Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Marsilio
Dello stesso autore nel catalogo Marsilio
Chiedi alla luce
Lo stato dell’unione
Seguici su Facebook
Seguici su Twitter
Copertina
Abstract - Autore
Frontespizio
Dello stesso autore - Copyright
Esergo
Prologo
Un altro prologo, qualche anno dopo la fine del mondo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
Epilogo
NERO COME LA NOTTE
A chi resiste
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o fatti
realmente accaduti o che potrebbero accadere è puramente casuale.
Nous n’avons fait que fuir
Nous cogner dans les angles
Nous n’avons fait que fuir
Et sur la longue route
Des chiens resplendissants
Deviennent nos alliés.
BERTRAND CANTAT
*
Il nemico più temibile è quello che hai dimenticato.
Prologo
31 dicembre 1999
La sera prima della fine del mondo
E poi il silenzio.
Esco dalla bottega luminosa di Tommy e piombo nel buio e nel cozzare
d’odori del corridoio. I mucchi di coperte e di oggetti addossati ai muri – una
valigia malandata, una pila di libri, una bambola – dicono che siamo nel
girone peggiore delle Zattere, dove la gente si contende un angolo per
dormire, un bagno per cagare, un rubinetto che funzioni un giorno sì e uno
no. Chi arriva da fuori passa inevitabilmente di qui, finché non può
permettersi di scendere più in basso. In un posto dove gli ascensori non
funzionano, più stai in alto e più devi faticare per muoverti. Quindi chi vive
quassù è la fesch de la fesch, lo scolo dell’umanità. Era così nelle insulae
dell’antica Roma ed è così qui, oggi, nel quotidiano esperimento di
sopravvivenza che chiamano «le Zattere».
Tommy invece vive quassù per libera scelta: per l’aria e per la luce, dice,
come se fosse una stramaledetta pianta.
«Le scale sono la mia palestra, e ho come tetto il cielo.»
«Di chi è?» gli ho chiesto una volta.
«Cosa?»
«La poesia. È una poesia quella che hai citato, no?»
«Uh, no, è una cosa che ho detto, e basta.»
E le scale sono sul serio una specie di palestra, anche a farle in discesa.
Scendendole pratichi il salto, per scavalcare gente che dorme a tutte le ore, a
turno. E anche l’immersione in apnea, quando passi vicino agli urinali e ai
buglioli che ai piani alti sostituiscono i pochi bagni che più in basso
continuano, anche se non si sa per quanto, a funzionare. Jean-Mathieu, il
vecchio che si occupa delle pulizie nella nostra sezione del piano, dice che
anche a Versailles era così. «Facci caso, quando visìti un palasso antico.
Niente bagni. Lusso, fresques, letti dorati, mais pas de bains, niente bagni.»
L’analogia tra questo posto e una reggia finisce lì. Non sono certo teste
coronate i musi neri e ambrati che spuntano fra le coperte come torpidi
bruchi da una mela avvizzita. Sguardi mai troppo evidentemente curiosi,
rispettosi della distanza che dev’esserci tra esseri umani che condividono
uno spazio così problematico.
Se per molti di loro non fossi una presenza familiare, i vestiti che indosso
li metterebbero in agitazione. Non capita spesso che per queste scale
semibuie passi il fantasma di un bianco in abiti puliti e relativamente nuovi.
Mentre svolto l’angolo del pianerottolo e affronto un’altra rampa di scale-
dormitorio, dalla bottega del barbiere proviene una musica.
Tommy ha la passione per la lirica.
La voce di Natalie Dessay che canta l’aria della Regina della Notte dal
Flauto Magico invade lo spazio e spinge fuori dal mondo ogni cosa,
svuotandolo per riempirlo di bellezza. Non è la Callas, non è Joan
Sutherland, d’accordo, ma la limpidezza e la pulizia della sua esecuzione
non mancano mai di commuovermi.
Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen,
Tod und Verzweiflung flammet um mich her!*
La ragazza rientrò.
«Il dottore ti visiterà tra poco.»
«Dove sono? Cos’è questo posto?»
«Non c’è una risposta semplice.»
Bestemmiai.
«Non dovresti offendere Dio.»
«Cazzo ti importa? Non è il tuo Dio. È il mio.»
La giovane indiana sorrise divertita. «Tu hai un dio? Un dio tutto tuo?
Proprio tuo, solo tuo? Che fortunato che sei!»
Batté le mani come una bambina. Ma gli occhi erano adulti. Duri.
«Ti ho chiesto cos’è questo posto» gracchiò la voce che un tempo era la
mia.
«È un ospedale» rispose una voce maschile.
Sulla porta della stanza riapparve il vecchio con la lunga barba bianca
come quella di Babbo Natale, solo che invece di un berretto rosso indossava
un turbante arancione. Era piccolo, un metro e sessanta al massimo.
«Sono il dottor Kumar Chatterjee» sorrise.
«Che razza di ospedale è questo? Dove sono?»
«Se la cosa può tranquillizzarla, non siamo né in India né in Pakistan.»
«È già qualcosa, in effetti.»
«Come si sente?»
«Di merda. Cosa mi avete dato?»
«Niente. Quello che la fa star male era già tutto dentro di lei. Noi non
abbiamo fatto altro che darle un riparo e tenerla idratato e protetto mentre il
suo corpo guariva.»
«Protetto?»
Passai in rassegna con una smorfia sarcastica le pareti nude della stanza,
il letto da ospedale arrugginito, la flebo che sembrava uscita da un vecchio
episodio della serie televisiva M*A*S*H.
Il vecchio spostò una sedia vicino al letto. Ci si sedette.
Per un po’ non disse niente. Poi, con un sospiro e un sorriso, mi rivelò
dov’era caduta la mia astronave. Insomma, su quale pianeta sconosciuto mi
trovavo. Ma prima mi fece fare il giro completo della Tana del Bianconiglio.
«Da quanto tempo fa uso di droghe, signor…?»
«Il nome è scritto sui documenti. Immagino che mi abbiate frugato per
bene il portafoglio.»
«Lei non aveva documenti con sé. E nemmeno il portafoglio, signor…?»
«Stokar.»
L’indù aggrottò le sopracciglia. «Stoker? Come l’autore di Dracula?»
«No. Stokar. Con la a. Non l’ho scelto io.»
«Ha anche un nome, immagino.»
«Sergio. E anche quello non l’ho scelto io.»
«Ricominciamo da capo. Da quanto tempo fa uso di droghe, signor
Stokar?»
«Tecnicamente, da prima di nascere. Sa com’erano gli anni Sessanta.
Open your minds, open your imagination… I miei genitori erano aperti alle
esperienze. Hippy di merda.»
«Quanti anni ha?»
«Sono nato il 29 maggio 1967.»
«Dove?»
«Manchester.»
«Manchester… In Inghilterra?»
«Perché? Ce ne sono altre?»
«Sì. Come mai Manchester?»
«Mi fa male la testa. Possiamo smettere con le domande?»
«Tra poco. Ha sete?»
Annuii, immagino, perché quell’assurdo medico indù fece un cenno col
capo alla ragazza, che mi portò un bicchiere d’acqua. Per quanto possa
sembrare strano, giuro che non mi toglierò mai dalla testa il sapore di
quell’acqua. Aveva un bouquet, proprio come un vino. Sapeva leggermente
di metallo, con un ancor più sottile sentore vegetale. Lasciava un retrogusto
di linfa in bocca.
Non era esattamente la cosa che di solito chiamo acqua, ma in quel
momento l’avrei bevuta anche se fosse stato piscio di drago. Comunque quel
sapore era unico. Come ogni cosa dopo la mia resurrezione, se è per questo.
Ma che ogni cosa fosse unica, per il Lazzaro che ero diventato, l’avrei
scoperto solo in seguito.
«Ricominciamo, signor Stokar?»
«Se tocca.»
«Che cognome è, il suo?»
«Italiano.»
«Non si direbbe. Sembra più slavo.»
«È italiano.»
«Quando è nato?»
«Vuol farmi incazzare? Gliel’ho già detto.»
«La prego. Quando è nato, signor Stokar?»
«1967, 29 maggio. Segno dei Gemelli. A Manchester, Regno Unito. Al
Trafford General Hospital, lo stesso dove è nato Morrissey. Il cantante degli
Smiths.»
«Lo so. Ho vissuto a Manchester. E ovviamente so chi erano gli Smiths.»
«Chi sono, vuol dire.»
«Come preferisce. Cosa ci facevano i suoi genitori a Manchester?»
Alzai le spalle. Quel semplice gesto mi provocò una serie da record di
dolori in tutta la parte alta del corpo. Era come muovere un meccanismo
fatto d’ingranaggi di vetro arrugginito. So che il vetro non arrugginisce, ma
è tanto per rendere l’idea.
La ragazza mi avvicinò di nuovo il bicchiere alle labbra. Colsi una
qualche somiglianza col muso rugoso del vecchio ciarlatano. Forse era la
figlia. Un bel risparmio per la gestione del suo “ospedale”. Tutto in
famiglia.
«Immagino ci facessero quello che ci faceva lei» risposi.
«Studiavano per laurearsi in Medicina?»
«Ah, no. No. Non i miei. Erano più tipo dei farmacisti ambulanti, se
capisce cosa voglio dire.»
«Temo di sì. Come si sente, signor Stokar?»
«Come una merda pestata da un elefante.»
«Rende l’idea. Dolori?»
«Non s’immagina quanti.»
«Riesce a mettersi seduto?»
Ci provai. La risposta giusta sarebbe stata no, ma in qualche modo ce la
feci. Mi sentivo come se avessi il cervello in orbita intorno alla mia testa.
Orbite molto lente.
L’indù sfregò sulla manica lo stetoscopio che aveva al collo, penso per
scaldarlo, e poi me lo piazzò tra le scapole.
«Respiri a fondo. Così. Ancora. Ancora.»
Il vecchio stetoscopio percorse la mia schiena come un metal detector alla
ricerca di mine.
«Tossisca.»
Ci provai.
«Non così. Un bel colpo di tosse.»
Stavolta ci riuscii. Anche troppo. Una scatarrata da pensionato.
La brutta figlia del medico fece una risatina, nascondendo dietro la mano
scurissima i denti bianchi come chicchi di riso.
«Quanto mi resta da vivere, dottore?»
«È una domanda a cui nessun essere umano può rispondere.»
«Tranne un condannato a morte» obiettai.
«Anche per lui potrebbe arrivare la grazia. Oppure la sedia elettrica
potrebbe guastarsi. Vogliamo tornare alla domanda iniziale?»
Mi rimisi disteso. Ci volle il suo tempo, ma alla fine ci riuscii.
«Solo se mi ricorda che domanda era.»
«Le avevo chiesto, e lei non mi ha ancora risposto, da quanto tempo fa
uso di droghe.»
«Credevo di aver risposto. Da una vita. Anzi, da prima ancora. Da
quand’ero nella pancia di mia madre.»
«Cosa facevano, i suoi?»
«È una visita o un interrogatorio?»
«Tutt’e due. Rispondere le dà fastidio?»
«Un po’. Se non rispondo, cosa mi succede?»
«Non lo so. Non dipende da me.»
«Mi cacciate via dall’ospedale?»
«Non è un ospedale. Comunque sì, penso che dovremmo cacciarla via.»
«Non è che ho molti posti dove andare.»
«Lo immaginavo. Quella domanda gliel’avrei fatta dopo. Avevamo
supposto che fosse così, ma la cosa non ha molta importanza. Se rimarrà o
meno qui non dipende dalle sue necessità, ma dal grado di fiducia e di
simpatia che proveremo nei suoi confronti alla fine di questa visita.»
«Perché, non mi trova simpatico?»
«No. Ma questo non ha importanza. Lavoriamo sulla fiducia. Risponda
alle mie domande senza troppi fronzoli.»
Credo di essere scoppiato a ridere. O almeno, dalla mia orbita lunare, la
risata mi sembrò la mia.
«Sa che lei parla come un alieno, dottore? Tipo un extraterrestre che ha
imparato la nostra lingua su delle vecchie cassette.»
«Andiamo avanti, se non le spiace. Modifico leggermente la domanda:
quando è stata l’ultima volta che ha fatto uso di droghe? Droghe pesanti,
intendo.»
Mi sforzai di ricordare.
«Un anno fa. Forse qualcosa di più.»
«Il suo braccio racconta un’altra storia.»
Alzai il braccio destro.
«Non quello» fece l’indiano.
Guardai il mio braccio sinistro: era costellato di piccoli ematomi e segni
di punture.
Scossi la testa. «Non funziona» feci. «State cercando d’incastrarmi.»
«Perché dice questo?»
«Perché io sono mancino. Non mi sono sparato mai niente, in questo
braccio. Non in questo, nossignore.»
«L’avevo notato, che era mancino.»
«Da cosa?»
«Le domande le faccio io, se non le spiace. Lei dice che non fa uso di
droghe da più di un anno.»
«È così. Insomma, mese più, mese meno.»
«Ma, come dicevo, il suo braccio racconta un’altra storia. E anche il suo
quadro clinico, quando i suoi amici l’hanno portata qui, con tutti i sintomi di
un’overdose.»
«I miei amici? Che amici?»
«Questo è un dettaglio che personalmente non conosco. Perché si
meraviglia? Davvero pensa che sarebbe riuscito ad arrivare qui con le sue
gambe?»
Chiusi gli occhi.
Avevo un dannato bisogno di ricordare. Ma per ricordare avrei dovuto
pensare. E il mio cervello, anche se non era più in orbita, al momento era
comunque disperso sull’altra sponda di un fiume africano dalle acque
torbide e infestate da coccodrilli.
«Ero davvero così malconcio?»
«Lo è ancora, se è per questo. Avrebbe bisogno di un ospedale vero. Lei
parla inglese? Mi riuscirebbe più facile usare quella lingua.»
Prima che potessi rispondergli, il dottor Chatterjee aveva già cominciato
a esprimersi in un inglese speziato di vocali arrotondate à la Bengaline che
avrebbero reso razzista all’istante anche un volontario di Medici senza
frontiere.
«Partiamo dalle cose essenziali, d’accordo? Lei è un ospite, qui. In
quanto ospite, costituisce una grande responsabilità per tutti noi. Per me in
prima persona, ma per tutta la comunità in generale…»
«Di che comunità sta parlando?»
«Lei dovrà attenersi a certe regole, astenersi dal fare certe domande,
evitare di recare danno alla comunità…»
«DI CHE CAZZO DI COMUNITÀ STA PARLANDO?» urlai.
Il dottor Chatterjee mi fissò curioso da sopra le lenti da vista che
ingrandivano i suoi occhi facendoli sembrare quelli di un gufo.
«Delle Zattere. E ora si calmi o la faccio sedare.»
«E da chi? Da che esercito?»
«Da lei» rispose, indicando la ragazza, che con una mano impugnava
un’antiquata scatola di latta per sterilizzare le siringhe. L’altra – la destra –
era nascosta dietro la schiena, osservò qualcuno dentro di me, la voce di un
passante che ti fa notare qualcosa. Guarda che potrebbe avere qualcosa,
nascosto in quella mano.
«Non ha i coglioni per farlo da solo? Ha bisogno di sua figlia?»
«Non è mia figlia.»
«Mi sembrava, infatti, che non aveva il suo brutto muso. Brutta lo è, però
non le somiglia.»
«Non è mia figlia. È mia moglie.»
Un altro, una persona normale, al posto mio sarebbe sprofondato dalla
vergogna. Nel mio caso ci volle una siringa di salcazzo cosa, che mi colpì a
tradimento alla schiena, o meglio in fondo alla schiena, per inabissarmi in
un mare profondo e senza luce.
Quando mi hanno portato alle Zattere ero ridotto davvero male, stando a
quanto mi hanno detto. Ero pieno di merda, e non avevo idea di come fosse
possibile, dato che ero convinto di essermi ripulito. Non avevo più toccato
droga e alcol da quella notte di merda a casa di Dolores, la notte in cui mi
aveva sfasciato la testa a bottigliate. Era difficile dare una data precisa a
quella notte. Avrei dovuto chiedere all’ospedale, voglio dire l’ospedale vero,
quello in cui Dolores mi aveva portato per farmi ricucire e fermare tutto quel
sangue che mi usciva da dentro, persino dagli occhi. Ammesso che riuscissi
a capire che ospedale era, perché i ricordi di quella notte mi erano stati
estirpati dal cervello, a parte pochi, inutili dettagli. Avrei dovuto chiedere
loro che giorno era, quello in cui Dolores mi aveva scaricato dalla sua Micra
ed era andata a chiamare gli infermieri. L’auto era rosso fuoco, il mio sangue
invece era color porpora. Più nero che rosso, tranne che sul canovaccio da
cucina con cui mi tamponavo la fronte. Per tutto il tragitto a centoventi
all’ora tra casa sua e l’ospedale, Dolores aveva continuato a piangere e a
imprecare con gli occhi fissi sul volante ripetendo «diòsnonmorire
diòsnonmorire», il che era strano, perché in quel momento non era
assolutamente Dio che rischiava di non farcela, non era Dio che sanguinava
come un maiale sgozzato. Non era Dio a perdere continuamente conoscenza,
a oscillare tra il mondo dei vivi e quello dei morti, appeso al pendolo sottile
come un capello del respiro, del cuore sempre più debole.
Non ho nessun ricordo, invece, del giorno in cui mi hanno portato alle
Zattere. Il che la dice lunga su com’ero ridotto. Mi sono svegliato nella
stanza del dottor Chatterjee senza la minima idea di cosa mi fosse successo e
di come fossi finito lì, in quel posto che era onestamente un vero e proprio
incubo per uno come il sottoscritto. Sembrava che qualcuno mi avesse fatto
il ripristino del sistema operativo, resettandomi la memoria e cancellando gli
ultimi giorni. Non so di preciso quanti giorni, né cosa mi fosse accaduto. So
solo che il mondo fuori di qui è diventato un posto pericoloso per me. Molto
pericoloso. E, se lo è diventato, è a causa di quello che mi è successo in quei
giorni rimossi. Non c’è altra spiegazione.
La mia memoria è come una carta stradale fatta a pezzi, come un’agenda
dai fogli strappati e senza data.
La prima cosa che ho fatto, quando mi sono sentito meglio, è stato dare un
soprannome ai miei due angeli custodi dalla pelle scura. Nandini è diventata
la Donna Trattore, e il mio medico curante, a seconda dei giorni, l’Amante di
Lady Chatterjee o Gunga Din. Più spesso Gunga Din.
«Lei è un uomo dall’insolita cultura. Strano, per uno come lei.»
«Vuol dire per uno giovane come me?»
«No. Per uno stronzo razzista come lei. Guardi qui, adesso.»
«Il suo dito?»
«Ha qualcosa in contrario?»
«A parte il fatto che è scuro come se l’avesse infilato nel culo di qualcuno,
no. Mi fa un po’ schifo guardarlo, ma non credo di avere scelta.»
«Guardi il dito, allora. Segua il movimento.»
Gunga Din si era laureato in Medicina a Manchester, specializzandosi in
Psichiatria. Questo almeno dicevano gli elaborati diplomi appesi alla parete
di quella clinica fatta di una sola stanza, di cui, a quanto pareva, ero l’unico
paziente.
Aveva lavorato per dieci anni alla Tavistock Clinic, a Londra.
«E com’è che è finito qui? Qualche scandalo? Aborti clandestini?…»
«Ho seguito mia moglie.»
«Non dev’essere stato difficile. Pesante com’è deve aver lasciato delle
belle tracce.»
«Non mi riferivo a Nandini. Parlavo della mia prima moglie, Agatha.»
«Un nome poco indiano.»
«In realtà Agatha era ebrea.»
«E com’era?»
«Bella. Cosa aveva in mente, quando ha fatto questo disegno?»
«Svastiche. E in effetti è quello che ho disegnato.»
«Ma non è quello che aveva in mente, quando le ha disegnate. A cosa
stava pensando, signor Stokar?»
«Buio. Pensavo al buio» risposi, dimenticandomi di mentirgli.
Un giorno che era in vena di confidenze, o forse solo più triste del solito,
mi mostrò una foto della sua prima moglie. La tirò fuori dal portafoglio, e
l’immagine, piegata in quattro, sembrava uscita dalla cassaforte del Titanic.
Il tempo e l’umidità l’avevano rovinata, ma non abbastanza da nascondere il
fatto che la prima signora Chatterjee era stata bellissima. Occhi scuri come
i capelli, tagliati corti. E uno sguardo che ti faceva pensare: questa ragazza
prima o poi vincerà il Nobel.
O un Oscar.
«Cosa le è successo?»
«Cancro. È sopravvissuta a tante di quelle cose… Faceva parte di Medici
senza frontiere. È stata volontaria durante tante di quelle guerre ed
emergenze umanitarie… Più di una volta si è trovata una pistola alla
tempia. Ma è morta per un tumore fulminante al fegato. Aveva trentatré
anni. Oggi si sarebbe salvata.»
«Mi dispiace.»
Il dottor Chatterjee si era tolto gli occhiali.
«È la prima cosa umana che le sento dire. Forse c’è speranza anche per
lei, in fondo.»
In realtà non è che mi manchino i brutti ricordi. Per non parlare delle
brutte esperienze. Ma con l’aiuto del dottor Chatterjee, il mio Gunga Din
laureato, ho imparato a metterle sotto chiave. Così nel mio cervello ora ci
sono tanti cassetti chiusi dove infilo le cose brutte che mi succedono, e poi
c’è questa porta blindata dietro cui si nasconde il ricordo di cosa mi ha
portato qui, quasi morto. È una porta d’acciaio lucente, liscia: anche se
avessi una chiave per aprirla, non riuscirei a vedere da nessuna parte la
serratura. E forse è meglio così. Forse dietro quella porta ci sono mostri più
grandi di me, mostri enormi e feroci, fatti di Male e di Buio.
La sala del Consiglio di oggi è stata ricavata da uno dei negozi che nelle
intenzioni del progettista dovevano occupare i primi tre piani del complesso
residenziale. La stanza non è mai stata finita. I tubi dell’impianto di
condizionamento sono rimasti a vista, senza i controsoffitti. Le lampadine
pendono nude dai cavi. Non c’è un tavolo da riunioni, ma solo una dozzina
di sedie e poltroncine da ufficio di vario stile, tutte piuttosto malandate, e
assisi su tre di quelle sedie mi attendono i membri del Consiglio.
Ovviamente, se qualcuno lo chiedesse, nessuno ammetterebbe che il
Consiglio esiste. In un posto come questo, l’autorità non viene delegata e
non si fonda sul consenso. È piuttosto un assetto di fatto, che finisce per
darsi le sue regole, ma senza mai codificarle.
Non mi sorprende che a presiedere la riunione sia Aarif il siriano. Da
quando è arrivato alle Zattere, il pediatra cinquantenne di Aleppo ha scalato i
gradini del potere più velocemente dell’Uomo Ragno. Tutti gli stereotipi e i
pregiudizi sugli arabi gli sembrano cuciti addosso. Che sia lui a presiedere lo
dice il fatto che sta al centro della stanza, su una poltrona Frau di cuoio
rosso. Alla sua destra c’è Chimeze, un nigeriano di etnia Igbo alto quasi due
metri, che siede sulla sua finta Thonet da ipermercato con la cautela di un
mandriano in sella a un puledro ancora da domare. Il terzo consigliere è
Nadia Caragiale. A sessant’anni, ha un fisico che fa ancora voltare gli
uomini per strada. Arrivata dalla Romania, stando a certe voci, per salvarsi
la pelle ai tempi di Ceaușescu, nessuno aveva idea di cosa avesse fatto prima
di finire alle Zattere. Conoscendola, avrebbe potuto battere per strada come
insegnare all’università. O magari entrambe le cose contemporaneamente.
Qualcuno dice che era un giudice. Ci starebbe. Sembra fatta di ferro.
Lineamenti alteri, un naso da rapace e occhi che ti prendono le misure di
continuo. Mi piace, anche se cerco di non farglielo capire. Ho idea che i
complimenti potrebbero indisporla. Non so che cicatrice profonda si porti
dentro, ma quella cicatrice ora fa parte di una corazza impenetrabile.
Aarif mi fa cenno di sedermi di fronte a loro.
Con un gesto rifiuto e resto in piedi, in silenzio, le mani dietro la schiena,
in una perfetta posizione militare di riposo.
«È morta una ragazza, stanotte. Vogliamo sapere com’è successo» fa
Nadia, saltando i preamboli.
Ho imparato a non interrompere mai la Caragiale. Quello che deve dirti,
prima o poi lo dice. E niente la fa incazzare come quando viene interrotta.
Però stavolta, dopo quelle poche parole, rimane in silenzio. Anche gli altri
due sembra giochino alle belle statuine, gli sguardi che evitano
sdegnatamente il mio.
«Come si chiamava?» chiedo.
La Caragiale pronuncia il nome.
Incasso in silenzio.
«Viveva qui alle Zattere?» faccio, schiarendomi la voce.
«No.»
Allora cosa ve ne importa, dovrei dire. Invece resto zitto, col cervello che
gira a vuoto intorno a quel nome.
«Vogliamo sapere com’è morta» interviene Chimeze, con la sua voce
tranquilla, che però, uscendo da quel corpo enorme e muscoloso, sembra il
rombo di un treno della metropolitana.
«La conoscevi» sussurra la rumena, socchiudendo gli occhi. Non è una
domanda.
«La conoscevo» annuisco.
«Era una prostituta» commenta Aarif, con una smorfia di disprezzo.
Mi volto a guardarlo, direttamente, con un contatto visivo che è un braccio
di ferro. Nessuno dei due distoglie lo sguardo.
«Era molto giovane, quando l’ho conosciuta.»
«Sai dirci qualcosa di lei?»
Scrollo le spalle. «Il nome. L’età. Dove lavorava, almeno fino a un paio di
anni fa. Nient’altro. Non la vedo… Non la vedevo da tempo.»
«Non lavorava più» fa la Caragiale. «Erano mesi che aveva smesso, a
quanto si dice in giro.»
«Dov’è morta?»
In realtà è un’altra, la domanda che dovrei fare a questi tre: che cosa ve ne
frega, di Krystyna Nowak? perché volete sapere com’è morta?
Invece chiedo solo dov’è morta, e quando me lo dicono scopro che è un
posto che conosco fin troppo bene.
«Preferirei non occuparmi di questa cosa.»
«E noi invece preferiamo che tu te ne occupi» sorride Aarif. E poi
aggiunge: «Adesso.»
«Come ci arrivo?» sospiro.
«C’è un furgone che fa consegne in zona. Parte tra dieci minuti.»
«Mi serviranno dei soldi.»
«Perché?»
«Perché non ne ho. Ho pagato il barbiere, stamattina.»
Chimeze s’infila la mano in una tasca dei jeans. Tira fuori un portafoglio
sottile. Conta tre biglietti da cinque e me li mette in mano.
«Fatteli bastare. Adesso vai. E quando torni, vedi di non tornare a mani
vuote.»
5
Rimango seduto al tavolino. Aspetto che il barista metta fuori il muso per
ordinargli un altro caffè.
Intanto dentro di me canto Redemption Song di Bob Marley, nella
versione di Joe Strummer.
Old pirates, yes, they rob I
Sold I to the merchant ships
Minutes after they took I
From the bottomless pit
Gli ultimi due chilometri fino alle Zattere li percorro a piedi, con gli
scarponi cinesi che affondano nella neve fresca e quando si sollevano fanno
un rumore di risucchio. Nessun autobus o altro mezzo pubblico arriva fin
qui, a questi scuri promontori di cemento il cui profilo s’intravede attraverso
la neve. È quasi mezzogiorno, ma potrebbe essere l’imbrunire, e questo
posto la Transilvania di Dracula o la location di un film di Tim Burton. Gli
alberi sembrano morti, nere matite su un foglio bianco. Fa freddo. Ho le dita
dei piedi congelate. E ho fame.
Ogni passo è una fatica. Gli edifici non sembrano avvicinarsi di un
millimetro, come se arretrassero davanti a me. Per non pensare alla mia ex
moglie, per non pensare a niente, conto da uno a mille e ricomincio da capo.
Le cifre si ripetono, una serie infinita, e ogni due numeri affondo un altro
passo nella neve.
