi ripete: «Tu dove dormirai?»
«Starò con Albert. Devo finire questa indagine.»
«Ce la farai?»
Scuoto la testa. Lentamente, perché i punti al sopracciglio mi fanno male.
«Vedi, Elena, la questione non è se ce la farò. Devo farcela. Sono un
soldato fra le macerie di Berlino. Per me la resa non è un’opzione. Devo
combattere e vincere. O…»
«O?…»
«O morire. Lo so, suona melodrammatico, ma è così. Sai come si dice, il
dovere è pesante come un macigno, la morte è leggera come una piuma.»
«Che stronzata.»
«Be’, l’hai visto, no? Oggi ho ucciso tre uomini.»
Elena spalanca gli occhi: «No! Tu non hai ucciso nessuno! Sono stata…»
La spingo contro il muro, mettendole la mano sulla bocca. «Non dirlo
mai. Non dire niente. Non è stato nessuno che tu sappia, okay? Ma nel caso
ti trovassi messa alle strette, allora sono stato io. D’accordo? Io.»
Lei annuisce. Le tolgo la mano dalla bocca. È una mano ruvida, segnata,
che per contrasto fa sembrare così fragile e intatta la sua pelle, così morbide
e innocenti le sue labbra.
«Devo andare, adesso.»
«Ora sì che sei melodrammatico. “Devo andare, adesso…” Fa tanto Ettore
e Andromaca.»
«Hai fatto il classico?»
«Sì.»
«Anch’io. Ti sembra strano?»
«Un po’. Ma tu sei strano.»
Si alza in punta di piedi e mi bacia sulla bocca. Un bacio lungo. Le mie
labbra restano chiuse, e lei non fa nulla per forzarle. Il suo odore, da questa
minima distanza, è buono, nonostante tutto quello che ha passato. Ricorda
l’odore di un bambino. Sa di pane, e un po’ d’aceto, e di un profumo appena
percepibile, come il fantasma di un profumo.
«Allora ti aspetto qui.»
«Non è necessario.»
«Sì, invece. Voglio essere qui quando torni.»
«Non so a che ora tornerò. Devo incontrare una persona. Fare delle cose.»
«Mi troverai qui.»
«Non c’è niente da fare, qui.»
«Dormirò. Mi riposerò.»
Cos’altro posso dire se non va bene?

La roba contenuta nell’armadietto, me ne rendo conto subito, è stata


frugata in maniera scientifica, e lasciata apposta in modo che non potessi
non accorgermi della perquisizione. È anche questo un messaggio.
Comunque quello che mi serve c’è ancora. Stacco il taser dalla presa e lo
ficco nella tasca del giubbotto.
Il massiccio anello con lo stemma è ancora dove l’avevo nascosto, dietro
il sifone del lavandino. Me lo metto.
L’ultima cosa che m’infilo in tasca è un coltello a serramanico,
sequestrato a un piccolo spacciatore qualche tempo fa.
Eccomi.
Sono pronto.

Amir sorride, pattinando sul marmo dell’atrio e fermandosi davanti a me


come se frenasse sulle Nike bianche di tela.
«Messaggio consegnato?» gli chiedo, alzandomi dalla sedia.
«Signorsì. Dice che la aspetta in un posto che non ho capito.»
«In che senso?»
«Mi ha detto di dirle che la aspetta alle cinque alla Tiffany degli
scheletri.»
Sorrido.
Tipico di Lorenzo, contare sull’abilità deduttiva dei suoi conoscenti.
E non sbagliarsi mai sul risultato.
«Sa dov’è? È un nome molto figo.»
«Penso di sì» rispondo.
«E non me lo dice?»
«No.»
«L’orologio va bene, sir?»
Non ci pensavo nemmeno più. Guardo il Casio tarocco che ho al polso.
«Benissimo.»
«Posso procurargliene uno meglio. Quanto può pagare?»
«Va bene così.»
«Allora ci vediamo, sir.»
«Ci vediamo.»
Il ragazzino fa un mezzo saluto militare e gira sui tacchi.
«Amir» lo chiamo.
«Sì?»
«Grazie.»
Col sorriso che fa ci potresti illuminare tutta la città.

Appena metto piede fuori dall’atrio dell’edificio, le portiere posteriori di


una Ford Kuga blu posteggiata davanti all’ingresso si aprono quel tanto che
basta per far scendere due tizi che non conosco. Mi vengono incontro col
passo sciolto di due lottatori nubiani. La loro pelle è di un nero che sconfina
nel blu.
«Ciao, bianco. Siamo la tua scorta. Ordini del Consiglio» fa uno di loro,
alzando le mani davanti a sé.
«Di chi, precisamente?»
«Chimeze.»
Dovevo immaginarlo.
Aarif e la Caragiale sono i miei referenti abituali, ma in una situazione del
genere la competenza è passata di diritto alla mente militare del Consiglio. Il
nigeriano si tiene defilato, di solito; è una presenza fisicamente incombente,
con i suoi due metri d’altezza, ma politicamente discreta, ai limiti
dell’invisibilità.
Ma una presenza su cui si può sempre contare. Anche quando ne faresti a
meno, come in questo caso.
«Voi due chi sareste?»
«Te l’ho appena detto, capo. Sei sordo? Siamo la tua scorta. Siamo qui per
proteggere il tuo culo bianco.»
«Non ho bisogno di voi. Ho tutto quello che mi serve.»
I due ridono, scuotendo la testa.
Estraggo di tasca il taser e lo punto su quello che mi pare il più coglione
dei due.
«Ehi!» fa, alzando ancora le mani.
Sposto l’arma verso destra e senza prendere la mira centro l’altro africano
in pieno petto.
Il ragazzone stramazza sulle ginocchia, scosso dalla scarica elettrica.
«Pazzo bastardo…» fa l’altro.
«Raccoglilo e portalo dal medico. Ha preso solo una scarica leggera. Il
taser rimettimelo in carica. Lo voglio trovare pronto quando torno.»
Il nero è incredulo. Sembra indeciso sul da farsi, quando tiro fuori dalla
tasca il coltello, facendo scattare la lama.
Il ghigno freddo dell’acciaio gli fa sbattere le ciglia come le ali di una
farfalla che prende il volo.
«Sbrigati» ringhio.
Il ragazzo si china sul suo compagno, che si sta già riprendendo.
«Dite a Chimeze che lo ringrazio di cuore, ma preferisco andare da solo.»
Apro la portiera dell’auto e salgo al posto del passeggero.
«Invece un passaggio in auto mi fa proprio comodo.»
«Dove la porto, signore?» balbetta l’autista, un bianco spaventato che
dall’accento potrebbe essere spagnolo come sudamericano.
«Scendi.»
Lui non discute.
Mi sposto con un salto sul sedile che ha lasciato libero.
Non guido da chissà quanto.
Ma dicono che sia come andare in bici, o come il sesso. Non si dimentica
mai.
E sapete una cosa? È vero.

Tiffany degli scheletri.


Detto così fa venire in mente la parola colazione. Ma Tiffany è prima di
tutto una gioielleria, con teche e vetrine, e c’è un solo posto in città dove gli
scheletri stanno in vetrina.
Parcheggio ai piedi del cosiddetto castello di Villabassa, che assomiglia in
realtà a una casa colonica oversize. Questo quartiere fa parte della città, ma
si è sempre sentito, e dimostrato, fieramente autonomo. Chiamato un tempo
la Stalingrado di Pista Prima, questo quartiere operaio aveva resistito in armi
ai fascisti ai tempi della Marcia su Roma, ed era sempre stato una roccaforte
della sinistra, quando la sinistra c’era ancora. Il castello, trasformato in
museo, è un po’ il simbolo di questa indipendenza. A parte qualche
scolaresca non ci va mai nessuno, e questo penso sia il motivo per cui
Lorenzo Vidal l’ha scelto per il nostro appuntamento.
Supero il custode, torpido come una tartaruga, ed entro nell’atrio, uno
spazio con soffitti a volta e tracce di affreschi alle pareti. La caratteristica di
questo ambiente è che nel pavimento sono fissate delle lastre di vetro
infrangibile, sotto le quali si vedono tre tombe, con tanto di scheletri e arredo
funerario. Sono i primi abitanti della città. Gli scheletri originali risalivano
all’età del Bronzo. Quelli che si vedono esposti sono calchi in gesso degli
anni Settanta.
«Tre morti» mi sorprende la voce di Lorenzo Vidal. La sua testa e poi
tutto il suo corpo maestosamente avvolto nel solito cappottone Woolrich
spuntano da dietro una colonna romana trapiantata in epoca medievale nella
struttura del castello, incongrua come un osso nel mazzo di stecchini dello
Shanghai.
«Tre morti…» ripete, sogghignando.
«Ciao, Lorenzo.»
«Dovunque tu vada fai danni…» canticchia il mio amico,
inequivocabilmente alticcio.
«Non so a cosa ti riferisci.»
«Avvaliti pure della tua… facoltà… di non rispondere. Tanto lo so che
c’entri qualcosa, con quei tre morti a Villagrande.»
Mi guarda. Poi allunga il collo a sbirciare cosa fa il custode, che si è quasi
addormentato nel suo gabbiotto. Infine mi fa un segno con il dito a uncino.
«Facciamoci un giro.»
Non posso che seguirlo.
L’area preistorica dei musei di solito mi annoia a morte, e questa non fa
eccezione. Ci sono le solite ossa di animali, un bel po’ di pietre scheggiate,
delle punte di freccia ugualmente di pietra e un flauto, ricavato da un femore
umano, che anche un bambino handicappato riuscirebbe a farsi, una volta
provvisto della materia prima. E poi c’è un grande diorama in cui alcuni
antichi pistaprimesi si aggirano nella savana che un tempo dicono ci fosse da
queste parti, cacciando i cervi che si vedono dipinti in lontananza, con sullo
sfondo un monte identico a quello che ancora oggi domina la città, così che
ti aspetteresti di vedere le auto dei trogloditi, tipo quelle dei Flintstones,
arrampicarsi in fila lungo il suo fianco per raggiungere i campi da sci del
Neolitico.
Attendo che Lorenzo si fermi. Invece attraversa senza proferir verbo altre
due sale, per poi scendere le scale che portano ai sotterranei. Finalmente si
ferma in una sala dal soffitto più basso delle altre, che incute un senso di
claustrofobia.
Al centro dello stanzone con le volte a botte c’è la statua più strana che
abbia mai visto.
«San Pantrizio» sussurra.
«Vuoi dire Patrizio.»
«No. Proprio Pantrizio. Non lo trovi nel Martirologio, e non troverai
nessuna chiesa dedicata a lui. È probabile che si tratti di un nome prodottosi
per errore, dalla deformazione del nome di un santo vero. Capitava, laggiù
nei secoli bui.»
Mi indica la scritta a caratteri gotici che si sviluppa lungo il piedistallo
della statua. Leggo la parola PANTRICIVS.
«Un errore di scrittura?» propongo. «Magari un artista sottopagato?…»
«Lascia perdere. Noti niente di strano, nella statua?»
Arretro di due passi per guardarla nel suo insieme.
Il santo ha una lunga barba bianca, occhi tranquilli, forse un po’ da
bevitore. È quel dettaglio a farmi accendere in testa la scintilla.
«Mi assomiglia» faccio.
«Barba a parte…»
«Mi hai chiamato qui solo per farmi vedere una statua che mi somiglia?»
«Una volta mia moglie mi ha mandato la foto di un quadro, da Monaco.
Era una mostra temporanea di pittori russi dell’Ottocento. Il quadro nella
foto rappresentava un mercante d’arte. Be’, che tu ci creda o no, il tipo del
ritratto era identico a me. Come due gocce d’acqua. Purtroppo ho perso la
foto e non sono riuscito a ricordarmi il nome dell’uomo nel ritratto.
Comunque no, non ti ho portato qui per farti vedere una statua che ti
somiglia. Guarda sotto i suoi piedi.»
Sotto i piedi del santo c’è un medaglione spezzato. Sembra un disco
volante. Tre facce verdi sono raffigurate sul gioiello. Musi da rettile, con
grandi occhi neri e un ghigno malevolo.
Un brivido mi sale lungo la schiena.
Ho già visto quelle facce disposte a triangolo.
«Ti ho portato qui perché mi hai mandato a chiamare. Perché vuoi sapere
cosa abbiamo trovato di strano sul luogo del delitto. Dove sono morti quei
tre polacchi.»
«Bulgari…» mi esce di bocca.
Lorenzo sorride.
«Sarai anche stato un buon poliziotto, ma io sono un ottimo giornalista,
ammettilo. Hai appena detto una cosa che non è ancora uscita su nessun
media. Che poteva sapere solo uno che…»
«Okay. Stop. Ho perso un po’ la mano, okay. Comunque io ho bisogno di
informazioni sui tre morti di stamattina, non di un corso d’arte.»
«Come sei impaziente, giovane padawan. Lascia che la Forza scorra in te.
I morti sono morti. Guarda bene quel medaglione e dimmi cosa ti ricorda.»
Avrei voglia di strozzarlo, ma faccio come mi ha detto. Chiudo persino gli
occhi, sentendomi un idiota.
«Non mi dice niente.»
«Torna indietro nel tempo. Al 1984.»
«Non ero ancora nato.»
«Ti piacerebbe. Sforzati.»
Potrei strizzarmi il cervello come uno straccio per pavimenti senza
riuscire a tirar fuori un’idea.
«Gli erevoniani» sbuffa Lorenzo, stufo del mio silenzio.
Oh.
«Quella banda di matti?» faccio.
«Quella banda di matti, esatto. Cosa ne sai?»
«Boh. Anche niente. So che andavano per la maggiore intorno ai primi
anni Ottanta, ma poi si sono sciolti. Avevano tipo un loro profeta, facevano
viaggi intergalattici con la telepatia dal salotto di casa e credevano che
l’Apocalisse fosse alle porte. Ogni tanto caricavano la famiglia e un sacco di
provviste sulle loro station-wagon e partivano per la montagna, aspettando il
diluvio.»
«Quelli del diluvio erano i Testimoni di Geova.»
«Perché? Gli Ere-quelcazzocheerano non andavano in montagna?»
«Sì, ma non per il diluvio.»
Sospira. «Mi sa che hai bisogno di un corso rapido. Ma non te lo faccio
io.»
«No?»
«No. Ti faccio conoscere un amico.»

Quando usciamo, il custode alza la testa.


Incredibile.
Non pensavo avesse la forza per un simile gesto atletico.
«Andate già via?» fa, con voce gracchiante.
Ho visto morti più in salute di lui. I suoi occhi liquidi e i capelli radi e
soffici lo fanno assomigliare terribilmente a Jorge Luis Borges negli anni del
declino. Il suo volto è deturpato da alcune lunghe cicatrici bianche.
«Sì, purtroppo sì» risponde Lorenzo, con un’aria adeguatamente triste.
«Ma non potete aver già finito il giro.»
«In effetti no.»
«È un peccato. Avete visto le tele del Bellosguardo? Almeno La caduta
degli angeli ribelli? È un capolavoro…»
«Magari la prossima volta.»
Il vecchio custode scuote la testa con disappunto. «Sono così pochi, i
visitatori…»
Poi s’illumina di colpo.
«Ma almeno il registro me lo firmate?»
E prima che possiamo rispondergli si muove con un’agilità insospettabile,
nonostante una vistosa zoppia, verso un librone aperto su un tavolo.
Vorrei dirgli di stare attento a non fare sforzi, ma lui torna verso di noi
reggendo l’immenso libro come una reliquia.
«Vi prego, signori: la vostra firma e un pensiero.»
La pagina destra è completamente vuota. L’ultima firma e data risalgono a
due mesi fa. Spero non lo paghino in base al numero dei visitatori, questo
poveretto.
Lorenzo scrive firma e data, senza aggiungere altro. Mi sembra che il
custode si rattristi per questo. Così, quando è il mio turno, vergo con energia
una firma svolazzante quanto incomprensibile e la frase «Che Caduta! E che
Angeli! I migliori che abbia mai visto!».
Il custode legge quello che ho scritto, dapprima con un sorriso, poi con
una smorfia. «Ma se non l’avete nemmeno vista…»
«Sulla fiducia» rispondo, strizzando l’occhio e seguendo Lorenzo verso
l’uscita.

Fuori il cielo è azzurro, e non c’è traccia di angeli in caduta o di astronavi


intergalattiche. Solo un placido quartiere di periferia abitato da un esplosivo
mix di un quaranta per cento di anziani un tempo comunisti, recentemente
passati alla destra forcaiola a forza di trasmissioni televisive e delusioni
politiche, e un quindici per cento di immigrati che ai fini dell’insicurezza
percepita qui contano come un novanta per cento. In effetti ne vedo un paio,
di questi nuovi cittadini in attesa di integrazione o di un forno crematorio,
due adolescenti nordafricani altissimi e magrissimi, col cappuccio delle felpe
tirato sulla testa, che ronzano attorno ai finestrini della Ford.
Basta una buona occhiata e si dileguano, caracollando come giovani
giraffe in direzione del parco.
«Hai la macchina» constata Lorenzo, quando uso il telecomando per
aprire le portiere.
«Non è mia. È della comunità.»
Quando il giornalista sale in auto, la prima cosa che fa è allacciarsi la
cintura, la seconda spostare il sedile all’indietro.
«Quanto cazzo pesa, quel tuo Woolrich?» sbuffo.
«Mah, neanche tanto.»
«Puzza.»
«Sì, be’, dovrei farlo lavare, ma ho paura di rovinare il pelo del
cappuccio.»
Allungo la mano. Tiro, e la pelliccia di lupo viene via.
«Ci sono dei bottoni a pressione» faccio.
«Ah, sì. Bon, dopo me la rimetti a posto, però. Andiamo, adesso, che ho
una vita sociale anch’io.»
«Buon per te. Pensavo fossi un animale solitario.»
«Guarda, non è che ho tanta voglia di scherzare.»
«Giornata nera al lavoro?»
«Svolta a destra. Poi avanti fino al semaforo. Il lavoro, dici. Il lavoro sto
per perderlo, se continua così. Per adesso ho avuto una sospensione di tre
giorni. Non retribuita.»
«Come mai?»
«Pare che al sindaco non sia piaciuto il mio articolo di ieri. Hai presente?»
«Non leggo più i giornali.»
«Vabbè. Insomma, è per via della conferenza stampa. Nell’articolo ho
ripreso le domande che gli ho fatto dal vivo, e alle quali non ha risposto.»
«Tipo?»
«Mah, tipo… Tipo: scusi, ma in campagna elettorale, tre anni fa, lei si è
presentato come il protettore degli oppressi, il libertadòr dei cittadini onesti
minacciati da orde di immigrati clandestini. Ma a parte due o tre retate nei
parchi con cani ed elicotteri e l’istituzione delle civic guard, non è che la
sicurezza percepita sia aumentata. Anzi. Io non ho votato per lei, ma a quelli
che l’hanno fatto magari adesso gli girano i coglioni, vedendo che niente è
cambiato. Cioè, non è che ho detto proprio così, ma il concetto era quello.
Insomma, signor sindaco: esco per strada e trovo i soliti mendicanti piazzati
ai soliti posti, il mio condominio è stato preso di mira dai ladri tre volte in un
mese, e i neri che bighellonano per strada ci sono, e anzi, sono persino
aumentati. A parte sporadici rastrellamenti in stile Salò e l’esecuzione
sommaria di qualche decina d’alberi le cui radici ostacolavano il traffico e
impedivano il progresso della città, lei non ha fatto un beneamato cazzo
sotto il profilo della sicurezza. Non pensa che a un elettore di destra
dovrebbero frullargli i coglioni più che a me che sono di sinistra e che provo
solo quel minimo di disgusto doveroso nel constatare che la città, e se è per
questo la regione, e se è per questo non parliamo del paese, hanno fatto un
tuffo nel passato a prima di piazzale Loreto? Sieg Heil!»
«Hai detto proprio così?»
«Sì. È tutto vero. A parte una o due piccolissime bugie. E il Sieg Heil,
ovvio. Ci vogliono gli stivali, per un Sieg Heil come si deve.»
«E l’hai anche scritto…»
«Sì, be’, sapendo che il giornale per cui scrivo fa parte di un gruppo
editoriale di sinistra pensavo di avere il solito margine di manovra.»
«Ah. Ti facevo più furbo. Si vede che non hai mangiato abbastanza pane e
volpe, da bambino. Non serve capire di politica o di alta strategia. I gruppi
editoriali non c’entrano un cazzo. È che il tuo direttore è un voltagabbana
leccaculi che da due anni sta cercando di convertirsi al nuovo trend politico.
E che la sinistra non esiste più. Fattene una ragione. Dov’è che vado,
adesso?»
«Dritto per due chilometri. Più o meno. Ti dico io quando svoltare. Ha il
navigatore, quest’auto?»
Guardo il foro slabbrato che c’è dove normalmente dovrebbe esserci
l’autoradio.
«Forse ce l’aveva» rispondo.
Le vetture che incrociamo sembrano venire da due mondi paralleli.
Fuoristrada muscolari incongruamente verniciati in grigio perla o verde mela
sfrecciano con sbrilluccichii di fari a led in mezzo a una bolsa mandria di
vecchie utilitarie non catalizzate, che impestano l’aria grigia di veleni. È un
traffico cattivo, rallentato da rotonde e ostacoli provvisori che stanno lì da un
paio di amministrazioni comunali. Pedoni e ciclisti attraversano senza
ritegno, rischiando la vita sulle strisce, in mezzo al traffico incurante di loro,
perché gli autisti sono troppo presi dai loro cellulari, o mimano gesti da
teatro kabuki nei loro abitacoli pressurizzati.
«Svolta qui.»
«Dove?»
«Niente, l’hai già passata. Alla prossima rotonda fai inversione e torna
indietro fino a via De Santis.»
«Sei una testa di cazzo.»
«Pardon?»
«Avevi detto che mi avvisavi quando svoltare.»
«E non l’ho fatto?»
«L’hai fatto dopo. Quand’era troppo tardi per farlo.»
«Senti, ognuno ha i suoi problemi. Ecco, gira adesso. Puoi parcheggiare
lì.»
Lì è uno dei dodici posti auto incredibilmente vuoti sotto uno dei
condomini più brutti della città, un obbrobrio degli anni Sessanta che il
recente taglio degli alberi ha esposto in tutta la sua avvilente nudità.
«Come mai non parcheggia nessuno, qui?»
«Sono posti riservati del condominio.»
«Di solito non è che la cosa sia un gran deterrente.»
«Scherzi? Ma davvero non sai dove siamo? È un’istituzione cittadina.»
Alzo le spalle. Usciamo dall’auto.
Lorenzo si piazza davanti all’ingresso dello stabile e agita le braccia come
un tecnico che fa segno a un jet di atterrare sul ponte di una portaerei.
Una finestra al secondo piano si chiude.
«Andiamo» fa il giornalista, sorridendo.
«Andiamo dove?»
«A conoscere la verità.»

La pulsantiera del citofono mi lascia sconcertato.


Ci sono trentatré pulsanti, divisi su tre colonne. Ma invece della solita
prevedibile serie di targhette di varie forme e dimensioni con un’altrettanto
prevedibile sfilza di nomi nostrani e stranieri, qui tutte le targhette sono
uguali, tutte perfettamente stampate e inquadrate, e recano solo due iniziali:
R.M.
Lorenzo preme sul campanello, l’ultimo della seconda colonna.
Dopo una decina di secondi l’apriporta elettrico scatta e il portoncino
d’ingresso blindato si apre di quel tanto che basta a lasciarci passare.
L’androne è in penombra, e puzza di chiuso. Un forte sentore di muffa
sale dal basso, dalla scala delle cantine.
«L’ascensore non funziona» fa il giornalista. «Ma è solo al secondo
piano.»
Saliamo, Vidal con un’andatura da sherpa in cordata. Sul pianerottolo del
primo piano si ferma. «Stai per incontrare una leggenda metropolitana»
sussurra.
«Com’è che le scritte sui campanelli sono tutte uguali?»
«Perché in questo palazzo ci vive solo lui. Uno dopo l’altro ha acquistato
tutti gli appartamenti.»
«Immagino che con gli stessi soldi potesse comprarsi una reggia.»
«Ah, sì. Probabile» fa Lorenzo, riprendendo la scalata. «Ma lui ama le
comodità. Voleva un amministratore condominiale che si occupasse di cose
come il riscaldamento e i lavori da fare.»
«Non occorreva che si comprasse tutto il condominio.»
Vidal sussurra: «A lui non piace avere gente intorno. Ecco, siamo
arrivati.»
La porta di fronte a noi è aperta.
«Entrate!» tuona un vocione così forte da sembrare amplificato.
Sul momento penso d’aver messo piede in una biblioteca clandestina. Il
corridoio d’ingresso e le due stanze che attraversiamo hanno le pareti
completamente occupate da librerie stracolme, che si piegano sotto il peso
dei volumi. Pile di libri salgono come stalagmiti dal parquet scricchiolante
del pavimento.
Anche il salone in cui sbuchiamo alla fine è completamente occupato da
librerie. Dev’essere stato ricavato unendo quattro stanze, qui e al piano
superiore, perché è uno spazio semplicemente enorme. Nonostante le grandi
vetrate che occupano tutta una parete, la stanza è in penombra, per via dei
pesanti tendaggi. Al centro della stanza c’è una poltrona, e davanti a quella
un tavolino apparecchiato con una teiera, tre tazze e i relativi accessori,
disposti in bell’ordine su un vassoio d’argento massiccio.
Sprofondato in quell’enorme poltrona, un uomo avvolto in una vestaglia a
scacchi, così ampia che ci si potrebbe ricavare la velatura per un tre alberi,
solleva la mano per salutarci. Dico “uomo”, ma potrei dire anche “orso”, per
la sua stazza e per l’aspetto irsuto e selvatico, e non ultimo per l’odore da
animale in gabbia.
«Sedetevi, accomodatevi. Che non si dica che Rabo Mishkin è un pessimo
ospite. Lapsang Souchong per tutti?»
«Splendido» è la risposta di Lorenzo. Io me la cavo con un cenno del
capo.
«Prendete due sedie. Ce n’è un sacco in cucina.»
Lorenzo torna dopo qualche secondo reggendo due sedie spaiate.
«Rabo, c’è un topo, in cucina.»
«Solo uno? Ce n’è uno zigotto, ce n’è. Stanno buoni, non danno fastidio.»
«Ma non ti rovinano i libri?»
«Non se gli do da mangiare. Il fastidio è che rosicchiano le librerie,
piuttosto.»
«Dovresti far derattizzare.»
L’uomo-orso strabuzza gli occhi. «Che cazzo dici? Sei fuori? Questa è
casa mia. Ci ospito chi mi pare. Compresa gente che gira con un finto anello
delle SS» fa, indicandomi con aria non esattamente entusiasta. «Sedetevi,
dai, cazzo!»
Obbediamo.
«Quanto l’hai pagata, quella patacca?» ringhia.
«Ma non so. Non mi ricordo. È stato un sacco di tempo fa.»
«Scommetto che ti hanno detto che è argento massiccio.»
«Tipo. Con non so che metallo aggiunto per dargli robustezza.»
«Be’, invece è acciaio. Si vede da qui. Perché lo porti?»
«Non lo so.»
«Risposta del cazzo. Ci dev’essere un motivo per portare al dito una roba
del genere. Almeno sai cos’è?»
Guardo lo stemma diviso in due campi sull’anello: l’aquila tedesca a
sinistra, i tre gigli di Francia a destra.
«È il simbolo della Trentatreesima Divisione Granatieri SS
“Charlemagne”.»
Rabo annuisce. «Composta da volontari francesi. Immagino tu conosca a
menadito la sua storia eroica… La battaglia del 25 giugno ’44 sul fiume
Bóbr… La difesa di Berlino…»
«Sì. E anche l’esecuzione sommaria di undici soldati della Charlemagne
ordinata dal generale Leclerc. O i processi farsa dei cosiddetti vincitori.»
«Lei ama i perdenti?» mi fa, passando di punto in bianco dal tu al lei.
«Non amo i vincitori. Soprattutto quando chiamano giustizia la loro
vendetta.»
«Lei sa che buona parte degli uomini della Charlemagne si erano distinti
nella lotta antipartigiana in Bielorussia, immagino. Dove i metodi usati
erano, be’, piuttosto brutali…»
«Ciò non toglie che sul campo di battaglia si siano comportati con onore.»
«Può darsi. Questo glielo concedo. Lei prova… affinità… con questo
genere di cosiddetti eroi…?»
«A volte.»
«Come lo prende, il suo tè? Latte? Zucchero?»
«Non lo prendo.»
«Per me latte e zucchero» fa Vidal.
Mishkin versa il tè nella tazza del giornalista, con una manovra elaborata.
Nel frattempo mi guarda di sottecchi, con un sorriso che non mi piace.
«Preferisce qualcosa di più forte?»
«No, grazie» rispondo. Ma non posso impedire alla mia bocca di salivare.
E so che questa specie d’orso in vestaglia a quadri l’ha notato perfettamente.
Rabo Mishkin sorbisce il suo tè con una grazia da regina madre.
Poi, una volta posata sul piattino la tazza di porcellana, mi guarda a lungo
negli occhi prima di parlare.
E, quando lo fa, si rivolge a Lorenzo.
«Mi accennavi allo scopo della vostra visita. Sai che sono un uomo molto
occupato… Anche se si potrebbe dire diversamente occupato… Per cui, se
vogliamo venire al dunque…»
«Sì, be’, ha a che fare con un simbolo che ho trovato in un certo posto,
insomma, su un luogo del delitto, e che però era già presente da molti secoli
nella storia di questa città.»
«Di che simbolo parliamo?»
Vidal tira fuori dalla tasca una foto e la posa sul tavolino, fra le tre tazzine.
Mi aspettavo raffigurasse la statua di san Pantrizio. Invece è un graffito su
un muro. Gli assurdi colori fluo sembrano esplodere dalla parete. Il murale
rappresenta tre teste aliene disposte ai vertici di un triangolo fatto di serpenti
intrecciati.
«Mmm» è il solo commento dell’uomo-orso.
«Un simbolo del genere c’è su un medaglione…» faccio.
«Ai piedi di una statua in legno policroma di san Pantrizio. Lo so. Lo so»
mugugna Rabo.
«Credo ci sia un possibile collegamento con quella setta che c’era in città
negli anni Settanta. Gli erevoniani.»
«Ah, sì. Sì. Certo. Una setta interessante. Credevano che la razza umana
fosse stata creata attraverso un esperimento alieno. Accettavano solo adepti
col gruppo sanguigno 0 rh negativo, pensando che fossero il frutto di un
incrocio con gli alieni. Che idiozia. Ma perché vi interessano? Sono storia
antica.»
«In realtà sto svolgendo delle indagini su un delitto. Anzi, su una serie di
delitti.»
«Si riferisce ai tre tassisti.»
«No. I delitti su cui sto indagando sono molto più vecchi.»
«Avvenuti dove?»
«Qui.»
«Una serie di delitti… Addirittura. E io come potrei aiutarla, herr
Sturmbannführer?»
Lorenzo interviene. Si china fra di noi, come un interprete che deve
risolvere un’incomprensione tra due leader politici prima che porti a
conseguenze disastrose.
«C’è una possibilità che esista un collegamento tra gli erevoniani e questi
delitti.»
«Non penso proprio. Erano matti ma innocui. Sapete com’è nato il loro
culto?»
«No, ma so che tu ce lo dirai.»
Mishkin guarda il giornalista con aria di compatimento. «Quelli come te,
una volta, cercavano negli archivi. Intervistavano la gente, per sapere le
cose. Ora siete capaci solo di consultare Wikipedia, o al massimo di usare
Google.»
Vidal arrossisce. «In rete non c’è niente di utile. E gli archivi del giornale
sono su microfiches. E il lettore non funziona più da anni.»
«E quindi hai pensato a me.» Mishkin si batte il palmo delle mani sulle
cosce, con un suono fragoroso. «E hai fatto bene. Vieni. Anzi, venite.
Seguitemi, vi faccio strada.»
L’uomo si alza con un’agilità imprevedibile. Lo seguiamo, attraverso
corridoi e stanze dalle pareti completamente rivestite da librerie stracariche.
Percorriamo un labirinto apparentemente senza fine.
Tutti gli appartamenti del condominio sono stati collegati attraverso
l’apertura di porte. Scale a chiocciola metalliche mettono in comunicazione i
vari piani. Quello che dall’esterno sembra un condominio in realtà è una
grande casa, un ambiente unico.
«Ma quanti libri ci sono, qua dentro?» faccio, stupito.
«Non li ho mai contati. Chi se ne frega. Per quanti libri uno possegga,
prima o poi scoprirà che gliene manca uno. Adesso però stia zitto che devo
ragionare. Dunque… Fine anni Settanta…»
Si scuote di colpo, scattando come un pupazzo a molla. «Di là» indica,
partendo verso sinistra. Due stanze dopo si ferma di fronte a un mobile
chiuso da vetri fumé. Lo apre, estraendone un libro enorme. Quando lo
squaderna vedo che è una raccolta rilegata di un quotidiano. Le pagine sono
ingiallite, dall’aria fragile. Mishkin si siede su una delle poltrone tutte uguali
che si trovano praticamente in ogni stanza. Tenendo il tomo sulle ginocchia
lo sfoglia con cura quasi religiosa.
«Ecco qui. 12 settembre 1979. Il fondatore degli erevoniani, il dottor
Mariano Filippin, muore in un incidente d’auto scendendo dal monte Giau.
Con lui sull’auto c’è il suo discepolo ed evangelista, l’ingegner Gaspare
Amodio, che rimane gravemente ferito ma sopravvive. Invece la setta non si
riprenderà dalla morte del suo fondatore.»
Mishkin si gratta il petto. «Amodio… Amodio… Gaspare Amodio…»
ripete, come se masticasse un boccone saporito ma coriaceo. Poi si illumina
di colpo. Fa una specie di piroetta inaspettatamente agile e si lancia verso la
libreria di fronte. Ne estrae un altro raccoglitore enorme e comincia a
sfogliarne velocissimo le pagine.
«Ma certo… Dev’essere qui… 1984… Che anno!…»
Si volta verso di noi. «La mia memoria di merda. Un tempo sarei stato
capace di dirvi il giorno in cui una certa notizia è uscita, la sua pagina, e
persino gli articoli che le stavano intorno. La mia mente era un palazzo della
memoria. Potevo trovare la notizia e ripetervela come se ce l’avessi davanti
agli occhi. Purtroppo non ho più sessant’anni. Così ho dovuto ricostruirmelo
fisicamente, il mio palazzo della memoria.» Allarga le braccia in un gesto
teatrale: «Eccolo. È questo. Questo edificio è la replica della mia memoria.
Guardate. Venite.»
Reggendo il librone sottobraccio esce dalla stanza come una folata di
vento. Lo seguiamo di corsa, attraverso un’altra teoria di corridoi e stanze
fredde e poco illuminate.
«I libri e in genere i ricordi non amano la luce» spiega, senza rallentare.
«Tutto il palazzo è mantenuto a una temperatura controllata. Tranne le stanze
in cui vivo. A me piace il caldo. Fosse solo per me, vivrei in una serra.»
Quando si blocca di colpo, Vidal rischia di finirgli addosso.
La stanza in cui ci troviamo è diversa dalle altre. Invece di scaffali e pile
di libri contiene teche di vetro, che occupano non solo le pareti ma anche il
pavimento. In ogni teca ci sono decine di oggetti, dei più disparati: un mazzo
di chiavi, una biglia, una penna di gabbiano, un barattolo colmo di sabbia, un
paio di occhiali alla John Lennon, con una lente rotta.
«Benvenuti nel 1984, l’anno del Grande Fratello orwelliano.» Si siede su
una delle immancabili poltrone Frau e spalanca il librone, scorrendo le righe
con l’indice. «Ecco qui. Sentite. 22 gennaio 1984. Durante una pausa del
Super Bowl va in onda lo spot del Macintosh di Steve Jobs. Due giorni
dopo, sul Messaggero, viene pubblicata una lettera dell’ingegner Gaspare
Amodio, che critica furiosamente la Apple e predice che i loro prodotti non
avranno futuro. L’ingegnere sostiene di aver lavorato alla Olivetti alla fine
degli anni Cinquanta, nella squadra dell’ingegnere italo-cinese Mario Tchou.
Nel loro laboratorio vicino a Milano, Tchou e la sua squadra svilupparono il
primo computer italiano. Un computer a transistor e non più a valvole, in
grado di elaborare in parallelo. Un’autentica rivoluzione. Sentite cosa
scriveva Amodio nella sua lettera:
Nel 1958 l’Italia era all’avanguardia nel campo dei computer. Ma il 27 febbraio
1960 morì Adriano Olivetti, e il 9 novembre 1961 morì anche il compianto
ingegner Mario Tchou, in un incidente stradale che forse non fu un incidente. Il
nostro team all’Olivetti riuscì a realizzare il primo personal computer della storia,
ma poi, per una scelta miope quanto disastrosa, la nostra divisione elettronica
venne venduta alla General Electrics e l’Olivetti uscì definitivamente dal settore
informatico ed elettronico in generale. Fu un’enorme perdita per il paese. Vedere
un saltimbanco da circo come questo Steve Jobs presentare come rivoluzionaria
una macchina che dalla sua ha solo l’estetica rivela quanto questo Mondo sia
corrotto e la Razza Umana destinata all’estinzione. Il futuro non sarà forse quello
vaticinato dall’inglese Orwell, ma potrebbe essere, dal punto di vista della Specie,
infinitamente peggiore: potrebbe portare a un rimbecillimento delle masse, indotte
a trastullarsi con gli aspetti ludici e d’intrattenimento offerti dall’elettronica
anziché utilizzarne l’infinita capacità di calcolo ai fini del Progresso dell’Umanità.
Così, mentre la Razza Umana regredirà allo stadio infantile, salirà sul trono del
Mondo un’idiocrazia incapace di guidarci verso le rive amene del futuro. Verremo
trascinati in un Maelstrom di paure, titillati da piaceri infantili, condotti non più
dalla Ragione ma dai Sensi. E il Mondo conoscerà l’Apocalisse, indotta dai nostri
veri Padroni, di cui i nostri governanti non saranno che servi manipolati
ipnoticamente e coccolati a suon di privilegi e prebende, autentici vassalli del
Demonio…

«La lettera va avanti, ma il tono rimane lo stesso.» Rabo Mishkin si


concentra. «Per quanto mi sforzi non riesco a ricordare altre menzioni di
Amodio sulla stampa. È come se fosse sparito. Però non credo sia morto. Un
trafiletto in cronaca, o un necrologio, sarebbero apparsi. In fondo era un
personaggio noto. Dopo la dipartita del fondatore era stato lui a guidare gli
erevoniani per qualche anno, prima che il gruppo si sciogliesse. Avevano
avuto un boom a metà degli anni Sessanta, con l’arrivo in città dei danesi,
poi tutto è andato scemando. Immagino che non abbiano raggiunto la massa
critica per diventare un caso di successo come i cristiani, o i nazisti.»
«Che danesi?» faccio.
«Ma lei non sa proprio niente, della storia della sua città! I danesi della
fabbrica! Quando Aureliano Zandomeneghi, il figlio del fondatore delle
Industrie Zetart, chiamò ingegneri svedesi e danesi, soprattutto danesi, per
dare nuovo impulso alla produzione di quella che qui in città chiamavano la
fabbrica…»
«Non sono nato qui. Ci sono arrivato da ragazzo.»
Rabo sbuffa. «Negli anni Sessanta e Settanta tutto, in questa città, ruotava
intorno alle Industrie Zetart. Intorno a quella pustola industriale di
Villagrande, un corpo estraneo incistato nel mondo contadino. Le Industrie
Zetart e la generosità degli Zandomeneghi sono stati il motore della crescita
della città, e il capitale umano era il carburante. Sa come li chiamavano, gli
operai delle industrie? Metalmezzadri. Un po’ operai e un po’ contadini,
perché in gran parte avevano mantenuto i campi lasciati loro dai genitori, e
dopo il turno in fabbrica andavano a lavorare la terra. Aureliano
Zandomeneghi, industriale e mecenate, nonché persona ideologicamente
progressista, per quanto stramba, a un certo punto decide che bisogna portare
sangue nuovo in città. Idee nuove, una cultura più dinamica. E va a cercare
personale qualificato, soprattutto tecnici e ingegneri, nei paesi scandinavi.
Stando ai pettegolezzi aveva anche un interesse secondario. Forse più d’uno.
Era un uomo del Rinascimento, il vecchio. Forse voleva trombare biondo. O
migliorare la razza locale. In quegli anni la Scandinavia era sinonimo di
libertà sessuale. Ma io a questa motivazione personalmente non ci ho mai
creduto. Zandomeneghi era abbastanza ricco da potersi permettere qualsiasi
donna, vino o auto desiderasse. Come la Ferrari sulla quale si schiantò alla
curva del Madràc, tornando a casa dai campi di sci del monte Tondo.
Avrebbe potuto sciare a Cortina o a Sankt Moritz, ma preferiva il monte
Tondo. D’altra parte era stato lui a finanziare il polo turistico di lassù,
un’impresa costosissima che purtroppo non era mai decollata.»
«Un altro morto in auto tornando dalla montagna.»
«Be’, non erano le auto di adesso. Non c’erano gli airbag, o l’Abs. E le
strade erano molto più pericolose. Comunque cosa stavo dicendo? Ah, sì. Gli
erevoniani si fecero diversi adepti tra i danesi, che col tempo diventarono
l’unica etnia scandinava presente sul territorio, quando gli svedesi
preferirono andare in massa a lavorare all’Electrolux, a poche decine di
chilometri da qui. Ma i danesi rimasero. E finché ci furono loro, gli
erevoniani prosperarono e si moltiplicarono. Non come le stelle in cielo o i
fili d’erba nella prateria, ma raggiungendo comunque un numero sufficiente
per riempire un cinema di medie dimensioni, come dimostrano le foto
scattate a metà degli anni Settanta.»
«Che genere di gruppo era?»
«Ah, questo è interessante. Qualcuno li definiva una setta, ma
personalmente non sono d’accordo. Era un gruppo di ricerca scientifica, in
realtà, anche se i loro metodi erano… inconsueti, diciamo, e le loro teorie
piuttosto astruse. Il loro credo, o meglio, la loro dottrina per così dire
scientifica, si basava sull’idea che l’umanità ha un grande avversario,
rappresentato da una specie ostile con la quale avremmo sempre condiviso il
pianeta. Una razza di rettili.»
«I famosi rettiliani?»
«No. Niente del genere. Secondo Filippin e i suoi seguaci, alcuni
appartenenti all’umanità avevano volutamente sviluppato, attraverso incroci
selettivi e rituali elaborati, la parte rettiliana del loro corredo genetico
ancestrale, finendo per acquisire posizioni di dominio a ogni livello della
società terrestre. In questo sarebbero facilitati dal fatto che all’esterno la loro
appartenenza a una specie diversa non si nota: sono umani al cento per
cento. Solo la loro mente è rettiliana. Hanno sempre sfruttato i progressi
della scienza per i loro fini speciali. Ad esempio per prolungare la durata
della loro vita. Fino a centoventi anni, secondo Filippin. E poi, grazie ai
capitali immani di cui dispongono, hanno finanziato imprese spaziali segrete
che li hanno portati ad avere una base sul lato nascosto della Luna sin dal
1958. I Kennedy erano rettiliani, e così ogni presidente degli Stati Uniti dagli
anni Quaranta a oggi. L’Unione Sovietica era il loro principale nemico, ma
oggi il problema è risolto. L’Urss non esiste più, e la Russia è ora saldamente
in mano ai rettiliani.»
«Ovviamente. Ma mi sta dicendo che quell’Amodio è sparito dalla scena.
Proprio adesso che è cominciata l’era delle fake news e delle teorie del
complotto.»
«Non c’è più traccia di lui su nessun quotidiano locale dal 1984.»
Lo guardo, incredulo. «Sta dicendo che lei ha letto tutti gli articoli apparsi
sulla stampa locale da… da non so quanto tempo a oggi?»
«Certo.»
«Pagina per pagina…»
«Riga per riga. Parola per parola. E ho memorizzato tutto.»
«Ma perché?»
Rabo mi guarda perplesso. «Ma perché io sono la memoria di questa città.
Io so tutto di Pista Prima. O almeno, tutto quello che è stato stampato sulla
pagina di uno dei suoi quotidiani. Per questo l’ho riconosciuta appena è
entrato. Lei è l’uomo che caga nelle auto di stato. Che dà della scimmia a un
ministro.»
Scuoto la testa.
«Quello non è vero. Me lo sono solo sognato.»
Rabo mi fissa interdetto. «Cosa glielo fa pensare?»
«Me l’hanno detto.»
«Allora le hanno mentito. Lei è stato un personaggio, per un po’. Un eroe
locale, che poi si è sputtanato il cervello a furia di droga e alcol. Io so tutto
di lei.»
«Se sa tutto, allora può dirmi cosa mi è successo. Perché mi sono ritrovato
alle Zattere, dove qualcuno mi aveva scaricato mezzo morto.»
Mishkin si concentra. «Dopo la sua scomparsa dal palcoscenico pubblico,
la stampa locale non la menziona più. È stato congedato dalla polizia, e poi è
semplicemente sparito. Puf!»
«Chatterjee mi ha mentito. La Caragiale mi ha mentito…» sussurro.
«Ha detto Chatterjee?»
«Sì.»
«Kumar Chatterjee?»
«Lo conosce?»
«Be’, vorrei anche vedere. Lo conoscono tutti, in città. È uno degli
psicoterapeuti più quotati al mondo. Quando ha aperto il suo studio qui,
molti si sono stupiti.»
«Non sapevo che il suo studio alle Zattere fosse così famoso.»
«Alle Zattere? Vuole scherzare? Ha lo studio in corso Umberto Primo. Ha
in cura presso di sé le persone più influenti della città. Lei come fa a
conoscerlo?»
«Il Chatterjee che conosco io lavora con gli sfigati delle Zattere.»
Mishkin scuote la testa. Si alza di scatto dalla poltrona, lasciando cadere il
librone.
«Lorenzo, fammi un piacere. Rimetti il libro al suo posto. Lei invece
venga con me. Mi segua.»
Non riuscirò mai ad abituarmi allo spettacolo di questo corpaccione
enorme che scatta come un centometrista dal blocco di partenza. Lo seguo
attraverso un’altra serie interminabile di ambienti, salendo di diversi piani,
finché l’uomo-orso non si ferma in una stanza diversa dalle altre. Questa è
luminosa, con una grande vetrata. È spoglia e interamente bianca. Al centro,
rivolta alla vetrata che dà sui tetti, una scrivania stile Impero su cui troneggia
uno schermo enorme.
Rabo sposta una sedia dalla parete e la dispone accanto alla scrivania,
invitandomi a prendervi posto. Poi s’installa su una poltrona dirigenziale,
digita una password su una tastiera. Lo schermo s’illumina. Non riconosco il
sistema operativo. Comunque non è Windows.
Il padrone di casa pesta veloce sui tasti. Una foto appare sullo schermo,
così nitida che riesco a vedere anche i pori del volto abbronzato e sorridente.
«Kumar Chatterjee all’inaugurazione del golf club dell’Aquila Imperiale,
due settimane fa.»
Gunga Din indossa una giacca dai riflessi serici, e una cravatta regimental.
Una mise ben diversa da quella che usa alle Zattere.
«Non è possibile…» mormoro, attonito.
«Non è la stessa persona che lei conosce come dottor Chatterjee?»
«Sì, ma…»
«Un seguace di Ronald Laing, un brillante scienziato a tutto campo,
specializzato in neurochirurgia e psichiatria. Lavorava alla Tavistock Clinic
di Londra. Un uomo che avrebbe potuto vincere il Nobel, se avesse
pubblicato i risultati del suo lavoro. Invece è venuto a vivere nella provincia
italiana, a esercitare l’attività privata di psicoterapeuta. Rinunciando alla sua
carriera accademica. Una scelta inspiegabile, in effetti.»
Le immagini scorrono sullo schermo.
«Chi è lei?» chiedo, indicando una donna alta e bionda, con il fisico di
un’indossatrice. Indossa un sari di seta verde smeraldo. Appare in altre foto
accanto a Chatterjee.
«La moglie di Chatterjee. Agatha.»
Sento una vampata di calore salirmi dallo stomaco.
«Sua moglie.»
«Sì.»
Le dita di Rabo richiamano a video una pagina di testo. «Agatha Crumey,
scozzese, cinquantun anni. Laureata in Medicina a Parigi, ricercatrice
all’università di Manchester. Specializzata in neurologia. Lascia la sua
cattedra universitaria a Edimburgo nel 2009 per seguire il marito nei suoi
trasferimenti all’estero, l’ultimo dei quali qui nel 2015. Donna affascinante,
a giudicare dalle foto.»
«Sì. E anche un fantasma parecchio vitale.»
«In che senso?»
«Stando a Chatterjee… al mio Chatterjee, perché ancora non riesco a
credere che siano la stessa persona… questa donna sarebbe morta da anni. Si
dice niente sul suo lavoro con Medici senza frontiere, lì?»
Rabo scorre avanti e indietro diverse pagine a una velocità incredibile.
Poi scuote la testa. «No. Nessun collegamento. Perché?»
«Perché allora qualcuno mi ha inculato di brutto.»
«Capisco. Be’, avendo a che fare con due esperti della mente umana come
questi, farsi fottere i ricordi non è un’evenienza improbabile.»
Rabo Mishkin si alza. Va verso la finestra, guarda a lungo in basso.
«Siete stati seguiti.»
«Cosa…?»
«Due persone. Si stanno dando il turno qui fuori, da quando siete arrivati.
Li riconosce?»
Mi avvicino alla finestra, guardingo.
«Tranquillo. È polarizzata. Noi vediamo fuori, ma loro non vedono noi»
fa Rabo.
Guardo meglio. Quando riconosco la persona sul marciapiede di fronte,
sgrano gli occhi.
«Quello appoggiato al lampione è Tommy, il barbiere delle Zattere. Cioè,
il mio barbiere. Immagino ce ne siano altri, alle Zattere, ma io mi taglio i
capelli da lui. Dove sarebbero, gli altri due?»
«Ma che poliziotto è, lei? Le ho detto che si danno il turno. Vede quella
vecchia Suzuki Ignis? Lo vede l’autista? Quello è il secondo uomo.»
Il volto dietro il finestrino mi dice vagamente qualcosa. È uno che devo
aver incrociato talvolta nei corridoi di Paris o di London, ma non saprei
dargli un nome.
«Pensa che siano qui per proteggerla o per sorvegliarla?» fa Rabo,
pensoso.
«Bella domanda. Fino a oggi le avrei detto per proteggermi, ma comincio
a non esserne più tanto convinto, dopo quello che mi ha detto.»
«Già. Purtroppo anch’io comincio a non sentirmi troppo sicuro. Quando ci
siamo presentati, lei ha detto che stava indagando su una serie di omicidi.
Penso sia ora che me ne parli.»
Così racconto a Rabo delle ragazzine scomparse. Sto per affrontare
l’argomento della mafia russa e dell’Albanese, quando Vidal, trafelato, entra
nella stanza.
«Finalmente!» esclama. «Ho girato tutto il palazzo per trovarvi!»
«Scusa, Lorenzo. Siediti, lasciami ascoltare il tuo amico. Mi stava
parlando di alcune ragazzine scomparse.»
Lorenzo spalanca gli occhi. «Ragazzine? Ma non stai indagando sulla
morte di Krystyna?»
A questo punto ho due alternative. Chiudere la bocca e continuare la mia
ricerca della verità da solo, oppure spiattellare tutto a questi due improbabili
compagni di cordata.
«Siediti» faccio anch’io.
E poi comincio a raccontare.
A raccontare tutto.
Ma proprio tutto.
Tassisti bulgari compresi, anche se nel mio racconto sono io a guidare il
taxi che li ha falciati.
Mentre parlo evito di guardarli. Ma quando ho finito di raccontare li fisso
negli occhi. Rabo Mishkin si massaggia il mento, pensoso. Lorenzo invece
ha la bocca spalancata, lo sguardo ebete.
«Stai scherzando?…» balbetta. «Ma in che razza di storia mi hai
ficcato?…»
«Non lo so. A questo punto, dopo quello che mi ha detto il signor
Mishkin…»
«Rabo, prego. Dammi del tu. Mi casa es tu casa.»
«… dopo quello che mi ha raccontato Rabo, non lo so neanch’io, in cosa
mi sono cacciato. Non ci capisco più niente.»
«Spesso il momento in cui ti sembra di essere più lontano dalla verità è
quello in cui hai davanti tutti i pezzi del puzzle, tutti bene in vista, solo che
non sai ancora come incastrarli» chiosa Mishkin.
Scuoto la testa. «Quello che mi ha… che mi hai detto, sul dottor
Chatterjee, mi ha tolto letteralmente la terra da sotto i piedi.»
«Posso capirti. Ma non per questo devi mollare. Devi partire da una
tessera del puzzle e cercare di incastrare le altre. Con il vantaggio che in un
caso come questo non possono essere tante come quelle di un puzzle.»
«Hai qualche suggerimento?»
Lorenzo alza la mano come a scuola. «Io sì. Il simbolo.»
«Che simbolo?» facciamo all’unisono sia io che Rabo.
«Il simbolo sui muri del grande magazzino abbandonato.»
«Frena, frena» faccio. «Di cosa stiamo parlando?»
«Hai presente il disegno con il triangolo e le tre facce da rettile? Quello
raffigurato sul medaglione ai piedi della statua di san Pantrizio?»
«San Pantrizio…» commenta Rabo, con la faccia disgustata. «Stupidi
contadini del cazzo… Invece di far correggere un errore hanno creato un
culto… Poi uno si meraviglia se abbiamo dovuto aspettare fino a Charlie
Marx per vedere la luce…»
«Vai avanti» faccio a Lorenzo.
«Sì. Certo. Il simbolo, dicevo. Ce n’era uno uguale anche dove avete
trovato il corpo dell’ultima ragazza scomparsa, di Amina. Almeno è così che
mi hai detto. Be’, ce n’è uno anche nel capannone accanto al posto dove
sono morti i tre tassisti.»
«E tu come lo sai?»
«Sono un giornalista, cazzo. Nonostante quello che pensi, Rabo. Uno
serio, non come questi di oggi, tutti flash Ansa e Wikipedia. Ho le mie fonti.
Humint, la chiamano in America. Human Intelligence. Ovviamente non mi
hanno permesso di entrare nell’edificio quando hanno fatto il sopralluogo,
ma ho un amico nella polizia. Così… Guarda qua» fa, togliendosi di tasca lo
smartphone e mostrandomi, dopo un po’ di tentativi a vuoto che rivelano
vecchie foto delle vacanze e ritratti sempre più immusoniti di sua moglie,
una serie di immagini del grande magazzino nella zona industriale
abbandonata. Mi chino per guardare. Le foto rappresentano le pareti
dell’edificio. Sono illuminate praticamente a giorno dal flash, e rivelano
disegni cupi e magnifici.
Uno in particolare attira la mia attenzione.
I tre volti alieni hanno un aspetto inquietante, nonostante sorridano. Sia
per le file di denti aguzzi, sia per la luce maligna nei loro occhi. Il dipinto è
fatto con colori industriali, forse con bombolette da graffitari.
«Interessante» commenta Rabo.
«Mi è venuta in mente perché tu mi hai parlato di qualcosa del genere.»
Annuisco. «C’era un disegno simile nella casa abbandonata in cui
abbiamo trovato il corpo di Amina. Sul muro della cantina in cui l’avevano
lasciata.»
Le foto sullo smartphone cambiano. Di colpo capisco cosa non va.
«Sono vecchi» esclamo.
«No. Le hanno fatte stamattina.»
«Non le foto. I dipinti. Guarda quelle macchie di umidità. Torna indietro
di due. Guarda: quello è muschio. I dipinti sono vecchi.»
Lorenzo Vidal scrolla le spalle. «E allora?»
«Da quant’è che sono abbandonati, quegli edifici?»
«Mah… Sono i vecchi impianti della Zetart… Prima che si trasferissero in
Veneto… Diciamo dalla fine degli anni Ottanta. Era una città nella città, la
Zetart… Una città parallela… Avevano supermercati e negozi, due
distributori di benzina, una banca, persino un cinema. Quando hanno
trasferito gli impianti, quell’area enorme è stata completamente
abbandonata. È diventata un guscio vuoto, una specie di città fantasma come
quelle del West, con i cespugli che rotolano nel vento…»
Rimugino dentro di me quell’informazione.
Poi mi viene in mente una cosa che avevo scordato.
Una tessera del puzzle finita sotto il tappeto.
Quello che Rabo ha detto sui danesi e gli svedesi della Zetart me l’ha fatto
tornare in mente.
«Qualche giorno fa…» sussurro. «Alle Zattere, in quello che lì fa da
ospedale psichiatrico. Ho conosciuto un uomo. È lì da sei anni. È arrivato
alle Zattere nudo, in stato confusionale, e da allora non si è più ripreso. Parla
e scrive in una lingua e con un alfabeto sconosciuti. Ha riempito le pareti
della sua stanza con disegni come quelli. Creature metà rettili e metà umane.
Lo chiamano Joachim, ma sono sicuro che lui mi ha detto il suo vero nome.
L’ha sussurrato mentre uscivo dalla cella. Sono sicuro che ha detto “Lars
Ingersen”.»
«È un nome svedese?» chiede Vidal.
Rabo Mishkin scuote la testa.
«No no. È un nome danese.»
34