Nei miei ricordi spezzati, un puzzle ricomposto a caso da un bambino, a
parte quelli del divorzio non ho ricordi brutti di Carla. È come se si fossero
cancellati, lasciando solo i bei momenti. E ce ne sono stati. I viaggi, i
progetti, le lunghe passeggiate in cui potevo sfogare l’anima, sapendo che
avrei sempre trovato un sorriso, un bacio, un abbraccio per farmi far pace col
mondo.
Fu tutto unico, e meraviglioso.
«Ma solo per i primi cinque minuti», come mi rinfacciò lei, al culmine di
un litigio ai confini del codice penale.
Per me sicuramente durò di più.
Ma non molto di più. Non è che io e Carla fossimo incompatibili. Ero io, a
esserlo. Con chiunque. Quando il suo perito di parte mi definì «un
sociopatico con tendenze autodistruttive», dentro di me non potei fare a
meno di concordare con la sua diagnosi. Anche se in quel momento le mie
tendenze distruttive erano più rivolte all’esterno.
Le Zattere sembrano sempre più lontane.
La neve è così pulita.
Da bambino ho fatto due anni delle medie in Italia, perché mio padre, be’,
mio padre era temporaneamente ospite nelle carceri di sua graziosa maestà
britannica, e mamma altrettanto temporaneamente aveva dovuto tornare in
Italia, impossibilitata a pagare da sola l’affitto dell’ultimo dei tanti tuguri in
cui ero cresciuto. Nel paesino friulano in cui eravamo finiti viaggiando col
Tardis del Dottor Who, quando uscivo da scuola e mamma non poteva
venire a prendermi, perché aveva un altro dei suoi inconcludenti colloqui di
lavoro, l’aspettavo parcheggiato a casa di una coppia di parenti di mio padre
– quale fosse il grado di parentela non sono mai riuscito a capirlo –, due
tartarughe rugose che odoravano di naftalina e caramelle alla menta. Lui
sembrava Franklin Delano Roosevelt, lei la nonna del canarino Titti. Erano
molto buoni con me. Avevano perso l’unico figlio in guerra, nella campagna
di Russia. C’erano sue foto in bianco e nero praticamente in ogni angolo
della casa: con la divisa da balilla, da giovane universitario fascista e infine
con quella da tenente degli alpini.
Un pomeriggio buio, in cui fuori montavano le nuvole di un temporale
estivo, stavo guardando una di quelle foto sul comò del soggiorno, quando
una voce di vecchio mi aveva fatto sobbalzare.
«Era bello, vero, il nostro Giovanìn?»
Barba Jacu, zio Giacomo, era quasi invisibile sullo sfondo della poltrona
imbottita. Era come se da quella poltrona spuntassero una faccia e quattro
arti esili, pallidi.
«Camminavano da sette giorni nella neve alta. I cosacchi a cavallo
attaccavano la colonna. Uccidevano chi restava indietro…»
Nella foto, il ragazzo portava un paio di baffetti alla Amedeo Nazzari, e
indossava una divisa mimetica. Alle sue spalle, una capanna di legno col
tetto carico di neve e tre alberi stenti.
«Giovanìn si ammalò di tifo. Un suo compagno di università lo
sorreggeva per aiutarlo a muoversi. Ogni volta che un camion di tedeschi
faceva spostare dalla strada i nostri soldati, l’amico di mio figlio implorava
che prendessero a bordo Giovanìn. Ma quelli li canzonavano, quando non li
minacciavano con i fucili… E intanto il peso di mio figlio li faceva restare
sempre più indietro, finché non si trovarono in fondo alla colonna.»
Fuori dalla finestra, oltre le tendine ricamate, il cielo stava assumendo un
colore denso, di un blu scuro come inchiostro. Le foglie degli alberi
tremavano, mutando da verdi in bianco-argentee come squame di pesci.
«Venne a trovarci, poco dopo la guerra, l’amico di mio figlio. Poi è
diventato un avvocato famoso, a Padova. Ma in quell’anno era solo un
reduce, magro da far paura e ancora spaventato. Si vergognava di quello
che era venuto a riferirci. Si vedeva che dircelo gli dava una gran pena.
S’inginocchiò proprio qui, davanti a questa poltrona, dove allora stava
seduta mia moglie, si inginocchiò e cominciò a raccontare a occhi chiusi.
Disse che Giovanìn stava morendo, e in uno dei sempre più rari momenti di
lucidità gli aveva ordinato, come suo superiore, di lasciarlo lì. “I russi
arriveranno presto” aveva detto. “Mi cureranno. Tu salvati. Torna a casa e
di’ ai miei che mi aspettino. Che tornerò. Di’ a mamma e papà che voglio
loro tanto bene, e che in un modo o nell’altro ci ritroveremo.”»
Zio Giacomo era rimasto in silenzio. Il vento faceva sbattere a ritmo
un’imposta, da qualche parte ai piani più alti. Si sentì mia zia che si alzava
per chiuderla. La luce nella stanza era calata, come se il pomeriggio avesse
deciso di diventare di colpo notte.
«Dicono che morire assiderati sia un’esperienza dolce, quasi bella. Che il
corpo si rilassa, non senti più dolore…»
Sarà.
A me sembra invece di bruciare, sulla faccia e sulle orecchie, e anche ai
piedi. L’acqua è filtrata attraverso i simil-Timberland cinesi, inzuppando i
calzettoni. Ogni passo è una fatica immane.
I miei prozii, o quello che erano, barba Jacu e agna Mitilde, sono morti
da tanti anni. Un giorno ero tornato da quelle parti per cambiare le M+S
dell’auto, da un gommista che faceva prezzi scontati. Mentre aspettavo che
mi montassero gli pneumatici nuovi mi ero accorto che l’autofficina era
proprio attaccata alla casa in cui era cresciuto il povero Giovanìn. Feci il giro
della costruzione, almeno fin dove si poteva. Le finestre del pianoterra erano
state murate. Alcune di quelle ai piani superiori avevano le imposte
scardinate. Mi stupì quanto fosse piccola, la casa che ricordavo grande come
un palazzo. Attraverso uno squarcio nel telo che copriva i cancelli vidi la
vecchia pompa a mano, un tempo verde e ora arrugginita, e il folto di rovi
che soffocava la piccola vigna del barba e i tre alberi di cachi.
Quomodo sedet sola civitas, pensai quel giorno, e quelle parole antiche
imparate a memoria mi tornano in mente anche adesso, mentre finalmente le
Zattere sembrano essersi decise a muoversi e venirmi incontro, per
strapparmi all’abbraccio confortante e assassino della neve.
Immagino che avrei dovuto dirle che la mia stanza era in disordine, che
era bruciata, invasa dalle termiti, dagli alieni, distrutta da un tornado.
Che non avevo una stanza mia.
Invece come un idiota grugnii un «sì». Dalla prima volta che ci eravamo
presentati avevamo cenato assieme tre o quattro volte, tutto qui. Grazie alla
cura di Gunga Din, comunque, non potevo puntare più in alto. O più in
basso. Ciò nonostante non potevo impedirmi di provare per lei la stessa
attrazione provata da una falena per la fiamma di una candela.
«Non fare nulla» mi sussurrò all’orecchio, la voce dolce come una piuma.
«So che non puoi fare nulla, ma io sì» sospirò, accarezzandomi il collo, le
spalle, e poi scendendo più giù, infilando la mano sotto la mia cintura e
accarezzandomi il pene inerte, piccolo come quello di un bambino.
«Sai che sei proprio un ragazzo fortunato» sussurrò la sua voce, prima
che cominciasse a leccare, e poi a mordicchiarmi, il lobo dell’orecchio, e
poi più giù.
9
Uscendo con Elena dal Caffè Impero, ricambio col medio alzato il
sorrisetto furbo di Abdu.
«Pranziamo assieme?» sorride anche la ragazza. Non le è sfuggito il mio
gesto.
Scuoto la testa. «Ho da fare.»
«Rapporto ai capi, immagino.»
«Rapporto ai capi» annuisco, commentando con una smorfia il suo tono
canzonatorio.
«Che poi, chi saranno mai, questi capi…» cantilena lei.
«È un bel mistero, eh?» sorrido.
«Tranne che per te. Almeno a quanto si dice.»
Quanti anni ha, questa ragazza? Quanto giovane è?
Magari gliel’ho anche chiesto.
Magari me l’ha anche detto.
La mia memoria a breve termine è un groviera.
Quella a lungo termine un hard disk fulminato.
«Allora ci vediamo» faccio, poco convinto.
«Ci vediamo, sceriffo» fa lei, imitando la mia voce. Alzandosi in punta di
piedi mi stampa un bacio sulla guancia. Poi si allontana col suo passo da
ragazzina, per niente sexy eppure dolorosamente bello.
C’è stato un tempo in cui ero potente e rispettato, il primo della classe,
l’uomo dell’anno. Anzi, di tutti gli anni. Passati, presenti e futuri. Ci fosse
stato un Nobel per i poliziotti, l’avrei vinto a mani basse. Avrei ricevuto
anche un Oscar, se è per quello. La mia vita era tutta una recita, una serie di
performance applauditissime.
C’è stato un tempo in cui Roma, madre puttana, mi aveva aperto le
braccia, e le gambe, come in passato le aveva aperte ai gladiatori e ai papi.
«Peccato che non hai la laurea» mi dicevano spesso, «perché se ce l’avevi,
chissà che carriera ti aspettava. Chissà quanto in alto arrivavi.»
C’è stato un tempo in cui facevo da scorta alla presidente del Senato.
Quella stronza mi adorava, persino. Sergio di qua, Sergio di là…
L’Oscar me lo sarei meritato già solo per il sorriso che mi stampavo in
faccia, quando in realtà avrei avuto voglia di torcerle il collo. A lei e alla sua
amica nera del cazzo.
I ricordi esplodono come fiori rossi su uno sfondo di velluto nero, rose
fatte di spine, esplodono come razzi rossi in un cielo senza luna.
Mi blocco in mezzo alla neve.
Non riesco più a muovermi.
Paralizzato da quella luce rossa che nessuna pillola e nessun medico
riescono a spegnere.
Il passato irrompe, la diga del presente cede.
Se rimanessi qui…
Se lasciassi che la neve, sussurrandomi una ninna nanna russa, mi
coprisse…
Diventerei il pupazzo fatto da un bambino con le sue mani intirizzite.
Sarei una cosa bianca e gelata, pura come un diamante, sterile e
irraggiungibile. Al sicuro da tutto il male del mondo. Perché in fondo cosa
sono, i diamanti, se non immondi grumi di carbone trasformati dal calore e
dalla pressione nella cosa più preziosa che ci sia?
Come si comincia, a lasciarsi morire? Magari smettendo di controllare il
tuo corpo, rilasciando la vescica e pisciandoti addosso, godendoti la
sensazione del caldo che ti scivola lungo la coscia. Chiudendo la mente ai
cattivi pensieri, e poi a tutti i pensieri, e concentrandoti su qualcosa di
concreto, come quel ramo scuro che la neve ha coperto sulla parte superiore
e lì dove s’innesta al tronco, così che sembra nascere dal nulla, sospeso a
mezz’aria come per magia.
Sarebbe così facile, morire.
Durante uno dei nostri primi colloqui, Chatterjee me l’aveva chiesto.
«Se il mondo le fa così schifo, perché si ostina a vivere? Se la vita le è
così insopportabile, perché non preferire la morte?»
Avrei potuto rispondergli, come faccio ora, con i versi di Robert Frost.
Perché ho promesse da mantenere, e miglia da percorrere, prima di
riposare.
Muovere il primo passo, controllare la vescica, affrontare il freddo.
Il secondo passo.
Il terzo.
Tutto questo è dolore. Ma il dolore serve a farti capire che sei vivo.
Il quarto passo ti riporta sul sentiero invisibile. I piedi non affondano più
nella neve. Sotto c’è un sostegno solido. Puoi camminare spedito. L’ingresso
è a meno di cinque minuti da qui, se mantieni questo passo. C’è un bagno
comune al pianoterra. Puoi arrivarci senza problemi. Stringi i denti e
cammina. È stata una giornata lunga, ma il tuo letto è vicino. Un altro passo.
Solo un altro passo. Vedi come il ramo si attacca al tronco? Non galleggia a
mezz’aria. Era solo un’illusione ottica.
Non esistono miracoli.
Se non quelli che facciamo accadere noi.
Come il miracolo di camminare. Il miracolo di respirare.
Il miracolo crudele di essere vivi, giorno dopo fottuto giorno.
11
Albert sembra a disagio. Sposta il suo scarso peso da una gamba magra
all’altra. Si gratta la testa, le orecchie, il naso.
Non è a disagio per me. Fa così sempre.
«Un sociopatico altamente funzionale» l’ha definito Tommy, precisando
di aver preso la definizione da una serie televisiva.
Non l’ho mai visto indossare qualcosa di diverso da questi jeans diventati
quasi bianchi a forza di lavaggi, abbinati a una maglietta di qualche gruppo
rock o heavy metal. Una gliel’ho regalata io, ma non quella dei Kiss che
porta oggi. Ai piedi ha un paio di antiquate scarpe da basket Converse in
pelle con lo stemma dei Boston Celtics. Devono avere più di trent’anni,
perché ne avevo un paio anch’io da ragazzo, ma con il logo dei Los Angeles
Lakers.
«Togliti quel dito dal naso» gli ordino.
Lui mi guarda spaventato. Sembra una cavia da laboratorio scappata dalla
gabbia.
«Siediti» faccio, indicando lo sgabello.
Lui preferisce accoccolarsi sul tappeto, di fronte a me, incrociando le
gambe come un maestro yoga.
«Bevi qualcosa?»
Scuote la testa.
«Ti hanno detto perché sei qui?»
Un cenno di diniego. Gli occhi fuori fuoco. O forse immersi nella visione
di una galassia lontana lontana.
«Smettila di toccarti il naso, ti ho detto.»
Obbedisce.
S’infila le mani sotto il sedere.
«Ti ho fatto venire qui perché ho bisogno di te. Del tuo talento.»
Bofonchia qualcosa. Le prime parole che pronuncia da quando è entrato
nella mia stanza.
«La Caragiale mi dice che ti sei accorto tu di questa» faccio, aprendo il
palmo della mano.
La microspia camuffata da vite attira finalmente l’attenzione del ragazzo
di colore, che allunga le dita magre come zampe di ragno e sembra
accarezzare il minuscolo oggetto posato sul mio palmo aperto. La cosa che
mi dà veramente i brividi è che in realtà non lo sfiora nemmeno. È come se
le dita avessero dei sensori in grado di mantenere la distanza di una frazione
di millimetro dalla microspia.
«Sì. L’ho trovata io.»
«Hai qualche idea sulla sua provenienza?»
«Ho fatto ricerche» sussurra, con una voce monotona che sembra un
pessimo doppiaggio. «Le fanno in Cina, queste cose qui. Non costano niente.
Le trovi anche su eBay.» Scuote la testa. «Ma non questa. Qui siamo in
un’altra categoria. Questa non la trovi mica, su eBay. È un prodotto military
grade. Sai cosa voglio dire.»
Tira su con il naso. Sta per infilarsi di nuovo l’indice nella narice, ma lo
blocco con un’occhiataccia.
«Così ho fatto altre ricerche. Ho messo sotto un paio di amici. Questo è
quello che mi hanno riferito: al 99,9 per cento questa cosa qui viene dal
Giappone. È una tecnologia così avanzata che non dovrebbe venire immessa
sul mercato prima di almeno altri due anni. È un miracolo. Connessione
satellitare. Si autoalimenta in tre modi diversi: luce ambiente, ma anche
differenziali minimi della temperatura ambiente e variazioni infinitesimali
della pressione atmosferica, nel caso la stanza resti a lungo al buio. E a
lungo vuol dire più di una settimana. È fantastica, semplicemente fantastica.
Al momento è roba da élite dello spionaggio.»
«E allora come ha fatto a finire in questo pulciaio?»
Albert scrolla le spalle.
«Ni puta idea» risponde in spagnolo.
Di colpo realizzo una cosa che mi manda il cuore sotto i tacchi.
«Aspetta. Questa cosa sta ancora trasmettendo? Ha registrato ogni parola
che ci siamo detti io e la Caragiale?»
Albert mi fissa a lungo con i suoi occhi da pesce in un acquario.
Poi, mortalmente serio, scuote la testa. «Registrato, sì. Comunicato, no.
Ho incasinato i protocolli di comunicazione dati. Penseranno a un guasto. È
così che Nadia mi ha detto di fare.»
Si morde le labbra. Le dita della mano destra sfarfallano a mezz’aria,
come se suonassero un brano complesso su una tastiera invisibile.
«Nadia pensa che chi l’ha messa, questa cosa qui, tornerà a sistemarla»
sussurra.
Poi mi fissa, strabuzzando gli occhi dietro le lenti spesse e sporche. «Ehi,
aspetta. Che livello di accesso ai dati hai?»
Ci metto un po’ prima di mettere a fuoco la domanda.
Poi rispondo.
«Seraphim.»
«Ah. Okay.»
Stavolta non faccio in tempo a impedirgli di ficcarsi l’indice nel naso,
dove comincia a scavare come un ragno minatore. Anche se un animale del
genere non dovesse esistere, è a quello che assomiglia.
«Nadia mi ha fatto preparare una trappola coi fiocchi. Chiunque verrà a
sostituire la microspia dovrà fare i conti con quattro diversi tipi di rilevatore
silenzioso, e con sei telecamere nascoste. Roba che i documentaristi del
National Geographic usano per fotografare i predatori notturni.»
Si fissa assorto la caccola scura sull’unghia dell’indice, come fa Amleto
col teschio del povero Yorick. Poi la getta, sovrappensiero, sul battiscopa del
muro alle sue spalle.
«Una cosa come questa qui varrà almeno ottocento euro, dice un mio
amico russo. Se riesci a trovarla.»
«Ti stai chiedendo perché l’abbiano sprecata nella stanza della
Caragiale?»
«No. Non è affar mio. Io l’ho solo scoperta, a dire la verità per puro caso.
Non spetta a me scoprire chi l’ha messa.»
Mi guarda e sorride.
«Quello mi sa che tocca a te, poliziotto.»
Lo fisso abbastanza a lungo perché cominci a sentirsi a disagio.
«Non pensare di essere fuori da questa storia, ragazzino. Avrò bisogno di
te. Quindi nei prossimi giorni devi essere reperibile.»
Albert alza le spalle. «Ho un cellulare.»
«Ma io no. Facciamo così: ti trasferisci subito da Paris a London. La
stanza qui accanto è libera.»
Il ragazzo fa segno di no con le mani. «Non se ne parla! Ho il mio
laboratorio, hombre. Non posso lasciarlo. È la mia Area 51. Top secret,
eingang verboten. Non me ne vado da lì.»
Accenna ad alzarsi.
«Sbagliato» faccio, afferrandolo per la spalla e rimettendolo di forza col
culo sul tappeto.
«Ahi!»
«La Caragiale ti ha venduto a me, caro il mio negretto. Sei cosa mia.
Cerca di rigare dritto o assaggerai la frusta.»
«Non fare lo stronzo!»
«Non mi hai ancora visto fare lo stronzo. Ma se ti ostini a dirmi di no lo
vedrai.»
«Non posso lasciare Paris.»
«E invece devi. Da questo momento, per ogni cosa, tu fai riferimento a
me. Fai quello che ti dico, mi riferisci quello che scopri. A me e a nessun
altro.»
«La Caragiale…»
«La Caragiale c’est moi. Non avrai altro Dio all’infuori di me.»
«Mi avevano detto che eri matto…»
«E infatti è vero.»
«Pazzo di un bianco…»
«Non fare così. Vedrai che ci divertiremo insieme.»
«Sì, come no.»
«Vai a raccogliere la tua roba e torna qui. La tua nuova camera ti aspetta.»
Si alza scuotendo la testa, tenendosi lontano come se temesse un mio
gesto inconsulto.
«Com’è che è libera, la camera? Pensavo foste alle strette con lo spazio, a
London.»
«Diciamo che si è liberata da poco. Il precedente inquilino forse ha deciso
di fare stretching con un nodo scorsoio. O quello, oppure è stato un
esperimento di tecniche autoerotiche estreme.»
«Non ti capisco.»
«L’hanno trovato impiccato al lampadario. Nudo, con un’erezione lunga
così.»
«Che schifo.»
«Purtroppo per tirarlo giù hanno divelto il lampadario. Portati una torcia.»
«Da quant’è che è morto?»
«Un paio di mesi.»
«E come mai la stanza è ancora libera? A parte la tua presenza come
vicino, voglio dire.»
«Ci hanno provato, a starci.»
«Ma…?»
«Pare ci siano i fantasmi, nella stanza.»
«Fantasmi.»
«Già.»
«E io dovrei dormire in una camera infestata?»
«Penso che a un ragazzo moderno e dalla mentalità scientifica come te
non faranno né caldo né freddo, queste voci.»
Ci vuole un po’ prima che Albert dica: «No, infatti.»
Ma il tono è tutt’altro che convincente.
Socchiude gli occhi, come per prendere la mira. Ma più probabilmente
perché ha la vista di una talpa.
«Perché dici fantasmi al plurale? Avevo capito che il morto era uno.»
«Il morto recente.»
«Ce ne sono stati altri?»
Non rispondo.
Lui mi guarda.
Io lo guardo.
Alla fine fa un gesto per mandarmi affanculo e se ne va, sbattendo la
porta.
Io resto lì per cinque minuti – una piccola eternità – a guardare la neve
scendere dal cielo, lenta e bellissima.
Lascio che i pensieri scivolino via, attraverso la ginnastica mentale che mi
ha insegnato Nandini. Quando le ho chiesto se era una tecnica indiana, mi ha
risposto scuotendo la testa che era una cosa inventata dalla Cia per
rimuovere dalla memoria i traumi.
«L’hanno usata per i sopravvissuti dell’11 settembre. Sta alle tecniche di
meditazione tradizionali come una torcia elettrica al sole.»
Comunque sia e chiunque l’abbia inventata, funziona davvero. Alla
grande.
La faccio semplice, anche se non lo è.
Prendo i ricordi cattivi della mattinata: la notizia della morte di Krystyna,
l’umiliazione del mio incontro con Carla sugli scalini di quella che un tempo
era casa nostra. Li allineo sulla neve, costringendoli a star fermi, a diventare
immobili. Poi li guardo come se si facessero sempre più lontani, finché non
diventano piccoli come fototessere, e poi allontano lo sguardo, come se
salissi sempre più in alto, e le foto nella distanza diventano puntini, e poi
spariscono nel bianco.
Chiudo gli occhi, e li tengo chiusi a lungo. I miei sensi si fanno più vigili,
più percettivi, finché non riesco a sentire l’odore di ogni singola cosa in
questa stanza: il pezzo di pane sul piatto per terra, l’inchiostro di un
quotidiano vecchio di un mese, la polvere sul davanzale. I rumori del
palazzo sembrano aumentare di intensità: il pianto lontano di un bambino,
una radio che trasmette musica da ballo, un tango su cui una coppia sta
danzando, due o tre piani sopra di me, perché ora sento i loro passi. Dei due
è la donna a muoversi meglio, a stare a tempo. Il ballerino è più goffo, è lei
che lo accompagna sulle note di Por una cabeza.
Sento altri rumori, più vicini.
Quando Albert mi ha chiesto dei fantasmi, avrei dovuto essere sincero.
No, non ci sono fantasmi, nella stanza qui vicino.
Solo voci. Ma forse non sono là. Forse sono soltanto nella mia testa.
Forse stanotte la voce di Krystyna Nowak si unirà alle loro.
Per il momento la tecnica di Nandini le tiene lontane. Mi lascia pulito e
lucido, e quando apro di nuovo gli occhi fuori fa buio, e la neve è uno
schermo su cui si proiettano le luci del palazzo, lo spettacolo muto della vita.
Da tutte le stanze, tranne la mia e quella accanto, che restano oscure e
proiettano sul mondo solo buio, ombra.
12
Non ci sono ancora clienti: il mercato apre alle sette, e mancano una
ventina di minuti. Non tutti mi salutano, come fanno con Albert. Come
diceva qualcuno, forse quel comunistone di Brecht, all’origine di ogni
grande fortuna c’è un delitto. Alcuni di questi mercanti li ho pizzicati, in
un’occasione o in un’altra, a violare le leggi della comunità, e non posso
pretendere che si scappellino o mi facciano le feste quando passo. Sono il
loro sceriffo, come dice sempre Elena. Non posso pretendere che mi amino,
ma sanno di aver bisogno di me, e quindi mi rispettano, anche se a volte gli
sono costato una multa o un ammonimento formale. Detta così sembra una
cosa all’acqua di rose, ma non saltate subito alle conclusioni. Considerate
intanto che alle Zattere non ci sono prigioni, e nemmeno tribunali. In un
corso all’accademia ci avevano spiegato che neanche l’Impero romano
aveva le prigioni. Non esisteva semplicemente il concetto di chiudere uno in
una cella per un certo periodo di tempo, come punizione. Non mi ricordo
tutte le condanne, ma qualcuna sì: ad bestias, ad crucem. Ad metalla, che
voleva dire i lavori forzati in miniera. La prigione non era prevista. Sarebbe
stato uno spreco di risorse, in un mondo in cui la principale fonte di energia
erano i muscoli umani.
La comunità che mi ha accolto segue leggi non scritte, un canone
complesso chiaro solo a chi le applica e a chi le trasgredisce, ma a questi
ultimi solo dopo che le hanno trasgredite, quando la mazza della Legge li
colpisce. Non esiste alcun codice penale. Di certo si sa che ci sono linee che
non vanno oltrepassate, e nel dubbio, sul punto dove sono tracciate di
preciso, è meglio tenersi bene a distanza. È così che si ragiona, qui. Se non
sai dov’è il limite, te ne starai ancora più lontano. Quanto ai tribunali, per i
reati più gravi c’è il Consiglio, ma nessuno ha mai visto un processo, o letto
una sentenza. Nei casi peggiori i trasgressori spariscono, e nessuno sente più
parlare di loro. Nei casi meno gravi viene applicata una multa, o una
punizione corporale non invalidante. Non esiste l’amputazione di un arto,
per dire. Ma una severa bastonata è una forma di punizione piuttosto usuale.
Occhio per occhio, dente per dente, più o meno. Ma nulla di permanente.
Verso la fine della galleria, quasi all’ingresso del nucleo di Paris, i banchi
e i venditori si fanno più fitti, e muoversi è più difficoltoso, obbliga a uno
slalom fra casse e ceste, e gente che contratta il posto migliore per il
prossimo mercato. A Paris, il centro amministrativo delle Zattere, girano più
soldi ed è più facile combinare buoni affari: per questo i banchi vicino
all’entrata del palazzo espongono la merce più pregiata: libri e gioielli
tribali, e specialità gastronomiche di tutti i continenti, non tutte gradevoli
alla vista o all’olfatto. L’aroma delle spezie e del caffè appena macinato si
confonde con il profumo delle candele e dei bastoncini d’incenso. Immagini
sacre e poster di un presidente a vita africano, dashiki sgargianti e cd di
musica zouk formano un tappeto olfattivo e sonoro fin sulle scale che
portano al pianoterra dell’edificio.
Io e Albert non apriamo bocca, salendo quelle rampe e sbucando nell’atrio
gelato del palazzo. Il ragazzo apre il pugno, sollevando tre dita. Terzo piano.
Saliamo ancora, io a piccoli passi veloci, lui ansimando a ogni pianerottolo,
ma comunque riuscendo a starmi dietro. Entriamo nella zona adibita a
ospedale. Non la cosiddetta clinica di Chatterjee, ma l’ospedale vero e
proprio. L’odore qui è un misto di malattia e di cure, ma su tutto domina un
sentore acre di disinfettante industriale.
Attraversiamo stanze e corridoi adattati a corsie, dove una massa di malati
occupa due file parallele di letti e stuoie sul pavimento. Al nostro passaggio
alzano gli occhi e poi li riabbassano subito, come se si vergognassero. Occhi
bianchi ed enormi, dilatati dal male di cui soffrono. Dai loro infiniti mali.
Le diverse zone dell’ospedale – chirurgia, medicina, infettivi – sono
separate l’una dall’altra da pesanti teli di plastica semitrasparente che
scendono dal soffitto.
«Dov’è?»
Albert indica un punto più avanti lungo il corridoio.
«Non facciamo colazione, prima?» mi fa.
«No.»
Quando vedo Albert rimettersi nella tasca del giubbotto il taccuino nero,
provo una sensazione di ribrezzo all’idea che si porti addosso tutto
quell’orrore, scritto in una lingua che ora mi dà i brividi.
Usciamo dalla stanza. Albert richiude la porta con la chiave, che poi
appende di nuovo alla rastrelliera a muro.
Mi chiedo se ha capito che il luogo da cui siamo usciti è una cella, ma non
di un carcere.
È la cella del seguace di un culto sconosciuto.
«La cagna sembrava impazzita. Grattava con le unghie sulla porta come se
volesse scavarsi un passaggio nel legno.»
Passo le dita sul legno dipinto di verde. La vernice è scrostata, sembra la
corteccia dell’albero da cui la porta è stata ricavata, chissà quanto tempo
prima. Sessant’anni? Settanta?
La vecchia serratura era stata forzata senza difficoltà. Una volta le porte
delle case contadine non venivano mai chiuse a chiave. Erano tempi così.
Serrature del genere, alle Zattere, le avrebbe aperte un neonato.
La Caragiale era stata la prima a entrare. Si era messa un fazzoletto a
coprire bocca e naso.
La casa era stata usata come un’altra discarica abusiva, ma era molto
peggio dello spiazzo da cui erano partiti. Sacchi gialli e neri e azzurri si
ammucchiavano contro il muro a nord dell’abitazione fino a un’altezza di
più di tre metri. Il tanfo era nauseabondo. La gente arrivava lì in auto e
scaricava la sua merda dal cofano, o magari lanciava il sacco direttamente
dal finestrino, senza nemmeno fermarsi. E al Comune non importava.
Difficile che non ne sapesse nulla. Ma la vita (e, se è per questo, anche la
morte, che ne è una conseguenza) al giorno d’oggi è più che mai una
semplice questione di competenze.
A ogni passo ti chiedi perché fai questo, perché ti presti a servire gente
che ti manda in posti così, per risolvere casi che quand’eri nella polizia
avresti liquidato semplicemente mettendoci sopra l’etichetta giusta, il sigillo
dell’oblio che chiude i casi irrisolti. Cosa vuole, da me, questa gente? Vuole
che mi penta? Okay, guardatemi: sono pentito. Sono diverso dall’uomo che
ero. Sono cambiato.
O davvero pensano che faccia qualche differenza, risolvere questo caso?
C’era un libro che Carla mi aveva passato, una volta, dicendomi: «Dovrebbe
piacerti, parla di un poliziotto nazista.» E in effetti mi era piaciuto, anche se
l’autore si dilungava un po’ troppo nelle descrizioni. C’era questo poliziotto
nazi che indagava in Repubblica Ceca, solo che a quei tempi non si
chiamava così, si chiamava Protettorato di Boemia, o qualcosa del genere, e
questo investigatore nazi, che di suo era anche una brava persona, deve
indagare su un serial killer di vedove. Per il suo lavoro lo aiuta un poliziotto
boemo. E a un certo punto succedono due fatti. Il primo è una cosa che dice
il tedesco, da cui capisci che da un momento all’altro potrebbe dire ai suoi
superiori: sentite, questo poliziotto boemo che mi avete dato non mi va mica
tanto bene, mi fate la cortesia di cambiarmelo? Ah, sì, ovviamente, gli sparo
io. E poi c’è la scena in cui passano vicino a Terezín, un campo di
concentramento a Praga dove mettevano gli ebrei di riguardo, tipo scrittori e
compositori, prima di mandarli ad Auschwitz col primo treno disponibile.
Era uno specchietto per le allodole per la Croce Rossa: gli ispettori
arrivavano, si guardavano attorno, vedevano che gli ebrei non venivano
uccisi per strada e avevano addirittura negozi, scuole, asili e sale da
concerto, e se ne tornavano felici a Stoccolma o a Zurigo, o dove cazzo
stavano, a riferire che le voci sullo sterminio degli ebrei erano evidentemente
esagerate. Appena gli ispettori della Croce Rossa se n’erano andati, alé, via:
le SS imbarcavano tutti, adulti e bambini, sul primo treno per la Polonia, e
chi si è visto si è visto.
In uno dei suoi generosi tentativi di redimermi, Carla mi aveva portato a
un concerto di musica composta a Terezín, o Theresienstadt, come la
chiamavano i tedeschi. Gli spartiti si erano salvati solo perché erano stati
chiusi in una bottiglia e sepolti sotto la pavimentazione del cortile, da cui
erano emersi molti decenni dopo. Era musica singolare. A me non piaceva,
ma devo ammettere che era strano sentire musica composta in quelle
condizioni, per cori di bambini che dopo averla cantata una volta,
quell’opera, che si chiamava Brundibar, erano diventati cenere. Ricordo che
Carla mi accusò persino di essermi commosso, e per riabilitarmi dovetti
scoparmela a sangue per due ore, tenendomi addosso l’anello della
Charlemagne e tutto quello che rappresentava.
Carla…
Il disegno è quasi invisibile. Non è stato fatto con colori, o con una matita.
È stato fatto graffiando il muro, al buio. Come lo so? Lo so e basta.
È un triangolo rovesciato.
A ogni vertice del triangolo c’è un ovale con dentro dei segni.
Un volto stilizzato. Gli occhi sono raffigurati con due trattini orizzontali
leggermente inclinati, e sotto c’è un segno verticale. Una bocca.
Se sposti appena la luce della torcia, il disegno non si vede più.
Chiudo gli occhi. Svuoto la mente, come mi hanno insegnato. Cerco di
ascoltare la stanza.
L’aria, entrando dalla porta in alto, sussurra sillabe slegate che non
riescono a unirsi per formare parole. È una voce flebile, la sua, una voce
appena percepibile.
«Hai una pala?» chiedo, sottovoce, come se mi trovassi in una chiesa.
«No.»
«Un coltello?»
«No.»
Mi guardo intorno. C’è una bottiglia per terra, in un angolo, mezza
nascosta dalle ragnatele. Una bottiglia di vetro verde, vecchia e impolverata.
La prendo e la spezzo su una delle travi di legno che reggono il soffitto. Poi
m’inginocchio di nuovo e con la bottiglia rotta comincio a scavare quella
terra battuta che sembra così dura e che invece, almeno in un punto, si lascia
mordere e portar via senza opporre resistenza.
C’è un nodo, lì, un nodo in cui il tempo non sembra scorrere ma
intrecciarsi in una forma pulsante, rossa. Getto da parte la bottiglia rotta e
rimuovo la terra con le dita.
Quello che trovo, alla fine, quello che ho in mano, è un fazzoletto di stoffa
azzurra. Avviluppato tra le pieghe della stoffa c’è un piccolo oggetto, che al
tatto sembra una moneta. Svolgo delicatamente la stoffa e l’oggetto appare
per ciò che è.
È un disco di vetro colorato: blu, bianco, azzurro e nero.
Un occhio stilizzato.
È rotto, ne manca una grossa scheggia. Sul bordo il vetro è tagliente.
L’occhio di un gufo, penso, o comunque di un uccello. Nero dentro
l’azzurro, dentro il bianco, dentro il cerchio più esterno color blu cobalto.
Il padre di un mio compagno del liceo impagliava animali. Il suo
laboratorio sembrava l’antro di uno stregone. Era una stanza buia come
questa cantina. C’erano animali impagliati dappertutto: uccelli, una volpe, un
tasso. Il mio amico mi fece vedere gli attrezzi di suo padre, una varietà di
scalpelli e lame dall’aspetto feroce. Poi mi mostrò uno strano mobile, un
comò con una ventina di cassetti lunghi e bassi. Ne tirò fuori uno: disposti
nei tanti scomparti quadrati del cassetto, come pedine su una scacchiera,
c’erano dozzine di occhi, di diversi colori e dimensioni. Erano occhi di
vetro, ma sembravano veri. Era come se decine di animali ti fissassero da
quel cassetto.
Albert si china accanto a me. «Cos’è?» sussurra.
«È un Occhio di Allah. Un portafortuna. Ne avevo uno anch’io, preso a
Istanbul. Serve a contrastare il malocchio. Quando si rompe, come questo,
devi sostituirlo subito con un altro, e il malocchio resta dentro l’amuleto
rotto.»
«Allora forse non dovresti prenderlo.»
«Ormai l’ho fatto. Hai un fazzoletto?»
«Di carta.»
«Dammelo.»
Avvolgo di nuovo l’amuleto nel fazzoletto di stoffa azzurra, e metto il
tutto dentro quello di carta.
«Faccio una foto del disegno sul muro?» mi chiede.
«Se ci riesci.»
Ci prova. Da diverse angolazioni. Con il flash, senza. Le immagini
vengono tutte male: o sovraesposte o sottoesposte. Il disegno non si vede in
nessuna delle decine di foto che il ragazzo scatta, finché non si decide a fare
un filmato. Quando ha finito mi mostra il risultato. In qualche fotogramma il
disegno si vede, prima sfocato, poi perfettamente visibile.
«Salva questo fermo immagine. Puoi?»
«Certo» risponde. «Fatto. Dove te lo spedisco?»
«Da nessuna parte. Lo tieni sul tuo telefono. Quando mi serve te lo chiedo
e tu me lo fai vedere, o me lo stampi.»
«Ma non ce l’hai, un telefono tuo?»
«Quello che è tuo è mio. Andiamo.»
Albert scuote la testa, incredulo. «Ma come? Tutto qui?»
«Tutto qui. Ma se vuoi puoi restare. Ormai conosco la strada.»
«Non guardi nemmeno nel freezer?»
«No.»
«Bel poliziotto che sei.»
Mi volto come a sfidarlo, i miei occhi a venti centimetri dai suoi. «Ero
uno dei migliori. È solo che ora i miei metodi sono cambiati. Non prendo più
impronte, uno perché non ho l’attrezzatura, due perché immagino le abbiate
già prese, tre perché con tutta la gente che dev’essere scesa quaggiù, la scena
del crimine è più compromessa del culo di Kimberly Brix.»
«Di chi? È una che sta alle Zattere? Non l’ho mai sentita.»
Lo spingo da parte. Non rudemente ma con decisione. Anni di servizio
d’ordine ai concerti mi hanno insegnato come si fa. La giusta misura.
Senza voltarmi indietro comincio a risalire le scale, lottando contro la
forza che vorrebbe trattenermi laggiù e che rende lenti e impacciati i miei
passi. È come se i miei piedi fossero immersi nella fanghiglia che ci attende
là fuori. Mi manca l’aria.
Sento i passi veloci di Albert dietro di me.
«Aspettami!»
14
Non è facile, star seduto su questo divano. E non è solo per le molle
sfasciate, o per l’odore di muffa, percepibile anche sotto il profumo di
deodorante. È che non so come mettermi. Sprofondo nella seduta. Le mie
ginocchia sono quasi all’altezza del viso. È come essere al volante di una
Ferrari, solo che davanti a me non c’è un’autostrada deserta, ma una coppia
disperata.
Il cielo azzurro non fa che accentuare la miseria del paesaggio, lo sporco
dei muri, il bianco della neve che già comincia a decomporsi in fango.
Il padre di Amina, seduto di fronte a me, sembra avere il doppio degli anni
di sua moglie, in piedi alle sue spalle con un’espressione indecifrabile sul
volto. L’ingegner Husseini ha i capelli grigi rasati corti, e dei baffi come
quelli di mio nonno, con le punte arricciate. Gli tremano le mani, mentre mi
offre del tè che poi sua moglie, a un mio cenno di conferma, mi versa.
Il suo inglese è peggiore del mio. E io non parlo siriano. Ho chiesto se
potevo avere un interprete, ma la Caragiale, la madre di tutte le risorse, era
irraggiungibile e Aarif, quello stronzo, ha detto che era impegnato. Così
devo starmene qui, in questa stanza che puzza di deodorante e degli odori
che il deodorante dovrebbe coprire, davanti ai genitori di una ragazzina
squartata, ad ascoltare l’ingegnere siriano raccontarmi esattamente quello
che mi aspettavo di sentirgli dire: che Amina era brava, che non frequentava
nessuno, che era tutta casa e moschea, che non aveva grilli per la testa.
Insomma, una santa. Amici maschi? Figurarsi! Amiche femmine? Nessuna.
Voleva diventare maestra elementare, maestra per bambini piccoli, mi dice, e
sua moglie scoppia a piangere.
«Posso vedere la sua stanza?» chiedo.
L’uomo s’irrigidisce.
«Non c’è niente da vedere.»
«Lasci che sia io a dirlo.»
L’ingegner Husseini fa un gesto brusco alla moglie, pronuncia una frase
veloce in quello che immagino sia siriano, o arabo, o qualsiasi cosa parlino
dalle loro parti. La donna arretra di un passo e mi fa segno di andare con lei.
Il nome Minigolf del Diavolo l’ha inventato Lorenzo Vidal, per descrivere
questo esperimento sociale fortemente voluto dalla giunta di centrodestra per
«rivitalizzare», credo di citare le parole esatte del sindaco, «un ambito civico
depauperato della sua funzione, al quale va riassegnato un nuovo valore
riqualificante del tessuto urbano, affinché diventi un asse cartesiano della
legalità e del futuro».
In pratica, al posto di uno spiazzo pavimentato in pietra di mille metri
quadrati in pieno centro cittadino, si era realizzato un parchetto artificiale,
con erba e piante e decori di dubbio gusto, comprese alcune statue di gesso
colorato che qualche sabotatore, nottetempo, non mancava mai di rinforzare
polemicamente con dei nani da giardino.
Lorenzo l’aveva definito «il Minigolf del Diavolo» pensando ai romanzi
di Stephen King.
«Hai presente certi posti che King descrive? I circhi, i luna park, il
giardino dell’Overlook Hotel? Posti apparentemente normali ma inquietanti,
oltre che orribilmente kitsch? Be’, questo posto è diventato la stessa cosa,
cazzo. È una roba da Rimini, una specie di Minigolf del Diavolo che non
c’entra un cazzo con Pista Prima…»
Fra di noi chiamiamo questa città Pista Prima per via di un vecchio libro
scritto da uno tanti anni fa, che aveva rinominato così la sua città.
Uno che aveva avuto una botta di successo con il suo primo romanzo e poi
era praticamente sparito.
Quello a sua volta aveva preso il nome Pista Prima da uno scrittore
inglese, George Orwell.
È una lunga storia.
Lo vedo dall’alto, il mio amico, dal chiostro della biblioteca.
Seduto su una panchina del Minigolf del Diavolo, Lorenzo Vidal tiene in
mano un sacchetto del pane. Davanti e intorno a sé ha una dozzina di
piccioni intenti a zampettare in una danza elaborata e nervosa.
Scendo lentamente, attento a non scivolare sul ghiaccio che copre gli
scalini. Gli operai del comune hanno spazzato via la neve, senza pensare che
il freddo della notte avrebbe trasformato l’umidità rimasta in ghiaccio. Mi
appoggio alla balaustra, gelandomi la mano. Gunga Din è stato meno
cordiale del solito, impartendomi le sue istruzioni per l’uso.
Due ore dopo, sul terrazzo, faccio i miei esercizi all’aperto. È un terrazzo
enorme, che si estende per più di metà del tetto del palazzo. Solo chi ha una
chiave speciale può salire quassù, e solo una dozzina di persone alle Zattere
ce l’hanno. Una è la mia. Il Consiglio vuole che il suo cane da guardia sia in
forma.
La luce è una sottile striscia grigia a occidente.
Un vento freddo e teso soffia da est, piegando il fumo dei camini quasi in
orizzontale, così che il grande edificio sembra un transatlantico in viaggio su
un mare buio e gelido.
Dovrei sgombrare la mente e altre cazzate del genere, concentrarmi sugli
esercizi, ma preferisco fare il bilancio della giornata.
I tetti degli edifici delle Zattere sono coperti per il novanta per cento da
pannelli solari, recuperati quasi tutti in modo lecito. Alla luce del sole, visti
dall’alto, devono essere uno spettacolo. Anche se sono pannelli di recupero,
dall’efficienza tutt’altro che ottimale, sono comunque in grado di rendere
autosufficienti le Zattere. Off the grid, come direbbe Albert. Sui tetti sono
rimaste comunque calpestabili delle aree per consentire la manutenzione dei
pannelli, e un percorso perimetrale che uso come pista di atletica, per correre
i miei dieci chilometri al giorno, col sole o con la pioggia, lottando con il
dolore che vorrebbe azzopparmi, o mettermi in ginocchio.
Non sono certo di cosa ho raccolto, oggi. Non sempre le informazioni si
rivelano utili subito. A volte restano sepolte in un fascicolo, o nella tua
memoria, per riemergere magari anni dopo, permettendoti di risolvere un
caso che era già stato archiviato. C’è qualcosa che comincia a prendere
forma, nella mia testa, ma è come se lo vedessi attraverso un cannocchiale
rovesciato. È qualcosa d’indistinto, che si avvicina da lontano, anche se non
riesco ancora a distinguerlo bene. Ma è lì, si sta avvicinando. Presto lo vedrò
e saprò cos’è.
Con la sera è sceso il freddo. L’aria dell’Est ha un sentore quasi metallico.
Le immense nuvole trascorrono sulla terra buia, le luci della città lontana
tingono il loro ventre di arancione. Mi sento solo, qui in cima a Paris, con
davanti a me la prospettiva di una cena solitaria e di una notte probabilmente
insonne.
Ripenso a Krystyna, alla sua pelle dorata alla luce della lampada sul
comodino. Alle mie dita che accarezzano la sua giovane schiena che
s’inarca, le penetrano il sesso, vi entrano come animali felici, mentre la sua
bocca è un favo di dolcezza che la mia lingua esplora.
E poi di colpo il presente mi richiama a sé, nell’istante esatto in cui
quell’ultimo filo di luce svanisce e il giorno si fa definitivamente notte.
È un momento di una tristezza incredibile, al quale sento che non potrò
reggere a lungo.
Così lo isolo dentro di me, lo restringo, lo accartoccio in una palla,
cercando poi di spingerlo in fondo al pozzo, dove lo tengo giù con un lungo
bastone, e il bastone si allunga il doppio, il triplo, e anche il pozzo raddoppia
e poi triplica e quadruplica la sua profondità, finché la tristezza è sparita e la
sua voce non può più tormentarmi, e il grido da bestia ferita che emetto è
solo dentro di me, un grido che mi lacera il cuore ma non scalfisce il silenzio
della notte.
17
A quest’ora la mensa non è certo affollata. Gran parte degli abitanti delle
Zattere preferiscono comunque cucinare e consumare i pasti nei loro
appartamenti. Questo aveva comportato grossi problemi, agli albori della
comunità, quando regnava l’anarchia e molte famiglie usavano bombole di
gas riempite artigianalmente. Erano scoppiati alcuni piccoli incendi, e lo
scheletro annerito della quarta Zattera era lì a fare da monito perenne, anche
se molti sostengono che non c’entra niente e che quell’incendio era stato
provocato apposta dai proprietari del complesso abbandonato, per incassare
l’assicurazione. A ogni modo il Consiglio si era imposto, con le buone o con
le cattive, e fornelli a gas e fiamme libere erano stati definitivamente banditi.
Sostituire le vecchie attrezzature con le piastre elettriche aveva richiesto
tempo e capacità di persuasione, ma alla fine, grazie anche alla generosità di
qualche donatore esterno, non sempre volontario, l’operazione si era
conclusa con successo. Ora a ogni piano di ogni palazzo c’è una squadra per
le emergenze, addestrata e fornita di estintori e cassette del pronto soccorso.
Nessuno aggira le regole, anche perché la punizione per i trasgressori
sarebbe l’espulsione immediata dalle Zattere.
Andiamo a sederci al mio solito posto. Ogni tavolo qui è diverso
dall’altro. Quello a cui ci accomodiamo è molto vecchio, probabilmente
preso da una casa di campagna abbandonata. Può ospitare una dozzina di
commensali, ed è fatto di un legno robusto, praticamente inscalfibile, che il
tempo ha coperto di una patina nera. Anche le sedie sono una diversa
dall’altra.
Elena si siede di fronte a me.
Indossa un giaccone che deve aver preso in qualche surplus militare, con
una bandierina tedesca sulla spalla. Sotto ha un maglione nero a collo alto.
«Non hai caldo?» le faccio.
«Non ho mai abbastanza caldo. Cos’è quello?»
«Un piatto africano di merda.»
«E allora perché l’hai preso?»
«In realtà, a parte il nome e l’aspetto, non è poi così male.»
Si toglie di tasca un attrezzo che sembra un coltellino svizzero multiuso.
Ci traffica un po’, piegandolo e aprendolo, e alla fine ottiene una posata che
da una parte è cucchiaio e dall’altra forchetta. Infila il cucchiaio nel riso
speziato e assaggia.
«Avevi ragione. È buono. Ma allora perché dici che è di merda?»
«Programmazione obsoleta. Di solito si risolve con il restart della mattina.
Cos’è quell’aggeggio che usi?»
«Questo? È uno spork. Metà spoon e metà fork.»
«Che nome idiota.»
Lei rotea gli occhi. «Giornata pesante?»
«Puoi dirlo.»
«Posso dirlo… Sai cos’è che non mi piace, di te?»
«È una lista lunga?»
«Anche no. In realtà è una sola cosa. Sei un brontolone. Non vedi mai il
bicchiere mezzo pieno.»
La fisso. Prendo il mio bicchiere d’acqua e lo svuoto in un lungo sorso.
Poi lo riappoggio sul tavolo. Con le dita lo spingo verso di lei.
«Come lo vedi?» faccio.
La ragazza ride. «Mi ricordi mio padre.»
«Addirittura. È messo così male?»
«No, lui è molto peggio di te.»
Spezza il pane e lo annusa.
«Cumino?…»
«Sì. Oggi mi è andata bene.»
«In generale?»
«Solo col pane. Poteva essere un pane arabo di merda.»
Elena scuote la testa, ma lo fa sorridendo.
Quando sorride mi si muove qualcosa dentro. Come se un esserino
insopportabilmente dolce, da cartone animato, grattasse con le unghiette la
mia corazza pensando di farmi il solletico, senza sapere che invece mi sta
scavando un buco nel cuore.
«È morta una mia amica» dico sottovoce, contravvenendo agli ordini della
Caragiale.
Elena sgrana gli occhi. Poi fa una smorfietta infantile. «Cavoli, mi
dispiace. Dev’essere pesante. Quanti anni aveva?»
«Ha importanza?»
Alza le spalle. «Non so. Immagino di no. È che finora non ho mai perso
nessuno. Nessuno che conti, voglio dire. Cos’è stato, un incidente?»
«Sì» mento.
«Quando muore uno giovane, tipo in un incidente, tutti sono così tristi
perché pensano alle cose che avrebbe potuto fare: un lavoro, dei figli, dei
viaggi. A cosa poteva diventare. Se muore un vecchio, invece, fanno il
bilancio della sua vita e capiscono che non ne ha fatto granché: la pensione, i
figli che da grandi neanche l’hanno cagato, il massimo della vita il viaggio di
nozze a Parigi… Cos’è più triste allora, dico io, morire da giovani o da
vecchi? Per me morire da vecchi. Ma forse sto dicendo delle cazzate.»
Prende un’altra forchettata di riso. Tre chicchi unti cadono sul piano del
tavolo. Lei li raccoglie con la punta dell’indice e se li infila in bocca.
Scuoto la testa.
«Dal tuo punto di vista non fa una piega» sorrido, cercando di
concentrarmi su quello che ho nel piatto: metà della porzione di riso e un
mucchietto di taccole cucinate con spezie che mi fanno lacrimare anche solo
a guardarle, ma so già che saranno ottime. Il cuoco di stasera, se non mi
sbaglio a giudicare dai piatti serviti, è un ragazzo marocchino che lavora in
una mensa aziendale, quando avrebbe talento sufficiente per gestire un
ristorante stellato. Il Consiglio aveva pensato di iscriverlo a MasterChef, o a
un’altra di quelle cagate di programmi di cucina, ma Karim non ha i
documenti in regola. E non li avrà mai. La clandestinità è una malattia
cronica, un circolo vizioso. Ne sto imparando qualcosa girando per le strade
senza documenti e sudando freddo ogni volta che incrocio una divisa. Voglio
dire, una divisa seria. Le civic guard e il contrammiraglio Bruseghin non
contano. Il fatto è che se non hai i documenti non puoi avere una vita e un
lavoro regolari. Ma se non hai una vita e un lavoro regolari non potrai mai
ottenerli, i documenti. È un fottutissimo comma 22.
«Cos’è, un comma 22?» chiede Elena.
Alzo gli occhi dal piatto.
Mi rendo conto che, come mi capita a volte, devo aver pronunciato quelle
parole ad alta voce. A meno che lei non sia capace di leggere nel pensiero.
«È il libro di uno scrittore americano sulla guerra. La Seconda guerra
mondiale, quella contro i nazisti.»
«Guarda che ce l’ho presente.»
«Pensa che un tempo l’avrei chiamata crociata contro il bolscevismo…
Comunque, il romanzo è su una squadra di piloti americani costretti a fare
una missione dietro l’altra, dove muoiono come mosche. Ovviamente
cercano di schivarle, facendosi magari esonerare per problemi mentali, ma
c’è il comma 22 del regolamento, quello che dice più o meno che chiunque
sia pazzo può chiedere di essere esonerato dalle missioni di volo, ma
chiunque chieda di essere esonerato non può essere considerato pazzo.»
«Bella fregatura.»
Alzo le spalle.
«Senti, ma carne, tu, non ne mangi mai? Posso andare a prendere un paio
di piatti per me?» fa Elena.
«Certo.»
«È solo che non ho soldi.»
«Basta che fai il mio nome. Non c’è problema.»
«Wow. Sei meglio di una Visa Platinum.»
«È una magia che funziona solo qui.»
«Allora vado. Torno tra un minuto.»
La guardo alzarsi e andare verso il bancone, che un tempo apparteneva
alla mensa di una delle tante industrie che negli anni Sessanta avevano fatto
crescere l’economia di una sonnacchiosa cittadina di provincia fino a farla
diventare una delle locomotive del Nord-Est. Ora che la locomotiva del
progresso è arrugginita e i binari della sua ferrovia sembrano portare solo
verso il baratro, lo splendido bancone in vetro e acciaio cromato serve cibo
etnico a extracomunitari clandestini e a sbandati di ogni colore e razza, uniti
solo dal minimo comun denominatore della miseria. Un collante micidiale,
nel quale di questi tempi è molto facile restare invischiati.
È bella, Elena? Decisamente sì. Un tempo mi sarei fatto delle idee, su di
lei. Anzi, più che farmi delle idee sarei passato direttamente ai fatti. Prima
che Chatterjee e Nandini pasticciassero con il mio cervello ragionavo
esclusivamente col cazzo, ero un’efficiente macchina di muscoli e sangue
fatta solo per bere, drogarsi e fottere. Nutrirmi e lavorare erano attività
ausiliarie, create per alimentare il mio cervello rettiliano e il corpo che lo
serviva come uno schiavo. La guardo sporgersi in punta di piedi per vedere
meglio oltre il bancone, sorridere all’inserviente, puntare il dito a indicare
quello, e quell’altro, e mi sembra di poterla doppiare mentre s’informa e fa
domande. Ha una voce bella e gentile, da persona che ha studiato. Mi fa
strano pensare che l’ho vista masturbarsi in camera mia eppure non so nulla
di lei.
Torna al tavolo, si siede.
«Che c’è?» fa.
«Niente.»
«Ho visto che mi guardavi, sai?»
«Penso sia normale, per te.»
«Be’, non c’è molto da vedere. Non stasera, almeno» sorride complice,
strizzando l’occhio.
«Hai avuto difficoltà al banco?»
«No, è bastato sul serio fare il tuo nome ed è stata una cosa tipo
abracadabra. Sei un uomo importante, qui.»
«Più che altro utile. Come un martello. O un aratro.»
«Mi sembri più un tipo da martello. Forte, comunque. Vuoi assaggiare?»
Guardo i tre piatti che ha sul vassoio: un brasato tagliato a fette grosse,
una porzione di pilaf alle verdure, una ciotola di hummus.