Per arrivare alla stanza che Rabo cerca, dobbiamo attraversare tutto il suo
palazzo della memoria, salendo verso l’alto attraverso un sistema di scale e
corridoi che non ci fanno mai passare per le parti comuni dell’edificio. Un
visitatore del palazzo che non avesse le chiavi per entrare nei singoli
appartamenti non noterebbe nulla di strano, a parte il fatto che sulle targhette
del campanello ci sono sempre e soltanto le due iniziali R e M.
Mi dico che se questo palazzo avesse le pareti di vetro come un terrario e
potessimo guardarlo dall’alto ci vedremmo muoverci come nelle
circonvoluzioni di un organo interno. Un intestino.
O un cervello.
Questo edificio è la memoria di un essere umano.
Ammesso che Rabo Mishkin possa dirsi tale.
«Eccoci qui!» esclama, facendoci strada in una stanzetta piccola, quasi
uno sgabuzzino cieco.
Dentro c’è un’apparecchiatura che non riconosco. Lorenzo Vidal invece
va a toccarla, entusiasta. «Un lettore di microfiches! Ma è vecchissimo!
Dov’è che l’hai scovato? Roba del genere non si trova certo nei mercatini
dell’antiquariato!»
«Dio maledica quei mercatini del cazzo. Non ti fa male, vedere esposti su
una bancarella oggetti che hanno una storia, che hanno catalizzato i
sentimenti di persone che non ci sono più? Quando prendi in mano una
tazzina non pensi a chi l’ha usata, avendone riguardo, stando attento a non
rovinarla? E adesso è lì su un bancone, in mezzo a cianfrusaglie e cose
preziose, magari vicino a una catenina della prima comunione o a una
decorazione militare di una guerra di cui nessuno si ricorda più. Non ti fa
schifo, la nostra incapacità di seppellire gli oggetti assieme ai morti, perché
appartengano soltanto a loro?»
Si ferma, come se fosse stupito di quanto ha appena detto.
«Dove l’ho presa, mi hai chiesto? Ma è ovvio, l’ho rilevata dalla
biblioteca pubblica, quando hanno cambiato i loro sistemi di archiviazione.
Con l’occasione mi sono fatto dare anche la loro collezione di microfiches,
visto che ne avevano già digitalizzato il contenuto. Ci sono cose incredibili.
Come i numeri del Piccolo di Trieste della primavera del 1945. Dovresti
leggerli! Erano composti da pochissime pagine… la carta scarseggiava… Le
foto dei partigiani impiccati nel cortile interno del tribunale stavano accanto
alla recensione di un’operetta… Ricordo un numero in cui l’allenatore di una
squadra di calcio tedesca presentava il calendario del campionato 1946 del
Reich, con squadre di città che erano già state da tempo occupate dagli
Alleati o dai sovietici… Roba da fantascienza… da mondi paralleli…»
Rabo traffica con le bobine polverose, finché non trova quella che cerca.
La inserisce nel lettore, facendo scorrere le immagini, che avanzano a
scatti, ogni foto un concentrato di pagine. Finché non trova quella che cerca.
Regola la nitidezza, poi zooma.
«Eccoli» fa.
Il titolo in prima pagina illustra l’arrivo in città dei primi dodici ingegneri
danesi e svedesi venuti a lavorare al reparto Innovazione della Zetart.
1º ottobre 1979.
Il primo Drakar dai fiordi titola il quotidiano, equivocando sulla vicinanza
tra Svezia e Norvegia.
Mi avvicino al lettore di microfiches.
Nell’articolo sono nominati i primi «coloni vichinghi». Scorro i nomi
velocemente fino a fermarmi su un Ingersen. Solo che non si chiama Lars
ma Niels. E ovviamente non è il matto rinchiuso alle Zattere.
«Mmm» mugugna Rabo. «Escluso che tra i due Ingersen non ci sia un
legame di parentela… Ora bisogna solo scoprire quale. La loro storia. A
memoria non mi viene in mente nulla. Nessuna menzione di quel nome sulle
gazzette locali. Però posso fare degli approfondimenti. Datemi un po’ di
tempo.»
Si guarda il polso, alla ricerca di un orologio che non c’è. Poi afferra la
mia mano e consulta con una smorfia disgustata il mio simil-Casio.
«Adesso dovete andarvene. È tardi.»
«Ma quello che ci ha raccontato è una cosa folle» faccio.
Rabo scuote la testa.
Sorride.
«Se quelle degli erevoniani vi sembrano follie, cosa mi dite di un gruppo
che da anni si riunisce, qui in città, il martedì e il giovedì sera, per rovesciare
il governo usando l’effetto Mandela?»
Mi fissa, cogliendo la perplessità nel mio sguardo.
«Lo sapete, vero, cos’è l’effetto Mandela?»
«No.»
«Allora lasciate che vi faccia un paio di domande. Come e quando è morto
Nelson Mandela?»
«Qualche anno fa, dopo essersi dimesso da presidente del Sudafrica»
risponde.
«Non in carcere negli anni Novanta?»
«Ma no.»
«Bene. Adesso rispondi a un’altra domanda. Hai presente C-3PO?»
«Cosa?»
«Il robot spilungone di Star Wars. Nella versione italiana era chiamato Ci
Tre Pi O.»
«Ah, quello. Sì che l’ho presente.»
«Di che colore è?»
«Dorato.»
«Tutto dorato?»
«Sì.»
«E se ti dicessi che quel robot ha una gamba argentata?»
«Ti risponderei che non è così.»
Rabo afferra il cellulare dalla mano di Vidal, che stava digitando un
messaggio. Con le sue dita enormi compone alcune parole sulla tastiera
virtuale.
Poi volta il cellulare verso di me.
Sullo schermo appaiono diverse foto del famoso robot di Star Wars.
In tutte ha una gamba in parte argentata.
«Ma che razza di scherzo…» sussurro, ma Rabo mi fa segno di star zitto.
«Altra domanda. L’omino del Monopoli. Descrivilo.»
«Ma che cazzo…»
«Per favore.»
«Ha il cilindro. I baffi. Il monocolo.»
Rabo scoppia a ridere.
Batte sullo schermo del cellulare come se volesse distruggerlo. Lo
schermo si divide a mostrare sei foto del personaggio simbolo del Monopoli.
«Nessun monocolo» indica Rabo. «E potrei andare avanti a lungo. Le
bretelle di Mickey Mouse. Il logo della Volkswagen, o della Volvo. Li
ricordiamo in un modo, e quando andiamo a verificare se quanto ci dice la
nostra memoria corrisponde alla realtà, a volte scopriamo che non è così.
Che Topolino non ha le bretelle, e che l’omino del Monopoli non ha il
monocolo. L’effetto Mandela è questo. C’è chi dice che è prodotto dal
passaggio in un universo parallelo, a causa degli esperimenti al Cern di
Ginevra. Qualcuno dà la colpa a dei viaggiatori nel tempo che starebbero
cambiando la nostra storia, ma lasciandosi dietro qualche traccia del mondo
che hanno cambiato. Si chiama effetto Mandela perché un’americana, Fiona
Broome, un giorno chiese a un gruppo di amici se si ricordavano della morte
in carcere di Nelson Mandela. Perché lei se la ricordava. Niente
maxiconcerto di Wembley al grido di «Mandela Free!», niente liberazione,
niente presidenza del Sudafrica libero dall’apartheid. Il meme si diffuse…»
«Il che?…»
«Il meme. È un contenuto – una foto, una frase, un concetto – che diventa
virale. Attraverso la condivisione raggiunge così tante persone, che a loro
volta lo condividono, da imporsi come reale. L’effetto Mandela sta
conquistando sempre più spazio in rete. Così qui in città è nato un gruppo
che si riunisce due volte a settimana per discutere come se certe cose non
fossero mai avvenute.»
«Non capisco. Quali cose?»
«Essenzialmente la salita al potere della destra populista in Italia. Nelle
loro riunioni, gli appartenenti a questo gruppo hanno cominciato a parlare di
un nuovo leader della sinistra, e a mano a mano che ne discutevano
aggiungevano dettagli, riportavano discorsi che dicevano di aver sentito alla
radio, o letto sui giornali. Finché alla fine non sono riusciti a convincersi che
questo leader esiste davvero. Ora stanno pensando di esportare il meme al di
fuori del gruppo di discussione, per vedere se attecchisce sul web.»
«Ma non capisco a che scopo. Se questo leader non esiste…»
«Loro pensano che se abbastanza persone si convincono che esiste, lui
esisterà.»
«Bella manica di matti.»
«Già. E il più matto di tutti è il loro capo. Cioè io. Ora, se volete scusarmi,
devo andare, perché ho lezione di pilates.»
Lorenzo fa una smorfia. «Pilates? Tu? Vuoi scherzare?»
«Mai stato più serio. Via, via, adesso! Lasciatemi solo, che devo
prepararmi! Ti chiamo io quando so qualcosa! Raus! Via!»
E senza tanti riguardi ci caccia fuori dall’edificio.
Dal suo palazzo della memoria.
35

Sulla strada, Lorenzo e io ci guardiamo a lungo negli occhi.


Penso che il mio stupore sia evidente.
«Non fermarti alle prime impressioni» mi fa, alzando le mani davanti a sé.
«E alle seconde?…»
«Va bene, te lo concedo, Rabo può sembrare parecchio eccentrico, ma è
un genio. Vedrai che ci sarà utile.»
«Ci…?»
«Be’, ormai in questa cosa siamo soci, no? O complici, mi sa.»
«No.»
«Una specie.»
«No. Tu ne stai fuori, da questa storia.»
Mi allontano a piedi in direzione delle Zattere, prima di ricordarmi che
sono arrivato qui in auto. Torno indietro.
«Salta su» sospiro. «Ti do un passaggio.»
Il giornalista sale di malagrazia sulla Ford Kuga, allacciandosi la cintura
come se dovessimo partire per un viaggio interstellare verso una
destinazione non particolarmente gradita. Tipo Plutone.
«Lo so» fa, dopo un lungo silenzio. «So tutto. Ma a volte le apparenze
ingannano. Sai come si dice, la pietra scartata dai costruttori…»
«… era giusto che fosse scartata» concludo per lui.
«Ma no. No. È diventata testata d’angolo.»
«Rabo Mishkin non è, aperte virgolette, una testata d’angolo. È, aperte
virgolette, una grandissima testa di cazzo. Chiuse virgolette.»
Lorenzo rimane zitto per un po’. Poi fa: «Dovevi chiuderle due volte.»
«Cosa?»
«Le virgolette. Le hai aperte due volte e chiuse una sola. Dovevi…»
«Lorenzo…?»
«Sì?»
«Sta’ zitto. Per piacere.»
Do un’occhiata intorno, come faccio da quando sono uscito dal palazzo di
Rabo.
Non c’è traccia di Tommy il barbiere, o di qualsiasi altra persona io abbia
mai incontrato o intravisto alle Zattere. Questo, ovviamente, non vuol dire
nulla. Siamo in tanti, là dentro. Ma dovrò farmelo bastare.
«Perché continui a guardare nel retrovisore?» fa Vidal. «Mi dai il
nervoso.»
«Niente. Lascia stare.»
«Ehi! Attento! Per un pelo non la prendevi sotto, la vecchia.»
«Mi pare che non l’ho presa, no? Dove ti scarico?»
«Sotto il giornale andrà benissimo.»
«Guarda che lì è zona a traffico limitato.»
«Sì, ma le telecamere non funzionano. È tutta una questione di sicurezza
percepita.»
«Sindaco dei miei coglioni…»
«Già.»
Mi guarda con un interesse imbarazzante, facendomi sentire come una
merda finita in un piatto da portata.
«Cosa c’è?» faccio.
«Come sei finito alle Zattere? Voglio dire, uno che li avrebbe mangiati, i
neri… Uno più a destra di David Duke.»
«E chi sarebbe?»
«L’ex Gran Maestro del Ku Klux Klan.»
«Capito. Be’, vedi…»
«Cazzo! Stavi per tirarlo sotto!»
«Ma non l’ho preso. Rilassati. Comunque è solo un altro pensionato. Il
governo mi ringrazierebbe. Dovrebbero mettere un coprifuoco, per i vecchi.
Tipo che non possano uscire fino a una certa ora. O dopo una certa ora.»
«Non stai rispondendo alla mia domanda.»
Alzo le spalle. «Okay. Non è che ho scelto io di andare a vivere in quel
buco di culo del mondo. Mi hanno scaricato lì davanti, mezzo morto,
drogato, nel posto peggiore che uno come me, uno più a destra di, come hai
detto che si chiama, quello…?»
«David Duke.»
«… di David Duke potesse aspettarsi. E sai una cosa? Ho scoperto che
non li odio per niente, i neri, i gialli, gli sfigati di ogni razza e credo. Ho
scoperto che non sono i miei veri nemici. Che il mio nemico è un altro: è chi
specula sulle loro disgrazie, che sono anche le mie, perché anch’io sono stato
un poliziotto, sfruttato e sottopagato per andare a rompere il culo ad altri
sfruttati e sottopagati come me…»
«Se non avessi quell’anello nazista al dito mi avresti quasi commosso.»
«Chissene. Guarda che non ho bisogno della tua compassione.»
«Commozione, ho detto. Per la compassione mi sto ancora attrezzando.»
Restiamo in silenzio per un po’, attraversando questa città che sembra
uscita da un film sulla Grande Depressione, con i suoi casermoni fatiscenti
dalle finestre chiuse, con l’infilata di vetrine vuote e di locali abbandonati
che si fanno sempre più numerosi a mano a mano che ci avviciniamo al
centro.
«Cazzo è successo a questa città…» faccio.
«Un incantesimo maligno. E non c’è traccia del principe che possa
risvegliarla.»
«Né con un bacio né con una trombata. Di’, come fa a permettersi di avere
un condominio tutto per sé, il tuo amico?»
«Non è mio amico, tecnicamente. L’ho contattato per un articolo di colore,
sai, un principe russo in esilio in città, una cosa estiva… Lui si è lasciato
intervistare per sei ore, mi ha cucinato una grigliata mongola, e intanto mi ha
raccontato un sacco di cose strafighe sulla sua famiglia e sulla sua vita, robe
da non crederci, e poi mi fa: “Ovviamente di tutto questo lei non potrà
scrivere una riga. Non su quel giornalaccio di merda per cui lavora.”»
«Cazzo.»
«Già. Allora io gli faccio: “Ma dai, non vorrà mica scherzare.” Ma lui
rimane fermo. “Non si discute.”»
«Sì, ma torniamo alla mia domanda: come fa a permettersi tutto quello
spazio?»
«Scherzi? Rabo è padrone di mezza città. Cioè, ne erano padroni i suoi
genitori, che gliel’hanno lasciata in eredità. La sua è una famiglia della
nobiltà zarista. Il bisnonno era un generale dell’Armata Bianca. Uno degli
ultimi a lasciare la Russia, quando i bolscevichi hanno vinto. Si era fatto
precedere a Parigi da un treno di dodici vagoni carichi di tele antiche, mobili
e gioielli appartenuti alla famiglia imperiale, fra cui due uova di Fabergé
della regina madre.»
«Dalla Russia a Parigi il passaggio mi è chiaro. Ma da Parigi fino a
qui…?»
«L’amour. Toutjours l’amour. Nello specifico, l’amore di suo padre per
una contadinella di Marsure che lavorava a servizio presso la sua famiglia.
Avrebbe potuto scoparsela gratis et amore dei ma preferì impalmarla,
trasferendosi in Friuli. Da Marsure a qui, la strada è tutta discesa. Suo padre
era già abbastanza debosciato per non formalizzarsi per l’imbastardimento
del pedigree. “Un po’ di sangue contadino di tanto in tanto rafforza la linea
genetica” pare abbia detto a Rabo, ma probabilmente non conta, perché
quella sera era piuttosto ubriaco. Fatto sta che Rabo Mishkin è l’unico erede
di un impero economico su cui non tramonta mai il sole. Per quanto si dia da
fare vigorosamente nel tentativo, non riuscirà a dilapidare tutta la fortuna
familiare neanche se vivesse duecento anni. Non avendo eredi, comunque, è
un suo diritto.»
«Bella storia.»
«Vero? E pensa che non ho il permesso di scriverla.»
«Posso fidarmi di lui?»
«L’hai già fatto. Oh, cazzo…»
«Cosa c’è?»
«Mi sa che le hanno attivate, le telecamere della ztl.»
«Mi sa che dovrò bruciare l’auto. O te. Scendi, così mi togli l’imbarazzo
della scelta.»
Lorenzo scende, quasi inciampando nel suo Woolrich troppo lungo.
Come due squali, un uomo e una donna in divisa da civic guard si
avvicinano all’auto.
Il giornalista si allontana all’ambio, con un’ultima occhiata colpevole
nella mia direzione, come se si scusasse per avermi lasciato solo ad
affrontare i due discutibili custodi dell’ordine pubblico cittadino.
«Abbassi il finestrino» m’intima la donna.
Io faccio orecchie da mercante.
«Abbassi il finestrino!»
«Mi dispiace: non la sento.»
L’uomo alza la mano, mimando il gesto di chi gira una manovella.
Con lo sguardo più sprezzante che riesco a inventarmi premo l’indice sul
tasto. Il finestrino si abbassa lentamente.
«Patente e libretto» ordina la donna.
La fisso, duro. «Col cazzo.»
E quando la vedo spiazzata affondo il coltello. «Non avete il diritto di
chiedermi niente. Se insiste, chiamo la polizia. Quella vera» aggiungo, con
perfidia.
«Se non collabora la chiamo io la polizia!» sbraita l’uomo. Dal polso della
giacca a vento imitazione Moncler spunta un tatuaggio con le lettere ON.
Immagino sia l’inizio della parola “onore” e non di “onanismo” o
“onagro”.
«Lei è entrato in una zona a traffico limitato!»
«Guardi che io ci abito, in questa zona» mi invento lì per lì, tanto per
saggiare le facoltà intellettive dello sceriffo de noantri.
La mascella gli si abbassa di un tot, mentre due o tre neuroni arrugginiti
riprendono a scricchiolare dopo secoli d’inattività.
«Mostri il pass» fa la donna. I suoi capelli biondi sono di una tonalità che
starebbe bene – al limite – solo su una Barbie. Ha le cosce strizzate nei jeans
e braccia muscolose, la bocca dura di una lap dancer al termine della
carriera che guarda con invidia omicida le evoluzioni delle colleghe più
giovani. Normalmente, di fronte a donne così, provo un misto di
compassione e tenerezza. Ma non in questo caso. Non con questa stronza che
trae i suoi dubbi superpoteri da un regolamento comunale.
«Oh, ma è una mania, la tua. Non insistere. Non ti mostro proprio niente»
faccio, premendo il pulsante per alzare il finestrino.
Lei sgrana gli occhi. Fissa il suo compagno di squadra. «E tu non dici
niente? Non fai niente?»
«Che cazzo devo fare? Mica posso costringerlo!»
«E perché no?»
«Ma perché no. Non posso. Mi sa che c’ha ragione lui.»
Attorno all’auto si è radunata una piccola folla attenta. Perlopiù vecchi
senza un cantiere da ispezionare, ma anche una coppia di ragazzi di sinistra,
con orecchino al lobo sia per lui che per lei. Masticano chewing gum
guardando con attenzione la scena. Quattro anni di amministrazione fascista
non hanno spento in loro la speranza. Questo nell’ipotesi più ottimistica. Ma
forse stanno solo aspettando che succeda qualcosa. Prima che il governo
approvasse le nuove regole sulla privacy avrebbero già tirato fuori di tasca i
telefonini affamati di immagini sensazionali da postare su uno dei siti che
c’erano una volta, prima della Stretta sui Media del Popolo.
La civic guard femmina fa un mezzo giro su se stessa, come se stesse
prendendo la mira per un calcio rotante. Poi scarica la tensione stampando
sul muro l’impronta perfetta di una suola in vibram taglia 39. Dal modo in
cui soffoca una bestemmia realizzo che dev’essersi fatta anche male.
Scuoto la testa.
«Brava. Complimenti. Spettacolo da urlo» commento. «Ditemi dove vi
esibite la prossima volta, che vengo a farmi fare l’autografo.»
Ingrano la retromarcia. Poi ci ripenso. Ormai la mitica ztl è stata violata.
Come dicevano nel vecchio West, se ti impiccano per una vacca, tanto vale
rubare la mandria.
Così innesto la prima e infilo l’auto, con trionfale lentezza,
sull’acciottolato del corso, entrando maestosamente nella Città Proibita. Mi
godo i dieci costosissimi minuti di attraversamento solitario del salotto
buono della città, fra gli sguardi stupiti dei pochi passanti. Cerco di
immaginarmi la faccia che faranno Aarif e Nadia quando alle Zattere
arriverà una multa lunga due metri. Ammesso che quest’auto sia
riconducibile a un proprietario. Il fatto che al posto dell’autoradio ci sia un
foro mi fa pensare che il comune stavolta inculerà a vuoto.
Pensare alle Zattere mi fa montare la rabbia.
Accelero, immaginando i punti della patente che calano alla velocità delle
cifre su una pompa di benzina, fino ad arrivare a meno diecimila. Per quella
volta, però, sono già fuori dalla zona vietata, sparato fuori dal centro come
un tappo da una bottiglia di champagne.
Sto pensando alle cose – alle brutte cose – che ho intenzione di dire a
quello stronzo di Gunga Din non appena l’avrò a portata di mano, quando un
lampo grigio attraversa il mio campo visivo, e un’Audi A4 allroad quattro,
grigio lava metallizzato, si piazza di traverso davanti alla mia Kuga,
bloccandomi la strada. Un’auto gemella mi si piazza in coda. Due uomini
escono dall’auto davanti, due da quella dietro, e la loro manovra è così
perfetta da meritare gli applausi. Uno con le mani grandi come badili mi
estirpa dal sedile e si piazza al mio posto, altri due mi afferrano per le ascelle
e mi trascinano fino all’Audi di dietro.
Meno di mezzo minuto e il nostro minicorteo di tre auto punta sfrecciando
verso l’autostrada, con me seduto in mezzo a due slavi dalla faccia tagliata
con l’accetta, che profumano di Dior e di aglio.
Ho l’impressione che la giornata sarà ancora lunga.
36

Potrei fare, immagino, un sacco di domande interessanti.


Tipo: Dove mi state portando?
O: Che cazzo volete da me?
Ma qualcosa mi dice che è meglio restarmene zitto e godermi il silenzio
dei miei sequestratori, finché dura.
Registro con sollievo il fatto che oltrepassiamo senza fermarci le
discariche dell’Atec, e quelle abusive di Nogaredo. Abusive da così tanto
tempo che gli archeologi potrebbero trovarci l’Eternit delle palafitte.
Il gorilla alla mia destra profuma di una cosa misto lime dei Caraibi e
palude venusiana. Il suo sguardo granitico mostra una flessibilità pari a
quella delle piramidi. Il tizio di sinistra mi sembra decisamente l’anello
debole su cui sarà opportuno concentrare i miei sforzi.
«Ehi, ciao» faccio. «È tua quest’auto? Figa. Quanto fa con un litro?»
Già mentre le pronuncio le mie parole mi sembrano infelici.
Kutuzov Jr mi squadra come se mi avesse appena pestato per strada e non
sapesse come togliermi dai suoi scarponi.
In realtà porta delle scarpe Derby di ottima fattura, verosimilmente delle
Church’s, anche se tutto il resto non è all’altezza.
«Sta’ zitto, stronzo» sibila, svelando denti impeccabilmente ritoccati e un
accento russo da film di serie B.
«Oh, cazzo. Ecco chi siete. I due del Bronx. Solo che adesso siete in
quattro. Come vi siete riprodotti? Per partenogenesi?»
Si guardano negli occhi, forse spiazzati dalla parola.
Poi Kutuzov Jr sorride e mi allunga un cazzotto al mento che mi spedisce
nel mondo dei sogni.

Quando mi sveglio non sono più in auto.


Per quanto abbia le braccia intorpidite realizzo che sono a cavalcioni di
una sedia, legato a quella stessa medesima sedia, e incappucciato. So che è
un cappuccio perché mi copre sia gli occhi che la bocca.
Non mi sono svegliato di mia volontà, o perché abbia dormito abbastanza,
ma perché qualcuno mi ha buttato addosso dell’acqua fredda. Mi correggo:
gelata. Mi sono svegliato boccheggiando, come se mi avessero frustato.
Avrei urlato, se avessi potuto. La sensazione di annegare è stata
fortissima. La stoffa bagnata e gelida mi bloccava bocca e narici.
E poi la voce mi ha gelato ancora di più.
Mi ha gelato l’anima.
Una voce sicura, maschile.
La voce dell’uomo-che-non-deve-chiedere-mai della pubblicità.
La voce del medico che ti dice che hai solo sei mesi da vivere e una
parcella a cinque zeri da saldare subito, prima di uscire dal suo studio.
«Nessuno ti ha detto che non devi mettere il naso nelle cose più grandi di
te?»
Non rispondo. Aspetto, in silenzio.
Ma invece di altre parole mi arriva una nuova secchiata d’acqua gelida in
faccia.
«Lo sai cosa succede, ai bambini curiosi? Lo sai cosa succede a chi infila
il cazzo nel formicaio?»
Vorrei dirgli che mi sembrano due ipotesi molto diverse, ma una terza
secchiata mi mozza il respiro che neanche avevo ancora cominciato a fare.
«Non so nemmeno come ti chiami. Ti impicci dei miei affari, metti il naso
in cose che non ti riguardano, e io vorrei mandarti affanculo ma non so
nemmeno il tuo nome, non hai un cazzo di documento in tasca, nessuno ti
conosce, sbuchi dal nulla solo per rompermi i coglioni. Ti sembra corretto?
Ti sembra giusto?»
Stavolta il dolore non mi arriva sotto forma di acqua gelida in faccia, ma
di due dita che mi afferrano lo scroto e lo torcono con smisurata brutalità.
Urlo.
Ma non come quando mi afferrano le palle e le tirano. Quasi svengo dal
dolore ma purtroppo non svengo, e in un attimo realizzo che sono nudo e che
non sono morto, ma è solo questione di tempo, fra poco sarò morto e il
tempo prima che questa profezia si avveri non sarà facile da gestire.
Un calcio, e la sedia si trasforma in una giostra. Altri calci, ed è come
salire su un ottovolante di dolore.
Vorrei urlare basta, vorrei gridare di smetterla, ma non penso che
servirebbe. Il dolore persiste, e la cosa brutta è che a un dolore così non ti
puoi abituare, perché continuano a reinventarlo, da quegli artisti che sono,
professionisti del dolore, artisti del dolore di cui io sono la tela e la
tavolozza, perché usano le mie debolezze e le mie paure, come se mi
leggessero nel pensiero, e ogni nuova tortura è più vicina al nucleo delle mie
paure, a quello che cerco di tener loro nascosto e invece loro vedono proprio
perché cerco di nasconderlo.
E intanto la voce dell’uomo-che-non-deve-chiedere-mai non mi lascia in
pace, continua a parlare, e sembra faccia la radiocronaca di una partita
diversa da quella che io sto giocando, perché mentre mi stanno ammazzando
lui continua a chiedermi civilmente chi sono, e cosa voglio da lui, e perché
insisto a rompergli i coglioni. Io vorrei dirgli che non so nemmeno chi sia,
lui, e che tutto ciò che vorrei in questo momento è avere un telecomando per
fare il rewind della mia vita fino a prima che questo dolore cominciasse. Ma
non riesco a parlare, non mi lasciano parlare, e allora perché insistono a
farmi domande? Questo vorrei dirgli, nei momenti di lucidità tra uno
svenimento e l’altro, ma non mi lasciano parlare. Il buio è un continente, il
dolore un fiume che l’attraversa, il fiume in cui annego, senza più forze per
chiamare aiuto.

«Sei una persona molto ostinata» fa l’uomo, quando riprendo i sensi.


Solo che adesso lo vedo. Non è più solo una voce nel buio.
Mi guardo le braccia. Indosso una camicia. Non è mia. È di jeans, con
bottoni di finta madreperla, una cosa degli anni Settanta, che mi va anche
stretta, ma perlomeno è asciutta.
L’uomo seduto davanti a me ha l’aspetto perfettamente intonato alla voce.
Del resto tutto è perfetto, in lui, dalle scarpe fatte di sicuro a mano al
completo grigio antracite di Hugo Boss, fino all’Audemars Piguet che porta
al polso.
Come le so, queste cose? Come faccio a riconoscere questi articoli di
lusso?
Non ne ho idea.
È come quando ti reincarni, immagino, e ti porti dietro i ricordi delle tue
vite precedenti. La comodità, nel mio caso, è che non ho dovuto morire, per
vivere più vite.
La stanza in cui ci troviamo è del tutto inadeguata al dramma che
comincio a presentire: una stanza senza carattere, pareti spoglie e bisognose
di un’imbiancatura, due sedie contrapposte, una finestra chiusa da veneziane
sbilenche e polverose. Potremmo essere nello sgabuzzino di una stazione di
servizio, o nel disbrigo di un’agenzia immobiliare in cattive acque. Non c’è
nulla di bello, o di pulito, a cui ancorare lo sguardo, nulla di cui poter dire:
ecco, è questa l’ultima cosa che vedrò nella mia vita.
Guardo l’uomo in faccia.
La prima cosa che penso, guardandolo, è che l’ho già visto.
La seconda cosa è che, se si lascia vedere da me, dopo quello che mi
hanno fatto, non è una cosa buona.
Scuote la testa. «Io sono una persona civile. Un uomo rispettabile. Ma lei
mi costringe ad agire da… da…»
Allarga le braccia, come se non trovasse le parole per descrivere lo schifo
in cui si trova, in cui l’ho costretto.
«Non so chi è, lei» fa una voce distante, roca e spezzata.
Mi rendo conto con sgomento che è la mia.
«Non sa chi sono?»
L’uomo sembra sinceramente stupito.
«Non sa chi sono…» ripete, incredulo. E senza bisogno che ordini nulla,
due mani mi sollevano per le braccia dalla sedia e mi scaraventano a terra.
Ho braccia e gambe legate con fascette di plastica.
«Non so chi è» confermo, quando la canna della pistola mi preme sulla
tempia, lacerandomi la pelle.
«È uno dei pochi, in città. È proprio sicuro di non conoscermi?»
«No. Mi dispiace, ma è no. No. Il mio cervello è un casino. Mi scusi se in
qualche modo l’ho offesa, chiunque lei sia. Magari è offeso perché non la
conosco, ma non è colpa sua, è colpa mia e del cervello di merda che mi
ritrovo, mi scusi» piagnucolo.
L’uomo vestito Boss fa un cenno appena percepibile col mento.
Hugo Boss era lo stilista preferito di Hitler.
Pare abbia disegnato lui le divise delle SS.
La pistola si allontana dalla mia tempia. L’uomo avvicina il volto al mio.
Ha gli occhi di un grigio minaccioso. Il grigio di un’arma. Lo sguardo
penetrante, mi sembra si dica. Solo che nel suo caso non è una metafora. Ha
uno sguardo che davvero sembra in grado di bucarti come un raggio laser e
di arrivarti al profondo dell’anima. È uno sguardo a cui non puoi sottrarti.
Immagino che i poveri eretici spagnoli si siano sentiti così sotto gli occhi di
Torquemada.
«Sono Alemanno Ferrari.»
Una lampadina si accende in fondo alla caverna. Ma la spengo subito,
prima che se ne accorga. Almeno spero.
L’uomo infila due dita nella tasca interna della giacca. Mi mette davanti
agli occhi una foto.
«Elena è mia figlia» sussurra.
Cazzo.
«Di solito non mi interesso alle compagnie che frequenta. In fondo è
maggiorenne da un pezzo. Alla sua età io ero già sposato. Non m’interessa
con chi sta o con chi scopa, anche se rientra nei doveri di un padre tenere
d’occhio la prole. Non siamo come gli animali, che abbandonano i figli
appena nati.»
Potrei dirgli che non tutti gli animali si comportano così, e che per alcuni
figli umani sarebbe meglio che i padri lo facessero. Ma non mi sembra cosa
sana interrompere lo stream of consciousness di Alemanno Ferrari.
E certo che so chi sei, ora.
Questa città è praticamente tua.
Quando Pista Prima è uscita dall’era industriale per entrare in quella del
terziario avanzato, l’esausta dinastia degli Zandomeneghi, per uno scherzo
della storia, era contemporaneamente uscita di scena, cedendo scettro e
corona a re Alemanno Ferrari. Salito in Friuli dall’Emilia, il quarantenne
banchiere, immobiliarista e divo delle emittenti private, aveva scalato in
pochi anni, dal 2000 al 2008, le strutture di potere locale: i suoi vassalli ora
occupavano saldamente camera di commercio, provincia e comune. Per sé si
era tenuto il titolo di ceo della sua banca e di vicepresidente della locale
squadra di calcio di serie C.
Ma in pratica era il re della città.
«Ha sentito cosa le ho detto?»
«Sì.»
«Elena Ferrari è mia figlia.»
Lo dice come se enunciasse una legge fisica, o qualcosa che andrebbe
inciso su tavole di pietra.
«E quindi?…» fa.
Se fosse la domanda di un gioco a premi chiederei l’aiuto da casa.
Cosa dovrei rispondere? I miei neuroni giocano a tennis nella cattedrale
scoperchiata del mio cervello.
Per fortuna Ferrari mi salva facendomi saltare il turno.
Mi fissa con quei suoi occhi sorridenti e crudeli.
«So che ormai da qualche tempo Elena viene alle Zattere. E che a volte ci
dorme, la notte.»
Scuoto la testa. La abbasso. C’è un tempo per parlare e un tempo per
tacere. E uno per cagarsi addosso dalla paura, come in questo momento.
Perché se i due scagnozzi ai lati della mia sedia sono quelli che hanno ucciso
Krystyna, le mie probabilità di uscirne vivo sono le stesse di una scoreggia
in un uragano.
Lui fa uno sguardo dispiaciuto. Ma gli occhi restano freddi.
Allunga la sua mano verso la mia. Sfiora delicatamente l’anello nazista,
percorrendone il bordo come se saggiasse il filo di una lama.
Poi mi prende il mento fra l’indice e il pollice, mi solleva la testa perché
lo guardi.
«Anche lei vive alle Zattere. E conosce mia figlia. Non lo neghi. Non lo
neghi, per favore. Del resto è così bella. E così bianca. Impossibile non
vederla. Laggiù deve brillare come un diamante in un secchio di merda.»
Penso che negare non servirebbe a molto.
«La conosco. A volte abbiamo parlato.»
Ferrari ha un moto di stizza. Cerca di controllare l’ira, ma non è molto
bravo in questo genere di cose.
«Non è il posto per lei. Non è il posto per nessuna persona degna di questo
nome. Questa smania assurda di aiutare chi sta peggio di te… Eppure l’ha
detto anche Cristo, no?, che ci saranno sempre dei poveri. Non si può mica
svuotare un oceano con la paletta e il secchiello. Solo un bambino può
pensare una cosa del genere. Ma Elena è rimasta bambina…»
Guarda lontano, gli occhi fissi in un punto in cui non vorrei trovarmi.
«Saperla in mezzo a quella gente mi fa male. Sapere che si mescola con
loro, che vive con loro. Sono cose che fanno male a un padre. Eppure ho
cercato di darle tutto. E lei mi ha voltato le spalle. Si è messa con la feccia
della terra…»
A questo punto dovrei sentirmi offeso. Protestare. Ma non sono
esattamente nella posizione ottimale per farlo. Quindi continuo ad ascoltare
il soliloquio di Alemanno Ferrari, sapendo che più parla e più io resto vivo.
«Mi dicono che lei e mia figlia siete diventati amici.»
Annuisco. Molto lentamente ma annuisco.
«Non deve essere nervoso. Meglio lei che… Insomma…»
Credo di aver capito.
«Però mi fa star male saperla laggiù, in mezzo a quella gente. Mi fa star
male.»
«Quindi non devo più vederla…» sussurro.
Lui scuote la testa, con l’aria dispiaciuta.
«Non ha capito niente.»
Schiocca le dita. I due russi mi afferrano per le spalle.
«Non so come stanno le cose tra voi. Conoscendola, prima o poi Elena,
pur di ferirmi, mi dirà se voi due avete fatto qualcosa. Con lei è così. Prima o
poi lo farà. Quel giorno, se quello che Elena avrà da dirmi non mi piacerà,
lei può già considerarsi morto. Ma per il momento voglio darle la possibilità
di rendersi utile, e persino di guadagnarci qualcosa. Senta che cosa le
propongo. Lei continuerà a vederla. Ma mi riferirà tutto quello che fa. Non
direttamente a me. Vladimir…»
Il russo alla mia destra annuisce.
«… sarà il nostro trait d’union. Il nostro go between. Si dice così, no? Vi
incontrerete di tanto in tanto, quando glielo chiederà lui, e lei gli riferirà tutto
quello che mia figlia fa, in quel posto di merda dove fa volontariato.»
Alemanno Ferrari si alza. È più basso di quanto pensassi. Ora capisco
perché sulla copertina delle riviste finanziarie è sempre seduto. Ha anche le
spalle strette, un difetto che nemmeno il completo di sartoria riesce a
correggere.
«Cosa ci guadagna, si starà chiedendo. Be’, glielo spiego subito, con
parole che anche un subumano come lei può capire. Ci guadagna la vita.
D’ora in avanti ogni respiro che farà, ogni passo che muoverà, saranno la sua
ricompensa. La pago con la sua vita, pezzente. Preghi che non venga mai a
chiedergliela indietro, perché in quel caso mi restituirà anche gli interessi.»
M’infila nel taschino della camicia la foto di sua figlia. Mi scruta.
«Davvero non si ricorda di me?»
Scuoto la testa. Più volte, tanto per andare sul sicuro.
Lui sorride.
Poi, senza battere ciglio, ordina ai due russi che mi tengono per le spalle:
«Reggetelo.»
Senza alcun preavviso o segnale premonitore mi assesta un calcio in
pancia con le sue Church’s. Prima la destra, poi la sinistra.
Senza paura di rovinarle.
Quando ha finito di lustrarsi violentemente le scarpe sulla mia pancia
ordina ai russi di mollarmi, e io cado attraverso la botola che porta al centro
della Terra e oltre.
37

Mi scaricano per strada.


Letteralmente.
Aprono la portiera e con l’auto ancora in corsa, per quanto a non più di
dieci o venti chilometri all’ora, mi fanno rotolare fuori su un mucchio di
neve, che quando ci atterro sopra si sfalda in un enorme spruzzo d’acqua e
fango.
La primavera poteva attendere ancora qualche giorno, mi dico,
rialzandomi e perdendo immediatamente l’equilibrio, perché il ginocchio
sinistro mi cede, facendomi quasi cadere. Sotto lo strato di neve marcia
c’erano due sassi ciclopici. Uno per il ginocchio, l’altro riservato alla mia
gabbia toracica.
La mia vita comincia a somigliare un po’ troppo a una cazzo di Via
Crucis.
A poco a poco il mio passo ritrova un minimo di cadenza. Imparo ad
appoggiare il peso per ridurre il dolore alle parti basse, raddrizzo la schiena.
Il vapore comincia a uscirmi dalla bocca con un ritmo regolare.
Fa freddo.
La scorsa notte è stata limpida e la temperatura si è abbassata di
conseguenza. No pain, no gain. Maledetto l’inglese, che mi torna in mente
sempre più spesso. A tratti mi ritrovo a pensare nella lingua della mia
infanzia. Dev’essere per via di tutti gli schiaffi che ho preso in questi giorni.
Qualcosa ha fatto saltare la mia programmazione. Non è che dandomi botte
mi sistemate, come faceva nonno con la sua vecchia tivù a tubo catodico.
Dovrò dirglielo, la prossima volta. Quello di cui avrei bisogno è un bel reset,
un restart from zero. Magari uno che mi telefona e mi dice che posso avere
indietro il mio vecchio lavoro, ma non quello di fare da scorta a delle
stronze, no, quello da poliziotto vero: i giri di pattuglia, le perquisizioni, gli
interrogatori. Sarebbe un diversivo rispetto agli ultimi tempi in cui seduto su
una sedia a farmi fare domande con le minacce e le torture ci sono io. Un
diversivo piacevole, cazzo.
Ridacchio, rendendomi conto che sto pensando ad alta voce, come un
vecchio.
La strada si divide, a un certo punto: un ramo costeggia gli edifici
abbandonati, mentre l’altro sale leggermente verso l’alto, e sul momento non
capisco perché. Qui era tutta terra di palude, terra marcia, che nessun
contadino aveva avuto l’ardire di affrontare. Una collina non ha
semplicemente senso. Poi di colpo ricordo e capisco dove sto andando. Un
sorriso, mio malgrado, mi affiora sulle labbra.
La collina artificiale verso cui mi conduce la curva della strada è il posto
in cui dal 1946 al 1948 hanno portato le macerie lasciate dai bombardamenti
degli Alleati sulla città, che l’avevano praticamente rasa al suolo, tanto che il
meraviglioso centro medievale per cui va famosa è in realtà un falso storico,
riedificato a partire da disegni e planimetrie catastali. Alla fine della Seconda
guerra mondiale Pista Prima era stata ridotta a un paesaggio lunare, dove la
rovina più alta non raggiungeva il metro. Incredibilmente, solo la stazione
ferroviaria, che in teoria costituiva il bersaglio di quei ripetuti
bombardamenti, era rimasta in piedi, in mezzo a uno sfacelo di fango e
mattoni da cui si sollevavano, come mani imploranti, i tronconi dei binari.
Tutte quelle macerie prodotte dall’accanimento terapeutico dei
bombardieri angloamericani erano andate a formare la collina che sta sotto i
miei piedi. Alla fine degli anni Settanta era il punto panoramico della città, e
la vegetazione che l’aveva ricoperta lasciava libera la vista sulle luci di Pista
Prima e sulla campagna circostante, rendendo il posto un’attrazione
irresistibile per le coppiette che si appartavano in auto nel parcheggio sulla
sua sommità, nonché per i guardoni.
Quando avevo cominciato a esercitare l’arte del sesso sul sedile posteriore
di un’utilitaria, la collina si era già abbondantemente meritata il suo
appellativo bergmaniano.
Che anni erano stati, quelli.
La fatica di adattarmi a un sistema scolastico completamente diverso da
quello inglese, e di scoprire come se fossi l’uomo che cadde sulla terra cose
tipo il greco e il latino, non mi avevano impedito di prendermi la mia parte
di soddisfazioni sessuali, in una classe ginnasiale in cui tre quarti dei maschi
e la quasi totalità delle femmine erano ancora vergini. Be’, quantomeno
all’inizio dell’anno scolastico.
Con l’arrivo del sottoscritto, oltre che di tre ripetenti del collegio Rosmini,
la situazione cambiò, come se in un acquario di pesci rossi fossero stati
introdotti quattro lucci voraci.
Non dovrebbe mancare molto, al luogo che fu teatro di tante amorose
battaglie.
E infatti ecco: la strada si apre davanti a me, rivelando in tutta la sua
ampiezza il mitico Posto delle Fregole.
Solo che di mitico c’è rimasto poco. Gli alberi e le siepi che coronavano la
collinetta sono spariti. Uno strato d’asfalto è stato steso sulla sommità del
Posto, trasformandolo in un’improbabile piazzola d’atterraggio per gli ufo.
La guerra dell’attuale amministrazione cittadina contro gli alberi ha ormai
assunto il carattere di una folle crociata. I periodici avvisi che proclamano
questa o quell’operazione di «riqualificazione del verde urbano»
preannunciano in realtà vere e proprie operazioni militari, con un massiccio
dispiegamento di uomini e mezzi e con modalità che ricordano i
rastrellamenti di partigiani nella Rsi.
In una foto che ha fatto il giro dei social network anche fuori regione, il
sindaco è stato immortalato sul predellino di una jeep della protezione civile.
Indossa una giubba militare e un berretto da guardia forestale. Appeso al
collo ha un enorme binocolo, non giustificato da quell’azione, che
riguardava l’abbattimento di dodici platani del parco. L’espressione che
Adalberto Alberici ha sul magro volto è quella di chi non intende dar tregua
alla vegetazione ribelle.
In piedi in cima alla collina assimilo la devastazione.
Con la forza dei ricordi e dell’amore ricostruisco a mente quel luogo,
ricollocando dov’erano gli alberi – faggi e larici – e i cespugli dietro i quali
si appostavano i guardoni, tollerati in nome della comune causa del
godimento. Do un’occhiata intorno e ritrovo nomi, volti. Corpi. Solo qui
posso ritrovarli. Giù in città, o sparsi per il mondo, ci sono solo i loro resti,
frantumati e dispersi dagli anni. Solo qui sono ancora giovani e belli, come
in quella canzone del cazzo che i miei nuovi amici italiani strimpellavano
sulla chitarra durante le occupazioni studentesche.
Per un po’ c’era stato anche un furgoncino, quassù, che vendeva panini e
bibite. Non stava proprio in cima alla collina, ma mezza curva più in giù,
strategicamente discosto dal Posto delle Fregole ma agevole da raggiungere.
La vista da quassù, nella luce morente del crepuscolo, è triste come un
paesaggio di Černobyl’ dipinto da Bruegel. Un tempo, quando venivamo qui
per pomiciare o per fare l’amore, le luci della grande fabbrica ai piedi della
collina facevano pensare a Los Angeles. Era la nostra piccola America, era il
futuro. Oggi è tutto cambiato. Sembra che la tristezza sia stata spennellata
sul mondo da un artista lunatico. L’inverno che da vicino pareva sconfitto,
visto da qui sembra voler dire alla natura: attenta, potrei ancora organizzare
una controffensiva. La neve domina incontrastata le zone in ombra, e le
nuvole grigie si raccolgono intorno alla sella del monte Tondo come fumo
dalla bocca di un vulcano.
La strada prosegue dalla parte opposta del piazzale asfaltato, scendendo di
nuovo verso il complesso industriale abbandonato.
Da quassù il vecchio sito della Zetart assomiglia a un plastico malandato.
Apparentemente i grandiosi capannoni di metallo verniciato di bianco
sembrano intatti, ma è solo un’illusione. Se ti concentri, vedi che il bianco è
rigato da rivoli di ruggine, come lacrime sanguigne di un miracolo di
periferia. E a tratti la continuità dei tetti è spezzata da un lucernaio crollato,
da un muro scarnificato da una delle trombe d’aria che negli ultimi tempi
colpiscono la pianura con una regolarità da metronomo, tanto che ai
quotidiani basterebbe riciclare le notizie dell’anno prima cambiando quel
poco di parte variabile che c’è: nomi delle vittime, stima dei danni,
ammontare delle precipitazioni.
È impressionante, la vastità del sito industriale. La scena ha qualcosa di
biblico. I versi striduli degli uccelli accentuano il silenzio. Negli immensi
piazzali deserti, i macchinari abbandonati sono avvolti dai rampicanti,
mentre al posto di quelli rimossi sono cresciuti alberi da frutto: un melo, un
fico. Sono nati, immagino, dai semi sputati dai gruisti o dai camionisti. Una
volta Carla mi ha raccontato la storia delle “mele della ferrovia”. Pare che i
botanici, seguendo i binari della grande ferrovia continentale, quella che
attraversava il Nord America da un oceano all’altro, avessero trovato a
fianco delle traversine marcite alberi di mele di cui da tempo si era
dimenticato persino il nome. Erano cresciuti dai semi contenuti nei torsoli
che i viaggiatori buttavano dal finestrino. Mele che venivano dalla Polonia,
dall’Irlanda, persino dalla Cina.
Scendo la collina a passi cauti, attenti. Mi dico che non dovrei sentirmi
così. Che dovrei essere incazzato, o spaventato. Soprattutto spaventato,
perché il futuro è tutto meno che prevedibile o rassicurante. Invece, nella
discesa, bado solo a non scivolare, a metter giù bene il piede evitando le
insidie del ghiaccio. Così, quando la strada si ricongiunge in basso a quella
principale, resto stupito nel vedere i nastri gialli della polizia, i sigilli sulle
porte del grande magazzino. Nel ritrovarmi, insomma, sul luogo della morte
dei tre tassisti bulgari.
38

Mi ha sempre commosso, e al tempo stesso imbarazzato, il fatto che per


impedire l’accesso a una scena del crimine la Giustizia si affidi a metodi
antichi come i sigilli o la delimitazione con del semplice nastro di plastica.
Come se questo bastasse a scoraggiare eventuali intrusioni. Esiste ancora
una parte del mondo che crede all’autorità e ai suoi simboli.
Per questo provo un leggero senso di vergogna nel chinarmi per passare
sotto il nastro perimetrale. Ma dura giusto un attimo. Poi il poliziotto che è
in me drizza le antenne e comincia a lavorare.
Trascuro le tracce legate al delitto. Tanto so già com’è andata. Quello che
m’interessa non è fuori: è dentro.
La porta del grande magazzino non è chiusa a chiave. È solo sigillata con
lo scotch color carta da pacco. Lo strappo via, mentre una parte del mio
cervello resta in attesa dell’urlo di una sirena d’allarme. Ma naturalmente
non succede. Non c’è più niente da rubare, in questo posto.
In compenso spero ci sia qualcosa da scoprire.
Dentro è molto più buio rispetto a fuori, e non ho modo d’illuminare gli
angoli da cui la luce si è già ritirata. Ma quello che cerco è in alto sui muri.
Li esploro metro per metro, seguendone lentamente la lunghezza e studiando
i graffiti che li decorano. A modo suo, questo posto è un santuario. È la
Cappella Sistina dei creduloni, di chi è propenso a bersi qualunque cazzata
sia stata pubblicata in qualche libro, o giornale, o sul web. Non è facile
interpretare i disegni, se non conosci i miti e le idee di chi li ha fatti, ma
alcuni sono estremamente chiari. Ecco l’origine dell’uomo: il pianeta
coperto dai ghiacciai, i nostri antenati vestiti di pelli, chiusi in una caverna,
assediati dai pericoli di quelli che per loro erano i tempi moderni. Dove
finiremo di questo passo, signora mia, con queste tigri dai denti a sciabola
che ti entrano in casa, e tutti questi ominidi che arrivano a piedi dall’Africa.
Dovremmo far saltare in aria la diga di Gibilterra, e inondare di nuovo la
pianura del Mediterraneo come ai vecchi tempi, quando qui intorno era
tutto mare…
E poi, quando l’umanità è sull’orlo del suicidio per la disperazione, ecco
che in cielo appare una grande luce, e quella che sembra una cometa si rivela
un’astronave, bianca come i capannoni della Zetart, e dall’astronave
scendono tre creature dall’aspetto abbastanza inquietante, perché sono vestiti
con tute bianche attillate ma hanno facce e artigli da rettile. Scendono sulla
terra e la gente si inchina a adorarli, perché è evidente che questi stranieri
hanno un curriculum e delle conoscenze che i nostri primitivi antenati manco
si sognavano. È gente che ha studiato, questa. E infatti si mettono a
insegnare cose che noi umani non potremmo neanche immaginarci:
l’agricoltura, l’allevamento, la lavorazione dei metalli, l’astronomia. La
religione no. Quella i nostri antenati la imparano da soli, osservando i
maestri venuti dal cielo e modellando su di essi credenze e riti. Riti che
cominciano a farsi più interessanti, a mano a mano che il rapporto dei
benefattori alieni con l’umanità si fa più invasivo. I tre rettiloidi cominciano
ad assumere pose un po’ da stronzi. Siedono su una specie di trono, dall’aria
scomoda ma decisamente imponente. E cominciano a manifestare un
malsano interesse per le figlie più avvenenti degli umani, alle quali
dispensano tutto il loro sapere in materia di posizioni sessuali. Sembra che
gli umani questa cosa non la prendano troppo bene. A mano a mano che i
disegni si addentrano nel buio, si fanno più cupi anche per il loro contenuto.
Appaiono sempre più spesso scene di guerra. Guerre combattute da un lato
con archi e lance, dall’altro con raggi della morte e testate termonucleari. Il
risultato è abbastanza scontato. Sodoma e Gomorra vengono cancellate da
due funghi atomici, la diga diventa lo Stretto di Gibilterra e le città fiorenti
del bacino del Mediterraneo finiscono sotto decine di metri d’acqua salata.
Inutile dire che gli umani cominciano a incazzarsi.
Le altre scene sono troppo scure perché io riesca a decifrarle. Tornerò qui
domani, alle prime luci del giorno.
Volto le spalle alle scene di guerra. Sulla parete di fronte, di lato e sopra la
porta d’accesso al vecchio supermercato, è ritratta una sola cosa: una
versione pazzesca di un Giudizio Universale, con i tre alieni in trono davanti
ai quali sfila tutta l’umanità. E le lunghe dita da rettile indicano agli esseri
umani di andare a destra o a sinistra…
Decido che ne ho abbastanza, di questo posto. Se questi affreschi, o
graffiti (non sono un critico d’arte), insomma, se questa roba dipinta sulle
pareti riassume il credo degli erevoniani, non c’è dubbio che non avessero
tutte le fascine al coperto, e che i loro rituali fossero parecchio malsani. Il
sesso e la violenza fisica sembrano una costante. Sono riti di sottomissione
violenta, dalle connotazioni sadiche. Sesso e morte inscindibilmente legati.
Questo posto dà i brividi.
Mi muovo verso l’uscita camminando all’indietro, come se temessi di
voltare le spalle alla stanza. Davanti agli occhi ho l’immagine dei tre alieni
che scendono dalla loro astronave, bianca come i capannoni della Zetart.
Arrivato a pochi metri dalla porta mi decido finalmente a voltarmi, e
l’ultimo tratto lo faccio di corsa, con i battiti del mio cuore che sembrano i
passi veloci di inseguitori scesi dalle pareti buie.
39

Mi ci vogliono più di due ore per raggiungere le Zattere.