«Hai un bel po’ di fame.»
«Devo crescere.»
«Nel posto in cui vivi non ti danno da mangiare?»
«Guarda, se è per i soldi, domani te li porto.»
«Non dire stupidaggini. È solo che non capisco. Ma dove vivi? Sotto un
ponte? Come fai a mangiare tanto e restare così snella?»
«È una questione di metabolismo. Però grazie per aver detto “snella”. È
una parola molto più bella di “magra”.»
«Dici?»
«Certo.»
«Non mi hai detto com’è stata la tua, di giornata.»
«Oh, be’, uh, come dire, il solito. Ho fatto un sacco di attività con i
bambini delle medie. Corsi di miglioramento dell’italiano. Autodifesa. E poi
nel pomeriggio mi sono occupata delle ragazze del corso di educazione
sessuale.»
«Educazione sessuale?»
«Perché? Ti sembra strano?»
«Sapevo che quei corsi erano stati sospesi. Che c’erano problemi con
l’imam.»
Elena sbuffa. Scrolla la testa. «Di quelli ce ne sono sempre. È una tale
testa di cazzo. Pensa di sapere tutto lui. Ma quando Aarif alza la voce, lui
abbassa le orecchie.»
«Mi chiedo come mai hanno scelto te per quelle lezioni.»
«Non sono mica l’unica. Ci diamo i turni. Volevano una del posto, che
riuscisse a entrare in intimità con le ragazze. A porte chiuse e con l’assoluta
libertà di dire e fare tutto quello che ci viene in mente. Non hai idea di
quanto compresse siano, alcune. Un corso come il nostro è utile sia a loro
che al Consiglio. Per questo l’imam può star zitto e prenderselo in culo. E se
gli servono suggerimenti su come godere prendendolo in quel posto,
possiamo organizzare un corso anche per maschi repressi come lui.»
Manda giù una forchettata di carne.
Mi guarda.
«Che c’è da ridere?»
«No, niente» dico. «È solo che sei incredibile. Hai un modo di
esprimerti…»
«Da teppista?»
«Sì. A volte sì.»
«Sono una donna libera.»
«Anche dal lavoro.»
«Cosa intendi?»
«Be’, se passi qui le tue giornate…»
«Guarda che studio, io. Sto per laurearmi in Psicologia, e quello che
faccio qui è il mio lavoro sul campo. Materiale per la mia tesi.»
«Ah.»
«Vedi quante cose non sai, di me?»
Mi guarda di sottecchi.
«Dopo possiamo salire da te? Non ho finito di vedere il film.»
«Scordatelo, quel film. E comunque non sono più solo. Divido la stanza
con un’altra persona.»
«Oh.»
«Non farti strane idee. È un ragazzo.»
«Oh…»
«Smettila, cazzo. Non è come pensi.»
«Io non penso proprio niente. Sicché niente film… Peccato. Mi piace, la
tua compagnia.»
«Infatti ti sto facendo compagnia.»
Lei non risponde subito. Le passa sul viso un’espressione strana, non
gradevole. Ma passa, appunto, come una nube leggera davanti al sole, che
subito riappare, sotto forma di un sorriso smagliante anche se falso.
Si alza di scatto, battendo le mani sul piano della tavola come per
schiaffeggiarla.
«Grazie per la cena, uomo importante. Me ne torno sotto il mio ponte.»
«Aspetta!»
«Ciao ciao.»
Con uno scatto mi alzo e la raggiungo. Le afferro il braccio. Lei abbassa
lo sguardo sulla mia mano, con cui la stringo con troppa forza.
Lascio la presa. Lei sorride. Torna a sedersi.
Mi guardo in giro. Nessuno sembra aver fatto caso alla scena. La regola,
alle Zattere, è di farsi gli affari propri. Dipende dal fatto di vivere in spazi
limitati, in una convivenza precaria e forzata con centinaia di estranei.
«Finisci la tua cena» dico a voce bassa.
«Sì, papà.»
«Non chiamarmi papà.»
«Okay. Però me lo ricordi. E non è un complimento» precisa, infilandosi
in bocca un’altra forchettata di brasato. Una goccia di sugo le scivola sul
mento. Svelta, la raccoglie con la punta della lingua. Una lingua lunga e
veloce, di un rosso sanissimo.
Elena si accorge che la sto fissando.
«Guarda che potrei essere tua figlia» mi rimprovera, prima di rifare,
volutamente, la scenetta della goccia di sugo.
«Smettila.»
«Tanto lo so che con te non corro pericoli. Che non ti piaccio.»
«Non è questo…»
«Senti, facciamo che non ti scusi, okay? Perché guarda, se ti scusi è anche
peggio. Comunque non farti strane idee, non girarti in testa un filmetto con
me, tipo quelli che ti scarichi. Mi piaci, siamo buoni amici, forse qualcosa di
più che amici. Facciamo che continui a essere così.»
Posa la forchetta sul piatto.
«Cambiamo argomento. Voglio farti sentire una cosa» mi fa, prendendomi
la mano e tirandomi via dalla tavola, e poi dalla mensa, ed è come se fossi
tornato bambino.
E per tutta la strada penso a quello che vorrei dirle.
«Cazzo.»
«Eh, già.»
«Scusami. Non volevo prenderti in giro.»
«Sono cose vecchie. Morte e sepolte.»
«Ma no. Mi piace che me ne hai parlato. È bello che ti sei aperto, che hai
buttato fuori questa cosa. Proprio bello. Vuol dire che ti fidi di me.»
Oh, sì.
Maledettamente vero.
Mi fido di una che potrebbe essere mia figlia.
Una a cui, senza quasi conoscerla, ho detto cose che non avrei mai avuto il
coraggio di raccontare alla donna con cui ho vissuto per più di dieci anni.
Che non ho detto nemmeno al dottor Chatterjee, o a Nandini.
«Cosa c’è, Sergio?»
«Niente.»
«Perché non dovresti star male. Mi dispiace che ti senti così, ma hai fatto
bene ad aprirti con me.»
Distende le braccia, e io prima mi inginocchio per terra e poi mi appoggio
a lei, mi abbandono fra le sue braccia magre, sicuro che mi sosterranno.
E scoppio a piangere.
19
Dolores.
Così si chiamava, la donna che mi ha spaccato la testa a bottigliate.
Un nome decisamente appropriato.
La pista delle auto non è l’unica che voglio seguire. Ce n’è un’altra, anche
se quel po’ di buonsenso che mi è rimasto mi urla di scordarmela.
Di lasciar perdere Lirosh Roshi.
Ma si sa che tra il buonsenso e il mio istinto suicida, quello che ha il cazzo
più lungo è il secondo.
Sulla soglia c’è un uomo piccolo e magro, che mi sembra di aver già visto
da qualche parte.
«Signor Stokar. Venga. Il dottor Roshi l’aspetta.»
Lo seguo nell’atrio dalle grandi vetrate e dal décor minimalista. Le pareti
sono blocchi di cemento grezzo. Alcune grandi foto in bianco e nero attirano
il mio sguardo.
«De Marco» sussurra l’uomo. Ora che lo vedo di profilo realizzo chi mi
ricorda: il defunto Joseph Goebbels, dottore in filosofia e ministro della
propaganda del Reich hitleriano.
«Pardon?» faccio.
«Le foto alle pareti. Sono di Danilo De Marco.»
«Belle» annuisco, passando davanti a due gigantografie che raffigurano i
volti seri e intensi di un giovane e di una ragazza africani. Nella pupilla dei
due si vede il riflesso del fotografo. Sto guardando dei ritratti che sono anche
un autoritratto.
«Il dottor Roshi non avrà molto tempo da dedicarle. Tra meno di un’ora
ha un impegno di lavoro.»
«Basterà molto meno.»
«Questo lo stabilirà il dottor Roshi.»
C’è profumo di cera, nella stanza. Viene sia dal pavimento di marmo tirato
a lucido che dalle grandi candele poste sui mobili e sul pianoforte Fazioli a
gran coda.
«Prego» fa il sosia di Goebbels, fermandosi davanti a una parete che,
come per magia, scivola di lato e rivela la porta di un ascensore grande come
quello di un ospedale.
Entro. Il Reichsminister mi segue in silenzio. La pulsantiera ha otto tasti.
Lui preme il penultimo verso il basso.
Quasi non si avverte la sensazione di scendere. Un minimo fruscio e basta.
Le luci dei pulsanti si accendono l’una dietro l’altra. La porta si apre.
Per un attimo resto senza parole. La vista dalla vetrata alle spalle
dell’enorme scrivania è uguale a quella del pianoterra.
«Un gioco di specchi» fa una voce. Lirosh Roshi si alza dalla poltrona in
pelle e mi tende la mano.
La trattiene nella sua un attimo di troppo per i miei gusti. Con diffidenza,
soppesandomi con gli occhi. Una volta ho conosciuto una donna albanese,
una bella donna, che mi guardava così, come un macellaio guarda il bue.
Come se mi stesse sezionando con lo sguardo pregustando i tagli migliori, o
il prezzo a cui potrebbe venderli. Ma Carla direbbe che ho dei pregiudizi.
Può darsi che abbia ragione.
«Si accomodi» sussurra l’Albanese. «Lasciaci soli, Amos.»
Davanti alla scrivania non c’è una sedia, né tantomeno una poltrona come
la sua. C’è uno sgabello da pianoforte, regolato troppo basso, immagino
volutamente. Lirosh me lo indica, con un gesto d’invito.
«Resto in piedi, grazie.»
Alza le spalle. «Come crede. Lei ha fatto un nome, per entrare qui.»
«Krystyna Nowak.»
«Cosa le fa pensare che fosse mia amica?»
«Diciamo perché se non lo fosse stata non avrebbe potuto fare quello che
faceva?»
«E cosa faceva, la sua amica? Così, tanto per parlare.»
«Vendeva il suo corpo.»
«Una prostituta.»
«Tecnicamente.»
«Non pensa che dovrei sentirmi offeso, quando mi attribuisce un’amicizia
con una prostituta?»
L’italiano di Lirosh è impeccabile, raffinato. Anche il suo aspetto è molto
curato. Indossa un completo grigio di taglio sartoriale, una camicia bianca
dalla morbidezza evidente già allo sguardo e una cravatta regimental in seta.
È più alto di quanto mi aspettassi. E meno magro. Sopra la cintura c’è un
accenno di pancetta, e i capelli sono più stempiati di com’erano nelle foto
segnaletiche che sono l’unico ricordo visivo che avessi di lui.
«Ho detto che era anche mia amica» faccio.
«Sono affari suoi. Ma io sono un cittadino responsabile, un pilastro della
comunità. Oltre che un esempio di integrazione di successo. Non posso
tollerare che il mio nome venga associato a persone o attività meno che
irreprensibili. Solo per questo ho accettato di incontrarla invece di farla
allontanare di peso dalle guardie.»
«Questo è ancora un paese libero, signor Roshi.»
«Dottor Roshi. Sarà anche un paese libero, ma lei è in una proprietà
privata.»
«Dottore in cosa, esattamente?»
«Ingegneria edile.»
«Complimenti.»
«Un titolo honoris causa, ma a cui tengo molto.»
«Posso capirla. Dato che è ingegnere, mi spiega come funziona, la sua
casa? Voglio dire, come fa a esserci la stessa vista al pianoterra e a questo?
E, fra parentesi, a che piano siamo?»
«Al meno cinque. Esattamente non so spiegarglielo, ma è una specie di
gioco di specchi. Ha presente il tunnel degli specchi al luna park? Ecco,
funziona più o meno così. Quello alle mie spalle non è uno schermo. È un
riflesso.»
«L’effetto è notevole.»
«L’idea me l’hanno data alcuni amici russi. Quasi tutti hanno comprato
casa nel centro di Londra, che per lo shopping natalizio è fantastica, mi
dicono. Il fatto è che sono case piccole per i loro standard, in quartieri storici
nei quali non si può sopraelevare, o modificare l’esterno. Così la soluzione è
andare in profondità, scavare piani sotterranei. In questo modo si possono
moltiplicare anche per dieci le cubature senza che il comune abbia niente da
ridire. Inoltre l’effetto esterno è più modesto e attira meno attenzioni
sgradevoli da parte del fisco o di altri malintenzionati.»
«Capisco. Da quanto tempo è in Italia, Lirosh? Posso chiamarla Lirosh,
vero?»
«Preferirei di no. Dottor Roshi è più adeguato.»
«Da quant’è in Italia, Lirosh? No, aspetti: glielo dico io. L’ho letto sul suo
dossier. Lei è in Italia dal 1998. Quando ha subito il suo primo arresto per
sfruttamento della prostituzione.»
L’Albanese non risponde.
Ha posato le mani sulla scrivania, e quelle mani sembrano molle pronte a
scattare.
«Lei sta abusando della mia pazienza, signor Stokar.»
«E tu mi stai facendo perdere tempo, Lirosh Roshi detto l’Albanese. Mi
racconti un mare di cazzate sulla tua laurea e su questa tana. Cose di cui, per
inciso, non me ne frega un beneamato cazzo. E allora sai che ti dico? Che mi
dispiace. Davvero. Mi dispiace di essere tornato dal tuo passato a ricordarti
la merda che eri, che sei. Hai fatto un bel lavoro per toglierti la puzza di
dosso, ma non ti è riuscito del tutto. Perché vedi, io ti annuso e sento ancora
quell’odore. Poi ti guardo in quegli occhietti da topo affamato che hai e mi
rendo conto che puzzi di merda perché sei una merda.»
Nonostante tutto il suo autocontrollo Lirosh sbianca. Sembra sul punto di
esplodere.
«Sono venuto qui solo per vederti» faccio. «Per sapere come sei adesso.
Stavi meglio nelle foto segnaletiche.»
«Anche tu non sei certo una meraviglia, poliziotto. Mi risulta che la tua
carriera è finita nel cesso.»
«Sì, e non solo quella. Da quando sono stato sbattuto fuori dal servizio
sono morto due volte. La prima quando una donna mi ha aperto il cranio con
una bottiglia di vodka, la seconda quando qualcuno mi ha drogato e torturato
lasciandomi mezzo morto. E forse ero morto davvero. Forse sto cercando di
battere il record di Cristo e di Lazzaro messi insieme. Però non dovresti
sottovalutarmi, e nemmeno prendermi per il culo. Perché vedi, Albanese,
quello che hai davanti a te è uno stramaledetto sopravvissuto del Ghetto di
Varsavia, una fottuta SS della divisione Charlemagne fra le rovine del
Reichstag, un lanciere polacco che carica a cavallo i tank, un legionario
francese che resiste a Dien Bien Phu. Io sono tutte queste cose e sono molto
di più. Sono un volontario delle cause impossibili. E sono incazzato come
una bestia con chi ha ucciso Krystyna. Non mi fermerò finché non l’avrò
trovato, e spianerò tutto e tutti quelli che cercheranno di ostacolarmi. Sono
stato chiaro? Se sei tu che l’hai ammazzata, o se sai chi è stato e non me lo
dici, puoi cominciare a cagarti addosso.»
L’Albanese non risponde. Freddo come un iceberg preme un pulsante
sotto la scrivania.
Il dottor Goebbels riappare come se fosse spuntato dal pavimento.
«Amos, sii cortese, accompagnalo alla porta. Chiama le guardie perché lo
sbattano fuori dal complesso e facciano in modo che non ci rimetta più
piede.»
«Provaci e te la stacco» ringhio, quando sento che il servo sta per posarmi
una mano sulla spalla.
Esco da quella stanza di lusso con tutta la spavalderia possibile, con ogni
singolo grammo di dignità che ancora mi resta. Cammino all’indietro, senza
mai distogliere lo sguardo da Lirosh l’Albanese. E giunto sulla soglia mi
congedo da lui alzando il dito medio.
24
La mensa è più affollata del solito. Magari c’è l’happy hour sui cavoli
bolliti, il cui odore si potrebbe tagliare col coltello.
Albert è seduto al posto che di solito occupo io. Mi fa cenno di
avvicinarmi.
«Scegli quello che vuoi» faccio ad Amir. «Sai come si fa, vero?»
Il ragazzino annuisce, anche se dalla sua espressione capisco che non ha
mai mangiato alla mensa. Ma è parecchio sveglio, quindi non penso avrà
problemi.
«Prendi uno di quei vassoi e mettiti in fila, okay? Di’ che sei con me.»
E poi punto su Albert.
«Ce ne hai messo di tempo» faccio, tanto per non smentire la mia fama di
stronzo.
«Ci ho messo esattamente il tempo che serviva.»
«Pensavo che mi avresti convocato nel tuo laboratorio.»
«No. Tanto dovevo solo farti avere questo.»
Si toglie dal taschino della giacca militare M65 un biglietto, che mi
allunga sul tavolo.
Lo infilo nella tasca dei pantaloni, senza guardarlo.
«Davvero mangi quelle porcherie?» faccio, indicando la ciotola di riso e
verdure che ha davanti.
«Non sai cosa ti perdi.»
«L’importante è perderselo. Tutto qui? Un foglietto? Mi aspettavo
qualcuno dei tuoi effetti speciali.»
«Gli effetti speciali li ho usati per hackerare un paio di archivi. Ho perso
la giornata, per aiutarti, e Dio solo sa quanto sono in ritardo con le richieste
del Consiglio. In ogni caso è tutto lì. Numero dei taxi, nome degli autisti,
posto in cui puoi trovarli. Sono due, gli autisti, ma questo lo sapevi già. Ah,
una cosa che sicuramente non sai, perché è un’informazione a cui sono
risalito entrando in una sezione particolarmente ben protetta del server della
cooperativa di taxi, è che in realtà il suo vero proprietario sembra sia un
personaggio importante a livello locale. Un tale Lirosh Reshi.»
«Roshi.»
«Lo conosci?»
«Vagamente. Fa anche rima: conosci, Roshi. Sì, un po’ lo conosco. E
diciamo che da oggi lui conosce un po’ di più me.»
«Non mangi?»
«Ma sì. Anche sì. Ti scoccia se io e Amir ti facciamo compagnia?»
«Se mi scocciasse farebbe differenza?»
«No. Ma mi sembrava scortese non chiedertelo.»
«E se mi siedo anch’io con voi?» chiede allegra una voce femminile alle
mie spalle.
Elena ha le mani infilate nelle tasche del giaccone. Sorride.
Per certi sorrisi ci vorrebbe il porto d’armi.
Albert scuote la testa, con un’espressione ebete.
«Accomodati» faccio, indicandole il posto di fronte al ragazzo.
«Però non ho ancora preso niente.»
«Vieni. Offro io.»
Amir è lì, imbambolato col suo vassoio davanti ai contenitori della mensa
dove stanno le posate e il pane. Gli sorrido, gli insegno a mettere il vassoio
sul nastro a rulli e a passare davanti alle varie pietanze, chiedendo alle
inservienti di mettergli nel piatto questo o quello. Buttando l’occhio, mi
accorgo che Elena mi studia, incuriosita da quella mia attenzione quasi
paterna.
Amir, contrariamente a quanto mi aspettavo, si serve con parsimonia,
prendendo poche pietanze e in piccole quantità. Elena, in fila subito dopo di
lui, non ha di questi scrupoli e si riempie il vassoio come se prevedesse un
imminente assedio di una certa durata.
Quando torniamo al mio tavolo, che per l’occasione oggi è il tavolo di
Albert, anche il vassoio di Amir trabocca di cibo. Lui di tanto in tanto alza
gli occhi con un’espressione colpevole.
«Tranquillo» faccio. «Offre la casa.»
«Grazie, sir.»
Ci sediamo tutti insieme, l’allegra famigliola multietnica che non apparirà
mai nei manifesti del nuovo governo nazionale. Nel mondo ideale di quei
signori, un posto come questo non dovrebbe nemmeno esistere. Siamo una
distopia, un incubo, il peggiore dei mondi possibili. Ma il cibo ha un buon
odore, le risate e il caldo intorno a noi sono reali, e il rumore delle posate e
le chiacchiere sommesse in tutte le lingue del mondo hackerano la mia
programmazione, infrangono il mito in cui ho vissuto i primi quarant’anni
della mia vita. Guardo il viso intelligente di Albert, e non vedo più un negro,
non vedo più un pericolo. È come se i miei occhi avessero acquistato poteri
magici, che mi fanno vedere oltre le cose.
Poi di colpo realizzo che sto semplicemente guardando le cose come sono,
che sto vedendo la realtà, e che la mia non è una supervista, è una vista
normale: il problema è che prima non vedevo, o vedevo male.
«Non mangi pane?» chiede Elena ad Amir.
«Non mi piace molto.»
«Vuoi provare questo? È integrale. Fa bene.»
Il ragazzino ridacchia. «È brutto.»
Elena annuisce, sorridendo. «Sono d’accordo.»
«Però… Se dice che fa bene… Lo provo…»
Stacca un pezzetto di pane e se lo porta alla bocca. Mastica lentamente.
Alla fine fa una smorfia. Si vede benissimo che vorrebbe sputarlo, quel
boccone, ma si costringe a inghiottirlo.
«Adesso capisco…» fa.
Elena lo fissa, aspettando che finisca la frase.
«Adesso capisco perché voi europei avete invaso il mondo. Se questo era
il vostro cibo, avete fatto bene a cercare altri posti dove si mangia meglio.»
Non sentivo da tempo il suono della mia risata. È un bel suono.
Sono così stanco che potrei addormentarmi qui, la testa appoggiata sul
tavolo.
Albert mi racconta come ha fatto a trovare le targhe dei taxi. Si fa bello
come un pavone davanti a Elena, entrando nei dettagli della ricerca, degli
strumenti che ha usato, del tempo e della bravura che ci vuole per pulire il
segnale video, per interpolarlo. Qualunque cosa voglia dire. Guardo Elena,
intenta a non perdersi una parola del ragazzo, forse soltanto per cortesia,
perché Elena ha un’anima gentile. Ascolto con gli occhi la sua bellezza,
come se fosse una canzone.
Dopo cena, grazie ai poteri magici della mia chiave segreta, li porto in un
posto in cui nessuno di loro è mai stato, il terrazzo di Paris. Non so come mi
è venuta, l’idea. Sul momento, quando apro la porta metallica, non
capiscono dove siamo. Poi gli occhi si abituano al buio e la meraviglia del
cielo stellato che incombe su di noi li coglie, dando le vertigini. Lo so,
perché è l’effetto che ha fatto a me la prima volta.
«Oh…» bisbiglia Albert.
La Via Lattea è un fiume pallido che scorre attraverso il cielo. Le stelle
brillano fredde, e sembra che il vapore che esce dalle nostre bocche possa
raggiungerle, tanto paiono vicine.
La voce di Elena è un sussurro. «Dio, che meraviglia.»
Amir mormora qualcosa in arabo, con un tono colmo di meraviglia e
tremore.
«Ed è Lui che consacrò le stelle a voi affinché voi, in questo modo, poteste
essere guidati nell’oscurità della terra e del mare» traduce Albert. «È il
Corano. L’astrologia era importante, per la religione islamica.»
Per un attimo, a quelle parole, mi sembra che il tetto dell’edificio si
muova come una nave. Come se navigassimo sul mare della notte, guidati
dalle stelle.
Elena si stringe a me, il suo fiato caldo sul mio collo nudo. «È bellissimo.
Grazie, Sergio.»
Ci sediamo, la schiena appoggiata al parapetto. Fa freddo, quassù, ma non
ha importanza. Albert indica questa o quella stella e ne pronuncia il nome
arabo, che è uguale a quello con cui le chiamiamo noi, perché è stato il
popolo di Amir a dare alle stelle il nome che oggi usiamo.
Rimaniamo lì a lungo, seduti, immersi nel mistero del cielo stellato. Ci
raccontiamo storie, ci apriamo, ed è come se spaccassi una melagrana
estraendone la polpa. Le parole sono rosse, e tonde, e calde, raccontano la
storia della mia giornata, la storia del mio amore per una donna perduta
chiamata Krystyna Nowak, e solo io posso sapere se un dettaglio che
espongo appartiene davvero a quella storia o non è invece un detrito del mio
matrimonio, che forse non è un detrito ma una gemma purissima, solo che
avevo scordato quanto potesse luccicare, e ferire con i suoi bordi affilati.
Racconto di Lirosh, mostro il medio alzato e loro ridono, narro ai miei amici
i grandiosi dettagli della mia impresa, e mentre la racconto tutta l’epica si
sgonfia e si riduce all’aver steso al tappeto due sfigati e un servo e aver
schiantato contro un gabbiotto di plexiglas un’automobilina degna di Roger
Rabbit. Elena però ride, e Amir mi dà un cinque volante.
«Grande, capo!»
«Non sono il tuo capo.»
«Lei è un mito. Lo sceriffo di Al Qasr.»
«Di cosa?»
«Al Qasr! Al Qasr!» ripete il ragazzino, sempre più su di giri.
«Al Qasr vuol dire “la Fortezza”. È così che alcuni di noi chiamano questo
posto» spiega Albert. «Io lo chiamo Marte.»
«Bella fortezza. Siete a malapena tollerati. È come la casa di carta del
porcellino stupido. Basta un soffio e ciao ciao, viene giù tutto.»
«Siamo» mi corregge Albert.
«Eh?»
«Hai detto siete a malapena tollerati. Avresti dovuto dire siamo. Sei sulla
nostra stessa barca, vecchio.»
Amir annuisce, finendo di rollare un cannone.
«Ehi! Sei troppo piccolo per queste cose.»
Non mi ascolta nemmeno. Sorride, tira fuori di tasca uno Zippo. Una
lunga tirata, poi passa la canna a Elena. Nel buio, una stella rossa si accende.
Al suo riverbero, gli occhi della ragazza luccicano di una luce strana.
«Passa qua» fa Albert.
La mano di Elena gli allunga la canna e poi, sorprendendomi, s’infila nella
mia, stringendola forte. Il tocco delle sue dita, inatteso, mi apre una stella di
consapevolezza nella mano.
Il cielo si allarga, diventa una mappa.
Quando le sue labbra si avvicinano alle mie, apro la bocca e lascio che il
fumo della canna passi da lei a me. Le sue labbra sono calde, la sua lingua
incontra la mia. Che importa se il mio corpo, là in basso, non risponde? Le
nostre lingue giocano come cerbiatti giovani e impulsivi. C’è quel libro della
Bibbia, il Cantico dei Cantici. Carla una volta mi aveva portato a un festival
letterario, a Mantova. In una chiesa sconsacrata una ragazza leggeva brani di
quel libro, e io, sempre più stupito, l’ascoltavo parlare di animali e di
carezze, la sentivo tessere le lodi di un corpo di donna, e mi stupivo che cose
del genere fossero nella Bibbia, il libro su cui giurano i re e i dittatori.
Mia amata, sussurro dentro di me, mentre le mie mani accarezzano il viso
freddo della ragazza, incontrando sulla punta delle dita le sue lacrime, mia
amata, i tuoi occhi sono un pozzo di stelle. La tua bocca è un favo di miele
purissimo. Le tue gambe sono colonne d’alabastro che in altri tempi avrei
voluto solo allargare di forza per penetrarti, mentre ora, mia amata, mia
sconosciuta bellezza incontrata sotto il cielo stellato, tutto quello che voglio
è giacere con te in un letto, e attraversare con te la notte sulla barca del
sogno, attraversando questo mare di stelle.
Cazzo se è buona, questa roba, penso, quando Elena espira di nuovo
dentro di me, e la volta del cielo, già assurdamente enorme, sembra
allargarsi all’infinito.
27
L’urgenza dei nostri corpi è quasi una febbre. Le nostre labbra non
riescono a staccarsi se non per l’attimo indispensabile a respirare. Il mondo
fuori di noi cessa di esistere. I confini del mondo sono i nostri corpi che si
toccano, si incontrano. Per me è come il riaprirsi di una vecchia ferita, il
sangue che torna a scorrere.
«Elena, sai che non posso…» le sussurro, ma lei mi chiude di nuovo le
labbra con le sue, sigillando dentro di me il grumo di paura e vergogna che
ho dentro.
Mi prende per mano e mi fa alzare in piedi, come se stesse invitandomi a
ballare.
Arrossisco.
Lo sento, e non lo credevo possibile, alla mia età.
E poi è come quando voli in un sogno, quando ogni cosa si fa senza peso,
irreale. Attraversiamo i corridoi volando, non c’è altro modo d’esprimerlo, e
a ogni passo la forza di attrazione del suo corpo si fa più potente, lei è il nord
e io l’ago impazzito della bussola. Non siamo nemmeno entrati nella stanza
che divido con Albert e già i nostri corpi si gettano sul materasso. Chiudo la
porta con un calcio e lascio che lei mi spogli, e io spoglio lei, strappandole di
dosso il giaccone, sfilandola dai jeans stretti. Lei intanto fa lo stesso con me,
mi spoglia del tutto, mentre si tiene il maglione addosso, un maglione grigio
di una lana morbida, sotto il quale i capezzoli spuntano duri e netti. Le tolgo
gli slip e affondo il viso nel suo pube, bevendola, leccandola fino in fondo,
come se la mia lingua avesse preso il posto della cosa inutile e molle che mi
ritrovo tra le gambe. Le mie mani s’infilano sotto il maglione morbido e le
carezzano i capezzoli, li stringono. Sono cieco, il viso immerso fra le sue
cosce, vedo solo attraverso le mie dita e la lingua che comincia a darle
piacere: l’avverto attraverso i movimenti delle sue anche inarcate, sempre
più morbidi e lenti, e poi di colpo rapidi e potenti, finché il ritmo del suo
piacere non mi diventa chiaro e l’assecondo con mani e bocca, sentendola
infine esplodere sotto di me, come un’onda che unisce i nostri corpi
lanciandoli in alto e lontano.
Poi la tengo abbracciata, stretta a me, ascoltando il suo cuore battere
veloce. La copro, e copro anche la mia nudità, e sotto le coperte i nostri due
corpi compiono il miracolo incredibile di scaldarsi l’un l’altro. Non
parliamo. Non vedo il suo volto, perché mi dà le spalle. Accarezzo i capelli
sciolti, la guancia invisibile, le sue labbra. Lei mi mordicchia il dito, lo lecca,
lo tratta come farebbe con un pene eretto.
«Sicuro che?…» mormora, con una voce liquida e roca.
Io le prendo la destra e la poso sul mio grembo.
Lei accarezza il mio uccello, lo tiene fra le dita come un fiore.
«Mi dispiace.»
«Non dire niente» faccio, lasciando che le sue dita esplorino il mio cazzo,
lo scroto, il perineo.
«Ehi…» accenno una protesta, quando il suo indice s’infila nel mio ano e
penetra lentamente fino in fondo, cominciando a muoversi avanti e indietro.
Lei si volta verso di me, per continuare con più comodità quella manovra
che dopo il disagio iniziale comincia a procurarmi un’eco di piacere, anche
se misto a vergogna. Ma poi le sue carezze, e il calore della sua pelle, mi
fanno chiudere gli occhi, e mi abbandono a lei.
28
«Scusa…»
«Fai il ruttino come i bambini?»
«Mi è rimasto il succo di frutta sullo stomaco. Comunque ho chiesto
scusa, no?»
I nostri passi suonano molli e liquidi nella neve che si disfa sotto un cielo
passabilmente azzurro. Un azzurro color uovo di pettirosso, una tregua
destinata forse a durare, nello squallore di questo febbraio.
«Hai detto che hai un’auto. Dov’è?»
«Non è lontana.»
«Perché non hai parcheggiato alle Zattere?»
Elena si stringe nelle spalle. «Magari non voglio che sappiano che ho
un’auto.»
«Ma perché?»
«Ma così. Perché mi va.»
«Sei matta…»
«Sì. Siamo proprio una bella coppia di matti, noi due. Eccola.»
«Dove?»
«Là.»
È una Fiat 500 rossa, con la targa non più vecchia di un anno. Le auto
nuove, ultimamente, sono rare in città.
«Mi aspettavo qualcosa di diverso.»
«Perché, non ti piace?» fa lei, sulla difensiva.
«Non so. Non la trovo intonata con la tua personalità.»
«Perché, che auto vedevi, adatta a me?»
«Una Porsche Carrera. O una moto. Una Harley-Davidson. Ecco: una
Harley.»
«Lo prendo come un complimento. Dai, sali.»
Batto più volte gli scarponi per terra, liberandoli da neve e fango.
«Ehi, non farti tante formalità. Non hai visto quant’è sporca dentro.»
Per farmi salire raccoglie un mucchio di riviste, carte e libri dal sedile del
passeggero e li lancia di dietro. Alcuni planano sul sedile posteriore, altri per
terra.
Mi appoggia la sua tracolla militare sulle ginocchia. «Tieni qui.»
L’auto mi sembra ridicola. Piccola e troppo colorata.
Ma è così che va il paese, di questi tempi.
L’ultima cosa che avrei voluto trovarmi davanti al mio rientro alle Zattere
è la faccia incazzata di Aarif che urla: «Dove cazzo sei stato? Nadia ti cerca
da ore!»
«Vaffanculo. Dove sono stato? Sono stato all’inferno, va bene? Tu non lo
vuoi sapere, dove sono stato! Okay, padrone?»
«Ehi, dove credi di andare?»
«A farmi una doccia! Sei un medico, no? Allora questa ragazza ha
bisogno di te.»
«Può andare in un ospedale per quelli come lei.»
Mi fermo. Tenendo sempre Elena sottobraccio mi volto verso il siriano.
Lui fa mezzo passo indietro, ma non basta. Lo spingo con violenza contro il
muro dell’atrio. La faccia a due millimetri dalla sua. Lo spazio di una barba
di tre giorni. Il mio alito lo infastidisce visibilmente. Perciò mi avvicino
ancora di più.
«Quelli come lei? Proprio tu hai il coraggio di dire una cosa del genere?
Sono più di vent’anni che accogliamo in questo paese quelli come te. Ci
avete rubato il lavoro, avete impestato i nostri quartieri, spacciato droga ai
nostri ragazzi. Per colpa vostra siamo tornati alle condizioni sindacali di
cinquant’anni fa. Quindi sai che ti dico, dottore? Prenditi cura di questa
ragazza oppure io mi prenderò cura di te. E non ti piacerà per niente.»
«Tu…»
«Non una parola di più. Lo dico nel tuo interesse.»
Aarif incassa senza replicare. Guarda Elena.
«Sei ferita?» le chiede.
Lei scuote il capo. «Devo vomitare.»
Il pediatra alza la testa, cercando in giro. «Chandra! Ghaati! Portate una
coperta! Questa ragazza è sotto shock!»
Lo guardo. Annuisco.
«Bene. Dov’è, la Caragiale?»
«Da Albert.»
«Prenditi cura della ragazza, Aarif. Io vado a farmi una doccia. E poi vado
dalla Caragiale.»
C’era una volta una città linda e ordinata, di cui per un po’, fra parentesi,
sono stato l’eroe. Le industrie tiravano, degli immigrati manco te
n’accorgevi, perché le linee di montaggio ne chiedevano più di quanti ne
arrivassero. Un comico locale aveva ribattezzato la città «Ghana padano».
Poi l’economia è entrata in crisi, i ghanesi sono migrati nel Regno Unito,
lasciandosi dietro mutui non pagati, appartamenti all’asta, e l’odio degli
italiani rimasti senza lavoro e costretti a subire la presenza di quelli che
l’amministrazione di sinistra dell’epoca definiva «nuovi vicini di casa».
Succede dai tempi dell’antico Egitto, quando i bravi e buoni contribuenti del
faraone si trovarono a convivere con dei pazzi che parlavano una lingua
orribile, avevano abitudini alimentari e tabù incomprensibili e credevano ci
fosse un solo Dio.
La città elesse un’amministrazione di estrema destra, ma la paura non
calò. Anzi. Veniva alimentata dalla stampa e dalla propaganda, finché la
destra populista non assunse il controllo del paese.
«Molti di noi erano pronti a scappare» prosegue la Caragiale. «Avevamo
le valigie già fatte. E poi sai cosa successe? Niente. Niente di niente. Oh, sì,
proclami quanti ne vuoi. Manifestazioni, cortei, piazzate: una testa di maiale
davanti a una casa di islamici, articoli di fuoco sui giornali contro la
convivenza forzata e il meticciato, Soros e i centri di accoglienza, i poteri
forti… Ma la situazione rimase uguale. Nessuno venne a prenderci per
portarci in un campo di concentramento, nessuno ci schedò o ci cacciò. La
gente che si definisce normale continuò ad avere paura e a guardare con
speranza a destra, ma la situazione non migliorò né peggiorò. E sai perché?
Perché per qualcuno era un equilibrio ottimale. Qualcuno molto in alto.»
«Parli di Lirosh?»
«Più in alto. Lui è soltanto un tirapiedi. Il suo padrone è molto più
potente, e tira i fili del suo impero usando società controllate, amministratori
di comodo, fondi d’investimento e società off-shore. Ricicla i proventi delle
attività illegali di Lirosh e degli altri come lui. Sorveglia i suoi vassalli e i
nuovi arrivati, come la mafia russa e quella cinese, in modo che ci sia
prosperità per tutti, ma soprattutto per lui. Lirosh è un burattino. Più grosso
degli altri burattini, ma chi manovra i suoi fili sta parecchio più in alto,
invisibile.»
«Ma tu sai chi è.»
«Diciamo che dopo questo viaggio ho le idee più chiare.»
Nadia sorride. Si massaggia leggermente il viso stanco.
«Gli ultimi giorni mi hanno aiutato a capirti. A capire come sei messo,
con la memoria, voglio dire. Il fatto che hai delle zone d’ombra, delle parti
del tuo passato che ti sfuggono. La confusione temporale di cui mi ha detto
Chatta…»
«Tu lo chiami così?»
«Sì. Perché?»
«Io lo chiamo Gunga Din. E sua moglie Nandini, la Donna Trattore.»
«Piuttosto irrispettoso. Il dottor Chatterjee dice che il tuo cervello è come
un hard disk rovinato, in cui certe partizioni di memoria sono integre, mentre
altre hanno attinto a falsi ricordi, ricostruendo una realtà immaginaria.
Perché il nostro cervello ha bisogno di credersi integro.»
«Interessante.»
«Dice ad esempio che la bottiglia di vodka con cui saresti stato colpito è
frutto della tua fantasia. Che ti sei inventato la donna che ti avrebbe ferito
con quella bottiglia. E anche sua figlia. Dice che non sono mai esistite.»
«L’ha letto nei fondi di caffè?»
«L’ha letto sul tuo corpo. Dice che la ferita alla testa era appena stata fatta
quando ti abbiamo trovato, fuori dalle Zattere. Dove ti avevano abbandonato
per incolparci della tua morte. Poliziotto eroe caduto in disgrazia e ucciso
dalla feccia immigrata, cose così. Scommetto che qualcuno aveva già
l’articolo pronto. Invece siamo riusciti a nasconderti meglio di Anne Frank.
E a curarti. Anche se non abbiamo potuto restituirti la pienezza della tua
memoria.»
«Se la mia memoria ha dovuto inventarsi una bottigliata in testa per
rimuovere qualcosa di peggiore, mi sa che la lascio com’è, senza frugare
troppo.»
«Quando hanno capito che la cosa non aveva funzionato, loro hanno
gironzolato per un po’ qui intorno…»
«Loro…?»
«Loro. Alla fine devono essersi convinti che eri morto ma che eravamo
stati abbastanza furbi da rendere introvabile il cadavere. E ci hanno lasciato
in pace. Aarif ha fatto l’impossibile, con i mezzi che abbiamo, per salvarti e
rimetterti in sesto. E poi è arrivato come un dono dal cielo il dottor
Chatterjee, e oltre che del tuo fisico ha potuto prendersi cura del tuo
cervello. Eri conciato davvero male.»
«Perché l’avete fatto? Avrete preso le vostre informazioni su di me.
Sapevate chi ero.»
«All’inizio no. Non avevi documenti. L’abbiamo scoperto solo quando
abbiamo visto la tua foto sui giornali. Anche se la bottigliata in testa ha reso
un po’ difficile il confronto.»
«Sono tanto cambiato?»
«Ora no. Chatta ha fatto miracoli, con l’attrezzatura che ha. Ma nei primi
mesi eri praticamente irriconoscibile.»
«Quindi secondo il buon Gunga Din io mi sarei inventato tutto: Dolores,
la bottiglia di vodka… Maria Luz…»
«Sì.»
«Che cazzo di fantasia.»
«Tu e questa città siete uguali. Non conoscete la vostra vera storia, l’avete
ricostruita in modo sbagliato, ma solo perché questo era funzionale alla
vostra esistenza. Perché per vivere dovevate prima sapere chi siete, e dove la
realtà mancava avete tappato i buchi con la fantasia. Tu hai dilatato la realtà,
inventandoti una storia con una donna sudamericana che non è mai esistita.
Non c’è mai stata nessuna Dolores. E non c’è traccia di un tuo ricovero in
ospedale per una ferita alla testa, dice Chatta. Ti sei inventato tutto.»
«Visto che c’ero, avrei potuto inventarmi una storia migliore.»
«Le nostre fantasie sono a volte una chiave di lettura della realtà. Secondo
Chatta è tutto legato al trauma che hai subito, il trauma che ti ha quasi
ucciso. Tu ne hai rimosso delle parti, forse perché per te erano troppo
dolorose, e non riesci più a recuperarle. O meglio…»
«O meglio…?»
«Chatta dice che potresti recuperarle di colpo, con un nuovo trauma.»
«Tipo un’altra bottiglia in testa?»
«Non scherzare, Sergio.»
«Quindi la storia che ho cagato sul sedile della presidente…»
Nadia scuote la testa.
«Non sono mai stato cacciato dalla polizia?»
«Sì. Ma per motivi disciplinari. Avevi problemi di droga e di alcol. Oltre
che una tendenza a mettere le mani addosso ai sospetti. E non intendo solo
che li picchiavi. Gli infilavi anche la mano nelle tasche.»
«Sì. Va bene, okay. Questo me lo ricordo.»
«Quindi tecnicamente non eri un poliziotto quando ti hanno ridotto in fin
di vita e poi ti hanno scaricato sul tappetino di casa nostra, per incastrarci.»
«Ma che ero sposato, almeno quello non me lo sono inventato. Carla
esiste. L’ho incontrata pochi giorni fa. Ho visto quella che era casa mia.»
«Sì. Carla esiste.»
«Non so se esserne contento.»
La Caragiale sorride ancora una volta. È raro che lo faccia. È che io faccio
sempre questo effetto, alle donne.
«Tornando al mio viaggio a Istanbul…»
«Okay.»
«Ci sono grandi movimenti, intorno a questa città. Grandi potenze del
crimine internazionale che navigano al largo in attesa di sbarcare, o che ci
hanno già piazzato le loro teste di ponte.»
«Scusami se non rido. Qui? Stiamo parlando di questa città? Hiroshima
alla fine della guerra, al confronto, era una ridente metropoli…»
«Eppure…»
«Eppure cosa?»
«Eppure interessa molto. A diversa gente.»
«Ma perché?»
Nadia scuote la testa. «Nu am idee. Non lo so. Ma qualcosa dev’esserci.
Vorrei che tu lo scoprissi. È per questo che ti paghiamo.»
«A parte che nessuno mi ha mai pagato, pensavo di dover scoprire chi
ammazza le vostre ragazze.»
«La gente con cui ho parlato a Istanbul pensa che le due cose siano
collegate. Che ci siano attività illecite che riguardano la scomparsa di quelle
poverette.»
«Prostituzione?»
«Qualcosa di peggio.»
«Io sospetto di Lirosh. Secondo il rasoio di Occam…»
«Oh, santo cielo. Il rasoio di Occam… Anche tu… Chatterjee lo nomina
sempre… Penso che siate gli ultimi rimasti a sapere cos’è… Lascia stare
Occam, per piacere. Pensa invece a Heisenberg. La realtà non è più quella di
una volta. È fluida, mutevole. Ciò che è vero oggi non lo sarà domani. E
forse non lo è già nemmeno oggi…»
«Al liceo odiavo la filosofia.»
«Ma citi Occam. Quindi potrai anche averla odiata, ma la trovavi
interessante.»
«Comunque Lirosh Roshi è il primo nella mia lista dei sospetti.»
«E quindi non hai trovato niente di meglio da fare che andare a fargli una
scenata.»
«E lui ha reagito a modo suo. Mandandomi contro tre suoi scagnozzi.»
Nadia Caragiale scuote lentamente la testa. «Deduzione ovvia ma
sbagliata.»
«Non dirmi che quei tre non erano sul libro paga dell’Albanese.»
«No, non lo erano per niente. Anzi. Aarif ha fatto le sue indagini. La
cooperativa di taxi Mitropa è una società di comodo della mafia russa. Cioè
dei nuovi nemici di Lirosh.»
«Ma com’è possibile? Vado a trovarlo e subito tre suoi compaesani
cercano di farmi respirare dal culo e tu dici…»
«Che le due cose sono scollegate. Che non te li ha mandati contro Lirosh.
Fra l’altro, se li chiami compaesani dell’Albanese sei un gran coglione, oltre
che un razzista, e questo pazienza, si sapeva. Ma sei anche coglione. Sai
benissimo che erano bulgari, quei tre.»
«Strano. Non avevano per niente l’aria dei gioiellieri.»
La battuta sembra stonata a me per primo. Se potessi, me la ricaccerei in
gola, vedendo la faccia della Caragiale. «Lo so che erano bulgari, ovvio»
sorrido, allargando le braccia come un impresario che si scusa per un
numero mal riuscito. «Era solo per sdrammatizzare.»
Nadia sbuffa. «La prossima volta che ti fai prendere a bottigliate, vedi di
farti azzerare il centro dell’umorismo.»
Scuoto la testa perché non si veda che sorrido.
«Sicché mi stai dicendo che mi sono cacciato al centro di una guerra di
malavita…»
«Il problema è che hai cacciato anche noi in quella guerra.»
«E come possono avermi collegato alle Zattere?»
«Forse non l’hanno ancora fatto, ma è solo questione di tempo, quando
disponi, come loro, di risorse illimitate.»
«Quindi cosa facciamo? Smetto di indagare?»
«Al contrario. Ma cominci a puntare nella direzione giusta.» Poi grida:
«Albert!»
Il ragazzo entra nella sua stanza-laboratorio.
«Che coincidenza. Stavo giusto arrivando.»
«Non dire stupidaggini» fa la rumena. «È da dieci minuti che origli da
dietro la porta.»
Il ragazzo fa una smorfia. Forse arrossisce, ma con il colore della sua pelle
tutto l’effetto si perde.
«Ho bisogno di te. C’è una cosa che voglio far vedere a Sergio. Quello
che hai trovato stamattina.»
«Ma…»
«Mostraglielo.»
«Sei sicura?»
«Sì.»
Come diceva il Replicante: «Io ne ho viste cose che voi umani non
potreste immaginarvi.»
Compresi i film che ho trovato sul tablet che era nella mia stanza, al mio
risveglio. Il tablet cinese che non ricordo di aver mai comprato, che non
riesco a dire mio, anche se solo io conosco la password per aprirlo, quindi
dev’essere per forza mio. Il tablet che è nella mia stanza. Ma se sono arrivato
qui alle Zattere metaforicamente nudo come Adamo, senza uno straccio di
documento e con più sangue sui vestiti che nelle vene, allora perché avevo
quel tablet nella tasca del giaccone?
Quei film che evidentemente avevo scaricato dalla rete mi avevano
sconvolto.
Ma non erano niente in confronto a quello che sto guardando ora.
Lo schermo Sony da non so quanti pollici mostra una scena girata con
grande professionalità. Le luci sono perfette, le riprese stabili. Niente a che
vedere con i film porno in vhs della mia adolescenza. Perché questo
dev’essere un film porno, non so cos’altro potrebbe essere, dato che la
ragazzina è nuda. Ma di solito nei film porno l’attrice sorride e fa mille
moine, anche quando si prepara a prenderlo nel culo o peggio ancora,
almeno secondo me, quando deve prendersi in bocca e succhiare un cazzo
appena uscito dal suo culo.
No.
Questa cosa è diversa.
La ragazzina non sorride. Per niente. Ha paura. Lo vedi, anche perché chi
manovra la macchina da presa sembra cercarla, quella paura, sembra volerla
accentuare.
E poi non parla. Di solito, in questi film, gli attori parlano, facendo i fighi,
e le donne cercano di essere sexy, o ingenue, sgranano gli occhioni
chiedendo «Really?» o «Oh my God, it hurts»…
Invece la ragazzina dalla pelle scura cerca di coprirsi i seni e la faccia, ma
i suoi movimenti sono goffi, sembra ubriaca. Gli occhi sgranati dalla paura.
Intorno a lei ci sono candelabri con lunghe candele nere e incensieri.
«Mando avanti?» fa Albert, a voce bassa come se fosse in chiesa.
«Sì» risponde la voce di Nadia Caragiale, da qualche parte nel buio della
stanza, dove l’unica luce proviene dallo schermo, ed è una luce crudele come
quella di una lampada fulminazanzare.
Le immagini accelerano, scorrono veloci, poi si fermano di nuovo. La
ragazzina è immobilizzata. Quattro paia di mani le tengono ferme le braccia
e le gambe, su una vecchia porta posata sul pavimento.
Poi in primo piano appaiono altre due mani, che reggono un martello da
muratore e un lungo chiodo arrugginito.
Non c’è audio. Se ci fosse, si sentirebbe la ragazzina mediorientale
gridare, chiamare aiuto nella sua lingua. Invece c’è una canzone. Wrecking
Ball, di Miley Cyrus.
Il chiodo viene puntato sul polso della ragazzina. Il martello vi si abbatte
sopra. Il corpo scuro s’inarca e ricade. Un rivolo di orina sgorga tra le cosce
martoriate, coperte di graffi e morsi. La telecamera lo cerca, quel rivolo,
insiste, zooma.
Un secondo chiodo.
Un colpo del martello sbaglia e spezza due dita della mano sinistra della
ragazza. Il martello cala di nuovo. Poi è il turno dei piedi. Il sangue schizza
sulla porta, sui candelabri, sulle candele nere.
Quando hanno finito di crocifiggere la ragazzina, la porta viene sollevata.
La ripresa ha qualche incertezza, tremola, va fuori fuoco per un paio di
secondi.
Non ci sono tagli, o stacchi. Tutto questo è un terribile piano sequenza.
«Potete spegnere?» chiede la mia voce, da qualche parte nel buio.
«No.»
Il corpo nudo è giovane, adolescente. Un corpo su cui schizzano getti di
sperma, prima che entrino di nuovo in azione le lame.
E poi, molto tempo dopo, troppo tempo dopo, una motosega, che stride
come l’urlo di caccia di un animale preistorico.
Per arrivare alla stanza che Rabo cerca, dobbiamo attraversare tutto il suo
palazzo della memoria, salendo verso l’alto attraverso un sistema di scale e
corridoi che non ci fanno mai passare per le parti comuni dell’edificio. Un
visitatore del palazzo che non avesse le chiavi per entrare nei singoli
appartamenti non noterebbe nulla di strano, a parte il fatto che sulle targhette
del campanello ci sono sempre e soltanto le due iniziali R e M.
Mi dico che se questo palazzo avesse le pareti di vetro come un terrario e
potessimo guardarlo dall’alto ci vedremmo muoverci come nelle
circonvoluzioni di un organo interno. Un intestino.
O un cervello.
Questo edificio è la memoria di un essere umano.
Ammesso che Rabo Mishkin possa dirsi tale.
«Eccoci qui!» esclama, facendoci strada in una stanzetta piccola, quasi
uno sgabuzzino cieco.
Dentro c’è un’apparecchiatura che non riconosco. Lorenzo Vidal invece
va a toccarla, entusiasta. «Un lettore di microfiches! Ma è vecchissimo!
Dov’è che l’hai scovato? Roba del genere non si trova certo nei mercatini
dell’antiquariato!»
«Dio maledica quei mercatini del cazzo. Non ti fa male, vedere esposti su
una bancarella oggetti che hanno una storia, che hanno catalizzato i
sentimenti di persone che non ci sono più? Quando prendi in mano una
tazzina non pensi a chi l’ha usata, avendone riguardo, stando attento a non
rovinarla? E adesso è lì su un bancone, in mezzo a cianfrusaglie e cose
preziose, magari vicino a una catenina della prima comunione o a una
decorazione militare di una guerra di cui nessuno si ricorda più. Non ti fa
schifo, la nostra incapacità di seppellire gli oggetti assieme ai morti, perché
appartengano soltanto a loro?»
Si ferma, come se fosse stupito di quanto ha appena detto.
«Dove l’ho presa, mi hai chiesto? Ma è ovvio, l’ho rilevata dalla
biblioteca pubblica, quando hanno cambiato i loro sistemi di archiviazione.
Con l’occasione mi sono fatto dare anche la loro collezione di microfiches,
visto che ne avevano già digitalizzato il contenuto. Ci sono cose incredibili.
Come i numeri del Piccolo di Trieste della primavera del 1945. Dovresti
leggerli! Erano composti da pochissime pagine… la carta scarseggiava… Le
foto dei partigiani impiccati nel cortile interno del tribunale stavano accanto
alla recensione di un’operetta… Ricordo un numero in cui l’allenatore di una
squadra di calcio tedesca presentava il calendario del campionato 1946 del
Reich, con squadre di città che erano già state da tempo occupate dagli
Alleati o dai sovietici… Roba da fantascienza… da mondi paralleli…»
Rabo traffica con le bobine polverose, finché non trova quella che cerca.
La inserisce nel lettore, facendo scorrere le immagini, che avanzano a
scatti, ogni foto un concentrato di pagine. Finché non trova quella che cerca.
Regola la nitidezza, poi zooma.
«Eccoli» fa.
Il titolo in prima pagina illustra l’arrivo in città dei primi dodici ingegneri
danesi e svedesi venuti a lavorare al reparto Innovazione della Zetart.
1º ottobre 1979.
Il primo Drakar dai fiordi titola il quotidiano, equivocando sulla vicinanza
tra Svezia e Norvegia.
Mi avvicino al lettore di microfiches.
Nell’articolo sono nominati i primi «coloni vichinghi». Scorro i nomi
velocemente fino a fermarmi su un Ingersen. Solo che non si chiama Lars
ma Niels. E ovviamente non è il matto rinchiuso alle Zattere.
«Mmm» mugugna Rabo. «Escluso che tra i due Ingersen non ci sia un
legame di parentela… Ora bisogna solo scoprire quale. La loro storia. A
memoria non mi viene in mente nulla. Nessuna menzione di quel nome sulle
gazzette locali. Però posso fare degli approfondimenti. Datemi un po’ di
tempo.»
Si guarda il polso, alla ricerca di un orologio che non c’è. Poi afferra la
mia mano e consulta con una smorfia disgustata il mio simil-Casio.
«Adesso dovete andarvene. È tardi.»
«Ma quello che ci ha raccontato è una cosa folle» faccio.
Rabo scuote la testa.
Sorride.
«Se quelle degli erevoniani vi sembrano follie, cosa mi dite di un gruppo
che da anni si riunisce, qui in città, il martedì e il giovedì sera, per rovesciare
il governo usando l’effetto Mandela?»
Mi fissa, cogliendo la perplessità nel mio sguardo.
«Lo sapete, vero, cos’è l’effetto Mandela?»
«No.»
«Allora lasciate che vi faccia un paio di domande. Come e quando è morto
Nelson Mandela?»
«Qualche anno fa, dopo essersi dimesso da presidente del Sudafrica»
risponde.
«Non in carcere negli anni Novanta?»
«Ma no.»
«Bene. Adesso rispondi a un’altra domanda. Hai presente C-3PO?»
«Cosa?»
«Il robot spilungone di Star Wars. Nella versione italiana era chiamato Ci
Tre Pi O.»
«Ah, quello. Sì che l’ho presente.»
«Di che colore è?»
«Dorato.»
«Tutto dorato?»
«Sì.»
«E se ti dicessi che quel robot ha una gamba argentata?»
«Ti risponderei che non è così.»
Rabo afferra il cellulare dalla mano di Vidal, che stava digitando un
messaggio. Con le sue dita enormi compone alcune parole sulla tastiera
virtuale.
Poi volta il cellulare verso di me.
Sullo schermo appaiono diverse foto del famoso robot di Star Wars.
In tutte ha una gamba in parte argentata.
«Ma che razza di scherzo…» sussurro, ma Rabo mi fa segno di star zitto.