Fa buio, quando ci arrivo. Gli ultimi tre chilometri sono stati una
traversata nel nulla, con la visibilità ridotta a pochi metri e la testa piena di
pensieri. I disegni sulle pareti del supermercato in rovina mi hanno lasciato
una traccia nera nell’anima. Per tutta la strada fin qui ho resistito a fatica alla
tentazione di voltarmi, per vedere se qualche mostro mi inseguiva. Lo so, è
un pensiero infantile. Ma qualcuno ha giocato con il mio cervello, e rispetto
a me anche un bambino di tre anni ha una personalità più formata. Inoltre ho
i piedi bagnati e l’umore a terra. Mi tornano in mente i racconti dei vecchi
sulla ritirata di Russia.
Ho la sensazione di essermi infilato in una trappola senza vie d’uscita.
Svolto l’angolo e le Zattere sono davanti a me.
Le luci di Paris e London, alla fine della strada, sembrano quelle di un
transatlantico al largo.
Calde e piene di vita, nell’oceano della notte.
Sento il mio passo accelerare, attirato da tutta quella luce.
Poi mi costringo a fermarmi.
Resto immobile a guardare gli edifici. Dietro le finestre dorate di luce
vedo muoversi persone, intente nelle loro faccende quotidiane. Percepisco
un senso di benessere, di tranquillità.
È così che gli animali finiscono in trappola, mi sussurra una voce in testa.
Ma sono stanco, protesto. Ho bisogno di riposare. Di una doccia e di un
letto caldo. Di mangiare.
Ma la voce insiste: Chatterjee ti ha mentito. Aarif e la Caragiale ti hanno
ficcato in una trappola mortale. Se vai lì ti metti nei guai. Non puoi andare
lì.
Ma ci sono le mie medicine, laggiù. Come farò, senza le mie medicine?
Farai, sorride la voce. Farai. Va’ via di qui, adesso. Va’ via.
E i miei piedi, come se fossero dotati di una volontà propria, fanno
dietrofront e si mettono in marcia verso la città.
Scuoto la testa. Vorrei potermi ribellare, ma la voce è troppo forte, e
comincia a ritmare il mio passo, uno, due, tre, uno, due, tre, per alleviarmi la
fatica e impedirmi di pensare.
40

Non so che ore siano. Il mio Casio tarocco ha smesso di funzionare dopo
la terza volta che sono inciampato e caduto nella neve. Malgrado la scritta
WATERPROOF il vetro all’interno è umido, i led spenti. Avrei potuto chiedere
l’ora a un passante, ma la gente che ho incontrato per strada dalla periferia
della città a qui si scansava e fuggiva quando mi avvicinavo, come se fossi
uno zombi. In effetti, specchiandomi nella vetrina buia di un fiorista, ho
dovuto constatare che il mio aspetto non era dei migliori. Il mio volto pallido
riflesso dal vetro, sospeso fra mazzi di rose e composizioni floreali,
sembrava quello di un morto. O meglio, di un non-morto.
Quindi non so che ore siano quando mi presento alla porta dell’unica
persona a cui posso chiedere aiuto, a quest’ora di notte.
Suono il campanello due, tre volte.
Un ronzio elettrico.
Poi la sua voce.
«Chi è?»
Sussurro qualcosa nella griglia, grato che il veto ostinato di un condomino
abbia impedito la sua sostituzione con un videocitofono.
«Chi è?» ripete la voce, con un tono più stizzito.
«Carla, sono io. Aprimi.»
«Sergio?»
«Sì.»
«Sei pazzo? È l’una di notte. Vattene!»
«Carla…»
«Vattene o chiamo la polizia.»
«Sono ferito…» biascico come un ubriaco.
Silenzio.
Poi lo scatto dell’apriporta.
«Se è uno scherzo ti ammazzo.»

Che non sia uno scherzo lo vede appena mi apre. Impallidisce, facendo un
passo all’indietro.
Poi si riprende, e sgancia il fermo di sicurezza della porta blindata.
«Dio, come sei ridotto…»
Trascino i piedi doloranti sul parquet in tek che abbiamo scelto insieme,
nello studio dell’agenzia immobiliare, quando lo spazio in cui mi muovo era
solo un rendering al computer.
Sto per dire qualcosa, ma in quel momento il pavimento balza da terra
come una belva, saltandomi addosso senza preavviso.
Prima che batta la testa a terra, Carla arresta la mia caduta prendendomi
fra le braccia.
È sempre stata forte, mia moglie.
Mi sveglio sul parquet, ma non è un brutto risveglio, perché c’è il
riscaldamento a pavimento, e sotto la mia testa c’è un cuscino morbido. Ho
anche una coperta addosso per tenermi caldo. O per nascondermi.
La tiro verso di me, guardando in basso, nella luce tenue della lampada
alogena regolata al minimo.
Non ho più gli scarponi, e ai piedi qualcuno mi ha infilato dei calzettoni
rossi molto morbidi e caldi.
«Grazie» sussurro, non so bene a chi.
«Figurati» risponde Carla. Sposto lo sguardo verso il punto da cui viene la
voce. La mia ex moglie è rannicchiata su quella che era la mia poltrona
preferita. Indossa una vestaglia trapuntata, e ha in mano una tazza di
qualcosa di caldo e aromatico.
«Cioccolata» fa. «Immagino sia stato il suo profumo che ti ha svegliato.
Ne vuoi una tazza?»
«Sì.»
Le sue lunghe gambe emergono da sotto la vestaglia. Si posano a terra, in
modo che lei possa portare il suo corpo da indossatrice verso la cucina, dove
la sento tramestare un po’ prima che torni in soggiorno. Carla s’inginocchia
accanto a me, porgendomi l’elegante tazza yohen fumante dalla quale emana
il profumo più allettante che abbia mai sentito.
«Aspetta. Non ti muovere.»
Un altro cuscino viene infilato sotto la mia testa, in modo che possa
rialzarla abbastanza da bere comodamente.
«Piano che scotta.»
Obbedisco, come un bravo bambino.
Mi guardo intorno. «Sei sola?»
«Capita.»
«Con me non capitava.»
«È vero. Anche se a volte sarebbe stato meglio.»
Manda giù un sorso dalla sua tazza.
Io faccio lo stesso.
Il silenzio dura abbastanza perché i due o tre neuroni che mi sono rimasti
imbastiscano un «grazie».
«Smettila. Non sei abituato a ringraziare. Ti verrà il mal di testa.»
«Sono già a posto, con quello.»
«Che ti è successo? Un incidente d’auto?»
«Qualcosa del genere.»
«Avevi i piedi praticamente congelati. Ti sembra una buona idea
camminare nella neve con quegli scarponi cinesi?»
«No.»
«Ti sono venute anche le piaghe, ai piedi. Te le ho pulite e disinfettate, ma
dovresti farti vedere da un medico.»
«Lo farò.»
Mi guarda a lungo. Io ricambio. Un tempo, come due ragazzini,
giocavamo a guardarci negli occhi. Il primo che rideva, o che voltava la testa
per non ridere, aveva perso. La battevo sempre, perché mi avevano insegnato
un trucco. Non devi fissare gli occhi. Devi guardare la radice del naso.
All’altro sembra che tu lo fissi, ma non è così. Carla era sempre la prima a
distogliere lo sguardo.
Ma è diventata brava.
Sono stato io il primo a muovere la testa, a piegarla di lato.
«Fatti una doccia, Sergio. Io intanto ti preparo un pigiama pulito per la
notte.»
«Posso fermarmi?»
Sorride. «Se fossi venuto qui solo per parlare, ti avrei cacciato fuori a
calci. Anzi, non ti avrei nemmeno fatto entrare. Ma messo come sei mi
sembrerebbe una crudeltà buttarti fuori. Puoi dormire sul divano. Ma solo se
ti fai una doccia. Puzzi come una pattumiera.»
«Che genere di pattumiera? Per cosa?»
«Umido» sorride, alzandosi. «Riciclabile. Forse.»

Non mi ricordavo più che una doccia potesse essere così.


Bollente, lunga, profumata.
Il sapone che Carla ha messo sulla mensola interna al box doccia sa di
sandalo. Lascio che l’acqua scorra sulla mia pelle, scivolando sui testicoli
martoriati, sulle gambe tese a tratti da spasmi, sui piedi coperti di vesciche.
Crosticine di sangue secco cadono sul piatto del box, e quando mi asciugo,
un milione di anni più tardi, la morbida spugna del telo doccia si tinge di
macchioline rosso vivo.
«Mi dispiace» faccio, tornando in salotto.
Ma lei non mi ascolta.
Dorme, accoccolata sulla poltrona, la testa posata sull’enorme bracciolo
imbottito.
La sollevo tra le mie braccia. Lei apre gli occhi a metà, come una gatta
allarmata da un rumore. Ma li richiude subito.
La porto così, come non l’ho mai portata se non il giorno del nostro
matrimonio, quando abbiamo oltrepassato la soglia di questa casa.
La infilo fra le lenzuola. Le rimbocco le coperte. Quando ho finito la
guardo, nella luce che entra dal corridoio nella camera, uguale e al tempo
stesso diversa da quando era ancora la nostra camera. Ha un’aria così
pacifica, Carla, quando dorme. Chi l’ha vista discutere una causa, chi sa
quanto può essere dura e combattiva in un’aula di tribunale mentre interroga
un teste, stenterebbe a riconoscerla in questa donna dai capelli sciolti, il viso
struccato, il sorriso da bambina buona.
Sulla mensola dove stavano i miei libri di Stephen King, Elmore Leonard
e Don Winslow, ora ci sono alcuni netsuke giapponesi. Sul comodino che un
tempo era il mio non c’è traccia di libri, o di altri oggetti. Sgombro e pulito.
Vorrei potermi infilare nel letto, accanto a lei, e al mattino, svegliandomi,
scoprire che gli ultimi anni sono stati solo un incubo, e che tutto è rimasto
come prima: la mia casa, mia moglie, la mia vita.
Invece accarezzo un angolo della coperta ed esco dalla stanza per andare a
dormire sul divano. Quando spengo la luce della camera, il gesto è così
banale che mi spezza il cuore.
41

Mi sveglia l’aroma del caffè appena fatto.


Mi azzardo ad aprire leggermente un occhio e la tazza è lì, a pochi
centimetri dalla mia faccia, sul tavolino. Sul vassoio c’è anche un croissant,
accanto a un bicchiere di succo d’arancia.
Tutto impeccabilmente fresco, comme d’habitude.
Se ci fosse del latte nella tazza, sarebbe stato appena munto. Si
sentirebbero gli zoccoli della mucca lungo le scale, mentre viene ricondotta
al pascolo.
Carla è così. La perfezione fatta donna.
Se fosse un mobile, sarebbe un complicatissimo armadio dell’Ikea che si
monta da solo, come per magia, seguendo perfettamente le istruzioni, e
quando ha finito di montarsi lo guardi e ti dici che non è possibile averlo
avuto per il poco che l’hai pagato.
E cominci a chiederti dov’è la fregatura.
Alzo la testa.
Carla indossa la stessa vestaglia con cui l’ho messa a dormire, ma il capo
d’abbigliamento non ha più un aspetto morbido e domestico. Sembra una
divisa militare. A compiere la metamorfosi è sufficiente l’espressione della
mia ex moglie: attenta, severa. La stessa faccia da corte marziale all’alba che
faceva quando dovevamo “fare il punto” su qualcosa che avevo combinato la
notte prima.
«Tu e io dobbiamo parlare, Sergio.»
«Posso bere il caffè, prima?»
Muove la mano. Un gesto semplice, ma che fatto da lei sembra regale.
«Certo.»
Mi alzo a sedere, grato per la tregua. Una complessa sinfonia di dolori
risuona lungo la mia schiena, sullo xilofono rauco delle vertebre.
«Buono. Lively Up?»
«Buffalo Soldiers. Con appena appena una punta di Lively Up. Bravo che
te ne sei accorto.»
Sorseggio questo caffè leggero e profumato che sa di giorni felici e notti
sobrie. Il sapore del passato.
Le nostre vite sono fatte di cose che restano, di parole sentite che ti
rimangono attaccate alla lingua e diventano tue, di abitudini prese dagli altri
che col tempo arrivano a far parte di te.
Come questo caffè.
Ero stato io a farle conoscere il caffè organico prodotto da Rohan Marley,
il figlio del cantante rasta. Lo facevo arrivare da un grossista inglese, in
casse che quando le aprivi era come rivivere certi racconti della tua
giovinezza, L’isola del tesoro, Lord Jim… L’aroma che si sprigionava da
quelle casse valeva da solo il prezzo.
Ricordo una nostra discussione, sul caffè. Quando Carla mi aveva chiesto
come lo volevo, le avevo risposto: «Nero come la notte.»
«Ma come?» aveva risposto, inarcando il sopracciglio. «Tu che mi citi
Bakunin…?»
«In che senso?»
«È stato Bakunin a dire che il caffè, per essere buono, dev’essere nero
come la notte, dolce come l’amore e caldo come l’inferno.»
«Ah sì? E chi sarebbe, questo Bakunin?»
«Razza d’ignorante!»
Più tardi, a letto, mi aveva sussurrato, carezzandomi la spalla, che «nero
come la notte» era anche un verso di Milton.
«È dal Paradiso perduto» aveva aggiunto. «Almeno chi era John Milton
lo sai, vero?»
«Certo. Un centrocampista del Chelsea. No, scherzo. Ovviamente lo so.
L’ho studiato a scuola.»
«Era nero come la notte, fiero come dieci furie, terribile come l’inferno. E
scuoteva un dardo terribile» aveva sussurrato. «È la descrizione di Satana.
Ma trovo sia perfetta anche per te.»
«Sì. Soprattutto la cosa del dardo terribile. Ti va di scuotermelo ancora un
po’…?»
«Stupido…»

Mando giù l’ultimo sorso, sapendo che la nostra breve tregua sta per
finire.
Infatti.
«Chiedimi perché non ti ho lasciato fuori dalla porta, ieri notte» fa Carla.
Sospiro. «Perché non mi hai lasciato fuori dalla porta, ieri notte?»
«Per lo stesso motivo per cui quella volta ho accettato di difendere
Roberto Mora. E non fare quella faccia.»
«Non ne abbiamo già discusso abbastanza?»
«Non direi che ne abbiamo discusso. Abbiamo litigato. È diverso.»
«Riesco a incastrare quel pezzo di merda con un lavoro di mesi e tu, mia
moglie, proprio tu accetti di difenderlo. E lo fai anche assolvere.»
«Be’, avevate fatto un lavoro di merda con le prove. Il punto non è questo.
È perché ho accettato quel caso.»
«A parte i soldi. Se non ricordo male, credo che quello schizzo di Matisse
sulla parete abbia a che fare con la tua parcella.»
«Touché. Ma no, in realtà non l’ho fatto per i soldi.»
«E allora perché? Perché hai tenuto fuori dalla galera un pezzo di merda
del genere, che meritava di restarci per sempre e anche di più?»
«Mi ha incuriosito la sua faccia.»
«La sua faccia…»
«Sì. Era la faccia di uno che si porta dentro qualcosa di grande e terribile.»
«Addirittura. Roberto Mora.»
«Sì.»
Assaggio il succo d’arancia, più che altro per impedirmi di fare commenti
di cui poi mi pentirei.
Buono, ovviamente. Probabilmente il succo d’arancia più buono che puoi
gustare fuori dal paradiso terrestre. Amorevolmente spremuto dalle mani di
questa donna bellissima che mi tratta come un essere umano, o forse da
qualche apparecchio elettrico così elegante da far sembrare rozzo un iPhone.
«Perché sorridi?»
«Perché il succo è buono.»
«Non me la racconti giusta, Sergio.»
Scuoto la testa, pentendomene immediatamente.
«Okay. No, è che pensavo che mi stai trattando come un essere umano.»
«Non farmi più cattiva di come sono.»
«È che ultimamente, e per ultimamente intendo gli ultimi anni, sono stato
trattato come un cane.»
«Capisco. E immagino che secondo te questo non abbia niente a che fare
con il tuo comportamento.»
«Okay, certo. È ovvio. La vecchia legge del Gigo.»
«Di chi?»
«Di cosa. Gigo. Garbage In, Garbage Out. Antica saggezza dei
programmatori informatici. Se mi comporto da stronzo non posso aspettare
che gli altri si comportino diversamente con me.»
«Ah. Capito. Non vorrei sembrarti scorbutica, ma tra un’ora ho
un’udienza e devo ancora truccarmi. Mi piacerebbe quindi che arrivassimo
al punto. Mi hai chiesto perché non ti ho lasciato fuori dalla porta ieri notte.»
«Mi hai detto tu di chiedertelo.»
Carla sbuffa. «Cazzo. È impossibile parlare con te. Grazie per avermi
ricordato perché non ti sopportavo più. Comunque quello che volevo dire,
maledetta la tua mania di interrompermi e di cambiare argomento, è che ti ho
fatto entrare perché avevi l’espressione di uno che non ha un altro posto
dove andare. Sembravi un bambino abbandonato. Mi hai fatto…»
«Pietà?»
«Tenerezza. Mi hai fatto tenerezza. Hai il culo di avere quello sguardo che
disarma una donna. Quel modo di fare che stimola i peggiori istinti
femminili: il senso materno, la voglia di proteggere…»
«Senti…»
«Lasciami finire, Sergio. La tua espressione mi ha praticamente costretto
ad aprirti. E poi stamattina, svegliandomi nel mio letto e sapendo che non mi
ci ero infilata da sola, la prima cosa che ho pensato è stata…»
«… chi è l’angelo che mi ha portata qui…?»
«No. È stata: ho chiuso a chiave la porta? E poi mi sono resa conto di
colpo che tu eri qui in casa con me, e allora sono finita in una confusione
totale.»
Finisco il succo. Interromperla sarebbe una pessima mossa.
«Malgrado quello che puoi pensare, io non ti ho mai odiato. O
disprezzato. Le donne non sono così. Le donne amano. Voi maschi scopate,
forse a volte anche sì… be’, magari anche vi innamorate, ma è sempre e
comunque il vostro cazzo a guidarvi. Per noi donne è diverso.»
«Sì, figuriamoci.»
«Sì, figuriamoci. Proprio.»
Si alza in piedi. Si passa una mano tra i capelli lunghi e morbidi, un gesto
che fa quando è nervosa. Non posso fare a meno di notare che sono
assolutamente perfetti, come tutto del resto, in lei.
«Due cose devo chiedertele. Poi sta a te decidere se rispondermi o meno.
La prima è dove vivi adesso.»
«Questo è un po’ complicato da spiegare. Comunque vivo alle Zattere.»
«Tu?»
«Sì, io.»
«Alle Zattere.»
L’espressione sulla sua faccia è di incredulità assoluta.
«In mezzo alla gente che disprezzi? Cristo, è come se mi dicessi che vivi
all’inferno.»
«In realtà non fa così caldo.»
«Ma quel posto è l’opposto dei tuoi ideali, se posso chiamarli così. Delle
tue idee, insomma.»
«Lo so, ma non ho avuto scelta.»
«Mi sembra incredibile. Sergio Stokar alle Zattere. Come ci sei finito?
Pensavo ti fossi trasferito all’estero. Mi dicevo che forse eri tornato in
Inghilterra.»
«Non c’è niente per me, lassù. Come non c’è nemmeno qui, se è per
questo. Ma qui ci sono già e non ho spese di viaggio.»
«Non rinunci mai alle battute.»
«Mamma mi ha fatto così.»
Un’ombra di tristezza le passa davanti agli occhi.
«Mi è dispiaciuto, per lei, sai. Era una brava donna.»
«Non proprio, ma aveva le sue giornate buone. Alti e bassi, diciamo.»
«Credo che i suoi funerali siano stata l’ultima volta che ti ho visto.»
«Non so. Io non ricordo di averti vista.»
«Non mi meraviglia. Eri fatto come una zucca. Anche al di là dei tuoi
standard abituali. A proposito, chi era la donna con te?»
«Non ne ho idea. Com’era fatta?»
«Scura di pelle, piccolina. Sudamericana, penso.»
«Dolores. Allora non me la sono sognata.»
«Be’, Dio, se dovevi proprio sognare una donna potevi sognartela un po’
meglio.»
«No, be’, è una cosa più complicata.»
E prima che riesca a inseguire e placcare a terra la mia linguaccia le sto
già raccontando tutto, compresa la parte più dura.
Krystyna Nowak.
«Non posso dire che mi dispiaccia per lei. Ho letto la notizia sul giornale e
quello che ho pensato è stato: puttana, ti sta bene.»
«Tecnicamente lo era. Una puttana, voglio dire. Ma che le sia stato bene
quello che le è successo, no, questo non lo devi dire. Krystyna…»
«Ti spiace non nominarla? L’hai già fatto due volte. La terza non so se la
sopporterei. Non è che ho proprio metabolizzato tutto.»
«Lei non è stata l’unica vittima, Carla. Solo l’ultima. E ieri stava per
toccare a me.»
Le racconto delle ragazzine torturate e uccise, dei tre tassisti bulgari e dei
russi. Di quello che qualcuno sta combinando con la mia memoria.
Lei sgrana gli occhi, incredula. «Il dottor Chatterjee? Non riesco a
immaginare che parliamo della stessa persona. Quello che conosco io è un
uomo fantastico.»
«Direi che un’omonimia è da escludere.»
Carla riflette a lungo. Poi va a prendere il suo iPhone rosa. Compone un
numero senza quasi guardare la tastiera sullo schermo.
«Giorgio? Ciao. No, non sono ancora arrivata. Senti, dovresti farmi un
favore. Oggi avrei udienza fra…»
Controlla l’ora sull’orologio appeso alla parete, un oggetto assurdo, una
specie di scultura barocca con due angioletti paffuti che volano su una città
bombardata. Le ali dei due angeli segnano ore e minuti, ma lo capisco solo
dopo un po’.
«… fra un quarto d’ora, ma non mi sento per niente bene. Proprio mi sono
svegliata uno straccio. Tu fra un’ora hai la successione Candotti, non ti
dispiacerebbe mica comparire in udienza al mio posto per la Barbarigo? Sì,
ruolo civile, certo. Aula sette, con quell’apoteosi del niente di Trentin. Poi
alle dieci ho le cause vere, ma per allora mi sarò ripresa abbastanza da
venire. No, tranquillo. Allora conto su di te… Davvero? Saresti
incredibilmente carino. Chiedi un rinvio breve. D’accordo. Sei un angelo.
Besos.»
Chiude la conversazione.
«Besos?…»
Alza le spalle. «Un ragazzo giovane dello studio. Orgogliosamente gay,
prima che tu ti metta in testa idee strane.»
La guardo.
Mi guarda.
«Grazie» sussurro.
«Non c’è di che. Ora però mi racconti tutto.»
«Okay. Prima però mi dici come hai fatto a comprare quell’orrore?»
Segue il mio sguardo fino all’orologio.
Alza le spalle.
«Quello? L’ha comprato Seba. È un Langewiesche.»
«Lo facevo più tipo da Patek Philippe e Vacheron Constantin.»
«Sciocco. Langewiesche non è la marca dell’orologio. È lo scultore. Ha
esposto all’ultima Biennale.»
«Ah. Ho notato che il comodino… Be’, quello che non è il tuo, è piuttosto
spoglio.»
Mi sembra di cogliere un accenno di rossore sulle sue gote.
«Non sono affari tuoi, direi. Comunque Seba è un uomo molto impegnato,
soprattutto da quando è entrato in politica.»
«Lasciami indovinare: con Italia in marcia.»
«Ma sei scemo? Guarda che Seba è un progressista.»
«Ed è riuscito a farsi eleggere?»
«Per un pugno di voti ma sì. Con Sinistra sostenibile.»
«Alla sua età.»
«Smettila di essere ingiusto. È un uomo corretto e rispettoso.»
«Come tuo padre. O tua madre. No, lei non era un uomo, in effetti.
Comunque hai capito cosa voglio dire.»
«Ho paura di sì.»
«È troppo vecchio per te, Carla.»
«Fatti gli affari tuoi. E poi scusa, non era tuo compagno di classe?
Piuttosto, questa storia delle medicine che ti danno, e di questa strana
terapia… Vorrei che ne parlassimo con qualcuno che s’intende di queste
cose. Sei libero, oggi pomeriggio?»
Fingo di concentrarmi. «Aspetta che controllo la mia agenda. No, credo
proprio di non avere altri impegni.»
«Quando torno dal tribunale ti porto da una mia amica che fa la
psicoterapeuta.»
«Fantastico.»
«Tu però non ti muovi di qui.»
«Non posso. Devo continuare le indagini.»
Lei lancia un’altra occhiata disperata all’orologio. «Senti, Sergio, devi
smetterla con questa storia delle indagini. Non sei più un poliziotto. Non hai
nessuna autorità. E ti stai cacciando in un mare di guai.»
«Non hai idea di quanto» faccio. E le racconto del mio incontro
ravvicinato con Sua Maestà Alemanno Ferrari. Per la prima volta mia moglie
– la mia ex moglie – sembra avere una reazione normale. Impallidisce.
«Qualcosa mi dice che avrei fatto meglio a lasciarti fuori dalla mia porta,
ieri notte. Ma niente. Devo essere proprio stupida.»
Scuotendo la testa esce dal soggiorno. Quando ritorna, dieci minuti dopo,
è vestita in modo impeccabile. Il tailleur elegante, la borsa in cuoio di papà,
che non era avvocato ma medico, pazienza.
Si avvicina. I suoi tacchi alti scandiscono i secondi. Guardandola mi
sembra che il tempo accordi il suo battito sul metronomo di quei passi.
Poi sorride. Studia la mia brutta faccia, con le sue cicatrici e le sue rughe.
«Hai presente quello sceneggiato con Tom Hardy? Taboo?»
«No.»
«Be’, lui è un figo incredibile, anche quando ha la faccia sfigurata dai
pugni.»
La guardo senza capire.
«Certo che sei proprio stupido» sospira.
Scuote la testa. «In frigo trovi da mangiare. Non mettere il naso fuori di
qui. Torno appena posso. Ah, un’ultima cosa.»
«Dimmi.»
Esita. Si morde le labbra.
«Alemanno…»
«Sì?»
«Ho avuto una storia con lui, qualche tempo fa. Niente di serio. Sai, una
cosa tipo una botta e via. Be’, un po’ più di una. Sai com’è, l’ambiente è
piccolo, ci si rivede sempre tra le stesse persone, e una cosa tira l’altra.
Prima o poi, in certi giri…»
«Tutti finiscono a letto con tutti. Lo so.»
«Tu sei più esperto di me, in queste cose.»
«Immagino che questo cambi tutto.»
«E dai, non farmi l’offeso, Sergio. Siamo divorziati da quasi due anni.
Non c’era più il patto di esclusiva. Non che tu l’abbia mai rispettato.
Diciamo che mi hai reso le cose molto più facili.»
«E il tuo avvocato? Lui non è geloso?»
«Siamo tutti e due adulti e vaccinati.»
Carla cerca di superare l’imbarazzo usando un tono leggero. Ma non è mai
stata brava in questo genere di cose.
«Non so se sentirmi più offeso o più in pericolo.»
«Se vuoi sentirti offeso accomodati. Casomai ti do qualche dritta su come
ci si comporta in questi casi. Su come ricostruire il tuo orgoglio quando chi
ami te lo rade al suolo. Sei stato un’ottima scuola, per queste cose.»
«Non occorre che giri il coltello nella…»
«No. Aspetta. Zitto e ascolta, Sergio. Zitto un attimo. Sono quasi sicura
che mi amavi, a modo tuo, che poi per te è l’unico modo che conta. Sono
certa che nel disordine della tua vita hai visto in me la donna in grado di
curarti. Se non è stato così è colpa di entrambi: di te che ti sei fatto troppe
illusioni e di me che non sono stata in grado di darti quello che cercavi. Ma
finché siamo stati insieme, finché è durata, tu sei stato l’unico uomo per me.
Per te non è stato così. Quindi, se c’è qualcuno che deve sentirsi in colpa, al
limite sei tu. Ma visto che ho da tempo superato quella fase, cerca di farlo
anche tu. Cerca di rispettarmi, e di rispettare te stesso.»
«Amen.»
Mi guarda come se avesse davanti un animale domestico che ha fatto
qualcosa di sconveniente.
Tipo cagarle sul divano.
Alzo la mano, dicendo «pace».
Strappandole un sorriso.
«Nessun pericolo, con me. Se ti comporti bene, ovvio. Se vuoi, in frigo
c’è un sacco di cibo e della Stoli, e in cantina dovrei avere ancora le tue
bottiglie di whisky. Quelle che non mi hai lanciato addosso, ovviamente.»
«Ho chiuso, con quella roba» faccio, col tono di un bambino che pensa di
essere diventato grande.
«Buon per te. Voglio assolutamente farti vedere da quella mia amica. Non
mi piace questa storia delle pastiglie che prendevi senza sapere cos’erano.
Ma adesso devo proprio andare, scusami. Alle dieci ho una causa
importante. Ci vediamo…»
Un’occhiata al coso, al Langewiesche.
«… verso le quattro. Cinque al massimo. Tu non uscire finché non torno.»
Un bacio fraterno, un ticchettare di passi, la porta blindata che si chiude
alle sue spalle.
E poi il silenzio, e nel silenzio il tic tac di quell’orrendo orologio.
Avrei potuto dirle che vado a letto con la figlia di Alemanno Ferrari.
Come una specie di vendetta, di rivendicazione del mio orgoglio maschile
ferito. Ma penso che la cosa avrebbe portato a inutili complicazioni. Meglio
così. Ognuno si tenga la sua convinzione di essersi preso la propria rivincita
sull’altro, invece di pensare che qualcun altro ci ha inculati entrambi.
42

L’anno prima di tornare in Italia, un pomeriggio di quell’interminabile


estate, io e una mia amica eravamo rimasti soli a casa sua. Lei, atteggiandosi
a donna di mondo malgrado di anni ne avesse uno meno di me, mi aveva
fatto strada fino alla camera di sua madre, mostrandomi i cassetti della
biancheria intima e invitandomi sottovoce a toccarla. Stando ai miei ricordi,
ebbi un’erezione incredibile. Ma da giovani tutto ci sembra enorme. È solo
questione di prospettiva.
Toccare quella biancheria fu l’esperienza erotica più intensa di tutta la mia
vita. Anche se è solo e sempre una questione di prospettiva. Fatto sta che fu
un pomeriggio davvero ben speso, perché poi Sharon fece un défilé con
addosso l’intimo di sua madre, e alla fine della sfilata fu così cortese da
spompinarmi sul divano. Ma prima, perché lei si prestasse a farla, quella
gloriosa mungitura del mio cazzo, dovetti indossare anch’io le mutandine e il
reggiseno di mamma Maud e fare la passerella davanti a lei. La cosa mi
eccitò parecchio, tanto che ebbi paura di rovinare quei capi così delicati e
sensuali. Sharon rise vedendo la mia erezione premere contro la seta rosa.
Mi spinse sul divano e praticamente mi violentò con le sue labbra bollenti,
vostro onore.
Quando mamma Maud, che lavorava come commessa da Selfridges, tornò
a casa quella sera, per me fu molto imbarazzante bere il tè seduto composto
di fronte a lei, anche perché quella cazzara di Sharon non la smetteva di
ridacchiare ogni volta che mi guardava.
Non è la prima cosa che faccio, ma non ci vuole troppo tempo prima che
apra i cassetti del comò di Carla, per guardare la sua biancheria. A parte
pochi capi, non sono le stesse cose di quando stavamo insieme.
Non ci sono solo slip e reggiseni e canottiere, in quei cassetti. C’è, ad
esempio, la pistola che le avevo procurato dopo che un piccolo spacciatore
che aveva difeso d’ufficio non era rimasto soddisfatto delle sue prestazioni
in aula e l’aveva minacciata.
Io e un paio di colleghi ci eravamo presi privatamente cura di lui, in modo
che perdesse la voglia di dare fastidio alla gente perbene, ma la pistola era
rimasta. Non è che potevo riportarla indietro a chi me l’aveva venduta. Per
articoli del genere mica ti fanno un buono, se rendi la merce.
Ci sono anche delle lettere, scritte con una grafia che conosco.
Ne apro una. Leggo la seconda pagina.
Non devi avere paura di lui Dietro quella facciata di delinquente passato dall’altra
parte c’è il ragazzo che quando avevo la febbre si prendeva cura di me e se la
sarebbe presa anche della sua sorellina se lei viveva Ma Dio non ha voluto così
Abbi cura di lui perché è buono e ha il Senso della Giustizia anche se è una
Giustizia tutta sua E lo so che parla male della gente di colore e dice un sacco di
parolacce e beve Ma questa del bere non è una cosa che è colpa sua Gli viene da
suo padre Dio l’abbia in gloria gran musicista ma incapace di tenersi lontano dalla
bottiglia. E anche da altro, sennò mica moriva a trentacinque anni, bello come il
Sole e così sarà bello per sempre mentre io sento che le forze se ne vanno e tu
come stai invece Che non te l’ho neanche chiesto ma

Mamma leggeva libri importanti, diceva. Tipo Tolstoj o il Bhagavadgītā,


Hemingway e Dos Passos e Céline. Ma allora com’è che scriveva così di
merda?
Piego la lettera e l’infilo nella busta, che profuma di pulito come la
biancheria intima di Carla.
Chiudo il cassetto e scendo in cucina.
Passo la mattina esplorando come un estraneo i due piani
dell’appartamento che un tempo consideravo mio, anche se la maggior parte
dei soldi per l’acquisto erano venuti dalla famiglia di Carla, come aveva
fatto spesso e volentieri presente il suo legale e futuro compagno nelle
udienze per il divorzio.
L’avevamo comprato pensando a un posto adatto per farci crescere dei
figli.
Ora lo spazio che chiamavamo «camera dei bambini» è stato trasformato
in una piccola palestra, con tapis roulant e un sacco di attrezzi. Gli specchi
che rivestono le pareti da terra al soffitto la fanno sembrare una stanza
enorme. Salgo sul tappeto, lo metto in moto. Immagino la mia ex moglie che
aumenta a mano a mano la velocità, ma quello che ha davanti, l’orizzonte
che il suo corpo virtualmente cerca di raggiungere, è solo il suo riflesso.
Spengo l’attrezzo, e poi le luci della stanza.
L’appartamento non è cambiato molto, a parte alcuni brutti quadri
dall’aria molto costosa e una serie di litografie strepitose di Graham
Sutherland, che il padre di Carla aveva comprato alla fine degli anni Settanta
come investimento.
C’è uno stereo nuovo in soggiorno. Una cosa di una marca che non ho mai
sentito.
I miei vinili ovviamente non ci sono più, anche se è meno facile ricordare
dove li ho seminati, nei miei spostamenti lungo la via per l’inferno. Vedo che
Carla non ha rinunciato ai supporti fisici. Probabile che abbia un iPod, o
un’altra di quelle diavolerie, ma compra ancora dei cd, anche se di cantanti
che non conosco. Aisha Badru, Courtney Barnett, Melody’s Echo Chamber,
Billie Eilish.
Scendo di nuovo in cucina, infilo una cialda nella macchina per il caffè.
Cerco una tazza nello scolapiatti e mi blocco, come un cobra davanti a una
mangusta, trovando il mio mug dell’Overlook Hotel, capovolto e allineato
con altre tazze e tazzine.
L’avevo comprato su un sito inglese, lastexittonowhere.com, specializzato
in magliette e memorabilia di posti e locali immaginari, esistiti soltanto in
qualche film.
Tolgo il mug dal mobile e lo guardo. Devo averlo dimenticato qui, nella
confusione alcolica del trasloco forzato, quando Carla mi aveva dato un
ultimatum di ventiquattro ore per sgombrare le mie ultime masserizie.
È una tazza verde, con la scritta OVERLOOK HOTEL – SIDEWINDER, COLORADO
e il logo dell’albergo immaginato da Stephen King e Stanley Kubrick per
Shining.
Quello che mi manda in bestia è vedere che il mug è stato usato: la vernice
è usurata sul bordo, e c’è una piccola scheggiatura alla base della tazza.
Quella cosa apparentemente da nulla mi fa salire il sangue alla testa.
Lo dico a Carla quando rientra, le braccia indaffarate con quelli che mi
sembrano mille sacchetti della spesa, tutti con loghi di costosi negozi di
abbigliamento del centro, e ci sediamo a tavola.

«Cosa c’è?» mi fa, posando le bacchette sulla ciotola. «Perché mi tieni il


muso?»
«Ci tenevo, al mio mug. Era una cosa da collezione, non da usare.»
«Di cosa stai parlando?»
Seduti a gambe incrociate sul tappeto del salotto stiamo mangiando il cibo
giapponese portato da un rider.
Piccoli vassoi di prelibatezze e cartoni da cui si sprigionano aromi
stuzzicanti coprono il piano del tavolino in mezzo a noi, ma il malumore che
provo mi ha tolto l’appetito.
«Del mio mug.»
«Che mug?»
«Quello dell’Overlook. Era mio. Scommetto che adesso lo usa il tuo
amico.»
Carla scuote la testa. «Col cavolo che è tuo. Il tuo l’hai rotto durante una
delle ultime litigate che abbiamo fatto qui dentro. Non ci credi? Guarda il
mobile accanto a te. No, più su. La vedi, quella tacca? L’hai fatta tu con il
tuo mug. Mancandomi di mezzo metro. Sembra tanto, ma quando ti vedi
arrivare addosso una tazza colma di caffè le parole mancata di mezzo metro
ti fanno decisamente più impressione.»
«Mi dispiace.»
«Solo che mi ero affezionata al verde di quella tazza, e Seba me l’ha
ordinata. Non sul sito dove l’avevi comprata tu, perché erano finite. Non so
dove l’abbia trovata.»
«Forse all’Overlook Hotel. Quello vero. Ho sempre pensato che c’è
qualcosa di sinistro, in quell’uomo. E a proposito di cose che mancano, Otto
che fine ha fatto? Dov’è finito, il mio cane?»
Oktoberfest, il nostro bassotto, scelto tra una valanga pelosa di cuccioli
sequestrati a un contrabbandiere. Otto, la cosa più simile a un figlio che io e
Carla abbiamo mai avuto.
«Guarda che era una femmina. Seba l’ha portata nella sua casa in
campagna. Soffriva, in appartamento.»
«Ma era mia, cazzo. L’avevo trovata io nel bagagliaio di quell’auto. Era
mia.»
Carla scuote la testa. Alza gli occhi al cielo.
«Anch’io ero tua. E guarda quanto bene hai saputo tenermi. Adesso
mangia e sta’ zitto, per favore.»
«Io…»
«Zitto.»

Mangiamo in silenzio, per il tempo necessario a scaricare i nervi.


Almeno mi è tornato l’appetito.
«Buono» commento, infilandomi in bocca un nigiri.
«Il proprietario e i cuochi in realtà sono cinesi, ovvio. Però sono puliti e
onesti.»
«Pessimi clienti per te, allora.»
Lei scuote la testa, senza sorridere. «Li ho difesi quando il comune ha
sospeso per due mesi la loro licenza con un pretesto assurdo. Non solo gli ho
fatto vincere la causa, ma hanno avuto anche un bel risarcimento danni. Si
fottano, i fascisti.»
Fa un gesto generoso a indicare il cibo che ingombra il tavolino. «Tutto
questo è offerto dalla casa.»
«Ti fai pagare in natura.»
«No. Mi ha pagato la mia parcella senza discutere. “Questo” mi ha detto
“è per la soddisfazione di vedere la faccia del sindaco quando ha saputo la
sentenza.”»
L’ultima frase l’ha pronunciata con un accento cinese da barzelletta.
«Pace?» faccio, alzando la lattina di birra Sapporo.
«Con te? Al limite una tregua.»
Comunque alza la sua lattina e tocca la mia, accettando il brindisi.
Poi si fa seria. «Nelle pause tra un’udienza e l’altra ho fatto qualche
telefonata in giro. Ci sono notizie buone e notizie cattive. Quali vuoi sentire
per prime?»
«Fai tu.»
«Be’, per prima cosa la polizia, ovviamente, brancola nel buio, come nei
titoli di certi film degli anni Settanta. Dubito che riusciranno mai a collegarti
al caso dei tre tassisti bulgari.» Si ferma un attimo. «Detto così fa un po’
ridere, vero? I tre tassisti bulgari… Fa tanto giallo di Agatha Christie…»
Apre uno dei cartoni fumanti. Con mosse abili dei bastoncini pesca e
s’infila fra le labbra un boccone di soba marroni che profumano di gamberi e
zenzero.
«Alexa» dice. «Metti musica. Max Raabe, Live in Berlin.»
La musica sembra nascere da ogni lato della stanza, anche se non vedo
altoparlanti. Una bella differenza dai tempi del mio Thorens e
dell’amplificatore a valvole.
La voce di una cantante intona le strofe di una canzone che non conosco.
Se potessi avere
mille lire al mese
farei tante spese,
comprerei fra tante cose
le più belle che vuoi tu…

«Antonella Ruggiero. Mille lire al mese» fa Carla, vedendo che mi sto


domandando dove ho già sentito quella voce.
Le sonorità e lo stile sono quelli di un’orchestra degli anni Trenta.
«È la Palast Orchester di Max Raabe. Fanno anche canzoni di adesso, ma
trasformate come se fossero vecchie di ottant’anni. Tipo Sex Bomb.»
Non le faccio notare, come potrei, che anche Sex Bomb è storia antica.
«E la notizia cattiva?» chiedo.
«La notizia cattiva, o almeno quello che mi viene venduto come notizia da
una fonte solitamente bene informata, e non farmi domande da poliziotto, è
che qualcuno ce l’ha con te. E questo qualcuno è Lirosh Roshi, detto
l’Albanese. Sembra che ti detesti.»
«Il sentimento è ricambiato.»
«Sì, ma nel suo caso è più risentimento che sentimento. E il risentimento
dell’Albanese nuoce gravemente alla salute.»
Abbassa gli occhi.
«Alemanno mi ha messo in guardia contro di lui. Quando… be’, nel breve
periodo in cui ci siamo frequentati, insomma… lo incontravamo abbastanza
spesso. Al golf club, o in qualche locale. Mi pare di aver capito che devono
essere stati soci in qualche affare. Una volta eravamo in un resort esclusivo
in Slovenia, e lo sentiamo urlare, e poi arriva a nuoto dall’altro lato della
vasca termale, ridendo e chiamandoci per nome. Fra l’altro, nuota da far
schifo. A modo suo è anche un uomo divertente, se non sai chi è e cosa ha
fatto per raggiungere la sua posizione. Comunque per un po’ mi ha fatto
anche la corte, ma un giorno lui e Alemanno hanno litigato di brutto, io ero
in camera ma li sentivo discutere, e a un certo punto ho sentito Alemanno
gridare: “Lascia in pace mia figlia!”»
Mi passa il cartone dei soba.
Io scuoto la testa.
«Continua» faccio.
«Quando è venuto a letto, Alemanno mi ha detto di non dare confidenza
all’Albanese. “È un criminale e uno stronzo.” Proprio così mi ha detto. Un
criminale e uno stronzo. Come se la seconda cosa fosse più grave…
Comunque mi ha detto di tenerlo a distanza, e di avvertirlo se mi faceva
delle avance.»
«E te ne ha fatte?»
«Lirosh? Certo. Ovviamente a vuoto. Quell’uomo mi spaventa. E
dovrebbe spaventare anche te. C’è una luce malsana, nei suoi occhi.»
«E non solo in quelli. Perché dici che lui e Ferrari erano soci?»
«Mah. Chiamalo istinto. E poi da certe cose che dicevano, che coglievi
qui e là. Cose del passato. Sai, tutti e due sono arrivati da fuori. E tutti e due
sono arrivati al successo più o meno negli stessi anni. In una città così
piccola è impossibile che non siano entrati in affari, mentre facevano ognuno
la propria carriera.»
«Com’è arrivato al successo Ferrari lo sappiamo. Basta leggere i giornali.
E poi era già ricco di famiglia. Ma Lirosh come c’è arrivato?»
Carla mi guarda con un leggero stupore.
«Be’, ma dovresti saperlo. Visto che ci vivi, alle Zattere. L’Albanese si è
procurato i soldi in un sacco di modi: prostituzione, droga. Traffico d’armi.
Ma il suo primo affare apparentemente onesto è stato proprio l’acquisto del
terreno su cui sono state costruite le Zattere. Sai perché le chiamano così,
no?»
Alzo le spalle. «Perché ospitano tanti disperati? Come la zattera di un
naufragio?…»
«Sbagliato. La gente ha cominciato a chiamarle così perché quegli edifici
sono stati costruiti su una palude. E si sono subito visti i risultati. Un edificio
si era inclinato di qualche grado, e ha dovuto essere abbattuto e ricostruito,
solo per essere distrutto subito dopo da un incendio. Sotto doveva esserci
una sacca di gas, perché le cantine erano sature di metano. Da quell’incendio
il progetto è andato avanti per inerzia, ancora per qualche mese, con i
muratori e gli artigiani che continuavano a lavorare sui tre edifici rimasti ma
sempre più svogliatamente, finché i lavori non si sono interrotti del tutto e le
Zattere sono state abbandonate a se stesse. Fine della storia.»
Infilo i bastoncini negli spaghetti di grano, pescando un grosso gambero
delizioso.
«Lirosh avrebbe dovuto dichiarare fallimento, a quel punto» faccio.
«Com’è che invece si è salvato?»
«Bella domanda. Una delle voci che ho sentito, tanto tempo fa, è che i
soldi investiti nelle Zattere non fossero suoi. Che lui fosse entrato in
possesso del terreno, oltretutto in modo poco chiaro, e che qualcun altro
avesse investito nel progetto.»
«E queste voci dicevano anche di chi erano i soldi investiti?»
Carla mi fissa intensamente. I suoi occhi ora sono grigi, il colore di una
lama d’acciaio.
«Sì, lo dicevano. Niente di certo, ovviamente, ma lo dicevano.»
«E che cosa dicevano?»
«Che i soldi erano usciti dal fondo pensioni di una banca. E che per
nascondere l’ammanco il direttore generale di quella banca aveva dovuto
ricorrere al fiuto di Lirosh per gli affari. E che da allora quel direttore e
l’Albanese vivono in simbiosi. Uno fa i soldi e l’altro li ricicla.»
«Con i controlli che ci sono adesso, com’è possibile?»
«Sai quella cosa che mi dicevi, quando volevi fare pace dopo esserti
comportato da stronzo? Amor vincit omnia? Be’, non è vero un cazzo. Ma
una cosa che vincit omnia c’è, ed è il denaro. Un sacco di denaro. Se le
Zattere galleggiano su una palude, questa città galleggia su un fiume
sotterraneo di denaro, un fiume nero, che Alemanno Ferrari ripulisce e
candeggia, ma che resta pur sempre velenoso.»
«Ferrari…» ripeto.
«Perché? Non c’eri arrivato?»
«Immagino di sì. Solo che mi confonde…»
«Che cosa? Il fatto che io e lui siamo andati a letto assieme? Devo
ricordarti quello che mi dicevi sempre? “Noi non abbiamo convenzioni… Il
nostro è un matrimonio libero… chi se ne frega delle vecchie regole
borghesi…”»
Mi guarda in un modo che mi fa star male.
«Quante cazzate ci siamo detti, Sergio… E per cosa? Non ne valeva la
pena. Abbiamo cercato scuse che non erano necessarie. Perché non abbiamo
mai avuto un progetto, noi due. Ci illudevamo di averlo. Ci siamo mentiti,
ma per primi abbiamo ingannato noi stessi. Le Zattere sono state costruite su
una palude, ma un progetto c’era, hanno cercato di realizzarlo. Noi abbiamo
solo fatto finta d’averlo, un progetto in comune.»
Rimaniamo in silenzio a lungo.
Poi dico, schiarendomi la voce: «Parole dure.»
Carla alza le spalle. Una lacrima le scorre lungo la guancia.
«Non toccarmi!» sussurra, quando vede che accenno ad alzarmi.
Così restiamo seduti l’uno di fronte all’altra, in mezzo a noi un piccolo
campo di battaglia, i resti di un banchetto ridicolo e triste, ora che la
perfezione del cibo si è rovinata. Chissà se i caratteri giapponesi sui vassoi e
sulle bacchette vogliono dire davvero qualcosa. Avrei voglia di farmi una
doccia bollente, di restare per ore sotto un getto abrasivo, che mi pulisca
dalla feccia delle parole, dall’umiliazione della verità.
Dopo un po’ i suoi singhiozzi si fanno liberi, le lacrime scorrono senza più
nascondersi, e il divieto di toccarla mi ferisce, costringendomi ad alzarmi.
«Resta qui» sussurra.
«No.»
«Resta qui.»
Ma io ho raccolto dall’attaccapanni il mio impermeabile imbottito, con le
sue macchie di fango.
«Dove sono i miei scarponi?»
«Li ho buttati via. Erano marci.»
«Non posso uscire in pantofole.»
Lei tira su col naso. Alza le spalle.
«Le hai proprio buttate via, le mie cose?»
«Non tutte. In cantina c’è rimasto qualcosa.»
«Scarpe?…»
«Può darsi. La chiave è nel mazzo sulla porta.»
Esco sul pianerottolo. Il palazzo è assurdamente silenzioso. Vivendo alle
Zattere ti abitui al rumore di sottofondo. Dicono che un giorno le Cascate del
Niagara smisero di scorrere, e gli abitanti rimasero traumatizzati. Non
riuscivano a dormire, senza il frastuono dell’acqua. È come quando dormi in
città, a Venezia, e ti sembra strano perché manca il rumore del traffico. Sulle
scale di questo antico palazzo ristrutturato provo la stessa sensazione di
assenza di qualcosa.
Scendo i gradini fino allo scantinato. L’edificio risale al Seicento, e le
cantine hanno il soffitto a botte e colonne che, per quanto siano di mattoni e
non di marmo, danno comunque all’ambiente un’impronta antica.
Il corridoio è poco illuminato. Non mi era mai piaciuto scendere quaggiù
di notte per prendere una bottiglia. Avevo sempre l’impressione di essere
osservato, seguito. La stessa sensazione che provo adesso.
Cerco nel mazzo la chiave che apre la porta marcata da un 7 in ottone.
Apro. La cantina è grande, e quasi vuota. La rastrelliera portabottiglie non
contiene granché. Quelle migliori stanno di sopra, in un armadio di vetro a
temperatura controllata. Seba ha gusti diversi dai miei. Carla non beve.
Diceva che in famiglia bastavo io, come predatore, per tenere sotto controllo
la popolazione dei vini.
Questo lo diceva nei momenti buoni.
Trovo le scatole nell’angolo più in culo al mondo della cantina. Sono
marcate STRONZO.
Registro il fatto senza prendermela troppo.
Il primo scatolone contiene solo libri. Sanno di polvere e muffa, e
parecchi non li vorrei nemmeno se me li regalassero. Davvero leggevo
questa merda? Stento a crederlo. Trovo anche un paio di libri di Nelson
DeMille che non sapevo di aver lasciato qui. Non che la cosa abbia
importanza. In qualunque casa mi abbiano seguito, i libri che mi sono
portato via dalla mia vita precedente non ci sono più. Sono arrivato alle
Zattere metaforicamente nudo come un neonato.
Nella seconda scatola trovo dei vestiti assurdi, che quando li avevo
comprati mi sembravano il massimo della figheria, compreso un giubbino in
pelle chiara, morbidissimo, che oggi nemmeno un cosplayer dei Village
People metterebbe.
Sono più fortunato – inevitabilmente ma non necessariamente – con
l’ultimo scatolone, in cui trovo alcune paia di scarpe estive uscite da La
febbre del sabato sera e degli scarponi Timberland che avevo comprato alla
base di Aviano. Sono scarponi assurdi, in pelle trattata in modo che prenda
delle venature come di legno. Per quanto possa sembrare strano, sono
scarponi in pelle che imitano degli scarponi di legno.
Non penso che un articolo del genere sia mai stato venduto in Italia, o se è
per questo in nessun paese dove la gente abbia un minimo di buongusto.
Ma sono Timberland, e li ricordo come scarponi morbidi e affidabili. Così
trasloco dalle ciabatte color cammello di Seba nei miei vecchi scarponi, ed è
come se i miei piedi rinascessero, cantando cori di sollievo. Puzzano
leggermente di muffa, i miei vecchi scarponi, ma è bello averli ritrovati.
Così com’è bello scoprire, arrotolati in fondo alla scatola, dei calzettoni da
montagna, in tessuto tecnico. L’odore di muffa è anche più forte, ma chi se
ne frega.
Sto ridendo dentro di me come un matto, come se invece di roba che un
mendicante snobberebbe avessi trovato in cantina il Sacro Graal, quando una
voce da arpia mi grida all’orecchio: «Ἔροϛ δηὖτέ µ’ὀ λυσιµέληϛ δόνει
γλυκύπικρον ἀµάχανον ὄρπετον.»
«Cazzo!» urlo.
«Cazzo, non dire parolacce, coglione di merda rotto in culo. Mi hai
spaventato, lurida merda! Cosa ci fai qui in cantina? Sei tornato a vivere qui
con quella troia impestata di tua moglie?»
La Rondolini molla la presa della destra sul deambulatore e se la porta al
petto, come se dovesse impedire al cuore di prendere il volo.
«Hai fatto la versione? Traduci!»
Per un attimo considero con stupore quella pausa nel turpiloquio. Ma la
mia anziana professoressa aggiunge subito uno «stronzo!» che mi
tranquillizza. Tutto normale.
«Che versione?»
«Saffo! Quella meravigliosa lesbicona rotta in culo del cazzo. Devi
tradurre all’impronta, coglione. Ve l’ho letta ieri, ma tu e quella vacca
smerdata della Tabiani eravate troppo impegnati a slinguazzarvi in culo per
ascoltare una povera troia devastata come la sottoscritta. Facile prendersela
con una profuga istriana!»
Ora, a parte che la Rondolini l’Istria l’ha vista solo nell’estate del ’72,
commemorando l’evento balneare con una tonnellata di diapositive Ferrania,
l’ultima versione di greco che mi ha dato risale, a occhio e croce, a una
trentina di anni fa. E Maristella Tabiani è già nonna.
Mi sforzo di ricordare.
«Ha a che fare con l’amore…?»
«Saffo e l’amore sono una cazzo di coppia fissa. Su, sforzati, coglione!»
Ma neanche se mi frugassi in fondo al cervello con le tenaglie riuscirei a
trovare un senso alle parole uscite dalla bocca di questa vecchia pazza che ha
studiato alla Normale di Pisa e ha tradotto in italiano metà dei poeti greci
nati tra il 1930 e il 1950.
Sbuffa. Scuote la testa. Mi accorgo solo adesso che ha su i bigodini, e che
i suoi capelli bianchi e spenti sono attraversati da una striscia di tintura nera,
come il pelo di una puzzola.
«Eros che scioglie le membra mi scuote nuovamente: dolceamara
invincibile belva!» sputa fuori a mitraglia, accompagnando ogni sillaba con
un colpo della mano sul deambulatore.
Mi rendo conto che ha pronunciato una frase così lunga senza mai
imprecare. A meno che le parole sconce non fossero nel testo greco.
«Cosa ci fai nella merdosa cantina di quella troia di tua moglie?»
«Non è più mia moglie. Ora è la moglie di Sebastiano Corona. Cioè, non è
sua moglie ma è come se lo fosse. Roba sua, voglio dire.»
«Non dire puttanate, testa di cazzo coglione. Che cazzo dici? Sebastiano
rottoinculo Corona Dio se lo fotta non si vede più qui da quasi un anno.»
La fisso, senza credere a quello che ho appena sentito.
«Ne è sicura?»
Lei mi guarda con occhi che dietro le lenti sembrano quelli di una
tartaruga. O di E.T. Enormi e rettiliani.
«Certo che sono sicura, cazzo. Secondo te non sono sicura? Ti sembro una
cogliona rincoglionita? Non scopo da una vita ma occhi e orecchie sono
ancora buoni, sai? Seba non si scopa più tua moglie, e da un bel po’. Seba…
Lo chiamavano così già al liceo… Con i suoi boccoli biondi… Dove sono
adesso, i fottuti boccoli? Où sont les foutues boucles d’antan? Te lo dico io,
ragazzino: in culo sono, i suoi boccoli del cazzo.»
L’abbraccerei, la Rondolini. Se ne sta lì, le mani ben piantate sul
deambulatore, come un ammiraglio sul ponte di comando di una portaerei,
orgogliosa nel suo metro e cinquanta di statura.
La ringrazio, e lei mi fissa con un occhio da uccello curioso.
Sento il suo sguardo su di me, mentre risalgo i cinque scalini dalla
cantina. Arrivato lassù mi volto, perplesso.
«Come ha fatto a scendere con quel coso, professoressa?»
Lei mi scruta a lungo, poi solleva il deambulatore e sale le scale
portandoselo su di peso. Arrivata sul pianerottolo lo mette giù, guardandomi
con aria come di sfida.
«Devi studiare, Stokar. Stu-dia-re! Capito, coglione?»
Mi allunga una sberla, che schivo di misura.
«Lo farò, professoressa» faccio, allontanandomi.
«E salutami tua madre, povera stronza con la figa rotta. La fai ancora
soffrire?»
«No.»
«Bravo. Bene. E adesso fila via! Vaffanculo, vai! Vai!»