«Altra domanda. L’omino del Monopoli. Descrivilo.»
«Ma che cazzo…»
«Per favore.»
«Ha il cilindro. I baffi. Il monocolo.»
Rabo scoppia a ridere.
Batte sullo schermo del cellulare come se volesse distruggerlo. Lo
schermo si divide a mostrare sei foto del personaggio simbolo del Monopoli.
«Nessun monocolo» indica Rabo. «E potrei andare avanti a lungo. Le
bretelle di Mickey Mouse. Il logo della Volkswagen, o della Volvo. Li
ricordiamo in un modo, e quando andiamo a verificare se quanto ci dice la
nostra memoria corrisponde alla realtà, a volte scopriamo che non è così.
Che Topolino non ha le bretelle, e che l’omino del Monopoli non ha il
monocolo. L’effetto Mandela è questo. C’è chi dice che è prodotto dal
passaggio in un universo parallelo, a causa degli esperimenti al Cern di
Ginevra. Qualcuno dà la colpa a dei viaggiatori nel tempo che starebbero
cambiando la nostra storia, ma lasciandosi dietro qualche traccia del mondo
che hanno cambiato. Si chiama effetto Mandela perché un’americana, Fiona
Broome, un giorno chiese a un gruppo di amici se si ricordavano della morte
in carcere di Nelson Mandela. Perché lei se la ricordava. Niente
maxiconcerto di Wembley al grido di «Mandela Free!», niente liberazione,
niente presidenza del Sudafrica libero dall’apartheid. Il meme si diffuse…»
«Il che?…»
«Il meme. È un contenuto – una foto, una frase, un concetto – che diventa
virale. Attraverso la condivisione raggiunge così tante persone, che a loro
volta lo condividono, da imporsi come reale. L’effetto Mandela sta
conquistando sempre più spazio in rete. Così qui in città è nato un gruppo
che si riunisce due volte a settimana per discutere come se certe cose non
fossero mai avvenute.»
«Non capisco. Quali cose?»
«Essenzialmente la salita al potere della destra populista in Italia. Nelle
loro riunioni, gli appartenenti a questo gruppo hanno cominciato a parlare di
un nuovo leader della sinistra, e a mano a mano che ne discutevano
aggiungevano dettagli, riportavano discorsi che dicevano di aver sentito alla
radio, o letto sui giornali. Finché alla fine non sono riusciti a convincersi che
questo leader esiste davvero. Ora stanno pensando di esportare il meme al di
fuori del gruppo di discussione, per vedere se attecchisce sul web.»
«Ma non capisco a che scopo. Se questo leader non esiste…»
«Loro pensano che se abbastanza persone si convincono che esiste, lui
esisterà.»
«Bella manica di matti.»
«Già. E il più matto di tutti è il loro capo. Cioè io. Ora, se volete scusarmi,
devo andare, perché ho lezione di pilates.»
Lorenzo fa una smorfia. «Pilates? Tu? Vuoi scherzare?»
«Mai stato più serio. Via, via, adesso! Lasciatemi solo, che devo
prepararmi! Ti chiamo io quando so qualcosa! Raus! Via!»
E senza tanti riguardi ci caccia fuori dall’edificio.
Dal suo palazzo della memoria.
35
Non so che ore siano. Il mio Casio tarocco ha smesso di funzionare dopo
la terza volta che sono inciampato e caduto nella neve. Malgrado la scritta
WATERPROOF il vetro all’interno è umido, i led spenti. Avrei potuto chiedere
l’ora a un passante, ma la gente che ho incontrato per strada dalla periferia
della città a qui si scansava e fuggiva quando mi avvicinavo, come se fossi
uno zombi. In effetti, specchiandomi nella vetrina buia di un fiorista, ho
dovuto constatare che il mio aspetto non era dei migliori. Il mio volto pallido
riflesso dal vetro, sospeso fra mazzi di rose e composizioni floreali,
sembrava quello di un morto. O meglio, di un non-morto.
Quindi non so che ore siano quando mi presento alla porta dell’unica
persona a cui posso chiedere aiuto, a quest’ora di notte.
Suono il campanello due, tre volte.
Un ronzio elettrico.
Poi la sua voce.
«Chi è?»
Sussurro qualcosa nella griglia, grato che il veto ostinato di un condomino
abbia impedito la sua sostituzione con un videocitofono.
«Chi è?» ripete la voce, con un tono più stizzito.
«Carla, sono io. Aprimi.»
«Sergio?»
«Sì.»
«Sei pazzo? È l’una di notte. Vattene!»
«Carla…»
«Vattene o chiamo la polizia.»
«Sono ferito…» biascico come un ubriaco.
Silenzio.
Poi lo scatto dell’apriporta.
«Se è uno scherzo ti ammazzo.»
Che non sia uno scherzo lo vede appena mi apre. Impallidisce, facendo un
passo all’indietro.
Poi si riprende, e sgancia il fermo di sicurezza della porta blindata.
«Dio, come sei ridotto…»
Trascino i piedi doloranti sul parquet in tek che abbiamo scelto insieme,
nello studio dell’agenzia immobiliare, quando lo spazio in cui mi muovo era
solo un rendering al computer.
Sto per dire qualcosa, ma in quel momento il pavimento balza da terra
come una belva, saltandomi addosso senza preavviso.
Prima che batta la testa a terra, Carla arresta la mia caduta prendendomi
fra le braccia.
È sempre stata forte, mia moglie.
Mi sveglio sul parquet, ma non è un brutto risveglio, perché c’è il
riscaldamento a pavimento, e sotto la mia testa c’è un cuscino morbido. Ho
anche una coperta addosso per tenermi caldo. O per nascondermi.
La tiro verso di me, guardando in basso, nella luce tenue della lampada
alogena regolata al minimo.
Non ho più gli scarponi, e ai piedi qualcuno mi ha infilato dei calzettoni
rossi molto morbidi e caldi.
«Grazie» sussurro, non so bene a chi.
«Figurati» risponde Carla. Sposto lo sguardo verso il punto da cui viene la
voce. La mia ex moglie è rannicchiata su quella che era la mia poltrona
preferita. Indossa una vestaglia trapuntata, e ha in mano una tazza di
qualcosa di caldo e aromatico.
«Cioccolata» fa. «Immagino sia stato il suo profumo che ti ha svegliato.
Ne vuoi una tazza?»
«Sì.»
Le sue lunghe gambe emergono da sotto la vestaglia. Si posano a terra, in
modo che lei possa portare il suo corpo da indossatrice verso la cucina, dove
la sento tramestare un po’ prima che torni in soggiorno. Carla s’inginocchia
accanto a me, porgendomi l’elegante tazza yohen fumante dalla quale emana
il profumo più allettante che abbia mai sentito.
«Aspetta. Non ti muovere.»
Un altro cuscino viene infilato sotto la mia testa, in modo che possa
rialzarla abbastanza da bere comodamente.
«Piano che scotta.»
Obbedisco, come un bravo bambino.
Mi guardo intorno. «Sei sola?»
«Capita.»
«Con me non capitava.»
«È vero. Anche se a volte sarebbe stato meglio.»
Manda giù un sorso dalla sua tazza.
Io faccio lo stesso.
Il silenzio dura abbastanza perché i due o tre neuroni che mi sono rimasti
imbastiscano un «grazie».
«Smettila. Non sei abituato a ringraziare. Ti verrà il mal di testa.»
«Sono già a posto, con quello.»
«Che ti è successo? Un incidente d’auto?»
«Qualcosa del genere.»
«Avevi i piedi praticamente congelati. Ti sembra una buona idea
camminare nella neve con quegli scarponi cinesi?»
«No.»
«Ti sono venute anche le piaghe, ai piedi. Te le ho pulite e disinfettate, ma
dovresti farti vedere da un medico.»
«Lo farò.»
Mi guarda a lungo. Io ricambio. Un tempo, come due ragazzini,
giocavamo a guardarci negli occhi. Il primo che rideva, o che voltava la testa
per non ridere, aveva perso. La battevo sempre, perché mi avevano insegnato
un trucco. Non devi fissare gli occhi. Devi guardare la radice del naso.
All’altro sembra che tu lo fissi, ma non è così. Carla era sempre la prima a
distogliere lo sguardo.
Ma è diventata brava.
Sono stato io il primo a muovere la testa, a piegarla di lato.
«Fatti una doccia, Sergio. Io intanto ti preparo un pigiama pulito per la
notte.»
«Posso fermarmi?»
Sorride. «Se fossi venuto qui solo per parlare, ti avrei cacciato fuori a
calci. Anzi, non ti avrei nemmeno fatto entrare. Ma messo come sei mi
sembrerebbe una crudeltà buttarti fuori. Puoi dormire sul divano. Ma solo se
ti fai una doccia. Puzzi come una pattumiera.»
«Che genere di pattumiera? Per cosa?»
«Umido» sorride, alzandosi. «Riciclabile. Forse.»
Mando giù l’ultimo sorso, sapendo che la nostra breve tregua sta per
finire.
Infatti.
«Chiedimi perché non ti ho lasciato fuori dalla porta, ieri notte» fa Carla.
Sospiro. «Perché non mi hai lasciato fuori dalla porta, ieri notte?»
«Per lo stesso motivo per cui quella volta ho accettato di difendere
Roberto Mora. E non fare quella faccia.»
«Non ne abbiamo già discusso abbastanza?»
«Non direi che ne abbiamo discusso. Abbiamo litigato. È diverso.»
«Riesco a incastrare quel pezzo di merda con un lavoro di mesi e tu, mia
moglie, proprio tu accetti di difenderlo. E lo fai anche assolvere.»
«Be’, avevate fatto un lavoro di merda con le prove. Il punto non è questo.
È perché ho accettato quel caso.»
«A parte i soldi. Se non ricordo male, credo che quello schizzo di Matisse
sulla parete abbia a che fare con la tua parcella.»
«Touché. Ma no, in realtà non l’ho fatto per i soldi.»
«E allora perché? Perché hai tenuto fuori dalla galera un pezzo di merda
del genere, che meritava di restarci per sempre e anche di più?»
«Mi ha incuriosito la sua faccia.»
«La sua faccia…»
«Sì. Era la faccia di uno che si porta dentro qualcosa di grande e terribile.»
«Addirittura. Roberto Mora.»
«Sì.»
Assaggio il succo d’arancia, più che altro per impedirmi di fare commenti
di cui poi mi pentirei.
Buono, ovviamente. Probabilmente il succo d’arancia più buono che puoi
gustare fuori dal paradiso terrestre. Amorevolmente spremuto dalle mani di
questa donna bellissima che mi tratta come un essere umano, o forse da
qualche apparecchio elettrico così elegante da far sembrare rozzo un iPhone.
«Perché sorridi?»
«Perché il succo è buono.»
«Non me la racconti giusta, Sergio.»
Scuoto la testa, pentendomene immediatamente.
«Okay. No, è che pensavo che mi stai trattando come un essere umano.»
«Non farmi più cattiva di come sono.»
«È che ultimamente, e per ultimamente intendo gli ultimi anni, sono stato
trattato come un cane.»
«Capisco. E immagino che secondo te questo non abbia niente a che fare
con il tuo comportamento.»
«Okay, certo. È ovvio. La vecchia legge del Gigo.»
«Di chi?»
«Di cosa. Gigo. Garbage In, Garbage Out. Antica saggezza dei
programmatori informatici. Se mi comporto da stronzo non posso aspettare
che gli altri si comportino diversamente con me.»
«Ah. Capito. Non vorrei sembrarti scorbutica, ma tra un’ora ho
un’udienza e devo ancora truccarmi. Mi piacerebbe quindi che arrivassimo
al punto. Mi hai chiesto perché non ti ho lasciato fuori dalla porta ieri notte.»
«Mi hai detto tu di chiedertelo.»
Carla sbuffa. «Cazzo. È impossibile parlare con te. Grazie per avermi
ricordato perché non ti sopportavo più. Comunque quello che volevo dire,
maledetta la tua mania di interrompermi e di cambiare argomento, è che ti ho
fatto entrare perché avevi l’espressione di uno che non ha un altro posto
dove andare. Sembravi un bambino abbandonato. Mi hai fatto…»
«Pietà?»
«Tenerezza. Mi hai fatto tenerezza. Hai il culo di avere quello sguardo che
disarma una donna. Quel modo di fare che stimola i peggiori istinti
femminili: il senso materno, la voglia di proteggere…»
«Senti…»
«Lasciami finire, Sergio. La tua espressione mi ha praticamente costretto
ad aprirti. E poi stamattina, svegliandomi nel mio letto e sapendo che non mi
ci ero infilata da sola, la prima cosa che ho pensato è stata…»
«… chi è l’angelo che mi ha portata qui…?»
«No. È stata: ho chiuso a chiave la porta? E poi mi sono resa conto di
colpo che tu eri qui in casa con me, e allora sono finita in una confusione
totale.»
Finisco il succo. Interromperla sarebbe una pessima mossa.
«Malgrado quello che puoi pensare, io non ti ho mai odiato. O
disprezzato. Le donne non sono così. Le donne amano. Voi maschi scopate,
forse a volte anche sì… be’, magari anche vi innamorate, ma è sempre e
comunque il vostro cazzo a guidarvi. Per noi donne è diverso.»
«Sì, figuriamoci.»
«Sì, figuriamoci. Proprio.»
Si alza in piedi. Si passa una mano tra i capelli lunghi e morbidi, un gesto
che fa quando è nervosa. Non posso fare a meno di notare che sono
assolutamente perfetti, come tutto del resto, in lei.
«Due cose devo chiedertele. Poi sta a te decidere se rispondermi o meno.
La prima è dove vivi adesso.»
«Questo è un po’ complicato da spiegare. Comunque vivo alle Zattere.»
«Tu?»
«Sì, io.»
«Alle Zattere.»
L’espressione sulla sua faccia è di incredulità assoluta.
«In mezzo alla gente che disprezzi? Cristo, è come se mi dicessi che vivi
all’inferno.»
«In realtà non fa così caldo.»
«Ma quel posto è l’opposto dei tuoi ideali, se posso chiamarli così. Delle
tue idee, insomma.»
«Lo so, ma non ho avuto scelta.»
«Mi sembra incredibile. Sergio Stokar alle Zattere. Come ci sei finito?
Pensavo ti fossi trasferito all’estero. Mi dicevo che forse eri tornato in
Inghilterra.»
«Non c’è niente per me, lassù. Come non c’è nemmeno qui, se è per
questo. Ma qui ci sono già e non ho spese di viaggio.»
«Non rinunci mai alle battute.»
«Mamma mi ha fatto così.»
Un’ombra di tristezza le passa davanti agli occhi.
«Mi è dispiaciuto, per lei, sai. Era una brava donna.»
«Non proprio, ma aveva le sue giornate buone. Alti e bassi, diciamo.»
«Credo che i suoi funerali siano stata l’ultima volta che ti ho visto.»
«Non so. Io non ricordo di averti vista.»
«Non mi meraviglia. Eri fatto come una zucca. Anche al di là dei tuoi
standard abituali. A proposito, chi era la donna con te?»
«Non ne ho idea. Com’era fatta?»
«Scura di pelle, piccolina. Sudamericana, penso.»
«Dolores. Allora non me la sono sognata.»
«Be’, Dio, se dovevi proprio sognare una donna potevi sognartela un po’
meglio.»
«No, be’, è una cosa più complicata.»
E prima che riesca a inseguire e placcare a terra la mia linguaccia le sto
già raccontando tutto, compresa la parte più dura.
Krystyna Nowak.
«Non posso dire che mi dispiaccia per lei. Ho letto la notizia sul giornale e
quello che ho pensato è stato: puttana, ti sta bene.»
«Tecnicamente lo era. Una puttana, voglio dire. Ma che le sia stato bene
quello che le è successo, no, questo non lo devi dire. Krystyna…»
«Ti spiace non nominarla? L’hai già fatto due volte. La terza non so se la
sopporterei. Non è che ho proprio metabolizzato tutto.»
«Lei non è stata l’unica vittima, Carla. Solo l’ultima. E ieri stava per
toccare a me.»
Le racconto delle ragazzine torturate e uccise, dei tre tassisti bulgari e dei
russi. Di quello che qualcuno sta combinando con la mia memoria.
Lei sgrana gli occhi, incredula. «Il dottor Chatterjee? Non riesco a
immaginare che parliamo della stessa persona. Quello che conosco io è un
uomo fantastico.»
«Direi che un’omonimia è da escludere.»
Carla riflette a lungo. Poi va a prendere il suo iPhone rosa. Compone un
numero senza quasi guardare la tastiera sullo schermo.
«Giorgio? Ciao. No, non sono ancora arrivata. Senti, dovresti farmi un
favore. Oggi avrei udienza fra…»
Controlla l’ora sull’orologio appeso alla parete, un oggetto assurdo, una
specie di scultura barocca con due angioletti paffuti che volano su una città
bombardata. Le ali dei due angeli segnano ore e minuti, ma lo capisco solo
dopo un po’.
«… fra un quarto d’ora, ma non mi sento per niente bene. Proprio mi sono
svegliata uno straccio. Tu fra un’ora hai la successione Candotti, non ti
dispiacerebbe mica comparire in udienza al mio posto per la Barbarigo? Sì,
ruolo civile, certo. Aula sette, con quell’apoteosi del niente di Trentin. Poi
alle dieci ho le cause vere, ma per allora mi sarò ripresa abbastanza da
venire. No, tranquillo. Allora conto su di te… Davvero? Saresti
incredibilmente carino. Chiedi un rinvio breve. D’accordo. Sei un angelo.
Besos.»
Chiude la conversazione.
«Besos?…»
Alza le spalle. «Un ragazzo giovane dello studio. Orgogliosamente gay,
prima che tu ti metta in testa idee strane.»
La guardo.
Mi guarda.
«Grazie» sussurro.
«Non c’è di che. Ora però mi racconti tutto.»
«Okay. Prima però mi dici come hai fatto a comprare quell’orrore?»
Segue il mio sguardo fino all’orologio.
Alza le spalle.
«Quello? L’ha comprato Seba. È un Langewiesche.»
«Lo facevo più tipo da Patek Philippe e Vacheron Constantin.»
«Sciocco. Langewiesche non è la marca dell’orologio. È lo scultore. Ha
esposto all’ultima Biennale.»
«Ah. Ho notato che il comodino… Be’, quello che non è il tuo, è piuttosto
spoglio.»
Mi sembra di cogliere un accenno di rossore sulle sue gote.
«Non sono affari tuoi, direi. Comunque Seba è un uomo molto impegnato,
soprattutto da quando è entrato in politica.»
«Lasciami indovinare: con Italia in marcia.»
«Ma sei scemo? Guarda che Seba è un progressista.»
«Ed è riuscito a farsi eleggere?»
«Per un pugno di voti ma sì. Con Sinistra sostenibile.»
«Alla sua età.»
«Smettila di essere ingiusto. È un uomo corretto e rispettoso.»
«Come tuo padre. O tua madre. No, lei non era un uomo, in effetti.
Comunque hai capito cosa voglio dire.»
«Ho paura di sì.»
«È troppo vecchio per te, Carla.»
«Fatti gli affari tuoi. E poi scusa, non era tuo compagno di classe?
Piuttosto, questa storia delle medicine che ti danno, e di questa strana
terapia… Vorrei che ne parlassimo con qualcuno che s’intende di queste
cose. Sei libero, oggi pomeriggio?»
Fingo di concentrarmi. «Aspetta che controllo la mia agenda. No, credo
proprio di non avere altri impegni.»
«Quando torno dal tribunale ti porto da una mia amica che fa la
psicoterapeuta.»
«Fantastico.»
«Tu però non ti muovi di qui.»
«Non posso. Devo continuare le indagini.»
Lei lancia un’altra occhiata disperata all’orologio. «Senti, Sergio, devi
smetterla con questa storia delle indagini. Non sei più un poliziotto. Non hai
nessuna autorità. E ti stai cacciando in un mare di guai.»
«Non hai idea di quanto» faccio. E le racconto del mio incontro
ravvicinato con Sua Maestà Alemanno Ferrari. Per la prima volta mia moglie
– la mia ex moglie – sembra avere una reazione normale. Impallidisce.
«Qualcosa mi dice che avrei fatto meglio a lasciarti fuori dalla mia porta,
ieri notte. Ma niente. Devo essere proprio stupida.»
Scuotendo la testa esce dal soggiorno. Quando ritorna, dieci minuti dopo,
è vestita in modo impeccabile. Il tailleur elegante, la borsa in cuoio di papà,
che non era avvocato ma medico, pazienza.
Si avvicina. I suoi tacchi alti scandiscono i secondi. Guardandola mi
sembra che il tempo accordi il suo battito sul metronomo di quei passi.
Poi sorride. Studia la mia brutta faccia, con le sue cicatrici e le sue rughe.
«Hai presente quello sceneggiato con Tom Hardy? Taboo?»
«No.»
«Be’, lui è un figo incredibile, anche quando ha la faccia sfigurata dai
pugni.»
La guardo senza capire.
«Certo che sei proprio stupido» sospira.
Scuote la testa. «In frigo trovi da mangiare. Non mettere il naso fuori di
qui. Torno appena posso. Ah, un’ultima cosa.»
«Dimmi.»
Esita. Si morde le labbra.
«Alemanno…»
«Sì?»
«Ho avuto una storia con lui, qualche tempo fa. Niente di serio. Sai, una
cosa tipo una botta e via. Be’, un po’ più di una. Sai com’è, l’ambiente è
piccolo, ci si rivede sempre tra le stesse persone, e una cosa tira l’altra.
Prima o poi, in certi giri…»
«Tutti finiscono a letto con tutti. Lo so.»
«Tu sei più esperto di me, in queste cose.»
«Immagino che questo cambi tutto.»
«E dai, non farmi l’offeso, Sergio. Siamo divorziati da quasi due anni.
Non c’era più il patto di esclusiva. Non che tu l’abbia mai rispettato.
Diciamo che mi hai reso le cose molto più facili.»
«E il tuo avvocato? Lui non è geloso?»
«Siamo tutti e due adulti e vaccinati.»
Carla cerca di superare l’imbarazzo usando un tono leggero. Ma non è mai
stata brava in questo genere di cose.
«Non so se sentirmi più offeso o più in pericolo.»
«Se vuoi sentirti offeso accomodati. Casomai ti do qualche dritta su come
ci si comporta in questi casi. Su come ricostruire il tuo orgoglio quando chi
ami te lo rade al suolo. Sei stato un’ottima scuola, per queste cose.»
«Non occorre che giri il coltello nella…»
«No. Aspetta. Zitto e ascolta, Sergio. Zitto un attimo. Sono quasi sicura
che mi amavi, a modo tuo, che poi per te è l’unico modo che conta. Sono
certa che nel disordine della tua vita hai visto in me la donna in grado di
curarti. Se non è stato così è colpa di entrambi: di te che ti sei fatto troppe
illusioni e di me che non sono stata in grado di darti quello che cercavi. Ma
finché siamo stati insieme, finché è durata, tu sei stato l’unico uomo per me.
Per te non è stato così. Quindi, se c’è qualcuno che deve sentirsi in colpa, al
limite sei tu. Ma visto che ho da tempo superato quella fase, cerca di farlo
anche tu. Cerca di rispettarmi, e di rispettare te stesso.»
«Amen.»
Mi guarda come se avesse davanti un animale domestico che ha fatto
qualcosa di sconveniente.
Tipo cagarle sul divano.
Alzo la mano, dicendo «pace».
Strappandole un sorriso.
«Nessun pericolo, con me. Se ti comporti bene, ovvio. Se vuoi, in frigo
c’è un sacco di cibo e della Stoli, e in cantina dovrei avere ancora le tue
bottiglie di whisky. Quelle che non mi hai lanciato addosso, ovviamente.»
«Ho chiuso, con quella roba» faccio, col tono di un bambino che pensa di
essere diventato grande.
«Buon per te. Voglio assolutamente farti vedere da quella mia amica. Non
mi piace questa storia delle pastiglie che prendevi senza sapere cos’erano.
Ma adesso devo proprio andare, scusami. Alle dieci ho una causa
importante. Ci vediamo…»
Un’occhiata al coso, al Langewiesche.
«… verso le quattro. Cinque al massimo. Tu non uscire finché non torno.»
Un bacio fraterno, un ticchettare di passi, la porta blindata che si chiude
alle sue spalle.
E poi il silenzio, e nel silenzio il tic tac di quell’orrendo orologio.
Avrei potuto dirle che vado a letto con la figlia di Alemanno Ferrari.
Come una specie di vendetta, di rivendicazione del mio orgoglio maschile
ferito. Ma penso che la cosa avrebbe portato a inutili complicazioni. Meglio
così. Ognuno si tenga la sua convinzione di essersi preso la propria rivincita
sull’altro, invece di pensare che qualcun altro ci ha inculati entrambi.
42
E così eccomi qui, neanche mezz’ora dopo il coito più fantastico che io
ricordi, tanto glorioso che non ho osato cancellare con una doccia l’odore di
Elena.
Lo so.
Dovrei sentirmi una merda anche solo a pensarle, certe cose. Nandini
inorridirebbe.
Si fotta, Nandini.
Si fotta lei e si fotta Chatterjee.
Si fotta tutta quest’isola di comunione mistica fra i popoli e le specie.
Si fottano le Zattere e si fotta il fottuto Alemanno Ferrari.
L’unica creatura sulla faccia della terra che non mando a farsi fottere è
Elena Ferrari.
Anche perché l’ho appena fottuta.
Ed è stato grandioso, ed è stato cool, ed è stato in qualche modo epico e
unico.
Quante seghe mi sarò fatto, nella mia vita?
Quante scopate?
Eppure il semplice fatto di poter eiaculare in lei mi ha mandato in orbita.
Eiaculare.
Che termine orrendamente medico, e quindi tecnico, da usare per
descrivere quello che c’è stato tra noi, la comunione di sensi che ci ha portati
entrambi a venire all’unisono, entrambi sparati in cielo dalla squisita
dinamica e biologia dei nostri corpi che si accordavano a vicenda come
strumenti raffinati, per eseguire quell’unica, maestosa cavalcata verso il
piacere che neanche Wagner all’apice del suo talento avrebbe potuto
immaginare con la sontuosa semplicità con cui l’abbiamo eseguita, il suo
corpo morbido e sodo al tempo stesso che reagiva all’unisono col mio.
Ho pianto, al culmine del piacere.
Non mi era mai successo.
Ho pianto, e ho ripetuto il suo nome due, tre, infinite volte, ma forse dopo
la terza l’ho ripetuto solo dentro di me, mentre il mio corpo si svuotava in lei
a fiotti, una marea di piacere trattenuto troppo a lungo, troppo a lungo…
E poi tutto è finito, e in realtà niente è finito, perché Elena l’ho portata
dentro di me anche quando ci siamo lasciati con un bacio che era una
dichiarazione d’intenti, un patto, un bacio che sembrava non dovesse finire
mai, e forse in realtà è proprio così, forse non è davvero mai finito, perché
mentre camminavo verso il giudizio che mi attendeva non avevo paura, non
temevo alcun male, perché lei era ancora in me, lei era parte di me, così che
abbiamo camminato insieme verso l’ultimo piano, e insieme siamo entrati
nella piscina di Paris.
46
Le altissime volte sono invisibili, perché sono le sei di sera e non c’è
illuminazione se non quella che sale dal basso, dal fondo dell’enorme
piscina.
Chi ha progettato le Zattere doveva avere una vena di follia.
E ancor di più quelli che avevano approvato il progetto, per non dire degli
altri che poi l’avevano finanziato.
Penso si fossero innamorati della bellezza di quell’idea: un centro
direzionale che si prendeva cura dell’uomo (inteso come essere umano,
senza distinzione di razza o di genere) in ogni fase della sua vita, dalla culla
alla tomba. Vivevi e lavoravi e facevi la spesa e andavi in piscina, o al
cinema, senza mettere piede fuori dalle mura del tuo palazzo. Un Medioevo
tecnologico, alimentato dalla fobia dei ricchi per i loro presunti simili.
La piscina all’ultimo piano di Paris – e all’ultimo piano di ognuno dei tre
edifici superstiti delle Zattere – è una meraviglia tecnologica. Concepita per
fornire acqua potabile al complesso, serve anche come serbatoio
antincendio, e secondo le intenzioni dei progettisti avrebbe dovuto costituire
anche un inno alla vita.
Era infatti previsto che alle donne incinte venisse offerta la possibilità di
un parto acquatico.
Certo, le donne che avevano in mente quegli architetti e sociologi erano le
donne bianche ed evolute della nostra società occidentale, e non la congerie
di razze e culture che ne aveva preso il posto mentre il progetto si faceva
realtà.
La partoriente media delle Zattere (e ce ne sono un sacco) viene da culture
ed esperienze in cui l’acqua – quando c’è – serve a essere bevuta e non certo
ad agevolare il parto. Vengono, inoltre, da culture che non si farebbero
problemi se l’acqua in cui le donne hanno partorito venisse poi usata per
lavarsi, o addirittura per bere. Mentre le potenziali utenti della novità, quelle
immaginate dagli “architetti concettuali” del progetto (tre dei quali sociologi
e due filosofi), le emancipate donne occidentali del Ventunesimo secolo,
avrebbero avuto parecchio da ridire nel bere l’acqua che, per quanto filtrata e
microfiltrata e chissà in quanti modi purificata, aveva comunque accolto la
placenta e l’orina e chissà quanti altri sottoprodotti del parto.
Chi ha progettato le Zattere, ripeto, doveva avere un fondo di pazzia in sé.
Ma è innegabile che il risultato architettonico delle loro elucubrazioni e
dei loro progetti è grandioso.
L’illuminazione blu proiettata dal fondo dà un’aura magica a quella che
altro non è se non una gigantesca piscina.
Le volte riflettono il movimento sinuoso delle onde, proiettando fra le
arcate del soffitto un film primordiale, fatto d’acqua e di tempo.
È come se delle ciclopiche meduse azzurre danzassero lente e sinuose il
loro legame con lo scorrere tranquillo delle ere.
Solo così il soffitto diventa visibile: diventando leggero come un velo, un
telone su cui viene proiettato il film della vita.
I tre membri del Consiglio siedono, molto poco solennemente, su tre
sdraio, recuperate chissà dove, disposte sul bordo della piscina, intorno a un
uomo che di certo vorrebbe essere ovunque meno che qui.
Le mani legate dietro la schiena, e anche le gambe legate fra loro
all’altezza delle caviglie, un cappuccio infilato sulla testa, l’uomo è in
ginocchio. Ho visto preparare così i condannati alla decapitazione. In
Arabia, in Iraq. L’ho visto sui giornali e su internet, non di persona, ovvio.
Ma non bisogna essere dei maghi o dei fini psicologi per capire che l’uomo
non è un ospite. Il suo corpo è scosso da un tremore continuo. La testa
oscilla come un pendolo.
Allo stesso modo la mia anima ora cammina lungo questo corridoio che
sembra non voler finire mai, gravata da incrostazioni di tempo e di storie, di
cose vissute e di altre solo sognate, la mia povera anima andata al tappeto
mille volte e che altrettante si è rialzata, ma solo per cadere e rialzarsi
ancora, stupidamente combattiva sino alla fine. Cammina sotto il peso di una
nuova conoscenza, perché chi ha detto che la verità rende liberi si sbagliava
di grosso. La verità rende pesanti, e tristi. A mano a mano che i vari tasselli
si spostano sul tavolo liscio che alcuni chiamano intelligenza, altri coscienza
e altri ancora anima, a mano a mano che una storia coerente prende forma e
si consolida, capisco che ho sbagliato tutto, che il racconto che avevo scritto
dentro di me a partire da pochi dettagli incompleti era del tutto errato. Che
avevo assegnato agli attori delle parti non loro, rendendo protagonista chi
invece altro non era che una comparsa trascurabile.
O, al contrario, non capendo chi manovrava davvero i fili della storia.
Come l’uomo che stavo andando a incontrare.
La sua voce familiare mi accoglie, uscendo dal buio.
«Benvenuto, Sergio.»
«Preferirei che non mi chiamasse per nome, dottor Chatterjee.»
«Addirittura. Dottor Chatterjee… Quanta formalità… ma allora non
siamo più amici, Sergio?»
«Non lo siamo mai stati.»
«Paziente e medico, allora…?»
«Nemmeno questo. Lei mi ha fottuto. Mi ha tradito.»
«In che modo?»
«Lo sa benissimo.»
«Venga avanti, la prego, Sergio. Per favore. Non riesco a vederla, con
questa poca luce.»
Muovo un altro passo nella stanza.
«Vedo che non zoppica più. Bene. Anzi, benissimo.»
Devo ammettere, stringendo i denti, che ha ragione. Non zoppico più, e da
tempo. La frenesia degli eventi mi ha impedito sinora di rendermene conto,
ma è vero: non zoppico più.
Gunga Din è seduto sul bordo della piscina, esattamente nel punto in cui
stava Nadia Caragiale. O almeno, intravedo la sua sagoma nel buio.
Solo che il posto non è lo stesso: è uguale all’ultimo piano di Paris,
l’enorme cisterna-piscina.
Ma è a London.
L’effetto straniante è assoluto.
Un luogo assolutamente identico, ma non lo stesso.
L’acqua è diversa, ma produce gli stessi riflessi sul soffitto.
«Perché ha voluto incontrarmi?» chiedo, mentre i miei occhi cercano di
adattarsi alla penombra, perché i pochi punti luce sono isole in un mare buio.
«Ma per chiarire le cose! Perché fosse chiaro che il mio operato mira
unicamente al tuo bene, Sergio.»
«Non mi dia del tu.»
«Come credi. Da quanto tempo non prendi le tue medicine, Sergio? Da
quanto tempo salti gli esercizi che ti ha insegnato Nandini?»
«Le ho detto…»
«Io mi pongo come obiettivo unicamente il tuo bene. Sono il solo amico
su cui puoi contare, fra le macerie della tua mente. E allora perché non ti fidi
più di me? Perché non mi hai più cercato, quando la fede nella tua integrità
mentale vacillava?»
«Forse perché da quando non ci vediamo mi sento meglio.»
«Non dire sciocchezze. Sono certo che allontanandoti da me sei ricaduto
negli errori del tuo passato. Che sei tornato a bere e a drogarti. A vivere nella
promiscuità.»
Le parole mi arrivano dal buio come impulsi di sonar emessi per sondarmi
l’anima, per stanarmi dal mio nascondiglio sotterraneo.
«Non bevo e non mi drogo» ribatto. «In compenso il risveglio delle mie
parti basse non mi dispiace per niente.»
«Ah sì? E con chi, se posso permettermi? Con chi si sarebbe avverato, di
grazia, questo risveglio dei sensi? Con la tua ex moglie? So che hai passato
una notte con lei.»
Questo è davvero un colpo basso.
«Si faccia i cazzi suoi, Gunga Din. E la smetta di darmi del tu!»
«Oh. Siamo agli insulti razziali. Bentornati, insulti. Speravo di non
sentirvi più. Ma eccovi qui di nuovo. Eppure mi avevi detto di voler guarire.
Di essere stanco di vivere come un razzista paranoico.»
«Sa come si dice, anche i paranoici hanno dei nemici.»
«Vedo che ti sei rimesso l’anello.»
«Può darsi. Non è grave, però. Non sono Gollum. E adesso smetta di fare
domande e risponda alle mie, invece. Com’è che il dottor Chatterjee, il buon
samaritano delle Zattere, ha un prestigioso studio in centro città? E a
proposito di ex, com’è che sua moglie, che dovrebbe essere morta e sepolta
da anni, partecipa con lei a feste ed eventi di beneficenza nei circoli più
esclusivi? E la brava Nandini cosa ne pensa, di questa moglie resuscitata?»
Lo psichiatra sorride, ma solo con i muscoli intorno alla bocca. Gli occhi
restano duri.
«Potrei dirti che la psichiatria ha molto a che vedere con il teatro…»
«Stronzate.»
«In terapia è il paziente che deve aprirsi al medico, non il contrario.»
«Stron-za-te» sillabo, duro.
Mi avvicino di altri due passi. Ora sono a meno di tre metri da lui. Posso
sentire da qui il profumo della sua raffinata acqua di colonia, ammirare la
perfezione del completo grigio tagliato su misura. Un nuovo Chatterjee,
molto diverso da quello buono e modesto che aveva disinteressatamente
accudito la mia povera mente malata. La barba è spuntata con cura, e anche
il suo inglese ha miracolosamente perso ogni traccia d’accento esotico.
«Che fine ha fatto il segno rosso che aveva sulla fronte?»
«Il tilaka, vuoi dire? Era solo per scena.»
«Dovevo immaginarlo. Mi dica la verità, dottore. Tutte quelle storie su
Manchester. Era solo una bugia per conquistarsi la mia fiducia. Anche quello
era solo per far scena…»
Chatterjee alza le spalle.
«Cosa ci fa alle Zattere? Sia sincero, per una volta. Non mi dica che è per
beneficenza.»
«Certo che è per beneficenza. Anche se ovviamente non è solo per questo.
Sei troppo sveglio perché io cerchi d’intortarti. Okay, lo ammetto, la mia
presenza qui ha anche altri scopi.»
«Quali?»
Lo psichiatra sospira. «Sicuro di volerlo sapere? Sei davvero sicuro? Va
bene. La risposta è semplice. Dovevo tenerti in vita. E al tempo stesso
impedirti di nuocere a te stesso e a noi.»
«Specifichi quel noi.»
«Non mi chiedi prima perché dovevo tenerti in vita? È molto più
interessante.»
«Va bene. Non ho fretta.»
Chatterjee fa un gesto largo, a indicare la vasca.
Gocce d’umidità si staccano a intervalli irregolari dal soffitto, producendo
lenti cerchi nell’acqua. Questo nella piscina di Paris non succede. È come in
quel vecchio gioco della Settimana Enigmistica: trova le differenze.
«Diciamo che nelle tue attività di poliziotto avevi raccolto informazioni su
alcuni lati, per così dire, oscuri e non troppo commendevoli, di questa città.
Informazioni che riguardavano personaggi in vista, donne e uomini che non
avrebbero voluto vedere esposti i loro panni sporchi in pubblico. Mi pare ci
sia un detto, su come alla base di ogni grande fortuna ci sia un crimine…»
«Vada avanti.»
«Vado avanti, certo. Allora, diciamo che pare che queste informazioni tu
le avessi messe per iscritto e documentate. E che, quando sei stato buttato
fuori dalla polizia, avessi cominciato a usarle per far pressione sui
personaggi in vista di cui ti parlavo prima. A un certo punto uno di questi
personaggi in vista tenta di farti fuori. Di toglierti di mezzo. Lo fa perché
pensa che sia il momento buono. Sei caduto in disgrazia da un pezzo, le tue
richieste… Chiamiamo questa cosa col suo nome, vuoi? I tuoi ricatti non
sono più esagerati come un tempo. Ti accontenti di poco. Il tuo cervello è
troppo impegnato a saziare la sua fame chimica. Eri già finito in ospedale
una volta, per la famosa vodka che ti aveva dato alla testa…»
«Un’altra battuta così e la scaravento in acqua col suo vestito da tremila
euro.»
«Okay. Scusa. Comunque quel tuo incidente ha fatto venire idee strane in
testa a qualcuno.»
«A chi?»
«I nomi dopo, se non ti dispiace. Diciamo che questo qualcuno ti fa
prelevare dalla tana in cui sei finito, dopo che la tua amica colombiana ti ha
cacciato di casa a bottigliate, e ti fa interrogare, diciamo, con un certo
vigore. Vuole sapere cos’hai in mano per garantirti la tua incolumità. Perché
quello che gli avevi sempre detto è che, se mai tu fossi morto in circostanze
strane, certi documenti sarebbero diventati di dominio pubblico. Era, di fatto,
la tua assicurazione sulla vita. Oltre che l’unica fonte di reddito che ti fosse
rimasta. Purtroppo, per quanto impegno ci abbiano messo nell’interrogarti,
da te non è venuto fuori niente.»
«Forse perché non c’era niente?»
«Non ne sono convinto. Quello di cui sono convinto è che tu non te lo
ricordavi. La famosa vodka scagliata, non shakerata, ti aveva azzerato quel
ricordo. Fatto sta che non hai fornito l’informazione che quel personaggio
voleva da te. Come se la tua assicurazione sulla vita, chiamiamola così,
esistesse davvero ma tu non potessi dire dove l’avevi nascosta. Era
comunque un pericolo, per il tuo nemico. E non solo per lui. A quel punto
doveva scegliere se correre il rischio di ucciderti e vedere se il tuo era solo
un bluff, o lasciarti vivere.»
«A quanto pare mi è andata bene.»
Chatterjee scuote la testa, con un sorriso amaro. «Non hai capito niente.
Lui stava per ucciderti, senza badare alle possibili conseguenze, quando un
certo altro personaggio si è inserito nella storia e ha convinto il tuo nemico a
lasciarti vivere.»
«Perché?»
«Abbi pazienza. Quest’altro personaggio…»
«Vuole dargli un nome, maledizione?»
«E tu vuoi lasciarmi il piacere di raccontare? Tutto ti sarà chiarito, a
tempo debito. Anche questo secondo personaggio importante era ricattabile
da te, e lo sapeva. Ma aveva molto più da perdere dell’altro, se per caso il
tuo non fosse stato un bluff e la procura o i giornali fossero venuti a sapere
certe cose. Così è intervenuto e ti ha salvato la vita. Diciamo che ha fatto un
accordo con l’altra parte. E guarda che non è stato facile. Ovviamente, dato
che non stiamo parlando del buon samaritano, ha voluto le sue garanzie.
Quindi per prima cosa ha fatto in modo che anche tu facessi qualcosa per cui
diventassi a tua volta ricattabile.»
«Che cosa mi ha fatto fare?»
«Davvero non lo ricordi?»
«No, cazzo.»
«Ho fatto davvero un buon lavoro…»
«Che cosa mi ha fatto fare?» urlo.
«Te lo dirò alla fine. O forse non te lo dirò. Sono pur sempre il tuo
dottore. Non voglio che tu riporti danni irreparabili da questa
conversazione.»
«Irreparabili…»
«Sì.»
«Vada avanti, Gunga Din.»
«La seconda precauzione che ha adottato è di non lasciarti in giro come
una mina vagante, ma di farti trovare davanti alle Zattere, imbottito di droga
e pestato per bene. Un relitto finito sulla spiaggia. E poi…»
«E poi?»
«E poi ha fatto in modo che le Zattere ti accogliessero. Quando sarebbe
stato infinitamente più semplice, per il Consiglio, farti discretamente sparire.
Non sarebbe la prima volta, se ho ben capito.»
«Come c’è riuscito?»
«Mettiamola così: il tuo protettore aveva amici in loco. E poi un certo
dottore e la sua assistente si sono offerti, guarda caso proprio in quel
momento, di aprire, con tutta la discrezione del caso, una, come vogliamo
chiamarla? Una missione umanitaria alle Zattere. E guarda caso, il primo
paziente sei stato tu. Non pensare che sia stato facile. La maggioranza del
Consiglio era favorevole a una soluzione, come dire, drastica e definitiva del
problema che rappresentavi.»
«Immagino che Nadia sia stata l’unica contraria.»
Chatterjee sorride. E stavolta è un sorriso sincero.
«Sei fuori strada. La Caragiale era favorevole alla tua sparizione. Come
Chimeze.»
«Ma…»
«Aarif è stato l’unico a perorare la tua causa.»
«Assurdo.»
«Incredibile, semmai. Assurdo no. La sua motivazione era che tu, una
volta guarito, potevi essere utile alla comunità. Conosceva bene la tua storia.
Il tuo talento nelle indagini, ma anche il tuo carattere e il tuo curriculum
appena meno disastroso di quello di Icaro. Il Consiglio doveva affrontare la
minaccia del killer di ragazzine, ma non poteva rivolgersi alla polizia. La
situazione politica esterna non lo permette. Ed ecco che proprio in quel
momento un poliziotto esperto, per quanto malridotto, viene scaricato alla
porta delle Zattere. E un famoso medico e psichiatra offre i suoi servigi
gratis. Bingo. È persino troppo. È un po’ come se dal cielo fossero cadute,
con un sottofondo di musica celestiale, le due ultime tessere di un puzzle da
cinquemila pezzi.»
«E invece era tutto organizzato.»
«Già.»
«E devo la mia vita ad Aarif.»
«Così pare. La Caragiale era dell’avviso che bisognasse avvisare la
polizia. Diceva che la sicurezza delle Zattere passava in secondo piano
rispetto alla minaccia rappresentata dall’assassino delle ragazze.»
«Se la cosa fosse diventata di pubblico dominio…»
«Le Zattere sarebbero state sgomberate nel giro di ventiquattr’ore. E
demolite il giorno dopo. Ma secondo la tua amica rumena, così sarebbero
cessati anche gli omicidi. E Chimeze era dello stesso avviso. Mi risulta che
abbia detto qualcosa tipo: “Se sai che il leopardo caccia alle pozze, il modo
più sicuro per impedirgli di uccidere ancora è di togliere l’acqua.” Secondo
lui, e in ultima analisi anche secondo la Caragiale, una volta svuotate le
Zattere l’assassino avrebbe perso il suo terreno di caccia.»
«Invece hanno scelto la via del siriano.»
«Già. Hanno accettato la mia proposta di aprire un ambulatorio qui, ma in
cambio mi hanno chiesto di prendermi cura di te. Dovevo rimetterti in sesto
e raddrizzarti. Ricostruire il poliziotto che eri. Devi ammettere che ho fatto
un buon lavoro.»
«Nel senso che sono vivo, forse. Per il resto…»
«Di cosa ti lamenti?»
«Del fatto che mi avete castrato chimicamente, tanto per dirne una. E non
solo. Mi avete manipolato il cervello, per rendermi incapace di scopare. Che
cazzo c’entra questo con la mia guarigione? Perché cazzo l’avete fatto?»
Lo psichiatra si schiarisce la voce, prima di rispondere.
Quando si decide a farlo è visibilmente imbarazzato.
«Diciamo che era una richiesta accessoria del mio committente.»
«Che cosa?»
«Per motivi suoi, preferiva che tu fossi, per così dire, inoffensivo sotto
quel profilo.»
«E chi cazzo è, questo committente?»
Chatterjee sta per rispondere, quando i suoi occhi si spalancano per lo
spavento.
«No…» balbetta, fissando qualcosa alle mie spalle.
Si alza contorcendosi dalla sedia, gli occhi sgranati.
Faccio per voltarmi, ma in quel momento tre colpi esplodono così
rapidamente che sembrano un colpo solo. Tre fontane rosse si aprono nel
petto del medico, che ricade giù disteso, sfasciando la chaise-longue.
Mi volto appena in tempo per vedere una sagoma scura che corre verso la
porta.
Mi chino sul corpo esanime di Chatterjee, constatandone la morte. Poi
scatto anch’io verso l’uscita, all’inseguimento di quell’ombra, senza
fermarmi a pensare che l’assassino è armato e io no.
Corro con i miei scarponi pesanti sul pavimento bagnato.
E poi la forza di gravità mi fotte per l’ennesima volta.
50
Lorenzo ha l’aria stanca. La pelle grigiastra del volto sembra una coperta
sfatta.
Più che sedere sulla panchina scrostata del parco sembra che vi sia stato
appoggiato. Un enorme peluche triste, la mascotte di una squadra retrocessa
e in odore di liquidazione.
Dal pino sopra la panchina gocciola l’ultima neve dell’inverno, ma il
giornalista sembra non farci caso.
Mi siedo accanto a lui.
«Ciao» azzardo.
«Vaffanculo.»
«La tua scortesia è dovuta a qualcosa di personale o ce l’hai col mondo
intero?»
«Sono stato licenziato. Fa’ un po’ tu. Vuoi cagarmi addosso? Accomodati.
Però prendi il numeretto.»
«Giornata storta…?»
«Vent’anni che lavoro in quel giornale di merda, vent’anni che mi sbatto
per loro, e mi licenziano con una mail.»
Una goccia cade sulla spalla del vecchio Woolrich e scivola giù. Una
lacrima la segue, dall’occhio destro del mio amico.
«D’altra parte ormai le guerre si dichiarano su Twitter» commenta, tirando
su col naso. Poi si volta a guardarmi. «Posso chiederti come mai hai voluto
vedermi?»
Potrei dirgli che non importa, che prima m’interessa sapere cosa gli è
successo, e come sta. Ma sarebbe una bugia. E il nostro rapporto non ha mai
conosciuto la falsità.
«È per via del tuo articolo sui tre bulgari.»
«Ah.»
«Come hai fatto ad avere quelle informazioni?»
«Segreto professionale.»
«Sei stato licenziato. Tecnicamente non ce l’hai più, una professione.»
Vidal mi fissa strizzando gli occhi rossi.
Gli scappa un rutto. La puzza di alcol che gli esce di bocca è terribile. Ha
uno strano modo di guardarmi. Un modo che non mi piace per niente.
«Qualcuno mi ha fatto avere dei filmati. Me li ha spediti sul cellulare. Non
sul solito numero. Su quello della seconda sim che mi ero fatto fare
quando… Be’, quando ho avuto quella breve storia con Krystyna. Mi ero
quasi dimenticato di averla nel cellulare, quella sim. E tre giorni fa mi arriva
un WhatsApp con un link, lo apro, e…»
«Aspetta. Chi lo aveva, quel numero, oltre a Krystyna?»
«Solo lei.»
Metabolizzo l’informazione.
Lorenzo mi fissa con quel suo sguardo indecifrabile. «Posso andare
avanti?»
«Certo.»
«Il link apriva un filmato. Anzi, diversi filmati.» Il giornalista rimane zitto
a lungo. Poi sospira. Scuote la testa. «Sono snuff movies. Sai cosa sono?»
«Sì.»
«Nel primo filmato ci sono tre uomini nudi, bardati di cinghie di cuoio
come cavalli. Indossano maschere antigas di modello industriale. Quelle con
lo schermo di plastica grande, attraverso cui puoi vedere le facce. Si
muovono attorno a una ragazzina legata, bendata e imbavagliata, appesa a
un’imbragatura che le tiene le gambe divaricate. La ragazza è sospesa a
mezz’aria, immobilizzata. I tre si danno da fare a lungo con lei, scopandola
in tutti i modi. Poi due di loro escono di scena e quando tornano hanno un
altro uomo in mezzo a loro. L’uomo sembra ubriaco. Barcolla, ha gli occhi
spenti. I due lo spingono di forza tra le gambe della ragazzina, gli infilano in
bocca una manciata di pasticche, ridendo. L’uomo penetra la ragazzina da
dietro…»
«Puoi evitare i dettagli?»
«L’uomo la sodomizza, facendola urlare dal dolore. Uno dei tre bardati di
cuoio le toglie il bavaglio e le infila un enorme dildo in bocca, un altro le
cava la benda dagli occhi.»
Mi accorgo che sta piangendo.
«È una ragazza giovanissima, molto magra. Ha degli occhi enormi,
dilatati dall’orrore e dal dolore mentre viene posseduta in quel modo
terribile. Il terzo e il quarto uomo si accoppiano a loro volta con lei, dandosi
il turno. Non c’è sonoro, o meglio, c’è quella canzonetta imbecille di dieci
anni fa, Fuck Me.»
Scuote la testa.
«Quando hanno finito di scoparla, portano via il quarto uomo, quello che
sembra fatto, tenendolo stretto come se fosse un prigioniero. E poi tornano
nella stanza. Hanno chiodi e un martello. Hanno una vecchia sega da
falegname.»
Solleva gli occhi gonfi di lacrime, lentamente, verso di me. «I tre uomini
erano i tassisti bulgari morti l’altro giorno. Il quarto…»
Mi fissa.
«Il quarto uomo. Quello instupidito. Quello che ha sodomizzato la
ragazzina. Quell’uomo eri tu, Sergio. Eri tu.»
52
L’ultimo articolo di Lorenzo Vidal scorre sullo schermo del suo cellulare.
Lo leggo da cima a fondo, aspettandomi da un momento all’altro che arrivi il
peggio. Ma arrivo all’ultima frase e il mio nome non c’è.
«Non hai fatto il mio nome» sussurro, restituendogli lo smartphone.
«No.»
«Hai fatto vedere ad altri il video?»
«No. Mi sono inventato che era un file a tempo. Che si è autodistrutto. Ma
avevo stampato le schermate coi tre bulgari e la ragazzina e gliele ho
consegnate. Al giornale e alla polizia.»
«Non hai fatto il mio nome…» ripeto.
«Che c’è, ti si è rotto il disco? Chiaro che non ho fatto il tuo nome. Si
vedeva benissimo che eri drogato fino alla punta dei capelli. Che ti hanno
costretto a fare quello che hai fatto. Che lì in quella stanza, a fare quelle
cose, in un certo senso nemmeno c’eri.»
Sospira.
«E poi ti voglio troppo bene. E ti conosco, anche, troppo bene, per credere
che tu abbia volutamente fatto quelle cose. Chi ha ripreso quel video ha fatto
di tutto perché il tuo volto fosse perfettamente riconoscibile. Gli altri tre
avevano le maschere, tu no. E la telecamera ti inquadra in faccia troppe volte
perché non fosse una cosa voluta. Ho capito che chi ha girato quel video
voleva incastrarti. Per questo non ho fatto il tuo nome.» Mi guarda. «E poi
c’è un altro motivo.»
«Quale?»
«Voglio che tu trovi chi c’è dietro a tutto questo. Devi trovarli! Solo tu
puoi farlo. E quando li avrai trovati…»
«Sì?»
«Devi ucciderli, Sergio. No: non solo ucciderli. Devi farli a pezzi. Devi
disintegrarli.»
Da qualche parte, tempo fa, ho letto un articolo che parlava dei rischi
dell’intelligenza artificiale. Del fatto che prima o poi le A.I., come le
chiamano, finiranno per diventare tanto più intelligenti di noi che
cominceranno a progettarsi e costruirsi da sole, e finiranno per considerare
gli esseri umani come qualcosa di superfluo per la loro evoluzione. E più
avanti ancora ci considereranno un rischio da eliminare. L’umanità diventerà
per le macchine quello che i rifugiati delle Zattere sono per questa città.
Un peso.
Una minaccia.
Qualcosa da togliere di mezzo.
«A cosa stai pensando?» fa Albert, immerso nei dati che appaiono sullo
schermo del computer.
«A niente.»
«Non è possibile. Sento che stai pensando a qualcosa di negativo.»
«Lo senti?»
«Sì. È fastidioso. M’impedisce di concentrarmi. Dimmi a cosa stai
pensando, così lo elimino dal rumore di fondo.»
«Sei matto?»
«Avanti, dimmelo.»
«Pensavo alla Singolarità di Kurzweil.»
«Ah.»
«No, è che ti guardo lavorare come se fossi una cosa sola con quella
macchina…»
«E pensi che sto lavorando con quello che ci eliminerà, prima o poi.»
«Sì.»
«Concentrati sul presente, poliziotto. Il futuro non esiste.»
Che cosa fai, quando ti svegli il mattino dopo la fine del mondo? Quando
senti che tutto è cambiato, che nulla ha più fondamenta, che il pianeta si è
spostato dal suo asse?
Nel mio caso, mi metto lo zaino in spalla e scendo al Caffè Impero.
Il giorno dopo la fine del mondo non si affronta a stomaco vuoto.
Mi chiedo se Abdu dorma mai. Fuori dalle porte vetrate è ancora buio, ma
lui è già dietro il bancone.
«Sei mattiniero, italiano.»
«Mi aspetta una giornata impegnativa.»
«Hai bisogno di una colazione come si deve, allora.»
«Stupiscimi.»
Il somalo annuisce, sorridendo.
«Ti preparo un Sidamo, bello forte. E dei pancake indiani.»
«L’idea dei pancake indiani mi spaventa.»
«Rilassati. E non pensare alla giornata che ti aspetta. Concentrati su cose
semplici. Una per volta. Anche meno di una, se puoi.»
L’anziana Faema Ariete sbuffa come un drago, mentre il barista aziona le
sue leve, per poi versare in una tazza il caffè dall’aroma più buono che abbia
mai sentito.
«Una cosa semplice, dici. Okay. Vediamo. Visto che potrei non
sopravvivere alla giornata, toglimi una curiosità che ho sempre avuto, da
quando sto qui alle Zattere.»