Quando torno nell’appartamento, lo considero con occhi diversi. Ripenso


al comodino vuoto, al fatto che nel bicchiere sulla mensola in bagno c’era un
solo spazzolino da denti.
«Tutto okay?» chiedo.
Carla è seduta per terra a gambe incrociate. I suoi occhi sono fissi sul
tavolino coperto da vassoi e cartoni di cibo giapponese. Sembra persa nei
suoi pensieri.
Mi schiarisco la voce per farle capire che sono di nuovo lì.
Lei alza lo sguardo, ma per un attimo leggo il suo smarrimento nel
vedermi.
«Hai trovato le scarpe? Ah, sì, vedo. Non ho mai capito perché le hai
comprate. Quelle e quell’altro paio, con le fibbie dorate.»
«Erano in strasconto.»
«Non è un buon motivo.»
«E poi di Timberland così non se ne vedevano, in giro.»
«Chiediti perché.»
«Comunque meglio di quella cinesata che avevo ai piedi quando sono
arrivato qui.»
«Ah sì. Almeno queste ti terranno i piedi in caldo. Senti, ho parlato del tuo
caso a Nicoletta Gangemi.»
«E chi è?»
«Quella mia amica che fa la psicoterapeuta. Si occupa di persone
traumatizzate da qualche episodio dell’infanzia. Bambini che sono stati
violentati…»
«Non è il mio caso.»
«… e che da adulti hanno dovuto fare i conti con la rimozione dei ricordi
dolorosi, una rimozione che il cervello fa per consentirci di vivere
nonostante il peso di certi episodi del passato. Vorrei che tu ci parlassi. E che
le portassi qualcuna delle pillole che ti danno, laggiù nel Terzo mondo. Dice
che vuole capire cosa sono.»
«Magari finita questa indagine.»
«Perché non prima?»
«Perché sono al verde.»
Carla scuote la testa. «Nicky lo farebbe gratis. In amicizia.»
«Ma se non la conosco…»
«In amicizia mia, stupido. E adesso va’ via, se non ti dispiace. Per favore.
Va’ via.»
«Volevo solo dirti grazie.»
«Sì, be’, non c’è di che. Hai un telefono su cui possa chiamarti?»
«Più o meno. Ti lascio un numero fisso. Se sono alle Zattere mi cercano e
poi ti richiamo io.»
«Capito. Come Sherlock Holmes.»
«Più o meno. Ho anch’io i miei Irregolari di Baker Street. Più o meno.
Cioè, ne ho uno solo.» La guardo dritta negli occhi. «Perché hai pianto?»
«Sono affari miei.»
«Ti ho vista piangere solo una volta, prima di oggi.»
«Be’, non sei aggiornato. Si dà il caso che pianga un sacco, invece.»
«Non con me. Solo quella volta. E abbiamo pianto insieme.»
Carla alza le spalle, tirando su col naso.
Ci sarebbero un sacco di cose da dire. O da fare. Ma nessuna mi sembra
giusta, per questo momento.
«Allora io vado» faccio.
«Vai. Sei ancora qui? Vai!»
Allora, per nascondere il mio imbarazzo, faccio una cosa stupida.
M’invento un saluto tipo militare, con due dita portate alla tesa di un
cappello immaginario. Tutto pur di distrarla dal dolore che con la mia
stupida lingua ho appena rievocato.
Il più grande dolore che abbiamo condiviso, la colpa più grande.
Quando mi tiro dietro la porta, il peso della blindata che si chiude mi fa
pensare al portone di un mausoleo.
È la tomba del nostro matrimonio, quella che chiudo, mi dico.
Con mia moglie sepolta dentro.
43

Collaudo gli scarponi in una pozzanghera di ghiaccio misto a fango.


Saranno anche vecchi e brutti, ma alle Zattere ho imparato che la praticità è
ciò che conta.
Il test va a buon fine, facendomi ritrovare per un attimo il sorriso. Ma poi
mi torna in mente l’enormità del casino in cui mi trovo, e quel sorriso
affonda.
Prima o poi dovrò tornarci, alle Zattere. E affrontare persone che pensavo
mi fossero amiche.
Come se non bastasse il mondo esterno di Lirosh e Ferrari. Prima delle
rivelazioni di Rabo avevo almeno un posto sicuro in cui tornare. Ora si è
rivelato altrettanto pericoloso.
Scoprire che il tuo medico ti mente sarebbe comunque uno shock,
immagino, anche se il dottore non ti avesse taroccato la centralina del
cervello.
E poi c’è Elena.
In qualche mondo parallelo immagino che potrei chiedere al dottor
Chatterjee di rilasciarmi un certificato d’impotenza, da mostrare al papino
incazzato in caso di bisogno. Ma qui, nel nostro universo reale, siamo
uomini di mondo: sappiamo che la penetrazione non è l’unica opzione
disponibile, per fare sesso. Basta che Elena apra bocca con il padre, magari
in un momento di rabbia, e la mia carriera di soprano potrebbe ricevere una
grossa spinta. Mi sento come un nero in un film d’azione americano. In quel
genere di film i neri, fateci caso, voi happy few che ancora guardate cose
come i film o la televisione, non arrivano mai vivi alla fine.
Raggiungo la fermata dell’autobus che ancora non ho deciso dove andare.
Non che abbia molte alternative. Per questo lascio passare due volte il 15, e
rimango sotto la pensilina a battere inutilmente i piedi per scaldarli. A
giudicare da come i passanti mi schivano devo essere uno spettacolo misero,
o inquietante. O entrambe le cose.
Salgo, e il caldo quasi mi commuove, così come le luci accese anche se
fuori non fa ancora buio. Attraversiamo la città come una nave che solca un
mare gelido, in bianco e nero. Seduto nel mio posto in fondo all’autobus mi
concedo di chiudere gli occhi e godermi il tepore che si irradia dalle fessure
appena sopra il pianale.
Per gli assediati di Leningrado, una patata bollita era un banchetto, un
pezzo di carbone un tesoro inestimabile. Da quando sono diventato povero, e
non c’è dubbio che lo sia, se bastano un paio di scarponi vecchi o il caldo di
un autobus a mettermi allegria, insomma, da quando sono precipitato in
questa povertà da barboni, ho imparato ad apprezzare cose di cui prima
neanche mi accorgevo: il cibo caldo nel piatto, un letto pulito, una doccia. Le
cose che mi sono lasciato alle spalle, le tante cose che avevo accumulato
nella mia vita e che ora chissà dove sono finite, non m’interessano più.
Erano solo un’illusione, una magia cattiva fatta per tenermi legato alla terra,
per nascondermi che so volare. I miei compagni di viaggio devono pensare
che non sono normale, se sorrido così, a occhi chiusi. Ma in questo momento
è come se ascoltassi della musica in cuffia, la musica più celestiale che abbia
mai sentito. È la musica delle sfere di cui parlavano nel Medioevo, la musica
dell’ordine divino, un’armonia che domina dalle cose più alte alle più basse,
e dà un senso alle nostre vite e all’universo.
Mi sento invaso da una grande forza, anche se non so da dove arrivi. Da
dove scenda, o salga. Mi riempie di una sensazione di potenza, mi sento
come se solo alzando il braccio potessi spazzare via i malvagi dalla terra,
dividere le acque, creare animali e piante. Mi sento immerso nel Flusso, e
non ho più corpo, sono pura consapevolezza.
«Biglietto.»
La voce ruvida mi riporta di colpo con i piedi per terra.
Il controllore ha una borsa nera a tracolla. Mi chiedo che strumenti di
tortura nasconda, lì dentro.
Ha il naso rosso, e puzza di Vicks VapoRub.
«Biglieddo» ripete.
Io faccio finta di frugarmi in tasca, con l’aria più seria e innocente. Dove
cazzo sarà finito, quello stupido biglietto, dice la mia mimica facciale.
«Se non ce l’ha sono settantacinque euro di multa» annuncia il
controllore, con voce gravida di minaccia.
Ha gli occhi lustri. Sembra uno di quei personaggi di The Walking Dead
che vengono morsi da uno zombi e rimangono infettati.
Allargo le braccia con aria di scuse.
«Ma lo lasci in pace!» fa una donna né giovane né vecchia, dall’altra parte
dell’autobus.
«Sì, lo lasci in pace» aggiunge un’altra donna, più anziana.
«Signore, non impicciatevi di cose che non vi riguardano. Favorisca un
documento, giovane.»
«La ringrazio per il giovane, ma…»
«Ma cazzo, ma non lo vedi com’è messo? E lascialo in pace!»
Non so se devo sentirmi contento, di questo supporto che implica un
giudizio pesantemente negativo sul mio aspetto.
Il controllore apre la borsa e tira fuori un blocchetto delle multe. È dai
tempi delle scuole superiori che questo strumento del male mi terrorizza. Per
questo forse ho alzato le mani troppo di scatto, colpendo allo stomaco il
controllore, ma proprio un niente, che però basta a farlo inciampare
all’indietro e quasi cadere, se le braccia di alcuni passeggeri non lo
sostenessero. Lui sta per ringraziare, ma poi si accorge che le robuste braccia
del ragazzo lo stanno tenendo fermo.
Il giovane che lo trattiene ha capelli e barba biondi, ispidi come gli aculei
di un riccio.
«Dai, vecjo, scampa» mi fa, in dialetto, tenendo bloccato il controllore.
Ma le porte sono chiuse.
«Te ne pentirai!» strilla il suo prigioniero.
Ma il ragazzo sorride. «Di cosa? Di averti impedito di cadere?»
«Lasciami! Lasciami immediatamente!»
Allungando il collo, dal mio sedile vedo che l’autista sta telefonando col
suo cellulare.
L’autobus, anche se lentamente, continua la sua corsa verso Vallegrande.
«Dighe de verzer» fa il ragazzone. Digli di aprire.
Il controllore sgrana gli occhi, anche perché il ragazzo ha aumentato la
pressione del braccio sulla sua trachea.
«Dighelo!»
«Apri!» strilla il controllore.
L’autista guarda nello specchietto retrovisore. Vede il suo collega che
agita le braccia, paonazzo in volto.
«Ferma ’sto casso de autobus e verzi ’sto casso de porta!» urla il ragazzo.
L’autista inchioda. Il bus si ferma in mezzo alla strada, attirandosi una
raffica di colpi di clacson.
«Verzi la porta!»
L’autista finalmente obbedisce. Il ragazzo, tenendo sempre il controllore
tra le braccia, va verso il posto di guida, protetto da una cabina semiaperta in
vetro.
«Dàme quel casso de cellulare.»
«Ma…»
«Dàmelo.»
L’autista obbedisce.
«E adesso dàme le cjavi.»
«Ma no…»
Il ragazzo biondo sbatte la faccia del controllore sulla porta della cabina di
guida. La guancia vista attraverso il vetro sembra una medusa.
L’autista apre la porta di quel tanto che basta a cacciar fuori le chiavi.
«Grazie. Adesso ve ne stè qua boni e contè fin a mile, okay?»
«Ma il telefono è mio, non è della ditta.»
Il ragazzo guarda con evidente disprezzo il vecchio smartphone marchiato
Vodafone.
«Xe ora che te lo cambi» fa, lasciandolo cadere per terra e poi pestandolo
sotto i suoi scarponi antinfortunistica.
Molla la presa sul controllore con la destra, in modo da frugargli in tasca.
«Noooo» rantola l’uomo. «Mia mamma è malata. Non mi portare via il
telefono…»
«Infatti no te lo porto via» fa il biondo, lanciandolo verso il fondo
dell’autobus, dove il cellulare si sfascia sotto gli occhi terrorizzati dei cinque
passeggeri, me compreso.
«Dai, muovi il culo» mi fa, passandomi davanti.
Non mi resta altro da fare che seguirlo. Usciamo dall’autobus e io non ho
idea di dove andare, di che quartiere sia questo.
«Dai, vecjo» mi incita lui, muovendosi nella neve marcia con l’agilità di
una pantera. Gli vado dietro, seguendolo in un vicolo che porta a un piccolo
cortile interno, su cui si affaccia l’officina di un gommista. Il ragazzo fa un
cenno di saluto al volo a un operaio in tuta che sta spostando con un muletto
meccanico un treno di gomme da camion. L’altro ricambia, indicandogli il
retro dell’officina, un capannone che funge da magazzino.
Entriamo, e l’odore di gomma e lubrificanti è dappertutto, in
quell’ambiente poco illuminato in fondo al quale vedo una luce simile a
quella che Geppetto scorgeva nella pancia della balena. Mi muovo in quella
direzione, cercando di tenere il passo del ragazzo che continua a ripetere una
parola che non capisco.
Apre una porta a vetri e usciamo nella luce, in una strada che è incredibile
trovare qui, a pochi passi dalla città, perché è un viottolo di terra battuta che
attraversa una piccola vigna lunga e stretta. Oltre quella ci sono altre case,
alcune diroccate, tutte con l’immancabile antenna parabolica sul terrazzo o
sul tetto. Mi aspetto di sbucare da un momento all’altro in un hutong di
Pechino, e l’impressione è stimolata dall’odore di fritto e di spezie che si
leva dalle padelle accanto a cui passiamo, invisibili alle donne scure e rugose
che abbassano automaticamente lo sguardo al nostro arrivo.
Ci muoviamo veloci in mezzo a un mondo di occhi sfuggenti e di gesti
che indicano una direzione, quella che seguiamo.
Alla fine, dopo l’ultimo caseggiato, giungiamo a un prato che dà sulla
campagna, una scacchiera di boschetti scuri e neve bianca, anche se sporca
come il vestito nuziale di Miss Havisham.
Il mio soccorritore finalmente si ferma, chinando il busto e posandosi le
mani sulle cosce. Prende fiato, respira. Io mi appoggio al muro e rantolo.
«Razza di coglione» mi fa il ragazzo. «Sai che gli autobus sono pieni di
controllori che cercano quelli come noi. Cazzo ti salta in testa di salire senza
biglietto?»
Vorrei chiedergli cosa intende per “quelli come noi”, ma lui si lascia
uscire dalla bocca una sequela di quelli che sembrano insulti in una lingua
che non conosco.
E poi mi allunga una sberla.
«Ehi!» protesto.
«Ringrazia il tuo cazzo di Dio che c’ero io, coglione. E ringrazia anche
Aarif.»
«Aarif?»
«È lui che ci ha detto di tenerti d’occhio. E non è che lo faccio volentieri,
sai? Dopo quello che hai fatto a Suleyman e a George.»
«A chi?»
«Ai due che dovevano farti da scorta. Ti ho fatto comodo adesso, eh,
stronzo? Ti ho fatto comodo?»
«Sì.»
«Ti sto dietro da ieri sera. Mi hai fatto fare la notte in bianco mentre ti
trombavi la tua amica.»
«Non è mia amica.»
«Ah ah. Vedi? Ho tirato a indovinare e ti ho beccato. Stronzo. Io al freddo
e tu a infilare la dracu’ in una figa calda.»
La parola rumena mi lascia stupito.
«Ma sei rumeno? Ma cazzo, ma allora perché prima parlavi in dialetto?»
«Certo che sei proprio stupido. Guardami. Sono difficile da descrivere?
No. Mia mamma mi ha fatto troppo bello. Tutti sanno come descrivermi.
Allora io mi sono ricordato di una cosa che mi hanno insegnato a casa, che la
gente che parla con la polizia, i testimoni, ricordano la cosa che più li ha
colpiti. E allora ho imparato a memoria un po’ di parole di questa lingua di
merda che parlate qui e così, quando qualcuno deve descrivermi alla polizia,
la prima cosa che dirà è che parlavo nel dialetto di qui.»
«Non fa una piega. Sicché ti ha mandato Aarif. Come ti chiami?»
«Sergiu.»
«Mi prendi per il culo? Anch’io mi chiamo Sergio.»
«Capirai che roba. Adesso dobbiamo tornare alle Zattere, ma non ho
voglia di farmela a piedi tutta quella strada. Chiamiamo un taxi.»
«Un taxi? E dove pensi di trovarlo, qui in mezzo al nulla?»
Sergiu sorride, tirando fuori dalla tasca un Samsung di ultima
generazione.
«Non sempre li distruggo, i cellulari che trovo. Ehi, bello il tuo anello.
Figo. È un anello nazi, vero?»
«Può darsi.»
«Me lo regali?»
«Non è per te. Non ti starebbe bene.»
«Fammelo almeno provare. Così vedo come mi sta.»
«No.»
«È perché sono rumeno? Guarda che la Romania era alleata dei nazi,
nell’ultima guerra.»
«Sì, ma eravate ancora più scarsi di noi italiani. I tedeschi vi
consideravano una palla al piede.»
Sergiu sorride. «Se muori mi prendo il tuo anello, d’accordo?»
Sospiro, scuotendo la testa. «Okay. D’accordo. E se invece muori prima
tu, cosa mi prendo io?»
Il ragazzo allarga le braccia. «Non ho niente, purtroppo. Però puoi portarti
via le mie palle. Se ce la fai a spostarle.»
«Sì, come no. Chiama ’sto taxi, va’. Però guarda che non ho soldi.»
«È uno dei nostri taxi. Niente soldi. A ciascuno secondo il suo bisogno, da
ciascuno secondo le sue capacità.»
«Oh, cazzo…»
«Il comunismo prima o poi torna buono, mi diceva sempre mio padre.
Non si deve buttare mai via niente. Prima o poi torna ad avere un valore.
Prendi i dischi, come li chiamate voi, i vinili. O le cassette.»
Sto per rispondergli, ma il ragazzo mi fa il gesto di star zitto e attacca una
frase lunghissima al cellulare in una lingua che non conosco ma non mi
sembra rumeno. Troppe poche vocali. Il tono è quello di chi non ammette
discussioni. Quando ha finito di parlare, sputa per terra.
«Ungheresi di merda. Con le loro arie di superiorità. Teste di cazzo.
Arriva tra cinque minuti.»
«Non sapevo che ci fossero ungheresi, da queste parti.»
«C’è di tutto. Basta chiedere. Anche il tuo anello, cosa credi, che ne ho
bisogno? Posso trovarne uno uguale senza problemi.»
«E allora perché vuoi il mio?»
«Perché il tuo ha storia. La tua. Io queste cose le sento.»
«Sì. Okay» sospiro. «Cinque minuti, hai detto?»
Sergiu mostra le dita aperte della mano. «Cinque.»
«E hai detto che puoi trovare tutto…»
«Più o meno. Se mi chiedi la grande balena bianca devi darmi qualche
giorno.»
«E per un caffè? Un caffè nero, forte?»
Un sorriso gli illumina la faccia. «Vieni con me. Quello si combina
facile.»

È una specie di caverna, quella in cui una vecchia grassa e sdentata mi


serve ridendo un caffè fatto nel pentolino, macinato così grossolanamente
che devo quasi mangiarlo, più che berlo. La tazzina è passabilmente pulita e
incredibilmente bella. Sopra c’è raffigurato un qualche personaggio
ottocentesco in divisa militare, in mezzo a due stemmi nobiliari che non
conosco.
Occhi di bambini, scurissimi e luccicanti, mi spiano curiosi da dietro
tende e porte.
La vecchia mi chiede qualcosa.
«Buono?» traduce Sergiu.
«Buono, sì.»
Lei fa un gesto con la mano, come a dire che non fa nulla, che il mio
gradimento non ha importanza nell’ordine cosmico delle cose.
«Sei stanco, compagno?»
«Abbastanza» gli rispondo. «Vorrei farmi un bel sonno. Un sonno lungo.»
«Lungo quanto?»
«Tre mesi?…»
«Quello non è sonno. Quella è morte. Aspetta e arriva. Pazienza. Il
numeretto l’hai già preso quando sei nato.»
Mando giù una sorsata di quell’intruglio scurissimo e troppo dolce che
però mi sta già scaldando le vene e l’anima.
Mi guardo intorno.
«Quanta gente ci vive, qui dentro?» gli chiedo.
«Dipende. Di solito dieci o dodici persone.»
«Senza acqua né elettricità.»
«Esatto.»
«E si scaldano con quello?» faccio, indicando il bidone tagliato in cui
bruciano pezzi di vecchi mobili.
«Quando hanno qualcosa da bruciare.»
«Cos’era, questo posto?»
«Ci lavorava un calzolaio. Prima che prendesse fuoco. Ora ci vivono
loro.»
«Perché non vengono alle Zattere?»
«Perché sono furbi. Sono zingari. Non si fidano di farsi trovare tutti riuniti
in un solo posto. E poi non gli piace questa città. Dicono che qui è stato
ucciso un loro re, vent’anni fa.»
«Ed è vero?»
Sergiu alza le spalle. «Chissà. È sparito, questo è sicuro. Dicono che era
riuscito a comprare molta terra, qui intorno. Indovina quale?»
«Come faccio a saperlo?»
«Proprio quella dove adesso stanno le Zattere. Dove stiamo noi.»
«Bell’affare…»
«Al tempo era un affare. Stanne sicuro, sennò Ramko non ci metteva
neanche la punta del naso per darci un’annusata. Erano anni che sembravano
matti, quelli lì.»
«Non dirlo a me che c’ero. Me li ricordo bene. Era come una febbre. La
febbre del nuovo millennio. Tutti che pensavano che sarebbero diventati
ricchi così, dal niente. Dicevi che avevi un’idea per far soldi con internet e
subito trovavi qualcuno che ti finanziava. Certa gente ha raccolto milioni,
miliardi anzi, perché l’euro ancora non c’era, e aveva solo un’idea e niente
altro. Solo parole. Fumo… La gente investiva sulle compagnie della new
economy, bastava che uno si quotasse in borsa e subito le azioni schizzavano
su fino al cielo. Poi quando andavi a vedere cos’era, quella società dove
avevi investito, scoprivi che non c’era niente, solo un’etichetta sul
campanello di un appartamento a Milano e dentro era tutto vuoto, neanche
una scrivania.»
Sergiu sorride, ammirato. La vecchia sorride a sua volta, annuendo.
Il ragazzo la guarda. Pronuncia una breve frase che la fa ridere come una
matta.
«Cosa le hai detto?»
«Una cosa buffa. Le ho detto che se da giovane vendeva opzioni sulla sua
passera c’era la fila per comprarle.» Poi si fa di nuovo serio. «Dovevano
costruirci un grande centro direzionale di una banca, su quel terreno. Una
cosa enorme. Otto palazzi, un po’ per la banca e un po’ per abitarci. Sai, i
capi, gli impiegati, le loro famiglie. I capi in alto, gli impiegati in basso.
Mense, negozi. Un grande parco. Un supermercato. Persino una chiesa. Poi
qualcosa non è andato bene e il progetto è stato, come si dice…»
«Ridimensionato?»
«Esatto. Quattro palazzi invece di otto. Molto meno belli del progetto di
prima. E la banca si è sfilata dall’affare. Sono bravi a ballare la sarba coi
soldi degli altri, i banchieri. Così chi vuoi che andava a vivere lì in mezzo al
niente, lontano chilometri dalla città? Uno dei quattro palazzi è bruciato, e i
tre rimasti sono diventati le Zattere. Fine della storia. Fino a oggi.»
«Perché fino a oggi?»
«Andiamo» fa Sergiu. Si volta verso la vecchia e le dice qualcosa. Poi le
accarezza una guancia.
Esce senza pronunciare più una parola finché non siamo lontani dal
tugurio.
«Perché oggi i tempi sono cambiati, gadjo. C’è un governo nuovo, e ci fa
paura. Le Zattere non sono più un investimento, così come sono, ma il
terreno vale. È vicino a quella fabbrica, la Zetart. Sarebbe perfetto per
un’espansione.»
«Stai scherzando? Un’espansione? La Zetart è morta anni fa.»
«Tu dici?»
«No. Lo dice il fatto che la fabbrica è in rovina.»
«Solo apparentemente. In realtà con uno o due milioni di euro potrebbe
riprendere la produzione anche subito.»
«Peccato che nessuno li comprerebbe, i suoi prodotti. La Zetart è un
marchio morto e sepolto.»
«Lo dici tu.»
Lo fisso negli occhi.
«Scusami, ma com’è che sai tante cose? Pensavo fossi una specie di body
guard.»
Sergiu sputa per terra. «Qui da voi ho fatto tanti mestieri. Il giardiniere,
l’operaio in un mobilificio. Ho piantato barbatelle sotto il sole per dieci ore
al giorno. Ho lavorato in nero in tanti cantieri. Ma sono un ingegnere
informatico. Solo che nel mio paese non c’era lavoro, e qui nemmeno. Ma le
cose le so. Nessuno vuole i prodotti Zetart, adesso. Ma domani faranno la
fila per comprarli. Sai cos’è il vintage? Il business è quello. Conosci la
Sorenson?»
«No.»
«È un marchio di elettrodomestici svedesi, anche se adesso producono
quasi tutto in Cina. La Sorenson ha rilevato il marchio Zetart. Vogliono
riaprire le vecchie linee di montaggio e produrre elettrodomestici anni
Settanta. Dentro saranno moderni, con tutti i progressi tecnologici degli
ultimi cinquant’anni, controllo a distanza, domotica e tutto, ma l’aspetto
esterno sarà vintage, rétro. E sai chi li comprerà? Milioni di cinesi, gli stessi
che producono gli apparecchi ultramoderni della Sorenson, fra gli altri. Il
passato ha un suo fascino, ha un richiamo potente, per le generazioni che
non l’hanno conosciuto.»
«Come fai a sapere queste cose?»
«Perché Aarif e la Caragiale hanno detto a tutti di tenere le orecchie dritte
e di riferire ogni cosa che riguarda la Zetart. Perché le Zattere rischiano di
diventare un buon affare. E se l’affare va in porto, la nostra comunità ha i
giorni contati. Succederà qualcosa, e l’ira del vostro governo si abbatterà su
di noi, magari sotto forma di pogrom nato dal basso. Magari per un fatto di
sangue…»
«Krystyna. E le altre ragazze.»
Sergiu scuote la testa. «No. A chi vuoi che importi se delle ragazzine
sporche e ignoranti vengono ammazzate? Anche se magari non sono né
sporche né ignoranti, in realtà. Ma a chi vuoi che importi, al di fuori delle
Zattere? No, io penso a qualcosa di clamoroso, un incidente di frontiera,
chiamiamolo così. Qualcosa che catalizzi l’odio della città nei nostri
confronti. Già si respira un clima che non mi piace. È come se l’aria si fosse
fatta secca, infiammabile. Basta una scintilla e scoppia un incendio.»
Una Bmw vecchia di almeno dieci anni si ferma accanto al marciapiede.
Un uomo magro e nervoso ci fa segno di salire.
«Lajos, la puntualità non è mai stata il tuo forte.»
«Vaffanculo, zingaro.»
Guardo Sergiu. «Sei uno zingaro?»
«Fra le altre cose.»
Saliamo in auto.
«Ti spiegherà tutto Nadia» fa, salutando la vecchia sulla soglia del
tugurio.
«Non l’hai pagata, per il caffè.»
«E perché dovevo pagarla? È mia madre.»
«Tua madre? Ma la tua battuta sul vendersi… Ma si parla così, a una
madre?»
Alza le spalle. «Le ho dato tanti di quei pensieri. Questo è niente. Muoviti,
Lajos. Sta per arrivare l’ora dei vampiri.»
«Vaffanculo, zingaro.»
44

Si respira un’aria diversa, a Paris.


Si percepisce una tensione palpabile.
Un’atmosfera da assedio.
Davanti all’ingresso sono parcheggiate strategicamente alcune grosse
auto, in modo che nessun veicolo estraneo possa arrivare a ridosso delle
grandi vetrate. E le guardie nell’atrio sono raddoppiate.
Uno che venisse da fuori non se ne renderebbe conto, perché non hanno
l’aspetto di soldati, o di poliziotti. Possono essere la donna seduta a un
tavolino del bar, con accanto a sé una vecchia carrozzina in cui è probabile
che non ci sia un bambino ma un’arma. O il vecchio, che di vecchio ha solo
l’aspetto, appoggiato a una colonna, la mano infilata nella tasca del
soprabito. E ci sono anche i due amici con cui ho discusso ieri sul piazzale.
Inevitabilmente mi si fanno incontro.
«Dov’è la Ford?» mi fa quello dall’aria più sveglia. Chissà se è George o
Suleyman.
«Che Ford?»
«La Kuga che ti sei preso. Sei andato via con quella e torni in taxi con
Lajos.»
«Ah, quella. Ho paura di averla persa. Comunque non aveva l’autoradio.
Rubatene un’altra.»
«Che stronzo…»
La voce potente di Chimeze li blocca.
«Lasciatelo stare.»
Mi si avvicina a lunghi passi. Mi afferra per la spalla destra, tirandomi via
praticamente di peso.
«Dove sei stato?»
«A lavorare sul caso.»
«Su quale caso? La tua amica puttana? O le nostre ragazze?»
«Tutt’e due.»
«Hai scoperto qualcosa di nuovo?»
«No.»
«E allora dove cazzo sei stato? In gita?»
«Se consideri una gita farmi rapire e torturare, allora sì, sono stato in
gita.»
«Rapire? E chi ti ha rapito?»
«Ti dice niente il nome Alemanno Ferrari?»
Lo sguardo di Chimeze si fa distaccato, quasi assente. Ma non può
impedire ai suoi occhi di dilatarsi per la sorpresa.
«Devi riferirci tutto. Subito.»
«No, cazzo. Prima mangio qualcosa e mi faccio una doccia. Sono a
pezzi.»
Chimeze riflette un attimo. Poi annuisce.
«Fra mezz’ora. Ultimo piano. La piscina.»
«Come mai? C’è una gara di nuoto?»
«Fra mezz’ora. In piscina» ripete il nero.
Poi mi volta le spalle e se ne va.

Albert non dice niente, quando entro nella sua stanza.


Anzi, non si volta nemmeno.
Mi sento tanto Bruce Willis nel Sesto senso.
«Bentornato» mi dico da solo, ad alta voce.
Lui non risponde. Continua a lavorare, con un piccolo saldatore, a un
circuito stampato che sembra uscito da una vecchia radio a transistor.
Mi chino dietro di lui, e a pochi centimetri dal suo orecchio urlo:
«Bentornato!»
Il saldatore vola in aria, il circuito per terra.
Albert fa un salto di mezzo metro sulla sedia. Gli auricolari wireless gli si
sfilano dalle orecchie.
«Ma sei pazzo?!» strilla.
«Volevo solo riattivarti i neuroni specchio.»
«Ficcateli dove dico io, i neuroni specchio!»
«Qualcuno si è alzato col piede sbagliato, stamattina…» commento,
bevendo a canna da una bottiglietta d’acqua già aperta.
«Ma vaffanculo! Cosa volevi? La banda e le majorette?»
«Le majorette non mi avrebbero fatto schifo.»
«Porco maschilista…» fa una voce da sotto un mucchio di coperte.
Elena tira fuori la testa spettinata da quel mucchio.
«Cosa ci fai qui?» le dico. «Ti avevo detto di tornare a casa.»
«Non voglio tornare a casa. Il mio posto è qui.»
«No che non lo è.»
«Qui sono al sicuro.»
Visualizzo mentalmente la mia barra della vita dopo questa cosa.
Voglio dire, se Alemanno Ferrari ci vedesse.
Vedo la barra diventare da verde gialla, e poi rossa, precipitando verso
fine corsa.
«No. Qui non sei al sicuro. E non lo sono io, se resti qui. Devi andartene.»
Lei si alza in piedi. Indossa una delle mie magliette della Caritas, una cosa
felpata con la scritta ADIDAS verde fluo.
«Cos’hai? Perché mi cacci via?»
Vorrei mordermi le labbra. Lo faccio, anche, ma non serve, perché alla
fine glielo dico. «Tuo padre mi ha fatto rapire. Mi ha minacciato.»
«Mio padre?»
«Sì. Il tuo paparino. Mi ha proposto…»
Mi volto.
«Albert, va’ a farti un giro.»
«Ma sto lavorando.»
«Cazzo, ti ho detto di andare a farti un giro!»
Il ragazzo si alza e se ne va, brontolando fra i denti. Poi torna indietro per
prendere il circuito e il saldatore.
«Me ne vado» bofonchia, a capo chino.
«Chiudi la porta.»
Anche se spettinata, la ragazza è bellissima. Vorrei essere suo padre, e al
tempo stesso non vorrei esserlo.
Ci guardiamo. I suoi occhi, da sotto il velo leggero dei capelli sciolti,
sembrano emettere luce. Deve averli presi dalla madre, perché in loro non
c’è un briciolo di crudeltà o di calcolo. Sono gli occhi di una creatura
semplicemente incapace di fare del male.
«Elena, se tu resti qui mi metti in pericolo. Tuo padre mi ha praticamente
assunto per sorvegliarti. Ha paura che tu scopi con qualcuno dalla pelle più
scura della tua.»
Lei scoppia a ridere. «Ha scelto proprio la persona giusta…»
«Sì. È un incarico abbastanza del cazzo, visto che in pratica dovrei
sorvegliarti perché tu non mi veda. E riferire tutto a Vladimir, una specie di
assassino russo uscito da un vecchio film di James Bond.»
«Di chi?»
«Lascia perdere. Storia antica.»
«Vlad non è un’aquila. Basta che gli dici che non mi scopo nessuno. Il
che, tecnicamente, è anche vero. In senso tecnico-tecnico, voglio dire. Senza
offesa, Sergio.»
«Grazie. Però non funziona così, purtroppo. Come credi che abbia saputo
che noi due ci frequentiamo? Dev’esserci qualcun altro che fa la spia per lui,
qui alle Zattere. Ed è solo questione di tempo prima che tuo padre scopra che
siamo qualcosa di più che semplici conoscenti.»
«Come possiamo fare, allora?»
«Non lo so!» urlo, pentendomene subito, perché lei sgrana gli occhi,
impaurita.
Ma poi un sorriso le accende di colpo il viso, come una lampadina.
«Lo so io» esclama, abbracciandomi. «Non dobbiamo fare proprio niente!
Continuiamo a vederci come sempre. Come se non fosse successo nulla.
Così non avranno sospetti! Se invece smettessimo di colpo di frequentarci,
punto uno, penserebbero che avevamo qualcosa da nascondere, e punto due,
mio padre si convincerebbe che non vuoi lavorare per lui. Due cose una più
pericolosa dell’altra, non credi?»
Non so.
Davvero non so.
Messa così, la logica sarebbe dalla sua. Solo che avendo visto la mia parte
di mondo e sapendo come vanno normalmente le cose, non riesco a
entusiasmarmi per i trionfi della logica: di solito si lasciano la loro parte di
caduti sul campo, dietro di sé. Seguire l’istinto non garantisce risultati
migliori ma, per usare la tecnica argomentativa di Elena, punto uno, è meno
faticoso, e punto due, mi viene spontaneo.
Solo che in questo momento il mio istinto è bloccato da questo abbraccio
come un’auto dalle ganasce. E per quanto mi sforzi di smuovere il cervello,
di rimetterlo sulla strada perché cerchi una via d’uscita dicendomi come
devo agire, l’unica cosa che il mio istinto sa fare è lasciarmi abbracciare dal
corpo nervoso e teso di Elena e farmelo stringere a mia volta, sempre più
forte, finché la sua tensione non si placa e le mie labbra si abbassano sulle
sue, cercandole, incontrandole, penetrandole.
E dopo le labbra sono le mie mani a cercarla.
E poi non so come siamo finiti a letto.
Quello che so è che la magia nera del dottor Chatterjee ha smesso di
funzionare.
45

E così eccomi qui, neanche mezz’ora dopo il coito più fantastico che io
ricordi, tanto glorioso che non ho osato cancellare con una doccia l’odore di
Elena.
Lo so.
Dovrei sentirmi una merda anche solo a pensarle, certe cose. Nandini
inorridirebbe.
Si fotta, Nandini.
Si fotta lei e si fotta Chatterjee.
Si fotta tutta quest’isola di comunione mistica fra i popoli e le specie.
Si fottano le Zattere e si fotta il fottuto Alemanno Ferrari.
L’unica creatura sulla faccia della terra che non mando a farsi fottere è
Elena Ferrari.
Anche perché l’ho appena fottuta.
Ed è stato grandioso, ed è stato cool, ed è stato in qualche modo epico e
unico.
Quante seghe mi sarò fatto, nella mia vita?
Quante scopate?
Eppure il semplice fatto di poter eiaculare in lei mi ha mandato in orbita.
Eiaculare.
Che termine orrendamente medico, e quindi tecnico, da usare per
descrivere quello che c’è stato tra noi, la comunione di sensi che ci ha portati
entrambi a venire all’unisono, entrambi sparati in cielo dalla squisita
dinamica e biologia dei nostri corpi che si accordavano a vicenda come
strumenti raffinati, per eseguire quell’unica, maestosa cavalcata verso il
piacere che neanche Wagner all’apice del suo talento avrebbe potuto
immaginare con la sontuosa semplicità con cui l’abbiamo eseguita, il suo
corpo morbido e sodo al tempo stesso che reagiva all’unisono col mio.
Ho pianto, al culmine del piacere.
Non mi era mai successo.
Ho pianto, e ho ripetuto il suo nome due, tre, infinite volte, ma forse dopo
la terza l’ho ripetuto solo dentro di me, mentre il mio corpo si svuotava in lei
a fiotti, una marea di piacere trattenuto troppo a lungo, troppo a lungo…
E poi tutto è finito, e in realtà niente è finito, perché Elena l’ho portata
dentro di me anche quando ci siamo lasciati con un bacio che era una
dichiarazione d’intenti, un patto, un bacio che sembrava non dovesse finire
mai, e forse in realtà è proprio così, forse non è davvero mai finito, perché
mentre camminavo verso il giudizio che mi attendeva non avevo paura, non
temevo alcun male, perché lei era ancora in me, lei era parte di me, così che
abbiamo camminato insieme verso l’ultimo piano, e insieme siamo entrati
nella piscina di Paris.
46

Le altissime volte sono invisibili, perché sono le sei di sera e non c’è
illuminazione se non quella che sale dal basso, dal fondo dell’enorme
piscina.
Chi ha progettato le Zattere doveva avere una vena di follia.
E ancor di più quelli che avevano approvato il progetto, per non dire degli
altri che poi l’avevano finanziato.
Penso si fossero innamorati della bellezza di quell’idea: un centro
direzionale che si prendeva cura dell’uomo (inteso come essere umano,
senza distinzione di razza o di genere) in ogni fase della sua vita, dalla culla
alla tomba. Vivevi e lavoravi e facevi la spesa e andavi in piscina, o al
cinema, senza mettere piede fuori dalle mura del tuo palazzo. Un Medioevo
tecnologico, alimentato dalla fobia dei ricchi per i loro presunti simili.
La piscina all’ultimo piano di Paris – e all’ultimo piano di ognuno dei tre
edifici superstiti delle Zattere – è una meraviglia tecnologica. Concepita per
fornire acqua potabile al complesso, serve anche come serbatoio
antincendio, e secondo le intenzioni dei progettisti avrebbe dovuto costituire
anche un inno alla vita.
Era infatti previsto che alle donne incinte venisse offerta la possibilità di
un parto acquatico.
Certo, le donne che avevano in mente quegli architetti e sociologi erano le
donne bianche ed evolute della nostra società occidentale, e non la congerie
di razze e culture che ne aveva preso il posto mentre il progetto si faceva
realtà.
La partoriente media delle Zattere (e ce ne sono un sacco) viene da culture
ed esperienze in cui l’acqua – quando c’è – serve a essere bevuta e non certo
ad agevolare il parto. Vengono, inoltre, da culture che non si farebbero
problemi se l’acqua in cui le donne hanno partorito venisse poi usata per
lavarsi, o addirittura per bere. Mentre le potenziali utenti della novità, quelle
immaginate dagli “architetti concettuali” del progetto (tre dei quali sociologi
e due filosofi), le emancipate donne occidentali del Ventunesimo secolo,
avrebbero avuto parecchio da ridire nel bere l’acqua che, per quanto filtrata e
microfiltrata e chissà in quanti modi purificata, aveva comunque accolto la
placenta e l’orina e chissà quanti altri sottoprodotti del parto.
Chi ha progettato le Zattere, ripeto, doveva avere un fondo di pazzia in sé.
Ma è innegabile che il risultato architettonico delle loro elucubrazioni e
dei loro progetti è grandioso.
L’illuminazione blu proiettata dal fondo dà un’aura magica a quella che
altro non è se non una gigantesca piscina.
Le volte riflettono il movimento sinuoso delle onde, proiettando fra le
arcate del soffitto un film primordiale, fatto d’acqua e di tempo.
È come se delle ciclopiche meduse azzurre danzassero lente e sinuose il
loro legame con lo scorrere tranquillo delle ere.
Solo così il soffitto diventa visibile: diventando leggero come un velo, un
telone su cui viene proiettato il film della vita.
I tre membri del Consiglio siedono, molto poco solennemente, su tre
sdraio, recuperate chissà dove, disposte sul bordo della piscina, intorno a un
uomo che di certo vorrebbe essere ovunque meno che qui.
Le mani legate dietro la schiena, e anche le gambe legate fra loro
all’altezza delle caviglie, un cappuccio infilato sulla testa, l’uomo è in
ginocchio. Ho visto preparare così i condannati alla decapitazione. In
Arabia, in Iraq. L’ho visto sui giornali e su internet, non di persona, ovvio.
Ma non bisogna essere dei maghi o dei fini psicologi per capire che l’uomo
non è un ospite. Il suo corpo è scosso da un tremore continuo. La testa
oscilla come un pendolo.

La voce di Chimeze esplode come uno sparo.


«Lei sta fuori!»
«Sì! Fuori!» fa eco Aarif, lasciandomi basito. Che cazzo vogliono? Che
cazzo hanno?
Chimeze si alza dalla sdraio, con un movimento perfettamente fluido.
Passando accanto all’incappucciato gli allunga una sberla sulla nuca. Poi mi
si piazza di fronte, con la sua aria da bullo di periferia.
«Chi ti ha dato il permesso di portare qui la tua troia?» mi urla in faccia.
«Ma che cazzo stai dicendo…?»
«Sta’ zitto! Zitto! Mandala via!»
«Ma di che cazzo parli?»
Poi mi volto.
Elena è alle mie spalle.
Mi ha seguito.
Più silenziosa di un fantasma, dev’essere sgattaiolata fuori dalla mia
stanza dopo di me, e a piedi nudi sui pavimenti gelidi mi ha silenziosamente
seguito sin qui.
E adesso è lì, in piedi sulla soglia della piscina.
La mia Euridice smarrita, che trema al suono della voce di Chimeze.
«Scusa» balbetta. «Non volevo lasciarti solo…»
«Va’ via» faccio. «Aspettami in camera.»
Ma il nero, con uno scatto, si è frapposto fra noi e l’uscita.
«Sono stanco di questa stronza. Stanco. Viene qui a rovinare la moralità
delle nostre ragazze. Insegna cose che non vanno bene. E poi non fa che
curiosare. È come una spia, cazzo. Guarda dappertutto, si fa gli affari di tutti.
Non mi piace.»
Elena sembra una bambina. Ha la testa incassata nelle spalle, che tremano.
«Basta così, Harry. Finiscila.»
La voce della Caragiale non è forte, ma è come se pronunciasse un
incantesimo. Chimeze si blocca di colpo.
Nadia ci fa segno di avvicinarci.
«Ormai ha visto troppo. Considerato il casino che avete combinato
insieme a Vallegrande, direi che può restare. Garantisci tu per lei. Con la tua
vita, ovviamente.»
«Ovviamente.»
«Harry, sii cortese. Porta altre due sdraio per gli ospiti.»
«Quali ospiti?»
«Ti prego.»
Chimeze sbuffa qualcosa in inglese, ma alla fine va verso il bordo della
cisterna, o della piscina, a seconda di come la si vuole considerare, e quando
torna scarica per terra con malagrazia altre due sdraio.
Io ed Elena le apriamo.
A un gesto di Nadia ci accomodiamo, anche se è assolutamente surreale
sederci di fronte a un uomo legato e incappucciato.
Elena ha gli occhi sgranati. Chimeze sposta la sua sdraio dietro di lei, in
modo da poterle bloccare la fuga.
Nadia inforca un paio di occhiali.
Non sapevo ne avesse bisogno.
Hanno una montatura antiquata, anni Settanta.
La rumena tira su dal pavimento una pila di fogli.
«Il nome di questo individuo non ha importanza, dato che, come avrebbe
detto Brecht, ha cambiato più volte nome che paia di scarpe. L’ultima
identità sotto cui si è nascosto è Leo Rubatchkin. Siamo risaliti a lui con
un’indagine partita dopo la morte di Amina al-Masri, ammesso che questo
fosse il suo nome. È da un po’ che gli stavamo dietro, cercando di ricavare
una trama dai vari fili che trovavamo. I nostri amici di Istanbul l’hanno
trovato e ce l’hanno fatto avere.»
Allunga un piede a indicare l’incappucciato in ginocchio davanti a noi.
«Questo spregevole individuo ha fatto da tramite tra i presunti genitori di
Amina e quelli che l’hanno comprata e che, fino a prova contraria, l’hanno
uccisa. Abbiamo testimonianze attendibili circa la sua colpevolezza. Questo
non è un tribunale, è solo una seduta straordinaria del Consiglio, ma come
ben sai il Consiglio può emettere sentenze. Sentenze inappellabili.»
«Nel caso di questa merda» interviene Aarif, «la complicità in un
omicidio ha una sola punizione.»
Nadia annuisce saggiamente. «Spero tu abbia capito cosa stiamo dicendo»
fa in inglese, rivolta all’uomo incappucciato.
Il prigioniero annuisce.
«Allora adesso facci la cortesia di illuminarci sul tuo ruolo in questa
storia. Raccontaci di Amina al-Masri, per cominciare.»
L’incappucciato china la testa, come se si predisponesse a ricevere un
colpo di sciabola. Poi la sua voce esce, dapprima in un filo, poi più sicura.
Il suo inglese è stentato, ma sufficiente a farsi capire.
«Io non c’entro con la sua morte. Non ci ho niente a che fare. Io ho solo
detto a quei due che c’era qualcuno disposto a pagare se portavano una certa
ragazza qui in Italia. Ho fatto vedere la foto, e loro hanno detto: “Okay, si
può fare.” I documenti non sono un problema, il viaggio fin qui neanche.
Alla ragazza viene detto che qui avrà un lavoro e una casa, una famiglia di
italiani che vuole adottarla. Il gruppetto parte da Aleppo e arriva in Turchia,
poi in Grecia, e da lì Ungheria e poi Slovenia, quando ancora la frontiera
ungherese non era chiusa.»
«Aspetta» faccio.
Il poliziotto sepolto dentro di me solleva la mano, spezzando le zolle di
terra e aprendosi la strada verso la luce, come gli zombi nella copertina del
numero 1 di Dylan Dog.
«Questi accordi. Dove avvenivano?»
«Ad Aleppo, ti ho detto. In Siria.»
«Era la prima volta che facevi qualcosa del genere?»
La testa oscilla, a destra e a sinistra. Poi dice: «No.»
«Quante altre volte l’hai fatto?»
«Un sacco di volte.»
«Sempre ragazze.»
«Sì.»
«E le ragazze dovevano finire sempre qui? Alle Zattere?»
«Sì.»
«Trovavi i passeur…»
«Cosa?»
«I finti genitori. Quelli che dovevano far passare la frontiera alle ragazze.
Poi li facevi arrivare qui sotto forma di bella famigliola.»
«Sì.»
«Trattandosi di rifugiati politici doc, perché immagino che tu procurassi
loro anche delle identità credibili, di quelle che assicurano un visto quasi
automatico…»
«Sì.»
«Ma allora perché non portare le ragazze in un posto migliore? In
Germania, ad esempio? Qui in Italia è un casino. Rischiavano di restare
irregolari per anni. Non dirmi che non lo sapevano.»
«Perché il compratore era qui. In questa città.»
Io e la Caragiale ci guardiamo negli occhi. Lei sorride, anche se non è
certo un sorriso allegro. È invece il sorriso triste di uno che dice: Vedi, lo
sapevo che andava a finire così.
«E questo compratore, chi era?» faccio.
«Non l’ho mai incontrato direttamente. C’era sempre un intermediario. A
volte anche più d’uno.»
«Quanto ti pagava?»
«Dipende. Diecimila, anche tredicimila. Dipendeva dalla qualità della
merce.»
A quella parola, Aarif scatta in piedi e assesta un pugno sulla tempia del
prigioniero.
L’uomo cade di lato, battendo la testa sulle piastrelle azzurre.
«Aarif! Smettila!» urla la Caragiale.
Il pediatra siriano solleva di peso da terra il prigioniero e lo rimette in
ginocchio. Poi resta accanto a lui, tenendolo per il colletto della camicia.
Una macchia più scura si allarga sulla tela nera del cappuccio, in
corrispondenza della tempia destra del prigioniero.
«Parlami di questo intermediario» faccio, a voce bassa come se fossi in
chiesa.
«Non era sempre lo stesso. Cambiava.»
La voce dell’uomo ha un tono disperato.
«Dimmi quello che ti ricordi» dico. «Qualcosa che ti ha colpito. Nella
voce, nei modi. Per come vestivano.»
«Erano vestiti bene. Ma non erano…»
Pronuncia una parola che Nadia traduce. «Occidentali. Non erano
occidentali.»
«Erano russi» precisa il prigioniero.
L’informazione colpisce la mia attenzione come una capsula al rientro da
una missione spaziale. Impatta con violenza sulla superficie e scende in
profondità, prima di risalire e galleggiare.
«Russi» ripeto. «Hanno fatto dei nomi? Come si chiamavano, fra di loro?»
«Niente nomi. Erano, come posso dire? Erano esecutivi. I loro nomi non
avevano importanza. Glieli davo io, i nomi.»
«Quali?»
«Stronzo e più stronzo ancora.»
Sorrido. Poi mi rendo conto della situazione e vorrei ritirare quel sorriso.
Ma ormai è fatto, e lui comunque non può vedermi.
Mi volto verso Elena, seduta dietro di me. Ha gli occhi sgranati,
l’espressione che potrebbe avere in un sogno se le capitasse qualcosa di
totalmente assurdo. Assistere a uno spettacolo come questo richiede un
biglietto, e quel biglietto è la perdita della tua innocenza, mi dico,
guardandola con qualcosa che non so ancora bene cosa sia, se amore o
affetto. Il sesso, tra noi, ha complicato le cose.
«Com’erano, questi accordi che prendevi con loro?»
Il prigioniero scuote la testa. Quando parla, la sua voce è monocorde come
se recitasse un monologo scritto per qualcun altro. È come se il suo vero io,
la sua vera personalità, si fosse ritratta, lasciando spazio a una voce
registrata.
«Mi occupavo del ritiro della merce. I passeur, i finti genitori, insomma,
se ne stavano quieti alle Zattere per qualche tempo, giusto per essere sicuri
che nessun poliziotto avesse seguito le loro tracce. Poi al momento giusto,
quando il compratore chiamava, i passeur mi consegnavano la ragazzina e io
la portavo fuori dalle Zattere. Nel casino che c’è in quel posto, chi vuoi che
se ne accorga, se manca una ragazzina?»
«E dopo averla portata fuori dalle Zattere, cosa ne facevi?»
«All’ora concordata col compratore c’era sempre un taxi ad aspettarci.
Portavo la ragazzina alla vecchia fabbrica abbandonata, davanti a un
capannone, sempre lo stesso. Quello che succedeva poi non so, non era più
affare mio. Io tornavo in Siria, a preparare un’altra consegna.»
«Un taxi, hai detto. Descrivilo.»
«Non era sempre lo stesso. Era della compagnia di un bulgaro, non
ricordo come si chiama.»
«Scaricavate la ragazza. E poi?»
«Non so cosa succedeva, poi.»
«Sforzati» insisto. «Sii più preciso. Passo per passo, descrivimi quello che
facevi tu, intanto.»
«Non so cosa dire.»
«I russi. Dov’erano? Cosa facevano?»
«Niente. Non erano lì. Mi pagavano prima.»
«Si fidavano di te…»
«Certo. Non davano l’idea di persone che puoi fregare più di una volta.»
«Quindi non erano sul luogo dello scambio…»
«No.»
«La ragazzina scendeva dal taxi. E poi?»
«C’era una porta aperta. Era sera, quindi tutto intorno era buio, c’era solo
quella porta illuminata. La ragazzina andava verso la porta, che si chiudeva.
Fine.»
«Fine…» ripete Aarif, disgustato. Poi allunga un calcio alla coscia del
prigioniero.
L’uomo grida, mentre cade. Un grido che non ha più niente di dignitoso. Il
grido di un animale ferito.
Disteso su un fianco, il prigioniero geme.
Le gambe si aprono e si chiudono come un coltello a scatto.
Aarif torna a colpirlo sull’altra gamba. Il volto freddo, lo sguardo
inespressivo.
Altrettanto senza preavviso afferra l’uomo per il collo e lo scaraventa in
acqua. Il prigioniero affonda come un mattone.
«Sei pazzo?» urla la Caragiale. Accenna ad alzarsi dalla sua sdraio, ma
Chimeze la blocca con il braccio. Scuote la testa, e il suo sguardo
ammonitore è rivolto anche a me.
L’uomo legato si agita disperatamente nell’acqua, sforzandosi di liberarsi,
o almeno di respirare.
Un altro paio di inutili tentativi, forse un minuto, che però sembra durare
all’infinito, e poi il prigioniero smette di muoversi, restando a galla
nell’acqua illuminata d’azzurro. Il suo corpo opaco forma un’eclisse fra i
riflessi guizzanti sul soffitto.
Elena, una mano a coprirsi la bocca, ha gli occhi spalancati.
Anche Nadia sembra paralizzata.
«Era il solo informatore che avevamo» osservo, cercando di mantenermi
tranquillo.
«Ne troveremo altri. Comunque ci ha detto tutto quello che poteva dirci»
taglia corto Aarif.
Scuoto la testa. «Tu dici? Ci ha detto tutto? Non mi pare.»
Chimeze si massaggia il mento, fissandomi. «Forse chi non ci ha detto
tutto sei tu, italiano. Ho visto come hai reagito quando ha detto che gli
intermediari erano russi.»
Uno a zero per l’Africa.
A questo punto anche Aarif è incuriosito. «Come mai ti ha colpito
sentirlo?»
«Il mio metodo non prevede la condivisione delle informazioni prima che
l’indagine sia finita.»
«Il tuo metodo, ammesso e non concesso che tu ne abbia uno, non conta
un cazzo, qui. Dicci quello che sai. Subito. Ora.»
Sospiro. «Come vuoi. Erano russi quelli che ho visto fuggire dal posto in
cui è morta Krystyna.»
«Non me ne frega un cazzo, della tua puttana.»
«Come credi. Comunque sono russi anche i tirapiedi di Alemanno Ferrari.
Questo però può anche non voler dire nulla» aggiungo. «Questa città è come
un vaso di miele aperto, per i delinquenti di ogni etnia e provenienza.»
«Ma tu non la pensi così» ribatte Aarif.
«È vero. Non la penso così. Seguo la legge di un vecchio filosofo
medievale che diceva di non moltiplicare le ipotesi se non è necessario.»
Nadia Caragiale sembra essersi ripresa dallo shock per la morte del
prigioniero, il cui corpo galleggia senza vita nella cisterna. «Tu pensi che i
russi siano gli organizzatori di questa cosa orrenda?»
«Se non sono gli organizzatori, comunque sono una costante. Un trait
d’union.»
«Ma se sono legati ad Alemanno Ferrari…»
Elena scatta in piedi, urlando: «Mio padre non c’entra!»
Quattro paia d’occhi si voltano all’unisono verso la ragazza.
«Mio padre non è un assassino!»
Corre e mi abbraccia, tenendomi stretto come se fossi una boa in un
oceano in tempesta.
La stringo a mia volta. Le poso una mano sulla testa, in un gesto protettivo
che per un attimo la rende mia figlia.
Chimeze scuote la testa. «Ci mancava solo questo.»
Sputa nell’acqua.
«Questa sa troppe cose, adesso.»
Lo fisso, duro.
«Non possiamo lasciarla andare.»
La voce della Caragiale è fredda come il ghiaccio. «Allora cosa
suggeriresti, per risolvere il problema? Vuoi annegare anche lei? Tanto hai
già un cadavere di cui disfarti.»
«Quello non l’ho ucciso io» fa il nero, accennando col mento ad Aarif.
«Non è il mio cadavere. Tanto per essere precisi.»
«Comunque non hai risposto alla mia domanda. Cosa vorresti farne, della
ragazza?»
«Ho detto solo che non possiamo lasciarla andare. Resterà qui alle Zattere,
finché la cosa non si sarà risolta.»
«E se non si risolve? Non siamo una prigione.»
«Sarà sorvegliata a vista. Non scapperà.»
«Ma sei stupido? Non ti sto chiedendo questo. Ti chiedo cosa faremo se
non scopriamo a breve il colpevole.»
Il nero alza le spalle. «Vedremo. Per ora qualche giorno qui alle Zattere
non le farà male. Tanto il posto mi pare le piaccia. Solo che non voglio che si
mescoli con le nostre ragazze. Non voglio che metta loro in testa altre idee
sacrileghe o sovversive.»
Si volta, puntando l’indice contro di me.
«Da adesso in poi sei ufficialmente il suo custode. Il suo, come si dice… il
suo garante. Se scappa, sarai tu a pagarla. Da questo momento la ragazzina
non deve avere alcun rapporto con l’esterno, di nessun tipo. Se ne resta qui e
se ne sta zitta e buona, okay? Sarà sorvegliata giorno e notte. Mi hai capito,
ragazzina?»
Elena lo guarda. Muove la testa su e giù più volte, spaventata.
«Okay. Siamo d’accordo, allora. Resti qui e non tenti di scappare o di
comunicare con tuo padre o con chiunque altro, mentre noi cerchiamo di
capire cosa c’è dietro questa puttana di storia. Intesi?»
Elena annuisce di nuovo.
Chimeze sorride.
Mostrando troppi denti.
«Naturalmente non hai visto niente di quello che non è successo qui.
Giusto?»
Il movimento laterale della testa di Elena si trasmette al mio corpo.
«Non hai visto niente. Non è successo niente» suggerisce la Caragiale, in
tono dolce e quasi materno.
«Non ho visto niente. Non è successo niente» sussurra Elena.
«Benissimo. Ora portala da qualche parte e chiudicela. Poi torna qui, che
dobbiamo discutere» mi fa Chimeze. Ma senza sorridere. Come se il
distributore di sorrisi si fosse rotto.
Comunque il suo sorriso era un prodotto scadente.
Mi dava il mal di pancia.
47

Quando torno, mezz’ora dopo, la piscina è vuota e perfettamente in


ordine. Si sono presi persino la briga di passare il mocio sulle piastrelle.
Le sedie a sdraio sono disposte di nuovo in ordine, tutte occupate tranne
una. Gli schienali di tutte le sdraio sono rialzate in posizione semiverticale,
tranne l’unica libera. Psicologia da quattro soldi. Loro seduti in trono,
tutt’intorno a me, e io messo scomodo, le mani magari raccolte in grembo, o
strette a pugno.
Psicologia del cazzo, appunto.
«Siediti» fa Chimeze, con un gesto regale.
«Grazie, sto bene così.»
Nadia sorride.
Restando in piedi, ora sono io in posizione di vantaggio psicologico
rispetto a loro.
Un’altra delle cose che ho imparato dal libro di uno psichiatra ebreo che
Carla mi aveva praticamente costretto a leggere. Pare fosse riuscito a
sopravvivere al campo di concentramento, applicando la psicologia alle
guardie.
«Cosa ne avete fatto, del morto?»
«Non sono affari tuoi» ringhia Aarif.
«Potevamo ottenere altre informazioni utili. Da morto non serve più a
nulla.»
«Meritava mille volte di morire» ribatte il siriano.
«Non è questo il punto. Era l’unico collegamento che avevamo con chi
organizza questi traffici infami. L’unico che conoscesse di prima mano la
filiera, dalla Siria a qui. La giustizia, o la vendetta, a seconda di come
vogliamo chiamarla, avrebbe dovuto passare in secondo piano rispetto alle
esigenze delle indagini. Ma tu hai preferito giustiziarlo. Una scelta che non
condivido.»
«Quello che condividi o non condividi non mi interessa. Ci concimo
l’orto, con quello che condividi, italiano.»
Pronuncia la parola come se la sputasse.
Okay, quel che è troppo è troppo.
«Sentimi bene, siriano. Che ti piaccia o no, qui sei sul mio territorio. Sei
tu, l’intruso. Perciò ti conviene giocare secondo le mie regole.»
Mi volto verso la Caragiale. «L’indagine è ancora mia?»
«Se ti va.»
«Quando sorridi così, sai come mi sento?»
Lei scuote la testa.
«Come se mi ritrovassi a culo nudo in una sauna per gay. E tipo venti o
trenta saponette fossero appena cadute per terra.»
«Metafora efficace. Comunque te lo confermo: l’indagine è ancora tua.»
«Allora, se è mia, da adesso in poi dovete seguire le mie regole. La prima
regola è: non si ammazzano i testimoni. Li si spreme a fondo, e poi li si
consegna alla giustizia italiana.»
Aarif si muove a disagio sulla chaise-longue, come se le formiche gli
avessero fatto il nido nel sedere.
«La giustizia italiana…» ripete Chimeze, sarcastico.
«Sissignore.»
«Alla giustizia italiana potrebbe interessare chi ha ucciso i tre tassisti
bulgari.»
Le dodici parole cadono come altrettanti cubetti di ghiaccio in un
bicchiere scuro di silenzio.
Mi schiarisco la voce. «Quella è un’altra faccenda. Separata dalla
questione delle ragazze scomparse. Io credo…»
«Anche quelli erano testimoni, no? Ma qualcuno che conosciamo bene ha
tappato loro la bocca per sempre.»
«Quella era legittima difesa.»
«Tre testimoni» canticchia Chimeze, sollevando tre dita. «Tre testimoni
che conoscevano la filiera dalle Zattere all’acquirente…»
«Questo è un colpo basso.»
Il nero annuisce più volte, allargando le braccia e mimando un ironico
inchino.
Mormora due parole in una lingua che non conosco.
«Che cos’hai detto?» faccio.
«Poliziotto dei miei coglioni.»
«Smettetela» intima la Caragiale. «Non fate i bambini. Sergio ha ragione.
Non dobbiamo farci distrarre dal nostro obiettivo, che è trovare chi ha ucciso
in quel modo le nostre ragazze.»
«Dobbiamo anche assicurarci che non possa farlo più» aggiungo.
«Cosa intendi dire?» fa Nadia.
«Che l’uomo che avete ucciso potrebbe non essere l’unica persona
coinvolta, qui alle Zattere.»
Si guardano nervosamente l’un l’altro.
«Cazzate» esclama Aarif.
«Non sei tu quello che dice sempre quella cosa di non moltiplicare
inutilmente le ipotesi…?» sussurra Nadia.
«Hai qualcosa di concreto, per pensare questa cosa?» fa infine Chimeze.
«No. Ma è comunque un’ipotesi che non va trascurata. Continuate a
cercare. Non abbassate la guardia.»
Aarif mi guarda sprezzante. «E mentre noi non abbassiamo la guardia, tu
cosa fai?»
Sorrido. «Intanto vado a mangiare. Veder uccidere quell’uomo mi ha
messo appetito.»
«Ehi, aspetta!» fa Chimeze. «Dobbiamo ancora parlare della tua
amichetta. Che adesso scopriamo essere la figlia del boss della città. Di lei
quando vogliamo parlarne?»
«Quando verrà il momento. Una cosa alla volta. Ora vado a cena.»
48

La mensa è ancora chiusa, ma la simpatia del personale della cucina per


Elena ci procura lo stesso un piatto di verdure e riso e un tavolo da soli, nello
stanzone deserto, illuminato per noi.
«È come essere in un quadro di Edward Hopper» sussurra Elena.
La sua apparente normalità, dopo quello a cui ha assistito in piscina, mi
sconcerta.
«Di chi?»
«Ma dai. Hopper. Un pittore americano. Impossibile che tu non lo
conosca.»
«Invece è possibile.»
«Ma non puoi non aver visto i suoi quadri. Aspetta.»
Traffica con il suo iPhone e poi lo gira verso di me.
Nel quadro, quattro personaggi stanno intorno al bancone di un bar. È
notte fonda. Il barista, e seduti al banco due uomini con un cappello anni
Quaranta e una donna vestita di rosso. Non mi sembra un gran quadro, anche
se non lo dico.
«Troppi personaggi» faccio. «Qui siamo solo in due.»
C’è uno schermo piatto, montato in alto, a cinque metri dal nostro tavolo.
Un vecchio Panasonic. Ho chiesto all’inserviente amica di Elena di
accenderlo e darmi il telecomando. Le immagini scorrono come miniature di
un’Apocalisse trascritta da un copista ubriaco. Campi nomadi che bruciano,
sollevando nuvole di fumo nero e velenoso. Camionette che sfrecciano nel
deserto libico, con le mitragliatrici montate sul retro che sparano verso un
nemico invisibile. Il presidente francese che decora una fila di legionari
feriti. E poi la notizia che aspettavo.
Alzo il volume.
«… dopo un viaggio di trecentoventi giorni e più di un mese di attività sul
Pianeta Rosso, il rover Cotton Mather ha inviato queste fotografie
straordinarie di quello che sembrerebbe il letto di un antico fiume
marziano…»
Guardo a bocca aperta le immagini che arrivano da milioni di chilometri
di distanza, e che per la loro apparente normalità potrebbero essere state
riprese sulla Terra: i ciottoli rotondi, chiaramente prodotti dall’erosione
dell’acqua, non hanno niente di straordinario, se non che si trovano su un
altro pianeta.
E poi altre immagini, sempre più incredibili.
Finché la giornalista non passa a un’altra notizia.
Qualche manciata di secondi, per una cosa così straordinaria…
Abbasso gli occhi.
Elena non sta guardando. Ha l’attenzione concentrata sullo schermo del
suo telefono.
«Non guardi?»
«Cosa?» fa lei, distratta.
«Hanno trovato il letto di un fiume, su Marte.»
«Ah. No, stavo guardando se trovavo una riproduzione migliore del
quadro di Hopper, ma non ne ho trovate di belle.»
«Non so se hai capito: hanno trovato le tracce di un fiume su Marte.»
«Ah, sì?»
«Proprio non ti interessa?» sospiro, spegnendo il televisore. L’ultima
immagine è quella della boccuccia infantile del presidente degli Stati Uniti
che snocciola minacce all’Iran.
«Ecco: questa, forse. Guarda.»
Il quadro è sempre quello. Solo la luce e i colori sono diversi, migliori.
«Bello» faccio.
«Toglici i personaggi di troppo e siamo proprio noi due, non ti sembra?
Siamo i protagonisti di uno di quei gialli di una volta, come si chiamavano,
quelli con l’investigatore col cappello e la ragazza dannata.»
«Non ho il cappello e tu non sei dannata. E non sei nemmeno vestita di
rosso.»
Elena mi guarda strano. «Chi ti dice che non sono dannata?» Abbassa la
voce. «Ho ucciso tre uomini» sussurra.
Mi porto alla bocca una forchettata di verdure.
Mastico, ma potrei masticare cenere e mi farebbe lo stesso effetto. Troppi
pensieri, per godermi il cibo. E la compagnia di Elena in questo momento è
un peso, non un piacere.
«Non hai niente da dire?» aggiunge.
«No.»
Guardo l’orologio sulla parete. È l’ora del telegiornale regionale.
Accendo di nuovo il televisore.
La notizia, come mi aspettavo, è quella di apertura. Un giornalista giovane
parla, con alle spalle il capannone della Zetart.
«Ancora nessuna ipotesi sui motivi che hanno portato alla morte di tre
cittadini bulgari residenti con regolare permesso di soggiorno in città. I tre
esercitavano la professione di tassista. Sarebbero stati investiti da una delle
loro stesse auto. Sulle indagini, al momento, vige il massimo riserbo. La
polizia ha invece diffuso alcuni dettagli sul luogo del delitto. Il capannone
alle mie spalle, stando alle informazioni trapelate, sarebbe stato trasformato
in un luogo adibito a un culto satanico. Non disponiamo di immagini da
potervi mostrare, ma pare che lo spazio interno sia stato ricoperto con
soggetti blasfemi. Le ipotesi a questo punto si fanno…»
Spengo.
«Una volta si diceva la polizia brancola nel buio…» commenta Tommy,
venendo a sedersi al nostro tavolo.
«Credo sia al di là delle capacità lessicali del cronista medio. Cosa ci fai
qui?»
«Oh, be’, mi hanno detto che eri nei paraggi e ho pensato di venire a
renderti omaggio. Non te la regoli più, la barba?»
«Non ho tempo.»
«La cura di sé è fondamentale.»
«Prima viene la sopravvivenza.»
«Sì, ho sentito dire che hai dei problemi. Questa è la tua ragazza?»
«No» brontolo.
«In giro si dice di sì, invece. Tu es très jolie. Sei molto carina.»
«Grazie.»
«Non dovresti stare con uno come lui. È un uomo pericoloso.»
«E io sono una donna dannata.»
«Non dirlo neanche per scherzo. Uh, sono cose che rovinano un
curriculum.»
Ridono come due scemi. Del resto quanti anni avrà, il mio barbiere?
Venticinque? Trenta? Lo guardo meglio.
Dato il suo mestiere e la sua passione per la lirica avevo sempre dato per
scontato che fosse gay. Forse per questo vederlo flirtare platealmente con
Elena mi mette così di malumore. Anche a non voler considerare i guai in
cui mi trovo.
I suoi occhi scuri puntano i miei. I denti grandi e bianchissimi
improvvisano un sorriso che è uno spettacolo. Solo a guardarlo ti mette
allegria, Tommy.
«Seriamente, amico, ero preoccupato per te.»
«Vorrei che voi la smetteste di chiamarci così: amico, capo.»
«Noi chi?»
«Dai che hai capito benissimo. Non fare il finto tonto.»
«Noi negri e voi bianchi, è così? Perché, bella signorina, devi sapere che il
tuo amico qui è très, très raciste. Tanto razzista che i primi tempi pensavo
mi prendesse in giro. Che facesse tipo, uh, la caricatura del razzista. Invece è
proprio così, davvero.»
Elena sembra sconcertata. «A me non sembra razzista.»
«Ah no? Forse perché non vuole perdere punti con te, carina. O forse
perché sei così bianca. Ma ti assicuro che è razzista, eccome. Uh, se lo è.
Scommetto che ce l’ha anche coi froci. Vero, capo? Vero, amico?»
«Senti, Tommy, non ho proprio lo spirito per farmi prendere per i
coglioni.»
«E infatti io non sono venuto per questo.»
«Ah no?»
«No. Sono venuto per avvisarti.»
«Avvisarmi di cosa?»
Il nero si china verso di me, in modo da potermi parlare sottovoce
all’orecchio.
«Hai fatto qualcosa che ha dato fastidio al Consiglio?»
«Perché me lo chiedi?»
«Perché quel brutto cattivo di un siriano, Aarif, due giorni fa è venuto da
me a farmi un sacco di domande, ma proprio tante. Era una specie di come si
chiama, di interrogatorio. Voleva sapere tutto di te. Come ti avevo
conosciuto, e di cosa parlavi mentre ti tagliavo i capelli. E poi, come se non
bastasse, il giorno dopo viene da me la vecchia rumena e mi fa praticamente
le stesse domande. Dio, che noia.»
«La Caragiale?»
«Certo, chi sennò?»
«E tu cosa gli hai detto?»
Tommy si stringe nelle spalle. «Ma niente. Né all’uno né all’altra. Cosa
vuoi che gli dicessi? Non so niente di te. Sei più misterioso dell’Isola
Misteriosa.»
«Carina, questa» fa Elena.
«Merci.» Mi guarda sgranando gli occhi. «Questo non è neanche il
peggio. Sai la tua stanza? L’hanno requisita da cima a fondo.»
«Perquisita.»
«Okay. L’hanno perquisita per più di un’ora. Questo lo so non perché
c’ero ma perché me l’hanno detto. Il posto è piccolo e la gente mormora.»
«Chi è stato dei due? Aarif o la Caragiale?»
«Uh, Aarif. Sembra che gli stai proprio sui coglioni, a quello.»
«La cosa è reciproca.»
«Sì, ma quello lì non è esattamente il tipo d’uomo che mi sceglierei come
nemico, se fossi in te. È cattivo dentro, quello.»
«Anche di fuori non scherza.»
Tommy si fa serio di colpo.
Guarda me, poi guarda Elena. Capisco al volo.
«Elena, mi andresti a prendere un caffè?»
Lei mi guarda con sconcerto, dapprima, e poi con severità.
Però, anche se con una smorfia, si alza.
«Ma certo. Tu vuoi qualcosa, Tommy?»
«No, grazie. Sto bene così.»
Il nero la guarda allontanarsi.
«Bella ragazza. Ti hanno mai detto che non te la meriti?»
«Un paio di volte. Senti, posso farti una domanda?»
«Spara, capo.»
«Chi è che ti ha incaricato di sorvegliarmi?»
Tommy non fa neppure finta di non aver capito.
Sorride.
«Nadia.»
«Nadia. Okay. E adesso cos’è che vuoi dirmi senza che lei ci senta?»
«C’è una persona che vuole incontrarti.»
«Chi sarebbe?»
«Il tuo dottore.»
«Chatterjee?»
«Ne hai altri? Ce ne sono altri, qui alle Zattere? A parte il siriano dagli
occhi di ghiaccio, ma preferirei farmi fare un’autopsia che curare, da lui.»
«Ti ha detto perché vuole vedermi?»
«Non ho parlato con lui. Ho parlato con quella sboldra di sua moglie. È
venuta lei a dirmelo.»
«Sboldra…»
«Termine locale nuovo. Appena imparato. Mi piace.»
«Ti ha detto dove e a che ora dovremmo vederci?»
«Dice che l’ha scritto qui.»
S’infila una mano in tasca e tira fuori un foglio di bloc-notes piegato in
quattro.
Lo apro. Leggo la dozzina di righe scritte in inglese con una grafia curata.
Scuoto la testa.
«Qualcosa che non va?»
«No. Grazie, Tommy.»
«De rien. Tutto bene? Non prendertela, ma, uh, hai un aspetto davvero
spaventoso.»
«Lo so. Hai letto quello che c’è scritto sul biglietto?»
Il ragazzo fa l’offeso. «Non l’ho nemmeno aperto. E poi non so l’inglese.»
Appena si accorge dell’errore si morde il labbro. Poi fa uno dei suoi
sorrisi irresistibili, per cui lo perdoneresti anche se ti avesse appena mozzato
un orecchio col rasoio.
«Non fa niente» sorrido a mia volta, alzandomi.
Elena torna in quel momento al tavolo con una tazzina di caffè.
«Cosa fai? Te ne vai?»
«Devo vedere una persona.»
«E il tuo caffè?»
«Non ho tempo per berlo.»
«È un peccato, perché è bello caldo» sorride lei, svuotandomi addosso la
tazzina. Poi si volta e se ne va come una furia.
Tommy contempla la mia giacca sporca, il caffè che cola lungo i
pantaloni, formando una pozza intorno ai miei scarponi. «Vado a prendertene
un altro?» fa, con una faccia da schiaffi.
«No, grazie. A posto così. Senti, Tommy…»
«Sì?»
«Me lo fai un favore?»
«Uh, se posso.»
«Tienila d’occhio. Dovrei farlo io, ma mi sa che nelle prossime ore sarò
più indaffarato di un criceto con tre ruote.»
«È già sorvegliata.»
«Sì, ma dalle persone sbagliate. Tienile un occhio sopra anche tu, okay?
Mi sentirei più tranquillo.»
«Nessun problema. Te la tengo d’occhio volentieri.»
«Informami, se ci sono problemi.»
«E come faccio a informarti? Non hai il telefono.»
Ci penso un attimo. «Avvisa Albert. Lui saprà come trovarmi.»
«Okay. Ehi, amico…»
Mi volto. «Sì?»
«Sta’ attento. Abbiamo ancora un sacco di cose da dirci.»
«Tipo?»
«Uh, tipo che devi ancora dirmi come ti sei fatto tutte quelle cicatrici.
Quelle vecchie, intendo. Vedo che non te ne fai mai mancare di nuove.»
«Cosa vuoi farci? Sono una calamita per le botte.»
«Ti piace farti fare nero. Forse è anche per questo che, con tutti i tuoi
difetti, mi sei simpatico.»
Non gli rispondo.
Cosa potrei dirgli?
Lo saluto dalla porta della mensa e me ne vado, con la morte nel cuore.
Perché dentro di me comincia a farsi strada quella che potrebbe essere la
verità. E non so se davvero, come diceva quel tale, la verità rende liberi.
So che di sicuro non mi rende allegro.
49

Il lungo, interminabile corridoio sotterraneo che unisce Paris a London è


deserto, a quest’ora. I banchi sono stati smontati e impilati ordinatamente
contro il muro. Dei cibi e delle merci che vi erano esposti sono rimasti
soltanto fantasmi olfattivi, oltre che le tracce nella mia labile memoria. Il
cervello umano è incredibile. È assurdo, e al tempo stesso è magico, e
misterioso, che tutto sia concentrato in quei pochi etti di materia grigia, o in
un’anima invisibile, stando a chi ci crede, ma comunque che sia tutto lì, tutto
mio, solo mio, e tutto destinato a perdersi. Non ho mai avuto un buon
rapporto con la filosofia, ma una lezione l’avevo amata: quella in cui il
professore ci aveva spiegato la visione di sant’Agostino dell’anima,
prigioniera del corpo difettoso in cui è calata.
La vita mi ha preso a pugni così tante volte che la mia anima ormai è
chiusa in un rottame peggio della Dyane che avevo da ragazzo, e che un
giorno, molti anni dopo averla venduta, avevo ritrovato nel deposito di uno
sfasciacarrozze. Dovevamo analizzare i rottami di un incidente stradale in
cui erano morti quattro ragazzi. Era estate. Un odore di ruggine, plastica
calda e benzina aleggiava sul deposito. Ho alzato gli occhi dal relitto
distrutto nell’incidente e la mia vecchia Citroën azzurra era incredibilmente
là, in mezzo a una fila di altre auto destinate alla demolizione. Aveva ancora
la sua targa con la sigla della provincia arancione. Il tettuccio era stato
cambiato, non era più quello originale, che una volta avevo riparato con un
chewing gum. Ma c’era ancora il fantasma dell’adesivo dell’Udinese Calcio,
la zebra sorridente, sul paraurti posteriore. Chi l’aveva posseduta dopo di me
ne aveva avuto cura, di quell’utilitaria scalcinata in cui mi pareva
impossibile aver fatto tanta strada, un anno fino in Scozia e un altro –
l’ultimo in cui era stata mia – fino in Marocco. Avrei voluto entrarci,
mettermi al posto di guida, ma il sedile era sventrato, sembrava un pesce
lasciato a marcire sul bagnasciuga, e puzzava ancora di più, di piscio di gatto
e ruggine.
L’anima, a volte, attecchisce a cose senza valore, trascurandone altre di
gran pregio come se non esistessero, come se nemmeno le vedesse. E infatti
una parte – una buona parte – della mia anima era rimasta lì, ancorata a
quell’auto da pochi soldi, a quell’inservibile rottame azzurro.

Allo stesso modo la mia anima ora cammina lungo questo corridoio che
sembra non voler finire mai, gravata da incrostazioni di tempo e di storie, di
cose vissute e di altre solo sognate, la mia povera anima andata al tappeto
mille volte e che altrettante si è rialzata, ma solo per cadere e rialzarsi
ancora, stupidamente combattiva sino alla fine. Cammina sotto il peso di una
nuova conoscenza, perché chi ha detto che la verità rende liberi si sbagliava
di grosso. La verità rende pesanti, e tristi. A mano a mano che i vari tasselli
si spostano sul tavolo liscio che alcuni chiamano intelligenza, altri coscienza
e altri ancora anima, a mano a mano che una storia coerente prende forma e
si consolida, capisco che ho sbagliato tutto, che il racconto che avevo scritto
dentro di me a partire da pochi dettagli incompleti era del tutto errato. Che
avevo assegnato agli attori delle parti non loro, rendendo protagonista chi
invece altro non era che una comparsa trascurabile.
O, al contrario, non capendo chi manovrava davvero i fili della storia.
Come l’uomo che stavo andando a incontrare.
La sua voce familiare mi accoglie, uscendo dal buio.
«Benvenuto, Sergio.»
«Preferirei che non mi chiamasse per nome, dottor Chatterjee.»
«Addirittura. Dottor Chatterjee… Quanta formalità… ma allora non
siamo più amici, Sergio?»
«Non lo siamo mai stati.»
«Paziente e medico, allora…?»
«Nemmeno questo. Lei mi ha fottuto. Mi ha tradito.»
«In che modo?»
«Lo sa benissimo.»
«Venga avanti, la prego, Sergio. Per favore. Non riesco a vederla, con
questa poca luce.»
Muovo un altro passo nella stanza.
«Vedo che non zoppica più. Bene. Anzi, benissimo.»
Devo ammettere, stringendo i denti, che ha ragione. Non zoppico più, e da
tempo. La frenesia degli eventi mi ha impedito sinora di rendermene conto,
ma è vero: non zoppico più.
Gunga Din è seduto sul bordo della piscina, esattamente nel punto in cui
stava Nadia Caragiale. O almeno, intravedo la sua sagoma nel buio.
Solo che il posto non è lo stesso: è uguale all’ultimo piano di Paris,
l’enorme cisterna-piscina.
Ma è a London.
L’effetto straniante è assoluto.
Un luogo assolutamente identico, ma non lo stesso.
L’acqua è diversa, ma produce gli stessi riflessi sul soffitto.
«Perché ha voluto incontrarmi?» chiedo, mentre i miei occhi cercano di
adattarsi alla penombra, perché i pochi punti luce sono isole in un mare buio.
«Ma per chiarire le cose! Perché fosse chiaro che il mio operato mira
unicamente al tuo bene, Sergio.»
«Non mi dia del tu.»
«Come credi. Da quanto tempo non prendi le tue medicine, Sergio? Da
quanto tempo salti gli esercizi che ti ha insegnato Nandini?»
«Le ho detto…»
«Io mi pongo come obiettivo unicamente il tuo bene. Sono il solo amico
su cui puoi contare, fra le macerie della tua mente. E allora perché non ti fidi
più di me? Perché non mi hai più cercato, quando la fede nella tua integrità
mentale vacillava?»
«Forse perché da quando non ci vediamo mi sento meglio.»
«Non dire sciocchezze. Sono certo che allontanandoti da me sei ricaduto
negli errori del tuo passato. Che sei tornato a bere e a drogarti. A vivere nella
promiscuità.»
Le parole mi arrivano dal buio come impulsi di sonar emessi per sondarmi
l’anima, per stanarmi dal mio nascondiglio sotterraneo.
«Non bevo e non mi drogo» ribatto. «In compenso il risveglio delle mie
parti basse non mi dispiace per niente.»
«Ah sì? E con chi, se posso permettermi? Con chi si sarebbe avverato, di
grazia, questo risveglio dei sensi? Con la tua ex moglie? So che hai passato
una notte con lei.»
Questo è davvero un colpo basso.
«Si faccia i cazzi suoi, Gunga Din. E la smetta di darmi del tu!»
«Oh. Siamo agli insulti razziali. Bentornati, insulti. Speravo di non
sentirvi più. Ma eccovi qui di nuovo. Eppure mi avevi detto di voler guarire.
Di essere stanco di vivere come un razzista paranoico.»
«Sa come si dice, anche i paranoici hanno dei nemici.»
«Vedo che ti sei rimesso l’anello.»
«Può darsi. Non è grave, però. Non sono Gollum. E adesso smetta di fare
domande e risponda alle mie, invece. Com’è che il dottor Chatterjee, il buon
samaritano delle Zattere, ha un prestigioso studio in centro città? E a
proposito di ex, com’è che sua moglie, che dovrebbe essere morta e sepolta
da anni, partecipa con lei a feste ed eventi di beneficenza nei circoli più
esclusivi? E la brava Nandini cosa ne pensa, di questa moglie resuscitata?»
Lo psichiatra sorride, ma solo con i muscoli intorno alla bocca. Gli occhi
restano duri.
«Potrei dirti che la psichiatria ha molto a che vedere con il teatro…»
«Stronzate.»
«In terapia è il paziente che deve aprirsi al medico, non il contrario.»
«Stron-za-te» sillabo, duro.
Mi avvicino di altri due passi. Ora sono a meno di tre metri da lui. Posso
sentire da qui il profumo della sua raffinata acqua di colonia, ammirare la
perfezione del completo grigio tagliato su misura. Un nuovo Chatterjee,
molto diverso da quello buono e modesto che aveva disinteressatamente
accudito la mia povera mente malata. La barba è spuntata con cura, e anche
il suo inglese ha miracolosamente perso ogni traccia d’accento esotico.
«Che fine ha fatto il segno rosso che aveva sulla fronte?»
«Il tilaka, vuoi dire? Era solo per scena.»
«Dovevo immaginarlo. Mi dica la verità, dottore. Tutte quelle storie su
Manchester. Era solo una bugia per conquistarsi la mia fiducia. Anche quello
era solo per far scena…»
Chatterjee alza le spalle.
«Cosa ci fa alle Zattere? Sia sincero, per una volta. Non mi dica che è per
beneficenza.»
«Certo che è per beneficenza. Anche se ovviamente non è solo per questo.
Sei troppo sveglio perché io cerchi d’intortarti. Okay, lo ammetto, la mia
presenza qui ha anche altri scopi.»
«Quali?»
Lo psichiatra sospira. «Sicuro di volerlo sapere? Sei davvero sicuro? Va
bene. La risposta è semplice. Dovevo tenerti in vita. E al tempo stesso
impedirti di nuocere a te stesso e a noi.»
«Specifichi quel noi.»
«Non mi chiedi prima perché dovevo tenerti in vita? È molto più
interessante.»
«Va bene. Non ho fretta.»
Chatterjee fa un gesto largo, a indicare la vasca.
Gocce d’umidità si staccano a intervalli irregolari dal soffitto, producendo
lenti cerchi nell’acqua. Questo nella piscina di Paris non succede. È come in
quel vecchio gioco della Settimana Enigmistica: trova le differenze.
«Diciamo che nelle tue attività di poliziotto avevi raccolto informazioni su
alcuni lati, per così dire, oscuri e non troppo commendevoli, di questa città.
Informazioni che riguardavano personaggi in vista, donne e uomini che non
avrebbero voluto vedere esposti i loro panni sporchi in pubblico. Mi pare ci
sia un detto, su come alla base di ogni grande fortuna ci sia un crimine…»
«Vada avanti.»
«Vado avanti, certo. Allora, diciamo che pare che queste informazioni tu
le avessi messe per iscritto e documentate. E che, quando sei stato buttato
fuori dalla polizia, avessi cominciato a usarle per far pressione sui
personaggi in vista di cui ti parlavo prima. A un certo punto uno di questi
personaggi in vista tenta di farti fuori. Di toglierti di mezzo. Lo fa perché
pensa che sia il momento buono. Sei caduto in disgrazia da un pezzo, le tue
richieste… Chiamiamo questa cosa col suo nome, vuoi? I tuoi ricatti non
sono più esagerati come un tempo. Ti accontenti di poco. Il tuo cervello è
troppo impegnato a saziare la sua fame chimica. Eri già finito in ospedale
una volta, per la famosa vodka che ti aveva dato alla testa…»
«Un’altra battuta così e la scaravento in acqua col suo vestito da tremila
euro.»
«Okay. Scusa. Comunque quel tuo incidente ha fatto venire idee strane in
testa a qualcuno.»
«A chi?»
«I nomi dopo, se non ti dispiace. Diciamo che questo qualcuno ti fa
prelevare dalla tana in cui sei finito, dopo che la tua amica colombiana ti ha
cacciato di casa a bottigliate, e ti fa interrogare, diciamo, con un certo
vigore. Vuole sapere cos’hai in mano per garantirti la tua incolumità. Perché
quello che gli avevi sempre detto è che, se mai tu fossi morto in circostanze
strane, certi documenti sarebbero diventati di dominio pubblico. Era, di fatto,
la tua assicurazione sulla vita. Oltre che l’unica fonte di reddito che ti fosse
rimasta. Purtroppo, per quanto impegno ci abbiano messo nell’interrogarti,
da te non è venuto fuori niente.»
«Forse perché non c’era niente?»
«Non ne sono convinto. Quello di cui sono convinto è che tu non te lo
ricordavi. La famosa vodka scagliata, non shakerata, ti aveva azzerato quel
ricordo. Fatto sta che non hai fornito l’informazione che quel personaggio
voleva da te. Come se la tua assicurazione sulla vita, chiamiamola così,
esistesse davvero ma tu non potessi dire dove l’avevi nascosta. Era
comunque un pericolo, per il tuo nemico. E non solo per lui. A quel punto
doveva scegliere se correre il rischio di ucciderti e vedere se il tuo era solo
un bluff, o lasciarti vivere.»
«A quanto pare mi è andata bene.»
Chatterjee scuote la testa, con un sorriso amaro. «Non hai capito niente.
Lui stava per ucciderti, senza badare alle possibili conseguenze, quando un
certo altro personaggio si è inserito nella storia e ha convinto il tuo nemico a
lasciarti vivere.»
«Perché?»
«Abbi pazienza. Quest’altro personaggio…»
«Vuole dargli un nome, maledizione?»
«E tu vuoi lasciarmi il piacere di raccontare? Tutto ti sarà chiarito, a
tempo debito. Anche questo secondo personaggio importante era ricattabile
da te, e lo sapeva. Ma aveva molto più da perdere dell’altro, se per caso il
tuo non fosse stato un bluff e la procura o i giornali fossero venuti a sapere
certe cose. Così è intervenuto e ti ha salvato la vita. Diciamo che ha fatto un
accordo con l’altra parte. E guarda che non è stato facile. Ovviamente, dato
che non stiamo parlando del buon samaritano, ha voluto le sue garanzie.
Quindi per prima cosa ha fatto in modo che anche tu facessi qualcosa per cui
diventassi a tua volta ricattabile.»
«Che cosa mi ha fatto fare?»
«Davvero non lo ricordi?»
«No, cazzo.»
«Ho fatto davvero un buon lavoro…»
«Che cosa mi ha fatto fare?» urlo.
«Te lo dirò alla fine. O forse non te lo dirò. Sono pur sempre il tuo
dottore. Non voglio che tu riporti danni irreparabili da questa
conversazione.»
«Irreparabili…»
«Sì.»
«Vada avanti, Gunga Din.»
«La seconda precauzione che ha adottato è di non lasciarti in giro come
una mina vagante, ma di farti trovare davanti alle Zattere, imbottito di droga
e pestato per bene. Un relitto finito sulla spiaggia. E poi…»
«E poi?»
«E poi ha fatto in modo che le Zattere ti accogliessero. Quando sarebbe
stato infinitamente più semplice, per il Consiglio, farti discretamente sparire.
Non sarebbe la prima volta, se ho ben capito.»
«Come c’è riuscito?»
«Mettiamola così: il tuo protettore aveva amici in loco. E poi un certo
dottore e la sua assistente si sono offerti, guarda caso proprio in quel
momento, di aprire, con tutta la discrezione del caso, una, come vogliamo
chiamarla? Una missione umanitaria alle Zattere. E guarda caso, il primo
paziente sei stato tu. Non pensare che sia stato facile. La maggioranza del
Consiglio era favorevole a una soluzione, come dire, drastica e definitiva del
problema che rappresentavi.»
«Immagino che Nadia sia stata l’unica contraria.»
Chatterjee sorride. E stavolta è un sorriso sincero.
«Sei fuori strada. La Caragiale era favorevole alla tua sparizione. Come
Chimeze.»
«Ma…»
«Aarif è stato l’unico a perorare la tua causa.»
«Assurdo.»
«Incredibile, semmai. Assurdo no. La sua motivazione era che tu, una
volta guarito, potevi essere utile alla comunità. Conosceva bene la tua storia.
Il tuo talento nelle indagini, ma anche il tuo carattere e il tuo curriculum
appena meno disastroso di quello di Icaro. Il Consiglio doveva affrontare la
minaccia del killer di ragazzine, ma non poteva rivolgersi alla polizia. La
situazione politica esterna non lo permette. Ed ecco che proprio in quel
momento un poliziotto esperto, per quanto malridotto, viene scaricato alla
porta delle Zattere. E un famoso medico e psichiatra offre i suoi servigi
gratis. Bingo. È persino troppo. È un po’ come se dal cielo fossero cadute,
con un sottofondo di musica celestiale, le due ultime tessere di un puzzle da
cinquemila pezzi.»
«E invece era tutto organizzato.»
«Già.»
«E devo la mia vita ad Aarif.»
«Così pare. La Caragiale era dell’avviso che bisognasse avvisare la
polizia. Diceva che la sicurezza delle Zattere passava in secondo piano
rispetto alla minaccia rappresentata dall’assassino delle ragazze.»
«Se la cosa fosse diventata di pubblico dominio…»
«Le Zattere sarebbero state sgomberate nel giro di ventiquattr’ore. E
demolite il giorno dopo. Ma secondo la tua amica rumena, così sarebbero
cessati anche gli omicidi. E Chimeze era dello stesso avviso. Mi risulta che
abbia detto qualcosa tipo: “Se sai che il leopardo caccia alle pozze, il modo
più sicuro per impedirgli di uccidere ancora è di togliere l’acqua.” Secondo
lui, e in ultima analisi anche secondo la Caragiale, una volta svuotate le
Zattere l’assassino avrebbe perso il suo terreno di caccia.»
«Invece hanno scelto la via del siriano.»
«Già. Hanno accettato la mia proposta di aprire un ambulatorio qui, ma in
cambio mi hanno chiesto di prendermi cura di te. Dovevo rimetterti in sesto
e raddrizzarti. Ricostruire il poliziotto che eri. Devi ammettere che ho fatto
un buon lavoro.»
«Nel senso che sono vivo, forse. Per il resto…»
«Di cosa ti lamenti?»
«Del fatto che mi avete castrato chimicamente, tanto per dirne una. E non
solo. Mi avete manipolato il cervello, per rendermi incapace di scopare. Che
cazzo c’entra questo con la mia guarigione? Perché cazzo l’avete fatto?»
Lo psichiatra si schiarisce la voce, prima di rispondere.
Quando si decide a farlo è visibilmente imbarazzato.
«Diciamo che era una richiesta accessoria del mio committente.»
«Che cosa?»
«Per motivi suoi, preferiva che tu fossi, per così dire, inoffensivo sotto
quel profilo.»
«E chi cazzo è, questo committente?»
Chatterjee sta per rispondere, quando i suoi occhi si spalancano per lo
spavento.
«No…» balbetta, fissando qualcosa alle mie spalle.
Si alza contorcendosi dalla sedia, gli occhi sgranati.
Faccio per voltarmi, ma in quel momento tre colpi esplodono così
rapidamente che sembrano un colpo solo. Tre fontane rosse si aprono nel
petto del medico, che ricade giù disteso, sfasciando la chaise-longue.
Mi volto appena in tempo per vedere una sagoma scura che corre verso la
porta.
Mi chino sul corpo esanime di Chatterjee, constatandone la morte. Poi
scatto anch’io verso l’uscita, all’inseguimento di quell’ombra, senza
fermarmi a pensare che l’assassino è armato e io no.
Corro con i miei scarponi pesanti sul pavimento bagnato.
E poi la forza di gravità mi fotte per l’ennesima volta.
50

«Sicché non sei riuscito a prenderlo» fa Chimeze, commentando il mio


rapporto con un sorrisino strafottente.
«Evidentemente no.»
«Non sei in gran forma…»
«Vaffanculo» ringhio, massaggiandomi il gomito. Sapere che lo stronzo
aveva votato per farmi fuori me lo rende, come dire, leggermente antipatico.
Aarif si rialza dal cadavere di Chatterjee, spolverandosi le mani.
«È morto sul colpo» fa.
«Ma va’? Con tre colpi di pistola in pieno petto non è che ci fossero tante
alternative» commenta l’africano. «Continua a dirmi, bianco. Sei scattato per
prenderlo e…»
«E sono scivolato sulle piastrelle scivolose. Ho battuto il gomito e il
ginocchio. Dovrei farmi vedere da un medico.»
«Dovrai accontentarti di me» interviene il siriano. «Come ben sai,
Chatterjee non è più disponibile. Come la sua assistente.»
«Nandini?»
«Già. In un primo momento l’avevamo messa nella lista dei sospettati, ma
ora l’abbiamo rimossa.»
«Come mai?»
«Perché è morta. Probabilmente prima di Chatterjee. Era chiusa in un
armadio dell’infermeria, con la gola tagliata da un orecchio all’altro. Prima
di essere sgozzata è stata torturata. Immagino volessero sapere dove
potevano trovare suo fratello.»
«Nandini era la sorella di Chatterjee?»
«Perché? Ti risulta diversamente?»
«A me aveva detto che era la sua seconda moglie.»
Aarif sbuffa. «Chatterjee ha un sola moglie, che mi risulti. Una gran bella
figa. No, Nandini era sua sorella. Sorellastra, in realtà. Stesso padre, madri
diverse. Brutta come lui e altrettanto brava nel suo campo. Non so perché ti
ha detto una bugia. Quello che so è che mi trovo sul groppone due morti
assassinati, e mica dei morti qualunque. Sei più pericoloso della Peste Nera,
tu. Fammi vedere il ginocchio. Il gomito ho già visto che lo pieghi senza
difficoltà. Mettici del ghiaccio e morta lì. Tirati giù i calzoni, adesso. Non
essere timido.»
Il siriano osserva il ginocchio gonfio. Lo tasta.
«Qui fa male?»
«No.»
«Qui?»
«Sì…»
«E qui?»
«Sì, cazzo!»
«Ricopri le vergogne. Senza una radiografia non posso esserne sicuro al
cento per cento, ma a occhio non hai niente di rotto. Ti sei fatto un’idea di
chi ha sparato?»
«Era buio. Ho visto solo la sua sagoma.»
«Uomo? Donna?»
«Non lo so. Uomo, direi.»
«Perché al momento il mio sospettato è una donna.»
«Chi?»
«La tua amica.»
«È sorvegliata, no?»
«Non abbastanza, visto che è sparita.»
«Sparita?»
«Cosa c’è, l’eco, in questa stanza? È sparita, sì.»
«E perché sospetti di lei?»
«Perché è sparita. Non ti sembra un buon motivo? A me sì. Anche perché
ha già visto troppo. Ti sei già scordato i tre porcellini bulgari?»
«I tre tassisti? Perché li chiami così?»
Aarif mi scruta. «Davvero non lo sai? Ma non li leggi, i quotidiani?
Neanche gli articoli di quel tuo amico, come si chiama?»
«Vidal?»
«Leggi cos’ha scritto sul giornale di oggi. E comunque la tua amica è
l’unica sospettata che manca all’appello, alle Zattere.»
«Dovete cercarla. Potrebbe essere in pericolo.»
«O potrebbe esserlo qualcun altro, a causa sua. Comunque, per un motivo
o per l’altro, stai sicuro che la cercheremo. Noi preferiamo ancora affidarci
al cervello, e non al cazzo.»
Avrei voglia di rompergli il muso. A lui e anche a Chimeze, che continua
a girare attorno al cadavere di Chatterjee come se fosse un’opera d’arte.
«Cosa dice l’articolo?»
E Aarif, sorridendo, me lo spiega.
Quando ha finito, mi fissa dritto negli occhi.
«Hai ventiquattr’ore di tempo, per ritrovare la tua amica e riportarla qui. E
per darci il nome dell’assassino delle Zattere.»
51

Lorenzo ha l’aria stanca. La pelle grigiastra del volto sembra una coperta
sfatta.
Più che sedere sulla panchina scrostata del parco sembra che vi sia stato
appoggiato. Un enorme peluche triste, la mascotte di una squadra retrocessa
e in odore di liquidazione.
Dal pino sopra la panchina gocciola l’ultima neve dell’inverno, ma il
giornalista sembra non farci caso.
Mi siedo accanto a lui.
«Ciao» azzardo.
«Vaffanculo.»
«La tua scortesia è dovuta a qualcosa di personale o ce l’hai col mondo
intero?»
«Sono stato licenziato. Fa’ un po’ tu. Vuoi cagarmi addosso? Accomodati.
Però prendi il numeretto.»
«Giornata storta…?»
«Vent’anni che lavoro in quel giornale di merda, vent’anni che mi sbatto
per loro, e mi licenziano con una mail.»
Una goccia cade sulla spalla del vecchio Woolrich e scivola giù. Una
lacrima la segue, dall’occhio destro del mio amico.
«D’altra parte ormai le guerre si dichiarano su Twitter» commenta, tirando
su col naso. Poi si volta a guardarmi. «Posso chiederti come mai hai voluto
vedermi?»
Potrei dirgli che non importa, che prima m’interessa sapere cosa gli è
successo, e come sta. Ma sarebbe una bugia. E il nostro rapporto non ha mai
conosciuto la falsità.
«È per via del tuo articolo sui tre bulgari.»
«Ah.»
«Come hai fatto ad avere quelle informazioni?»
«Segreto professionale.»
«Sei stato licenziato. Tecnicamente non ce l’hai più, una professione.»
Vidal mi fissa strizzando gli occhi rossi.
Gli scappa un rutto. La puzza di alcol che gli esce di bocca è terribile. Ha
uno strano modo di guardarmi. Un modo che non mi piace per niente.
«Qualcuno mi ha fatto avere dei filmati. Me li ha spediti sul cellulare. Non
sul solito numero. Su quello della seconda sim che mi ero fatto fare
quando… Be’, quando ho avuto quella breve storia con Krystyna. Mi ero
quasi dimenticato di averla nel cellulare, quella sim. E tre giorni fa mi arriva
un WhatsApp con un link, lo apro, e…»
«Aspetta. Chi lo aveva, quel numero, oltre a Krystyna?»
«Solo lei.»
Metabolizzo l’informazione.
Lorenzo mi fissa con quel suo sguardo indecifrabile. «Posso andare
avanti?»
«Certo.»
«Il link apriva un filmato. Anzi, diversi filmati.» Il giornalista rimane zitto
a lungo. Poi sospira. Scuote la testa. «Sono snuff movies. Sai cosa sono?»
«Sì.»
«Nel primo filmato ci sono tre uomini nudi, bardati di cinghie di cuoio
come cavalli. Indossano maschere antigas di modello industriale. Quelle con
lo schermo di plastica grande, attraverso cui puoi vedere le facce. Si
muovono attorno a una ragazzina legata, bendata e imbavagliata, appesa a
un’imbragatura che le tiene le gambe divaricate. La ragazza è sospesa a
mezz’aria, immobilizzata. I tre si danno da fare a lungo con lei, scopandola
in tutti i modi. Poi due di loro escono di scena e quando tornano hanno un
altro uomo in mezzo a loro. L’uomo sembra ubriaco. Barcolla, ha gli occhi
spenti. I due lo spingono di forza tra le gambe della ragazzina, gli infilano in
bocca una manciata di pasticche, ridendo. L’uomo penetra la ragazzina da
dietro…»
«Puoi evitare i dettagli?»
«L’uomo la sodomizza, facendola urlare dal dolore. Uno dei tre bardati di
cuoio le toglie il bavaglio e le infila un enorme dildo in bocca, un altro le
cava la benda dagli occhi.»
Mi accorgo che sta piangendo.
«È una ragazza giovanissima, molto magra. Ha degli occhi enormi,
dilatati dall’orrore e dal dolore mentre viene posseduta in quel modo
terribile. Il terzo e il quarto uomo si accoppiano a loro volta con lei, dandosi
il turno. Non c’è sonoro, o meglio, c’è quella canzonetta imbecille di dieci
anni fa, Fuck Me.»
Scuote la testa.
«Quando hanno finito di scoparla, portano via il quarto uomo, quello che
sembra fatto, tenendolo stretto come se fosse un prigioniero. E poi tornano
nella stanza. Hanno chiodi e un martello. Hanno una vecchia sega da
falegname.»
Solleva gli occhi gonfi di lacrime, lentamente, verso di me. «I tre uomini
erano i tassisti bulgari morti l’altro giorno. Il quarto…»
Mi fissa.
«Il quarto uomo. Quello instupidito. Quello che ha sodomizzato la
ragazzina. Quell’uomo eri tu, Sergio. Eri tu.»
52

L’ultimo articolo di Lorenzo Vidal scorre sullo schermo del suo cellulare.
Lo leggo da cima a fondo, aspettandomi da un momento all’altro che arrivi il
peggio. Ma arrivo all’ultima frase e il mio nome non c’è.
«Non hai fatto il mio nome» sussurro, restituendogli lo smartphone.
«No.»
«Hai fatto vedere ad altri il video?»
«No. Mi sono inventato che era un file a tempo. Che si è autodistrutto. Ma
avevo stampato le schermate coi tre bulgari e la ragazzina e gliele ho
consegnate. Al giornale e alla polizia.»
«Non hai fatto il mio nome…» ripeto.
«Che c’è, ti si è rotto il disco? Chiaro che non ho fatto il tuo nome. Si
vedeva benissimo che eri drogato fino alla punta dei capelli. Che ti hanno
costretto a fare quello che hai fatto. Che lì in quella stanza, a fare quelle
cose, in un certo senso nemmeno c’eri.»
Sospira.
«E poi ti voglio troppo bene. E ti conosco, anche, troppo bene, per credere
che tu abbia volutamente fatto quelle cose. Chi ha ripreso quel video ha fatto
di tutto perché il tuo volto fosse perfettamente riconoscibile. Gli altri tre
avevano le maschere, tu no. E la telecamera ti inquadra in faccia troppe volte
perché non fosse una cosa voluta. Ho capito che chi ha girato quel video
voleva incastrarti. Per questo non ho fatto il tuo nome.» Mi guarda. «E poi
c’è un altro motivo.»
«Quale?»
«Voglio che tu trovi chi c’è dietro a tutto questo. Devi trovarli! Solo tu
puoi farlo. E quando li avrai trovati…»
«Sì?»
«Devi ucciderli, Sergio. No: non solo ucciderli. Devi farli a pezzi. Devi
disintegrarli.»