«Sentiamo.»
«Tu hai un socio, che è anche il tuo compagno, a quanto si dice.»
«È così.»
«Come si chiama?»
«Frank.»
«Non è un nome etiope.»
«Somalo. Siamo somali, non etiopi. E tu cosa ne sai? Comunque un uomo
adulto ha diritto di scegliersi il nome che gli piace.»
«Però c’è una cosa. C’è che nessuno l’ha mai visto. Tutti dicono che c’è,
ma non si è mai visto qui.»
Abdu scrolla le spalle.
«Ti assicuro che esiste. Lui si occupa, diciamo così, del ramo rifornimenti.
Ma esiste, eccome.»
Si china su di me. Il suo alito sa di zenzero e cardamomo.
«E ha un cazzo lungo ventisei centimetri» sussurra, per poi scoppiare a
ridere.
Scuoto la testa. Sorrido, mio malgrado.
Poi, alzando lo sguardo, mi vedo riflesso sullo specchio dietro il bancone,
e dietro di me le vetrate buie delle Zattere. Un buio che ha il colore del
freddo, e del pericolo.
Come in un quadro di quel pittore americano, come si chiama. Quello che
piace a Elena.
Forse ha ragione Abdu.
Dovrei pensare solo a cose semplici.
Una per volta.
O meno.
Ma non è facile.
Fin dalle origini l’uomo si è sempre raccontato delle storie. Storie per
dimenticare il freddo e il buio della notte, storie per tenersi sveglio durante
il tuo turno di guardia. Storie per indagare il passato, o per illuminare la
strada del futuro.
La storia che Lars Ingersen ci ha raccontato, in quel tempo sospeso prima
dell’alba, era la storia di un uomo che si era perso, mentre cercava il suo
fratello più piccolo. Era sceso dall’aereo in un paese dove nessuno capiva la
sua lingua, e aveva seguito le poche tracce lasciate da Jørgen. Qualche foto
mandata col BlackBerry, il numero di una stanza d’albergo, in quella città
dove il loro padre aveva lavorato da ragazzo. Lars, come suo fratello, e suo
padre prima di loro, era un ingegnere, non un poliziotto. Non era bravo, a
seguire le tracce o trovare gli indizi. Ma aveva metodo, e tempo, e la città in
cui suo fratello era sparito sei mesi prima era piccola, molto piccola. E
anche molto malmessa, aveva scoperto il giovane danese. Niente di
paragonabile alla città del boom economico di cui il papà non smetteva mai
di tessere le lodi.
La crisi aveva picchiato duro. C’erano quartieri degradati, e complessi
industriali abbandonati, ed era stato in uno di questi che aveva trovato la
prima traccia di Jørgen. L’ultimo collegamento video con suo fratello era
stato una cosa ai limiti dell’assurdo.
Il ragazzo era nudo, e saltava su un materasso. Indossava una maschera
antigas.
«In che topaia sei finito?» aveva scherzato Lars. «Puzza così tanto?»
La faccia mascherata di Jørgen si era avvicinata a un centimetro dalla
telecamera del pc. Dietro le lenti, gli occhi del fratello erano iniettati di
sangue, in preda a una luce folle, la stessa follia che lo portava ad
accelerare le parole fino a renderle quasi incomprensibili.
Sulla parete alle sue spalle c’erano dei disegni orribili, mostruosi.
Creature demoniache, dal volto di rettile, che si accoppiavano con giovani
femmine umane.
«Ho visto la luce, Lars. Ho conosciuto la verità.»
«Mi fa piacere» aveva risposto lui, prendendola alla leggera. Il suo
fratellino non era nuovo alle sbandate religiose. E anche politiche. Quando
aveva quindici anni si era fatto fare il tatuaggio di una svastica sul dorso
della mano. Poi era passato alla sinistra anarchica, e aveva dovuto farsi
togliere il tatuaggio con un trapianto di pelle. Così sul dorso della destra gli
era rimasta una zona di pelle più chiara e senza peli.
«Siamo tutti in pericolo» aveva balbettato Jørgen. «I padroni del mondo
stanno per assumere il controllo. Nessuno si salverà. Nessuno. Dobbiamo
fermarli. E lo sai come? Lo sai come si fa, a fermarli?»
Nello schermo, il riflesso del lampadario sul soffitto aveva trasformato le
lenti della maschera antigas in due specchi luminosi. Come se dagli occhi di
Jørgen uscissero fasci di luce.
«Con il sacrificio. Il sacrificio degli impuri. Di quelli che contaminano la
razza. Della progenie immonda dei Rettili Sovrani.»
Durante quella videochiamata di dodici minuti Lars aveva cercato di
interrompere il flusso disordinato di parole miste a versi animaleschi che
uscivano deformate attraverso la maschera antigas. Se all’inizio avrebbe
voluto canzonare Jørgen per quelle idiozie alla Lovecraft, man mano che il
delirio del fratello andava avanti, Lars perdeva il contatto con la realtà, si
lasciava attirare in quel vortice di follia. Il ritmo delle frasi di Jørgen si
faceva sempre più musicale, una musica ipnotica, finché Lars non aveva
capito che la musica proveniva da un’altra parte, una musica dissonante, di
flauti e di qualcosa che sembravano nacchere. Una giovane voce femminile,
e poi un’altra, avevano chiamato il nome di suo fratello, e Jørgen aveva
alzato la testa di scatto, puntando l’aria come un cane.
«Mi chiamano» aveva riso, estatico. «Mi chiamano. È il mio momento.
Addio, fratello. Sii felice per me. Sono contento di averti parlato. Non
cercarmi.»
La mano di Lars si era mossa di scatto a chiudere il coperchio del
notebook, e la videochiamata si era interrotta di colpo.
Jørgen non era tipo da chiamare ogni giorno. Lavorava per la succursale
italiana di una multinazionale, a Pista Prima. La sua famiglia cominciò a
preoccuparsi quando fu la ditta a chiedere se avevano notizie
dell’ingegnere, che non si presentava al lavoro da una settimana. La stanza
del residence in cui viveva era vuota. Nessuna traccia di lui o delle sue cose.
I loro genitori erano morti in un incidente d’auto molti anni prima. Lars
era l’unico parente a potersi preoccupare per Jørgen. Così aveva chiesto tre
giorni di permesso all’università e aveva preso un aereo per l’Italia.
Inutile dire che la polizia non l’aveva aiutato. Un’ispettrice in divisa
aveva cercato di spiegargli in inglese che non avevano avviato indagini
perché non ce n’era motivo. «Vedrà che suo fratello darà presto notizie di
sé» aveva detto, in un tono che avrebbe voluto essere rassicurante. E quando
Lars le aveva raccontato di quella strana videochiamata, lei aveva risposto:
«L’ha registrata? No? Peccato.»
I tre giorni di permesso erano diventati un mese, che Lars aveva diviso tra
la sua camera d’albergo, dove faceva ricerche sui media e sui social, e le
strade di quella brutta città in cui nessuno rispondeva alle sue domande.
Conoscendo l’interesse di Jørgen per l’arte aveva visitato il piccolo museo
accanto al municipio, che conteneva alcune belle opere d’arte sacra e un
sacco di ritratti ottocenteschi.
E poi aveva saputo dell’altro museo, più piccolo, aperto da poco tempo
nei locali del castello di Villabassa.
55
«Il custode era diventato tutto rosso in faccia» sussurra Lars. «Mi fissava
da sotto in su come un cane che si è comportato male e teme una punizione.»
«Questa l’ha scritta mio fratello. È la sua grafia. La sua firma. Lui è stato
qui!»
Il vecchio aveva alzato le mani.
«Passa tanta gente…»
«Non è vero! Non ci viene nessuno! Perché mente? Perché ha detto che
non era mai stato qui?»
Il custode si era raddrizzato di colpo. «Suo fratello era un uomo molto
intelligente. Come vostro padre, del resto.»
«Lo conosceva? Conosceva mio padre?»
«Certo. Un uomo speciale, dalla mente aperta. Voi scandinavi siete i
migliori esemplari della razza umana. Vostro padre è stato tra i primi
discepoli del nostro culto. Se non fosse dovuto tornare in patria avrebbe
potuto persino prendere il mio posto alla guida della nostra chiesa. Suo
fratello ha trovato un diario di Niels, dove parlava della sua esperienza fra
noi, e ha deciso di percorrere le orme di vostro padre. Era solo curioso.
Probabilmente in un periodo della sua vita in cui mancava di certezze…»
«Jørgen è sempre stato così. Sempre in cerca di qualcosa…»
«Forse non cercava la verità, ma quando l’ha trovata l’ha riconosciuta
subito, e le ha reso omaggio.»
«Perché dice era? Dov’è Jørgen? Lei lo sa!»
Il vecchio si era schermito. «È una storia lunga. Se vuole sentirla tutta,
venga al Tempio della Luce, stanotte.»
«Il Tempio della Luce? Cos’è?»
«Lo scoprirà. Venga stanotte, e tutto le sarà chiaro. Conoscerà la verità, e
la verità la renderà libero.»
«Me lo dica adesso dov’è Jørgen!»
«Adesso non è possibile. Venga stanotte, le ho detto.»
«E dov’è, questo posto?»
«Lei venga qui a mezzanotte, e basta. Non deve preoccuparsi di
nient’altro.»
Lars si era lasciato spingere verso la porta, senza opporre resistenza.
Quando l’ebbe chiuso fuori, il custode lo fissò attraverso il vetro, con
un’espressione indecifrabile. Poi si voltò e sparì nel suo museo.
Per venire qui. Al Caffè Impero. Per pensare. Per prendere tempo e fiato.
E magari per trovare una spiegazione diversa per quello che avevo scoperto,
e che Lars mi aveva appena confermato.
Ma non l’avevo trovata.
Però avevo in mano due delle ultime tessere per completare il puzzle.
La prima tessera era che ora sapevo che fine aveva fatto e dove potevo
trovare l’ingegner Gaspare Amodio, il nuovo padre spirituale degli
erevoniani.
La seconda…
Alla seconda preferivo non pensarci.
Ho chiesto ad Abdu carta e penna.
Sui fogli c’è l’intestazione di una marca di caffè, e la Bic è masticata.
Ma scrive, ed è quello che conta. Del resto non ho tante cose da scrivere.
Anche perché ogni parola pesa come un macigno.
Come Lars, sono arrivato alle Zattere ferito, derubato di ogni mio bene
che non fosse la carne che porto addosso e il respiro che la mantiene in vita.
Come il povero Lars, prima di venire qui avevo perso tutto. Ero un
sopravvissuto al naufragio della mia vita.
Questo posto mi ha insegnato un sacco di cose.
Mi ha insegnato che per quanto possa andarti male, c’è sempre una
seconda possibilità.
Mi ha insegnato che i pregiudizi non reggono alla prova dei fatti.
Mi ha insegnato che si può cambiare. E che a volte si deve.
Che non è mai troppo tardi, per cambiare.
Ma mentre penso queste cose bellissime e buonissime, una vocina
maligna nel mio cervello dice cose diverse.
Dice che gli esseri umani sono difettosi. Tutti gli esseri umani.
Che a volte è tardi per cambiare, e anche se potresti non lo fai.
Che per quanto le cose possano andarti male, c’è sempre la possibilità che
vadano peggio.
Infatti ne ho la conferma appena metto piede fuori dal palazzo.
A Carla non era mai andata giù, la mia passione per la poesia.
Diceva che le confondeva la percezione che aveva di me. O qualcosa del
genere.
In effetti è raro trovare un volumetto di poesie sulla scrivania di un
poliziotto. Ma sulla mia, a volte, capitava. Be’, non proprio sulla scrivania,
ma in qualche cassetto. Non è sempre stato così. La cosa era cominciata una
sera che mi avevano portato in ufficio un tipo che sembrava completamente
schizzato, un barbone alto un metro e un cazzo che parlava in un cellulare
immaginario e descriveva in diretta cosa stava facendo. Era un matto, ma del
tipo innocuo. E di punto in bianco, mentre gli chiedevo le sue generalità, lui
ha cominciato a recitarmi una poesia di Esenin. Cioè, allora non sapevo di
chi era, la poesia. Me l’ha detto lui mesi dopo. Prima l’ha declamata in
italiano, poi in russo. Sul russo non posso garantire, ma la sua
interpretazione in italiano era stata impeccabile. Gli avevo domandato se era
un poeta, e lui mi aveva risposto che, essendo matto, doveva per forza essere
un poeta.
«Perché sei qui?» gli avevo chiesto.
E lui: «Perché queste sono le mie coordinate spaziotemporali, poliziotto.
Non posso farci nulla.»
«Cambiamo domanda, allora: come mai ti hanno portato qui?»
«Dovresti chiederlo a loro.»
«Stavi facendo qualcosa di strano?»
«No. Mi comportavo come al solito.»
«Tipo?»
«Bevevo, normale, no? Cantavo.»
«Dove?»
«Nella fontana di piazza delle corriere.»
«Piazza Primo Maggio, vuoi dire?»
«Dove una volta c’erano le corriere. Io la chiamo piazza delle corriere. Sai
chi ha introdotto la festa del Primo Maggio, in Germania? Adolf Hitler.»
«Sicché tu bevevi e cantavi vicino alla fontana.»
«Ma no. Dentro la fontana.»
«Ah. E che cosa cantavi?»
«Una mia poesia.»
E me l’aveva recitata.
La stanza è buia, tranne che per i sottili raggi che filtrano attraverso le
veneziane abbassate e per la luce che emana da una strana scultura di vetro
illuminata dall’interno, posata sul comò ingombro di vestiti e carte: è un
teddy bear fatto di fumetti colorati. BANG, POW e ZAP rossi e bianchi e blu in
stile Roy Lichtenstein disegnano la versione moderna di una vetrata gotica.
Immagino sia un’opera d’arte, perché c’è una firma: Lirone. Il corpo di
Elena, quando si spoglia, è screziato da quella luce. Gli occhi verdi,
illuminati di sbieco, sembrano due diamanti. La sua bocca è rossa come il
sangue. Mi spinge giù, sul tappeto sintetico che imita la pelliccia di un orso
bianco.
C’era questo aforisma zen che una volta ho letto, ma non sono sicuro che
la versione che ricordo sia quella giusta. La mia mente, che già non era
granché prima, dopo due coma e le tecniche sperimentali del dottor
Chatterjee è ridotta decisamente male.
Quello che ricordo, così come lo ricordo, è che c’è questo monaco zen, in
Cina, o forse in Giappone, che per scappare da una tigre affamata si lancia
da un precipizio, e riesce ad afferrare per miracolo una radice sporgente.
Aggrappato a quell’appiglio precario guarda in su e vede la tigre, poi guarda
in basso e vede le rocce aguzze in fondo a cento metri di vuoto.
La radice, oltretutto, si sta lentamente staccando, e non lo reggerà a lungo.
Allora il monaco vede che davanti a sé c’è una piantina verde, e su quella
una piccola fragola. La coglie, la morde. La morale della storia è: com’era
dolce, quella fragola.
E com’è dolce, nonostante tutto, stringere tra le braccia il corpo al tempo
stesso morbido e teso di questa ragazza, scivolare su di lei e poi dentro di lei,
umida e calda come la sua bocca. Facciamo l’amore per terra, sul tappeto,
sopra lo yukata aperto che sembra un grande petalo nero, e l’urgenza e la
passione di Elena sono tali che devo battermi con me stesso per non venire
subito, per durare quanto basta perché anche lei tremi nel mio abbraccio, e
mugoli e infine ansimi dal piacere.
Lo so.
Non dovrei farlo.
Non sono qui per questo.
Ma lei è quella fragola, sul ciglio del mio annientamento, e devo coglierla
prima che sia troppo tardi, prima che il ramo si stacchi e io precipiti sui denti
aguzzi della realtà.
Passano ore, e ormai fuori fa buio, prima che senta la chiave girare di
nuovo nella serratura. La porta si apre solo di quel tanto che basta a far
passare tre persone, e poi si chiude a metà.
Nel buio non riesco a distinguere chi è entrato. Poi una risatina querula mi
rivela che uno dei visitatori è quello stronzo di custode del museo di
Villabassa, l’ingegner Gaspare Amodio.
Si tiene discosto, mentre gli altri due estranei mi manipolano in modo da
farmi indossare un indumento che sembra un saio molto ruvido, liberandomi,
dopo i piedi, anche le mani, ma solo per potermelo infilare, e poi
legandomele di nuovo, stavolta sul davanti, con fascette da elettricista. Poi
mi sollevano di peso. Sono robusti, maschi. Altro di loro non saprei dire,
perché anche il corridoio è buio.
Muovendomi alla cieca inciampo più volte, in un tappeto o nella zampa di
un mobile, e ogni urto strappa dolore dai miei piedi nudi.
La casa sembra deserta. Il suono di una pendola accompagna i nostri passi
frettolosi. I miei due guardiani mi trascinano a forza, spintonandomi quando
accenno a rallentare.
Scendiamo così quattro rampe di scale.
La fredda luce al neon, dopo tanto buio, quasi mi acceca.
Dietro una porta antincendio si apre un enorme garage che accoglie
quattro auto, la più modesta delle quali è una Jaguar. Ma i miei sequestratori
mi spingono fuori, sul vialetto dov’è parcheggiato un furgone anonimo,
ammaccato, vecchio di almeno dieci anni. Aprono i portelloni posteriori e mi
scaraventano dentro, fra latte di vernice e attrezzi da pittura. Uno dei tre si
siede sul pianale accanto a me. Gli altri salgono davanti. Quando il furgone
riparte con uno strappo, una latta vuota rotola verso di me colpendomi in
testa. Il mio guardiano sghignazza.
Lo osservo.
Avrà al massimo vent’anni, una faccia segnata dall’acne e occhi pungenti,
di un’allegria malvagia.
«Guardami quanto vuoi, vecchio. Fissami pure. Non ti servirà a un cazzo.
Sei morto, vecchio.»
Ma io continuo a guardarlo. Ero bravo a questo gioco, da ragazzo. In
qualcosa bisogna pur essere il migliore.
E infatti alla fine è lui, con una smorfia e un’imprecazione fra i denti, a
distogliere gli occhi.
Muovendo il meno possibile la testa, cerco di individuare qualcosa che
serva a liberarmi. Ma non trovo nulla. Niente che possa alimentare un filo di
speranza.
Il furgone si muove a sobbalzi, sulle strade dissestate. Ogni sobbalzo una
fitta di dolore per i miei muscoli contratti. Si gela, qui dentro. E la vescica
mi scoppia.
Una voce dentro di me mi sussurra che sto per morire.
Ma la cosa non mi spaventa più di tanto. Ci sono passato altre volte.
Ero nudo e praticamente morto quando gli abitanti delle Zattere mi hanno
raccolto. Avrebbero potuto uccidermi, ma non l’hanno fatto. Mi hanno
invece curato e sfamato. Hanno persino cercato di guarirmi da quella che per
loro era una malattia, mentre per me era sempre stato il mio modo naturale
di pensare. Mi hanno cambiato, cercando di fare di me un uomo migliore.
Anche se lo facevano per i loro scopi, mi hanno fatto del bene. Ho
guadagnato giorni preziosi.
Questa seconda morte… O terza, se la bottiglia di Smirnoff era realtà… È
qualcosa che ho già conosciuto. Che ho già attraversato.
Questo mi dico, disteso sul pianale gelido del furgone.
Ma poi volto di nuovo lo sguardo sul ragazzo brufoloso e mi dico che no,
non è ancora finita.
«Sto morendo… Ho sete…» biascico, e la voce che esce dalle mie labbra
secche è maledettamente convincente.
Il ragazzo abbassa lo sguardo di tre tacche, collimandomi come attraverso
un mirino. «Non me ne frega un cazzo.»
«Sì… che te ne frega…»
«Ah sì? Tu dici?»
«I tuoi capi… Mi vogliono vivo…»
Guardo, riflesse nelle espressioni del volto, le mie parole infilarsi a una a
una nella sua coscienza.
«Mi sembri vivo, no?»
«Il cuore… Devo prendere… La mia pastiglia…»
«La tua pastiglia, come no. E non puoi aspettare? Siamo quasi arrivati.»
«No. Sto… morendo…»
Chiudo gli occhi. Lo sento mormorare: «Oh cazzo.»
E poi…
61
L’odore di pesce alla griglia arriva fin qui dalla taverna sull’altro lato della
baia.
Definirla taverna è un eufemismo. Più che altro è una baracca dal tetto di
paglia. Davanti c’è una rete metallica appoggiata su due pile di mattoni.
Sotto quella grata, due volte al giorno, viene acceso un fuoco con rami
raccolti lungo la spiaggia. È lì che si cucina. C’è sempre della birra, tenuta in
fresco in una buca scavata nella sabbia, e c’è sempre musica locale,
proveniente da una vecchia radio a transistor.
Descritto così, potrebbe essere un posto da qualunque parte nel mondo. Ed
è così che va descritto, così che devo descriverlo, se voglio restare in vita.
Ognuno di voi lo immagini sulla base delle proprie esperienze. Lo
immagini in Grecia, o in Marocco. O sulla costa dello Yucatán.
Io non vi aiuterò.
Non posso.
Posso dirvi che il pesce è sempre freschissimo, e la birra di produzione
locale va giù che è un piacere. Qui il “chilometro zero” è una necessità e non
una virtù.
Quando ci vado, mangio sempre da solo, a un tavolo d’angolo da cui
posso tenere d’occhio gli accessi alla taverna. Gli accordi non prevedevano
che fossi armato, ma sono riuscito comunque a procurarmi una vecchia
pistola, un relitto di episodi storici su cui non posso addentrarmi, perché
rischierei di dirvi troppo. Sul tavolo davanti a me tengo la copia di un libro,
e durante il pranzo lo sfoglio, perché non mi è mai piaciuto mangiare da
solo, e la compagnia di un libro è un buon surrogato di una conversazione
con un altro essere umano. I libri non ti deludono mai. Almeno, non quelli
che leggo io. Me li portano in barca una volta al mese, assieme alle
provviste, e ogni volta che li ritiro lascio una lista dei desideri per la
consegna successiva. Sono tutti classici, greci e latini, della Oxford
University Press. Aprire il cartone è bello come quando da bambino, nella
nebbiosa Manchester, scartavo l’involucro dei regali di Natale. Tolgo i
trucioli di polistirolo e sollevo a uno a uno, portandoli alla luce, i volumi
rilegati in cuoio blu, con i titoli impressi in oro sulla copertina. A volte sono
edizioni nuove, ancora incellofanate. Più spesso, data la particolarità di
alcune mie richieste, sono libri vecchi di cinquant’anni, o anche più. Una
volta mi è arrivato un volume delle Storie di Erodoto stampato nel 1927.
Quando mi arriva un libro così vecchio, la prima cosa che faccio è
annusarlo. Aprendolo, è come se scoperchiassi un mondo. L’odore di polvere
e di umidità, che presto il clima secco di qui disperderà, è intenso come una
madeleine proustiana, mi riporta all’Inghilterra della mia infanzia, e ai primi
libri comprati in Italia, in un negozio che vendeva anche generi alimentari,
per cui Addio alle armi aveva il profumo delle sardine tenute in una latta sul
bancone, e Delitto e castigo, nella mia memoria, odora di capperi sotto sale.
Gli unici libri che avevo portato con me arrivando sull’isola (lo so, che vi
dica che è un’isola è un indizio in più, ma non credo ve ne farete nulla)
erano due pesanti dizionari di latino e di greco. Quando un mese dopo erano
arrivati i primi libri rilegati di blu, ero in grado di leggerli all’impronta. La
Rondolini e il professor Sigalotti, pace all’anima sua, sarebbero stati fieri di
me.
I classici non ti tradiscono mai.
Ti parlano di vicende e persone immutabili, scolpite nella relativa eternità
del passato. Al tempo stesso sanno illuminare il presente. Nella storia di
Creonte e Antigone, o nei dialoghi tra gli ateniesi e gli sventurati
ambasciatori di Melo, o nei Tristia di Ovidio, trovo la spiegazione del
presente, e la chiave che apre la porta del futuro.
Del vostro mondo non so più nulla.
Solo i pacchi che mi arrivano puntuali ogni mese mi dicono che là fuori
esistete ancora, indaffarati nei vostri commerci e traffici e nei vostri amori.
Non leggendo un giornale da quasi due anni, e non avendo né internet né
televisione, tutto quello che so del vostro mondo mi arriva da qualche
frammento di conversazione colto a un tavolo vicino, alla taverna, la cui
radio è permanentemente sintonizzata su una stazione musicale. Ma non si
parla mai di voi, del vostro paese.
Non so se le Zattere esistano ancora o se siano solo una rovina annerita, o
un enorme buco nel terreno da cui tornano alla luce la sporcizia e i veleni del
passato. O una fossa comune.
Non so niente, e la cosa non mi rattrista.
Immagino che se da voi scoppiasse la Terza guerra mondiale la radio
verrebbe sintonizzata su un notiziario.
Quel giorno non ci andrei, a mangiare.
Il fatto è che non voglio sapere più niente di voi.
Chiamatemi Lazzaro.
Sono tornato dal regno dei morti. Ero goffo, il passo impacciato dal
sudario. Puzzavo, dopo tutti quei giorni nella tomba. Non ero una gran
compagnia. Ero strano. Ho camminato in mezzo a voi finché non ho ripreso
la camminata e il colore di voi vivi, finché il mio odore non vi ha fatto più
arricciare il naso o cambiare marciapiede. Ho vissuto con voi, lavorato per
voi.
Vi ho anche amato.
A modo mio, come amano i morti.
Confuso dai ricordi di una vita che non mi appartiene più. Incerto sui gesti
e su come verranno accolti.
Nel sogno ti sono venuto incontro, e anche il mio passo era leggero, era
come se volassi. Ci siamo incontrati nel punto al centro della baia in cui la
spiaggia forma un piccolo promontorio, una prua di rocce e sabbia su cui ti
sei seduta, aspettandomi. Indossavi un vestito azzurro, leggero, che la brezza
faceva danzare sulla tua pelle. Ti sei voltata verso di me, e i tuoi occhi
avevano lo stesso colore del vestito. Lo so che non è il loro colore, ma nel
sogno erano azzurri.
Sarebbe bello poter ricordare esattamente quello che mi hai detto, parola
per parola. Ma al risveglio i sogni si sciolgono, come zucchero nell’acqua.
Danno gusto al giorno, ma non puoi separarli dalle cose.
Un re dell’antichità, e di più non so dire di lui, non perché non possa
parlarne, ma perché il ricordo preciso dell’aneddoto si è perso nel tempo,
tanto che non so dirvi neppure se l’abbia letto, e dove, o se l’abbia solo
sentito, o sognato, comunque sia, un re dell’antichità chiese a un sovrano suo
vicino di accogliere il suo popolo, colpito da una grave carestia. «Mio caro
amico» sospirò il sovrano scuotendo la testa, «lo farei volentieri, ma vedi…»
E mentre parlava riempì la sua ciotola di latte fino all’orlo… «Tu vedi, mio
buon amico, come questa ciotola sia colma, e non possa più accogliere
nemmeno un chicco di riso. Il mio regno è come questa ciotola. Siamo già
troppi.» Allora il re sfortunato si fece portare un vasetto di zucchero, e con
gesti pazienti versò lo zucchero nel latte, mescolandoli, finché il vasetto non
fu del tutto vuoto, eppure il latte nella ciotola non era traboccato. «Se accogli
il mio popolo» disse il re, «daremo dolcezza alla tua terra, senza crearti
problemi. E ci sarà posto per tutti.»
È una verità ineccepibile, e al tempo stesso un paradosso che puoi
risolvere solo attraverso l’amore.
La strada di luce l’ho vista altre volte, su quest’isola senza nome in cui
passo il mio esilio.
Nella realtà, non in sogno.
Ma tu non sei più venuta a trovarmi.
Così a volte, la sera, per tenere a bada il mio cuore, prima di spegnere la
lampada e abbandonarmi al sonno, verso nell’acqua della mia stanchezza un
po’ dello zucchero delle tue parole sognate.
Un giorno abbandonerò il mio corpo come una crisalide e percorrerò la
strada di luce che porta alla luna, e alla porta del tuo castello tutti i principi e
i re del mondo si scosteranno, lasciandomi passare.