Ci alziamo dalla panchina.


Una chiavetta usb finisce dalla mano di Lorenzo alla mia, e da quella alla
tasca interna del mio giaccone.
«Grazie.»
«Non mi pare il caso. Ora cancello i file dalla memoria del telefono.
Cancello il messaggio di WhatsApp. Non che serva a granché, ma almeno
non li avrò più sotto gli occhi. Era come avere una carie. Sai come si dice,
continuavo ad aprirli e a guardarli.»
«Che cosa c’è, negli altri file?»
«Sempre una ragazzina, e sempre i tre bulgari all’opera. No, tu non ci sei
più. Nell’ultimo, invece, ci sono almeno una dozzina di persone, uomini e
donne, tutti con quelle maschere antigas, e la stanza l’ho riconosciuta, è
quell’ipermercato abbandonato alle industrie Zetart. E il filmato è diverso.
Sembra… Sembra un rito collettivo, una specie di messa nera.
Agghiacciante.»
«Gli erevoniani…» mormoro.
Scuote la testa. «No. Quelli erano dei coglioni, ma innocui. Qualcuno ha
corrotto i loro riti, trasformandoli in qualcosa di orribile, di sanguinario. C’è
qualcosa che mi sfugge. Qualcosa che mi sta facendo impazzire. C’è un
legame sotterraneo, tra le persone e le cose assurde e terribili che succedono.
È un legame antico, che però continua a sfuggirmi. È come se dovessi solo
metterlo a fuoco. Come avere un puzzle e sapere che manca pochissimo per
mettere i pezzi nell’ordine giusto, per completare lo schema. Ma non ci
riesco. Non ci riesco…» Mi guarda. «Spero che possa riuscirci tu.»
«Ci proverò, Lorenzo.»
Il giornalista alza le spalle, si volta per andarsene.
Lo chiamo.
«Cosa c’è ancora?»
«Ti hanno licenziato per questo? Per l’articolo?»
Mi fissa senza capire. Poi scoppia a ridere. «Scherzi? No, è il sindaco che
ha chiesto alla proprietà del giornale la mia testa. Per il mio articolo sulla sua
conferenza stampa dell’altro giorno. Sai che avevi ragione? Destra e sinistra
non esistono più. Da coglione, mi facevo ancora delle illusioni.»
Unisce indice e pollice della destra.
«Mi hanno spento così. Puff. Come si spegne una candela.»
Fa un segno di saluto e se ne va.
«Cosa farai, adesso?» gli urlo dietro.
Lui non risponde. Agita la mano in alto, continuando a camminare sulla
ghiaia del vialetto, con un rumore che ricorda la terra gettata in una tomba.
«Trovali. E falli a pezzi. Disintegrali» ripete, un attimo prima di sparire
dietro la siepe.
53

Quando torno alle Zattere è di nuovo notte fonda.


Trovo Albert nel suo laboratorio. Alza appena la testa quando entro, per
poi immergersi nuovamente nei suoi calcoli e disegni.
In silenzio, infilo quello che posso nel mio zaino. Il taser carico in cima a
tutto.
«Vai a caccia?» fa il ragazzo.
«Già.»
«Elena sta bene.»
Mi volto, stupito. «E tu come lo sai?»
«Mi ha chiamato. Voleva sapere come stavi tu. È tornata a casa. Da suo
padre. Non mi sembrava al top dell’entusiasmo.»
«Doveva restare qui. Non doveva andarsene.»
«Si vede che non lo sapeva. O che non gliene fregava niente di quello che
tu pensi lei debba fare o non fare. Noi millennial siamo fatti così.»
Non rispondo. Noto una cosa infilata a metà sotto il cuscino.
Raccolgo il tablet e lo guardo.
«Albert…»
«Sì?»
«Ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Adesso.»
Gliela spiego.
«Si può fare?» chiedo, alla fine.
«Proviamo.»

Da qualche parte, tempo fa, ho letto un articolo che parlava dei rischi
dell’intelligenza artificiale. Del fatto che prima o poi le A.I., come le
chiamano, finiranno per diventare tanto più intelligenti di noi che
cominceranno a progettarsi e costruirsi da sole, e finiranno per considerare
gli esseri umani come qualcosa di superfluo per la loro evoluzione. E più
avanti ancora ci considereranno un rischio da eliminare. L’umanità diventerà
per le macchine quello che i rifugiati delle Zattere sono per questa città.
Un peso.
Una minaccia.
Qualcosa da togliere di mezzo.
«A cosa stai pensando?» fa Albert, immerso nei dati che appaiono sullo
schermo del computer.
«A niente.»
«Non è possibile. Sento che stai pensando a qualcosa di negativo.»
«Lo senti?»
«Sì. È fastidioso. M’impedisce di concentrarmi. Dimmi a cosa stai
pensando, così lo elimino dal rumore di fondo.»
«Sei matto?»
«Avanti, dimmelo.»
«Pensavo alla Singolarità di Kurzweil.»
«Ah.»
«No, è che ti guardo lavorare come se fossi una cosa sola con quella
macchina…»
«E pensi che sto lavorando con quello che ci eliminerà, prima o poi.»
«Sì.»
«Concentrati sul presente, poliziotto. Il futuro non esiste.»

Guardo le righe di testo e le sequenze di numeri scorrere sullo schermo


del computer. Il cavo che lo unisce al tablet è come un cordone ombelicale
attraverso il quale i dati passano a una velocità impossibile da una macchina
all’altra.
«Allora?» faccio.
«Allora è come pensavi tu. Questi filmati sono stati riversati nel tablet
dopo che sei arrivato alle Zattere.»
«Infatti non ricordavo di averli mai visti. E comunque, quando mi hanno
trovato mezzo morto qui fuori, i miei vestiti erano praticamente distrutti. Ma
mi hanno convinto con la storia della password…»
«Dici che non potevi avercelo addosso quando ti abbiamo preso a bordo,
insomma.»
«Non sarebbe rimasto intatto. Non addosso a me, conciato com’ero.»
«Ma chi può avertelo rifilato? A che scopo?»
Scuoto la testa. «Non ne ho idea.»
Albert indica lo schermo. «C’è un’altra cosa. Vedi? Questi file non sono
stati scaricati col tablet. Sono stati trasferiti lì da un altro apparecchio.»
«I film porno, vuoi dire?»
«Tutti i file contenuti nel tablet, tranne quelli di sistema. E adesso ti faccio
vedere un piccolo esercizio di magia.»
Il ragazzo apre un programma dall’aria spartana, artigianale. Digita una
sequenza di comandi.
«Guarda lì. Eccolo. È da lì che vengono, quei file.»
«Che cos’è? Un computer?»
«No. Un iPhone.»
«Non ho mai avuto niente della Apple. Steve Jobs mi è sempre stato sul
cazzo.»
Albert s’infila in bocca una matita e comincia a masticarla, come se fosse
una carota. «Posso essere d’accordo con te.»
Digita altre stringhe di istruzioni. Capisco che è un tentativo a vuoto dalla
smorfia che fa. Le sue dita volano sulla tastiera, veloci come insetti.
Inserisce, corregge, modifica.
Il sudore scende dalla sua fronte, malgrado la stanza sia tutt’altro che
calda.
Con un’urgenza febbrile, il ragazzo digita dodici righe di caratteri
alfanumerici.
In risposta, sullo schermo appare una serie di dati.
Stremato, Albert si appoggia allo schienale della sua sedia da ufficio.
«Che c’è?» faccio, scrutando la sua faccia attonita.
«C’è che ho appena scoperto di chi è, quell’iPhone.»
«E allora?»
«E allora non ti piacerà saperlo.»
54

Che cosa fai, quando ti svegli il mattino dopo la fine del mondo? Quando
senti che tutto è cambiato, che nulla ha più fondamenta, che il pianeta si è
spostato dal suo asse?
Nel mio caso, mi metto lo zaino in spalla e scendo al Caffè Impero.
Il giorno dopo la fine del mondo non si affronta a stomaco vuoto.

Mi chiedo se Abdu dorma mai. Fuori dalle porte vetrate è ancora buio, ma
lui è già dietro il bancone.
«Sei mattiniero, italiano.»
«Mi aspetta una giornata impegnativa.»
«Hai bisogno di una colazione come si deve, allora.»
«Stupiscimi.»
Il somalo annuisce, sorridendo.
«Ti preparo un Sidamo, bello forte. E dei pancake indiani.»
«L’idea dei pancake indiani mi spaventa.»
«Rilassati. E non pensare alla giornata che ti aspetta. Concentrati su cose
semplici. Una per volta. Anche meno di una, se puoi.»
L’anziana Faema Ariete sbuffa come un drago, mentre il barista aziona le
sue leve, per poi versare in una tazza il caffè dall’aroma più buono che abbia
mai sentito.
«Una cosa semplice, dici. Okay. Vediamo. Visto che potrei non
sopravvivere alla giornata, toglimi una curiosità che ho sempre avuto, da
quando sto qui alle Zattere.»
«Sentiamo.»
«Tu hai un socio, che è anche il tuo compagno, a quanto si dice.»
«È così.»
«Come si chiama?»
«Frank.»
«Non è un nome etiope.»
«Somalo. Siamo somali, non etiopi. E tu cosa ne sai? Comunque un uomo
adulto ha diritto di scegliersi il nome che gli piace.»
«Però c’è una cosa. C’è che nessuno l’ha mai visto. Tutti dicono che c’è,
ma non si è mai visto qui.»
Abdu scrolla le spalle.
«Ti assicuro che esiste. Lui si occupa, diciamo così, del ramo rifornimenti.
Ma esiste, eccome.»
Si china su di me. Il suo alito sa di zenzero e cardamomo.
«E ha un cazzo lungo ventisei centimetri» sussurra, per poi scoppiare a
ridere.
Scuoto la testa. Sorrido, mio malgrado.
Poi, alzando lo sguardo, mi vedo riflesso sullo specchio dietro il bancone,
e dietro di me le vetrate buie delle Zattere. Un buio che ha il colore del
freddo, e del pericolo.
Come in un quadro di quel pittore americano, come si chiama. Quello che
piace a Elena.
Forse ha ragione Abdu.
Dovrei pensare solo a cose semplici.
Una per volta.
O meno.
Ma non è facile.

Ho passato la notte nell’equivalente di una veglia d’armi. Come facevano


i cavalieri medievali prima di una battaglia. Immagino facessero così anche
i samurai. Non ne sono certo, ma penso proprio di sì. E anche i soldati della
divisione “Charlemagne” prima di affrontare i carri armati sovietici fra le
macerie di Berlino, armati solo di Panzerfaust e bottiglie molotov. Ho
passato la notte in ginocchio, lasciando che i pensieri mi scorressero
intorno, come l’acqua su una roccia. Sono stato una roccia, e poi, quando le
forze sembravano sul punto di svanire, a poche ore dall’alba, in quel tempo
dilatato, ho pensato invece a me stesso come a una foglia, e mi sono lasciato
andare al flusso di quella corrente, mi sono fatto trascinare dal fiume dei
pensieri, e in quell’arrendermi al cambiamento ho cominciato a percepire
frammenti di verità. La verità si solidificava tutt’intorno a me, l’acqua si
trasformava in ghiaccio, e poi in vetro, e il vetro in pietra. Fatti e date,
parole lette e ascoltate, tutto emergeva dalla confusione e formava disegni,
schemi. La verità si costruiva come una piramide di indizi, che a mano a
mano diventavano certezze. Dalla stanchezza nasceva consapevolezza, dal
buio emergeva una strada luminosa.
«Alzati» ho detto ad Albert.
«Che vuoi? Ma sei matto? Sono le tre di notte.»
«Sono le tre del mattino. Vestiti. Ho bisogno di te.»

Siamo andati nella cella del profeta Joachim, all’ospedale di Paris.


Attraversando l’edificio silenzioso, che sembrava deserto.
Muovendoci come angeli, come messaggeri invisibili nel cuore della
notte.
L’uomo non è parso sorpreso dalla nostra visita notturna. Come se ci
aspettasse.
Appollaiato sul suo letto ci ha scrutato con attenzione mentre spostavamo
due sedie per metterci di fronte a lui.
Ha fatto una domanda in quella sua lingua incomprensibile, ed è
sembrato il gorgheggio di un uccello curioso.
«In italiano, Joachim» lo ha invitato Albert.
Ho scosso la testa.
«Non Joachim. Il suo nome è Lars.»
Gli occhi del ragazzo dai capelli bianchi si sono illuminati di colpo.

Fin dalle origini l’uomo si è sempre raccontato delle storie. Storie per
dimenticare il freddo e il buio della notte, storie per tenersi sveglio durante
il tuo turno di guardia. Storie per indagare il passato, o per illuminare la
strada del futuro.
La storia che Lars Ingersen ci ha raccontato, in quel tempo sospeso prima
dell’alba, era la storia di un uomo che si era perso, mentre cercava il suo
fratello più piccolo. Era sceso dall’aereo in un paese dove nessuno capiva la
sua lingua, e aveva seguito le poche tracce lasciate da Jørgen. Qualche foto
mandata col BlackBerry, il numero di una stanza d’albergo, in quella città
dove il loro padre aveva lavorato da ragazzo. Lars, come suo fratello, e suo
padre prima di loro, era un ingegnere, non un poliziotto. Non era bravo, a
seguire le tracce o trovare gli indizi. Ma aveva metodo, e tempo, e la città in
cui suo fratello era sparito sei mesi prima era piccola, molto piccola. E
anche molto malmessa, aveva scoperto il giovane danese. Niente di
paragonabile alla città del boom economico di cui il papà non smetteva mai
di tessere le lodi.
La crisi aveva picchiato duro. C’erano quartieri degradati, e complessi
industriali abbandonati, ed era stato in uno di questi che aveva trovato la
prima traccia di Jørgen. L’ultimo collegamento video con suo fratello era
stato una cosa ai limiti dell’assurdo.
Il ragazzo era nudo, e saltava su un materasso. Indossava una maschera
antigas.
«In che topaia sei finito?» aveva scherzato Lars. «Puzza così tanto?»
La faccia mascherata di Jørgen si era avvicinata a un centimetro dalla
telecamera del pc. Dietro le lenti, gli occhi del fratello erano iniettati di
sangue, in preda a una luce folle, la stessa follia che lo portava ad
accelerare le parole fino a renderle quasi incomprensibili.
Sulla parete alle sue spalle c’erano dei disegni orribili, mostruosi.
Creature demoniache, dal volto di rettile, che si accoppiavano con giovani
femmine umane.
«Ho visto la luce, Lars. Ho conosciuto la verità.»
«Mi fa piacere» aveva risposto lui, prendendola alla leggera. Il suo
fratellino non era nuovo alle sbandate religiose. E anche politiche. Quando
aveva quindici anni si era fatto fare il tatuaggio di una svastica sul dorso
della mano. Poi era passato alla sinistra anarchica, e aveva dovuto farsi
togliere il tatuaggio con un trapianto di pelle. Così sul dorso della destra gli
era rimasta una zona di pelle più chiara e senza peli.
«Siamo tutti in pericolo» aveva balbettato Jørgen. «I padroni del mondo
stanno per assumere il controllo. Nessuno si salverà. Nessuno. Dobbiamo
fermarli. E lo sai come? Lo sai come si fa, a fermarli?»
Nello schermo, il riflesso del lampadario sul soffitto aveva trasformato le
lenti della maschera antigas in due specchi luminosi. Come se dagli occhi di
Jørgen uscissero fasci di luce.
«Con il sacrificio. Il sacrificio degli impuri. Di quelli che contaminano la
razza. Della progenie immonda dei Rettili Sovrani.»
Durante quella videochiamata di dodici minuti Lars aveva cercato di
interrompere il flusso disordinato di parole miste a versi animaleschi che
uscivano deformate attraverso la maschera antigas. Se all’inizio avrebbe
voluto canzonare Jørgen per quelle idiozie alla Lovecraft, man mano che il
delirio del fratello andava avanti, Lars perdeva il contatto con la realtà, si
lasciava attirare in quel vortice di follia. Il ritmo delle frasi di Jørgen si
faceva sempre più musicale, una musica ipnotica, finché Lars non aveva
capito che la musica proveniva da un’altra parte, una musica dissonante, di
flauti e di qualcosa che sembravano nacchere. Una giovane voce femminile,
e poi un’altra, avevano chiamato il nome di suo fratello, e Jørgen aveva
alzato la testa di scatto, puntando l’aria come un cane.
«Mi chiamano» aveva riso, estatico. «Mi chiamano. È il mio momento.
Addio, fratello. Sii felice per me. Sono contento di averti parlato. Non
cercarmi.»
La mano di Lars si era mossa di scatto a chiudere il coperchio del
notebook, e la videochiamata si era interrotta di colpo.

Jørgen non era tipo da chiamare ogni giorno. Lavorava per la succursale
italiana di una multinazionale, a Pista Prima. La sua famiglia cominciò a
preoccuparsi quando fu la ditta a chiedere se avevano notizie
dell’ingegnere, che non si presentava al lavoro da una settimana. La stanza
del residence in cui viveva era vuota. Nessuna traccia di lui o delle sue cose.
I loro genitori erano morti in un incidente d’auto molti anni prima. Lars
era l’unico parente a potersi preoccupare per Jørgen. Così aveva chiesto tre
giorni di permesso all’università e aveva preso un aereo per l’Italia.
Inutile dire che la polizia non l’aveva aiutato. Un’ispettrice in divisa
aveva cercato di spiegargli in inglese che non avevano avviato indagini
perché non ce n’era motivo. «Vedrà che suo fratello darà presto notizie di
sé» aveva detto, in un tono che avrebbe voluto essere rassicurante. E quando
Lars le aveva raccontato di quella strana videochiamata, lei aveva risposto:
«L’ha registrata? No? Peccato.»

I tre giorni di permesso erano diventati un mese, che Lars aveva diviso tra
la sua camera d’albergo, dove faceva ricerche sui media e sui social, e le
strade di quella brutta città in cui nessuno rispondeva alle sue domande.
Conoscendo l’interesse di Jørgen per l’arte aveva visitato il piccolo museo
accanto al municipio, che conteneva alcune belle opere d’arte sacra e un
sacco di ritratti ottocenteschi.

E poi aveva saputo dell’altro museo, più piccolo, aperto da poco tempo
nei locali del castello di Villabassa.
55

Lars Ingersen aveva attraversato senza troppe illusioni le prime stanze


del piccolo museo, dedicate alle origini della città, sotto lo sguardo
fastidioso del custode, un ometto che gli sembrò degno di un racconto
dell’orrore: zoppo, ingobbito, un’aureola di capelli bianchi che accentuava
la bruttezza del volto devastato da alcune vecchie cicatrici.
«Straniero?» aveva chiesto. «Tedesco?»
«Danese.»
«Danese…» aveva ripetuto il custode.
«C’è stato qualche altro danese in questo museo, ultimamente?»
L’ometto si era fatto di colpo reticente.
«Non chiediamo la nazionalità ai nostri visitatori. E l’ingresso è gratuito,
così capita che con loro non si scambino nemmeno due parole. Ma no,
svedesi proprio non ne ricordo.»
«Danesi.»
«Stessa roba. No, nessun danese. Mai conosciuto un danese.»
Il suo inglese aveva un accento marcatamente americano. Nulla di
sorprendente. Una base Usaf sorgeva nelle vicinanze della città.
Probabilmente l’uomo ci aveva lavorato, o aveva dei vicini americani.
Lars aveva proseguito la sua visita, ma, invece di tornare al suo
gabbiotto, il custode l’aveva seguito.
«Non dovrebbe stare alla cassa?» gli aveva chiesto a un certo punto,
spazientito.
«Oh, non aspetto altri visitatori. E poi li sentirei arrivare. L’acustica di
questo posto è bizzarra. Mi dica, le interessa l’arte rinascimentale?»
«Sì. Penso di sì.»
«Penso di sì… Venga, venga. Le faccio ammirare La caduta degli angeli
ribelli, di Celestino Bellosguardo. Non può assolutamente perdersela.»
In effetti era un quadro rimarchevole, anche se nulla di paragonabile alle
tele che Lars aveva visto a Venezia e Firenze, durante un viaggio con i
genitori. Era anche molto cupo.
«Vedo che non è colpito da questo artista.»
«No, no. È molto bravo» aveva detto il danese, come per scusarsi. Aveva
proseguito svogliatamente quella visita senza più interesse. Finché, in una
delle stanze al pianterreno, non si era bloccato di colpo.
La statua in legno policroma raffigurava un santo dalla lunga barba
bianca.
Sotto i piedi del santo c’era un medaglione spezzato, che recava il disegno
di tre musi verdi da rettile, con un’espressione malvagia.
«San Pantrizio» aveva commentato il custode.
«Ho già visto quel disegno. I tre volti di rettile.»
«Come dice? Ah, no: impossibile. Questa statua è un unicum. L’hanno
studiata professori eccellenti, venuti anche dall’estero. Non può aver visto
niente del genere, in altri musei.»
«Ma non l’ho vista in un museo» si era lasciato andare Lars. «Era qui, in
questa città. Era alle spalle di mio fratello, nel video. Era su un muro.»
Il custode aveva fatto una smorfia. I suoi occhi si erano fatti duri. «Ma
che sciocchezze. Senta, mi spiace ma devo chiederle di concludere la sua
visita.»
«Ma l’orario di chiusura…»
«Chiusura straordinaria! Dobbiamo collaudare i sistemi antincendio. Mi
dispiace ma devo farla uscire prima.»
Lars aveva scosso la testa. Non vedeva motivo di discutere con quello
strano vecchio. Si era mosso verso l’uscita, tallonato dal custode. Finché
non era passato davanti a un vecchio librone dalla copertina in pelle. Una
penna Bic era agganciata al libro con una catenella metallica.
Quando Lars si era avvicinato, il custode aveva avuto una specie di
spasmo, ed era scattato ad allungare le mani verso il volume. Ma Lars,
molto più giovane e in forma, aveva avuto la meglio. Indifferente alle
proteste del vecchio, aveva sfogliato a ritroso le pagine, controllando le
date.
Non c’era voluto molto. Girate tre pagine era arrivato a due righe in
danese e una firma che gli avevano gelato il sangue.
Jeg fandt endelig, hvad jeg ledte efter: sandheden om mand og liv. Tak til læreren,
der åbnede mine øjne.
«Ho finalmente trovato ciò che cercavo: la verità sull’uomo e sulla vita.
Grazie al maestro che mi ha aperto gli occhi.»

Firmato Jørgen Ingersen.


56

«Il custode era diventato tutto rosso in faccia» sussurra Lars. «Mi fissava
da sotto in su come un cane che si è comportato male e teme una punizione.»

«Questa l’ha scritta mio fratello. È la sua grafia. La sua firma. Lui è stato
qui!»
Il vecchio aveva alzato le mani.
«Passa tanta gente…»
«Non è vero! Non ci viene nessuno! Perché mente? Perché ha detto che
non era mai stato qui?»
Il custode si era raddrizzato di colpo. «Suo fratello era un uomo molto
intelligente. Come vostro padre, del resto.»
«Lo conosceva? Conosceva mio padre?»
«Certo. Un uomo speciale, dalla mente aperta. Voi scandinavi siete i
migliori esemplari della razza umana. Vostro padre è stato tra i primi
discepoli del nostro culto. Se non fosse dovuto tornare in patria avrebbe
potuto persino prendere il mio posto alla guida della nostra chiesa. Suo
fratello ha trovato un diario di Niels, dove parlava della sua esperienza fra
noi, e ha deciso di percorrere le orme di vostro padre. Era solo curioso.
Probabilmente in un periodo della sua vita in cui mancava di certezze…»
«Jørgen è sempre stato così. Sempre in cerca di qualcosa…»
«Forse non cercava la verità, ma quando l’ha trovata l’ha riconosciuta
subito, e le ha reso omaggio.»
«Perché dice era? Dov’è Jørgen? Lei lo sa!»
Il vecchio si era schermito. «È una storia lunga. Se vuole sentirla tutta,
venga al Tempio della Luce, stanotte.»
«Il Tempio della Luce? Cos’è?»
«Lo scoprirà. Venga stanotte, e tutto le sarà chiaro. Conoscerà la verità, e
la verità la renderà libero.»
«Me lo dica adesso dov’è Jørgen!»
«Adesso non è possibile. Venga stanotte, le ho detto.»
«E dov’è, questo posto?»
«Lei venga qui a mezzanotte, e basta. Non deve preoccuparsi di
nient’altro.»
Lars si era lasciato spingere verso la porta, senza opporre resistenza.
Quando l’ebbe chiuso fuori, il custode lo fissò attraverso il vetro, con
un’espressione indecifrabile. Poi si voltò e sparì nel suo museo.

«Quando tornai, quella notte» mi racconta Lars, lanciando sguardi


sospettosi verso gli angoli bui della sua cella, «il quartiere di Villabassa
sembrava deserto. Il tassista mi lasciò davanti al castello, chiedendomi se ero
sicuro dell’indirizzo, perché le luci erano tutte spente.
«Quando vidi sparire dietro una curva le luci di coda del taxi, confesso
che ebbi paura. Ma mai come quando dall’ombra dei cespugli cominciarono
a salire verso di me delle sagome incappucciate.
«Avrei voluto girarmi e scappare, ma la via di fuga era bloccata da altre
figure col volto in ombra. Presto mi circondarono. Diedi un’occhiata intorno,
spingendo lo sguardo sopra i muri del parcheggio, ma non si vedevano
finestre illuminate.
«Presto gli incappucciati mi strinsero in un cerchio.
«E cominciarono a cantare.
«Salmodiavano in una lingua incomprensibile, muovendosi in cerchio
intorno a me, facendomi girare la testa. C’era una qualità ipnotica nel loro
canto sommesso, che aveva qualcosa del suono dell’acqua e delle foglie.
Uno di loro mi toccò la spalla. Un tocco femminile, poco più forte di una
carezza. Sentii una puntura, come il morso di una zanzara. La ragazza si
staccò da me e riprese il suo posto nel cerchio. Continuavano a girarmi
intorno, e io giravo a mia volta, finché non mi sentii cadere, e le loro braccia
mi sostennero.
«Quando ripresi i sensi ero disteso su un materasso, nudo come un verme,
e faticavo a respirare. Avevo qualcosa sul volto, e toccandola capii che era
una maschera antigas di modello antiquato, forse la stessa che aveva addosso
Jørgen nel video. Puzzava di gomma e di sudore, quella maschera. Mi
rialzai, e riconobbi i disegni sulle pareti. Gli uomini-lucertola, come li
chiamavo. Gli stessi raffigurati sul medaglione di quella strana statua di
legno al museo.»
Il corpo di Lars rabbrividisce.
«Le mie orecchie non erano coperte dalla maschera, e attraverso di esse
mi arrivava una colonna sonora discordante, fatta di musica ma anche di
gemiti e grugniti.
«Mi alzai dal materasso, incespicando. Era come se fossi ubriaco, anche
se non ricordavo di aver bevuto nulla di forte. Appoggiandomi al muro mi
mossi verso la fonte di quei suoni. Scostai un telo di plastica pesante, che
scendeva dal soffitto formando una parete divisoria. Dietro quel telo c’era
una luce calda, la luce di un falò acceso in mezzo a uno stanzone enorme. E
intorno al fuoco decine di figure, chine o in piedi o distese, intente in una
varietà infinita di atti sessuali: da soli, a due, a gruppi. E al centro di tutto
c’era una ragazzina legata a un’imbragatura, una specie di pendolo umano
appeso al soffitto altissimo, e intorno a lei si davano da fare con fruste e
vibratori tre uomini e una donna, nudi. Tutte le figure, tranne la ragazzina
legata e imbavagliata, indossavano una maschera antigas. Barcollai verso il
falò che ardeva in un enorme bidone tagliato. I corpi sudati riflettevano il
rosso delle fiamme.
«La musica era frastornante. Flauti stridenti, percussioni che ti facevano
saltare il cuore nel petto. Mi trovai anch’io a danzare, a saltare. Dovevano
avermi drogato, perché mi sentivo come se fossi lì e al tempo stesso fossi
leggermente staccato, come a pochi metri da me, e mi guardassi fare quelle
cose: danzare, saltare, avvicinarmi alla ragazza legata. Mi trovai in mano
qualcosa, mi infilarono in mano una frusta, e io la feci schioccare ridendo,
ridevo come un matto. La frusta era come un serpente, sibilava e sferzava il
pavimento, la pelle. La ragazzina mugolava a ogni colpo. Avrebbe urlato ma
non poteva, perché in bocca le avevano infilato un enorme fallo di gomma
che la soffocava. Era tutta paonazza, respirava a fatica, e la sua pelle era
rigata da tagli che stillavano sangue, i tagli fatti dai colpi di frusta, e io
sferzai di nuovo e un’altra ferita le rigò la pelle nuda del fianco…
«Tutti ridevano, tutti, intorno a me. Quelli che scopavano, e i quattro
carnefici. La ragazzina piangeva e quelli ridevano, sghignazzavano. Vidi
incredulo che una ragazza nuda con la maschera filmava ogni cosa. Aveva
una piccola macchina da presa dall’aria costosa, e si muoveva intorno alla
prigioniera, filmando, zoomando, scivolando in mezzo alla calca di corpi
sudati.»
«Poi cominciarono a toccarla.
«La ragazzina legata.
«Lasciarono cadere le fruste e le si fecero addosso. La possedettero in
ogni modo possibile. Le fecero di tutto. E poi di colpo erano mie le mani che
si posavano sulle sue natiche nude rigate di sangue, ero io a penetrarla. Ci
demmo il turno per quelle che mi parvero ore. E la ragazza nuda filmava
tutto. Tutto.
«Poi la musica cessò di colpo.»
57

«È buono, il tuo caffè.»


Abdu sorride. «Non è buono. È il meglio.»
«Cos’hai detto che è?»
«Sidamo.»
«Fammene un altro. E anche i tuoi pancake non sono male. Perché li
chiami indiani? Mi sembrano pancake assolutamente normali. E poi che ne
sai, tu, dell’India?»
Il barista alza le spalle. Poi ride, toccandosi il naso con la punta
dell’indice. «Marketing.»
«Che testa di cazzo che sei.»
«Vero?»
Prepara un altro caffè e me lo porta.
Inarco un sopracciglio. «Un’altra tazzina? Invece di riempirmi la mia?
Cos’è, il Natale etiope?»
«Somalo. No, è che più ti guardo e più mi dico che per te questa non è una
giornata come le altre. E allora, se la giornata è speciale, dev’esserlo anche il
caffè.»
«Hai occhio, tu.»
«Faccio il barista. È una specie di missione.»
Lo guardo.
«Da quanto tempo stai qui, Abdu?»
«Intendi alle Zattere o dietro questo bancone?»
«Alle Zattere.»
«Saranno sette anni il prossimo maggio. E da tre ho aperto questo bar.»
«Prima cosa facevi?»
«Un po’ di questo, un po’ di quello. Sai com’è.»
«Non ti manca il tuo paese?»
«Neanche un po’. Mi mancano certi odori. E sapori. Ma la gente? No.
Quando uno è come me o Frank, sai cosa voglio dire, insomma, la vita è
dura, in Africa. Ci sono in giro un sacco di matti che pensano sia giusto
ucciderti se infili l’uccello nel buco sbagliato. O se fin da quando eri piccolo
ti piaceva fare certe cose con i maschi piuttosto che con le femmine. Tipico
delle religioni: ti costringono a stare lontano dalle donne, e poi ti
condannano se te la fai con gli uomini. Non devono essere mai stati
adolescenti. Hai presente quando ti scoperesti il muro, da tanto ce l’hai
sempre in tiro? Io dico: logico che le religioni intolleranti nascono nel
deserto, da pastori…»
«Dovrebbe essere il contrario. Pensaci bene. Quelli hanno sempre una
capra o un cammello su cui sfogare i loro istinti.»
«Dimentichi i sensi di colpa…»
«Comunque non dovresti dirle ad alta voce, certe cose.»
«Siamo in democrazia, no?»
«Dove l’hai sentita, questa?»
Lui mi fissa con l’aria offesa.
«Poca democrazia è comunque meglio di nessuna democrazia» taglia
corto, voltandomi la schiena e mettendosi a sfregare con lo straccio la sua
monumentale Faema. Mi fa pensare ad Aladino che strofina la lampada. Mi
ci vorrebbe, adesso, un Genio capace di esaudire i miei desideri.
Cosa gli chiederei? Di portarmi lontano da tutto. In un posto tipo la
Fortezza della Solitudine di Superman, fra i ghiacci polari.
Lo so.
È un desiderio stupido.
Potrei chiedergli, invece, di chiarire i tanti, troppi misteri del guaio in cui
mi sono cacciato. Ma questo non risolverebbe i miei, di guai, e tantomeno
quelli del mondo. Sarebbe una goccia di verità contro un oceano di tenebre.
E il domani per me, anche se sorgesse su un caso risolto, illuminerebbe
comunque un paesaggio di macerie. Personali e globali. Il mondo è fottuto, e
trovare i colpevoli, dar loro un nome e punirli, tutto questo sarebbe come
una piuma sulla bilancia del mondo, una leggerissima piuma, poco più densa
di un respiro, mentre sull’altro piatto vengono gettati pesi di piombo e pietre
insanguinate.
«Il dovere è pesante come un macigno, la morte è leggera come una
piuma.» L’avevo detto a Elena. «Che stronzata» mi aveva risposto.
A ragione.
È la vita, a essere leggera come una piuma.
Chiudo gli occhi e riascolto dentro di me le parole di Lars Ingersen,
appollaiato sul materasso del suo letto, nella sua cella, fra le pareti riempite
di disegni mostruosi.

«La musica cessò di colpo.


«Cessarono gli amplessi, come se tutti fossero rimasti paralizzati,
congelati nell’attimo in cui dal fondo della sala si fecero strada verso di me
tre personaggi assurdi.
«Indossavano mantelli scarlatti, e sotto erano nudi. Portavano maschere
antigas, come tutti nella sala, ma queste erano dipinte di verde, con disegni
di scaglie. E sulle lenti erano tratteggiate due pupille verticali, da rettile.
«L’uomo al centro era piccolo e ingobbito. Lo riconobbi immediatamente,
nonostante la maschera.
«Era il custode del museo di Villabassa.
«I due che camminavano al suo fianco erano maschi alti e robusti, che
reggevano ciascuno un cuscino color porpora. Quando furono vicini vidi
che su un cuscino c’era un bacile d’argento massiccio, e sull’altro un
coltello dal manico di vetro. Un coltello antico, arrugginito.
«Il custode e i suoi accoliti si fermarono a un passo da me. Gli occhietti,
dietro le lenti, sorrisero.
«“Benvenuto, figlio mio. Ti è stato fatto un grande onore, stasera.
Accogliendoti tra noi onoriamo la tua stirpe. In te rivivono tuo padre, uno
dei nostri illuminati fondatori, e tuo fratello, che abbiamo molto amato.
Oggi tu prendi il loro posto fra di noi. Oggi tu eserciti il tuo diritto di scelta.
Oggi devi decidere se vuoi, come tutta l’umanità, continuare a crogiolarti
nell’ignoranza, o se vuoi scegliere invece di unirti ai signori dell’universo,
ai nostri re nell’ombra, per servirli e onorarli e ottenere i doni che ti sono
dovuti in cambio della tua fedeltà. La scelta è tua.”
«L’enorme capannone sembrava essersi ristretto.
«Pareva essersi chiuso su di me e sul custode, e sulla ragazzina appesa
alle corde, inerme.»

Il danese aveva gli occhi sbarrati, mentre ricordava quella notte.


Pronunciò alcune parole in una lingua sconosciuta, ma che certo non era
danese, perché sembrava fatta di sibili e schiocchi. Una lingua da rettili.
«Il custode si chinò su di me, sussurrandomi all’orecchio frasi che non
capivo. Il suo alito sapeva di spezie sconosciute, ma sotto quei profumi
stagnava un tanfo di marcio, di denti cariati.
«Forse fu quello a salvarmi.
«La ripugnanza istintiva che provai per quel puzzo alzò dentro di me una
barriera repulsiva.
«Quando le manine pallide e glabre del custode mi passarono il coltello,
mentre la sua voce continuava a recitarmi all’orecchio la sua maledetta
cantilena, lo spinsi da parte con violenza, facendolo cadere addosso alla
ragazza che filmava la scena, che rovinò a terra, perdendo la maschera.
«Non ho mai visto una simile espressione d’odio su un volto umano.
«Mai.
«Mi fissava come se fosse una belva disturbata mentre si ciba della sua
preda. Era bella, ma in quel momento la bellezza del suo corpo e dei suoi
lineamenti aumentava l’orrore di quello sguardo feroce, disumano.
«Feci per scappare, ma la folla debosciata diventò una selva di mani che
mi tiravano, mi trattenevano, mi rovesciavano a terra.
«“Razza di stupido!” sibilò il custode. La saliva schizzava dalle sue
labbra. “Potevi diventare un prescelto, come tuo fratello! Potevi officiare il
rito del supremo sacrificio! Invece non sei che un debole! Sei un animale,
come quelli che sacrifichiamo. Farai la loro fine! Portatelo via!”

«Mi trascinarono fuori dalla stanza, in uno dei bagni dell’edificio in


disuso. Era incredibilmente sporco, e buio. Mi chiusero dentro a chiave e si
misero di sentinella fuori dalla porta. Non c’erano finestre o altre vie
d’uscita. Lo scoprii tastando l’intero locale, lordandomi oscenamente,
perché quel bagno veniva evidentemente usato, anche se non doveva essere
stato pulito da anni.
«Mi lasciarono lì per più di un’ora, mentre la musica riprendeva. Ma ora,
quando la musica si faceva più forte, si levavano dei gridi di dolore
laceranti. Anche se mi premevo le mani sulle orecchie fino a farmi male,
quelle urla disperate di donna riuscivano lo stesso a raggiungermi,
rendendomi pazzo. E dovevo essere pazzo davvero, quando vennero a
prendermi per spingermi di nuovo a calci nel salone illuminato dal grande
falò. Mentre mi trascinavano al centro della stanza, vidi che sul pavimento
era stato steso un telo di plastica pesante. Il telo era sporco di sangue, e
insanguinate erano anche le mani dei dementi che in cerchio mi fissavano, i
volti nascosti dalle maschere antigas che li facevano sembrare degli enormi
insetti maligni. I tre con le maschere dipinte a squame verdi mi si fecero
incontro. Dietro di loro, il giovane corpo appeso all’imbracatura penzolava
inerte, le mani e i piedi tagliati. Dai moncherini usciva un debole sgocciolio
di sangue. Quanto sangue può contenere, un corpo umano? Milioni di litri.
Un mare, di sangue. Tutto era rosso: le fiamme, i mantelli, le mani degli
assassini.
«Dalle bocche di quei pazzi usciva, salendo di volume e di tono, una
salmodia velenosa, crudele. E intanto, implacabilmente, mi stringevano nel
loro cerchio. La ragazza, che non si era curata di rimettersi la maschera,
filmava da fuori quell’accerchiamento mortale. Perché il custode impugnava
la lama antica, e i suoi due accoliti brandivano dei tagliasiepi elettrici
accesi, che producevano un suono agghiacciante.
«Il custode pazzo mi puntò contro l’indice.
«“Tuo fratello si è offerto in sacrificio. È salito al cielo degli eletti. È
stato condiviso ed è parte di noi, e ci aspetta nella Sala degli Eroi. Quando i
nostri Signori verranno a liberarci dalla gravità terrestre, il suo cervello
verrà innestato in un corpo nuovo, senza macchia e senza difetti. Un corpo
glorioso, col quale assurgerà ai cieli. Sacrificandosi, il nostro fratello
Jørgen si è innalzato fino alle stelle. Condividendo il suo corpo umano,
abbiamo partecipato della sua gloria. Ma tu non sarai condiviso, no: tu
sarai consumato. Come l’animale che sei.”
«Non so dove trovai la forza, ma quando fu di fronte a me, invece di
ritrarmi scattai in avanti. Afferrai la sua arma per la lama. Era una
scommessa, ma la vinsi. Da ingegnere, esaminai al volo i materiali e
calcolai le probabilità, nei pochi attimi che avevo. Quel coltello era troppo
antico e prezioso per venire affilato come avrebbe dovuto. Infatti, la sua
punta era mortale, ma il filo della lama era smussato. Mi ferì, ma solo
superficialmente. Riuscii a strapparlo dalla mano del mostro e a
puntarglielo al collo. Spillai qualche goccia di sangue, facendolo squittire di
paura. Il custode si afflosciò nella mia presa. Facendomene scudo arretrai,
costringendo il cerchio ad aprirsi. Il gregge, perché di questo si trattava, si
disperse, incapace di decidere il da farsi. Mi lasciarono andare. La porta
d’uscita era bloccata da una dozzina di accoliti. Di lì non sarei riuscito a
passare. Così scostai il telone di plastica e tornai nel locale in cui mi
avevano tenuto prigioniero prima di quel rito mostruoso.
«C’erano due porte. Ne presi a caso una. Dava su una scala che saliva al
piano superiore. Il custode, mentre lo trattenevo, continuava a proferire
insulti e minacce. Era così leggero e fragile che avrei potuto spezzargli il
collo con un dito, mi sembrò. Ma la voce che usciva da quelle labbra di
vecchio era terribile, più minacciosa del ruggito di un leone.
«La porta che trovai in cima alle scale portava a una stanza semibuia. La
poca luce filtrava da una finestra. Era di un lampione esterno, quasi
annullata dai pesanti tendaggi neri.
«Chiusi a chiave. Era una porta metallica, robusta, e la serratura
sembrava solida. Poi cercai a tentoni l’interruttore. Il custode, vedendomi
tastare le pareti, smise di minacciarmi. La sua voce si fece melliflua,
supplicante. Mi pregava di andare via da quella stanza, di non accendere la
luce.
«Le mie dita trovarono finalmente l’interruttore.
«Lo premettero.»

Non sono una persona impressionabile.


Ma c’era qualcosa, in quelle ultime parole del danese, che mi ha fatto
correre un brivido lungo la spina dorsale.
Aveva parlato, fino a quel momento, fissando il soffitto. Ma ora il suo
sguardo si volse verso di me, fissandomi direttamente negli occhi.

«C’era un lungo tavolo metallico, smaltato di bianco. E dietro il tavolo


degli scaffali, anch’essi bianchi. Su quegli scaffali stavano allineati dei
contenitori di vetro, dei bottiglioni semitrasparenti e polverosi dentro i quali
galleggiava qualcosa, come delle meduse.
«Avvicinandomi al tavolo vidi che la sua superficie apparentemente
immacolata era segnata da tagli incrostati di sporcizia scura. E malgrado
l’aspetto da sala operatoria della stanza, c’era un odore terribile. Veniva da
un contenitore metallico per terra. Una mosca si era posata sul coperchio, e
si alzò in volo quando io, ignorando le suppliche e i lamenti del custode, lo
sollevai.
«Il puzzo mi aggredì le narici come un pugno. Quello che c’era in quel
bidone… è indescrivibile… Ossa e resti di carne a brandelli. E i piatti di
plastica rossi da picnic.
«Alzai lo sguardo.
«Gli occhi di mio fratello mi fissarono, ciechi, attraverso il vetro spesso di
uno dei bottiglioni.
«Avrei perso i sensi, se l’infame custode non avesse cercato di sottrarsi
alla mia presa. Allora non ci vidi più. Con quel suo coltello maledetto lo
colpii tre, quattro volte. Lui alzò le braccia per difendersi, e le mie coltellate
non riuscirono a colpire se non quelle. Al quarto colpo cadde come un sacco
sgonfio, e rimase lì in terra a contorcersi e strillare per il dolore.
«Il mio cuore batteva a mille.
«Guardavo incredulo la testa mozzata di Jørgen, i suoi occhi azzurri privi
di vita. Vidi allora che anche negli altri bottiglioni sugli scaffali c’erano
delle teste. Mi sentii mancare, ma stavolta a impedirmi di farlo furono i
colpi contro la porta. Colpi assestati con un oggetto pesante. La porta
sembrava reggere, ma dai cardini fissati al muro cominciavano a cadere
schegge d’intonaco, e a scendere una nuvola di polvere di cemento. I muri
degli anni Settanta non sono quelli di una fortezza medievale. La porta non
avrebbe tenuto a lungo.
«Allora feci quello che nessuna persona di buonsenso avrebbe mai fatto.
Presi il contenitore con la testa di mio fratello, spalancai la finestra e mi
buttai giù, senza badare all’altezza.
«Caddi sull’erba, sul retro dell’edificio, un piano più in basso.
«Il bottiglione andò in mille pezzi, nell’impatto col suolo.
«Allora, incurante delle schegge che mi avevano lacerato le braccia,
raccolsi da terra la testa di Jørgen, reggendola per i capelli, e mi misi a
correre nel buio, nella boscaglia, coi rami che mi frustavano il volto e i
detriti che mi ferivano i piedi. Corsi per ore, e presto i suoni degli
inseguitori scemarono e poi svanirono del tutto, e quando arrivai alle
Zattere, a quelle luci che intraviste a tratti attraverso il fogliame
sembravano un faro nella notte, non reggevo nella destra altro che un ciuffo
di capelli biondi dall’odore pestilenziale. Mi strofinai freneticamente le mani
per togliermeli di dosso. Il cervello mi scoppiava. I pensieri ruotavano
attorno a parole incomprensibili, e la mia bocca ripeteva come un mantra le
formule ascoltate dalle folli labbra del custode. Mi sentivo addosso la
febbre. Ero nudo, sporco, coperto di ferite lasciate dai rami del bosco e dalle
cadute. I miei piedi erano una polpa sanguinolenta. Camminai sulla ghiaia
del viale con un passo da ubriaco. Da zombi. Scorsi qualcuno venirmi
incontro, nella luce dell’alba. Vidi le mani che si tendevano verso di me, vidi
bocche aprirsi e chiudersi silenziose malgrado urlassero. E poi mi sentii
cadere all’indietro, come se precipitassi da un’altissima scogliera. In un
mare di buio che mugghiava parole incomprensibili.»

«Lars» avevo sussurrato.


«Sì?»
Mi ero infilato la mano nella tasca del giubbotto, pescando una foto come
se fosse una carta da gioco. L’avevo posata delicatamente sul letto, davanti
al danese.
Lars Ingersen aveva allungato due dita, lentissimamente, come se
venissero da una distanza infinita. Come se fossero i bracci di una sonda sul
suolo di un altro pianeta. Le dita sollevarono la foto senza rovesciarla. Solo
quando il rettangolo di carta fu davanti ai suoi occhi il danese lo voltò, lo
guardò.
«La riconosci?» sussurrai.
Lars annuì. «È la ragazza con la telecamera.»
E poi chiuse gli occhi e si abbracciò le ginocchia.
Chinò il capo, piegandosi come un coltello a scatto.
Raccolsi la mia foto e uscii.

Per venire qui. Al Caffè Impero. Per pensare. Per prendere tempo e fiato.
E magari per trovare una spiegazione diversa per quello che avevo scoperto,
e che Lars mi aveva appena confermato.
Ma non l’avevo trovata.
Però avevo in mano due delle ultime tessere per completare il puzzle.
La prima tessera era che ora sapevo che fine aveva fatto e dove potevo
trovare l’ingegner Gaspare Amodio, il nuovo padre spirituale degli
erevoniani.
La seconda…
Alla seconda preferivo non pensarci.
Ho chiesto ad Abdu carta e penna.
Sui fogli c’è l’intestazione di una marca di caffè, e la Bic è masticata.
Ma scrive, ed è quello che conta. Del resto non ho tante cose da scrivere.
Anche perché ogni parola pesa come un macigno.

«Grazie per il caffè, Abdu. Quanto ti devo?»


«Offre la casa, amico.»
«Sul serio, dai.»
«Offre la casa, ti dico. Mi sa che oggi non è il tuo giorno fortunato.
Chiamala una sensazione. Spero di sbagliarmi. Ma mi piace l’idea di farti
cominciare la giornata con una piccola gentilezza.»
«Grazie.»
«Non c’è di che.»
Abdu si gratta la testa. «Hai l’aria dello sceriffo di Mezzogiorno di fuoco.»
«È un buon paragone per quello che mi aspetta.»
«Cerca di non farti ammazzare, allora.»
«Perché? Per te cosa cambia?»
«Cambia che mi ricordo com’eri quando sei arrivato. Ero fra quelli che ti
hanno trovato, là fuori. Uno di quelli che ti hanno portato dentro di peso. E
mentre ti portavamo, ed eri parecchio pesante, perché niente pesa più di un
corpo umano inerte, mentre ti trascinavamo dentro di peso, tu continuavi a
roteare gli occhi e a darci degli “sporchi negri”. Mi hai persino sputato
addosso.»
«Mi dispiace.»
«Ecco. Vedi? Hai detto che ti dispiace. Questo posto ti ha fatto bene. Ti ha
guarito dentro.»
«Guarda che “sporco negro” lo dico ancora.»
«Lo so. Ma non lo dici col cuore. La gente di questo paese bestemmia un
sacco, e la cosa mi dispiace, perché oltre a offendere Dio, la bestemmia
offende anche chi la pronuncia. Ma qui senti che le bestemmie non sono
vere, che non vengono dal cuore. Sono come… Sono come i punti e le
virgole…»
«Segni d’interpunzione. Un intercalare.»
Abdu sorride, annuendo. «Non vengono dal cuore. Nascono dalle labbra, e
le labbra sono impure.»
«Sicché tu dici che sono guarito. Ma mi hai guardato bene? No, dico, mi
hai guardato in faccia?»
«Le tue ferite più gravi erano dentro di te. E quelle sono guarite.»
Scuoto la testa. «Sarà. Grazie ancora per il caffè. Posso chiederti un
favore, Abdu? È importante.»
«Dimmi.»
«Ho scritto questa cosa. Dovresti fare in modo che arrivi al Consiglio.
Appena me ne sarò andato. Puoi farlo?»
«A chi, del Consiglio?»
Glielo dico.
«Nessun problema» fa lui.
«Ti ringrazio, Abdu. I tuoi caffè mi sorprendono sempre. Se aprissi un
locale fuori di qui diventeresti ricco.»
«Nessuno mi farebbe aprire un locale, fuori da questo posto. E poi qui non
pago tasse. Vuoi mettere?»
Rido. Lascio sul bancone i tre fogli che ho riempito di fatti e di nomi, e di
date.
«Salutami Frank.»
«Non mancherò. Ehi, italiano…»
«Sì?»
«Stai attento, là fuori.»
«Non preoccuparti per me. Il mio vero nome è Guaio. Ho un sacco di
parenti, là fuori. E mi sa che sto andando a incontrarli.»
58

Come Lars, sono arrivato alle Zattere ferito, derubato di ogni mio bene
che non fosse la carne che porto addosso e il respiro che la mantiene in vita.
Come il povero Lars, prima di venire qui avevo perso tutto. Ero un
sopravvissuto al naufragio della mia vita.
Questo posto mi ha insegnato un sacco di cose.
Mi ha insegnato che per quanto possa andarti male, c’è sempre una
seconda possibilità.
Mi ha insegnato che i pregiudizi non reggono alla prova dei fatti.
Mi ha insegnato che si può cambiare. E che a volte si deve.
Che non è mai troppo tardi, per cambiare.
Ma mentre penso queste cose bellissime e buonissime, una vocina
maligna nel mio cervello dice cose diverse.
Dice che gli esseri umani sono difettosi. Tutti gli esseri umani.
Che a volte è tardi per cambiare, e anche se potresti non lo fai.
Che per quanto le cose possano andarti male, c’è sempre la possibilità che
vadano peggio.
Infatti ne ho la conferma appena metto piede fuori dal palazzo.

Fra tutte le persone che potevano essere di turno al parco macchine, mi


dovevano capitare proprio i nubiani. Gli amici di Chimeze.
Mi tolgo lo zaino dalla spalla. Apro la zip.
«Guarda guarda chi abbiamo qui» fa il più alto e robusto dei due,
sornione.
Io non ho pregiudizi verso gli armadi, tranne quando pretendono di
dialogare con me.
«Dov’è la Kuga?» faccio.
«Dovrei chiederlo a te, dov’è la Kuga, stronzo.»
«Niente Kuga, insomma? Cos’altro avete di buono, per me?»
«Che ne dici di un cazzo su per il culo?»
«Mi sa che neanche me ne accorgerei, nonostante tutte le fanfaronate che
voi abbronzatoni mettete in giro. E comunque non mi darebbe abbastanza
spinta per arrivare fino in città. E io devo andare in città.»
«La spinta te la do io, bianco di merda» fa quello alto.
E l’altro aggiunge: «Senza il tuo taser hai i minuti contati.»
Sorrido.
Un bel sorriso tipo quelli che faceva Eddie Murphy. «Grazie per avermelo
ricordato, ragazzi.»
I due mi si lanciano contro, immaginando di cogliermi di sorpresa.
Fossero bianchi, avrebbero imparato da qualche videogame che è una mossa
idiota.
Io mi lascio cadere in ginocchio, estraggo dallo zaino il fulminatore e lo
punto ai coglioni del più alto. La sua bocca si apre in una O stupita.
Premo il grilletto.
La corsa concentrata del nero si spezza di colpo, per diventare una caduta
rovinosa al suolo, dove rimane a contorcersi e sobbalzare.
L’altro ha un attimo di esitazione, vedendo il suo compagno abbattuto al
volo. Così mi dà il tempo di alzare la gamba destra, fletterla come una molla
e sganciare il calcio più cattivo che abbia mai dato o visto dare nella mia
vita. Becco il coglione al plesso solare, e lui cade all’indietro, per puro culo
battendo la testa non sul cemento ma sulla pancia del suo socio.
Stacco gli elettrodi del taser dalla mia prima vittima.
«Questo aggeggio ve lo lascio in custodia. Familiarizzate con lui, perché
penso che se non imparate a comportarvi bene lo incontrerete di nuovo sulla
vostra strada. Ah, ricordatevi di rimetterlo in carica.»
Alzo lo sguardo. Dove qualche giorno fa stava parcheggiata la Ford Kuga,
ora c’è una Jeep Compass del 2009.
Okay, ora basta scherzare.
Facciamo i seri.
Infilo la mano nelle tasche dei due finché non trovo le chiavi del suv,
appese con altre quattro che non mi servono a un portachiavi a forma di
teschio multicolore.
Strappo via il portachiavi finto messicano e lo lancio nel prato, in mezzo
al fango e all’erba stentata.
«Mi auguro che abbiate fatto il pieno, ragazzi» maramaldeggio, buttando
il mio zaino sul sedile del passeggero e salendo a bordo.

Quando incrocio i miei occhi nello specchietto retrovisore, dopo averlo


regolato alla mia altezza, non posso certo dire di essere contento di ciò che
vedo. Le scazzottate e le torture di questi giorni hanno trasformato la mia
faccia in quella di un pugile finito al tappeto troppe volte. Mai come oggi mi
è stato chiaro il senso dell’espressione “sentirsi gli anni addosso”. Li sento
pesare sul mio petto come un elefante. Mi impediscono di respirare, di
guardare nitidamente le cose.
Ma forse è meglio così.
Meglio non vederle, le cose, quando il passato è un tunnel degli orrori e tu
sei tornato un bambino che voltandosi si è ritrovato solo, sul carrello che
avanza in mezzo a mostri e scheletri e asce che sgocciolano sangue. Sono
arrivato alle Zattere nudo e spezzato, come Lars, e come chissà quanti altri
prima di me. Siamo arrivati qui come un tempo i perseguitati dall’uomo
cercavano rifugio bussando ai portoni delle cattedrali. Le Zattere sono state
un santuario per noi. Si diceva così, una volta. Santuario. Un rifugio, un
riparo contro la malvagità umana, contro la pioggia di male dei giorni, che a
volte è una tempesta che travolge tutto e tutti, ma più spesso è una
pioggerella sottile, appena percepibile ma che t’inzuppa fino alle ossa.
Altre volte il male è leggero come una nebbia, impalpabile, quasi
invisibile, ma capace di infiltrare e corrodere tutto, facendoti marcire dentro.
Nel corso della mia vita ho visto il male impadronirsi del mondo. A volte
l’ho combattuto, come potevo. Ma altre volte l’ho favorito. L’ho persino
invocato.
Nessuno è davvero innocente.
Nessuno può prendersela con gli altri, o con Dio, se siamo arrivati a
questo punto.
Il Male esercita un’attrazione irresistibile. Il Bene è raro come l’acqua
sulla Luna. O su Marte. Un giorno qualcuno ci andrà a vivere, lassù, e forse
dirà che l’acqua è rara come il Bene sulla Terra.
Come diceva, Aarif? Che il Consiglio dava alle Zattere il nome Marte…
Quindi posso dire di aver già vissuto su Marte.
Accendo l’autoradio, cerco un notiziario locale. Invece trovo David
Bowie.
Sincronicità.
Magia.
La voce del cantante morto accompagna il mio viaggio: «Take a look at
the lawman / Beating up the wrong guy / Oh man, wonder if he’ll ever know
/ He’s in the best selling show / Is there life on Mars?»
Così canticchio stonato Life on Mars?, mentre l’auto s’immette sulla
strada malandata che porta in città, e mi lascio alle spalle un pezzo della mia
vita, sapendo che i ponti in questo momento vengono bruciati, che non ho
più un posto in cui tornare. Perché il mio rapporto finale sulle indagini a
quest’ora dev’essere già arrivato nelle mani dell’unica persona del Consiglio
di cui mi fidi, e io mi avvio con la morte nel cuore verso l’incontro che quasi
sicuramente segnerà la mia fine.
Guardo la boscaglia che costeggia la strada. I pioppeti abbandonati, la
supremazia dei rovi che proteggono le ultime chiazze di neve sporca.
Come diceva, quella poesia di Robert Frost?
Bello è il bosco, buio e profondo,
Ma io ho promesse da non tradire,
E miglia da fare prima di dormire…

A Carla non era mai andata giù, la mia passione per la poesia.
Diceva che le confondeva la percezione che aveva di me. O qualcosa del
genere.
In effetti è raro trovare un volumetto di poesie sulla scrivania di un
poliziotto. Ma sulla mia, a volte, capitava. Be’, non proprio sulla scrivania,
ma in qualche cassetto. Non è sempre stato così. La cosa era cominciata una
sera che mi avevano portato in ufficio un tipo che sembrava completamente
schizzato, un barbone alto un metro e un cazzo che parlava in un cellulare
immaginario e descriveva in diretta cosa stava facendo. Era un matto, ma del
tipo innocuo. E di punto in bianco, mentre gli chiedevo le sue generalità, lui
ha cominciato a recitarmi una poesia di Esenin. Cioè, allora non sapevo di
chi era, la poesia. Me l’ha detto lui mesi dopo. Prima l’ha declamata in
italiano, poi in russo. Sul russo non posso garantire, ma la sua
interpretazione in italiano era stata impeccabile. Gli avevo domandato se era
un poeta, e lui mi aveva risposto che, essendo matto, doveva per forza essere
un poeta.
«Perché sei qui?» gli avevo chiesto.
E lui: «Perché queste sono le mie coordinate spaziotemporali, poliziotto.
Non posso farci nulla.»
«Cambiamo domanda, allora: come mai ti hanno portato qui?»
«Dovresti chiederlo a loro.»
«Stavi facendo qualcosa di strano?»
«No. Mi comportavo come al solito.»
«Tipo?»
«Bevevo, normale, no? Cantavo.»
«Dove?»
«Nella fontana di piazza delle corriere.»
«Piazza Primo Maggio, vuoi dire?»
«Dove una volta c’erano le corriere. Io la chiamo piazza delle corriere. Sai
chi ha introdotto la festa del Primo Maggio, in Germania? Adolf Hitler.»
«Sicché tu bevevi e cantavi vicino alla fontana.»
«Ma no. Dentro la fontana.»
«Ah. E che cosa cantavi?»
«Una mia poesia.»
E me l’aveva recitata.

Eravamo diventati amici, io e Gianni. Gli prestavo libri di poesia che


invariabilmente si scordava di restituirmi, e lui in cambio mi recitava sempre
qualcosa di nuovo, un poeta che non avevo mai sentito nominare, e che nove
volte su dieci mi piaceva un sacco.
Un giorno mi aveva chiesto se gli davo un passaggio fino in culo al
mondo, in un posto del Lazio in cui gli diedero una targa ricordo e un
assegno di cinquecento euro.
La targa se la dimenticò in auto, dicendomi che potevo tenermela.
L’assegno lo usò come cartina per rollarsi due sigarette, ma si lamentò che
era troppo duro.
Un’altra volta mi portò a conoscere un giovane poeta amico suo, e il poeta
viveva in un prefabbricato pieno di libri, pile di libri fra cui quel ragazzo
dagli occhi scuri si muoveva spingendo con le mani la sua sedia a rotelle.
Eravamo rimasti lassù per ore, e io in un angolo ascoltavo in silenzio i due
parlare di poesia e di persone che non conoscevo, e in quelle ore,
dimenticato in un angolo, mi sentii a casa, mi sentii nell’unico posto al
mondo che potessi chiamare casa.
Ora sono morti, tutti e due. Al poeta in carrozzella hanno dedicato premi e
biblioteche, mentre a Gianni solo un parcheggio. Lui che non aveva neanche
la patente e si spostava in corriera.
La vita è crudele, dicono.
Ma anche le amministrazioni comunali non scherzano.
Ci passerò davanti, a quel parcheggio, fra pochi minuti.
All’ingresso c’è la gigantografia di un suo ritratto.
Passerò davanti allo sguardo di Gianni in quella straordinaria foto fattagli
da Danilo De Marco, quella in cui fa la faccia da matto, spaventando il
bambino seduto accanto a lui.

Se quella foto potesse parlare mi chiederebbe: Dove vai, poliziotto?


E io risponderei: Parto.
Dicono che partire è un po’ morire, poliziotto.
E infatti sto andando a morire.
Bravo. È lì che dobbiamo andare tutti. Tanto vale prendersi per tempo.
Ma vedi di non arrivarci troppo in anticipo.
Come si fa a capire quando è il momento giusto?
Quando arriva te ne accorgi. Ciao, poliziotto. Ciao.
59

Non è stato difficile trovare la casa.


Ammesso che si possa chiamare casa questa fortezza di tre piani, con
tanto di torri agli angoli e un giardino davanti che potrebbe ospitare uno
stadio di calcio. Se la villa di Lirosh l’Albanese sembrava copiata da una
rivista di arredamento, ma da un architetto miope, il castello di Alemanno
Ferrari esprime sicurezza di gusto, smodate quantità di denaro e una
concentrazione di potere sufficiente per un piccolo stato.
L’edificio deve risalire ai primi del Novecento, anche se le aggiunte, da
quel tempo, sono state notevoli.
Normalmente, per entrare in un posto così avrei bisogno di un mandato di
perquisizione.
Ma io e Alemanno siamo diventati amici. Anzi, meglio: soci. Anche se
sono solo il socio di minoranza.
Premo il pulsante del citofono. L’occhio della telecamera sembra quello di
HAL 9000.
«Cosa vuole?» chiede una voce maschile tanto metallica quanto sgarbata.
«Sono Sergio Stokar. Devo fare rapporto a Vladimir.»
«Il signor Vladimir non è in casa. Passi più tardi. Dopo le dieci.»
La voce ha un accento esotico.
«Non posso. Fammi entrare.»
Silenzio.
Suono di nuovo.
«Fammi entrare o te ne pentirai. Chiama Vladimir, digli come mi chiamo,
che ho notizie importanti, e senti cosa ti risponde. Non posso restare qua
fuori. Ho bisogno di un posto dove stare finché non parlo con lui. Diglielo, e
vedi cosa ti risponde.»
Altro silenzio. Molto più lungo.
Poi il cancelletto si apre con un ronzio elettrico.

Mi aspettavo una casa.


Okay, un castello.
Ma questo è un museo.
Già le pareti dell’ingresso mi accolgono con tre piccole incisioni antiche
che raffigurano scene bibliche: la distruzione di Sodoma e Gomorra, le figlie
di Lot, Noè ubriaco deriso da Cam.
Com’è che riconosco i soggetti?
Il fatto è che quand’ero giovane, molto giovane, su a Manchester, avevo
una ragazza che per eccitarmi mi leggeva brani da un’antica Bibbia illustrata
dei suoi. È piena di scene eccitanti, la Bibbia. Da allora, le rare volte in cui
in qualche museo ho visto in mostra delle Bibbie antiche, mi chiedo se non
ci siano pagine incollate l’una all’altra dallo sperma di qualche giovane
nobile del Seicento, come i Playboy che da ragazzini tenevamo infilati tra il
materasso e la rete.
Nel corridoio c’è un mobiletto a vetri Biedermeier, dentro il quale ci sono
ceramiche e netsuke giapponesi. Normalmente mi fermerei a guardare,
perché le cose belle e rare mi piacciono. Anzi, mi danno piacere. Ma la mia
guida indigena si volta impaziente, invitandomi con gli occhi a seguirlo
senza fermarmi. È piccolo e magro, dai tratti asiatici. Indossa una divisa da
maggiordomo inglese, guanti compresi.
Il pavimento in tek lucidato profuma di cera. Persino i suoi occasionali
scricchiolii sono musicali.
«Il padrone non è in casa?» faccio.
Lo stronzo con gli occhi a mandorla non risponde.
Una volta, nei libri e nei racconti di fantascienza, la Terra veniva invasa
dagli alieni.
Oggi veniamo invasi da gente piombata qui da ogni angolo del pianeta. In
questa città del cazzo c’è una comunità di Tuareg. Di Tuareg, dico. Gente
che se cerchi la definizione su Wikipedia trovi prima quella di un’auto
tedesca.
Gunga Din, pace all’anima sua, in certe devastanti sedute di terapia
riabilitativa, mi ripeteva in continuazione che le identità nazionali e di razza
non hanno più ragione di esistere, non hanno più senso. Ma a me, ogni volta
che lo sentivo, tornavano in mente le cose che avevo letto su internet, le cose
sullo stramaledetto George Soros e sui pericoli della società multiculturale.
Era come se camminassi su una passerella molto stretta. Se cadevo a sinistra,
finivo nel calderone del buonismo, del We Are the World, We Are the
Children con le candele al vento, mentre se cadevo a destra rischiavo di
trovarmi, un domani, a ripetere in tono monotono «non spingete» alle
famiglie in fila sulla rampa per il crematorio ad Auschwitz. Insomma, la mia
vita spirituale, la mia anima, se ancora ha senso parlare di una roba del
genere, è divisa in due. Schizofrenica. Sono il prodotto intellettuale degli
anni del Dubbio, ma vivo al tempo delle Certezze condivise sul web.
Impossibile non sclerare di brutto.
«La signorina Elena c’è?» butto lì senza troppe speranze.
Invece il figlio ritardato di Fu Manchu si volta, beccandosi in faccia la mia
occhiata.
«Lei cerca Vladimir» puntualizza, seccato. «Non la signorina Elena.»
«Conosco anche la signorina. Dille che sono qui. Sergio Stokar. Dille che
Sergio Stokar è qui e vuole parlarle.»
L’asiatico si blocca sul posto, come un robot con un conflitto di
programmazione.
Visto che il posto è un salotto con adeguata dotazione di divani, mi fa
segno con un’elegante torsione del polso di sedermi lì.
«Vado a chiedere alla signora Elena.»
Signora. Signorina. Che differenza fa, di questi tempi? Carla mi diceva
sempre che ero nato nel secolo sbagliato, che lei mi avrebbe visto più ai
tempi di Sherlock Holmes, gli anni eroici del vapore e delle scoperte
scientifiche, in cui gli spazi vuoti sulle mappe del mondo si riducevano
giorno dopo giorno e funzionari imperiali con le piume sull’elmo
inauguravano monorotaie sospese e tunnel della metropolitana.
Ai miei tempi la distinzione tra signora e signorina avrebbe avuto senso.
Oggi no.
Oggi siamo tutti carne da cazzo.

Ci vogliono cinque minuti prima che lo stronzo in livrea ritorni, tallonato


da Elena, che indossa uno yukata giapponese nero con dei motivi stilizzati di
gru.
L’uccello, non il mezzo meccanico.
Dato che la mia visita è stata annunciata, non finge sorpresa. La sua
espressione di fastidio, invece, mi sembra del tutto sincera.
«Cosa ci fai qui?» sussurra. Con un gesto distratto congeda il
maggiordomo, che scivola fuori dal salotto.
«Faccio rapporto a tuo padre. Anzi, a Vladimir.»
«Papà non c’è. E neanche Vlad.»
«Ma ci sei tu. Ciao, Elena.»
«Non è stata una grande idea da parte tua, venire qui.»
«Mi mancavi. Te ne sei andata senza neanche salutare.»
La vestaglia giapponese si apre leggermente, a rivelare che, sotto, Elena
non indossa nulla.
«Non dovevi venire.»
«Perché?»
«Perché, mi chiedi? Perché papà ti ammazza, se scopre che abbiamo fatto
sesso.» Subito sgrana gli occhi, fissandomi. «Non lo sa, vero?»
«Se lo sa, non gliel’ho detto io. Ci tengo troppo al mio cazzo.»
Elena ride. «Anch’io.»
E senza preavviso si butta su di me, incollandomi al divano.
«Ehi! Fermati!» faccio.
«Perché?»
«Perché sono venuto qui per parlare. Non per scopare.»
«Ma visto che sei qui…»
La guardo. E niente, non posso impedire alla mia mano di carezzarle la
guancia, di scostarle i capelli dalla fronte.
«Andiamo in camera mia» mi sussurra all’orecchio, con un cambio
d’umore repentino. E poi si alza e mi prende per mano, e attraversiamo
chilometri di corridoi e stanze sontuosamente arredate, prima di fermarci di
fronte a una porta che deve trovarsi in una delle torri angolari della villa, una
porta che lei apre con una chiave che ha tirato fuori da non so dove, visto
che il suo yukata non ha tasche.
Poi Elena si volta verso di me, aprendo le braccia a impedirmi di entrare.
«Questa stanza è solo mia» mormora. «Solo io posso entrarci. È il mio
sancta sanctorum. Si dice così, no?…»
«Sì.»
«Non c’è più entrato nessun maschio da quando avevo quindici anni.
Nessuno, capisci?»
La luce nei suoi occhi è strana.
È una luce febbrile. Non so in che altro modo definirla.
«Se ti faccio entrare, te ne assumi le conseguenze. Se mi chiedi di entrare,
quello che succederà in questa stanza sarà solo colpa tua.»
I miei occhi si fissano nei suoi. Li chiudo, per un attimo. Poi sussurro, col
cuore in gola: «Fammi entrare.»
«Sicuro?»
«Sì.»

La stanza è buia, tranne che per i sottili raggi che filtrano attraverso le
veneziane abbassate e per la luce che emana da una strana scultura di vetro
illuminata dall’interno, posata sul comò ingombro di vestiti e carte: è un
teddy bear fatto di fumetti colorati. BANG, POW e ZAP rossi e bianchi e blu in
stile Roy Lichtenstein disegnano la versione moderna di una vetrata gotica.
Immagino sia un’opera d’arte, perché c’è una firma: Lirone. Il corpo di
Elena, quando si spoglia, è screziato da quella luce. Gli occhi verdi,
illuminati di sbieco, sembrano due diamanti. La sua bocca è rossa come il
sangue. Mi spinge giù, sul tappeto sintetico che imita la pelliccia di un orso
bianco.

C’era questo aforisma zen che una volta ho letto, ma non sono sicuro che
la versione che ricordo sia quella giusta. La mia mente, che già non era
granché prima, dopo due coma e le tecniche sperimentali del dottor
Chatterjee è ridotta decisamente male.
Quello che ricordo, così come lo ricordo, è che c’è questo monaco zen, in
Cina, o forse in Giappone, che per scappare da una tigre affamata si lancia
da un precipizio, e riesce ad afferrare per miracolo una radice sporgente.
Aggrappato a quell’appiglio precario guarda in su e vede la tigre, poi guarda
in basso e vede le rocce aguzze in fondo a cento metri di vuoto.
La radice, oltretutto, si sta lentamente staccando, e non lo reggerà a lungo.
Allora il monaco vede che davanti a sé c’è una piantina verde, e su quella
una piccola fragola. La coglie, la morde. La morale della storia è: com’era
dolce, quella fragola.
E com’è dolce, nonostante tutto, stringere tra le braccia il corpo al tempo
stesso morbido e teso di questa ragazza, scivolare su di lei e poi dentro di lei,
umida e calda come la sua bocca. Facciamo l’amore per terra, sul tappeto,
sopra lo yukata aperto che sembra un grande petalo nero, e l’urgenza e la
passione di Elena sono tali che devo battermi con me stesso per non venire
subito, per durare quanto basta perché anche lei tremi nel mio abbraccio, e
mugoli e infine ansimi dal piacere.
Lo so.
Non dovrei farlo.
Non sono qui per questo.
Ma lei è quella fragola, sul ciglio del mio annientamento, e devo coglierla
prima che sia troppo tardi, prima che il ramo si stacchi e io precipiti sui denti
aguzzi della realtà.

Devo essermi addormentato, disteso sul pavimento, perché quando ho


aperto gli occhi ero solo, e guardavo il soffitto della camera di Elena.
I miei occhi si sono adattati alla scarsa luce, perché riesco a vedere i
mobili, le pareti della stanza.
E quello che ora riesco a vedere mi mozza il respiro.
Le pareti sono ricoperte di foto. Foto di ragazze. Due di queste le
riconosco subito. Le altre due mi sembrano familiari, ma ci metto di più a
identificarle, perché le immagini paiono scatti rubati. È come se fossero state
prese di nascosto, da angolature impossibili, o con ostacoli di mezzo: un
ginocchio, una tenda, un banco.
Alla fine le metto tutte a fuoco.
Le ragazze delle Zattere.
E Krystyna Nowak.
Krystyna è nuda, e le sue foto sono molto belle. Chi le ha scattate l’ha
fatto con amore, e con una conoscenza assoluta della donna ritratta, perché
ha saputo coglierne l’anima, decisa e schiva. La mia volpe, la definivo
nell’intimità, Krystyna, perché a questo mi facevano pensare non solo i suoi
occhi ma anche la sua natura diffidente, la luce quieta e consapevole del suo
sguardo, che sembrava dire: posso essere molto più sveglia di te, e sono
molto più intelligente di te, ma in questo momento, e solo perché sei tu, mi
piace abbandonarmi a te, farmi abbracciare e baciare da te, farti entrare in
me, perché sono una dea, e una dea è la roccia eterna e immutabile su cui
gli uomini passano come onde, senza lasciare alcun segno.
Quelle foto appese alle pareti rievocano Krystyna come se le ritraessero
l’anima, assieme al corpo di una bellezza dolorosa.
Malgrado sia nudo, comincio a sudare freddo.
Perché le mie mani e i miei piedi sembrano paralizzati.
E perché ora posso vedere l’immagine dipinta sul soffitto della camera.
I tre volti di rettile mi guardano da lassù con i loro occhi a fessura, le
bocche irte di denti crudeli.
Alzo la testa più che posso e vedo che sono stato legato. I miei polsi sono
stretti dalla cintura dello yukata. I miei piedi non li vedo, ma non riesco a
muovere nemmeno quelli.
Il sorriso delle tre creature mostruose è sereno, benevolo. Non sono i
mostri da incubo che Lars ha disegnato sulle pareti della sua cella alle
Zattere. L’indice alzato del personaggio centrale di quell’orrenda trinità
sembra benedire le foto delle ragazze alle pareti, e il mio corpo disteso sotto
di lui.
Fissando quell’indice mi sembra che la figura si allontani, che le pareti si
allarghino fino a diventare quelle di una cattedrale.
Distolgo lo sguardo. Ed è peggio.
Perché i miei occhi vedono cosa c’è sotto il letto.
La maschera antigas in un sacchetto trasparente.
La polvere, uno strato di polvere che sembra un sottobosco in miniatura.
E in mezzo a quel sottobosco una scheggia di luce, che fatico a mettere a
fuoco, finché la verità di ciò che vedo non mi blocca il respiro.
È un frammento di vetro, tagliente, che riflette la poca luce della stanza.
Un frammento blu e bianco e azzurro e nero.
Il pezzo che mancava all’Occhio di Allah sepolto da una mano amorevole
e folle nella cantina dov’era stato lasciato il corpo di Amina al-Masri.
Chiudo gli occhi, e li scopro gonfi di lacrime.
60

Passano ore, e ormai fuori fa buio, prima che senta la chiave girare di
nuovo nella serratura. La porta si apre solo di quel tanto che basta a far
passare tre persone, e poi si chiude a metà.
Nel buio non riesco a distinguere chi è entrato. Poi una risatina querula mi
rivela che uno dei visitatori è quello stronzo di custode del museo di
Villabassa, l’ingegner Gaspare Amodio.
Si tiene discosto, mentre gli altri due estranei mi manipolano in modo da
farmi indossare un indumento che sembra un saio molto ruvido, liberandomi,
dopo i piedi, anche le mani, ma solo per potermelo infilare, e poi
legandomele di nuovo, stavolta sul davanti, con fascette da elettricista. Poi
mi sollevano di peso. Sono robusti, maschi. Altro di loro non saprei dire,
perché anche il corridoio è buio.
Muovendomi alla cieca inciampo più volte, in un tappeto o nella zampa di
un mobile, e ogni urto strappa dolore dai miei piedi nudi.
La casa sembra deserta. Il suono di una pendola accompagna i nostri passi
frettolosi. I miei due guardiani mi trascinano a forza, spintonandomi quando
accenno a rallentare.
Scendiamo così quattro rampe di scale.
La fredda luce al neon, dopo tanto buio, quasi mi acceca.
Dietro una porta antincendio si apre un enorme garage che accoglie
quattro auto, la più modesta delle quali è una Jaguar. Ma i miei sequestratori
mi spingono fuori, sul vialetto dov’è parcheggiato un furgone anonimo,
ammaccato, vecchio di almeno dieci anni. Aprono i portelloni posteriori e mi
scaraventano dentro, fra latte di vernice e attrezzi da pittura. Uno dei tre si
siede sul pianale accanto a me. Gli altri salgono davanti. Quando il furgone
riparte con uno strappo, una latta vuota rotola verso di me colpendomi in
testa. Il mio guardiano sghignazza.
Lo osservo.
Avrà al massimo vent’anni, una faccia segnata dall’acne e occhi pungenti,
di un’allegria malvagia.
«Guardami quanto vuoi, vecchio. Fissami pure. Non ti servirà a un cazzo.
Sei morto, vecchio.»
Ma io continuo a guardarlo. Ero bravo a questo gioco, da ragazzo. In
qualcosa bisogna pur essere il migliore.
E infatti alla fine è lui, con una smorfia e un’imprecazione fra i denti, a
distogliere gli occhi.
Muovendo il meno possibile la testa, cerco di individuare qualcosa che
serva a liberarmi. Ma non trovo nulla. Niente che possa alimentare un filo di
speranza.
Il furgone si muove a sobbalzi, sulle strade dissestate. Ogni sobbalzo una
fitta di dolore per i miei muscoli contratti. Si gela, qui dentro. E la vescica
mi scoppia.
Una voce dentro di me mi sussurra che sto per morire.
Ma la cosa non mi spaventa più di tanto. Ci sono passato altre volte.
Ero nudo e praticamente morto quando gli abitanti delle Zattere mi hanno
raccolto. Avrebbero potuto uccidermi, ma non l’hanno fatto. Mi hanno
invece curato e sfamato. Hanno persino cercato di guarirmi da quella che per
loro era una malattia, mentre per me era sempre stato il mio modo naturale
di pensare. Mi hanno cambiato, cercando di fare di me un uomo migliore.
Anche se lo facevano per i loro scopi, mi hanno fatto del bene. Ho
guadagnato giorni preziosi.
Questa seconda morte… O terza, se la bottiglia di Smirnoff era realtà… È
qualcosa che ho già conosciuto. Che ho già attraversato.
Questo mi dico, disteso sul pianale gelido del furgone.
Ma poi volto di nuovo lo sguardo sul ragazzo brufoloso e mi dico che no,
non è ancora finita.
«Sto morendo… Ho sete…» biascico, e la voce che esce dalle mie labbra
secche è maledettamente convincente.
Il ragazzo abbassa lo sguardo di tre tacche, collimandomi come attraverso
un mirino. «Non me ne frega un cazzo.»
«Sì… che te ne frega…»
«Ah sì? Tu dici?»
«I tuoi capi… Mi vogliono vivo…»
Guardo, riflesse nelle espressioni del volto, le mie parole infilarsi a una a
una nella sua coscienza.
«Mi sembri vivo, no?»
«Il cuore… Devo prendere… La mia pastiglia…»
«La tua pastiglia, come no. E non puoi aspettare? Siamo quasi arrivati.»
«No. Sto… morendo…»
Chiudo gli occhi. Lo sento mormorare: «Oh cazzo.»
E poi…
61

E poi la vita potrebbe prendere diverse direzioni.


In una di queste, il ragazzo si china su di me, mormorando: «Oh, cazzo…
Aspetta…»
Non mi serve altro.

Quando, dopo una decina d’interminabili minuti di sussulti e sobbalzi, il


furgone si ferma sul luogo della mia esecuzione, l’uomo che apre il
portellone mi vede disteso con gli occhi chiusi, e il mio guardiano seduto
dietro di me, nell’ombra.
Si avvicina fiducioso, abbassando la pistola.
Allora i miei piedi si flettono come una molla e poi scattano, prendendolo
in pieno petto e mandandolo a sbattere sul custode del museo. Salto giù,
raccolgo l’arma per la canna e colpisco l’uomo alla nuca, due volte. Non
troppo forte, ma nemmeno piano. La sua testa sanguina, ciondolando inerte.
Tolgo la sicura e punto la Beretta contro quella merda umana dell’ingegner
Amodio.
«Non uccidermi!» squittisce.
Io premo il grilletto.
Due volte, tre. Con ferocia.
Il volto del mostro esplode.
62

Quante possibilità ci sono, che le cose vadano così?


Ve lo dico io: nessuna.
Tanto per cominciare, il ragazzo è molto più robusto e in forma di me.
E non è un idiota. Non si chinerebbe mai su di me.
Ma anche se lo facesse, sono legato mani e piedi. Non ho una sola
possibilità di farcela. Quindi il mio cervello entra in sciopero. Non è una
cosa nuova. In passato mi è capitato altre volte. Era diventata quasi una
tecnica. Una cosa che faceva imbestialire Carla. Litigavamo ferocemente, lei
minacciava di sbattermi fuori di casa, e io mi addormentavo.
Clic. Come se spegnessi un interruttore.
«Dormiresti anche se all’alba dovessero ghigliottinarti» si lamentava.
Il fatto è che potrei addormentarmi anche qui, anche ora, legato e disteso
sul pianale freddo di un furgoncino che mi sta portando verso un sacrificio
rituale in cui devo interpretare il ruolo ingrato della vittima.
Se non lo faccio non è solo per via della vescica che è sul punto di
scoppiare. È perché ho qualcosa di rotto dentro. Un grumo di dolore
silenzioso che non va né su né giù.
Forse avrei dovuto dire alla mia ex moglie che se mi fossi addormentato
come un sasso anche la notte prima dell’esecuzione capitale era perché in
fondo la desideravo, quell’alba, e la ghigliottina, e la fine di ogni pensiero e
preoccupazione.
La fine di tutti i rimorsi.
Di tutti i ricordi.
Il furgone si arresta con una frenata che mi manda a sbattere sulle scarpe
del mio guardiano. Lui mi allontana spingendomi con la sua Dr. Martens
1460 lucidata a specchio. Lo fa con decisione, ma non con cattiveria. Come
se scacciasse un animale domestico un po’ fastidioso.
Il portellone del veicolo viene spalancato. Non ho modo di rendermi conto
di chi lo stia facendo, ma almeno sei mani mi sollevano e mi rimettono più o
meno in piedi: la mia posizione eretta dura solo un attimo, perché poi la
forza di gravità mi attira a terra come un pozzo, e devono tenermi in piedi a
forza di braccia.
Non mi hanno bendato, e questa, ovviamente, non è una buona notizia.
Ma questo già lo sapevo. Il viaggio sul furgone era di sola andata, per me.
Tagliano i legacci alle mie caviglie e mi trascinano di peso verso un
edificio, e questa è la notizia davvero cattiva, perché non è il posto che
immaginavo.
Non è il capannone abbandonato della Zetart a Vallegrande.
E questo significa che il mio piano non funzionerà.
63

«Bentornato, signor Stokar.»


La voce di Gaspare Amodio è così untuosa che potresti usarla per
friggere.
Fermo sulla soglia del museo, con la luce alle spalle, sembra una sagoma
nera di cartone. La sua lunga veste dalle ampie maniche e le braccia aperte
in un gesto di ospitalità lo fanno sembrare l’ombra di una mantide religiosa.
«È stato così incredibilmente bravo a scoprire la verità. E così
incredibilmente stupido a non darsela a gambe quando l’ha scoperta.»
«Stupido è il suo secondo nome» ride un’altra voce maschile, alle sue
spalle.
Lirosh Roshi appare nella luce dell’atrio. Indossa anche lui una tunica
lunga fino ai piedi, rossa come il sangue. Al collo ha una catena d’oro che
regge un pesante medaglione inciso con le tre facce di rettili.
«Portatelo dentro» ordina, sottovoce.
Mi spintonano nell’atrio, costringendomi a inginocchiarmi.
L’Albanese mi si avvicina. Allunga una mano e la passa fra i miei capelli,
arruffandoli. Poi mi stringe la pelle della guancia tra l’indice e il medio e la
strizza con forza, come una ganascia.
«Quanto mi hai rotto i coglioni, poliziotto. Ma ora è tutto finito.» Si volta
verso Amodio. «Vediamo di non perdere tempo con cerimonie senza senso.»
«Il rituale ha dei tempi…»
«Mettitelo nel culo, il rituale. Facciamo una Paukenmesse. Una missa in
tempore belli.» Mi guarda sorridendo. «Ti stupisce, che io parli latino?
Scommetto che credi ancora allo stereotipo dell’albanese rozzo e ignorante,
che parla italiano con un accento da barzelletta. Invece io non sono così. Io
ho studiato. Non sui banchi di scuola. Non ne avevo il tempo. Mi sono
laureato all’università della vita.»
«Sapevo che prima o poi avresti detto una stronzata del genere»
commento.
«Non è una stronzata. È la verità. Tutto quello che ho imparato, l’ho
imparato sulla strada, facendomi largo nella vostra società di snob con la
puzza sotto il naso. Ho imparato le buone maniere, ho letto libri. Ma anche
questo non vi bastava. Mi trattavate comunque come una merda. Allora ho
scoperto la verità. Quella che anche tu avresti potuto scoprire seguendo gli
insegnamenti della Vera Via. Ho scoperto che le cose apprese quand’ero
giovane erano vere. Tutte le cose rivelate da trasmissioni coraggiose, che
non a caso oggi non ci sono più. Ho scoperto che esiste davvero un
complotto contro l’umanità. Un complotto ordito da forze non umane, da
poteri occulti che controllano le nostre vite…»
Potrei interromperlo, ma non me ne verrebbe alcun bene. Se non lo faccio,
se lo lascio blaterare, prolungo la mia vita di qualche prezioso minuto. Se lo
interrompessi, me la farebbe pagare.
Quindi mi mordo le labbra e resto zitto.
«I rettiliani ci dominano in segreto. I re nell’ombra e i loro seguaci.
Quando ho scoperto che qui, proprio in questa città, esisteva un gruppo di
persone collegate con loro, ho capito che dovevo unirmi a quel gruppo. E
sono rimasto sorpreso scoprendo quanta gente importante ne facesse parte.
Persone insospettabili. Resteresti stupito, se ti facessi i loro nomi…»
L’Albanese tiene le mani dietro la schiena, come il comandante sulla tolda
di un vascello. Mi guarda, ma è come se non mi vedesse: i suoi occhi
puntano molto più lontano.
«Hai messo le mani in un vespaio, poliziotto. Vespe velenose. Sei stato
bravo, niente da dire. Ti ho guardato avvicinarti alla verità, come un uomo in
agguato su una collina guarda il nemico muoversi a fondovalle, un nemico
ignaro d’essere osservato. A volte ti sei sbagliato, hai frainteso le cose. Hai
preso una deviazione inutile. Ma continuavi ad avvicinarti. Metro dopo
metro, ti facevi strada verso di noi. E pensare che tutto questo l’avevo capito
subito. Gliel’avevo detto, che dovevamo eliminarti, la prima volta che ti
abbiamo avuto nelle nostre mani. Ma lui non ha voluto. Non possiamo
uccidere un poliziotto. Oh, no! Così ti abbiamo scaricato dai nostri vicini
cannibali, sperando che ci pensassero loro a liberarci di te, a farti sparire.
Non sarebbe certo stata la prima volta. Sappiamo cose che la polizia
nemmeno s’immagina. Ho perso due uomini, in quella fogna. Mi era costato
fatica e soldi, infiltrarli alle Zattere. E pochi giorni dopo erano spariti. Puff.
Mai più visti né sentiti. Allora ho detto: lasciamolo sulla loro porta, vediamo
quanto ci mettono a farlo sparire. È come quando lasci un insetto ferito
vicino a un formicaio. Ci mettono un attimo, le formiche, a portarselo
dentro. Poi lo fanno a pezzi, utilizzano tutto. Non buttano via niente. Questo
volevo ti succedesse. Chi poteva immaginarselo, che quello stronzo mi stava
mentendo? Che stava facendo il doppio gioco? Lui se l’è bevuta, la tua
storiella del dossier contro di noi. Quella che chiamavi la tua assicurazione
sulla vita. Se l’è bevuta, cazzo. E così ti ha protetto. Grazie alle sue
conoscenze prima ha mandato Chatterjee a curarti, e al tempo stesso a
provvedere perché la tua memoria saltasse quella pagina del tuo passato. E
poi è riuscito a mandare qualcuno a chiudergli la bocca, quando le cose si
sono messe male.»
Scuote la testa, con una smorfia disgustata.
«Dovevano farti sparire. Come un maledetto insetto ferito. E invece non
l’hanno fatto. Ti hanno lasciato vivere. Quando l’ho saputo…»
Mi fissa.
«Cosa c’è? Ti ho sconvolto? No, aspetta… Tu non mi credi… Non dirmi
che le teorie di quel ciarlatano erano vere… Davvero non ricordi niente?»
Si solleva la manica della vestaglia dal polso, mostrando un orologio in
acciaio dall’aspetto strano. Un misto di stile rétro e futuristico.
«Questo era tuo, poliziotto. Un Omega X-33. L’orologio degli astronauti.
Fatto in serie limitata per le missioni su Marte. Le missioni che non ci sono
mai state… Quando te l’ho visto al polso non ho resistito. Non potevo
lasciartelo.»
Lo riconosco, quell’orologio.
Un regalo di Carla per il matrimonio. Un pezzo raro.
Di colpo è come se dentro il cervello crollasse un argine, e l’acqua fosse
libera di uscire, di rompere ogni ostacolo. Scene dimenticate tornano alla
memoria. Volti, parole urlate. Sangue. Una mazza che cala sulle mie ossa.
L’Albanese. E anche l’altro, dietro di lui.
L’altro.
«Se avessimo fatto come dicevo, non avremmo avuto tutti questi
problemi. Un bel bagno in un bidone di acido, e bye bye. Invece è venuta
fuori quest’idea del cazzo. È una specie di due per uno: ci liberiamo di
questo stronzo e facciamo ricadere la colpa su quei merdoni. La facciamo
finita una volta per tutte col poliziotto e con le Zattere. Due per uno, cazzo.
È un fottuto due per uno. Invece non solo non ci siamo liberati di te, ma sei
riuscito in qualche modo a risolvere il tuo caso. Sei tornato dal regno dei
morti come il fottuto gesucristo del cazzo e sei tornato a romperci i
coglioni!»

Lo guardo urlare e vedo un altro posto. La stessa bocca che urla, ma il


posto è diverso, è una stanza sotterranea. Dal soffitto pendono corde e
catene, le pareti sono schizzate di rosso. Il pavimento è coperto da un telo di
plastica spessa. Il telo scricchiola sotto i passi dell’Albanese che blatera
insulti e minacce, intervallate da qualche colpo della sua mazza. Sono nudo,
infreddolito, il corpo spezzato e coperto di lividi. Rannicchiato per terra, a
quattro zampe come un cane. I miei polsi e il mio collo sono stretti in fasce
di cuoio borchiate, da cui pendono gli anelli di una catena. Sbavo e tremo.
La droga mi rende passivo, intontito, ma il dolore comincia a trapelare nella
nebbia, come lame di luce.
La bocca piccola, quasi femminile, dell’Albanese continua a sciorinare la
sua litania di accuse. Poi la mazza si leva in alto, in un arco mortale.
È allora che l’altro grida: «NO!»

Lirosh scuote la testa.


«Quell’idiota… Sarebbe finito tutto lì… Cosa pensava? Che non ero
capace di farti sparire? Aveva paura di te? Eri già una merda, a quel tempo.
Non contavi più un cazzo. Eri una barzelletta. Il poliziotto eroe caduto in
basso. Così in basso che neanche Dio in persona avrebbe potuto sollevarti.
Bastava organizzare tutto in modo che sembrasse un suicidio. Un
banalissimo incidente d’auto, magari, visto che avevo un po’ esagerato con
la mazza, devo ammetterlo. Un incidente d’auto. Ma lui no! Lui no… E
quando è venuto fuori che eri ancora vivo, che i cannibali ti avevano
praticamente adottato per trasformarti nel loro cane da guardia, avremmo
ancora potuto sistemarti. Ma lui ancora una volta ha detto no. No…
Mandiamo il dottor Chatterjee. Creiamo questa cazzata dell’intervento
benefico… Il luminare della medicina che presta servizio fra i dimenticati
della terra… Con la sponsorizzazione discreta ma in realtà nota a tutti del
più grande filantropo della città… Il nostro figliolo adottivo Lirosh Roshi…
“Io pago, tu ti prendi il merito” mi fa… Che idea del cazzo… E infatti si è
visto com’è andata a finire…»
Provo una sensazione strana. È come se al presente si sovrapponesse il
passato. Guardo l’Albanese muoversi davanti a me, nella sua veste rossa, e
al tempo stesso lo vedo con la mazza in mano, mentre, in un altro tempo e
spazio, gira in tondo attorno al mio corpo accovacciato sul telo di plastica,
seduto nella mia merda. Il telo è schizzato di sangue fresco, di un rosso
innaturale, vivo. Sangue appena spillato. Il sangue di qualcun altro.
Qualcuno nella cui morte ho avuto una parte.
«Avrei dovuto fare a modo mio. Come farò adesso. Io e il mio socio alle
Zattere sistemeremo tutto. Sarà come se tutto questo non fosse mai successo.
Sparirai nel nulla, come avresti dovuto fare da tempo. Come spariscono tutti
quelli che si mettono contro di me. Come la tua amica polacca. Pensava di
essere furba, mettendosi a fare il doppio gioco. Era cambiata, dopo aver
scoperto come usavamo le risorse umane in esubero. Era venuta a sapere
delle nostre messe. Quelle erano state un’idea geniale, devi riconoscermelo.
Roba da Nobel per l’economia. Un ragazzino incolto sfuggito al naufragio
del comunismo viene a insegnare il mestiere a voi.»
Il sorriso che gli illumina il volto mentre parla della morte di Krystyna mi
muove dentro una rabbia omicida. Impotente ma rabbiosa, come un cane
nero alla catena. La sento crescere in me, pronta a mordere.
«Le nostre messe sono un momento sacro, un modo di sentirci uniti nel
nostro credo, ma sono anche business. Non hai idea del mercato che hanno, i
nostri filmati. Gli snuff movies sono un giro d’affari più ricco della
prostituzione. E anche meno rischioso, se lo fai in rete e attraverso un lungo
giro d’intermediari. Ed è un modo redditizio di utilizzare le risorse umane in
eccesso. Ragazze troppo stanche, o troppo ribelli per far bene il mestiere…
Qualcosa per variare di tanto in tanto la dieta standard di questi riti, per i
quali di solito i miei confratelli usavano esemplari umani di bassa qualità:
ragazzi e ragazze scappati di casa… Tossiche che mendicano o battono in
periferia… Gente che può sparire senza che nessuno se ne accorga. Sacrifici
indegni… Io invece fornivo merce di qualità, che rende bene sullo
schermo…»
Il cane, dentro di me, ora ringhia nella morsa che gli stringe le fauci. È un
molosso dai muscoli tesi, il corpo coperto di cicatrici. È un grumo di rabbia
rossa.
L’Albanese scuote la testa, con una smorfia delusa. «Non so come quella
puttana sia riuscita a risalire da quei film a me… Ma soprattutto non so come
le sia venuta in mente l’idea di rubarmi le ragazze, d’accordo con questa
pazza… Con chi credeva di avere a che fare? Con un idiota? Peccato solo
che ha avuto una morte facile. I traditori dovrebbero servire da esempio. Se
l’è cavata troppo a buon mercato.»
Scuoto la testa. È come se muovessi qualcosa di incredibilmente pesante.
Un carico di pietre. Scuoto la testa ed è un movimento lentissimo, faticoso.
La mia bocca pronuncia parole che non capisco.
«Che cazzo hai detto?»
«Ho detto che ti ucciderò.»
«Cosa?…»
«Io ti ucciderò.»
Lirosh mi fissa a lungo.
Poi scoppia a ridere.
«Tu mi ucciderai? Sei proprio pazzo, italiano. Sono io che ti ucciderò.
Avanti, portatelo nella cappella. Non perdiamo altro tempo.»
Vorrebbero trascinarmi, ma punto i piedi. Voglio arrivarci da solo, al
luogo in cui mi ammazzeranno. Non sono un animale. Gli animali sono loro,
gli imbecilli che si allineano lungo i corridoi, nelle loro tuniche idiote,
soffocando e sudando dentro le maschere antigas. Fissandomi come se io
fossi il mostro, l’alieno, e non loro.
Mentre mi spingono verso il mattatoio realizzo che la mia vita è stata una
continua lotta contro la stupidità. Era quello, il nemico da combattere. Era
quello, il virus che avrebbe portato la nostra società alla rovina. L’ho
combattuta quando gli stupidi al comando erano di sinistra, e l’ho
combattuta quando il potere tornava alla destra.
Stupidità.
Ovunque.
E ipocrisia, ovviamente. Senza ipocrisia, la stupidità non regna. Senza la
complicità o il silenzio delle persone oneste e intelligenti.
Scoppio a ridere.
I due che mi tengono per le braccia sussultano, si bloccano. E io continuo
a ridere, una risata sempre più forte e allucinata, una risata che echeggia in
questi corridoi come il verso di un animale preistorico.
La statua di san Pantrizio mi fissa. Il volto imperturbabile di chi ne ha
viste, di cose, in questi lunghi secoli. La stanza è illuminata a giorno da due
potenti riflettori montati negli angoli. E anche stavolta, perché la prima non
poteva essere stata solo un sogno, anche stavolta il pavimento è coperto da
un telo di plastica che scricchiola sotto i nostri passi. L’unica differenza è
che non sono nudo, ma anche questo si risolverà presto, perché quelle che
sembrano decine di mani mi stanno spogliando, muovendosi come ragni o
come carezze sulle mie braccia e sulle gambe, tirando leggermente,
abbassando, levando, finché non sono nudo. Vedo che togliendomi le
fascette dalle caviglie mi hanno inavvertitamente ferito, lasciando lunghe
incisioni su cui brillano gocce di sangue come piccoli rubini. Ogni cosa
sembra brillare, nella luce accecante che non puoi fissare direttamente. Il
tutto in un silenzio assurdo, pauroso.
«Grazie alle tue indagini del cazzo abbiamo perso la nostra chiesa, ma
come vedi abbiamo combinato lo stesso» mi sussurra Lirosh all’orecchio,
ridendo.
La sua mano mi spinge in ginocchio. Senza brutalità, ma con fermezza.
Alzo lo sguardo. Lungo le pareti si sono allineati gli accoliti. Le lenti delle
loro maschere riflettono la luce come se emanassero raggi mortali. Hanno le
braccia penzoloni, le spalle piegate.
Scuoto la testa.
Che fine del cazzo.
Uno spettacolo per idioti.
Mi preparo a morire.
Non so come sarà. Ma so che ci vorrà del tempo, e non sarà piacevole.
Immagino la lama nella mano dell’Albanese. Il modo in cui la bilancia,
come ne saggia il filo.
Mi preparo a morire.
Ma in quel momento un trambusto alla porta della stanza distrae
l’attenzione di tutti, compresa la mia.
Elena è già nuda, quando la spingono in ginocchio accanto a me. Alza la
testa, mi guarda. Gli occhi gonfi di lacrime. L’occhio destro è tumefatto,
violaceo.
«Sei contento, poliziotto? La coppietta si riunisce. È come una specie di
matrimonio. E lo celebro io» fa Lirosh, afferrando un seno di Elena nella
mano a coppa. «Non essere geloso» aggiunge. «È un frutto che ho già colto.
E non ero certo il primo. Fatti dire da lei, chi è stato il primo. Chi ha dato il
primo morso alla mela quand’era ancora acerba. Non te l’ha detto, vero? È
una storia interessante.»
Chiudo gli occhi.
Non voglio vedere.
E non voglio sentire.
«Magda frignerà un po’ per la morte di questa troietta, ma poi le passerà.
L’amore e l’amicizia ai tempi di Instagram non durano a lungo» sussurra lo
stronzo all’orecchio di Elena, carezzandole i capelli.
«Mia figlia Magda e questa stronza sono amiche» aggiunge, voltandosi
verso di me. Poi lo sguardo gli si vela, come un obiettivo fotografico fuori
fuoco.
«Hai mai pensato a come la vita sia solo un insieme di coincidenze? Se
questa troia e Magda non fossero diventate amiche, all’università, tutto
questo casino non sarebbe mai successo. Tu saresti ancora vivo…»
«Sono ancora vivo.»
Lo schiaffo mi prende sulla tempia sinistra. Vedo le stelle, ma non cado.
Tengo duro.
Come aveva detto quel contractor, poco prima che l’uccidessero? Ora ti
faccio vedere come muore un italiano. Albanese di merda.
«Sei vivo finché voglio io. Ma che poliziotto sei? Che merda di poliziotto
del cazzo sei? Non t’interessa sapere la verità?»
«La conosco già.»
Lirosh mi fissa incredulo. «La conosci già? Non dire cazzate. Se la
conoscevi già non saresti mai andato da questa puttana.»
Quando vede che non rispondo mi fissa con rabbia. Ma per un attimo nel
suo sguardo ho colto la paura. È stato come un riflesso di luce apparso per
un attimo su un mare scuro, in una notte senza luna. È passato, ma l’ho
colto. Paura. Di cosa?
Ma è l’Albanese a rispondere alla domanda, senza nemmeno che io debba
farla.
«Non dire che fai ancora affidamento su quella cazzata della tua
assicurazione sulla vita… Credi che io sia così coglione da cascarci? Se
dipendeva da me eri già morto da un pezzo. Non me la sono mai bevuta, la
tua storiella.»
Ma quel riflesso riappare, nei suoi occhi. E lo sforzo che fa per
nasconderlo lo rende ancora più evidente.
Si guarda intorno con rabbia.
«Uscite! Fuori di qui! Tutti!»
Amodio e gli altri lo fissano allibiti.
«FUORI!»

Quando gli altri se ne sono andati, Lirosh mi guarda a lungo, prima di


parlare. Nel suo sguardo non c’è più odio. Guarda un po’ me e un po’ Elena,
ma come potrebbe guardare qualcosa da cui debba separarsi. Un’auto che hai
guidato per anni, che vendi per comprartene una migliore.
L’ho sottovalutato, l’Albanese.
Il fatto è che non l’ho mai guardato davvero. Ho creduto di vederlo, e
invece vedevo solo la sagoma di cartone che gli avevo sovrapposto, la
maschera del criminale da strapazzo venuto da fuori per fottere il mio paese.
È questo che mi ha impedito di vederlo veramente, di vederlo per quello
che è.
È questo che mi ha fottuto.
Quando parla, lo fa sommessamente, come se fossimo davvero in una
chiesa, e non nel tempio improvvisato di una congrega di svitati.
«Quando sono venuto qui» sussurra, «ero un ragazzo ignorante. Non
parlavo nessuna lingua se non il dialetto del mio villaggio. Sono arrivato qui
chiuso nel cassone di un camion, dietro le scatole di mangime per polli.
Eravamo in sedici, in uno spazio di tre metri per ottanta centimetri. In piedi,
per tutto il viaggio. Non potevi sederti, non c’era spazio. Facevamo a turno.
L’aria mancava. Ventisei ore così, al buio. Non puoi neanche immaginare
cosa vuol dire. E quando sono arrivato qui, ci hanno scaricato in un vecchio
magazzino, sporco e gelato. Puzzavamo. Due di noi si erano cagati addosso.
Per pisciare c’erano solo sei bottiglie di plastica, ma si erano riempite subito.
Così la prima cosa che ci hanno fatto è stata lavarci con gli idranti. La
seconda cosa, il loro capo mi indica e dice qualcosa ai suoi. Io non capisco.
Allora due di loro mi prendono e mi portano in una stanza dove poi lui entra,
e mi calano giù i pantaloni e mi tengono fermo mentre lui…»
Scuote la testa.
«Ci ho messo anni, per trovarlo, ma l’importante non è quanto tempo ci
vuole. È quello che ottieni. Io ho sempre avuto pazienza. Custodire un
gregge di capre ti insegna la pazienza. Ho ritrovato quell’uomo sei anni
dopo. Non mi ha riconosciuto. Ho dovuto spiegargli perché lo stavo facendo,
quello che stavo facendo.»
Continuando a parlare, si solleva la tunica. Abbassa la zip dei calzoni e
tira fuori l’uccello. Si mette di fronte a Elena.
«Ci ha messo delle ore, a morire. Penso che per lui sono state come giorni,
quelle ore. Penso che ha pagato anche per gli altri, anche per tutto quello che
ho dovuto soffrire qui nel tuo paese di merda, italiano. Tutte le umiliazioni,
tutta la fatica. Non è stato facile trovare la mia strada nel mondo. Ma alla
fine ce l’ho fatta. Guardami, adesso. Sono il re del mondo.»
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re. Ammirate, voi potenti, la mia
opera e disperate…»
«Che cazzo dici? Cosa stai dicendo?»
Scuoto la testa, sorridendo. «Niente.»
«Niente… Bugiardo. È una poesia, vero? Ho già sentito quel nome.
Ozymandias. Solo che non ho studiato come te. Sono come i vostri
governanti. Ho studiato all’università della vita. Che ironia, eh, che il paese
che si vanta di avere tanta cultura abbia eletto un governo di ignoranti… Io
la mia cultura me la sono fatta leggendo e guardando programmi scientifici.
Focus, Voyager, La macchina del tempo… Ho scoperto tutto del mondo, e
dei suoi veri padroni. Tutta la verità dell’esistenza si è aperta davanti a me.»
Vorrei ridergli in faccia, ma Lirosh si avvicina ancora di più a Elena.
La ragazza alza gli occhi.
Dal pene dell’Albanese esce un getto teso di urina che le frusta il volto.
Sorridendo, muovendo il suo uccello come se fosse una canna per irrigare,
Lirosh bagna il viso di Elena, e poi il seno, le braccia, il grembo. Non
trascura nessuna parte del suo corpo. Lei trema, scoppiando a piangere.
«Questa troia ha rovinato tutto. Io e suo padre eravamo in società da anni,
ma lei non l’avevo mai vista. E poi, due anni fa, Magda me la porta a casa, e
scopro chi è. La faccio entrare in casa mia, perché non ho figli maschi, e
Magda è tutto quello che ho, è la luce dei miei occhi. Faccio entrare questa
troia in casa mia e lei cosa fa? Mette il naso dove non dovrebbe. Scopre i
miei commerci con le Zattere. E da lì in poi va tutto in malora. Spariscono
tre ragazze. Una ogni tanto. Fa parte del rischio d’impresa, dirai tu. Col
cazzo. Ne avevo bisogno. Erano tre consegne speciali. Le avevo già vendute.
Avevo dei compratori nel Qatar che me le avrebbero pagate a peso d’oro.
Perdere la reputazione con clienti di quel calibro è una cosa davvero pessima
per gli affari. Arrivano alle Zattere, ci stanno un po’, e poi di colpo
spariscono dal radar. E un giorno il mio socio alle Zattere mi chiama e mi
dice che le hanno trovate, tutte tre, e sono morte. E mi dice come sono
morte, e dove.»
Posa una mano sui capelli di Elena, l’unica parte del suo corpo che non
abbia lordato. È una carezza tenera, quasi paterna. Ma il volto di Lirosh
Roshi è quello di un demone. È una fortuna che Elena tenga gli occhi bassi.
«Non avrei dovuto farti entrare nel culto. Eri troppo instabile. Tu sei
matta, Elena. Matta da legare. D’altra parte chi non lo sarebbe diventato, con
quello che hai passato?»
Si volta verso di me.
«Le ho raccontato del culto. Questo quando già stavamo assieme da un
po’. All’inizio non era amore. Scusami se lo dico, Elena. Era il fatto di
scoparmi la figlia di quello che pensava di essere il mio padrone a eccitarmi
di più. Ma quando mi hai detto cosa ti ha fatto tuo padre, cosa ti ha fatto
quand’eri ancora una bambina, è stato allora che ho cominciato ad amarti
davvero. Ma tu ne hai approfittato. Quando ho abbassato le mie difese hai
complottato contro di me con Krystyna… Hai usato le mie conoscenze per
far scappare quelle tre ragazzine. Hai fatto saltare il mio contratto. Hai
rovinato la mia reputazione. E poi le hai uccise. Questo proprio non riesco a
capirlo. Prima le hai fatte scappare e poi le hai uccise.»
Elena scuote la testa.
Sempre più forte.
Violentemente.
«Uccidendole, le ho salvate. Erano ancora vergini. Lo saranno per sempre.
Sono in paradiso. Sono fra le braccia del Padre.»
Lirosh la fissa sbigottito.
«Sei ancora una cristiana… Hai fatto solo finta, di credere nella mia
fede… Mi hai tradito due volte…»
Infila la destra sotto il mantello, estraendo un vecchio coltello a
serramanico. Il volto deformato dalla rabbia. Le vene pulsano sulle sue
tempie come se stessero per scoppiare.
Devo distrarlo da lei.
A qualunque costo.
E poi c’è ancora qualcosa che devo capire.
«Per questo hai ucciso Krystyna? Pensavi fosse stata lei?»
La sua faccia si gira lentamente. Ma alla fine ce l’ho fatta, a schiodare la
sua attenzione da Elena.
«Come hai detto, poliziotto?»
«Hai pensato che era stata Krystyna, a far sparire le ragazze. Pensavi le
avesse fatte scappare lei. E l’hai uccisa.»
Lirosh sogghigna.
«Ho fatto di meglio. Ho detto al mio socio che stava per raccontare tutto
dei nostri accordi alla polizia. È stato lui a farla sistemare. Dai suoi uomini.»
Mi guarda con un’espressione maligna.
«So che anche tu te la scopavi. Mi dicono anzi che le volevi molto bene.
Forse l’amavi. Cosa si prova, a perdere la persona che ami? Non vuoi
dirmelo? Non lo sai? Io lo so. È come morire. Io sono morto a diciassette
anni, quando ho perso me stesso, venendo qui.»
Il coltello pende nella sua mano rilassata.
Dentro di me tiro un sospiro di sollievo.
Anche se so che non durerà a lungo.
Lirosh scosta la manica della tunica e legge l’ora sull’orologio. Sul mio
orologio.
Sul piedistallo della statua di san Pantrizio ci sono un’ascia e dei pezzi di
stoffa. Lirosh raccoglie questi ultimi e li usa per imbavagliarci.
Prima Elena, poi me.
«Sei stata così carogna, o così furba, che hai voluto coinvolgere il nostro
culto, nella morte di quelle tre stronze. Dopo averle uccise da qualche parte
le hai mutilate ritualmente. Sai quanto a lungo ho pensato a chi poteva essere
stato, degli adepti? Ho sospettato persino del povero Gaspare… Ci ho messo
un po’ a capire che eri stata tu… Avevo sottovalutato la tua follia. Be’,
stanotte proverai quello che hanno provato loro. Solo che a quanto mi dicono
erano anestetizzate quando le hai fatte a pezzi. Tu non avrai la stessa
fortuna.»
Indietreggia di due passi, come per contemplare il suo lavoro.
«Tornate dentro!» urla.
Lo scalpiccio di passi affrettati lungo il corridoio, e poi sul telo di plastica
della stanza, sembra il suono di gocce di pioggia che precede un temporale.
Chiudo gli occhi e mi preparo a morire.
Poi li riapro, voltandomi verso Elena.
Quello che la mia bocca non può dire glielo dico con gli occhi.
Ti amo.
Elena scuote la testa.
La china, distogliendo lo sguardo da me per sempre.
La voce di Lirosh Roshi si alza a riempire la stanza.
«Benvenuti al sacrificio, fratelli e sorelle!»
Tutti i presenti rispondono all’unisono con tre parole incomprensibili.
«Ysh-Tn-Nyogh’Gavod, Ysh-Feynh-Dagh-Yedoth…» salmodia la voce
dell’Albanese. Sillabe senza senso in una lingua inventata, un canto senza
musica al quale si uniscono le voci degli accoliti e quella querula di Gaspare
Amodio, che traduce la litania in italiano.
«In principio era l’uomo, una creatura di fango. La sua vita era un lento
strisciare nella melma e nelle tenebre. Maledetto dal suo Creatore, doveva
subire il giogo della Natura, strappando alle difficoltà della vita i giorni di
un’esistenza miserabile…»
«E poi arrivò il Superenalotto, che elevò i poveri a ricchi. E arrivò
Wikipedia, che trasformò i saggi in idioti e gli idioti in saggi, che in realtà
rimasero degli idioti» tuona la voce di Alemanno Ferrari alle mie spalle.
E dopo il tuono della voce arriva lo scoppiettare silenziato delle armi, un
ricordo del poligono di tiro, e il rumore dei corpi che cadono di schianto a
terra. È come quando fai scoppiare le bolle di un involucro per pacchi: lo
schiocco, e poi quel suono viscido di plastica.
I due russi – Vladimir e l’altro di cui non ho mai saputo il nome – si
muovono attraverso la stanza come due mietitori: metodici, precisi. Il loro è
un lavoro paziente, quasi da contadini. Falciano gli accoliti con uno staccato
di colpi micidiali: al volto, alla nuca. Uno dopo l’altro gli uomini e le donne
cadono, senza un accenno di fuga o un grido di protesta. Non è una strage: è
un macello. Ferrari, anche se è armato di una calibro .45, non spara. Si
muove fra i cadaveri e i morenti, impassibile come l’Angelo della Morte.
Amodio è l’ultimo rimasto in piedi, accanto a Lirosh. Stanno davanti alla
statua di legno colorato, come se volessero ripararla dai colpi.
L’ingegnere, tremando, tenta di togliersi la maschera.
Come se rivelando il suo volto potesse evitare la morte.
Il proiettile gli attraversa la mano, gli devasta la fronte. Uno schizzo di
sangue macchia il legno dorato del mantello del santo.
Alemanno Ferrari si toglie un fazzoletto immacolato dal taschino della
giacca e tira via la macchia dalla statua. Un gesto tenero come quello di un
genitore che pulisce le labbra del figlio neonato.
Poi guarda l’Albanese.
«Metti giù quel coltello, Lirosh. Siamo soci.»
È a non più di un metro di distanza. L’altro potrebbe piantargli la lama nel
cuore o puntargliela alla gola per farsi scudo col corpo del banchiere.
Invece apre la mano. Il coltello cade ai suoi piedi.
«Socio» fa l’Albanese, sorridendo.
«Socio» annuisce il banchiere. Poi alza la pistola e spara in bocca a
Lirosh. L’espressione stupita esplode in un papavero rosso. Il corpo
dell’uomo cade a terra come un sacco floscio.
«Forse volevo dire sorcio» sorride Ferrari, guardandomi. «Sicuramente è
quello che pensavo.»
Porge la calibro .45 a Vladimir, che se l’infila nella tasca del cappotto.
Il puzzo di sangue e cordite nella stanza è terribile.
Ferrari s’inginocchia di fronte a sua figlia, incurante di macchiarsi di orina
i pantaloni.
Abbraccia Elena, che reagisce scuotendo selvaggiamente il capo.
Lui l’abbraccia più forte, le sussurra parole all’orecchio.
Lei si calma, a poco a poco. La testa smette di muoversi
spasmodicamente.
«Sei la mia bambina» fa il banchiere, con una voce tenera. Una voce
completamente diversa da quella con cui, dopo essersi alzato con scioltezza
giovanile, mi parla.
«Al contrario del povero Lirosh, io credo davvero alla storia della sua
assicurazione, signor Stokar. Sono un uomo d’affari, non un delinquentello
del Terzo mondo. Non mi piace rischiare. Credo nei bilanci e nella
programmazione, e non nella Ruota della Fortuna. È per questo che lei è
vivo e continuerà a rimanerlo, se non fa qualche cazzata. Ovviamente non
posso proteggerla contro le malattie e la vecchiaia, per quelle non c’è
rimedio, ma per il resto mi occuperò io di lei. Basta che si tolga dai piedi e
se ne vada lontano. Molto lontano. Non le mancherà nulla, se rispetterà i
patti. Ho in mente di garantirle una rendita. Niente di troppo generoso, ma
abbastanza da permetterle di rifarsi una vita lontano da qui. Cominci a
pensare a un posto. Scelga lei. L’importante è che si scordi completamente di
me, di mia figlia, di questa città. E si ricordi che anch’io ho un’assicurazione
contro di lei: la sua prova di attore in uno snuff movie. Dalla sua espressione
vedo che ha capito. Un filmato in cui lei e tre cittadini bulgari recentemente
assurti agli onori delle cronache per la loro orribile morte vi date
alacremente da fare con una ragazzina. Una cosa perversa, terribile. So che
l’ha già visto, perché ho i miei informatori, alle Zattere. Non sanno tutto,
non vedono proprio tutto, ma notano e mi riferiscono quanto basta. Sono
stati loro a farle avere il suo tablet, dopo averlo opportunamente caricato. E
Chatterjee le ha fatto imparare sotto ipnosi la password. Perfetto, no? Che
c’è? Non ha niente da dire? Il gatto le ha mangiato la lingua?»
Sorride.
«Ah, già. Mi scusi.»
Mi toglie il bavaglio dalla bocca. Lo stesso fa poi con sua figlia.
«Assassino» è la prima parola che pronuncio.
«Ingrato» ribatte lui. «E sì che le ho salvato la vita. Anche se ovviamente
ho preso le mie precauzioni.»
«Lo so.»
«Come lo sa?»
«Quelle immagini orribili sono state scaricate dall’iPhone di tua figlia. Ma
sapevo che non poteva essere stata Elena.»
«Lo sapeva? E come?»
Chiudo gli occhi. «Lo sentivo.»
Ferrari sorride.
«Che stupidaggine. Vedo che ho fatto bene a prendere le mie precauzioni
aggiuntive, con lei. A disinnescarla sessualmente, per così dire. Si è
innamorato di lei…»
«Quello che sapevo» dico, e ogni parola è una tortura per le mie labbra
arse dalla sete ma anche per il mio cuore, «è che tu eri l’unica persona che
aveva interesse a ricattarmi.»
«Complimenti, ispettore. Comunque, se un filmato del genere dovesse
saltare fuori, qualunque sia la fonte, la polizia non potrebbe che riaprire le
indagini per la recente morte dei tre bulgari. Dal punto di vista assicurativo
penso di essere messo meglio io di lei, signor Stokar. Sappia che non
tollererò il minimo errore da parte sua. D’ora in avanti sarà libero, ma in
libertà vigilata. Al primo passo falso, alla prima iniziativa che non dovesse
piacermi, lei sarà fuori gioco. Se capisce cosa intendo.»
Lo capisco benissimo, guardando i due russi muoversi fra i corpi per
accertarsi che siano tutti morti. Tre colpi silenziati a bruciapelo finiscono il
lavoro. Poi, seguendo istruzioni evidentemente impartite da tempo, spostano
i cadaveri di Lirosh e di Amodio. Vladimir, dopo aver ripulito le impronte,
infila la pistola di Ferrari nella mano destra di Lirosh. La punta alla testa
dell’ingegnere morto e spara due colpi.
«Visto che dovrebbe conoscere i suoi colleghi, secondo lei come
ricostruiranno quello che è successo qui? Un suicidio rituale? Un diverbio
fra i due sacerdoti più alti in grado della setta, terminato con una strage?»
Le pistole dei due russi finiscono una nella mano di Amodio, dalla quale
esplode un colpo verso un accolito morto, l’altra in mano a un altro dei
morti, una donna, a giudicare dai lunghi capelli bianchi che escono da sotto
il cappuccio della tunica.
«Ce n’è di roba per i media, qui dentro» sorride Ferrari. «Ci andranno a
nozze. Caleranno qui da tutte le parti. Giornali, televisioni. La città finirà
sotto i riflettori. Sotto una luce così accecante che cancellerà ogni ombra.
Finirà tutto bene.»
«Bastardo.»
L’espressione del banchiere, sentendomi pronunciare quella parola, è
incredula.
«Come ha detto?»
«Bastardo. Come puoi dire che finirà tutto bene? Hai visto tua figlia? Hai
visto i morti che hai intorno?»
«Non nomini mia figlia. È mia. Non è affar suo. Quanto ai morti, nessuno
li rimpiangerà. Ma li ha visti? A parte un paio di loro, che non avrebbero
certo vinto il Nobel, sono tutti vecchi. Vecchi e stupidi. Hanno continuato a
credere nelle idiozie di due ciarlatani, in quell’impasto confuso di teorie
raffazzonate qua e là. Mi stupisce che un uomo intelligente come Lirosh ci
fosse cascato come un tordo. Mi creda, nessuno sentirà la mancanza di
questa gente.»
Vladimir gli porge una sacca sportiva. Ferrari l’apre, tirandone fuori dei
vestiti: i pantaloni di una tuta, una felpa. Solleva di peso Elena,
abbracciandola. Poi col coltello dell’Albanese taglia le fascette di plastica
che le stringono ancora i polsi.
«Il coltello lo facciamo sparire. Stona col resto. Vuoi occupartene tu,
Vlad?»
«Certo, dottore.»
Con gesti impacciati dall’immobilità catatonica di sua figlia il banchiere la
riveste, infilandole la felpa e i pantaloni. Elena lo lascia fare. La sua faccia è
totalmente priva di espressione, bella come il viso di una bambola di
porcellana se la guardi da un lato, se non vedi l’occhio chiuso, l’orbita
tumefatta. Una bambola. Priva di volontà, di sentimenti.
Mentre la riveste, Alemanno Ferrari sussurra a sua figlia parole dolcissime
e folli. «Papà avrà cura di te. Non dovrai più andartene. Non dovrai mai più
andartene. Saremo soli, tu e io. Saremo sempre insieme. Niente potrà
toccarti. Sei la mia bambina. Non devi avere paura. Papà sarà buono con
te…»
La spinge verso Vlad. Il russo la prende rispettosamente per un braccio e
l’accompagna fuori. Io la guardo. Cerco di assorbire quanto più possibile di
lei. I capelli sporchi ma bellissimi, il corpo da cerva. Ma su tutto questo – su
di lei, sui ricordi – s’impone e domina l’odore stagnante di piscio e sangue, e
il grigio della felpa.
«Qualcuno può liberare anche me?» protesto, alzando le mani legate.
Ferrari e Vlad si scambiano uno sguardo. Un cenno del banchiere, e l’altro
russo tira fuori di tasca un coltello e mi libera dalla morsa.
Tirarmi su non è facile. Rischio di cadere, per le vertigini. I piedi sono
praticamente paralizzati, e ci vuole un po’ perché il sangue riprenda a
circolare.
Curiosamente, solo adesso che sono in piedi realizzo cos’ho intorno: il
macello, l’orrore. Il sangue che copre il telo, rosso e vischioso, denso come
vernice.
Ferrari dice qualcosa sottovoce a Vladimir. Il russo si china sul cadavere
dell’Albanese. Gli slaccia l’Omega e me lo porge, con un leggero cenno del
capo, quasi un inchino.
«Questo è suo» fa Ferrari. «Non so nemmeno perché questo idiota abbia
voluto tenerselo. È una porcata.»
«Per me è un regalo. E per lui immagino fosse un bottino di guerra.»
Mi infilo l’orologio al polso. La sensazione che provo è strana: di
familiarità, e al tempo stesso di estraneità. Lo riconosco come mio, ma mi è
anche estraneo. A un livello che sfugge ai miei sensi, attraverso questo
orologio, in questo momento la materia di Lirosh Roshi si fonde con la mia.
Il calore del suo corpo vivo è ancora sul cinturino. Scambi minimi e infiniti
avvengono a livello subatomico. È una comunione strana, con un altro, un
nemico, un morto, e col passato. Questo orologio è in qualche modo un
ponte, verso un futuro che non riesco nemmeno a concepire.
«Andiamo» fa Ferrari.
«No» gli fa eco una voce di donna. «Non ancora.»
E Nadia Caragiale entra nella stanza, scortata da quattro guerrieri nubiani.
64

«Lieta di trovarti ancora vivo» sussurra Nadia, passandomi accanto.


Tre dei quattro che l’accompagnano impugnano armi assurde: due balestre
medievali e un fucile a canne mozze che doveva essere già vecchio ai tempi
del Proibizionismo. L’ultimo, che mi rivolge un sorriso non particolarmente
amichevole, è il mio amico nero della Kuga, George o Suleyman che sia, e
impugna il mio taser.
I quattro si dispongono in modo da tenere sotto tiro i due russi e il
banchiere.
«Credevo che il Carnevale fosse finito da un pezzo» commenta Ferrari, in
tono acido.
«A giudicare da tutte queste maschere per terra direi di no» risponde
Nadia. «Anche se non c’è molta allegria qui intorno.» Poi si volta verso di
me. «La prossima volta dacci l’indirizzo giusto. Rischiavamo di perderci la
festa. Meno male che il tuo amico giornalista ci ha dato anche questa
seconda possibilità.»
«Chi è lei?» esclama Ferrari, sdegnato per l’intrusione.
«Per il momento non ha importanza. Diciamo che sono un’amica di
Sergio, e che voglio riportarlo con me senza problemi.»
«Credo che il signor Stokar abbia altri progetti. Un lungo viaggio, ad
esempio.»
«Questo lo deciderà lui con calma. E in piena libertà. Per ora lo portiamo
via con noi.»
«Sarei curioso di sapere chi siete.»
«Pensavo ci conoscesse. Siamo i suoi inquilini. Una rappresentanza, dei
suoi inquilini.»
«Abito in una villa. Non ho inquilini.»
«Oh, sì che li ha. Veniamo dalle Zattere. Mi chiamo Nadia Caragiale.
Rappresento il Consiglio della mia comunità. Dalla sua espressione vedo che
lei sa benissimo chi sono, anche se fortunatamente, almeno per me, non
c’eravamo mai incontrati.»
Il banchiere si stringe nelle spalle.
«E comunque ho portato qualcuno che sicuramente lei conosce» scandisce
Nadia.
Schiocca le dita, e dal corridoio si sente un frastuono di passi e di
comandi.
Aarif inciampa in mezzo ai due che lo trascinano in malo modo nella
stanza. Ha la faccia coperta da lividi bluastri, gli occhi iniettati di sangue.
«Conosce quest’uomo?» chiede Nadia, sprezzante.
Il banchiere, con una smorfia disgustata, alza le spalle.
«E tu, lui, lo conosci?» sibila Nadia ad Aarif.
Il siriano scuote la testa con forza. Apre la bocca in una specie di rictus,
mostrando i due incisivi spezzati e sanguinanti, biascicando parole
incomprensibili.
«Avete sbagliato uomo» fa il banchiere, in tono conciliante. «Non sono io
che ho fatto affari con questa canaglia. Era lui» conclude, accennando col
mento al cadavere dell’Albanese.
Aarif conferma annuendo. Sembra che passi attraverso le cose, lo sguardo
perso nel niente che lo attende. Ha già visto troppe volte la giustizia in
azione, alle Zattere, per illudersi sul suo futuro.
«Il mio biglietto ti ha raggiunto…» sorrido alla Caragiale.
«Ne aveva uno uguale in tasca anche lui» ribatte secca la donna. «E uno
identico l’hai fatto avere anche a Chimeze.»
«Dopo quello che mi hai detto nel palazzo bruciato, non sapevo più di chi
potevo fidarmi.»
«Hai fatto una stupidaggine. Sei fortunato che sospettavo da tempo di
Aarif. E che i miei sospetti sono stati definitivamente confermati quando ha
annegato nella piscina l’unico informatore su cui avevamo messo le mani.
Solo che quel disgraziato, prima di morire, aveva detto che gli intermediari
nella vendita delle ragazze erano russi. È stato questo, a trarmi in inganno.
Ho ricollegato i russi a chi fa affari con loro, in città. A questo pezzo di
merda che ho davanti.»
Alemanno Ferrari respinge sdegnosamente quell’accusa. «Vlad e Dmitrij
non hanno niente a che vedere con le ragazze. Sono professionisti. Non si
sporcano con cose del genere.»
Scuoto la testa.
«All’orecchio di uno che non sia un linguista, russo e bulgaro possono
suonare più o meno simili. Anche se l’Albanese ha detto che era stato Ferrari
a far uccidere Krystyna. Una delle sue tante bugie. Non so perché me l’abbia
detto. Forse era solo un modo per vantarsi di aver ingannato il suo padrone.
Ma non aveva senso. Non ne ha mai avuto. Gli assassini di Krystyna erano i
bulgari. E i bulgari erano sul libro paga di Roshi.»
Il banchiere ci fissa. Prima la Caragiale e la sua scorta. Poi me. «Devo
aspettarmi che arrivi qualcun altro?»
Ma è Nadia a rispondere.
«No. Non verrà più nessuno. Non dalle Zattere, almeno.» Poi si volta
verso di me. «Chimeze è morto. Ha preferito così. Devo dire che ci ha
semplificato le cose. Sapevo che era coinvolto in questa storia. Ti ricordi la
microspia piazzata nel mio ufficio? Indovina chi è venuto a sostituirla perché
non funzionava più?»
«Quindi le mele marce erano due, non una.»
«Suppongo abbia scoperto i traffici di Aarif e l’abbia ricattato. O sia
entrato in società con lui. La cosa adesso non ha importanza. Mi sono
ricordata che era stato Chimeze a perorare l’arrivo del dottor Chatterjee,
mentre Aarif si diceva contrario. In compenso Aarif è quello che ha votato
per accoglierti alle Zattere. Penso fosse tutta una finta, un accordo fra di loro
per far passare quella proposta contro il mio parere.»
Guarda il banchiere dritto negli occhi.
«Bella mossa, ingaggiare Chatterjee.»
Ferrari alza le spalle. «L’avevo incontrato un paio di volte, a una festa e
sul campo di golf, ma niente di più. E poi ha preso in cura mia figlia, e
credeva che ce l’avesse fatta a… be’, a risolvere i suoi problemi… Allora gli
ho offerto anche, chiamiamolo così, un altro lavoro… Ha sorpreso anche me,
che accettasse di andare a fare il buon samaritano part time alle Zattere.
Immagino che anche i generosi assegni che gli staccavo per farlo siano stati
un buon incentivo.»
Nadia scuote la testa. «Già. Quando gli ho chiesto perché lo facesse, e
perché aveva chiesto il massimo riserbo sul suo volontariato fra noi, ha
risposto che il filantropo che lo finanziava non voleva pubblicità. Bel
filantropo. A te delle Zattere non è mai fregato niente. L’importante era che
Sergio rimanesse vivo e silenzioso, e che le Zattere restassero lì, così come
sono, anche a costo di vederle riempirsi di quella che sono certa dentro di te
chiami merda umana.»
«Non capisco» faccio.
«Non capisci? Te lo spiego io, Sergio. C’era una volta un posto chiamato
Casa Sconta. Era un posto fetente, un cascinale ai margini di una palude.
Alla fine degli anni Novanta, poco prima della bolla della web economy, un
gruppo di benestanti locali decide che quello è il posto perfetto per costruirci
un grosso complesso residenziale, un compound per ricchi borghesi che
vogliono tirare su in sicurezza e nella privacy i loro figli. I progetti sono
grandiosi, il vescovo benedice le fondamenta, il cantiere tira su i quattro
palazzi in men che non si dica. Solo che nel frattempo la bolla speculativa si
è sgonfiata, e in città non si trovano abbastanza ricchi per occupare i palazzi,
che restano vuoti. Non viene venduto neanche un appartamento. E intanto i
costi di gestione e le tasse corrono, e i finanziatori s’innervosiscono. Uno dei
quattro palazzi s’incendia, ma l’assicurazione non paga. Si apre un processo
penale per incendio doloso, nessuno viene condannato, ma il tentativo è
andato a vuoto. Così tutti si dimenticano dei palazzi, che diventano le
Zattere.»
Nadia punta l’indice contro Ferrari.
«Cominciano le occupazioni abusive da parte di sbandati e di stranieri
senza fissa dimora, e questo signore non fa nulla per farli sgombrare. Che
bravo… Che attenzione per il sociale… Gli danno persino una medaglia del
Rotary, per il suo impegno a favore dei più disagiati. Anche se l’impegno
consiste nel non fare nulla. Finché le cose a Roma e in regione non
cambiano, e il nuovo governo non decide che sarebbe il caso di dare una
bella ripulita alle Zattere. E questo signore comincia a sudare freddo. Perché
i progetti parlano di abbattimento e riqualificazione dell’area. E queste sono
le ultime cose che il dottor Alemanno Ferrari vuol sentire. E lo sai perché?
Fattelo dire da lui, perché.»
Il banchiere sbuffa, sdegnoso, ma non apre bocca.
Così è la Caragiale, a completare il quadro.
«Perché sotto le Zattere ci sono cose che non devono tornare alla luce.
Mai. Devono dormire sonni tranquilli. Quelle cose le abbiamo scoperte
ampliando il tunnel di collegamento tra Paris e London. Sono cose davvero
brutte, che comprometterebbero la reputazione del cavalier Alemanno
Ferrari. Perché sotto le Zattere ci sono dieci metri abbondanti di morte. Dieci
metri di profondità, una discarica enorme, piena zeppa di materiali
inquinanti: amianto, plastica, residui di lavorazioni industriali. E in fondo a
questa discarica abbiamo trovato la cosa peggiore, quella che secondo me
non ha fatto dormire il dottor Ferrari per un bel po’. Abbiamo trovato un
morto. E siamo persino riusciti a dargli un nome, perché chi l’ha sepolto là
sotto, sapendo che la fossa sarebbe stata coperta da metri e metri di terra
mista a rifiuti, non si era preoccupato di portargli via i documenti. E da quei
documenti siamo risaliti alle pagine dei quotidiani del gennaio del 2000, che
parlavano della sparizione di un vecchio zingaro, che guarda caso risultava
essere stato per qualche tempo, un tempo davvero molto breve, il padrone
della Casa Sconta e dei terreni limitrofi. Se li erano accaparrati usando le
classiche tattiche degli zingari. Due persone dall’aria apparentemente
rispettabile comprano un terreno, e poi si scopre che sono zingari, e che
dietro di loro c’è un’intera tribù pronta a insediarsi sul posto. Inutile dire che
i vicini vendono i loro terreni a un prezzo di realizzo. È così che questo
signore e i suoi soci, tramite l’Albanese, si sono procurati i terreni su cui
sono nate le Zattere, un tempo note come Progetto Eden Triveneto.»
Nadia fissa il banchiere con disprezzo.
«E noi saremmo un pericolo per la vostra società. Noi.»
«Avete una casa. Di cosa vi lagnate? Forse alle prossime elezioni
comunali torneranno al potere i vostri amici, e vi daranno la possibilità di
trovarvi un altro posto in cui stare. Un posto migliore.»
«Sì. Come no. A parte che noi non abbiamo amici, il fatto è che non ci
sono alternative a questa marea montante di merda populista che avvelena
l’Europa. Se l’economia va a pezzi è colpa dei migranti. Se l’ascensore
sociale è diventato un montacarichi arrugginito, e i vostri figli devono
emigrare, è tutta colpa di noi stranieri. Vi portiamo via il lavoro, non
rispettiamo la legge. Rubiamo… Spacciamo droga… La sicurezza sembra
sia diventata l’unica priorità. Che sia al governo la destra o la sinistra, la
musica per i poveri non cambierà. Verremo comunque e sempre fottuti.
Inevitabilmente, perché questo è lo spirito dei tempi. Ma anche perché, in
fondo, così è sempre stato. Sai cosa diceva Jack London? Il futuro è uno
stivale che calpesta un volto umano, all’infinito. Dovunque ci sia una
scheggia di potere, si progetta e si lavora contro di noi, per negarci un futuro.
E nel frattempo, per generosa concessione di questo signore, dormiamo,
mangiamo e facciamo l’amore sopra tonnellate di rifiuti tossici. Ci
cresciamo i nostri bambini.»
Ferrari fa una smorfia sdegnosa. «Nessuno vi obbliga a restare lì.»
«Ma tu conti sul fatto che ci restiamo per sempre. O almeno fino a quando
te ne sarai andato da qualche altra parte, quando il tuo paese sarà stato
definitivamente fottuto.»
«Così va il mondo» fa il banchiere, alzando le spalle.
Per un attimo penso che Nadia stia per ucciderlo. Ho davanti agli occhi la
visione di lei che scatta, afferra una delle pistole in mano ai morti e spara un
colpo dritto in mezzo agli occhi di questo stronzo.
Ma Nadia rimane ferma. Solo il tremito delle mani rivela la tensione cui è
sottoposta.
«Andiamo, Sergio. Torniamo a casa» fa.
Ferrari scuote la testa. «Lui viene con me. Con le Zattere ha chiuso.»
Lo guardo. Poi guardo la Caragiale. «Fa parte degli accordi, Nadia.»
«Non ti lascio con lui. Guardati intorno. Preferirei lasciarti in una vasca di
squali.»
«Purtroppo non abbiamo questa alternativa. Vattene, Nadia. Per favore.»
«Io e il signor Stokar siamo legati da un contratto assicurativo. Se lui
rispetterà le regole non avrà niente da temere. Ma non posso lasciarlo
andare.»
La rumena fissa Alemanno Ferrari negli occhi. Lo guardo anch’io.
Quando hanno inventato l’espressione “faccia da schiaffi” devono aver preso
lui, o un suo antenato, come prototipo. Ha sempre quest’aria sicura, che ti
verrebbe voglia di spettinare a ceffoni.
«Vattene, Nadia» ripeto, sommessamente.
«Vattene» aggiunge il banchiere, per pura cattiveria.
«Non prima di averti parlato un momento. In privato.»
«Non è un problema» sorride Ferrari.
«Ma prima datemi qualcosa per vestirmi e fatemi andare in bagno» gemo,
stringendo i denti.

È un sollievo, uscire da quell’orrenda macelleria. Ed è un sollievo


indossare di nuovo dei vestiti, anche se è un saio della setta. E soprattutto è
un sollievo aver potuto liberare la vescica, per quello che mi sembra un
tempo infinito. Mi guardo allo specchio, nel bagno del museo. Per fortuna
l’illuminazione è debole. Cerco di ricordare il mio volto di un tempo, ma
non lo ritrovo né nel riflesso né nella memoria. Pazienza. Questa faccia mal
rasata, invecchiata, queste cicatrici, sono tutto quello che ho, mi dico, e
dovrò farmelo bastare.
Uscito dal bagno, io e Nadia attraversiamo due stanze, prima di arrivare in
una sala che ci sembra faccia al caso nostro. Un posto per parlare.
Una parete è dedicata a un enorme quadro molto scuro. Da lontano
sembra rappresenti una scena di caccia, con cani e cervi. Ma quando ti
avvicini ti rendi conto che la tela, molto scura e dalla vernice screpolata,
raffigura, per quanto in modo artisticamente poco felice, una scena sacra.
Un cartiglio sulla cornice barocca rivela autore e titolo dell’opera.
DOMENICO BELLOSGUARDO.
LA CADUTA DEGLI ANGELI RIBELLI (1603)

«Dove li vedi, gli angeli ribelli?»


«Come dici?» fa Nadia.
«Nel quadro. Dove sarebbero, questi angeli ribelli? Ti sembra si ribellino?
Sembrano cani in attesa che il padrone li richiami. Guardano in alto come se
dal cielo dovesse cadere una pioggia di croccantini.»
«Hai voglia di pensare a queste cose, con quello che è successo?»
«Cerco di distrarmi.»
«Non dovresti. È in gioco la tua vita.»
«Quella me la sono giocata tanto tempo fa. Non c’è rimasto molto da
salvare. Tanto qualunque cosa tocchi si rompe. Hai visto che casino ho
combinato? Quanti morti? E per cosa, poi? Nessuno verrà punito.»
«Questo non è vero. Amodio è morto. L’Albanese è morto. E quei due
traditori di Aarif e Chimeze non potranno più fare affari con chi tratta le
nostre ragazze come pezzi di carne.»
«Questo te lo concedo. Ma con Amodio sono morti questi poveracci, che
avevano il solo torto di credere nella persona sbagliata.»
«Erano assassini, Sergio.»
«Non tutti.»
Sospiro. Mi massaggio i polsi, su cui i segni delle fascette sono ancora
ben evidenti. Guardo l’orologio che un tempo era mio e ora lo è di nuovo, e
mi dico che è veramente un oggetto orrendo. Come posso aver amato una
cosa del genere?
Nadia mi fissa, immagino incredula per la mia indifferenza. Non sa che
sto entrando in quella che Carla definiva la mia «modalità filosofica».
Sorrido. Un’altra cosa che la sconcerta.
«A proposito di Aarif e Chimeze. È una cosa su cui dovresti riflettere,
Nadia. Su tre membri attivi del Consiglio, due erano criminali. Eppure prima
di arrivare al potere non erano cattivi. Ho studiato i loro curricula. Preso
informazioni su chi erano, prima delle Zattere. Erano brave persone, al loro
paese. Cos’è che li ha cambiati? Cos’è che li ha fatti diventare quello che
sono diventati? Il potere? Questo paese…?»
«La loro debolezza, immagino.»
«Certo. La loro debolezza… Devo chiederti una cosa, Nadia.»
«Dimmi.»
«Ora che sei rimasta sola, al comando, come pensi di governare le
Zattere?»
«Non certo da sola. Per la verità avevo pensato a te, come nuovo membro
del Consiglio.»
«Purtroppo, come hai sentito, ho altri impegni.»
«Comunque ho in mente un paio di brave persone che sarebbero perfette
come consiglieri. Così perfette che penso farò fatica a convincerli ad
accettare la nomina.»
«Sono contento che almeno per questo non sentirai la mia mancanza.»
«Quanto sei stupido. Ci sono tanti altri motivi per sentirla.»
Guardo la tela scura, in cui angeli diventati demoni si battono per tornare
alla luce.
«Resta sempre come sei, Nadia. D’accordo? Non cambiare mai. Rimani
sempre la persona onesta che sei.»
«Sempre è un sacco di tempo.»
«Già. Ma io ho fiducia in te.»
«Cercherò di esserne degna. Ma…»
«Sento che quanto stai per dirmi non mi piacerà.»
«Se fossero state tre, le mele marce…? Chi ti dice che io sia davvero
pulita? Se conoscessi il mio passato, se sapessi le cose che ho fatto, forse
non saresti così sicuro di me.»
Alzo le spalle. «Sono un poliziotto. Mi sono fatto una certa esperienza nel
giudicare le persone.»
Nadia sorride. Quel sorriso le toglie almeno dieci anni. Dev’essere stata
molto bella, da giovane. Lo è ancora.
«Dove andrai, adesso? E non alzare di nuovo le spalle.»
«Ferrari ha qualche idea per il mio futuro. Dovrò almeno sentirle.
Comunque non è previsto che io resti qui. Ma almeno resterò vivo.»
«Sei sicuro di poterti fidare di lui?»
«Non ho molta scelta.»
Lei sospira. «Così perdiamo il nostro miglior poliziotto.»
«Nonché unico. Ne troverete un altro. Non sono più così bravo. Ci ho
messo un sacco di tempo per venire a capo della faccenda. E sono morte un
bel po’ di persone.»
Nadia si morde il labbro. «A questo proposito, avrei ancora una cosa da
dirti.»
«Che cosa?»
«Tipo una confessione. Non in senso religioso. Io non sono credente.
Piuttosto come una confessione alla polizia. In fondo sei un poliziotto.»
«Ti ascolto.»
«Chimeze. Non si è suicidato.»
«In effetti non mi sembrava il tipo.»
La guardo. «Tutto qui?»
«Sì. Cioè, ci sarebbero i dettagli.»
«Quelli non m’interessano. Non sono più il poliziotto delle Zattere. E non
sono nemmeno il tuo confessore.»
Lei scuote la testa. «Sicché ci salutiamo, Sergio.»
«Così pare.»
Nadia mi sfiora con l’indice i punti sul sopracciglio, la ferita che mi ha
fatto tirandomi addosso il posacenere. Si morde il labbro inferiore. «Mi
mancherai. Sei uno stupido bastardo razzista, e mi hai fatto davvero
incazzare, ma mi mancherai.»
«Ancora un po’ e cominciavo a piacerti…»
«Non sei il mio tipo. Però sì, non escludo che col tempo avrei potuto
trovare anche qualcosa di buono, in te.»
«Ora devo andare, Nadia.»
«Solo una cosa, prima che tu vada. Volevo dirti di non pensare che la tua
vita dipenda solo dal capriccio di quel mostro. Se consideri bene le cose,
siamo noi a tenerlo per le palle, Alemanno Ferrari. Noi delle Zattere. Siamo
noi, ora, la tua nuova assicurazione sulla vita. Scavando sottoterra e
ascoltando testimoni abbiamo raccolto abbastanza materiale per mandare
quello stronzo in carcere per un bel po’ di anni, se lo rendiamo pubblico.
Quindi respira tranquillo. Ci occuperemo di te, anche se da lontano. Ci
assicureremo che tu sia vivo, e stia bene.» Un sorriso incerto le illumina lo
sguardo, come un raggio di sole fra le nuvole. «Sai, non è detto che quello
che abbiamo trovato non sia abbastanza anche per comprare la tua libertà,
prima o poi. Dammi il tempo per lavorarci. Ferrari non è pazzo come
l’Albanese. È uno con cui si può trattare. Ha imposto lui le condizioni
dell’accordo, ma le condizioni possono variare, al mutare delle cose. Non
dare niente per scontato, Sergio. Riposa, invece. Cura le tue ferite. Non è
facile riprendersi, dopo aver conosciuto certe verità.»
Ci guardiamo a lungo.
Poi le porgo la mano, e lei la stringe, tenendola a lungo nella sua. Quando
la stacca lo fa in fretta, come se si vergognasse di quel gesto.
«Buona fortuna, Sergio.»
«Grazie. Ne avrò bisogno. Come tutti. La pozza dell’abbeverata si
restringe.»
«Come dici?»
«Niente. Buona fortuna, Nadia.»

Quando torniamo di là, è rimasto solo Vladimir, nella stanza.


«Dove sono gli altri?» fa Nadia.
«I tuoi uomini ti aspettano fuori. Il dottor Ferrari è tornato a casa. Deve
occuparsi di sua figlia.»
«E Aarif?» chiede ancora Nadia.
Il russo fa una smorfia disgustata. «Il suo cadavere stonava. Non possiamo
lasciarlo qui. Questa è una storia di sette sataniche. Cosa c’entrano le
Zattere? Questa è una storia che si chiude qui. Tutto a posto. Il vostro
arabo… Davvero vi interessa cosa gli succede? Io credo di no. Stai sicura
che non ne sentirete più parlare. Tutto è a posto, tutto è di nuovo in ordine.
Torna a casa tua.»
Poi si rivolge a me.
«Tu invece vieni con noi. Come dice il poeta: abbiamo molte miglia da
percorrere e cose da fare, prima di riposare.»
Vlad si incammina verso l’uscita, e io lo seguo.
Mentre cammino in mezzo ai morti, sulla plastica che scricchiola a ogni
passo, mi sento come Orfeo. Solo che non c’è nessuna Euridice dietro di me.
Dal regno di Ade non porto via nessuno. Forse nemmeno me stesso.
Ma sto ugualmente attento a non voltarmi, e mi dico che il suono sotto i
miei piedi è quello dell’acqua, della riva di un mare in cui mi addentro, il
mare da cui tutti veniamo e a cui finalmente faccio ritorno.
Epilogo

L’odore di pesce alla griglia arriva fin qui dalla taverna sull’altro lato della
baia.
Definirla taverna è un eufemismo. Più che altro è una baracca dal tetto di
paglia. Davanti c’è una rete metallica appoggiata su due pile di mattoni.
Sotto quella grata, due volte al giorno, viene acceso un fuoco con rami
raccolti lungo la spiaggia. È lì che si cucina. C’è sempre della birra, tenuta in
fresco in una buca scavata nella sabbia, e c’è sempre musica locale,
proveniente da una vecchia radio a transistor.
Descritto così, potrebbe essere un posto da qualunque parte nel mondo. Ed
è così che va descritto, così che devo descriverlo, se voglio restare in vita.
Ognuno di voi lo immagini sulla base delle proprie esperienze. Lo
immagini in Grecia, o in Marocco. O sulla costa dello Yucatán.
Io non vi aiuterò.
Non posso.
Posso dirvi che il pesce è sempre freschissimo, e la birra di produzione
locale va giù che è un piacere. Qui il “chilometro zero” è una necessità e non
una virtù.
Quando ci vado, mangio sempre da solo, a un tavolo d’angolo da cui
posso tenere d’occhio gli accessi alla taverna. Gli accordi non prevedevano
che fossi armato, ma sono riuscito comunque a procurarmi una vecchia
pistola, un relitto di episodi storici su cui non posso addentrarmi, perché
rischierei di dirvi troppo. Sul tavolo davanti a me tengo la copia di un libro,
e durante il pranzo lo sfoglio, perché non mi è mai piaciuto mangiare da
solo, e la compagnia di un libro è un buon surrogato di una conversazione
con un altro essere umano. I libri non ti deludono mai. Almeno, non quelli
che leggo io. Me li portano in barca una volta al mese, assieme alle
provviste, e ogni volta che li ritiro lascio una lista dei desideri per la
consegna successiva. Sono tutti classici, greci e latini, della Oxford
University Press. Aprire il cartone è bello come quando da bambino, nella
nebbiosa Manchester, scartavo l’involucro dei regali di Natale. Tolgo i
trucioli di polistirolo e sollevo a uno a uno, portandoli alla luce, i volumi
rilegati in cuoio blu, con i titoli impressi in oro sulla copertina. A volte sono
edizioni nuove, ancora incellofanate. Più spesso, data la particolarità di
alcune mie richieste, sono libri vecchi di cinquant’anni, o anche più. Una
volta mi è arrivato un volume delle Storie di Erodoto stampato nel 1927.
Quando mi arriva un libro così vecchio, la prima cosa che faccio è
annusarlo. Aprendolo, è come se scoperchiassi un mondo. L’odore di polvere
e di umidità, che presto il clima secco di qui disperderà, è intenso come una
madeleine proustiana, mi riporta all’Inghilterra della mia infanzia, e ai primi
libri comprati in Italia, in un negozio che vendeva anche generi alimentari,
per cui Addio alle armi aveva il profumo delle sardine tenute in una latta sul
bancone, e Delitto e castigo, nella mia memoria, odora di capperi sotto sale.
Gli unici libri che avevo portato con me arrivando sull’isola (lo so, che vi
dica che è un’isola è un indizio in più, ma non credo ve ne farete nulla)
erano due pesanti dizionari di latino e di greco. Quando un mese dopo erano
arrivati i primi libri rilegati di blu, ero in grado di leggerli all’impronta. La
Rondolini e il professor Sigalotti, pace all’anima sua, sarebbero stati fieri di
me.
I classici non ti tradiscono mai.
Ti parlano di vicende e persone immutabili, scolpite nella relativa eternità
del passato. Al tempo stesso sanno illuminare il presente. Nella storia di
Creonte e Antigone, o nei dialoghi tra gli ateniesi e gli sventurati
ambasciatori di Melo, o nei Tristia di Ovidio, trovo la spiegazione del
presente, e la chiave che apre la porta del futuro.
Del vostro mondo non so più nulla.
Solo i pacchi che mi arrivano puntuali ogni mese mi dicono che là fuori
esistete ancora, indaffarati nei vostri commerci e traffici e nei vostri amori.
Non leggendo un giornale da quasi due anni, e non avendo né internet né
televisione, tutto quello che so del vostro mondo mi arriva da qualche
frammento di conversazione colto a un tavolo vicino, alla taverna, la cui
radio è permanentemente sintonizzata su una stazione musicale. Ma non si
parla mai di voi, del vostro paese.
Non so se le Zattere esistano ancora o se siano solo una rovina annerita, o
un enorme buco nel terreno da cui tornano alla luce la sporcizia e i veleni del
passato. O una fossa comune.
Non so niente, e la cosa non mi rattrista.
Immagino che se da voi scoppiasse la Terza guerra mondiale la radio
verrebbe sintonizzata su un notiziario.
Quel giorno non ci andrei, a mangiare.
Il fatto è che non voglio sapere più niente di voi.

Chiamatemi Lazzaro.
Sono tornato dal regno dei morti. Ero goffo, il passo impacciato dal
sudario. Puzzavo, dopo tutti quei giorni nella tomba. Non ero una gran
compagnia. Ero strano. Ho camminato in mezzo a voi finché non ho ripreso
la camminata e il colore di voi vivi, finché il mio odore non vi ha fatto più
arricciare il naso o cambiare marciapiede. Ho vissuto con voi, lavorato per
voi.
Vi ho anche amato.
A modo mio, come amano i morti.
Confuso dai ricordi di una vita che non mi appartiene più. Incerto sui gesti
e su come verranno accolti.

Una volta, nel sonno, sei venuta a trovarmi.


Camminavi lungo la spiaggia, nel sogno era notte, e la luna piena
tracciava un sentiero luccicante sull’acqua. Tu camminavi sulla sabbia, e i
tuoi passi erano così leggeri che non lasciavi impronte.
Tra i libri che mi sono fatto mandare per primi c’era Foglie d’erba, di
Walt Whitman. Volevo leggere la poesia che il mio amico pazzo mi aveva
recitato, una volta, quella che parlava di una goccia d’acqua, e in realtà di un
incontro.
Dalla massa dell’oceano ondeggiante una goccia venne verso di me, teneramente,
mormorando, Ti amo, fra poco morirò,
ho fatto un lungo viaggio solo per guardarti e toccarti,
perché non potevo morire senza vederti…

Nel sogno ti sono venuto incontro, e anche il mio passo era leggero, era
come se volassi. Ci siamo incontrati nel punto al centro della baia in cui la
spiaggia forma un piccolo promontorio, una prua di rocce e sabbia su cui ti
sei seduta, aspettandomi. Indossavi un vestito azzurro, leggero, che la brezza
faceva danzare sulla tua pelle. Ti sei voltata verso di me, e i tuoi occhi
avevano lo stesso colore del vestito. Lo so che non è il loro colore, ma nel
sogno erano azzurri.
Sarebbe bello poter ricordare esattamente quello che mi hai detto, parola
per parola. Ma al risveglio i sogni si sciolgono, come zucchero nell’acqua.
Danno gusto al giorno, ma non puoi separarli dalle cose.
Un re dell’antichità, e di più non so dire di lui, non perché non possa
parlarne, ma perché il ricordo preciso dell’aneddoto si è perso nel tempo,
tanto che non so dirvi neppure se l’abbia letto, e dove, o se l’abbia solo
sentito, o sognato, comunque sia, un re dell’antichità chiese a un sovrano suo
vicino di accogliere il suo popolo, colpito da una grave carestia. «Mio caro
amico» sospirò il sovrano scuotendo la testa, «lo farei volentieri, ma vedi…»
E mentre parlava riempì la sua ciotola di latte fino all’orlo… «Tu vedi, mio
buon amico, come questa ciotola sia colma, e non possa più accogliere
nemmeno un chicco di riso. Il mio regno è come questa ciotola. Siamo già
troppi.» Allora il re sfortunato si fece portare un vasetto di zucchero, e con
gesti pazienti versò lo zucchero nel latte, mescolandoli, finché il vasetto non
fu del tutto vuoto, eppure il latte nella ciotola non era traboccato. «Se accogli
il mio popolo» disse il re, «daremo dolcezza alla tua terra, senza crearti
problemi. E ci sarà posto per tutti.»
È una verità ineccepibile, e al tempo stesso un paradosso che puoi
risolvere solo attraverso l’amore.

«Che bella storia» hai sorriso, nel sogno.


«Non l’ho detta ad alta voce.»
«Ma io l’ho sentita. Come stai, Sergio?»
Penso sia da quello che ho capito, nel sogno, che era solo un sogno. Tu
non mi avresti mai fatto quella domanda. Non me l’hai mai fatta. Non mi hai
mai chiesto come stavo. Non è una domanda da giovani.
«Non mi manca nulla. E tu?»
«Oh, io sto bene. Anche a me non manca nulla.»
«Sei riuscita a dimenticare.»
«Sono riuscita a perdonare. E ora aspetto che gli altri mi perdonino, per
poter tornare da loro. È per questo che sono qui. Si vede che almeno tu mi
hai perdonato.»
«Potevi tornare molto tempo fa, allora. Io non ti ho mai incolpato di
nulla. Non avevi nessun bisogno del mio perdono. Tu non hai colpe.»
«Ah sì» hai fatto, distrattamente, e non hai aggiunto nulla. Fissavi il
sentiero di luce disegnato dalla luna sull’acqua. «Se potessi camminare
lungo quel sentiero, arriverei fino alla luna. Guarda, è così bassa
sull’acqua. Un piccolo salto e potrei salirci» hai detto.
«Sarebbe bello. Sai, sulla luna ci sono delle ampolle di vetro che
contengono i nostri ricordi.»
«Ah sì? Mi piacerebbe trovarli. E romperli a sassate. Tutti tranne i tuoi. I
tuoi mi piacerebbe berli, per sapere tutto di te. Ma ora devo andare. Devo
fare tutto il giro del mondo, due volte.»
E ti sei alzata. Io non potevo muovermi. Era come se la gravità mi tenesse
inchiodato alla roccia, e le mie tasche si fossero riempite di sabbia, come
una zavorra.
«Aspetta. Non mi hai detto dove vivi, adesso.»
Hai fatto un gesto a indicare una direzione. Ma nei sogni le direzioni non
esistono, come non esistono un alto e un basso, e infatti i tuoi piedi si sono
staccati da terra. Non di molto: pochi millimetri, ma anche questo era un
segno del fatto che ti stavo soltanto sognando.
«L’uomo che dice di essere mio padre mi ha mandato in Russia. Dalla mia
finestra si vedono le cupole dorate. Tante cupole dorate. Ho imparato la
lingua, e sono diventata una matrjoska. Strati su strati ho costruito, per
farmi una corazza e coprire lo strato che fa male. Ora sono una bambola
bellissima, tutta liscia e lucida e pura, e tutti i principi e i re del mondo
presto faranno la fila per chiedermi in sposa.»

Come ho detto, le parole di quel sogno si sono sciolte al risveglio, e posso


solo ricostruirle, inventandole.
Allo stesso modo certi archeologi poco scrupolosi del passato partivano da
un frammento di pochi centimetri per ricostruire un intero muro di affreschi,
o imbrogliavano sullo strato in cui avevano trovato un certo oggetto, in
modo da poter convalidare una loro teoria sulla storia.
Non erano imbrogli.
Non per me, almeno.
Li considero, a modo loro, degli atti d’amore.

La strada di luce l’ho vista altre volte, su quest’isola senza nome in cui
passo il mio esilio.
Nella realtà, non in sogno.
Ma tu non sei più venuta a trovarmi.

Così a volte, la sera, per tenere a bada il mio cuore, prima di spegnere la
lampada e abbandonarmi al sonno, verso nell’acqua della mia stanchezza un
po’ dello zucchero delle tue parole sognate.
Un giorno abbandonerò il mio corpo come una crisalide e percorrerò la
strada di luce che porta alla luna, e alla porta del tuo castello tutti i principi e
i re del mondo si scosteranno, lasciandomi passare.

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